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Italian Pages 343/345 [345] Year 2015
Pregio e bellezza Cammei e intagli dei Medici
sillabe
PREGIO
CAMMEI
E BELLEZZA
E I N TA G L I D E I
MEDICI
Abbreviazioni AdD – Accademia del Disegno AGF – Archivio Gallerie Fiorentine AGL – Archivio Ginori Lisci (Firenze) AOSMF – Archivio dell’Opera di Santa Maria del Fiore ASF – Archivio di Stato di Firenze ASR – Archivio di Stato di Roma BAV – Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana BdU – Biblioteca degli Uffizi BML – Biblioteca Medicea Laurenziana BR – Biblioteca Riccardiana BSAT – Biblioteca della Soprintendenza Archeologica della Toscana DAI – Deutsche Archaeologische Institut ANM – Archivio Notarile Moderno DG – Depositeria Generale GM – Guardaroba Medicea MAP – Medici Archive Project, banca dati on line MaP – Mediceo avanti il Principato MdP – Mediceo del Principato MM – Miscellanea Medicea
SRP – Scrittoio delle Reali Possessioni
In copertina: Sandro Botticelli, Ritratto femminile idealizzato (Simonetta Vespucci come ninfa). Francoforte sul Meno, Städel Museum (cat. n. 36)
© 2010 Ministero per i Beni e le Attività Culturali Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze Una realizzazione editoriale s i l l a b e s.r.l. Livorno www.sillabe.it [email protected] Prima edizione digitale Marzo 2015 ISBN 978-88-8347-795-9 Quest’opera è stata acquistata su www.sillabe.it Questa pubblicazione è protetta dalla Legge sul diritto d’autore e pertanto è vietata ogni duplicazione, commercializzazione e diffusione, anche parziale, non autorizzata. Sillabe declina ogni responsabilità per ogni utilizzo dell’ebook non previsto dalla Legge. direzione editoriale: Maddalena Paola Winspeare progetto grafico: Ilaria Manetti redazione: Barbara Galla layout e coding dell’ebook: Saimon Toncelli L’Editore è a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non identificate
Ministero per i Beni e le Attività Culturali Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etmoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze Museo degli Argenti di Palazzo Pitti
Pregio e bellezza Cammei e intagli dei Medici
a cura di Riccardo Gennaioli
s i l l a b e
Pregio e bellezza
Cammei e intagli dei Medici Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti 25 marzo - 27 giugno 2010 MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI DIREZIONE REGIONALE PER I BENI CULTURALI E PAESAGGISTICI DELLA TOSCANA
SOPRINTENDENZA SPECIALE PER IL PATRIMONIO STORICO, ARTISTICO ED ETNOANTROPOLOGICO E PER IL POLO MUSEALE DELLA CITTÀ DI FIRENZE SOPRINTENDENTE CRISTINA ACIDINI
MUSEO DEGLI ARGENTI
FIRENZE MUSEI
ENTE CASSA DI RISPARMIO DI FIRENZE
Ideazione e progetto della mostra Ornella Casazza Maria Sframeli Riccardo Gennaioli
Direzione della mostra
Ornella Casazza Direttrice del Museo degli Argenti
Mostra a cura di
Ornella Casazza Riccardo Gennaioli
Comitato scientifico
Andreina d’Agliano Mariarita Casarosa Ornella Casazza Riccardo Gennaioli Annamaria Giusti Giovanna Lazzi Lucia Pirzio Biroli Stefanelli Maria Sframeli
Segreteria della mostra Ilaria Bartocci Maria Anna Di Pede Paola Ceccarelli
Exhibition Registrar Ilaria Bartocci
Progetto dell’allestimento e direzione dei lavori Antonio Fara Mauro Linari
Realizzazione dell’allestimento
Opera Laboratori Fiorentini S.p.A.
Direzione amministrativa Giovanni Lenza
Direzione del personale Silvia Sicuranza
Ufficio stampa
Camilla Speranza per Opera Laboratori Fiorentini S.p.A. Barbara Izzo e Arianna Diana per Civita Segreteria Ufficio Stampa: Firenze Musei
Promozione e Relazioni esterne
Mariella Becherini per Opera Laboratori Fiorentini S.p.A.
Produzione e gestione della mostra Opera Laboratori Fiorentini S.p.A.
Restauri
Relart, Firenze (cat. n. 80, supporto ligneo) Rita Alzeni, Firenze (cat. nn. 80, 173) C. & S. Martelli (cat. n. 173, cornice)
Trasporti
Arteria s.r.l.
Albo dei Prestatori
Berlino, Staatsbibliothek zu Berlin Berlino, Staatliche Museen zu Berlin, Kupferstichkabinett Brescia, Santa Giulia - Museo della città Copenaghen, The Danish Royal Collection at Rosenborg Castle Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona Francoforte sul Meno, Städel Museum Firenze, Archivio di Stato di Firenze Firenze, Biblioteca degli Uffizi Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze Firenze, Biblioteca Riccardiana Firenze, Collezione Giovanni Melli Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi Firenze, Galleria degli Uffizi Firenze, Galleria Palatina, Palazzo Pitti Firenze, Kunsthistorisches Institut in Florenz-MaxPlanck-Institut
Firenze, Museo Archeologico Nazionale Firenze, Museo delle Cappelle Medicee Firenze, Museo degli Argenti, Palazzo Pitti Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure Firenze, Museo di Palazzo Davanzati Firenze, Museo Nazionale del Bargello Firenze, Villa Medicea della Petraia La Spezia, Museo Civico “Amedeo Lia”- La Spezia Londra, The British Museum Londra, The Schroder Collection Napoli, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, Napoli Napoli, Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina Napoli, Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei, Museo Archeologico Nazionale di Napoli Parigi, Bibliothèque nationale de France Parigi, Musée du Louvre, Département des Sculptures Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques Parma, Galleria Nazionale di Parma Ravenna, Museo Nazionale di Ravenna Roma, Collezione Francesco Sensi Ginnasi Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia Sesto Fiorentino, Museo Richard-Ginori della Manifattura di Doccia Siena, Pinacoteca Nazionale di Siena Varsavia, National Museum in Warsaw Venezia, Galleria G. Franchetti alla Ca’ d’Oro Vienna, Kunsthistorisches Museum Wien, Antikensammlung Vienna, Kunsthistorisches Museum Wien, Kunstkammer Washington, National Gallery of Art Windsor, The Royal Collection
Catalogo a cura di Riccardo Gennaioli
Saggi di
Andreina d’Agliano Mariarita Casarosa Ornella Casazza Elisabetta Digiugno Miriam Fileti Mazza Riccardo Gennaioli Annamaria Giusti Giovanna Lazzi Fabrizio Paolucci Lucia Pirzio Biroli Stefanelli Maria Sframeli
Schede di catalogo
A.d’A. – Andreina d’Agliano L.A. – Laura Aldovini A.B. – Alessandra Baroni M.Be. – Marta Bezzini A.Bi. – Alessandro Biancalana V.B. – Vincenzo Boni M.B. – Massimo Boschi C.C. – Chiara Calvelli P.C. – Pietro Cannata M.C. – Mariarita Casarosa G.C.C. – Giuseppina Carlotta Cianferoni G.C. – Gianbattista Contini A.D.G- – Andrea Del Grosso M.A.D.P. – Maria Anna Di Pede E.D. – Elisabetta Digiugno D.F. – Donatella Fratini R.G. – Riccardo Gennaioli A.Gi. – Annamaria Giusti M.G. – Mariangela Giusto L.G.S. – Lisa Goldenberg Stoppato A.G. – Alessandra Griffo D.G. – Donata Grossoni C.K.G. – Claudia Kryza-Gersch G.L. – Giovanna Lazzi P.L. – Paola Luciani A.M. – Andrea Marmori M.M. – Marcella Marongiu F.M. – Francesco Martelli L.Me. – Lorenza Melli L.M. – Luisa Montanari C.M. – Cetty Muscolino E.N. – Elisabetta Nardinocchi S.N. – Serena Nocentini P.P. – Pierfabio Panazza E.P. – Emily Pegues L.P.B.S. – Lucia Pirzio Biroli Stefanelli R.C.P.P. – Rosanna Caterina Proto Pisani P.R. – Paulus Rainer A.S. – Andreas Schumacher M.S. – Maria Sframeli R.V. – Roberto Viale
Referenze fotografiche
© 2009 Board of Trustees, National Gallery of Art, Washington © The Trustees of the British Museum © U. Edelmann – Städel Museum – ARTOTHEK; © Städel Museum – ARTOTHEK 2010 Foto Scala, Firenze/BPK, Bildagentur fuer Kunst, Kultur und Geschichte, Berlin Antonio Quattrone, Firenze Archivio di Stato di Firenze Archivio Fotografico Museo Archeologico Nazionale, Firenze Archivio Fotografico Soprintendenza S.P.S.A.E. e per il Polo Museale della città di Roma Arrigo Coppitz, Firenze Arte Fotografica, Roma Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, Napoli: foto L. Pedicini Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze: foto M. Setter, Roma; GAP, Firenze Biblioteca Riccardiana, Firenze: foto GAP, Firenze Bibliothèque nationale de France, Paris Brescia, Santa Giulia Museo della città: Fotostudio Rapuzzi, Brescia By permission of The Governing Body of Christ Church, Oxford Cristian Ceccanti, Firenze Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana: foto GAP, Firenze Gabinetto Fotografico della Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze Galleria Nazionale di Parma Galleria Palatina di Palazzo Pitti, Firenze Kunsthistorisches Institut in Florenz – Max-PlanckInstitut Kunsthistorisches Museum, Vienna Kupferstichkabinett, Staatliche Museen zu Berlin: foto Volker-H. Schneide, Jörg P. Anders Louvre, Bibliotek: © RMN / Droits rèservès M. Fantini, Firenze Museo Archeologico Nazionale, Napoli: foto L. Pedicini Museo Civico “Amedeo Lia”, La Spezia Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, Firenze Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona: Fotomaster di G. Poccetti, Cortona Museo della Porcellana di Doccia, Sesto Fiorentino Museo Nazionale della Ceramica “Duca di Martina”, Napoli: foto L. Pedicini National Museum in Warsaw Opificio delle Pietre Dure di Firenze Pesaro, Museo Oliveriano Provincia di Firenze: foto A. Quattrone Raccolta Procida Mirabelli di Lauro Ravenna, Museo Nazionale, su concessione della SBAP-RA Roma, Collezione Francesco Sensi Ginnasi Roma, Gabinetto Fotografico Nazionale dell’Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione
Royal Collection © 2010 Her Majesty Queen Elizabeth II Siena, Pinacoteca Nazionale The Danish Royal Collection, Rosenborg The Schroder Collection, London: Christopher Phillips, London Tomaso Piva, Milano Venezia, Galleria G. Franchetti alla Ca’ d’Oro: foto Francesco Turio Bohm, Venezia
Ringraziamenti
Antonia Adamo, Heinrich Schulze Altcappenberg, Michel Amandry, Luisa Ambrosio, Mathilde AvisseauBroustet, Riccardo Bandi, Maria Giulia Barberini, Carlo Bardelli, Marta Bencini, Paolo Bernabini, Alfred Bernhard-Walcher, Monica Bietti, Stefania Borghesi, Donatella Boschi, Geneviève Bresc-Bautier, Cécile Bressaie, Sabrina Brogelli, Paolo Bruschetti, Loriana Campestrelli, Giuseppe Cantelli, Sandro Carboni, Stefano Casciu, Maria Castellino, Alessandro Cecchi, Camilla Cecchi, Suzelyne Chandon, Silvia Ciappi, Silvia Colucci, Valérie Corvino, Daniela Cresti, Luna Crisci, Andrea Croci, Thierry Delcourt, Claudio Di Benedetto, Lia Di Giacomo, Henrike Dustmann, Michael Eissenhauer, Marzia Faietti, Daniela Fanti Masi, Monica Fiorono, Antonia Ida Fontana, Roberto Fontanari, Lucia Fornari Schianchi, Ute Förster, Marco Fossi, Cristina Gabrielli, Marchese Lorenzo Ginori Lisci, Francesca Giorgi, Marcello Grossi, Anna Maria Guiducci, Sabine Haag, Matthew Harvey, Max Hollein, Astrid Holmgren, Sonia Iacomoni, Clarice Innocenti, Franz Kirchweger, Francesca Klein, Sieglinde Kunst, Deborah Lambert, Karen Lawson, Massimo Liccardo, Niels-Knud Liebgott, Monsignor Angelo Livi, Fulvia Lo Schiavo, Henri Loyrette, Neil MacGregor, Giorgio Marini, Marino Marini, Ortensia Martinez, Luisa Martorelli, Theresa-Mary Morton, Giovanni Melli, Simona Mercurio, Maria Luisa Miglione, Laura Mori, Sarah Murray, Antonio Natali, Birgit Oswald, Beatrice Paolozzi Strozzi, Gloria Pasi, Mena Patruno, Luciana Penso, Elena Pianea, Maria Paola Pilandri, Carla Pinzauti, Cristina Poggi, Earl A. Powell III, Maria Prunai Falciani, Bruno Racine, Antonella Ranaldi, Christoph Rauch, Daniela Ricci, Ingrid Rieck, Sir. Hugh Roberts, The Hon. Lady Roberts, Oliva Rucellai, Ferdynand B. Ruszczyc, Anna Sabatino, Mariarosaria Salvatore, Valeria Sampaolo, Simone Sartini, Donatella Schembri, Barbara Schneider-Kempf, Bruno Schroder, Andreas Schumacher, Francesco Sensi Ginnasi, Françoise Simeray, Martin Sonnabend, Filip Szadkowski, Piera Tabaglio, Marilena Tamassia, Massimo Tarassi, Alicia B. Thomas, Vladimiro Vagnetti, Carel Van Tuyll, Alessandro Vanni, Giuliana Ventura, Margherita Viola, Rossella Vodret, Claudia Wagner, Gerhard Wolf, Sophie Wright, Carla Zarrilli, Tomasz Zborowski, Karoline Zhuber-Okrog, Diana Ziliotto, Annarita Ziveri Il personale del Museo degli Argenti
Indice Presentazione Cristina Acidini Presentazione Michele Gremigni “Le pietre dure son materia che vi si intaglia drento ogni sorta di lavoro, e per quelle si conserva più l’antichità e le memorie, che in altra materia” Ornella Casazza La glittica al servizio della propaganda imperiale: busti e ritratti imperiali a tutto tondo in pietre semipreziose Fabrizio Paolucci
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La collezione di gemme dei Medici nel XV secolo Riccardo Gennaioli
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Gli occhi del dragone. Gemme dipinte nei manoscritti del Quattrocento Giovanna Lazzi
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“Leghato in oro”: le montature delle gemme medicee, gloria dinastica Maria Sframeli
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Una raccolta, tre Granduchi: Cosimo, Francesco e Ferdinando Elisabetta Digiugno
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Cammei e intagli del cardinale Leopoldo: il lavoro di intermediazione di Leonardo Agostini, Pietro Andrea Andreini e altri agenti medicei Mariarita Casarosa Scultura in pietre dure nella Galleria dei Lavori Annamaria Giusti
48 56
“Tirar paste di vetro dalle pietre per tirar in seguito i cosi detti zolfi”: Bartolomeo Paoletti tra Roma e Firenze Lucia Pirzio Biroli Stefanelli
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Gestione e classificazione tra Settecento e Ottocento: dagli interventi post medicei al catalogo del Migliarini Miriam Fileti Mazza
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Gemme in porcellana: riproduzione dei cammei presso la manifattura Ginori a Doccia Andreina d’Agliano
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CATALOGO La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico. Nascita e fortuna di un tesoro Il Sigillo di Nerone La dispersione della collezione laurenziana. Alessandro de’ Medici e Margherita d’Austria La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I Gemme e gioielli Il cardinale Leopoldo de’ Medici La scultura musiva in pietre dure Gli ultimi Medici. La collezione di gemme nel XVIII secolo
81 123 167 177 229 241 255 267
Note sull’allestimento Antonio Fara, Mauro Linari
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Bibliografia
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I buoni progetti di mostra – e questo, di Ornella Casazza con Maria Sframeli e Riccardo Gennaioli, lo è certamente – partono spesso da vicino nello spazio e da lontano nel tempo. Da vicino nello spazio, perché nascono da suggerimenti espressi dalle collezioni stesse dei musei, raccogliendo e amplificando le schegge speciali di Storia ivi incastonate e risplendenti. Da lontano nel tempo, perché un’idea va messa a fuoco, verificata, approfondita e arricchita finché non diventa un programma espositivo vero e proprio, completo in ogni sua parte e sostenuto dalle competenze necessarie ad ogni livello, dallo scientifico all’operativo. E negli anni, gli argomenti concrescono e si collegano incorporando occasioni ed eventi che per ragioni diverse entrano nello schema della mostra e vi immettono, come filati multicolori in un tessuto in corso d’opera, la bellezza sorprendente di motivi sempre nuovi. Questo per dire che i lunghi e approfonditi studi sulle gemme antiche e moderne del tesoro mediceo, impostati già sulle ricerche documentarie degli anni Sessanta-Settanta dello scorso secolo, hanno fornito le basi per questa mostra che, nel Museo degli Argenti ove appunto sono raccolte ed esposte preziose vestigia del tesoro, propone al visitatore una serie di ben ponderati accostamenti tra cammei e intagli e opere d’arte figurativa. E che nel corso dei lavori preparatori, si è riconosciuta una volta di più la centralità dello spettacolare dipinto su tavola detto la “Bella Simonetta” di Sandro Botticelli di Francoforte, dove la bellezza ideale della ritratta è esaltata non tanto dall’incredibile architettura di chiome ingioiellate, quanto dall’eleganza austera del cammeo antico pendente dal suo collier, il celeberrimo “Sigillo di Nerone” ch’era, con altre gemme, il vanto della raccolta di glittica di Lorenzo il Magnifico. E che essendosi consolidato attorno alla grande mostra di Botticelli presso lo Städel Museum di Francoforte (2009-2010) un eccellente rapporto con quel museo anche in termini di reciprocità, il direttore Max Hollein e il curatore Andreas Schumacher hanno acconsentito al prestito del ritratto, che non è mai stato esposto prima in Italia. Ecco dunque che nel 2010, anno in cui cade il V centenario della morte di Sandro Botticelli, la mostra che s’incardina su questa straordinaria testimonianza artistica diviene anche il nostro omaggio alla memoria di un grande pittore il quale, interprete del raffinato umanesimo laurenziano così come della drammatica religiosità savonaroliana, con la sua notorietà internazionale ha dato e dà un immenso contributo ad accrescere l’attrattiva di Firenze quale capitale dell’arte rinascimentale. Con questo, e con altri motivati e perspicaci confronti fra arti figurative e glittica, viene comunicato e valorizzato dalla mostra il potenziale evocativo straordinario di cammei e intagli: creazioni da sempre riservate a sovrani e a potenti per pregio venale e squisitezza di lavorazione, nonché protagonisti della rinascita dell’antico che prese le mosse non solo dall’architettura imperiale romana o dai testi latini dell’età classica purificati dalla filologia, ma anche da questi piccoli capolavori depositari di immagini suggestive e di simbologie arcane. Davvero non saprei immaginare un migliore avvio per la nostra “stagione delle mostre”, che aprire il 25 marzo – Annunciazione, Incarnazione, inizio della primavera, antico capodanno fiorentino – questa mostra tanto raffinata quanto godibile, anche grazie all’allestimento realizzato da Mauro Linari con Antonio Fara. Capofila del programma espositivo “Un anno ad arte 2010”, giunto così alla quinta edizione, la mostra organizzata dal Museo degli Argenti entro la Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze ha trovato la totale condivisione dei partner abituali, Firenze Musei e l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze presieduto da Michele Gremigni: a loro, e ai tanti esperti e tecnici che hanno reso possibile questo risultato, va il mio più sentito ringraziamento. Cristina Acidini Soprintendente per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze
Quella del collezionismo è stata per i Medici una passione particolare, una componente essenziale di bagaglio genetico che si trasmetteva di generazione in generazione, tanto che l’ultima di loro, l’Elettrice Palatina di venerata memoria, non si risparmiò certo per mantenere integro e legato a Firenze lo straordinario patrimonio raccolto dai suoi predecessori, e c’è da capirlo: c’erano voluti secoli per mettere insieme tutto questo ben di dio, meraviglie che spaziano dall’arte alle scienze, in un processo di acquisizioni che non ha conosciuto soluzione di continuità finché loro, i Medici, hanno tenuto saldamente in pugno il governo della Città e dello Stato. Sarebbe stato un peccato che per un banale contrattempo della storia, l’estinguersi di una dinastia, tutta quella ‘roba’ seguisse lo stesso destino cui di solito vanno incontro beni che cambiano padrone o lo perdono. Ma fortunatamente non è stato così ed oggi tra questi splendori degni di regale attenzione e stupore ci sono ancora quei prodotti della glittica antica e moderna che rappresentano una parte significativa delle collezioni medicee rimaste patrimonio di Firenze e della Toscana: cammei, intagli, pietre dure e gemme preziose che la mostra mette in giusto rilievo, non solo sotto il profilo estetico e dei significati simbolici, ma anche in quegli aspetti dell’operare artistico che hanno costituito nel tempo un segno distintivo della tradizione locale. L’Ente Cassa di Risparmio di Firenze partecipa alle iniziative di “Un anno ad arte 2010” con la consueta consapevolezza della necessità di mantenere viva e costante l’attenzione del pubblico sulle eccellenze culturali della nostra Città, che devono poter essere sempre valorizzate con un’offerta all’altezza della sua fama. Michele Gremigni Presidente dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze
“Le pietre dure son materia che vi si intaglia drento ogni sorta di lavoro, e per quelle si conserva più l’antichità e le memorie, che in altra materia” Ornella Casazza
Fig. 1 - Tazza Farnese. Napoli, Museo Archeologico Nazionale Fig. 2 – Sandro Botticelli, La nascita di Venere, part. Firenze, Galleria degli Uffizi
Il Museo degli Argenti dal 1921 custodisce una parte consistente della ricca collezione di gemme della famiglia Medici, che insieme ad altre preziose rarità costituisce il Tesoro granducale. Questo nucleo, eccezionale per numero e qualità degli esemplari in esso riuniti, rappresenta in realtà solo un settore della originaria collezione medicea di cammei e intagli, oggi divisa tra Palazzo Pitti, il Museo Archeologico Nazionale di Firenze e il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, città nella quale giunsero, in seguito a complesse vicende dinastiche, gli esemplari più prestigiosi appartenuti a Cosimo, Piero e Lorenzo de’ Medici. Partendo dai fondamentali contributi editi in occasione della esposizione “Il Tesoro di Lorenzo il Magnifico”, la mostra “Pregio e bellezza. Cammei e intagli dei Medici” intende riportare all’attenzione del grande pubblico la complessa storia della raccolta fiorentina, restituendo alla moderna sensibilità del visitatore anche l’importanza che le pietre incise rivestirono in passato per gli artisti, con un percorso reso inedito dai generosi prestiti dei musei italiani e stranieri che hanno dimostrato di assentire al progetto scientifico della manifestazione. Sviluppatosi nel raffinato clima culturale del primo Rinascimento, il collezionismo di gemme costituì uno degli aspetti più affascinanti del processo di riscoperta dell’antico che caratterizzò il XV secolo. Proprio e anche perché, come scriveva il Vasari, “Le pietre dure son materia che vi si intaglia drento ogni sorta di lavoro, e per quelle si conserva più l’antichità e le memorie, che in altra materia, come s’ è visto ne’ porfidi e ne’ diaspri, e ne’ cammei, e nelle altre sorte di pietre durissime, le quali, quando sono alle ripe del mare o nelli solinghi scogli, reggono a tutte le percosse dell’acque, de’ venti, e degli altri accidenti della fortuna e del tempo; che tale si potrebbe dire del duca nostro, che, per cosa che segua avversa nelle sua azioni dei governi, con la costanza e virtù dell’animo suo resiste e risolve con temperanza a ogni pericolosissimo accidente”1. La passione e la speciale predilezione che i Medici svilupparono, fin dal Quattrocento, per le incisioni su pietre dure e preziose, portò alla creazione di una delle raccolte più rilevanti della storia, fonte di grande prestigio per tutti i membri della famiglia, che nel corso dei secoli continuarono a incrementarla mediante nuove acquisizioni. Iniziatori della collezione furono Cosimo il Vecchio e il figlio Piero il Gottoso. Quest’ultimo, in particolare, riservò alle pietre incise un ruolo di grande rilievo all’interno del suo celebre studiolo nel Palazzo di via Larga, vera e propria camera delle meraviglie esibita con orgoglio solo a un numero selezionato di insigni visitatori, dove le gemme furono messe in stretto rapporto con altri oggetti di pregio antichi e moderni quali monete, medaglie, sculture, gioielli, vasi in pietra dura e preziosi codici miniati. Il gusto per simili opere fu trasmesso da Piero al figlio Lorenzo il Magnifico, con il quale il Tesoro mediceo si ampliò considerevolmente e l’arte stessa della glittica beneficiò di un significativo rinnovamento, stimolato dal fascino che le pietre della sua collezione suscitarono sugli incisori contemporanei. Ancor più rilevante fu l’interesse che i preziosi cammei e gli intagli di Lorenzo esercitarono sull’ambiente artistico fiorentino, da sempre sensibile verso questa particolare tipologia di manufatti. A tale aspetto la mostra dedica un’ampia sezione articolata all’interno della sala detta di Giovanni da San Giovanni, vero e proprio cuore del Museo e luogo ideale per esporre alcune delle gemme più famose del Magnifico, celebrato come mecenate e instauratore di un’età gloriosa dagli affreschi sulle pareti realizzati da Giovanni Mannozzi (detto Giovanni da San Giovanni), Francesco Montelatici (detto Cecco Bravo), Ottavio Vannini e Francesco Furini. Tra gli esemplari di Lorenzo che maggiormente catturarono l’attenzione degli artisti rinascimentali spicca il calcedonio raffigurante Diomede con in mano il Palladio2, intaglio di grande qualità, oggi disperso ma noto da impronte e placchette bronzee, appartenuto all’umanista Niccolò Niccoli, al cardinale Ludovico
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ORNELLA CASAZZA
Fig. 3 - Donatello, David, part. Firenze, Museo Nazionale del Bargello
Trevisan e al pontefice Paolo II Barbo. In esso, già nella prima metà del Quattrocento, il Filarete individuò un sublime modello di armonia e proporzioni, attribuendone l’esecuzione a Policleto3, il teorico delle tecniche per oggettivare il bello in una figura umana. E come exemplum del Canone di Policleto, il Diomede fu ammirato anche da Leonardo da Vinci, che dalla elegante posa dell’eroe greco effigiato nell’intaglio, o forse da una sua derivazione, prese spunto per lo studio di un giovane nudo seduto conservato presso la Royal Library a Windsor4. Altrettanto elogiata fu la mirabile corniola di età augustea con il mito di Apollo e Marsia ora conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, conosciuta anche con il nome di Sigillo di Nerone. Quest’opera, entrata a far parte della collezione di Lorenzo nel 14875, fu tra le gemme più famose del Rinascimento, stimata da una folta schiera di letterati e di artisti: da Lorenzo Ghiberti a Filarete, dai miniatori Gherardo e Monte di Giovanni a Sandro Botticelli, che ne riprese il motivo iconografico nel pendente al collo della giovane donna, forse Simonetta Vespucci, rappresentata in un sensuale ritratto prestato eccezionalmente dallo Städel Museum di Francoforte6. Tale scelta fu sicuramente dettata da un preciso intento simbolico, connesso molto probabilmente agli ideali del circolo laurenziano, all’interno del quale l’episodio mitologico della disputa musicale tra il divino Apollo e il terrestre Marsia assunse particolari connotazioni di carattere morale7. Accanto a fedeli trasposizioni delle scene riprodotte sulle gemme laurenziane, gli artisti fiorentini della seconda metà del Quattrocento, impegnati nel riproporre l’antico con linguaggio moderno, diedero prova di più libere interpretazioni delle figure incise sulle pietre, traendone in molti casi spunto per creazioni del tutto originali. La testimonianza più significativa di questo tipo di rielaborazione è fornita dalla Nascita di Venere, eseguita da Botticelli dopo il suo ritorno da Roma dove era stato inviato da Lorenzo per affrescare le pareti della Sistina. Nel dipinto il movimento modulato e sinuoso del lato sinistro della Venere, “accentuato dalla spalla cadente e sottolineato dal braccio disteso lungo il corpo, ricorda l’Apollo”8 del sigillo neroniano, mentre la coppia costituita da Zefiro abbracciato alla ninfa Clori rimanda alla raffigurazione dei venti Etesii intagliati alla sommità della scena adornante la parte interna della prestigiosa “Scudella nostra” di calcedonio, nota con il nome di Tazza Farnese9, esemplare eccezionale della glittica di età ellenistica, ricca di dettagli significativi e di raffigurazioni complesse, che fu ceduta da Sisto IV Della Rovere al Magnifico nel 1471 in occasione dell’ambasciata del Medici a Roma per l’elezione del pontefice. Sempre alla Tazza Farnese e, in particolare, al Gorgoneion inciso sul verso del sontuoso oggetto si ispirerebbe inoltre la capigliatura di Zefiro, composta da plastiche ciocche sinuose lumeggiate d’oro10. I Medici dimostrarono anche pubblicamente l’importanza dell’arte dell’incisione su pietra facendo eseguire dalla bottega di Donatello le copie ingrandite delle gemme che ritenevano più importanti, collocandole nei tondi sopra il colonnato del cortile del Palazzo di via Larga. Dei dodici medaglioni sette riproducono, in modo più o meno fedele, gemme famose nel Rinascimento (Dio-
“Le pietre dure son materia che vi si intaglia drento ogni sorta di lavoro”
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mede e il Palladio, Poseidon e Atena in gara per il possesso dell’Attica, Satiro e il piccolo Dioniso, Dioniso e Arianna a Nasso, Dioniso su un carro condotto da Psychai, Icaro e Dedalo, Centauro), quattro lo stemma della famiglia Medici e uno il lato minore di un sarcofago con uno scita prigioniero, inginocchiato dinanzi a un duce romano, situato nel XV secolo lungo un fianco del Battistero fiorentino. Anche per Donatello le gemme rappresentarono delle importanti fonti visive, alle quali ricorse per alcuni dettagli nelle sue sculture, cogliendo motivi iconografici tratti da importanti cammei antichi. Nel David, collocato al centro del cortile di Palazzo Medici alla morte di Cosimo il Vecchio, per la scena sull’elmo di Golia, interpretata come un trionfo di Amore, l’artista trasse ispirazione dal cammeo con Dioniso su un carro tirato da Psychai oggi al Museo Archeologico Nazionale di Napoli che nel 1457 risultava di proprietà di Pietro Barbo, e in seguito entrò a far parte della collezione Medici grazie a Lorenzo il Magnifico11. Un’altra precoce e affascinante testimonianza del gusto per la glittica antica in Donatello si manifesta nel gruppo della Giuditta, opera dalla lunga gestazione, iniziata nel 1457 e terminata dall’artista solo nel 1464, quando fu portata dalla sua bottega nella residenza medicea di via Larga. Sul tergo della figura di Oloferne, entro un medaglione parzialmente coperto dalla veste di Giuditta, è la raffigurazione di un Centauro puntualmente tratto da un altro celebre cammeo, che quasi negli stessi anni fu usato come prototipo anche per uno degli otto tondi di marmo posti a ornamento del cortile di Palazzo Medici. Nel caso della Giuditta, esempio biblico di virtù patriottica, è chiaro che la raffigurazione del centauro, emblema di lussuria fin dall’antichità, fu associato a Oloferne con un preciso intento simbolico12. Un particolare significato allegorico dovette avere per gli umanisti del Quattrocento anche il medaglione raffigurato sul petto del cosiddetto Busto di giovane ‘neoplatonico’ del Museo Nazionale del Bargello attribuito a Donatello, puntuale riferimento all’antico, desunto molto probabilmente da un cammeo registrato per la prima volta nell’inventario della sterminata raccolta di Pietro Barbo (in seguito entrato nella collezione di Lorenzo il Magnifico) e interpretato come una rappresentazione dell’anima ispirata a un passo del Fedro di Platone. Nel suo Convito, infatti, Marsilio Ficino commentava che Platone definiva l’anima un carro e la “Mente data alle cose divine” un auriga intento a reggere con mano sicura le redini di due cavalli, simboleggianti rispettivamente la ragione e l’appetito dei sensi13. Con analoghe implicazioni morali l’immagine dell’anima-auriga fu riprodotta anche tra i lussuosi decori scultorei eseguiti intorno al 1460 da Antonio Rossellino sul basamento del monumento funerario del cardinale del Portogallo, Giacomo di Lusitania, in San Miniato al Monte a Firenze. Dal grande salone di Giovanni da San Giovanni la mostra si snoda nelle altre tre sale di rappresentanza, dove, in sequenza cronologica, è ripercorsa la storia della raccolta medicea nel corso del XVI, XVII e XVIII secolo attraverso una mirata selezione di opere individuate in base alla qualità e alla provenienza documentata. Vi troviamo pezzi capitali per le loro dimensioni e caratteristiche di lavorazione, come il grande cammeo fatto eseguire da Cosimo I al milanese Giovanni Antonio de’ Rossi con il ritratto del granduca, della moglie Eleonora di Toledo e di cinque dei loro figli o il notevole onice raffigurante un Imperatore che sacrifica alla Speranza appartenuto molto probabilmente a Ferdinando I e considerato uno dei più alti esempi di glittica di età tardimperiale14. Con il passaggio alla terza Sala dell’Udienza si accede all’ultima sezione della mostra, che raccoglie cammei e intagli di estrema raffinatezza provenienti dalle raccolte del cardinale Leopoldo de’ Medici, Cosimo III, Gian Gastone e Anna Maria Luisa. Si tratta principalmente di lavori siglati da importanti artefici dell’antichità quali Teukros e Protarchos, autore del celebre cammeo con Amore che cavalca un leone, ben noto agli artisti del Settecento come Tommaso Gherardini, che ad esso si rifece per uno dei medaglioni di gusto neoclassico decoranti la splendente sala degli Uffizi ideata per accogliere il gruppo dei Niobidi. Accanto a questi esempi trovano posto le creazioni degli abili maestri “di pietre in bassorilievo” dei gloriosi laboratori della Galleria dei Lavori (futuro Opificio delle Pietre Dure), a dimostrazione di una continuità senza strappi con il passato e del continuo impegno profuso dai Medici nel rinnovamento dell’arte principesca della glittica.
VASARI (1588), ed. Milanesi 1878-1885, VIII, 1882, p. 39. GHIBERTI, ed. Schlosser 1912, I, p. 47. 3 FILARETE, ed. Finoli-Grassi 1972, II, p. 680. 4 Cat. n. 18. 5 BULLARD-RUBINSTEIN 1999, pp. 283-286; cat. n. 35. 6 Per una recente rilettura di questa opera si veda in particolare CECCHI 2005, p. 226 e W. Dello Russo, in ACIDINI 2009, p. 164. 7 WYSS 1996, pp. 43-60.
BOCCI PACINI 1987, p. 24. YUEN 1969, pp. 175-178; DACOS 1973, pp. 149 e sgg.; GASPARRI 1994, pp. 75-83. 10 ACIDINI LUCHINAT 2001, p. 112. 11 AMES-LEWIS 1979, pp. 143-147; KENT 2005, p. 352. 12 Sulla Giuditta si veda in particolare NATALI 1988, pp. 2627 e KENT 2005, p. 348. 13 CHASTEL 19642, p. 48. 14 L. Tondo, in TONDO-VANNI 1992, p. 49, n. 270.
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La glittica al servizio della propaganda imperiale: busti e ritratti imperiali a tutto tondo in pietre semipreziose Fabrizio Paolucci
Ben poco è cambiato nelle tecniche di lavorazione e nella foggia degli strumenti usati nell’arte glittica dall’Antichità all’età moderna. Come si evince dalle descrizioni di Teofrasto, nel suo De lapidibus, scritto alla fine del IV secolo a.C., o di Plinio il Vecchio nel XXXVII libro della sua enciclopedica fatica1, gli strumenti di cui necessitava un incisore di gemme erano pochi e facilmente trasportabili: alcune punte in metallo per scavare le pietre, un trapano a violino, un mortaio e un sacchetto di polveri abrasive2. Questa semplice officina portatile, che facilitava l’itinerarietà di maestranze specializzate, pronte ad accorrere lì dove esisteva una committenza, non era poi così dissimile da quella di un artista del XVI o del XVII secolo, che si cimentasse nella difficile arte dell’incisione o della lavorazione a cammeo. Quest’ultima tecnica, nata verosimilmente solo alla fine del III secolo a.C.3, rispondeva ad un mutato gusto del mercato, sempre più interessato a prodotti realizzati con procedimenti artigianali virtuosistici e caratterizzati da un forte contrasto coloristico. A differenza della tradizionale lavorazione delle pietre semipreziose, la cui decorazione era ottenuta lavorando “in negativo” la superficie del minerale, nel cammeo figure e personaggi acquistavano non solo un marcato vigore plastico, ma venivano ad arricchirsi di una raffinata policromia ottenuta sfruttando abilmente le diverse stratificazioni del materiale utilizzato. L’onice e la sardonice, due varianti del calcedonio, costituivano alcuni dei supporti tradizionalmente più utilizzati nell’Antichità per la realizzazione di cammei, grazie alle loro successioni di fasce bianche e rosso-brune che consentivano alle figure ricavate nello strato di colore chiaro di stagliarsi nettamente sullo sfondo scuro sottostante. Tanto più numerosi erano gli strati sfruttati, tanto maggiore era la difficoltà di esecuzione, che presupponeva un attento lavoro di preparazione e di equilibrata distribuzione dei colori. Esempio limite, in questo senso, il Gran Cammeo di Francia, una sardonice costituita da ben cinque strati, di cui il superiore sopravvive soltanto nelle capigliature e nelle corone indossate dai personaggi4. Fu probabilmente solo in conseguenza dell’affermarsi di questa raffinata tecnica glittica che prese forma e si diffuse una peculiare tradizione artigianale, che conobbe la sua massima fortuna in età imperiale: la piccola plastica in pietre semipreziose. Anche se è fuor di dubbio che i maestri che realizzarono le piccole sculture in pietre dure fossero gli stessi che lavoravano i cammei, poiché identici erano gli strumenti di lavorazione usati e analoghi il gusto e le convenzioni stilistiche, non è però possibile trascurare alcune sostanziali differenze. Contrariamente a quanto accadeva per i cammei nei quali, come si è visto, il contrasto cromatico costituiva un importante elemento, le sculture realizzate a tutto tondo erano sempre ricavate in blocchi monocromi, in modo da non turbare la corretta lettura del modellato. In secondo luogo, a differenza dei cammei che sono opere in sé complete e definite, le piccole teste o i busti
Fig. 1 - Busto di Augusto, calcedonio. Parigi, Musée du Louvre
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Fig. 2 - Rilievo della Cancelleria, part. Genius Senatus. Città del Vaticano, Musei Vaticani
realizzati in calcedonio, cristallo di rocca o plasma erano sempre parte di oggetti più complessi, in metallo o avorio, di cui costituivano elemento integrante5. Se si eccettuano alcuni casi riferibili solo con molte incertezze al periodo tolemaico, come, ad esempio, una testa in scisto verde da Colonia6 o un ritratto di bambino al Cabinet des Médailles7, fu solo con la fine del principato di Augusto e con il regno dei suoi immediati successori che l’uso di sculture di piccole dimensioni in pietre pregiate si diffuse nell’ambito dei rituali di corte. In concomitanza non certo casuale con l’affermarsi di un gusto per la piccola plastica in materiali pregiati come l’oro, l’argento o l’avorio8, sono testimoniati per questo periodo ritratti e busti miniaturistici (mai comunque superiori ai 20 centimetri di altezza), realizzati in pietre semipreziose, destinati, come testimoniano i fori di alloggiamento ancor oggi riconoscibili in alcuni casi, ad assicurarne l’innesto in oggetti di maggiori dimensioni. Ad essere raffigurato, oltre allo stesso Augusto, sono i membri della casa imperiale; i ritratti privati, che pure esistono, non solo sono meno numerosi, ma sembrano anche affermarsi con un certo ritardo rispetto ai ritratti dinastici, quasi a suggerire la ricezione di una moda e di un gusto nato originariamente in un ristretto ambito elitario9. Sembra, quindi, ragionevole legare strettamente l’affermarsi di una piccola plastica, che si ispira fedelmente ai prototipi della ritrattistica ufficiale, proprio a rituali e manifestazioni legate alla propaganda imperiale. Immagini di autocrati divinizzati di dimensioni contenute, ma realizzate in pregiati materiali, potevano, ad esempio, trovare posto nei lararia privati, nei luoghi deputati al culto del Genius Augusti, ma anche in edifici pubblici o in ricche domus, a dimostrare la lealtà e il consenso di una comunità o di una famiglia. Non è, inoltre, da escludere un utilizzo delle piccole sculture in pietre semipreziose su quelli che sono i simboli del potere nella sempre più complessa e codificata liturgia imperiale. Un busto di Augusto in calcedonio conservato al Louvre10 (fig. 1) e scolpito sulla superficie di una sfera dimostra, senza ombra di dubbio, l’originaria sistemazione della preziosa scultura a coronamento di uno scettro, di cui costituiva l’elaborata impugnatura. Come già rilevato da J.W. Salomonson11, è proprio dagli inizi del I secolo d.C. che troviamo frequentemente raffigurazioni di scettri sormontati da busti-ritratto, in special modo quando ad essere raffigurato è lo scipio eburneus, il bastone d’avorio simbolo stesso della dignità consolare. Questo emblema, infatti, era sormontato dalle effigi degli imperatori, a ribadire che l’autorità della dignità consolare discendeva direttamente dalla volontà del sovrano; la stessa personificazione del Genius Senatus, nel rilievo flavio della Cancelleria12 (fig. 2) è caratterizzata da uno scettro sul quale sembra riconoscersi un ritratto imperiale. Su rilievi del II secolo d.C., raffiguranti le gare nel circo indette dal funzionario nel primo giorno di carica13, troviamo consoli con in pugno uno scettro ornato da un bustino, non dissimilmente da quanto avviene ancora sui dittici eburnei consolari del V secolo d.C., nei quali lo scipio è solitamente sormontato da due busti, allusivi ai due imperatori che si dividevano il controllo dell’impero14. Queste piccole sculture a tutto tondo che, nei monumenti di età romana, vediamo poste a coronamento degli scettri potevano, naturalmente, essere realizzate anche in metallo o nello stesso avorio del bastone, ma non si può escludere che in alcuni casi si sia optato per un coronamento degli scettri consolari con elementi a tutto tondo realizzati in pietre semipreziose dai colori vivaci e appariscenti. Da non sottovalutare, infine, l’ipotesi che i bustini e i ritratti imperiali potessero essere destinati anche ad ornare scettri e corone dei sacerdoti legati al culto imperiale. L’esistenza di scettri sacerdotali sormontati dai busti delle divinità venerate è stata provata da alcuni ritrovamenti effettuati in Inghilterra15 e tale soluzione decorativa, come sappiamo dalle fonti, si estendeva anche alle corone indossate dagli officianti in occasione dei culti in onore dell’imperatore. Già un decreto di Antioco III datato al 193 a.C. e relativo all’istituzione del culto per la moglie Laodicea16, ricorda, fra le altre cose, come le sacerdotesse indossassero corone recanti l’immagine della regina. L’uso di corone abbellite da busti in rilievo non rimase circoscritto al II secolo a.C., ma proseguì nei secoli seguenti, sino a conoscere particolare fortuna e diffusione in età flavia17. A partire da tale periodo, infatti, si fanno sempre più frequenti le statue di sacerdoti che, come simbolo del loro status, indossano corone ornate da uno o più busti a tutto tondo18. Questa moda ebbe sicuramente origine nell’Asia Minore ed è lì, infatti, che si ha il maggior numero di attestazioni, ma non mancò di avere seguito anche a Roma. Svetonio (Suet. Dom. 4, 4) ci narra che Domiziano presenziava ai Giochi Capitoli-
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Fig. 3 - Ritratto di Augusto, turchese. Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti (cat. n. 96) Fig. 4 - Ritratto di Antonia Minore, lapislazzuli. Vienna, Kunsthihstorisches Museum, Antikensammlung
ni vestito di una toga alla greca color porpora e con, sul capo, una corona ornata dalle effigi di Giove, Giunone e Minerva. I sacerdoti di Giove e quelli appartenenti al collegio dei sacerdoti flavi, cioè quelli votati al culto imperiale, indossavano una corona simile, nella quale, però, alla triade divina presente anche sulla corona imperiale, aggiungevano altresì l’immagine dello stesso Domiziano. La moda delle “corone a busti”19 si affermò tra l’età flavia e la fine del II secolo d.C., in una, forse, non casuale corrispondenza con il massimo diffondersi dei busti in pietre semipreziose. Infatti, sebbene i confronti con i monumenti scultorei e le descrizioni letterarie non ci diano alcun elemento per avanzare ipotesi sul tipo di materiale col quale erano realizzate le piccole sculture, sembra forse riduttivo immaginare che questi elementi fossero sempre ed esclusivamente in metallo. Non è poi da sottovalutare il fatto che già per l’età augustea, i ritratti dell’imperatore giunti sino a noi, come una splendida testa in turchese a Firenze20 (fig. 3) o il già citato busto in calcedonio al Louvre, prendano a modello il tipo “Prima Porta”, cioè il ritratto della piena maturità dell’imperatore. È probabile, infatti, che questa scelta sia da spiegare alla luce del fiorire di un culto postumo dell’imperatore divinizzato21 che, comprensibilmente, rappresentò l’imperatore defunto secondo il tipo ritrattistico più noto ed amato. La possibilità che tutti i ritratti di Augusto su pietre preziose siano da riferire a strumenti e oggetti legati al culto imperiale istituito in suo onore in periodo giulio-claudio, troverebbe conferma anche nell’opinione di Megow22 che, per il dinamismo dell’impostazione della testa e il raffinato gioco di chiaroscuri della superficie del volto, ritiene le piccole sculture più consone alle esperienze scultoree successive al regno augusteo. Che negli anni 20-50 d.C. la moda di una pregiata ritrattistica di dimensioni miniaturistiche realizzata in pietre preziose godesse di una certa fortuna lo dimostrano del resto anche alcuni splendidi ritratti di donne della casata imperiale. Non vi sono
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Fig. 5 - Ritratto di Drusilla, plasma verde. Londra, The British Museum Fig. 6 - Busto di Domiziano, calcedonio. Parigi, Bibliothèque Nationale
dubbi, infatti, nel riconoscere Antonia Minore, la figlia di Marco Antonio ed Ottavia e moglie di Druso, il fratello di Tiberio, in una splendida testa in lapislazzuli oggi a Vienna23 (fig. 4), così come è il volto di Drusilla, la sorella di Caligola, che troviamo effigiato in due delicatissime teste in plasma, pressoché identiche fra di loro24 (fig. 5). I rapporti con la grande plastica25, particolarmente evidenti nel caso della testina di Vienna, confermano una sostanziale aderenza ai tipi ufficiali, reinterpretati, però, alla luce di un nitore classicistico, che diviene vero e proprio virtuosismo nella resa delle complesse architetture delle acconciature. Quasi paradossalmente gli anni centrali del I secolo d.C., che segnarono l’acme dell’arte del cammeo romano26, come testimoniano capolavori quali il Gran Cammeo di Francia, il Cammeo Gonzaga o la Gemma Claudia, coincisero con una sostanziale assenza di una ritrattistica ufficiale a tutto tondo in pietre semipreziose, fenomeno che può essere variamente spiegato come con la casualità dei ritrovamenti, con la damnatio memoriae che colpì alcuni degli imperatori del I secolo d.C. (come Nerone) oppure con un mutamento di gusti. Con certezza possiamo affermare che la moda di una ritrattistica ufficiale in pietre preziose conobbe una rinnovata fortuna con Domiziano, l’ultimo dei Flavi, di cui sopravvive un nucleo relativamente consistente di ritratti27, tanto più notevole se si considera la damnatio memoriae subita anche da quell’imperatore. La distruzione delle effigi di Domiziano non risparmiò, infatti, le effigi in pietre semipreziose, come dimostra un busto al Cabinet des Médailles un tempo nel tesoro della Saint Chappelle28, nel quale è possibile constatare come le originarie fattezze di Domiziano siano state sostituite da quelle di un altro autocrate, confermando così come a queste sculture miniaturistiche, in modo simile a quanto attestato per i cammei o le gemme incise, fosse attribuito un valore e un’importanza simbolica in nulla inferiore a quella posseduta dalle immagini monumentali in marmo29. Un bu-
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sto sempre al Cabinet des Médailles30 (fig. 6) offre, invece, l’esempio meglio conservato della piccola plastica domizianea. Nel ritratto calcedonio, forse destinato a servire da pomo di scettro, sono facilmente riconoscibili i tratti propri del terzo tipo della ritrattistica ufficiale31, tradotti, però, in uno stile scarno e lineare, che trova puntuali raffronti nella produzione glittica di quegli anni. La politica del “nihil quam antea” che caratterizzò il regno di Traiano non ebbe conseguenze sulla moda della piccola plastica in pietre semipreziose, a conferma di come l’uso di questi variopinti oggetti rispondesse a un generale gusto dell’epoca più che ai capricci della propaganda di un singolo imperatore. Ben sei, di cui uno in agata conservato presso il Museo degli Argenti di Firenze, sono infatti i ritratti di Traiano giunti sino a noi32 (fig. 7). Il numero notevole dei reperti sopravvissuti è probabilmente da spiegare alla luce della fama di cui godette l’optimus princeps nei secoli successivi, che garantì la conservazione e il rispetto dell’effige di questo autocrate, preservando al contempo i suoi ritratti dalle rilavorazioni indiscriminate. Ancora una volta, similmente a quanto riscontrato per Domiziano, anche in queste effigi è riconoscibile con chiarezza la dipendenza dalla ritrattistica ufficiale33, pur in una generale semplificazione di piani e volumi, che non sembra spiegabile unicamente con le difficoltà tecniche offerte dalla lavorazione di pietre particolarmente tenaci, ma è da ricondurre anche a un più ampio fenomeno stilistico evidenziato anche nella glittica del tempo34. I decenni a cavallo fra il I e il II secolo d.C. coincisero, quindi, con il momento di maggior fortuna di questa particolare espressione della glittica antica strettamente legata alle liturgie del potere. Con i successori di Traiano le testimonianze sembrano rarefarsi e la sequenza dei ritratti imperiali attestati in questa tecnica si fa sempre più discontinua. È possibile che questo fenomeno sia da spiegare alla luce del concomitante aumento delle attestazioni di piccoli busti in metallo35, anche pregiato, che, probabilmente, vennero sostituendo i lavori di glittica nell’ornamento di oggetti legati alla propaganda imperiale. A prescindere da un busto di Adriano in calcedonio, un tempo a Firenze ed oggi perduto36, il regno del successore di Traiano è rappresentato solo da una splendida acquamarina raffigurante Sabina, la moglie dell’imperatore, anch’essa oggi conservata a Firenze presso il Museo Archeologico Nazionale37. È, forse, questo uno dei capolavori della ritrattistica ufficiale in pietre semipreziose, segnalandosi per una morbidezza delle superfici e una qualità dei particolari che ben poco hanno da invidiare ai modelli scultorei da cui dipende, databili agli ultimi anni di vita dell’imperatrice38. In ogni caso, se si eccettuano pochi altri casi, come un bustino di Antinoo39, una testa in cristallo di rocca di Faustina Maggiore40 (fig. 8) o ancora una testa in ametista oggi a Vienna raffigurante Commodo41, nel corso del II secolo sembra evidente, come già accennato, il progressivo estinguersi di questa preziosa espressione della glittica imperiale con una non casuale coincidenza con il declinare anche dell’uso dei cammei nell’ambito della propaganda ufficiale. Al declino di una ritrattistica ufficiale in pietre semipreziose, non corrispose, invece, una contrazione nell’ambito privato al quale, proprio nel corso del II secolo
Fig. 7 - Ritratto di Traiano, calcedonio. Città del Vaticano, Musei Vaticani Fig. 8 - Ritratto di Faustina Maggiore, cristallo di rocca. Parigi, Museo del Louvre
La glittica al servizio della propaganda imperiale
Fig. 9 - Busto in agata di imperatore tardoantico. Parigi, Bibliothèque Nationale Fig. 10 - Busto di imperatore tardoantico, calcedonio. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage
Cfr. HENIG 1994, p. X. OBERLEITNER 1985, pp. 18-21; GUIRAUD 1996, pp. 51-58; PLANTZOS 1999, pp. 35-41. 3 MÖBIUS 1985, pp. 33-36, GIULIANO 1989, pp. 22-42 e, da ultimo, PLANTZOS 1996, pp. 118-119. 4 MEYER 2000, pp. 11-27. 5 PAOLUCCI 2006, pp. 49-64. 6 SALZMANN 1990, pp. 143-146. 7 VOLLENWEIDER 1984 pp. 373-374, n. 19, tav. LXVI, 3-7. 8 JUCKER 1961, SCHNEIDER 1976. 9 Cfr. PAOLUCCI 2006, pp. 39-43. 10 Ibid., p. 78, n. 2, tav. 2. 11 SALOMONSON 1956, p. 33. 12 Ibid., figg. 21-22. 13 PAOLUCCI 2006, p. 55 fig. 19. 14 VOLBACH 1976, tavv. 1,2; 2,3; 3,12; 5,16 etc. 15 HENIG-CANNON 2000, pp. 358-361. 16 PLANTZOS 1996, p. 118.
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d.C., è riconducibile un gran numero di ritratti, repliche di modelli statuari di divinità ed eroi realizzati in pietre preziose42, a riprova della fortuna di cui godette ancora per tutto l’arco del secolo questa produzione presso le élite dell’epoca. La rinascita del cammeo “di Stato” in età severiana43, non sembra avere riflessi apprezzabili per la piccola plastica ufficiale in pietre preziose. Al III secolo avanzato sembrano, ad esempio, riconducibili solo due piccoli ritratti forse in alabastro, identici fra di loro e conservati ad Autun e ad Oslo44, raffiguranti un uomo cinto di corona d’alloro, ma sulla cui effettiva antichità non vi è alcuna certezza. Ancora una volta in sintonia con un fenomeno ben noto per i cammei45, gli anni a cavallo fra III e IV secolo d.C. videro un diffuso fenomeno di riutilizzo di busti e testine di età precedente, che vennero spesso rozzamente rilavorati per conferire loro le fattezze di nuovi imperatori. In effetti, l’interesse degli artigiani di questo periodo si concentrò soprattutto nell’aggiunta degli attributi, che rendessero inequivocabile il rango del personaggio raffigurato, trascurando la fedeltà dei tratti del volto. Questa tendenza, riscontrabile nell’intera arte tardo antica46 è particolarmente evidente in questa piccola plastica, i cui esempi non sono mai riconducibili con certezza a nessun nome di imperatore. È questo il caso del già ricordato busto riutilizzato come pomo dello scettro episcopale della Saint Chapelle47 (fig. 9), un’opera originariamente raffigurante Domiziano, pesantemente rilavorata forse in età costantiniana e reinterpretata in chiave cristiana come testimonia la croce incisa sulla gorgone della corazza. È difficile, invece, dire se il piccolo busto in calcedonio oggi a San Pietroburgo48 (fig. 10), raffigurante un imperatore barbato, sia frutto della lavorazione di un’opera più antica. Senza alcun dubbio la preziosa effige, nella quale si è voluto riconoscere Giuliano l’Apostata, costituisce un compiuto esempio delle più tarde espressioni di questo artigianato aulico. Non è da escludere, infatti, che l’opera, per la sua pressoché assoluta mancanza di tridimensionalità e per le sue qualità formali, lontane dalla tradizione scultorea romana, possa addirittura essere riferita a un epoca ben più tarda e che in essa si debba riconoscere una nostalgica ripresa da parte di un qualche autocrate bizantino di epoca alto medioevale (Eraclio?) di simboli e rituali di corte del primo periodo imperiale.
RUMSCHEID 2000, p. 50. PAOLUCCI 2006, p. 60 fig. 24, p. 62, fig. 26. 19 Per questo tipo di corone si veda RUMSCHEID 2000, pp. 6-51. 20 PAOLUCCI 2006, p. 79, n. 4, tav. 4. 21 GALINSKY 1996, pp. 312-331. 22 MEGOW 1987, p. 36. 23 PAOLUCCI 2006, p. 82, n. 9, tav. 9. 24 Ibid., pp. 83-84, nn. 11-12, tavv. 11-12. 25 Cfr. POLASCHECK 1973 tav. 1. 26 Cfr. SENA CHIESA-FACCHINI 1985, pp. 23-24; MEGOW 1987, pp. 54-100; GIULIANO 1989, pp. 41-44. 27 PAOLUCCI 2006, pp. 84-85, nn. 13-14, tavv. 13-14. 28 Ibid., p. 93, n. 28, tav. 28. 29 Per la damnatio memoriae nella glittica domizianea si veda GUIRAUD 1994. 30 PAOLUCCI 2006, p. 85, n. 14. 31 BERGMNANN-ZANKER 1981, pp. 366-374.
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Cfr. PAOLUCCI 2006, pp. 86-89, nn. 16-21, tavv 16-21. Dal tipo dei “decennali” per lo più, cfr. JUCKER 1984, pp. 41-45. 34 Ibid., pp. 50, 54-55; MEGOW 1987 pp. 115-116. 35 RICCARDI 2002, pp. 96-100. 36 MEGOW 1987, p. 115. 37 PAOLUCCI 2006, pp. 89-90, n. 22, tav. 22. 38 134-137 d.C., cfr. JUNCKER 1981, pp. 708-710. 39 PAOLUCCI 2006, p. 90, n. 23, tav. 23. 40 Ibid., p. 90, n. 23, tav. 24. 41 Ibid., p. 91 n. 25, tav. 25. 42 Cfr. Ibid., pp. 39-48. 43 Cfr. GIULIANO 1989, pp. 55-56. 44 Cfr. PAOLUCCI 2006, pp. 91-92. 45 SENA CHIESA 2003, p. 192. 46 Cfr. LA ROCCA 2000, pp. 5 sgg. 47 PAOLUCCI 2006, p. 85, n. 14, tav. 14. 48 Ibid., pp. 94-95, n. 30, tav. 30. 32 33
La collezione di gemme dei Medici nel XV secolo Riccardo Gennaioli
Nell’affrontare il problema dell’uso delle ricchezze e più in generale della vita pubblica e privata delle persone di alto rango, Giovanni Pontano si soffermò nel suo De splendore sull’importanza delle raccolte di gemme, perle e pietre preziose quali fondamentali complementi del corredo del signore munifico da esibire solo nelle grandi occasioni. Il particolare interesse del trattato del Pontano, antecedente al 1493, non risiede solo nei precetti da lui forniti su questo specifico argomento, ma anche nella galleria di illustri collezionisti con la quale si apre il capitolo dedicato alle pietre incise, a cominciare dal duca Giovanni di Berry, considerato dall’autore un vero e proprio precursore1: “Prima del re Alfonso risplendeva su tutti gli altri principi del suo tempo nella ricerca e nell’acquisto di gemme d’ogni specie e di perle il duca di Berry. Si era divulgata per tutta la terra la fama del suo splendore. Tutto quello che di particolare pregio si trovava in questo tempo, e dovunque lo si trovasse, i mercanti lo portavano a lui; ed egli mai risparmiò sul prezzo, purché l’oggetto fosse adeguato a quel prezzo. Dopo la sua morte Alfonso2 non riposò finché non riuscì a trasferire su di sé quel primato, comperando tutte le gemme e le pietre preziose più rare. Anzi, quando qualche volta sapeva bene che una gemma non era in vendita, con gran somma di denaro si procurava il permesso di venderla. Il Sommo Pontefice Paolo secondo sembrava che cercasse di emulare la gloria di questi due principi e, per quanto desse a vedere di farlo per aggiungere questo suo splendore allo sfarzo del pontificato e all’ornamento delle chiese, tuttavia si compiaceva di questa moda, come si è ritenuto, oltre i limiti che comporti la dignità di un pontefice”3. Significativa risulta nel brano la mancanza di ogni riferimento ai membri della famiglia Medici, soprattutto Cosimo, citato invece nel De magnificentia dello stesso Pontano in qualità di restauratore dell’antico costume di far erigere sontuosi edifici con il denaro privato per il bene pubblico e l’ornamento della patria4. L’assenza del suo nome, e di quello dei suoi familiari, dalla cerchia ristretta dei maggiori collezionisti di gemme dell’epoca può essere spiegata analizzando l’entità della raccolta medicea intorno alla metà del secolo. Essa si ricava da uno dei rari inventari sui beni dei Medici redatto il 15 settembre 1456. Nel documento sono registrati, accanto ad altri oggetti di pregio (vasi in pietre dure, porcellane, monete, medaglie e pietre preziose), ventuno gemme montate in cornici e anelli d’oro5: ben poca cosa rispetto agli ottocentoventi esemplari di inestimabile valore posseduti dal contemporaneo Pietro Barbo, divenuto poi papa con il nome di Paolo II, quando ancora era cardinale di S. Marco a Roma6. La sua collezione, più di ogni altra, esaudiva quanto espresso dal Pontano, il quale ricordava che per risplendere in questo campo “non basta averne pochine, di gemme, quantunque rare, se non sono anche molte e varie quelle che si hanno”7. Nonostante la raccolta medicea non raggiunse mai nel corso del Quattrocento dimensioni simili a quelle della dattilioteca Barbo, essa godette comunque di un grande prestigio presso i contemporanei, in modo particolare fra gli artisti, che nei cammei e negli intagli di Cosimo, Piero e Lorenzo trovarono un’importante fonte di ispirazione da cui ricavare spunti per le loro opere. Come già osservato in passato8, ad alcuni degli artefici più vicini ai Medici fu sicuramente consentito di
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Fig. 1 - Artista della prima metà del I secolo a.C., Icaro e Dedalo, Pasiphae e Artemide. Napoli, Museo Archeologico Nazionale (cat. n. 3)
esaminare gli esemplari di maggior pregio del loro tesoro, custodito nella fastosa residenza di via Larga, e di trarne delle copie. Placchette bronzee e impronte in cera, in gesso o in altro materiale costituirono per i pittori e gli scultori del Rinascimento il principale veicolo di conoscenza delle raffigurazioni incise sui pezzi più preziosi. E forse su simili riproduzioni si basò anche lo scultore della cerchia donatelliana che eseguì i medaglioni marmorei del cortile michelozziano di Palazzo Medici (figg. 1-6), la cui datazione oscilla, secondo le ipotesi più recenti, tra Cosimo e Piero9. Infatti delle gemme utilizzate come modelli per sette dei dodici tondi solo tre erano in possesso dei Medici prima del 146510, mentre il cammeo con Dioniso su un carro condotto da Psychai11 era custodito nella raccolta Barbo e il celebre calcedonio con Diomede e il Palladio12 in quella del cardinale Ludovico (o Alvise) Trevisan. Alla collezione di quest’ultimo Cosimo e Piero guardarono sicuramente con grande interesse, ammirandone soprattutto alcuni esemplari destinati a diventare l’orgoglio del gabinetto di Lorenzo, come la coppa in agata sardonica che successivamente verrà denominata Tazza Farnese (fig. 7), già di proprietà del re Alfonso d’Aragona13, il cosiddetto Sigillo di Nerone, ovvero la corniola con Apollo, Marsia e Olimpo14, e il citato Diomede e il Palladio, ceduto al cardinale dall’umanista Niccolò Niccoli fra il 1434 e il 143715. Figura di rilievo della corte pontificia di Eugenio IV e amico di Poggio Bracciolini, il Trevisan intrattenne stretti rapporti con i Medici e con Firenze, di cui fu arcivescovo dal 1437 al 1439 e dove mantenne una lussuosa residenza vicina a S. Trinita anche dopo il suo trasferimento a Roma16. Con l’elezione al soglio pontificio di Pietro Barbo (1464), il Trevisan, ostile al nuovo papa, fece trasportare a Firenze buona parte dei suoi beni, al fine di salvaguardarli dalle spregiudicate mire del rivale. Questi, tuttavia, in seguito alla scomparsa del cardinale, sopraggiunta in Roma il 23 marzo del 1465, riuscì comunque a impossessarsi di un nucleo consistente di opere della sua vasta eredità. Gli inventari stilati dai funzionari della Curia rivelano che tra i raffinati oggetti di oreficeria del Trevisan recuperati nel monastero fiorentino di S. Apollonia figurava una capsa contenente una pace in oro con smalti e pietre preziose, “Una croce grande d’oro storiata da ogni lato bella et mirabile” e soprattutto “Una schodella di chalcidonio et sardonio, con figure dentro intagliate di chamuino et di chalcidonio, di grandeza il diamitro suo di braccia I/3 incirca, con una Medusa nel fondo di detta scodella a rouescio, in uno stuccio nero”, nella quale è senz’altro riconoscibile la Tazza Farnese17. All’interno dello stesso astuccio della ‘scodella’ erano riposte poi altre quattro gemme: “Uno chalcidonio intagliato con una figura in chavo, in uno chassettino d’ariento dorato”, “Una corn[i]uola con due figure intagliate in chavo, uno vechio et una femmina, in uno chassettino d’ariento biancho” e “Due chammei leghati in oro con molte figure ciascheduno”18. L’insieme di questi esemplari e il tentativo da parte del compilatore del documento di darne una, se pur concisa, descrizione, distinguendoli dagli altri indicati sommariamente per gruppi19, fa supporre che si
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RICCARDO GENNAIOLI
trattasse di pezzi di grande importanza. Mentre per i cammei “con molte figure” la genericità delle informazioni non consente di formulare un collegamento con le opere oggi note, per gli intagli un tentativo di identificazione può essere fatto sulla base del tipo di pietra e i soggetti raffigurati. Tali elementi inducono infatti a credere che il calcedonio e la corniola custoditi con la Tazza Farnese fossero gli altri due lavori più preziosi della raccolta Trevisan, vale a dire il Diomede e il Palladio e il Sigillo di Nerone. La presenza di queste opere a Firenze non dovette lasciare del tutto indifferente Piero di Cosimo de’ Medici, e forse sull’esempio di quanto fatto dal Trevisan e dal Barbo egli si adoperò per sviluppare la raccolta di famiglia. Impresa certamente non facile in un mercato dominato dalla figura di Paolo II, che, come ricorda il Filarete nel suo Trattato di architettura, fu così desideroso di cammei e intagli da inviare emissari in diverse parti del mondo “per averne, tanto è avido e curioso di vedergli”20. Ciò nonostante, Piero riuscì comunque a operare una crescita della collezione, attestata dall’inventario del 20 gennaio 1465, dove rispetto ai ventuno pezzi del 1456 sono elencati trenta esemplari. Tra i cammei che qui figurano per la prima volta risaltano quello con Athena e Poseidon in gara per il possesso dell’Attica21, quello con Fauno e Dioniso22 e quello straordinario di epoca federiciana con l’Ingresso nell’Arca23, considerato il più prezioso con una ingente valutazione di 300 fiorini. Tale insieme, gelosamente custodito da Piero all’interno del famoso studiolo ed esibito a un selezionato numero di visitatori eccellenti, rappresentò la base su cui il giovane Lorenzo, educato dal padre all’amore per l’arte e per la letteratura, andò a costituire il suo celebrato tesoro. Con lui la contenuta collezione paterna si elevò al rango di raccolta principesca, guadagnando un enorme prestigio. È noto che in questa trasformazione un contributo decisivo fu apportato dal pontefice Sisto IV della Rovere, succeduto a Paolo II nel 1471. Entrato in possesso degli ingenti beni del suo predecessore, il della Rovere li utilizzò strategicamente per stringere nuove alleanze politiche e ottenere prestiti rilevanti24, in particolare dai Medici, che a copertura di un vecchio credito di 35.000 ducati, risalente ai tempi di Pio II25, ottennero una parte dei preziosi tesaurizzati dal Barbo26. L’operazione fu avviata dallo stesso Lorenzo in occasione della sua ambasciata d’obbedienza a Sisto IV nel settembre del 1471 e sancì il passaggio nella raccolta fiorentina di un rilevante numero di gemme, tra le quali la Tazza Farnese e il Diomede e il Palladio, già vanto delle dattilioteche Trevisan e Barbo. Nel corso degli anni successivi Lorenzo recuperò altri esemplari notevoli appartenuti ai due collezionisti approfittando sempre delle attività finanziare svolte dal Banco Medici, che sotto di lui si trasformò in un formidabile strumento per il reperimento di oggetti rari e pregiati. Emblematica rimane, da questo punto di vista, l’intricata vicenda dei cammei e degli intagli del cardinale Francesco Gonzaga27, provenienti dall’eredità Barbo28. Depositati dopo la morte di Francesco presso la succursale romana della banca medicea gestita dai Tornabuoni a garanzia di un debito di 3.500 ducati, essi furono oggetto di diversi tentativi di acquisto da parte del Magnifico, che non riuscì però a raggiungere un accordo per la loro cessione con gli eredi del cardinale.
Fig. 2 - Sostratos (attr.), Dioniso su un carro condotto da Psychai. Napoli, Museo Archeologico Nazionale (cat. n. 12)
La collezione di gemme dei Medici nel XV secolo
Fig. 3 - Bottega di Donatello, Icaro e Dedalo, Pasiphae e Artemide. Firenze, Palazzo Medici Riccardi, cortile Fig. 4 - Bottega di Donatello, Bacco e Arianna su un carro condotto da Psychai. Firenze, Palazzo Medici Riccardi, cortile
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Per arricchire la sua collezione Lorenzo fece affidamento anche su una schiera di qualificati agenti dislocati su tutto il territorio italiano, pronti a consigliarlo e a comunicargli la comparsa sul mercato di opere interessanti. Probabilmente proprio in seguito a una segnalazione, Lorenzo venne a sapere della presenza a Venezia del prezioso Sigillo di Nerone, da lui forse ammirato nel tesoro pontificio di Paolo II durante il soggiorno romano del 1471. Una lettera del cancelliere Luigi Lotti da Barberino a Niccolò Michelozzi, segretario di Lorenzo, del 27 ottobre 1487 rivela che l’ambito cimelio era stato ceduto al Medici dal ricco gioielliere veneziano Domenico di Piero29, con il quale Lorenzo ebbe ripetuti contatti per l’acquisto di altre gemme nel novembre del 1487 e nel 148930. Domenico fu uno dei più importanti mercanti di antichità dell’epoca e dopo aver servito per molti anni Paolo II31, approfittò della scomparsa del pontefice per effettuare acquisti dalla sua eredità32, ottenendo verosimilmente anche la preziosa corniola. L’arrivo a Firenze dell’intaglio dovette rappresentare per Lorenzo il conseguimento di un importante obbiettivo: il ricongiungimento di quei pezzi (la Tazza Farnese, il Diomede e il Palladio e l’Apollo, Marsia e Olimpo appunto) che avevano reso illustri le raccolte di Alfonso d’Aragona, di Ludovico Trevisan e di Pietro Barbo. La loro presenza nel tesoro mediceo fu senz’altro all’origine dell’enorme fama raggiunta dalla raccolta di Lorenzo, da lui accresciuta privilegiando la qualità dei singoli esemplari piuttosto che la quantità. Lo dimostra da un lato la consistenza stessa della collezione, tramandataci da una copia cinquecentesca dell’inventario redatto alla sua morte, dove le gemme registrate sono ‘solo’ settantasei, e dall’altro le stime che nel documento accompagnano alcune descrizioni: il cammeo con l’Ingresso nell’Arca, ad esempio, valutato 300 fiorini al tempo di Piero è stimato 1.500 fiorini e la Tazza Farnese, acquistata secondo Angelo Poliziano da re Alfonso per 1.000 ducati33, raggiunge l’eccezionale cifra di 10.000 fiorini. Un altro aspetto rende unica la raccolta di Lorenzo, ed è quello della presenza delle lettere “LAV·R·MED” incise sulla maggior parte delle gemme e dei vasi in pietre dure di sua proprietà. Rimangono ancora da chiarire le modalità e i tempi di realizzazione di questo intervento che, di fatto, cancellò per secoli il ricordo dei precedenti possessori di molte delle gemme del Magnifico. Nemmeno Paolo II all’apice della sua sfrenata furia collezionistica osò mai tanto, limitandosi a far montare i suoi preziosi cammei su tavolette di argento dorato contrassegnate dallo stemma Barbo e da una iscrizione elogiativa. Un sistema analogo fu adottato anche dal cardinale Francesco Gonzaga e da Isabella d’Este, che per il cammeo più importante della sua raccolta aveva fatto eseguire una tavola metallica con sul retro il proprio nome34. Considerate le difficoltà e i rischi che l’incisione dell’ex-gemmis laurenziano dovette comportare, c’è da chiedersi se a commissionarlo sia stato veramente Lorenzo, come narra Bernardo Rucellai nel suo De Bello Italico Commantarius35, o piuttosto il figlio Piero36. Sicuramente il gruppo più consistente degli oggetti in pietre dure fu siglato già prima della cacciata dei Medici da Firenze, dato che di vasi con intagliate nel corpo “littere maiuschule che dimostrano el nome de Laurenzo Medice” parla Francesco Malatesta in una nota lettera a Isabella d’Este del 1502 riguardante certi esemplari confiscati a Piero37. Diverse sono poi le ipotesi formulate sul significato della sigla, in cui la “R” appare sempre separata dalle lettere che la precedono e la seguono da un punto: secondo Ulrico Pannuti tale sottigliezza consentirebbe di sciogliere la cifra in “LAV[RENTIVS] R[EX] MED[ICES]”, mentre Nicole Dacos ravvisa in essa una colta allusione ispirata alle legende dei conî monetali di epoca romana38. Con una ripresa dal mondo classico concorda anche Anna Lenzuni, la quale ipotizza però che la “R” potrebbe alludere al titolo oraziano di Rex paterque dato a Mecenate39. Più recentemente Laurie Fusco40, operando un confronto con simili iscrizioni riprodotte su medaglie e codici miniati, ha suggerito di riconoscervi un riferimento all’ambiguità politica di Lorenzo, sostenitore della respublica e contemporaneamente suo rex occulto.
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A differenza di quanto accaduto per altre raccolte dell’epoca, la morte del Magnifico non provocò l’immediata dispersione delle gemme, che continuarono ad essere custodite nel palazzo di via Larga dal figlio Piero fino alla condanna all’esilio decisa nei suoi confronti dal governo fiorentino nel 1494. Tale avvenimento ebbe come principale conseguenza il sequestro di alcuni degli esemplari più preziosi della collezione, messo in atto dalla Signoria al fine di venderli e ricavarne denaro da destinare al risanamento delle attività finanziarie legate ai Medici. Fra il luglio e il novembre del 1495 Lorenzo Tornabuoni, impegnato nel riscatto della succursale romana della banca medicea, ricevette un rilevante numero di oggetti di lusso, dei quali facevano parte il Sigillo di Nerone, il cammeo con Athena e Poseidon in gara per il possesso dell’Attica e la Tazza Farnese41. Trasferiti nell’Urbe, questi beni dovettero rimanere per un certo periodo sotto la custodia dei Tornabuoni, per poi ritornare nelle mani dei Medici. Infatti i pezzi citati, insieme ad altre quarantasei pietre dell’originario nucleo laurenziano42, furono ereditati nel 1537 da Margherita d’Austria, figlia naturale di Carlo V, dopo l’assassinio del consorte Alessandro de’ Medici. La celebrazione a Roma del secondo matrimonio della giovane duchessa con Ottavio Farnese, nipote del pontefice Paolo III, segnò di fatto l’inizio di una nuova fase storica per le gemme medicee e privò per sempre Firenze di uno dei suoi tesori più illustri.
Fig. 5 - Arte romana (?), Athena e Poseidon in gara per il possesso dell’Attica. Napoli, Museo Archeologico Nazionale (cat. n. 7) Fig. 6 - Bottega di Donatello, Athena e Poseidon in gara per il possesso dell’Attica. Firenze, Palazzo Medici Riccardi, cortile
La collezione di gemme dei Medici nel XV secolo
Simile opinione è espressa anche dal Filarete nel Trattato di architettura, dove egli ricorda come proveniente dalla collezione del duca di Berry la grande Gemma Augustea oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna, FILARETE, ed. Finoli-Grassi 1972, II, pp. 680-681; ZWIERLEIN-DIEHL 2008, pp. 98-123, n. 6. 2 Alfonso V, il Magnanimo, re d’Aragona, IV di Catalogna, I di Napoli dal 1442. 3 PONTANO (1498), ed. Tateo 1999, pp. 239-240. 4 Ibid., p. 189. 5 U. Pannuti, in FIRENZE 1973, p. 87, doc. V. Ai venti esemplari qui indicati deve essere aggiunta anche una corniola montata in “Uno sugello in oro”, cfr. FUSCO-CORTI 2006, p. 376. 6 Per la collezione di gemme del cardinale Pietro Barbo si vedano in particolare MÜNTZ 1879, pp. 109-121, 156-159, 181-287; ZIPPEL 1910, pp. 241-258; WEISS 1969, pp. 187188, 196-197; PANNUTI 1973, pp. 3-15; CARDILLI ALLOISI 1988, pp. 239-241; CANNATA 2003, pp. 230-231; SALOMON 2003, pp. 1-18; GENNAIOLI 2008a, pp. 73-76. 7 PONTANO (1498), ed. Tateo 1999, p. 240. 8 DACOS 1973, pp. 142-143; ACIDINI LUCHINAT 1991a, p. 144. 9 Per una sintesi sulle diverse ipotesi si veda CAGLIOTI 2000, pp. 392-393 e nota 48. 10 Vale a dire il cammeo con Icaro e Dedalo, Pasiphae e Artemide già ricordato nell’inventario del 1456 (cat. n. 3) e i cammei con Athena e Poseidon in gara per il possesso dell’Attica (cat. n. 7) e Fauno e il piccolo Dioniso, A. Giuliano, in FIRENZE 1973, p. 54, n. 23, menzionati nel più tardo inventario del 1465. 11 Cat. n. 12. 12 Cat. n. 15. 13 ACIDINI LUCHINAT 1991a, p. 146, nota 21. 14 Cat. n. 35. 15 Per la collezione di gemme del Trevisan si vedano in particolare: BAGEMIHL 1993, pp. 559-563; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 3-4, 25-26 note 16-19, 27-28 nota 37; FUSCOCORTI 2006, pp. 92, 94, 124, 127, 128, 186, 194, 201, 213, 1
247-248 nota 47. Su di lui rimane fondamentale lo studio di PASCHINI 1939, p. 75 per le sue relazioni con Cosimo, pp. 207-211 per le vicende connesse alla sua eredità, pp. 223-226 per l’amicizia con Poggio Bracciolini. + L’inventario, edito per la prima volta in BAGEMIHL 1993, pp. 561-563, doc. 2, è stato in parte ripubblicato anche in FUSCO-CORTI 2006, pp. 335-336, doc. 202. 18 Ivi. 19 “Una chassetta pichola dentrovi pietre 205 tra chamuini, chalcidoni, diaspri, plasme, et più altre pietre, tutte sciolte et più trentatre pietre fini leghate, cioè chamuini, chorn[i]uele [sic] et più altre ragioni”, ivi. 20 FILARETE, ed. Finoli-Grassi 1972, II, p. 680. 21 Cat. n. 7. 22 PANNUTI 1994b, pp. 117-118, n. 86. 23 Cat. n. 8. 24 VON PASTOR 1961, pp. 438-439, in particolare nota 2. 25 Lettere 1977a, p. 259 nota 5. 26 Su questa vicenda risultano di grande interesse una lettera da Roma di Giovanni Tornabuoni a Lorenzo de’ Medici del 20 agosto 1471 e una missiva da Napoli di Zaccaria Barbaro al doge di Venezia datata 11 novembre 1471 con la quale riferiva: “Sento … el bancho de Lorenzo de’ Medici fare ogni cosa in Corte, et havere dal Papa et da’ Cardinali ogni favore et più reputazione l’havessi mai et tutte le cosse de la Corte spaçarsi per lo meço suo, et che per havere quelle çoie per bona derata ha promesso pagar lo Papa et per li debiti de papa Pio, che erano ducati XXXV mila, che mai papa Paulo volse pagare, … et ho modo con cui stima quelle çoie haverne tal derata, che fino questo dì haveano guadagnato cum el papa da ducati XXV mila in suxo, fra quello hano da cui dieno havere et l’utilità ne reçevono de le çoie”, Lettere 1977a, pp. 317-318 nota 1, già segnalate in DACOS 1973, pp. 136-137 e p. 153 nota 15. Altre indicazioni sullo stesso episodio sono fornite in Lettere 1977b, p. 184 nota 10. 27 Sulle gemme di Francesco Gonzaga cfr. WEISS 1969, pp. 196-197; FRASSO 1978, pp. 141-144; BROWN 1983, pp. 102-104; BROWN-FUSCO-CORTI 1989, pp. 86-103; CHAMBERS 16
27
1992, pp. 74-83, 160-163; REBECCHINI 2003, pp. 290-291; FUSCO-CORTI 2006, pp. 2-3, 14-15, 194, 200-201; VENTURELLI 2007, pp. 23-25; GENNAIOLI 2008a, pp. 76-78. 28 GENNAIOLI 2008a, p. 76. 29 BULLARD-RUBINSTEIN 1999, pp. 285-286. 30 FUSCO-CORTI 2006, pp. 97-98, 303 doc. 88, 311 doc. 126, 312-313 doc. 129. 31 MÜNTZ 1879, pp. 116-117 e soprattutto ZIPPEL 1904-1911, pp. 188-190. 32 VENTURI 1890, pp. 25-26. 33 ACIDINI LUCHINAT 1991a, p. 146, nota 21. Della notizia, riportata in uno dei Detti piacevoli del Poliziano tramandatici dall’edizione a stampa di Ludovico Domenichi del 1548, esiste una seconda versione stando alla quale la Tazza sarebbe stata comprata da Alfonso il Magnanimo per 2000 ducati, aggiungendo inoltre che Lorenzo “non la darebbe per 10000 ducati”, FUSCO-CORTI 2006, pp. 337-338, doc. 207. Un’altra testimonianza sul presunto prezzo pagato dal re di Napoli per il prezioso manufatto si ricava dall’elenco con stima delle gioie passate in eredità a Margherita d’Austria alla morte di Alessandro I de’ Medici (cat. n. 68), in cui alla voce relativa alla Tazza si ricorda che Alfonso “la comperò ducati 12.000” mentre Lorenzo l’ebbe per ducati 3000, CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 9, 32 nota 73 e p. 20, appendice II. 34 Per il cosiddetto Cammeo Gonzaga si rimanda ai saggi introduttivi in MANTOVA 2008b. 35 Riguardo a questo testo e al riferimento alle lettere si veda in particolare FUSCO-CORTI 2006, pp. 151-152. 36 Ipotesi questa già espressa in MASSINELLI-TUENA 1992, p. 26. 37 A. Grote, in FIRENZE 1975b, pp. 177-178, doc. XVI. 38 PANNUTI 1973, p. 14 nota 24; DACOS 1973, p. 137. 39 Riportata in ACIDINI LUCHINAT 1994, p. 120. 40 FUSCO-CORTI 2006, pp. 149-155. 41 Il documento ricorda anche tre cammei, di cui due montati in anelli d’oro, e quindici intagli. Cfr. CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 19-20, appendice I, nn. [46-63]. 42 Cat. n. 68, pubblicato in CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 20-21, appendice II.
Gli occhi del dragone. Gemme dipinte nei manoscritti del Quattrocento Giovanna Lazzi
Le pupille degli occhi [dei dragoni] sono di pietra, le quali risplendono come fiamma. Et dicono che elle hanno grandissima virtù a sanare diversi mali (Filostrato, Vita del gran filosofo Apollonio Tianeo. In Vinegia, appresso Gabriel Giolito de Ferrari, MDXLIX, L.III, p. 64) LA MAGIA DELLE GEMME
Tra le rovine di Roma gli artisti ricercavano “Cammei e corniole, sardoni et altri eccellentissimi intagli”1 raccontava il Vasari certificando la grande fortuna delle pietre nella cultura e nel gusto del Rinascimento, non solo per le loro qualità intrinseche ma anche come testimonianza del mondo classico. Solo in tempi relativamente recenti il valore delle gemme viene legato a quotazioni di mercato; gli antichi ne valutano la provenienza dalla Madre Terra, dal sottosuolo, misterioso luogo degli inferi, dal cielo, sede della divinità. I lapidari medievali seguono, per certi versi, il destino dei bestiari mescolando raffinatezze intellettuali di stampo filosofico letterario con credenze superstiziose e pratiche magiche. Se le figure degli animali si prestavano all’edificazione morale impersonando vizi e virtù, le pietre, al pari delle piante – e non per niente su questo percorso letterario e figurativo si allineano anche gli erbari – non sono studiate solo nel loro aspetto naturale ma soprattutto per le capacità terapeutiche e magiche. Il mondo della natura diventa infatti un universo animato anche nelle sue manifestazioni più inerti in quanto in ogni entità si riconosce un rapporto con l’uomo e, soprattutto, la possibilità di mettere in comunicazione l’umano con il divino2. GEMME RACCOLTE, GEMME RAPPRESENTATE
Nel Rinascimento la passione per le gemme antiche diviene un vero fenomeno culturale: le pietre costituiscono un legame con il passato ed hanno potere difensivo e apotropaico, tanto che un’azione contro la loro natura fa sì che, offese, si spezzino. Dopo essere state esorcizzate per eliminare le forze malefiche, vengono collezionate anche con funzione di talismano; nobili e popolani le indossano sperando in aiuto e difesa3. In una cultura intellettualistica e rarefatta come quella neoplatonica in cui gli umanisti, dal Ficino al Poliziano, non nutrono che un blando interesse per l’arte, il collezionismo del Magnifico si indirizza proprio verso gli oggetti piccoli, rari e preziosi, sofisticati e peregrini, incrementando la raccolta iniziata da Cosimo il Vecchio. Gli artisti della prima grande stagione, quella degli “uomini nuovi”, avevano, in qualche modo, preso il timone anche della barca della cultura; le novità vere erano venute da Donatello, Masaccio, Brunelleschi. Ma allo spirare del secolo i tempi erano mutati come era mutata la figura e il ruolo dell’intellettuale. In una Firenze che non poteva competere con Roma quanto a reperti storico archeologici il recupero del mondo classico poteva svolgersi solo in termini d’importazione e quindi di collezione. Da quando il Salutati, già precocemente agli albori del secolo, aveva iniziato la sua caccia all’antico, la cultura fiorentina propagandava e condivideva il mito e l’illusione della città erede di Roma e poi anche di Bisanzio. L’aver rivestito gli oggetti di una specie di culto da reliquie
Fig. 1 - Dioskourides (attr.), Apollo, Marsia e Olimpo, fine del I secolo a.C.-inizio del I secolo d.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale (cat. n. 35)
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Fig. 2 - Omero, Opera (particolare c. 244r), Firenze, Bernardo e Neri de’ Nerli, 1488, 9 dic. (dedica 13 gen. 1489). Napoli, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III” (cat. n. 57)
giustifica il fervore delle raccolte di gemme preziosissime, cariche di significato, sia sacro sancito dalle Scritture, sia magico, fomentato dalle credenze del popolo e dall’enciclopedismo medievale che vi aveva scorto la giusta vena di naturalismo, sia culturale come legame con un passato che si vuole far rinascere. Le immagini delle cose, diventate segni, vengono riproposte nei luoghi del potere, nei palazzi come nei bordi dei manoscritti. È stato osservato come il ruolo di Firenze, materialmente debitrice dei commerci per il reperimento di quei beni, sia stato inferiore a quello di altre grandi città4, e che cultura filosofica, letteraria e artistica si compenetrano dando luogo ad una visione dell’antico non priva di fantasia e di metamorfosi intellettuali. Tuttavia, più che nell’arte “maggiore”, è proprio nell’arte applicata e in particolare nella decorazione libraria che il fenomeno si può valutare in tutta la sua portata e anche nelle sue successive trasformazioni. Il collezionismo nasce dal desiderio di impossessarsi di un passato che non è morto ma continua nei nuovi intellettuali, eredi della cultura, nei nuovi artisti, eredi della grandezza del mondo classico, nei nuovi signori, eredi delle virtù civili e militari. La riproduzione di gemme della collezione dei Medici o quantomeno da essi ammirate e conosciute, entra in decorazioni promosse dalla famiglia, come la volta del vestibolo di Santo Spirito e il fregio del cortile del Palazzo di via Larga, dove il Vasari ricorda otto tondi di marmo dove “sono ritratti cammei antichi e resi di medaglie”. A prescindere dalla controversia sulla data di esecuzione, è innegabile che i medaglioni riecheggiano i clipei della casa romana, in linea però anche con la decorazione plastica fiorentina, già celebrata dai dischi robbiani nel loggiato degli Innocenti. La presenza di temi mitologici alternati agli scudi del blasone non sembra però casuale5, bensì legata ad una celebrazione trasversale della famiglia che in quel palazzo risiedeva e non nascondeva mire di egemonia. Le figure del cortile presentano gli dei e gli eroi non i personaggi viventi. Il tema dionisiaco è il filo labile ma dominante che le unisce e che si intreccia alla meditazione sul valore della conoscenza, allusa forse dalla citazione di Atena e di Diomede, nonché dalla presenza del centauro che, con la sua doppia natura, indica il cammino dalla ferinità all’umanità attraverso la l’acquisizione del sapere. I due cammei con Arianna e le Psichai tornano, ad esempio, nel Livio per Ferdinando d’Aragona (Valencia, Biblioteca Universitaria, ms. 763), miniato probabilmente intorno al 1479, mentre nel più tardo Omero stampato nel 1488 (Napoli, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, S. Q. XXIII K. 22) ricompare l’Apollo e Marsia e l’Ermafrodito, presente, tra l’altro nel Banco Rari 229 della Biblioteca Nazionale di Firenze, illustrato ancora nella bottega di Gherardo e Monte di Giovanni (figg. 1-2). La forza vitale
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“dionisiaca” aveva già informato i putti giocosi e sfrenati della cantoria di Donatello e da qui subito rapidamente diffusi, da cui sorge la figura di Amore Attys, chiudendo il cerchio che identifica lo slancio erotico con quello intellettuale, ormai congiunti. E il centauro, proprio con la palla o le sfere del blasone, era stato precocemente raffigurato nelle bordure dei manoscritti medicei che Ricciardo andava approntando allo scadere degli anni cinquanta. All’interno di questo complesso panorama e con l’occhio al prodigioso serbatoio di immagini in possesso della decorazione libraria anche la inusitata iconografia dei tondi del Palazzo può trovare le sue ragioni di essere. Nella decorazione di un Plinio che si deve interamente a Gherardo, la Garzelli6 rileva la presenza dei cammei esplorati nelle collezioni di Lorenzo, tra cui Dioniso trainato dalle psichai, Apollo e Marsia, Dioniso e Arianna a Nasso. Ma poiché il volume è fatto per Filippo Strozzi è difficile pensare ad una celebrazione medicea, visti i turbolenti rapporti tra le due famiglie in lotta per l’egemonia. È nota la consuetudine di lavoro nelle botteghe in cui si copia dai disegni che circolavano abbondanti e anche, per questo specifico materiale, dai calchi e dalle placchette; comunque la scelta delle gemme di contenuto mitologico, svincolata dal legame con il testo, può suggerire un gusto dilagante e forse una precisa chiave simbolica, che gioca sulle valenze del tema vitalistico legato a Dioniso e sapienziale legato a Atena per celebrare, attraverso la cultura, il valore e il potere dei committenti. Poco importa allora se quelle gemme fanno realmente parte del patrimonio della famiglia: sono note e amate, conosciute e valutate, recano un messaggio e questo conta. L’INTELLETTO E L’ANIMA: IL SIGNIFICATO CULTURALE
Già a metà degli anni cinquanta del Quattrocento, nei manoscritti usciti dal pennello di Ricciardo di Nanni per i Medici le citazioni dall’antiquaria significano, consapevolmente per il maestro, la speculazione sull’antico, maturata in via letteraria sullo studio dei testi e in via formale sull’osservazione dei reperti. Emblematico un bellissimo esemplare delle Orazioni di Cicerone (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 48.8), miniato intorno al 1458-1459, per Piero. La formella, dove due eroti tolgono la benda ad una giovane nel rivelare la verità, prosegue il suo percorso nell’immagine di Diomede con il Palladio, copia del noto calcedonio, celebrato anche dal Ghiberti (fig. 3). Il giovane guerriero, bello nella nudità eroica da semidio greco, è seduto sul cubo, segno di sapienza, mentre un leone e una leonessa, animali “vigilantes”, completano coerentemente nel bas de page la zona dedicata all’acquisizione della conoscenza7. Nel precoce e coltissimo Plinio del 1458 (BML, Plut. 82.4) Ricciardo meditava ancora su questo tema, attingendo a piene mani al mondo antico. La giovane in trono incorniciata da un drappo che parzialmente la copre, in un gioco conturbante, ricorda tante immagini di Veneri, ninfe, Iridi con il manto innalzato sulla testa a formare l’arcobaleno. Ricciardo citava Venere con una connotazione di stampo neoplatonico, avvicinandola all’alma mater in una simbiosi tra divinità pagana, imagerie classica, cultura umanistica, celebrazione del committente. La base letteraria e speculativa è certamente derivata da Plinio e Lucrezio, ma la scultura ellenistico romana forniva prove sufficienti per l’archetipo del soggetto, come la statuetta di Paestum (Museo Archeologico, inv. 56649) dove la divinità nuda e accosciata emerge da un drappo sorretto da due genietti, sicuramente non un
Fig. 3 - Bottega di Cristiano Dehn, Diomede e il Palladio (impronta), XVIII secolo. Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti (cat. n. 15).
Gli occhi del dragone. Gemme dipinte nei manoscritti del Quattrocento
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caso isolato. Un gruppo di eroti dispiega il baldacchino intorno a Venere che, come quella scolpita, emerge dal viluppo dei panneggi, ricordando nell’impianto e nel moto della tenda, la Madonna del Parto, enigmatica come la maggior parte delle opere di Piero della Francesca, dove due angeli aprono, come in una sacra rappresentazione, il tendaggio, ugualmente foderato di vaio, la pelliccia connotante rango elevato professionale e culturale, a svelare Maria incinta, la madre per eccellenza. La Vergine mantiene di Afrodite la peculiarità del ruolo di forza generativa, intermediaria tra uomo e Dio e se nel Cristianesimo è la speranza della redenzione, la Venere Urania è impulso intellettuale che sostiene l’anima impegnata nell’itinerario catartico per ricongiungersi alla luce infinita da cui, piccola particella, si è distaccata per affrontare il suo passaggio terreno. Vasta è la gamma dei riferimenti che confluiscono, poi, nel conio di un’immagine di rara potenza: la torsione del busto viene dalla statuaria, e i Medici possedevano un torso di Venere, ma la gestualità e la composizione sono in debito alla glittica ed è intrigante il richiamo almeno alla gemma medicea di Afrodite che cavalca il leone accompagnata dall’amorino (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 25839 n. 7)8 (figg. 4-5). Ricciardo ritaglia nel margine altri cammei: la Venus mater che incontra il piccolo Amore, i “pueri mingentes”, nella positura canonica delle tre Grazie, che indicano la prima forma del sapere e dell’eros, i putti che, spiegando baldanzosi una vela gonfia di vento, cavalcano i delfini, sacri a Venere e simbolo dell’amore esaltante9. Proprio del 1457 sono i Commentariola in Lucretium che Ficino confessa di aver distrutto, e il De voluptate, frutto della sua indagine su temi evidentemente molto in voga. Il moderato eclettismo del filosofo tentava di conciliare, con il supporto stoico e aristotelico, la distinzione platonica della laetitia dell’animo e della voluptas del corpo. Le citazioni archeologiche di Ricciardo si allineano, allora, alla speculazione umanistica, di cui paiono costituire un’affascinante trascrizione visiva. Già il Bruni, il Salutati e persino San Bernardino avevano considerato l’amore come strumento di conoscenza che si conquista attraverso gli studi “di umanità” mediante i quali sarà possibile comprendere la parola di Dio10. Il cerchio sembra così chiudersi con coerenza: le gemme con la loro raffinata preziosità, il sapore antico e quasi misterioso, la suggestione del potere magico diventano un forte indicatore culturale. L’ANTICO E IL POTERE: IL SIGNIFICATO POLITICO
Fig. 4 - Protarchos (attr.), Afrodite su un leone condotto da Eros, 90-70 a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale Fig. 5 - Plinio, Naturalis Historia (part. c. 6r) Firenze, XV secolo [1458]; Francesco d’Antonio del Chierico e Ricciardo di Nanni. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana (cat. n. 29)
Leonardo Bruni con la Laudatio urbis Florentiae aveva gettato le basi intellettuali per quella celebrazione della città che costituisce, per i Medici, uno degli elementi di propaganda politica e che consente loro di presentarsi come gli eredi dei grandi del passato. Stava, poi, alla seconda generazione degli umanisti rendere vivo il concetto della profonda unione con l’antico anche dei governanti, prima avvicinati a Scipione, ancora in un momento dichiaratamente repubblicano, e poi, espressamente, agli imperatori. Dopo la scoperta della Domus Aurea, invece di rappresentare le gesta della Roma repubblicana, contrappuntate da scene mitologiche, si predilige la serie degli “aurei” imperiali, incastonati nelle bordure dei codici come nelle paraste dipinte, ad evocare la virtus e la cultura tramite le quali si governava il mondo, che rivivevano nella pietas e nel valore dei nuovi signori11.
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Fig. 6 - Francesco Rosselli, Tolomeo (c. 1r). Parigi, Bibliothèque Nationale de France
Gli occhi del dragone. Gemme dipinte nei manoscritti del Quattrocento
Fig. 7 - Francesco Rosselli, Tolomeo (part. c. 1r). Parigi, Bibliothèque Nationale de France Fig. 8 - Arte romana (?), Cerere e Trittolemo, tardo I secolo a.C. Londra, The Schroder Collection (cat n. 21)
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La decorazione dei manoscritti, ancor più delle altre manifestazioni artistiche, trasmette messaggi inequivocabili. Nelle fastose pagine miniate, tra le coppie di putti marmorei, nel loro piglio scultoreo da sarcofago, emergono, dai clipei, volti severi e pensosi di filosofi e dotti, elemento di collegamento e tramite con l’antico. La sapienza del passato ritorna a vivere e fruttificare in virtù dei nuovi signori, presenti tramite i loro ritratti realizzati con vivo sapore realistico, che timbrano i luoghi deputati delle bordure. Alle prove di Benedetto e Giuliano da Maiano nella Sala dei Gigli di Palazzo Vecchio si ispirano quei putti torniti, a metà tra il marmo e la robbiana, che, presi in prestito dalle cantorie, danzano e giocano lungo il fusto di una architettonica candelabra nel Tolomeo per il Montefeltro (Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. Lat. 277). Il dialogo con l’antico e il richiamo alle pietre si fa ancora più presente quando, in luogo dell’ispirazione scultorea, un vero campionario di piccoli oggetti antiquari si dispiega nei margini dell’altro Tolomeo (Parigi, BN, Lat. 88354), dove sono chiaramente riconoscibili le copie delle gemme12 (figg. 6-9), mentre nel bellissimo frontespizio di Giuseppe Flavio ancora per Federico (BAV, Urb. Lat. 400), la composizione acquista l’effetto da commesso o da intaglio per il fondo quasi composto da pietre colorate che simulano le grandi lastre scolpite. La sequela dei cammei imperiali delle bordure, nell’ordine della Sala dei Gigli13, dimostra come l’iconografia miniata possa esprimere più liberamente la presa di potere da parte dell’oligarchia medicea, stante la sua diversa destinazione e la sua più limitata circolazione. In un bellissimo Aristotele mediceo (BML, Plut. 84. 1) Francesco Rosselli inserisce un graffiante ritratto di Cosimo il vecchio, realistico nell’acuto profilo e prepotente nella sua squillante gamma cromatica, che contrasta con il monocromo delle medaglie degli uomini illustri, ribadendo l’utilizzo del colore come elemento simbolico ben conosciuto dagli artisti14. Il pater patriae viene rappresentato in tutto il realismo di un’effigie riprodotta dal vero, con il taglio di profilo e la posizione nel clipeo che manifestano la diretta filiazione e l’equiparazione con gli antichi, ed è figlio ed erede ideale dei grandi del passato, raffigurati nella astratta lucentezza delle monete e dei cammei di contro alla evidenza fotografica del signore presente15. È palese che la decorazione libraria ha la sua parte di responsabilità nella diffusione di questi repertori che usa con coerenza e soprattutto con anticipo rispetto ad altre arti. UNA GEMMA PER LA PIÙ BELLA
L’importanza semantica e simbolica delle gemme nel Quattrocento a Firenze è documentata anche da una serie di ritratti ove colpisce la posizione di preminenza, come unico gioiello che spicca sul
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collo nudo16. La fanciulla (Francoforte, Städel Museum) botticelliana, dove si è voluto riconoscere Simonetta Vespucci, reca al collo la gemma con Apollo e Marsia17, riproposta con grande frequenza anche in manoscritti non solo fiorentini, per significare il passaggio dalla bestialità alla civiltà attraverso la conoscenza, ma anche per celebrare le virtù civili o guerriere del signore, volendo alludere alla vittoria sulla barbarie18. La gioia è legata con una semplice cordella per non perdere niente della sua potenza anche simbolica, come nel busto di giovane già attribuito a Donatello (Firenze, Museo del Bargello), con al collo un cammeo raffigurante il platonico carro dell’anima19. Rispetto al tempo di Apollonio di Giovanni quando le figure mitologiche vivevano da protagoniste le scene a piè di pagina, dopo gli anni settanta l’antico trova un luogo deputato nelle bordure dei codici, con valenza non tanto decorativa o riempitiva, ma sovente interpretativa, in linea con la cultura degli intellettuali, anche con interventi di rielaborazione e non solo di semplice copia. Dopo la scoperta della Domus Aurea i miniatori attinsero ad una felice abbondanza di nuovi repertori, di cui anche le gemme fanno parte, diventando segni del sottile linguaggio dell’allegoria politica e culturale. Lorenzo stava creando i suoi miti e i suoi eroi, i suoi modelli e le sue icone20: padroneggiando con sapienza il linguaggio della comunicazione con i mezzi a disposizione il Magnifico tesse un’abile tela di immagini. Conia l’icona della donna facendo di Simonetta Vespucci la Venere fiorentina, rinnova l’immagine del dotto con il culto di Platone, ripropone il mito dell’impero con gli eroi classici. E il suo intelligente mecenatismo produce i frutti e i “ritorni” sperati.
Fig. 9 - Francesco Rosselli, Tolomeo (part. c. 1r). Parigi, Bibliothèque Nationale de France
Gli occhi del dragone. Gemme dipinte nei manoscritti del Quattrocento
VASARI (1568), ed. 1967, V, p. 155. S. Lucchesi, Archeogemmologia: le pietre nella Bibbia, conferenza del 04-03-2003. 3 CASTELLI 1997, pp. 309-329. 4 CHASTEL 19642, p. 43. 5 I soggetti – Diomede e il Palladio, Bacco e Arianna su un carro condotto da Psychai, Satiro e il piccolo Dioniso, Icaro e Dedalo, Athena e Poseidon in gara per il possesso dell’Attica, Centauro – sono tratti da gemme presenti nel tesoro mediceo sia pure pervenute in momenti cronologici non unitari. Il trionfo di Bacco era già stato usato da Donatello per l’elmo di Oloferne nel gruppo della Giuditta. La data di esecuzione può anche essere svincolata dal 1452, pagamento documentato a Maso di Bartolomeo per la decorazione a graffito del fregio sopra le colonne. 6 Plinio, Naturalis Historia nella traduzione del Landino stampato nel 1476 a Venezia, Oxford, Bodleian Library, Douce 310; cfr. GARZELLI 1985, I, p. 294. 7 Nel Virgilio riccardiano (Firenze, Biblioteca Riccardiana, Ricc. 492) ormai collocato intorno al 1459-1460, due miniature mostrano gli eroi greci mentre compiono il furto nel tempio di Pallade, visualizzando un episodio non molto comune nell’iconografia, in una suggestiva consonanza di date con gli affreschi della Cappella e con la conclusione del Palazzo che proprio nei tondi del Cortile non mancherà di riprodurre le gemme più famose del tempo. cfr. Vergilius 1 2
Publius Maro 2004; LAZZI-WOLF 2009. GARZELLI 1985, I, pp. 57-58. 9 Al notissimo soggetto ellenistico del bambino sul pesce si unisce la valenza escatologica assegnata all’immagine delle barche con i fanciulli, magari con lo sfondo di un porto, il viaggio ultraterreno. I tre putti che navigano sul delfino tornano in nielli di mano di Maso Finiguerra (Parigi, Louvre), insieme ai giochi di eroti sulla fontana e a Endimione, nudo su una pedana con eroti, vicino al Diomede di Ricciardo, segno di un gusto assai diffuso a Firenze, ripetuto anche su supporti diversi nell’ambito di botteghe che, comunque, potevano usufruire della circolazione di libri di modelli. Cfr. LAZZI 2005, pp. 84-90. 10 LAZZI 2008a, pp. 238-242, in part. pp. 241-242. 11 Ad esempio Mariano del Buono nel Livio del 1464 recupera busti tratti dalla statuaria romana (Firenze, Biblioteca Riccardiana, Ricc. 484) mentre nell’altro per Giovanni Vitez (Monaco, Biblioteca Universitaria, Lat. 15731-15733) introduce scene celebrative della Roma repubblicana come il Ratto delle Sabine; nel volume realizzato nel 1479 per Lorenzo (Scriptores Historiae Augustae, Università di Melbourne, ms. 219) compaiono invece i busti imperiali. 12 Dioniso su un carro condotto da Psychai, Nike sulla biga, Ermafrodito con gli eroti, che esisteva nella collezione di Lorenzo. 13 GARZELLI 1985, I, pp. 176-178. 8
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Il monocromo viene talvolta impiegato proprio per distinguere i piani dell’etica e della storia: basta pensare alle virtù e ai vizi nella Cappella degli Scrovegni di Padova, rigorosamente monocromi di contro alla cromia degli affreschi dove si narra una storia, per quanto sacra. 15 LAZZI 2008b, pp. 41-65, in part. pp. 48-50. 16 Sui ritratti botticelliani di Simonetta cfr. già WARBURG 2000, pp. 47-58, in part. pp. 50 sgg. Su Sandro Botticelli e in particolare sul ritratto di Francoforte cfr. almeno CECCHI 2005, p. 226 e LIGHTBOWN 1989 che attribuisce tutti i ritratti alla bottega. 17 Lorenzo Ghiberti cita la gemma come Sigillo di Nerone, per la quale realizzò una montatura intorno al 1428. La corniola ricorda uno dei soggetti più amati dalla cultura umanistica, che conobbe un’immensa fortuna. Sulle gemme medicee cfr. FIRENZE 1973. 18 WYSS 1996. 19 Il soggetto, di cui dopo il 1460 si conoscono vari esempi nelle placchette e nelle medaglie, ripropone il mito narrato nel Fedro. Sulla controversa attribuzione oscillante soprattutto tra Donatello e Bertoldo cfr. LEWIS 2001, pp. 33-53. Per la gemma, riprodotta anche da Antonio Rossellino nella tomba del cardinale del Portogallo a San Miniato al Monte e da Agostino di Duccio in un medaglione al collo del piccolo Gesù nella tavola della Madonna con il Bambino cfr. almeno CHASTEL 19642, ma anche WITTKOVER 1937, pp. 260 sgg. 20 LAZZI-VENTRONE 2007, pp. 93-95. 14
“Leghato in oro”: le montature delle gemme medicee, gloria dinastica Maria Sframeli
La collezione glittica raccolta nel Quattrocento dai Medici, minutamente descritta nelle voci dell’inventario steso alla morte di Lorenzo il Magnifico1, si impone come un unicum nel panorama fiorentino. Ma, anche allargando l’orizzonte, oltre che per la ricchezza, la rarità e la varietà dei pezzi, la collezione si distingue dalle altre coeve di papa Paolo II Barbo, Francesco Gonzaga e Isabella d’Este per una particolarità, ossia le preziose montature in oro che racchiudono e impreziosiscono le gemme. Così come gli splendidi vasi in pietre dure antichi, quelli di origine orientale – sassanidi, bizantini e fatimidi – e quelli di fattura medievale e rinascimentale, sono tutti resi omogenei dalle montature realizzate a Firenze dagli abili orafi che gravitavano intorno a Palazzo Medici, anche le gemme, oltre a essere spesso contrassegnate dalle lettere “LAV. R. MED.”, erano inserite in montature di pregiata oreficeria, oggi quasi tutte perdute, che sul rovescio presentavano per lo più le imprese medicee. Le imprese, raffigurazioni a carattere allegorico-simbolico nate come emblemi personali secondo una moda sorta forse in Francia negli ambienti cortesi e diffusa a Firenze in epoca rinascimentale, entrarono a far parte del patrimonio emblematico familiare. Le più antiche imprese, usate da Cosimo il Vecchio e da suo figlio Piero, quali l’anello col diamante, il falcone, le tre piume di struzzo, furono acquisite dai diretti successori e talvolta addirittura usate da appartenenti a differenti famiglie in ossequio alla Casata medicea2. Le gemme provenienti dal tesoro mediceo – in particolare il consistente nucleo appartenuto al Magnifico conservato nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli – si presentano oggi prive della montatura ma dalla lettura degli inventari emerge che tutte erano impreziosite da raffinati lavori di oreficeria a motivi emblematici connessi al tema dell’immortalità e della rigenerazione e quindi alla glorificazione della Casata e all’affermazione della sua fama. Il più ovvio e il più presente fra questi motivi è l’impresa dell’anello con diamante, sia da solo che nella forma di tre o più anelli intrecciati a formare un motivo circolare; l’anello era già stato un’impresa di Cosimo il Vecchio (fig. 1), adottata anche dal figlio Piero associandola al proprio motto “SEMPER” e ripresa da Lorenzo il Magnifico e dalla sua discendenza. Con “lettere d’oro in campo nero” era ornato il cammeo “con fighure a diacere e due bambini li mettono in mezo e due n’à da piedi che s’abracciono e verzura verde, campo nero sanza fondo”; doveva trattarsi in questo caso dell’ex gemmis di Lorenzo, così come si riscontra nell’altra gemma con la Nereide su ippocampo del museo di Napoli contrassegnata da “lettere”3. Il retro della celebre gemma con Icaro e Dedalo, Pasiphae e Artemide (cat. n. 3) era decorato con “diamante e arme e lettere”; con “diamante, penne e lettere” la gemma con l’Infanzia di Dioniso4 così come con “diamanti, penne, brevi” era contrassegnata la gemma con il Centauro5, con “uno diamante, penne, brevi” quella con l’Ermafrodito scoperto da Eros alla presenza di Afrodite6 e quella Ippolito e un compagno, Fedra e la nutrice7 che presentava inoltre la sigla di appartenenza di Lorenzo. Inoltre con “diamanti e penne” la gemma con Poseidon e Anfitrite, con “diamante e arme” quella con Satiro e il piccolo Dioniso8. Una variante è riservata alla gemma con Athena
Fig. 1 - Impresa medicea. Firenze, Palazzo Medici Riccardi, facciata su via Cavour
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Fig. 2 - Andrea del Verrocchio (?), Lavabo (part. della specchiatura con l’impresa di Piero de’ Medici), 1460 ca. Firenze, Sagrestia Vecchia di San Lorenzo, vano a sinistra della scarsella
e Poseidon in gara per il possesso dell’Attica (cat. n. 7) contrassegnata da “falchone, diamante e brieve”. La figura del falcone è associata alla persona di Piero, padre di Lorenzo, che ne fece una divisa personale (fig. 2), e come tale è presente in numerose fonti documentarie e figurative: nei libri appartenuti a Piero, quali le Commedie di Plauto (Biblioteca Medicea Laurenziana, 36, 41, c. 1)9, negli affreschi nella parete occidentale della Cappella dei Magi di Palazzo Medici, dove il falcone è rappresentato in trasposizione naturalistica10 ma anche in “un fermaglio da testa con un balascio noce, tre perle, et un falchone” registrato nell’inventario delle gioie di Lorenzo il Magnifico impegnate a Lorenzo e Giovanni di Pierfrancesco11. La montatura di molte gemme recava l’impresa del broncone associata alle rose. L’unione del tronco di alloro laurenziano e delle rose degli Orsini, la casata di nascita della moglie Clarice, andava a formare una sorta di ‘impresa matrimoniale’. In questa forma è descritta anche fra le imprese con le quali si presentò Lorenzo per la Giostra del 1469, anno del suo matrimonio con Clarice. Con “bronchoni e rose” erano ‘timbrate’ la gemma con Eros, una ninfa e un satiro12, quella con Satiro e Pan13 (“bronchoni et rose intagliato da rovescio”), con Herakles vinto da Eros14 (“bronchoni e rose”), con Afrodite solca le onde del mare portata da un capro15 (“bronchone e rose”) tutte a Napoli e anche quella con Leone16 (“bronchoni e rose”) oggi nel British Museum di Londra17. Una variante, sempre a carattere cortese, presentava l’Herakles che abbraccia una ninfa18 lavorata a “bronchoni e fiamme”. La fiamma che arde dai bronconi fu emblema adottato anche da Giuliano che lo usò come impresa amorosa, caricandolo di un significato specifico allusivo al fuoco della passione che divora il giovane innamorato19. Probabilmente l’arme medicea o gli emblemi personali dei suoi maggiori rappresentanti doveva nascondersi anche in quelle decorazioni a “fogliami” così laconicamente descritte nell’inventario di Lorenzo il Magnifico. Lo fa pensare la montatura in oro “punzonato da rovescio cho fogliami” – per usare il termine inventariale – che ancora adorna la bellissima gemma con l’Ingresso nell’Arca nel British Museum di Londra (cat. n. 8). Le infiorescenze che appaiono fra i tralci (fig. 4), eseguiti con la preziosa tecnica del travail pointillé o opus punctorium, sono né più né meno l’arme medicea in una delle sue forme più arcaiche: le sette palle combinate a esagono inscritto in un cerchio del tipo a ‘clipeo’ compaiono nei tondi delle bifore di Palazzo Medici in via Larga (dopo il 1444), nei riccioli ad acroterio del tempietto del Crocifisso in San Miniato al Monte (1447), prima opera eseguita su commissione di Piero de’ Medici dalla ‘squadra’ composta da Michelozzo, Luca della Robbia, Maso di Bartolomeo, ma anche in tessuti, come il pregiato frammento di velluto controtagliato della Collezione Franchetti al Museo del Bargello (inv. 114), e codici miniati (fig. 3). Probabilmente allo stesso modo erano ornate le montature della Nereide su ippocampo20 (“fogliami intagliati”), di Hermes e Marsia21 (“fogliami”), dell’Afrodite su un leone condotto da Eros22,
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della Testa di Herakles23, del Satiro e ninfa24, del Satiro danzante25, della Nike su una biga26, del Tritone e nereide27, che presentava la variante di “fogliami e banbini”, tutte nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli purtroppo sciolte dalla loro preziosa legatura. Solo due gemme, finora non rintracciate, presentano sul retro una figurazione inusuale: “tre bambini che lavorano artifici di mano chon una tenda di sopra apichati vari strumenti atti a l’opera loro campo rosso da rovescio intagliato in cervia di niello” e “uno carro, suvi dua figure, tirato da dua lioni in s’uno de’ quali siede uno spiritello, da rovescio punzonato uno cervio”. Le due gemme, intagliate con putti – i “bambini” e lo “spiritello” – assimilabili a Amorini recano quindi sul verso l’una una cerva, l’altra un cervo. Si tratta evidentemente di un’allegoria d’amore, ipotesi corroborata dal riferimento a un singolare dipinto di Filippino Lippi di collezione privata, presentato in occasione della mostra Botticelli e Filippino28. L’opera, databile tra il 1483 e il 1487, quindi prima della partenza di Filippino per Roma, raffigura la favola dell’unicorno che purifica l’acqua per gli altri animali, introdotta da Luigi Pulci nel Morgante e dallo stesso Lorenzo il Magnifico nella Selva; il tema rispecchiava quindi la cultura letteraria dei circoli intorno a Lorenzo. Ancora un emblema araldico – il broncone troncato – appare sul verso della gemma con il Corteo sacrificale con toro del Museo degli Argenti (cat. n. 106); la gemma non è riconoscibile nell’inventario di Lorenzo ed è stato supposto possa trattarsi di un’acquisizione del primo Cinquecento, datazione a cui non sembrerebbe disdire la sobria eleganza della montatura. Forse, come il ritratto di Cosimo il Vecchio di Pontormo, potrebbe essere messa in relazione con la nascita di Cosimo de’ Medici che veniva a rinnovare le speranze dinastiche della Casata: nel dipinto degli Uffizi, a dispetto dell’evidente troncatura della base del ceppo, germoglia un nuovo ramo attorno al quale è avvolto un cartiglio che reca scritta una massima tratta dall’Eneide di Virgilio: “Uno avulso non deficit alter”29. All’anno 1492 aveva da tempo perduto la celebre legatura eseguita e descritta da Lorenzo Ghiberti nei suoi Commentarii la gemma con l’Apollo, Marsia e Olimpo, riconosciuta nell’esemplare di Napoli (cat. n. 35) e oggetto di uno studio di Caglioti e Gasparotto30 riguardante le sue vicende collezionistiche, da integrare con i documenti pubblicati per primi da Bullard e Rubinstein31. Il Ghiberti scrive: “In detto tempo leghai in oro una cornuola, di grandezza d’una noce colla scorza, nella quale erano scolpite tre figure egregissimamente fatte per le mani d’uno excellentissimo maestro antico. Feci per picciuolo un drago coll’alie un poco aperte et colla testa bassa, alza nel mezzo il collo, l’alie facevano la presa del sigillo; era il drago, el serpente noi vogliamo dire, tra foglie d’edera; erano intagliate di mia mano, intorno a dette figure, lettere antiche titolate nel nome di Nerone, le quali feci con grande diligentia. Le figure erano in detta cornuola uno vechio a sedere in su uno scoglo era una pelle di leone et legato colle mani drieto a uno albero secco, a’ piedi di lui v’era uno infans ginocchioni coll’uno piè e guardava uno giovane il quale aveva nella mano destra una carta e nella sinistra una citera, pareva lo infans addimandasse doctrina al giovane. Queste tre figure furono fatte per la nostra età. Furono certamente o di mano di Pirgotile o di Policreto perfette erano quanto cose vedessi mai celate in cavo”32.
Fig. 3 - Plauto, Commedie (part. c. 1), metà del XV secolo. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana Fig. 4 - Italia meridionale, Ingresso nell’Arca (verso della montatura, part.). Londra, The British Museum (cat. n. 8)
“Leghato in oro”: le montature delle gemme medicee, gloria dinastica
Fig. 5 - Busto di Cosimo I de’ Medici (?), seconda metà del XVI secolo. Londra, The British Museum Fig. 6 - Orafo fiorentino, Anello d’oro con pietra incisa. Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti
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La tipologia della montatura con il suo drago ad ali spiegate di eredità gotica, motivo ricorrente nei gioielli del primo Quattrocento, ha fatto anche pensare che la corniola fosse stata destinata a un gioiello, proprio come una pietra preziosa. Ma le indicazioni che Ghiberti dà sull’aspetto del sigillo – “l’alie facevano la presa del sigillo” – non lasciano dubbi che non si tratti invece di un vero e proprio sigillo con impugnatura, al pari del più tardo sigillo di Cosimo I, un intaglio in plasma di smeraldo con la figurazione di un Ercole incedente dove la ‘presa’ è costituita dall’impresa medicea dei tre anelli a punta di diamante intrecciati, accompagnati da tre piume, e la legenda anche in questo caso corre sulla montatura intorno alla pietra33. All’interpretazione delle ‘tre età dell’uomo’ per il sigillo sono legati anche i temi della montatura. Il serpente (ma anche il drago ha talvolta simile funzione simbolica) è uno dei più antichi e più diffusi simboli mitologici, associato a temi sovrannaturali; il suo veleno ha il potere di guarire, avvelenare, o donare l’immortalità (si veda in propositoVirgilio, Eneide 2.471, Nicandro, Alexipharmaca 521, Plinio, Storia naturale 9.5), il suo cambiare pelle lo rende un simbolo di rinnovamento e rinascita che può alludere all’immortalità. L’edera poi, nell’iconografia cristiana medioevale assurge a simbolo dell’immortalità dell’anima dopo la morte del corpo. La gemma, o meglio una replica ‘in positivo’ del sigillo è, come anche nel presente catalogo esaurientemente scritto, al collo della fanciulla nel celebre Ritratto ideale dello Städel Museum di Francoforte, oggi sicuramente riferito a Botticelli34 (cat. n. 36). Le figure di Apollo e Marsia accompagnati da Olimpos si stagliano bianche sul fondo nero della gemma divenendo quasi il fulcro della composizione; la gemma, non ‘oggetto da collezione’ ma ‘gioiello’, è montata in un cerchio d’oro ed è appesa a uno straordinario collare d’oro a più fili, alcuni rigidi, altri catene finissime. Esistono nel Quattrocento testimonianze su gemme antiche o calcate da antiche utilizzate come gioielli: il ricordo di Vespasiano da Bisticci che riporta l’aneddoto di Niccolò Niccoli che aveva visto il calcedonio con Diomede e il Palladio al collo di un bambino e lo aveva voluto comprare35 (cat. n. 15) o la lettera scritta il 13 ottobre 1487 da Luigi da Barberino a Niccolò Michelozzi, che, oltre a informare sul commercio di gemme moderne spacciate per antiche, da conto dell’uso di trarre ‘impressioni’ dagli originali, aggiungendo che tali copie erano destinate ad essere montate in gioielli, soprattutto anelli, che dovevano servire a suggellare le missive36. Nel panorama della gioielleria fiorentina tuttavia il gioiello sfoggiato dalla giovane donna di Francoforte resta un’anomalia, così come l’acconciatura e l’abbigliamento che non corrispondono ai canoni della moda del Quattrocento fiorentino. Quello a cui si desiderava dare risalto sembra fosse piuttosto l’immagine della gemma, di cui forse allora si era ormai compresa l’iconografia, e il significato simbolico che poteva adombrare. Peraltro dopo il restauro del dipinto degli anni 1995-1996, sotto l’ascella destra e sul petto è emerso il lucente metallo di un corsetto di corazza che ha indotto ad associare il dipinto alle altre allegorie botticelliane; così come nella Pallade e il Centauro si celebrava la vittoria sulla forza bruta, così anche il cammeo, che illustra la vittoria di Apollo sulla ferinità rappresentata da Marsia, riconduce al clima neoplatonico delle allegorie. Le tre piume che la fanciulla sfoggia a coronamento della complessa acconciatura, antesignane dei ‘pennini’ del tardo Cinquecento e delle ‘aigrettes’ del primo Novecento, anch’esse forse richiamo all’emblematica medicea, sono state riconosciute come penne d’airone, uccello che nella simbologia egizia era legato al culto del sole e assimilato alla Fenice, e di conseguenza associato al pianeta Venere. Si tratterebbe quindi della trasposizione figurativa di un concetto filosofico neoplatonico, così come il medaglione appeso al collo del giovane effigiato nel bronzo del Museo del Bargello (cat. n. 33), che riproduce il ‘carro dell’anima’ di cui parla Platone nel Fedro37, cammeo che si è cercato di riconoscere nell’inventario di Paolo II e in seguito nell’inventario redatto alla morte del Magnifico: “Uno chammeo leghato in oro, entrovi una fighura tirata da dua cavagli, punzonato da rovescio uno fogl(i)ame”. Come indica la citata lettera di Luigi da Barberino a Niccolò Michelozzi, la destinazione più comune della gemma nella gioielleria era l’anello, fino dal mondo antico usato come sigillo personale. Così anche nel Quattrocento il committente stesso suggeriva un soggetto più adatto a lui o vi faceva incidere il proprio stemma col motto richiesto a qualche insigne umanista. Già negli inventari medicei di Piero, su trenta gemme possedute, sette sono anelli e tre sigilli38; la distinzione fondata, come sembra, sulla grossezza delle gemme, risulta ancora più evidente negli
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inventari di Lorenzo, dove il numero degli anelli con gemme è salito a ventidue e le descrizioni sono assai più dettagliate. A un anello si riferisce forse la notizia riportata in una lettera che Filippo da Valsavignone scriveva il 17 settembre 1468 da Firenze a Lorenzo, che in quei giorni si trovava a Cafaggiolo: “Madonna Lucrezia dice gli mandiate le chiavi delle vostre gioie, ché vorrebbe una corniola”, informa il corrispondente. La decisa richiesta della madre di Lorenzo, che aveva all’epoca quarantatre anni, indica con certezza che la corniola doveva servire a lei o a un’altra della famiglia per ornamento in una qualche occasione39. Un anello con una pietra ritenuta di epoca romana incisa con un uccello, cornucopie e due mani congiunte, simbolo di patto matrimoniale, fu rinvenuto nella tomba di Eleonora di Toledo; la pietra è montata in un castone d’oro scanalato e decorato al centro con un piccolo fiore40 (fig. 6). L’anello, come già messo in luce, è quello sfoggiato da Eleonora nel ritratto oggi nella Nàrodni Galerie di Praga, eseguito dal Bronzino in occasione del suo matrimonio con Cosimo, celebrato a Napoli per procura il 29 marzo 1539. Nella ricostituzione della collezione glittica voluta da Cosimo I, dopo che per le note vicende politiche e dinastiche si erano ormai definitivamente perdute le gemme delle collezioni quattrocentesche41, una forte impronta venne data dalla volontà del duca di affidare anche alle gemme il compito della costruzione di un’immagine pubblica adeguata alla carica. Così da un lato le gemme antiche venivano impreziosite dalla montature nel gusto manieristico del tempo, realizzate dagli abili orafi di corte che cercavano di studiare per ogni gemma la montatura più adatta. È il caso, fra i cammei della collezione medicea oggi transitati nel Museo Archeologico di Firenze42 della gemma con la Medusa43 che sembra aver suggerito all’orafo, o a un suo dotto ispiratore, una legatura studiata in modo da amplificare il messaggio: la finissima montatura d’oro composta di due lastre d’oro a incastro presenta la fascia d’oro sul davanti interamente lavorata a niello lasciando in oro motivi vegetali finissimi che sembrano richiamare i terribili ricci della mitica Gorgone. Dall’altro lato i Granduchi stessi e i principi della Casata entrano nel ‘tempio degli Dei’ e degli eroi della mitologia, a loro sostituendosi. Il segno di appartenenza che nel Quattrocento discretamente ‘timbrava’ le gemme, diventa ostentazione del potere e propaganda della propria immagine. Forte valenza simbolica assume, nel contesto della simbologia medicea, la gemma con la Testa d’Ercole44 rappresentato di profilo, coronato di pioppo con la pelle di leone legata intorno al collo. La figura di Ercole era pregna di significati per la Casata, che già in Palazzo Medici aveva voluto raffigurate le imprese dell’eroe mitologico, creduto tra l’altro, secondo una tradizione cara al Granduca, il fondatore di Firenze. La testa di Ercole, assimilato al Granduca di Toscana, acquista una straordinaria forza nella ricca montatura lavorata, secondo il gusto manieristico, a volute e cartigli e concepita dall’orafo più alta intorno alla gemma e ricca di movimento e di colore in modo da comprimere la testa di Ercole – Cosimo, rilevandone la forza. I colori degli smalti, il rosso, il verde, il bianco, i tocchi di blu oggi quasi completamente perduti ma presenti nei minuscoli castoni intorno alla pietra, sono ancora una volta quelli dell’araldica medicea, avvalorando l’identificazione del Granduca di Toscana con l’eroe della mitologia greca. Sembra peraltro raffigurare Cosimo I anche il bellissimo gioiello del British Museum (fig. 5) realizzato in oro smaltato e cammeo di conchiglia, indicato come lavoro francese nel catalogo del museo45. Il monile, munito sul retro di tre piccoli anelli per l’aggancio, segue nella sagoma la figura virile, dal volto lievemente girato, con capelli rasati e corta barba e baffi, rivestito di un’armatura decorata con mascheroni sulle spalle e sul petto. La fisionomia e l’iconografia del personaggio riconducono alle immagini del Granduca di Toscana tramandate dal busto del Cellini del Museo del Bargello ma anche alle stesse effigi di Cosimo intagliate nei cammei, a cominciare dal grande cammeo con la famiglia granducale di Giovanni Antonio de’ Rossi (cat. n. 72). Sul significato di legittimazione del potere affidato allo sperimentato messaggio dei cammei, quasi a ricollegare l’autorità del Granduca a quella di Roma antica, illumina il disegno della prima corona granducale sulla Bolla pontificia del 25 agosto 156946: nella fascia centrale della corona che doveva suggellare il titolo di Granduca concesso a Cosimo I da papa Pio V era previsto un cammeo con la personificazione del fiume Arno (fig. 7). Come si può osservare nella miniatura che accompagna il diploma papale, la gemma è al posto d’onore aprendo e chiudendo l’iscrizione celebrativa e sotto il giglio rosso fiorentino. Come noto47, la corona, eseguita in tutta fretta dall’orefice di corte Giovanni Domes fiammingo, non seguì strettamente il disegno (le pietre usate sono minuziosamente descritte nell’inventario di Cosimo) ma nell’esemplare miniato i
Fig. 7 - Ricostruzione grafica della corona nella Bolla di papa Pio V data in Roma ‘apud Sanctum Petrum’ il 25 agosto 1569. Firenze, Archivio di Stato
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colori delle pietre (zaffiri e smeraldi), l’uso dell’oro, lo smalto rosso del giglio alludevano ancora una volta agli smalti dell’arme medicea (oro, rosso e azzurro) e ai tre che ne costituivano la livrea (bianco-argento, rosso e verde). Sull’esempio di Cosimo si susseguono i ritratti dei regnanti di Casa Medici in anelli e pendenti dalle ricche montature piegate a seguire gli orientamenti stilistici del momento: il Museo degli Argenti custodisce gli esemplari più preziosi e rari, tutti censiti nell’esemplare catalogo curato da Riccardo Gennaioli. Così il ritratto della Granduchessa Cristina di Lorena, moglie di Ferdinando I, è intagliato in una corniola montata in anello; la granduchessa è effigiata nella gemma con l’acconciatura e i preziosi monili con cui è ritratta nei dipinti e nelle medaglie e forse la ricchezza dei gioielli ha ispirato la semplicità del filetto d’oro dell’anello48. I profili di Cosimo II e Maria Maddalena d’Austria sono presenti anch’essi su una corniola, questa volta montata come pendente in un filetto d’oro smaltato, scanalato, munito di anello apicale e reso prezioso da una perla a goccia pendente. Il retro del castone è decorato con lo stemma mediceo sormontato dalla corona e circondato da eleganti volute. Si susseguono i ritratti in cammeo dei regnanti di Toscana fino ai due profili di Anna Maria Luisa e del marito Johann Wilhelm von Pfalz-Neuburg (cat. n. 157), derivati da medaglie, in cui l’Elettore e l’Elettrice Palatina, ultima erede di Casa Medici, ostentano il loro potere politico calcando le due imponenti corone elettorali che gravano sulle loro teste: più che gioielli veri e propri, oggetto di culto e memoria da affidare ai posteri, al pari del grande patrimonio artistico dei Medici legato da Anna Maria alla terra di Toscana a gloria imperitura.
ASF, MaP, CLXV, cc. 18r-22r, pubblicato in SPALLANZANIGAETA BERTELÀ 1992, pp. 36-42. 2 ACIDINI LUCHINAT 1991c, pp. 125-142 e BORGIA-FUMI CAMBI GADO 1992, pp. 213-238. 3 FIRENZE 1973, p. 63, n. 36. 4 Ibid., pp. 41-42, n. 5. 5 Ibid., pp. 62-63, n. 35. 6 Ibid., p. 41, n. 4. 7 Ibid., p. 39, n. 1. 8 Ibid., p. 54, n. 23. 9 F. Fumi Cambi Gado, in FIRENZE 1992a, pp. 229-230, n. 8.8. 10 ACIDINI LUCHINAT 1993, p. 179. 11 ASF, MaP, filza CXLVII, n. 26, c. 81r pubblicato in FIRENZE 2003a, p. 179. 12 FIRENZE 1973, p. 47, n. 11. 13 Ibid., p. 47, n. 10. 14 Ibid., p. 48, n. 13. 15 Ibid., pp. 50-5,1 n. 16. 16 Ibid., p. 65, n. 39. 17 DALTON 1915, p. 34, n. 232, tav. X. 1
FIRENZE 1973, p. 53, n. 20. SETTIS 1971, pp. 135-177; F. Fumi Cambi Gado, in FIRENZE 1992a, p. 233. 20 FIRENZE 1973, p. 63 n. 36. 21 Ibid., p. 66 n. 42. 22 Ibid., pp. 40-41 n. 3. 23 Ibid., p. 55 n. 24. 24 Ibid., p. 52 n. 19. 25 Ibid., p. 46 n. 9. 26 Ibid., pp. 44-45 n. 7. 27 Ibid., p. 53 n. 21. 28 J.K. Nelson, in FIRENZE 2004, pp. 256-258, n. 43. 29 Ph. Costamagna, in FIRENZE 1996, p. 290, n. 101. 30 CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 2-38. 31 BULLARD-RUBINSTEIN 1999, pp. 283-286 e in seguito trascritti da FUSCO-CORTI 2006, pp. 299-301 e citati da GENNAIOLI 2007, p. 45. 32 GHIBERTI, ed. Schlosser 1912, I, p. 47. 33 GENNAIOLI 2007, pp. 55-56. 34 Si veda fra gli ultimi studi CECCHI 2005, p. 226. 35 VESPASIANO DA BISTICCI, ed. D’Ancona 1951, p. 273. 18 19
36 BNCF, Ginori Conti 29, ins. 83, 45, in FUSCO-CORTI 2006, p. 301 doc. 8. 37 Si veda Acidini Luchinat 1991b, pp. 16-25. 38 ASF, MaP, CLXIII, c. 61v, pubblicato in SPALLANZANI 1996, p. 142. 39 ASF, MaP 21, 104 pubblicato in FUSCO-CORTI 2006, p. 282, doc. 9. 40 L. Goldenberg Stoppato e C. Contu, in FIRENZE 2003a, pp. 64-67, nn. 8-9. 41 Si veda sull’argomento GENNAIOLI 2007, pp. 53-71. 42 Per queste gemme si veda GIULIANO 1989. 43 M. Sframeli, in FIRENZE 2003a, p. 99, n. 37 con bibl. 44 Ibid., p. 98, n. 35 con bibl. 45 DALTON 1915, p. 56, n. 408, tav. XV; TAIT 1976, p. 236, n. 393. 46 I. Cotta, in FIRENZE 2003a, p. 85, n. 21. 47 Sulla corona si veda FOCK 1970, pp. 197-209; VAN VEEN 1998, pp. 206-219; SFRAMELI 1997, pp. 103-107; SFRAMELICONTU 2003, pp. 24-35. Sul suo significato araldico e sulla gemma FUMI CAMBI GADO 1992, pp. 55-70. 48 GENNAIOLI 2007, p. 439, n. 697.
Una raccolta, tre Granduchi: Cosimo, Francesco e Ferdinando Elisabetta Digiugno
Fu durante la fortunata fase politica apertasi dopo il rientro di Cosimo il Vecchio dall’esilio, che i Medici cominciarono a riunire, nel michelozziano palazzo di via Larga, uno straordinario insieme di opere d’arte antica e contemporanea. Di questo parte integrante, la raccolta di gemme venne col tempo incrementata dal figlio Piero detto il Gottoso, e da Lorenzo il Magnifico il quale la rese una delle più ricche di tutti i tempi, grazie all’acquisizione della collezione di papa Paolo II Barbo e delle più celebri, ordinando che nel cortile della residenza familiare venisse impresso il primo ed il più importante manifesto della passione glittica rinascimentale1. Circostanze tanto propizie, prodottesi sia sul versante del collezionismo, sia su quello del mecenatismo, si interruppero più o meno bruscamente con la morte del Magnifico, avvenuta nell’aprile del 1492. Il giovane figlio Piero, infatti, inadeguato a gestire i drammatici eventi riservatigli dalla sorte pose, con la sua fuga repentina, a serio rischio le collezioni familiari. Non è dato sapere quanto egli abbia contribuito all’accrescimento della raccolta di gemme, ma, volendo dar fiducia al Vasari, egli dovette esser solerte quanto il padre nella ricerca di pezzi per la collezione e di maestri capaci di far rinascere l’arte di incidere le pietre dure a Firenze2. Il tesoro, in ogni caso, poté salvarsi nella sostanza sia in occasione del saccheggio che seguì la “fuga obbligata” di Piero3, sia delle requisizioni operate dalla Signoria, poiché venne da questi prudentemente affidato ai più fedeli sostenitori della casata. Riconsegnato in seguito al legittimo proprietario, esso passò più tardi nelle mani del cardinale Giovanni de’ Medici, allorquando il futuro papa Leone X fece rientro a Firenze nel 15124. Le fonti non segnalano perdite cospicue, né in occasione della cacciata di Ippolito ed Alessandro seguita al Sacco di Roma5, né durante successiva fase repubblicana6. Una nuova, modesta attività di raccolta e commissione di gemme, si ebbe soltanto dopo il 1530, quando Clemente VII, rimise alla guida della città il proprio protetto Alessandro. Ottenuti da Carlo V il titolo di duca e la mano di Margherita d’Austria, questi trasferì la propria residenza nel Palazzo dei Signori, dove sistemò, assieme ai beni familiari ricevuti in eredità, un prezioso Stocco pontificio, una Spada donatagli dal suocero Carlo V, una Rosa d’oro ricevuta dal papa e un Sigillo con Ercole7, oggetti che dovettero andare tutti dispersi, ad esclusione di quest’ultimo identificato con un intaglio in plasma conservato presso il Museo degli Argenti. Esclusion fatta per due gemme ritraenti Alessandro8 e una raffigurante papa Clemente VII (cat. n. 65), non risulta che il Duca abbia apportato accrescimenti di rilievo all’antica raccolta e, in ogni caso, la sorte non gli concesse di dar continuità alle iniziative intraprese giacché, nella notte fra il 5 ed il 6 gennaio 1537, egli perì sotto i colpi di pugnale infertigli dal cugino Lorenzino9. Le raccolte medicee vennero in questo frangente seriamente menomate; subito dopo la proclamazione di Cosimo di Giovanni a guida della città, sia la residenza di via Larga, sia il Palazzo dei Signori vennero interamente saccheggiati10. Una mutilazione ancor più radicale, venne inferta alle raccolte dallo stesso Carlo V, il quale si adoperò affinché la figlia, vedova in erba del defunto Alessandro, ottenesse quanto le spettava dei beni maritali. Fu così che un gran numero di gemme, fra le quali alcuni dei più celebri pezzi dell’antica dattilioteca medicea come la Tazza Farnese, o la corniola con Apollo, Marsia e Olimpo (cat. n. 35), lasciarono per sempre la città di Firenze11. Intorno al gennaio del 1537, allorquando Carlo V ebbe insignito Cosimo di Giovanni del titolo di “Caput et Primarius”12 del governo cittadino, le collezioni familiari erano state talmente impoverite, da risultare quasi inconsistenti. Fu allora che il giovane Medici, sicuramente amareggiato per
Fig. 1 - Testa di Nerone. Firenze, Museo Archeologico Nazionale
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Fig. 2 - Anello con profilo maschile. Firenze, Museo Archeologico Nazionale
la perdita subita, e spinto sia da un forte desiderio di rivalsa nei confronti di rivali e detrattori, sia dalla volontà di emulare i propri predecessori, si impegnò per portare avanti, assieme ad un’attività di “mecenatismo propagandistico”, anche una più privata azione di ricomposizione della dattilioteca familiare svolta sia sul versante collezionistico, sia su quello mecenatistico13. L’opera di raccolta che egli intraprese, trovò evidentemente avvio nell’esigua quantità di pezzi che ancora si conservavano nelle dimore medicee e che per qualche ragione dovettero fuggire, tanto all’avidità dei saccheggiatori, quanto alle rivendicazioni della cognata Margherita. Anche in assenza di esplicite menzioni archivistiche, un’approssimativa ricostruzione di questo nucleo può essere compiuta avvalendosi, da un lato, della presenza dell’ex-gemmis laurenziano, e dall’altro, su risconti con l’inventario di papa Paolo II Barbo, la cui dattilioteca era appunto confluita nella raccolta del Medici14. Fra le gemme per cui si è potuta presumere una continuativa presenza nel tesoro mediceo, vi sono un cammeo con il busto di una Pallade Athena15, su cui compare appunto l’iscrizione LAV.R.MED., e un piccolo rilievo in onice, noto come Una mano che trattiene un orecchio, riconducibile a questo insieme in virtù del suddetto inventario16. Un’altra gemma la cui proprietà, dal Barbo, dové passare a Lorenzo, per poi finire, tramite le raccolte granducali, nel Museo Archeologico fiorentino, è una corniola quattrocentesca con testa laureata di Nerone (fig. 1), forse acquisita dal Magnifico assieme al già menzionato ritratto in di Vespasiano17. Lo stesso destino potrebbe averlo avuto anche un intaglio in corniola raffigurante il busto di papa Paolo II (cat. n. 26)18. Al medesimo gruppo è stato ricondotto con riserva, dacché stilisticamente databile agli ultimi decenni del Quattrocento, anche un cammeo in onice intagliato su entrambe le facce con la Natività e l’Adorazione dei Magi19, e, per le caratteristiche della montatura in oro, un analogo rilievo raffigurante un Corteo sacrificale con toro20. Ai residui della collezione laurenziana potrebbe venire inoltre aggiunta una gemma che, per l’identità del soggetto e dell’esecutore, non avrebbe potuto essere concepita in altro luogo che nella Firenze di fine Quattrocento21. Si tratta di un bellissimo intaglio in corniola ritraente il volto di Lorenzo il Magnifico (cat. n. 10), concordemente attribuito a Giovanni delle Corniole. Per gli stessi motivi anche un ritratto in conchiglia dell’anziano Cosimo Pater Patriae (cat. n. 2)22, parrebbe riconducibile al medesimo insieme. Realizzato con incredibile precisione su una sottile lastra di conchiglia, questo riporta il volto rugoso, coperto da una leggera peluria, solcato dai vasi sanguigni e dalle pieghe di espressione, del Medici. Il minuzioso verismo cui l’opera risulta improntata e la foggia degli abiti da questi indossati, paiono in linea con notissimi esempi pittorici degli anni Settanta del Quattrocento. Il cammeo tuttavia, probabile modello per successivi ritratti23, compariva per la prima volta negli inventari soltanto nel 1659 (“un cammeo aovato [...] entrovi intagliata la testa dello [...] Cosimo Vecchio”)24. Fra le gemme rimaste nella raccolta medicea doveva essere certamente compresa anche una piccola quantità di pezzi appartenuti allo scomparso Alessandro. Parte della critica vorrebbe vedere nel Sigillo con Ercole25 conservato presso il Museo degli Argenti il tipario usato dal primo Duca di Firenze. L’intaglio in plasma, su cui campeggia l’iconografia tipica dell’Ercole stante con clava e leonté, è montato entro una complessa struttura in argento dorato e smaltato. A questo stesso contesto parrebbero risalite, anche se giunte a Firenze solo con la dote di Cristina di Lorena, anche due piccole effigi del duca Alessandro. La prima è un cammeo in agata in cui la decisa individualizzazione della fisionomia, simile a un disegno del Pontormo26, lascia pensare ad un ritratto realizzato dal vivo durante il primo trentennio del XVI secolo, mentre la seconda, anch’essa molto fedele al soggetto, è un rilievo in lamina d’oro lavorata a sbalzo e fatto aderire ad una lastrina di diaspro verde27. La forte affinità fra queste due esecuzioni ed alcune monete ducali eseguite da Domenico di Polo, ha ormai accertato l’attribuzione delle stesse al maestro fiorentino28. A queste rimanenze furono ben presto aggiunti pezzi ulteriori, frutto di vere e proprie acquisizioni compiute tanto da Cosimo, quanto da Eleonora. Una carta d’archivio comprova, come il 5 giugno 1556 ella acquistasse da Luigi Maliolo una grande ametista raffigurante Un pastore e una vacca29 e come poco tempo dopo entrasse in possesso di un’altra pietra, un bellissimo cammeo con una Testa di Socrate30 la cui esecuzione è stata da tempo ricondotta, sulla scorta di quanto affermato da Giorgio Vasari, al corpus di Lodovico Marmita31. Nel 1562, anno della morte, ella si curava inoltre di comprare, da Giovanmaria di Jacopo Veneziano, un’altra ametista antica “grande legata in oro di gran colore intagliatovi drento uno Ercole [...]”32. I documenti d’archivio citano infine un suo ennesimo acquisto, un intaglio in plasma raffigurante una Testa di Tolomeo montato in anello e da questa donato al marito33. Un’altra celebre gemma antica firmata Triphon, raffigurante lo Sposalizio di Eros e Psiche, ci è invece nota per essere stata un’acquisizione del vecchio Granduca. Il bellissimo cammeo, passato poco tempo dopo per illustri collezioni, veniva citato dagli inventari medicei per un tempo assai limitato34. Interessanti notizie riguardo ai pezzi posseduti dal Duca si ricavano inoltre da un inventario delle «gioie» di Cosimo compilato nel 156635. Fra le pietre qui genericamente descritte, spiccano un piccolo cammeo in onice con Due eroti che si sforzano per sollevare un globo36, un rilievo di dimensioni maggiori, incluso entro una splendida cornice rinascimentale, raffigurante Dioniso ed Arianna a Nasso37, un altro con un thiasos dionisiaco38, e un ultimo con un Giudizio di Paride39.
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Altre gemme antiche sono state ricondotte a tale collezione per la presenza di montature chiaramente databili a questi decenni. Ciò vale, per un cammeo raffigurante una Testa di Medusa40, ornato da una cornice in oro lavorata a niello, e per un piccolo cammeo con un anonimo Profilo maschile41 (fig. 2) montato in anello. Al medesimo ambito potrebbero venir riferiti inoltre, un rilievo in calcedonio con Aphrodite ornata dalle Cariti42 (fig. 3) incluso entro una bella montatura in oro e smalti43, e un cammeo in onice con testa di Baccante44. Alcune delle effigi in pietra dura conservate presso il Museo degli Argenti, potrebbero venir ricondotte alla committenza di Cosimo I per l’identità dei soggetti rappresentati. Fra queste vi sono un cammeo in onice su cui compare un mediocre busto di papa Leone X45, un onice con quello di papa Pio IV (cat. n. 75), e uno con un busto loricato di Carlo V sul recto e una figura maschile armata sul verso (cat. n. 74). A questo stesso insieme potrebbe essere ricondotto anche un gruppo di gemme su cui sono presenti i ritratti di regnanti di Spagna, ovvero tre ritratti di Filippo II di Spagna; uno su un magnifico cammeo in onice azzurrognolo (cat. n. 111), uno su un cammeo in agata46, e uno su rilievo in smeraldo47. Anche nell’acquisto di lavori moderni la consorte del Duca giocò un ruolo di primaria importanza. Ancora nel 1562 Eleonora entrò in possesso, per l’intercessione dell’intagliatore Gasparo Miseroni48, di una splendida gemma formata da due cammei in onice bianco, raffiguranti sul verso il ritratto di Filippo II di Spagna e sul recto quello del figlio Don Carlos (cat. n. 78). Cosimo si interessò inoltre all’acquisto di gemme ritraenti personaggi “scomodi”, invisi alla casata. Una carta datata 1565 comprova come questi comprasse per la somma di 50 scudi49, un intaglio in corniola eseguito da Giovanni delle Corniole50, con il profilo incappucciato di Fra’ Girolamo Savonarola51, “personaggio simbolo” del periodo repubblicano. Egli si adoperò contestualmente per radunare i ritratti di alcuni dei suoi familiari più prossimi, come del padre Giovanni dalle Bande Nere52, o della madre Maria Salviati53. Un intaglio in eliotropio raffigurante una donna a capo coperto54, parrebbe un’effige di quest’ultima55 per l’affinità fisionomica riscontrabile con alcuni ritratti pittorici della donna. Rilevante in tale periodo fu anche la produzione di falsi, attività nata in limine all’iniziativa collezionistica. A tale contesto potrebbero venir ricondotti, per il tipo di cornice e le caratteristiche stilistiche della raffigurazione, sia un cammeo raffigurante Ifigenia in Tauri con Oreste e Pilade56, sia un rilievo in onice con Busto di Augusto (fig. 4)57 che, corredato in basso dalla sagoma di un piccolo Capricorno, parrebbe un “falso” prodotto in seno a tale contesto. Un’ulteriore pezzo che la critica non esita ad assegnare al XVI secolo, sia per le caratteristiche del lavoro d’intaglio, sia per quelle della montatura, è un cammeo in onice bianco con Testa di Ercole58 (fig. 5). Per i medesimi elementi, altri due rilievi conservati presso il Museo Archeologico fiorentino, uno con testa di Gorgone59 e l’altro con un anonimo Busto virile60, potrebbero venire annessi a questo insieme, al pari di un cammeo in agata arancio su cui compaiono due busti in profilo vis à vis61 abbigliati all’antica. Anche quattro pietre con ritratto di Cosimo I, potrebbero venir correlate alla committenza di questi; la prima è una straordinario intaglio in cristallo di rocca62 (cat. n. 70) riconducibile ai primissimi anni del suo governo e gli altri tre sono cammei, un onice con il suo busto armato, barbato e decorato dal collare del Toson d’Oro, una pietra analoga di datazione più difficile a causa della mediocrità dell’esecuzione63, e un ultimo rilievo in lapislazzuli citato negli inventari medicei a partire dal 1587 come “Una testa del G. D. Cosimo di lapislazeri con ornamento quadro di ebano alto e largo B. 0/6” (fig. 6)64. Alla committenza cosimiana parrebbe legarsi anche, per caratteristiche stilistiche e tecniche, un bellissimo cammeo in agata con effige di Lorenzo il Magnifico (cat. n. 11). Su base documentaria deve essere, infine, ricondotta alla volontà di questi l’esecuzione del grande cammeo familiare eseguito da Giovanni Antonio de’ Rossi (cat. n. 72), incisore stipendiato dalla corte già 2dal 1555”, quando il suo nome compariva nel “Ruolo dei Salariati segnato G”65. Dopo il parziale ritiro di Cosimo I dalla scena politica nel 1564, Francesco, reggente per gli affari interni, a Firenze, e Ferdinando, cardinale dal 1571, a Roma, proseguirono le attività di raccolta e commissione di cammei e intagli iniziate dal padre servendosi, nella maggior parte dei casi, degli stessi artefici ed agenti un tempo attivi per questi66. Francesco soprattutto, erede diretto di tutte le passioni paterne dalla botanica, alla mineralogia, all’alchimia (attività quest’ultima praticata con zelo e costanza)67, fu un mecenate splendido ed un collezionista accorto, sempre informato su quanto avveniva, sia nella produzione, sia nella vendita, sul mercato romano, laddove egli acquisì i pezzi migliori. Qui, ad esempio, nel 1574, egli ordinò a Domenico Compagni l’esecuzione un cammeo con ritratto postumo dei genitori rappresentati vis à vis68. Più o meno negli stessi anni, grazie all’intermediazione del solerte Stefano Degli Alli, egli riuscì ad acquisire ancora a Roma, per cinquanta scudi, un grande cammeo di fattura moderna raffigurante Ganimede nell’Olimpo, con Venere, Giove e l’aquila69. Appena l’anno dopo poi, grazie all’interessamento dal fratello cardinale, fu in grado di comprare, da Giulio Gualtiero, per 1.000 scudi circa,
Fig. 3 - Aphrodite ornata dalle Cariti. Firenze, Museo Archeologico Nazionale Fig. 4 - Busto di Augusto. Firenze, Museo Archeologico Nazionale
Una raccolta, tre Granduchi: Cosimo, Francesco e Ferdinando
Fig. 5 - Testa di Ercole. Firenze, Museo Archeologico Nazionale Fig. 6 - Busto di Cosimo I de’ Medici. New York, Metropolitan Museum of Art
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parte della cospicua raccolta di antichità formata dal defunto zio di questi, il vescovo di Viterbo Sebastiano Gualtiero. Già nota al padre Cosimo70, essa era formata da cinque cassette lignee a forma di libro, rivestite di cuoio azzurro, entro cui Domenico Compagni aveva montato un certo numero di gemme71 fra le quali lo splendido cammeo con Trionfo di Filippo II di Spagna72 firmato da “DNICVS ROMANO” (cat. n. 82). Le succitate custodie contenevano inoltre, un ritratto di Giulia di Tito, recentemente identificato in un cammeo in corniola esposto a Palazzo Pitti73, e quelli di undici imperatori, gemme forse collegabili a quanto riferito da un inventario della Guardaroba stilato fra il 1571 ed il 158874. Nello stesso elenco si faceva riferimento ad un cammeo con “la testa e parte del busto” di “Re Filippo” arricchito da “un ornamento d’oro smaltato con aquila sopra con una palla e una maschera di sotto avuto da S[ua]. S[ignoria]. Ill[ustrissima].” che era stato “fatto guarnire d’oro da Ms. Lionardo Fiammingo”75. Alla committenza di Francesco parrebbe esser riconducibile, in virtù delle iscrizioni riportate (la data del 1578 sulla bandiera al centro, e uno stemma mediceo e una “F” sul fianco del cavallo a sinistra, sormontati dalla corona granducale), anche un bel cammeo in calcedonio raffigurante una Scena di battaglia76. Sotto il secondo Granduca di Toscana, assai fiorente dovette essere anche la produzione di gemme. Ciò parrebbe esser comprovato, oltre che dalla nota passione di Francesco per le pietre dure e per le possibilità offerte dal connubio fra Artificialia e Naturalia, dalla fondazione, nel 1572, della prima bottega granducale di intaglio. Ubicata nel glorioso contesto del “Giardino di San Marco”, essa venne posta sotto la direzione dei milanesi Ambrogio e Stefano Caroni, ai quali si aggiunse in seguito anche Giorgio di Cristoforo Gaffuri77. L’unica gemma riconducibile a tale contesto tuttavia, è un anello con sigillo in corallo su cui è inciso lo stemma Medici-Cappello, databile appunto ad un momento compreso fra il 1578, data di morte di Maria Giovanna d’Austria, ed il 1587, terminus ante quem della morte di Francesco I78. Poco prima di questa data, in ogni caso, fra il 1583 ed il 1584, questi aveva incaricato Bernardo Buontalenti di realizzare il Sancta Sanctorum della propria passione per l’arte, la glittica e la numismatica; la Tribuna degli Uffizi. Raffinatissimo ambiente ottagonale organizzato attorno ai quattro elementi, esso era destinato ad accogliere le più preziose opere della raccolta, disposte, non soltanto su piedistalli, mensole, cassetti o ganci alla parete, ma anche all’interno del bellissimo tempietto ottagonale in ebano, pietre dure e metalli pregiati che, scrigno, nello scrigno, era incaricato di ospitare nei suoi settantaquattro cassetti piccoli e grandi, antiche monete, medaglie, cammei e intagli d’ogni sorta in pietre dure e preziose79. Al fine di incrementare le collezioni, e dare forse un degno contenuto al nuovo tempietto, Francesco continuò ad effettuare acquisizioni per tutti gli anni Ottanta del Cinquecento. Documenti d’archivio ricordano come nell’aprile del 1587, appena sei mesi prima di morire, egli ricevesse informazioni da Ercole Basso riguardo alla messa in vendita dell’eredità dello scomparso Domenico Compagni, in cui erano comprese gemme di grande pregio e bellezza80, e come un altro intermediario, Alfonso del Testa, facesse avere al Granduca un cammeo non finito con una figura femminile81, e più tardi, assieme ad un giacinto montato in anello con l’effige di Bruto ch’ammazzò Giulio Cesare, una sardonica con Olimpia madre del Magno Alessandro. Lo stesso riferiva di aver inviato dodici grandi cammei con i volti degli imperatori eseguiti da Giovanni Antonio de’ Rossi e Domenico dei Cammei ed un rilievo con ritratto di Vespasiano, giudicato molto bello82. Altre informazioni circa le commissioni di Francesco possiamo ricavarle da un elenco di beni presenti nel 1587 nella Villa della Magia, di proprietà di don Antonio de’ Medici. Esso ricordava infatti l’esistenza di un “Ritratto del G. Duca Francesco commesso in cristallo nero con ornamento di Ebano”, di “Dua Quadretti in Cristallo nero con dua testa di piastra d’oro uno Carlo V e uno P. Paulo III ornamento di ebano”, e di un altro “in Cristallo nero con una testa del G. D. Francesco d’oro con ornamento di ebano commesso di lapis lazeri”83. La morte di Francesco I, misteriosamente avvenuta nel 1587 in concomitanza con quella della moglie morganatica Bianca Cappello, non interruppe il processo di raccolta e commissione di gemme da questi avviato. Il fratello Ferdinando, infatti, collezionista e mecenate munifico già nella ricchissima villa romana sul Pincio, dove visse ben sedici anni da cardinale, non perse l’interesse per l’arte e le gemme neanche quando, lasciata la porpora cardinalizia, si trasferì a Firenze per ricevere la corona granducale. Anzi, alcune fra le più pregevoli gemme della raccolta, come il grande cammeo antico con Imperatore che sacrifica alla Speranza84, registrato per la prima volta in un elenco di beni pertinenti alla Tribuna fra il 1589 ed il 1634, giunsero forse a Firenze proprio con il terzo Granduca di Toscana85. Da Roma egli dovette portare anche due sigilli, uno in smeraldo andato purtroppo perduto86, e un altro in granato ovale con cappello cardinalizio intagliato da Giovanni Antonio de’ Rossi87, maestro attivo presso la Zecca pontificia dal 1560 all’anno della morte, avvenuta poco dopo il 1575, quando il nome dell’artista spariva dai documenti88.
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Ferdinando proseguì l’opera del fratello sui due versanti da questi aperti, quello del mecenatismo e quello del collezionismo. Dal lato della lavorazione delle pietre dure, egli riorganizzò la struttura delle botteghe granducali da questi fondate trasformandole nel 1588 nell’Opificio delle Pietre dure, istituzione cui dette sede stabile nella Galleria dei lavori, ubicata nel braccio corto degli Uffizi. Sotto il controllo generale di Emilio de’ Cavalieri e la direzione dei Caroni e dei Gaffuri, già attivi per il fratello, l’organismo non produsse unicamente preziosi cammei e intagli, ma eccellenti lavori di commesso, che ne segnarono la fortuna in Europa. Dal lato del collezionismo invece, Ferdinando attuò un’attenta politica di riordino delle raccolte di glittica e numismatica pertinenti alla Tribuna, ovviamente accresciute dai numerosi pezzi acquistati a Roma durante gli anni del suo cardinalato, trasformando parzialmente il perfetto organismo creato dal fratello e facendo realizzare al Buontalenti un nuovo stipo a muro, cui dette una diversa sistemazione nel rientro ricavato nella la parete est dinnanzi alla porta d’ingresso. Gli inventari della Tribuna redatti in questi anni non ricordano unicamente la presenza di dipinti, sculture antiche e bronzetti, ma anche di bellissime gemme e medaglie fra cui si trovava, sistemato in prossimità del grande cammeo antico con “Antonino Pio”, il grande rilievo in onice eseguito da Giovanni Antonio de’ Rossi (cat. n. 72). Il momento in cui la raccolta di gemme visse l’accrescimento maggiore, in ogni caso, sia dal punto di vista quantitativo, sia qualitativo, fu il 1589, anno in cui, con la celebrazione del matrimonio fra Ferdinando I e Cristina di Lorena, giunse a Firenze la ricca dote della fanciulla. Nipote prediletta di Caterina de’ Medici, regina di Francia, questa ereditò dalla nonna, morta in quello stesso anno, molti gioielli, un certo numero di oggetti in pietra dura, fra cui la preziosa cassetta in cristallo di rocca eseguita dal Belli per papa Clemente VII89, e una serie di gemme formata principalmente da bellissimi ritratti. L’insieme, ben documentato da tre diversi inventari90, comprendeva, ad esempio, “Un ritratto colorito di re Arrigo”, un altro analogo “tutto coperto d’oro, et da una banda” in cui era inserito “un Cammeo Grande con un giuditio di Paride”91, e un certo numero di effigi su gemma fra cui erano compresi, oltre alle due già ricordate del duca Alessandro92, “Una medaglia di vetro verde con la testa di Re Arrigo cinta d’oro smaltato93, Una medaglia con una testa d’homo guarnita d’oro con un triangolo sopra smaltato di bianco, Un ritratto della Regina Caterina fanciulletta con ornamento d’oro”94 e poi “Uno scatolino tondo da ritratti d’oro smaltato di turchino, Un cammeo con fondo di sardonio con la testa del Re Arrigo cinta d’oro95…, Una testa d’agata ovata di Carlo V, con fondo e cerchio d’oro smaltato, Un cammeo con fondo di sardonio con la testa d’un vecchio, legata che ha dreto l’Arme di Casa Borbone96, Una Plasma con la testa di Papa Leone X/mo ricinta d’oro” (cat. n. 88). Lo stesso registro ricordava più oltre l’esistenza di “Un anello con un Zaffiro nel quale è intagliata la testa di Papa Leone X/mo stato donato a Sua Altezza…”97, di un altro simile “con il ritratto della Regina di Francia et del Re suo figliolo tenuto da due mani smaltate di bianco, con trenta diamantini donatoli dal Gran Duca suo figliolo”, di un analogo gioiello “con Cifra che si apre con il ritratto della Madre di Sua Altezza”, e di un ultimo “anello con ritratto della Regina Di Francia”98. Poco più tardi, un elenco “delle gioie di Ferdinando I”, datato 1591, registrava la presenza nelle raccolte di “Uno Zaffiro in Anello in tavola assai grande” considerato “non troppo bello con l’Arme di Pio Quarto”, e di un ennesimo ritratto di papa Leone X, andato purtroppo perduto, ma all’epoca montato al di sotto di “Un rubino in tavola alquanto colma legato in un Castoncino, che si apre”99. Cristina fece inoltre allestire, alla fine del corridoio degli Uffizi, sopra l’angolo della testata sull’Arno, un ambiente prezioso e raccolto, la cosiddetta “Stanza di Madama”, dove fece sistemare tutti i suoi gioielli100. La coppia granducale dovette in seguito ordinare l’esecuzione di un intaglio in corniola montato in anello col busto di una matura Cristina di Lorena, ricordato da un inventario di metà Seicento come “… una tes[t]a credesi il ritratto di Madama Serenissima”101. Per l’affinità presentata con una medaglia coniata da Michele Mazzafirri fra il 1592 ed il 1593, in occasione del terzo anniversario del matrimonio con Ferdinando I102, esso può venire ragionevolmente attribuito a tale incisore anche in virtù della datazione103. Non può essere invece ricondotta a questo contesto l’esecuzione dell’intaglio in corniola raffigurante un nobiluomo con cappello, citato in un elenco di oggetti appartenenti al cardinal Leopoldo, poiché ritraente Giacomo Stuart I di Inghilterra e VI di Scozia e non Ferdinando I de’ Medici, come si è a lungo creduto104.
