Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale 9788868574987


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Autorizzare la speranza. Giustizia poetica e futuro radicale
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Alia 82 serie

Il profilo delle parole a cura di Franco Buffoni e Roberto Cicala

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ITALO TESTA

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Autorizzare la speranza GIUSTIZIA POETICA E FUTURO RADICALE

INTERLINEA

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© Novara 2023, Interlinea srl edizioni via Mattei 21, 28100 Novara, tel. 0321 1992282 www.interlinea.com [email protected] Stampato da Vincenzo Bona spa, Torino ISBN 978-88-6857-498-7 I nostri libri sono realizzati con materie prime e servizi ecologici e sostenibili Collana diretta da Roberto Cicala In copertina: masterjew/Adobe Stock

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Sommario

Autorizzare la speranza

p.

7

1. GIUSTIZIA POETICA Una giustizia senza nome Metriche della felicità Individuazione senza riserve Una vita più vasta

» » » »

19 31 41 53

2. FUTURO RADICALE Futuri a rovescio «les jeux ne sont pas encore faits» Verso la X. Poesia e terzo paesaggio

» » »

61 73 87

3. PAESAGGIO IN MOVIMENTO Impurità Sulla neve. Tre affondi Camminare tra i fenomeni

» 109 » 117 » 121

Contro la poesia

» 135

Nota Notizia sull’autore

» 145 » 147

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Autorizzare la speranza

Un rapporto obliquo al vero. È come se oggi la questione della verità tendesse a entrare di prepotenza nel discorso dei poeti. Il compito veritativo della poesia ne occupa la scena, assume un ruolo focale. È una mossa non scontata, se teniamo conto che proprio con un conflitto tra poesia e filosofia sul nesso tra apparenza e verità s’inaugura la tradizione occidentale di ordinamento dei discorsi. Occorrerebbe chiedersi di che cosa sia sintomo quest’esigenza veritativa, se sia semplicemente un’altra reazione all’impero delle fake news, oppure se non riguardi uno spostamento in atto dell’ordine discorsivo. A cosa fa segno la fortuna di cui la figura foucaultiana del parresiasta1 – chi esercita la virtù del dire coraggiosamente la verità di fronte al potere – sembra godere ai nostri giorni tra poeti di orientamenti tra loro molto differenti? Nel passato recente, anche poeti civilmente impegnati come Pasolini, che hanno fatto del loro corpo l’esibizione di una verità scandalosa, erano sicuramente più cauti in proposito, ritenendo che la poesia avrebbe semmai un rapporto obliquo al vero, una relazione non diretta, mediata dall’apparenza – Tell all the Truth but tell it slant, secondo l’adagio di Emily Dickinson.2 7

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Dolore e sogno. Ma di che cosa parliamo, quando parliamo di verità in poesia? Non tanto di rispecchiamento di una verità di fatto, di un’evidenza cogente da salvaguardare, ma piuttosto di una verità a venire, non data. Si parla di “verità”, ma il discorso confina con il terreno su cui campeggia la parola “speranza”. Come se la poesia rinviasse a un’idea di mutamento, ma di un mutamento che non può essa stessa produrre. Il sogno di un mondo in cui le cose stiano altrimenti, di un mondo altro da quello che è, che nel Discorso su lirica e società di Adorno costituirebbe l’aspetto critico del contenuto sociale della poesia, ripreso nella formula quasi incantatoria del «suono in cui dolore e sogno si congiungono».3 Ciò non riguarda necessariamente un contenuto utopico determinato, ma investe l’aspetto controfattuale della forma poetica, quella possibilità di mettere a distanza il mondo che non dipende dal modello di soggettività che di volta in volta una certa concezione dell’io poetico sottoscrive. Al di là del legame, storicamente condizionato, che diversi modelli di poesia hanno intrattenuto con l’io trascendentale della greater romantic lyric, dell’individuo borghese e della sua soggettività monologica, o dell’io narcisista di massa che secondo le analisi ispirate a Christopher Lasch caratterizzerebbe l’espressivismo contemporaneo,4 permane il rinvio a un mutamento possibile che la poesia non può produrre – secondo l’adagio fortiniano per cui la «poesia non muta nulla» di per sé5 – ma che necessariamente richiama. Per questo nell’appello alla verità si rifrange l’immagine di una comunità futura rispetto alla quale la poesia si assume il compito di autorizzare la speranza. Un’auto8

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rizzazione che ha come condizione di possibilità di non poter essere soddisfatta dalla poesia stessa. Ed è proprio dell’orizzonte contemporaneo in cui siamo immersi che questo riferimento permanga senza che tuttavia si disponga di un paradigma accettato secondo cui potremmo pensarlo. Crisi d’intelligibilità. Oggi assistiamo a una sorta di crisi d’intelligibilità, che in diverse diagnosi sembra avere a che fare con la fine di un mondo e delle sue pratiche, di una forma di vita leggibile: fine della modernità, fine della società letteraria, fine della politica nella sua concezione novecentesca… Una situazione per certi versi analoga a quella dei capi indiani che si trovarono di fronte al fatto che, una volta entrati nelle riserve, non risultasse più comprensibile cosa fosse un atto coraggioso, quale attività potesse esemplificarlo, visto che le pratiche che sino ad allora avevano dato senso a tali attività erano venute meno – i bisonti scomparsi, le guerre con altre tribù proibite.6 Molte diagnosi contemporanee denunciano una crisi di senso analoga, in cui sembrano venuti meno i riferimenti che rendevano intelligibili certi atti: che cosa può contare oggi come atto di parola, poesia civile, poesia politica, se ci mancano i riferimenti a quella prospettiva collettiva d’emancipazione che ci consentiva di afferrarne il senso? Che cosa sarebbe della poesia, e anche del suo rapporto critico con la società, se questo nostro tempo, come spesso diagnosticato, costituisse davvero l’epoca della sua fine, della fine del modo in cui ne abbiamo inteso il senso 9

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sino a ora? Si tratterebbe della fine di una forma di vita, delle concezioni di cui era intessuta circa ciò che valeva la pena fare, soffrire, pensare. Una situazione di estrema vulnerabilità, in cui sembra entrare in crisi l’ancoramento a un insieme di pratiche umane concrete, a un sostrato di atteggiamenti che si è sedimentato in riti e abitudini, istituzioni e storie, in cui la poesia per come la conosciamo si è incarnata. Eppure, il fatto stesso che di poesie se ne continuino a scrivere, anche all’interno di simili quadri diagnostici, sembra indicare che vi è anche una controspinta, una resistenza al discorso della fine. Il fatto di non disporre più di un paradigma condiviso di cosa sia un’azione buona, non significa che noi non possiamo agire in vista di un bene che non conosciamo. Anche in assenza di un modello autorevole che renda intelligibile che cosa possa contare come un certo tipo di atto, noi possiamo comunque agire in vista di qualcosa che possiamo solo immaginare. Possiamo muoverci in vista di qualcosa che non è più possibile, secondo l’orizzonte dato di possibilità, e il cui senso dovrebbe essere definito dalla nostra stessa azione. Che possiamo anticipare solo nell’immaginazione. È un’anticipazione necessaria, fin tanto che saremo esseri viventi, di parola. E che deve permetterci di abitare anche i discorsi della fine come possibilità di un nuovo inizio, di un’azione nuova, come ogni atto di parola, per poter essere tale, deve pretendere di essere. Un mondo a venire. La poesia contemporanea potrebbe trovarsi in una situazione radicale di questo tipo – in cui 10

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una forma di vita, e le sue pratiche, sembrano essere crollate, e ci si trova in una transizione verso qualcosa di ignoto, che i nostri precedenti strumenti di lettura non ci permettono ancora di decifrare. Se leggiamo questa condizione con le categorie della vecchia intelligibilità, del mondo che non c’è più – in cui la società letteraria aveva uno statuto riconosciuto, la poesia sembrava godere di una posizione centrale nel campo letterario e essere dotata di un mandato sociale identificabile – allora il nostro agire, in questo caso il continuare a scrivere poesia, potrebbe sembrare completamente privo di senso, un residuo, un’attività attardata se non retrograda. Ma la crisi di una forma di vita, se cambiamo prospettiva, è anche la fase in cui un mondo nuovo è in cammino. Una novità che non può essere colta attraverso le forme di comprensione di cui disponevamo – le quali non possono far altro che certificare la fine del mondo precedente – ma che, proprio per la sua indeterminatezza, richiede un’attività esplorativa, un atteggiamento euristico di protensione verso ciò che sta oltre i limiti del senso tramandato. Ciò che dall’interno del vecchio mondo si lascia descrivere come crisi è per altri versi il processo di elaborazione del nuovo. Anche in presenza di una crisi d’intelligibilità, è di fatto possibile, e necessario, continuare a riferirsi al futuro come a un orizzonte di possibilità a venire, non già previste da ciò che è codificato funzionalmente nel presente: agire in vista di qualche cosa che non conosciamo interamente. Le potenzialità della poesia, oggi, andrebbero misurate in questa prospettiva, nella sua capacità di futurazione, di stare insieme dentro e fuori il mondo conosciuto, di sporgere per così dire dall’interno 11

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verso il mondo a venire, di intercettare la corrente sotterranea del mutamento che attraversa il presente, cogliendo «il possibile che si manifesta nella realtà quando la realtà si dissolve»,7 secondo le parole di Friedrich Hölderlin che trovano un’eco contemporanea nell’affermazione di Audre Lorde per cui il potere della poesia, «in prima linea nella nostra marcia verso il cambiamento», starebbe nell’esplorare i luoghi oscuri e indeterminati della possibilità e «suggerire il possibile che si fa realtà».8 Funzione e contenuto sociale. La crisi d’intelligibilità cui assistiamo riguarda la funzione sociale che prima attribuivamo a certe attività: è una situazione in cui vengono meno i paradigmi che ci permettevano di attribuire tali funzioni a determinate pratiche. Un processo che oggi investe centralmente la politica, che letteralmente non riusciamo più a leggere secondo i modelli che conoscevamo. Cosa vorrà dire agire in comune nel momento in cui non disponiamo più di modelli normativi di cosa sia una vita buona collettiva, di un’immagine condivisa di un “noi”? Che cosa significa sperare quando il significato del termine deve essere reinventato? In un senso analogo si parla di indebolimento del mandato sociale della poesia, della sua funzione. Ma ciò non esaurisce la questione del contenuto sociale della poesia, che trascende la sua funzionalità. Una situazione di transizione tra due mondi, in effetti, può essere anzi l’occasione per riarticolare tale contenuto, per scoprirne aspetti che una precedente comprensione rendeva invisibili. Oggi si manifestano aspetti del contenuto sociale 12

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che prima non eravamo in grado di afferrare, che magari risultavano repressi dalla grammatica politica dei discorsi emancipativi – per esempio la questione dei diritti civili, le questioni di genere, ecologiche – e che la poesia, proprio in quanto pratica liminare, può contribuire a esplorare. Non è un caso se Citizen di Claudia Rankine sia uno dei testi che negli ultimi anni, secondo molti, sembra aver maggiormente rimesso in gioco una posta civile proprio muovendosi al di fuori di una comprensione tradizionale del politico, ma stando all’intersezione tra questione femminile, di classe e razziale, e tematizzando in tale chiave il ripensamento del legame tra io lirico e genere poesia – già il sottotitolo, An American Lyric, rilancia il motivo adorniano del contenuto sociale della lirica alla luce della metamorfosi dei processi di soggettivazione.9 D’altra parte la poesia, lirica o meno, nelle sue pretese sembra aver a che fare con la sospensione della funzionalità sociale piuttosto che con la sua conferma. Non abbiamo un’idea chiara, definita dalle funzioni che le griglie del vecchio mondo ci permettevano di attribuire, di quale sarebbe il contenuto sociale della poesia (e della politica) oggi. Ma proprio per questo il presente è tutt’altro che una gabbia d’acciaio, un orizzonte perfettamente determinato nella sua inoltrepassabilità. C’è, in una condizione di transizione, un alto grado di indeterminatezza, e di apertura, che richiede attività esplorative, come la poesia, in grado di abitare luoghi eventuali, di elaborare mappe di paesaggi ignoti, inventando soluzioni d’esistenza che non sappiamo ancora decifrare.

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Futuro radicale. Per questo la poesia avrebbe a che fare con l’autorizzazione della speranza, situandosi nella prospettiva di un orizzonte temporale che chiamerei “futuro radicale”. Fare poesia equivarrebbe a istanziare una forma di vita in un solo portatore: una forma di vita non attuale, ma che il testo poetico, nella sua individualità e dall’interno del presente, anticipa. Noi non possiamo sapere se oggi ci troviamo effettivamente in questa condizione, né se essa si sia già presentata o addirittura non sia sempre stata costitutiva di ogni vero atto di poesia. Ma in ogni caso tutto ciò non avrebbe a che fare con la disperazione, il puro sconforto per il collasso del mondo che abbiamo conosciuto. Piuttosto, la poesia confinerebbe con la speranza, la capacità di rapportarsi al futuro, nonostante tutto, come a un orizzonte di possibilità a venire; e con il coraggio di agire in vista di ciò che individualmente, e insieme, possiamo sostenere solo con la nostra immaginazione.

1  Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, edizione inglese a cura di Joseph Pearson, edizione italiana a cura di Adelina Galeotti, introduzione di Remo Bodei, Donzelli, Roma 2005. 2  Emily Dickinson, Tutte le poesie, a cura e con un saggio introduttivo di Marisa Bulgheroni, Mondadori, Milano 1997, pp. 1164-1165: «Dì tutta la verità ma dilla obliqua». 3  Theodor W. Adorno, Discorso su lirica e società, in Note per la letteratura. 1943-1961, Einaudi, Torino 1979, p. 55. 4  Cfr. Guido Mazzoni, Sulla storia sociale della poesia contemporanea in Italia, in “Ticontre. Teoria testo traduzione”, 8 (2017), pp. 1-26. Per una diversa analisi dell’espressivismo cfr. Andrea Inglese, L’eroe segreto.

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Il personaggio nella modernità dalla confessione al solipsismo, Università di Cassino, Cassino 2003. 5  Franco Fortini, Traducendo Brecht, in Tutte le poesie, a cura di Luca Lenzini, Mondadori, Milano 2014, p. 238. 6  Cfr. Jonathan Lear, Radical Hope: Ethics in the Face of Cultural Devastation, Harvard University Press, Cambridge Mass. 2008. 7  Friedrich Hölderlin, Il divenire nel trapassare, in Scritti di estetica, a cura di Riccardo Ruschi, Mondadori, Milano 1996, p. 93. 8  Audre Lorde, La poesia non è un lusso, in Sorella outsider. Gli scritti politici di Audre Lorde, traduzione di Margherita Giacobino e Marta Gianello Guida, Il Dito e La Luna, Milano 2014, pp. 74-75. 9  Claudia Rankine, Citizen. Una lirica americana, 66thand2nd, Roma 2017.

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1. Giustizia poetica

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Una giustizia senza nome

La vita immaginata. Nella sua Teoria del romanzo György Lukács ha scritto una volta dei «fini utopistici di tutte le filosofie».1 La questione dell’utopia eccede così i limiti, il corsetto spagnolo della politica, abbracciando l’intera impresa del pensiero. Ed è forse nella metafisica, più che altrove, che si installa l’elemento utopico. Non è del tutto casuale che l’utopia politica, che altro non è che una manifestazione particolare dello spirito utopico, abbia trovato la sua formulazione originaria nel centro dell’impresa platonica che per prima ha indagato la possibilità di un sapere metafisico. La topologia metafisica è così illuminata dalla fonte utopica. E il fine utopistico della metafisica potrebbe essere afferrato se fossimo in grado di cogliere il ruolo giocato dall’immaginazione al suo interno. Le utopie politiche dovrebbero allora essere ripercorse in stretto contatto con la storia della metafisica e delle sue metamorfosi: e la vicenda per cui quest’ultima sopravvive alla sua fine, al collasso annunciato più volte dopo la crisi dei sistemi idealistici, della metafisica regale – questo monstruum d’invenzione barocca, con le sue pretese di compiutezza, ultimatività e trasparenza –, getta una luce intensa anche sulla storia dell’utopia politica e delle sue deflagrazioni. L’immagine regale dell’utopia 19

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politica, con il suo slancio totalitario, come progetto onnicomprensivo di ingegneria sociale, è andata pure in frantumi, anche se ha potuto resistere più a lungo della metafisica regale, riuscendo ad annidarsi nelle pieghe dell’immaginario sociale e a permeare di sé la realtà. Wallace Stevens poteva così affermare nel 1949 che la diffusione del comunismo mostra oggi come l’immaginazione sia all’opera su vasta scala perché, sia o non sia esso un termine di paragone per l’umanità, le parole stesse ci dicono che attualmente il comunismo è la misura della capacità immaginativa di una vasta parte dell’umanità.2

E tuttavia l’esaurimento della forma regale dell’utopia politica, intesa come immaginazione metafisica implementata, non significa che con ciò venga meno l’utopia stessa, che andrà piuttosto incontro a quelle metamorfosi o trasmutazioni che interessano pure la metafisica. Possiamo pensare al pensiero utopico-politico come a una forma di immaginazione metafisica, e propriamente come al tentativo di rendere la vita immaginativa una forma sociale esplicita. Certamente la nostra vita sociale è già da sempre permeata dall’immaginazione e, secondo la formulazione di Stevens, noi «viviamo nei concetti dell’immaginazione già prima che la ragione li stabilisca».3 L’utopia politica è però il tentativo di fare in modo che l’immaginazione come forma sociale non sia solo un meccanismo nascosto e latente: è il tentativo di fare in modo che la nostra vita di ogni giorno abbia un aspetto immaginativo ben determinato, corrispondente a un certo paradigma, che nell’u20

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topia regale si presentava come modello abbracciante ogni aspetto particolare della vita sociale. Watterbach e la perfezione. Come afferrare il fine utopistico della metafisica? E cosa ci rivela dello spirito utopico? È nella carica desiderante dell’immaginazione all’opera nella metafisica che esso si lascia cogliere: nell’idea di un perfezionamento ontologico delle cose. Il fine utopistico della metafisica sembra avere a che fare, in questo senso, con il rapporto tra felicità e perfezione, con quell’opera di perfezionamento ontologico che la fantasia avvia nel segreto del pensiero. Nel modo più esatto tale liaison è stata colta da Theodor W. Adorno: Che cosa sia l’esperienza metafisica, chi si rifiuta di detrarla da presunti vissuti religiosi originari, se lo farà presente al più presto come Proust, in particolare grazie alla felicità che promettono i nomi di paesi come Otterbach, Watterbach, Reuenthal, Monbrunn. Si crede che se ci si reca colà, ci si troverebbe nell’appagamento, come se ci fosse. […] Soltanto al cospetto di ciò che è individuato in modo assoluto e insolubile si può sperare che proprio questo, essendosi dato, si darà; […]. Ma esso è legata alla promessa di felicità […] La felicità, l’unica cosa nell’esperienza metafisica che è più di una richiesta impotente, concede l’interno degli oggetti come qualcosa che è al contempo rapito ad essi.4

Il fine utopistico della metafisica si lega così all’idea di felicità. Ma l’idea della felicità, per come si dà in questa esperienza, non si lascia risolvere nel problema etico della vita felice e neppure nel problema politico della giustizia. A tale idea possiamo approssimarci solo se ne percepiamo il carattere di promessa e insieme di apparenza. 21

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Per questo è convocando Proust che possiamo estorcere il segreto dell’esperienza metafisica: è nella promesse de bonheur dell’arte che risplende il suo fine utopistico. Un fine che la mente può toccare solo con l’immaginazione e il cui contenuto è una certa vita immaginata. Ancora, un passo decisivo: questa felicità promessa si riflette nell’idea di una compiuta individuazione, si lascia vedere solo al cospetto di ciò che è individuato in modo assoluto. È così nella promessa dell’immaginazione estetica che il fine utopistico della metafisica – che essa presuppone senza poterlo realizzare –, intensificandosi in massimo grado, potrebbe lasciarsi conoscere. In quel desiderio di salvazione delle cose che innerva l’immaginazione estetica: un desiderio che le cose siano pienamente, massimamente individuate e in ciò perfette. La promessa di felicità dell’arte pare così intimamente fusa con l’esperienza del vedere le cose nella loro pienezza, nel fulgore della loro contingenza e fragilità mortale, salvate nella loro assoluta individualità. Una giustizia senza nome. Lo spirito dell’utopia mobilita una serie di rinvii. La sua idea non si poteva comprendere restando nel recinto del pensiero politico, ma traboccava nella metafisica, rimandando al suo fine segreto. E il contenuto di quest’ultima non si lasciava determinare senza un ulteriore rinvio alla promessa estetica. L’aisthesis realizzerebbe così un’istanza conoscitiva che insieme manifesta e dà contenuto sensibile a quest’idea: l’idea della giustizia poetica. Solo in quest’ultima, infine, il fuoco assiologico di tutto il pensiero utopico trova alimento. 22

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Questa tesi potrà anche sembrare arrischiata e paradossale. Eppure non meno paradossale è sempre stato ogni tentativo di ridurre lo spirito utopico, nelle sue manifestazioni sociali e politiche, a una determinata idea di giustizia nel senso ordinario del termine: ché la richiesta lì avanzata era sempre di una società che fosse più che giusta, ma insieme giusta e felice, giusta e perfetta. Una giustizia senza nome. Una giustizia oltre la giustizia. Per questo ogni tentativo di ricondurre il pensiero utopico a un qualche modello normativo di giustizia politica, sociale o economica, sembra destinato a incorrere in aporie irrisolvibili. E ciò dipende dal fatto che il pensiero utopico ha pensato, senza saperlo, la società alla luce di un’altra idea della giustizia, che non è né la giustizia aritmetica né quella geometrica, né la giustizia egualitaria né quella distributiva. L’altra idea di giustizia si lascia determinare nell’esperienza estetica, e in particolare nella poesia. È dalla Poetica di Aristotele che questo pensiero può essere liberato. La poesia sarebbe superiore alla storia perché ci mostrerebbe ciò che deve accadere e non solo ciò che accade di fatto.5 L’ordine del possibile, come di ciò che dovrebbe essere, è così pensabile come un’idea di giustizia: giustizia prodotta dalla vita stessa e nella vita, attraverso il destino e l’ironia della sorte. In epoca barocca quest’idea senza nome diventerà «poetic justice», espressione coniata da Thomas Rymer in The Tragedies of the Last Age Considered (1678). Un’idea che si è potuta corrompere in una specie di teodicea teatrale, degradandosi a volte a mero meccanismo drammaturgico per cui la virtù è ricompensata e il vizio 23

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punito, facendo trionfare la giustizia attraverso il comportamento stesso della dramatis persona. Come scrive Shakespeare nell’Amleto,

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sarà un bello spasso veder saltare in aria il bombarolo per lo scoppio del suo stesso petardo.6

