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Italian Pages 722 [369] Year 2018
Augusto e la res publica imperiale Studi epigrafici e papirologici
Orazio Licandro
Augusto e la res publica imperiale Studi epigrafici e papirologici
G. Giappichelli Editore
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http://www.giappichelli.it ISBN/EAN 978-88-921-1581-1 ISBN/EAN 978-88-9217716-1 (ebook)
Volume stampato con il contributo del Dipartimento di Scienze Giuridiche, Storiche, Economiche e Sociali dell’Università degli Studi Magna Græcia di Catanzaro.
Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino
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INDICE-SOMMARIO
V
INDICE
pag.
Prefazione
VII
CAPITOLO PRIMO
DOCUMENTI VECCHI E NUOVI SU OTTAVIANO AUGUSTO 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11.
Premessa: da Syme ai nostri giorni Res Gestae 34.1: da potitus a potens Augustus/Auctoritas L’aureus di Ottaviano L’Editto di Paemeiobriga L’imperium proconsulare maius et infinitum o un proconsolato ‘rafforzato’? Il sistema di governo provinciale augusteo I poteri del 19 a.C. Non regno tamen neque dictatura, sed principis nomine constitutam rem publicam (Tac. ann. 1.9.5): il titolo di princeps Centralità di lex (populus) e senatus Conclusioni
1 6 28 42 50 53 80 85 87 96 103
CAPITOLO SECONDO
LA PAX DEORUM E L’IMPERATORE AUGUSTO (CHE “INIZIÒ A PORRE ORDINE NELL’ECUMENE”) 1. 2.
Premessa: il desiderio di pace La rigenerazione religiosa e la nuova alleanza tra Roma e gli dèi: la divinizzazione di Augusto
109 114
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pag. 3. La linea orientale 4. La linea occidentale 5. L’ecumene e l’impero 6. La pax, le province, l’avvio della riorganizzazione 7. Pax, leges e mores: la restaurazione repubblicana tra nuovo e antico 8. Potentia e auctoritas e il nomen Augustus
117 124 142 154 160 177
CAPITOLO TERZO
‘RESTITUTIO REI PUBLICAE ’ TRA TEORIA E PRASSI POLITICA AUGUSTO E L’EREDITÀ DI CICERONE 1. Rivoluzione, colpo di Stato, restitutio rei publicae 2. Rivoluzione: crisi di un concetto 3. La presunta ‘marcia su Roma’ 4. Il colpo di Stato: un’invenzione moderna 5. Dalla commutatio alla restitutio rei publicae 6. Le leges come strumento della commutatio e remedia ai mali della res publica 7. Il gradualismo della stagione riformatrice: i nuovi documenti e la loro intima connessione 8. RGDA 34.1: la potentia augustea 9. Dalla potentia all’auctoritas 10. Restitutio rei publicae tra semantica, politica e istituzioni 11. Dai principes ciceroniani al princeps augusteo 12. Il Cicerone perduto? 13. I consiglieri del princeps: retori, filosofi e giuristi 14. Conclusioni
183 192 196 206 217
233 242 246 252 261 279 283 303
Bibliografia
307
Indice delle fonti
343
230
PREFAZIONE
Scrivere ancora un libro sul passaggio dalla repubblica al principato e sul suo artefice, Ottaviano Augusto, dinanzi alla sterminata letteratura accumulatasi, soprattutto dopo le celebrazioni del bimillenario della morte nel 2014 per la prevedibile ma impressionante produzione di biografie, saggi, articoli vari, mostre e cataloghi, può apparire inutile se non addirittura fastidioso. Perciò avverto innanzitutto che quello che il lettore sfoglierà non è affatto l’ennesima biografia di Augusto; piuttosto è il risultato di molti anni di ricerche e di riflessione su quella fase cruciale della storia giuridica di Roma, ma direi dell’intera Europa e non solo, per gli sviluppi e le implicazioni dell’enorme eredità lasciata. Ricerche e riflessione che avevano già dato vita a tre diversi contributi, seppure strettamente connessi e in alcuni aspetti sovrapposti, e che adesso appaiono nella veste dei tre capitoli del libro. Naturalmente, coordinare testi anche lontani, gli uni dagli altri, nel tempo non è sempre facile, perciò ho preferito lasciare inalterati i titoli per risalire immediatamente ai testi originari che, sebbene sostanzialmente immutati nella struttura e nelle conclusioni, invece sono stati rivisti, aggiornati, corretti ove ho ritenuto opportuno o necessario farlo, e alleggeriti in alcune parti comuni. Il lettore, che coglierà l’andamento circolare dei tre capitoli, potrà leggerli indipendentemente uno dall’altro e senza un preciso ordine. I tre contributi trasformatisi nei tre capitoli del libro sono i seguenti: – Documenti vecchi e nuovi su Ottaviano Augusto. Appunti sulla transizione repubblicana, in BIDR 105, 2011, pp. 235-305 (capitolo primo); – La pax deorum e l’imperatore Augusto (che “iniziò a porre ordine nell’ecumene”), in Scritti per A. Corbino, vol. IV, Tricase (LE) 2016, pp. 223300 (capitolo secondo); – ‘Restitutio rei publicae’ tra teoria e prassi politica. Augusto e l’eredità di Cicerone, in AUPA 58, 2015, pp. 59-130 (capitolo terzo). Sono invece rimasti fuori, sebbene ampiamente richiamati, la monografia scritta con F. Costabile (Tessera Paemeiobrigensis. Un nuovo editto di Augusto dalla «Transduriana provincia» e l’imperium proconsulare del princeps, L’Erma di Bretschneider, Roma 2000, pp. 1-148); il saggio Ancora sul proconsolato del principe alla luce della documentazione epigrafica, in Minima
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Epigraphica et Papyrologica 4, 2001, pp. 433-445; quello dedicato all’Egitto e al suo prefetto (La praefectura Aegypti fra conservazione e innovazione istituzionale, in Minima Epigraphica et Papyrologica 10, 2007, pp. 29-74), pubblicato con qualche variante anche negli Studi per Giovanni Nicosia, vol. IV, Giuffrè, Milano 2007, pp. 387-475, infine sviluppatosi in autonoma monografia (“Aegyptum imperio populi Romani adieci”. L’Egitto e la sua prefettura fra conservazione e innovazione nella politica augustea, Satura Editrice, Napoli 2008, pp. 1-134); e l’intervento dal titolo La transizione augustea tra legislazione e poteri, in Index 45, 2017, pp. 39-48, pronunciato in occasione della presentazione della raccolta di scritti in traduzione italiana di J.-L. Ferrary all’École Française de Rome il 4 novembre 2016. L’edizione delle Res Gestae Divi Augusti utilizzata in questo libro è quella magistralmente curata da J. SCHEID, Res Gestae Divi Augusti. Hauts Faits du divin Auguste, Les Belles Lettres, Paris 2007. A queste pagine ho potuto attendere nell’ultimo anno del mio mandato istituzionale di assessore alla cultura della città di Catania. Splendida, ma complessa e difficile come le grandi città del Mezzogiorno italiano, Catania mi ha procurato affanni per i problemi giganteschi da affrontare, pur nei limiti della mia delega e per l’incessante ed enorme mole di lavoro, ma mi ha pure regalato grandi soddisfazioni e gioie per gli obiettivi conseguiti. Ho sempre provato a saldare didattica e ricerca con impegno civile, politico e istituzionale, ancor più oggi, nella speranza di preservare, almeno in me, una concezione alta della politica intesa come servizio e mai come ‘professione’, o almeno di garantirmi così una sorta di igiene mentale tanto benefica quanto necessaria nel degrado morale dei nostri tempi. D’altro canto, ho pure tratto enorme giovamento per i miei studi dal vivere direttamente a vari livelli, e anche da storico del diritto, il funzionamento della macchina statale centrale e nelle sue articolazioni e nell’esercizio del potere pubblico. Per questo e molto altro ancora, oggi più che nel passato, sento di ringraziare, di cuore, il Sindaco Avv. Enzo Bianco che ha sempre tollerato, senza farmene sentire il peso, le mie fughe verso aule e biblioteche, e i funzionari e i dipendenti dell’Assessorato alla Cultura del Comune di Catania che mi hanno consentito – mediante professionalità e dedizione all’Istituzione – di addolcire le durezze e smussare le asperità dell’impegno amministrativo e politico, assicurandomi, nella pur vorticosa quotidianità del governo di una città, momenti di tranquillità e di serenità da dedicare alle mie carte. A tutti loro questo libro deve molto. Catania, primavera 2018 o.l.
Convivae, tetricas hodie secludite curas ne maculent niveum nebula corda diem omnia sollicitae ponantur murmura mentis, ut vacet totum pectus amicitiae. Non semper gaudere licet: fugit hora, iocemur: difficile est fatis subripuisse diem. * Caius Octavianus Augustus (Codex Bernensis 109, fol. 136)
*
Ospiti, oggi le severe preoccupazioni bandite, / affinché non offuschino il candido giorno cuori rannuvolati: / si allontani ogni mormorio della mente inquieta / affinché l’intero animo sia sgombro per l’amicizia. / Non sempre ci è permesso esser lieti: fugge l’ora, scherziamo: / è cosa difficile sottrarre un giorno al destino. Gaio Ottaviano Augusto
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RICERCHE IN TEMA DI RETENTIO
CAPITOLO PRIMO DOCUMENTI VECCHI E NUOVI SU OTTAVIANO AUGUSTO
SOMMARIO: 1. Premessa: da Syme ai nostri giorni. – 2. Res Gestae 34.1: da potitus a potens. – 3. Augustus/Auctoritas. – 4. L’aureus di Ottaviano. – 5. L’Editto di Paemeiobriga. – 6. L’imperium proconsulare maius et infinitum o un proconsolato ‘rafforzato’? – 7. Il sistema di governo provinciale augusteo. – 8. I poteri del 19 a.C. – 9. Non regno tamen neque dictatura, sed principis nomine constitutam rem publicam (Tac. ann. 1.9.5): il titolo di princeps. – 10. Centralità di lex (populus) e senatus. – 11. Conclusioni.
1. PREMESSA: DA SYME AI NOSTRI GIORNI «The Roman Revolution di R. Syme apparve nella estate del 1939. Ricordo di averlo letto nella copia donatami dall’autore, quando ormai la guerra era stata dichiarata e le notti si facevano sempre più lunghe su Oxford immersa nell’oscurità. Il libro afferrava il lettore, stabiliva un rapporto immediato tra l’antica marcia su Roma e la nuova, fra la conquista del potere di Augusto e il colpo di stato di Mussolini, e forse quello di Hitler. Nell’incisiva vivezza con cui uomini e situazioni dell’antica Roma erano rappresentati si rifletteva la esperienza di situazioni del nostro tempo. Non c’era mai forzatura. I testi antichi parlavano direttamente». Con queste parole, nel 1961 Arnaldo Momigliano apriva l’introduzione alla traduzione italiana del magistrale The Roman Revolution di Ronald Syme, ormai vero e proprio classico della storiografia moderna, dedicato all’avvento al potere di Augusto 1. In effetti, sebbene non sia affatto il caso di definirla una felice congiuntura, il libro di Syme appariva proprio nei giorni in cui drammaticamente esplodeva il secondo conflitto mondiale e i condizionamenti di quella formidabile temperie della Storia, in un’Europa funestata dai demoni dei fascismi e del nazismo, furono inevitabili anche su uno storiografo del suo rigore. Da allora in poi tanto si
1 Si legga la recensione A. MOMIGLIANO, Ronald Syme, The Roman Revolution, in JRS 30, 1940, pp. 75 ss. [= in ID., Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, pp. 406 ss.].
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è dibattuto e scritto sul cruciale passaggio dalla repubblica al principato, sul ruolo e sulla posizione costituzionale di Augusto, da riempire interi scaffali di biblioteche. Molte le opinioni, assai di più le sfumature, ma tutte sostanzialmente concordi nel considerare l’avvento al potere di Augusto come un’autentica rottura con la tradizione e la cultura giuridico-costituzionale della repubblica, evento configurabile come rivoluzione o colpo di Stato. «Six decades after its publication in the early days of the Second World War, Ronald Syme’s The Roman Revolution remains unmatched as a narrative of events, as a portrayal of the rise to power of a younger usurper, as an evocation of a whole class of new men who now gained a place in the Roman system […]». Si tratta dell’incipit dell’ultimo saggio di Fergus Millar 2 su Augusto, apparso poco meno di vent’anni fa, non a caso dal titolo The First Revolution: Imperator Caesar, 36-28 BC., in cui si offre piena e inequivocabile conferma della straordinaria, gigantesca influenza che il canone interpretativo ‘rivoluzionario’ di Syme ha continuato a esercitare sulla migliore storiografia moderna, in cui appunto The Roman Revolution non cessa di essere il solido baricentro di ogni ipotesi ricostruttiva della genesi del principato augusteo. Sebbene però si cominci a guardare con perplessità all’utilizzazione del concetto di ‘rivoluzione’ 3, non semplicisticamente riducibile a un avvicendamento di ceti sociali al potere, più resistente è invece l’idea del ‘colpo di Stato’. Quest’idea infatti continua ancora a costituire l’essenza principale in importanti recenti studi, come quelli che hanno dato corpo a due ricchi volumi, il primo curato da Adalberto Giovannini 4 e il secondo da Frédéric Hurlet e Bernard Mineo 5. Lungo un analogo solco di stampo tradizionale si collocano pure le pagine dei corposi contributi di Pelling 6 e Crook 7 che aprono il ponderoso volume della seconda edizione della monumentale Cambridge Ancient History dedicato al principato augusteo, per quanto non debba sfuggire la sincera e onesta ammissione da parte di Crook
2 F. MILLAR, The First Revolution: Imperator Caesar, 36-28 BC, in AA.VV., La révolution romaine après Ronald Syme. Bilans et perspectives, Vandœuvres-Genéve 2000, pp. 1 ss. 3 A tal proposito, ancora di tutto interesse è il volume collettaneo AA.VV., La rivoluzione romana. Inchiesta tra gli antichisti, Napoli 1982. 4 AA.VV., La révolution romaine après Ronald Syme, cit., passim. 5 AA.VV., Le Principat d’Auguste. Réalités et représentations du pouvoir. Autour de la Res publica restituta. Actes du colloque de l’Université de Nantes 1er-2 juin 2007 (sous la direction de F. Hurlet et B. Mineo), Rennes 2009; è pure doveroso ricordare il ponderoso volume di F. HURLET, Les collègues du prince sous Auguste et Tibère. De la légalité républicaine à la légitimité dynastique, Rome 1997, passim. 6 C. PELLING, The Triumviral Period, in AA.VV., The Augustan Empire, 43 B.C. – A.D. 69, CAH, X, Cambridge 1996, pp. 1 ss. 7 J.A. CROOK, Political history, 30 B.C. to A.D. 14, in AA.VV., The Augustan Empire, 43 B.C. – A.D. 69, CAH, X, Cambridge 1996, pp. 70 ss.; ID., Augustus: Power, Authority, Achievement, in AA.VV., The Augustan Empire, 43 B.C. – A.D. 69, CAH, X, Cambridge 1996, pp. 113 ss.
DOCUMENTI VECCHI E NUOVI SU OTTAVIANO AUGUSTO
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dello stato talmente frammentario delle nostre fonti sull’origine del principato da concludere che «they are far from satisfactory all the same, and the Augustan beginnings of many institutions of the Roman Empire remain hard to detect» 8. Mentre un’utile panoramica è quella offerta dalla meticolosa rassegna di Hurlet 9, peraltro aggiornata da Dalla Rosa 10, sebbene sia stata presto sommersa e superata, com’era d’altronde da attendersi, dalla quasi alluvionale letteratura scientifica prodottasi in occasione del bimillenario della morte di Augusto del 2014. E tra i numerosi scritti recentemente apparsi si annoverano libri ricchissimi di nuovi spunti come quelli di Luciano Canfora 11, Felice Costabile 12, Alberto Dalla Rosa 13 e Arnaldo Marcone 14, a cui si aggiunge anche una nuova edizione di Syme, curata da Giusto Traina 15. Insomma, nonostante ora ci si approssimi agli otto decenni dalla stampa dell’opera di Syme, la chiave di lettura del colpo di Stato proposta dallo studioso neozelandese è rimasta talmente radicata da ricevere ancora negli ultimi tempi nuova linfa e smalto, come autorevolmente è avvenuto da Luciano Canfora. Utilizzando un’espressione celeberrima quale la marcia su Roma, Canfora ha nuovamente contribuito a restituire freschezza al parallelismo Augusto-Mussolini lanciato sulla scena storiografica internazionale da un Ronald Syme profondamente impressionato dalle vicende italiane del 1922. In quel suggestivo quanto efficace parallelismo i protagonisti dell’antichità e dell’attualità sembravano giocare un’eterna partita pronta a ripetersi nella Storia: così Cicerone-Giolitti che tenta di usare Ottaviano-Mussolini, «ed il giovane e abile demagogo che lascia ai vecchi e sperimentati statisti tale illusione per poi impadronirsi con un colpo a sorpresa di tutto il potere» 16. Eravamo, e lo siamo ancora, dinanzi a quel Syme capace di far brillantemente calzare alla vicenda augustea il calco di quel pas
8
J.A. CROOK, Political history, cit., p. 70. F. HURLET, Une décennie de recherches sur Auguste. Bilan historiographique (1996-2006), in Anabases 6, 2007, pp. 187 ss. 10 F. HURLET-A. DALLA ROSA, Un quindicennio di ricerche su Augusto. Un bilancio storiografico, in SCO 55, 2009, pp. 169 ss. 11 L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, Roma-Bari 2015. 12 F. COSTABILE, Caius Iulius Caesar. Dal dictator al princeps. Dal divi filius al Cristo. Augusto e le maschere del potere, Roma 2013. 13 A. DALLA ROSA, Cura et tutela. Le origini del potere imperiale sulle province proconsolari, Stuttgart 2014. 14 A. MARCONE, Augusto, Roma 2015. Merita di essere segnalata anche la pubblicazione di un volume di saggi scelti in traduzione italiana di J.-L. FERRARY, Dall’ordine repubblicano ai poteri di Augusto. Aspetti della legislazione romana, a cura di E. Stolfi, con una Introduzione di A. Schiavone, Roma 2016. 15 R. SYME, La rivoluzione romana (nuova edizione a cura di G. Traina), Torino 2014. 16 L. CANFORA, La prima marcia su Roma, Roma-Bari 2007, p. 72; cfr. ID., Ottaviano e la prima «marcia su Roma», in AA.VV., I giorni di Roma, Bari-Roma 2007, pp. 51 s. 9
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AUGUSTO E LA RES PUBLICA IMPERIALE
saggio storico in cui il re d’Italia accoglieva l’usurpatore e con inusitata ipocrisia istituzionale gli affidava il 28 ottobre del 1922 l’incarico di primo ministro 17.
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«Il principato nacque dall’usurpazione», con queste dure e taglienti parole Ronald Syme segna l’esordio del suo Tacito, I, Brescia 1967, p. 7. Invero, la prospettiva di Syme, per quanto possa apparire paradossale, risente tanto, da esserne profondamente condizionata, proprio dei motivi retorici e ideologici del regime fascista fondamenta genetiche del principato di Augusto: nazionalismo, leaderismo carismatico, rivoluzione, salvezza della civiltà occidentale, ecc. Un saggio di ciò lo incontriamo in alcune interessantissime pagine apparse nel 1937, cioè esattamente due anni prima del The Roman Revolution di Syme, su una rivista ufficiale del regime. Quelle pagine recano la firma di P. DE FRANCISCI, Augusto e l’Impero, in Quaderni dell’Ist. Naz. di Cultura Fascista 15, 1937, pp. 5 ss., e ancora oggi sono esemplari nella loro gonfiezza di sconfinata e orgogliosa retorica; sono sufficienti a farsene un’idea queste righe conclusive: «Si andava così poderosamente affermando una forma di cosmopolitismo, nel quale diventava virtù operante l’idea del genere umano; si compiva una costruzione politica di incommensurabile portata storica nella quale si manifestava il valore universale della potenza di Roma, e si consolidava un patrimonio ideale, che si sarebbe trasmesso per secoli quale inesauribile eredità spirituale, quale sistema di forze vive informatrici di tutta la civiltà occidentale. Patrimonio ideale nel quale trovano radice alcuni di quegli elementi fondamentali che il Fascismo, romano di sapienza e di energia, rinnova, sviluppa e consolida. Mai anzi, come oggi, di fronte all’opera Mussoliniana, quadrata, salda, poderosa nelle sue strutture e chiara, equilibrata nei suoi contenuti ideali, noi abbiamo sentito rinnovarsi la coscienza profonda della virtù perenne di molti valori spirituali che nell’impero di Roma ebbero il loro germe e che il Duce, realizzatore vittorioso, ha trasformato in fermenti rivoluzionarii, composto in una nuova armonia, trasfuso nella sua costruzione politica, resi operanti in tutta la vita nazionale. E non in questa soltanto: perché tuttociò che da Roma trae il suo nascimento assume – sia detto con buona pace di un certo antiromanesimo che va diventando di moda al di là delle Alpi – universale. Nella vecchia Europa affaticata, percorsa da visioni apocalittiche agitate da falsi profeti, una voce fu udita, che può e deve essere di monito e di guida a quanti vogliono dare una ragione di vita alla loro azione, a quanti credono che si debba coraggiosamente e risolutamente operare per la salvezza anzi per la risurrezione della nostra civiltà. Questa voce, e voce di tale che non ha oggi al mondo chi l’uguagli, viene, ancora una volta, da Roma». Tale capoverso conclusivo era in realtà già apparso sul Bullettino del 1934 (ID., Augusto, in BIDR 42, 1934, p. 149). Un ulteriore saggio della retorica di regime è offerto dalle pagine di R. PARIBENI, Augusto. Discorso per il Bimillenario pronunziato nella Reale Accademia d’Italia il 20 aprile 1938, Roma 1938, pp. 5 ss. Con recentissime e assai godibili pagine sul tema è intervenuto A. GIARDINA, L’impero di Augusto, in AA.VV., I volti del potere, Roma-Bari 2010, pp. 23 ss., tracciando il quadro della ricerca (tanto spasmodica quanto grottesca) del regime fascista di un ideologico parallelismo tra l’imperialismo della Roma antica e quello italiano all’insegna del culto del Dux del XX secolo; altri spunti in U. BARTOCCI, L’Istituto di diritto Romano ‘Vittoria Scialoja’ negli archivi dell’Accademia d’Italia, in BIDR 107, 2013, pp. 335 ss., mentre per un affresco maggiore delle tensioni tra scienza romanistica e regime ID., Salvatore Riccobono. Il diritto romano e il valore politico degli studia humanitatis, Torino 2012. E ancora, in merito alle celebrazioni del bimillenario augusteo di epoca fascista, rinvio ai recenti scritti di F. SCRIBA, L’estetizzazione della politica nell’età di Mussolini e il caso della Mostra Augustea della Romanità. Appunti su problemi di storiografia circa fascismo e cultura, in Civiltà Romana 1, 2014, pp. 125 ss.; E. SILVERIO, Il Bimillenario della nascita di Augusto tra celebrazione nazionale ed omaggio mondiale: il caso del Convegno Augusteo del 23-27 settembre 1938, in Civiltà Romana 1, 2014, pp. 159 ss.
DOCUMENTI VECCHI E NUOVI SU OTTAVIANO AUGUSTO
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Eppure, accettando la vulgata tradizionale, sembra a volte di dover fare i conti con una paradossale e gigantesca aporia: che senso ha affermare che Augusto realizzò un colpo di Stato per far rientrare poi il suo potere nell’alveo della normalità e della legalità repubblicana che invece aveva inteso abbattere? 18 In realtà, come vedremo alla fine di questo libro, forse bisognerebbe accantonare lo schema del ‘colpo di Stato’, (tutti pronti a evocarlo ma divisi e incerti sul momento in cui si compì: nel 43 a.C. o nel 36 a.C., nel 32 a.C., come a volte troppo superficialmente si afferma, oppure ancora nel 27 a.C.?). Un’oscillazione che ha afflitto pure lo stesso Syme, nelle cui pur fascinose e avvincenti pagine costrette dal cardine dell’eversione augustea il lettore incappa nella contraddizione non solo di una prima (nel 44 a.C.) e di una seconda marcia su Roma (nel 43 a.C.), ma persino di più colpi di Stato (un altro ancora nel 32 a.C.) 19. Ora, credo che il tempo che ci separa dalla apparizione di The Roman Revolution sia sufficiente per raccogliere una più conducente indicazione formulata diversi decenni fa da Paolo Frezza, e cioè accertare quanto rispondesse a intenti propagandistici o costituisse un vero obiettivo perseguito da Augusto con tenacia di «calare il contenuto del suo potere nelle forme delle istituzioni repubblicane, non già per realizzare l’impossibile impresa di soffiare una nuova vita nel tramontato ordinamento repubblicano, ma per utilizzare le vecchie istituzioni come impalcatura protettiva dell’ordinamento che si veniva formando» 20, in un’ottica cioè del tutto capovolta rispetto a quella che ha invece indotto Vincenzo Arangio-Ruiz a formulare l’elegante quanto artificiale tesi del principatoprotettorato 21.
18
Cfr. P. FREZZA, Note esegetiche di diritto pubblico romano, in Studi in onore di Pietro de Francisci, I, Milano 1956, p. 207 [= in ID., Scritti (a cura di F. Amarelli ed E. Germino), II, Romae 2000, p. 213]. 19 R. SYME, La rivoluzione romana, cit., passim. 20 P. FREZZA, Note esegetiche, cit., p. 207. 21 V. ARANGIO-RUIZ, Storia del diritto romano (7a ed. riveduta, con note aggiunte), Napoli 1991, pp. 215 ss. Alla ricostruzione di Arangio ha aderito P. FREZZA, Corso di storia del diritto romano2, Roma 1968, p. 310 e nt. 38, con un andamento non sempre lineare. Frezza infatti, che nelle pagine precedenti invece aveva osservato la giustapposizione dei due ordinamenti giuridici (quello repubblicano e quello del principato), ammetteva l’inesistenza nelle Res Gestae della «testimonianza autentica dell’intenzione di Augusto di costruire un apparato protettore intorno alla Repubblica in funzione di “conservazione formale e di correzione sostanziale”», e riconosceva alla formula del ‘protettorato interno’ «l’efficacia suggestiva del confronto con l’essenza del nostro rapporto internazionale di protettorato». Torna a difendere in tempi recenti la tesi del ‘protettorato interno’ V. MAROTTA, Esercizio e trasmissione del potere imperiale (secoli I-IV d.C.). Studi di diritto pubblico romano, Torino 2016, pp. 30 s. e nt. 93, che mi aveva giustamente segnalato la più corretta interpretazione dell’opinione di Paolo Frezza. Ma questi si accontenta di poco e cioè dell’«osservazione del fatto che ad Augusto fa capo un ordinamento giuridico distinto da quello della res publica populi Romani» come fondamento necessario e sufficiente della tesi del protettorato interno. Tanto che la difesa di Marotta, conseguentemente, finisce per rendere più vaga e in
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E in effetti, per quanto bilanci e prospettive appaiono necessari, è opportuno oggi forse ancor più di ieri tornare a riflettere sui documenti più importanti alla luce delle fortunate, recenti scoperte dell’ultimo ventennio. Adesso queste nuove testimonianze ‘parlano’ ancora più chiaramente delle altre già conosciute, e ne permettono una migliore messa a fuoco e una nuova rilettura. Questi documenti sono: 1) un nuovo frammento del cap. 34 delle Res Gestae Divi Augusti; 2) un aureus del 28 a.C.; 3) un edictum del 15 a.C. proveniente dall’angolo nord-occidentale della Spagna. Come vedremo, si tratta di testi talmente rilevanti, nelle loro pur scarne e icastiche informazioni, da gettare una luce nuova sui passaggi politici e costituzionali di uno degli snodi fondamentali della storia di Roma e della sua esperienza giuridica e costituzionale, tale da rivedere significativamente alcune nostre comode e consolidate opinioni.
2. RES GESTAE 34.1: DA POTITUS A POTENS Nel fascicolo numero 144 della Zeitschriftung für Papyrologie und Epigraphik, apparso nel 2003, Paula Botteri 22 pubblicava un breve ma denso saggio sul celeberrimo cap. 34.1 delle Res Gestae, cioè di quel frammento che, più di gli altri, oltre ad aver sollevato accanite discussioni, ha fatto piovere sul documento e sul suo autore le accuse di ipocrisia, menzogna, reticenza, ecc. La studiosa, dal 1997 alla direzione di un progetto di restauro e cura dell’autobiografia augustea 23,
certa la stessa posizione di Arangio derubricata a ricostruzione esemplificativa piuttosto che definitoria. E concordando con lui sul carattere sostanziale e non nominale della questione, è lo stesso impianto teorico di un ordinamento nuovo e neppure definito che assume ontologicamente la funzione di proteggere il preesistente e l’unico considerato dallo stesso Augusto a non superare il vaglio delle fonti. Come vedremo nel corso di questo libro quell’intenzione augustea di costruire un ordinamento protettore resta soltanto una suggestione, per quanto elegante ed efficace, dei moderni. Mentre l’obiettivo dichiarato di Augusto fu semmai quello di riformare e gettare nuove fondamenta per consolidare le esistenti e perpetuare così la gloria del medesimo ordinamento non di un altro (vedi, per esempio, ampiamente infra Svet. Aug. 28.1-4); dunque un fine, questo, che richiese numerose sperimentazioni e un arco cronologico di decenni sino alla morte del princeps. 22 P. BOTTERI, L’integrazione mommseniana a Res gestae Divi Augusti 34, 1 “potitus rerum omnium” e il testo greco, in ZPE 144, 2003, pp. 261 ss. 23 Cfr. P. BOTTERI, Missione in Turchia: il Monumentum Ancyranum, in QS 54, 2001, pp. 133 ss., in cui è possibile leggere una chiara sintesi della vicenda archeologica del Monumentum Ancyranum, su cui vedi anche L. TARDY-E. MOSKOVSZKY, Zur Entdeckung des Monumentum Ancyranum, in AAntHung 21, 1973, pp. 375 ss.
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grazie alla piena collaborazione delle istituzioni politiche e culturali turche promotori dell’appello alla collaborazione preoccupate dello stato di degrado del Monumentum Ancyranum 24, nel faticoso ma proficuo lavoro di riesame dei frammenti, provenienti da tutte le aree archeologiche della Turchia, ha avuto l’abilità di scovare un minuscolo frammento subito divenuto la chiave di volta per avanzare una diversa lettura del passaggio relativo alla posizione costituzionale di Augusto dopo la vittoria aziaca. Ma facciamo un passo indietro. Come è noto, questo scorcio delle Res Gestae, giustamente considerato una delle più preziose e fondamentali testimonianze sulla genesi del principato, parzialmente mutilo sino alla scoperta della Botteri, era stato integrato da Theodor Mommsen, e dunque per comprendere meglio la nuova fase degli studi augustei, occorre prendere le mosse proprio da quella integrazione che così faceva dire al nuovo ‘padrone’ di Roma: RGDA 34.1: In consulatu sexto et septimo, postqua[m b]el[la civil]ia exstinseram, per consensum universorum po[titus rerum omn]ium rem publicam ex mea potestate in senat[us populi]que R[om]ani [a]rbitrium transtuli 25. La proposta di Mommsem – consistente nell’integrazione della lacuna con potitus (per consensum universorum potitus rerum omnium) e nella costrizione tra due virgole di postquam bella civilia exstinseram per consensum universorum potitus rerum omnium – da un lato, apriva il varco a un serrato dibattito ma, da un altro, con la sua autorevolezza scientifica chiudeva ogni margine a ogni più penetrante lettura dello scorcio dell’autobiografia augustea. La chiave di volta dell’interpretazione del frammento augusteo, com’è noto, stava in potitus, potiri. Sulla base di questa restituzione e sul tradizionale uso di potiri con l’ablativo o con il genitivo, Augusto avrebbe deposto i poteri straordinari soltanto dopo essersi impadronito di ogni cosa, e così potitus, potiri avrebbero espresso oltre ogni ragionevole dubbio l’uso della forza, il ricorso alla violenza per la conquista del potere. Augusto, in altri termini, avrebbe conseguito il controllo dello Stato romano attraverso un ‘colpo di Stato’ fondandosi su un consensus universorum espressione di un concetto etico politico e non giuridico costituzionale.
24 Ripercorrono, succintamente, le vicende della scoperta del minuscolo ma importantissimo frammento TH. DREW-BEAR-J. SCHEID, La copie des Res Gestae d’Antiochie de Pisidie, in ZPE 154, 2005, pp. 217 ss. 25 Riporto le seguenti traduzioni: a) «Durante il mio sesto e settimo consolato, dopo ch’ebbi posto termine alle guerre civili, con i pieni poteri conferitimi per unanime consenso, trasferii il governo della res publica (Stato) alla libera determinazione del senato e del popolo romano» [F. GUIZZI, Augusto. La politica della memoria, Roma 1999, pp. 143, 145]; b) «Durante il mio sesto e settimo consolato, dopo aver estinto le guerre civili, avendo conseguito tutto il potere attraverso il consenso universale, trasferii il governo dello Stato dalla mia potestà al libero volere del senato e del popolo romano» (Cesare Augusto Imperatore. Gli atti compiuti e i frammenti delle opere [a cura di L. De Biasi, A.M. Ferrero], Torino 2003, pp. 217, 219).
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Non solo. Com’era logicamente prevedibile, quel testo così integrato avrebbe presto indotto e consolidato la convinzione della confessione di Augusto, che questi cioè avesse voluto ammettere, sia pure non in maniera del tutto esplicita, la conquista illegale del suo potere, lungo una successione di eventi allora così dipanatasi: 1) acquisizione della posizione di dominio da parte di Augusto con il consensus universorum; 2) conduzione e fine delle guerre civili; 3) ipocrita e formale rimessione della res publica all’arbitrium del senatus e del populus. Per avere un’idea della profonda penetrazione e sedimentazione di questa ricostruzione è sufficiente citare quanto scrive Francesco De Martino: «il colpo di stato è quindi incontestabile e sarebbe davvero arduo per uno studioso del diritto pubblico romano ricercare una qualsiasi giustificazione legittima al potere assunto da Ottaviano» 26; e ancora: «se il potitus si deve intendere nel senso di rendersi padrone, la deduzione che esso allude ad un fatto non legale e quindi implicitamente ammette un colpo di stato è irrefutabile» 27. Il giudizio di De Martino è coerente, ma postula rigidamente da un dato in apparenza incontrovertibile cioè da quel potitus con il suo pregnante significato di uso della forza, della violenza, carico di senso eversivo. Non si tratta certo di tesi sorprendenti e azzardate: perché stupirsi di ciò se la storia dell’ultimo secolo repubblicano fu anche storia della distruzione della legalità, delle istituzioni politiche, dell’ordine sociale ed economico? Tanto che nella sterminata ma incessante produzione letteraria su Augusto, ancora oggi è facile imbattersi in pagine come quelle di Perilli, tanto intrise però di anacronistico radicalismo: «Augusto è la sublimazione del potere. Del primato del potere e della violenza per il potere. […] Quel che ad Augusto magistralmente riuscì fu di fare della violenza – e fu, la sua, una violenza senza limiti – una compagna del consenso, di unire cioè la tirannide con la monarchia ed entrambe con la democrazia. […] Augusto fu tanto il fondatore dello Stato moderno, quanto il più grande nell’esecuzione di un colpo di Stato magistrale» 28.
26 F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana2, IV.1, Napoli 1972, p. 112. Del grande romanista napoletano, deve ricordarsi pure la pubblicazione de Lo Stato di Augusto, Napoli 1936, poi confluito nel poderoso trattato, e a cui dedica un contributo appena pubblicato S. CASTAGNETTI, In margine al saggio giovanile di Francesco De Martino su «Lo Stato di Augusto», in Index 45, 2017, pp. 693 ss. 27 F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., IV.1, p. 118. Dello stesso tenore P. DE FRANCISCI, Intorno a due passi delle Res gestae Divi Augusti, in AG 175, 1968, pp. 157 s., solitamente tutt’altro che collimante con De Martino: «È quindi indiscutibile che, quando Augusto nelle sue R.G. – riferendosi alla fase in cui, pur essendo ancora Ottaviano, aveva affrontato la guerra contro Cleopatra ed Antonio per eliminare la peste delle guerre civili – affermava, che le sue imprese e la posizione da lui raggiunta erano state suffragate dalla coniuratio Italiae et provinciarum e quindi dal consensus universorum, che lo avevano sospinto a potiri rerum omnium, egli confessava di essersi prevalso di una forza politica nuova, che, (ma questo non lo diceva) era stata suscitata da un’abile e tenace propaganda svolta dai suoi amici e seguaci». 28 L. PERILLI, Augusto, in L. CANALI-L. PERILLI, Il rivoluzionario conseguente. Cesare, Augusto
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Ma restiamo alla questione cruciale. Dall’impianto e dall’integrazione mommseniana ne è conseguita una vera cristallizzazione del panorama scientifico: non un trattato o manuale che avesse sollevato da allora perplessità sul punto e sulla lettura del frammento. Ed è questo il vero punto di domanda. Ma quel potitus divenuto un intoccabile paradigma interpretativo del principato augusteo era davvero certo oltre ogni ragionevole dubbio? O l’autorevolezza sacrale di Mommsen ne aveva fatto una sorta di dogma? E se, invece, il potitus fosse stato solo un semplice quanto banale, seppur comprensibile, errore di integrazione della lacuna epigrafica? Se il grande Theodor Mommsen fosse stato semplicemente condizionato nell’integrare quei pochi centimetri di pietra mancante dalla sua nota ammirazione verso Cesare a cui simmetricamente faceva corrispondere un freddo dileggio verso Augusto? Se ciò fosse possibile, se, cioè, in quel passo delle Res Gestae non comparisse affatto potitus perché assai più banalmente Augusto aveva dettato un’altra parola? Il quadro interpretativo naturalmente cambierebbe e anche di molto. Ma andiamo per ordine. A dire il vero, già nel 1936, Helmut Berve aveva colto che qualcosa non tornava nella restituzione mommseniana del cap. 34, tuttavia si limitava pur con netta determinazione ad avanzare la lettura alternativa secondo cui la posizione di preminenza di Augusto dovette conclamarsi dopo le guerre civili, cioè dopo Azio, e non prima 29. Basta osservare la spaccatura verticale della classe dirigente romana tra Ottaviano e Antonio per riporre ogni idea di consenso generale goduto dal primo già nel 32 a.C. Il seme gettato da Berve, per quanto non riuscisse subito a germogliare con vigore, dimostrò pur sempre una certa vitalità, tanto che nel 1957 Wolfgang Seyfarth 30 intuiva il punto debole dell’integrazione mommseniana, più influenzata da Tacito, Svetonio o Eutropio che realmente fondata. Allora, interpretando potitus rerum omnium non come la confessione augustea della dinamica e illegale presa del potere dopo le guerre civili, bensì come la constatazione del possesso di un potere assoluto, Seyfarth proponeva di emendare potitus in potiens, quale forma rara del participio presente di potiri (presente ad esempio in Cic. tusc. 3.18.41), che ha riscosso di recente, dopo un accurato esame paleografico, l’adesione di Felice Costabile 31.
e il secolo estremo della storia di Roma, Roma 2015, pp. 88, 96, 99 ss., che non a caso resta fermo al potitus mommseniano ignorando i nuovi documenti. 29 H. BERVE, Zum Monumentum Ancyranum, in Hermes 71, 1936, pp. 241 ss. 30 W. SEYFARTH, Potitus rerum omnium. Ein Beitrag zur Deutung der RGDA, Kapitel 34, in Philologus 101, 1957, pp. 305 ss. 31 F. COSTABILE, RG. 34.1: «[POT]IENS RE[RV]M OM[N]IVM» e l’‘Edictum de reddenda re publica’, in AA.VV., Revisione ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (FIRA). Studi preparatori. I. Leges (a cura di G. Purpura), Torino 2012, pp. 255 ss.; ID., Il perfido imperium e l’ambigua potestas di Augusto (RG XXXIV. 1-3), in Civitas e civilitas. Studi in onore di F. Guizzi (a
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Ma pure questa volta, non si andava oltre nel correggere più sensibilmente il tiro. Soltanto in tempi più recenti, Dietfried Krömer 32, muovendo da una più profonda e acuta analisi lessicale a partire dagli Annales tacitiani, si era spinto un po’ più avanti sino a pervenire a risultati di un certo interesse: a) l’espressione rerum potiri appare inconsueta nella letteratura latina e sembra appartenere peraltro a un’età più tarda; b) il verbo potiri è, per lunga tradizione, utilizzato dagli autori antichi per rappresentare vicende di conquista del potere attraverso azioni violente e illegali. E così, sulla scorta della suggestiva intuizione del suo maestro, Rudolf Kassel 33, Krömer concludeva per emendare potitus in potens. Nel 2007, una nuova edizione delle Res Gestae Divi Augusti di John Scheid 34, per la verità preceduta da un saggio del 2005 con Thomas Drew-Bear 35, orientava in maniera precisa verso il varco aperto da Seyfarth, lasciando impregiudicata la scelta tra potens o potiens. Nonostante queste voci dissonanti ma di assoluto interesse, poco cambiava nel quadro dell’incessante produzione scientifica su Augusto, sino a quando, appena qualche anno fa, sopraggiungeva la novità del rinvenimento di un minuscolo frammento di pietra proveniente da Antiochia, in cui al di là di ogni dubbio si legge ‘TENS RE’: sei lettere che nella loro limpida chiarezza consentono di emendare il potitus in potens e seppellire definitivamente l’integrazione mommseniana (figura 1). Allora, l’apertura del cap. 34 avrebbe un tenore assai diverso: RGDA 34.1: In consulatu sexto et septimo, postqua[m b]el[la civil]ia exstinseram, per consensum universorum [po]tens re[ru]m om[n]ium rem publicam ex mea potestate in senat[us populi]que R[om]ani [a]rbitrium transtuli.
cura di A. Palma), I, Torino 2013, pp. 228 ss.; ID., Caius Iulius Caesar, cit., pp. 98 ss. Secondo Costabile, non saremmo in presenza di un participio presente di possum, ma dinanzi al participio presente di potiri e dunque di «un uso tecnico nell’espressione rerum potiri, “impadronirsi del potere”, ovvero “essere padrone del potere”, oppure ancora “essere padrone dello Stato”. A confronto della lettura del Mommsen, prevale il valore “locativo”, lo status quo nel possesso dell’onnipotenza, anziché la “dinamica” della conquista del potere, che si credeva di scorgere nel presunto participio passato ‘[potitus]’». L’integrazione suggerita da Costabile e le osservazioni che ne fa scaturire non dissolvono tuttavia ogni dubbio sul piano epigrafico, come prudentemente anche lui stesso riconosce, mentre non cambia nulla neppure sul piano della ricostruzione generale rispetto a quanto prima sostenuto assumendo la lettura potens. 32 D. KRÖMER, Textkritisches zu Augustus und Tiberius (Res gestae c. 34 – Tac. Ann. 6, 30, 3), in ZPE 28, 1978, pp. 127 ss.; ID., Grammatik contra Lexicon: rerum potiri, in Gymnasium 85, 1978, pp. 239 ss. Cfr. W.D. LEBEK, Res gestae divi Augusti 34,1: Rudolf Kassels potens rerum omnium und ein neues Fragment des Monumentum Antiochenum, in ZPE 146, 2004, pp. 60 ss.; A. MARCONE, Augusto, cit., pp. 91 ss. 33 D. KRÖMER, Textkritisches zu Augustus, cit., p. 135. 34 J. SCHEID, Res Gestae Divi Augusti. Hauts faits du divin Auguste, Paris 2007. 35 TH. DREW-BEAR-J. SCHEID, La copie des Res Gestae, cit., pp. 233 s.
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FIGURA 1. – Frammento ritrovato del cap. 34.1 RGDA
Il mutamento del frammento proveniente, come detto, dalla copia latina delle Res Gestae di Antiochia 36 non è da poco, e apre il varco a nuove e generali considerazioni che inevitabilmente implicano una rivisitazione di alcune tra le più consolidate e tralatizie opinioni relative alla posizione costituzionale di Ottaviano prima e dopo la vittoria aziaca. In effetti, proprio dopo la pubblicazione del frammento di pietra ritrovato le acque sono cominciate a smuoversi e, oltre a un tempestivo rilievo di Dario Mantovani dedicato al secondo nuovo documento, cioè a un aureus datato al 28 a.C. e su cui ci soffermeremo ampiamente 37, con un agile e secco contributo, Giovanni Nicosia 38 ha avvertito della significativa portata del frammento epigrafico. Emendare potitus in potens non costituirebbe infatti un mero dettaglio lessicale, al contrario quell’emendamento produrrebbe la caduta dell’intera costruzione mommseniana, a partire dall’idea del
36 Sul Monumentum Antiochenum vedi A. VON PREMERSTEIN, Zur Aufzeichnung der ‘Res Gestae Divi Augusti’ im Pisidischen Antiochia, in Hermes 59, 1924, pp. 95 ss.; W.M. RAMSAY-A. VON PREMERSTEIN, Monumentum Antiochenum. Die neugefundene Aufzeichnung der Res gestae Divi Augusti im Pisidischen Antiochia, Leipzig 1927, pp. 96 s.; ma si leggano pure W.M. RAMSAY, Colonia Ceasarea (Pisidian Antioch) in the Augustan Age, in JRS 6, 1916, pp. 83 ss.; D.M. ROBINSON, A Preliminary Report on the Excavations at Pisidian Antioch and Sizma, in AJA 28, 1924, pp. 435 ss.; S. MITCHELL-M. WAELKENS, Pisidian Antioch. The Site and its Monuments, London 1998. 37 D. MANTOVANI, Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit. Principe e diritto in un aureo di Ottaviano, in Athenaeum 96, 2008, p. 44 nt. 111 [ripubblicato con addedum bibliografico in AA.VV., I tribunali dell’impero. Relazioni del Convegno internazionale di Diritto romano, Copanello, 7-10 giugno 2006 (a cura di F. Milazzo), Milano 2015, p. 92 nt. 111; ma si leggano pure ID., Mores, leges, potentia. La storia della legislazione romana secondo Tacito (Annales III 25-28), in AA.VV., Letteratura e civitas. Transizioni dalla Repubblica all’Impero. In ricordo di E. Narducci (a cura di M. Citroni), Pisa 2012, pp. 353 ss. 38 G. NICOSIA, Potens rerum omnium, in Studi in onore di Luigi Arcidiacono, V, Torino 2010, pp. 2317 ss.
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l’ammissione del colpo di Stato da parte di Augusto, cioè dell’acquisizione del suo potere, e in altri termini della sua supremazia, in maniera illegittima e attraverso forzature traumatiche, come invece il potitus indurrebbe, e sino ad ora ha effettivamente indotto, a credere. In altri termini, cadrebbe l’idea che quella posizione di supremazia sia stata conseguita attraverso un singolo atto in un preciso momento temporale, mentre comincerebbe a delinearsi assai più nitidamente una genesi e uno svolgersi del principato augusteo in termini assai diversi, meno traumatici di quanto possa credersi, in cui il passaggio del 27 a.C. non dovrebbe più intendersi come il momento improvviso e solenne in cui Augusto rinunciò teatralmente alla sua posizione di potere agguantata illegalmente per assestare su una base di ipocrita legalità costituzionale la nuova fase di dominio, ma un’altra tappa di una lunga transizione verso una nuova forma rei publicae. E in ogni caso, alla luce della nuova integrazione, il cap. 34.1 non costituirebbe quell’oscura ma ufficiale confessione della conduzione di un colpo di Stato. Vediamo allora brevemente di rileggere alcuni significativi testi verificandone coerenza e compatibilità con il testo epigrafico restituito. E cominciamo da potitus. Vero è che potitus come allusivo del raggiungimento di una situazione di potere lo troviamo, sebbene riferito a Druso e indirettamente a Germanico, in Tacito: Tac. ann. 1.33.2: Quippe Drusi magna apud populum Romanum memoria, credebaturque si rerum potitus foret libertatem redditurus, unde in Germanicum favor et spes eadem; e ancora a proposito di Cornelio Lentulo Getulico, potento legato e parente di Seiano: Tac. ann. 6.30.3: Firmarent velut foedus, quo princeps ceterarum rerum poteretur, ipse provinciam retineret. Ora, questi brani, per quanto oggetto di particolare attenzione, oltre a confermare l’uso di potitus in verità dicono poco o niente ai nostri fini. Assai più interessanti mi sembrano invece i documenti relativi alla potentia del princeps: Vell. hist. rom. 2.93.1: Ante triennium fere, quam Egnatianum scelus erumperet, circa Murenae Caepionisque coniurationis tempus, abhinc annos quinquaginta, M. Marcellus, sororis Augusti Octaviae filius, quem homines ita, si quid accidisset Caesari, successorem potentiae eius arbitrabantur futurum, ut tamen id per M. Agrippam securo ei posse contingere non existimarent, magnificentissimo munere aedilitatis edito decessit admodum iuvenis, sane, ut aiunt, ingenuarum virtutum laetusque animi et ingenii fortunaeque, in quam alebatur, capax 39.
39 Sul testo F. GRELLE, «Antiqua forma rei publicae revocata»: il principe e l’amministrazione dell’impero nell’analisi di Velleio Patercolo, in AA.VV., Res publica e Princeps. Vicende politiche,
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Francesco Grelle, soffermatosi di recente su questo brano di Velleio, ha evidenziato la dimensione della potentia del princeps irriducibile al sistema dei poteri pubblici. Nel ricordo velleiano di Tiberio detentore persino negli anni di esilio volontario della medesima maestà di cui era rivestito quando risiedeva a Roma, tanto da chiedersi si illa maiestas privata umquam fuit 40, in qualche misura riecheggiano le affermazioni augustee che distinguevano le potestà magistratuali di cui era titolare dalla sua personale potentia (poi, come vedremo, mutata in auctoritas) senza confondere «fondamenti e vicende delle une e dell’altra» 41. Il testo da non perdere d’occhio però è un altro frammento tacitiano: Tac. ann. 3.28.2: Sexto demum consulatu Caesar Augustus, potentiae securus, quae triumviratu abolevit deditque iura, quis pace et principe uteremur. Il passo si riferisce esattamente al tormentato 28 a.C., quando nel corso del suo sesto consolato, Ottaviano, sentendosi ormai sicuro della posizione di preminenza politica (potentiae securus), decideva di chiudere definitivamente la fase straordinaria del triumvirato con una misura particolare: al fine di dimostrare che quella fase di emergenza fosse davvero conclusa, aboliva anche le leggi eccezionali che in quel periodo erano state adottate. Tacito, insomma, da un lato offre una versione sulla svolta del 28 a.C. concorde con quella di Cassio Dione («E poiché, durante le agitazioni e le guerre, specialmente nel potere collegiale con Antonio e Lepido, (Ottaviano) aveva emanato moltissime disposizioni illegali e antigiuridiche, le abrogò tutte con un solo editto, ponendo come termine il suo sesto consolato») 42. Ma dall’altro, e sul punto la cosa ci interessa particolarmente, il suo latino mostra una straordinaria corrispondenza, per non dire un’assoluta coincidenza, con la nuova restituzione del cap. 34.1 delle Res Gestae; un’equivalenza tra le due espressioni tanto combaciante da far dire a Dario Mantovani 43 che il tacitiano potentiae securus sarebbe un calco dell’autobiografico potens rerum omnium. Credo dunque che possa mantenersi la lettura potens; lectio recentemente accettata anche da Luciano Canfora che scorge la concordanza con Appiano, quando nel proemio al libro III sulle Guerre civili, annota che il governo di Augusto fu crÒnioj, cioè duraturo, e ™gkrat»j, vale a dire fondato sulla forza = potens rerum omnium 44. Potens, che va strettamente legato
mutamenti istituzionali e ordinamento giuridico da Cesare ad Adriano. Atti del Convegno internazionale di diritto romano Copanello, 25-27 maggio 1994 (a cura di F. Milazzo), Napoli 1996, pp. 323 ss. [= in ID., Diritto e società nel mondo romano (a cura di L. Fanizza), Roma 2005, pp. 413 ss.]. 40 Vell. hist. rom. 2.99.4. 41 F. GRELLE, «Antiqua forma rei publicae revocata», cit., p. 333. 42 Cass. Dio 53.2.5. Si legga K.M. GIRARDET, Das Edikt des Imperator Caesar in Suetons Augustus vita 28,2. Politisches Programm und Publikationszeit, in ZPE 131, 2000, pp. 231 ss. 43 D. MANTOVANI, Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit, cit., p. 44 nt. 111. 44 L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., p. 250 ss.
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a rerum omnium, indicherebbe non l’ammissione di un’attività violenta ed eversiva volta all’impossessamento del potere ma semplicemente la situazione di assoluta supremazia fondata, non sulla coniuratio, ma su un consensus universorum – ricordato in diversi altri documenti come l’elogio funebre di Augusto (P. Köln VI.249) 45 e un denario su cui è riportato Imp(eratori) Caes(ari) Aug(usto) comm(uni) cons(ensu) – la condizione di detentore di un potere sostanziale totale, conseguita da Ottaviano dopo la vittoria aziaca: appunto, potentiae securus, come lo descriveva Tacito. Alla luce di tutto ciò, mi sembra difficile poter restare ancora fermi e impassibili sull’interpretazione tralatizia secondo cui Augusto nel 27 a.C. rinunciò a una situazione di potere illegalmente e traumaticamente conseguita attraverso un colpo di Stato: la rilettura del cap. 34 disvela che ben altra era la reale situazione politica generale e quella di Augusto in particolare all’indomani di Azio. Egli si trovava in una situazione di assoluta supremazia politica: potentiae securus equivaleva a dire in negativo che non c’era più nessuno in grado di insidiarlo politicamente, in positivo che godeva del consensus universorum e pertanto di una condizione di incontrastata potentia. Chi vuole tenacemente mantenere l’idea della presa illegale del potere e della conseguente illegalità della sua posizione costituzionale è costretto persino a sostenere, a dispetto di quanto si legge nelle fonti, che Augusto mantenne il potere triumvirale costituente sino al 13 gennaio del 27 a.C. attraverso proroghe, rinnovi, oppure immaginare un’anomala estensione del potere consolare equivalente di fatto ai poteri straordinari, o addirittura impelagarsi in un ‘bizantino’ dibattito sul giorno dello spirare dei poteri triumvirali 46 o sulla natura relativa o assoluta del termine di scadenza. In realtà, dal 31 a.C., quei poteri triumvirali straordinari erano scaduti, e Ottaviano aveva deposta la carica di triumvir r.p.c.: lo afferma lui stesso in RGDA
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Vedi letteratura infra nt. 177. Per una sintesi delle diverse posizioni affermatesi nella critica meno recente si legga P. DE FRANCISCI, Genesi e struttura del principato Augusteo, in Atti Reale Accad. d’Italia, Memorie, II, Roma 1941, pp. 15 ss.; ID., Sintesi storica del diritto romano4, Roma 1968, p. 268, il quale tuttavia cerca di far quadrare in qualche modo i conti, tentando di dimostrare in capo ad Augusto il mantenimento dei poteri straordinari triumvirali in via di fatto. De Francisci infatti non può non negare che una proroga sia mai stata votata formalmente; e, pur riconoscendo nel consolato la base legale e formale di Augusto, ha preferito battere la strada della lettura psicologica, cioè della prudenza augustea di rinunciare all’ostentazione del titolo di triumvir r.p.c. Cfr. pure T. RICE HOLMES, The Architect of the Roman Empire, Oxford 1928, pp. 231 ss. Ma sul tema dei poteri e dei limiti del triumvirato si rinvia al più recente contributo di F. MILLAR, Triumvirate and Principate, in JRS 63, 1973, pp. 50 ss., e ai saggi contenuti nel volume collettaneo AA.VV., Il triumvirato costituente alla fine della repubblica romana. Scritti in onore di M.A. Levi, Como 1993, e alla bibliografia ivi citata. 46
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1.3-4, ripreso da Tacito 47, che sapeva bene che per giustificare la sua potestas sulla res publica il futuro princeps poteva poggiare su di un’unica base legale, cioè il consolato 48. A questo e non ad altro, né tantomeno a poteri straordinari illegalmente conseguiti o mantenuti, egli si rifaceva; e francamente assai deboli appaiono le critiche di coloro che controbiettano di assumere in tal modo «un punto di vista giuridico unilaterale e angustamente formalistico» 49 volto a ridurne la portata. La potentia era invece il concetto politico più ampio con cui Augusto intendeva esprimere in connessione con il motivo del consensus universorum la sua supremazia, il suo potere fattuale di influenza e di orientamento politico della res publica, tanto che alla potentia corrispondeva la piena disponibilità dello Stato (ex mea potestate) a cui rinunciò a favore dell’arbitrium, anch’esso concetto politico generale, di senatus e populus Romanus 50. Nella leggibile simmetria politica e istituzionale delle Res Gestae e soprattutto del cap. 34, ove potestas ricorre due volte, è facile accorgersi che la prima potestas (potere di fatto) derivante dalla potentia (concetto politico) è cosa assai diversa dall’altra potestas (potere istituzionale) derivante dalla magistratura consolare (istituzione repubblicana). Sulla potentia ha scritto pagine limpide Ettore Lepore, in quel suo libro dedicato al princeps ciceroniano divenuto anch’esso ormai un vero e proprio classico della storiografia. La distinzione e pure il nesso tra potentia e auctoritas racchiudono un’idea feconda da approfondire ulteriormente. Innanzitutto, distinguere la potentia, quale dominio di fatto, dall’auctoritas, invece prestigio politico-morale 51, non è frutto di un’interpretazione moderna, ma di una visione che affiora netta nel pensiero politico di età repubbli
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Tac. ann. 1.2.1: Postquam Bruto et Cassio caesis nulla iam publica arma, Pompeius apud Siciliam oppressus exutoque Lepido interfecto Antonio ne Iulianis quidem partibus nisi Caesar dux reliquus, posito triumvir nomine consulem se ferens et ad tuendam plebem tribunicio iure contentum […]. Il frammento tacitiano mi sembra assai chiaro e trovo poco comprensibile chi come P. de Francisci (vedi supra nt. 46) voglia trarre spunto per sostenere che sino alla seduta senatoria del 27 a.C. Ottaviano tenne il potere costituente del triumvirato. Anche, l’argomento successivo utilizzato da de Francisci (Sintesi storica, cit., p. 268), secondo cui «Ottaviano diede un particolare ordinamento all’Egitto con una lex, ciò che non avrebbe potuto fare se non si fosse ritenuto investito di potere costituente», è semplicemente il frutto di un serio fraintendimento dello statuto dell’Egitto, in realtà provincia al pari delle altre seppure segnata da significative peculiarità, ma sul punto infra § 7. Per un sintetico quadro dell’articolazione della dottrina si veda H.W. BENARIO, Octavian’s Status in 32 B.C., in Chiron 5, 1975, pp. 301 ss. 48 Cfr. F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., IV.1, p. 122. 49 P. DE FRANCISCI, Arcana imperii, III.1, Milano 1948, pp. 244 ss. 50 In questo senso anche A. GUARINO, La costituzione democratica romana e le sue vicende, in SDHI 72, 2006, pp. 43 s. [e nella versione rivista ID., Studi di diritto costituzionale romano, I, Napoli 2008, pp. 403 s.]. 51 E. LEPORE, Il princeps ciceroniano e gli ideali politici della tarda repubblica, Napoli 1954, pp. 296 ss.
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cana e segnatamente negli scritti di Cicerone. In uno scorcio epistolare, nel 56 a.C. l’oratore in risposta al proconsole Publio Lentulo scriveva: quod scribis te velle scire qui sit rei publicae status, summa dissensio est, sed contentio dispar; nam qui plus opibus, armis, potentia valent perfecisse tamen mihi videntur stultitia et inconstantia adversarioum ut etiam auctoritate iam plus valerent 52. La contrapposizione tra potentia e auctoritas non potrebbe essere più evidente. L’idea della potentia, espressione di una dominatio politica oligarchica fondata sulla forza – e, dunque, di un concetto tendenzialmente negativo, venato di illegalità – la incontriamo nel de inv. 2.166 e 169, nella pro Sex. Rosc. 1.22; nella pro Quinct. 1.9; nella pro Flacc. 41.104; nella pro Mur. 28.59. E altrettanto esplicito è il passaggio in Cic. ad Att. 2.9.2, ove si legge: etenim si fuit invidiosa senatus potentia, cum ea non ad populum sed ad tris homines immoderatos redacta sit, quid iam censes fore? Sebbene le citazioni possano continuare a lungo, sembra sufficientemente chiaro come sia il concetto repubblicano di potentia la vera chiave di volta per intendere sin nelle più recondite pieghe il senso del testo augusteo e di quanto nutrimento traesse dal pensiero politico repubblicano. Il rapido confronto tra Res Gestae e frammenti ciceroniani svela comunque l’appartenenza cronologica del potens restaurato di RGDA 34.1 al lessico politico tardorepubblicano e mostra una forte connessione con quello di Cicerone, conclusione che archivia l’opinione errata, imperniata soltanto sulle attestazioni di Tacito, di attribuirne una tarda emersione nel lessico politico soltanto tra I e II secolo d.C. In un quadro ricostruttivo che va mutando grazie alla corretta l’integrazione della lacuna, una volta chiarito il senso politico di potens, adesso tocca decifrare il riferimento al consensus universorum. Si tratta invero di un altro profilo di particolare delicatezza ma così tanto ambiguo da fuorviare chi si accinga a studiare l’essenza principale delle mosse politiche di Augusto, come è accaduto nel passato. Nonostante non siano mancati avvertimenti di autorevoli studiosi di non confondere il motivo del consensus universorum con la coniuratio che precedette l’ultimo atto dello scontro finale con Antonio, snodo centrale nelle convulse fasi finali delle guerre civili, la questione non è ancora considerata pacificamente chiusa e vale pertanto la pena ritornarci seppure brevemente. La coniuratio Italiae et provinciarum è nota soprattutto grazie alla diretta testimonianza di Augusto, che non trascurò di farne incidere memoria con somma esaltazione nelle sue Res Gestae: RGDA 25.2: Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me be[lli], quo vici ad Actium depoposcit. Iuraverunt in eadem ver[ba provi]nciae Galliae, Hispaniae, Africa, Sicilia, Sardinia.
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Cic. ad fam. 1.7.10.
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Grande l’impatto dell’enfasi retorica: iuravit in mea verba tota Italia sponte sua. L’adesione volontaria dell’Italia intera, era assolutamente funzionale al disegno di tramandare quel manifesto politico dell’orgoglio nazionale romano e segnatamente dell’Occidente sull’Oriente; un grande motivo politico che trovava in Ottaviano il suo campione contro il progetto di realizzazione di una monarchia di stampo ellenistico orientale perseguito da Antonio e Cleopatra. Ma detto questo, la differenza sostanziale tra le due espressioni è davvero evidente, e pregnante, e si resta sorpresi dal fatto che in passato se ne sia potuta proporre una equivalenza: coniuratio e consensus universorum indicano invece due diverse situazioni politiche e istituzionali, anche cronologicamente distinte, in cui versava Ottaviano 53. La coniuratio indica un giuramento collettivo di massa, significa adesione politica forte, diffusa senza un preciso interlocutore istituzionale privilegiato suggellata, potremmo dire, da una sorta di impronta sacrale secondo i canoni più antichi della tradizione politica romana; ma coniuratio, reca in sé pure l’idea una frattura istituzionale gravissima a cui si saldava un peculiare motivo ideologico e culturale del mondo romano per la situazione determinatasi sullo scacchiere mediterraneo. Adesione allora di una parte, e al contempo anche contrapposizione a un’altra, e pertanto un Ottaviano capoparte, per dirla con Mario Attilio Levi 54, e perciò tutt’altro che descrivibile come un leader collocato entro l’alveo della legalità repubblicana. In questo senso, è difficile, anzi fuori luogo, assumere quel ‘fatto’ come fondamento costituzionale dei poteri di Augusto, secondo l’impostazione di de Francisci, più strumentale forse alla costruzione di un’analogia con le vicende genetiche del regime fascista 55. Il consensus universorum invece è concetto assai più ampio e generale; al contrario della coniuratio, esso implica certamente una fase politica diversa e cronologicamente successiva di superamento delle contrapposizioni anche militari. È la logica e la successione dei fatti esposta dal testo augusteo a rappresentare una fase nuova come quella che si aprì proprio all’indomani della vittoria di Actium 56.
53 Propende per una sicura connessione A. GUARINO, La costituzione democratica, cit., pp. 43 s.; contra F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., IV.1, pp. 113 ss. 54 M.A. LEVI, Augusto e il suo tempo, Milano 1994. 55 Sottolinea con lucidità la questione A. GUARINO, Res Gestae Divi Augusti 2 (a cura di L. Labruna), Milano 1968, p. 52. 56 S. MAZZARINO, L’impero romano, I, Roma-Bari 1988, pp. 54 ss., praecipue 70 s. e nt. 5. Meritevole di particolare attenzione è la ricostruzione di Santo Mazzarino che vedeva l’avvento al potere di Augusto attraverso il consensus universorum: secondo Mazzarino, questo costituiva il fondamento del potiri rerum omnium ovvero di quel potere eccezionale detenuto da Augusto dall’1 gennaio del 32 a.C., mentre il postquam si riferiva agli anni successivi al 36 a.C. poiché proprio quell’anno (36 a.C.) si erano concluse le guerre civili. Al contrario, ritiene Mazzarino, sarebbe errato accettare l’interpretazione che farebbe rientrare nelle guerre civili anche il periodo successivo dello scontro con Antonio sino alla vittoria di Azio. Per Mazzarino dunque nel 27 a.C. si passò dal
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Ottaviano non aveva più rivali, egli era il padrone incontrastato: nelle Res Gestae, anche a distanza di oltre quarant’anni, non riuscendo a dominare neppure in questo delicato passaggio lo scorrere impetuoso del suo sconfinato orgoglio, ammetteva con estrema sincerità di essersi trovato in una condizione di potentia grazie a un consenso generale. Esso non va riferito allora al periodo 36-28 a.C. bensì a un intervallo più ristretto, successivo al bellum Actiacum, cioè al 31-28 a.C. Chiarito pure questo aspetto, resta da definire però la natura del consensus universorum: consenso generale di matrice squisitamente politica e priva di valenza costituzionale o legittimità fondata su atti giuridici? La questione, per la verità, si riconnette alla contrapposizione tra due opposte visioni storiografiche relative al fondamento ideologico e di legittimità del potere di Augusto: quella mommseniana, più orientata a ricostruirne la complessità delle forme, e tra queste quelle giuridiche, e l’altra invece riconducibile alla portata innovativa degli studi di Syme, più attratta dalla prospettiva pragmatica e sociologica, la cui ascendenza va tuttavia individuata nel suggestivo e influente libro di Anton von Premerstein, scritto nei giorni plumbei di Weimar 57. È con queste due linee di pensiero, a volte radicalmente contrappostesi, che bisogna fare i conti 58.
consensus universorum all’auctoritas. Il consensus universorum dunque, secondo il grande storiografo siciliano, era un fatto ‘extra-costituzionale’ che riecheggiava probabilmente il concetto ciceroniano di consensus ma che certamente poneva Augusto ancora fuori della legalità repubblicana perché insuscettibile di fondare stabilmente il potere; il che conduceva Mazzarino a concludere che Ottaviano era ancora più rivoluzionario di Antonio. E se proprio si volesse assegnare un preciso contenuto giuridico alla formula per consensum universorum potitus rerum omnium si dovrebbe pensare alla tribunicia potestas attribuita mediante senatus consultum nel novembre del 36 a.C. Nonostante l’acutezza delle osservazioni, l’intuizione dello storico non è integralmente accettabile. La fine delle guerre civili invece ben documentata dalle fonti è unanimemente considerata la vittoria di Augusto ad Azio, come del resto appare anche da un frammento dei Fasti Amitermini (CIL IX.4191) riletto da G. ALFÖLDY, Epigraphische Notizen aus Italien. IV. Das Ende der Bürgerkriege in den Fasti Amitermini, in ZPE 85, 1991, pp. 167 ss.; mentre di opinione contraria, fondata su un presunto punto di vista giuridico, si pronuncia F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., IV.1, pp. 104 ss., il quale, d’accordo con E. STAEDLER, Das römisch-rechtliche Element in den augustischen Regesten, in ZSS 62, 1942, pp. 96 ss., ritiene che le guerre civili cessarono nel 36 a.C. Sul tema si legga pure H.U. INSTINSKY, ‘Consensus universorum’, in Hermes 75, 1940, pp. 264 ss.; A. WITTEMBURG, ‘Consensus universorum’ e versione greca delle ‘res gestae’, in Sileno 16, 1990, pp. 42 ss.; F. GUIZZI, Potere e ‘consenso’ nella costituzione augustea, in AA.VV., Poder político y derecho en la Roma clásica, Madrid 1996, pp. 31 ss. 57 A. VON PREMERSTEIN, Vom Werden und Wesen des Prinzipats, München 1937; su cui vedi la rec. di D. MCFAYDEN, in Classical Weekly 31, 1938, p. 240, spintosi sino a questa osservazione: «a legal grant to Augustus in 27 B.C. of a cura et tutelae rei publicae universae, a right of oversight over all departments of the state. In a word, Augustus was der Führer!». Sull’opera di von Premerstein si legga anche F. WIEACKER, Zur Verfassungsstruktur des augusteischen Prinzipats, in Im Dienste Deutschlands und des Rechtes. Festschrift für W.G. Grewe, Baden-Baden 1981, pp. 644 s. 58 Sebbene rivolto alla ‘nuova frontiera’ dei costituzionalismi contemporanei è interessante, non foss’altro che per assumere la perennità di certe problematiche, il saggio di R. CAR, Via giuri
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In un saggio del 1942 apparso sulla Zeitschrift der Savigny-Stiftung, dunque in un’Europa travolta e devastata dalla II guerra mondiale, Erich Staedler 59 riconduceva origine ed efficacia del consensus augusteo a un piano rigorosamente giuridico e formale (nel senso dell’esistenza di atti e procedure che diedero veste a quel consenso) 60. Tuttavia, in tempi più recenti, alcune ricerche hanno ulteriormente approfondito il solco dell’orientamento sociologico. Più di chiunque altro nel passato, è stato Egon Flaig ad attribuire al consensus il ruolo di cardine assoluto attorno a cui costruire e far ruotare il regime imperiale, in un contesto dinamico in cui l’usurpazione assumeva il significato non di rottura, di illegalità, ma di strumento politico per orientare appunto il consensus 61. La radicalizzazione della tesi ‘consensuale’ del fondamento dei poteri augustei, nell’intento demolitorio delle strutture portanti dello Staatsrecht di Theodor Mommsen, ha di conseguenza portato Flaig ad accentuare in modo parossistico le fonti extracostituzionali dell’egemonia augustea tanto da definire il principato un «Akzeptanz-System» in cui il ruolo delle principali forze (esercito, ordine senatorio, plebe), definite vere e proprie componenti determinanti del sistema politico, non lasciavano alcuno spazio al diritto: una visione, insomma, che ha fatto di Flaig un autentico «campione dell’interpretazione sociologica» 62, però capace di giungere ad affermazioni francamente incomprensibili e inaccettabili come, ad esempio, definire il diritto pubblico una «retroprojective Fiktion des 19.Jhs» 63.
dica e via sociologica al global constitutionalism: una critica politico-costituzionale, in Journal of Constitutional History 32, 2016, pp. 183 ss. 59
E. STAEDLER, Das römisch-rechtliche Element, cit., pp. 96 ss. Tale orientamento è stato recentemente criticato con acutezza da C. CASCIONE, Consensus. Problemi di origine, tutela processuale. Prospettive sistematiche, Napoli 2003, p. 101, che ha invece creduto che la formulazione del consenso generale «riprenda l’ideologia della concordia, raffinata attraverso l’individuazione del senato come luogo istituzionalmente deputato all’interpretazione dei motivi politici diffusi nel populus Romanus». 61 E. FLAIG, Den Kaiser herausfordern: die Usurpation im römischen Reich, Frankfurt-New York 1992, passim; ID., A coerent model to understand the Roman Principate: ‘Acceptance’ instead of ‘legitimacy’ and the problem of usurpation, in AA.VV., Il princeps romano: autocrate o magistrato? Fattori giuridici e fattori sociali del potere imperiale da Augusto a Commodo (a cura di J.-L. Ferrary, J. Scheid), Pavia 2015, pp. 81 ss. 60
62 Così A. MARCONE, La prospettiva sociologica (dal Premerstein in poi) e l’apporto dei nuovi documenti, in AA.VV., Il princeps romano: autocrate o magistrato? Fattori giuridici e fattori sociali del potere imperiale da Augusto a Commodo (a cura di J.-L. Ferrary, J. Scheid), Pavia 2015, p. 70. Ulteriori spunti pure in J. RICH, Consensus rituals and the origins of the principate, in AA.VV., Il princeps romano: autocrate o magistrato? Fattori giuridici e fattori sociali del potere imperiale da Augusto a Commodo (a cura di J.-L. Ferrary, J. Scheid), Pavia 2015, pp. 101 ss. 63 E. FLAIG, Den Kaiser herausfordern, cit., p. 199, Le tesi di Flaig, per la verità, in qualche misura richiamano, sebbene non sia chiaro quanto consapevolmente o meno, l’approccio di B.
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Il problema non trova certo facili soluzioni per la contraddittorietà delle fonti, ma una cosa è certa: la ricostruzione delle forme costituzionali non può passare attraverso il paradosso della negazione del ‘giuridico’ e del primato della sociologia (o dell’antropologia!). Nell’incipit del brano della biografia svetoniana 64 relativo al conferimento del cognomen di Pater patriae, per esempio, si menziona con efficace forza espressiva un consensus universi repentinus maximusque che, nella chiusa del passo, Augusto in risposta a Messalla declina come consensus del senato e del popolo (per quanto non formalizzato né in un senatoconsulto né in una deliberazione comiziale), con una precisa corrispondenza in Velleio (hist. rom. 2.91.1), ove, a proposito dell’appellativo di Augustus, si parla esplicitamente di consensus universi senatus populique Romani, che sembrerebbe invece alludere a una volontà espressa nei previsti modi istituzionali. Però, essendo Augusto stesso a utilizzare questa espressione, è impossibile prescindere dalle Res Gestae per comprenderne significato e implicazioni secondo l’ottica del suo autore. L’espressione ricorre, come abbiamo ricordato in RGDA 34.1, ma il concetto di universalità dei cittadini in un senso generico lo si trova pure in RGDA 9.2: privatim etiam et municipatim universi cives unanimiter continenter apud omnia pulvinaria pro valetudine mea supplicaverunt. Tuttavia, in altri passaggi incontriamo consensus universorum traslato su una dimensione squisitamente istituzionale, ovvero come consensus generale vestito delle forme autoritative dei deliberati di senato e popolo 65: RGDA 5.1: [Dic]tat[ura]m et apsent[i e]t praesent[i mihi delatam et a popu]lo et a se[na]tu, [M(arco) Marce]llo e[t] L(ucio) Arruntio [co(n)s(ulibus),] non rec[epi.
BIONDI, La legislazione di Augusto, in AA.VV., Conferenze Augustee Conferenze Augustee nel bimillenario della nascita, Milano 1939, p. 180, secondo cui sarebbe un inutile esercizio intellettuale tentare di individuare la base costituzionale dei poteri di Augusto. Sul punto vedi le calibrate obiezioni di F. HURLET-A. DALLA ROSA, Un quindicennio di ricerche su Augusto, cit., pp. 186 ss.; ma chi ha criticato di recente e con efficacia la teoria del consensus depurata da ogni analisi giuridica è stato P. GROS, Nunc tua cinguntur limina: l’apparence de l’accueil et la réalité du filtrage à l’entrée des Forums imperiaux de Rome, in AA.VV., Rome et ses provinces. Genese et diffusion d’une image du pouvoir. Hommages à J.-Ch. Balty, Bruxelles 2001, pp. 129 ss. 64 Svet. Aug. 58.1-3: Patris patriae cognomen universi repentino maximoque consensu detulerunt ei: prima plebs legatione Antium missa; dein, quia non recipiebat, ineunti Romae spectacula frequens et laureata; mox in curia senatus, neque decreto neque adclamatione, sed per Valerium Messalam. [2] Is mandantibus cunctis: “quod bonum”, inquit, “faustumque sit tibi domuique tuae, Caesar Auguste! Sic enim nos perpetuam felicitatem rei p. et laeta huic precari existimamus: senatus te consentiens cum populo R. consalutat patriae patrem”. [3] Cui lacrimans respondit Augustus his verbis – ipsa enim, sicut Messalae, posui –: compos factum votorum meorum, p. c., quid habeo aliud deos immortales precari, quam ut hunc consensum vestrum ad ultimum finem vitae mihi perferre liceat? 65 Cfr. L. WICKERT, s.v. «Princeps», in PWRE XXII.2, Stuttgart 1954, col. 2265.