DIGIUGNO 2005, p. 11, nota 36; GENNAIOLI 2007, p. 49, nota 6. VASARI (1568), ed. Milanesi 1878-1885, IV, 1879, p. 378. 3 PANNUTI 1980, pp. 3-15. 4 VASARI (1568), ed. Milanesi 1878-1885, IV, 1879, p. 258. 5 VETTORI (1528 ca), ed. Niccolini 1972, p. 281. 6 VASARI (1568), ed. Milanesi 1878-1885, IV, 1879, p. 134. 7 BR, ms. Riccardiano 1532, n. 1849, cc. 158-162. 8 Per il sigillo e le gemme si veda p. 43. 9 FERRAI 1891 e ERSTAMER 1991, pp. 35-69. 10 MÜNTZ 1893, p. 97 e a VARCHI [1543], ed. Arbib 18381841, III, XVI, pp. 324-325. 11 PANNUTI 1980, pp. 3-15; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, pp. 115-116. 12 CANTINI 1800-1805, I, pp. 5-6. 13 DIGIUGNO 2005, pp. 18-20. 14 MÜNTZ, 1878, p. 155 e sgg. 15 Firenze, Museo Archeologico, inv. n. 14491, misure: mm 16 × 12; MÜNTZ [1882], 1920, p. 190; A. Giuliano, in DACOS-GROTE-GIULIANO-HEIKAMP-PANNUTI 1980, p. 54, n. 22, figg. 4, 6; ZWIERLEIN-DIEHL 1986, p. 219, n. 589, tav. 106. 16 Firenze, Museo Archeologico, inv. n. 14679, mm 12 × 10. 17 A. Giuliano, in DACOS-GROTE-GIULIANO-HEIKAMP-PANNUTI 1980, p. 60, n. 30, fig. 25. 18 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 323, mm 60 × 30,6. 19 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 99, diam. mm 28; GENNAIOLI 2007, tav. IV, p. 54, n. 423. 20 Firenze, Museo Argenti, inv. Gemme 1921, n. 92, diam. mm 24; GENNAIOLI 2007, pp. 48, 54, 150, n. 4. 21 La prima menzione in BdU, ms. 83, tav. XXXIV, n. 58. 22 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 211, mm 25,4 × 30,8; DIGIUGNO 2005, p. 28, fig. 21, nota 127. 23 Ci riferiamo al ritratto di Cosimo il Vecchio dipinto da Jacopo Carrucci detto il Pontormo. Per quanto citato si rimanda a DIGIUGNO c.s. 24 La gemma veniva al tempo conservata “Nelli armadi della Stanza dello Scrittoio” (ASF, GM 1659, f. 509, c. 4, n. 52). 25 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Bargello 1917, Oreficeria Civile, n. 30, intaglio mm 43 × 30; DIGIUGNO 2005, p. 22; GENNAIOLI 2007, p. 362, n. 487. 26 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 112; DIGIUGNO 2005, p. 17, n. 72; DIGIUGNO c.s. 27 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 172; DIGIUGNO 2005, p. 17, n. 73. 28 GENNAIOLI 2007, pp. 256-257, nn. 241-242. 29 Firenze, Museo Archeologico, inv. n. 14789, misure: mm 26 × 18; GORI 1731-1732, I, 1731, tav. LVII, n. 111 e REINACH 1895, p. 32, tav. 29, 57. 3; MCCRORY 1979, p. 513, nota, 16, fig. 51; TONDO-VANNI 1990, n. 35. 30 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 60, mm 25 × 30. 31 Questo affermato da Puccini (BdU, ms. 47, n. 205) e KRIS 1 2
Una raccolta, tre Granduchi: Cosimo, Francesco e Ferdinando
(1929, I, p. 59, II, p. 170, n. 298/74, fig. 298) sulla scorta di VASARI ([1568], ed. Milanesi 1878-1885, V, 1880, p. 383). 32 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14856, mm 35 × 41,5; DIGIUGNO 2005, p. 23, fig. 12, nota 109. 33 Del cammeo si sono perse le tracce (ASF, 1551-1554, f. 4136, serie A, c. 122s; citato da MCCRORY 1998, p. 46, nota 41). 34 NONNI 1995, pp. 169-178. 35 ASF, 1566-1574, f. 643. 36 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14608; mm 13 × 12; M.E. Micheli in GIULIANO, 1989a, p. 164, n. 48. 37 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14458; mm 26 × 20; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 174, n. 58; TONDO-VANNI 1990, p. 37, n. 39; DIGIUGNO 2005, pp. 24-25, fig. 14; VENTURELLI 1996, p. 91. 38 Firenze, Museo Archeologico, inv. n. 14460, mm 20 × 13; GORI 1731-1732, I, 1731, tav. 92,3. 39 DIGIUGNO 2005, p. 25, nota 117. 40 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14517, mm 20 × 16; TONDO-VANNI 1990, pp. 38-39, n. 67; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, pp. 198-199, n. 96. 41 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14576, mm 15 × 11. 42 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14438, mm 40 × 40. 43 DIGIUGNO 2005, p. 26, fig. 19, nota 122. 44 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14502, mm 40 × 30,3; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 184, n. 75. 45 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 121, mm 33 × 41,2; DIGIUGNO 2005, p. 29, fig. 25; GENNAIOLI 2007, p. 255, n. 240. 46 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 126, mm 46 × 36. 47 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 131; misure mm 23 × 22. 48 FOCK 1976, p. 147; MCCRORY 1979, p. 513, note 21-22, figg. 53-54; M. McCrory, in Firenze 1980, p. 153, n. 283; MCCRORY 1998, p. 46, nota 41, figg. 10-11. 49 ASF, 1565-1568, f. 225, c. 21v (in GAYE 1839-1840, III, p. 196). 50 VASARI (1568), ed. Milanesi 1878-1885, V, 1880, p. 369. 51 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 321, mm 41,5 × 32,7; L. Sebregondi, in FIRENZE 2004, pp. 288-289, n. 55. 52 Non pare possibile identificare Giovanni dalle Bande Nere nel un busto maschile armato presente su cammeo in agata (Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 85, mm 27 × 21), in cui parrebbe essere ritratto un soggetto antico, noto agli eruditi e agli esecutori di calchi settecenteschi come il poeta e filosofo Eliano (PIRZIO BIROLI STEFANELLI 2007, p. 148, n. 415, fig. II, 415). 53 DIGIUGNO 2005, p. 38, note 206-208. 54 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 322, mm 24 × 31,8. DIGIUGNO 2005, pp. 38-
39, con note. DIGIUGNO 2005, p. 38, fig. 38. 56 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14468, mm 60 × 45. 57 Firenze Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14526, mm 35 × 29 (mm 45 × 41 con cornice). Su di essa si veda M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, pp. 224-225, n. 146; TONDO-VANNI 1990, pp. 46-47, n. 220; DIGIUGNO 2005, p. 49. 58 Firenze Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14626, mm 23 × 18; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 192, n. 87; M. Sframeli, in FIRENZE 2003a, p. 98, n. 35 (con bibl.); DIGIUGNO 2005, pp. 49-50, con note. 59 Firenze Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14622, mm 17 × 17 e mm 33 × 33; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, pp. 198-199, n. 98; TONDO-VANNI, 1990, p. 39, n. 69. 60 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 14559, mm 20 × 16; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, pp. 256, n. 193, fig. 193; DIGIUGNO 2005, p. 51, fig. 48; ZANIERI 2005, pp. 106-107. 61 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 79, mm 58 × 46; scheda O.A., 09/00157837, 1979 (M. McCrory). 62 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 332, mm 34 × 28. Si veda per questo DIGIUGNO c.s. 63 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 114, mm 53 × 69; DIGIUGNO 2005, pp. 55-56, fig. 54; GENNAIOLI 2007, pp. 262-263, n. 251, fig. 251. 64 Cammeo in lapislazzuli, New York, Metropolitan Museum, inv. n. 38. 150. 13. L’esecuzione della gemma veniva legata da Karla LANGEDIJK (1978, pp. 75-78; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 503, n. 172, figg. 27, 72) ad una medaglia eseguita da Pietro Galeotti (Ibid., I, pp. 485-486, n. 146, figg. 27, 146a). La citazione inventariale si trova in ASF, GM 136, c. 159v. 65 GIULIANELLI 1753, pp. 13, 46, nota XXXII, pp. 134-135. 66 DIGIUGNO 2005, pp. 41-46. 67 BERTI [1967] 2002, pp. 75-97. 68 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 115, diam. mm 37. 69 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14436, mm 54 × 41; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, pp. 136-137, n. 1; M. McCrory, in FIRENZE 1980, p. 312, doc. 1. 70 TUENA 1989, pp. 85-104, e nello specifico p. 86. 71 GENNAIOLI 2007, p. 64, note 60-61. 72 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 106, mm 47 × 80; GENNAIOLI 2007, p. 266, n. 256, fig. 256, tav. XV. 73 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 74. La gemma è una copia moderna del famoso intaglio in berillo della Biblioteca Nazionale di Parigi (DIGIUGNO 2009-2010, n. XIII, 803). La notizia è tratta in ogni caso da GENNAIOLI 2007, p. 236, n. 196, fig. 196. 74 ASF, GM 79, c. 25; in ZANIERI 2005, pp. 118-119, doc. 8. 75 CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 90. 76 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 107, mm 34 × 35; GENNAIOLI 2007, p. 228, n. 179, 55
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fig. 179, tav. XVIII. GENNAIOLI 2007, p. 62, note 52-53. 78 M. McCrory, in FIRENZE 1980, p. 155, n. 288; GENNAIOLI 2007, p. 491, n. 855. 79 MASSINELLI 1990, pp. 11-134. 80 BAROCCHI-GAETA BERTELÀ 1993, pp. 296-297, n. 328, 301302, n. 335 e note. 81 GENNAIOLI 2007, p. 66, nota 70. 82 Ibid., pp. 66-67, nota 100. 83 ASF, GM 136, 1587, c. 159v. 84 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14443, mm 142. 85 DIGIUGNO 2005, p. 61, fig. 57, note 354-355. 86 GENNAIOLI 2007, p. 71, nota 74, perduto. 87 BAROCCHI-GAETA BERTELÀ 1993, p. 11. 88 DIGIUGNO 2005-2006, II, pp. 241-247. 89 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 505; M. Collareta, D. Gasparotto, in BURNS-COLLARETA-GASPAROTTO 2000, pp. 111-121, pp. 308-312. 90 ASF, ANM 1100, sn alla fine; ASF, GM 152; ASF, MdP, f. 6354 A, Ins. n. 8. 91 ASF, GM, 152, p. 20s, n. 213, p. 25s, n. 255. 92 Si veda note 27-28. 93 Il redattore dell’inventario poteva forse riferirsi (ASF, GM 152, p. 28s, n. 208), per un errore di identificazione, ad un rilievo rotondo in pasta di vetro verde il cui soggetto è stato recentemente identificato dal Gennaioli in Georg Rechlinger von Haldemberg (GENNAIOLI 2007, p. 254, n. 239, fig. 239). 94 DIGIUGNO 2005, p. 55, fig. 53, nota 310; GENNAIOLI 2007, p. 260 n. 247, fig. 247. 95 Si tratta di un cammeo con un busto di Enrico II di Francia (Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 129, mm 29,6 × 36,4) abbigliato à l’antique, assegnato a Giovanni Antonio De’ Rossi (DIGIUGNO 2005, p. 32, fig. 28, nota 155; DIGIUGNO c.s. Una effige del tutto simile compare infatti su una medaglia in bronzo coniata nel 1558, firmata con la sigla “IO ANT RVB MEDIOL” (Firenze, Museo Nazionale del Bargello; POLLARD 1984-1985, pp. 1260-1262, nn. 732-733). 96 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 110, mm 29 × 25; GENNAIOLI 2007, p. 254, n. 238, fig. 238; DIGIUGNO c.s. 97 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 1616, mm 12 × 10. 98 ASF, GM 152 (vedi nota 90). 99 ASF, MM 29, ins. 3, cc. 9, 10r. 100 HEIKAMP 1971, nota 11. 101 ASF, GM 741, p. 460s. 102 P. Attwood, in FIRENZE-CHICAGO-DETROIT 2002, pp. 242243n. 99a-b (medaglia). 103 DIGIUGNO c.s. 104 DIGIUGNO 2005-2006, pp. 46-50, figg. 21-24, su comunicazione verbale di Kirsten Aschengreen Piacenti (ASCHENGREEN PIACENTI-BOARDMANN 2008, p. 138, n. 217, fig. 217). 77
Cammei e intagli del cardinale Leopoldo: il lavoro di intermediazione di Leonardo Agostini, Pietro Andrea Andreini e altri agenti medicei Mariarita Casarosa
Il 24 maggio 1658 Leonardo Agostini presentò al principe Leopoldo de’ Medici non ancora Cardinale – lo diventerà a 50 anni di età solo nel 1667 – il suo libro sulle Gemme Antiche Figurate che era stato pubblicato in lingua latina l’anno precedente1 (fig. 1). “In tributo della mia profonda devozione verso la persona di V.A.S, io le rappresento il libro delle gemme antiche, il quale essendo parto di me, suo natural servitore, deve partecipare la mia sorte in servire al genio di V.A.S. verso le cose antiche, la supplico umilmente di ritenerlo in protezione come me stesso”2. Par di vedere l’Agostini con gli occhi vivaci e il fare arguto, sottolineato dalla corta barba a pizzetto e baffi alla moda –come è ritratto nell’incisione riprodotta sul frontespizio del suo libro- che illustra ossequioso al principe fiorentino, il suo prezioso manuale. È certo che l’incontro si concluse con il compiacimento del futuro cardinale che offriva la sua benevolenza alla novella pubblicazione. Leopoldo infatti dedito a mettere insieme uno studio di varie “strafizzeche”3 teneva in gran considerazione l’Agostini, antiquario e studioso di antichità a Roma che interpellava frequentemente come agente, consigliere e mediatore per i suoi acquisti fin dagli anni cinquanta del Seicento prima soprattutto per le sculture antiche, poi anche per le medaglie e le gemme. Nella città di Roma l’Agostini ricopriva incarichi di prestigio avendo ricevuto da Alessandro VII Chigi (1599-1667) la nomina di Soprintendente dello Stato Pontificio e Direttore degli scavi archeologici. È chiaro perciò che egli avesse molte opportunità di reperire anticaglie di varia natura ed entrare in contatto con “i cavatori”, mercanti e trafficanti vari, che immettevano sul mercato antiquario romano oggetti di prima mano4. L’Agostini faceva parte insomma di quel mondo vario ed eterogeneo di “mercatores urbani” – come li definisce Maria E. Micheli – di conservatori di collezioni principesche e collezionisti essi stessi, che assolvevano adeguatamente e contemporaneamente al ruolo di intenditori, eruditi, mediatori, abili commercianti e procacciatori di affari per i loro protettori. Tramite l’Agostini, ma tramite anche Ottavio e Paolo Falconieri, Francesco Gottifredi e molti altri agenti personali che corrispondevano da Roma5, il cardinale Leopoldo riuscì a mettere insieme, in meno di quindici anni, un numero “grandissimo e sceltissimo” di cammei e intagli che formavano una collezione nella quale – per usare le parole ancora del Magalotti – non c’era “alcun capo di rarità, al quale questo studio poteva ridursi, di cui egli non fusse provvisto abbondantemente”. La raccolta personale dell’Agostini, che egli stesso racconta di aver iniziato nel 1625 con l’acquisto in Sicilia di “un intaglio in diacinto con la testa di Augusto laureato”6, era ben nota agli eruditi e agli artisti del tempo a Roma, tanto che Carlo Antonio dal Pozzo nel 1654 l’aveva menzionata con queste parole “Un antiquario detto Leonardo Agostini ha un assortimento di medaglie assai raro… et altre cose belle e particolarmente molti intagli e cammei che ha fatto disegnare in un libro da un pittore detto il Galestrucci (sic) e pensa di metterli alla stampa”7. Il libro, uscito nel 1657 con la dedica al papa Alessandro VII, illustrava 214 gemme ed ebbe subito un grande successo tanto che ne vennero fatte molte edizioni8. Nel 1664, ad esempio, per consentirne una diffusione maggiore, venne pubblicata una versione “ridotta” in lingua italiana con l’illustrazione di 50 gemme. Qualche anno dopo, nel 1669, fu curata una nuova versione con
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la pubblicazione di una seconda parte con le relative Annotazioni, questa volta dedicato al Granduca di Toscana Cosimo III e che si era resa necessaria, come scrive nell’introduzione lo stesso Agostini, per il ritrovamento di altre gemme “nelle aguste Ruine della Gran Roma”. In questa edizione le gemme illustrate furono 267 corredate da altrettante schede esplicative e rappresentate piuttosto fedelmente, per quanto la tecnica dell’incisione in rame consentiva, dalle incisioni di Giovan Battista Galestruzzi. Le schede erano volte soprattutto all’analisi iconografica e alla interpretazione delle gemme – spesso difficile e rara – per la quale era fornita una dissertazione ricca di riferimenti eruditi. In questa occasione l’Agostini pubblicò non solo molte pietre di sua proprietà, ma anche quelle provenienti da collezioni di amici illustri che nel testo ricorda esplicitamente come quelle di Lelio, Virginio e Flavio Orsini, Giovan Pietro Bellori, Marcantonio Sabatini, ed i Cardinali Leopoldo de’ Medici, Buoncompagni e Massimo.
Fig. 1 - Giovanni Battista Gaulli detto Baciccio, Ritratto del cardinale Leopoldo de’ Medici, 1670. Firenze, Galleria degli Uffizi (cat. n. 115)
Risale proprio agli anni sessanta del secolo, l’amicizia dell’Agostini con Giovan Pietro Bellori (1613-1696) antiquario della regina Cristina di Svezia e del papa Clemente X, che nel 1686 riunirà i due volumi delle Gemme Antiche Figurate in un unico Tomo e curerà le osservazioni di corredo alle relative gemme. Già nel 1664 il Bellori aveva potuto visitare le raccolte che l’Agostini possedeva in via della Madonna di Costantinopoli a Roma, e così ne aveva parlato in termini entusiastici: “… Museo vario di statue, e marmi antichi… e numerosa serie di medaglie, Dattiloteca d’Intagli ed Cammei, si veggono in stampa nel suo libro intitolato Gemme Antiche Figurate”9. La fama del Museo privato dell’Agostini era nota anche agli eruditi stranieri che passavano da Roma ed è attestata da una descrizione accurata fatta nel 1665 da un viaggiatore inglese, Philip Skippon nella quale le gemme della raccolta dell’Agostini sono segnalate con precisione e ricchezza di particolari, tanto che è stato possibile identificare chiaramente l’intaglio in eliotropio passato in seguito al cardinale Leopoldo e ora al Museo degli Argenti di Firenze (cat. n. 124). “We visited leonardo Agostini, the Pope’s Antiquary who is 70 years old. He made a collection of marble heads, camei, entagli, coins, etc… The cameo of Charles the Vth, Tiberius, Britannicus, Semiramis, Thalia Musa, Severus and Julia Mamea, Democritus on one side and Heraclitus on the other. An entalia of Caligula, with his three sisters sacrificing to Priapus in an eliotrope stone. An entaglia of Julius Caesar”10. Tra gli amici più cari dell’Agostini oltre Carlo Antonio dal Pozzo e Giovan Pietro Bellori, vi fu Paolo Alessandro Maffei che ricevette in eredità i rami delle riproduzioni del libro delle Gemme fatte dal Galestruzzi e curò nel 1707 una nuova pubblicazione in quattro volumi, con la collaborazione di Giovan Battista Marinelli11. Significa che dopo circa cinquanta anni, tanti ne erano passati dalla prima edizione, non solo si sentiva l’esigenza di offrire a un più vasto pubblico erudito l’opera già tradotta in lingua italiana fin dall’edizione del 1664, ma che il testo era considerato degno di essere conosciuto in tutta Europa tanto che ne furono stampate diverse versioni all’estero come quella in latino pubblicata ad Amsterdam a cura di Jakob Gronovius12. La ricerca di indirizzare l’interesse del cardinale Leopoldo verso la glittica avvenne gradualmente. Nel 1662 l’Agostini propose un intaglio in acquamarina con la testa di Pompeo in vendita attraverso Francesco Gottifredi, inviando al cardinale Leopoldo un’impronta in cera, pratica assai diffusa che consentiva di non far viaggiare una merce così preziosa e fragile13.
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MARIARITA CASAROSA
Ma è il 1669 l’anno nel quale l’Agostini collabora con Monsignor Ottavio Falconieri per l’acquisto di molti pezzi di scultura antica della splendida collezione Ludovisi e matura la possibilità di proporre al cardinale Leopoldo l’acquisto della propria collezione di glittica attraverso l’intermediazione dell’amico. Infatti l’Agostini, malato di pellagra e molto sofferente, sembra che nel 1669 fosse “in stato di poter mancare da una settimana all’altra”14, molto oculatamente pensava di vendere la sua collezione di gemme prima di morire. È probabilmente per questo, che dopo la sua morte avvenuta nell’agosto del 1676, le gemme ricordate sono solo circa quaranta15. Gran parte della raccolta Agostini per la quale lo stesso antiquario aveva redatto nel 1668 un catalogo delle gemme di sua proprietà con l’aiuto del “Titta”16, venne venduta al cardinale Leopoldo de’ Medici dopo lunghe trattative e grazie all’intermediazione paziente dell’amico Ottavio Falconieri e il 13 dicembre del 1670 venne consegnata a Leopoldo in sei scatole17. Le fasi definitive della trattativa sono dettagliatamente desumibili dal carteggio. All’ottobre del 1670 risale il prospetto della suddivisione dei cammei e intagli dell’Agostini proposto da Ottavio Falconieri con l’aiuto di Francesco Camelli (1659-1681), curatore delle raccolte d’arte di Cristina di Svezia. La suddivisione rispecchia un ordinamento in “Serie” fatto secondo la tipologia (cammei-intagli) la dimensione (grandi-piccoli), l’Antichità o la Modernità18. Il 6 dicembre il Falconieri comunica di aver finito l’Inventario e chiede di sapere dal Cardinale se vuole che i cammei e gli intagli vengano inviati subito o se “si aspetti a mandargli insieme con le medaglie, le quali non possono inviarsi così presto”19. Con una lettera datata 13 dicembre di quell’anno i cammei e intagli dell’Agostini sono consegnati a Leopoldo. Queste lettere sono pertanto da considerarsi la prova certa che un inventario della collezione degli intagli cammei del cardinale Leopoldo de’ Medici risalga al 1670 con l’arrivo delle gemme della collezione Agostini. Nell’aprile del 1671 Leopoldo dà ordine di far fare uno studiolo per la collezione e con lettera del 9 maggio viene proposta una progettazione da parte del Camelli e del Falconieri suggerendo di farlo simile a quello presente “foderato di velluto come uno studiolo di gioie”20. L’argentiere Marco Gamberucci21 – di origine fiorentina ma da tempo residente a Roma dove lavorava per la cerchia del papa Alessandro VII Chigi – che aveva già eseguito lo stipo per le medaglie della collezione medicea per il quale era stato saldato nel dicembre del 167022, venne incaricato nuovamente per la realizzazione di questo nuovo stipo per la collezione dei cammei e intagli che fu completato nel maggio del 1671. Nell’inventario relativo alla eredità del cardinale Leopoldo sono descritti due piccoli stipi, forse collegabili al Gamberucci, nel seguente modo “Due stipettini di noce con 5 cassettine dentro a tirella con dua palline simili… e per dinanzi nello sportellino una cornicina in mezzo…”23. Ma l’inventario del 1670 può non essere il primo inventario delle gemme del Cardinale. In un inserto contenente carte relative al cardinale Leopoldo, presso la Biblioteca degli Uffizi, esiste un elenco datato 21 novembre 1662 per il quale ipotizzammo già a suo tempo che potesse trattarsi di un primo inventario delle pietre incise possedute allora dal Cardinale24. Le pietre risultano circa centocinquanta suddivise in cinque cassette e spesso hanno delle descrizioni incomplete, come se si trattasse di una prima stesura in previsione di fornire un elenco più preciso. Attraverso la descrizione dei soggetti riuscimmo a identificare alcune pietre conservate nella collezione medicea del Museo degli Argenti, ma non potemmo ricondurre direttamente la loro provenienza dall’eredità del cardinale Leopoldo o alle trattative con i suoi agenti. Oggi possiamo collegare almeno un acquisto del cardinale Leopoldo all’Inventario del 1662. Nell’inventario del 21 novembre 1662 è segnalata nella quarta cassetta “una testa di Agrippina in topazio d’India legata in oro antica”. Nei primi giorni dello stesso mese – Francesco Gottifredi, agente mediceo – da Roma aveva informato il cardinale Leopoldo di stare trattando attraverso Monanno Monanni proprio “Un topazio con testa e petto, ma non intiero, d’Agrippina madre di Nerone il quale, non essendomi dispiaciuto, ho preso l’ardire d’inviarlo a V.A.acciò veda se è di suo gusto. Se sarà e li piacerà ritenerselo, il padrone non vol lasciarlo per meno che li 20 Scudi”. Dopo alcuni giorni, avendo ricevuto ordine di procedere all’acquisto risponde “Subito ricevuto il comandamento di V.A.S. ho ricercato il topazio, il quale incluso in scatolino per inviare a V.A. si è consegnato al signor Monanno”25. La identica descrizione della pietra e del suo soggetto non lasciano dubbi che si tratti dello stesso pezzo. La presenza nel Museo Archeologico di un cammeo in topazio con un busto femminile di eccellente qualità, “non intiero” perché parzialmente mancante del fondo e leggermente frammentato sul naso, ci permette legittimamente di supporre che si tratti della pietra ricordata anche se viene menzionata dal 1736 come ritratto di Faustina26 (fig. 2). Un’altra breve descrizione rintracciata nell’inventario del 1662 può coincidere con quella ri-
Fig. 2 - Arte romana, Busto di Faustina, II secolo d.C. Firenze, Museo Archeologico Nazionale
Cammei e intagli del cardinale Leopoldo
Fig. 3 - Bottega milanese o francese, Busto di Livia Medullina. Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti (cat. n. 121)
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portata all’eredità del Cardinale. In questo caso sembra si tratti di un oggetto curioso, forse scelto proprio per la bizzarria naturale della superficie sulla quale una diversa colorazione dava l’impressione che fosse stata intarsiata dell’erba27. Fin dal 1667 Leonardo Agostini insieme a Ottavio Falconieri aveva informato dettagliatamente il cardinale Leopoldo della grande “svendita” della preziosa collezione Ludovisi causata dal crollo finanziario della potente famiglia romana e che aveva scatenato fortissimi appetiti collezionistici sul mercato romano di antichità28. Numerose lettere, soprattutto quelle relative al 1669, riguardano il possibile acquisto delle sculture del Giardino Ludovisi che si conclusero parzialmente, grazie proprio all’Agostini, con l’acquisto di tredici teste antiche e dell’Ermafrodito oggi agli Uffizi. Ma l’Agostini caldeggiava l’acquisto anche di altre rarità come quella – poi probabilmente non andata in porto – di una “celebre lettiera”29 appartenuta al cardinale Ludovico Ludovisi. Si trattava di un letto importante che era stato realizzato sotto la direzione di Giulio Buratti in materiale prezioso con quattro colonne incrostate di topazi, grisoliti e cammei “suggerendogli che tutto quel materiale avrebbe potuto essere utilizzato per la decorazione della cappella di famiglia in San Lorenzo”30. Descrivendo la cronaca dell’evento, che aveva destato curiosità e interesse tra gli eruditi romani, l’Agostini esplicitamente sottolineava che se “Questi ministri vogliono vendere e buttar via… è bene comprare da chi ha di bisognio…”, facendo intravedere al proprio protettore la possibilità di realizzare un buon affare, approfittando delle necessità economiche dell’antica famiglia. La lettiera venne smembrata ed i pezzi venduti separatamente. In particolare l’Agostini cercò di indirizzare il cardinale almeno all’acquisto di un “Fanale o Luminario”, cioè una grande lanterna in cristallo di monte legato in argento del quale procurò di inviare un disegno in scala ridotta31. Molte pietre che appartennero a Leonardo Agostini sono riconoscibili oggi nella collezione medicea. Oltre all’intaglio in eliotropio con un Sacrificio a Priapo già ricordato, è stato riconosciuto l’intaglio in ametista con il ritratto del cosiddetto Massinissa (cat. n. 117), una piccola Erma con Ercole in calcedonio zaffirino (cat. n. 120) e il cammeo con l’Ermafrodito (cat. n. 110) Anche Ottavio Falconieri, che già abbiamo visto in compagnia dell’Agostini come collaboratore di valutazioni per il cardinale Leopoldo32, ebbe un ruolo decisivo per la conclusione dell’acquisto della collezione di glittica dell’Agostini avvenuta nel dicembre del 1670 di cui abbiamo trattato precedentemente. Il Falconieri procurò al cardinale Leopoldo nel settembre dello stesso anno, un cammeo di grandi dimensioni e realizzato in una rara e stupefacente pietra detta “stellaria” per la superficie maculata e “bizzarra”, raffigurante Ercole che lotta con il leone, del quale, pur riconoscendone la “fattura moderna”, non mancò di interessare Leopoldo per le caratteristiche inusuali della pietra (cat. n. 119). Ancora Ottavio Falconieri, nel 1672 procurò per il cardinale Leopoldo l’acquisto di un altro importante pezzo che ritroviamo nella collezione del Museo degli Argenti, da molto tempo non esposto forse per il fatto di essere parzialmente frammentato. Si tratta di una piccola mano in un calcedonio bianchissimo, la cui straordinaria qualità fa pensare alla sua appartenenza a una statuetta di epoca classica, che già nell’inventario dell’eredità di Leopoldo viene descritta come mancante di un dito. Proprio questa caratteristica, ha permesso l’immediata identificazione e la possibilità di riferirla alla collezione del cardinale fin dalla sua registrazione nell’inventario dell’Eredità di Leopoldo (cat. n. 118). Gli agenti medicei Annibale Ranuzzi e Giuseppe Magnavacca corrispondevano da Bologna con il cardinale Leopoldo e dal mercato emiliano proponevano soprattutto acquisti relativi ai dipinti e ai disegni, anche se non disdegnavano di proporre altri generi di oggetti, molto spesso medaglie e talvolta – anche se più raramente – cammei e intagli33. È il caso ad esempio della lettera del 9 agosto del 1672 in cui il Ranuzzi propose al cardinale un intaglio in Niccolo antico (“essendo a me parso bello assai per esser forse fatto per un Iside e con una maestria antica e singolare”) per il quale viene richiesto “Ancorchè la pretensione di chi l’ha mi paia esorbitante” cinque doppie34. La gemma però non venne acquistata. L’anno successivo lo stesso Ranuzzi propose in acquisto un gruppo di 14 gemme e la trattativa di alcuni pezzi si concluse felicemente. Nelle collezioni medicee, è stato identificato infatti un cammeo in lapislazzuli di notevoli dimensioni con il ritratto di Livia Medullina, seconda moglie dell’imperatore Claudio che fece parte di questa trattativa (cat. n. 121) (fig. 3). Ma le proposte di acquisto di gemme continuarono in quell’anno anche per il coinvolgimento di Giuseppe Magnavacca che sappiamo mostrò a Ottavio Falconieri la sua raccolta di anticaglie e per quello di Monù Vouet mercante francese che, viaggiando tra Modena,Venezia e Roma procurava molteplici esemplari da smistare sul mercato bolognese35. Nel 1674 dobbiamo registrare uno degli acquisti più importanti che venne fatto da Leopoldo sul mercato romano grazie all’abilità di Paolo Falconieri (1626-1696) cugino del ricordato Ottavio,
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Gentiluomo da camera del granduca Cosimo III e sostituto di Ottavio nel suo ruolo di procacciatore e di agente. Si tratta del celebre cammeo in calcedonio con i ritratti di Tiberio e Livia pagato la considerevole somma di 130 scudi e rintracciato nelle collezioni medicee (cat. n. 116). Le vicende complesse dell’acquisto sono note da tempo e da allora il cammeo è stato pubblicato frequentemente data l’alta qualità dell’incisione36. Il cammeo apparve subito al Falconieri di grandissima qualità tanto che scriveva “bisogna in qualsivoglia modo prenderlo, perché sono di quelle cose che non capitano troppo spesso”. Esprimendo la sua felicità per il raggiungimento dell’affare concludeva “V.A. può immaginarsi quanto giublio n’ avessi, perché assolutamente è una cosa senza prezzo e poi l’ho levata al cardinale Dè Massimi, ch’è una giustissima vendetta del negozio che egli malignamente guastò a me delle statue di Lodovisio”. Sembra infatti che il cardinale Camillo Massimo (o De Massimi) riuscì ad accaparrarsi molte antichità della raccolta Ludovisi a scapito di Leopoldo nonostante i rapporti cortesi che esistevano tra i due37. Il cammeo risultava però con il fondo frammentato, tanto che nella lettere successive si avanzano due ipotesi di restauro, la prima di tipo “Filologico” e la seconda di tipo “Estetico” due concetti di restauro sui quali la critica d’arte si è dibattuta a lungo fino a tempi molto recenti38. Il cammeo evidenzia le tracce di quell’antico restauro. Il cavatore che aveva trovato il prezioso cammeo chiese di poter ottenere regolare patente che lo autorizzasse a cercare e vendere legalmente oggetti antichi. La legislazione in atto, infatti, prevedeva proprio per limitare la sistematica esportazione di antichità da Roma, che i “cavatori” fossero obbligati a denunciare il ritrovamento di antichità se queste superavano un certo valore “pena di 50 scudi e la corda”39. Un ruolo particolare come agente mediceo per l’acquisto di pietre incise ebbe l’Abate Andrea Andreini (1650-1729) uno dei più abili conoscitori di gemme e pietre preziose del tempo e autorità indiscussa e riconosciuta da tutti. Era tale la fama che lo circondava che a lui furono indirizzate parole di lode e apprezzamento anche dai suoi contemporanei. Era infatti ricordato non solo come “Dotto e diligentissimo raccoglitore” di antichità ma che “ebbe la gloria nelle antiche gioie intagliate di ravvisarne con sicurezza la perfezione e la mediocrità del lavoro”40. Nel 1673 l’Abate Andrea Andreini, suggerì al cardinale Leopoldo che in quel momento si trovava a Livorno, l’acquisto di un gruppo di ventotto cammei moderni per incrementare la sua raccolta. Così egli ci racconta il divertente l’episodio in una lettera del marzo 1673: “Subbito che ebbi ricevuti li stimatissimi cenni di V.A.R reverendissima, procurai con esattissima diligenza e segretezza di sapere quando fusse giunto quel tale ch’a V.A. aveva mostrato la partita de’ camei e con tutto che ogni poco io passassi dalla bottega del Ricci (orefice, ndr), e anche ne cercassi per l’alberghi, mai però ne potei tener raguaglio. Onde mercoledì mattina ritornandoci per il medesimo effetto, egli fece chiamarmi un certo ebreo chiamato Salvator Camilli, che nella sera innanzi era qui giunto et appunto era per partirsi alla volta di Roma, il quale da una scatoletta un poco lunga cominciò a trarre una quantità di cammei di più grandezze e furono ventotto, due piccoli e due teste grandi incavate, però tutti moderni. Ond’io, per meglio assicurarmi se questi erano li medesimi che V.A.R desiderava, prima di domandarne il prezzo cominciai ad interrogarlo destramente donde veniva, ma mai fui bastante à saperlo, perch’egli rispondeva sempre venir di Germania;anzi mai volle dir da quale città”41. Le trattative si conclusero dopo molti tira e molla ed il prezzo concordato alla fine fu di 120 Doppie per tutte le pietre intagliate, che poi nei documenti successivi vengono indicate singolarmente con il relativo prezzo. Anche se il venditore non rimase soddisfatto del danaro ricevuto (“e così bestemmiando gettò il cappello e fece mille atti di rabbia che non poco mi fecero ridere e doppo che si fu cheto un poco levatogli la scatoletta lo mandai a casa et egli montato su un cavallo subbito andossene verso Modena molto mal contento”) l’affare fu concluso. In mostra sono stati presentati due cammei rintracciati nella nota degli acquisti, una Leda col cigno (cat. n. 122) e un Pappagallo su un ramo di frutta (cat. n. 123). Oltre ad avere rivestito per anni la funzione di ricercatore e consulente per il cardinale Leopoldo e avere intessuto stretti rapporti con Antonio Magliabechi, bibliotecario di corte, e il senatore Panciatichi primo segretario di corte, l’Andreini era egli stesso collezionista. Egli possedeva infatti – come già l’Agostini – una sua pregevolissima collezione di glittica raccolta durante i suoi soggiorni a Napoli dove era stato dal 1674, Venezia e Roma. La consistenza e la rarità dei pezzi l’avevano resa altrettanto famosa a quella dell’Agostini ma sua “superiorità” e assoluta unicità era che molte gemme incise erano firmate dai più celebri incisori greci e romani. Primeggiava tra gli altri il cammeo di Amore musagete firmata da Protarchos (cat n. 146), l’intaglio in pasta gialla di una Musa firmata Onesas (Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14741), l’Ercole in corniola firmato Onesas (Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14875), l’intaglio in acquamarina con la testa di Sesto Pompeo, firmato Agathopos (Firenze, Mu-
Fig. 4 - Arte romana, Busto di Sabina, 134-137 d.C. Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti
Cammei e intagli del cardinale Leopoldo
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seo Archeologico Nazionale, inv. n. 14968), l’intaglio in ametista con Ercole e Iole firmata Teukros (cat. n. 153), un intaglio con Diomede che ruba il Palladio firmata Policleto (oggi non rintracciabile), una testa di Mecenate firmata Solon (dispersa), un Ercole con la clava firmato Gnaios (Londra, British Museum)42 e una Musa firmata Cronios (dispersa); secondo il Gori anche un Ercole in ametista rappresentato come sul sigillo della Repubblica Fiorentina. Oltre a queste gemme, notissime ai collezionisti contemporanei, la collezione dell’Andreini vantava molte altre gemme che ci sono note grazie ai calchi in ceralacca, posseduti da Anton Francesco Gori (una trentina) e dal Senatore Filippo Buonarroti (circa duecento) e rintracciati presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze, grazie ai quali è stato possibile identificare sette gemme dell’Andreini nella collezione medicea43. La collezione di glittica dell’Andreini quindi era particolarmente appetibile per la preziosità e rarità dei pezzi vantati, tanto che era stata oggetto di storie e vicende rocambolesche. La quantità di pietre antiche firmate sollecitava nell’ambiente così tanta curiosità e interesse, che nel 1724 fu oggetto di un clamoroso furto44. Alcune gemme furono ritrovate, come l’intaglio della Musa con la Lira di Cronios, rintracciata presso l’intagliatore Andrea Borgognoni45, altre per sempre disperse. Il cammeo di Protarchos ad esempio era stato mandato in prestito da Napoli a Roma a Leonardo Agostini perché questi avesse la possibilità di farlo riprodurre in stampa agevolmente per il suo libro delle gemme antiche. Il cammeo non fu restituito al suo legittimo proprietario46 ma fortunatamente nel 1717 è menzionato già nelle collezioni granducali. Anche l’intaglio in acquamarina di Ercole e Iole firmato da Teukros, oggi nelle collezioni medicee (cat. n. 153) fu tra quelli rubati all’Andreini, poi fortuitamente comprato dal collezionista inglese Andrew Fountaine, che lo restituì al suo legittimo proprietario, il quale lo donò al granduca di Toscana dopo la sua morte. Un aspetto difficilmente indagabile rimane il fatto che furono spesso sollevati interrogativi sulla attendibilità delle pietre incise della collezione Andreini, anche perché costui era in stretto contatto con famosi intagliatori di gemme del suo tempo come Felice Bernabè e Andrea Borgognoni, che si cimentavano nella riproduzione di gemme antiche47. La serietà dell’abate o almeno la sua buona fede può essere forse confermata dalla sua stretta amicizia con Anton Francesco Gori autore nel 1731 del celebrato Museum Florentinum, famoso e conosciuto proposto della cattedrale di Santa Maria del Fiore di Firenze che possedeva un ritratto dell’amico inciso in pietra da Andrea Borgognoni e che compose un commovente epitaffio nel 1730 in occasione della morte dell’Andreini avvenuta il 16 giugno del 1729. Nel 1710 il granduca Cosimo III incaricò l’abate Andreini e il senatore Filippo Buonarroti di riorganizzare la collezione dei cammei e intagli medicei facendo riunire le gemme conservate in diversi luoghi, sotto la supervisione di Sebastiano Bianchi custode della Galleria degli Uffizi. Nel giro di pochi anni la collezione medicea si ampliò ulteriormente incamerando le gemme dell’eredità del gran principe Ferdinando nel 1713, quelle di Anna Maria Luisa, rientrata a Firenze nel 1717, e trecentodiciannove gemme della collezione Andreini acquistate nel 1731 da Gian Gastone. Nei libri della Guardaroba le gemme dell’Andreini sono segnalate secondo diversi tempi di arrivo48. Tra quelle consegnate nel maggio del 1732 è menzionata una testa “di tutto rilievo in acquamarina che si dice dell’Imperatrice Matidia”49, rintracciata nella collezione medicea ma più recentemente indicata come possibile ritratto di Sabina secondo un modello creato tra il 134 e 137 d.C. (fig. 4). La testina intagliata a tutto tondo, di mm 28 di altezza, in una “gemma limpidissima di 51 carati”50 è stata integrata con un cerchio d’oro alla base del collo, che attesta il suo carattere di “frammento” riferibile ad un piccolo busto antico come ipotizzato anche per numerosi esemplari simili51. Grazie all’infaticabile cardinale Leopoldo, ai suoi acquisti e a quelli effettuati tra la fine del Seicento e i primi decenni del secolo successivo, la collezione di glittica sarà oggetto nel 1738 di una accurata quanto mai necessaria e indispensabile revisione e catalogazione attuata dal direttore di Galleria Raimondo Cocchi, subentrato alla discutibile gestione di Sebastiano Bianchi e che ancora oggi costituisce il primo chiaro aiuto per chi voglia studiare la collezione medicea.
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ASF, Carteggio d’Artisti, XVII, c. 44. FILETI MAZZA 1998, p. 71, nota 3. 3 Lettera di Magalotti a Ottavio Falconieri 30 marzo 1666, in PIERACCINI 19472, p. 306. 4 Sul vivace mercato antiquario romano vedi MICHELI 2000, pp. 543-545. La possibilità di trovare infatti gemme antiche provenienti dagli scavi archeologici era di normale consuetudine poiché solo nel 1733 papa Clemente XII Corsini promulgò un editto che esplicitamente vietava l’esportazione da Roma di “Cammei, intagli e medaglie di tutte le sorti”. 5 L’argomento è stato trattato diffusamente dalla FILETI MAZZA-GAETA BERTELÀ 1987, FILETI MAZZA 1993, FILETI MAZZA 1998, FILETI MAZZA 2000. In particolare FILETI MAZZA 1998 dedicato ai rapporti col mercato romano al quale rimandiamo per i numerosi agenti dei quali parliamo in queste note 6 VAIANI 1998, p. 104, nota 45. 7 Ibid., p. 106, nota 88. 8 Sulle vicende tipografiche del libro vedi scheda di M.E. Micheli, in ROMA 2000a, p. 561, n. 52. 9 VAIANI 1998, p. 89. 10 From Philip Skippon 1732 in VAIANI 1998, p. 91, appendice 1. 11 MAFFEI-DE ROSSI 1707-1709. 12 AGOSTINI 1685. 13 Per la trattativa e le missive intercorse si veda FILETI MAZZA 1998, pp. 76-77. 14 ASF, Carteggio d’Artisti, X, 9 novembre 1669. 15 Già nel 1984 la GIOVANNINI (1984, p. 48) collocava la morte dell’antiquario tra il novembre 1675 e il settembre 1676, cfr. VAIANI 1998, p. 102 nota 6. e pp. 98-99, appendice III, ASF, Carteggio d’Artisti, XVIII, ins. 5 dove sono elencate dettagliatamente la quarantina di gemme dal n. 151 a n. 192 ritrovate nella sua casa dopo la morte. 16 ASF, Carteggio d’Artisti, XVII, c. 91, in FILETI MAZZA 1998, p. 78 nota 2. 17 ASF, Carteggio d’Artisti, XI, c. 295, dove il Falconieri avvisa il cardinale di aver inviato attraverso il Monanni una cassetta con dentro sei scatole. Così infatti scrive: “per eseguire con ogni maggior celerità i comandamenti di V. A. cò quali ella mi impose d’inviarle gl’Intagli e i Cammei che consegnerà hoggi al Monanni in una cassetta entrovi sei scatole nelle quali sono distribuiti secondo l’ordine mandatovi”. 18 Pubblicate in FILETI MAZZA 1998, p. 78 nota 4 e GIULIANO 1989, p. 300, lettera 285 – che qui riproponiamo per facilità del lettore – ASF, Carteggio d’Artisti, XI, cc. 286v-303v: “L’Indice dè Cammei e dè l’Intagli si farà nella conformità che S.A.desidera ed intanto per non errare desidererei saper se l’A.V se nella serie dei pezzi grandi comanda che si mettano anche i moderni. Io per me e tale è anche il parere del Cameli, ne farei una serie a parte da mettersi dopo quella dei grandi antichi col medesimo ordine, più quando si può, … (ma) in questa conformità habbiamo fatto la scelta tanto dè Cammei che degl’Intagli in modo che lo studio sarà espresso nella forma che segue [c. 303] 1 2
Serie d’Intagli Grandi Antichi Serie d’Intagli Grandi Moderni Serie del resto degli Intagli antichi divisa in Teste-Figure-Animali Serie degli altri Intagli Moderni, si ne saranno di quelli che… di esser messi in serie fuori della serie dei grandi Serie di Cammei Grandi Antichi Serie di Cammei Grandi Moderni Serie di Cammei Piccoli Antichi Serie di Cammei Piccoli Moderni Se vi sarà numeri che meriti di farne. Ciascheduna serie sarà disposta con quest’ordine Deità-Heroi-Teste incognite Re-Barbari (?) Filosofi dove la serie lo richiederà-Uomini Illustri romani-Imperatori, Incerti e nella serie Grandi saranno mescolate le teste con le figure secondo che richiederà l’ordine. Quando l’A.V non si soddisfaccia di questo si compiaccia di accen-
narmi la sua volontà acciocchè si possa eseguire
[c. 303v] prima di cominciare l’Indice. Ho goduto di vedere l’intagli mandatimi da V.A.e particolarmente quello della Psyche e saranno anche questi collocati loro luoghi con che a V.A. inchinandomi profondamente resto Roma 18 ottobre 1670”.
GIULIANO 1989, p. 300, lettera 300, ASF, Carteggio d’Artisti, XI, c. 300: “L’inventario de’ Cammei e degl’Intagli è già finito, et io gli ho già in ordine per potergli inviare ogni nota; onde riman solamente che V. A. mi comandi se vuole che si mandino sabato prossimo per il procaccio, o che si aspetti a mandargli insieme con le medaglie le quali non possono inviarsi così presto… Roma 6 dicembre 1670”. 20 ASF, Carteggio d’Artisti, XI, c. 333. 21 Marco Gamberucci, nato a Firenze nel 1630, è indirizzato all’arte orafa dallo zio Sebastiano. Si trasferisce a lavorare a Roma dove aveva conseguito la patente di orafo nell’aprile del 1656. Nella sua bottega – presso la quale esercitava anche il famoso argentiere Giovanni Giardini (1665-1668) – si rivolgevano prestigiosi committenti come i cardinali Barberini e Pallavicini. Per marchio adotta, come lo zio, un “Gambero”. In Toscana sono conservate alcune sue opere importanti, come una grandiosa croce-reliquiario in argento dorato, presso il Museo di Arte Sacra di Popiglio (Pistoia) e sei busti reliquiario per la Cappella Chigi del Duomo di Siena, eseguti in collaborazione con gli orafi Tamburroni e Perrone nel 1663 su commissione di Alessandro VII Chigi. Tra il 1664 e il 1666 lavora per la Cappella Segreta in Vaticano. Muore a Roma tra il 1696 e il 1697. Scheda biografica a cura di Elisabetta Nardinocchi, che qui ringrazio. 22 ASF, Carteggio d’Artisti, XI, c. 296, lettera 20 dicembre 1670 “Il Gamberucci argentiere mi ha dato il conto del lavoro fatto per lo studiolo delle medaglie…”; ASF, Carteggio d’Artisti, XI, c. 332, 25 aprile 1671 “Io procurerò d’eseguire nel migliore modo che mi sarà possibile… con l’ultima sua intorno allo studiolo da farsi per accomodarvi i Cammei e gl’Intagli. Ma per poter servirlo adeguatamente è necessario ch’io habbia copia dell’indice di essi che è appresso l’A. V. …”. 23 Negli inventari redatti dopo la morte del cardinale (ASF, GM 826 e GM 799; esistono due copie anche presso la Biblioteca della Galleria degli Uffzi, ms. 74 e 78 anch’essi uno copia dell’altro) la collezione di glittica risulta inventariata sommariamente e divisa precisamente in due parti. La prima elenca per somme linee le gemme contenute in 6 scatole segnate con lettere alfabetiche e suddivise organicamente dove sono contenuti: Cammei grandi antichi (A), Cammei grandi moderni (B), Intagli grandi antichi (C), Intagli grandi moderni (D), Intagli piccoli antichi e moderni (E). Questa suddivisione, che segue le indicazioni suggerite dal Falconieri e l’Agostini, fa pensare che si trattasse della collezione Agostini ancora tenuta distinta da altre pietre; la seconda descrive i cammei e gli intagli contenuti nei due piccoli stipi. Altri ancora sono inventariati in ulteriori due scatole (F) e (G) e in cinque diversi scatolini e foglietti. 24 CASAROSA 1976, pp. 56-64. L’inserto di seguito trascritto era collocato all’interno del Ms. 68 L della Biblioteca degli Uffizi così intitolato: “Note di Medaglie, Intagli, Cammei, Ritrattini, Bronzi antichi proposti in acquisto al Serenissimo Cardinale Leopoldo”. Oggi l’inserto è posto all’interno del ms. 68 F. Si tratta di due fogli grandi piegati in due e numerati in alto a destra 20-21-22: 19
[c. 20r]
A dì 21 novembre 1662 - P.a Cassetta
n. 37 Intagli in corniola da anelli
n. 8 Intagli in Niccoli da anelli piccoli - 2.a Cassetta Corniole
Una Testa di Roma
Un Giudizio di Paride
Due Teste di Druso Germanico
Una Testa di Claudio Giovane Anelli Un Diacinto entrovi una testa di Pupieno Una Ametista intagliatovi un Claudio Uno zaffiro intagliato un Antonino Un Diacinto Orientale intagliatovi un Arianna bello assai Un Anello antico entrovi un Agrippina in niccolo Un anello antico entrovi un Daidumeniano in Niccolo Una legatura a foggia di Sigillo entrovi un intaglio di una figurina in piedi Un anello smaltato di mani entrovi una figurina in niccolo [c. 20v] Un anello entrovi un cristallo con una testina antica Cinque Nicoli senza intaglio - 3.a Cassetta Un Intaglio di Diaspro di una Madonna (ndr. accanto a sinistra della descrizione un disegno dell’ovale) Un Intaglio di una Pomona in Lapislazzero moderno Un Intaglio d Abraxas di diversi animali in Diaspro Un Intaglio di un Ercole e Iole in Diaspro con cerchio d’oro Un Intaglio di due figure a sedere presso un ara in Diaspro N.8 Abraxas da tenersi al braccio di Corniola e una d’Ambra N.6 Intagli di corniola tra quali una testa grande di Antonino Pio n.4 Intagli in corniola legati in oro et uno in argento Un Intaglio di pasta verde di un Giano N.6 Intagli in cristallo de quali due legati in oro Un Intaglio d’un sacrificio legato in argento in…. Un Intaglio d’un Nettuno in…… Un Topazio tenero ricoperto da un nicchio Un Calcedonia entrovi dell’erba in uno scatolino d’avorio [c. 21r] - 4.a Cassetta Un cammeo di una testa in calcidonia con cornicina d’ebano Un cammeo di… di amorino sopra delfini antico Un Ercole tutto nero in fondo bianco in Nicolo antico Una testa di Salvatore gialla fondo scuro di Diaspro Un Ercole che doma Cerbero antico legato in oro in… Una testa nera in fondo bianco, par greca in… Un Cammeo di alcuni pastori moderno in… Un cammeo di due Porcellini antico in… Una testa di una femmina che ha una poppa scoperta in profilo Una testa di Nerone antica Una testa di Germanico giovanetto legata in oro, antica, buona maniera Una testina d’una femmina col collo solamente di buona maniera antica Una testina col petto coperto da un panno di maniera buona e diligenza Un mascherone di Corniola rosso e bianco legato in oro Testa d’un Salvatore in granato Una testa d un Tiberio in corniola legata in argento Una testa nera d una Arianna di… legata in oro antica Una testa d’una Pallade in nicolo, antico Una testa d’una femmina con i capelli d’altro colore e il viso bianco legata in oro Una testina d’una femmina con il busto coperto di corniola bianco e oro [c. 21v] Una testina d’una femmina che ha una poppa scoperta in… Una Venere sopra un Delfino in…. Una Lucrezia in Diacinto grandetta legata in oro.… Una testa d’una femmina legata in oro moderna ma di buona maniera con capelli e busto di colore differente dal viso Un amorino che si appoggia in… Un sacrificio piccolo di satiri in…
Cammei e intagli del cardinale Leopoldo
Una lepre che corre in… Un ranocchio verde sopra un fondo bianco in… Una testina d’una femmina legata in oro in granato Una testa Greca pare di Filippo in… Una testa di Mercurio antica in… Un sacrificio d’un toro bellino antico in… Una testa di una femmina che mostra una poppa in… Una testa di femmina da una parte e dall’altra una testa di vecchio senza barba legata in oro in… Una testa di Claudio antica in… Una testina piccola con la corona e paludamento di diverso colore Un moro con fondo bianco antico Un altro moro più piccolo in niccolo Una Pallade che mostra le rene Un a femmina di buona maniera antica con l’ornamento lavorato Un aquila rossa in fondo bianco [c. 22r] una testina bellina d’una femmina che mostra una spalla Una testina che ha i capelli legati da una benda, antica Una testina d’un giovane con un corno in testa, antica Una testa di femmina con panno e capelli di diverso colore legata in oro Una testa di Tiberio di bella maniera legata in oro antica Una testa di Agrippina in Topazio d’India legata in oro antica - 5.a Cassetta Una testa d’una femmina bella antica e dietro un intaglio con il nome di Giesù legata in oro Una testa di Nerone di buona maniera Un intaglio di una Venere che va per il mare scherzando con Amore in cristallo Una bella testa legata in oro con capelli, panno e fondo diverso dal viso Una testa d’uno col cappello di corniola bianca e rossa Un intaglio grande con sacrificio in calcedonio Un cammeo di un’amore con alcune femmine che lo seguono legato in oro con una perla Un sacrificio antico di (…..) e un amorino con ornamento d’oro con rubinetti e smeraldi [c. 22v] Un Ercole in plasma legato in oro, grande Una testa intagliata in calcedonio e legata in oro Una testina bella legata in oro di mezzo rilievo in dente di caval marino Glauco e Galatea in….antico Un fragmento di una mezza testa antica Un diaspro legato in oro Una natività in corniola Una testa di Pallade grandetta legata in oro in… Un fragmento di alcuni trofei antichi in… Una testa di una femmina velata grandetta Una testa del Magnifico Lorenzo ben fatta legata in oro in… Tre Visacci Una femmina velata in diaspro con lettere greche dall’altra parte, legata in oro.. Una testa di Cleopatra d’assai buona maniera Un intaglio grande di ametista Una testa d’Ercole grande assai in… Un intaglio d’un Europa in…
ASF, Carteggio d’Artisti, VIII, cc. 720-722, lettera del 2 novembre. 26 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14660, cassetta 19. Il cammeo ad altorilievo in un topazio di grande qualità presenta una vistosa frammentazione del fondo che è stata abilmente restaurata e integrata in oro. Parte della spalla e del manto sono stati ricostruiti. Sulla cornice in semplice filo d’oro sono state realizzate lateralmente due 25
maglie oblunghe. Il retro è convesso. GIULIANO 1989, p. 252, n. 185 con bibliografia precedente; TONDO-VANNI 1990, p. 59, n. 17. 27 Nell’inventario del 1662 nella cassetta n. 3 (c 20v) è descritto “Un calcedonio entrovi dell’erba in uno scatolino d’avorio” e nell’inventario dell’eredità nel quinto cassetto dello stipo si legge “un agata piccola con erba e fiorellino fattovi naturalmente”. 28 FILETI MAZZA 1998, pp. 12 sgg. 29 PAOLINI 2002, p. 127, n. 65, riporta la descrizione di una lettiera di proprietà del Museo Horne. 30 ASF, Carteggio d’Artisti, XVII, c. 109, datata 15 maggio 1669: “L’Illo. V(ostr)o haveva ragguagliato V.A.R. di quello (che) sia restato di bello e di buono del Giardino del Ludovisi et in particolare una celebre lettiera tutta in pietre dure fu fatta sotto la direzione del Giulio Buratti è veramente cosa bellissima e ricchissima adornata di molte pietre fine come Topazi Grisoliti e Cammei Questi ministri vogliono vendere e buttar via et è bene comprare da chi à di bisognio, vi è un fanale fatto tutto in cristallo di monte legato in argento che a mio parere sarà 150 Scudi d’argento…”. 31 ASF, Carteggio d’Artisti, XVII, c. 265. 32 Il Falconieri caldeggiò a lungo, ma inutilmente, l’acquisto di una preziosa tavola intarsiata di marmi antichi su cui si veda FILETI MAZZA 1998, p. 13 nota 1. 33 FILETI MAZZA 1987, pp. 68 sgg. 34 Ibid., p. 69. 35 Ibid., pp. 77-80. 36 CASAROSA 1976; M.E. Micheli, in ROMA 2000a, p. 552, n. 17, con bibl. prec. 37 Lettere documentate tra il 1672 e il 1673 nell’archivio Massimo testimoniano la cordialità dei rapporti in CARPEGNA FALCONIERI 1996, p. 39 nota 5. 38 ASF, Carteggio d’Artisti, XIX, c. 634. La storia dell’acquisto è stata pubblicata con trascrizione parziale delle carte di archivio in CASAROSA 1976. M.E. Micheli, in ROMA 2000a, p. 552 n. 17. 39 GIULIANO 1989, pp. 234-235, n. 159. 40 BATTISTA 1993, pp. 53-60. 41 ASF, Carteggio d’Artisti, XXI, ins. 7, cc. 25-27; c. 9 indirizzata al principe Leopoldo del 6 marzo 1673. Documento parzialmente riportato in CASAROSA 1976, p. 59 e più diffusamente in FILETI MAZZA 1998, p. 80. 42 Questo in particolare venne acquistato, secondo quanto riporta il GORI 1727, pp. 154-155) dal cardinale Orsini e l’Andreini lo vendette allo Strozzi. 43 CASAROSA 1989-1990, p. 364 nota 6; BATTISTA 1993, p. 57. 44 GORI 1727, p. 155 e BATISTA 1993, p. 59 nota 29. 45 GIULIANELLI 1753, pp. 59, 138-139. 46 BATISTA 1993, p. 56. 47 A Felice Bernabè, incisore apprezzato dall’Accademia Etrusca di Cortona, aveva fatto eseguire una copia del suo intaglio di Teukros con Ercole e Iole. 48 ASF, GM 1351, cc. 47 sgg., 21 novembre 1731, dove vennero consegnate 205 pietre; nel maggio del 1732 (c. 64r) ne vengono inviate altre 40. 49 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, n. 14547. CASAROSA 1989-1990, p. 364 nota 6; M.E. Micheli, in ROMA 2000a p. 552, n. 19 indicata come testa di Sabina. 50 MIGLIARINI 1837, n. 181. 51 C. Gasparri, in COLORNO-MONACO-NAPOLI 1995, pp. 419420, n. 197.
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ELISABETTA DIGIUGNO
Scultura in pietre dure nella Galleria dei Lavori Annamaria Giusti
Già dal Quattrocento la glittica sia antica che moderna fu splendidamente rappresentata nelle collezioni medicee da cammei, gemme e vasi intagliati, che da sempre ne avevano costituito gli esiti più significativi e universalmente apprezzati. Ma con Ferdinando I (regnante 1587-1609), fondatore nel 1588 della Galleria dei Lavori, la “rivoluzione” di gusto e tecnica che ispirò le creazioni in pietre dure della manifattura di corte non mancò di investire anche la glittica, sulla scia della messa a punto dell’arte del “commesso” lapideo, invenzione e vanto della neonata Galleria. Nel 1601 Ferdinando, inviando in dono al pontefice Clemente VIII il suo ritratto eseguito a commesso di pietre policrome, segnalava con legittimo orgoglio il “più ingegnoso artifizio” che aveva portato a realizzare l’immagine papale “non in foggia ordinaria di musaico”1, ma assemblando con incastri perfetti sezioni lapidee, sagomate e selezionate cromaticamente, in vista dell’effetto finale di unitaria rappresentazione pittorica. Veniva in tal modo ripreso e portato a perfezione l’antico genere musivo dell’opus sectile, contrapponendo al moderno intarsio lapideo romano, vincolato dai limiti intrinsechi alla tecnica, le possibilità espressive del “mosaico fiorentino”2, vaste quanto la tavolozza cromatica offerta dalle pietre dure. Nacque allora quella insuperata capacità dei mosaici della Galleria granducale di farsi pittura di pietra, grazie alla virtuosistica precisione nel taglio e assemblaggio delle frastagliate sezioni lapidee, e alla acutissima sensibilità per le nuances delle pietre, complici nel produrre l’inganno seducente di un’opera che sembra pittura, e che pittura non è. L’“artifizio” manierista sembra così precorrere e saldarsi alla poetica del “meraviglioso” barocco, ingannando i sensi dello spettatore e seducendolo con la lusinga di uno splendore inalterabile, offerto dalla inesausta fantasia della Natura. Ma la messa a punto del commesso di pietre policrome, destinato a durevole quanto estesa fortuna, non fu la sola novità che il Granduca e l’eletto entourage degli artisti di corte ebbero a maturare, in quella felice temperie artistica che vedeva il connubio fra l’estro fantastico del tardo manierismo e l’eloquenza dell’estetica controriformata. Nel 1600, arrivava a conclusione uno fra i capolavori più eccelsi della manifattura granducale, il celebre altarolo in cristallo di rocca con Cristo e la Samaritana al pozzo (fig. 1), oggi a Vienna, “summa” di squisitezze inventive e di virtuosismi tecnici. Frutto della collaborazione fra i massimi artefici della Galleria, gli intagliatori milanesi Caroni e Gaffurri, fatti trasferire a Firenze negli anni settanta da Francesco de’ Medici, e l’orafo fiammingo Jaques Bylivelt3, vi troviamo per la prima volta in opera la scultura musiva in pietre dure, nelle due figurette del Cristo e della donna, intagliate a tutto tondo e composte da pietre diverse, lavorate separatamente e poi assemblate a formare l’assieme della figura. Ne fu autore Cristofano Gaffurri, mentre si deve al fratello Bernardino il paesaggio di sfondo ai due personaggi, eseguito questo a commesso di pietre dure, in modo da saldare insieme, in armonico rapporto complementare, le due prodigiose lavorazioni che a pochi anni dall’inizio della sua attività la Galleria fondata da Ferdinando I era in grado di esprimere. E a suo maggior vanto, grazie ad artefici capaci di padroneggiare le due diverse tecniche, del commesso come dell’intaglio plastico, fatto questo tutt’altro che scontato, tanto che altrove4 (ma in seguito anche nella manifattura fiorentina) le due lavorazioni furono praticate da specialisti diversi. Ma durante il regno di Ferdinando, e sicuramente grazie anche alla sua esigente quanto appassionata attenzione per le creazioni della Galleria, le due botteghe dei Gaffurri e dei Caroni seppero unire alla originaria competenza nella glittica, appresa a Milano, quella di impeccabili artefici di mosaici fiorentini.
Fig. 1 - Botteghe granducali, Edicola con Cristo e la Samaritana, 1591-1600. Vienna, Kunsthistorisces Museum
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ANNAMARIA GIUSTI
Non dovette essere difficile per Cristofano Gaffurri intagliare i diversi elementi plastici che compongono le due delicate figurette dell’edicola di Vienna, mettendo a frutto la pratica maturata nella glittica e nella conoscenza delle pietre dure. Semmai, ci si può interrogare su quale possa essere stato lo spunto per l’originale concezione di una “scultura musiva”, quesito per il quale non esiste forse una risposta univoca, essendo molteplici le potenziali fonti ispiratrici. Fatte salve le diverse proporzioni, già la Roma imperiale aveva prodotto sculture, e più spesso busti, composti con più marmi colorati, finalizzati a un effetto pittorico e alla valorizzazione della mimesi cromatica delle pietre (fig. 2), appunto come avviene nella plastica minuta in pietre dure promossa da Ferdinando de’ Medici5, profondo conoscitore ed estimatore dell’Antico. In epoca più prossima, la fioritura dell’arte dell’Ile de France al passaggio fra Tre e Quattrocento, nel fondere squisitezze tardogotiche e naturalismo classicheggiante aveva annoverato fra le sue creazioni piccole sculture musive a tutto tondo, come la Madonna con il bambino appartenuta a Jean de Berry6, il cui nero manto di calcedonio contrasta con il volto eburneo, e oltre a queste anche rilievi a mosaico di pietre policrome, quale l’anello con il ritratto di Jean sans Peur7. Ma per restare nell’ambito della glittica cinquecentesca, che possiamo supporre più direttamente correlata agli esiti di fine secolo, è da rilevarvi una crescente tendenza a conferire ai cammei, anche quando concepiti con dimensioni e tecnica tradizionali, una accentuata vocazione plastica, non esente dalle suggestioni della scultura contemporanea. La si nota in particolare, dopo la metà del secolo, in alcune creazioni degli atélier milanesi di Girolamo Miseroni e di Alessandro Masnago, fornitori delle maggiori corti europee, ivi incluse quelle di Firenze e di Praga, dove non a caso si affermerà fra Cinquecento e Seicento la plastica musiva in pietre dure. Ed è opera di plastica, realizzata con un’unica pietra alla maniera di un cammeo, il gruppo di Venere e Cupido intagliato a tutto tondo dall’atélier dei Miseroni8 agli inizi del Seicento per Rodolfo II d’Asburgo, con una magistrale valorizzazione delle nuances del calcedonio, opalescente negli incarnati e caldamente ambrato nei capelli delle figure e nel letto che le accoglie. Piccole sculture intagliate in pietra silicea avevano fatto la loro comparsa a Firenze già agli inizi del Cinquecento, come sta a dimostrare la famosa statuetta in porfido, al Museo degli Argenti, di Pier Maria Serbaldi da Pescia, anche in questo caso una Venere e Cupido, dove a prevalere è piuttosto l’ispirazione dall’Antico e il virtuosismo nel trattamento scultoreo del resistente materiale, non prestandosi il porfido a ricercatezze pittoriche. Ai “maestri rarissimi milanesi”9 chiamati da Francesco I a Firenze, e da Ferdinando sollecitati a imprese prestigiose, non mancavano insomma precedenti ai quali ispirarsi, per affiancare al mosaico in piano il mosaico plastico, che immediatamente, dopo il primo e già brillantissimo esordio dell’edicola di Vienna, si radica stabilmente in Galleria. La scultura in pietre dure infatti entra a far parte dell’impegno primario che assorbe in quegli anni le botteghe granducali: lo sfolgorante altare-tempietto per l’erigenda Cappella dei Principi, dove sculture e rilievi a mosaico di pietre dure avrebbero accompagnato i pannelli a commesso con storie bibliche e evangeliche, che scandivano i diversi “imbasamenti” della magica architettura, in un’eloquente quanto ammaliante dialettica fra pittura e plastica lapidee10. Nascono in quel contesto le quattro statuette di Evangelisti (cat. n. 127), la cui lavorazione occupò i primi decenni del Seicento, fra ripensamenti e battute d’arresto, ma che rivelano una comune vocazione scultorea, tanto da differenziarsi dalla statuaria fiorentina contemporanea solo per le misure e i materiali. Se i due incunaboli del Cristo e la Samaritana conservano levità di attitudine e sottigliezza di forme che ancora li collegano alla glittica minuta, gli Evangelisti sono pensati “in grande”, e non a caso i modelli preparatori in cera ricordati dai documenti sono tutti riconducibili, pur nell’accavallarsi dei progetti, a esponenti delle scultura quali Antonio Susini, Orazio Mochi e i di lui figli Stefano e Francesco. Il Mochi ebbe parte nell’iniziativa anche in veste di intagliatore, imparando il non facile mestiere, in età già matura, nella bottega di Stefano Caroni, e facendo seguire la propria strada ai due figli, che praticarono entrambe le attività, di scultori in marmo e di intagliatori in pietre dure. Contemporaneamente all’ideazione delle statuette a tutto tondo degli Evangelisti, si pensava per l’altare della Cappella a sei rilievi musivi con figure allegoriche delle Virtù, che ebbero anche queste lunga gestazione, tanto da risultare non del tutto ultimate ancora nel 1637, sebbene fossero già previste dai progetti grafici per l’altare dei primi anni del secolo11. Fede e Carità sono oggi visibili nell’altare della Cappella Palatina12, mentre le altre quattro Virtù si trovano in collezione privata13: dai documenti, si deduce che i sei rilievi uscirono dalle botteghe dei Gaffurri e del Mochi, mentre si conosce il nome dell’ideatore della Carità (fig. 3), il cui modello in cera fu consegnato nel 1626 dallo scultore Domenico Pieratti14. Il carattere scultoreo, pur con alcune divergenze ascrivibili a un’esecuzione dilazionata nel tempo e suddivisa fra più autori, accomuna d’altronde i sei rilievi musivi: lo dichiarano l’impianto compositivo e lo sviluppo plastico delle figurette, intrinsecamente “monumentali”, e la scelta stessa di una policromia lapidea che privilegia campiture ampie e terse, per evitare il rischio di un’ecces-
Fig. 2 - Busto di matrona romana, III secolo d.C. Roma, Musei Capitolini Fig. 3 - Allegoria della carità, su modello di Domenico Pieratti. 1626 ca. Firenze, Palazzo Pitti, altare della Cappella Palatina
Scultura in pietre dure nella Galleria dei Lavori
Fig. 4 - Ottavio Miseroni, Santa Maria Maddalena, 1610 ca. Vienna, Kunsthistorisches Museum Fig. 5 - Giuseppe Antonio Torricelli, Inginocchiatoio dell’Elettrice Palatina, 1705. Firenze, Appartamenti Monumentali di Palazzo Pitti
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siva frammentazione dell’immagine. Meglio si evidenziano queste caratteristiche se si pongono a confronto i rilievi musivi della Galleria fiorentina con quelli all’incirca contemporanei, che Ottavio Miseroni andava realizzando nel suo atélier di Praga per Rodolfo II d’Asburgo. Abbia o meno l’artefice milanese tratto spunto dalle novità messe a punto a Firenze (ma induce a crederlo la sicura precedenza dell’edicola di Vienna sulla glittica musiva del Miseroni, più antica della fine del primo decennio del Seicento), resta il fatto che i suoi lavori hanno piuttosto come diretto riferimento la nobile tradizione dei cammei milanesi cinquecenteschi. Se si esamina la mirabile Maddalena (fig. 4), capolavoro del Miseroni nel rilievo musivo di pietre dure15, già le tenui modulazioni e l’opalescenza del volto la ascrivono al genere del cammeo, da cui si distaccano invece le marcate volumetrie fisionomiche della fiorentina Carità, dove spicca l’inserto scuro delle pupille. Il Miseroni non è tanto interessato a un organico sviluppo plastico della figura, quanto piuttosto alla varietà delle nuances cromatiche che la compongono, e alle quali dedica la massima cura, libero ormai dai vincoli che ponevano i cammei intagliati in un’unica pietra. In anni di poco precedenti, un maestro della glittica quale Alessandro Masnago aveva creato figure e addirittura scene policrome sfruttando con eccezionale abilità le variazioni di colore di una sola pietra, come avviene ad esempio nei cammei di Lucrezia o di Latona16, a confronto dei quali i bassorilievi musivi di Ottavio Miseroni si pongono come l’evoluzione, ma al tempo stesso come la semplificazione del problema della policromia lapidea, da sempre “croce e delizia” degli intagliatori di cammei. Nella manifattura granducale di Firenze, le creazioni della plastica in pietre dure continuano nel frattempo il brillante percorso intrapreso a fine Cinquecento, producendo al tempo del figlio e successore di Ferdinando, Cosimo II (regnante 1609-1621), una fra le meraviglie assolute delle arti applicate, il pannello ex-voto destinato a figurare al centro del paliotto aureo per la cappella di san Carlo Borromeo a Milano17. L’intento devoto si traduce in una sontuosa esibizione di materie abbaglianti e preziose, lavorate con inarrivabile perfezione, degna in tutto della splendida munificenza dei Medici. Tornano qui a figurare assieme, come nell’incunabolo di Cristo e la samaritana, il mosaico in piano, con il quale sono realizzati l’ambientazione e la veduta di Firenze sullo sfondo, e quello a rilievo, che modella la scenografica immagine di Cosimo ammantato negli abiti granducali. Contribuisce allo sfarzo di questa eloquente mise en scène l’apporto di gemme e smalti, in simbiosi con le pietre dure nel rivestire l’immagine del Granduca, che sembra per questo aspetto trovare un precedente, forse non casuale, nel rifulgente San Giorgio che abbatte il drago, in lavorazione nel 1586-1597 per l’Elettore di Baviera Guglielmo V18. Per il paliotto ex-voto di Cosimo II ci vollero sette anni di preparazione, dal 1617 al 1624, e la collaborazione di artefici massimamente specializzati, secondo la formula collaudata con successo dal tempo di Ferdinando19. Nella lavorazione delle pietre dure si cimentarono Gualtieri Cecchi e Michele Castrucci, quest’ultimo familiare forse di quei Castrucci, che da anni conducevano la manifattura dei commessi fondata a Praga da Rodolfo II d’Asburgo. Poco tempo dopo, nel 1628, quando con l’inizio del regno di Ferdinando III de’ Medici l’attività della manifattura ritrova brillantezza di ritmi e di creazioni, si progetta un altro prezioso lavoro di glittica, che sembrerebbe rifarsi al modello dell’edicola di Cristo e la Samaritana, all’epoca esposta fra i tesori della Tribuna. In quell’anno infatti l’anziano ma sempre attivo Orazio Mochi consegna a Matteo Nigetti, che all’epoca sovrintendeva ai lavori della manifattura, un modello in cera di “nostro senior quando risuscitato visita la donna per far di pietra per uno adornamento di cristallo”20. Non è noto se il Noli me tangere sia stato poi effettivamente messo in opera; certo è che durante il lungo regno (1628-1670) di Ferdinando II la plastica in pietre dure, almeno nella veste scultorea con la quale era stata messa a punto e coltivata in Galleria, sembra subire una battuta d’arresto, di cui fecero le spese anche i lavori destinati all’altare della Cappella. Già si è detto del lento progredire degli Evangelisti e delle Virtù, al quale si accompagna quello del progetto per le statuette dei dodici Apostoli, del quale si trova notizia già nel 1603 ma che approderà, e ormai già nel Settecento, al completamento dei soli San Giacomo, San Paolo e San Pietro21. Con ciò, la pratica della plastica musiva non fu certo abbandonata nella manifattura, ma fu usata principalmente per tradurre a rilievo, con finezza di intaglio e sicuro gusto cromatico, i temi naturalistici di uccelli, fiori e frutta predominanti in quegli anni nel repertorio dei mosaici fiorentini, e che si configuravano spesso come pannelli di rivestimento di “stipi e cassette in gran numero, che furono date in dono ad altri gran potentati d’Europa”, come scrive il contemporaneo Baldinucci. Rilievi con ciocche di frutta decorano appunto uno di questi doni granducali, il “balsamario”, ovvero cassetta con corredo interno di essenze e farmaci, che Ferdinando II inviò in dono a Oliver Cromwell, per ricambiare il dono di un ritratto22. Fu grazie anche a questa “politica dei doni”, attuata già dai primi Granduchi medicei, che le creazioni della Galleria dei Lavori furono note e apprezzate nelle maggiori corti d’Europa, tanto da spingere Luigi XIV di Francia a fondare ai Gobelins un laboratorio dedicato al mosaico fiorentino,
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ANNAMARIA GIUSTI
chiamandovi nel 1668 tre specialisti da Firenze23. Guidava la piccola équipe Ferdinando Migliorini, che proveniva dai ranghi della manifattura granducale ed era esperto di rilievi in pietre dure. Entrambe le forme dell’“ouvrage de Florence” furono praticate ai Gobelins, ma da quanto rimane delle creazioni del tempo sembra di poter arguire che la preferenza fu data ai soggetti naturalistici lavorati a rilievo, quali coppe con frutta, vasi di fiori, ghirlande di frutti e via dicendo, che si ispiravano, amplificandoli in dimensioni e esuberanza compositiva, ai modelli già in voga nella manifattura di Ferdinando II de’ Medici. Ma fu con il successore e figlio di Ferdinando, Cosimo III (regnante 1670-1723), che la lavorazione scultorea delle pietre dure conquistò in Galleria spazi e livelli di specializzazione in precedenza ineguagliati. Molti i fattori che vi contribuirono: la passione del gusto barocco, pienamente condivisa dal Granduca, per le arti plastiche, e di conseguenza il ruolo determinante assunto dagli scultori nella manifattura medicea, dal 1694 al 1725 affidata alla direzione di Giovan Battista Foggini, che nelle sue versatile attività per la Galleria fondeva l’estro intramontato del manierismo fiorentino e lo stile scenografico del barocco romano. A rendere al meglio le invenzioni del Foggini e degli artisti di corte, nelle produzioni molteplici ed eccellenti che uscirono in quegli anni della manifattura, contribuì la suddivisione delle competenze fra “maestri in piano” e quelli “di rilievo”: nell’ambito di questi ultimi si arrivò anzi a circoscrivere una specializzazione ulteriore, quella dei “fruttisti”, ovvero intagliatori dedicati alla lavorazione a tutto tondo dei frutti di pietre dure, che germogliando da festoni di foglie di bronzo dorato inghirlandano arredi sacri e profani. Fu questa un’invenzione decorativa specialmente felice, riproposta in varie e sempre suggestive versioni, si tratti dei grappoli minuti dove brilla rugiadosa la materia traslucida delle ametiste, quarzi e corniole, o dei frutti a grandezza naturale che avviluppano l’inginocchiatoio dell’Elettrice Palatina, sensuali e carnosi tanto da sedurre ingannevolmente lo sguardo. Quest’opera celebre, donata da Cosimo III alla figlia nel 170424, è fra i capolavori di Giuseppe Antonio Torricelli, che emerge fra gli altri maestri di intaglio per la superlativa perizia di “scultore in pietre dure e cammei”. È questa la definizione che ne danno i registri del tempo, e che appare calzante per un artefice che, pur padroneggiando le sottigliezze della glittica, spicca per lo straordinario dominio plastico nel modellare gli ostici materiali, anche in opere di dimensioni inusitate. Nell’inginocchiatoio dell’Elettrice, le teste dei tre cherubini (fig. 5) rivelano la sensibilità cromatica di un cammeista, nel magistrale impiego del calcedonio che trascolora dal chiarore dei volti alla tonalità ambrata dei capelli, ma hanno taglia e qualità scultoree nella soda e al contempo duttile tornitura dei volumi. Ineguagliata è nel Torricelli la capacità di lavorare a tutto tondo le durissime pietre, con morbidezze di trapassi che sembrano assimilarle alla cera, e che caratterizzano tutti i suoi lavori, dal tenero Gesù Bambino accarezzato dalle pieghe ondose del calcedonio su cui è adagiato, nel Reliquiario della culla25; al maestoso Elettore Palatino nello stipo omonimo; alla turbinosa visione del Reliquiario di Sant’Emerico26, che inginocchiato in adorazione sembra voler emulare, e se possibile superare, l’antico modello di Cosimo II genuflesso nell’ex-voto per san Carlo Borromeo. Eguale maestria dimostra l’artista nel rilievo musivo, genere anche questo tornato in auge nella manifattura di Cosimo III: stanno a dimostrarlo i reliquiari per la Cappella di corte (cat. nn. 132-133), o la pittorica Adorazione dei Magi27 (fig. 6), visibile sull’altare della Cappella Palatina, vibrante nella policromia e fluida nel modellato, che crea un armonico continuum compositivo nella scena affollata di personaggi. La preminenza del Torricelli nella Galleria dei Lavori finì per lasciare in posizione defilata i pur numerosi maestri attivi nel rilievo, dei quali si conoscono i nomi, ma che raramente si riesce a collegare alle non molte opere non riconducibili al caposcuola. Si ignora ad esempio l’autore dei due (peraltro non eccelsi) rilievi con L’Annunciazione, al centro della trionfale placca bronzea progettata e realizzata dal Foggini28, e donata nel 1700 dal Granduca al pontefice Innocenzo XII. Un Francesco Borghesi, non noto al momento per altri lavori, è autore nel 1720, quando il Torricelli era scomparso da un anno, di un’analoga Annunciazione, nella placca in bronzo dorato e pietre dure donata in quell’anno da Cosimo III alla Margravia del Baden Sibilla Augusta29. Nel trattare il soggetto ispirato al celebre affresco trecentesco della Basilica dell’Annunziata, amatissimo da Cosimo III che lo fece più volte replicare nei lavori della Galleria, il Borghesi si mostra delicato sino quasi alla fiacchezza nelle due mezze figure musive, intagliate a bassorilievo. Lo stesso identico modello fu replicato, ma con altra perizia, da Francesco Ghinghi nella placca eseguita circa venti anni dopo nel Real Laboratorio di Napoli30, fondato nel 1737 da Carlo di Borbone, con il trasferimento da Firenze di undici artefici della Galleria dei Lavori, guidati appunto dal Ghinghi, all’epoca quasi cinquantenne e quindi ben sperimentato nell’intaglio. Ancora una volta, si faceva ricorso alla riconosciuta supremazia di Firenze nell’arte delle pietre dure per dar vita ad un laboratorio di corte esemplato su quello mediceo.
Fig. 6 - Giuseppe Antonio Torricelli, Adorazione dei Magi, ante 1705. Firenze, Palazzo Pitti, altare della Cappella Palatina
Scultura in pietre dure nella Galleria dei Lavori
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Anni prima, un altro maestro di rilievo, Francesco Mugnai, aveva lasciato la manifattura di Firenze per trasferirsi nel 169931, con il consenso di Cosimo III, al servizio del Langravio Carl di Assia Kassel, che l’anno seguente fu a Firenze, in visita al Granduca. A Kassel il Mugnai rimase fino al 1710, anno della sua morte; dei suoi lavori, l’unico sicuramente documentato è un tavolo incompiuto, al Landesmuseum di Kassel32, molto celebrato all’epoca della sua preparazione, e che abbina insolitamente le due tecniche del rilievo e del commesso in piano. La parte meglio risolta è quella dei rilievi musivi, brillantemente condotti, essendo il Mugnai specialista di intagli, fatto questo che induce a riferirgli lo splendido medaglione con il ritratto del Langravio, che figura in mostra (cat. n. 134). Resta da dire infine che fra le figure restate nell’ombra del preponderante Torricelli fu il suo stesso figlio, Gaetano, formatosi a Firenze e a Roma con ottimi maestri, e che di recente Riccardo Gennaioli ha reso figura meno evanescente, fondandosi sulla biografia dedicatagli dal contemporaneo Anton Francesco Gori33. Le opere di Gaetano ricordate dal Gori e oggi rintracciabili sono tuttavia lavori fatti a completamento di manufatti di precedente progettazione, come le statuette degli Apostoli Giacomo, Paolo e Pietro per l’altare della Cappella34, oppure in qualche modo riferibili al padre, come nel caso del Reliquiario dei Santi Fondatori35, o del grande cammeo con Cosimo III (cat. n. 129). Non vi si individua pertanto con certezza la mano e il possibile stile di Gaetano Torricelli, che peraltro nella sua lunga attività in Galleria, durata dal 1713, quando rientrò dal discepolato artistico a Roma, alla morte nel 1752 dovette rivestire un ruolo di rilievo. Nel 1746 figura, e con lui Gaetano Sorbi e il già ricordato Francesco Borghesi, come maestro tra i lavoranti di pietre in bassorilievo36: sono loro gli artefici superstiti della vecchia Galleria medicea, esperti nella plastica di gusto ancora barocco, che verrà accantonata nella nuova gestione lorenese, a favore della glittica minuta e dell’incisione, più in sintonia con gli orientamenti contemporanei del gusto europeo.
La lettera con la quale il Granduca accompagnava il dono del ritratto papale è pubblicata da ZOBI 18532, p. 187. 2 Sulle tangenze e diversità dell’intarsio romano e del mosaico fiorentino, sul quale sono ritornata più volte, rinvio in particolare al recente saggio introduttivo in NEW YORK 2008, pp. 12-27. 3 La ricerca più esauriente sull’edicola di Vienna, di base agli studi successivi, resta quella di FOCK 1974, pp. 89-178. 4 Fu questo il caso della lavorazione delle pietre dure impiantata a Praga a fine Cinquecento dall’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, per il quale l’officina del milanese Ottavio Miseroni curava l’intaglio di cammei e vasi, mentre il commesso lapideo restava esclusiva del fiorentino Cosimo Castrucci e dei suoi familiari. 5 È questa l’ipotesi più attendibile secondo WARDROPPER 2008, pp. 70-83. 6 Opera di un atélier parigino verso il 1390, è conservata nel Tesoro della cattedrale di Burgos. Cfr. PARIGI 2004, pp. 111-112, n. 46. 7 Ibid., p. 140, n. 66. 8 Cfr. VIENNA 2002, pp. 280-281, n. 164. 9 Così li definisce Agostino del Riccio nella sua Istoria delle pietre, scritta nel 1597. 10 La teatrale compresenza di figure a tutto tondo e scenari pittorici, proposta nell’edicola di Vienna, era il criterio ispiratore, trasposto su grandi dimensioni, del progetto del Buontalenti, che prevedeva di collocare nella Cappella, sopra i sarcofagi medicei, gigantesche statue dei Granduchi composte con marmi policromi, sullo sfondo di ampi paesaggi a mosaico. Oltre ai documenti resta di questo progetto (accantonato a favore dell’astratto rivestimento geometrico elaborato da don Giovanni de’ Medici e Matteo Nigetti) la testa incompiuta per la statua di Cosimo I, scolpita assemblando più marmi policromi, conservata oggi al Museo dell’Opificio delle Pietre Dure. 11 Cfr. C. Przyborowski, in FIRENZE 2009a, pp. 150-151, n. 28. 12 Cfr. A. Giusti, in BALDINI-GIUSTI-PAMPALONI MARTELLI 1979, pp. 302-303, n. 123.2.3. 13 Pubblicate da GONZÁLEZ-PALACIOS 1982, p. 28. 1
C. Przyborowski, in FIRENZE 2009a, alla nota 13, p. 151. Cfr. R. Distelberger, in VIENNA 2002, p. 278, n. 161, con bibl. prec. 16 Ibid., pp. 162-163, n. 77, e pp. 165-166, n. 81. 17 Per la vasta bibliografia su questo celebre pezzo, si veda A. Giusti, in NEW YORK 2008, p. 164, n. 35. 18 Opera conservata nella Schatzkammer del Residenz di Monaco. Cfr. KOEPPE 2008, p. 61, fig. 58. 19 Da un perduto Giornale del 1624, si ricava che il paliotto, fuso in epoca lorenese, fu disegnato da Giulio Parigi e realizzato in oro dall’orafo Cosimo Merlini. Un altro orafo, lo scandinavo Jonas Falck, fu autore degli smalti e dell’incastonatura delle gemme sulle vesti e attributi granducali, mentre ai “pietristi” Gualtieri Cecchi e Michele Castrucci si deve la lavorazione delle pietre dure. Lo Zobi, storico ottocentesco della manifattura, scrive che vi collaborarono anche Matteo Nigetti, Giovanni Bilivert e Orazio Mochi, ipotesi non inattendibile, considerando la lunga durata dell’opera e il fatto che i tre artisti furono ampiamente attivi in Galleria fra il secondo e il terzo decennio del Seicento. 20 GIUSTI 2003, pp. 197-230, nota 38. 21 Altro elemento superstite della serie potrebbe essere la testa senile e barbata, intagliata con perizia nel calcedonio, conservata al Museo dell’Opificio delle Pietre Dure, inv. 609. Cfr. A. Pampaloni Martelli, in GIUSTI-MAZZONI-PAMPALONI MARTELLI 1978, p. 30, n. 324. 22 Conservato al Cromwell Museum di Huntington, è pubblicato da GIUSTI 2005, p. 94, fig. 74. La cassetta, che conserva ancora i flaconi di vetro dei “balsami”, è rara testimonianza di questo tipo di arredi messi in uso, come caratteristici omaggi della corte fiorentina, da Ferdinando II, e prodotti con maggiore frequenza durante il regno di Cosimo III. 23 Per un’informazione generale sul laboratorio delle pietre dure dei Gobelins, che restò in funzione fino al primo decennio del Settecento, si veda GIUSTI 1992, pp. 197 sgg., e il recente KNOTHE 2008, pp. 40-53. 24 Per una bibliografia aggiornata sull’inginocchiatoio, conservato negli Appartamenti Monumentali di Palazzo Pitti, si veda A. Giusti, in NEW YORK 2008, p. 200, n. 55. 14 15
Conservato al Museo degli Argenti, il reliquiario fu ultimato nel 1697, ed era corredato in origine da due angeli di calcedonio su nuvole di alabastro, e da una gloria di nubi in argento con cherubini e angeli. I documenti relativi sono pubblicati da LANKHEIT 1962, p. 62, docc. 270, 271, 544, 549, 551, 552. 26 Oggi al Museo delle Cappelle Medicee, fu avviato nel 1698 e concluso nel 1717. Per la bibliografia relativa, v. M. Bietti, in FIRENZE 2006a, p. 72, n. 12. 27 Il pannello rettangolare con l’Adorazione, rimasto privo di destinazione, fu utilizzato nel 1785 come sportello per il tabernacolo dell’altare della Cappella Palatina, montato in quell’anno con ampio riutilizzo di elementi erratici. Era stato registrato fra i lavori finiti nel 1705, ed è detto “fatto da diversi lavoranti di Galleria e terminato da Giuseppe An. Torricelli” (GONZÁLEZ-PALACIOS 1977a, pp. 357-363, pubblica il documento alle pp. 358-359). Non è forse da escludere che l’Adorazione “terminata” dal Torricelli abbia incluso i pezzi che un inventario del 1637 elenca fra i lavori presenti nella bottega di Giorgio Gaffurri, discendente dai glittici milanesi chiamati a Firenze da Francesco I. Tali pezzi sono descritti come “una figurina di pietre dure alta 1/8 figurata per uno delli tre magi il moro, che non è finita. Cinque testine spiccate di diaspro figurati per N.S. Bambino, la Mad. Sant.ma S. Giuseppe e sua magi” (A. Giusti, in BALDINIGIUSTI-PAMPALONI MARTELLI 1979, p. 303, n. 123.19). 28 Resa nota, con i documenti relativi, da GONZÁLEZ-PALACIOS 1977, p. 59. 29 A. Giusti, in FIRENZE 2006a, pp. 70-71, n. 10, con bibl. prec. 30 GONZÁLEZ-PALACIOS 2001, pp. 152-155. 31 Il “ricordo” della partenza del Mugnai per Kassel, il 9 settembre 1699, è pubblicato da LANKEITH 1962, doc. 573. 32 Reso noto da GONZÁLEZ-PALACIOS 1982, p. 64. 33 GENNAIOLI 2008b, pp. 121-124. 34 Si veda la scheda recente di R. Gennaioli, in FIRENZE 2009a, pp. 170-171, n. 44. 35 E. Nardinocchi, in NARDINOCCHI-SEBREGONDI 2007, p. 98, n. 17. 36 GENNAIOLI 2008b, pp. 118-119 nota 2. 25
“Tirar paste di vetro dalle pietre per tirar in seguito i cosi detti zolfi”: Bartolomeo Paoletti tra Roma e Firenze Lucia Pirzio Biroli Stefanelli
Nel XVIII secolo la “Real Galleria di Firenze, nella quale oltre i tanti preziosi monumenti dell’antichità, si contano oltre a tre mila gemme incise d’ogni genere, e qualità, e tutte insieme di un valore inestimabile”1 era conosciuta essenzialmente tramite alcune incisioni delle Gemmae Antiquae caelatae di Philipp von Stosch (1724) e i due suntuosi volumi del Museum Florentinum pubblicati da Anton Francesco Gori nel 1731-1732, ai quali seguiranno sul finire del secolo le edizioni di David e Wicar. Malgrado le numerose e continue richieste da parte di grandi e piccoli collezionisti, eruditi e colti visitatori, la circolazione delle impronte di cammei e intagli – diversamente da quelle di altre prestigiose collezioni – era molto limitata; solamente un numero esiguo di zolfi, e per di più di qualità non proprio eccellente, era inserito nelle grandi raccolte che si cominciavano a produrre in Italia e in Europa a partire dagli inizi del secolo. Che le impronte di gemme della collezione granducale non fossero ottenibili con grande facilità, principalmente per il timore che nell’operazione si potessero danneggiare le pietre, ma anche per una sorta di gelosia, era ben noto e questo spinge nel 1791 Rudolf Erik Raspe, nella introduzione al catalogo della raccolta di James Tassie composta da oltre quindicimila esemplari, a sottolineare, tra i tanti meriti dell’opera, il fatto che per la prima volta – grazie ai solfi della raccolta Stosch che “post varios casus, at last has found its way into Mr. Tassie’s Cabinet” – vi fosse rappresentato, “an almost complete set of the Cabinet of Florence”2. L’esagerazione è evidente, trattandosi di circa quattrocento esemplari, ma è tuttavia un numero cospicuo al confronto con le raccolte formatesi precedentemente. Sono circa settantacinque le impronte di gemme “Rom. Aug. Imp.e Mus. Flor.” che Philipp Daniel Lippert (1702-1785) aveva potuto inserire nella prima edizione della sua ricchissima Dactyliotheca Universalis3. Cristiano Dehn a Roma dal 1722 con Stosch “penso’ di comporre un Museo delli Intagli antichi originali da se stesso aquistati, e per aumentarlo, si condusse nelle Città di Napoli, Firenze… ne estrasse da propri originali le impronte in paste di vetro, e altre ne estrasse dal celebre Museo di esso Stosch…”4; nella Descrizione istorica pubblicata nel 1772, dopo la sua morte, dal genero Francesco Maria Dolce gli esemplari conservati nel “Museo del Gran Duca di Toscana” sono, su un totale di milleseicento, meno di trenta e alcuni non in catalogo sono indicati come confronto; pochi rispetto agli esemplari del Museo del Re di Napoli presenti nella stessa raccolta5.
Fig. 1 - Busto di Minerva, cammeo in onice, cm 8,9 x 5,8, inizi XVII secolo; stampo in vetro e impronta in stucco, 1797. Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti
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Fig. 2 - Testa di Traiano, stampo in vetro da un cammeo in onice. Roma, Museo di Roma, collezione Paoletti Fig. 3 - Alessandro de’ Medici, stampo in vetro da un cammeo di Domenico di Polo. Roma, Museo di Roma, collezione Paoletti
Tra le cinquanta Impressioni cavate da Gemme Antiche selezionate dal celebre incisore Giovanni Pichler (1734-1791) quale complemento alla collezione di impronte tratte da suoi lavori acquistata da sir Thomas Rumbold (1736-1791) a Roma tra il 1786 e il 1787, cinque sono tratte da pietre appartenenti alle raccolte fiorentine: i cammei in onice con Augusto Ottaviano e in agata-onice con Lisimaco, gli intagli in corniola con il Bucinatore e con Testa incognita con la firma di Aulo, in sardonica con Minerva6. Anche per la Raccolta… divisa con regola di stili in diverse classi dal fu’ cavalier Giovanni Pichler celebre incisore di gemme7, che la figlia Vittoria Pizzamiglio editava ancora nel 1802, dalla collezione fiorentina – variamente indicata come Museo Fiorentino, Gabinetto di Firenze, Museo Toscano, Museo di Firenze, Museo del Gran Duca di Toscana – erano state selezionate centocinquantadue pietre in prevalenza intagli8. Tra i pochi che avevano ottenuto impronte delle gemme della Galleria si ricorda l’Elettrice di Sassonia la quale nel 1773 ne ebbe in dono una serie in cera; nel 1774 il collezionista inglese Charles Townley aveva avuto undici zolfi grazie a Thomas Patch “pittor inglese”, allora a Firenze9. Nel 1796 il nuovo direttore del Cabinet des Antiques della Bibliothèque Nationale di Parigi Aubin Louis Millin – che nel medesimo anno andava pubblicando una Introduction à l’étude des pierres gravées10 – fece pervenire a Tommaso Puccini, direttore della Galleria degli Uffizi dal 1793, la richiesta di uno scambio di impronte degli intagli e dei cammei più notevoli delle due collezioni11. Con una lettera a Ferdinando III Puccini illustrava nel dettaglio i termini della proposta e caldeggiava l’operazione perché “dalla pubblicazione di tanti capi d’opera non noti finora che a pochi viaggiatori, non vi ha dubbio che ci potremo ripromettere un accrescimento di fama della nostra R. Galleria”12. Nel corso della sua lunga permanenza a Roma – dove aveva esercitato dal 1777 al 1792 l’attività di Uditore di Rota – Tommaso Puccini aveva avuto modo, tramite la frequentazione di numerosi e illustri protagonisti del modo antiquario13, di notare l’importanza che vi aveva assunto la produzione e il commercio di impronte. Aveva assistito personalmente all’esecuzione di una scelta dalla prestigiosa collezione dei principi Boncompagni Ludovisi e poteva pertanto affermare con piena cognizione di causa che solo a Roma si sarebbe potuto trovare chi potesse offrire piene garanzie per un’ottima esecuzione del lavoro senza il rischio di danneggiare le pietre “perché siccome l’operazione immediata sulla pietra non si fa, che con la creta molto molle, e raffinata; quindi è che sia remotissimo il rischio dal più piccolo danno, come infatti non ne ha sofferto alcuno il celebre museo del Principe di Piombino formato quasi sotto i miei occhi; ben inteso però che ne sia commessa l’esecuzione a persona idonea ed accurata, la quale temo che qui non sia, ma però trovarsi facilmente in Roma, dove sono frequenti occasioni di esercitare quest’arte…”14. E inoltre riteneva di sottolineare che “per quanto la spesa possa essere considerevole, io non ne conosco altra più fruttuosa. In Roma molte famiglie vivono con agio del solo prodotto dei cosi’ detti zolfi, e questi tratti da forme ormai stanche e diffuse per tutta l’Europa”; per essere più convincente lasciava intravvedere come la produzione di impronte da parte della Galleria potesse avere un importante ritorno economico per le richieste certamente numerose dato che “i nostri in concorso dovrebbero avere certo la preminenza sugli altri, perché più freschi e nuovi affatto agli amatori delle antichità”. La persona “onesta e idonea a si gelosa operazione” fu trovata a Roma su segnalazione del “non meno integerrimo che abile incisore di cammei” Gaspare Capparoni e il 9 novembre 1796
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Puccini comunicava al granduca Ferdinando III: “… In esecuzione pertanto degli ordini sovrani… di aver trovato l’artefice più idoneo e di specchiata probità nella persona di Bartolomeo Paoletti, romano cui fu affidato il Gabinetto di Capo di Monte a Napoli; cui Pikler, tanto eccellente nell’arte dell’intaglio quanto geloso della sua gloria, affidava tutte le sue opere da pubblicarsi”; proprio con quest’ultimo, che lo aveva “instrutto nella cognizione” delle pietre, Puccini si era legato a Roma da “stretta familiarità”15. L’onestà di Paoletti era ben nota, testimoniata anche dal genero Vincenzo Monti, marito della figlia Teresa, che il 14 luglio del 1797 scriveva al fratello Francesco Antonio: “… mi dimenticava un’altra vostra curiosità, quella cioè di sapere con chi mia moglie sia partita da Roma, e che relazione avess’ella con chi l’accompagnava… Il suo compagno di viaggio è stato un certo Bartolomeo Paoletti antico amico di suo padre, incisore di pietre dolci, uomo di una bruttezza senza pari, e di una probità senza macchia. Egli sta presentemente in Firenze, chiamato colà dal Gran Duca per fondare gl’impronti di tutto il Museo Ducale, che sua Altezza vuole regalare a Bonaparte”16. Il contratto tra Tommaso Puccini e Bartolomeo Paoletti, che aveva dovuto rivedere il compenso richiesto in un primo tempo perché ritenuto troppo esoso, fu firmato il 28 novembre del 1796 e l’operazione fu portata a termine nell’agosto del 1797 (fig. 1). Oltre alle modalità del lavoro, vi erano stabilite, data la delicatezza dell’operazione, condizioni molto rigide, quali la presenza fissa di una guardia reale, la consegna di venti pietre alla volta in una cassa con due serrature e soprattutto non era “permesso all’artefice di tirare le forme duplicate”, un punto molto delicato che aveva portato Puccini ad affermare “che questa ultima è la condizione che più preme a S.A.R. e perciò a me che sulla fede di Capperoni l’ho assicurata della sua onestà”. Gli stretti legami di amicizia e professionali che univano Giovanni Pichler a Bartolomeo Paoletti, accennati più sopra, sono ben documentati. Era stato proprio Paoletti ad essere chiamato per redigere, per la parte di sua competenza, l’inventario dei beni conservati nell’abitazione dell’incisore in via dei Pontefici al momento della morte nel 179117 e proprio Pichler, per i trascorsi napoletani della famiglia, potrebbe aver fatto da tramite per il prestigioso incarico presso il Museo di Capo di Monte18. A “Meuccio” Paoletti si rivolgeranno poi nel 1822-1824 le figlie dell’incisore quando decideranno di alienare la collezione di paste ereditata dal padre che si affretterà ad acquistare con la molto significativa motivazione “per non divulgar tanto questa professione d’impronte”19. Non è chiaro se Bartolomeo Paoletti abbia effettivamente mantenuto l’impegno da lui sottoscritto di non replicare per sé gli stampi realizzati a Firenze. Nella collezione di oltre 7000 stampi, oggi al Museo di Roma, ereditata dal figlio Pietro nel 1834 che ne farà uso fino al 1849, oltre 200, quindi quasi un terzo, corrispondono alle matrici approntate a Firenze nel 1796-179720 (figg. 2, 3).
Fig. 4 - Natività, stampo in vetro da un intaglio in cristallo di rocca di Valerio Belli per la Cassetta Medici. Roma, Museo di Roma, collezione Paoletti Fig. 5 - La cacciata dei mercanti dal Tempio, stampo in vetro da un intaglio in cristallo di rocca di Valerio Belli per la Cassetta Medici. Roma, Museo di Roma, collezione Paoletti
“Tirar paste di vetro dalle pietre per tirar in seguito i cosi detti zolfi”
Fig. 6 - Il bacio di Giuda, stampo in vetro da un intaglio in cristallo di rocca di Valerio Belli per la Cassetta Medici. Roma, Museo di Roma, collezione Paoletti
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Oltre a questi ve ne sono tre (non inseriti nel catalogo redatto da Pietro) relativi a intagli in cristallo di rocca di Valerio Belli per la Cassetta Medici21 (figg. 4-6), che non erano tra quelli selezionati per lo scambio con il Cabinet des Antiques; non sono noti né il momento né le circostanze che portarono all’acquisizione delle tre impronte che, tra l’altro, non sembrano documentate presso altri “studi”22. Non è possibile per ora stabilire se una così massiccia presenza di duplicati si debba alla poca correttezza di Bartolomeo o se le impronte della collezione di Firenze siano state acquisite successivamente quando la direzione della Galleria ne aveva ormai liberalizzato la distribuzione, come potrebbe far supporre l’inserimento delle stesse impronte anche in altri repertori formatisi successivamente al 1797. È il caso della grande collezione di Tommaso Cades (1772-1840), figlio dell’incisore Alessandro (1734-1809), attivo anch’egli a Roma, con un florido commercio in via del Corso23, che insieme con lo studio Paoletti domina il mercato romano e europeo per tutto il XIX secolo. Paoletti sembra tuttavia essere il solo a documentare alcune pietre, cammei di particolare rilevanza anche per le dimensioni24. Difficile stabilire, in assenza per ora di documentazione specifica, come effettivamente avvenisse la prima acquisizione delle impronte e i modi di una eventuale trasmissione da uno “studio” all’altro. Se un discreto numero di documenti ne illustra i momenti salienti dell’attività, praticamente ignota è invece la effettiva produzione di Paoletti tra il 1797 e il 1821, anno in cui si stabilisce con la famiglia in piazza di Spagna subentrando nello “studio” dei Dolce e inizia una stabile attività commerciale con la stretta collaborazione del figlio Pietro (“si fanno in Roma da Bartolomeo Paoletti e Pietro figlio…”), documentata da un gran numero di raccolte conservate in musei di tutta Europa25. Non sono infatti ancora state rintracciate collezioni di impronte ascrivibili al periodo precedente o che rechino il nome del solo Bartolomeo. Si sa per certo che nel 1803, nel momento in cui egli si trovò al centro di una ben documentata controversia in tribunale, la sua collezione di stampi ammontava già a quasi 2200 esemplari, una numero particolarmente rilevante. Nel 1805 aveva inoltre ottenuto dalla Reverenda Camera Apostolica la tanto ambita “privativa per produrre stampi in vetro”. A Firenze, dopo la commissione del 1796-1797, Bartolomeo Paoletti era ritornato almeno altre due volte. Nel 1801 quando vi si trattiene per diciotto giorni durante il mese di agosto, prima tappa di un viaggio in compagnia di due soci che lo porterà in Germania e in Francia a “negoziar di camei, intagli ed altri oggetti di antiquaria”. In questa occasione ebbe modo di incontrare nuovamente l’incisore Santarelli, che nel 1796 aveva partecipato con lui alla selezione delle pietre, dal quale acquistò 14 cammei. Non è quindi da escludere che egli possa aver colto allora l’opportunità di ottenere alcune impronte della collezione granducale. A Firenze sarà ancora nel mese di maggio dell’anno successivo, 1802, ultima tappa del viaggio di ritorno verso Roma26. Nella collezione Paoletti di Roma sono ben documentate alcune fasi della sua formazione iniziata da Bartolomeo a partire dagli anni ottanta del XVIII secolo. Tra i nuclei più consistenti emergono infatti con evidenza quelli relativi alle pietre del Gabinetto di Capo di Monte, della Galleria di Firenze e del Museo Imperiale di Vienna. Se nel 1821, quando arrivano a piazza di Spagna, Bartolomeo e Pietro abbiano acquisito anche gli strumenti che venivano utilizzati dallo “studio” Dolce, inclusa la rara raccolta di Cristiano Dehn, per ora non sappiamo. Quello che invece si nota
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è la maggiore rilevanza delle opere dei tre musei menzionati rispetto ad altri repertori, strettamente collegata quindi alla presenza di Bartolomeo a Napoli e Firenze e di Pietro a Vienna27. La documentazione di gemme fiorentine e napoletane nella Collezione di n. 8131 Impronte in smalto possedute in Roma da Tommaso Cades (1772-1840)28 è cospicua, mentre rimane marginale rispetto alla Paoletti quella relativa alle raccolta imperiale di Vienna. Incerti sono i modi di acquisizione delle impronte da parte degli altri studi operanti a Roma, se questa avvenisse direttamente alla fonte o tramite cessione o scambi tra i diversi commercianti. Quale ne sia stato il tramite, alla metà del XIX secolo le impronte tratte dalla collezione fiorentina hanno ormai assunto una larga diffusione. È ben noto come le collezioni di impronte, insieme con le incisioni a stampa, abbiano costituito una delle fonti a cui attingevano gli incisori dei secoli XVIII e XIX e come abbiano contribuito con la loro vasta commercializzione alla trasmissione di temi iconografici ripresi da altri tipi di manufatti in Italia e in Europa. A volte sono proprio le raccolte di impronte o le tavole dei volumi a stampa relativi alla glittica a chiarire significativamente l’origine di alcuni apparati decorativi29. A Roma non furono solamente gli “studi” Paoletti e Cades con le loro raccolte ammontanti a migliaia di pezzi ad operare questa diffusione, ma anche i numerosi negozi di antiquari dediti al commercio di generi diversi. È tramite Giovanni Battista Conrado, titolare in via Frattina a Roma di un “negozio di oggetti antichi, quadri, impronte, medaglie ecc.”30, che nel 1820 Goethe, aggiungerà alle migliaia di impronte messe insieme negli anni, una raccolta di “seicento Impronte in Zolfo estratte dalle gemme del Gabinetto di Firenze”31. Malgrado l’incremento della diffusione di immagini le riprese da parte degli incisori in pietra dura del tempo non sono molto frequenti, soprattutto se si considera la grande quantità di copie e libere interpretazioni di alcuni capolavori – sia cammei che intagli – di altre celebri raccolte come la Farnese e quella del Re di Francia, tuttavia alcune pietre della Galleria hanno goduto di un favore ininterrotto nel corso di due secoli. Grande fortuna ebbe ad esempio il cammeo di Protarco con Amore che cavalca il leone32 inserito, tra l’altro, con Ercole vinto da Amore e Apollo e Marsia tra le immagini scelte ad illustrare le Lettere sulle Belle Arti publicate nelle nozze Barbarigo Pisani a Venezia nel 179333 e riproposto con alcune varianti ancora agli inizi del XIX secolo in una delle ultime creazioni degli orafi Castellani, una spilla con un importante cammeo in agata corallina di ignoto autore34. Emergono alcuni lavori di gran pregio. A Roma nei primi decenni del XVIII secolo Giovanni Pozzo (1670 ca-1752) ripropone in un raffinato avorio per Annibale degli Abbati Olivieri Giordani l’intaglio in corniola con Ercole e Onfale35 (fig. 7). Tra il 1766 e il 1771 si colloca l’intaglio in corniola con Coribante di Giovanni Pichler “copiata da una Pasta, o sia vetro giallo antico esistente nel Museo di Fiorenza… per il Baron de Rave Olandese” 36 (fig. 8). Dall’intaglio in ametista con Ercole e Jole, già all’attenzione del “peritissimo ed eccellente artefice” Giovanni Pichler che riteneva il braccio della Jole “recentemente aggiunto”37, furono eseguite eleganti incisioni, in anni molto distanti tra loro, da Francesco Sirletti (1717-1788)38 e da Luigi Pichler (1773-1854) che ne dilata l’immagine sensuale in un intaglio, duplicando le misure dell’originale39 (fig. 9). E nel considerare la produzione moderna occorre tenere presente come alcuni soggetti particolarmente amati e riproposti ininterrottamente nel corso dei due secoli – come ad esempio Diomede col Palladio, alcune Baccanti, Ercole vinto da amore, “Massinissa” – per i quali erano note in collezioni diverse più pietre, di età antica o ritenuta tale, con il medesimo schema iconografico con minime varianti, non derivassero necessariamente dagli esemplari fiorentini, pur avendo questi indubbiamente contribuito alla diffusione del tema. Valga come esempio il “Massinissa” riproposto in tempi diversi, da Giovanni Pozzo in avorio, da Carlo Costanzi (1705-1781) in intaglio e a distanza di un secolo da Benedetto Pistrucci (1783-1855) in cammeo40.
Fig. 7 - Giovanni Pozzo, Ercole e Jole, intaglio in avorio. Pesaro, Museo Oliveriano Fig. 8 - Coribante, stampo in vetro da un intaglio di Giovanni Pichler. Roma, Museo di Roma, collezione Paoletti Fig. 9 - Ercole e Jole, stampo in vetro da un intaglio di Luigi Pichler. Roma, Museo di Roma, collezione Paoletti
“Tirar paste di vetro dalle pietre per tirar in seguito i cosi detti zolfi”
ALDINI 1785, pp. 344-345. RASPE 1791, p. LXIV. 3 LIPPERT 1755-1762. 4 DOLCE 1772, p. VII. Sono solo intagli in WINCKELMANN 1760 (“dans le Cabinet del’Empereur à Florence”). 5 PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1991b. Per Dehn vedi anche R. Gennaioli, in FIRENZE 2005b, p. 252, n. 129. 6 PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1987, p. 115, fig. 3, cat. nn. 7, 11, 32, 35, 49; L. Pirzio Biroli Stefanelli, in ROMA 1997, pp. 319320, n. VI. Per Thomas Rumbold: INGAMELLS 1997, p. 827. 7 DE ROSSI 1792, pp. 26 sgg.: “fin dal 1772 aveva incominciato a ritenersi degl’impronti in vetro (detti comunemente paste) delle opere, che andava alla giornata compiendo, ed a far serie dei suoi lavori. L’occuparsi di ciò gli fece nascere l’idea di formare una collezione d’impronti scelti dal più raro e dal più bello, che abbia mai avuto l’arte dell’intaglio presso gli antichi, e presso i moderni, e dividere questa in classe secondo lo stile, che si ravvisa negl’intagli medesimi….”; MILLIN 1807, p. 100. L’“impresa della serie degl’impronti”, tra le quali dovevano figurare testimonianze delle collezioni fiorentine, non era ancora terminata al momento della morte nel 1791. 8 PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1994, p. 101; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 2007, p. 419; TASSINARI 2005, p. 237. 9 AGF, filza VI, nn. 94 e 48. 10 La traduzione italiana della seconda edizione del 1797 fu pubblicata a Palermo nel 1807 (MILLIN 1807). 11 L’intera vicenda è ricostruita sulla base dei documenti AGF, filza XXVIII, 54 in MC CRORY 1983; si veda inoltre BOYER 1970, pp. 14, 65, 82, 95-96; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 127; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1994, p. 101; FILETI MAZZA 2004, pp. 181 sgg. 12 AGF, filza XXVIII, 54. Lettera del 17 agosto 1796. 13 FABBRI RAGGHIANTI 1978, p. 111; Descrizione delle gemme 1799, Prefazione. 14 AGF, filza XXVIII, 54, lettera del 28 giugno 1796 al Cons. Francesco Seratti. Il riferimento alla collezione dei Boncompagni Ludovisi principi di Piombino (MILLIN 1807, pp. 97-98) non è irrilevante alla luce dei giudizi espressi da Winckelmann nel 1763-1764: “la più grande e bella collezione d’Italia”, “fra i tesori d’intagli e camei in casa Piombino ne trovai son pochi giorni parecchi che superano tutto quanto mai esiste a Firenze e a Capo di Monte”. Custodita gelosamente dai principi, era concesso di prenderne visione molto raramente, e solo dietro presentazione, così come 1 2
era stato per W. Goethe nel 1787 (PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1993a, PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1993b). 15 Descrizione 1799, Prefazione; cfr. anche nota 13. 16 BERTOLDI 1930, II, p. 18. 17 PALAZZOLO 1996, p. 655. 18 DE ROSSI 1792, pp. 3-5. Per il dono di Ferdinando IV all’imperatrice di Russia vedi PANNUTI 1995. 19 TASSINARI 2005, pp. 223-226. Vedi anche nota 7. 20 PIRZIO BIROLI STEFANELLI 2007. Il vetro degli stampi del Museo di Roma differisce da quello usato a Firenze sostanzialmente per i colori brillanti; molto traslucido, è spesso trasparente offrendo così una migliore e più immediata lettura dell’immagine. I Paoletti avevano certamente affinato nel tempo la tecnica manifatturiera, anche tramite l’esperienza acquisita al tempo della Società con Vincenzo Nelli (1800 ca), che aveva installato una fabbrica di vetri presso s. Maria Maggiore. Non è da escludere che le eventuali impronte portate da Paoletti a Roma fossero in creta molle. Stampi figg. 2, 3: cm 4,4 × 3,75; cm 4,1 × 3,3. 21 BURNS-COLLARETA-GASPAROTTO 2000, pp. 308-312, n. 6, in particolare nn. 6.1, 6.7, 6.12. Stampi: cm 6,5 × 6,5; cm 3,5 × 9,7. 22 Non si comprende inoltre perché gli stampi siano solo tre, se quelli delle altre incisioni siano andati perduti o semplicemente non siano mai stati fatti. È da escludere l’ipotesi che derivino da placchette (ben documentate per la Cassetta Medici) data la ottima qualità dell’immagine. 23 Da ultimo M. Flecker, in AUGSBURG-GÖTTINGEN 2006, pp. 95, 101, 177-178, con bibl.; PIRZIO BIROLI STEFANELLI-CURIALE 2007, pp. 107-112. 24 Il catalogo Cades, contrariamente a quello Paoletti, fornisce occasionalmente, ad esempio nei libri 1-3, l’indicazione delle collezioni (“nel Museo di Firenze”), in particolare per le pietre meno note, quasi a sottolineare l’eccellenza delle scelte della raccolta nell’ottica di una vivace concorrenza tra gli “studi” romani. 25 Le numerose raccolte nei musei di Oxford, Londra, Berlino, Vienna, Parigi, solo per citarne alcuni, documentano quasi esclusivamente incisioni moderne con le immagini dei capolavori dei più celebri musei di antichità e le opere degli scultori contemporanei. 26 Il viaggio e le successive vicende giudiziarie sopra menzionate, sono ricostruiti nella relazione tenuta da chi scrive al convegno Dalla bottega all’azienda: arti decorative, commerci… e altre storie a Roma tra Settecento e Ottocento. Giorna-
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ta di studi per i 250 anni dalla nascita di Giacomo Raffaelli (1753-1836), Fondazione Marco Besso, Roma, 25 novembre 2003 del quale non sono stati pubblicati gli atti; il testo (Un viaggio in Europa per “negoziar di camei, intagli ed altri oggetti di antiquaria”(1801-1802) sarà inserito in PIRZIO BIROLI STEFANELLI c.s. Per G.A. Santarelli: FIRENZE 1981. 27 Pietro è a Vienna nel 1819-1820 per assistere Luigi Pichler nella preparazione delle riproduzioni in pasta vitrea di circa 600 tra intagli e cammei delle collezioni del Museo Imperiale, dono dell’imperatore Francesco I d’Austria a Pio VII (A. Bernhard-Walcher, in ROMA 1986, pp. 152-154, n. 20 (V); ALTERI 1987, pp. 24-24, n. 5 tav. V; BERNHARD-WALCHER 1996, pp. 170-171, con bibl.). Anche a Vienna, come a Firenze, era stato imposto il divieto di produrre repliche a scopi personali. 28 Roma, Deutsche Archäologische Insitut, vedi anche nota 23. 29 Ad esempio la decorazione parietale della Coffee House di Villa Albani a Roma e le grisailles rese note in TRUBE 1995. 30 KELLER 1830, p. 120. 31 FEMMEL-HERES 1977, p. 252, n. 427. 32 GIULIANO 1989, pp. 158-159, n. 34. 33 Lettere 1793, pp. 77, 149, 171. 34 Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia (ASR, Famiglia Castellani, 1904; I. Caruso, in SGUBINI MORETTI 2000, p. 230, n. 208). 35 PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1993a, pp. 31-32, n. 7, figg. 38 (cm 8 × 5,8) e 61 (replica già nelle collezioni di Castle Howard). L’intaglio in corniola, con la firma ΚΑΡΠΟΥ è il n. 165 nella Descrizione del Puccini. 36 Catalogo d’Impressioni cavate da pietre Orientali incise dall’anno 1766. a tutto 1771. da Giovanni Pichler Incisore di sua Maestà Cesarea Giuseppe II, scatola I, n. 6. Per l’originale: GORI 1731-1732, I, 1731, tav. LXXXIV, 5; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 2010, tomo V, 312; stampo cm 2,75 × 2. 37 BRACCI 1784-1786, II, 1786, p. 235. Firenze, Museo Archeologico (TONDO-VANNI 1990, p. 167, n. 29). 38 Roma, Museo di Roma, coll. Paoletti I, 635 (PIRZIO BIROLI STEFANELLI 2007, p. 72; per un’altra copia moderna dello stesso intaglio, tomo IV, 16). 39 Museo di Roma, coll. Paoletti (PIRZIO BIROLI STEFANELLI 2010, tomo V, 450); stampo cm 4 × 3,35. 40 PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1993a, p. 36, n. 10, figg. 47 (Pozzo), 49 (Costanzi). Per il cammeo di Pistrucci a Firenze, Museo Archeologico, coll. Currie, per l’intaglio in ametista, già coll. Agostini e per la fortuna dell’immagine vedi CASAROSA 1989-1990.
Gestione e classificazione tra Settecento e Ottocento: dagli interventi post medicei al catalogo del Migliarini Miriam Fileti Mazza
L’interesse per la glittica come sappiamo ha radici antiche, in grado di connotare passioni principesche e ricerche erudite di colti collezionisti che nel programma della propria formazione intellettuale posero lo studio delle pietre incise tra gli argomenti di primaria importanza. Come per il settore numismatico, il manufatto glittico apriva ad un mondo ricco e complesso di molteplici referenze tra erudizione e pensiero filosofico, scenari unici che particolarmente si sono prestati all’affinamento del gusto e della ricerca antiquaria sette-ottocentesca. Ripercorrendo le vicende della gestione e conservazione del patrimonio glittico mediceo-lorenese, potremo definire quel percorso di valorizzazione del bene artistico che fortemente si delineò anche nel panorama culturale post mediceo. La fortuna del collezionismo di pietre incise raggiunse il massimo della propria espressione sociale ed artistica grazie soprattutto all’intervento di illuminati antiquari di corte che seppero coniugare l’esigenze dell’amministrazione con i nuovi metodi di classificazione, verificati e integrati con la storiografia del passato e i più qualificati repertori contemporanei1. Tralasciando gli eventi di epoca medicea, ai quali uno specifico studio è qui dedicato, merita ricordare brevemente come Antonio Cocchi, il primo responsabile della Galleria dopo la fine della dinastia Medici, avesse affrontato il problema della gestione del gabinetto di glittica ponendo le basi di una nuova museografia che avrebbe accompagnato il destino delle raccolte granducali fino al maturo Ottocento. L’incontro con la collezione avvenne poco dopo l’insediamento del medico nella stanza che la Reggenza gli aveva assegnata; proprio in quell’ambiente Antonio trovò il mobile che conteneva le gemme, subito immaginato diverso e migliore tanto da disporne una nuova fattura da lui stesso disegnata. Il compito dell’inventario delle pietre intagliate e dei cammei, al quale si applicò fresco di nomina, mantenne essenzialmente la formula del Bianchi; il Consiglio di Reggenza impose subito la volontà che l’operazione di classificare la dattilioteca si attenesse scrupolosamente ai protocolli amministrativi già vigenti, lasciando quindi poco margine d’intervento al nuovo responsabile. In questi anni, la tutela del medagliere e delle gemme rappresentavano dunque la questione nodale della gestione; il delicato passaggio di consegne, mise in evidenza la pessima conduzione del precedente custode che in una generale e purtroppo diffusa mal cura del patrimonio, si dimostrò ancor più dannosa per questa tipologia di oggetti. Le gemme avevano infatti sopportato un’approssimativa classificazione che impose quindi una totale riconsiderazione del riscontro inventariale. Nell’agosto 1739 la registra-
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Fig. 1 - Pietro Masini su disegno di Giovan Domenico Campiglia, Ganimede nell’Olimpo, con Venere, Giove e l’aquila, incisione dal Museum Florentinum (II, 1732, tav. 37) Fig. 2 - Carlo Bartolomeo Gregori su disegno di Giovan Domenico Campiglia, incisione dal Museum Florentinum (II, 1732, tav. 41)
zione delle duemila pietre intagliate, si concludeva; praticamente dal riscontro di Sebastiano Bianchi del 1736, che annoverava milleottocentoventitre pezzi, la collezione glittica si era arricchita di circa duecento esemplari. Passando quindi dall’inventariazione alla stesura del catalogo, l’antiquario di corte iniziò anche una sempre più raffinata scelta di testi che avrebbero integrato le conoscenze fino allora acquisite. Il precedente più illustre con cui Antonio Cocchi si trovò a confrontare le proprie esperienze di catalogatore delle gemme, fu senza dubbio l’opera di Anton Francesco Gori. Il suo Museum Florentinum, aveva strutturato la sezione della glittica secondo un metodo che si rifaceva essenzialmente alla tradizione, in una divisione per soggetto, non selezionando né le dimensioni, né la pietra, né la tecnica e mescolando i cammei con gli intagli. Ma la costante frequentazione del Gabinetto delle gemme e il continuo e stimolante esercizio erudito delle visite, condusse Cocchi ad una personale meditazione sulle cognizioni di un’arte fino a qualche anno prima sconosciuta nel rapporto dialettico tra museo e fruitore del bene. Intorno allo stipo delle pietre incise, si consumava dunque la fase di apprendimento conforme ad un programma predefinito e nel rispetto di un vero e proprio protocollo che poteva prevedere da un minimo di due o tre incontri, fino ad alcune settimane. Quando alla morte di Antonio Cocchi subentrò nel ruolo di antiquario regio il figlio Raimondo, per alcuni anni la situazione del Gabinetto delle gemme non risentì di significativi cambiamenti. Il nuovo responsabile fu completamente assorto nell’impegno di classificazione del medagliere. Il giovane Cocchi giunse ad intervenire nel settore della glittica sensibilizzato forse più dal problema della conservazione, che da quello del gusto collezionistico. Nel 1773 iniziò a lavorare al progetto di una raccolta di cere delle gemme antiche per dotare l’istituzione di uno strumento di conoscenza e divulgazione nuovo. Le domande di consultazione per la dattilioteca da parte di un pubblico esterno che non si accontentava di osservare, ma spesso chiedeva di ‘maneggiare’ i preziosi manufatti, rendeva indispensabile l’utilizzo di un sistema ausiliario. L’iniziativa di Raimondo fu suggerita probabilmente dalla richiesta dell’Elettrice di Sassonia per le impronte in cera dalla collezione glittica fiorentina. Accolta con entusiasmo dall’amministrazione granducale, l’operazione ebbe inizio nell’estate e si concluse sul finire del 1773. L’interesse per la raccolta glittica e la sua documentazione, era talmente radicato da suggerire al Direttore l’idea di coinvolgere anche i molti visitatori stranieri. Questi, durante l’erudite frequentazioni, usavano abitualmente portarsi appresso le proprie gemme intagliate per confrontarle con quelle di Galleria; tale consuetudine avrebbe consentito, grazie alla concessa duplicazione dei diversi esemplari, un considerevole arricchimento della collezione dei calchi. La direzione di Raimondo Cocchi ebbe una parentesi tra il 1769 e il 1773, quando la corte nominò l’abate Giuseppe Querci quale custode e responsabile della Galleria e dell’armeria medicea. Nel breve periodo che frequentò l’ambiente del museo, furono assai rari gli interessi per i manufatti glittici; citò le gemme basilidiane e gli strani capricci della natura nominati come abraxas in una missiva al Granduca, senza approfondire altre questioni di quella tipologia del patrimonio che gli fu decisamente estranea. Tra la fine del 1770 e i primi mesi dell’anno successivo, Querci affiancò il Cocchi nel momento in cui da Palazzo Pitti giunsero alla Galleria monete, medaglie, cammei e pietre incise; un ulteriore recupero di esemplari glittici dai mezzanini del Palazzo, si verificò qualche mese dopo, ma nonostante l’impegno del nuovo Direttore, la realtà gestionale e museografica nata intorno al Gabinetto delle gemme, occupò un ruolo di secondo piano. Alla morte del Querci (14 febbraio del 1773), l’amministrazione lorenese fece nuovamente subentrare col ruolo di direttore e antiquario regio, Raimondo Cocchi che riprese la sua attività fino al febbraio 1775, quando “per un male infiam-
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matorio” perse la vita. Le sorti delle collezioni granducali furono assegnate a Giuseppe Pelli Bencivenni al quale vennero affidate con particolari riferimenti proprio le pietre intagliate che avrebbero rappresentato uno dei settori più amati e indagati. Un primo sintomatico indizio della passione per la materia, lo fornisce una breve trattazione di anonimo dal titolo Metodo facile per incidere in pietra dura, che Pelli conservava in un fascicolo miscellaneo presumibilmente da datarsi intorno agli anni Quaranta del XVIII secolo. Nel 1750 il Gori aveva pubblicato il Thesaurus Gemmarum Antiquarum Astriferarum; l’opera, conosciuta assai bene dal Pelli, aprì un nuovo scenario sulla glittica, imponendosi tra il colto pubblico di eruditi non solo italiani. La ricchezza della struttura elaborativa riservata al volume e la meticolosa preparazione del trattato, lo resero uno dei testi più ricercati del momento, a dimostrazione di come la fortuna collezionistica delle gemme incise avesse raggiunto, alla metà del Settecento, un livello di grande approvazione sia privata che pubblica. Tornando alla formazione di Pelli, ricordiamo brevemente alcune tappe che la contraddistinsero: nel settembre del 1759 l’incontro con Giovanni Caraffa duca di Noja e l’apprezzamento della sua raccolta di scarabei, consentì di acquisire una certa familiarità con la nomenclatura stessa delle pietre. Nello stesso anno, curioso di conoscere il metodo di realizzare cammei in porcellana, Pelli s’interessò a quello collaudato da Johannon de Saint-Laurent per gli esemplari della fabbrica di Doccia, e affascinato dagli studi dello sperimentalista francese lo ricordò spesso nei suoi scritti sulla glittica che ne furono fortemente influenzati. Integrava con letture settoriali, come ad esempio quelle dedicate al Perfetto gioielliere o La storia delle pietre di Anselmo Boetius de Boot che aveva acquistato nell’ottobre del 1760. Ai diamanti dedicò diverse osservazioni nate molto probabilmente dalla consultazione di una Nota delle gemme più singolari per la loro grandezza e valore. Scorrere il lungo elenco di queste gemme tra le più famose d’Europa per bellezza e valore commerciale, incuriosì e interessò Pelli a tal punto da riportare sulle pagine del diario caratteristiche e dettagliate cifre. Non deve quindi stupire se fra le tante annotazioni private, troviamo notizia degli esperimenti di Giovanni Fabbroni, marito della figlia adottiva Teresa, circa un solvente per intagliare ad incavo e rilievo e per macchiare le pietre dure, fra le quali sembravano particolarmente adatte le sardoniche preferite dagli intagliatori etruschi, ed i niccoli; interessi che videro il genero di Pelli impegnato alla redazione italiana del Trattato sulle pietre del naturalista e chimico svedese Torbern Bergman. Nelle carte pelliane è ricordato anche l’amico e primo ministro granducale Francesco Seratti, che oltre a prediligere la buona pittura e le opere degli artisti più in voga nella Firenze del tempo, possedeva alcune gemme di cui gradiva parlare con gli amici spesso invitati e intrattenuti alla sua tavola. Alla crescente conoscenza della glittica, rispondeva il desiderio di visitare la collezione granducale, che di lì a otto anni sarebbe stata sotto la sua diretta tutela. A Firenze, la vendita della dattilioteca Stosch, fu un avvenimento largamente seguito e lo stesso Pelli consultò il catalogo che Winckelmann aveva dedicato alla collezione, insieme alle Gemmae antiquae caeletae pubblicate da Filippo nel 1724, opera che nel superamento dei limiti seicenteschi cercò di proporre nuovi criteri e aggiornati canoni per la conoscenza e l’apprezzamento delle pietre incise. Giunti al 1769, proprio la raccolta di impronte da gemme presenti nella dattilioteca Stosch, stimolò forse per la prima volta Pelli a dichiarare le sue istanze sul metodo con cui studiare la glittica; si affrontava la discussione dell’ormai annosa questione sul rapporto tra originali e falsi, rispetto al quale il nostro autore sembrava propendere verso una flessibilità, che valutava anche le copie con uguale valenza documentaria. Mentre eruditi e antiquari determinavano commenti innanzitutto sul valore estetico e artistico delle gemme, Pelli approdava all’analisi dell’oggetto partendo dalla verifica delle iscrizioni che lo portava ad un esame più filologico che storico. La mancanza totale di esperienze dirette con la procedura artistica, lo poneva nella condizio-
Fig. 3 - François-Xavier Fabre, Ritratto di Giovanni Antonio Santarelli. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna
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ne di avvicinarsi al manufatto attraverso un coinvolgimento culturale più che formale e stilistico. L’affinamento del gusto e della capacità critica di trattare l’arte glittica, migliorerà col tempo, fino a raggiungere la padronanza di un preciso lessico di riferimento, frutto anche dell’instancabile volontà di aggiornamento che costantemente accompagnò il Direttore della Galleria fiorentina. Dal 1770 s’infittirono le testimonianze che attestano l’ormai raggiunta maturità pelliana verso gli studi antiquari. Con la dissertazione Piano di un’opera che dovrebbe comporsi col titolo d’Instituzioni Antiquarie, databile tra il 1770 e il 1771, si affrontava l’argomento delle gemme definite “monumenti figurati”, se ne evidenziava l’eleganza, la piacevolezza di possederle e usarle nel raggiungimento, quasi ideale, di un giusto equilibrio tra passato e presente. La mattina del 22 maggio 1775 Pelli prese in consegna dai funzionari granducali le gemme del tesoro mediceo-lorenese, alle quali avrebbe dedicato le conoscenze acquisite che da quel momento in avanti si sarebbero integrate con i problemi della tutela. Gli entusiasmi si scontrarono con il penoso stato della raccolta; la confusione in cui le gemme erano sistemate era tale da ostacolare qualunque possibile intervento, dal più semplice riscontro inventariale, sino a qualunque tipo di una pur elementare classificazione. Malgrado le difficoltà, il 3 giugno del 1775 l’inventario delle gemme era concluso: fra cammei e intagli di varia qualità, il patrimonio a quella data ammontava a quattromilasessantacinque pezzi. Il manoscritto titolato Inventario generale del Gabinetto d’antiquaria di S.A.R. Prima parte. Gemme, indicava sul frontespizio una postilla postuma che informava: “N.B. La riordinazione generale del 1782 e la formazione del Gabinetto di gemme, ha fatto variare la disposizione segnata in questo inventario, onde al medesimo deve sostituirsi il mio Catalogo dettagliato che indica ogni pezzo separatamente”. La glossa segnala che per molti anni l’impianto così strutturato, rimase l’unico strumento inventariale delle pietre intagliate. L’intenzione era di procedere per una schedatura strutturalmente autonoma, compilando fogli separati con i quali organizzare il repertorio nella libertà di cambiare ordinamenti e criteri di analisi ogni qual volta si fosse presentata l’esigenza di farlo. In particolare lo studio del piccolo manufatto, sosteneva la scelta di procedere con tessere di testo che solo successivamente avrebbero ricomposto una scheda generale e unica della gemma. Si riteneva funzionale questo criterio anche nella previsione dei cambiamenti che il Direttore avrebbe dovuto apportare al catalogo generale ogni qual volta un nuovo pezzo fosse stato immesso nel Gabinetto; l’accorgimento tentava di non ripetere il disastroso procedimento usato dai precedenti curatori della raccolta, soprattutto i Bianchi, che non avendo previsto per il catalogo una struttura agibile e aperta, crearono nel tempo sovrapposizioni e disordine. L’atteggiamento di apertura verso i fruitori di Galleria, comprendeva anche il desiderio di assicurare visibilità al tesoro delle gemme. Questo, rispetto agli altri ambienti del museo, presentava indubbiamente un maggior impegno di gestione e sorveglianza. In quella stanza, più volte allestita nel tentativo di migliorarne l’agibilità, il visitatore non poteva restare senza assistenza, come invece accadeva nelle sale delle pitture o di fronte alle statue dei corridoi, dove la sola regola da seguire, erano gli orari e un consono comportamento. Furono dunque regolamentate le visite, utilizzando necessarie precauzioni per garantire sicurezza ai materiali e godibilità per gli amatori. Di fronte alla visione della dattilioteca e dello stesso medagliere, la carenza di sensibilità e cognizione del pubblico, si poneva maggiormente in evidenza, proprio in virtù della particolare tipologia degli oggetti che richiedevano un’osservazione specifica e idealmente mossa da ricerche e conferme di raffinata erudizione. Tornando alle procedure d’inventariazione, abbiamo notizia dalle carte pelliane che il trattato del Mariette rappresentò un modello e uno stimolo del tutto particolare per l’approfondimento della materia. Aspettando la disponibilità di Luigi Lanzi, impegnato al riordino del Gabinetto dei bronzi antichi, Pelli ritenne opportuno rivedere con correzioni e integrazioni il vecchio catalogo dei cammei compilato anni addietro da Sebastiano Bianchi. Intendeva partire da questo manoscritto come base per realizzare l’ordinamento corrente degli esemplari, in attesa di lavorare sulle pietre intagliate in cavo quando queste fossero state definitivamente collocate nelle tavolette, e procedere successivamente cercando di superare gli errori e la confusione che neppure gli interventi di Antonio Cocchi erano riusciti a evitare. La procedura di studio prevedeva anche il riscontro sulle citazioni edite della collezione medicea, in particolare per le gemme pubblicate nel Museum di Gori, del quale rettificò gli errori inquadrando con maggior precisione nomi delle pietre e attribuzioni. Risalendo alle fasi inventariali, sappiamo che la stesura del catalogo delle gemme fu interrotta e ripresa nell’inverno del 1778. È assai probabile che Pelli avesse tralasciato di concludere l’impegno, perché in quei mesi incombeva la revisione del suo Saggio Istorico. Inoltre già si stava delineando la struttura dell’opera più completa che avrebbe dedicato al patrimonio glittico, il Discorso sopra le gemme intagliate, col quale raggiunse un livello di approfondimento tale da condizionare fortemente il programma stesso della classificazione e dello studio. La cronaca sulla realizzazione del trattato che le memorie pelliane ci restituiscono con grande generosità, conferma come la gestione e l’ordinamento del tesoro glittico mediceo-lorenese si
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dipanò di pari passo con la stesura di questo straordinario strumento al quale l’autore dedicò molti anni della sua vita. Sul finire del 1779 si alludeva all’intenzione di corredarlo con immagini, indizio che resta purtroppo senza alcun seguito; come diverse furono le stesure e le rielaborazioni che ci pongono di fronte ad una regia complessa che risentiva dei problemi di conduzione quotidiana della catalogazione. Il Discorso fruì e ripropose i più significativi contributi del collezionismo glittico europeo, organizzato in undici articoli, si offriva al lettore secondo una efficace struttura fortemente didattica. Pur essendo nato quale introduzione al catalogo generale delle gemme della Galleria fiorentina, l’opera presenta nel suo insieme una formula del tutto autonoma con la quale si celebrava la glittica come l’essenza di un eccezionale percorso umano dell’arte manuale, che “scherzando con la natura” ne esaltava le raffinate qualità. Tornando alla politica della gestione, sappiamo che nell’inverno del 1781, la sistemazione della stanza dedicata alle pietre intagliate stava concludendosi, nel rammarico tuttavia di non aver ancora raggiunto una soluzione ottimale. Nei primi giorni del 1782, insieme ad altri ambienti del museo che videro un rinnovato allestimento, fu definitivamente assegnato anche lo spazio per la dattilioteca. Venne prescelto lo stanzino ovale affacciato sul corridoio di ponente, descritto “elegante e ricco, ma forse un poco troppo ornato. Manca quasi in tutto l’ordine, la perfetta simmetria e l’unione elegante, perché la fabbrica non l’ammette, perché si è riunito il vecchio col nuovo, perché si è voluto far presto”. Armadi progettati e realizzati allo scopo, racchiudevano insieme ai cammei e agli intagli, anche alcuni mirabili esempi di opere in pietre dure; molto probabilmente la fabbricazione di un tavolo con piano scorrevole per conservare i cammei, fu eseguito dall’abile intarsiatore Francesco Spighi che aveva prestato la sua opera anche in altri arredi della Galleria. Dopo alcuni mesi, la visita alla dattilioteca di corte degli arciduchi Francesco e Ferdinando Asburgo-Lorena, costrinse a rimetter mano al catalogo delle gemme delle quali gli illustri ospiti desideravano le riproduzioni. Fu loro consegnata una serie di quelle che anni prima aveva realizzato il Torricelli e per la parte descrittiva, alla quale sembrava tenere in maniera particolare l’arciduca Francesco, fu rielaborato frettolosamente un abbozzo integrato con la prima stesura degli indici; materiale che ordinato in bella copia da uno scrivano assoldato per l’occasione, occupò ben diciotto quaderni di testo. La disponibilità dimostrata nel concedere l’autorizzazione a riprodurre le gemme intagliate, venne meno quando la richiesta di avere le impronte fu avanzata dal ministro di Francia, il conte di Durfort, erudito membro dell’Accademia Etrusca di Cortona, atteggiamento al quale fu posto rimedio solo grazie ad una lunga trattativa diplomatica. L’ormai avviata polemica verso i sostenitori di un certo metodo di riproduzione, consentì al Pelli di criticare apertamente l’Avertissement d’un catalogue raisonné de la collection de pates et impressions de Pierre Gravées antiques et modernes qui a eté formée et se vend par James Tassie. Si trattava di un ampio catalogo di gemme incise possedute dal famoso formatore noto in tutta Europa, del quale Pelli riferiva: “Nonostante l’opera imporrà cinquantotto stampe di curiosi intagli per la più parte inediti, aguzzerà la curiosità dei dilettanti. Vi è chi mi vorrebbe impegnare a prestare il comodo di trarre le impronte dalle gemme di Galleria, ma io opporrò delicatamente le mie difficoltà perché la cosa è gelosa, impegnosa, risicosa ed impacciosa per me”. Fortunatamente dallo stimato Torricelli erano state realizzate ben quattro serie delle impronte in zolfo delle gemme di Galleria, e nonostante che in questi anni alcune fossero state già destinate per assecondare i desideri di illustri visitatori, Pelli fu in grado di accontentare anche la granduchessa Maria Luisa, appassionata del genere e assidua frequentatrice del prezioso Gabinetto. Ad essa fece recapitare in Palazzo Pitti l’ultima serie insieme al catalogo che, come abbiamo verificato, era ritenuto strumento integrante e fondamentale per apprezzare e godere la dattilioteca “riprodotta”. Durante il 1784 l’impegno istituzionale più gravoso fu senza dubbio la stesura del Catalogo generale della Galleria; composto in diversi volu-
Fig. 4 - Michele Gordigiani, Ritratto di Arcangelo Michele Migliarini. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’arte moderna
Gestione e classificazione tra Settecento e Ottocento: dagli interventi post medicei al catalogo del Migliarini
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mi, il Direttore dedicò il secondo tomo del monumentale repertorio ai bronzi antichi e moderni, mobili e pietre dure. Seguì la Prefazione all’ultimo Catalogo delle gemme; ideato in due volumi, separava gli esemplari legati in tavolette da quelli sciolti, e precisava in margine di aver “seguitata una serie distinta di numeri in ambedue le classi, se non che nella prima ho accennati ancora i numeri di ogni tavoletta e di ogni pezzo che vi è fissato sopra per la facilità di ritrovarlo”. Nell’estate del 1787, in una relazione al funzionario Alessandro Pontenani Martellini, elencando una serie di lavori per la manutenzioni di alcuni ambienti della Galleria, la direzione del museo ritornava per l’ultima volta ad affrontare l’antico problema della difficile visibilità dei materiali glittici, per i quali si chiedeva fossero modificati gli sportelli degli armadi che “non lasciano vedere a l’occhio tutto quello che racchiudono”. Terminato il mandato nel 1793, Giuseppe Pelli venne sostituito dal pistoiese Tommaso Puccini che nei confronti delle pietre incise promosse tre anni dopo una nuova serie di calchi, questa volta in gesso e con matrici di vetro, realizzati dal noto incisore romano Bartolomeo Paoletti. I calchi furono richiesti dalla Biblioteca Nazionale di Parigi, in cambio di preziose impronte tratte dalla collezione parigina. A seguito di una lunga trattativa, alla quale partecipò il curatore dell’Istituzione francese, Aubin Louis Millin, il numero delle impronte fu fissato nell’ordine di seicento esemplari per la cui selezione partecipò anche Giovanni Antonio Santarelli, disegnatore e affermato incisore di gemme. Parallelamente lavorava sui materiali glittici anche Adamo Fabbroni, vivace e attento custode di Galleria, che negli anni in cui Puccini prima, e Zannoni poi, compilavano il catalogo delle gemme intagliate, distese un Seguito Inventario gemme nel quale con precisa distinzione per tipo di pietra, descriveva alcune centinaia di pezzi con succinte annotazioni in latino. Lo stile e la frammentazione in tanti fogli separati, fanno pensare ad un lavoro preliminare per un successivo repertorio, articolato in classi, che ebbe una prima trasposizione nella Descrizione dei cammei antichi, di circa centosessanta pezzi, da cui potrebbe aver attinto non solo per le notizie, ma soprattutto per la loro strutturazione, Arcangelo Michele Migliarini in anni di poco successivi alla probabile stesura di queste annotazioni. Ma tornando ai compiti della direzione ricordiamo come Puccini, il 9 marzo del 1799, dette inizio, con lunga prolusione, alla Descrizione delle gemme, pietre e paste più cospicue che in opera di rilievo e di cavo, antica e moderna, si conservano nella dattilioteca della R. Galleria di Firenze, testo che affrontava esplicitamente il metodo del nuovo programma classificatorio. Si teneva conto della tipologia primaria delle pietre, della cronologia e dell’iconografia raggruppando “in figure, in teste e busti, in maschere e animali, e si le figure che le teste e i busti classificati poi in soggetti religiosi, in soggetti eroici o istorici, in soggetti incogniti, aggiunta in amendue le serie moderne una quarta classificazione di soggetti cristiani, e per meno errare in tutte queste operazioni, mi son giovato dei lumi e del consiglio di Guglielmo Uden presidente di S.M. Pompeiana alla corte di Roma, non men critico che dotto antiquario, di Antonio Santarelli uno dei più grandi incisori in pietre dure che abbia al presente l’Italia, e di Bartolomeo Paoletti che nel gettare e ridurre alla sua perfezione le forme onde sono tratti questi così detti zolfi, mi ha date prove non equivoche della sua integrità e perizia”. L’apertura del nuovo secolo trovava l’Europa e l’ambiente accademico estremamente sensibile agli ultimi studi rivolti al settore della glittica; a Parigi proprio Millin aveva deciso di riservare un corso universitario alle gemme antiche, individuando in esse uno strumento di conoscenza importante e moderno per lo studio dell’arte del passato. L’erudito, sottolineando la facilità con cui le pietre incise si offrivano all’osservazione in qualsiasi momento della vita quotidiana, invitava i giovani studiosi a riconoscerne il valore come fondamentale testimonianza diretta. Strategico in tal senso fu il comportamento di Puccini che, valendosi di questo precedente e aiutato dal pittore François-Xavier Fabre, impedì ai francesi la requisizione della dattilioteca granducale. Come Direttore aveva inviato una coraggiosa missiva al governo di Francia illustrando quale valore non solo artistico, ma soprattutto storico e morale, avesse questa parte del patrimonio italiano, volutamente non condotto in salvo presso la corte viennese, perché considerato proprietà dell’umanità. Gli anni della Restaurazione lorenese aggiunsero nuova linfa alla tutela e fortuna della raccolta, quando l’antiquario granducale Giovan Battista Zannoni realizzò un’opera con la riproduzione delle più importanti gemme del tesoro mediceo, cinquecentoquattro intagli divisi in cinquantaquattro tavolette. Si trattava di una parte della più generale impresa titolata Reale Galleria di Firenze illustrata, di cui il primo dei due tomi dedicati alle gemme, fu pubblicato a Firenze dell’editore Molini nel 1824 e seguito, per gli stessi tipi, dal secondo nel 1831. Il commento, ormai solo in italiano, era integrato da attente note bibliografiche e dalle incisioni di Giovanni Paolo Lasinio su disegni di Chiari e Gozzini, che nell’insieme proponevano un nuovo modo di illustrare la pietra incisa, più asettico, ma allo stesso tempo maggiormente fedele all’originale. Con questo sistema, parzialmente meno creativo, si garantiva un corretto livello di documentazione della gemma antica che raggiungeva precise valenze divulgative.
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MIRIAM FILETI MAZZA
Nel 1824 a Ferdinando III successe il figlio Leopoldo II, l’ultimo dei granduchi lorenesi in Toscana; la sua politica per la gestione del patrimonio artistico previde interessanti interventi tra i quali il più significativo, ai fini della classificazione e conoscenza del tesoro glittico, fu il Catalogo generale della Dattilioteca dell’Imperiale e R. Galleria delle Statue a Firenze. Comprende gli acquisti dal suo principio fino all’anno 1837, affidato a Arcangelo Michele Migliarini che ebbe quindi la responsabilità di curare il primo strutturato ordinamento ottocentesco del Gabinetto granducale, impresa che così spiegava nel Proemio: Della pregevole e numerosa collezione dei cammei ed intagli della R. Galleria di Firenze, fu compilato fin dal 1786 un catalogo diviso in tre volumi dal Direttore Pelli, ma questo in massa, senza separare i pezzi antichi dai moderni, senza dare ad essi l’ordine in cui era conveniente disporli per soddisfare le ricerche, ma solo per riconoscere la identità dei pezzi, ed evitare il pericolo che potessero venire sottratti o cambiati. Il Direttore Tommaso Puccini nel 1799, veduto che la fama della dattilioteca della R. Galleria di Firenze era di gran lunga inferiore alla sua squisitezza, perché esposta senza ordine e senza scelta agli occhi del pubblico, e che si nascondeva con le sue minutissime parti alle ricerche dei filologi e dall’esame degli artefici, scelse dalla vastissima collezione, quanto vi era di più puro ed elegante per quell’arte, senza trascurare ciò che di più singolare vi era per la sua rappresentanza, e dividendo le opere di cavo dalle opere di rilievo, le antiche dalle moderne, così formò la collezione dei cammei ed intagli scelti che fino al presente con tanto onore della patria nostra si è ammirata dai cultori della dotta antichità. Nell’anno 1838, il Direttore Montalvi, veduto che il catalogo Pelli (giacché quello del Puccini era solo composto della parte scelta) male soddisfaceva all’ispezione dell’Ufizio delle Revisioni e Sindacati cui va soggetta questa collezione del pari che le altre, affidò al professore Angelo Migliarini la compilazione di un nuovo catalogo generale che fu da lui redatto con nova e bene ordinata classificazione da servire in seguito di diletto ai curiosi, e d’istruzione agli artefici. Male però si avviserebbe colui che si facesse a credere di trovare in esso descritti tutti quanti i lavori di cavo e di rilievo che esistono nella R. Galleria di Firenze: questa collezione vien sempre accresciuta con nuovi acquisti ordinati dalla munificenza dell’attuale Granduca Leopoldo II, come è quello recentemente fatto di 150 pietre incise cedute dal cavalier Graberg de Hemso. Or tali aggiunte sono da vedersi registrate in un supplemento al Catalogo Generale, parimente soggetto all’ispezione dell’Ufizio delle Revisioni e Sindacati. Avvertimento L’indice delle classi e delle sezioni trovasi notato qui appresso. Alcune classi hanno ricevuti dei supplementi affinché i lavori che non si ammirano per la bellezza dell’arte o l’erudizione, non venissero a distogliere l’osservatore con la loro molteplicità, e con lo stesso modo sonansi allontanate molte ripetizioni che avrebbero prodotta la sazietà. Queste sezioni si possono chiamare gruppi, e si è creduto utile ristringerle quanto era possibile, acciò il progresso della scienza, cambiando anche il tema di significazione non escisse, o almeno difficilmente dalla sezione ove era posto il monumento. Per esempio, un ritratto incognito, allorché venga riconosciuto riceverà maggior lustro, ma non per questo esce da quella sezione. Con questo mezzo sarà facile ricercare i temi principali e sarà ancora comodo alle aggiunte degli acquisti posteriori seguendo il metodo l’aggregarle alle primitive per mezzo delle chiamate. Nel modo e disposizione si è seguito l’ordine degli altri cataloghi, nella faccia principale, primo, è il numero d’ordine. L’intitolazione è desunta dalla materia notando gli ornamenti che ha ricevuti. Succede una descrizione succinta, prevalendo l’esattezza all’eleganza e sempre vi si aggiunge la misura della larghezza e lunghezza dell’oggetto descritto; indi si trova in colonna citato il tomo del Pelli coi numeri romani, quello della pagina coi numeri arabi, e poi il numero progressivo di quel catalogo che servì prima di norma. Nell’altra pagina laterale si vede la sezione alla quale appartiene, a lato di questa, poche osservazioni e le citazioni di quei monumenti che furono pubblicati o illustrati, infine si addita il cassetto dell’armadio ove si conservano.
Migliarini divise in dodici classi il suo Catalogo: I. Cammei antichi, II. Cammei da ornamento, Collezione di cammei in agata degli Svizzeri, Cammei moderni e supplemento, III. Cammei in conchiglia, Frammenti di cammei antichi e moderni, IV. Paste antiche, cammei ed intagli, Paste moderne cammei ed intagli, V. Intagli antichi, VI. Intagli etruschi e lavori simili, VII. Cammei, ed altri lavori d’intaglio persiani, VIII. Amuleti, IX. Intagli moderni, X. Sigilli arabi, XI. Sigilli medicei e altri, XII. Immagini SS. Cammei e intagli riuniti, prendendo spunto sia nella nomenclatura che nella organizzazione, dai più accreditati repertori del passato. Grazie all’opera del Catalogo, Migliarini conquistò l’incarico di conservatore delle antichità degli Uffizi, privilegiando una dettagliata distinzione per le caratteristiche della tecnica e della materia, con una sensibilità dovuta alle personali esperienze artistiche di pittore e frequentatore dell’ambiente accademico fiorentino. Autore anche di un poderoso catalogo di materiali numismatici, mantenne riferimenti al costante rapporto con la glittica segnalando alcuni interessanti casi che rimandano alle prime invenzioni di gemme nate come medaglie e da esse copiate nell’iconografia. Come pure le voci del Catalogo segnalarono copie e riproduzioni di gemme riprese o interpretate in insiemi decorativi appartenenti ad altri contesti ambientali o culturali. Separò gli intagli dai cammei, ma anche esemplari in materiali artificiali o lavorati in conchiglia. La struttura prevedeva anche valutazioni sullo stile, bellezza e qualità del lavoro, riservando a un preciso settore denominato Osservazioni una serie di preziose indicazioni, compilate anche in anni successivi, che dalle semplici comunicazioni di tipo gestionale riferite al
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riscontro con altri inventari, dichiaravano se la gemma fosse stata una copia o frammento. Lo studioso giustificò nel Catalogo anche gli inserimenti nelle diverse classi, connotando molte schede con le provenienze e le presenze di esemplari simili in altre celebri dattilioteche contemporanee. Un numero limitato di schede riportava testualmente il giudizio del Puccini, quando la descrizione che l’antiquario aveva formulata per il catalogo del 1799, si era dimostrava particolarmente efficace per completare la voce. Come pure mantenne le valutazioni pucciniane di gemme false o imitate dall’antico, molto probabilmente per agevolare il compito in attribuzioni controverse. L’impianto classificatorio stabilito da Migliarini, e col quale aveva raggiunta la maturità di una sistematica organizzazione del bene, fa ipotizzare che lo studioso conoscesse, oltre agli strumenti dei precedenti conservatori, anche il repertorio del colombario Andrea da Rovezzano. Il Tarpato, nome col quale era distinto in ambito accademico, dal 1735 e per quasi un ventennio, aveva registrati negli Spogli, i resoconti delle adunanze durante le quali si discorreva dei più svariati temi di erudizione e si presentavano oggetti di diversa tipologia ed epoca, ritenuti d’interesse storico e artistico. Moltissime le gemme descritte e illustrate nei 14 tomi compilati dal fiorentino, che oltre ad una puntuale descrizione dell’oggetto, del materiale e della lavorazione, riportava i nomi dei proprietari, spesso coincidenti con quelli di coloro che presentavano l’intaglio, le eventuali provenienze o comunque attestazioni che legavano la gemma ad altre collezioni. Tornando alle vicende della dattilioteca granducale, sappiamo che proprio durante la stesura del Catalogo Migliarini si era prospettata l’opportunità di immettere nella raccolta fiorentina una considerevole quantità di gemme, circa tremila, provenienti dalla collezione di Stanislao Poniatowski, operazione che non giunse a buon esito per il prezzo troppo elevato e i molti dubbi sull’autenticità degli esemplari. Dopo l’annessione della Toscana al Regno d’Italia nel 1859, sotto la direzione di Luca Bourbon del Monte, fu aperto al pubblico un secondo Gabinetto della glittica che offriva ai visitatori una scelta selezione non solo di pietre incise, ma anche di modelli in cera, mosaici, intagli in legno, maioliche e varie preziosità. Migliarini tenne la direzione del museo in un periodo interinale, dall’aprile del 1860 fino al dicembre dello stesso anno, in seguito alle dimissioni di Bourbon del Monte, vivendo un momento di grande difficoltà quando tra la notte del 17 e 18 dicembre 1860, si verificò un gravissimo furto di gemme. Furono sottratti centinaia di esemplari tra cammei, anelli e pietre preziose, recuperati solo parzialmente alcuni anni dopo e privati nella maggior parte dei casi dalle montature in oro o altro metallo pregiato. Nonostante tali complicazioni, l’antiquario aveva segnato una svolta molto rilevante nella classificazione dell’oggetto glittico, realizzando un repertorio in grado di rispondere alle nuove esigenze della gestione e della conoscenza. Nelle pagine del suo Catalogo era riuscito a riversare l’esperienza del complesso intreccio istituzionale e culturale che lo aveva formato a San Pietroburgo, Roma e poi Firenze. Sensibile disegnatore, protagonista del dibattito sul valore dell’estetica e dell’insegnamento artistico, concepì l’ultima inventariazione delle gemme del tesoro mediceo-lorenese del XIX secolo, con la chiarezza di un impianto didascalico fortemente orientato anche al valore educativo della conservazione dell’opera d’arte. L’unità compositiva e la struttura ordinatrice del Catalogo di Arcangelo Michele Migliarini, tutelava quella dispersione che dopo gli anni Ottanta vide numerose raccolte degli Uffizi migrare in altre sedi; la divisione tra le gemme antiche e moderne e i loro diversi destini, interrompevano dunque la straordinaria forza di quella classe di oggetti che per quattro secoli, attraversando traversie e voleri dinastici, era comunque rimasta sempre integra nella propria essenza multisettoriale e che lo studioso di oggi può ritrovare solo nelle pagine dei personaggi che questa breve cronaca ha ricordato. Il lento ma efficace processo culturale al quale abbiamo assistito ripercorrendo l’evoluzione della conoscenza per l’affascinante mondo della glittica, conduce ad un’ultima riflessione. Nel superamento delle approssimazioni amatoriali o delle disinvolte licenze di alcuni mercanti e antiquari, affrontando gravi difficoltà di gestione e tutela, l’arte dell’incidere le pietre ha trovato, con le attenzioni e le competenze decretate in età illuminista, un proprio equilibrio nel vasto e confuso mondo del collezionismo d’antichità. L’affinamento delle procedure classificatorie, iniziate già al tempo del cardinal Leopoldo de’ Medici e poi sperimentate con tenace metodo dai Direttori della Galleria fiorentina, la sensibilità verso un tipo di opera che per decenni aveva ceduto la scena alle grandi manifatture, sono state in grado di consegnarci comunque un patrimonio tra i più importanti e straordinari della storia dell’arte manuale.