Non è però al meccanismo, spesso inerte e schematico, che dobbiamo guardare, bensì volgerci all’idea quivi contenuta e liberarla dalla scorza dell’artificio. L’idea di una giustizia che si realizza nella misura in cui il carattere del personaggio giunge al suo compimento, si dispiega nel suo destino singolare, nella determinazione perfetta della sua individualità. La giustizia senza nome che chiameremo giustizia poetica starebbe proprio in questa determinazione completa, nella individuazione assoluta in sé conchiusa, che avrebbe un giorno in se stessa la sua ricompensa e la sua sanzione. È questa l’idea di una felicità possibile dell’individuazione, che pur essendo contenuta formalmente nel fine della metafisica, può trovare riempimento solo attraverso l’istanza della poesia, di un linguaggio che Paul Celan intendeva liberato nel segno di una individuazione indubbiamente radicale ma, allo stesso tempo, anche consapevole dei limiti che la lingua gli impone, della possibilità che la lingua gli dischiude.7

La poesia rinvia così a un’istanza utopica di conoscenza, dischiude mediante la lingua la possibilità di conoscenza 24

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compiuta dell’individuale. Un’istanza che rimane criticamente sospesa, in quanto si àncora nell’ordine immaginario del possibile e si realizza solo in questa apertura radicale. È sulla soglia critica di questo limite che si disegna la forma conoscitiva che la poesia potrebbe assumere. Non delle condizioni di una conoscenza possibile è il discorso, ma di che cosa sarebbe la conoscenza, se fosse mai possibile. L’arbitro del diverso. Con Walt Whitman, il poeta americano che ha legato il compito della poesia a quello della democrazia – intesa in senso perfezionistico come utopia dell’individualità – si può compiere l’ultimo passo di quest’approssimazione. Nelle sue Leaves of Grass Whitman ci ha consegnato un’immagine potente che intreccia poesia e giustizia: Di questi Stati il poeta è l’uomo equanime, Non in lui, ma lontano da lui, le cose sono grottesche, [eccentriche e non sanno rendere quanto dovrebbero, […] Egli largisce a ogni qualità, ogni oggetto, le proporzioni [che si addicono loro, né più né meno, È l’arbitro del diverso, è la chiave, È lo stabilizzatore della sua età, della sua terra, […] Non discute, ma giudica (la Natura l’accetta in senso [assoluto,) Non giudica come giudicano i giudici, ma come il sole [che piove attorno a un oggetto inerte […] I suoi pensieri sono inni in lode delle cose, Nelle dispute su Dio e l’eternità egli tace, E vede l’eternità meno come uno spettacolo con [prologo ed epilogo, Vede l’eternità negli uomini, nelle donne, non vede [uomini e donne come sogni o pulviscolo.8

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Il poeta-giudice di Whitman è colei e colui che tramite la sua immaginazione vede le cose nella loro pienezza, nella loro compiuta individuazione. L’eternità che vede negli uomini non è l’innalzamento sovraterreno, ma lo splendore della loro caducità. Il giudizio del poeta è così quello del giudice equanime, di chi sa rendere giustizia al caso particolare. Sapendo tener conto della peculiarità delle cose senza perdere di vista l’equità, può rendere giustizia alla loro singolarità, come il sole che piovendo attorno a un oggetto inerte lo porta in piena luce, nel suo fulgore. Nella luce della giustizia che sta alla base della poesia, «le cose sanno rendere quel che dovrebbero»: è la poesia che, come giustizia poetica, mostra ciò che deve accadere. Per questo il poeta è per Whitman l’arbitro del diverso: perché tramite la sua immaginazione «largisce a ogni qualità, ogni oggetto, le proporzioni che si addicono loro, né più né meno»: può vedere le cose nella loro pienezza, nella loro differenza individuale. Così questo giudizio può rendere giustizia. Nella luce della poesia. Ora si può comprendere il senso delle parole enigmatiche di Wallace Stevens, quando si chiedeva se per giustificare intendiamo un genere di giustizia di cui non sappiamo nulla e su cui non avremo mai contato […].9

La giustizia senza nome di cui non sappiamo nulla è proprio la giustizia poetica, l’idea utopica che è il centro segreto dell’aspirazione metafisica e cui ci possiamo ap26

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prossimare attraverso l’idea della poesia. Allora si vedrà chiaramente il senso di quel concetto, apparentemente bizzarro, di «nobiltà», che è la chiave dei saggi di Stevens. Tratto specifico dell’immaginazione, la nobiltà è ciò in cui soltanto «il poeta sensibile ha la giustificazione della sua esistenza».10 È nel contatto sensibile e terreno che la poesia ascende all’«altezza morale della giusta sensazione».11 La sensazione giustifica l’esistenza poiché la compie nella sua possibilità, giacché «il fine del poeta è piena realizzazione».12 È questa la giustizia poetica dell’individuazione compiuta, che Stevens vede emergere in He “Digesteth Harde Yron” di Marianne Moore, dove l’autrice non solo stabilisce un contatto con una realtà particolare, ma la «fonda» nella sua individualità.13 Solo nell’immaginazione, in quanto potere della mente sulla potenzialità delle cose, tale idea potrebbe essere afferrata – e la perfezione individuale colta. Non si tratta qui di sostituire i poeti ai giudici o di farne una nuova sorta di filosofi platonici: è in gioco invece una novitazione – con il neologismo di Ferdinando Tartaglia14 – che apra una breccia nell’ordinario in direzione dell’estraneo, nel reale verso l’irreale, e che conduca a soppesare il ruolo cognitivo della poesia come stato possibile di conoscenza dell’individuale, e così come forma eventuale di giustificazione delle cose. È appunto l’idea che afferra il nucleo vitale del pensiero utopico e dell’immaginazione, intesa con Stevens come «stato possibile della metafisica».15 L’idea dell’utopia, infatti, non potrebbe essere meglio descritta che come «un mondo che trascende il mondo e una vita degna di essere vissuta in quella trascendenza».16 27

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Eppure con queste parole Stevens stava parlando della sua idea della poesia, intesa come un «analogo trascendente composto di particolari tratti dal reale».17 Ma proprio tale idea di poesia, manifestando la giustizia poetica, conduce al nucleo dell’utopia. Perché la sentenza di Paul Celan, per cui il poema sarebbe una ricerca «alla luce dell’U-topia»,18 non deve lasciare in ombra che l’utopia è nella luce della poesia. È di questo angelo necessario che si è detto sinora, come di ciò che nell’idea della poesia appare necessariamente quale annuncio e promessa di conoscenza. Verso le supreme finzioni. Della suprema finzione di una vita immaginata, che proprio perché tale ci accorda al mondo e alla sua sostanza reale, è intrisa l’aspirazione conoscitiva della poesia. Esiste un mondo poetico che non si può distinguere da quello in cui viviamo, o, più propriamente, dal mondo in cui un giorno vivremo: dato che ciò che dà al poeta la forza che ha, che aveva o dovrebbe avere, è che egli crea il mondo verso il quale incessantemente ci volgiamo anche senza saperlo e che egli dà alla vita quelle supreme finzioni senza le quali non riusciremmo a pensarla.19

Il mondo immaginato non sta al di là del nostro, ma è da esso indistinguibile, ché la finzione è suprema dove permette di tornare a pensare, a toccare le cose con la mente. Sogno di un sogno, la giustizia poetica, come possibilità di ciò che deve accadere, è l’esperienza ove, per la durata del poema, il mondo in cui viviamo è insieme quello in cui vivremo. La forma di questa conoscenza sa28

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rebbe allora la possibilità di un ordine giusto di cui ci parla Seamus Heaney:

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Per la durata della poesia, la nostra percezione del mondo è nell’ordine giusto anche se poi il mondo stesso dovesse seguire un corso disordinato e disastroso.20

Un’onestà e una fedeltà alle cose che si consuma nell’apparenza. Una finzione che proprio perché tale fa contatto con il mondo, ci lascia percepire le cose che lo abitano. Un luogo eventuale, su cui non avremmo mai contato. Un mondo che sta dentro il mondo, un ordine che è e non è di esso. Una forma del mentire onestamente. Un discorso ipotetico sulla conoscenza, sotto l’angolo di incidenza della giustizia. Per il suo approccio obliquo al vero – questa suprema finzione – che se mai le è dato, lo è solo nella forma dell’apparenza, l’idea della poesia è una critica dell’idea di verità piuttosto che un’altra formula positiva per essa.

1  György Lukács, Teoria del romanzo, a cura di Giuseppe Raciti, SE, Milano 2004, p. 23. 2  Wallace Stevens, L’immaginazione come valore, in L’angelo necessario. Saggi sulla realtà e l’immaginazione, a cura di Massimo Bacigalupo, traduzione di Gino Scatasta, SE, Milano 2000, p. 122. 3  Ibidem, p. 131. 4  Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, introduzione e cura di Stefano Petrucciani, Einaudi, Torino 2004, pp. 335-336. 5  Aristotele, Poetica, 1451b 5-9. 6  William Shakespeare, Amleto, III.iv.207.

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7  Paul Celan, La poesia di Osip Mandel’štam, in La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, p. 48. 8  Walt Whitman, Foglie d’erba, versioni e prefazione di Enzo Giachino, con un saggio di Franco Buffoni, Einaudi, Torino 1993, p. 437. Per una lettura civile del poeta giudice cfr. invece Martha C. Nussbaum, Il giudizio del poeta. Immaginazione letteraria e vita civile, traduzione di Giovanna Bettini, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 100 e ss. 9  Wallace Stevens, L’immagine del giovane come poeta virile, in L’angelo necessario, p. 50. 10  Id., Il nobile cavaliere e il suono delle parole, ibi, p. 37. 11  Id., L’immagine del giovane come poeta virile, p. 55. 12  Ibidem, p. 44. 13  Id., Una poesia di Marianne Moore, in L’angelo necessario, p. 87. 14  Cfr. Ferdinando Tartaglia, Tesi per la fine del problema di Dio, con un saggio di Sergio Quinzio, Adelphi, Milano 2002, p. 54. 15  Wallace Stevens, L’immagine del giovane come poeta virile, p. 50. 16  Id., Effetti dell’analogia, in L’angelo necessario, p. 113. 17  Ibidem. 18  Paul Celan, Il meridiano, in La verità della poesia, p. 17. 19  Wallace Stevens, Il nobile cavaliere e il suono delle parole, p. 35. 20  Seamus Heaney, Sia dato spazio alla poesia, in Sulla poesia, a cura di Marco Sonzogni, Archinto, Milano 2005, p. 33.

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Metriche della felicità

Monitoraggi. Come potrebbe uno sguardo poetico orientarci nella perlustrazione della felicità? Nulla ci soccorre nel pensare cosa potrebbe mai essere un monitoraggio poetico del benessere. Potrebbe un tale sguardo aiutarci a quantificare dati che misurino la qualità della vita? Viene subito il sospetto che la domanda sia mal posta: ché la poesia ha un’attitudine frontale, e vorrebbe accogliere tutto della vita: dirne il bene e il male, la durezza accanto alla dolcezza, l’infelicità senza desideri e la felicità possibile. Uno sguardo che vorrebbe accogliere ogni cosa. Uno sguardo che ci pone il problema del “come” piuttosto che del “che cosa”. Poesia e felicità, o del come guardare. Come dovremmo guardare per afferrare gli aspetti qualitativi della vita? Misura del respiro. La poesia è una forma del vivere ma anche una tecnica, un bagaglio di strumenti che mettono in forma le cose. Non dovremmo mai dimenticare che, in forma libera o chiusa, la poesia è sempre una pratica metrica: essa pretende una misura espressiva, una metrica del linguaggio, che in epoca moderna assume, come altri aspetti delle transazioni umane, una forte torsione quantitativa. I versi si lasciano misurare secondo il numero di 31

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sillabe che contengono: ed è proprio questa definizione metrica che configura la forma poetica. Ma la scansione del linguaggio è insieme una misura del respiro, un’articolazione ritmica di quel soffio che segna il limite tra interno e esterno, di una soggettività che cerca espressione, e che proprio attraverso la costrizione metrica del verso si lascia misurare dagli altri, si rende comunicabile pur nella sottrazione. Anche la poesia è allora parte di quella spinta alla quantificazione che sorregge il moderno, e l’idea di una metrica della felicità è, contro ogni comprensione ingenua ed edulcorata, un’ immagine felicemente poetica. Quantificare in una luce strana. Eppure è una ben strana quantificazione che accade in poesia. Riversandosi nel mondo, lo sguardo poetico quantifica ciò che esiste, ma in vista di ciò che non è dato: non solo in vista di un’esigenza o di un obiettivo futuro, rinviato nel tempo, ma in direzione di qualcosa che non potrebbe mai esistere, e che proprio per questo non è rinviabile. Così scriveva Paul Celan: Ricerca topologica? Certamente! Ma alla luce di ciò che della ricerca è oggetto: alla luce dell’U-topia. E l’uomo? E la creatura? In questa luce.1

Che cosa significherà misurare il mondo in questa luce strana? Che cosa osserva, o meglio, come osserva chi sta sotto l’angolo d’incidenza di questa luce? È uno sguardo 32

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che principia da un luogo, lo perlustra palmarmente, eppure con una direzionalità estranea. È uno sguardo che, installato in un qualche luogo, reclama un altrove come inderogabilmente nostro, qui e ora. Il più immancabile poeta italiano contemporaneo, Andrea Zanzotto, ne ha parlato una volta in questi termini: Sì sa che, forse, il fine ultimo della poesia è il paradiso, e che un’esperienza paradisiaca, il “paradisiaco”, è il miraggio più o meno confessato di ogni poeta, miraggio dalle più diverse coloriture, ma terribilmente uno nel suo carattere. Pochi toccarono questo nonluogo dell’esperienza, anche se ogni testo, perfino il più “infernale”, ha un qualche rapporto con questo non-luogo.2

Nel luogo che misura, la poesia reclama un non-luogo, e questa richiesta non ammette deroga: non si tratta dello stato paradisiaco come della fuga in un altro mondo, il rinvio alla fine dei tempi. Si tratta invece di un’idea di felicità che viene reclamata per questo istante, perché uno spiraglio nel cielo si apra su questa terra, nella prontezza dell’ora, come il fiocco di neve che, in A piece of the storm, entra nella camera di Mark Strand: Frammento di tempesta Dall’ombra delle cupole nella città delle cupole, un fiocco di neve, tormenta al singolare, impalpabile, è entrato in camera tua e s’è fatto strada fino al bracciolo della poltrona dove tu, alzando lo sguardo dal libro, lo scorgesti nell’attimo in cui si posava. Tutto qui. Null’altro che un solenne destarsi alla brevità, al sollevarsi e cadere dell’attenzione, rapido,

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un tempo tra tempi, funerale senza fiori. Null’altro tranne la sensazione che questo frammento di tempesta, dissoltosi davanti ai tuoi occhi possa tornare, che qualcuno negli anni a venire, seduta come adesso sei tu, [possa dire: «È ora. L’aria è pronta. C’è uno spiraglio nel cielo».3

La luce utopica della poesia è una certa idea di felicità. Non è l’esperienza stessa della felicità – pochi, come scriveva Zanzotto, toccarono questo non-luogo dell’esperienza – bensì la rivendicazione che la sua pretesa non sia rinviabile, che essa sia misurata su questa terra, dovesse pure quest’ultima andare in pezzi sotto quella luce radiante. Per una promessa. La poesia s’alimenta della luce utopica di un’idea di felicità e di questa può nutrire anche la nostra esperienza, affinando il nostro sguardo, rendendoci sensibili, educandoci a vedere cose invisibili, non-luoghi, chimere. Ma pur rinnovando la promessa della felicità essa non è di per sé l’esperienza di quest’ultima, ma s’inscrive piuttosto nella durezza di un luogo mortale. Come scrive Seamus Heaney: la poesia soddisfa l’esigenza contraddittoria che la coscienza prova in momenti di estrema crisi: il bisogno, da un lato, di dire la verità, dura e punitiva; dall’altro, di non indurire la mente al punto che essa giunga a rinnegare il proprio desiderio di dolcezza e di fiducia.4

Di quale promessa si tratta? In gioco qui è la dimensione radicale della felicità: di una felicità che non si lascia ridurre al benessere fisico e economico, e neppure 34

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alla questione etica della vita buona o al rinvio religioso a un mondo a venire. Di una felicità che sporge immancabilmente oltre ogni processo oggettivo e aspirazione collettiva. È una dimensione radicalmente individuale della felicità di cui la poesia si fa portatrice: l’idea inderogabile della felicità come possibilità di un’individuazione compiuta, della messa in salvo della singolarità. Di ogni singolarità, come scrive Mark Strand in Keeping things whole: Preservare la compiutezza delle cose In un prato io sono l’assenza del prato. È sempre così. Ovunque sia sono ciò che manca. Quando cammino fondo l’aria e sempre l’aria rifluisce a colmare gli spazi in cui è stato il mio corpo. Tutti abbiamo motivi per muoverci. Io mi muovo per preservare la compiutezza delle cose.

Che cosa dice ai nostri discorsi sulla felicità pubblica quest’esigenza di mettere in salvo la voce privata, se non 35

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che vi è un elemento soggettivo senza il quale nulla potrà mai essere percepito come adeguato alla felicità? I bisogni allocati e quantificati socialmente, per esprimersi con Ágnes Heller, non determinano i bisogni individuali:5 questi, pur essendo plasmati dai processi sociali di allocazione e quantificazione dei bisogni, sono in ultima istanza rimandati ai singoli individui per la modalità della loro attuazione. Ma la spinta utopica della poesia va oltre, ché essa sembra dar voce a un bisogno veramente radicale, un bisogno qualitativo apparentemente non quantificabile né attuabile. Contromovimento. Non dovremmo però incorrere nell’errore di dimenticare quanto la poesia abbia a che fare con uno sforzo di mappatura del nostro luogo terreno, di misurazione del qui nella luce dell’altrove. Essa non predica la fuga dal mondo, ma è una vibrante protesta contro di essa, e pretende di legare il bisogno radicale all’istante, alla contingenza e alla caducità delle cose, il non luogo al luogo, la qualità alla quantità. Forse l’idea poetica della felicità potrebbe meglio essere caratterizzata come un’idea della trasfigurazione: un movimento che dal basso si volge all’alto, allo spiraglio nel cielo, per tornare di qui a dare evidenza alle cose. A convertire subitaneamente la quantità, la metrica del luogo, in qualità. A trasfigurarla in una luce strana. A tradurre questa quantità in una forma unica, singolare. È questa dialettica di quantità e qualità, questo doppio movimento paradossale ma necessario, che la poesia si sforza di ricordarci come proprio di un’idea di felicità che ci appartiene e 36

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supera, e cui siamo consegnati in questo mondo. Con le parole di Wallace Stevens:

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Esiste un mondo poetico che non si può distinguere da quello in cui viviamo, o, più propriamente, dal mondo in cui un giorno vivremo.6

Quest’indistinzione tra il mondo poetico, il mondo in cui viviamo e il mondo in cui vivremo, può essere colta con il potere della suprema finzione: «il potere della mente sulla potenzialità delle cose».7 La potenzialità delle cose. Dare credito alla poesia significa riconoscere il potere dell’immaginazione come qualcosa che agisce dentro il mondo in cui viviamo. Questo è il potere della mente sulla potenzialità delle cose. L’idea di felicità radicale può essere toccata solo con l’immaginazione, ché solo questa ha il potere di dischiudere la potenzialità delle cose. Un richiamo che agisce nel mondo in cui viviamo, perché allo stesso tempo ci ricorda che la nostra capacita immaginativa è già una parte del nostro spazio sociale, che ne è plasmato. È in questa luce trasfigurante che dobbiamo guardare alla mossa con cui Martha Nussbaum ha incluso l’immaginazione nella lista della capacità umane fondamentali: capacità il cui sviluppo integro è condizione del benessere individuale e dovrebbe essere garantito dalle istituzioni politiche.8 La poesia è quell’attività espressiva che, portando a fioritura la nostra capacità immaginativa, ci rammenta che essa è un bene propriamente umano, ma insieme la 37

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radicalizza: una componente costitutiva di ogni metrica della felicità, e insieme qualcosa che ci chiede di estendere le metriche date alla luce di un’immagine alternativa di ciò che potrebbe essere. Limpida luce. Lo sguardo poetico allora può farci apprezzare l’immaginazione non solo come una delle dimensioni del benessere – un aspetto della dimensione psicologico-cognitiva – ma insieme come quella cifra espressiva che taglia trasversalmente le altre dimensioni, giacché, come scriveva Stevens, «noi viviamo nei concetti dell’immaginazione prima che la ragione lo stabilisca».9 Un monitoraggio poetico del benessere, tornando all’inizio, non si volgerà al che cosa – quasi vi fossero degli oggetti privilegiati da osservare da questa prospettiva – ma al come dello sguardo, perché esso possa essere all’altezza della vita immaginata e vedere la «limpida luce che orla il colore delle ombre del mondo», come in questi versi di Franco Fortini: vice veris

Mai una primavera come questa È venuta sul mondo. Certo è un giorno Da molto tempo a me promesso questo Dove tutto il mio sguardo si fa eguale Ai mie confini, riposando; e quanta Calma giustizia nel pensiero è in fiore Quanto limpida luce orna il colore Delle ombre del mondo. Ora conosco Perché mai dagli inverni ove a fatica Si levò questo esistere mio vivo

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M’è rimasto quel nome, che mi scrivo Su quest’aria d’aprile, o sola antica E perduta e oltre il pianto sempre cara Immagine d’amore mia compagna.

1  Paul Celan, Il meridiano, in La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, p. 17. 2  Andrea Zanzotto, La freccia dei Diari, in Fantasie di avvicinamento, ora in Scritti sulla letteratura. Volume primo, a cura di Gian Mario Villalta, Mondadori, Milano 2001, p. 41. 3  Mark Strand, L’inizio di una sedia, a cura di Damiano Abeni, Donzelli, Roma 1999, p. 29. 4  Seamus Heaney, Sia dato credito alla poesia, in Sulla poesia, a cura di Marco Sonzogni, Archinto, Milano 2005 p. 81. 5  Ágnes Heller, La bellezza della persona buona, a cura di Brenda Biagiotti, Diabasis, Reggio Emilia 2009. 6  Wallace Stevens, Il nobile cavaliere e il suono delle parole, in L’angelo necessario. Saggi sulla realtà e l’immaginazione, a cura di Massimo Bacigalupo, SE, Milano 2000 p. 35. 7  Id., L’immaginazione come valore, in L’angelo necessario, p. 117. 8  Cfr. Martha Nussbaum, Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del PIL, il Mulino, Bologna 2012. 9  Wallace Stevens, L’immaginazione come valore, p. 131.

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Individuazione senza riserve

Dire l’individuale. L’individuale è tema d’incontro e scontro. La nominazione dell’individuale, l’ipotesi di accedervi conoscitivamente, è una questione intorno alla quale poesia, romanzo e filosofia, intese come differenti forme espressive, ordini di discorso e anche tradizioni, convergono a discutere, mettendo in campo strategie differenti, che si diversificano, entrano in conflitto, mutano nel tempo. prendi un’arancia, prendine un’altra allinea 365 arance su di un parapetto 365 macchie sul bordo del fiume: prendi un’arancia, sbucciala a morsi scoprine il bianco sotto la pelle macchia di sangue la linea dei denti prendi un’arancia, apriti un varco posa la testa sulla pietra del muro: 365 arance dense di luce.