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RGDA 6.1: [Consulibus M(arco) V]in[icio et Q(into) Lucretio] et postea P(ublio) Lentulo et Cn(aeo) L[entulo et terti]um [Paullo Fabio Maximo et Q(uinto) Tuberone senatu populuq]u[e Romano consentientibus,] ut cu[rator legum et morum summa potestate solus crearer, nullum magistratum contra morem maiorem delatum recepi. RGDA 8.1: Patriciorum numerum auxi consul quintum iussu populi et senatus. RGDA 35.1: Tertium dec[i]mum consulatu[m cum gereba]m, sena[tus et e]quester ordo populus[que] Romanus universus [appell]av[it me pater p]atriae … Questi brevissimi scorci svelano come Augusto interpretasse il consenso generale in un’ottica di rigore istituzionale e non populistica, diremmo oggi, cioè non con un diretto appello alla massa indistinta. E non è secondario, ai fini della valutazione dei comportamenti istituzionali del principe, che quegli atti e/o decisioni fossero riconducibili ai due formali e legittimi centri del potere repubblicano, populus e senatus, a prescindere poi dalla volontà augustea di darvi corso o rifiutarli come accadde a proposito di alcune cariche. Allora, per quanto le obiezioni alle posizioni di Mommsen e Staedler per certi aspetti siano assolutamente pertinenti, è onesto ammettere pure che quella linea interpretativa non sia del tutto campata per aria, perché le mosse augustee andarono proprio nella direzione di ridare vitalità a senatus e populus Romanus come organi costituzionali nella loro funzione deliberante e non soltanto come centro e sintesi del dibattito politico; e alcuni forti appigli testuali starebbero proprio nei frammenti delle Res Gestae, poc’anzi richiamati. Potrebbe semmai dirsi che il 27 a.C. rappresenta una vera e propria svolta istituzionale in cui si dissolvono nebbie e ritorna più agevole la percezione del giuridico. Soltanto da quel momento è possibile scorgere, almeno perché meglio documentate, le mosse di Augusto volte a dare corpo e veste giuridico-formali a quello che poteva sembrare un indistinto consenso generale. Insomma, ciò che si ricava dai testi mostra una tale duttilità di significato di consensus universorum, da collocarlo in taluni casi su una dimensione squisitamente politica la cui lettura può arricchirsi assumendo anche una visuale sociologica, in altri casi invece da intenderlo quale formula di sintesi del consenso espresso nelle forme istituzionali del senato e delle assemblee popolari 66. Allora, in questo senso, è certamente da condividere la recente opinione, lungo la scia lasciata da Emilio Betti 67, di Cosimo Cascione, secondo il quale «la posizione di Ottaviano dopo il 32, insomma, è ‘conforme’
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Vedi discussione anche in J. SCHEID, Res Gestae Divi Augusti, cit., p. 86. E. BETTI, La crisi della Repubblica e la genesi del Principato in Roma (a cura di G. Crifò), Romae 1982, pp. 522 ss. 67
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alla volontà del popolo e del senato, per come sinteticamente interpretata da quest’ultimo consesso» 68. E allora l’espressione per consensum universorum potens rerum omnium indicherebbe una posizione di preminenza di Augusto comunque senza mettere in discussione, per quanto concerne le forme dei poteri pubblici attribuitigli nel 27 a.C., la sua collocazione all’interno degli schemi repubblicani: tale è il senso intrinseco dell’esordio del cap. 34 dominato dal richiamo al suo consolato, ovvero alla carica di vertice dell’ordinamento repubblicano. Ritengo allora che abbia ragione Nicosia a scorgere le rilevantissime implicazioni derivanti dalla nuova restituzione di potens che aprirebbe nuovi scenari di ricostruzione: Augusto «non rinuncia ad una situazione di potere incostituzionale e conseguente normalizzazione costituzionale, bensì rinuncia ad una posizione di indiscussa supremazia lungamente acquisita in virtù del diffuso e perdurante consensus universorum, e quindi di passaggio da un ormai consolidato (e normalizzato) assetto costituzionale ad un diverso (e tendente nei limiti del possibile ad una restitutio della res publica) assetto» 69. O almeno questo è il senso da attribuire alla sua dichiarazione. Ma ciò che più di tutto val la pena di sottolineare è che in tal modo nella tradizionale impalcatura costruita dalla dottrina si apre una fessura attraverso cui passa una lama di luce che lascia intravedere un altro aspetto: «Augusto dà palesemente per scontato che l’acquisita posizione costituzionale di predominio (dall’alto della quale discendeva la sua rinuncia) si era ormai stabilizzata, era da considerare definitiva, ed egli avrebbe potuto avvalersene con assoluta tranquillità e sicurezza» 70. Secondo Nicosia, insomma, il termine potens esaltato da rerum omnium evocherebbe la più assorbente idea di omnipotentia. Questo concetto, anzi questa consapevolezza, di omnipotentia e la voglia di rimetterla sono assolutamente presenti nel lungo discorso pronunciato da Ottaviano nella seduta senatoria del gennaio del 27 a.C., in cui diede sfogo alla sua vertigine di potere riuscendo tuttavia a contenerla entro l’abile translatio rei publicae. Se evitiamo di cedere anche per un solo attimo alla tentazione di abbandonarci a certe vulgate psicoanalitiche dell’ipocrisia augustea, ci è sufficiente la lettura di alcuni relativi ampi stralci del LIII libro della RWMAIKH ISTORIA dedicati da Cassio Dione al cruciale passaggio politico-istituzionale:
68 C. CASCIONE, Consensus, cit., pp. 82 ss., praecipue 99 ss.; cfr. A. PABST, Comitia imperii: ideelle Grundlagen des römischen Kaisertums, Darmstadt 1997, passim; F. DE MARTINO, Considerazioni su alcuni temi di storia costituzionale romana, in Mélanges de droit romain et d’histoire ancienne: hommage à la memoire de A. Magdelain, Paris 1998, pp. 133 ss. [= ID., Diritto Economia e Società nel mondo romano. IV. Scritti recenti, Napoli 2003, 89 ss.], che tra tutti prova a tenere un rigoroso equilibrio tra forme giuridiche e fondamenti sociologici. 69 G. NICOSIA, Potens rerum omnium, cit., p. 2326. 70 G. NICOSIA, Potens rerum omnium, cit., p. 2327.
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Cass. Dio 53.3.1-3: “¥pista m n eâ o d' Óti dÒxw tisˆn Ømîn, ð patšrej, proVrÁsqai: § g¦r aÙtÕj ›kastoj tîn ¢kouÒntwn oÙk ¨n ™qel»seie poiÁsai, taàt' oÙd ˜tšrou lšgontoj pisteÚein boÚletai, kaˆ m£lisq' Óti p©j pantˆ tù Øperšconti fqonîn ˜toimÒteron ¢piste‹ to‹j Øp r ˜autÕn legomšnoij. [2] kaˆ prosšti kaˆ gignéskw toàq', Óti oƒ t¦ m¾ pist¦ dokoànta e nai lšgontej oÙc Óson oÙ pe…qous… tinaj, ¢ll¦ kaˆ kÒbaloi dokoàsin e nai. oÙ m¾n ¢ll' e„ mšn ti toioàton ™phggellÒmhn Ö m¾ paracrÁma poi»sein œmellon, sfÒdra ¨n ¢pèknhsa aÙtÕ ™kfÁnai, m¾ kaˆ a„t…an tin¦ mocqhr¦n ¢ntˆ c£ritoj l£bw: [3] nàn d' ÐpÒte eÙqÝj kaˆ t»meron ™pakolouq»sei tÕ œrgon aÙtù, p£nu qarsoÚntwj œcw m¾ mÒnon mhdem…an a„scÚnhn yeudolog…aj Ñfl»sein, ¢ll¦ kaˆ p£ntaj ¢nqrèpouj eÙdox…v nik»sein”. [«Sono consapevole, colleghi senatori, che ad alcuni di voi sembrerà che io abbia preso una decisione incredibile: nessuno dei miei ascoltatori è disposto a credere a ciò che non vorrebbe fare lui stesso, neppure quando è un altro a parlare, soprattutto perché ciascuno prova invidia per tutti coloro che gli sono superiori e, così, è più pronto a non prestar fede alle dichiarazioni quando sono al di sopra delle proprie capacità. 2. Inoltre so anche questo, e cioè che coloro che affermano che la mia decisione non è credibile non solo non riescono a persuadere nessuno, ma dimostrano anche di essere degli impostori. Se infatti facessi una promessa che non avessi poi intenzione di mantenere, dovrei ben guardarmi dal renderla manifesta, per non dover poi ricevere, al posto della gratitudine, qualche accusa infamante; 3. ma poiché ora invece la promessa verrà effettivamente mantenuta, posso sbilanciarmi nel dire non solo che non mi verrà rinfacciata alcuna accusa di falsità, ma anche sorpasserò in gloria l’intera umanità»] 71.
Tutto l’esordio del discorso di Ottaviano è una sagace preparazione emotiva di quanto avrebbe affermato da lì a poco; premette che i suoi intendimenti da molti sarebbero stati interpretati come ipocriti e incredibili; ma per quanto l’incredulità avesse serpeggiato tra le fila dei patres, secondo Augusto, chiunque avrebbe in futuro potuto constatare la coerenza; e lui, Augusto, perciò avrebbe superato in gloria l’intera umanità; Cass. Dio 53.4.1-4: “Óti m n g¦r p£rest… moi di¦ pantÕj Ømîn ¥rcein, kaˆ aÙtoˆ Ðr©te: tÒ te g¦r stasi£san p©n ½toi dikaiwq n pšpautai À kaˆ ™lehq n seswfrÒnistai, kaˆ tÕ sunar£menÒn moi tÍ te ¢moibÍ tîn eÙergesiîn òke…wtai kaˆ tÍ koinwn…v tîn pragm£twn çcÚrwtai, [2] éste m»te ™piqumÁsa… tina newtšrwn œrgwn, k¨n ¥ra ti kaˆ toioàto gšnhtai, tÕ goàn bohqÁson ¹m‹n ›toimon œti kaˆ m©llon e nai. t£ te stratiwtik¦ ¢km£zei moi kaˆ eÙno…v kaˆ ·èmV, kaˆ cr»mata œsti kaˆ sÚmmacoi, kaˆ
71
Si utilizza in questo libro la traduzione di A. Stroppa.
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tÕ mšgiston, oÛtw kaˆ Øme‹j kaˆ Ð dÁmoj di£keisqe prÒj me éste kaˆ p£nu ¨n prostate‹sqai Øp' ™moà ™qelÁsai. [3] oÙ mšntoi kaˆ ™pˆ ple‹on Øm©j ™xhg»somai, oÙd ™re‹ tij æj ™gë tÁj aÙtarc…aj ›neka p£nta t¦ prokateirgasmšna œpraxa: ¢ll¦ ¢f…hmi t¾n ¢rc¾n ¤pasan kaˆ ¢pod…dwmi Øm‹n p£nta ¡plîj, t¦ Ópla toÝj nÒmouj t¦ œqnh, oÙc Ópwj ™ke‹na Ósa moi Øme‹j ™petršyate, [4] ¢ll¦ kaˆ Ósa aÙtÕj met¦ taàq' Øm‹n prosekths£mhn, †na kaˆ ™x aÙtîn tîn œrgwn katam£qhte toàq', Óti oÙd' ¢p' ¢rcÁj dunaste…aj tinÕj ™peqÚmhsa, ¢ll' Ôntwj tù te patrˆ deinîj sfagšnti timwrÁsai kaˆ t¾n pÒlin ™k meg£lwn kaˆ ™pall»lwn kakîn ™xelšsqai ºqšlhsa”. [«Come voi stessi vedete, ho la possibilità di esercitare il mio potere su di voi per tutta la vita: ogni forma di ribellione è stata stroncata con l’applicazione della giustizia o è stata ridotta all’obbedienza con la clemenza, mentre chi si è schierato dalla mia parte è stato reso ben disposto grazie al reciproco scambio di favori ed ha raggiunto una posizione più solida partecipando alla politica del governo; 2. in questo modo nessuno desidererà fomentare una rivoluzione, ma anche quando si dovesse verificare un’emergenza di questo genere il partito che mi sostiene sarà comunque maggiore di quanto non fosse prima. Ho il controllo degli eserciti, che sono al massimo della lealtà e della preparazione bellica, ho a mia disposizione denaro e alleati, e punto di fondamentale importanza, sia voi che il popolo siete così favorevoli nei miei confronti da desiderare appieno che sia io a governarvi. 3. Tuttavia non rimarrò oltre alla vostra guida, né alcuno avrà il pretesto per dire che le decisioni precedentemente prese da me siano tutte frutto di una politica autocratica; anzi, rifiuto integralmente il potere e vi restituisco letteralmente tutto – gli eserciti, le leggi e le province –, non solo ciò che mi avete affidato voi, 4. ma anche quello che in seguito vi ho fatto guadagnare, affinché siano i fatti stessi a provarvi che non ho mai ambito alla signoria, ma che ho voluto realmente vendicare il sanguinario assassinio di mio padre, e liberare la città da grandi e ripetuti soprusi»].
Si tratta di uno stralcio fondamentale dell’oratio augustea che Cassio Dione dovette attingere dall’archivio senatorio o da quello imperiale 72. Ottaviano dichiarava esplicitamente la sua potentia, essendo nelle condizioni di esercitare a vita ogni potere sullo Stato: disponeva degli eserciti che brillavano per lealtà e preparazione bellica ed era così consapevole del favore del senatus e del populus
72
Sul tema delle fonti documentarie di Cassio Dione è ritornato con un recente saggio C. LETTA, Fonti scritte non letterarie nella Storia Romana di Cassio Dione, in SCO 62, 2016, pp. 245 ss.; cfr. ID., Documenti d’archivio e iscrizioni nell’opera di Cassio Dione: un sondaggio nella narrazione fino ad Augusto, in AA.VV., L’uso dei documenti nella storiografia antica. Incontri perugini di Storia della Storiografia, Gubbio, 22-24 maggio 2001 (a cura di A.M. Biraschi, P. Desideri, S. Roda, G. Zecchini), Napoli 2003, pp. 595 ss.; G. MIGLIORATI, Cassio Dione e l’impero romano da Nerva ad Antonino Pio alla luce dei documenti, Milano 2003, passim.
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nei suoi confronti da non aver alcun pudore nell’affermarlo scheittamente, se non brutalmente, in una sede pubblica e istituzionale. Ottaviano sottolineava pure quanto giustizia e clemenza avessero improntato le sue scelte senza tralasciare di menzionare che coloro si erano schierati dalla sua parte avevano ricevuto ampiamente onori e partecipato al governo. E a un certo momento, a dimostrazione di non aver mai ambito alla dunaste…a, cioè una sorta di potere assoluto, giungeva il gesto clamoroso: il rifiuto del potere e la translatio della res publica (leggi, eserciti e province). In fin dei conti, quella riportata da Cassio Dione non è nient’altro che la splendida versione letteraria e plasticamente teatrale di RGDA 34.1. Ciononostante, proseguendo nel discorso, dichiara di voler rinunciare integralmente a tutto per ritirarsi a vita privata. L’immediato e istintivo parallelo è con Silla, protagonista vincitore di guerre civili, magistrato con poteri costituenti, e infine privato cittadino. Cassio Dione si sofferma molto sul motivo augusteo della rinuncia al potere, divenuto presto un principio fondamentale dell’etica politica e dell’ideologia imperiale e addirittura in età tardoantica istituzionalizzato come momento della successione imperiale 73. Un’efficace simulatio, secondo alcuni, di cui parla con punte di malizia pure Seneca nel De brevitate e nei Dialoghi 74. E ancora: Cass. Dio 53.5.1-4: “Ôfelon m n g¦r mhd ™pistÁna… pote oÛtw to‹j pr£gmasi: toàt' œstin, Ôfelon m¾ dedeÁsqa… mou prÕj toioàtÒ ti t¾n pÒlin, ¢ll' ™n e„r»nV kaˆ Ðmono…v, kaq£per pot kaˆ oƒ patšrej ¹mîn, kaˆ ¹m©j toÝj ™n tÍde tÍ ¹lik…v ¢p' ¢rcÁj bebiwkšnai. [2] ™peˆ d eƒmarmšnh tij, æj œoiken, ™j toàto pro»gagen Øm©j éste kaˆ ™moà, ka…per nšou œti tÒte Ôntoj, kaˆ cre…an sce‹n kaˆ pe‹ran labe‹n, mšcri m n oá t¦ pr£gmata tÁj par' ™moà ™pikour…aj œcrVze, p£nta te proqÚmwj kaˆ Øp r t¾n ¹lik…an ™po…hsa kaˆ p£nta eÙtucîj kaˆ Øp r t¾n dÚnamin katšpraxa: [3] kaˆ oÙk œstin Ó ti tîn p£ntwn ¢pštreyš me kinduneÚousin Øm‹n
73 Sulla questione vedi J. BÉRANGER, Recherches sur l’aspect idéologique du principat, Basel 1953, pp. 137 ss, 165 ss.; ID., Le refus du pouvoir, in ID., Principatus. Études de notions et d’histoire politiques dans l’Antiquité gréco-romaine, Genéve 1973, pp. 165 ss.; M.A. GIUA, Augusto nel Libro 56 della Storia romana di Cassio Dione, in Athenaeum 61, 1983, pp. 440 s.; J.R. AIA SÁNCHEZ, «Vox populi et princeps»: el impacto de la opiniòn pùblica sobre el comportamiento politico de los emperadores romanos, in Latomus 55, 1996, pp. 295 ss.; H.M. COTTON-A. YAKOBSON, «Arcanum imperii». The Powers of Augustus, in Philosophy and Power in the Graeco-Roman World. Essays in Honour of M. Griffin, Oxford 2002, pp. 195, 203 ss.; F. AMARELLI, Trasmissione Rifiuto Usurpazione. Vicende del potere degli imperatori romani. Lezioni5, Napoli 2008, pp. 101 ss.; e da ultimo per l’età tarndoantica e giustinianea cfr. il mio Cicerone alla corte di Giustiniano. “Dialogo sulla scienza politica” (Vat. gr. 1298). Concezioni e dibattito sulle forme rei publicae nell’età dell’assolutismo imperiale, Roma 2017, pp. 130 ss., 196, e letteratura ivi citata. 74 Cfr. L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., pp. 489 ss.
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™pikourÁsai, oÙ pÒnoj, oÙ fÒboj, oÙk ™cqrîn ¢peila…, oÙ f…lwn de»seij, oÙ tÕ plÁqoj tîn sunesthkÒtwn, oÙc ¹ ¢pÒnoia tîn ¢ntitetagmšnwn, ¢ll' ™pšdwka ¢feidîj Øm‹n ™mautÕn ™j p£nta t¦ periesthkÒta, kaˆ œpraxa kaˆ œpaqon ¤per ‡ste. [4] ™x ïn aÙtÕj m n oÙd n kekšrdagka pl¾n toà t¾n patr…da peripepoiÁsqai, Øme‹j d kaˆ sézesqe kaˆ swfrone‹te. ™peid¾ d kalîj poioàsa ¹ tÚch kaˆ t¾n e„r»nhn ¥dolon kaˆ t¾n ÐmÒnoian ¢stas…aston di' ™moà Øm‹n ¢podšdwken, ¢pol£bete kaˆ t¾n ™leuqer…an kaˆ t¾n dhmokrat…an, kom…sasqe kaˆ t¦ Ópla kaˆ t¦ œqnh t¦ Øp»koa, kaˆ politeÚesqe ésper e„èqeite”. [«Non avrei certo voluto assumere un ruolo così importante come ho fatto: la questione è che avrei voluto che la città non avesse avuto bisogno di me per risolvere una simile situazione, ma avrei preferito che anche noi uomini di questa generazione vivessimo sin dall’inizio in un regime di pace e di concordia, proprio come fecero un tempo i nostri padri. 2. Ma poiché la casualità della sorte, come sembra, vi ha condotti nella condizione sia di avere bisogno di me, nonostante fossi ancora giovane, sia di mettermi alla prova, ho agito con il massimo impegno anche oltre quanto ci si potesse aspettare dalla mia età, ed ho ottenuto degli esiti positivi persino oltre quanto fosse consentito ai miei poteri fino a quando la situazione ha richiesto il mio aiuto. 3. E non c’è nulla che abbia potuto distogliermi dal portarvi aiuto nel momento in cui eravate in pericolo – non furono certo la sofferenza, né la paura, né le minacce delle fazioni avverse, né le preghiere degli amici, né la moltitudine dei nemici e neppure la temerarietà degli avversari –, anzi, mi sono messo a vostra disposizione senza risparmiarmi, per porre rimedio a tutti i rischi incombenti, e quello che ho fatto e sofferto voi lo conoscete. 4. Da queste vicende non ho tratto alcun vantaggio personale, tranne il fatto di aver salvaguardato la sopravvivenza della patria, mentre voi, invece, avete tratto il beneficio di vivere sicuri e tranquilli. Poiché, allora, il fato si è servito di me per fare una buona azione e per garantirvi una pace leale ed una concordia civica non turbata dalle fazioni, riprendetevi la libertà e la respublica, prendetevi cura degli eserciti e delle province sottomesse, e, infine, governatevi nel modo in cui siete abituati»].
Augusto stesso, quasi ostaggio verrebbe di dire del suo ‘ossimorico’ atteggiamento tra concreta modestia e smisurato orgoglio, si dichiarava strumento del Fato, chiamato a quelle straordinarie intraprese per spazzare le factiones e ripristinare pace e concordia; era venuto dunque il momento di riprendere la libertas e lasciare la conduzione della res publica secondo il governo tradizionale: Cass. Dio 53.9.6: “¢f' oáper kaˆ ™gë tÕ m n ½dh œcwn tÕ d ›xein ™lp…zwn, ¢pod…dwmi Øm‹n kaˆ t¦ Ópla kaˆ t¦ œqnh t£j te prosÒdouj kaˆ toÝj nÒmouj, tosoàton mÒnon Øpeipèn, †na m»te tÕ mšgeqoj À kaˆ tÕ dusme-
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tace…riston tîn pragm£twn fobhqšntej ¢qum»shte, m»t' aâ katafron»santej aÙtîn æj kaˆ ·vd…wj dioike‹sqai dunamšnwn ¢mel»shte”. [«Perciò io, che già possiedo la prima qualità (una vita nobile) e spero di ottenere la seconda (una morte dignitosa), vi restituisco le armi, le province, le rendite pubbliche e le leggi, aggiungendo solamente poche parole affinché non vi perdiate d’animo nel timore dell’enormità degli affari in gioco e delle difficoltà legate alla loro gestione, e perché, d’altro canto, non li trascuriate nella presunzione di essere in grado di amministrarli con facilità»].
Il governo sarebbe così dovuto tornare a svolgersi secondo l’ordinamento repubblicano, ma affidandosi agli uomini di volta in volta reputati i migliori e più saggi: Cass. Dio 53.10.3: “t£j te ¢rc¦j kaˆ t¦j e„rhnik¦j kaˆ t¦j polemik¦j to‹j ¢eˆ ¢r…stoij te kaˆ ™mfronest£toij ™pitršpete, m»te fqonoàntšj tisi, m»q' Øp r toà tÕn de‹na À tÕn de‹na pleonektÁsa… ti, ¢ll' Øp r toà t¾n pÒlin kaˆ sézesqai kaˆ eÙprage‹n filotimoÚmenoi”. [«Affidate sempre i poteri sia della sfera civile che di quella militare nelle mani degli uomini che di volta in volta sono i migliori e i più saggi»].
Come è agevole ricavare da questi ampi stralci dell’oratio augustea, quel consensus universorum è il motivo di fondo, base principale del discorso di Ottaviano ai patres. Da quel momento, stando ai documenti disponibili, quel consensus universorum, fondamento della potentia di Ottaviano, andò dapprima cristallizzandosi, e nel corso del tempo istituzionalizzandosi, nell’auctoritas attraverso un momento formale, non burocratico, consistente nell’attribuzione dell’appellativo di Augustus 75. Più nulla oggi giustifica l’assunto del colpo di Stato, nonostante Syme abbia descritto una precisa crisi costituzionale nel 32 a.C. in cui «i consoli e la parvenza della legalità stavano dalla parte di Antonio» 76. Non c’è dubbio che quell’anno risultò decisivo per la futura affermazione di Ottaviano, ma le vicende non segnarono alcun colpo di Stato, certamente non lo fu la rottura forse più traumatica: il senato che sino ad allora era stato comunque, sia pure con esiti non sempre positivi, una camera di compensazione degli scontri politici anche più aspri si era dissolto. La fuga dei consoli dell’anno nel campo di Antonio insieme a trecento senatori svelava al mondo intero la crisi mortale, senza alcun
75
Il tema del consensus universorum non restò confinato alla persona e al ruolo di Augusto, ma riguardò anche Agrippa, come si legge nella relativa laudatio funebre, linn. 13-14: ¢reta‹j {„d…aij} ka[q]’ ÐmofrosÚhn sump£ntwn ¢nqrèpwn dia{i}r£menoj = et virtutibus propriis per consensum universorum hominum evectus. 76 R. SYME, La rivoluzione romana, cit., pp. 315 ss.
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precedente, in cui versavano la politica e le istituzioni romane. Non un colpo di Stato, ma innanzitutto la frantumazione politica della res publica, un drammatico vuoto di potere. Lo scenario che Ottaviano trovò innanzi, nel 32 a.C. lo obbligava a dover fronteggiare in qualche modo una situazione di grave emergenza. Chiusa l’emergenza con la definitiva sconfitta degli avversari, egli sebbene formalmente soltanto consul era ormai potens rerum omnium grazie al consensus universorum, in un clima generale degli ambienti senatori efficacemente descritto da Cassio Dione: «alcuni senatori detestavano il governo repubblicano in quanto portatore di rivolte, approvavano un cambiamento costituzionale ed erano favorevoli a Ottaviano» (53.11.2) 77. Arcana imperii, felice locuzione coniata da Tacito 78 per Tiberio ma che bene, e forse ancor più, si attaglia ad Augusto, esprime con assoluta precisione la fase complessa e difficilissima della transizione augustea, durante la quale al processo di restaurazione della pianta repubblicana si assistette anche all’innesto di un nuovo ramo: il princeps con la sua potentia/auctoritas.
3. AUGUSTUS/AUCTORITAS È facile accorgersi come nella costruzione del cap. 34, dopo potentia, il cardine attorno a cui ruota la ricostruzione augustea è auctoritas. Sul fatto che fosse concetto non esclusivamente giuridico e che in relazione ad Augusto fosse da intendere innanzitutto come charisma, hanno scritto pagine importanti e decisive sia pure da ottiche e con approcci assai diversi sia Pietro de Francisci 79 sia Francesco De Martino 80. Non un potere in senso classico, ma una condizione di preminenza fondata sul prestigio per i molti meriti conseguiti e le abilità conclamate: una condizione di potentia, appunto, che però – Augusto lo sapeva bene – avrebbe dovuto ricondursi o giustificarsi entro la tradizione repubblicana e che più avanti costituì la giuridicità della posizione del princeps, una sorta di ‘Urnorm’ 81. Ripartiamo allora dal controverso passo delle Res Gestae:
77
Vedi E. ROMANO, «Allontanarsi dall’antico». Novità e cambiamento nell’antica Roma, in Storica 12.34, 2006, p. 40. 78 Tac. ann. 2.36.1: Haud dubium erat eam sententiam altius penetrare et arcana imperii temptari. 79 P. DE FRANCISCI, La costituzione Augustea, in AA.VV., Augustus. Studi in occasione del Bimillenario Augusteo, Roma 1938, pp. 61 ss.; ID., Storia del diritto romano, II.1, Milano 1944, pp. 272 ss.; ID., Arcana imperii, cit., III.1, pp. 244 ss.; ID., Preannunci del Principato nelle Filippiche di Cicerone, in BIDR 67, 1964, pp. 1 ss.; ID., Nuovi appunti intorno al principato. (A proposito di: F. De Martino, Storia della costituzione romana, vol. IV, p. I e p. II, Napoli, Jovene 1962-1963), in BIDR 69, 1966, pp. 1 ss.; ID., Sintesi storica, cit., pp. 271 ss. 80 F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., IV.1, pp. 278 ss. 81 P. DE FRANCISCI, Nuovi appunti intorno al principato, cit., pp. 16 s.
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RGDA 34.3: Post id tem[pus a]uctoritate [omnibus praestiti, potest]atis au[tem n]ihilo ampliu[s habu]i quam cet[eri, qui m]ihi quoque in ma[gis]tra[t]u conlegae f[uerunt]. Il passo è sempre stato croce e delizia degli studi romanistici dedicati alla genesi del principato augusteo. Le due diverse letture che ancora si contendono il primato sono le seguenti: 1. Da allora fui superiore a tutti per auctoritas 82, ma non ebbi potestas maggiore di quelli che mi furono colleghi in ciascuna magistratura; 2. Da allora fui superiore a tutti per auctoritas, ma non ebbi potestas maggiore di quelli che mi furono anche colleghi nella magistratura 83. Non si tratta tanto di riprendere in questa sede dibattiti su cui si sono versati fiumi d’inchiostro 84, ma di tornare su alcuni profili sui quali l’accresciuta documentazione lancia qualche nuova luce, sapendo di muoverci all’interno di quella geometria politico-istituzionale disegnata da Augusto nel cap. 34: potentia – potestas – arbitrium (34.1); auctoritas – potestas – magistratus (34.3). a) Un primo profilo riguarda la simmetria auctoritas-potestas, che pone il primo serio dilemma di RGDA 34.3 cioè la corretta interpretazione di potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri, qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt: a cosa Augusto intendeva riferirsi? Alle magistrature repubblicane o alla carica di princeps? E conseguentemente come intendersi il riferimento alla par potestas? Prima di tentare di rispondere, deve ricordarsi come la teoria del princepsmagistratus risalente a Theodor Mommsen 85, nella sua astratta ricerca della sovranità vista nel popolo-Stato, già da qualche tempo mostri vistose crepe tali da potersene oggi affermare senza alcun timore l’assoluto superamento. La sua dose massiccia di artificialità si manifesta soprattutto nella bizzarria di voler interpretare forzosamente la figura del princeps – che andava vieppiù stagliandosi – quale nuova carica tipica di un ordinamento costituzionale di stampo monarchico in assoluto contrasto con quello repubblicano secondo un’ottica magistratuale. Ad ogni modo, il princeps non ebbe i caratteri peculiari delle magistrature romano, certamente almeno non quelli della collegialità 86 e della temporaneità,
82 Si deve a A. VON PREMERSTEIN, Zur Aufzeichnung, cit., pp. 95 ss., la proposta di emendare con “auctoritate” l’integrazione mommseniana “dignitate”. 83 Nelle due più recenti traduzioni italiane auctoritas viene resa con ‘autorità morale’; F. GUIZZI, Augusto, cit., p. 145; Cesare Augusto Imperatore (a cura di L. De Biasi, A.M. Ferrero), cit., p. 219 e nt. 152. 84 Per una sintesi dei molteplici problemi e della copiosissima letteratura si veda assai utilmente C. LANZA, Auctoritas principis, I, Milano 1996, passim. 85 TH. MOMMSEN, Disegno del diritto pubblico romano2, Milano 1943, p. 233. 86 Nonostante si siano versati fiumi d’incostro per intendere la chiusa finale di RGDA 34.3, e la magistratura a cui si riferisse, sino a forzature eccessive come quella di F. HURLET, Les collègues
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e dunque rispetto agli interrogativi postici, la prima risposta è negativa: Augusto in quanto principe non era affatto un magistrato; il princeps non poteva considerarsi (ancora) un nuovo organo; come vedremo meglio tra qualche pagina tornando su questo aspetto, si trattava soltanto di un titolo onorifico e per giunta nient’affatto estraneo agli schemi repubblicani, sebbene costituisse l’eccezionale strumento formale con cui Augusto seppe sapientemente svolgere quel «ruolo finale di regista», secondo un’acuta metafora di Capogrossi, «anche rispetto a quella parte dell’antico edificio repubblicano destinata a sopravvivere» 87. Resterebbe a questo punto la lettura alternativa del riferimento augusteo alle magistrature repubblicane: cioè Augusto certificò che lui nella sua lunga vita istituzionale non ebbe potestas superiore a coloro che gli furono colleghi in ciascuna magistratura che ricoprì. Ma può davvero interpretarsi così? E soprattutto a quale magistratura si riferiva? Per provare a trovare la soluzione allora a me pare necessario non decontestualizzare il frammento in questione. Il cap. 34 si apre con una precisa collocazione cronologica, cioè nel sesto e settimo consolato esercitati da Augusto nel 28-27 a.C. e quando si passa al terzo frammento, che si apre con post id tempus, mi sembra naturale collegarlo cronologicamente oltre che logicamente con i due paragrafi precedenti. Ora, poiché Augusto dal 27 a.C. non esercitò altre cariche magistratuali oltre al consolato tenuto ininterrottamente sino al 23 a.C. e poi altre due volte nel 5 a.C. (il dodicesimo) e nel 3 a.C. (il tredicesimo), è con riguardo a esso che bisogna leggere la seconda parte di RGDA 34.3 potestatis autem nihilo amplius habui quam ceteri, qui mihi quoque in magistratu conlegae fuerunt. Il consolato era e continuava a essere la magistratura eponima e il vertice dello Stato romano. Nel momento in cui abbandonati i poteri triumvirali, trasferiva la res publica a senatus e populus e assumeva il consolato, carica repubblicana per eccellenza, non vedo alternative a individuare nei consoli quei colleghi a cui alludeva Augusto a proposito della sua potestas magistratuale. Il quoque, insomma da intendere non come aggettivo indefinito bensì come congiunzione, si riferirebbe non a tutte le magistrature ricoperte da Augusto, ma soltanto al consolato, a quella magistra
du prince, cit., passim, praecipue pp. 343 ss., che vi legge un riferimento a un collegio costituito dal princeps e dai correggenti. Improprio appare poi il riferimento ai proconsoli avanzato da M. PANI, L’imperium di Tiberio principe, in AA.VV., Epigrafia e Territorio. Politica e Società. Temi di antichità romane, VI, Bari 2001, p. 257, ripreso da A. GUZMÁN-BRITO, Dos reglas constitucionales de la republica romana infiltradas en el principado, in Scritti per A. Corbino (a cura di I. Piro), III, Tricase (LE) 2016, p. 573, che immagina l’esercizio collegiale dell’imperium proconsulare come regola repubblicana. Vedi sul punto anche A. DALLA ROSA, L’autocrate e il magistrato: le attività di Augusto negli ambiti di competenza consolare, in AA.VV., Il princeps romano: autocrate o magistrato? Fattori giuridici e fattori sociali del potere imperiale da Augusto a Commodo (a cura di J.-L. Ferrary, J. Scheid), Pavia 2015, pp. 555 ss. 87 L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Storia di Roma tra diritto e potere. La formazione di un ordinamento giuridico, Bologna 2014, p. 240.
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tura 88. Non foss’altro perché non possono essere considerati colleghi di Augusto né i proconsoli (essendo il proconsolato promagistratura non governata dal principio della collegialità) né i tribuni plebis, poiché Augusto non fu tale 89; mentre tale collegialità tantomeno, come abbiamo appena detto, potrebbe riferirsi alla carica imperiale, ancora lontanissima dall’essersi già spersonalizzata rispetto ad Augusto e in ogni caso neppure in minima parte definita in via teorica e costituzionale. Infine, appare logico che l’autore della translatio rei publicae poi non si discostasse dal piano della legalità costituzionale repubblicana e che alludendo ai vertici della res publica si riferisse alla magistratura consolare. Se proseguiamo lungo questo percorso, acquista un qualche solido fondamento l’idea che auctoritate di RGDA 34.3 sia un complemento di limitazione, sicché auctoritas non esprimerebbe in nessun modo il concetto di sovranità, né un vero e proprio potere istituzionalizzato. Del resto se si accettasse quest’ultima impostazione (auctoritas come vero e proprio potere formale) si arriverebbe addirittura a dei veri e propri eccessi: dire di avere pari potestas rispetto ai colleghi e auctoritas più di tutti, in qualche modo costringerebbe a immaginare una (inesistente) gerarchia di auctoritates. Più che una forzatura un non senso. Se invece ad auctoritas si lasciasse esprimere il suo significato eminente e cioè il primato politico di Augusto fondato sul prestigio della sua persona tutto si chiarirebbe: lui, princeps, primeggiava su tutti per auctoritas. Gli scontri accesi sul significato di questo breve e chiaro passo riescono sempre più artificiali e incomprensibili: un princeps, cioè un cittadino eminente, meglio ancora un senatore influente, anzi il più influente, non aveva potestas, semmai un’auctoritas impareggiabile; la potestas era invece propria delle figure magistratuali, e dunque non poteva che essere quella consolare 90. D’altra parte è vero che nelle Res Gestae non vi è alcun riferimento a questo imperium; così come non ricorre alcuna menzione del particolare imperium proconsulare attribuitogli più avanti nel 23 a.C. e riferibile alla promagistratura, sebbene con il tempo sia divenuto uno dei cardini della posizione costituzionale del princeps. Ma sarebbe sbagliato leggere tale silenzio nella chiave dell’ipocrisia o della reticenza.
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In questo senso anche P. DE FRANCISCI, Genesi e struttura, cit., pp. 32 s. Cfr. per tutti F. GALLO, L’uomo e il diritto (a proposito di una “rivisitazione di Augusto”), in SDHI 51, 1985, pp. 215 ss. 90 Da ultimo A. GIARDINA, L’impero di Augusto, cit., pp. 67 s., vede nell’auctoritas l’ammissione da parte di Augusto dell’accumulo dei poteri e rifiuta un generico significato di carisma, prestigio, ma non vedo contraddizioni: il carisma è causa ed effetto dell’accumulo di poteri e onori. J. SCHEID, Res Gestae Divi Augusti, cit., p. 91, così si esprime: «L’auctoritas n’est, en effet, jamais isolée, elle est toujours liée dans l’esprit des Romains à un réel et immense pouvoir institutionnel, sans oublier la vaste clientèle et la fortune du prince. Autrement dit, elle est la résultante de la situation institutionelle, politique et sociale du Prince». 89
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Augusto nel bilancio della sua lunga vita di leader politico e militare non aveva certo bisogno di usare alcuna precisione tecnico-giuridica; gli obiettivi erano decisamente di altro genere, infatti su altri fu assolutamente puntuale. Egli riconosceva con semplice e icastica coerenza il suo charisma che ben presto si sarebbe introiettato nella carica imperiale una volta istituzionalizzata, e accanto a questa sua condizione (di superiore auctoritas) indicava la potestas magistratuale. Lo spazio del potere di influenza, condizionamento, orientamento è perennemente intrinseco alle dinamiche politiche e costituzionali, ed è tanto più forte e incisivo quanto più elevata è la carica che lo esercita e autorevole (prestigiosa) è la persona fisica che ricopre quella carica. E così come nell’odierna temperie politica italiana ai massimi livelli istituzionali si registrano i cosiddetti interventi di ‘moral suasion’, riusciamo a intravedere una simile ‘filigrana’ pure a Roma, ove Augusto – console, senatore, anzi princeps senatus, ma soprattutto salvatore di Roma – non aveva rivali su questa dimensione. Tale lettura appare in definitiva la più semplice e per certi aspetti anche più banale se soltanto si abbandonasse per un attimo la tentazione di leggere le Res Gestae non per quello che sono, cioè il semplice testamento politico di un grande leader politico volto a eternare l’opera e l’intera sua vicenda umana, quanto piuttosto un trattato di diritto costituzionale, addirittura una sorta di ‘testo sacro’ della sistemazione della nuova architettura costituzionale elaborata da Augusto. *** b) E veniamo al secondo profilo, per quanto profondamente sviscerato nel dibattito scientifico, del nesso tra il praenomen Augustus e l’auctoritas. La riconduzione o riconducibilità di Augustus ad auctoritas e ancora ad augeo e augurium, vale a dire alla dimensione sacrale non ha certo bisogno di queste pagine perché si chiarisca ancora. Non si tratta di un nesso artificiale, frutto di interpretazioni e di costruzioni moderne, perché esso risale esattamente allo stesso Augusto in quanto iscritto nella precisa strategia volta a porre su basi sacrali la sua posizione di preminenza. Un recente studio di Elisabetta Todisco 91 a tal proposito ricostruisce il puntiglioso piano di precostituizione di una solida base religiosa alla posizione costituzionale di Augusto. Le notizie abbondano, a cominciare dal dibattito che si dispiegò a proposito dell’epiteto più consono da attribuirgli: Svet. Aug. 7.1-4: Infanti cognomen Thurino inditum est, in memoriam maiorum originis, vel quod regione Thurina recens eo nato pater Octavius adversus fugitivos rem prospere gesserat. [2] Thurinum cognominatum satis certa proba
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E. TODISCO, Il nome Augustus e la «fondazione ideologica» del principato, in Antidoron. Studi in onore di B. Scardigli Foster (a cura di P. Desideri, M. Moggi, M. Pani; con la collab. di A. Lazzeretti), Pisa 2007, pp. 441 ss.
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tione tradiderim nactus puerilem imagununculam eius aeream veterem ferreis et paene iam exolescentibus litteris hoc nomine inscriptam quae dono a me principi data inter cubiculi Lares colitur. [3] Sed et a M. Antonio in epistulis per contumeliam saepe Thurinus appellatur et ipse nihil amplius quam mirari se rescribit pro obproprio sibi prius nomen obici. [4] Postea Gai Caesaris et deinde Augusti cognomen assumpsit, alterum testamento maioris avunculi, alterum Munati Planci sententia, cum, quibusdam censentibus Romulum appellari oportere quasi et ipsum conditorem urbis, praevaluisset, ut Augustus potius vocaretur, non solum novo sed etiam ampliore cognomine, quod loca quoque religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicantur, ab auctu vel ab avium gestu gustuve, sicut etiam Ennius docet scribens: “Augusto augurio postquam incluta condita Roma est”. È appena il caso di far notare che Svetonio, il quale con ogni probabilità aveva facile accesso a biblioteche e archivi, citava Ennio e così facendo retrodatava sotto il profilo linguistico la matrice sacrale di Augustus. Non si trattava affatto di sfoggio di erudizione, perché attraverso il richiamo di Ennio, sorta di poeta nazionale e rinomato intellettuale del circolo degli Scipioni, Svetonio contribuiva a nobilitare per vetustà la sententia di Munazio Planco verso la scelta di Augustus piuttosto che di Romulus. Più che esplicito nel sottolineare la dimensione sacrale di Augustus nel suo nesso con augurium è Festo: Fest. s.v. «Augustus» (ed. Lindsay, 2): Locus sanctus ab avium gestu, id est quia ab avibus significatus est, sic dictus; sive ab avium gustatu, quia aves pastae id ratum fecerunt. Fest. s.v. «Roma» (ed. Lindsay, 330): per auguria decre[– – –]naretque, ac deorum [– – –] mulum urbem cond[– – –] potius quam Romul – – – re vocabuli signifi suae ominaretur; e grazie a Paolo così integrata: Paul.-Fest. s.v. «Romam» (ed. Lindsay, 327): Romam Romulus de suo nomine appellavit, sed ideo Romam, non Romulam, ut ampliore vocabuli significatu prosperiora patriae suae ominaretur. Testi sorretti anche da un passo importante di Velleio Patercolo: Vell. hist. rom. 2.91.1: Dum pacatur occidens, ab oriente ac rege Parthorum signa Romana, quae Crasso oppresso Orodes, quae Antonio pulso filius eius Phraates ceperant, Augusto remissa sunt. Quod cognomen illi iure Planci sententia consensus universi senatus populique Romani indidit, molto abile ed efficace nel proporre un nesso tra lo straordinario successo diplomatico sui Parti e l’autorevolezza di Augusto fondata su un consensus universalis e in seguito però istituzionalmente riconosciuta.
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Insomma, i documenti attestano in maniera pressoché unanime che quel significato forte e inequivocabile si sarebbe conservato e trasmesso inalterato nei secoli sino nella tarda antichità, alle soglie del medioevo, come si legge in una pagina delle Etymologiae del vescovo di Siviglia: Isid. etym. 9.3.16-17: Augustus ideo apud Romanos nomen imperii est, eo quod olim augerent rempublicam amplificando. Quod nomen primitivus senatus Octavio Caesari tradidit, ut quia auxerat terras, ipso nomine et titulo consecraretur. [17] Dum autem idem Octavianus iam Caesar et imperator appellaretur, vel Augustus, postea vero dum ludos spectaret, et pronuntiatum esset illi a populo vocaretur et Dominus, statim manu vultuque averso indecoras adulationes repressit et Domini appellationem ut homo declinavit, atque insequenti die omnem populum gravissimo edicto corripuit, Dominumque se post haec appellari ne a liberis quidem suis permisit. Augusto, come magistrato, fu titolare di auspicia e con coloro che gli furono colleghi nella magistratura consolare ebbe auspicia maiora; e su questo tema ha scritto pagine convincenti Frédéric Hurlet 92, osservando come il principe anche su questo versante stesse attento alle concezioni repubblicane. Eppure ciò non corrispondeva affatto o non ancora del tutto a quella condizione di potentia raggiunta sul piano fattuale da Augusto al più tardi nel 28 a.C., e allora, pur non perdendo il legame con il populus, attento a non attenuare la matrice popolare del suo potere, per innalzarsi rispetto a chiunque altro doveva tendere a un piano superiore, quello degli auguria, obiettivo assicuratogli appunto dall’epiteto di Augustus 93: in greco SebastÒj ‘colui che è sacro per designazione divina’ 94. L’appellativo gli proveniva dal consensus universorum rivestito dalle forme di un senatoconsulto ratificato dal popolo. La matrice dell’auctoritas non era, o non era soltanto, fattuale come la potentia di cui aveva goduto, ma si iscriveva a pieno titolo negli schemi repubblicani traendone legittimità. L’essenza sacrale fu ossessivamente ricercata da Augusto. Georges Dumézil, riflettendo su Serv. ad Aen. 1.292.25-28, secondo cui quando il popolo romano lasciò a Ottaviano la scelta tra Quirino, Cesare o Augusto, e non scontentare nessuno decise di assumere in successione di tempo tutti e tre i nomi, con acutezza scrive: «sale (Ottaviano) verso la più maestosa sovranità […] lentamente e come progressivamente, attraverso una triade il cui primo termine è Quirino e il
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F. HURLET, Les auspices d’Octavien/Auguste, in Cahiers du Centre G. Glotz 12, 2001, pp. 155 ss. 93 Cfr. P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960, pp. 23 nt. 7 ss., 150 nt. 102, secondo cui augeo, augur, augustus costituivano sotto il profilo e morfologico e semantico un gruppo indissolubile. 94 Cfr. per tutti P. DE FRANCISCI, La costituzione Augustea, cit., 70; ID., Arcana imperii, cit., III.1, p. 241.
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cui secondo termine, sostituto lusinghiero di Marte, si oppone a Quirino come Marte stesso», ipotizzando una riutilizzazione dell’antica e ormai desueta triade precapitolina Quirino, Marte e Giove 95. Persino il calendario, detto appunto Augusteo, con la nuova denominazione del mese Sextilius in Augustus (agosto), costituisce uno dei tratti più eloquenti e significativi nella sua valenza simbolica della matrice religiosa del potere imperiale, infarcito com’era di compleanni dei familiari, di commemorazioni varie (come l’inserimento del giorno del suo ritorno in città nel computo delle feste sacre con il nome di Augustalia 96 o gli eventi che avevano toccato la salus del princeps ai giorni delle sue vittorie). E ancora, l’inserimento del nomen nel carmen dei Salii, uno di quei conferimenti più rilevanti, oltre che per il particolare prestigio, per il suo intrinseco e profondo significato fu tale da destare enorme impressione e accrescere e ispessire l’aurea di religiosità che ormai ammantava la sua persona: RGDA 10.1: No[men me]um [sena]tus c[onsulto inc]lusum est in saliare carmen, et sacrosanctu[s in perp]etum [ut essem et, q]uoad viverem, tribunicia potestas mihi e[sset, per lege]m st[atutum est. Augusto diveniva il primo uomo vivente a essere menzionato accanto agli dèi proprio da una delle più antiche istituzioni religiose, cioè dal collegio vetustissimo dei Salii. Come è noto, la tradizione attribuiva al re Numa l’istituzione dei Salii 97 in onore di Giove Gradivus e l’inno sacro era cantato dai sacerdoti per la salvezza di Roma in guerra. Non c’è da stupirsi se un tale onore, assieme agli altri, contribuisse non poco a rafforzare la percezione dell’opinione pubblica della dimensione sacrale della sua persona e del fondamento politico-religioso della sua posizione costituzionale. Del resto, non è certo un caso che sia stato lo stesso Augusto ad abbinare alla menzione dell’inserimento del suo nome nel carme saliare il riconoscimento dell’inviolabilità della propria persona (la qualità di homo sacrosanctus in perpetuum) intrecciata con l’attribuzione a vita della tribunicia potestas.
95 G. DUMÉZIL, Jupiter, Mars, Quirinus, Torino 1955, p. 60. Una messa in discussione del sistema duméziliano è avanzata da A.L. PROSDOCIMI, Forme di lingua e contenuti istituzionali nella Roma delle origini, I, Napoli 2016, pp. 431 ss. 96 Cass. Dio 54.10.3. 97 Il ramo dei Palatini: Dion. Hal. 2.70; 2.71; 3.32; Liv. 1.27.7; mentre l’istituzione del secondo ramo, quello dei Salii Collini, sarebbe da ascrivere a Tullo Ostilio. Sul collegio sacerdotale, R. CIRILLI, Les prêtes danceurs de Rome, Paris 1913, passim; P. DE FRANCISCI, La civiltà romana arcaica e gli influssi di civiltà extra-italiche, in ID., Variazioni su temi di preistoria romana, Roma 1974, pp. 99 ss.; M. TORELLI, Lavinio e Roma. Riti iniziativi e matrimonio tra archeologia e storia, Roma 1984, pp. 106 ss.; T. SCHAEFER, Zur Ikonographie der Salier, in Jahrb 95, 1980, pp. 342 ss. Cfr. pure A. CARANDINI, Remo e Romolo. Dai rioni dei Quiriti alla città dei Romani (775/750 – 700/675 a.C.), Torino 2006, pp. 300 ss.
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E ancora il conferimento dei quattuor amplissima sacerdotia: pontefice massimo, augure, quindicemviro addetto ai riti sacri, settemviro epulone, a cui si aggiunsero le cariche religiose di fratello arvale e di sodale Tizio e feziale. Insomma, un elenco lunghissimo da integrare con il numero imprecisato e pervasivo di ulteriori facoltà, come il potere di nomina di sacerdoti in tutti i collegi religiosi. Ad ogni modo, l’insieme dei riconoscimenti, attribuzioni, onori, epiteti è veramente impressionante e trasforma profondamente l’aurea di Ottaviano, grazie anche a un’abile strategia di comunicazione che ha proprio nella costruzione della successione cronologica dei conferimenti degli onori, degli appellativi e delle attribuzioni dei poteri nelle Res Gestae 98 un esempio mirabile: Augusto non è più soltanto un leader, giovane, audace, capace militarmente e abile nella politica e nelle relazioni con l’aristocrazia senatoria. No, ormai siamo su un piano davvero incommensurabile, in cui la cifra sacrale e religiosa è difficilmente districabile dal potere, per aver tradotto in definitiva la trasmutazione della potentia di RGDA 34.3 in quella auctoritas rispetto alla quale fu impareggiabile. Ebbene, se si è d’accordo nel riconoscere che, per quanto abilmente e con assoluta ostinazione, Ottaviano volle rifiutare l’epiteto di Romulus 99 e tutto ciò che alla istituzione monarchica anche sul piano sacrale fosse riferibile, mentre accettò di buon grado quello di Augustus, tra gli studiosi è radicato, e giustamente, il convincimento che sia stato proprio questo nome a divenire il catalizzatore di ogni fatto, conferimento, ecc., utile a contribuire al consolidamento del fondamento religioso della posizione del princeps 100. In altri termini, l’aurea di
98 È incerta la data di attribuzione di questo onore religioso. Generalmente si ritiene, sulla scorta di Cass. Dio 51.20, che ciò avvenne nel 29 a.C. Tuttavia il frammento dioneo è così vago da non escludere la possibilità che l’onore gli venne tributato successivamente. A ben riflettere, innanzitutto, bisognerebbe sapere oltre ogni ragionevole dubbio se l’inserimento nel carmen saliare abbia riguardato Augustus piuttosto che Octavianus e nella prima ipotesi ciò non potrebbe essere avvenuto prima del 27 a.C.; inoltre, se si intende interpretare in maniera pregnante il nesso con la condizione di sacrosanctus e della tribunicia potestas di RGDA 10.1, allora l’inserimento di Augustus nel carmen saliare sarebbe da collocare non prima del 23 a.C., anno in cui Augusto ottenne la pienezza delle prerogative tribunizie. Naturalmente non possedendo il testo del carmen, a parte i pochi frammenti conservati da Varrone (de ling. lat. 7.26-27), non possiamo dire alcunché di definitivo, ma mi sembra che i capitoli delle Res Gestae contenenti l’elencazione degli onori religiosi tributatigli (dal IX al XIII) sono alquanto confusi e senza un rigoroso andamento cronologico tanto da rendere del tutto compatibile l’interpretazione appena avanzata. Cfr. per tutti F. GUIZZI, Augusto, cit., p. 92 nt. 1; J. SCHEID, Res Gestae Divi Augusti, cit., pp. 43 s. 99 Sul tema J. GAGÉ, Romulus-Augustus, in MEFR 47, 1930, pp. 157 ss.; A. BRELICH, Quirinus. Una divinità romana alla luce della comparazione storica, in SMSR 31, 1960, pp. 63 ss. (= in ID., Tre variazioni romane sul tema delle origini [a cura di A. Alessandri], Roma 2010, pp. 181 ss.). 100 Sulla teologia del potere imperiale cfr. J. GAGÉ, Pouvoir et religion. Psycologie du culte impérial romaine, in Diogène 34, 1961, pp. 47 ss.; G.W. BOWERSOCK, Augustus and the Greek World, Oxford 1965, praecipue pp. 112 ss.
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sacralità promanante dal nome Augustus costituiva il chiaro preludio del culto religioso di cui il principe sarebbe stato presto oggetto nelle province 101. Eppure ci sarebbe ancora qualcos’altro di altrettanto meritevole di attenzione. Se quanto sinora ricordato era efficace e funzionale rispetto alla cultura religiosa del mondo ellenistico-romano, non bisogna sottovalutare la capacità della macchina augustea di far breccia nei diversi sistemi religiosi del Vicino Oriente mediante strategie calibrate per attivare forme striscianti di penetrazione ai fini di dinamiche sincretistiche di particolare rilievo. Andando appena oltre le Res Gestae, non è affatto difficile incontrare documenti attestanti la formidabile dimensione sacrale che promanava dall’epiteto Augustus, le cui dimensioni appaiono assai più vaste di quanto si è solito ricordare. Un importante documento, un’iscrizione bilingue di Priene del 9 a.C. del proconsole d’Asia Paullus Fabius Maximus relativa al decretum de fastis provincialibus provinciae Asiae, dipinge un quadro davvero straordinario delle tensioni, delle ansie e delle aspettative nutrite verso Augusto: SEG IV.490 (= OGIS II.458): Edoxen to‹j ™pˆ tÁj 'As…aj 'Ellhsin, gnémV toà ¢rcieršwj 'Apollon…ou toà Mhnof…lou 'Aizean…tou: 'Epe[id¾ ¹ qe…wj] diat£xasa tÕn b…on ¹mîn prÒnoia spoud¾n e„den[enka | m]šnh kaˆ filotim…an tÕ telhÒtaton tîi b…wi diekÒsmh[sen ¢gaqÕn] | ™nenkamšnh tÕn SebastÒn, Ön e„j eÙerges…an ¢nqrè[pwn] ™pl»|rwsen ¢retÁj, [é]sper ¹me‹n kaˆ to‹j meq' ¹[m©j swtÁra carisamšnh] tÕn paÚsanta m n pÒlemon, kosm»sonta [d e„r»nhn, ™pifaneˆj d | Ð Ka‹sar t©j ™lp…daj tîn prolabÒntwn [eØangšlia p£ntwn Øper] | šqhken, oÙ mÒnon toÝj prÕ aÙtoà gegonÒt[aj eÙergštaj Øperba] | lÒmenÒj, ¢ll' oÙd' ™n to‹j ™somšnoij ™lp…d[a Øpolipën ØperbolÁj], | Ãrxen d tîi kÒsmwi tîn di' aÙtÕn eØangel…[wn ¹ genšqlioj ¹mšra] | toà qeoà|, tÁj d 'As…aj ™yhfismšnhj ™n SmÚrnV [™p… ¢rcieršwj] | Leuk…ou OÙolkak…ou Tàllou, grammateÚontj Pap[…a, martur…an] | tù meg…staj g' e„j tÕn qeÕn kaqeurÒnti teim¦j e nai [stšfanon], | Paàlloj F£bioj M£ximoj Ð ¢nqÚpatoj tÁj ™parc»aj ™[p… swthr…aj] | ¢pÕ tÁj ™ke…nou dexi©j kaˆ [g]némhj ¢pestalmšnoj eØ[r»masin „d…] | oij eÙergšthsen tÁn ™parc»an, ïn eÙergesiîn t¦ megeq[h ƒkanîj] | e„pe‹n oÙdeˆj ¨n ™f…koito, kaˆ tÕ mšcri nàn ¢gnohq n ØpÕ tîn [`Ell»|nwn e„j t¾n toà Sebastoà teim¾n eÛreto, tÕ ¢pÕ tÁj ™ke…nou g[enš] | sewj ¥rcein tù b…ù tÕn crÒnon: di' Ö ktl. [I Greci che vivono in Asia hanno approvato, su proposta del sommo sacerdote Apollonio figlio di Menofilo di Ezeane, questo decreto: «Poiché la provvidenza che divinamente regola la nostra vita, manifestando sollecitudine e generosità, ha
101 Sul culto di Augusto pagine limpide in D. KIENAST, Augustus. Prinzeps und Monarch, Darmstadt 1999, pp. 244 ss.
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disposto il più perfetto compimento della vita, avendo inviato Augusto che, a beneficio degli uomini, ha colmato di virtù, avendolo inviato salvatore per noi e per quelli dopo di noi, lui che ha fatto cessare la guerra e stabilirà l’ordine di tutte le cose, e poiché Cesare con la sua epifania è andato oltre le speranze di tutti coloro che avevano ricevuto in precedenza buone novelle, non solo superando i benefattori vissuti prima di lui ma non lasciando nemmeno in quelli futuri speranza di rinnovamento, e per il cosmo il giorno genetliaco del dio (Augusto) ha dato inizio alla serie delle buone novelle annunciate per suo merito; e poiché, avendo decretato l’assemblea della provincia d’Asia, riunita a Smirne, essendo proconsole Lucio Volcacio Tullo, segretario Papione figlio di Diosierito, che a colui che avesse escogitato i più grandi onori per il dio (Augusto) fosse conferita una corona, Paullo Fabio Massimo, proconsole della provincia, inviato come benefattore dalla sua mano destra e dalla sua volontà (Augusto) insieme agli altri con cui beneficò la provincia, dei quali benefici nessun discorso giungerebbe a dire la grandezza, ha trovato proprio ciò che sino a ora non era stato immaginato dai Greci in onore di Augusto, cioè dal suo giorno natale inizi il tempo per la vita: per ciò per buona sorte e per nostra salvezza, l’assemblea dei cittadini greci della provincia d’Asia decreta che il nuovo novilunio cada per tutte le città il giorno nono prima delle calende di ottobre, che è il giorno genetliaco di Augusto»].
Il documento epigrafico racchiude in una lettera inviata dal proconsole Paolo al Koinón d’Asia l’ordine di applicazione della riforma cesariana del calendario giuliano-asiano in cui il 23 settembre, dies natalis di Augusto, diventava inizio dell’anno. Non è ovviamente l’aspetto burocratico-amministrativo che ci interessa: nella comunicazione del governatore romano leggiamo che quel giorno «fu per il mondo il principio delle buone novelle», gli evangelii annunciati per mezzo di lui: tîn di' aÙtÕn eÙangel…wn è davvero un messaggio di rara potenza, stabilisce un’equivalenza tra il giorno della nascita del princeps e quello della creazione del mondo. L’innegabile punto di contatto con l’attesa soteriologica in senso messianico del giudaismo restava assolutamente estraneo all’ideologia del culto imperiale ma era funzionale alla radicalizzazione di quest’ultima nel Vicino Oriente mediterraneo, tema di cui di recente, dopo Santo Mazzarino 102, è tornato a occuparsi Felice Costabile 103. Questo documento eccezionale, ma assai negletto per ragioni forse comprensibili, testimonia la diversa declinazione dell’accorta strategia di Augusto e del suo entourage di sacralizzazione della persona e della costruzione del mito di
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S. MAZZARINO, L’impero romano, cit., I, pp. 154 ss. F. COSTABILE, Storia del diritto romano. II. Da Augusto a Giustiniano, Reggio Calabria 2010, pp. 52 ss. Cfr. ID., Novi generis imperia constituere iura magistratuum commutare. Progetto e riforma della respublica da Pompeo ad Augusto, Reggio Calabria 2009, pp. 77 ss. Vedi pure infra CAPITOLO SECONDO, § 3. 103
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Augusto. Costabile ha con determinazione sottolineato l’affinità di questa ideologia, e al tempo stesso teologia, imperiale rispetto al giudaismo e al cristianesimo, soffermandosi tra l’altro su alcuni documenti peculiari, come il pentametro in graffito sulle scanalature di una colonna del portico meridionale del peristilio della villa di Agrippa Postumo in cui è dato leggere Caesaris Augusti femina mater erat (CIL IV.6893). L’invettiva politica, attraverso pamphlet e carmi, era poi causticamente vivace e neppure il princeps riusciva a sottrarvisi. Ne fa prova l’abbinamento al graffito precedente, a cui si restituisce così una luce particolare, di un un distico di Domizio Marso, poeta augusteo, conosciuto grazie agli Epigrammata Bobiensia 39: Domiti Marsi de Atia matre Augusti: ‘Ante omnes alias felix tamen ego dicor / sive hominem perperi sive deum’. Azia, donna mortale, si riteneva fortunata di aver partorito un figlio tale da essere considerato un dio. Forse si tratta del più antico riferimento, siamo nel 43 a.C. 104, alla natura divina di Augusto. Ad ogni modo, l’epigramma e il graffito sono documenti che hanno permesso di lanciare qualche fascio di luce sul dissenso, invero assai tenue, nella vita quotidiana e popolare verso l’ideologia augustea della divinizzazione del princeps, e che rendono bene il clima attorno al princeps e le mosse del suo entourage. Il quadro diventa, in un certo senso, colorito se a essi si aggiungono quei testi che riportano le dicerìe popolari, sapientemente costruite ad arte, dei numerosi prodigi celesti che accompagnavano l’arrivo o la presenza del princeps – tra cui merita di essere ricordata l’apparizione di una cometa! – e che tanto appassionato dibattito popolare sulla loro interpretazione suscitavano 105. Affinità dunque innegabile ma a rigore, per quanto possa apparire un’aporia, pure una certa lontananza rispetto al messianismo: alla concezione grecoromana affiorante dall’iscrizione di Priene in cui gli evangelii di Augusto erano rivolti più al passato (il salvatore era già arrivato), perché il senso del riferimento al dies natalis di Augustus è l’inizio del tempo, nel giudaismo invece – che dal messianismo profetico era culminato nell’attesa del Figlio dell’Uomo portatore della fine dei tempi (Messia) – corrispondeva una prospettiva appunto integralmente collocata nel futuro 106.
104 Per quanto la datazione sia oggetto di discussioni; vedi comunque M. CITRONI, Autocrazia e divinità: la rappresentazione di Augusto e degli imperatori del primo secolo nella letteratura contemporanea, in AA.VV., Il princeps romano: autocrate o magistrato? Fattori giuridici e fattori sociali del potere imperiale da Augusto a Commodo (a cura di J.-L. Ferrary, J. Scheid), Pavia 2015, p. 260 s. nt. 36. 105 Cass. Dio 45.7.1; Vell. hist. rom. 2.59.6; Svet. Aug. 95.1; Iul. Obseq. 68; Plin. nat. hist. 2.28.98; Sen. nat. quaest. 1.2.1. 106 Sul punto per tutti R. ASTING, Die Verkündigung des Wortes im Urchristentum Dargestellt an den Begriffen “Wort Gottes”, “Evangelium” und “Zeugnis”, Stuttgart 1939, pp. 300 ss.; S. MAZZARINO, L’impero romano, cit., I, pp. 157 ss. e nt. 5.
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Torneremo sull’argomento per meglio approfondire altri aspetti, ma adesso possiamo dire che Augusto giocò la partita dell’affermazione sul versante religioso lungo due linee strategiche: una tutta occidentale, prudente, messa in pratica non da lui in prima persona, ma dai suoi uomini più accorti e vicini; un’altra assai diversa, di marca squisitamente orientale, che aveva però un diretto exemplum in Cesare, già considerato in Oriente dio per rivelazione divina (Ares e Afrodite) invitto e salvatore dell’uomo 107, e se vogliamo ancor più indietro nel tempo nelle concezioni sacrali egizie già mutuate in qualche misura da Alessandro Magno. La modulazione della comunicazione, le suggestioni e i riferimenti simbolici documentati per l’Egitto e in generale il culto di Augusto diffuso nelle terre del Vicino Oriente si inscrivevano nel solco di quella precisa strategia volta ad assicurare al princeps un forte alone di religiosità e di contiguità, anzi di appartenenza alla sfera divina, con una missione di pacificazione del mondo. Infatti anche il tema del servator e del pacificatore presente nella pubblicistica romana e ancor più nei documenti epigrafici 108 e numismatici 109, nella sua squisita interpretazione politica di salvatore e di auctor della ripristinata repubblica, ma anche della libertas restituta e della Roma resurges 110, ritorna con una marcata prominenza sacrale nella lettera del governatore della provincia d’Asia e del relativo decretum. L’iscrizione d’Asia costituisce dunque la limpida testimonianza dello sviluppo più originale del culto di Augusto vivente e dell’alone di religiosità che ammantava la figura del princeps in una teologia imperiale la cui attesa soteriologica era stata soddisfatta appunto da colui (Augusto) che aveva chiuso la terribile fase delle guerre civili e delle proscrizioni, queste ultime veri e propri cataloghi di nefandezze 111. Sta qui, se vogliamo, il cuore di questo seg
107 W. DITTEMBERG, Sylloge Inscriptionum Graecarum3, II, Lipsiae 1917, p. 442 n. 760; Cass. Dio 43.45.3; Cic. ad Att. 12.53.2; ad Att. 13.4.2. 108 CIL VI.873 = ILS 81; oppure la Laudatio Turiae (FIRA III2, n. 69): Pacato orbe terrarum, res[titut]a republica quieta deinde n[obis et felicia] / tempora contigerunt. Fue[ru]nt optati liberi, quos aliqua[mdiu sors invi]/derat. Su quest’ultima iscrizione per tutti V. ARANGIO-RUIZ, Il caso giuridico della cosidetta Laudatio Turiae, in ID., Parerga. Note papirologiche ed epigrafiche, Napoli 1945, pp. 10 ss. Sotto altri e assai diversi profili meritano di essere ricordate le belle pagine di L. STORONI MAZZOLANI, Una moglie, Palermo 1982. 109 Interessante la monetazione di Galba su cui vedi CH. HOWGEGO, La storia antica attraverso le monete, Roma 2002, pp. 79 s. 110 E. ROSSO, Le thème de la res publica restituta dans le monnayge de Vespasien: pérennité du «modèle augustéen» entre citations, réinterprétations et dévoiements, in AA.VV., Le Principat d’Auguste. Réalités et représentations du pouvoir. Autour de la Res publica restituta. Actes du colloque de l’Université de Nantes 1er-2 juin 2007 (sous la direction de F. Hurlet et B. Mineo), Rennes 2009, pp. 212 ss. 111 Per un quadro abbastanza nitido e impietoso delle conseguenze di ordine sociale ed economico, oltre che politico, delle proscrizioni si leggano le efficaci pagine di L. CANFORA, Proscri
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mento della propaganda augustea diretta alla prepotente emersione della sua vocazione soprannaturale: il mondo prostrato da violenza, sangue, caos e dissesto sociale ed economico aveva finalmente un ‘Salvatore’, dotato di una dignità sovrumana e chiamato dagli dèi a guidare Roma. La costruzione dell’immagine religiosa di Augustus nell’ultimo decennio dell’era precristiana poteva ormai ben considerarsi perfezionata e nitida in ogni dettaglio: la potentia humana di RGDA 34.1, ancora fattuale e non integrata negli schemi repubblicani, da quel momento era trasmutata in potentia divina nella nuova veste di auctoritas 112. Un concetto che è vero forse, come da ultimo ha ricordato Capogrossi 113, non può relegarsi soltanto sul piano morale, dell’autorevolezza’, del ‘prestigio’, data la sua ricorrenza in molteplici aspetti del diritto privato e pubblico, ma che altrettanto indubbiamente appartiene prima ancora che alla dimensione giuridica a quella del charisma come pure si evince dal nucleo più antico del patrimonio linguistico latino 114. Condivisibile, pertanto, il giudizio complessivo di Antonio Guarino tendente, com’è noto, a vedere una netta continuità: Augusto puntò a «creare l’impressione di aver attuato un ripristino integrale della libera respublica e di aver fatto aleggiare sulla stessa una sua “auctoritas” di valore essenzialmente morale e sociale, soltanto una sua personale “autorevolezza” di primo tra i cittadini, di princeps Romanorum. Ma la realtà lo smentisce. Vedremo tra poco» – continua lo studioso – «quanto notevolmente si siano modificati nel principato romano, a partire proprio da Augusto, gli equilibri di potere in seno alle strutture di governo» 115. È proprio questo il punto: non subito, non con Augusto, ma con i suoi successori, tutto sarebbe profondamente mutato. Soltanto in seguito la vera essenza monarchia sarebbe prevalsa su quelle forme della res publica augusteaNon vi è alcuna contraddizione: la vera essenza monarchica prevarrà sulle forme che sarebbero state definite repubblicane dai moderni. Augustus, in quanto auctor, dall’impareggiabile auctoritas, sorvegliava, accresceva, consolidava, fortificava, sorreggeva, garantiva. Il ripristino e la riconsegna degli ordinamenti repubblicani avvennero all’insegna della forza della sua personale auctoritas, come più volte incisivamente egli stesso affermò: me auctore (RGDA 8.5); mea auctoritate (RGDA 28.2).
zioni e dissesto sociale nella repubblica romana, in AA.VV., Società romana e produzione schiavistica. III. Modelli etici, diritto e trasformazioni sociali (a cura di A. Giardina e A. Schiavone), RomaBari 1981, pp. 207 ss. 112 In tal senso giustamente R. SYME, La rivoluzione romana, cit., p. 578; contra R. HEINZE, Auctoritas, in Hermes 60, 1925, pp. 359 s. 113 L. CAPOGROSSI COLOGNESi, Storia di Roma, cit., pp. 230 s. 114 Cfr. R. HEINZE, Auctoritas, cit., pp. 348 ss. 115 A. GUARINO, La costituzione democratica romana, cit., p. 44.
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4. L’AUREUS DI OTTAVIANO Come è noto agli studiosi, il dibattito critico sul tema della transizione istituzionale da qualche anno si svolge sotto una nuova luce grazie anche a un nuovo aureus dal conio unanimemente attribuito al 28 a.C. Pubblicato da Rich e Williams 116 nel 1999, questo aureus augusteo ha arricchito il quadro dei documenti utili in qualche misura a saggiare l’attendibilità del complesso delle fonti, e non solo di quelle tradizione manoscritta. Infatti, oltre alla conferma della notizia contenuta negli scritti di Cassio Dione 117 e di Tacito 118, ma forse presente anche nella biografia svetoniana 119, relativa all’abrogazione nel 28 a.C. delle più odiose, probabilmente illegali, misure adottate durante il triumvirato costituente, la moneta è importante per la legenda del rovescio LEGES ET IURA P.R. RESTITUIT (figura 2).
116
La prima notizia dell’aureus è apparsa in Numismatica Ars Classica 5, 1992, p. 400; la notizia di un secondo esemplare è data da R. ABDY-N. HARLING, Two Important New Roman Coins, in NumChron 165, 2005, pp. 175 s. Sugli studi dedicati alla moneta si rimanda a J.W. RICH-J.H.C. WILLIAMS, Leges et Iura P.R. Restituit: A New Aureus of Octavian and the Settlement of 28-27 BC, in NumChron 165, 2005, pp. 175 s.; H. ZEHNACKER, Quelques remarques sur le revers du nouvel aureus d’Octavien (28 av. J.-C.), in BSFN 58, 2003, pp. 1 ss.; D. MANTOVANI, Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit. Principe e diritto in un aureo di Ottaviano, in Athenaeum 96, 2008, pp. 5 ss. [ora anche con aggiornamenti in AA.VV., I tribunali dell’impero. Relazioni del Convegno internazionale di diritto romano (Copanello 7-10 giugno 2006), a cura di F. Milazzo, Milano 2015, pp. 41 ss.]; A. SUSPÈNE, Aspects numismatiques de la res publica restituta augustéenne, in AA.VV., Le principat d’Auguste. Réalités et représentations du pouvoir. Autour de la Res publica restituta. Actes du colloque de l’Université de Nantes 1er-2 juin 2007 (sous la direction de F. Hurlet et B. Mineo), Rennes 2009, pp. 145 ss.; F. COSTABILE, RG. 34.1: «[POT]IENS RE[RV]M OM[N]IVM», cit., pp. 269 ss.; ID., Caius Iulius Caesar, cit., pp. 100 ss. Dubita dell’autenticità il numismatico R. MARTINI, Note in calce ad una falsa emissione aurea di Octavianus recentemente apparsa sul mercato antiquario, in AnnNum 5, 1992, pp. 94 s., a cui ha replicato H.-M. KAENEL, Die Antike Numismatik und hir Material, in Schweizer Münzblätter 44, 1994, pp. 1 ss.; e ulteriore controreplica ancora di R. MARTINI, Nuova nota a conferma della falsità dell’“aureo” di Octavianus, in AnnNum 21, 1996, pp. 465 ss. 117 Cass. Dio 53.2.5: ™peid» te poll¦ p£nu kat£ te t¦j st£seij k¢n to‹j polšmoij, ¥llwj te kaˆ ™n tÍ toà 'Antwn…ou toà te Lep…dou sunarc…v, kaˆ ¢nÒmwj kaˆ ¢d…kwj ™tet£cei, p£nta aÙt¦ di' ˜nÕj progr£mmatoj katšlusen, Óron t¾n ›kthn aØtoà Øpate…an proqe…j. 118 Tac. ann. 3.28.2: Sexto demum consulatu Caesar Augustus, potentiae securus, quae triumviratu iusserat abolevit deditque iura, quis pace et principe uteremur. 119 Svet. Aug. 28.3: Quam voluntatem, cum prae se identidem ferret, quodam etiam edicto his verbis testatus […]. Sebbene nel frammento si parli esplicitamente di un edictum, bisogna ammettere che la genericità della testimonianza non assicura la certezza di essere un sicuro riferimento al provvedimento abrogativo delle disposizioni triumvirali illegali, sebbene sia assai probabile. Sul punto vedi pure D. WARDLE, Suetonius and Augustus’ «Programmatic Edict», in RhMfPh 148, 2005, p. 198 nt. 58.
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FIGURA 2. – Aureus augusteo del 28 a.C.
L’approccio della dottrina è stato quasi istintivamente quello di leggere l’aureus alla luce del transferre di Res Gestae 34.1, e conseguentemente intendere LEGES ET IURA P.R. RESTITUIT come restituzione, o riconsegna, dei poteri al popolo romano. In questo contesto più articolata è la lettura di Lucia Fanizza 120: slegando l’endiadi leges-iura, la studiosa individua in leges le «leggi pubbliche del popolo romano», mentre negli iura scorge i «diritti degli organi di governo tradizionali di esercitare liberamente le proprie prerogative»; in tal modo il provvedimento augusteo sarebbe stato diretto alla reintegrazione di comizi, magistrati, senato «nell’esercizio del ius comitiorum del ius honorum del ius senatorium che da sempre hanno contraddistinto il rispettivo modo d’essere nella comunità» 121. A questa chiave di lettura, che di per sé mal si concilia con gli ulteriori sviluppi genetici del regime augusteo, si è recentemente opposto Dario Mantovani 122. Riuscendo a confutare l’interpretazione di Rich e Williams attraverso un puntiglioso esame semantico e iconografico, fondato sulla comparazione con altri documenti della medesima tipologia e con le fonti di tradizione manoscritta, lo studioso ha esemplarmente dimostrato l’errore di leggere meccanicisticamente allo stesso modo testi diversi: nel nostro caso, l’aureus alla luce delle Res Gestae, peraltro senza alcuna sicurezza circa i fatti allusi.
120
L. FANIZZA, Autorità e diritto. L’esempio di Augusto, Roma 2004, pp. 93 ss.; cfr. P. BIANIura-leges. Un’apparente questione terminologica della tarda antichità. Storiografia e storia, Milano 2007, p. 8 nt. 11. 121 L. FANIZZA, Autorità e diritto, cit., pp. 94 s. 122 D. MANTOVANI, Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit, cit., pp. 5 ss. Cfr. J.-L. FERRARY, Res publica restituta et les pouvoirs d’Auguste, in AA.VV., Fondements et crises du pouvoir, Bordeaux 2003, pp. 419 ss.
CHI,
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Mantovani giunge così a una diversa interpretazione dopo aver enucleato i fondamentali nodi da sciogliere ovvero: 1) l’azione di Ottaviano; 2) l’oggetto dell’azione medesima. Circa il primo punto, ha ritenuto di sciogliere p.R. in genitivo piuttosto che in dativo: restituit (restituere) non significherebbe tanto riconsegnare qualcosa a qualcuno, ma rimettere in sesto, restaurare, riparare qualcosa, cioè la res publica. È evidente la differenza che corre tra il restituere dell’aureus e il transferre delle Res Gestae riferito alla res publica: nel secondo verbo è inequivocabile il senso di un passaggio del controllo dello Stato da entità a entità, e nei nuovi e vecchi meccanismi istituzionali forgiati dal secolo delle guerre civili i centri del potere appaiono essere la potestas magistratuale di Ottaviano e l’arbitrium tradizionale del senato e del popolo 123. Mantovani fa osservare come leges et iura non sia affatto locuzione interpretabile come ‘i poteri del popolo’, semmai come diritto oggettivo. Altrettanto simmetricamente nelle Res Gestae l’oggetto del transferre sono chiaramente i poteri repubblicani normalizzati. Pertanto l’aureus non è commemorazione della ‘restituzione dei poteri al popolo romano’ bensì del ‘ripristino del diritto del popolo romano’. L’interpretazione di Dario Mantovani è pertanto convincente e trova conferma in altre testimonianze, di cui mi è sufficiente ricordare quella velleiana, in cui lo storiografo in una sorta di crescendo elenca i passaggi della pacificazione augustea: Vell. hist. rom. 2.89.3: Finita vicesimo anno bella civilia, sepulta externa, revocata pax, sopitus ubique armorum furor, restituta vis legibus, iudiciis auctoritas, senatui maiestas, imperium magistratuum ad pristinum redactum modum, tantummodo octo praetoribus adlecti duo. Prisca illa et antiqua rei publicae forma revocata. Il richiamo della restitutio della vis delle leges è eloquente e del tutto coerente con i dati richiamati. Detto ciò, tuttavia a me pare che, al di là della disputa sull’esatta interpretazione dell’endiadi leges-iura, ciò che rende non accoglibile la tesi della ‘restituzione dei poteri’ propugnata da Rich e Williams è l’impossibilità di armonizzarla con il susseguirsi degli eventi e innanzitutto cioè con quella seduta senatoria che si sarebbe tenuta qualche tempo dopo (27 a.C.) e considerata dallo stesso autore delle Res Gestae un passaggio fondamentale: allora, nel 27 a.C. e non nel 28 a.C., Ottaviano avrebbe operato la riconsegna dello Stato a senato e assemblee popolari; se invece ciò fosse avvenuto già un anno prima, a seguito di quale atto di particolare potenza emblematica Ottaviano avrebbe ricevuto l’appellativo di Augustus? In altri termini quella tesi è da respingere non foss’altro perché presenterebbe il 28 a.C. come una mera duplicazione delle decisioni augustee del 27 a.C.