Per motivi di spazio che non consentivano lo sviluppo di note specifiche, indichiamo le seguenti voci di orientamento bibliografico, comunque relative a personaggi e argomenti
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trattati nel presente saggio: FILETI MAZZA 2004, con bibliografia precedente; GENNAIOLI 2007, in particolare pp. 72-94; FILETI MAZZA-SPALLETTI-TOMASELLO 2008.
Gemme in porcellana: riproduzione dei cammei presso la manifattura Ginori a Doccia Andreina d’Agliano
La riproduzione dei cammei antichi in porcellana di Doccia era iniziata grazie all’interesse colto ed erudito di Carlo Ginori che, con la creazione della manifattura ceramica, si era non solo proposto un’audace concorrenza con Augusto il Forte di Sassonia e la manifattura di Meissen, ma un vero intento illuminato e didattico che lo avrebbe portato a riprodurre i capolavori degli antichi, creando a Doccia la nota Galleria dei Modelli, un autentico museo in cui si trovavano le riproduzioni in porcellana delle più note statue classiche delle collezioni romane e fiorentine. Questa intenzione di riportare in porcellana i capolavori antichi, già condivisa da personaggi eruditi come Francesco Algarotti (1712-1764) che nel 1739 aveva scritto che “le porcellane vanteggerebbero di molto (…) se prendessero a imitar le cose antiche” venne portata avanti dal Ginori grazie alla preziosa collaborazione con lo scultore Gaspero Bruschi, che nei primi vent’anni di attività tenne, insieme al Ginori, contatti con l’ambiente antiquario romano, organizzando l’arrivo a Doccia di calchi e gessi, la cui puntuale documentazione ci è resa nota dai diversi documenti dell’archivio Ginori Lisci1. L’ampio interesse di Carlo Ginori non poteva, ovviamente, prescindere dalla glittica: possedeva infatti una vasta collezione di cammei da cui vennero eseguite delle impronte per riprodurli in porcellana e diffonderne la conoscenza. A tale serie si aggiunsero i calchi dei cammei della collezione del barone von Stosch, come confermato da una lettera del cavalier de Baillou al Marchese Ginori, in cui comunica di aver pregato il Barone affinché lasciasse formare le medaglie dallo scultore Antonio Filippo Maria Weber. Questa lettera risulta anche interessante per capire la procedura esecutiva dei calchi, in quanto Baillou scriveva “ho parlato al Webber e ho sollicitato quanto è possibile… tutto sarebe di già terminato se da Doccia le rimandassero di mano in mano pronamente le medaglie che egli spedisce a Doccia per rimpicciolire… domani mattina egli sarà dal Stosch a fare le forme di buona parte delle note medaglie”2. Tale lettera, datata al 23 marzo del 1749, precede di pochi mesi la notizia archivistica che riporta un pagamento del 27 agosto 1749 in cui viene certificato anche allo stesso Antonio Filippo Maria Weber il pagamento per “57 ritrattini in cera di Cesari”, probabilmente identificabili con la serie dei cammei degli Imperatori e Imperatrici realizzata per la manifattura3. Tecnicamente, la loro realizzazione in porcellana fu resa possibile dall’introduzione della tecnica del “bassorilievo istoriato” di cui i più antichi esempi risalgono addirittura al 1742-1743, come viene riportato dagli inventari della manifattura in cui sono menzionate tazze da cioccolata bianche decorate a bassorilievo4. Tale tecnica, che all’inizio si limitò probabilmente a piccoli rami di pruno a rilievo a imitazione delle porcellane “Blanc de Chine”, si estese col tempo alla riproduzione di episodi mitologici e storici derivati da prototipi barocchi e incisioni, nonché di medaglie e cammei, utilizzati soprattutto nelle tabacchiere, una delle più affascinanti produzioni della manifattura di Doccia. Il notevole lavoro implicato dalla loro esecuzione, portò il Ginori ad istituire a Doccia un apposito laboratorio di argentieri destinato esclusivamente alla montatura delle galanterie e delle tabacchiere, assumendo a tal scopo dei veri specialisti, il francese J.F. Racine e il tedesco G.G. Komette. Il laboratorio iniziò a funzionare nel 1744, ma allorché Ginori passò Governatore di Livorno, condusse con sé gli argentieri, cosicché dal 1746 le tabacchiere vennero dapprima eseguite a Doccia e poi montate a Livorno.
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Fig. 1 - Manifattura Ginori, Tabacchiera, metà del XVIII secolo. Collezione Procida Mirabelli di Lauro
Dalle notizie archivistiche e da quelle trascritte da Leonardo Ginori Lisci sappiamo che già nel 1741 venivano prodotte centinaia di tabacchiere, ma fu solo nel 1746 che venne menzionata la prima tabacchiera decorata a cammeo5: Fra quelle prodotte, le tabacchiere a cammei a bassorilievo istoriato erano quelle che avevano il prezzo di vendita più alto, come testimoniato da una lista redatta alla morte del Senatore, relativa alle tabacchiere presenti nel magazzino di Livorno6. Dal carteggio e dai documenti dell’archivio Ginori Lisci, recentemente pubblicati7, si desumono notevoli ed interessanti notizie relative a questa produzione. Illuminante a tal scopo è la lettera del padre scolopio Alberto Papiani, precettore del giovane Lorenzo Ginori, il quale, ringraziando il Marchese per un suo soggiorno nella villa di Doccia, scrive “… quello che io valuto sì è la numerosa abbondanza di preziosi Camei in cui scolpita si mira la serie dei Re d’Egitto, degli Imperatori Romani e delle Auguste e quella dei Greci, e Latini Poeti e Filosofi, de quali con tanta cura e ricerche ha leggiadramente arricchito quel suo soggiorno di campagna. Non paga Ella che un tanto tesoro restasse occulto presso di se e volendo comunicarlo ancora ai lontani, ha inventato V.E la nuova arte di fare sottili lavori di porcellana a riportare le bellissime impronte di que’ Camei, perché così il mondo abbia unite alle finezze ed a’ lavori dell’arte le cognizioni ancora dell’Istoria. Questa idea sì nobile e degna di V.E fu quella che mi sospinse a metter insieme queste brevi notizie dei personaggi improntati in quelle preziose pietre, perché più agevolmente fossero ammirate e considerate da quelli a cui sarebbero capitati quei stimabili lavori, perché fuste con ciò ancora più nota quella sua plausibile e non più veduta invenzione”8. Segue un lungo manoscritto in cui vengono elencati la “Serie e Successione dei Re d’Egitto dopo Alessandro Magno e degli Imperatori Romani dopo Giulio Cesare fino a Costantino il Grande, Raccolta da Cammei e Medglie dei Principali Gabinetti d’Europa, fatta riportare sopra tabacchiere di porcellana, coll’aggiunta delle femmine dei primi Dodici Cesari”9. Nel Settecento la glittica rivestiva un interesse altrettanto alto per il suo significato di prodotto artistico che di curiosità naturale, ma, come ben sottolinearono Haskell e Penny, il valore estetico di un ritratto era non meno arduo da distinguere rispetto al suo significato in quanto sembiante di un grand’uomo10. In questo caso la commissione delle tabacchiere può esser vista come la sintesi di diversi aspetti: da un lato la passione per l’antichità e i suoi valori, rappresentati dalle teste dei Grandi della storia, riprodotti anche a larga scala nei noti busti dei Cesari in porcellana11 dall’altra l’interesse per l’intaglio e per la pietra, in virtù di quel valore rivestito da tutte le scienze naturali che caratterizzò il secolo dei Lumi. Furono commissionate quattro tabacchiere, decorata ognuna con i cammei riportati dal Papiani, che potrebbero esser identificate con le “quattro tabacchiere a bassorilievo istoriato” fatturate dal pittore Giuseppe Romei il 16 novembre 174912. Per quanto riguarda la loro odierna collocazione, la tabacchiera di Alessandro il Macedone e i successivi Re d’Egitto può esser identificata con quella in collezione privata, pubblicata da Beaucamp Markowsky13; la seconda, con gli Imperatori romani fino a Costantino e le cosiddette “Auguste” è da ritenersi quella rappresentata alla fig. 3. La tabacchiera con gli imperatori da Nerva a Costantino il Grande, in collezione privata, andò in mostra ad Amsterdam nel 198814 mentre la quarta, con la serie dei filosofi e letterati è da ritenersi quella nella raccolta Procida Mirabelli di Lauro (fig. 1)15. A questa serie, sicuramente la più importante, si aggiunsero altre tabacchiere con decorazione a cammei, alcune forse precedenti, come riporta un documento che assegna appunto alla mano del Romei la pittura di due di esse16 o forse successiva, come la tabacchiera “stragrande” menzionata fra gli oggetti di vendita nel negozio di Livorno dopo la morte del Senatore (cat. n. 168). Che il Romei sia stato il principale pittore adibito alla pittura di tabacchiere e di oggetti a bassorilievo, viene ulteriormente confermato da una notizia che ci consente di attribuire alla sua mano la tabacchiera conservata oggi al Museo Duca di Martina di Napoli, il cui coperchio, decorato all’interno con una scena di battaglia e all’esterno con cammei, venne da lui dipinto, come certificato in una lettera al senatore Ginori17. Oltre alla serie di tabacchiere, la manifattura di Doccia utilizzò la decorazione a cammei in una serie di interessanti placchette sempre eseguite con la tecnica del bassorilievo istoriato, la cui forma è nuovamente ascrivibile al Weber, come testimoniano i documenti. Tali placche rientrano ancora pienamente nella tipologia dell’ornamento barocco, come si rileva anche dal grottesco e caricaturale pipistrello dipinto in nero al fondo dei bassorilievi, possibilmente derivato da una serie di stampe di grottesche la cui acquisizione è documentata proprio nello stesso anno 174918. Questa fusione di riferimenti antichi uniti a una forma e decorazione barocche, è ancor maggiormente visibile nella produzione delle cosiddette porcellane a doppia parete, che, oltre a un richiamo con l’antica diatreta, presentano una realizzazione tecnica particolarmente elaborata che unisce ben due superfici di porcellana, una a decorazione scultorea all’esterno e un’altra dipinta a stampino all’interno. Tale “doppia parete” serviva a evitare che le mani si bruciassero, in quanto solamente la parte interna si scaldava rimanendo separata da quella esterna, traforata e collocata ad una certa distanza dalla prima.
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ANDREINA D’AGLIANO
Fra le tre tipologie decorative utilizzate per questa lavorazione, che non oltrepassò la fine del primo periodo, quella relativa all’uso dei cammei è soprattutto riscontrabile su serviti da caffé e cioccolata definiti negli inventari come “stampati in blu con reticella bianca sopra e in mezzo Cammei de Cesari”19 (cat. n. 164). La decorazione a cammei a bassorilievo si esaurì a Doccia praticamente con la scomparsa del senatore Ginori (1757): oggetti decorati alla suddetta maniera sopravvissero nei magazzini di vendita ma non furono più reperiti negli inventari successivi. Nel secondo periodo della manifattura, sotto la direzione di Lorenzo Ginori (1757-1792), vennero ripetuti alcuni decori a cammei che non possono tuttavia esser considerati parte della produzione corrente della manifattura, benché nelle manifatture italiane e straniere tale decorazione risultasse ormai tipologia in voga: basti pensare alle realizzazioni di Josiah Wedgwood derivate dalle riduzioni di Flaxman, allo splendido servito a cammei commissionato da Caterina di Russia nel 1776 alla manifattura di Sèvres e infine, per restar nella nostra penisola, al noto servito “Farnesiano” eseguito alla Real Fabbrica di Napoli durante la direzione Venuti e dipinto sulla falda con cammei della collezione Farnese20. A Doccia, l’uso dei cammei come fonte iconografica riprese piede durante il regno di Elisa Baciocchi, quando tutte le arti decorative e in particolare la manifattura Ginori vennero a subire un importante influsso francese, sia per le forme utilizzate che per le decorazioni21. Tale influsso continuò nella manifattura Ginori anche negli anni successivi, sotto la direzione di Carlo Leopoldo Ginori Lisci (1792-1837), soprattutto nelle forme e decorazioni dei vasi d’arredo prodotti sia per le residenze granducali che per il Ducato di Lucca, i cui arredi confluirono nelle raccolte della corte italiana in epoca postunitaria. A questo ordine di gusto risalgono i due vasi oggi conservati alla Villa della Petraia, il cui modello è identificabile come quello citato nelle sfornaciate del 1812, riportate dagli archivi della manifattura come “due vasi etruschi per fiori grandi con Sfingi Alate per manico sul Gusto di Francia con suoi piedi in base quadra per dorarsi a fasce d’oro22. Questa impostazione di vaso è quella usata dalla manifattura di Sèvres in epoca napoleonica, riprodotta successivamente in diverse manifatture europee. La decorazione in “grisaille” è desunta da cammei differenti: l’uso del monocromo seppia è indicativo di come la fonte siano state delle incisioni, anche se derivate da pubblicazioni diverse (figg. 4-5). In particolare, è possibile che si tratti, in questo caso specifico, di ben due se non addirittura tre fonti iconografiche differenti, fra cui abbiamo identificato l’opera di Philipp von Stosch (16911757) noto collezionista di gemme antiche, i calchi della cui collezione erano conservati nella Galleria dei Modelli: infatti nella prima stanza si trovavano, come riporta anche il testo di Lankheit, “n 4 Cassette, entrovi la serie dell’impronte degli intagli della famosa Collezione Stoschiana, corrispondente con i numeri al catalogo stampato dalla detta collezione”23. Il catalogo citato sarebbe, secondo Lankheit, l’opera del Winkelmann “Déscription des pierres gravées du feu Baron de Stosch dediée à son Eminence le Cardinal Albani Firenze 1760, la cui pubblicazione risulta in questo caso successiva all’esecuzione delle impronte, come viene effettivamente riportato nella lettera autografa de Cavalier de Baillou, datata 23 marzo 1749 (vedi nota 3). Si potrebbe quindi supporre che l’opera menzionata sia la pubblicazione dello Stosch medesimo, “Gemmae Antiquae Celatae”, pubblicata ad Amsterdam nel 1724. In particolare, la raccolta dello Stosch fu di vitale importanza per le arti decorative europee: non solo in Inghilterra venne utilizzata come fonte di riferimento per numerose decorazioni in stile palladiano, ma lo stesso Wedgwood non poté prescinder dal riportare in “jasperware” diversi soggetti desunti dalla pubblicazione della stessa. La raccolta stoschiana, che conteneva circa diecimila fra cammei, intagli e paste di vetro, venne infatti in gran parte acquisita da Federico il Grande di Prussia nel 1765 e la sua pubblicazione, attraverso l’opera del Winkelmann, si avviò a divenire uno dei più importanti repertori delle arti decorative neoclassiche, dai mobili alle porcellane. Non può quindi sorprendere di ritrovare l’intaglio di Bacco e Arianna, noto diaspro della raccolta granducale fiorentina, campeggiare sia su uno dei due vasi Ginori oggi conservati alla Petraia eseguiti intorno al 1820 per la Villa Reale di Marlia e al contempo rinvenirlo su uno splendido piatto della manifattura imperiale di Berlino, appartenente al servito eseguito nel 1817 per il Landgravio di Hessen-Kassel24. Ne deduciamo che il cammeo, come la statua antica, era ormai entrato a far parte di quella koinè artistica che da Napoli a San Pietroburgo privilegiava, in virtù dei canoni neoclassici, la conoscenza erudita dei capolavori delle maggiori collezioni europee di antichità, resa accessibile, se non col diretto possesso dell’opera, almeno con la sua più estetica ed elegante citazione.
Fig. 2 - Arte imperiale romana, Busti jugati di Tiberio e di Livia. Firenze, Museo Archeologico Nazionale (cat. n. 116) Fig. 3 - Manifattura Ginori, Tabacchiera (part.), metà del XVIII secolo. Collezione privata (cat. n. 167)
Gemme in porcellana: riproduzione dei cammei presso la manifattura Ginori a Doccia
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Fig. 4 - Dioniso e Arianna sulla Pantera, incisione da Philipp von Stosch, Pierres antiques gravées, 1724 (cat. n. 147) Fig. 5 Manifattura Ginori, Coppia di vasi, 1820 ca. Firenze, Villa della Petraia (cat. n. 171)
Vedi a tal proposito D’AGLIANO 2008, pp. 85-95 e BIANCA2009, pp. 63-87. 2 Vedi Archivio Ginori Lisci (d’ora in avanti AGL), Lettere, XII, 4, filza n. 15. 3 Vedi LANKHEIT 1982, pp. 147-148 e AGL, Corrispondenza, 1746-1749, p. 200. 4 Vedi AGL, filza XXXVII, p. 2. 5 Vedi GINORI LISCI 1963, p. 51. 6 Vedi GINORI LISCI 1963 p. 308 e AGL, filza XXXVII, n. 7. 7 Per la pubblicazione dei documenti dell’Archivio Ginori Lisci vedi, oltre a GINORI LISCI 1963, BENINI 1989, BIANCALANA 2009 e VIENNA 2005. 8 Vedi AGL, filza 138, folio 512. 9 AGL, filza 138, folio 512-514. 10 HASKELL-PENNY 1984, pp. 62-63. 11 Vedi D. Zikos, in VIENNA 2005, p. 401, n. 256. 1
LANA
AGL, Libro Contabile 213, 1748-49, ricevute 8-25: Doccia 16 novembre 1749 Giuseppe Romei quattro tabacchiere di bassorilievo. 13 Vedi BEAUCAMP-MARKOWKY 1985, n. 465. 14 Vedi BEAUCAMP-MARKOWKY 1988, p. 170. 15 Vedi BEAUCAMP-MARKOWKY 1985, n. 467. 16 AGL, Libri di Amministrazione, 1746-1749, 213H c. 207v. 17 AGL, filza n 14, XII, 4, c. 507, citato anche in BIANCALANA 2009, p. 135, n. 609. 18 AGL, Libri di Amministrazione, 1746-1749, p. 200 “Pagati a Pietro Tomaselle n. 65 stampe mezzo foglio di grottesche e 31 di paesi diversi”. In quegli anni vengono documentati diversi acquisti di incisioni e una vasta raccolta era comunque già documentata in manifattura vedi VIENNA 2005, pp. 77-94. 19 Vedi A. d’Agliano, in ROMA 1996, pp. 70-72, nn. 49-50 e 12
GINORI LISCI 1963, p. 41. 20 Vedi A. d’Agliano, in ROMA 2008b, p. 220, n. 91. 21 Vedi d’Agliano, Fonti di alcune decorazioni pittoriche della porcellana di Doccia dagli inizi alla fine del terzo periodo (1737-1837), in LUCCA 2001, pp. 45-51. 22 Vedi BIANCALANA 2009, p. 145. 23 LANKHEIT 1982, p. 99. Le impronte fanno ancora oggi parte della collezione Museo Richard Ginori delle Porcellane di Doccia (LIVERANI 1967, tav. CLX). 24 Per il servito di Berlino, vedi BAER 1979, pp. 251-252, p. 265, n. 511; inoltre WITTWER 2007, pp. 55-95, fig. 97.
CATALOGO
La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico Nascita e fortuna di un tesoro
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1 - Agnolo di Cosimo, detto Agnolo Bronzino e bottega (Firenze, 1503-1572) Cosimo il Vecchio
1553-1568 olio su stagno, cm 19,8 × 16,5 con cornice iscrizioni: “COSMVS MEDICES P P P” Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890, n. 870
Cosimo de’ Medici (1389-1464), figlio primogenito di Giovanni di Bicci e Piccarda Bueri, affiancò a lungo il padre nell’attività commerciale e bancaria: quando, nel 1429, prese il suo posto al governo della città, aveva ormai acquisito importanti esperienze negli affari, nella vita pubblica e in quella privata, creando intorno a sé forti amicizie, ma anche pericolose rivalità. Vespasiano da Bisticci descrive Cosimo come un uomo colto, amante delle lettere latine e moderne, nonché delle Sacre Scritture, sempre attento a promuovere le arti per attribuire prestigio a se stesso e alla propria stirpe, ma anche per rispondere a inclinazioni personali e ad un profondo senso religioso (VESPASIANO DA BISTICCI, ed. Greco 1970-1976, II, pp. 167-211). Il ritratto esposto in mostra appartiene alla serie dei ventiquattro ritrattini ricordati da Vasari – nel capitolo delle Vite dedicato agli Accademici del Disegno – quando descrive la vita e le opere di Agnolo Bronzino: “ha dipinto il medesimo tutti gl’uomini grandi di casa Medici, cominciando da Giovanni di Bicci e Cosimo Vecchio insino alla Reina di Francia, per quella linea, e nell’altra da Lorenzo fratello di Cosimo Vecchio insino al duca Cosimo e suoi figliuoli” (VASARI [1568], ed. Milanesi 1906, VII, p. 603). Ritenuti oggi in gran parte opere non completamente autografe, i ritrattini, eseguiti ad olio su stagno tra 1553 e 1568 (MELONI TRKULJA 2002, p. 255), erano originariamente collocati “dietro la porta d’uno studiolo che il Vasari ha fatto fare nell’appartamento delle stanze nuove del palazzo ducale” (VASARI [1568], ed. Milanesi 1906, VII, p. 603). Nel corso degli anni, però, sono stati oggetto di importanti spostamenti: da Palazzo Vecchio passarono, prima del 1637, alla Guardaroba di Palazzo Pitti; nel 1666 il cardinale Leopoldo li prelevò da tale collocazione per arricchire la collezione che aveva iniziato, due anni prima, su impulso di Paolo Del Sera; rimasero a Palazzo Pitti fino al 1770, quando vennero destinati agli Uffizi, attuale sede, da cui si allontanarono dal 1929 al 1973 per essere temporaneamente depositati nel Museo Mediceo di Palazzo Medici Riccardi (MELONI TRKULJA 2002, p. 255). Molti dei ritrattini – che Vasari definisce “naturali, vivaci e somigliantissimi al vero” – furono desunti da modelli precedenti: i personaggi più antichi da pitture e sculture quattrocentesche, i contemporanei da originali di maggior formato dello stesso Bronzino, ma anche di Raffaello o Sebastiano del Piombo. In particolare, il ritratto di Cosimo il Vecchio, esposto nel 1939 alla “Mostra Medicea” tenuta a Palazzo Medici Riccardi, deriva, secondo l’anonimo autore della scheda di catalogo di quella mostra, da un bassorilievo di terracotta custodito nella Basilica di San Lorenzo e attribuito a scuola fiorentina del XV secolo: tale bassorilievo costituirebbe la matrice di buona parte dei ritratti postumi poiché sarebbe stato realizzato quando Cosimo era ancora in vita (FIRENZE 1939, pp. 48, 88; BACCHESCHI 1973, pp. 106-107; L. Bertani, in FIRENZE 1993b, pp. 129-130). Nel piccolo ritratto, Cosimo è raffigurato di profilo, rivolto verso sinistra, con lo sguardo fermo e impenetrabile, quasi privo di espressività, il volto solcato da rughe, il naso pronunciato, le labbra sottili e serrate. Il colore rosso della veste, con pieghe sul davanti e collo bordato di pelliccia, emerge sul fondo scuro insieme al copricapo, a guisa di tozzo cilindro leggermente allargato nella parte superiore, che lascia vedere i capelli brizzolati dell’effigiato. Sul bordo inferiore del dipinto campeggia l’iscrizione “COSMVS MEDICES P P P”: le tre lettere finali sono state interpretate sia come Pater Patriae
Parens (COX-REARICK 1984, pp. 57-59) sia come Primus Pater Patriae (KLIEMANN 1985, pp. 197-223). L’appellativo onorifico di padre della patria fu attribuito post mortem, a Cosimo, per pubblico decreto: sulla lastra tombale, situata davanti alla tribuna dell’altar maggiore nella Basilica di San Lorenzo, venne collocata l’iscrizione “COSMUS MEDICES / HIC SITUS EST / DECRETO PUBLICO / PATER PATRIAE”. M.A.D.P. Bibliografia: VASARI (1568), ed. Milanesi 1906, VII, p. 603; MCCOMB 1928; FIRENZE 1939, pp. 48, 88; EMILIANI 1960; VESPASIANO DA BISTICCI, ed. Greco 1970-1976, II, pp. 167-211; BACCHESCHI 1973, pp. 106-107; MELONI TRKULJA 1980, p. 197; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, pp. 385-386, n. 6, tav. 26/6; COX-REARICK 1984, pp. 57-59; KLIEMANN 1985, pp. 197223; L. Bertani, in FIRENZE 1993b, pp. 129-130; MELONI TRKULJA 1994, pp. 626-627; M. Scudieri, in FIRENZE 2000, p. 154; MELONI TRKULJA 2002, p. 255; TAZARTES 2003; CAPRETTI 2004, pp. 10-26; BARONI 2007, pp. 169-192; L. Berretti, in BUDAPEST 2008, p. 80, n. 23
La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico
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2 - Artista fiorentino Busto di Cosimo de’ Medici, detto il Vecchio
1465-1475 conchiglia e argento dorato, mm 30,8 × 25,4 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 211
Il cammeo, eseguito su una lastrina di conchiglia, presenta il busto di Cosimo de’ Medici rivolto di profilo verso sinistra, con il volto segnato da profonde rughe. Egli indossa una semplice veste dal basso colletto e berretta sul capo. Il rilievo, dal fondo madreperlaceo, in parte danneggiato, è montato in una sobria cornice in argento con tracce di doratura foderata sul verso e dotata di una maglia circolare per la sospensione saldata all’estremità verticale superiore. Il ritratto è menzionato per la prima volta in un registro del 1659 riguardante i beni custoditi negli armadi della stanza dello Scrittoio della Galleria degli Uffizi (ASF, GM 509, c. 4, n. 52). Immesso in data imprecisata nella raccolta glittica medicea, esso è ricordato successivamente in tutti i principali cataloghi della collezione granducale (BdU, ms. 83, tav. XXVI, n. 22; BdU, ms. 115, vol. I part. II, c. 39, tav. XXVI, n. 1361; BSAT, ms. 194, n. 1083), compreso quello stilato nel 1799 da Tommaso Puccini (BdU, ms. 47, n. 221-1361), dedicato ai migliori esemplari del Gabinetto delle Gemme, dai quali l’incisore Bartolomeo Paoletti ricavò matrici in vetro per la realizzazione di una serie di impronte in gesso da scambiare con il Cabinet des Antiques della Bibliothèque Nationale di Parigi. L’opera è pervenuta all’attuale sede espositiva nel 1921, quando si verificò il trasferimento dalla Galleria degli Uffizi al Museo degli Argenti dei cammei e degli intagli giudicati moderni della raccolta medicea. Il piccolo rilievo, attribuito da Ernst KRIS (1929) ad artista fiorentino della seconda metà del XV secolo, risulta assai suggestivo per la restituzione attenta del volto del personaggio, reso con grande abilità dall’incisore, che, con naturalismo vibrante e minuzioso, ha tratteggiato i morbidi capelli sulla nuca, i vasi sanguigni sulla fronte corrugata e le rughe scavate intorno alla bocca e all’occhio, delineato dalle palpebre marcate e dalla pupilla forata. Il cammeo è stato giudicato da George Francis HILL (1930, I, pp. 237-238, n. 910bis) del tutto indipendente da una medaglia con lo stesso soggetto, ritenuta invece da Graham Pollard (HILL-POLLARD 1967, p. 48, n. 247) molto somigliante all’effigie riprodotta sul rilievo in conchiglia, che lo studioso considera posteriore al conferimento a Cosimo del titolo di Pater Patriae, avvenuto dopo la sua morte nel 1465. R.G.
Bibliografia: BENCIVENNI PELLI 1779, I, p. 9; ZOBI 18532, p. 60 nota a; KRIS 1929, I, pp. 35 e 156, n. 78, II, tav. 20 n. 78; HILL 1930, I, pp. 237-238, n. 910bis, II, tav. 147; RUSCONI 1935, pp. 9-10; FIRENZE 1939, p. 100, U; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 184, n. 1068; HILL-POLLARD 1967, p. 48, n. 247; scheda O.A. 09/00129692, 1978 (M. Casarosa); LAN-
GEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 401, n. 33, fig. 26.33; GIULIANO
1989, p. 115; CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 74; CASAZZA 2004a, p. 17, fig. 1; FILETI MAZZA 2004, p. 256; DIGIUGNO 2005, p. 28, fig. 21; GENNAIOLI 2007, pp. 252-253, n. 236, tav. V; D. Scarisbrick, in BRUXELLES 2008, p. 96
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3 - Icaro e Dedalo, Pasiphae e Artemide
prima metà del I secolo a.C. niccolo, mm 34,5 × 44,1 iscrizioni: sul piedistallo “·LAV·R·MED·” Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 25838/6
Al centro della scena, sopra un piedistallo quadrangolare modanato, si erge la figura nuda di Icaro con le ali spiegate. A sinistra Dedalo, con veste annodata intorno alla vita, stringe al polso del figlio uno dei bracciali utilizzati per legare i tiranti delle ali posticce. Alle spalle di Dedalo, una figura femminile, identificabile con Pasiphae, moglie del re di Creta Minosse, partecipa all’operazione sostenendo una delle ali. All’estrema destra, sopra una roccia, siede Artemide, che indossa alti calzari, lungo chitone stretto sotto il petto e berretto frigio; la dea con la mano destra impugna un’asta mentre alle sue spalle si intravede parte della faretra. È presente la linea di base. La pietra mostra sulla parte posteriore diversi segni di lima e una incisione in forma di “I”. Il raffinato lavoro di glittica è uno dei pochi esemplari riconducibili su base documentaria al nucleo più antico della raccolta di gemme appartenuta a Cosimo e Piero de’ Medici. Esso è infatti ricordato, con altri oggetti preziosi di loro proprietà, negli inventari del 1456 e del 1465. Successivamente lo ritroviamo nell’inventario redatto alla morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492: “Uno chammeo leghato in oro chon 4 figure e storia d’Icharo e Dedalo, punzecchiato da rovescio diamante e arme e lettere” (SPALLANZANI-GAETA BERTELÀ 1992, p. 36). I documenti tacciono sul destino della gemma duranti i burrascosi anni dell’esilio dei Medici da Firenze, ma è indubbio che essa fece parte dei preziosi ereditati da Margherita d’Austria, figlia naturale di Carlo V, dopo l’assassinio del duca Alessandro nel 1537. La giovane principessa, unendosi in seconde nozze con Ottavio Farnese, ne segnò l’ingresso nei tesori d’arte della potente famiglia, che custodì gelosamente le gioie medicee fino al 1731, quando furono trasmesse dall’ultimo duca di Parma, Antonio, al pronipote Carlo di Borbone, infante di Spagna. Questi, divenuto re di Napoli nel 1734, ordinò il trasferimento delle gemme nella città partenopea, dove giunsero via mare, da Genova, nel 1736. Secondo Antonio Giuliano (in FIRENZE 1973, p. 40, n. 2), l’opera sarebbe stata realizzata nella prima metà del I secolo a.C. da un maestro stilisticamente affine all’incisore di età ellenistica Protarchos. Simili composizioni, con Dedalo impegnato ad adattare le ali al figlio, si trovano frequentemente raffigurate su gemme antiche (PANNUTI 1983, p. 90), ma l’esemplare appartenuto ai Medici si differenzia dalla maggiore parte di esse per la concezione quasi statuaria di Icaro, posto sopra una vera e propria base, e per la equilibrata distribuzione dei personaggi sulla superficie della pietra. Il motivo iconografico fu ripreso in uno degli otto medaglioni marmorei del cortile di Palazzo Medici, poi Riccardi, nel quale sono presenti alcune significative varianti rispetto all’archetipo glittico. Per adattare la scena al nuovo formato circolare, l’anonimo scultore eliminò l’esergo e operò un ravvicinamento complessivo delle figure verso la parte centrale, dominata dall’immagine di Icaro, che con le sue ali sovrasta tutto l’insieme. Interessanti sono pure certi particolari assenti nel cammeo, come il curioso ciuffo di capelli, simile a una fiamma, sulla fronte di Icaro e la porta socchiusa sormontata da un timpano triangolare ai piedi del basamento. Un simbolo, quest’ultimo, ripreso sicuramente da urne o sarcofagi e allusivo, forse, alla tragica fine del giovane figlio di Dedalo. Dalla gemma deriva anche il piccolo dipinto su tavola con Icaro, Dedalo e Pasiphae del Museo di Palazzo Davanzati (cat. n. 5) giudicato dalla critica opera del Franciabigio o di Andrea del Sarto. R.G. Bibliografia: Dolce 1772, II, pp. 57-58, n. 33; MÜNTZ 1882, p. 191; FURTWÄNGLER 1900, II, p. 265, n. 9, tav. LVIII; Foratti 1917, pp. 24-25; LIPPOLD 1922, p. 176, tav. XLVIII, n. 1; KRIS 1929, I, p. 152, n. 25, II, tav. IX, n. 25; Pesce 1935, pp. 82-83, n. 30, tav. IV.30; WESTER-SIMON 1965, pp. 31-32, fig. 17; DACOS 1973, pp. 146, 157, scheda 1; A. Giuliano, in FIRENZE 1973, p. 40,
n. 2, tav. III; PANNUTI 1983, p. 90; NYENHUIS 1986, p. 317, n. 29; PANNUTI 1989, p. 222, n. 7; T. Giove, A. Villone, in GASPARRI 1994, p. 140, n. 26; PANNUTI 1994b, pp. 214-215, n. 182; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 2007, p. 239, n. 466
La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico
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4 - Antonio Federighi (Siena, 1411-1483) Disegno con miti antichi tratti dai medaglioni di Palazzo Medici Riccardi 1470-1480 penna e inchiostro bruno, carta fissata a cartone, mm 193 × 235 Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett, inv. n. kdz 17602
Le figure rappresentate in questo disegno come ha dimostrato KAUFFMANN (1935) sono tratte da due medaglioni presenti nel cortile di Palazzo Medici Riccardi a Firenze, i quali soggetti sono ricavati da alcuni esemplari di antichi cammei collezionati nel Quattrocento. I quattro personaggi raffigurati a destra si riferiscono al bassorilievo con le storie di Icaro e Dedalo in vista prospettica; questa caratteristica farebbe presupporre che l’esecutore di questo studio si trovasse ad osservare i rilievi da una delle finestre d’angolo del palazzo; le due figure sulla sinistra riflettono invece la medesima parte del medaglione con la storia di Bacco e Arianna. Entrambe le scene riproducono fedelmente i rilievi,
senza però alcun accenno alla forma rotonda dei medaglioni, un aspetto questo che farebbe pensare ad uno studio preparatorio per la realizzazione di un nuovo soggetto. Oppure, un’ulteriore ipotesi è che il foglio facesse parte di un taccuino di viaggio appartenuto ad un artista interessato allo studio dei modelli classici. Per questa seconda eventualità è interessante l’analisi dell’iscrizione presente sul margine destro “I RES maestro Donato sch Moderne” sciolta dal KAUFFMANN (1935) con “in FIRENZE maestro Donato schultore Moderne”. La calligrafia, coeva alla realizzazione del disegno, è databile agli anni tra il 1440 e il 1490, riferibile alla cosiddetta ‘minuscola umanistica corsiva’ che ha la speciale
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caratteristica nel tratteggiamento obliquo corsivo, per cui le aste tendono ad inclinarsi verso destra e le lettere della stessa parola sono unite tra loro (cfr. BATTELLI 1949 e Il cifrario per la corrispondenza segreta di San Bernardino, Siena, Archivio di Stato, entrambi cortesemente segnalatemi da Andrea Andanti). Quest’opera è stata assegnata allo scultore senese Antonio Federighi per le evidenti caratteristiche plastiche tangibili nelle opere dell’artista e principalmente per il forte interesse nei confronti dei modelli classici – in questo caso attraverso un’interpretazione rinascimentale – ordinariamente presenti nelle opere del Federighi e in generale nell’arte senese della seconda metà del Quattrocento. Il DEGENHART (1939), accettando questa paternità, pone l’accento sul profondo interesse dell’artista senese nei confronti della cultura umanistica e della sua viva ammirazione per il mondo antico, come testimoniano chiaramente due suoi disegni conservati allo Staatliche Graphische Sammlung di Monaco, dove l’iscrizione presente “IN ROMA Antiche” è utilizzata dal Federighi per specificare che i soggetti classici erano stati ricavati, a Roma, direttamente da opere antiche. Lo studioso suppone che il disegno possa essere stato il frammento di un taccuino, confrontabile con un simile esemplare che raccoglie studi sull’architettura, appartenuto a Francesco di Giorgio. Nonostante gli interessi plastici non fossero estranei anche a quest’ultimo, Degenhart assegna l’opera ad un artista senese del ‘primo ordine’, confermando la paternità al Federighi e suggerendo il riferimento stilistico ben convincente, a mio parere, con la formella con Dio che ammonisce Adamo ed Eva; questo rilievo fu realizzato dall’artista per decorare il pozzetto del Sabato Santo presso il Duomo di Siena. Se l’analisi di questo disegno è stata ben disaminata dalla critica, non è stata altrettanto chiarita la vicenda relativa all’esecuzione dei medaglioni, che meriterebbe uno studio più approfondito anche sulla base dell’iscrizione presente in questo foglio, che non può essere riferita successiva al XV secolo per le ragioni stilistiche già considerate. I dodici rilievi posti sotto le finestre del cortile di Palazzo Medici Riccardi, quattro con gli stemmi medicei e gli altri otto con figure classiche derivate da antichi cammei, furono realizzati nei primi anni del settimo decennio del Quattrocento da un artista che aveva una profonda conoscenza delle gemme antiche dalle quali sono stati tratti i soggetti raffigurati; infatti all’epoca della realizzazione dei medaglioni solo tre di questi cammei erano presenti nelle collezioni medicee (gentile comunicazione orale di Riccardo Gennaioli). Scrive il Vasari in entrambi le edizioni de Le Vite (1550 e 1568) che l’autore fu Donatello, attribuzione in passato portata avanti dal Cinelli che aggiunse i tondi nella sua guida su Le bellezze della città di Firenze (BOCCHI-CINELLI 1677). In seguito l’attribuzione vasariana è stata messa in dubbio e riconfermata solo da KRIS (1929) e dal KAUFFMANN (1935). CAGLIOTI (2000) in una puntuale disamina sulla paternità e la datazione dei tondi suggerisce di riprendere in considerazione lo scultore Bertoldo come possibile esecutore di queste opere, senza però prendere in considerazione questo disegno. A mio avviso, l’attribuzione vasariana dovette essere sostenuta da una tradizione orale fortemente consolidata, considerato che anche l’autore di questo studio, realizzato indubbiamente pochi anni dopo l’esecuzione dei medaglioni, attribuiva l’opera a Donatello. E da un’attenta osservazione del tondo raffigurante Icaro e Dedalo si desume una qualità plastica superiore rispetto agli altri rilievi che farebbe pensare alla mano del maestro: Donatello potrebbe infatti aver impostato e principiato il lavoro per questo ciclo, per affidare in seguito l’incarico – data anche la sua tarda età – ai suoi più stretti collaboratori. S.N. Bibliografia: KAUFFMANN 1935, p. 172 nota 566 (p. 249); DEGENHART 1939, pp. 135-141; WESTER-SIMON 1965, p. 39, fig. 36
5 - Andrea del Sarto (attr.) (Firenze, 1486-1530) Icaro 1506-1508 olio su tavola, cm 31 × 24,5 Firenze, Museo di Palazzo Davanzati, inv. 1890, n. 9282
Il piccolo dipinto, esposto a Palazzo Davanzati già dal 1956, anno della sua apertura come museo statale, e proveniente dalla Collezione Cinelli in Palazzo dell’Antella, pervenne alle Gallerie fiorentine come acquisto per diritto di prelazione all’Ufficio Esportazione. Al centro del dipinto è rappresentato Icaro, completamente nudo, con i piedi saldi su una piccola roccia, pronto a spiccare il volo. Ai lati del giovanetto vi sono due figure, a sinistra un vecchio barbuto che cerca di trattenerlo, afferrandogli il braccio, probabilmente il padre Dedalo che, secondo il mito, ammonì il figlio a non spingersi troppo in alto e a rispettare i limiti imposti dalla natura. La figura femminile a destra sembra invece intenta ad affibbiare l’ala sulla spalla sinistra del giovane: si tratta con ogni probabilità di Pasifae, moglie di Minosse e madre del Minotauro, che aiutò Dedalo e Icaro a fuggire da Creta. Sotto un cielo azzurro con striature rosacee, dal tono quasi crepuscolare, il paesaggio nel fondo varia da una parte all’altra del dipinto, trasformandosi da un folto bosco, a sinistra, in una plaga completamente piatta, a destra. Già nel 1963 il Freedberg aveva accostato l’iconografia del dipinto ad un cammeo di epoca augustea (cat. n. 3), documentato nel 1456 e nel 1465 nella collezione di Piero dei Medici, detto Piero il Gottoso, e quindi divenuto proprietà di Lorenzo il Magnifico, il cui nome è inciso sulla gemma nel piedistallo su cui si erge Icaro. Lo stesso cammeo era stato certamente la fonte iconografica alla quale si era ispirato l’artista donatelliano, Bertoldo, nell’eseguire uno dei bassorilievi tondi del cortile di Michelozzo in Palazzo Medici Riccardi. In epoca rinascimentale l’iconografia di Icaro, prevalente su quella di Dedalo, quasi assistente all’impresa del figlio, diventò il simbolo neo-platonico del volo dell’anima che si libera dalla schiavitù del corpo. In confronto al dipinto cinquecentesco i prototipi presentano alcune varianti. Infatti nel cammeo, ma anche nel bassorilievo quattrocentesco, le figure che partecipano attivamente alla scena, oltre a Icaro, sono tre, un uomo, Dedalo, e due donne: Pasifae che sorregge l’ala di Icaro e Artemide seduta a destra, delle quali una è seduta, a destra, identificata con l’Artemide cretese. L’artista, che all’inizio del XVI secolo secolo ha eseguito il dipinto per una committenza privata – come suggeriscono anche le dimensioni ridotte – doveva conoscere queste fonti, anche se già è stato sottolineato (A. Natali, in FIRENZE 1986, pp. 178-180) uno svolgimento della scena rispetto ai modelli, suggerendo una lettura di tipo morale, quasi un’allegoria dell’antinomia fra il vizio, che tende a trattenere l’uomo verso il basso, e la virtù che lo invita a elevarsi verso dimensioni superiori, con un intento moralizzatore ripreso anche nel paesaggio, dove al bosco ameno e ricco di piaceri si contrappone la plaga piatta, sede della virtù. Il dipinto, pubblicato nel 1951 sul “Bollettino d’Arte” con l’attribuzione a Francesco Granacci, confermata anche nei successivi cataloghi del Museo (BERTI 1958, 1971), fu assegnato dal Freedberg nel 1963 all’attività giovanile di Andrea del Sarto, per tangenze con lo stile di Piero di Cosimo e una grazia quasi “raffaellesca”. Quest’attribuzione ha trovato ottima accoglienza nella critica (Monti, Passavant, McKillop, von Holst, Angelini) coinvolgendo, più di recente, anche studiosi (Padovani, che confronta l’Icaro con le opere giovanili di Andrea del Sarto, il Battesimo di Cristo nel Chiostro dello Scalzo e la predella Borghese) che, per somiglianze con particolari di opere del Franciabigio, nella mostra sartesca del 1986 avevano già attribuito il piccolo dipinto allo stesso Franciabigio.
La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico
Nel primo decennio del XVI secolo, nel quale è datata concordemente l’opera, è sottilissima la distinzione tra i due artisti che dividevano la bottega in Piazza del Grano – come ricorda il Vasari, “condussero molte opere di compagnia” –, eseguendo talvolta opere in collaborazione. R.C.P.P.
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Bibliografia: BOLLETTINO D’ARTE 1951; BERTI 1958, pp. 11-12; FREEDBERG 1963, I, pp. 4-6, II, p. 4; MONTI 1965, pp. 17-18; BERTI 1971, p. 217, n. 257; S. Meloni Trkulja, in FIRENZE 1980b, p. 59, n. 26; A. Natali, in FIRENZE 1986, pp. 178-180, con bibl.; ANGELINI 1986, p. 86; PADOVANI 1988 p. 212; V. Baradel, in VENEZIA 1994, p. 103; NATALI 1998, pp. 22-24; R. Ferrazza, in TOKYO 2001, pp. 170-171; PADOVANI 2001, pp. 47, 53; S. Padovani, in ATENE 2003, I, pp. 332-333, n. VII.7
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6 - Bottega di Agnolo Bronzino (attr. a Luigi Fiammingo) Piero de’ Medici detto ‘il Gottoso’ 1550-1560 olio su tavola intelata, cm 73 × 59,5 Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, inv. 1890, n. 2122
Figlio primogenito di Cosimo il Vecchio e Contessina de’ Bardi, Piero de’ Medici – noto con l’appellativo ‘il Gottoso’ (1416-1469) per la malattia che lo costrinse a condurre una vita molto ritirata – fu un uomo colto e aristocratico, amante delle lettere, delle arti e raffinato collezionista. Assunse il potere nel 1464, alla morte del padre, e durante i soli cinque anni di governo fu impegnato a fronteggiare gravi problemi sia di politica interna, per il tentativo di congiura ordito dalla fazione antimedicea nel 1466, sia di politica estera, per la guerra contro Venezia nel 1467. Le preferenze artistiche ed intellettuali di Piero – che aveva assorbito la raffinata cultura della corte degli Este, presso la quale si era formato – emergono chiaramente dalle opere d’arte da lui collezionate: cammei, vasi in pietre dure, bronzetti, libri e codici manoscritti, oggetti sacri e strumenti scientifici. La predilezione per le opere di piccolo formato, minuziose e ricercate, caratterizza tutte le sue commissioni, anche quelle architettoniche: a Michelozzo, ad esempio, architetto favorito di Cosimo, non chiese l’edificazione di palazzi e ville, come suo padre, ma la realizzazione di piccole strutture concepite come veri e propri scrigni preziosi (il tempietto nella chiesa di San Miniato al Monte o quello nella basilica della Santissima Annunziata a Firenze). Il ritratto di Piero, collocato nella Sala di Prometeo della Galleria Palatina di Palazzo Pitti, venne esposto alla “Mostra Medicea” del 1939 (tenuta a Palazzo Medici Riccardi) come opera della ‘Scuola di Agnolo Bronzino’: il dipinto, secondo quanto riportato nel catalogo della mostra, deriva dal busto eseguito da Mino da Fiesole, conservato al Museo Nazionale del Bargello, ed è simile, almeno nell’abbigliamento, al ritratto realizzato da Bronzino, custodito alla National Gallery di Londra (FIRENZE 1939, p. 90). Karla Langedijk, in anni più recenti, ha proposto di identificare il dipinto con una delle copie da Bronzino eseguite da Luigi Fiammingo: l’artista, poco noto, viene menzionato negli Inventari della Guardaroba Medicea del 1555 e del 1560 come autore di cinque ritratti di membri della famiglia Medici, tra cui quello di “Piero di Cosimo Vechio” (LANGEDIJK 19811987, I, 1981, p. 108; II, 1983, pp. 1329-1330, n. 5, tav. 98/5; BECK 1974a, n. 3, p. 65; BECK 1974b, n. 5, p. 61). L’opera esposta in mostra, tuttavia, mostra una qualità artistica superiore rispetto alle altre riferite al Fiammingo (Giovanni di Bicci, Cosimo il Vecchio, Lorenzo il Magnifico, Cosimo I); per tale ragione, Serena Padovani sostiene che sia preferibile conservare il riferimento alla bottega del Bronzino “per questo ritratto molto consunto, ma di una certa qualità” (S. Padovani, in CHIARINI-PADOVANI 2003, p. 103, n. 143). Il dipinto ha assunto un ruolo particolare nella storia del restauro: rappresenta, infatti, uno dei primi esempi di trasporto da una tavola ad una tela eseguito con il metodo di Giovanni Secco Suardo che proponeva una tecnica ‘perfezionata’ rispetto ai sistemi di tradizione francese (GIANNINI 1982, p. 48). L’intervento venne eseguito, nel 1864, durante un ciclo di lezioni tenute a Firenze per dimostrare l’efficienza di tale metodo: la tavola presentava “piccole fessure, delle stuccature e dei ritocchi antichi” (Ibid., pp. 51-52) e, al termine del restauro, venne esposta al pubblico in una mostra tenuta dal 26 al 29 giugno dello stesso anno. Nel ritratto, la figura di Piero si impone, sul fondo scuro, con austerità e fermezza: il busto è raffigurato frontalmente, con il braccio sinistro in primo piano; la testa, invece, girata di tre quarti, rivolge lo sguardo, deciso e fiero, oltre lo spettatore. L’artista indaga con attenzione la fisionomia e l’espressione dell’effigiato, ma anche le sue preziose vesti,
utilizzando una gamma cromatica ridotta all’essenziale: toni scuri per lo sfondo, chiari per l’incarnato e la camicia, rosso intenso per l’abito che reca, lungo i bordi della giornea, l’impresa medicea dell’anello con la punta di diamante. L’introspezione psicologica è condotta con sorprendente sensibilità: l’acuto occhio dell’artista ha saputo cogliere ed evidenziare non solo l’austerità ed il rigore del sovrano, ma anche la malinconica sofferenza di una vita segnata dalla malattia. M.A.D.P. Bibliografia: FIRENZE 1939, p. 90; SALMI 1954, pp. 25-42; BECK 1974a, n. 3, p. 65; BECK 1974b, n. 5, p. 61; GOULD 1975, p. 44; Gli Uffizi 1979, II, p. 757; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 108, II, 1983, pp. 1329-1330, n. 5, tav. 98/5; GIANNINI 1982, pp. 48, 51-52; VANNUCCI 1987; GNOCCHI 1988, pp. 41-78; M. Scudieri, in FIRENZE 2000, p. 161; S. Padovani, in CHIARINI-PADOVANI 2003, p. 103, n. 143; CAPRETTI 2004, pp. 27-33
La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico
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7 - Arte romana (?) Athena e Poseidon in gara per il possesso dell’Attica metà del I secolo a.C. onice-sardonica, mm 52,1 × 43 iscrizioni: nell’esergo “·LAV·R·MED·” Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 25837/5
Sulla gemma sono incise in rilievo le figure di Poseidon e di Athena. Il dio, colto in una posa plastica con il piede sinistro sopra una roccia e la coscia parzialmente coperta da un morbido drappo, impugna con la mano destra l’asta di quello che in origine doveva essere un tridente. Alle sue spalle, lungo il margine della pietra, si intravede un piccolo delfino che sovrasta una sorgente d’acqua. Athena, vestita di lungo chitone e doppio himation percorso da larghe pieghe trasversali, porta sulla testa l’elmo e con la mano destra afferra il ramo di un albero, al cui fusto nodoso è appoggiata la sua lancia. Ai piedi della dea è adagiato lo scudo, sul quale si arrampica il serpente sacro Erichthonios. Sotto la linea di base sono incisi diversi fiori, conchiglie e le lettere greche “Π” e “Υ”. La scena riproduce il momento cruciale della gara tra Poseidon e Athena per il dominio sull’Attica. Secondo il mito (Ov. met. 6,70-82) il consiglio degli dèi decise che il controllo di questa regione sarebbe andato a chi tra le due divinità gli avesse fatto il dono più prezioso. Dopo che Poseidon ebbe colpito un macigno con il suo tridente facendo scaturire una fonte, Minerva trafisse il terreno con la punta della lancia generando la prima pianta di olivo. Di fronte a tale prodigio le divinità dell’Olimpo decisero di assegnare a lei la vittoria. La più antica menzione dell’opera nelle fonti documentarie è quella contenuta nell’inventario dei beni di Piero di Cosimo de’ Medici del gennaio 1465: “Uno cammeo legato in oro, con 2 figure et uno albero nel mezzo, di rilievo - f[iorini] 180” (SPALLANZANI 1996, p. 143). Dal documento si evince che la pietra era stata dotata dal suo proprietario di una preziosa montatura in oro che, in base a quanto riferito dal più tardo inventario stilato nel 1492 alla morte di Lorenzo il Magnifico, noto da una copia risalente al 1512, recava sul rovescio “punzonato” un falcone con diamante, divisa di Piero (SPALLANZANI-GAETA BERTELÀ 1992, p. 37). In seguito alla cacciata dei Medici da Firenze, il pezzo fu confiscato dalle autorità cittadine e ceduto nel 1495, insieme alla Tazza Farnese e al Sigillo di Nerone, ai Tornabuoni come parziale risarcimento della somma da loro investita nel riscatto della filiale romana del Banco Mediceo. Successivamente il cammeo, con altre gioie e vasi in pietre dure appartenuti a Lorenzo, fu riportato a Firenze, dove è ricordato tra i beni ricevuti in eredità da Margherita d’Austria alla morte del duca Alessandro nel 1537. Le seconde nozze della giovane principessa con Ottavio Farnese ne determinarono il trasferimento prima a Roma e poi nel tardo Cinquecento a Parma. Nella città emiliana rimase fino a quando la scomparsa dell’ultimo esponente dei Farnese, il duca Antonio, ne segnò il passaggio a Carlo di Borbone, che nel 1736 lo fece trasportare con il resto della collezione glittica laurenziana a Napoli. La presenza nell’esergo della sigla formata dalle lettere pi e ypsilon ha portato una parte della critica a riconoscervi le iniziali di Pirgotele, incisore prediletto da Alessandro Magno e l’unico fra i maestri di quest’arte ad ottenere, secondo quanto riferito da Plinio (nat. 37,8), il permesso di ritrarre il celebre condottiero su smeraldi. Come evidenziato da Antonio Giuliano (in FIRENZE 1973, pp. 42-44, n. 6), i caratteri stilistici della gemma escludono però tale attribuzione, facendo pensare piuttosto a un artista della cerchia di Aulos o di Aspasios, ritenuto l’artefice di un gruppo con Athena e Poseidon sull’acropoli di Atene dal quale sarebbe derivata la scena riprodotta sul cammeo. Tuttavia, lo stesso Giuliano ha sottolineato che anche questa ipotesi non spiega certe anomalie riscontrabili nel piccolo rilievo. La cresta dell’elmo di Athena, ad esempio, non cor-
risponde per tipologia a quelle raffigurate su coeve testimonianze artistiche e la testa di Poseidon appare sproporzionata rispetto al corpo. Simili incongruenze, sostiene ancora Giuliano, potrebbero essere il risultato di un intervento di ritocco eseguito nel Medioevo, epoca in cui la gemma fu largamente imitata. Di essa si conoscono, infatti, due repliche di età federiciana conservate presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna (EICHLER-KRIS 1927, p. 151, n. 326, tav. 48, n. 326) e il Cabinet des Médailles di Parigi (BABELON 1897, I, pp. 18-21, n. 27, II, tav. V, n. 27). Durante il Rinascimento il motivo iconografico fu ripreso in uno dei medaglioni del cortile di Palazzo Medici. Qui l’ignoto scultore non si limitò a operare una semplificazione di molti dei raffinati dettagli decorativi dell’onicesardonica, ma mutò il soggetto stesso della scena, trasformando la figura di Poseidon in una sorta di guerriero dal capo coperto da una calotta, identificato da Erika Simon con Argo (WESTER-SIMON 1965, pp. 78-83). R.G. Bibliografia: DOLCE 1772, p. 29, n. 37; MÜNTZ 1882, p. 191; BABELON 1897, I, pp. 18-21, n. 27; KRIS 1929, I, p. 152, n. 22, II, tav. 6, n. 22; PESCE 1935, pp. 56-57, n. 1, tav. I.1; WESTERSIMON 1965, pp. 32-33, fig. 15; DACOS 1973, p. 157, scheda 2; A. Giuliano, in FIRENZE 1973, pp. 42-44, n. 6, tav. IX; GIULIANO 1975, pp. 39-40, fig. 2; BOBER-RUBINSTEIN 1986, p. 81, n. 41; GIULIANO 1988-1989, pp. 80-82, fig. 1; GIULIANO 1989, pp. 19, 26-27; PANNUTI 1989, p. 222, n. 6; MASSINELLI-TUENA 1992, p. 22, 26; GASPARRI 1994, p. 16; PANNUTI 1994a, pp. 68-69, fig. 81; PANNUTI 1994b, pp. 112-113, n. 82; GASPARRI 1995, p. 135; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 19, appendice I, n. [45]; CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 74, R. Distelberger, in VIENNA 2002, pp. 61-62, sub n. 17, fig. 1; GIULIANO 2003, pp. 109-116, fig. 5; M. Scalini, in PECHINO 2006, p. 224, n. 77; FUSCO-CORTI 2006, pp. 124, 129, 173-174, 244 nota 40, tav. IX; GENNAIOLI 2007, pp. 41, 44; A. Giuliano, in RIMINI 2008, p. 44, n. 7
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8 - Italia meridionale Ingresso nell’Arca
1240-1250 ca (il cammeo) onice e oro, mm 64 × 73 iscrizioni: sulle porte dell’arca “·LAV· / ·R· / MED·” Londra, The British Museum, Department Prehistory and Europe, inv. n. 1890, 0901.15
Sulla sinistra della scena è raffigurato Noè, vestito di tunica e manto riccamente drappeggiato, colto nell’atto di tendere la mano destra verso un angelo discendente dal cielo. Davanti a lui cinque coppie di quadrupedi (cavalli, leoni, capre, pecore e cani) e diverse coppie di uccelli si preparono ad entrare nell’arca, dal cui ingresso sporge la testa di un bovino. Seguono, a destra, le figure barbate e panneggiate all’antica dei figli di Noè, Sem, Cam e Iafet, accompagnati dalla loro madre e dalle rispettive mogli. La pietra è montata in una cornice in oro modanata, chiusa sul retro da una lastrina, sempre in oro, finemente decorata da sottili tralci vegetali fioriti in opus punctile. L’opera, straordinaria per la complessità della scena, l’uso dei colori e lo stile dell’incisione, risulta attestata per la prima volta nell’inventario di Piero de’ Medici del 1465: “Uno cammeo legato in oro con l’arca di Noe et più figure et animali di rilievo, fior[ini] 300” (U. Pannuti, in FIRENZE 1973, p. 119, doc. VII). La stima elevata del pezzo, la più alta tra tutti i materiali glittici allora posseduti dai Medici, ben testimonia la particolare considerazione di cui godette al tempo di Piero. Confluito nella collezione del figlio Lorenzo il Magnifico, l’esemplare è nuovamente ricordato nell’inventario redatto alla morte di questi nel 1492 con una esorbitante valutazione di 2000 fiorini: “Uno chammeo grande leghato in oro, chiamato l’archa, entrovi 8 figure, 4 maschi e 4 femine, uno agnolo in aria, una chippia di chavagli, 2 lioni et più altri animali, punzonato da rovescio cho fogliami” (Spallanzani-Gaeta Bertelà 1992, p. 38). Con l’assassinio di Alessandro de’ Medici, nel 1537, “l’archa” fu ereditata da Margherita d’Austria, moglie dello sfortunato duca. Come per altri cammei della raccolta di Lorenzo (cat. nn. 3, 7, 35), la celebrazione del secondo matrimonio della giovane principessa con Ottavio Farnese sancì di fatto il passaggio dell’onice nel tesoro della nobile famiglia, dal quale uscì in data imprecisata. Importanti informazioni sulle vicende del pezzo nel XVIII secolo si ricavano da una nota manoscritta contenuta in uno dei registri relativi alle adunanze dei membri dell’Accademia Colombaria, dove si legge che la pietra, dopo essere stata offerta al granduca Gian Gastone, venne acquistata da Louis Siries, incisore della Galleria dei Lavori, per 100 zecchini e da lui rivenduta a Henry Howard, quarto conte di Carlisle (Archivio della Società Colombaria, Spogli Tarpato, ms. 15 [ex I.I.VII.38], 1736, cc. 14-15; BENCIVENNI PELLI 1779, I, p. 35, II, p. 15, nota XIII). La presenza a Firenze del prezioso oggetto consentì ad Anton Francesco Gori di trarne almeno un’impronta in gesso, mostrata nel 1736 ai componenti della Colombaria, e soprattutto di farne eseguire una fedele incisione, pubblicata poi dall’erudito nella sua edizione della Vita di Michelangelo del CONDIVI (ed. Gori 1746; cat. n. 161) e nei tre volumi del Thesaurus veterum diptychorum (1759). Nel 1890 l’onice fu ceduto al British Museum da George James Howard, nono conte di Carlisle. Giudicato dal MARIETTE (1750) e dal KRIS (1929) lavoro della prima metà del Quattrocento vicino ai rilievi di Lorenzo Ghiberti per le porte bronzee del Battistero fiorentino, il pezzo fu invece ritenuto dal DALTON (1913, 1915) una creazione della seconda metà del secolo. L’attribuzione a officina dell’Italia meridionale di epoca federiciana, generalmente accettata dalla critica, si deve al WENTZEL (1954, 1956, 1962) e si basa su una serie di raffronti con altri esemplari connotati da una eccezionale perizia tecnica e da forme prossime a quelle dell’antichità, tipiche della ripresa classicheggiante promossa da Federico II in diversi ambiti artistici. In particolare, la gemma del British Museum, con le sue statuarie figure disposte secondo uno schema compositivo di matrice ancora bizantina, definito
dal WENTZEL (1962) un “Montagen” da modelli antichi, ricorda molto da vicino il cammeo raffigurante Poseidon e Anfitrite del Museo Archeologico Nazionale di Napoli (A. Giuliano, in FIRENZE 1973, pp. 64-65, n. 38), appartenuto sempre a Lorenzo de’ Medici: simile appare, infatti, il trattamento delle vesti, la struttura dei corpi, dalle sottili caviglie piegate in modo innaturale, i lineamenti dei volti e la resa delle capigliature e delle barbe, che tradiscono l’origine medievale di queste gemme, così come il rapporto gerarchico esistente tra i diversi elementi della scena. Di grande interesse risulta anche la lastrina decorata con la tecnica dell’opus punctile (o travail pointillé), sviluppatasi in Francia nella seconda metà del Trecento e poi diffusasi nella prima metà del Quattrocento pure nella produzione orafa renana, boema, franco-fiamminga e italiana. In essa va forse riconosciuta parte dell’originaria montatura in oro “punzonato da rovescio cho fogliami” menzionata nell’inventario di Lorenzo, ma molto probabilmente già presente al tempo di Piero. Ad epoca sicuramente posteriore (XVIII secolo) è invece riconducibile la cornice a modanature concentriche, che con la sua sobria eleganza esalta il piccolo rilievo. R.G. Bibliografia: CONDIVI, ed. Gori 1746, pp. 80, 102; MARIETTE 1750, I, p. 417; BENCIVENNI PELLI 1779, I, p. 35, II, p. 15, nota XIII; MOLINIER 1886, i, pp. 1-2, n. 1; DALTON 1913, pp. 131-132, tav. M; DALTON 1915, pp. 4-5, n. 18, tav. I, n. 18; KRIS 1929, I, pp. 25, 153, n. 34, II, tav. 12, n. 34; WENTZEL 1954, pp. 67-71; WENTZEL 1956, p. 247, fig. 16; WENTZEL 1962, pp. 67-69, figg. 21-23; NAU 1966b, p. 154, fig. 22; A. Giuliano, in FIRENZE 1973, p. 64, n. 37, figg. 33-34; TAIT 1976, pp. 232-233, n. 386, tavv. 18-19; R. Kahsnitz, in STOCCARDA 1977, I, pp. 692-693, n. 885, II, tav. 657; GIULIANO 1989, pp. 47, 60; I. Jenkins, in LONDRA 1996, p. 197, sub n. 74; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 37 note 182 e 183; FUSCO-CORTI 2006, pp. 97-100, 117, 118, 127, 129, 173-174, 200, 203, 248 nota 48, docc. 297, 313, tav. 5, fig. 103 (montatura); E. Miller, in LONDRA 2006, p. 367, n. 230, fig. 19.27; J. Kagan, in MANTOVA 2008b, pp. 261-262, sub n. 4
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9 - Luigi Fiammingo (doc. a Firenze alla metà del XVI secolo) Lorenzo il Magnifico
1550 ca olio su tavola, cm 74 × 59 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Poggio a Caiano n. 106
Con Lorenzo (1449-1492), figlio di Piero, i Medici ottengono la definitiva consacrazione a prima famiglia della città. Nel corso degli anni in cui regge le sorti della famiglia la sua personalità complessa e poliedrica gli farà meritare l’appellativo di “Magnifico” e Firenze diverrà capitale universale dell’arte e della cultura. Questo ritratto si presenta, nella sterminata iconografia laurenziana, come una delle più pungenti e fortunate effigi post mortem del Magnifico, accuratamente contraddistinto dai tratti più caratteristici della sua persona. Lorenzo, ripreso di tre quarti e ruotato verso sinistra, è vestito con un abito rosso. La mano sinistra tiene il bracciolo della poltrona, mentre la destra stringe un foglio piegato. Sullo sfondo vediamo raffigurata una pianta di alloro, emblema mediceo, e una veduta, ripresa da nord est, della città di Firenze, ancora raccolta nelle imponenti mura e dominata dalla cupola del Duomo. Il ritratto, pubblicato all’inizio del secolo come opera di anonimo (TRAPESNIKOFF 1909, pp. 5859, fig. 24), fu definito, in occasione della Mostra Medicea del 1939, come un “ritratto postumo ma forse il più genuino e interessante che possediamo”, opera di scuola fiorentina dell’inizio del XVI secolo (FIRENZE 1939, p. 92). Fu il POLÁK (1934, p. 80) a mettere per primo in relazione il dipinto, mantenendolo nell’orbita di un generico anonimato, con un busto in terracotta di Lorenzo de’ Medici (Narodní Galerie di Praga) attribuito a scultore fiorentino e databile tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, idea in anni recenti ripresa da LANGEDIJK (1981-1987, I, 1981, p. 108, II, 1983, p. 1140) e LUCHS (2000, pp. 8-9). Quest’ultima identifica tale busto con “una testa di terra cotta col busto, l’effigie di Lorenzo vecchio” menzionata tra le collezioni medicee di Palazzo Vecchio in un inventario del 1553 (CONTI 1893, pp. 103, 141) e che per la studiosa è stata usata come modello per il nostro dipinto. Medesime sono le acconciature, le espressioni, il taglio degli occhi e persino le rughe, compresa quella che parte dall’angolo esterno dell’occhio sinistro di Lorenzo. In seguito alla pubblicazione dell’inventario mediceo di Palazzo Vecchio del 1560, dove si trova menzionato “1° quadro entrovi el ritratto del Magnifico Lorenzo Vecchio, con man’ di Luigi Fiamingo” (BECK 1974a, p. 66; BECK 1974b, p. 61), la LANGEDIJK (1981-1987, II, 1983, pp. 1140-1141) ha riferito il nostro dipinto a Lui-
gi Fiammingo, artista di cui nulla si conosce se non le citazioni nel suddetto inventario che gli riferiscono anche altri lavori. Sulla base di queste menzioni gli sono stati attribuiti altri tre dipinti: il Ritratto di Piero de’ Medici detto il Gottoso della Galleria Palatina di Firenze (inv. 1890, n. 2122), derivato dal busto marmoreo di Mino da Fiesole del Bargello e per il quale alcuni studiosi preferiscono conservare l’attribuzione alla bottega del Bronzino (S. Padovani, in CHIARINI-PADOVANI 2003, p. 103), il Ritratto di Giovanni di Bicci sempre alla Galleria Palatina (depositi, inv. 1890, n. 5180) e il Ritratto di Cosimo il Vecchio del Museo di San Marco a Firenze (inv. 1890, n. 5535). Un quarto gli è avvicinato dalla sola LANGEDIJK (1981-1987, I, 1981, p. 428, n. 44); si tratta del Ritratto di Cosimo I in armatura degli Uffizi (inv. depositi n. 28). La studiosa evidenzia come questo gruppo di ritratti, accomunati dalle medesime dimensioni, non sia menzionato nell’inventario mediceo del 1553, ipotizzando una loro realizzazione tra
questa data e il 1560 (dove risultano invece citati). Per LANGEDIJK (1981-1987, I, 1981, p. 108), Luigi Fiammingo sarebbe un buon copista che Cosimo I avrebbe impiegato per ripetere lavori del Bronzino; essa nota però come i cinque ritratti differiscano nella qualità ed evidenzia l’assoluta superiorità di quello del Magnifico. L’inventario mediceo del 1560 riporta altri lavori di mano del Fiammingo che ancora non hanno trovato attribuzione. Si tratta di un “ritratto della regina d’Inghilterra”, un “ritratto della Signora Maria (…) da una di Rafaello da Urbino” e un “ritratto entrovi el figluol’ del Duca d’Alba” (BECK 1974a, pp. 65-66; BECK 1974b, p. 62). M.B. Bibliografia: TRAPESNIKOFF 1909, pp. 58-59, fig. 24; POLÁK 1934, pp. 77, 80; FIRENZE 1939, p. 92, fig. 23; BECK 1974a, p. 66; BECK 1974b, p. 61; S.M. Trkulja, in Gli Uffizi 1980, p. 757; SIMON 1982, pp. 123-124, fig. 27; LANGEDIJK 19811987, I, 1981, p. 108, II, 1983, pp. 1140-1141, n. 7; FIRENZE 1993a, fig. p. 12; LUCHS 2000, pp. 8-9, fig. 7; SFRAMELI 2003b, p. 62
La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico
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10 - Giovanni di Lorenzo di Pietro delle Opere, detto delle Corniole (Pisa, 1470 ca-Firenze, 1516) Busto di Lorenzo il Magnifico
post 1492 corniola e oro, mm 16 × 13,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 331
L’intaglio in corniola riporta la testa di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico. In profilo destro, con una capigliatura folta e ondulata, composta da lunghe ciocche morbidamente sparse sulla parte posteriore del capo, questi porta attorno al collo un indumento simile ad un mantello, semplicemente annodato su un lato. Il volto, di aspetto giovanile e ben caratterizzato, è contraddistinto da un evidente prognatismo della mandibola inferiore, naso lungo e leggermente schiacciato alla base, viso ossuto, labbra poco carnose e occhio felino, come appare nelle effigi coeve o nella maschera funeraria di questi. La semplice cornice a filetto aureo che circonda la pietra, ribattuta sul retro, lievemente bombata sulla parte anteriore e corredata da due grosse maglie rotonde alle estremità verticali, dovette essere aggiunta più tardi, per esigenze di tipo espositivo, in sostituzione della montatura ad anello che, per le ridotte dimensioni della pietra ed il tipo di scalfitture, doveva circondarne il perimetro. L’intaglio, sicuramente una creazione fiorentina di tardo Quattrocento, veniva chiaramente menzionato dagli inventari unicamente a partire dal primo trentennio del Settecento (BdU, ms. 83, tav. XXXIII, n. 58). Da un punto di vista critico, nonostante le straordinarie qualità stilistiche e tecniche, esso ha avuto scarsa fortuna; registrato dal catalogo del Museo degli Argenti (ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 188, n. 1188), esso venne schedato in seguito unicamente dalla Langedijk, come opera di anonimo (1981-1987, II, 1983, p. 1172, n. 43, fig. 74,43). Questa tuttavia, avvedutasi della straordinaria forza espressiva posseduta dal ritratto, lo definiva “a most interesting piece ... which depicts him [Lorenzo] as a young man with all the irregularity of feature characteristic of him, but with a heroic hairstyle à l’antique with waving “manes” in his neck” (LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, pp. 66-67). Sul versante dello stile e dell’iconografia, l’immagine del Medici, realizzata mediante l’impiego di una tecnica compendiaria con solchi rapidi, evidenti e ben distanziati l’uno dall’altro, pare ispirata alla figura della Menade in estasi presente su tante antiche gemme, alcune delle quali conservate proprio nel Tesoro di Lorenzo il Magnifico (Napoli, Museo Archeologico Nazionale di Napoli; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 30). Proprio queste avrebbero facilmente potuto costituire, per la resa fluente e scomposta della ca-
pigliatura, per la presenza della nebris sulle spalle (indumento indossato dai seguaci di Dioniso), prototipi diretti per il ritratto (DIGIUGNO 2005, pp. 28-29, fig. 22). Esso risulta di fatto contraddistinto dal naturalismo tipico dell’arte di fine Quattrocento che, identificato dal Warburg col nome di “stile concitato all’antica”, trovò, proprio nella figura della Menade, così intimamente legata a quella tendenza “dionisiaca” dell’arte fiorentina tardo-quattrocentesca, l’elemento dirompente, il fattore di rottura, in opere apparentemente pertinenti al più pacato stile “apollineo” (WARBURG [1898] 1966). L’esecuzione della gemma, magnifica, parrebbe riconducibile alla mano di Giovanni dalle Corniole (M. Casarosa, scheda OA 09/00189936, 1986; DIGIUGNO 2005, p. 28, fig. 22, note 129136; GENNAIOLI 2007, pp. 434-435, n. 689, fig. 689, tav. XXXVII), maestro coinvolto, a detta del Vasari (“Imparò da questi [diversi maestri], per mezzo del Magnifico Lorenzo, questa virtù dell’intaglio in cavo un giovane fiorentino chiamato Giovanni delle Corgniuole, il quale ebbe questo cognome perché le intagliò eccellentemente, come fa testimonio infinite che se ne veggono di suo, grandi e piccole…”), nell’entourage laurenziano. Databile, sulla base degli estremi biografici dell’artista, ai tardi anni ot-
tanta del Quattrocento (epoca in cui Giovanni era giovanissimo), essa potrebbe essere stata realizzata sulla base di un precedente ritratto, identificabile a detta della Langedijk in un disegno attribuito a Michelangelo caratterizzato da uno stile parimenti eroico. Esso tuttavia, datato al 1520 e solo in parte somigliante all’effige presente sulla gemma, non avrebbe potuto costituire un modello per Giovanni delle Corniole, morto già nel 1516. È di gran lunga più verosimile supporre che Giovanni abbia condotto ad effetto l’effige basandosi, non soltanto su immagini preesistenti, ma anche su una diretta conoscenza del soggetto ritratto. Ci pare infatti di notare in esso una “schiettezza” fisionomica, una freschezza esecutiva ed una “purezza” di stile che, non più presente nelle ammanierate effigi eseguite successivamente, appare simile in ritratti metallici del personaggio eseguiti da artisti coevi come Bertoldo di Giovanni, Niccolò Fiorentino (LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, pp. 1116-1172, passim), e soprattutto dal cosiddetto “Medaglista delle Pinze”, il quale firmava con tale simbolo una medaglia ritratto datata 1475, conservata in collezione Carrand presso il Museo Nazionale del Bargello (DIGIUGNO 2005-2006, II, fig. 107). Nella gemma tuttavia, l’aria lievemente scomposta, i lineamenti imperfetti e una certa franchezza caratteriale definiscono un’immagine perfettamente corrispondente, nelle caratteristiche formali ed espressive, alla sintassi più tipica della ritrattistica di età laurenziana, come certe miniature realizzate da Monte di Giovanni nella biografia del personaggio scritta da Niccolò Valori Magnanimi Laurenti Medices Viri Illustris Vita (Firenze, BL, Plut. 61.3). Per descriverla vorremmo pertanto far nostre le parole usate da Tommaso Puccini; “La natura qui è deforme ma felicissima l’imitazione” (BdU, m. 47, n. 383 1800). E.D. Bibliografia: ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 188, n. 1188; N. Dacos, in Firenze 1973, parte I, p. 141; LANGEDIJK 19811987, I, 1981, pp. 66-67, II, 1983, p. 1172, n. 43, fig. 74,43; DIGIUGNO 2005, pp. 28-29, fig. 22; DIGIUGNO 2005-2006, II, pp. 161-163, n. 37, figg. 106-109; GENNAIOLI 2007, pp. 434435, n. 689, fig. 689, tav. XXXVII; DIGIUGNO c.s.
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11 - Giovanni Antonio de’ Rossi (Milano, 1513-post 1575) Testa di Lorenzo il Magnifico
1556-1558 agata e oro, mm 44,2 × 32,5 iscrizione: sotto il busto, nello spessore del rilievo, contenuta entro due rosette a forma di croce: “LAURENTIO” Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 111
Il cammeo, in agata bicolore, riporta un elegante busto di Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico. In profilo sinistro, con indosso una semplice giornea a pieghe piatte, larghe e regolari, questi presenta una capigliatura di media lunghezza, compostamente pettinata sino alla nuca. Il lavoro di intaglio, caratterizzato da un deciso altorilievo e da un profondo sottosquadro, comprende anche un’iscrizione identificativa del personaggio, “LAURENTIO”, posta al troncamento del busto fra due piccole rosette a forma di croce. La gemma è inserita entro una sottile cornice a fascia aurea che, merlata e griffata sul verso e rialzata all’esterno, è corredata da due maglie rotonde fissate alle estremità verticali. Essa deve essere stata aggiunta, in un momento non precisabile, con lo scopo di fissare il pezzo ad un piano espositivo orizzontale. In una lista redatta per conto del Cardinal Leopoldo de’ Medici nel 1662, in cui figuravano cinquanta cammei e intagli disposti in cinque cassette (CASAROSA 1976, p. 56), si ricordava per la prima volta l’esistenza “... una testa del magnifico Lorenzo, ben fatta, legata in oro ...” (BdU, ms. 68L, fasc. dat. 21.XI.1662). Menzionata in seguito nel registro redatto nel 1676, come una “Testa creduta del Mag[nific].o Lorenzo de’ Medici. In calcedonio“ (BdU, ms. 78, n. 31), essa veniva citata da tutti gli inventari della Galleria redatti in seguito (BdU, ms. 83, tav. XXVI, n. 23; BdU, ms. 115, I, t. II, n. 1362; BdU, ms. 47, n. 222; BSAT, ms. 194, n. 489; inv. Gemme 1921, n. 111). Rifacendosi all’attribuzione del Migliarini (BSAT, ms. 194, n. 489) e del Milanesi (VASARI [1568], ed. Milanesi 1878-1885, V, 1880, p. 369, N.d.E. 3), il redattore dell’inventario del 1921 assegnava la fattura del rilievo a Domenico dei Cammei, rinvenendovi precise affinità con un cammeo, parimenti attribuito a tale artista (BdU, ms. 47, n. 220, 1372), ritraente il profilo di Ludovico Maria Sforza (Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 109). Seroux d’Agincourt, primo a pubblicare la gemma nel 1826, ribadiva il nome dell’incisore (SEROUX-D’AGINCOURT 1826, III, pp. 341, IV, tav. XLVIII, n. 53). Nel secolo successivo invece, sia il KRIS (1929, I, p. 38, 157, n. 88/21, II, fig. 88), sia l’AVERY (1979, pp. 20-21), rintracciandovi una certa somiglianza con l’intaglio con il busto di Girolamo Savonarola (cat. n. 76), ritenevano di poterne ricondurre l’esecuzione a Giovanni delle Corniole, artista attivo a Firenze in età Laurenziana. Il Kris tuttavia, operando un diretto confronto con altri ritratti coevi del Magnifico, coglieva qui la presenza di forti anacronismi stilistici, quali l’assenza di quel naturalismo vitale e quasi spietato tipico della ritrattistica quattrocentesca, e la presenza viceversa di una forte idealizzazione rilevabile nella nei tratti ingentiliti e nell’aspetto raffinato. Lo studioso supponeva pertanto che l’incisore potesse esser stato influenzato nella “compostezza” da alcune gemme antiche custodite nelle raccolte (KRIS 1929, I, p. 38, 157, n. 88/21, II, fig. 88). Non potendo tuttavia ignorare l’esistenza di aspetti insoliti per l’epoca, quali la forte monumentalità e la nobilitazione fisionomica, il Kris datava il lavoro ad un fase di passaggio fra Quattro e Cinquecento (KRIS 1929, I, p. 38, 157, n. 88/21, II, fig. 88). Su posizioni analoghe si portava la Dacos, per la quale l’esecutore del cammeo, pur dotato di “evidente maestria”, pareva nella resa dei “particolari ... ben lontano dal raggiungere la finezza degli esemplari ellenistici e romani” e nei suoi lavori caratterizzato da “una certa rigidità” e “una stilizzazione quasi neoclassica” (N. Dacos, in FIRENZE 1973, p. 141, nota 22). Più tardi la Langedijk, trovando il Medici “beautified beyond recognition”, non tenta-
La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico
va alcuna attribuzione (LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, p. 1172, n. 44, fig. 74,44). Altri invece (scheda O.A. 09/00129659, 1978, Mariarita Casarosa; M. Mosco, in TOKYO-ROMA 2001, p. 92, n. 129), considerando sia la singolarità dell’iscrizione identificativa, sia la comparsa inventariale relativamente tarda (BdU, ms. 68L, fasc. dat. 21.XI. 1662), preferivano una datazione più avanzata, compresa fra il XVI e il XVII secolo. L’iscrizione “LAVRENTIO”, infatti (nome del personaggio al dativo), ben diversa dalla sigla “LAV.R.MED”, incisa come ex gemmis su buona parte degli oggetti in pietra dura di proprietà del Magnifico (U. Pannuti, in FIRENZE 1973, p. 5 e nota 24), parrebbe un’espressione dedicatoria “a Lorenzo”, concepita in un contesto a questi prossimo. Nella forma “LAVRENTIVS” essa torna su una medaglia celebrativa, sul cui recto compare un ritratto molto simile a questo, coniata nel 1475 dal “Maestro delle Pinze” (Firenze, Museo Nazionale del Bargello, Collezione Carrand). In ogni caso, precise caratteristiche stilistiche, quali la straordinaria purezza formale o l’aspetto eccessivamente edulcorato della figura, e tecniche, come il deciso aggetto e il profondo sottosquadro del rilievo (pratica decisamente più tarda), parrebbero capaci di allontanarne la fattura dagli anni di vita del Magnifico. L’immagine non è soltanto priva dell’immediatezza e della fedeltà fisionomica (KRIS 1929, I, p. 38) tipica di molte effigi di epoca laurenziana (cat. n. 10), ma, per imponenza e idealizzazione, essa pare travalicare addirittura l’altro filone, più mondano e convenzionale, della ritrattistica quattrocentesca diffuso a Firenze da Benozzo Gozzoli e Domenico Ghirlandaio. Tutto ciò testimonia una forte volontà celebrativa, chiaramente coincidente con il proposito di creare un’immagine paradigmatica del personaggio. Difficilmente concepibile nei confusi decenni seguiti alla morte del Medici, o negli anni del ducato di Alessandro, essa potrebbe collocarsi nella prima fase del governo di Cosimo de’ Medici, quando il duca, intenzionato a legittimarne la propria figura politica, si dedicò a condurre, assieme al suo factotum artistico Giorgio Vasari, un’opera di promozione del mito del Magnifico (FIRENZE 1992d, passim) volta ad accrescere l’aurea leggendaria che già ne circondava il ricordo e a presentarne la nobile magnificenza come antesignana delle proprie qualità. Le caratteristiche tecniche, stilistiche e il contenuto ideale di tale rilievo, paiono infatti pienamente coincidenti con quelle presentate dal nascente genere dello State-portrait esemplificato nell’arte glittica dall’esecuzione del grande cammeo familiare da parte di Giovanni Antonio de’ Rossi, (cat. n. 72). Nella gemma infatti, oltre ad affinità di carattere stilistico e formale con l’opera di tale artista, sia il tipo di rosette delimitanti la scritta “LAURENTIO” (Cammeo con ritratto di papa Pio V, Paris, Musée de Louvre, cat. n. 805; ATTWOOD 2003, I, pp. 130-133), sia il profondo sottosquadro (topos tecnico del milanese), parrebbero spingere verso la medesima conclusione (cfr. DIGIUGNO 2005, p. 56, fig. 55). Il celebre artista milanese avrebbe potuto intagliarla nel periodo in cui soggiornava a Firenze e prestava la propria opera per il duca Cosimo (DIGIUGNO 2005, pp. 58-62). È facile ipotizzare che negli anni precedenti alla messa in opera del suo capolavoro, egli abbia intagliato altre gemme-ritratto per il Duca; le parole usate a riguardo da Giorgio Vasari parrebbero confermare l’ipotesi “Giovannantonio de’ Rossi milanese, bonissimo maestro, il quale, oltra alle belle opere che ha fatto di rilievo e di cavo in varii intagli, ha per lo illustrissimo duca Cosimo de’ Medici condotto un cammeo grandissimo [...] e perch’ella supera tutti i cam-
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mei et opere piccole che egli ha fatti, non ne farò altra menzione potendosi vedere l’opere” (VASARI [1568], ed. Milanesi 1878-1885, V, 1880, p. 387). E.D. Bibliografia: SEROUX-D’AGINCOURT 1823, III, pp. 341, tav. XLVIII, n. 53; BURCI-CAMPANI 1860, p. 80, VI/n. 222; VASARI (1568), ed. Milanesi 1878-1885, V, 1880 p. 369, N.d.E. 3; KRIS 1929, I, p. 38, 157, n. 88/21, II, fig. 88; FIRENZE 1939, p. 91, A; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 181, n. 968, fig. VII; CASAROSA 1976, p. 56; scheda O.A. 09/00129659, 1978 (M. Casarosa); AVERY 1979, pp. 20-21; LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, p. 1172, n. 44, fig. 74,44; TUENA 1987, p. 10; M. Mosco, in TOKYO-ROMA 2001, p. 92, n. 129; CASAZZA 2004a, p. 19, fig. 5; L. Sebregondi, in FIRENZE 2004, pp. 106-107, n. 2; DIGIUGNO 2005, p. 56, fig. 55; DIGIUGNO 2005-2006, II, pp. 37-41, n. 4, figg. 13-15; GENNAIOLI 2007, pp. 265-266, n. 255, fig. 255; DIGIUGNO c.s.
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12 - Sostratos (attr.) Dioniso su un carro condotto da Psychai
seconda metà del I secolo a.C. onice-sardonica, mm 33, 9 × 42,6 iscrizioni: nell’esergo “·LAV·R·MED·” Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 25840/8
La pietra raffigura due fanciulle riccamente drappeggiate con ali di farfalla (Psychai) colte nell’atto di tirare una biga su cui è disteso il giovane Dioniso, dalle sembianze muliebri, che con il braccio destro cinge a sé la figura di un satiro o di un fauno. Un erote, stante sul timone del carro, tiene le redini con la mano sinistra, mentre con la destra solleva minaccioso una face ardente contro le fanciulle. A destra, in basso, un altro erote è chino sotto il carro e cerca di bloccarne la ruota sinistra con le braccia. È presente la linea di base. Il cammeo, tra le opere di glittica più ammirate del Rinascimento, è minuziosamente descritto nell’inventario dei beni del cardinale Pietro Barbo, poi papa Paolo II, compilato a partire dal 1457: “… cameus unicus magnus, fractus per medium, in quo est currus super quem sunt vir et mulier seminudi et puerulus allatus, ad rotas currus, et eciam super currum est arbor, et duo juvenes discalciati trahunt currum, et in medio est puer allatus tenens in manu sinistra quasi frena illorum, et in dextra habet fassem (sic) ardentem, proiciens (sic) illam ad eos, et est Cupido, deus amoris, et est peroptimi operis” (MÜNTZ 1879, p. 234). Dopo la scomparsa del pontefice (1471), il pezzo passò nella raccolta di Lorenzo de’ Medici. Infatti esso è registrato nell’inventario redatto nel 1492 alla morte di Lorenzo, noto da una copia di Simone Grazzini da Staggia del 1512, subito prima del celeberrimo intaglio in calcedonio con Diomede e il Palladio (cat. n. 15). Il documento rivela che l’esemplare, valutato la ragguardevole cifra di 1000 fiorini, era dotato di una preziosa montatura in oro decorata sul rovescio dall’impresa medicea del broncone di alloro (SPALLANZANI-GAETA BERTELÀ 1992, p. 38). Nessun riferimento viene fatto invece dall’estensore del testo sulla presenza dell’ex-gemmis “·LAV·R·MED·” inciso nell’esergo della pietra e riprodotto su molti dei capolavori di glittica appartenuti al Magnifico. Confluita nelle collezioni dei duchi di Parma dopo le seconde nozze di Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’ Medici, con Ottavio Farnese, l’opera seguì le sorti degli altri beni della prestigiosa famiglia (si veda cat. n. 3). Il cammeo è stato attribuito su base stilistica da Marie-Louise VOLLENWEIDER (1966, pp. 32-33) all’incisore di età augustea Sostratos, attivo alla corte alessandrina di Marco Antonio e Cleopatra almeno fino alla disfatta di Azio (31 a.C.). Secondo Antonio Giuliano (in FIRENZE 1973, pp. 45-46), nel piccolo rilievo sarebbe rappresentato in chiave simbolica il trionfo celebrato da Antonio ad Alessandria nel 34 a.C., durante il quale il condottiero romano sfilò sopra un carro con gli attributi di Dioniso. Il tema, già replicato in antico come dimostrano un cammeo al Museo Archeologico Nazionale di Firenze (inv. 14456) e un piatto d’argento del II-III secolo d.C. al British Museum di Londra (GIULIANO 1975, p. 40, nota 5; BOARDMAN 1997, pp. 18-20, fig. 19), conobbe una particolare diffusione nell’ambiente artistico fiorentino a partire dalla seconda metà del XV secolo, dove fu veicolato, molto probabilmente, da calchi o placchette in bronzo (cat. n. 13), dato che l’originale almeno fino al 1471 fu custodito a Roma nella raccolta Barbo. R.G. Bibliografia: MÜNTZ 1882, p. 191, n. 8; FURTWÄNGLER 1900, II, p. 261, n. 15, tav. LVII; FORATTI 1917, pp. 25-26; LIPPOLD 1922, p. 170, tav. XII, n. 7; KRIS 1929, I, p. 152, n. 26, II, tav. 10, n. 26; PESCE 1935, pp. 75-76, n. 19, tav. III.19; POPE-HENNESSY 1965, p. 74, n. 248; WESTER-SIMON 1965, p. 31, fig. 11; VOLLENWEIDER 1966, pp. 32-33, tav. 23, n. 1; DACOS 1973, pp. 148, 150, 158, scheda 4; A. Giuliano, in FIRENZE 1973, pp. 45-46, n. 8, tav. VI; GIULIANO 1975, pp. 39-40; AMES-LEWIS 1979, pp. 143-144, fig. 31; P. Cannata, in ROMA 1982, p. 29, fig. 6/F;
GARZELLI 1985, p. 82; DACOS 1989, p. 72, fig. 7; GIULIANO 1989, p. 25; PANNUTI 1989, p. 222, n. 8; ROSSI 1989, pp. 56-57; MASSINELLI-TUENA 1992, p. 26; GASPARRI 1994, p. 13, fig. 8; T. Giove, A. Villone, in GASPARRI 1994, p. 140, n. 30; PANNUTI 1994b, pp. 118-119, n. 87; GARZELLI 1996, p. 168, tav. 114; TODERI-VANNEL TODERI 1996, p. 21, n. 11; BOARDMAN 1997, pp. 18-20; R. Gennaioli, in FIRENZE 2005b, p. 218, n. 93; FUSCO-CORTI 2006, pp. 102, 124, 245 nota 42; R. Gennaioli, in MANTOVA 2008b, p. 263, n. 6
La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico
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13 - Manifattura romana o fiorentina Dioniso su un carro condotto da Psychai
seconda metà del XV secolo bronzo patinato con tracce di lacca nera, mm 32,3 × 40,2 Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. n. 157 B
La placchetta, proveniente dalle collezioni granducali, è una fedele traduzione del cammeo con Dioniso su un carro condotto da Psychai conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli (cat. n. 12), ottenuta da una impronta in materia plastica tratta a sua volta da un calco al negativo della gemma originale in rilievo. Di questa la versione in bronzo riproduce anche la profonda rottura che attraversa trasversalmente l’onica-sardonica, menzionata già nell’inventario dei beni del cardinale Pietro Barbo del 1457: cameus unicus magnus, fractus per medium … (MÜNTZ 1879, p. 234). La presenza a Roma della pietra, almeno fino al 1471, ha portato una parte della critica a riconoscere nella Città Eterna il centro di produzione di simili placchette derivate dall’antico. A sostegno di questa ipotesi John POPE-HENNESSY (1964), seguito da Pietro Cannata (in ROMA 1982, p. 29), ha evidenziato come nessuno degli esemplari noti risulta contrassegnato dalla celebre sigla LAV.R.MED, ben visibile sull’esergo del cammeo ed eseguita presumibilmente a Firenze quando il pezzo entrò a far parte della collezione di Lorenzo de’ Medici. Inoltre la bassa qualità della raffigurazione, riscontrabile su tutti i pezzi dello stesso tipo, ha indotto lo studioso inglese ad avvicinarli ad una nota placchetta tratta da un’antica ametista con il busto di Agathe Tyche (Parigi, Bibliothèque Nationale de France, inv. 2080; VOLLENWEIDER-AVISSEAU-BROUSTET 2003, tomo I, pp. 71-72, n. 76, II, tav. 60, n. 76), la cui origine romana è comprovata dalla presenza sulla cornice dello stemma Barbo sormontato dal cappello cardinalizio, riferibile a Pietro o al nipote Marco, anche lui cardinale. Diversamente da quanto proposto dal Pope-Hennessy, altri studiosi hanno suggerito di assegnare la realizzazione dei piccoli rilievi in bronzo a maestranze fiorentine, che avrebbero potuto eliminare le iniziali di Lorenzo incise sull’esergo della sardonica dai calchi utilizzati come matrici per ricavare le impronte o dalle impronte stesse. Al di là dell’origine delle placchette, è certo che queste furono il principale strumento di diffusione della composizione, particolarmente ammirata nella Firenze della seconda metà del Quattrocento. Fedeli trascrizioni della gemma si hanno nel campo della miniatura, specialmente nei preziosi codici usciti dalle operose botteghe di Attavante degli Attavanti, Gherardo di Giovanni e Francesco Rosselli. All’atelier del primo la critica assegna il frontespizio del messale di Thomas James della Bibliothèque Municipale di Lione (GARZELLI 1985, I, p. 223, II, fig. 784) mentre a Gherardo sono riconducibili le decorazioni del Plinio per Francesco Sassetti ora alla Bodleian Library di Oxford (GARZELLI 1996, p. 168, tav. 113), del Commento al Trionfo della Fama di Jacopo Bracciolini alla Biblioteca Laurenziana di Firenze (cat. n. 14), dei Trionfi del Petrarca presso la Walters Art Gallery di Baltimora (MINER 1968-1969, p. 110, fig. 52; GARZELLI 1996, p. 169, tav. 116) e del Livio miniato nel 1479 per Alfonso di Calabria alla Biblioteca Universitaria di Valencia (GARZELLI 1985, I, pp. 295-296, II, fig. 944). È interessante osservare che in quest’ultimo esemplare Gherardo introdusse nella raffigurazione una curiosa variante, trasformando le due Psychai in figure dalle ali serafiche come in un cammeo del Museo degli Argenti (GENNAIOLI 2007, p. 154, n. 9). A Francesco Rosselli spetta invece l’eccezionale frontespizio del Tolomeo eseguito fra il 1485 e il 1490 per Mattia Corvino della Bibliothéque Nationale di Parigi (cod. LAT. 8834, c. 1; GARZELLI 1996, p. 167), in cui il motivo iconografico si trova associato ad altre rappresentazioni desunte da alcune delle gemme più importanti del tesoro di Lorenzo.
Al gruppo delle derivazioni dal cammeo di Napoli appartiene anche uno degli otto tondi marmorei ‘all’antica’ del cortile di Palazzo Medici-Riccardi, che al posto del muliebre e seminudo Dioniso presenta una pudica Arianna con una lunga veste coperta da un ampio manto. Più libere interpretazioni della scena o citazioni di singole figure tratte da essa sono state riconosciute dalla critica nel Trionfo di Amore raffigurato sull’elmo di Golia nel David di Donatello al Bargello (AMES-LEWIS 1979, pp. 143-147), nel rilievo in stucco della Negligentia attribuito a Bertoldo nel cortile di Palazzo Scala, poi della Gherardesca (PARRONCHI 1964, p. 126, tav. 16a/b;), nel Trionfo di David della bottega del Pinturicchio sulla volta del palazzo di Giuliano della Rovere a Roma e nel medaglione peruginesco con Il carro della Luna nella Sala del Cambio di Perugia (DACOS 1989, p. 80). R.G. Bibliografia: MOLINIER 1886, I, pp. 6-7, n. 8; BANGE 1922, p. 13, n. 88; RICCI 1931, pp. 2930, n. 26; POPE-HENNESSY 1965, p. 74, n. 248, fig. 34; P. Cannata, in ROMA 1982, p. 29, fig. 6/F; ROSSI 1989, pp. 56-57, fig. 3; DACOS 1989, p. 72, fig. 8; F. Toderi Vannel, G. Toderi, in FIRENZE 1992, p. 154, n. 135; TODERI-VANNEL TODERI 1996, p. 21, n. 11; M. Raffone, in FIRENZE 2005b, p. 219, n. 94
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14 - Jacopo Bracciolini Commento al Trionfo della Fama
Firenze, secolo XV, seconda metà; Gherardo di Giovanni membranaceo, mm 260 × 185, cc. I, 117; legatura coeva in cuoio con impressioni Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ashburnham 965
Il manoscritto, curato ed elegante come molti dei prodotti usciti dalle operose botteghe fiorentine, si deve alla fatica di un unico copista che si sottoscrive come Ioannes (c. 114v) e che la De La Mare inserisce nella tradizione di Antonio Sinibaldi (p. 458, n. 300). Appartenne alla famiglia Strozzi come denunciano gli stemmi, anche se erasi, nel bas de page, sotto l’impresa del falcone e nelle bordure. L’opera di Iacopo Bracciolini nasce dal Commento ai Trionfi di Bernardino Ilicino (FIRENZE 1992e, pp. 69), comunemente attribuito agli anni 1475-78 che Francesco BAUSI (1989, pp. 122-149) ) propone, invece, di retrodatare intorno al 14691471 per motivi di struttura e composizione testuale e soprattutto per le vicende personali dell’autore ancora molto vicino ai Medici, prima del consolidarsi della sua posizione politica in direzione antimedicea. La decorazione, tutta concentrata nella carta iniziale, a parte gli stilizzati fregi floreali che segnalano le partizioni del testo, opera di un aiuto di bottega, ben si inserisce nella produzione di Gherardo di Giovanni, sensibile alle suggestioni dell’antiquaria, in linea con il gusto della committenza colta e agiata. La ricca pagina, densa di citazioni dall’antico, attinge ad un repertorio ben noto che ricalca modelli collaudati riproposti in maniera quasi identica in diversi esemplari, tra cui l’incunabulo contenente la Naturalis Historia di Plinio (Oxford, Bodleian Library, Douce 310) stampato a Venezia nel 1476, ma miniato da Gherardo proprio per Filippo Strozzi a partire dal 1479, come attestano i pagamenti a Monte di Giovanni, fratello di Gherardo, che menzionano la legatura del medesimo volume nel 1482-1483 (GARZELLI 1985, pp. 293-295). Sarebbe plausibile una vicinanza di date anche per la decorazione del codice, prodotto presumibilmente in un momento in cui la bottega lavorava per la ricca famiglia, con un formulario decorativo evidentemente assai gradito e pertinente. Anche l’impaginazione dell’incunabulo è assai simile: nel bas de page il falcone si erge sullo stemma entro un clipeo e nelle ricche bordure si inseriscono i cammei con Arianna a Nasso e il carro di Dioniso, mentre la gemma con Apollo e Marsia è collocata nel fregio che inquadra l’incipit del proemio. In entrambi gli esemplari, secondo un uso ormai codificato nel repertorio della bottega, soprattutto nei codici di lusso per committenze private, il titolo spicca in oro in una targa azzurro intenso, che suggerisce, nel colore e nell’apparente durezza materica, lo splendore del lapislazzulo. L’attrazione per l’antico si concentra nei due cammei dionisiaci delle bordure, a cui si aggiunge quello altrettanto comune del domatore di cavalli, e il monocromo diventa elemento di distinzione e conferisce particolare evidenza ai gioielli grazie al contrasto con il fondo delle cornici, rosso, azzurro e verde a bande, riecheggianti ancora la pittura romana e la lucentezza delle pietre nella campitura compatta e smaltata. La piccola figura dell’autore, che sfonda la costrizione del corpo della lettera in un rapporto ormai dialettico e non di sudditanza grazie all’utilizzo cosciente della prospettiva nello scorcio del libro in primo piano e nella rotazione del busto, gioca tuttavia un ruolo subalterno rispetto alla profusione degli elementi dell’antiquaria nelle ricchissime bordure. Alle gemme che mantengono, infatti, la posizione di protagoniste, si uniscono i rimandi alla numismatica romana e il folto aggregarsi dei componenti di un impianto dal tono quasi illusionistico – vezzi di perle, gioielli, cammei di minori dimensioni – che movimenta la cornice costruendo una specie di trofeo. La presenza di queste immagini di repertorio, citazioni da oggetti preziosi esplorati dal vero o comunque ben riproducibili dalle loro copie, conferma la volontà di ricordare e anche celebrare non tanto
una proprietà reale del bene da parte dei committenti quanto una sorta di possesso intellettuale. Il linguaggio visivo travalicando l’aspetto materiale, pone l’accento sul significato allegorico intellettuale, che ugualmente costituisce un indicatore forte di potere e prestigio. G.L. Bibliografia: DE LA MARE 1985, p. 458; BAUSI 1989, pp. 122-149; I.G. Rao, in FIRENZE 1992e, pp. 69-70
La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico
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15 - Bottega di Cristiano Dehn Diomede e il Palladio
secolo impronta in “zolfo” e carta dorata, mm 58 × 46 iscrizioni: sull’altare “·LAV / ·R· / MED·” Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, s.n. inventario
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Diomede, seduto quasi di profilo, con la gamba destra distesa in avanti e la sinistra piegata e appoggiata sopra un altare ornato da una ghirlanda, regge con il braccio sinistro, parzialmente coperto da un manto, il Palladio. Nella mano destra l’eroe greco stringe invece un corto pugnale. È presente la linea di base. L’impronta riproduce un celebre intaglio antico di eccezionale qualità, oggi disperso, molto ammirato da Lorenzo Ghiberti che, nei Commentarii, lo attribuì a Policleto e lo descrisse come un calcedonio di forma ovale con “una figura d’uno giovane; aveva in mano uno coltello; era con uno piede quasi ginocchioni in su un altare e’lla gamba dextra era a’ssedere in sull’altare, et posava il piè in terra el quale scorciava con tanta arte e con tanto maesterio, era cosa maravigl[i]osa a vederlo; et nella mano sinestra aveva un pannicello, el quale teneva con esso uno idoletto; pareva el giovane il minacciasse col coltello: essa scultura, per tutti i periti et amaestrati di scultura o di pittura senza scordanza nell’una ciascuno diceva essere cosa maravigl[i]osa con tutte le misure e’lle proportioni debbe avere alcuna statua o scultura, da tutti li ingegni era lodata sommissimamente” (GHIBERTI, ed. Schlosser 1912, I, p. 64). La gemma, ricordata anche dal Filarete nel Trattato di architettura (FILARETE, ed. Finoli-Grassi 1972, II, pp. 679-680), appartenne in un primo momento all’umanista fiorentino Niccolò Niccoli, il quale la cedette fra il 1434 e il 1437 al ricchissimo cardinale e patriarca di Aquileia Ludovico Trevisan. Stando a quanto riferito da Vespasiano da Bisticci nelle Vite, l’opera passò poi alla morte di questi “in mano di papa Pagolo [Paolo II Barbo], di poi l’ebbe Lorenzo de’ Medici” (VESPASIANO DA BISTICCI, ed. Greco 1970-1976, II, 1976, p. 233). Rispetto alla sequenza proposta dal biografo toscano, la critaca ha spesso aticipato il trasferimento dell’intaglio dalla collezione del Trevisan a quella di Paolo II a prima del 1457, anno di compilazione dell’inventario dei beni dell’allora cardinale Pietro Barbo in cui è ricordato un calcedonio “magno [con una] figura hominis sedentis nudi et habentis in manu dextra gladium, in manu vero sinistra tenet deum Marthem, et brachium sinistrum cooperitur pannibus, et circumdatur ipsa figura laurea magna” (MÜNTZ 1879, p. 245) identificato generalmente con la pietra in questione. Tuttavia, come già evidenziato (FUSCO-CORTI 2006, p. 247 nota 47; R. Gennaioli, in MANTOVA 2008b, p. 277, n. 34), è molto probabile che la gemma citata nel documento del 1457 fosse in realtà un altro esemplare con lo stesso soggetto, ma inserito entro una laurea magna. Inoltre recenti indagini sulle fonti archivistiche hanno assodato che l’intaglio del Trevisan fu da lui gelosamente custodito insieme alla celeberrima Tazza Farnese e al Sigillo di Nerone nella sua raccolta fino alla morte, sopraggiunta nel 1465 (BAGEMIHL 1993, p. 562; FUSCO-CORTI 2006, pp. 94, 247 nota 47). Entrato quindi a far parte del tesoro di Paolo II solo dopo questa data, il calcedonio nel 1471 fu ceduto da Sisto IV della Rovere a Lorenzo il Magnifico. Negli anni compresi fra la cacciata dei Medici da Firenze e la caduta della seconda Repubblica fiorentina dell’esemplare si perdono le tracce. Esso ricompare nel 1537 nell’elenco di oggetti preziosi ereditati alla morte del duca Alessandro de’ Medici da Margherita d’Austria. Il secondo matrimonio di questa con Ottavio Farnese ne determinò infine l’ingresso nelle collezioni farnesiane, passate in seguito a complesse vicende dinastiche a Carlo di Borbone, che nel 1734 le fece trasportare a Napoli. Non è nota la data precisa dell’uscita del calcedonio dalle raccolte reali napoletane, in cui il Raspe ancora lo ricorda nel 1791 (RASPE 1791, II, p. 549, 9411).
Per la sua elevata qualità, esso è stato avvicinato da una parte della critica allo stile di Dioskourides, autore di un intaglio in corniola con lo stesso soggetto conservato nella collezione del duca di Devonshire (A. Giuliano, in FIRENZE 1973, p. 57, n. 26; GIULIANO 1989, p. 38). Notevole fu in epoca rinascimentale la fortuna del Diomede (cat. nn. 17-20; DACOS 1973, p. 160, scheda 9), considerato dagli artisti un sublime esempio di figura armonica dalle perfette proporzioni, non a caso attribuito dal Filarete a Policleto, il teorico dei principi secondo cui doveva essere realizzata l’effigie umana perfetta (ZÖLLNER 1990, pp. 460-461, 464-465). L’impronta del Museo degli Argenti, incorniciata da cartoncino giallo dorato in corrispondenza dell’orlo superiore, proviene da una serie di oltre millecinquecento esemplari, riproducenti gemme di diverse collezioni, ordinati dentro ventotto ripiani in legno ad incastro (cm 33 × 20,5). Nonostante l’assenza del relativo catalogo manoscritto, che di solito accompagnava simili insiemi, le impronte sono riconducibili alla bottega di Cristiano Dehn, celebre produttore di paste e zolfi, giunto a Roma intorno al 1722 con l’eclettico barone Philipp von Stosch. Infatti la suddivisione dei pezzi, numerati e raccolti in gruppi tematici contraddistinti da lettere, segue quella del catalogo delle paste della manifattura Dehn dato alle stampe nel 1772 da Francesco Maria Dolce, genero di Cristiano e suo successero (PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1991a, pp. 392-393). R.G. Bibliografia: DOLCE 1772, II, p. 75, n. 72
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16 - Manifattura romana o fiorentina Diomede e il Palladio
seconda metà del XV secolo bronzo, lacca nera, mm 49,5 × 30,3 Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. n. 172 B
Diomede nudo, è qui di profilo verso destra, con il braccio sinistro portato in avanti parzialmente coperto da un manto. L’eroe greco siede sopra un altare ornato da una ghirlanda e stringe nella mano destra un corto pugnale mentre con la sinistra sostiene il Palladio. La placchetta, proveniente dalle collezioni granducali, è generalmente considerata una derivazione dal noto calcedonio con Diomede e il Palladio appartenuto a Niccolò Niccoli, Ludovico Trevisan, Paolo II Barbo e Lorenzo de’ Medici (cat. n. 15). Rispetto a questo però il piccolo rilievo in bronzo risulta di dimensioni più contenute e la stessa raffigurazione mostra, a un confronto ravvicinato, sensibili variazioni nel disegno, che riguardano soprattutto la lunghezza delle braccia di Diomede, il gioco delle pieghe del manto, la foggia della lama del pugnale e l’aspetto del Palladio. Tali differenze hanno fatto ipotizzare già in passato che la placchetta sia stata ottenuta per calco da un altro intaglio simile a quello posseduto da Lorenzo. L’esistenza di diverse gemme con l’episodio mitologico del Ratto del Palladio è del resto confermata dall’inventario fatto redigere a partire dal 1457 da Paolo II quando ancora era cardinale, dove sono ricordati ben tre esemplari con lo tesso soggetto: un “calcedonio magno, in quo est figura hominis sedentis nudi et habentis in manu dextra gladium, in manu vero sinistra tenet deum Marthem, et brachium sinistrum cooperitur pannibus, et circumdatur ipsa figura laurea magna” stimato la considerevole cifra di 80 ducati, un “cristallo magno [con] hominis sedentis nudi, ac tenentis in manu dextra gladium, in mano vero sinistra deum Marthem, et brachium ejus sinistrum cooperitur pannibus” anch’esso valutato 80 ducati e un piccolo “niculo” sempre con “figura hominis tenentis in mano sinistra deum Marthem, et in dextra gladium, nudi et sedentis” del valore di soli 2 ducati (MÜNTZ 1879, pp. 245-246). L’opera, per il suo stretto legame iconografico con gli intagli custoditi nelle raccolte di Paolo II e di Lorenzo il Magnifico, è stata alternativamente ricondotta dalla critica sia ad ambito romano che fiorentino. Altri esemplari dotati di analogha cornice a perline o bordo liscio si conservano presso il British Museum di Londra, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Museo Civico Amedeo Lia di La Spezia, i Musei Civici di Padova, il Museo Correr di Venezia, il Museo Nazionale di Ravenna, la National Gallery of Art di Washington e gli Staatliche Museen di Berlino. R.G. Bibliografia: MOLINIER 1886, I, p. 18, n. 31; BODE 1904b, p. 41, n. 552, tav. XXXIX; PLANISCIG 1919, p. 163, n. 253, tav. I; BANGE 1922, pp. 19-20, n. 141, tav. 22; RICCI 1931, p. 37, n. 37; POPE-HENNESSY 1965, pp. 75-76, n. 257, fig. 47; L. Martini, in MARTINI-CIARDI DUPRÉ DAL POGGETTO-RAVANELLI GUIDOTTI 1985, pp. 129-130, n. 6; D. Banzato, in BANZATO-PELLEGRINI 1989, pp. 44-45, n. 14; ROSSI 1989, pp. 60-61; F. Toderi Vannel, G. Toderi, in FIRENZE 1992, p. 154, n. 134; TODERI-VANNEL TODERI 1996, pp. 22-23, n. 13; AVERY 1998, p. 262, n. 181
La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico
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17 - Marcus Tullius Cicero Oraziones
Firenze, Ricciardo di Nanni, 1458-1459 manoscritto membranaceo, mm 358 × 250, cc. 330; legatura dei Plutei in cuoio su assi con catena Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 48.8
Miniato da Ricciardo di Nanni intorno al 1458-1459 per Piero de’ Medici, di cui reca la nota di possesso nell’ex libris a c. 330v (Liber Petri de Medicis Cos. Fil.), il manoscritto è presente nell’inventario della libreria medicea redatto nel 1456. Libro di lusso, un classico tra i classici, è stato oggetto di studio da parte di Girolamo Lagomarsino (come dimostra la nota del 1748 a c. 1), nonostante che la sua importanza non derivi tanto dalla correttezza testuale, come rilevano le molte note coeve a margine, quanto dal pregio estetico a cui concorre la bella mano del calligrafo, una antiqua regolare ed elegante, che la De La Mare ha dubitativamente ascritto al noto copista messer Marco. Lettere a bianchi girari individuano l’incipit delle Orazioni mentre tutto lo sforzo decorativo si concentra sulla carta 2, inizio del De imperio Cnaei Pompei, che rappresenta un esempio di legame con il testo non narrativo ma interpretativo. L’omaggio alla tradizione classica non dimentica, infatti, la celebrazione della committenza, che si esprime nel timbro scoperto dello stemma, racchiuso nella corona di anelli diamantati, e nella elegante e sottile citazione delle gemme del tesoro mediceo, che idealmente accomunano i nuovi signori alle glorie del passato. Cicerone è raffigurato in piedi entro una nicchia a segno della sua potenza quasi regale, come principe dei retori, la barba a doppia punta “alla grecanica”, degna del filosofo. La gonnella corta e le calze solate sono dettagli vestimentari che calano la figura nella contemporaneità, secondo l’artificio comune del Quattrocento di riportare al presente le vicende del passato, siano esse sacre o classiche. Al centro del fregio nel margine superiore due eroti tolgono la benda ad una giovane donna, nel gesto chiaro della rivelazione della verità; la formella è fiancheggiata da due aironi, allusivi a Pallade e Apollo, coerente simbolo sapienziale, che torna nei due tondi del margine inferiore dove è iterata l’immagine di Diomede con il Palladio, protagonista del noto calcedonio appartenuto a Niccolò Niccoli. Il giovane guerriero mostra il trofeo ed è seduto sul cubo, anch’esso allusione sapienziale, mentre un leone e una leonessa, noti animali “vigilantes”, completano coerentemente nel bas de page la zona dedicata all’acquisizione della conoscenza. Al centro della bordura a sinistra, in un clipeo, Venere nuda si fa incontro a Eros bambino, fronteggiata dal lato opposto da un altro tondo con tre eroti nudi, uno dei quali mingens, mentre gli altri due gli stanno intorno nella positura canonica delle tre Grazie. Il tema dei pueri mingentes, assai frequente nel repertorio classico ellenistico, allude alla prima forma del sapere e dell’eros. Infatti il percorso si conclude con tre putti che, spiegando baldanzosi una vela gonfia di vento, cavalcano i delfini. La fusione del tema erotico con quello sapienziale, giocato attraverso un repertorio classico-archeologico fascinoso e allusivo, riporta alla figura di Cicerone maestro di retorica, a seguito di fonti letterarie e repertori di immagini che dovevano essere ben noti al colto prete di Castelfiorentino. Sono finissimi cammei che Ricciardo ritaglia nel margine: ecco Afrodite che incontra il piccolo amore, tema classico che ancora la connota come madre, ecco i “pueri mingentes”, nella positura canonica delle tre Grazie, tema assai frequente nel repertorio classico ellenistico, che indica la prima forma del sapere e dell’eros, ecco i putti che, spiegando baldanzosi una vela gonfia di vento, cavalcano i delfini, sacri a Venere e simbolo dell’amore esaltante. Al notissimo soggetto ellenistico del bambino sul pesce si unisce la valenza escatologica assegnata all’immagine delle bar-
che con i fanciulli, magari con lo sfondo di un porto, il viaggio ultraterreno. I tre putti che navigano sul delfino tornano in nielli di mano di Maso Finiguerra, (Parigi, Louvre), insieme ai giochi di eroti sulla fontana e a Endimione, nudo su una pedana con eroti, vicino al Diomede di Ricciardo, segno di un gusto assai diffuso a Firenze, ripetuto anche su supporti diversi nell’ambito di botteghe che, comunque, potevano usufruire della circolazione di libri di modelli. G.L. Bibliografia: BANDINI 1774-1778, pp. 434-435; D’ANCONA 1914, II, n. 359; AMES LEWIS 1984, passim; DE LA MARE 1985 p. 512; LONDRA 1994b, pp. 95-98, n. 34; CITTÀ DEL VATICANO 1996, pp. 384-385, n. 99; LAZZI 2000, pp. 79-93
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18 - Leonardo da Vinci (Vinci, 1452-Amboise, 1519) Studi per un giovane uomo seduto e per un bambino che gioca con un agnello (recto) 1503-1506 matita nera, mm 173 × 140 The Royal Collection, inv. 12540
Il piccolo foglio, mancante dell’angolo inferiore sinistro, rappresenta al centro un giovane nudo di profilo, seduto su un blocco squadrato con la gamba destra distesa e la sinistra flessa; il braccio destro, rivolto all’indietro, è poggiato sulla base, mentre il sinistro è proteso in avanti, con la mano rivolta in alto. Il carattere finito della figura e il morbido modellato la distinguono dal più dinamico e sperimentale studio del bambino che gioca con un agnello in basso a sinistra, per il quale Leonardo propone diverse soluzioni per il movimento delle gambe e per la torsione del busto. Quest’ultimo disegno è da affiancare al foglio con Studi di bambino che gioca con un agnello del J. Paul Getty Museum (inv. 86 G.G. 725, già a Weimar, Schlossmuseum), eseguito da Leonardo durante il suo secondo soggiorno fiorentino (1503-1506), relativo a una composizione raffigurante la Madonna col Bambino e san Giovannino, di cui restano copie dipinte (Milano, collezione Gallarati Scotti; Firenze, depositi di Palazzo Pitti, inv. Gallerie 1890, n. 1335; Oxford, Ashmolean Museum). La stessa datazione si può accogliere anche per la figura del giovane seduto della parte superiore del foglio, sia per le caratteristiche stilistiche, sia la stretta adesione a un modulo iconografico derivato dall’antico, Diomede e il Palladio, splendido intaglio in calcedonio attribuito a Dioskourides – creduto tuttavia nel Quattrocento opera di Policleto – acquistato da Lorenzo il Magnifico nel 1471, ma precedentemente noto grazie a placchette bronzee, da cui probabilmente deriva anche il tondo marmoreo del cortile di Palazzo Medici: proprio quest’ultimo potrebbe essere stato il modello di Leonardo, poiché la presenza della gemma a Firenze non è documentata dal 1494 al 1537. Il rapporto con il modello antico è stato convincentemente proposto nel 1951 da Bettina Polak, e da allora universalmente riconosciuto; diversi sono invece i punti di vista sul procedimento seguito dall’artista nella rielaborazione della figura: mentre la stessa Polak, accogliendo una suggestione di Johannes Wilde, pensava che Leonardo avesse studiato la figura dal vivo, CLARK (1969a) pensava invece a un’interpretazione libera del modello, ricostruito a memoria. Se il rapporto con l’antico è tanto stretto come raramente accade nell’opera del pittore (per Clark “This is the closest of all Leonardo’s references to an antique work of art”), è altrettanto vero che numerose sono le differenze riscontrabili tra il Diomede del tondo marmoreo e il giovane del disegno di Windsor: rispetto all’insistita ricerca spaziale del rilievo, che mostra lo spigolo dell’altare e descrive il torso del giovane in una forzata torsione, Leonardo preferisce una visione di profilo, con una leggera rotazione delle spalle verso destra, ritraendo la figura in una posa più fluida; la ricerca della naturalezza porta l’artista ad allontanarsi dal modello anche nell’inclinazione del busto all’indietro, bilanciato dal braccio destro poggiato sull’altare, e nella posizione della gamba sinistra, con il piede non portato sull’ara ma piegato sotto la coscia destra. Il tratto morbido della matita e il delicato sfumato del disegno, oltre a confermare la datazione al secondo soggiorno fiorentino dell’artista, accomunano il foglio a un nutrito gruppo di disegni, tutti caratterizzati da una chiara matrice antiquaria. Primo fra tutti il Nettuno, realizzato come dono per Antonio Segni entro il 1504, di cui resta a Windsor un disegno preparatorio (Royal Library, inv. 12570): traendo il soggetto dal racconto virgiliano della tempesta scatenata dal dio, Leonardo prende spunto da un sarcofago antico con le nozze di Nettuno e Anfitrite – studiato a Roma nella scalinata dell’Aracoeli (oggi Musei Vaticani) – per rappresentare la
furia dei cavalli marini impennati, a stento trattenuti dalle briglie del dio. A partire dallo studio dei sarcofagi antichi Leonardo sperimenta anche le complesse composizioni di combattimenti di cavalli, motivo conduttore degli studi per la Battaglia di Anghiari (per esempio Windsor Castle, Royal Library, inv. 12339), coevi – come dimostra il foglio 12337 della Royal Library – ai disegni preparatori per la Leda col cigno, nei quali l’artista propone sia la posizione eretta sia quella inginocchiata dell’eroina: è probabilmente questa la prima meditazione di Leonardo sul tema intorno al 1504, nella quale è evidente la meditazione su modelli antichi, in particolare la tipologia della Venere di Doidalsas. M.M. Bibliografia: POLAK 1951; CLARK 1969a, I, pp. 98-99; CLARK 1969b, pp. 28-29; ZÖLLNER 1990, pp. 465-466; MARANI 1999, pp. 262-268; MARANI 2003, p. 475; C.C. Bambach, in NEW YORK 2003, pp. 515-520, sub n. 94
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19 - Giulio Clovio (attr.) (Grizane, 1498-Roma, 1578) Giovane nudo addormentato sopra un sedile (da Michelangelo) 1550-1570 matita nera, scritte a penna e inchiostro bruno, mm 187 × 124 Francoforte sul Meno, Städel Museum, inv. 393 recto
Il foglio, mancante dell’angolo in alto a destra, presenta in alto una scritta a penna frammentaria e come tale di difficile interpretazione. Nella parte inferiore è rappresentato un nudo virile addormentato, adagiato su un basamento di forma cubica posto per angolo, coperto da un panneggio; il giovane, con il torso ruotato verso destra e le braccia incrociate in avanti a sostenere il capo, mostra le gambe quasi di profilo, la destra distesa in avanti e la sinistra flessa per poggiare il piede sul basamento in prossimità del corpo; della testa e delle spalle sono visibili posizioni alternative scartate dal disegnatore. Accanto alla base è disegnato un robusto putto che avanza, coperto da una tunica, probabilmente con le braccia portate dietro la schiena. Mentre alcune parti sono lasciate allo stato di abbozzo (in particolare il busto del putto, la testa e le braccia del giovane, il drappo che copre la base sulla sinistra), il torso e le gambe della figura principale, così come il panneggio in prossimità del busto, sono realizzati con un finissimo chiaroscuro che modella le forme attraverso un sottile tratteggio e le variazioni della sua intensità, giocando anche con il fondo chiaro della carta. L’energico plasticismo della figura e il carattere antiquario della composizione, insieme all’alta qualità della realizzazione, avevano portato ad un’attribuzione del foglio a Michelangelo, e come tale venne acquistato nel 1850 dallo Städelsches Kunstinstitut; pur riconoscendone l’alta qualità, Berenson per primo negò l’attribuzione al Buonarroti, spostandola a un artista della sua cerchia. Charles de Tolnay e Paul Joannides avevano ipotizzato, come risulta dalle annotazioni sul passepartout (Sonnabend), un’attribuzione al miniatore croato Giulio Clovio, legato a Michelangelo fin dagli anni trenta e autore di numerose copie da suoi disegni: di queste proposte non resta tuttavia traccia nella scheda del Corpus del Tolnay relativa al foglio di Francoforte né in quella del foglio P 372 dell’Ashmolean Museum di Oxford, attribuito da Joannides all’autore del nostro disegno. Nel catalogo della recente mostra michelangiolesca tenutasi allo Städel Museum l’attribuzione al Clovio è stata riproposta da Martin Sonnabend, anche sulla base dei rapporti con un disegno sicuro del croato, l’Adorazione dei Magi di Windsor (Royal Library, inv. 0446), con il quale esistono indubbi punti di contatto nonostante le differenze, dovute soprattutto al diverso stato di finitura delle due opere considerate. A sostegno di questa ipotesi attributiva si possono citare altri disegni riconducibili al Clovio, come la Madonna col Bambino degli Uffizi (inv. 2459 F) o la Pietà del British Museum (inv. 1895-9-15-654), che possono essere affiancati al disegno di Francoforte per il caratteristico tratteggio verticale dei panneggi e quello diagonale delle muscolature, per il tipico modo di disegnare gli occhi e la bocca, per la definizione astratta delle anatomie attraverso la linea di contorno e il successivo modellarle con il chiaroscuro. L’iconografia del gruppo principale è stata messa in relazione con il Sogno (Londra, Courtauld Gallery), splendido disegno d’omaggio realizzato da Michelangelo, probabilmente per Tommaso de’ Cavalieri, intorno alla metà degli anni trenta: in quest’ultimo la figura virile appare più dinamica, ritratta in un raffinato avvitamento delle membra, cui fa da contrasto lo scatto della testa verso destra e in alto, sollecitato dall’arrivo dell’angelo. Più che una derivazione dal foglio londinese, il disegno di Francoforte potrebbe rispecchiare un momento precedente della sua fase di elaborazione: la fortunata conservazione delle tre versioni della Caduta di Fetonte disegnate per il Cavalieri (Londra, The British Museum, inv. 1895-9-15-517; Windsor Castle, Royal Library, inv. 12766; Venezia, Gallerie dell’Accademia, inv. 177) dimostra quanto a lungo Michelangelo meditasse su queste composizioni, e la presenza di copie o derivazioni dalle diverse versioni (è il caso delle due redazioni delle placchette del Bernardi, quella in cristallo di rocca di Baltimo-
ra, The Walters Art Museum, inv. 41.69, e quella nota attraverso placchette bronzee, per esempio Washington, National Gallery of Art, collezione Samuel H. Kress, inv. 1957.14.515) testimonia della circolazione anche di stati provvisori; allo stesso Clovio sono attribuite due diverse versioni del Ratto di Ganimede destinato al Cavalieri, nella miniatura di formato verticale oggi in Casa Buonarroti (inv. Gallerie 1890, n. 3516, derivata dall’originale di Cambridge, Fogg Art Museum, inv. 1955.75) e nel disegno orizzontale della Royal Library (inv. 13036, da un originale perduto). Se è innegabile il rapporto della figura principale con la tipologia classica delle divinità fluviali, tanto a lungo studiata dal Buonarroti, la base cubica, la posizione delle gambe e la torsione del busto rimandano a un altro prototipo antico, Diomede e il Palladio, che sicuramente Michelangelo studiò e apprezzò negli anni giovanili trascorsi nel Giardino di San Marco (cfr. G. Agosti, V. Farinella, in FIRENZE 1987, pp. 37-38; pp. 39-40, sub n. 11) e di cui resta traccia nelle figure degli Ignudi della Volta Sistina, in particolare quello a destra sopra la Sibilla Eritrea. M.M. Bibliografia: BERENSON 1938, II, pp. 228-229, n. 1669A; TOLNAY 1975-1980, II, 1976, p. 102, n. 332; JOANNIDES 2007, pp. 310-311, sub n. 69; M. Sonnabend, in FRANCOFORTE 2009, pp. 125-135, 148-149, p. 162, n. 22 (con bibl. prec.)
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20 - Niccolò Fiorentino (Firenze, 1430-1514) Medaglia di Marcantonio della Lecia ante 1510 bronzo, diam. mm 90 iscrizioni: d.: “M · ANTONIO · DELA · LECIA · FLO”; nell’esergo del r.: “MERCURIO” Venezia, Galleria G. Franchetti alla Ca’ d’Oro
Sul dritto è raffigurato il ritratto di Marcantonio della Lecia, di profilo volto verso sinistra; presenta i capelli lunghi sino alle spalle, parzialmente nascosti da una berretta. Sul rovescio della medaglia è presente Diomede-Mercurio nudo, che reca in una mano una corta spada, nell’altra il Palladio e siede sopra un altare decorato da un festone; il braccio sinistro è ricoperto dalle ampie pieghe di un drappo. La medaglia nota già dal primo importante contributo di ARMAND (18831887, I, 1883, pp. 84-85, n. 3) è stata inclusa nel catalogo delle opere prodotte dal medaglista Niccolò di Forzore Spinelli (HEISS 1881-1892, V, 1885, p. 6). Successivamente, nel risolutivo Corpus, Hill, ricorda tre esemplari della medaglia – Parigi, Vienna,Venezia – e restituisce una preziosa informazione su Marcantonio della Lecia, tratta – purtroppo – da un imprecisato manoscritto senese di Milanesi, nel quale si dà notizia che Maestro Antonio di Biagio della Lecia fu “maestro di affinare salnitri” (HILL 1930, p. 247). Questa è l’unica informazione che si è potuta ricavare sino ad oggi, infatti la medaglia non ha goduto di particolare attenzione da parte della critica, che cita l’esemplare solamente per la raffigurazione del rovescio. Sul verso della medaglia è ritratto Diomede rinominato Mercurio dall’esplicita iscrizione dell’esergo; come già affermava Heiss, la presenza del dio romano del commercio è verosimilmente riferita all’attività dell’effigiato che “pourrait avoir été un riche négociant” (HEISS 1881-1892, V, 1885, p. 13): non è difficile pensarlo, essendo stato dedito ad “affinare salnitri”. Il prestigioso rovescio della moneta celebrativa di Marcantonio della Lecia fu tratto da un antico intaglio, oggi perduto, ma di cui si conosce il calco presso la collezione Cades (A. Giuliano, in FIRENZE 1973, p. 57, n. 26). Il prezioso calcedonio, già elogiato da Ghiberti, Filarete e Caradosso, fece parte della collezione d’antichità di Niccolò Niccoli, per passare poi nelle dattilioteche di Ludovico Trevisan, Pietro Barbo e nella collezione di Lorenzo il Magnifico (R. Gennaioli, in MANTOVA 2008b, pp. 76, 277, n. 34). La celebre gemma è riprodotta in numerose placchette bronzee (NEUTSCH 1986, pp. 309-328; F. Rossi, in ATENE 2003, pp. 235-236, II.60), in uno dei tondi marmorei di Palazzo Medici su via Larga, in uno stucco delle Logge di Raffaello in Vaticano – in cui Giovanni da Udine trasforma Diomede in Mercurio (ROSSI 1989, p. 60; cfr. DACOS 1989, p. 81 e note nn. 80, 81 a pp. 88-89) – e in alcune pagine miniate (N. Dacos, in FIRENZE 1973, p. 160, n. 9), delle quali si ricorda l’illustrazione sul bas de page nell’incipit del testo De imperio Cnaei Pompei, tratto dalle Orazioni di Cicerone – Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 48.8, c. 2r – miniato da Ricciardo di Nanni intorno al 1458-1459 (G. Lazzi, in FIRENZE 2005b, p. 312, n. 191). Infine la morfologia del corpo ignudo di Diomede, la torsione del busto e il particolare gioco di gambe, una piegata l’altra distesa, divenne un sintagma iconico ripreso in numerose soluzioni formali: nel disegno per San Giovanni Battista di Leonardo (cat. n. 18), negli Ignudi di Michelangelo sulla volta della Cappella Sistina, nonché in uno stucco “archeologico” di Giulio Romano, nella sala del Sole e della Luna a Palazzo Te (R. Gennaioli, in MANTOVA 2008b, p. 277, n. 34). G.C. Bibliografia: ARMAND 1883-1887, I, 1883, p. 84; HEISS 1881-1892, V, 1885, pp. 13-16; BODE 1904a, pp. 1-14; HILL 1930, p. 247, n. 925; N. Dacos, in FIRENZE 1973, p. 160, n. 9; NEUTSCH 1986, pp. 323-324; ROSSI 1989, pp. 60-61; DACOS 1989, pp. 88-89 nota n. 81; TODERI-VANNEL TODERI 1996, pp. 22-23, n. 13
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21 - Arte romana (?) Cerere e Trittolemo
tardo I secolo a.C. (il cammeo) onice, oro e diamanti, mm 46 × 36 (il cammeo), mm 67 × 57 (la montatura) Londra, The Schroder Collection
Nel cammeo, considerato perduto fino alla recente identificazione in una collezione privata di Londra da parte di John BOARDMAN (2008), è raffigurata a sinistra Cerere, seduta sopra uno scanno, con l’attributo della cornucopia e la parte inferiore del corpo coperto da una veste riccamente drappeggiata. Davanti a lei è Trittolemo che, con la mano destra, porge alla dea un fascio di spighe. Il giovane, dalla posa scultorea, ha le spalle coperte da una lunga clamide e si appoggia a un utensile dotato di due denti, rievocante il suo ruolo di dispensatore delle conoscenze connesse alla coltivazione dei cereali. Dietro le figure si erge un’alta colonna sormontata da un’urna ansata. È presente la linea di base. Montatura settecentesca in oro modanata con anello di sospensione entro il quale passa una maglia circolare impreziosita da piccoli diamanti. L’opera è sicuramente riconoscibile nel cammeo con “mulier sedens, semi vestita, habens cornu in manu, et vir nudus stans ante eam, habens nescio quid in manibus, et columpna est inter ambos in cujus summitate est quoddam vas” registrato nell’inventario dei beni del cardinale Pietro Barbo del 1457 (MÜNTZ 1879, p. 225). Meno certa risulta invece la sua identificazione con il “chammeo leghato in oro, entrovi uno huomo e una donna che si fanno motto” (SPALLANZANI-GAETA BERTELÀ 1992, p. 36) menzionato tra gli esemplari appartenuti a Lorenzo de’ Medici. Tuttavia, come suggerito da Nicole DACOS (1973, p. 143), la diffusione nell’ambiente mediceo del motivo iconografico fa supporre che a un certo punto il pezzo sia entrato a far parte del tesoro di Lorenzo. Nel XVII secolo esso si trovava nella collezione di Thomas Howard, secondo conte di Arundel, che lo acquistò probabilmente dal mercante d’arte Daniel Nys, uno dei fautori dello smembramento delle raccolte d’arte dei Gonzaga e proprietario di un celebre gabinetto di gemme, nel quale erano confluiti anche molti esemplari provenienti da Mantova (LUZIO 1913, pp. 157-158). Pervenuto dopo diversi passaggi di proprietà nella collezione di George Spencer, quarto duca di Marlborough, il cammeo, insieme alle altre pietre incise dell’Arundel, fu venduto nel 1875 al ricco uomo di affari David Bromilow di Manchester, dove rimase fino al 1899, quando fu messo all’asta da sua figlia Jarry (SCARISBRICK 1996, p. 46). Numerose sono le placchette derivate dal prezioso rilievo (cat. n. 22), il cui soggetto è stato interpretato dalla critica come Demetra/Cerere che riceve l’offerta di alcune spighe di grano da parte di Trittolemo, figlio dei principi di Eleusi nell’Attica e protetto della dea. La fortuna del tema, oltre che dalle placchette, è attestata da un eterogeneo gruppo di opere italiane e straniere. I due personaggi si trovano riprodotti piuttosto fedelmente nel frontespizio del Tolomeo miniato da Francesco Rosselli per Mattia Corvino della Bibliothéque Nationale di Parigi (Cod. Lat. 8834, c. 1; GARZELLI 1985, I, p. 82, II, p. 311, fig. 556), nel medaglione a sinistra del trono del re nella tavola con la Giustizia di Cambise dipinta da Gerard David nel 1498 (Bruges, Groeninge Museum, inv. n. 0.40.I-0.41.I; BAESDONDEYNE-DE VOS 1981, I, pp. 103-129, n. 5, tav. CVIII), in uno dei tondi in terracotta eseguiti intorno al 1518 da Giovanfrancesco Rustici per il cortile di Villa Salviati a Firenze (MOZZATI 2008, pp. 152-153, figg. 274-275) e in uno degli stucchi di Giovanni da Udine che ornano i pilastri delle Logge di Raffaello in Vaticano (DACOS 19862, p. 22, n. X.B, tav. CXXXII a). Interpretazioni più libere del soggetto sono invece fornite in un intaglio in eliotropio del Museo degli Argenti raffigurante il Giudizio di Paride (GENNAIOLI 2007, p. 367, n. 496), in una placchetta con Coppia di amanti delle officine di Norimberga (BANGE 1922, p. 21, n. 152, tav. 25, n. 152) e
in un altro intaglio del Cabinet des Médailles di Parigi attribuito da Ernst Kris a Valerio Belli (KRIS 1929, I, p. 164, n. 211), in cui però ad essere ripresa fu la sola figura di Trittolemo. Questa, in coppia con l’Apollo citaredo del Sigillo di Nerone, compare anche in un disegno di scuola italiana al Getty Museum (N. Turner, C. Plazzotta, in TURNER-HENDRIX-PLAZZOTTA 1997, p. 147, n. 59). R.G. Bibliografia: RASPE 1791, I, p. 142, n. 1879; M.H.N. Story-Maskelyne, in Catalogue 1899, p. 7, n. 38, tav. 48, n. 38; YUEN 1997, p. 140; BOARDMAN 2008, p. 59, fig. 7; J. Boardman, in KANAGAWA-FUKUOKA 2008, p. 345, n. 172; J. Boardman, in BOARDMAN-SCARISBRICK-WAGNER-ZWIERLEIN-DIEHL 2009, p. 41, n. 19
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22 - Bottega romana (?) Cerere e Trittolemo
seconda metà del XV secolo bronzo, lacca nera, mm 43,5 × 34,4 provenienza: Collezioni granducali Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. 196 B
La placchetta di forma ovale presenta Cerere seduta, che stringe in mano una cornucopia; un mantello dalle ampie pieghe copre le gambe. Trittolemo è rappresentato di fronte a Cerere, nudo, reca in una mano un virgulto arboreo (spighe ?), nell’altra un utensile, che pare un forcone con due rebbi; un mantello cinge il collo di Trittolemo e si dipana in pieghe flessuose sul braccio sinistro. Sullo sfondo, tra le due figure, è presente una colonna sormontata da un vaso. L’esemplare, ricavato da un’impronta di un antico cammeo, presenta l’episodio mitologico di Cerere e Trittolemo, già riconosciuto da MOLINIER (1886, pp. 8-9, n. 11) che ammetteva ancora qualche incertezza, derivata dalla descrizione del cammeo dall’inventario Barbo del 1457 (U. Pannuti, in FIRENZE 1973, p. 89); indeterminatezza che è anche suggerita dall’esistenza di una placchetta, già nella collezione Rosenheim (LONDRA 1923, p. 82, n. 621), la quale presentava sul verso l’iscrizione “IVNONIS CONSILIV”. Successivamente la critica (POPE-HENNESSY 1965, p. 74, n. 252; N. Dacos, in FIRENZE 1973, p. 143; P. Cannata, in ROMA 1982, p. 39, n. 6; D. Banzato, in VICENZA 1997, p. 51, n. 2) si è trovata concorde nel riconoscere il soggetto con Cerere che ricompensa l’ospitalità eleusina insegnando a Trittolemo l’arte di arare e seminare il grano. L’antico cammeo, che transitò nella prestigiosa dattilioteca del cardinale Barbo e successivamente acquistato per la collezione medicea da Lorenzo il Magnifico (cat. n. 21) fu creduto perduto, ma è stato riconosciuto in una collezione privata inglese e restituito all’attenzione degli studiosi (BOARDMAN 2008, p. 59, fig. 7). Le numerose placchette tratte dal prestigioso cammeo – secondo ROSSI (1989, p. 57) – furono prodotte in due differenti tirature: una di qualità corrente, sortita dalle officine di palazzo San Marco a Roma, un’altra di qualità superiore eseguita probabilmente in ambito fiorentino. Toderi e Vannel, nel catalogo delle placchette del Museo del Bargello, sono concordi nel restituire l’esemplare fiorentino ad una produzione romana (TODERI-VANNEL TODERI 1996, p. 23, n. 14). La fama del cammeo e l’ampia diffusione del suo modello attraverso le placchette bronzee o impronte di altro materiale è testimoniata dalle frequenti riproduzioni: sul frontespizio della Geografia di Tolomeo appartenuta a Matteo Corvino – Parigi, Bibliothèque Nationale, ms. 8834 – nello sfondo della Giustizia di Cambise di Gerard David – Bruges, Musée Comunal – in uno dei tondi di Giovanfrancesco Rustici per Villa Salviati a Firenze e in uno stucco di Giovanni da Udine nelle Logge di Raffaello in Vaticano. G.C. Bibliografia: MOLINIER 1886, I, pp. 8-9, n. 11; BANGE 1922, p. 12, n. 76; POPE-HENNESSY 1965, p. 74, n. 252; N. Dacos, in FIRENZE 1973, p. 161, n. 15; ROSSI 1974, pp. 4-5, n. 4; P. Cannata, in ROMA 1982, pp. 39-40, n. 6; DACOS 1989, p. 73; ROSSI 1989, p. 57; FIRENZE 1992b, p. 156, n. 138; TODERI-VANNEL TODERI 1996, p. 23, n. 14; D. Banzato, in VICENZA 1997, p. 51, n. 2; BOARDMAN 2008, p. 59, fig. 7
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23 - Mohammed al-Khayyam Disegno della Tazza Farnese
1430 ca disegno a penna, mm 187 × 187 firmato in basso a destra: “Muhammad al-Khayyam” Berlino, Staatsbibliotheck, inv. Diez A, f. 72
Il disegno di Mohammed al-Khayyam, pittore persiano attivo tra la fine del XIV e gli inizi del XV secolo ad Herat o a Samarcanda, riproduce la decorazione interna della celebre Tazza Farnese – esemplare eccezionale della glittica di età ellenistica – eseguita, verosimilmente, ad Alessandria per i Tolomei, sovrani d’Egitto, tra il 120 e il 100 a.C. (GIULIANO 1998, p. 481; una datazione al 180-160 a.C. è sostenuta da U. Pannuti, in GASPARRI 1994, pp. 64-68). La Tazza, conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli, è realizzata in agata sardonica e presenta la caratteristica, rarissima nelle gemme di grande formato, di essere incisa, a rilievo, su entrambe le facce: quella esterna è ornata da un Gorgoneion, con lunghe chiome che si distribuiscono armoniosamente su tutta la superficie, quella interna da una complessa allegoria sulla prosperità dell’Egitto che affascinò il pittore persiano inducendolo a raffigurarla. Il disegno venne pubblicato per la prima volta da Ernst Kühnel, nel 1959, insieme ad altri disegni e miniature contenuti in quattro volumi: i tomi, di pertinenza della Staatsbibliotheck di Berlino, appartenevano all’ambasciatore prussiano Friedrich Heinrich von Diez che, probabilmente, li acquistò a Costantinopoli nel 1790 insieme ad altre opere di arte orientale (KÜHNEL 1959, pp. 66 sgg.; M. Minasi, in ROMA 2005, p. 351). La scena rappresentata nel disegno è composta da otto figure: al centro, seduta su una Sfinge, è raffigurata Iside-Cerere, con l’abbigliamento e l’acconciatura caratteristici della dea (nella Tazza Farnese, Iside tiene, nella mano destra, alcune spighe di grano, ma questo particolare non compare nel disegno); dietro di lei, Horos-Harpokrates poggia la mano destra sul timone di un aratro e regge, avvolto al braccio sinistro, il sacco delle sementi (anche in questo caso, si nota una differenza rispetto all’originale, nel quale il giovane impugna un vomere); a sinistra è raffigurato Osiride-Serapide, panneggiato dalle anche alle caviglie e adagiato sul tronco di un albero, mentre regge una cornucopia. Controversa risulta l’identificazione delle due figure femminili a destra, riconosciute sia come le Horai, personificazioni delle stagioni delle piene e dei raccolti, sia come Aroura, simbolo dei campi coltivati, con la cornucopia e le spighe di grano visibili dietro le spalle, ed Herse, emblema della rugiada mattutina, con la phiale. I due giovani nudi raffigurati nella parte superiore del disegno rappresentano i venti Etesii che soffiano da Nord, nella stagione estiva, recando frescura (per la complessa iconografia della Tazza Farnese cfr. LA ROCCA 1984; GASPARRI 1994, pp. 75-83). L’attenzione con cui Mohammed al-Khayyam ha eseguito il disegno, indagando i gesti e le pose delle figure, ma anche gli abiti e le acconciature, induce a supporre che abbia visto realmente la Tazza, presso la corte di Herat o di Samarcanda, all’inizio del XV secolo (U. Pannuti, in FIRENZE 1973, p. 71). Tale affermazione consente di aggiungere un tassello significativo nella ricostruzione degli avvicendamenti nella proprietà della Tazza Farnese: dopo la caduta dei Tolomei, la gemma confluì nel tesoro di stato di Roma e, successivamente, nel tesoro costantinopolitano; con la dissoluzione del tesoro di Bisanzio, seguita al sacco del 1204, venne probabilmente ricondotta in Occidente dove, nel 1239, la acquistò l’imperatore Federico II di Svevia (U. Pannuti, in GASPARRI 1994, p. 68). La Tazza seguì le sorti del tesoro di Federico – disperso nel 1253 – per ricomparire, intorno al 1430, ad Herat o Samarcanda dove la vide Mohammed al-Khayyam. Pochi decenni più tardi, prima del 1458, la Tazza è di nuovo in Occidente, a Napoli, come proprietà di Alfonso d’Aragona, dove la ricorda il Poliziano (GIULIANO 1994, pp. 320-321). Successivamente,
nell’inventario della collezione del cardinale Ludovico Trevisan, datato al 1465, viene menzionata: “Vna schodella di’chalcedonio et sardonio co’figure dentro in tagliate di’chamuino et di’chalcidonio di’grandezza il diamitro suo d’ braccia ¹/3 incirca co’ una medusa nel fondo di detta scodella a riuescio i’uno astuccio nero” (BAGEMIHL 1993, p. 562) da identificare, evidentemente, con la Tazza Farnese. Alla morte del cardinale (1465) la gemma entrò nella collezione di papa Paolo II Barbo, al quale rimase fino al 1471, quando fu ereditata dal suo successore, Sisto IV: questi preferì convertire in denaro buona parte di cammei e intagli raccolti dal Barbo, affidando l’incarico al Banco Medici-Tornabuoni in Roma; grazie a questa mediazione, nel 1471, la gemma venne acquistata da Lorenzo il Magnifico in occasione della sua ambasciata presso il pontefice (ACIDINI LUCHINAT 1991a, p. 146). Entrata nella collezione Farnese (1537) – in seguito al matrimonio di Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’ Medici, con Ottavio Farnese – la Tazza seguì le sorti di quella collezione confluendo, alla fine, nelle raccolte del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. M.A.D.P. Bibliografia: FURTWÄNGLER 1900; KÜHNEL 1959, p. 73; BLANCK 1964-1965, pp. 307-312; DACOS 1973, pp. 131-156; U. Pannuti, in FIRENZE 1973, p. 71; BESCHI 1983, pp. 161-176; LA ROCCA 1984; BOBER-RUBINSTEIN 1986, p. 105 n. 68; ACIDINI LUCHINAT 1991a, p. 146; BAGEMIHL 1993, p. 562; GASPARRI 1994, pp. 75-83; GIOVE-VILLONE 1994, pp. 31-59; GIULIANO 1994, pp. 320-321; MILANESE 1994, pp. 107-128; GASPARRI 1994, pp. 64-68; GIULIANO 1998, p. 481; M. Minasi, in ROMA 2005, p. 351; FUSCO-CORTI 2006, p. 128; MAMBELLA 2008, pp. 127-130
Fig. 1 - Tazza Farnese. Napoli, Museo Archeologico Nazionale
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24 - Manifattura italiana Scena allegorica dalla Tazza Farnese secolo bronzo, patina marrone, diam. mm 167 provenienza e acquisizione: collezione Lia La Spezia, Museo Civico “Amedeo Lia”, inv. n. Bp45
XIX
La placchetta in bronzo, composto di una lega ricca di rame, è stata acquistata dal collezionista Amedeo Lia sul mercato antiquario e quindi confluita nel 1996 nel Museo Civico “Amedeo Lia” della Spezia, in seguito all’importante donazione compiuta al Comune di questa città che è all’origine del museo stesso. La placca circolare, nella quale è presente un piccolo foro nella parte superiore probabilmente utile per il suo fissaggio, riproduce la scena allegorica descritta sul fondo della Tazza Farnese, della quale testimonia la fortuna critica. La complessa allegoria è difatti desunta dal celebre cammeo, vero vanto delle collezioni nelle quali, nel tempo, è stato compreso, dalla raccolta del re di Napoli Alfonso V d’Aragona, del cardinale Ludovico Trevisan, del pontefice Paolo II, per approdare, tramite Sisto IV, allo studiolo del Magnifico nel palazzo di via Larga a Firenze. Valutato più di ogni altra gemma, il cammeo pervenne quindi tramite Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’ Medici, nella collezione di Ottavio Farnese, quando questi nel 1538 divenne suo secondo marito. La placca, che testimonia il successo del prototipo, è stata pubblicata da Charles AVERY (1998) nel catalogo Sculture. Bronzetti, placchette, medaglie del Museo. In tale sede viene proposta la datazione al XIX secolo, riferendo la realizzazione di questo oggetto, al pari di altri esemplari conservati rispettivamente a Roma, al Museo di Palazzo Venezia, a Londra, al Victoria and Albert Museum e al Metropolitan Museum of Art di New York, ad una matrice comune, che potrebbe essere derivata da uno stampo in cera, leggermente modificato rispetto all’originale, dal quale sarebbe stato tratto un calco in gesso. L’ipotesi è che questa matrice sia stata dedotta in epoca rinascimentale, forse quando la Tazza era a Roma, parte della collezione di Paolo II, o a Firenze, nelle mani del Magnifico. Va detto, però, che l’esemplare oggi conservato a Londra è stato in realtà datato tra il 1480 e il 1520 e riferito ad una manifattura fiorentina, mentre ancora un ulteriore numero censito a Berlino, non preso in considerazione da Avery, è stato ritenuto di non meglio precisata produzione italiana e datato al XVI secolo. Nelle collezioni di Palazzo Venezia non compare peraltro la placca menzionata da Avery. Recentemente è comparsa sul mercato antiquario un’altra placchetta della stessa serie, di dimensioni leggermente superiore alla nostra (diam. mm 173), che è stata ricondotta all’ambiente romano e datata genericamente al XVIII secolo, sia per il tipo di fusione che per la patinatura, di colore bruno scuro con tracce verdi. Resta poco chiaro come da una matrice rinascimentale, ignota peraltro alla letteratura critica, venissero ricavate fusioni in bronzo ancora nel corso del XIX secolo, così come sostenuto da Avery. In assenza di informazioni documentali e di un calco che possa essere all’origine dei manufatti, che peraltro hanno avuto discreta diffusione come testimoniano, pur nell’incertezza di collocazione cronologica, i numeri noti, si preferisce mantenere una datazione al XIX secolo per il pezzo Lia, la cui finitura appare compatibile a tale periodo. È difatti plausibile che la Tazza Farnese abbia conosciuto un ulteriore momento di fortuna in concomitanza con il successo dei reperti provenienti dagli scavi di Pompei e Ercolano e dell’area vesuviana in genere, quando, come è noto, a seguito delle indagine condotte a partire dalla prima metà del XVIII secolo, vennero immessi sul mercato oggetti derivati o riproducenti la preziosa suppellettile rinvenuta. A.M. Bibliografia: BANGE 1922, nn. 710-711; BOBER-RUBINSTEIN 1986, pp. 104-105, n. 68; AVERY 1998, p. 285 n. 206; Trinity Fine of Arts 1998, n. 18
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25 - Giuliano di Scipione (o Scipio) Amici (doc. a Roma nella seconda metà del XV secolo) Busto di Paolo II
1470 corniola, oro e argento, mm 60 × 36 iscrizioni: PAVLO · VENETO · PAP[E] · II · ANNO · PVBLICATIONIS · IVBILEI · ROMA Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 323
Pietro Barbo, salito al soglio pontificio nel 1464 con il nome di Paolo II, è ritratto nella corniola di profilo, rivolto verso sinistra, con indosso un ricco piviale fermato sul petto da un fermaglio circolare. Sul capo porta un sontuoso triregno, ornato da palmette gemmate disposte su tre ordini e da infule abbellite da piccole croci. La pietra, scheggiata lungo il margine superiore destro in corrispondenza della punta del triregno, è montata in una semplice cornice in oro, chiusa sul verso da una lamina di argento. L’opera, come si deduce dalla legenda a lettere capitali, fu realizzata nel 1470 in occasione della proclamazione del primo giubileo disciplinato secondo le nuove norme introdotte da Paolo II con la bolla Ineffabilis providentia, che ridusse la periodicità giubilare a venticinque anni. Il carattere ufficiale del ritratto, curato fin nei minimi particolari, è sensibilmente accentuato dallo sfarzo delle vesti pontificali esibite dall’effigiato, sulla cui testa è forse riconoscibile quella Mitra Pulchra che, secondo le fonti dell’epoca, fu realizzata ricorrendo a un eccezionale numero di pietre preziose. L’esemplare è ricordato per la prima volta tra gli Intagli moderni grandi della raccolta di Cosimo III de’ Medici descritti da Luigi Strozzi nell’inventario del 1676 (BdU, ms. 78, n. 29). L’attribuzione a Giuliano di Scipione Amici, incisore di gemme documentato a Roma nella seconda metà del XV secolo, si deve al MÜNTZ (1879), che nell’opera del Museo degli Argenti riconobbe “la corniola cum la testa de papa Paulo cum lo regno in testa” citata in un documento della Camera Apostolica del 30 novembre 1471, con il quale l’artista richiedeva il pagamento per alcune gemme fornite al pontefice. Stando a quanto riportato nello stesso atto, a quella data il ritratto non si trovava più nel tesoro del Barbo, bensì presso il veneziano Domenico di Piero, celebre mercante di antichità e gioielliere di cui si servirono in diverse occasioni il re d’Ungheria Mattia Corvino, il papa Pio II Piccolomini, il duca di Ferrara Ercole I d’Este e Lorenzo de’ Medici. Quest’ultimo, in particolare, nel 1487 acquistò da Domenico la celebre corniola con Apollo, Marsia e Olimpo ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (cat. n. 35). Secondo Clifford Malcolm Brown (in BROWN-FUSCO-CORTI 1989), a Giuliano di Scipione Amici sarebbe da ricondurre anche la realizzazione di un cammeo con l’effigie di Paolo II oggi disperso, ma ricordato nell’inventario dei beni del cardinale Francesco Gonzaga risalente al 1483. Sicuramente Giuliano ebbe frequenti contatti con il potente prelato, come dimostrano alcune lettere risalenti al 1482 e al 1484, in cui si fa riferimento alla commissione di una piccola macina “di porphido per tridare sapore” (CHAMBERS 1992, pp. 86, 193-194, doc. 9 e pp. 196-197, doc. 12) e a diverse “gioye et medaglie” procacciate dall’artista per il Gonzaga (Ibid., p. 86 nota 278). Della corniola sono note diverse placchette in bronzo e due in oro, conservate rispettivamente presso il Medagliere Vaticano (M.L. Casanova Uccella, in ROMA 1980, p. 24, n. 7) e il Museo Correr di Venezia (P. Cannata, in ROMA 1984, p. 352, n. VIII.8). Queste repliche si differenziano dalla pietra per la presenza di una elegante cornice terminante in una attaccaglia composta da due foglie di acanto strettamente arricciolate in punta, nella quale va probabilmente riconosciuta la montatura originale dell’intaglio (CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 91 nota 2). R.G.
Bibliografia: GIULIANELLI 1753, p. 126, nota 1; GORI 1767, II, p. CCII; BENCIVENNI PELLI 1779, II, pp. 10-11, nota IX; KING 1872, I, p. 195, note; MÜNTZ 1879, p. 156; KRIS 1929, I, pp. 34, 155, n. 66, II, tav. 19, n. 66; HILL 1930, I, p. 204, n. 787, II, tav. 130 n. 787; RUSCONI 1935, p. 9; FIRENZE 1939, p. 100, T; WEISS 1958, p. 64, fig. 25; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 188, n. 1180; WENTZEL 1971, col. 293; MCCRORY 1979, p. 512, nota 4; P. Cannata, in ROMA 1982, pp. 11-12, fig. 4a; P. Cannata, in ROMA 1984, p. 352, n. VIII.7; SCARISBRICK 1985, pp. 293294; DE WINTER 1986, p. 78; BROWN-FUSCO-CORTI 1989, p. 102, nota 7; CHAMBERS 1992, p. 160, n. 540; GIOVE-VILLONE 1994, p. 48; CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 91 nota 2; MCCRORY 1998, p. 41, fig. 2; V.R. Niemeyer, in ATENE 2003, I, pp. 157-158, n. I.38; DIGIUGNO 2005, p. 30, fig. 26; GENNAIOLI 2007, p. 433, n. 687, tav. XXXV; BARBERINI 2008, p. 31; R. Gennaioli, in MANTOVA 2008b, p. 260, n. 3
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26 - Arte romana Busto di una principessa o di una imperatrice rappresentata come Giunone 10-40 ca. d.C. sardonica, oro e rubini, mm 49 × 36 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14553
Busto femminile di profilo verso destra, con petto coperto da una tunica elegantemente drappeggiata, sulla quale risalta un pendente a goccia formato da un rubino cabochon montato in oro e fissato direttamente alla pietra. Altri sei rubini, simili al precedente, decorano l’alto diadema che cinge la testa dell’effigiata, contraddistinta da lunghi capelli raccolti in una grande coda e in ciocche sinuose che discendono lungo il collo. La pietra, attraversata obliquamente da una incrinatura superficiale, è montata in una semplice cornice in oro dotata di due maglie circolari. L’opera corrisponde perfettamente a uno degli esemplari registrati nell’inventario della ricca collezione del cardinale Pietro Barbo, redatto a partire dal 1457: “Item una tabula alia argentea deaurata, in qua est cameus unicus magnus, videlicet caput mulieris album, cum pectore, peroptimi operis, cum capillis prolixis, cum girlanda in capite de sardonio, in qua girlanda sunt appositi sex rubini parvi, et septimus est in pectore appositus. In spatula vero sinistra est de sardonio et valde modicum ad aurem, et in anteriori parte sunt arma dupplicata ipsius Revmi domini Cardlis, et in parte posteriori sunt versus ut sopra” (MÜNTZ 1879, p. 234). Come si evince dalla minuziosa descrizione fornita dall’estensore del documento, il notaio Giovanni Pierti, il pezzo, al pari di tutti gli altri cammei del Barbo, era stato fissato a una tavoletta di argento dorato recante sulla parte anteriore lo stemma del cardinale, ripetuto due volte, e su quella posteriore dei versi in latino celebranti la sua passione per simili manufatti. Il piccolo rilievo dovette rimanere a Roma nel tesoro di Paolo II fino alla sua morte, sopraggiunta nel 1471. Rimangono ancora da chiarire i successivi passaggi di proprietà del pezzo, documentato per la prima volta a Firenze nel 1635, quando si trovava custodito nello stipo delle medaglie della Tribuna insieme ad altri dodici cammei (BdU, ms. 75, c. 71). Tale collocazione fa presumere che esso facesse parte del nucleo più antico della raccolta fiorentina, voluta da Cosimo I de’ Medici e poi notevolmente accresciuta dai figli Francesco I e Ferdinando I. L’esemplare è stato riferito da Marie-Louise VOLLENWEIDER (1966) a Hyllos, figlio del più celebre Dioskourides, per le sue affinità tecniche e stilistiche con un cammeo simile conservato a Berlino, raffigurante probabilmente lo stesso personaggio, ma con gli attributi di Cerere. Questa proposta ha trovato scarso seguito negli studi successivi, che concordano comunque con la studiosa nel ricondurre l’opera a un periodo compreso fra il 10 e il 40 d.C. Infatti per le sue caratteristiche il cammeo è raffrontabile ad altri pezzi risalenti alla prima età imperiale conservati a Praga e a Parigi (MEGOW 1987, pp. 290-291, nn. D10, D11, D12, tav. 18, nn. 9-10 e tav. 19, n. 1). Diverse le ipotesi formulate sulla identità dell’effigiata, ritenuta una esponente della dinastia Giulio-Claudia assimilata a Giunone. Secondo Wolf-Rüdiger MEGOW (1987), nel busto fiorentino sarebbe da riconoscere un ritratto postumo di Antonia Minore, sorella di Augusto, eseguito a poca distanza dalla sua scomparsa, avvenuta nel 37 d.C. Diversamente la Vollenweider e Mathilde Avisseau-Broustet (VOLLENWEIDER-AVISSEAU-BROUSTET 2003, pp. 88-89, nn. 93-94), analizzando due analoghi cammei della Bibliothèque Nationale di Parigi, hanno avanzato l’ipotesi che la giovane raffigurata sia da identificare con Livilla, nipote di Livia e sposa di Druso Minore. R.G.