Qui si parla di un’arancia, o meglio di 3-6-5 arance, 365 arance poste sul parapetto di un fiume, un fiume di Sarajevo. La questione dell’individualità, del dire l’individualità, non riguarda soltanto gli individui 41

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in quanto soggetti, ma anche le cose, gli oggetti e gli eventi. In questo caso il dire non è ancora conoscere, ma nominare, fissare, in un certo senso cercare di puntare dritto, di mettere nel mirino, attraverso uno strumento dell’espressione poetica, l’anafora, il prendere ribattuto che torna a fissare, cerca di puntare un oggetto e dirlo. Un oggetto, uno e plurimo; perché è quell’arancia ma è anche l’altra arancia che segue. Effettivamente quando noi diciamo un oggetto, e cerchiamo di dirlo nella sua individualità, nella sua unicità, ci troviamo già, come in questo caso, a dirne una serie. Quindi ci troviamo confrontati inevitabilmente con la questione della serialità. La serialità è un problema che nel confrontarci con gli individui e con gli oggetti non possiamo evitare.1 Ma nello stesso tempo, dentro la poesia, nell’espressione poetica, c’è la pretesa di dire l’individuale e di dirlo nella sua individuazione radicale. Nella riflessione poetica – e questo è uno dei punti da cui nasce la tensione con l’espressione filosofica – è stata più volte e da diversi autori richiamata l’idea per cui la poesia avrebbe a che fare, come scriveva Celan, con l’individuazione radicale, oppure, per Ponge, con la differenza specifica degli individui.2 Walt Whitman, per richiamare un poeta appartenente a un’altra tradizione, sosteneva che il poeta è l’uomo equanime, che intende dare giustizia alla realtà particolare delle cose.3 Il destino della cosa. È molto forte quest’idea dell’individuazione radicale e anche dell’individuazione completa delle cose come un’aspirazione della poesia: un’aspirazio42

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ne a rendere giustizia alle cose, a dirle nella loro pienezza. Quest’aspirazione della poesia s’interseca con un tema che in filosofia è stato pensato fin dall’estetica classica, da Aristotele, e che in età moderna è stato talvolta chiamato «giustizia poetica»:4 una giustizia di cui «non sappiamo nulla», secondo Wallace Stevens,5 e che per Whitman faceva capo alla questione di rendere giustizia alla particolarità delle cose. Il dire l’individuale è animato da una tensione che, prima ancora che conoscitiva, è un’aspirazione etica a rendere giustizia alle cose, a render loro giustizia nella loro individualità, nella loro determinazione completa. La poesia secondo Aristotele ci dice come le cose devono essere, e in questo sarebbe superiore alla storia.6 Non nel senso che la poesia cerchi di spiegare o sottomettere le cose a una norma universale astratta. Essa cerca di dire la destinazione, la determinazione interna della cosa, il suo destino: il destino della cosa. Quest’aspirazione è il nucleo utopico dell’espressione poetica. Ma il fatto che vi sia un’aspirazione in tal senso non significa che essa sia esigibile, che tale pretesa sia riscattabile. D’altra parte quest’idea della giustizia poetica da rendere alle cose, alle persone, agli eventi, sembra avere a che fare, comunque, con la questione della conoscenza. In essa si cela la pretesa che la poesia possa costituire, attraverso quest’approssimarsi all’individuale, una forma possibile di conoscenza. Una forma possibile di conoscenza che altre modalità espressive, basate per esempio sull’argomentazione concettuale, come nel caso della filosofia, o magari principalmente sulla narrazione, come il romanzo, non sarebbero in grado di afferrare fino in fondo. Ed è 43

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per questo che tale aspirazione conoscitiva, ponendosi sul piano di un rapporto con la realtà – e con la sua verità –, è almeno dal tempo di Platone al centro di un aspro conflitto con il sapere filosofico, il quale avanza una pretesa esclusiva in questo campo. La possibilità di una conoscenza eventuale dell’individuale, di un individuale colto non semplicemente come caso particolare di una norma, quale nota caratteristica di un concetto, ma afferrato nella sua ecceità – nell’elemento che non è riportabile a norma ma è da sé norma esemplare – è uno dei punti su cui la poesia sfida il pensiero. Verso il non-identico. Si è detto dell’aspirazione della poesia a dire l’individuale e di come quest’aspirazione, nella misura in cui avanza un’ipotesi conoscitiva, si ponga anche in alternativa rispetto ad altre possibili forme di conoscenza, come quella filosofica, di tipo concettuale. D’altra parte, non saremmo del tutto equanimi nei confronti della tradizione filosofica se ci limitassimo a questo; occorre anche ricordare un movimento osservabile nella filosofia, per lo meno posthegeliana, e cioè il tentativo di approssimarsi all’esistenza singolare. Almeno con Sören Kierkegaard prende avvio una tendenza a porre come obiettivo della filosofia la nominazione e la conoscenza di ciò che Adorno denominerà «non-identico», quell’elemento che sfugge all’identità astratta, all’universale che cancella le differenze.7 Qui si avverte una dialettica interna alla stessa espressione filosofica, che senz’altro lotta contro i limiti della concettualità. Anche un filosofo come Wittgenstein, in fondo, su questo 44

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ha molto lottato con se stesso, con la tradizione da cui proveniva. In autori quali Nietzsche, Adorno, Wittgenstein si nota però che, per quanto l’espressione filosofica cerchi di ampliare il tradizionale campo e focus del suo discorso, e quindi di rompere la trama concettuale, essa non può farlo se non attraverso i concetti: può cercare di rompere l’imperio del concetto solo attraverso il concetto e ciò che lega i concetti tra di loro. E dunque non può abolire ma soltanto può spostare un po’ più in là i limiti del concettuale, provando ad esempio a introdurre delle innovazioni sintattiche, facendo uso di una sintassi meno argomentativa e più indeterminata, come quella che troviamo in poesia. È quanto hanno intrapreso autori come Nietzsche e Derrida: e tuttavia questo non rimane il centro del discorso filosofico, che in definitiva è assertorio e proposizionale. Biometrie. Se nella forma espressiva concettuale argomentativa della filosofia – pur con le sue variazioni – vi è comunque un tentativo, dall’interno, di smantellare se stessa e quindi di andare oltre i propri limiti, bisogna anche dire che l’aspirazione della poesia a dire l’individualità – la centratura della poesia sull’individuale – conosce un paradosso, legato al fatto che la poesia è insieme quantità e qualità. Consideriamo qui la biopolitica, vale a dire quell’insieme di tecniche, strategie, ma anche saperi che, secondo la ricostruzione di Michel Foucault,8 sono diventati sempre più nella modernità forme di governo dei corpi, attraverso l’elaborazione non solo di modalità di controllo, ma anche di forme di sapere che cercano di 45

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qualificarli, trattarli e identificarli a partire dai loro tratti peculiari. La modernità è un esperimento biopolitico, e la biopolitica è molto legata allo sviluppo di saperi biometrici, forme di misurazione del vivente, in cui sempre più si tende a cercare di quantificare la vita a partire da tratti corporei fisiologicamente irripetibili. Il tracciato dell’iride, l’impronta digitale, la voce. Oggi è disponibile una serie di tecnologie biometriche, di refidentificazione e controllo, legate a forme di sapere volte a quantificare l’elemento qualitativo, irripetibilmente individuale. Al cuore del paradosso sta il fatto che la poesia stessa è in un certo senso una tecnica biometrica arcaica, includendo elementi di quantificazione, misurazione, anche se in un modo che essa spera di invertire. questo, che tu vedi, corpo che giace tra due corpi, questo sono io, che tu vedi, non importa come il corpo si muova, dove abbia luogo la scena come ombra nel vano degli occhi come scena sul linoleum verde questo, è un corpo che cede, opaco s’adegua alla pressione degli arti, s’inoltra nella cecità terrestre, questo, riflesso in sillabe è il mio volto su cui si alternano, sconnesse, altre membra, a due a due deformano l’impronta, il bordo che ti contiene, questi due corpi, che tu ora vedi,

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da entrambi i lati con moti divergenti, freddi lambiscono i confini, i profili svuotano di me, ammasso di vene irretito nel battito sordo degli arti,

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cono deforme che sul linoleum striscia, intaglia ombre alle pareti percorse da carne bianca e remota.

La possibilità di misurare la vita. Misurarla attraverso una tecnica di identificazione peculiare quale la poesia, in un certo senso essa stessa una forma di biopotere, che si propone come debole contropotere rispetto alla forme politiche e sociali di controllo biometrico dell’individualità. La poesia quale tentativo di andare dalla quantità alla qualità, e non dalla qualità alla quantità: in questo senso essa è il tentativo utopico di invertire la direzione sociale del biopotere, che invece tende a ridurre la qualità a quantità per poterla controllare meglio. Nella poesia moderna esiste una scansione metrica che tende a quantificare il numero di sillabe, nel modo di articolare il discorso. La poesia, che pur vuole dire l’individuale dal suo interno, deve confrontarsi con il mondo della quantità, deve confrontarsi con l’elemento seriale. Deve confrontarsi, sostiene W.H. Auden, con la questione della massa. Della massa fisica e della folla.9 Dire la vergine. La poesia si pone certo, per Auden, dal punto di vista della dinamica, della vergine, e cioè dell’elemento singolare e assolutamente qualitativo. E tuttavia, 47

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il suo sforzo non consiste nel tentativo di «dire la vergine», l’elemento singolare, nell’oblio della dinamica, della massa, della dimensione quantitativa. Essa è piuttosto uno sforzo di pensare la qualità nella quantità. Auden ne parla nel saggio La vergine e la dinamica, titolo apparentemente strano e bizzarro ma che tocca un problema centrale: il rapporto appunto tra la dimensione quantificabile dell’esistenza – di cui si occupano la scienza moderna, un certo sapere filosofico positivista e le tecniche sociali del biopotere – e la dimensione qualitativa, cui la poesia aspira. Ma Auden complica il discorso e dice che la poesia vuole pensare la qualità nella quantità: vuole pensare il mondo della necessità come il mondo della libertà. La poesia, in questo senso, può avere delle limitazioni rispetto al romanzo, che cerca di dire effettivamente tutto e mette in campo tutti i possibili mezzi espressivi. E tuttavia la poesia non è aliena dalla capacità di dire le quantità, le merci, le cose infime: però cerca di dirle senza mai dimenticare la questione dell’aspirazione all’individuale. Per Auden, in definitiva, la poesia cerca di pensare insieme la dinamica e la vergine: prova a pensare la massa come una società di persone e di individui. La poesia in tal senso non è aliena da quell’utopia politica che, pur non essendo posta in primo piano all’interno della nostra società, è tuttavia indispensabile per comprendere molte delle cose che diciamo e facciamo. E quindi il fatto che l’utopia non sia l’ideale politico direttivo della società, non significa che non rimanga come controcanto dei nostri discorsi e loro condizione di senso. L’individuazione radicale cui la poesia tende è l’utopia di un legame soli48

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dale tra individui, in un senso allargato del termine, che includa le persone, gli animali e le cose. Un mondo in frammenti. Consideriamo la questione del senso, partendo questa volta non dal punto di vista poetico, ma dalla riflessione filosofica, che in questo è in sintonia con la condizione di partenza della poesia. Nel pensiero moderno, almeno tra fine Settecento e inizio Ottocento, si manifesta una consapevolezza che è stata detta in diversi modi: uno di questi è nichilismo; un’altra parola è scissione. È la consapevolezza che il senso non è dato. Noi partiamo da una condizione in cui iniziamo ad articolare i nostri discorsi, a porci delle domande: non dobbiamo presupporre che vi sia un insieme sensato. Hegel chiamava questa condizione Entzweiung, scissione o, anche, in Fede e sapere, «morte di Dio»:10 espressione che, al di là del significato teologico, sta a indicare una condizione di rottura, a partire dalla quale si tratta poi di cercare di ricostruire un senso dello stare al mondo, del fare esperienza. Questa consapevolezza si è radicalizzata in seguito, conducendo pensatori quali Benjamin e Adorno a sostenere che l’interpretazione filosofica del mondo dovrebbe partire dall’idea che la realtà ci si dia come un insieme di frammenti, torsi, non già dotati di senso, ma che al limite presentano delle tracce quasi allegoriche che ci rinviano e che ci chiamano a uno sforzo d’interpretazione e anche di rottura del loro carattere inerziale.11 Si tratta di una condizione di partenza comune alla grande filosofia del Novecento e alla grande esperienza poetica: non possia49

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mo trovare il senso già dato, ma nel nostro piccolo – e in questo senso il Candide di Voltaire rimane un manuale di sopravvivenza – dobbiamo cercare di costruire qualcosa e di dare un nome a un’aspirazione che, come l’aspirazione a dire l’individuale, è sempre un’aspirazione alla felicità. Se questa strana specie di biopolitica, la biopolitica delle parole, del dettato poetico, serve a qualcosa, è a dire che non dobbiamo dimenticare la nostra aspirazione alla felicità, qualcosa che si possa opporre a discorsi che invece tendono a racchiuderci, a limitarci, a privarci di un linguaggio che ecceda l’hic et nunc. Rinominare la giustizia. L’idea che la poesia abbia a che fare, come indicava Wallace Stevens, con una giustizia di cui non sappiamo ancora nulla, ci ricorda che vi sono delle altre sfere di giustizia che probabilmente, concentrandoci sui modi noti di pensare la giustizia umana, tendiamo a dimenticare. Dunque non dobbiamo restare intrappolati nella disillusione, perché il fatto che una certa progettualità politica sia crollata è anche liberatorio, e non chiude la partita con l’utopia, non chiude la partita con l’individualità, non chiude la partita con la solidarietà. Audre Lorde, da nera, lesbica, madre, guerriera, poeta, come si definiva e posizionava – rinnovando e trasformando l’attitudine di Whitman del poeta quale arbitro del diverso – scriveva che «la poesia è il modo con cui contribuiamo a dar nome a ciò che non ha nome, così ché possa essere pensato».12 In queste parole sentiamo ancora risuonare quel rinvio a una giustizia di cui non sappiamo nulla, un appello a sfere «senza nome e senza forma» che 50

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si possono anticipare nell’immaginazione poetica e nella possibilità che essa offre – per riprendere il titolo di un altro saggio di Lorde – di «trasformazione del silenzio in linguaggio e azione».13 Perché c’è una giustizia che non è solo politica, ma anche intergenerazionale, di classe, di genere e interspecifica, riguardante il nostro rapporto con gli altri viventi, e che concentrandoci solo sulla dimensione politica noi perdiamo di vista: una giustizia che ha a che fare con il nostro rapporto con l’ambiente e con le cose e con un senso più vasto del vivere che ancora ci sfugge. La poesia, la letteratura in generale e anche la filosofia – in fondo, il fine di ogni metafisica è utopico – ci ricordano che la giustizia è sempre in un certo senso da rinominare, sempre senza nome: noi non ne conosciamo già perfettamente i confini e dobbiamo guardare anche altrove rispetto alle tracce precedentemente battute. Riflettere sull’individualità, ripercorrere il modo in cui varie forme di sapere e varie tradizioni si muovono intorno a essa, è anche un modo per ricordare i nostri limiti nel dare nome alle aspirazioni che nutriamo.

1  Cfr. Guido Mazzoni, I nomi propri e gli uomini medi. Romanzo, scienze umane, democrazia, in “Between”, V (2015), 10, . 2  Cfr. Paul Celan, Il meridiano, in La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, p. 15; Francis Ponge, Le carnet du bois des pins, in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1999, pp. 398-99. 3  Cfr. Walt Whitman, Foglie d’erba, versioni e prefazione di Enzo Giachino, con un saggio di Franco Buffoni, Einaudi, Torino 1993, p. 437.

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Cfr. Thomas Rymer, The Tragedies of the Last Age Considered, 1678. Wallace Stevens, L’immagine del giovane come poeta virile, in L’angelo necessario. Saggi sulla realtà e l’immaginazione, a cura di Massimo Bacigalupo, SE, Milano 2000 p. 50. 6  Aristotele, Poetica, 1451b 5-9. 7  Cfr. Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, introduzione e cura di Stefano Petrucciani, Einaudi, Torino 2004. 8  Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), traduzione di Mauro Bertani e Valeria Zini Feltrinelli, Milano 2015. 9  Wystan H. Auden, La vergine e la dinamica, in La mano del tintore, Adelphi, Milano 1999, pp. 81-93. 10  Georg W.F. Hegel, Fede e sapere, in Primi scritti critici, introduzione, traduzione e note a cura di Remo Bodei, Mursia, Milano 1971. 11  Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1975; Theodor W. Adorno, Tesi sul linguaggio del filosofo, in L’attualità della filosofia. Tesi all’origine del pensiero critico, traduzione, note e saggio introduttivo di Mario Farina, Mimesis, Milano 2009, pp. 81-86. 12  Audre Lorde, La poesia non è un lusso, in Sorella outsider. Gli scritti politici di Audre Lorde, traduzione di Margherita Giacobino e Marta Gianello Guida, Il Dito e La Luna, Milano 2014, pp. 74-75. 13  Cfr. Id., La trasformazione del silenzio in linguaggio e azione, in Sorella outsider. 4 

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Una vita più vasta

Mutazione radicale. Due sono i modelli usuali, consolidati, del rapporto tra poesia e teatro. Da un lato la reviviscenza si risolve nella messa in scena del testo, in una trasposizione che lo fa rivivere nell’azione scenica, con un atto verbalizzante, attraverso un’esecuzione che privilegia la prosodia della lingua comune e assume la recitazione dell’epoca come metro di riferimento. Nel modello della performance, invece, la recitazione non si limita a far rivivere un testo dato, pregresso, ma è intesa come atto autoriale, capace di produrre da sé senso e di darsi un metro autonomo. La parola è intesa nella sua fisicità come corpo sonoro e l’attore da interprete diventa performer. Un teatro che cerca di fondare un’idea nuova di recitazione, il cui protagonista è l’attore-poeta. Ma il teatro di poesia non si lascia ridurre a queste alternative. Il Manifesto per il nuovo teatro di Pasolini faceva corpo con quest’inesauribilità.1 Il problema di un teatro nuovo rispondeva a un’esigenza di mutamento radicale: il bisogno di un pratica che travalicasse le nostre attese, la gabbia del reale sull’irreale, e con ciò la stessa idea di teatro che si è formata a partire dalla tradizione e dal regime del quotidiano. Invocando l’avvento di una novità pura – per usare il linguaggio di Ferdinando Tartaglia2 – di una tra53

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smutazione e di una futurazione che deformi la partitura dell’ordinario, il manifesto chiamava dal futuro quel «disordine poetico» della realtà cui Federico Tiezzi avrebbe intonato il suo appello per un teatro di poesia.3 Il teatro della chiacchiera e il teatro dell’urlo cui Pier Paolo Pasolini opponeva la sua novitazione, possono così essere ben visti come le premesse dei due modelli consolidati del rapporto tra poesia e teatro. Il modello della reviviscenza è una conseguenza dell’abuso perpetuato dal teatro della chiacchiera sulla poesia. La parola è sostituita dalla prosodia della chiacchiera quotidiana, assunta a sfondo della trasposizione scenica del testo. Analogamente il modello della performance può essere visto come la prosecuzione con mezzi poetici del teatro dell’urlo, in cui la parola è dissacrata a favore della presenza fisica pura, della voce nella sua nudità e nella sua corporeità sociale e rituale. Veicoli viventi. Vi è però un rapporto tra poesia e teatro che si sottrae pure alla via di fuga pasoliniana, condensata nella formula del teatro di parola: una formula che non soddisfa quell’idea di teatro di poesia che pure il tentativo di Pasolini avrebbe evocato. Il teatro di parola, come teatro senza azione, in cui la messa in scena è totalmente abolita, diventa teatro di dibattito, scambio di idee. Nella crisi della rappresentazione, cui già il teatro di poesia inglese del secondo Novecento voleva rispondere,4 si incuneava Pasolini, con la sua esigenza di tenere le distanze dal naturalismo della chiacchiera e dalla spoliazione di senso dell’urlo: eppure il suo teatro di parola, facendosi 54

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veicolo vivente del testo a prezzo di una rinuncia a tutti i mezzi teatrali e alle loro potenzialità trasformative, finiva per ricadere nel raggio del testualismo della reviviscenza, e della riduzione avanguardistica della poesia a questione di linguaggio. Del Manifesto di Pasolini rimane allora l’eredità della novazione, della spinta a una mutazione radicale, piuttosto che una fattispecie esemplare, compiuta, del teatro di poesia. Così come l’idea del teatro come veicolo vivente del testo può sopravvivere solo se ciò non viene demandato alla parola sola, ma all’integralità dei mezzi teatrali, visti come costituitivi del testo e del suo metro. Corpo metamorfico. Il problema del teatro di poesia ci chiama allora a una diversa relazione tra parola, testo, esecuzione, azione scenica. E l’elemento poetico andrà colto su un piano ulteriore: sullo sfondo dell’analogia, della somiglianza come trasmutazione. Il nesso tra testo poetico e azione scenica va così reinquadrato in una relazione più ampia di somiglianza, che stringe il corpo della nostra immaginazione e la struttura del reale. Questa gamma di somiglianze si lascia vedere nel fascio di luce dell’idea di poesia come metafora espressa da Wallace Stevens: «ciò che crea somiglianza attraverso l’immaginazione».5 La produzione di analogie non è però semplicemente l’opera dell’immaginazione soggettiva del poeta, ma è parte della struttura del reale. Talmente vasto è il corpo ovidiano della metamorfosi poetica. Il reale, per la sconfinata gamma di rassomiglianze che contiene, 55

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è un processo analogizzante, una trama di finzioni, e la poesia è uno degli effetti prodotti da tale gioco analogico. Un’analogia che, tracciando la somiglianza tra le cose, ne identifica e fonda la realtà particolare, individuata. Questa intensificazione attraverso l’analogia e la somiglianza porta nella luce l’individualità e la determina: è l’effetto metamorfico dell’immaginazione come struttura del reale. Soddisfacendo il desiderio di somiglianza che è nelle cose, la funzione poetica le trasfigura, e in questo processo metaforico le lascia essere nella loro individualità. La figura di Dioniso-Zagreus può così tornare nell’Orfeo di Rilke, il cantore tracio della metamorfosi, capace di dare voce alla melodia individuata delle cose caduche. Una vita più vasta. Su questo livello ontologico è possibile tornare a comprendere il rapporto che si stabilisce tra la poesia e le arti. Una relazione che non va intesa a partire dal testo poetico come contenuto dato, ma dall’idea della poesia come dimensione della somiglianza metamorfica, di cui la parola è solo un effetto. È in virtù di essa che noi possiamo cogliere l’elemento poetico di un quadro, la profonda affinità tra una poesia e una rappresentazione pittorica, un brano musicale. Anche il teatro di poesia è un effetto analogico determinato, un insieme di relazioni che si generano attraverso l’intensificazione e la determinazione dei termini – testo, azione, corpo dell’attore, musica. Nello stesso tempo il teatro di poesia è un campo delle metamorfosi che si manifesta, azione e veicolo vivente della trasformazione ontologica 56

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dei termini. L’idea di mutazione radicale dice dell’attesa di quell’opera d’arte totale che fonderebbe nell’azione scenica elemento teatrale, filmico, testuale, visivo, sonoro, installativo, performativo. E quest’opera rifletterebbe insieme l’idea di poesia come trasmutazione, campo della metamorfosi, ove gli elementi sono relati attraverso la metamorfosi reciproca, la compenetrazione e trasmutazione della parola nel suono, del suono nell’immagine, dell’immagine nell’azione scenica. Tale campo di trasformazioni analogiche investe sia la struttura del reale – dei regni minerali, vegetali e animali – sia l’azione umana che vi s’inscrive. Vastissimo è il campionario di queste trasformazioni nel campo teatrale della metamorfosi: dell’animale nel vegetale e minerale, dell’essere umano nell’animale e nella pianta, ma anche del suono nel suono, del suono nella voce, del suono nel testo: di suono, parola e testo nell’azione scenica del corpo in movimento, e quindi della lingua nelle lingue. Con la trasmutazione della lingua il processo analogizzante tocca il suo apice, attraverso l’atto ontologicamente estremo di metamorfosi in cui consiste, come aveva visto Walter Benjamin, la traduzione.6 Proprio per ciò l’elemento verbale della poesia sarà sempre necessario, e mai sufficiente, per poter afferrare l’idea della poesia – e del suo teatro – che solo può essere ripresa in quella vita più vasta che è la poesia come trasformazione analogica.