123
Cfr. D. MANTOVANI, Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit, cit., p. 32.
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Ma se quell’aureus del 28 a.C. fotografa e commemora qualcosa, bisogna necessariamente pensare a un atto di significato e portata diversa, e certamente ridotta, rispetto al rem publicam transferre, consistente appunto nell’abrogazione delle misure triumvirali e nel ripristino dell’ordinamento giuridico repubblicano, e ciononostante di rilevante valore politico e giuridico. In alternativa, se si volesse riferire restituere allo Stato, semmai, sarebbe un altro il significato del verbo, dovremmo cioè tradurre come ‘rimettere in piedi’ = ‘rimettere in piedi la repubblica’, senso come si vede ugualmente compatibile con p.R. sciolti al genitivo. Non bisogna pensare che si pecchi di stravagante astrattismo giacché, attraverso le modalità comunicative del tempo, un concetto simile lo troviamo figurativamente espresso nell’aureus di Lentulo del 12 a.C., in cui appare una res publica inginocchiata dinanzi ad Augusto fissato nell’atto di risollevarla 124. Il senso comune e ufficiale da costruire, nell’ottica augustea, è condensato in altri documenti lungo tre fili: la restitutio rei publicae, la pax, il principe auctor di un novus ordo. A seguito della restituzione della lacuna di un altro documento epigrafico, i Fasti Praenestini, nella parte relativa al conferimento ad Augusto della corona civica di quercia il 13 gennaio del 27 a.C., restituere sembra assumere il medesimo significato: Fast. Praen. (CIL I2.231 = InscrIt XIII.2): Corona querc[ea a senatu, uti super ianuam Imp. Caesaris] / Augusti poner[etur, decreta quod cives servavit, re publica] / p(opuli) R(omani) rest[itu]t[a] 125. Le motivazioni che giustificavano l’attribuzione della corona civica a un cittadino romano consistevano come è noto nel grande merito di aver agito nell’interesse generale e per la salus rei publicae. La res publica, prostrata, messa in ginocchio dalle guerre civili, veniva restituta, cioè rimessa gradualmente in piedi nelle sue strutture costituzionali portanti proprio da Augusto, cominciando dal ripristino delle funzionalità delle assemblee popolari: ormai i tempi erano maturi secondo Augusto. E lui potens, grazie alla sua potentia, rimetteva in piedi, faceva rialzare la res publica. Il secondo documento è la celeberrima Laudatio Turiae: Laudatio Turiae ll. 35-36 (FIRA III2, n. 69): Pacato orbe terrarum, res[titut]a republica quieta deinde n[obis et felicia] / tempora contigerunt. Fue[ru]nt optati liberi, quos aliqua[mdiu sors invi]/derat,
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C. VERMEULE, Un aureo augusteo del magistrato monetario Cossus Lentulus, in Numismatica 1, 1960, pp. 5 ss.; P. ZANKER, Augusto e il potere delle immagini, Torino 1987, p. 98 e fig. 74. Cfr. da ultima E. TODISCO, La res publica restituta e i Fasti Praenestini, in AA.VV., Epigrafia e territorio. Politica e società. Temi di antichità romane, VIII, Bari 2007, pp. 341 ss. 125 Vedi E. TODISCO, La res publica restituta, cit., p. 353.
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ove il motivo della pace collima con un passo delle Metamorfosi di Ovidio 126 a sua volta cerniera del terzo motivo dell’auctor del novus ordo delineato da un passo della biografia svetoniana. Il luogo di Svetonio, benché non riferibile con assoluta certezza al provvedimento del 28 a.C., è tuttavia utile perché traccia una rappresentazione dinamica, programmatica e per tappe della strategia di Augusto; leggiamolo: Svet. Aug. 28.1-4: De reddenda re publica bis cogitavit: primum post oppressum statim Antonium, memor obiectum sibi ab eo saepius, quasi per ipsum staret ne redderetur; ac rursus taedio diuturnae valitudinis, cum etiam, magistratibus ac senatu domum accitis, rationarium imperii tradidit. [2] Sed reputans et se privatum non sine periculo fore et illam plurium arbitrio temere committi, in retinenda perseveravit, dubium eventu meliore an voluntate. [3] Quam voluntatem, cum prae se identidem ferret, quodam etiam edicto his verbis testatus est: “Ita mihi salvam ac sospitem rem publicam sistere in sua sede liceat atque eius fructum percipere, quem peto, ut optimi status auctor dicar et moriens ut feram mecum spem, mansura in vestigio suo fundamenta rei publicae quae iecero”. [4] Fecitque ipse se compotem voti nisus omni modo, ne quem novi status paeniteret. Si tratta di un documento molto noto e giustamente importante, soprattutto per lo stralcio edittale ivi contenuto, e che pone una serie rilevante di questioni su cui ci soffermeremo diffusamente più avanti 127, ma che, insieme ai nuovi documenti di cui stiamo parlando, segna una distanza immensa dalle opinioni di quegli studiosi radicalmente avversi all’idea della restaurazione repubblicana 128. Non siano mancati anche di recente studiosi 129 pronti a individuare nell’edictum menzionato da Svetonio proprio quel provvedimento del 28 a.C. celebrato dall’aureus. Eppure, anche se così non fosse, la rilevanza del testo resterebbe indubbia: secondo Svetonio, che si lascia prendere la mano da una lettura introspettiva, in quegli anni Augusto era attraversato da un profondo travaglio interiore che in qualche misura lo aveva indotto alla prudenza politica, alla cautela
126 Ovid. meth. 15.831-836: Pace data terris omnium ad civilia vertet / iura ssum legesque feret iustissimus auctor, / exemploque suo mores reget inque futuri / temporis aetatem venturorumque nepotum / prospiciens prolem sancta de coniuge natam / ferre simul nomenque suu curasque iubebit. 127 Vedi infra CAPITOLO TERZO, § 5. 128 Si pensi a uno dei più irriducibili del secolo scorso come E. SCHÖNBAUER, Untersuchungen zum römischen Staats– und Wirtschaftsrecht. I. Wesen und Ursprung des römischen Prinzipats, in ZSS 47, 1927, pp. 290 ss.; mentre appena due anni dopo il saggio di SCHÖNBAUER, G. VON BESELER, Juristische Miniaturen, Leipzig 1929, p. 164, tornò a riavvicinarsi alla tesi della restitutio rei publicae. 129 E. TODISCO, Il nome Augustus, cit., pp. 454 ss. Cfr. pure E.A. JUDGE, Res Publica Restituta. A Modern Illusion?, in Polis and Imperium. Studies in Honour of Edward Togo Salmon, Toronto 1974, pp. 279 ss.; G. ZECCHINI, Il cognomen «Augustus», in Acta Classica 32, 1996, pp. 129 ss.
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nell’intraprendere strade di radicale innovazione. Occorreva evitare errori, bisognava scongiurare il rischio di sbagli come quelli commessi da Cesare, ma scegliere la strada da imboccare non era né scontato né semplice. Egli aveva in animo un ritorno alla legalità costituzionale repubblicana, anzi, scrive Svetonio, ben due volte ci pensò (de reddenda re publica bis cogitavit), ma lasciò che maturassero determinate condizioni politiche, che per quanto facili da intuire non ci è dato precisamente conoscere. Una volta assunta la decisione, questa si cominciò a tradurre concretamente in atti, e con il primo di essi, probabilmente proprio quell’imprecisato editto, Augusto lanciò verso l’opinione pubblica la formidabile e ossessiva campagna di propaganda 130 (che avrebbe accompagnato la sua vita politica sino alla morte) dell’avvio di una nuova fase culminante nella riconsegna della res publica ai suoi organi costituzionali (populus e senatus). Sappiamo da Ligorius, per averla lui letta, che nel Foro campeggiava un’iscrizione del 29 a.C.: CIL VI.873 (= ILS 81): Senatus Populusque Romanus Imp. Caesari Divi Iuli f(ilio), consuli quinct(o), co(n)s(uli) des(ignato) sext(o), imp(eratori) sept(imo), re publica conservata.
La restitutio era dunque gradual- FIGURA 3. – Aureus di Lentulo del 12 a.C. mente in corso e da lì a pochi mesi ci sarebbe stata la celeberrima seduta senatoria del 27 a.C., in cui dalla restitutio rei publicae si sarebbe passati alla translatio rem publicam al senato e al popolo, e ciò non in quanto prima impadronitosi illegalmente di essa, ma perché potens, cioè in quanto esercitante un potere smisurato e privo di argini istituzionali. L’immagine dell’aureus di Lentulo (figura 3) rappresenta l’eloquente paradigma iconografico della natura del rapporto ormai corrente tra lo Stato romano e il suo salvatore (servator) su cui sin dal 29 a.C. si costruiva il nuovo senso comune dell’opinione pubblica.
130 Sull’uso del termine, certamente moderno, relativo alle esperienze antiche e in a tal proposito alla comunicazione politica augustea spunti di letture innovative si traggono dai contributi pubblicati in AA.VV., Propaganda. Selbstdarstellung, Repräsentation im römischen Kaiserreich des I. Jhs. n. Chr. (a cura di G. Weber, M. Zimmermann), Stuttgart 2003, pp. 175 ss.
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Ottaviano, il futuro Augustus, auctor di un optimus status, prima ancora aveva cominciato a gettare i fundamenta rei publicae. Nel racconto svetoniano di quegli anni sta racchiusa una descrizione delle mosse precedenti al 27 a.C., prudenti ma abili, determinate ma rassicuranti, di Augusto e del suo entourage che avrebbero preparato il terreno per inoculare nel sistema politico e istituzionale romano quei germi che da lì a qualche decennio avrebbero traghettato lo Stato romano da una repubblica a un principato repubblicano. Infine, un’ultima osservazione che muove dalla conclusione del saggio di Mantovani, forse eccessiva nella lettura iconografica dell’aureus. Secondo Mantovani, nell’aureus apparirebbe un Ottaviano raffigurato «già in qualche modo come diritto vivente o, per lo meno, guardando al rotolo che impugna e allo scrinium appoggiato a terra che altri ne contiene», come colui che «ha in mano e ai suoi piedi tutto il diritto» 131. Lo studioso, in buona sostanza, vi scorge una rottura piuttosto che l’avvio di una normalizzazione repubblicana sulla base di due ordini di ragioni: primo, «che compaia un personaggio vivente»; e secondo «che non vi sia solo la sella curule, ma sia effigiato lo stesso magistrato assiso, mentre compie un atto giuridico» 132. A ben vedere però a questa lettura invero radicale rispetto al complesso delle informazioni possono opporsi diverse osservazioni: a) l’emissione monetale di Ottaviano che ritrae un personaggio politico vivente non costituisce certo il primo exemplum in materia; come lo stesso Mantovani riconosce, esistevano già dei precedenti di età repubblicana: la rottura del tabù di effigiare politici viventi si era consumata con Cesare e poi riproposta con i triumviri. In un interessante documento monetale, un bronzo del valore di tre assi coniato per la flotta di M. Antonio da Lucio Calpurnio Bibulo tra il 38 e il 37 a.C., sono ritratti i busti affiancati di Antonio e Ottaviano dinanzi a quello di Ottavia 133; b) è azzardato trarre conclusioni di stretto diritto dalle immagini monetali, alla cui efficacia di comunicazione, come si è recentemente avvertito 134, non sempre corrisponde rigore di contenuto; c) il rotolo impugnato da Ottaviano rappresenta le nuove misure legislative appena adottate, mentre lo scrinium in terra, che altri ne contiene, non sarebbe altro che la versione ottica della legenda sul verso;
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D. MANTOVANI, Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit, cit., p. 51. D. MANTOVANI, Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit, cit., p. 51. 133 Cfr. Roman Provincial Coinage, London-Paris 1992, nn. 1454, 1463, 4089; e di recente A.L. MORELLI, Madri di uomini e di dèi. La rappresentazione della maternità attraverso la documentazione numismatica di epoca romana, Bologna 2009, pp. 30 s. nt. 36. 134 R.P. DUNCAN-JONES, Implications of Roman Coinage: Debates and Differences, in Klio 87, 2005, pp. 459 ss. 132
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d) il tutto, invece, appare in piena coerenza con il Leitmotiv dell’obiettivo di ricostruzione anche mediante il rispristino della rilevanza della lex publica, e dunque delle funzioni costituzionali dei comitia, nel sistema delle fonti di produzione normativa e non soltanto per la sua affermazione autobiografica (RGDA 8.5: Legibus novi[s] m[e auctore l]atis m[ulta e]xempla maiorum exolescentia iam ex nostro [saecul]o red[uxi et ipse] multarum rer[um exe]mpla imitanda pos[teris tradidi]) 135, ma anche per quanto affermano gli autori antichi (Svet. Aug. 40.4: Comitiorum quoque pristinum ius reduxit; Ovid. meth. 15.831-836: Pace data terris animum ad civilia vertet iura suum, legesque feret iustissimus auctor) 136; e) non dimenticando che non siamo ancora nel 27 a.C., l’immagine di Ottaviano in veste magistratuale e con le relative insegne del potere consolare repubblicano è esattamente un fotogramma, se è lecita la metafora, del processo in corso di normalizzazione repubblicana, seppure una normalizzazione, è appena il caso di dirlo, come lui la intese e interpretò. Detto ciò, presentarsi sul recto di una moneta come detentore delle fonti di produzione del diritto non sarebbe stato un gravissimo errore di comunicazione da evitare proprio in quel delicatissimo momento di svolta? L’opinione pubblica non ne sarebbe stata confusa per l’assoluta discrasia con i motivi principali della sua propaganda in generale e con quella dell’editto del 28 a.C. in particolare, appunto tesa a trasmettere il rassicurante messaggio della ripristinata centralità della legislazione ordinaria stravolta da quella emergenziale del triumvirato? Possiamo non credere affatto alla storicità del celeberrimo dialogo dioneo tra Augusto, Agrippa e Mecenate 137 sulla forma di governo da scegliere; ma è altrettanto difficile credere che dopo tanto studio e attesa Augusto e i suoi uomini cadessero in un errore del genere. In ogni caso, rispetto a talune nostre moderne valutazioni di carattere politico, per le quali niente ci assicura possano corrispondere alla sensibilità degli antichi, si aggiungerebbe una diversa e assai più significativa considerazione sotto il profilo giuridico: l’idea che l’aureus ritraesse Augusto ormai come detentore del ius, lui quasi diritto vivente, con ai propri piedi l’ordinamento giuridico, per quanto altamente suggestiva non si armonizza affatto con il complesso di testimonianze relative al sistema delle fonti di produzione del diritto della fase augustea, al contrario in piena continuità con quello repubblicano e ancora lontano da quei mutamenti che si sarebbero sanciti assai più avanti nel II sec. d.C. con il principato di Adriano 138.
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Sul tema di recente T. SPAGNUOLO VIGORITA, Casta domus. Un seminario sulla legislazione matrimoniale augustea3, Napoli 2010, pp. 13 ss. 136 Su tutto ciò vedi infra § 10. 137 Cass. Dio 52.1-41. 138 Sul punto per tutti R. ORESTANO, Il potere normativo degli imperatori e le costituzioni imperiali. Contributo alla teoria delle fonti del diritto nel periodo romano classico, Roma 1937 (rist. To
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5. L’EDITTO DI PAEMEIOBRIGA Il quadro di ripristino e continuità, seppur per certi versi formale, degli schemi repubblicani innovato dalla posizione di charisma politico e personale di Augusto trova conferma in altri documenti. Uno di questi è la cosiddetta Tessera Paemeiobrigensis, ovvero l’Editto di Augusto alla gens di Paemeiobriga, il terzo nuovo documento che ha indotto a riflettere ancor più dei precedenti sulla posizione costituzionale di Augusto e sui suoi poteri. Si tratta in effetti di un documento eccezionale che conferma epigraficamente quanto le fonti di tradizione manoscritta attestano e che gli occhi dei moderni, offuscati dalla costruzione di sistemi e dalle temperie politiche dei loro tempi, non sono riusciti a leggere e a interpretare nella loro limpida sostanza:
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Imp(erator) Caesar divi fil(ius) Aug(ustus) trib(unicia) pot(estate) VIIII et proco(n)s(ul) dicit: Castellanos Paemeiobrigenses ex gente Susarrorum desciscentibus ceteris permanisse in officio cognovi ex omnibus legatis meis, qui Transdurianae provinciae praefuerunt, itaque eos universos immunitate perpetua dono; quosq(ue) agros et quibus finibus possederunt Lucio Sestio Quirinale leg(ato) meo eam provinciam optinente{m} eos agros sine controversia possidere iubeo.
rino 1962), pp. 12 ss. [= in ID., Scritti. I. Sezione prima – Saggistica, Napoli 1998, pp. 226 ss.]; N. PALAZZOLO, Processo civile e politica giudiziaria nel principato. Lezioni di diritto romano, Torino 1991, pp. 11 ss.; ID., Le fonti del diritto da Augusto a Traiano, in AA.VV., Storia giuridica di Roma. Principato e Dominato (sotto la dir. di N. Palazzolo), Perugia 1998, pp. 77 ss.; F. ARCARIA-O. LICANDRO, Diritto romano. I. Storia costituzionale di Roma, Torino 2014, pp. 302 ss. Ancora, di recente, G.D. MEROLA, Su Augusto e il potere normativo del princeps, in Scritti per A. Corbino (a cura di I. Piro), V, Tricase (LE) 2016, pp. 69 ss. Anche F. GRELLE, Il senatus consultum de Cn. Pisone Patre, in SDHI 66, 2000, p. 230, riconosce – sia pure con riferimento allo ius publicum – il primato della legge, non a caso punto centrale nella riflessione di Ateio Capitone definito il giuristaideologo del principato [il medesimo saggio appare in ID., Diritto e società nel mondo romano (a cura di L. Fanizza), Roma-Bari 2005, pp. 463 ss.]. Sulla questione, sia pure da prospettive diverse, vedi il saggio di L. PELLECCHI, ‘Quae triumviratu iusserat abolevit’. Gli esordi del potere normativo di Augusto in materia fiscale, in AA.VV., Il princeps romano: autocrate o magistrato? Fattori giuridici e fattori sociali del potere imperiale da Augusto a Commodo (a cura di J.-L. Ferrary, J. Scheid), Pavia 2015, pp. 431 ss.
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Castellanis Paemeiobrigensibus ex gente Susarrorum, quibus ante ea immunitatem omnium rerum dederam, eorum loco restituo castellanos Allobrigiaecinos ex gente Gigurrorum volente ipsa civitate, eosque castellanos Allobrigiaecinos omni munere fungi iubeo cum Susarris. Actum Narbone Martio, XVI et XV K(alendas) Martias, M(arco) Druso Libone Lucio Calpurnio Pisone co(n)s(ulibus).
Rinvenuto alla fine del 1999, nel Bierzo, angolo nord-occidentale della Spagna, il reperto oggi conservato presso il Museo di León consiste in una tavoletta bronzea integra e in eccellenti condizioni, contenente uno dei pochissimi esemplari di editti augustei, per i cui aspetti morfologici si rinvia agli studi apparsi 139, e che si aggiunge a quelli assai più rinomati e meglio studiati di Cire
139 Sugli Editti augustei ai Paemeiobrigenses e sui relativi molteplici aspetti giuridici si rinvia a: J.A. BALBOA DE PAZ, Un edicto del emperador Augusto hallado en el Bierzo, in Estudios Bercianos, 25 nov. 1999, pp. 45 ss.; G. ALFÖLDY, Das neue Edikt des Augustus aus El Bierzo in Hispanien, in ZPE 131, 2000, pp. 177 ss. [con qualche modifica nella trad. it. Il nuovo editto di Augusto da El Bierzo in Spagna, in Minima Epigraphica et Papyrologica 4, 2001, pp. 365 ss.]; F. COSTABILE-O. LICANDRO, Tessera Paemeiobrigensis. Un nuovo editto di Augusto dalla «Transduriana prouincia» e l’imperium proconsulare del princeps, Roma 2000; A. RASCÓN GARCÍA, Un edicto de Augusto concediendo la inmunidad a Paemeiobriga, in Labeo 46, 2000, pp. 7 ss.; A. RODGER, Attractio inversa in the Edict of Augustus from El Bierzo, in ZPE 133, 2000, pp. 266 ss.; A. RODRÍGUEZ COLMENERO, Un edicto de Augusto sobre tabula broncinea enviado a Susarros y Gigurros desde Narbona, de viaje hacia Hispania, in Cuadernos de Estudios Gallegos 47, 2000, pp. 9 ss.; ID., Un Edicto de Augusto sobre tabula de bronce. Nueva perspectiva histórica sobre la integración del noroeste hispaníco en los dominios romanos, in Epigraphica 52, 2000, pp. 29 ss.; F. COSTABILE, Addendum alla Tessera Paemeiobrigensis, in Minima Epigraphica et Papyrologica 4, 2001, pp. 419 ss.; L. GRAU LOBO-J.L. HOYAS DIEZ, El bronce de Bembibre. Un edicto del emperador Augusto del año 15 a.C., Valladolid 2001; A. GUARINO, Impuntature, in Trucioli di bottega 5, 2001, pp. 29 ss.; P. LE ROUX, L’Edictum de Paemeiobrigenibus. Un document fabriqué?, in Minima Epigraphica et Papyrologica 4, 2001, pp. 331 ss.; O. LICANDRO, Ancora sul proconsolato del principe alla luce della documentazione epigrafica, in Minima Epigraphica et Papyrologica 4, 2001, pp. 433 ss.; R. LÓPEZ-MELERO, Restituere y contribuere (?) en las disposiciones de la Tábula de El Bierzo, in ZPE 138, 2002, pp. 185 ss.; J.S. RICHARDSON, The New Augustan Edicts from Northwest Spain, in JRA 15, 2002, pp. 411 ss.; M.J. BRAVO BOSCH, La reorganización administrativa de Hispania con César y Augusto, in RIDA 55, 2008, pp. 107 ss.; EAD., La política de Augusto en relación con Gallaecia, in Studi per A. Corbino (a cura di I. Piro), I, Tricase (LE) 2016, pp. 333 ss.; F. COSTABILE, Tessera Paemeiobrigensis. Addendum al nuovo editto di Augusto dalla Spagna (con Ag
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ne (figure 4 e 5). Il contenuto del testo edittale in sé non riveste particolare importanza, trattandosi semplicemente della concessione dell’immunità tributaria ai Paemeiobrigenses, un gruppo appartenente alla tribus dei Susarri, per l’assoluta lealtà a Roma nel corso delle feroci campagne Cantabriche. Seppure sottovalutato dalla critica moderna 140, il reperto bronzeo contenente l’editto, o FIGURE 4 e 5. – Tessera Paemeiobrigensis e suo apografo
giornamento critico dello status quaestionis, di Stefania Romeo), in ID., Enigmi delle civiltà antiche dal Mediterraneo al Nilo. Atene La Magna Grecia L’Impero di Roma. II. L’Italia e le provinciae. Historia studiorum, Reggio Calabria 2008, pp. 519 ss. A cui bisogna aggiungere la lettura dei contributi contenuti nel volume El bronce de Bembibre. Un edicto del emperador Augusto, Valladolid 2001. 140 Ad esempio, T. SPAGNUOLO VIGORITA, La data della lex Iulia de adulteriis, in Iuris vincula. Studi in onore di M. Talamanca VIII, Napoli 2002, p. 86 nt. 23 considera «poco sorprendente» il titolo di proconsul.
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gli editti, come forse più correttamente sostiene Géza Alföldy, appare invece di straordinaria importanza per altri aspetti, a cominciare da ciò che leggiamo nella titolatura del princeps che permette di mettere meglio a fuoco il profilo istituzionale e i poteri di Augusto nel 15 a.C. Siamo ad appena otto anni dopo il celebre 23 a.C., considerato unanimemente uno degli anni decisivi dell’assestamento del principato, in cui ebbe luogo la riforma introduttiva dei pilastri fondamentali del potere imperiale: la tribunicia potestas e l’imperium proconsulare maius et infinitum.
6. L’IMPERIUM PROCONSULARE MAIUS ET INFINITUM O UN PROCONSOLATO ‘RAFFORZATO’? Prima di esaminare le novità dell’editto del Bierzo, occorre allora affrontare il nodo particolarmente dibattuto dell’imperium detenuto da Augusto e della sua natura. Abbiamo detto qualche pagina indietro che egli dal 27 a.C. tenne il consolato ininterrottamente sino al 23 a.C., e dunque, con una più rigorosa scansione, possiamo così riassumere i momenti politico-istituzionali. Alla fine del 28 a.C., poco prima dell’inizio del nuovo anno consolare, Augusto, già spogliatosi dei poteri speciali 141, ma in una condizione di potentia senza precedenti, teneva per sé soltanto il consolato, grazie alla reintroduzione del regime della lex Pompeia de provinciis del 52 a.C. relativo alle modalità di attribuzione dei governatorati, riconsegnando formalmente il potere decisionale al senato e ai comizi 142. In cambio gli veniva riconosciuto l’appellativo di Augustus e attribuito per dieci
141 Un profilo su cui è stato riaperto il dibattito riguarda il contenuto dell’editto del 28 a.C., cioè quali misure triunvirali furono effettivamente abolite, e su questo aspetto si scontrano le diverse opinioni di L. PELLECCHI, ‘Quae triumviratu iusserat abolevit’, cit., pp. 431 ss.; e di A. DALLA ROSA, L’aureus del 28 a.C. e i poteri triumvirali di Ottaviano, in AA.VV., Viri militares. Rappresentazione e propaganda tra Repubblica e Principato (a cura di T.M. Lucchelli, F. Rohr Vio), Trieste 2015, pp. 171 ss., su cui con maggior approfondimento torneremo infra nel CAPITOLO TERZO, § 5. 142 A. GIOVANNINI, Consulare imperium, Basel 1983, pp. 116 ss.; J.A. CROOK, Review of Giovannini, Consulare imperium, in JRS 76, 1986, pp. 288 ss.; K.M. GIRARDET, Die lex Iulia de provinciis. Vorgeschichte, Inhalt, Wirkungen, in RhMPhil 130, 1987, pp. 292 ss.; J.-L. FERRARY, À propos des pouvoirs d’Auguste, in Cahiers du Centre G. Glotz 12, 2001, pp. 106 s. [= A proposito dei poteri di Augusto, in ID., Dall’ordine repubblicano ai poteri di Augusto. Aspetti della legislazione romana, a cura di E. Stolfi, con una Introduzione di A. Schiavone, Roma 2016, pp. 100 s.]; A. DALLA ROSA, Ductu Auspicioque. Per una riflessione sui fondamenti religiosi del potere magistratuale sino all’epoca augustea, in SCO 49, 2003, pp. 216 ss.; F. HURLET, Le proconsul et le prince d’Auguste à Dioclètien, Bordeaux 2006, pp. 24 ss.; L. GAGLIARDI, Cesare, Pompeo e la lotta per le magistrature: anni 52-50 a.C., Milano 2011, pp. 89 ss.
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anni (ma verosimile è che il periodo sia stato un quinquennio) 143 il governo delle Spagne, Gallie, Germanie, Siria, Cilicia, Cipro ed Egitto 144. Tale provincia consolare, approvata a seguito di senatoconsulti e di una legge comiziale, aveva naturalmente uno statuto che contemplava durata e contenuti diversi da quelle solitamente assegnate, tanto da giustificare l’esercizio del relativo imperium in qualità di ‘consul sive proconsul’ 145. Questo assetto assai ben documentato ancora una volta dissolve ogni dubbio sulla chiarezza, persino banale, di RGDA 34.3, in cui Augusto afferma di essere stato titolare di una potestas pari a quella di coloro che gli furono colleghi nella magistratura, cioè i colleghi nel consolato 146. Nonostante si sia caduti in un’insanabile contraddizione o in una palese forzatura nella ricostruzione istituzionale (tale è dapprima affermare che il princeps era figura del tutto estranea agli schemi repubblicani e poi invece cercare di fargli indossare vesti analoghe a quelle di una nuova magistratura di stampo repubblicano) 147, la giusta chiave interpretativa era sotto gli occhi di tutti: il consolato. Con la carica consolare, Augusto esercitava un imperium consulare potenzialmente maius e infinitum rispetto ad altri imperia (proconsolari) sulla base delle antiche prerogative consolari e comprensivo anche del governo delle province assegnategli. Questa idea, tutt’altro che azzardata, si fonda su limpidi dati testuali a partire da quelli offerti da Cicerone 148 in merito al tema fondamentale della natura dei poteri augustei e
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Cass. Dio 53.13.1. Cass. Dio 53.12.7. 145 Per tutti V. MAROTTA, Esercizio e trasmissione del potere imperiale, cit., pp. 20 ss. 146 Nonostante si siano versati fiumi d’incostro per intendere quella chiusa finale e la magistratura a cui si riferisse, sino a forzature eccessive come quella di F. HURLET, Les collègues du prince, cit., praecipue pp. 343 ss., che vi legge un riferimento a un collegio costituito dal princeps e dai correggenti. Improprio appare poi il riferimento ai proconsoli avanzato da M. PANI, L’imperium, cit., p. 257. Vedi sul punto anche A. DALLA ROSA, L’autocrate e il magistrato, cit., pp. 555 ss. 147 Un quadro critico esauriente dei diversi punti di vista in J.-L. FERRARY, À propos des pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 101 ss. 148 Cic. ad Att. 8.15.3: Quod videris non dubitare, si consules transeant, quid nos facere oporteat, certe transeunt vel, quo modo nunc est, transierunt. Sed memento praeter Appium neminem esse fere qui non ius habeat transeundi; nam aut cum imperio sunt, ut Pompeius, ut Scipio, Sufenas, Fannius, Voconius, Sestius, ipsi consules, quibus more maiorum concessum est vel omnis adire provincias, aut legati sunt eorum; phil. 4.4.9: Deinceps laudatur provincia Gallia meritoque ornatur verbis amplissimis ab senatu quod resistat Antonio. Quem si consulem illa provincia putaret neque eum reciperet, magno scelere se astringeret: omnes enim in consulis iure et imperio debent esse provinciae. Negat hoc D. Brutus imperator consul designatus […]; de leg. 3.3.8: Regio imperio duo sunto, iique a preeundo, iudicando, consulendo, praetores, iudices, consules appellanimo; militiae summum ius habento, nemini parento; ollis salus populi suprema lex esto; de leg. 3.7.16: Quare nec ephori Lacedaemone sine causa a Theopompo oppositi regibus nec aput nos consulibus tribuni.Nam illud quidem 144
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della gerarchia degli imperia tardorepubblicani. La questione è sicuramente così complessa da aver suscitato un dibattito secolare da Mommsen in avanti, su cui per farsene un’idea basterebbe sfogliare le pagine della Storia della costituzione romana di Francesco De Martino 149, ove si assumono come principali testimonianze di partenza i due celeberrimi frammenti di Cassio Dione, il primo relativo al conferimento dei poteri del 27 a.C.: Cass. Dio 53.12.1-2: t¾n m n oân ¹gemon…an toÚtJ trÒpJ par¦ tÁj gerous…aj toà te d»mou ™bebaièsato, boulhqeˆj d d¾ kaˆ ìj dhmotikÒj tij e nai dÒxai, t¾ m n front…da t¾n te prostas…an tîn koinîn p©san kaˆ ™pimele…aj tinÕj deomšnwn Øpedšxato, oÜte d p£ntwn aÙtÕj tîn ™qnîn ¢rxein, oÜq' Óswn ¨rxV, di¦ pantÕj poi»sein œfh, [2] ¢ll¦ t¦ m n ¢sqenšstera æj kaˆ e„rhna‹a kaˆ ¢pÒlema ¢pšdwke tÍ boulÍ, t¦ d' „scurÒtera æj kaˆ sfaler¦ kaˆ ™pik…nduna kaˆ ½toi polem…ouj tin¦j proso…kouj œconta À kaˆ aÙt¦ kaq' ˜aut¦ mšga ti newter…sai dun£mena katšsce; e il secondo invece relativo al nuovo equilibrio sancito nel 23 a.C.: Cass. Dio 53.32.5: kaˆ di¦ taàq' ¹ gerous…a d»marcÒn te aÙtÕn di¦ b…ou e nai ™yhf…sato, kaˆ crhmat…zein, aÙtù perˆ ˜nÒj tinoj Ópou ¨n ™qel»sV kaq' ˜k£sthn boul»n, k¨n m¾ ØpateÚV, œdwke, t»n te ¢rc¾n t»n ¢nqÚpaton ™saeˆ kaq£pax œxein éste m»te ™n tÍ ™sÒdJ tÍ e‡sw toà pwmhr…ou katat…qesqai aÙt¾n m»t' aâqij ¢naneoàsqai, kaˆ ™n tù ØphkJ tÕ ple‹on tîn ˜kastacÒqi ¢rcÒntwn „scÚein ™pštreyen. La recente e intensa stagione di studi dedicati alla genesi del principato augusteo ha prodotto studi pregevoli e autorevoli – tra tutti quelli di Giovannini 150,
ipsum, quod in iure positum est, habet consul, ut ei reliqui magistratus omnes pareant excepto tribuno, qui post exstitit, ne id, quod fuerat, esset. Cfr. Cic. phil. 3.5.12; phil. 5.13.7; phil. 6.3.8; ad fam. 6.6.10. Sulla questione vedi F. DE MARTINO; Storia della costituzione romana, cit., IV.1, pp. 126 ss.; P. DE FRANCISCI, Preannunci del Principato, cit., pp. 31 ss.; J.-L. FERRARY, À propos des pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 101 ss. 149 F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., IV.1, pp. 123 ss. Già O.TH. SCHULZ, Das Wesen des römischen Kaisertums der ersten zwei Jahrhunderte, Paderbon 1916, pp. 17 ss., oltre alla rimessione della res publica all’arbitrium del senato e del popolo e alla conseguente concessione ad Augusto degli ampi poteri a seguito di deliberazioni senatoria e comiziale, aveva sottolineato l’errore di chi ha visto cumulare il potere proconsolare con quello consolare, trattandosi invece soltanto della restaurazione del secondo nella sua antica e illimitata estensione. Schulz, tuttavia, incontrò subito la dura confutazione di P. DE FRANCISCI, La costituzione Augustea, in Studi in onore di P. Bonfante nel XL anno d’insegnamento, I, Milano 1930, pp. 23 ss. 150
A. GIOVANNINI, Consulare imperium, cit., passim.
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Girardet 151, Bleicken 152, Ferrary 153, Roddaz 154, Hurlet 155, Pani 156, Dalla Rosa 157, Vervaet 158 – accomunati dal medesimo angolo di visuale del tema dell’imperium di Augusto nei suoi molteplici profili. Sono così affiorate sostanzialmente due questioni principali strettamente connesse: la natura dell’imperium e l’intensità e il grado dello stesso. Dai risultati più affidanti a cui si è pervenuti deriverebbe un’attendibile ricostruzione della fisionomia e del contenuto di un imperium maius imperiale nell’ambito di una ipotetica gerarchia di imperia. Cominciamo allora dal primo profilo, quello della natura dell’imperium augusteo, tema su cui hanno lasciato il segno le recenti rigorose ricerche di Jean-Louis Ferrary 159. Esaminando con estrema cura la documentazione esistente, e prendendo le mosse dalle ormai lontane ricerche di McFayden 160, lo studioso francese è giunto a una ricostruzione coerente, ancorché dai contorni non del tutto definiti, ma certamente assai più convincente di quelle sinora stratificatesi. Rinunziando a seguire gli autorevoli e ostinati convincimenti, per esempio, di
151 K.M. GIRARDET, Die Entmachtung des Konsulates im Übergang von der Republik zur Monarchie und die Rechtsgrundlagen des augusteischen Prinzipats, in Pratum Saraviense. Festschrift für P. Steimetz, Stuttgart 1990, pp. 89 ss.; ID., Zur Diskussion um das imperium consulare militiae im 1. Jh. v. Chr., in Cahiers du Centre G. Glotz 3, 1992, pp. 202 ss.; ID., Imperium ‘maius’. Politische und Verfassungsrechtliche Aspekte. Versuch einer Klärung, in AA.VV., La révolution romaine après Ronald Syme. Bilans et perspectives, Vandoeuvres-Genéve, sept. 1999 (a cura di A. Giovannini), Genéve 2000, pp. 167 ss.; ID., Imperia und provinciae des Pompeius 82 bis 48 v. Chr., in Chiron 31, 2001, pp. 153 ss. 152 J. BLEICKEN, Imperium consulare/proconsulare im Übergang von der Republik zum Principat, in Colloquium aus Anloss des 80. Geburstages von A. Heuss (a cura di J. Bleicken), Kallmünz 1993, pp. 117 ss. 153
J.-L. FERRARY, À propos des pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 101 ss. J.-M. RODDAZ, Imperium: nature et compétence à la fin de la République et au début de l’Empire, in Cahiers du Centre G. Glotz 3, 1992, pp. 189 ss. 155 F. HURLET, Les collègues du prince, cit., pp. 279 ss. 156 M. PANI, L’imperium di Tiberio principe, cit., pp. 253 ss.; ID., L’imperium del Principe, in AA.VV., La Lex de Imperio Vespasiani e la Roma dei Flavi. Atti del Convegno, Roma 20-22 novembre 2008 (a cura di L. Capogrossi Colognesi ed E. Tassi Scandone), Roma 2009, pp. 187 ss. 154
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A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., pp. 111 ss. F.J. VERVAET, The High Command in the Roman Republic. The Principle of the summum imperium auspiciumque from 509 to 19 BCE, Stuttgart 2014, pp. 239 ss. 159 Vedi note precedenti. 160 D. MCFAYDEN, The Princeps and the Senatorial Provinces, in CPh 16, 1921, pp. 34 ss.; ID., The Newly Discovered Cyrenaean Inscription and the Alleged Imperium Maius Proconsulare of Augustus, in CPh 23, 1928, pp. 388 ss. 158
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Mommsen 161, Kolbe 162, von Premerstein 163 e Riccobono jr. 164, persuasi di trovare nelle fonti la prova del conferimento di un imperium proconsulare, e rinunciando alle relative ‘acrobazie’ per dimostrare la compatibilità di un cumulo di un imperium decennale proconsolare (o di un ‘namenlose imperium’) 165 con l’imperium consolare annuale, affiora nettamente la causa dell’equivoco. La necessità per Augusto di un imperium militiae (proconsulare o meno) era una via obbligata per chi partiva da un preciso presupposto – punto di maggior debolezza della visione mommseniana – di una fittizia distinzione tra un consulare imperium domi e un proconsulare imperium militiae introdotta da una presunta riforma sillana che ridusse alla sfera civile i poteri dei consoli ma della cui storicità non si hanno dati inconfutabili 166. Malgrado fosse stata contestata immediatamente, nel 1888, da Kromayer 167 e da Pelham 168, sebbene da altri ancora fossero già state sollevate serie perplessità sull’esistenza di tale lex Cornelia 169, e nonostante di continuo si infoltisse autorevolmente la schiera dei dubbiosi 170, la tesi di Mommsen restò in campo. Eppure, lo stato delle fonti era tale da permettere una ricostruzione alternativa sufficientemente attendibile, coerente, della posizione costituzionale di Augusto dal 28 a.C. in avanti: egli era console e di conseguenza detentore di un imperium che, in quanto appunto consolare, era
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TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht3, II, Leipzig 1887-1888, pp. 845 ss. H.G. KOLBE, Von der Republik zur Monarchie, in AA.VV., Aus Roms Zeitwende. Von Wesen und Wirken des Augusteischen Geistes, Leipzig 1931, pp. 39 ss. 163 A. VON PREMERSTEIN, Vom Werden, cit., pp. 225 ss. 164 S. RICCOBONO JR., Augusto ed il problema della nuova Costituzione, in AUPA 15, 1936, pp. 363 ss.; anche ID., L’opera di Augusto e lo sviluppo del diritto imperiale, in AUPA 18, 1939, pp. 1 ss., peraltro pensa a un imperium spettante a un «proconsole universale» il cui statuto fu da un senatus consultum de imperio seguito da una lex de imperio, forse un plebiscito. Cfr. E. BETTI, Il carattere giuridico del Principato Augusteo, Città di Castello 1915, p. 33. 165 Così H. SIBER, Zur Entwicklung der römischen Prinzipatverfassung, Leipzig 1933, p. 9. 166 TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, cit., II, pp. 840 ss. 167 J. KROMAYER, Die rechtliche Begründung des Principats, Marburg 1888, pp. 32 ss. 168 H.F. PELHAM, The Imperium of Augustus and His Successors, in JPh 17, 1888, pp. 31 ss. [= in ID., Essays on Roman History, Oxford 1911, pp. 60 ss.]. 169 A.W. ZUMPT, Das Criminalrecht der Römischen Republik, II.1, Berlin 1865-1869, pp. 385, 440; P.G.H. WILLEMS, Le Sénat de la République romaine: sa composition et ses attributions, II, Louvain 1878-1883, p. 579. 170 Cfr., per esempio, E.G. HARDY, Imperium Consulare and Proconsulare, in JPh 21, 1893, pp. 59 s.; M.A. ARNOLD, The Roman System of Provincial Administration3, Oxford 1914, p. 51 nt. 1; A.E.R. BOAK, The Extraordinary Commands from 80 to 48 B.C., in AHR 24, 1918, p. 10; J.P.V.D. BALSDON, Consular Provinces under the Late Republic. I. General Considerations, in JRS 29, 1939, pp. 58 ss.; E. BADIAN, The Young Betti and the Practice of History, in AA.VV., Costituzione romana e crisi della repubblica. Atti del Convegno su Emilio Betti (a cura di G. Crifò), Napoli 1986, pp. 81 ss.; T.C. BRENNAN, The Praetorship in the Roman Republic, Oxford 2000, p. 396. 162
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illimitato tanto da consentirgli un’indiscussa superiorità sui promagistrati. Una conclusione a cui però, è opportuno ricordarlo, erano già pervenuti gli studi di Francesco De Martino e dei sostenitori della visione continuista del regime augusteo con la repubblica 171. Alcuni noti documenti epigrafici sono di una tale rilevanza da far apparire davvero singolari i tentativi esegetici di ridurne la portata. Prendiamo, ad esempio, l’iscrizione leidense, conservata nel Rijksmuseum, di Kyme 172. Essa riproduce gli atti relativi alla restituzione di un tempio di Dioniso, finito in mani private, al culto della città e costituisce un solido sostegno perché, qualunque sia la natura giuridica che si intende riconoscere all’atto (edictum, decretum, lex data, senatus consultum) assunto da Augusto e Agrippa consoli nel 27 a.C. da Roma per una provincia (quella d’Asia) attribuita a un proconsole (L. Vinicio), ciò che viene in considerazione è l’imperium consolare di Augusto dalla portata potenzialmente illimitata 173, e non certo un imperium proconsulare 174. Anzi può aggiungersi, a rafforzare ulteriormente il ragionamento, quanto più complessivamente ci dice il dossier, per fortuna composto non solo dall’ordinanza consolare ma anche da una lettera del proconsole, sul rapporto intercorrente sin dal 27 a.C. del neo Augustus con i proconsoli 175: SEG XVIII.555: [A]Ùtokr£twr ka‹sar qeoà uƒÕj SebastÕ[j tÕ ›bdomon], | [M]©rkoj 'Agr…paj Leuk…ou uƒÕj Ûpatoi e[ pon] | tinej dhmÒsioi tÒpoi À
171 F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., IV.1, pp. 146 ss.; cfr. H. LAST, Imperium Maius. A Note, in JRS 37, 1947, pp. 157 ss. 172 Pubblicata da H.W. PLEKET, The Greek Inscriptions in the ‘Rijksmuseum van Oudheden’ at Leyden, Leiden 1958, pp. 49 ss., n. 57; K.M.T. ATKINSON, Restitutio in integrum and iussum Augusti Caesaris in an Inscription from Leyden, in RIDA 7, 1960, pp. 228 ss.; V. ARANGIO-RUIZ, Testi e documenti. VI: L’iscrizione leidense di Augusto, in BIDR 64, 1961, pp. 323 ss. [= ID., in Studi epigrafici e papirologici (a cura di L. Bove), Napoli 1974, pp. 629 ss.]; W. KUNKEL, Über die Leidener Augustus-Inschrift aus Kymè, in Studi in onore di Emilio Betti, II, Milano 1962, pp. 593 ss.; J.H. OLIVER, The Main Problem of the Augustus Inscription from Cyme, in GRBS 4, 1963, pp. 115 ss.; R.K. SHERK, Roman Documents from the Greek East. Senatus Consulta and Epistulae to the Age of Augustus, Baltimore 1969, pp. 317 ss.; N. CHARBONNEL, À propos de l’inscription de Kymè et des pouvoirs d’Auguste dans les provinces au lendemain du règlement de 27 av. n. è., in RIDA 26, 1979, pp. 177 ss.; A. GIOVANNINI, Les pouvoirs d’Auguste de 27 à 23 av. J.-C. Une relecture de l’ordonnance de Kymè de l’an 27 (IK 5 n° 17), in ZPE 124, 1994, pp. 95 ss.; J.-L. FERRARY, À propos des pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 133 ss.; F. HURLET, Le proconsul et le prince, cit., p. 207 nt. 34; Riesame in A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., pp. 121 ss. 173 Cic. phil. 4.4.9: […] omnes enim in consulis iure et imperio debent esse provinciae. 174 Per A. DALLA ROSA, Ductu Auspicioque, cit., pp. 223 ss., la subordinazione degli auspici di un proconsole a quelli del princeps derivava soltanto da una specifica deliberazione senatoria e all’invio di governatori extra sortem. 175 Seguo l’edizione Pleket 1958, a eccezione dell’integrazione e[ pon] alla linea 2.
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ƒeroˆ ™n pÒles[in ™n cèrv] | [p]Òlewj ˜k£sthj ™parce…aj e„sˆn e‡te ti[na ¢naq»] |mata toÚtwn tîn tÒpwn e„sˆn œsonta… t[e, mhdeˆj] | [t]aàta a„rštw med ¢gorazštw med ¢po [mhdenÕj] | dîron lambanštw. Ö ¨n ™ke‹qen ¢penh[negmšnon À] | [º]gorasmšnon œn te dèrJ dedomšnon Ï, [Öj ¨n ™pˆ tÁj] | [™]parce…aj Ï, ¢pokatastaqÁnai e„j tÕn dhm[Òsion tÒpon] | À ƒerÕn tÁj pÒlewj frontizštw: kaˆ Ö ¨n crÁ[ma aÙt…ka ¢] | [po]doqÍ, toàto m¾ dikaiodote…twi. | [L.] Vinicius proc(onsul) s(alutem) d(icit) mag(istratibus) Cumas. Apollonides L. f. No[race(us)] | [c(ivis) v(ester)] me adeit et demostravit Liberei Patris fanum nom[en] | [ven]ditiones possiderei ab Lusia Diogenis f. Tucalleus c(ive) [v(estro)] | [et c]um vellent thiaseitae sacra deo restituere iussu Au|[gus]ti Caesaris pretio soluto quod est inscreiptum fano, | [prohi(?)]berei ab Lusia. E(go) v(olo) v(os) c(urare), sei ea ita sunt, utei Lusias quod | [est] positum pretium fano recipiat et restituat deo fa|[num e]t in eo inscreibatur: «Imp(erator) Caesar deivei f. Augustu[s] re[sti]|[tuit.» sei] autem Lusia contradeicit quae Apollonides pos[cit] | [esse vadi]monium, ei satisdato, ubi ego ero. Lusiam prom[ere(?)]| [magi]s probo. ™pˆ prut£newj Fan…tou: | [leÚkioj] OÙin…kioj ca…rein lšgei ¥rcousi Kuma…wn: 'A[pol] | [lwn…d]hj Leuk…ou Nwrake‹oj pole…thj ØmšterÒ[j moi] | [prosÁl]qen kaˆ Øpšdeixen DionÚsou ƒeron Ônom[a] | [pr£seij k]atšcesqai ØpÕ Lus…ou toà Diogšnouj [Tukal] | [lšwj pole…tou Ømetšro]u, kaˆ Óte ºboÚ[lonto oƒ qiase‹] | [tai – – – Si tratta di un punto tutt’altro che secondario, perché è vero che il proconsole Vinicio, scrivendo ai magistrati della città sollecitati da un privato, nell’omettere ogni riferimento ad Agrippa sembrerebbe far intendere che l’atto fosse uno iussum Augusti; ma è pure chiaro come tale iussum invece emanasse dai due consoli in carica e non dal solo princeps 176, la cui forza condizionante sul proconsole si fondava più che su di un rapporto gerarchico tra i rispettivi imperia, sul carattere illimitato dell’imperium consulare e sull’influenza dell’auctoritas, ormai formalizzata dal senato, in capo ad Augusto. E da qui passiamo alla seconda questione più ampia riguardante, come si diceva prima, l’esistenza o meno di una gerarchia tra gli imperia, una gerarchia sorta e istituzionalizzatasi già nell’età tardorepubblicana. Sulla base di alcuni più recenti rinvenimenti, dalla Laudatio funebris di Agrippa 177 al senatus consultum
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A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., p. 125.
L. KOENEN, Die «Laudatio funebris» des Augustus für Agrippa auf einem neuen Papyrus (P. Colon. inv. nr. 4701; vgl. Taf. VIIIa), in ZPE 5, 1970, pp. 217 ss.; ID., Summum fastigium. Zur der Laudatio funebris des Augustus, in ZPE 6, 1970, pp. 239 ss.; E.W. GRAY, The Imperium of M. Agrippa. A Note on P. Colon. inv. nr. 4701, in ZPE 6, 1970, pp. 227 ss.; E. MALCOVATI, Il nuovo frammento augusteo della ‘Laudatio Agrippae’, in Athenaeum 60, 1972, pp. 142 ss.; M.W. HASLAM, Augustus’ Funeral Oration for Agrippa, in CJ 75, 1980, pp. 191 ss.; E. BADIAN, Notes on the ‘Lau
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de Cn. Pisone patre 178, oggi tendenzialmente si ritiene che tale gerarchia (imperium maius, aequum, ecc.) si sia affermata non tanto con Augusto ma con i suoi successori. Su questa linea negli ultimi anni hanno insistito più di altri studiosi, come Giovannini 179 e Girardet 180, tendenti ad escludere tout court l’esistenza di un imperium maius, essendo quello consulare un imperium non subalterno ad altri; mentre Pani 181 ha riconosciuto un processo di strutturazione di una gerarchia di imperia soltanto da Tiberio in avanti. Secondo quest’ultimo studioso, i principes (Augusto, come più tardi il suo successore Tiberio) ebbero un imperium nudo e totale 182, cioè sostanzialmente privo di una sua provincia. Per quanto attraente e suggestiva la tesi dell’imperium nudo e totale è talmente astratta da apparire davvero estranea alle concezioni dei poteri pubblici romani mentre richiederebbe una compiuta elaborazione e una piena sistemazione della carica di princeps, processi invero smentiti da tutte le fonti almeno per l’età augustea. Ad ampliare ancor più lo spettro delle diverse ricostruzioni, sempre in tempi recentissimi, Frederik J. Vervaet ha ridato smalto all’idea della pari intensità dell’imperium 183 di consoli e proconsoli (titolari dunque di imperia aequa), con al
datio’ of Agrippa, in CJ 76, 1980, pp. 95 ss.; R.K. SHERK, The Last Two Lines of the ‘Laudatio Funebris’for Agrippa, in ZPE 41, 1981, pp. 67 ss.; M. GRONEWALD, Ein neus Fragment der Laudatio funebris des Augustus auf Agrippa, in ZPE 52, 1983, pp. 61 s.; ID., Laudatio Funebris des Augustus auf Agrippa, in Kölner Papyri, Wiesbaden 1987, pp. 113 ss. (n. 249); A. FRASCHETTI, Augusto e la ‘laudatio’ di Agrippa, in Bimillenario di Agrippa, Giornate filologiche genovesi, Genova 20-21 febbraio 1989, Genova 1990, pp. 83 ss.; ID., Roma e il principe, Roma-Bari 1990, pp. 286 ss.; W. AMELING, Augustus und Agrippa zu PKöln VI 249, in Chiron 24, 1994, pp. 1 ss.; F. HURLET, Les collègues du prince, cit., pp. 42 ss.; J. ARCE, Memoria de los antepasados. Puesta en escena y desarrollo del elogio fúnebre romano, Madrid 2000, praecipue pp. 133 ss. 178 A. CABALLOS-W. ECK-F. FERNÁNDEZ, El Senadoconsulto de Gneo Pisón Padre, Sevilla 1996 [= A. CABALLOS-W. ECK-F. FERNÁNDEZ, Das «senatus consultum de Cneo Pisone patre», München 1997]; T.D. BARNES, Tacitus and the senatus consultum de Cn. Pisone patre, in Phoenix 52, 1998, pp. 125 ss.; D.S. POTTER, Senatus consultum de Cn. Pisone, in JRA 11, 1998, pp. 437 ss.; W.D. LEBEK, Das Senatus consultum de Cn. Pisone patre und Tacitus, in ZPE 128, 1999, pp. 183 ss.; F. GRELLE, Il senatus consultum de Cn. Pisone Patre, cit., pp. 223 ss. [= in ID., Diritto e società nel mondo romano (a cura di L. Fanizza), Roma-Bari 2005, pp. 463 ss.]; W. ECK, Das S.c. de Cn. Pisone patre. Ein Vorbericht, in AA.VV., La commemorazione di Germanico nella documentazione epigrafica. Tabula Hebana e Tabula Siarensis. Convegno Internazionale di Studi, Cassino 21-24 ottobre 1991 (a cura di A. Fraschetti), Roma 2000, Roma 2000, pp. 9 ss. 179 A. GIOVANNINI, Consulare imperium, cit., passim; ID., Les pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 95 ss. 180 K.M. GIRARDET, Die Entmachtung des Konsulates, cit., pp. 89 ss.; ID., Zur Diskussion, cit., pp. 202 ss.; ID., Imperium ‘maius’, cit., pp. 167 ss.; ID., Imperia und provinciae, cit., pp. 153 ss. 181 M. PANI, L’imperium di Tiberio principe, cit., pp. 253 ss.; ID., L’imperium del Principe, cit., pp. 187 ss. 182 183
M. PANI, L’imperium di Tiberio principe, cit., p. 261. F.J. VERVAET, The High Command, cit., passim.
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cuni distinguo rispetto alla visione mommseniana 184. Ma alcuni documenti epigrafici, a cominciare dalla Laudatio funebris di M. Vipsanio Agrippa, non offrirebbero quei forti appigli necessari che vi si vuole scorgere. L’utilizzazione dell’affermazione secondo cui Agrippa, in qualsiasi provincia gli affari dell’impero lo avessero condotto, non avrebbe incontrato un imperium superiore al suo, per argomentare che quello del proconsul era dunque aequum non ha alcuna forza di persuasione. Leggiamo il passaggio saliente del papiro del Fayoum contenente una traduzione greca del discorso pronunciato in latino da Augusto: P. Köln VI.249 linn. 7-11 [ed. Gronewald 1983]: ka… e„j {j} §j d»p|ote se Øparce…aj t¦ koin¦ tîn `Rw|ma…wn ™fšlkoito, mhqenÒj ™n ™|ke…naij ™xous…an me…zw tÁj sÁj ™n | nÒmwi ™kurèqh. L’ambiguità del testo è palese e al più non può trarsi una precisa indicazione né a favore della tesi di un imperium aequum né a favore di quella di un imperium maius, perché il riferimento a un potere non inferiore lascia infatti del tutto impregiudicato il riferirsi sia a un’autorità superiore sia a una pari. Tant’è che l’interpretazione di Jean-Louis Ferrary si è profilata proprio lungo questa linea: secondo lo studioso francese, l’ambiguità delle parole augustee si scioglie soltanto intendendole come riferite a tutti i comandi proconsolari di Agrippa, fossero condotti con imperium maius o aequum 185. E, in ogni caso, anche a voler propendere per la soluzione dell’imperium aequum, si finirebbe soltanto per spostare il problema: dovendo Agrippa compiere la missione di riordinamento dell’assetto di una serie di province, in caso di conflitto chi avrebbe avuto la meglio, Agrippa o il proconsul? La risposta è evidente e sta appunto nella ratio stessa della missione affidata ad Agrippa di riassetto di quelle province orientali. Se poi non dimenticassimo la natura del documento contenuto dal papiro, cioè un’orazione funebre dello stesso Augusto, con il fine proprio della celebrazione del defunto, non avremmo dubbi nell’intendere ™xous…an me…zw, locuzione che esprimererebbe forse molto più banalmente la retorica esaltazione di Agrippa titolare di un imperium di intensità pari a quello del principe stesso e perciò maius rispetto a quello dei governatori provinciali. Diversa invece l’opinione di Ferrary 186, più propenso ad ammettere una gerarchia tra imperia ma soltanto a partire dal 23 a.C., cioè dal momento in cui Augusto si fece assegnare la missione ad ordinandum statum provinciarum per le
184 Su cui vedi le osservazioni di A. GIOVANNINI, Consuls et proconsuls. À propos d’un ouvrage recent sur les pouvoirs militaires des consuls, in Athenaeum 105, 2017, pp. 250 ss. 185 J.-L. FERRARY, À propos des pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 138 ss. 186 J.-L. FERRARY, À propos des pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 101 ss.; ID., Res publica restituta, cit., pp. 419 ss. Cfr. F.J. VERVAET, The Secret History: the Official Position of Imperator Caesar Divi Filius from 31 to 27 BCE, in Ancient Society 40, 2010, pp. 79 ss.
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regioni orientali. Fu in quegli anni, nel tempo della permanenza del princeps in quelle province che, a detta di Ferrary, si inoculò il germe della gerarchia tra imperia. Questo spettro di tesi si arricchisce poi con i contributi di Alberto Dalla Rosa 187. Sostenitore di un’interessante soluzione mediana, in virtù della quale, era logico ammettere una superiorità del princeps sul piano militare, mentre nessuna gerarchia esisteva tra l’imperium augusteo e l’imperium dei proconsoli. Per Dalla Rosa, la superiorità del principe sui governatori provinciali era assicurata dal fatto che «nella sua opera di revisione degli statuti cittadini e provinciali, il principe aveva un ruolo paragonabile piuttosto a quello del popolo o del senato» 188. Resta sgravato di ogni dubbio il fatto che Augusto godesse dal 27 a.C. di una posizione di supremazia perché munito di un imperium consulare rafforzato da un’auctoritas capace di eclissare tutti gli altri organi dello Stato romano. Di conseguenza, anche accettando la tesi dell’assenza di un imperium maius, non si intaccherebbe la sostanziale veridicità delle affermazioni autobiografiche di Augusto relative a una res publica in cui il miglior civis esercitava ¹ front…j ¹ te prostas…a tîn koinîn p©sa, cioè una funzione di cura et tutela, per usare la più accreditata e affine traduzione latina della formula usata da Cassio Dione 189. Le tesi rapidamente richiamate, sia pure con sfumature diverse, hanno tutte in comune uno stesso nocciolo: l’inesistenza ab origine di un imperium maius di Augusto (e dunque di una gerarchia di imperia databile all’età tardorepubblicana). Per quanto ben costruite e ingegnose, le tesi richiamate non sempre riescono a incastrare bene le testimonianze storico-letterarie con tutti i dati provenienti dai diversi documenti epigrafici e papirologici che talvolta sembrerebbero dire altro. Così pare a proposito del papiro contenente la Laudatio funebris di Agrippa 190, dell’iscrizione leidense di Kyme 191 e del Senatus consultum de Cn. Pisone patre, da cui si trae la chiara indicazione dell’esistenza di un imperium maius in
187
A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., pp. 83 ss. A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., p. 313. 189 Cass. Dio 53.12.1. Naturalmente non si tratta di una novità: già E. BETTI, La crisi della repubblica, cit., pp. 541 s., che ha usato la formula di «diritto di alto controllo e ingerenza sull’amministrazione in nome proprio (autonoma) sia indiretta sia diretta»; impianto autoritario, conforme all’ideologia del tempo, in seguito approfondito da P. DE FRANCISCI, La costituzione Augustea, in Studi in onore di P. Bonfante nel XL anno d’insegnamento, I, Milano 1930, pp. 13 ss.; ID., La costituzione Augustea, cit., pp. 75 ss.; e A. VON PREMERSTEIN, Vom Werden, cit., pp. 117 ss. 190 Sulla scorta di Cass. Dio 54.28.1, si ritiene che la prima concessione di imperium maius risalga al 13 a.C., ma non manca chi pensa di doverla anticipare al 18 a.C., come J.-M. RODDAZ, Marcus Agrippa, Roma 1984, pp. 347 ss.; cfr. ID., Imperium: nature et compétences, cit., pp. 189 ss. 191 Vedi supra nt. 172. 188
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capo al princeps e ai correggenti (tutti proconsules) 192. E se, tra le diverse ricostruzioni in campo, la più convincente e aderente alle fonti appare quella di Ferrary che vede nel 23 a.C. un altro snodo essenziale e il momento di dell’introduzione attraverso legge di un imperium (proconsulare, aggiungo) maius, v’è qualcosa ancora da precisare. *** Contrariamente allo scarso credito solitamente riposto, continuo a ritenere importante il passaggio di Velleio sia per la chiave di lettura sia per la cornice entro cui ci permette di collocare notizie e dati a volte apparentemente assai contraddittori: Vell. hist. rom. 2.89.3: Finita vicesimo anno bella civilia, sepulta externa, revocata pax, sopitus ubique armorum furor, restituta vis legibus, iudiciis auctoritas, senatui maiestas, imperium magistratuum ad pristinum redactum modum, tantummodo octo praetoribus adlecti duo. Prisca illa et antiqua rei publicae forma revocata. È un testo importante, quello appena letto, e per quanto possa apparire esageratamente agiografico è ingiusto ridurlo a una ‘velina’ di regime 193, mentre merita una riflessione più ampia. Innanzitutto, è giusto osservare come nella concezione velleiana probabilmente sia sottesa una presa di distanza rispetto agli imperia extraordinaria della tarda repubblica 194. E nel tentativo augusteo del ripristino dell’antico regime magistratuale non si deve affatto escludere che il princeps, o almeno così vedevano i suoi contemporanei o gli storici di epoca immediatamente successiva, abbia provato a ritornare appunto all’antica concezione magistratuale, e a cominciare dall’imperium consolare, secondo cui i consoli erano titolari di un imperium potenzialmente illimitato (maius e infinitum) 195 rispetto a quello delle altre magistrature e promagistrature ad eccezione, non casualmente, del dictator, perché proprio quella pretesa di ricoprire la dittatura vitalizia costituì il più grave errore, rivelatosi appunto mortale, di Giulio Cesare. Mentre sul piano della coerenza intrinseca dei testi è facile osservare come l’espressione velleiana ad pristinum redactum modum 196 faccia il paio con comi
192 Ha poi secondaria importanza che una gerarchia fosse già definita e assestata: ciò che conta innanzitutto è che l’imperium del princeps fosse certamente maius. Cfr. T.D. BARNES, Tacitus, cit., p. 144; J.-L. FERRARY, À propos des pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 131 s. 193 L. CANFORA, Augusto figlio di dio, cit., p. 326. 194 Così F. GRELLE, «Antiqua forma rei publicae revocata», cit., p. 329. 195 Oltre che TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht 3, cit., I, p. 53 ntt. 3-4, è da ricordare P. DE FRANCISCI, Preannunci del Principato, cit., pp. 29 ss. 196 Sul passo velleiano cfr. I. LANA, Velleio Patercolo o della propaganda, Torino 1952, pp. 177, 230, 293; G. TIBILETTI, Principe e magistrati repubblicani, Roma 1943, p. 82; e il recente volumet
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tiorum quoque pristinum ius di Svetonio (Aug. 40.4). Che poi tutto ciò fosse realmente possibile, che si potesse davvero ritornare dopo quella stagione nei confini tradizionali (ma quali poi, anche agli occhi di Velleio?) della prisca forma rei publicae è altra questione, che non può condizionare i nostri giudizi, e su cui torneremo più avanti. Se tutto ciò vale per la situazione di Augusto nell’arco temporale 27-23 a.C., resta priva di spiegazione l’interpretazione avanzata da una parte della dottrina delle fonti relative all’imperium maius di Augusto rispetto ai proconsules come è documentato nella fase successiva al 23 a.C. Vi è, innanzitutto, da fare una considerazione di carattere generale. A prescindere da ogni altro argomento, ciò che per lo più si trascura è che, ad ammettere con radicalità l’idea dell’inesistenza sino al principato di Tiberio di un imperium maius, si finirebbe per relegare dal 23 a.C. in poi Augusto, non più console, almeno sul piano formale in una posizione quasi di subalternità ai consoli o di parità con essi e gli altri proconsules 197. E non credo che si possa sostenere la storicità di un assetto del genere. Ma anche in questo caso, come in precedenza, vi sono testi epigrafici la cui lettura va ricalibrata. I cinque editti di Cirene del 6-4 a.C., su cui ancora si discute e credo continuerà a discutersi a lungo 198, inizialmente considerati solide prove dell’esistenza di un imperium maius in capo al princeps recentemente sono invece guardati con molte perplessità. Espressione dello ius edicendi del principe, questi editti secondo i più autorevoli studi 199 non dimostrerebbero affatto il conferimento senatorio e popolare di un potere di intervento nella provincia di Creta e Cirene. Tuttavia, come è stato osservato, ciò non significa affatto «che tale conferimento non sia esistito». Infatti, potrebbe anche essersi verificato senza però che se ne fosse conservata una diretta traccia; fatto che purtroppo non permette di avere alcuna certezza «se esso abbia permesso l’emanazione di tutti gli editti o solo di qualcuno, oppure ci sia stata una serie di autorizzazioni» 200. Il dossier epigrafico, secondo un’acuta osservazione di Arangio-Ruiz 201, ri
to di F. GUIZZI, La città di Augusto. Amministrazione e ordine pubblico a Roma agli inizi del principato, Milano 2015, pp. 22. 197 Questo è l’esito a cui si giunge, seguendo il ragionamento di A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., p. 217 e nt. 26, che ritorna sulla superiorità costituzionale dei consoli sui proconsoli. 198 Adesso disponiamo di una nuova edizione curata da G. PURPURA, Edicta Augusti ad Cyrenenses (6/4 a.C.), in AA.VV., Revisione ed integrazione dei Fontes Iuris Romani Anteiustiniani (FIRA). Studi preparatori. I. Leges (a cura di G. Purpura), Torino 2012, pp. 433 ss., con dovizia di letteratura. 199 J.-L. FERRARY, À propos du pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 137 ss.; F. HURLET, Le proconsul et le prince, cit., pp. 209 s. 200 A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., p. 200. 201 V. ARANGIO-RUIZ, L’editto di Augusto ai Cirenei, in ID., Studi epigrafici e papirologici (a cura di L. Bove), Napoli 1974, p. 15.
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sponde poi «a una concezione unitaria del complesso delle disposizioni emanate in ciascuna provincia dall’imperatore», resa manifesta da kaˆ tù ™mù progr£mmati Øpot£ssein, espressione annunciante l’invio a tutte le province (Senatus consultum Calv. linn. 78-79), mentre prÒgramma è da intendere come un corpus, qualcosa di preesistente e noto a tutti il cui rispetto si demandava ai proconsoli. Comunque sia, liquidare quegli edicta, chiara estrinsecazione dell’imperium proconsulare maius di Augusto, come «raccomandazioni ai magistrati romani perché offrissero opportune garanzie nei confronti di cittadini greci autoctoni» 202 sulla base dell’auctoritas è in totale disarmonia con il sistema romano degli atti dei poteri pubblici. La natura stessa di edictum, atto riconducibile alla titolarità di ius edicendi fondato sull’imperium, è del tutto incompatibile con la blanda forza di una raccomandazione politica, anche se nella fattispecie si tratti del princeps 203. Certamente è possibile trarre delle indicazioni generali dal carattere variegato dello stile e della diversa modulazione del linguaggio utilizzato dal principe. Se a volte il tono verso il proconsole della provincia è quello della cortesia, non mancano gli imperativi, come a proposito delle modalità di selezione delle giurie sancite nel quarto editto a cui il proconsole avrebbe dovuto attenersi, o come dimostra il keleÚw della lin. 58 del terzo editto con cui l’imperatore, «rivolgendosi ai greci divenuti cittadini romani, ribadisce gli obblighi liturgici nei confronti delle comunità d’origine, riferendosi ad un ambito che esorbitava dalla stretta sfera di competenza del governatore» 204. E ancora. L’incontrovertibile lšgei ricorrente in tutti e cinque gli editti, tipica espressione delle formule edittali, corrispondente al dicit latino, dimostrerebbe la natura di atti autoritativi vincolanti e non di semplici raccomandazioni, la cui fonte di legittimazione, a prescindere dal rispetto e dall’ossequio nutriti verso l’auctoritas augustea, era l’imperium conferito al principe attraverso senatus consulta e leges. L’innegabile varietà di modulazioni del linguaggio, a volte iussive altre volte persuasive o sollecitatorie, peraltro indica una certa duttilità nell’uso del potere che, a seconda delle circostanze e delle valutazioni politiche, poteva assumere forme imperative, oppure prendere corpo nelle locuzioni indirette tipiche delle decisioni senatorie, altre volte ancora manifestando una nuova tendenza edittale generale di carattere normativo. Questa varietà non deve spingere a negare la forza di quelle ordinanze, ma intenderla per ciò che esse erano e si manifestavano: cioè un complesso di spie della duttile tendenza della nuova sostanza politica a ricercare le forme migliori per praticare egemonia senza urtare eccessiva
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M. PANI, L’imperium di Tiberio principe, cit., p. 256 nt. 14. In questo senso pure G. PURPURA, Edicta Augusti ad Cyrenenses, cit., pp. 435 s. 204 Così G. PURPURA, Edicta Augusti ad Cyrenenses, cit., pp. 436 s. 203
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mente le vecchie forme istituzionali 205 rispetto alle quali, parafrasando Papiniano, il principe munito di imperium maius e di auctoritas esercitava una funzione adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi del vecchio assetto istituzionale 206. E ancora l’iscrizione tripolitana di Leptis Magna relativa al trionfo del bellum Getulicum (AÉ 1940, 68) e alla conduzione del comando militare del proconsole Cosso Cornelio Lentulo (governatore d’Africa nel 6-8 d.C.) sotto gli auspici di Augusto costituisce un altro documento importante che ha fatto molto discutere. Certo, siamo dinanzi a una particolare estensione, probabilmente dettata dall’età assai avanzata del principe d’ostacolo ai viaggi e alla sua presenza sul campo di battaglia. Importante, in questo, caso, non è tanto l’intensità dell’imperium ma il valore del documento in sé quale indubbia prova di un ulteriore profondo segno della metabolizzazione compiuta dell’ampiezza del potere di ingerenza riconosciuta al princeps, non limitata, come pure si è opinato, a una sorta di funzione di controllo politico, ma addirittura estesa sino al comando militare diretto 207, cioè l’imperium puro, in seguito definitivamente sistematizzata dalla giurisprudenza severiana 208. La documentazione epigrafica sul tema, peraltro arricchitasi con l’acquisizione del senatus consultum de Cn. Pisone patre importante per le disposizioni relative al proconsolato di Germanico finalizzato al riordinamento delle province orientali, costituisce una piena conferma del quadro dioneo degli interessi della casa imperiale nel governo dei territori provinciali. E prima di Germanico, lo stesso Augusto dal 22 a.C. si trovò seriamente impegnato in una complessa missione (ad componendum statum provinciarum) di riorganizzazione di diversi territori, che lo costrinse a lungo lontano da Roma e a passare di provincia in provincia (spesso governate da proconsoli) con interventi vasti e profondi. Risalgono infatti al 21 a.C. le misure relative alla Sicilia dove Catana, Syracusae, Thermae Himerae, Tyndaris e Tauromenium furono ridotte allo status di coloniae. È appena il caso di ribadire che provvedimenti simili Augusto non avrebbe potuto assumerli se non in forza di un imperium maius sul governatore competente, perché la sua provincia non consisteva nel consueto governo di un territo
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Dibattito, fonti e letteratura in A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., pp. 199 ss. G. PURPURA, Edicta Augusti ad Cyrenense, cit., p. 436, parla elegantemente di ‘garbo istituzionale’. 206 D. 1.1.7.1 (Pap. 2 definitionum) Ius praetorium est, quod praetores introduxerunt adiuvandi vel supplendi vel corrigendi iuris civilis gratia propter utilitatem publicam. Quod et honorarium dicitur ad honorem praetorum sic nominatum. 207 Cfr. F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., IV.1, pp. 185 s.; A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., pp. 221 ss., ritiene potersi trarre da questa iscrizione la dimostrazione dell’estensione definitiva e generale dei poteri del princeps nel 6 d.C. 208 D. 1.16.8 (Ulp. 39 ad ed.): Et ideo maius imperium in ea provincia habet omnibus post principem.
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rio ma assai di più, cioè in una missione ampia di riorganizzazione di un territorio vasto comprendente più province. Ora, nelle pagine precedenti, abbiamo escluso l’esistenza di una gerarchia strutturata e definita tra gli imperia sul finire della repubblica. Bisogna allora attribuire ad Augusto la novità? Il fatto di non aver prove dell’esistenza di una gerarchia di imperia in età repubblicana, non significa che l’idea stessa non esistesse già. In altri termini, non significa che negli ultimi decenni repubblicani la tendenza all’attribuzione di un imperium maius fosse considerata uno scandalo o un’eversione. Testi assai noti aprono squarci interessanti al riguardo. Leggiamo, per esempio, con attenzione la descrizione ciceroniana relativa all’imperium maius che si tentò di attribuire ora a Cassio 209, ora a Pompeo: Cic. phil. 11.12.30: […] senatui placere C. Cassium pro consule provinciam Syriam obtinere, ut qui optimo iure eam provinciam obtinuerit; eum a Q. Marcio Crispo pro consule, L. Staio Murco ceteraque quae ad id pro consule, A. Allieno legato exercitus accipere, eosque ei tradere, cumque iis copiis et si quas praeterea paraverit bello P. Dolabellam terra marique persequi. Eius belli gerendi causa, quibus ei videatur navis, nautas, pecuniam ceteraque quae ad id bellum gerendum pertineant, ut imperandi in Syria, Asia, Bithynia, Ponto ius potestamque habeat, utique, quamcumque in provinciam eius belli gerendi causa advenerit, ibi maius imperium C. Cassi pro consule sit quam eius erit qui eam provinciam tum obtinebit, cum C. Cassius pro consule in eam provinciam venerit […]. Cic. ad Att. 4.1.7: […] Legem consules conscripserunt qua Pompeio per quinquennium omnis potestas rei frumentariae toto orbe terrarum daretur; alteram Messius, qui omnis pecuniae dat potestatem et adiungit classem et exercitum et maius imperium in prouinciis quam sit eorum qui eas obtineant; Diversamente da ciò che accadde per Pompeo, la proposta relativa all’attribuzione di un imperium maius a Cassio non fu approvata, è vero: ma la bocciatura della proposta avvenne non perché demonizzata come un monstrum giuridico ma semplicemente perché vittoriosamente avversata sul piano politico. Ed entrambe le vicende testimoniano che il germe dell’imperium maius era già vivo nel tessuto istituzionale e nel dibattito politico repubblicano. Se si passasse poi
209 M. PANI, L’imperium di Tiberio principe, cit., p. 254 nt. 7, obietta che io abbia dato per approvata la proposta per Cassio che invece cadde nel vuoto; è probabile che sia stato ambiguo nell’esprimermi e abbia agevolato simile impressione: in realtà intendevo dire che il tema del conferimento di imperia di diverso grado non è frutto della fantasia dei moderni; in altri termini, non si trattava di idee stravaganti, magari osteggiate, o persino disprezzate, sulla base di un genuino sentimento repubblicano e giudicate pertanto come perniciose, ma sicuramente ormai oggetto del dibattito politico; e dunque Augusto anche a tal proposito non si affermava come uomo di rottura ma riportava in auge semplicemente un tema conosciuto dalla giuspubblicistica tardorepubblicana.
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alla lettura della versione di Tacito sui poteri riconosciuti a Germanico per il riordino delle province orientali: Tac. ann. 2.43.1: tunc decreto patrum permissae Germanico prouinciae quae mari diuiduntur maiusque imperium quoquo adisset, quam iis, qui sorte aut missu principis obtinerent; e infine si confrontassero questi brani con un frammento, anch’esso relativo ai poteri di Germanico, del senatus consultum de Cn. Pisone patre, in cui si sancì la superiorità dell’imperium di Tiberio: linn. 34-37: […] de quo lex ad populum lata esset, ut in quamcumq(ue) provinciam venisset, maius ei imperium, quam ei qui eam provinciam proco(n)s(ule) optineret esset, dum in omni re maius imperium Ti. Caesari Aug(usto) quam Germanico Caesari esset, tamquam ipsius arbitri et potestatis omnia esse deberent […], chiunque sarebbe in grado di cogliere l’uniformità del lessico usato a proposito della sostanza del proconsolato del princeps: cioè una carica munita di imperium maius con una provincia consistente nel governo di un vasto ambito territoriale comprendente più province (nel caso di Germanico il riordino delle province orientali) 210. Da questo confronto tra documenti di natura diversa e di differente collocazione cronologica viene fuori un solido saggio dimostrativo della portata delle notizie fornite dai documenti epigrafici. È significativo che Cicerone e Tacito, l’uno dall’altro così lontani e nel tempo e nelle rispettive realtà istituzionali, abbiano usato le medesime locuzioni. Che nei loro scritti ricorra tale affinità terminologica è un elemento di critica testuale interna molto rilevante ai fini della valutazione dell’attendibilità delle notizie; ma è da aggiungere che siamo in presenza di un dato che, per quanto possa anche spiegarsi come una coincidenza lessicale fondata sulla recezione e conservazione di una versione, si presta ad altre interpretazioni. Altrettanto evidente è che non ci si può fermare a una questione squisitamente lessicale. E allora possiamo dire che: a) innanzitutto, viene fuori la conferma dell’attendibilità, anzi direi della fedeltà storico-giuridica, di autori antichi, quali in questo caso Cicerone e Tacito, sovente guardati con sospetto e pregiudizio dalla critica moderna perché non giuristi e dunque imprecisi nel linguaggio tecnico-giuridico e nella rappresentazione di istituzioni e istituti giuridici;
210 Senatus consultum de Cn. Pis. patre linn. 30-32: Germanico Caesari, qui a principe nostro ex auctoritate huius ordinis ad rerum transmarinarum statum componendum missus esset desiderantium praesentiam aut ipsius Ti. Caesaris Aug. aut filiorum alterius utrius. L’incarico di Germanico non sembra infatti scostarsi particolarmente dall’analogo riordino augusteo di un complesso di province ricordato da Cassio Dione (54.6-9).