Bibliografia: FURTWÄNGLER 1900, 1, tav. LIX, n. 11, 2, p. 267, n. 11; LIPPOLD 1922, p. 180, tav. n. 1; VOLLENWEIDER 1966, pp. 12, nota 5, 73, 121, tav. 84, n. 4; MEGOW 1987, p. 290, n. D9, tav. 18, n. 8; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 266, n. 214; L. Tondo, in TONDOVANNI 1990, p. 41, n. 107; TONDO 1996, p. 109, n. 107; VOLLENWEIDER-AVISSEAU-BROUSTET 2003, pp. 88-89, n. 93; ZANIERI 2005, p. 96, fig. 11; R. Gennaioli, in MANTOVA 2008b, p. 265, n. 11 LXXII,
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27 - Bottega fiorentina (?) Centauro
seconda metà del XV secolo bronzo ovale, patina scura, mm 49,4 × 40,4 Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, inv. n. PV 10589/3
La placchetta è derivata dal cammeo in sardonica del Museo Nazionale di Napoli proveniente dalla collezione glittica medicea: si tratta di una fedele riproduzione dall’antico, dove l’autore del piccolo bronzo ripete, con la stessa monumentalità e semplicità, la gemma di età imperiale certo avvalendosi di una sua impronta. L’elencazione del cammeo nell’inventario redatto alla morte di Lorenzo de’ Medici nel 1492 sembra privilegiare Firenze quale probabile luogo dove sia avvenuta la fusione della placchetta, attribuzione forse confermata dall’assenza della gemma nell’inventario romano del 1457 della collezione d’opere d’arte appartenenti al cardinale veneziano Pietro Barbo, che, è bene ricordare, dopo tale catalogazione ancora per sette anni come cardinale ed altri sette come papa Paolo II continuò ad incrementare le sue collezioni di gemme ed opere d’arte spendendo somme ingentissime (P. Cannata, in ROMA 1982, p. 13). A Firenze nel Quattrocento la figura del Centauro dell’antico cammeo decora alcune opere con significati diversi in dipendenza del luogo dove dette opere sono collocate. La riproduzione più significativa è nel gruppo di Giuditta ed Oloferne di Donatello, dove sul retro della corazza del generale è posto un rilievo con il tondo del Centauro; malgrado la veste di Giuditta copra quasi per intero l’immagine, questa rimane tuttavia ben riconoscibile. La presenza del Centauro sulla corazza di Oloferne, generale dell’esercito assiro-babilonese, che, secondo il Libro di Giuditta nell’Antico Testamento, opprime con l’assedio il popolo di Betulia, la città della leggendaria eroina ebrea, assume il valore di sua impresa; emblema certamente negativo perché raffigurazione di un essere mostruoso dalla doppia natura, umana e bestiale. Il gruppo di Donatello con i due personaggi di Giuditta, salvatrice del suo popolo, e di Oloferne, violento e dissoluto oppressore, pure nelle varie e diverse collocazioni –dal giardino della residenza medicea di via Larga sino alla “ringhiera” di Palazzo Vecchio – non è solo una semplice raffigurazione veterotestamentaria, ma è emblema civico e politico da approfondire nei suoi significati iconografici e iconologici, anche avvalendosi delle differenti iscrizioni esplicative apposte al gruppo nelle diverse sedi della sua collocazione. A Firenze il Centauro del cammeo mediceo ritorna, assieme alla riproduzione di altre gemme, nei medaglioni del cortile michelozziano di Palazzo Medici di via Larga (Diomede e il Palladio, Bacco e Arianna su un carro condotto da Psychai, Satiro e il piccolo Dioniso, Icaro e Dedalo, Athena e Poseidon in gara per il possesso dell’Attica) alternati a quattro medaglioni con l’emblema della famiglia Medici. Decorazione interessante, ma risulta difficile una decifrazione unitaria delle gemme medicee scelte: il Centauro e gli altri rilievi forse esprimono soltanto una esaltazione e valorizzazione della grande raccolta glittica medicea. Fuori Firenze il compito di diffondere ovunque la raffigurazione del Centauro dell’antico cammeo spetta sicuramente alle numerose fusioni della placchetta: principalmente sono gli scultori ed i lapicidi lombardi che inseriscono l’immagine nei loro repertori di complesse decorazioni di portali, stipiti, archi, finestre, plinti e tombe: così l’antica immagine ritorna accanto alla teoria dei tondi con ritratti di imperatori e condottieri, tra vegetazioni e candelabri, nel fastigio di uno dei finestroni del lato destro del Duomo di Como (P. Cannata, in ROMA 1982, fig. 45). Ancora, il tondo del Centauro è ripetuto nell’Arca marmorea di Giacomo
Stefano Brivio nella basilica di Sant’Eustorgio a Milano, opera questa dei fratelli Tommaso e Francesco da Cazzaniga in società con Benedetto Briosco: qui il Centauro fa parte di una serie di sei tondi, riproducenti soprattutto antiche gemme, posta a decorare i quattro basamenti cubici sui quali sono impostate le colonne lavorate “alla tedesca”, cioè a forma di candelabro, che sostengono l’Arca (iniziata nel 1486). P.C. Bibliografia: P. Cannata, in ROMA 1982, pp. 40-41, n. 8 con bibl. prec.; L. Martini, in MARTINI-CIARDI DUPRÉ DAL POGGETTO-RAVANELLI GUIDOTTI 1985, p. 65, n. 5; CANNATA 1987, pp. 5556, n. 16; TODERI-VANNEL TODERI 1996, pp. 21-22, n. 12; JESTAZ-FRANCO 1997, p. 94, n. 84
La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico
28 - Tritone, Venere e due Amorini I-II
secolo d.C. (?) (rilavorato in epoca successiva) calcedonio e oro, mm 31 × 23 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14465
Sul cammeo è raffigurata una giovane donna nuda, identificabile forse con Venere Anadiomene, seduta sulla spalla sinistra di un tritone dal volto barbato, che stringe nella mano destra un timone. La fanciulla ha il capo coperto da un lungo velo trattenuto alle estremità dal mostro marino e da un amorino intento a suonare i crotali. Il gruppo è preceduto da un altro amorino che nuota fra le onde del mare. La pietra, montata in una semplice cornice in oro dotata di due maglie circolari saldate alle estremità verticali, reca sul verso una croce a tau e altre lettere incise in modo sommario. L’opera proviene dalla ricca collezione di gemme del cardinale Pietro Barbo, eletto pontefice nel 1464 con il nome di Paolo II, e figura nell’inventario dei suoi beni redatto a partire dal 1457: un “cameus magnus, mostrum marinum, homo senex nudus usque ad ventrem habens caudam piscis, in manu dextra tenet temonem, et mulier nuda sedet super brachium ejus sinistrum, que mulier trahit capillos suos ambabus manibus, et ipse senex tenet cum manu sua sinistra pannum, et puer nudus allatus stans super caudam ipsius senis et tenens eciam eundem pannum in manibus, et puerulus parvus allatus natat prope ipsum senem” (MÜNTZ 1879, p. 234). Dal documento risulta che il calcedonio, come tutti gli altri cammei posseduti a quell’epoca dal cardinale di S. Marco, era montato con altri quattro esemplari raffiguranti ritratti imperiali (due femminili e due maschili) su una preziosa tavoletta di argento dorato contrassegnata sulla parte anteriore dallo stemma del Barbo ripetuto due volte e su quella posteriore dalla iscrizione latina celebrativa “Petrus herus meus est venetis generosus alumnus/ Barbus cardo sacertuus et Vicentia praesul/ horum operum ingeniis miro oblectatus amore” (GENNAIOLI 2008a, p. 74). Non è nota la data d’ingresso del cammeo nella raccolta glittica fiorentina dei Medici, dove è ricordato per la prima volta dall’antiquario della Galleria degli Uffizi Sebastiano Bianchi nell’inventario da lui redatto prima del 1736. Sommariamente descritto da Giuseppe Pelli Bencivenni nel 1786, il pezzo fu inserito, nel 1799, da Tommaso Puccini nel gruppo degli esemplari più importanti della raccolta, giudicandolo antico e raffigurante Venere Anadiomene condotta da Tritone, ministro della dea, alla reggia di Oceano. Analoga interpretazione fu fornita anche da Giovan Battista Zannoni nel secondo volume della sua Reale Galleria di Firenze illustrata del 1831, in cui però l’erudito espresse forti dubbi sull’autenticità della pietra, ritenendola una imitazione riconducibile a un abile incisore del Cinquecento. In favore di una datazione al XVI secolo del cammeo si è pronunciato più recentemente anche Luigi TONDO (1992), ma il suo legame con la collezione Barbo e lo stile delle figure inducono a ritenerlo un lavoro di epoca romana rilavorato probabilmente in antico, come sembrano dimostrare certi particolari del rilievo e soprattutto la presenza delle lettere incise superficialmente sul verso, eseguite forse in epoca bizantina. R.G. Bibliografia: ZANNONI 1824-1831, II, 1831, pp. 21-25, tav. 38, n. 4; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 150, n. 22; L. Tondo, in TONDO-VANNI 1990, p. 37, n. 44; TONDO 1996, p. 103, n. 44; R. Gennaioli, in FIRENZE 2005b, p. 290, n. 168; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 2007, p. 50, n. 268; R. Gennaioli, in MANTOVA 2008b, p. 264, n. 9
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29 - Plinius Naturalis Historia
Firenze, secolo XV [1458]; Francesco d’Antonio del Chierico e Ricciardo di Nanni membranaceo, mm 395 × 287, cc. I, 486, I’; legatura originale medicea della seconda metà del secolo XVI, restaurata Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 82.4
Il manoscritto, il cui copista è stato identificato dalla De la Mare in Messer Piero di Benedetto Strozzi (1416-1492 ca) venne confezionato per Piero de’ Medici di cui conserva l’ex libris o per Giovanni, come dimostrerebbe l’impresa del pavone, intorno al 1458 nella bottega del cartolaio Vespasiano da Bisticci. Francesco d’Antonio del Chierico lascia la sua firma in colte lettere greche a c. 3, ma la decorazione si deve poi interamente a Ricciardo di Nanni, che lavorava in quel periodo per i Medici e la cui frequentazione gli permise di conoscere e studiare le “anticaglie” conservate in Palazzo o comunque ben note in quell’ambiente, riprodotte nella maggior parte dei manoscritti medicei. Fanno da contrappunto alla dignitosa immagine dell’autore nella grande iniziale numerose figure femminili seminude che giocano con i drappi, volti più o meno avviluppati nei veli, putti e centauri, oltre a una fauna assai varia che movimenta la cifra della decorazione marginale dei tralci ordinatamente avviluppati. La contrapposizione tra i corpi nudi e vestiti sembra il motivo conduttore e si unisce con coerenza semantica al folto bestiario che popola le bordure impiantate ancora sul fraseggio dei bianchi girari. Nelle due complesse pagine (cc. 1r, 6r) le citazioni dall’antiquaria costituiscono il fulcro dei fregi animati e culminano nella straordinaria invenzione della giovane divinità seduta sotto un baldacchino, che cita la Venere medicea con una connotazione di stampo neoplatonico e lucreziano, avvicinandola all’alma mater. Il bel nudo femminile è stato accostato, nell’impianto e nel panneggio della tenda, alla Madonna del Parto di Piero della Francesca: anche qui vasta è la gamma dei riferimenti che confluiscono nel conio di un’immagine di rara potenza. La base letteraria e speculativa è derivata da Plinio e Lucrezio, ma la torsione del busto viene dalla statuaria, e i Medici possedevano un torso di Venere, mentre la gestualità e la composizione sono in debito alla glittica ed è intrigante il richiamo almeno alla gemma medicea di Afrodite che cavalca il leone accompagnata dall’amorino (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 25839 n. 7). I putti sono vitali e vivacemente in moto; i due che culminano il fregio paiono derivare da un corteo dionisiaco. E non manca il centauro con la sua doppia natura a ribadire il significato della conoscenza e della spinta dell’eros beninteso verso la conquista dell’”umanità” nel senso pieno del termine. La lettura dei due complessi frontespizi appare così tutta giocata sulle due facce dell’amore, a cui concorrono anche le suggestive citazioni dei bestiari. I due cervi di c. 1r vigilano affrontati lo stemma: sono animali cristiani per eccellenza, simbolo di Cristo ma anche degli sposi timorati e morigerati, a cui fanno raffronto e contrasto a c. 6 le due scimmie lascive, la lussuria, l’amor carnale. Questa interpretazione vitalistica delle divinità erotiche è evidentemente cara a Ricciardo, che la usa con grande disinvoltura e correttezza, inclinandola verso il versante cristiano senza nulla togliere alla cultura classica. Il precoce utilizzo del repertorio della glittica conferisce a queste pagine un valore straordinario che consente di valutare la portata della diffusione del gusto archeologico classico e del significato che si veniva attribuendo in ambito politico culturale. Al tempo stesso è evidente la presenza di reperti da osservare ma anche di repertori a cui attingere, fossero essi calchi, placchette o semplicemente disegni e modelli. G.L. Bibliografia: BANDINI 1774-1778, III, 1776, coll. 188-189; AMES-LEWIS 1984, pp. 331-332, n. 85; GARZELLI 1985, I, pp. 56-58, 71-72, 133-134; DE LA MARE 1985, pp. 428, 531, 570; A.R. Fantoni, in FIRENZE 2005b, pp. 309-310, n. 188; I.G. Rao, in TOKYO 2008, p. 252, n. II.1
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30 - Publius Papinius Statius Achilleis, Silvae
Firenze, secolo XV, ultimo quarto; Gherardo di Giovanni membranaceo, mm 173 × 96; cc. III, 111, III’; legatura del secolo XIX in tela rossa su cartoni, dorso e punte in cuoio Firenze, Biblioteca Riccardiana, Ricc. 712
L’elegante frontespizio gioca su citazioni antiquarie, a partire dalla tabella azzurra rara come un lapislazzulo, su cui si incide la preziosa crisografia del titolo che richiama l’epigrafia romana con l’aggetto e l’importanza dell’iscrizione dedicatoria di un arco di trionfo. La pagina, che non si qualifica come una delle opere più eccelse di Gherardo pur conservandone l’abituale eleganza, è incorniciata da una ricca bordura floreale, interrotta da anfore fiancheggiate da putti e da clipei e formelle dove trova luogo, oltre all’impresa della palma con la macina e agli stemmi medicei (“D’oro a otto palle di rosso”), la figura di Achille armato a mezzo busto nel margine esterno fronteggiato da un altro armato, in un ovale di minori dimensioni, nel margine interno, forse Ettore, in allusione al testo. Tornano, come citazioni dal repertorio antiquario tipiche di Gherardo, la grande moneta aurea romana del margine superiore e i due cammei con profili “romani”, uno maschile e uno femminile del margine inferiore, sovrastanti una grande patera che contiene la riproduzione in oro di un cammeo mediceo, raffigurante il tirso di Bacco, con due putti seduti ai lati. La figura dell’autore, di piccole dimensioni, emerge dalla forbice delle aste della lettera M (Magnanimum), abbigliata alla moderna secondo lo stile fiorentino; tiene un libro chiuso nelle mani. Il volto minuscolo conserva tuttavia quei tratti malinconici, che risaltano sul candore marmoreo dell’incarnato, tipici di Gherardo. La struttura del frontespizio allude alla gloria dei Medici e, secondo le più comuni interpretazioni simbolico allegoriche di altri consimili apparati dove trionfano le citazioni antiquarie, cela qualche personaggio della casata, di cui si vogliono celebrare le virtù civili paragonate a quelle degli antichi. Interessante la figura di Achille che, oltre ad affermare un palese legame coerente tra testo e decorazione, potrebbe in qualche modo adombrare un personaggio reale, come già il Giuliano nascosto nell’Achille dell’Iliade medicea (Firenze, BML, Plut. 42.4). La pagina acquista una nuova tridimensionalità per la presenza di elementi architettonici come le monumentali ‘fontane’, grandi coppe orafe finemente lavorate con palmette o baccellate, plinti marmorei con teste di cherubino, festoni, fili di corallo. Tuttavia l’occhio viene guidato verso la gemma del margine inferiore, entro la quale sono raffigurati Dioniso e Arianna a Nasso, il così detto Tirso di Bacco. La scena è la replica esatta della placchetta aurea ora conservata al British Museum di Londra (inv. 2903), che poté essere conosciuta da Gherardo attraverso la copia eseguita per il cortile di Palazzo Medici dalla bottega di Donatello (FIRENZE 1973, figg. 70, 84), comunque nota a Firenze, riproposta anche nel ms. Ashb. 965 della Biblioteca Laurenziana e nel ms. 763 della Biblioteca universitaria di Valencia, entrambi prodotti nella bottega di Gherardo (GARZELLI 1985, II, fig. 947) intorno agli anni settanta. La De La Mare sostiene, con il Reeve, che il testo è stato copiato dall’edizione di Venezia del 1475 e corretto su quella di Roma dello stesso anno. L’arco cronologico si precisa considerando che il copista Jacopo di Poggio Bracciolini, che si sigla con il suo monogramma “бμ. бμ. бμ” alle cc. 23v, 24v, 110v (DE LA MARE 1985, p. 507) fu impiccato il 26 aprile 1478 per aver preso parte alla congiura dei Pazzi. G.L. Bibliografia: Inventario e stima 1810, p. 18; D’ANCONA 1914, I, p. 79, II, p. 1406; SCURICINI GRECO 1958, n. 135, pp. 167-168; REEVE 1977, p. 215; A. Garzelli, in GARZELLI 1985, I, p. 301; DE LA MARE 1985, p. 507; FIRENZE 1985a, p. 119; DE ROBERTIS-MIRIELLO 1997-2006, I, n. 139, p. 72; FIRENZE 1998a, n. 7, pp. 65-67; DBMI 2004, pp. 261, 1030; CECCANTI 2009, n. 46, pp. 159-161
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31 - Canzoni a tre e quattro voci
Firenze, secolo XV, fine; Gherardo e Monte di Giovanni Cart. e membranaceo, mm 240 × 170; cc. V, 325; legatura di restauro con recupero della precedente coperta in cuoio, taglio dorato e goffrato Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Banco rari 229
Il codice contiene 268 composizioni, di cui 110 sono state attribuite a vari autori, mentre le altre sono rimaste anonime. Ben 22 sono state assegnate a Heinrich Isaac, che rivestiva un ruolo di primo piano alla corte medicea, e 19 a Jannes Martini. Le prime carte membranacee, nella ricchezza dell’apparato illustrativo, contrastano fortemente con l’intera compagine del codice, cartacea, decorata da iniziali di ben diversa fattura e anche di diverso impianto iconografico in forma di rigidi nastri, talvolta adorne di figure commiste e multiformi vicine alla sensibilità d’oltralpe e quasi al gusto delle droleries di tanti fregi marginali dei manoscritti franco fiamminghi. Si distinguono invece, per la raffinatezza dell’ornato, le due splendide “carte tinte”, rare nella produzione fiorentina, che ripropongono l’aspetto prezioso del tessuto o della lastra marmorea all’antica. Il fondo rosso e azzurro, aulico ricordo dei grandi codici antichi e delle disposizione delle pareti pompeiane e romane, dove la notazione musicale si inserisce in armonia con il brillare dell’oro, consente di disporre illusionisticamente il testo come una pagina nella pagina. Il ritratto alla moderna, entro il classico clipeo, si inserisce in una delicata ed elegante decorazione a monocromo, che poi trama le bordure contro il fondo scuro con accennate panoplie. Lo stemma dei Braccesi nel bas de page ha suggerito di identificare con il nobile fiorentino Alessandro Braccesi, politico e letterato, il personaggio già riconosciuto come Jannes Martini, autore delle composizioni presenti in queste carte. Nella pagina a fronte è raffigurato Tubalkain, mitico inventore della musica, che batte l’incudine come nella formella di Andrea Pisano del campanile di Giotto, dove lavora i metalli nella raffigurazione della metallurgia ma vestito come un operaio del tempo; ancora più calzante è il confronto con la rappresentazione dell’astrologia di Luca della Robbia nella formella 19 del Campanile, dove, ugualmente paludato nelle dignitose vesti alla grecanica e il turbante, ripete il medesimo gesto. La CIARDI DUPRÈ (1994) attribuisce la paternità dell’inserto decorativo a Pedro Berruguete che, nella strada per Urbino si sarebbe fermato a Firenze entrando in contatto con Gherardo e la sua bottega (ribadito in CIARDI DUPRÈ DAL POGGETTO Riccardiano 2669 p. 143 dove peraltro rettifica che il ritratto del poeta nell’iniziale di c. Vr spetta a Gherardo). La lezione fiamminga, molto amata in ambiente mediceo indipendentemente dall’apporto del pittore spagnolo, è palese soprattutto nella morfologia delle espressive figure dei venti di c. IIIv, che soffiano indicando l’entrata delle quattro voci del canone, ricordando l’immagine ormai canonica dei Tolomeo miniati tanto in voga anche nella Firenze laurenziana. Il canone circolare rappresenta il mondo, come dichiara il motto Mundus et musica et totus concentus Bartholomeus Rami che cita la definizione di Bartolomè Ramos de Pareja, famoso per il suo trattato Musica practica stampato a Bologna nel 1482, traducendo visivamente il complesso concetto che macrocosmo e microcosmo sono costruiti nella stessa armonica proporzione e che la musica riflette le leggi che regolano il mondo. All’azzurro e all’oro metafisico regale e sacrale della pagina tinta, che assume un aspetto di grande spiritualità e magnificenza consono al sottile intellettualismo che la pervade, si unisce il tocco colto e raffinato della citazione dei versi della terza satira di Orazio, trascritti in crisografia nella aulica lettera capitale che, come una elegantissima epigrafe, si dispongono in un cartiglio rosso tenuto da due eroti. Il concetto pitagorico platonico dell’armonia delle sfere e della funzione catartica e organizzatrice della musica si traduce nelle splendide pagine, oltre che nelle forme dei cerchi del canone, anche nella misura pausata della decorazione e nella
concordanza tra testo e immagine. Il richiamo al mondo classico si materializza poi nei monocromi con i cammei: la GARZELLI (1985, p. 300) nota che il cammeo con l’infanzia di Dioniso riporta la variante donatelliana di Amore Atys e si interroga sul motivo per cui Gherardo reinterpreta la gemma. Sarebbe suggestivo pensare alla citazione di Eros-Anteros in linea con l’interpretazione neoplatonica del mondo come armonia in rapporto alla funzione della musica, considerando la frequente consonanza del tema vitalistico dionisiaco con quello dello slancio erotico inteso come spinta verso la conoscenza. Non è comunque da sottovalutare l’utilizzo delle gemme come gusto diffuso e colta citazione dall’antico. G.L. Bibliografia: M.A. Bacherini Bartoli, in FIRENZE 1992d, pp. 41-44, n. 1.14 (con bibl. prec.)
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32 - Bibbia in 3 volumi
Firenze, secolo XV, ultimo quarto; Attavante degli Attavanti e Gherardo e Monte di Giovanni membranaceo, mm 535 × 365; cc. (I vol.) I, 278, I’; (II vol.) II, 307, I’; (III vol.) I. 196, I’; legatura medicea della seconda metà del XVI secolo Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 15.17
Mattia Corvino, re d’Ungheria, aveva commissionato alle migliori botteghe fiorentine questa immane opera in tre volumi: Attavante decora i primi due e i fratelli Gherardo e Monte di Giovanni il terzo, realizzando un vero capolavoro. Proprio in questo ultimo tomo è stata riconosciuta la mano dell’elegante copista Antonio di Francesco Sinibaldi (DE LA MARE 1985, p. 486) che trascrive il testo in una chiara littera antiqua, la scrittura umanistica per eccellenza. La Bibbia, fatta eseguire intorno al 14851490 dal re con la mediazione del suo bibliotecario Taddeo Ugoleto, oltre all’intervento di Bartolomeo Fonzio e dello stesso Attavante nell’organizzazione del lavoro, rimase a Firenze, assieme ad altri manoscritti ordinati dal sovrano ed entrò a far parte della biblioteca privata dei Medici. Nel volume segnato Plut. 15.17 l’apparato decorativo si limita ai due fogli di apertura (cc. 2v-3r), tuttavia eccezionali per dimensioni e ricchezza di ornato. L’ispirazione al mondo classico è diventata ormai parte integrante del linguaggio artistico di questa elevata bottega e si esprime sia nella profusione delle citazioni archeologiche che nello spirito che ormai pervade le lussuose pagine. La splendente figura di David che suona il salterio seduto in trono (c. 3r), armato e ingioiellato, appare come un omaggio al committente raffigurato con le insegne del potere e al tempo stesso della sacralità del re-eroe della Scrittura. Il testo scritto in oro su fondo porpora riprende la tradizione dei codici purpurei antichi e cita con coerenza il significato simbolico dei materiali e dei colori: porpora e oro, la sacralità e il potere imperiale. Nei ramaggi d’oro che tramano le bordure è un brulicare di figure e scene in cui anche le citazioni dei cammei e delle gemme hanno un ruolo ormai codificato nel repertorio della bottega. Gli accenni ai carri di trionfo dionisiaci, come nel famoso Didimo (ms. 496, New York, Pierpont Morgan Library) ancora per il re d’Ungheria, trovano corrispondenza nella intellettualistica unione di vitalismo e sapienza, secondo una interpretazione che sembra ormai accreditata nella cultura fiorentina del momento. La città è presente e protagonista nella veduta alle spalle di sant’Agostino o qui sullo sfondo di entrambi le scene principali. Il racconto delle Scritture è calato nella contemporaneità grazie all’ambientazione, mentre le citazioni dalla romanità in generale attraverso le costruzioni architettoniche come ossatura della pagina e in particolare attraverso le monete e le gemme, diventavano per Mattia Corvino suggestive come legame con il mondo occidentale di un sovrano che stava ai confini con l’Islam e per Firenze come segno del suo ruolo di erede della civiltà classica. L’identificazione di Firenze con le città emblematiche come Gerusalemme, Roma e Bisanzio, profondamente radicata anche nella cultura umanistica, trova a livello artistico una ulteriore giustificazione nella disinvoltura dell’uso ormai diventato comune di attualizzare la storia – sacra e profana – calandola nel presente. Il paesaggio urbano diventa quindi il luogo deputato per far parlare persino l’episodio biblico, in linea con il linguaggio e le immagini adottate anche dai predicatori che rendevano ancor più vive e accessibili le storie delle scritture con la vicinanza cronologica e l’utilizzo di luoghi facilmente riconoscibili per quotidiana familiarità. Nella battaglia tra ebrei e filistei, dove la struttura architettonica è un trionfo di citazioni archeologiche con monocromi a biacca su fondo azzurrino che copiano i cammei, la città di Ebron è in realtà Firenze, ricordata attraverso monumenti simbolo come Orsamichele e santa Croce, il campanile di Giotto, la loggia di piazza. I filistei in vesti turchesche incarnano gli infedeli, la guerra contro i Turchi è omologata alla guerra di Israele, come la distruzione di Troia aveva adombrato quella di Bisanzio
nelle miniature di Apollonio (Firenze, BR, Ricc. 492). E ancora al miniatore cofanario e ai suoi enigmi richiama la terna dei sovrani (c. 2v) astanti della preghiera di David genuflesso. Oltre a Carlo VIII e Mattia Corvino, facilmente riconoscibili, l’altro ancora non sicuramente identificato, fa ricordare le discussioni sul giovane terzo dei magi degli affreschi del Gozzoli a Palazzo Medici, e più lontano sul problematico personaggio biondo della Flagellazione di Piero della Francesca. Forse anche la vicenda di David, di cui si rappresenta l’unzione divina nel fondo pagina e la raccolta dei ciottoli sul greto del fiume, dove si specchia come Narciso al fonte, va inserita nel suo significato simbolico nell’ambito dei riferimenti che si dispiegano nelle mille citazioni classiche, fondendo il lessico umanistico con l’iconografia liturgica nella celebrazione della città e dei suoi governanti, del mondo occidentale e dei suoi sovrani contro il pericolo degli infedeli portatori dell’ignoranza, oltre che del male. G.L. Bibliografia: GARZELLI 1985, I, pp. 303-304; DE LA MARE 1985, pp. 414, 468, 486; I.G. Rao, in MODENA 2002b, pp. 217-220 con bibl. prec.
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33 - Donato di Niccolò Bardi, detto Donatello (Firenze, 1386-1466) Busto di giovane platonico
1453-1454 bronzo, h. cm 39 Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. Bronzi n. 8
Il controverso busto bronzeo è menzionato per la prima volta nell’inventario della Guardaroba di Cosimo I del 1560 come “una testa con parte del busto et co’ capelli et nel petto una medaglia entravi Febo sul carro” (Archivio di Stato di Firenze, GM 45, c. 65v); successive citazioni si trovano negli inventari degli Uffizi del 1769, 1780, 1784 e 1825 per poi pervenire nel 1865 al Bargello. Secondo TSCHUDI (1887, p. 24), la sua fortuna iniziò quando Bode propose di identificare il giovane con Giovanni Antonio da Narni, figlio di Erasmo detto il Gattamelata, riferendolo al periodo padovano di Donatello; identificazione accolta da vari studiosi (SEMPER 1887, p. 24; TSCHUDI 1887, p. 24). Il medaglione appeso ad un nastro che il giovane porta al collo e che riproduce un cammeo classico raffigurante il carro dell’anima di cui parla Platone nel Fedro (tradotto da Leonardo Bruni nel 1424) ne ha determinato l’appellativo di “busto platonico” (SCALINI 1988, p. 61; I. Taddei, in MIRANDOLA 2001, p. 104). Il cammeo antico si trova citato nell’inventario di Pietro Barbo del 1457 (PANOFSKY 1960, p. 189) e successivamente nell’inventario in morte di Lorenzo il Magnifico. A seguito delle osservazioni del WITTKOWER (1937-1938, pp. 260-261) in merito al medaglione, il bronzo è stato messo sempre in relazione agli ambienti neoplatonici fiorentini. Il fatto che il cammeo non dovesse essere noto prima della metà del Quattrocento, a tal proposito CHASTEL (1950, pp. 73-74) fa notare come l’immagine platonica dell’anima avesse acquisito notorietà solo a partire dal Commentario scritto da Marsilio Ficino nel 1475, portò alcuni studiosi a posticipare la datazione del busto tra gli anni sessanta e ottanta del Quattrocento negando quindi l’attribuzione a Donatello. Fu il LANYI (1939, pp. 16-22) a respingere per primo con vigore l’attribuzione donatelliana, constatando ad esempio una carenza di individualità rispetto sia al Busto–reliquiario di san Rossore che al volto del Gattamelata e avanzando l’attribuzione ad un artista della generazione successiva che l’avrebbe realizzato tra il 1460 ed il 1480. Il problema era di “trovare un’alternativa convincente al nome tradizionale ma troppo alto di Donatello” (M. Collareta, in FIRENZE 1992b, p. 24); in questa direzione CHASTEL (1961, pp. 39-44) propose per primo di attribuire l’opera a Bertoldo, seguito successivamente da Conti (A. Conti, in FIRENZE 1980, pp. 312-313) e da Collareta, il quale ritenne di dover “indagare in direzione di
uno scultore fortemente connotato da tratti di dilettantismo come Bertoldo” evidenziando però la difficoltà di confrontare un oggetto come il busto con la produzione più tipica dell’artista (costituita da rilievi e statuette) e ricorrendo al confronto con una sua placchetta degli inizi dell’ottavo decennio del Quattrocento al Louvre raffigurante una Madonna stante con Bambino ed angeli (M. Collareta, in FIRENZE 1992b, p. 24-25). Tra le altre ipotesi, BADT (1958, pp. 78-87) e successivamente PARRONCHI (1984, pp. 301-309) spostarono l’attribuzione dell’opera in direzione di Leon Battista Alberti grazie al confronto con due placchette conservate rispettivamente al Louvre e alla Kress Collection; ma mentre il Badt propose d’identificare il soggetto come un possibile autoritratto dell’Alberti, Parronchi vi ravvide un probabile ritratto di Lionello d’Este. In anni più recenti ZERVAS ed HIRST (1987, p. 208) propongono con determinazione di assegnare il busto a Desiderio da Settignano suggerendo paragoni con quello in terracotta raffigurante san Leonardo (conservato nella Sagrestia Vecchia di San Lorenzo) comunemente attribuitogli. SCALINI (1988, pp. 61-62) ritiene il busto opera di un collaboratore di Donatello riecheggiante marmi ellenistici, mentre ROSENAUER (1993, pp. 315-316) e LUCHS (1995, pp. 125, 218), che identifica nel soggetto Isocrate figlio di Socrate, considerano l’eventualità che si tratti di un’opera realizzata in ambiente padano sulla scia delle sculture donatelliane della Basilica del Santo. Altri ancora propongono di ricercarne la paternità nel mondo dei bronzisti minori del Quattrocento fiorentino gravitanti attorno a Donatello, come Maso di Bartolomeo e Pasquino da Montepulciano (CAGLIOTI 2000, p. 167, n. 61). Tra gli studiosi che sostengono con decisione l’attribuzione dell’opera a Donatello vi sono JANSON (1957, II, pp. 141-143), il quale pensa si tratti di un ritratto idealizzato eseguito intorno al 1440, AVERY (1991, p. 126; C. Avery, in CIARONI 2007, pp. 23-29) e LEWIS (2001, pp. 33-53), che mette in luce nuovi elementi per l’ascrizione al maestro. Lo studioso ritiene d’identificare questo busto con una testa in bronzo di Donatello citata in una lettera di Piero de’ Medici datata 12 settembre 1484 sul trasporto di alcune opere da Faenza alla villa di Cafaggiolo. Grazie al confronto con le opere di Donatello a Padova e con la ripresa del tema del Fedro in opere posteriori come nel medaglione al collo di Gesù Bambino nella cosiddetta Madonna Malatesta di Agosti-
no di Duccio al Victoria and Albert Museum di Londra (databile al 1454), in una placchetta della National Gallery of Art di Washington (1455 circa) e infine nel fregio di Antonio Rossellino che orna il basamento del monumento funerario del cardinale del Portogallo in San Miniato al Monte (1460 circa), Lewis ascrive l’opera al soggiorno di Donatello tra Padova e Venezia, quando sotto l’influenza di umanisti greci lì confluiti dopo la caduta di Costantinopoli (29 maggio 1453), avrebbe scolpito una delle sue ultime opere prima di rientrare a Firenze sul finire del 1454. M.B. Bibliografia: SCHMARSOW 1886, p. 206; MILANESI 1887, p. 26; SEMPER 1887, p. 24; TSCHUDI 1887, p. 24; SEMRAU 1891, p. 95; BODE 1892, tav. 134a; I. B. Supino, in ROSSI-SUPINO 1898, pp. 65-66; SCHOTTMÜLLER 1904, p. 105; SCHUBRING 1907, p. 68; VENTURI 1901-1940, VI, 1908, p. 296; CRUTTWELL 1911, p. 121; KAUFFMANN 1935, pp. 52-53; PARIGI 1935, p. 311, n. 1032; WITTKOWER 1937-1938, pp. 260-261; LANYI 1939, pp. 9-22; CHASTEL 1950, pp. 73-74; MORISANI 1952, p. 77; JANSON 1957, II, pp. 141-143; BADT 1958, pp. 78-87; GRASSI 1958, p. 81; PANOFSKY 1960, p. 189; CHASTEL 1961, pp. 39-44; CASTELFRANCO 1963, p. 79; LAVIN 1970, p. 212; SCHUYLER 1976, pp. 96-101; AMESLEWIS 1979, pp. 145-146; FOSTER 1980, p. 150; A. Conti, in FIRENZE 1980, pp. 312-313; DACOS-GROTE-GIULIANO-HEIKAMPPANNUTI 1980, pp. 95, 114, fig. 75; PARRONCHI 1984, pp. 301309; M. Collareta, in FIRENZE 1985b, pp. 336-337, n. XVII, fig. 135-139; ZERVAS-HIRST 1987, pp. 207-208, tavv. 72-73; SCALINI 1988, pp. 61-62, fig. 238; AVERY 1991, p. 126, n. 72; M. Collareta, in FIRENZE 1992b, pp. 24-25, n. 9; DRAPER 1992, pp. 254-255; ROSENAUER 1993, pp. 315-316, n. 87; LUCHS 1995, pp. 125, 218, fig. 19; G. Toderi, in TODERI-VANNEL TODERI 1996, p. 18, n. 1; CAGLIOTI 2000, I, p. 167, n. 61; I. Taddei, in MIRANDOLA 2001, pp. 104-105; M. Tamassia, in TOKYO-ROMA 2001, pp. 6364, n. I.7; LEWIS 2001, pp. 33-53; M.G. Vaccari, in ATENE 2003, p. 197, n. II.3; C. Avery, in CIARONI 2007, pp. 23-29
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34 - Bottega fiorentina (ambito di Donatello ?) Eros alla guida di una biga metà del XV secolo bronzo, patina bruno-chiaro, mm 58 × 77 provenienza: Collezioni granducali Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. n. 273 B
Eros alato è rappresentato, come giovane adolescente, alla guida di una biga; nella mano sinistra stringe una verga. Il carro, decorato con strigilature verticali, è trainato da due cavalli: uno pare imbizzarrito – ed è colto come nell’atto di frenare il moto della corsa – l’altro pare testardamente impegnato nell’andatura concitata. La placchetta ovale è incorniciata da una sottile filettatura; sulla sommità è presente un foro tondo. L’esemplare con Eros alla guida di una biga è una replica bronzea tratta, verosimilmente, da un calco di un’antica gemma, la quale, probabilmente, apparteneva al tesoro del Magnifico Lorenzo: in una delle voci dell’Inventario del 1492, si legge la descrizione di una pietra incisa, con un soggetto apparentemente simile a quello della placchetta: “Uno chammeo legato in oro, entrovi una figura tirata da dua chavagli, punzonato da rovescio uno fogl[i]ame” (SPALLANZANI-GAETA BERTELÀ 1992, p. 39). Verosimilmente la preziosa gemma passò poi nelle mani di Piero de’ Medici (1495), dopodiché se ne persero le tracce (TODERI-VANNEL TODERI 1996, p. 18, n. 1). L’esemplare compare riprodotto su una pagina del Museum Florentinum di Anton Francesco GORI (1731-1732, II, tav. 70, n. 2), ma questa tarda “citazione” non può essere di grande aiuto per verificare l’esatta morfologia dell’antico cammeo (M. Scalini, in ATENE 2003, p. 198). Nel paradigmatico censimento sulle placchette rinascimentali, Émile Molinier accostava l’Eros alla guida di una biga alla medesima rappresentazione, posta sul monile al collo del “busto del giovane Gattamelata” (MOLINIER 1886, I, p. 7, n. 9) ovvero il Busto di giovane alternativamente attribuito a Donatello (cat. n. 33). La parentela strettamente connessa è foriera anche di alcune interessanti prospettive di ricerca iconologica, inaugurate da Rudolf Wittkower, il quale lesse l’iconografia di Eros, sul Busto di giovane, come rappresentazione dell’Amore Platonico (WITTKOWER 1937-1938, p. 260-261). Chastel, in seguito, raggruppò attorno all’iconografia dell’Eros tre opere capitali: il bassorilievo con la Vergine e il Bambino di Agostino di Duccio, del Victoria and Albert, il monumento funebre dedicato al Cardinale del Portogallo in San Miniato al Monte e il Busto di giovane del Bargello. Lo studioso giudicò Eros sulla biga come rappresentazione del “carro dell’anima” nell’accezione cristiana, vale a dire: “la vittoria sulle passioni del mondo e la superiore vocazione dell’anima” (CHASTEL 19642, p. 47). Si inserisce infine, nel dibattito critico più aggiornato, lo studio di Douglas Lewis, che rinnova l’attribuzione del Busto del Bargello a Donatello e propone un interessante confronto fra alcune opere, che recano l’iconografia dell’Eros alla guida di una biga (LEWIS 2001, pp. 33-53). Raffrontando la morfologia del carro posto sul busto e sulla placchetta, oltre a rilevare la differente decorazione, si riconosce il discordante numero di raggi delle ruote, che proverebbe la parziale “difformità” di uno dei due esemplari dall’originale cammeo; sotto scorta dello studio di Lewis, Scalini, in un successivo intervento, oltre ad avvicinare la placchetta con Eros all’ambito donatelliano, sostiene che probabilmente il sintagma iconografico, presente sull’esemplare qui esposto, sia la riproduzione più conforme all’antico cammeo scomparso, verosimilmente ricavata da un’impronta tratta direttamente dalla preziosa gemma (M. Scalini, in ATENE 2003, p. 198, n. II.4). G.C. Bibliografia: MOLINIER 1886, I, p. 7, n. 9; BANGE 1922, p. 13, n. 82; POPE-HENNESSY 1965, p. 74, n. 249; N. Dacos, in FIRENZE 1973, p. 162, n. 16; DACOS 1989, p. 73; ROSSI 1989, p. 59; FIRENZE 1992b, p. 154. n. 133; TODERI-VANNE TODERI 1996, p. 18, n. 1; M. Scalini, in ATENE 2003, p. 198, n. II.4; M. Raffone, in FIRENZE 2005b, p. 296, n. 174
La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio a Lorenzo il Magnifico
IL SIGILLO DI NERONE
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35 - Dioskourides (attr.) Apollo, Marsia e Olimpo
fine del I secolo a.C.-inizio del I secolo d.C. corniola, mm 40,2 × 34 iscrizioni: lungo il margine destro “·LAV·R·MED·” Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 26051
Sulla sinistra della scena è raffigurato Apollo, seminudo, in posizione quasi frontale; nella mano destra tiene la lira e nella sinistra il plettro. Ai piedi del dio si scorge la figura del piccolo Olimpo che, inginocchiato sulla gamba sinistra, implora pietà per il maestro Marsia, seduto sopra una roccia parzialmente coperta da una pelle di leone. Il satiro, girato di tre quarti verso destra, ha il capo reclinato e le mani legate al fusto di un albero spoglio dal quale pende la fodera dell’aulos, che spunta da dietro la gamba sinistra di Marsia. La corniola, infrantasi in cinque pezzi durante una ripresa fotografica nell’ottobre del 1972, è stata ricomposta quasi integralmente: risulta mancante il piede destro del satiro. La composizione illustra il momento immediatamente precedente la punizione di Marsia, condannato da Apollo ad essere scorticato vivo dopo avere perso in una gara musicale con il dio. Igino nelle Fabule (165) narra che Marsia, trovato il doppio flauto inventato da Minerva, “prese a esercitarsi assiduamente con lo strumento, traendone ogni giorno suoni più dolci, al punto che sfidò Apollo a gareggiare con lui suonando la lira. Apollo accettò, come giudici scelsero le Muse. Marsia stava vincendo, ma Apollo capovolse la sua cetra e suonò la stessa musica – cosa che Marsia, con il flauto, non riuscì a fare. E così Apollo legò il vinto Marsia a un albero e lo consegnò a uno Scita, che lo scorticò membro dopo membro; poi consegnò ciò che restava del corpo del Satiro al suo discepolo Olimpo, perché lo seppellisse. Il fiume Marsia prende nome dal suo sangue”. E al sangue dello sfortunato protagonista del mito, noto in molteplici versioni, si ricollega verosimilmente il colore fulvo sanguigno che la pietra assume in controluce. Ammirata e replicata innumerevoli volte dagli artisti del Rinascimento, l’opera fece parte delle più importanti raccolte di glittica del XV secolo. Intorno al 1428 la gemma si trovava sicuramente a Firenze, dove Lorenzo Ghiberti la montò in un sigillo in oro dotato di una elaborata impugnatura dalla forma di mostro alato. Di tale intervento rimane testimonianza in un noto passo dei Commentarii: “In detto tempo [ovvero quello dell’Arca dei santi Proto, Giacinto e Nemesio terminata nel 1428] leghai in oro una cornuola, di grandeza d’una noce colla scorza, nella quale erano scolpite tre figure egregissimamente fatte per le mani d’uno excellentis-
simo maestro antico. Feci per picciuolo uno drago coll’alie un poco aperte et colla testa bassa, alza nel mezo il collo, l’alie faceano la presa del sigillo. Era il drago – el serpente noi vogliamo dire – era tra fogl[i]e d’edera. Erano intagliate di mia mano, intorno a dette figure, lettere antiche titolate nel nome di Nerone, le quali feci con grande diligentia” (GHIBERTI, ed. Schlosser 1912, I, p. 47). Il brano prosegue poi con un’attenta descrizione dell’incisione, erroneamente considerata dall’artista una rappresentazione allegorica delle tre età dell’uomo di mano di Policleto o di Pirgotele. Il richiamo al nome di Nerone nella legenda eseguita dal Ghiberti sulla cornice metallica posta intorno alla corniola, tramandataci da diverse placchette (cat. nn. 37-38), dimostra che la pietra fu ritenuta una preziosa matrice appartenuta al celebre imperatore, da cui il nome di Sigillo di Nerone con il quale viene spesso ricordata nelle fonti quattrocentesche. Non è noto quando e ad opera di chi fu costruita tale associazione, forse suggerita dalla presenza dell’Apollo citaredo che appare anche sui rovesci di alcuni conî monetali di Nerone utilizzati da modello per la legenda, così come rimane per il momento sconosciuto il nome del committente della montatura ghibertiana, erroneamente identificato da Giorgio Vasari nelle sue Vite con Giovanni de’ Medici (VASARI [1550-1568], ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, III, 1971, p. 91). Importanti novità in questo senso sono state introdotte dalla fondamentale indagine sul Sigillo di Nerone compiuta da Francesco CAGLIOTI e Davide GASPAROTTO (1997). Grazie a un’attenta analisi sulla prima versione del Trattato di architettura del Filarete, il perduto codice Trivulziano conosciuto attreverso una copia risalente agli anni venti dell’Ottocento, e su quella licenziata dall’autore entro il 1464-65 per farne dono a Piero de’ Medici i due studiosi hanno infatti appurato che la gemma appartenne in un primo momento alla “comunità di Firenze” e successivamente al patriarca di Aquileia e cardinale Ludovico Trevisan, al quale fu probabilmente donata dai Signori del Comune in segno di gratitudine per avere guidato alla vittoria le truppe pontificie, alleate delle fiorentine, nella battaglia di Anghiari del 29 giugno 1440. Custodito dal Trevisan nella sua raccolta fino alla morte (1465), l’intaglio passò poi nella ricca collezione di Paolo II Barbo insieme ad altri pezzi eccellenti del defunto cardinale, come la
Tazza Farnese e il calcedonio con Diomede e il Palladio. In seguito alla scomparsa del pontefice, sopraggiunta nel 1471, molte delle pietre incise già di proprietà del Trevisan e del Barbo furono cedute da Sisto IV della Rovere al giovane Lorenzo de’ Medici. La critica in passato aveva ritenuto che proprio in questa occasione Lorenzo fosse entrato in possesso anche del Sigillo, ricordato ormai privo della montatura ghibertiana nell’inventario dei suoi beni stilato nel 1492. Indagini archivistiche condotte da Melissa Meriam BULLARD e Nicolai RUBINSTEIN (1999) hanno consentito invece di stabilire la data e il luogo precisi dell’acquisizione della gemma. In base a quanto riferito in alcune lettere di Lorenzo, del suo segretario Niccolò Michelozzi e dell’ambasciatore fiorentino a Vanezia Paolo Antonio Soderini, la corniola fu comperata proprio nella città lagunare alla fine di settembre del 1487, e il 2 ottobre fu spedita a Firenze dal Soderini insieme a due cammei da far esaminare a Lorenzo. Sebbene le missive non specifichino il nome del venditore, esso si ricava da una più tarda lettera del cancelliere Luigi Lotti da Barberino del 27 ottobre, con la quale egli comunicava al Michelozzi di avere saputo che Lorenzo era riuscito ad acquistare la corniola dal veneziano Domenico di Piero, fra i più ricchi gioiellieri e mercanti di antichità dell’epoca al servizio del re d’Ungheria Mattia Corvino, dei duchi di Ferrara Borso ed Ercole I d’Este, del cardinale Francesco Gonzaga e dei pontefici Pio II e Paolo II. Dopo la cacciata dei Medici da Firenze, il Sigillo di Nerone, con altre gemme, la Tazza Farnese e diversi vasi in pietre dure del tesoro laurenziano, fu confiscato a Piero di Lorenzo e ceduto nel 1495 dalle autorità cittadine ai Tornabuoni come forma di indennizzo per le grosse somme da loro investite nel recupero della succursale romana della banca medicea. Trasferito a Roma, esso fu probabilmente recuperato da uno dei Medici, forse il cardinale Giovanni, e in seguito riportato a Firenze, dato che è citato fra le gioie del duca Alessandro passate alla sua morte alla giovane consorte Margherita d’Austria. Le seconde nozze di questa con Ottavio Farnese ne segnò l’ingresso nel patrimonio della nobile famiglia (per le vicende successive dell’opera si veda cat. n. 3). L’intaglio costituisce una delle più alte testimonianze della glittica antica sia per l’alta qualità dell’incisione, sia per la equilibrata composizio-
Il Sigillo di Nerone
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ne, elegantemente inscritta nel profilo ovale della pietra. L’assegnazione a Dioskourides, autore prediletto da Augusto e celebrato da Plinio per un ritratto dell’imperatore “perfettamente somigliante” (Plin. nat. 37,8), è oggi generalmente accettata dalla critica e si basa sul raffronto proposto da Marie-Louise VOLLENWEIDER (1966) con un’altra corniola del Museo Archeologico Nazionale di Napoli raffigurante Achille che contempla le armi siglata nell’esergo dalla firma in lettere greche dell’artista (PANNUTI 1994b, pp. 216-217, n. 183). Gli studi di Gennaro PESCE (1935), Nicole DACOS (1973, 1989), Pietro Cannata (in ROMA 1982), Annarosa GARZELLI (1996), Edith WYSS (1996), Francesco Caglioti e Davide Gasparotto (1997) hanno ben dimostrato il grande interesse suscitato da questo piccolo capolavoro negli artisti, che da esso trassero fedeli trasposizioni del motivo iconografico (cat. nn. 36, 45, 47, 56) e più libere citazioni ispirate ai singoli personaggi (cat. nn. 40-44). Tale fenomeno non fu circoscritto al solo ambito italiano, ma coinvolse una larga schiera di artefici operanti in diversi paesi, dove la conoscenza della gemma fu diffusa da disegni, impronte e placchette: la figura di Apollo, ad esempio, appare nell’architrave del portale della chiesa di S. Michele a Digione mentre l’intera scena si trova riprodotta in uno dei cassettoni del soffitto dello scalone del castello di Villers-Cotterets, nel medaglione a destra del trono del re nella Giustizia di Cambise di Gerard David del 1498 (BAES-DONDEYNE-DE VOS 1981, pp. 106-107, tav. CIX), sulla mitria del Sant’Ambrogio scolpito da Jean Mone per la tomba del cardinale Guillaume de Croy (DACOS 1995, p. 16) e in uno dei tondi a finto bronzo dei pilastri sullo sfondo della Storia di Lucrezia dipinta nel 1528 da Jörg Breu il Vecchio per Wilhelm IV, duca di Baviera e Monaco (Monaco, Alte Pinakothek, inv. n. 7969). R.G. Bibliografia: BENCIVENNI PELLI 1779, I, pp. 16-17, 62; RASPE 1791, I, p. 211, n. 3013; MÜNTZ 1882, p. 192; FURTWÄNGLER 1900, II, pp. 201-202, n. 28, tav. XLII; VASARI (1568), ed. Milanesi 1906, II, pp. 235-236 e nota 1; FREY 1907, pp. 91-98; LIPPOLD 1922, p. 170, tav. IX, n. 8; KRIS 1929, I, p. 152, n. 29, II, tav. 12, n. 29; RICCI 1931, pp. 28-29, nn. 24-25; PESCE 1935, pp. 64-70, n. 14, tav. II.14; SCHLOSSER 1941, pp. 160164; CHASTEL 19642, pp. 53-59; VOLLENWEIDER 1966, pp. 6162, tavv. LXIII, 2, LXIV, 1-2; DOBROWOLSKI 1969, p. 63; DACOS 1973, pp. 138, 143, 145-148, 150-151, 158-160, scheda 8; A. Giuliano, in FIRENZE 1973 pp. 55-57, n. 25, fig. 18; KACZMARZYK 1974, pp. 28,32; L. Medri, in FIRENZE 1978, pp. 571-573; GANDOLFO 1982, pp. 133-137; P. Cannata, in ROMA 1982, pp. 41-44, nn. 9-10; SIMON 1984, pp. 428-429, n. 474; BOBER-RUBINSTEIN 1986, p. 74, n. 31; WINTER 1986,
pp. 82-83; CANNATA 1987, pp. 46-54; DACOS 1989, pp. 7273, 75, fig. 1; GIULIANO 1989, pp. 37-38; PANNUTI 1989, p. 226, n. 35; ROSSI 1989, p. 58; ZÖLLNER 1990, pp. 450, 460; ACIDINI LUCHINAT 1991a, p. 144; MASSINELLI-TUENA 1992, pp. 20-21, 30; D. Lewis, in MONTREAL 1992, p. 118, n. 16; SCHOFIELD 1992, pp. 31-31, fig. 2; LILLIE 1993, p. 190; CAGLIOTI 1994, p. 84; GROTE 1994, pp. 216-217, fig. 3; PANNUTI 1994a, p. 68; PANNUTI 1994b, pp. 161-162, n. 127; GARZELLI 1996, p. 168, tav. 7; WYSS 1996, pp. 22-23, fig. 8, 43-60; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 2-38; CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 79; MERANO 1998, pp. 34-35; RUBINSTEIN 1998, pp. 79-85; BULLARD-RUBINSTEIN 1999, pp. 283-286, fig. 94; EKSERDJIAN 2001, p. 47, fig. 16; F. Paolucci, P. Cannata, F. Petrucci, M. Scalini, in ATENE 2003, pp. 232-233, n. II.53; SFRAMELI 2003a, pp. 10-11; M.M. Bullard, in Lettere 2004,
pp. 254-255; BORRIELLO 2005, p. 73; FUSCO-CORTI 2006, pp. 22, 94, 104, 106, 124, 135, 156, 173, 195, 203, 207, 245 nota 44, documenti nn. 79, 80, 82, 171, figg. 128-129; FATTICCIONI 2007, pp. 133-137, fig. 14; GENNAIOLI 2007, pp. 44-46, fig. 11; SCHUMACHER 2007, p. 230; M. Borriello, in FIRENZE 2009b, p. 110, n. 8; SANDER 2008, p. 90, fig. 59; A. Schumacher, in FRANCOFORTE 2009, pp. 156-157, n. 2
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36 - Sandro Botticelli (Firenze, 1445-1510) Ritratto femminile idealizzato (Simonetta Vespucci come ninfa) legno di pioppo, cm 81,8 × 54 Francoforte sul Meno, Städel Museum, inv. n. 936
La grande tavola di Botticelli col ritratto a mezza figura di una giovane donna dalla bellezza enigmatica fu acquistata per lo Städelsches Kunstinstitut su iniziativa di Johann David Passavant nel 1849. Tuttavia, fino a che punto si tratti veramente di un ritratto e se sia possibile identificare l’effigiata sono le domande su cui si incentra l’analisi storico-artistica di questo singolare dipinto. Infatti, se la tavola di Francoforte ricorda da un lato i numerosi ritratti fiorentini di giovani spose riccamente ornate e raffigurate di profilo, dall’altro presenta peculiarità formali e tematiche che non sembrano inerenti alla tipologia del ritratto, facendo optare in favore di una figurazione allegorica idealizzata. Particolare rilievo assumono in proposito l’inconsueta dimensione della figura, più grande del vero, e la sua posizione di tre quarti, rivolta a destra. Soprattutto il busto si distacca dalla visione di profilo ed è girato verso l’esterno, in direzione dell’osservatore; nella testa, soltanto l’accenno della palpebra sinistra e il labbro inferiore fanno capire che non si tratta della usuale posa dei coevi ritratti femminili. Mentre la veste bianca a righe grigie, leggermente pieghettata, può essere vista come un capo contemporaneo che obbedisce ai canoni della moda “all’antica”, la fantastica acconciatura può essere posta in relazione con le parrucche che, nei cortei allegorici, caratterizzavano i personaggi delle antiche ninfe. La capigliatura riccamente intrecciata è ornata da numerose perle e nastri rossi e, sulla sommità del capo, da un fermaglio d’oro con una pietra preziosa rossa in cui sono infilate alcune penne di airone bianco. Due trecce ricadono sulle spalle e sul petto, dove sono annodate a formare una fitta nappa. Una ciocca libera, sfuggita da una voluta di capelli intrecciati sulla nuca, sembra ondeggiare al vento e suggerisce movimento in una composizione altrimenti statica. L’aspetto anticheggiante della giovane donna, con la pallida carnagione immacolata e le labbra rosse, è ulteriormente accentuato dai gioielli. Il collo è ornato di morbidi cerchi d’oro ai quali è appeso un cammeo montato in oro e raffigurante, a rilievo nello strato grigio-bianco, Apollo musagete che trionfa sul satiro Marsia. Da pochi anni è stata richiamata l’attenzione su un altro importante particolare del costume: sotto l’ascella destra e tra i seni scintilla un lucido metallo, che indica la presenza di un corsaletto di maglia. Poiché la tavola è stata tagliata sulla destra e, soprattutto, lungo il margine inferiore, si può ipotizzare che in origine l’armatura fosse più visibile. Il senso di misteriosa estraneità della figura è accentuato dal suo essere collocata nel nulla: diversamente dalla consueta ambientazione in uno spazio definito, infatti, qui lo sfondo è un semplice piano nero. Su questo fondo scuro spicca con particolare rilievo la raffinatezza decorativa del colorito, limitato a toni di nero, bianco, ocra e rosso. L’interessante parallelo fra il contrasto chiaroscurale nel rilievo del cammeo e la silhouette della giovane donna che spicca luminosa sul fondo scuro, ricevendone una forte plasticità, è accuratamente calcolato – un effetto nel quale si può forse leggere una consapevole prova di forza dell’artista con la scultura classica. La riflettografia a infrarossi della tavola ha evidenziato un disegno preparatorio sul fondo in gesso: con mano sicura, il ritratto è stato tracciato prima con una punta fine e poi elaborato unicamente con il pennello. Sopra un’imprimitura a tempera piuttosto fluida, di colore tra il verde e il grigio chiaro, è stata eseguita la figura, intorno alla quale è stato poi steso il colore nero del fondo. L’incarnato, in particolare, mostra nel delicato modellato una stesura molto differenziata e di grande precisione, in cui interagiscono sensibilmente parti più trasparenti e più coprenti. Il restauro
eseguito nel 1995-1996 ha riportato alla luce queste qualità, contribuendo così a respingere unanimemente l’attribuzione del dipinto a bottega del Botticelli, già proposta da Aby Warburg e in seguito ripresa più volte. Si rafforza inoltre l’ipotesi che un disegno con un busto femminile conservato a Oxford sia da identificare come studio autografo del Botticelli: potrebbe essere questo il punto di partenza del dipinto di Francoforte, quasi un prototipo che si distacca da esso in misura molto limitata. Due possibili indicazioni guidano le riflessioni sull’identità della giovane donna idealizzata in veste mitologica verso un collegamento diretto con Lorenzo e Giuliano de’ Medici. Già alla fine del XIX secolo il dipinto fu posto in relazione con un passo della vita del Botticelli scritta da Giorgio Vasari, in cui il biografo aretino parla di due mirabili ritratti femminili di profilo dell’artista da lui visti presso il granduca Cosimo, in uno dei quali sarebbe stata raffigurata la donna amata da Giuliano. È probabile che si tratti della famosa Simonetta Vespucci, che il giovane Medici, in occasione di una giostra a lui dedicata nel gennaio 1475, onorò secondo le regole dell’amor cortese come “regina della bellezza”. Tale proposta rimane tuttavia ipotetica quanto l’idea che il passo del Vasari riguardi effettivamente la tavola di Francoforte. Il secondo riferimento ai Medici, come è stato sempre sostenuto, è costituito dal cammeo che orna il collo della giovane donna. Forse l’intenzionale esibizione di questo prezioso oggetto potrebbe essere addirittura il motivo per cui la figura tiene il busto rivolto verso l’osservatore più intensamente della testa. Inciso in una pietra dura di due colori, il cammeo riprende, in controparte, la scena figurata di un intaglio antico molto apprezzato nel xv secolo, conosciuto come Sigillo di Nerone e attribuito da Lorenzo Ghiberti allo scultore Policleto. Tale gemma, realizzata in corniola rossa, fu acquistata da Lorenzo de’ Medici per la sua collezione a Venezia nel 1487. Il fatto che Botticelli, a quanto sembra, formuli la sua citazione dell’originale antico soltanto sulla base di un calco o di una imitazione ha suscitato due tesi contrastanti. Secondo la prima, il cammeo sarebbe stato inserito come intenzionale richiamo ai Medici; di conseguenza, il dipinto dovette essere ultimato solo dopo l’acquisto della preziosa gemma, che però il pittore non avrebbe avuto modo di vedere direttamente. A questa si contrappone la seconda ipotesi, stando alla quale Botticelli avrebbe usato come modello un calco perché il ritratto sarebbe stato eseguito all’inizio degli anni ottanta del Quattrocento, quando la gemma non era ancora tornata a Firenze. L’intaglio, ben noto nella città e probabilmente di proprietà dei signori del Comune intorno al 1428, non andrebbe dunque interpretato come un richiamo specifico ai Medici, ma come una colta allusione dal patrimonio umanistico di conoscenza dell’antichità. Già Warburg, nell’ambito dei suoi studi sulla Primavera botticelliana, osservò che è soprattutto la fantastica acconciatura, con i capelli color oro scuro in parte liberi e mossi, a fornire un orientamento per la decifrazione del ritratto. Si tratta, infatti, di un motivo che, come ha spiegato più recentemente Monika A. Schmitter, corrisponde esattamente a un topos petrarchesco dell’elogio della bellezza. Esso è inoltre un dettaglio essenziale nel travestimento letterario dell’amata nei panni della ninfa nei versi dei poeti medicei Luigi Pulci e Angelo Poliziano, improntati alla poesia amorosa del Petrarca. Dopo la morte prematura, avvenuta nell’aprile del 1476, la bella Simonetta Vespucci, dama della giostra di Giuliano de’ Medici, assurse al rango di mitica figura di culto, creatura bella e divina simile a una ninfa, esaltata soprattutto per iniziativa di Lorenzo il Magni-
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fico, nella tradizione della Beatrice dantesca e della Laura del Petrarca. La giovane donna del ritratto corrisponde alle ninfe della poesia anche in quanto sembra tematizzare in pari misura l’attrattiva erotica e la castità, vale a dire il fascino specifico del desiderio inappagabile. Alla stravagante acconciatura, che contraddice nettamente le convenzioni di decoro dell’epoca, si contrappone il volto chiuso, con lo sguardo fisso in lontananza che impone distanza. Come si legge nelle Stanze per la giostra del Poliziano, che dovevano immortalare il torneo di Giuliano e il suo tentativo di conquistare Simonetta, la giovane ninfa assunse anche il ruolo di Minerva, la casta dea della sapienza, con le cui armi moderava il suo corteggiatore e gli infondeva forza per la gara. Si spiega così la tesi che la Minerva raffigurata dal Botticelli sul vessillo di Giuliano alla giostra adombrasse un ritratto idealizzato di Simonetta. Considerando questa base letteraria, diventa ovvio che rimandi a Simonetta anche la tavola di Francoforte raffigurante la ninfa con l’armatura. Tale conclusione è corroborata da un’osservazione di David Alan Brown, secondo il quale la rete di perle intrecciate tra i capelli della donna, nota come ‘vespaio’, costituirebbe un’allusione al nome della famiglia Vespucci. Il già menzionato valore decorativo e le dimensioni maggiori del vero del ritratto potrebbero essere stati concepiti per una sistemazione elevata dell’opera all’interno della sontuosa decorazione di una stanza. A.S. Bibliografia: ULMANN 1893, pp. 53-54; WARBURG 1893, pp. 41-43; BERENSON 1903, II, p. 30; BERTAUX 1911, pp. 151-154, 160, 269, 305; BODE 1921, pp. 78 sgg.; MESNIL 1938, p. 220; BOSKOVITS 1964, p. 43; LIGHTBOWN 1978, II, pp. 116-117, n. C3; BUSKE 1988; DEMPSEY 1992, p. 132; SCHMITTER 1995, pp. 33-57; D. Alan Brown, in WASHINGTON 2001, pp. 182-185, n. 28; HILLER VON GAERTRINGEN 2004, pp. 325-344; ZÖLLNER 2005, p. 214, n. 39; KÖRNER 2006, pp. 266-271; A. Schumacher, in FRANCOFORTE 2009, pp. 30-36, 152-157, n. 1; KÖRNER 2009, pp. 57-70
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37 - Bottega fiorentina (ghibertiana ?) Apollo, Marsia e Olimpo
secondo quarto del XV secolo bronzo, patina bruna, mm 49,25 × 44,3 iscrizioni: “NERO · CLAVDIVS · CAESAR · AVGVSTVS · GERMANICVS · P · MAX · TR · P · IMP · PP” provenienza: Collezioni granducali Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. 225 B
La placchetta bronzea raffigura l’episodio mitologico di Apollo e Marsia, ovvero l’attesa dell’atroce supplizio, destinato a colui che sfidò il dio della musica e della poesia: Marsia, seduto su una roccia, ricoperta da una pelle leonina, è rappresentato con le mani legate ad un albero spoglio sul quale pende la custodia del flauto. Apollo nudo stringe con una mano la cetra e con l’altra il plettro, un mantello avvolge la gamba destra; al centro è Olimpo inginocchiato per implorare la clemenza del dio. L’esemplare è tratto da un’impronta eseguita su di un’antichissima corniola attribuita a Dioskourides, celeberrimo intagliatore di gemme dell’antichità (A. Giuliano, in FIRENZE 1973, pp. 55-57, n. 25). Caratteristica, non secondaria, è la presenza di una epigrafe, tratta da un conio di epoca neroniana, che corre su tutto il perimetro del tondo, raddoppiandosi sull’arco superiore, verso l’esterno. La geminazione è riscontrabile anche sulla raffigurazione mitologica: sul capo di Apollo, sui manubri della cetra e sulle ramificazioni dell’albero. Le placchette con il titolo neroniano divennero – e sono tutt’ora – le principali referenti del dibattito inerente il celebre passo dei Commentarii di Lorenzo Ghiberti, nel quale l’orafo fiorentino descrisse la preziosa montatura, che legava l’antica corniola con Apollo e Marsia, per la quale aveva intagliato una legenda “nel nome di Nerone” (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 3 e 24 nota 5). Seppur, anche in anni non troppo lontani, si sia dubitato dell’affidabilità storica della legenda neroniana (DACOS 1989, p. 72), oggi si è reso fondamentale lo studio di Caglioti e Gasparotto (1997, pp. 2-38), il quale con dovizia di particolari dipana la maggior parte dei dubbi relativi alla derivazione diretta della placchetta epigrafica dall’originale castone ghibertiano. Difatti l’esemplare qui presentato è stato inserito, insieme alle placchette di Parigi – Bibliothèque Nationale, Cabinet des Médailles, Collection Seymour de Ricci, inv. 442 – e di Berlino, Staatliche Museen, Skulturensammlung, inv. 954 – fra le riproduzione più fedeli all’originale montatura e le più antiche del “gruppo epigrafico” (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 12-14, 18). Di qui si rende più agevole ripercorrere la storia della corniola, che fu montata con la legenda neroniana per un dotto erudito d’antichità come poteva essere Niccolò Niccoli, successivamente smontata, e poi transitata nelle mani di raffinati collezionisti della curia romana, come il cardinale Ludovico Trevisan, patriarca di Aquileia e Pietro Barbo, futuro Paolo II, sino al Magnifico Lorenzo de’ Medici, che l’acquistò dal mercante veneziano Domenico di Piero nel 1487 (BULLARD-RUBINSTEIN 1999, p. 285). Si rammenta infine che la prima occorrenza della sua denominazione moderna, si evince in una lettera di Paolo Antonio Soderini, ambasciatore fiorentino a Venezia, che scrisse il 2 ottobre 1487 al segretario del Magnifico, Niccolò Michelozzi, appellando la corniola “sigillo neroniano” (FUSCOCORTI 2006, p. 299; GENNAIOLI 2007, pp. 45-46) evocando, forse inconsapevolmente, la primigenia montatura di Lorenzo Ghiberti, fautore, quest’ultimo, di un vero e proprio atto “filologico” apponendo alla rappresentazione dell’Apollo musico, un’epigrafe dedicata all’imperatore citaredo. G.C. Bibliografia: MOLINIER 1886, I, p. 2, n. 2; BANGE 1922, p. 11, n. 66; MACLAGAN 1924, pp. 13-14; POPE-HENNESSY 1965, p. 73, n. 246: N. Dacos, in FIRENZE 1973, pp. 158-160, n. 8; P. Cannata, in ROMA 1982, pp. 41-44, n.10; L. Martini, in MARTINI-CIARDI DUPRÉ DAL POGGETTO-RAVANELLI GUIDOTTI 1985, p. 64, n. 4; FIRENZE 1987, pp. 40-41, n. 12; DACOS 1989, p. 72; ROSSI 1989, p. 58; FIRENZE 1992b, p. 153, n. 129; TODERI-VANNEL TODERI 1996, p. 25, n. 27; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 2-38; JESTAZ-FRANCO 1997, pp. 92-93, n. 81; D. Gasparotto, in VICENZA 1997, pp. 50-51, n. 1; BULLARD-RUBINSTEIN 1999, pp. 283-286
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38 - Bottega fiorentina Apollo, Marsia e Olimpo
secondo quarto del Quattrocento bronzo, patina artificiale scura, mm 45 × 42 iscrizione: la scena è incorniciata dall’iscrizione “NERO · GERMANICVS · P · MAX · TR · P · IMP · PP” provenienza: collezione Classense Ravenna, Museo Nazionale, inv. n. 10712 (V.I. n. 300)
CLAVDIVS
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CAESAR
·
AVGVSTVS
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Marsia è a sinistra, legato a un albero in attesa del supplizio; sul lato opposto Apollo, con in mano il plettro e la lira. Tra i due Olimpo, discepolo di Marsia, invoca la pietà di Apollo. La scena è incorniciata dall’iscrizione “NERO · CLAVDIVS · CAESAR · AVGVSTVS · GERMANICVS · P · MAX · TR · P · IMP · PP”, in lettere maiuscole in rilievo. Il modellato raffinato è curato nei minimi dettagli: negli esili rami dell’albero sullo sfondo, nella sottile figura di Olimpo, nel torace muscoloso di Marsia e nella figura di Apollo. Consumati i visi di Marsia e Apollo più in aggetto. Un foro passante compromette parte della filettatura e delle lettere “N” ed “E” di “NERO”. La raffigurazione deriva da una gemma che apparteneva alla famiglia Medici, identificata in una corniola al Museo Archeologico Nazionale di Napoli attribuita a Dioskourides, l’incisore di gemme ritenuto migliore al tempo di Augusto (cat. n. 35). La scena illustra un famoso episodio della mitologia riportato nelle Metamorfosi di Ovidio: Marsia, che suonava il flauto, aveva sfidato Apollo in una gara musicale e vinto dal dio fu legato a un albero e scuoiato; il fanciullo supplice sarebbe Olympos. La presenza dell’iscrizione sulla cornice, che riproduce l’usuale intitolazione di Nerone sulle sue monete, […] Nero […] Pontifex Maximus, Tribunicia Protestate, Imperator, Pater Patriae, riconduce la placchetta a uno stato documentato storicamente. Come risulta dai Commentari di Lorenzo Ghiberti, la corniola fu dotata dal celebre artista di una elaborata cornice in oro in forma di drago, ricordata anche dal Vasari. Rare sono le placchette che come questa furono calcate mentre la corniola era inserita nella montatura del Ghiberti e prima che vi fosse inciso l’ex gemmis di Lorenzo il Magnifico (·LAV·R· MED·), probabilmente dopo la morte del Magnifico, da parte di alcuni fedeli di casa Medici desiderosi di salvare i beni dei loro mecenati nel susseguirsi di guerre. Le placchette derivanti da questa incisione sono numerose e presentano varianti, fra cui alcune con l’iscrizione presente nella nostra, altre con “LAVR. MED.”, altre con “· PRVDENTIA · PVRITAS · TERTIVM · QVOD · IGNORO ·”, altre ancora senza iscrizione come quella del Museo Civico “Amedeo Lia” di La Spezia. Il motivo iconografico della gemma, noto sia nell’antichità che nel Rinascimento, è stato riprodotto moltissime volte, sia integralmente sia parzialmente, con variazioni in pittura e in scultura come ornamento di monumenti (portale di Palazzo Stanga in Cremona, ora al Louvre; Logge di Raffaello in Vaticano; rilievo del Duomo di Como; medaglione di Giovanfrancesco Rustici nel cortile di Villa Salviati a Firenze, ecc.). Significative sono pure le riproduzioni sul retro di monete e medaglie, come nel caso di quella dedicata a Paolo II nel 1468 da Cristoforo di Geremia, recante sul recto l’effigie del Papa (cat. n. 51); tale documento testimonia la vitalità del motivo anche in ambiente romano in data precoce. Nei maggiori musei e in numerose collezioni sono presenti esemplari di una o più varianti del soggetto. Alcune, recanti la scritta presente nella nostra placchetta, al Museo di Capodimonte di Napoli, al Museo d’Arti Figurative di Budapest; al Bargello di Firenze; altre versioni agli Staatliche Museen di Berlino, al Louvre di Parigi, al Kunsthistorisches Museum di Vienna, al Victoria and Albert di Londra, alle University Art Galleries di S. Barbara in California, alla National Gallery di Washington, al Museo Correr di Venezia, al Museo di Palazzo Venezia a Roma, ai Civici Musei di Milano e al Museo Civico di Belluno.
Le placchette, opere scultoree tipiche dell’imagerie del XV secolo, sono servite a mettere nelle mani di scultori, incisori e pittori celebri pezzi o modelli dell’antichità, soprattutto, come in questo caso, quando si trattava di riproduzioni di pietre incise. Analogamente alle stampe hanno avuto diverse riproduzioni, varianti o modifiche, a seconda della necessità del committente o dell’estro dell’esecutore. C.M. Bibliografia: MOLINIER 1886, I, p. 2, nn. 2-6; FILANGERI DI CANDIDA 1899, nn. 1-1a; HIRSCH 1908, nn. 753-755; VENTURI 1910, n. 362; BANGE 1922, p. 11, n. 66-69; MIDDELDORF-GOETZ 1944, n. 288; POPE-HENNESSY 1965, p. 73, nn. 246-247; N. Dacos, in FIRENZE 1973, n. 25, fig.18; BALOGH 1975, n. 404; P. Cannata, in ROMA 1982, pp. 13, 26 nota 13, 29, nn. 9 -10; L. Martini, in MARTINI-CIARDI DUPRÉ DAL POGGETTO-RAVANELLI GUIDOTTI 1985, pp. 127-128, n. 4; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 18, n. 12, fig. 32 e pp. 30-31, n. 51; JESTAZ-FRANCO 1997, pp. 92-93; AVERY 1998, pp. 262-263
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39 - Arte romana Apollo, Marsia e Olimpo
età tardimperiale sardonica, oro e smalti, mm 45 × 37 (il cammeo), mm 57 × 49 (con la montatura) Parigi, Bibliothèque Nationale de France, inv. n. 41
Documentato nella collezione reale francese fin dal 1683, il cammeo, eseguito su una lastrina di sardonica a due strati, riproduce, in controparte e con qualche variante, la stessa composizione con Apollo, Marsia e il supplice Olimpo della corniola del Museo Archeologico Nazionale di Napoli (cat. n. 35). La pietra è dotata di una elegante montatura dentellata, racchiusa entro una cornice modanata in oro parzialmente satinata e smaltata. L’esemplare, considerato antico nella maggior parte delle pubblicazioni ottocentesche sul Cabinet des Médailles, fu reputato di difficile collocazione dal punto di vista cronologico da Ernest BABELON (1897), il quale sollevò qualche dubbio sulla sua autenticità, ritenendolo una derivazione dal Sigillo di Nerone risalente al XVI secolo, periodo in cui il motivo iconografico, grazie alla circolazione di placchette e altri tipi di riproduzioni, conobbe una grande fortuna e fu copiato su diverse gemme. Più recentemente tale ipotesi è stata rigettata da Marie-Louise Vollenweider, che ha proposto di riconoscere nel piccolo rilievo un raro esempio di glittica della prima metà del I secolo a.C., interpretando il soggetto come una raffigurazione allegorica avente per protagonista Mitridate VI, re del Ponto, nelle vesti di Apollo. Alla produzione di quel periodo rimanderebbero la testa allungata e compatta del dio, le sue guance piene, il suo mento arrotondato e l’andamento ondulato delle ciocche di capelli discendenti sopra le sue spalle, che secondo la studiosa troverebbero un preciso termine di confronto in quelle di una testa di giovane principe assimilato a un tritone incisa in un intaglio in corniola della stessa raccolta (VOLLENWEIDERAVISSEAU-BRUSTET 1995, I, p. 193, n. 210, II, tav. 99, n. 210). Diversamente Francesco Caglioti e Davide Gasparotto nel loro fondamentale studio sul Sigillo di Nerone lo hanno classificato come opera di bottega romana d’età tardimperiale. In effetti certe incertezze nei corpi dei personaggi, la semplificazione di molti dei dettagli e soprattutto la presenza di elementi assenti dalla corniola attribuita a Dioskourides, quali la corda stretta intorno alla caviglia della gamba sinistra di Marsia e l’oggetto indefinito, simile ad un cuscino, posto dietro la figura di Apollo, rendono plausibile uno slittamento della datazione dell’esemplare di Parigi. Questo riveste un particolare interesse, in quanto è su un esemplare analogo che Sandro Botticelli dovette basarsi per la raffigurazione del pendente con Apollo, Marsia e Olimpo al collo della fanciulla ritratta nella tavola conservata presso lo Städel Museum di Francoforte (cat. n. 36). In esso, infatti, le figure, oltre a presentarsi orientate nello stesso modo, e quindi ribaltate rispetto all’intaglio, sono delineate con rapide pennellate di bianco su fondo nero, generando un effetto del tutto simile a quello dei personaggi incisi in rilievo sullo strato superiore della sardonica del Cabinet des Médailles. R.G. Bibliografia: CHABOUILLET 1858, p. 3, n. 14; MOLINIER 1886, I, p. 5, sub n. 6; DURUY 18871889, I, 1887, p. 610 nota 1; BABELON 1897, I, pp. 27-28, n. 41, II, tav. VI, n. 41; VOLLENWEIDER-AVISSEAU-BRUSTET 1995, I, p. 195, n. 213, II, tav. 100, n. 213; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 32, nota 70, figg. 15, 41
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40 - Sandro Botticelli (Firenze, 1445-1510) Due studi di figura maschile, una seduta e una stante (Marsia e David)
punta metallica, biacca, carta bianca vergata preparata in giallo-arancione, mm 180 × 147 controfondato; biacca parzialmente ossidata; antiche reintegrazioni sui lati tinteggiate in arancione Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. 112 E
Il presente foglio del Gabinetto degli Uffizi 112 E, e il compagno nella stessa collezione 199 F (cat. n. 41), rappresentano due notevoli esempi di studi di figura ‘dal naturale’ ispirati a modelli antichi e aulici che possono essere riferiti all’attività disegnativa di Sandro Botticelli e della sua stretta cerchia. Sulla carta preparata a tempera con un giallo aranciato sono tracciate a punta metallica e modellate a pennello e biacca due figure maschili: una seduta con le braccia legate dietro la schiena e la testa reclinata in avanti, l’altra eretta con la mano sinistra sul fianco e la destra alla coscia. Alla fine dell’Ottocento il foglio risulta inventariato agli Uffizi – non è nota la precedente provenienza o collocazione attributiva – come anonimo fiorentino del XV secolo, successivamente passato a Piero Pollaiolo e a Francesco Granacci seguendo il repertorio di Bernard BERENSON (1903), che evidenziava la bellezza della figure e la raffinatezza tecnica rispetto alle prove di David [Ghirlandaio], l’altro artista a cui lo studioso americano tendeva ad attribuire in massa gli studi dal modello degli anni settanta-ottanta del Quattrocento. Il disegno è stato poi studiato in due distinte occasioni da Gigetta Dalli Regoli che lo ha giustamente riportato all’ambito botticelliano, in prima battuta in modo generico e in seconda dubitativo (RAGGHIANTI-DALLI REGOLI 1975, DALLI REGOLI 1992, con foto rovesciata). Inserito nel “gruppo A2” di disegni dal modello riferiti a Botticelli e collaboratori, venivano rilevati punti di contatto con personaggi nei dipinti di Sandro e richiami alla rappresentazione di Apollo e Marsia della corniola medicea. L’intento evocativo degli esempi classici di cui sono investite le due figure, apparentemente due studi di ignudi, veniva contestualizzato nella pratica dei disegnatori fiorentini di far posare i garzoni e i collaboratori di bottega, concentrandosi sulla posizione del corpo e non sulla restituzione del modello stesso. La qualità altissima del disegno e la corrispondenza con altri fogli recentemente riconosciuti autografi di Sandro Botticelli (vedi L. Melli, in FRANCOFORTE 2009, p. 300 n. 57 e p. 302 n. 58), permette di ricondurre alla mano del maestro alcuni disegni selezionati dall’ampio gruppo assegnato alla bottega, tra cui il presente (MEL-
LI 2008). Le figure sono interamente condotte con un sottile segno metallico che descrive non solo le parti lumeggiate, che evidentemente attraevano maggiormente l’attenzione dell’artista rispetto alla composizione. Trascurate dalla luce, risultano infatti poco leggibili sia la testa reclinata del prigioniero e il basamento su cui siede, sia l’oggetto che pende sul fianco del giovinetto stante. Nel primo personaggio il disegnatore sembra aver voluto adattare alla figurazione di un prigione o di un Marsia legato le forme e la struttura del Torso del Belvedere, adattato al rovescio. La conoscenza da parte di Botticelli di questo modello classico, presente dal 1435 al 1496 nella collezione Colonna in ‘Monte Cavallo’, ossia sul Quirinale (vedi BRUMMER 1970, pp. 142152) può essere avvenuta direttamente durante i lavori alla Sistina nei primi anni Ottanta, oppure attraverso riprese grafiche circolanti nelle botteghe degli artisti ‘antiquarii’ in forme di taccuini o stampe (si noti ad esempio che un’incisione di Giovanni Antonio da Brescia, TIB 2511.02.S1, propone la statua con l’integrazione delle gambe, e potrebbe far capo ad una fonte comune). Nel secondo personaggio l’accenno a una fionda permette l’identificazione con David, avvalorata dall’esatta corrispondenza della posa con la statua del Verrocchio e con i suoi studi preparatori (sulla fortuna presso gli artisti contemporanei, vedi MELLI 2008), un modello che sarà più volte riutilizzato da Botticelli nei suoi dipinti, come nell’Apollo intarsiato nello studiolo di Federico a Urbino, o nella figura Lorenzo de’ Medici della Adorazione Lami agli Uffizi. Non si tratterebbe dunque di una composizione unificata, ma di due studi distinti ispirati a diversi e altrettanto aulici esempi, rievocati “a memoria, oppure per via indiretta, attraverso schizzi di mano propria o altrui… collocando in posa compagni di bottega di varia corporatura e dalla fisionomia caratterizzata: segno che l’interesse andava non già allo stile e alla specifica morfologia del pezzo antico bensì al posare cioè al congegno che il corpo costruisce nello spazio…” (DALLI REGOLI 1992, p. 63).
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Bibliografia: FERRI 1881, p. 10; BERENSON 1903, n. 912; BERENSON 1938; BERENSON 1961; G. Dalli Regoli, in RAGGHIANTI-DALLI REGOLI 1975, n. 22, fig. 49; PETRIOLI TOFANI 1986, p. 49; DALLI REGOLI 1992, pp. 63-64, fig. 3; MELLI 2008, p. 14, fig. 7
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41 - Sandro Botticelli (Firenze, 1445-1510) Due studi di figura maschile seminuda seduta (Marsia)
punta metallica, biacca, carta bianca vergata preparata in giallo, contorni parzialmente incisi con lo stilo, mm 265 × 189 sul verso, Testa di giovane di altra mano Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. 199 F
Questo foglio è stato a lungo attribuito a Lorenzo di Credi, essendo rintracciabile negli antichi inventari della collezione medicea sotto questo artista (PETRIOLI TOFANI 1991) e come tale catalogato da FERRI (1890), BERENSON (1903) e DEGENHART (1932). Come il disegno degli Uffizi 112 E (cat. n. 40), anche il presente 199 F è confluito nel gruppo botticelliano “A2” istituito da RAGGHIANTI e DALLI REGOLI (1975), i quali in occasioni separate hanno provveduto a indicarne la qualità notevole che induce ad una attribuzione a Sandro Botticelli. Anch’esso come il precedente non è mai stato considerato nella bibliografia specifica dell’artista, ma nondimeno, a parere della scrivente, può entrare a far parte di un gruppo selezionato di fogli attribuibili alla sua mano recanti studi di figura maschile e facenti parte di libri di modelli (cfr. L. Melli, in FRANCOFORTE 2009, pp. 300-303, nn. 57, 58); per contro non risulta corrispondere alle similitudini finora indicate con fogli che paiono piuttosto riferibili a Filippino Lippi e al suo ambito (RAGGHIANTIDALLI REGOLI 1975, n. 20, fig. 43; n. 33, fig. 50; n. 42, fig. 51). Su un supporto preparato in giallo intenso e scuro, analogo al 112 E, due figure maschili seminude sedute con le mani dietro la schiena sono tracciata a punta metallica e lumeggiate a biacca, con dense pennellate ampie e sommarie. Il disegnatore mostra una notevole familiarità con lo strumento che utilizza in modo abbreviato e intuitivo, senza puntigliosità ma efficace. Si tratta di una figura nella stessa posa ripresa per due volte con leggere variazioni dimensionali e di punto di vista. Infatti non pare che sia il modello ad aver cambiato posizione e ad aver inclinato il busto in avanti, come suggerito dalla Dalli Regoli, quanto piuttosto il disegnatore ad aver còlto il modello prima nello schizzo di sinistra quasi frontalmente e poi, nello spazio rimasto libero a destra nel foglio, ad aver ripetuto lo studio spostando leggermente il punto di vista verso destra e alzandolo. Le gambe sembrano così meno divaricate e il busto meno inclinato. L’artista chiede al giovane nudo di posare nell’attitudine dei modelli classici quali il Torso del Belvedere o il Marsia del Sigillo di Nerone divulgato dalle repliche bronzee e fittili, anche
se bisogna tenere presente che a quest’epoca e in questo tipo di disegni cosiddetti dal ‘naturale’ il confine tra la dipendenza dai prototipi aulici, tramite copie disegnate o plastiche, e l’osservazione naturale del corpo umano non è ancora ben definito o definibile (FORLANI TEMPESTI 1994). In questo caso la fissità del modello di fronte all’occhio dell’artista non permette di escludere la presenza di un modellino plastico. Botticelli si attiene da vicino al modello antico, ma al contempo sembra piuttosto interessarsi alla messa a punto di una figura idonea alla personale interpretazione di un Marsia sconfitto, e non ancora prostrato come nel 112 E, che rivolge al vincitore uno sguardo tra la supplica e l’ammirazione e rivela ancora qualche velleità di ribellione nelle gambe contratte e pronte allo scatto. Le linee di contorno, ‘calcate’ con uno stilo, indicano il trasferimento del disegno su un altro supporto e la volontà di utilizzo o riproduzione del modello. L.Me. Bibliografia: FERRI 1890, p. 49; BERENSON 1903, n. 690; DEGENHART 1932, p. 144; BERENSON 1938; TROMBETTI BRIOLI 1936, p. 386; RAGGHIANTI 1960, p. 54; BERENSON 1961; DALLI REGOLI 1967, p. 200; G. Dalli Regoli, in RAGGHIANTIDALLI REGOLI 1975, n. 35, fig. 45; PETRIOLI TOFANI 1991, p. 89; DALLI REGOLI 1992, p. 64, fig. 5
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42 - Francesco di Simone Ferrucci (attr.) (Fiesole, 1437-Firenze, 1493) Studi di putti, di gambe, Apollo e Olimpo, un santo seduto e incatenato
seconda metà degli anni ottanta del XV secolo penna e inchiostro bruno su traccia a matita nera, su carta preparata rosa, mm 272 × 191 Londra, The British Museum, Department of Prints and Drawings, inv. 1952-4-5-1 verso
Il foglio, giunto al British Museum soltanto alla metà del secolo scorso, faceva parte di un taccuino, smembrato già nella prima metà dell’Ottocento, noto come ‘Taccuino del Verrocchio’ per il frequente ricorrere nelle diverse pagine di copie, derivazioni o meditazioni dalle opere del grande artista. La proposta di attribuzione a Francesco di Simone Ferrucci risale al Morelli, e nonostante non sia stata unanimemente accolta, il riferimento alla bottega dello scalpellino fiesolano resta l’ipotesi più convincente. La collocazione del taccuino alla seconda metà degli anni ottanta del Quattrocento si basa sulla data 1487 riportata su tre fogli ora a Chantilly (Musée Condé, inv. 21, 22, 23), mentre su un foglio dell’École des Beaux-Arts di Parigi (inv. 374) compare la data 1488; ciò tuttavia non nega la possibilità che i tempi di compilazione del taccuino siano stati più ampi, soprattutto in considerazione del suo uso quotidiano e non sistematico all’interno della bottega dei Ferrucci. Questa funzione è rispecchiata a pieno nel nostro foglio, che presenta sul recto vari studi di putti, tre figure di santi panneggiate (una delle quali, per la presenza del leone e le minime notazioni di paesaggio, può essere identificata in san Girolamo), un condottiero a cavallo e uno studio di piede; in alto al centro è presente un appunto scritto a penna: “fi Nicholo muratore”. L’assenza di ordine e sistematicità nell’esecuzione dei disegni si ritrova anche sul verso: sul margine inferiore, rovesciati rispetto all’orientamento della pagina, sono due studi di gambe. Al centro è rappresentato di tre quarti, con minime varianti, un robusto putto in equilibrio instabile sulla gamba destra e con la sinistra sollevata; il putto di sinistra mostra le braccia sollevate, quello sinistro passante davanti al petto, mentre la testa compie una leggera torsione verso destra; il putto di destra ha invece la testa sollevata e il braccio sinistro che scende lungo il corpo. In alto al centro ricompare lo stesso putto visto di profilo: è ritratto in equilibrio sulla gamba destra, poggiante su una sfera, e con il braccio destro disteso in avanti. Dato il carattere fortemente plastico della figura e le minime variazioni di posa e movimento tra i tre putti, è molto probabile che l’artista si sia servito di un modello tridimensionale. Nell’angolo superiore destro, in scala minore e di limitata evidenza plastica, sono disegnate altre tre figure, divise in due gruppi. In alto, saldamente piantato su un basamento circolare modanato, è un nudo virile in un elegante contrapposto, il capo fieramente rivolto verso destra, con un leggero panneggio che, partendo dalla spalla sinistra ricade, avvolgendola, sulla gamba destra, appena trattenuto dalla mano; reca a sinistra una grande cetra, che permette di identificare il giovane senz’altro con Apollo. La figura di supplice inginocchiato ai suoi piedi potrebbe a prima vista credersi un bambino: in realtà si deve identificare con Olimpo che implora il dio di salvare il suo maestro Marsia. Come già notava Chastel, l’identificazione è resa certa grazie al confronto con la celebre corniola raffigurante Apollo, Marsia e Olimpo, assai apprezzata lungo tutto il corso del Quattrocento, che, dopo essere già passata per Firenze all’inizio del secolo, entrò nelle collezioni di Lorenzo il Magnifico nel 1487 (cfr. CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997; GENNAIOLI 2007, p. 45). Grazie al confronto con la gemma è possibile riconoscere anche la figura virile barbuta, rappresentata seduta su uno sperone roccioso e con le braccia legate a un albero: nonostante l’aggiunta di un’aureola, la figura è copia dell’antico Marsia, e la fedeltà del disegnatore al modello è assoluta non solo nel delineare i tratti del vecchio musico, ma anche nella definizione
della roccia, che presenta sulla destra un andamento diagonale, perfettamente coincidente con l’inclinazione in avanti del busto di Olimpo. Un motivo simile, appena abbozzato, si trova in un altro foglio del taccuino, ora a Chantilly (inv. 27 r), mentre su un altro foglio della stessa collezione (inv. 24v) e sul foglio parigino citato sopra, la figura assume una posa diversa nella parte superiore del corpo: queste varianti potrebbero rispecchiare, come ha convincentemente proposto Francesco Caglioti, alcune fasi dell’elaborazione del perduto Marsia del Verrocchio, realizzato per i Medici a partire da un frammento antico. La figura di Apollo, invece, compare due volte sul foglio del Louvre RF 450 v (cat. n. 43). M.M. Bibliografia: MORELLI 1893, p. 38; CHASTEL 1959, pp. 52-53; CAGLIOTI 1994, pp. 82-87, p. 94 nota 36, p. 95 nota 48; C. Lanfranc de Panthou, in LANFRANC DE PANTHOU-PERONNET 1995, pp. 48- 50, p. 67 sub n. 10; PISANI 2007, pp. 82-86, pp. 158-159, n. 15 con bibl. prec.
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43 - Francesco di Simone Ferrucci (attr.) (Fiesole, 1437-Firenze, 1493) Studi di teste di profilo, di putti, di orecchie, due figure di Apollo
seconda metà degli anni ottanta del XV secolo penna e inchiostro bruno, punta metallica, su carta preparata rosa, mm 230 × 185 Parigi, Musée du Louvre, Département des Arts Graphiques, inv. RF 450 verso
Pervenuto alle collezioni del Louvre nel 1878, il foglio era originariamente parte del cosiddetto ‘Taccuino del Verrocchio’, raccolta di modelli grafici – in gran parte derivati dalla scultura o da disegni – e di ricordi manoscritti, databile intorno alla metà degli anni ottanta del Quattrocento e riferibile alla bottega di Francesco di Simone Ferrucci. Alla vita di bottega rimandano le iscrizioni presenti sul foglio: difficilmente interpretabile quella del recto “A in conto la chagione di questa sia che so”, chiaro indizio dei rapporti con i collaboratori quelle del verso “DATO NICHO lo” “St(efa)no Ane dato Mjchele muratore per mille mogi adj che torna”. Sul recto, in alto a sinistra, sono disegnati il braccio e la spalla destra di un robusto bimbetto, che tiene in mano un lembo di tessuto; accanto, una testa di putto in scala minore. Sul lato opposto, poggiante su un elegante architrave sorretto da un capitello corinzio, un putto nudo che guarda verso l’alto e tiene con la sinistra il velo leggero che porta annodato sulla spalla destra. In basso al centro è disegnato lo stesso putto, in leggera rotazione verso destra e con lo sguardo fisso di fronte a sé; appare privo del velo, anche se con la mano destra sembra compiere il gesto di tenerlo discosto dal corpo. Abbastanza confusa appare la dislocazione di scritte e disegni sul verso: come nel recto sono presenti studi di putti – uno seduto e uno incedente – lasciati però allo stato di primo abbozzo. Sul lato sinistro compaiono, diversamente finite, tre teste virili di profilo, chiaramente ispirate alla monetazione antica o alle derivazioni da essa tipiche della cultura antiquariale quattrocentesca; ad esse relativi sono anche due studi di orecchie. Alla stessa matrice culturale rimandano i due studi di nudo virile stante disegnati sul lato destro del foglio: innegabilmente classica è l’elegante posa di contrapposto, così come l’iconografia del giovane, con morbidi boccoli che ricadono sulle spalle e il velo che posa su una spalla e ricade leggero sui fianchi, non per coprire ma per evidenziare la bellezza efebica delle membra. L’evidente relazione di molti dei modelli utilizzati nel taccuino con l’ambito verrocchiesco potrebbe aver indotto a collegare questa figura con qualche disegno preparatorio del David bronzeo di Andrea (Pisani): l’unica somiglianza tra le due figure è data dalla posizione delle braccia, mentre affatto opposta è quella delle gambe, delle anche e della testa. Più che di una derivazione del giovane del disegno dalla scultura o da uno studio ad essa relativo, si dovrà ipotizzare un’eventuale rapporto di entrambi con lo stesso modello. Ed esso può essere facilmente riconosciuto nella corniola di età augustea, raffigurante Apollo, Marsia e Olimpo, sulla quale Verrocchio meditò a lungo durante la fase di elaborazione del suo Marsia per Palazzo Medici, come testimoniano proprio alcuni disegni del taccuino dei Ferrucci (Chantilly, Musée Condé, inv. 27 r e 24 v; Parigi, École des Beaux-Arts, inv. 374: cfr. cat. n. 42): la conferma dell’uso di questa fonte anche per il nostro disegno non è data soltanto dalla totale corrispondenza della figura all’Apollo della gemma, ma dalle incertezze evidenti nel delineare il braccio destro del dio – assai goffo e disarticolato nel disegno in alto, assente in quello sottostante – che nel modello è oscurato dalla grande cetra. Come ha sostenuto Davide Gasparotto, i disegni del Ferrucci sono una testimonianza dell’esplosione della fortuna della gemma antica a Firenze nel corso degli anni settanta del Quattrocento. Tale affermazione resta valida anche se la sua acquisizione da parte di Lorenzo il Magnifico non va collocata nel 1471, come credevano Caglioti e Gasparotto, ma nel 1487 (GENNAIOLI 2007, p. 45). La perfetta contemporaneità tra l’arrivo a Firenze della gemma
e la compilazione del taccuino, che oltre tutto dovrebbe riproporre disegni precedentemente eseguiti in ambito verrocchiesco, rendono improbabile una derivazione diretta dalla gemma. Appare del tutto plausibile che il modello sia stata una placchetta metallica derivata da un’impronta, la cui circolazione fu ampia e diffusa in tutta l’Italia centrale fin da quando, nella seconda metà degli anni venti, Lorenzo Ghiberti aveva realizzato per la corniola una montatura aurea che mirava a restituirne la presunta funzione di sigillo (per le vicende collezionistiche della gemma e il catalogo delle placchette da essa derivate, cfr. CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, passim). In direzione di una derivazione indiretta, d’altronde, parla anche la posizione delle figure, che in tutti i disegni appaiono ritratte in controparte rispetto al modello cavo. M.M. Bibliografia: CAGLIOTI 1994, pp. 84-87; C. Lanfranc de Panthou, in LANFRANC DE PANTHOUPERONNET 1995, pp. 48- 50, p. 67 sub n. 10; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 6; PISANI 2007, pp. 82-86, p. 163, n. 21 con bibl. prec.
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44 - Artista del XV secolo Trionfo della Pudicizia
terzo quarto del XV secolo tempera su tavola, cm 54 × 61 Siena, Pinacoteca Nazionale, inv. n. 150
L’illustrazione dei Trionfi del Petrarca giunse a Firenze – e da qui si diffuse nelle altre città dell’Italia centrale –, probabilmente attraverso la comparsa di codici padovani acquistati dall’umanista Niccolò Niccoli e si affermò anche tramite le serie incisorie di Maso Finiguerra (1426-1464). La composizione dei Trionfi esprimeva il forte interesse che Francesco Petrarca (1304-1374) nutriva per la cultura classica e se indubbio è il rapporto con gli antichi trionfi istoriati della scultura romana, è altrettanto evidente la dipendenza con l’Amorosa Visione del Boccaccio (1311-1375). La finzione poetica – suggerita da una visione in sogno dell’amata Laura – presenta sei carri che successivamente passano innanzi al poeta con intorno personaggi, più o meno illustri, connessi in allegorie al culmine dei carri: quello con Amore circondato dalle sue vittime, il quale a sua volta è stato vinto dalla Pudicizia (la seconda allegoria) che verrà in seguita stroncata dalla Morte; ma dopo il trionfo di quest’ultima, la Fama avrà la sua vittoria, anch’essa inevitabilmente vinta dal Tempo. Al poeta resta dunque solo il rifugio con l’amata nel sommo bene che è rappresentato dal Trionfo dell’Eternità. I Trionfi costituivano dunque un rilevante significato morale. La fortuna di questo poema in epoca rinascimentale è testimoniata dalle numerose opere realizzate in quegl’anni, tra le quali si contraddistinguono le miniature uscite dalla bottega di Apollonio di Giovanni (Firenze, BML, cod. Med. Pal. 72 e cod. Strozzi 174); il dittico con i Duchi d’Urbino (oggi agli Uffizi) di Piero della Francesca; la pittura su cassone di Pesellino con il Trionfo dell’Amore, della Castità e della Fama (conservato presso l’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston), e di Jacopo del Sellaio con il Trionfo d’Amore e della Castità al Museo Bandini di Fiesole; i dipinti dello Scheggia a Palazzo Davanzati di Firenze e infine le quattro tavolette della Pinacoteca di Siena, delle quali si presenta in questa mostra l’esemplare con il Trionfo della Pudicizia. Benché Firenze fu il centro principale del nuovo ordine estetico rinascimentale, le allegorie petrarchesche non ebbero una precoce diffusione. Forse i primi umanisti furono principalmente attratti dagli antichi testi letterari greci e latini, disprezzando inizialmente il latino volgare. Ma il breve esilio dei Medici a Venezia del 1433-1434, prima, e il soggiorno di Piero de’ Medici a Ferrara dopo, contribuirono indubbiamente alla divulgazione del Petrarca nel centro toscano: pochi anni dopo il colto e appassionato Piero de’ Medici incaricò l’artista veronese Matteo de’ Pasti di dipingere per lui i Trionfi, lavoro ad oggi non concordemente ascritto. Questa notizia è nota attraverso una lettera inviata il 1441 da Matteo (cfr. ASF, MaP, fil. XVI, 16 – pubblicata da G. Milanesi, Lettere d’artisti italiani dei secoli XIV e XV, in: II Buonarrotti, II serie, IV, 1869, pp. 78-79) al suo committente per informarlo riguardo ad un “Trionfo” che stava eseguendo, chiedendo consiglio se “quella donna che sede” il richiedente la desiderasse vestita con la “camorra di picciolato”; scrive poi domandando se il carro deve essere trainato da “elefanti” e se deve essere seguito da “scudieri e demiselle” o “omeni famosi e vecchi”, cioè del mondo antico. Queste ultime citazioni ricordano l’altra tavoletta, facente parte di questa serie, con la Fama seduta sopra un carro trainato da elefanti, un’iconografia assai frequente nella cerchia veneto-emiliano. Nelle rappresentazioni dei Trionfi, principalmente di ambito fiorentino, la presenza degli elefanti che tirano il carro della Fama, rappresenta un’immagine rara che mi risulta essere presente solo in un dipinto conservato a Palazzo Davanzati. L’opera fiorentina è oggi concordemente attribuita allo Scheggia (in passato alcuni studiosi l’assegnavano proprio a Matteo) il quale, a mio giudi-
zio, potrebbe essersi ispirato proprio all’opera del de’ Pasti, come altresì l’artista delle nostre tavolette senesi potrebbe averne divulgato un eco. Il dipinto esposto in questa occasione è arricchito da un ulteriore particolare iconografico, che ad oggi, nel suo genere, potrebbe riprodurre un unicum. Oltre alla rappresentazione del carro trinato dagli elefanti rappresentato nell’altra tavoletta sopra menzionata, in quella qui esposta compare Amore, seduto sul carro trionfante della vittoriosa Pudicizia, con le braccia legate dietro alla schiena; una narrazione indubbiamente frequente anche in altre opere. La particolarità è esibita nella posizione del busto e degli arti, ma soprattutto nel quasi impercettibile dettaglio del cappio legato intorno al braccio, giustamente notato da Riccardo Gennaioli in occasione di questa mostra. Elementi distintivi che rimanderebbero al celebre Sigillo di Nerone, la corniola di età augustea posseduta dai Medici, attualmente conservata al Museo Archeologico Nazionale di Napoli, con intagliati Apollo, Marsia ed Olimpo. Marsia è raffigurato nel medesimo atteggiamento di Amore, ed è seduto sopra ad un tronco d’albero in attesa di subire l’atroce pena per aver sfidato Apollo. L’antico mito, come ha ribadito PANNUTI (1994a), voleva celebrare “la vittoria dell’elemento apollineo su quello dionisiaco”, ma non posso altrettanto confermare che il pittore della tavoletta senese abbia utilizzato questa allusione all’antico consapevole del significato allegorico, poiché dalle fonti dell’epoca si evince che nel Quattro e Cinquecento – che di Marsia si conosceva principalmente il modello suspensus (sospeso ad un albero con le braccia distese) – questa figurazione non fu evidentemente compresa e le figure del Sigillo furono spesso interpretate con le personificazioni delle tre età dell’uomo (FATTICCIONI 2007). I cammei accuratamente raccolti dai più colti e appassionati collezionisti offrirono suggerimenti determinanti a pittori, scultori, miniatori e orafi del quindicesimo secolo diventando un importante tramite fra l’antico e la sua interpretazione rinascimentale. Non si conosce l’originale provenienza di questa e delle altre tre tavolette, che prima di arrivare in Pinacoteca si conservavano presso il parroco della pieve di San Marcellino in Chianti; né tanto meno, a mio parere, può essere identificato con certezza l’esecutore. L’ultimo studio è stato condotto dalla CAVAZZINI (1999) che riferiva, su segnalazione di Bellosi, i dipinti ad una produzione tarda della bottega dello Scheggia dove “potrebbe essere stato preponderante l’intervento del figlio Antonfrancesco”, prematuramente morto nel 1476. Questa nuova attribuzione – che personalmente non posso accogliere – negava le paternità fino a quel momento espresse dagli studiosi, Pier Francesco Fiorentino (BERENSON 1963), Marco del Buono (CARANDENTE 1963; SALMI 1977) e Apollonio di Giovanni (TORRITI 1990). CALLMANN (1974) e TOGNACCINI (1998) rifiutavano queste attribuzioni senza tuttavia avanzare una nuova proposta. Queste incertezze attributive, che hanno chiamato in causa artisti dallo stile differente e alcuni dettagli iconografici riscontrati, mi hanno fatto ipotizzare che queste tavolette potrebbero essere avvicinate ad un pittore operante fuori da Firenze. I dipinti evidenziano un linguaggio dal tono fiabesco, raffinato e prezioso, in coerenza con lo stile del gotico internazionale, ma che si va evolvendo in un naturalismo molto vicino alle novità fiorentine, in linea con lo stile di Pisanello con cui, ad esempio, certi artisti veneti erano entrati più volte in contatto. S.N. Bibliografia: BERENSON 1963, p. 170; CARANDENTE 1963, p. 63; CALLMANN 1974, p. 87; SALMI 1977, p. 168; TORRITI 1990, p. 297; PANNUTI 1994a, p. 68; TOGNACCINI 1998, pp. 80-85; CAVAZZINI 1999, pp. 84-88; FATTICCIONI 2007, p. 134
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45 - Francesco Mazzola, detto Parmigianino (Parma, 1503Casalmaggiore, 1540) Studi di figure
1534-1535 penna e inchiostro grigio e bruno, acquerellature grigie su carta azzurra, mm 187 × 183 The Royal Collection, inv. 2185 verso
Il recto del foglio, probabilmente tagliato sul lato destro, inquadra all’interno di una linea semicircolare Cristo in gloria che incorona la Vergine, condotta in cielo dagli angeli: un soggetto destinato all’abside della chiesa parmense di Santa Maria della Steccata, alla cui decorazione il Mazzola lavorò nel suo travagliato ultimo decennio di vita. Il verso ha invece un carattere più sperimentale, contenendo numerosi studi di figura, alcuni in diverse redazioni: studi di bambino con un agnello (Gesù? san Giovannino?), di un nudo virile stante, di profilo femminile, di Madonna col Bambino, di nudo virile seduto con le braccia legate dietro la schiena, di uomo con un piccone. La quasi totale assenza di un legame tematico tra le figure, o con la composizione del recto, ha spesso indotto la critica a considerare separatamente i due lati del foglio, proponendo talora per essi diverse datazioni: è quanto faceva per esempio Popham, che pur ammettendo l’uso dello stesso inchiostro nel recto e in parte degli studi del verso, collocava quest’ultimo nel periodo bolognese (1527-1530) ipotizzando per l’Incoronazione della Vergine la ripresa di un foglio utilizzato in precedenza o un’elaborazione anteriore al primo contratto per la decorazione della Steccata, siglato il 10 maggio 1531. Il problema della datazione del foglio di Windsor è stato generato da due figure presenti sul verso: il giovane stante rivolto verso destra, con un velo che appena avvolge il corpo partendo dalla spalla sinistra e fermato dalla mano sulla gamba destra, disegnato due volte al centro del foglio, e il sottostante personaggio seduto, con il capo chino, il busto proteso in avanti e le braccia legate dietro le spalle. Queste figure, per il loro evidente rapporto di dipendenza dalla corniola antica, allora in collezione medicea, raffigurante Apollo, Marsia e Olimpo, sono state considerate preparatorie con il disegno della Pierpont Morgan Library di New York (inv. IV, 44) raffigurante la Contesa di Apollo e Marsia, parte di una serie sul mito di Marsia – probabilmente destinata ad essere tradotta in xilografie a chiaroscuro – realizzata intorno al 1527-1530 (ipotesi ricostruttiva della serie in WYSS 1996). Il confronto tra i due disegni, tuttavia, dimostra come tra essi non esista alcuna relazione, né stilistica né iconografica, e se per il disegno di New York deve essere trovato un modello antico, esso sarà piuttosto, per la figura del dio, l’Apollo del
Belvedere, verso il quale si già era rivolta l’attenzione del Mazzola. Di una relazione tra la gemma antica e la serie su Marsia bisognerà parlare, piuttosto, in riferimento al disegno con Apollo assiste allo scorticamento di Marsia degli Uffizi (inv. 13583 F), preparatorio per l’‘ovale’ perduto del Parmigianino, che fu forse modello per un’incisione di Antonio Fantuzzi: mentre in quest’ultima è ripresa l’iconografia dell’Apollo del Belvedere, nel disegno fiorentino il dio che assiste impassibile alla scena è una derivazione puntuale, con il solo adattamento della posizione della testa, dell’Apollo della gemma. Sia sul verso del disegno di Windsor sia sul foglio degli Uffizi troviamo copie in controparte della gemma, che il Mazzola non può aver studiato in originale ma attraverso una placchetta: l’uso di calchi e copie dall’antico era una prassi assai diffusa tra gli artisti, spesso utilizzata dal Parmigianino in tutto il corso della sua carriera, come ha puntualmente dimostrato David Ekserdjian in uno studio recente. L’utilizzo della stessa fonte iconografica e la trattazione del medesimo soggetto, dunque, non dovranno essere considerati come elemento probante per formulare una datazione (è quanto fa, ancora recentemente, Catherine Loisel), ma soltanto indizi di una disponibilità (e forse proprietà) del modello in diversi momenti dell’attività dell’artista. M.M. Bibliografia: POPHAM 1971, pp. 198-199, n. 665; WYSS 1996, pp. 100-108 (100-103); EKSERDJIAN 2001; C. Loisel, in PARMA-VIENNA 2003, pp. 273-274, sub n. 2.3.37; GNANN 2007, pp. 100, 266, p. 481, n. 815 con bibl. prec.
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46 - Isaia da Pisa Apollo-Orfeo
1460 ca marmo, h. cm 59, largh. 34 cm Varsavia, National Museum, inv. n. MN 147025
Lastra rettangolare, con cornice liscia, che raffigura una figura in una nicchia impostata su due semipilastri con basi modanate e fusto con scanalature in parte riempite da bastoncini; la tazza dei capitelli è caratterizzata da due larghe foglie divise dalla radice di due robusti caulicoli. La trabeazione ha architrave formato da tre listelli, separati da file di piccoli ovuli, sormontati da un kymation a gola rovescia a sostegno di un ultimo listello; una fascia scanalata e modanature decorate a perline, ovoli e dentelli supportano un altro kymation. L’arco a tutto sesto inscrive un nicchio e si compone di quattro listelli separati da modanature – perle, perle e fusaruole – e di un kymation a gola diritta. Negli spazi angolari superiori si trovano due semipalmette. La figura, in piedi con gamba destra flessa, ha il torso ruotato verso sinistra; il braccio destro accompagna il movimento con la spalla avanzata e è steso lungo il corpo, appena flesso; la mano tiene il mantello, fissato con fermaglio circolare sotto il collo: una parte cade diritta in pieghe sovrapposte lungo la gamba sinistra, un’altra rimonta da dietro sulla gamba destra e scende a terra con panneggi parzialmente aderenti. Il braccio sinistro della figura è nascosto dalla lira, appoggiata al fianco e con una voluta seminascosta dietro il corpo. La testa, contrapposta alla torsione del busto, volge a destra, poco inclinata verso il basso; la folta capigliatura ondulata, con rare ciocche ricadenti sulle spalle, incornicia il largo volto, con fronte alta e grandi guance. L’opera si trova al Museo Nazionale di Varsavia dal 1947; già ritenuta lavoro del II secolo d.C., poi opera italiana della fine del XV secolo (DOBROWOLSKY 1969), è stata ricondotta all’attività iniziale di Isaia da Pisa (KACZMARZYK 1974) e appartiene stabilmente al catalogo dell’artista dopo gli interventi di Caglioti (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997; CAGLIOTI 1998) con una datazione al 1460 circa, come risulta anche dal confronto col medaglione con Nerone e Poppea (CAGLIOTI 2004). La figura riprende, in controparte, l’Apollo del Sigillo di Nerone (cat. n. 35); l’inclinazione della testa e le sue proporzioni con il corpo, la mano destra – che nella gemma tiene il plettro –, la dilatazione e l’arrotondamento dei volumi, dovuti anche all’esecuzione della figura, quasi risparmiata nel volume della lastra, la modifica e l’irrigidimento di diversi passaggi del panneggio sono le differenze principali. L’individuazione della figura è ancora aspetto problematico: è stata già dimostrata la sua possibile interpretazione come Orfeo (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 4 e 6, note 29-32), ma d’altra parte le riletture del mito apollineo sono state varie, almeno dal VI secolo d.C. (WYSS 1996, pp. 3539; FATTICCIONI 2007), così come i fraintendimenti della raffigurazione della corniola noti dalle fonti rinascimentali. La lettura come “PRVDENTIA PVRITAS TERTIVM QVOD IGNORO” e la composizione del rilievo aprono all’ipotesi di una provenienza del rilievo da una tomba smembrata, dove magari figurava in un pilastro o una lesena nel ruolo di figura allegorica, secondo uno schema diffuso nelle sepolture monumentali del tempo (PÖPPER 2002), come in quella di Antonio Martinez de Chávez in San Giovanni in Laterano (KÜHLENTAL 1976; CAGLIOTI 1998, p. 134, nota 83). In più la vittoriosa, ma immeritatamente sfortunata, confidenza di Orfeo con gli Inferi ne rese facile la sua interpretazione cristologica fino dai primi secoli dopo Cristo (GAREZOU 1994, pp. 96-97, 104) e la sua presenza in un monumento funerario rinascimentale doveva risultare del tutto intonata. Ma anche come Apollo, il suo impiego in un sepolcro sarebbe stato ‘decoroso’, dato che il dio e la sua lira potevano essere immagine autorevole
dell’armonia celeste, astrologica e teologica (WYSS 1996, p. 37). L’Apollo-Orfeo potrebbe dunque provenire da un arredo funebre, poi smantellato, eseguito intorno al 1460. A.D.G. Bibliografia: DOBROWOLSKY 1969 pp. 55-67; KACZMARZYK 1974, pp. 28-32; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 4, fig. 8, nota 29; CAGLIOTI 1998, pp. 136-137, n. 10
Il Sigillo di Nerone
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47 - Imitatore di Michelangelo Apollo e Marsia
Italia, XVI secolo o più tardi marmo, cm 41,2 × 31,4 provenienza: probabilmente Bartolomeo Cavaceppi, Roma, prima del 1767; muro di giardino sul Lungarno delle Grazie, Firenze; acquistato dal barone Reinhold von Liphart, Dorpat and Munich-Grafeling, dal 1891; probabilmente in deposito da Paul Drey, New York, dal 1935; venduto nel 1948 alla Samuel H. Kress Foundation, New York; donato nel 1961 alla National Gallery of Art Washington, National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection, inv. n. 1961.1.5
Quaesto rilievo in marmo è una versione ingrandita della celebre gemma con Apollo, Marsia e Olimpo, una antica corniola attribuita a Dioskourides, la quale appartenne a Lorenzo il Magnifico e oggi si conserva presso il Museo Archeologico Nazionale di Napoli (cat. n. 35). Il momento raffigurato è quello che segue la competizione musicale e che precede il supplizio di Marsia, con il satiro legato a un albero e Apollo stante con in mano la lira. La composizione fu una delle più celebri del Rinascimento riprodotta in diverse tipologie di opere. Il manufatto non è documentato prima del tardo XIX secolo (comunque, Winckelmann vide un rilievo con Apollo e Marsia, attribuito a Michelangelo, nello studio di Bartolomeo Cavaceppi, si veda MIDDELDORF 1976, p. 68 e D. Lewis, in MONTREAL 1992, p. 120). La sua attribuzione e la sua datazione è stata notevolmente dibattuta da quando fu pubblicato per la prima volta come un perduto lavoro del giovane Michelangelo dal Bode nel 1891; una proposta rigettata dal Frey nel 1907. La composizione del rilievo è stata notevolmente semplificata ed esclude diversi dettagli che si trovano nella gemma, come ad esempio l’astuccio del flauto di Marsia pendente da uno dei rami dell’albero e il panneggio di Apollo. Uno spazio vuoto sul lato sinistro del dio è l’unica indicazione della lira, resa invece nella gemma fin nei minimi particolari. Tracce di scalpello tra le due figure sembrano suggerire il perimetro del piccolo Olimpo inginocchiato. Di notevole interesse risulta la tecnica di lavorazione del marmo. Una sequenza di fori di trapano circondano le figure, e segni di scalpelli ricoprono buona parte della superficie. Mentre certe parti del rilievo appaiono finemente rifinite, come la muscolatura del torso di Apollo, la sua faccia è schematicamente delineata e i piedi e i capelli sono appena accennati, conferendo una impressione, forse deliberatamente voluta di ‘non finito’ michelangiolesco. Non è chiaro se il borbo irregolare del marmo stia ad indicare che il lavoro fu un esperimento su una lastra di pietra difettosa, o se fu rotto dopo che l’opera fu scolpita. Piccoli rilievi come questo furono utilizzati per decorare i muri esterni di palazzi, ville e giardini durante il Rinascimento. E proprio sul muro di un giardino sul Lungarno delle Grazie a Firenze il pezzo fu visto dal barone Reinhold von Liphart nel XIX secolo (BODE 1891, p. 167). Il motivo iconografico, con significative varianti appera in un tondo nel muro della loggia della Giustizia di Cambise di Gerard David (Arresto di Sisanne) dipinta nel 1498 per il municipio di Bruges (Groeningemuseum, inv. 0.40). Un disegno di Martin van Heemskerck raffigurante il giardino di Jacopo Galli in Roma mostra il gusto antiquario per la disposizione di frammenti di rilievi sulle pareti esterne e fornisce l’esempio di una scultura di Michelangelo – in questo caso il Bacco – esposta in un giardino (PAOLETTI-RADKE 2005, p. 285). Michelangelo, durante la sua permanenza presso la famiglia Medici, potrebbe aver visto la celebre corniola e forse potrebbe aver subito il fascino delle implicazioni anatomiche offerte dal soggetto del Marsia scorticato. Tuttavia, le molte qualità dell’opera citate dai sostenitori di questa attribuzione come prove dell’intervento del grande scultore sono problematiche per il loro carattere ostentatamente michelangiolesco. Certe affinità delle figure con il David e i Prigioni furono assunte all’inizio del XX secolo dai sostenitori dell’attribuzione al Buonarroti come prova evidente della paternità michelangiolesca del rilievo. Eppure quelle stes-
se somiglianze di tecnica e di stile possono essere utilizzate per negarla, come giustamente sostenuto dal Wittkower che notava: “… [T]his unfinished relief [i]s a clumsy imitation of Michelangelo… [the artist] displays the trappings of Michelangelo’s technique without real understanding. … The piece belongs to a period when the imitation of Michelangelo’s non-finito became fashionable….” (Rudolf Wittkower “Suggested Attribution Change: Apollo and Marsyas.”, dattiloscritto, curatorial files, National Gallery of Art. Washington, April 17, 1970). Simile posizione fu assunta anche da Middeldorf, il quale sottolineò che “There is nothing in the piece to suggest Michelangelo… except the fact that it is unfinished” (MIDDELDORF 1976, p. 68). E.P. Bibliografia: BODE 1891, pp. 167-170 (attr. a Michelangelo); FREY 1907, pp. 91-98; DE TOLNEY 1943, pp. 133-234; Paintings 1951, p. 242, n. 108 (attr. a Michelangelo); Paintings 1959, p. 422 (attr. a Michelangelo); Summary Catalogue 1965, p. 162 (attr. a Michelangelo); European Paintings 1968, p. 143 (attr. a Michelangelo); MIDDELDORF 1976, p. 68; D. Lewis, in MONTREAL 1992, p. 120, n. 17; Sculpture 1994, p. 150
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48 - Fonderia Alberghetti Vaso (rinfrescatoio?)
prima metà del XVI secolo bronzo, h. cm 28, diam. cm 29 provenienza: collezione Carrand Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. n. 248c
L’opera è formata da due parti – base circolare e coppa – fuse a parte e unite con perni ribattuti visibili sul fondo della coppa. La base poggia su uno zoccolo caratterizzato da un doppio nastro intrecciato perlinato includente rosette sormontato da una cornice a cordicella; il raccordo al fusto, liscio e rastremato, è sottolineato con una fascia di piccole foglie di acanto. Sul fusto quattro coppie di cornucopie, contrapposte al fondo e divise da un candelabro, si alternano a figure in rilievo – Apollo e Marsia con Olimpo, Ercole e il Leone, di nuovo Apollo e Marsia, Ercole e l’Idra –. Lungo una sottile cornice modanata soprastante corrono festoni vegetali legati con anelli a sostegno di pendenti vegetali. I bordi sollevati suggeriscono una realizzazione a parte del gruppo dell’Ercole e l’Idra. Un listello liscio raccorda il fusto al sottocoppa, ornato da grandi foglie di acanto. La coppa, rastremata al centro e svasata verso l’alto, è introdotta in basso da listelli lisci e è ornata con motivi organizzati su tre registri, il superiore e l’inferiore a foglie di acanto, separati da cornici modanate; nel registro centrale un nastro ondulato unisce inferiormente fiori allineati con stame, pistillo e quattro fogliette per lato impostati su un grumolo, dai lati del quale si dipartono due rosette e due viticci fogliati e fioriti; i fiori sono alternati a rami diritti con foglie lungo il fusto e fiori alle estremità. Nei due motivi si riconoscono variazioni dell’ornato a palmette e fiori di melograno. L’orlo della coppa, di diametro maggiore rispetto al resto del vaso, è percorso da tralci ondulati intermittenti includenti motivi vegetali derivati dalla palmetta rivolti alternativamente in alto e in basso. L’opera corrisponde al “Vase bronze en forme de coupe profonde à fond plat” acquistato da Carrand nella vendita Piot del 1870 come lavoro italiano del XV secolo (FIRENZE 1989) e poi ritenuto lavoro veneziano dell’inizio del XVI secolo (Florence 1895) o di scuola veneta della fine del XV secolo (SUPINO-ROSSI 1898). Il vaso è stato indicato come testimone della fortuna della corniola raffigurante Apollo e Marsia, sempre con un’attribuzione ad ambito veneto quattro-cinquecentesco, per la presenza nella base dell’immagine della gemma (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997), riportata in controparte come nella gran parte di medaglie e placchette bronzee che ne riproducono l’intaglio (Ibid., passim). Le misure dell’immagine lasciano supporre la derivazione da un’impronta dell’antica gemma. La letteratura classica attribuisce opere con ornamenti analoghi a botteghe venete attive tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI (BODE 1907, pp. 48, 99, n. CXXIX, tav. CXXIX; SCHOTTMÜLLER 1930, pp. 60-61, n. 292, tav. 82; POPE-HENNESSY 1965, p. 155, n. 569, fig. 595; p. 125 n. 463, fig. 549; PECHSTEIN 1968, n. 56). Lavori simili sono oggi ricondotti al lavoro della famiglia Alberghetti (MOTTURE 2001, p. 96 e sgg.). La presenza di figurazioni mitologiche, la fascia a nastri nella base, foglie di acanto, cornucopie, festoni e pendenti collegano da vicino il nostro ad un vaso del Victoria & Albert Museum attribuito all’attività di questa famiglia della seconda metà del XVI secolo (Ibid., 1, pp. 101-104, n. 18), ma il vasto impiego di questi motivi fino dal tardo XV – per la fascia centrale del nostro vaso si vedano alcuni significativi ornamenti del Palazzo Ducale di Urbino (IRMSCHER 1984, p. 56, tav. 23b) – inducono a arretrare la datazione alla prima metà del XVI secolo. Benché l’ampia attività degli Alberghetti, già nota a Lorenzo il Magnifico e determinante per l’esecuzione del monumento equestre di Cosimo I (MOTTURE 2001, p. 96; GASPAROTTO 2006, pp. 93-94) non per-
metta di stabilire una loro conoscenza diretta della gemma con Apollo e Marsia, la sua citazione, e quella delle altre scene, forse desunte da gemme simili, testimonia la fortuna di tali soggetti nella caratterizzazione antiquaria di oggetti lussuosi. A.D.G. Bibliografia: Florence 1895, p. 17, n. 38, tav. 38; SUPINO-ROSSI 1898, pp. 86-87, n. 248; FIRENZE 1989, p. 205, n. 325; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 26, nota 24, p. 29, fig. 38
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49 - Giovanni Boldù (notizie dal 1454 al 1475) Medaglia di Nicolaus Schlifer
1457 bronzo, fusione, diam. mm 81 iscrizioni: sul dritto, intorno lungo l’orlo “NICOLAVS . SCHLIFER . GERMANVS . VIR . MODESTVS . ALTER .Q(VE) . ORPHEVS +”; sul rovescio, intorno lungo l’orlo “. M . CCCC . LVII . OPVS . IOANIS . BOLDV . PICTORIS .” Brescia, Civici Musei d’Arte e Storia, inv. 69
La medaglia è qualitativamente molto buona (HILL 1930, n. 418), ma trattasi di rifusione antica, come si desume dal confronto delle dimensioni del diametro di altri esemplari noti. La superficie è ricoperta da una bella patina marrone intenso abbastanza uniforme, benché si riscontrino tracce di usura sulle parti più rilevate. In alto, presso l’orlo, un foro tra la M e la A di GERMANVS (sul dritto). Il pezzo è entrato nelle collezioni civiche dei Musei di Brescia come legato Martinengo nel 1884. La medaglia costituisce un esempio tra i più interessanti della raffinata produzione metallica del veneziano Giovanni Boldù del quale, pur adottando anche in questa occasione la nota formula con cui si firma – alla Pisanello – come pictor, non si conoscono al momento opere dipinte. Assai scarsi sono i dati circa la sua professione e l’informazione che lo ricorda come “depentor maistro de nape” , desunta da un documento del 1475, farebbe supporre una più generica attività di decoratore di camini (VOLTOLINA 1998, p. 48). Nella medaglistica il suo nome è invece legato ad opere di sicura attribuzione, che si segnalano per un livello tecnico e stilistico di notevole qualità e per una sapiente invenzione iconografica, che denota un confidenza attenta e articolata nei confronti della cultura umanistica. L’interesse per l’esemplare dedicato a Nicolò Schlifer, il primo musicista tedesco ad essere ritratto in medaglia, è accentuato dal fatto che esso è l’unica testimonianza nota relativa al personaggio, a meno che non lo si identifichi con quel Niccolò Tedesco o Niccolò da Basilea “cantor et pulsator eccellentissimo [sic]”, che tanto successo ebbe nel panorama musicale romagnolo del Quattrocento (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 4 e nota 32). Con quella che l’artista ha realizzato in onore del musico d’origine fiamminga Pietro Bono del Chitarrino (HILL 1930, n. 416) e con l’altra dedicata all’italiano Filippo Maserano (Ibid., n. 417), questa medaglia costituisce una sorta di trittico nato per celebrare uomini all’epoca famosi per la loro attività musicale. Dei tre pezzi, realizzati nel 1457, quello del Maserano offre maggiori elementi di confronto formali con questo dello Schlifer, specie per l’elegante ritratto al dritto e per la ricercata soluzione di sapore classicista che impronta il rovescio. Se invece si presta attenzione alla sola iscrizione, la medaglia di Pietro Bono offre significativi spunti di consonanza, essendo nella legenda entrambi i musici paragonati ad Orfeo, calzante richiamo per due virtuosi che cantavano al suono del loro strumento. Alla più aggiornata maniera della ritrattistica veneziana della metà del Quattrocento, espressa dai profili dipinti da Gentile Bellini, è riferito il busto di Nicolò Schlifer rivolto verso sinistra e indagato con meticolosa attenzione al dettaglio naturalistico, sia nel taglio dell’occhio e della bocca, sia nella definizione delle rughe del collo e della fronte. Il volto nobile e sottilmente espressivo è incorniciato da una folta, lunga capigliatura a zazzera, ravvivata da un minuzioso ritocco a bulino che crea un ricercato gioco chiaroscurale e un efficace contrasto di linee con la solenne ed accollata veste, tanto simile a quella del Procuratore belliniano ora al museo Amedeo Lia di La Spezia. L’iscrizione latina contribuisce a definire in modo equilibrato l’impaginazione di entrambi i lati, denotando come Boldù sia sensibile al delicato problema dell’invenzione di un corretto e conciso testo epigrafico ed al suo adattamento all’interno di una spazio circolare di ridotte dimensioni.
Le scritte latine, ma anche quelle in caratteri greci e in ebraico presenti sulle medaglie dedicate a se stesso (HILL 1930, nn. 420-421), evidenziano un chiaro interesse nei confronti della moneta antica e, più in generale, della classicità. Verso l’antico Giovanni Boldù dimostra uno spiccato interesse che lo porta a prestare attenzione non solo alla scultura, ma anche alla glittica classica che in più occasioni gli ha offerto spunti di ispirazione. La conferma, se pur indiretta, della attività glittica di Boldù l’abbiamo dal rovescio di questa medaglia che presenta la figura di Orfeo, stante di fronte su un prato fiorito, mentre tiene nella mano destra un vistoso cartiglio e con la sinistra sorregge la cetra appoggiata lungo il fianco. Il mitico musicista tracio, dalla fluente e ondulata capigliatura che ricade in molli trecce sulle spalle, è semi nudo e il mantello avvolge solo parzialmente le gambe, dando origine a un mosso panneggio. Per dare forma al suo Orfeo l’artista si è servito, in termini specularmente invertiti, dell’immagine notissima di Apollo incisa sulla corniola attribuita a Dioskourides, nota come il Sigillo di Nerone, già appartenuta alle raccolte di papa Paolo II e di Lorenzo de’ Medici (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997), ed ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (inv. 26051). Rispetto all’originale augusteo la sola variante di rilievo è rappresentata dal cartiglio tenuto da Orfeo anziché il plettro, come si osserva nell’Apollo intagliato da Dioskourides. La derivazione dal controllatissimo lavoro dello scultore neoattico è così puntuale che si intuisce come Giovanni Boldù possa essere stato egli stesso incisore di gemme. La sua personalità artistica e la fine sensibilità nei confronti dell’antichità classica si intonano assai bene con l’ambiente colto ed elegante che, alla metà del Quattrocento, aveva avuto a Venezia il suo fulcro nella personalità del cardinale Pietro Barbo. Divenuto papa col nome di Paolo II, egli ha esercitato un ruolo essenziale nei confronti della produzione di medaglie e placchette, stimolando e favorendo la nascita di repliche metalliche dalle gemme antiche, tratte specialmente da quelle esistenti nella sua raccolta (CANNATA 2003). P.P. Bibliografia: RIZZINI 1892, p. 9, n. 69; HILL 1930, p. 110, n. 418; PANVINI ROSATI 1968, p. 29, n. 62; N. Dacos, in FIRENZE 1973, p. 159, fig. 66; PIALORSI 1982, p. 16; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 11, figg. 9-10
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50 - Andrea Guazzalotti (Prato, 1435-1495) Medaglia del Cardinale Guillaume d’Estouteville
1453-1461 bronzo, diam. mm 40,4 iscrizioni: d.: “G · CARDINALIS · DEESTOTA · VILLA · ARHIE · ROTO”; r.: “GLORIA FRA NCOR” Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. 6132
La medaglia presenta sul dritto l’effigie del cardinale Estouteville, raffigurato di profilo e con il capo tonsurato; il rovescio è caratterizzato da una figura maschile nuda – solo un panneggio si avvolge su di una gamba – che regge una cornucopia. A fianco è presente lo stemma del porporato, coronato dal galero cardinalizio: inquartato, nel primo e quarto, fasciato d’argento e rosso al leone nero, armato e lampassato, le armi degli Estouteville; nel secondo e terzo di rosso a due fasce d’oro, il blasone degli Harcourt; in cuore d’azzurro a tre gigli d’oro, brisato d’un bastone scorciato in banda di rosso, l’arme dei Bourbon (per la difficile lettura del blasone sul rovescio della medaglia si è tenuta presente l’arme miniata sul bas de page c. 217v, ms. 1906, della Biblioteca Casanatense). L’esemplare fu accostato alla produzione di Andrea Guazzalotti da Julius Friedländer che rifiutò di riconoscere l’autografia per la mancanza di riscontri documentari (FRIEDLÄNDER 1862, p. 14); Armand inserì l’esecuzione della medaglia prima dell’assegnazione al porporato, nel 1461, dell’episcopato di Ostia (ARMAND 1883-1887, II, 1883, p. 41, n. 5). Il dibattito critico, inerente la medaglia, si è incentrato successivamente soprattutto sulla rappresentazione del verso: Hill, accettando la paternità guazzalottiana, riconobbe nella figura con la cornucopia un modello “ispirato” alla celebre gemma Medici con Apollo e Marsia (HILL 1930, I, p. 194; POLLARD 19841985, I, 1984, pp. 308-310), ma la definitiva conferma della ripresa del modello iconografico tratto dal “Sigillo di Nerone” deriva dallo studio di Caglioti e Gasparotto, che confrontando rigorosamente la morfologia della medaglia e le dimensioni, accertò che “il Guazzalotti si servì dunque, allo stesso modo degli autori delle placchette, d’una di quelle perdute impronte [del “Sigillo di Nerone”]” (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 6). Sotto scorta del contributo suddetto, è agevole ricordare come l’antica corniola intagliata fece parte, già dalla metà del XV secolo, della dattilioteca di Ludovico Trevisan, per poi transitare successivamente per quella del pontefice Paolo II Barbo; testimonianza della presenza “romana” della gemma è proprio il verso della medaglia del cardinale Estouteville. La moneta celebrativa deve essere stata commissionata non lontano dalla nomina ad arcivescovo di Rouen del prelato (1453) e, probabilmente, dopo la presa di possesso dell’arcidiocesi rotomagense nel 1455 (ESPOSITO 1993, pp. 456-460). Alla luce di questa ipotesi la medaglia Estouteville potrebbe essere uno dei primi esemplari della produzione di Andrea Guazzalotti non distante dalla moneta celebrativa per Papa Niccolò V, eseguita dopo la morte del pontefice, avvenuta nel 1455 (HILL 1930, I, p. 192). Infine, dato che una delle prime testimonianze dell’utilizzo dell’iconografia apollinea – tratta dal “Sigillo di Nerone” – è stata riconosciuta nell’Orfeo sul rovescio della medaglia di Nikolaus Schlifer (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 4-6) – realizzata da Giovanni di Boldù nel 1457 – è da considerare con più attenzione l’ipotesi che la produzione dell’esemplare per il cardinale Rotomagense sia stato eseguito qualche tempo prima: con ciò si sottolineerebbe maggiormente il ruolo giocato dal “milieu curiale” nella diffusione del modello iconografico dell’Apollo e Marsia, tratto direttamente dalle impronte eseguite sulla preziosissima gemma. G.C. Bibliografia: FRIEDLÄNDER 1862, p. 14; ARMAND 1883-1887, II, 1883, p. 41, n. 5; HEISS 18811892, VIII, 1891, p. 55; HILL 1930, I, p. 194, n. 750; N. Dacos, in FIRENZE 1973, p. 159; P. Cannata, in ROMA 1982, p. 43; POLLARD 1984-1985, I, 1984, pp. 308-310, n. 152; ESPOSITO 1993, pp. 456-460; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 6; D. Gasparotto, in VICENZA 1997, p. 50-51, n. 1; BADIANI 1999, pp. 29-30
Il Sigillo di Nerone
51 - Cristoforo di Geremia (doc. a Roma dal 1456-1476) Medaglia di papa Paolo II per la “Pace d’Italia” 1468 bronzo, fusione, ovale alt. mm 41, larg. mm 34 iscrizioni: sul dritto, intorno lungo l’orlo: ROM[A] / [PA]VLO . PACIS . FVNDATORI Brescia, Civici Musei d’Arte e Storia, inv. 36
VENETO
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PAPE
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II
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ITALICE
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La medaglia è una rifusione antica di quella dedicata a papa Paolo II e che sul rovescio mostra la replica della corniola di Dioskurides con Apollo, Marsia e Olimpo (HILL 1930, n. 773). Il rilievo risulta piuttosto spento, rispetto all’originale, anche se la bella patina marrone conferisce all’esemplare bresciano una certa qual nobiltà. La medaglia ha subito una vistosa abrasione lungo il bordo, tanto che le prime lettere dell’iscrizione sul dritto sono cadute. Alcuni difetti di fusione si osservano sul dritto – presso il mento del pontefice –, mentre quello più cospicuo ha abraso la lettera A di ROMA. Il pezzo è entrato nei civici musei di Brescia nel 1882, quando dalla biblioteca Queriniana vennero accorpati gli oggetti d’arte e la raccolta di medaglie papali del cardinale Angelo Maria Querini che, fin dal 1750, aprì alla città e “ad universale istruzione e profitto” la ricchissima biblioteca privata unitamente alle sue importanti e preziose collezioni. Il complesso delle medaglie di papa Paolo II fu studiato per la prima volta da G.F. HILL (1910), poi aggiornato nel suo corpus (HILL 1930, nn. 737739 e 759-787) e successivamente rivisitato da Roberto WEISS (1958, pp. 49-87). Da questi studi si ricava il dato significativo che, fra i pontefici del Quattrocento, le medaglie di Paolo II raggiungono il ragguardevole numero di trenta, più altre due fatte realizzare quando Pietro Barbo era ancora cardinale, sopravanzando in modo assoluto quelle di qualsiasi altro papa. Lo scopo e l’uso di tale sorprendente produzione sono disparati: alcune medaglie furono eseguite per essere distribuite durante le udienze, soprattutto fra i dignitari delle personalità ricevute dal pontefice – dando l’avvio ad una tradizione tutt’ora in atto –, altre dovevano commemorare eventi particolarmente significativi connessi alla politica vaticana, altre ancora dovevano essere collocate nelle fondamenta degli edifici e ricordarne la fondazione da parte del papa. Proprio per quest’ultima tipologia di oggetti Paolo II si servì specialmente dell’opera dell’orafo e medaglista mantovano Cristoforo di Geremia, benché non risulti che egli abbia firmato alcuna delle medaglie eseguite per il suo committente. Ignota è la data di nascita di Cristoforo, forse figlio dell’orafo Geremia di Nicolino dei Geremei, ma i documenti mantovani lo citano come orafo e medaglista in un periodo compreso fra il 1438 e il 1480. Sappiamo che fu a Roma nel 1456 e, dopo aver eseguito – probabilmente a Napoli – la medaglia per Alfonso V di Aragona nel 1458, lo ritroviamo a Roma a partire dal 1461 presso il cardinale di Aquileia Ludovico Trevisan, alla morte del quale si pone a servizio di papa Paolo II (1465). Fra i numerosi e prestigiosi incarichi che il pontefice gli affidò, oltre alla realizzazione delle medaglie celebrative la costruzione di Palazzo Venezia e di quella eseguita nel 1468 in occasione delle venuta a Roma dell’imperatore Federico III, si ricorda anche il restauro della statua equestre di Marco Aurelio, all’epoca ancora collocata davanti alla basilica di San Giovanni in Laterano. Morì probabilmente a Roma nel 1476. Le medaglie di Cristoforo di Geremia, considerato il fondatore della medaglistica di scuola romana della seconda metà del Quattrocento, si caratterizzano per i bellissimi ritratti, il cui vigoroso plasticismo denota sia notevoli ascendenze mantegnesche sia la derivazione da prototipi monetali di epoca imperiale. Anche in questo caso il busto a destra di papa Paolo II, con vistosa tonsura e avvolto in un sontuoso piviale dal lago bordo ricamato, fermato al petto dall’imponente razionale, si contraddistingue per la solida massa volumetrica del volto e per l’ampia e avvolgente piega del paramento. Con scrupolosa ed insistita calligrafia si dipana invece il
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ricamo a motivi vegetali del paludamento papale e con altrettanta raffinata maestria sono inseriti in basso, ai lati dell’iscrizione, tre spighe legate fra loro e un pampino con grappolo d’uva. Ma è soprattutto al rovescio che l’ispirazione classicista di Cristoforo di Geremia si rivela con decisione, presentando la replica, in visione speculare, della corniola attribuita a Dioskourides, ora al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (cat. n. 35): Apollo, seminudo e stante a destra con una grande cetra, osserva Marsia sulla sinistra, legato a un albero da cui pende la custodia del doppio flauto, mentre al centro, inginocchiato ai piedi del dio, Olympos chiede invano clemenza per il suo maestro. Questa medaglia fa parte della serie di quattro medaglie ovali commissionate nel 1468 all’artista per commemorare la “Pace d’Italia”, solennemente sottoscritta a Roma il 25 aprile 1468. Oltre a questa, con il supplizio di Marsia (HILL 1930, n. 773), sono note altre cinque varianti: quella senza il rovescio (Ibid., p. 200), quella che presenta il dritto e il rovescio identici (Ibid., n. 769) e le tre che hanno al rovescio lo stemma del pontefice (Ibid., nn. 770-72). La riproduzione integrale della notissima corniola ritenuta in passato il Sigillum Neronis, che tanta parte ha avuto nell’arte del nostro Rinascimento (WYSS 1996, pp. 22-23 e 43-60), pone alcune questioni. Innanzitutto la possibilità che Cristoforo di Geremia abbia visto dal vivo o meno l’intaglio della gemma. Non è improbabile pensare che l’artista mantovano abbia potuto osservare direttamente la pregiata gemma già all’epoca del suo servizio presso il patriarca di Aquileia. Infatti il Filarete la cita come “corniuola del Patriarcha”, ossia del cardinale Ludovico Trevisan o Trevisano (Venezia 1401-1465). Solo nel 1465, alla morte del Trevisan, l’opera di Dioskourides entra a far parte della già imponente collezione di papa Paolo II, cha annoverava, fra l’altro, il famoso Dittico queriniano, oggi a Brescia (CANNATA 2003). Tuttavia non si può prescindere dal fatto che delle gemme antiche circolassero sin dalla fine degli anni trenta del Quattrocento impronte in cera, zolfo o “pasta di cenere” e che da queste fossero state poi tratte delle repliche in metallo. Cristoforo poteva avere a disposizione l’una o l’altre tipologia di riproduzione della corniola ed anche la forma quasi ovale delle medaglie dedicate a Paolo II è certo ispirata da quella dell’originale augusteo (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997). Un altro interrogativo è rappresentato dalla giustificazione che il supplizio del tracotante Marsia può avere su una simile medaglia, fusa per celebrare gli sforzi del papa volti ad impedire lo scoppio di una guerra tra gli stati della penisola. Secondo Roberto Weiss la scena riveste un significato allegorico piuttosto preciso, se si consideri l’identificazione tra Apollo e papa Barbo e tra Marsia e i belligeranti stati italiani dell’epoca: l’azione pacificatrice delle arti ha avuto il sopravvento sulla forza bruta e ferina degli eserciti in armi (WEISS 1958, p. 56). D’altra parte la figura di Apollo si collega direttamente ad Augusto, che rinnovò nella tradizione romana il culto per la divinità da lui prediletta. Nella corniola neoattica è facile intravvedere l’allegoria degli avvenimenti che segnarono la storia romana dopo Azio: la vittoria di Augusto/Apollo su Antonio/Marsia e la successiva pax augustea devono aver esercitato su Paolo II un’evidente attrattiva e un forte sentimento di emulazione in occasione della celebrazione della sua pax Italiae. Infine un breve cenno all’iscrizione del dritto. Nel nostro caso il soggetto è chiaramente Roma, declinata al nominativo, mentre il nome del pontefice e la sua titolatura risultano declinati al dativo. Si tratta di un’iscrizione dedicatoria, come in antico si osserva su diverse monete in bronzo di Traiano e su alcuni contorniati a lui dedicati, ma in questo caso non si può escludere che il testo derivi invece da una delle iscrizioni erette nel 1468 per suggellare la “Pace d’Italia”. P.P. Bibliografia: RIZZINI 1893, p. 3, n. 36; HILL 1930, p. 200, n. 773
Il Sigillo di Nerone
52 - Bottega fiorentina Apollo, Marsia e Olimpo
seconda metà del XV secolo bronzo, patina bruno-giallognola, diam. mm 57 provenienza: Collezioni granducali Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. 594 B
Marsia assiso su di una roccia, ricoperta da una pelliccia di leone, ha le mani legate ad un albero spoglio, da cui pende la custodia del flauto; al centro Olimpo si piega supplice ad Apollo, rappresentato nudo con un mantello che si avvolge su di una gamba; nella mani stringe la cetra e il plettro. La rappresentazione è racchiusa in una triplice cornice filettata; sulla sommità dell’arco superiore presenta un foro tondo. L’esemplare raffigura l’episodio di Apollo e Marsia rappresentato sull’antica corniola denominata “Sigillo di Nerone” (A. Giuliano, in FIRENZE 1973, pp. 55-57, n. 25; N. Dacos, in FIRENZE 1973, pp. 158-160, n. 8), dalla quale è stata tratta l’impronta matrice della placchetta qui presentata. La mancanza della legenda neroniana, che al contrario caratterizzava la fusione della placchetta epigrafica del Bargello (cat. n. 37) testimonia che l’impronta fu eseguita quando si era ormai persa la preziosa montatura ghibertiana e sicuramente prima dell’inserimento dell’ex gemmis laurenziano (TODERI-TODERIVANNEL 1996, pp. 24-25, n. 16). Il giro di anni in cui fu prodotta deve aggirarsi proprio nel torno di tempo in cui la gemma transitò per le prestigiose dattilioteche di Ludovico Trevisan e di Pietro Barbo (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 3-4). Come hanno suggerito Caglioti e Gasparotto il percorso della preziosa gemma nel Quattrocento è foriero di interessanti “prove” dei suoi spostamenti, infatti la formula iconografica del “Sigillo di Nerone” la si trova riprodotta in diversissimi contesti figurativi e i primi rimandi sono identificabile nel contesto “romano” curiale, già dalla metà degli anni cinquanta del Quattrocento: la medaglia per il cardinale Estouteville, quella per Nikolaus Schlifer e sul rovescio della moneta commemorativa di Cristoforo di Geremia per papa Paolo II (1468). Paradigmatiche altresì sono le prime occorrenze fiorentine, difatti, nel contesto toscano, si ritrovano rimandi e derivazioni della corniola non prima dell’ottavo decennio (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 4) e alla luce dell’importante contributo di Rubinstein – inerente l’acquisto della gemma da parte di Lorenzo de’ Medici nel 1487 (BULLARD-RUBINSTEIN 1999, pp. 283-286) – la ragione diviene maggiormente comprensibile. Dacos ravvisò importanti tangenze con alcune pagine miniate nel contesto fiorentino nel’ultimo quarto del XV secolo (N. Dacos, in FIRENZE 1973, p. 159; FIRENZE 1987, p. 42, n. 13; DACOS 1989, p. 75): è infatti paradigmatica la citazione della celebre gemma sull’incipt del Trionfo della Fama, nel codice petrarchesco miniato da Monte di Giovanni intorno al 1480, conservato alla Walters Art Gallery di Baltimora, ms. W.755, c. 47r (TODERI-VANNEL TODERI 1996, p. 25). La rappresentazione del supplizio di Marsia è inserita sul bas de page, all’interno di una cornice tonda, caratterizzata da una triplice filettatura che pare quasi replicare direttamente la modanatura di una placchetta come quella qui esposta. G.C. Bibliografia: MOLINIER 1886, I, p. 3, n. 3; P. Cannata, in ROMA 1982, pp. 41-44, n. 10; N. Dacos, in FIRENZE 1973, pp. 158-160, n. 8; DACOS 1989, p. 75; FIRENZE 1992b, p. 153, n. 130; TODERI-VANNEL TODERI 1996, pp. 24-25, n. 16; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 2-38
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53 - Roma, Officine del Palazzo di S. Marco Apollo, Marsia e Olimpo
secolo XV (?) bronzo, patina bruno gialla, anteriormente dorata, mm 52 × 44,4 Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, inv. PV 10589/1
La placchetta di Palazzo Venezia per la presenza dei due fori è da ritenere che fosse destinata a decorare un abito o, con maggiore probabilità, un copricapo assumendo per il suo proprietario il valore di emblema; anche la doratura che impreziosisce il verso anteriore del bronzo suggerisce una tale destinazione, adatta ad un personaggio nobile e facoltoso. Che poi l’Apollo del celebratissimo intaglio su corniola potesse essere assunto come impresa del personaggio ritratto è rilevabile anche dal rovescio di una pregevole medaglia del 1457 dedicata dal veneziano Giovanni Boldù a Nicolaus Schlifer, dove la legenda del diritto lascia intendere come la figura di Apollo fosse scambiata per quella del mitico Orfeo, utile alla celebrazione di quel musico-cantore (cat. n. 49). Un’altra volta la figura allegorica del solo Apollo con l’iscrizione “GLORIA FRANCOR[VM]” ritorna nel rovescio di una medaglia del pratese Andrea Guazzalotti (1435-1495), dove la divinità al posto della cetra ostenta una cornucopia e lo stemma del potentissimo Guillaume d’Estouteville (1403-1483), ritratto sul diritto prima del 1461, quando il porporato aggiunge alla carica di vescovo di Rouen quella di vescovo di Ostia non menzionata nella legenda (cat. n. 50). Le vicende storiche dell’antica pietra sino a gran parte del Quattrocento sono ricavate, sempre però in modo assai frammentario, da alcune delle principali fonti dell’arte e da alcune riproduzioni del celebre intaglio su placchette e su medaglie, sino a formare nel tempo, assieme a numerosissimi dipinti, sculture e miniature, la copiosa e complessa iconografia della raffigurazione della gemma di Apollo, Marsia e Olimpo. Lorenzo Ghiberti narra nei suoi Commentarii che, intorno al 1428, esegue la celebre montatura aurea della corniola a forma di drago, apponendovi una legenda con il nome dell’imperatore Nerone; l’artista non precisa chi fosse il committente possessore della gemma, che poteva essere sia un collezionista fìorentino come anche uno dei porporati romani dai quali l’artista, come orefice, aveva ricevuto importanti commissioni: pertanto, come propongono Cagliotti e Gasparotto nel loro fondamentale saggio del 1997, potrebbero derivare da un’impronta della pietra con parte della sua montatura le placchette che recano l’iscrizione con il nome di Nerone, fuse probabilmente nella stessa bottega del Ghiberti. Ancora i due studiosi, riandando ad una copia ottocente-
sca del più antico codice purtroppo disperso del Trattato del Filarete ricavano la preziosa notizia, sfuggita all’attenzione degli studiosi, che la corniola dell’Apollo, Marsia e Olimpo in antico “fu della comunità di Firenze”, cioè si trovava a Firenze presso i Signori del Comune. Ancora il Filarete nel libro XXIV del suo Trattato ci informa che intorno agli anni 1464-1466 la gemma è nota come ‘la corniuola del Patriarcha’, cioè il Patriarca di Aquileia, il cardinale Alvise Trevisan (1401-1465), detto anche Scarampo o Mezzarota: ricchissimo e temibile porporato che ricopre incarichi gravosissimi e prestigiosi a Roma al tempo di papa Eugenio IV; amico di Firenze e dei Medici, astioso nemico del cardinale Barbo e anche lui collezionista di importantissime gemme, quali quelle preziosissime della Tazza Farnese e di Diomede e il Palladio, conservate a Roma nel Palazzo presso la basilica di San Lorenzo in Damaso, suo titolo cardinalizio. Solamente dopo la morte del Trevisan (1465) l’antico intaglio di Apollo e Marsia può passare nelle sterminate collezioni di Paolo II: il 25 aprile 1468 il Pontefice pubblica con grande solennità nella Basilica di S. Marco a Roma la Pace d’Italia e Cristoforo di Geremia esegue il ritratto di papa Barbo per il diritto di una medaglia celebrativa, dalle dimensioni assai vicine a quelle dell’antica corniola dell’Apollo e Marsia, ripetendone fedelmente anche la forma ovale, affatto unica nella vasta produzione dell’incisore mantovano e rarissima tra tutte le medaglie del Quattrocen-
to. Alcuni esemplari di questa medaglia hanno il rovescio liscio, altri recano le armi del papa, altri ancora ripetono il ritratto del diritto, altri infine presentano identica la raffigurazione della corniola di Apollo, Marsia e Olimpo. Per Hill la Pace d’Italia sarebbe una medaglia priva del rovescio, a volte completata da una placchetta con Apollo, Olimpo e Marsia; invece per Weiss è una medaglia che sin dall’origine reca nel rovescio la raffigurazione della gemma, come dimostrano i quattro esemplari conosciuti citati dallo studioso, più tardi divenuti cinque (CANNATA 1987, p. 50) e infine sei (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, p. 6 nota 40 ). La medaglia di Cristoforo di Geremia manifesta chiaramente la presenza del celebre intaglio attribuito a Dioskourides nelle collezioni romane di Paolo II; poco importa che la gemma non sia elencata nel 1457 nell’inventario delle raccolte dell’allora cardinale Barbo, compilato undici anni prima della fusione della medaglia. Ancora, dalle descrizioni spesso poco benevole dei numerosi biografi di papa Barbo, dove è accuratamente delineato il suo carattere autoritario e possessivo, appare impossibile credere che il maggiore collezionista di glittica del Rinascimento acconsentisse che sulla medaglia, che lo esalta con grande solennità come novello Apollo pacificatore vincitore sulla discordia (Marsia), comparisse accanto al suo ritratto una fedele riproduzione della corniola dell’Apollo e Marsia se questa pietra impreziosiva le raccolte di un altro collezionista. Numerosissime placchette riproducono le gemme di Paolo II, cominciando da quella con la pietra dell’Abbondanza, anche quando è montata quale sigillo cardinalizio di Pietro Barbo. Dopo Paolo II, come è noto, il proprietario della gemma fu Lorenzo de’ Medici e le vicende storiche successive della corniola e delle placchette segnate con il suo ex gemmis sono note, sia pure in maniera non completamente chiara. P.C. Bibliografia: WEISS 1958, pp. 55-56; P. Cannata, in ROMA 1982, pp. 41-44, n. 10 con bibl. prec.; CANNATA 1987, pp. 46-54, n. 15; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 2-38; P. Cannata, in ATENE 2003, pp. 234-235, n. II/57
Il Sigillo di Nerone
54 - Bottega italiana Apollo, Marsia e Olimpo
secolo XVI bronzo, diam. mm 37,5 Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, inv. n. PV 10589/2
La placchetta riprende la raffigurazione della celebre corniola medicea oggi al Museo Archeologico di Napoli, dove sono raffigurati Apollo citaredo stante, il satiro Marsia legato all’albero dai cui rami pende il suo flauto ed Olimpo inginocchiato ad implorare misericordia per il maestro sconfitto nella gara. Il piccolo rilievo è arricchito da alcune varianti che completano la forma allargata ora assunta dalla raffigurazione: sul lato a sinistra sono aggiunti uno stentato arbusto e delle rocce dalla struttura assai complessa, mentre sull’altro lato è posto un piccolo albero affatto privo di fogliame; in basso compare ora un esergo che segue la forma della placchetta. Il rilievo è certamente destinato ad ornare un pomo di spada: tale uso è confermato, oltre che dalla forma perfettamente circolare, anche dal fondo finemente granulato della placchetta. P.C. Bibliografia: P. Cannata, in ROMA 1982, pp. 41-44, n. 9; CANNATA 1987, pp. 46-54, n. 15; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 2-38; P. Cannata, in ATENE 2003, p. 234, n. II/56
55 - Bottega italiana Pomo di spada con Apollo e Marsia ed il ritratto di Giulio Cesare
fine secolo XV bronzo, mm 60 × 62 Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia, inv. n. PV 11521
Pomo di spada decorato da due placchette circolari, inserite in un riquadro delimitato da una cornice ornata da piccole volute: la prima placchetta è una delle molte versioni dell’Apollo, Marsia e Olimpo, descritta in precedenza, mentre l’altra, anch’essa derivata da una gemma antica, reca un Ritratto di pieno profilo di Giulio Cesare, coronato da alloro ed accompagnato dal lituus; l’immagine è completata da una piccola stella che precede l’iscrizione “DIVI IVLI”. Nel Settecento sono pubblicati sia una corniola che un calcedonio sui quali sono incisi dei Ritratti di Giulio Cesare assai simili a quello della placchetta in catalogo, con il commento: “appartiene senza alcun dubbio la presente immagine di Cesare, già deificato, e convertito in stella, conforme fu detto da Ovidio nel fine delle ‘Metamorfosi’, e da Svetonio al penultimo capitolo della ‘Vita’ di lui” (MAFFEIDE ROSSI 1707-1709, I, 1707, pp. 10-14, nn. 7-8). Ancora nel Settecento è illustrata anche un’incisione su agata-onice delle collezioni reali francesi con un Ritratto di Giulio Cesare quasi eguale al rilievo in esame (MARIETTE 1750, II, n. 41). Infine, un identico ritratto di Cesare con il lituus è impresso in oro nella rilegatura di molti libri; un punzone adatto a produrre raffigurazioni simili è nel British Museum a Londra. Pomi di spada eguali a quello del Museo Nazionale del Palazzo di Venezia sono a Parigi al Museo del Louvre ed a Londra al British Museum. P.C. Bibliografia: P. Cannata, in ROMA 1982, p. 44, n. 11 con bibl. prec.; CANNATA 1987, pp. 46-54, n. 15 e pp. 63-65, nn. 21-22; P. Cannata, in ATENE 2003, p. 396, n. VIII.60; D. Gasparotto, in VICENZA 1997, pp. 51-52, n. 3
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56 - Francesco Petrarca Canzoniere, Trionfi
Firenze, sec. XV, ultimo quarto; Gherardo di Giovanni membranaceo, mm 220 × 140; cc. I, 185, II’; legatura moderna in raso verde, taglio dorato e goffrato Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Banco Rari 227 (Cl. VII. 283)
Il codice, di formato modesto, perfetto come libro di studio o meglio da collezione, di buon livello qualitativo nella struttura e nell’impaginazione, tradisce una destinazione elevata, per la accurata disposizione del testo, la grafia chiara e pausata da copista professionale, la pergamena pregiata. L’importante frontespizio illustrato suggerisce la bottega e forse la mano di Gherardo, noto e raffinato miniatore, uno dei più amati dalle classi sociali agiate nella Firenze dell’ultimo quarto del Quattrocento; lo conferma lo stemma della famiglia Spinelli nel bas de page della carta di apertura del testo del Canzoniere (c. 9r) ripetuto nel più sobrio foglio iniziale dei Trionfi (c. 151r), dove la decorazione appare più semplificata, limitata alla candelabra floreale e ai putti che presentano il blasone. Lettere in oro segnalano l’incipit dei componimenti poetici, lunghi fregi floreali piuttosto rigidi, disposti in candelabra, indicano le partizioni dei Trionfi. La prima opera è preceduta dal lungo e dettagliato indice dei componimenti, mentre sono state lasciate vuote le pagine per l’indice della seconda parte dove non sono state trascritte le rubriche, come se il codice non fosse stato finito. Accurata ed elegante è invece la decorazione della carta di apertura, una sorta di raffinata presentazione dell’opera, per quanto frutto di assemblaggio di molti dettagli partecipi di repertori ben noti. Le citazioni dall’antiquaria diventano trascrizioni quasi puntuali nelle quattro monete d’oro che timbrano gli angoli e soprattutto nel grande cammeo con Apollo e Marsia. Con la sua posizione centrale, la bella gemma domina la bordura di destra, speculare ad un altro ovale di minori dimensioni a sinistra, un po’ sbiadito e ossidato, in cui potrebbe riconoscersi Esculapio per assonanze con figure analoghe, già ripetute nelle bordure di Gherardo (cfr. ad esempio Modena, Biblioteca Estense, ms. Lat. 449, c. 2r). Ma lo stile anticheggiante entra di prepotenza nell’impianto della pagina con le sue preziose rielaborazioni: pietre dure e magnifiche gemme sembrano la base dell’impianto decorativo. Lo splendore dello smeraldo crea le cornici verdi che riquadrano la pagina delimitando le zone delle bordure, il titolo in oro è contenuto in una targa azzurra, compatta e luminosa come il lapislazzulo, e anche il fondo del fregio è diviso in due parti, rosso e azzurro, secondo il vezzo tanto amato da Gherardo e Monte di Giovanni di riproporre nei codici l’antico sistema delle
pagine tinte, come prezioso fondo su cui adagiare testo e decorazione. Nel bas de page quattro putti circondano lo stemma della famiglia Spinelli tra due pappagalli, mentre in asse nel margine superiore, in un piccolo clipeo, emerge la piccola figura del Petrarca, ritratto secondo la più consueta iconografia dell’autore, laureato, vestito di rosso con il libro in mano. La presenza delle monete e soprattutto delle gemme conferma la possibilità dei miniatori di attingere da copie dal vero, sia per la disponibilità di gioie nelle collezioni dei signori sia per la vasta circolazione di riproduzioni, di calchi, di placchette o semplicemente di repertori di disegni. Inoltre dimostra un clima culturale che lega la citazione dall’antico, il gioiello in particolare, non direttamente e necessariamente alla famiglia che lo possiede; piuttosto si vuole render onore al gusto del committente, così raffinato nell’apprezzamento del patrimonio del mondo classico e del suo valore non solo materico ma anche di messaggio, e tributare così un omaggio trasversale alla cultura e al prestigio dei patroni. G.L. Bibliografia: D’ANCONA 1914, p. 75
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57 - Omero Opera (in greco)
Firenze, Bernardo e Neri de’ Nerli; 1488, 9 dic. (dedica 13 gen. 1489) fol., gr. e rom. IGI 4795; H 8772; BMC VI, 678 Napoli, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, segn. S.Q.XXIII.K.22
Demetrio Calcondila (1424-1511) già professore di greco a Perugia, Padova e Messina nel 1475 si stabilì a Firenze dove ebbe modo di curare l’Editio princeps delle opere di Omero fatta stampare da Bartolomeo de’ Libri, con i tipi del connazionale Demetrio Damilas nel 1488-89 e sponsorizzata da Bernardo e Neri de’ Nerli con l’aiuto di Giovanni Acciaiuoli. Il volume che comprende le testimonianze su Omero di Erodoto, Plutarco e Dione Crisostomo, ci riporta l’Iliade, l’Odissea, la Batracomiomachia e gli Inni. L’incunabulo della Biblioteca Nazionale di Napoli, raro esemplare in pergamena della pur raffinata edizione, fu offerto dagli stessi finanziatori, a Piero de’ Medici (1472-1503), primogenito di Lorenzo e di Clarice Orsini, sposo novello nel maggio 1488 di Alfonsina Orsini, quale copia di cortesia se non addirittura dono di nozze. Appartenne più tardi al cardinale Alessandro Farnese, poi papa Paolo III, sicuramente dopo la morte di Piero, annegato nel Garigliano presso Cassino nel 1503, quasi a ricordo del suo giovanile soggiorno a Firenze, dove aveva completato gli studi ed era entrato in amicizia oltre che con molti illustri letterati anche con lo stesso Piero, di poco più giovane, a cui era unito anche dall’amore per la lingua e la cultura greca. Lo splendido volume, pregevolissimo per l’edizione, ma ancora di più, unico per gli ornamenti artistici che lo caratterizzano, fu probabilmente custodito nella biblioteca dei Farnese nel palazzo di Roma sotto la cura di Alessandro Farnese junior, Ranuccio ed Odoardo e del bibliotecario Fulvio Orsini. La ricchissima raccolta libraria dei Farnese transitò a Parma a metà del Seicento e fu, poi, portata a Napoli da Carlo di Borbone, prima re di Napoli, poi di Spagna, quale eredità privata della madre Elisabetta Farnese, nel 1737. La legatura borbonica, che copre il volume, infine, in marocchino verde con fregi e stemma dei Borbone di Napoli, è opera del più famoso legatore napoletano dell’Ottocento: Angelo Trani, che sostituì l’originaria e logora legatura in pelle nera. L’incunabulo, sia per l’aspetto testuale, che per quello meramente tipografico, resta uno dei più significativi della primitiva stampa italiana e, forse, l’opera più importante in caratteri greci di tutta la tipografia italiana tra la metà del XV e la metà del XVI secolo. L’esemplare napoletano vanta un corredo miniatorio, di altissimo livello, tra i più preziosi che si conoscono, tra quelli riportati negli incunaboli. Sul recto della prima carta, in greco, è vergato, in oro, manoscritto, un epigramma
in lode di Omero (Antologia Palatina XVI, 293, Appendix Planudea), /”Chi nelle pagine immortalò la guerra di Troia? / Chi narrò il lungo peregrinare del figlio di Laerte? / Non luce un nome sicuro, né la sua patria./ Oh Zeus celeste! Non si gloria Omero dei tuoi versi?”/ inscritto in un disco dal fondo sablé, cinto da una ghirlanda di alloro e ornato, in alto da una panoplia con trombe, in basso da una targa e da due anfore. Ma ciò che rende l’esemplare un unicum è in antiporta il rutilante ritratto, a piena pagina, di Piero di Lorenzo de’ Medici, dipinto in un mezzobusto molto austero: giovane, imberbe, con i lunghi capelli biondi morbidi e flessuosi, che, spartiti nel mezzo, escono dal tocco nero e incorniciano il volto luminoso e piacevole nel modellato. È il capolavoro a tempera di Gherardo di Giovanni del Fora, colto, raffinato e stimato pittore e miniatore fiorentino, amico tra l’altro dello stesso Lorenzo de’ Medici e del Poliziano. Sembra essere questa, in realtà, l’unica immagine nota di Piero dopo quella – da dodicenne – degli affreschi Sassetti in Santa Trinita a Firenze. Il ritratto volutamente è disegnato sul verso della carta in modo da affrontare e quasi leggere la lettera di dedica di Bernardo Nerli. L’icasticità del volto, la pregnanza e la vivacità del colore ne avevano fatto attribuire, in passato, la paternità a maestri della caratura del Perugino e del Ghirlandaio: solo di recente gli studiosi lo hanno definitivamente ricondotto alla pur versatile mano di Gherardo. A c. 244r, inizio dell’Odissea, è splendidamente miniata una ricca cornice marginale, in cui si alternano a vedute paesaggistiche, raffinati cammei di tradizione medicea, con composizioni mitologiche e simboliche. Sicuramente tra le più appariscenti è la scena di Apollo, Marsia e Olimpo, riprodotta dall’intaglio di Lorenzo de’ Medici, oggi conservato nella collezione Farnese nel Museo Nazionale di Napoli. Sequenze di putti, fili di perle, racemi e fogliame splendenti accentuano la ricchezza della cornice, ove insistono altri preziosi e minuti riquadri: l’araba fenice, una volpe trafitta da un giglio azzurro Farnese a ricordo di Pietro Farnese, capitano generale fiorentino, che sbaragliò Pisa – allusa nella volpe – nel 1362, una menade col tamburello, una divinità con la Nike, Perseo con la testa di Medusa, un cervo che regge un fanciullo a cavalcioni. Singolare testimonianza rappresenta in essa ‘la finestra’ dove campeggia la figura di Piero di Lorenzo de’ Medici, seduto, vestito di una tuni-
ca rossa e col tocco nero – lo stesso abbigliamento del grande ritratto in antiporta –, intento all’amena lettura tra il verde dei dintorni fiorentini: sullo sfondo, chiarissima, una delle più classiche vedute di Firenze, con in primo piano il campanile di Giotto e la cupola del Brunelleschi. Infine lo stemma nitido, miniato ai piedi della pagina sorretto da putti reggistemma, su uno scudo d’oro, quello di Casa Farnese, sei gigli azzurri in campo d’oro, si ritiene sia stato aggiunto dopo che Alessandro Farnese ne venne in possesso, se non addirittura ai tempi del nipote di questi Alessandro junior ‘il gran cardinale’ e del suo bibliotecario: il dottissimo Fulvio Orsini, quest’ultimo peraltro eccezionale antichista e curatore delle preziosissime raccolte di monete e gemme di casa Farnese. Probabilmente aggiunto anche il tipico emblema farnesiano del liocorno, collarinato d’azzurro, in alto al centro della cornice, in simmetria con lo stemma. Aggiunta la teoria di gigli azzurri farnese intorno alla Alpha iniziale. Anche le iniziali di cc. 9r, 168v, 347r, 409r riportano, quali segni di possesso, numerosi gigli, di Casa Farnese a cui il volume pervenne. Infine 44 iniziali miniate, ornate con girari e fogliami, mascheroni e motivi geometrici, delle quali 2 con candelabra e carthouches ne rinforzano l’assoluta eleganza. V.B. Bibliografia: DE MARINIS 1921-1922, pp. 38-46; GUERRIERI 1968, pp. 188-190; GARZELLI 1985, I, pp. 296-297; A. De Marchi, in FIRENZE 1992c, pp. 109-111, n. 21; A. Travaglione, in ROMANO 1993, p. 126; NAPOLI 1996, p. 31; BONI-GAROFALO 1997, p. 124; PONS 1999, pp. 241-242; E. Ambra, in ROMA 2000b, I, pp. 137-138, n. 4.I; V. Boni, in TOKYO-KYOTO 2004, pp. 109-110; A. Dillon Bussi, in FIRENZE 2006d, pp. 136-137, n. 51
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58 - Johannes Simoneta, Commentarii rerum gestarum Francisci Sphortiae. [Precede:] Franciscus Puteolanus, Oratio ad Ludovicum Sfortiam. [Segue:] Franciscus Philelphus, Epistola ad Johannem Simonetam. Milano, Antonio Zarotto, IX kal. oct. (23-IX) 1486
membranaceo, mm 280 × 200; cc. I, [188]; legatura eseguita da Gaetano Tartagli nel secolo XIX in cuoio marrone su cartoni, taglio dorato con filetto goffrato, restaurata nel 1994. IGI 9014, BMC VI 719, H*14755, Goff S-533 Firenze, Biblioteca Riccardiana, ed. rare 428
Le complesse vicende dell’opera, dedicata al giovane duca Gian Galeazzo e celebrante le gesta dell’avo Francesco Sforza dal 1420 al 1466, con particolare riguardo agli avvenimenti dal 1446 al 1466 in cui il Simonetta era a fianco del signore, sono strettamente legate al delicato momento politico del Ducato di Milano dopo la morte del duca Francesco quando l’autore, caduto in disgrazia, fu imprigionato nel 1479 insieme al fratello Cicco. In questo splendido esemplare in pergamena, che ripropone nell’incunabulo la raffinatezza e la ricchezza dei manoscritti di dedica, il repertorio ornamentale mantiene una qualità piuttosto alta anche nelle lettere che scandiscono la successione dei libri adorne di girali, di raffinati motivi di cornucopie o addirittura di minuscole figurine stilizzate, realizzate in punta di penna con ricco fregio floreale, quasi una grottesca. Tra le volute dei calici si aprono lucerne fiammeggianti, complessi motivi alati, valve di conchiglia, due teste animali affrontate come i manici di un vaso, che ricordano la produzione toreutica e l’alto artigianato milanese. Il raffinatissimo apparato ornamentale gioca soprattutto sulla simmetrica disposizione degli ornati, che obbediscono ad una razionalità compositiva straordinaria attingendo al repertorio delle citazioni antiquarie e archeologiche assai amato nell’Italia settentrionale. La splendida antiporta raffigura Francesco Sforza a cavallo inserito in una fastosa arcata architettonica concepita come un arco di trionfo romano e ispirata ai portali lombardi coevi: nel fregio è raffigurato un assedio, nei pennacchi si situano due tondi con Apollo e Marsia e Prometeo. Se il richiamo più evidente è quello all’antiquaria romana, il linguaggio iconografico allude probabilmente a vicende politiche legate alla persona di Francesco Sforza e alla presa di potere della famiglia sulla città. Non è forse casuale la citazione dell’episodio bellico se si ricorda che nel 1450 Francesco prese il potere, acclamato pater patriae, al termine di un
doloroso assedio che ridusse la città alla fame. Successivamente il duca riportò la pace e il benessere alluse dal mito di Apollo, come vittoria sulla barbarie, da quello di Prometeo, come la saggezza portata agli uomini, dalle cornucopie del fregio della pagina a fronte come segno di abbondanza e prosperità. Il ritratto realistico di Francesco, posto di profilo nella moneta chiusa nell’iniziale del testo, mostra la figura del protagonista come efficace contrappunto all’antiporta e coerente apertura del frontespizio. Una ricca bordura marginale incornicia la pagina citando tutto il repertorio consueto in codici del genere e particolarmente caro all’ambiente milanese quale poi tornerà nei frontespizi miniati dal Birago nelle edizioni del 1490, già evidentemente codificato in quest’ambito a lui molto vicino. La decorazione, caratterizzata da uno sfumato di ascendenza leonardesca e dal trattamento metallico delle superfici, ricorda lo stile giovanile del così detto Maestro BF (P.L. Mulas, in VIGEVANO 2009, p. 88, n. 6), e, per la dedica a Massimiliano d’Absburgo, andrà collocata cronologicamente in rapporto con le nozze imperiali del 1494. G.L. Bibliografia: I libri membranacei 1935, p. 20; G. Muzzioli, in ROMA 1954, pp. 409-410, n. 656; M.L. Cipriani, in MILANO 1958, p. 146, n. 460; SCURICINI GRECO 1958, pp. 293-294, n. 322; GANDA 1979, p. 251; PRUNAI 1988, p. 13; MULAS 1996, p. 11; WYSS 1996, pp. 54-57; M.L. Migliore, G. Lazzi, in LAZZI 1998, pp. 133-135, n. 39; EVANS 2001, pp. 8-11; QUATTRINI 2003, p. 75; EVANS 2004, p. 353; P.L. Mulas, in VIGEVANO 2009, p. 88, n. 6
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59 - Marcantonio Raimondi (S. Andrea in Argine, Bo, 1480 ca-Bologna, ante 1534) Apollo citaredo in una nicchia 1511-1512 ca bulino, mm 222 × 180 Berlino, Staatliche Museen, Kupferstichkabinett, inv. 473-I
La composizione incisa da Marcantonio è forse da identificare con l’“Apollo con un suono in mano” ricordato da Vasari tra le figure “spezzate” incise da Raffaello (cfr. VASARI [1550-1568], ed. Bettarini-Barocchi 1966-1987, V, 1984, p. 10). Essa infatti ripropone, probabilmente derivandolo da un disegno preparatorio oggi perduto (cfr. POUNCEY-GERE 1962), il soggetto raffigurato dal Sanzio nella Scuola di Atene della Stanza della Segnatura in Vaticano. Più precisamente, si tratta della figura collocata nella nicchia a sinistra dell’architettura a grisaille della grande composizione, in posizione simmetrica rispetto a Minerva, che si trova sul lato opposto (per la quale cfr. il disegno conservato a Oxford, Ashmolean Museum, inv. WA1846.192; PARKER 1956, II, p. 250 n. 501). Il dio Apollo, con una lira a sette corde e appoggiato ad un tronco su cui si avvolge il serpente Pitone, nel contesto del significato iconografico della Scuola d’Atene rappresenterebbe la Filosofia morale, contrapposta a quella naturale cui sovrintenderebbe Minerva, dea della Sapienza (cfr. GOMBRICH 1978, p. 130). Il dio ricorre nel prototipo classico da cui sarebbe derivata, in controparte, la figura, individuato nella celebre gemma della collezione Medici, oggi al Museo Nazionale di Napoli, che rappresenta appunto Apollo, Marsia e Olimpo (cat. n. 35): questa corniola intagliata, ritenuta opera di Dioskourides, l’intagliatore favorito di Augusto, ebbe infatti nel Rinascimento una vastissima fortuna iconografica. Lo stesso Raimondi, per esempio, dimostra di conoscerla (direttamente o indirettamente), poiché alla figura di Marsia pare essersi ispirato più volte, come ad esempio nel disegno giovanile del Giovane prigioniero (in controparte), oggi conservato a Oxford (Ashmolean Museum, inv. WA1945.102; PARKER 1956, II, pp. 248-249 n. 500; M. Faietti, in BOLOGNA 1988, pp. 191-193 n. 49) e nella figura di Apollo nel bulino con Allegoria della musica (BARTSCH 1803-1821, XIV, 1813, p. 300 n. 398; M. Faietti, in BOLOGNA 1988, pp. 96-98 n. 4). Secondo P.P. BOBER e R. RUBINSTEIN (1986, p. 74 sotto n. 31), la posa dell’Apollo di Raffaello, piuttosto che dal cosiddetto Sigillo di Nerone, sarebbe invece più probabilmente ispirata alla ninfa rappresentata nel rilievo di un sarcofago romano conservato oggi a Villa Doria Pamphili e raffigurante il Giudizio di Paride (Ibid., p. 150 n. 120). È difficile stabilire quale sia stato il modello per il Sanzio, date le analogie e differenze riscontrabili confrontando l’Apollo con entrambi i prototipi e con altre opere, quali ad esempio l’Apollino Medici (Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1914 n. 229). Certo è che Raffaello, sulla base degli esempi disponibili, inventò una figura che potesse competere con una statua antica, appositamente per poter decorare lo sfondo di una composizione ambientata nell’antichità classica (cfr. WEIL-GARRIS BRANDT 1984, pp. 220-221; e VILJOEN 2004, pp. 241-242). E come una autentica scultura classica l’Apollo venne inciso da Raimondi, due volte, favorendone la diffusione iconografica (si vedano ad esempio i cat. nn. 60-63). Un’altra versione della stessa incisione (BARTSCH 1803-1821, XIV, 1813, pp. 251-252 n. 334), di dimensioni identiche, fu infatti eseguita dallo stesso Marcantonio secondo un modus operandi diffuso nel periodo, che si riscontra anche in altri casi dello stesso autore (cfr. LANDAU-PARSHALL 1994, pp. 131-142; e anche ROUILLARD 2001-2002, pp. 12-32). Rispetto ad essa, la stampa qui esposta presenta alcune varianti nel tratteggio e soprattutto nel bordo ombreggiato, ma sembra mostrare una maggiore maturazione tecnica, data la modulazione del chiaroscuro e la capacità di rendere la tridimensionalità del corpo e della nicchia in cui la statua è collocata. L’esecuzione si
colloca dunque secondo gli studiosi nel primo periodo romano dell’artista, posteriormente agli anni 1508-1511, durante i quali Raffaello eseguì gli affreschi della Stanza della Segnatura, e probabilmente tra il 1511 e il 1512, anche sulla base di un confronto con la Lucrezia (BARTSCH 18031821, XIV, 1813, p. 155 n. 192). L.A. Bibliografia: BARTSCH 1803-1821, XIV, 1813, p. 252 n. 335; THODE 1881, p. 28, sub n. 19; DELABORDE 1888, p. 152 n. 107; POUNCEY-GERE 1962, p. 24 sotto n. 27; G. Becatti, in Raffaello 1968, pp. 519-520; L. Bianchi, in Raffaello 1968, pp. 663, 681 note 141-143; GINEVRA 1984, p. 63 sotto n. 77; K. Oberhuber, in CITTÀ DEL VATICANO 1984, p. 335; S. Massari, in ROMA 1985, pp. 38-39 n. IV.3; S. Massari, in MASSARI-PROSPERI VALENTI RODINÒ 1989, p. 10 n. 3; D. Cordellier, in ROMA 1992, p. 140 n. 46; L. Aldovini, in ATENE 2003, pp. 347-348 n. VII.35; VILJOEN 2004, pp. 241-242, fig. 106 a p. 239
Fig. 1 - Raffaello, La scuola di Atene, part. Roma, Musei Vaticani, Stanze di Raffaello, Stanza della Segnatura
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60 - Moderno (?) (attivo in Lombardia e a Roma alla fine del XV secolo e nei primi tre decenni del XVI secolo) Apollo
calcare di Solnhofen (chiamato anche Kehlheimer)*, cm 10,2 × 4,7, in cornice lignea (XVII secolo ?) provenienza: acquistato nel 1875 sul mercato d’arte viennese; presunta provenienza: collezione del conte Zaluski a Cracovia Vienna, Kunsthistorisches Museum, Kunstkammer, inv. n. KK 4425
Il piccolo bassorilievo finemente intagliato si ritiene essere l’unica opera lavorata in pietra, di cui si abbia notizia, di un maestro avvolto nel mistero, che firmava intorno all’anno 1500 una serie di placche di bronzo con lo pseudonimo “Moderno”. L’identità di questo artista, che nel campo della creazione di placchette rinascimentali era uno dei più grandi della sua epoca, è finora ignota. I tentativi volti all’identificazione non hanno trovato infatti completo riscontro né nella persona di Galeazzo Mondella (operante 1485-1528) né in quella di Caradosso Foppa (ca 1452-1526/7) (GASPAROTTO 2008, pp. 90-91). Esiste unanimità di consenso solo sul luogo del radicamento artistico del maestro, indicato nell’Italia settentrionale e sull’idea che il suo pseudonimo sia una risposta indirizzata al nome artistico “Antico” dello scultore mantovano Pier Jacopo Alari Bonacolsi (ca 1460-1528). Il fatto che l’appellativo “Moderno” sia più che un colto gioco di parole, è rivelato efficacemente dall’opera di cui si tratta. La creazione rappresenta Apollo con la lira che appare come se fosse una statua posta in una nicchia. L’idea trae ispirazione da una incisione di Marcantonio Raimondi (BARTSCH 1978, nn. 334 e 335), che riproduce la scultura di Apollo dipinta sul fondo dell’affresco di Raffaello della Scuola di Atene (Stanza della Segnatura del Vaticano, 1510-11). Se si considera che contemporaneamente, nel 1511, papa Giulio II faceva porre l’antica statua di marmo di Apollo, di sua proprietà, nel Cortile delle statue del Belvedere, di recente creazione (statua nota da allora come Apollo del Belvedere) colpisce il fatto che Raffaello, nel suo affresco, nel quale l’architettura e la decorazione statuaria sono una parte essenziale del contenuto iconografico, crea una statua d’Apollo completamente indipendente dalla concezione artistica della famosa scultura antica. Ancora non è stato trovato altro modello antico da cui abbia potuto trarre ispirazione Raffaello per il suo Apollo, anche se si è provato ad identificarlo nell’intaglio conosciuto come “Sigillo di Nerone“ di proprietà di Lorenzo il Magnifico (oggi presso il Museo Archeologico di Napoli), nel quale tuttavia il dio delle Muse ha un aspetto molto diverso. Ciò è stato constatato a buon diritto già da BOBER e RUBINSTEIN (1986, pp. 75, 150), che ipotizzavano come possibile modello una ninfa su un sarcofago della Villa Doria Pamphilj. Nonostante somiglianze di base con la posa della ninfa, le morbide linee della composizione di Raffaello sono così peculiari della grazia del pittore, che l’affresco e l’incisione fanno pensare ad una creazione indipendente, non copiata da un modello dell’antichità. Il fatto che Moderno assuma come oggetto del suo bassorilievo l’Apollo di Raffaello e non l’Apollo del Belvedere, che Antico aveva già copiato in una sua statuetta in bronzo (opera attestata al 1498) dimostra che Moderno riteneva l’arte del suo contemporaneo – cioè di un artista “moderno” – maggiormente degno di imitazione rispetto alle opere dell’antichità. Le lettere “O[PVS] MODERNI” messe in evidenza, sembrano contrassegnare il bassorilievo quale manifesto, poiché possono essere interpretate sia come l’opera “di un moderno” oppure “di Moderno” e sono una testimonianza incisiva di un’idea ancora inusuale all’inizio del XVI secolo. Ma il bassorilievo è davvero opera di Moderno? Già Ilg aveva espresso dubbi sul fatto che un bassorilievo intagliato in un materiale che veniva utilizzato solo nel nord Europa per simili scopi artistici potesse essere opera di un artista italiano. Ilg, a tal proposito, faceva riferimento, a buon
diritto, alla peculiare durezza delle linee della modellazione ed ipotizzava invece che si trattasse della realizzazione di un artista tedesco il quale l’avrebbe copiata da un’opera originale di Moderno, un bassorilievo in metallo andato perduto. Schlosser ha ripreso e sostenuto con veemenza tale ipotesi, mentre Pope-Hennessy e Lewis ritenevano tacita l’idea che l’opera fosse di Moderno. Il materiale, in effetti, fa insospettire e la lavorazione del corpo presenta realismi tipici dell’arte tedesca come ad esempio la spalla spigolosa e le sgradevoli rughe sopra al fianco destro e nella regione pubica. Le dita della mano destra, inoltre, sembrano un po’ legnose e l’accorciamento prospettico del piede destro è così malriuscito che è difficile pensare all’elegante mano di Moderno, soprattutto se si tengono presenti opere sicuramente sue, quali ad esempio i due bassorilievi in argento che si trovano a Vienna. Un esame critico può portare ad indizi che senz’altro sostengono la tesi di Ilg. Se si pensa che Raimondi copiava incisioni di Dürer, incluso il suo famoso monogramma, non è sorprendente che un artista tedesco copiasse una placchetta italiana prendendo a modello l’opera di Raimondi. Non occorre sottolineare quanto fosse vivo lo scambio culturale artistico fra nord e sud né si deve credere ciecamente alle firma apposta da un artista su di un’opera. Questo piccolo bassorilievo di Vienna crea quesiti che vanno al di là della sola ricerca dell’identità di Moderno. C.K.G. * In letteratura si cita talvolta come materiale la steatite, ma ciò non è corretto; ringrazio il Prof. Andreas Rohatsch, Technische Universität Wien, per aver determinato il materiale Bibliografia: ILG 1890, pp. 105, 108; SCHLOSSER 1910, p. 20; POPE-HENNESSY 1980, pp. 198199; LEWIS 1989 pp. 131-132
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61 - Giovanni Desiderio Bernardi, detto Giovanni da Castelbolognese (Castelbolognese, 1496-Faenza, 1553) Apollo e Marsia 1540-1550 ca calcedonio e oro, mm 49,3 × 40 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 234
L’elegante composizione mostra a sinistra Apollo clamidato reso in una classica posa in contrapposto; con la mano sinistra tiene la parte superiore della lira, deposta a terra, mentre con la destra si appoggia a un pilastro. Davanti a lui è rappresentato Marsia, voltato di spalle e seduto sopra un seggio parzialmente coperto da un drappo. Il satiro, dalla possente muscolatura, è colto nell’atto di suonare un flauto che sostiene con la mano sinistra. La pietra è circondata da una semplice montatura in oro munita di due maglie circolari saldate alle estremità verticali. Rintracciabile nella raccolta glittica granducale solo a partire dai primi decenni del Settecento (BdU, ms. 83, tav. XXXIII, n. 6), l’intaglio costituisce una interessante variante del celebre Sigillo di Nerone (cat. n. 35), rispetto al quale il pezzo fiorentino si differenzia non solo per alcuni atteggiamenti delle figure, ma anche per la scelta da parte dell’autore di rappresentare un diverso momento dello stesso episodio mitologico, ovvero quello della disputa musicale vera e propria tra Apollo e Marsia, con il satiro ancora intento a suonare il suo strumento. L’opera è da mettere in relazione con una placchetta di analoghe dimensioni di cui si conoscono diversi esemplari, assegnati a Giovanni Bernardi da Castelbolognese da Émile MOLINIER (1886) che, ignorando l’esistenza del calcedonio del Museo degli Argenti, ne suggerì la derivazione da una impronta tratta da un’antica gemma incisa. In disaccordo con questa ipotesi, Ernst KRIS (1929), seguito poi da John POPE-HENNESSY (1965), individuò nel pezzo qui considerato la fonte delle plachette, riconducendone la realizzazione a bottega fiorentina della metà del XVI secolo. Abbandonata per qualche decennio, la vecchia attribuzione al Bernardi è stata rilanciata più recentemente da Valentino DONATI (1989). La pietra, nonostante non porti la firma dell’illustre incisore, è tipica della sua produzione e a lui ascrivibile per la grande finezza dell’intaglio, confrontabile dal punto di vista stilistico con i cristalli di rocca della Cassetta Farnese (Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte, inv. n. 10507) e con quello raffigurante La punizione di Tizio del British Museum di Londra (inv. n. 1867, 0507.739) eseguito per il cardinale Ippolito de’ Medici sulla base di un disegno di Michelangelo. Inoltre caratteristiche del Bernardi sono l’impostazione compositiva di matrice classica e l’uso di modelli desunti dai grandi esempi della “maniera moderna”. Infatti nell’assorta figura di Apollo è riconoscibile una citazione piuttosto fedele della statua affrescata a grisaille da Raffaello nella nicchia sinistra dello sfondo architettonico della Scuola di Atene in Vaticano. Da essa, o molto più probabilmente dall’incisione che ne trasse Marcantonio Raimondi (cat. n. 59), deriva tutta la porzione inferiore del corpo del dio e buona parte di quella superiore, in cui diverso appare l’orientamento della testa, girata di profilo a destra, e la posa del braccio sinistro, nel prototipo piegato all’altezza del fianco per sorreggere la lira. Allo stesso modo nel possente Marsia è possibile cogliere un evidente riflesso degli Ignudi affrescati da Michelangelo sulla volta della Sistina, e più precisamente la sua posa richiama il nudo dipinto a destra del profeta Gioele. Il successo del motivo iconografico nel Cinquecento è attestato da uno smalto francese alla National Gallery of Art di Washington (cat. n. 62), da un rilievo in marmo al Louvre (cat. n. 63) e da un rilievo in terracotta già nella collezione Auspitz a Vienna (KRIS 1929, I, p. 170, n. 295/70). Una tarda derivazione dal calcedonio, o meglio dalle placchette tratte da esso, si conserva presso la collezione reale di numismatica di Leida (MAASKANT-KLEIBRINK 1997, pp. 241, 246-247, nota 57, figg. 12, 13). R.G.