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1  Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, in “Nuovi argomenti”, 9 (1968). 2  Cfr. Ferdinando Tartaglia, Tesi per la fine del problema di Dio, con un saggio di Sergio Quinzio, Adelphi, Milano 2002, p. 82. 3  Federico Tiezzi, Per un disordine poetico della realtà, in Il Patalogo cinque & sei. Annuario 1983 dello spettacolo, Ubulibri, Milano 1983, pp. 176-179. 4  Cfr. Franco Buffoni, Mid Atlantic. Teatro e poesia nel Novecento di lingua inglese, Effigie, Milano 2007, cap. 3. 5  Wallace Stevens, Effetti dell’analogia, in L’angelo necessario. Saggi sulla realtà e l’immaginazione, a cura di Massimo Bacigalupo, SE, Milano 2000, pp. 95-113. 6  Walter Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, traduzione e introduzione di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1982, pp. 32-52.

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2. Futuro radicale

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Futuri a rovescio

Zone di passaggio. La poesia ha una natura topologica, è un’escrescenza dei luoghi che ci abitano. Qualcosa che non avvertiamo direttamente, di cui ci accorgiamo nel lungo periodo, ma che ha un’incidenza più profonda del dato biografico individuale. Questo non ha a che fare con l’idea di radicamento, di Heimat, quasi vi fosse un legame esclusivo con un territorio. Piuttosto, è nello spazio di transizione da un luogo all’altro, ma anche tra interno e esterno, concreto e astratto, natura e artificio, che si definisce la portata topologica della scrittura. Luigi Ghirri, nelle sue Lezioni di fotografia (1989-1990), diceva che «il paesaggio non è là dove finisce la natura e inizia l’artificiale, ma una zona di passaggio, non definibile geograficamente».1 Queste zone di passaggio, di indifferenza tra caos a progetto, natura e artificio, elementi minerali, vegetali e animali, definiscono uno spazio inconcluso, non finito, esposto all’indeterminazione. Tutti i paesaggi che abbiamo attraversato, le pianure, i calanchi, le distese d’acqua, le aree industriali, i cantieri, i bordi stradali, vanno a costituire uno spazio ibrido, privo di funzione, che s’impone come il soggetto stesso dell’esperienza.

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Luigi Ghirri, Via Emilia, 1985. crion,

7 a.m.

non c’è altro che papavero e ginestra a brillare nei cantieri: sotto un cavo un merlo guarda il cielo smaltato, fermo sul fango lucido fra i tralicci una bava di luce snoda

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filamenti e trame vegetali sopra la crion

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nel bianco candido una nube di fumo ancora per un poco sospesa, già andata.

Il legame con i luoghi in poesia disegna una trama di opposizioni e convergenze, articolando una dialettica aperta, in cui i luoghi concreti, le esperienze in situ, sono trasposti nel non-luogo dell’espressione poetica, nel suo spazio analogico, che a sua volta può divenire un luogo eventuale, da esplorare, mappare, un non-luogo da cui muovere per un viaggio immaginario verso i luoghi di partenza. Come per la dialettica tra Site e Nonsite, di cui parla Robert Smithson in A Provisional Theory of Nonsites (1968) e nelle note allo scritto che fa parte dell’operazione transmediale di Spiral Jetty (1972) – il celebre earthwork nel Great Salt Lake dello Utah – tra questi due poli c’è uno spazio di significazione aperto, indeterminato, che può essere percorso in entrambe le direzioni, secondo un movimento non stabilizzato di riflessione reciproca.2 Qui il movimento indessicale della scrittura, la deissi nel paesaggio della poesia, lungi dal fissare stabilmente dei referenti esterni, produce piuttosto un cortocircuito tra stratificazioni materiche, tracce fisiche e verbali, costruzioni concrete e simboliche. Da un’immagine codificata del paesaggio come un insieme chiuso, rappresentato dall’esterno, passiamo a un’esperienza dinamica: un 63

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Robert Smithson, Spiral Jetty, 1970.

paesaggio aperto, inconcluso, che può solo essere attraversato e restituito attraverso una pluralità di forme. In gioco non è una rappresentazione mimetica, quanto la messa in opera performativa di una contiguità morfologica con i luoghi, attuata attraverso sintesi parziali, visioni discontinue, frammenti di registrazione. Paesaggi entropici. In A Tour of the Monuments of Passaic, New Yersey (1967), Smithson espone in una sorta di photo-essay il suo viaggio da New York a Passaic, sua cittadina natale, situata sul fiume Passaic, a sud di Paterson, documentando i “nuovi monumenti” che incontra lungo questo paesaggio in trasformazione:3 cave, tubi di 64

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Robert Smithson, A Tour of the Monuments of Passaic, 1972.

scarico, scavi di bulldozer, autostrade in costruzione, gru da pompaggio, conglomerati suburbani, parcheggi. Poco prima di morire, nel 1972, Smithson ha dichiarato che A Tour of the Monuments of Passaic può essere concepito come «una sorta di appendice al poema Paterson di William Carlos Williams» (curiosamente, Williams 65

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era stato il pediatra di Smithson da bambino).4 Il poema di Williams, soprattutto per la parte dedicata alle stratificazioni sotto il suolo di Paterson, ha fornito a Smithson una sorta di mappa attraverso cui iniziare a guardare ai luoghi natali del New Yersey come a un paesaggio inedito. Si instaura così tra il poema (Nonsite), l’esplorazione delle cave e degli insediamenti intorno al Passaic (Site) e la sua documentazione attraverso l’ibridazione tra narrazione, saggio e fotodocumentario (Nonsite), una dialettica inconclusa, attraverso la quale, letteralmente, le cave, i motel della catena Howard Johnson, concessionarie di auto usate, il centro scialbo di Passaic, il Golden Coach Diner, diventano elementi di un paesaggio monumentale da scoprire. Rovine a rovescio. Smithson ha posto l’accento sulla dimensione entropica di questi processi di trasformazione, decifrando nei nuovi monumenti di Passaic delle sorte di «rovine a rovescio»: mentre le rovine romantiche cadono in rovina dopo la loro costruzione, i nuovi monumenti «si ergono a rovine prima di essere costruiti», prefigurando così il destino entropico di tutte le costruzioni future. In Entropy and the New Monuments (1966) Smithson decifrava tanto nelle opere di Donand Judd, Sol LeWitt, Robert Morris, quanto nel paesaggio di periferie diffuse, autostrade, centri commerciali periferici che sembra ispirare questi artisti, delle architetture dell’entropia, in cui si manifesterebbe una certa inversione del futuro, trasformato nell’«obsoleto a rovescio», in «un futuro volto all’indietro».5 In questo senso, in A Tour of the Monu66

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ments of Passaic, i vuoti, gli strappi, i “buchi” da cui è frammentato il paesaggio di Passaic appaiono a Smithson come «vuoti monumentali» che contengono le «tracce memoriali di un insieme di futuri abbandonati». Si tratta ancora di tracce utopiche, ma residuali: «questi futuri», sostiene Smithson, «vengono scoperti in film utopici di serie B, per poi essere imitati dall’abitante delle periferie». Futuri alla deriva. Forse ha ragione Smithson quando scrive: «Sono convinto che il futuro si sia smarrito da qualche parte nelle discariche di un passato non storico».6 Tuttavia, anche queste immagini di futuri alla deriva contengono un potenziale dialettico che non si lascia cristallizzare in una figura statica, nel grado zero dello stato finale entropico. Gli spazi urbani e periurbani del paesaggio contemporaneo, punteggiati da cantieri, rotonde, aree dismesse, incolti, sono gli stessi luoghi colonizzati dagli ailanti. selvatici ailanti ospiti invadenti delle sterpaglie, voi dolci, minacciosi appostati sui greti tra le ripe in attesa attorti ai tralicci, fitti e sinuosi tramanti nell’aria, ailanti luminosi

Introdotti nel Settecento in Europa come piante da giardino, quindi come succedanei del bombice del gelso, 67

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gli ailanti sono sfuggiti un po’ ovunque, dall’Inghilterra, all’Europa, agli Stati Uniti, diventando una presenza diffusa del paesaggio contemporaneo, ancorché quasi invisibile, poiché pochi sanno nominarli e sono consapevoli della loro presenza. Come altre piante pioniere crescono su scarpate, bordi stradali, linee ferroviarie, cave, cantieri, interstizi, rotonde. Si tratta per lo più di terreni antropizzati, dissodati, precedentemente coltivati o costruiti, ma lasciati in stato di relativo abbandono o in attesa di trovare un nuovo impiego. Se ripercorriamo i lavori di Smithson, possiamo realizzare che il Tour di Passaic, così come il viaggio che compie con Donald Judd nelle cave minerarie intorno a Paterson in The Crystal Land (1966), avviene proprio entro spazi che evolvono verso un paesaggio secondarizzato, interessati da processi dinamici e caotici di rinaturalizzazione.7 Utopia topica. Lo sguardo entropico di Smithson è diventato oggi quasi una cifra epocale, segno di un periodo storico e della sua paralisi temporale, della sua incapacità di rapportarsi al futuro se non come a un’immagine obsoleta di frammenti alla deriva. Eppure nei luoghi di Smithson, e nei nostri stessi paesaggi, c’è qualcosa di più, che eccede la descrizione entropica e richiede, per essere afferrato, un diverso esercizio di visione, uno spostamento dello sguardo che sia capace di riattivarne la dialettica sospesa e rovesciarne il senso. Al di sotto del disordine apparente, attraverso la disgregazione entropica di un ordine precedente, registrata da Smithson, durante il tempo morto della produzione si producono anche forme 68

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inedite, ordini non ancora leggibili, tempi del vivente in movimento. Sono luoghi pieni di vuoti, buchi, paesaggi in frammenti ibridi, fatti di pezzi sparsi qua e là, non congiunti, che accolgono una varietà di elementi eterogenei, elementi costruiti, cemento, pietra, specie naturali non endogene. Incontriamo qui il paesaggio, per tornare a Ghirri, come «zona di passaggio», spazio indeciso di una transizione che attraversa il clivage tra elemento minerale, vegetale e animale, natura e artificio, storia e natura. Questi frammenti diffusi di natura ibrida sono tessere di ciò che Gilles Clement ha chiamato «terzo paesaggio» – inteso come l’insieme degli spazi indecisi, privi di funzione che ricoprono il pianeta, e che, per la loro contingenza, la loro apertura e imprevedibilità sono la matrice di uno spazio globale in divenire.8 Se attraverso la poesia torniamo a guardare al paesaggio in questa prospettiva, possiamo forse sottrarci a quello sguardo pietrificante per cui i nuovi monumenti, con le parole di Smithson in Entropy and the New Monuments, «sembrano indurci a dimenticare il futuro»,9 funzionando come ostruzioni del tempo, che fanno sì che «le finestre del concessionario City Motors rivelano l’esistenza dell’Utopia attraverso una serie di Pontiacs wide track del 1968». Se riattiviamo le immagini di movimento contenute in questi paesaggi; se iniziamo a vedere in essi le piante senza nome, i processi di rivegetalizzazione da cui sono impercettibilmente attraversati; se iniziamo a guardare ai frammenti dei paesaggi entropici come a «specchi delle ombre gigantesche che il futuro [futurity] getta sul presente»10 – nel riflesso di quella futuribilità che inner69

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vava la Difesa della poesia di Percy Shelley – possiamo apprendere a rivisitare il terzo paesaggio come luogo di invenzione del possibile, ove le vite individuali, come gli ailanti, s’inventano soluzioni d’esistenza che ancora non sappiamo decifrare, ma che ci meravigliano e impauriscono per la loro radicalità, per il loro legame con qualcosa che ci manca, diventando figurazioni, per quanto invertite, di uno spazio comune del futuro, di quel futuro radicale di un’utopia che si reinventa quale luogo di sperimentazione di forme a venire.

1  Luigi Ghirri, Niente di antico sotto il sole. Scritti e interviste, 19731991, introduzione di Francesco Zanot, Quodlibet, Macerata 2021, p. 217. 2  Robert Smithson, A Provisional Theory of Non-Sites, in The Collected Writings, edited by Jack Flam, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1996, p. 364; The Spiral Jetty, ibi, pp. 143-153. 3  Id., A Tour of the Monuments of Passaic, a cura di Iacopo Trabona, Kabul Magazine, 15 maggio 2018: . 4  Interview with Robert Smithson for the Archives of the American Art / Smithsonian Institute (1972), in Id., The Collected Writings, p. 285. 5  Id., Entropy and the New Monuments, ibi, p.15. 6  Id., A Tour of the Monuments of Passaic. 7  Id., The Crystal Land, in The Collected Writings, pp. 7-9. 8  Gilles Clement, Manifesto del terzo paesaggio, a cura di Filippo De Pieri, Quodlibet, Macerata 2005. 9  Robert Smithson, Entropy and the New Monuments, p. 11. 10  Percy B. Shelley, Difesa della poesia, in Teatro, prose e lettere, a cura di Francesco Rognoni, Mondadori, Milano 2018, p. 819.

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«les jeux ne sont pas encore faits»

Boschi verticali. La sentenza lapidaria, contenuta in Doppia vita, per cui «nella city, soltanto in essa, le muse prendono voce»,1 è una boutade, frutto di un’esagerazione di cui si è compiaciuto non solo l’estro sarcastico di Gottfried Benn, ma che ha segnato più ampiamente una stagione del moderno, riflettendo una concezione epocale lineare e progressiva, connessa a una topologia che collocava alcuni luoghi – come la città – nei dintorni dell’avanguardia del pensiero, mentre relegava altri spazi ed esperienze in scialbe periferie temporali, una sorta di retroguardia rurale dello spirito che suonava come una condanna estetica a priori. Una posizione che, nonostante la concezione qualitativa e intensiva della temporalità di Walter Benjamin, con le sue torsioni retrograde e fenditure messianiche, si risente anche nel Passagenwerk, nell’immenso cantiere dedicato a Baudelaire quale poeta lirico che, muovendosi nella Parigi del XIX secolo, sarebbe a diretto contatto con l’epoca del capitalismo avanzato. Sebbene il quadro sia profondamente mutato, anche a prezzo di una restrizione dell’orizzonte vitale in cui ci muoviamo, permane tuttavia un riflesso condizionato che tende a farci pensare alla città quale spazio privilegiato di un’esperienza la cui densità non sarebbe riscontrabile altrove. La sentenza di Benn ha in tal senso 73

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la verità di un’esagerazione, storicamente indicizzata, che a prezzo di una deformazione unilaterale ci lascia cogliere qualche tratto distintivo di ciò che siamo stati, e del modo in cui certe pratiche espressive hanno concepito se stesse, collocandosi in un campo semantico strutturato da una serie di dicotomie convergenti quali città/campagna, cultura/natura, centro/periferia. La città dell’antropocene. Oggi siamo però di fronte a una grande trasformazione, che interessa anche il modo in cui la città può avere significato per noi, e che tali opposizioni consolidate non ci lasciano cogliere sino in fondo. È qui necessario uno spostamento dello sguardo, che ci permetta di aggirare questi schemi e osservare da un’altra angolatura la città stessa e la matassa di differenti piani temporali e spaziali che in essa si intersecano. La prospettiva eccentrica di Osip Mandel’štam, che guardava alla città moderna dalle lontananze della steppa eurasiatica – e nella lunga durata del tempo profondo della storia naturale – è forse più vicina alla nostra esperienza contemporanea di quanto non sia l’atteggiamento blasé di Benn e dei sacerdoti della città moderna. «Gli steli d’erba sulle strade di Pietroburgo», scriveva Osip Mandel’štam in La parola e la cultura, «sono i primi germogli d’una foresta vergine che andrà a ricoprire le città moderne. Questo vivido, tenero verde, stupefacente per la sua freschezza, è espressione della nuova natura spiritualizzata».2 La città ciminiera dell’Ottocento, la città elettrificata futurista, la città mercificata della società di massa, la città vetrina postindustriale, sono sempre state anche una selva nella 74

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quale il poeta poteva muoversi come in una foresta pietrificata. Una seconda natura minacciosa e suadente che solo una particolare cecità impediva di vedere come a sua volta attraversata da incessanti, per quanto spesso inapparenti, processi di mineralizzazione e vegetalizzazione, una pressione naturale che ha continuato a premere anche sotto e a lato del manto colloso dell’asfalto. come la favola del provinciale / perso nella grande città: sul piazzale dove le vie convergono / si orienta guardando [i tigli lo stradario ramato delle macchie / che qui tempestano [le foglie. tutto è foresta, le torri d’acciaio / le pareti specchianti, [i vetri sono stagni fatati, rami e tronchi / percorsi da corvi [parlanti; sarà come la fiaba del ragazzo / che sposa la selva e tramuta le vene in cavi d’acciaio, gli occhi / in biglie di vetro [incolori: se un passante per sbaglio lo sfiora / scioglie il sortilegio, [lo lascia cadere in pezzi, nei mille frantumi / degli aghi di pino [del bosco. così cammini, in trance, lungo i viali / macinando un solo [pensiero dopo giorni che nessuno ti parla / ti ammali di luce, di passi votati alla strage, scagliati a caso / sulla mappa degli abitati, la raggiera delle strade a scomparsa / dove il nulla ti ha [invaso; e passare l’incrocio che nessun dio / contadino guarda e [protegge è esporsi al vento gelato che spira / dall’ombra lunata del [male:

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o sarà come il bambino velato / dell’apologo che a tastoni risale sulla cresta del cuscino / e incosciente si lascia andare fino al giorno in cui avrà il cuore pesato / e gli occhi [offerti su un altare di nuvole, sino al nido del merlo / dove una corona di [piume sul fondo azzurro cupo dell’infanzia / lo inchioderà al suo [dolore.

La decomposizione della città industriale e delle sue gerarchie ha accelerato questa dinamica di rinaturalizzazione. Ritorniamo al lavoro su Milano. Ritratti di fabbriche (1978-80), con cui Gabriele Basilico offriva un’anticipatoria visione delle periferie milanesi.3 Sembra quasi che le architetture entropiche fissate in questi ritratti di fabbriche che appaiono prive di funzione, indeterminate, ove le figure umane sono pressoché assenti, vadano a comporre un paesaggio di monumenti naturali o rovine preistoriche che si possono immaginare, a breve, invase e disgregate da erbacce e piante vaganti. Lo sguardo di Mandel’štam ci immunizza però dalla tendenza a vedere in ciò solo detriti di futuri in abbandono, il segno dell’obsolescenza cui sarebbe andata incontro di lì a breve la nostra idea di progresso. La natura-psyche profetizzata da Mandel’štam riguarda piuttosto l’insorgenza di interazioni specifiche tra città e natura, con la proliferazione di paesaggi ibridi, secondari, in cui si registra una tendenziale indifferenza tra elementi naturali e artificiali. La periferizzazione della città contemporanea, l’espansione caotica della periferia diffusa, infatti, sta andando a costituire un paesaggio ibrido dal carattere 76

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Gabriele Basilico, Ritratti di fabbriche, 1981.

indeciso, fatto di residui sconnessi, frammenti di natura, luoghi privi di funzione o in attesa di destinazione. È la città dell’antropocene, intesa come l’epoca geologica in cui, piuttosto che assistere a un’umanizzazione completa, senza residui, incontriamo una generalizzazione degli ambienti secondari. Si tratta di processi spesso caotici, ma in cui emergono anche nuovi ordini da decifrare, attraversati da forme di eterogenesi che ne rendono non del tutto prevedibile lo sviluppo. Dopo la città dell’alienazione del Novecento, in tal senso, assistiamo alla città in cui l’alterità rimossa diventa una logica diffusa. I tentativi di appropriazione dall’alto e sussunzione capitalistica di questa metamorfosi, espressa in forma mercificata dall’immagine del Bosco verticale, ne confermano la consistenza epocale. 77

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Indifferenza naturale. L’indifferenza non si oppone alla speranza. Siamo abituati a pensare questa parola, quando ci riguarda come esseri umani, persone, sulla falsariga dell’apatia di Gli indifferenti di Moravia o come indifferenza morale e inazione – ciò contro cui scagliava Gramsci nel suo pamphlet Odio gli indifferenti. Quanto all’indifferenza della natura, il riflesso condizionato leopardiano ci inclina a intenderla come indifferenza della natura rispetto ai nostri fini, agli scopi umani: la natura matrigna e le sue manifestazioni distruttive che fanno tabula rasa delle nostre aspirazioni. Quest’ultima è un’immagine della nostra distanza della natura, della nostra alienazione da essa: immagine di cui è intessuta profondamente la nostra cultura, e con cui dobbiamo fare i conti, ma che rischia di essere profondamente unilaterale. Non possiamo sbarazzarcene in un colpo, immediatamente, con un semplice atto del pensiero, perché nella natura, nel mondo c’è anche questo, e tuttavia abbiamo bisogno di allentarne la presa su di noi. Approssimarsi all’indifferenza naturale è un esercizio di trasformazione dello sguardo, in cui il senso di tale indifferenza è lasciato oscillare su una banda più larga, innescando una risonanza polisemica che possa liberarne l’ambivalenza produttiva. L’espansione e contrazione siderale della cintura suburbana, i processi di periferizzazione e di rivegetalizzazione cui va incontro la città diffusa, sono frammenti di qualcosa di più vasto, altrettanti fenomeni in cui si manifesta un’approssimazione erosiva tra caso e progetto, natura e artificio. Questo paesaggio ibrido tende così a un punto d’indistinzione, dove nell’indifferenza della natura 78

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potremo al limite riconoscere un momento di indecisione, la nostra non differenza rispetto a essa. È come se ci si esponesse a ciò che Robert Smithson, parlando dei suoi earth projects nel saggio A Sedimentation of the Mind (1968), chiamava «ritmo della dedifferenziazione»:4 un processo di erosione costante tra mente e paesaggio, in cui le costruzioni e gli strumenti della tecnologia umana, e le parole stesse, si sfaldano nella geologia dei luoghi su cui operano, e questi ultimi si sedimentano nella mente, si confondono infinitamente con essa, aprendo uno spazio di indeterminazione produttiva. il mattino è acqua che fermenta, l’anima minerale già sepolta sotto il telo grezzo della melma brano a brano si sfalda; l’occhio umido si apposta sotto il ventre piatto di una barca, il sonno l’avvolge come un’alga untuosa e marcia; fa paura vedere quanto è bianca la barena e su tutto un gelo spalmato sulle stoppie come biacca su un fondo seppia; il mattino è luce che s’imbianca raccolta nelle falde della nebbia, in un lago di brina il cuore annega avvolto nella sabbia.