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b) su un piano particolare a proposito della peculiare questione della configurazione e della matrice dei poteri straordinari che da quasi un secolo si attribuivano a grandi leader politici e militari (Pompeo, Cesare, Augusto, Germanico), le fonti – siano esse storico-letterarie o epigrafiche – ci dicono in maniera esemplare e assolutamente coincidente che tali poteri rientravano in schemi già ampiamente collaudati, sanciti nel linguaggio giuridico ufficiale, istituzionale, da precise locuzione tecniche, la cui escogitazione e applicazione risalivano all’ultima fase della res publica; c) su un piano di ordine generale invece è opportuno ridimensionare la portata di talune conclusioni, per quanto dettate dalla distorsione dell’ottica della dottrina costituzionalista moderna, volti a considerare taluni passaggi veri e propri strappi costituzionali. La ‘costituzione romana’ – semmai sia legittimo parlare in termini rigorosi di ‘costituzione’ – era fluida e magmatica per eccellenza, caratterizzata da prassi, convenzioni, precdenti, e quegli exempla sino a quando erano frutto di un dibattito e confronto politico dispiegato e poi condensato in atti del senatus e del populus (che malgrado gli scossoni e pur nella complessità degli ingranaggi della loro interazione restavano i motori dell’impianto repubblicano) finivano per collocarsi del tutto nell’alveo della secolare tradizione repubblicana. Ma se anche non si volesse tener conto di tutto ciò, sarebbe sufficiente non perdere di vista l’avvertenza di Francesco De Martino che, cogliendo acutamente l’essenza della questione, ha ammonito sull’intreccio degli aspetti giuridici con la sostanza politica. Un intreccio questo che, alla visione formalistica espressa non molto tempo fa da Lebek 211 di rifiuto terminologico dell’uso di imperium maius da parte degli storici moderni 212, spinge a opporre una considerazione tanto semplice quanto evidente e insuperabile: «per definire la posizione dell’imperatore il cui potere era superiore a quello di qualsiasi altro non è scorretto dire che aveva un imperium maius, essendo sottinteso che lo era rispetto a tutti gli altri poteri di comando» 213. *** E giungiamo a questo punto all’editto di Paemeiobriga per soffermarci in particolare su alcuni significativi elementi che spiccano nella titolatura.
211
W.D. LEBEK, Das Prokonsulat des Germanicus und die Auctoritas von Senats: Tab. Siar. frg. I 22-24, in ZPE 87, 1991, pp. 103 ss. 212 Vi è poi anche chi come J.-M. RODDAZ, Imperium: nature et competence, cit., pp. 189 ss., sostiene l’inesistenza giuridica, ma solo fattuale, dell’imperium maius. 213 F. DE MARTINO, Intorno al Senatusconsulto de Pisone patre, in L’incidenza dell’antico. Studi in memoria di E. Lepore, II, Napoli 1996, p. 465 [= ID., Diritto Economia e Società nel mondo romano. II. Diritto pubblico, Napoli 1996, p. 587].
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Innanzitutto l’indicazione temporale: l’editto fu emanato nel 15 a.C., cioè nell’anno in cui Augusto esercitava per la nona volta la tribunicia potestas 214. Poiché l’autorità di Theodor Mommsen 215 aveva confuso un po’ le acque a proposito della decorrenza del potere tribunizio, facendola iniziare dal 36 a.C. malgrado RGDA 4.4 e Tac. ann. 1.9.2 concordassero sul 23 a.C., il bronzo del Bierzo chiude definitivamente la questione a sfavore della congettura mommseniana. Tuttavia, nella nomenclatura imperiale l’elemento di maggior rilevanza è senza alcun dubbio la menzione del proconsolato 216, su cui invece si è registrata una significativa quanto inspiegabile sottovalutazione. «Proconsulis nomen imperatoris titulis primo saeculo nunquam quod sciam additur, interdum titulis Traiani (Bull. Inst. Arch. 1859, p. 119) Hadriani (Orell. 811. 8455 Corp. II, 1339) Antoninorum (cf. n. 949. 951), plerunque omnibus inferioris aetatis inde ab Septimio Severo titulis. In nummis Diocletianus demum hoc nomen cudi iussit» 217. Così Willmans nel 1859 instaurava quella che ben presto sarebbe divenuta una solidissima traditio, ancor oggi assai difficile da soppiantare, volta a negare che prima di Traiano i principes avessero mai rivestito il proconsolato. Poggiante anche sull’autorità di Theodor Mommsen, secondo cui il proconsolato inevitabilmente era come ‘inglobato’ nel titolo di imperator, questa idea ha avuto la massima radicalizzazione nelle sue applicazioni nell’impianto ricostruttivo ancor oggi comunemente accettato: l’anomalia della posizione di Augusto e dunque la sua rottura della legalità costituzionale stava nell’assunzione dei poteri repubblicani sganciati dalle relative cariche. La tesi della divaricazione tra carica e poteri magistratuali comunemente attribuita a Pietro de Francisci 218, ma in realtà formulata già da Pietro Bonfante nel 1903 nella prima edizione della sua Storia del diritto romano 219, e poi tralatizia
214
È appena il caso di ricordare che la tribunicia potestas, per quanto vitalizia, veniva rinnovata annualmente: Cass. Dio 53.32.5; 53.17.10 su cui vedi R.P. HOCK, Dio 53.17.10 and the Tribunician Day during the Reign of Septimius Severus, in SO 59, 1984, pp. 115 ss. 215 TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, cit., II, p. 873 nt. 1; cfr. F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., IV.1, pp. 169 ss. 216 Sulla titolatura imperiale D.A. MUSCA, Le denominazioni del principe nei documenti romani, II, Bari 1982, pp. 160 s e nt. 7. 217 G. WILLMANS, Exempla inscriptionum Latinarum in usum praecipue academicum, I, Berolini 1873, p. 305, n. 940 nt. 3. 218 P. DE FRANCISCI, Augusto, cit., pp. 129 ss., praecipue 142 ss.; ID., La costituzione Augustea, cit., p. 85 ss.; ID., Genesi e struttura, cit., pp. 58 ss.; ID., Storia del diritto romano, cit., II.1, p. 288; ID., Sintesi storica, cit., p. 280; ma anche S. DI MARZO, Il Principato, in BIDR 42, 1934, pp. 295 s. 219 P. BONFANTE, Storia del diritto romano, Milano 1903, p. 191 (= 2a ed., Milano 1909, p. 359).
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mente raccolta dalla storiografia moderna 220, ha portato nell’analisi della trasformazione dell’architettura costituzionale repubblicana durante la la transizione augustea ad allontanare sempre più le forme dalla sostanza, con inevitabili distorsioni per effetto delle moderne visioni della teoria dei poteri applicata allo Stato romano 221. Rispetto a questa tralatizia lettura dei poteri del princeps, la Tessera Paemeiobrigensis in concreto costituisce il documento più antico e autentico attraverso cui si intravede in maniera chiara l’astrattezza del fondamento di simile tesi e aiuta a ritenere niente di più di un luogo comune l’idea che l’assunzione del titolo di proconsul da parte del princeps sia stata un’innovazione di epoca traianea. È singolare sostenere, anche dinanzi a simili documenti, che non vi sia prova alcuna del fatto che il princeps, pur assumendo il titolo formale di proconsul, ne avrebbe anche effettivamente rivestito la relativa carica. In fin dei conti, su questi aspetti del principato augusteo, intuizioni acute e penetranti erano state già avanzate da Jean Béranger 222 e, se vogliamo risalire ancor più indietro, da Emilio Betti, che reputava più convincentemente come la tendenza «a costituire l’imperium indipendente e separato dalla magistratura» 223 si fosse affermata soltanto nel tardo principato 224, sapendo che nella costituzione repubblicana non esistevano poteri astratti e che il potere corrispondeva a una carica. È vero che nella titolatura edittale i due poteri principali del princeps (tribunicia potestas e imperium proconsulare) compaiono affiancati, ma la differenza lessicale tra loro è netta e non omologabile. Mentre la tribunicia potestas è menzionata in quanto tale, cioè una potestas, non si usa simmetricamente un’espressione analoga rispetto all’imperium proconsulare: per esempio, si sarebbe potuto scrivere ex imperio proconsulare, invece il bronzo reca inciso proconsul dicit, cioè la esplicita e diretta menzione della carica. E in questo senso non è trascurabile che dopo la datazione con la tribunicia potestas espressa di consueto in ablativo, il titolo di proconsul segue non per asindeto – come abitualmente avviene – ma con la congiunzione «et»: […] Aug(ustus) trib(unicia) pot(estate) VIIII et pro
220
Ancora di recente e in via assai esplicita F. SERRAO, Il modello di costituzione. Forme giuridiche, caratteri politici, aspetti economico-sociali, in AA.VV., Storia di Roma. Vol. II. L’impero mediterraneo. II. I principi e il mondo, Torino 1991, p. 36. 221 Secondo S. RICCOBONO JR., Augusto, cit., p. 399, non sarebbe né console né proconsole. 222 J. BÉRANGER, Recherches sur l’aspect idéologique, cit., pp. 68 ss.; ID., L’imperium proconsulaire et la puissance tribunicienne dans l’Histoire Auguste, in Bonner Historia-Augusta-Colloquium 1977/1978, Bonn 1980, pp. 1 ss.; ma si vedano anche i saggi relativi a diversi e disparati aspetti del principato contenuti in ID., Principatus. Etudes de notions et d’histoire politiques dans l’Antiquité gréco-romaine, Genéve 1973. 223 E. BETTI, La crisi della Repubblica, cit., p. 565. 224 Conforme all’impostazione bonfantiana anche R. ORESTANO, Il potere normativo degli imperatori, cit., p. 11.
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co(n)s(ul) dicit. E la formula in particolare intende sottolineare esattamente che l’editto fu promulgato dall’imperatore nella sua qualità di proconsole, che proprio in quanto proconsole era legittimato a edicere. Augusto, o piuttosto la sua cancelleria, indicò espressamente, né poteva essere diversamente, nella promagistratura la fonte legittimante dello ius edicendi nel caso specifico. La presunta divaricazione tra poteri e cariche repubblicane, per quanto fascinosa e suggestiva, possiamo adesso dirlo, appare tanto infondata quanto ingenua: dinanzi alla propaganda della restaurazione repubblicana i suoi avversari, e non furono certamente pochi, e come è noto anche tra i giuristi, non avrebbero trovato argomenti per accendere contestazione, rinfocolare dissenso rispetto a chi ossessivamente affermava la restitutio rei publicae? E se è unanimemente riconosciuto che i titoli repubblicani designassero gli organi 225 che senso ha sostenere come in questo caso il contrario? E ancora, non è forse lo stesso Augusto a informarci del rifiuto delle cariche anomale, e dunque anche dei relativi titoli, mentre ne accettò i poteri? In altri termini, quando Augusto esercitò poteri e funzioni sganciati dalla specifica relativa magistratura lo si trova esplicitamente affermato nelle Res Gestae, e a tal proposito nessuno ne contesta l’affidabilità. In altri termini, se sulla base del suo testamento politico sappiamo che non fu censore ma in talune circostanze esercitò la potestas censoria, che non fu neppure tribunus plebis ma ricevette la potestas tribunicia, altrettanto non può dirsi per altri poteri relativi ad altre cariche magistratuali, cioè il proconsolato e il relativo imperium: in questo caso non vi è ragione di avanzare interpretazioni fantasiose. Allora, se è incontestabile che Augusto fu console, e anche ripetutamente (rivestì in tutto 13 volte la magistratura), esercitando dunque imperium e potestas consolari, grazie alla Tessera Paemeiobrigensis possiamo aggiungere che fu pure proconsul, che tale carica – e non un astratto riconoscimento di poteri – legittimava la titolarità di un imperium proconsulare 226, che nella regolamentazione del 23 a.C. assunse i connotati di un imperium proconsulare maius et infinitum. Un imperium vitalizio non attraverso un unico atto di conferimento bensì rinnovato diverse volte per dieci o cinque anni senza soluzione di continuità (™saeˆ caq£pax), come informa Cassio Dione 227 e che ricorda strettamente i conferimenti di imperia quinquennali da Pompeo in avanti, con la deroga, questa sì eccezionale, per il princeps di non doverlo deporre ogni volta che entrava
225
Cfr. P. DE FRANCISCI, Nuovi appunti, cit., p. 13. Vedi ora M. PANI, L’imperium del Principe, cit., p. 195, che tuttavia ritiene trattarsi «di fatto» di un imperium consulare. La tesi tuttavia, per quanto poggiante anche sull’autorevole opinione di A.H.M. JONES, The Imperium of Augustus, in JRS 41, 1951, pp. 112 ss. [= in ID., Studies in Roman Government and Law, Oxford 1960, pp. 13 ss.], era controversa, oggi a fronte della concordanza tra il bronzo del Bierzo e Cass. Dio 53.32.5 – che usa l’espressione ¢rc ¢nqÚpatoj – appare ancor più debole. 227 Cass. Dio 53.13.1; 54.12.4-5; 55.6.1; 55.12.3; 56.28.1. 226
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nel pomerium per riassumerlo nuovamente 228. Il proconsolato augusteo dunque non era, come pur ha ritenuto Francesco Guizzi 229, semplicemente un calco di quello repubblicano ma un ‘proconsolato rafforzato’ da uno statuto particolare comprendente le suddette deroghe. Piuttosto, v’è da spendere ancora qualche parola sull’ipotesi di Jean-Louis Ferrary, collocato su una precisa scia di studi 230. Nei suoi penetranti studi sulla genesi del principato, pur ammettendo la qualifica di proconsul da parte di Augusto, ha finito per negarne la natura proconsulare dell’imperium. Considerare, tuttavia, l’imperium di cui fu titolare il principe dal 23 a.C. ancora come consulare, sia pure posseduto pro consule, va incontro a una serie di obiezioni a suo tempo già rilevate da De Martino, ma aggiungo si scontra anche con la semplice lettera del nuovo documento epigrafico, mentre il proconsolato e il relativo imperium proconsulare sono perfettamente coerenti con i passaggi storico-istituzionali ricostruiti in dettaglio dallo studioso francese. Nel 23 a.C. Augusto deponeva il consolato e sarebbe rimasto privo di imperium se non avesse assunto quello proconsulare. Dal 22 a.C. infatti egli sarebbe stato impegnato in quell’ampia missione (proconsolare) di riordinamento territoriale che lo avrebbe portato a passare da provincia in provincia con una posizione di superiorità (imperium proconsulare maius) concessogli dalla relativa lex publica. Pertanto, alla luce del bronzo rinvenuto a El Bierzo, la versione di Cassio Dione assume tutta la sua chiarezza: Cass. Dio 53.17.3-4: [...] kaˆ †na ge m¾ ™k dunaste…aj ¢ll' ™k tîn nÒmwn toàt' œcein dokîsi, p£nq' Ósa ™n tÍ dhmokrat…v mšga par' ˜koàs… sfisin ‡scusen, aÙto‹j to‹j ÑnÒmasi cwrˆj toà tÁj diktator…aj prosepoi»santo. [4] Ûpato… te g¦r pleist£kij g…gnontai, kaˆ ¢nqÚpatoi ¢e…, Ðs£kij ¨n œxw toà pwmhr…ou ðsin, Ñnom£zontai. [… Poi, per dare l’apparenza che questo potere scaturisca non da una forma di egemonia personale ma dalle leggi, gli imperatori si attribuirono tutte le funzioni delle magistrature che erano in vigore durante la respublica per concessione del popolo, assumendone anche i titoli, tranne quello della dittatura. 4.
228
Cass. Dio 53.32.5; cfr. Cic. ad fam. 1.9.25. F. GUIZZI, «Res Gestae». Bilancio di quarant’anni di governo, in AA.VV., Res publica e Princeps. Vicende politiche, mutamenti istituzionali e ordinamento giuridico da Cesare ad Adriano. Atti del Convegno internazionale di diritto romano Copanello, 25-27 maggio 1994 (a cura di F. Milazzo), Napoli 1996, pp. 211 s. 229
230 J.-L. FERRARY, À propos des pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 113 ss. e nt. 62. A.H.M. JONES, The imperium, cit., pp. 112 ss.; P.A. BRUNT, Roman Constitutional Problems, in ClR 76, 1962, pp. 70 ss.; J. BLEICKEN, Imperium consulare/proconsulare, cit., pp. 117 ss. Cfr. ora anche A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., pp. 18 ss.
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Infatti costoro molto spesso diventano consoli, e ci si rivolge sempre loro con il titolo di proconsoli ogni volta che si trovano al di fuori del pomerium].
Cass. Dio 53.17.11: [...] taàta m n ™k tÁj dhmokrat…aj, éj pou kaˆ ›kasta ™nom…sqh, oÛtw te kaˆ di¦ toÚtwn tîn Ñnom£twn e„l»fasin, Ópwj mhd n ¥neu dÒseèj tinoj œcein dokîsin. [… Queste sono dunque le istituzioni che gli imperatori hanno adottato desumendole dalla respublica, mantenendole sostanzialmente con le loro funzioni originarie, e di cui utilizzarono anche i nomi delle cariche per dare l’apparenza di non mantenere il possesso di nessuna carica senza che fosse stata loro precedentemente concessa].
Cass. Dio 53.32.6: ¢f' oá d¾ kaˆ ™ke‹noj kaˆ oƒ met' aÙtÕn aÙtokr£torej ™n nÒmJ d» tini to‹j te ¥lloij kaˆ tÍ ™xous…v tÍ dhmarcikÍ ™cr»santo·tÕ: tÕ g£r toi Ônoma aÙtÕ tÕ tîn dhm£rcwn oÜq' Ð AÜgoustoj oÜt' ¥lloj oÙdeˆj aÙtokr£twr œsce. [Da quel momento in poi, sia Augusto, sia gli imperatori che gli succedettero godettero, per una sorta di autorità garantita dalla legge, di esercitare il potere tribunizio insieme agli altri poteri: infatti, il titolo di tribuno in sé non venne assunto né da Augusto né da nessun altro imperatore].
La versione di Cassio Dione corrisponde in maniera perfetta ai dati ricavabili da altre fonti e ne viene fuori un quadro davvero sorprendente. Piuttosto colpisce come sino ad oggi egli sia stato così a lungo e tanto ingiustamente sottovalutato quale storiografo a volte inattendibile o approssimativo. I principes assumevano le cariche repubblicane ed esercitavano le relative funzioni salvo talune eccezioni (dittatura, tribunato della plebe, censore – sebbene in quest’ultimo caso debba ricordarsi che, con Domiziano, la censura sparì come magistratura autonoma perché assorbita dal princeps che assunse il titolo di censor perpetuus); essi furono consoli e proconsoli, e quando superavano il pomerium assumevano il titolo di proconsul che prevaleva sugli altri, tanto da far annotare a Cassio Dione che venivano appellati ¢nqÚpatoi. E anche quando nel brano precedente a proposito di Augusto scrive t»n te ¢rc¾n t¾n ¢nqÚpaton… (Cass. Dio 53.32.5), l’espressione corrisponde sia a ‘imperium proconsulare’ sia a ‘magistratura (nel senso di carica) proconsolare’. I documenti sono univoci persino per i correggenti, anch’essi sovente accompagnati dal titolo di proconsul, o ¢nqÚpatoj, o aÙtokr£twr, o strathgÒj. Insomma, sarebbe bastato recuperare un approccio onesto, obiettivo verso tutti i documenti, anche quelli in contrasto con l’opinione dominante consolidatasi e non attendere il rinvenimento dell’epigrafe iberica del Bierzo. Infatti, recentemente è stato ammesso da Géza Alföldy 231 che l’uso del titolo di proconsul
231
G. ALFÖLDY, Il nuovo editto di Augusto, cit., p. 394.
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anche a Roma, e almeno a proposito di alcuni principes (miliari e monete per Claudio, Nerone, Nerva, e un diploma militare per Adriano), era ben documentato e conosciuto dalla critica moderna 232. Ma c’è da osservare ancora, e non si tratta di un insignificante dettaglio, che la precisazione dionea di cui abbiamo appena discusso, e cioè che i principes appena varcato il pomerium venissero chiamati proconsules, è indicativa dello statuto speciale del loro imperium proconsulare maius et infinitum. Infatti mentre un proconsul poteva legittimamente utilizzare il potere proconsolare soltanto nella provincia affidata alla sua giurisdizione 233, l’imperium proconsulare del princeps si estrinsecava subito extra pomerium in quanto appunto maius et infinitum e perciò in deroga ai principi repubblicani dei limiti spaziali ai poteri pubblici introdotta proprio perché quell’imperium non subisse le restrizioni di legittimità territoriale 234. Il complesso di notizie ricavate dal resoconto di Cassio Dione appare dunque coerente con le vicende augustee, sapendo che – nonostante dal 23 a.C. ricoprisse il proconsolato – Augusto esercitò ancora due volte il consolato, dunque cumulandolo con il primo, e che il suo imperium proconsulare non decadeva una volta varcato il pomerium 235. Il che porta a concludere che quelle deroghe approvate per legem per Augusto finirono per costituire il regime statutario ordinario dei poteri dei principes. In questo senso, l’obiezione di Dalla Rosa a Cassio Dione di aver frainteso l’attribuzione ad Augusto di un imperium infinitum con il mandato temporaneo di riordinamento delle province transmarine, per il quale era pur sempre necessario un imperium maius ancorché territorialmente limitato a quelle province, che impegnò il principe dal 22 al 19 a.C., non muta la sostanza delle cose 236. Abbiamo più volte ricordato l’assenza di una legge fondamentale o di leggi superiori, la forza delle consuetudini costituzionali e dell’exemplum, del precedente, come fonte di ius publicum. ***
232 Resta in qualche misura condizionato dall’impostazione tradizionale A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., p. 257, secondo cui «né Augusto, né i suoi successori fino ai Severi portarono mai il titolo di proconsole quando si trovavano a Roma e, in ogni caso, lo esibirono raramente in provincia»; ma è evidente che così si finisce per svilire il resoconto dioneo senza alcuna prova a sostegno. Leggi invece W. ECK, Suffektkonsuln der Jahre 132-134 und Hadrianus Rükkehr nach Rom im Jahr 132, in ZPE 143, 2003, pp. 251 ss. 233 D. 1.16.1 (Ulp. 1 disp.): Proconsul ubique quidem proconsularia insignia habet statim atque urbem egressus est: potestatem autem non exercet nisi in ea provincia sola, quae ei decreta est. 234 Sul tema vedi il mio «Aegyptum imperio populi Romani adieci». L’Egitto e la sua prefettura fra conservazione e innovazione nella politica augustea, Napoli 2008, pp. 80 ss. e bibliografia essenziale. 235 Così adesso anche J.-L. FERRARY, À propos du pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 148 s. 236 A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., pp. 185 ss.
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Passando a un altro profilo, poco meno di un ventennio fa, insieme a Felice Costabile, ho sostenuto che le innovazioni augustee in realtà non possono certo leggersi come frutto dell’ingegno istituzionale o dell’arroganza politica di Augusto, divenuto padrone incontrastato dello Stato romano, bensì il risultato di certi exempla poi tradottisi in prassi o consuetudini politiche nella convulsa fase politica dominata dal conflitto tra Pompeo 237 e Cesare. A dimostrare che tale sistema non fosse certo partorito da Augusto basterebbe forse ricordare le numerose attribuzioni di imperia proconsolari pluriennali, alcuni anche di durata quinquennale, e con mandati amplissimi la cui provincia (sfera di competenza) consisteva nel governo di più territori (o provinciae). Oppure volgere lo sguardo alla lex Antonia de provinciis del 44 a.C., sebbene ne sia contestata la portata generale, che modificò le disposizioni della lex Iulia de provinciis; e né deve sottovalutarsi che decennale fu anche la carica di triumvir rei publicae constituendae. Ma indubbiamente i provvedimenti legislativi a cui dobbiamo guardare furono quelli relativi ai conferimenti di imperium a Pompeo. La lex Gabinia del 67 a.C. che attribuì un imperium proconsulare su tutti i mari e le coste sino a cinquanta miglia; la lex Manilia del 66 a.C. che gli concesse la conduzione della guerra contro Mitridate e il governo provinciale di Asia, Bitinia e Cilicia; ma fu soprattutto il governo delle Spagne (dunque non per un solo territorio) attribuito a Pompeo nel 55 a.C. dalla lex Trebonia a costituire una svolta 238. È in questo proconsolato quinquennale, esercitato in absentia, restando a Roma sia pure extra pomerium, attraverso legati pro praetore, e prorogato ancora per altri cinque anni dal plebiscitum de imperio Cn. Pompeio et M. Crasso prorogando, proprio nel 52 a.C. quando egli veniva nuovamente eletto console (cumulando dunque le due cariche), che si staglia il diretto exemplum, o in cui deve scorgersi, se vogliamo, la stretta analogia con le attribuzioni del 23 a.C. 239. E, in effetti, è indiscutibile il valore che ebbe quello ‘strappo’ al principio costituzionale che voleva il proconsul esercitare il suo potere direttamente nel territorio provinciale a lui destinato. Tuttavia, a essere rigorosi, v’è da precisare qualcosa. Da un certo punto di vista quello di Pompeo non era interamente un exemplum in senso stretto 240, perché il ricorso dei proconsules ai legati a cui si
237
F. COSTABILE-O. LICANDRO, Tessera Paemeiobrigensis, cit., pp. 65 ss. Sui provvedimenti legislativi richiamati vedi G. ROTONDI, Leges publicae populi romani. Elenco cronologico con un’introduzione sull’attività legislativa dei comizi romani, HildesheimZürich-New York 1990, pp. 371 s., 375 s., 408. 239 Di ciò, com’è noto, siamo informati esplicitamente ancora da Cassio Dione (39.39.4), ma anche da Appiano (bell. civ. 2.18) e da Plutarco (Pomp. 53; Crass. 16; Cato min. 45); su questo aspetto cfr. T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic. II. 99 B.C. – 31 B.C., New York 1984, p. 215. 240 F. COSTABILE-O. LICANDRO, Tessera Paemeiobrigensis, cit., pp. 65 ss.; cfr. J.-L. FERRARY, A 238
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affidava il reggimento della provincia in caso di loro allontanamento rispondeva del tutto alla prassi repubblicana. È emblematico il caso, tristemente famoso per le sue gesta, di Pleminio legatus del proconsole Scipione nel 205 a.C. 241. Tuttavia con Pompeo accadde qualcosa di più: il senato consentì la fictio di considerare un proconsole in provincia tollerandone invece la sua sostanziale presenza in città (sebbene extra pomerium) e infine aprì pure il varco al cumulo delle cariche 242. Allora, in questo senso non hanno forse esagerato quanti – a cominciare da Boak 243 che un secolo fa, nel 1918, nei riguardi di Pompeo ha usato il termine ‘Forerunner’, precursore, di Augusto – confortati anche da una terminologia politico-costituzionale già invalsa presso i contemporanei di Pompeo 244, hanno voluto vedere proprio in questi convulsi anni finali del regime repubblicano i
propos des pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 101 ss.; ID., Res publica restituta, cit., pp. 419 ss.; F. HURUn quindicennio di ricerche su Augusto, cit., p. 175. 241 Per le vicende giudiziarie che coinvolsero Pleminio e lo stesso Scipione e il dibattito scientifico, vedi O. LICANDRO, In magistratu damnari. Ricerche sulla responsabilità dei magistrati romani durante l’esercizio delle funzioni, Torino 1999, pp. 222 ss. 242 Puntuali le notazioni di W. ECK, Augusto e il suo tempo, Bologna 2010, pp. 44 s., su una costituzione che viveva di tradizione e che si arricchiva continuamente. Cfr. pure l’edizione inglese ID., The Age of Augustus2, Oxford 2007, passim. 243 A.E.R. BOAK, The Extraordinary Commands, cit., pp. 20 ss. [= in Labeo 29, 1983, pp. 65 ss.]. Su Pompeo come modello augusteo cfr. soprattutto E. MEYER, Cäsars Monarchie und das Prinzipat des Pompeius. Innere geschichte Roms von 66 bis 44 v. Chr. 3, Stuttgart-Berlin 1922, pp. 174 ss. (su Meyer è sempre utile la lettura del giudizio di A. MOMIGLIANO, Premesse per una discussione su Eduard Meyer, in RSI 93, 1981, pp, 384 ss. [= in ID., Settimo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1984, pp. 215 ss.]); in tal senso pure P. DE FRANCISCI, Storia, cit., II, pp. 162, 182 ss.; ID., Arcana imperii, cit., III.1, pp. 173, 337; F. HURLET, Auguste et Pompée, in Athenaeum 94, 2006, pp. 467 ss.; F.J. VERVAET, Arrogating Despotic Power through Deceit: The Pompeian Model for Augustan dissimulatio, in AA.VV., Private and Public Lies. The Discourse of Despotism and Deceit in the Graeco-Roman World (a cura di A.J. Turner, J.H.K.O. Choung-Gossard, F.J. Vervaet), Leiden 2010, pp. 133 ss.; più di recente L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., pp. 292 ss. Mentre P. CERAMI, Caesar dictator e il suo progetto costituzionale, in AA.VV., Res Publica e Princeps. Vicende politiche mutamenti istituzionali e ordinamento giuridico da Cesare ad Adriano, Atti del Convegno internazionale di diritto romano Copanello 25-27 maggio 1994 (a cura di F. Milazzo), Napoli 1996, pp. 101 ss., colloca più avanti, cioè con il progetto costituzionale di Cesare, le anticipazioni delle linee organizzative del principato augusteo; e di contrario avviso pure F. CANCELLI, Res publica – princeps di Cicerone e altri saggi, Torino 2017, pp. 105 ss., che ritiene assai abusato il parallelo Pompeo-Augusto. Eppure, come negare che Cicerone (ad esempio, in post red. sen. 5) a proposito di Pompeo parlasse di un princeps omnium gentium? Ora, sebbene Cancelli non dia molto credito a testimonianze del genere, si potrebbe magari accettare l’opinione secondo cui Pompeo mai rientrò nel novero dei principes a cui Cicerone faceva riferimento, ma appare difficile negare la stringente analogia di alcuni exempla istituzionali della vicenda politica di Pompeo con tratti della posizione di Augusto come, ad esempio, il governo provinciale in absentia e tramite legati. 244 Cic. ad fam. 1.9.11. LET-A. DALLA ROSA,
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prodromi del principato 245: cumulo di cariche, promagistratura estesa a più province, governo in assenza dal territorio provinciale di competenza esercitato dunque tramite legati, costituiscono gli elementi di novità della leadership pompeiana. Certo con Augusto ci si spinse più avanti rispetto a Pompeo, l’imperium proconsulare era maius e anche infinitum, e senza il bisogno di ricorrere alla medesima fictio pompeiana, il suo titolare non era costretto a restare extra pomerium né doveva deporlo intra pomerium, e di fatto fu concesso a vita perché continuamente rinnovato. Ormai, però, all’opinione pubblica tutto questo non appariva più come una rottura istituzionale, perché si collocava su un piano di prosecuzione di exempla che avevano provocato scossoni e assestamenti degli schemi repubblicani. Augusto, che dal 27 a.C. era console e governatore delle province a lui assegnate, nel 23 a.C. in avanti, rinunciava al consolato 246 e assumeva il proconsolato con uno statuto particolare per le speciali deroghe previste, il cui imperium si cumulava con la tribunicia potestas nella pienezza delle sue prerogative 247 così garantendosi ogni margine di intervento e interazione con gli altri organi costituzionali repubblicani: magistrature (con l’intercessio tribunizia); senato (con il ius referendi e il ius agendi cum patribus), e assemblee popolari (con il ius agendi cum plebe). Augusto taceva, e così in definitiva tacevano anche le fonti coeve, non perché ci fosse qualcosa da occultare (operazione peraltro irragionevole), ma perché sul piano istituzionale e strettamente formale non c’erano grandi novità: egli era console e rispetto al collega non aveva una maior potestas. Persino quello che normalmente viene considerato un potere straordinario, cioè la nomina del collega, in realtà costituiva un potere di cooptatio applicato al collegio tribunizio e in casi eccezionali pure alla suprema carica consolare come valvola di salvaguardia di un meccanismo istituzionale nient’affatto estraneo alla prassi repubblicana 248. La novità consisteva invece prevalentemente nella sua dimensione politica, appunto nell’auctoritas che veniva con onestà ampiamente riconosciuta nelle Res Gestae.
245 Vedi anche J.-L. FERRARY, À propos du pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 111 ss.; ID., Res publica, cit., pp. 419 ss.; F. HURLET, Auguste et Pompée, cit., pp. 467 ss. 246 Cass Dio 53.32.3. 247 Oltre a W.K. LACEY, Summi fastigii vocabulum: the Story of a Title, in JRS 69, 1979, pp. 28 ss.; vedi da ultimo F. HINARD, Genése et légitimation d’une institution nouvelle. La tribunicia potestas d’Auguste, in AA.VV., Tradizione romanistica e Costituzione (dir. L. Labruna – a cura di M.P. Baccari e C. Cascione), I.1, Napoli 2006, pp. 815 ss. 248 Sul punto rinvio ai miei due saggi dedicati al sistema di cooptazione vigente per il tribunato della plebe e per il consolato: Unus consul creatus collegam dixit. A proposito di Liv. 7, 24, 11 e 37, 47, 7, in BIDR 98-99, 1995-1996, pp. 731 ss.; Plebiscitum Trebonium de tribunis plebis decem creandis? Note sul tribunato della plebe nel V sec. a.C., in Iura, 47, 1996, pp. 166 ss.
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Quando nel 23 a.C., cambiato l’assetto con la deposizione del consolato, gesto politicamente assai opportuno perché liberava dalla sua presenza la più alta carica repubblicana per destinarla pienamente alla selezione del personale politico di maggior prestigio, egli sarebbe rimasto un proconsole con una più ampia sfera di intervento dovuto alle deroghe allo statuto dell’imperium promagistratuale, mentre l’assenza di poteri civili relativi al governo cittadino sarebbe stata compensata dal conferimento della tribunicia potestas. In questo senso forse non è solo frutto del caso che nelle descrizioni delle fonti trovi largo spazio l’enfasi. E tuttavia, anche alla luce dei nuovi dati, il fatto che, malgrado si fosse dinanzi a particolari attribuzioni e deroghe stridenti contro gli schemi costituzionali della più antica tradizione repubblicana, non ci sia traccia di reazione o fastidio neppure in quella storiografia di matrice senatoria certo non docile verso i principes deve pur significare qualcosa per noi. Se, oltre a Livio e Velleio, Tacito, nonostante tutta la sua avversità al princeps, non abbia rinunciato alla convinzione che sia pure principis nomine di restaurazione repubblicana si debba parlare 249, noi abbiamo il dovere di interrogarci perché si credesse a tutto ciò: Tac. ann. 1.9.5: Non regno tamen neque dictatura, sed principis nomine constitutam rem publicam; mari Oceano aut amnibus longinquis saeptum imperium; legiones provincias classes, cuncta inter se conexa; ius apud cives, modestiam apud socios; urbem ipsam magnifico ornatu; pauca admodum vi tractata, quo ceteris quies esset. Con gli esordi degli Annales, in cui Tacito traccia un rassicurante quadro di normalizzazione, dobbiamo intrecciare la testimonianza delle Res Gestae: probabilmente con il suo «morbido linguaggio», per dirla con Paolo Frezza, Augusto voleva «paludare di vocaboli familiari ad orecchi romani una realtà inconciliabile con la struttura giuridica dello stato-città» 250; e quella struttura per quanto fosse già in una fase di consistente trasformazione, ai contemporanei apparve come una ‘restaurazione’ della repubblica 251. Il princeps era l’indefinibile anello che teneva l’antiqua et prisca forma rei publicae con gli exempla tardorepubblicani. In questo senso e a rigore forse dovremmo ammettere una volta per tutte che ad aver ragione piuttosto che i moderni siano proprio loro, gli storici antichi, e Tacito in particolare, soprattutto se non ci si dimentica del carattere emi
249
F. GUIZZI, Il principato tra “res publica” e potere assoluto, Napoli 1974, pp. 41 s. P. FREZZA, Per una qualificazione istituzionale del potere di Augusto, in Atti dell’Accad. Toscana di Sc. e Lett. “La Colombaria”, Firenze 1956, p. 117 [= in ID., Scritti (a cura di F. Amarelli ed E. Germino), II, Romae 2000, p. 159]. 251 Cfr. T. SPAGNUOLO VIGORITA, La repubblica restaurata e il prestigio di Augusto. Diversioni sulle origini della cognitio imperiale, in Studi per Giovanni Nicosia, VII, Milano 2007, pp. 530 ss. 250
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nentemente fluido della costituzione romana 252 e della nebulosità del costituzionalismo antico. Torneremo più avanti su questo che è uno dei punti decisivi, per accennare al rapporto molto stretto tra un concetto essenziale del pensiero giuspubblicistico tardorepubblicano, la commutatio formae rei publicae 253 cioè il mutamento della forma di governo, e la lex quale strumento legittimo di cambiamento altrimenti configurabile come eversione (evertere, nel lessico ciceroniano). I testi sinora esaminati ci dicono che ogni novità, sia pure quella agli occhi dei moderni più inconciliabile con gli schemi repubblicani, veniva introdotta mediante l’approvazione di una lex. Il fondamento legislativo garantiva il rispetto del principio costituzionale primario negativo: il divieto di adfectare regnum incompatibile con la res publica (res populi) fondata sulla voluntas populi. La lex era sufficiente a spazzar via lo spettro del regnum.
7. IL SISTEMA DI GOVERNO PROVINCIALE AUGUSTEO A parte l’informazione – non altrimenti documentata e preziosa per ricostruire le vicende storiche degli assetti amministrativi della Spagna romana 254 – dell’esistenza di una Transduriana provincia 255 dalla durata assai effimera, ciò
252 G. BRANCA, Convenzioni costituzionali ed antica repubblica romana, in Scritti in onore di M.S. Giannini, I, Milano 1988, pp. 76 ss.; e ancora L. GAROFALO-V. MANNINO-L. PEPPE, Alcuni appunti di Giuseppe Branca sulle «convenzioni costituzionali» dell’antica Roma, in BIDR 91, 1988, pp. 689 ss. Sui caratteri della costituzione romana è tornato di recente ancora A. GUARINO, La costituzione democratica, cit., pp. 1 ss.; ID., Forma e materia della costituzione romana, in AA.VV., Tradizione romanistica e Costituzione (dir. L. Labruna – a cura di M.P. Baccari e C. Cascione), I.1, Napoli 2006, pp. 397 ss. 253 Vedi infra CAPITOLO TERZO, § 5. 254 Sul tema vedi il recente contributo di M.J. BRAVO BOSCH, La reorganización administrativa de Hispania, cit., pp. 107 ss. 255 Vedi F. COSTABILE-O. LICANDRO, Tessera Paemeiobrigensis, cit., pp. 50 ss. Non seguo l’opinione di D. FAORO, Die Grossprovinz Germanien: idea e forma di macroprovincia augustea, in AA.VV., Il princeps romano: autocrate o magistrato? Fattori giuridici e fattori sociali del potere imperiale da Augusto a Commodo (a cura di J.-L. Ferrary, J. Scheid), Pavia 2015, pp. 689 ss. L’autore ritiene che la Transduriana provincia non debba essere intesa come una provincia in senso territoriale ma assai più blandamente quale «militarische Mandatsbezirk», ovvero una sottoarticolazione militare di una più vasta provincia secondo un preciso impianto augusteo. Fondandosi su alcune ricerche di W. ECK, Die Donau als Ziel römischer Politik: August und die Eroberung des Balkan, in AA.VV., Roma e le province del Danubio (a cura di L. Zerbini), Catanzaro 2010, pp. 19 ss.; ID., Provinz – Ihre Definition unter politisch-administrative Aspekt, in AA.VV., Was ist eigentlich Provinz? Zur Beschriebung und eines Bewusstseins. Schriften der Archäologischen Instituts der Universität zu Köln (a cura di H.V. Hesberg), Köln 1995, pp. 15 ss.; e di E. LO CASCIO, Le tecniche dell’amministrazione, in ID., Il princeps e il suo impero, Bari 2000, pp. 13 ss., Faoro ha immaginato che la provincia in questione fosse una provincia Caesaris, anzi la prima di questa presunta catego
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che il testo epigrafico del Bierzo mette in crisi è pure l’attendibilità dell’articolazione presentata da Strabone (3.4.20; 17.3.25) e da Cassio Dione (53.12.1-9; 53.13.1-7). A leggere con attenzione la Tessera Paemeiobrigensis il nuovo assetto del regime provinciale suddiviso tra le due sfere di imputazione (senatus o populus Romanus e Caesar) appare a stretto diritto una semplificazione priva di ogni attendibile aggancio istituzionale: o meglio, essa rifletterebbe la realtà degli equilibri politici e istituzionali tra princeps e senatus, ma non avrebbe davvero alcun fondamento giuridico, almeno nei decenni genetici del principato, come aveva del resto ben intuito già decenni fa Antonio Guarino 256. Le province erano tutte populi Romani, sebbene diversa fosse la ripartizione della sfera di influenza: alcune riservate al principe, altre al senato. Ma la valutazione era di opportunità e l’attribuzione di province al principe non era definitiva: un’altra pagina dionea, anch’essa raramente citata, racconta della dichiarazione di intenti di Augusto di restituire le province turbolente, una volta pacificate, al senatus. E il ritorno in vigore della lex Pompeia riassegnava un rispetto formale dell’autonomia senatoria nell’attribuzione delle province e nell’organizzazione della sortitio 257. Soltanto in seguito si passò alla cristallizzazione della dualità delle sfere di influenza e di ripartizione. La storicità di taluni criteri, assai seguiti, di individuazione come la piena romanizzazione di un territorio oppure la presenza in esso di stanziamenti militari perché non pacatus, sono del tutto smentiti da chiare ed inequivocabili testimonianze a cominciare dall’editto di Paemeiobriga. Analogamente pure la presenza di funzionari imperiali (legati Augusti e procuratores) non costituisce affatto l’elemento esteriore della qualifica della provincia. La reggenza da parte di un legatus Augusti o di un procurator piuttosto che di un proconsul non dimostra che il titolo giuridico di quel territorio fosse già mutato in quello di provincia Caesaris. La genesi delle cosiddette provinciae Caesaris sarebbe da individuare invece nella costante prassi della loro assegnazione a un proconsul particolare, potremmo dire speciale, cioè il princeps, che per il suo primato politico, morale e militare era considerato il soggetto migliore per affrontare la loro problematicità. Il bronzo del Bierzo non solo fa piena luce
ria augustea, e che L. Sestio Quirinale fosse il legatus della macroprovincia della Hispania Ulterior. Di tutto ciò, ma Faoro ammette trattarsi di una sua opinione, però non esiste alcun appiglio testuale. Gli unici elementi certi e oggettivi che si traggono dall’epigrafe sono l’esistenza di una Transduriana provincia, affidata a un proconsul, che tale proconsul era Augusto, il quale allontanatosi aveva affidato il governo al proprio legato L. Sestio Quirinale. 256 A. GUARINO, Gli aspetti giuridici del principato, in ANRW II.13, Berlin-New York 1980, p. 34 [ora in ID., Studi di diritto costituzionale romano, II, Napoli 2008, p. 386]. 257 F. HURLET, Le proconsul et le prince, cit., pp. 24 ss. Ma vedi più ampiamente infra CAPITOLO TERZO, § 10.
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sull’impegno personale del principe in Spagna 258, ma aggiunge la notizia, unica nel suo genere, che Augusto era proconsul della Transduriana provincia: provincia certamente non pacata, scenario di eventi bellici, di nuova istituzione e lontana dall’aver raggiunto un benché minimo livello di romanizzazione, eppure non per questo non governata da un proconsul. Se questo è chiaro rispetto al princeps stesso grazie alla Tessera Paemeiobrigensis, è dalla copiosa documentazione epigrafica relativa a province diverse per geografia e peso politico, economico e strategico militare che invece ricaviamo l’ampia dimostrazione del carattere artificiale della tripartizione del governo provinciale tra proconsules, legati Augusti e procuratores, a cui a rigore dovremmo aggiungere addirittura un quarto genus di governo provinciale, cioè quello prefettizio, sulla base della sistemazione dell’Egitto tolemaico ridotto a provincia. In questo quadro, si risolve pure il problema della configurazione di quello che sinora era stato considerato una grande eccezione nel sistema provinciale, cioè l’Aegyptus, tanto misteriosa da aver condotto a curiose contorsioni ricostruttive. Per afferrarne le indubbie peculiarità istituzionali, ci si è infatti spinto sino a negarne lo status di provincia populi Romani e a descriverlo come un dominio di proprietà esclusiva di Augusto, retto tramite una sorta di vicerè, appunto il praefectus Alexandreae et Aegypti. Niente di più stravagante e infondato e palesemente in contrasto con tutta la documentazione esistente. Quel celebre passaggio delle Res Gestae dedicato all’Egitto invece conterrebbe, a dispetto di quanto si sia sinora creduto 259, un’altra manifestazione della sincera
258 Per quanto datato, un quadro generale è in D. MAGIE, Augustus’War in Spain (26-25 B.C.), in CPh 15, 1920, pp. 323 ss. 259 Luogo comune, ricco di suggestioni ma del tutto infondato, come credo di aver dimostrato anche in La prefettura d’Egitto fra conservazione e innovazione istituzionale, in Studi per Giovanni Nicosia, IV, Milano 2007, pp. 387 ss. [= in Minima Epigraphica et Papyrologica 10, 2007, pp. 29 ss.]; e amplius in «Aegyptum imperio populi Romani adieci», cit., passim, le cui conclusioni sono confortate anche dall’opinione di G. NICOSIA, Considerazioni sull’amministrazione delle province in età imperiale, in AUPA 52, 2007-2008, pp. 27 ss. Cfr. L. CAPPONI, Augustan Egypt. The Creation of a Roman Province, New York-London 2005 (vedi a tal proposito A. JÖRDEN, rec. di L. CAPPONI, Augustan Egypt. The Creation of a Roman Province [2005], in Laverna 17, 2006, pp. 156 ss.); da ultimo G. GERACI, L’Egitto provincia romana: prototipo di nuovi modelli d’organizzazione provinciale d’età imperiale?, in Pignora amicitiae. Scritti di storia antica e storiografia offerti a M. Mazza (a cura di M. Cassia, C. Giuffrida, C. Molè, A. Pinzone), III, AcirealeRoma 2012, pp. 27 ss., che così scrive: «Che l’Egitto romano non sia stato formalmente una provincia è affermazione che se mai l’abbia avuto, oggi non ha certamente più senso sostenere»; ma vedi pure ID., ‘Praefectus Alexandreae et Aegypti’. Alcune riflessioni, in Simblos 1, 1995, pp. 159 ss. Nonostante ciò D. FAORO, Praefectus, procurator, praeses. Genesi delle cariche presidiali equestri nell’Alto Impero Romano, Firenze 2012, p. 2, continua a ravvisare nella prefettura d’Egitto un unicum nel panorama provinciale. Ovviamente non si spiega come mai il senato, e l’opinione pubblica generale, da un lato ammettessero ciò che alcuni moderni hanno ritenuto circa l’Egitto e la sua appartenenza ad Augusto e poi lasciassero testimonianze come l’iscrizione rinvenuta a
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per quanto abile e prudente aderenza di Augusto agli schemi costituzionali romani: RGDA 27.1: Aegyptum imperio populi [Ro]mani adieci. L’Egitto strappato ad Antonio e Cleopatra, la ricca terra dei Faraoni, dalla prestigiosa storia segnata da una cultura millenaria, quel territorio nevralgico sotto il profilo politico, economico e militare nello scacchiere del Mediterraneo, dopo Azio era stato aggiunto all’imperium populi Romani 260, e ciò secondo la tradizionale redactio in formam provinciae 261, come attesta anche il maggior biografo del principe, Svetonio: Svet. Aug. 18.2: Aegyptum in provinciae formam redactam ut feraciorem habilioremque annonae urbicae redderet […] 262. Senza ritornare oltremodo in questa sede sul tema 263, è utile ricordare come il sistema di governo dell’Egitto – per quanto caratterizzato da un regime segnato da forti peculiarità (per esempio, la presenza dell’idiologus) – in realtà non fosse affatto un unicum nel panorama istituzionale romano: accanto ad esso numerosi furono i casi di importanti province rette da praefecti 264, quando
Rocca di Piana nel 1897 relativa alle feste del primo agosto, ricorrenza della riduzione dell’Egitto sotto il dominio del popolo romano istituita come dies festivo mediante senatoconsulto: [ – – – Hoc mense] Aegyptus in potestatem p(opuli) R(omani) / [redacta est] / [K(alendae) Aug(ustae)], np Victoriae. Victoriae / Virgini in Palatio, Spei in / foro Holitorio. Feria[e ex s(enatus) c(onsulto)], / q(uod) e(o) d(ie) Imp. Cae[sar Augustus rem] / [publicam tristissimo periculo liberavit] (A. DEGRASSI, Inscriptiones Italiae. XIII. Fasti et elogia, fasc. 2. Fasti anni Numani et Iuliani, Roma 1963, 134 s., tav. XIV 1, pp. 489 ss.). Per quanto estraneo ai profili trattati, è da segnalare il nuovo libro di S. ALESSANDRÌ, Il procurator ad Mercurium e il procurator Neaspoleos. Ricerche sui procuratori imperiali in Egitto, Galatina (LE) 2018, che ricostruisce altri aspetti istituzionaliamministrativi dell’Egitto romano. 260 G. NICOSIA, Considerazioni sull’amministrazione, cit., p. 31, propone di intendere RGDA 27.1 «in senso omnicomprensivo sulla scorta anche di Gai. 1.53: hominibus qui sub imperio populi Romani sunt». 261 Vale la pena ricordare come in precedenza attraverso un’apposita rogatio si fosse tentato di attribuire a Cesare il compito di condurre la redactio in formam provinciae dell’Egitto governato da Tolomeo Aulete (Svet. Iul. 11; Cic. de lege agr. 2.17.44). Cfr. G. ROTONDI, Leges publicae, cit., p. 377. 262 Per avere un’idea del fatto che l’Egitto sin dalla svolta augustea venne ordinato in provincia e tecnicamente sempre considerato tale, è sufficiente richiamare, e in via esemplificativa, l’opinione dei giuristi: D. 48.10.1.4 (Marcian. 14 inst.); D. 48.22.7.5 (Ulp. 10 de off. procons.). 263 Vedi supra nt. 259. 264 Dalla documentazione disponibile certamente furono sottoposte al governo di praefecti le seguenti province: Sardegna, Giudea, Dacia Inferiore, Mesopotamia. Sul punto O. LICANDRO, «Aegyptum imperio populi Romani adieci», cit., pp. 53 ss. Contra D. FAORO, Die Grossprovinz Germanien, cit., pp. 696 ss., secondo cui le prefetture non erano unità amministrative indipenden
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ragioni di strategia politica o militare o di ordine pubblico inducevano ad assegnare questo o quel territorio alla cura del princeps che in tal caso neppure nominava un legatus Augusti ma un suo praefectus. Ora, trattandosi dell’Egitto, nessuno dimenticava la storia recente, era ben vivo il ricordo di quanto, con Cesare prima e con Antonio dopo, quella terra dalla cultura millenaria, fascinosa e strategica nel Mediterraneo, sotto il profilo militare ed economico, fosse stata una temibile incubatrice di disegni egemonici arditi, pericolosi e incompatibili con i più autentici valori politici, istituzionali e culturali romani: la costruzione di una monarchia dispotica di stampo ellenistico-orientale. Da qui uno statuto speciale caratterizzato da un governatore prefetto che riceveva l’imperium per legge ad similitudinem proconsulis, come scriveva ancora Ulpiano in età severiana 265. La figura prefettizia, presente nell’ordinamento giuridico romano sin dall’età monarchica nella forma urbi, estesa poi in età repubblicana ai prefetti iure dicundo Capuam Cumas, con Augusto acquistò una rinnovata e significativa centralità. E non ci vuol molto a comprenderne le ragioni. Se Augusto nutrì davvero la convinzione di sottoporre a un ferreo controllo diretto una terra strategica come l’Egitto nello scacchiere del Mediterraneo, ciò sarebbe potuto accadere soltanto nel rispetto delle forme repubblicane e mediante un compromesso politico con il senato. E così, il principe, da un canto, otteneva un potere politico forte sull’Egitto, escludendo i senatori e i cavalieri più illustri dalla permanenza senza autorizzazione imperiale 266; da un altro canto, doveva cedere sulla fonte della legittimità del potere del governatore escludendo che questa potesse essere la sua volontà. L’unica via percorribile era, quindi, quella di ricondurre il potere del praefectus Aegypti alla fonte di legittimità repubblicana dei governatori provinciali, cioè i proconsules, e non poteva che ricorrersi alla lex publica e al senatus consultum. Ma, ripeto, non un solo dato autorizza a immaginare una catego
ti bensì «distretti interni a provinciae governate da un magistrato senatoriale». Vedi pure D. FAORO, Praefectus, procurator, praeses, cit., pp. 81 ss.; ID., L’Egitto e i poteri di Augusto. Una breve riflessione sulle ‘provinciae Caesaris’, in AA.VV., ‘Caesar Augustus’. Entre Práticas e Representaçôes (a cura di C.E. da Costa Campos, M.-R. Candido), Vitoria-Rio de Janiero 2014, pp. 51 ss.; ID., L’imperatore come ‘proconsul’di ‘Sardinia’, in AA.VV., Momenti di continuità e rottura: bilancio di 30 anni di convegni de L’Africa romana. Atti del XX Convegno internazionale, Alghero-Porto Conte, 26-29 settembre 2013 (a cura di P. Ruggeri), Roma 2015, pp. 1 ss. 265 D. 1.17.1 (Ulp. 15 ad ed.): Praefectus Aegypti non prius deponit praefecturam et imperium, quod ad similitudinem proconsulis lege sub Augusto ei datum est, quam Alexandriam ingressus sit successor eius, licet in provinciam venerit: et ita mandatis eius continetur, per il quale rinvio ancora a O. LICANDRO, «Aegyptum imperio populi Romani adieci», cit., passim. 266 Sulla questione per tutti, M.A. LEVI, L’esclusione dei senatori romani dall’Egitto augusteo, in Aegyptus 5, 1924, pp. 231 ss.; ID., Cleopatra e l’aspide, in PP 9, 1954, pp. 295 ss.; A.D. MANFREDINI, Ottaviano, l’Egitto, i senatori e l’oracolo, in Labeo 38, 1986, pp. 7 ss.; G. Purpura, «Passaporti» Romani, in Aegyptus 82, 2002, pp. 144 ss.
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ria diversa da quella delle provinciae populi Romani nei decenni del principato augusteo 267. In definitiva, anche su questi temi, l’epigrafe iberica offre un prezioso contributo, quale nitido fotogramma del ‘compromesso politico-istituzionale’ tra il principe e il senato messo a punto, non senza fatica, non soltanto con l’assetto introdotto nel 27 a.C., ma modellato progressivamente mediante vari aggiustamenti negli altri passaggi del 23 e del 19 a.C. Il che permette di calibrare con maggior approssimazione, se non vogliamo dire precisione, l’interpretazione del resoconto di Cassio Dione relativo al 27 a.C.: Cass. Dio 53.12.1-2: t¾n m n oân ¹gemon…an toÚtJ trÒpJ par¦ tÁj gerous…aj toà te d»mou ™bebaièsato, boulhqeˆj d d¾ kaˆ ìj dhmotikÒj tij e nai dÒxai, t¾ m n front…da t¾n te prostas…an tîn koinîn p©san kaˆ ™pimele…aj tinÕj deomšnwn Øpedšxato, oÜte d p£ntwn aÙtÕj tîn ™qnîn ¢rxein, oÜq' Óswn ¨rxV, di¦ pantÕj poi»sein œfh, [2] ¢ll¦ t¦ m n ¢sqenšstera æj kaˆ e„rhna‹a kaˆ ¢pÒlema ¢pšdwke tÍ boulÍ, t¦ d' „scurÒtera æj kaˆ sfaler¦ kaˆ ™pik…nduna kaˆ ½toi polem…ouj tin¦j proso…kouj œconta À kaˆ aÙt¦ kaq' ˜aut¦ mšga ti newter…sai dun£mena katšsce; le province turbolente, o segnate da problemi di ordine pubblico, o non pacificate, per condizioni belliche attive, come la Transduriana, erano governate dal princeps, che ne assumeva il peso facendo rientrare quei territori nella sua più generale provincia, quale sfera propria di competenza.
8. I POTERI DEL 19 A.C. Da qualche tempo, è andato facendosi largo il convincimento che nel 19 a.C., anno in cui Augusto ritornò a Roma dopo la lunga missione in Oriente iniziata nel 22 a.C., Augusto si fece conferire i poteri consolari a vita. Questa opinione si fonda su un brevissimo scorcio dioneo del libro LIV della RWMAIKH ISTORIA: Cass. Dio 54.10.5: ™peid» te mhd n æmolÒgei Ósa te ¢pÒntoj aÙtoà stasi£zontej kaˆ Ósa parÒntoj foboÚmenoi œprasson, ™pimelht»j te tîn trÒpwn ™j pšnte paraklhqeˆj d¾ ™ceiroton»qh, kaˆ t¾n ™xous…an t¾n m n tîn timhtîn ™j tÕn aÙtÕn crÒnon t¾n d tîn Øp£twn di¦ b…ou
267
Cfr. F. MILLAR, The Emperor, the Senate and the Provinces, in JRS 63, 1973, pp. 156 ss.; ID., “Senatorial” Provinces: An Instituzionalized Ghost, in The Ancient World 20, 1989, pp. 93 ss.; di recente, così anche A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., pp. 49 ss.
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œlaben, éste kaˆ ta‹j dèdeka ·£bdoij ¢eˆ kaˆ pantacoà crÁsqai, kaˆ ™n mšsJ tîn ¢eˆ ØpateuÒntwn ™pˆ toà ¢rcikoà d…frou kaq…zesqai. [Poiché la popolazione dimostrava una notevole differenza di condotta tra i periodi in cui il principe era assente, quando cioè i cittadini ne approfittavano per creare disordini, e i periodi in cui egli era in città, ovvero quando temevano la sua presenza, su iniziativa del popolo venne eletto praefectus moribus per cinque anni ed assunse non solo il potere dei censori per una durata analoga, ma anche quello dei consoli per tutta la vita, per cui ottenne l’autorità di usare sempre ed ovunque dodici littori e di sedere sulla sella curule in mezzo ai consoli in carica].
In realtà il frammento è assai ambiguo, per certi aspetti anche errato come nel caso della presunta elezione a praefectus moribus del tutto smentita da Augusto, e per quanto alcuni con raffinata discussione abbiano voluto interpretarlo in quella luce, mi sembra ragionevole sostenere che non si trattasse di conferimento di poteri consolari, bensì degli onori connaturati al consolato 268, e cioè la facoltà di usare i dodici littori, la prerogativa di sedere sulla sella curule tra i due consoli in carica, l’eponimia, ecc. In un recente saggio Alberto Dalla Rosa 269 si è soffermato sulla questione con una conclusione non dissimile dalla mia, se non per una sfumatura. Secondo Dalla Rosa, «i privilegi del 19 non restituirono ad Augusto la posizione che prima godeva come console. Pur potendo portare permanentemente le insegne di questa magistratura, egli si comportò come tale solamente in certi ambiti o in particolari occasioni» 270. Se concordo pienamente sulla prima affermazione, meno convincente mi appare la seconda: non è che il mancato esercizio dei poteri consolari fosse riconducibile alla prudente volontà di Augusto, ma al fatto che egli non ebbe né il consolato perpetuo né i relativi poteri sganciati dalla carica. Come invece scrive Cassio Dione, furono gli onori consolari a essergli riconosciuti a vita. Il problema era infatti più di prestigio che di sostanza, in quanto Augusto si sarebbe trovato, una volta rientrato a Roma, nell’imbarazzante situazione di apparire in pubblico in forme subalterne ai consoli. Ferrary, da canto suo, giustamente non crede affatto che Augusto fosse di fatto un terzo console conseguendone i poteri 271, mentre vede un altro assestamento chiave nel momento del rinnovo dei suoi poteri provinciali 272, nel 18 a.C., ritenendo, tuttavia su un piano del tutto indiziario, che l’imperium rinnova
268 Cfr. per tutti E. BETTI, La crisi della Repubblica, cit., pp. 586 s.; S. TONDO, Profilo di storia costituzionale romana. Parte seconda, Milano 1993, p. 256. 269 A. DALLA ROSA, L’autocrate e il magistrato, cit., pp. 555 ss. 270 A. DALLA ROSA, L’autocrate e il magistrato, cit., p. 582. 271 J.-L. FERRARY, À propos du poivours d’Auguste, cit., pp. 129 s. 272 Cass. Dio 54.12.4.
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to al princeps fosse ancora consulare, «qui ne dut pas encore être officiellement défini comme proconsulare imperium» 273. Però, interpretare la notizia dionea come nuovo conferimento di ulteriori poteri e in particolare di un imperium consulare, o di un mantenimento decennale dell’imperium consulare ci condurrebbe inevitabilmente verso una ricostruzione alternativa non suffragata dalle fonti e perciò assai più controversa 274; e del resto se, sulla base dell’editto di Paemeiobriga, sappiamo che nel 15 a.C., ben otto anni dopo il 23 a.C., Augusto era titolare di un imperium proconsulare, saremmo oggi costretti a immaginare, senza alcuna precisa documentazione, che egli cumulasse un imperium proconsulare (23 a.C.) con un nuovo imperium consulare (19 a.C.).
9. NON REGNO TAMEN NEQUE DICTATURA, SED PRINCIPIS NOMINE CONSTITUTAM REM PUBLICAM (TAC. ANN. 1.9.5): IL TITOLO DI PRINCEPS Abbiamo visto come, sul piano degli schemi costituzionali repubblicani, la rappresentazione di Cassio Dione confermi la duttilità di Augusto disposto ad aderire allo svolgimento politico e alla magmatica e cangiante realtà costituzionale romana; e nella valutazione dell’affidabilità dello storiografo di Nicea sappiamo di non dover smarrire mai l’insegnamento di Francesco De Martino che, cogliendo acutamente l’essenza della questione, ha osservato che «gli aspetti giuridici si intrecciano in questo caso con la sostanza politica» 275, criticando ogni tentativo di ricostruzione della genesi del principato lungo una visione formalistica 276. Un doppio filo di cui erano ben consapevoli gli storici antichi, spesso sottovalutati o trattati con un’infondata e inspiegabile sufficienza, se non addirittura con sospetto. In effetti, l’atteggiamento della critica moderna è stato, e per certi versi continua a esserlo, davvero sorprendente: nell’opera dionea sono molteplici i passi – e nelle pagine precedenti ne abbiamo dato ampi saggi – che, intrecciati con i nuovi documenti, confermano non solo la straordinaria abilità di Augusto, ma pure la cautela in larga misura dei suoi immediati successori, di piegare, o meglio far calzare, adattare le vesti repubblicane alla nuova sostanza politica che andava profondamente e in maniera irreversibile modificandosi:
273
J.-L. FERRARY, À propos des pouvoirs d’Auguste, cit., p. 141. Se intendo bene il suo pensiero, contrario a un imperium proconsulare è W. ECK, Augusto, cit., p. 60. 275 F. DE MARTINO, Intorno al Senatusconsulto de Pisone patre, cit., p. 465 [= ID., Diritto Economia e Società nel mondo romano. II. Diritto pubblico, Napoli 1996, p. 587]. 276 Si veda ad esempio, sempre a proposito del dibattito sull’imperium maius, il contributo di W.D. LEBEK, Das Prokonsulat, cit., pp. 103 ss. 274
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Cass. Dio 53.17.3-4: [...] kaˆ †na ge m¾ ™k dunaste…aj ¢ll' ™k tîn nÒmwn toàt' œcein dokîsi, p£nq' Ósa ™n tÍ dhmokrat…v mšga par' ˜koàs… sfisin ‡scusen, aÙto‹j to‹j ÑnÒmasi cwrˆj toà tÁj diktator…aj prosepoi»santo. [4] Ûpato… te g¦r pleist£kij g…gnontai, kaˆ ¢nqÚpatoi ¢e…, Ðs£kij ¨n œxw toà pwmhr…ou ðsin, Ñnom£zontai. Cassio Dione ammette che, per evitare che l’egemonia personale apparisse la fonte di legittimazione del potere imperiale, la strada percorsa da Augusto e dai principes fu quella della legge 277, atto normativo per eccellenza da ricondurre alla volontà popolare. E quella concezione rimase in piedi per l’intera durata della storia giuridica imperiale, sino al tempo dell’assolutismo giustinianeo come attestano i relativi documenti sulla lex de imperio 278. Ancora più esplicitamente Cassio Dione scrive: Cass. Dio 53.17.11: taàta m n ™k tÁj dhmokrat…aj, éj pou kaˆ ›kasta ™nom…sqh, oÛtw te kaˆ di¦ toÚtwn tîn Ñnom£twn e„l»fasin, Ópwj mhd n ¥neu dÒseèj tinoj œcein dokîsin. A conclusione del resoconto di quegli straordinari mutamenti politici e costituzionali, Cassio Dione affida ai lettori della sua opera il suo giudizio di storico, ma anche di uomo dello Stato e di profondo conoscitore dell’architettura istituzionale, dei suoi equilibri nel gioco dei meccanismi e delle dinamiche politiche del suo tempo segnato ormai da aspetti marcatamente monarchici: «queste sono dunque le istituzioni che gli imperatori hanno adottato desumendole dalla respublica, mantenendole sostanzialmente con le loro funzioni originarie, e di cui utilizzarono anche i nomi delle cariche per dare l’apparenza di non mantenere il possesso di nessuna carica senza che fosse stata loro precedentemente concessa». Non si tratta di un giudizio a posteriori della ‘doppiezza’ augustea, ma di una ricostruzione fondata sulla conoscenza della trasparente strategia dichiarata, e non occultata, da Augusto stesso. Per quanto assai autorevolmente si sia sostenuto il contrario 279, Augusto non fece del princeps una nuova carica pubblica che si affiancasse alle magistrature, ma ricorse a quelle repubblicane, e così fecero i suoi successori, assumendone – scrive Cassio Dione – i titoli ad eccezione della dittatura. Spiegare perché i principes non assunsero il titolo di dictator è anche troppo semplice e banale alla lu
277 Del medesimo avviso, oltre a J.-L. FERRARY, À propos des pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 101 ss.; T. SPAGNUOLO VIGORITA, La repubblica restaurata, cit., pp. 530 ss.; Z. YAVETZ, The Res Gestae and Augustus’ Public Image, in AA.VV., Caesar Augustus. Seven Aspects (a cura di F. Millar, E. Segal), Oxford 2002, pp. 26 ss. 278 I. 1.2.6 (cfr. Gai. 1.5 e PTh. 1.2.6); D. 1.4.1pr.; Const. Deo Auctore 7; C. 6.23.3. 279 P. DE FRANCISCI, Nuovi appunti, cit., p. 15.
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ce delle drammatiche vicende cesariane 280, ma credo che sia sufficiente attenersi alla secca e giuridicamente congrua affermazione dell’autore delle Res Gestae: RGDA 6.1: […] nullum magistratum contra morem maiorum delatum recepi. Egli rifiutò quegli eccessi che, come annota Svetonio (Iul. 76), costarono la vita a Cesare: la dittatura a vita, il consolato perpetuo e per ben tre volte la cura legum et morum in quanto per tradizione ‘non costituzionali’. Bisognerebbe in definitiva, una volta tanto, non sottovalutare il valore formale, in senso costituzionale, di ciò che Augusto stesso scrisse nel suo testamento politico. È vero che a questa affermazione dello stesso principe possiamo contrapporre alcuni giudizi degli antichi. E non solo di autori tardi, come il già citato Cassio Dione (53.17.1), ma anche dello stesso Svetonio (Aug. 26: magistratus atque honores et ante tempus et quosdam novi generis perpetuosque cepit). Tali giudizi suonano infatti come una smentita e attestano la percezione che ormai l’opinione pubblica aveva dei poteri e delle magistrature conferite al principe. Un modo di osservare la realtà non ingiustificato, in quanto certamente ‘politico’, ma non ‘giuridico’ e soprattutto non diacronico – ed anzi in parte senza dubbio anacronistico – che si è perpetuato e ha influenzato anche i moderni, inducendo per esempio Moses I. Finley 281 a formulare il tacitiano giudizio di «un modello di ipocrisia». Pur senza negare alcune tendenze autocratiche di Augusto, non bisogna tuttavia appiattire la prospettiva storica, attribuendo al momento di genesi del potere imperiale in una fase di equilibri con il senato ancora assai fluidi e delicati, l’ormai consolidato assetto istituzionale e il modo di sentire di età successive. Probabilmente questo breve scorcio delle Res Gestae, guardato sotto una diversa luce, potrebbe voler dire altro da quello che normalmente si è inteso: cioè che, nella sua sapiente propaganda di restaurazione repubblicana, Augusto volle sottolineare il rifiuto verso cariche di nuova creazione e sottolineare il suo attac
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A proposito dell’uso dei titoli delle magistrature repubblicane, in effetti è possibile cogliere in fallo lo storico, dal momento che in un passo successivo precisa bene che mai i principes portarono il titolo di tribunus plebis (Cass. Dio 53.32.6: ¢f' oá d¾ kaˆ ™ke‹noj kaˆ oƒ met' aÙtÕn aÙtokr£torej ™n nÒmJ d» tini to‹j te ¥lloij kaˆ tÍ ™xous…v tÍ dhmarcikÍ ™cr»santo·tÕ g£r toi Ônoma aÙtÕ tÕ tîn dhm£rcwn oÜq' Ð AÜgoustoj oÜt' ¥lloj oÙdeˆj aÙtokr£twr œsce [sia Augusto, sia gli imperatori che gli succedettero godettero, per una sorta di autorità garantita dalla legge, di esercitare il potere tribunizio insieme agli altri poteri: infatti, il titolo di tribuno in sé non venne assunto né da Augusto né da nessun altro imperatore]). Dunque non solo quello di dictator, ma anche il titolo di tribunus plebis non fu mai appannaggio dei principi. Allora l’unica strada per salvare anche in questo caso l’affidabilità di Cassio Dione è quella di immaginare che egli si rivolgesse soltanto alle magistrature attraverso cui si snodava il cursus honorum rispetto al quale erano certamente estranei sia la dittatura sia il tribunato della plebe. 281 M.I. FINLEY, Problemi e metodi di storia antica, Roma-Bari 1987, p. 21. Vedi pure le puntuali osservazioni di A. GUARINO, Gli aspetti costituzionali del principato, cit., pp. 494 ss., che invita a una rilettura più attenta e prudente delle Res Gestae.
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camento alle forme dei maiores. Certo tutti sapevano quante e quali cariche, e non solo poteri, egli avesse cumulato negli anni del suo lungo principato; ma tutti, Augusto compreso, avevano piena consapevolezza che il turbamento dell’opinione pubblica non sarebbe derivato tanto dal cumulo di diverse cariche, già ripetutamente sperimentato nell’ultimo secolo della res publica, quanto dall’istituzione di nuove magistrature, anzi di magistrature contra morem maiorum. Ricorrendo a una metafora, diremmo che il punto di debolezza del cristallo fosse proprio questa contrarietà ai mores maiorum, da non sottovalutare storicamente quale mero formalismo giuridico, perché si è visto che al rispetto formale della tradizione costituzionale si dava grande peso politico. Ed esso fu causa non secondaria dell’uccisione di Cesare, il quale si accingeva appunto a esercitare la dittatura a vita, un monstrum istituzionale evocante il regnum, che i fautori della respublica, benché certamente motivati da una profonda contrapposizione di interessi politici e anche economici, pure seppero e poterono addurre a giustificazione politica e morale del cesaricidio. La prudenza utilizzata da Augusto fu ineccepibile al riguardo e certamente in questo senso l’auctor del novus status rei publicae risentì, anzi ne trasse giovamento, della poderosa influenza di un iuris peritus, sapiente in materia di diritto pubblico, come Ateio Capitone, ingiustamente considerato mediocre. Il rispetto di Augusto, quasi ossessivo nella sua ostentazione per non apparire addirittura sospetto, verso gli schemi repubbblicani, verso regole e prassi inveterate è dominante in ogni passaggio delle Res Gestae. Non dobbiamo fermarci al solo rifiuto di assumere magistrature contra more maiorum: taluni gesti volutamente teatrali come la lacerazione con disprezzo delle vesti del dittatore (Cass. Dio 54.1.4) o il rifiuto del consolato annuo e perpetuo (RGDA 5.1-2) e della censura a vita (Cass. Dio 54.2.1) sono simbolicamente forti. Però è pure utile cogliere quei comportamenti apparentemente meno pregnanti eppure altrettanto significativi. L’assunzione della carica di Pontifex maximus, soltanto attraverso elezione comiziale e comunque dopo la morte di Lepido, che invece si era impadronito con violenza di quella carica sacerdotale mantenendola sino alla fine dei suoi giorni malgrado fosse politicamente sconfitto e in esilio, contribuisce a capire la vera cifra dell’abilità politico-istituzionale di Augusto (RGDA 10.2: Pontif]ex maximus ne fierem in vivi [c]onle[gae mei l]ocum, [populo id sace]rdotium deferente mihi, quod pater meu[s habuer]at r[ecusavi, qu]od sacerdotium aliquod post annos, eo mor[t]uo d[emum qui civilis tu]m[ultus] occasione occupaverat, cuncta ex Italia [ad comitia mea] confluen[te mu]ltitudine, quanta Romae nun[q]uam [fertur ante i]d temp[us fuisse] recep[i] P(ublio) Sulpicio G(aio) Valgio consulibus). Dietro queste scelte non dobbiamo tanto vedere uomini come Agrippa e Mecenate che pur si erano divisi sull’opzione strategica dell’approdo augusteo (repubblica o monarchia), ma parte di quel ceto di giuristi disponibili a collaborare con Augusto e che trovavano la loro punta più avanzata e di autorevole guida in Ateio Capitone.
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Eppure già con il suo successore, con Tiberio, questa dimensione era destinata a mutare irreversibilmente. A detta di Tacito, nel 22 d.C. Tiberio in un discorso al senato senza alcun timore così si espresse: Tac. ann. 3.53.3: […] non aedilis aut praetoris aut consulis partis sustineo: maius aliquid et excelsius a principe postulatur. Tiberio rifiutava che la sua funzione e la sua essenza politica fossero semplicemente lette e filtrate alla luce degli schemi repubblicani: maius aliquid et excelsius a principe postulatur, in questa espressione orgogliosa e superba – questa sì del tutto fuori da ogni definizione costituzionale, per quanto incerta e magmatica – sta la nuova svolta politica e istituzionale. Essa adesso viene nettamente affermata; è ormai teorizzata e – apertis verbis – viene rappresentata al senato la nuova sostanza politica e istituzionale. Utilizzando un celebre passo di Livio riferito al decemvirato legislativo, può dirsi mutatur forma civitatis. Mutata forma civitatis: Augusto non avrebbe mai pronunciato quelle parole; neppure osò scriverle nel suo testamento politico – lo fecero invece i suoi biografi parlando di costruzione di un novus status rei publicae – sebbene le mutate condizioni politiche fossero tali da consentire che si dichiarasse e si praticasse senza infingimenti lo sconvolgimento profondo, pur nell’ostentato ossequio di alcune forme repubblicane, dell’impianto istituzionale dello Stato romano. Augusto non fece altro che seguire scrupolosamente il consiglio che il fidatissimo Mecenate gli rilasciava nel 29 a.C.: «se poi, mentre da un lato scegli la sostanza della monarchia e, dall’altro, ne temi il nome come esecrando, allora non accettare il titolo di re, ma piuttosto assumi il potere assoluto con l’appellativo di ‘Cesare’. Ma se senti il bisogno di richiedere anche altri epiteti, le tue genti ti conferiranno il titolo di imperator proprio come avevano fatto con tuo padre, e ti renderanno onore con un altro titolo ancora, cosicché disporrai di fatto di tutti i vantaggi di un regno pur senza far mai ricorso al nome odioso di re» 282. Come circa novant’anni fa, Salvatore Riccobono jr., senza esitazioni, spiegò di non trovare ragioni convincenti per considerare il dialogo tra Augusto e Agrippa e Mecenate un semplice artificio retorico 283, credo di poter ribadire che Mecenate, lucidamente consapevole della delicatezza della fase e della necessità di non compiere alcun errore, indusse Augusto a imprimere alla politica di consolidamento della sua leadership il tratto differenziale tra forma e sostanza del governo nascen
282 Cass. Dio 52.40.1; cfr. Cass. Dio 53.2.6 e 53.11.5. Per quanto concerne il titolo di imperator, mi sembrano eccessive le considerazioni di P. DE FRANCISCI, Genesi e struttura, cit., p. 11: «esso […] doveva apparire come espressione indicante un supremo e perpetuo comando militare anzi un più generale imperare che aveva per destinataria la massa dei cittadini», e a cui presto dovette sembrare naturale collegare imperator a dominatore, signore, sovrano. 283 S. RICCOBONO JR., Augusto, cit., p. 466.