Bibliografia: MOLINIER 1886, II, p. 12, n. 342; KRIS 1929, I, p. 170 n. 295, II, tav. 70, n. 295; RICCI 1931, p. 258, n. 388; RUSCONI 1935, p. 11, n. 234; MIDDELDORF-GOETZ 1944, p. 43, n. 308; POPE-HENNESSY 1965, pp. 83-84, n. 291; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 185, n. 1091; scheda O.A. 09/00162488, 1985 (M. Casarosa); DONATI 1989, p. 216, tav. XCII; MAASKANTKLEIBRINK 1997, p. 246, nota 57; GENNAIOLI 2007, pp. 365-366, n. 493, tav. XLIII; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 2007, p. 324, n. 629
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62 - Manifattura francese Apollo e Marsia
metà del XVI secolo smalto su rame, diam. mm 58 iscrizioni: **OR*PHEVS*** Washington, National Gallery of Art, Gift of Lisa Unger Baskin in honor of Nicholas Penny and Mary Wall, inv. n. 2007.150.3
Questo piccolo tondo finemente dipinto è l’unico esempio conosciuto di smalto recante una composizione con Apollo e Marsia che conobbe una notevole diffusione nell’Europa del XVI secolo e che fu riprodotta su opere con diverse funzioni e dimensioni. Questa versione, con Marsia seduto nell’atto di suonare la tromba e Apollo stante con la lira, è la più bella tra le varie redazioni della scena, che è rappresentata, con interessanti variazioni, in un intaglio in calcedonio del XVI secolo conservato presso il Museo degli Argenti (cat. n. 61), in una placchetta in bronzo attribuita ad ambito fiorentino della metà del XVI secolo (National Gallery of Art, Samuel H. Kress Collection 1957.14.522, con molte altre varianti tra cui una versione in bronzo dorato di Giovanni Bernardi, National Gallery of Art, Widener Collection, 1942.9.180), in un rilievo rettangolare in terracotta (già nella collezione Auspitz, KRIS 1929, I, pp. 70 fig. 296, 73, 170), in un grande rilievo in marmo proveniente dal monumento del cuore di Enrico III (attribuito a Jean Goujon, cat. n. 63), in uno dei lacunari quadrati del soffitto a cassettoni del castello di Villers-Cotterêts (RIBOULLEAU 1991, pp. 96-98). Mentre l’origine della composizione rimane sconosciuta, è probabile che una stampa non identificata fu la responsabile della sua ampia diffusione. Ogni figura è strettamente connessa con gli affreschi in Vaticano. Il Marsia seduto riecheggia l’ignudo di Michelangelo sopra il profeta Gioele sulla volta della cappella Sistina, mentre Apollo è ripreso dalla figura a grisaille dell’Apollo musagete nella nicchia dello sfondo architettonico della Scuola di Atene di Raffaello, incisa più tardi da Marcantonio Raimondi (cat. n. 59). L’influenza dell’incisione può essere ben rilevata anche nello smalto nell’uso dei tratteggi per creare profondità e volume (VERDIER 1977, p. 8). La gara musicale fra Apollo e Marsia assunse nel Rinascimento molteplici significati (WYSS 1996). La contesa costituì infatti una metafora per le dicotomie tra cultura alta e bassa (la gerarchia musicale tra strumenti a corde e a fiato), il buono e il cattivo governo, il mondo pastorale e quello urbano. L’interesse per il mito fu alimentato dalla narrazione fattane da Ovidio nelle Metamorfosi (libro VI). L’iscrizione Orpheus solleva una serie di questioni interessanti. Una figura simile a quella del Marsia seduto appare come Orfeo in un dipinto di Apsley House a Londra attribuito al Padovanino (inv. n. WM 1582-1948; KAUFFMANN 2009, pp. 220-221 per altre versioni e le fonti) e come Apollo in una tavole del Bronzino al Museo dell’Ermitage. Protettore dei poeti e seguace di Apollo, Orfeo incarna la qualità di creatività di ispirazione divina del dio. Eppure tale personaggio, vissuto tra gli animali selvatici e associato ai pastori, condivide contemporaneamente con Marsia la natura selvaggia e la frenesia del processo creativo. Come osserva Carla Zecher, la gara tra Apollo e Marsia è stata usata simbolicamente dai poeti francesi del XVI secolo per contrapporre lo stile poetico innovativo alle forme letterarie degli antichi maestri (ZECHER 2007, p. 70). Si potrebbe vedere nell’iscrizione un modo per unificare gli opposti concetti di Apollo e Marsia – l’arte contro la natura, il celeste contro il terrestre, la mitologia e il mondo pastorale – espressi nella poesia francese del XVI secolo, in particolare da quella della Pléiade. Tale complessità di significati fa supporre che l’opera potrebbe essere stata commissionata proprio da un letterato. Lo smalto fu concepito come una preziosa gemma nel suo aspetto di delicata grisaille, imitante un cammeo o un intaglio, racchiuso al pari di una pietra preziosa in una cornice aurea. La divisione della iscrizione “**OR*PHEVS***” isola le lettere “OR” suggerendo la parola oro in francese.
I fori passanti furono realizzati prima dell’applicazione degli smalti (Christopher Watters, Incoming Condition Report, 29 August 2008, National Gallery of Art, archivi di restauro) e suggeriscono che il tondo era destinato ad essere attaccato a qualcosa. Smalti di analoghe dimensioni e fomato sono stati identificati come spille da cappello. Bernard Palissy ricorda la popolarità nel XVI secolo degli smalti di Limoges indossati come insegne da cappello: “Je m’assure avoir vu donner pour trois sols la douzaine, des figures d’enseignes que l’on portoit aux bonnets, lesquelles enseignes estoyent si bien labourées et leurs esmaux si bien parfondus sur le cuivre, qu’il n’y avoit nulle peinture si plaisante” (HACKENBROCH 1996, p. 82). Limoges fu il principale sito europeo per la realizzazione di smalti, sottoposto agli editti reali emessi nel tardo XV secolo, con i quali la produzione fu limitata a un numero limitato di famiglie (VERDIER 1977, p. 6). Anche se non firmato, il tondo mostra analogie stilistiche con placchette smaltate a grisaille eseguite a Limoges intorno alla metà del XVI secolo da Martial Ydeux (il cosiddetto maestro “M. D. Pape”), Jean II Penicaud e Pierre Reymond (si vedano gli esemplari con Arthur [inv. Ec 1898 a] e Josué [inv. Ec 1898 b] di Martial Ydeux del Musée National de la Renaissance di Écouen, in CRÉPINLEBLOND 2009, pp. 6-9, figg. 4-5; e Collection Yves Saint Laurent 2009, pp. 254-255, n. 546; si veda anche La Natività, attribuita a Jean II Penicaud, OA 4002/ MV 495, Musée du Louvre, in BARATTE 2000, p. 94). Simili risultano le iscrizioni, con le stelle che scandiscono le lettere, i capelli soffici e i dettagli impreziositi dall’oro, tra i quali una sottile cornice interna che delimita il bordo dello smalto. Il fondo controsmaltato di chiaro sul retro consente di datare il pezzo dopo lo sviluppo del fondente traslucido nel 1530. E.P. Questa scheda riassume i risultati di una più ampia ricerca, sostenuta dalla National Gallery of Art e il Robert H. Smith Fellowship, che sarà pubblicata in un articolo di prossima uscita
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63 - Scultore francese della seconda metà del XVI secolo Apollo e Marsia marmo, cm 53,6 × 33,5 × 7,4 Parigi, Musée du Louvre, Dèpartement des Sculptures, inv. n. RF 3103
Il rilievo, acquistato dal mercante d’arte Alexandre Lenoir de Sellier (o Scellier), è entrato nelle collezioni del Louvre, per decisione ministeriale del 6 luglio 1821, il 15 settembre 1821 (Sculpture française 1998, II, p. 689). La scena, inserita all’interno di un pezzo di marmo rettangolare, raffigura Marsia, a sinistra, con una folta capigliatura riccioluta, seduto di tre quarti su una specie di cippo coperto da un drappo mentre suona il flauto nudo. In piedi di fronte a lui Apollo, ugualmente nudo e con lunghi capelli tenuti da un nastro, è rappresentato con la mano destra sulla lira e la sinistra appoggiata ad un cippo. La scena raffigurata nel rilievo è ripresa in controparte da un intaglio in calcedonio (cat. n. 61) conservato al Museo degli Argenti di Palazzo Pitti opera di Giovanni Bernardi da Castelbolognese e realizzato tra il 1540 ed il 1550 (GENNAIOLI 2007, p. 366). In una ripresa che è letterale, pochi e secondari sono i particolari che si discostano dall’intaglio del Bernardi, se si eccettua l’eliminazione del sesso di Apollo, che trasforma il corpo del dio della musica quasi in quello di un “ermafrodito” (BEAULIEU 1978, II, p. 66). Come notato da Gennaioli per l’intaglio del Museo degli Argenti, le due figure mitologiche greche “pur emanando un forte senso di classicità” risultano svincolate “dalle più tradizionali fonti archeologiche sul tema”; Marsia è raffigurato completamente umanizzato, privo delle sue classiche forme satiresche, mentre Apollo pare derivare la sua immagine da un intaglio in corniola di Dioskourides (inv. 26051), il cosiddetto Sigillo di Nerone, conservato al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (GENNAIOLI 2007, p. 366). Più precisamente, queste figure trovano i loro modelli in due raffigurazioni realizzate dalle personalità pittoriche più importanti e influenti della prima metà del Cinquecento. Infatti l’elegante figura di Apollo trova la sua naturale derivazione dalla statua del dio affrescata a grisaille da Raffaello in una nicchia sullo sfondo della Scuola di Atene nella Stanza della Segnatura in Vaticano. Poche sono le variazioni e riguardano unicamente l’orientamento della testa e la posa del braccio che sostiene la lira. La più vigorosa figura di Marsia ha, invece, il suo prototipo nell’Ignudo affrescato da Michelangelo a sinistra del Profeta Gioele sulla volta della Cappella Sistina (GENNAIOLI 2007, p. 366). Attribuita dapprima ad una generica manifattura franco-italiana (MICHEL 1897, p. 24, n. 201 e VITRY 1922-1933, I, p. 58, n. 496), l’opera è stata successivamente definita “un mediocre bassorilievo (…) ed una grossolana imitazione dall’antico” della fine del XVI secolo (BEAULIEU 1978, II, p. 66). In seguito il rilievo è stato indirizzato verso uno scultore francese della seconda metà del XVI secolo che avrebbe copiato una gemma antica (Sculpture française 1998, II, p. 689). Concordando con quest’ultimo suggerimento suppongo, che il rilievo possa essere derivato da una placchetta o una stampa raffigurante l’intaglio degli Argenti circolata oltralpe, come lascerebbe immaginare la sua ripresa in controparte. Il veicolare di soggetti grazie alle stampe fu assai diffuso proprio a partire dal Cinquecento; a riprova di questo gioverà menzionare una incisione di Marcantonio Raimondi raffigurante Apollo con una lira in una nicchia conservata al Kupferstichkabinett del Staatliche Museen di Berlino (cat. n. 59) che è proprio la ripresa puntuale del dio di Raffaello della Scuola d’Atene (cfr. L. Aldovini, in ATENE 2003, pp. 347-348). Il motivo iconografico dell’opera del Louvre ha avuto una discreta fortuna nel corso del XVI secolo e si trova riprodotto anche su placchette e in un rilievo in terracotta già nella Collezione Auspitz a Vienna (GENNAIOLI 2007, p. 366).
Il nostro rilievo è stato utilizzato al Louvre come un lato del piedistallo nella ricostituzione del Monumento contenente il cuore di Enrico III e aveva come pendant il Risveglio delle Ninfe (inv. n. LP 392), opera attribuita a Pierre Bontemps (1507-1568), scultore francese noto soprattutto per i suoi monumenti funerari e i bassorilievi celebranti la battaglia di Marignano (BEAULIEU 1978, II, p. 66). M.B. Bibliografia: MICHEL 1897, p. 24, n. 201; VITRY 1922-1933, I, p. 58, n. 496; PARIGI 1968, fig.; BEAULIEU 1978, II, p. 66, n. 109; Sculpture française 1998, II, p. 689; GENNAIOLI 2007, p. 366, n. 493
Il Sigillo di Nerone
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La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio al duca Alessandro
LA DISPERSIONE DELLA COLLEZIONE LAURENZIANA
Alessandro de’ Medici e Margherita d’Austria
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64 - Giorgio Vasari (Arezzo, 1511-Firenze, 1574) Alessandro de’ Medici, duca di Firenze 1534 ca olio su tavola, cm 157 × 114 Firenze, Galleria degli Uffizi, depositi, inv. 1890, n. 1563
“Ricordo come a dì 8 di gennaio 1534 messer Ottaviano de’ Medici, depositario dello illustrissimo duca di Fiorenza Alessandro de’ Medici, mi fé fare il ritratto di esso Duca armato a sedere in un quadro dipinto a olio con molti ornamenti atorno, il quale fu cominciato questo dì”. Sulla base di quest’annotazione contenuta nel Libro delle Ricordanze di Giorgio Vasari (ms. 31 Archivio Vasari; ed FREY 1923-1940; DEL VITA 1929) il dipinto è stato datato ai primi mesi del 1534; è opportuno tuttavia rilevare alcune contraddizioni con le testimonianze presenti nell’autobiografia dell’edizione Giuntina delle Vite (Descrizione dell’opere di Giorgio Vasari, in VASARI 1568, II, pp. 980-1012) e in due lettere del carteggio (vedi infra), che inducono ad usare la fonte con maggior cautela e ad ipotizzare dei termini di datazione meno netti. Giova ricordare che le Ricordanze non costituiscono un documento contabile, bensì una composizione letteraria compiuta dall’aretino in tarda età e in relazione con la stessa autobiografia stilata tra il 1566 e il 1568 sulla base di appunti, libri di conti, contratti e ricordi. Ne restano alcune carte alla Beinecke Library dell’Università di Yale, provenienti dall’archivio Rasponi Spinelli; tra di esse, la filza 66, filzetta 1 (box 52, folder 1115) contiene un frammento di una precedente redazione delle Ricordanze, con registrazioni di pagamenti tra il 1553 e il 1572 (JACKS 1992, pp. 739-784). Nelle due versioni, le frequenti variazioni di date, nomi ed elenchi di opere, oltre ad un elevato numero di errori di trascrizione, dimostrano che il manoscritto subì una radicale riscrittura. Ne riassumiamo gli avvenimenti in breve: il 10 novembre 1532 Vasari raggiunge Firenze ed entra alle dipendenze del duca; la commissione del ritratto di Alessandro è registrata, come abbiamo visto, il giorno 8 gennaio 1534, seguita da alcuni lavori minori e dal ritratto di Lorenzo il Magnifico il 17 agosto seguente. Solo il 10 dicembre 1534 vengono allogate le Storie di Cesare al piano terreno di Palazzo Medici Riccardi. Nella Descrizione dell’opere di Giorgio Vasari nella Giuntina si narra invece l’arrivo dell’artista a Firenze, l’ingresso al servizio di Ottaviano de’ Medici, alcuni lavori importanti come quello delle Storie di Cesare (incarico che egli afferma di aver svolto nel 1535; VASARI 1568, II, p. 580), quindi l’ammissione alla mensa del duca e, a dimostrazione della familiarità con lui raggiunta, l’esecuzione del ritratto; l’ordine di alcune tappe appare dunque invertito rispetto a quello delle Ricordanze e l’ultima commissione risalirebbe al 1535. Una particolare cautela occorre infine nel considerare quanto riportato nelle lettere di Vasari a Ottaviano de’ Medici (FREY 1923-1940, I, 1923, pp. 27-29) e ad Antonio di Pietro Turini (FREY 1923-1940, I, 1923, pp. 30-33), entrambe note attraverso la trascrizione del nipote nel manoscritto riccardiano 2354 (lettere VII, c. 9v; VIII, cc. 11r sgg.). Le due lettere sono prive di data e assieme a molte altre dello stesso codice sono state ritenute delle interpolazioni compiute sulla base di minute e bozze dello stesso Vasari da Giorgio il giovane in relazione con la pubblicazione postuma dei Ragionamenti (vedi Ch. Davis, in AREZZO 1981, pp. 206-208, con bibl.). La lettera ad Ottaviano de’ Medici recante una lunga descrizione del significato allegorico del ritratto di Alessandro afferma che esso fu compiuto dopo quello di Lorenzo il Magnifico, in contraddizione con le Ricordanze. In essa, la citazione dei “popoli legati e firmi per il castello fatto” allude alla Fortezza da basso iniziata nel maggio del 1533 e completata nei muri perimetrali attorno al dicembre 1535; anche nel caso in cui la lettera fosse integralmente autografa, essa si collocherebbe quindi posteriormente a questa data o comunque in un momento assai prossimo e tale che la fortezza potesse dirsi già “fatta”, ovvero finita. Da un simile elenco di avvenimenti non è facile
trarre conclusioni: è chiaro che i dati autobiografici vasariani sono soggetti non solo al naturale sfumare dei ricordi nella memoria dell’aretino, ma anche ad una sua discreta quanto tenace volontà di offrire, dopo aver raggiunto i massimi traguardi professionali, l’immagine di una parabola artistica ascendente nel segno della predestinazione. Non si può escludere a priori una svista del biografo nell’interpretazione della data del dipinto in base a possibili ambiguità tra calendario ab incarnazione e a nativitate nei propri appunti, che potevano indurre a leggere 9 gennaio 1534 come 1535, o viceversa; né un’inversione dei fatti per fini letterari presentando implicitamente l’autobiografia secondo il modello michelangiolesco. L’esibizione della progressiva familiarità di Vasari con i membri della famiglia Medici è infatti calcata sull’esempio del Buonarroti, che giovanissimo venne accolto alla mensa di Lorenzo il Magnifico (VASARI 1568, II, p. 719). Sulla base di confronti con altre opere, Campbell ha poi proposto di collocare l’esecuzione del ritratto al periodo di realizzazione di quello in cera, oggi perduto, di Giovann’Agnolo Montorsoli per la SS. Annunziata di Firenze, che raffigurava il duca con indosso una delle proprie armature donata come ex-voto e che, secondo la testimonianza di Vasari, venne completato dopo la morte di papa Clemente VII nel settembre 1534 (VASARI 1568, II, p. 612; Libro dei partiti della SS. Annunziata, anno 1533; v. CASALINI 1974, p. 302, n. 38). Il ritratto di Vasari, stando a quanto riportato nelle Vite (VASARI 1568, II, p. 984), apparteneva ad Ottaviano de’ Medici e si trovava nelle stanze del suo palazzo in via Larga. Il primo documento che permette di identificare con certezza l’opera nelle collezioni medicee è l’Inventario della Galleria degli Uffizi del 1638-1654, che registra senza identificarne l’autore “un quadro grande in tavola, dipintovi al naturale il duca Alessandro Medici armato, con adornamento che fa frontespizio intagliato e dorato in parte” nella stanza dello Studiolo d’Alemagna (BdU, ms. 76, c. 58). Non è certo se il frontespizio cui si fa riferimento contenesse l’epigramma trascritto nella lettera ad Ottaviano, del quale non esistono altre testimonianze e sulla cui autenticità sono stati espressi dei dubbi (CAMPBELL 1985). Il primo a ricondurlo alla firma del Vasari pare essere stato il Pelli (BdU, ms. 463, ins. 23 [1777]; BENCIVENNI PELLI 1779), che lo giudicò tra i migliori dell’artista segnalandone la relazione con la lettera ad Ottaviano de’ Medici, seguito dall’abate Zannoni che ne lodò la finitezza e diligenza in contrapposizione al “tirar via di pratica” della maturità del pittore. Giudizio che risulta radicalmente rovesciato nella critica recente, incline a valutare il dipinto di “provincialità studiosa” (BAROCCHI 1956) o a vagliarne in prevalenza gli aspetti iconografici. Nel disegno della figura di Alessandro l’opera dimostra lo studio del Giuliano duca di Nemours di Michelangelo nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo, che Vasari fu uno dei primi a vedere e copiare. Gli sforzi dell’artista erano tesi in particolare, stando alle sue parole, al virtuosistico studio dell’“abbagliamento delle armi”, considerato una delle difficoltà dell’arte (vedi Lettera a Benedetto Varchi nella Lezzione della maggioranza delle arti, in VARCHI-BORGHINI 1998, pp. 61-66); nell’elmo poggiato a terra compare il riflesso di una finestra che non è coerente con la sua collocazione nello spazio del dipinto e che si spiega soltanto con il desiderio di misurarsi in questo celebre tour de force pittorico (vedi CAMPBELL 1985). Particolarmente complesso è il significato simbolico dell’opera che raffigura il duca Alessandro nelle vesti del pacificatore armato celebrato da Machiavelli (DE GIROLAMI CHENEY 2007); il soggetto è stato elaborato secondo il procedimento che l’artista aveva appreso dal letterato Pierio Va-
La dispersione della collezione laurenziana
leriano, autore degli Hierogliphica, e da alcuni proposto come autore putativo dell’epigramma contenuto nella lettera ad Ottaviano (LANGEDIJK 1981-1987). Per le analogie del dipinto con due medaglie coniate per Alessandro de’ Medici da Domenico di Polo e Francesco dal Prato, raffiguranti rispettivamente Alessandro come fundator quietis e Firenze rappresentata con gli attributi della pace e con in mano un ramoscello che dà fuoco alle armi si rimanda alla bibliografia specifica (in particolare LANGEDIJK 1981-1987; COXREARICK 1984; CAMPBELL 1985; DE GIROLAMI CHENEY 2007). Vale tuttavia la pena di segnalare l’importante rotella del duca (Firenze, Bargello, inv. Museo 1879 n. 758) che lo mostra armato in una posa simile a quella del ritratto vasariano assieme ad una figura femminile e ad alcuni eroti che ne sollevano l’elmo per coronarlo d’alloro (L.G. Boccia, in FIRENZE 1980b, p. 124 n. 235); una raffigurazione che, assieme alle medaglie, è indizio dell’elaborazione del concetto alla base dell’opera nell’ambito della cerchia di intellettuali della corte di Alessandro. Del dipinto esiste un disegno preparatorio (Firenze, GDSU, SANTARELLI 974; vedi LANGEDIJK 1981-1987); un ritratto di piccolo formato alla Princeton University è giudicato autografo (FREDERICKSEN-ZERI 1972). D.F. Bibliografia: VASARI 1568, II, p. 984; BENCIVENNI PELLI 1779, I, pp. 149-150; ZANNONI 1817-1831, I, pp. 42-48, fig. 14; BOTTARI-TICOZZI 1822-1825, III, 1822, pp. 21-28; VASARI, ed. Masselli 1832-1838, II, pp. 1426-1427; VASARI (1568), ed. Milanesi 1878-1885, VII, 1881, p. 657, VIII, 1882, pp. 241-242, 249-250; SCHAEFFER 1904, pp. 159-160, 163; SCOTI-BERTINELLI 1905, p. 20; VENTURI 1901-1940, IX, parte VI, 1933, pp. 312, 373, fig. 167; KALLAB 1908, pp. 51-52; CLAPP 1913, p. 64; CLAPP 1916, pp. 171-173; VOSS 1920, fig. 90; FREY 1923-1940, I, 1923, pp. 27-233, II, 1930, p. 852; PIERACCINI 1924-1925, I, pp. 408, 410, tav. XXXV; DEL VITA 1929, p. 21; FIRENZE 1939, p. 121 n. 3; HUNTLEY 1947, pp. 27-29, fig. 9; BAROCCHI 1956, p. 190; ROUCHETTE 1960, p. 361; BAROCCHI 1963-1964, p. 303; BAROCCHI 1964, pp. 11-12, tavv. II-III; POPE-HENNESSY 1966, pp. 180-181; HALE 1968, pp. 502-503, fig. 1; FORSTER 1971, pp. 69-70, fig. 4; FREDERICKSEN-ZERI 1972, p. 209; DAVITT ASMUS 1977, pp. 48-49, fig. 10; BOASE 1979, pp. 20-22, fig. 13; Gli Uffizi 1979, I, p. 580, n. P1851; K. Langedijk, in FIRENZE 1980b, p. 267; BAROCCHI 1981, p. 20; J. Kliemann, in AREZZO 1981, pp. 78-79; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, pp. 70-75, 226227; BAROCCHI 1984, p. 117; COX-REARICK 1984, pp. 234236, fig. 155; CAMPBELL 1985; Waźbínski 1987, I, pp. 132, 242-244, II, fig. 90; GIOVANNETTI 1988, p. 859; CORTI 1989, p. 15; BALDINI 1994, pp. 12-14, fig. p. 25; RUBIN 1994, pp. 427428, fig. 2; RUBIN 1995, pp. 100-102, fig. 44; E. Lombardi, in FIRENZE 2001b, pp. 82-83; CECCHI 2004, pp. 30-32, fig. 3; BRACKETT 2005, p. 313, fig. 65; DE GIROLAMI CHENEY 2007, pp. 62, 69, 74-76, 79, fig. 23; G. Utari, in VICCHIO-S. PIERO A SIEVE-BORGO S. LORENZO-FIRENZE 2008, pp. 332-335
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65 - Intagliatore romano Busto di papa Clemente VII
1534 ca onice e oro, mm 40 × 32 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 123
Il cammeo, in onice bianco, riporta il ritratto in profilo sinistro di papa Clemente VII (n. 1478, papa 1523, † 1534) al secolo Giulio, figlio di Giuliano di Piero de’ Medici. In età avanzata, questi presenta una barba di media lunghezza, il capo ampiamente tonsurato ed indossa un elaborato piviale fermato sul petto da una grossa fibula rotonda, su cui compare un busto nimbato in posizione frontale. Assai usurata nei punti di maggiore aggetto, la gemma mostra in basso, sulla base trasparente, una piccola rottura. Essa è montata entro una sottile cornice a filetto aureo, dentellata sul retro e completata, alle estremità verticali, da due piccoli anelli rotondi, evidentemente funzionali all’esposizione del pezzo. Citata per la prima volta, come un ritratto di papa Clemente VII, nell’inventario redatto nel 1676 (BdU, ms. 78, n. 58), essa veniva più tardi registrata come un’effige di Sisto V (BdU, ms. 83, tav. XXVI, n. 5; BdU, ms. 115, II, tav. XXVI, n. 1343), e in seguito come una immagine di Clemente VII (infra). Il Puccini (BdU, ms. 47, n. 233) e il Migliarini (BSAT, ms. 194, n. 501), primi a commentare il lavoro, vi trovarono una certa rigidità stilistica accompagnata però da una notevole diligenza tecnico-formale. Il Kris in seguito (KRIS 1929, I, p. 73, II, p. 170, n. 297/74, fig. 297), attento indagatore dei rapporti esistenti fra la pietra dura e gli altri media, notava una certa affinità con una medaglia eseguita dal Benvenuto Cellini (1534, Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. Medaglie, n. 9809; ARMAND 18831887, I, 1883, p. 148, n. 9) per commemorare il completamento del Pozzo di San Patrizio ad Orvieto (VASARI [1568], ed. Milanesi 1878-1885, V, 1880, pp. 389-390). Sulla base di ciò, la lavorazione della gemma veniva ricondotta al secondo quarto del Cinquecento ed assegnata alla mano di un artista romano formatosi nella cerchia del celebre scultore fiorentino (KRIS 1929, I, p. 73, 170, n. 297/74, II, fig. 297), venendo in seguito legata dallo Hill ad una medaglia alternativamente assegnata a Francesco da Prato o Alfonso Lombardi, intagliatori attivi durante la prima metà del secolo XVI (HILL-POLLARD 1967, p. 72, fig. 380). Il Pollard ribadiva più tardi, per una di esse almeno, l’attribuzione al succitato Francesco dal Prato (POLLARD 1984-1985, II, pp. 673-675, n. 339, fig. 339), mentre la Langedijk confermava la derivazione del cammeo dal lavoro celliniano (LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, pp. 1388-1389, n. 69, fig. 162,69). In tempi più recenti la Reiss, ritenendola un’opera eseguita dopo il 1534 in conformità con la medaglia celebrativa fusa da Benvenuto Cellini, sottolineava quanto i Medici, e soprattutto Cosimo “Herzöge Florenz und später die Toskana”, ricercassero immagini dei propri familiari in pietra dura e particolarmente quelle dei papi della casata (S.E. Reiss, in BONN 1998, p. 106, fig. 62, p. 451, n. 62). Notizie analoghe venivano riportate nel catalogo di una successiva mostra michelangiolesca (P. Ragionieri, in FIRENZE 2001b, pp. 69-70, n. 41). La medaglia eseguita dal Cellini, con la quale esistono evidenti legami di carattere stilistico-formale (identica è la disposizione del volto e la resa fisionomica), deve esser considerata de facto il più illustre prototipo per l’iconografia del pontefice. Un’effige praticamente identica appare su numerose medaglie papali eseguite da artisti diversi, quali il succitato Francesco da Prato, o il più noto Giovanni Bernardi da Castelbolognese. A differenza di questi tuttavia, il ritratto intagliato sulla gemma fiorentina appare un poco più fiacco e meno aristocratico. Il repertorio decorativo
inciso sul piviale del pontefice inoltre, formato da palmette sul bordo del collo e da una immagine di santo sulla fibula centrale, non trova esatte corrispondenze con nessuna delle medaglie note. Come nel caso del cammeo con ritratto di Papa Leone X (Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 121), anche la fattura di questo deve essere assegnata ad un maestro minore, non eccessivamente dotato ed operante al di fuori della ristretta committenza papale. Considerando il legame esistente fra Clemente VII ed il suo protetto, il duca Alessandro, potremmo anche supporre che la gemma sia entrata nelle collezioni attraverso la raccolta di questi (DIGIUGNO 2005, p. 26, nota 66, fig. 6). E.D. Bibliografia: ARMAND 1883-1887, I, 1883, p. 148; KRIS 1929, I, p. 73, 170, n. 297/74, II, fig. 297; FIRENZE 1939, p. 124, n. 7H; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 181, n. 980 (citata come fig. VIII); HILL-POLLARD 1967, p. 72, fig. 380; LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, p. 1389, n. 69, fig. 102,69 (come opera di anonimo); MCCRORY 1998, p. 43; S.E. Reiss, in BONN 1998, p. 106, fig. 62,p. 451, n. 62; P. Ragionieri, in FIRENZE 2001b, pp. 69-70, n. 41; CASAZZA 2004a, p. 20, fig. 7, DIGIUGNO 2005, p. 26, nota 66, fig. 6; DIGIUGNO 2005-2006, II, pp. 83-86, n. 16, figg. 47-49; GENNAIOLI 2007, p. 258, n. 243, fig. 243
La dispersione della collezione laurenziana
66 - Domenico di Polo (Firenze, 1480 ca-1547 ca) Busto di Alessandro de’ Medici 1532-1537 ca agata e oro, mm 34 × 25 (il cammeo) Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 112
Il duca Alessandro de’ Medici (1511-1537) è ritratto di profilo verso sinistra e presenta capelli ricci e barba appena accennata; indossa un abito sobrio, secondo la moda del suo tempo. Il cammeo è inserito in una semplice montatura a giorno, realizzata in oro, leggermente bombata e profilata; alle estremità sono visibili due maglie collegate al castone da quattro piccole foglie. La gemma faceva originariamente parte della collezione di Caterina de’ Medici, da lei lasciata in eredità alla nipote Cristina di Lorena. Le sue nozze con il granduca Ferdinando I de’ Medici, avvenute nel 1589, avrebbe costituito l’occasione di riportare il pezzo a Firenze. Il cammeo compare nell’Inventario delle gioie di Cristina di Lorena dove, tra le altre opere, è descritta “una testa di cammeo del Duca Alessandro guarnita d’oro” (ASF, GM 152, c. 28s), da identificare con questo esemplare. L’altissima qualità del Busto di Alessandro de’ Medici è stata riconosciuta in tutte le epoche: fino al 1634 fu esposto nella “stanza dei ritratti, all’entrata di galleria allato alle stanze dell’armeria” e in seguito trasferito nella Tribuna degli Uffizi, dove fu custodito all’interno di uno degli armadi segreti situati sulla parete destra (BdU, ms. 75). Nel 1799 il conservatore delle raccolte medicee e lorenesi, Tommaso Puccini, riconoscendone l’elevata qualità, inserì il cammeo tra i pezzi della collezione granducale da cui ricavare matrici in vetro per la realizzazione di calchi da scambiare con il Cabinet des Antiques di Parigi (GENNAIOLI 2007, p. 256). Puccini fu il primo ad attribuire l’opera al medaglista fiorentino Domenico di Polo, figlio dell’intagliatore di vetri e pietre dure Polo di Angelo de’ Vetri. Allievo di Giovanni delle Corniole e di Pier Maria Serbaldi da Pescia, Domenico eseguì per il duca Alessandro de’ Medici alcune medaglie, in cui secondo Giorgio Vasari lo effigiò “divinamente” (VASARI 1568, ed. Milanesi 1906, p. 384). Questi ritratti mostrano notevoli affinità stilistiche con il cammeo qui considerato tanto da convalidare l’attribuzione allo stesso autore. Domenico di Polo occupò una posizione di rilievo nel panorama della glittica e della medaglistica fiorentina della prima metà del XVI secolo: l’ispirazione ai modelli classici, che l’intagliatore aveva probabilmente studiato nella collezione medicea, valorizzata da una raffinata tecnica di esecuzione interpretano la funzione di propaganda politica e culturale della famiglia dei Medici. P.L. Bibliografia: GORI 1767, II, p. CLXII; LASTRI 18213, p. 81; KRIS 1929, I, pp. 41 e 158, n. 100 e II, tav. 25 n. 100; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 181, n. 969; scheda O.A., 00129660, 1975 (M. Casarosa); LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 239, n. 39, fig. 1.39; MCCRORY 1998, p. 44, fig. 5; CASAZZA 2004a, p. 20; DIGIUGNO 2005, p. 17, nota 72; GENNAIOLI 2007, p. 256
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67 - Anonimo ritrattista d’ambito romano Margherita d’Austria metà XVI secolo olio su tela, cm 169,7 × 105,3 provenienza: collezioni Farnese Parma, Galleria Nazionale, inv. n. 1466
Indubbiamente l’autore di questo dipinto, databile al 1545, concepì il ritratto alla maniera di una “scena di conversazione” (PRAZ 1971), dove la giovane dama, Margherita d’Austria, moglie in prime nozze di Alessandro de’ Medici (1536), poi di Ottavio Farnese (1538), nipote del papa Paolo III, dialoga simbolicamente, attraverso la sua postura e gli elementi decorativi dello sgabello, con il padre, l’imperatore Carlo V, presente in forma di busto scultoreo; se pur gli occhi dell’imperatore siano vuoti, la piega delle sue labbra è mesta, presumibilmente a dimostrare il lungo rifiuto della figlia a seguire le sue volontà. Madama Margherita, rigida sul sedile e con lo sguardo serio e lontano, abbigliata con una cappa nera sopra ad una rossa e semplice veste, singolarmente priva di ricami o nastri, a differenza della moda in uso alla metà del Cinquecento, ostenta, porgendo il busto in avanti, il gonfio ventre gravido, che conferma, nella primavera del 1545, l’arrivo di un erede [saranno due gemelli]; gravidanza fortemente imposta da Carlo V e dai Farnese per ovviare a gravi conseguenze politiche se si fosse giunti all’abrogazione del patto nuziale. La positura delle mani di Madama sembrano comunicare la sottomissione; il guanto sinistro è già sfilato e quello di destra, nella mano del potere, è per metà tolto. Inoltre la figura intagliata nel bracciolo della poltrona, presumibilmente Prometeo con le mani legate dietro la schiena, soccombe sotto la testa di leone, simbolo di forza, mentre sotto i suoi piedi trionfa la testa di Medusa. La giovane Margherita, figlia naturale di Carlo V, dal carattere forte e determinato, era nata nel 1522 nei Paesi Bassi e per consolidare i rapporti tra l’impero asburgico e Clemente VII, venne inviata dal padre in Italia nel 1533 per rispettare l’accordo sponsale con i Medici e nel giugno del 1536 sposò il giovane Alessandro duca di Firenze, da lei molto amato, che verrà assassinato sei mesi dopo le nozze. Del primo marito conservò nelle residenze di Ortona e dell’Aquila dei ritratti e ben tre, non rintracciati, risultano negli inventari dei beni compilati alla sua morte nel 1586 (BERTINI 1998). In effetti, alla giovane vedova, in base agli accordi nuziali, rimasero vasti possedimenti in Abruzzo, dove visse l’ultima fase della vita, e parte delle ricche collezioni d’arte medicee, che conservò come patrimonio personale, anche dopo il secondo matrimonio, che il padre le impose nel 1538 con Ottavio Farnese. Questi, figlio quattordicenne di Pierluigi duca di Castro, a sua volta figlio del pontefice Paolo III, era stato nominato dal nonno per l’occasione duca di Camerino, ma le mira dei Farnese erano altissime e l’unione poteva rafforzare la loro posizione sociale in Europa. A favore del figlio Pierluigi e dei suoi eredi nel 1545 Paolo III infatti creò il ducato di Parma e Piacenza, città tolte dallo Stato della Chiesa. Il matrimonio tra Margherita e il Farnese fu infelice e per molti anni Madama si rifiutò di unirsi a lui nella speranza che fosse annullato, ma le pressioni del padre la convinsero a garantire una discendenza e nell’agosto del 1545 nacquero a Roma i suoi due unici figli: Carlo, deceduto nel 1549 e Alessandro, il grande capitano al servizio di Filippo II ed erede del ducato (GIUSTO 2007). Indubbiamente il dipinto fu realizzato a Roma all’epoca del tanto atteso evento e nel 1644 risultava ancora nelle collezioni di Palazzo Farnese con un’attribuzione a Tiziano (JESTAZ 1994); successivamente appare a Parma tra i beni del duca Francesco (1708), e giunse nel 1734 a Napoli e poi a Caserta con il patrimonio farnesiano ereditato da Carlo di Borbone. Nel 1943 rientrò a Parma e in quell’occasione Armando O. Quintavalle,
trovandovi riferimenti all’ambito romano, spostò l’attribuzione verso Sebastiano del Piombo, senza tuttavia leggerne i caratteri simbolici. Pure ZERI (1978) non colse che Margherita appare incinta e riferendosi ad un pagamento della corte farnesiana, risalente al 5 marzo del 1555, effettuato a Parma al pittore ferrarese Bartolomeo Cancellieri, per tre ritratti di cui uno di Ecc.ma Madama, sostenne di identificare quell’opera con questa tela, deducendovi la stessa cifra pittorica di un Ritratto di dama firmato da Cancellieri, già apparso a New York. Ancora di recente la BÉGUIN (2007) insiste nel mantenere l’idea che possa coincidere con il dipinto del Cancellieri, sebbene il FALCIANI (2005) nel tentativo di ricomporre il debole corpus pittorico dell’artista, lo esclude su basi stilistiche. Il limite della datazione penso che possa rafforzare l’idea che il dipinto sia d’ambito romano. Indubbiamente all’anonimo pittore interessano più i gesti e gli elementi simbolici che la verosimiglianza fisionomica di Margherita, indagata solo in superficie e ben diversa dal ritratto del Mor, ora a Berlino. I brani figurativi che ornano il sedile sembrano tratti da modelli grafici manieristi vicini al repertorio prodotto da quella cerchia di artisti come Pierin del Vaga e Marcello Venusti, al servizio dei Farnese nelle residenze laziali proprio nella prima metà del 1545, quando Margherita “offriva” il suo “sacrificio” al padre. M.G. Bibliografia: Quintavalle 1943, p.62; GHIDIGLIA QUINTAVALLE 1960, p. 26; PRAZ 1971, p. 216; ZERI 1978, pp. 112-113; J. Bentini, in FERRARA 1985, p. 237; LEFEVRE 1986, p.174; BERTINI 1987, pp. 99, 215; FORNARI SCHIANCHI 1993, p. 12; TRAVERSI 1993, p. 402; JESTAZ 1994, p. 175; M. Giusto, in COLORNO-MONACO-NAPOLI 1995, pp. 239-240, n. 50; GIORDANO LOKRANTZ 1997, p. 121; M. Giusto, in TOKYO 2007, p. 152 n. III.06 (II, p. 72); FALCIANI 2005, pp. 22-29; BÉGUIN 2007, pp. 27-31; GIUSTO 2007, pp. 217
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68 - Elenco e stima delle gioie passate a Margherita d’Austria alla morte del marito Alessandro de’ Medici, duca di Firenze 1537 ca inchiostro su carta, mm 290 × 215 Firenze, Archivio di Stato, MdP, 5, c. 97 (numerazione originale: c. 83r)
Nella drammatica situazione creatasi a Firenze con l’assassinio del duca Alessandro I de’ Medici, avvenuto la notte del 6 gennaio 1537 per mano del cugino Lorenzino, gli eventi si succedettero in maniera serrata. Scartata l’ipotesi – abbracciata in un primissimo momento dal cardinale Innocenzo Cybo, consigliere ducale e fiduciario dell’imperatore Carlo V – di assegnare la successione al piccolo Giulio, figlio illegittimo del defunto Alessandro, già l’8 gennaio i principali esponenti del patriziato cittadino filomediceo, capitanati da Francesco Guicciardini, riuniti segretamente dal Cybo nel palazzo di via Larga, avanzarono la candidatura del giovane Cosimo, figlio del defunto condottiero Giovanni dalle Bande Nere e di Maria Salviati e appartenente ad un diverso ramo della grande casata (SPINI 1945, cap. II; DIAZ 1976, cap. I). Il giorno seguente il Senato dei 48, massima assemblea legislativa prevista dalla costituzione varata nell’aprile 1532, dopo la caduta dell’ultima repubblica, confermò in modo ufficiale l’investitura di Cosimo. Dietro la prudenza dei termini usati – si parlava di “capo et primario” e non di duca della città- stava come noto il proposito dei magnati fiorentini di fare del diciassettenne Cosimo una sorta di fantoccio nelle loro mani, riassumendo così in sostanza le fila del governo politico della città. Un piano che si rivelerà erroneo, in quanto Cosimo dimostrerà una tempra e un acume politico impensabili, concentrando immediatamente nelle proprie mani le principali leve del potere e dando inizio a quell’azione che ne farà il vero fondatore dello Stato mediceo assoluto. La principale incognita per Cosimo era tuttavia costituita non tanto dagli umori della città nei suoi confronti, ma dalle decisioni che avrebbe preso l’imperatore Carlo V, già designatore del primo duca Alessandro e vero arbitro delle sorti politiche della Città. A suggellare, dopo l’avvenuta riconciliazione con papa Clemente VII Medici, la protezione al nuovo regime principesco fiorentino, l’Imperatore aveva anche concesso in sposa al duca Alessandro una propria figlia, Margherita, ora rimasta vedova, della quale era necessario tutelare la dignità e gli interessi, in primo luogo patrimoniali. Subito dopo l’assassinio di Alessandro, la vedova era stata trasferita per motivi di sicurezza alla Fortezza da Basso dal comandante della guardia ducale, Alessandro Vitelli, recando significativamente con sé l’inventario dei beni del palazzo Medici. Cosimo, da parte sua, dopo essersi affrettato a inviare un ambasciatore in Spagna per annunciare la sua avvenuta nomina da parte del Senato fiorentino e chiederne l’approvazione imperiale, meditava uno strategico matrimonio proprio con Margherita, che lo avrebbe consolidato in modo decisivo al potere grazie al raggiunto rango di genero imperiale. È in questa cornice e nei suoi immediatamente successivi sviluppi che si inquadra il documento presentato in mostra. Infatti, l’11 maggio 1537 giunse a Firenze Hernando de Silva y Ayala, conte di Cifuentes, ambasciatore di Carlo V a Roma, con l’incarico di occuparsi della situazione della città e di tutelare gli interessi dell’Imperatore e di Margherita (GALLUZZI 1781, I, cap. I). L’accordo di lì a poco raggiunto prevedeva fra l’altro, in cambio del riconoscimento imperiale della successione di Cosimo – poi avvenuto con diploma del 21 giugno 1537 – l’impegno di quest’ultimo – al pari di quanto già sottoscritto precedentemente da Alessandro – a custodire le principali fortezze dello Stato per conto dell’Imperatore. Quanto a Margherita, si stabilì che i beni immobili ereditati da Alessandro passassero a Cosimo, ma che a lei andasse un ingente appannaggio annuale in denaro, oltre ad arredi preziosi e gioielli. Di questi, parte integrante fu costituita dai pezzi più preziosi della raccolta glittica collezio-
nata dai Medici del Quattrocento, e incrementata soprattutto da Lorenzo il Magnifico, che era scampata avventurosamente ai ripetuti rivolgimenti istituzionali succedutisi a Firenze tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento (CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, passim, FIRENZE 2003a, pp. 10-23). La “nota”, redatta da tre esperti orafi, in qualità di stimatori, nella residenza fiorentina del “signor Ambasciatore della Cesarea Maestà” (vale a dire del conte di Cifuentes), comprende cammei e intagli in pietre dure di epoca classica, insieme ad altri oggetti preziosi e gioielli, per un valore totale stimato pari a ben 10214 scudi. Tra questi, ben riconoscibili sono alcuni famosissimi pezzi della collezione laurenziana, come la “tazza Farnese” e il “sigillo di Nerone” (BAGEMIHL 1993, p. 560; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, passim). La nota non è datata, né aiuta in questo senso la sua collocazione archivistica, all’interno di una filza di minute di lettere dell’Archivio Mediceo che ricondurrebbe al febbraio-marzo 1542. Essa è tuttavia da datare con certezza al periodo della permanenza a Firenze dell’inviato imperiale conte di Cifuentes (11 maggio-luglio 1537). Questi al suo arrivo si era insediato infatti nel palazzo Medici di via Larga, e a tutela degli interessi dotali della vedova Margherita aveva preso possesso in suo nome di tutti i beni mobili e immobili appartenuti al duca Alessandro. Per effetto degli accordi raggiunti con Cosimo dei Medici, gli immobili rimasero a quest’ultimo dietro pagamento di un ingente affitto annuale, mentre molti preziosi beni mobili, fra cui la collezione Laurenziana, vennero incamerati dal Cifuentes per conto di Margherita, e lasciarono ben presto per sempre Firenze. Com’è noto, infatti, il progetto di Cosimo di impalmare la vedova di Alessandro non andò a buon fine perché Margherita andò per volontà di Carlo V in sposa ad Ottavio Farnese, nipote di papa Paolo III, divenendo duchessa di Parma. Insieme a lei presero la via del ducato padano anche i preziosi della collezione già appartenuta a Lorenzo il Magnifico. Tuttavia la più generale questione dell’eredità del duca Alessandro non si chiuse certo con gli accordi del 1537, ma ebbe prolungati strascichi – attestati in numerosi documenti degli archivi medicei – che si acutizzarono alla morte di Margherita, avvenuta a Parma nel 1586, coinvolgendo, oltre a Cosimo I, anche Caterina dei Medici regina di Francia, ultima discendente diretta di Lorenzo il Magnifico e del ramo principale mediceo (GALLUZZI 1781, II, pp. 410-412). F.M. Bibliografia: BAGEMIHL 1993, p. 560, nota 4; CAGLIOTI-GASPAROTTO 1997, pp. 20, 22
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La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio al duca Alessandro
LA RINASCITA
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69 - Agnolo di Cosimo, detto Agnolo Bronzino (e bottega) (Firenze, 1503-1572) Cosimo I de’ Medici in armatura 1550 ca olio su tavola, cm 114 × 89 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. 1890, n. 8739
Cosimo de’ Medici (1519-1574), figlio di Giovanni dalle Bande Nere e di Maria Salviati, divenne signore di Firenze nel 1537 succedendo al duca Alessandro de’ Medici assassinato dal cugino Lorenzino. Quando nel 1543 il giovane Cosimo riuscì ad affermare il proprio potere incaricò il Bronzino, ritrattista di corte, di fargli il ritratto ufficiale. Scrive il Vasari nella biografia dell’artista: “Il signor duca […] fece ritrarre se, che allora era giovane, armato tutto d’arme bianche e con una mano sopra l’elmo, in un altro quadro la signora contessa sua consorte” (VASARI (1568), ed. Milanesi 1878-1885, VII, pp. 597-598). Cosimo I teneva in modo particolare alla ritrattistica, utile ad esaltare l’immagine del governo mediceo fiorentino e a documentare la nuova dinastia. Per circa quindici anni questi ritratti ufficiali costituirono l’effigie di stato del duca e furono spesso replicati dalla bottega del Bronzino (ne conosciamo circa venticinque esemplari sparsi nei musei di tutto il mondo) quando “diventava necessario ottenerne nuove versioni per scopi svariati, compreso lo scambio diplomatico di doni” (J. Cox-Rearick, in FIRENZE-CHICAGO-DETROIT 2002, p. 56). La difficoltà per gli studiosi è sempre stata quella di individuare il primo esemplare, oggi indicato quasi concordemente dalla critica in quello conservato nella tribuna degli Uffizi a mezzo busto, l’unico ritenuto autografo assieme a quello dell’Art Gallery of New South Wales di Sidney, opera che mostra qualche variante (dimensioni più grandi, figura a tre quarti, ceppo d’albero da cui germoglia un ramo d’alloro e iscrizione del nome di Cosimo nel ceppo). La critica è propensa ad attribuire cronologicamente l’esemplare degli Uffizi al 1543, in relazione al primo successo di Cosimo I che ottiene, pagando, la liberazione delle fortezze di Firenze, Pisa e Livorno, mentre l’esecuzione dell’esemplare di Sidney al 1544 destinato alla famosa collezione di uomini illustri di Paolo Giovio nella sua villa di Como (cfr. TAZARTES 2003, pp. 40-41, 134). In entrambi è assente al collo l’insegna dell’Ordine del Toson d’Oro, conferita al duca dall’imperatore Carlo V l’11 agosto 1545, presente invece nel nostro dipinto che, derivato dal prototipo di Sidney (A. Cecchi, in BUDAPEST 2008, p. 232), mostra Cosimo fiero e deciso con uno sguardo intenso che si spinge in lontananza. Il duca è raffigurato in armatura fino ai fianchi davanti ad una cortina rosso-marrone sullo sfondo. La lunga ed elegante mano destra posa sopra l’elmo, appoggiato ad un tronco d’albero reciso da cui germoglia un ramo di olivo, simbolo di pace. Si tratta del cosiddetto “broncone”, uno degli emblemi medicei che il duca utilizzò all’inizio del suo regno e che alludeva alla sua discendenza dal ramo più antico della famiglia Medici (M.C. Masdea, in PECHINO-SHANGHAI 1997, p. 86 e A. Cecchi, in MEMPHIS 2004, p. 136). Dal fondo scuro emergono i riflessi del raffinato corsaletto da guerra (alcune delle originali parti superstiti sono conservate al Museo Nazionale del Bargello) da usarsi a piedi e come cavalleggero realizzato ad Innsbruck tra il 1530 e il 1535 dal maestro corazzaio Jörg Seusenhofer (notizie dal 1528 al 1580) e dall’incisore Leonhard Meurl (morto nel 1547), attivi anche per la corte imperiale asburgica e larga parte della nobiltà austriaca. SCHULZE (1911, p. 8) riteneva l’opera frutto della collaborazione tra il Bronzino, autore della testa di Cosimo, e la bottega che avrebbe realizzato l’armatura. Per VOSS (1920, I, p. 229) si trattava di un ritratto autografo del maestro, mentre in anni più recenti BACCHESCHI (1973, p. 94, n.
54f) e LANGEDIJK (1981-1987, I, p. 417, n. 25) proponevano, riprendendo un’idea del MCCOMB (1828, p. 95), un’esecuzione all’interno della bottega come replica della versione oggi alla Gemäldegalerie di Kassel. Simon ravvisava la mano di “un artista di forte personalità stilistica che cerca di reinterpretare la composizione del Bronzino” (SIMON 1982, pp. 267-269, n. A24). Per Scalini l’opera, replica di un prototipo perduto, andrebbe ascritta ad Alessandro Allori (1535-1607), allievo del Bronzino e suo assistente negli ultimi anni, e datata tra il 1555 (anno della presa di Siena) e il 1560 (conferimento del titolo granducale), poiché in seguito a questa data Cosimo volle essere effigiato con l’abito dell’incoronazione. Lo studioso evidenzia alcune inesattezze nella restituzione dei decori incisi e a rilievo sull’armatura lasciando intendere che l’autore si sia giovato di un disegno di bottega più che della diretta visione dell’opera del maestro, ravvisando invece l’alta qualità pittorica dei tratti fisionomici del volto del duca (M. Scalini, in PECHINO 2006, p. 307). Concordo con Cecchi nella datazione del dipinto al 1550 circa ravvisando una collaborazione tra Agnolo Bronzino e la sua bottega, come mostra la diversa qualità artistica di alcune parti del dipinto (A. Cecchi, in BUDAPEST 2008, p. 232). Il dipinto proviene dal convento fiorentino di clausura detto Le Murate ed è in seguito passato in varie collezioni fiorentine, tra cui quelle della Galleria dell’Accademia e degli Uffizi, prima di approdare al Museo degli Argenti. M.B. Bibliografia: PIERACCINI 1893, pp. 88-89, n. 179; LAFENESTRE-RICHTENBERGER 1894, p. 207; HEYCK 1909, fig. 123; SCHULZE 1911, p. 8; VOSS 1920, I, p. 229; MCCOMB 1928, p. 95; JENKINS 1947, p. 13, n. 68; BERENSON 1963, I, p. 41; BACCHESCHI 1973, p. 94, n. 54f; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 417, n. 25; SIMON 1982, pp. 267-269, n. A24; SIMON 1983, pp. 532-533, 539, n. 24; SCALINI 1990, p. 11; M.C. Masdea, in PECHINO-SHANGHAI 1997, p. 96; L, Minunno, M. Rinaldi, in MONACO-VIENNA-BLOIS 1998, p. 81, n. 21; L’AJA 2003, p. 30, fig. 10; A. Cecchi, in MEMPHIS 2004, pp. 136-137; M. Tamassia, in TOKYO-KYOTO 2004, pp. 174-175, n. 65; M. Scalini, in PECHINO 2006, pp. 158-159, 307, n. 46; A. Cecchi, in BUDAPEST 2008, p. 232, n. 132
La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I
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70 - Domenico di Polo (?) (Firenze, 1480 ca-1547 ca) Busto di Cosimo I de’ Medici 1537 ca cristallo di rocca e metallo dorato, mm 34,3 × 23,7 (con cornice mm 34 × 28) Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 332
L’intaglio, realizzato su una lastrina di cristallo di rocca, riporta il volto in profilo sinistro del giovanissimo Cosimo de’ Medici. Imberbe, con il capo nudo e un’elegante sopravveste dal bavero soppannato di pelo indosso, questi presenta una fisionomia accuratamente caratterizzata, soprattutto nell’evidente prognatismo della mandibola inferiore e nella leggera prominenza dei bulbi oculari. Di fattura pregevolissima, l’opera è stata condotta ad effetto con una particolare tecnica incisoria attuata in negativo sul verso della lastrina, laddove la superficie è stata a tratti lasciata opaca per sfruttare al meglio la luce e aumentare l’effetto di aggetto sulla faccia liscia anteriore. Essa è montata entro una sottile cornice a filetto in metallo dorato, bombata sulla parte anteriore ed arricchita da due piccole maglie fissate alle estremità verticali, verosimilmente creata per rispondere ad esigenze di tipo espositivo. A ben vedere, la levigatezza della superficie e la perfezione della lavorazione, evidente soprattutto nella perfetta rotondità dei due piccoli anelli, dimostra l’impiego di una tecnica assai progredita, riconducibile alla fine del XVIII secolo. Il soggetto, da alcuni identificato in Francesco I (ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 188, n. 1189; LANGEDIJK 1978, p. 77), veniva fatto coincidere con Cosimo I dalla LANGEDIJK (1981-1987, I, 1981, p. 502, n. 171, fig. 27,171) sulla base di un precocissimo ritratto del duca eseguito a penna dal Pontormo attorno al 1537 (GDSU n. 6528F; in COX REARICK 1964, pp. 299-300, n. 334, tav. 326). Schedato più tardi dalla McCrory come opera di ignoto (M. McCrory, in FIRENZE 1980b, p. 153, n. 282; MCCRORY 1998, p. 45), l’intaglio veniva in seguito nuovamente ritenuto, sulla base del confronto con un medaglione in pasta ritraente il giovane Francesco I (Pastorino Pastorini, Firenze, Museo del Bargello), come un ritratto di questi (D. Liscia Bemporad, in MONSUMMANO TERME 2002, p. 97, n. 2). Simili incertezze derivavano evidentemente dall’esistenza di una forte corrispondenza fra i volti dei due, per quanto il prognatismo della mandibola inferiore e la lieve prominenza dei bulbi oculari, inducano a stabilire (anche sulla base del succitato disegno; GDSU, n. 6528F), un più stretto legame con la fisionomia del padre piuttosto che con quella del figlio il cui aspetto era caratterizzato, in virtù della somiglianza con la bella madre Eleonora, da tratti di gran lunga più regolari. Il pezzo, per la fedeltà fisionomica sicuramente un’esecuzione coeva, potrebbe venir pertanto ritenuto una diretta commissione del Medici, sino dai primi anni intenzionato a formare una personale dattiloteca dinastica. Per quanto attiene all’esecutore, significative potrebbe rivelarsi le parole scritte dal Vasari nella seconda edizione delle Vite, il quale assegnava a Domenico di Polo, “eccellente maestro d’incavo”, la realizzazione di un precocissimo ritratto del Duca: “Ritrasse ancora il duca Cosimo il primo anno che fu eletto al governo di Fiorenza; e nel rovescio fece il segno del Capricorno ...” (VASARI [1568], ed. Milanesi 1878-1885, V, 1880, p. 384). Ancorché tale effige sia stata a lungo fatta coincidere con la famosa medaglia celebrativa da questi eseguita (Ibid., N.d.E. 2), non è da escludere che l’aretino si riferisse all’intaglio fiorentino. Il fatto che egli ricordasse l’esistenza di un “rovescio”, non deve trarre in inganno poiché se un verso fosse esistito, vuoi a causa della tecnica usata, vuoi per evitare il confondersi delle due immagini, esso sarebbe stato sicuramente eseguito su una separata lastrina di cristallo, unita al recto e da questo separata mediante una sottile lastrina di metallo (DIGIUGNO 2005, p. 53). Ciò considerato, pare sensato ribadire l’assegnazione della gemma al corpus di opere eseguite dall’artista fiorentino, cui essa parrebbe legarsi anche
per via stilistica. Come già notato da Karla LANGEDIJK (1978, p. 77, nota 14), l’effige riportata sull’intaglio somiglia in modo nettissimo a quella presente su alcune medaglie celebrative del personaggio eseguite appunto dal Di Polo (cfr. ARMAND 1883-1887, I, p. 144, nn. 3-4; HEISS 1891-1892, XII, p. 17). Per quanto attiene poi, al verso con l’immagine del Capricorno, niente vieta di supporre che esso, separato in un secondo momento dalla creazione principale, possa essere andato smarrito nel corso del tempo (Ibid.). L’attribuzione al di Polo, ribadita dalla scrivente (DIGIUGNO 2005-2006, I, pp. 164-166, figg. 110-112), trovava recentemente l’approvazione del GENNAIOLI (2007, pp. 437-438, n. 694, fig. 694, tav. XL). La gemma, che figurava per la prima volta unicamente in un elenco di beni contenuti entro la Guardaroba di Ferdinando II durante la seconda metà del Seicento (ASF, GM 741, 1666-1688, c. 20s), appare molto simile al medaglione con ritratto del padre che la piccola Bia portava al collo nel ritratto fattole dal Bronzino attorno al 1542 (Galleria degli Uffizi, Tribuna, inv. 1890, n. 1472). E.D. Bibliografia: VASARI (1568), ed. Milanesi 1878-1885, V, 1880, p. 384; FIRENZE 1939, p. 123, n. D; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 188, n. 1189; LANGEDIJK 1978, p. 77; scheda O.A. 09/00157869, 1979 (M. McCrory); LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 502, n. 171, figg. 27, 171; MCCRORY 1980, p. 153, n. 282; MCCRORY 1998, p. 45; D. Liscia Bemporad, in MONSUMMANO TERME 2002, p. 97, n. 2; DIGIUGNO 2005, p. 53, fig. 51; DIGIUGNO 2005-2006, I, pp. 164-166, figg. 110-112; GENNAIOLI 2007, pp. 437-438, n. 694, fig. 694, tav. XL
La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I
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71 - Giovanni Antonio de’ Rossi (?) (Milano, 1513-post 1575) Busto di Cosimo I de’ Medici
1556-1557 agata, oro, rame e smalti, mm 34,3 × 23,7 (con cornice mm 42,9 × 32) Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 117
Il cammeo, in agata bianco azzurra, riporta un elegante busto di Cosimo I de’ Medici. In profilo sinistro, con il volto barbato e i capelli pettinati à l’antique, questi indossa una elegante armatura arricchita al collo dal colletto di una leggera camicia, sulle spalle da un manto morbidamente panneggiato e sul petto dal Collare dell’Ordine del Toson d’Oro. La gemma è racchiusa entro un’elaborata montatura che, realizzata in rame e oro, è composta da un filetto piatto addossato all’ovale, da un motivo perlinato intermedio e da una serie di baccellature radiali esterne, simili a linguette, separate e smaltate di azzurro e di blu alle estremità. Essa è corredata da quattro maglie semicircolari disposte alle estremità verticali e orizzontali e da una lastrina di rame sul retro. Sebbene menzionata per la prima volta nell’Inventario della Galleria del Serenissimo Granduca Cosimo III, come una “Testa di Cosimo primo col Tosone. In Calcidonio” (BdU, ms. 78, n. 35), essa dovette essere intagliata durante il governo di Cosimo, verosimilmente su commissione di questi. Non dobbiamo dimenticare a riguardo la presenza nella Tribuna degli Uffizi (ASF, GM 1570, f. 73, c. 13d; BdU, ms. 95, n. 2450; BdU, ms. 98, I, n. 1792) di una scatola bianca in cui erano contenuti, per un certo periodo assieme al capolavoro derossiano, “tredici pezzi di camei”, individuati in seguito come ritratti. L’identità del soggetto, fatta spesso coincidere con quella di Francesco I (BdU, ms. 82, c. 264, n. 2411; BdU, ms. 83, tav. XXVI, n. 27; BdU, ms. 115, tav. XXVI, n. 1366), fu messa in dubbio in un primo tempo dal Puccini (BdU, ms. 47, n. 228 1366), per esser poi definitivamente confutata, prima dal KRIS (1929, I, p. 171, n. 319/78, II, fig. 319) e poi dalla LANGEDIJK (1981-1987, I, 1981 p. 502, n. 170, fig. 27/170). Il primo soprattutto, pur non fornendo il numero d’inventario, catalogava la gemma come ritratto eseguito in ambito fiorentino attorno alla metà del XVI secolo (KRIS 1929, I, p. 171, n. 319/78, vol. II, fig. 319). Egli citava l’Habich come riferimento (1922-1923, tav. LXXXI, n. 1), legando stilisticamente l’opera, a suo dire prossima al cammeo con ritratto di Enrico II di Francia, allo stile di Giovanni Antonio de’ Rossi. Non pienamente persuaso di quanto affermato tuttavia, egli avanzava l’ipotesi che essa fosse riconducibile ad un artista strettamente dipendente dalla maniera dell’intagliatore lombardo (KRIS 1929, I, p. 171, n. 319/78, II, fig. 319). Ribadendo quanto già indicato dal Kris, la Langedijk individuava in seguito, nella medesima medaglia incisa dal Poggini (LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 495, n. 154, fig. 27/154), una sorta di modello per il cammeo fiorentino (Ibid., I, 1981, p. 502, n. 170, fig. 27, 170) e, poiché su di essa campeggiava una scritta inneggiante alla dignità granducale (“COSMVS. MED. MAG. ETRVRUAE. DVX. I”), ottenuta da Cosimo soltanto nel 1569, ella perveniva a datarne l’esecuzione ad un momento successivo a tale data (Ibid., I, 1981, p. 502-503, n. 170, fig. 27/170). Considerazioni analoghe erano state offerte nello studio pubblicato su un’altra gemma con effige del Medici (LANGEDIJK 1978, p. 76, fig. 3) Quantunque il cammeo mostri un’evidente affinità iconografica con la suddetta medaglia (nell’armatura e nella disposizione del Medici), non è possibile ignorare la conformità stilistica esistente, nei dettagli dell’abbigliamento, nella fisionomia e nella disposizione delle ciocche dei capelli, con il corpus glittico di Giovanni Antonio de’ Rossi e soprattutto con l’aspetto presentato dal Medici nel grande cammeo familiare (cat. n. 72). Considerando che il de’ Rossi, stipendiato dalle casse ducali sino dal luglio del 1556 (ASF, DG, f. 771, cc. 49d, 63s.; pagamento datato al 31
luglio 1556), cominciò a lavorare al suo capolavoro soltanto all’inizio del 1558 (ASF, MdP, f. 475, c. 231), è verosimile supporre che in tali anni questi abbia condotto ad effetto altre gemme per il suo committente. Non è da escludere che in vista della realizzazione del grande ritratto, Cosimo abbia richiesto all’artista, oltre al consueto modello in cera, la fattura di un piccolo test. Una simile ipotesi potrebbe giustificare la presenza nel cammeo di una certa fiacchezza, di una certa facilità esecutiva, di uno stile in sostanza più piano rispetto a quello vigorosamente naturalistico del grande intagliatore lombardo. Già presentata dalla scrivente in un recente saggio (DIGIUGNO 2005, p. 54, fig. 52), tale attribuzione non pareva convincere Riccardo GENNAIOLI (2007, p. 262, n. 250, fig. 250). E.D. Bibliografia: KRIS, 1929, I, p. 171, n. 319/78, II, fig. 319; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 181, n. 974; scheda O.A. 09/00129663, 1978 (M. Casarosa); LANGEDIJK 1978, p. 76, fig. 3; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 502-503, n. 172, fig. 27/172; M. McCrory, in FIRENZE 1980b, p. 155, n. 288; MCCRORY 1998, p. 45; DIGIUGNO 2005, pp. 54-55, fig. 52, con note; DIGIUGNO 2005-2006, I, pp. 63-65, fig. 33; GENNAIOLI 2007, p. 262, n. 250, fig. 250
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72 - Giovanni Antonio de’ Rossi (Milano, 1513-post 1575) Il duca Cosimo de’ Medici, la duchessa Eleonora di Toledo e cinque figli 1556-1558 onice, h. max mm 188, larghezza max mm 170 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Bargello 1917 (VII), n. 1
Il cammeo riporta le effigi di sette membri della famiglia ducale. Il duca Cosimo, barbato, armato, con clamide e protome leonina sulla spalla, è in profilo destro circondato da due dei suoi figli, Francesco (1541-1587) e Ferdinando (1549-1609). Sul lato opposto Eleonora, contornata da Giovanni (1543-1562) e Garzia (1547-1562), si dispone dinnanzi al marito. Con i capelli raccolti entro una scuffia intessuta di perle, questa indossa un ricchissimo insieme formato da una camicia simile all’acconciatura, un’elegante roba, un manto d’ermellino, e porta al collo un filo di perle ornato da un grosso medaglione. In basso, sotto il tondo centrale, il piccolo Pietro (1554-1604), trattenuto dalla mano della madre, tende il braccio destro verso il padre, con la manina stranamente legata al laccio del caprone pendente. Al di sopra del gruppo vola la Fama, elegante figura femminile in atto di suonare la tromba. Il grandioso rilievo, ordinato dal duca Cosimo all’intagliatore milanese Giovanni Antonio de’ Rossi, dovette esser cominciato attorno al gennaio 1558 (s.f.; ASF, MdP 1558, f. 475, c. 231, 13.I.1558), data cui parrebbe ricondurre anche il fatto che in tale lettera (Ibid.) il de’ Rossi citasse il rilievo come un lavoro appena iniziato, l’età dimostrata dal piccolo Pietro (circa tre anni), e l’assenza di Maria, morta appunto nel dicembre del 1557. Le fasi esecutive della gemma sono ben documentate, tanto da lettere e carte di pagamento datate agli anni in cui l’artista soggiornò a Firenze, quanto da missive scambiatesi, anche dopo la definitiva partenza di questi per Roma (BERTOLOTTI 1881, p. 160), nel marzo del 1560 (POGGI 1916, p. 44), fra il Duca, l’artista e i vari intermediari. Nel maggio del 1562, in ogni caso, esso doveva trovarsi ancora presso il laboratorio del de’ Rossi (ASF, MdP, f. 3282, cc. 11-11v, 12; DIGIUGNO 2007, p. 256, doc. VIII), pervenendo nelle mani del Serristori solo verso il 23 di maggio (Ibid.), quando questi, dopo averlo controllato, lo affidava ad un certo “Zizero procaccio” per la consegna (ASF, MdP, f. 3282, c. 44; in BAROCCHI-GAETA BERTELÀ 1993, pp. 11-12). Ancora privo del medaglione centrale con la “Fiorenza” (DIGIUGNO 2007, pp. 241-242, note 47-48), la cui lastrina di pietra era rimasta nelle mani dell’artista (ASF, F. Conti Guidi, f. 114, c. 126, in MCCRORY 1998, nota 55) il quale attendeva per lavoravi di riavere dal Duca il relativo modello in cera (ASF, MdP, f. 491, cc. 501-501v), il cammeo venne collocato nella Guardaroba cosimiana, nei cui inventari figurava per la prima volta proprio nel luglio del 1562 (ASF, GM, f. 55, c. 5). In un primo tempo in posizione isolata, esso venne in seguito custodito, nell’“Armadio delli argenti”, all’interno di una “scatola bianca” assieme ad altri “tredici pezzi di camei” (ASF, GM 73, 1570, c. 13d). Poco dopo la morte di Francesco I, attorno al novembre del 1587 (ASF, GM 1587-1588, f. 126, c. 8), venne spostato nella Tribuna degli Uffizi e posizionato in uno dei due armadi di fondo in prossimità del cammeo con Antonino Pio che sacrifica alla Speranza (BdU, ms. 71, c. 46, n. 66). Apparentemente lineare, la vicenda dell’opera è in realtà assai intricata. I molti documenti che restano, infatti, seppur utili spiegare le circostanze esecutive, non chiariscono affatto quale fosse la sua originaria struttura. Gli interrogativi sono duplicemente legati sia alla sua visibile incompletezza, sia al fatto che le tre descrizioni cinquecentesche di essa, quella letteraria inclusa nella seconda edizione delle Vite (VASARI [1568] ed. Milanesi 1878-1885, IV, p. 387), quella grafica riportata in un disegno Cinquecentesco (POGGI 1916, p. 42; DIGIUGNO 2007, pp. 230-231, con note), e quella archivistica contenuta nell’inventario della Tribuna stilato
nel 1589 (BdU, ms. 71, c. 46), sono sostanzialmente incongruenti. Vasari descriveva un cammeo rotondo misurante “un terzo di braccio largo e alto parimenti” arricchito, nel “tondo” centrale adesso vuoto, da “una Fiorenza” attorno cui si disponevano, ritratte “dal mezzo in su due figure, cioè Sua Eccellenza e la illustrissima duchessa Leonora sua consorte” unitamente ai cinque figli ancora presenti, ovvero il “Principe don Francesco con don Giovanni cardinale, don Garzia e don Arnando, e don Pietro”. Egli riconosceva anche da “donna Isabella [1542-1576] e donna Lucrezia [1545-1561]”, le due femmine mancanti nella gemma attuale (VASARI [1568] ed. Milanesi 1878-1885, IV, p. 387). Il disegno del Christ Church College di Oxford (fig. 1) delineava viceversa, entro una cornice ornata da mascheroni e creature mostruose (DIGIUGNO 2007, p. 251, nota 78), una gemma ovale entro cui si disponevano soltanto cinque dei sette figli della coppia. Arricchito, da un lato, da simboli sconosciuti al cammeo, quali l’aureola trattenuta dalla mano destra della Fama sul capo di Cosimo, esso perdeva dall’altro importanti elementi quali l’ermellino del manto di Eleonora o lo stretto legame stabilito fra il piccolo Pietro e il caprone del Toson d’Oro (Ibid.). Assegnato alla mano di Giorgio Vasari (BELL 1914, n. E 31, 90; WASHINGTON 1972, p. 48; BYAM SHAW 1976, pp. 75-76, n. 161, tav. 103, fig. 22), esso è stato datato ad un momento di poco precedente il 1559 (DIGIUGNO 2007, p. 234, nota 23). Se così fosse però, l’aretino non avrebbe unicamente prodotto due versioni antitetiche di un medesimo soggetto; la descrizione letteraria e l’illustrazione grafica, ma diverrebbe il vero ideatore di un’opera che in quel momento doveva essere ancora in fase embrionale, cosa che renderebbe ancora più strano il silenzio del Vasari in merito al disegno. La terza descrizione cinquecentesca del cammeo si trovava nell’inventario della Tribuna stilato nel 1589, in cui il redattore riconosceva, unitamente al “serenissimo Gran Duca Cosimo Felice Memoria” e alla “Duchessa”, soltanto i ritratti “cinque figlioli…” della coppia (BdU, Ms. 71, c. 46). Simili incongruenze, unite alla bellezza e al valore del pezzo, hanno generato un forte interesse da parte degli studiosi, i quali, con di volta in volta con tesi diverse (vedi bibliografia), hanno sempre teso ad ignorare la testimonianza vasariana cercando spiegazioni altrove (DIGIUGNO 2007, pp. 229-257, tavv. I-IV). Fonte diretta, essa deve essere viceversa considerata un punto fermo da cui partire, cercando semmai nella gemma stessa indizi utili a dipanare la questione. Dei suoi quattro margini, unicamente il superiore presenta una cornice decrescente e curvata, apparentemente creata dall’artista con lo scopo di racchiudere degnamente la scena. Rugosa e più spessa sul retro, dove è visibile la corteccia del calcedonio, essa si interrompe bruscamente nei due angoli superiori, da dove partono bordi netti e spianati, che mozzano le figure marginali, lasciandole prive di spazio (DIGIUGNO 2007, p. 237, con note). Al centro del margine inferiore è presente anche una lingua piatta, bassa e stranamente sagomata. Il cammeo presenta diverse traiettorie diagonali, apparentemente incompatibili con la composizione attuale. Sia l’asse orizzontale creata dal corpo della Fama, sia le due linee prodotte, dal braccio del Duca, da quello di Eleonora e del piccolo Pietro, chiaramente incaricate di espandere lo spazio interno, non avrebbero avuto ragione di esistere se il cammeo fosse stato concepito in origine con la forma che ha adesso. Tali considerazioni, unitamente a quelle derivanti dall’analisi dei vari elementi simbolici, atti
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a presentare la gemma non solo come uno State-portrait, ma anche come un come un memento all’unità familiare (Ibid., pp. 238-239), inducono a scartare l’idea che il duca abbia volutamente escluso da esso i ritratti delle due figlie che tanto amava (Ibid., nota 42). Nella lunga vicenda critica apertasi con il ritrovamento del disegno di Oxford (POGGI 1916, pp. 41-48), unicamente Martha McCrory ha tentato di chiarire tali interrogativi sostenendo che una doppia rottura laterale potesse avere modificato il rilievo originario. Fisicamente inapplicabile, a causa della particolare struttura della pietra – sottile al centro e spessa ai bordi – la tesi della rottura potrebbe venire modificata in quella di una perdita di parti di rilievo. La presenza di una lastrina di lavagna incollata dall’incisore su una parte del retro, parrebbe di fatto condurre verso l’idea che il cammeo originario fosse costituito da varie parti di rilievo “incastrate” e incollate assieme con lo scopo di simulare un lavoro unitario. In questo caso l’artista, applicata un’ulteriore foglia di ardesia sul lato opposto della gemma, vi avrebbe ancorato le due parti aggiuntive che, adeguatamente sagomate e lisciate sui bordi, sarebbero state “incastrate” al trapezio centrale. Sulla parte inferiore egli vi avrebbe aggiunto, come parrebbe attestare la strana rientranza semicircolare individuata al centro del bordo inferiore, un ulteriore crescente lapideo. L’insieme a questo punto, cinto da un’adeguata cornice di calcedonio risparmiato, la cui presenza può esser tuttora rilevata nella zona apicale del cammeo, ed arricchito al centro dal perduto rilievo in pietra dura con la “Fiorenza”, avrebbe perfettamente corrisposto alla grande opera tondeggiante osservata de visu da messer Giorgio Vasari (DIGIUGNO 2007, p. 241, nota 46). La possibilità che il rilievo potesse essere formato da varie parti di rilievo, già ipotizzata dal KRIS (1929, I, pp. 79-80), parrebbe aleggiare in due lettere scritte da Donato Matteo Miniali al duca Cosimo. Con l’espressione usata nella prima, “et hanne già accomodato un pezzo dove mancava sotto il braccio dell’Eccellenza Vostra...” (ASF, MdP, f. 487bis, cc. 1184r-t), il “tesoriere ducale” pareva alludere all’intenzione del de’ Rossi, già nel 1560, di aggiungere più di un pezzo al rilievo centrale. Anche le parole adoperate in una successiva missiva parrebbero condurre verso le medesime conclusioni, “... accomodata che sia l’incastratura si potrà rimandare all’Eccellenza Vostra [il cammeo] e poi di lungo attendere a lavorar la medaglia” (ASF, MdP, f. 491, Roma, 8.III.1561). Il termine “incastratura”, che non poteva riferirsi né al cammeo centrale, citato poco dopo come “medaglia”, né al pezzo mancante, accomodato da tempo (vedi sopra), pareva evidentemente alludere ad un lavoro formato da diversi parti di calcedonio. Il fatto che Giovanni Antonio de’ Rossi fosse soprattutto un “medaglista”, avvezzo per formazione e mentalità, alla forma rotonda, potrebbe costituire una conferma ulteriore di tale tesi (DIGIUGNO 2007, pp. 243-244). Se il cammeo originario fosse stato veramente un “mosaico” di parti diverse, lo stato di precarietà con cui esso giunse a Firenze potrebbe esser stato la causa delle modificazioni subite in seguito. Dalle carte sappiamo infatti che il de’ Rossi, scontratosi più di una volta con l’impazienza di Cosimo, lo pregò ripetutamente di lasciargli finire degnamente un’opera che, attorno alla data dell’arrivo a Firenze, egli considerava ancora incompiuta (DIGIUGNO 2007, p. 248, note 66-67). Con buona probabilità fu in una data compresa fra il 1566-1567, quando Vasari compose la sua descrizione, ed il 1589, quando il primo inventario della Tribuna registrava il numero dei ragazzi su di esso ritratti, che il cammeo dovette subire una prima separazione delle sue componenti essenziali. Disunite, ma non perdute, esse vennero forse nuovamente assemblate in seguito. Ciò parrebbe esser comprovato dalla descrizione stesa da Luigi Strozzi nel tardo Seicento. Fra i cammei grandi, moderni ed antichi, egli delineava infatti un “Ritratto di Cosimo p[rim].° Medici mezza figura con un’altro ritratto di Donna Eleonora di Toledo pur mezza figura con cinque altre teste di Putti, et altri di sua famiglia; in tutto Sette teste in Calcidonio con un tondo incavato nel mezzo, ed una fama di so-
pra” (BdU, 1676, Ms. 78, p. s.n.). Oltre ai Duchi rappresentati a “mezza figura”, egli contava “cinque altre teste di Putti” che, assieme a quegli “altri di sua famiglia”, venivano a formare, attentamente indicate dopo il punto e virgola, “in tutto sette teste” (DIGIUGNO 2007, p. 252 nota 81). Per la più complessa relazione con disegno di Oxford, per il quale si auspicano ricerche più approfondite da parte di studiosi del settore, si rimanda per il momento al recente contributo della scrivente (DIGIUGNO 2007, pp. 229-257, tavv. I-IV, con bibl. e docc.) E.D. Bibliografia: DIGIUGNO 2007, pp. 229-257, tavv. I-IV con bibl. e docc.; GENNAIOLI 2007, pp. 263-264, n. 252, fig. 252, tav. XII
Fig. 1 - G. Vasari, Disegno di cammeo con il ritratto di Cosimo I ed Eleonora di Toledo con i figli, 1559 ca. Oxford, Christ Church College
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73 - Domenico di Polo (Firenze, 1480 ca-1547 ca) Medaglia di Cosimo I de’ Medici
1543 ca bronzo, diam. mm 40,5 iscrizioni: d.: “COSMUS · MED · FLORE · DUX · II”; r.: “SALUS · PUBLICA”; nell’esergo: “FLOREN” Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. n. 6204
Sul dritto è effigiato il busto del duca Cosimo I, barbato, abbigliato con un’importante armatura, decorata al centro da un capricorno; il ritratto è racchiuso in una cornice ovale: su questa si dipana l’iscrizione. Negli spazi di risulta dell’ovale, sia sul recto, che sul verso, sono inseriti delfini decorativi, tangenti al bordo perlinato. Sul rovescio una figura galeata – racchiusa in una cornice – è seduta su di un coacervo di armi; stringe nelle mani una lunga lancia e una Vittoria alata. La figura armata deriva, probabilmente, da un conio o da una gemma antica e ricorre in diverse medaglie: una per papa Leone X e un’altra per Giuliano duca di Nemour (PANVINI ROSATI 1973, pp. 99; FOX 1988, p. 214215). Inoltre si riscontra la medesima iconografia su di una placchetta bronzea del Museo Nazionale del Bargello, inv. 163 B (MOLINIER 1886, II, p. 102, n. 535) attribuita a Domenico di Polo e datata tra il 1537 e il 1547 (TODERI-VANNEL TODERI 1996, p. 59, n. 96) ed anche su di un tondo miniato nell’illustrazione del Trionfo della Fama sul codice petrarchesco conservato alla Walters Art Gallery di Baltimora, ms. W.755, c. 46v. La medaglia, nota agli studi già dai contributi ottocenteschi (ARMAND 1883-1887, I, 1883, p. 145, n. 6; SUPINO 1899, n. 264), è stata oggetto di molteplici interventi indirizzati a chiarire le circostanze della produzione: Johnson sostenne che fosse stata eseguita a scopo “puramente propagandistico […] dedicata alle difese costiere per fronteggiare le continue incursioni della flotta del re di Algeria” (JOHNSON 1977, p. 21). Tale ipotesi non viene ripercorsa dalla McCrory (in FIRENZE 1980b, pp. 148-150, n. 279) che mette in relazione la medaglia con il celebre cammeo con Cosimo, Eleonora e cinque dei loro figli di Giovanni Antonio de’ Rossi, il quale reca un incavo tondo, che doveva alloggiare una “Fiorenza” (VASARI (1568), ed. Milanesi 1906, V, p. 384); la studiosa ipotizza che sia un probabile esempio di quella che doveva occupare il tondo vuoto. Di seguito, l’importante contributo di Fox sembra confermare sia la produzione legata al fallito sbarco pisano del 1543, che l’inclusione della medaglia nel cammeo familiare di Cosimo I. Il saggio è foriero di un’importante analisi che rivela come la produzione delle monete commemorative offrì a Cosimo “la possibilità di diffondere al meglio il significato delle sue azioni (la battaglia di Montemurlo, il matrimonio con Eleonora di Toledo, la riconferma a granduca di Toscana, l’alleanza con l’Impero e l’ascesa di Firenze a potenza europea)” (FOX 1988, pp. 197 e 214-215). Nella costruzione dell’immagine di sovrano di Firenze – per legittimare il potere acquisito – Cosimo I attinse sia all’iconografia codificata per il primo duca Alessandro, sia alla simbologia imperiale; tanto che fu coniata una medaglia con il busto di Cosimo sul dritto e al rovescio quello dell’imperatore Carlo V (FOX 1988, pp. 212). Non casualmente Fox aveva messo in relazione la medaglia qui esposta con un importante cammeo raffigurante il busto dell’Imperatore con al collo il Toson d’Oro e sul verso una figura di giovane armato (GENNAIOLI 2007, p. 265, n. 254). Sulla medaglia qui presentata, quasi in corrispondenza simmetrica con il cammeo di Carlo V, si trovano da un lato il busto di Cosimo I, che reca sull’armatura il Capricorno, dall’altro la Minerva-Vittoria personificata in Firenze. Inoltre le cornici, che racchiudono l’effige ducale e la “Fiorenza”, paiono imitare la montatura di un sigillo o di una gemma, come a voler “riprodurre” un cammeo sulla medaglia: una sorta di mise en abyme, che si dilata ancor di più se messa in corrispondenza con il tondo incavo del cammeo familiare del Duca. Solo il progresso degli studi potrà sincerare queste suggestioni: di certo la
medaglia e la sua iconografia in relazione al “ritratto familiare” in onice sono una delle più interessanti manifestazioni dell’auto-rappresentazione di Cosimo I. G.C. Bibliografia: ARMAND 1883-1887, I, 1883, p. 145, n. 6; MOLINIER 1886, II, p. 102, n. 535; HEISS 1881-1892, IX, 1892, p. 17, n 5; SUPINO 1899, n. 264; JOHNSON 1976, pp. 15-16; JOHNSON 1977, pp. 20-21; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 500; POLLARD 1984-1985, II, 1985, p. 664, nn. 332, 332a; FOX 1988, pp. 214-215, n. 21; TODERI-VANNEL TODERI 1996, p. 59, n. 96; TODERI-VANNEL 2000, II, p. 473, n. 1400
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74 - Leone Leoni (e bottega) (Arezzo, 1509 ca-Milano, 1590) Busto di Carlo V ante 1556 onice e oro, mm 38,4 × 32,3 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 124
Il cammeo, intagliato su un onice bianco rosato di forma ovale, riporta al recto un’effige armata, barbata e coronata d’alloro di Carlo V. Con il volto in profilo destro ed il busto in posizione frontale, questi indossa un’armatura riccamente ornata, di cui si vedono entrambi gli spallacci, una gola a fasce da cui affiora una fine lattuga e porta, in evidenza sul petto, il collare del Toson d’Oro. La fisionomia del sovrano è caratterizzata da fronte piatta, naso lungo, ossuto e leggermente ricurvo, e da un ovale scavato, definito da un forte prognatismo della mandibola inferiore. Sul verso compare invece un giovane uomo assiso con posa virile su un basso sgabello, simile al dìphros. Con un elmo coronato da un imponente pennacchio piumato e da una vistosa decorazione antropomorfa, questo porta indosso un’aderente corazza di cuoio, con antibracci e cubitiere moderne sui gomiti, e con i fianchi coperti da una serie di pendoncelli di derivazione romana. Con la mano destra sostiene una spada simile a un gladio romano, e con la sinistra uno scudo ornato da un enorme mascherone antropomorfo a rilievo. In posa eroica, questo potrebbe venir interpretato come una figura allegorica. Lavorato su entrambe le facce, e segnato in alto da una profonda frattura (malamente restaurata in un momento imprecisato), l’onice è inserito entro una cornice a filetto aureo, arricchita alle estremità verticali da due piccole maglie rotonde. Semplicissima nella fattura, e pertanto difficilmente ascrivibile alla medesima epoca di esecuzione del pezzo, essa parrebbe essere stata realizzata con finalità di carattere espositivo, per fissare cioè il cammeo sui piani scorrevoli, detti negli inventari “a tirella”. L’alto valore simbolico dell’oggetto, lascia di fatto presumere che la montatura originaria fosse assai più ricca, magari sbalzata e smaltata come nel caso del cammeo con i ritratti di Filippo II e del figlio Don Carlos (cat. n. 78). Un’altra effige dell’imperatore, registrata fra le gioie portate in dote da Cristina di Lorena, era ricordata per esser circondata da una cornice simile (“Un agata ovata con la testa di Carlo quinto col fondo, et ricinto d’oro smaltato”; ASF, ANM, 1100, c. 203r, n. 99 e analoghi). Fra la fine del XVI secolo e l’inizio del successivo i registri medicei ricordavano inoltre la presenza di due gemme simili nelle stanze della Galleria degli Uffizi; “Un cameo nero della testa di Carlo quinto con Cassa doro smaltata”, e “Un cameo bianco con testa dell’imperatore con filetto d’oro” (BdU, ms. 71, c. 122, nn. 58, 64). La più antica menzione inventariale del pezzo era quella stesa da Luigi Strozzi nel 1676, unico a riferire della figura maschile sul verso (“Figura armata sedente con spada. In Calcidonio con Carlo 5° di rovescio”; BdU, ms. 78, n. 44). Gli elenchi redatti in seguito ricordavano tutti la presenza del pezzo anche se spesso in modo discordante sia per il personaggio al recto, sia per la figura al verso. Se i redattori di quelli stilati nel 1737, nel 1737-1758 e nel 1738-1739 identificavano Carlo V nell’immagine principale, e una “figura di Pallade” in quella secondaria (ASF, GM, A 10, c. 18v; BdU, ms. 84, Cass. XII, c. 18s; ASF, GM, A 9, Quaderno 9, c. 6v, Cass. XII, tav. 26), il Bianchi vi riconosceva il “Ritratto di Andrea Doria con Rovescio di un marte, che siede...” (BdU, ms. 83, tav. XXVI, n. 29), mentre il Pelli un busto del medesimo personaggio ma con una “Figura armata sedente con spada nella destra e testa recisa dal busto nella sinistra” (BdU, ms. 115, II, tav. XXVI, n. 1368). Il catalogo steso nel 1921 (n. 124), forniva la medesima interpretazione della figura retrostante, definita ancora una Pallade (infra). In passato poco studiato (ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 182, n. 981; A.P. Valerio, in MILANO 1977, p. 151, n. 122), il cammeo veniva puntual-
mente esaminato soltanto dal Kris, il quale, riscontrandovi precise affinità di tecnica e di stile con alcuni ritratti di Enrico II di Francia eseguiti, tanto su gemma, quanto su medaglia (ARMAND 1883-1887, I, p. 243, nn. 1-2), da Giovanni Antonio de’ Rossi, avanzava la possibilità di assegnarne a questi l’esecuzione (KRIS 1929, I, p. 80, 171, n. 313/78, II, fig. 313). L’interesse del Kris, circoscritto alla faccia anteriore, ignorava la figura sul retro, solo recentemente identificata in un’immagine allegorica destinata a celebrare le virtù militari dell’effigiato (DIGIUGNO 2005-2006, I, p. 88; GENNAIOLI 2007, p. 265). A dispetto della maestria dimostrata dall’artista nell’intagliare la pietra e nello sfruttarne le diverse stratificazioni cromatiche, efficaci a creare una gradevole impressione di aggetto in un rilievo altrimenti appiattito, lo stile del lavoro parrebbe lontano dalla maniera più fluida e naturalistica del grande intagliatore lombardo. Se la chioma dell’Asburgo e la relativa corona d’alloro, paiono possedere un certo afflato vitale, lo sguardo del personaggio, la sua barba e ancor più l’andamento rotondeggiante della sua spalla sinistra tradiscono un rigore di tratto sconosciuto alle creazioni di Giovanni Antonio de’ Rossi. Nette somiglianze possono essere invece rintracciate con alcune delle medaglie imperiali eseguite da Leone Leoni, soprattutto con un testone in bronzo (London, British Museum, C. 2117) coniato presso la Zecca milanese (ATTWOOD 2003, I, p. 87, fig. 22; MILANO 1983, p. 165, n. 354) in cui, tanto l’immagine al dritto, quanto la postura di quella al rovescio, qui identificata con una PIETAS, presentano sorprendenti affinità con il cammeo fiorentino. Ancorché l’effige lapidea, con il suo modesto rilievo e le sue forme aguzze, appaia in parte lontana dal vigore e dalla monumentalità dei ritratti eseguiti dal grande maestro aretino (DI DIO 1999, pp. 645-652; ATTWOOD 2003, I, p. 85), e non lombardo come erroneamente sostenuto dal MORIGIA (1595, p. 284), essa non pare poter prescindere dalle succitate creazioni. Furono proprio questi ritratti ad introdurre, in sostituzione della precedente iconografia di marca “fiamminga”, la nuova immagine “eroica e romana” del personaggio, il quale cominciò ad esser ritratto à l’antique, ovvero barbato, armato, con clamide e un serto d’alloro sul capo, anziché in abiti civili con la tipica berretta a tesa larga (FANTONI 2000, pp. 101-118; CUPPIERI 2002, pp. 31-85), come nel cammeo con ritratto di questi col figlio e la moglie (New York, Metropolitan Museum of Art) realizzato, non a caso, da Leone Leoni nel 1535 in occasione della vittoriosa campagna di Tunisia contro i musulmani (Ibid.). Sulla base di tali considerazioni l’esecuzione della gemma principale pare riconducibile alla mano di tale artista, mentre il verso, segnato dalla presenza di certune incertezze formali, quali una certa essenza di proporzioni e di naturalismo, e una forte rigidità nella posa, deve essere necessariamente attribuito ad una seconda mano, forse un artista minore operante a contatto con la bottega dello scultore toscano, dove dovevano circolare iconografie di origine classica come quella del Diomede e il Palladio presente su tante gemme antiche cui essa pare richiamarsi. Con l’attribuzione al Leoni, considerato fondatore della scuola glittica e toreutica milanese, concordava anche il Valerio in un contributo di qualche anno fa (P.A. Valerio, in MILANO 1977, p. 151, n. 122). E.D. Bibliografia: KRIS 1929, I, p. 80, 171, n. 313/78, II, fig. 313; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, n. 981; scheda O.A., 09/00129668, 1973 (M. Casarosa); P.A. Valerio, in MILANO 1977, p. 151, n. 122; DIGIUGNO 2005, pp. 31-32, fig. 27; DIGIUGNO 2005-2006, II, pp. 87-92, n. 17, figg. 50-52; GENNAIOLI 2007, p. 265, n. 254, fig. 254
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75 - Giovanni Antonio de’ Rossi (Milano, 1513-post 1575) Busto di papa Pio IV
1559-1565 onice e oro, mm 35 × 23 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 122
Il cammeo, intagliato su un onice bianco di forma vagamente trapezoidale, ritrae il busto in profilo destro di Papa Pio IV, al secolo Giovanni Angelo Medici di Marignano. Anziano e ben caratterizzato nella fisionomia, questi presenta il volto barbato e porta indosso un insieme formato da camauro e mozzetta. Poco aggettante e privo di sottosquadro, il rilievo emerge delicatamente dal fondo più scuro e ben levigato del calcedonio. La semplice cornice a filetto aureo che si dispone attorno al pezzo, seguendone l’andamento irregolare, è dentellata posteriormente, appiattita sulla faccia anteriore ed arricchita da due maglie rotonde fissate alle estremità verticali, verosimilmente aggiunte al fine di fissarla ad un piano espositivo orizzontale. Quantunque registrato dagli inventari fiorentini unicamente a partire dal 1676 (BdU, ms. 78, n. 34), esso risulta stilisticamente riconducibile alla metà del Cinquecento, vale a dire agli anni compresi entro il pontificato di questi (1559-1565). Analoghi ritratti del papa Pio IV compaiono, ad esempio, su due medaglie celebrative coniate durante tale periodo. Prive di firma e datazione, esse presentano due diversi rovesci: una immagine di Madonna con bambino (TODERI-VANNEL 2000, II, pp. 689-690, III, tav. 411, fig. 2157) ed uno stemma mediceo inserito entro una cornice ovale e sormontato da tiara e chiavi pontificie (POLLARD 1984-1985, II, pp. 1056-1057, n. 585, fig. 585). La gemma ha avuto una scarsissima fortuna critica; ad esclusione di menzioni molto recenti, essa è stata citata in passato unicamente dalla ASCHENGREEN PIACENTI (1967, p. 181, n. 979). Definito “un lavoro timido e senza merito” dall’Inventario delle Gemme del 1921, il cammeo presenta al contrario una discreta qualità e un certa somiglianza, seppur in un rilievo scarsamente aggettante, con la gemma ritraente Lorenzo il Magnifico giovane (cat. n. 11). Sia la serie di sottili pieghe espressive ai lati della bocca, sia il taglio degli occhi, sia ancora il trattamento e la disposizione delle diverse ciocche di barba e capelli, parrebbero spingere verso l’attribuzione delle due esecuzioni alla mano del medesimo artefice. Questa, già presentata dalla scrivente (DIGIUGNO 2005, p. 35, fig. 34; DIGIUGNO 20052006, I, pp. 80-82, figg. 44-46), trovava recentemente concorde Riccardo GENNAIOLI (2007, p. 264, n. 253, fig. 253). Giovanni Antonio de’ Rossi, dopo aver prestato la propria opera per il duca di Firenze, una
prima volta dall’autunno del 1555 all’inverno del 1559, e una seconda dal marzo dello stesso anno all’estate del 1562, anno in cui i pagamenti cessarono (DIGIUGNO 2005-2006, II, p. 244), si trasferì a Roma, dove risultava “habitans urbis in burgo veteri” (BERTOLOTTI 1881, p. 160), attivo, assieme ad Alessandro Cesati, presso la Zecca papale, come attesta una carta datata 2 ottobre 1560 (BULGARI 1958-1974, I, 1558, p. 397). In questi anni numerosi sono i documenti capaci di attestare la relazione con questi; egli coniò una prima medaglia, datata 25 dicembre 1559, per celebrare l’elezione al soglio pontifico di Giovan Angelo da Marignano, realizzandone in seguito molte altre di cui rimane notizia anche nei documenti d’archivio (DIGIUGNO 2003-2004, I, pp. 285-363, passim; DIGIUGNO 2005-2006, II, pp. 244-246). Sia sulla base di ciò, sia valutando l’esistenza di forti analogie stilistiche e formali con il succitato ritratto di Lorenzo, già assegnato alla mano dell’incisore milanese (nome accettato con un minimo di riserva anche da GENNAIOLI 2007, pp. 265-266, n. 255, fig. 255), potremmo forse ascrivere al corpus di questi anche la fattura del presente cammeo. Non può essere tuttavia ignorata la forte somiglianza esistente fra questa effige del papa, in camauro e mozzetta, e quelle presenti sulle due succitate medaglie, ambedue prive di firma.
Se per la prima, decisamente affine al cammeo fiorentino, non è stato avanzato alcun tentativo attributivo (POLLARD 1984-1985, II, pp. 10561057, n. 585, fig. 585), per la seconda è stato suggerito, in virtù dell’iconografia presente al rovescio, il nome di Giovan Federico Bonzagni (TODERI-VANNEL 2000, II, pp. 689-690, n. 2157, III, tav. 411, n. 2157). Se così fosse, deve essere ricordato come questo incisore prestasse la propria opera presso la Zecca pontificia, assieme al fratello maggiore Gian Giacomo, al nipote Lorenzo Fragni e Alessandro Cesati, durante i medesimi anni in cui vi lavorava Giovanni Antonio de’ Rossi. Con il Cesati e il de’ Rossi in particolare, egli dovette instaurare un proficuo rapporto di collaborazione, come parrebbe comprovare l’esecuzione a sei mani della pace in argento dorato con Deposizione di Cristo, cammei e pietre preziose, donata da Pio IV al Duomo di Milano nel 1561 (BELTRAMI 1897, p. 39 e sgg., tav. XLVIII). Parimenti significativa parrebbe rivelarsi una delle pratiche esecutive del Bonzagni, il quale usava combinare alle proprie creazioni, rovesci eseguiti da altri intagliatori (PANVINI ROSATI 1996, IV, pp. 339-340). Sulla base di ciò, è possibile ipotizzare che l’iconografia di tale ritratto, conforme nei diversi lavori, abbia potuto circolare fra i vari artisti operanti presso la Zecca papale. Considerando lo stretto legame esistente fra il duca Cosimo ed Pio IV, si potrebbe supporre che il pezzo abbia fatto il suo ingresso nelle collezioni, magari come dono dello stesso pontefice, durante gli anni di governo di questi (DIGIUGNO 2005, p. 35, fig. 34). Il pontefice infatti, niente affatto imparentato con la potente casata fiorentina, ma membro di una famiglia patrizia caduta in rovina all’epoca della conquista francese, ottenne da Cosimo, il quale si adoperò per farne discendere il ramo da Giambuono, figlio di Chiarissimo de’ Medici, il permesso di usare il cognome e lo stemma familiare. Deceduto il 9 dicembre 1565, Pio IV riposa nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, in una tomba di gusto michelangiolesco sormontata dall’insegna medicea. E.D. Bibliografia: ASCHENGREEN PIACENTI, 1967, p. 181, n. 979, fig. XV; scheda O.A., 09/00189948, 1986 (M. Casarosa); DIGIUGNO 2005, p. 35, fig. 34; DIGIUGNO 2005-2006, II, pp. 80-82, n. 15, figg. 44-46; GENNAIOLI 2007, pp. 265-266, n. 255, fig. 255; DIGIUGNO c.s.
La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I
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76 - Giovanni di Lorenzo di Pietro delle Opere, detto delle Corniole (Pisa, 1470 ca-Firenze, 1516) Busto di Girolamo Savonarola
1498-1516 corniola e oro, mm 41,5 × 32,7 iscrizioni: HIERONYMUS FERRARIENSIS ORD · PRED · PROPHETA VIR[GO] · ET MARTYR Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 321
La corniola, dotata di una semplice cornice in filo d’oro con due maglie circolari, reca inciso il busto di profilo del frate domenicano Girolamo Savonarola. La gemma è tra i pochi esemplari riconducibili su base documentaria alla collezione di Cosimo I de’ Medici. Acquistata il 23 novembre del 1565 per 50 scudi da un certo “Martino orefice”, essa è descritta nell’Inventario delle gioie del duca stilato nel 1566 da Tommaso di Iacopo de’ Medici e Bernardo Vecchietti: “Una corniuola, bellissima di colore, grande aovata di circunferentia quanto un piccolo uovo, netta intagliatovi drento la testa di fra Girolamo Savonarola, di cavo, di buon maestro scrittovi d’intorno il nome suo con altri titoli; in uno guarnimento d’oro puro, con lettere nere a tergo dell’ornamento” (ASF, MdP 643, c. 18r, n. 212). L’opera fu particolarmente ammirata da Giorgio Vasari, il quale la ricorda nella seconda edizione delle Vite assegnandone l’esecuzione a Giovanni di Lorenzo di Pietro delle Opere, celebre incisore soprannominato Giovanni delle Corniole per la sua maestria nel realizzare intagli in questa particolare varietà di calcedonio, molto apprezzata dagli antichi romani. Del pezzo parla anche Agostino del Riccio nella sua Istoria delle pietre, riferendo che Francesco I de’ Medici “mostrava cotal corniola con gran reputazione a’ principi e come cosa rara che avesse fra le sue cose rare e belle” (DEL RICCIO 1996, p. 163). Dai documenti non è chiaro quando l’esemplare fu privato del suo prezioso “guarnimento d’oro puro” con sul verso lettere nere, probabilmente eseguite a niello, menzionato nell’inventario del 1566. Tuttavia da una nota del 29 agosto 1668 riguardante la consegna della gemma all’intagliatore Andrea Borgognoni si apprende che, a quella data, il ritratto era già stato dotato di una cornice del tutto conforme a quella attuale (“con suo filetto e occhietti d’oro”, BdU, ms. 62, c. 92), molto più adatta a consentirne l’osservazione in controluce. L’attribuzione vasariana della magistrale incisione a Giovanni delle Corniole non è mai stata messa in discussione dalla critica. Diverse sono state invece le ipotesi espresse sul prototipo della effigie. Secondo George Francis HILL (1930, I, pp. 276-277, n. 1072) essa sareb-
considerati dalla critica derivazioni cinquecentesche dalla corniola fiorentina sono conservati rispettivamente al Victoria and Albert Museum (inv. n. 7541-1861; KRIS 1929, p. 157) e all’Art Institute di Chicago (MCCRORY 2000, pp. 58-59, n. 23). Un terzo esemplare, proveniente dalla raccolta del marchese Alessandro Gregorio Capponi, era custodito fino ai primi decenni del XIX secolo nel Museo Kircheriano (UBALDELLI 2001, pp. 262-263, n. 164). R.G.
be stata ripresa da una medaglia assegnata da Alfred ARMAND (1883-1887, I, 1883, pp. 105106) allo stesso Giovanni e ritenuta da Cornelius von Fabriczy derivante da un modello in cera utilizzato anche per la gemma (VON FABRICZY 1903, p. 146). Una tesi questa rigettata da GOLDSCHEIDER (1952, p. 10) per due stringenti motivi: le diverse dimensione dei busti nelle due opere e la maggiore severità dell’effigie sulla pietra, meno dettagliata rispetto alla versione in bronzo. Quanto alla datazione, il tono elogiativo della legenda, che definisce “profeta, vergine e martire” il Savonarola, consente di collocare la realizzazione della corniola dopo il 1498, anno della tragica morte del frate, celebrato dai suoi sostenitori con immagini accompagnate da simili appellativi per tutto l’inizio del XVI secolo. Notevole la fortuna dell’intaglio nel corso del Cinquecento e soprattutto del Settecento, quando fu riprodotte da diversi artefici, tra i quali Francesco Ghinghi, che durante il suo apprendistato in Galleria le copiò in un cammeo (GORI 1767, II, p. CLXXVIII; GONZÁLEZ-PALACIOS 1977b, p. 273), di cui forse resta testimonianza in una impronta nel repertorio Raspe-Tassie (RASPE 1791, II, p. 743, n. 14235). Due cammei
Bibliografia: GIULIANELLI 1753, p. 25; GAETANI 1761-1763, p. 152; GORI 1767, II, p. CXXXIV; BENCIVENNI PELLI 1779, II, pp. 11-12; RASPE 1791, II, p. 743, n. 14234; LASTRI 18213, pp. 8081; SEROUX D’AGINCOURT 1823, III, p. 48, n. 81, IV, tav. XVLIII, n. 81; GAYE 1839-1840, III, 1840, p. 196; MARCHESE 18451846, II, 1846, p. 23; MARCHESE 1849, p. 74 nota 2; MADDEN 1853, I, p. XVII; PERRENS 1853, I, p. 450; ZOBI 18532, p. 44; RUBIERI 1855, p. 15; MARCHESE 1858, p. 158 nota 2; RIO 1861, II, pp. 447-448; CITTADELLA 1867, p. 30 n. 2; BAYONNE 1879, p. 246; GRUYER 1879, p. 111; ARMAND 1883-1887, I, 1883, pp. 105-106; HEISS 1881-1892, V, 1885, tav. VII; BABELON 1894, p. 249; BABELON 1897, I, p. LXXXVII; GRUYER 1897, I, p. 703; VILLARI 1898, I, p. 21 nota 1; VON FABRICZY 1903, p. 146; VASARI (1568), ed. Milanesi 1906, V, p. 369 e nota 1; DALTON 1915, p. XXXVIII; HABICH 1922-1923, p. 73; LIPPOLD 1922, p. 188, tav. CLXV, n. 2; KRIS 1929, I, pp. 37, 156 n. 87, II, tav. 21 n. 87; HILL 1930, I, pp. 276-277, n. 1072; SCHNITZER 1931, II, p. 393, tav. 209; RUSCONI 1935, p. 10; GOLDSCHEIDER 1952, p. 10; LEINZ VON DESSAUER 1961, pp. 17, 19, 37 nota 95; MORASSI 1963, p. 14; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, pp. 27, 188 n. 1178, fig. VI; CASAROSA 1976, p. 61 nota 3; AVERY 1979, pp. 20-21; MCCRORY 1979, p. 512; M. McCrory, in FIRENZE 1980b, p. 154, n. 285; POLLARD 1984-1985, I, 1984, p. 479; TUENA 1987, p. 10; DEL RICCIO 1996, p. 163; SEBREGONDI 1996, p. 158; CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 80; RIDOLFI 1997, pp. 173, 376 nota 1, 385 nota 39; BÖRNER 1997, p. 104 n. 404; MCCRORY 1998, pp. 40, 44; M. Scudieri, in FIRENZE 1998b, p. 63; SEBREGONDI 1999, p. 339; MCCRORY 2000, p. 58: M. Mosco, in TOKYOROMA 2001, pp. 101-104, n. I.43; SEBREGONDI 2001, p. 509; UBALDELLI 2001, pp. 261-263, n. 164; M. Mosco, in L’AIA 2003, p. 75, n. 8; SEBREGONDI 2003, pp. 9-10; CASAZZA 2004a, p. 19, fig. 4; L. Sebregondi, in FIRENZE 2004, pp. 288-289, n. 55; N. Baldini, in PERUGIA 2004, p. 250, n. I.40; DIGIUGNO 2005, p. 37, fig. 37; FUSCO-CORTI 2006, p. 369, doc. 269 nota 1; GENNAIOLI 2007, pp. 433-434, n. 688, tav. XXXVI; M. Sframeli, in BUDAPEST 2008, p. 124, n. 60
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77 - Manifattura italiana La caduta di Fetonte
inizio del XVI secolo onice e oro, mm 44 × 53 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 26
Fetonte, figlio di Apollo-Sole e della ninfa Climene, è raffigurato nell’onice nell’atto di precipitare dal carro paterno verso le acque del fiume Eridano sgorganti da un’urna rovesciata. Accanto ad essa si trova un cigno, animale simbolo di Cicno, l’amico di Fetonte che, secondo il mito, per il dolore causato dalla morte del giovane fu trasformato nell’uccello acquatico (Ov. met. 2,375-380). A sinistra Lucifero, la stella del mattino, cavalca verso la quadriga del Sole sostenendo nella mano destra una face ardente. La pietra è circondata da una semplice montatura in filo d’oro con due maglie circolari saldate alle estremità verticali. L’esemplare è registrato per la prima volta nell’inventario delle collezioni di Cosimo III de’ Medici redatto da Luigi Strozzi nel 1676 (BdU, ms. 78, n. 14). Diversi sono stati i tentativi compiuti dalla critica per rintracciare il pezzo nelle raccolte medicee prima di questa data (cfr. GENNAIOLI 2007, pp. 152-153, n. 6). Nel 1935 Gennaro Pesce propose di identificarlo con “el Caro de Fetonte” citato dal Caradosso in una nota lettera inviata dall’artista a Ludovico il Moro nel 1495 per informarlo sulle opere d’arte confiscate ai Medici dopo l’esilio di Piero di Lorenzo. Come ha chiarito recentemente Laurie FUSCO (-CORTI 2006, pp. 23-24, 288-291, docc. 26-32; 291-292, docc. 36-37; 297-298, docc. 66-75), nella gemma ricordata dal Caradosso va senz’altro riconosciuta la corniola con La quadriga di Helios del Museo Archeologico Nazionale di Napoli (A. Giuliano, in FIRENZE 1973, pp. 59-60, n. 29), acquistata da Lorenzo il Magnifico nel 1487. La stessa Fusco (-CORTI 2006, p. 321, nota 1) a sua volta ha ipotizzato un collegamento tra il pezzo qui considerato e un cammeo di proprietà dell’incisore di pietre dure Pier Maria Serbaldi da Pescia menzionato da Michelangelo Tanaglia in una missiva a Piero de’ Medici del 1492, ma il carattere troppo generico della descrizione (“il Fetonte in calcedonio”) non permette di avallare tale tesi. La complessa composizione ripropone la sezione centrale del fronte di un sarcofago oggi conservato agli Uffizi (MANSUELLI 1958-1961, I, 1958, pp. 232-233, n. 251, fig. 181). Proveniente da Roma e ubicata almeno fino a metà Cinquecento nella chiesa di Santa Maria in Aracoeli (ROBERT 1969, p. 408), l’urna costituì un modello di riferimento per la rappresentazione del mito di Fetonte e la sua fortuna fra gli artisti è ben testimoniata dai
disegni di alcuni taccuini risalenti al primo decennio del XVI secolo (MARONGIU 2008a, pp. 27-28, nota 14). Molto probabilmente è da simili riproduzioni che l’anonimo autore dell’onice del Museo degli Argenti trasse ispirazione per la gemma, in cui sono presenti interessanti differenze rispetto all’archetipo. Queste riguardano soprattutto la figura di Lucifero e gli elementi della parte inferiore della rappresentazione, dove a causa delle ridotte dimensioni la personificazione del fiume Eridano appare trasformata in un vaso di foggia classica. Ritenuto un superbo esempio della glittica di età romana dal FURTWÄNGLER (1900), dal LIPPOLD (1922), dal MACLAGAN (1924) e dal GEBHART (1925), il cammeo fu invece assegnato dal KRIS (1929) ad artista italiano dell’inizio del XVI secolo per il “lionardesken Einzelzüge” della scena, già notato dal MÜNTZ (1899, p. 273), e posto in relazione con una plachetta del Moderno, la cui composizione è però indipendente dalla gemma. Ugualmente autonomi dall’onice devono essere considerati anche i celebri disegni con la caduta di Fetonte di Michelangelo, per la genesi dei quali Charles DE TOLNAY (1945-1960, III, 1948, pp. 113-114) aveva ipotizzato una combinazione di elementi derivanti dall’urna marmorea e dalla pietra. Del tutto infondata risulta infine la proposta avanzata da Hans OST (1975), che soffermandosi sugli irrequieti destrieri della quadriga del Sole attribuì l’ideazione del cammeo a Leonardo, ponendone la realizzazione entro il primo periodo fiorentino dell’artista. Una placchetta in bronzo derivante da questo pezzo si conserva al Vctoria and Albert Museum di Londra (MACLAGAN 1924, p. 15, tav. I, 523-1854). R.G. Bibliografia: MÜNTZ 1899, pp. 273-274; FURTWÄNGLER 1900, II, p. 263, n. 2, tav. LVIII; LIPPOLD 1922, p. 175, tav. XLVI, n. 10; MACLAGAN 1924, p. 15, tav. I, 523-1854; GEBHART 1925, p. 103; KRIS 1929, I, pp. 30, 153, n. 43, II, tav. 14 n. 43; PESCE 1935, p. 88, nota 14; RUSCONI 1935, p. 9; CURTIUS 1944-1945, col. 12, tav. 17,4; DE TOLNAY 1945-1960, III, 1948, pp. 113114; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 178, n. 883; ASCHENGREEN PIACENTI 1969, pp. 96-97; scheda O.A. 09/00129627, 1973 (M. Casarosa); OST 1975, pp. 101-139; BOBER-RUBINSTEIN 1986, p. 70, n. 27; V. Farinella, in FIRENZE 1987, pp. 98-99, n. 42; M. Mosco, in L’AIA 2003, p. 51 n. 11; FUSCO-CORTI 2006, p. 321 nota 1; GENNAIOLI 2007, pp. 152-153, n. 7, tav. X; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 2007, p. 44, n. 194; MARONGIU 2008a, pp. 27-28, nota 14; MARONGIU 2008b, pp. 65-66, 220, n. 15, fig. 19
La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I
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78 - Jacopo Nizzolla da Trezzo e Pompeo Leoni (attr.) (Trezzo o Milano, fra 1515 e 1519-Madrid, 1589) (Milano?, ante 1530-Madrid, 1610) Busto di Filippo II di Spagna (recto) Don Carlos (verso) 1559 ca onice, oro e smalti champlevée policromi, mm 42 × 33 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 127
L’opera si compone di due cammei in onice bianco, congiunti per il verso, separati da una sottile lamina argentea e tenuti assieme da una cornice aurea ornata da smalti policromi. Sul rilievo principale è riportato il busto in profilo destro di Filippo II di Spagna. Barbato, questi indossa una principesca armatura da parata, indagata dall’incisore nei minimi dettagli; il mantello, ben panneggiato e annodato sulla spalla visibile, la gola, coronata da un’alta lattuga e decorata da una doppia serie di fregi a “gocce” e “denti canini”, lo spallaccio finemente guarnito da una magnifica protome antropomorfa. Al collo porta una grossa catena tubolare. Sul verso compare il busto in profilo sinistro di Don Carlos, giovane figlio di Filippo II. Ancora imberbe, con una capigliatura ondulata e ben pettinata, questi indossa un insieme simile a quello portato dal padre; una corazza con alta gola decorata “a treccia”, dalla quale affiora una fine lattuga, da un morbido mantello á l’antique drappeggiato con cura sulle spalle, la sinistra delle quali ornata da una bella protome antropomorfa. Sul petto campeggia un volto di alato Gorgone. I due rilievi sono tenuti assieme da una bella incorniciatura aurea, finemente smaltata. Bombata, essa è ornata all’esterno con un motivo a grottesche in smalto champlevée rosso traslucido, e nella fascia interna da un fregio continuo “a treccia” e “fuselli” in smalto opaco bianco e nero. Il raffinato lavoro di oreficeria è indubbiamente coevo alle gemme ma riconducibile, per l’affinità stilistica con i lavori di Fountainbleau, la cui conoscenza fu diffusa in tutta Europa dal Ducercau e del Delaune (FIRENZE 1975a), ad un ambito diverso dalla Toscana. Grazie ad essa il cammeo, per il quale possiamo facilmente supporre un uso decorativo della persona, non acquisisce soltanto l’aspetto di un gioiello, ma lo diviene concretamente.
A lungo considerato un’acquisizione del granduca Pietro Leopoldo, esso è stato da tempo ricollegato all’attività collezionistica della duchessa Eleonora la quale, il 7 ottobre 1562, effettuava un pagamento di “quaranta scudi d’oro in oro” in favore di “Gasparo Messeroni [Miseroni] gioielliere milanese per contro di uno cammeo d’agata orientale drentovi la testa del re Filippo di Spagna et principe suo figlio vendute e consegnate a Sua Eccellenzia al Poggio” (ASF, SRP, f. 4139, c. 249d; in FOCK 1976, pp. 122, 147). Nonostante questo, il primo riferimento inventariale del pezzo datava alla seconda metà del Settecento, quando dalla “Prima Stanza da Legnaiuoli”, esso veniva portato nello “stipo N° 8” di “Sua Altezza Reale” (ASF, IRC, f. 4509, c. 374, n. 111). Nel 1786 la gemma, descritta come un “Cammeo doppio. Testa di Filippo II. Re di Spagna; e di Don Carlos suo figliuolo legato in oro smaltato”, doveva essere esposta nella Sala delle Gemme (la vecchia Stanza di Madama), ubicata verso la testata est della Galleria degli Uffizi (BdU, ms. 115, II, n. 2249). I primi commenti su di essa venivano formulati già dai compilatori degli inventari stesi fra Sette e Ottocento; se il Puccini (BdU, ms. 47, n. 238/2249) ed il Migliarini (BSAT, ms. 194, c. 1837, n. 506), pur rilevando la resa inferiore del ritratto di Don Carlos, ne riconducevano entrambi l’intera esecuzione alla mano di Jacopo da Trezzo, il primo lodava la fattura delle gemma principale per “la leggerezza e la maestria del tocco, il facile andare dei panni, la morbidezza dei capelli e delle carni” (Ibid.). L’attribuzione veniva in seguito ribadita dal BABELON (1922, tav. VII, n. 5) e dal KRIS (1929, I, p. 82, 171, n. 321/79, II, fig. 321) il quale confrontava il pezzo con un cammeo simile conservato presso la Royal Collection di
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Windsor (Ibid., I, p. 171, n. 324/79, II, fig. 324). Recentemente il Gennaioli, notando con la Casarosa una certa incertezza esecutiva nel secondo (scheda O.A. 09/00129669, 1973), suggeriva “la partecipazione diretta alla lavorazione di entrambi i cammei del già citato Gasparo Miseroni” (GENNAIOLI 2007, p. 259, n. 245, fig. 245, tav. XVII). In ogni caso, anche se la succitata carta di pagamento menzionava Gasparo Miseroni, di cui non è stato tuttavia chiarito il ruolo (VENTURELLI 1996, pp. 155-156), il ritratto di Filippo II presente sulla gemma al recto somiglia in modo nettissimo ad alcune medaglie fuse dal Trezzo per celebrare la figura del sovrano spagnolo (Milano, Civica Raccolta Numismatica, firmata “IAC. TREZO. F.” e datata 1555; A.P. Valerio, in MILANO 1977, pp. 146-147, n. 112; HABICH 1922-1923, pp. 134-135, tav. XCIII, n. 5). L’esecuzione del volto di Don Carlos, invece, dove più decisi appaiono i contrasti e più rigido lo scalare dei piani, parrebbe riconducibile alla mano di un artista diverso, sicuramente meno dotato del primo. L’effige del giovane principe sembrerebbe basarsi su quella presente sulla superficie di una medaglia condotta ad effetto da Pompeo Leoni nel 1557 (HABICH 1922-1923, pp. 134-135, tav. XCIII, n. 51). Jacopo da Trezzo, di fatto, lavorò per Filippo II durante gli anni Sessanta del Cinquecento e Pompeo Leoni fu uno dei principali scultori italiani attivi presso la Corte Spagnola. Trattandosi di due opere separate, niente vieta di supporre che questi abbiano realizzato in modo disgiunto due ritratti solo in un secondo tempo assemblati (DIGIUGNO 2005, pp. 36-37, figg. 35-36, con note). Come riferito dagli inventari, il Trezzo non era nuovo ad eseguire cammei con ritratto; un documento di pagamento trascritto dal Babelon ricordava l’esecuzione di due “camafeos grandes de sus retratos [Filippo II]” (BABELON 1922, p. 242, nota 3, n. 32, pp. 311-312). Una datazione del pezzo può esser avanzata soltanto basandosi sull’età del ragazzo; il quale, nato nel 1545, parrebbe aver qui circa quattordici anni. Alle stesse conclusioni potrebbe condurre il confronto con un medaglione a due facce assai simile a questo, attribuito con riserva a Giampaolo Poggini, su cui compare appunto la data del 1559 (Milano, Civica Raccolta Numismatica). Gemme di questo tipo furono al tempo molto diffuse; a Parigi (CHABOUILLET 1858, n. 2489) si conserva un intaglio in topazio con i volti affrontati di padre e figlio (KRIS 1929, I, p. 172, n. 322/79, II, fig. 322), mentre un cammeo in sardonica simile a questo si trova presso il Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo (inv. n. K 1016; J. Kagan, O. Neverov, in PARIGI 2000, p. 165, n. 222/38). In un catalogo degli Uffizi compilato nel 1860 (BURCI-CAMPANI 1860, p. 80, VI/n. 236), si menzionava un cammeo con ritratto di Filippo II. Attribuito al Trezzo, esso poteva egualmente coincidere sia con questo, sia con l’altro cammeo raffigurante unicamente il sovrano spagnolo (cat. n. 111). E.D. Bibliografia: BURCI-CAMPANI 1860, p. 80, VI/n. 236; BABELON 1922, p. 242, nota 3, tav. VII, n. 5; EICHLER-KRIS, 1927, n. 203; KRIS 1929, I, p. 82, 171, n. 321/79, II, fig. 321; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, n. 984; scheda O.A., 09/00129669, 1973 (M. Casarosa); A.P. Valerio, in MILANO 1977, p. 147, n. 113; MCCRORY 1979, p. 513, note 21-22, figg. 53-54; M. McCrory, in FIRENZE 1980b, p. 153, n. 283; HACKENBROCH 1989, pp. 35-36; VENTURELLI 1996, pp. 155-156; MCCRORY 1998, p. 46, nota 41, figg. 10-11; P. Venturelli, in MILANO 2002, p. 96; DIGIUGNO 2005, pp. 36-37, figg. 35-36; GENNAIOLI 2007, p. 259, n. 245
79 - Ludovico Leoni (Padova, 1531?-Roma, 1619) Busto di Stanilaw Hozjusz, vescovo di Varmia e cardinale post 1570 cristallo di rocca e metallo, diam. mm 30 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 1615
Sul verso della lastrina rotonda di cristallo di rocca, è inciso il ritratto di un anziano cardinale. In profilo sinistro, con indosso una semplice mozzetta, questi presenta il capo nudo, ampiamente calvo alla sommità, il volto scarno ben caratterizzato nella fisionomia coperto da una lunga barba appuntita discosta dal torace. La gemma è circondata da una cornice a filetto, rotonda e bombata, alla cui sommità si immette una grossa cipolla modanata sulla quale è fissata, in posizione frontale, una larga maglia circolare. Le dimensioni e la posizione di tale anello, inducono a supporne un uso decorativo della persona. La presenza dell’intaglio nelle collezioni fiorentine veniva registrata per la prima volta dal Bianchi nell’inventario redatto prima del 1736 (BdU, ms. 83, tav. XXXII, n. 39) e da quasi tutti gli elenchi successivi (infra). Forse per la difficoltà di identificarne il soggetto tuttavia, la gemma non veniva corredata da una conforme scheda ministeriale. Parimenti ignorata dalla critica, essa veniva citata dalla Aschengreen Piacenti come “Busto di un cardinale” (ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 203, n. 1654) e, in seguito studiata dalla sottoscritta (DIGIUGNO 2005-2006, II, pp. 213-216, n. 57, figg. 150-152), posta in relazione con una medaglia ritraente il busto del cardinale polacco Stanislao Osio (1504-1579) al cui dritto compare, circondata dalla scritta “STANISLAVS HOSIUS CARD[inalis]· VVARMIEN[sis] [Episcopus]”, una analoga immagine del religioso. Al rovescio si trova invece una sorta di ara quadrata, sormontata da una struttura con andamento piramidale a scalare corredata, sul fronte anteriore, dallo stemma Osio (di forma ovoidale, bipartito, costituito sulla destra da sei palle e sulla sinistra da una gamba umana, racchiuso fra due gruppi di 6 nappe cardinalizie) e dall’ulteriore iscrizione perimetrale: “HÆC SCRIPSI VOBIS DE IIS QVI SEDVCVNT VOS”. L’individuazione di tale medaglia, permetteva al Gennaioli di pervenire alla medesima identificazione (GENNAIOLI 2007, p. 440, n. 698, fig. 698). Se il Raczynski, pubblicando una riproduzione grafica di essa (RACZYNSKI 1845, I, pp. 127-129, n. 26, fig. 26), l’Armand ed il BÖRNER (1997, p. 223, n. 996), non compievano alcuna attribuzione, Giuseppe Toderi e Fiorenza Vannel registravano invece l’esemplare analizzato come opera di Ludovico Leoni, in virtù della presenza, sotto la troncatura del busto dell’Osio, delle due iniziali “L·L·” (TODERI-VANNEL 2000, I, pp. 335-336, n. 992, III, tav. 211, n. 992), le quali, unitamente a “L· PADOVAN”, “L·L·P·”, “LVD·”, “LEO·”, “LVD· L·” e “L·LEO·”, costituirono le sigle con cui usava firmarsi l’intagliatore padovano (ATTWOOD 2003, I, p. 199). Per quanto attiene alla datazione, se il conferimento della porpora cardinalizia all’Osio (1504-1579) rimanda a un momento successivo al 1561, la contemporanea presenza del teologo e di Ludovico Leoni a Roma nel tardo 1569 suggerisce di ricondurre a tale anno l’esecuzione di entrambi i lavori, sia quello metallico, sia quello lapideo dal primo quasi certamente derivante. Non è tuttavia da escludere che l’Osio e l’intagliatore padovano possano essersi incontrati a Roma in una precedente occasione e che la fusione della medaglia abbia avuto luogo negli anni immediatamente successivi all’ottenimento della porpora cardinalizia da parte di questi. Da un punto di vista stilistico, entrambi gli oggetti sono caratterizzati da un tratto deciso, sintetico ed elegante, assai simile a quello introdotto presso la Zecca romana da Valerio Belli, artista di cui il Leoni fuse un ritratto metallico postumo durante il terzo quarto del Cinquecento (TODERIVANNEL 2000, I, p. 335, n. 990, III, tav. 209, n. 990). Scorrendo il corpus del primo non dovrebbe esser difficile riconoscere le affinità con il modo di delineare i capelli – in ciocche disposte a sorta di S –, in quello di dise-
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gnare le labbra – realizzate spesso con due profondi solchi orizzontali –, nella maniera di disporre il panneggio – con una sorta di classicità “naturale”, niente affatto ostentata. Benché Ludovico Leoni venga frequentemente inserito dalla critica fra i glittici di scuola “milanese”, forte si dimostrò in lui l’influenza esercitata tanto dagli artisti emiliani (ATTWOOD 2003, I, p. 119), quali Giovanni Bernardi, quanto principalmente da quelli formatosi nella sua terra natale, primo fra tutti Valerio Vicentino. Quest’ultima parrebbe di fatto emergere in alcune sue produzioni metalliche, quali il ritratto di Valerio Belli, quello di Marco Mantova Benavides e quello di Jacopo Tatti, detto Sansovino (TODERI-VANNEL 2000, I, pp. 335-336, nn. 994, 989-990, III, tavv. 209-210, nn. 994, 989-990). Caratterizzate da un rilievo assai morbido, la cui cifra più evidente è costituita dalla disposizione della barba appuntita e leggermente disgiunta dal torace, queste effigi risultano assai simili ai due autoritratti eseguiti dal Belli (BURNS-COLLARETA-GASPAROTTO 2000, p. 16, fig. 1, p. 41, fig. 60). Il fatto che l’artista padovano, noto agli studiosi contemporanei unicamente come intagliatore di conii e modellatore di stampi in cera, abbia condotto ad effetto tale effige su pietra dura, non deve stupire. È cosa ormai nota come l’arte toreutica e quella glittica costituissero due facce della stessa medaglia. Esse venivano indifferentemente praticate dagli artefici operanti nel settore dell’oreficeria, i quali, per formazione, dovevano essere in grado di plasmare sostanze morbide come lo stucco e la cera, e di scolpire quelle dure come l’acciaio, il bronzo e le pietre. Qualora fossero necessarie conferme ulteriori, potremmo ricordare come il Leoni “Padoano”, venisse citato, entro un inventario redatto nel marzo 1601 per elencare i beni pertinenti alla collezione di Antonio Tronsarelli, come l’intagliatore di “un tondo con un cristallo del ritratto dell’Accorambona...” (LANFRANCONI 1998, pp. 537-550). Per quanto attiene infine all’ingresso del pezzo entro le collezioni medicee, lo stretto rapporto esistente fra Cosimo I de’ Medici ed il papato, potrebbe suggerire un momento compreso negli ultimi anni del governo di questi. L’ipotesi che il primo, motivato dal proposito di arricchire la propria galleria di preziosi ritratti di Uomini Illustri, possa avere ottenuto da papa Gregorio XIII – o dal medesimo Osio – una riproduzione in pietra dura della medaglia, parrebbe al momento una ipotesi verosimile. Strettamente legato alla chiesa di Roma, impegnato in una capillare e profonda diffusione dei dettami della Controriforma cattolica, anche attraverso la pubblicazione di importanti testi dottrinali (Confessio fidei catholichae christianae, Cracovia 1553/Magonza 1557), l’Osio potrebbe avere rappresentato, per l’anziano Granduca, una stimata figura di riferimento. In mancanza di documenti affermanti il contrario, tuttavia, non possiamo escludere l’alternativa possibilità che il pezzo sia stato incluso entro le collezioni medicee in un periodo di poco successivo, magari portato a Firenze dal cardinal Ferdinando durante gli anni Ottanta del medesimo secolo. E.D. Bibliografia: ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 203, n. 1654; DIGIUGNO 2005-2006, pp. 213216, figg. 150-152; GENNAIOLI 2007, p. 440, n. 698, fig. 698; DIGIUGNO c.s.