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Robert Smithson, A Sedimentation of the Mind, 1968.

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Materia sognante. Come pensare un materialismo poetico per cui quest’indifferenza abbia un valore e contenga possibilità vitali, non solo estetiche? Se torniamo al pensiero tradizionale della natura, ci rendiamo conto che essa coinvolge sì la possibilità della violenza e del dolore, e di un ordine del mondo indifferente rispetto ai nostri scopi, ma anche del suo contrario: ché anche la dimensione del bene, e del giusto, è un modo, per quanto fragile, della sua manifestazione, emerso a un certo punto sul palcoscenico della physis. In tal senso si può forse parlare di indifferenza nella natura rispetto all’opposizione tra indifferenza e speranza per come sono comunemente intese. Né dobbiamo dimenticare che la nozione di speranza non è intrinsecamente morale, almeno in senso antropologico: non è necessario condividere aneliti religiosi per consentire con Kant circa il fatto che la domanda «che cosa devo fare?» è perlomeno distinta dalla domanda «che cosa posso sperare?» La speranza riguarda anzitutto la possibilità di trascendere l’ordine dato del mondo – incluso quello morale – ed è legata alla sensazione che in esso “manchi qualcosa” – per riprendere un’espressione impiegata da Ernst Bloch e Theodor W. Adorno in un dialogo su materialismo e utopia5 –, che la sua configurazione attuale non esaurisca il senso del possibile. Negli scorsi decenni l’immaginazione condivisa della nostra forma di vita si è come esaurita, e i modelli politici e morali che davano un senso all’avvenire e a ciò che potevamo sperare sono diventati quasi inintelligibili. Potremo riattivare l’immaginazione sociale solo se sapremo collocare la domanda «che cosa possiamo sperare?» in un orizzonte più vasto, alimentandone il senso a 81

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una sorgente che fuoriesca dai limiti della forma di vita che stiamo abbandonando, e che non si lasci esaurire dall’umano e dalla sua autocomprensione. Guardare alle metamorfosi dell’urbanesimo contemporaneo, esplorare le ibridazioni del paesaggio, le mutazioni cui il nostro rapporto con la natura va incontro, ci conduce a esplorare territori inconclusi, matrici di trasformazione in cui afferrare, per riprendere un’espressione di Ponge, «l’immagine presente di ciò che tendiamo a divenire».6 È una questione che ci riguarda tutti, e che coinvolge anche la poesia, quando si tratti di riapprendere la grammatica della speranza, rifarla in re, decifrando le possibilità inevase nella materia sognante, l’immaginazione sedimentata nei frammenti ibridi della nostra epoca: emancipata dalla restrizione antropologica degli orizzonti di attesa, essa si inscrive in uno strato più profondo, dove l’approssimazione entropica di parole e cose converge asintoticamente nell’indifferenza come eventualità del nuovo, di un possibile spazio comune. Antimemoria del futuro. L’annessione del tempo della vita a quello della produzione è uno dei fenomeni focali del nostro tempo e ha effetti sulla composizione organica degli individui, che si lasciano afferrare sempre più direttamente nella loro struttura anche biologica dalle esigenze tecnologiche del processo produttivo e di scambio. Nella società di massa il loisir, il tempo libero socialmente organizzato, prefigurava l’estensione della logica del tempo produttivo del lavoro alla sfera vitale privata annessa al consumo. Oggi assistiamo invece al fenomeno per cui proprio l’assenza del lavoro diventa la condizio82

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ne per la generalizzazione della logica della produzione e circolazione dell’eterno presente della merce. Il conflitto tra spazio del possibile e tempo eterno del presente tocca così un nervo biopolitico scoperto della nostra epoca. La contrazione temporale cui siamo soggetti non vi è estranea. L’organizzazione del lavoro riguarda anche l’articolazione dell’immaginario sociale, e la sua scansione, i suoi ritmi, sono altrettanti processi di visualizzazione dell’orizzonte di attese collettivo e individuale. L’assorbimento immediato del tempo della vita nella produzione, saltando la mediazione del lavoro e del suo arco progettuale, si lega profondamente al presentismo da cui siamo affetti. Lo shock del presente, secondo la diagnosi di Douglas Rushkoff, riguarda questo schiacciamento dell’orizzonte temporale sulla dimensione di un eterno e incessante presente, che non siamo in grado di mediare con un immaginario alternativo.7 È come se la nostra immaginazione del futuro fosse egemonizzata da un presentismo senza scampo, dalla rappresentazione, secondo la diagnosi di Mark Fischer, per cui «there is no alternative».8 Tale immaginario sociale ha effetti iperstiziali, tende ad autoadempiersi, a ingenerare comportamenti che si conformano al suo orizzonte d’attesa. A ciò si lega il fatto che la nostra memoria del futuro è stata per diversi decenni egemonizzata dagli effetti dell’immagine dei futuri in abbandono, dalla rappresentazione dell’obsolescenza del futuro immaginato dalle passate generazioni. Questo è il perimetro del tempo in cui oggi la poesia viene al mondo. Eppure, la poesia si legittima se è in grado di esprimere una resistenza e una differenza dell’im83

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maginario, una fenditura del presente, ricordandoci una diversa memoria, un’antimemoria del futuro. Oggi tendiamo a identificare, per usare due categorie di Niklas Luhmann, il “futuro presente” – il futuro per come ce lo rappresentiamo – e il “presente futuro” – ciò che tendiamo a divenire, che sarà domani, il versodove per cui ci incamminiamo oscuramente.9 Non sappiamo verso quale mattino si muova il mondo, ma in fondo, come scriveva Paul Celan nei suoi appunti per Der Meridian, «les jeux ne sont pas encore faits» è il «pensiero centrale» che «accompagna qualunque intenzione poetica».10 Noi soffriamo di determinatezza, crediamo di vivere nella gabbia d’acciaio di un presente senza confini ma iperreale nei suoi dettagli determinati, in nicchie virtuali che ci isolano dagli altri, in una bolla temporale che ci separa da un futuro possibile. Ma tra le possibilità della poesia, e di ciò che chiamavamo letteratura, c’è quella di ricordarci lo scarto tra presente futuro e futuro presente – l’inesauribilità del primo da parte del secondo – gli aspetti di latenza, e indeterminatezza, delle nostre traiettorie, la vaghezza del presente e gli spazi possibili, divergenti, degli immaginari e del paesaggio sociale. Le nicchie sono immaginari in inverno, ibernati, la bolla del presente è solo una bolla, e può essere soffiata via. perché guido, tu, io, e tutti gli altri per quanto ci schermiamo dal mondo dobbiamo vivere senza ripari le nicchie in cui crediamo di esistere

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si sfilacciano, sono trame vulnerate dalla luce pelli traslucide che si staccano, dissolvono nell’unica vita, la vita comune che fa strame dei nostri piani dei calcoli, gli errori e nessuno riconosce i suoi senza perdersi negli altri senza perderli giorno per giorno lasciarli andare anche se vorrebbe catturarli ridurli a sé farli esistere in quelle bolle in cui crede di fluttuare essere immerso mentre invece è lì, non conosciuto già fuori, esposto al vento indivisibile

1  Gottfried Benn, Doppia vita, a cura di Elena Agazzi, Guanda, Parma 1994, p. 136. 2  Osip Mandel’štam, La parola e la cultura, in Sulla poesia, con due scritti di Angelo Maria Ripellino, nota di Fausto Malcovati, traduzione di Maria Olsoufieva, Bompiani, Milano 2003, p. 47. 3  Gabriele Basilico, Milano. Ritratti di fabbriche, prefazione di Carlo Tognoli, testi di Marco Romano e Carlo Bertelli, SugarCo, Milano 1981.

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4  Robert Smithson, A Sedimentation of the Mind: Earth Projects, in The Collected Writings, edited by Jack Flam, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1996, p. 103. 5  Ernst Bloch, Theodor W. Adorno, Manca qualcosa… Una discussione tra Ernst Bloch e Theodor W. Adorno sulle contraddizioni del desiderio utopico, in “La Società degli Individui”, 26 (2006), pp. 11-25. 6  Francis Ponge, La terre, in Œuvres Complètes, Gallimard, Paris 1999, p. 749-50. 7  Cfr. Douglas Rushkoff, Present Shock: When Everything Happens Now, Penguin, London 2013. 8  Mark Fisher, Realismo capitalista, traduzione e prefazione di Valerio Mattioli, Nero Edizioni, Roma 2018. 9  Cfr. Niklas Luhmann, Osservazioni sul moderno, Armando, Roma 2006, p. 91. 10  Paul Celan, Verso quale mattino, in “Versodove”, 21 (2019), p. 5.

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Verso la X. Poesia e terzo paesaggio

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transit marghera

ma le pale meccaniche in campo azzurro ci attendono al mattino lucenti, nell’aria sopra marghera vegliano sugli alberi vigili si distendono tra le cisterne addossate all’acqua dominano il cuore tremante ancora nello sguardo dell’alba dai platani svettanti cadono foglie sui tetti ondulati bianchi i gas, nell’azzurro si alzano appena sui vagoni cisterna fermi al binario dietro la fincantieri si accende il cielo tra le torri e i silos di un rosa acido per noi, stupefatti oggi come ieri e assonnati nel transito.

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Figura/figura. Erriamo nel terzo paesaggio? È questo il luogo in cui si muove oggi la poesia, lo spazio di un incontro possibile, di un dialogo prismatico sul presente che ci avvolge, come una trama vegetale in divenire, ambivalente nei suoi doni? Il terzo paesaggio non è solo di una potente analogia di secondo livello, un topos metapoetico che rende visibile la condizione eccentrica della scrittura in versi nel mondo contemporaneo. La scrittura contemporanea abita spazi interstiziali, indecisi, paesaggi eterogenei e aperti. Uno scenario di fondo fatto di aree industriali, barene lagunari, margini stradali e spazi eterogenei – i cantieri in costruzione, la periferia diffusa dove senza soluzione di continuità si incontrano frammenti urbani, aree abbandonate, tessere vegetali. 88

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Questo paesaggio opera come un potente attrattore rispetto agli altri elementi, sino a divenire il vero protagonista: un fondale da cui emergono, come sue modulazioni, le stesse figure della poesia, secondo una morfologia che tende a superare l’opposizione sfondo/figura, riallacciandosi piuttosto alla concezione topografica figura/figura, innestandosi nei luoghi di cui insieme altera il profilo. Se la poesia ha un tratto topologico è perché è insorgenza dai luoghi. Se robinie, ailanti e altre piante infestanti iniziano a manifestarsi come presenze ossessive, infiltranti. Un’ossessione che risente della forza attrattiva del paesaggio, perché è proprio negli interstizi stradali, ai margini dei cantieri, lungo le massicciate, negli incolti, che iniziamo a sentire la presenza di quelle piante, ancora sconosciute, avvertendo oscuramente l’esigenza di arrivare a nominarle, conoscerle, dirle in poesia. ailanti, alle vostre falci piego il capo, a voi, ovunque arborescenti, ailanti nel brillio del mattino mi consegno: vi lascio correre sui bordi incolti dietro le massicciate, addosso ai muri: e nel trapestio dei pensieri, infestanti mi confondete ai fiori, miei ailanti

Interferenze nel paesaggio. È come se captassimo un’interferenza nel paesaggio – ma cos’è la poesia se non la possibilità di definire campi d’interferenza? – sintonizzandoci su una lunghezza d’onda da cui arriva un segnale ambiguo, al principio indecifrabile, ma che avvertiamo come vitale. 89

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si vedono a tutte le ore percorrere le arterie principali ai margini a passi uniformi sorvegliano il flusso ininterrotto le macchine lanciate sulle strade li sfiorano senza turbarli

Chi sono i camminatori, queste presenze indeterminate che con i loro spostamenti erratici attraversano un paesaggio fatto di aree postindustriali, ferrovie, rotonde, parchi, margini stradali, incolti, gli stessi spazi in cui vagano gli alianti e le piante infestanti? non smettono mai anche di notte si vedono marciare assorti nei vicoli meno illuminati compaiono all’improvviso sugli angoli tagliando stretto ti urtano

Chi sono questi camminatori? Vivi o morti, spettri o zombie, robot o alieni, stanziali o migranti, noi stessi o gli altri, tracce del passato o anticipazioni del futuro. Ma scriverne non è tanto il tentativo di dare un volto a queste icone erranti, quanto di esporne l’ambivalenza produttiva, interrogando un’immagine, da cui siamo catturati, che emana direttamente dal paesaggio contemporaneo, portandone in luce quel tratto di alterità che è insieme estraneo ma sotto gli occhi di tutti, invisibile ma diffuso, ciò che potremmo chiamare la dimensione eterotopica del paesaggio ordinario. Residui. Le friches, i terreni residuali di cui Gilles Clement parla a proposito del «terzo paesaggio», entrano in consonanza con quest’immaginario. Clement chiama «terzo paesaggio», propriamente, l’insieme degli spazi 90

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Gilles Clement, Jardin du Tiers-Paisage, Saint-Nazaire, France, 2011.

sottratti alla decisione umana, che includono i residui – luoghi abbandonati precedentemente sfruttati –, gli insiemi primari – luoghi mai sottoposti a sfruttamento – e le riserve naturali protette.1 Come osserva Laura Pugno,2 la categoria più interessante, e che costituisce la nota dominante del terzo paesaggio, è qui quella dei residui: immagine che coglie esattamente una certa linea di tendenza nelle metamorfosi del paesaggio contemporaneo, qualcosa che ci sta sotto gli occhi ma che raramente abbiamo le parole per descrivere. Le piante vagabonde, come gli ailanti e le robinie, la cosmea e il verbasco, le erbacce trasportate dal vento, dalle suole dei camminatori e dai container, migrano sul pianeta, insediandosi 91

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preferibilmente sui margini, negli incolti e nei residui, in territori già sfruttati dall’uomo e temporaneamente abbandonati che sono oggetto di una riconquista naturale, di intensi processi di secondarizzazione. Prendono così forma, sotto i nostri occhi, tra i nostri tristissimi giardini – per richiamare un libro di Vitaliano Trevisan che mappava la condizione frammentata di questa trasformazione3 – spazi eterogenei e aperti, fatti di mescolanze tra elementi diversi, particelle minerali, tessere vegetali, presenze animali, innesti tecnologici, dove preferibilmente si insediano in prima battuta quei migranti vegetali, ma anche umani, che si spostano in spazi ampi, tra i continenti. 92

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Vagabonde. Un primo aspetto che colpisce è la trama di identità e differenza che costituisce questi spazi, dove incontriamo elementi alieni, che provengono da un altrove spaziale e geografico – gli ailanti ad esempio furono introdotti dalla Cina nel Settecento. Un’alterità ambientale – rispetto alle specie endemiche e locali – che contiene una logica che ci sfugge, pare indifferente rispetto ai nostri progetti, scopi e valori. Un’alterità paesaggistica: quando escono dall’invisibilità che di solito le circonda, qualifichiamo queste piante come erbacce, spesso con un senso di fastidio, irritazione, più o meno latente minaccia. Eppure si tratta anche di presenze diffuse, spesso già da secoli parte integrante dell’identità del paesaggio che ci circonda – come le robinie, di provenienza americana, o la salsola, simbolo del deserto americano ma di origine siberiana – e che si diffondono e prosperano proprio nei luoghi da noi modificati, grazie all’opera di dissodamento, coltivazione e antropizzazione del terreno, che accelera i processi di secondarizzazione e apre la strada alle piante pioniere, favorendone così la diffusione tanto nei residui in abbandono quanto nei nostri giardini ordinati. Questa dialettica tra identità e differenza nel paesaggio ibrido contemporaneo, nella sua tensione conflittuale e oscillante, ha molto a che fare con le trasformazioni della nostra esperienza, e con ciò che possiamo dirne in poesia. Per usare l’icastica formula di Michael Pollan, «le erbacce non sono l’Altro. Siamo noi».4 Poesia nel terzo paesaggio. Il terzo paesaggio è anzitutto una questione di primo livello, se vogliamo di ontolo93

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gia dell’attualità, che riguarda ciò che possiamo dire in poesia del mondo in divenire, del paesaggio dentro cui ci muoviamo e di cui possiamo parlare. A un secondo livello, possiamo tracciare un’analogia tra questa nozione e lo statuto stesso della poesia oggi, se cioè se ne possa fare un uso metaforico, per impostare un discorso metapoetico sullo statuto e sulle possibilità della forma poetica, e più in generale della letteratura e dell’arte, nel panorama contemporaneo. Partiamo dalla questione della periferizzazione della poesia, vale a dire il suo tendenziale spostamento dal centro dello spazio letterario verso il margine, verso la X. Si tratta di un processo che è stato spesso osservato con sentimento elegiaco, se non cupio dissolvi, che è più il frutto di un’isteresi critica, per dirla con Pierre Bourdieu5 – il permanere soffocante di vecchie abitudini categoriali inadatte a rispondere agli elementi vitali del presente – che di una diagnosi disincantata. Per quanto inquietante, tale trasformazione può essere vista unicamente come un saldo negativo solo se si guarda a essa secondo un certo schema topologico: il dualismo centro/periferia, per molti versi ossificato, inadatto a rendere conto dell’esperienza contemporanea del paesaggio in divenire, segnata proprio da una periferizzazione diffusa, tale da fare delle periferie un osservatorio privilegiato per la registrazione delle dinamiche attuali. Rotolando dal centro verso la X, la poesia potrebbe trovarsi a intercettare qualcosa di profondo, forse più celato ad altre esperienze che si annidano nel centro turistico mercantile della letteratura, o nelle gated communities dell’accademia. 94

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Dopo la letteratura. Un altro aspetto cruciale è il processo di deistituzionalizzazione che interessa la poesia, a ben vedere già nella modernità – con il perdersi dello statuto a corte del poeta, il suo allontanamento dai luoghi del potere – e che è tanto più forte in quelle culture, come la nostra, in cui le istituzioni universitarie non garantiscono riserve protette per versificatori. La recente destrutturazione della società letteraria d’antan all’interno e per mezzo della società del consumo e dei mass media prima, e della rete social in seguito, l’indebolimento del senso di continuità di una tradizione e l’approdo, diagnosticato da molti, a una condizione postletteraria della letteratura – in cui la letteratura non nasce primariamente dalla letteratura stessa – sono altri segnali di un processo in cui le istituzioni letterarie perdono il loro status. Processo a cui in effetti è maggiormente esposta una pratica, quale la poesia, che in assenza di riserve garantite non può nemmeno giovarsi delle istituzioni del mercato cui attinge il romanzo. Sorprendentemente, però, lo sfaldarsi delle strutture consolidate della società letteraria, delle sue gerarchie e tradizioni, non ha sottratto il terreno sotto i piedi alla poesia, che sembra continui a essere una pratica vitale, diffusa, in evoluzione. Il venir meno di una posizione consolidata, della rendita garantita da un certo assetto topologico tra centro e periferia, che sanciva un impianto riconosciuto di valori e l’appartenenza istituzionale della poesia come pratica culturale, è anche l’apertura di uno spazio inedito. Qui per certi versi può riemergere un tratto arcaico, di lunga durata, della poesia stessa, quale pratica istitutiva, il cui operare può situarsi 95

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a un grado zero antropologico, che non necessita di una legittimazione esterna, e che dunque può bene adattarsi anche a una condizione postletteraria. È come se qui, denudata, riemergesse l’etologia poetica della specie, un elemento arcaico che apre ad un futuro possibile, che le consente di continuare a operare anche nel presente. Infestanti. L’immagine del terzo paesaggio è illuminante, a patto di non intenderla come una semplice epica della marginalità, un elogio acritico delle virtù dell’anomia, finendo così per confermare, in forma ribaltata, proprio quella topologia centripeta da cui stiamo prendendo congedo. I residui, gli spazi prima coltivati, istituzionalizzati, e quindi lasciati, temporaneamente, in abbandono, sono senz’altro un terreno propizio in cui la poesia, con il suo carattere erratico, di infestante del pensiero che si trova sempre dove non ci si aspetta di incontrarlo, può insediarsi, intercettando tropismi del contemporaneo, introducendo elementi di alterità, contribuendo al brossage dell’espressione. Il punto focale però non è tanto la marginalità di tali luoghi – che anzi oggi sempre più si aprono anche all’interno di ciò che era il centro, nel vuoto delle rotonde che lo circoscrivono – quanto il loro carattere sorgivo, di spazi in cui le logiche della produzione sono temporaneamente sospese e sono posti in opera percorsi eterogenei, non prevedibili, matrici del possibile. È interessante come così possiamo in qualche modo rovesciare un’immagine dominante del modernismo, o se vogliamo, un certo tipo di lettura nullista del moderno. La waste land non è solo, e non tanto una landa desolata, un insie96

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me di frammenti ormai privi di vita, spogli di senso, che possiamo solo puntellare. La waste land è piuttosto un incolto, un terreno in abbandono, dove sotterraneamente, secondo logiche che ci sfuggono, si producono forme ibride, germina il nuovo, il mondo a venire. Non dobbiamo però dimenticare che il terzo paesaggio non è fatto solo di friches, ma include anche gli ambienti primari – il bosco – e i recinti istituzionali – le riserve e i ben ordinati giardini. Il terzo paesaggio è questo insieme, o meglio, in senso dinamico, la convergenza di questi elementi, il processo in divenire che li porta a mescolarsi, e di cui le friches indicano semmai un vettore di trasformazione. Se rimaniamo fedeli all’analogia, anche la poesia deve poter avere un carattere in itinere, attraversando il paesaggio letterario in tutta la sua estensione: qualcosa che spariglia anche le dicotomie tra avanguardia e tradizione, lirica e sperimentazione, perché allude a un’idea terza di pratica poetica, che non si lascia racchiudere nella topologia letteraria rigida che tali dualismi veicolano ma che ne attraversa i confini senza troppi scrupoli. Per evitare forme di autoinganno, non dobbiamo nemmeno nasconderci gli aspetti ambivalenti e ambigui di tale analogia. Il carattere a volte opportunista e cinico delle infestanti, che tendono a espandersi, a volte a sopraffare le altre piante – come sperimentato da Thoreau con i suoi fagioli soffocati dalle erbacce – e a ridurre la diversità; ma anche la loro capacità di adattarsi a condizioni estreme, di far fronte al nuovo, contribuire alla proliferazione della vita. La loro ambivalenza è anche la nostra e investe la poesia stessa. La ginestra leopardia97