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te, di nome repubblicano ma anche di quell’impronta nuova che sarebbe divenuta monarchica: insomma, le nuove fondamenta di cui parlava nell’editto del 28 a.C. Con Tiberio, il quadro era evidentemente mutato e appariva legittimo al nuovo princeps affermare dinanzi al senato che non tutto poteva ormai ricondursi, o ridursi, alle magistrature repubblicane. Dinanzi a quell’ormai simulacro del baluardo della legalità costituzionale repubblicana come il senatus aveva tentato di essere nei decenni appena trascorsi, Tiberio princeps solennemente, quasi con sprezzo, dichiarava che era mutata la forma di governo. Tacito, in un celeberrimo passaggio, dà pieno conto di questa ambivalenza, che copriva sorretta da una formidabile propaganda trasformazioni profonde: Tac. ann. 1.9.5: […] non regno tamen neque dictatura sed principis nomine constitutam rem publicam. Quello appena richiamato è un testo molto noto su cui però forse non si è riflettutto abbastanza sulle sue più strette connessioni con la parola princeps. Secondo Pietro de Francisci, questo termine che «prima era una semplice espressione di opinione di partito o formulazione filosofica dell’idea del governante saggio, ora diviene una realtà operante, in quanto in Augusto il popolo vede colui che per le sue qualità e per la sua autorità è il migliore e il più degno, il capo chiamato a reggere lo Stato» 284. In realtà, ma lo vedremo meglio più avanti, princeps e principes non erano parole deboli, espressione di mera speculazione filosofica o politica, ma molto di più. E per quanto princeps non fosse il titolo ufficiale della carica per il semplice fatto che essa non esisteva ancora, né fosse ricompreso nella titolatura imperiale, non può neppure intendersi privo di alcuna ufficialità come vuole de Francisci 285. Princeps era un termine appartenente al lessico politico e un titolo della nomenclatura istituzionale di stampo eminentemente repubblicano/aristocratico: princeps senatus. A leggere Ovidio (carm. 1.2.50; 1.21.14; fast. 2), poi, apprendiamo che era un titolo assai amato da Augusto. Sebbene nelle pagine di De Martino 286 si incontri lo scetticismo del giusromanista verso le notazioni filologiche perché difficilmente utili a trarre qualche conclusione sulla sostanza del potere, forse è opportuno non scartare nessuna strada. Nel testo delle Res Gestae esso ricorre in tutto quattro volte, di cui tre senza alcuna specificazione, e precisamente in: RGDA 13: [Ianum] Quirin[um, quem cl]aussum ess[e maiores nostri voluer]unt, cum [p]er totum i[mperium po]puli Roma[ni terra marique es]set
284
P. DE FRANCISCI, Genesi e struttura, cit., pp. 29 ss. P. DE FRANCISCI, Genesi e struttura, cit., p. 28. 286 F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., IV.1, p. 223. 285
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parta victoriis pax, cum pr[iusquam] nascerer, [a condita] u[rb]e bis omnino clausum [f]uisse prodatur m[emori]ae, ter me princi[pe senat]us claudendum esse censui[t]. Augusto ricordava come durante il suo governo il senato dispose per ben tre volte la chiusura del tempio di Giano Quirino, il che equivaleva a esaltare il merito di aver assicurato un lungo periodo di pace, ancor più significativo perché a seguito delle guerre civili; la seconda e la terza menzione generica di princeps appaiono in due brani riguardanti la sfera della politica estera, le relazioni internazionali e le conquiste militari: RGDA 30.1: Pannoniorum gentes, qua[s a]nte me principem populi Romani exercitus nunquam adit, devictas per T(iberium) [Ne]ronem, qui tum erat privignus et legatus meus, imperio populi Romani s[ubie]ci protulique fines Illyrici ad ripam fluminis Dan[ui]. RGDA 32.3: Plurimaeque aliae gentes exper[tae sunt p(opuli) R(omani)] fidem me principe, quibus antea cum populo Roman[o nullum extitera]t legationum et amicitiae [c]ommercium. Ma quella che a me pare la più pregnante è la quarta e si trova in un capitolo delle Res Gestae che precede quelli appena richiamati: RGDA 7.2: [P]rinceps s[enatus usque ad e]um d[iem, quo scrip]seram [haec per annos] quadra[ginta] fui. Anche in questo secco squarcio autobiografico è possibile misurare l’orgoglio di un leader, un uomo ebbro del suo primato politico: egli fu ininterrottamente principe del senato dal 28 a.C., per quarant’anni, sino ai giorni della redazione delle Res Gestae. Ma non è questo il punto rilevante, la questione principale è di segno diverso e certamente non psicologico: Augusto ricorre a un titolo repubblicano assunto per la prima volta nel 28 a.C., cioè in occasione della sua prima lectio senatus, e si tratta precisamente del titolo onorifico riconosciuto al senatore più autorevole che per tale ragione vedeva il suo nome indicato in apertura dell’albo senatorio e godeva secondo una prassi repubblicana del privilegio di essere interpellato come primo nell’ambito dei dibattiti dell’assemblea dei patres. Di conseguenza appare infondata la lettura di de Francisci per il quale il princeps era un organo nuovo, permanente e sovrapposto all’antica costituzione repubblicana e rispetto al quale tutti gli altri organi erano subordinati. A parte l’inesistenza di un vincolo gerarchico non attestato da alcun documento, ci troviamo purtroppo dinanzi a una lettura del tutto condizionata dall’applicazione di schemi, strumenti d’interpretazione e da concezioni delle riforme costituzionali moderni attraverso interventi di ingegneria costituzionale di cui non vi è traccia a proposito della carica imperiale, che diverrà una vera e propria istitu-
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zione politica, autonoma e definita nel suo profilo, soltanto con i successori di Augusto 287. Per quanto non recente, mostra invece ancora un particolare interesse il lavoro di Ehremberg 288. In questo saggio del 1925, lo studioso mutando l’angolo di visuale mette a fuoco il nesso tra princeps, auctoritas e senatus, per proporre una suggestiva lettura in cui si delinea l’innesto del potere (o della posizione) del principe nel potere del senato. Tutto ciò rispondeva a una genuina – e ben documentata – concezione repubblicana secondo cui l’auctoritas era l’elemento di qualificazione dei principes senatus 289, tanto da spingere Theodor Mommsen a parlare di diarchia tra princeps e senatus. Il titolo di principe dunque era inizialmente il riconoscimento di un primato in un campo, e perciò accompagnato da un complemento al genitivo o da un complemento con preposizione 290, connotato da uno stretto legame con auctoritas che a sua volta si giustifica solo se calata nella tradizione dei poteri pubblici. Se si ammette ciò che è ampiamente documentato, e cioè il fatto che sin dalle radici della repubblica la dimensione istituzionale dell’auctoritas era sempre stata il senatus, non sorprende, e viene meno ogni ragione di azzardare altre ardite costruzioni teoriche, che princeps e auctoritas fossero strettamente connessi e finissero anche per esprimere un concetto più generale di guida, che muovendo dal senato si andò via via estendendo a tutto lo Stato romano. Basti osservare che nella versione greca delle Res Gestae il termine princeps del cap. 7.2 è espresso con una perifrasi in cui il significato fondamentale e pregnante sta racchiuso nel termine ¢x…wma, non a caso a sua volta usato nel cap. 34.2 per tradurre auctoritas. Mentre, sempre nel testo greco, princeps nel significato generico dei capp. 13, 30.1, 32.3, poc’anzi richiamati, in cui Augusto sembra voler esprimere la sua superiorità politica, morale e sociale, è tradotto con ºgemèn. Ora sebbene, come è stato pure di recente sottolineato, anche a proposito di ºgemèn i significati politico-ideologici non siano di facile interpretazione e a for
287 P. DE FRANCISCI, Genesi e struttura, cit. pp. 64 ss. La letteratura sul titolo di princeps senatus è cospicua, e per acquisire le coordinate dell’articolato dibattito, oltre agli studi già citati, si rinvia alla lettura dei seguenti recenti contributi: J. SUOLATHI, Princeps Senatus, in Arctos 7, 1972, pp. 207 ss.; M. BONNEFOND-COUDRY, Le Princeps Senatus: vie et mort d’une institution républicaine, in MEFRA 105.1, 1993, pp. 103 ss.; P. TANSEY, The Princeps Senatus in the Last Decades of the Republic, in Chiron 30, 2000, pp. 15 ss.; A. MOLINIER ARBO, Le princeps senatus dans l’Histoire Auguste. De la réalite au jeu de mots, in Ktema 34, 2009, pp. 443 ss. 288 V. EHREMBERG, Monumentum Antiochenum, in Klio 19, 1925, pp. 191 ss. 289 Cic. verr. 2.3.2.10; de har. resp. 28.60; de rep. 1.16.25; 1.45.69; 2.19.34; 2.31-33.55-57; de leg. 2.12.30; 3.10.25; de off. 1.30.108; 2.17.60; Tusc. 2.15; post red. in sen. 4.9; pro Sest. 39.84; pro Planc. 39.93; ad fam. 1.9.11; 12.24.2; Liv. 42.15.3. 290
Cesare Augusto Imperatore (a cura di L. De Biasi, A.M. Ferrero), cit., pp. 160 s. nt. 32.
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tiori con riguardo ad Augusto 291, si può essere del tutto d’accordo con Hugh Mason 292 nel ritenere che ºgemèn «is an Augustan word», può notarsi come in questi casi il termine appaia dotato di altrettanto ambiguo significato: quello di dux, guida militare e politica, ma anche esempio, modello da indicare e da seguire. Nel rendere intelligibile le Res Gestae alla cultura politica e giuridica orientale, Augusto, che consapevolmente mutuava dagli schemi repubblicani concetti di leadership militare, politica, morale, si muoveva con accortezza e nella comunicazione esigeva la necessaria prudenza per lasciarsi sempre aperta una soluzione interpretativa contro eventuali accuse di stravolgimenti dei fondamenti costituzionali della repubblica. E possiamo dire che riuscì perfettamente nell’intento se, appunto non a caso, qualche secolo dopo, mai capita di trovare Cassio Dione riferirsi ad Augusto con il termine di ºgemèn, e semmai con aÙtokr£twr (ovvero imperator) 293, mentre per tradurre princeps utilizza il ben diverso prÒkritoj appunto nel suo significato repubblicano di princeps senatus 294. Anche studiosi come Salvatore Riccobono jr. non hanno potuto negare come sotto Augusto il senato restasse «depositario di una tradizione potente», riuscendo a preservare la matrice di organo altamente aristocratico e a rappresentare «un’assemblea scelta, costituita dai migliori elementi, i quali dovevano effettivamente collaborare nell’ardua e faticosa opera ricostruttiva del principe e dovevano servire insieme ai funzionari di nomina imperiale alle più complesse esigenze di governo. In tal modo l’antica curia veniva richiamata a nuove funzioni ed a nuova vita, mirabilmente adattat agli infiniti bisogni del mondo romano» 295. Così il princeps senatus restava pienamente nell’alveo costituzionale repubblicano, perché non si trattava di un carica di nuovo conio, e anzi non alterava l’ordo magistratuum, ma certamente non era più neppure il semplice vecchio princeps senatus. Però tanto bastava a dar conforto a Velleio anche su questo aspetto e indurlo a scrivere con sincera convinzione che la prisca et antiqua forma della res publica era stata revocata, mentre in realtà si cominciava a tracciare un solco parallelo entro cui gettare e far germogliare il seme del nuovo Stato imperiale fondato sull’¹gemon…a del princeps, letta da Strabone come una prostas…an tÁj ¹gemon…aj, cioè «una posizione di primato rispetto agli organi del potere» 296.
291
G. VANOTTI, Il testo greco delle «Res gestae divi Augusti»: appunti per una interpretazione politica, in GIF 27, 1975, pp. 306 ss.; EAD., Heghemon nel testo greco delle res gestae, in Klio 79, 1997, pp. 363 ss. 292 H.G. MASON, Greek Terms for Roman Institutions. A Lexicon and Analysis, Toronto 1974, p. 144. 293 Su imperator si legga A. DEGRASSI, I nomi dell’imperatore Augusto. Il ‘praenomen imperatoris’, in Studi in onore di Edoardo Volterra, V, Milano 1971, pp. 573 ss. 294 Cass. Dio 53.1.3; cfr. Cass. Dio 57.8.2 in relazione a Tiberio. 295 S. RICCOBONO JR., Augusto, cit., pp. 443 s. 296 Strabo 17.3.25.
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10. CENTRALITÀ DI LEX (POPULUS) E SENATUS Ma possibile che Velleio fraintendesse a tal punto la politica costituzionale di Augusto? Possibile che si fosse lasciato abbagliare dal princeps e dalle sue affermazioni? Come non cogliere del resto la corrispondenza con RGDA 8.5, in cui Augusto sottolinea il valore delle sue leggi circa il ripristino del vigore degli exempla maiorum exolescentia iam ex nostro saeculo? Insomma, di quella prisca et antiqua forma rei publicae revocata quanto era davvero poco più di un simulacro e quanto di sostanza ancora restava nell’opinione e, non solo per la propaganda augustea, sarebbe dovuta in futuro rimanere? E, ben oltre Velleio, per essere ancora più precisi: se davvero si trattava soltanto di ipocrisia augustea, è possibile immaginare che potesse impunemente campeggiare nel Foro quell’iscrizione vista da Ligorius 297? Rispondere a questi interrogativi non è facile, anzi essi ne sollevano di ulteriori; chi oggi potrebbe davvero dire quale fosse l’antiqua e prisca forma richiamata da Velleio? Si riferiva alla res publica delle origini? O a quella plasmata dal corso secolare del conflitto patrizio-plebeo? Oppure ancora all’assetto della fase pre-graccana? La consapevolezza che lo Stato repubblicano fosse mutato, e pure profondamente, apparteneva a tutti e non soltanto ad Augusto: «la res publica non era più la stessa, così come era cambiata tante volte tramite piccoli mutamenti, leggi nuove, trasformazioni silenziose, crisi, guerre civili, assunzioni di poteri eccezionali» 298. Indubbiamente atti come la riduzione della composizione del senato da 1000 a 600 circa con un nuovo princeps senatus, il ritorno al censimento del populus Romanus con la relativa lustratio dopo 41 anni, o al regime consolare, o gli interventi di razionalizzazione delle sfere di competenza delle magistrature giusdicenti, oppure ancora l’eiuratio alla fine del 28 a.C., quando lui stesso affermò di sottoporsi all’osservanza della legge, certamente colpirono l’opinione pubblica e ne orientarono la percezione 299. E proprio quest’ultimo tema assumeva nel magmatico quadro costituzionale dell’epoca una forte centralità quale motivo teorico fondamentale del principato sino ad Adriano: la lex diveniva sempre più perno principale del sistema, soprattutto come fonte attraverso cui i principes, a partire da Augusto, tendevano a legittimare il loro potere in saldatura con la volontà popolare, conservandone così la matrice repubblicana 300. Non solo negli scritti degli storici, o dei biografi antichi, e poi negli scorci giurisprudenziali salvati nei Digesta, ma nelle stesse Res Gestae affiora l’assun
297
Vedi supra § 4. A. GIARDINA, L’impero di Augusto, cit., p. 68. 299 Su questi aspetti W.K. LACEY, Octavian in the Senate, January 27 B.C., in JRS 64, 1974, pp. 176 ss. 300 V. MAROTTA, Ulpiano e l’Impero, I, Napoli 2000, p. 68. 298
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zione piena di una teoria dei poteri pubblici connotata dalla centralità della lex: da un lato, come fonte di legittimazione del potere imperiale e strumento per introdurre legittime ‘riforme istituzionali’ (era legislativo e tale sarebbe rimasto il fondamento della tribunicia potestas e l’imperium attribuiti al principe) 301, e da un altro attraverso il recupero del suo posto nel sistema di produzione del diritto 302. Sarebbero stati i giuristi severiani a riconoscere, e non a caso, forza di legge agli atti normativi del princeps in un sistema delle fonti di produzione del diritto ormai totalmente egemonizzato da un sovrano legislatore sulla base della legittimazione ex lege del suo potere (Gai. 1.5 e Ulp. 1 inst. D. 1.4.1) 303. Paradigmatica è la spiegazione di Cassio Dione sui rimedi escogitati dai principes per fugare ogni sospetto di fondare un regime segnato da una forma di egemonia personale: Cass. Dio 53.17.3-4: [...] kaˆ †na ge m¾ ™k dunaste…aj ¢ll' ™k tîn nÒmwn toàt' œcein dokîsi, p£nq' Ósa ™n tÍ dhmokrat…v mšga par' ˜koàs… sfisin ‡scusen, aÙto‹j to‹j ÑnÒmasi cwrˆj toà tÁj diktator…aj prosepoi»santo. [4] Ûpato… te g¦r pleist£kij g…gnontai, kaˆ ¢nqÚpatoi ¢e…, Ðs£kij ¨n œxw toà pwmhr…ou ðsin, Ñnom£zontai.
301 C. 1.17.1.7 (Imp. Iustinianus A. Triboniano viro eminentissimo quaestori sacri palatii): Cum enim lege antiqua, quae regia nuncupabatur, omne ius omnisque potestas populi Romani in imperatoriam traslata sunt potestatem […] (= Const. Deo auctore 7). Non ritengo decisivo stabilire se l’aggettivo ‘regia’ sia davvero un evidente glossema o un’interpolazione postclassica pregiustinianea, come per esempio ha argomentato A. GUARINO, La coda dell’occhio. Appunti e disappunti di un giurista, Padova, 2009, p. 76, del tutto convinto che il ‘regia’ fosse «sicuramente non di mano ulpianea», e anzi che fosse stato «inserito prima di Triboniano da un lettore postclassico intermedio (il che si desume sia dal fatto che nel passo corrispondente [1.2.6] delle Inst. Iustiniani manca del tutto il periodo “utpote-conferat”, sia dal fatto che nell’impero assoluto [quello di Giustiniano], non era ufficialmente pensabile un trasferimento di imperium e di potestas dal popolo all’imperatore)». Sul tema, oltre ai recenti saggi di J.-L. FERRARY, Lex regia: la fortune de la Lex de imperio Vespasiani du 16ème au 18ème siècle, pp. 75 ss.; D. MANTOVANI, Lex «regia» de imperio Vespasiani il vagum imperium e la legge costante, pp. 125 ss.; e C. LANZA, ‘Sovranità’, poteri e Lex de imperio Vespasiani, pp. 167 ss., tutti contenuti in AA.VV., La Lex de imperio Vespasiani e la Roma dei Flavii. Atti del Convegno Roma, 20-22 novembre 2008 (a cura di L. Capogrossi Colognesi ed E. Tassi Scandone), Roma 2009, si rinvia alla lettura di F. MESSINA VITRANO, La ‘lex de imperio’ e il diritto pubblico giustinianeo, in Studi in onore di Pietro Bonfante, III, Milano 1930, p. 257; F. SERRAO, s.v. «Legge (diritto romano)», in ED XXIII, Milano 1973, p. 845; F. GRELLE, La forma dell’Impero, in AA.VV., Storia di Roma. Vol. III. L’età tardoantica. I. Crisi e trasformazioni, Torino 1993, p. 75 nt. 20; X. PÉREZ LOPEZ, El poder del príncipe en Roma. La Lex de imperio Vespasiani, Valencia 2006, pp. 15 ss.; M. MALAVOLTA, Sulla clausola discrezionale della c.d. Lex de imperio Vespasiani, in Simblos 5, 2008, pp. 105 ss. 302 Cfr. F. GRELLE, I poteri pubblici e la giurisprudenza fra Augusto e gli Antonini, in AA.VV., Continuità e trasformazioni fra repubblica e principato. Istituzioni, politica, società (a cura di M. Pani), Bari 1991, pp. 249 ss. 303 A. SCHIAVONE, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 2017, pp. 413 ss.
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È evidente che si tratta di un’interpretazione molto lontana e per certi versi quasi banale, ma non può negarsi che documenti come quello appena riportato invero non abbiano ricevuto la giusta attenzione e neppure una lettura dall’angolazione più appropriata. Per quanto siano innegabili in questi testi talune imprecisioni, essi non contengono, come potrebbe erroneamente pensarsi, la visione distorta per la distanza secolare che separava i loro autori dagli anni della genesi del principato: se il pregiudizio potrebbe in astratto valere per la ricostruzione dionea, però è difficile riproporlo per altri documenti. Che la lex rappresenti il fulcro attorno a cui il princeps plasmò la nuova forma rei publicae, ci viene provato anche a proposito del riordinamento dell’Egitto e dei poteri del relativo praefectus, come abbiamo accennato in precedenza, nell’imbatterci in un noto e tormentato scorcio ulpianeo dei Digesta: D. 1.17.1 (Ulp. 50 ad ed.): Praefectus Aegypti non prius deponit praefecturam et imperium, quod ad similitudinem proconsulis lege sub Augusto ei datum est, quam Alexandriam ingressus sit successor eius, licet in prouinciam venerit: et ita mandatis eius continetur 304. I proconsoli ricevevano l’imperium per legge e a questi, per volontà di Augusto, venne uniformata la legittimazione dell’imperium del praefectus Aegypti. A tal proposito, ha ragione Francesco Grelle, a proposito del senatus consultum de Cn. Pisone patre, ad affermare che le deliberazioni comiziali continuano a essere «formalmente la fonte di ogni potere di tipo magistratuale, e la legge, che negli stessi anni costituisce un motivo centrale nella riflessione di Capitone, conferma il suo primato come fonte dello ius publicum, di quello ius che disciplina anche gli aspetti istituzionali della missione di Germanico in Oriente» 305: Senatus consultum de Cn. Pis. patre linn. 30-32: Germanico Caesari, qui a principe nostro ex auctoritate huius ordinis ad rerum transmarinarum statum componendum missus esset desiderantium praesentiam aut ipsius Ti. Caesaris Aug. aut filiorum alterius utrius; Senatus consultum de Cn. Pis. patre linn. 34-37: […] de quo lex ad populum lata esset, ut in quamcumq(ue) provinciam venisset, maius ei imperium, quam ei qui eam provinciam proco(n)s(ule) optineret esset, dum in omni re maius imperium Ti. Caesari Aug(usto) quam Germanico Caesari esset, tamquam ipsius arbitri et potestatis omnia esse deberent […],
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Sul praefectus Aegypti vedi il mio «Aegyptum imperio populi Romani adieci», cit., passim. F. GRELLE, Il Senatus Consultum de Cn. Pisone patre, cit., p. 230; F. MERCOGLIANO, Pisone e i suoi complici. Ricerche sulla «cognitio senatus», Napoli 2009, pp. 52 ss.; cfr. A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., pp. 52 ss. 305
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e se accostiamo a questi frammenti alcune linee della Tabula Siarensis: Tab. Siar. linn. 15-16: ordinato statu Galliarum pro co(n)s(ule) missus in transmarinas pro[vincias atque] |in conformandis iis regnisque eiusdem tractus ex mandatis Ti(berii) Cesaris Au[g(usti), dato etiam reg Armeniae … 306, proponendo una semplice lettura coordinata del frammento ulpianeo con i tre testi epigrafici (Res Gestae Divi Augusti, senatus consultum de Cn. Pisone patre e Tabula Siarensis 307), è agevole dimostrare come gli imperia di Augusto e Germa
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Roman Statutes (a cura di M.H. Crawford), I, London 1996, p. 515. Importante la bibliografia relativa al documento epigrafico in questione: J. ARCE, Tabula Siarensis: primeros comentarios, in AEspA 57, 1984, pp. 150 ss.; J. GASCOU, La Tabula Siarensis et le problème des municipes romains hors d’Italie, in Latomus 45, 1986, pp. 541 ss.; AA.VV., Estudios sobre la Tabula Siarensis. Actas de las jornadas celebradas en Sevilla en 1986 (a cura di J. Arce, J. González), Madrid 1988; AA.VV., Germanico: la persona, la personalità, il personaggio. Atti del Convegno (Macerata-Perugia 9-11 maggio 1986), a cura di G. Bonamente e M.P. Segoloni, Roma 1987; A. FRASCHETTI, Osservazioni sulla Tabula Siarensis (frag. I, ll. 6-8), in Epigraphica 50, 1988, pp. 47 ss.; J. GONZÁLEZ, Tabula Siarensis, Fortunales Siarenses et municipia civium Romanorum, in ZPE 55, 1984, pp. 55 ss.; ID., Addenda et corrigenda zu Tabula Siarensis, Fortunales Siarensis et Municipia Civium Romanorum, in ZPE 60, 1985, p. 146; ID., Tacitus, Germanicus, Piso, and the Tabula Siarensis, in AJPh 120, 1999, pp. 123 ss.; ID., Tab. Siar. Frag. I; problemas de restitución, in AA.VV., La commemorazione di Germanico nella documentazione epigrafica. Tabula Hebana e Tabula Siarensis. Convegno Internazionale di Studi, Cassino 21-24 ottobre 1991 (a cura di A. Fraschetti), Roma 2000, pp. 95 ss.; ID., Un nuevo fragmento de la Tabula Hebana, in AEspA 73, 2000, pp. 253 ss.; ID., Tácito y las fuentes documentales: SS.CC. de honoribus Germanici decernendis (Tabula Siarensis) y de Cn. Pisone patre, Sevilla 2002; ID., Epigrafía política imperial en la Bética: la tabula siarensis, in J.M. IGLESIAS GIL, Cursos sobre el Patrimonio Histórico. 12. Actas de los XVIII cursos monográficos sobre el patrimonio histórico Rejnosa, Santander 2008, pp. 135 ss.; J. GONZÁLEZ-F. FERNANDEZ, Tabula Siarensis, in Iura 32, 1981, pp. 1 ss.; W.D. LEBEK, Schwierige Stellen der Tabula Siarensis, in ZPE 66, 1986, p. 31 ss.; ID., Die drei Ehrenbögen für Germanicus: Tab. Siar. frg. I 9-34; CIL VI 31199a 2-17, in ZPE 67, 1987, p. 129 ss.; ID., Augustalspiele und Landestrauer (Tab. Siar. frg. II col. A 11-14), in ZPE 75, 1988, pp. 59 ss.; ID., Consensus universorum civium (Tab. Siar. frg. II, col. b, 21-27), in ZPE 72, 1988, pp. 235 ss.; ID., Die circensischen Ehrungen für Germanicus und das Referat des Tacitus im Lichte von Tabula Siarensis frg. II, col. c, 2-11, in ZPE 73, 1988, pp. 249 ss.; ID., Sub edicto suo proponere: Tab. Siar. frg. II, col. B 12 und Suet. Aug. 89, 2, in ZPE 77, 1989, pp. 39 ss.; ID., Die Mainzer Ehrungen für Germanicus, den älteren Drusus und Domitian (Tab. Siar. frg. I, 26-34; Suet. Claud. 1, 3), in ZPE 78, 1989, pp. 45 ss.; ID., Welttrauer um Germanicus: das neugefundene Originaldokument und die Darstellung des Tacitus, in AuA 36, 1990, pp. 93 ss.; ID., Ehrenbogen und Prinzentod: 9 v. Chr. – 23 n. Chr., in ZPE 86, 1991, pp. 47 ss.; ID., Das Prokonsulat cit., pp. 103 ss.; ID., Die zwei Ehrenbeschlüsse für Germanicus und einer der “seltsamsten Schnitzer” des Tacitus (ann. 2, 83, 2), in ZPE 90, 1992, pp. 65 ss.; ID., Roms Ritter und Roms Pleps in des Senatsbeschlüssen für Germanicus Caesar und Drusus Caesar, in ZPE 95, 1993, pp. 81 ss.; CL. NICOLET, La Tabula Siarensis, la lex de imperio Vespasiani, et le jus relationis de l’empereur au Sénat, in MEFRA 100, 1988, pp. 827 ss.; ID., La tabula Siarensis, la plèbe et les statues de Germanicus, in AA.VV., Leaders and masses in the Roman world. Studies in Honor of Z. Yavetz, Leiden 1995, pp. 115 ss.; ID., La destinatio à la lumière de la Tabula Siarensis et de Dion Cassius, in AA.VV., La commemorazione di Germanico nella documentazione epigrafica. Tabula 307
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nico avessero un fondamento legislativo, attribuito cioè per lex dal popolo, e dal senato attraverso una propria deliberazione. E così, assieme al populus e alla lex, anche il senatus, con i suoi deliberati, recuperava il prestigio e il ruolo profondamente calpestati ed erosi nel corso delle guerre civili, per quanto sempre più condizionato dal princeps. È questo un altro segno profondo della svolta restauratrice rispetto persino al triumvirato, collegio al quale la lex Titia aveva attribuito poteri vastissimi tali da rendere del tutto superfluo il ricorso al senato e alle assemblee popolari. Anzi, a tal proposito scrive Francesco Grelle come la lex «ne istituisce contenuti e limiti», tanto da dover concludere che le deliberazioni dei comizi continuano a essere «formalmente la fonte di ogni potere magistratuale e la legge, che negli stessi anni costituisce un motivo centrale nella riflessione di Capitone, conferma il suo primato come fonte dello ius publicum, di quello ius che disciplina anche gli aspetti istituzionali della missione di Germanico in Oriente» 308. In questo lavorìo di risistemazione e di inquadramento teorico, appunto fu se non decisivo quantomeno assai rilevante il ruolo di Ateio Capitone 309. La presenza del giurista tra i senatori incaricati di redigere il testo del senatus consultum de Cn. Pisone patre non deve essere considerata una semplice coincidenza, così come non lo è altrettanto la nota definizione di lex dello stesso Capitone ricordata da Gellio: Gell. n.a. 10.20.2: Ateius Capito, publici privatique iuris peritissimus, quid “lex” esset, hisce verbis definivit: “Lex” inquit “est generale iussum populi aut plebis rogante magistratu”. Capitone fu il costituzionalista che guidò Augusto nell’abile e sapiente transizione assicurando una tenuta giuridica alle riforme augustee e a queste l’adesione, o in alcuni casi la non manifesta ostilità, dell’opinione pubblica e, salvo eccezioni, del ceto dei prudentes. La scelta fu assai misurata e coerente con l’impianto generale della restitutio rei publicae: senatus e populus; senatus consultum
Hebana e Tabula Siarensis. Convegno Internazionale di Studi, Cassino 21-24 ottobre 1991 (a cura di A. Fraschetti), Roma 2000, pp. 221 ss.; D.E. POTTER, The Tabula Siarensis, Tiberius, the Senate, and the Eastern Boundary of the Roman Empire, in ZPE 69, 1987, pp. 269 ss.; A. SÁNCHEZ-OSTIZ, Tabula Siarensis. Edición, traducción y comentario, Pamplona 1999; U. SCHILLINGER-HÄFELE, Die Laudatio funebris des Tiberius für Germanicus (zu Tabula Siarensis fragment II, col. B, 13-19), in ZPE 75, 1988, pp. 73 ss.; G. ZECCHINI, La tabula Siarensis e la “dissimulatio” di Tiberio, in ZPE 66, 1986, pp. 23 ss. 308 F. GRELLE, Il senatus consultum de Cn. Pisone patre, cit., p. 230. 309 Capitone tra l’altro, come apprendiamo da Gell. n.a. 4.10.5-8, dedicò pure un’opera all’officium senatoris, introducendo un’innovazione nella concezione repubblicana di officium, sino ad allora riservato all’attività del giureconsulto e che invece con Capitone andava ad estendersi al componente di un’assemblea. Sull’opera di Capitone si veda F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, Firenze 1968, p. 246 nt. 3.
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e lex, quali unici strumenti per introdurre riforme nel solco della tradizione e degli schemi repubblicani 310. Se in quel provvedimento senatorio, che annoverava tra gli altri auctores, Capitone, si rappresentava un modello istituzionale ancora incentrato su lex (dunque populus nelle forme assembleari) e senatus credo che ciò non corrispondesse soltanto a un’ipocrita esigenza formale, quasi si trattasse di un anacronistico rispetto di clausole di stile, ma a un preciso e voluto assetto delle istituzioni e delle fonti del diritto 311. Quella centralità di senatus e populus di cui era informato l’indirizzo della politica costituzionale di Augusto in misura maggiore o minore presente in tutti i documenti riguardanti il suo principato, si disvela del tutto nell’impianto ideologico e di legittimità del princeps, il cui manifesto esemplare è la lex de imperio Vespasiani (figura 6) con il suo preciso richiamo agli exempla augustei 312, anche in questo caso in assoluto omaggio, quali exempla imitanda, alla consegna ai posteri espressa nel testamento politico: RGDA 8.5: Legibus novi[s] m[e auctore l]atis m[ulta e]xempla maiorum exolescentia iam ex nostro [saecul]o red[uxi et ipse] multarum rer[um exe]mpla imitanda pos[teris tradidi]. Ma se volessimo una dimostrazione del diverso atteggiarsi di Augusto all’ossequio delle forme costituzionali rispetto ai suoi successori, basta ricordare che uno storiografo attento come Cassio Dione non mancava di sottolineare «la grande diversità degli atti di Tiberio» 313 e cosa raccontava a tal proposito del nuovo principe: «quando furono trascorsi i dieci anni del suo mandato, non chiese alcun voto per sancirne la riassunzione (infatti egli non avvertiva l’esigenza di governare separando dei periodi di mandato, come aveva fatto invece Augusto). Comunque, nonostante ciò, si tenne la celebrazione decennale» 314.
310 In tal senso J.-L. FERRARY, La législation augustéenne et les dernières lois comitiales, in AA.VV., Leges publicae. La legge nell’esperienza giuridica romana (a cura di J.-L. Ferrary), Pavia 2012, pp. 569 ss.; e ID., Dall’ordine repubblicano, cit. (in particolare i saggi Aspetti della legislazione romana La legislazione augustea e le ultime leggi comiziali, pp. 65-93; A proposito dei poteri di Augusto, pp. 95-163). Ma già F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., IV.1, pp. 108 ss., 302, rilevava l’intento di Augusto nel fondare il suo regime su basi legali. 311
Per tutti T. SPAGNUOLO VIGORITA, La repubblica restaurata, cit., p. 532; ma anche ID., Casta domus, cit., pp. 11 ss. Mentre insistono molto sul ruolo del popolo G. CRESCI MARRONE, «Voi che siete popolo …»: popolo ed esercito nella concezione cesariana ed augustea, in AA.VV., Popolo e potere nel mondo antico. Atti del Convegno internazionale, Cividale del Friuli 23-25 settembre 2004, Pisa 2005, pp. 151 ss.; V. HOLLARD, Le rituel du vote. Les assemblées romaines du peuple, Paris 2010, passim. 312 Vedi AA.VV., La Lex de Imperio Vespasiani e la Roma dei Flavi. Atti del Convegno, Roma 20-22 novembre 2008 (a cura di L. Capogrossi Colognesi ed E. Tassi Scandone), Roma 2009. 313 314
Cass. Dio 57.23.5. Cass. Dio 57.24.1.
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Ma v’è da aggiungere ancora qualcosa sulla lex quale fonte normativa. Augusto ereditava la scena politica di una Roma in condizioni sociali e istituzionali drammatiche. Abbiamo visto pure quanto il caos avesse prodotto guasti anche in seno all’ordinamento giuridico. Il ricorso alla lex era fondamentale per ridare certezza. La lex con il suo testo fissato per iscritto rispondeva a esigenze di certezza, ed appariva rassicurante e fondativa, strumento necessario per aprire una nuova fase. E la scelta della lex publica per ridare vigore agli antichi mores è strumento eloquentissimo della strategia augustea 315. FIGURA 6. – Lex de imperio Vespasiani
315
Vedi infra CAPITOLO SECONDO, § 7.
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11. CONCLUSIONI Potens (→ potentia), auctoritas, Augustus, princeps: fundamenta rei publicae secondo Svetonio, o arcana imperii a seguire Tacito? Fondamenti sociologici o istituzionali (o giuridici) del principato, secondo il dibattito dei moderni da Mommsen a von Premerstein, da Béranger a Frezza, per ricordarne solo alcuni? In verità, spesso ci si ritrova dinanzi formule e alternative che per quanto ingegnose ed eleganti non riescono a essere decisive nella risoluzione dei problemi che continuano così a giacere sul tappeto. Come in tutte le transizioni dei regimi costituzionali, più solidi e potenti essi sono, più complessi e multiformi si dispiegano dinamiche, processi e sbocchi. E riguardo a essi l’acquisizione di nuovi documenti, la disponibilità a riletture più meditate, l’assunzione di angolazioni diverse conducono sovente la ricerca storiografica lungo versanti ed esiti non scontati. Se oggi con riguardo all’instaurazione del regime fascista, e ancor più precisamente con riguardo all’ascesa al potere e alle azioni di Mussolini, la più avvertita storiografia rilegge con occhio distaccato e con rigorosa attenzione i documenti distinguendo politica e forme del diritto, e per esempio attraverso un brillante e acuminato libro di Donald Sassoon si offre la dimostrazione che «il Duce volle fingere di aver preso il potere con la forza, di averlo conquistato sul campo di battaglia. Ma la sua ascesa al potere, tecnicamente parlando, avvenne all’interno della legge» 316, quasi per una sorta di nemesi della ricerca storiografica altrettanto potrebbe dirsi con riguardo ad Augusto. I nuovi documenti passati in rassegna non soltanto fanno emergere che il fondatore del Principato non fu protagonista di alcun colpo di Stato né di alcuna rivoluzione 317 come invece ha enfatizzato la propaganda fascista interessata a utilizzare la fase augustea, perché non ve n’era assolutamente bisogno per la sua conclamata e radicata potentia, ma non lasciano nemmeno spazio per sostenere che egli abbia voluto anche soltanto teatralmente inscenare una conquista del potere su basi illegali. La res publica si spezza con l’uccisione di Cesare; la crisi è formidabile tanto che si prova a percorrere la strada del triumvirato rei publicae constituendae. Nella fase postaziaca, il futuro Augusto era consapevole del superamento della drammatica rottura prodottasi, quella vera rottura della costituzione e dello Stato romano determinata dalla coniuratio Italiae e delle province occidentali 318, cioè quando il mondo romano si divise in due, e si divisero, scegliendo l’una o l’altra parte, anche le figure istituzionali (magistrati e senatori). La siderale di
316
D. SASSOON, Come nasce un dittatore. Le cause del trionfo di Mussolini, Milano 2010, p. 10. Vedi infra CAPITOLO TERZO, §§ 1-4. 318 RGDA 25.2: Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me be[lli], quo vici ad Actium depoposcit. Iuraverunt in eadem ver[ba provi]nciae Galliae, Hispaniae, Africa, Sicilia, Sardinia. 317
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stanza tra coniuratio Italiae et provinciarum e consensus universorum, come abbiamo visto, sta non solo nei rispettivi primi termini ma ancor più nei genitivi di specificazione, laddove coniuratio implica la scelta di una parte per una parte (Italia e province per Ottaviano), non importa se più legittima dell’altra avversa, ma pur sempre una pars; mentre consensus universorum indica la condivisione generale, senza alcuna frattura 319. Interpreta bene le cose Strabone, secondo cui con la coniuratio Ottaviano diventava signore (kÚrioj) della pace e della guerra 320, come d’altro canto prostas…an tÁj ¹gemon…aj sono termini indicanti primato, prestigio e non una ben definita e istituzionalizzata carica. È questo il punto che bisogna mettere a fuoco e ben isolare. Il conflitto tra Antonio e Ottaviano aveva condotto lo Stato romano fuori dalla repubblica, a disarticolarsi con la coniuratio Italiae et provinciarum, che a ben vedere non costituisce neppure essa l’atto culminante di un colpo di Stato: nel vuoto di potere determinatosi nel 32 a.C., con i consoli dell’anno fuggiti nel campo di Antonio insieme a trecento senatori, chi era titolare del potere legittimo? Antonio o Ottaviano? Entrambi e al tempo stesso nessuno 321! Quel momento sancì la fine istituzionale, scatenando processi e dinamiche analoghe al nostro recente ‘8 settembre’. Più che in quel fatidico 13 gennaio del 27 a.C., è nel corso non breve del biennio 29-28 a.C. che Ottaviano Augusto matura la svolta e avvia la transizione attraverso il ripristino delle forme repubblicane nei suoi legittimi organi costituzionali: l’iscrizione di Ligorius, il passo svetoniano del travaglio augusteo (Aug. 28), l’aureus del 28 a.C. sono documenti tutti convergenti nel fornire un quadro dinamico, fluido in cui il progetto di restaurazione repubblicana cominciava a prendere corpo, mostrando infine Augusto quale auctor (restauratore) della ricostituzione almeno sul piano formale del secolare baricentro del potere nel populus → lex e nel senatus → senatus consultum. Il princeps, Augustus, auctor, munito di impareggiabile auctoritas, nell’ottica augustea stava all’interno del sistema repubblicano. In definitiva, tutte le notizie che da qualche anno fortunatamente ci giungono svelano anche le forzature eccessivamente politiche di talune opere della storiografia moderna, quali quelle di Syme e di Levi, e quanto esse, pur fondamentali nell’avanzamento delle nostre conoscenze, abbiano tuttavia pesantemente condizionato e, in taluni casi, persino erroneamente orientato la ricerca successiva. Guglielmo Ferrero, tra gli storici di Roma più acuti e incisivi ma per imperscrutabili ragioni purtroppo oggi quasi del tutto dimenticato, nella prefazione al
319 Vedi supra § 2. Incomprensibile il dibattito tra i moderni su quali poteri conferisse la coniuratio. Ciò che resta essenziale è che quel giuramento indicava l’adesione a una causa e il vincolo si scioglieva alla conclusione della guerra; così anche A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., pp. 134 ss. 320 Strabo 17.3.25. 321 Condivido per questo aspetto quanto in P. DE FRANCISCI, Genesi e struttura, cit., pp. 18 ss.
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terzo volume del suo Grandezza e decadenza di Roma 322 consegnato alle stampe nel 1903, così scriveva: «La mia ricerca ha conchiuso in modo diverso dalla tradizione soprattutto in due punti molto importanti. Io considero come una leggenda, che non ha fondamento alcuno nei documenti, l’affermazione tante volte ripetuta che Augusto fu l’esecutore dei disegni di Cesare. Quali essi fossero – e noi non lo sappiamo con precisione – questi disegni, nei diciassette anni, la cui storia è narrata in questo libro, avvenne un così grande sconvolgimento, le condizioni dell’Italia e dell’Impero mutarono talmente, che Augusto ebbe un compito del tutto diverso da quello che spettò a Cesare. Un altro grande errore, che ha travisato tutta la storia della prima parte dell’Impero, giudico poi l’altra idea, comunemente accettata, che Augusto sia il fondatore della monarchia a Roma. Egli fu invece l’autore di una restaurazione repubblicana, vera e non formale». Si tratta di due osservazioni assai importanti gettate sul tappeto dallo studioso agli inizi del Novecento, ma caddero quasi nel vuoto, accolte dall’assoluta indifferenza. Eppure in merito alla prima, ormai può dirsi che essa abbia fatto da tempo breccia; mentre l’altra osservazione, e cioè che Augusto fu un autentico restauratore della repubblica, continua a non avere grande accoglienza. Forse la visione delle innovazioni augustee da parte di Ferrero peccano un po’ di schematismo; Ferrero probabilmente avrà ecceduto nel qualificarlo un autentico e genuino restauratore, però alla fine di queste pagine e ripassando in rassegna mentalmente i nuovi e vecchi documenti epigrafici richiamati non possiamo non riflettere sul fatto che le sue intuizioni si siano avvicinate alla realtà giuridica e costituzionale assai più di tante altre che invece maggior fortuna hanno goduto presso la critica moderna. E che se Augusto fu esecutore di progetti altrui, non è certo a Cesare che bisogna pensare, semmai a Cicerone. Le innovazioni augustee, i cui dati sostanziali non vanno certo sottovalutati, si iscrivevano in un solco già tracciato e approfondito di exempla tardorepubblicani, in cui sono da individuare alcuni ‘preannunci del principato’, per dirla con Pietro de Francisci. Certo quest’ultimo da canto suo, in uno dei suoi più recenti contributi alla tematica pubblicato nel 1968 su Archivio Giuridico, vedeva «una concezione politica nuova, secondo la quale la volontà popolare è considerata decisiva e prevalente su quella degli organi della costituzione, qualunque sia la forma in cui quella possa esprimersi. […] Perciò la volontà era pronta a riconoscere il potere di capo a chiunque fosse in grado di garantire una quiete e una pace durevoli: anche allora, come molte altre volte in periodi critici della storia delle nazioni, la volontà popolare auspicava soltanto l’avvento di un uomo abile ed audace che dimostrasse con la sua azione di essere in grado, anche violando
322 Recentissima la ristampa per i tipi di Castelvecchi, a cura e con saggi introduttivi di L. Ciglioni e L. Mecella, Roma 2016.
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le leggi, di soddisfare le aspirazioni e le necessità del popolo» 323. Una lettura, questa, del principato augusteo in senso radicalmente opposto a quella della restaurazione, rispetto alla quale appare quasi superfluo osservare quanto essa sia stata influenzata dall’esperienza pubblica, politica e umana di de Francisci 324. In realtà, Augusto non violò le leggi repubblicane, anzi come abbiamo visto abrogò quelle palesemente in contrasto con i principi dell’ordinamento giuridico romano repubblicano; e quella volontà popolare, cui accenna de Francisci, ma sarei tentato di dire quella marca populista dell’approccio augusteo, non fu mai sovrapposta al funzionamento degli organi costituzionali. Al contrario egli tentò di incanalarla in essi in una difficile ma irreversibile transizione. In un saggio apparso nel 1966 sul Bullettino di cui era ancora direttore, de Francisci 325 ritornava sul grande tema a seguito della pubblicazione del tomo dedicato da Francesco De Martino al principato e alla sua genesi. L’analisi nei suoi presupposti era precisa: a cominciare dall’ammissione secondo cui «tutta l’autobiografia di Augusto è guidata dal proposito di dimostrare che, per quanto gli era stato possibile, egli aveva cercato di rispettare la legalità costituzionale e che, in sostanza, era stato tutore e restauratore della res publica» 326. Il limite della lettura è stato quello di confondere consapevolezza con falsità e liquidare forma e sostanza nella chiave dell’ipocrisia augustea. Non con Augusto, semmai certamente con Tiberio si consumò lo sganciamento definitivo dalla costituzione repubblicana, ed esso fu conclamato in via teorica ben oltre ogni apparenza o ipocrisia. Appena due anni prima, nel 1964, era apparso sempre sul Bullettino, un altro saggio di de Francisci, in cui così si liquidava Cicerone: «Avviene spesso nei periodi di crisi politica, che anche coloro, i quali si affaticano a suggerire provvedimenti o decisioni intese a salvare un determinato ordine costituzionale, riescano, per un singolare fenomeno di eterogenesi, a risultati opposti a quelli cui mirano: e finiscano, proprio in conseguenza delle idee e dei metodi da loro adottati, col preparare la nascita di un regime completamente diverso da quello che essi hanno sognato» 327. Possiamo anche essere d’accordo con il giudizio quasi irridente di de Francisci, ma in fin dei conti non si può non riconoscere che di quanto avvenne negli ambienti più avvertiti della classe dirigente romana non serpeggiasse già una
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P. DE FRANCISCI, Intorno a due passi, cit., pp. 162 s. Per un’idea è sufficiente la lettura delle pagine pubblicate nel 37 su una delle principali riviste fasciste: P. DE FRANCISCI, Augusto e l’Impero, cit., pp. 5 ss., praecipue 31 s. Vedi anche supra nt. 17. 325 P. DE FRANCISCI, Nuovi appunti, cit., pp. 1 ss. 326 P. DE FRANCISCI, Nuovi appunti, cit., p. 6. 327 P. DE FRANCISCI, Preannunci del Principato, cit., pp. 1 ss. 324
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certa consapevolezza; anzi quell’esito era stato profeticamente intuito, potremmo dire, persino indovinato dall’oratore di Arpino appena qualche decennio prima: Cic. ad Brut. 1.15.10: Satis multa de honoribus. Nunc de poena pauca dicenda sunt. Intellexi enim ex tuis saepe litteris te in iis quos bello devicisti clementiam tuam velle laudari. Existimo equidem nihil a te nisi sapienter. Sed sceleris poenam praetermittere (id enim est quod vocatur ignoscere), etiam si in ceteris rebus tolerabile est, in hoc bello perniciosum puto. Nullum enim bellum civile fuit in nostra re publica omnium quae memoria mea fuerunt, in quo bello non, utracumque pars vicisset, tamen aliqua forma esset futura rei publicae: hoc bello victores quam rem publicam simus habituri non facile adfirmarim, victis certe nulla umquam erit. Nel luglio del 43 a.C., Cicerone in una missiva a Bruto non esitava a manifestare ancora una volta il pessimismo che da qualche tempo lo attanagliava per precipitarlo in un baratro di oppressione morale, quasi di prostrazione; al timore per il crescente aggravarsi della situazione politica si aggiungeva anche quello per le proprie sorti. Nell’incapacità di scorgere una prospettiva di salvezza dell’ordinamento repubblicano oltre le nubi tempestose già stagliate all’orizzonte, Cicerone ribadiva che mai nella storia di Roma era accaduto di finire in una spirale di violenza e contrapposizione tra due schieramenti (partes) da rendere così incerta la sopravvivenza della res publica e la forma che essa avrebbe potuto assumere (nullum enim bellum civile fuit in nostra re publica omnium quae memoria mea fuerunt, in quo bello non, utracumque pars vicisset, tamen aliqua forma esset futura rei publicae). Un mese prima, a giugno, un’altra lettera si chiudeva in amara malinconia quasi con l’oscuro presentimento della fine prossima: habes totum rei publicae statum, qui quidem tum erat cum has litteras dabam. Velim deinceps meliora sint; sin aliter fuerit (quod di omen avertant!), rei publicae vicem dolebo, quae immortalis esse debebat; mihi quidem quantulum reliqui est 328. L’exconsole e oratore vedeva lontano e da lì a poco i fatti gli avrebbero dato perfettamente ragione: nel 31 a.C., dopo la vittoria di Azio, come ricordava Augusto nelle Res Gestae, la lotta tra le factiones era finita, ma a un prezzo: al di là della cosiddetta, vera o propagandata, restitutio (o reparatio?) augustea, la transizione era cominciata e, per quanto revocata la prisca et antiqua forma, il mutamento della res publica era in fieri, e ormai tra rotture e continuità una nuova forma rei publicae lentamente ma inesorabilmente andava delineandosi.
328 Cic. ad Brut. 1.10.5. A. SCHIAVONE, Ius, cit., pp. 268 ss., menziona la corrispondenza tra Cicerone e Servio, in particolare ad Att. 4.1.1 (lettera del 49 a.C.), in cui l’oratore parlava di repubblica al tramonto (occidenti rei publicae), sottolinenado come al centro ci fosse «la rovina della politica, il disastro della repubblica che vanificava la vita di intere generazioni, fino a rendere desiderabile darla in cambio della morte: uno stato d’animo estremo».
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CAPITOLO SECONDO LA PAX DEORUM E L’IMPERATORE AUGUSTO (CHE “INIZIÒ A PORRE ORDINE NELL’ECUMENE”)
SOMMARIO: 1. Premessa: il desiderio di pace. – 2. La rigenerazione religiosa e la nuova alleanza tra Roma e gli dèi: la divinizzazione di Augusto. – 3. La linea orientale. – 4. La linea occidentale. – 5. L’ecumene e l’impero. – 6. La pax, le province, l’avvio della riorganizzazione. – 7. Pax, leges e mores: la restaurazione repubblicana tra nuovo e antico. – 8. Potentia e auctoritas e il nomen Augustus.
1. PREMESSA: IL DESIDERIO DI PACE Il 2 settembre del 31 a.C. nell’urto contro la flotta di Ottaviano s’infrangeva il sogno di Antonio «di un sistema politico romano-egizio» 1 fondato su alleanze ellenistiche; il disegno della realizzazione di una monarchia di stampo orientale cedeva il passo non solo alle armi ma anche all’abile propaganda di Ottaviano di presentare lo scontro decisivo con Antonio come un «conflitto tra Oriente ed Occidente» 2. Nonostante il tempo trascorso, Ronald Syme ha dedicato alla questione una pagina elegante e ancora efficace: «una convinzione artefatta mosse la bilancia della storia. La condotta politica e le mire di Antonio e di Cleopatra non furono la vera causa della guerra di Azio; furono solo un pretesto nella lotta per il potere, la splendida menzogna su cui fu costruita la supremazia dell’erede di Cesare e la rinascente nazione italiana. Eppure, con tutto ciò, ben presto la contesa assunse l’aspetto augusto e solenne di una guerra di ideali, di una guerra fra Oriente e Occidente. Antonio e Cleopatra sembrano ora povere pedine nel gioco del destino. Così l’arma forgiata per distruggere Antonio cambiò la forma del mondo intero» 3.
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S. MAZZARINO, L’Impero romano, cit., I, p. 65. F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., IV.1, p. 106. 3 R. SYME, La rivoluzione romana, cit., p. 304. 2
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L’orbis terrarum, che aveva assistito allo scontro mortale tra due partes, adesso aspettava la pace. E per Ottaviano, forse, cominciava proprio la fase più difficile; egli avrebbe dovuto innanzitutto sconfiggere il nemico più impalpabile e insidioso: il pessimismo. Nella pagina d’esordio di un suo fortunatissimo libro, Paul Zanker scrive: «agli inizi del potere assoluto augusteo (31 a.C.) regnava il pessimismo: molti ritenevano che lo Stato, travolto dalla propria immoralità, fosse sull’orlo della rovina» 4. In effetti, doveva trattarsi di un sentimento pubblico diffuso se, probabilmente intorno al 28 a.C., anno cruciale dell’avvio della ricostruzione augustea, Orazio, epicureo di sentimenti repubblicani combattente a Filippi per i cesaricidi ma ormai pentito, cantava: «Romano, tu sconterai, pur senza tua colpa, gli errori dei tuoi padri, finché non avrai restaurato i templi e i santuari cadenti degli dèi e i simulacri anneriti dal fumo» 5. E ancora: «un’altra generazione si consuma nelle guerre civili» 6. Non solo Orazio, che mai dimenticò la terribile sconfitta di Filippi, ma tutti i maggiori scrittori attivi furono segnati dalle vicende personali; come Properzio per il massacro di Perugia, e Virgilio 7 in cui sempre vivo fu il ricordo delle sofferenze determinate dalle assegnazioni di terre ai veterani. L’angoscia di un futuro su cui incombeva ancora il caos, o la «grande paura», come l’ha chiamata Francesco Guizzi 8, del sovvertimento sociale era, insomma, il sentimento più diffuso 9. Roma e l’Italia e il mondo tutto erano sconvolti dal trauma delle guerre civili 10, e dal disastro che aveva travolto le istituzioni repubblicane: le armi prese da
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P. ZANKER, Augusto e il potere delle immagini, cit., p. 3. Horat. carm. 3.6: Delicta maiorum inmeritus lues, / Romane, donec templa refeceris / aedisque labentis deorum et / foeda nigro simulacra fumo. Su Orazio di recente è apparso il bel libro di R. HASSAN, La poesia e il diritto in Orazio. Tra autore e pubblico, Napoli 2014; su cui vedi la mia rec. in LR 4, 2015, pp. 380 ss. 6 Horat. epist. 16.42-64; cfr. Diod. Sic. 2.55-60. 7 Sull’opera virgiliana importante l’ultimo volume di A. LA PENNA, L’impossibile giustificazione della storia. Un’interpretazione di Virgilio, Roma-Bari 2005. 8 F. GUIZZI, Il principato, cit., pp. 48. 9 Vedi A. LA PENNA, La letteratura latina del primo periodo augusteo (42-15 a.C.), Roma-Bari 2013, pp. 12 ss. 10 L’impatto della guerra civile dall’antica Grecia in avanti come paradigma politico e soglia di politicizzazione dell’Occidente è l’oggetto di un recente libro di G. AGAMBEN, Stasis. La guerra civile come paradigma politico. Homo sacer, II, 2, Torino 2015. D. ARMITAGE, Guerre civili. Una storia attraverso le idee, Roma 2017, pp. 29 ss., in un volume ricco di spunti, segna la differenza della concezione romana della guerra civile rispetto al punto di vista greco. Vedi anche N. LORAUX, La città divisa. L’oblio nella memoria di Atene, Vicenza 2000, passim. Di recente nella prospettiva romana, F. REDUZZI MEROLA, I corpi dei nemici politici durante le guerre civili, in Civitas e civilitas. Studi in onore di F. Guizzi (a cura di A. Palma), I, Torino 2013, pp. 763 ss. Sui mutamenti teorici e sulla distinzione tra ‘nemico’ e ‘criminale’ si legga A. VENTRONE, Uomo, animale, cosa, polvere. La violenza contro il nemico politico in prospettiva storica, in JCH 26, 2013, pp. 81 ss. 5
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cittadini contro altri cittadini in uno scontro tra factiones che si consumava ormai da lunghi decenni in Roma; la violenza dei signori della guerra con i loro eserciti e le devastanti torme di plebaglia che Cicerone con disprezzo già bollava come ‘feccia della città’ (Cic. in Pis. 4.9; ad Att. 1.16.11) o ‘la più bassa e corrotta feccia del popolo’ (Cic. ad Quint. fr. 2.4.5) 11; il catalogo nefando di un secolo lungo di proscrizioni (terribili quelle triumvirali) che avevano seminato lutti e rovine economiche, un vero e proprio dissesto sociale come con crudezza narra Appiano: App. bell. civ. 4.11.54: ¢gaqÍ tÚcV to…nun tîn Øpogegrammšnwn tùde tù diagr£mmati mhdeˆj decšsqw mhdšna mhd kruptštw mhdš ™kpempštw poi mhd peiqšsqw cr»masi. Öj d' ¨n À sèmaj À ™pikour»saj À suneidëj fanÍ, toàton ¹me‹j, oÙdem…an Øpologis£menoi prÒfasin À suggnèmhn, ™n to‹j progegrammšnoij tiqšmeqa. ¢naferÒntwn d t¦j kefal¦j oƒ kte…nantej ™f' ¹m©j, Ð m n ™leÚqeroj ™pˆ dismur…aij dracma‹j 'Attika‹j kaˆ pentakiscil…aij Øp r ˜k£sthj, Ð d doàloj ™p' ™leuqer…v toà sèmatoj kaˆ mur…aij 'Attika‹j kaˆ tÍ toà despÒtou polite…v. t¦ d' aÙt¦ kaˆ to‹j mhnÚousin œstai. kaˆ tîn lambanÒntwn oÙdeˆj ™ggegr£yetai to‹j Øpomn»masin ¹mîn, †na m¾ kat£dhloj Ï. Ïde m n e cen ¹ prograf¾ tî triîn ¢ndrîn, Óson ™j `Ell£da glîssan ¢pÕ Lat…nhj metabale‹n. Asperrime le misure dell’editto triumvirale che apprendiamo dalla versione greca dell’originale latino 12 riportata da Appiano: «Di coloro che sono segnati nella lista qui di seguito nessuno ne ospiti qualcuno, né lo nasconda, né agevoli la fuga, né lo salvi con danaro. Chi salverà o aiuterà o risulterà complice del salvataggio di qualcuno di loro, noi – senza alcuna attenuante – lo consideriamo a sua volta tra i proscritti. Chi uccide un proscritto ne porti a noi la testa: i liberi avranno in cambio 25.000 dracme attiche per ogni ucciso; gli schiavi riceveranno la libertà, 10.000 dracme attiche e la cittadinanza del padrone. Gli stessi premi sono previsti per i delatori. Chi riceve questi premi non sarà registrato
11 Incisivo A. LA PENNA, Sallustio e la rivoluzione romana, Milano 1968, pp. 106 ss. [= in AA.VV., Potere e consenso nella Roma di Augusto. Guida storia e critica, a cura di L. Canali, Roma-Bari 1975, pp. 45 ss., 51 s.]. 12 In verità, quello dell’autenticità della versione appianea è stato un punto assai controverso, sebbene ormai sia prevalente l’opinione che ne propugna la derivazione da un testo latino. Altra fonte importante relativa all’editto triumvirale è Cass. Dio. 47.6.4-5. Per il dibattito scientifico si rimanda alla lettura di L. CANFORA, Proscrizioni e dissesto sociale, cit., pp. 215 ss.; cfr. E. NARDUCCI, Cicerone. La parola e la politica, Roma-Bari 2009, pp. 3 ss. In generale, resta fondamentale E. GABBA, Appiano e la storia delle guerre civili, Firenze 1956; più recenti i contributi di L. AMERIO, I ‘duces’di Cornelio Nepote, la propaganda politica di Ottaviano ed Antonio e le proscrizioni triumvirali, in Invigilata Lucernis 13-14, 1991-1992, pp. 5 ss.; F. ROHR VIO, Il partito dei proscritti nello scontro politico del secondo triumvirato, in AA.VV., Temi augustei (a cura di G. Cresci Marrone), Amsterdam 1998, pp. 21 ss.
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perché la cosa non risulti». Quello appena letto era un frammento del testo edittale, ma le conseguenze concrete furono terrificanti, come proseguiva Appiano: «Alcuni vennero messi a morte contro il volere dei triumviri, per errore o per le trame dei loro nemici. Il cadavere di chi non era stato proscritto si riconosceva perché gli restava la testa, mentre quelle dei proscritti erano esposte nel Foro, presso la tribuna, dove occorreva portarle per riscuotere la ricompensa promessa» (App. bell. civ. 4.15.58). Senatori, consolari, tribuni che si gettavano ai piedi dei loro schiavi; mogli e figli contro mariti e padri, schiavi contro padroni, insomma non solo ferocia nella vendetta e odio straripante nell’abiezione, che fecero assumere al massacro proporzioni imponenti, ma una drammatica inversione dei ruoli, ha sottolineato Luciano Canfora in un saggio che mantiene inalterata la sua freschezza 13. Bisogna porre mente soltanto a quest’ultimo aspetto per comprendere lo smarrimento collettivo di una società atterrita: il sovvertimento dei ruoli aveva implicazioni profonde, non travolgeva soltanto la politica e le istituzioni repubblicane, ma riguardava al tempo stesso assetti e concezioni su cui si fondava la coesione dei gruppi minori come la familia, le gentes, i mores che li regolavano e i culti a cui sovrintendevano. E tale sovvertimento dei ruoli produceva uno sconvolgimento, come è facile intuire, che non atteneva soltanto alla sfera umana. La frattura determinatasi nella storia della civitas non aveva interrotto soltanto il funzionamento delle istituzioni pubbliche 14. Essa fu più grave, perché l’intera società romana era sprofondata nell’empietà; si era tollerato lo scempio materiale di un valore fondante, quel valore che sino ad allora aveva permesso al civis condannato a morte di sottrarsi ad essa scegliendo l’esilio, o che impediva persino che si mettesse a morte l’homo sacer 15, uccisione, lecita per la lex humana, ma non conforme al volere degli dèi. Quella terribile stagione era stata preannunciata,
13 Per un quadro abbastanza nitido e impietoso delle conseguenze di ordine sociale ed economico, oltre che politico, delle proscrizioni, sono puntuali ed efficaci le pagine di L. CANFORA, Proscrizioni e dissesto sociale, cit., pp. 207 ss. 14 F. GRELLE, «Antiqua forma rei publicae revocata», cit., p. 327 [= in ID., Diritto e società, cit., pp. 413 ss.]. 15 La letteratura sul tema è a dir poco autorevole e imponente (Albanese, Santalucia, innanzitutto, e poi Garofalo, Fiori, Zuccotti, per restare solo agli studiosi italiani) e perciò in questa sede mi limito rimandare ai lavori più recenti, come il volume collettaneo AA.VV., Sacertà e repressione criminale in Roma arcaica (a cura di L. Garofalo), Napoli 2013, passim; R. ASTOLFI, Annotazioni storiche sulla figura di homo sacer, in Scritti per A. Corbino (a cura di I. Piro), I, Tricase (LE) 2016, pp. 87 ss.; e il primo lavoro monografico di G. DI TROLIO, Le leges regiae in Dionigi di Alicarnasso. I. La monarchia latino-sabina, Napoli 2017, pp. 48 ss., attraverso cui risalire alla bibliografia specifica. Come è noto il dibattito storiografico ha travalicato i confini della scienza romanistica in particolare con le ricerche di G. AGAMBEN, Sulla condizione di ‘homo sacer’. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino 1995; su cui si leggano le ricerche fondamentali di L. GAROFALO, Studi sulla sacertà, Padova 2005.
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tale era la percezione e il clima generale, da una serie fittissima e impressionante di fatti anomali elencati nel Liber prodigiorum di Giulio Ossequiente 16. Quella violenza estrema dispiegata su una scala mai vista prima, come scrive Mario Citroni nella prefazione al bel volume di Emanuele Narducci dedicato a Cicerone 17, quell’esecrazione indicibile delle guerre civili avrebbero trovato persino una sua spiegazione nello svelamento del nome segreto di Roma da parte di Valerio Sorano (l’erudito repubblicano o un tribuno della plebe, secondo diverse fonti) 18, custodito gelosamente per impedire che nei confronti dell’Urbe potesse compiersi il rito misterioso e potente dell’evocatio preludio all’espugnazione. Tanto grave era, dunque, lo smarrimento dell’opinione pubblica, così preda dei sentimenti più irrazionali da far affiorare prepotentemente un vetustissimus mos e occultissima sacra, come scriveva Macrobio nei Saturnalia a proposito di rituali segretissimi di assoluta arcaicità 19. Quella molla potente e irrazionale, in fin dei conti, non era altro che un dato assai diffuso, anzi potremmo dire sostanzialmente comune alle religioni arcaiche fondato sul potere magico del nome della divinità e sul tabù della sua impronunciabilità. Mosso, quindi, dalla necessità di ripristinare un ordine interno ed esterno, il vincitore di Azio era consapevole di dover ristabilire innanzitutto uno dei valori fondanti della comunità ovvero la pax deorum. Occorreva allora una vera e propria palingenesi cosmica che permettesse una rinascita dell’oikouméne mediante un rinnovato patto con gli dèi. In alcuni accuratissimi saggi, Marta Sordi 20 ha 16
Iul. Obseq. 70.1-23. C. SANTINI, Letteratura prodigiale e «sermo prodigialis» in Giulio Ossequiente, in Philologus 132, 1988, pp. 210 ss.; G. CRESCI, Profezie e congiure alla vigilia delle proscrizioni: l’affaire di Quinto Gallio, in Pignora amicitiae. Scritti di storia antica e storiografia offerti a M. Mazza (a cura di M. Cassia, C. Giuffrida, C. Molè, A. Pinzone), III, Acireale-Roma 2012, pp. 11 ss. 17 E. NARDUCCI, Cicerone, cit., p. vi. 18 L. ALFONSI, L’importanza politico-religiosa della “enunciazione” di Valerio Sorano (a proposito di CIL, I, I2, p. 337), in Epigraphica 10, 1948, pp. 81 ss.; TH. KÖVES-ZULAUF, Reden und Schweigen. Römische Religion bei Plinius Maior, München 1972, pp. 90 ss.; ID., Plinius der Ältere und die römische Religion, in ANRW II.16.1, Berlin-New York 1978, p. 232; L. COTTA RAMOSINO, Guerra civile e guerra sociale in Plinio, in AA.VV., Guerra e diritto nel mondo greco e romano (a cura di M. Sordi), Milano 2002, pp. 249 ss.; G. BRIZZI, Il nomen segreto di Roma e l’“arcanum imperii”, in AA.VV., Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e letterario. Atti del Convegno di Como, 5-7 ottobre 1979, Atti della Tavola rotonda nella ricorrenza centenaria della morte di Plinio il Vecchio, Bologna 16 dicembre 1979, Como 1982, pp. 237 ss.; C.O. TOMMASI, Il nome segreto di Roma tra antiquaria ed esoterismo. Una riconsiderazione delle fonti, in SCO 60, 2014, pp. 187 ss. 19 Macrob. sat. 3.9. 20 M. SORDI, Dalla ‘koiné eirene’ alla ‘pax Romana’, in AA.VV., La pace nel mondo antico (a cura di M. Sordi), Milano 1985, pp. 3 ss.; EAD., ‘Pax deorum’ e libertà religiosa nella storia di Roma, in AA.VV., La pace nel mondo antico (a cura di M. Sordi), Milano 1985, pp. 146 ss.; EAD., Pax deorum e libertà religiosa, in AA.VV., I diritti fondamentali della persona umana e la libertà religiosa, Roma 1985, pp. 339 s.; cfr. E. MONTANARI, Il concetto originario di ‘pax’ e la ‘pax deorum’, in
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dimostrato l’arcaicità della pax deorum, locuzione che con il suo genitivo soggettivo significava innanzitutto la ‘pace data dagli dèi’, che gli uomini potevano soltanto exposcere, exorare, exquirere, petere: da questa pace sarebbero poi discesi il perdono e la riconciliazione che gli uomini si concedevano. Augusto e il suo formidabile entourage erano consapevoli di tutto ciò 21, costruirono perciò un percorso a tappe, condotto con prudenza e giusto dosaggio delle innovazioni perché la strada era impervia persino per colui che, come abbiamo visto, dal 31 a.C. era potens per consensum universorum (RGDA 34.1) e che dal 27 a.C. divenne superiore a tutti per auctoritas (RGDA 34.3). Del lungo e complesso percorso si scorgono tre direttrici principali: la rigenerazione religiosa e la diffusione del culto imperiale, la consapevolezza di un impero che coincideva con il mondo e la restitutio della res publica o, come probabilmente avrebbe scritto Livio, della forma civitatis.
2. LA RIGENERAZIONE RELIGIOSA E LA NUOVA ALLEANZA TRA ROMA E GLI DÈI: LA DIVINIZZAZIONE DI AUGUSTO Per comprendere pienamente la strategia di Ottaviano bisogna aver chiari innanzitutto i gravi errori commessi da Antonio, soprattutto quelli di carattere religioso, a cominciare dalla cosiddetta imitatio Alexandri. Nella biografia plutarchea troviamo tutte le informazioni essenziali dell’assunzione del Macedone come modello a lui applicato e declinato attraverso motivi orientali e dionisiaci. Clamorosa l’accoglienza riservatagli dalla popolazione al suo ingresso in Efeso: «donne vestite da Baccanti, uomini e fanciulli vestiti da Satiri e da Pani, lo guidarono attraverso la città, ove non si vedeva altro che edere e tirsi e arpe e zampogne e flauti, mentre il popolo inneggiava a lui come Dioniso Benefico e Soave» 22. A questa seguì la replica di Tarso: «Antonio, seduto in tribunale, rimase solo nella piazza, tanta fu la folla che uscì incontro alla regina (Cleopatra); e fra tutta quella gente corse una voce, che Afrodite veniva in tripudio a unirsi a Dioniso per il bene dell’Asia» 23. Un altro episodio ancora nel 38 a.C., ad Atene, con la ierogamia con Athena Polias: «Antonio chiamava se stesso Nuovo Dioniso e pretendeva di essere così chiamato dagli altri; quando gli Ateniesi, a fronte di
AA.VV., Concezioni della pace (a cura di P. Catalano e P. Siniscalco), Roma 2006, pp. 39 ss.; A. MASTINO-A. IBBA, L’imperatore pacator orbis, in Pignora amicitiae. Scritti di storia antica e storiografia offerti a M. Mazza (a cura di M. Cassia, C. Giuffrida, C. Molè, A. Pinzone), III, AcirealeRoma 2012, pp. 139 ss. 21 Virgilio ne utilizzava la forma arcaica, o arcaizzante, ‘pax divom’ (Verg. aen. 3.370). 22 Plut. Ant. 24.4. 23 Plut. Ant. 26.4-5.
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questo e di altri suoi atteggiamenti, gli promisero in sposa Atena, egli disse di accettare il matrimonio e esigette da essi un milione come dote» 24. Antonio, sin dal 41 a.C., dunque assai prima di Ottaviano, provò a legittimare e consolidare la propria dominatio attraverso la lente religiosa, provando a collocare se stesso su una dimensione sacrale, sovrumana 25. Ma gli errori furono appunto gravi e irreversibili per le sue sorti. La sua ipostasi dionisiaca orientaleggiante divenne presto facile bersaglio della propaganda filottaviana fondata su contrapposti motivi italici e occidentali. Abile e subdolo, ad esempio, fu il risveglio di timori antichi scatenanti epiloghi drammatici, come i culti dionisiaci diffusi in Italia nel II secolo a.C. e la feroce repressione disposta dal senatus consultum de Bacchanalibus. Ce lo racconta efficacemente ancora una volta Plutarco: «Era infatti sicuramente (Dioniso) Benefico e Soave per alcuni, ma per i più era Dioniso Carnivoro e Selvaggio: toglieva infatti ogni avere ai gentiluomini per farne dono ad altri che erano canaglie, ma sapevano adularlo» 26. Ancora. Nell’imminenza dello scontro aziaco fu agevole provocare un attacco violentissimo nei suoi confronti: alle accuse di ebrietas 27, dementia, ementita stirps, si aggiunsero quelle altrettanto gravi di aver donato a Cleopatra e ai figli l’Armenia, la Media, la Partia (una volta conquistata), e ancora la Fenicia, la Siria e la Cilicia 28. Scandalosa apparve la celebrazione del trionfo ad Alessandria 29. Ma soprattutto per il luogotenente di Cesare fu micidiale l’urto dell’accusa di aver tradito gli dèi patri 30, tanto che il motivo tutto occidentale della pretesa discendenza della gens Antonia da Eracle divenne presto oggetto di un furioso e martellante discredito, attraverso il quale alla coppia Antonio-Cleopatra si assimilava quella Eracle-Onfale in cui «il mitico modello è caricato dei toni di una goffa parodia e il ruolo demonizzato di Cleopatra traspare dunque in tutto il suo potere di plagio e di svirilizzazione del partner» 31. Insomma, quella
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Cass. Dio 48.39.2. Sul tema in generale G. CRESCI MARRONE, Ecumene Augustea. Una politica per il consenso, Roma 1993, pp. 15 ss., con accurata bibliografia; su Dioniso resta fondamentale l’analisi e l’esplorazione del mito racchiusa nel volume, ormai un vero e proprio classico, di K. KERÉNYI, Dioniso. Archetipo della vita indistruttibile, Milano 2010. 26 Plut. Ant. 24.5. 27 Plin. nat. hist. 14.28.148; G. MARASCO, Marco Antonio «Nuovo Dioniso» e il De sua ebrietate, in Latomus 51, 1992, pp. 538 ss.; di recente G. TRAINA, Marco Antonio, Roma-Bari 2003, passim. 28 Plut. Ant. 54.7; J. DOBIAS, La donation d’Antoine à Cléopâtre en l’an 34 av. J.-C., in Mélanges Bidez. Annuaire de l’Institut de Philologie et d’histoire orientales de l’Université libre de Bruxelles, Bruxelles 1934, pp. 287 ss. 29 M. CLAUSS, Kleopatra, München 2009, pp. 68 ss. 30 Cass. Dio 50.25.3. 31 G. CRESCI MARRONE, Ecumene Augustea, cit., p. 24. Plut. Ant. 90.4. 25
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coppia, quelle nuptiae (che iustae certamente non erano) suscitarono un gigantesco scandalo politico 32 e Ottaviano ebbe così gioco facile. Della straordinaria capacità di leggere esigenze e aspettative degli ampi settori della società romana verso un orizzonte di valori condivisi, di certezze e speranze di pace e ordine, il giovane Cesare diede un eccellente saggio nell’intrecciare l’aspetto politico-istituzionale con quello della pacificazione religiosa e umana. Con consumata abilità e con assoluta ostinazione, rifiutò il cognomen di Romulus e tutto ciò che alla istituzione monarchica anche sul piano sacrale fosse riferibile, mentre nel 27 a.C. accettò di buon grado quello di Augustus, che divenne il catalizzatore di ogni fatto, conferimento, ecc., utile a contribuire al consolidamento del fondamento religioso della posizione del princeps 33. L’aurea di sacralità promanante dal nome Augustus, nel suo nesso inscindibile con Augurium e Auctoritas, costituiva il chiaro preludio del culto religioso di cui il principe sarebbe stato presto oggetto nelle province 34. L’essenza sacrale fu ossessivamente ricercata da Augusto. Dobbiamo a Dumézil un’acuta riflessione su Serv. ad Aen. 1.292.25-28, ove si racconta dell’abilità di Ottaviano nello scansare ostacoli. Quando il popolo gli rimise la scelta tra Quirino, Cesare o Augusto, egli per non scontentare nessuno decise di assumere in successione di tempo tutti e tre i nomi, immaginandosene una riutilizzazione dell’antica e ormai desueta triade Quirino, Marte e Giove 35. Ma se ci fermassimo a questa rappresentazione non diremmo molto più di quanto è già noto da tempo. Bisogna invece aggiungere altro, mutando la prospettiva e provando a capire cosa agli occhi di Ottaviano fosse essenziale per av-
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Sul tema per tutti E. VOLTERRA, Ancora sul matrimonio di Antonio e Cleopatra, in Festschrift für Werner Flume zum 70. Geburtstag, 12. September 1978, I, Köln 1978, pp. 205 ss. [= in ID., Scritti giuridici. III. Famiglia e successioni (con una nota di lettura di M. Talamanca), Napoli 1991, pp. 439 ss.]; A. D’ORS, Cleopatra ¿“uxor” de Marco Antonio?, in AHDE 49, 1979, pp. 639 ss.; A. GUARINO, Antonio e Cleopatra, in Atti dell’Accad. Pontaniana 29, 1980, pp. 101 ss. [= in ID., Pagine di diritto romano, VI, Napoli 1995, pp. 516 ss.]. È tornato a sottolineare il forte impatto politico sull’opinione pubblica A. CUSMÀ PICCIONE, “Non licet tibi alienigenam accipere”. Studio sulla disparitas cultus tra i coniugi nella riflessione cristiana e nella legislazione tardoantica, Milano 2017, pp. 91 ss. Fonti: Verg. aen. 8.685-688; Ovid. meth. 15.826-828; Lucan. 10.358-359; Eutr. 7.6.1; Macrob. sat. 3.17.14-15. 33 Sulla teologia del potere imperiale cfr. J. GAGÉ, Pouvoir et religion, cit., pp. 47 ss.; G.W. BOWERSOCK, Augustus, cit., praecipue pp. 112 ss. 34 Sul culto di Augusto pagine limpide in D. KIENAST, Augustus, cit., pp. 244 ss. 35 G. DUMÉZIL, Jupiter, cit., pp. 60, 226 ss. Cfr. G. RADKE, Quirinus. Eine kritische Überlieferung und ein Versuch, pp. 276 ss.; D. PORTE, Romulus-Quirinus, prince et dieu, dieu des princes. Etude sur le personnage de Quirinus et sur son évolution, des origines à Auguste, pp. 300 ss., pubblicati in ANRW II.17.1, Berlin-New York 1981; G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio e la propaganda augustea, in AUPA 57, 2014, pp. 44 ss. Ma una radicale destrutturazione del sistema duméziliano è avanzata da A.L. PROSDOCIMI, Forme di lingua, cit., I, pp. 431 ss.