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80 - Domenico Buti (Firenze, 1547-1590) Francesco I de’ Medici, granduca di Toscana
1568-1570 ca olio su tela, cm 112 × 84,5 Firenze, Galleria degli Uffizi, depositi, inv. 1890, n. 2226
Francesco I de’ Medici, primogenito del granduca Cosimo I e sua moglie Leonor de Toledo, nacque il 25 marzo 1541. Associato al governo sin dagli anni sessanta, succedette il padre sul trono granducale nel 1574. Sposò nel 1565 la sorella dell’imperatore Johanna von Habsburg che morì nel 1578, lasciando Francesco libero di unirsi in matrimonio con la sua amante veneziana Bianca Cappello. L’unione si concluse meno di dieci anni più tardi; Francesco e Bianca si ammalarono mentre si trovavano alla villa medicea di Poggio a Caiano e morirono il 19 e 20 ottobre 1587. Francesco è ricordato per la sua raccolta di gemme, preziosi oggetti d’arte e curiosità, custodita nel celebre Studiolo che egli fece costruire e ornare appositamente in Palazzo Vecchio (ALLEGRI-CECCHI 1980, pp. 323-351). Questo ritratto di Francesco con una goletta, la spada e un elmetto sul tavolo figura senza una attribuzione sia nell’inventario della Galleria degli Uffizi iniziato nel 1890 (registro 4, p. 4, n. 2226), fu attribuito al pittore fiorentino Tommaso Manzuoli, detto Maso da San Friano, da Peter CANNON BROOKES (1966) che lo paragonava al ritratto a figura intera, siglato “TO S.F.” e datato 1570, conservato nel Palazzo Comunale di Prato (cfr. LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, p. 869, n. 42/40). Come ha osservato Valentino PACE (1976), le somiglianze tra i due dipinti sono in realtà esigue: Francesco dimostra all’incirca la stessa età in entrambi e indossa giubboni e calzoni ricamati simili. I due dipinti presentano tuttavia caratteristiche stilistiche diverse: notiamo nel ritratto esposto un ductus da disegnatore estraneo alla maniera di Maso da San Friano sia nel ritratto conservato a Prato, sia in una seconda opera siglata, conservata nel Museo di Capodimonte a Napoli che ritrae Lorenzo and Zanobi Pagni (M. Utili, in COLORNO-MONACO-NAPOLI 1995, pp. 201-203, n. 25; WALDMAN 2005). Karla Langedijk ha identificato il ritratto esposto con quello che Santi di Tito eseguì per la serie di ritratti medicei commissionata da Francesco I per la Galleria degli Uffizi tra il 1584 e il 1586 (S. Meloni Trkulja, in Gli Uffizi 1979, p. 700). L’identificazione è da scartare, in primo luogo per lo stile pittorico, distintamente diverso da quello di Santi nel ritratto documentato di Don Pietro de’ Medici (LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, pp. 1354-1355, n. 100/8), e in secondo
luogo per l’aspetto giovanile e snello di Francesco, inconciliabile con la data del primo acconto per il ritratto di Santi, pagato il 15 marzo 1586 (POGGI 1909, p. 326). Nel ritratto attribuito a Scipione Pulzone, databile non prima del 1585 (LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, pp. 866-868, n. 42/38), il granduca appare notevolmente ingrassato e invecchiato. Il ritratto di Francesco in questione potrebbe invece essere opera di Domenico di Antonio Buti, un pittore nato a Firenze il 6 luglio 1547 (AOSMF, Reg. 11, c. 117) e ricordato nei registri della Accademia del Disegno fiorentina dal 1568 (ASF, AdD 123, c. 128s) all’11 maggio 1590, quando gli accademici portarono la sua bara a Santa Maria Novella per la sepoltura (ASF, AdD 27, c. 30). La lunetta con San Domenico che porta in processione l’immagine della Vergine affrescata da Buti nel Chiostro Grande di Santa Maria Novella (ASSMANN 1997, pp. 168-169, n. 14) presenta alcune delle caratteristiche notate in questo ritratto, la stessa rigida presentazione delle figure, un simile ductus disegnato e la luce soffusa. Un altro utile termine di confronto è la tavola con il Martirio di San Lorenzo dipinto dal pittore nel 1574 per la chiesa di San Salvatore a Settimo (NESI 2009, fig. 4). Si conoscono quattro copie di questo ritratto, una replica di formato simile conservata nella Galleria Corsi di Firenze, un perduto esemplare già nella collezione Somzée a Bruxelles, un busto nel Värnlandsmuseum in Karlstad e una miniatura su pergamena nel Kunsthistorisches Museum a Vienna e (LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, pp. 871, nn. 42/41a-c e p. 872, n. 42/45). L.G.S. Bibliografia: PIERACCINI 1910, p. 256, n. 9; CANNON BROOKES 1966, pp. 563-564, nota 14, fig. 28; PACE 1976, p. 93; S. Meloni Trkulja, in Gli Uffizi 1979, p. 756, n. Ic1017; LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, pp. 870-871, n. e fig. 42/41; FIRENZE 2002a, pp. 29-31, n. 4; F. Solinas, in FIRENZE 2005a, p. 28, fig. 3; L. Goldenberg Stoppato, in BUDAPEST 2008, p. 235, n. 135; NESI 2009, pp. 43, 45, nota 22
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81 - Artista della metà del XVI secolo Ganimede nell’Olimpo, con Venere, Giove e l’aquila
metà del XVI secolo cammeo in agata calcedonio, contorno d’oro con due maglie, mm 54 × 41 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 14436
Il 3 dicembre 1574 Stefano Alli – esperto di antichità e uomo di fiducia dei Medici – inviava da Roma una lettera ad Antonio Serguidi, segretario del granduca di Toscana Francesco I, per proporre l’acquisto di un cammeo in agata, di cui allegava un disegno sommario e una dettagliata descrizione: “Dentro in questo ovato v’è un’aquila con le ali aperte del colore de l’aquila, de bon maestro, a metà il capo, il resto è tutto intiero. De rincontro a l’aquila v’è una donna a sedere, la quale me imaggino che sia Venere, dal mezzo in sù è ingiuda, l’altra metà è cuperta da un panno del color de l’aquila. Acanto a questa donna a sedere v’è un giovine in faccia ingniudo che à uno schudo nel braccio sinistro et alli piedi di questo giovine v’è un vaso cascato. Me penso che sia Ganimede. V’è poi de dietro a l’aquila la testa de Giove con il petto non se ne vede più della figura, perché l’aquila lo copre con le ale che tiene aperte.” (MCCRORY 1980, pp. 313-314, doc. II). Dopo una breve trattativa, nella quale intervenne anche il cardinale Ferdinando de’ Medici che da Roma scriveva al fratello per assicurarlo delle qualità della gemma e dell’adeguatezza del prezzo, il 14 gennaio 1575 l’acquisto era già concluso e il cammeo pronto per essere inviato a Firenze. Se l’Alli era caduto in errore circa la datazione del cammeo (esso infatti, considerato antico fino ad anni recenti, è stato datato al XVI secolo da Luigi Tondo sulla base di considerazioni iconografiche e stilistiche), la lettura iconografica rivela una non comune competenza e sensibilità, dal momento che si trovava di fronte a un soggetto inconsueto: l’anfora rovesciata sulla destra qualifica infatti la figura efebica come Ganimede, così come nell’uomo barbuto che appare alle spalle dell’enorme aquila dalle ali spiegate si deve riconoscere Giove, sia per la tradizionale iconografia del volto, sia per il suo troneggiare affiancato dall’aquila. Contrastanti proposte sono state avanzate per l’identificazione della figura femminile al centro: per la sua vicinanza a Giove e per il fatto di sedere su un trono si è tentato di riconoscervi Giunone; tuttavia le fonti letterarie sono concordi nell’attestare il suo odio nei confronti di Ganimede, giustificato dall’amore del sovrano celeste per il giovane troiano e dalla sua nomina a coppiere della mensa olimpica, ruolo in precedenza svolto da Ebe, figlia di lei; era invece nel giusto Stefano Alli, riconoscendo nella dea Venere, che sembrerebbe consacrare l’amore di Giove
per il giovinetto, guardando benevola il primo e abbracciando affettuosamente il secondo. La singolare iconografia dell’opera, che non trova confronti nell’arte antica e negli esempi contemporanei, secondo Tondo rimanderebbe, per la marcata separazione di Ganimede dall’attributo gioviano, a “una liberazione dal potere imperiale, con l’aquila che guarda, con risultato involontariamente comico, verso Ganimede”. E in effetti, un simile atteggiamento di opposizione all’aquila si trova anche in una medaglia coniata per Paolo III Farnese da Alessandro Cesati (1544), recante il ritratto del papa sul diritto e sul rovescio il nudo efebico di Ganimede, in atto di innaffiare un cespo di gigli e contemporaneamente allontanare da sé un’aquila, relegata in una posizione marginale (Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. 6263): proprio per la funzione della medaglia celebrativa di trasmettere il ritratto fisico e ideale di un personaggio, quella di Paolo III può essere considerata un manifesto della politica di riaffermazione del potere spirituale del pontefice e della sua autorità, alla quale deve essere asservito anche l’imperatore (MARONGIU 2004, pp. 9-16). Tale interpretazione tiene conto del significato politico attribuito al mito nel corso del Cinque-
cento, fondato da un lato sull’interpretazione allegorico-morale di marca neoplatonica, adottata anche nell’emblematica, dall’altro sul ruolo fondamentale svolto nella vicenda di Ganimede dall’aquila, che trovava punti di contatto con la propaganda imperiale; ciò potrebbe anche spiegare un’anomalia iconografica come la presenza di Venere e l’atteggiamento protettivo da lei tenuto nei confronti di Ganimede, oltre che la forte evidenza conferita all’aquila, rappresentata come simbolo araldico più che con attenzione naturalistica: l’insegna imperiale sembra avere un atteggiamento invasivo e bellicoso, da cui Ganimede si protegge con lo scudo e con l’abbraccio di Venere. M.M. Bibliografia: MCCRORY 1980; GIULIANO 1989, pp. 117, 136137, n. 1; L. Tondo, in TONDO-VANNI 1990, p. 35, n. 13; L. Tondo, in FIRENZE 1997b, p. 85, n. 46; M. Marongiu, in FIRENZE 2002b, pp. 112-113, n. 37; M. Marongiu, in FIRENZE 2005b, p. 260, n. 137
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82 - Domenico Romano (attivo a Roma nella seconda metà del XVI secolo) Trionfo di Filippo II di Spagna
1556-1565 onice e oro, mm 47 × 80 iscrizioni: (sul fianco destro della pietra) “D[OME]NICVS · ROMANVS · F ·” Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 106
L’esemplare raffigura un articolato corteo trionfale composto da undici armati con trofei e insegne romane che circondano un carro tirato da quattro cavalli su cui siede Filippo II di Spagna; il sovrano, incoronato da una Vittoria alata, sostiene un globo con la mano destra mentre con la sinistra sembra indicare il grande arco trionfale a un fornice, decorato da sculture e colonne di ordine corinzio, verso il quale si dirige il suo seguito. La pietra è circondata da una fascia in oro che in origine presentava due piccoli anelli saldati alle estremità verticali, di cui oggi ne resta solo uno. La ricostruzione delle vicende collezionistiche legate a questo capolavoro della glittica del XVI secolo si devono a Filippo M. TUENA (1989). Egli ha convincentemente dimostrato che esso era parte della raccolta del vescovo di Viterbo Sebastiano Gualterio, uomo di fiducia dei pontefici Giulio III e Pio IV, che gli affidarono importanti e delicati incarichi diplomatici presso la corte francese. Il piccolo rilievo è ricordato per la prima volta in una missiva del maggio 1565 dell’ambasciatore fiorentino a Roma Averardo Serristori, con la quale rendeva nota a Cosimo I de’ Medici l’entità della collezione del vescovo Gualterio, formata da una statua di Venere e un ritratto di Omero, da alcune tavole di marmo, da un considerevole numero di agate non lavorate e da quindici cammei definiti dal corrispondente “moderni”. Tra questi si trovava anche l’esemplare con il “Re Cattolico [Filippo II] ritratto al naturale che trionfa” giudicato dal Serristori il più bello di tutti e da lui descritto con maggior precisione in una nota inviata al principe Francesco de’ Medici il 2 giugno 1565: “Un trionfo di 13 figure con 4 cavalli con un arco trionfale et altre insegne all’antica col fondo di sardonio” (TUENA 1989, p. 87). Le successive lettere dell’ambasciatore fiorentino rivelano che nessun acquisto fu effettuato da Cosimo, forse a causa del prezzo troppo alto (4.000 scudi d’oro) richiesto per l’intera collezione. Ad ottenere i cammei dagli eredi del vescovo di Viterbo fu invece dieci anni più tardi Francesco, grazie alla mediazione del fratello, il cardinale Ferdinando. Nel febbraio del 1575 questi inviò a Firenze le pietre sistemate all’interno di cinque cassette in forma di libro coperte di corame turchino, approntate dall’incisore di gemme e mercante di antichità Domenico Compagni, in stretti rapporti con la corte medicea. Lo stesso artista si rese disponibile a modificare il profi-
lo di Filippo II al fine di renderlo somigliante a quello di Cosimo (BOTTARI-TICOZZI 1822-1825, III, 1822, p. 321), ma il confronto con i ritratti del sovrano spagnolo dimostrano che tale intervento non venne mai attuato. Tuttavia è interessante osservare come negli inventari della collezione granducale il soggetto fu creduto un
“Trionfo del Duca Cosimo con molte figure” (BdU, ms. 78, n. 13) e messo in relazione
con l’annessione della Repubblica senese avvenuta nel 1555 (BSAT, ms. 194, n. 483). Il rilievo reca incisa la firma del misterioso artefice Domenico Romano, identificato talvolta con il già citato Domenico Compagni, abile imitatore di gemme e di conî monetali di epoca romana. Tuena, sottolineandone la notevole diversità di stile rispetto al cammeo del Compagni con i ritratti di Cosimo I e di Eleonora di Toledo sempre al Museo degli Argenti (cat. n. 83), lo ritiene invece un lavoro vicino nei modi a Francesco Tortorino, al servizio di Filippo II e specializzato nella ideazione di composizioni ricche di figure e dal rilievo fortemente pronunciato. Come osservato dallo stesso studioso, sicuramente il pezzo fu ideato in stretto rapporto con gli ambienti della corte spagnola e forse donato al Gualterio dopo la firma della tregua di Vaucelles tra Francia e
Spagna (1556), di cui il prelato era stato uno dei principali artefici. Due sono gli aspetti che colpiscono maggiormente nell’esemplare fiorentino: la maestria con la quale l’artefice è riuscito a sfruttare lo stesso strato bianco della pietra per conferire profondità alla scena, articola sopra un fondo quasi trasparente, e il classicismo della composizione, paragonabile a quelle riprodotte nel rilievo del pilone nord dell’Arco di Tito, con l’imperatore sulla quadriga trionfale incoronato dalla Vittoria, e nel rilievo con Trionfo al Palazzo dei Conservatori, proveniente da un arco per Marco Aurelio (DE MARIA 1988, pp. 287-289, n. 74, tav. 68, 2; 303-305, n. 88, tav. 81, 2). R.G. Bibliografia: GORI 1767, II, pp. CLVIII-CLIX; LASTRI 18213, p. 81; ZOBI 18532, pp. 59-60; VASARI (1568), ed. Milanesi 1906, V, p. 384, nota 1; DALTON 1915, p. XLI; KRIS 1929, I, p. 172, n. 334, II, tav. 80 n. 334; RUSCONI 1935, p. 9; FIRENZE 1939, p. 149, C; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 181, n. 963; M. McCrory, in FIRENZE 1980b, p. 155, n. 289; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 529, n. 27.254 (come Cosimo I); MCCRORY 1982, p. 647; TUENA 1989, pp. 92-94; BAROCCHI-GAETA BERTELÀ 1993, pp. 96-97, n. 97; MASSINELLI-TUENA 1992, p. 120; CASAROSA 1997a, pp. 86-87; A. Pérez De Tudela, in MADRID 1999, p. 369, n. 70; A. Pérez De Tudela, in SIVIGLIA 2000, pp. 277-278, n. 12; MONBEIG GOGUEL 2001, p. 31; CASAZZA 2004a, pp. 26-27; MCCRORY 2006, pp. 68-70, fig. 8; GENNAIOLI 2007, pp. 62, 64, 266, n. 256, tav. XV
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83 - Domenico Compagni, detto Domenico de’ Cammei (Roma, metà del XVI secolo ca-1586) Busti di Cosimo I de’ Medici e di Eleonora di Toledo 1574 ca agata e oro, diam. mm 37 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 115
Il cammeo, di forma circolare, presenta i busti affrontati di Cosimo I de’ Medici e di Eleonora di Toledo. Il granduca, leggermente stempiato e con folta barba, indossa una clamide annodata sulla spalla destra e ha la testa cinta da una corona radiata; la consorte porta una tunica fissata da due fibule e ha i capelli raccolti in una rete perlinata. La montatura in oro, dotata di un anello per la sospensione, copre solo una parte della superficie posteriore della pietra e non presenta decorazioni. L’opera è ricordata nell’inventario stilato da Luigi Strozzi nel 1676: “Due
teste in profilo del D[uca] Cosimo, e la moglie in Calcidonio macchiato, e fondo d’Agata” (BdU, ms. 78, n. 38).
Citato da RUSCONI (1935), dalla ASCHENGREEN PIACENTI (1967) e dalla LANGEDIJK (1978), il piccolo rilievo fu giudicato in un primo momento dalla MCCRORY (1980) affine per stile alle gemme di Giovanni Antonio de’ Rossi, autore del celebre cammeo dinastico con Cosimo I, Eleonora di Toledo e cinque dei loro figli (cat. n. 72). In seguito la stessa studiosa MCCRORY (1982, 1997, 1998) ne ha ricondotto la realizzazione all’incisore romano Domenico Compagni, riconoscendovi l’esemplare che questi eseguì per Francesco I de’ Medici nel 1574. Nel maggio di quell’anno, in particolare, Giovanni Antonio Dosio comunicava all’agente del granduca Niccolò Gaddi lo stato avanzato del cammeo e gli specificava che “vi resteranno qualche poco di quelle macchie di sopra, che gli daranno grazia nelle guance delle donne, e nel petto sopra il panno e così nella barba dell’altro, ma sarà pochissimo, talchè io ho opinione che tornerà molto bene; e così abbozzate somigliano molto” (BOTTARI-TICOZZI 1822-1825, III, 1822, p. 301, lettera CXL). Al medesimo pezzo si riferisce anche il passo di una successiva missiva del Compagni datata 4 febbraio 1575, con la quale scriveva al Gaddi: “Mi è piaciuto che del cammeo sia soddisfatta come si era sicurissimo; e quella macchia del volto gli dà grazia, sebbene ella è un poco colorita. V. S. sappia che si è fatto tutto quello che era possibile ” (BOTTARI-TICOZZI 1822-1825, III, 1822, p. 321, lettera CLIV). Il Compagni, soprannominato Domenico de’ Cammei, lavorò a lungo per la corte pontificia in qualità d’incisore di conî per medaglie e fu un rinomato mercante di antichità, specializzato in monete romane, di cui fu un abile imitatore. Queste conoscenze traspaiono anche nel cammeo del Museo degli Argenti, concepito da Francesco I come un prezioso omaggio alla memoria dell’amatissima madre Eleonora di Toledo, scomparsa nel 1562, e del padre Cosimo, morto nell’aprile del 1574. In esso infatti gli effigiati sono ritratti secondo un modello iconografico diffuso nella glittica di età imperiale, alla quale si rifà inoltre la particolare lavorazione della pietra, incisa molto al di sotto dei profili dei busti che sembrano staccati dal fondo. R.G. Bibliografia: RUSCONI 1935, p. 10; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 181, n. 972; LANGEDIJK 1978, p. 78; scheda O.A. 09/00129662, 1978 (M. Casarosa); M. McCrory, in FIRENZE 1980b, pp. 154-155, n. 287; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 502, n. 169; MCCRORY 1982, p. 647; GIULIANO 1989, p. 119; MCCRORY 1997, p. 167-168, fig. 14; MCCRORY 1998, p. 46, fig. 12; C. Contu, in FIRENZE 2003a, p. 63, n. 5; CASAZZA 2004a, p. 22; GENNAIOLI 2007, p. 269, n. 261, tav. XIII; M. Sframeli, in BUDAPEST 2008, p. 297, n. 179
La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I
84 - Francesco Tortorino (attr.) (Milano, 1512 ca-1573) Scena di battaglia
ottavo decennio del XVI secolo calcedonio e oro, mm 34 × 35 iscrizioni: (sul basamento a sinistra) 1578; (sul fianco del cavallo all’estrema sinistra della scena) F Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 107
Nel calcedonio, di forma circolare, è raffigurata un’affollata scena di battaglia, articolata intorno a un gruppo centrale, distinto anche dal colore più scuro della pietra, composto da un cavaliere vestito all’antica su un cavallo impennato che, con la sua spada, sta per infliggere il colpo mortale a un soldato seduto a terra. La pietra è circondata da una fascia in oro dotata di due anelli saldati alle estremità verticali. Il piccolo rilievo è quasi certamente da mettere in relazione con la “Battaglia di molti cavalli. In Agata macchiata” menzionata tra i Cammei moderni grandi della collezione di Cosimo III de’ Medici descritti nell’inventario del 1676 (BdU, ms. 78, n. 74). La presenza dello stemma mediceo con la corona granducale sul vessillo che sovrasta i soldati, della lettera “F” sormontata sempre dalla corona granducale sul fianco del cavallo all’estrema sinistra della composizione e della data 1578 incisa sulla linea di base fu registrata, con qualche imprecisione, da Giuseppe Pelli Bencivenni nel catalogo del 1786 (BdU, ms. 115, vol. I part. II, tav. XXX, n. 1576) e ripresa successivamente da Tommaso Puccini nella Descrizione delle gemme pietre e paste più cospicue che in opera di Rilievo e di Cavo antica e moderna si conservano nella Dattilioteca della R. Galleria di Firenze (BdU, ms. 47, n. 182-1576). Lo stesso Puccini avanzò per primo l’ipotesi che l’oggetto fosse da mettere in relazione con un fatto d’arme avvenuto sotto il granduca Francesco I de’ Medici. Il cammeo è stato attribuito dal KRIS (1929) all’incisore Francesco Tortorino, noto soprattutto per i suoi vasi in cristallo di rocca e pietre dure molto apprezzati da Filippo II di Spagna, Massimiliano d’Austria e dai Farnese. Tale proposta, basata sul raffronto con un esemplare firmato al Kunsthistorisches Museum di Vienna raffigurante Il sacrificio di Marco Curzio (EICHLER-KRIS 1927, pp. 116-117, n. 199, tav. 26), è stata più recentemente rimessa in discussione da Paola Venturelli (in LUGANO 1998, pp. 273-274, n. 75), la quale ha giustamente notato come nel pezzo del Museo degli Argenti l’affollata composizione, formata da concitate figure sovrapposte le une sulle altre, non rispecchia del tutto lo stile di questo artefice, abituato a disporre i suoi personaggi per piani paralleli. Inoltre l’assegnazione al Tortorino mal si concilia con la presenza della data 1578, in quanto molto posteriore alla morte dell’incisore, scomparso tra il 15 marzo 1571 e gli inizi del giugno 1573 (P. Venturelli, in LUGANO 1998, p. 341). Ciò non esclude tuttavia che la pietra potrebbe essere stata eseguita da un autore vicino nei modi all’artista milanese oppure sottoposta in un secondo momento a un intervento volto ad aggiungere le insegne granducali. Dal punto di vista stilistico l’esemplare è confrontabile con un cammeo in onice (mm 18 × 25) della collezione Ladrière (già nella raccolta Marlborough) rappresentante un combattimento tra cavalieri (J. Boardman, in KANAGAWA-FUKUOKA 2008, p. 352, n. 227). R.G. Bibliografia: KRIS 1929, I, pp. 83 e 172, n. 333, II, tav. 80 n. 333; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 181, n. 964; BULGARI 1958-1974, III, 1958, pp. 189-190; scheda O.A. 09/00129656, 1973 (M. Casarosa); P. Venturelli, in LUGANO 1998, pp. 273-274, n. 75; GENNAIOLI 2007, pp. 64, 228, n. 179, tav. XVIII
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85 - Scipione Pulzone, detto il Gaetano (Gaeta, 1545-Roma, 1598) Ferdinando de’ Medici, granduca di Toscana 1590 olio su tela, cm. 142 × 120 iscrizione: (a tergo) “Scipione da Gaeta faciebat ’l 1590” Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890, n. 2243
Ferdinando de’ Medici nacque il 30 luglio 1549, nono degli undici figli del granduca Cosimo I e sua moglie Eleonora di Toledo. Fu avviato alla carriera ecclesiastica e il 6 gennaio 1563 nominato cardinale. Si recò a Roma per prendere il cappello cardinalizio nel 1564, nuovamente nel novembre 1565 per il conclave e a partire da questa data trascorse lunghi periodi nella città pontificia dove si dedicò alla ristrutturazione di Villa Medici al Pincio e alla decorazione del Palazzo di Firenze in Campo Marzio. In seguito all’inattesa morte del fratello maggiore Francesco I de’ Medici, deceduto il 19 ottobre 1587 senza lasciare eredi maschi, Ferdinando si ritrovò a trentotto anni granduca di Toscana. Alla fine di garantire la continuità dinastica Ferdinando ottenne il permesso di abbandonare il cardinalato e sposò nel 1589 Cristina di Lorena, anch’essa raffigurata da Scipione Pulzone (cat. n. 86). Il granduca Ferdinando è ricordato per i numerosi provvedimenti presi a sostegno delle città costiere della Toscana e in particolare allo sviluppo del porto di Livorno, come costruttore della Cappella dei Principi dietro l’abside di San Lorenzo e fondatore la Galleria dei lavori al secondo piano degli Uffizi, con le sue botteghe artigiane per la lavorazione di pietre dure, cristalli e altri manufatti. Come indica la firma a tergo, questo ritratto fu eseguito nel 1590 da Scipione Pulzone, pittore originario di Gaeta che lavorò a Roma nella seconda metà del Seicento. Giovanni Baglione (1642) indica che Pulzone si trasferì a Firenze per ritrarre Ferdinando I de’ Medici e la moglie: “E parimente chiamato andò a Fiorenza da Ferdinando, all’hora fatto gran Duca, accioché lo ritrahesse in maestà assieme con Madama gran Duchessa, [...] e per tal’opera degna di stupore fu molto regalato da quell’Altezza”. La notizia è confermata da una fonte archivistica pubblicata da Alexandra Dern: si fa cenno in un registro di donativi della corte medicea ad una collana d’oro, una medaglia d’oro e una borsa di denaro mandate a Roma il 13 marzo 1590 [ab Incarnatione=1591 secondo il calendario moderno] al cardinale Francesco Maria Bourbon del Monte Santa Maria per essere donate “A Scipione Gaetani [...] et al suo figliuolo quando e’ se n’andorno di Firenze, che gli ebano fatto e’ ritratti di loro alteze” (ASF, GM 122, c. 41v). Il cardinale del Monte aveva infatti scritto a Firenze il 16 gennaio 1591 per reclamare il pagamento
di “Scipion Gaetano pittore [...] acciò che quest’huomo finisca di servire bene” e l’8 febbraio aveva ricordato che stava ancora “aspettando che Sua Altezza le paghi le sue fatiche” (ASF, MdP 3759, cc. 114v-115r, 141r, Waźbiński 1994, II, p. 524). I rapporti tra Ferdinando e Pulzone sono documentati sin dal 22 giugno 1575, quando la guardaroba del cardinale consegnò quattro tavole di noce “a m. Scipione pittore per dipignerli” (ASF, GM 90, c. 168d, DERN 2003, p. 203) e nuovamente nel 1580 quando il pittore firmò e datò un ritratto a figura intera di Ferdinando in abito cardinalizio (Adelaide, Art Gallery of South Australia, DE MARCHI 1997, pp. 336, 339, nota 15; A. Cecchi, in ROMA 1999, p. 136, n. 1), più volte replicato in formato piccolo (Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, inv. 1912, n. 492, vedi S. Padovani, in CHIARINI-PADOVANI 2003, II, pp. 314-315, n. 512); Roma, Galleria Corsini, ALLOISI 2001, pp. 19-20; Vienna, Kunsthistorisches Museum, inv n. 9489, HEINZ-SCHÜTZ 1976, ed. 1982, p. 277, n. 246, fig. 83). Un altro ritratto di Ferdinando di mano del Gaetano è ricordato in una inedita lettera di don Giovanni de’ Medici, indirizzata il 29 aprile 1589 al segretario Belisario Vinta da Anversa: “[...] Il ritratto di Sua Altezza mi sarà tanto più cara di mano di Scipione, quanto che so certo che sarà espresso al vivo eccellentemente da quel maestro, onde il favore sarà maggiore [...]” (ASF, MdP 5151, c. 383, MAP doc. 12674). I registri di corte forniscono indizi documentari di lavori eseguiti dal pittore anche per Francesco I de’ Medici: il 26 gennaio 1575 [ab Inc.=1576] furono affidati al pittore “quattro quadretti di nocie lavorati, [...] disse per dipignervi sopra”, il 4 giugno dello stesso anno ricevette altri “quattro quadri di nocie puliti da dipingere”, il 5 agosto 1582 gli fu consegnata una lastra d’argento “per dipingere” e l’8 gennaio 1583 [ab Inc.=1584] altre sette lastre simili (ASF, GM 99, c. 31s, trascritta solo in parte da DERN 2003, p. 203). Sappiamo inoltre che nel 1585 Pulzone ritrasse Francesco I de’ Medici (Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890, n. 2241, LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, pp. 866-867, n. 42/38; DERN 2003, pp. 147-149, n. 43) e la seconda moglie Bianca Cappello (opera perduta; una replica documentata di formato più piccolo, eseguita per Francesco Bembo nel 1586, è conservata a Vienna, Kunsthistorisches
Museum, inv. n. 1138, LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, pp. 320-321, n. 12/14). I ritratti di Ferdinando e Cristina furono con probabilità commissionati espressamente per la serie di ritratti medicei eseguiti tra il 1584 e il 1586 per il granduca Francesco I da alcuni pittori fiorentini ed esposti lungo il corridoio esterno della Galleria degli Uffizi (cfr. per la serie POGGI 1909, pp. 321-322; S. Meloni Trkulja, in Gli Uffizi 1979, p. 700). Il ritratto di “Ferdinando Medici [...] di mano di Scipione Ghaetano” è ricordato “in ghalleria” già nell’aprile del 1592, quando Francesco di Simone Stanzoni fu pagato per una copia dell’originale (ASF, GM 169, c. 71r e il Conto di “Cecchino” Stanzoni, GM 185, c. 50, citati da LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, p. 731, n. 37/34c). I ritratti di Ferdinando e Cristina figurano, insieme al resto della serie, “In ghalleria” nell’inventario della Guardaroba granducale compilato tra il 1595 e il 1597, tra quelli “attaccati dalla banda verso il palazzo” (ASF, GM 190, c. 138r). I due quadri risultano esposti sul corridoio degli Uffizi anche il 15 settembre 1622, quando vennero ordinati “due cornici simili a quelle che sono nel quadro del serenissimo Gran Duca Ferdinando, Gloriosa memoria, et di Madama Serenissima che sono in Galleria fatti da Scipioni Gaetano” Ferdinando, Gloriosa memoria, et di Madama Serenissima che sono in Galleria fatti da Scipioni Gaetano” (Lettera di Domenico Montaguto a Bernardo Migliorati in ASF, GM 391, inserto 9, c. 846). Figurano nello stesso luogo, sempre insieme agli altri ritratti della serie, anche nell’inventario degli Uffizi del 1638 (BdU, ms. 76, c. 2r) e in tutti quelli successivi sino al 1769 compreso (Inventari degli Uffizi del 1704-1714, BdU, ms. 82, c. 4; del 1753, BdU, ms. 95, c. 32; del 1769, BdU, ms. 98, c. 7). Successivamente vennero spostati con il resto della serie sul corridoio che collega la galleria degli Uffizi a Palazzo Pitti, nel tratto sul lungarno degli Archibusieri, dove sono ricordati dall’inventario del 1784 (BdU, ms. 113, c. 311) e ancora da quello iniziato nel 1890 (edizione on line, registro 4, p. 9, n. 2243; registro 11, p. 87, n. 9161). Negli anni venti del Novecento furono trasferiti al Palazzo Medici Riccardi per il Museo Mediceo, dove vennero esposti per molti anni prima di essere ricollocati in un deposito di Palazzo Pitti e in fine riportati con il resto della serie alla Galleria degli Uffizi.
La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I
I ritratti riscossero un notevole successo sin dall’inizio: una inedita lettera indirizzata da Lorenzo Guicciardini a Marcello degli Accolti il 2 gennaio 1592 (ab Inc.=1593) riporta il parere di un barone inglese che, “havendo visto il corridore, desidereria far cavare in pittura da buon maestro Sua Altezza e la Gran Duchessa da quelli ritratti e’ quali gli paiono straordinariamente ben fatti” (ASF, MdP 831, c. 6, MAP doc. 14427). Ancora nel 1642 Baglione giudicava le fattezze dei granduchi “sì al vivo espresse, che non mancava loro altro, che la parola”. Il ritratto di Ferdinando I, come quello della moglie, possiede in effetti uno straordinario equilibrio cromatico; i riflessi della luce sulla casacca e le brache blu scuri sono bilanciati e alleggeriti dal tendaggio di seta di una bellissima tonalità tra l’azzurro e il violetto, la seta a righe oro e blu nelle pieghe delle sue brache richiamate le dorate dell’elmo posato sul tavolino al fianco del granduca, ornato con una raffigurazione della lotta tra centauri e lapiti alle nozze di Piritoo e Ippodamia, il colore tra il rosso e il violaceo della grande croce dell’ordine di Santo Stefano che orna la sua cappa foderata di pelliccia richiamo quello del velluto che ricopre il tavolino. Alla sapiente scelta dei colori si unisce l’attenzione ai lineamenti dei personaggi e ai dettagli del pizzo bianco del collare bianco, dei lavori a sbalzo dell’elmo e della catena dal quale pende una croce dell’ordine di Santo Stefano, tutti raffigurati con grande maestria. Vale la pena di spendere qualche parola anche sulla geniale e innovativa trovata a trompe l’oeil usata dal Pulzone non solo in questi due ritratti e in quello di Francesco I appartenente alla stessa serie: il pittore appoggia il tendaggio azzurro-violetto sul fondo sopra un finto telaio, creando in questo modo l’illusione di un quadro dentro il quadro. Il dipinto del Pulzone fu infatti copiato più volte: la copia già citata, eseguita da Francesco Stanzoni nell’aprile del 1592, fu secondo il libro contabile consegnata “alla G. Duchessa che lo mandò a suo padre il duca di Loreno” e quindi non può identificarsi – come aveva suggerito Karla LANGEDIJK (1981-1987, II, 1983, pp. 731732, n. 37/34d) – con il ritratto del granduca “in habito ducale” destinato a Francisco de Tello, pronto per la spedizione in Spagna il 7 settembre dello stesso anno (Ordine di Lorenzo Usimbardi, in ASF, GM 134, inserto C, c. 734; Let-
tera di Ferdinando I all’ambasciatore Francesco Lenzoni, 21 settembre 1592, ASF, MdP 282, c. 154, MAP doc. 717). Un’altra copia “da quelo di Scipione Gaetano in su la galeria” fu consegnata dal pittore Valerio Marucelli al custode della Galleria nel maggio del 1602 e mandata alla Guardaroba nel 1603 (ASF, GM 228, inserto 5, c. 502 e GM 261, c. 2s, LANGEDIJK 19811987, II, 1983, pp. 731-732, nn. 37/34 a-b, per errore come due copie distinte). Altri ritratti di Ferdinando e della moglie, “cavati dagli orriginali di Scipione Gaetano” nel 1595, si trovavano ancora in mano dell’ambasciatore mediceo Asdrubale Barbolani di Montauto a Venezia il 12 maggio 1607 (ASF, MdP 3000, c. 103, MAP doc. 14169). Risulta difficile distinguere que-
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ste copie documentate tra i numerosi esemplari noti oggi, elencati da LANGEDIJK (1981-1987, II, 1983, pp. 731-733, nn. 37/34e-r). L.G.S. Bibliografia: BAGLIONE 1642, p. 53; DE DOMINICI 1742-1743, ed. 1840-1846, II, 1843, p. 274; COLNAGHI 1928, p. 224; FIRENZE 1939, p. 51, n. 9; GIANNONE sec. XVIII, ed. 1941, p. 69; ZERI 1957, pp. 105-106; S. Meloni Trkulja, in Gli Uffizi 1979, p. 702, n. Ic64;1; K. Langedijk, in FIRENZE 1980b, p. 298, n. 608; LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, pp. 730-731, n. e fig. 37/34; Waźbiński 1994, II, p. 524; DONÒ 1996, p. 18-19, 61, n. 19 I; M. Chiarini, in FIRENZE-CHICAGO-DETROIT 2002, pp. 176-177, n. 35a; BAROCCHI-GAETA BERTELÀ 2002, p. 463; L. Goldenberg Stoppato, in FIRENZE 2003a, p. 106, sub n. 50; DERN 2003, pp. 153-154 (n. 47), 207-208 (doc. 15), fig. 63; M. Cinti, in FIRENZE 2009a, pp. 78-79, n. 3
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86 - Scipione Pulzone, detto il Gaetano (Gaeta, 1545-Roma, 1598) Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana 1590 olio su tela, cm 142 × 120 iscrizione: (sulla corona) “1590 SCIPIO CAIETNUS FACEBAT” Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890, n. 9161
Chréstienne de Lorraine, nota anche con la forma italianizzata del nome Cristina di Lorena, nacque il 6 agosto 1565 a Bar-le-Duc. Secondogenita del duca Carlo III e di Claudia di Valois, fu educata alla corte francese presso la nonna materna Caterina de’ Medici. Nel 1589 sposò il suo lontano parente Ferdinando I de’ Medici; le nozze furono celebrate per procura a Blois il 25 febbraio e ripetute in forma solenne il 3 maggio dello stesso anno a Firenze, dove Cristina sarebbe morta nel 1636. Nei vent’anni del loro matrimonio Cristina diede al marito cinque figli maschi e quattro figlie, assicurando la continuità dinastica, e conquistò la fiducia di Ferdinando, che l’ammise anche ai consigli di Stato (vedi la lettera di Cristina indirizzata alla regina Margherita di Spagna il 24 agosto 1610, ASF, MdP 6038, cc. 111v-112r). Dotata di un notevole acume politico, la granduchessa seppe guidare il figlio Cosimo II, piuttosto giovane al momento di succedere al padre nel 1609 e provato negli anni successivi da una grave malattia che lo portò nella tomba nel 1621. A questa data Cristina fu nominata tutrice insieme alla nuora Maria Maddalena d’Austria per la minore età del nipote Ferdinando II de’ Medici. Questo ritratto di Cristina fu eseguito, insieme a quello del marito Ferdinando I de’ Medici esposto in questa sede (cat. n. 85), da Scipione Pulzone da Gaeta che lasciò la sua firma e la data 1590 sulla corona appoggiata su un tavolino accanto alla granduchessa. È probabile che i due dipinti siano stati eseguiti verso la fine di quell’anno: la Guardaroba medicea mandò a Roma una borsa di denaro, una collana d’oro e una medaglia come ricompensa per i “ritratti di loro alteze” eseguiti da “Scipione Gaetani” solo il 13 marzo 1591 (ASF, GM 122, c. 41v, DERN 2003, pp. 207-208), dopo due richieste di pagamento inoltrate per conto del pittore dal cardinale Francesco Maria dal Monte il 16 gennaio e l’8 febbraio 1591 (ASF, MdP 3759, cc. 114v-115r, 141r, Waźbiński 1994, II, p. 524). Per gli inventari ed altre fonti archivitische che ricordano il ritratto di Cristina di Lorena, rimandiamo alla scheda del ‘pendant’ (cat. n. 85). Il pittore dimostra grande maestria nell’accostamento del grigio perla della veste di Cristina, con i suoi riflessi dorati, alla rosa tenue della stoffa appoggiata sul finto telaio. Magistrale è anche la trovata compositiva, usata da Pulzone
anche nel ritratto nel pendant e nel ritratto di Francesco I de’ Medici (Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890, n. 2241, LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, pp. 866-867, n. 42/38), che gioca con il rapporto tra realtà e immagine dipinta. Invece di dipingere una portiera sul fondo del dipinto, seguendo la prassi abituale della ritrattistica aulica dell’epoca, Pulzone appoggia il tessuto sopra un telaio finto dove compare il ritratto di Cristina che, in questo modo, ci viene presentato come in un dipinto dentro il dipinto. Segnaliamo anche la cristallina perfezione della raffigurazione dei gioielli, descritti con grande cura da Costanza Contu nel 2003: le gioie di Cristina comprendono il magnifico collare d’oro acquistato da Cosimo I de’ Medici – con grandi diamanti e rubini incastonati nei compassi e ‘pannocchie’ d’oro ornate di perle – tre fila di perle grosse forse provenienti dalla collezione di Caterina de’ Medici e, appuntato sulla spalla, un grande pendente che somiglia sia a quello offerto a Enrico VIII d’Inghilterra nel 1546 (vedi il disegno allegato all’offerta, Londra, Public Records Office, inv. SP1/213, cc. 166-167, C. Contu, in FIRENZE 2003a, p. 111, n. 52), sia a quello indossato dalla regina Elisabetta I nel ritratto di mano di Quinten Massys conservato nella Pinacoteca Nazionale di Siena (inv. n. 454, FIRENZE 2003a, p. 109, n. 51). La corona appoggiata sul tavolo accanto a Cristina fu eseguita dall’orefice di Delft Jaques Bylivelt per il granduca Francesco I de’ Medici (FOCK 1970; ASCHENGREEN PIACENTI 1974, p. 230); è raffigurata anche in un ritratto a figura intera di Ferdinando I in abito cardinalizio di mano di un pittore fiorentino (Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890, n. 3198, DE MARCHI 1997, fig. 5). Sono note oggi poche copie del ritratto di Cristina fatto da Pulzone; nel 1981 Karla Langedijk ne citava una conservata in Palazzo Giugni e una seconda versione a figura intera di proprietà della Galleria degli Uffizi (inv. 1890, n. 2318), identificata da chi scrive con il ritratto di “madama come quel che viene di galeria” descritto il 20 marzo 1620 in un libro contabile dei pittori fiorentini Domenico e Valore Casini (GOLDENBERG STOPPATO 2004, p. 179, nota 111, fig. 27). Un terzo esemplare di qualità piuttosto scadente, pervenuto alle Gallerie fiorentine con l’eredità Bardini insieme ad un ritratto di Ferdinando I, è attualmente esposto nella villa medicea di
Cerreto Guidi (riprodotti in MONACO-VIENNABLOIS 1998, p. 107, n. 42). Possiamo riconoscere le fattezze di Cristina anche in uno dei ritratti femminili di mano del Pulzone conservati nella Galleria Palatina (inv. 1912, n. 205, S Padovani, in Chiarini-Padovani 2003, II, p. 313, n. 508), quella che reca sul verso la firma“Scipio faciebat 159[...]”. Alla somiglianza con la granduchessa, sinora non notata dalla critica, si aggiunge la presenza nella sua acconciatura di uno dei due gioielli che sfoggiati dalla granduchessa nella grande tela che esponiamo, il ‘pennino’ con perle e rubini. Documenti pubblicati da Karla LANGEDIJK (1981-1987, I, 1981, p. 660) ricordano anche tre ritratti su carta della granduchessa Cristina, del granduca Ferdinando I e della nipote Maria di Francesco I de’ Medici, che sposò Enrico IV di Francia nel 1600. L’inventario della Guardaroba medicea stilato nel 1609 descrive tre “quadretti di disegnio dentrovi ritratti il gran duca Ferdinando, Madama ella Regina Maria di Francia” (ASF, GM 289, c. 41s), attribuiti a “Scipione Gaetano” nei successivi inventari (del 16241638, ASF, GM 435, c. 561s e del 1666-1689, ASF, GM 741, c. 209s). Nel catalogo della mostra I gioielli dei Medici (FIRENZE 2003a, p. 106) chi scrive ha collegato con il ritratto di Cristina un sonetto tardo cinquecentesco intitolato Sopra il bellissimo ritratto della Gran Duchessa fatto dall’eccellentissimo et unico pittore Scipione Gaetano conservato nell’Archivio di Stato di Firenze (ASF, MdP 6420, inserto 4, cc. non numerate, MAP doc. 12101). Il nesso tra il ritratto e il sonetto è da rivalutare dopo il ritrovamento nella stessa filza d’archivio di una seconda versione del componimento, intitolata Sopra il ritratto e stilata a fianco di un altro sonetto Sopra l’anello su un unico foglio di carta. Grazie ad una serie di lettere di Francesco Bembo pubblicate da Karla LANGEDIJK (1981-1987, I, 1981, p. 321) sappiamo che, durante un soggiorno fiorentino, egli rimase talmente colpito da un dipinto di Pulzone che ritraeva la granduchessa Bianca Cappello, la seconda moglie di Francesco I de’ Medici, da richiedere una replica dal pittore. In una delle lettere, indirizzata alla Cappello da Montefiascone il 15 ottobre 1585, pochi giorni dopo la sua partenza da Firenze alla volta di Roma, Bembo ha fatto un cenno ai due sonetti che aveva scritto
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per la granduchessa Bianca “[...] havendo fatto dui sonetti, così a cavallo per viaggio, uno sopra il bellissimo et vero ritratto di Vostra Altezza, l’altro sopra il raro dono del proprio suo annello, piglio libertà di mandarglieli [...]” (ASF, MdP 5940, c. 642v). L.G.S. Bibliografia: BAGLIONE 1642, p. 53; DE DOMINICI 1742-1743, ed. 1840-1846, II, 1843, p. 274; GIANNONE sec. XVIII, ed. 1941, p. 69; COLNAGHI 1928, p. 224; FIRENZE 1939, p. 51, n. 10; ZERI 1957, pp. 105-106; CAPPI BENTIVEGNA 1962-1964, I, 1964, figg. 447-448S; FOCK 1970, p. 199, nota 11, figg. 3,4; STRONG 1973, tav. 124; ASCHENGREEN PIACENTI 1974, pp. 231-232; S. Meloni Trkulja, in Gli Uffizi 1979, p. 701, n. Ic638; K. Langedijk, in FIRENZE 1980b, p. 298, n. 607; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, pp. 659-660, n. e fig. 31/39; M. Sframeli, in HACKENBROCH-SFRAMELI 1988, pp. 17, 18 (fig. 2); Waźbiński 1994, II, p. 524; DONÒ 1996, pp. 68 (n. 30), 99 (n. 18); BAROCCHI-GAETA BERTELÀ 2002, p. 463; M. Chiarini, in FIRENZE-CHICAGO-DETROIT 2002, pp. 176-177, n. 35b; ROMA 2002, pp. 120-122, fig. 10-11; L. Goldenberg Stoppato, C. Contu, in FIRENZE 2003a, pp. 106-108, n. 50; DERN 2003, pp. 154-155 (n. 48), 207-208 (doc. 15), fig. 64
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87 - Arte romana Imperatore che sacrifica alla Speranza
II-IV secolo d.C. (?) onice e metallo dorato, diam. mm 14,2 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14443
Sul cammeo, di notevoli dimensioni, è rappresentata una figura femminile tunicata con diadema gemmato e pendente all’orecchio, che con la mano destra solleva un lembo della vesta e con la sinistra sostiene un’asta. Essa ha lo sguardo rivolto verso un possente guerriero barbato colto nell’atto di porgerle una patera. Questi indossa un sontuoso elmo attico, ornato in rilievo con un grifone, la lorica, la clamide, il parazonio, dei calzari e tiene nella sinistra un grande scudo bombato recante al centro un gorgoneion. Tra i due personaggi un fanciullo alato, con un’acerra in mano, mette grani di incenso in un’ara sorretta da zampe leonine e da un fusto scanalato. Sul fondo della pietra, poco al di sopra dell’asta, è incisa una stella a otto punte; è presente la linea di base. Il rilievo è inserito in una montatura in metallo dorato griffata sul recto e dotata in corrispondenza delle estremità verticali di maglie formate da volute contrapposte. L’opera è stata associata da Martha MCCRORY (1979) al “cammeo antico intagliato di basso rilievo 3 figure in uno scatolino d’ebano, segnato drento alla pietra una stella” (GAETA BERTELÀ 1997, p. 58, n. [673]) ricordato nel 1589 all’interno di uno degli armadi segreti della Tribuna, sullo stesso ripiano del cammeo con i ritratti di Cosimo I, Eleonora di Toledo e cinque dei loro figli del milanese Giovanni Antonio de’ Rossi (cat. n. 72). L’assenza di precedenti riferimenti al pezzo nelle fonti archivistiche ha portato la stessa studiosa a ricondurne la proprietà a Ferdinando de’ Medici, che probabilmente lo portò con sé da Roma a Firenze quando assunze il titolo di granduca alla morte del fratello Francesco I. Il rilievo ricompare, poco meno di un secolo dopo, nell’inventario stilato da Luigi Strozzi nel 1676, dove tra i cammei Moderni grandi della collezione di Cosimo III è ricordata una “sardonica” con “due figure in piedi, una di Marte con lo scudo nella sinistra, e la patera nella destra, l’altra di Venere con l’asta e con la destra si alza i panni; vi è di più un Cupido con la capeduncula, ed un’ara” (BdU, ms. 78, n. 2). Il primo vero tentativo di decifrazione del soggetto fu compiuto nel 1731 da Anton Francesco GORI (1731-1732, I, 1731, tav. 19), che, basandosi su di un passo dello storico di età tardo-imperiale Ammiano Marcellino (Res gestae libri XXXI, liber XXIII, III, 1-2), ravvisò nel guerriero un ritratto di Giuliano l’Apostata in atto di sacrificare alla Luna nella città di Carre. Tale proposta fu in parte accolta da Sebastiano
Bianchi (BdU, ms. 83, tav. XXV, n. 5), da Luigi Lanzi (1782) e da Giuseppe Pelli Bencivenni (BdU, ms. 115, I, part. II, tav. XXV, n. 1326), i quali però suggerirono di riconoscere nella figura femminile la consorte dell’imperatore o la dea Iside. La tesi del Gori fu messa in discussione invece da Tommaso Puccini (BdU, ms. 47, n. 3 - 1326): basandosi sulle caratteristiche formali del lavoro egli lo reputò “molto superiore” alle opere eseguite nel IV secolo d.C. sotto Giuliano l’Apostata e avanzò una più generica interpretazione della scena, ritenendola un sacrificio “di un guerriero a Venere”. Un’ulteriore ipotesi di Giovan Battista Zannoni (1824-1831) identificò nell’uomo armato Antonino Pio, nel fanciullo alato il Genio dell’imperatore e nella figura femminile la personificazione della Speranza per “l’atto di sollevarsi la tunica, e la foggia delle vesti”. Riguardo a questo personaggio lo Zannoni rilevò che all’autore del cammeo mancò “i mestieri per porle il solito fiore nell’altra mano per farla meglio riconoscere. Lo scettro è emblema di potenza ed appartiene a tutti gli Dei, come han già veduto i dotti. La Speranza si solleva d’ordinario la veste colla sinistra; ma … nella nostra gemma … si è probabilmente l’artista scostato dal comun uso a cagion dello scettro, che quasi sempre è impugnato negli atichi monumenti dalla manca” (ZANNONI 1824-1831, I, 1824, pp. 56-57). Quanto alla presenza della stella, dettaglio solitamente ignorato nei precedenti commenti, essa fu giudicata dall’abate un simbolo di buon auspicio. L’analisi dello Zannoni, recepita da Arcangelo Michele Migliarini (BSAT, ms. 194, n. 183) e con qualche cautela da Johann Jacob BERNOULLI (1882-1894, III, 1891, p. 147, G), fu al contrario definita “hasardée” da Salomon REINACH (1895). Nonostante i tentativi compiuti anche dai contributi più recenti, il significato della raffigurazione è a tutt’oggi oscuro. Secondo Luigi Tondo (in TONDO-VANNI 1990, p. 49, n. 270) essa farebbe riferimento a un evento militare avvenuto all’epoca di Claudio II detto il Gotico, ma lo stesso studioso (in FIRENZE 1997b, p. 86, n. 47) non esclude la possibilità di un soggetto mitologico avente per protagonista Marte, come già avanzato nell’inventario del 1676 e poi da Giovan Battista PASSERI (1750, pp. 139-140). Altrettanto incerta rimane la collocazione cronologica dell’esemplare, variamente ricondotto al II, III e IV secolo d.C. Al di là della sua datazione, il cammeo del Mu-
seo Archeologico Nazionale di Firenze costituisce una straordinaria prova di virtuosismo tecnico sia per la calibrata alternanza di zone bianche con zone brune, sia per la ricchezza dei dettagli decorativi, eseguiti in parte in rilievo e in parte in cavo. Tale raffinata commistione riguarda in prevalenza l’elaborata cresta dell’elmo del soldato, terminante con una curiosa testa di drago realizzata a intaglio. R.G. Bibliografia: GORI 1731-1732, I, 1731, tav. 19; PASSERI 1750, II, pp. 139-140, tav. CII; LANZI 1782, pp. 117-118; DAVID 1787-1802, I, 1787, pp. 68-71, tav. XXII; ZANNONI 18241831, I, 1824, pp. 55-62, tav. 7,1; BERNOULLI 1873, p. 73, n. 26; BERNOULLI 1882-1894, III, 1891, p. 147, G; REINACH 1895, p. 20, tav. 11, I, 19; MCCRORY 1979, p. 513, figg. 48, 50; MCCRORY 1983, p. 275 fig. 1 e p. 277 fig. 3 (impronta); M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 250, n. 183; L. Tondo, in TONDO-VANNI 1990, p. 49, n. 270; TONDO 1996, p. 121, n. 264; L. Tondo, in FIRENZE 1997b, p. 86, n. 47; MCCRORY 1997, p. 169, fig. 15; DIGIUGNO 2005, p. 61, fig. 57; ZANIERI 2005, pp. 93-94, fig. 5; GENNAIOLI 2007, p. 67
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88 - Intagliatore romano (cerchia di Giuliano di Scipio Amici) Busto di Leone X
1516 plasma, argento dorato e cesellato, mm 45,2 × 35,8 (con cornice) sul castone: stemma mediceo sormontato da tiara pontificale e chiavi incrociate; attorno al perimetro della gemma: incisa in negativo in capitali romane: “LEO · X· PONT· MAX· ANNO· EIVS· IIII· M· D· X ·V· I·” Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 324
L’intaglio riporta, su una lastrina di plasma ovale, un busto di Leone X. In profilo sinistro, con un ricco piviale indosso e un elaborato triregno sul capo, questi appare attentamente indagato nella fisionomia; nelle labbra carnose, nel grosso naso aquilino, nei bulbi oculari prominenti e nel volto pingue; tratti riscontrabili anche nella ritrattistica monumentale. Attorno al perimetro della gemma, incisa in negativo, corre l’iscrizione in capitali romane: “LEO · X· PONT· MAX· ANNO· EIVS· IIII· M· D· X ·V· I·”. La pietra è racchiusa in una cornice a castone realizzata in argento dorato e cesellato. Piatta e spiovente verso l’interno, essa è arricchita sul perimetro esterno da una treccia in filigrana d’argento, alla cui sommità è fissata in profilo, mediante un raccordo formato da quattro esili foglioline, una piccola maglia rotonda. Il retro della struttura, anch’esso costituito da una la-
strina d’argento dorato e cesellato, riporta uno stemma mediceo sormontato della tiara pontificia e da due chiavi incrociate. Sia la treccia di filigrana, sia l’elegante castone retrostante, sia l’anello superiore in profilo, suggeriscono un uso decorativo del pezzo. L’intaglio, infatti dovette presto adempiere, agganciato ad una spilla, o più facilmente ad una collana, ad una funzione ornamentale della persona (cfr. infra). Ciò pare esser confermato da uno di primi inventari in cui esso veniva ricordato entro una cornice “d’oro smaltato” (ASF, GM 152, c. 28s, n. 208). Poiché il telaio in argento che attualmente lo racchiude databile alla metà del Cinquecento, presenta sul retro una fitta bulinatura, è facile presumere che questi punti fossero un tempo colmi di uno smalto successivamente caduto. La gemma riconducibile al quarto anno del papato di Leone X, ovverosia al 1516 (supra),
entrò nelle collezioni medicee alla fine del XVI secolo assieme alla ricca dote di Cristina di Lorena, nei cui inventari compariva per la prima volta “Una Plasma con la testa di Papa Leone X/mo ricinta d’oro smaltato” (ASF, GM 152, 1589, c. 28s, n. 208; ASF, ANM, 1100, c. 203r, n. 99; ASF, MdP, f. 6354 A, Ins. 8, c. 367v, n. 99). Dopo l’arrivo essa, descritta come “Un cameo in cavo di giada [plasma] di papa Leone aovato con cassa doro”, fu sistemata con altre piccole effigi provenienti dalla collezione della Granduchessa, “nella stanza de ritratti all’entrare di galleria al lato alle stanze dell’armeria” (BdU , ms. 71, c. 125, n. 97; in GAETA BERTELÀ 1997, p. 83). Sicuramente prima del 1643, dovette esser però trasferita nel più prestigioso locale della Tribuna, dove, unitamente ad altre celebri gemme della collezione medicea – come il grande cammeo con ritratto della famiglia du-
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cale (cat. n. 72) – era custodita “nel 0/2 Armadio” addossato al muro di fondo (BdU, ms. 75, c. 66, n. 97). Tutti gli inventari, redatti fino ai primi anni del Settecento, comprovavano la presenza del pezzo entro tale ambiente (BdU, ms. 82, c. 277, n. 2513). Con buona probabilità, l’intaglio venne tolto dalla Tribuna in concomitanza con il riordino della dattiloteca voluto da Cosimo III, quando, confuso con un “Ritratto di Eugenio 0/4 con iscrizione _ Igiada”, esso risultava affisso sulla “Tavola XXVI”, assieme a molte altre gemme con effige (BdU, ms. 83, tav. XXVI, n. 3). Alla morte del Granduca, dovette esser trasferito con altre nella “Stanza Nuova detta La Camera della Serenissima Elettrice Palatina”, e riposto nel “Cassettone segnato n° XII” (ASF, GM, A 10, p. 19). La collocazione risultava invariata nei due analoghi elenchi stilati in seguito (ASF, GM, A 9, c. 7r, tav. 26; BdU, 1737-1758, ms. 84, c. 19s). L’esistenza della gemma veniva ricordata anche dal registro redatto dal Pelli, come un “Plasma di smeraldo (3) Ritratto di Leone X= con Piviale, Triregno, e Lettere in giro ... È lavoro in cavo” (BdU, ms. 115, I, t. II°, tav. XXVI, n. 1341). Presso il Museo degli Argenti si conservano altri tre ritratti lapidei di Leone X. Per l’importanza del personaggio e la bellezza della fattura, l’intaglio ha avuto una discreta fortuna critica. Già menzionato dal GORI (1767, p. C e sgg.), esso venne in seguito commentato dal Puccini (BdU, ms. 47, n. 373 1341) e dal Seroux D’Agincourt, i quali suggerirono entrambi, basandosi su quanto affermato da Giorgio VASARI ([1568], ed. Milanesi 1878-1885, V, p. 370), una alternativa attribuzione a Michelino Poggini o a Pier Maria Serbaldi da Pescia (1823, III, p. 356, VII, tav. 48, n. 84). Citato da uno dei primi cataloghi a stampa della Galleria degli Uffizi, dove si ipotizzava ancora la paternità di “Pier Maria da Pescia, o bien de son rival Michelino” (BURCICAMPANI 1860, p. 83, n. 373), il pezzo sollevava più tardi l’interesse del Kris, il quale ribadiva, nelle pagine di testo (KRIS 1929, I, p. 41), un’attribuzione a Michelino Poggini non confermata però nella relativa scheda (KRIS 1929, I, pp. 157158, n. 98/25, II, fig. 98). Basandosi su quanto riportato da Giorgio Vasari, egli ricordava come
l’intagliatore, definito “un grazioso maestro” (Ibid.), fosse stato in rapporto con Pier Maria Serbaldi da Pescia durante gli anni in cui operò presso la corte romana del Medici. A detta dello studioso il ritratto del pontefice presentava i caratteri tipici delle monete e delle medaglie antiche (Ibid., I, p. 41). Menzionato in seguito dalla ASCHENGREEN PIACENTI (1967, p. 188, n. 1181), esso veniva più tardi ricordato dalla MCCRORY (1979, p. 514, nota 41), la quale ne corredava la schedatura con una lunga serie di riferimenti archivistici (M. McCrory, in FIRENZE 1980b, p. 145, n. 270), dalla LANGEDIJK (1981-1987, II, 1983, p. 1436, n. 68, fig. 103.68), e poi di nuovo dalla MCCRORY (1998, p. 43, fig. 4). In tempi più recenti è stato inserito in una ricerca sulla collezione di gemme di Cosimo I (DIGIUGNO 2005, p. 15, nota 62, fig. 3) e nel catalogo delle gemme del Museo degli Argenti (GENNAIOLI 2007, p. 436, n. 691, fig. 691). Da un punto di vista formale l’intaglio appare assai simile a quello raffigurante il profilo di papa Paolo II (cat. n. 26) utilizzato come impronta per la creazione di esemplari aurei o bronzei. L’immagine, infatti, realizzata in cavo su una pietra non trasparente – il che non consente una doppia lettura come nel caso del ritratto di Girolamo Savonarola (cat. n. 76) – è circondata da una legenda incisa in negativo in senso contrario alla lettura. Nonostante ciò, non sono al momento noti esemplari metallici correlati; tutte le medaglie-ritratto di papa Leone X, lo raffigurano a capo nudo o coperto dalla semplice cuffia pontificia (LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, pp. 1425-1438). La fattura della gemma potrebbe venir ricondotta alla mano di un artista romano o fiorentino gravitante attorno alla corte pontificia del Medici (KRIS 1929, I, pp. 157-157, n. 98/24, II, fig. 98). Difficilmente identificabile in Michelino Poggini (VASARI [1568], ed. Milanesi 18781885, V, p. 384), incisore di cui non è ancora stato ricomposto un corpus di opere, questi potrebbe venir forse riconosciuto, sulla base della succitata affinità formale con il ritratto di Paolo II Barbo, in un valente artista operante a stretto contatto di Giuliano di Scipio Amici, esecutore di tale intaglio. Da un punto di vista stilistico
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non è neanche da escludere l’attribuzione a Pier Maria Serbaldi da Pescia suggerita dal catalogo redatto nel 1860 (BURCI-CAMPANI 1860, p. 83, XIII/n. 373). La tiara e il piviale indossati dal pontefice nella gemma sono assai simili a quelli raffigurati entro l’affresco eseguito da Giulio Romano entro la cosiddetta Sala di Costantino (1521, Roma, Vaticano; LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, p. 1441, n. 83, fig. 103,83). E.D. Bibliografia: GORI 1767, II, p. C e sgg.; SEROUX D’AGINCOURT 1823, IV, tav. 48, n. 84; BURCI-CAMPANI 1860, p. 83, n. 373; KRIS 1929, I, pp. 41, 157-158, n. 98/25, II, fig. 98; FIRENZE 1939 p. 123, n. 7B; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 188, n. 1181; MCCRORY 1979, p. 514, nota 41; scheda O.A., 09/00157884, 1979 (M. McCrory); M. McCrory, in FIRENZE 1980b, p. 145, n. 270; LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, p. 1436, n. 68, fig. 103.68; MCCRORY 1998, p. 43, fig. 4; DIGIUGNO 2005, p. 15, nota 62, fig. 3; DIGIUGNO 2005-2006, II, pp. 143-146, n. 32, fig. 97; M. Sframeli, in FIRENZE 2005a, pp. 216-217, n. II.55; GENNAIOLI 2007, p. 436, n. 691, fig. 691
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89 - Domenico di Polo (Firenze, 1480 ca-1547 ca) Busto di Alessandro de’ Medici
1532-1537 ca diaspro e oro, mm 37 × 30 iscrizioni: “A.L.E.” Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 172
Rilievo in foglia d’oro su fondo di diaspro verde lucido raffigurante il busto di Alessandro de’ Medici in profilo verso destra; il duca indossa un’armatura. Una incisione in basso a destra riporta la scritta “A.L.E.”; la montatura è in oro a filo bombato con due maglie. Il monile è realizzato con la tecnica del travail repoussé: una lamina d’oro lavorata a sbalzo è applicata su fondo di diaspro. L’opera è citata nell’inventario delle gemme di Cristina di Lorena portate a Firenze nel 1589, in occasione del suo matrimonio con il granduca Ferdinando I de’ Medici (ASF, GM 152, c. 28). Dal 1609 al 1634 il prezioso manufatto fu esposto in Galleria nella Sala dei “ritratti”, accanto all’Armeria, per poi passare nella Tribuna dove è documentato fino al 1753. Probabilmente fu in questo periodo che avvenne la sostituzione del fondo in sardonica rotto con uno intatto di diverso materiale. Nel catalogo del 1704 si legge, infatti, il riferimento a una medaglia “di vetro nero sopravi di bassorilievo di foglia d’oro il ritratto del Duca Alessandro con mezzo busto armato…” (BdU, ms. 82, c. 276, n. 2513). Il cammeo fu in seguito trasferito a Palazzo Pitti, dove rimase fino agli anni settanta del Settecento, quando Pietro Leopoldo volle riunire agli Uffizi una importante collezione di gemme antiche e moderne, fino a quel momento conservate in luoghi differenti. Secondo Kris, l’opera è da attribuire a Domenico di Polo; questa ipotesi trova conferma nel confronto con un altro esemplare conservato al Museo degli Argenti (inv. Gemme 1921, n. 112) e con una medaglia recante il busto di Alessandro che indossa una corazza risalente al 1534, attribuita sempre all’intagliatore fiorentino, che costituisce la fonte iconografica del ritratto qui considerato (GENNAIOLI 2007, p. 257). P.L. Bibliografia: KRIS 1929, I, p. 158, sub n. 101; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 183, n. 1029; scheda O.A., 09/00129677, 1973 (M. Casarosa); LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 239, n. 40, fig. 1.40; MCCRORY 1998, p. 201 nota 30; DIGIUGNO 2005, p. 17, nota 73; GENNAIOLI 2007, p. 241
La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I
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90 - Manifattura italiana o francese Busto di Caterina de’ Medici
1533-1540 ca onice, oro e rubini, mm 40 × 35 (con la montatura) Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 116
L’onice reca il busto di tre quarti di una giovane donna con indosso una ricca camora abbellita sul petto da un medaglione con la figura di san Michele. La testa, resa di profilo verso sinistra, è contraddistinta da una elaborata acconciatura che lascia scoperto l’orecchio, da cui pende un orecchino. La pietra è montata in una raffinata cornice in oro dotata di una piccola maglia di sospensione e impreziosita da ventinove rubini tagliati a tavola e incastonati a notte. L’esemplare è ricordato nel Catalogo delle Gemme intagliate in cavo ed in rilievo del R. Gabinetto di Firenze compilato da Giuseppe Pelli Bencivenni nel 1786: “Cammeo in Agata. Busto di una femmina di qualità. Con legatura a uso di fermezza con 29 rubini, non 28” (BdU, ms. 115, II, 765). Successivamente esso fu inserito nel gruppo degli esemplari di maggior pregio della dattilioteca granducale da Tommaso Puccini, il quale vi riconobbe un ritratto di Caterina de’ Medici “eseguito con la più scrupolosa precisione” (BdU, ms. 47, n. 227-765). Tale identificazione, ignota al Kris, che nel 1929 pubblicò il rilievo associandolo al nome di Isabella di Cosimo I de’ Medici, fu ripresa nel 1979 da Martha MCCRORY (1979) e messa in relazione dalla studiosa con il ritratto della “Regina Caterina fanciulletta con ornamento d’oro” menzionato nel 1589 fra le gioie della dote di Cristina di Lorena, provenienti in gran parte dalla ricca eredità destinatale dalla nonna Caterina de’ Medici. Come osservato da Maria Sframeli (in BUDAPEST 2008), il volto dell’effigiata, caratterizzato dalle guance carnose, dal mento rotondeggiante e dall’alta fronte, mostra una notevole somiglianza con quello della regina in un dipinto di scuola francese conservato presso la Galleria Palatina di Palazzo Pitti, che la ritrae però più avanti negli anni (L. Goldenberg Stoppato, in FIRENZE 2003a, p. 116, n. 56). A una maggiore comprensione dell’opera hanno contribuito le indagini di Mario Scalini (FIRENZE 1997b, p. 87, n. 48), al quale spetta il merito di aver focalizzato l’attenzione sul medaglione con san Michele portato al petto dalla giovane, emblema dell’omonimo ordine cavalleresco fondato dai Valois e concesso normalmente solo agli uomini di sangue nobile e, in casi particolari, anche ai membri più stretti della famiglia reale. Un simile privilegio dovette essere accordato a Caterina solo dopo le nozze con Enrico di Valois, secondogenito di Francesco I di Francia, celebrate nel 1533.
È quindi agli anni immediatamente successivi a questa data che andrà ricondotta la realizzazione dell’esemplare del Museo degli Argenti, da assegnare verosimilmente ad uno dei molti incisori di gemme attivi presso la corte francese oppure ad un maestro operante in Italia, come sostenuto da Elisabetta DIGIUGNO (2005) che ne ha proposto l’attribuzione al periodo giovanile di Giovanni Antonio de’ Rossi. Il ritratto è da mettere in relazione con l’effigie muliebre anepigrafe di una medaglia tradizionalmente associata dalla critica a un esemplare con legenda raffigurante Maria d’Aragona, marchesa del Vasto e moglie di Alfonso d’Avalos (CUPPERI 2007, p. 43). Nonostante l’esistenza di una notevole somiglianza con l’immagine di Maria, non vi sono dubbi sul fatto che il diritto del pezzo anepigrafo, di cui sono noti vari esempi con due diversi rovesci (RIZZINI 1892, p.
87, n. 606; ATTWOOD 2003, I, p. 148, n. 144, II, tav. 37, n. 144a; VANNEL-TODERI 2003, p. 158, n. 1451, tav. 262), sia una derivazione iconografica in controparte dell’onice, del quale riprende anche i più piccoli particolari, dal medaglione sul petto alla fila di perle intorno al collo, dall’orecchino alle trecce e ai nastri che compongono la elaborata acconciatura. R.G. Bibliografia: KRIS 1929, I, p. 171 n. 320, II, tav. 78 n. 320; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 181, n. 973; MCCRORY 1979, p. 514; LANGEDIJK 1981-1987, II, 1983, p. 1097, n. 63.17; scheda O.A. 09/00162477, 1985 (M. Casarosa); M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 119; CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 83; M. Scalini, in FIRENZE 1997b, p. 87, n. 48; M. Mosco, in L’AIA 2003, p. 75, n. 9; C. Contu, in FIRENZE 2003a, p. 118, n. 57; M. Sframeli, in MEMPHIS 2004, p. 118; CASAZZA 2004a, p. 27, fig. 15; DIGIUGNO 2005, p. 55 e nota 310, fig. 53; GENNAIOLI 2007, p. 260, n. 247, tav. XLI; M. Sframeli, in BUDAPEST 2008, p. 216, n. 118
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91 - Pietro Paolo Galeotti (Monterotondo, Rm, 1520-Firenze, 1584) Busto di Bianca Sauli Giustiniani
1560-1565 onice e oro, mm 28,6 × 19 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 119
Il cammeo in onice bianco riporta il busto in profilo sinistro di una giovane nobildonna. Con indosso una camicia dall’alto colletto con ruche, una sottana con petto squadrato e una roba con revers montante, questa porta i lunghi capelli intrecciati, avvolti sul retro del capo in un grazioso disegno circolare. Il petto è ornato da un mazzetto di fiori simili a quelli che le coronano il capo, e la sua figura è accompagnata da un cagnolino, il cui muso affiora sullo sfondo. Condotta ad effetto con autentica maestria, la gemma è circondata da una sottile cornice a filetto in oro corredata da due grossi anelli rotondi fissati alle estremità verticali, verosimilmente usati per esigenze di carattere espositivo. Menzionata per la prima volta nell’inventario steso dal Bianchi, dove era registrata come un “ritratto di Donna [della Casa d’Austria] ... Calcedonio” (BdU, ms. 83, tav. XXVI, n. 20), essa era ricordata da tutti i successivi inventari senza che venissero tuttavia avanzate ipotesi degne di fede per l’identità del soggetto: il Puccini, ad esempio, confrontando la gemma con un altro cammeo della raccolta (Firenze, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 118), la considerava un ritratto di “Eleonora figlia di Francesco vestita anch’essa alla moda spagnola con un cagnolino in seno” (BdU, ms. 47, n. 229 1358). L’ipotesi, ribadita dal redattore dell’inventario del 1921, veniva rifiutata dalla Casarosa (O.A. 09/00129665, 23.II.1973), la quale vi notava invece elementi di affinità con una gemma conservata presso il Cabinet des Médailles della Biblioteca Nazionale di Parigi, per il cui soggetto il Babelon aveva avanzato il nome di Maria Stuarda (BABELON 1894, tav. LXVIII, fig. 974). La tecnica esecutiva veniva invece avvicinata a quella di altre due opere della collezione: l’intaglio in cristallo di rocca con il busto del giovane Cosimo I (cat. n. 70) e il cammeo con quello di Enrico II di Francia. Precedentemente menzionata dalla PIACENTI (1967, p. 181, n. 976) e catalogata come ritratto di anonimo dalla LANGEDIJK (1981-1987, I, 1981 p. 688, n. 19), la gemma veniva in seguito collegata dal Donati ad un cammeo conservato presso la Royal Collection di Windsor nel cui soggetto egli vi riconosceva, sulla base di quanto affermato da Vasari riguardo all’attività di Giovanni Bernardi da Castelbolognese (“Ritrasse Giovanni madama Margherita d’Austria, figliuola di Carlo Quinto Imperadore, stata
moglie del duca Alessandro de’ Medici et allora donna del duca Ottavio Farnese…”; VASARI [1568], ed. Milanesi 1878-1885, V, p. 374-375, N.d.E. 3), la giovane figlia di Carlo V (DONATI 1989, pp. 265-266, tav. CXLIII). Identificando l’onice fiorentino con un ritratto della giovane Caterina de’ Medici, questi ripeteva l’antica assegnazione – per il KRIS (1929, I, p. 175, n. 392/94, II, fig. 392) e la ASCHENGREEN PIACENTI (1977, pp. 79-83) priva di fondamento – a Giovanni Bernardi da Castelbolognese, estendendendola ad entrambe le opere (Ibid.). Recentemente il Gennaioli, prese le distanze dalla tesi del Donati e avvicinatosi a quella del Puccini, schedava comunque il pezzo come un generico ritratto di principessa eseguito nel decennio settanta-ottanta da un anonimo incisore (GENNAIOLI 2007, p. 270, n. 263, fig. 263). Priva di elementi utili a ricondurre l’identità della fanciulla ad un contesto socio-familiare più o meno ristretto, la gemma può essere datata e contestualizzata unicamente in base al costume. Questo, infatti, privo di alti baragoni sulle spalle, entrati in voga solo verso la fine del XVI secolo, è ancora caratterizzato dalla presenza della sottana con petto squadrato, riconduce alla moda diffusasi negli anni sessanta del Cinquecento, soprattutto nelle zone di influenza asburgica. L’assenza del velo comunemente indossato sul capo dalle “maritate” identifica inoltre la fanciulla in una donna nubile, o da poco sposata, status ribadito dalla presenza del cagnolino a sinistra il quale, privo di particolari valenze di carattere araldico, pare costituire l’affettuosa promessa di fedeltà e attaccamento di una giovane sposa (DIGIUGNO c.s.). Per tutto questo, il soggetto non può essere identificato né in Eleonora di Francesco, sia perché questa, nata nel 1567, era allora un infante, sia perché il suo volto era distinto, come quello della madre Maria Giovanna d’Austria, da un forte prognatismo della mandibola inferiore (caratte-
ristica del tutto assente nel viso della giovane donna ritratta nel cammeo), né in Caterina di Lorenzo la quale, nata nel 1519, era all’epoca troppo anziana ed autorevole (quale reggente della corona di Francia) per esser ritratta con fattezze tanto giovanili e “frivole”. Non fosse altro che per l’assenza del cagnolino, il cammeo fiorentino si è rivelato identico ad una medaglia celebrativa sul cui dritto compare il busto in profilo sinistro di Bianca Sauli, circondato dall’iscrizione “BLANCA SAVLA IVSTINIANA”, e sul rovescio, attorno ad un’isola assolata con mare in tempesta, una legenda inneggiante alla fertilità di questa (“NIL [NIHIL] OPTABILIVS FOECVNDITATE”). L’affinità con tale lavoro non lascia dubbio alcuno, né riguardo all’identità della giovane, appartenente alla famosa casata genovese dei Sauli (DIGIUGNO c.s.), né tanto meno a quella dell’esecutore, a tal punto innegabilmente riconosciuto in Pietro Paolo Galeotti. Il pezzo metallico porta, infatti, inconfondibile, la firma dell’incisore, il quale usava siglare le proprie esecuzioni con “P· P· R·”, acronimo di Pietro Paolo Romano. La medaglia con il ritratto del presunto marito di Bianca, Giambattista Giustiniani di Villanova, un mercante originario della medesima città, priva al contrario di segnatura, è stata attribuita alla mano del Galeotti unicamente in base ai legami storici e stilistico-formali con l’altra. Ciò stabilito, la strettissima somiglianza del cammeo fiorentino con la gemma inglese (KRIS 1929, I, p. 175, n. 392/94, II, fig. 392), ci induce a confutare anche per questa la più volte ribadita attribuzione a Giovanni de’ Bernardi da Castel Bolognese e a sostenere con forza l’assegnazione dei lavori alla mano di Pietro Paolo Galeotti. Anzi, l’ulteriore rinvenimento di una medaglia molto simile al cammeo inglese non rende soltanto possibile identificarvi il busto della “BLANCA PANSANA CARCANIA” ricordata dalla relativa iscrizione, ma anche creare attorno alla figura dell’incisore romano un corpus omogeneo di opere glittiche. Pietro Paolo Galeotti diverrebbe pertanto, non esclusivamente un ottimo medaglista, ma anche uno straordinario intagliatore di pietre dure (DIGIUGNO c.s.). Ben più remota appare al momento la possibilità di risalire all’epoca di ingresso del pezzo entro le collezioni medicee. Indubbiamente eseguito in anni coevi al ducato di Cosimo, il quale era in rapporti di vario tipo con la famiglia genovese, esso potrebbe essere stato portato a Firenze dal medesimo esecutore. E.D. Bibliografia: ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 181, n. 976; scheda O.A., 09/00129665, 1973 (M. Casarosa); LANGEDIJK, 19811987, I, p. 688, n. 19; DONATI 1989, pp. 265-266, tav. CXLIII; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 121 (unicamente in foto); ZANIERI 2005, p. 110, fig. 32 (come Caterina de’ Medici); DIGIUGNO 2005-2006, II, pp. 69-72, n. 12, figg. 36-39; GENNAIOLI 2007, p. 270, n. 263, fig. 263; DIGIUGNO c.s.
La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I
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92 - Valerio Belli (Vicenza, 1468 ca-1546) Cassetta Medici
1530-1532 cristallo di rocca inciso e controfondato con foglie d’argento, argento dorato e smalti, mm 150 × 267 × 145 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 505
Celebrato dal Vasari come erede dei divini intagliatori della Grecia antica, Valerio Belli diede vita, con la Cassetta qui in mostra, ad un indiscusso capolavoro della glittica rinascimentale, “che meraviglia è stato, come abbia potuto con tanto sottil magisterio, sì meravigliose opere conseguire” (VASARI [1550], ed. Bellosi-Rossi 1986, p. 810).
Con il prezioso scrigno Clemente VII rendeva omaggio a Francesco I di Valois, a Marsiglia nell’ottobre del 1533 per le nozze della nipote Caterina de’ Medici con il secondogenito del sovrano, duca d’Orléans e futuro re di Francia Enrico II. Due fasce decorate con filigrana e smalti policromi a motivi di rosette in rilievo costituiscono la
base e il fregio di una serie di colonnine doriche scanalate che delimitano otto specchiature entro le quali trovano posto le formelle in cristallo di rocca, controfondate da una sottile lastra d’argento: queste rappresentano l’Adorazione dei pastori, l’Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, Gesù tra i Dottori, il Battesimo di Cristo, Cristo e l’adultera, Cristo che scaccia i
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mercanti dal Tempio, la Resurrezione di Lazzaro. Sul coperchio, a forma di tronco di piramide, sono inserite dodici lastre in cristallo di rocca incise con gli episodi della Passione di Cristo, che seguono principi compositivi e narrativi appresi dai rilievi antichi e dallo studio di Raffaello e della sua scuola: sono Cristo in casa del Fariseo, l’Ingresso di Cristo a Gerusalemme, l’Orazione nell’orto, la Presa di Cristo, Cristo davanti a Caifa, Pilato che si lava le mani, la Flagellazione, l’Andata al Calvario, la Crocifissione, le Tre Marie al sepolcro, l’Ascensione. I quattro piccoli ovali che fungono da divisori per le placchette del coperchio contengono chiari riferimenti alla figura del committente: lo stemma mediceo sormontato dalla tiara e dalle chiavi e le sigle papali “CLE/·VII·/PONT /MAX”, da una parte, il motto papale “CAN/DOR ILLE/SUS” e l’episodio del rovereto ardente, dall’altra. All’interno, sul fondo, sono inserite la Deposizione dalla croce e le figure dei quattro Evangelisti. La forma di sarcofago scelta per il prezioso oggetto, potrebbe essere stata suggerita all’artista da monumenti di ispirazione classica presenti in Veneto e dalla frequentazione con lo scultore Jacopo Sansovino; accostamenti precisi sono avanzati da Marco Collareta e Davide Gasparotto nella curatissima monografia dedicata all’intagliatore vicentino (BURNS-COLLARETA-GASPAROTTO 2000). Sulla genesi della celebrata Cassetta ci informa il carteggio intercorso negli anni 1530-1532 fra il letterato veneto Pietro Bembo e lo stesso pontefice a proposito di un ritratto richiesto dall’artista da copiare e includere nella cassetta e fra il Bembo e il Belli, che il 12 maggio 1532 riceveva dall’amico le congratulazioni per aver “forniti i lavori della Cassetta, i quali son certo siano bellissimi”. La cassetta fece ritorno a Firenze con i beni della dote di Cristina di Lorena, nipote di Caterina, quando nel 1589 fu scelta come sposa di Ferdinando I de’ Medici. L’originaria funzione dell’oggetto può essere stata quella di repositorio per L’Eucarestia, una sorta di tabernacolo mobile in uso nella liturgia per conservare le Sacre Specie nei giorni compresi tra il giovedì santo e la Pasqua, nei quali non si effettua la Consacrazione; il suggerimento viene da Anna Maria MASSINELLI (19911992, pp. 115-116), che ha proposto all’attenzione degli studiosi una pisside in cristallo di rocca destinata a contenere l’Eucarestia all’interno della cassetta. M.S. Bibliografia: BENCIVENNI PELLI 1779, I, pp. 245-247; CICOGNARA 1823-18242, V, 1824, pp. 473-475, tav. LXXXVII; CABIANCA 1864, pp. 20-21; DE RIS 1864, pp. 128-129; VASARI (1568), ed. Milanesi 1878-1885, V, 1880, p. 379; ZORZI 1920, pp. 186-188; KRIS 1929, I, pp. 51-55, 165, nn. 166-
176, II, tav. 38-41; ACCASCINA 1934, pp. 48-50; A. Morassi, in MILANO 1936, p. 52, n. 299; ROSSI 1956, pp. 36-38; MORASSI 1963, pp. 19-20, tav. 21; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, pp. 13, 14, 17, 28, 33, 134 n. 78, tav. 14; ALCOUFFE 1974, pp. 264, 274; M. Collareta, in FIRENZE 1980b, p. 218, n. 408; ROSSI 1984; MASSINELLI 1991-1992, pp. 115-116; FURLAN 1992, pp. 323-327; COX-REARICK 1995, pp. 77-79, 389-391, XI, 9; CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 83; D. Allen, in BONN 1998, p. 290; L. Minunno, M.A. Rinaldi, in MONACO-VIENNA-BLOIS 1998, p. 76, n. 19; COLLARETA-GASPAROTTO 1999, pp. 104, 106-109; M. Collareta, in BURNS-COLLARETAGASPAROTTO 2000, pp. 116-118; D. Gasparotto, in BURNSCOLLARETA-GASPAROTTO 2000, pp. 308-312; M. Sframeli, in FIRENZE 2003a, p. 119, n. 58; DONATI-CASADIO 2004, pp. 8299, nn. 65-89; MOSCO 2004b, p. 66; M. Sframeli, in FIRENZE 2005a, p. 110, n. I.55; M. Sframeli, in FIRENZE 2008a, p. 62; VENTURELLI 2009, pp. 115-116, n. 65
La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I
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93 - Valerio Belli (Vicenza, 1468 ca-1546) Sacrificio all’antica
1530-1535 calcedonio e oro, mm 56 × 46 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 307
A sinistra è raffigurato un altare circolare, decorato da ghirlande, attorno al quale sono raccolte tre figure femminili panneggiate all’antica, tre figure maschili, di cui una dal volto barbato, e un fanciullo. Sul lato destro altri quattro personaggi, tre uomini e una donna, sembrano incedere verso l’ara per assistere alla scena che si svolge davanti a un tempio tetrastilo ornato da festoni sospesi tra gli intercolumni. Dall’alto scende una Vittoria alata con una corona nella mano sinistra e un ramo di olivo nella destra; è presente la linea di base. La pietra, circondata da una semplice cornice in oro con due maglie circolari saldate alle estremità verticali, è ricordata negli inventari della raccolta glittica granducale a partire dal quarto decennio del XVIII secolo (BdU, ms. 83, tav. XXXIII, n. 7). A quell’epoca essa si trovava fissata a una tavoletta di legno rivestita di velluto insieme ad altri quarantacinque intagli con episodi mitologici e ritratti imperiali. Nel 1799 Tommaso Puccini (BdU, ms. 47, n. 354-1656) dedicò al pezzo un’attenta analisi ponendolo in relazione con alcune delle formelle incise in cristallo di rocca dal vicentino Valerio Belli per la celebre Cassetta Medici (cat. n. 92). Il significato della raffigurazione è a tutt’oggi oscuro. Secondo il MOLINIER (1886) essa farebbe riferimento a una cerimonia nuziale romana, mentre per il BODE (1904) e il BANGE (1922) vi sarebbe rappresentato un sacrificio in onore di Venere, identificata con la giovane seminuda accompagnata da un fanciullo sulla sinistra. L’interpretazione della scena come un matrimonio all’antica è stata in parte messa in dubbio da Cannata (in ROMA 1982), il quale ha rilevato l’assenza dello sposo tra i personaggi in primo piano intorno all’ara. Più recentemente Gasparotto (in BURNS-COLLARETA-GASPAROTTO 2000) ha marcato la stretta dipendenza della figura di vecchio con la testa leggermente reclinata in avanti da modelli antichi, quali il Dioniso avvolto in un pesante himation che campeggia al centro della serie dei rilievi convenzionalmente noti con il nome di Visita di Dioniso a Ikarios e il Dioniso ebbro raffigurato nel celebre cratere neoattico in marmo bianco del Camposanto di Pisa. Il successo di questa invenzione è ampiamente attestato da numerose placchette in bronzo derivanti direttamente dal calcedonio (D. Gasparotto, in BURNS-COLLARETA-GASPAROTTO 2000, pp.
345-346, n. 105), da un intaglio conservato al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo (inv. I 5359) e dall’essere stata riprodotta su diverse delle legature veneziane per i volumi della biblioteca di don Diego Hurtado de Mendoza risalenti al 1540-1546 (HOBSON 1989, p. 235, n. 74). Un episodio della fortuna dell’esemplare fiorentino è da registrare ancora in ambito limosino, con la ripresa che ne fece il cosiddetto maestro KIP (HACKENBROCH 1979, p. 76, fig. 174) in uno smalto della Walters Art Gallery di Baltimora. R.G.
Bibliografia: MOLINIER 1886, pp. 209-210, n. 305; FILANGERI DI CANDIDA 1899, p. 239, n. 100; BANGE 1922, p. 110, n. 817; LIPPOLD 1922, p. 150, tav. CL, n. 2; KRIS 1929, I, p. 164, n. 204, II, tav. 50, n. 204; RUSCONI 1935, p. 10; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 187, n. 1164; scheda O.A. 09/00129698, 1973 (M. Casarosa); HACKENBROCH 1979, p. 76, fig. 174; P. Cannata, in ROMA 1982, p. 63, n. 50, fig. 69; POLLARD 1989, p. 238, nn. 94-95; D. Gasparotto, in BURNS-COLLARETA-GASPAROTTO 2000, pp. 345-346, n. 105; DONATI-CASADIO 2004, p. 173, n. 208; GENNAIOLI 2007, p. 365, n. 492, tav. XLII; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 2007, p. 322, n. 603
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94 - Giovanni Desiderio Bernardi, detto Giovanni da Castelbolognese (Castelbolognese, 1496-Faenza, 1553) Piatto con l’Arca di Noè
1546-1547 cristallo di rocca, montatura di piede e bordo in argento dorato, diam. cm 30,3 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Bargello 1917, n. 13
“Un bacinetto piatto di cristallo simile con l’orlo riportato d’otto pezzi commesso con arg.to dorato intagliato a baccelli ritorti et nel fondo intagliatovi l’arca di Noè, et all’intorno diversi uccelli et animali col piede d’argento dorato schietto di stima di scudi 300”. Così è descritto il piatto nell’elenco del 1589 dei beni giunti a Firenze con la dote di Cristina di Lorena, nipote prediletta di Caterina de’ Medici, la cui collezione annoverava un’ingente quantità di vasi preziosi in pietre dure, soprattutto di manifattura milanese (ASF, MdP, 6354 A, n. 10). Così come indicava il documento, il piatto raffigura sul fondo l’Arca di Noè con gli animali, mentre il corpo è intagliato a baccellature elicoidali con incisi i quattro venti e vari uccelli, tutti rivolti verso il centro. Il bordo è costituito da otto fascette di cristallo intagliate con motivi a ovoli, profilate d’argento dorato e intervallate da otto placchette raffiguranti Abramo, Isacco, Giosuè, Giacobbe, Mosè, Davide, Salomone e Cristo risorto. Il cristallo fu ipoteticamente identificato da SLOMANN (1925 e 1926) con quello con lo stesso soggetto menzionato in una lettera indirizzata il 1 maggio 1546 da Giovanni Bernardi al cardinale Alessandro Farnese, pubblicata da Ronchini nel 1868: dalla lettera risulta che in quel momento il piatto era in fattura e che il modello era un disegno di Perin del Vaga. I lavori proseguirono fino al dicembre 1547, quando il cardinale Alessandro fu informato che la “tazza” raffigurante “un diluvio con l’Arca di Noè, che s’annega tutto il mondo, cosa mai vista” era ormai finita. L’attività del medaglista e incisore Giovanni Bernardi è oggi ampiamente ricostruita (si veda la voce in Dizionario Biografico degli Italiani) e sono chiariti così i suoi rapporti coi Medici: a Roma godé della protezione dei cardinali Ippolito de’ Medici e Giovanni Salviati e per loro intercessione riuscì a lavorare per il pontefice Clemente VII. Il prezioso oggetto è presente nella Galleria degli Uffizi fino dal 1704 e ancora è registrato negli inventari del 1753 e del 1769. Passato al Museo del Bargello, fu trasferito al Museo degli Argenti nel 1921. La composizione con l’ingresso degli animali nell’arca al centro del piatto godette di particolare fortuna nella produzione glittica italiana
della seconda metà del XVI secolo e si trova riprodotta su diversi cammei assegnati dalla critica alla bottega del milanese Alessandro Masnago (cat. n. 95). M.S. Bibliografia: PLON 1883, p. 272; SLOMANN 1925, pp. 36-37; SLOMANN 1926, p. 19; KRIS 1929, I, pp. 69, 167, n. 252, II, tav. 64; MORASSI 1963, p. 44, n. 233, fig. 997; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 143, n. 292; W. Fock, in FIRENZE 1980b, pp. 218-219, n. 409; DONATI 1989, p. 182; MASSINELLI-TUENA 1992, p. 104; M. Scalini, in FIRENZE 1997b, p. 410; DISTELBERGER 2002, p. 77, fig. 15; MOSCO 2004b, p. 57; M. Sframeli, in FIRENZE 2008a, p. 68, n. 10; VENTURELLI 2009, pp. 116-117, n. 66
La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I
95 - Bottega di Alessandro Masnago L’arca di Noè
fine del XVI secolo agata e argento dorato, mm 41 × 48 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 1808
In primo piano, a sinistra, è raffigurata l’arca, verso la quale si dirige un lungo e sinuoso corteo formato da coppie di elefanti, cavalli, pecore, dromedari e leoni. A destra Noè, inginocchiato sopra una rupe, riceve da Dio l’ordine di costruire l’arca. Sullo sfondo si apre un ampio paesaggio, dominato da colline ed edifici sommariamente delineati. Montatura in argento dorato con due maglie circolari saldate alle estremità verticali. L’esemplare è ricordato da Giuseppe Pelli Bencivenni tra le gemme cosiddette “sciolte” della collezione glittica granducale (BdU, ms. 115, II, n. 1707), ovvero non fissate ad apposite tavolette di legno, con il piano coperto da velluto violaceo, custodite entro stipi o cassettoni di ebano. Diversamente dalle rappresentazioni in campo pittorico dell’episodio biblico, nel cammeo la scena risulta animata da un numero limitato di personaggi e non vi figurano Sem, Cam e Iafet, i tre figli di Noè, che talvolta sono accompagnati dalle rispettive mogli. La composizione e lo stile dell’incisione mostrano interessanti affinità con alcuni esemplari conservati al Kunsthistorisches Museum di Vienna (EICHLER-KRIS 1927, pp. 125-126, nn. 223, 224, 226, tavv. 32-33) e al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo (J. Kagan, O. Neverov, in PARIGI 2000, p. 162, n. 214/30), tutti eseguiti su agate e onici dalle sgargianti sfumature cromatiche, abilmente sfruttate per conferire particolari effetti pittorici. Tali caratteristiche hanno consentito alla critica di ricondurne l’esecuzione all’atelier del milanese Alessandro Masnago, incisore di cammei al servizio di Rodolfo II, grande estimatore dei suoi lavori, realizzati in “pietre mischie, con certe macchie, e vene di più colori, e accomodate in tal maniera con l’eccellenza del suo mirabile ingegno, che paiono pinte, e colorite” (MORIGIA 1595, p. 294). Tra le sue opere più spettacolari ricordiamo il cammeo con Giasone addomestica i tori oggi a Vienna (R. Distelberger, in VIENNA 2002, pp. 167-168, n. 84), da mettere forse in relazione con la dispersa “favola di Giasone al vello d’oro con molte figure, ed animali in calcedonio” documentata nel 1676 nella collezione di Cosimo III de’ Medici (BdU, ms. 78, Cammei moderni grandi, n. 10). Al pari di altri contemporanei, Alessando fece ricorso in più di una occasione a un vasto repertorio di stampe per le sue creazioni. Nel caso specifico
dell’ingresso nell’arca, la fonte iconografica della scena fu molto probabilmente la stessa utilizzata per la raffigurazione incisa sul fondo di un piatto in cristallo di rocca del Museo degli Argenti (cat. n. 94), per la quale la critica ha ipotizzato la derivazione da un modello grafico di Perino del Vaga. R.G. Bibliografia: EICHLER-KRIS 1927, p. 125, n. 223; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 205, n. 1738; scheda O.A. 09/00189920, 1986 (M. Casarosa); GENNAIOLI 2007, p. 335, n. 432
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96 - Arte romana (la testa) I
secolo d.C.
Antonio Gentili da Faenza (il busto) (Faenza, 1519-Roma, 1609) 1580 ca
Busto di Augusto
turchese, oro, argento dorato e agata orientale, h. cm 21,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 759
La piccola scultura poggia su un’elegante base circolare modanata in agata orientale, sulla quale si innesta un prezioso busto costituito da una spessa lamina in oro rinforzata sul retro da un fermo in argento dorato. Sul collo, sempre in oro, è montata mediante due perni una testa antica in turchese lavorata a tutto tondo. Il ritratto, dall’accurata esecuzione, raffigura l’imperatore Augusto in veste militare. Il busto, frontale, è racchiuso in una lorica dallo scollo listato, da cui fuoriesce parte della tunica pieghettata. Ai lati, rigidi e simmetrici, gli spallacci contrastano per la loro levigatezza con la ricchezza dei racemi d’acanto e del terribile gorgoneion sbalzati e cesellati al centro della corazza. La testa in turchese, leggermente voltata, si presenta fratturata e restaurata in più punti (naso, mento). Le orecchie, l’attaccatura del collo e una vasta porzione della capigliatura sul lato destro sono ricostruite mediante l’impiego di una pasta scura. L’opera è ricordata in uno degli inventari relativi il patrimonio del cardinale Ferdinando de’ Medici (ASF, GM 79, c. 23v), dal quale risulta che il pregiato busto in oro fu realizzato a Roma nel 1580 dall’orafo e incisore in rame Antonio Gentili da Faenza, coautore del celebre apparato d’altare, costituito da due candelabri e una croce, donato nel 1582 dal cardinale Alessandro Farnese al capitolo di S. Pietro (BULGARI 1958-1974, I, 1958, pp. 509-510; C. Riebesell, in ROMA-PARIGI 1998, pp. 258-259, n. 100). In seguito alla nomina di Ferdinando a granduca, il pezzo confluì nelle raccolte di famiglia e a partire dal 1589 esso è ricordato all’interno della Tribuna, dove fu posizionato insieme ad altri esemplari dello stesso tipo (cat. nn. 97-102) sullo scaffale ad altezza d’occhio che girava intorno alla stanza (GAETA BERTELÀ 1997, p. 23, n. [236]). Nel celebre ambiente progettato da Bernardo Buontalenti il bustino rimase fino al 1782, anno in cui fu trasferito nel nuovo Gabinetto delle Gemme allestito nello stanzino situato all’estremità meridionale del primo corridoio della Galleria degli Uffizi (LANZI 1782, p. 110; BdU, ms. 113, c. 270, n. 155). Da qui esso passò infine nel 1921 al Museo degli Argenti. Nel XVIII secolo Anton Francesco GORI (1731), Pierre-Jean MARIETTE (1750), Giuseppe PELLI BENCIVENNI (1779) e Luigi LANZI (1782) dedicarono al busto diverse pagine di eruditi commenti, incentrati soprattutto sulla testa antica in turchese, nella quale fu inizialmente riconosciuto un ritratto di Giulio Cesare e successivamente di Tiberio. I più recenti studi sulla ritrattistica imperiale romana hanno invece suggerito di identificare nell’effigie un ritratto idealizzato di Augusto basato sul tipo iconografico cosiddetto di “Prima Porta”, ma eseguito verosimilmente in età giulio-claudia, quando il culto per la figura divinizzata dell’imperatore conobbe una considerevole fortuna. A quel periodo rimandano, infatti, elementi stilistici quali i grandi occhi dalle pupille incise e soprattutto la resa della pettinatura, a piccole ciocche calligrafiche, appena mosse sulla fronte. L’esemplare ben testimonia il raffinato gusto collezionistico di Ferdinando per i materiali glittici, in particolare antichi, da lui raccolti in gran quantità durante la sua permanenza a Roma in qualità di cardinale. Egli fu sicuramente consapevole del pregio del ritratto in turchese di Augusto, di dimensioni davvero eccezionali, e lo dimostra la commissione ad Antonio Gentili dello splendido busto in oro con la mirabile testa di Medusa dall’espressione spaventosa. Proprio l’aggiunta di questo prezioso
complemento, che esalta il colore della pietra, ne fece uno dei pezzi più ammirati nel XVIII secolo della Galleria degli Uffizi, riprodotto da Giuseppe Grisoni in un disegno conservato all’Art Institute di Chicago (M. McCrory, in FIRENZE-CHICAGO-DETROIT 2002, pp. 309-310, n. 174) e da Johann Zoffany nella sua celebre Tribuna degli Uffizi a Windsor (MILLAR 1966, p. 15). R.G. Bibliografia: BOCCHI 1591, p. 52; BOCCHI-CINELLI 1677, p. 107; GORI 1731-1732, I, 1731, pp. 14-15, tav. III; MARIETTE 1750, I, pp. 192-194; BENCIVENNI PELLI 1779, II, pp. 142-143; LANZI 1782, p. 110; ZACCHIROLI 1783, p. 143; DAVID 1787-1802, I, 1787, p. 9, tav. V; BERNOULLI 1882-1894, II, 1, 1886, p. 46; REINACH 1895, pp. 16-17, tav. 6, 1, 3; THIEME-BECKER 1907-1950, XIII, 1920, pp. 412-413; RUSCONI 1935, p. 8; MORASSI 1963, p. 10, tav. 1; MILLAR 1966, p. 15; VOLLENWEIDER 1966; p. 66 nota 5; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 140, n. 234; ASCHENGREEN PIACENTI 1969, p. 76; MCCRORY 1979, p. 513; C.W. Fock, in FIRENZE 1980b, p. 229, n. 436; FOCK 1980, p. 343; HEIKAMP 1983, pp. 470, 511, 535 nota 190; MEGOW 1987, pp. 168-169, n. A 23, tav. 13, 1-2; GIULIANO 1989, p. 71; MASSINELLI-TUENA 1992, pp. 70, 120; BOSCHUNG 1993, p. 152, n. 99, tav. 204, 3-6; M. McCrory, in FIRENZE-CHICAGO-DETROIT 2002, pp. 309-310, n. 174; FUSCO-CORTI 2006, pp. 321-322, nota 1; PAOLUCCI 2006, p. 79, n. 4, tav. 3; SCALINI 2008, p. 28, fig. 14; A. Malquori, in FIRENZE 2008b, p. 120, n. 35
La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I
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97 - Arte romana (la testa)
ultimo ventennio del I secolo d.C.
Manifattura fiorentina (il busto) 1580-1589
Busto femminile (Domizia?)
cristallo di rocca, alabastro orientale, marmo e argento dorato, h. cm 17,8 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 526
Il bustino, in alabastro orientale, è sostenuto da una base circolare modanata in marmo poggiante sopra un gradino quadrangolare. Il petto si presenta attraversato da una cinghia in argento dorato, sulla quale sono incisi piccoli fleurs de lis. Alla base del collo, un’elegante collana, sempre in argento dorato, nasconde la congiunzione con la testa in cristallo di rocca. Questa è contraddistinta da un alto diadema e da una elaborata acconciatura, formata sulla nuca da piccole trecce raccolte “a nido”. Il naso presenta un’ampia integrazione in cristallo di rocca fino alla radice. “Una testa di cristallo di montagna antica con suo petto d’alabastro orientale con sua cinta a traverso d’argento dorato, posa su un peduccio d’osso nero, n. 1” (GAETA BERTELÀ 1997, p. 34, n. [414]). Così il bustino viene descritto nel più antico degli inventari della Tribuna degli Uffizi risalente al 1589, in cui è specificato che esso era collocato su uno dei gradini del quinto arco in legno miniato d’oro sormontato dal perduto gruppo in argento del Giambologna con Ercole e il centauro. I successivi inventari della Galleria (BdU, ms. 75 [1635], n. 389; BdU, ms. 76 [1638], n. 416; BdU, ms. 82 [1704-1714], n. 2067; BdU, ms. 95 [1753], n. 1787; BdU, ms. 98 [1769], n. 1327) registrano lo spostamento del pezzo sopra uno dei palchetti posti ad altezza d’occhio lungo le pareti del superbo ambiente ideato dal Buontalenti. Nonostante i cambiamenti radicali introdotti nella Tribuna nel corso del tardo XVIII secolo, un’idea di questa disposizione può essere ricavata da uno dei disegni eseguiti da Giuseppe Magni per la serie, mai portata a termine, di vedute della Galleria di Vincenzo de Greyss (Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. n. 4583F), dove tra le piccole sculture e oggetti preziosi dislocati sullo scaffale di sinistra della settima parete figura anche il busto del Museo degli Argenti. Nel 1782 l’esemplare abbandonò definitivamente la Tribuna per essere sistemato “nell’Armadio II” del nuovo Gabinetto delle Gemme (BdU, ms. 113 [1784], Classe VI, n. 90), all’interno del quale rimase fino al suo trasferimento, nel 1921, presso l’attuale sede espositiva. A partire dall’Inventario generale del 1704-1714 (BdU, ms. 82, n. 2067) la preziosa testa in cristallo di rocca, di notevole interesse, considerata la rarità di simili manufatti in pietre pregiate risalenti ad epoca romana, fu giudicata dai conservatori granducali un ritratto dell’imperatrice Domizia, moglie di Domiziano, e con questa denominazione è ricordata anche dall’estensore dell’inventario del 1921. Diversamente Anton Francesco Gori nel primo volume del Museum Florentinum vi riconobbe Sabina, figlia di Matidia e consorte dell’imperatore Adriano (GORI 1731-1732, I, 1731, pp. 33-34). La complessa acconciatura, fermata sopra la fronte da un alto diadema, simbolo di dignità imperiale, consente di ricondurre l’esemplare ad età flavia. Tale impressione sembra confermata dalle strette affinità che esso presenta con le effigi glittiche e marmoree proprio di Domizia (MANSUELLI 1958-1961, II, 1961, pp. 75-76, n. 75, fig. 79; BERNOULLI 1882-1894, II, 2, 1891, p. 65, tav. XXI; MEGOW 1987, pp. 262-263, nn. B 29-30), alle quali la testina del Museo degli Argenti si ricollega per il tipo di pettinatura e per una certa somiglianza dei lineamenti del volto. La citazione del pezzo nell’inventario della Tribuna del 1589 costituisce invece un sicuro termine ante quem per la datazione del busto in alabastro. Nonostante la presenza dei fleurs de lis incisi sulla cintura in argento dorato potrebbe far pensare a uno dei preziosi oggetti giunti a Firenze con la dote di Cristina di Lorena, nipote di Caterina de’ Medici, le caratteristiche tecniche dell’opera, le sue dimensioni e i materiali di cui si compone ricordano molto da vicino quelli di altri cinque esemplari (cat.
nn. 98-101), tutti menzionati nella Tribuna e assemblati verosimilmente nelle botteghe granducali. Infatti, essi sono a loro volta confrontabili con i quattro bustini provenienti dal perduto studiolo di Francesco I de’ Medici (Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, nn. 452, 455, 522, 794), formati da torsi in alabastro di diverse qualità sui quali furono sistemate teste antiche in calcedonio di imperatori romani (HEIKAMP 1963, p. 216; MASSINELLI 1990, p. 113; D. Heikamp, in FIRENZE 1988, p. 94, nn. 11, I, II, III, IV). La notizia di un pagamento allo scultore Antonio Susini nel maggio del 1585 per il modello di uno dei pezzi dello studiolo (D. Heikamp, in FIRENZE 1988, p. 94, nn. 11, I, II, III, IV) testimonia la realizzazione a Firenze di simili lavori, e forse al penultimo decennio del secolo va ricondotto anche il montaggio degli altri busti citati, destinati da Francesco I, o dal fratello e successore Ferdinando I, al decoro della Tribuna. R.G. Bibliografia: GORI 1731-1732, I, 1731, pp. 33-34, tav. XII; DAVID 1787-1802, I, 1787, p. 41, tav. XIV, II; REINACH 1895, p. 18, tav. 9, 1, 12; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 135, n. 93; CASAROSA GUADAGNI 1973, p. 296, n. 135; GIULIANO 1989, p. 132
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98 - Arte romana (la testa) II
secolo d.C.
Manifattura fiorentina (il busto) 1580-1589
Busto femminile
cristallo di rocca, alabastro, alabastro orientale e argento dorato, h. cm 16,2 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 533
La piccola scultura poggia su una base modanata di forma circolare in alabastro posta sopra un basso plinto realizzato nello stesso materiale. Il busto, sempre in alabastro, appare parzialmente coperto da un drappo in argento dorato affibbiato sulla spalla destra. Sul collo è montata una testa in cristallo di rocca raffigurante una giovane donna dai grandi occhi incorniciati dall’arcata sopracciliare. I capelli, scriminati al centro, formano due alte bande ai lati della fronte, mentre al sommo del capo si dispongono in ciocche appena ondulate aderenti al cranio. Tutta la nuca presenta evidenti segni di rilavorazione; il naso è stato restaurato utilizzando il cristallo di rocca. L’opera non è documentata prima del 1589, quando venne stilato il più antico degli inventari della Tribuna, dove compare “Una testa di cristallo di montagna antica con suo petto d’alabastro cotognino e panno d’argento dorato, posa su un peduccio d’osso nero, n. 1” collocata su uno dei “palchetti” lignei che ornavano le pareti della sala (GAETA BERTELÀ 1997, p. 34, n. [404]). Come il precedente esemplare (cat. n. 97), il bustino è registrato in tutti i successivi inventari della Galleria (BdU, ms. 75 [1635], n. 383; BdU, ms. 76 [1638], n. 410; BdU, ms. 82 [1704-1714], n. 2068;
BdU, ms. 95 [1753], n. 1797; BdU, ms. 98 [1769], n. 1337) e dalla Tribuna passò nel 1782 nel Gabinetto delle Gemme (BdU, ms. 113 [1784], Classe VI, n. 87), all’interno del quale fu sistemato in uno dei sei armadi a muro che si aprivano sulle pareti. Nonostante l’effigie riprodotta nella testa in cristallo di rocca non sia riconducibile a nessun tipo ritrattistico, le caratteristiche del modellato del volto, con gli occhi nettamente delineati, e il tipo di acconciatura, simile nella parte anteriore a quella di un ritratto di Faustina Maggiore in cristallo di rocca al Museo del Louvre (MEGOW 1987, p. 266, n. B 38, tav. 44,10.12; PAOLUCCI 2006, pp. 90-91, n. 24, tav. 24), fanno ascrivere questo esemplare all’età antonina. R.G. Bibliografia: GORI 1731-1732, I, 1731, pp. 69-70, tav. XXXI; DAVID 1787-1802, I, 1787, p. 126, tav. XL; REINACH 1895, p. 23, tav. 15, 1, 31; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 135, n. 100; CASAROSA GUADAGNI 1973, p. 296, n. 142
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99 - Arte romana (la testa) prima metà del IV secolo d.C.
Manifattura fiorentina (il busto) 1580-1589
Busto di Apollo
cristallo di rocca, alabastro orientale, argento e metallo dorati, h. cm 19 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 408
Il bustino, raffigurante Apollo, è montato su una base circolare modanata in alabastro collocata sopra un doppio plinto quadrangolare realizzato nello stesso tipo di pietra e in legno tinto di scuro. Diversi pezzi di alabastro compongono anche il petto della scultura, parzialmente coperto da un manto in argento dorato ornato da raggi e da sinuose lingue di fuoco. La testa, in cristallo di rocca, presenta sette fori entro i quali sono inserite piccole aste in metallo dorato formanti la corona solare del dio. Il volto imberbe conserva i tratti di un uomo dai grandi occhi evidenziati dalle lunghe arcate sopracciliari, segnate da piccole incisioni parallele, e dalla bocca aperta contornata da labbra sottili. I capelli creano grosse ciocche arricciate e rialzate intorno all’ampia fronte, mentre sulla nuca si articolano in fasce concentriche. Anche questo esemplare (come catt. nn. 96, 98, 101) era collocato in origine sui “palchetti” della Tribuna degli Uffizi. L’inventario del 1589 cita infatti “Una testina di cristallo orientale antica con sprendori d’argento dorato con petto d’alabastro cotognino, panni d’argento dorato, peduccio di mistio, n. 1” (GAETA BERTELÀ 1997, p. 26, n. [293]). Degli originali “sprendori” della corona radiata solo uno ne rimaneva nel 1704 (BdU, ms. 82, n. 1957) e fu rimosso prima della compilazione del catalogo generale della Galleria del 1753 (BdU, ms. 95, n. 1783), dove tale elemento decorativo non è più menzionato. Gli attuali raggi in metallo dorato sono il frutto di una integrazione eseguita nel tardo XVIII secolo, verosimilmente poco prima del trasferimento del pezzo nel Gabinetto delle Gemme, dato che qui lo ricorda il Lanzi nel 1782 definendolo un “Nerone in cristallo di monte in atto di cantare, ornato il capo di raggi per travestirlo con le divise di Apollo” (LANZI 1782, p. 109). L’identificazione avanzata dal celebre erudito non trova in realtà confronti stringenti nella ritrattistica neroniana, dalla quale si discosta profondamente per la fisionomia del personaggio, lo stile dell’incisione e l’atteggiamento della bocca. Quest’ultimo particolare, del tutto privo di raffronti anche fra le statue degli altri imperatori, fa sorgere il sospetto di una notevole rielaborazione post classica condotta su un’opera tardo antica. Infatti i caratteri formali della testa in cristallo di rocca in corrispondenza della nuca e della parte alta del volto, contraddistinto dai grandi occhi dalla pupilla incisa, inducono a collocarla nell’ambito della produzione artistica della prima metà del IV secolo d.C. R.G Bibliografia: LANZI 1782, p. 109; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 131, n. 10; CASAROSA GUADAGNI 1973, p. 296, n. 9
100 - Arte romana (la testa) II
secolo d.C.
Manifattura fiorentina (il busto) 1580-1589
Busto di Giove Serapide
calcedonio orientale, alabastro orientale, argento e metallo dorati, h. cm 15 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 797
La piccola scultura presenta un piede circolare modanato con collarino liscio in metallo dorato, sul quale è montato un busto in alabastro orientale frammentario attraversato da un elegante panneggio in argento dorato, fermato sulla spalla destra da un nodo. La testa, in calcedonio, raffigura Giove Serapide, divinità sincretistica derivante dalla fusione dell’egizio Osiride-Apis con il greco Zeus-Hades. Il dio, caratterizzato da un alto modium in argento dorato, ha il volto barbato e una folta capigliatura formata da grandi ciocche che ricadono sulla fronte. Parte dei ricci centrali della barba presentano segni di rilavorazione. La prima menzione dell’opera si trova nell’inventario della Tribuna del 1589, in cui è descritta come “Una testa di cristallo di monte di un Giove capitulino con una cesta in capo d’argento dorato e petto d’alabastro e panno d’argento dorato con suo peduccio d’osso nero, n. 1” (GAETA BERTELÀ 1997, p. 36, n. [438]). Stando a quanto riferito dal documento, il pezzo, a quell’epoca dotato di una base diversa da quella attuale, era collocato insieme a un vaso di cristallo verde e a tre bronzetti antichi sopra una delle dodici piramidi in legno miniato d’oro appoggiate alle pareti della sala (HEIKAMP 1964, 12). Tuttavia, già dal 1635 esso risulta spostato su uno dei palchetti formanti lo scaffale che girava ad altezza d’occhio intorno alla Tribuna (BdU, ms. 75 [1635], n. 258), dove rimase fino al 1782, quando fu trasferito nel nuovo Gabinetto delle Gemme (LANZI 1782, p. 109; BdU, ms. 113 [1784], Classe VI, n. 57). A testimonianza della fortuna del soggetto nella glittica antica rimangono diversi esemplari in pietre dure e semipreziose lavorati a tutto tondo, tra i quali uno dei più notevoli è il Busto di Giove Serapide della collezione Farnese al Museo Archeologico Nazionale di Napoli (T. Giove, A. Villone, in GASPARRI 1994, p. 148, n. 477, fig. 79), appartenente forse a una statuetta raffigurante il dio seduto in trono secondo il modello iconografico della scultura collocata nel Serapeum di Alessandria (PAOLUCCI 2006, pp. 104-105, n. 44). Il pezzo del Museo degli Argenti è confrontabile per la resa del volto, dei capelli e della barba, formata da lunghi ricci calamistrati, con una testa in calcedonio di Giove Serapide conservata presso i Musei Vaticani di Roma (RIGHETTI 19551956, p. 330, fig. 1, tav. I; PAOLUCCI 2006, p. 104, n. 43, tav. 44), ricondotta da Carlo Gasparri (in COLORNO-MONACO-NAPOLI 1995, pp. 419-420, n. 197) al II secolo d.C., epoca alla quale può essere datata anche la pietra fiorentina. Il petto trova invece diretti raffronti con quelli di altri cinque bustini della stessa raccolta (cat. nn. 97-99, 101-102), la cui unitarietà dei modi di esecuzione fa pensare all’intervento di un’unica bottega, da identificare molto probabilmente con una delle officine di esperti artefici create da Francesco I de’ Medici e poi potenziate dal fratello Ferdinando I. R.G. Bibliografia: GORI 1731-1732, I, 1731, p. 106, tav. LII; LANZI 1782, p. 109; DAVID 1787-1802, I, 1787, p. 207, tav. LXXXII; REINACH 1895, p. 31, tav. 26, 1, 52; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 141, n. 254; ASCHENGREEN PIACENTI 1969, p. 26; CASAROSA GUADAGNI 1973, p. 295, n. 408; GIULIANO 1989, p. 296; C. Gasparri, in COLORNO-MONACO-NAPOLI 1995, pp. 419-420, sub n. 197
La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I
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101 - Manifattura fiorentina
102 - Manifattura fiorentina
Busto di satiro
Busto di Laocoonte
1580-1589
pasta di colore azzurro, alabastro, argento dorato ed ebano, h. cm 18,2 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 415
Il busto è costituito da una base circolare modanata in ebano tornito, alla quale è fissato un petto in alabastro attraversato da una fascia in argento dorato che, salendo sulla spalla destra, si insinua sotto una pelle di ariete, realizzata anch’essa in argento fuso, cesellato e dorato, per poi ricadere sulla spalla sinistra. In corrispondenza della radice del collo è innestata una testa in pasta di colore azzurro. Questa, leggermente rivolta a destra, raffigura un giovane satiro dalla fronte aggrottata. Piccoli elementi veristici, come le labbra carnose, il naso camuso e le grosse ciocche di capelli scomposte e arricciate, ne lasciano trasparire la natura selvatica. Ampie scheggiature e fratture sono visibili sul petto, sul collo, sulla fronte e su tutta la nuca. Dall’inventario della Tribuna del 1589, dove l’opera è citata per la prima volta (GAETA BERTELÀ 1997, p. 26, n. [284]), si evince che gli occhi, ora privi dei globi, erano costituiti in origine da due granati, risultanti mancanti già nel catalogo generale della Galleria stilato fra il 1704 e il 1714 (BdU, ms. 82, n. 2064). Al pari dei busti di Augusto e di Apollo (cat. nn. 96, 99), anche l’esemplare qui considerato fu esposto sopra uno dei palchetti della Tribuna dal 1589 fino al 1782, quando venne inviato al nuovo Gabinetto delle Gemme, allestito dall’architetto Zanobi Filippo del Rosso nel cosiddetto “Stanzino di Madama” situato all’estremità meridionale del primo corridoio della Galleria degli Uffizi. L’uso di una pasta di color azzurro per la realizzazione della testa dimostra l’intenzione di voler replicare materiali pregiati come il lapislazzuli, pietra particolarmente apprezzata alla corte medicea. Questa parte dell’opera è sempre stata giudicata antica dai conservatori granducali e con la stessa attribuzione si trova menzionata anche nell’inventario compilato nel 1921 al momento del suo ingresso al Museo degli Argenti. Tuttavia i caratteri stilistici del volto del satiro e soprattutto la mancanza di precisi termini di confronto nella produzione glittica di età romana non sembrano avvalorare tale ipotesi, suggerendone una datazione al XVI secolo. Elemento significativo nel busto è la nebride, la cui testa di ariete è forse da mettere in relazione con il segno zodiacale di Francesco I, il quale lo utilizzò sotto forma di impresa (cfr. M. Privitera, in FIRENZE 1997b, p. 191, n. 147). Inoltre altrettanto degna di nota è l’assenza della simmetria, che l’artista ha voluto eliminare non solo con l’elegante gioco del panneggio, ma anche con le due brevi sezioni di braccia, concepite in modo da suggerire una lieve torsione del busto. R.G. Bibliografia: ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 131, n. 17; CASAROSA GUADAGNI 1973, p. 294, n. 16
1580-1589
serpentino, alabastro orientale, argento e metallo dorati, h. cm 14,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 652
L’opera è dotata di un piede circolare modanato in metallo dorato sul quale è montato un piccolo busto in alabastro orientale raffigurante Laocoonte. Il petto, integrato in più punti e ornato da un panneggio in argento dorato, si presenta finemente lavorato in prossimità delle spalle, avvinghiate tra le spire del serpente marino che, secondo il mito, strangolò il sacerdote troiano. La testa, in serpentino, è rivolta all’indietro e mostra un’estrema cura nella resa dei dettagli: barba e capelli sono formati da piccole ciocche arricciate; la bocca, semiaperta, è incorniciata da folti baffi; gli occhi hanno palpebre spesse e pupilla incisa. L’esemplare può essere identificato con la “testina di pietra verde con petto d’alabastro, guarnita d’argento dorato con suo peduccio d’ebano, n. 1” ricordata nell’inventario della Tribuna del 1589 (GAETA BERTELÀ 1997, p. 24, n. [255]). All’interno del sontuoso ambiente espositivo l’opera occupava una posizione simile a quella del Busto femminile con testa in cristallo di rocca del I secolo d.C. (cat. n. 97). Come questo, infatti, il Laocoonte non era situato su uno dei palchetti del cosiddetto “secondo ordine” della Tribuna, bensì sopra uno dei gradini del primo arco sormontato dall’Ercole e Anteo in argento del Giambologna, che ospitava anche sei bronzetti, due tazze in pietre dure e “Due palle di bronzo dorato che fanno sonaglio, alla turchesca” (Ibid.). La piccola scultura mostra solo delle vaghe somiglianze con il celebre gruppo ellenistico scoperto a Roma nel 1506, al quale sembra rifarsi per la posizione della testa. Proprio il particolare atteggiamento del frammento in serpentino, proveniente forse da un’antica figura d’Ercole, dovette suggerire all’artista il suo uso per un Laocoonte, alla cui identificazione concorrono le spire di serpente accuratamente lavorate a piccole squame. La squisita fattura dell’opera e le sue caratteristiche tecniche ne consentono l’accostamento agli altri cinque bustini esposti in questa sede (catt. nn. 97101) e ai quattro bustini, sempre al Museo degli Argenti, provenienti dallo studiolo della Tribuna di Francesco I (HEIKAMP 1963, p. 216; D. Heikamp, in FIRENZE 1988, p. 94, nn. 11, I, II, III, IV; MASSINELLI 1990, p. 113). R.G. Bibliografia: ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 138, n. 165; CASAROSA GUADAGNI 1973, p. 294, n. 261
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103 - Giuseppe Sacconi (notizie dal 1762 al 1806) Inventario disegnato della Galleria di Firenze: Veduta della Tribuna con lo stipo di Ferdinando I 1764 ca-entro il 1773 penna, matita, mm 508 × 365 Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. 4580 F
L’Inventario disegnato della galleria granducale, commissionato al domenicano Benedetto Vincenzo De Greyss da Francesco Stefano di Lorena intorno alla metà del Settecento, si inserisce tra le molteplici iniziative, ispirate a intenti celebrativi e insieme di illuminata erudizione, che si andavano realizzando in tutta Europa per diffondere attraverso le immagine la conoscenza di raccolte antiquarie e artistiche. Tale progetto, per cui fu forse di modello il Prodromus viennese, illustrazione della collezione imperiale pubblicata alcuni anni prima (HEIKAMP 1969, p. 3), trovò piena rispondenza nell’ambiente fiorentino, salvo poi non godere in un secondo tempo di giudizi positivi così da essere interrotto senza che se ne vedesse la conclusione né tanto meno una traduzione a stampa (BAROCCHI 1982, pp. 1446-1447). L’oggettiva lentezza con cui questa “opera eterna” procedeva – nel 1773 dopo “ventitré anni l’impresa dei” numerosi “toccatori in penna” aveva “fatto solamente le pareti del corridore, cinque lati della tribuna, le stanze dei ritratti dei pittori e una parte delle soffitte del corridore” –, e inoltre le controindicazioni tecniche rilevate da Giuseppe Magni divenutone nel frattempo il coordinatore, lui stesso pronto “ad osservare che questi disegni, per la minutezza, non si potrebbero intagliare in rame mai bene” (in FILETI MAZZA-TOMASELLO 1999, pp. 166-167), convinsero infatti della opportunità di sospendere il lavoro. Non meno decisive furono d’altro canto le osservazioni di Giuseppe Querci, allora direttore della Galleria, preoccupato nel 1769 di come quest’opera si sarebbe potuta rivelare “un giorno poco fedele ed esatta” stante il “nuovo ordine e sistema” già “da gran tempo” prefigurato da “S.A.R. per la S.R. Galleria” (in BAROCCHIGAETA BERTELÀ 1986, pp. 1122-1123). Oggi, a contraddire questo giudizio, il valore di questi fogli consiste proprio nell’essere testimonianza di quale fosse la disposizione delle collezioni granducali prima delle trasformazioni leopoldine; documento insostituibile quindi, e al più integrabile dagli schemi assai più rozzi, da un punto di vista grafico, del Catalogo dimostrativo redatto nel 1768 da Giuseppe Bianchi. In particolare la pagina che qui si presenta ci restituisce l’immagine di quella che all’epoca, ancora per poco a dire il vero, veniva considerata la parete più importante della Tribuna data la presenza dello ‘Studiolo Grande’ di Ferdinando I, entro il 1603 “fatto ad istanza del Gran Duca”, il cui ritratto ovale a mosaico domina dall’alto quale nume tutelare del tesoro mediceo. Siamo intorno al 1764 e se già Edward Gibbon, che nel diario di viaggio registra a questa data come i copisti stessero lavorando appunto in quella sala, si dimostra soprattutto attratto dalla Venere dei Medici, molti visitatori, come l’Abbè Cochin nel 1758, rimanevano pur sempre abbagliati dal contenuto dei “due armadi riempiti di ogni sorta di vasi e gioie di cristallo di rocca, di lapislazzuli e delle pietre più preziose”, soprattutto “dallo stipo” e dalle “piccole antichità addossate alle pareti” (in FIRENZE 1970, p. 18) . Giuseppe Sacconi, al quale riteniamo in assenza della firma di poter restituire il foglio per la somiglianza con un’altra pagina del volume, certamente eseguita da lui, che si segnala per il tratto più acuto e netto rispetto alle prove dei colleghi, ne delinea con prodigiosa cura l’assetto complessivo, indugia sulla puntigliosa definizione delle tele ma ci priva al contempo, e con qualche disappunto, di ogni dettaglio relativo allo stipo. Una scelta dipesa forse dal bisogno di chiudere velocemente il pezzo o un segno dei tempi, piuttosto che il riscontro di uno stato di fatto, come induce
a pensare l’analoga semplificazione in chiave neoclassica del pavimento; laddove invece sappiamo che almeno le lunette del Giambologna con i “bassorilievi in foglia d’oro sopra le giade” e lo stemma mediceo in quarzo citrino continuarono ad arricchire per qualche anno il mobile, preludendo alla preziosità del suo contenuto (in FIRENZE 1988, pp. 98, 103). A.G. Bibliografia: HEIKAMP 1964, pp. 11-30; HEIKAMP 1969, p. 3; FIRENZE 1970, pp. 11-21; BORRONI SALVADORI 1982, I, pp. 7-69; BAROCCHI 1982, pp. 1446-1447; HEIKAMP 1983, pp. 476-525; BAROCCHI-GAETA BERTELÀ 1986, pp. 1122-1123; FIRENZE 1988, pp. 98, 103; FILETI MAZZA-TOMASELLO 1996; FILETI MAZZA-TOMASELLO 1999, pp. 70-72, 1446-1447; FILETI MAZZA-SPALLETTI-TOMASELLO 2008, pp. 20-48; BELLESI 2009, p. 245
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104 - Bernardino Gaffurri (Milano, ?-Firenze, 1606) Jaques Bylivelt (Deft, 1550-Firenze, 1603) Ovale con prospettiva della piazza granducale
1599-1600 mosaico in pietre dure (calcedonio orientale traslucido, lapislazzuli di Persia, corniola, eliotropio, cristallo di rocca), con filettature in oro e bassorilievi a stampaggio in oro, cornice in metallo dorato, cm 18 × 25,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 823
L’ovale con il prospetto della Piazza granducale fu realizzato sul finire del Cinquecento per ornare l’interno della nicchia dello Studiolo Grande, suntuoso arredo commissionato a Bernardo Buontalenti dal granduca Ferdinando I e destinato al vano centrale della Tribuna degli Uffizi. Il fastoso stipo, eseguito tra il 1593 e il 1601, con struttura in legno di ebano, era impreziosito con perle e gemme, quali topazi, zaffiri, acquemarine, ametiste, smeraldi, rubini, e arricchito con quattro bassorilievi in oro in cui erano raffigurati episodi del regno di Francesco I, questi ultimi provenienti dal famoso studiolo-tempietto in ebano e pietre dure creato da suo fratello e predecessore ed esposto al centro della Tribuna, sopra un tavolo ottagonale intarsiato di pietre dure (cfr. cat. n. 105).
Vista la complessità dell’arredo e i molteplici materiali impiegati, furono coinvolti nella realizzazione molti valenti artefici che operavano a servizio della corte, dall’anziano falegname Domenico di Battista Tasso, all’orafo Giovanni Domes, che modellò in argento e argento dorato tutti i capitelli per le colonne in lapislazzuli. Per quanto concerne il prezioso ovale questo fu affidato per le parti a mosaico in pietre dure all’intagliatore milanese Bernardino Gaffurri – come risulta dal contratto stipulato in data 12 luglio 1599 –, mentre l’orafo olandese Jaques Bylivelt venne incaricato di eseguire i bassorilievi stampati in lamina d’oro e la montatura della maggior parte dei gioielli. A questo stimato maestro si deve inoltre pensare come supervisore delle varie fasi di realizzazione della preziosa
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veduta in qualità della sua funzione di ‘direttore artistico’ e garante del livello qualitativo dei lavori in Galleria. L’ovato rimase insieme al mobile nella sua collocazione originaria per quasi due secoli, fino a quando lo stipo, già privato di moltissime pietre preziose e perle, e ormai considerato per il gusto settecentesco “barbaro alquanto”, fu trasferito nel 1780 nel Reale Gabinetto di Fisica e Storia Naturale (l’odierno Museo Zoologico La Specola) e qui successivamente smantellato. Nel 1825 l’opera è menzionata nella Guardaroba dei Lorena e intorno alla metà dell’Ottocento risulta esposta nel Gabinetto delle Gemme della Galleria degli Uffizi. Il prezioso ovale, già posto in posizione centrale nello studiolo di Ferdinando, presenta una veduta spettacolare di piazza della Signoria e degli Uffizi, vista a partire dal Monumento equestre di Cosimo I, dietro il quale si allineano la Fonte di Piazza, il Marzocco, il David e l’Ercole e Caco. La Loggia, vista frontalmente, ostenta sotto le due arcate laterali la Giuditta e il Ratto delle Sabine. Nonostante la precisione della veduta i materiali prescelti per raffigurare lo spazio urbano contrastano profondamente con quelli sobri della piazza stessa, delle sue statue e dei suoi edifici. La pavimentazione a riquadri in pietra e mattone, umile nella sostanza ma pregiata nel disegno, è realizzata con preziosi diaspri filettati in oro; le superfici in pietra forte e intonaco delle architetture sono ora miniate in argento macinato su cui appaiono incise le commettiture delle pietre, le finestre e i beccatelli dei terrazzi, esaltate e protette da sottili lastre di cristallo di rocca. I gruppi scultorei in bronzo e in marmo situati nella piazza sono realizzati in lamina d’oro. Modello della veduta è una xilografia anonima pubblicata nel 1583 come frontespizio di una pubblicazione data alle stampe da Bartolomeo Sermartelli, contenente Alcune composizioni in lode del ritratto della Sabina, scolpito in marmo dall’eccellentissimo M. Giovanni Bologna, posto nella piazza del Serenissimo Gran Duca della Toscana, che già aveva definito (dopo che nel 1565, in occasione delle nozze di Francesco de’ Medici con Giovanna d’Austria, era stata inaugurata la Fonte) una nuova visione della piazza, precedentemente impostata sul fronte del Palazzo della Signoria, e ora angolata a privilegiare l’asse dalla fontana alla loggia, ulteriormente esaltato nel nostro ovale dove fu aggiunta la statua equestre del granduca Cosimo I del Giambologna, terminata nel 1594 e commissionata all’artista da Ferdinando I in onore e in memoria del padre e del suo governo. La compresenza di diverse tecniche impiegate nel definire l’opera (come l’incisione, la miniatura, il commesso con filettature in oro) rimanda a modi propri della fase ancora arcaica e sperimentale dei lavori in commesso in pietre dure, che appunto verrà superata proprio durante il governo di Ferdinando I. Il Bylivelt testimonia in questi lavori la sua versatilità e la sua capacità di cimentarsi in campi diversi dal suo originale mestiere di gioielliere. Già nel 1586 lo stesso artista aveva d’altra parte eseguito per il granduca Francesco alcuni bassorilievi in oro per uno studiolo di ebano, a confermare, da parte sua una consuetudine con tali lavori, da parte del committente un gusto fortemente orientato nei confronti di tali opere. E.N. Bibliografia: ZOBI 18532, p. 197; HEIKAMP 1963, pp. 226, 251 doc. 46, 254 doc. 57; HEIKAMP 1964, pp. 18, 28-29; BERTI 1967, p. 137; CASAROSA GUADAGNI 1973, pp. 292, 294 n. 441; FOCK 1974, p. 176; C.W. Fock, in FIRENZE 1980b, p. 236, n. 449; D. Heikamp, in FIRENZE 1988, p. 104, n. 12.IX; MASSINELLI 1990, p. 120, fig. 14; S. Blasio, in FIRENZE 1997b, pp. 7879, n. 40; M. McCrory, in FIRENZE-CHICAGO-DETROIT 2002, pp. 256-257, n. 115; A. Giusti, in NEW YORK 2008, pp. 162-163
La rinascita della collezione medicea. Cosimo I, Francesco I e Ferdinando I
105 - Giambologna (Douai, 1529-Firenze, 1608) Antonio Susini (Firenze, 1558-1624) Cesare Targone (attivo dal 1580 ca) Fondazione di Cosmopolis-Portoferraio Regolazione delle acque dell’Arno Fortificazione del Belvedere a Firenze Trasformazione della fortificazione di Livorno
1585-1587 bassorilievi in lamina d’oro su fondo di diaspro, cm 6,5 × 15 e 7 × 15,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, nn. 820, 819, 818, 816
I quattro rilievi in oro facevano parte di una serie ideata per decorare lo stipo in ebano progettato da Bernardo Buontalenti per Francesco I de’ Medici, a documentare gli Atti di Francesco I, cioè le imprese più importanti compiute dal granduca durante il suo governo. Il mobile, iniziato nel 1584, richiese per la straordinaria complessità della struttura ben quattro anni di lavoro, in parte impegnati proprio per la realizzazione dei rilievi, dei quali recentemente Barbara Bertelli ha ricostruito compiutamente la genesi in occasione della mostra Giambologna. Gli dei, gli eroi. In particolare sappiamo dai documenti che nell’aprile del 1585 erano stati effettuati i primi pagamenti all’orafo Cesare Targone per realizzare in oro i bassorilievi dopo che i modelli in cera bianca erano stati ideati dal Giambologna ed eseguite le matrici in bronzo nella sua bottega, con l’intervento di Antonio Susini. Nel settembre 1587
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queste matrici servirono all’orafo per la fattura dei sottilissimi rilievi in lamina d’oro, che quindi non vennero fusi ma realizzati con la tecnica dello stampaggio, e poi accuratamente rinettati. Il prezioso mobile per il quale i lavori erano stati ideati, a pianta ottagonale, definito negli atti della Guardaroba Medicea “Studiolo Nuovo”, era stato collocato al centro della Tribuna sopra un tavolo intarsiato in pietre dure appositamente creato e realizzato in armonia con lo spazio della Tribuna stessa e con il disegno del pavimento. L’arredo era destinato a custodire medaglie d’oro e d’argento, così come monete antiche della collezione del granduca, e di certo per la preziosità dei materiali e per la complessità costruttiva non poteva non suscitare l’attenzione dei visitatori della Galleria, che in più di una occasione lo hanno documentato con descrizioni e schizzi. D’altra parte l’intero progetto della Tribuna, sia per le carat-
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teristiche del contenitore sia per i tesori che conteneva, era destinato a meravigliare il fortunato ospite e, con questo, a glorificare il principe. Dopo il loro impiego nello Studiolo Nuovo, succeduto a Francesco il fratello, Ferdinando I, le lunette con quattro degli “Atti di Francesco” furono utilizzate per adornare un nuovo stipo, questa volta detto Studiolo Grande, costruito per committenza del granduca dal 1593, e destinato a decorare la nicchia posta di fronte alla porta di ingresso della Tribuna. I lavori, in particolare, vennero sistemati sull’esterno di quattro sportelli entro archi situati sulla facciata.
Il fastoso stipo subì alterne fortune: privato nel corso del tempo di alcune delle pietre preziose e delle perle che lo decoravano, fu trasferito tra il 1629 e il 1635 nella Sala di Madama, l’odierno Gabinetto delle miniature, e successivamente nel 1780 nel Reale Gabinetto di Fisica e Storia Naturale (l’odierno Museo Zoologico La Specola). In questa sede il mobile venne smantellato e, per tale motivo, non compare citato nell’Inventario dei mobili del museo del 1793. I rilievi uscirono quindi dalle proprietà demaniali e, dopo vari tentativi di acquisto, vennero finalmente acquisiti dalla Galleria nel 1821 ed esposti intorno alla metà del-
l’Ottocento nella Sala delle Gemme agli Uffizi. Delle lunette ci sono pervenuti tre modelli in cera e due matrici in bronzo, conservati al Museo Nazionale del Bargello. Confrontando i modelli, gli stampi e le opere finali si riscontrano varie differenze nelle posizioni dei personaggi e nei particolari decorativi che, anche se giustificabili, non appaiono del tutto congrue con quella che dovrebbe essere stata la tecnica di esecuzione impiegata. E.N. Bibliografia: A. Fara, in FIRENZE 1997b, pp. 74-75, nn. 3336; B. Bertelli, in FIRENZE 2006c, pp. 226-231, nn. 33-35 con bibl. prec.; M. Sframeli, in BUDAPEST 2008, pp. 268-269
La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio al duca Alessandro
GEMME E GIOIELLI
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106 - Manifattura italiana Corteo sacrificale con toro
ultimo quarto del XV secolo (il cammeo) onice, oro e smalti policromi, diam. mm 32,5 iscrizioni: “ΑΕΙ ΘΑΛΕΣ” Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 92
Sul cammeo sono rappresentate tre figure maschili, panneggiate all’antica, incedenti con un toro verso un’ara circolare su cui arde una fiamma. È presente la linea di base. La pietra è inserita in una elaborata cornice circolare in oro, ornata lungo il bordo da un motivo a ovoli e dardi parzialmente smaltati. Sul retro, a notte, è incisa l’impresa del broncone di alloro smaltata con colori traslucidi e affiancata dalle lettere greche ΑΕΙ ΘΑΛΕΣ, anch’esse incise e smaltate di nero. Il gioiello è dotato di un anello per la sospensione, collegato alla montatura mediante foglie di acanto e un rocchetto formato da piccoli petali smaltati. “Sacrifizio di tre figure e sorgendo dall’altare un ramo di Lauro e un altro essendovene dietro alle figure potrebbe credersi sacrificio di Apollo = calcedonia” (BdU, ms. 83, tav. XXI, n. 7). Così l’opera viene descritta per la prima volta nell’inventario redatto prima del 1736 da Sebastiano Bianchi, che la ricorda fissata a una tavoletta di legno insieme ad altre quarantaquattro gemme credute antiche. Già nel 1732 Anton Francesco GORI (1731-1732, II, 1732, p. 122) ne aveva messo in discussione l’autenticità, assegnandone la realizzazione al vicentino Valerio Belli e ritenendola proveniente dalla raccolta di Lorenzo de’ Medici per la presenza sul verso dell’impresa del broncone e del motto in lettere greche “germoglierai sempre”. Opinione questa poi ripresa da Tommaso Puccini (BdU, ms. 47, n. 175-1158), il quale escluse però l’attribuzione al Belli, in quanto troppo giovane al tempo di Lorenzo, avanzando il nome di Domenico de’ Cammei, ricordato da Giorgio Vasari come concorrente di Giovanni delle Corniole (VASARI [1568], ed. Milanesi 1906, V, p. 369). La proposta del Puccini fu in seguito ripresa da Arcangelo Michele Migliarini (BSAT, ms. 194, n. 448) e da Gaetano MILANESI (1906), mentre Antonio Magrini, sulla scia del Gori, rilanciò nel 1871 l’assegnazione al Belli, respinta da Ernst KRIS (1929), che definì il cammeo lavoro italiano della fine del XV secolo. Tale cronologia, in genere accolta dalla critica successiva, ben si accorda con lo stile dell’incisione e l’impostazione compositiva di matrice classica, con le figure disposte in sequenza come in un bassorilievo. Una scena molto vicina a quella dell’onice si trova sul frammento di un rilievo in marmo italico mu-
rato sulla facciata est di Villa Medici a Roma, in cui compare un grande toro condotto al sacrificio da due vittimari (CAGIANO DE AZEVEDO 1951, p. 55, n. 41, tav. VIII, 10). Più problematica risulta la datazione della preziosa montatura, riferita da Mariarita CASAROSA (1997a) all’età di Lorenzo. Sappiamo dall’inventario redatto alla morte del Magnifico che i cammei della sua collezione erano inseriti in cornici in oro recanti sul rovescio imprese medicee accompagnate da “lettere”. Se da un lato l’esemplare qui considerato sembra coincidere con le descrizioni riportate nel documento, dall’altro la presenza della raffigurazione del broncone che rinverdisce non costituisce una prova sicura della sua provenienza dal tesoro laurenziano, poiché tale simbolo entrò ben presto a far parte del patrimonio emblematico familiare. Una impresa molto simile a quella del pezzo del Museo degli Argenti contraddistigue le elaborate montature di tre cammei conservati rispettivamente alla Bibliothèque Nationale di Parigi (BABELON 1897, I, p. 250, n. 464, II, tav. LV), all’Art Institute di Chicago (inv. n. 1992-297) e alla Staatlichen Münzsammlung di Monaco (inv. n. 1368). Gli ornamenti delle prime due
pietre sono stati ricondotti con qualche incertezza a bottega orafa francese dell’inizio del XVI secolo da Martha MCCRORY (2000, pp. 60-62, n. 25), che ne ha ipotizzato anche un collegamento con Caterina de’ Medici, il terzo invece è stato giudicato da Ingrid S. Weber un’abile imitazione in stile neorinascimentale del tardo Settecento (WEBER 1983, pp. 101-116). R.G. Bibliografia: VASARI (1568), ed. Milanesi 1906, V, pp. 369370 nota 3; GORI 1731-1732, II, 1732, p. 122, tav. LXXV, 5; DAVID 1787-1802, VIII, 1802, p. 58; WICAR 1789, I, tav. s.n.; REINACH 1895, p. 65, tav. 66, 75, 5; MAGRINI 1871, p. 24; KRIS 1929, I, p. 154, n. 46, II, tav. 16 n. 46; RUSCONI 1935, p. 9; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 180, n. 949; ASCHENGREEN PIACENTI 1969, p. 64; scheda O.A. 09/00189950, 1986 (M. Casarosa); CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 80 e p. 91, nota 11; WEBER 1995, pp. 37-38, sub. n. 1; MCCRORY 2000, pp. 61, 62; DONATI-CASADIO 2004, p. 176, n. 216; GENNAIOLI 2007, p. 150, n. 4, tav. II
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107 - Bottega fiorentina Natività (recto) Adorazione dei Magi (verso)
ultimo ventennio del XV secolo (il cammeo) prima metà del XVI secolo (la montatura) onice, oro, smalti, diamanti e zaffiro, diam. mm 28 (la pietra) Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 99
Il cammeo, lavorato su entrambe le facce, reca sul recto la scena della Natività con le figure di san Giuseppe e della Madonna genuflessa in adorazione del Bambino, adagiato sulla paglia entro una capanna. Da dietro uno dei tronchi che sorreggono l’umile struttura spuntano le teste del bue e dell’asino. Nel cielo, sopra una nuvola, si libra un angelo che sembra annunciare l’evento. Sul verso sono raffigurati i tre Magi che rendono omaggio al piccolo Gesù, seduto sulle ginocchia di Maria. In entrambi i lati è presente la linea di base, sostenuta da una testa di cherubino a mo’ di mensola. La pietra è inserita in una preziosa cornice circolare a giorno in oro parzialmente smaltata di nero, riproducente l’impresa medicea dell’anello con la punta di diamante. Dall’estremità verticale inferiore della montatura pende uno zaffiro sfaccettato, mentre in corrispondenza di quella superiore è applicato un anello per la sospensione smaltato di blu e sorretto da piccole foglie. La provenienza del gioiello non può essere ricostruita prima del 1761 (ASF, GM, appendice 94, n. 288), quando si trovava custodito a Palazzo Pitti insieme ad altri esemplari poi trasferiti, nel 1770, presso la Galleria degli Uffizi (ASF, Imperiale e Reale Corte 5116 B, c. 24r, n. 109), dove lo ricordano Giuseppe Pelli Bencivenni e Tommaso Puccini (BdU, ms. 115, II, c. 66, n. 716; BdU, ms. 47, n. 179-716). Quest’ultimo in particolare, pur rilevando una certa durezza nel modellato delle figure, definì il cammeo di pregevole fattura ed espressione di quella semplicità che fu “il distintivo degli artefici che fiorirono sul cadere del secolo XV, ad uno dei quali, ed anche dei più valenti, credo che debba attribuirsi” (BdU, ms. 47, n. 179-716). Il giudizio del Puccini sembra trovare conferma in alcuni degli elementi figurativi dei due rilievi. All’ambiente artistico fiorentino della seconda metà del Quattrocento rimandano, infatti, le teste di cherubino con funzione di mensola al di sotto della linea di base, la statuaria posa della Madonna con il figlio benedicente sulle ginocchia e la tipologia della povera capanna con i tronchi nodosi e il tetto in paglia a due spioventi, che ricorda simili strutture in opere pittoriche dell’ottavo e nono decennio del secolo, come l’Adorazione dei Magi di Sandro Botticelli e Filippino Lippi della National Gallery di Londra (inv. n. NG592) risalente al 1470 circa.
Ad epoca posteriore deve essere invece ricondotta l’elegante montatura araldica in forma di anello con diamanti, realizzata indubbiamente per uno dei membri della famiglia Medici. Tipica della produzione orafa del Cinquecento risulta la raffinata decorazione a volute in oro su fondo in smalto nero che corre lungo il profilo bombato della cornice, stilisticamente molto vicina a quella di un cammeo con Busto di Augusto proveniente sempre dalla raccolta granducale e ora conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze (M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 224, n. 146). Incerto rimane il centro di produzione di questi ornamenti, ricondotti da una parte della critica ad ambiente milanese. Tuttavia la loro rigorosa eleganza li distingue dalle creazioni degli orafi del centro lombardo, animate da un vasto repertorio di cartigli, volute e mascheroni. R.G.
Bibliografia: ZOBI 18532, p. 48; KRIS 1929, I, p. 158, n. 108, II, tav. 26 n. 108; scheda O.A. 09/00195271, 1988 (M. Casarosa); ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 181, n. 956; ASCHENGREEN PIACENTI 1969, p. 64; ASCHENGREEN PIACENTI 1999, p. 55, fig. 99; GENNAIOLI 2007, pp. 54, 331, n. 423, tavv. III-IV
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108 - Arte ellenistica Benvenuto Cellini (attr.) (Firenze, 1500-1571) Biga con una figura maschile 1530-1545 onice e oro, mm 65 × 45 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, in. n. 14475
Il frammento originario in onice su fondo sardonico, di una raffinatezza estrema che sembra orientare verso l’età ellenistica, comprende la parte posteriore dei cavalli, la ruota della biga, la gamba e l’estremità dell’asta della figura seduta alla guida; la parte anteriore dei cavalli impennati e la quasi totalità della figura maschile sono dovute a un completamento di restauro. Così come appare ora la pietra è registrata già nell’inventario della Tribuna degli Uffizi del 1635, dove era custodita, insieme alle altre preziose rarità delle collezioni medicee, nello stipo di Ferdinando I, collocato nella nicchia di fronte alla porta d’ingresso: “Nove cammei grandi di corniola e sardoni che uno mezzo di piastra d’oro con cavalli e otto con cerchietto d’oro intorno a l’altro senza seg.to in su la cassetta n. 7” (BdU, ms. 75, f. 71). È il LANZI (1782) ad attribuire per la prima volta la paternità del restauro a Benvenuto Cellini, così come per l’altra gemma con Minerva in atto di sacrificare (Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14437): “Tensi, ed è consentaneo alla storia, che il Cellini avesse gran parte in tali lavori; siccome l’ebbe nella legatura delle gemme e nel supplire in oro il cameo del sacrificio di Minerva, e quello di una biga”. E nella Descrizione delle gemme più importanti della collezione medicea stilata da Tommaso Puccini nel 1799 la pietra è così descritta: “Onice. Frammento
di una biga. La parte deretana de’ cavalli, le rote, la gamba e l’estremità dell’asta della figura sedente sopra il cocchio sono antiche e scolpite con egregio stile in un bellissimo bianco compatto sopra fondo sardonico chiaro. Il rimanente è supplito in oro sebbene non con molta aderenza allo stile antico, con tanta maestria però che a niun’altro artefice può meglio convenire il detto ristauro che a Benvenuto Cellini a cui è generalmente attribuito” (BdU, ms. 47, n. 40 - 1336). Il nome del Cellini, come ha messo già in rilevo Luigi Tondo (in TONDO-VANNI 1990), è stato avanzato molto probabilmente sulla scorta di due celebri passi della Vita, in cui l’artista racconta di aver eseguito intorno al 1523 a Roma molti lavori su gemme antiche in modo da poterne aumentare il valore (I, cap. 27), di avere diffuso opere credute antiche e di aver imitato anelli antichi (II, cap. 28). Una placchetta in bronzo derivata da questo pezzo è segnalata da Pietro Cannata (in ROMA 1982, p. 15, fig. 6, D). M.S. Bibliografia: LANZI 1782, p. 108; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 204, n. 108; L. Tondo, in TONDO-VANNI 1990, p. 35, n. 1; TONDO 1996, p. 99, n. 1; L. Tondo, in FIRENZE 1997b, p. 84, n. 45; DIGIUGNO 2005, pp. 45-46, fig. 40; ZANIERI 2005, p. 95; M. Sframeli, in BUDAPEST 2008, p. 296, n. 178
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109 - Manifattura italiana Busto maschile
secolo calcedonio, oro, smalti policromi e granati, mm 20 × 16 (il cammeo), mm 38 × 28 (con la montatura) Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14559
XVI
Il cammeo, di ridotte dimensioni, rappresenta un busto maschile barbato di profilo verso destra. La folta barba è resa a piccole ciocche ricciolute dalle estremità arrotondate. Ai lati dell’orecchio, che rimane scoperto, la barba si unisce con la capigliatura. Questa è formata da bande ondulate ricadenti in parte dietro il collo. Sopra la fronte i capelli sono cinti da un diadema recante un solco centrale. Gli occhi, stretti e allungati, sono ben delineati dal contorno delle palpebre. La pietra è inserita entro una elaborata montatura in oro. La parte anteriore è ornata da un motivo geometrico in smalto champlevé azzurro e rosso interrotto in corrispondenza delle due estremità verticali e orizzontali da quattro granati tagliati a tavola. Il verso presenta lo stesso decoro del recto lungo il bordo esterno, mentre al centro mostra un elegante motivo floreale in oro a risparmio su fondo rosso traslucido, racchiuso entro una cornice a spina di pesce. Il gioiello è munito di maglia circolare per la sospensione. L’opera, ricordata negli inventari della raccolta glittica granducale a partire dai primi decenni del Settecento (BdU, ms. 83, tav. XIX, 22), fu pubblicata nel primo tomo del Museum Florentinum da Anton Francesco GORI (1731-1732, I, 1731, tav. XXX, 3), il quale avanzò per il busto, creduto antico, l’identificazione con uno dei re di Siria. Successivamente Giuseppe Pelli Bencivenni, a cui si deve anche la prima descrizione della preziosa montatura (“Con ornamento di smalto guarnito di quattro granati”, BdU, ms. 115, I, part. II, n. 1083), giudicava l’ipotesi del Gori poco verosimile, proponendo di riconoscervi una rappresentazione di Giove per la nudità
del petto dell’effigiato e la presenza del diadema. Nonostante le sue forme “alquanto risentite” e la “franchezza della esecuzione”, il pezzo sul finire del Settecento fu inserito da Tommaso Puccini (BdU, ms. 47, n. 123-1083) nel gruppo dei migliori esemplari della collezione medicea. Classificata dalla maggior parte dei conservatori della Galleria degli Uffizi tra i cammei antichi, la pietra è stata ricondotta da Luigi Tondo al XVI secolo (in TONDO-VANNI 1990, p. 45, n. 182), ponendola in relazione con un supposto ritratto di Seneca conservato sempre al Museo Archeologico Nazionale di Firenze (inv. n. 14557; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 256, n. 192; L. Tondo, in TONDO-VANNI 1990, p. 45, n. 183) contraddistinto da caratteri stilistici molto simili a quelli del pezzo qui considerato e da una analoga impostazione del petto, girato di tre quarti e definito da una tesa muscolatura. Tale datazione è stata accolta in tempi più recenti da Maria Sframeli (in FIRENZE 2003a, p. 157, n. 87) e da Pamela ZANIERI (2005) che, operando una serie di confronti con alcuni lavori del celebre intagliatore Giovanni Bernardi, ha proposto in modo non del tutto convincente di ricondurne la realizzazione proprio al maestro di Castelbolognese. G.C.C.-R.G. Bibliografia: GORI 1731-1732, I, 1731, tav. XXX, 3; DAVID 1787-1802, I, 1787, p. 120, tav. XXXIX, 3; REINACH 1895, p. 23, tav. 15, I, 30,3; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 256, n. 193; M. Sframeli, in FIRENZE 2003a, p. 157, n. 87; ZANIERI 2005, pp. 106-112
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110 - Arte romana Ermafrodito giacente sotto un albero con tre eroti secolo d.C. (il cammeo) calcedonio, oro e malti, mm 52 × 55 Firenze, Museo Archeologico Nazionle, inv. n. 14464
III
Il cammeo, conservato al Museo Archeologico Nazionale di Firenze, viene concordemente considerato derivante da una celebre composizione ideata dall’incisore Sostratos, attivo tra il 40 e il 31 a.C. presso la corte di Marco Antonio e Cleopatra, per i quali concepì forse il fortunato motivo iconografico dell’Ermafrodito giacente replicato in diversi esemplari conservati a Napoli, Londra, San Pietroburgo e Parigi. Secondo Antonio GIULIANO (1989, p. 16) l’Ermafrodito, disteso mollemente sotto un albero e circondato da tre eroti, sarebbe una trasposizione dell’immagine di Cleopatra così come ricordata da Plutarco: “acconciata come le Afroditi… e una frotta di … Amori … ritti ai due lati che le facevano vento… ”. Leonardo Agostini possedeva un cammeo con questo soggetto, che riprodusse nel suo libro Le gemme antiche figurate (AGOSTINI 1686, II, tav. 52). All’opera dedicò particolare attenzione anche il Maffei nella più tarda riedizione del volume, dove la scena è descritta come “L’Ermafrodito, ovvero Venere maschia e femmina. L’Ermafrodito giacente vien figurato a similitudine di Venere sua Madre cogli Amori: l’uno suona la lira, l’altro ispira i calami della siringa, il terzo col ventaglio eccita le aure, e nutrisce il sonno” (MAFFEI-DE ROSSI 1707-1709, III, 1709, tav. 10). Fino ad oggi non è stata mai messa in discussione la provenienza della pietra dalla collezione dell’Agostini, stabilita da Giuseppe Pelli alla fine del Settecento sulla base del raffronto tra la stampa del Galestruzzi pubblicata nel volume dell’Agostini e il cammeo fiorentino (BdU, ms. 25 c. 260v). In realtà l’incisione a stampa e la gemma presentano notevoli differenze che fanno pensare legittimamente a due pietre diverse: la composizione del cammeo Agostini occupa l’intero campo della pietra e non si imposta rigidamente su di una linea di base, come invece nel pezzo qui considerato; il panneggio che copre il corpo seminudo dell’Ermafrodito Agostini, ricade in drappeggi più liberi e scomposti rispetto alla gemma fiorentina. Inoltre l’inclinazione della testa dormiente dell’Ermafrodito e la sua acconciatura sono palesemente diversi, nonché la ramificazione dell’albero e la posizione dell’amorino di sinistra, che sembra suonare la siringa non su di una nuvola ma su una roccia. Esistono molte varianti di questo soggetto in numerose collezioni, ma il nostro cammeo con le sue caratteristiche sembra più vicino, an-
che se non identico, a quello conservato a San Pietroburgo (NEVEROV 1971, p. 80, n. 23). L’esemplare fiorentino fu riprodotto con maggiore fedeltà dal GORI (1731-1732, I, 1731, tav. 82) e dall’abate ZANNONI (1817-1831, tav. 20, 2). Il tema è riprodotto su altri pezzi, di minore qualità, della collezione granducale conservati presso il Museo Archeologico Nazionale e il Museo degli Argenti (TONDO-VANNI 1990, p. 37 nn. 38, 40, 41; GENNAIOLI 2007, p. 177, n. 57). M.C. Bibliografia: AGOSTINI 1686, II, tav. 52; MAFFEI-DE ROSSI 1707-1709, III, 1709, tav. 10; 1731-1732, I, 1731, tav. 82; ZANNONI 1817-1831, tav. 20, 2; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 146, n. 18; TONDO-VANNI 1990, p. 37, n. 38; M. Sframeli, in FIRENZE 2005b, p. 267, n. 145; M. Sframeli, in FIRENZE 2003a, p. 100, n. 40
Gemme e gioielli
111 - Giampaolo Poggini (?) (Firenze, 1528-Madrid, 1580 ca) Busto di Filippo II di Spagna
1556 ca onice, oro e smalti policromi, mm 33 × 28 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 125
Il cammeo, intagliato su un onice ovale di color azzurro polvere macchiato di bruno, riporta il busto di Filippo II di Spagna. In profilo destro, questi indossa una ricca armatura di cui si individuano gli spallacci flessibili, il petto, la gola e l’alto colletto della sottostante camicia. Barbato, questi porta una corta capigliatura, morbidamente ondulata e disposta con cura ad incorniciarne l’ovale, ed esibisce sul petto una vistosa collana tubolare da cui pende il simbolo dell’Ordine del Toson d’Oro. Le particolari zonature color caffè presentate dalla pietra – identificata come “zaffirina” da alcuni inventari – sono state abilmente sfruttate dall’intagliatore in maniera da colorare, con esattezza ammirevole, non solo alcuni elementi dell’armatura, la capigliatura e la barba del personaggio, ma persino dettagli più minuti, quali l’orlo della camicia o il piccolo caprone pendente. L’incorniciatura, indubbiamente contemporanea al lavoro lapideo, è piuttosto complessa. Costituita da una doppia modanatura aurea, smaltata di rosso traslucido attorno all’ovale, essa è decorata, sul bordo più esterno, da un fregio a trattini d’oro risparmiati su fondo in smalto blu scuro. Alle estremità verticali si trovano collegate, tramite un nodo e quattro graziose foglioline in smalto verde, due piccole maglie rotonde, la superiore delle quali, più grande, ornata da smalto azzurro e trattini in oro risparmiato. Anche la superficie del castone retrostante presenta una analoga decorazione in smalto champlevée. Il disegno che vi campeggia, astratto e geometrico, parrebbe riproporre certi repertori ornamentali di origine barbarica che, noti al tempo con il termine di moresche, vennero inizialmente diffusi in Europa attraverso le incisioni del Ducercau. In queste tuttavia, la durezza dei motivi parrebbe instaurare un rapporto più stretto con certe produzioni nordiche, circolanti soprattutto ad Anversa attorno alla metà del secolo XVI, grazie alle incisioni cartacee di Hieronymus Cock, Peter Flötner e Balthser Sylvius (FIRENZE 1975a, cap. III, nn. 19-21). La presenza del cammeo veniva registrata per la prima volta dall’“Inventario della Real Galleria degli Uffizi” dove, fra il 1704 ed il 1714, un “Cammeo Aovato di pietra niccola, entrovi di basso rilievo il Ritratto di Filippo 2° Re delle Spagne, con fondo, e cerchio attorno d’oro smaltato di più colori alto soldi 1 incirca...”, si trovava “nell’Armadio Stipo del muro dal-
la parte Destra della Tribuna” (BdU, ms. 82, c. 277). La piccola effige era in seguito brevemente descritta dall’inventario redatto dal Bianchi poco prima della morte, avvenuta nel 1736 (BdU, ms. 83, XXVI, n. 17), e da tutti gli elenchi redatti in seguito. La presenza di cammei analoghi è attestata presso il Cabinet des Medailles della Biblioteca Nazionale di Parigi (Incisione in topazio con ritratto di Filippo II di Spagna e don Carlos, 1566 ca; CHABOUILLET 1858, n. 2489), la Royal Collection di Windsor (FORTNUM 1876, p. 22, nn. 205, 266, tav. IV/n. 205, 266), e in diverse collezioni europee (DALTON 1915, pp. 51-52, nn. 381-382, tav. XV, nn. 381-382; HACKENBROCH 1979, p. 317, fig. 827), mentre sappiamo da Anton Pietro Giulianelli che un simile cammeo in calcedonio era conservato nel suo Gabinetto di gemme (1753, p. 45, XXXII, nota 2). Di quella fiorentina esiste inoltre un calco in scagliola presso l’Istituto Germanico Archeologico di Roma (Collezione Cades, v. 61, n. 9). Citata dal Dalton (1915, p. 5) e dal BABELON (1922, p. 252, n. 3, tav. VII, n. 6), essa veniva considerata in seguito (A.P. Valerio, in MILANO 1977, p. 151, n. 123) un lavoro molto simile, sebbene qualitativamente inferiore, al doppio cammeo con i ritratti di Filippo II e del figlio Don Carlos (cat. n. 78), opera tradizionalmente attribuita a Jacopo da Trezzo. Rinvenendovi particolari affinità con un intaglio in topazio conservato presso il Cabinet de Medailles della Biblioteca Nazionale di Parigi (CHABOUILLET 1858, n. 2489) e datato al 1566, si riteneva di non avere a disposizione elementi sufficienti per assegnarne la fattura alla mano di tale artista. Martha McCrory (O.A. 09/00157848, 25.X.1979), lo riteneva invece simile per tecnica, stile e per il ridotto spessore, ad altri due lavori lapidei conservati presso medesimo museo fiorentino; una testa di Apollo (inv. Gemme 1921, n. 27) e una doppia testa di Imperatore e di Imperatrice (inv. Gemme 1921, n. 72). Riconducendo la fattura di tali oggetti ad un ambito italiano di metà Cinquecento, la McCrory ripeteva quanto già affermato a riguardo dal KRIS (1929, I, p. 176, nn. 399/93 – 400/93, II, figg. 399-400). Più tardi definita “una verdadera joya” (PÉREZ DE TUDELA, in MADRID 1999, pp. 664-665, n. 284, fig. 284), la gemma veniva stilisticamente avvicinata al più volte menzionato cammeo con i ritratti del sovrano e del giovane
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figlio. Avanzando l’ipotesi che l’opera potesse essere stata eseguita dal giovane Annibale Fontana, il Pérez de Tudela riteneva di poterne collocare l’esecuzione in un ambito milanese sensibilmente influenzato dallo stile di Jacopo da Trezzo proponendo di assegnarne l’acquisizione dal cardinale Ferdinando. Tale ipotesi, già suggerita dalla CASAROSA (1997a, pp. 88, 90), pareva basarsi sul contenuto di un documento in cui si citava un “cammeo con ritratto di Filippo II di Spagna” al quale l’orafo “Lionardo Fiammingo” (Léonard Zaerles) avrebbe realizzato una preziosa incorniciatura corredata da un mascherone e da un’aquila posta a fastigio (ASF, GM 79, c. 25v). A dispetto di questo, il legame esistente fra Filippo II e Cosimo I, e l’uso di scambiarsi questi piccoli ritratti come dono fra i vari regnanti europei, potrebbero indurre a considerare il cammeo come un’acquisizione, in qualità di dono o di vero acquisto dello stesso Cosimo I. Per quanto attiene invece all’esecutore, il naturalismo fresco ed accurato e la grazia compositiva che contraddistinguono il ritratto potrebbero suggerire la paternità di Giampaolo Poggini. Questi, infatti, fiorentino di nascita, si trasferì a Bruxelles nel 1556, dove, al servizio del re di Spagna Filippo II, lavorò a stretto contatto con Jacopo da Trezzo, Pompeo Leoni ed altri scultori ed intagliatori italiani. Presso le varie collezioni rimangono numerose medaglie di sua esecuzione (p. es. Firenze, Museo Nazionale del Bargello; TODERI-VANNEL 2003, I, pp. 8486, tavv. 170-171). Con l’attribuzione al Poggini potrebbe venire agevolmente spiegata la presenza di analogie stilistiche con la mano del Trezzo, il quale, da tempo affermatosi presso la corte dell’Asburgo, costituì un punto di riferimento per gli artisti entrati al servizio di questi in tempi successivi. Qualora l’attribuzione al Poggini venisse accettata, potrebbe essere assegnata alla mano di Giampaolo anche l’esecuzione di un medaglione in bronzo in cui compaiono, sulle due facce, i ritratti di Filippo II e del figlio Don Carlos (1559, Milano, Civica Raccolta Numismatica). Per quanto l’opera si richiami direttamente al cammeo con doppio ritratto conservato presso il Museo degli Argenti, essa, priva dell’acuto verismo viceversa caratterizzante la gemma, non può essere attribuita al Trezzo, ma deve essere considerata come la creazione di un maestro dotato, ma gravitante nell’orbita di questi. E.D. Bibliografia: DALTON 1915, p. 51; BABELON 1922, p. 252, n. 3, tav. VII, n. 6; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, n. 982; A. P. VALERIO, in Milano 1977; scheda O.A. 09/00157848, 1979 (M. McCrory); CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 88; PÉREZ DE TUDELA, in MADRID 1999, pp. 664-665, n. 284, fig. 284; DIGIUGNO 2005, pp. 33, figg. 29-30; GENNAIOLI 2007, p. 267, n. 257, fig. 257, tav. XVI
112 - Arte romana (il cammeo) Dioniso e Arianna a Nasso
secolo d.C. (?) (il cammeo) secolo (la montatura) onice, oro, smalti e perla, mm 26 × 20 (il cammeo), 45 × 45 (con la montatura, compresa la perla) Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14458
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Il cammeo, in onice bianco su fondo cristallino, raffigura l’incontro sull’isola di Nasso tra Dioniso, a sinistra sostenuto da Sileno, e Arianna, giacente seminuda a destra con accanto Amore che apre una cista. La pietra, dalle superfici notevolmente consunte, è racchiusa entro una elaborata montatura in oro fuso, cesellato e smaltato, ornata da quattro cartigli intercalati a pampini, grappoli d’uva, frutti e fiori in rilievo su un fondo zigrinato. Lungo il perimetro esterno della cornice sono saldati tre anelli: due ai lati e uno all’estremità verticale inferiore, da cui pende una perla piriforme. La testa di Dioniso è di restauro. Secondo Maria Elisa Micheli (in GIULIANO 1989, p. 174, n. 58) il pezzo potrebbe essere identificato con un esemplare citato nell’Inventario delle gioie di Cosimo I de’ Medici (1566), dove è ricordato un gruppo di quattro “medagline d’oro con quattro cameini piccoli” tra i quali uno con “satiri intorno a una donna che dorme” (ASF, MdP 643, c. 23, n. 318, pubblicato in FIRENZE 2003a, p. 195). Pubblicato da Anton Francesco Gori nel primo tomo del monumentale Museum Florentinum, l’onice, riconducibile forse al III secolo d.C., riproduce un soggetto molto diffuso nella glittica antica, di cui si conservano diversi esemplari. Il più celebre può essere considerato il cammeo in onice (mm 27 × 35) proveniente probabilmente dalla collezione dei duchi di Mantova e oggi conservato nella raccolta del conte di Yarborough a Brocklesby Park nel Lincolnshire (M. Henig, in KANAGAWA-FUKUOKA 2008, p. 341, n. 133), che rispetto a quello qui esposto presenta
una composizione più articolata con un numero maggiore di personaggi. Strettamente correlata al tema della gemma è la cornice con i grappoli e i pampini d’uva, rievocanti la figura di Dioniso, che Labarte associò nel 1864 al nome di Benvenuto Cellini. Tale attribuzione fu successivamente respinta dal Plon, il quale lo giudicò un lavoro “trop peu caractéristé” per poterlo collegare al celebre artista (PLON 1883, p. 249). In tempi più recenti il prezioso ornamento è stato ricondotto da Paola VENTURELLI (1996) alla produzione orafa milanese del XVI secolo, per la tecnica di realizzazione e lo stile degli elementi vegetali che lo compongono, messi in rapporto dalla studiosa con analoghi motivi decorativi presenti nelle legature auree di alcuni vasi in pietre dure del Museo degli Argenti assegnati alla bottega di Gasparo Miseroni (inv. Gemme del 1921, nn. 622, 719). Con una datazione al XVI secolo della montatura concorda anche Kirsten Aschengreen Piacenti, che, pur riconoscendone le affinità con le creazioni milanesi, ne ha però riportato l’esecuzione all’ambiente orafo fiorentino per la “qualità scultorea dei motivi ornamentali” (ASCHENGREEN PIACENTI 1999, p. 56). G.C.C.-R.G. Bibliografia: GORI 1731-1732, I, 1731, tav. 93, 3; DAVID 1787-1802, II, 1787, tav. LXXVIII, 4; ZANNONI 1824, I, pp. 265-266; tav. 34, 5; WICAR 1789, II, tav. s.n.; LABARTE 1864, II, p. 519; REINACH 1895, p. 17, tav. 44, I, 93, 3; PLON 1883, p. 249, tav. XXI, 4; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 174, n. 58; L. Tondo, in TONDO-VANNI 1990, p. 37, n. 39; TONDO 1996, 102, n. 36; VENTURELLI 1996, pp. 91, 93; ASCHENGREEN PIACENTI 1999, p. 56; M. Sframeli, in FIRENZE 2003a, p. 98, n. 36; DIGIUGNO 2005, pp. 24-25, fig. 14
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113 - Manifattura milanese (?) (cammeo) La strage degli Innocenti (recto) La fuga in Egitto (verso)
fine del XVI-inizio del XVII secolo (il cammeo) eliotropio, oro e smalti, mm 74 × 80 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 101
Sul recto del cammeo è raffigurata la strage degli innocenti dove le figure dei soldati, rappresentati nudi, e delle donne seguono una disposizione fortemente orizzontale. La composizione è divisa in due parti dalla linea creata dal susseguirsi delle braccia e dalle spade. La porzione inferiore è caratterizzata dalla folla concitata delle figure e quella superiore è dominata da una quinta architettonica, una sorta di loggiato classico, che si staglia sulla superficie liscia.