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na, crescendo su terreni bruciati, pendici vulcaniche, con il suo spirito indomito, le sue forme di solidarietà vegetale, è essa stessa una vagabonda, piuttosto infestante. Indeterminatezza. Nel terzo paesaggio può manifestarsi un tratto di indecisione, di indeterminatezza, che sospende temporaneamente la funzionalità sociale. Alcune cose, luoghi, pratiche, disegnate per rispondere a certe funzioni, diventano preda di un’eterogenesi, cominciano a operare in un senso non prefigurato, difficile da decifrare anche per i soggetti di cui sono espressione. La vexata quaestio della revoca del mandato sociale della poesia, 98

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in fondo, è solo un caso di questo fenomeno, che non è una maledizione, né il segno di un declino inevitabile, ma piuttosto l’indice di una trasformazione in atto di cui non conosciamo ancora i confini. L’idea stessa di funzionalismo poetico sarebbe quasi autocontraddittoria: in cosa consiste la pretesa della poesia, dopotutto, se non nella possibile sospensione della funzionalità sociale data? C’è qui in gioco qualcosa che riguarda la politica della letteratura, vale a dire il ruolo che essa può assumere nella partizione sociale del senso, nella ridefinizione di ciò che è avvertito come possibile, di cosa vale come pratica, e di chi ne sono i soggetti. Nel terzo paesaggio, tuttavia, è in gioco qualcosa di più ampio della politica della letteratura nel senso di Jacques Rancière.6 Partiamo dal carattere ibrido del terzo paesaggio, dal modo in cui da spazi residuali di origine agricola, industriale, urbana, turistica, emerge un coacervo, apparentemente caotico, di aspetti eterogenei. In questa mescolanza c’è come un tratto di indistinzione, un punto di indifferenza tra elementi minerali, vegetali, animali. Luoghi antropizzati che iniziano a rivegetalizzarsi, manufatti tecnologici che si naturalizzano come rovine preistoriche. Quest’indifferenza naturale, che resiste alle nostre logiche e progetti, al nostro modo di far senso del mondo, ci rivela qualcosa di profondo sul paesaggio in cui siamo immersi. Si tratta di un paesaggio in frammenti, fatto di pezzi non congiunti, che sono il risultato dell’attività umana e/o della sua sospensione, presentando una molteplicità di elementi costruiti – pietra, asfalto, cemento – attraversati da dinamiche evolutive intense, 99

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una varietà di specie vegetali e animali sia locali che allogene. Sono insieme frammenti di natura e di storia, artificio e spontaneità. Terza natura. Consideriamo il rapporto tra la “prima natura” – la natura primigenia, il bosco, la natura fuori di noi, ma anche la dotazione naturale con cui veniamo al mondo – e la “seconda natura” – la natura acquisita, di cui disponiamo con immediatezza ma che è il risultato di un esercizio, dell’educazione, del lavoro: in altri termini, la cultura umana e le sue pratiche, ma anche il paesaggio in quanto coltivato, trasformato dall’attività umana, il campo arato e il giardino. Queste categorie teoriche riguardano solo indirettamente ciò che accade in poesia, ne intersecano solo alcuni lembi. Ci sono tante ragioni alla base di questa divergenza interna, di questa non corrispondenza tra attività teorica ed espressione poetica. In effetti, il terzo paesaggio che ci attrae in poesia non è esauribile né dalla prima natura – il bosco, la wilderness – né dalla seconda – il giardino, la città e le pratiche sociali. Il suo carattere indifferente e ibrido fa piuttosto segno verso ciò che i paesaggisti Christine e Michel Péna e l’antropologa Anna Lowenhaupt Tsing chiamano “terza natura”: una terza via tra la natura selvaggia e la natura schiava, la natura primordiale e la cultura in quanto natura asservita alle finalità umane.7 È proprio la questione della terza natura a metterci sulla traccia della portata politica globale del terzo paesaggio, perché qui è in gioco qualcosa che riguarda non solo il clivage tra natura e cultura, ma anche tra umano e non umano. 100

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Anzitutto, è la questione sociale e politica dell’antropocene che ci viene incontro. Gli ailanti che spaccano il cemento e l’asfalto, le barene lagunari rigenerate attraverso interventi tecnici, gli aironi sui tralicci, i fenicotteri che si insediano negli stagni dei petrolchimici. L’antropocene, più che una nuova epoca geologica di umanizzazione senza residui, controllo prometeico o distruzione selvaggia della natura (a seconda degli opposti estremismi), è caratterizzato invece dall’interazione tra elementi naturali e artificiali, dalla costituzione di un paesaggio perturbato fatto di frammenti ibridi, che pone il problema delle possibilità inedite di creazione impura che questa condizione dischiude.8 Un paesaggio non solo entropico, una waste land desolata, come siamo abituati a vederlo sulla scorta di una certa lettura postmoderna della modernità, ma piuttosto una waste land germinante, generatrice di nuove grammatiche e forme di ordine. Stranamente, ciò che chiamiamo antropocene è anche la soglia sulla quale la nostra comprensione dell’umano si sposta, in cui si ridisegna l’equilibrio tra i vari aspetti del vivente. Il postumano, in tal senso, più che la questione del tramonto della nostra specie, o della sua eclissi, a seconda della piega trionfalistica o catastrofista che spesso assumono le riflessioni in merito, pone il problema della sua rimodulazione, già in atto, nelle pieghe del paesaggio contemporaneo e delle sue eterotopie. Sono postumani i camminatori che s’aggirano nelle nostre città? Sono postumani i cercatori di funghi di cui ci racconta Anna Lowenhaupt Tsing,9 che in diverse parti del globo si mettono sulle tracce dei mastsutake, funghi selvatici che vi101

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vono in territori deforestati, in coesistenza collaborativa con pini gialli, abeti, pini contorti e altre piante pioniere che proliferano in paesaggi perturbati dagli esseri umani? Che cosa li lega agli ailanti che qui si insediano, ai frammenti di storia inattiva di cui è fatta la periferia diffusa del contemporaneo, quei territori di indeterminazione e precarietà in cui diventano possibili collaborazioni inedite? Non abbiamo una risposta precisa, ma sentiamo che questi elementi entrano in una costellazione che ci porta in una direzione tutta da esplorare, per cui non disponiamo di mappe o schemi. Tra i tanti motivi che si agitano in questo coacervo, vale la pena sottolinearne due di ampia portata biopoliti102

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ca. Anzitutto l’imminenza del terzo paesaggio non significa la scomparsa della natura, come lo stanco storicismo da cui spesso anche la critica poetica è stata ipnotizzata dava per scontato – come se la natura dovesse inevitabilmente scomparire dal radar poetico – ma piuttosto mette in gioco diverse strategie, intenzionali o meno, attraverso la quali si producono nuove nature, si sperimentano morfologie inedite, magari attraverso l’ibridazione con forme artificiali che permettono di ristabilire tecnologicamente la natura. Più artifici per più natura è una formula che esprime il divenire in atto di forme di utopia topica, di alterità incarnate nei frammenti ibridi del terzo paesaggio. Il passaggio in altro che si materializza nel désœuvrement dei luoghi, nello xenopaesaggio della terza natura, materializza in tal senso forme di alienazione liberatoria, dove l’alterità della natura, il suo non essere riducibile a un ordine normativo già fissato, può emanciparci da noi stessi e dagli ordini discorsivi in cui abbiamo imbrigliato la grammatica naturale. Più che una svolta antinaturalista, come vorrebbero l’accelerazionismo e lo xenofemminismo,10 la proliferazione tecnologica dei nostri giorni va in direzione di una politica ibrida delle nature al plurale. Il futuro del vivente. Il terzo paesaggio, con il confluire in esso dell’eredità antropica e della rinaturalizzazione, pone il problema della democrazia del vivente. Non sappiamo sino a che punto sia sensato estenderla, e tuttavia già ora il cosmopolitismo delle piante migranti e la globalizzazione del terzo paesaggio in cui proliferano, ci co103

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stringono a ripensare le gerarchie attraverso cui abbiamo sistemato i rapporti tra i vari ordini naturali. Le «odiose bardane, cardi irsuti, erbacce e lappole» che in Shakespeare simbolizzavano la minaccia a un ordine costituito. Le foglie d’erba che in Whitman erano l’immagine stessa della democrazia cosmopolitica. La salsola vagante nella steppa russa che in Platonov suscitava il fantasma di una comunità sradicata dal passato. Si tratta di metafore, certo, ma anche, alla lettera, in esse urge qualcosa, che ha a che fare con il compito arduo, di cui ci sfugge in gran parte il senso, ma che un giorno dovremo affrontare, di ridefinire in un senso allargato, più orizzontale e paritario, la democrazia dei viventi. Per questo dovremmo parlare del futuro, perché la dimensione inconclusa, aperta e indeterminata, la futuribilità del paesaggio contemporaneo, apre a un senso in divenire, che riguarda la reinvenzione del possibile. Per lungo tempo, soprattutto in Italia, siamo rimasti irretiti da un’immagine museale del paesaggio, come bene da conservare. Il paesaggio come archivio, insieme di ordini dati e riconosciuti che appartengono al passato. Anche la poesia ha spesso corso il rischio, trasformandosi in idillio, di rimanere intrappolata in quest’immagine. Ma la poesia, nei suoi momenti istitutivi, è stata anche in grado di convocare il paesaggio nella sua attualità, metterne a tema il dinamismo in divenire, pretendendo di reinventarlo, dargli un nome, farlo essere. A confronto con il terzo paesaggio, non può bastarci una mera ontologia del presente, perché ciò che in esso è attuale è la riattivazione di una latenza, l’individuazione di linee di fuga, una 104

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futurazione: l’emancipazione possibile da quell’effetto di blocco, di schiacciamento sul presente, che è il frutto avvelenato dell’incanto postmoderno.

1  Gilles Clement, Manifesto del terzo paesaggio, a cura di Filippo De Pieri, Quodlibet, Macerata 2005. 2  Laura Pugno, In territorio selvaggio. Corpo romanzo comunità, Nottetempo, Milano 2018, p. 116. 3  Vitaliano Trevisan, Tristissimi giardini, Laterza, Roma 2010. 4  Michael Pollan, Una seconda natura, Adelphi, Milano 2016, p. 140. 5  Pierre Bourdieu, La distinzione, il Mulino, Bologna 2001, p. 101. 6  Jacques Rancière, Politica della letteratura, traduzione di Anna Bissanti, Sellerio, Palermo 2010. 7  Cfr. Christine Péna, Michel Péna, Pour une troisième nature, Ici Consultants, Paris 2010; Anna Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo. La possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo, traduzione di Gabriella Tonoli, Keller, Rovereto 2021. 8  Cfr. Gianfranco Pellegrino, Marcello Di Paola, Nell’antropocene. Etica e politica alla fine di un mondo, DeriveApprodi, Milano 2018. 9  Anna Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo. 10  Cfr. Alex Williams, Nick Srnicek, Manifesto accelerazionista, postfazione di Valerio Mattioli, Laterza, Roma 2018; Helen Hester, Xenofemminismo, traduzione Clara Ciccioni, Nero Edizioni, Roma 2018.

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3. Paesaggio in movimento

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Impurità I pedoni si riprendono, stringono i denti, non parlano ma guardano, con le mani serrate sulla bocca, alla ricerca di un appiglio. Uno dice con gli occhi: il meglio è ancora qui, il meglio è restare qui, qui si può ancora resistere al meglio, non c’è di meglio da nessuna parte.

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Ingeborg Bachmann, Ein Ort für Zufälle

Flashback. Quando il coro indisciplinato delle scuole artistiche intonò all’unisono il motivo dell’arte come forma più elevata del puro consumo, l’armonia apparentemente conseguita si risolse in una maledizione. La fruizione disinteressata, purificata da ogni residuo materiale, doveva rimanere sospesa nel regno asettico di una sfera estetica incontaminata. Ma questo mondo alla rovescia, sciolto dagli ottusi legami della vita e del suo spirito di gravità, rimase preda della lettera. La pura fruizione, allora, non fu più distinguibile dal mero consumo. La contemplazione intatta dal semplice loisir. Così l’apparenza estetica, il cui brillio era una promessa di lontananza, si trovò a riflettere una realtà sin troppo vicina. E la ferialità sembrò trapassare nell’evasione del fine settimana. La luce del distacco, che il faro artistico pretendeva di proiettare sulle cose, era già lo sguardo astratto di uno spirito ormai avvinto alle catene del puro scambio. Morfologia. La promesse de bonheur, inclusa nel pacchetto delle agenzie del week-end postmoderno, sta ancora sotto quel bando. Eppure l’espressione artistica, anche 109

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quando resti preda della malia di queste forze, rimane in vita proprio perché le esigenze cui dà corpo non si lasciano ridurre ai Diktat della produzione e del consumo programmato. L’arte, la cui definizione singolare, se non vuole ridursi a un brand, dovrebbe essere abbandonata, continua a scartare di lato. Ideologica sarebbe però la pretesa che le pratiche artistiche si congedino dal mondo sociale, sdegnando gli spazi e i rituali della collettività contemporanea. Queste sono le foreste pietrificate che non possiamo non attraversare. Esse si innalzano, minacciose e suadenti, tanto nel tessuto urbano quanto nel cuore del paesaggio. Ed è nello sguardo impuro dell’arte che si mostrano come seconda natura, la cui apparenza incantatoria è così svelata, e talvolta esibita come disarmonia minacciosa. Natura-Psiche. Questa seconda natura non cancella però la prima, ma piuttosto si sovrappone, s’interseca a essa. Così la natura, pur nella sua estraneità, non è preclusa all’esperienza. Il suo manto ibrido risulta ancora percorribile, nelle sue attuali metamorfosi, in cui s’intrecciano lembi di prima e seconda natura. Camminando a testa in giù, come Lenz, costretti dal proprio turbamento, esagitati dall’incanto, se ne percorrono le rive. Reattiva era allora la sentenza di Lukács, per il quale la seconda natura non avrebbe più alcuna sostanzialità lirica.1 Ma rinunciataria era pure l’affermazione lapidaria di Benn: «nella city, soltanto in essa, le muse prendono voce».2 Anche tra le lastre di pietra, sul bitume colloso della metropoli, nella terre gaste degli spazi di confine, sul retro 110

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dei centri commerciali, continua il rigoglio vegetale delle forme. «Gli steli d’erba sulle strade di Pietroburgo», così Mandel’štam, «sono i primi germogli d’una foresta vergine che andrà a ricoprire le città moderne. Questo vivido, tenero verde, stupefacente per la sua freschezza, è espressione della nuova natura spiritualizzata».3 A nessuno. Percorrendo l’apparenza, aderendo al suo splendore, immaginandone la figura, le esperienze artistiche, se esercitano uno sguardo radicale, possono ancora dischiudere spazi di possibilità ulteriori. L’oltranza critica, quando riesca a sporgere sul già dato e a sospenderne la cogenza, è tuttavia un esito inintenzionale. E le prese di posizione, se pur legittime, non garantiscono, oggi come sempre, la validità del risultato artistico. Questo si giustifica piuttosto solo nella sua esecuzione, per l’aderenza fenomenologica alle cose e alla loro intima vita. Di qui l’impronta testimoniale che l’arte viene ad assumere. Affrettata sarebbe però la pretesa, oggi così à la page, di identificare l’artista con il testimone, per cucirgli addosso un abito etico da tempo dismesso. Se la «pretesa pura forma, che nega l’espressione, suona a vuoto»4 – così Adorno – è anche vero che l’espressività si allenta proprio laddove le opere si dispensano dal lavoro formale. Questo non è invece richiesto dalla pura testimonianza etica, dove prevale l’accensione emotiva del contenuto, nel bagliore di un’idea del bene. Rivolta a qualcuno, a un interlocutore, la testimonianza. A nessuno, a qualcuno a venire, a un uditore che solo essa potrebbe produrre, l’espressione artistica: quando riesca a sottrarsi al conformismo delle attese attra111

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verso la trascendenza della forma. È pur vero che al cielo vuoto si è orientata la testimonialità di un secolo sanguinario come quello trascorso: ma l’espressione artistica non si volge tanto a quel cielo, bensì è l’anelito di un testimone corrotto che, anche solo per un istante, d’un breve soffio, vorrebbe sollevarci in esso, a qualche millimetro dalla presa del suolo, ma sempre bene in vista. Accensioni. Il suolo è però quello di un qui e ora, e di lì, semmai, si solleva lo sguardo. Vissuta con ansia di condivisione o con ossessivo isolamento, tale contingenza è tuttavia sempre anche d’altri. Così il testimone non otterrà mai di essere imparziale, non potrà guardare da nessun luogo, ma solo avviarsi, da un posto preciso, sotto l’angolo d’incidenza della propria vita, avvertendo le perturbazioni del luogo, verso un altro dove, ancora impregiudicato, ancora da trovare e condividere. «Ricerca topologica? Certamente! Ma alla luce di ciò che della ricerca è oggetto: alla luce dell’U-topia. E l’uomo? E la creatura? In questa luce».5 Il mondo, questo battito, quegli occhi, non possono essere messi tra parentesi. Impuro è lo sguardo, incarnato. Non neutralizzabile la situazione da cui ogni atto procede. Luogo d’accensioni, incantamenti, turbamenti, ogni situazione è un affollato crocevia. Con l’epoché del realismo volgare cade anche, solidalmente, la sua controfigura, il fuoco di gioia della soggettività mobile, sciolta da ogni legame terrestre. Ogni empito, ogni gesto, quanto più si addentri nella sua ossessione individuale, con senso della necessità formale, tanto più si lascerà attraversare da correnti improprie, 112

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anonime, portando alla luce stratificazioni sedimentate in quella situazione, oggettivate nell’ora. Matrigne. Tra questi strati, naturali, sociali, storici, sono riconoscibili anche abiti, disposizioni etiche. Il contagio, l’adesione a una forma di vita, radicata o ancora embrionale, è qualcosa che resta attaccato, sia pur come residuo, alle vesti di ogni espressione artistica, tanto più quando essa reclami candore etico o spregiudicatezza morale. E non c’è contenuto che possa essere rielaborato, testimoniato, senza riflettere qualche forma etica, magari avvertita come non vincolante, ma pur sempre sullo sfondo. Non è però questo sfondo a garantire validità all’espressione artistica, e alla sua testimonianza corrotta e frammentata, la quale non può così essere confusa con il moralismo che condanna il mondo o che dispensa insegnamenti. Resta inevitabile pensare, con Benjamin, che in un’opera d’arte «il contenuto di verità di questo tutto, che non s’incontra mai nel precetto desunto, e tanto meno in quello morale, bensì sempre soltanto nel dispiegamento critico, commentato dell’opera stessa, include indicazioni morali solo a un grado estremo di mediazione».6 Tale mediazione, frutto di una coscienza postuma o di un paziente lavoro critico, libera uno strato di senso imprigionato nell’opera, la apre a nuove significazioni, ma non è mai un giudizio di conformità a norme, una forma di ispezione morale che non potrebbe che tradursi in censura. Se un significato morale le opere d’arte alla fine rivelano, esso è tanto più illuminante quanto più espande la nostra coscienza, ampliando l’immaginazione morale piuttosto 113

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che irrigidirla su criteri già dati. Presa alla lettera, l’affermazione di Brodskij, per cui l’estetica sarebbe la madre dell’etica, sembra rovesciare queste pretese di ridurre l’arte a organo della morale.7 La sentenza ha tuttavia un contenuto ambiguo, il cui elemento di verità si lascia penetrare solo a patto di prendere congedo dall’arte assoluta, intesa come forma superiore di ethos, e di pensare all’arte – matrigna ambivalente – come a ciò che prefigura, nella massima contrazione dello spirito congelato, un’espansione liberatoria della vita. Topos. L’impulso all’espressione, dapprima tensione mimetica ad assimilarsi alle cose, si arresta nella cesura formale, con un colpo all’indietro che lo riporta su se stesso. Solo di qui è possibile un ritorno alle cose, ora prossime perché estranee. Così l’adattamento non è puro conformismo, bensì tensione che trasforma, metamorfosi. In questa direzione la poesia supera la forma tradizionale delle architetture verbali, basata sull’opposizione figura/ sfondo, e si riallaccia alla concezione topografica figura/ figura: diventa elemento sporgente ma fuso nel terreno dell’esperienza. La figura, mentre si integra nella topografia del luogo, insieme ne deforma il profilo, escrescenza linguistica che genera nuove forme di vita, inedite morfologie linguistiche. Come un’arte del paesaggio essa s’innesta nel terrain vague, tra i margini inselvatichiti di parole e cose, rinvigorendone gli arbusti e rendendo riconoscibile la silva dove prima si scorgeva solo un panorama di rovi e detriti.

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Postilla etologica. Così, con cura biometrica, l’ars poetica continua la sua tessitura, anche quando le strutture consolidate, le tradizioni, si sfaldano. Il grado zero della cultura, che in certi momenti sembra prossimo come non mai, è forse anche un’occasione per la poesia che, come pratica istitutiva, non necessita, nel suo fare paziente, di una legittimazione esterna. In questa prevalenza dell’agire, del fare, la scrittura poetica torna alla sua qualifica di ape operaia, di silenzioso e operoso artigianato che tesse una tela mai pienamente aggiudicabile ideologicamente. Certo, vi è anche la resistenza dai margini e la salvezza dell’esclusione: ma qui la poesia resiste proprio perché viene meno il lungo errore dell’appartenenza piena. Quando il tutto che la teneva coesa come pratica culturale si dissolve, la poesia continua a sporgere da quel terreno guasto, facendo segno ad altro. Non più sorretto o puntellato da un sistema riconosciuto di valori, questo gesto, acme dell’individuazione, torna a poggiare sull’etologia poetica della specie, ma proprio in questa nudità si osserva dal futuro.

1  György Lukács, Teoria del romanzo, a cura di Giuseppe Raciti, SE, Milano, p. 56. 2  Gottfried Benn, Doppia vita, a cura di Elena Agazzi, Guanda, Parma 1994, p. 136. 3  Osip Mandel’štam, La parola e la cultura, in Sulla poesia, con due scritti di Angelo Maria Ripellino, nota di Fausto Malcovati, traduzione di Maria Olsoufieva, Bompiani, Milano 2003, p. 47. 4  Theodor W. Adorno, Teoria estetica, Feltrinelli, Milano 1970, p. 194.

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5  Paul Celan, Il meridiano, in La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Einaudi, Torino 1993, p. 17. 6  Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1975, p. 102. 7  Iosif Brodskij, Dall’esilio, Adelphi, Milano 1988, p. 47.