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viare una fase nuova. Bisogna chiedersi come Ottaviano guardasse alla realtà di Roma nella metà del I secolo a.C. Ormai non più di una semplice polis, non più centro politico di una forte ma pur sempre territorialmente contenuta democrazia militare, Roma era ormai divenuta la capitale della più potente realtà imperiale del Mediterraneo e del Vicino Oriente. Un impero vastissimo, multietnico, multiculturale, multireligioso, segnato da un equilibrio instabile ma al contempo iperstabile tra i due diversissimi poli, Occidente, in particolare la tota Italia 36, e Oriente in cui linguaggi e canoni politici e religiosi, tensioni morali e aspettative salvifiche erano differenti. Su questo delicatissimo versante, Ottaviano giocò la partita, partendo dalla piena consapevole di dover radicare la propria egemonia, riconosciuta sul piano militare, nella dimensione politica attraverso un consolidamento della componente religiosa. E così, non diversamente da quanto fece Antonio ma con diversa abilità e fortuna, seppe ben articolare le sue mosse provando a evitare quegli errori che costarono la perdita di tanto consenso al suo rivale. Certo, rispetto ad Antonio, Ottaviano godeva di un vantaggio già in partenza: il giovane Cesare era erede della discendenza divina della gens Iulia da Venere, però appunto, lui campione dei valori dell’Occidente romano, non commise l’errore di assumere soltanto questa prospettiva e si mosse invece lungo due linee strategiche. Una tutta occidentale, prudente, messa in pratica non da lui in prima persona, ma dai suoi uomini più accorti e vicini. Un’altra assai diversa, di marca squisitamente orientale, che aveva però un diretto exemplum in Cesare, già considerato in Oriente dio per rivelazione divina (Ares e Afrodite) invitto e salvatore dell’uomo 37, e se vogliamo ancor più indietro nel tempo nelle concezioni sacrali egizie già mutuate in qualche misura da Alessandro Magno. E potentia e auctoritas furono i cardini attorno ai quali girarono la divinizzazione augustea e il processo ambivalente di restitutio, e al contempo di trasformazione, della res publica 38.
3. LA LINEA ORIENTALE Se ciò era efficace e funzionale rispetto alla cultura religiosa del mondo ellenistico-romano, altrettanto significativa fu l’azione condotta dalla macchina au-
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Cfr. A. MARCONE, Augusto, cit., pp. 70 ss. W. DITTEMBERG, Sylloge, cit., II, p. 442, nr. 760; Cass. Dio 43.45.3; Cic. ad Att. 12.53.2; ad Att. 13.4.2. 38 Secondo M. CITRONI, Autocrazia e divinità, cit., p. 258, la rinuncia di Augusto alla divinizzazione ufficiale in vita fu diretta conseguenza della scelta della restitutio rei publicae; continuo, invece, a credere che siano due aspetti strettamente connessi della medesima strategia. 37
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gustea per far breccia negli assai diversi sistemi religiosi del Vicino Oriente, per attivare forme striscianti di penetrazione in essi ai fini di dinamiche sincretistiche di particolare rilievo. Quando a proposito di Augusto si ricorda l’imitatio Alexandri 39 e la sua visione cosmocratica non aggiungiamo nulla di nuovo; anzi v’è da osservare come anche la politica di divinizzazione di Augusto in Egitto, ritratto come Zeus, trovasse una diversa ma più armonica interpretazione. Sebbene declinato in una terra particolare come l’Egitto – inteso da una tanto consolidata quanto infondata linea storiografica quale dominio personale, sganciato da concezioni e schemi costituzionali romani 40, con una sostituzione della persona del princeps ai Faraoni – il culto di Augusto ben si inscriveva nel solco di quelle iniziative volte ad assicurare al princeps quell’alone di religiosità e di contiguità, anzi di appartenenza, alla sfera divina. Forse, però, assai più interessante per l’importanza della documentazione disponibile è la ricostruzione di un fenomeno di dimensioni ancor più ampie: l’attesa messianica di un nuovo Alessandro o di un salvatore doveva tanto essere diffusa tra le classi sociali più umili e soprattutto in Oriente da consentire l’innesto della propaganda augustea. «L’Imp. Augustus vivente aveva ricevuto nelle province templi e culto, accanto alla dea Roma, ed in Italia sacerdoti e culto, di cui il documento più insigne è il calendario numano (C x, 8375) delle ¹mšrai Sebasta…» – annotava con grande acume Santo Mazzarino – «Ed anche nel semplice culto del numen Augusti, com’esso è a noi attestato per esempio dall’ara di Narbona, si erano fatte sentire concezioni sociali-religiose tipicamente augustee […]. L’imperatore vivente scendeva dal mondo degli dèi al costituzionale (e razionale) mondo degli uomini mortali [...]. Ma quell’esaltazione religiosa che aveva ‘fatto’ il principato, non era un capriccio di Augusto e degli Augustei. Essa era radicata nel travaglio spirituale di tutto il mondo antico, da gran tempo sconvolto e stanco» 41. Non si tratta di ipotesi suggestive e dotte di un grande Maestro, Santo Mazzarino, ma della conclusione fondata, oltre ogni ragionevole dubbio, su innumerevoli dati. 39
Sul tema dell’imitatio Alexandri, si legga il volumetto collettaneo AA.VV., L’Alessandro di Giustino (dagli antichi ai moderni), Roma 1993; mentre in merito allo sfaldamento dell’impero nel quarantennio successivo alla morte di Alessandro si rinvia a F. LANDUCCI, Il testamento di Alessandro. La Grecia dall’Impero ai Regni, Roma-Bari 2014; cfr. pure B. TISÉ, Imperialismo romano e “imitatio Alexandri”. Due studi di storia politica, Lecce 2003. 40 Vedi supra CAPITOLO PRIMO, § 7. 41 S. MAZZARINO, L’impero romano, cit., I, pp. 154 ss.; cfr. L. CERFAUX-J. TONDRIAU, Un concurrant du Christianisme. Le culte des souverains dans la civilisation gréco-romaine, Paris-Tournai 1957, pp. 313 ss.; U. LAFFI, Le iscrizioni relative all’introduzione nel 9 a.C. del nuovo calendario della provincia d’Asia, in SCO 16, 1967, pp. 5 ss.; W. GAWANTKA, Aktualisierende Konkordanzen zu Dittenbergers Orientis Graeci Inscriptiones Selectae (OGIS) und zur dritten Auflage der von ihm begründeten Sylloge Inscriptionum Graecarum (Syll.3), Hildsheim 1977, p. 290; V. MAROTTA, La cittadinanza romana in età imperiale (secoli I-III d.C.). Una sintesi, Torino 2009, p. 12; F. COSTABILE, Caius Iulius Caesar, cit., pp. 188 ss.
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È così, infatti, che andando appena oltre le Res Gestae, non è affatto difficile incontrare documenti attestanti la formidabile dimensione sacrale che promanava dall’epiteto Augustus, le cui dimensioni appaiono assai più vaste di quanto si è solito ricordare. Un importante documento del 9 a.C., un’iscrizione bilingue di Priene (colonia situata alle pendici del Monte Micale, in Turchia, oggi Samsun Dag), contiene un editto del proconsole d’Asia Paullus Fabius Maximus poi trasfuso in un decretum de fastis provincialibus provinciae Asiae e dipinge un quadro davvero straordinario delle tensioni, delle ansie e delle aspettative nutrite verso Augusto: SEG IV.490 (= OGIS II.458): Edoxen to‹j ™pˆ tÁj 'As…aj 'Ellhsin, gnémV toà ¢rcieršwj 'Apollon…ou toà Mhnof…lou 'Aizean…tou: 'Epe[id¾ ¹ qe…wj] diat£xasa tÕn b…on ¹mîn prÒnoia spoud¾n e„den[enka|m]šnh kaˆ filotim…an tÕ telhÒtaton tîi b…wi diekÒsmh[sen ¢gaqÕn] | ™nenkamšnh tÕn SebastÒn, Ön e„j eÙerges…an ¢nqrè[pwn] ™pl»|rwsen ¢retÁj, [è]sper ¹me‹n kaˆ to‹j meq' ¹[m©j swtÁra carisamšnh] tÕn paÚsanta m n pÒlemon, kosm»sonta [d e„r»nhn, ™pifaneˆj d | Ð Ka‹sar t©j ™lp…daj tîn prolabÒntwn [eØangšlia p£ntwn Øper] |šqhken, oÙ mÒnon toÝj prÕ aÙtoà gegonÒt[aj eÙergštaj Øperba] |lÒmenÒj, ¢ll' oÙd'™n to‹j ™somšnoij ™lp…d[a Øpolipën ØperbolÁj], | Ãrxen d tîi kÒsmwi tîn di' aÙtÕn eØangel…[wn ¹ genšqlioj ¹mšra] | toà qeoàÿ, tÁj d 'As…aj ™yhfismšnhj ™n SmÚrnV [™pˆ ¢rcieršwj] | Leuk…ou OÙolkak…ou Tàllou, grammateÚontj Pap[…a, martur…an] | tù meg…staj g' e„j tÕn qeÕn kaqeurÒnti teim¦j e nai [stšfanon], | Paàlloj F£bioj M£ximoj Ð ¢nqÚpatoj tÁj ™parc»aj ™[p… swthr…aj] | ¢pÕ tÁj ™ke…nou dexi©j kaˆ [g]némhj ¢pestalmšnoj eØ[r»masin „d…] |oij eÙergšthsen tÁn ™parc»an, ïn eÙergesiîn t¦ megeq[h ƒkanîj] | e„pe‹n oÙdeˆj ¨n ™f…koito, kaˆ tÕ mšcri nàn ¢gnohq n ØpÕ tîn [`Ell»] |nwn e„j t¾n toà Sebastoà teim¾n eÛreto, tÕ ¢pÕ tÁj ™ke…nou g[enš] |sewj ¥rcein tù b…ù tÕn crÒnon: di' Ö ktl 42. 42
[I Greci che vivono in Asia hanno approvato, su proposta del sommo sacerdote Apollonio figlio di Menofilo di Ezeane, questo decreto: «Poiché la provvidenza che divinamente regola la nostra vita, manifestando sollecitudine e generosità, ha disposto il più perfetto compimento della vita, avendo inviato Augusto che, a beneficio degli uomini, ha colmato di virtù, avendolo inviato salvatore per noi e per quelli dopo di noi, lui che ha fatto cessare la guerra e stabilirà l’ordine di tutte le cose, e poiché Cesare con la sua epifania è andato oltre le speranze di tutti coloro che avevano ricevuto in precedenza buone novelle, non solo superando i benefattori vissuti prima di lui ma non lasciando nemmeno in quelli futuri speranza di rinnovamento, e per il cosmo il giorno genetliaco del dio (Augusto) ha dato inizio alla serie delle buone novelle annunciate per suo merito; e poiché, avendo decretato l’assemblea della provincia d’Asia, riunita a Smirne, essendo proconsole Lucio Volcacio Tullo, segretario Papione figlio di Diosierito, che a colui che avesse escogitato i più grandi onori per il dio (Augusto) fosse conferita una corona, Paullo Fabio Massimo, proconsole della provincia, inviato come benefattore dalla sua mano destra e dalla sua volontà
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Il documento epigrafico racchiude in una lettera inviata dal proconsole al Koinón d’Asia l’ordine di applicazione della riforma cesariana del calendario giuliano-asiano: il 23 settembre, dies natalis di Augusto, diventava l’inizio dell’anno. Non è ovviamente l’aspetto burocratico-amministrativo che ci interessa, né lo scopo assai pratico perseguito dal proconsole, cioè convincere le città greche d’Asia ad adottare come inizio dell’anno civile la data di nascita di Augusto. Quello che più colpisce della comunicazione del governatore romano è la sua portata ideologica. Come ha sottolineato Mazzarino, l’iscrizione è tutta un inno alla nuova èra avviata da Augusto 43, e in particolare sono alcune espressioni ad attrarre attenzione e suscitare curiosità: la provvidenza divina, l’invio di un ‘salvatore’, l’arrivo di un tempo di pace, sono espressioni assai suggestive, ma soprattutto denso di implicazioni è il passaggio in cui il dies natalis di Augusto viene equiparato a quello che fu per il mondo il principio della vita: un’equivalenza straordinaria con la quale la vita riprendeva il suo corso, grazie alle buone novelle (evangelii) da lui annunciate. L’espressione tîn di' aÙtÕn eÙangel…wn costituisce davvero un messaggio di rara potenza comunicativa, soprattutto nella sua connessione causale, cioè la straordinaria attribuzione al giorno della nascita del princeps (ºmšra Sebast», il 23 settembre del 63 a.C.) di un’importanza pari a quello della creazione del mondo. Ecco, inciso su una lastra di marmo bianca esposta in una città dell’Asia minore, quell’annuncio (eÙangel…wn) dell’arrivo di una nuova èra di pace e felicità esplicava la sua portata universale risuonando simmetricamente in Occidente, grazie ai versi di Virgilio 44, come l’età di Saturno portata da una persona, cioè Augusto: Verg. aen. 6.791-794: Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis, / Augustus Caesar, Divi genus, aurea condet / saecula qui rursus Latio regnata per arva /Saturno quondam. Anche il lessico di Virgilio è affine alle parole chiavi del messaggio cristiano: l’uomo, figlio di Dio, che viene a portare un’èra di pace, il secolo d’oro di Saturno; e quel puer annunciato, su cui tanto inchiostro si è versato per individuarne l’identità nonostante la soluzione sia stata sempre chiara. Né Salonino, figlio del console Asinio Pollione, né l’atteso erede di Marco Antonio, né Marcello, nipote di Ottaviano, ma Ottaviano stesso. (Augusto) insieme agli altri con cui beneficò la provincia, dei quali benefici nessun discorso giungerebbe a dire la grandezza, ha trovato proprio ciò che sino a ora non era stato immaginato dai Greci in onore di Augusto, cioè dal suo giorno natale inizi il tempo per la vita: per ciò per buona sorte e per nostra salvezza, l’assemblea dei cittadini greci della provincia d’Asia decreta che il nuovo novilunio cada per tutte le città il giorno nono prima delle calende di ottobre, che è il giorno genetliaco di Augusto»]. 43 S. MAZZARINO, L’impero romano, cit., I, p. 156. 44 Vedi anche Verg. ecl. 4.6-17.
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Eppure, per quanto comprensibile, quel motivo in un testo epigrafico ufficiale non può essere liquidato semplicemente come la cifra artistico-letteraria di un amico del principe, perché resta la singolarissima coincidenza che quelle parole straordinariamente affini al messaggio cristiano di Paolo di Tarso erano coniate parecchi decenni prima della vicenda umana di Gesù, e dei primi vagiti delle comunità cristiane, da un altro Paolo, un abile proconsole capace di declinare da quel momento l’egemonia romana non soltanto sulla lama affilata di un gladio, ma anche sulle corde della pace e della venuta di un uomo secondo il disegno della provvidenza divina. Non sappiamo né possiamo ipotizzare se e quanto il linguaggio del proconsole Paolo abbia potuto influenzare quello del Paolo cristiano 45, un’omonimia dovuta davvero a un bizzarro gioco della Storia. Quel che dobbiamo riconoscere è che il motivo messianico, largamente serpeggiante nelle province orientali gremite da predicatori, maghi, profeti e taumaturghi, fosse espresso proprio con timbro e modalità simili a quelli che risuonano nel documento del funzionario romano; e il segno identitario è inequivocabilmente romano. In ogni caso, c’è un diverso dato da non sottovalutare: il valore secondario di cosa credesse o pensasse davvero Augusto dinanzi alla funzione della comunicazione e della memoria. In un libro recente dedicato al pensiero cristiano prima della canonizzazione dei vangeli, Bart D. Ehrman ha avvertito sull’irrilevanza di ciò che Gesù realmente pensava e diceva; riporto un passaggio, secondo me, assai incisivo: «Che importanza ha sapere se Gesù pensava di essere Dio in Terra? Da storico rispondo che mi interessa, e parecchio. Ma se non lo pensava (e ne sono convinto), il fatto che a un certo punto sia stato ricordato dai suoi seguaci come se lo avesse pensato ha un’importanza straordinaria. Senza questo ricordo di Gesù, la fede che si fonda su di lui non avrebbe avuto il successo che ha avuto, l’impero di Roma non avrebbe abbandonato la religione pagana, la storia del mondo sarebbe stata così diversa al punto che non riusciamo neanche a immaginarla. Il corso della storia è cambiato non per i dati storici, ma per i ricordi» 46. Tornando ad Augusto, e parafrasando Ehrman, non ha nessuna importanza se il princeps fosse sincero, se lui nel suo smisurato ego si ritenesse davvero un es-
45 Non bisogna, del resto, perdere di vista un’acuta osservazione di F. FABBRINI, L’impero di Augusto come ordinamento sovranazionale, Milano 1974, pp. 165 ss., praecipue 167, volta ad esaltare il ruolo di Paolo di Tarso nell’ambito della tradizione cristiana su Augusto: «finora assai poco studiato sotto il profilo del suo rapporto con la Storia del suo tempo […], poco o nulla si è fatto riguardo all’utilizzazione della figura di Paolo ai fini della comprensione globale della Storia del I secolo, e della definizione della struttura imperiale». 46 B.D. EHRMAN, Prima dei Vangeli. Come i primi cristiani hanno ricordato, manipolato e inventato le storie su Gesù, Roma 2017, p. 243. Sull’uso ideologico della memoria M. TORELLI, Alle radici della nostalgia augustea, in AA.VV., Continuità e trasformazioni fra res publica e principato. Istituzioni, politica, società (a cura di M. Pani), Bari 1991, pp. 47 ss.
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sere sovrumano o se si trattò soltanto di pura e cinica ipocrisia; resta l’impatto enorme della comunicazione e del ricordo che di lui se ne trasmise. A conti fatti, l’affinità tra teologia imperiale e teologia ebraica e cristiana appare dunque innegabile 47; eppure, per quanto possa apparire un’aporia, quella imperiale marcava una certa lontananza rispetto al messianismo giudaico e, per qualche verso, si avvicinava più a quello cristiano. Alla concezione greco-romana affiorante dall’iscrizione di Priene in cui i vangeli di Augusto erano rivolti più al passato (il salvatore era già arrivato), perché il senso del riferimento al dies natalis di Augustus è l’inizio del tempo, nel giudaismo invece – che dal messianismo profetico era culminato nell’attesa del Figlio dell’Uomo portatore della fine dei tempi (Messia) – corrispondeva una prospettiva appunto integralmente collocata nel futuro. Comunque sia, il testo scolpito a Priene è un documento tanto eccezionale quanto ingombrante sul piano teologico, che trova probabilmente in qualche imbarazzo religioso 48 la spiegazione della sua scarsa utilizzazione. Tuttavia, realtà o suggestione, resta come dato incontrovertibile l’eccezionale valore dell’iscrizione di Priene, quale straordinaria testimonianza della diversa declinazione dell’accorta strategia di sacralizzazione della persona e della costruzione del mito di Augusto. Nella visione augustea il dies natalis è un cardine principale, o uno spartiacque registrato dalle Res Gestae mediante il quale la storia di Roma da quel dies natalis si divise in due parti 49; cosa che in una certa misura si saldava bene con una ben nota ideologia filosofica-politica di matrice ellenistica connessa alla concezione provvidenziale del sovrano 50. Anche lo stile del documento di Priene sembra appartenere a una ferrea matrice augustea e conforme a quella autobiografica delle Res Gestae, secondo una tendenza oscillante tra «l’arcaismo delle parole inusuali o desuete e l’asianesimo delle formulazioni artificiose o ampollose» 51. Quella visione dovette pur lasciare impressa una traccia se in un testo epigrafico del II secolo d.C., sebbene un calco di un originale augusteo 52, il dies 47
Per un affresco del mondo giudaico palestinese, restano fondamentali S. MAZZARINO, L’impero romano, cit., I, pp. 154 ss.; P. SINISCALCO, Il cammino di Cristo nell’Impero romano3, Roma-Bari 2009, pp. 11 ss.; ora si legga pure R.L. WILKEN, I primi mille anni. Storia globale del cristianesimo, Torino 2013, pp. 3 ss. 48 Si veda G. RAVASI, La buona novella. Le storie, le idee, i personaggi del Nuovo Testamento, Milano 1996. 49 RGDA 13. 50 E. GABBA, Riflessione sul cap. 13 delle Res Gestae Divi Augusti, in AA.VV., Leaders and Masses in the Roman World. Studies in Honor of Z. Yavetz, Leiden-New York-Köln 1995, p. 13; cfr. ID., Rileggendo le Res gestae divi Augusti, in L’incidenza dell’antico. Studi in memoria di E. Lepore I, Napoli 1995, pp. 228 s. 51 G. BRACCESI, Giulia la figlia di Augusto, Roma-Bari 2012, p. 71. 52 G. CRESCI MARRONE, Ecumene Augustea, cit., p. 167.
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natalis era celebrato come quello della venuta del reggitore del mondo 53. Un dio presente (praesens divus habebitur Augustus, cantava Orazio) 54 giustificava l’introduzione di un nuovo calendario nella provincia d’Asia. In una terra complessa e diversa come l’Egitto, cui abbiamo prima fatto cenno, il registro non era poi tanto diverso. Un’iscrizione egizia rivela che Augusto riceveva gli stessi onori dei Faraoni 55: Eletto da Ptah-Nun, padre degli dèi. Egli ha occupato il reame di Re sul trono di Geb [...]. Quando egli venne in Egitto, l’Egitto fu felice. Entrambi i paesi gioivano, quando come Sole splendeva all’orizzonte, egli principe dominatore, figlio di un dominatore. Il suo comando arriva sino alla fine del cielo. Nella bella traduzione di Santo Mazzarino 56, il testo ci trasmette la visione che si aveva, o s’intendeva comunicare, di Augusto, la sua divinizzazione già avvenuta, il che ci fa dire come le due iscrizioni, sia pure con timbri e naturalmente concezioni religiose differenti, condividessero la natura divina di Augusto quale elemento costante in tutto l’Oriente ellenofono 57. L’errore che Augusto seppe evitare, a differenza di Antonio, fu la rinuncia all’assimilazione a divinità conosciute. E sebbene, dopo il bellum di Azio, il culto riservato alla sua persona lo raffigurasse nei monumenti con attributi divini e con tratti di assimilazione a Zeus, è utile ricordare ciò che si poteva vedere e leggere di Augusto nel tempio di File, ove il principe, abbigliato alla stregua dei faroni, al cospetto di Iside e Arpocrate così veniva accolto: «Benvenuto, benvenuto, figlio di Ra, Cesare, che vive in eterno. Sino a quando il cielo durerà, durerà il tuo tempio. Tua madre Iside si compiace di quanto tu hai fatto e indirizza a te il cuore degli abitanti della terra» 58. Ciò che conta infatti è che, sia nell’iscrizione di Priene sia in quelle egizie, Augusto restava sempre Augusto e legato all’Occidente.
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CIL XII.4333 = ILS 112 = AÉ 1894, 117: […] qua die eum saeculi Felicitas orbi terrarum / rectorem edidit. 54 Horat. carm. 3.5.2-3; A. MARCONE, Un «Dio presente»: osservazioni sulle premesse ellenistiche del culto imperiale romano, in AA.VV., Roma e l’età ellenistica (a cura di S. Bussi e D. Foraboschi), Pisa-Roma 2010, pp. 205 ss.; ID., Augusto, cit., pp. 114 ss. 55 Sul culto di Augusto in Egitto, vedi A.D. NOCK, SÚnnaoj QeÒj, in HSPh 41, 1930, pp. 16 ss. 56 S. MAZZARINO, Augusto e l’Egitto, in AA.VV., Egitto moderno e antico, Milano 1941, p. 251. 57 Sebbene collocato su di un piano diverso è tuttavia utile per avere un quadro complessivo della visione orientale e delle città il recente saggio di A. BURNETT, The Augustan Revolution Seen from the Mints of the Provinces, in JRS 101, 2011, pp. 1 ss. 58 Il testo è tratto da A. MARCONE, Augusto, cit., p. 115, che a sua volta lo ha recuperato da H. HEINEN, Vorstufen und Anfänge des Herrscherkultes im römischen Ägypten, in ANRW II.18/5, Berlin-New York 1995, pp. 3168 s.; cfr. H. JUNKER-E. WINTER, Das Geburtshaus des Tempels der Isis in Philä, Wien 1965, pp. 256 ss.
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4. LA LINEA OCCIDENTALE Ma proprio nelle terre occidentali il registro di questa strategia, come già detto, doveva necessariamente suonare con toni assai diversi. Sarebbe stato un grave azzardo indicare esplicitamente in Augusto in vita già un dio, per giunta in una cultura religiosa in cui mancava persino la categoria dell’eroe, mentre a Roma più prudentemente si parlasse soltanto di un Genius Augusti. Il primo brillante espediente di pura matrice romana, totalmente estranea al mondo greco, fu appunto la differenziazione deus-divus, ovvero l’introduzione di un diverso rango tra divinità maggiori e divinità minori; e per la prima volta l’attribuzione della qualità di divus spettò a Giulio Cesare 59. Infatti, ancora in vita, Cesare aveva ottenuto onori consoni a una condizione ‘eroica’, ma, soltanto post mortem, l’1 gennaio del 42 a.C. il senato approvò il decreto per la divinizzazione ufficiale. Fu l’exemplum grazie al quale, come ricorda Tacito, si affermò il divieto di attribuire l’honor deum al princeps prima che avesse cessato di vivere 60. Probabilmente il giovane Cesare aveva colto l’importanza dello straordinario varco aperto per il padre adottivo e vi si infilò con immediatezza. Non abbiamo elementi certi, ma dal complesso della documentazione si può desumere che la regia fu messa appunto e avviata esattamente prima del 28-27 a.C., cioè negli anni in cui sul versante squisitamente istituzionale si avviava gradualmente il compromesso istituzionale attraverso un sistema di pesi e contrappesi 61. Lo dimostra la chiusura dello Ianus e l’inserimento del suo nome alla stessa stregua di un dio nel carmen Saliare, come scrive Cassio Dione: œj te toÝj Ûmnouj aÙtÕn ™x ‡sou to‹j qeo‹j ™sg£fesqai (51.20.1); entrambi fatti avvenuti nel 29 a.C. Ma ci portano a risalire ancora più indietro sino alla fine degli anni 40 a.C. un epigramma di Domizio Marso dedicato alla madre Azia (Epigrammata Bobiensia 39: Domiti Marsi de Atia matre Augusti: ‘Ante omnes alias felix tamen ego dicor / sive hominem perperi sive deum’) e la prima attestazione epigrafica della titolatura divi filius 62.
59 Cass. Dio 47.18.2-5; A. ALFÖLDY, La divinisation de César dans la politique d’Antoine et d’Octavien entre 44 et 40 avant J.C., in RN 15, 1973, pp. 99 ss. 60 Tac. ann. 15.74.3: Reperio in commentariis senatum Cerialem Anicium consulem designatum pro sententia dixisse, ut templum divo Neroni quam maturrime publica pecunia poneretur. Quod quidem ille decernebat tamquam mortale fastigium egresso et venerationem hominum merito, sed ipse prohibuit, ne interpretatione quorundam ad omen dolum sui exitus verteretur: nam deum honor principi non ante habetur, quam agere inter homines desierit. G. BONAMENTE, Il ruolo del senato nella divinizzazione degli imperatori, in Humana Sapit: études d’antiquité tardive offertes à Lellia Cracco Ruggini, Turnhout 2002, pp. 359 ss. 61 Così da un esame accurato dei testi letterari e da un frammento del trattato di Vitruvio, M. CITRONI, Autocrazia e divinità, cit., pp. 254 ss. 62 M. CITRONI, Autocrazia e divinità, cit., p. 261 nt. 37.
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Tuttavia, prudenza e abilità costituirono la trama di una sapiente opera di costruzione, penetrazione e radicamento nella vita quotidiana e popolare dell’ideologia augustea della predestinazione del princeps quale futura divinità. Sono davvero numerosi e straordinari i dati che possono raccogliersi a tal proposito. Il quadro diventa, in un certo senso, colorito se ad essi si aggiungono quei testi che riportano le dicerie popolari, astutamente costruite ad arte, dei numerosi prodigi celesti che accompagnavano l’arrivo o la presenza del princeps – tra cui merita di essere ricordata l’apparizione di una cometa! – e che suscitavano tanto appassionato dibattito popolare sulla loro interpretazione 63. Il 23 settembre del 44 a.C. mentre il giovane Caio Ottavio celebrava i giochi in onore di Venere disposti da Cesare, i cieli di Roma venivano solcati da una cometa. Sebbene il fenomeno astronomico fosse stato subito interpretato come la manifestazione dello spirito di Cesare (sidus Iulium) assurto tra gli dèi nella Via Lattea – fu chiamato in contione l’aruspice Vulcacio 64 – tuttavia Augusto seppe farne un uso ben diverso e coerentemente dosato nella strategia della sua divinizzazione 65. Lo svela Plinio il Vecchio: Plin. nat. hist. 2.23.93-94: Cometes in uno totius orbis loco colitur in templo Romae, admodum faustus divo Augusto iudicatus ab ipso, qui incipiente eo apparuit ludis, quos faciebat Veneri Genetrici non multo post obitum patris Caesaris in collegio ab eo instituto. [94] Namque his verbis in gaudium prodidit: «Ipsis ludorum meorum diebus sidus crinitum per septem dies in regione caeli sub septemtrionibus est conspectum. Id oriebatur circa undecimam horam diei clarumque et omnibus e terris conspicuum fuit: eo sidere significari vulgus credidit Caesaris animam inter deorum immortalium numina receptam, quo nomine id insigne simulacro capitis eius, quod mox in foro consecravimus adiectum est». Haec ille in publicum; interiore gaudio sibi illum natum seque in eo nasci interpretatus est. Et, si verum fatemur, salutare id terris fuit 66.
63 Cass. Dio 45.7.1-2; Vell. hist. rom. 2.59.6; Svet. Iul. 88; Aug. 95; Iul. Obseq. 68.3-4; Plin. nat. hist. 2.28.98; Sen. nat. quaest. 1.2.1, 7.17.2; Serv. in Verg. ecl. 9.47; ad Aen. 1.287, 6.790, 8.861. 64 Serv. in Verg. ecl. 9.46 (Augustus, Commentarii de vita sua frg. 7, ed. Malcovati): sed Vulcatius aruspex in contione dixit cometem esse, qui significaret exitum noni saeculi et ingressum decimi, sed, quod invitis diis secreta rerum pronuntiaret, statim se esse moriturum, et nondum finita oratione in ipsa contione concidit. I. HAHN, Zur Interpretation der Vulcatius-Prophetie, in AAntHung 16, 1968, pp. 239 ss.; cfr. G. ZECCHINI, Cesare e il mos moiorum, Stuttgart 2001, p. 76 nt. 56; T.P. WISEMAN, Augustus, Sulla and The Supernatural, in AA.VV., The Lost Memoirs of Augustus and the Development of Roman Autobiography (a cura di C. Smith e A. Powell), Swansea 2009, pp. 11 ss. 65 Vedi sul punto anche E.S. RAMAGE, Augustus’Treatment of Julius Caesar, in Historia 34, 1985, pp. 223 ss. 66 Sul testo pliniano vedi di recente L. COTTA RAMOSINO, Plinio il Vecchio e la tradizione storica di Roma nella Naturalis Historia, Alessandria 2004, pp. 328 ss.
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Quella cometa 67, il cui reale transito astrale peraltro accertato dagli studiosi di settore 68, comunque intesa quale segno celeste di volontà divina e di predestinazione, per quanto all’inizio agganciata a Cesare, ben presto venne legata al dies natalis di Augusto, finendo per assumere i caratteri di segno di annunciazione della sua nascita avvento di un’èra di pace 69. Eloquentissima in questo senso la chiusa di Plinio – et, si verum fatemur, salutare id terris fuit: «e, a dire il vero, essa portò al mondo la salvezza» – un evidente rifacimento alla IX ecloga virgiliana che celebrava i benefici recati all’umanità dal divi filius Ottaviano 70. Il trasferimento della cometa e del suo simbolico significato palingenetico da Cesare ad Augusto 71 finì così per trovare un magnifico esempio in alcune emissioni monetali e in alcune paste vitree, ove compare il ‘Capricorno’, segno zodiacale del princeps, sormontato da una stella. La congiunzione astrale non poteva essere più felice e perciò meritevole di essere sapientemente coordinata tanto da di67 H. WAGENVOORT, Vergil’s vierte Ekloge und das Sidus Julium, Amsterdam 1929; G. PESCE, Sidus Iulium, in Historia 7, 1933, pp. 402 ss.; K. SCOTT, The Sidus Iulium and the Apotheosis of Caesar, in CP 36, 1941, pp. 257 ss.; S. WEINSTOCK, Divus Julius, Oxford 1971, pp. 370 ss.; D. PIETRUSINSKI, Éléments astraux dans l’apothéos d’Octavien Auguste chez Virgile et Horace, in Eos 68, 1980, pp. 267 ss.; I. HAHN, Die augusteischen Interpretationen des sidus Julium, in ACD 19, 1983, pp. 57 ss.; P. WHITE, Julius Caesar in Augustan Rome, in Phoenix 42, 1988, pp. 334 ss.; W. ORTH, Verstorbene werden zu Sternen: geistesgeschichtlicher Hintergrund und politiche Implikationen Katasterimos in der frühen römischen Kaiserzeit, in Laverna 5, 1994, pp. 148 ss.; M. CLAUSS, Kaiser und Gott. Herrscherkult im römischen Reich2, München-Leipzig 2001, pp. 57 s.; M.F. WILLIAMS, The «sidus Iulium», the Divinity of Men, and the Golden Age in Virgil’s «Aeneid», in LICS 2, 2003, pp. 1 ss.; M. KOORTBOJIAN, The Divinisation of Caesar and Augustus. Precedents, Consequences, Implications, Cambridge 2013, praecipue pp. 27 s.; B. PANDEY NANDINI, Caesar’s Comet, The Julian Star, and the Invention of Augustus, in TAPhA 143, 2013, pp. 405 ss.; M. CITRONI, Autocrazia e divinità, cit., pp. 261 ss.; G. CRESCI MARRONE, Fra sidus e sol: le alterne vicende del capitale simbolico augusteo in età tardo antica, in AA.VV., I disegni del potere, il potere dei segni. Atti dell’incontro di Studio, Catania 20-21 ottobre 2016 (a cura di C. Giuffrida e M. Cassia), Ragusa 2017, pp. 11 ss.; C. GIUFFRIDA, Ab oriente lux: gli inizi di una ‘splendida’ carriera, in AA.VV., I disegni del potere, il potere dei segni. Atti dell’incontro di Studio, Catania 20-21 ottobre 2016 (a cura di C. Giuffrida e M. Cassia), Ragusa 2017, pp. 39 ss. 68 Per un quadro della dialettica sul tema R.A. GURVAL, Caesar’s Comet: the Politics and Poetics of Augustan Mith, in MAAR 42, 1997, pp. 39 ss.; J.T. RAMSEY-A.L. LICHT, The Comet of 44 B.C. and Caesar’s Funeral Games, Atlanta 1997, p. 65 app. 69 Deve ricordarsi, tuttavia, come esistesse anche una opposta interpretazione del segno celeste, quale cattiva stella presagio delle guerre civili, pertanto stella di sangue. Per esempio, Tibull. 2.5.71: haec fore dixerunt belli mala signa cometen. 70 Verg. ecl. 9.47-49. 71 Interessante il recente contributo di M. KOORTBOIJAN, The Divinisation of Caesar, cit., pp. 27 ss. G. CRESCI MARRONE, Fra sidus e sol, cit., p. 15, rileva nell’iconografia monetale un processo evolutivo dei significati via via attribuiti alla cometa: da «simbolo conteso dell’eredità cesariana espressione di pietas filiale» ad «auspicio dell’avvento di un’era di pace, addirittura segno del potere di Augusto di “fare gli dei”». Cfr. C. COGROSSI, Pietà popolare e divinizzazione nel culto di Cesare, in AA.VV., Religione e politica nel mondo antico, Milano 1981, pp. 141 ss.
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venire il sigillo del principe: la cometa e il Capricorno, segno del suo concepimento e simbolo della rinascita della vegetazione (figure 7 e 8) 72. FIGURE 7 e 8. – Monete con segno zodiacale del Capricorno e stella
La strada imboccata fu giusta e percorsa con assoluta efficacia. Un eroe già divinizzato, almeno secondo diffusi canoni ellenistici, era proprio colui che ci si aspettava per pacificare il mondo, ed era un motivo assai più familiare all’Occidente e dunque più facilmente assimilabile. Infatti, più delle suggestioni di un’imitatio Alexandri su cui ancora con eccessiva ma stanca enfasi batte una buona parte della storiografia moderna 73, probabilmente giocò il fascino di Evèmero di Messene e della teoria eroica nel suo romanzo `Iera 'Anagrafš, che se poco successo ebbe tra i Greci invece molto impressionò gli ambienti romani, subito dopo la pubblicazione della traduzione (Euhemerus) di Ennio 74. Se Evèmero avvertì l’influsso di quel mondo più ampio dischiuso dalle conquiste e dalle imprese di Alessandro, nel nuovo saeculum Augustum 75 si lavorò perché quell’impronta restasse 76. Il ricorso a Evèmero era ancor più utile e funzio
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Roman Imperial Coinage. I. From 31 BC to AD 692 (a cura di C.H.V. Sutherland), I, London 1984, pp. 44, 37a e 66, 340. 73 Con limiti e distorsioni anche significativi, come in P. GREEN, Caesar and Alexander: aemulatio, imitatio, comparatio, in AJAH 1, 1978, pp. 1 ss. 74 E. ROMANO, Oracoli divini e responsi di giuristi. Note sulla interpretatio enniana dell’Euhemerus, in Amicitiae templa serena. Studi in onore di G. Aricò, II, Milano 2008, pp. 1433 ss. 75 Svet. Aug. 100.5: [...] alius, ut omne tempus a primo die natali ad exitum eius saeculum Augustum appellaretur et ita in fastos referretur et ita in fastos referretur. 76 L. ROSS TAYLOR, The Divinity of the Roman Emperor, Middletown 1931, pp. 142 ss.; A.R. BELLINGER, The Immortality of Alexander and Augustus, in YCS 15, 1957, pp. 93 ss.; H.J. METTE, Roma (Augustus) and Alexander, in Hermes 88, 1960, pp. 458 ss.; D. KIENAST, Augustus und Alexander, in Gymnasium 76, 1969, pp. 430 ss.; A. MASTINO, Orbis, kÒsmoj, o„koumšnh: aspetti spa
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nale dal momento che modificava un tratto essenziale dell’antica religione romana a cui era estranea la categoria dell’eroe 77. Così, diventava assai più agevole fare di Augusto un uomo, un eroe, il pacificatore, da iniziare a divinizzare in vita e da collocare, una volta morto, tra gli dèi. E, del resto, la contaminazione di filosofia stoica e motivi evemeristici appartenevano alla cultura di fondo della migliore aristocrazia 78 mentre tracce evidenti restavano impresse negli scritti ciceroniani; basti pensare a quanto dice Lucilio Balbo nel De natura deorum: «Inoltre, la comunità umana cominciò a innalzare al cielo quegli uomini illustri che si erano distinti nell’aver procurato benefici […]. Di qui Ercole, di qui Castore e Polluce, di qui Esculapio […]» 79. Non è poi certo un caso se Svetonio, quando scrisse dell’assunzione del cognomen Augustus, abbia citato Ennio – […] sicut etiam Ennius docet scribens: “Augusto augurio postquam incluta condita Roma est” 80 – retrodatando, e dunque ancor più nobilitando, sotto il profilo linguistico la matrice sacrale di Augustus. Indubbiamente tutto ciò non era affatto il frutto dell’acume del biografo ma dell’opportunità di poter attingere a buone fonti d’epoca. Il lavoro culturale per creare un contesto profetico funzionale a sorreggere la vocazione universalistica augustea fu vasto e capillare e venne impegnata la migliore intellettualità. Livio non mancò di dare il proprio contributo: Liv. 1.16.7: Abi, nuntia, inquit, Romani caelestes ita velle, ut mea Roma caput orbis terrarum. «Vai, disse (Romolo), e annunzia ai Romani che gli dèi vogliono che la mia Roma sia la capitale del mondo intero». La costruzione della predestinazione attraverso i prodigi fu in effetti profonda e sapiente 81. Non solo la cometa, di cui si è parlato prima, ebbe un peso significativo anche il gioco sull’adventus da
ziali dell’idea di impero universale da Augusto a Teodosio, in AA.VV., Popoli e spazio romano tra diritto e profezia. Atti del III Seminario internazionale di studi storici “Da Roma alla terza Roma”, 21-23 aprile 1983, Roma 1986, pp. 70 ss. 77 A. BRELICH, Tre variazioni romane sul tema delle origini, Roma 2010, p. 211. Di recente, B. BOSWORTH, Augustus, the Res Gestae and Hellenistic Theories of Apotheosis, in JRS 89, 1999, pp. 1 ss., 12 ss. 78 A. SCHIAVONE, Ius, cit., pp. 231 ss. 79 Cic. de nat. deor. 2.24.62; cfr. de nat. deor. 3.5.11 e 3.15.9. 80 Svet. Aug. 7.4. 81 L’interesse ha prodotto una buona letteratura: E. BERTRAND-ENCAVIL, Présages et propagande idéologique: à propos d’une liste concernant Octavien Auguste, in MEFRA 106, 1994, pp. 487 ss.; S.W. RASMUSSEN, Public Portents in Republican Rome, Roma 2003, passim; M. TOHER, Octavian’s Arrival in Rome 44 B.C., in CQ 54, 2004, pp. 174 ss.; F. SANTANGELO, Divination, Prediction and the End of the Roman Republic, Cambridge 2013, pp. 247 ss.; G. CRESCI MARRONE, Fra sidus e sol, cit., pp. 11 ss.
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Apollonia del diciannovenne Ottavio, accolto da un arcobaleno 82. A essere sinceri, però, la pagina svetoniana tra tutte è quella di straordinaria efficacia (Aug. 94.1-12). Si tratta di una sorta di catalogo dei prodigi che avvolsero la nascita del princeps per costruirne l’alone di predestinazione: Svet. Aug. 94.1-12: Et quoniam ad haec ventum est, non ab re fuerit subtexere, quae ei prius quam nasceretur et ipso natali die ac deinceps evenerint, quibus futura magnitudo eius et perpetua felicitas sperari animadvertique posset. [2] Velitris antiquitus tacta de caelo parte muri, responsum est eius oppidi civem quandoque rerum potiturum; qua fiducia Veliterni et tunc statim et postea saepius paene ad exitium sui cum populo R. belligeraverant; sero tandem documentis apparuit ostentum illud Augusti potentiam portendisse. [3] Auctor est Iulius Marathus, ante paucos quam nasceretur menses prodigium Romae factum publice, quo denuntiabatur regem P. R. naturam parturire; senatum exterritum censuisse, ne quis illo anno genitus educaretur; eos qui gravidas uxores haberent, quod ad se quisque spem traheret, curasse ne senatus consultum ad aerarium deferretur. [4] In Asclepiadis Mendetis Theologumenon libris lego, Atiam, cum ad sollemne Apollinis sacrum media nocte venisset, posita in templo lectica, dum ceterae matronae domum irent, obdormisse; draconem repente irrepsisse ad eam pauloque post egressum; illam expergefactam quasi a concubitu mariti purificasse se; et statim in corpore eius extitisse maculam velut picti draconis nec potuisse umquam exigi, adeo ut mox publicis balineis perpetuo abstinuerit; Augustum natum mense decimo et ob hoc Apollinis filium existimatum. [5] Eadem Atia, prius quam pareret, somniavit intestina sua ferri ad sidera explicarique per omnem terrarum et caeli ambitum. Somniavit et pater Octavius utero Atiae iubar solis exortum. [6] Quo natus est die, cum de Catilinae coniuratione ageretur in curia et Octavius ob uxoris puerperim serius affluisset, nota ac vulgata res est P. Nigidium comperta morae causa, ut horam quoque partus acceperit, affirmasse dominum terrarum orbi natum. [7] Octavio postea, cum per secreta Thraciae exercitum duceret, in Liberi patris luco barbara caerimonia de filio consulenti, idem affirmatum est a sacerdotibus, quod infuso super altaria mero tantum flamma emicuisset, ut supergressa fastigium templi ad caelum usque ferretur, unique omnino Magno Alexandro apud easdem aras sacrificanti simile provenisset ostentum. [8] Atque etiam sequenti statim nocte videre risus est filium mortali specie ampliorem, cum fulmine et sceptro exuviisque Iovis Optimi Maximi ac radiata corona, super laureatum currum, bis senis equis candore eximio trahentibus. [9] Infans adhuc, ut scriptum apud C. Drusum exstat, repositus vespere in cunas a nutricula loco plano, postera luce non comparuit, diuque quaesitus tandem in altissima turri repertus est iacens contra solis exortum. [10] Cum primum fari coepisset, in avito suburbano obstrepentis forte ranas silere iussit, atque ex eo negantur ibi ranae 82
Ne tratta diffusamente G. CRESCI MARRONE, Fra sidus e sol, cit., pp. 11 ss.
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coaxare. [11] Ad quartum lapidem Campanae viae in nemore prandenti ex inproviso aquila panem ei e manu rapuit et, cum altissime evolasset, rursus ex inproviso leniter delapsa reddidit. [12] Q. Catulus post dedicatum Capitolium duabus continuis noctibus somniavit: prima, Iovem Optimum Maximum e praetextatis compluribus circum aram ludentibus unum secrevisse atque in eius sinum signum rei publicae quam manu gestaret reposuisse; at insequenti, animadvertisse se in gremio Capitolini Iovis eundem puerum, quem cum detrahi iussisset, prohibitum monitu dei, tanquam is ad tutelam rei publicae educaretur; ac die proximo obvium sibi Augustum, cum incognitum alias haberet, non sine admiratione contuitus, simillimum dixit puero, de quo somniasset. [13] Quidam prius somnium Catuli aliter exponunt, quasi Iuppiter compluribus praetextatis tutorem a se poscentibus, unum ex eis demonstrasset, ad quem omnia desideria sua referrent, eiusque osculum delibatum digitis ad os suum rettulisset. [14] M. Cicero C. Caesarem in Capitolium prosecutus, somnium pristinae noctis familiaribus forte narrabat: puerum facie liberali, demissum e caelo catena aurea, ad fores Capitoli constitisse eique Iovem flagellum tradidisse; deinde repente Augusto viso, quem ignotum plerisque adhuc avunculus Caesar ad sacrificandum acciverat, affirmavit ipsum esse, cuius imago secundum quietem sibi obversata sit. [15] Sumenti virilem togam tunica lati clavi, resuta ex utraque parte, ad pedes decidit. Fuerunt qui interpretarentur, non aliud significare, quam ut is ordo cuius insigne id esset quandoque ei subiceretur. [16] Apud Mundam Divus Iulius, castris locum capiens cum silvam caederet, arborem palmae repertam conservari ut omen victoriae iussit; ex ea continuo enata suboles adeo in paucis diebus adolevit, ut non aequiperaret modo matricem, verum et obtegeret frequentareturque columbarum nidis, quamvis id avium genus duram et asperam frondem maxime vitet. Illo et praecipue ostento motum Caesarem ferunt, ne quem alium sibi succedere quam sororis nepotem vellet. [17] In secessu Apolloniae Theogenis mathematici pergulam comite Agrippa ascenderat; cum Agrippae, qui prior consulebat, magna et paene incredibilia praedicerentur, reticere ipse genituram suam nec velle edere perseverabat, metu ac pudore ne minor inveniretur. Qua tamen post multas adhortationes vix et cunctanter edita, exilivit Theogenes adoravitque eum. [18] Tantam mox fiduciam fati Augustus habuit, ut thema suum vulgaverit nummumque argenteum nota sideris Capricorni, quo natus est, percusserit. Una lista vertiginosa, per parafrasare un libro famoso di Umberto Eco 83. Un’antica profezia a Velletri secondo cui un giorno un cittadino di quella città si sarebbe impadronito del potere; il prodigio, ricordato da Giulio Marato, per mezzo del quale si preannunciava la nascita di un re del popolo romano che atterrì tanto il senato da decretare che non si dovesse allevare alcun bambino nato in quell’anno (un evidente archetipo della strage degli innocenti annotata anche 83
U. ECO, Vertigine della lista, Milano 2009.
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nei Saturnalia di Macrobio) 84; la fecondazione della madre, Azia, da Apollo attraverso le fattezze di un serpente; la profezia di Publio Nigidio Figulo (un erudito neopitagorico e orfico), confermata da un oracolo, che annunciava, proprio nel giorno della discussione in senato sulla congiura di Catilina, la nascita del futuro dominus terrarum orbi; i prodigi a cui assistette il padre presso un santuario tracio di Dioniso predizione della missione cosmocratica del figlio; le rane che gracidavano azzittite da un suo comando; l’aquila che gli sottrasse, mentre pranzava, il pane per restituirglielo poi docilmente; il sogno di Cicerone del puer disceso dal cielo e inviato da Giove, ecc. Insomma, si tratta di un elenco straordinario e interminabile di eventi portentosi, onirici, sovrannaturali, una sorta di summa di motivi che, ora Eracle, ora Dioniso, ora figlio di Apollo, imprimevano sempre più al processo di divinizzazione di Augusto, motivi e venature orientali, tanto da poter dire che forse grazie al fascino accettato da Augusto della diffusione del suo culto come deus si realizzò una sorta di eterogenesi dei fini rispetto all’avversato progetto politico orientaleggiante del suo ultimo temibile rivale: Antonio. Il catalogo svetoniano, appena ricordato, si saldava, esplicando un effetto moltiplicatore dell’aurea augustea, con l’elenco delle sue cariche sacerdotali contenuto in: RGDA 7.3: Pon]tifex [maximus, augur, XVvir]um [sac]ris fac[iundis, septemvirum ep]ulon[um, frater arvalis, sodalis Titius,] fetialis fui 85. Il pacificatore, il salvatore, l’eroe sempre più vicino agli dèi, appariva come l’unico anello di congiunzione tra sfera divina e sfera umana, tanto da inserirne il nome negli inni sacri di alcuni collegi sacerdotali (figura 9), come in quello dei Salii in cui era il primo, unico uomo accanto alle divinità invocate, a cui si aggiungevano la sacrosanctitas perpetua e la tribunicia potestas a vita: RGDA 10.1: Nom[en me]um [sena]tus c[onsulto inc]lusum est in saliare carmen, et sacrosanctu[s in perp]etum [ut essem et, q]uoad viverem, tribunicia potestas mihi e[sset, per lege]m st[atutum est.
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Macrob. sat. 2.4.11: Cum audisset inter pueros, quos in Syria Herodes rex Iudaeorum intra bimatum iussit interfici, filium quoque eius occisum ait: «Mallem Herodis porcus esse quam filius». Sul punto vedi R. LAURENDI, Prodigia ed omnia imperii del uindex libertatis populi Romani: dalla “Strage degli innocenti” al diuinus uigor nello sguardo di Augusto, in F. COSTABILE, Caius Iulius Caesar, cit., pp. 162 ss. 85 Sul pontificato massimo si rinvia a J. SCHEID, Auguste et le grand pontificat. Politique et droit sacré au debut du principat, in RHD 77, 1999, pp. 1 ss.; ID., I sacerdozi “arcaici” restaurati da Augusto. L’esempio degli Arvali, in AA.VV., Sacerdos. Figure del sacro nella società romana (a cura di G. Urso), Pisa 2014, pp. 177 ss.; si legga pure ID., Ronald Syme et la religion des Romains, in AA.VV., La Révolution romaine après Ronald Syme: bilan et perspectives (a cura di A. Giovannini), Vandoeuvres-Genéve 2000, pp. 39 ss.
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Ancora. Supplicationes (feste a caden- FIGURA 9. – Augusto pontifex maximus za penteterica), offerte di libagioni al suo numen inserito insieme ai due Lares Augusti nelle edicole collocate agli incroci cittadini, l’istituzione dei sodales Augustales e degli Augustales 86; spesso sot-taciuto, ma tassello fondamentale nella strategia di rappacificazione con il mondo divino, fu il ripristino sempre nel 29 a.C. del Salutis augurium che serviva a chiedere, per ottenere dagli dèi 87, la prosperità del popolo romano e a codificare il tratto peculiare del princeps quale tutore della res publica (Svet. Aug. 31.5; Cass. Dio 51.20.4; cfr. Cass. Dio 37.24).
Anche quest’ultima mossa serviva e contribuiva concretamente a consolidare la missione augustea di medium tra res publica e Giove 88. Non a caso Ovidio così cantava: Ovid. trist. 4.4.19-20: Causa tua exemplo superorum tuta duorum est, / quorum hic aspicitur, creditur ille deus. La concretezza materiale, visibile, a disposizione dei cittadini, della divinità di Augusto risuonava anche in taluni versi oraziani: Horat. carm. 3.5.1-4: Caelo tonantem credidimus Iovem / regnare: praesens divus habebitur / Augustus adiectis Britannis / imperio gravibusque Persis 89. E se Orazio altrove invitava Mercurio a incarnarsi nel princeps, questi in due frammenti delle Res Gestae 90 nel passare in rassegna i nuovi templi edificati e
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J. SCHEID, Die Parentalien für die verstorbenen Caesaren als Modell für den römischen Totenkult, in Klio 75, 1993, pp. 188 ss.; J. LINDERSKI, Augustales and Sodales Augustales, in ID., Roman Questions II: Selected Papers, Stuttgart 2007, pp. 179 ss.; A. LO MONACO, Morte e apoteosi: Augusto ascende all’Olimpo, in AA.VV., Augusto, Milano 2013, pp. 310 ss. 87 Sul punto B.R. BURCHETT, Janus in Roman Life and Cult, Diss. Pennysylvania 1918, p. 42; R.A. KEARSLEY, Octavian and Augury. The Years 30-27 B.C., in CQ 59, 2009, pp. 147 ss.; G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., p. 39 nt. 40. 88 R.A. KEARSLEY, Octavian and Augury, cit., pp. 147 ss. 89 Cfr. Horat. epist. 2.1.15-17: praesenti tibi maturos largimur honores / iurandasque tuum per numen ponimus aras, / nil oriturum alias, nil ortum tale fatentes […]. 90 RGDA 19.1-2: Curiam et continens ei Chalcidicum templumque Apollinis in Palatio cum porticibus, aedem divi Iuli, lupercal, porticum ad circum Flaminium, quam sum appellari passus ex nomine eius, qui priorem eodem in solo fecerat, Octavium, pulvinar ad circum maximum, [2] aedes in Capitolio Iovis Feretri et Iovis Tonantis, aedem Quirini, aedes Minervae et lunonis reginae et Iovis Libertatis in Aventino, aedem Larum in summa sacra via, aedem Deum Penatium in Velia, aedem
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quelli restaurati (82 perché tanti erano quelli bisognosi di interventi di recupero) rispondeva ad altri celebri versi del primo: «Romano, tu sconterai, pur senza tua colpa, gli errori dei tuoi padri, finché non avrai restaurato i templi e i santuari cadenti degli dèi e i simulacri anneriti dal fumo» 91. Mentre, ricordando la costruzione del tempio di Apollo sul Palatino, Ovidio ne approfittava per offrire un gioco di specchi, in cui l’Olimpo diventava il Palatino in cielo, e sciogliere così nei versi finali delle sue Metamorfosi con uno spinto parallelismo GioveAugusto l’augurio di lunga vita al principe affinché si ritardasse la sua ascesa in cielo e la piena divinizzazione: Ovid. meth. 15.858-870: [...] Iuppiter arces / temperat aetherias et mundi regna triformis, / terra sub Augusto est; pater est et rector uterque. / Di, precor, Aeneae comites, quibus ensis et ignis / cesserunt, dique Indigetes genitorque Quirine / Urbis et invicti genitor Gradive Quirini, / Vestaque Caesareos inter sacrata Penates / et cum Caesarea tu, Phoebe domestice, Vesta, / quique tenes altus Tarpeias Iuppiter arces, / quosque alios vati fas appellare piumque est / tarda sit illa dies et nostro serior aevo, / qua caput Augustum, quem temperat, orbe relicto / accedat caelo faveatque precantibus absens. Nella poesia latina augustea – in Orazio come abbiamo visto, ma pure nello stesso Ovidio 92 – ricorrono tre moduli di divinizzazione del principe: in terra omologo di Giove, uomo destinato dopo la morte alla divinizzazione, dio presente in terra. Ma, come già detto, era proprio la pace, la pax deorum presupposto di quella tra gli uomini, a costituire il punto di convergenza e pertanto di equilibrio delle medesime istanze di matrici culturali, sebbene diverse, occidentali e orientali. Di questo equilibrio vi è una traccia chiara ancora nelle Res Gestae, quando Augusto ricordava la chiusura del tempio di Giano per ben tre volte durante il suo principato, mentre era accaduto soltanto due volte a urbe condita, dalla fondazione di Roma: RGDA 13: [Ianum] Quirin[um, quem cl]aussum ess[e maiores nostri voluer]unt, cum [p]er totum i[mperium po]puli Roma[ni terra marique es]set parta victoriis pax, cum pr[iusquam] nascerer, [a condita] u[rb]e bis omnino clausum [f]uisse prodatur m[emori]ae, ter me princi[pe senat]us claudendum esse censui[t]. Iuventatis, aedem Matris Magnae in Palatio feci; RGDA 20.4: Duo et octoginta templa deum in urbe consul sex[tu]m ex [auctori]tate senatus refeci, nullo praetermisso, quod e[o] tempore [refici debeba]t. 91 Vedi supra nt. 5; cfr. M. PAPINI, Gli dei protettori di Augusto, in AA.VV., Augusto, Milano 2013, pp. 219 ss. 92 Ovid. trist. 2.54-58 (deus praesens et conspicuus).
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È una delle registrazioni più orgogliose di Augusto. La chiusura del tempio di Giano, sin dall’età più arcaica, rappresentava un’esaltazione della pace incentrata su uno stretto collegamento tra essa (la pace) e la nascita di Augusto, nel senso che la sua venuta al mondo (cum priusquam nascerer) sanciva l’avvio di una nuova èra per Roma e per l’intera ecumene e forte si avvertiva l’eco nel celebre passaggio liviano celebrante Augusto come templorum omnium conditor ac restitutor 93. A tal proposito, in un recente contributo, Giuseppina Anselmo Aricò ha finemente dimostrato il legame di Augusto con Numa, la figura del re legislatore e sacerdote, auctor di una rifondazione della città e della matrice pacifica del suo regnum, piuttosto che con Romolo 94. La studiosa palermitana ha sottolineato come la spiegazione fornita da Cassio Dione del rifiuto dell’assunzione del titolo onorifico di Romulus per ragioni di opportunità, cioè per scansare ogni accusa, anche velata, di adfectatio regni 95, non risolvesse ogni dubbio. Assai più rilevante era l’incompatibilità della politica e ancor più della propaganda augustea della restaurazione repubblicana fondata sulla pax e sulle leges con la forte cifra marziale connessa alla figura di Romolo, su cui torneremo più avanti. Ciò che adesso invece ci interessa cogliere è il rapporto strettissimo Ianus/Augustus, come ulteriore tassello della strategia di sacralizzazione di Augusto. Numerose, come si diceva prima, furono le voci di intellettuali profuse, come mattone su mattone, in quest’opera di divinizzazione: mentre Velleio Patercolo ricordava come, una volta restituito al cielo, fossero conferiti onori umani al suo corpo e onori divini al suo nume 96, Orazio in una celeberrima Ode, scritta forse per ricordare ad Augusto la centralità di Roma e provare così a distoglierlo dalla fascinazione che subiva dall’Oriente, lo immaginava, assiso tra gli dèi, sorbire con ‘purpuree labbra il nettare’ 97; alla stessa stregua Seneca, nella sua Apokolokyntòsis, faceva comparire un Augusto dialogante tra gli dèi 98. Ora, il tema del servator e del pacificatore è stato sempre presente nella pub-
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Liv. 4.20.7. G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., pp. 29 ss.; e sull’identità Romulus-Quirinus in relazione a Ianus, la studiosa palermitana recupera il nesso con l’interpretatio Graeca in Enyalios. Sul tema si legga pure A. BRELICH, Tre variazioni romane, cit., pp. 206 ss. 95 Cass. Dio 53.16.7. 96 Vell. hist. rom. 2.124.3: Post redditum caelo patrem et corpus eius humanis honoribus, numen divinis honoratum, primum principalium eius operum fuit ordinatio comitiorum, quam manu sua scriptam divus Augustus reliquerat. Sul tema vedi D. FISHWICK, Numen Augustum, in ZPE 160, 2007, pp. 247 ss. 97 Horat. carm. 3.3.10-12: Hac arte Pollux et vagus Hercules / enisus arces attigit igneas, / quos inter Augustus recumbens / purpureo bibet ore nectar. 98 Sen. apolok. 10. 94
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blicistica romana e ancor più nei documenti numismatici 99 ed epigrafici, come esemplarmente dimostra un passaggio della Laudatio Turiae: FIRA III2, n. 69, ll. 25-27: Pacato orbe terrarum, res[titut]a republica quieta deinde n[obis et felicia] / tempora contigerunt. Fue[ru]nt optati liberi, quos aliqua[mdiu sors invi]/derat 100. Chiara la rappresentazione politica di ‘salvatore’ e di ‘auctor’ della ripristinata repubblica, ma anche della libertas restituta e della Roma resurges 101, a cui dobbiamo connettere l’inaugurazione dell’Ara Pacis a seguito della vittoria in Spagna. Così si coglie bene l’abilità delle mosse del entourage augusteo in Occidente, rispetto a quelle giocate in un Oriente, dal terreno meno ostico, ove era assai più agevole declinare i medesimi motivi con una marcata prominenza sacrale, come abbiamo visto nella lettera del governatore della provincia d’Asia e nel relativo decretum. L’iscrizione d’Asia costituisce infatti la limpida testimonianza dello sviluppo più originale del culto di Augusto vivente e dell’alone di religiosità che ormai sempre più ammantava la figura del princeps in una teologia imperiale la cui attesa soteriologica era stata soddisfatta appunto da colui (Augusto) che aveva chiuso la terribile fase delle guerre civili e delle proscrizioni, queste ultime veri e propri cataloghi di nefandezze. In un mondo prostrato da violenza, sangue, caos e dissesto sociale ed economico era finalmente giunto un ‘Salvatore’, dotato di una dignità sovrumana, che sommava tutte le cariche religiose, appunto chiamato dagli dèi a guidare Roma lungo un’età d’oro e di pace. Insomma predestinazione e vocazione soprannaturale 102. L’affinità tra teologia imperiale e teologia ebraica e cristiana era dunque innegabile 103; ma a rigore, per quanto possa apparire un’aporia, e tuttavia essa marcava pure una certa lontananza rispetto al messianismo giudaico. Alla concezione greco-romana affiorante dall’iscrizione di Priene in cui gli evangelii di Augusto erano rivolti più al passato (il salvatore era già arrivato), perché il senso del riferimento al dies natalis di Augustus è l’inizio del tempo, nel giudaismo in99
Interessante la monetazione di Galba su cui vedi le pagine di CH. HOWGEGO, La storia antica attraverso le monete, cit., pp. 79 s. 100 Su questa iscrizione per tutti V. ARANGIO-RUIZ, Il caso giuridico della cosidetta Laudatio Turiae, cit., pp. 10 ss.; W. KIERDOF, Laudatio funebris. Interpretationen und Untersuchungen zue Entwicklung der römischen Leichenrede, Meisenheim am Glan-Hain 1980, p. 36. Sotto altri e assai diversi profili meritano di essere ricordate le belle pagine di L. STORONI MAZZOLANI, Una moglie, cit. Ma altri documenti in CIL VI.873 = ILS 81. 101 E. ROSSO, Le thème de la res publica restituta, cit., pp. 212 ss. 102 Utile anche la lettura di M. PAPINI, Gli dei protettori di Augusto, cit., pp. 219 ss. 103 F. COSTABILE, Caius Iulius Caesar, cit., pp. 187 ss., recentemente, ha con determinazione sottolineato l’affinità di questa ideologia (che al tempo stesso si fa teologia) imperiale rispetto al giudaismo e al cristianesimo.
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vece – che dal messianismo profetico era culminato nell’attesa del Figlio dell’Uomo portatore della fine dei tempi (Messia) – corrispondeva una prospettiva appunto integralmente collocata nel futuro 104. Anzi possiamo dire che la pace universale costituiva, se è lecito usare l’espressione, il punto di sutura tra Oriente e Occidente, lì l’annuncio degli evangeli augustei, qui la celebrazione della pax, ormai Pax Augusta, con l’inaugurazione dell’Ara Pacis 105, che con il motivo del girale di acanto fiorito, espressione di un nuovo senso della decorazione estetica, e vivacizzato da piccoli animali esprimeva forza vitale e rigenerante in consonanza con la fine del caos e con il ritorno di un’èra di pace e di rigoglio. È importante osservare come l’anno sia il medesimo 9 a.C. Anche in questo caso non siamo dinanzi a una semplice coincidenza: spazio (ecumene romana) e tempo erano tenuti insieme da una sapiente e complessa strategia 106. La costruzione dell’immagine religiosa di Augustus nell’ultimo decennio dell’èra precristiana poteva ormai ben considerarsi perfezionata e nitida in ogni dettaglio, con la sua humana potentia di RGDA 34.1, ancora fattuale e non integrata negli schemi repubblicani che, dalla seduta senatoria del 27 gennaio a.C., sarebbe trasmutata in potentia divina nella nuova veste di impareggiabile auctoritas 107 di RGDA 34.3. Ma c’è ancora un anello fondamentale da aggiungere. Cicerone nella XIII Filippica forgia la matrice di questa strategia: il motivo dell’uomo inviato dalle divinità, munito di virtù sovrumane, per proteggere la res publica non è il frutto originale di Augusto, ma di colui che offrì, lo vedremo meglio più avanti, le basi teoriche per la costruzione del principatus: Cic. phil. 13.8.18: Quo tempore di ipsi immortales praesidium improvisum nec opinantibus nobis obtulerunt; Cic. phil. 13.9.19: Caesaris enim incredibilis ac divina virtus […]; 104 Sul punto per tutti R.K. ASTING, Die Verkündigung, cit., pp. 300 ss.; S. MAZZARINO, L’impero romano, cit., I, pp. 157 ss. e nt. 5. 105 G. SAURON, L’histoire végétalisée. Ornament et politique à Rome, Paris 2000; ID., L’art onamental, arme privilégiée du pouvoir augustéen, in AA.VV., Ordine e sovversione nel mondo greco e romano. Atti del Convegno internazionale, Cividale del Friuli 25-27 settembre 2008 (a cura di G. Urso), Pisa 2008, pp. 317 ss.; ID., Augusto e Virgilio. La rivoluzione artistica dell’Occidente e l’ara Pacis, Milano 2013; leggi anche F. GUIZZI, La pax Augusta, in Studi per Giovanni Nicosia III, Milano 2007, pp. 244 ss.; D.-T. IONESCU, Ara pacis Augustae: un simbolo dell’età augustea. Considerazioni storico-religiose tra Pax Augusta e Pax Augusti, in Civiltà Romana 1, 2014, pp. 75 ss. 106 Non tiene insieme questi aspetti J. SCHEID, Les restaurations religieuses d’Octavien/Auguste, in AA.VV., Le Principat d’Auguste. Réalités et représentations du pouvoir. Autour de la Res publica restituta. Actes du colloque de l’Université de Nantes 1er-2 juin 2007 (sous la direction de F. Hurlet et B. Mineo), Rennes 2009, pp. 119 ss. 107 Contra R. HEINZE, Auctoritas, cit., pp. 359 s.
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Cic. phil. 13.20.46: Quo maior adulescens Caesar maioreque deorum immortalium beneficio rei publicae natus est […]. In qualche modo aveva colto bene un aspetto fondamentale, già nel lontano nel 1886, il ‘principe’ della filologia classica Ulrich von Wilamowitz nel ritenere che le Res Gestae fossero state concepite e scritte da Augusto in vista della sua divinizzazione 108. Passare in rassegna l’insieme di riconoscimenti, attribuzioni, onori, epiteti lascia senza fiato, si tratta di un elenco davvero impressionante che, se pensiamo alla sottesa, abile strategia di comunicazione, ci fa comprendere come si sia in seguito trasformata profondamente l’aurea di Ottaviano. Augusto non era più soltanto un leader, giovane, audace, capace militarmente e abile nella politica e nelle relazioni con l’aristocrazia senatoria. No, ormai egli era collocato su di un piano davvero incommensurabile, in cui la cifra sacrale e religiosa è difficilmente districabile dal potere. Augustus, in quanto auctor, dall’impareggiabile auctoritas, sorvegliava, accresceva, consolidava, fortificava, sorreggeva, garantiva. Eppure, ha fatto bene John Scheid, recentemente, a ribadire tuttavia come Augusto, prima e i suoi successori dopo, non furono mai considerati degli dèi e che la concentrazione delle cariche religiose in capo al princeps era strumentale e costituiva un preciso messaggio all’opinione pubblica: la sincera intenzione di Augusto di restaurazione della res publica 109. E nella propaganda era proprio questo il motivo che avvolgeva il ripristino e la riconsegna degli ordinamenti repubblicani, avvenuti infatti all’insegna della forza della sua personale auctoritas, come più volte incisivamente egli stesso afferma: me auctore (RGDA 8.5); mea auctoritate (RGDA 28.2). Si dispiegava nella sua potenza la «forte ispirazione soteriologica, insieme provvidenziale e teocratica», come ha giustamente scritto Francesco Guizzi 110, e in questo senso possiamo scorgere originali forme sincretistiche del pensiero religioso e politico occidentale e orientale che avvolgevano spiritualmente il programma politico augusteo 111. Oltre alle due linee interpretative dei meccanismi genetici del principato augusteo 112, quelli sociologici e quelli giuridici, possiamo aggiungere, soprattutto 108
U. VON WILAMOWITZ-MÖLLENDORF, Res Gestae Divi Augusti, in Hermes 21, 1886, pp. 623 ss. 109 J. SCHEID, I fondamenti religiosi del potere imperiale, in AA.VV., Il princeps romano: autocrate o magistrato? Fattori giuridici e fattori sociali del potere imperiale da Augusto a Commodo (a cura di J.-L. Ferrary e J. Scheid), Pavia 2015, pp. 193 ss. 110 F. GUIZZI, Augusto, cit., p. 45; vedi pure ID., La pax Augusta, cit., pp. 243 ss. 111 A. ALFÖLDY, Le basi spirituali del principato, in Corvina III.1, 1952, pp. 24 ss.; ID., Ausgestaltung des monarchischen Zeremoniells am römischen Kaiserhofe, in MDAI(R) 49, 1934, pp. 1 ss.; ID., Insignien und Tracht der römischen Kaiser, in MDAI(R) 50, 1935, pp. 1 ss.; ID., Die monarchische Repräsentation im römischen Kaiserreiche, Darmstadt 1970, passim; cfr. J. BÉRANGER, Recherches sur l’aspect idéologique, cit., pp. 252 ss. 112 Vedi supra CAPITOLO PRIMO, § 2.
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grazie ai lavori di Andreas Alföldy, la terza di carattere storico-religiosa incentrata sulla psicologia di massa attivata dall’attenzione verso rituali e cerimonie applicata da Augusto 113 e che contribuisce a mettere bene in luce ogni aspetto della costruzione augustea. Lungo questo orizzonte si staglia, e ne è più comprensibile la cifra, la grandezza del lavoro politico e culturale, come abbiamo riscontrato nelle pagine precedenti, dell’uso di un doppio registro: uno per l’Occidente, un altro diverso per l’Oriente, che connota anche le Res Gestae, differenti sin dall’esordio nelle due versioni latina e greca: RGDA 1.1: […] Rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi. RGDA 1.1: […] di' oá t¦ koin¦ pr£gmata ™k tÁj tîn sunomosamšnwn doul»aj ºleuqšrwsa. All’espressione latina «restituii alla libertà la repubblica oppressa dalla dominazione di una fazione», nella versione greca del Monumentum Ancyranum fa riscontro il «liberai lo Stato dalla schiavitù dei congiurati» cioè i cesaricidi, il che, è appena il caso di osservare, non ne costituisce affatto una traduzione 114; mentre tenendo presente il riferimento di Velleio alla dominatio Antonii è legittimo pensare che Augusto autorizzasse differenti versioni 115. È talmente facile 113 Rimando alle osservazioni di T. HÖLSCHER, Augustus und die Macht der Archäologie, in AA.VV., La Révolution romaine après Ronald Syme. Bilans et perspectives (a cura di A. Giovannini), Vandœuvres-Genéve 2000, pp. 237 ss.; e di A. MARCONE, La prospettiva sociologica, cit., pp. 60 ss. 114 Sul tema delicato, irto di numerosi e rilevanti problemi, della corrispondenza tra le versioni latina e greca del documento augusteo si rinvia a A.P.M. MEUWESE, De rerum gestarum divi Augusti versione graeca, Buscoduci 1920; ID., De versione greca Monumenti Ancyrani quaestiones, in Mnemosyne 54, 1926, pp. 224 ss.; P. REGARD, La version grecque du Monument d’Ancyre, in REA 26, 1924, pp. 147 ss.; N. FESTA, Animadversiones ad versionem graecam, in Acta Divi Augusti (a cura di S. Riccobono), Roma 1945, pp. 66 ss.; G. VANOTTI, Il testo greco delle «Res gestae divi Augusti», cit., pp. 306 ss.; D.N. WITGIL, The Ideology of the Greek «Res Gestae», in ANRW II.30.1, Berlin-New York 1982, pp. 624 ss.; ID., The Translator of the Greek Res Gestae of Augustus, in AJPh 103, 1982, pp. 189 ss.; G. VANOTTI, Heghemon nel testo greco, cit., pp. 362 ss.; da ultimo L. BRACCESI, Augusto. La vita raccontata da lui stesso, Napoli 2013, pp. 120 ss. Analogamente, il traduttore greco si allontana parecchio dall’originale latino a proposito di RGDA 8.5: Legibus novi[s] m[e auctore l]atis m[ulta e]xempla maiorum exolescentia iam ex nostro [saecul]o red[uxi et ipse] multarum rer[um exe]mpla imitanda pos[teris tradidi], come osserva G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., p. 30 e nt. 6. Secondo J. SCHEID, Res Gestae Divi Augusti, cit., pp. xxix ss., ricorrono tanti indizi per credere che il traduttore conoscesse bene Augusto e appartenesse ad ambienti assai vicini alla corte imperiale; cfr. pure A.E. COOLEY, Paratextual Readings of Imperial Discourse in the Res Gestae Divi Augusti, in Cahiers du Centre G. Glotz 25, 2014, pp. 215 ss. 115 L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., pp. 317 s., che auspica una più meditata e approfondita trattazione sul bilinguismo dell’Index rerum a se gestarum.