Il verso presenta la scena della fuga in Egitto, dove campeggia al centro la figura della Vergine ammantata che regge tra le braccia il Bambino. La Madonna cavalca un asino, dietro il quale è la figura di san Giuseppe che regge le redini dell’animale. Sulla sinistra, dietro al gruppo, sono incisi alcuni alberi, tra le cui fronde si inserisce un angioletto. Il cammeo è circondato da una raffinata montatura in oro e smalti. Sulla ghiera interna l’oro
presenta un aspetto volutamente scabro, mentre sulla cornice esterna, di forma tubolare, lo smalto nero è movimentato da un motivo a girali in filetti d’oro, arricchito, secondo uno schema simmetrico da fiori bianchi e foglie verdi, sempre realizzati in smalto. Ai due margini dell’asse orizzontale sono applicati dei fiorellini in oro con volute e gigli stilizzati in smalto bianco e blu, da cui affiorano liniette e pallini in oro. Con analoga tecnica è decorato
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l’apice, caratterizzato da una testa di cherubino ornata da volute smaltate dove dominano il bianco e il blu. All’estremità inferiore è applicata una maschera, atteggiata in una smorfia, posta in uno schema decorativo in cui gli elementi sono disposti in maniera speculare e i colori bianco e blu in modo opposto rispetto al motivo soprastante. L’opera è menzionata negli inventari a partire dal giugno del 1700, quando venne mandata alla Galleria degli Uffizi, protetta in una custodia di teletta dorata (ASF, GM 1026, c. 185r). Negli inventari successivi il cammeo risulta fissato, insieme ad altre gemme della collezione medicea di carattere religioso, a una tavoletta di legno rivestita di velluto contraddistinta dal numero XXVI. Già dalla redazione degli inventari si incontrano opinioni discordanti riguardo alla paternità dell’opera. Tommaso Puccini ritiene che la Strage sia stata realizzata verso la metà del XVI secolo, mentre la Fuga appartiene alla prima metà del XVII secolo. Data l’alta qualità della cornice, Puccini ascrive la parte di oreficeria alla scuola di Benvenuto Cellini (BdU, ms. 47 [1799], n. 180). Ultimamente Mariarita Casarosa, nella scheda ministeriale, sostiene che l’opera è stata realizzata da un unico artista, probabilmente di origine germanica, attivo tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo. Propone quale confronto la placchetta bronzea con Il Ratto delle Sabine di Hans Jacob Bayer del 1610 circa (Bowdoin College Museum of Art). Casarosa considera la montatura coeva secondo una datazione basata sul perdurare di elementi decorativi manieristici nel primo Seicento. Mario Scalini sostiene che il cammeo potrebbe essere riferibile ad una bottega milanese o tedesca e daterebbe l’oggetto ai secoli XVI-XVII, sottolineando che la La Strage presenta delle somiglianze con i lavori dei Miseroni e sembra essere in parte mutuata dall’analoga incisione di Marcantonio Raimondi. Per La Fuga confronta il soggetto con opere carraccesche. In merito alla montatura indica una probabile realizzazione nell’ambito fiorentino dell’inizio del Seicento (M. Scalini, in PFORZHEIM 1997, n. 47). Secondo Kirsten ASCHENGREEN PIACENTI (1999, p. 55) la montatura e il cammeo sono coevi, datando l’insieme al Cinquecento e proponendo una manifattura milanese. Riccardo GENNAIOLI (2007) ritiene che il cammeo potrebbe essere milanese e databile tra la fine del XVI e l’inizio del XVII, sottolineando però che lo stile della cornice non incontra precisi confronti nella produzione milanese della fine del Cinquecento (Ibid., p. 334). Da un punto di vista strettamente stilistico il recto e il verso sembrano realizzati da due mani diverse sia per il trattamento della mate-
ria, che per il modo di comporre l’immagine. In merito alla Strage, se il modo di dividere la scena in due porzioni e la quinta architettonica sulla sinistra trova corrispondenza con la medaglia di Hans Jacob Bayer, diversa tuttavia è la disposizione delle figure che ricorda, nell’andamento orizzontale e nella posizione di alcuni personaggi, una incisione con lo stesso soggetto di Marcantonio Raimondi del 1510 tratta da un disegno di Raffaello. Altro punto di contatto importante è la presenza dei nudi, fatto non comune nella rappresentazione di questo tema e l’assenza di Erode nella scena. La lunga fortuna delle stampe del Raimondi giustifica ampiamente l’assunzione di tale modello anche molti anni dopo la loro prima divulgazione e un eventuale aggiornamento a un gusto più consono ad un’epoca successiva. Particolari importanti nella Fuga sono il carattere intimo dell’immagine e il fatto che san Giuseppe non è vestito all’antica ma come un viandante del XVII secolo. Il taglio compositivo e gli abiti dei personaggi corrispondono a una tipologia molto diffusa dalla fine del Cinquecento fino all’Ottocento, la cui fortuna è dovuta anche alla circolazione di stampe, come quelle, tra gli altri, di Pietro Aquila, Lorenzo Loli, Marinus van der Goes, Michel Faulte e Francesco Bartolozzi. L’artista che ha realizzato La Fuga rielabora questo tema in modo tale da renderlo adatto alle forme ovali del cammeo, sia nella disposizione dei personaggi che degli elementi. La montatura è affine nel motivo a girali filettati in oro su smalto nero ad altre gemme della collezione medicea come un altro cammeo doppio con La Natività e L’adorazione dei Magi del Museo degli Argenti (cat. n. 107) e il Busto di Augusto del Museo Archeologico Nazionale di Firenze (inv. n. 14526). Rispetto all’altra gemma del Museo degli Argenti, il cammeo in eliotropio si differenzia per il fatto che la montatura non è stata realizzata per incorniciare “degnamente” anche il verso, oltre che per gli elementi decorativi ai quattro punti cardinali, per una maggiore asciuttezza dello smalto e l’assenza di elementi fitomorfi colorati nel partito decorativo. Analoghe considerazione stilistiche si possono esprimere anche per l’Augusto dell’Archeologico. Il motivo a girali dato da filettature che emergono dallo smalto, anche se non necessariamente su fondo nero, si incontra anche in altri esemplari come sul verso di un cammeo in lapislazzuli raffigurante Minerva del XVI secolo e sul tergo di un pendente in collezione privata (pubblicati in VENTURELLI 1996, pp. 81-82). Per quanto riguarda il cammeo con La Strage e La Fuga, pur esistendo degli elementi comuni con l’arte orafa milanese, tuttavia gli elementi decorativi in corrispondenza dei punti cardinali sembra-
no, da un punto di vista stilistico, più difficilmente riconducibili all’ambito milanese e mostrano affinità con la cultura artistica francese del XVI-XVII secolo. D.G. Bibliografia: scheda O.A., 09/00162476, 1988 (M. Casarosa); VENTURELLI 1996, pp. 81-82; M. Scalini, in PFORZHEIM 1997, n. 47; ASCHENGREEN PIACENTI 1999, p. 53-59; GENNAIOLI 2007, p. 334, n. 430, tavv. XXVI-XXVII
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114 - Manifattura italiana o francese Busto di mora
seconda metà del XVI secolo agata, perle, pietre preziose, oro e smalti, mm 64 × 48 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921 n. 838
Su un fondo di agata si staglia il busto di profilo una persona africana. Una perla scaramazza è stata adoperata per rappresentare il petto e la spalla, su cui si posa una lamina dorata e smaltata a descrivere il mantello blu, drappeggiato sulla spalla nascosta e bloccato da un fermaglio tipo borchia, smaltato di verde e blu. La collaretta a corte lattughe in oro funziona da raccordo tra il collo, la testa e il petto in agata scura. La testa è sormontata da una corona in oro con motivi vegetali smaltati e pietre preziose, su cui si innesta un copricapo dato da un’altra perla scaramazza, terminante con un elemento di gioielleria affine al fermaglio del mantello, da cui scende un lungo drappo di oro smaltato in verde. Parte del copricapo e del mantello debordano appena dai confini della leggera cornice interna in oro. Il cammeo è montato in un castone a notte in oro smaltato di rosso con quattro maglie nei punti cardinali. Nonostante qualche caduta dello smalto, il cammeo si apprezza ancora per la sua alta qualità artistica e tecnica. L’opera è menzionata nei documenti nella collezione medicea fin dal 1676 (BdU, ms. 78, n. 27). Secondo Riccardo GENNAIOLI (2007, pp. 304-305, n. 352)
le quattro maglie suggeriscono che probabilmente l’oggetto, di raffinata realizzazione, era in origine un gioiello da cappello. Durante il Cinquecento e il Seicento, la moda europea per le medaglie da cappello, generalmente recanti un’effige emblematica di chi le sfoggia (MCCRORY 1999, p. 44), si coniuga perfettamente con lo sviluppo dell’intaglio dei cammei e della tecnica del commesso combinato a pietre preziose, perle scaramazze e all’uso di smalti (PHILLIPS 1996, p. 86). Grande fortuna hanno i busti di personaggi sia antichi che contemporanei, e in particolari le figure di mori in cui gli artisti potevano sfruttare al meglio le striature naturali di pietre come l’onice (PHILLIPS 2008, p. 34). La tendenza a rappresentare questo particolare soggetto si colloca inoltre nel più ampio interesse per la figura dei mori che a partire dalla fine del XVI secolo coinvolge, a livello europeo, altre arti applicate come quella dell’arredamento. In merito al soggetto, è stato sempre notificato negli inventari come una mora, probabilmente a causa dell’ampio petto descritto dalla perla scaramazza. Ernest BABELON (1897, I, pp. 286-87, n. 593-595 e II, tav. LIX) propone, sulla base del
ricco copricapo di ispirazione orientale, l’identificazione della figura con uno dei Re Magi. Infatti nelle raffigurazione della fine del XVI secolo si rintracciano spesso iconografie simili. Anche la veste di carattere aulico e maschile avvalorerebbe la tesi, riportata più recentemente da Martha McCrory (scheda O.A.) e da Gennaioli. La perla scaramazza usata per il petto presenta un piccolo foro in prossimità del punto in cui il mantello si accosta alla collaretta. L’aspetto del buco farebbe ritenere che sia dovuta ad una azione di tipo meccanico e non a un difetto naturale. Questo potrebbe significare che in origine vi era applicato un altro elemento, forse una pietra a dare l’idea di un pendente da portare in mezzo al petto; tuttavia, da come è conformato il bordo del mantello, che non sembrerebbe essere stato creato per alloggiare un altro elemento, si potrebbe invece dedurre che forse la perla è di riutilizzo. D.G. Bibliografia: BABELON 1897, I, pp. 286-87, n. 593-595, II, tav. LIX; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 133, n. 1337; scheda O.A., 09/00228425, 1979 (M. McCrory); MCCRORY 1999, p. 44; PHILLIPS 1996, p. 86; GENNAIOLI 2007, pp. 304-305, n. 352, tav. XXXI; PHILLIPS 2008, p. 34
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IL CARDINALE LEOPOLDO DE’ MEDICI
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115 - Giovan Battista Gaulli, detto il Baciccio (Genova, 1639-Roma, 1709) Leopoldo de’ Medici, cardinale 1668-1670 ca olio su tela, cm 73,2 × 59,6 Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890, n. 2194
Leopoldo de’ Medici nacque il 1617, ultimo degli otto figli del granduca Cosimo II e di sua moglie Maria Magdalena von Habsburg. Fu ben presto destinato alla carriera ecclesiastica; lo vediamo infatti già in abito talare in un ritratto eseguito nel 1627 da Giusto Suttermans per la granduchessa Maria Magdalena (Firenze, Galleria degli Uffizi, depositi, inv. 1890, n. 3762, GOLDENBERG STOPPATO 2006, pp. 40-41, n. 8). Il principe fu nominato cardinale il 12 dicembre 1667 e nel marzo successivo partì per Roma per ricevere il cappello cardinalizio e il diaconato di SS. Cosma e Damiano, conferito il 9 aprile 1668. Leopoldo, allievo dello scienziato Evangelista Torricelli, condivise gli interessi scientifici del fratello granduca Ferdinando II e fondò nel 1657 l’Accademia del Cimento. Fu tra i collezionisti più appassionati di casa Medici; la sua passione è documentata non solo dal grande numero di opere d’arte inventariate dopo la sua morte nel 1675 (ASF, GM 826), ma anche dai rapporti epistolari suoi agenti in varie città in Italia e all’estero. Oltre ai dipinti, le sculture, i disegni, le miniature e i libri, la raccolta di Leopoldo comprendeva, anche un buon numero di cammei, elencati in un quaderno della Guardaroba granducale il 30 agosto 1677, al momento della loro consegna al custode della Galleria degli Uffizi (ASF, GM 799, cc. 255v-259v). Sappiamo che il cardinale teneva la sua raccolta di cammei in particolare considerazione; una lettera di suo ministro delle possessioni Ottavio Barducci ne ricorda l’invio a Roma il 1 febbraio 1669 [ab Inc.=1670], mentre Leopoldo si trovava chiuso nei Palazzi Vaticani per il conclave che elesse papa Clemente X: “[...] Con l’assistenza del Signore Lorenzo Magalotti si sono accomodati le cassettine de’ cammei in modo da credere che non sieno nel moto per guastarsi, e li due scrignetti [...], e restono consegnate al presente procaccio Betti perché con ogni accuratezza le porti costì [...]” (ASF, MdP 5560, c. 314). Anche questo ritratto proviene dalla collezione del cardinale Leopoldo; come ha notato Odoardo Giglioli nel 1909, figura nell’inventario stilato dopo la sua morte nel 1675 (ASF, GM 826, c. 89v), già attribuito a Giovan Battista Gaulli detto il Baciccio: A dì 29 detto [gennaio 1675 ab Inc.=1676] 584 Pr: Un Quadro in tela alto braccia 1 ¼ largo braccia 1 dipintovi il Serenissimo signor Cardinale Leopoldo, con berrettino rosso in capo, mozzetta rossa, e berretta simile nella mano destra di mano del Bacicchi di Roma, con adornamento dorato, e intagliato e straforato n. 1
Il ritratto, lasciato in eredità con gli altri beni di Leopoldo al nipote Cosimo III, fu registrato nei libri della guardaroba granducale il 27 febbraio 1676 [ab Inc.=1677] (ASF, GM 799, c. 209v) e inviato alla Villa medicea di Pratolino il 2 agosto 1680 (ASF, GM 870, cc. 30v-31r). Poiché non figura nell’inventario della villa stilato nel 1748 (ASF, GM appendice 84), sappiamo che fu trasferito in un’altra sede entro quella data. Rimangono oscuri i successivi spostamenti della tela sino alla fine dell’Ottocento, quando risulta esposta senza una attribuzione nella Sala del Barocci della Galleria degli Uffizi, con Leopoldo scambiato nell’inventario del 1881 per il fratello Giovan Carlo de’ Medici (Soprintendenza, Ufficio Ricerche, I Categoria, n. 19) e in quello del 1890 per il cardinale Giovanni (edizione on line, registro 3, pp. 358-359, n. 2194). La tela fu restituita al Baciccio nel 1909 da Odoardo Giglioli che vi riconobbe il ritratto citato nell’inventario dei beni di Leopoldo de’ Medici. L’attribuzione a questo pittore genovese attivo a Roma nella seconda metà del Seicento non è mai stata messa in discussione dalla critica suc-
cessiva. Il ritratto del cardinale Leopoldo costituisce in effetti un ottimo esempio della ritrattistica del Baciccio ed è paragonabile per la freschezza pittorica ai migliori ritratti dipinti dal pittore, come quello del papa Alessandro VII della collezione Messinger (VENTURI 1913, p. 144, fig. 3). Il Baciccio riesce a trasmettere la grande intelligenza di Leopoldo, la sua curiosità e la sua disponibilità verso il prossimo, testimoniata anche dai suoi rapporti epistolari con i parenti, senza camuffare la bruttezza dei suoi lineamenti o nascondere il suo cagionevole stato di salute. Coglie insieme allo sguardo del cardinale e al gesto della mano destra che tiene la berretta anche il moto della sua anima, usando una tecnica spiegata da Lione Pascoli nel 1730: “Aveva nel fargli [i ritratti] uno stile tutto contrario al generale, e comune; e diceva averlo appreso dal Bernini, il qual nel ritrar le persone, non voleva che stessero ferme, e chete, ma che parlassero, e si movessero. Perché giusto in que’ moti, e’ diceva esser le persone più simili a se stesse [...]” (PASCOLI 1730-1736, I, 1730, p. 207). La mozzetta rossa porpora e la berretta simile indossate da Leopoldo stabiliscono un utile termine ‘post quem’ per la data dell’esecuzione, quella della sua nomina cardinalizia nel dicembre 1667. In mancanza di notizie di una visita fiorentina del Baciccio, sembra ragionevole datare il ritratto durante uno dei due soggiorni romani fatti da Leopoldo de’ Medici dopo la nomina. I termini del primo soggiorno sono indicati nel diario di Francesco Bonazini: secondo questo manoscritto Leopoldo de’ Medici “partì per Roma a prendere il cappello cardinalizio” il 5 marzo 1667 [ab Inc.=1668] (BNCF, Magl., Cl. XXV, 42, p. 238) e fece ritorno a Firenze 17 giugno dello stesso anno (Ibid., p. 239). I resoconti di questo soggiorno inviati da Leopoldo al fratello Ferdinando II de’ Medici forniscono molte notizie sulle sue attività e sulle visite alle chiese e collezioni di Roma, ma non fanno cenno a questo o altri ritratti (ASF, MdP 5508, lettere nn. 17-47). Sembra infatti più plausibile che il cardinale de’ Medici abbia posato per il Baciccio nei mesi che seguirono il conclave per l’elezione di Clemente X, iniziato il 20 dicembre 1669 e concluso il 29 aprile 1670. Grazie ad alcune lettere della sorella Margherita de’ Medici, duchessa di Parma, sappiamo che Leopoldo si trattenne a Roma sino a settembre del 1670 (ASF, MdP 5505, inserto 7, cc. 26 e 36). Una altra missiva del 26 novembre 1669 ricorda un ritratto di Leopoldo richiesto dalla duchessa Margherita: “[...] si desiderano bene i ritratti, ma principalmente quel di Vostra Eminenza; e subito che sarà finito si compiaccia di farcelo inviare, e si ricordi, che in habito di Cardinale niuno di noi l’ha ancora veduto” (ASF, MdP 5505, inserto 7, c. 169 bis, PIERACCINI 1924-1925, pp. 620, 630, nota 103)”. Con quella del 10 dicembre dello stesso anno Margherita de’ Medici comunicava la sua rassegnazione ad una lunga attesa per il ritratto, prevedendo che l’imminente morte del Papa avrebbe presto costretto il fratello a partire per Roma per l’elezione d un nuovo pontefice (c. 175). Non aveva ancora ricevuto il ritratto il 9 ottobre 1670, quando scriveva nuovamente al fratello: “Io aspetterò il ritratto di Vostra Eminenza con suo commodo, ma quando più presto, mi giungerà tanto meglio verrà sodisfatto al vivo desiderio, che ne tengo. [...]” (c. 40). Non è facile stabilire se Leopoldo può aver commissionato il ritratto del Baciccio per poter soddisfare la richiesta della sorella, alla quale potrebbe eventualmente aver fornito una copia tratta dall’originale. L.G.S. Bibliografia: GIGLIOLI 1909, pp. 337-338; FIRENZE 1911, p. 185, n. 9; VENTURI 1913, p. 147; B.C.K. in THIEME-BECKER 1907-1950, XIII, 1920, p. 278; VOSS s.d. [1924], p. 586; PIERACCINI 1924-1925,
Il cardinale Leopoldo de’ Medici
II,
1925, pp. 620, 630, note, fig. XCVIII; C. Gamba, in Il Ritratto italiano 1927, p. 20, tav. IV; A. Bertini Calosso, in Enciclopedia Italiana 1929-1939, ed. 1949, V, p. 797; ROMA 1930, p. 16, n. 59, tav. XXIII; PARIGI 1935, pp. 11-12, n. 20; GENOVA 1938, pp. 58, 59 (n. 89), 76 (tav.); FIRENZE 1939, p. 126, n. 2; MASCIOTTA 1941, p. 17; BRUGNOLI 1949, p. 238; GALETTI-CAMESASCA 1951, p. 167; ENGGASS 1964, pp. 124-125, 175, fig. 109; FIRENZE 1969, p. 34, n. e fig. 42; S. Meloni Trkulja, in Gli Uffizi 1979, p. 139, n. P107; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 194, II, 1983, pp. 1104-1105,
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n. & fig. 68/6; FIRENZE 1982, p. 37; FILETI MAZZA 1997, p. 174, n. 2741; PETRUCCI 1997, p. 57; M. Fagiolo dell’Arco, in ARICCIA 1999, pp. 110-111, n. 8, fig. 8; FIRENZE 2001a, p. 70, n. I D2; FIRENZE 2002a, p. 98, n. 29; CANEVA 2002, p. 135, n. 24; PETRUCCI 2005, p. 86, fig. 81; E. Acanfora, in PECHINO 2006, pp. 210-211, 320-321, n. 70; F. Petrucci, in ROMA 2006, p. 110, n. XXIX; MOSCO 2007, pp. 162-163, n. 28; PETRUCCI 2008, I, p. 244, fig. 347, II, p. 318, III, p. 80, fig. 255
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116 - Arte romana Busti jugati di Tiberio e Livia
prima metà del I secolo d.C. calcedonio e oro, mm 58 × 48 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14533
Cammeo in onice compatto bianco riportato su un fondo in calcedonio bruno raffigurante i busti jugati di Tiberio e Livia in profilo a destra. Tiberio è coronato di alloro, Livia di un diadema sopra il quale si intravedono spighe e papaveri. L’imperatrice indossa tunica e peplo. La pietra mostra una incrinatura sul busto di Livia ed è stata ricomposta. La storia dell’acquisto del prezioso cammeo, ottenuto nel 1674 dal cardinale Leopoldo de’ Medici attraverso Paolo Falconieri per 130 scudi, è nota da tempo (CASAROSA 1976). Di seguito riportiamo le lettere del Falconieri inviate da Roma al cardinale Leopoldo in cui viene formulata dapprima la proposta e poi l’acquisto dal cammeo: “L’istesso uomo che mi vendé il busto dell’Antinoo, è venuto questa mattina a trovarmi con il Camelli. E mi ha portato un singolarissimo cammeo, come più particolarmente V.A. sentirà dall’aggiunta del signor Don Francesco che va al Cecini. S’è stimato bene di scriverne oggi per dar meno tempo che sia possibile di raggirar quest’uomo da che gli è già intorno. Il prezzo è un pò alto, ma quando si averà l’ordine di concludere, V.A. può ben credere che il Camelli et io faremo quello che debbono due servitori così umili; ma se egli sta duro bisogna in qualsivoglia modo pregarlo, perché sono di quelle cose che non capitano troppo spesso” (ASF, Carteggio d’Artisti, XIX, c. 634). Il Falconieri rispose dopo pochi giorni al cardinale Leopoldo in questi termini: “Ricevei per Milano l’ordine di V.A. di pigliare il cameo che le avevo proposto, e subito mandai a chiamare quello che l’aveva, il quale venuto da me il giovedì, dopo un contrasto di due buone ore, me lo lasciò per scudi 130 di questa moneta, di che V.A. può immaginarsi quanto giublio n’avessi, perché assolutamente è una cosa senza prezzo e poi l’ho levata al cardinale Dè Massimi, ch’è una giustissima vendetta del negozio che egli malignamente guastò a me delle statue di Lodovisio” (ASF, Carteggio d’Artisti, XIX, c. 636). Infatti in una lettera precedente (ASF, Carteggio d’Artisti, XVII, c. 139) si venne a sapere che il cardinale De Massimi aveva offerto 60 scudi e non aveva voluto dare di più. Nell’ottobre dello stesso anno, sempre attraverso le lettere del Falconieri, si precisano i termini di una discussione relativa al restauro e alla necessaria reintegrazione del fondo della pietra, di cui l’erudito metteva al corrente il cardinale Leopoldo in questi termini: “Conosco di esser molto obbligato alla Fortuna che mi ha messo per le mani il bellissimo cammeo di Tiberio e Livia, che mi ha fatto conseguire dall’A.V. così benigni aggradimenti della mia debita attenzione in servirla. Circa il restaurarlo, concertiamo il Camelie et io, che sieno due egualmente buoni: uno è di lasciarvi quelle poche reliquie del pieno che vi appariscono e commettervene un altro pezzo di calcedonio medisemamente sinchè compisca la figura che aveva prima, e questo pare che si adatti meglio alla severità degl’adoratori dell’antichità. L’altro sarebbe consumarlo tutto con i rotini e mettergli un piano tutto nuovo medisemamente di calcedonio, il quale darebbe più gusto all’occhio, ma perché si riconoscerebbe il pulimento per moderno, pare che si faccia una tal qual ingiuria alla gioia. Io però sarei per questo, perché chi saprà riconoscere che il pulimento è moderno, conoscerà ancora che il lavoro è antico, e chi non lo conoscerà avrà più gusto a vederlo tutto intero che rappezzato. Quanto allo adornamento, convenivamo ieri, il Camelli e io, che bisognassi mettergli sotto una piastra d’oro, la quale avocando il piano del cammeo, facesse di sopra un po’ di cornicetta per finimento, e metterlo poi in una custodia di zagrì foderata di velluto, nella quale entrasse a forza perché non fusse sottoposto al pericolo di uscirne inavvedutamente. Ercole vorrebbe che s’incastrassi prima in una tavoletta d’ebano o di bossolo, per difenderlo da una botta e per fargli quello
stesso che già s’è detto” (ASF, Carteggio d’Artisti, XIX, c. 638). La ricomposizione del rilievo sopra un fondo totalmente sostituito forse si deve a Francesco Camelli, anche se nel 1676 la pietra veniva ricordata ancora come “Due teste. in agata bianca … accomodate con cera sopra lavagna e fermo sopra tavoletta di legno”. Il Tondo (in TONDO-VANNI 1990, p. 18) illustra la pratica diffusa del restauro e delle integrazioni eseguite nei vari secoli su cammei o intagli antichi della collezione medicea e per quanto concerne la datazione del cammeo in oggetto avanza l’ipotesi - non supportata da alcun dato oggettivo - che si tratti di un’opera del XVII secolo (Ibid., p. 36, n. 22). A nostro parere, una certa rigidità e sintesi stilistica nell’esecuzione, sottolineata peraltro da una innegabile padronanza tecnica, si applica a quel “Neoclassicismo imperiale” nato in seguito al consolidamento e alla restaurazione del potere operata da Tiberio e dalla madre Livia, celebrata nella gemma con i simboli della Cerere terrena (per l’argomento GIULIANO 1989, pp. 40-41). Il GORI (1731-1732, I, 1731, tav. 4,1) identificò il personaggio femminile con Giulia figlia di Augusto, ma il suo suggerimento venne poi accantonato decisamente dal Puccini qualche decennio dopo, in considerazione dell’età inconfutabilmente matura dell’effigiata (BdU, ms. 47, c. 1299, n. 98). Lo stesso conservatore granducale non mancò di rilevare l’eccessiva bianchezza della pietra, imputandone la colpa a una pulitura troppo drastica, eseguita forse in occasione dell’operazione di riporto dei ritratti sopra un nuovo fondo. M.C. Bibliografia: GORI 1731-1732, I, 1731, tav. 4, 1; FURTWÄNGLER 1900, III, p. 318; MEGOW 1987, pp. 179-180, n. A49, tav. 10, 10; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, pp. 234-235, n. 159 con bibl. prec.; L. Tondo, in TONDO-VANNI 1990, p. 36, n. 22
Il cardinale Leopoldo de’ Medici
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117 - Arte greco-romana (?) Ritratto del cosiddetto “Massinissa”
ametista, mm 23 × 16 Firenze Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14954
Testa maschile in profilo a sinistra con barba a punta, lunghi capelli ondulati, corta collana a sfere rotonde ed elmo riccamente decorato. Sulla calotta una biga con una coppia di cavalli, nella celata un cavallo marino e sulla nuca un cane. Dietro la testa una piccola figura probabilmente Venere. Davanti al profilo due piccoli segni grafici non identificati. Anton Francesco Gori riproducendo questa gemma nel suo Museum Florentinum nel 1731 scrive esplicitamente che l’intaglio della raccolta medicea proveniva dalla dattilioteca di Leonardo Agostini con queste parole: “Fuit haec eximia gemma in cimeliis Praelodati L.Augustini et quibus postea traslata est in Thesaurus Mediceum” (GORI 1731-1732, I, 1731, pp. 62-63, tav. XXV, n. XI). L’intaglio infatti era stato pubblicato per la prima volta dall’Agostini nel 1686 (AGOSTINI 1686, II, n. 66) che lo aveva classificato come il ritratto di Massinissa, re della Numidia. Nelle note di commento che giustificavano la denominazione del personaggio rappresentato, viene fatto il collegamento con una corniola della dattilioteca Barberini rappresentante lo stesso personaggio caratterizzato da peculiari “caratteri punici”. Gli stessi caratteri che – a parere dell’Agostini – sono rilevabili anche nel Massinissa della collezione fiorentina. Dietro la testa del guerriero compare una piccola figura in cui l’Agostini riconosce una Venere, che a nostro parere potrebbe essere ispirata alla Venere Callipigia del Museo Archeologico Nazionale di Napoli un tempo nella collezione Farnese, mentre altri studiosi hanno creduto di riconoscervi un altro elemento figurativo, addirittura uno scudo (F.M. Vanni, in TONDO-VANNI 1990, p. 174, n. 99). L’Agostini ancora interpreta la presenza del cane raffigurato nella parte in-
feriore dell’elmo con il fatto che questo re era solito circondarsi di cani feroci, mentre la biga raffigurata sulla calotta, alluderebbe ai suoi trionfi ed il cavallo marino visibile sulla celata, alluderebbe al mare sul quale la Numidia si affaccia. I commenti dell’edizione del 1707 riconfermano le ipotesi precedenti richiamandosi alle indicazioni storiche fornite da Livio. Niente invece viene detto a proposito delle due sigle davanti al profilo che peraltro appaiono nell’incisione seicentesca di Giovanni Battista Galestruzzi. L’identificazione del guerriero è stata controversa per il suo accostamento all’immagine di Annibale, la cui tipologia nelle gemme appare diversa (cfr. GENNAIOLI 2007, p. 229, n. 180). L’esistenza di molti calchi con diverse interpretazioni del nostro cosiddetto Massinissa attestano la fama di questa gemma nei secoli successivi (CASAROSA 1989-1990, pp. 359-364). Una delle versioni più suggestive per l’altissima qualità dell’incisione rimane il cammeo in calcedonio bianco-rosato incastonato in anello, firmato da Benedetto Pistrucci (1784-1855) appartenuto a William Currie oggi al Museo Archeologico Nazionale di Firenze (Collezione Currie, ms. 218, n. 81; catalogo generale n. 15233, cassettiera VII, cassetto III, vassoio 2 posizione n. 78). M.C. Bibliografia: AGOSTINI 1686, II, tav. 66; GORI 1731-1732, I, 1731, pp. 62-63, tav. XXV, n. XI; CASAROSA 1989-1990, pp. 359-364; F.M. Vanni, in TONDO-VANNI 1990, p. 174, n. 99
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118 - Arte romana Mano
119 - Manifattura italiana Ercole che lotta con il leone Nemeo
La piccola scultura a tutto tondo è ricordata tra i pochissimi pezzi degni di essere chiaramente citati nell’inventario redatto dopo la morte del Cardinale. All’interno della scatola segnata “G” è ricordata la piccola manina di calcedonio a cui risulta mancasse già un dito descritta nel modo seguente: “Una manina di tutto rilievo che li manca il dito piccolo di agata o calcedonio” (ASF, GM 826, c. 108, n. 3476). La piccola, preziosa scultura venne procurata da Ottavio Falconieri nel 1672 attraverso l’argentiere ed orafo Marco Gamberucci. Tra i ricordi della Galleria degli Uffizi composti dal direttore Giuseppe Pelli, che fece una approfondita revisione dei carteggi dell’archivio mediceo per la redazione del suo famoso Saggio istorico della Real Galleria di Firenze del 1779, è ricordato l’acquisto del prezioso frammento, indicato erroneamente come comperato nel 1671 (BdU, ms. 25, filza C, parte I, Fogli Istorici e Notizie raccolte dal Direttore Pelli per il suo saggio della R Galleria da esso mandato in luce nel 1779). Il Pelli riporta in questi termini il brano della lettera scritta dal Falconieri: “Le do notizia di avere acquistato in questa Settimana una bellissima mano di tutto rilievo di Calcidonio,che mi è capitata per via del Gamberucci argentiere,della quale ho stimato, che siano bene spesi le dieci Doppie, che darò in prezzo … Sono alcuni mesi, che per consiglio del Cammeli proposi a V.A. una testa in marmo d’un Galba”. La lettera relativa all’acquisto della piccola mano è invece datata 4 giugno 1672 e così recita: “Godo di poter dar parte, nel medesimo tempo, di altri acquisti che ho fatti questa settimana, e particolarmente della bellissima mano di tutto rilievo di calcedonio che mi è capitata per via del Gamberucci argentiere nella quale ho stimato che sieno bene spese le 10 doppie che vi ho dato” (ASF, Carteggio d’Artisti, XI, c. 381, 4 giugno 1672, in FILETI MAZZA 1998, p. 279). Da quel momento in poi la piccola scultura compare inventariata regolarmente (inv. 1769, n. 1527; BENCIVENNI PELLI 1779, III, n. 2234; BSAT, ms. 194, n. 444). Nel 1992 è stata presentata in mostra a New York come opera del XVI secolo, senza collegamento tra la collezione medicea e la figura del cardinale Leopoldo. M.C.
Cammeo ad altorilievo senza fondo. Mezza figura di Ercole in atto di lottare con il leone. Il cardinale Leopoldo acquistò questo cammeo di grandi dimensioni per la particolarità della pietra piuttosto rara e inusuale e per la dinamicità della bella composizione subito riconosciuta come “moderna” attraverso il suo agente a Roma Ottavio Falconieri nel settembre del 1670. Così si legge nelle lettera che Ottavio Falconieri scrisse: “Ho comprato in questi giorni al prezzo di tre scudi una mezza figura di Ercole che uccide il leone intagliata in rilievo in un pezzo di pietra stellaria e benché sia di fattura moderna, nondimeno per la bizzarria della pietra e per la maniera che non è cattiva, mi è parso degno di capitare nelle mani di Vostra Altezza (ASF, Carteggio d’Artisti, XI, c. 282). Lo stesso, in una lettera del 27 settembre scriveva “Godo sommamente di sentire dalla benignissima di Vostra Altezza de’ 23 corrente che l’Ercole in pietra stellaria sia riuscito di sua soddisfazione” confermando così l’acquisto. Da quel momento il grande cammeo sarà conservato nella raccolta privata del cardinale dove appare regolarmente inventariato e precisamente menzionato nel manoscritto della sua eredità redatto dopo la morte. Qui risulta contenuto nella quinta cassettina di uno stipettino in noce così descritto: “Una pietra stellaria con mezza figura d’Ercole che combatte con un leone” (ASF, GM 826, c. 108). M.C.
calcedonio, argento dorato, lunghezza mm 73 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 826
Bibliografia: A.M. Massinelli, in NEW YORK 1992, p. 221, n. 229
prima metà del secolo XVI pietra stellaria, mm 52 × 59 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 15891
Bibliografia: CASAROSA 1976, p. 57, fig. 1; GIULIANO 1989, p. 188, n. 80; L. Tondo, in TONDO-VANNI 1990, p. 39, n. 79; FILETI MAZZA 1998, p. 236; M.E. Micheli, in ROMA 2000a, p. 551, n. 16
Il cardinale Leopoldo de’ Medici
120 - Manifattura italiana Erma con busto di Ercole
secolo calcedonio orientale bianco azzurrino, h. mm 147 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 783
XVI
Busto di Ercole rappresentato con capelli a ciocche, mantello di pelle e testa di leone che copre le spalle. Il corpo si innesta su di una struttura a parallelepipedo che termina con una base quadrangolare. La statuetta risulta rotta sotto il busto e restaurata in epoca imprecisata con l’inserimento di una pietra simile. Rintracciata e identificata da Riccardo Gennaioli nel Tesoretto del Museo degli Argenti essa risulta menzionata e illustrata per la prima volta nel libro Le Gemme Antiche Figurate di Leonardo Agostini dell’edizione del 1686 (AGOSTINI 1686, p. 19, tav. 37). L’erma passò più tardi nella collezione del cardinale Leopoldo de’ Medici in quanto chiaramente citata nell’inventario redatto dopo la sua morte (ASF, GM 826, c. 255) tra i cammei Grandi Antichi nella scatola segnata A con queste parole: “Un termine di calcedonio con una mezza figura di un Ercole di tutto rilievo”. Nelle note di corredo all’illustrazione a stampa del Galestruzzi, l’Agostini si concentra sulla tipologia dell’Ercole associata, secondo quanto scrive, a quella di Mercurio in quanto il corpo si innesta “nel tronco quadrato di Mercurio” sottolineando l’ibrida trasformazione in colonna dell’eroe. Inoltre ricorda che l’immagine era cara agli atleti poiché riuniva in sé l’idea della forza (Ercole) con quella della razionalità (Mercurio) e che spesso essi usavano farla intagliare nelle pietre dei propri anelli. Il Gori nel suo Museum Florentinum (GORI 1731-1732, I, 1731, p. 86, tav. XXXX) aggiunge che le erme del dio Ercole/Mercurio erano utilizzate nei Gynnasii, nelle Terme o a segnalare l’inizio di una strada e il confine dei campi. La tipologia di queste piccole sculture in pietre dura, raffigurante una divinità o personaggi mitologici, si collega al frammentato busto di Serapide della collezione Farnese del Museo Archeologico Nazionale di Napoli (C. Gasparri, in COLORNO-MONACO-NAPOLI 1995, pp. 419-420, n. 197) che attesta la presenza di un genere rappresentato in età romana da un numero circoscritto di esemplari. Oltre i numerosi piccoli busti ritratto, frequenti nelle collezioni italiane e straniere, vengono ricordate le erme di Ercole conservate a Londra e a Napoli. Nel corso dei secoli, queste piccole sculture a tutto tondo spesso frammentate o elementi superstiti di statuette antiche, vennero prima reimpiegate in senso cristiano nei tesori delle grandi cattedrali europee, poi scelte come ornamento degli studioli rinascimentali. Ciò ha consentito comunque che esse giungessero ai nostri giorni, anche se talvolta manomesse o reintegrate. Il cardinale Leopoldo, particolarmente sensibile ai resti preziosi dell’antichità effettuò nel marzo del 1673 un acquisto di “ Sette busti in varie pietre con ornamento d’oro” per 25 scudi, non sappiamo se antichi o rinascimentali, insieme ad un cospicuo gruppo di cammei, attraverso l’abate Andrea Andreini (ASF, Carteggio d’Artisti, XXI, c. 27r). La nostra statuetta presenta caratteri moderni nell’esecuzione e come lavoro del XVI secolo è stato presentato nel 1992 in una mostra a New York, senza però alcun collegamento tra la raccolta medicea e quella di Leonardo Agostini. M.C. Bibliografia: AGOSTINI 1686, p. 19, tav. 37; GORI 1731-1732, I, 1731, p. 86, tav. XXXX; A.M. Massinelli, in NEW YORK 1992, p. 221, n. 223
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121 - Manifattura francese o milanese Busto di Livia Medullina
122 - Manifattura tedesca (?) Leda e il cigno
seconda metà del XVI secolo lapislazzuli, oro e smalti, mm 36 × 30 (senza cornice) iscrizioni: (sul verso della pietra) “.LIVIA./MEDULLI/NA.CL.IMP./.CAES.” Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 308
prima metà del XVII secolo agata svizzera, rame dorato, mm 59 × 51 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 179
Cammeo in altorilievo in lapislazzuli. Busto femminile leggermente volto verso sinistra. Capelli ondulati con scriminatura centrale sciolti sulle spalle. Il panneggio lascia scoperto un seno. Cornice in oro smaltato con decorazione bianco e rosso a spina di pesce e volute alle estremità. L’iscrizione, che fa diretto riferimento a Livia Medullina seconda moglie dell’imperatore Claudio, ha consentito la sua identificazione con il cammeo acquistato dal cardinale Leopoldo de’ Medici nel 1673 attraverso Annibale Ranuzzi, suo corrispondente da Bologna, che lo aveva avuto da Monsieur Vouet, commerciante e mediatore di origine francese (CASAROSA 1976, p. 60) Così il Ranuzzi riferisce nella lettera del 27 aprile 1673: “È tornato M. Voüet et è stato da me e mi ha portato tre ritratti di pastello perché li tenga nelle mie stanze… Gli ho dato 15 doppie degli otto intagli desiderati da V.A. ma ha fatto molti strilli e molti giuramenti, e havendo altre cose belle ha detto di non volerle più mandare ma scherza così, e se non con questo procaccio, con altra prima occasione manderà una scatoletta dove sono bei pezzi, ma tiene alta la mira. Intanto riceverà con questa, una scatoletta bianca nella quale sono le sudd.[ett]e otto pietre comprate avvolte in una carta e in altre vi sono alcune bagatelle del Magnavacca cioè tre disegni antichi, un ritrattino tondo e un altro cartoncino con due piccole pietre che io veramente non ho stimate da mandarsi costà ma per compiacerlo e per aver l’occasione della scatola, l’ho fatto” (ASF, Carteggio d’Artisti, XIII, cc. 431-433). Il GENNAIOLI (2007) ricollega stilisticamente il cammeo mediceo a un esemplare – sempre in lapislazzuli – conservato alla Bibliothèque Nationale di Parigi, attribuito a maestro francese o milanese della seconda metà del XVI secolo e a un altro pezzo a Monaco di Baviera nella collezione dell’Elettore Palatino Johann Wilhelm von der Pfalz, marito di Anna Maria Luisa de’ Medici. Per la documentazione archivistica successiva all’acquisto da parte del cardinale Leopoldo si rimanda a GENNAIOLI (2007) nel catalogo della collezione glittica del Museo degli Argenti. M.C.
Cammeo ad altorilievo raffigurante Leda nuda di profilo verso sinistra seduta su di una roccia in atto di tenere con la mano destra il collo del cigno. La tipologia della pietra, un’agata variegata di color giallo ocra e la volumetria accentuata del modellato delle figure, realizzate con uno stile sintetico, ha permesso di identificare chiaramente il presente cammeo in un gruppo stilisticamente omogeneo di ventotto cammei acquistati dal cardinale Leopoldo de’ Medici attraverso l’abate Pietro Andrea Andreini il 6 marzo del 1673 (CASAROSA 1976, p. 59). In una lunga lettera al cardinale l’Andreini racconta la divertente vicenda (ASF, Carteggio d’Artisti, XXI, ins. 7, c. 25): “Subbito ch’io ebbi ricevuti li stimatissimi cenni di V.A.R., procurai con esattissima diligenza e segretezza di sapere quando fusse giunto quel tale ch’a V.A. aveva mostrato la partita dè cammei, e con tutto che ogni poco io passassi dalla bottega del Ricci (Marco Ricci, argentiere), et anche ne cercassi per l’alberghi, mai però ne potei tener raguaglio. Onde mercoledì mattina ritornandoci per il medesimo effetto, egli fece chiamarmi un certo ebreo chiamato Salvator Camilli, che nella sera innanzi era qui giunto, et appunto era per partirsi alla volta di Roma, il quale, da una scatoletta un poco lunga, cominciò a trarre una quantità di cammei di più grandezze, e furono 28, due piccoli e due teste grandi incavate, però tutti moderni. Ond’io per meglio assicurarmi se questi erano li medesimi che V.A.R. desiderava, prima di domandarne il prezzo, cominciai ad interrogarlo destramente donde veniva, ma mai fui bastante a saperlo, perch’egli rispondeva sempre venir di Germania, anzi mai volle dire da quale città”. L’Andreini sottolinea come abilmente fosse riuscito a far scendere la richiesta avanzata dal Camilli dalle 1000 piastre fino a ottenere la partita di cammei per 120 doppie. La lettera continua raccontando che il mediatore non era rimasto soddisfatto della trattativa tanto che “bestemmiando gettò il cappello e fece mille atti di rabbia che non poco mi fecero ridere e doppo che si fu cheto un poco levatogli la scatoletta lo mandai a casa et egli montato su un cavallo subbito andossene verso Modena molto mal contento”. I mediatori, l’argentiere Marco Ricci e un altro “mezzano” ricevettero 10 piastre e i cammei furono acquistati. Nella lunga nota allegata dall’Andreini alla lettera sono elencate le gemme acquistate, molte delle quali identificate a suo tempo nella collezione medicea del Museo degli Argenti (CASAROSA 1976, pp. 59-60; FILETI MAZZA 1998, pp. 81-83; GENNAIOLI 2007, p. 75). Di seguito riportiamo la nota contrassegnando con gli asterischi le gemme identificate il riferimento all’inventario delle Gemme del 1921 del Museo degli Argenti e al catalogo di GENNAIOLI (2007):
Bibliografia: CASAROSA 1976, p. 60, figg. 20-21; GENNAIOLI 2007, pp. 244-245, n. 216, tav. XXIII
- Due cani in corniola Scudi 10* (inv. Gemme 1921 n. 1155; GENNAIOLI 2007, p. 344, n. 453) - Due cammei piccoli rappresentanti due segni del sole Scudi 4 - Sette busti in varie pietre con ornamento d’oro Scudi 25 - Tre cammei in corniola, uno et due teste l’altro, et una Cleopatra che si avvelena con la serpe l’altro con un amorino Scudi 12 - Una testa di Deianira Scudi 3 - Una testa di donna in niccolo et fondo nero, le carni turchine d i capegli e la corona ‘altro colore Scudi 3 * (inv. Gemme 1921 n. 27; GENNAIOLI 2007, p. 171, n. 45) - Una donna in ginocchioni che abbraccia una cornucopia in sardonico Scudi 4 * Gemme 1921 n. 192 (inv. Gemme 1921 n. 192; GENNAIOLI 2007, p. 206, n. 127) - Un galletto in corniola piccolo Scudi 3 * (inv. Gemme 1921 n. 197 [?]; GENNAIOLI 2007, p. 350, n. 469) - Un uccello crestato in agata sardonica Scudi 6 * (inv. Gemme 1921 n. 190; GENNAIOLI 2007, p. 349, n. 466)
Il cardinale Leopoldo de’ Medici
- Una testa di donna in agata con i capegli salmistrati e molto bella per lo scherzo della pietra Scudi 9 - Una figura di un sacerdote appiè di un’ara in agata Scudi 6 * (inv. Gemme 1921 n. 1403; GENNAIOLI 2007, p. 204, n. 123) - Una figura di un Giove a sedere un fulmine in mano, un putto per aria e duefigure in terra. In Calcedonio orientale Scudi 15 *(inv. Gemme 1921 n. 194; GENNAIOLI 2007, p. 206, n. 128) - Un lione che appoggia una zampa sopra un globo in sardonico orientale Scudi 6 * (inv. Gemme 1921 n. 1408; GENNAIOLI 2007, p. 351, n. 473) - Due donne more che si porgono un putto pure nero e due figure che sono davanti. In agata sardonica Scudi 5 * (inv. Gemme 1921 n. 187; GENNAIOLI 2007, p. 205, n. 125) - Una figura di un putto che siede e tiene una serpe in mano. In diaspro orientale Scudi 5 * (inv. Gemme 1921 n. 1402; GENNAIOLI 2007, p. 203, n. 122) - Una corniola grande opaca cò tre teste l’una sopra all’altra due di donne e l’altra di un huomo barbato Scudi 18 * (inv. Gemme 1921 n. 183; GENNAIOLI 2007, p. 303, n. 349) -Una dea Cibale in un carro tirato da due lioni et una figurina che l’accompagna ed un pomo in mano.In calcedonio orientale Scudi 18 * (inv. Gemme 1921 n.
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1404; GENNAIOLI 2007, p. 204, n. 124) - Un pappagallo sopra un tronco di frutta.In Corniola Scudi 20 * (inv. Gemme 1921 n. 182; GENNAIOLI 2007, p. 348, n. 464) - Un gallo in corniola Scudi 20 * (inv. Gemme 1921 n. 186; GENNAIOLI 2007, p. 348, n. 465) - Una figura di Leda assieme al cigno in Diaspro orientale Scudi 30 * (inv. Gemme 1921 n. 179; GENNAIOLI 2007, p. 202, n. 120) - Un busto di donna grande di quasi tutto rilievo. In calcedonio orientale Scudi 50 * Gemme 1921 n. 180 o n.1405 (inv. Gemme 1921 n. 180 o 1405; GENNAIOLI 2007, p. 306, n. 357 o p. 322, n. 404) - Una donna cò cornucopia e un putto che porta spighe. In Diaspro orientale Scudi 50 * (inv. Gemme 1921 n. 1401; GENNAIOLI 2007, p. 203, n. 121)
La Somma finale riportata in calce della partita di oggetti risulta di 342 Scudi. M.C.
Bibliografia: CASAROSA 1976, pp. 59-60; FILETI MAZZA 1998, pp. 81-83; GENNAIOLI 2007, p. 202, n. 120
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123 - Manifattura tedesca (?) Pappagallo
124 - Manifattura italiana Sacrificio a Priapo
prima metà del XVII secolo agata svizzera, rame dorato, mm 76 × 51 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 182
prima metà del XVI secolo eliotropio, oro e smalti, diam. mm 30 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921 n. 308
Cammeo ad altorilievo in agata svizzera raffigurante un Pappagallo sopra un ramo di frutta. Filetto in rame dorato con due maglie circolari. Il pappagallo, simbolo di eloquenza, fu acquistato nel 1673 dal cardinale Leopoldo de’ Medici insieme ad altre pietre della stessa tipologia. Per la sua storia si veda cat. n. 122. M.C.
Intaglio di forma rotonda con cornice in oro a foglie di alloro con tracce di smalto azzurro e nero sulla pietra è raffigurato un gruppo di figure, quattro donne e un uomo, riunite intorno ad un’ara sulla quale si erge un candelabro fallico. La gemma venne reputata antica dall’Agostini che la riporta nel suo libro e che così interpreta il soggetto: “Questo intaglio in eliotropia è notabile per la grandezza e l’eccellenza dell’artefice; se bene ne porta l’indegna memoria di Caligola, cò le sue sorelle Lucilla, Drusilla e Giulia, celebranti li sacrifici lascivi itifallici; sopra di che, biasimando l’altre cose, loderò solo l’artificio delle figure” (AGOSTINI 1657, p. 31, tav. 142; MAFFEI-DE ROSSI 1707-1709, III, 1708, pp. 73-77, tav. 41). La gemma è menzionata chiaramente per la prima volta nella descrizione della dattilioteca dell’Agostini fatta da Philip Skippon nel 1665 che visitò l’antiquario durante un suo viaggio in Italia, più tardi pubblicato a Londra (VAIANI 1998, p. 91, appendice I). Durante la sua visita alla collezione di glittica, lo Skippon ricorda precisamente un intaglio in eliotropio interpretato come un “Sacrificio a Priapo celebrato dall’imperatore Caligola con tre sorelle (“with his three sisters”)” confermando in questo modo l’interpretazione iconografica offerta dall’Agostini nel suo libro. L’interesse del cardinale Leopoldo verso soggetti legati ai riti pagani degli antichi è testimoniata da altre proposte di acquisti di gemme con soggetti simili avanzate in diversi anni da altri suoi agenti ed anche dalla presenza nella collezione medicea di molte pietre con questi soggetto. Si ricorda, ad esempio, che attraverso l’abate Andrea Andreini il cardinale Leopoldo acquistò nel marzo del 1673 un cammeo con “Una figura maschile presso un’ara” pagandola 6 scudi, oggi al Museo degli Argenti (CASAROSA 1976, pp. 59-60; GENNAIOLI 2007, p. 204, n. 123) e nel luglio dello stesso anno, Monsignor Vouet corrispondente da Bologna gli propose l’acquisto di una pietra con lo stesso soggetto (BdU, ms. 68L, c. 698r). Purtroppo le descrizioni troppo succinte, non hanno permesso la sua identificazione; altrettanto dicasi per un “Sacrificio in diaspro” proposto in acquisto da Andrea Andreini al Cardinale nel 1674 (ASF, Carteggio d’Artisti, A XXI, c. 177, n. 14). M.C.
Bibliografia: CASAROSA 1976, pp. 59-60; FILETI MAZZA 1998, pp. 81-83; GENNAIOLI 2007, p. 348, n. 464
Bibliografia: AGOSTINI 1657, p. 31, tav. 142; MAFFEI-DE ROSSI 1707-1709, III, 1708, pp. 73-77, tav. 41; CASAROSA 1976, p. 58, fig. 4; M. Casarosa, in FIRENZE 2005b, p. 241, n. 119; GENNAIOLI 2007, p. 368, n. 498 con bibl. prec.
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125 - Leonardo Agostini (Boccheggiano, Gr, 1593-Roma, 1676) Le Gemme antiche figvrate di Leonardo Agostini senese
in Roma appresso dell’Autore con licenza de’ Superiori, MDCLVII in 4°; mm 204 × 108, h. costola mm 50; pp. 222; 216 illustrazioni incluso il frontespizio e il ritratto dell’autore tav. 142, (Sacrificio di Caligola in eliotropio) acquaforte, mm 125 × 100 (alla battuta) Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Magl. 4.2.150/a
Pubblicazione a stampa con legatura cartonata ricoperta in cartapecora (pergamena), colore naturale; taglio spruzzato, colori rosso e grigio. Sulla costola, manoscritta a penna e inchiostro: “XXVIII/AGOSTINI/ Gemme Antiche/Figurate” e il cartellino della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze “IV/2/150”. Vi sono tre timbri: all’interno sulla prima pagina con il frontespizio figurato è il timbro della biblioteca fiorentina (tondo diam. mm 23: lungo il bordo “PVB. FLORENTINAE BIBLIOTH” e giglio all’interno); sul verso della stessa carta è un timbro ovale con fondo scuro sul cui centro campeggia un’aquila e tutt’intorno un’iscrizione frammentaria illeggibile. Sulla prima pagina, al centro è visibile una filigrana raffigurante un cerchio di circa 45 mm di diametro con inscritto un monte rilobato (non in BRIQUET 1923). Su ogni illustrazione a stampa è un piccolo timbro ovale della Biblioteca Nazionale di Firenze. Si tratta di una raccolta rilegata in cui sono accorpati quattro volumi, il primo dei quali, appunto, rappresentato dal tomo de Le gemme antiche figvrate di Leonardo Agostini Senese edito a Roma nel 1657 e dedicato al papa Alessandro VII; il volume comprende una breve prefazione (“Amico Lettore”), l’indice alfabetico delle tavole e 214 illustrazioni numerate da 1 a 214 all’acquaforte, più il frontespizio figurato con la lupa che allatta i due primi re di Roma, Romolo e Remo, invenzione di Giovan Battista Galestruzzi, (c. 1) e il medaglione con il ritratto dell’Agostini, sempre su disegno del Galestruzzi. Autore dell’opera è Leonardo Agostini, insigne studioso di antichità e collezionista esso stesso di cammei e medaglie, che fu già curatore della Illustrazione della Sicilia di Filippo Paruta corredata da un vasto repertorio di medaglie. L’Agostini trovò particolare fortuna a Roma all’epoca del pontificato di Urbano VIII dove fu anche impiegato dalla famiglia Barberini come esperto di antichità per realizzare il riordino e la catalogazione della raccolta di antichità, ossia “le ruine, le statue, l’iscrittioni, et le medaglie” della raccolta e biblioteca Barberini. Ricorda lo stesso autore nella prefazione de Le Gemme: “né solamente fu mia cura l’adunare marmi, metalli, et erudite scolture, ma varia copia, d’intagli e di cammei, che nella Pinacoteca della medesima libreria, sono ben rari monumenti”. Agostini ricoprì anche il ruolo, ben più importante, di Commessario delle antichità di Roma e del Lazio, cosa che lo portò anche a stringere i contatti con l’ambiente artistico e accademico romano, in particolare con il pittore Andrea Sacchi. Da lui Agostini ricevette l’incoraggiamento per realizzare una pubblicazione illustrata delle sue gioie personali, in particolare dei cammei di cui Agostini stesso ammise di essere “avidissimo”; leggiamo infatti nella sua prefazione: “et possedendone molte rare, et eccellenti, mi sono risoluto farne copia à gli amatori dell’erudizione, et del disegno trovuandomi in un otio molto opportuno, et disposto à corrispondere ancora, in qualche parte all’uffitio mio di Antiquario”. Il cammeo, gioiello decorativo e simbolo di potere e ricchezza, era spesso il complemento essenziale di monili, come pendenti e anelli, che non erano però di esclusiva prerogativa femminile visto che anche gli uomini amavano indossarli. Tra i soggetti rappresentati sugli intagli, prediletti erano quelli con le effigi degli imperatori romani ispirati agli scritti degli antichi, come le Vite di Plutarco e di Svetonio, con episodi o allegorie ad essi relativi.
Inventore e realizzatore delle acqueforti di questa opera fu Giovan Battista Galestruzzi (1618-1677), pittore, disegnatore e incisore fiorentino, allievo di Francesco Furini ma forse vicino anche a Stefano della Bella, che fu scelto da Agostini “per lo studio fatto sopra le cose antiche” ma anche per la sua dimestichezza tanto nel disegno quanto nell’incisione avendo “superato ogni difficoltà nell’ingrandire le figure da una quantità tanto piccola quanto appena è visibile, imitando le proportioni, li d’intorni, et la grazia dell’antico”. Due sono i concetti interessanti espressi in queste parole che ci illuminano circa il gradimento della riproduzione a stampa di opere così delicate come le gemme intagliate: la precisione della composizione intesa come l’abilità di rendere percepibile con apprezzabile fedeltà ogni minimo dettaglio dell’intaglio originale, e il concetto di “grazia”, ovvero la leggerezza delle linee di rilievo con cui la figura è definita e spicca dal fondo della pietra spesso di colore diverso. Tali necessità imitative e di fedeltà all’originale, o a quanto l’occhio umano percepisce delle pietre intagliate, possono tuttavia sacrificare, talvolta, nella stampa, le sue più apprezzate qualità tecnico-artistiche, ossia la scelta della gamma luministica e chiaroscurale per la profondità dei piani resa attraverso la fitta rete di tratti lineari ma di corpo e taglio diverso, e di punti. La tentazione di ‘migliorare’ l’originale, e forse non solo nel caso di gemme non perfettamente conservate o frammentarie, poteva accrescere la distanza tra la fonte e la sua imitazione in stampa rendendo quest’ultima un’opera d’invenzione a tutti gli effetti (per una più recente definizione e lettura della cosiddetta stampa riproduttiva, valida anche per le stampe dei secoli XVII e XVIII, si veda P. Parshall, in LANDAU-PARSHALL 1994, p. 162 e seguenti; sempre sull’argomento si veda anche, più in generale, Original und Kopie 2008). Di questa doppia validità della stampa riproduttiva –non solo dagli intagli preziosi ma anche dalle sculture, dai dipinti ecc. –, dovevano ben essere consapevoli gli appassionati conoscitori e collezionisti del secolo successivo, tra i quali furono anche, il Gabburri, il Mariette, e il barone von Stosch (vedi cat. n. 147), il quale, pur con poca convinzione, per le sue Gemmae celatae scelse infine i disegni di Picart perché più somiglianti. Sin dai primi anni del secolo si nota un forte incremento d’interesse per le pubblicazioni illustranti le collezioni d’arte, come il Museum Florentinum di Anton Francesco Gori (cat. n. 152), – ma si possono anche citare repertori e trattati tra cui LA CHAUSSE 1700; MAFFEI-DE ROSSI 17071709; MONTFAUCON 1719; BAIER 1720; MARIETTE 1750 – considerati veri e propri strumenti di conoscenza complementari alle preziose raccolte purchè perfettamente fedeli agli orginali, anche a scapito della qualità della stampa. Per quanto riguarda la raccolta presente, gli altri tre volumi contenuti in questa stessa raccolta sono il secondo tomo delle Gemme di Leonardo Agostini, Le gemme antiche figvrate di Leonardo Agostini all’altezza Serenissima di Cosimo Principe di Toscana, parte seconda, in Roma Appresso Michele Hercole, MDCLXIX, con licenza de’ superiori, con 53 tavole; i due volumi con i commentari all’opera dell’Agostini editi a Roma da Giovanni Pietro Bellori nel 1659, intitolati Annotazioni sopra le Gemme antiche di Leonardo Agostini senese, in Roma, Per Giacomo Dragondelli M.D.C.LVV con licenza de’ superiori (45 pagine, nessuna illustrazio-
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ne il primo, 49 pagine e nessuna illustrazione il secondo). Nell’annotazione alla tavola 142, quella con Il Sacrificio di Caligola si legge (p. 31): “questo intaglio in eliotropia è notabile per la grandezza et per l’eccellenza dell’artefice; se bene porta l’indegna memoria di Caligola, con le tre sorelle Luccilla, Drusilla et Giulia, celebranti li sacrifici lascivi itifallici (sic): sopra di che, biasimando l’altre cose, loderò solo l’arteficio delle figure”. La tavola con il Sacrificio di Caligula ha due iscrizioni: in alto, “SACRIFITIO DI CALIGVLA” il numero della tavola “142” e in basso in corsivo: “In Eliotropio”. Al centro, a destra della colonna su cui spicca il segno fallico, è Caligola che sta infilando la mano sul fuoco acceso nel bracere dove anche la sorella, dalla parte sinistra della colonna, ha a sua volta posato la mano. Sulla sinistra, essa viene incoronata con l’alloro da un’altra figura maschile ammantata. Un ritratto di Caligola è anche alla tavola 52 dell’Agostini e ripropone il cammeo di forma ovale in corniola dove l’imperatore, visto di profilo volto verso sinistra, reca sulla fronte la corona d’alloro. A.B. Bibliografia: VAIANI 1998, pp. 81-110; HERKLOTZ 2004, pp. 55-88; DALY DAVIS 2007, pp. 515-529.
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127 - Manifattura granducale, su modelli attribuiti a Orazio Mochi (Firenze, 1571-1625) e Francesco Mochi (Firenze, 1603-1649) I quattro Evangelisti
secondo quarto del secolo XVII sculture in pietre dure, h. cm 32 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, nn. 510, 513, 621, 765
126 - Botteghe granducali Busto di Cosimo II de’ Medici
prima metà del XVII secolo calcedoni di diversi colori, diaspro verde, diaspro giallo e oro, mm 42 × 37,4 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 837
Il granduca Cosimo II de’ Medici (1590-1621) è qui ritratto in giovane età, di profilo, volto a destra. Indossa una corazza e porta al collo una ricca gorgiera pieghettata e una catena alla cui estremità pende la croce dell’Ordine di Santo Stefano, solo parzialmente visibile. La cornice modanata, realizzata in diaspro giallo, è circondata da un filo d’oro giallo e reca al vertice una maglia circolare. Il cammeo, databile con sicurezza alla prima metà del XVII secolo, risulta chiaramente documentato per la prima volta nell’inventario della collezione di medaglie, cammei e intagli del granduca Cosimo III de’ Medici, redatto nel 1676, nel quale è descritto come “Testa di Cosimo II di varie pietre” (BdU, ms 78, n. 28). Secondo il KRIS (1929), quest’opera risulta stilisticamente vicina alle medaglie realizzate da Gasparo Mola e da Ottavio Miseroni e si presta al confronto con un cammeo eseguito in commesso di pietre dure raffigurante Maria Maddalena d’Austria e conservato a Vienna. Il busto, il volto, i capelli e la gorgiera, che si stagliano sul fondo scuro in diaspro, sono realizzati mediante la raffinata tecnica del commesso in pietre dure, disciplina nella quale le botteghe granducali fiorentine stavano ottenendo risultati di eccellenza già a partire dal 1588, anno in cui Ferdinando I istituì una ‘Manifattura
Granducale’ specializzata nella lavorazione delle pietre dure, impegnando i migliori intagliatori sia nella decorazione della Cappella dei Principi che nella realizzazione di oggetti molto diversi che avrebbero arricchito la corte toscana e quelle straniere. Dal punto di vista della realizzazione, il cammeo si collega in maniera significativa al celebre commesso in pietre dure e preziose eseguito su disegno di Giulio Parigi fra il 1617 e il 1624 per il Paliotto di San Carlo Borromeo di Milano, raffigurante Cosimo II in preghiera (Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 489). L’iconografia del granduca sembra riconducibile ad una medaglia in bronzo datata 1613 dello scultore, medaglista e incisore di gemme Guillaume Dupré (1576-1643), dalla quale non deriva solo l’impostazione del ritratto di Cosimo II, ma anche i dettagli della corazza finemente lavorata e della croce dell’Ordine di Santo Stefano sul petto (GENNAIOLI 2007, p. 273). C.C. Bibliografia: KRIS 1929, I, p. 177, n. 415, II, tav. 96, n. 415; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 193, n. 1336; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 581, n. 108, fig. 28.108; CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 93; CASAZZA 2004a, p. 28; GENNAIOLI 2007, p. 273, n. 268
Fra le nuove creazioni in pietre dure messe a punto dalla Galleria dei Lavori, immediatamente dopo la sua fondazione (1588) da parte di Ferdinando I de’ Medici, vi fu anche la scultura musiva, ovvero l’intaglio plastico di singole pietre, assemblate per formare sculture a tutto tondo o rilievi policromi. Il progetto di maggior impegno varato da Ferdinando, il monumentale altare per la Cappella dei Principi, prevedeva che fra i ricchissimi apparati in pietre dure trovassero posto, accanto ai predominanti pannelli a “commesso”, sculture musive quali la serie dei quattro Evangelisti, messi in cantiere già nel 1602-1603, subito dopo la preparazione del modello per il fulgido tempietto da parte di Don Giovanni de’ Medici. Le quattro statuette, che restano fra gli esiti migliori della plastica in pietre dure, ebbero realizzazione singolarmente laboriosa, dovuta ai mutamenti di programma apportati nella lenta prosecuzione del progetto, tanto che solo nel 1659 risultano del tutto ultimate. Dai documenti emerge un percorso complesso nella preparazione delle quattro statuette, affidate inizialmente al magistrale intagliatore milanese Cristofano Gaffurri, al quale lo scultore Antonio Susini forniva i modelli per due figure, e il pittore Cigoli un terzo modello in cera colorata. Ma nel 1605 si decretava che “… le due nicchie con li evangelisti passino tutti per una mano eloperatore sia Orazio Mochi et invero si vede esser molto afetato ediligente emasimo et sendo appresso a m. stefano si puo seno pensare che abbi a caminar bene…” (A. Giusti, in BALDINI-GIUSTI-PAMPALONI MARTELLI 1979, p. 263). Il documento sembra alludere a un apprendistato abbastanza recente nella glittica da parte del Mochi, per sua formazione scultore in marmo e pietra e all’ epoca più che cinquantenne, ma che poteva trovare una guida eccellente in “maestro Stefano”, ovvero l’ abilissimo artefice della bottega milanese dei Caroni, che Francesco I de’ Medici aveva trapiantato nel 1572 a Firenze. Fra il primo e il secondo decennio del Seicento il Mochi, che doveva aver imparato a “caminar bene”, risulta impegnato per altri lavori di plastica in pietre dure, che forse lo distolsero dagli Evangelisti, registrati solo in numero di due, e neppure finiti, in un Inventario del 1638.
La scultura musiva in pietre dure
L’anno successivo Francesco Mochi, figlio di Orazio, presentava il conto per un modello in cera di Evangelista, e per un secondo modello fatto in collaborazione con il fratello Stefano. Dovranno tuttavia passare altri venti anni prima che la serie venga registrata come completa e ultimata. In mancanza di riferimenti documentari certi, si potrebbe ipotizzare che a questa seconda fase del progetto possano appartenere le due statuette del San Matteo e del San Marco, che a confronto del San Giovanni e del San Luca mostrano una più disinvolta e insieme complessa impostazione spaziale, e una gravitas espressiva, sostanziata di naturalezza ormai pienamente seicentesca. È comune in ogni caso alle quattro figure quel senso organico della forma che le imparenta, come altri lavori di plastica della Galleria, agli esempi della statuaria piuttosto che al fare minuto della glittica tradizionale. A.Gi. Bibliografia: A. Giusti, in BALDINI-GIUSTI-PAMPALONI MARTELLI 1979, pp. 263-265, nn. 43-46; C. Przyborowski, in FIRENZE 1988, p. 134, n. 25, con bibl. prec.; GIUSTI 1992, p. 79; CASAZZA 2004b, pp. 85-86; A. Giusti, in NEW YORK 2008, pp. 147-148, n. 24; A. Giusti, in FIRENZE 2009a, p. 166, n. 41
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128 - Massimiliano Soldani Benzi (Montevarchi, 1656-Villa Petrolo presso Galatrona, 1740) Medaglia di Cosimo III de’ Medici
1684 bronzo, diam. mm 94 iscrizioni: sul dritto “COSMVS. III. D.G. MAGNVS. DUX. ETRURIAE. VI”; sotto la troncatura del braccio: “M.SOLD.F.” iscrizioni: sul rovescio, sull’architrave del tempio: “PACI”; in basso a destra: “M.S.F.”; nell’esergo: “SIC.STABIS” Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. n. 7442
Sul dritto della medaglia è raffigurato il granduca a mezzo busto, volto di profilo a destra, corazzato all’antica, con i lunghi capelli riccioluti e il mantello drappeggiato. La corazza è decorata con la testa di Medusa ed Ercole che abbatte Idra. Sul rovescio è sulla destra nuovamente la figura di Cosimo III, sempre in armatura antica e mantello drappeggiato, stante, con la mano destra ad indicare un filo a piombo (archipenzolo) sorretto sopra un’ara da una figura femminile coronata seduta, simboleggiante la Toscana. Ai piedi di quest’ultima è un leone accovacciato e un insieme di armi, tra le quali sono visibili gli scudi con gli stemmi di Firenze, Siena e Pisa. La medaglia, in bronzo fuso, venne realizzata nel 1684 da Massimiliano Soldani Benzi per Cosimo III dei Medici, a glorificarne il governo e la magnanimità. Il ritratto del granduca a mezzo busto, con corazza all’antica e mantello, era stato già utilizzato dal maestro nello stesso anno nel conio per una nuova moneta d’argento, la piastra di Firenze, per la quale aveva realizzato ex-novo anche il rovescio, dove aveva posto le sue iniziali M e S ai lati della figura di san Giovanni seduto con l’agnello. Per quanto riguarda il rovescio della nostra medaglia, invece, l’artista definì una inedita composizione allegorica, che alludeva al ‘buon governo’ e alla politica di imparzialità seguita dal sovrano nel suo regno. A questi valori si riferisce il tempio sullo sfondo con l’iscrizione Pace, l’archipenzolo con il filo a piombo posizionato correttamente al centro della livella, la figura della Toscana in veste di figura femminile coronata, seduta sotto un albero fronzuto, che soggioga ai suoi piedi un leone e i consueti trofei guerreschi. A ricordare che – secondo il pensiero del tempo – non può esistere pace se non grazie al deterrente della guerra, il granduca appare, sia sul dritto sia sul rovescio, corazzato all’antica.
L’opera documenta egregiamente la rinascita della medaglistica toscana grazie all’arte di Massimiliano Soldani Benzi, il quale, come è noto, fin dagli inizi della sua carriera dimostrò grande talento nel modellare e nel raffigurare con finezza persone e cose. La medaglia fu eseguita dal maestro due anni dopo il suo rientro a Firenze, dopo un soggiorno di studio a Parigi presso uno dei migliori incisori di coni dell’epoca, Joseph Roettiers. Inizialmente l’artista fu chiamato a riordinare e riorganizzare la Zecca granducale, situata agli Uffizi nel piano terreno accanto alla loggia dei Lanzi, ricevendo prima la nomina di “intagliatore” (1683) e l’anno dopo quella di “improntatore dei coni e delle monete”. Proprio agli inizi del 1684 eseguì le sue medaglie più belle, modellate sullo stile e sulla forma di quella creata per Luigi XIV: oltre a questa dedicata al granduca Cosimo III, quella del medico di corte Francesco Redi, che diventeranno per modulo e caratteristiche stilistiche tipiche della scuola barocca fiorentina. La fortuna della composizione della medaglia in oggetto è in particolare documentata dalla ripresa fattane, con impercettibili varianti, dall’intagliatore Giuseppe Antonio Torricelli nel famoso cammeo in calcedonio, oggi conservato nel Museo dell’Opificio delle Pietre Dure. Sempre a sottolineare il successo ottenuto da questo genere di lavori e il favore del granduca e dei dignitari di corte nei confronti dell’artista (che nel novembre del 1688 era stato peraltro nominato alla carica di “Maestro de’ Conii e Custode della Zecca”, cioè direttore tecnico ed artistico della stessa Zecca granducale) si ricorda come Cosimo III sia stato sepolto con due esemplari in oro di questa medaglia, uno vicino alla testa l’altro sul petto. E.N. Bibliografia: VANNEL-TODERI 1987, pp. 84-85 con bibl. prec.
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129 - Giuseppe Antonio Torricelli (Firenze, 1662-1719) Cosimo III e la Toscana davanti al Tempio della Pace primi decenni del secolo XVIII cammeo in calcedonio, mm 170 × 110 Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure, inv. n. 580
Nel grande cammeo, intagliato in un unico pezzo di calcedonio dei Grigioni, si fronteggiano Cosimo III de’ Medici, con armatura all’antica, e la Toscana, in veste di donna coronata, sullo sfondo del tempio della Pace. La composizione allegorica, che intende celebrare l’equanime saggezza del Granduca, garanzia di buon governo e di pace per la Toscana, deriva con qualche piccola variante da una medaglia in bronzo, eseguita nel 1684 da Massimiliano Soldani Benzi. Per il tema celebrativo del sovrano e per le grandi dimensioni il cammeo si ispira ai cammei imperiali di età romana, distinguendosi tuttavia per l’insolita forma a scudo, che parrebbe adatta a coronare uno stipo, presumibilmente dedicato allo stesso Cosimo III. Che uno stipo del genere fosse progettato e già in lavorazione, lo dimostra d’altronde la sussistenza, nel Museo dell’Opificio, di un’incompiuta figura in calcedonio di Cosimo III (A. Giusti, in FIRENZE 2006b, p. 134, n. 2), simile per dimensioni e attitudine alla statuetta dell’Elettore Palatino nello stipo omonimo, che nel 1709 il Granduca inviava in dono al genero, alla corte di Dusseldorf. Più o meno alla stessa epoca potrebbero risalire il progetto per lo stipo incompiuto e la lavorazione del cammeo, se si ammette che esso vi fosse destinato: in ogni caso, sembra di poterne riconoscere l’autore in Giuseppe Antonio Torricelli, all’epoca il maggiore specialista di intagli nella Galleria dei Lavori. Peritissimo nella lavorazione plastica delle pietre dure, il Torricelli applica la stessa tecnica al grande cammeo, che non è lavorato a strati cromatici, secondo la tradizione della classicità, ma trattato come un bassorilievo, con una morbidezza di trapassi resi più pittorici dalla trascolorante cromia della pietra. Di recente GENNAIOLI (2008, pp. 122-123) ha ipotizzato che il cammeo fosse stato iniziato dal Torricelli e condotto a termine dal figlio Gaetano, attivo in Galleria dal 1713 al 1752, sulla base della testimonianza del contemporaneo Anton Francesco Gori, che cita il cammeo fra i lavori cui Gaetano aveva posto mano dopo la scomparsa del padre. L’ipotesi può trovare conferma nel fatto che in epoca ormai lorenese, nel 1748, il
cammeo era presente nella bottega di Gaetano Torricelli, al quale veniva richiesto dal Soprintendente alla Galleria, che in una lettera notava, con una certa vena polemica, che “…ivi si dà a intendere di rendere perfezionato dopo lo studio di molti anni” (GIUSTI 1997, p. 195, nota 37). A.Gi. Bibliografia: MARCHIONNI 1891, p. 123; BARTOLI-MASER 1953, pp. 14, 32; K. Aschengreen Piacenti, in DETROIT-FIRENZE 1974, p. 370, n. 210; GONZÁLEZ-PALACIOS 1977b, p. 280, nota 16; A. Pampaloni Martelli, in BALDINI-GIUSTI-PAMPALONI MARTELLI 1979, p. 306; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 642; M. Sframeli, in FIRENZE 1988, p. 176, n. 45; GIUSTI 1995, p. 43; GIUSTI 1997, pp. 193, 195; A. Giusti, in MEMPHIS 2004, p. 209; A. Giusti, in FIRENZE 2006a, p. 68, n. 8; GENNAIOLI 2008b, pp. 121-125; A. Giusti, in NEW YORK 2008, p. 192, n. 50
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130 - Gaetano Torricelli (Firenze, 1691?-1752) Busto di Laocoonte
prima metà del secolo XVIII calcedonio e oro, mm 30 × 22 iscrizioni: sul taglio della spalla “GAETANO / TORRICELLI F.” Vienna, Kunsthistorisches Museum, Antikensammlung, inv. n. XII 46
Il cammeo, lavorato ad altorilievo e dotato di una semplice cornice in oro, riproduce la testa del sacerdote Laocoonte tratta dal celebre gruppo scultoreo scoperto a Roma all’inizio del 1506 e fin da subito oggetto di grande ammirazione da parte degli artisti. L’esemplare reca la firma di Gaetano Torricelli, figlio del più celebre Giuseppe Antonio, straordinario virtuoso dell’intaglio in pietre dure che riportò in auge questa difficile tecnica nella Galleria dei Lavori sul finire del XVII secolo. Stando a quanto riferito dall’erudito Anton Francesco Gori nella sua Historia Glyptographica (GORI 1767, II, pp. CLXXVII-CLXXVIII), Gaetano, dopo aver appreso i primi insegnamenti dal padre, ricevette nozioni di disegno dal pittore Tommaso Redi e di scultura da Giovan Battista Foggini, all’epoca direttore delle officine granducali. A questo periodo formativo seguì un proficuo soggiorno romano, durante il quale il Torricelli frequentò le botteghe di Benedetto Luti e di Pierre Legros il Giovane, facendo poi ritorno a Firenze nel 1713. Pur mancando precise informazioni al riguardo, è lecito pensare che Gaetano entrasse subito a far parte della ricca schiera di artefici della Galleria, lavorando a stretto contatto con il genitore. A tal proposito, il Gori asserisce che innumerevoli furono le opere portate a termine da Gaetano negli ultimi anni di vita di Giuseppe Antonio e in quelli immediatamente successivi la sua scomparsa (1719), e tra queste egli menziona un Cristo morto iacentem (GONZÁLEZ-PALACIOS 1986, I, p. 51, tavv. 136-137) e le figure di tre apostoli a tutto tondo, ovvero san Giacomo Maggiore, san Paolo e san Pietro, da identificarsi molto probabilmente con i tre esemplari del Museo degli Argenti (R. Gennaioli, in FIRENZE 2009a, pp. 170-171, n. 44). Di particolare interesse risultano anche le informazioni su due bassorilievi, raffiguranti rispettivamente un Abrahami sacrificium e
soprattutto Cosmum III. cum tropaeis ante templum Pacis, adstante Etruria cum leone, in cui va senz’altro riconosciuto il cammeo oggi conservato al Museo dell’Opificio delle Pietre Dure (cat. n. 129). Quella di incidere gemme dovette essere una delle specialità di Gaetano, che, al pari di altri maestri fiorentini, si dedicò alla realizzazione di lavori di glittica destinati agli appassionati collezionisti del luogo, come il marchese Ginori e Francesco Maria Niccolò Gaburri, suoi grandi estimatori (GIULIANELLI 1753, pp. 87 nota 4, 88; GORI 1767, II, p. CLXXVII), e ai ricchi aristocratici del Grand Tour, i quali prediligevano le riproduzioni di insigni monumenti dell’antichità. In questo filone si inserisce il cammeo di Vienna con il busto di Laocoonte, un soggetto replicato dal Torricelli almeno su un’altra pietra citata dal Gori, dove però il sacerdote troiano appariva insieme ai figli (Lacoontis nex cum filiis, GORI 1767, II, p. CLXXVII). Il pezzo presenta caratteri stilistici molto vicini a quelli di un disperso esemplare con busto di Laocoonte in acquamarina conservato fino al 1899 nella raccolta Marlborough (M.H.N. Story-Maskelyne, in Catalogue 1899, p. 64, n. 349 con attribuzione ai Sirletti), di cui oggi rimane un elettrotipo presso il Beazley Archive dell’Università di Oxford. A Gaetano è forse da ricondurre anche il doppio cammeo dell’Ermitage di San Pietroburgo recentemente pubblicato da Julija KAGAN (2006b, pp. 9-15), recante sul diritto il ritratto di uno degli ultimi granduchi con le insegne dell’Ordine di Santo Stefano, identificato dalla studiosa con Cosimo III, ma raffigurante più probabilmente Gian Gastone. R.G.
Bibliografia: SACKEN-KENNER 1866, p. 471, n. 46; THIEME-BECKER 1907-1950, XXXIII, 1939, p. 305; EICHLER-KRIS 1927, p. 204, n. 562, tav. 76, n. 562
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131 - Gaetano Torricelli (attr.) (Firenze, 1691?-1752) Busto di Pirro re d’Epiro
prima metà del XVIII secolo agata e oro, mm 38 × 30 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 64
Busto maschile di tre quarti verso sinistra con armatura all’antica e galea recante sulla parte anteriore la testa della Gorgone Medusa. La pietra, lavorata ad altorilievo, è dotata di una semplice montatura in filo d’oro con due maglie circolari saldate alle estremità verticali. Citata per la prima volta da Giuseppe Pelli Bencivenni nell’inventario del 1786, l’opera è stata messa in relazione da Mariarita Casarosa GUADAGNI (1997b) con il cammeo raffigurante un Pirro ricordato tra i lavori di Gaetano Torricelli da Andrea Pietro GIULIANELLI (1753, p. 88). Di una gemma con Pyrrhus Epirotarum Rex parla anche Anton Francesco Gori nella più tarda Historia Glyptographica (GORI 1767, II, p. CLXXVII), dove l’erudito menziona anche altri lavori dello stesso tipo eseguiti da Gaetano nel corso della sua attività presso le officine granducali, tra i quali un doppio ritratto di Tiberio e Livia copiato da un celebre cammeo appartenuto al cardinale Leopoldo de’ Medici (cat. n. 116), un busto di Antonino Pio, il gruppo del Laocoonte, una Cleopatra e una Minarva. Il Gori specifica inoltre che tutti i citati esemplari furono condotti con grande maestria dal Torricelli su Achate flavi coloris (GORI 1767, II, p. CLXXVII). L’uso di peculiari varietà di calcedonio dalle dorate e soffuse tonalità cromatiche sembra aver costituito una delle caratteristiche principali delle opere di glittica non solo di Gaetano ma anche del padre Giuseppe Antonio Torricelli. Lo dimostra il grande cammeo con Cosimo III e la Toscana davanti al tempio della Pace del Museo dell’Opificio delle Pietre Dure (cat. n. 129), che per il tipo di pietra e alcuni tratti stilistici può essere messo in relazione con altri pezzi conservati al Museo degli Argenti, raffiguranti i busti di Cerere, Bacco e Cleopatra (inv. Gemme 1921, nn. 1058, 1059, 1078, 1087, 2441). Quest’ultimo esemplare, identificabile forse con la
Cleopatra segnalata dal Gori, ritrae la sfortunata regina di Egitto con dei lineamenti e una corona dentata del tutto simili a quelli dell’allegoria della Toscana incisa nel cammeo del Museo dell’Opificio e sul rovescio di un altro calcedonio conservato al Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo assegnato da Julija KAGAN (2006b, pp. 9-15) a Giuseppe Antonio, ma molto probabilmente opera di Gaetano. R.G. Bibliografia: ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 180, n. 921; scheda O.A. 09/00228355, 1979 (M. McCrory); CASAROSA GUADAGNI 1997b, p. 99; CASAZZA 2004a, p. 29; GENNAIOLI 2007, p. 251, n. 232
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132 - Giovan Battista Foggini (Firenze, 1652-1725) e Giuseppe Antonio Torricelli (Firenze, 1662-1719) Reliquiario di Santa Maria Egiziaca
1704 bronzo dorato, pietre dure e ebano, h. cm 68 Firenze, Museo delle Cappelle Medicee, inv. Tesoro di San Lorenzo n. 38
Il reliquiario è strutturato, secondo un’innovativa soluzione compositiva, come ostensorio in bronzo dorato, poggiato su due piedi a voluta, con mostra centrale affiancata da una coppia di festoni vegetali con frutti, e sormontata da due angeli in volo, di sostegno al vaso di cristallo di rocca con la reliquia di Santa Maria Egiziaca. Si riferisce alla Santa la scena intagliata a tutto tondo, a mosaico di pietre dure, nella mostra ovale, dove Santa Maria Egiziaca riceve in ginocchio l’Eucaristia dal monaco Zosimo, assistita da due angeli che tendono un candido lino. L’ opera si trova descritta alla data del 20 settembre 1704 fra i lavori ultimati nella manifattura granducale: “Un reliquiario di bronzo fatto dal Foggini con diverse figure di duro fatte dal Torricelli con Bicchiere di cristallo… per riposo della reliquia di Santa Maria Egiziaca, quale deve collocarsi in camera di S.A.R.” (LANKHEIT 1962). Il reliquiario è ben rappresentativo dell’esuberante stile decorativo di Giovan Battista Foggini, che felicemente vi abbina, come spesso avviene negli arredi da lui concepiti per la Galleria dei Lavori, elementi scultorei e ornati naturalistici, quali le vibranti figure angeliche di coronamento e il drappeggio di foglie di acanto e festoni di frutta che incornicia il medaglione centrale, definendo al tempo stesso, con plastico dinamismo, la struttura stessa dell’oggetto. La collaudata collaborazione con Giuseppe Antonio Torricelli, insuperato maestro nella plastica di pietre dure, produce qui la storietta sacra ambientata con sapienza spaziale nella cavità del medaglione centrale, e i cui personaggi intagliati a tutto tondo si segnalano per il modellato duttile e sensitivo al quale il Torricelli è solito piegare, senza sforzo apparente, i duri materiali. Allo stesso Torricelli, come si deduce dal documento, si deve anche l’urna in cristallo di rocca, che lascia trasparire la reliquia. L’oggetto fu in origine destinato alla camera di Cosimo III, devotissimo collezionista di reliquie, per le quali fece realizzare tra la fine del Seicento e i primi decenni del Settecento una serie superba di reliquiari, distribuiti fra cappelle e ambienti della reggia, e dal 1785 trasferiti nel Tesoro di San Lorenzo. Fra questi, è il Reliquiario di Sant’ Ambrogio, realizzato nel 1705, e che replica il modello bronzeo di quello di Santa Maria Egiziaca, con lievi varianti negli angeli e urnetta alla sommità. A.Gi.
Bibliografia: ZOBI 18532, p. 63; LANKHEIT 1962, p. 61, doc. 601; A. Giusti, in BALDINI-GIUSTI-PAMPALONI MARTELLI 1979, p. 297, n. 116; E. Nardinocchi, in SEBREGONDI-NARDINOCCHI 2007, p. 48
La scultura musiva in pietre dure
133 - Giovan Battista Foggini (Firenze, 1652-1725) e Giuseppe Antonio Torricelli (attr.) (Firenze, 1662-1719) Reliquiario di San Sebastiano
1714 bronzo dorato e pietre dure, h. cm 56 Firenze, Museo delle Cappelle Medicee, inv. Tesoro di San Lorenzo n. 128
Registrato nelle carte della Galleria dei Lavori in data 1 marzo 1714, il reliquiario è riferito dal LANKHEIT (1962), cui si deve la pubblicazione del documento che peraltro non nomina gli artefici dell’opera, a Giovan Battista Foggini e Giuseppe Antonio Torricelli. Alla loro collaborazione si deve infatti la maggior parte delle raffinate combinazioni di bronzistica e glittica, prodotte nel lungo periodo della compresenza dei due artisti nella manifattura granducale. E al Foggini in effetti sembra di poter associare il brioso disegno della cartella bronzea che forma il reliquiario, costruita con un succedersi di eleganti variazioni sul tema della foglia d’acanto, accompagnate da festoni vegetali con fruttini di pietre dure, anche questa un’invenzione decorativa di sigla fogginiana. I ritmi curvilinei che definiscono il perimetro dell’oggetto trovano conclusione nella vibrante valva del coronamento, sotto la quale si apre l’“occhio” sagomato, per l’ostensione della reliquia di San Sebastiano, citato nell’iscrizione sotto la mostra. Non hanno attinenza con l’iconografia del Santo i soggetti biblici in pietre dure del medaglione ovale, che unisce i due episodi del Sacrificio di Isacco e del Sogno di Giacobbe, verosimilmente realizzati per altra destinazione e utilizzati invece per il reliquiario. La sequenza delle due scene è definita dal graduale attenuarsi del rilievo procedendo dal Sacrificio al Sogno, secondo una progressione spaziale che si sarebbe quasi tentati di far risalire al modello ghibertiano della Porta del Paradiso; in ogni caso, è magistrale l’inserimento di una scena affollata in uno spazio ridotto, grazie ai modulati passaggi dal quasi tutto tondo del nudo di Isacco allo “stiacciato” delle nubi di calcedonio del fondo. Recentemente, GENNAIOLI (2008) ha avanzato la proposta che si possa forse riconoscere nel medaglione in pietre dure il Sacrificio di Abramo, che Anton Francesco Gori segnala fra i lavori fatti per la Cappella dei Principi da Gaetano Torricelli, il figlio di Giuseppe Antonio, come il padre attivo nella glittica e presente in Galleria dal 1713 al 1752. A.Gi. Bibliografia: ZOBI 18532, p. 263; LANKHEIT 1962, p. 61, doc. 620; A. Giusti, in BALDINI-GIUSTI-PAMPALONI MARTELLI 1979, p. 298, n. 118; DE SALVIA 1984, pp. 336-337; F. Tuena, in MASSINELLI-TUENA 1992, p. 202; BERTANI-NARDINOCCHI 1995, p.68, n. 22; E. Colle, in COLLE-GRISERI-VALERIANI 2001, pp. 82-83, n. 26; E. Nardinocchi, in SEBREGONDI-NARDINOCCHI 2007, p. 99; GENNAIOLI 2008b, pp. 122-123
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134 - Francesco Mugnai (attr.) (doc. 1699-1710) Ritratto del Langravio Karl di Hesse-Kassel
inizi del secolo XVIII pietre dure, conchiglia, gesso e ottone, cm 33 × 30 Copenhagen, The Danish Royal Collection at Rosenborg Castle, inv. n. 6-174
Su una lastra ovale di diaspro, chiusa in una cornice modanata di ottone, campeggia il ritratto di profilo, a mezza figura, di Karl di Hesse-Kassel (1654-1630), eseguito a rilievo musivo di pietre policrome. Il Langravio veste un’armatura “all’eroica” ed è a capo scoperto, con l’elmo piumato a lato; la mano sinistra poggia sull’elsa della spada, mentre la destra doveva impugnare il bastone di maresciallo, perduto, o forse mai realizzato. Dal basso, si protende verso di lui una testa di leone, emblema araldico del casato degli Hesse, realizzato in calcedonio, come lo spallaccio della corazza in forma di mascherone e il gonnellino della corazza. Questa è di agata sardonica, come l’elmo, che inalbera un ricco piumaggio di cristallo di rocca e agata rossa, la stessa che forma il drappeggio sul petto del personaggio. La lunga capigliatura ondulata del Langravio ha la luminosità e le nuances castane di un quarzo affumicato, mentre il volto perlaceo è realizzato in conchiglia. Gli avambracci e le mani sono modellati in gesso. Sulla lamina che chiude a tergo la cornice, è inciso in un medaglione circolare il simbolo e il motto del Langravio: un cigno con corona, su un piedistallo con il doppio monogramma C, e la scritta “Candide et Constanter”. Il più antico ricordo di questo oggetto è in un inventario del 1718 delle collezioni reali danesi, dove probabilmente entrò come dono del Langravio alla sorella, Maria Amalia regina di Danimarca. Non sussistono invece documenti relativi alla sua esecuzione, sicuramente commissionata dal Langravio, raffinato mecenate e collezionista, a qualcuno degli artisti che gravitavano alla corte di Kassel. Tra questi fu il fiorentino Francesco Mugnai, che su invito del Langravio lasciava nel 1699 la Galleria medicea dei Lavori per trasferirsi a Kassel e dedicarsi, sino alla sua morte nel 1710, alla lavorazione delle pietre dure. Il medaglione musivo è stato pertanto posto in relazione con l’attività del Mugnai (MEYER 1973, GIUSTI 1992), in considerazione della tecnica e stile, prossimi ai contemporanei intagli plastici della manifattura di Firenze. Di recente (HEIN 2008, KOEPPE 2008), il ritratto del Langravio è stato riferito a Christoph Labhart (1644-1695), noto come cammeista e attivo anche a Kassel, dopo che gli è stato riconosciuto un rilievo allegorico con più figure, al Grunes Gewölbe di Dresda (inv. n. V 146), realizzato nel
1679 dal Labhart a mosaico di pietre dure, sotto l’influsso dei modelli della manifattura granducale di Firenze. L’indubbia “fiorentinità” del ritratto del Langravio tuttavia può essere vista anche come frutto diretto dell’operato del Mugnai, che nel piano di tavolo eseguito a Kassel (GIUSTI 1992, fig. 64, p. 180) dimostra, nella figura di Pallade e del leone che campeggiano in primo piano, una perfetta padronanza del rilievo musivo. L’idea stessa del cammeo-ritratto a mosaico di pietre dure è di matrice fiorentina, e compariva in quegli stessi anni nel perduto medaglione con Cosimo III, che coronava l’orologio inviato nel 1705 all’Elettrice Palatina (A. Giusti, in FIRENZE 2006b, p. 275, n. 142). Chiunque sia l’autore di questo lavoro di impositiva bellezza, non ebbe forse modo di completare l’opera: verrebbe da supporre che le mani e avambracci della figura, modellati finemente in gesso e di stile perfettamente consono all’assieme, non siano una sostituzione, ma più probabilmente un modello per le parti che avrebbero dovuto essere intagliate, come il volto, in conchiglia. A.Gi. Bibliografia: MEYER 1973, p.149; SCHMIDERBERGER 1986, pp. 45-46; GIUSTI 1992, p. 193; HEIN 2008, cat. 575; KOEPPE 2008, p. 66
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La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio al duca Alessandro
GLI ULTIMI MEDICI
LA COLLEZIONE DI GEMME NEL XVIII SECOLO
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135 - Giusto Suttermans (Anversa, 1597-Firenze, 1681) Cosimo III de’ Medici da gran principe 1658 olio su tela, cm. 72 × 58 Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, inv. 1890, n. 2875
Cosimo III de’ Medici, nato il 14 agosto 1642, era il terzo dei quattro figli del granduca Ferdinando II e di sua moglie Vittoria della Rovere, ma il primo a sopravvivere ai primi giorni di vita. Nel 1661 Cosimo sposò Margherita Luisa d’Orléans; il loro matrimonio, burrascoso sin dall’inizio, si concluse di fatto nel 1675, quando Margherita Luisa tornò in Francia. Cosimo, che succedette al padre sul trono granducale nel maggio del 1670, si trovò erede di un immenso patrimonio artistico lasciato non solo dal padre granduca e dagli zii Leopoldo e Mattias, ma anche dal pro-zio Carlo de’ Medici e dal primogenito Ferdinando, premorto al padre nel 1713. Cosimo, collezionista in gioventù di quadri fiamminghi e olandesi acquistati nel corso dei lunghi viaggi compiuti in Europa settentrionale tra il 1667 e il 1669, si dedicò in età matura all’ordinamento e al consolidamento delle raccolte ereditate; grazie alle sue iniziative e, dopo la sua morte nel 1723, a quelle della figlia Anna Maria Luisa, una sostanziale parte delle collezioni medicee è conservata ancora oggi a Firenze. Spetta a Pierre BAUTIER (1912) il merito di aver riconosciuto le fattezze di Cosimo III de’ Medici in questo giovane principe non identificato negli inventari e cataloghi otto e novecenteschi della Galleria degli Uffizi. Il dipinto corrisponde infatti in ogni dettaglio al ritratto di Cosimo eseguito nell’autunno del 1658, dodici anni prima della sua accesa al trono, e descritto in una lista di opere commissionate a Giusto Suttermans dalla granduchessa Vittoria della Rovere (Copia di partite insolute del conto di Giusto Suttermans con Vittoria della Rovere 1671, in Conti della Guardaroba generale 1669-1671, ASF, GM 785ter, inserto 6, conto n. 335, cc. 525, 528): E più a dì 30 settembre 1658, fatto e consegnato a Sua Altezza Serenissima in
propria mano, un ritratto del Serenissimo Gran Principe da mezzo in su, vestito con le mani, che una tiene il cappello e l’altra scherzando tra le penne del cappello, di color di fuoco e bianche, e fu mandato in Francia, consegnato per mano, al signore cavaliere Cerchi -- scudi 25
La tela dipinta per la granduchessa fu, secondo il documento “mandato in Francia”; questa che esponiamo può essere identificata con il ritratto di Cosimo eseguito dal Suttermans nell’autunno del 1658 per il cardinale Carlo de’ Medici (1596-1666) e ricordato in due lettere di Averardo Ximenes segnalate da Gaetano Pieraccini nel 1925. Nella prima indirizzata al cardinale il 6 ottobre 1658 Ximenes avvertiva che Giusto Suttermans era venuto a chiedere il pagamento per un ritratto del gran principe (ASF, MdP 5242, c. 241): Giusto pittore hieri fu a trovarmi, domandando se Vostra Altezza Reverendissima haveva dato ordine alcuno per la sua sodisfatione del ritratto del serenissimo Gran Principe. Io non potei dirli cosa alcuna, né trovai ordine per il suo intento in Guardaroba, o al signor Poltri. Mi stimolò di passarne uffizio con Vostra Altezza, a cui se ho da rappresentare il prezzo che ne chiese dirò, che fu di doble dieci. Et, per suggerire quello che fu pagato il ritratto del serenissimo signor principe don Lorenzo di gloriosa memoria, dirò all’Altezza Vostra che furno doble sette, ma il medesimo Giusto replica che questo fosse copia d’originale et esser quello del serenissimo Gran Principe, di prima fatica. Si compiaccia Vostra Altezza d’ordinare il suo intento. [...]
Nella seconda lettera dell’11 ottobre 1658, Ximenes prometteva di informarsi sul prezzo del ritratto del gran principe commissionato dalla granduchessa Vittoria, stabilendo inequivocabilmente un legame tra le due versioni del dipinto (ASF, MdP 5242, c. 242):
Obedirassi al comandamento di Vostra Altezza Reverendissima in sapere il prez-
zo del ritratto di mano di Giusto del serenissimo Principe fatto per la serenissima Gran Duchessa Padrona, per sodisfarlo di quello che ha havuto Vostra
Altezza. [...]
Sappiamo il prezzo concordato grazie ad un libro contabile di Carlo de’ Medici segnalatomi da Elena Fumagalli (ASF, Scrittoio delle Regie Possessioni 4173, cc. 49s-d, 504d): questo manoscritto ricorda un pagamento di venti scudi fatto “a Giusto Sutterman” il 12 novembre 1658. Il ritratto del gran principe Cosimo è citato insieme ad altri sei ritratti medicei nell’inventario dell’eredità del cardinale Carlo stilato nel 1666 (ASF, GM 758, c. 3v) e fu registrato con gli altri beni ereditari nell’inventario della Guardaroba granducale il 30 giugno 1667 (ASF, GM 750, c. 58v; GM 741, c. 357s). È passato successivamente alla villa medicea di Pratolino, dove è descritto dall’inventario del 1748 (ASF, GM appendice 84, c. 212); entro il 1761 il ritratto fu riportato a Firenze e collocato al secondo piano di Palazzo Pitti, dove è ricordato dall’inventario della reggia stilato in quell’anno (ASF, GM appendice 94, c. 626r), insieme ad altri tre ritratti di formato simile. Secondo Marco Chiarini fu trasferito nel 1826 alla Galleria degli Uffizi, dove è infatti ricordato dall’inventario iniziato nel 1890 (edizione on line registro 4, p. 196, n. 2875); fu ricollocato in seguito negli Appartamenti reali di Palazzo Pitti, prima di giungere nel 1928 alla Galleria Palatina. L.G.S. Bibliografia: PIERACCINI 1910, p. 117, n. 893; BAUTIER 1912, pp. 93,126; GÖZ 1928, p. 31; RUSCONI 1937, p. 293, n. 2875; J. Lavalleye, in THIEME-BECKER 1907-1950, XXXII, 1938, p. 324; PIERACCINI 1924-1925, II, 1925, pp. 405, 409, nota 181; TARCHIANI 1939, p. 25; CIPRIANI 1966, p. 122, n. 2875; CAMERANI 1968, tav. davanti a p. 152; FIRENZE 1969, p. 53, n. 76, fig.; M. Chiarini, in Gli Uffizi, 1979, p. 535, n. P1669; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 605, n. 29/35; K. Langedijk, in FIRENZE 1983b, p. 31, n. 11; CHIARINI 1988, p. 74; GODI-MINGARDI 1994, p. 43, sub n. 33; M.C. Masdea, in PECHINO-SHANGAI 1997, pp. 89-90, n. 19, p. 142, tav. 19; M. Chiarini, in CHIARINI-PADOVANI 2003, I, p. 29, fig. 13; S. Casciu, in CHIARINI-PADOVANI 2003, II, p. 427, n. 705; L. Goldenberg Stoppato, in SANTIAGO DE COMPOSTELA 2004, pp. 124126; GOLDENBERG STOPPATO 2006, p. 26, n. 1
Gli ultimi Medici. La collezione di gemme nel XVIII secolo
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136 - Gerard Walder (attivo seconda metà del sec. XVII) e Vittorio Crosten (doc. 1663-1704) Ritratto di Cosimo III de’ Medici
1670 ca cristallo di rocca inciso, legno di pero intagliato, cm 30 × 27 Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure, inv. n. 705
La vibrante cornice lignea, intagliata con foglie di acanto e fiori, racchiude nel castone centrale un ovato di cristallo di rocca, dove è inciso il busto di profilo di Cosimo III, cinto da un serto di alloro. Cosimo, che appare di età giovanile, ha volto glabro e lunga capigliatura, i cui riccioli ricadono sull’armatura drappeggiata; al margine di questa, nella zona in basso a sinistra, sono incise le iniziali G.W., che hanno consentito di riferire il medaglione a Gerard Walder (BARTOLI-MASER 1953). Originario forse di Strasburgo, stando all’affermazione del GIULIANELLI (1753, p. 143), il Walder fece parte della cerchia cosmopolita di artefici, che richiamati a Firenze già da Ferdinando II, mantennero e incrementarono la loro presenza al tempo di Cosimo III, contribuendo a fare delle arti decorative alla corte medicea una delle pagine più alte del Barocco europeo.
Scarse restano tuttora le notizie sul Walder, che a detta del Giulianelli (Ibid.) si distinse come incisore di cammei in pietre dure, e visse lungamente a Vienna, dove fu maestro del veneto Francesco Maria Fabi. Sia il Giulianelli che il GORI (1767, II, p. CLXXI) collocano il suo arrivo a Firenze al 1670 circa, data che potrebbe convenire al ritratto di Cosimo, in quell’anno divenuto Granduca. Fece forse parte della stessa commissione al Walder il ritratto di Ferdinando II, su cristallo di rocca soppannato d’argento, anche questo siglato con le iniziali dell’artefice (Museo dell’Opificio delle Pietre Dure, inv. 641), e che appare ispirato a una medaglia bronzea del 1666, incisa da Giovan Francesco Travani. I due ritratti intagliati sono eseguiti con impeccabile finezza, e dovettero trovare il favore mediceo, tanto più che dopo i fasti cinquecenteschi
l’incisione del cristallo di rocca non era attività specialmente coltivata dagli artefici della prestigiosa Galleria dei Lavori. Che si intendesse valorizzarli lo dimostra anche il fatto che siano stati dotati di incorniciature di grande qualità: quella che contorna scenograficamente il medaglione con Cosimo III, abbinando nel coronamento le rose simbolo di transitorietà con il girasole, allusivo all’anima che si volge a Dio, è superba prova di intaglio dell’olandese Vittorio Crosten, dal 1663 al 1704 presente alla corte medicea come virtuoso del legno e dell’avorio A.Gi. Bibliografia: BARTOLI-MASER 1953, pp, 14, 32; A. Pampaloni Martelli, in GIUSTI-MAZZONI-PAMPALONI MARTELLI 1978, p. 307, n. 319; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 202, nota 70, p. 646, n. 130; GIUSTI 1997, pp. 174-175
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137 - Francesco Maria Gaetano Ghinghi (Firenze, 1689-Napoli, 1762) Busto di Cosimo III de’ Medici
1723-1724 ca calcedonio di Volterra e argento dorato, mm 51,2 × 39 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 993
Il granduca Cosimo III de’ Medici (1642-1723) è qui ritratto di profilo e volto a destra. Indossa un sontuoso mantello e una corazza decorata sul petto con la croce dell’Ordine di Santo Stefano. La semplice montatura in argento dorato presenta due maglie circolari poste alle estremità verticali. Quest’opera è citata per la prima volta tra le gemme della collezione granducale nell’inventario redatto da Giuseppe Pelli Bencivenni nel 1786; probabilmente faceva parte delle gemme conservate a Palazzo Pitti fino al 1770 e poi spostate in Galleria tra i cosiddetti esemplari “sciolti”, ovvero non fissati a tavolette (GENNAIOLI 2007, p. 275). Il cammeo è stato attribuito all’intagliatore e incisore di pietre dure Francesco Maria Gaetano Ghinghi (1680-1762) da Alvar GONZÁLEZ-PA-
LACIOS (1977b) che vi ha riconosciuto uno dei due cammei raffiguranti Cosimo III menzionati con orgoglio dall’artista nella sua autobiografia (GENNAIOLI 2007, p. 275). Il Ghinghi fu apprendista, insieme ai fratelli, di Giovan Battista Foggini presso la Galleria Granducale e godette di protezione e onori alla corte dei granduchi di Toscana. A questo artista si deve probabilmente il merito di aver reintrodotto la lavorazione dei cammei in pietra dura nella manifattura fiorentina, raggiungendo altissimi livelli di virtuosismo nel campo della glittica. Nel 1737, con la morte di Cosimo III, venendo a mancare il sostegno di cui aveva sempre goduto, si spostò a Napoli dove era stato invitato da Carlo di Borbone per portare la sua esperienza nella manifattura di pietre dure napoletana attraverso la direzione del “Real Laboratorio di San Carlo alle Mortel-
le” che, ancora nel 1751, costituiva la roccaforte dei “Maestri Fiorentini” a Napoli. Sotto il profilo iconografico il busto di Cosimo III raffigurato in questo cammeo si può ricondurre all’effigie del granduca che compare su una medaglia coniata da Antonio Selvi (16791753) nel 1723, in occasione dell’ascesa al trono di Gian Gastone. Lo stesso ritratto compare anche in un bassorilievo su lastra in calcedonio di Volterra, oggi conservata al Museo dell’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. C.C. Bibliografia: ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 195, n. 1392; GONZÁLEZ-PALACIOS 1977b, p. 273, nota 8; LANGEDIJK 19811987, I, 1981, pp. 643-644, n. 124, fig. 29.124; CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 99; CASAZZA 2004a, p. 29; GENNAIOLI 2007, p. 275, n. 273
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138 - Louis Siries (Figéac-en-Quercy, 1686 ca-Firenze, 1766) Madonna col Bambino e San Giovannino
1746-1757 agata, oro e velluto, mm 51 × 41 (il cammeo), 62 × 53 × 8,5 (con la cornice) iscrizioni: monogramma “L S” a sinistra in basso sul mantello della Madonna Vienna, Kunsthistorisches Museum, Kunstkammer, inv. n. ANSA XII 704
Da una postilla alla lista d’inventario del tesoro imperiale (inv. creato nel 1750) veniamo a sapere che nel 1765 è stata aggiunta al tesoro una collezione di 168 cammei e intagli. L’intera collezione proviene dal lascito dell’imperatore Francesco Stefano di Lorena (1708-1765), consorte dell’imperatrice Maria Teresa (1717-1780), Duca di Lorena e Granduca di Toscana. Nella postilla si dà inoltre notizia che questo gruppo di oggetti è stato creato da Louis Siriès e che questi stessi oggetti sono stati registrati in un “rispettivo catalogo stampato nel quale ogni pezzo è ben descritto” (JAHRBUCH-Annali 1889, p. CCCXVIII). Il catalogo citato è il Catalogue des Pierres Gravées par Louis Siriès etc., pubblicato nel 1757 a Firenze, in cui sono elencate e descritte le opere glittiche che l’artista vendette nel 1760 come collezione completa all’imperatore Francesco Stefano. Il redattore contrassegna il presente cammeo con il numero VII. Nel testo è specificato che la figura sul cammeo ha indubbiamente quale modello la Madonna della Seggiola (“… la Vierge peinte par Raphael qu’on apelle comunément la Madonna della Seggiola” Catalogue 1757, p. 13). Nel bassorilievo, molto piatto, Siries rappresenta la Madre di Dio che, seduta su una sedia, abbraccia strettamente il Bambino Gesù. A destra, San Giovanni in età giovanile assiste alla scena. L’artista utilizza la colorazione naturale e la venatura della pietra tagliando il gruppo principale dal centro dell’agata, di colore opaco rosso-marrone. Una vena bianco-opaca incornicia la scena, circonda la Madonna e contrasta con lo sfondo. Nella descrizione del Catalogue si rileva che Siriès si serve della vena per creare il velo della vergine con cui copre il Bambino Gesù (“Une veine blanche qui s’est trouvée dans cette pierre a servi à faire un voile à la Vierge, avec le quel elle couvre l’Enfant Jesus”, Catalogue 1757, p. 13). Non è questo il solo dettaglio che Siries modifica del modello di Raffaello. Si nota che Siriès rappresenta il Bambino Gesù, al contrario di Raffaello, con gli occhi chiusi. Inoltre i volti della Madonna e di Giovanni sono posti frontalmente anziché di tre quarti. La realizzazione di soli profili e viste frontali delle rappresentazioni figurative sono un filo rosso nell’opera di Siries. Ma ciò è sicuramente dovuto più al voler evitare problemi con la prospettiva nel bassorilievo e con le difficoltà connesse alla composizione che ad una concezione artistica. Nonostante questo stratagemma, sono rilevabili incertezze di realizzazione delle parti anatomiche e di prospettiva. Le orecchie delle figure, ad esempio, presentano minuziosi dettagli, ma sono poste in una prospettiva errata. Tali difficoltà sono facilmente comprensibili se si pensa che l’effettiva disciplina di Siriès era l’oreficeria, ambito in cui operava con successo in qualità di “Orfévre du Roi” alla corte di Luigi XV. Secondo quanto egli stesso ha dichiarato, si dedicò alla glittica solo dal 1746 ed aveva imparato questo mestiere da autodidatta (Catalogue 1757, p. 3 e GIULIANELLI 1753, pp. 93-94). Non si può comunque negare che Siries avesse una propria autonomia artistica e che l’esecuzione tecnica delle sue opere glittiche è ad ogni modo ammirevole. Quanto detto è riferibile anche alle incastonature da lui realizzate. Il presente cammeo è montato in una capsula d’oro il cui retro è apribile. La parte interna del coperchio è rivestita di velluto nero. Per questo, col coperchio chiuso, lo sfondo translucido appare in una luce grigio-blu e si stacca nettamente, in contrasto di colore, dal gruppo centrale. Col coperchio aperto invece, diviene ben visibile la trasparenza della pietra nella zona dello sfondo e in quella della figura del san Giovannino. Osservando il cammeo in controluce, le sfumature del rilievo si perdono e i contorni e il disegno centrale vengono messi in risalto. Tale effetto e la
scelta dell’incastonatura non sono casuali così come si evidenzia nella descrizione del Catalogue. Il testo descrive espressamente la forma della speciale incastonatura attraverso la quale è possibile “vedere la pietra sia nella sua trasparenza che nella sua opacità” (“afinqu’ on puisse voir la pierre & dans sa transparence, & opaque…”, Catalogue 1757, p. 13). È quindi palese che Siries, nell’esecuzione di questo cammeo e della sua incastonatura, teneva in precipuo conto il punto di vista dell’osservatore, nonché i cambiamenti presenti nella valutazione del cammeo nell’era del nascente Neoclassicismo. Anche lo sviluppo dell’archeologia come disciplina scientifica poneva le gemme incise al centro dell’interesse del mondo scientifico e colto, e le pietre iniziavano a perdere il carattere di mero gioiello (RAINER 2008, pp. 232-233). P.R. Bibliografia: GIULIANELLI 1753, pp. 90-95; Catalogue 1757, p. 13 n. VII; SACKEN-KENNER 1866, p. 466 n. 157; JAHRBUCH-Annali 1889, p. CCCXVIII; EICHLER-KRIS 1927, pp. 41-42 e 206 n. 569; BERHARD-WALCHER 1996, pp. 162-165; RAINER 2008, pp. 232-233
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139 - Felice Antonio Maria Bernabé (Firenze, 1720-?) Martirio di San Romolo
ante 1783 cristallo di rocca e oro, mm 30 × 24 iscrizioni: sull’esergo “βερναβε·εποιει” Cortona, Museo dell’Accademia Etrusca e della Città di Cortona, inv. 15820
Sul cristallo, intagliati in cavo, si stagliano quattro personaggi su un ampio paesaggio. A destra, un soggetto maschile imberbe, con la parte inferiore del corpo panneggiata, si dispone in semi profilo, levando entrambe le braccia verso il cielo in atteggiamento di disperazione o preghiera. Sotto a questi, una figura maschile barbata, similmente vestita, è inginocchiata con le mani giunte a supplicare la terza figura maschile che gli si erge dinnanzi, la quale, imberbe, con calzari, brache panneggiate indosso ed un copricapo a calotta sulla testa, porta il braccio destro sul petto ed il sinistro, con cui tiene una grossa sciabola, alzato all’indietro, per sferrare un colpo sul collo dell’ultimo personaggio chino sulle ginocchia in basso a sinistra. Questo, con un piviale indosso e una mitria sul capo, volge le spalle al proprio carnefice portando le mani giunte al petto in segno di preghiera, mentre osserva con compassione il quadrupede che, al di sotto di una grossa croce di legno, gli giace dinnanzi. Sulla sinistra si staglia una montagna su cui compaiono due casupole ed una chiesetta alla sommità. L’esergo riporta l’iscrizione in caratteri greci “βερναβε·εποιει”, “Bernabé faceva”. L’intaglio raffigura il Martirio di San Romolo, diacono fiesolano di cui si hanno scarse notizie storiche. Le qualifiche di vescovo e martire, assenti dai documenti anteriori al 1028, anno in cui su ordine di Jacopo il Bavaro le presunte spoglie di questi vennero traslate da nella nuova cattedrale, dovettero essere aggiunte fra il X e l’XI secolo per effetto dei sermoni dall’abate Teuzone. In essi Romolo, presentato come un discepolo dell’apostolo Pietro, dal quale sarebbe stato inviato a Fiesole a diffondere il Vangelo, ottenendo in seguito la qualifica di vescovo, sarebbe stato giustiziato fuori dalle mura della città durante le campagne di persecuzione contro i cristiani ordinate dall’imperatore Domiziano e seppellito nella chiesa locale. Tutto ciò era stato dedotto dal contenuto di un’iscrizione lapidea frammentaria rinvenuta nei pressi di tale chiesa, in seguito intitolata al Santo. Anche la tradizione iconografica, al di là di ogni certezza storica, lo ha sempre rappresentato in abiti episcopali e in compagnia (forse per l’omonimia con il mitico fondatore di Roma), di una Lupa da cui, secondo l’agiografia, sarebbe stato nutrito (KAFTAL 1952, pp. 902-908). L’intaglio, su cui compare il momento del martirio con la collina di Fiesole sulla sinistra, fu montato in un semplice anello d’oro e donato nel 1783 all’Accademia Etrusca di Cortona, dal cortonese monsignor Ranieri Mancini, lucumone in quell’anno. Come comprova la firma in caratteri greci esso è opera dell’incisore Felice Antonio Maria Bernabè, il quale usava firmarsi anche con il solo nome di battesimo o con la semplice sigla “φb” (BABELON 1894, p. 286). Definito dal Gori “Egregius Gemmarius Artifex”, e considerato dal Giulianelli come “uno dei più esatti, e periti intagliatori in gemme” che Firenze potesse in quel “secolo vantare”, migliore addirittura del più anziano e celebratissimo Louis Siries (GIULIANELLI 1753, pp. 76-84), egli si formò giovanissimo, per il disegno, sotto Francesco Bombicci e, per la modellazione, sotto Gioacchino Fortini. Attratto dalla pittura entrò più tardi in contatto con Ignazio Hughford, anche se nel 1737, su invito del “Senatore Vincenzo Riccardi Sopraintendente della Reale Galleria”, dovette abbandonare quest’arte per dedicarsi alla glittica al fine di colmare il vuoto lasciato dalla partenza da Firenze di Francesco Ghinghi, suo maestro, noto per essere “il più famoso cammeista” del tempo (Ivi). Durante la sua lunga carriera il Bernabé eseguì moltissime opere: per il “conte Emanuelle di Richecourt” intagliò un “calcedonio con il gruppo di Amore e Psiche”, “per l’illustrissimo
Abate Vernaccini” lavorò “il famoso Arrotino di Galleria”, e fece “per M. Hemy … un superbo intaglio in faccia in una corniola di due once” con il busto di “Alessandro il Grande”, traendo anch’esso da una statua della galleria. Realizzò in seguito un “Ercole e Jole” per l’Andreini, un trionfo itifallico “per il signor conte Hohmann con undici figure umane in una corniola” (Ibid., p. 84), una “Venere dei Medici” (1753 ca), soggetto prediletto degli incisori settecenteschi, e molte altre opere soprattutto a soggetto mitologico, ma anche religioso, come una testa di Cristo eseguita per Manfredi Malaspina (Ibid., p. 79). Per quest’ultimo, suo protettore, nella cui collezione erano comprese le impronte di tutti i suoi lavori questi intagliò inoltre in sardonica “una Plautilla cavata dal busto di Galleria”. Frequentemente ricordato nelle Notti Coritane (BCC, 440, NC, t. IX, 1751, 44 e 157), egli fu particolarmente attivo per il “il signor barone di Stosch peritissimo antiquario, e giudice di tal preziosi monumenti”, operando anche come restauratore di antiche gemme sulle quali intervenne talvolta con consistenti integrazioni, come nel caso di “un frammento di rotto cammeo rappresentante Achille piangente la morte di Patroclo”, mandato da Roma “da S. E. il sig. Cardinale Alessandro Albani” su cui aggiunse “supplendo di suo due femmine ed un soldato, che all’altre unite del frammento formavano un gruppo in cavo di sei figure” (Ibid., pp. 82-83, nota 2). Le opere eseguite dal Bernabé, la cui fama aveva superato i confini della penisola, presenti nelle maggiori collezioni di calchi in zolfo e in paste (quali quella di James Tassie, di Cristiano Dehn, di Tommaso Cades, dei Paoletti e di altre) erano assai ricercate dai “dotti e ricchi viaggiatori” stranieri i quali non ripartivano “contenti, se di qualche intaglio di lui” non si erano arricchiti (Ibid., p. 84). E.D. Bibliografia: ZAZOFF 1983, p. 392, tav. 127.1; BRUSCHETTI 1996, p. 52, fig. 110; D. Levi, in CORTONA 1985, p. 186, n. 186
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140 - Descrizione, o inventario di tutte le Medaglie, Cammei, Intagli antichi e Moderni, Statue, Teste, Iscrizioni antiche che si ritrovano nella Galleria del Serenissimo Granduca Cosimo III in Firenze, fatto di suo ordine questo anno 1676. Di Luigi del Sen.re Carlo di Tommaso Strozzi legatura in pergamena floscia con due coppie di lacci in pelle [restauro]; sul dorso titolo manoscritto “Inventario del 1676” e tracce di precedenti segnature ed etichette; tagli non rifilati; numerazione moderna a matita, IV, 240, c. IV, mm 310 × 216 Firenze, Biblioteca degli Uffizi, ms. 78
A carta IIIr il titolo, il numero di inventario riferito alla Biblioteca Strozzi e la nota di possesso sono di mano di Giuseppe Pelli Bencivenni [1780-1790 stimata]. Il manoscritto viene registrato nella filza AGF XVIII/23 del 1785 all’interno di una Nota di manoscritti pervenuti alla R. Galleria per ordine di S.A.R. dalla Biblioteca di Casa Strozzi alla data del 1 ottobre e nel Giornale di Galleria iniziato nel 1784, alla c. 136r. Ne esiste anche una copia, sempre alla Biblioteca degli Uffizi (ms. 74/17) di mano diversa e recante qualche sporadica correzione. Per accennare brevemente ai documenti principali che seguono la formazione della raccolta di glittica dei Medici, bisogna risalire a Cosimo il Vecchio (1389-1464), che per primo nella famiglia coltivò la passione per le gemme antiche in un clima, quello del secolo quindicesimo, di generale interesse per l’antico. Nell’Inventario del 1465 (ASF, MaP, filza CLXIII), compilato a un anno dalla sua morte e succedutogli il figlio Piero, risultano trenta cammei. Il gusto per questi raffinati e “magici” oggetti si tramandò senza soluzione di continuità ai discendenti: Lorenzo ne incrementò ulteriormente il numero (nell’Inventario postumo del 1492, conosciuto in una copia del 1512, se ne contano settantatre) e aggiunse a quelli antichi anche cammei moderni, opere di valenti intagliatori che provenivano da diversi paesi. Sicuramente più numerose di quanto risultassero negli inventari, anche le gemme come gli altri beni vissero le sorti alterne della famiglia e si trovarono ad essere saccheggiate, disperse, date in pegno e a volte recuperate. Con Cosimo I la collezione dovette quindi essere in parte ricostruita: ne registra la consistenza l’Inventario che va dal 1566 al 1572 (ASF, MdP 643). Francesco I e il fratello Ferdinando ampliarono la rete di agenti e corrispondenti già esistente e si curarono anche dell’organizzazione dei laboratori per la lavorazione delle pietre dure. L’Inventario della Tribuna del 1589 (BdU, Ms 70) elenca diversi oggetti in pietre dure, ma
solo un paio di cammei, alla carta 46. In quelli seguenti, fino ad arrivare all’anno 1638 (BdU, Ms. 71 e 75), di oggetti di glittica se ne contano invece circa cinquecento, recanti indicazioni di massima solo sul tipo di pietra e sull’eventuale montatura. Un ruolo fondamentale nell’accrescimento delle collezioni della famiglia nel secolo XVII, dovuto anche ad acquisizioni per eredità, lo svolse il principe Leopoldo che, appassionato studioso di scienza, arti e lettere, fu anche un grande collezionista. Sono più di novecento le gemme che risultano dagli inventari stilati dopo la sua morte nel 1675 (ASF, GM 826 e 799) e per certo furono temporaneamente tenute separate dal resto delle gemme medicee. Infatti nel presente Inventario del 1678 si possono contare 569 elementi, finalmente descritti in maniera più completa e organica, seguendo una numerazione precisa. La sezione dedicata ai cammei e agli intagli, che va dalla carta 196 alla carta 216, principia coi cammei moderni grandi seguiti dai “mezzani” e piccoli. Seguono quelli antichi, anch’essi divisi tra grandi medi e piccoli, e infine gli intagli, ordinati con il medesimo criterio. I soggetti non sono sempre bene identificati, mentre puntuale è la segnalazione del tipo di pietra. L.M. Bibliografia: CASAROSA 1976, p. 57; GENNAIOLI 2007, p. 76
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141 - Arte romana Busto femminile (Drusilla?)
prima metà del I secolo d.C. (rilavorato in epoca successiva) onice e oro, mm 67 × 55 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14556
Busto femminile di profilo verso sinistra, con corona di alloro e pendente all’orecchio. La donna veste una semplice tunica e peplo segnati da ampie pieghe ondulate. La testa, circondata da un ampio nimbo inciso sul piano di fondo dell’onice, presenta una complessa acconciatura formata da sottili ciocche ondulate che incorniciano la fronte, mentre sulla nuca i capelli scendono raccolti in una coda voluminosa. Dietro la testa si scorgono i resti di quelli che in origine dovevano essere i lacci della corona. Tale attributo, simbolo di dignità imperiale, presenta evidenti segni di rilavorazione, soprattutto in corrispondenza dell’estremità superiore. Ulteriori tracce di alterazioni sono visibili lungo l’attaccatura dei capelli sulla fronte. La pietra è inserita in una semplice montatura in filo d’oro con due maglie circolari saldate alle estremità verticali. Diversamente da quanto riportato da Maria Elisa Micheli (in GIULIANO 1989, p. 266, n. 215), la prima menzione dell’opera nelle fonti documentarie non risale all’inizio del XVIII secolo, bensì al 1676, quando fu stilato l’inventario delle collezioni d’arte del granduca Cosimo III de’ Medici, dove tra i cammei Moderni grandi si trova descritta una “Testa di donna laureata col
diadema de Santi intorno. In Agata bianca, e Panè” (BdU, ms. 78, n. 6). Il pezzo, escluso
dal gruppo degli esemplari antichi riprodotti dal Gori nei primi due volumi del Museum Florentinum (1731-1732), fu ricondotto a epoca romana da Tommaso Puccini (BdU, ms. 47, n. 1201328), il quale giudicò la pietra “perfettissima”, ma lo stile dell’incisione mediocre. L’antiquario si soffermò inoltre sulla presenza dell’aureola incisa in cavo definendola un’aggiunta posteriore fatta per convertire “l’immagine di una imperatrice in quella di una santa”. Tale pratica fu largamente diffusa nel Medioevo, periodo in cui il cristianesimo fece sua l’iconografia antica, interpretando in senso religioso le immagini riprodotte sulle gemme. Un esempio di trasformazione di un’effigie imperiale simile a quella operata nella pietra fiorentina è fornito da un cammeo in sardonica con il ritratto di Antonia Minore incastonato almeno fin dal 1360 nella croce gemmata di Carlo IV conservata nel tesoro della cattedrale di Praga (MEGOW 1987, pp. 290-291, n. D 10, tav. 18,9). Qui il profilo della figlia di Marco Antonio e Ottavia appare affiancato da lettere gotiche che la qualificano come santa e ha la testa inscritta entro un nimbo ugua-
le a quello dell’esemplare mediceo. Questo, per lo stile dell’incisione e il tipo ritrattistico, può essere associato ad alcune gemme con l’effigie di Drusilla, sorella dell’imperatore Caligola. Il volto pieno della donna, dall’espressione accigliata, la sua pettinatura e il particolare del pendente all’orecchio, trovano infatti precisi termini di confronto con i ritratti della principessa riprodotti in un cammeo frammentario del British Museum di Londra e in un cammeo del Cabinet des Médailles di Parigi (Megow 1987, p. 302, nn. D 35-D 36, tav. 16, 3 e 4), ai quali il pezzo
del Museo Archeologico di Firenze si avvicina anche per i raffinati effetti cromatici. G.C.C.-R.G. Bibliografia: M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 266, n. 215; L. Tondo, in TONDO-VANNI 1990, p. 45, n. 198; TONDO 1996, p. 116, n. 191
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142 - Arte romana (?) Testa di Augusto
secolo I d.C. (?) onice e oro, mm 84 × 49 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14521
Il cammeo, eseguito con grande perizia in un onice bianco tendente all’azzurro sopra fondo sardonico chiaro, raffigura una testa imberbe, di profilo verso sinistra, cinta da una corona di foglie di alloro; l’occhio, incorniciato da sottili palpebre, presenta l’iride incisa. La capigliatura si articola sopra la fronte e sulla nuca in fitte ciocche ondulate ricadenti lungo il collo. La montatura è costituita da una semplice fascia in oro ribattuta lungo il bordo della pietra ed è dotata di una piccola maglia per la sospensione. L’esemplare può essere identificato tra i cammei Moderni grandi della raccolta di Cosimo III de’ Medici descritti nell’inventario stilato da Luigi Strozzi nel 1676, dove compare “Una
testa di Apollo laureato in Calcidonio con fondo di Agata” (BdU, ms. 78, n. 3). Regi-
strata in tutti i successivi cataloghi inerenti la dattilioteca granducale (BdU, ms. 83, tav. XXV, n. 6; BdU, ms. 115, I, part. II, tav. XXV, n. 1327; BdU, ms. 47, 86-1327; BSAT, ms. 194, n. 152), l’opera fu pubblicata per la prima volta da Anton Francesco Gori nel Museum Florentinum (GORI 1731-1732, I, 1731, tav. 63), in cui si trova riprodotta con una cornice settecentesca modanata diversa da quella attuale e contraddistinta da un grande fiocco metallico che serviva per appenderla. Il soggetto della pietra, inizialmente creduto un Apollo dallo Strozzi (BdU, ms. 78, n. 3), dal Gori e da Sebastiano Bianchi (BdU, ms. 83, tav. XXV, n. 6), fu giudicato da Tommaso Puccini un “ritratto di Augusto sotto le sembianze di quel dio” (BdU, ms. 47, n. 86 - 1327). Con una effigie dell’imperatore fu identificato anche da Arcangelo Michele Migliarini (BSAT, ms. 194, n. 152), dall’abate Giovan Battista ZANNONI (1824-1831, II, 1831, pp. 65-66, tav. 45, 2), da Salomon REINACH (1895, p. 34, tav. 31, I, 63) e da Johann Jacob BERNOULLI (1882-1894, II, 1886, p. 47, H). Quest’ultimo, in particolare, vi riconobbe un pregevole manufatto della produzione glittica di età augustea, adducendo come prova della sua appartenenza a quell’epoca il calligrafismo nella descrizione delle ciocche sulle tempie. Tale opinione è stata ripresa in parte da Marie-Louise VOLLENWEIDER (1966), che lo ha ricondotto per i modi stilistici all’incisore di gemme del I secolo d.C. Eutyches, figlio e discepolo del celebre Dioskourides, ponendolo in stretta relazione con altri due cammei del Museo Archeologico Nazionale di Firenze: una testa di Livia con gli attributi di Cerere e il dop-
pio ritratto con i profili dell’imperatrice e del figlio Tiberio appartenuto al cardinale Leopoldo de’ Medici (M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 231, n. 155 e pp. 234-235, n. 159), ai quali l’esemplare qui considerato si lega per il taglio dell’orecchio, la resa dei capelli e il foro della pupilla. In questi elementi l’ipotesi della Vollenweider sembra trovare delle conferme, che la rendono preferibile all’attribuzione a Domenico di Polo avanzata più recentemente da Luigi Tondo (in TONDO-VANNI 1990, p. 47, n. 222). G.C.C.-R.G.
Bibliografia: GORI 1731-1732, I, 1731, tav. 63; ZANNONI 1824-1831, II, 1831, pp. 65-66, tav. 45, 2; BERNOULLI 18821894, II, 1886, p. 47, H; REINACH 1895, p. 34, tav. 31, I, 63; VOLLENWEIDER 1966, pp. 69, 118, tav. 76, 1; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 228, n. 152; TONDO-VANNI 1990, p. 47, n. 222; TONDO 1996, p. 118, n. 214
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143 - Manifattura francese Angelo con Cristo in pietà
fine del secolo XIV (il cammeo) sardonica, oro e smalti, mm 70 × 75 (senza cornice), mm 104,4 × 98 (con cornice) Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 103
Il cammeo, di forma esagonale, reca la figura di un angelo vestito di lunga tunica che sorregge il Cristo morto. Il rovescio della sardonica si presenta rialzato in prossimità della parte centrale, caratterizzata da una leggera rientranza di forma circolare. Il pezzo è montato a giorno in una elegante cornice in oro ornata da racemi vegetali ed elementi floreali in rilievo smaltati di bianco e di nero, con anello apicale di sospensione, anch’esso smaltato. La pietra è stata rintracciata da Daniel ALCOUFFE (1974) nell’inventario del tesoro di Antoine de Bourbon e di Jeanne d’Albret, re di Navarra, conservato intorno al 1561-1562 presso il castello di Pau. A quell’epoca l’esemplare, descritto come un “tableau d’une grande agatte en laquelle y a ung ange blanc tenant Jhesus Christ mort”, era inserito entro un sole d’oro smaltato di rosso posto sopra una base a forma di piccolo sepolcro decorato da smalti e da tre cammei antichi in agata raffiguranti teste. Lo stesso oggetto ricompare poi nel 1602 nella collezione reale di Enrico IV a Fontainebleau: “Un grand soleil d’or où est enchassè une grande agate et une figure de Christ soustenu par un ange. Ledit soleil posé sur une soubasse faicte en tombeau d’argent doré où sont énchassées trois camajeux d’agate antiques mesme façon où sont enchassés deux petitz esmailz d’applique” (BAYAUD 1960, p. 15). Nel 1613 l’opera, insieme ad altri manufatti preziosi, venne trasferita per ordine di Maria de’ Medici, allora reggente di Francia, presso il suo cabinet al Louvre. Privato della montatura originale, il pezzo dovette giungere a Firenze con la dote di Margherita Luisa d’Orléans, nipote di Maria, andata in sposa nel 1661 al granduca Cosimo III de’ Medici. Tuttavia esso è documentato nella città toscana solo a partire dal 1761, quando si trovava a Palazzo Pitti (ASF, GM, appendice 94, c. 207r, n. 24), da dove fu prelevato nel 1770 per essere immesso nella raccolta glittica granducale custodita agli Uffizi. Il primo a dedicare una specifica analisi al rilievo fu Ernst KRIS (1929) che, oltre ad assegnarlo a manifattura borgognona della fine del XIV secolo, ne sottolineò l’alta qualità e la particolarità della forma poligonale, simile a quella di un esemplare menzionato nell’inventario dei beni di Carlo V di Francia. Successivamente Theodor MÜLLER ed Erich STEINGRÄBER (1954) hanno leggermente posticipato la datazione del cammeo al 1400 circa, ponendolo in relazione con analoghe raffigurazioni realizzate nella raffinata tecnica degli smalti en ronde-bosse, come il Cristo in Pietà raffigurato al centro del piccolo trittico del Rijksmuseum di Amsterdam, ricondotto ad atelier orafo parigino. Fu proprio in questa città che già dall’ultimo quarto del Trecento la produzione artistica sviluppò in modo del tutto particolare l’immagine del Cristo sostenuto da uno o due angeli, diffusasi poi con leggere varianti su tutto il territorio francese, tanto da rendere estremamente difficile una distinzione dei manufatti per centri di lavorazione. Il gruppo del cammeo del Museo degli Argenti può essere confrontato, per la postura frontale delle figure, con alcune miniature del codice delle Très Belles Heures de Notre-Dame, proveniente dalla biblioteca di Giovanni duca di Berry (MEISS 1967, II, figg. 15, 18), con un intaglio in pasta vitrea del Museo Nazionale del Bargello (WENTZEL 1956, pp. 256-257, n. 1245) e con l’Imago Pietatis in smalti en ronde-bosse del cosiddetto Reliquiario di Montalto (F. Trevisani, in MODENA 2002a, pp. 101-106). Ad un periodo sicuramente posteriore a quello della pietra appartiene l’elegante cornice in oro decorata da elementi floreali intervallati da racemi trattati in smalto opaco, che ricordano molto da vicino le soluzioni ornamentali adottate nel corso del XVII secolo dagli orafi parigini Gilles e Gédéon Légaré, celebrati disegnatori ed esecutori di gioielli smaltati dell’età di Luigi XIV. R.G.
Bibliografia: ZOBI 18532, pp. 40-41; MAZEROLLE-MOLINIER 1892, p. 33, n. 147; KRIS 1929, I, pp. 14, 151 n. 6, II, tav. III n. 6; RUSCONI 1935, p. 9; MÜLLER-STEINGRÄBER 1954, pp. 48, 50, fig. 30; STEINGRÄBER 1956, p. 61, fig. 90; WENTZEL 1956, p. 259, n. 103; BAYAUD 1960, p. 15; MEISS 1967, I, p. 17, II, fig. 326; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 181, n. 960; ALCOUFFE 1974, pp. 265-266; D. Alcouffe, in PARIGI 1981, pp. 218-219, n. 178; MASSINELLI-TUENA 1992, p. 167; R. Kahsnitz, in MONACO 1995, pp. 242-244, n. 14; CASAROSA 1997b, p. 94; ASCHNGREEN PIACENTI 1999, p. 57; CASTELLUCCIO 2002, p. 29, fig. 21; A. Capitanio, in MODENA 2002a, p. 171; R. Distelberger, in VIENNA 2002, p. 34, fig. 10; T. Crépin-Leblond, in BLOIS 2003, p. 167, n. 38; D. Alcouffe, in PARIGI 2004, pp. 248-249, n. 150; T. Crépin-Leblond, in FIRENZE 2005a, p. 325, n. III.64; GENNAIOLI 2007, p. 328, n. 418, tav. I
Gli ultimi Medici. La collezione di gemme nel XVIII secolo
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144 - Manifattura italiana Ifigenia in Tauri con Oreste e Pilade
prima metà del secolo XVI (?) onice, oro e smalti policromi, mm 45 × 60 (il cammeo), 62 × 72 (con la montatura) Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14468
Al centro della scena è rappresentata una figura femminile seduta, vestita di lunga tunica e di peplo che le vela la testa. Essa regge con la mano destra una face rovesciata e con la sinistra il Palladio. Il suo volto, reso di tre quarti, sembra rivolto verso una figura di giovane clamidato stante dietro di lei. Una seconda figura maschile, con un’asta e la clamide sciolta sul braccio, siede sopra una roccia all’estrema sinistra della composizione. Davanti a questa è raffigurato un terzo personaggio maschile tunicato, posto in secondo piano e girato verso la donna, con diadema sul capo e parazonio nella mano destra. Sullo sfondo si erge un tempio tetrastilo con capitelli corinzi, sui quali poggia un fregio dorico formato da triglifi e metope con bucrani stilizzati. La pietra è inserita in una cornice in oro a giorno decorata lungo il bordo da un motivo a corda smaltato di bianco e di azzurro. In corrispondenza delle estremità orizzontali sono presenti due sferette auree smaltate d’azzurro e puntinate d’oro, sostenute da volute anch’esse smaltate. Lo stesso motivo decorativo caratterizza le due estremità verticali, dove al posto delle piccole sfere sono saldate due maglie circolari smaltate di azzurro e ornate da trattini risparmiati. Sul verso la montatura è impreziosita da una fascia smaltata a perle e fuselli. Il pregevole cammeo è ricordato per la prima volta nell’inventario redatto nel 1676: “Quattro figure due nude d’uomini e due di donna avanti a un tempio” (BdU, ms. 78, n. 2). Il GORI (1731-1732, II, 1732, tav. 31, 1) e il Pelli (BdU, ms. 115, I, part. II, tav. XXI, n. 1159), tra i primi a commentare il lavoro, identificarono nella scena il momento della consegna del Palladio da parte di Teano, moglie di Antenore, ad Ulisse o Diomede. Il Lanzi invece propose di riconoscere nella donna velata Vesta “depositaria de’ due pegni dell’eterno impero di Roma, il Palladio, e il fuoco perpetuo”, nei due giovani posti accanto a lei i Penati “perciocchè figurati in età e in vestito simile a quegli” e nella terza figura maschile “il Genio di Troia, o il Lare piuttosto d’una famiglia” (LANZI 1782, pp. 121-123). Un’ulteriore lettura dell’insieme fu fornita più tardi dall’abate Giovan Battista Zannoni, che alla gemma dedicò diverse pagine di erudito commento, giudicandola raffigurante “Ifigenia in Tauri con Oreste e Pilade, che approdaron colà onde rapire per comandamento d’Apollo il Simulacro di Diana” (ZANNONI 1824-1831, I, 1824, pp. 175-176). Tale interpretazione, accettata anche dal Migliarini (BSAT, ms. 194, n. 121), è stata in genere ripresa dalla critica successiva. Controversa risulta la datazione della gemma. In linea con quanto formulato dal FURTWÄNGLER (1900) all’inizio del secolo scorso, Giuliano (in FIRENZE 1973, p. 39, n. 1) ne ha ricondotto la realizzazione ad una officina microasiatica della prima metà del I secolo a.C., ponendola in relazione, per la resa dei profili e dei corpi, con il cammeo appartenuto a Lorenzo de’ Medici raffigurante Ippolito e un compagno di caccia, Fedra e la nutrice del Museo Archeologico Nazionale di Napoli (inv. n. 25834). Diversamente il Tondo (in TONDO-VANNI 1990, p. 37, n. 43), soffermandosi sull’assetto prospettico della composizione, ha messo in dubbio l’antichità della pietra, collocandone la realizzazione entro la prima metà del XVI secolo. A tale ambito cronologico è stata assegnata anche da Paola VENTURELLI (1996), la quale vi ha ravvisato caratteri stilistici simili a quelli di un altro esemplare del Museo Archeologico di Firenze con una testa di Medusa (inv. n. 14622; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 198, n. 98). Alla stessa studiosa si deve inoltre l’attribuzione a bottega orafa milanese della raffinata cornice a giorno in oro e smalti, che consente di osservare in trasparenza l’onice. G.C.C.-R.G.