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Sulla neve. Tre affondi

Arte biometrica. Le tecnologie biometriche si occupano dell’identificazione e della re-identificazione del vivente sulla base di dati biologici: l’impronta digitale o palmare, la conformazione dell’iride, la struttura del volto, la frequenza della voce. Ma anche la poesia è un’arte biometrica ante litteram. Una tecnologia dell’identità, perché attraverso la parola e la sua scansione l’essere umano, come vivente, registra la sua presenza e si rende rintracciabile nel silenzio stellare. La poesia, a differenza delle tecnologie biometriche contemporanee, non procede unicamente a quantificare e digitalizzare i dati biologici. La poesia è invece un’arte biometria arcaica, mossa da una tensione trasfigurante: una biologia della voce, che dà corpo e forma al grido primordiale. Non si tratta, in questo caso, di registrare passivamente delle identità date bensì di misurarle e articolarle. Qui si manifesta un’ambiguità irresolubile: la volontà di dare forma all’esperienza, in ogni espressione poetica riuscita, si rovescia nel riconoscimento di una forma già presente, che tuttavia non può essere senza la voce che la mette in salvo. Questa scansione dell’esistenza trova la sua unità di misura nel verso. Pertanto la poesia è sempre metrica: misurazione del respiro. Un’arte plurale, perché molteplici sono le 117

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forme e svariate le misure che possono catturarle: come reti gettate nel mare dell’esperienza, ciascuna delle quali lascia emergere qualche cosa di diverso. Visione morfologica. La riflessione non gioca un ruolo preponderante nella creazione poetica. Naturalmente pensieri o argomentazioni possono essere contenuti nei versi: pensiamo ad esempio alla canzone, che nella nostra tradizione ha accolto nel suo sviluppo ragionamenti anche complessi. Ma questi rappresentano solo una materia della poesia e non la sua forma. D’altra parte chi volesse ridurre la poesia a mera intuizione finirebbe fatalmente per perderne di vista la peculiarità. La sistemazione precisa degli elementi del testo, la disposizione delle parole, la configurazione sonora, e tutti gli altri aspetti imprescindibili dell’artigianato poetico, non si risolvono in un attimo ma si sviluppano nel tempo: un’intuizione che riluce, si sfrangia, si definisce, e infine si lascia cogliere in una visione perspicua. È come visione – visione morfologica – che meglio si lasciano comprendere il meccanismo della creazione e le ragioni del testo. La roccia sotto la neve. Che cosa può contenere un poema? Non l’idea dell’acqua ma la sua sonorità, la fisicità del fluire. A chi appartiene l’acqua che il nuotatore misura, in lente bracciate solcando lo specchio informe di un cielo vuoto? A chi appartiene, se nel flutto affonda

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la silhouette dorata nella luce? Ma tu già viri verso le acque nere, le grandi acque che attendono immote; a delfino t’involi, ad occhi chiusi

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segui l’onda all’isola di cenere; se nei bracci argentati il nuotatore serra e nasconde, a chi appartiene l’acqua? Tu allora il corpo in fuga immergi, all’onda consegna le vestigia delle forme, brune parvenze che il flutto dilava.

L’acqua è l’elemento liquido dei versi. E il mare della poesia non è solo quello della mente, invasa dai pensieri o quello della pagina bianca, attraversata dai segni: è anche l’acqua che avvolge la figura del nuotatore, la massa equorea del sonno. Qui non c’è una “valenza filosofica” sottesa, un significato da decifrare, un rebus da sciogliere, una roccia sotto la neve, proprio perché l’espressione poetica vale per sé stessa e non è l’ancella di qualche altra forma di sapere: è la neve stessa che conta, il riflesso abbagliante delle cose, l’inganno suadente delle forme. Che la via dell’inferno sia lastricata di buone intenzioni si lascia dire anche a proposito della poesia, la cui aspirazione paradisiaca non può essere certo soddisfatta dall’intenzione di comunicare qualcosa, di veicolare un significato profondo. In poesia, in fondo, non c’è altro che superficie.

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Camminare tra i fenomeni

esce dalla stanza, un giorno, scivola sulla superficie delle cose, sul volto del mondo. cammina, attraversa un paesaggio, una teoria di versi. I In my room, the world is beyond my understanding; But when I walk I see that it consists of three or four hills and a cloud. II From my balcony, I survey the yellow air, Reading where I have written, «The spring is like a belle undressing». III The gold tree is blue, The singer has pulled his cloak over his head. The moon is in the folds of the cloak.

prova a tradurre la prima strofa di «Of the Surface of Things» (1919), pubblicato in Harmonium (1923), il primo libro di Wallace Stevens:

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Nella mia stanza, il mondo non si lascia comprendere; Ma quando cammino vedo che è fatto di due o tre colline e di una nuvola.

Camminando, la composizione del mondo si manifesta, articola, definisce. Quanto si sottrae alla comprensione si fa ora un ordine evidente, una trama spaziale di cose, bordi, superfici, dettagli. E l’indeterminatezza dell’esperienza, il suo tratto vago, sfuggente, prende forma, si traduce nel numero, nella trama visibile delle cose. formula ipotesi sul domani, sulla polvere, insegue le erbe vaganti, si lascia afferrare. Se il ritmo dei passi, la loro successione nel tempo, collegasse la mente con il mondo. Quasi il muoversi nello spazio, con il corpo, ci mettesse in relazione a quel mondo da cui fuggiamo, cui andiamo incontro. Le cose non sarebbero semplicemente là. Ci attenderebbero, ma il fuori, il mondo che ci aspetta, sarebbe nel passaggio dalla stanza al cammino. Una dialettica inconclusa, tra interno e esterno, ci offre quelle tre, quattro nuvole, quella collina. Seguendo queste oscillazioni, John Keats avrebbe intrapreso nel giugno-agosto del 1818 un viaggio a piedi nel Nord dell’Inghilterra e della Scozia con l’amico Charles Brown, sulle tracce del «Mondo, o lo spazio materiale dove si incontrano la Mente e il cuore».1 Da quel viaggio a piedi, vissuto come «un prologo alla vita»,2 Keats 122

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si riprometteva di «ricavare più esperienza» e insieme di arricchire le proprie «capacità in poesia»:3 «imparerò di qui la poesia … vivrò tutto nell’occhio».4

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cammina, fa tre quattro passi, scompare. Camminare per il mondo, attraversare lo spazio materiale dove prende forma la vita individuale, quell’esperienza incarnata che nutre il cuore e la sua intelligenza delle cose. La poesia oedoporica sembra continuamente mettere a fuoco un processo senza nome che Gustave Roud, nel suo Petit traité de la marche en plaine, chiamava «lo scambio con il mondo come un’operazione mai sospesa»: uno scambio in cui qualcosa è «una volta per tutte incorporato al paesaggio e a noi stessi».5 Quest’incarnazione, nel camminare, l’incorporazione nella carne, nel ritmo del piede, di una misura, di una scansione regolata del movimento, rende il corpo capace di avvertire i differenti ritmi del mondo. Il ritmo del ramo che nel telaio della finestra di una caserma la giovane recluta vede inclinarsi, alzarsi, abbassarsi, fremere. Realizzare un’apprensione del mondo con il corpo e del corpo con il mondo, una sensibilità alle somiglianze e dissomiglianze dei ritmi differenziati dell’accadere, che si avvicini al nucleo della libertà ritmica della poesia, di un’espressione che cerca e rinnova la sua misura nel contatto protratto con i fenomeni. ogni fenomeno è sereno.

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Oppure, nel ritmo di un processo che si mantiene aperto, in una sospensione protratta:

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L’albero dorato è blu, Il cantante si è avvolto il mantello sulla testa. La luna è nelle pieghe del mantello.

Nelle pieghe del mantello, i fenomeni tornano a sfocarsi. Ogni contenuto concreto del mondo, ogni individuo determinato appare come una periferia indefinita. Sono le «prove del cuore», il passo che mantiene aperta l’indeterminatezza. Keats, nel periodo del suo viaggio, scriveva ai suoi interlocutori di una ripetizione su una tonalità più alta, di una «dilatazione dell’esperienza». Dove in gioco è un di più, un’intensificazione, ma insieme un’espansione che dilata i fenomeni, li scontorna, procede su margini indistinti, dai caratteri non definiti. L’albero dorato è blu. I camminatori attraversano questo spazio di indeterminazione, esplorano una condizione di potenzialità che, come sostiene Rebecca Solnit, intercetta uno stato liminale, sospeso tra noto e ignoto, stato passato e identità futura.6 Il nostro diventar altro, ciò che stiamo divenendo. In una soglia tra mondi, quasi il rovesciamento della definizione di Stevens dell’immaginazione quale «potere della mente sulla potenzialità delle cose».7 Invertendosi nel passaggio, in uno scambio non regimentato, nel potere delle cose sulla potenzialità delle mente. Lo spazio, la grandezza delle montagne e delle cascate si possono immaginare anche prima di vederle; ma l’espressione o tono intellettuale sorpassa ogni immaginazione e vince ogni ricordo.8

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Camminare nello spazio, earthworks iscritti nel paesaggio, come Spiral Jetty, il vortice di roccia frantumata installato sul fondo del Salt Lake dello Utah. In A Sedimentation of the Mind Robert Smithson scriveva che negli earthworks si esprimerebbe uno stato costante di erosione tra mente e paesaggio, dove materia e mente si confondono indefinitamente.9 Nei suoi saggi ibridi, insieme resoconti di viaggio, manifesti teorici, documentazioni, prosecuzioni delle opere, Smithson parla a questo proposito di un’oscillazione tra differenziazione ordinaria dell’esperienza e dedifferenziazione oceanica. Una dialettica che procede in direzione inversa rispetto ai processi irreversibili di differenziazione, li nullifica, ripristina potenziali di differenziazione ulteriore.10 prova a chiudere gli occhi, se puoi, ad avanzare verso un punto qualunque: Ciò che la poesia di viaggio sempre di nuovo cerca di esprimere, lo scambio di Roud, nel linguaggio di Smithson «il ritmo della dedifferenziazione»: una forma di «decreazione», riconfigurazione produttiva di uno stato entropico in una condizione estatica, apertura di mondi. «Noi partecipiamo alla creazione del mondo decreando noi stessi»,11 così Simone Weil nei Quaderni. Mi feci lo zaino: calzini, borraccia, matite, tre taccuini vuoti. Non portai mappe. Non so leggerle – perché sigillare l’acqua che scorre? Dopo tutto, l’unica regola del viaggio è: non tornare come sei partito. Torna diverso.12

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Il ritmo sui ci si lascia oscillare Anne Carson, in Types of Water, nel diario di viaggio del suo pellegrinaggio sul Cammino di Compostela, registrando lo sfarsi della persona che era, di una fase della vita.

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Fai un passo avanti. Tremi nella luce. Nulla viene lasciato in te tranne il desiderio di quella perfetta economia d’azione, che esaurisce interamente il cuore, senza residuo, senza errore: Camino.13

Le prove del cuore che i camminatori affrontano riguardano lo sfarsi di ciò che siamo, oscillano sul ritmo della decreazione, «undoing of the creature in us – that creature enclosed in self and defined by self».14 Nel resoconto dei poeti che si sono messi in viaggio, che hanno seguito le tracce dei camminatori, il ritmo della dedifferenziazione richiede l’esperienza di una forma di ricettività. «Mai mi sono così completamente dimenticato della mia statura, vivo tutto nell’occhio»,15 scriveva Keats al fratello nel giugno del 1818, iniziando il diario del suo viaggio a piedi, quel preludio alla vita che avrebbe voluto condurre. Quella vita umana compiuta di cui, nella lettera del febbraio dello stesso anno a John Hamilton Reynolds, Keats scriveva: apriamo piuttosto i petali come fa il fiore e facciamoci passivi e ricettivi, attendiamo pazienti che Apollo ci faccia fiorire imparando da ogni nobile insetto che ci farà l’onore di venirci a trovare.16

Un meditazione sulla vita, sul mondo e sulla poesia, il cui tono è consonante con le riflessioni dove Roud no126

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tava come, in una lunga giornata di cammino, l’assoggettamento del corpo a uno sforzo ritmico prolungato produca una soluzione di continuità dell’esperienza. Il ritmo protratto, ipnotico dei passi, pari all’«ossessione di una frase continua», genera uno stato estatico, di ricettività pura, di sensibilità quasi materiale, in cui il nostro sé, il nostro specchio intimo, è come allentato, la coscienza di sé coagulata, decreata, e le cose proiettano direttamente la loro ombra sulla nostra immaginazione. Le matin, quand l’homme et ses souvenirs ne se sont pas réveillés en même temps, ou bien encore au cours d’une longue journée de marche sur les routes, entre l’âme et le corps assujetti à son desport rythmique, se produit une solution de continuité. Une espèce d’hypnose «ouverte» s’établit, un état de réceptivité pure fort singulier. Le langage en nous prend une valeur moins d’expression que de signe; les mots fortuits qui montent à la surface de l’esprit, le refrain, l’obsession d’une phrase continuelle forment une espèce d’incantation qui finit par coaguler la conscience, cependant que notre miroir intime est laissé, par rapport aux choses du dehors, dans un état de sensibilité presque matérielle. Leur ombre se projette directement sur notre imagination et vire sur son iridescence. Nous sommes mis en communication.17

Siamo messi in comunicazione. Il contatto sensibile con le cose là fuori riguarda una condizione potenziale, in cui la ricettività è uno stato di fuoriuscita da sé, che più avanti Roud chiamerà anche «contagio obliquo», accennando a un’esperienza di dedifferenzazione temporale – «il tempo divenuto reversibile».18 Non si tratta solo del fatto che camminando, in un sentiero collinare, nella folla anonima, nella città di notte, incontrando un mondo 127

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fatto di estranei, di vite altrui, disfiamo noi stessi e, come nota Virginia Woolf in Passeggiando per le strade di Londra, «ci togliamo di dosso la consueta personalità». La poesia del camminare parla spesso di questo processo di trasformazione, di liberazione di sé, e dal sé, una rigorosa spersonalizzazione in cui quella specie di conchiglia che la nostra persona ha secreto per alloggiarvisi, per avere una forma propria e diversa da quella altrui, viene infranta, e di tutte quelle rughe e asperità rimane solo l’ostrica centrale della percezione, un enorme occhio.19

Il viaggio per le strade dell’Inghilterra e della Scozia di Keats era un approssimarsi a quell’ostrica centrale della percezione – «vivo tutto nell’occhio» – la dilatazione dell’esperienza in un occhio enorme che si schiudeva nella carne del mondo. Quando i confini tra sé e il mondo s’allentano, la nostra pelle non separa ma è una presa sensibile sulla materia estesa, mutevole, sulla materia sognante. Non è l’io isolato ad abitare quell’occhio, imprigionato nel cristallino. La dilatazione ci dice di un’esperienza possibile in cui non siamo incatenati a una mente sola, dove la mente paesaggio si estende indefinitamente. o quella cartolina, che hai scritto a Stefano, camminando in un giorno di sole a Milano, in piazzale Corvetto. anch’io attraversato dalla gente dalla loro esistenza in un mattino senza sole la curva della sopraelevata taglia la piazza

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entro nella vita anonima sono all’esterno, nei passanti che entrano e escono dai grandi magazzini provo a non essere più nessuno come è sempre stato come deve essere il traffico scorre senza verso orientamento il mondo si disperde ovunque.

Virginia Woolf parla delle escursioni notturne sulle strade di Londra, del contatto con le vite degli altri che incrociamo per via, come di una messa in comunicazione in cui «ognuna di queste vite si era lasciata penetrare un poco, abbastanza da darci l’illusione che non siamo incatenati a una mente sola, bensì possiamo assumere brevemente, per qualche minuto, i corpi e le menti altrui».20 Se c’è qualcosa cui la poésie viatique si approssima indefinitamente, è questa sensazione che non siamo monadi, che i nostri mondi si incrociano in innumerevoli punti, si confondono, nell’unico flusso della vita comune. e vorrebbero solo camminare, nella distanza spiccare come minuscoli punti, sparire beati. Verso la foce, registra Gianni Celati, «ci hanno mescolato le anime e ormai abbiamo tutti gli stessi pensieri».21 Quanto sembra impossibile nella nostra stanza, la distanza apparentemente incolmabile in cui crediamo di vivere isolati gli uni dagli altri, si rivela, in quegli istanti, un’illusione tenace, ma aggirabile. Di 129

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quell’apparente impossibilità ragionava Keats, riflettendo sull’idea stessa della poesia, sulla sua promessa immanente di felicità: Ma così varie sono le Menti dei Mortali e dedicate a viaggi così diversi, che l’idea di una comunanza di gusti e di una affinità tra due o tre persone sembra dapprima del tutto impossibile. La mente di un uomo può andare assolutamente per conto suo, incrociarsi con quella di un altro in innumerevoli punti, e riconoscersi alla fine del viaggio. Un Vecchio e un fanciullo parlano insieme, l’Uomo riprende la sua strada e il fanciullo rimane a pensare.22

In quel riconoscersi nel viaggio, entrare a far parte dell’«umanità» quale «una grande democratica Foresta di Alberi», Keats esprime l’utopia viandante cui la poesia si approssima indefinitamente. Il flusso anonimo dei camminatori e delle camminatrici, dilatandosi nel mondo, risalendo la corrente temporale, accade ovunque, nella confluenza delle generazioni, in quel «vasto esercito repubblicano di anonimi pedoni» tra le cui fila Virginia Woolf si confondeva: Non appena usciamo di casa una bella sera, fra le quattro e le sei, ci togliamo di dosso la consueta personalità, la sola che i nostri amici conoscano, per diventare membri di quel vasto esercito repubblicano di pedoni, la cui compagnia è così piacevole dopo la solitudine della propria stanza.23

È un percorso di straniamento, che richiede l’esercizio di una negative capability, di quell’arte trasformativa di «being at home in the unknown», «being at home with being lost», di cui parla, con espressione esatta, Rebecca 130

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Solnit in A Field Guide to Getting Lost.24 Perché lasciare la porta aperta all’ignoto, diventare qualcun’altra, è fare l’esperienza dell’estensione dei limiti del sé in territori ignoti, un’incorporazione in un paesaggio ibrido, poroso, che può essere attraversato in innumerevoli direzioni, i cui confini si spostano indefinitamente. E i pensieri, là fuori, imbattervisi nel paesaggio, leggerli nell’aria. «Anche i pensieri», scrive Gianni Celati in Verso la foce, «sono fenomeni esterni in cui ci si imbatte, come un taglio di luce sul muro, o l’ombra delle nuvole».25 ora fai tre, quattro passi. guardati intorno, misura le apparenze, riprova: Dalla loggia, osservando l’aria gialla, Leggo ciò che ho scritto, «La primavera è una bellezza che si spoglia».

prova a tradurre, a camminare tra i fenomeni: In Il compito del traduttore Walter Benjamin esplorava l’ipotesi che la relazione tra originale e traduzione fosse un rapporto vitale, di trasformazione, non una mera relazione tra significati. prova a riformulare l’ipotesi di Benjamin: Se la traduzione manifestasse l’affinità delle molteplici lingue, della miriade di menti, della pluralità dei mon131

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di, il loro crescere e maturare nel seme di una lingua più alta, rispetto a cui ogni lingua storica, ogni corpo singolare, ogni mente individuale sarebbe inadeguata. Se i camminatori, come traduttori di esperienze, attraversassero i fenomeni quali frammenti di una lingua più profonda, di un mondo più ampio.26 e quei pensieri viandanti, gli sconfinamenti tra le lingue. non era forse questo che ti chiedeva Franco, ieri, al telefono? il contagio delle menti. la traduzione dei mondi. il movimento della lingua nello spaziotempo. non era forse questo che avevi promesso, incautamente, di scrivere? Se camminare, viaggiare negli spazi aperti, fossero mezzi per attraversare questo paesaggio in movimento, per esplorare i confini della nostra esperienza, aprirsi alle molteplicità che l’attraversano, incarnando, facendo accadere un mondo comune. Allora la poésie viatique avrebbe a che fare con quanto Eric Auerbach indicava come «l’attimo qualunque della vita dei diversi uomini sulla terra», quei momenti di straniamento, quei severi esercizi di spersonalizzazione che ci forniscono un accesso non intenzionale, ma preciso, a ciò che accade ovunque, ai tratti elementari, comuni a tutti, di «una vita comune degli uomini sulla terra».27 abbiamo provato ogni giorno come non ci riuscisse più di vivere guardavamo senza guardare guardavamo il cielo

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il vento pieno dei suoi accadimenti perché abituarsi al male? o non faremo nulla cominceremo a vivere come tutti

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volevano essere felici subito pronti a disperdersi nel mondo

1  John Keats, Lettere sulla poesia, a cura di Nadia Fusini, Feltrinelli Milano 2016, p. 158. 2  Ibi, p. 91. 3  Ibi, p. 121. 4  Ibi, p. 113. 5  Gustave Roud, Petit traité de la marche en plaine, in Écrits, Bibliothèque des Arts, Lausanne 1978, pp. 32-33. 6  Rebecca Solnit, Storia del camminare, Bruno Mondadori, Milano 2000, p. 58. 7  Wallace Stevens, L’immaginazione come valore, in L’angelo necessario. Saggi sulla realtà e l’immaginazione, a cura di Massimo Bacigalupo, SE, Milano 2000, p. 117. 8  John Keats, Lettere sulla poesia, p. 113. 9  Robert Smithson, A Sedimentation of the Mind: Earth Projects, in The Collected Writings, edited by Jack Flam, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1996, p. 100. 10  Ibi, p. 103; cfr. Incidents of Mirror-Travel in the Yucatan, in The Collected Writings, p. 132-3. 11  Simone Weil, Quaderni, vol. II, a cura di Giancarlo Gaeta, Adelphi, Milano 1988, p. 262. 12  Anne Carson, Tipi di acqua. Un saggio sul Cammino di Campostela, in Antropologia dell’acqua. Riflessioni sulla natura liquida del linguaggio, a cura di Antonella Anedda, Elisa Biagini e Emanuela Tondello, Donzelli, Roma 2010, p. 10. 13  Ibi, p. 47.

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14  Ead., Decreation. How Women Like Sappho, Marguerite Porete and Simone Weil Tell God, in Decreation. Poetry, Essays, Opera, Vintage Contemporaries, New York 2006, p. 169. 15  John Keats, Lettere sulla poesia, p. 113. 16  Ibi, p. 84. 17  Gustave Roud, Petit traité de la marche en plaine, p. 109. 18  Ibi, p. 134. 19  Virginia Woolf, Passeggiando per le strade di Londra, in Per le strade di Londra, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 110. 20  Ibi, pp. 99-100. 21  Gianni Celati, Verso la foce, Feltrinelli, Milano 1989, p. 140. 22  John Keats, Lettere sulla poesia, p. 103. 23  Virginia Woolf, Passeggiando per le strade di Londra, p. 99. 24  Rebecca Solnit, A Field Guide to Getting Lost, Cannongate, Edinburgh-New York-Melbourne 2006, p. 10. 25  Gianni Celati, Verso la foce, p. 93. 26  Walter Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, traduzione e introduzione di Renato Solmi, Einaudi, Torino 1982, pp. 33-52. 27  Erich Auerbach, Mimesis. Il Realismo nella letteratura occidentale, con un saggio introduttivo di Aurelio Roncaglia, Torino, Einaudi 1964, vol. II, p. 337.