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dimostrare che non si trattava di una semplice coincidenza, che basta richiamare come il princeps modulasse diversamente tra Occidente e Oriente anche la ricostruzione della fine delle guerre civili. Così, mentre nei territori occidentali sceglieva un tema, sentito e coerente con il programma cesariano, cioè la condanna del mos partium et factionum, motivo assai potente in Sallustio, per rammentare il cancro della violenta partigianeria causa dell’aggressione e della corrosione di Roma, delle sue istituzioni e del suo ordine, tanto che il ritorno della pace e la liberazione della repubblica furono possibili soltanto dopo aver debellato la factio di Antonio. Per l’Oriente, invece, ritenne più conducente, e anche più comprensibile a quei popoli, far sparire Antonio, per demonizzare invece gli uccisori di Cesare, di quel leader la cui fama era ormai largamente penetrata in quelle terre non solo per i successi militari ma soprattutto per la complessiva opera di riassetto condotta negli anni precedenti alle Idi di marzo 116. Il grande disegno fu realizzato con metodo e rigore ed ebbe un’amplificazione potente anche nei secoli della tarda antichità, sia attraverso i panegiristi 117 ma soprattutto grazie alla voce della patristica cristiana. La chiusura del tempio di Giano del 2 a.C. e l’attribuzione ad Augusto nel medesimo anno del titolo di Pater patriae, suggello insuperabile quale auctor di un’èra di pace, da Ovidio non a caso mutato in ‘Padre del mondo’ (fast. 2.130: iampridem tu pater orbis eras), diventava per gli esegeti della patristica (da Tertulliano a Clemente di Alessandria, a Eusebio di Cesarea) un’occasione di ancoraggio di quell’epoca di svolta all’evento della nascita del Cristo Redentore. Orosio è colui che ci lascia il più limpido testo teorico di quel formidabile tornante della Storia e dell’operazione ideologica di assimilazione. A cominciare dal miracolo dell’olio, uno dei prodigi augustei: Oros. hist. adv. pag. 6.20.6-7: Deinde cum secundo, in Sicilia receptis a Pompeio et Lepido legionibus xxx milia servorum dominis restituisse et quadraginta et quattuor legiones solus imperio suo ad tutamen orbis terrarum distribuisset ovansque Urbem ingressus omnia superiora populi Romani debita donanda, litterarum etiam monumentis abolitis, censuisset: in diebus ipsis fons olei largissimus, sicut superius expressi, de taberna meritoria per totum diem fluxit. Quo signo quid evidentius quam in diebus Caesaris toto Orbe regnantis futura Christi nativitas declarata est? Christus enim lingua gentis eius, in qua et ex qua natus est, unctus interpretatur. [7] Itaque cum eo tempore, quo Caesari perpetua tribunicia potestas decreta est, Romae fons olei per totum diem fluxit: sub principatu Caesaris Romanoque imperio per totum diem, hoc est per omne Romani tempus imperii, Christum et ex eo Christianos, id est unctum atque ex eo unc116
Sul tema L. CANFORA, Giulio Cesare. Il dittatore democratico, Roma-Bari 2011, pp. 243 ss. Si veda il contributo di M. ROCCO, Ottaviano Augusto nella panegiristica tardoantica. Dal deus praesens latino-ellenistico alla teologia politica cristiana, in Athenaeum 105, 2017, pp. 153 ss. 117
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tos, de meritoria taberna, hoc est de ospita largaque Ecclesia, affluenter atque incessabiliter processuros restituendosque per Caesarem omnes servos, qui tamen cognoscerent dominum suum, ceterosque, sine domino invenirentur, morti supplicioque dedendos, remittendaque sub Caesare debita peccatorum in ea urbe, in qua spontaneum fluxisset oleum, evidentissima his, qui Prophetarum voces non audiebant, signa in caelo et in terra prodigia prodiderunt. La fonte d’olio che sgorga copiosissima e che si collega direttamente al concetto messianico dell’Unto è una strabiliante e abilissima elaborazione tutta interna alla res publica christianorum; una narrazione simile è infatti contenuta dall’Expositio quattuor Evangeliorum, opera indipendente da Orosio che ha fatto scorgere nella sequenza dei prodigi un’interpretazione del Vangelo di Luca a sua volta debitore di Livio, fonte condivisa da Orosio e dall’anonimo autore dell’Expositio 118. Ciononostante, non per questo in un impero ormai fattosi cristiano era minore la sua efficacia dentro una strategia comunicativa diretta a costruire, come è stato detto, una Augustustheologie 119. Oros. hist. adv. pag. 6.22.1-2: Itaque anno ab Urbe condita DCCLII Caesar Augustus ab oriente in occidentem, a septentrione in meridiem ac per totum Oceani circulum cunctis gentibus una pace compositis, Iani portas tertio ipse tunc clausit. [2] Quas ex eo per duodecim fere annos quietissimo semper obseratas otio ipsa etiam robigo signavit, nec prius unquam nisi sub extrema senectute Augusti pulsatae Atheniensium seditione et Dacorum commotione patuerunt. Orosio magnificava con enfasi la nuova èra di pace che abbracciava Oriente e Occidente, che andava da Nord a Sud: finalmente si era ristabilita la pace per tutti i popoli; una pace vasta e duratura che aveva condotto alla chiusura del tempio di Giano per la terza volta e a lungo come mai nella storia di Roma. Ma il passaggio saliente è scolpito subito dopo con la solenne affermazione del nesso di causalità tra Augusto e l’unico, vero Dio. Un messaggio suggestivo ed evocativo di rara efficacia comunicativa, leggiamolo: Oros. hist. adv. pag. 6.22.5-7: Igitur eo tempore, id est eo anno quo firmissimam verissimamque pacem ordinatione Dei Caesar composuit, natus est Christus, cuius adventui pax ista famulata est, in cuius ortu audientibus hominibus exultantes angeli cecinerunt «Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus 118
I. OPELT, Augustustheologie und Augustustypologie, in JbAC 4, 1961, pp. 44 ss. W. SUERBAUM, Vom antiken frühmittelalterlichen Staatsbegriff, Münster 1970, p. 223 nt. 21; cfr. I. OPELT, Augustustheologie, cit., pp. 44 ss.; F. PASCHOUD, La polemica provvidenzialistica di Orosio, in AA.VV., La storiografia ecclesiastica nella tarda antichità, Messina 1980, pp. 115 ss.; P. MARTINEZ CRAVERO, Signos y prodigios: contunidad e inflexión en el pensamento de Orosio, in A&Cr 14, 1997, pp. 83 ss.; G. CRESCI MARRONE, Fra sidus e sol, cit., pp. 21 ss. 119
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bonae voluntatis». Eodemque tempore hic, ad quem rerum omnium summa concesserat, dominum se hominum appellari passus est, immo non ausus, quo verus dominus totius generis humani inter homines natus est. [6] Eodem quoque anno tunc primum idem Caesar, quem his tantis mysteriis praedestinaverat Deus, censum agi singularum ubique provinciarum et censeri omnes homines iussit, quando et Deus homo videri et esse dignatus est. Tunc igitur natus est Christus, Romano censui statim adscriptus ut natus est. [7] Haec est prima illa clarissimaque professio, quae Caesarem omnium principem Romanosque rerum dominos singillatim cunctorum hominum edita adscriptione signavit, in qua se et ipse, qui cunctos homines fecit., inveniri hominem adscribique inter homines voluit: quod penitus numquam ab Orbe condito atque ab exordio generis humani in hunc modum ne Babylonio quidem vel Macedonico, ut non dicam minori cuiquam regno concessum fuit. Nella visione di Orosio, non vi è soltanto un preciso sincronismo 120, ma un perfetto nesso di causalità interpretato pure nel senso della premialità manifestata dal dio cristiano nei confronti di Augusto, magnifico princeps e auctor di un’ecumenica èra di pace. Proprio per questa ragione, Augusto, secondo l’ideologia patristica della tarda antichità, fu il Cesare predestinato a così grandi misteri; proprio perché portatore di pace, Dio apparì durante il suo principato e, facendosi uomo, venne iscritto nel censo romano (quando et Deus homo videri et esse dignatus est. Tunc igitur natus est Christus, Romano censui statim adscriptus ut natus est). La rivisitazione cristiana del motivo intimo della religiosità del mito augusteo si completava persino nel recupero degli Oracula sibillini attraverso la predizione virgiliana della Sibilla cumana, profetessa ispirata da Apollo, in cui l’arrivo di una Virgo (la vergine Astrea) 121 e del puer in grembo non erano altri che Maria e Gesù per bocca del fondatore della Nuova Roma, l’imperatore Costantino 122. E Virgilio, già da Lattanzio accostato al profetismo cristiano
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L. BRACCESI, Augusto, cit., pp. 99 ss.; ID., Giulia, cit., pp. 112 ss. Verg. ecl. 4.6-12; Ovid. fast. 1.149-150. 122 S. MAZZARINO, La data dell’Oratio ad sanctorum coetum, il Ius italicum e la fondazione di Costantinopoli: note sui ‘Discorsi’ di Costantino, in ID., Il basso impero. Antico, tardoantico ed èra costantiniana, I, Bari 1974, pp. 99 ss.; R. CRISTOFOLI, Costantino e l’Oratio ad Sanctorum Coetum, Napoli 2005. Ancora nella Chronografia (10.298 ss.) di Giovanni Malala, trascritta nei Mirabilia Romae (11. DE IUSSIONE OCTAVIANI IMPERATORIS ET RESPONSIONE SIBILLE. Tempore Octaviani imperatoris, senatores videntes eum tante pulchritudinis quod nemo in oculos eius intueri poterat et tante prosperitatis et pacis quod totum mundum sibi tributarium fecerat, dicunt: “Te adorare volumus quia deitas est in te; si hoc non esset, non tibi omnia essent prospera”. Qui renitens, indutias postulavit, ad se sibillam Tiburtinam vocavit, cui quod senatores dixerant recitavit. Que spatium trium dierum petiit, in quibus artum jejunium operata est. Post tertium diem respondit imperatori: “Hoc pro certo erit, domine imperator: Iudicii signum, tellus sudore madescet; e celo rex adveniet per secla futurus, scilicet in carne presens, ut judicet orbem” et cetera que secuntur. Ilico apertum est 121
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(Lact. inst. 7.24), da cantore dell’ideologia augustea sempre più trasfigurava in profeta dell’Avvento 123. Si perpetuava, dunque, il patto di allenza degli uomini con gli dèi.
5. L’ECUMENE E L’IMPERO Fin dall’età arcaica, e secondo un principio religioso antichissimo, gli dèi erano impegnati a sostenere e favorire le guerre giuste (bella iusta), e per questa ragione il rito dei Feziali avvolgeva la dimensione politica e giuridica delle ‘relazioni internazionali’. Gli esiti sfavorevoli, le sconfitte più disastrose obbligavano alla ricerca di ciò che aveva incrinato il rapporto con gli dèi, la scaturigine era per lo più un’inosservanza religiosa a cui si rimediava attraverso sacrifici e rituali di purificazione per ripristinare quel patto di alleanza, la pax deorum. Questo aspetto, come abbiamo detto, costituiva un altro caposaldo dell’ideologia augustea: il ripristino della pax deorum era un presupposto per condurre guerre giuste e per ristabilire la pace nel mondo e così pacare orbem terrarum. Mentre le vittorie avrebbero dimostrato il favore degli dèi verso Augusto, ma pure «la ritrovata armonia tra lo Stato e i suoi dèi. Ogni vittoria non poteva perciò non ri-
celum et nimius splendor irruit super eum; vidit in celo quandam pulcerrimam virginem stantem super altare, puerum tenentem in bracchiis. Miratus est nimis et vocem dicentem audivit: “Hec ara filii Dei est”. Qui statim in terram procidens adoravit. Quam visionem retulit senatoribus et ipsi mirati sunt nimis. Hec visio fuit in camera Octaviani imperatoris, ubi nunc est ecclesia sancte Marie in Capitolio; idcirco dicta est Sancta Maria Ara celi), si tramanda la leggenda della visione di Augusto, e il suo atto di adorazione, della Vergine con il Cristo in braccio sull’Arx capitolina; l’apparizione sarebbe stata anticipata da un vaticinio della Sibilla tiburtina richiamato da S. Agostino (Aug. de civ. Dei 18.23). A questo robustissimo filone tuttavia si contrapponeva Giovanni di Antiochia che nella sua Historia Chroniké trasmetteva un’immagine sinistra di Augusto e il suo ruolo sinistro nella storia universale: su questo tema da ultimo U. ROBERTO, L’immagine di Augusto nella Historia Chroniké di Giovanni di Antiochia e la tradizione di Cassio Dione, in Paideia 68, 2013, pp. 409 ss. L’Historia Chroniké fu scritta seguendo il modello narrativo della Chronographia di Giovanni di Malala su cui vedi L. MECELLA, 'Hn g¦r mustikÕj ¢rciereÝj BasileÚj. Giovanni Malala e il ruolo del principato augusteo nella storia universale, in Paideia 68, 2013, pp. 349 ss. 123 Verg. eclog. 4.4-14. A simili suggestioni e accostamenti non restarono insensibili neppure i moderni, se l’evento più importante delle celebrazioni del bimillenario del 1937 fu la Mostra augustea della Romanità, nella cui sala centrale consacrata ad Augusto «l’inevitabile statua di Prima Porta dialogava con una grande croce di vetro composta con le parole del Vangelo di Luca che ricordavano il censimento dell’impero voluto da Augusto e la nascita di Gesù Cristo, con riferimento al puer virgiliano. La diacronia si ricomponeva dunque in sincronia, e i due universalismi romani, quello imperiale e quello cristiano, promanavano, in un’atmosfera intensamente sacralizzata, dal fascino di quell’unica e simbolica effigie» (A. GIARDINA, Augusto tra due bimillenari, in AA.VV., Augusto, Milano 2013, p. 66). Sul bimillenario augusteo di epoca fascista vedi supra CAPITOLO PRIMO, § 1 nt. 17.
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volgersi in una conferma del nuovo regime» 124. In questa prospettiva è possibile mettere agevolmente insieme i tasselli di una ben congegnata strategia: infatti Augusto, mentre entrava nel collegio sacerdotale dei Feziali, al tempo stesso otteneva l’inserimento del nomen nel carmen dei Salii 125: RGDA 10.1: Nom[en me]um [sena]tus c[onsulto inc]lusum est in saliare carmen, et sacrosanctu[s in perp]etum [ut essem et, q]uoad viverem, tribunicia potestas mihi e[sset, per lege]m st[atutum est. Nel 29 a.C., colui che appena due anni dopo sarebbe stato chiamato Augustus diveniva il primo uomo vivente a essere menzionato accanto agli dèi proprio da una delle più antiche istituzioni religiose, cioè dal collegio vetustissimo dei Salii, i sacerdoti di Marte, di cui, come nel caso dei Feziali, è noto il nesso con l’ambito militare 126. La tradizione infatti ne attribuiva l’istituzione al re Numa 127 in onore di Giove Gradivus e l’inno sacro era cantato dai sacerdoti durante il trasporto degli ancilia per la salvezza di Roma in guerra. Auctoritas, status di homo sacrosanctus in perpetuus, accentramento delle cariche sacerdotali, se non un dio, ne facevano senz’altro l’uomo più vicino e più amato dagli dèi e un garante degli stessi e degli uomini 128. In verità, non è che si trattasse di una novità. Nel secolo della competizione dei carismi, che si concluderà appunto con l’istituzionalizzazione del carisma del capo, la dimensione religiosa era essenziale: Venere per Silla, Pompeo e Cesare; Dioniso per Antonio, Apollo per Ottaviano 129. E nel momento dello scontro tra
124 125
P. ZANKER, Augusto, cit., p. 198. V.I. BASANOFF, Un texte archaique anterieur à la loi de XII Tables, in BIDR 14, 1935, pp.
209 ss. 126
Sul collegio sacerdotale si rinvia ai recenti lavori di A. CALORE, Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, Milano 2003; G. TURELLI, «Audi Iuppiter». Il collegio dei Feziali nell’esperienza giuridica romana, Milano 2011, passim; C. MASI DORIA, Il rituale feziale di Marco Aurelio e una scena erotica di Apuleio, in Carmina iuris. Mélanges en l’honneur de M. Humbert (a cura di E. Chevreau, D. Kremer, A. Laquerrière-Lacroix), Paris 2012, pp. 555 ss.; F. ARCARIA-O. LICANDRO, Diritto romano, cit., I, pp. 55 ss. 127 Certamente il ramo dei Palatini: Dion. Hal. 2.70; 2.71; 3.32; Liv. 1.27.7; mentre l’istituzione del secondo ramo, quello dei Salii Collini, sarebbe da ascrivere a Tullo Ostilio. Sul collegio sacerdotale, a parte l’ormai datato R. CIRILLI, Les prêtes danceurs, cit., passim, si leggano P. DE FRANCISCI, La civiltà romana arcaica, cit., pp. 99 ss.; M. TORELLI, Lavinio e Roma, cit., pp. 106 ss.; T. SCHAEFER, Zur Ikonographie, cit., pp. 342 ss. Vedi pure A. CARANDINI, Remo e Romolo, cit., pp. 300 ss. 128 Cfr. E. LA ROCCA, Dal culto di Ottaviano all’apoteosi di Augusto, in AA.VV., ‘Dicere laudes’: elogio, comunicazione, creazione del consenso (a cura di G. Urso), Pisa 2011, pp. 179 ss. 129 La letteratura sul significato di Apollo nel messaggio ideologico augusteo è cospicua, ma si leggano i seguenti studi apparsi di recente B.L. WICKKISER, Augustus, Apollo and an Ailing Rome: Images of Augustus as a Healer of State, in AA.VV., Studies in Latin Literature and Roman History
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leader era necessario l’abbandono del dio protettore dell’avversario: questo è ciò che avvenne nel conflitto finale tra Ottaviano e Antonio. «Il tentativo antoniniano di costituire una monarchia dionisiaca, estesa almeno alle province d’Asia e all’Egitto, e imitante molto da vicino le forme della regalità ellenistica (e tolemaica in particolare) venne radicalmente rifiutato, sotto tutti i punti di vista. La propaganda avversaria accentuò in questo caso l’aspetto straniero di Dioniso e della basileia sacra a lui connessa. Ad Azio, secondo Virgilio, sono gli dei romani a mettere in fuga gli dei stranieri. Apollo tende il proprio arco sopra le armate di Ottaviano, mossosi a una battaglia, che vuol essere la difesa del mos romanus: è partito con l’assenso del senato e del popolo, accompagnato dalla protezione dei Penati e dei grandi dei della città. A sua volta, la sconfitta di Antonio viene descritta da Plutarco come il suo abbandono da parte della divinità personale, Dioniso, che la notte si allontana da Alessandria con tutto il suo risonante seguito orgiastico» 130. Nello scudo di Enea, non a caso, la battaglia di Azio trasfigurava così da guerra civile a guerra contro un nemico straniero: nefas, Aegyptia coniunx 131, scriveva Virgilio. Sull’Occidente romano incombeva il tristissimum periculum di spostare altrove la capitale dell’impero, e si comprende perché il giorno, in cui fu sventato con la conquista di Alessandria, venne registrato con sollievo come festivo nei Fasti dei Fratres Arvales 132.
(a cura di C. Deroux), Bruxelles 2005, pp. 267 ss.; C.H. LANGE, Res publica constituta: Actium, Apollo and the Accomplishment of the Triumviral Assignment, Leiden-Boston 2009; J.F. MILLER, Apollo, Augustus and the Poets, Cambridge-New York 2009. 130 C. GALLINI, Protesta e integrazione nella Roma antica, 1970, p. 142. Verg. aen. 8.678-706: Hinc Augustus agens Italos in proelia Caesar / cum patribus populoque, penatibus et magnis dis, / stans celsa in puppi; geminas cui tempora flammas / laeta vomunt patriumque aperitur vertice sidus. / Parte alia ventis et dis Agrippa secundis / arduus agmen agens; cui (belli insigne superbum) / tempora navali fulgent rostrata corona. / Hinc ope barbarica variisque Antonius armis, victor ab Aurorae populis et litore rubro, / Aegyptum viresque Orientis et ultima secum / Bactra vehit, sequiturque (nefas) Aegyptia coniunx. / Una omnes ruere ac totum spumare reductis / convolsum remis rostrisque tridentibus aequor. / Alta petunt: pelago credas innare revolsas / Cycladas aut montis concurrere montibus altos, / tanta mole viri turritis puppibus instant. / Stuppea flamma manu telisque volatile ferrum / spargitur, arva nova Neptunia caede rubescunt. / Regina in mediis patrio vocat agmina sistro, necdum etiam geminos a tergo respicit anguis. / Omnigenumque deum monstra et latrator Anubis / contra Neptunum et Venerem contraque Minervam / tela tenent, saevit medio in certamine Mavors / caelatus ferro tristesque ex aethere Dirae / et scissa gaudens vadit Discordia palla, / quam cum sanguineo sequitur Bellona flagello. / Actius haec cernens arcum intendebat Apollo / desuper: omnis eo terrore Aegyptos et Indi, / omnis Arabs, omnes vertebant terga Sabei. Cfr. Plut. Ant. 75.3. Sullo scudo di Enea adesso vedi il saggio di J. CHAMPEAUX, Figures du pouvoir dans l’Enéide, in AA.VV., Signes et destins d’élection dans l’Antiquité: colloque international de Besançon, 16-17 novembre 2000 (a cura di M. Fartzoff, É. Geny, É. Smadja), Besançon 2006, pp. 83 ss. 131 Verg. aen. 8.688. 132 Fasti Fratrum Arvalium (CIL I2.214): q. e. d. Imp. Caes. rem public. tristissimo periculo liberavit; Cass. Dio 51.19.6. Sul tema W.W. TARN, Alexander Helios and the Golden Age, in JRS 22,
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Augusto si mosse, dunque, con sagacia forte di questo convincimento che si diffondeva come l’acqua di un fiume straripante e privo di argini, e trovando un suo naturale corso nella cultura ellenistica e del Vicino Oriente. Si comprende così pure il forte impatto e la costruzione propagandistica della vittoria (diplomatica) del 20 a.C. contro i Parti: celebrata come avvenimento del secolo, la sottomissione di Fraatace re dei Parti era la prova dell’avvenuto risanamento dello Stato augusteo 133; la res publica, forte del favor dei, aveva cancellato la terribile disfatta del 9 giugno del 53 a.C., a Carre, quando l’esercito partico sbaragliò quello romano, massacrandone il suo generale, quel Marco Licinio Crasso che 18 anni prima aveva annegato nel sangue la rivolta di Spartaco 134. Ma quel che è peggio, i Parti ne oltraggiarono il cadavere lasciandolo insepolto, si impadronirono delle insegne militari e soprattutto bloccarono l’espansione romana a Oriente che allora sembrava inarrestabile 135. Sconfitta e disonore che l’opinione pubblica, sebbene a posteriori, interpretava con precisi nessi di causalità con il tempo in cui la pax deorum era stata infranta: le guerre fratricide, l’uccisione di Cesare alla vigilia della sua partenza per l’Oriente e l’inadeguatezza di Antonio traditore degli dèi patri e sconfitto anch’egli dai Parti nel 36 a.C. Ma appunto quelle erano le sconfitte di una Roma precipitata nel turbine della confusione, della disunione nazionale, era l’impero romano divenuto teatro della violenza politica e armata delle factiones. Nel 20 a.C. invece tutto ciò era ormai solo un ricordo che, per contrasto, esaltava il presente segnato da un pacificatore vittorioso, Augusto, che secondo un’ipotesi 136 avrebbe ricevuto di persona quelle insegne perdute nel 53, nel 40 e nel 36 a.C. La Pax Augusta, con un aggettivo, o Augusti, con un genitivo, di cui era intrisa la propaganda ufficiale, eterna e mondiale, terra marique parta 137, era come un 1932, pp. 141 ss.; P. CEAUŞESCU, Altera Roma: l’histoire d’une folie politique, in Historia 25, 1976, pp. 86 ss. 133 Così pure P. ZANKER, Augusto, cit., pp. 198 s. 134 La letteratura sulla vicenda di Spartaco, come è noto, è imponente, ma in questa sede è sufficiente rimandare alla lettura di un brillante studio di A. SCHIAVONE, Spartaco. Le armi e l’uomo, Torino 2011. 135 Vedi il bel libro di G. TRAINA, La resa di Roma. 9 giugno 53 a.C., la battaglia a Carre, Roma-Bari 2010. 136 P. BALDASSARI, Augusto soter: ipotesi sul monopteros dell’acropoli ateniese, in Ostraka 4, 1995, pp. 69 ss.; EAD., Sebastù SwtÁri. Edilizia monumentale ad Atene durante il saeculum Augustum, Roma 1998, pp. 51 ss. 137 J.M. CARTER, A New Fragment of Octavian’s Inscription at Nicopolis, in ZPE 24, 1977, pp. 227 ss.: [Nep]tuno [et Ma]rt[i. Imp(erator) Caesa]r div[i Iuli] f(ilius) vict[oriam ma]rit[imam consecutus bell]o quod pro [re pu]blic[a] ges[si]t in hac region[e c]astra [ex] quibu[s ad hostem in]seq[uendum egr]essu[s est spoli]is [ornat]a [dedicavit cons]ul [quintum i]mperat[or se]ptimum
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dono delle divinità e la sua divinizzazione contribuiva a quella dello stesso principe 138. Anche a tal proposito la critica moderna ha ravvisato un eccesso di ipocrisia di Augusto, consapevole come tutti di non aver combattuto e vinto alcuna guerra con i Parti: RGDA 29.2: Parthos trium exercitum Romanorum spolia et signa re[ddere] mihi supplicesque amicitiam populi Romani petere coegi. Ea autem si[gn]a in penetrali, quod e[s]t in templo Martis Ultoris, reposui. Niente di più sbagliato. Stava proprio in ciò la grandezza dell’operazione, diplomatica e non bellica, di Augusto 139. Lui, che nella sua vita aveva condotto tante guerre quanto nessun altro romano 140, con l’incruenta vittoria sui Parti dimostrava che anche l’acerrimo nemico dei Romani si sottometteva all’uomo della provvidenza divina rinunciando alle armi: Svet. Aug. 21.7: Parthi quoque et Armeniam vindicanti facile cesserunt et signa militaria, quae M. Crasso et M. Antonio ademerant, reposcenti reddiderunt obsidesque insuper optulerunt, denique pluribus quondam de regno concertantibus, non nisi ab ipso electum probaverunt 141. Quegli stessi Parti, obbligati a restituire le insegne romane e i prigionieri di guerra ancora in vita, sanavano le ferite profonde inferte presso Carre all’orgoglio pace [.] parta terra [marique] … Cfr. A. MOMIGLIANO, Terra marique, in JRS 32, 1942, pp. 62 ss. Secondo A. MASTINO-A. IBBA, L’imperatore pacator orbis, cit., p. 153 nt. 53, non deve escludersi che la formula – peraltro ricorrente oltre che nella dedica appunto di Nicopolis in Acaia del 29 a.C., in quella dedica del 36 a.C. (attestata in Appian. bell. civ. 5.130, 5.140), pure nelle Res Gestae, nella Laudatio Turiae e nei Fasti di Ovidio – riecheggiasse «dei motivi presenti nei trattati di pace dei Greci, poi mutuati nel mondo ellenistico, infine entrati nella propaganda di Pompeo (Cic. pro Balb. 6.16; IG XII.2.202 = ILS 8776 da Mitilene; ILS 9459 da Miletopolis presso Cizico) e sviluppati in quella di Cesare». Sul punto si veda pure D. MUSTI, Storia greca. Linee di uno sviluppo dall’età micenea a quella romana, Milano 1991, p. 553. 138 Così R. TURCAN, Images et idées de la Paix, in AA.VV., Concezioni della pace (a cura di P. Catalano e P. Siniscalco), Roma 2006, p. 53. Un quadro complessivo anche per i secoli successivi in A. MASTINO-A. IBBA, L’imperatore pacator orbis, cit., pp. 156 ss. 139 Da ultimo L. BRACCESI, Augusto, cit., pp. 68 s. Ma chi ha più di altri, in tempi recenti, ha insistito nel sottolineare il merito di Augusto di aver perseguito con assoluta determinazione la pace e la stabilità è stato K. BRINGMANN, Augustus, Darmstadt 2007, passim, spesso in polemica frontale con la biografia di J. BLEICKEN, Augustus. Eine Biographie, Hamburg 2010. 140 Così F. GUIZZI, La pax Augusta, cit., p. 250. Cfr. M. AMIT, Propagande de succès et d’euphorie dans l’empire romain, in Iura 16, 1965, pp. 54 s. 141 Liv. perioch. 141.4: Pax cum Parthis facta est signis a rege eorum, quae sub Crasso et postea sub Antonio capta erant, redditis, data la consegna dei signa di Crasso agli anni 11-10 a.C., ma si tratta di un evidente errore, posto che la giusta cronologia è il 20 a.C. e che dunque la sedes del passo sarebbe la Periocha 136, purtroppo perduta.
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romano 142! Un momento raffigurato nella lorica di Augusto della Statua di Prima Porta, ove compaiono un personaggio che consegna le insegne e le aquile degli eserciti romani a un altro che indossa evidenti vesti militari, entrambi forse personificazioni di Roma e di Partia (figure 10 e 11) 143. E a consacrazione ultima, non a caso, quelle insegne furono riposte in penetrali … in templo Martis Ultoris 144. Ma quel medesimo motivo della grandezza augustea di sottomettere l’ecumene con le armi o con l’amicitia (dunque, attraverso l’alta diplomazia) ricorre nella versione liviana relativo alla comunicazione augustea che accompagnava il FIGURE 10 e 11. – Augusto, Prima Porta
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Ha un suo significato la scelta di Velleio Patercolo di parlare dell’assunzione del cognomen Augustus a tal proposito; Vell. hist. rom. 2.91.1: Dum pacatur occidens, ab oriente ac rege Parthorum signa Romana, quae Crasso oppresso Orodes, quae Antonio pulso filius eius Phraates ceperant, Augusto remissa sunt. Quod cognomen illi iure Planci sententia consensus universi senatus populique Romani indidit. 143 C. PARISI PRESICCE, Arte, imprese e propaganda. L’Augusto di prima Porta 150 dopo la scoperta, in AA.VV., Augusto, Milano 2013, pp. 118 ss.; L. DI PAOLA LO CASTRO, Augusto nel bimillenario della morte: storia e imitatio del primo imperatore romano nell’Antichità e in Epoca contemporanea, in Civiltà Romana 1, 2014, pp. 12 ss. 144 RGDA 29.2.
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rientro del princeps dalla Cantabria: […] Caesar Augustus in spectaculis Romano populo nuntiat regressus a Britannia insula totum orbem terrarum tam bello quam amicitiis Romano imperio subditum 145. La strategia augustea, come accennato, era assai più articolata di una visione schiacciata sulla dimensione bellica: alle imprese militari vittoriose bisognava accostare una campagna di comunicazione per la costruzione di un senso comune dell’opinione pubblica che avesse consapevolezza dell’ecumene, o meglio di una sua quasi coincidenza con i territori sottoposti al controllo romano. Sono note e cospicue le tracce dell’impegno personale del princeps in questo lavoro. Si sa che Augusto scrisse un Breviarium totius imperii, un documento contabile, amministrativo, utile anche dal punto di vista statistico, concretamente utile al nascente apparato burocratico, a cui va aggiunto il Rationarium imperii citato da Svetonio 146. Mentre un tardo testo geografico, nel ricordare la tripartizione del mondo, assegnava un primato ad Augusto in questo campo: Geogr. Lat. min. p. 15: Orbis dividitur tribus nominibus, Europa, Asia, Libya vel Africa: quae divus Augustus primus omnium per chorographiam ostendit. Non interessa tanto sapere se davvero Augusto fosse stato il primo a redigere un documento simile, o se chorographia indicasse una carta oppure un testo scritto di carattere geografico 147, ciò che conta è il fatto che certamente la utilizzò con costanza come formidabile strumento di propaganda per la diffusione capillare di uno dei motivi ideologici principali dell’esperienza augustea: la vocazione universalistica dell’impero augusteo rispetto al mondo. Medesimo discorso vale per la carta di Agrippa 148 disegnata nella Porticus Vipsania: il documento non interessava allora e non interessa neppure oggi tanto per la sua precisione tecnica quanto per la sua valenza politica e ideologica. Nella forza descrittiva delle immagini, da un lato, campeggiava l’orbis terrarum che aveva così recuperato pace e armonia, dall’altro lato, si profilava forte, per quanto implicita, la glorificazione delle imprese militari di Augusto che avevano esteso l’imperium populi Romani sino ai confini del mondo 149. Un nesso fondamentale, quello tra orbis terrarum e imperium populi Romani, come una delle chiavi 145 Liv. frg. 55 (apud Apon. in canticum canticorum 12). Livio dava Augusto di ritorno dalla Britannia (regressus a Britannia), eppure restano incerte le ragioni per cui Augusto decise di rinunciare allo sbarco in Britannia; a tal riguardo e più in generale sulla Britannia vedi G. ZECCHINI, I confini occidentali dell’impero romano: la Britannia da Cesare a Claudio, in CISA 13, 1987, pp. 250 ss. 146 Svet. Aug. 28.1. 147 Affronta la questione G. CRESCI MARRONE, Ecumene Augustea, cit., pp. 75 ss. 148 Plin. nat. hist. 3.3.16-17. Per la sterminata bibliografia vedi CL. NICOLET, L’inventario del mondo. Geografia e politica alle origini dell’impero romano, Roma-Bari 1988, pp. 95 ss., 117 e nt. 11. 149 CL. NICOLET, L’inventario del mondo, cit., passim.
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principali della comunicazione augustea, palesato d’altronde dalla stessa formula d’apertura delle Res Gestae, rerum gestarum divi Augusti, quibus orbem terrarum imperio populi romani subiecit. Uno splendido e ben noto libro di Claude Nicolet, L’inventario del mondo 150, ha fornito una rappresentazione efficace della forza strategica della comunicazione dello staff del princeps sul motivo ideologico della pace nell’ecumene romana. Augusto perseguiva con lucida tenacia un disegno di razionalizzazione del territorio dell’impero, di cui un altro elemento lo fornisce Plinio il Vecchio con la notizia di una discriptio dell’Italia in undici regioni, completato da un indice di città secondo un ordine alfabetico 151. La pace universale sarebbe stata possibile soltanto attraverso un lavoro lungo e profondo riguardante certamente la sfera divina, come già visto prima, ma anche e soprattutto con la dimensione umana, attraverso l’instaurazione di un nuovo ordine nei territori soggetti alla sovranità del popolo romano. In questo contesto ideologico si iscrive la parte centrale delle Res Gestae dedicata alle campagne militari, alle guerre vittoriose. Dalle lunghe trasferte occidentali in Spagna, Gallia e Germania, al volgersi a Oriente, a cominciare dai territori dei Cimbri mai raggiunti da alcun romano a Cirene, caduta in gran parte sotto il dominio di re, dall’Armenia e poi Partia, sino alla regione deltizia del Gange. Eppure nell’ideologia e nell’arte augustee, come è stato ben sottolineato da Zanker 152, non vi è esaltazione della guerra come invece sarebbe accaduto con i successori, e ciò aiuta a spiegare perché quella tripartizione dell’orbis terrarum fosse una costante presente pure nell’Ara Pacis. Si è sottolineato infatti come i tre bambini raffigurati in abiti stranieri non rappresenterebbero tanto o soltanto i figli di re clienti presenti a Roma in segno di fedeltà e amicizia, ma assai di più essi esprimerebbero, attraverso un capovolgimento dell’ideologia dell’umiliazione dello straniero vinto tipica del trionfo, la nuova armonia tra Roma e i suoi alleati provenienti dai tre continenti Europa, Asia e Africa su cui si estendeva il dominio imperiale 153. Il che non era altro che una precisa traduzione iconografica di quanto inciso nelle Res Gestae a proposito delle innumerevoli ambascerie che esaltavano il ‘pacifico’ imperialismo augusteo. Il princeps preferiva, quindi, battere sul tasto della clemenza, una clemenza invero aspra, come è incisa in un passaggio delle Res Gestae: RGDA 3.2: Exte[rnas] gentes, quibus tuto [ignosci pot]ui[t, co]nservare quam excidere ma[lui]. 150
CL. NICOLET, L’inventario del mondo, cit., passim. Plin. nat. hist. 3.6.46; 3.7.49. 152 P. ZANKER, Augusto, cit., p. 201. 153 D.E.E. KLEINER-B. BUXTON, Pledges of Empire: the Ara Pacis and the Donations of Rome, in AJA 112, 2008, pp. 57 ss. 151
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«Preferii risparmiare, anziché sterminare, le genti straniere cui si poté perdonare senza pericolo», è affermazione che suona alquanto sinistra, eppure leggere questo brano con la lente di un feroce cinismo, come pure solitamente si fa, appare alquanto banale. Naturalmente, vi è sempre un freddo calcolo politico nelle relazioni internazionali, e laddove fosse stato privo di rischio, sarebbe stato il buon senso a dissuadere dallo sterminio dei popoli vinti. Virgilio, in versi famosissimi riaffermava il concetto, come monito alla predestinazione della imperiale romana: Verg. aen. 6.851-853: tu regere imperio populos, Romane, memento / hae tibi erunt pacique imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos 154. Nelle poche lettere incise nella pietra delle Res Gestae, come negli scarni ma incisivi versi virgiliani, in cui sembra risuonare la voce del principe, vi è racchiusa la cifra dell’arte del comando augustea. Regere populos significa assicurare reggimenti ordinati e saldi; una vera tšcnh mutuando Elio Aristide 155. Nei versi virgiliani non corre soltanto l’idea di pace del poeta, ma l’ideologia politica augustea che connette la guerra alla pace, ovvero «la norma della pace che a Roma gli dèi hanno affidato perché la definisca e la imponga a tutte le genti, mentre a queste è chiesto di accettarne l’imposizione» 156. Ed è evidente, ripeto, come qui non vi sia in gioco tanto il freddo cinismo del principe ma una precisa ideologia del governo che impedisse gli errori del passato. Augusto e i suoi uomini, ad esempio, conoscevano bene il violento attacco politico scatenato da Catone contro il massacro di Usipeti e Tencteri perpetrato da Cesare nel 55 a.C. in violazione di una tregua. Quell’atto era un abominio e la proposta catoniana esigeva dai patres una misura eclatante: consegnare Cesare al nemico per sottrarsi alla responsabilità di quel crimine commesso in spregevole violazione delle tradizionali categorie religiose, etiche e giuridiche romane su cui si fondavano le relazioni internazionali 157.
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Su questi versi si legga principalmente F. SCHULZ, I principii del diritto romano (trad. di V. Arangio-Ruiz), Firenze 1995, pp. 101 ss.; e vedi da ultimo O. BUCCI, Costituzione romana, ordinamento politico dei Romani e diritto germanico in Alexis de Tocqueville, in AA.VV., Tradizione romanistica e Costituzione (dir. L. Labruna – a cura di M.P. Baccari e C. Cascione), I.2, Napoli 2006, p. 1611 nt. 21. 155 Ael. Arist. 58. 156 I. LANA, Rapporto sullo stato degli studi intorno all’idea della pace a Roma e proposta di alcune linee di ricerca, in AA.VV., Concezioni della pace (a cura di P. Catalano e P. Siniscalco), Roma 2006, p. 11. 157 Plut. Caes. 22; Crass. 37.2; Cato minor 51.2-3; Appian. Celt. 18; Svet. Iul. 24.3. In generale vedi G. ZECCHINI, L’imperialismo romano: un mito storiografico?, in Politica Antica 1, 2011, pp. 171 ss., 180 s.; ID., Il pensiero politico romano. Dall’età arcaica alla tarda antichità, Roma 2012, pp. 69 ss.
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Sotto questo aspetto le Res Gestae sono un testo assolutamente coerente, i cui frammenti devono sempre essere letti nelle loro intime connessioni con quelli che li precedono o li seguono. Augusto infatti non mancava di ricordare che gli accrescimenti dell’imperio del popolo romano furono dovuti non solo a vittorie militari ma anche alla saggezza con cui si evitò di muovere guerre ingiuste a popoli stranieri, ridando vigore alla più antica concezione della sfera militare e dei rapporti internazionali sintetizzata dalla formula del bellum iustum 158. La linea sottesa, sia nell’autobiografia augustea sia nell’Eneide, era dunque del medesimo segno: il princeps, di cui una plastica rappresentazione si ha nella celeberrima statua loricata di Augusto – rinvenuta nella Villa di Livia a Prima Porta, realizzata dopo il 20 a.C. e in cui campeggia una nuova immagine della vittoria – appare ormai come «il messaggero della Provvidenza e della volontà divina» 159. Così come in un celeberrimo cammeo di Vienna, probabilmente relativo alla celebrazione sua e delle vittorie militari di Tiberio 160 nel 12 d.C. contro Dalmati e Pannoni, è ritratto alla maniera di Giove con ai piedi un’aquila accanto alla dea Roma (figura 12): ma Augusto non è affatto un vendicatore, e «il suo compito non è più quello di portare a termine grandi imprese: il figlio degli dèi [e dio egli stesso] garantisce l’ordine universale con la sua semplice esistenza, e impersona, in virtù dei suoi antenati, l’intesa tra lo Stato e gli dèi» 161. A questa nuova dimensione corrispondeva la ferma condanna della guerra di Orazio, di quella cieca follia di sangue che aveva contagiato i cives Romani, il pericolo dell’annientamento di Roma a causa delle fraternae neces, cioè le guerre civili 162. Ma a fianco compariva anche, in modo consapevole e necessario, una nuova forma di militia, certo incruenta, ma efficace e assai gradita ad Augusto: l’arte letteraria. In qualche misura se ne fece carico, quasi come redattore di un manifesto ideologico, Ovidio: Ovid. fast. 2.9-10: Haec mea militia est; ferimus quae possumus arma, / dextraque non omni munere nostra vacat.
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F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana2, cit., II, p. 50. Sul tema di recente è intervenuto N. RAMPAZZO, Iustitia e bellum. Prospettive storiografiche sulla guerra nella Repubblica romana, Napoli 2012; su cui M.F. CURSI, «Bellum iustum» tra rito e «iustae causae belli», in Index 42, 2014, pp. 569 ss. 159 P. ZANKER, Augusto, cit., p. 205. 160 Conservato presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna, e su cui cfr. J. POLLINI, The Gemma Augustea: Ideology, Rhetorical Imagery, and the Creation of a Dynastic Narrative, in AA.VV., Narrative and Event in Ancient Art (a cura di P.J. Holliday), Cambridge 1993, pp. 258 ss. 161 P. ZANKER Augusto, cit., p. 205. 162 Su questo tema A. LUISI, Il pensiero di Orazio sulla guerra, in AA.VV., Guerra e diritto nel mondo greco e romano (a cura di M. Sordi), Milano 2002, pp. 229 ss.
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FIGURA 12. – Cammeo augusteo
Il poeta confessava la sua inadeguatezza a trattare la disciplina militare, ma al tempo stesso dichiarava di non esitare a porre la sua arte (mea militia, scrive nei Fasti) al servizio di Augusto, trasformandola così in servitium Caesaris 163. Esplicito il suo rifiuto di cantar le armi: Ovid. fast. 1.13: Caesaris arma canant alii: nos Caesaris aras. Alessandro Barchiesi, in un godibilissimo libro, ha posto bene in luce il tema dell’impegno politico di Ovidio declinato attraverso le sue opere sul versante della letteratura e della pace, che può riassumersi in quei versi in cui «il dio militare ed epico Marte viene invitato a posare le armi prima di accomodarsi nel nuovo poema» 164. Fu il raffinato Gaio Cilnio Mecenate 165 il regista del pacifico esercito di poeti cantori della pace al servizio di Augusto; non solo l’epicureo Orazio, e Properzio 166, e Ovidio: 163
C. DOGNINI, Militia amoris e militia Caesaris nell’elegia latina, in AA.VV., Guerra e diritto nel mondo greco e romano (a cura di M. Sordi), Milano 2002, pp. 217 ss.; 224 s. Sulla militia amoris intesa dai poeti elegiaci vedi M. BROZEK, ‘Militia’ etymologia i dzieje wyrazu, in Menander 33, 1938, pp. 129 ss. 164 A. BARCHIESI, Il poeta e il principe. Ovidio e il discorso augusteo, Roma-Bari 1994, pp. 6 ss. 165 Vell. hist. rom. 2.88.2: Erat tunc urbis custodiis praepositus C. Maecenas equestri, sed splendido genere natus, vir, ubi res vigiliam exigeret, sane exsomnis, providens atque agendi sciens, simul vero aliquid ex negotio remitti posset, otio ac mollitiis paene ultra feminam fluens [...]. 166 F. CAIRNS, Propertius and the Battle of Actium (4.6), in AA.VV., Poetry and Politics in the Age of Augustus, London 1984, pp. 129 ss.
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Ovid. fast. 1.719-722: Tura, sacerdotes, pacalibus addite flammis / albaque perfusa victima fronte cadat. / Utque domus quae praestat eam cum pace perennet / ad pia propensos vota rogate deos!; ma pure Tibullo, compositore di un inno alla pace: Tibull. 1.10.45-50: Interea arva colat: Pax candida primum / duxit araturos sub iuga curva boves; / Pax alvit vites et sucos condidit uvae, / funderet ut nato testa paterna merum; / Pace bidens vomerque nitent, at tristia duri / militis in tenebris occupat arma situs; e così Virgilio, convinto a scrivere le Georgiche in cui all’Oriente corrotto di Marco Antonio si contrapponeva l’Italia romana dei contadini tradizionale nerbo della res publica. Ma anche su questo terreno, cioè della letteratura, si rischia di sottovalutare la ‘cifra’ del princeps dal punto di vista politico e personale. Persino sul rapporto tra potere e intellettuali possiamo misurare il pesante condizionamento della visione di Ronald Syme e di una lettura schematica e scontata dell’arruolamento di intellettuali da parte del regime sulla ricerca storiografica, fortunatamente però dal dopoguerra ad oggi in fase di rinnovamento 167. Ma c’è, come dicevo prima, un altro aspetto, complementare o se preferiamo l’altra faccia della medaglia, ossia la caratura di intellettuale dello stesso principe che non merita di essere degradato al ruolo di cinico strumentalizzatore politico per esaltare di contro unicamente quello di Mecenate. Se Mecenate fu accanto a lui, se costui agì per raccogliere attorno al principe il meglio dell’intellettualità del tempo, non fu né soltanto merito suo né una semplice coincidenza. Artefice al contempo fu lo stesso Augusto, consapevole della potenza dell’unione tra letteratura e politica, convinto del contributo essenziale che la prima avrebbe assicurato alla sua attività diuturna e faticosa di plasmare una nuova forma rei publicae. Svetonio ha racchiuso in pochi righi i meriti del principe: «incoraggiò in tutti i modi gli ingegni del suo secolo. Ascoltò benevolmente e pazientemente chi gli recitava cose proprie, non soltanto di poesia e storia ma anche orazioni e dialoghi» 168. Svetonio 169, Mar
167 M. LABATE, Poesia per i grandi, poesia per la comunità: il compromesso augusteo, in AA.VV., Letteratura e propaganda nell’Occidente latino da Augusto ai regni romanobarbarici. Atti del Convegno internazionale, Arcavacata di Rende 25-26 maggio 1998, Roma 2000, pp. 12 s. 168 Svet. Aug. 89.3: Sed plane poematum quoque non imperitus, delectabatur etiam comoedia veteri et saepe eam exhibuit spectaculis publicis; sul tema da ultimo A. MARCONE, Augusto, cit., pp. 129 ss. 169 Svet. Aug. 85.1-2: Multa varii generis prosa oratione composuit, ex quibus nonnulla in coetu familiarium velut in auditorio recitavit, sicut “Rescripta Bruto de Catone”, quae volumina cum iam senior ex magna parte legisset, fatigatus Tiberio tradidit perlegenda; item “Hortationes ad philosophiam”, et aliqua “De vita sua”, quam tredecim libris Cantabrico tenus bello nec ultra exposuit. [2] Poetica summatim attigit. Unus liber extat scriptus ab eo hexametris versibus, cuius et argumentum et titulus est “Sicilia”; extat alter aeque modicus “epigrammatum”, quae fere tempore balinei meditabatur.
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ziale 170, che ne riporta un carme, e altra documentazione 171 attestano inconfutabilmente il suo diretto impegno letterario, la sua produzione poetica, l’abilità a comporre in greco 172, una drammaturgia con un Aiace 173, e persino un’opera filosofica, purtroppo perduta, dal titolo Hortationes ad Philosophiam, in cui il principe mise a frutto gli insegnamenti di uno dei suoi principali maestri, il filosofo Ario Didimo 174. Augusto, intellettuale tra intellettuali, dunque.
6. LA PAX, LE PROVINCE, L’AVVIO DELLA RIORGANIZZAZIONE Elio Aristide, nel celeberrimo Elogio di Roma, tributava alla grandezza dell’impero romano la potenza ed estensione, ma soprattutto sicurezza, pace unità di tutte le genti e libertà 175. Lungo queste coordinate, veri fundamenta rei publicae, si misura la simmetria del pensiero del retore con le Res Gestae Divi Augusti, e per coglierne il senso più profondo bisogna risalire appunto a quel biennio (29 e 28 a.C.). Due anni cruciali per la comprensione della strategia augustea e della genesi del principato, durante i quali si scelse con una determinazione mai più riposta di intrecciare in maniera inestricabile la dimensione sacrale con il tema della pax e della restitutio rei publicae. Nel 29 a.C. si dispose la chiusura dello Ianus e l’inserimento del nomen del principe nel carmen saliare; nel 28 a.C., Augusto assunse la pax come emblema anche in ambito monetario. Su un’emissione di cistofori, egli è ritratto coronato di alloro sul recto, mentre sul rovescio la dea della pace appare con caduceo e affiancata dalla scritta pax, poi sullo sfondo la cista dionisiaca e tutt’intorno una corona di alloro. 170
Mart. epigr. 11.20. Codex Bernensis 109, fol. 136: Convivae, tetricas hodie secludite curas / ne maculent niveum nebula corda diem / omnia sollicitae ponantur murmura mentis, / ut vacet totum pectus amicitiae. / Non semper gaudere licet: fugit hora, iocemur: / difficile est fatis subripuisse diem; edito da H. HAGEN, Über ein neues Epigramm mit der Aufschrift Octaviani Augusti, in RhMPhil 35, 1880, pp. 569 ss. 172 Macrob. sat. 2.4.31. 173 Svet. Aug. 85.3: Nam tragoediam magno impetu exorsus, non succedenti stilo, abolevit, quaerentibusque amicis, quidnam Aiax ageret, respondit “Aiacem suum in spongiam incubuisse”. Sulla tragedia fondamentale P. MASTANDREA, L’«Aiace» di Ottaviano Augusto, in CCC 13, 1992, pp. 41 ss. In generale, I. LANA, Gli scritti di Augusto nelle «Vite dei Cesari» di Svetonio, in AA.VV., Gli Storiografi latini tramandati in frammenti. Atti del convegno, StuUrb(B) 49, 1975, pp. 437 ss.; J. GAGÉ, Auguste écrivain, in ANRW, II.30/1, Berlin-New York 1982, pp. 611 ss. 174 Sul punto vedi comunque infra CAPITOLO TERZO, § 13; ma più in generale sull’attività letteraria del principe H. BARDON, Les Empereurs et les lettres latines d’Auguste à Hadrien, Paris 1940, pp. 11 ss. 175 Cfr. J.H. OLIVER, The Civilising Power. A Study of the Panathenaic Discourse of Aelius Aristides against the Background of Literature and Cultural Conflict, in TAPhS 58, 1968, pp. 1 ss. [Philadelphia 1968]. 171
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Sebbene nello stesso anno una seconda emissione di quinari d’argento veda sul rovescio la cista dionisiaca accompagnata da serpenti ma sormontata da una Vittoria alata con la scritta Asia recepta, la pax non si mostra come un semplice motivo ideologico e/o propagandistico: se è vero che «su tutto sovrastava l’esigenza della pace», Augusto fece bene a interpretare e a far proprio questo sentimento popolare. Così, scrive bene De Martino, «opera ad un tempo una trasformazione profonda del valore della pace, che si identifca con la sicurezza dei cittadini e dell’impero. Pax et princeps diviene uno degli emblemi del principato e concorre all’ideologia dell’impero universale come ordine politico, che mediante il suo dominio su tutti i popoli assicura la pace all’umanità intera» 176. Conseguentemente, la pax nella nuova teologia imperiale ricevette una traduzione su di un piano di effettiva concretezza: alla riconquista e all’espansione sarebbe dovuto seguire un rigoroso riordino delle province. Furono dunque l’azione pacificatrice e di riorganizzazione dei territori sottoposti al dominio romano alcuni campi lungo i quali Augusto misurò impegno e determinazione, il cui consenso effettivamente fu vasto mentre una sintetica magnificazione non burocratica né meramente retorica risuona nelle pagine di Dione Cassio contenenti l’orazione funebre pronunciata da Tiberio 177. Ordine nelle province significava però soprattutto ordinamenti. Abbiamo già visto quanto sulla riorganizzazione delle province si siano applicate con eccessivo automatismo le rappresentazioni di Strabone (17.3.24-25) e di Cassio Dione (53.13.1-13), ovvero lo schema della spartizione delle zone di influenza tra princeps e senatus. La ripartizione delle sfere d’influenza del territorio tra provinciae senatus pacatae governate dai proconsules e provinciae Caesaris più turbolente, dirette da legati Augusti propraetore o da procuratores fu considerato come l’applicazione ab origine, cioè dal 27 a.C. di un compromesso cristallizzatosi e mai più messo in discussione tra principe e senato, mentre in realtà si trattò del punto di arrivo a seguito di una serie di assestamenti. Grazie a nuovi documenti e a un avanzamento dei nostri studi possiamo dire che questo assetto schematico non corrispondeva affatto alla realtà, almeno a quella realtà istituzionale della genesi del principato. L’Editto di Paemeiobriga 178 del 15 a.C., ben 8 anni dopo la seduta senatoria del 23 a.C., in cui sarebbe stato conferito, secondo Pietro Bonfante 179
176
F. DE MARTINO, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero, in AA.VV., Concezioni della pace (a cura di P. Catalano e P. Siniscalco), Roma 2006, pp. 35. 177 Cass. Dio 56.35-41. 178 F. COSTABILE-O. LICANDRO, Tessera Paemeiobrigensis, cit., passim. In merito alla letteratura accumulatasi sul documento epigrafico vedi supra CAPITOLO PRIMO, § 5, nt. 137. 179
P. BONFANTE, Storia del diritto romano, cit., p. 191 (nella 2a edizione, cit., p. 359).
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prima, e Pietro De Francisci 180 dopo, l’imperium proconsulare disgiunto dalla relativa carica di proconsole smentisce radicalmente quell’idea rendendo giustizia a una felice intuizione sia di Jean Béranger 181 sia di Emilio Betti 182, conferma che la visione di Strabone corrispondeva a un’equilibrio politico sostanziale. Come pure conferma essere quella di Cassio Dione nient’altro che una fotografia dell’assetto istituzionale consolidato in età severiana, finendo per scardinare in definitiva ogni consolidata e tralatizia ricostruzione sulla genesi e sulla fisionamia costituzionale del principato. Le province erano tutte populi Romani e governate pertanto da proconsules; vi erano poi province il cui proconsul era Augusto, il quale governava a distanza attraverso un suo legatus, nel caso della Transduriana provincia L. Sestio Quirinale, e secondo l’applicazione del preciso exemplum Pompeii, cioè la concessione al campione della conservazione ottimate di cumulare più territori, per un quinquennio, e di governarli in absentia, restando a Roma, sebbene extra pomerium, ove era accampato. Tale nuova ricostruzione, ora possibile, fa acquistare un senso diverso all’opera di riordinamento istituzionale, riconoscendo, ancora una volta, sincerità alle affermazioni augustee delle Res gestae. Interi capitoli (dal 25 al 33) servirono a spiegare l’opera immensa di pacificazione e di riordino, ma tutto appunto sempre e rigorosamente nel nome dell’imperium populi Romani. Lo stesso valeva anche per l’Egitto, territorio che Augusto con esemplare chiarezza dichiarò di aver aggiunto (adieci) alla sovranità del popolo romano, e invece a lungo considerato dalla storiografia moderna un unicum, un territorio appartenente al patrimonio privato del princeps, ecc., e conseguentemente il praefectus Aegypti una carica del tutto anomala e trasformato persino in viceré dell’imperatore. Oggi quasi più nessuno dubita del grave fraintendimento in cui è incorsa la più autorevole storiografia moderna sulla comprensione statuto giuridico dell’Egitto. Gli studi più recenti sembrano aver dimostrato definitivamente che le idee dell’Egitto quale unicum istituzionale, proprietà privata di Augusto, governato da lui attraverso il suo prefetto, una sorta di viceré, si mostrano del tutto avulse dalla documentazione disponibile 183. Proconsolati e relativi imperia, come dimostrano altri documenti di assoluto rilievo quali il Senatus consultum de Cn. Pisone patre, la Laudatio funebre di Marco Vipsanio Agrippa contenuta nel P. Köln VI.249 184 e la Tabula Siarensis,
180
P. DE FRANCISCI, Storia del diritto romano, cit., II.1, p. 288; ID., Sintesi storica, cit., p. 280. J. BÉRANGER, Recherches sur l’aspect idéologique du principat, cit., pp. 80 ss.; ma si vedano anche i saggi relativi a diversi e disparati aspetti del principato: ID., L’imperium proconsulaire, cit., pp. 1 ss.; ID., Principatus, cit., passim. 182 E. BETTI, La crisi della Repubblica, cit., p. 565. 183 Vedi supra CAPITOLO PRIMO, § 7, nt. 257. 184 Sulla cui letteratura vedi supra CAPITOLO PRIMO, § 6, nt. 177. 181
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erano ancora deliberati dall’assemblea popolare che ne determinava gradazioni ed estensioni secondo i modelli istituzionali repubblicani affermatisi degli imperia extraordinaria 185. In questo nuovo assetto però un altro carattere dell’imperium proconsulare del principe doveva essere preminente, espresso cioè dall’aggettivazione maius, per permettergli la piena agibilità in quei territori in cui vi era un altro proconsul, come nel caso degli Editti di Cirene 186. Ancora una volta, la strategia augustea intrecciava pace e ordine con il filo della restaurazione repubblicana sebbene con l’innesto di innovazioni forti: il proconsolato speciale di Augusto, che sulla scia degli exempla extraordinaria tardorepubblicani dava nuova vitalità all’albero della res publica, ammetteva un cumulo non predeterminato di provinciae e l’assenza di limiti di tempo e di spazio. Diretta e armonica conseguenza dell’ideologia cosmocratica, anche l’imperium proconsulare avrebbe dovuto avere una dimensione universale. Non sorprende dunque che oltre un secolo dopo in un denarius di Adriano, dall’eloquente legenda Restitutor orbis terrarum, sia raffigurato il princeps in piedi nel gesto di tendere la mano all’orbis terrarum (l’ecumene) perché si rialzi: siamo dinanzi alla esatta riproduzione dell’immagine dell’aureus di Cosso Lentulo del 12 a.C., in cui appare una res publica inginocchiata dinanzi ad Augusto fissato nell’identico atto di risollevarla. Questo dato si connette alla problematica e delicata questione della cosiddetta ‘restitutio rei publicae’, di cui abbiamo accennato nel capitolo precedente anche a proposito dell’aureus augusteo. La moneta, su cui torneremo ancora tra breve, contenente un forte messaggio politico, è certamente il segno celebrativo di un accadimento, di un preciso evento, nel suo significato politico più ampio e pregnante è la documentazione dell’inizio della costruzione augustea attraverso la priuma fase, cioè la restitutio rei publicae, a cui sarebbe seguita nel 27 a.C. la translatio rei publicae. *** La recente e assai convincente ricostruzione di Dario Mantovani che mette in diretta connessione l’aureus con l’edictum del 28 a.C. menzionato da Cassio Dione 187 e Tacito 188, deve invece ancor più incrociarsi con il passo della biogra
185
F. GRELLE, Il senatus consultum de Cn. Pisone Patre, cit., pp. 229 s. [= in ID., Diritto e società, cit., pp. 471 s.]. Vedi anche le considerazioni di V. GIUFFRÈ, La svolta di Caio Mario. Potere, politica, costituzione, in LR 3, 2014, pp. 55 ss. 186 Per una nuova edizione critica degli editti augustei di Cirene, con la copiosa letteratura scientifica, si rinvia a G. PURPURA, Edicta Augusti ad Cyrenensis, cit., pp. 433 ss. 187 Cass. Dio 53.2.5: 'Epeid» te poll¦ p£nu kat£ te t¦j st£seij k¢n to‹j polšmoij, ¥llwj te kaˆ ™n tÍ 'Antwn…ou toà te Lep…dou sunarc…v, kaˆ ¢d…kwj ™tet£cei, p£nta aÙt¦ di' ˜nÕj progr£mmatoj katšlusen, Óron t¾n ›kthn aÙtoà Øpate…an proqe…j. 188 Tac. ann. 3.28.2: Sexto demum consulatu Caesar Augustus, potentiae securus, quae triumviratu abolevit deditque iura, quis pace et principe uteremur.
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fia svetoniana 189, in cui si menziona un editto da intendere quale probabile avvio formale della restitutio rei publicae: Svet. Aug. 28.1-4: De reddenda re publica bis cogitavit: primum post oppressum statim Antonium, memor obiectum sibi ab eo saepius, quasi per ipsum staret ne redderetur; ac rursus taedio diuturnae valitudinis, cum etiam, magistratibus ac senatu domum accitis, rationarium imperii tradidit. [2] Sed reputans et se privatum non sine periculo fore et illam plurium arbitrio temere committi, in retinenda perseveravit, dubium eventu meliore an voluntate. [3] Quam voluntatem, cum prae se identidem ferret, quodam etiam edicto his verbis testatus est: “Ita mihi salvam ac sospitem rem publicam sistere in sua sede liceat atque eius fructum percipere, quem peto, ut optimi status auctor dicar et moriens ut feram mecum spem, mansura in vestigio suo fundamenta rei publicae quae iecero”. [4] Fecitque ipse se compotem voti nisus omni modo, ne quem novi status paeniteret. L’aureus celebrerebbe allora quel medesimo editto. Alcune voci della critica moderna 190 sono incorse in un eccesso di semplificazione, operando un nesso tra l’aureus e il rem publicam transferre di RGDA 34.1. In realtà, si tratta di momenti e di profili diversi 191. L’emissione monetaria del 28 a.C. attesterebbe che la restitutio non consistette affatto in quell’atto solenne e unico consumatosi teatralmente nella seduta senatoria del gennaio del 27 a.C., ma consistette in una graduale e complessa strategia di restaurazione e di ricostruzione repubblicana dipanatasi in più atti e nell’arco cronologico di due anni, culminanti nella seduta del gennaio del 27 a.C. In particolare, l’aureus allora, nella cui legenda il restituere significherebbe ‘ripristinare’ o ‘rimettere in piedi’ piuttosto che ‘riconsegnare’, celebrerebbe soltanto l’abrogazione dell’odiosa legislazione speciale triumvirale in assoluta concordanza con la versione di Svetonio 192. Come lo stesso Augusto scrive nel cap. 34 delle Res Gestae, la translatio rei publicae avvenne durante il sesto e settimo consolato, ovvero nei due anni cruciali del 28 e del 27 a.C. Ora, se è indubbio che leges et iura populi Romani restituere sia cosa diversa da rem publicam transferre; altrettanto incontestabile è l’affinità tra restitutio rei publicae e translatio rem publicam. Restituere rei publicae, espressione di linguaggio figurato, esprimerebbe l’idea di Augusto che ri-
189 D. WARDLE, Suetonius and Augustus’, cit., p. 198 nt. 58, rende noto di aver raccolto, attraverso una comunicazione privata, l’opinione di J.W. Rich che giudica probabile si tratti dello stesso editto. 190 Per il dibattito e l’articolazione delle posizioni si vedi D. MANTOVANI, Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit, cit., pp. 41 ss. 191 L. FANIZZA, Autorità e diritto, cit., pp. 93 ss.; cfr. P. BIANCHI, Iura-Leges, cit., pp. 8 s. nt. 11. 192 Sul passo svetoniano vedi anche supra.
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mette in piedi uno Stato prostrato, mentre transferre rem publicam avrebbe una connotazione assai più politica e giuridica del ripristinato funzionamento degli organi costituzionali dello Stato repubblicano 193. In definitiva, schematizzando potremmo dire che nel 28 a.C. Ottaviano abrogò la legislazione triumvirale, la cui notizia è confermata da una convergenza di documenti, e ripristinato il normale funzionamento delle cariche magistratuali nel loro rapporto istituzionale con le assemblee popolari; nelle prime settimane del 27 a.C., invece, e precisamente nel corso della celeberrima seduta senatoria del 13 gennaio, egli avrebbe perfezionato la ‘restaurazione repubblicana’ con l’affermazione della centralità del senato e del popolo e il rientro definitivo nell’alveo della legalità repubblicana, conseguendo così l’appellativo di Augustus. Difficilmente discutibile è la svolta negli anni 28-27 a.C. in cui prende corpo una serie significativa di iniziative politiche e istituzionali e una complessa strategia di comunicazione ideologica rispondente alle attese e alle esigenze culturali diffuse da est a ovest nei territori dell’impero. «La nuova immagine del vincitore è affidata a pochi simboli accuratamente scelti e continuamente ribaditi, nonché a gesti carichi di suggestione e di risonanza». Il princeps è quell’essere sovraumano che impersona un potere politico forte, tranquillo rassicurante che, come è stato giustamente scritto, «dalla vittoria promette di costruire la pace e la prosperità e pone al centro la res publica, non l’affermazione dell’individuo con le sue ambizioni e le sue idiosincrasie. I valori morali e religiosi di cui il nuovo potere si fa interprete e promotore, garantiti da segni speciali di predestinazione e da un rapporto privilegiato con la divinità, sono il fondamento della salvezza e del riscatto per la comunità tutta quanta» 194. Ecco perché bisogna riporre l’ostinazione con cui ci si attarda ancora nei tentativi di dimostrare l’ipocrisia e le menzogne augustee evidenziando la mancata corrispondenza tra lo slogan della restitutio rei publicae e il novus ordo. Le resistenze a una seria, attenta revisione storiografica sono, e continueranno ad essere, notevoli, eppure la mole di documenti convergenti nell’attestare il gradualismo della restitutio rei publicae augustea intesa come rigenerazione dello Stato romano, rinnovato anche attraverso il recupero della sua storia e delle sue tradizioni, comincia a diventare un ostacolo insuperabile anche per i più ostinati conservatori della lettura tradizionale. Così tanto inadeguatamente rappresentato dalla storiografia come espressione di una palese e insopportabile modalità di comunicazione del principe e del suo staff, quasi una sentina di vizi intrisa di 193 In un denso saggio M. CITRONI, Cicerone e il significato della formula res publica restituta, in AA.VV., Letteratura e civitas. Transizioni dalla Repubblica all’Impero. In ricordo di E. Narducci (a cura di M. Citroni), Pisa 2012, pp. 163 ss., tiene una posizione mediana secondo cui il significato di restituere come ripristino o riconsegna siano entrambi compatibili a proposito della restitutio rei publicae. Ma vedi infra CAPITOLO TERZO, § 10. 194 M. LABATE, Poesia per i grandi, cit., p. 11.
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ipocrisia, furbizia, astuzia e cinismo, quello augusteo fu invece un magistrale programma politico che determinò giustamente la grande fortuna e il duraturo consenso, concretizzatosi in una serie rilevante di gesta il cui catalogo è fornito con assoluta precisione ed efficacia comunicativa da Velleio Patercolo: Vell. hist. rom. 2.89.3: Finita vicesimo anno bella civilia, sepulta externa, revocata pax, sopitus ubique armorum furor, restituta vis legibus, iudiciis auctoritas, senatui maiestas, imperium magistratuum ad pristinum redactum modum, tantummodo octo praetoribus adlecti duo. Prisca illa et antiqua rei publicae forma revocata. Torneremo ancora su questo testo cruciale di Velleio Patercolo, non sempre pienamente inteso, per sottolineare invece adesso, come dopo aver riassunto i capisaldi della restaurazione repubblicana augustea, faccia seguire un passaggio particolarmente interessante: Vell. hist. rom. 2.89.4: Rediit cultus agris, sacris honos, securitas hominibus, certa cuique rerum suarum possessio; leges emendatae utiliter, latae salubrites; senatus sine asperitate nec sine severitate lectus. Principes viri triumphisque et amplissimis honoribus functi adhortatu principis ad ornandam urbem inlecti sunt. La visione dello storiografo tiberiano mostra il nesso inscindibile tra l’opera di rigenerazione dello Stato e il ristabilimento dell’ordine, la sicurezza degli uomini e il rispetto degli dèi. E in questo quadro Augusto, divi filius, parens patriae, incarnato di una virtus divina 195, principe tra principi, chiamava alla collaborazione i migliori cittadini, i principes, per rendere ancora più bella e gloriosa la città.
7. PAX, LEGES E MORES: LA RESTAURAZIONE REPUBBLICANA TRA NUOVO E ANTICO
Abbiamo potuto seguire una precisa linea grazie attraverso i due fili della religione e delle istituzioni, grazie a documenti assai diversi e apparentemente non connessi eppure fecondi di elementi e spunti per cogliere imprevedibili linee di continuità e intrecci tra dimensione politica e schemi istituzionali repubblicani. Molti documenti della tradizione manoscritta hanno così acquistato una luce e 195
P. DE FRANCISCI, Preannunci del Principato, cit., pp. 34 ss., ha colto questo aspetto della percezione pubblica di Augusto come «quella di colui che era stato inviato dagli dei a ricondurre l’ordine e la pace nella res publica». Tuttavia, l’argomentazione di de Francisci era finalizzata a sostenere il carattere illegale della posizione di Augusto «la massa non si preoccupava dei problemi giuridici, né delle discussioni che riempivano la curia ed il foro intorno alla costituzione ed alle violazioni cui si ricorreva nell’intento di salvare lo Stato».
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un valore diversi. Come tessere perdute di un mosaico, essi sono tornati al loro posto contribuendo a ricostruire trama e ordito dell’azione augustea. Anche un passo di Cassio Dione, di per sé mai tenuto in grande considerazione, si rivela invece assai significativo. Si tratta di un frammento del dialogo tra il futuro principe e Agrippa e Mecenate sulle scelte da compiere e la strategia da attuare: Cass. Dio 52.35.5: ¢ret¾ m n g¦r „soqšouj polloj poie‹, ceirotonhtÕj d' oÙdeˆj qeÕj ™gšneto, éste soˆ m n ¢gatù te Ônti kaˆ kalîj ¥rconti p©sa m n gÁ temšnisma œstai, p©sai d pÒleij nao… d ¥nqrwpoi ¢g£lmata (™n g¦r ta‹j gnémaij aÙtîn ¢eˆ met' eÙdox…aj ™nidruq»sV). «È la virtù, se mai, che rende molti uomini simili agli dèi, mentre nessun uomo è diventato un dio per un voto popolare. Così, se sei un uomo di alta levatura morale e se sei un buon amministratore del potere, tutta la terra sarà il tuo recinto sacro, tutte le città saranno i tuoi templi, tutti gli uomini le tue statue (nella loro opinione, infatti, sarai sempre considerato con una buona reputazione)». Ecco un altro indizio della storicità, al di là della forma letteraria, del confronto di idee tra i tre uomini, il testo appena letto conferma che quei fili, religione, istituzioni, carisma, sin dall’inzio costituirono l’essenza della (ri)costruzione augustea. Resta così da affrontare il terzo cardine dell’ideologia augustea anch’esso strettamente legato ai precedenti, ovvero la lucida consapevolezza del princeps e dei suoi uomini di fiducia che perdita di equilibrio e di coesione sociale erano il frutto avvelenato prodotto dall’allontanamento della società romana in generale e delle sue classi dirigenti in particolare dai mores maiorum sia nei rapporti privati sia nella dimensione pubblica e istituzionale. Anche lungo questo versante l’azione di Augusto fu determinata nella ricerca di una forte mediazione culturale per garantire l’assimilazione delle innovazioni attraverso un recupero del patrimonio tradizionale, perché i costumi, come è stato sottolineato, furono sempre una questione di fondo e non di superficie della cultura romana e perciò costituirono una parte rilevante della strategia politica del principe. Studi recenti, in questo senso, infatti hanno avuto il merito di aver messo a fuoco il rapporto tra nuovo e antico, dimostrando come le indubbie trasformazioni augustee appaiono come la più compiuta realizzazione di quell’approccio tipico della tarda repubblica di «presentazione del nuovo come una sorta di riproposizione dell’antico» 196. Pure in questo caso si sono versati fiumi d’inchiostro sull’ipocrisia di Augusto, sulle sue menzogne, sulla sua reticenza, e temo se ne verseranno ancora, salvo un repentino e radicale cambio di registro dell’atteggiamento mentale verso la stagione augustea di cui non si avvertono però ancora del tutto i segni di pie-
196 E. ROMANO, «Allontanarsi dall’antico», cit., p. 38. Cfr. A. BARCHIESI, Il poeta e il principe, cit., pp. 202 ss.
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na maturazione. A cominciare dal tema del rapporto mutevole, a volte inafferrabile, tra res novae e mos maiorum che costituisce uno stimolante versante di ricerca foriero di ulteriori avanzamenti delle nostre conoscenze. Nel gioco costante condotto da Augusto tra antico e nuovo, come emerge dalle Res Gestae, il lettore cade e continuerà a cadere nel vortice di un’apparente contraddittorietà, addirittura insanabile se analizzato alla luce di categorie e schemi moderni. Il conseguente effetto distorsivo, a volte particolarmente significativo, è dimostrato dalle definizioni a cui capita di pervenire. Definizioni paradossali, iperboliche, come nel caso di Fergus Millar autore di una formula alquanto stravagante «revolution entirely conservative» 197 per qualificare quella augustea. Certo, un ossimoro intelligente ma assai forzato quello di Millar (avrebbe fatto meglio allora a parlare di restaurazione), eppure rende bene l’idea a cui si è costretti pur di mantenere il canone rivoluzionario tanto caro a Ronald Syme. Cosicché il quadro generale non riesce del tutto decifrabile, e ogni analisi finisce in un circolo semanticamente ambiguo e vizioso, tra rivoluzione, conservazione, restaurazione, se guardato asetticamente come risultato di interventi di ingegneria costituzionale, reso ancor più problematico dal suo intricato intreccio con gli aspetti e dinamiche sociali. Ma ciò che più sorprende è l’utilizzazione di un argomento di natura istituzionale tra quelli più utilizzati a sostegno della tesi della costruzione antirepubblicana di Augusto, ossia il suo rapporto con i comitia populi. La sorpresa si giustifica perché basta andare appena sotto la superficie per capire che proprio sul terreno della matrice popolare, fatta di partecipazione politico-istituzionale (comitia) e di espressione concreta di volontà (lex publica), Augusto potè tessere buona parte della sua trama ed essere convincente. La determinazione del principe nel ridare senso istituzionale e funzionamento alle assemblee popolari incontrava un limite nel degrado e nella inadeguatezza dei comitia populi che, tipica istituzione di una polis, erano da tempo svuotati; anzi divenuti pericolosi e manovrabili dai demagoghi e dai signori della guerra. È noto l’impegno augusteo nella loro rivitalizzazione, sia per quanto concerne il loro intimo funzionamento, con l’introduzione del ‘voto a distanza’, sia in merito alla effettiva ripresa della funzione legislativa. Ora, essendo tale impegno solidamente documentato da riforme istituzionali ed elettorali e dall’intensa stagione legislativa, che non serve qui riprendere essendo sufficiente rinviare agli ottimi studi recentemente apparsi 198, appare del tutto incomprensibile la diffidenza rispetto al trasparente rifiuto contenuto nelle Res Gestae a proposito della cura legum et morum: 197
F. MILLAR, The First Revolution, cit., pp. 3 s. T. SPAGNUOLO VIGORITA, Casta domus, cit., passim (ma anche ID., L’unità della ricerca storica. Paul Jörs e la legislazione matrimoniale augustea, in AA.VV., Lezioni Emilio Betti [a cura di P. Di Lucia e F. Mercogliano], Napoli 2006, pp. 34 ss.; ID., Joersiana III: ancora sul percorso della riforma matrimoniale augustea, in Carmina iuris. Mélanges en l’honneur de M. Humbert [a cura di 198
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RGDA 6.1-2: [Consulibus M(arco) V]in[icio et Q(uinto) Lucretio] et postea P(ublio) Lentulo et Cn(aeo) L[entulo et terti]um [Paullo Fabio Maximo et Q(uinto) Tuberone senatu populoq]u[e Romano consentientibus,] ut cu[rator legum et morum summa potestate solus crearer, nullum magistratum contra morem maiorem delatum recepi. [2] Quae tum per me geri senatus] v[o]luit, per trib[un]ici[a]m p[otestatem perfeci, cuius potes]tatis conlegam et [ips]e ultro [quinquiens a sena]tu [de]poposci et accepi. Si tratta di un passo tormentato su cui si è scornata la migliore critica romanistica, ma credo che non abbia neppure visto bene Pietro de Francisci 199 nel credere che Augusto non abbia tanto rifiutato la funzione della cura legum et morum summa potestate (assai vicina nella sostanza alla dittatura cesariana) quanto la carica. Augusto rifiutò, è vero, la magistratura contra morem maiorem, ma eseguì la volontà senatoria ed esercitò pienamente quella funzione attraverso la tribunicia potestas. Ancora una volta, gran quantità di inchiostro e parole per bollare come ipocrita e menzognera due affermazioni trasparenti: a) il rifiuto di una carica anomala ed estranea agli schemi repubblicani 200; b) la rivendicazione di aver attuato profonde riforme attraverso leges novae: RGDA 8.5: Legibus novi[s] m[e auctore l]atis m[ulta e]xempla maiorum exolescentia iam ex nostro [saecul]o red[uxi et ipse] multarum rer[um exe]mpla imitanda pos[teris tradidi]. Dinanzi al dilagare di improbati mores nell’ordine familiare, con le leggi etico-matrimoniali, da lui stesso denominate leges novae, Augusto ricorreva al sapiente ed efficace ossimoro leges novae/mores maiorum, da un lato, riportando in vita multa exempla maiorum 201 e, dall’altro lato, producendo sensibili innova-
E. Chevreau, D. Kremer, A. Laquerrière-Lacroix], Paris 2012, pp. 793 ss.); J.-L. FERRARY, La législation augustéenne, cit., pp. 569 ss.; D. MANTOVANI, Mores, leges, potentia, cit., pp. 353 ss. 199 P. DE FRANCISCI, La costituzione Augustea, cit., p. 36; amplius ID., Arcana imperii, cit., III/1, pp. 287 ss. 200 RGDA 6.1. 201 Per tutti si rinvia a P. JÖRS, Iuliae rogationes. Due studi sulla legislazione matrimoniale augustea, Napoli 1985; G. RIZZELLI, Lex Iulia de adulteriis. Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, Lecce 1997; T. SPAGNUOLO VIGORITA, Casta domus, cit., passim; vedi anche F.M. DE ROBERTIS, La cura morum augustea e l’accezione del ‘moribus’in D. 24,1,1 (sul divieto delle donazioni fra coniugi), in Nozione, formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al prof. F. Gallo, I, Napoli 1997, pp. 197 ss. È intervenuta di recente con un riesame della materia G. COPPOLA BISAZZA, La donna nella legislazione augustea. Profili giuridici e risvolti ideologici, in Scritti per A. Corbino (a cura di I. Piro), II, Tricase (LE) 2016, pp. 165 ss.; F. BONIN, Evoluzione normativa e ratio legum. Qualche osservazione sulla legislazione matrimoniale augustea, in BIDR 111, 2017, pp. 272 ss.; P. BUONGIORNO, Appunti sulla dialettica normativa in materia matrimoniale nel primo principato, in BIDR 111, 2017, pp. 299 ss.
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zioni attraverso exempla da imitare in futuro 202. In questo interessante rivolgimento semantico mos/exemplum, l’exemplum, termine per eccellenza per indicare una rottura rispetto al passato, nella stagione augustea attraverso leges novae assumeva i connotati dell’esemplarità di perduti o disprezzati mores maiorum 203, secondo una strategia comunicativa diretta a rinsaldare un’identità romano-italica 204. Non è difficile ricostruire i passi di Augusto. L’obiettivo di rinvigorire i mores, per stessa natura di questi, avrebbe richiesto un lavoro pedagogico di riaffermazione di valori e di conseguenti comportamenti. Tempi inevitabilmente lunghi. Occorreva invece fare in fretta, e la strada maestra non poteva essere che la lex publica, strumento non per innovare del tutto, semmai per innervare nuovamente in quel tessuto sociale sfibrato un nucleo denso di valori tradizionali. Ma ad aver contribuito alla scelta della lex fu anche una caratteristica intrinseca della stessa, ovvero il testo scritto. La stabilità e la fissazione in forma scritta di principi, regole, dispositivi era essenziale dopo il secolo del caos: il disordine politico, istituzionale, sociale, economico richiedeva maggiore certezza più di prima. Il vigore dei vecchi mores aveva subito un cortocircuito: dimenticati o barbaramente violati da un corpo sociale smarrito, cioè da chi li produce e ne assicura la vitalità, non avrebbero potuto rinvigorirsi se non attraverso una nuova scintilla, saggiamente e abilmente individuata da Augusto e i suoi consiglieri nella lex. L’essenza di questa, prima che e forse ancor più che iussum populi, era data dalla scrittura, da una regolamentazione consegnata a un documento scritto. Un’analogia stringente la troviamo, per quanto lontana e diversissima, in un’altra epoca di passaggio con il venir meno dei territori occidentali nei secoli tardoantichi e altomedievali. Un frammento dell’Editto di Rotari è esemplare: Ed. Roth. cap. 386: Praesentem vero dispositionis nostrae edictum, quem deo propitio cum summo studio et summis vigilis a celestem faborem praestitis inquirentes et rememorantes antiquas legis patrum nostrorum, quae scriptae non 202
G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., pp. 29 ss. nt. 1, giudica improbabile un riferimento all’attività legislativa in senso stretto, «altrimenti dovrebbe pensarsi, considerata l’assenza nelle Res gestae di ogni ulteriore accenno ad interventi di Augusto in materia di produzione del diritto, che egli non abbia reputato degna d’esser ricordata la cospicua attività normativa da lui svolta con strumenti diversi da plebiscita e leges comiziali». Credo, tuttavia, che l’interpretazione restrittiva sia quella preferibile: nel passo in questione, Augusto puntava infatti a ricordare il peso (e il suo riconoscimento) della lex publica, quale atto di produzione normativa eminentemente repubblicano in cui concorrevano le volontà di populus, magistratus e senatus. 203 Cfr. E. ROMANO, «Allontanarsi dall’antico», cit., p. 39; T. SPAGNUOLO VIGORITA, Casta domus, cit., pp. 13 ss. Leggi pure A. BORGNA, Augusto al potere mores, exempla, consensus, in AA.VV., Princeps legibus solutus (a cura di A. Maffi), Torino 2016, pp. 47 ss. 204 I. MASTROROSA, I prodromi della Lex Papia Poppaea: la propaganda demografica di Augusto in Cassio Dione LVI, 2-9, in Antidoron. Studi in onore di B. Scardigli Foster (a cura di P. Desideri), Pisa 2007, pp. 281 ss.