Bibliografia: GORI 1731-1732, II, 1732, tav. 31, 1; LANZI 1782, pp. 119-128; DAVID 17871802, VII, 1801, tav. XXXIV, 1; WICAR 1789, II, tav. s.n.; ZANNONI 1824-1831, I, 1824, pp. 171-184, tav. 34, 5; REINACH 1895, p. 57, tav. 55, II, 31, 1; FURTWÄNGLER 1900, II, p. 264, tav. LVIII, n. 6; LIPPOLD 1922, p. 175, tav. XLIV, 4; A. Giuliano, in FIRENZE 1973, p. 39, n. 1 (citato); M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 219, n. 121; L. Tonto, in TONDO-VANNI 1990, p. 37, n. 43; TONDO 1996, p. 103, n. 40; VENTURELLI 1996, p. 91; M. Sframeli, in FIRENZE 2003a, p. 101, n. 42; DIGIUGNO 2005, p. 48, fig. 44
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145 - Protarcos Amore che cavalca un leone
secolo I a.C. onice e oro, mm 20 × 26 iscrizioni: sull’esergo ΠΛΩΤΑΡΧΟΣ ΕΠΟΙΕΙ Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14439
Amore musagete suona la lira e cavalca un leone incedente verso destra. Calcedonio bianco compatto su fondo sardonico. Cornice in oro a castone pieno con elementi floreali incisi sul retro. L’AGOSTINI (1686, II, tav. 55 e MAFFEI-DE ROSSI 1707-1709, III, 1709, p. 24, tav. 12) riporta una dissertazione sull’iconografia dell’amore che doma il leone mentre suona la lira, ricordando come lo stesso soggetto – di origine classica – era stato rappresentato anche in un medaglione di Cristina di Svezia per la pregnanza del contenuto simbolico del motivo iconografico: “Due principali potenze d’amore si propongono nelle presenti immagini: la prima deriva all’armonia della sua lira, l’altra dall’imperio, che egli tiene sovra gli affetti, domando soavemente i più fieri e selvaggi, onde preme l’aspro dorso del leone di tutte le fiere ferocissimo”. L’Agostini ricorda inoltre come il soggetto fosse stato ripreso da una pittura di Pausania nel tempio di Esculapio e lodando “l’artifizio della scultura” riscontrabile nel prezioso cammeo ci fornisce una importante informazione circa la storia della pietra: “Né minore è la stima e la lode di chi possiede così preziosa gemma, Pietro Andrea Andreini, ugualmente adorno di erudizione e d’ogni nobile studio, pietà e costume, il quale essendo usato favorirmi,
si compiacque a me inviarla di Napoli, e dal suo scelto Museo a Roma per tradurla in disegno, e per recare maggior lustro alle altre gemme, che risplendono nella presente opera”. La pietra perciò, richiesta da Leonardo Agostini al possessore, l’abate Andrea Andreini, che allora abitava a Napoli, per farla riprodurre nel volume Le gemme antiche figurate venne prestata gentilmente, ma non restituita al suo legittimo proprietario. Essa infatti dal giugno del 1717 risulta documentata nella collezione glittica medicea. Secondo lo STOSCH (1724) il prezioso esemplare fu regalato al granduca dallo stesso Andreini, mentre secondo altri esso fu trattenuto dall’Agostini. Il calcedonio di eccellente fattura porta la firma di Protarcos, incisore di origine microasiatica forse al servizio di Mitridate VI e attivo a Roma nel I secolo a.C. M.C. Bibliografia: AGOSTINI 1686, II, tav. 55; MAFFEI-DE ROSSI 1707-1709, III, 1709, p. 24, tav. 12; CASAROSA 1976, p. 59; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 158, n. 34; L. Tondo, in TONDOVANNI 1990, p. 37, n. 34; M.E. Micheli, in ROMA 2000a, p. 552, n. 18
Gli ultimi Medici. La collezione di gemme nel XVIII secolo
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146 - Carlo Costanzi (Arpino, Fr, 1705-Roma, 1781) Testa di Philipp von Stosch
1728-1731 zaffiro bianco e oro, mm 21 × 18 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 328
Su uno zaffiro bianco di forma ovale è incisa la testa in profilo sinistro del barone Philipp von Stosch. Con i capelli pettinati à l’antique, il capo e il collo nudi, questo è circondato sul recto da una sfaccettatura ottagonale che elevando la superficie della pietra, ne esalta la trasparenza e magnifica il lavoro di intaglio. La gemma si ispira a prototipi romani, sia nella lavorazione perimetrale (ad esempio il perduto intaglio con testa di Vespasiano; FIRENZE 1973, I, p. 60, n. 30, fig. 25), sia nell’iconografia, tratta da quella di monete imperiali. Registrata nelle collezioni fiorentine soltanto a partire dal 1786 (BdU, ms. 115, II, n. 594), essa dovette farvi ingresso durante l’ultimo periodo mediceo. Prima il GIULIANELLI (1753, p. 144), poi l’ALDINI (1785, p. 123) ricordavano infatti come “Gastone Gran Duca di Toscana” (Ibid.) avesse acquistato nel 1731 “un Nerone in Diamante … inciso dal padre” Giovanni Costanzi, oltre ad “altre ventitre gemme incise dai figli” Carlo e Tommaso (CASAROSA GUADAGNI 1973, pp. 286-297). Attribuito anche per via stilistica a Carlo Costanzi, l’intaglio veniva connesso (Ibid., pp. 286-297, figg. 1-2) ad una medaglia celebrativa eseguita nel 1728 a Berlino da Karl Hedliger (NAU 1966a, p. 28) e ad una serie di pezzi conservati presso il Museo Mazzucchelliano di Brescia (GAETANI 1761-1763, II, p. 370-380, tav. CXCIII, nn. II-V); simili per iconografia. Individuando nella medaglia eseguita dallo Hedliger un terminus post quem e nell’acquisto delle gemme da parte di Gian Gastone un terminus ante quem, la Casarosa riconduceva la fattura della gemma ad un periodo compreso fra il 1728 ed il 1731 (CASAROSAGUADAGNI 1973, pp. 286-297). Apprezzata dal Puccini (BdU, ms. 47, n. 377) e dal Migliarini (BSAT, ms. 194, n. 3207), per la purezza dello zaffiro e la maestria dimostrata dal Costanzi nel lavorare un minerale tanto duro, essa veniva in seguito citata dal RIGHETTI (1952, p. 36), dalla ASCHENGREEN PIACENTI (1967, p. 188, n. 1185) e dalla CASAROSA GUADAGNI (1973, pp. 286-297, figg. 1-2). Più tardi ricordata nella biografia dell’autore (PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1984, pp. 369-370), e inserita dalla Kagan in un saggio sulle effigi in pietra dura del barone von Stosch (KAGAN 1985, pp. 10-11), essa veniva nuovamente ricordata dalla CASAROSA GUADAGNI (1997a, p. 100) e dal GENNAIOLI (2007, p. 441, n. 702, fig. 702). Nato in Germania nel 1691, il barone iniziò a viaggiare per l’Europa già nel 1709, epoca in cui
avviò la sua attività di collezionista. Dopo il primo soggiorno parigino del 1713, dove studiò la dattiloteca Orléans e apprese la tecnica per duplicare le gemme con la pasta vitrea, nel 1715 si portò per la prima volta a Roma. Qui entrò in contatto con numerosi collezionisti, antiquari, artisti e connoisseurs, fra i quali il cardinal Albani, nel quale lo Stosch trovò un mentore ed un patrono, e dal quale fu coinvolto nei lavori di scavo che si tenevano nell’Urbe. Dopo aver sostato presso le maggiori corti europee, nel 1722 fece ritorno a Roma, operando come spia per la corona britannica. Qui si circondò dei maggiori intagliatori, come Carlo Costanzi, Flavio Sirleti, Antonio Pichler e Johan Lorenz Natter, i quali divennero ottimi falsari e straordinari emuli dei loro antichi predecessori, dai quali ripresero l’uso di firmare le gemme in caratteri greci. La sua fama di conoscitore venne amplificata dalla vicinanza con Cristiano Dehn, noto esecutore di calchi in zolfo, e decretata dalla pubblicazione nel 1724, del volume Gemmae antiquae caelatae (cat. n. 147). Grande mecenate, fu il soggetto prediletto di numerosi pittori, scultori e intagliatori, come Johan Karl Hedliger (supra), o Lorenz Natter, il quale lo ritrasse su ben tre gemme. Collezionista accorto ed indefesso, personaggio dai lati oscuri e sfuggenti, lo Stosch si trasferì a Firenze nel 1731, prendendo alloggio nel palazzo Ramirez-Montalvo di Borgo Albizi, dove continuò a raccogliere antichità di ogni tipo e soprattutto gemme (quasi 5000), catalogate in seguito Joachim Winkelmann nella Description des pierres gravées du cabinet de Stosch pubblicata nel 1760. Anche qui si circondò dei maggiori intagliatori del tempo, quali Louis Siries, Francesco Ghinghi, il Bernabé (cat. n. 139), e Giuseppe Torricelli. Dopo la morte del barone (22/3/1757), la sua dattiloteca venne venduta dal nipote e erede, Wilhelm MuzelStosch, a Federico II re di Prussia, per confluire in
seguito nello Staatliche Museen di Berlino. Durante il periodo romano lo Stosch fu in stretto rapporto con il Cavalier Carlo Costanzi, il quale, erede con il fratello Tommaso dell’attività paterna (PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1984, pp. 369-370), ottenne grandi onori e una fama straordinaria. Dotato di un’ottima tecnica e di un tratto “ni trop sec, ni trop léché” (MARIETTE 1750, I, p. 142), egli era tuttavia smisuratamente ambizioso, cosa che gli attirò ben presto le antipatie di contemporanei e colleghi, i quali furono spesso assai severi nei suoi confronti. Oltre a ricevere le critiche del NATTER (1754) e del Valesio, il quale lo definì un “gobbo giovane virtuoso intagliatore di gemme, ma vano e temerario” (VALESIO [1730], 1977-1979, p. 276), egli cadde vittima della satira grafica del Ghezzi (Roma, BAV Ottob. Lat 3116, f. 90). La sua produzione fu però vastissima; eseguì ritratti su gemma dei più noti personaggi del tempo, fra cui Benedetto XIII, Giacomo III Stuart, il re di Francia, l’imperatrice Maria Teresa, e delineò le effigi dei maggiori soggetti della storia antica, come di Platone, Antinoo (“per Giovanni V re di Portogallo”; ALDINI 1785, p. 123), o Alessandro Magno. Intagliò inoltre molte pietre con soggetto mitologico, fra cui le Tre Grazie, una Leda (“emulando la gloria paterna incise in Diamante un’immagine di Leda”; Ivi), un Mercurio seduto su un Ariete, e un Apollo e Marsia, realizzando inoltre per il “Pontefice Benedetto XIV” il proprio capolavoro; “un bellissimo smeraldo in rilievo da una parte l’immagine dello stesso Sommo padre, e dall’altra le teste de’ Santi Apostoli Pietro, e Paolo” (Ivi). E.D. Bibliografia: RIGHETTI 1952, p. 36; GIULIANELLI 1753, p. 144; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 188, 1185; scheda O.A. 09/00129704, 1973 (M. Casarosa); CASAROSA GUADAGNI 1973, pp. 286-287, figg. 1-2; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 1984, pp. 369-370; KAGAN 1985, pp. 10-11; CASAROSA GUADAGNI 1997b, p. 100; DIGIUGNO 2005-2006, II, pp. 158-160, n. 36, fig. 105; GENNAIOLI 2007, p. 441, n. 702, fig. 702
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147 - Philipp von Stosch (Kostrzyn, 1691-Firenze, 1757) GEMMAE ANTIQUAE CAELATAE, Scalptorum nominibus Insignitae, ad ipsas gemmas, aut earum ectypos delineatae & aeri incisae, per Bernardum Picart ex praecipuis Europae Museis selegit & commentariis illustravit Philippus de Stosch, Polon. Regis & Sax. Electoris Consiliarus, ad Imp. Caes. Carolum Sextum P.F.A.C.H.R. Gallicè reddidit H.P.de Limiers, Bonon. Scient. Academ. Socius Amstelaedami, Apud Bernardum Picartum MDCCXXIV. Pierres antiques gravées, sur Lesquelles les graveurs ont mis leurs noms. Dessinées et gravées en cuivre sur les originaux ou d’après les Empreintes, par Bernard Picart. Tirées des principaux cabinets de l’Europe, expliquées par m. Philippe de Stosch, Amsterdam 1724 in 4°; pp. 97, 70 illustrazioni a stampa; mm 407 × 265, h. mm 27
volume I, tav. LIII, Amore che cavalca un leone (pp. 74-75)
iscrizione: sotto il leone “ΠΛΩΤΑΡΧΟΣ ΕΠΟΙΕΙ”; sotto il cammeo, all’interno della cornice: “GEMMAE/MAGNITUDO”; nel cartiglio in basso: “AMOR LEONEM DOMANS/PLOTHARCHI. OPVS/Ex Sardonyche. Anaglyph. Exscalptum./Ex Thesauro Magni Ducis Hetruriae.”; sotto il margine sulla sinistra “B. Picart sculp. 1722”; sulla destra è invece un piccolo asterisco: “*” incisione a bulino e acquaforte; alla battuta mm 268 × 186 Firenze, collezione Giovanni Melli
La pubblicazione a stampa consta di 70 incisioni tratte da altrettante gemme intagliate provenienti dalle più importanti collezioni europee, compresa la raccolta personale del barone von Stosch. La legatura è in cartone ricoperto di cartapecora. Sulla costola è ancora evidente l’orma di un cartellino con lettere a stampa, ora scomparso, su cui era la seguente iscrizione: “GEMMA(E)/ANTIQ/CAELAT”. Internamente, sulla pagina del frontespizio, al centro, è presente una filigrana con giglio inscritto in scudo sormontato da una corona a tre punte (non in BRIQUET 1923). I disegni e le incisioni furono realizzate dal francese Bernard Picart (16731733). Il testo rappresenta uno dei più significativi repertori di gemme antiche, destinato al pubblico di eruditi e appassionati di antichità, sempre più numeroso nel corso del XVIII secolo. Il barone, nato nel Brandeburgo, fu presto instradato alla conoscenza delle arti dal padre e da lui incoraggiato a intraprendere un lungo tour di formazione che lo vide toccare l’Olanda, la Francia, l’Inghilterra e l’Italia, in particolare Roma e Firenze; fu questa la città nella quale si stabilì molto tempo dopo, intorno 1733, a spese della nazione Britannica e che divenne definitivamente la sua dimora. Il barone Philipp von Stosch fu personaggio eccentrico, grande conoscitore, collezionista, mercante d’arte e antichità, ma anche spia internazionale per conto del governo britannico e di Sir Walpole; fu fondatore della loggia massonica di Firenze, nel 1733, e membro della Società del Museo Fiorentino, fondata da Anton Franceso Gori per la pubblicazione dei celebri volumi (vedi cat. n. 152). A Roma, negli anni giovanili, entrò nella corte del papa Albani, Clemente XI, divenendo subito grande amico del nipote, il cardinal Alessandro Albani, collezionista in senso moderno e mercante d’arte di sculture antiche e oggetti d’antiquariato. Con questi, il barone von Stosch conobbe forse un modo nuovo e più spregiudicato di interessarsi al mercato dell’arte, effettuando anche campagne di scavo a dir poco illegittime sempre affiancate alla sua consueta attività di spionaggio. Riguardo alla glittica antica sembra che il barone (cfr. TASSINARI 2009, p. 85, nota 56) fosse anche solito falsificare le firme degli autori degli intagli ricorrendo all’abilità incisoria dei molti artisti della sua cerchia di conoscenze. Le Pierres antiques gravées costituiscono in ogni caso uno dei primi e più importanti repertori di gemme antiche, molto curato dal punto di vista della fedeltà all’originale. A questo proposito WHITELEY (1999, pp. 183184) ha sottolineato quanto la fedeltà all’intaglio originale nella stampa
di riproduzione delle pietre incise rappresentasse per lo Stosch una priorità assoluta, anche per l’apprezzamento della pietra stessa. Da questo punto di vista sembra che von Stosch avesse dapprima trovato il suo artista in Girolamo Odam, disegnatore e incisore molto conosciuto nell’ambiente romano, specializzato per l’appunto proprio nella riproduzione di antichità. Solo pochi disegni, non più di dieci in tutto, spettano però all’Odam, poiché il resto dei fogli preparatori, e ben 53 delle rimanenti 60 stampe vengono invece attribuite a Bernard Picart, che fu anche l’editore del libro. Il ruolo di Picart è riconosciuto sul frontespizio e su una nota, aggiunta forse da Picard stesso, alla pagina V. Come infatti ipotizza Whiteley, e prima di lui Mary L. Myers (in PHILADELPHIA 1980, p. 31) è probabile che Picart si fosse sentito poco gratificato dal confronto con Odam e il di lui maestro Pier Leone Ghezzi che invece Stosch, nella prefazione, dichiarava apertamente di tenere in grande considerazione. Secondo le parole di von Stosch la collaborazione con Picart dovette fruttuosa e idilliaca, ma è invece probabile che non corrispondessero pienamente alla realtà. Stosch tenne un carteggio con l’amico olandese François Fagel (cfr. HERINGA 1976, pp. 75-91) a cui chiese opinioni sull’opportunità di accondiscendere alla richiesta di Picart di rifare completamente alcuni disegni di Odam eseguiti a penna e inchiostro con tratteggio lineare incrociato, ossia la tecnica più tradizionale per la preparazione delle stampe – da Mantegna, a Dürer, a Rembradt. Questo perché non erano ritenuti da Picart troppo fedeli agli intagli originali. Fagel apprezzava molto Picart e la sua morbida tecnica disegnativa che prediligeva la matita rossa e lo giudicava migliore e persino più accurato di Ghezzi. Tale giudizio dovette confortare a tal punto il Barone da convincerlo a far realizzare a Bernard non solo i disegni ma anche buona parte delle stampe, che non sono tutte firmate. Per meglio evidenziare e differenziare la provenienza delle stampe dai propri disegni Picart introdusse una piccola stella accanto alla sua firma di incisore, come nella stampa con Amore che cavalca un leone. Sembra che l’insieme dei disegni preparatori a questa impresa fosse stato riunito in un album in folio, conservato in Inghilterra, ancora integro nel 1965 quando venne incluso nella vendita della biblioteca del Capitano E.G. Spencer-Churchill nel 1965 (vendita Chirstie’s Londra, 24 Novembre 1965, lotto 97, cfr. WHITELEY 1999, note 18 e 20). Il volume venne poi smembrato, ma alcuni disegni preparatori di Picart, eseguiti preva-
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lentemente a matita rossa, sono stati reperiti da Heringa, da Bean e Turcic, da Myers (vedi per tutti WHITELEY 1999, nota 20). Parte di essi si trovano attualmente al British Museum, (per la tavola 1, cfr. inv. 1967.7.22.12); al Philadelphia Museum of Art (inv. 1978-70-382 e 383), per le tavv 18 e 23 (cfr. in PHILADELPHIA 1980, pp. 3031, figg. 19a e b); al Metropolitan Museum of Art di New York quelli per le tavole 7, 45, 55, 56 (inv. 67.100.4, 67.100.5, 67.100.1, 67.100.2, vedi bean-Turčič 1986, nn. 214.5); in collezione privata a New York i disegni per le tavv. 24 e 46; altri tre disegni in relazione al volume, ma non utilizzati per le stampe, si trovano rspettivamente all’Ashmolean Museum di Oxford e al Metropolitan Museum of Art di New York (67.100.3) (cfr. WHITELEY 1999, nota 20). Nella spiegazione in lingua latina a pagina 74, il barone von Stosch ripete le parole del Gori nel ricordare che la sardonica con Amore che cavalca il leone, opera di Protarcos, era stata di proprietà dell’abate Pietro Andrea Andreini. Inedita l’iconografia di Cupido con la lira, piuttosto che con arco e dardi, derivata forse da un passo di Pausania che ne attribuì l’invenzione all’antico pittore Pausia. Il Barone von Stosch aggiunge infine che anche Cartari inserì questa iconografia nelle sue Immagini degli dei e ringrazia monsignor Emmanuël Martin, prelato della chiesa di Alicante, per l’interpretazione della pietra. A.B. Bibliografia: HERINGA 1976, pp. 75-91; HERINGA 1981, pp. 55-105; WHITELEY 1999, pp. 183-190; LEWIS 1967, pp. 320327; LANG 2007, pp. 203-226; TASSINARI 2009, pp. 78-115, in part. p. 85
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148 - Franz Ferdinand Richter (Dzikowa, 1693-Firenze, 1743) Gian Gastone de’ Medici, granduca di Toscana
1737 olio su tela, cm 320 × 240 Iscrizione: (a tergo) “franco ferdindo Richter pinx. A. 1737” Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, inv. 1890, n. 3805
Gian Gastone, l’ultimo dei tre figli del granduca Cosimo III de’ Medici e sua moglie Margherita Luisa d’Orléans, nacque il 25 maggio 1671. Aveva dunque poco più di quattro anni nel giugno del 1675, quando sua madre abbandonò il suo infelice matrimonio per tornare nel paese natio. Il matrimonio di Gian Gastone fu altrettanto infelice; egli si sposò a Düsseldorf il 2 luglio 1697 con Anna Maria Franziska von Sachsen-Lauenburg, cognata dell’elettrice palatina. Dopo le nozze i coniugi andarono a vivere presso la tenuta di Anna Maria Franziska a Ploskovice in Boemia, ma i loro rapporti si guastarono ben presto. Già dall’inverno del 1698 il principe passava lunghi periodi da solo a Praga, dove conduceva una vita scapestrata, abusando di alcolici e perdendo regolarmente forti somme al gioco. Per porgere rimedio alla situazione, fu deciso a Firenze di riportare gli sposi in Toscana e nel giugno del 1705 Gian Gastone ritornò in patria, dopo aver ottenuto dalla moglie la promessa che l’avrebbe raggiunto entro due anni. Alla fine di novembre 1706 il principe ripartì da Firenze, ma dopo una lunga infruttuosa attesa, si trovò costretto a ripartire da solo nel 1708, mettendo di fatto fine alla loro unione. Poiché il fratello maggiore Ferdinando morì nel 1713 senza prole, fu Gian Gastone a succedere a Cosimo III il 31 ottobre 1723. Gian Gastone, l’ultimo de’ Medici a regnare sul granducato di Toscana, morì solo quattordici anni più tardi, il 9 luglio 1737. Il dipinto ritrae Gian Gastone in piedi davanti ad una poltrona con la parrucca e la cappa granducale, di broccato color oro, foderato e guarnito di ermellino, lo scettro nella mano destra, posata sulla corona; sul fondo compaiono il marzocco con l’arme mediceo e la cupola e il campanile della cattedrale fiorentino di Santa Maria del Fiore. Il granduca porta al collo l’insegna dell’ordine militare di Santo Stefano, una croce d’oro incastonata con diamanti e granati che è descritta nell’inventario delle gioie di casa Medici stilato nel 1741 per volontà della sorella di Gian Gastone, Anna Maria Luisa de’ Medici. Il ritratto porta a tergo la data 1737 e la firma del pittore Franz Ferdinand Richter. È perciò possibile identificarlo con il dipinto ricordato da Francesco Maria Niccolò Gabburri nel manoscritto Vite di Pittori conservato nella Biblioteca Nazionale di Firenze, stilato tra il 1730 e il 1742 (BNCF, ms. Pal. E.B.9.5, II, p. 947 = c. 227r): “Nell’anno 1737, avendo dato principio a dipingere il ritratto del suddetto serenissimo Giovan Gastone I granduca di Toscana, grande quanto il vivo, di ordine dello stesso, non poté terminarlo per la morte di quel buon principe, seguita il dì 9 luglio 1737.” Il ritratto figura senza una attribuzione, ma accuratamente descritto, nell’inventario di Palazzo Pitti stilato nel 1761 (ASF, GM appendice 94, cc. 654v-655r). Fu trasferito in seguito alla Galleria degli Uffizi dove è ricordato dall’inventario iniziato nel 1890 (edizione on line, registro 5, p. 169, n. 3805) e concesso in deposito prima alla Deputazione Provinciale (1912) e in seguito alla Prefettura di Firenze (1931). Gabburri fornisce notizie anche sulla vita di Richter, nato secondo lui nel 1693 a Ebersdorf, nota oggi con il nome polacco Dzikowa, una cittadina non lontano da Breslau (=Wrocław in polacco), e formato a Hirschberg im Riesengebirge, l’odierna Jelenia Góra. Il biografo indica che nel 1725 il pittore andò a Roma per studiare “sotto la direzione” di Marco Benefial e di Francesco Trevisani e si trasferì nel 1728 a Firenze dove, dopo una nomina alla guardia a cavallo del granduca, si impiegò “con somma gloria, specialmente in ritratti”. Gabburri rammenta un ritratto del “generale Montemar, grande quanto il naturale” eseguito da Richter nel 1735
per Gian Gastone de’ Medici e collocato nella “Reale Galleria”; ricorda il pittore iscritto tra gli “accademici di San Luca”, attivo nel capoluogo toscano nel 1739. Le notizie biografiche fornite da Gabburri, così dettagliate da far supporre che provenissero dalla viva voce del pittore stesso, sono confermate da fonti archivistiche. La data indicata dal biografo per il suo trasferimento da Roma a Firenze è confermata dal permesso di viaggio rilasciato dall’ambasciata imperiale a Roma il 18 maggio 1728 e pubblicato da Friedrich NOACK (1927, II, p. 485). Silvia Meloni Trkulja ha trovato ulteriori notizie sul ritratto del Duca di Montemar José Carrillo de Albornoz eseguito da Richter nel 1735: un quaderno della Guardaroba medicea ricorda, senza indicare il nome dell’autore, un ritratto a figura intera “dell’Eccellentissimo Signore Duca di Montemar Generale dell’Armi di Spagna” consegnato ai guardarobieri il 16 novembre 1735 dalla Camera del Granduca e mandato da loro a Francesco Bianchi il custode della Galleria degli Uffizi (Quaderno della Guardaroba generale 1728-1736, ASF, GM 1351, c. 172v, MELONI TRKUJLA 1993, p. 80, nota 38). Secondo l’inventario il duca compariva “armato con perrucca in testa, et ordine del tosone” e teneva “con la destra il bastone di comando in atto di additare più soldati in lontananza, con manto rosso, et elmo posto sopra sassi”. Questa descrizione ha permesso a Meloni Trkulja di rintracciare il ritratto del Duca di Montemar (Firenze, Galleria degli Uffizi, depositi, inv. 1890, n. 2955, olio su tela, cm 234 × 170), un’opera assai simile dal punto di vista stilistico sia a questo di Gian Gastone, sia all’Autoritratto di Richter proveniente dalla collezione Feroni (Firenze, Polo museale, inv. S. Marco e Cenacoli n. 26, cfr. C. Caneva, in FIRENZE 1998c, p. 107, n. XLIII), nonché ad un secondo ritratto di Gian Gastone concesso in deposito alla Provincia di Livorno dalle Gallerie fiorentine (inv. 1890, n. 5224, olio su tela, cm 144 × 113) che può perciò essere identificato con quello di formato simile, attribuito a “Ferdinando Rihter”, nell’inventario della collezione di Anna Maria Luisa (1743, ASF, MM 600, già 991, inserto I, c. 73v, inserto III, c. 177r; mentre non convince come opera di Richter l’altro ritratto collegato con questo documento, inv. 1890, n. 2253, cfr. S. Casciu, in FIRENZE 2006a, pp. 77-78, n. 15). Le notizie fornite da Gabburri trovano ulteriori conferme in alcuni registri dell’Accademia fiorentina del Disegno segnalati da Luigi ZANGHERI (2000, p. 273): “signor Ferdinando Ricter” risulta ammesso il 10 giugno 1731 in presenza del Gabburri, luogotenente dell’Accademia in questi anni (ASF, AD 18, c. 27r-v; AD 23, c. 13v) e pagò le tasse regolarmente dal 1731 sino all’inizio del 1743 (ASF, AD 111, cc. 61v, 64r; AD 120, cc. non numerate; AD 132, cc. 143s-d; AD 133, cc. 42s-d28). Un libro dell’Accademia fornisce anche un termine ante quem per la morte di Richter, indicato come già morto il 28 gennaio 1742 [ab Incarnatione=1743] (ASF, AD 112, p. 43). L.G.S. Bibliografia: PIERSON 1935, tav. davanti a p. 208; BORRONI SALVADORI 1974b, p. 117, nota 530bis; FIRENZE 1980c, p. 48, n. VII.3; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 206, II, 1983, pp. 967-968, n. e fig. 48/17; M. Sframeli, in HACKENBROCH-SFRAMELI 1988, pp. 19, 22 (fig. 6); MELONI TRKULJA 1993, pp. 77, 80, nota 38; GREGORI-BLASIO 1994, pp. 218, 219, fig. 273; C. Caneva, in FIRENZE 1998c, p. 107, sub n. XLIII; S. Casciu, in CHIARINI-PADOVANI 2003, II, pp. 330-331, n. 537; S. Meloni Trkulja, in FIRENZE 2003b, p. 87; L. Goldenberg Stoppato, in FIRENZE 2003a, p. 175, n. 102; S. Casciu, in FIRENZE 2006a; pp. 77-78, sub n 15; BELLESI 2009, I, p. 236, III, fig. 1371
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149 - Antonio Selvi (Venezia?, 1679-Firenze, 1753) Medaglia di Anton Francesco Gori
1751 bronzo, diam. mm 87 iscrizioni: sul dritto “A. F. GORIVS. S. TH. D. HISTORIAR. P. PROF. BAPTIST. FLOR. PRAEP.”; sotto la troncatura del busto: “A.S. CI .I C.C.L.I.”; iscrizioni, sul rovescio: “SIC FORTIS ETRVRIA CREVIT” Firenze, Museo Nazionale del Bargello, inv. n. 7699
La medaglia presenta sul dritto il busto del personaggio, volto di profilo a destra, abbigliato con una corta parrucca e una mantella. Sul rovescio è la raffigurazione della Toscana (sotto forma di figura femminile coronata) seduta, con a lato un leone coronato con la zampa destra su un globo, nell’atto di ricevere da Minerva un cerchio formato da un serpente che si morde la coda; a destra è un putto alato in piedi su una pila di libri; sullo sfondo un tempietto a colonne. La medaglia, datata 1751, fu eseguita da Antonio Selvi per celebrare il cinquantesimo anno di età di Anton Francesco Gori (Firenze 1691-1757), illustre teologo, appassionato collezionista di antichità e, soprattutto, eminente studioso delle antichità della Toscana, in particolare della civiltà etrusca. Non a caso la leggenda del rovescio, tratta dalla seconda Georgica di Virgilio, allude alla grande fama data alla Toscana dal Gori con i suoi studi tra i quali si distinguono i tre volumi del Museum Etruscum (1735-1743), i sei sul Museum Florentinum dedicati alle monete romane delle collezioni granducali (1740-1742) e quello intitolato Museum Cortonense, sulle iscrizioni greche e romane nelle città dell’Etruria. L’anello formato dal serpente che si morde la coda, antico simbolo egizio del tempo, è ugualmente da intendersi qui come simbolo dell’eternità, vuoi da riferirsi alla imperitura gloria della Toscana vuoi alla fama dello stesso Gori.
Come già indicato da Fiorenza Vannel e Giuseppe Toderi, la rappresentazione sul rovescio ricorda per certi aspetti la composizione presente sulla medaglia realizzata da Massimiliano Soldani nel 1684 per il granduca Cosimo III (il tempietto a pianta circolare sullo sfondo, la posa del personaggio seduto in primo piano, e soprattutto il rapporto tra la figura stante e quella in basso), a documentare il lungo alunnato del nostro presso la bottega del maestro e la collaborazione ad alcune sue opere monumentali. Ugualmente evidente, per quanto ci riguarda, anche la dipendenza compositiva tra la nostra medaglia e quella dello stesso Soldani Benzi dedicata a Francesco Redi, con sul rovescio la figura stante di Minerva in atto di svelare la Natura, con sullo sfondo un tempio classico. Resta tuttavia chiaro il diverso livello dei risultati, per la resa nella nostra dei volumi e dei rapporti proporzionali non particolarmente felice, in particolare nella figura di Minerva, che appare rigida e tozza, ben al di sotto dei livelli documentati dal Selvi nelle altre sue realizzazioni. L’incisione del rovescio della medaglia appare anche sul frontespizio dell’opera di Anton Francesco Gori La Toscana illustrata nella sua storia, editata a Livorno nel 1755. E.N. Bibliografia: VANNEL-TODERI 1987, p. 177 con bibl. prec.
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150 - Domenico Compagni, detto Domenico de’ Cammei (Roma, metà del secolo XVI ca-1586) Febo su quadriga 1570-1580 ca onice e oro, diam. mm 33,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 25
Nella gemma è raffigurato Febo alla guida della quadriga del Sole; il dio ha le spalle coperte da un’ampia clamide e con la mano destra sorregge una face ardente. Il gruppo del carro è preceduto da un fanciullo nudo, quasi di prospetto, con una fiaccola in mano, identificabile con Lucifero, la stella del mattino, simbolo cosmico del ciclo della vita umana. In basso, sotto una coltre di nubi, giace la personificazione della Terra, che con il braccio sinistro stringe una cornucopia, mentre con la mano destra sfiora le nuvole. In alto sono incisi a bassissimo rilievo tre segni dello zodiaco: il toro, i gemelli e il cancro. La pietra è circondata da una semplice montatura in oro con due maglie circolari saldate alle estremità verticali. Il piccolo rilievo risulta menzionato per la prima volta nella Descrizione, o inventario di tutte le Medaglie, Cammei, Intagli antichi e Moderni, Metalli antichi e Moderni, Statue, Teste, Iscrizioni antiche che si ritrovano nella Galleria del Serenissimo Gran Duca Cosimo III in Firenze, redatto nel 1676 da Luigi Strozzi (BdU, ms. 78, n. 75). Nel 1731 Anton Francesco Gori dedicò al pezzo, creduto antico, un lungo commento accompagnato da una fedele incisione eseguita da Carlo Bartolomeo Gregori su disegno di Giovan Domenico Campiglia (cat. nn. 151-152). L’erudito ravvisò nella composizione una rappresentazione allegorica della Terra fecondata dal Sole nella stagione primaverile, rievocata dalle figurazioni astrali del toro, dei gemelli e del cancro. Lo stesso Gori propose inoltre di riconoscere in una medaglia dell’imperatore Marco Aurelio, custodita nelle collezioni reali francesi, la fonte del complesso soggetto. Esso appare invece perfettamente corrispondente ai rovesci di due medaglioni romani dedicati rispettivamente ad Antonino Pio e a Commodo (GNECCHI 1912, II, p. 16, n. 67, tav. 50, 6; p. 52, n. 3, tav. 78, 3-4). In entrambi questi esemplari si ritrovano infatti tutti gli elementi figurativi che contraddistinguono il pezzo del Museo degli Argenti, con la sola eccezione dell’accenno di mare presente nei medaglioni al di sotto dei personaggi. Nel 1799 l’opera fu oggetto di una nuova analisi da parte di Tommaso Puccini (BdU, ms. 47, n. 155-1189). Questi, diversamente da quanto espresso dal Gori nel Museum Florentinum, la valutò moderna e stilisticamente simile al grande cammeo con il Trionfo di Filippo II (cat. n. 82). Un riferimento, quest’ultimo, evidentemente suggerito all’antiquario granducale dalla somiglianza dei cavalli e dei profili di alcuni dei soldati in secondo piano con quelli di Febo e della Terra. Tuttavia il tipo di rilievo più affine a quello del pezzo qui considerato è rappresentato dai busti vis à vis di Cosimo I de’ Medici e di Eleonora di Toledo nel cammeo di Domenico Compagni custodito sempre al Museo degli Argenti (cat. n. 83). Ad analogie di stile si affiancano anche ragioni tecniche, come l’abile uso dei colori dei diversi strati della pietra. Nei cavalli, ad esempio, la differenziazione cromatica operata dall’autore non è frutto del caso, ma risponde a una precisa esigenza iconografica, dato che per tradizione i destrieri del carro del Sole dovevano avere il manto uno di colore scuro, uno di colore bianco e due di colore baio, cioè rossastro, per rappresentare le quattro parti del giorno, vale a dire “il nascere, e tramontare del Sole, il mezzo giorno, e la mezza notte” (RIPA 1603, p. 183). R.G. Bibliografia: GORI 1731-1732, II, 1732, pp. 136-140, tav. LXXXVII; DAVID 1787-1802, VIII, 1802, pp. 85-88, tav. LXIX, n. 1; WICAR 1789, I, tav. s.n.; REINACH 1895, p. 67, tav. 69, 87; ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 178, n. 882; GENNAIOLI 2007, pp. 186-187, n. 79; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 2007, p. 45, n. 196
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151 - Giovanni Domenico Campiglia (Lucca, 1692Roma, 1775) Febo su quadriga
matita nera; carta bianca ritagliata e incollata; diam. mm 133 ca 4 linee di cornice a matita nera: una di esse lungo il perimetro del foglio del disegno; una più larga, circolare diam. mm 170; due linee di cornice di forma rettangolare: mm 310 × 250 (esterna); mm 305 × 200 (interna); in alto a destra il numero della tavola in cifre romane “LXXXVII”; pagina segnata con il n. 111 Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. n. 5476F
Il disegno, che si trova alla attuale c. 61 dell’album conservato al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, fa parte di un gruppo di sei volumi in mezzo folio rilegati in cartapecora, con iscrizioni manoscritte in costola, intitolati “DISEGNI ORIGINALI/MUSEUM FLORENTINUM”. Il presente volume misura mm 426 × 283; h. 40 mm. Sulla prima pagina interna a grafite (lapis) “Verif. Nov. 1919/Giglioli”. Internamente, sulla prima pagina, è il frontespizio dell’album, che presenta un semplice titolo, manoscritto a penna e inchiostro: (disegni da 5084F a 5568F: “Disegni Originali del Museo Fiorentino. Vol. I, Fregi, Lettere Iniziali, e Gemme”. In basso è l’iscrizione che corrisponde al contenuto: “Fregi N. 42. Lettere Iniziali N. 25. Gemme Tavole 100”. Le carte dell’album, 124 in tutto, sono numerate singolarmente in alto a destra. Solo sul frontespizio è visibile una filigrana nella metà superiore della pagina verso l’interno: essa rappresenta un cerchio con iscritto un giglio sormontato da una corona a tre punte (non presente in BRIQUET 1923), di circa mm 55 di altezza. Non è possibile verificare la presenza di filigrane sulle altre pagine poiché i disegni sono incollati alle stesse. Non è visibile alcun timbro. I disegni sono numerati singolarmente a mano, penna e inchiostro, fino alla c. 23; dalla c. 24 iniziano invece le tavole, contraddistinte dalla scritta “TAV.” e incorniciate da più linee a matita nera di forma rettangolare. Le tavole sono numerate in cifre romane da I a C, con alcune discontinuità. Gli altri album di disegni sono il n. 2: Disegni originali del Museo Fior(entino) vol. II, Gemme (GDSU disegni inv. nn. 5669-5768F); il n. 3: Disegni Statue. GDSU 5769-5883F fig.; il n. 4, Disegni Medaglie; GDSU 5884-5993F; il n. 5 Ritratti di Pittori tomo V; GDSU 5994-6103F. Alla Biblioteca degli Uffizi è conservato un altro manoscritto contenente alcuni disegni (BdU, ms 463/39. Ritratti di Pittori, tomo VI). Nell’inventario manoscritto dettagliato, redatto da Pasquale Nerino Ferri, si legge: “I disegni dal N. 5084 al N. 5587 sono contenuti in un volume in foglio, legato in pergamena, col seguente titolo: Disegni originali del Museo Fiorentino. Vol. I: Fregi, Lettere, Iniziali e Gemme, serviti per le vignette illustrative incise nell’opera Musei Florentini (sic), pubblicate nel 1742 (Fregi N. 42, Lettere Iniziali N. 27, Somma Tavole, n. 100)”. Questi e gli altri album di disegni del gruppo degli Uffizi, sono strettamente correlati con la preparazione dei volumi del Museum Florentinum e sono opera dell’artista toscano Giovan Domenico Campiglia (16921775). A lui dedica una biografia il Gabburri (BNCF, ms. Pal. E.B. 9.5.III, c. 1395) poi ripresa quasi alla lettera da Giovanni GORI GANDELLINI (1808) ricordando che fu allievo di Tommaso Redi “celebre professore di disegno ed intagliatore” e che fu posto a capo della Calcografia Camerale di Roma su incarico di papa Clemente XII, nel 1738; tra le tante opere incise tra il 1729 e il 1762 Gori Gandellini ricorda anche le incisioni dai ritratti della Galleria di Firenze tra cui quello di Leonardo da Vinci, del Sodoma, di Giulio Romano di Giulio de’ Medici, di Gian Lorenzo Bernini, di Rembrandt e di Salvator Rosa. Una gran parte dei suoi disegni per altre opere risultavano conservati nel 1976 nella Topham Collection nella Biblioteca del College di Eton in Inghiltera (cfr. MACANDREW 1978, pp. 133, 137-139). L’impegno di Campiglia per i disegni del Museum, eseguiti in gran parte da Roma, arrecò all’artista sempre maggiori responsabilità che si intrecciarono con altre importanti commissioni come la realizzazione
delle illustrazioni del Museum Capitolino, stampato a Roma nel 1755. Nel carteggio tra il Campiglia e il Gori conservato alla Biblioteca Marucelliana di Firenze (ms. B VII, 7, cfr. BALLERI 2005, nota 28, che non cita la collocazione archivistica del documento) con 26 lettere a partire dal 1736, c’è una lunga traccia per la continuazione dell’opera dopo i primi volumi delle gemme, ma nessun particolare riferimento ai disegni di questi album. Solo nella lettera inviata a Roma il 16 settembre del 1736 (Ms. A VII, 7, c. 9v) il Campiglia si rammarica con il Gori per le critiche sui suoi disegni che non sarebbero stati graditi: “venendo al Museo Fiorentin, per mezze uoci mi vien detto che le tavole de medaglioni da me disegniate incontrino così male, e che si uada ritoccando or questa or quella cosa, che mi giunge molto nuoua perché essendo io costà erano tanto piaciute, et ora sia tutto al contrario, quando tal opera mi è riescita meglio delle prime siccome ne rouesci come nelle facce per le somiglianze per auerui qualche pratica per il lungo esercizio, e quelle mi uengono biasimate più di ogni altra…”. Oltre alla filza dell’Archivio di Stato di Firenze (Miscellanea delle Finanze A 293, n. 2) la più importante fonte pubblicata per questa vastissima impresa del Museo Florentinum ideata da Niccolò Gabburri e portata avanti da una vera e propria associazione (la Società del Museum Florentinum) di nobili eruditi fiorentini capeggiati dal senatore Filippo Buonarroti e da Anton Francesco Gori, è Giuseppe Bencivenni già Pelli, direttore della Galleria e curatore del Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi dal 1766 al 1790, il Pelli Bencivenni fu anche l’autore del Saggio istorico della Real Galleria di Firenze, del 1779 in cui, a proposito dei disegni preparatori per le tavole del Museum si legge: “Per eseguire il disegno la società si servì di due uomini i quali parvero allora quei soli che potesero soddisfare onorevolmente all’impresa. Uno fu il suddetto Sebastiano Bianchi (nota a: “a lui il D. Lami nelle Memorie Italiane Tomo I, pag. 32 attribuisce la formazione della società per la stampa del Museo.”), l’altro il mentovato Gori. Il primo ebbe l’incarico di disporre e di far disegnare i pezzi che dovevano esser pubblicati, trovandosi, perché copriva il posto di primo custode della Galleria, nella piena comodità di maneggiare liberamente questo tesoro; il secondo di distendere le illustrazioni sopra quanto si mandasse in luce. Si scelsero anche i disegni e per l’intaglio gli artefici che promettevano meglio e nel 1731 comparve al pubblico il primo tomo con la dedica al G. D. e nel 1732 il secondo per mezzo dei torchi di Michel Nestemus e Francesco Mouche…” (vedi BENCIVENNI PELLI 1779, pp. 369-370). Sul destino dei disegni narra ancora il Pelli Bencivenni (Ibid., p. 381): “Serba la Galleria tutti i disegni serviti a quest’opera, avendogli S. A. R. fatti suoi nel 1776 ed in più tomi legati stanno nel Gabinetto destinato a custodire gli altri della collezione del G.D.”. Rita BALLERI (2005) ha ipotizzato che l’attuale composizione di questi sei album di disegni sia da ascriversi a Pasquale Nerino Ferri che fu direttore della Galleria degli Uffizi e curatore del Gabinetto dei disegni e delle stampe dal 1866, succedendo a Aurelio Gotti, fino al 1917. Balleri cita come fonte lo stesso Ferri e il suo Catalogo riassuntivo della raccolta di disegni antichi e moderni, (cfr. BALLERI 2005, p. 118, nota 104). Va tuttavia notato che nel testo di Ferri citato da Balleri e in altri suoi scritti (come il catalogo manoscritto)
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non si trova alcun cenno al fatto che sia stato proprio lui a “comporre” gli album con i disegni di Campiglia. Al contrario, i testi citati hanno molti dettagli in comune con volumi e i cataloghi manoscritti composti tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del successivo. Ci riferiamo in particolare alla calligrafia, alle iscrizioni, all’impaginazione di alcuni cataloghi manoscritti di stampe, anteriori al 1810 come ad esempio il più antico tra quelli del fondo düreriano (cfr. FARA 2007, pp. 403-404). Potrebbe dunque essere plausibile che gli album siano stati messi in ordine all’entrata in Galleria, ossia al tempo di Pelli Bencivenni, o poco più tardi, e solo successivamente ricatalogati da Ferri senza che vi abbia apportato sostanziali cambiamenti. Infatti, la sua tipica numerazione dei singoli pezzi all’interno degli album, fatta con la matita blu, è progressiva e senza lacune, nonostante vi siano invece disegni e intere pagine mancanti. Per quanto riguarda il disegno preparatorio presente nel secondo volume di Anton Francesco Gori esso non è eseguito “ad acquarello” come riportato da BALLERI (2005, p. 110), ma piuttosto a matita nera, come il resto dei fogli preparatori alle tavole dell’opera. La composizione del foglio ha la stessa direzione della stampa nel Gori (cat. n. 152) ed ha dimensioni appena maggiori. Sul disegno non ci sono tracce di incisioni o calchi. È dunque più che probabile, come giustamente avanzato anche da Balleri, che Carlo Gregori, per trasferire poi su lastra il disegno di Campiglia abbia utilizzato la tecnica del calco mediante uso di carta lucida o trasparente. A.B. Bibliografia: BENCIVENNI PELLI 1779, pp. 179-183, 353-354, 366-382; GORI GANDELLINI 1808-1816, I, 1808, pp. 172-172; FERRI 1890, p. 41; MACANDREW 1978, pp. 131-150; QUIETO 1984a, pp. 3-36; QUIETO 1984b, pp. 162-188; BALLERI 2005, pp. 97-141; BARONI 2008, pp. 140-141, nota 641
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152 - Anton Francesco Gori (Firenze, 1691-1757) Musevm Florentinvm exhibens insignora vetvstatis Monvmenta qvae Florentiae sunt. IOANNI GASTONI ETRVRIAE MAGNO DVCI DEDICAVIT. Gemmae antiquae ex Thesauro Mediceo et privatorum dactyliothecis Florentiae exhibens Tabulis C. Imagines Virorvm Illvstriorvm et Deorvm cvm observationibvs Anonii Francisci Gori Publici Historiarvm Professoris. Florentiae. Anno M.D.CC.XXXII, ex Typographia Francisci Moücke, Praesidivm Permissv volume in folio, mm 550 × 368; h. costola mm 60; 100 illustrazioni all’acquaforte Firenze, Kunsthistorisches Institute in Florenz-Max-Planck-Institut, Z 1294
tav. LXXXVII, Febo su quadriga
acquaforte, ritoccata a bulino; mm 327 × 215 (alla lastra); solo il tondo con la gemma diam. mm 128; sul margine inferiore “EXSCALPTUM SARDAE/EX MVSEO MEDICEO”; in basso “Io. Dom. Campiglia del. Carol Gregori sculp”
La traduzione in stampa della Raccolta Di Quadri Dipinti della Galleria Palatina i cui esemplari sciolti erano già circolanti nel terzo decennio del XVIII secolo (cfr. A. Baroni, in FIRENZE 2006b, pp. 343-344, n. 189), dette presto a Firenze lo spunto per imprese analoghe, nelle quali vennero coinvolti molti degli stessi incisori e disegnatori che vi avevano preso parte. Carlo Gregori, in particolare, fu richiamato da Roma nel 1729 per la realizzazione della gigantesca opera del Museum Florentinum, ossia i dieci volumi con le riproduzioni delle collezioni di intagli, gemme, iscrizioni, sculture antiche, e autoritratti – prevalentemente di proprietà medicea – che si andarono delineando verso la metà del terzo decennio del XVIII secolo, per iniziativa di Francesco Maria Gabburri, giungendo però a compimento solo nel 1762. Un’opera che agli inizi doveva raffigurare il meglio della Galleria e che poi diventa, grazie ad Anton Francesco Gori antichista ed erudito (oltre al Gabburri le notizie su Gregori si ricavano dalle Vite d’artisti dello stesso Gabburri BNCF, ms. Pal. E.B.9.5, I-IV e dalle biografie di Gaetano Cambiagi BNCF, ms. II. I. c. 438 c. 438, datato 1764) la stampa delle più importanti collezioni medicee, per il cui compimento Gori costituì una società con i più notabili fiorentini tra cui importanti collezionisti, come il marchese Gerini (sugli intagliatori e sui “prestiti” di gemme da parte di Gian Gastone e di Anna Maria Luisa de’ Medici per la stampa del Museum cfr. GENNAIOLI 2007, pp. 78-79). La corte medicea e in particolare Gian Gastone, che certamente mantenne la linea culturale e di salvaguardia del patrimonio familiare intrapresa dal padre, nonostante un minor impegno nell’acquisizione di opere a stampa, non prese però parte attiva alla commissione del Museum. Egli infatti, si limitò ad emettere un motuproprio del dicembre 1734 in cui concedeva alla società del Museo Fiorentino del Gori un prestito senza interessi di 7000 scudi, da restituire in cinque anni al Monte di Pietà, divenuto ormai Monte Comune (ASF, Miscellanea di Finanze A 293, docc. 1-4, cfr. BALLERI 2005 che non trascrive però il documento; per un più completo approfondimento sull’opera e gli artisti coinvolti vedi inoltre BARONI 2008). La questione dell’opera del Museo Fiorentino non era ancora terminata nel 1754 quando l’impresa viene rilevata da una nuova società che, per bocca di Andrea Ginori, uno dei nuovi membri, chiede al Granduca di non accettare la supplica di uno dei vecchi rappresentati dell’antica società che gli proponeva l’acquisizione di quaranta tomi del Museo Fiorentino fatti stampare in Roma e là conservati (sul ruolo avuto dal Ginori in questa impresa cfr. anche BALLERI 2005). Tali tomi vengono definiti simili in gran numero a quelli già in giacenza a Firenze nei locali della vecchia Società da loro rilevata. Al fine di dimostrare la consistenza del materiale a stampa di proprietà della nuova impresa del Museo Fiorentino, mate-
riale ovviamente destinato al mercato e che sarebbe riuscito oltremodo danneggiato da un ingente acquisto dei volumi romani, viene stesa la Dimostrazione dello Stato dell’Impresa del Museo ossia la descrizione di tutti i libri che costituivano nel 1754 il ‘magazzino’ del Museo Fiorentino con, inoltre, l’indicazione esatta dei debiti, degli incarichi intrapresi, dei “Libri in Essere”, dei libri ancora sprovvisti di illustrazioni, e infine di tutti i disegni e le lastre di rame già incise per la riproduzione a stampa. Una prima selezione delle tavole del Museum comparve già nel 1723 nel De Etruriae Regali libri VII nunc primum editi curante Thomas Coke Magnae Britanniae armigero regiae celsitudini Jo. Gastonis Magni Duci Etruriae, Florentiae 1723, Apud Gjoannem Cajetanum Tartinium, & Sanctem Franchium di Thomas Dempster (cfr. esemplare Firenze, Biblioteca Riccardiana, Moreniana B 2 12-13), con frontalini e iniziali figurate e incisioni dal Museo Fiorentino, per lo più di Vincenzo Franceschini, ma anche di Cosimo Mogalli e di Theodor Vercruys. Lavorò all’impresa del Museo Fiorentino anche la figlia di Cosimo Mogalli, Teresa che, narra Gabburri (cfr. Gabburri ms. BNCF ms. Pal. E.B.9.5.m, IV, c. 2377), “per la giovane età di 24 annni dà grandi speranze di un ottima riuscita. Ha intagliato molti Rami per la Guardaroba di S. A. R. il Ser. mo G.D. di Toscana da cui mediamente provvisionata; molte e molte altre cose ha intagliato che per brevità si tralasciano ma specialmente per il Museo del Dottor Gualtieri e per quello del celebre Dottor Gori. Vive felice in patria nel 1740”. Il Museum è suddivisibile in due raggruppamenti consistenti nei primi sei volumi, nei quali è in gran parte riprodotta a stampa, in tavole separate, la raccolta delle antichità granducali, insieme anche ad alcune opere rinascimentali (pietre dure, intagli, monete, iscrizioni, statue antiche e moderne) e di altri 4 con i ritratti e gli autoritratti presenti in Galleria. Da un documento reperito da chi scrive (Archivio Storico Gallerie Fiorentine, II, n. 61, cfr. BARONI 2008, p. 131, nota 641), sappiamo che dopo il tribolato completamento dell’opera nel 1762 conclusa grazie anche al sostegno economico dell’imperatore Francesco Stefano, l’11 giugno del 1770, i dieci volumi a stampa del Museum Florentinum entrarono in Galleria per volere del Granduca Pietro Leopoldo ma forse furono presto ricollocati altrove perché oggi non vi risultano più. Alla Biblioteca Marucelliana di Firenze, nel vasto fondo di manoscritti e lettere di Anton Francesco Gori vi è anche una filza dedicata alla genesi di questa vasta impresa e in particolare al volume delle gemme intitolata Musei Gemmorum descripta (ms. A LII; sul fondo Gori si veda DE BENEDICTIS-MARZI 2004). A.B.
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Bibliografia: BORRONI 1954-1967, p. 241, n. 1522; BORRONI SALVADORI 1974a, pp. 1510, 1511, 1520, 1528; BORRONI SALVADORI 1978, p. 582; DEZZI BARDESCHI 1976, pp. 245-267; CRUCIANI FABOZZI 1976, pp. 275-288; BORRONI SALVADORI 1982, pp. 32-33, nota 140; IODICE 2000, pp.30-36; KAGAN 2006a, pp. 81-99; BALLERI 2005, pp. 97-141; GENNAIOLI 2007, pp. 78-79; BARONI 2008, pp. 106-108, 140-141, nota 641; GAMBARO 2008
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153 - Teukros Ercole e Iole
secolo I a.C. ametista, mm 25 × 18 iscrizione: ΤΕΥΚΡΟΥ Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14760
Ercole barbato, coperto dalla leontè e seduto su di un masso dove ha appoggiato la clava, protende il braccio sinistro verso Iole, stante davanti a lui. Dietro la figura femminile, in senso verticale, è intagliata la firma in greco dell’autore Teukros, incisore del I secolo a.C. La pietra appare con i bordi leggermente frammentati e mostra una vistosa scheggiatura in corrispondenza della mano destra di Ercole. La gemma è ricordata dal barone Philipp von Stosch nel suo Gemmae antiquae caelatae del 1724 con altre cinque pietre della collezione dell’abate Pietro Andrea Andreini (BATTISTA 1993, p. 59 nota 26) e da Anton Francesco Gori, che la considerava una delle gemme più belle e importanti della collezione della raccolta dell’abate. Sempre il Gori la selezionò per il secondo tomo del suo Museum Florentinum pubblicato nel 1732 (GORI 1731-1732, II, 1732, pp.18-19) e anche il Bracci la volle illustrare (BRACCI 1784-1786, II, 1786, pp. 234-239, tav. CXII) perché la reputava una delle opere antiche più interessanti tra quelle note del Settecento, anche se reputava che il braccio sinistro di Iole fosse oggetto di una rilavorazione in epoca moderna. Come scrive il GIULIANELLI (1743, p. 82) Felice Bernabè, giovane intagliatore di cammei subentrato a Francesco Ghinghi nel ruolo di “cammeista” nel 1732, firmò in greco con le sue iniziali una copia dell’intaglio dell’Andreini. Il Migliarini (BSAT, ms. 194, n. 1663) conferma e ricorda espressamente che questa gemma appartenne all’abate Andrea Andreini di Firenze (FILETI MAZZA 2004, p. 21). La pietra ebbe una vicenda rocambolesca. Infatti, facendo parte della preziosa raccolta dell’abate, conosciuta agli studiosi proprio per la notevole qualità delle pietre incise, molte delle quali antiche e soprattutto rarissime perchè firmate dagli autori, essa fu oggetto di un furto clamoroso. In seguito, l’intaglio venne fortuitamente comprato da Andrew Fountaine grande collezionista inglese, che appresa la sua origine, lo restituì al legittimo proprietario con il patto che alla morte di costui passasse al Granduca di Toscana, cosa poi effettivamente avvenuta. Si pensa che la pietra venisse donata al Granduca di Toscana e comunque dopo la morte dell’Andreini, il 16 giugno 1729, tra il luglio del 1731 e il giugno del 1732 le pietre della collezione dell’abate entrarono a far parte della collezione medicea. M.C. Bibliografia: STOSCH 1724, tav. LXVIII; GORI 1731-1732, II, 1732, pp. 18-19; ZANNONI 18241831, I, 1824, p. 201, tav. 26, 1; BRACCI 1784-1786, II, 1786, pp. 234-239, tav. CXII; F.M. Vanni, in TONDO-VANNI 1990, p. 167, n. 29, BATTISTA 1993, p. 56, fig. 3b
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154 - Domenico Augusto Bracci (Firenze, 1717-1795) Memorie degli antichi incisori che scolpirono i loro nomi in gemme e cammei con molti monumenti inediti di antichità statue bassorilievi gemme opera di Domenico Augusto Bracci della Società reale antiquaria di Londra, Firenze, 1784 per Gaetano Cambiagi stampatore granducale, 2 tomi, fol. Firenze, Biblioteca degli Uffizi, B/2 inv. 349
Umanista di formazione Domenico Augusto Bracci coltivò anche interessi artistici e antiquari, studiando le gemme antiche, soprattutto quando da Firenze, dove era nato nel 1717, si trasferì a Roma. La città, meta d’obbligo per viaggiatori e aspiranti collezionisti di antichità gli dette l’opportunità di lavorare come guida e dedicarsi al commercio di reperti. Fu corrispondente di Antonio Cocchi che da Firenze lo sostenne in più occasioni, e collaborò con studiosi come Giovanni Lami e Anton Francesco Gori, rispettivamente per le Novelle letterarie e il Museum Florentinum. L’ambiente romano invece gli fu ostile e si dovette difendere da ripetute critiche che gli venivano mosse da studiosi suoi “concorrenti”. In questo clima progettò le Memorie, portandole a termine nel 1768, ma che furono pubblicate solo dopo varie traversie tra il 1784 e il 1786. Gli fu di ispirazione il libro del 1724 Gemmae antiquae caelatae del barone von Stosch, antiquario e studioso che ammirava, sebbene nella prefazione, pur ammettendo di aver utilizzato le sue indicazioni, gli riserva delle critiche. E in generale lamenta che negli studi sulla glittica non tutti i “colleghi” fossero abbastanza scrupolosi nell’identificare i personaggi effigiati, né accorti nell’individuare i falsi che facilmente sfuggivano al controllo. A questo scopo attribuisce la massima importanza alla pratica antiquaria e alla conoscenza dei principi del disegno, oltre alla erudizione dei libri. Più di una volta prende di mira il Winckelmann che lo aveva attaccato nella Description des pierres gravées du feu baron de Stosch, e col quale viveva un insanabile conflitto: lo accusa di superficialità nello studio delle belle arti e adombra persino l’ipotesi che fosse l’artefice del furto di un certo numero di rami incisi e disegni approntati per le Memorie, fatto che ne aveva gravemente ritardato e danneggiato la pubblicazione. Le gemme qui descritte, nel numero di 120, facevano parte delle più prestigiose collezioni dell’epoca: da quella dei Medici, alle romane come la Strozzi, l’Albani, la Barberini e la Colonna e anche straniere come quelle del conte Carlisle o del duca di Devonshire. Vengono presentate in ordine alfabetico per autore seguendo uno schema che riporta prima il soggetto, poi appunto il nome dell’incisore, la tecnica e la tipologia della pietra. Seguono le indicazioni sull’appartenenza. La storia o il mito dei personaggi o animali effigiati vengono ampiamente trattati, accompagnandoli a puntuali citazioni dai classici. Sovente confronta i suoi giudizi con quelli di altri studiosi dimostrando di conoscere le principali pubblicazioni esistenti in materia, e porta a confronto i giudizi, oltre che dei menzionati Stosch e Winckelmann, di autori come il Mariette, il Maffei e il Gori, mentre cita solo brevemente l’opera fondamentale di Leonardo Agostini Le gemme antiche figurate del 1657. Per le illustrazioni ribadisce di avere incaricato maestri di provata fama: tra i disegnatori Giovanni B. Casanova e Giacomo Savorelli, e come incisori, fra gli altri, Francesco Bartolozzi, Carlo Gregori, Paolo A. Pazzi, Silvestro Pomarede. Nel secondo volume riporta indici accurati: delle gemme col nome degli artefici, uno generale degli autori citati, illustrati (e corretti) e un indice delle materie. Aggiunge anche il catalogo cinquecentesco del Giunio coi nomi degli artisti, che lui completa con quelli mancanti. Per accennare infine ai principali repertori il Bracci delle Memorie viene citato dal Graesse e dal Brunet, che in una brevissima nota ne critica la prolissità e l’imperfezione delle incisioni. Lo stesso giudizio lo esprime Cicognara pur riconoscendo che era “benemerito e infaticabile autore”. L.M.
Bibliografia: BRUNÉT 1920-1922, p. 1195; CICOGNARA 1859-1869, I, pp. 48-49; GRAESSE 1859-1869, I, p. 517; FILETI MAZZA 1996, pp. 221-246; FILETI MAZZA 2004, pp. 108-114
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155 - Alessandro e Olimpiade
secolo III a.C. agata sardonica, mm 58 × 50 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 15893
Sul cammeo, frammentario, sono rappresentati due busti di profilo verso sinistra: quello maschile, in primo piano, indossa un elaborato elmo attico finemente decorato; quello femminile, con il petto coperto da tunica, porta un diadema che trattiene sopra la fronte i capelli. La pietra è di pregevole fattura: i due personaggi sono stati incisi in un’agata sardonica di notevole spessore, contraddistinta da macchie e venature sfruttate in modo tale da ottenere complessi effetti cromatici che esaltano il candore dei profili. Risulta mancante buona parte del piano di fondo lungo il lato sinistro; il volto femminile è contrassegnato da profonde fratture. L’opera stranamente non figura nel catalogo di Antonio GIULIANO (1989) dedicato ai cammei della collezione dei Medici conservati al Museo Archeologico Nazionale di Firenze e risulta riprodotto in una foto in bianco e nero senza commento nel successivo volume sulle gemme della stessa raccolta museale di Luigi Tondo e Franca Maria Vanni (TONDO-VANNI 1990, p. 6, fig. a). Recenti indagini archivistiche hanno consentito di ricostruire parte della storia di questo esemplare, che quasi sicuramente appartenne ai granduchi medicei. Esso, infatti, è stato rintracciato nell’Inventario delle preziose antichità ed insigni memorie che si conservano nella magnifica Imperial Galleria di Sua Maestà Cesarea redatto nel 1753, ovvero dieci anni dopo la scomparsa dell’ultima esponente della famiglia Medici, l’Elettrice Palatina Anna Maria Luisa. Il pezzo, descritto dall’estensore del documento come “Un cammeo d’agata sardonica alto 2.8 fattovi di bassorilievo due teste assieme, si crede che rappresenti Alessandro Magno, e l’Olimpiade sua madre, fatto da artefice moderno” (BdU, ms. 95, n. 2227), a quell’epoca era situato all’interno di uno degli armadi della Tribuna, luogo deputato dai granduchi di Toscana alla conservazione e all’esposizione degli oggetti in pietre dure, delle sculture e dei dipinti più insigni delle loro collezioni. La stessa voce inventariale ci informa inoltre del fatto che la pietra era originariamente fornita di una elaborata montatura in oro composta da due fronde di alloro. Tale notizia costituisce una preziosa testimonianza sull’importanza dell’esemplare per i granduchi. Che il pezzo fosse ritenuto uno dei più rilevanti di tutto il tesoro mediceo lo si evince anche dal successivo inventario generale della Galleria del 1769 (BdU, ms. 98, n. 1579), in cui esso è ricordato ancora “nell’armadio fisso nel muro della parete destra” della Tribuna subito dopo il grande cammeo dinastico di Giovanni Antonio de’ Rossi con le effigi di Cosimo I, della consorte Eleonora di Toledo e di cinque dei loro figli (cat. n. 72). Confluita nella seconda metà del Settecento nella collezione glittica (BdU, ms. 115, II, n. 2238), la pietra, ormai priva della sua cornice, fu classificata da Arcangelo Michele Migliarini tra le gemme non antiche (BSAT, ms. 194, c. 71). Diversamente da quanto sostenuto dai conservatori granducali, la raffigurazione idealizzata di Alessandro con a fianco la madre, che tanta influenza ebbe su di lui negli anni giovanili, non sembra riconducibile ad un artefice moderno, bensì essa putrebbe rappresentare una celebrazione postuma della dinastia macedone risalente a età ellenistica. G.C.C. Bibliografia: TONDO-VANNI 1990, p. 6, fig. a (solo ripr. fotografica); G. Carlotta Cianferoni, in PROVIDENCIA 2001, p. 161, n. 217
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156 - Jan Frans van Douven (Roermond, 1656-Bonn, 1727) Anna Maria Luisa de’ Medici come Minerva
1700 ca olio su tela, cm 80 × 63 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, depositi, inv. 1890, n. 5160
È Jan Frans van Douven, ritrattista ufficiale della corte elettorale dal 1682, ad offrirci questa insolita immagine di Anna Maria Luisa de’ Medici quale Minerva. La ragione dell’inusuale rappresentazione dell’Elettrice nelle vesti della divinità guerriera è da interpretarsi, come proposto da Stefano Casciu, alla luce di un mutamento nell’iconografia della dea che, edulcorata dal carattere prettamente bellicoso ad essa associato, divie-
ne portatrice di valori quali la Pace e la Virtù (S. Casciu, in FIRENZE 2006b, p. 156, n. 19). Il rinnovato valore simbolico della figura di Minerva si determina, infatti, nel clima culturale creatosi nel Palatinato dopo la Pace di Rijswick nel 1697, con la quale si sanciva la fine della lunga Guerra della Lega Augusta. È proprio negli anni in cui all’Elettore Palatino vengono restituiti i territori invasi nel 1688 dalle truppe di Luigi XVI che l’artista olandese pone
mano al dipinto del Museo degli Argenti ed al suo pendant: il Ritratto di Johann Wilhelm von Pfalz-Neuburg nelle vesti di Marte dell’Alte Pinakothek di Monaco. Con questi due ritratti “all’antica” van Douven celebra con fierezza i suoi mecenati dei quali realizzò, nel corso della propria carriera, innumerevoli effigi. Consapevole e fiero del suo ruolo di ritrattista di corte, inserì un’immagine della coppia di Elettori anche nel proprio Autoritratto, conservato agli Uffizi,
Gli ultimi Medici. La collezione di gemme nel XVIII secolo
nel quale si ritrae nell’atto di indicare con orgoglio l’immagine di Anna Maria Luisa e Johann Wilhelm immortalati sulla tela alle sue spalle. Nel ritratto in mostra, la durezza impressa al profilo dell’Elettrice ed il candore quasi esangue dell’incarnato trovano respiro nelle soffici e variopinte piume che ornano l’elmo che cinge il capo dell’effigiata mentre un’imponente testa leonina le fissa sulla spalla il ricco tessuto ceruleo della veste. Una linea talmente netta, quella attraverso cui il pittore costruisce il profilo di Anna Maria Luisa, da sembrare quasi inciso sul fondo scuro della tela, evocando i numerosi cammei che hanno come soggetto la dea Minerva. Unico vezzo del ritratto è il leggero pizzo bianco che, con le sue trasparenze ed il suo lieve e quasi impercettibile movimento, incornicia il décolleté della donna smorzando la rigidità della figura. La sfarzosa cornice entro cui è racchiusa l’effige, opera dell’intagliatore olandese Vittorio Crosten (M. Mosco, in FIRENZE 2002c, p. 26), con il suo ricco intreccio di foglie e rose dà ancor più solennità al ritratto enfatizzando i caldi riflessi dorati che illuminano l’elmo e la protome leonina dell’Elettrice. Chiarini colloca intorno al 1710 l’arrivo dell’opera a Firenze (CHIARINI 1989, p. 146, n. 22.72); prima testimonianza della sua presenza nelle Gallerie Fiorentine è la registrazione di un passaggio del ritratto da Palazzo Pitti alla Guardaroba generale di Palazzo Vecchio nel 1713 (S. Casciu, in FIRENZE 2006b, p. 156, n. 19), anno nel quale la tela si spostò nuovamente per essere trasferita alla villa di Castello (CHIARINI 1989, p. 146); qui sostò sino ad un successivo passaggio alla Galleria degli Uffizi, prima di raggiungere Palazzo Pitti nel 1956. Nello Stadtmuseum di Düsseldorf si trovano due tele ovali, repliche della coppia di ritratti qui analizzata. Numerose analogie iconografiche sono riscontrabili tra il ritratto dell’Elettrice in mostra ed una miniatura su rame conservata agli Uffizi, attribuita al van Douven, che ritrae Amalia Guglielmina di Brunswick (inv. 1890, n. 4159), moglie di Giuseppe I ed Imperatrice del Sacro Romano Impero alla morte di Leopoldo I. La piccola effige, ritenuta in tempi passati un ritratto di Anna Maria Luisa de’ Medici, presenta la figura di una donna di profilo, armata di un elmo piumato del tutto simile a quello indossato dall’Elettrice dalla quale si differenzia però per una maggiore morbidezza dei lineamenti del volto, che sembra accennare un lieve sorriso, e per il vistoso orecchino pendente, attributo di femminilità. M.Be. Bibliografia: HEIDELBERG 1958, p. 135, n. 4; S. Meloni Trkulja, in LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 272, n. 6.38; MAI 1988, p. 66; DÜSSELDORF 1988, p 235, n. C11a; CHIARINI 1989, p. 146; M. Mosco, in FIRENZE 2002c, p. 36; MELONI TRKULJA 2004, p. 27; MOSCO 2004a, pp. 10-11; S. Casciu, in FIRENZE 2006b, pp. 156-157, n. 19b
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157 - Bottega tedesca o fiorentina Busto di Anna Maria Luisa de’ Medici
primo quarto del secolo XVIII onice su fondo sardonico, metallo smaltato, bronzo dorato e perle, mm 58 × 48 (la pietra), mm 76 × 55 (con la cornice) Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. Gemme 1921, n. 2549
Anna Maria Luisa de’ Medici, ritratta di profilo verso destra, indossa qui una ricca ed elegante veste dall’ampia scollatura; i lunghi capelli sono raccolti con fili di perle dietro la nuca a formare un’acconciatura raffinata e voluminosa, secondo la moda dell’epoca. Il capo è cinto da una corona di tipo regale in metallo smaltato formata da cinque archi contornati di perle (in parte mancanti), riuniti al vertice sotto un globo centrato e sormontato da una croce. La cornice è realizzata in bronzo dorato e presenta una maglia in alto e grappette sul retro. La montatura in bronzo con anello apicale fa ipotizzare che questo gioiello venisse indossato come spilla agganciata sulle vesti o come pendente. Questa opera è così menzionata, insieme al cammeo simile raffigurante il marito Johan Wilhelm von Pfalz-Neuburg Elettore Palatino, nell’inventario delle gioie stilato nel 1743 alla morte di Anna Maria Luisa de’ Medici: “Due ritratti, cioè quello del Seren.mo Elettore, e della Seren.ma Elettrice Palatina, di smalto bianco, sopra un agata colle berrette” (ASF, MM 600, c. 5, n.770; HACKENBROCH- SFRAMELI 1988, p. 176, n. 770). Dopo la morte dell’Elettrice Palatina i due cammei vennero trasferiti a Vienna e furono restituiti all’Italia solamente nel 1923, in segui-
to al trattato di Saint-Germain con l’Austria. La tipologia di questo ritratto deriva dai rovesci di alcune medaglie realizzate dal tedesco Johann Selter, attivo tra il 1700 e il 1716, nelle quali il busto della principessa medicea è raffigurato con lo stesso abito, visibile anche in questo cammeo, profondamente scollato e impreziosito da sfarzosi gioielli (GENNAIOLI 2007, p. 277). Questo richiamo consente di datare il cammeo del Museo degli Argenti entro il primo ventennio del XVIII secolo. Nonostante il notevole sfarzo di questi ornamenti, il cammeo non rende minimamente giustizia alla ricchezza della collezione di gioielli posseduta dall’Elettrice Palatina, raccolta grazie al lascito testamentario della nonna Vittoria della Rovere e ad omaggi preziosi donati sia dal padre Cosimo III in occasione delle sue nozze, che dal marito Johan Wilhelm. C.C. Bibliografia: ASCHENGREEN PIACENTI 1967, p. 214, n. 2019; LANGEDIJK 1981-1987, I, 1981, p. 294, n. 113, fig. 6.113; HACKENBROCH-SFRAMELI 1988, p. 176, n. 770; CASAROSA GUADAGNI 1997a, p. 101; C. Contu, in FIRENZE 2003a, p. 169, n. 98; CASAZZA 2004a, p. 29; O. Casazza, in FIRENZE 2006b, p. 246 n. 97; GENNAIOLI 2007, p. 277, n. 277
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158 - Manifattura italiana Apollo e fauno
secolo XVI onice e oro, mm 39 × 30 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. n. 14441
L’opera, eseguita su una lastrina di onice a due strati, reca la figura di Apollo, stante e seminudo, con la lira nella mano sinistra. Il volto del dio volge leggermente verso un giovane fauno che tiene con la mano destra una cornucopia e con la sinistra, portata sopra la testa, i crotali. Le due figure poggiano sopra un crescente di luna. La pietra è circondata da una semplice cornice in filo d’oro con due maglie circolari saldate alle estremità verticali. La prima menzione dell’esemplare è contenuta in un inventario del 1732 riguardante l’invio alla Guardaroba di alcuni oggetti preziosi di proprietà di Anna Maria Luisa de’ Medici, dove è descritto come “Un Cammeo in calcidonio bianco di due figure, che una rappresenta Apollo che tiene nella mano sinistra la lira, e la destra rotta; e l’altra figura minore tiene nella destra una cornucopia, e nella sinistra forse i plettri, o strumento da fiato, osservandosi nel viso l’aria di un faunetto, che ha una gamba rotta sino a mezza coscia, legato in oro con maglietta” (ASF, GM 1288, inserto 2, c. 162r). Nel documento sono elencate altre trentanove gemme (tre cammei e trentasette intagli), per lo più a soggetto mitologico, che l’Elettrice Palatina affidò al custode della Galleria degli Uffizi Francesco Bianchi, affinché fossero immesse nella raccolta granducale. Buona parte di questi pezzi sono ancora oggi iden-
tificabili nella collezione del Museo Archeologico Nazionale di Firenze grazie alle tavole incise dei primi due tomi del Museum Florentinum di Anton Francesco Gori, in cui, accanto agli esemplari più rinomati del tesoro mediceo, furono riprodotti su disegno di Giovan Domenico Campiglia ben sedici dei cammei e degli intagli registrati nell’inventario del 1732, tutti contrassegnati dalla didascalia ex cimeliis Ser. Electr. L’uso della stessa legenda per altre gemme non menzionate dal documento della Guardaroba (GORI 1731-1732, I, 1731, tav. XXXXVII, nn. V, VIII, IX, X; tav. LXVIII, n. VIII; II, 1732, tav. L, n. V) testimonia che, al pari dei suoi familiari, Anna Maria Luisa fu una estimatrice dei lavori di glittica. Importanti informazioni sul suo interesse per le gemme si ricavano da una nota biografica dell’incisore Francesco Ghinghi, nella quale egli ricorda di avere eseguito per lei i ritratti dei fratelli Ferdinando e Gian Gastone in corniola e quelli del marito Johann Wilhelm e del padre Cosimo III in smeraldo. Sempre per l’Elettrice il Ghinghi realizzò poi svariati “cammei di Teste d’imperatori antichi quali dovevano accompagnare alcuni che Sua Altezza Elettorale teneva nel suo Tesoro di Gioie delle quale ne abbonda…” (BMF, Carte Gori, A. 213, pubblicato in GONZÁLEZ-PALACIOS 1977b, pp. 275-276). Alla morte dell’ultima Medici (1743), l’onice con Apollo e fauno era ormai parte della collezione granducale da oltre un decennio. Elogiato nei più tardi inventari settecenteschi
per il suo stile, il cammeo non mancò di attirare su di sé l’attenzione di illustri eruditi, incuriositi soprattutto dal personaggio posto accanto ad Apollo, giudicato di volta in volta un semplice putto (BdU, ms. 83, tav. XXI, n. 11), una personificazione del Genio del dio della musica (GORI 1731-1732, I, 1731, p. 131), una rappresentazione della divinità della terra Ploutos (REINACH 1865, p. 35), fino ad arrivare all’identificazione con un fauno proposta da Tommaso Puccini che, come il Gori e gli altri conservatori granducali, considerò la pietra antica (BdU, ms. 47, n. 12-1162). Tale assegnazione, mantenutasi per quasi un secolo, è stata più recentemente messa in discussione da Luigi Tondo (in TONDO-VANNI 1990), il quale ha ricondotto il pezzo al XVI secolo. Una ipotesi questa resa plausibile non soltanto dallo stile dell’incisione, ma anche dalla figura di Apollo, fedelmente ripresa dal Sigillo di Nerone. R.G. Bibliografia: GORI 1731-1732, I, 1731, p. 131, tav. LXVI n. VII; DAVID 1787-1802, II, 1787, p. 17, tav. XIV; ZANNONI 1824-1831, I, 1824, pp. 42-44, tav. 5, 2; REINACH 1865, p. 35, tav. 32, I, 66, 7; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 169, n. 52; L. Tondo, in TONDO-VANNI 1990, p. 36, n. 29; TONDO 1996, p. 101, n. 26; R. Gennaioli, in FIRENZE 2006b, pp. 248249, n. 100
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159 - Arte romana Testa di Medusa
secolo I -II d.C. calcedonio e argento dorato, mm 58 × 50 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 15897
L’opera è caratterizzata da un rilievo fortemente accentuato, quasi a tutto tondo. Essa raffigura la testa leggermente girata verso sinistra di Medusa, l’unica mortale delle tre leggendarie Gorgoni, figlie delle divinità marine Forco e Ceto, uccisa da Perseo con l’aiuto di Mercurio e di Minerva. Il volto carnoso del mitico mostro appare qui incorniciato da una folta capigliatura formata da ciocche vigorosamente ondulate, dalle quali spuntano i resti di quelli che in origine dovevano essere due serpenti affiancati da due ali. All’andamento a spirale dei capelli si rifà l’elegante montatura in argento dorato, ornata lungo il profilo esterno da una cornice a tortiglione. Come i cammei con Apollo e fauno e Apollo (cat nn. 158, 160), il calcedonio faceva parte della raccolta personale di Anna Maria Luisa de’ Medici ed è sicuramente identificabile con la “testa di bassorilievo senza collo in calcidonio zaffirino di grandezza e grossezza straordinarie, ben colorita, [che] rappresenta una Me-
dusa, con ale e serpe su la testa” inviata dalla Elettrice Palatina alla Guardaroba nell’agosto del 1732 (ASF, GM 1288, ins. 2, c. 161v). Registrato nell’inventario della collezione glittica granducale redatto da Sebastiano Bianchi prima del 1736 (BdU, ms. 83, tav. XXV, n. 8), il pezzo fu pubblicato da Anton Francesco Gori nel primo volume del Museum Florentinum con la dicitura ex cimeliis Ser. Electr. (GORI 1731-1732, I, 1731, tav. XXXIII, nn. VII-IX). La pietra, per le sue considerevoli dimensioni, suscitò un certo interesse nel gruppo di eruditi facenti parte dell’Accademia Colombaria, fondata su iniziativa del Gori nel 1735. Infatti fra le annotazioni relative agli oggetti esposti nel corso delle loro adunanze nel 1739 figura anche un calco in gesso “di un bellissimo zaffirino, o sia calcedonio zaffirino della Serenissima Elettrice Palatina con testa ben fatta quasi in faccia di un bel Genio, e si nota la grandezza, e rarità della perfezione, chiarezza, e lavoro
della medesima gemma” (Archivio della Società Colombaria, Spogli Tarpato, ms. 19 [ex I.I.VII.42] 1738-1739, c. 533). Potente simbolo magico dotato di particolari virtù protettive, la testa di Medusa costituì uno dei motivi iconografici prediletti dalla glittica ellenistica e romana, che ne ripropose la grande varietà di forme utilizzate nella decorazione di fregi, mensole, chiavi di archi, scudi, armature e specchi. Il particolare aspetto dell’esemplare qui considerato fa supporre che esso non fosse destinato a decorare un vero e proprio monile, ma piuttosto un più complesso elemento ornamentale. R.G. Bibliografia: GORI 1731-1732, I, 1731, pp. 72-73, tav. XXXIII n. IX; DAVID 1787-1802, I, 1787, pp. 133-135, tav. XLIV, II; REINACH 1895, p. 24, tav. 16, I, 33, 9; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 200, n. 103; L. Tondo, in TONDO-VANNI 1990, p. 46, n. 200; TONDO 1996, p. 116, n. 193; R. Gennaioli, in FIRENZE 2006b, p. 249, n. 101
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160 - Artista italiano Apollo
secolo XVI sardonica, oro e metallo dorato, mm 23 × 14 Firenze, Museo Archeologico Nazionale, inv. 14442
L’opera è costituita da una sottile lamina d’oro riportata sopra un fondo di sardonica a tre strati. La pietra è inserita in una cornice a giorno ovale in metallo dorato, ornata da semplici modanature e da un motivo a catena che ne sottolinea i profili. Sulla lamina in oro è raffigurata un’atletica figura maschile, stante e nuda, che con il gomito del braccio sinistro, portato alla testa, resa di tre quarti, si appoggia al tronco nodoso di un albero, mentre con la mano destra tiene l’estremità superiore di un arco posato a terra. L’esemplare, proveniente dalla raccolta di Mario Piccolomini, fu pubblicato per la prima volta nella riedizione degli inizi del Settecento delle Gemme antiche figurate di Leonardo Agostini, in cui Paolo Alessandro Maffei evidenziò la singolarità del soggetto, classificato come un Apollo in riposo. Nel commentare le sue caratteristiche iconografiche, il Maffei sottolineò che “dal parere d’uomini eruditi, a’ quali è paruto, che la nudità del corpo sia contrassegno di divinità, e che l’arco non meglio che ad Apollo possa attribuirsi, mi sono facilmente lasciato indurre a pubblicarlo sotto questo nome, benché io sappia quanto siano equivoci questi contrassegni, massime negli Artefici Greci, che o di rado, o non mai furono soliti vestire le figure; tanto più che io volentieri lo avrei detto un Meleagro, o un Adone, o qualche altro Cacciatore, ritornato stanco dalla caccia” (MAFFEI-DE ROSSI 1707-1709, III, 1708, p. 173, XCVI). Simili incertezze sull’identità del personaggio furono espresse più tardi anche da Anton Francesco Gori nel Museum Florentinum, dove il rilievo fu riprodotto con la dicitura ex Cimeliis Ser. Electr., utilizzata per distinguere i materiali glittici appartenuti ad Anna Maria Luisa de’ Medici e da lei fatti confluire nella collezione granducale proprio negli anni di pubblicazione dei primi due tomi del monumentale lavoro del Gori. Per la particolare tecnica di lavorazione e l’iconografia, l’esemplare nel corso del XVIII secolo suscitò l’interesse di diversi conoscitori, tra i quali Pierre-Jean Mariette. Egli nell’introduzione al celebre Traité des pierres gravées non mancò di rimarcare la singolarità del manufatto, sollevando qualche dubbio sulla sua autenticità e ricordando che a Parigi aveva avuto modo di vedere diversi rilievi in foglia d’oro spacciati per antichi da un abile falsario italiano (MARIETTE 1750, I, p. 89). Nel 1799 Tommaso Puccini ribadì l’originalità del pezzo, comprovata secondo il conservatore granducale dalla purezza dello stile, dalla patina, dalla consunzione di certe parti della figura e dalla stima di cui godette presso gli antiquari (AGF, ms. 47, n. 13-1163). Diversamente il Puccini rigettò la tradizionale identificazione del personaggio con Apollo, rilanciata in seguito da Giovan Battista Zannoni attraverso una serie di raffronti con altre rappresentazioni del dio (ZANNONI 1824-1831, I, 1824, pp. 267-270). Rispetto a quanto sostenuto in passato, i più recenti studi sull’opera ne hanno ricondotto la realizzazione al XVI secolo. Infatti gli esemplari tecnicamente e stilisticamente più vicini al pezzo qui considerato non appartengono alla glittica antica, bensì alla produzione orafa del Cinquecento, che diede vita a raffinati monili ornati da rilievi in lamina d’oro finemente cesellati e applicati sopra fondi di agata, lapislazzuli o diaspri dai colori più diversi. La figura stessa di Apollo sembra rifarsi a modelli di quel periodo. Notevole risulta, ad esempio, la somiglianza con l’immagine del dio ritratto in una placchetta dell’inizio del XVI secolo assegnata da una parte della critica all’artista convenzionalmente noto con il nome di ‘Pseudo-Fra Antonio da Brescia’ (TODERI-VANNEL TODERI 1996, pp. 107108, n. 195). R.G.
Bibliografia: MAFFEI-DE ROSSI 1707-1709, III, 1708, p. 173, XCVI, tav. 96; GORI 1731-1732, I, 1731, p. 130, tav. LXVI n. I; MARIETTE 1750, I, pp. 88-89; LANZI 1782, pp. 118-119; ZANNONI 1824-1831, I, 1824, pp. 267-270, tav. 35, 1; GOTTI 1872, pp. 132-133; REINACH 1895, p. 35, tav. 31, I, 66, 1; M.E. Micheli, in GIULIANO 1989, p. 168, n. 51; L. Tondo, in TONDO-VANNI 1990, pp. 37-38, n. 46; TONDO 1996, p. 104, n. 46; R. Gennaioli, in FIRENZE 2006b, pp. 248-249, n. 99
Gli ultimi Medici. La collezione di gemme nel XVIII secolo
161 - Vita di Michelagnolo Buonarroti pittore scultore architetto e Gentiluomo Fiorentino pubblicato mentre viveva dal suo scolare Ascanio Condivi: seconda edizione corretta e accresciuta di varie annotazioni col ritratto del medesimo ed altre figure in rame, Firenze, per Gaetano Albizzini 1746, 160 p., fol. Firenze, Biblioteca degli Uffizi, inv. n. 5688
Pur essendo stato indirizzato dalla famiglia a studi di diritto Ascanio Condivi (1525-1574) manifestò presto il suo interesse per l’arte e per progredire nell’apprendimento della pittura si trasferì a Roma, dove nel 1549 risulta che già lavorasse presso Michelangelo. L’incontro non gli farà guadagnare fama di pittore bensì quella di scrittore, di un’unica opera, la biografia di Michelangelo. La prima edizione del 1553 (Roma, presso Antonio Blado) della Vita di Michelagnolo, scritta a stretto contatto con l’artista, divenne ben presto rara tanto più che poco tempo dopo furono edite le Vite del Vasari che contenevano la biografia dell’artista considerata più autorevole dai contemporanei. Questi elementi congiunti al perdurare della fama del grande maestro, concorsero alla riedizione del 1746. Sostenitore dell’iniziativa, anche se non fece in tempo a vederne la stampa, fu il Gabburri, già diplomatico presso il granduca Cosimo III, Accademico del Disegno, nonché collezionista e promotore di iniziative editoriali. La riedizione, dedicata al marchese fiorentino Andrea Gerini venne curata e introdotta da Anton Francesco Gori che fra l’altro ricorda come in tutta Firenze aveva potuto rinvenire un solo esemplare dell’edizione originale. Michelangelo era sopravvissuto di dieci anni alla pubblicazione del volume e questo suggerì l’aggiunta, nella nuova edizione, del Supplemento alla Vita, per mano di Girolamo Ticciati. A detto Supplemento fa seguito uno scritto di Pierre Mariette (che pure con difficoltà si era procurato una copia dell’originale) dal titolo Observations de M.r Pierre Mariette sur la Vie de Michel-Ange ecrite par le Condivi son disciple. In queste pagine che Gori ricevette per intercessione del Gabburri, l’autore ripercorre il testo del Condivi, apportandovi note, precisazioni e rettifiche. Fra l’altro, si può notare in questo contesto che il Mariette ricorda, come già il Condivi, che Michelangelo era stato avviato alla conoscenza e al gusto delle medaglie e delle pietre incise grazie a Lorenzo de’ Medici, che era solito mostrargli i tesori della sua collezione, e da cui l’artista ebbe impulso per formarsene una propria. Significativo al riguardo il cammeo in onice con la scena dell’ingresso nell’Arca, che reca scolpito il nome di Lorenzo e che fu in seguito venduta al Conte di Carlisle e la cui riproduzione è riportata a pagina ottanta della presente edizione. Il letterato Domenico Maria Manni e di seguito lo stesso Gori sono gli autori di alcune Annotazioni, e di Notizie storiche ed annotazioni, soprattutto sulla genealogia della famiglia Buonarroti, con un attenzione particolare alla figura e all’opera del Senatore Filippo. Sempre di mano del Gori è il Compendio delle cose più notabili tratte dalla Vita di Michelangelo Buonarroti scritta da M. Giorgio Vasari […] nell’edizione del 1563. Il volume contiene anche un Indice delle cose più notabili. L’edizione del 1746 viene citata dai principali repertori come Graesse, Moreni e Cicognara. Solo lo Schlosser ne parla più diffusamente, anche se esprime in proposito un giudizio sfavorevole ritenendo che il merito del Condivi fosse essenzialmente “aver messo la sua modesta individualità esclusivamente al servizio del grand’uomo, non avendo proprio niente di originale”. L.M. Bibliografia: MORENI 1805, p. 286; CICOGNARA 1821, I, p. 384; SCHLOSSER MAGNINO 19643, p. 360; PATRIZI 1982, pp. 753-756; GRAESSE 1859-1869, II, p. 247
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162 - Jean Baptiste Joseph Wicar (Lille, 1762-Roma, 1834) Tableaux, statues, bas-reliefs et camées de la Galerie de Florence, et du Palais Pitti, dessinèes par Wicar, peintre, et gravés sous la directions de C.L. Masquelier, ex pensionnaire de l’Académie de France a Rome, avec les explicationes par Mongrez, Membre de l’Institut de France, classe des Sciences et Arts, Tome Primier, a Paris, chez J. P. Aillaud, Libraireéditeur, Quai Voltaire, n°. 21 1789
in folio, mm 530 × 347; h costola mm 32; pp. 200, senza numerazione; 95 illustrazioni all’acquaforte
tav. LXXXVI: Ganimède, Junon, et Jupiter
acquaforte; mm 185 × 294 (alla lastra); mm 129 x157 (la composizione) Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, n.a. 112624
Volume in foglio rilegato in pelle rosso scura (bordeaux) con ornati a stampa dorati. Al centro della coperta uno stemma con una fenice e un poppante all’interno e il motto “HONI SOIT QUI MALY PENSE” inscritto sopra a una cintura che si chiude in basso con una fibbia. Nella costola “Galerie de Florence” e in basso “TOM./I” in caratteri stampati e dorati. Anche il taglio è dorato. In tutte le pagine, nella parte superiore del foglio è visibile una filigrana con l’iscrizione: “GALERIE DE FLORENCE”. Nessun timbro è invece presente. Tra le iscrizioni, all’interno della coperta, vergata con la matita nera “G 4446/31/4”. Nella prima pagina bianca a matita nera, in alto si legge: “4.vol/2.200”; più in basso: “112624 1/95”. Tra le pagine è anche presente un cartellino sciolto con una data: “15 DICEMBRE 1983. 214/4”. È questo l’anno e il giorno in cui il volume, insieme agli altri tre della serie, fu acquistato sul mercato antiquario (dalla Libreria d’arte Salimbeni di Firenze) e fece dapprima la sua entrata alla Biblioteca degli Uffizi e successivamente al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi per volere dell’allora direttore e curatore delle stampe Gianvittorio Dillon. I numeri di inventario dei quattro tomi vanno dal 112624 al 112627; le stampe all’interno sono numerate con lo stesso numero più un’estensione (ad esempio la presente è il n. inv. GDSU n.a. 112624.86). Il volume è parte dell’opera intitolata alle raccolte d’arte fiorentine e più strettamente medicee disegnata da Wicar e incisa da vari artisti, che fu dedicata da Monsieur Lacombe – probabile sostenitore dell’impresa – alla gloria di Pietro Leopoldo Giuseppe di Lorena, nuovo granduca fiorentino dal 1765. Oltre alle illustrazioni di cammei, di antichi intagli e delle sculture, è affiancata anche una significativa scelta dei dipinti delle collezioni medicee e granducali, sia della Galleria degli Uffizi che della Palatina. In questo volume, in particolare, sono ben cinquantatre le stampe da sculture e pitture delle raccolte medicee, ordinate per genere e scuole, che compaiono accanto ai cammei e agli intagli. Il criterio di tale abbinamento sulle pagine non è tuttavia esplicito, poiché apparentemente, esse non sono in alcun modo collegate tra loro, neppure dalla esplication a fianco. A giudicare dall’indice posto nelle prime pagine, sembra inoltre che i dipinti e le sculture abbiano una posizione di leggero privilegio rispetto alle gemme. La fonte d’ispirazione più vicina per questa pubblicazione può essere plausibilmente trovata nel libro intitolato Raccolta Di Quadri Dipinti Dai Piu’ Famosi Pennelli E Posseduti Da S.A.R. Pietro Leopoldo Arciduca D’austria Principe D’ungheria E Di Boemia E Gran Duca Di Toscana &C&C., una parte dei quali stanno esposti nel suo R. Palazzo e una altra nella sua R. Galleria di Firenze, Firenze MDCCLXXVIII. Questa celebre opera di riproduzione fu progettata ben dentro il XVII secolo e iniziata a Firenze sin dal 1695 nel regno di Cosimo III de’ Medici; venne tuttavia pubblicata solo nel 1778 da Francesco Allegrini, figlio di quel Giuseppe che aveva avuto l’incarico di portare a termine l’incisione dei rami e la
stampa di un gran numero di esemplari negli ultimi anni di reggenza di Anna Maria Luisa de’ Medici, tra il 1738 e il 1740 (cfr. anche per tutti i documenti d’archivio A. Baroni, in FIRENZE 2006b, pp. 343-344, n. 189). Iscrizioni: dal margine sinistro verso destra “Dessiné par J.B. Wicar. Gravé à l’eaus fort par Bertau et Terminé par Marais”. Al di sotto la stecca per indicare la dimensione originaria del cammeo, e sotto “camėe ANTIQUE”. La stampa è rovesciata rispetto alla gemma e anche alla stampa del Gori e al disegno preparatorio del Campiglia (cfr. Ganimede, Giunone e Giove con l’Aquila, Firenze, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, inv. F 5278; matita nera, su foglio di carta bianca ritagliato in forma ovale e incollato alla pagina di un album rilegato; h. massima ca 115 × l max 155. Linea di cornice ovale matita nera, diam. max 145 × 185). Possiamo dunque ipotizzare che Wicar abbia copiato le composizioni dalle stampe e non dai disegni. Per quanto riguarda i fogli preparatori di mano dello stesso Wicar, essi si conservano in gran parte nel museo Wicar di Lille (cfr. a questo proposito BENVIGNAT 1856, inv. 1740-1839; PLUCHART-HENRY 1889, pp. 386392, e ANSALDI 1936, p. 561, note 7 e 8). Nella explication di Mongrez alla tavola con il cammeo, si legge che la sardonica con Ganimede, Giunone e Giove con l’Aquila ha un valore inestimabile e tanto è rara e preziosa nell’intaglio che è difficile – ammette l’autore – poterlo esprimere attraverso la riproduzione a stampa. Ecco nuovamente l’ammissione dell’utilità ma anche del limite implicito della stampa come mezzo di riproduzione dell’originale piuttosto che come opera creativa indipendente. Mongrez critica l’interpretazione del soggetto fatta da Anton Francesco Gori, che vedeva nella gemma l’allusione ad una relazione amorosa tra Ganimede e Giunone sorpresi dall’arrivo di Giove, proponendo piuttosto la rappresentazione del momento in cui Ganimede, con le vesti tipiche del cacciatore, attività a cui era devoto nei boschi dell’Ida, viene rapito dall’aquila di Giove e giunge nell’Olimpo: questo giustficherebbe secondo Mongraz l’abbraccio materno, piuttosto, di Giunone che accoglie e consola il giovane dall’aria malinconica e sperduta. A.B. Bibliografia: DUFAY 1844; PLUCHART-HENRY 1889, pp. 386-392; QUARRÈ-REYBOURBON 1895, pp. 20-21; ANSALDI 1936, pp. 561-571; BEAUCAMP 1939, pp. 76-136; CARACCIOLO 2002, pp. 30-31; F. Mazzocca, in FIRENZE 1979b, pp. 399-436; C. Savettieri, in CARACCIOLO 2007, pp. 123-153
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163 - François-Anne David (Parigi, 1741-1824) Le Muséum de Florence, ou Collection des Pierres Gravées, Statues, Médailles et Peintures, Qui se trouvent à Florence, principalement dans le Cabinet du Grand-Duc de Toscane, Dessiné et gravé par F.A.David, Associé de l’Academie de Peinture de Berlin: Avec des explications Françaises par S. Maréchal. Pierres Antiques. Tome Huitième de l’ouvrage, et trente-quatrième de la collection de l’artiste, a Paris, chez l’Auteur, F.A.David, rue de Vaugirard, N. 1202, vis-à-vis l’Odéon, An. X 1802
in 4°, pp. 122; 87 illustrazioni all’acquaforte, più il frontespizio (non figurato)
tav. LXIX: Febo su quadriga
Commento e testo pp. 85-88: sol vre no tempore tebram fecundans Le Soleil du printemps. Incisione all’acquaforte; mm 240 × 150 (battuta); dimensioni dellla composizione in tondo: mm 100 ca; iscrizioni: sopra il lato della cornice superiore: “LXIX.”; sotto il margine inferiore “Tom. VIII” Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palat. C. 4.4.32
Il volume è in 4°; la legatura è in pelle marrone tinteggiata; 121 pagine e 87 illustrazioni a stampa, più il frontespizio. All’interno è il timbro della Biblioteca Nazionale di Firenze con la data 1872. Il volume è la continuazione dei sei volumi pubblicati a partire dal 1787 da François-Anne David, con il titolo: Le Muséum de Florence, ou Collection des Pierres Gravées, Statues, Médailles et Peintures, Qui se trouvent à Florence, principalement dans le Cabinet du Grand-Duc de Toscane, Dédié & présenté à Monsieur Frère du Roi, Gravé par M. David, Graveur de la Chambre & du Cabinet de Monsieur, Membre de l’Académie Royale des Beaux-Arts de Berlin, &tc. &tc. Avec des explications par M. Mulot, Docteur en Théologie de la Faculté de Paris Chanonie Régulier de l’Abbaye Royale de Saint-Victor, à Paris, chez M. David, rue des Cordeliers, au coin de celle de l’Observance, MDCCLXXXVII avec privilège du Roi. Come annunciato nella prefazione (p. II) il suo autore, François-Anne David, nel dedicare l’opera al fratello del Re Luigi XVI, offre in dono al nuovo principe e granduca fiorentino la descrizione delle antichità raccolte a Firenze dalla grande stirpe medicea quale sublime oggetto di godimento intellettuale riservato a pochi, eruditi conoscitori. L’autore cita chiaramente la fonte principale della sua opera, ossia i volumi del célèbre Anton Francesco Gori, pubblicati dal 1731 e interamente dedicati ai cammei e alle pietre intagliate della collezione dei Medici. Aggiunge inoltre il David nella prefazione che per meglio adattarsi alle esigenze del moderno conoscitore e costituire dunque un valido e pratico strumento di consultazione, l’opera è stata pubblicata in formato ridotto, rispetto al preziosissimo in-folio del Gori, e in francese, lingua “devenue universelle” e dunque comprensibile ad un pubblico molto più vasto. Riguardo alla fedeltà delle immagini a stampa, egli dice che le tavole sono state fedelmente ricopiate da quelle del Gori e dove l’occhio non arriva, le “explications” del gran maestro di lettere François Valentin Mulot (1749-1804) compensano e rettificano, talvolta quelle del Gori. Rispetto ai primi volumi della serie, pubblicati nel 1787, questi due tomi nel 1802 rappresentano un ampliamento ai primi due tomi che erano soprattutto dedicati ai Ritratti della raccolta medicea di glittica. Nel commento Mulot dice che il soggetto della pietra incisa, la fecondazione della terra in primavera rappresentata dall’allegoria del Sole, ossia Febo che scende con la quadriga sulla terra fertile, impersonata dalla figura femminile distesa in basso, rappresenta fedelmente il mito cui allude Virgilio
nel verso delle Georgiche, parzialmente trascritto nel testo e accompagnato anche dalla traduzione in francese di Labbé Delisle. Nell’intaglio, e dunque anche nella stampa che ne è copia fedele, compare anche il raggruppamento zodiacale dei segni che caratterizzano la primavera, ossia i segni del Toro, dei Gemelli e del Cancro. La direzione della composizione nell’incisione all’acquaforte è la stessa della gemma, e anche quella del disegno preparatorio del Campiglia e della stampa correlata inserita nella pubblicazione del Gori (vedi cat. n. 152); rispetto a quest’ultima, tuttavia, l’illustrazione del David risulta leggermente ridotta, come peraltro annunciato da lui stesso nel primo tomo edito nel 1787 a proposito dell’intero corredo di stampe della sua pubblicazione. Anche la parte decorativa ossia le cornici, pare alquanto semplificata rispetto alla pubblicazione del Gori. Nel commento Mulot rende noto che una gemma simile per soggetto, con piccole varianti, era conservata all’epoca anche nel “cabinet national des médailles” di Parigi e proveniva dalla città di Nizza nell’antica “Bithinye” dove era stata tagliata e dedicata all’imperatore Marco Aurelio. Mulot nota anche una certa dipendenza dalla celebre statua dell’Apollo Farnese che già all’epoca era stato trasportato al Museo del Louvre. A.B. Bibliografia: Biographie universeille 1821, pp. 401-403 (s.v. Mulot F.V.); PERENNES 1834, p. 62 (s.v. Mulot F.V.).
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164 - Doccia, direzione di Carlo Ginori Tazzina 1745-1750 porcellana bianca verniciata, h. cm 5,4, diam. cm 9 Collezione privata
Questa tazzina riporta una delle più rare e affascinanti decorazioni della manifattura di Doccia, definita a “doppia parete”, in cui si riscontra una parete interna decorata a stampino in blu di cobalto e una esterna traforata. Secondo gli inventari di fabbrica del 1757, le fasce esterne potevano esser di tre tipi: a reticolato con dei fogliami, come la caffettiera conservata al Museo Richard Ginori della Manifattura di Doccia, la tazza del British Museum di Londra e lo scaldino in raccolta Ginori Lisci (vedi rispettivamente LIVERANI 1967, tav. XXX; DAWSON 2009, p. 21 e MONTI 1988, n 7), oppure a reticolo a bassorilievo e a reticolo con cammei dei Cesari: a quest’ultima tipologia appartengono la tazzina suddetta e alcuni altri rari esemplari, fra cui una conservata al British Museum di Londra e un’altra, a campana, dei Musées Royaux des Beaux Arts di Bruxelles. Secondo il Ginori Lisci, questa tipologia decorativa venne introdotta intorno al 1748 (non è citata negli inventai redatti nel 1742 e nel 1743) e rimase in voga – a causa della sua fragilità e difficoltà – non oltre la fine del primo periodo (1757). Tali difficoltà vengono anche sottolineate dallo stesso Carlo Ginori, in uno scritto, presumibilmente del 1747, già riportata dal BIANCALANA (2009, p. 113) in cui il Senatore scrive “Quando fanno fare le chicchere doppie traforate badino che l’orlo sia più grande e proporzionato, perché non prendano buon garbo quelli che mi hanno mandato” (AGL, filza 137 I, c. 928). Per quanto riguarda la decorazione a cammei in porcellana, eseguita con la tecnica del bassorilievo in uso a Doccia almeno dal 1742, come si desume dagli inventari redatti in quell’anno (filza 37, II) sono registrati nell’inventario dei Modelli pubblicato da LANKHEIT (1982, I, 1, p. 99) ben quattro cassette di impronte “degli intagli della famosa collezione Stoschiana, corrispondente con i numeri al catalogo stampato di detta collezione” mentre nella sesta stanza sono conservati “medaglie… parte in piombi parte in in altro metallo..le prime sono i 12 Cesari, il restante sono diversi ritratti…” (p. 57, b, LANKHEIT 1982, pp. 147-148). L’artista che secondo i dati d’archivio venne incaricato di preparare le forme in gesso per formare a bassorilievo i cammei fu Anton Filippo Maria Weber, allievo di Massimiliano Soldani Benzi, al quale venne registrato un pagamento già nell’anno 1743 per le forme in
gesso di quarantasei medaglie e nell’anno 1749 per la fattura di cinquantasette ritrattini dei Cesari, a cui appartengono i cammei riportati sugli oggetti in catalogo. Risulta inoltre interessante una missiva indirizzata dal Cavalier de Baillou a Carlo Ginori il 23 marzo 1749 ,in cui scrive non ho mancato di pregare il Sig Barone Stosch affinchè egli si compiaccia di lasciar formar dal signor Webber le connote medaglie… ed egli mi ha promesso di farlo: Domani mattina egli sarà dal Stosch a fare le forme di buona parte delle note medaglie, e voglio sperare che continuerà il lavoro (AGL XII, 4, filza 15). Va rammentato che lo stesso Carlo Ginori ebbe sempre un notevole interesse per le gemme antiche, al punto da averne egli stesso una collezione. L’idea di trasportare le gemme su porcellana fu, come menzionato da Biancalana, appoggiata, oltre che dal Baillou, dal padre Papiani e da Joannon de St Laurent, personaggio di rilievo della cultura fiorentina dell’epoca e fra l’altro, Intendente dell’Amministrazione Patrimoniale del Ginori con particolare riguardo alla Fabbrica di Porcellane e Maioliche, alla quale collaborò promuovendo particolari attività, fra cui l’invenzione dei cammei in porcellana (BIANCALANA 2009, pp. 174-175). L’esistenza di altre tazze decorate in maniera simile, fra cui un esemplare al British Museum di Londra e un altro di forma conica ai Musées Royaux de Beaux Arts di Bruxelles, fa pensare all’esistenza di un servito da the e caffé con questa tipologia decorativa. A.d’A. Bibliografia: A. d’Agliano, in ROMA 1996, p. 72 n. 50
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165 - Manifattura Ginori a Doccia Tabacchiera
1750 ca porcellana, h. cm 3,5, lungh. cm 7,2, largh. cm 6 Sesto Fiorentino, Museo Richard Ginori della Manifattura di Doccia, inv. n. 6811
La tabacchiera presenta sul coperchio una cruenta scena di caccia con due orsi attaccati da alcuni cani e da un gruppo di cacciatori, realizzata con la tecnica del bassorilievo. Nella parte interna del coperchio stesso, invece, si trova una immagine, dipinta in monocromo viola, ed un’altra sotto la base, eseguita in rosso arancio; la prima, presumibilmente, rappresenta una allegoria di Marte e Venere, la seconda sta, forse, a significare la Virtù. Nel corpo, poi, vi sono dodici cammei che riproducono personaggi illustri antichi, tra i quali spiccano il filosofo Aristofane, il poeta tragico Euripide, il politico Focione ed il matematico Apollonio. La tabacchiera presenta una delle più tipiche tecniche produttive, il ‘bassorilievo istoriato’, cioè, ed anche una delle decorazioni, quella ‘a cammei’, che contraddistinguono la Manifattura dei marchesi Ginori. Se lascio gli approfondimenti della seconda nella scheda (cat. n. 169) relativa alla “Placca con cammei”, la prima ha creato nel recente passato, almeno fino alla pubblicazione degli studi del marchese GINORI LISCI (1963, p. 54) e di Arthur LANE (1963, p. 70), non poca confusione tra gli studiosi, che attribuivano alla Manifattura di Capodimonte tali oggetti, eseguiti, invece, quasi esclusivamente dalla Manifattura Ginori, salvo tarde repliche otto-novecentesche. Sedici placchette in bronzo, tutte tratte dalle Metamorfosi di Ovidio ed attribuite allo scultore Guglielmo della Porta (1500-1577), otto di forma ottagonale e otto di forma ovale, sono una importante fonte iconografica per queste realizzazioni in porcellana (si veda P. Cannata, in ROMA 1982, pp. 72-76, nn. 69-75). I modelli in piombo, oggi conservati presso il Museo Richard Ginori della
Manifattura di Doccia, potrebbero essere opera del medaglista Antonio Francesco Selvi (16791753), che si trova documentato a Doccia tra il 1745 ed il 1752, o, più probabilmente, dello scultore Anton Filippo Maria Weber (1699-1751), che collabora con la Manifattura Ginori dal 1743 al 1749; tra il 1744 ed il 1745, ad esempio, viene pagato per la fornitura di alcuni bassorilievi in metallo, tra i quali uno di “Bacco”, uno della “Cena degli dei”, uno di “Marsia scorticato da Apollo”, ed , infine, uno del “Bagno di Diana”. Ad eseguire le forme in gesso necessarie per ottenere le porcellane potrebbero essere stati in parte lo stesso Weber ed in parte il “gessaio” Girolamo Cristofani, attivo a Doccia nel 1744 e nel 1745, che riceve dalla Manifattura un compenso per l’esecuzione di “sedici bassorilievi piccoli” (BIANCALANA 2009, p. 69). Alcuni soggetti sono molto ricorrenti nella produzione della Manifattura di Doccia; rammento, tra questi, “Il Giudizio di Paride”. “Plutone che rapisce Proserpina”, “Il trionfo di Galatea”, “Sileno sull’asino”, “Il saettamento dei Niobidi”, “Il carro di Cerere”, “Ermafrodito e la ninfa Salmace”, “Liriope e Narciso”, “La caduta dei Giganti”, “Marsia scorticato da Apollo”, “Il trionfo di Bacco”, “Nettuno con cavalli marini”, “Fetonte sul carro del Sole”, “La caccia di Meleagro”, “Il banchetto degli dei”. I primi riferimenti al “bassorilievo istoriato”, impiegato per quasi tutto l’Ottocento, appaiono già nel 1743: nell’inventario del negozio Sarti a Firenze si trovano rammentati vari oggetti eseguiti con questa tecnica esecutiva: “chicchere”, caffettiere, teiere, tabacchiere, “gruccini da mazza”, zuccheriere e ciotole da brodo (Firenze, AGL, Fabbrica delle Porcellane di Doccia. Scritture e documenti, filza n. 37, fasc. n. 4).
Sono proprio questi oggetti ad essere il punto di contatto, il ponte ideale, tra la scultura in porcellana e gli oggetti di uso comune, ai quali questo materiale, contrariamente al pensiero di Carlo Ginori, pareva essere relegato. L’idea di realizzare tabacchiere con questa tipologia nasce in Carlo Ginori attorno al 1749, quando intrattiene una corrispondenza con il padre scolopio Alberto Papiani, educatore, fra l’altro, del figlio Lorenzo, con la richiesta di un approfondimento sulla “Serie de Re d’Egitto, degli Imperadori Romani, e delle Auguste, e quelli de Greci, e Latini Poeti, e Filosofi” (Firenze, AGL, Manifattura di Doccia. Documenti vari, filza n. 138, carta n. 513; si veda D’AGLIANO 1996, p. 48). Tale interesse porterà non solo alla realizzazione di quattro importanti tabacchiere, tutte giunte fino a noi, con le effigi di Alessandro il Macedone e dei successivi re di Egitto, un’altra con i ritratti degli imperatori romani da Cesare a Settimio Severo, una terza con gli imperatori da Nerva fino a Costantino il Grande ed una quarta con la rappresentazione di letterati e filosofi antichi, ma anche di numerose altre di analoga tipologia. Il pittore della Manifattura Ginori che viene citato il maggior numero di volte per la “pittura” del “bassorilievo istoriato” e di tabacchiere con “cammei” è Giuseppe Romei (1714-1785), attivo a Doccia tra il 1742 ed il 1752; difficile, però, tranne casi rarissimi, potergli assegnare oggetti specifici, in quanto i pagamenti a suo nome portano spesso solo indicazioni generiche (BIANCALANA 2007, p. 39). A.Bi. Bibliografia: GINORI LISCI 1963, p. 52, n. 28; MONTI 1988, p. 50, n. 11; O. Rucellai, in WASHINGTON-NEW YORK 2007, p. 33
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166 - Doccia, direzione di Carlo Ginori Tabacchiera
1749 porcellana policroma e dorata, h. cm 4, l. cm 7,5 Napoli, Museo Nazionale della Ceramica Duca di Martina, inv n. 1666
Questa tabacchiera decorata a bassorilievo istoriato, rappresenta figure diverse dipinte in policromia che si alternano a cammei. Sul coperchio corre la scritta “Imperia Ruit Edificat” entro cartiglio dorato sorretto da due putti e una figura di vecchio barbuto, anch’esso alato, rappresentante il Tempo. L’interno della tabacchiera è dipinto con una scena di battaglia in policromia su fondo verde e oro. Secondo i documenti dell’archivio Ginori Lisci, potrebbe esser possibile identificare la presente tabacchiera con una dipinta dal pittore Giuseppe Romei, com’egli certifica in una lettera di suo pugno scritta al marchese Carlo Ginori, già riportata da Alessandro BIANCALANA (2009, p. 135) “… I cammei rappresentanti Alessandro Magno e compagni è finita con averli fatti una battaglia dentro e poi nel fondo Alessandro e Diogine nella morte (AGL, Ginori Senatore Carlo, Lettere Diverse, 1748-1749, filza n. 14, XII, 4, c. 507). Dai documenti sappiamo che il Romei lavorò assiduamente alla decorazione di tabacchiere a bassorilievo e a cammei , e diversi furono i pagamenti registrati a suo nome, cominciando dal 1743 al 1749, anni in cui il pittore fiorentino ricevette pagamenti per la pittura di ben trentasette tabacchiere, di cui diverse a cammei (vedi BIANCALANA 2009, p. 135). Egli venne affiancato nella sua attività dal Monachina e da Angelo Fiaschi, sempre secondo quanto riportato negli archivi della manifattura, in cui viene citato “Le tabacchiere dei Cammei sono a dipingere al Romei e a Monachina, il Fiaschi copia gli smalti (BIANCALANA 2009 e AGL, Senatore Carlo, Lettere diverse, 1747-48, filza n. XIII, 3, c. 258). Sul coperchio di questa tabacchiera, secondo quanto scritto dal Papiani, vengono riportati i
cammei di Alessandro Magno, ricavato da un cammeo d’agata che si trova in Inghilterra, Seleuco da un cammeo di corniola del Conte di Wackerbath, Lisimaco in Niccolo nel Museo Mediceo e Cassandro, in agata del Baron Thoms (AGL, filza n. 138, pp. 516-518). Questo coperchio, dipinto all’interno con scena di battaglia, è identificabile con quello della prima della serie dei re d’Egitto dopo Alessandro Magno, ma – a nostro avviso – è probabile che sia stato montato su un altro corpo di tabacchiera, in quanto la suddetta non corrisponde alla descrizione fornita dal Papiani, che riporta altri cammei qui non presenti. A.d’A. Bibliografia: GINORI LISCI 1963, tav. XXIX
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167 - Doccia, direzione di Carlo Ginori Tabacchiera 1749 porcellana policroma e dorata, h. cm 4,2, b. cm 7,1 Collezione privata
Tabacchiera quadrangolare decorata all’esterno con teste di imperatori a bassorilievo in bianco su fondo nero, entro cornici color porpora e bande su cui sono iscritti in rosso i nomi degli imperatori rappresentati. All’interno del coperchio è dipinta in policromia entro una cartella polilobata e su fondo dorato, una figura di Cleopatra in atto di commetter suicidio. Montatura in argento dorato. Questa tabacchiera appartiene a una serie di quattro proposta a Carlo Ginori dall’abate scolopio Alberto Papiani, il quale in una serie di lettere scritte fra il 1748 e il 1749 riportate dall’archivio Ginori Lisci esemplifica la riproduzione dei suddetti cammei su quattro tabacchiere che ripropongano la “serie e successione dei re d’Egitto dopo Alessandro magno e degli Imperatori Romani dopo Giulio Cesare fino a Costantino il Grande, raccolte da Cammei e Medaglie de’ principali Gabinetti d’Europa fatta riportare sopra tabacchiere di porcellana, coll’aggiunta delle femmine dei primi dodici Cesari e di alcuni dei primi accreditati sapienti degl’antichi tempi” (AGL, filza 138, foglio 510). L’intenzione del Papiani ben si connetteva con l’interesse antiquario di Carlo Ginori, e illuminante risulta un passaggio della lettera a lui indirizzata dall’Abate, il quale scrive “non paga ella ch un tanto tesoro restasse occulto appresso di sé … ha inventato V.E la nuova arte di fare ne sottili capolavori di porcellana riportare le bellissime impronte di que’ Camei , prchè così il mondo abbia unite alle finezze ed à’ lavori dell’arte le cognizioni ancora dell’istoria” (AGL, filza n 138, foglio 512). L’esecuzione delle quattro tabacchiere avvenne poco dopo l’invio della suddetta lettera e, secondo quanto documentato, esse vennero dipinte dal pittore Giuseppe Romei, a cui fin dal novembre 1747 furono pagate “tabacchiere dipinte a cammei”. In particolare, potrebbe esser possibile identificare le quattro volute da Papiani con la serie di quattro tabacchiere a bassorilievo” che furono pagate al pittore il 16 novembre 1749 (AGL, Libro Contabile 213, 1748-1749). La presente tabacchiera può esser identificata con la seconda proposta dal Papiani, in cui vengono elencati gli imperatori romani e le loro consorti. Nella lettera, che funge da spiegazione, vengono non solo illustrati i personaggi ma anche i cammei da dove vengono desunti, con una spiegazione storica e scientifica dei cammei stessi.
In particolare vengono rappresentati, secondo il Papiani
Caio Giulio Cesare, dal Gabinetto Medinia di Livorno, Augusto, Cammeo in Ametista nel Gabinetto del Re di Napoli, Tiberio, Cammeo in Calcedonio di Mr Eduard Walpole, Caio Caligola, Cammeo in corniola di Mr Walpole,Claudio, Claudio, Cammeo in diaspro verde nel Gabinetto del Re di Napoli, Nerone, Cammeo in Granato nel Museo Mediceo, Galba, cammeo in corniola di Mr Savin a Parigi Ottone, cammeo in Sardonica nel Gabinetto del Marchese Capponi a Firenze Vitellio, Cammeo in Corniola nel Gabinetto Medina a Livorno Vepasiano, Cammeo in Corniola del Gabinetto del Granduca Tito Cammeo in Corniola nel Gabinetto del Re di Napoli Domiziano, Cammeo in ametista del principe Strozzi a Roma” A questi si aggiungono la serie delle “Femmine degl’Augusti”, e precisamente: Cleopatra coll’Aspide, Cammeo in Ametista nel Gabinetto Medina di Livorno Livia con Augusto, cammeo in corniola del cardinal Ottoboni Livia, cammeo in calcedonia nel Museo Mediceo Agrippina, Cammeo in Onice nel Museo Medievale Antonia Minore, Cammeo in Corniola nel Gabinetto del Marchese Capponi a Roma Giulia, Cammeo in Corniola del principe Strozzi a Roma Agrippina, Cammeo in Sardonica del Principe Strozzi a Roma Poppea, Cammeo in Corniola di Mylord Carslisle Ottavia Cammeo in Calcedonia nel Gabinetto Medina a Livorno Giulia, figlia di Tito, Cammeo in Corniola nel Gabinetto del Re di Francia Domizia, Cammeo in Corniola del Conte di War Kerbach Marciana Cammeo in ametista nel Gabinetto del Re di Napoli (AGL, filza 138,
pp. 518-533). L’interno della tabacchiera riporta una figura di Cleopatra morente, la cui iconografia ricorda l’opera del Guercino “Cleopatra morente”, (1648) conservato a Genova a Palazzo Rosso. L’utilizzo di fonti guerciniane per tabacchiere non era inusuale alla manifattura di Doccia (vedi A. d’Agliano, in ROMA 1996, p. 5). A.d’A.
Bibliografia: A. d’Agliano, in ROMA 1996, pp. 48-49
Gli ultimi Medici. La collezione di gemme nel XVIII secolo
168 - Doccia, direzione di Carlo Ginori Tabacchiera 1748-1750 ca porcellana policroma e dorata, h. cm 6, l. cm 8,8 Collezione privata
Questa tabacchiera, montata in argento dorato, è decorata sui lati con cammei a bassorilievo su fondo nero e contornata da volute rosse e porpora. La parte superiore del coperchio, con decorazione a rilievo in rosso e violetto, imita la forma di una conchiglia, mentre l’interno è dipinto con un ritratto di due personaggi, femminile e maschile, dipinti in blu di cobalto con la cosiddetta tecnica del riporto. La base, lasciata bianca e a rilievo, riprende anch’essa una conchiglia. Le montature sono in argento dorato La decorazione a riporto, che consiste nel trasferire su porcellana non smaltata una decorazione precedentemente incisa su rame,venne introdotta alla manifattura Ginori durante il primo periodo, anche se non è possibile determinare esattamente la data della prima esecuzione: negli inventari del 1757 si menzionano oggetti stampati in blu ed è possibile che si riferiscano alla tecnica suddetta, utilizzata in manifattura probabilmente nel periodo fra il 1747 e il 1757, anno in cui, dopo la morte del fondatore Carlo Ginori, vennero redatti gli inventari. Sembra quindi che questo procedimento sia stato introdotto a Doccia ancor prima che in Inghilterra, dove – secondo la storiografia tradizionale – sarebbe stato attuato per la prima volta su porcellana nella manifattura di Worcester grazie a Robert Hancock nel 1756. La dimensione particolarmente grande di questa tabacchiera consente di includerla fra quelle definite dagli archivi come “stragrandi”: nell’inventario delle porcellane Ginori in vendita nel negozio di Livorno viene riportata “una tabacchiera stragrande a cammei” (AGL, filza 37). I cammei riportati sulla tabacchiera rappresentano Nerva, Traiano, Adriano, Commodo, Marco Aurelio, Antonino Pio, Pertinace, Giuliano, Pescennio, Albino, Severo e Caracalla e corrispondono alla serie degli imperatori romani dopo Giulio Cesare, già riportati sulla cosiddetta “Terza Tabacchiera, seguito della serie degi Imperatori da Augusto a Costantino” e sulla placca in collezione privata (cat. n. 170). Rispetto a questa, si aggiungono i cammei di Albino, cammeo in calcedonio di Mr Savin a Parigi, Settimio Severo, cammeo in ametista nel Gabinetto del Re di Napoli e Caracalla, non identificato. A.d’A. Bibliografia: BIANCALANA 2009, p. 171; LUCCA 2001, p. 246, n. 184; BONDI 1971, tav. XIV fig. a
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169 - Manifattura Ginori a Doccia Placca con cammei 1750 ca porcellana, lungh. cm 14,5, largh. cm 10 Collezione privata
Placca di forma ovale con alla sommità un fiore stilizzato e terminante in basso con un mascherone ferino; su di un elaborato fondo dipinto in verde mela con numerose dorature si trovano dodici medaglioni con le effigi di antichi uomini illustri. Nastri svolazzanti bianchi attraversano la placca e vengono utilizzati per scrivere i nomi dei personaggi in corrispondenza dei medaglioni. Questa tipologia, che presenta la decorazione con cammei, già per altro utilizzata dalla Manifattura viennese di porcellane di Claudius Innocentius du Paquier, trae spunto dalla glittica, l’arte, cioè, di incidere “in incavo” pietre preziose e gemme, che deriva anch’essa dall’antichità e risulta essere una importante fonte per la Fabbrica di Doccia negli anni del marchese Carlo Ginori. Non solo molti esponenti della famiglia Medici erano stati colti e raffinati collezionisti di “gemme”, ma numerosi nobili ed eruditi fiorentini ed anche lo stesso Carlo Ginori ne avevano un grande interesse (FILETI MAZZA 2004); il Ginori, dunque, già nel novembre 1741 ne possedeva una raccolta, conservata nel Museo della Fabbrica di porcellane e maioliche, come riferisce, descrivendo una sua visita a Doccia, il medico e naturalista Antonio Cocchi (1695-1758). Carlo Ginori nel 1749 chiede al padre scolopio Alberto Papiani (uso questa grafia e non quella “Papiani”, riprendendola dalla firma presente sui documenti dell’Archivio Ginori Lisci) un approfondimento sulla “Serie de Re d’Egitto, degli Imperadori Romani, e delle Auguste, e quelli de Greci, e Latini Poeti, e Filosofi” (Firenze, AGL, Manifattura di Doccia. Documenti vari, filza n. 138, c. 513); questo consente di affermare che non è il Pappiani, al quale Carlo Ginori, di fatto, chiede solo un approfondimento ed una consulenza, bensì il lorenese Joannon de saint Laurent, che Carlo Ginori aveva chiamato tra i suoi collaboratori, a far nascere, o sviluppare, nel marchese Carlo l’idea di un uso di questa arte anche per la porcellana. Il lorenese, infatti, proprietario egli stesso di una importante collezione, si cimenta in due scritti nel 1747, prima, e nel 1751, poi, dove affronta, tra le altre cose, alcuni problemi tecnici sulle così dette “pietre”. Il saint Laurent, tra l‘altro, pare essere stato il fautore a Doccia dell’introduzione di un nuovo metodo per la realizzazione dei cammei in porcellana (in proposito BENINI 1989). È proprio uno dei più insigni eruditi nel campo della glittica, Giuseppe Pelli Bencivenni (1729-1808), ad interessarsi a questo metodo, trattandone nei suoi scritti; il 19 settembre 1759, riferendosi al saint Laurent, dice: “Di presente fa ricavare tutte le pietre del Museo Stoschiano e spera che tali cammei non debbano costare più di un giulio l’uno, prezzo che si fa pagare in Roma per uno zolfo di una gemma. Perché la vernice non venga a guastare i più delicati delineamenti delle figure, ha pensato a non la dare a questi cammei , e di tingere il fondo di nero per imitare il niccolo. … Il detto signore è un uomo che accoppia ad una somma abilità, … una onestà senza pari” (BNCF, N.A. 1050, Manoscritti Cocchi, Efemeridi, I, c. 116 e sgg.). Anche della nota collezione di “pietre” del barone Phillipp von Stosch (1691-1757) si trova un ampio cenno tra i modelli della Fabbrica “nella Stanza Prima”: “N. 4 Cassette entrovi la Serie dell’impronte degli Intagli della famosa Collezione Stoschiana, corrispondente con i numeri al Catalogo Stampato della detta Collezione” (Firenze, AGL, Fabbrica delle Porcellane di Doccia. Scritture e documenti, filza n. 37, fascicolo n. 22 bis).
Di questa si parla a Doccia ancora nel 1802 quando un certo Franco Lici, in qualità di “Custode del Museo”, ne richiede un nuovo inventario “per aggiungervi tutto quel di più che oggi si ritrova; come pure il Catalogo Stampato dei Cammei del Barone Sthoke di cui abbiamo l’intera collezione in detto Museo” (Firenze, AGL, Doccia documenti vari. 18021837, filza n. 1, XV, 2, carta n. 78). Franco Lici, rammentato nel 1802 con la qualifica di “Custode del Museo” della Fabbrica di Doccia, ma, precedentemente come “fabbricante di forme”, potrebbe anche essere identificato con uno dei più importanti formatori della Manifattura Ginori, quel Francesco Lici, detto Squarcione, che il marchese Carlo Ginori tra la fine del 1752 e l’agosto del 1754 invia a Roma per eseguire calchi e forme di importanti statue classiche (J. Winter, in VIENNA 2005, p. 180). Si riscontra anche un riferimento documentale a questa tipologia di placche nell’elenco delle porcellane presenti a Doccia nel 1757 alla morte di Carlo Ginori, quando si riportano “19. Piccoli Bassirilievi con camei. Pezzi dipinti a £. 2” (Firenze, AGL, Fabbrica delle Porcellane di Doccia. Scritture e documenti, filza n. 37, Fascicolo n. 6). È lo scultore Anton Filippo Maria Weber (1699-1751) a fornire le cere di cinquantasette ritrattini dei Cesari ed il 16 novembre 1749 si registra il pagamento allo stesso Weber “per saldo di un conto di diversi modelli di cera per formare Tabacchiere, Ornamenti con cammei” (Firenze, AGL, Libri di Amministrazione n. 216. Quaderno di spese quotidiane 17491754 di Carlo Andrea Ginori, carta n. 200), in relazione ad una ricevuta “per un modello e due forme d’un ornamento che deve servire per adattarvi 10 testine dei Cesari”. Ad ulteriore dimostrazione dell’importanza di questa tipologia a Doccia, anche il capo modellatore della Fabbrica, lo scultore Gaspero Bruschi (1710-1780) è parte attiva nell’esecuzione dei “cammei”, in quanto in data 21 aprile 1751 Carlo Ginori, scrivendo al collaboratore Jacopo Fanciullacci (capo fornaciaio, poi “arcanista” ed infine “Ministro” della Fabbrica di Doccia; 1705 – 1793), dice: “ ... In una scatoletta troverete alcune forme tra le quali certe di un Cammeo, datile all’Orlandini perché lo faccia con il fondo di Blù, le teste bianche, e il Moglione Blù col solito orletto bianco, come fece all’ultimo Cammeo, e fatto che l’avrà il Signor Bruschi Le potrà un poco rivedere colla stecca avanti di metterle in fornace, e dopo il Poggetti spianerà, e lustrerà il fondo di sotto, come fece ai Cammei, ma procurino che venga giusto l’ovato” (Firenze, AGL, Manifattura di Doccia. Documenti vari, filza n. 137, I, carta n. 718r-v). Alcuni esempi importanti sono giunti fino ad oggi: rammento in primo luogo il vaso del Museo di Capodimonte di Napoli, unico conosciuto di due coppie, con le medaglie raffiguranti le Duchesse di Lorena, eseguito dal Bruschi tra il mese di ottobre e quello di novembre 1747, nonché la famosa “Macchina”, pensata dal senatore Carlo almeno a partire dal 1750 e predisposta per l’Accademia Etrusca di Cortona, dove fin da allora è custodita. Ricordo ancora l’interessante placchetta con i cammei dei Cesari del Victoria and Albert Museum di Londra, le due, sempre con il ritratto dei Cesari, del Castello Sforzesco di Milano ed alcune altre in collezioni private, come quella che qui viene presentata (MELEGATI 1999, p. 78). A.Bi. Bibliografia: BIANCALANA 2009, p. 112
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170 - Doccia, direzione di Carlo Ginori Placca con cammei dei Cesari
1748-1750 ca porcellana, decoro a smalti policromi e dorature su fondo bianco, h. cm 14,7, l. cm 10,4 marca: sul retro, un Omega inciso nella pasta Collezione Francesco Sensi Ginnasi
La placca è decorata con una serie di dieci cammei a bassorilievo su fondo bianco lumeggiato in oro e con decorazioni a rilievo in oro e porpora. La parte inferiore è decorata con un pipistrello nero ad ali spiegate mentre la parte superiore termina con un pennacchio a volute porpora e oro. L’invenzione di questo tipo di oggetti è strettamente legata all’interesse per la glittica e per la realizzazione dei cammei a bassorilievo che alla manifattura di Doccia viene solitamente legata alla collaborazione di tre personaggi: l’abate Alberto Papiani, lo scultore Anton Filippo Maria Weber e il pittore Giuseppe Romei. In particolare, i documenti che attestano la preparazione dei cammei sono le lettere dell’abate Papiani, precettore, fra l’altro di Lorenzo Ginori, figlio di Carlo e i pagamenti ad Anton Filippo Weber, che permettono di datare l’esecuzione sia delle placche che delle tabacchiere nel periodo fra il 1748 e il 1749. In particolare, Papiani scrive in una lettera del gennaio 1749 “Sono giunto al compimento del mio lavoro per quello che riguarda ognuna di quelle serie che VS mi lasciò prima sua partenza per Livorno… e questa mattina alla signora Marchesa ho consegnato i fogli copiati… se incontreranno il suo genio potrò proseguire la serie degli Imperatori fino a Costantino, e così aggiungere alla serie degli Uomini Illustri ciò che manca per rapporto a Poeti Latini rappresentati in altra serie di Cammei che non presi meco quando partii da Doccia” (AGL XV, 1748, n 593). Una ricevuta di pagamento del 29.9.1749, già riportata dal GINORI LISCI (1963, p. 140, n. XXVIII) e dal LANKHEIT (1982, p. 148) testimonia il pagamento ad Anton Filippo Maria Weber per “un modello e due forme d’un ornamento che deve servire per adattarvi due testine dei Cesari”, identificabile con il modello preparatorio per la placca suddetta, in cui sono rappresentati i seguenti imperatori: Nerva, Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Commodo, Pertinace, Giuliano, Pescennio e nell’ultimo cammeo, Traiano con Plotina, Marciana e Matidia, rispettivamente moglie, nipote e sorella, corrispondenti ai cammei riportati sulla terza tabacchiera degli Imperatori. Secondo quanto scrive Papiani, Nerva sarebbe tratto da “cammeo in corniola nel Gabinetto del Re di Francia, Traiano da Cammeo in Corniola
di Mr Walpole in Inghilterra, Adrianoda cammeo in calcedonia del Principe di Waldeck, Antonio Pio cammeo in ametista del Re di Napoli, Marco Aurelio Cammeo in Corniola nel Museo Mediceo, Commodo cammeo in ametista del Marchese Capponi, Pertinace cammeo in corniola del Contestabile Colonna in Roma, Giuliano in Paragone di Francia di Mr Walpole in Inghilterra, Pescennio Cammeo in Niccolo di Miord Carsllsle”. Il cammeo posto al fondo della placca, rappresentante Traiano, Plotina, Marciana e Matidia, rispettivamente moglie,sorella di Traiano e moglie di Adriano, derivae da un cammeo in “niccolo del Re di Napoli” (AGL, filza 138, cc. 534- 538).
Una placca identica a questa, decorata con la stessa serie di cammei, è conservata a Londra al Victoria and Albert Museum (vedi GINORI LISCI 1963, tav. XXVIII). A.d’A. Inedito
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171 - Doccia, direzione Carlo Leopoldo Ginori Lisci Due vasi
1820 ca porcellana dipinta e dorata, alt. cm 35 marca: F incusso Firenze, Villa Medicea della Petraia, inv. Mobili Petraia 1911, nn. 712-713
Questi due vasi con manici a forma di sfingi, piede e collo interamente dorati, presentano una decorazione che fu in uso a Doccia nel primo quarto dell’Ottocento, con immagini da incisioni dipinte in color seppia. Le decorazioni in grisaille, rappresentanti dei cammei, sono in parte tratte dall’opera Memorie degli Antichi Incisori che scolpirono i loro nomi in gemme e cammei, pubblicato a Firenze nel 1784 da Domenico Augusto Bracci (Firenze 1717-1795). L’autore della pubblicazione, vissuto soprattutto a Roma, si occupò principalmente di antiquariato, vantandosi di superare il Winkelmann nel riconoscere le gemme antiche da quelle false. Come spesso accade per le decorazioni su porcellana, sulla parte centrale del vaso, lasciata bianca, viene dipinto solo l’intaglio e non l’intero cammeo. In particolare, sul vaso n 712 viene rappresentata Venere scherzante, derivata da un cammeo di Aulo, probabilmente opera del V secolo a.C., conservata al British Museum di Londra (vedi FURTWÄNGLER 1900, tav. XLIX; LIPPOLD 1922, tav. XXIV). Il cammeo è illustrato dal Bracci nel libro I, tav. XXXI ed egli riporta la descrizione del commendator Francesco Vettori, derivandola dalla sua Dissertatio Gliptographica. Sull’altro lato del vaso sono viceversa rappresentati Minerva e Apollo, derivati da un’opera non identificata. Il vaso n 713 è decorato da un lato con un’illustrazione desunta dall’opera del Bracci, raffigurante un cammeo dell’incisore Alexandros Amor Leonem Domans, all’epoca al Museo del Conte di Carlisle a Londra (BRACCI 1784-1786, I, 1784, tav. IX). Secondo Mariarita Casarosa il cammeo cinquecentesco originale, firmato Alexandros, si trova ancora oggi in collezione privata inglese ed è opera di Alessandro Cesati detto il Greco da Vasari (vedi FIRENZE 1997a, p. 68). Il GASPARRI (1994, p. 169, n. 159, figg. 11, 31) riproduce un intaglio in corniola con questo sogggetto, pensando che possa esser l’originale mentre secondo la Casarosa trattasi di opera settecentesca, copia ad intaglio del cammeo rinascimentale, attribuibile all’incisore Felice Bernabé (Ibid.). Sull’altro lato del vaso è viceversa dipinto un cammeo raffigurante Bacco ed Arianna, conservato al Museo Archeologico di Firenze e proveniente dalla collezione granducale (BRACCI 1784-1786, I, 1784, tav. VI).
Il cammeo venne riportato anche dallo STOSCH (1724, p. 28) e dal GORI (1731-1732, I, p. 19). Può esser interessante notare che la manifattura di porcellana di Berlino, Koenigliche Porzellan Manufaktur, ebbe in un periodo coevo fonti grafiche simili a quelle della manifattura Ginori: l’intaglio di questo cammeo, rappresentante Bacco ed Arianna, è dipinto su un piatto della manifattura tedesca, databile agli inizi del XIX secolo (vedi BAER 1979, pp. 265-267) Questi due vasi riportano la marca della F impressa, che indica un particolare tipo di porcellana, definita “porcellana all’uso di Francia” utilizzata a Doccia dopo il 1803 e fabbricata
con il caolino proveniente da Limoges (GINORI LISCI 1963, p. 98). I due vasi, oggi alla Villa della Petraia, si trovavano nel 1834 nella Villa di Marlia (Invenario dei Mobili della Villa di Marlia 1834, p. 224). È probabile che siano stati commissionati direttamente dai Borbone Parma per il riarredo delle loro residenze per poi esser trasferiti alla Petraia in epoca postunitaria. A.d’A. Bibliografia: A. d’Agliano, in LUCCA 2001, nn 138-138a; A. d’Agliano, in FIRENZE 1997a, nn. 18-19; D’AGLIANO 1986, n. 78; A. d’Agliano, in FIRENZE, n. 62
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172 - Angelica Kauffmann (Coira, 1741-Roma, 1807) Autoritratto
1787 olio su tela, cm 128 × 93,5 Firenze, Galleria degli Uffizi, Corridoio Vasariano, inv. 1890, n. 1928
Nel giugno del 1788, quando il Direttore della Real Galleria Giuseppe Pelli Bencivenni accolse il dipinto qui esposto per la prestigiosa collezione di Autoritratti degli Uffizi, la Galleria già annoverava tra le proprie opere un Autoritratto giovanile di Angelica Kauffmann, dono di Cosimo Siries, amico della pittrice al quale la stessa l’aveva lasciato nel 1763, poco prima di abbandonare Firenze. Se Siries mostrò grande entusiasmo nei confronti del dipinto che espose anche in occasione della mostra tenutasi nel 1767 presso il Chiostro della Santissima Annunziata, la Kauffmann non si dichiarò altrettanto soddisfatta del piccolo Autoritratto giovanile decidendo così di realizzarne uno “meno indegno della compagnia di tanti valenti Pittori, e meno indegno di me”, come afferma in una lettera del 4 giugno 1788 ad accompagnamento dell’Autoritratto qui esposto. L’immagine che Angelica volle dare di sé e che ideò appositamente per la collezione degli Uffizi è dunque quella dipinta su questa seconda tela, nella quale si ritrae a figura quasi intera, seduta sotto un loggiato che lascia spazio ad un paesaggio illuminato da una luce soffusa. I capelli, parzialmente raccolti da un velo, sfuggono all’acconciatura ricadendo morbidamente sulle spalle lasciate scoperte dall’abito bianco con inconsapevole sensualità. La purezza delle vesti, l’accennato sorriso ed il dolce gesto di volgere il capo verso destra come a sottrarsi allo sguardo dell’osservatore, sembrano svelare la delicatezza e la modestia propria di “quell’anima sensibile di Angelica”, come la definì Goethe nel 1787 (J. Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia, 15 febbraio 1787, Milano 1991, p. 172). Lo sguardo deciso e vivace della pittrice ritratta sulla tela donata a Siries lascia qui il posto ad un’espressione lievemente malinconica, propria di una maturità non solo anagrafica ma anche artistica, evidente nell’impianto del dipinto e nel sapore tutto neoclassico del ritratto che abbandona quella rigidità presente nella tela giovanile mettendo in evidenza la capacità di Angelica di “aggiungere eleganza ai ritratti, fregiandoli del velo della favola, della storia e dell’allegoria” (DE ROSSI 1810, pp. 66-67). Se nel primo Autoritratto la Kauffmann si ritraeva munita di tavolozza e pennelli, in questa occasione sceglie, quali simboli della propria
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arte, la cartella dei disegni ed il matitatoio, alludendo alla pratica del disegno, fondamento della pittura, alla quale la pittrice si dedicò ancora bambina. È Giovanni Gherardo De Rossi, biografo dell’artista, ad informarci del precoce interesse di Angelica per il disegno: posta davanti ad un libro che le insegnasse le lettere dell’alfabeto, si mostrò infatti molto più interessata alle illustrazioni che ornavano le pagine che ai simboli grafici stessi. Fu così che il padre, anch’egli pittore, la invitò a studiare una raccolta di stampe “dei migliori maestri di tutte le scuole” dalla quale Angelica apprese i primi principi della pittura con tale immediatezza da passare all’esecuzione dei primi ritratti in pastello già all’età di nove anni. La candida veste che la avvolge, simile ad un chitone, è impreziosita da una cintura ornata da gemme antiche; spicca tra queste il pregevole cammeo con Athena e Poseidon in gara per il possesso dell’Attica, presente fin dal 1465 tra i beni di Piero di Cosimo de’ Medici (cat. n. 7). La pietra, entrata a far parte della collezione Farnese con le nozze tra Margherita d’Austria e Ottavio, nel 1538, era passata in eredità a Carlo di Borbone, nipote quindicenne del duca Antonio ed erede dei suoi beni che con lui presero la via di Napoli nel 1736. Il legame della Kauffmann con la suddetta città, nella quale “la fama dei meriti di Angelica era ben grande” (DE ROSSI 1810, p. 57) e la stima che si guadagnò presso i sovrani trova conferma nel celebre Ritratto di Maria Carolina d’Asburgo-Lorena, che si unì in matrimonio con Ferdinando IV, successore di Carlo e futuro re delle Due Sicilie. È dunque e giustifica la scelta del cammeo, oggi in mostra, da parte della pittrice. Nel 1787, anno nel quale si ritrae in questo dipinto, la Kauffmann ha quarantasei anni, da sei vive stabilmente a Roma con il marito, il pittore veneziano Antonio Zucchi. Il suo salotto è divenuto uno tra i più frequentati da eruditi ed artisti residenti o di passaggio nella città, la sua fama di ritrattista è internazionale, come la sua cultura e la sua vivacità intellettuale. Il suo studio è meta imprescindibile per i Grand Touristes che non rinunciano ad un suo ritratto prima di prendere la via del ritorno. Ma nonostante la gloria ed il successo, lo stesso anno in cui la Kauffmann si ritrae su questa tela, Goethe, legato alla pittrice da un’amicizia sincera, ce la descrive inquieta ed oppressa dalle nume-
rose commissioni; scrive infatti: “Domenica sono stato con la nostra ottima Angelica […]. Ella non è felice quanto meriterebbe, dato il suo grande talento e con quel patrimonio che s’accresce di giorno in giorno. È stanca di dipingere per commissione […]. Ella amerebbe di lavorare a piacer suo, con più agio e maggiore studio e preparazione; e potrebbe anche” (J. Wolfgang Goethe, Viaggio in Italia,18 agosto 1787, Milano 1991, p. 408). I troppi incarichi ai quali la Kauffmann non riusciva a sottrarsi furono anche causa della lunga attesa dell’Autoritratto da parte della Real Galleria che attendeva il dipinto già dal 1782. È la stessa Angelica a motivare tale ritardo asserendo che “l’impegno prima di molte opere già contratto, poi i viaggi che intrapresi, mi obbligarono a differire, mio malgrado, di por mano al lavoro” (ASF, XXI, 1788, 16; Natali 1990) Pochi mesi prima dell’arrivo a Firenze del dipinto della Kauffmann, aveva fatto il suo ingresso nella collezione degli Uffizi anche un altro Autoritratto, quello di Pompeo Batoni, artista che Angelica aveva avuto modo di conoscere in occasione dei suoi primi soggiorni romani e che rappresentò per la sua pittura fonte di grande ispirazione soprattutto nella sua attività di ritrattista. Se l’arte dei due pittori aveva già trovato a Firenze occasione di confronto durante la mostra del 1767 al Chiostro della Santissima Annunziata dove erano stati esposti l’Autoritratto giovanile della Kauffmann, per volere di Cosimo Siries, e le tele del pittore lucchese rappresentanti Ercole al bivio e Ulisse che abbandona Calipso, prestati dal Marchese Gerini, e l’Allegoria delle Arti e la Vergine con Bambino della collezione Riccardi, uno strano destino fece sì che, nel 1787, i due artisti, acclamati a Roma per aver celebrato con i propri richiestissimi ritratti, nobili, intellettuali e sovrani, entrassero a far parte della collezione degli Uffizi donandoci e rendendo immortale un’immagine di loro stessi. M.Be. Bibliografia: M. Webmester, in FIRENZE 1971b, pp. 58-59, n. 58; M. Chiarini, in Gli Uffizi 1979, p. 904, n. A480; A. Natali, in NEW YORK-HOUSTON, n. 26; A. Natali, ROMA-FIRENZE 1990, n. 30; A. Di Croce, in MILANO 2003b, p. 304, n. I.113; M. Scalini, in PECHINO 2006, p. 324, n. 78
Fig. 1 - Arte romana (?), Athena e Poseidon in gara per il possesso dell’Attica. Napoli, Museo Archeologico Nazionale (cat. n. 7)
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173 - Ambito fiorentino Tommaso Puccini
1815 ca olio su tela, cm 60 × 45 iscrizioni: (in basso) “THOMAS PUCCINIUS PRAEFECTUS FLOR” Firenze, Galleria degli Uffizi, inv. 1890, n. 314
MUSEI
Il dipinto, entrato in Galleria il 17 novembre 1813, è un dono del direttore degli Uffizi Giovanni Degli Alessandri. Il primo gennaio 1793 Tommaso Puccini (17491811) veniva nominato nuovo direttore delle Gallerie fiorentine: una scelta, quella di Ferdinando III, di discontinuità con le passate gestioni, un chiaro segnale della volontà di aggiornare l’orizzonte culturale fiorentino a quello romano, più cosmopolita e vitale. Agli occhi del Granduca la figura di Puccini appariva come l’immagine ideale per attuare una tale esigenza programmatica: pistoiese di origine, dopo alcuni anni passati a Pisa per compiere gli studi di giurisprudenza, nel 1774 si era trasferito a Roma dove si dimostrò ben presto fine cultore di letteratura latina e attento studioso di antiquaria, dando prova delle sue competenze in numerosi articoli apparsi su “Antologia Romana” e le “Effemeridi Letterarie”. La ventennale esperienza nella città papale fu però per Puccini soprattutto l’occasione per intrecciare una fittissima rete di rapporti con i maggiori eruditi dell’epoca: l’assidua frequentazione dei rinomati salotti di Maria Pizzelli e di Sigismondo Chigi, la sua costante presenza in casa Borghese o semplicemente le animate discussioni al Caffè degli Inglesi, lo misero in stretto contatto con artisti del calibro di Raphael Mengs, Pompeo Batoni, Angelica Kauffman, Gavin Hamilton o Antonio Canova e con personaggi che negli anni successivi avrebbero rappresentato i pilastri della moderna storiografia artistica e della gestione del patrimonio pubblico, quali Ennio Quirino Visconti, Seroux d’Agincourt, Luigi Lanzi, Francesco Milizia, Carlo Fea, Onofrio Boni e Carlo Bianconi. La reputazione di conoscitore, affinatasi nei numerosi viaggi effettuati in tutte le maggiori città d’arte italiane e testimoniati da numerosi scritti, come pure la fama di raffinato collezionista di grafica, lo posero in pochi anni all’attenzione della Corte toscana: nominato responsabile delle collezioni mediceo-lorenesi Tommaso Puccini poté così mettere in pratica le idee elaborate durante il ventennio precedente, a partire dagli spunti raccolti nei maggiori musei nazionali da lui visitati e da quelli ottenuti dai suoi numerosissimi corrispondenti circa le nuove soluzioni museografiche che in quel periodo venivano adottate nelle grandi capitali europee. Un innovativo ordinamento per scuole pittoriche,
una maggiore attenzione alla conservazione e alla perfetta leggibilità delle opere d’arte, una gestione economica più attenta, basata più sullo scambio e sul trasferimento dei capolavori “scoperti” nelle ville granducali suburbane che sugli acquisti, contraddistinsero da subito la sua esperienza come momento di significativa trasformazione improntata ad un’amministrazione museale di concezione già moderna. Esemplare in tal senso è sicuramente il lavoro svolto da Puccini sulla preziosa dattilioteca, che lo interessò fin dal suo arrivo a Firenze quando, proponendo al Granduca alcuni interventi da svolgersi in Galleria, suggeriva di creare i calchi delle migliori gemme, da una parte per agevolarne la divulgazione presso i conoscitori e dall’altra per ottenere le entrate economiche necessarie all’acquisizione di nuovi esemplari, soprattutto di artefici moderni. Tale progetto, realizzato nel 1796 con la produzione delle impronte da matrici in vetro, opera dell’incisore romano Bartolommeo Paoletti, fu in realtà solo il primo stadio di un piano assai più vasto che proseguì dapprima con il riordino della raccolta e infine con la redazione di un catalogo delle opere più rappresentative, per il quale si valse della consulenza dello stesso Paoletti, dell’incisore Antonio Santarelli e dell’antiquario tedesco Guglielmo Uhden. Il manoscritto, intitolato Descrizione delle gemme, pietre e paste più cospicue che in opera di rilievo e di cavo, antica e moderna, si conservano nella dattilioteca della R. Galleria di Firenze, venne largamente utilizzato nei cataloghi ottocenteschi del Museo, pur rimanendo inedito a causa delle turbolente vicende politiche che, sullo scorcio del secolo, obbligarono Puccini a deviare l’attenzione da un approccio più propriamente teorico-scientifico ad uno ben più pragmatico, volto a difendere dalle mire francesi una tanto facile e ambita preda: così, se furono sufficienti la diplomazia e la sua autorità a salvare la raccolta di glittica una prima volta nel 1799 (evento minuziosamente ricordato dallo stesso direttore nel resoconto La Galleria di Firenze difesa dai Commissari francesi l’anno 1799. Ragguaglio storico), l’anno successivo Puccini fu costretto ad una ben più audace e rischiosa fuga a Palermo, dove la dattilioteca rimase al sicuro, assieme a gran parte delle opere d’arte conservate nella Galleria, prima di tornare a Firenze, solo due anni più tardi, nel 1802. R.V. Bibliografia: Gli Uffizi 1979, p. 651, n. Ic382
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174 - Stipo contenente una raccolta di stampi in vetro da intagli e cammei della collezione granducale
Firenze, 1796-1797 (stampi in vetro) cm 64 × 47, 5 × 31 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, inv. BG 533
Il piccolo mobile a due ante in legno dipinto, contiene n. 641 “stampi” in vetro per fabbricare impronte in zolfo o scagliola dei più pregevoli intagli e cammei appartenenti alla collezione glittica della Galleria degli Uffizi. Gli stampi sono collocati in 12 cassettini numerati da I a XII partendo dall’alto, divisi in due serie separate per i cammei (I-VI: C 1-C 255) e per gli intagli (VII-XII: I 1-I 391). Realizzati in vetro (“materia non porosa e perciò fusa espressamente a Murano”) scuro traslucido di diverso colore – verde, blu, bruno, giallo – del tutto indipendente da quello delle pietre originali, hanno la superficie smerigliata, fatta eccezione per quella dell’immagine e sono numerati sul retro con vernice rossa; alcuni, i più fragili, sono inseriti in un supporto in lamina metallica o rafforzati con cera. Le immagini sono tutte in incavo sia quelle dei cammei che quelle degli intagli; tutte a rilievo sono quindi quelle delle relative impronte. Sul fondo di ogni cassettino, in corrispondenza dei singoli pezzi, è segnato a penna il numero corrispondente. Di questa scelta Tommaso Puccini redasse nel 1799 un catalogo da accompagnare alle raccolte di impronte prodotte con gli stampi. Della Descrizione delle gemme pietre e paste piu’ cospicue che in opera di Rilievo e di Cavo antica e moderna si conservano nella Dattilioteca della R. Galleria di Firenze rimane la copia manoscritta inviata in visione a Ferdinando III “per non procedere alla pubblicazione del medesimo senza la sovrana annuenza”. Le pietre, pur mantenendo la numerazione degli stampi, sono raggruppate secondo la sequenza Cammei antichi 1-151, Intagli Antichi 1-335, Cammei Moderni 152-255 e Intagli Moderni 336-391 per un totale di 646. Vi sono compresi 5 pezzi, tra i quali il grande cammeo di Cosimo I de’ Medici, per i quali fu deciso di non prendere le impronte per le difficoltà dovute alla profondità dell’intaglio della pietra (“non si può formare”). La realizzazione degli stampi era stata decisa nel 1796 per rispondere alla richiesta pervenuta a Tommaso Puccini – Direttore della Galleria degli Uffizi dal 1793 – dalla Bibliothèque Nationale di Parigi, tramite il nuovo direttore del Cabinet des Antiques Aubin-Louis Millin, di effettuare uno scambio, con un analogo invio a Firenze, che documentasse le opere più notevoli delle collezioni glittiche di Parigi e Firenze. Per produrre gli stampi fu chiamato l’antiquario e incisore Bartolomeo Paoletti (1757-1834),
un capace artigiano attivo a Roma dove era ben noto per la sua abilità e la specifica professionalità nel produrre questo tipo di manufatto. Amico e uomo di fiducia del più celebre incisore in pietre dure del XVIII secolo, Giovanni Pichler (1734-1791), che a lui affidava la “pubblicazione” delle sue opere, aveva già portato a compimento qualche anno prima – intorno al 1780 – un progetto analogo a Napoli dove aveva prodotto una raccolta tratta dai capolavori della prestigiosa collezione Farnese conservata nel Gabinetto di Capo di Monte, dono di Ferdinando IV di Borbone all’Imperatrice di Russia. Ben conosciuto dai più rinomati incisori in pietra dura del tempo era stato in particolare raccomandato da Gaspare Capparoni (1761-1808) per la sua indubitabile e indispensabile onestà, sottoscritta con calore anche da Vincenzo Monti che di Giovanni Pichler era il genero. Con Giovanni Antonio Santarelli (1758-1826), incisore
di origine abruzzese attivo a Roma presso Giovanni Pichler, che si stabilirà definitivamente a Firenze proprio nel 1797 ed era ritenuto da Tommaso Puccini “uno dei più grandi incisori in pietre dure che abbia a presente l’Italia”, era stata effettuata un’accurata selezione dei pezzi da riprodurre, distinguendo “dalle mediocri quelle che per la loro eccellenza, o per la loro allusione a qualche punto istorico e favoloso, meritavano di essere pubblicate”. Precauzioni nell’affidamento dell’incarico, dato il valore degli oggetti e il rischio di danneggiamento nel maneggiarli, erano state prese con molta attenzione ed erano state poste precise e rigide limitazioni sottoscritte da entrambe le parti; tra queste si notavano l’obbligo della presenza continua di un ispettore durante l’esecuzione del lavoro e il divieto assoluto per Paoletti di fare duplicati da utilizzare per produrre impronte per i propri fini commercia-
Gli ultimi Medici. La collezione di gemme nel XVIII secolo
li. La richiesta di questo tipo di manufatto era infatti divenuta alla fine del secolo altissima e chi commerciava in impronte cercava di vincere la concorrenza inserendo nei propri repertori il maggior numero possibile di esemplari rari e poco conosciuti appartenenti alle più prestigiose collezioni. Si andavano perfezionando i modi di fabbricazione con la ricerca dei materiali più idonei per una perfetta riuscita del prodotto, e proprio in quegli anni, tra il 1780 e il 1790, si effettuava una diversa scelta nel materiale da usare per le impronte, sostituendo sempre più spesso lo zolfo rosso o giallastro con la scagliola bianca che permetteva una resa più precisa e definita delle immagini. Il progetto (stampi e relative impronte) fu portato a termine da Bartolomeo Paoletti, con l’assistenza di Orlando Salvini, tra il novembre del 1796 e l’agosto del 1797. Lo scambio con il Cabinet des Antiques, fatta eccezione per l’arri-
vo da Parigi del catalogo manoscritto della collezione francese, non sembra sia mai in realtà avvenuto, ma la circolazione di impronte del Gabinetto di Firenze crebbe rapidamente fino a raggiungere nei primi decenni del XIX secolo vasta diffusione. Inserite in gran numero nelle raccolte in vendita a Roma contribuirono a divulgare immagini che arricchirono in modo rilevante le arti decorative in tutta Europa. L.P.B.S. Bibliografia: BOYER 1970, pp. 14, 65, 82, 95-96; M. McCrory, in FIRENZE 1979a, p. 104, n. 27; MCCRORY 1983; MONTEVECCHI 1998, p. 15; E. Colle, in FIRENZE 2006a, p. 244, n. 162; PIRZIO BIROLI STEFANELLI 2007, p. 22
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Note sull’allestimento Antonio Fara, Mauro Linari
La mostra occupa le quattro grandi sale di rappresentanza del Museo degli Argenti, al piano terreno di Palazzo Pitti sul lato lungo la piazza, l’una collegata direttamente all’altra, in un percorso distributivo lineare e caratterizzate da un imponente apparato decorativo. Affinché l’allestimento non impedisca la percezione dei cicli di affreschi, ma anzi possa in alcuni casi entrare in relazione e rapporto visivo con essi, nel salone di Giovanni da San Giovanni e nella sala delle Colonne (rispettivamente la prima e la terza), il percorso espositivo è stato studiato in modo da svilupparsi al centro, in una sorta di “stanza nella stanza”. In particolare nel grande salone di Giovanni da San Giovanni una pedana centrale a forma di “T”, delimitata su due lati da pannelli espositivi, definisce uno spazio racchiuso che presenta agli estremi delle visuali spaziali interne opere molto significative e importanti nel contesto della mostra. Mentre al centro della cosiddetta sala delle Colonne, caratterizzata da ardite quadrature architettoniche, su di una pedana centrale delimitata su tre lati da pannelli espositivi, si propone, in un allestimento allusivo alla sistemazione cinquecentesca della Tribuna degli Uffizi, una serie di antichi busti intagliati in cristallo di rocca, alabastro, turchese. Nella sala dello Stipo e delle Udienze invece importanti opere, poste al centro delle sale e facenti parte dell’arredo permanente, ovvero lo Stipo in ebano e pietre dure detto “d’Alemagna” della manifattura di Augusta (1616-1626) ed il grande tavolo rotondo intagliato e filettato in oro con piano in porfido del secolo XVI, sono state integrate nel percorso espositivo, distribuendo le vetrine e le pannellature intorno a tali elementi e lungo le pareti in modo comunque da non interferire con la visione del ciclo decorativo parietale. Il progetto di allestimento ha tenuto presente inoltre la varietà della tipologia delle opere presenti in mostra e, a partire dai preziosi cammei, si apre al rapporto dialettico con dipinti, rilievi e busti, mobili ed ebanisteria, libri e documenti storici. Tale idea di dialogo e relazione dei preziosi, delicati, e spesso minuscoli esemplari di cammei e intagli, con altre categorie e generi artistici ha trovato ulteriore conferma nell’utilizzazione di monitor e console interattive. Alle vetrine espositive si affiancano monitor costituiti da cornici digitali in modo da poter mostrare immagini ingrandite e particolari di alcune opere presenti in mostra e di altre, che per varie ragioni, non sono presenti, ma sono ad esse collegate. In ogni sala sono state poi inserite delle console interattive con monitor touchscreen da 42” in grado di offrire ai visitatori una serie di percorsi interpretativi trasversali al mondo dei cammei, degli intagli e del collezionismo mediceo di gemme, dandone una lettura cronologica, oltre che allargare la prospettiva all’opera di grandi artisti del Rinascimento, come Botticelli e Donatello, ed alla diffusione dei motivi iconografici dei cammei. Si sono utilizzate varie tipologie di supporti espositivi, in maniera da esporre nel modo migliore la grande varietà di opere presenti in mostra: pannelli di varie dimensioni rivestiti in tessuto con illuminazione integrata costituita da faretti direzionabili posti nella parte alta e aggettante dei pannelli stessi; vetrine espositive in tre misure e dimensioni con basi in mdf verniciato, piani espositivi rivestiti in tessuto e teche in cristallo stratificato con illuminazione a fibre ottiche e pellicola superiore riflettente per una qualità e quantità ottimale di luce; vetrine e basi studiate appositamente per l’ambientazione di pezzi speciali o particolari serie di opere. Per quanto riguarda i colori si è pensato di utilizzare tessuti e verniciature dai toni blu capaci di far risaltare al massimo le trasparenze delle preziose gemme e di dialogare con gli apparati decorativi dipinti.
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La collezione di gemme dei Medici da Cosimo il Vecchio al duca Alessandro
BIBLIOGRAFIA
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gnor Vincentio Giugni guardarobba generale di Sua Altezza Serenissima, cominciato questo dì 5 di febraio 1608 [ab Inc.=1609 s.c.] alla presenza del signor Nicolò de Nobili uno de soprasindichi del Monte per crearne uno Inventario Generale in virtù di uno riscritto di Sua Altezza Serenissima [...] ASF, GM 391, Affari diversi della Guardaroba 1618-1624 ASF, GM 435, Questo libro in carta pecora intitolato Inventario Generale, segnato A, è della Guardaroba generale del serenissimo gran duca Ferdinando secondo di Toscana al tempo dell’administrazione del molt’illustrissimo signor balì Niccolò Giugni, guardaroba maggiore, cominciato questo dì primo di aprile 1624, 1624-1638 ASF, GM 741, Questo libro in carta pecora coreggie bianche intitolato Inventario Generale segnato A, è della Guardaroba Generale del Serenissimo Gran Duca Ferdinando secondo, di Toscana 5°, al tempo dell’administrazione del signore Niccolò Bernardi guardaroba, e soprantendenza dell’illustrissimo signor marchese Cerbone dal Monte, guardaroba maggiore, cominiciato questo dì 30 marzo 1666, 1666-1680 ASF, GM 750, Questo libro in carta pecora coreggie bianche intitolato Quaderno segnato A primo è della Guardaroba generale del serenissimo gran duca Ferdinando 2do, di Toscana 5°, al tempo del administrazione di me Niccolò Bernardi guardaroba, cominciato questo dì 30 di marzo 1666, che di presente è Guardaroba maggiore l’illustrissimo signor marchese Cerbone dal Monte [...], 1666-1674 ASF, GM 758, Inventario di mobili compié dalla Guardaroba generale di Sua Altezza Serenissima dall’eredità pervenuta al serenissimo principe Cosimo di Toscana per la morte della felice memoria del serenissimo et eminentissimo cardinale Carlo decano in ordine ad un motù proprio del serenissimo gran duca [Ferdinando II de’ Medici] emanato sotto dì [...], messo in filza di giustificazione della Guardaroba del Taglio a numero, E a dì 30 giugno 1667 detti mobili si son’ messi a entrata in Guardaroba generale delle robe fabbricate sotto detto giorno al quaderno A primo a c. 49 fino a c. 78, dal signor Zanobi Betti guardaroba del Taglio e perché detti mobili parte ne son’ mandati in Galleria, parte tirati in Guardaroba, parte restati nel Casino di via Larga di San Marco, e parte nel giardino di detto Casino et alcuni affissi, se ne è fatto l’appresso cifere in margine alle particolare acciò si vegga la distribuzione di detto come appresso [...] ASF, GM 799, Questo libro in carta pecora coreggie rosse intitolato Quaderno secondo segnato B è della Guardaroba generale del serenissimo gran duca Cosimo Terzo di Toscana, al tempo del’adiministrazione di me Niccolò Bernardi guardaroba, cominciato questo dì primo agosto 1674, che di presente è Guardaroba maggiore l’illustrissimo signor marchese Cerbone dal Monte [...], 1674-1680 ASF, GM 826, 1675, A dì 14 novembre, Inventario de’ mobili e masserizie dell’eredità del Serenissimo e Reverendissimo Signore Principe Cardinale Leopoldo di Toscana, cominciato questo dì suddetto, stateci consegnate l’appiè
descritte robe da Paolo Cennini Guardaroba di detto signor Cardinale e prima, 1675-1676 ASF, GM 870, Questo libro in carta pecora coreggie turchine, intitolato Quaderno secondo segnato C, è della Guardaroba Generale del Serenissimo Gran Duca Cosimo Terzo di Toscana al tempo del Administrazione di me Niccolò Bernardi Guardaroba, cominciato questo dì primo agosto 1679, che di presente è Guadaroba maggiore l’Illustrissimo Signor Marchese Cerbone dal Monte, che il Signore Dio ci conceda buon principio, o ottimo fine, 1679-1685 ASF, GM 1288, Inventario di tutte le sottoscritte robe della proprietà della Ser.ma Anna Maria Luisa Elettrice Palatina Gran Principessa di Toscana, quali si consegnano alla Guardaroba di S.A.R., per ivi passarne la scrittura in credito alla Ser.ma Elettrice, con facoltà di darle a Francesco Bianchi custode della Galleria per ivi conservarsi, con il riservo del dominio della detta Ser.ma Elettrice Palatina (1732) ASF, GM, appendice 9, Inventario particolare delle Medaglie Gemme e Cammei diviso in 17 quaderni, ristretto e ricevute per la consegna fatta All’eccellentissimo Signore Dott. Antonio Cocchi Antiquario di S.M.C. (1738) ASF, GM, appendice 10, Inventario della R. Galleria (1738-1739) ASF, GM, appendice 59, Revisione della Guardaroba – sbozzi (1744-1746) ASF, GM, appendice 84, Inventario dei Mobili, Tappezzerie e robe ritrovate nel real’ Palazzo di Pratolino, dopo levati i sigilli riconosciuti senz’alterazione dove erano stati apposti alle porte di ciascuno appartamento, mediante la morte di Giov. Jacopo Melli, già guardaroba, per la consegna a Michele Paoloschi, nuovo guardaroba, in esecuzione di benigno rescritto di Sua Maestà Imperiale emanato sotto dì 10 giugno cadente dal suo regio consigilio di finanze, congiunto all’ordine dell’illustrissimo e clarissimo signore senatore cavaliere marchese Vicenzo Riccardi, guardaroba maggiore, riposto nella filza segnata A dell’amministrazione vegente dell’Illustrissimo signor Gio: Giuseppe Vauthier primo guardaroba sotto n. 265, il tutto descritto e consegnato da me Filippo Neri Canovaio, uno dei ministri della Guardaroba generale della Maestà Sua, coll’intervento, e presenza di Ferdinando Melli figlio del sopradetto defunto, questo dì primo agosto 1748, in Pratolino ASF, GM, appendice 94, Inventario Generale dei Mobili e di tutt’altro che si ritrova nell’Imperial Palazzo de’ Pitti di Firenze, fatto per la consegna data a Carlo Gilles guardaroba del medesimo a tutto il dì 30 maggio 1761 da Carlo Guasconti e Lorenzo Benvenuti in ordine al motuproprio de 14 giugno 1758 dell’Imperial Consiglio di Finanze ASF, Imperiale e Reale Corte 5116 B, Inventario delle medaglie d’oro, e d’argento, pietre intagliate, cammei, anelli, et altro non compresi nella consegna del Sig. Carlo Gilles, stati al medesimo dati da S.A.R., e passati successivamente alla R. Galleria al Sig. Raimondo Cocchi Antiquario (1770)
ASF, MdP 6354 A, Inventario di Robe che la Serenissima Gran Duchessa di Toscana ha fatte portare di Francia ASF, Scrittoio delle Regie Possessioni 4173, Questo libro Debitori e Creditori segnato G è del serenissimo principe cardinale don Carlo de’ Medici, 1651-1663 BdU, ms 47, Descrizione delle gemme, pietre e paste piu’ cospicue che in opera di Rilievo e di Cavo antica e moderna si conservano nella Dattilioteca della R. Galleria di Firenze (1799) BdU, ms. 62, Giornaletto delle Gallerie 16461688 BdU, ms. 68/F, Ricordi di Sebastiano Bianchi per baratti fatti nel medagliere BdU, ms. 68/L, Note di medaglie, intagli, cammei, ritrattini e bronzi antichi proposti in acquisto al Serenissimo Cardinal Leopoldo (per mano di Fabrizio Cecini e si fà a moneta in Roma) BdU, ms. 70, Inventario di tutte le figure, quadri et altre cose della Tribuna, cominciando da man destra della porta, da basso (1589) BdU, ms. 71, Inventario di tutte le figure quadri, et altre cose della Tribuna cominciando da man destra della porta da basso (1589-1634) BdU, ms. 74, Indice di Medaglie Cammei Statue ed Iscrizioni compilato probabilmente a tempo del Card.e Leopoldo de’ Medici 1676 (inserto 17) BdU, ms. 75, Inventario della Galleria 16351638 BdU, ms. 76, Inventario della Galleria, Tribuna, e altre stanze, consegnato a Bastian’ Bianchi come custode di essa, fatto questo dì suddetto, 9 di dicembre 1638 al tempo dell’administratione dell’illustrissimo signor marchese Francesco Coppoli, guardaroba generale di Sua Altezza Serenissima BdU, ms. 78, Descrizione, o inventario di tutte le Medaglie, Cammei, Intagli antichi e Moderni, Metalli antichi e Moderni, Statue, Teste, Iscrizioni antiche che si ritrovano nella Galleria del Serenissimo Gran Duca Cosimo III in Firenze, fatto di suo ordine questo anno 1676. Di Luigi del Sen.re Carlo di Tommaso Strozzi 1676 BdU, ms. 82, Inventario generale di tutto quanto fu consegniato a Giovan Francesco Bianchi custode della Galleria di Sua Altezza Reale dopo la morte del di lui genitore, 1704-1714 BdU, ms. 83, Inventario dei cammei ed intagli fatto avanti il 1736. BdU, ms. 84, Libro o Giornale di Ant.o Cocchi di Medaglie e Cammei dal 1737 al 1758 BdU, ms. 95, Inventario generale di tutte le preziose antichità & insigni memorie che si conservano nella Galleria di Sua Maestà Imperiale in Firenze compilato [...] in virtù del rescritto di Sua Maestà Imperiale in data del 1 dicembre 1753 col quale è stata graziosamente conferita a Giuseppe Bianchi la carica di nuovo custode della suddetta Imperiale Galleria per tenere in consegna in luogo del defunto Francesco Bianchi suo zio
Bibliografia
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