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Contro la poesia

Hypotheses non fingo. Se essere contro la poesia fosse una condizione di possibilità per essere poeti. Essere contro la poesia per poter scrivere poesie. Per poter aspirare a scriverne di autentiche. Scrivere come se nessuna poesia data potesse mai dirsi riuscita, esaudire l’aspirazione che incarna. Dovendo scontare un’impossibilità, l’impossibilità della poesia quale sua matrice costitutiva. Un’impossibilità metafisica che non possa essere pensata sino in fondo, ma che vada immaginata sempre di nuovo, messa in parole finite, esibita nel qui e ora di un oggetto assurdo, terrestre e alieno al mondo. Se ogni poesia che sia veramente tale volesse rifare da capo il mondo, e la poesia stessa, finendo così per dichiarare la non esistenza di ciò che sino ad allora è stato chiamato con questo nome. Una protesta contro il fatto che nessuna poesia abbia potuto sino a ora soddisfare tale pretesa. Non una teologia negativa, una forma di neoplatonismo poetico, come vorrebbe Ben Lerner in The Hatred of Poetry.1 Piuttosto un’individuazione senza residui che confinerebbe con un nominalismo radicale. Ogni poesia, all’altezza delle sue pretese, sarebbe così contro la poesia come essenza fissa, invariante. Lo svelamento della tradizione che la precede quale manto di 135

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ombre sonore, labili emissioni di voci. Quasi la poesia non avesse ancora avuto luogo. O si sottraesse a ogni reductio ad unum.

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Se essendo contro la poesia si resistesse alla sua reificazione, alla riduzione del suo fantasma a cosa morta, fenomeno catturabile, afferrabile come oggetto determinato. Se essere contro la poesia significasse svelarne l’aperta molteplicità, come essa non si lasci stringere al singolare, ma si dia solo in una pluralità di pratiche, atti, modi. Sotto copertura. L’impossibilità strutturale, se non metafisica, come modo di essere contro la poesia standovi dentro, suscettibile di differenti indicizzazioni storiche. All’altezza del primo Novecento questa logica si indicizza scontando un’impossibilità psicologica e sociale, la vergogna della poesia di cui parla già Guido Gozzano nella Signorina Felicita («io mi vergogno, / sì, mi vergogno di essere un poeta»). Non solo una postura reattiva rispetto al dannunzianesimo, ma espressione formulare di quella che diventerà quasi una condizione di socializzazione del poeta almeno sino alla mia generazione. Da un lato identificazione psicologica con l’aggressore, introiezione mimetica da parte dei poeti di una situazione di avvertita crisi sociale. Ma insieme è come se la condizione di un apprendistato poetico riuscito divenisse la rivendicata disponibilità ad attraversare il mondo come agenti sotto copertura, vestendo i panni di un altro, doppiogiochisti, agenti dell’invisibile. 136

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Il secondo mestiere, non dichiarato, dissimulato, di chi non solo si protegge così da un mondo avvertito come inospitale, ma insieme mimeticamente partecipa della sua ostilità verso la poesia e verso di sé. Diffidare di chi si identifichi immediatamente con il ruolo di poeta, di chiunque spacci per essenza socialmente accettabile il nome della poesia. Non si può diventare poeti se non si è contro la poesia e contro i poeti, se non si avverte un profondo disagio a identificarsi con loro, e con se stessi, sino a nutrire quel perfect contempt, quel disprezzo senza riserve che chiunque abbia mai preso sul serio la poesia, o l’abbia avvertita come destino personale, non può non aver avvertito per sé, sentendo affiorare sulle proprie labbra i primi versi di Poetry di Marianne Moore: I too, dislike it.2 Poesia e barbarie. Con la sentenza di Adorno per cui «è diventato impossibile oggi scrivere poesie», si indicizza un mutamento epocale come impossibilità etica e antropologica: «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie».3 Che si tratti di un interdetto, come è stato troppo frettolosamente inteso, di un nuovo tipo di mandato a scriverne, o di altro ancora, l’acuminata frase di Adorno coglie uno spostamento di confine, ove la poesia, res amissa, si sposta versi luoghi non giurisdizionali, su bordi non aggiudicati, in territorio barbaro. Come se la poesia venisse ad assumere una posizione xenotica, cercando impossibilmente di parlare una lingua altra, estranea al massacro: «La poesia dopo Auschwitz», scrive Lyn Nehjian in Barbarism, «deve essere barbara: deve essere straniera alle culture che producono atrocità».4 137

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D’ora in poi essere contro la poesia non sarà più solo condizione psicologica e sociale, ma etica e antropologica del fare poesia. «Se ne scrivono ancora» – Vittorio Sereni in Gli strumenti umani – «se ne scrivono solo in negativo».5 L’antipoesia s’installa al centro della poesia stessa, della sua fragile e dolorosa consapevolezza, in una forma di negativismo che esprime lo sforzo paradossale ma necessario di andare oltre l’interdizione adorniana, di renderla produttiva in un’esegesi senza fine – il movimento incessante del continuare a scriverne – «recitando la poesia contro se stessa», così Rachel Blau Du Plessis nella Midrash (Draft 52) che percorre il gioco intricato di figure retoriche, divieti, imperativi in cui l’affermazione adorniana può essere di volta in volta sciolta, appropriata, infinitamente esorcizzata.6 Antipoesia dell’ordinario. L’antipoesia entra nell’arsenale dell’avanguardia del dopoguerra, addomesticata come forma specifica di poesia: come fare poesia nell’età del consumo, dell’uomo di massa del capitalismo avanzato? Non negazione radicale della poesia stessa, ma strategia di sopravvivenza, adattamento a condizioni mutate, sul doppio sfondo dell’atrocità recente e dell’industria culturale in via di dispiegamento. Allora essere contro la poesia, contro il sublime, lo stile alto, l’io lirico, il poetico, per poter continuarne a scriverne ex negativo, nelle pieghe, nei tropismi dell’ordinario e dell’infraordinario. In fondo, sottoscrive Nicanor Parra, il geniale inventore dell’antipoesia come brand, «LA / POESÍA / MORIRÁ / SI NO / SE LA / OFENDE / hay / que / poseerla 138

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/ y humillarla en público // después se verá / lo que se hace».7 Cenerentola e il principe dell’estetizzazione. Negli anni più recenti assistiamo a una strana congiuntura. Diagnosi di medio termine, come quella spietata offerta a più riprese da Guido Mazzoni, denunciano un decentramento della poesia nello spazio letterario, rispetto alla posizione di cui ancora godeva nel dopoguerra, a favore del romanzo, con conseguente esaurimento del capitale simbolico ereditato, connessa revoca del supposto mandato sociale e marginalizzazione editoriale. Bisognerebbe proprio mettersi con Corrado Costa In cerca dell’uomo invisibile, insomma, per trovare traccia del poeta nell’attuale circuito della comunicazione sociale e della sfera pubblica. Nell’epoca del narcisismo di massa, dell’economia dei desideri e della postrealtà, intesa quale progetto ed effetto di tecniche di potere finzionale gestite dai media – il canovaccio offerto da Walter Siti in Troppi paradisi8 – i poeti in quanto tali si sentono condannati a un ruolo marginale. Dichiarano la posizione residuale della poesia, continuando ad abitarla contraddittoriamente nelle loro nicchie, stando con la propria poesia contro la poesia, oppure, per meglio lasciarsi contagiare dallo Zeitgeist, si prostituiscono al romanzo e alle tecniche finzionali, con occasionali compensazioni in forma di prosimetro. «L’introvertito architetto del pensiero abita dietro la luna, sequestrata dai tecnici estrovertiti».9 Eppure, proprio nel momento in cui i poeti domestici sono largamente disponibili a riconoscersi in queste 139

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diagnosi, e a dibattervisi senza trovare una via d’uscita, la (post?)realtà batte un colpo, inizia l’importazione di nuove specie di poeti globali, instagram si offre come terreno di sostituzione della poesia con una sua immagine addomesticata, i reality annettono qualche performer al loro dominio, i dati di vendita della poesia mandano segnali incoraggianti e l’editoria e gli inserti culturali dei quotidiani danno a volte l’illusione di guardare alla poesia come alla next big thing, o se non altro come a patina erotizzante per altri contenuti culturali, mostre d’arte, hashtag. Non ci si raccapezza più. La diagnosi sul decentramento viene puntellata ipotizzando l’incipiente modellamento del consumo di poesia sulla falsariga di ciò che era negli anni novanta e zero il mercato della musica popolare, bipartito in prodotti di largo consumo in basso e circuito alternativo di nicchia alta: salvo poi realizzare che anche questa partizione è già obsoleta viste le trasformazioni insorte nella produzione, distribuzione e consumo di musica, cui non è estraneo lo stesso circuito della poesia. Che cosa sta accadendo? La poesia, fino a ieri cenerentola dell’industria culturale contemporanea, è forse pronta a essere incoronata dal principe dell’estetizzazione? Una semplice estensione alla poesia odierna delle tesi di Franco Fortini, già riprese da Valerio Magrelli,10 sul surrealismo di massa gestito da televisione e nuovi media – una sorta di avanguardia per tutti che utilizzerebbe parassitariamente le tecniche della finzione letteraria neutralizzandone il potenziale dirompente – è una strategia interpretativa esposta però a notevoli rischi. 140

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Non si tratta di bendarsi gli occhi di fronte a fenomeni quali il successo planetario di “poeti” globali come Rupi Kaur, con conseguente estensione del dominio del poetese quale immagine stereotipica di #poesia che sintetizza onirismo e immediatismo, ed è come tale ammissibile nella buona società dei selfie. Ma il luogo comune teorico che società dei selfie e narcisismo di massa – che sarebbe forse meglio chiamare “pseudoindividualismo” – siano un fenomeno strutturale piuttosto che schiuma, effetto di superficie, andrebbe prima o poi messo alla prova. E paga senz’altro pegno alla sopravvalutazione di diagnosi conservatrici della modernità à la Lash e Girard, che tendono a equiparare individualismo, narcisismo ed espressivismo, e non offrono strumenti per distinguere forme riuscite da forme mancate di individualizzazione. Inoltre, si corre anche il rischio di riproporre una lettura monodimensionale dell’industria culturale e dell’estetizzazione contemporanea, replicando il gesto snob che conduceva Adorno e i suoi followers a squalificare in massa il jazz e la commedia hollywoodiana degli anni trenta e quaranta, senza sapere cogliere gli aspetti mutageni, senza sapere intercettare il nuovo che non si lasci già incasellare negli schemi di intelligibilità in uso. Assistiamo oggi a una proliferazione poco regimentata di forme di espressione poetica, al di fuori dei domini istituzionalizzati, vagamente polimorfa. Percepiamo un pericolo di integrazione, di normalizzazione della poesia, ma nello stesso tempo avvertiamo l’inadeguatezza degli schemi interpretativi che siamo portati ad applicarvi, tarati su un mondo in via di sparizione. Sentiamo, oscu141

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ramente, di toccare qualcosa di profondo, come se in questo soprassalto si manifestasse una resistenza della poesia, quasi antropologica, a qualsiasi diagnosi sulla sua fine, alla sua più volte annunciata riduzione tendenziale a linguaggio elitario di nicchia. L’inaspettato colpo di coda della poesia, sopravvissuta ai suoi liquidatori, è un fenomeno ambivalente, ad alto tasso di ibridazione. La posizione barbara, revisited. Se l’antipoesia non fosse la negazione della poesia, né una mera corrente poetica, bensì un’antinomia interna alla struttura della poesia. Se essere contro la poesia fosse stata una condizione logica, e via via psicologica, sociale, etica, interna all’espressione poetica stessa. Come si traduce al presente questo discorso, quali sono i margini entro cui si potrebbe, dovrebbe essere contro la poesia oggi? Come si declina oggi la posizione barbara in poesia? La vergogna di essere poeta non è più da qualche tempo il medio fondamentale di socializzazione di chi aspiri a scrivere poesie. E per quanto ci si affezioni alla propria sanguinosa infanzia, e pure allo stigma più o meno consapevolmente introiettato, non c’è forse anche una punta d’invidia, la sensazione che vi sia qualcosa di liberatorio nell’affrancamento da quella posizione che ci pareva la seconda natura di un apprendistato autentico? 142

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La presa del monito adorniano sembra essersi allentata, quasi ci si fosse anestetizzati rispetto al suo contenuto, ma anche si fosse divenuti meno sensibili rispetto alla sua formulazione ricattatoria, repressiva. A fronte della musealizzazione dell’avanguardia, l’antipoesia dell’ordinario è divenuta ordinaria amministrazione, un altro strumento nella cassetta degli attrezzi, un’opzione. La critica della poesia come essenza singolare rimane un contravveleno senza il quale non è nemmeno possibile prendere le distanze da quei fenomeni di brandizzazione e normalizzazione estetizzante che rappresentano uno dei rischi del contemporaneo. Parlare al singolare del rischio di reificazione della poesia, come se non vi fosse invece un fascio di pratiche, non riducibili ad unum, come se la vicinanza allo sfondo estetizzante fosse una condanna a cui siano tutti egualmente soggetti, finirebbe per riprodurre quella fallacia da cui l’antipoesia poteva immunizzarci. Rivendicare la posizione barbara. L’antipoesia come sua condizione. Si può, si deve essere ancora contro la poesia.

1  Ben Lerner, Odiare la poesia, traduzione di Martina Testa, Sellerio, Palermo 2017. 2  Marianne Moore, La poesia, in Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, con due saggi di T.S. Eliot e W.H. Auden, Adelphi, Milano 1991, p. 78.

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3  Theodor W. Adorno, Critica della cultura e società, in Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1972, p. 22. 4  Lyn Hejinian, Barbarism, in The Language of Inquiry, University of California Press, Berkeley-Los Angeles 2000, pp. 325-326. 5  Vittorio Sereni, Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Mondadori, Milano 1995, p. 149. 6  Rachel Blau Du Plessis, Dieci bozze, traduzione e introduzione di Renata Morresi, Vydia Editore, Montecassiano 2012, pp. 93-127. 7  Nicanor Parra, Artefactos, Ediciones Nueva Universidad, Santiago de Chile 1972. 8  Walter Siti, Troppi paradisi, Einaudi, Torino 2006. 9  Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, introduzione e cura di Stefano Petrucciani, Einaudi, Torino 1970, p. 3. 10  Valerio Magrelli, Il Sessantotto realizzato da Mediaset: un dialogo agli inferi, Einaudi, Torino 2011.

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Nota

Alcuni capitoli di questo libro riprendono in forma rielaborata interventi apparsi su “Atelier”, “L’Ulisse”, “Semicerchio”, “Kaspar Hauser”. I capitoli Individuazione senza riserve, «les jeux ne sont pas encore faits» e Verso la X riprendono in forma di saggio motivi di conversazioni apparse su La società degli individui, Nazione Indiana e Le parole e le cose, con Andrea Inglese e Guido Mazzoni, con Stefano Modeo e con Laura Pugno. Alle loro voci sono grato per un dialogo che continua nel tempo. Le poesie di cui non è indicato l’autore sono tratte rispettivamente dalle raccolte canti ostili (Lietocolle, Faloppio 2007), La divisione della gioia (Transeuropa, Massa 2010), Biometrie (Manni, San Cesario di Lecce 2005), L’indifferenza naturale (Marcos y Marcos, Milano 2018), i camminatori (Valigie Rosse, Livorno 2013), Gli aspri inganni (Lietocolle, Faloppio 2004), oppure sono inedite. Le immagini senza didascalia provengono da un archivio personale di scatti di ailanti.

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Notizia sull’autore

Italo Testa vive a Milano e insegna Filosofia Teoretica all’Università di Parma. Ha pubblicato opere di poesia, tradotte in varie lingue. Codirettore della rivista di poesia “L’Ulisse” e del lit-blog Le parole e le cose. Ha curato di recente Habits (Cambridge University Press, 2021).

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la poesia confinerebbe con la speranza, la capacità di rapportarsi al futuro nonostante tutto, come a un orizzonte di possibilità a venire

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Alia 14. Jeanne Hersch, La nascita di Eva. Saggi e racconti, prefaz. di J. Starobinski, nota di R. De Monticelli, trad. di F. Leoni. 15. Alberto Nota, Il bibliomane, a cura di M.C. Misiti, prefazione di P. Innocenti. 16. Dmitrij Sergeevič Lichačëv, Il silenzio del Nord, a cura di A. Raffetto. 17. Fernanda Pivano, Cesare G. Romana, Michele Serra, De André il corsaro. 18. Carlo Dionisotti, Un professore a Londra. Studi su Antonio Panizzi. 19. Giovanni Testori, Maestro no, intervista e fotografie a cura di A. Ria, con testi di L. Romano e F. Branciaroli, prefazione di G. Raboni. 21. Lucilla Giagnoni, «Vergine madre». Voce di donna nella Commedia di Dante. 22. Mary Borden, La zona proibita, a cura di Carla Pomarè. 23. Giuseppe Anceschi, I libri, un destino. Ricordi, appunti, immagini. 24. Adamo Chiùsole, Sopra l’onore. Lettera a un amico, con una nota di E. Barbieri. 25. Playstation, caffettiere e altri racconti. Gli oggetti della nostra storia, a cura di F. Panzeri e R. Righetto, presentazione di A. Zaccuri. 26. Mya Tannenbaum, Fuga dalla Polonia, presentazione di S. Romano. 27. Graziana Pentich, Dove saremo un giorno a ricordare. Itinerari con Alfonso Gatto. 28. Francesca Rigotti, Giuseppe Pulina, Asini e filosofi, con tavole di Goya. 29. Alberto Casiraghy, Gli occhi non sanno tacere. Aforsimi per vivere meglio, con un testo di S. Vassalli. 30. Lucilla Giagnoni, Big Bang. L’origine dell’universo e della vita in scena, con dvd. 31. Alda Merini, Più della poesia. Due conversazioni con Paolo Taggi. 32. Massimo Novelli, La cambiale dei Mille e altre storie del Risorgimento. 33. Carlo Sini, L’arte, le api e Darwin. Conversazioni, a cura di S. Fava. 34. Silvana Lattmann, Brunngasse 8. 36. Alberto Toscano, Critica amorosa dei francesi. 37. Bob Dylan. Play a song for me. Testimonianze, a cura di G.A. Cerutti, con una nota di A. Carrera. 38. Andrea Zanzotto, Ascoltando dal prato, a cura di G. Ioli. 39. Silvano Petrosino, Abitare l’arte. Heidegger, la Bibbia, Rothko. 40. Enrico Testa, Una costanza sfigurata. Lo statuto del soggetto nella poesia di Sanguineti. 41. Raul Capra, Tracce di follia nelle Vite del Vasari. 42. Giovanni Tesio, I più amati. Perché leggerli? Come leggerli?. 43. Alfred Jarry, Il Supermaschio (Le Surmâle), rifacimento e adattamento teatrale di S. Vassalli. 44. Oscar Luigi Scalfaro, Credere nei valori. Discorsi sulla Costituzione e sull’Italia. 45. Carlo Dossi, Il mio Manzoni, a cura di G. Davico Bonino. 46. Francesca Rigotti, Nuova filosofia delle piccole cose. 47. Flavio Caroli, Philippe Daverio, Sebastiano Vassalli, Le anime del paesaggio. Spazi, arte, letteratura. 50. Nicola Romeo, Alle radici dell’Alfa Romeo. 51. Giovanni Tesio, Parole essenziali. Un sillabario. 52. Francesco Paolo Castaldo, Lo scudiero Sancio Panza. 54. Francesca Rigotti, Manifesto del cibo liscio. 55. Don Carlo Gnocchi, Caro Giorgio, tuo don Carlo. Lettere e cartoline inedite a Giorgio Buccellati (1941-1943), a cura di G. Santambrogio, premessa di G. Buccellati.

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56. Silvana Lattmann, Vita e viaggi di J.L. Burckhardt. 57. Pietro Prini, Lo scisma sommerso. Il messaggio cristiano, la società moderna e la Chiesa, con testi di E. Bianchi e G. Piana. 58. Carlo Robiglio, Uno sguardo oltre l’impresa. Gli editoriali della rivista “L’Imprenditore” (2014-2017). 59. Le leggi della cortesia. Galateo ed etichetta di fine Ottocento. Un’antologia, a cura di A. Paternoster e F. Saltamacchia, presentazione di S. Prandi. 60. Leonardo da Vinci, Amore ogni cosa vince. Segreti di vita e bellezza, con disegni dai suoi codici, a cura di G. Ruozzi. 61. Vittorio Gregotti, Il mestiere di architetto, a cura di M. Gambaro. 62. Francesca Albani, Franz Graf, Angelo Mangiarotti. variazioni e modularità. 63. Giuliano Gramigna, Casa Freud. Un racconto sperimentale inedito, presentazione di G. Lupo. 64. Marco Scardigli, Roberto Sbaratto, Sorsi. Come farsi una cultura alcolica. 65. Silvano Petrosino, Il miraggio dei social. Euforia digitale e comunicazione responsabile. 66. Sebastiano Vassalli, Il mestiere di Omero. 67. Franco Buffoni, Gli strumenti della poesia. Manuale e diario di poetica. 68. Gian Carlo Ferretti, Un editore imprevedibile. Livio Garzanti, con una intervista inedita. 69. Cesare Bermani, Bella ciao. Storia e fortuna di una canzone dalla Resistenza italiana all’universalità delle resistenze. 70. Silvano Petrosino, Lo scandalo dell’imprevedibile. Pensare l’epidemia. 71. Antonella Doninelli, L’eccesso del desiderio. Tra vendetta e misericordia, presentazione di P. Stancari. 72. Costruire il paesaggio, con testi di M. Romano, F. Schiaffonati, P. Zermani, a cura di M. Gambaro. 73. Antonio Ferrara, Leggero leggerò. Guida impertinente alla lettura e all’amore per i libri. 74. Massimo Novelli, Donne libere. Amanti, patriote, eroine e pensatrici nel secolo dei lumi, con una nota di A. Malerba. 75. Alessandra Anceschi, Sbocciati a scuola. Un’insegnante di musica racconta. 76. Antonella Anedda, Le piante di Darwin e i topi di Leopardi. 77. Eugenio Borgna, Apro l’anima e gli occhi. Coscienza interiore e comunicazione. 78. Giannino Piana, Umanesimo per l’era digitale. Antropologia, etica, spiritualità. 79. Francesca Albani, Carlo Dusi, Alessandro Cavallo, Dante Bini. Mushroom fields (in preparazione). 80. Enzo Ciconte, 1992. L’anno che cambiò l’Italia. 81. Franco Buffoni, Invettive e distopie.

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