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erant, condedimus, et quod pro commune omnium gentis nostrae utilitatibus expediunt, pari consilio parique consensum cum primatos iudices cunctosque felicissimus exercitum nostrum augentes constituimus, in hoc membranum scribere iussimus; pertractantes et sub hoc tamen capitulo reservantes, ut, quod adhuc annuentem divinam clementiam per subtilem inquisitionem de antiquas legis langobardorum, tam per nosmetipsos quam per antiquos homines, memorare potuerimus, in hoc edictum subiungere debeamus; addentes, quin etiam et per gairethinx secundum ritus gentis nostrae confirmantes, ut sit haec lex firma et stabelis, quatinus nostris felicissimis et futuris temporibus firmiter et inviolabiliter ab omnibus nostris subiectis costodiatur. L’arrivo in Italia dei Longobardi, la loro dominazione su quelli che una volta furono territori dell’impero romano, la trasformazione di un popolo-esercito nomade in popolo stanziale, i problemi di contatto e di convivenza con l’elemento romano, ecc., costituirono alcuni dei grandi fatti di mutamento, di disorientamento anche dei dominatori, che resero insopprimibile l’esigenza di cambiamento anche sul piano normativo. In questo caput dell’Editto del sovrano longobardo, allora troviamo tutti gli elementi che abbiamo isolato a proposito del rapporto mores-lex con Augusto: a) i mores delle gentes longobarde codificate per iscritto; b) il testo normativo scritto, esaltato nella sua essenza di lex firma et stabelis e persino nella sua stessa fisicità: in hoc membranum scribere iussimus, dispose Rotari 205. Tornando così al tema auguseto dei mores, è certo che la strategia comunicativa non fosse poi neppure così estranea a una sensibilità che nei tempi asperrimi delle guerre civili aveva trovato già una voce potente in Cicerone: Cic. de re publ. 5.1.1: Moribus antiquis res stat Romana virisque. Secondo l’anziano statista non vi era altra strada per uscire dal tunnel di quella crisi squassante che tornare agli antichi mores che avevano forgiato uomini all’altezza delle situazioni. Orazio 206 non esaltava forse il nesso leges/mores attraverso la domanda retorica quid leges sine moribus vanae proficiunt? Per il nuovo potere e a proposito delle leggi matrimoniali, come è stato efficacemente scritto, addirittura «morale e vita privata erano aree fondamentali», tanto da entrare «nelle camere da letto con una legislazione mirata» 207. E anche 205 Sul punto vedi O. LICANDRO, L’irruzione del legislatore romano-germanico. Legge, consuetudine e giuristi nella crisi dell’Occidente imperiale (V-VI sec. d.C.), Napoli 2015, pp. 67 ss. 206 Horat. carm. 3.24.35-36. Cfr. E. ROMANO, Echi e riuso della legge nella letteratura latina, in AA.VV., Leges publicae. La legge nell’esperienza giuridica romana (a cura di J.-L. Ferrary), Pavia 2012, pp. 177 ss. 207 Così A. BARCHIESI, Il poeta e il principe, cit., p. viii. Per le connessioni di carattere più generale con la legislazione suntuaria vedi M. COUDRY, Loi et société: la singularité des lois somptuaires de Rome, in Cahiers du Centre G. Glotz 15, 2004, pp. 135 ss.
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se vi fu chi, come Ovidio, secondo una recente lettura 208, provò a contrastarne la propaganda politica, è indubbio il carattere vincente del mix perché, ancora a grande distanza di tempo, nei Panegyrici Latini quel complesso normativo veniva annoverato tra i fundamenta rei publicae 209. Si tratta della sedimentazione di un felice travaglio gravido di intuizioni feconde di un principe che comprendeva l’urgenza disperata di compiti e responsabilità complesse da intrecciare con la rivitalizzazione e la custodia di antichissime tradizioni apparentemente inattuali ma ancora capaci di sostenere una rifondazione di Roma, in un mondo completamente diverso e drammaticamente sconvolto dalla crisi politica. Così, è davvero difficile contestare l’intensa attività legislativa di Augusto 210: si pensi, ad esempio, anche alla poderosa stagione riformatrice dell’intero sistema processuale introdotto dalle leges Iuliae iudiciorum publicorum et privatorum 211, condotta direttamente (me auctore latis) o attraverso suoi uomini, attività tanto intensa da produrre l’indubbio effetto nella percezione pubblica e degli esperti del diritto di una riaffermazione della centralità della lex nello Stato romano e nel suo sistema delle fonti di produzione giuridica 212. Potrebbero a tal 208 F. CIOCCOLONI, Per un’interpretazione dei Medicamina faciei femineae: l’ironica polemica di Ovidio rispetto al motivo propagandistico augusteo della restitutio dell’età dell’oro, in Latomus 65, 2006, pp. 97 ss. È probabile che quell’operetta (Medicamina faciei femineae), che in qualche modo smentiva o si contrapponeva alla propaganda sul ritorno degli antiqui mores, abbia causato o contribuito al deterioramento dei rapporti tra il poeta e il principe, ma credo che sia eccessivo trarre da qui elementi per affermare che la polemica ovidiana si estendesse alla propaganda più generale e pregnante della restitutio rei publicae. 209 Paneg. lat. 7(6).2.4: Quare si leges eae quae multa caelibes notaverunt, parentes praemiis honorarunt, vere dicuntur esse fundamenta rei publicae, quia seminarium iuventutis et quasi fontem humani roboris semper Romanis exercitibus ministrarunt, quod huic vestro in rem publicam merito possumus dignum nomen adscribere? 210 Per una idea della mole basta scorrere per indicem G. ROTONDI, Leges publicae, cit., pp. 439 ss. 211 Sia consentito in questa sede rinviare agli scritti di M. TALAMANCA, Il riordinamento augusteo del processo privato, in AA.VV., Gli ordinamenti giudiziari in Roma imperiale. ‘Princeps’e procedure dalle leggi Giulie ad Adriano. Atti del Convegno internazionale di diritto romano, Copanello 5-8 giugno 1996 (a cura di F. Milazzo), Napoli 1999, pp. 63 ss.; ID., Diritto e prassi nel mondo antico, in AA.VV., Règle et pratique du droit dans les réalites juridiques de l’Antiquité (a cura di I. Piro), Soveria Mannelli 1999, pp. 105 ss.; e di B. SANTALUCIA, Processo penale, in ID., Studi di diritto penale romano, Roma 1994, pp. 207 ss.; ID., Augusto e i «iudicia publica», in AA.VV., Gli ordinamenti giudiziari in Roma imperiale. ‘Princeps’e procedure dalle leggi Giulie ad Adriano. Atti del Convegno internazionale di diritto romano, Copanello 5-8 giugno 1996 (a cura di F. Milazzo), Napoli 1999, pp. 261 ss. 212 In tal senso anche N. PALAZZOLO, Il princeps, i giuristi, l’editto. Mutamento istituzionale e strumenti di trasformazione del diritto privato da Augusto ad Adriano, in AA.VV., Res publica e princeps. Vicende politiche, mutamenti istituzionali e ordinamento giuridico da Cesare ad Adriano. Atti del Convegno internazionale di diritto romano, Copanello 25-27 maggio 1994 (a cura di F. Milazzo), Napoli 1996, pp. 293 ss.
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proposito richiamarsi pagine limpide di Francesco Grelle, scritte a proposito di un testo epigrafico importante, quale il senatus consultum de Cn. Pisone patre, in cui si afferma giustamente che nell’impianto augusteo le deliberazioni comiziali continuano a essere «formalmente la fonte di ogni potere di tipo magistratuale, e la legge, che negli stessi anni costituisce un motivo centrale nella riflessione di Capitone, conferma il suo primato come fonte dello ius publicum, di quello ius che disciplina anche gli aspetti istituzionali della missione di Germanico in Oriente» 213. E assieme alla lex anche il senatus recuperava il suo prestigio e il suo ruolo profondamente calpestati ed erosi nel corso delle guerre civili, per quanto sempre più condizionato dal princeps. Era questo un altro forte segnale della svolta restauratrice persino rispetto al triumvirato, collegio al quale la lex Titia aveva attribuito poteri vastissimi tali da rendere superfluo il ricorso al senato e alle assemblee popolari. Ma non è tutto, perché, sebbene si sia sostenuto, e si continuerà a sostenere, tutto e il contrario di tutto, a proposito del posto occupato dalla lex nella costruzione augustea, neppure lungo questo versante sembra che Augusto si sia posto in termini di contrapposizione rispetto agli schemi, ai canoni e al dibattito politico dell’ultimo secolo repubblicano. E per provare a dimostrarlo, come se ci trovassimo su continui piani di scorrimento, torniamo a slittare sul terreno religioso, e in particolare a proposito del significativo rapporto Augustus-RomulusNuma, che costituisce un tema ancora di grande fascino presso gli studiosi. In precedenza, abbiamo accennato alla nuova idea di Giuseppina Anselmo Aricò 214 d’individuare nella figura regia di riferimento augusteo Numa invece di Romolo, come invece diffusamente si è ritenuto. Un rex pacifico, Numa, custode rigoroso della pax deorum, ordinatore di culti, artefice della creazione di collegi religiosi come quello dei Salii, succeduto a Romolo secondo un gradimento divino richiesto de se 215, ma anche un re legislatore 216. Questi caratteri facevano indubbiamente di Numa Pompilio un sovrano assai meno ingombrante di Romolo, segnato invece da una cifra spiccatamente bellica 217, assai meno congruo con la missione di pacificazione assunta e propagandata dal princeps e dal suo staff dinanzi a un mondo sovrastato dall’ansia di pace e ordine. Ai cardini della pax e della religio si affiancava però quello della lex. Il motivo della lex, il cui rapporto è meglio definito grazie al parametro espresso dal verbo fundare, non a caso riporta ancora una volta Augusto a Numa. In un acu-
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F. GRELLE, Il Senatus Consultum de Cn. Pisone Patre, cit., p. 230. G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., pp. 29 ss. 215 G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., p. 55. 216 Su questo tema D. MANTOVANI, Cicerone storico del diritto, in Ciceroniana 13, 2009, pp. 323 ss. 217 Sottolinea questo aspetto G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., pp. 43 ss. 214
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to e brillante studio in corso di stampa, Oliviero Diliberto ha messo bene in luce come legibus fundare non indicasse tanto l’atto originario di fondazione in senso proprio, bensì di ri-fondazione come consolidamento 218 e quanto fosse centrale a tal proposito la figura di Numa 219: Liv. 1.19.1: Qui regno ita positus urbem novam conditam vi et armis, iure eam legibusque ac moribus de integro condere parat. D. 1.2.2.4 (Pomp. lib. sing. Enchir.): Postea ne diutius hoc fieret, placuit publica auctoritate decem constitui viros, per quos peterentur leges a Graecis civitatibus et civitas fundaretur legibus. Ovid. meth. 15.832-839: Pace data terris animum ad civilia vertet / iura suum legesque feret iustissimus auctor, / exemploque suo mores reget inque futuri / temporis aetatem venturorumque nepotum / prospiciens prolem sancta de coniuge natam / ferre simul nomenque suum curasque iubebit; / nec, nisi cum senior Pylios aequaverit annos, / aetherias sedes cognataque sidera tanget 220. Verg. aen. 6.809-812: Nosco crinis incanaque menta / regis Romani, primam qui legibus urbem / fundabit, Curibus parvis et paupere terra / missus in imperium magnum. Isid. etym. 5.1.3: Numa Pompilius, qui Romulo successit in regno, primus leges Romanis edidit; deinde cum populus seditiosos magistratus ferre non posset, Decemviros legibus scribendis creavit, qui leges ex libris Solonis in Latinum sermonem translatas duodecim tabulis exposuerunt. Come è agevole rilevare, in tutti i testi riportati, per quanto relativi a fasi e passaggi storici assai diversi (dalla legislazione dei reges alle XII Tavole, alla stagione riformatrice legislativa di Augusto), vi è una precisa costante ideologica: la lex quale elemento costitutivo di una comunità, strumento per ripristinare pace e concordia sociale. Religio, pax, lex furono gli strumenti prediletti da Numa per rinsaldare, rifondare la città, e la chiave di lettura delle ragioni che indussero Livio a riscrivere il capitolo su Numa 221: è quest’ultimo che «attraverso le leggi (e il rispetto dei
218 O. DILIBERTO, La città e le leggi. Racconti di fondazione, legislazione arcaica e ideologia augustea, in AA.VV., Legge, eguaglianza, diritto. I casi di fronte alle regole nell’esperienza antica. Atti del Convegno, Bologna-Ravenna 9-11 maggio 2013 (a cura di G. Luchetti), Roma 2018, pp. 95 ss. In tal senso anche G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., pp. 49 ss. 219 Cfr. A. DEREMETZ, Numa in Augustan Poetry, in AA.VV., Augustan Poetry and the Roman Republic (a cura di J. Farrell e D.P. Nelis), Oxford 2013, pp. 233 ss. 220 Su cui rimando a T. SPAGNUOLO VIGORITA, Casta domus, cit., p. 15. 221 G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., pp. 29 ss.
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culti) inaugura una lunga stagione di pace» 222. Ecco perché Augusto trovò, e scelse, come preciso riferimento Numa, il cui programma prevedeva un consolidamento della pace e un rinnovamento della città iure legibusque ac moribus 223. Questa nuova luce fa seriamente dubitare sulla fondatezza dell’idea che il titolo di Augusto contenesse «un criptico riferimento alla figura di Romolo», come non senza qualche suggestione ha pensato ad esempio Gagé 224. Piuttosto quel titolo alludeva «al ri-fondatore dell’Urbe e doveva lasciar filtrare l’idea, in sé indicibile, che anche l’ascesa di Ottaviano al vertice del potere politico poggiava sul piacimento di Giove Padre per le sue doti personali e cioè godeva della stessa ineluttabile giustificazione per cui Numa aveva conseguito il regnum, essendo stato declaratus rex» 225. Le conclusioni di Anselmo Aricò sono nette e val la pena di riportarle: di tutto ciò «potrebbe addirittura costituirne conferma il fatto che il supremo orchestratore della propaganda augustea, cioè lo stesso Augusto, si astenga dal menzionare Numa in RGDA 13, là dove egli si vanta d’aver rinnovato, con la triplice chiusura del Ianus Quirinus, una tradizione che Livio fa risalire proprio al sovrano di Curi. Diventa chiaro infatti, alla luce di quanto s’è detto, quale sapiente combinazione di significati esprima il termine Quirinus nell’impiego senza precedenti fattone dal Principe. Aver fatto chiudere il Ianus, vogliamo dire, non significa soltanto aver imprigionato e ridotto all’impotenza il crudele Enialio, secondo la riduttiva interpretazione del traduttore in lingua greca. Significa anche, e diremmo soprattutto, aver voltato le spalle a Romolo e aver dato inizio a una nuova era nel duplice ruolo di instauratore della pace e riformatore dell’ordinamento che lo storico patavino attribuisce appunto a Numa Pompilio. In questo senso, viene da dire, è come se il testo liviano fosse per Augusto uno specchio in cui egli vede se stesso riflesso nella figura del rifondatore dell’Urbe» 226. Come Numa riformò il calendario arcaico, passando da quello romuleo al calendario poi ulteriormente riformato da Cesare, allo stesso modo Augusto determinò una rivoluzione mediante un intreccio del tempo pubblico, sociale e religioso. L’effetto di simile unificazione, una vera «impresa di manipolazione e di conquista del tempo civico» 227, fu di rendere ogni aspetto elemento della medesima narrazione ideologica. Come il rex sabino introdusse i sacraria Argeorum
222
O. DILIBERTO, La città e le leggi, cit. G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., pp. 51 ss. 224 J. GAGÉ, Romulus-Augustus, cit., pp. 138 s., 157 ss. 225 G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., p. 55; del medesimo parere era P. DE FRANCISCI, Arcana imperii, cit., III/1, p. 241. 226 G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., pp. 60 s. 227 A. FRASCHETTI, Roma e il principe, cit., p. 8. 223
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nel loro intimo nesso con il territorio delle antiche regiones 228, Augusto nella sua concezione della misurazione del tempo seppe riscrivere gli spazi attraverso una divisione del territorio urbano in 14 nuove regiones a loro volta contenenti 265 vici, preposti al culto dei Lari 229: e, in questo nuovo assetto, i Lari della casa di Augusto si sostituirono agli antichi Lares Compitales, divinità protettrici del territorio, e si moltiplicarono in tutti i vici della città affiancati dal culto del Genius: Ovid. fast. 5.145: [...] mille Lares Geniumque ducis, qui tradidit illos / Urbs habet, et vici numina tria colunt. Come è stato osservato, su questo terreno il principe mostrò la sua sfrenata spregiudicatezza, superiore persino a quella di Cesare 230. Tempo, feste, culti, calendario diventavano strumenti di propaganda perché gli permettevano di penetrare in silenzio nella vita quotidiana dei cives 231. «Il principe così proiettava la sua ombra sul tempo civico, immettendo poderosamente sé stesso e la sua casa nei calendari»: con queste parole Augusto Fraschetti 232 spiega con sobria efficacia la poderosa trasformazione augustea (assetti politici e costituzionali, architettura, immagini, tempo, spazi, costumi, culti); insomma, una vera ‘augustificazione del tempo’, come ha scritto con suggestiva acutezza Jörg Rüpke 233. Tutto avvenne girando attorno a un medesimo cardine, Augusto, ma con una specie di fondale ove si declinava il nuovo patto tra uomini e divinità e in cui campeggiava la lex quale atto costitutivo per eccellenza di una comunità, per uomini e dèi
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Liv. 1.21.5: Multa alia sacrificia locaque sacris faciendis quae Argeos pontifices vocant dedicavit; sul tema dei sacraria Argeorum da ultimo F. COARELLI, Collis. Il Quirinale e il Viminale nell’antichità, Roma 2014, pp. 1 ss. 229 R. PARIS, Augusto. Il tempo e lo spazio urbano, in AA.VV., Rivoluzione Augusto. L’imperatore che riscrisse il tempo e la città, Milano 2014, pp. 8 ss. 230 S. BRUNI, I calendari e la rivoluzione di Augusto, in AA.VV., Rivoluzione Augusto. L’imperatore che riscrisse il tempo e la città, Milano 2014, p. 24. Molto dibattuta è l’interpretazione di numen; in particolare, incerto è se il termine coincida con Genius oppure sia una variante linguistica di deus: vedi W. PÖTSCHER, ‘Numen’ und ‘numen Augusti’, in ANRW II/16.1, Berlin-New York 1978, pp. 355 ss.; D. FISHWICK, The Imperial Cult in the Latin West, II.1, Leiden 1991, pp. 375 ss.; I. GRADEL, Emperor Worship and Roman Religion, Oxford 2002, pp. 243 ss. 231 Si pensi a Horat. carm. 4.5.30-37: Condit quisque diem collibus in suis / et vitem viduas ducit ad arbores; / hinc ad vina redit laetus et alteris / te mensis adhibet deum; / te multa prece, te prosequitur mero / defuso pateris et Laribus tuum / miscet numen, uti Graecia Castoris / et magni memor Herculis. Su cui A. FRASCHETTI, Roma e il principe, cit., p. 268 e nt. 90. 232 A. FRASCHETTI, Roma e il principe, cit., p. 39. 233 J. RÜPKE, Kalender und Öffentlichkeit: die Geschichte der Repräsentation und religiösen Qualifikation von Zeit in Rom, Berlin-New York 1995; ID., L’histoire des fasti romains: aspects médiatiques et politiques, in RHD 81, 2003, pp. 125 ss. A. FRASCHETTI, Roma e il principe, cit., p. 60, usa la metafora ancora più suggestiva di un «Augusto che interpola se stesso nel calendario, con metodo e varietà».
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stessi 234. Ovunque ci si volga, si trovano documenti univoci in tal senso. Un esempio eloquente ce lo offre un altro luogo enniano, per quanto solitamente ignorato dagli storiografi moderni, utilizzato con sapienza da Augusto, cioè quando nell’Euhemerus il poeta ricorreva al motivo narrativo del ‘legislatore’, indicando appunto in Giove il primato di aver iniziato a promulgare leges e mores: Enn. Euhem. 91: [...] verum primum Iovem leges hominibus moresque condentem edicto prohibuisse ne liceret eo cibo vesci. Un motivo enniano, questo, molto noto nell’ultimo secolo repubblicano se anche Cicerone, come abbiamo ricordato prima, vi faceva ricorso anche nel suo trattato politico per eccellenza, mentre più tardi veniva ripreso, ancorché rimodulato, con efficacia da Ovidio: Ovid. meth. 15.832-833: Pace data terris animum ad civilia vertet / iura suum legesque feret iustissimus auctor, / exemploque suo mores reget [...]; mentre Manilio (1.8) non esitava ad affermare che l’intero mondo era retto augustis legibus. Dunque, Augusto come Numa, nell’applicazione di uno schema ideologico e politico della pax tra gli uomini, e pax tra gli dèi e gli uomini, raggiunta attraverso un riordino della religio nella sua connessione con il tempo e della civitas con le sue istituzioni politiche e il suo ordinamento giuridico. A nessuno sfugge il fascino di questa ricostruzione e di buona parte della sua fondatezza. Buona parte, non tutta, perché, proprio nella vasta attività di riordino della religio che la tradizione attribuisce al pacifico re sabino, fu costui a mantenere forte il collegamento con il fondatore della civitas. Fu Numa, infatti, a erigere a Romolo un tempio sul colle Agonio, poi chiamato Quirinalis; fu il re sabino a destinare un pontefice addetto al relativo culto, il Flamen Quirinalis; e fu sempre Numa a istituire le feste annuali dei Quirinalia 235. A cui può aggiungersi una simmetria suggestiva ma non infondata: la successione Romolo/Numa analoga alla successione Cesare/Augusto. Due omicidi che aprirono la strada al potere a due uomini pii 236.
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Sulla concezione romana del rapporto legge e religione da ultimo J. SCHEID, Leggi e religione, in AA.VV., Leges publicae. La legge nell’esperienza giuridica romana (a cura di J.-L. Ferrary), Pavia 2012, pp. 219 ss. 235 A. CARANDINI, Cercando Quirino. Traversata sulle onde elettromagnetiche nel suolo del Quirinale, Torino 2007, pp. 39 ss.; F. COARELLI, Collis, cit., pp. 83 ss. Più in generale, M. LENTANO, La memoria e il potere. Censura intellettuale e roghi di libri nella Roma antica, Macerata 2012, pp. 25 ss.; ID., I libri di Numa, ovvero la lotta di Platone contro Pitagora, in AA.VV., L’incredibile storia dei libri di Numa (a cura di M. Gatta), Macerata 2013, pp. 27 ss.; O. DILIBERTO, Recentissima specie. Lotta politica, roghi e falsari di libri nella Roma repubblicana (e un po’ di truffe più recenti), in AA.VV., L’incredibile storia dei libri di Numa (a cura di M. Gatta), Macerata 2013, pp. 11 ss. 236 L. CANFORA, Augusto figlio di dio, cit., p. 471.
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Tuttavia, sebbene sia altamente probabile la determinazione di assumere come riferimento la figura di Numa re pacifico e legislatore, e sebbene sia pure vero il fatto che non disdegnò di inoculare una serie non indifferente di motivi che lo ricollegassero alla divinità maggiore del Pantheon romano, Giove (si pensi, tra l’altro, al collegamento del tempio di Zeus Olimpico ad Atene con il Genius Augusti) 237, non bisogna cadere però nell’eccesso opposto e cancellare ogni nesso tra Augusto e Romolo, sbiadendo la credibilità di Cassio Dione quando racconta che il principe «desiderava ardentemente di ricevere l’appellativo di Romolo ma quando si rese conto che questo lo avrebbe reso sospetto di aspirare al regno, desistette dai suoi sforzi per ottenerlo e assunse il titolo di Augusto indicando così che era più che umano» 238. Sono numerosi, innegabili, e tutt’altro che insignificanti, i riferimenti a Romolo. Lo dimostra la scelta di fare del Palatino, luogo delle memorie romulee e dei miti di fondazione dell’Urbe 239, la sede della propria abitazione privata. Ma c’è ben altro ancora da dire. Per quanto si sia sostenuto e a ragione che fundare legibus abbia il significato di ri-fondare la città, per quanto la figura del re sabino pacifico e legislatore appaia più consona a certi motivi della propaganda augustea, non bisogna commettere l’errore opposto e radicalizzare i riferimenti numani a scapito di quelli del re fondatore della città e autore mediante leges delle istituzioni arcaiche, che invece si agglutinavano in un motivo assai diffuso in età tardorepubblicana e augustea 240, tanto da occupare un posto fondamentale nella narrazione storica delle origini di Roma di Dionigi di Alicarnasso. Stupefacente è, ad esempio, la sostanziale somiglianza tra il racconto di Dionigi secondo cui Romolo, dopo la fondazione della civitas, abbia convocato i Romani per discutere quale ordinamento politico assumere, e la versione di Cassio Dione relativa al dibattito, sul medesimo tema, svoltosi tra Augusto, Agrippa e Mecenate all’indomani di Azio 241. Non è tardata così a presentarsi l’ipotesi di un’ispirazione a un pamphlet assai in voga in età augustea, se non addirittura di una derivazione da esso, del Romo
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Svet. Aug. 60. Cass. Dio 53.16.7-8. 239 A. FRASCHETTI, Romolo il fondatore, Roma-Bari 2002, pp. 30 ss.; A. CARANDINI, La casa di Augusto. Dai “Lupercalia” al Natale, Roma-Bari 2008, pp. 4 ss.; F. COARELLI, Palatium. Il Palatino dalle origini all’impero, Roma 2012, passim. 240 Importante lo studio di A. LA PENNA, Orazio e l’ideologia del principato, Torino 1963, pp. 88 ss.; M. MAZZA, Storia e ideologia in Tito Livio, Catania 1966, pp. 169 ss. 241 Cass. Dio 52.1-41. E. GABBA, Progetti di riforme economiche e fiscali in uno storico dell’età dei Severi, in Studi in onore di A. Fanfani I, Milano 1962, pp. 5 ss.; F. MILLAR, A Study of Cassius Dio, Oxford 1964, pp. 102 ss.; U. ESPINOSA-RUIZ, El problema de la historicidad en el debate Agrippa-Mecenas en Dion Cassio, in Gerion 5, 1987, pp. 289 ss.; ID., Debate Agrippa-Mecenas en Dion Cassio. Respuesta senatorial a la crisis del Imperio Romano én epoca severiana, Madrid 1992. 238
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lo di Dionigi. Ora, che si tratti di un’opera anonima di un retore greco come ha pensato Pohlenz 242, oppure un libello dei primi anni postaziaci di Ottaviano della cui redazione non si può escludere neppure fosse stato un giurista, secondo l’opinione avanzata da von Premerstein 243, oppure ancora di epoca sillana, come è invece propenso a ritenere Gabba 244, ai nostri fini non riveste particolare importanza 245. Piuttosto è significativa e sufficiente la circolazione certamente dal I secolo a.C. in avanti di simili motivi. Poi, che Dionigi assorbisse, facendoli propri, argomenti che vivacizzavano il dibattito dei circoli politici e culturali della sua età rende 246 alta la plausibilità dell’ancoraggio politico e ideologico di un pezzo centrale della propaganda di Augusto e dei suoi uomini alla figura di Romolo quale primo legislatore romano. Del resto la percezione che correva, almeno nella storiografia contemporanea ellenofona, era assai omogenea, come dimostra il dettagliatissimo resoconto appianeo secondo cui al momento del rientro in città di Ottaviano appena eletto console per i sacrifici di rito «apparvero dodici avvoltoi, tanti quanti dicono siano apparsi a Romolo quando fondò la città» 247. La lex publica allora nell’architettura augustea non riconquista semplicemente il suo posto fondamentale nel catalogo delle fonti di produzione normativa nella concezione giuridica e lato sensu istituzionale dell’ultimo secolo repubblicano 248, ma assume la dignità e la funzione di caposaldo essenziale della coesione di una comunità, di un popolo e delle sue istituzioni comprese quelle popolari, e nel nostro caso della res publica. La lex con la sua essenza isonomica, poi, copriva Augusto anche sul versante delicatissimo del sospetto di adfectatio regni. Inoltre, ritornava d’attualità il motivo ideologico della funzione terapeutica della legge. Abbiamo già richiamato il brano del De inventione, riportiamo adesso per 242
M. POHLENZ, Eine politische Tendenzschrift aus Caesars Zeit, in Hermes 59, 1924, pp. 157 ss. A. VON PREMERSTEIN, Von Werden und Wesen, cit., pp. 9 ss., che approfondisce quanto in K. SCOTT, The Identification of Augustus with Romulus-Quirinus, in TAPhA 56, 1925, pp. 82 ss. 244 E. GABBA, Studi su Dionigi di Alicarnasso. I. La costituzione di Romolo, in Athaeneum 38, 1960, pp. 175 ss. [= in ID., Roma arcaica. Storia e storiografia, Roma-Edizioni di Storia e Letteratura 2000, pp. 69 ss.]; si avvicina a queste posizioni D. MUSTI, Tendenze della storiografia romana e greca su Roma arcaica. Studi su Livio e Dionigi di Alicarnasso, in Quaderni Urbinati 10, 1970, p. 33 nt. 9. 245 Dubita infatti seriamente dell’esistenza di un simile scritto A. FRASCHETTI, Romolo, cit., pp. 78 s. 246 L. FASCIONE, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella ‘storia di Roma arcaica’ di Dionigi di Alicarnasso, Napoli 1988, pp. 40 ss. 247 Appian. bell. civ. 3.94.388-389. 248 Paradigmatico il notissimo e imprenscindibile frammento di Cic. top. 5.28: Atque etiam definitiones aliae sunt partitionum aliae divisionum; partitionum, cum res ea quae proposita est quasi in membra discerpitur, ut si quis ius civile dicat id esse quod in legibus, senatus consultis, rebus iudicatis, iuris peritorum auctoritate, edictis magistratuum, more, aequitate consistat […]. 243
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comodità lo scorcio finale relativo alla metafora organicistica della funzione della lex quale remedium o medicina contro i mali della res publica: Cic. de inv. 1.68: Quam ob rem igitur leges servari oportet, ad eam causam scripta omnia interpretari convenit: hoc est, quoniam rei publicae servimus, ex rei publicae commodo atque utilitate interpretemur. Nam ut ex medicina nihil oportet putare proficisci, nisi quod ad corporis utilitatem spectet, quoniam eius causa est instituta, sic a legibus nihil convenit arbitrari, nisi quod rei publicae condicat, proficisci, quoniam eius causa sunt comparatae. Ergo in hoc quoque iudicio desinite litteras legi perscrutari et legem, ut aequum est, ex utilitate rei publicae considerate. Si tratta di un motivo il cui profilo, come è noto, emerse con maggior nettezza in età tardoantica per la crisi potente attraversata dall’impero romano 249 e per i mali e le disfunzioni del diritto e della giustizia; ma il brano del De inventione ne dimostra le sicure e lontane ascendenze repubblicane. Ricorrendo alla metafora della medicina utile al benessere del corpo, Cicerone prospettava la somma utilità delle leges contro la crisi delle istituzioni politiche repubblicane, il degrado e il malfunzionamento: «infatti come dalla medicina non si può richiedere nulla se non ciò che sia di giovamento al corpo, in quanto, per questa ragione è stata istituita, così deve ritenersi che dalle leggi non si può richiedere nulla che non sia di beneficio per la res publica, perché le leggi sono state istituite per questo scopo» 250. In un’opera assai più matura, il De legibus, Cicerone approda a una più larga concezione della lex. Poiché ogni ordinamento non può reggersi sulla volatività delle contingenze ma deve poggiare su leggi metastoriche 251, la legge perciò non poteva essere intesa come «invenzione capricciosa dell’ingegno umano», bensì come «qualcosa di eterno» capace di reggere tutto il mondo 252 perché obbediente a una volontà divina tanto da essere una medesima comunità 253. 249
Anon. de rebus bell. 21.1-2: Divina providentia, sacratissime imperator, domi forisque rei publicae praesidiis comparatis, restat unum de tua serenitate remedium ad civilium curarum medicinam, ut confusas legum contrariasque sententias, improbitatis reiecto litigio, iudicio augustae dignationis illumines. [2] Quid enim sic ab honestate consistit alienum quam ibidem studia exerceri certandi ubi, iustitia profitente, discernuntur merita singulorum? Sui vari problemi su cui si è incentrato il dibattito scientifico vedi S. MAZZARINO, Il de rebus bellicis, cit., pp. 221 ss.; mentre più recentemente vedi ANONIMO, Le cose della guerra (a cura di A. Giardina), Roma-Mondadori 1996, passim. 250 T.P. WISEMAN, Cicero and the Body Political, in Politica Antica 2, 2012, pp. 133 ss.; E. TODISCO, Cicerone politico e la scientia civilium commutationum, in Politica Antica 3, 2013, pp. 126 ss. 251 Così molto convincentemente L. TROIANI, Per un’interpretazione delle ‘Leggi’ ciceroniane, in Athenaeum 60, 1982, p. 322. 252 L. TROIANI, Per un’interpretazione, cit., p. 325; cfr. P. GRIMAL, Contingence historique et rationalité de la loi dans la pensée cicéronienne, in Helmantica 28, 1977, pp. 201 ss. 253 Cic. de leg. 1.7.23: Est igitur, quoniam nihil est ratione melius eaque et in homine et in deo, prima homini cum deo rationis societas; inter quos autem ratio, inter eosdem etiam recta ratio et
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Mali, corpo, medicina, ordine universale: a nessuno sfugge l’implicazione di una lunga catena di motivi che esprimevano valori etici e politici, la cui risalita riconduceva sino a quello più generale della salus rei publicae. Un complesso di riferimenti assai presenti nel complessivo impianto augusteo, ricordato anche da Cassio Dione a proposito dell’orazione funebre pronunciata da Tiberio che paragonava il principe a un valente medico (iatrÕj ¢gaqÕj) 254. A decifrare l’importanza del messaggio ideologico riposto nella metafora organicista, è utile ancora una volta il nesso con la dimensione divina, in particolare con Apollo. John F. Miller ha indagato il rapporto Augusto-Apollo e la sua ricorrenza nella poesia dell’epoca 255; mentre in precedenza abbiamo ricordato quanto fosse sovrastante la figura del dio nella rappresentazione virgiliana della battaglia di Azio incisa sullo scudo di Enea. La presenza del dio nell’impianto augusteo non costituisce un semplice dettaglio religioso. Lo dimostra l’adiacenza della domus privata di Augusto sul Palatino a ovest del tempio di Apollo affiancato a est dalla domus pubblica del princeps-pontifex maximus ove fu eretto un altare dedicato a Vesta 256, con un ruolo dunque centrale della struttura templare apollinea nel sistema palaziale augusteo 257; come pure la dedica del medesimo tempio relativa al 9 ottobre del 28 a.C., considerato una sorta di ex voto per l’esito vittorioso della battaglia di Azio, la cui costruzione era stata avviata nel 36 a.C., anno in cui Ottaviano inaugurava la serie di vittorie che lo avrebbero condotto al potere sconfiggendo Sesto Pompeo in Sicilia, a Nauloco. La residenza di Augusto sbiadiva sempre più communis est; quae cum sit lex, lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus. Inter quos porro est communio legis, inter eos communio iuris est; quibus autem haec sunt inter eos communia, et civitatis eiusdem habendi sunt; si vero isdem imperiis et potestatibus parent, multo iam magis; parent autem huic caelesti discriptioni mentique divinae et praepotenti deo; ut iam universus hic mundus sit una civitas communis deorum atque hominum existimanda. Et quod in civitatibus ratione quadam, de qua dicetur idoneo loco, agnationibus familiarum distinguuntur status, id in rerum natura tanto est magnificentius tantoque praeclarius, ut homines deorum agnatione et gente teneantur. 254 Cass. Dio 56.39.2. 255 In Svet. Aug. 70, si ricorda l’imbarazzante ‘cena dei dodici dèi’, un festino privato in cui Ottaviano impersonò Apollo. J.F. MILLER, Apollo, cit., passim; vedi anche AA.VV., Apolline Politics and Poetics (a cura di L. Athanassaki, R.P. Martin, J.F. Miller), Athens 2009; e C.H. LANGE, Res publica constituta, cit., passim. 256 Dibattutta è tuttavia la questione dell’esistenza sul Palatino di un vero e proprio tempio di Vesta; a tal proposito si legga C. CECAMORE, Apollo e Vesta fra Augusto e Vespasiano, in Bull. Comm. Arch. Com. di Roma 96, 1994-1995, pp. 9 ss. 257 A. CARANDINI, La casa di Augusto, cit., pp. 180 ss.; ID., Le case del potere nell’antica Roma, Roma-Bari 2014, pp. 180 ss.; F. COARELLI, Palatium, cit., pp. 347 ss. Vedi pure P. GROS, Les limites d’un compromis historique: de la domus vitruvienne à la maison augustéenne du Palatin, in AA.VV., Le Principat d’Auguste. Réalités et représentations du pouvoir. Autour de la Res publica restituta. Actes du colloque de l’Université de Nantes 1er-2 juin 2007 (sous la direction de F. Hurlet et B. Mineo), Rennes 2009, pp. 169 ss.
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nei suoi tratti di dimora privata per assumere preoptentemente il significato di luogo pubblico della politica e della religione per decisione senatoria, come cantava Ovidio: «Prenditi questo giorno, Vesta! Vesta è stata accolta nella dimora del suo parente: così giustamente hanno deciso i senatori. Di questa una parte è di Apollo, un’altra è stata concessa a Vesta; la parte residua appartiene ad Augusto: state saldi, allori palatini, e così la casa ornata (di una corona) di quercia: essa da sola ospita tre divinità eterne» 258. Mentre Svetonio chiamava quel complesso edilizio domus Palatinae, con un plurale con cui, ha pensato Andrea Carandini, si volesse «indicare un insieme di dimoree riservate ad alcuni dèi e all’unico principe, novello Romolo» 259. E tuttavia, ritornando alla medicina e al corpo afflitto da mali, ecco il nesso: oltre alle doti guerriere, tra le competenze dominate dal dio vi era anche la medicina 260. Dunque, riappare con precisione nel messaggio politico augusteo la metafora, giocata sul piano dell’alleanza con il mondo degli dèi, della malattia del corpo contrastata dalla medicina più adeguata, cioè la lex: ai mali del corpo sociale e delle istituzioni politiche non restava altro rimedio che le buone leges, adeguata medicina 261 somministrata da Augusto il cui carisma appariva persino fortificato da Apollo, divinità guerriera, della poetica e appunto dell’ars medica. Il princeps legislatore, in tal modo, scavava quelle fondamenta, come scriveva Svetonio, sulle quali avrebbe messo in sicurezza la res publica; quelle fondamenta erano gettate interamente sul terreno della tradizione, e sottolinerei della tradizione repubblicana, in cui parte essenziale erano i mores con i valori morali e religiosi sottostanti, era la lex, erano le istituzioni politiche. Restaurazione e difesa della religione, dei culti rappresentavano una tappa necessaria del medesimo obiettivo di recupero dell’identità romana, quell’identità messa a soqquadro, smarrita dalle drammatiche vicissitudini dell’ultimo secolo precristiano. È importante però osservare che le considerazioni di Cicerone sul valore della legge, ancorché formulate in epoca sillana, conservavano un’intatta e pressante attualità, ancor più nel corso del secondo triumvirato e nella fase della ricostruzione dopo Azio. E quel vincitore, l’Ottaviano di Azio, era del tutto consapevole, perché la sua azione complessiva apparisse credibile agli occhi dell’intera opinione pubblica, della necessità di assumere come cardine della restaurazione repubblicana la lex. Lui, che conosceva bene Cicerone, il suo pensiero, i suoi scritti; lui, Ottaviano, che conosceva altrettanto bene la politica, l’attualità
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Ovid. fast. 4.949-954. A. CARANDINI, La casa di Augusto, cit., p. 55; si veda anche ID., Le case del potere, cit., pp. 180 ss.; ID., La Roma di Augusto in 100 monumenti, Novara 2014, pp. 369 ss. 260 B.L. WICKKISER, Augustus, Apollo, cit., passim. 261 Invece sulla visione pessimistica tacitiana vedi D. MANTOVANI, Mores, leges, potentia, cit., pp. 360 ss., 385 ss. 259
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di un dibattito su temi che attraversavano da qualche decennio la vita repubblicana, le divisioni in seno all’aristocrazia senatoria e gli scontri mortali che ne derivarono, ridava voce a Cicerone: quella voce recisa dal filo della lama di un gladio tornava a risuonare sulla nuova scena politica, confermandosene attualità e giustezza di pensiero, attraverso l’azione politica decisa e profonda del princeps. La restaurazione repubblicana, nonostante i profondi cambiamenti, avveniva nel segno di quell’ostinato e conservatore statista repubblicano.
8. POTENTIA E AUCTORITAS E IL NOMEN AUGUSTUS La nuova restituzione di RGDA 34.1, dovuta a Paula Botteri 262, in cui Ottaviano dopo la vittoria di Azio si ritenne potens omnium rerum, da un lato, induce ad archiviare la teoria del ‘golpe’, mentre, dall’altro lato, dà piena luce alla successiva affermazione dei fatti del 27 e della seduta senatoria in cui gli si assegnò l’epiteto di Augustus che lo rese da quel momento impareggiabile per auctoritas. Ma procediamo con ordine e ribadiamo le coordinate della questione: potens e potentia. Si dubita che l’uso di questi termini fosse effettivamente invalso nel latino del tempo ma, a ben guardare, si tratta di preoccupazioni infondate, di perplessità davvero ingiustificate. A tal proposito, per quanto di poco successivo, potrebbe bastare richiamare ancora una volta il noto passo degli Annales tacitiani: Tac. ann. 3.28.2: Sexto demum consulatu Caesar Augustus, potentiae securus, quae triumviratu abolevit deditque iura, quis pace et principe uteremur. Il testo si riferisce anch’esso al cruciale 28 a.C., quando nel corso del suo sesto consolato, Ottaviano, sentendosi ormai sicuro della posizione di preminenza politica (potentiae securus), decideva di chiudere definitivamente la fase straordinaria del triumvirato con l’abrogazione delle leggi eccezionali che in quel periodo erano state adottate. Tacito, insomma, da un lato conferma la versione di Cassio Dione sulla svolta del 28 a.C.: «E poiché, durante le agitazioni e le guerre, specialmente nel potere collegiale con Antonio e Lepido, (Ottaviano) aveva emanato moltissime disposizioni illegali e antigiuridiche, le abrogò tutte con un solo editto, ponendo come termine il suo sesto consolato» 263; e contribuisce a mettere meglio a fuoco il passo di Svetonio. Ma dall’altro, e sul punto la cosa assume particolare interesse, il suo latino mostra una straordinaria corrispondenza, per non dire un’assoluta coincidenza, con la nuova restituzione del cap. 34.1 delle Res Gestae; un’equivalenza tra le due espressioni tanto combaciante da far
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Letteratura e dibattito supra CAPITOLO PRIMO, § 2. Cass. Dio 53.2.5.
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dire a Dario Mantovani 264 che il tacitiano potentiae securus sarebbe un calco dell’autobiografico potens rerum omnium di RGDA 34.1. Tuttavia, anche quando non ci si lasciasse convincere dall’uso di potentia fattone da Tacito 265, è insuperabile quanto si ricava da Cicerone. La potentia, i potentes sono figure assai ricorrenti del lessico ciceroniano. E si tratta di concetti a cui Cicerone attribuiva una precisa valenza negativa, se non contraria, certamente estranea alla res publica e al suo corretto funzionamento. Nella pro Quinct. 1.9, ad esempio, Cicerone non esitava a bollare la potentia quale aspetto precipuo delle tendenze oligarchiche e illegali della classe dirigente. Nella teorica del princeps ciceroniano 266, il modello di governo della res publica era assolutamente alieno da quei tratti, contrapposto nella cultura e nella prassi alla potentia e alle opes dei pauci o ancor più del singolo: Cic. pro Sest. 66.139: Sudandum est iis pro communibus commodis, adeundae inimicitiae, subeundae saepe pro re publica tempestates, cum multis audacibus, improbis, nonnumquam etiam potentibus dimicandum. Il governo ideale secondo Cicerone accantonava la potentia, espressione di un dominio di fatto, fuori da ogni ordo, per assumere il volto morbido, rassicurante e legale dell’auctoritas, ovvero il prestigio politico-morale, come spiega chiaramente nella pro Milone: Cic. pro Mil. 5.12: Declarant huius ambusti tribuni pl. illae intermortuae contiones, quibus cotidie meam potentiam invidiose criminabatur cum diceret senatum non quod sentiret, sed quod ego vellem decernere. Quae quidem si potentia est appellanda potius quam propter magna in rem publicam merita mediocris in bonis causis auctoritas aut propter hos officiosos labores meos non nulla apud bonos gratia, appelletur ita sane, dummodo ea nos utamur pro salute bonorum contra amentiam perditorum. Il princeps ciceroniano ci svela così le ragioni di RGDA 34.1-4, cioè il passaggio dalla potentia all’impareggiabile auctoritas augustea. Anche questo aspetto, non ancora sufficientemente sottolineato né davvero assimilato, conferma come Augusto seppe muoversi con prudenza e far propri elementi, idee, concetti repubblicani comunque abbozzati o espressi compiutamente dall’elaborazione ci264
D. MANTOVANI, Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit, cit., p. 44 nt. 111. In verità, oltre a Tacito, vi è anche Vell. hist. rom. 2.93.1: Ante triennium fere, quam Egnatianum scelus erumperet, circa Murenae Caepionisque coniurationis tempus, abhinc annos quinquaginta, M. Marcellus, sororis Augusti Octaviae filius, quem homines ita, si quid accidisset Caesari, successorem potentiae eius arbitrabantur futurum, ut tamen id per M. Agrippam securo ei posse contingere non existimarent, magnificentissimo munere aedilitatis edito decessit admodum iuvenis, sane, ut aiunt, ingenuarum virtutum laetusque animi et ingenii fortunaeque, in quam alebatur, capax. 266 E. LEPORE, Il princeps ciceroniano, cit., pp. 296 ss. 265
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ceroniana. Chiuse le guerre civili, potens rerum omnium, Augusto ammetteva la sua potentia, lo stato di assoluto predominio che gli avrebbe consentito un controllo assoluto dello Stato romano. Eppure ciò si collocava su di un piano extracostituzionale, incompatibile con la tradizione politica e istituzionale romano: perciò avviò la transizione. Una transizione determinata, irreversibile, ma prudente e formalmente collocata nell’alveo repubblicano. Una transizione che significava appunto transferre o reddere rem publicam e restitutio rei publicae. D’altra parte, nel disegno consapevole di riportare la pace e di ripristinare il patto di alleanza con gli dèi era necessaria abbandonare la dimensione negativa e minacciosa della potentia per assumere una nuova posizione conforme alla normalizzazione religiosa. Da qui la sua auctoritas in quanto Augustus. Il senso della scelta di Augustus, secondo la sententia Plancii, costituisce il suggello della strategia elaborata e avviata con determinazione nel biennio 29-28 a.C. L’innovazione e l’ampliamento della valenza di augustus furono straordinarie e giocate con sapienza entro un contesto culturale in cui la sacralità di augur-augustus, annota Prosdocimi che ne individua matrici indoeuropee, «non è bivalente, ma solo positiva e carismatica» 267. Grazie a un lemma di Festo sappiamo che il termine prima aggettivava esclusivamente loca: Fest. s.v. «Augustus» (ed. Lindsay, 2): Augustus locus sanctus ab avium gestu, id est quia ab avibus significatus est, sic dictus; sive ab avium gustatu, quia aves pastae id ratum fecerunt. Su questi loca primeggiava Roma, come abbiamo visto così qualificata da Ennio: Svet. Aug. 7.4: Postea Gai Caesaris et deinde Augusti cognomen assumpsit, alterum testamento maioris avunculi, alterum Munati Planci sententia, cum, quibusdam censentibus Romulum appellari oportere quasi et ipsum conditorem urbis, prevaluisset, ut Augustus potius vocaretur, non tantum novo, sed etiam ampliore cognomine, quod 268 loca quoque religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicantur, ab auctu vel ab avium gestu gustuve, sicut etiam Ennius docet scribens: “Augusto augurio postquam incluta condita Roma est” 269; eppure, come racconta Svetonio, dal quel gennaio del 27 a.C., augustus fu riferito per la prima volta a una persona, certamente non un uomo comune, la cui
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A.L. PROSDOCIMI, Forme di lingua, cit., I, p. 434. Alcuni sospettano un glossema attribuito a uno scoliaste da quod in avanti; vedi I. VAHLEN, Ennianae poesis reliquiae, Lipsiae 1928, p. 91; J. GAGÉ, Romulus-Augustus, cit., p. 138 e nt. 1. 269 Cfr. Vell. hist. rom. 2.91.1; Flor. 2.34; Cass. Dio 53.16.7-8; Cens. de die nat. 21.8. 268
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azione, la cui vita, la cui aurea si legavano indissolubilmente a Roma 270. Quel cognomen non a caso proiettava colui che ne fu insignito su un piano prossimo agli dèi 271: Ovid. fast. 1.587-590, 607-608: Idibus in magni castus Iovis aede sacerdos / semimaris flammis viscera libat ovis. / Redditaque est omnis populo provincia nostro / et tuus Augusto nomine dictus avus. [...] Sed tamen humanis celebrantur honoribus omnes: / hic socium summo cum Iove nomen habet. Ovidio, nel ricordare la restituzione augustea al popolo della sua sfera di attribuzione 272, proponeva al lettore un confronto di Augustus con gli altri cognomina di grandi uomini della tradizione repubblicana. L’intento del poeta era certamente quello di collocare Augusto nella migliore tradizione repubblicana degli uomini di eccezione ma come punto più alto e inarrivabile, perché la dimensione ultima apparteneva agli dèi: «ed è qui, in compagnia del sommo Giove, che Augusto ha trovato il suo nome, a un livello onorifico che trascende l’umanità» 273. Da quel momento, da quella seduta senatoria del gennaio del 27 a.C., egli fu superiore a tutti ‘soltanto’ per auctoritas, quale elemento ordinante 274 politico, morale e religioso della nuova forma rei publicae, strettamente connesso al titolo di princeps senatus 275. ***
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Così anche G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., pp. 54 s. Per il dibattito imponente e inesauribile si rinvia ai seguenti studi grazie ai quali risalire a ulteriore bibliografia: L. ROSS TAYLOR, Livy and the Name Augustus, in CR 32, 1918, pp. 158 ss.; G. PUGLIESE CARRATELLI, Auctoritas Augusti, in PP 4, 1949, pp. 29 ss.; G. DUMEZIL, Remarques sur «augur», «augustus», in REL 35, 1957, pp. 126 ss.; S. MAZZARINO, Le alluvioni del 54 a.C./23 a.C., il cognomen Augustus, e la data di Hor. Carm. I.2, in Helikon 6, 1966, pp. 621 ss.; A. DEGRASSI, I nomi dell’imperatore Augusto, cit., pp. 573 ss.; M. MORANI, Augurium, augur, augustus: una questione di metodo, in Glotta 62, 1984, pp. 65 ss.; G. ZECCHINI, Il cognomen «Augustus», cit., pp. 129 ss.; E. TODISCO, Il nome Augustus, cit., pp. 441 ss. 272 Ovid. fast. 1.589: redditaque est omnis populo provincia nostro. 273 A. BARCHIESI, Il poeta e il principe, cit., p. 84. 274 P. CERAMI, Potere ed ordinamento nella esperienza costituzionale romana, Torino 1987, pp. 186 ss. 275 A questa tesi, a cui giungevo nel 2010 nel mio Documenti vecchi e nuovi su Ottaviano Augusto. Appunti sulla transizione repubblicana, in BIDR 105, 2011, pp. 297 ss., ora accede G. ROWE, Reconsidering the Auctoritas of Augustus, in JRS 103, 2013, pp. 1 ss. Credo invece che F. GUIZZI, Il principato, cit., pp. 38 s., anticipi molto un assetto istituzionale successivo, secondo un approccio astratto e meccanicistico, nel ricondurre subito ad Augusto l’istituzione della carica di princeps, quale organo nuovo al di sopra di ogni magistratura e persino della costituzione. 271
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Il 19 agosto del 14 d.C., Augusto muore a Nola, in Campania. Per quasi un mese intero Roma versa nel lutto; i funerali e gli onori da tributare al princeps sono di portata tale da consigliare a Tiberio l’emanazione di un editto limitativo 276. Il 17 settembre il senato approva l’apoteosi del principe: da quel momento Augusto è ufficialmente divus. La pace ristabilita con gli dèi e tra gli uomini avrebbe permesso un secolo dopo a Plinio di declamare nel suo celeberrimo Panegirico che egit cum dis ipso te auctore, Caesar, res publica […] quasi pacisceris cum dis 277.
276 Tac. ann. 1.8.5: Remisit Caesar adroganti moderatione, populumque edicto monuit ne, ut quondam nimiis studiis funus divi Iulii turbassent, ita Augustum in foro potius quam in campo Martis, sede destinata, cremari vellent. 277 Plin. paneg. 67.5 e 7; cfr. paneg. 67.3 e 94.1.
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CAPITOLO TERZO ‘RESTITUTIO REI PUBLICAE’ TRA TEORIA E PRASSI POLITICA AUGUSTO E L’EREDITÀ DI CICERONE
SOMMARIO: 1. Rivoluzione, colpo di Stato, restitutio rei publicae. – 2. Rivoluzione: crisi di un concetto. – 3. La presunta ‘marcia su Roma’. – 4. Il colpo di Stato: un’invenzione moderna. – 5. Dalla commutatio alla restitutio rei publicae. – 6. Le leges come strumento della commutatio e remedia ai mali della res publica. – 7. Il gradualismo della stagione riformatrice: i nuovi documenti e la loro intima connessione. – 8. RGDA 34.1: la potentia augustea. – 9. Dalla potentia all’auctoritas. – 10. Restitutio rei publicae tra semantica, politica e istituzioni. – 11. Dai principes ciceroniani al princeps augusteo. – 12. Il Cicerone perduto? – 13. I consiglieri del princeps: retori, filosofi e giuristi. – 14. Conclusioni.
1. RIVOLUZIONE, COLPO DI STATO, RESTITUTIO REI PUBLICAE Rivoluzione, colpo di Stato, restitutio rei publicae. Fiumi d’inchiostro, e non è un luogo comune dirlo, sono stati versati su questo tema, con una ripresa davvero notevole in occasione del bimillenario augusteo; fiumi d’inchiostro che continuano a sgorgare come fonte inesauribile dalle Res Gestae, documento straordinario da cui prenderemo le mosse per continuare questo excursus non facile e insidioso sulla genesi del Principato: RGDA 1.1-4: Annos undeviginti natus exercitum privato consilio et privata impensa comparavi, per quem rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi. [2] Eo [nomi]ne senatus decretis honorif[i]cis in ordinem suum m[e adlegit G(aio) Pansa et Aulo Hirti]o consulibus con[sula]rem locum s[ententiae simu]l [dans et i]mperium mihi dedit. [3] Res publica n[e quid detrimenti caperet,] me pro praetore simul cum consulibus pro[videre iussit. [4] P]opulus autem eodem anno me consulem, cum [consul uterqu]e in bel[lo ceci]disset, et triumvirum rei publicae constituend[ae creavit] 1. 1 «[1] Di mia iniziativa e a mie spese, all’età di diciannove anni raccolsi un esercito con il quale riscattai in libertà lo Stato oppresso dal dominio di una fazione. [2] Per questo motivo il senato, sotto
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Non v’è dubbio che l’incipit delle Res Gestae, gravido di implicazioni eversive, abbia esercitato una gigantesca ipoteca sull’interpretazione del principato augusteo, o meglio sulla sua genesi e sulle condizioni di legittimità in cui si avviò la profonda transizione dello Stato romano. Se poi consideriamo che questo esordio sembrerebbe entrare in irrimediabile collisione con un altro cruciale frammento, cioè con quello in cui Ottaviano, precisando che non ebbe potestas maggiore di quella di coloro che gli furono colleghi nelle magistrature, mentre sopravanzò tutti per auctoritas (RGDA 34.3), collocava nell’alveo della legalità costituzionale repubblicana la sua condizione a seguito delle sedute senatorie del 27 a.C., si comprende il senso di straniamento e il profondo condizionamento dei posteri. Non ci si stupisce allora della gamma dei giudizi, a volte duri, a volte sprezzanti, altre volte ancora di gelido distacco, pronunciati nel corso di circa due secoli di studi verso «la regina delle iscrizioni» (figura 13). Basti pensare, tra i più recenti, che secondo Luca Canali, soltanto «pochi documenti politici, nella storia d’ogni tempo, sono ingannevoli e insieme veritieri al pari delle Res gestae divi Augusti. Intere sezioni di accertata realtà vi sono ignorate, altre presentate, nel complesso o nei dettagli, da una angolatura risolutamente partigiana: e tuttavia le R.g. sono forse la summa politica, istituzionale, costituzionale e ideologica più concisa e illuminante del passaggio da un’èra all’altra dell’intera storia dell’umanità» 2; mentre per Francesco Guizzi esse «rappresentano una delle più grandi opere di mistificazione propagandistica; […], e nella loro selettiva fallacia sono l’espressione di una prassi trionfante che sottende, paradossalmente una irrefutabile verità» 3. Quelle parole lette, rilette, interpretate, sezionate, in ciò rafforzate dall’«immagine oscura del regime imperiale presentata dalla storiografia tacitiana» 4, ma ancor più piegate dalla suggestione degli eventi grandi e terribili del ‘secolo breve’, il XX – dall’avvento del regime fascista con la marcia su Roma di Mussolini al dilagare della rivoluzione hitleriana sulle ceneri di Weimar – hanno sempre eseril consolato di Gaio Pansa e Aulo Irzio, con decreti onorifici mi ammise a far parte del suo ordine consentendomi di avere diritto di parola in qualità di consolare e mi diede il comando militare. [3] Mi ordinò, inoltre, di provvedere, quale propretore, insieme con i consoli, perché lo Stato non subisse alcun danno. [4] Il popolo poi nel medesimo anno mi creò console, essendo caduti in guerra entrambi i consoli, e triumviro per riordinare lo Stato». 2
L. CANALI, Il «manifesto» del regime augusteo, in RCCM 15, 1973, p. 1 [= in AA.VV., Potere e consenso nella Roma di Augusto. Guida storica e critica (a cura di L. Canali), Roma-Bari 1975, p. 233]. 3
F. GUIZZI, «Res Gestae», cit., p. 206. Più ampiamente sulle Res Gestae, e utile anche per il relativo ragguaglio bibliografico, vedi il volume di F. GUIZZI, Augusto, cit., passim. 4 Soprattutto Tac. ann. 1.10; ma anche Sen. de clementia 1.9.1. G. CLEMENTE, F. COARELLI, E. GABBA, Premessa, in AA.VV., Storia di Roma. 2. L’impero mediterraneo. II. I principi e il mondo, Torino 1991, p. 3.
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FIGURA 13. – Res Gestae Divi Augusti
citato un’irresistibile attrazione verso gli studiosi e non solo. E se nel primo bimillenario, quello relativo alla nascita del princeps celebrato nel 1937, si è dato largo spazio alla retorica, anche più grottesca 5, per imprimere fasto e prestigio ai 5
Riporto l’illuminante conclusione di una conferenza tenuta da Pietro de Francisci a Palazzo Marino l’8 gennaio del 1938: «E, per disegno divino, il secolo che vedeva sorgere questa costruzione ideale è lo stesso che assisterà all’avvento e al sacrificio di Cristo: il secolo della pienezza dei
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disegni mussoliniani, il secondo bimillenario, quello della morte di Augusto, caduto nel 2014 6, ha riacceso l’attenzione sui temi della genesi e della natura del principato e degli aspetti costituzionali delle vicende che travagliarono la res publica romana nell’ultimo secolo a.C. 7. Alla generosa produzione scientifica, si è accompagnata poi, e non è una coincidenza, la pubblicazione di una nuova traduzione della Rivoluzione romana di Ronald Syme (apparsa nel 2014 a cura di Giusto Traina). Nonostante i notevoli progressi delle nostre conoscenze, frutto anche di importanti e fortunosi ritrovamenti di documenti di epoca augustea, tuttavia resta ancora in piedi il più grande interrogativo: Augusto abbattè la repubblica o in qualche misura la restaurò? Si trattò di menzogna, artificio o verità? L’interrogativo è più che legittimo perché ancora non è facile sottrarsi alla forza suggestiva di Syme, come quando, ad esempio, sorprendentemente scrive: «alcuni storici, per non aver tenuto conto delle convenzioni della terminologia romana e della realtà della vita politica romana, sono stati indotti a figurarsi un principato di Cesare Augusto sinceramente repubblicano nello spirito e nella pratica: un abbaglio tipicamente moderno e accademico. Tacito e Edward Gibbon avevano visto meglio» 8. Non è però che Tacito, sul cui lapidario tentativo di definizione della nuova sostanza istituzionale torneremo più avanti, possa assumersi come del tutto attendibile: anch’egli uomo del suo tempo scriveva quando ormai l’essenza monarchica si
tempi in cui nasce l’impero sulla terra e sorge l’alba del Regno di Dio, quasi fosse l’uno l’annunzio e la preformazione dell’altro. E come il nome di Cesare, simbolo del potere terreno, si diffonderà in tutto il mondo insieme con la Buona Novella, così l’Aquila e la Croce diventeranno i segni intorno ai quali in alterna vicenda, si svilupperà e si sviluppa tuttora il ciclo della civiltà redentrice. V’ha, o camerati, una leggenda medioevale che si collega con la tradizione di un misterioso palazzo sepolto sotto la torre delle Milizie. Secondo questa leggenda l’attività di Augusto non dalla morte sarebbe stata interrotta ma da un magico sonno dal quale si risveglierà il giorno in cui Roma sia di nuovo preparata a dirigere i destini del mondo. Oggi l’imperatore è risorto in tutta la sua gloria. E in questo ritorno, mentre più alto suona il canto del poeta dell’impero che sull’alba della rinascita svelava agli Italiani il sacro destino di Roma immortale, anche l’ingenua leggenda ci appare come l’annuncio di un evento necessario; perché, per concludere con la parola di Dante, a confondere coloro che amano l’iniquità è nato il Tiranno che porterà la pace e farà rinverdire la giustizia: e noi non chiediamo che di lavorare con Lui, secondo il suo comando, in pura fede e in costante obbedienza». Il volume collettaneo sul primo bimillenario appare nel 1938 per i tipi della Reale Accademia Nazionale dei Lincei: AA.VV., Augustus. Studi in occasione del Bimillenario augusteo, Roma 1938. Vedi anche supra CAPITOLO PRIMO, § 1 nt. 17. 6 Al riguardo si ricorda il catalogo della mostra, edito da Mondadori-Electa, AA.VV., Augusto, Milano 2013. 7 Per una prospettiva storica del dibattito dispiegatosi sin dall’Umanesimo, molto utile il saggio di J.-L. FERRARY, Nature et périodisation du Principat, des juristes humanistes à Mommsen, in AA.VV., Il princeps romano: autocrate o magistrato? Fattori giuridici e fattori sociali del potere imperiale da Augusto a Commodo (a cura di J.-L. Ferrary e J. Scheid), Pavia 2015, pp. 3 ss. 8 R. SYME, La rivoluzione romana, cit., p. 5.
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era strutturata; mettergli poi accanto uno storiografo lontano circa 15 secoli come Gibbon, per sostenere la tesi rivoluzionaria ed eversiva non solo non è convincente ma addirittura appare come un capovolgimento dei termini del problema. A dirla tutta, poi, bisognerebbe ammettere che ancor prima di Syme, già con Theodor Mommsen non si ebbero dubbi sull’assassinio della forma repubblicana 9, avvenuta però per mano di Cesare con la vittoria finale nel 46 a.C. a Tapso; ma dal Novecento ad oggi sostanzialmente l’accusa di eversione e di riuscito golpe si è concentrata su Augusto e il verdetto di colpevolezza è pressoché unanimemente accettato, come nel caso di un recente libro di Luciano Canfora 10. Da qui l’infinito dibattito storiografico sulla genesi e sulla definizione delle nuove forme del principato, ma soprattutto le feroci accuse di perfida ipocrisia 11, delle spudorate menzogne sul tema ideologico e di comunicazione della restitutio rei publicae 12. Eppure, se tutto fosse così semplice e chiaro non si spiegherebbe l’incessante attenzione sulla creatura istituzionale di Augusto, né perché nonostante l’inarrestabile flusso di articolate ricostruzioni, di inedite definizioni, dopo oltre un secolo di analisi, confronti, riflessioni, continui a giacere irrisolto il medesimo interrogativo: Augusto realizzò ciò che scrisse nelle Res Gestae? Davvero, cioè, restaurò la res publica? O fu soltanto l’abile mascheramento di una serie di fatti illegali ed eversivi? E, al contrario, se restaurò la res publica, ha senso continuare a parlare di rivoluzione 13? Forse per tentare di risolvere uno degli enigmi giuridico-istituzionali più complessi e intriganti, e al tempo stesso ineludibile, per chiunque ‘affronti’ Augusto e l’alba dell’impero, bisognerebbe rammentare le parole di Fritz Schulz che, nel suo I principii, così ammoniva: «per chi non abbia il senso delle differenze giuridiche i romani rimarranno sempre incomprensibili; perché costui vedrà sempre un’affermazione ipocrita laddove quelli esprimono un loro onesto pensiero, mettendosi però dal solo punto di vista del diritto» 14. Ad oggi invece, 9
Più in generale sull’impostazione dello Staatsrecht mommseniano e sulla sua influenza sugli studi si legga ora W. NIPPEL, The Structure and Legacy of Mommsen’s Staatsrecht, in AA.VV., Il princeps romano: autocrate o magistrato? Fattori giuridici e fattori sociali del potere imperiale da Augusto a Commodo (a cura di J.-L. Ferrary e J. Scheid), Pavia 2015, pp. 35 ss. 10 L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., passim. 11 Basti ricordare il caustico giudizio di M.I. FINLEY, Problemi e metodi, cit., p. 21. 12 A tal proposito possono richiamarsi come esempi due libri molto diversi e distanti tra loro e tuttavia accomunati da questa visione: F. COSTABILE, Caius Iulius Caesar, cit., passim; e L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., passim; su entrambi ritorneremo. 13 Infatti, accade di imbattersi in formule stravaganti o paradossali, come quella di F. MILLAR, The First Revolution, cit., pp. 1 ss., di una «revolution entirely conservative»; cfr. E. Romano, «Allontanarsi dall’antico», cit., pp. 39. 14 F. SCHULZ, I principii, cit., p. 126.
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a parte poche voci dissonanti, tra tutte quelle di Otto Th. Schulz 15 o ancora di Guglielmo Ferrero 16 fautore della tesi di una vera e propria restaurazione repubblicana, l’opinione di gran lunga prevalente è quella che continua a negare ogni attendibilità alle solenni attestazioni autobiografiche augustee 17, tanto da aver spinto nel 1974 Edwin A. Judge ad affermare, a proposito della locuzione res publica restituta, trattarsi niente di più di una ‘modern illusion’ 18, o altri a vedervi una colossale «mistificazione» 19, oppure ancora una finzione «di cui peraltro proprio le Res Gestae fanno solenne riaffermazione» 20. Certo però che per comprendere bene le ragioni di alcune tendenze storiografiche bisognerebbe contestualizzarle, il che ci ricondurrebbe alla prima metà del ‘secolo breve’, e alla palingenesi fascista, di cui un saggio, oltre alle ben note posizioni di Syme, ci è offerto da due studiosi italiani. Pietro de Francisci e Salvatore Riccobono jr. Il primo, Ministro di Grazia e Giustizia del Governo Mussolini, è annoverato tra i più irriducibili sostenitori del carattere rivoluzionario del principato e della sua natura sostanzialmente monarchica ab origine e, perciò, contraria alla legalità repubblicana 21. Non è certo una novità ricordare la
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O.TH. SCHULZ, Das Wesen des römischen Kaisertums, cit., passim. G. FERRERO, Grandezza e decadenza di Roma, cit., III, , p. viii, rovesciando i giudizi di Mommsen su Cesare e Augusto della Römische Geschichte, così concludeva la prefazione al terzo volume del suo grande affresco: «La mia ricerca ha conchiuso in modo diverso dalla tradizione soprattutto in due punti molto importanti. Io considero come una leggenda, che non ha fondamento alcuno nei documenti, l’affermazione tante volte ripetuta che Augusto fu l’esecutore dei disegni di Cesare. Quali fossero – e noi non lo sappiamo con precisione – questi disegni, nei diciassette anni, la cui storia è narrata in questo libro, avvenne un così grande sconvolgimento, le condizioni dell’Italia e dell’Impero mutarono talmente, che Augusto ebbe un compito del tutto diverso da quello che spettò a Cesare. Un altro grande errore, che ha travisato tutta la storia della prima parte dell’Impero, giudico poi l’altra idea, comunemente accettata, che Augusto sia il fondatore della monarchia a Roma. Egli fu invece l’autore di una restaurazione repubblicana, vera e non formale». 17 Due utilissime rassegne critiche della letteratura sono quelle di F. HURLET, Une décennie sur Auguste, cit., pp. 187 ss.; F. HURLET-A. DALLA ROSA, Un quindicennio di ricerche su Augusto, cit., pp. 169 ss. 18 E.A. JUDGE, ‘Res publica restituta’, cit., pp. 279 ss.; cfr. N. MACKIE, «Res publica restituta»: a Roman Mith, in Studies in Latin Literature and Roman History (a cura di C. Deroux), IV, Bruxelles 1986, pp. 302 ss.; J.-L. FERRARY, Res publica restituta, cit., pp. 419 ss.; cfr. ID., À propos des pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 101 ss. [= trad. inglese, ID., The Powers of Augustus, in AA.VV., Augustus2 (a cura di J. Edmondson), Edinburgh 2014, pp. 90 ss.]; E. LYASSE, ‘Res publica restituta’: propagande antique, ou contresens moderne, in Ktema 38, 2013, pp. 273 ss.; R. CRISTOFOLI, A. GALIMBERTI, F. ROHR VIO, Dalla repubblica al principato. Politica e potere in Roma antica, Roma 2014, pp. 137 ss. Vedi anche infra. 19 M. PANI, Augusto e il Principato, Bologna 2013, p. 46. 20 L. CANFORA, La prima marcia su Roma, cit., p. 8. 21 P. DE FRANCISCI, Genesi e struttura, cit., pp. 1 ss. 16
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tendenza del regime fascista a utilizzare la romanità. Ma se l’interpretazione del principato augusteo di de Francisci non destava (e non desta) stupore, particolarmente interessante risuonava la voce del secondo, ovvero di un giovane Salvatore Riccobono jr. contrapposta energicamente al filone di pensiero della matrice illegale dello Stato augusteo, tanto da liquidare già nel 1936 con un malcelato fastidio certe posizioni: «coloro che hanno voluto vedere nella nuova costituzione o un’illegale mistificazione o un contrasto insanabile fra lo stato di fatto e lo stato di diritto o una evidentissima contraddizione fra le dichiarazioni di Augusto e l’opera sua, si sono soltanto fermati alla superficie, ma non hanno penetrato l’essenza della questione», e ancora: «sterile fatica quindi il pensare ad illegalismi o mistificazioni, perché in tal caso tutta la storia di Roma non si sottrae ad un simile giudizio» 22. Tuttavia, poste le opinioni storiografiche che, da Mommsen in avanti, hanno oscillato dalla ‘rivoluzione’ al ‘colpo di Stato’, vi è una premessa da cui partire, ossia comprendere come, pure tra contemporanei, si possa da parte di alcuni parlare di rivoluzione e da altri di colpo di Stato, non trattandosi affatto di un mero slittamento semantico ma di fenomeni ed epiloghi assai diversi. Bisognerebbe, cioè, prendere le mosse dal tentativo di sciogliere un nodo fondamentale: Augusto fu un rivoluzionario 23 come alcuni continuano a definirlo, o semplicemente un golpista che introdusse un nuovo regime autoritario 24? Cominciamo dal primo concetto. È legittimo parlare ancora di ‘rivoluzione’ seguendo lo schema di Syme, che sotto talune suggestioni finisce anche per scivolare sul terreno del ‘colpo di Stato’? L’insidia semantica è in effetti altissima, e gli equivoci sono lunghi e anche storicamente significativi. Basterebbe richiamare, per esempio, il vivace scambio di battute tra Luigi XVI e il duca di La Rochefoucald-Liancourt alla notizia della presa della Bastiglia nella notte del 14 luglio del 1789: «Ma allora è una rivolta», esclamò il re; «No, Sire, è una rivoluzione», rispose il duca 25. Ma non è certo con gli aneddoti che si risolvono le questioni. In un appassionato confronto tra 21 antichisti promosso dalla rivista Labeo, che ha dato vita a un corposo e importante volume dato alle stampe nel 1981, le letture variano e flettono a seconda dell’ampiezza maggiore o minore che si riconosce al concetto di ‘rivoluzione’ 26. Partendo allora da Syme e dal metodo 22
S. RICCOBONO JR., Augusto, cit., pp. 486 e nt. 1, 492, che non risparmia un attacco a L. CHIAZZESE, Introduzione allo studio del diritto privato romano, Roma 1931, pp. 134 ss. 23 Si veda per esempio il volume di A. GOLDSWORTY, Augustus. From Revolutionary to Emperor, London 2014. 24 L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., pp. 351 ss. 25 Per l’aneddoto vedi H. ARENDT, Sulla Rivoluzione (a cura di R. Zorzi), Torino 2006, p. 47. 26 AA.VV., La rivoluzione romana, cit., passim. È doversoso, tuttavia, ricordare che S. RICCOBONO JR., Augusto, cit., p. 366, rigettava la tesi della ‘rivoluzione’ a favore di un’«evoluzione natu-
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prosopografico, alla sua visione di ‘rivoluzione’ come cambiamento politico, violento e comunque costituzionalmente illegale del ceto di governo e all’analoga concezione di Brunt 27, si può opporre, con buon fondamento, la portata riduttiva dell’accezione di rivoluzione a strutture economiche e sociali invariate. A tal proposito, sono sufficienti le osservazioni di due studiosi come Francesco De Martino e Feliciano Serrao per accettare la debolezza di ogni tentativo volto a riconoscere alla genesi del principato e all’assetto augusteo il carattere di processo rivoluzionario 28, che non vide cambiare strutturalmente la classe di governo, il controllo dei mezzi di produzione economica, né le strutture sociali sin lì consolidatesi. Insomma, non bisogna aggiungere altro ed è davvero difficile dar torto a chi sostiene che quella di Augusto fu una dura, aspra lotta per il potere piuttosto che una vera e propria rivoluzione e che la crisi non aveva coinvolto lo Stato quanto piuttosto il suo sistema di governo 29. D’altro canto, non sono mancate neppure voci altrettanto autorevoli, come quella di Riccardo Orestano, che invece mai dubitò «trattarsi di una rivoluzione, anche se attuata in forme legali» 30, visione che non cela l’ossimoro che reca in sé; oppure di Fergus Millar che, pur sostenitore della svolta monarchica, non esitava a riconoscere al principe il merito di chiamare a partecipare senato e popolo nella direzione della res publica 31. Naturalmente, su questo terreno non si troverà mai una soluzione condivisa o una convergenza, dipendendo ciascuna visione dalla matrice culturale e ideologica che ne sta alla base. Non a caso De Martino agevolmente ha indicato vaghezza e imprecisione dei termini ‘rivoluzione’ e ‘rivoluzionario’ usati da Mommsen a proposito della storia della fine della repubblica: «Rivoluzione contro lo spirito della costituzione fu l’avere proposto al popolo la questione delle terre demaniali (l’ager publicus), ma fu una rivoluzione contro la lettera stessa della costituzione l’aver soppresso l’intercessio tribunicia. Rivoluzione fu quella di rale e pacifica», causata dall’innestarsi del principe, quale nuovo organo, «sul vecchio tronco della costituzione repubblicana». 27 P.A. BRUNT, La caduta della Repubblica romana, Roma-Bari 1990, pp. 3 ss. 28 F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, cit., IV.1, pp. 264 ss.; ID., Una rivoluzione mancata?, in AA.VV., La rivoluzione romana. Inchiesta tra gli antichisti, Napoli 1981, pp. 20 ss.; F. SERRAO, Il modello di costituzione, cit., pp. 29 ss., praecipue 68 ss., che propende per un assestamento, un consolidamento dell’impianto imperialista; cfr. M. TARPIN, Le triomphe d’Auguste: héritage de la République ou révolution?, in AA.VV., Le Principat d’Auguste. Réalités et représentations du pouvoir. Autour de la Res publica restituta. Actes du colloque de l’Université de Nantes 1er-2 juin 2007 (sous la direction de F. Hurlet et B. Mineo), Rennes 2009, pp. 129 ss. 29 A. GUARINO, La costituzione democratica romana, cit., p. 42 [= in ID., Studi di diritto costituzionale romano, cit., I, p. 402]. 30 R. ORESTANO, Il potere normativo degli imperatori, cit., p. 6. 31 F. MILLAR ET AL., Rome, the Greek World, and the East. I. The Roman Republic and the Augustan Revolution, Chape Hill-N.C.-London 2002, passim.
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Caio Gracco e rivoluzionario il tentativo di Crasso di far registrare i Transpadani tra i cittadini. Ma al tempo stesso la minoranza del Senato che spingeva Pompeo a combattere contro Cesare era rivoluzionaria, come il passaggio del Rubicone fu il primo passo sulla via della rivoluzione. Tentativi rivoluzionari furono quelli di Caio Mario e di Sulpicio, ma quella di Catilina fu una congiura ed una insurrezione, i disordini nella città anarchia ed i moti della plebaglia definiti anarchici, fino a configurare un partito degli anarchici. Sembra dunque che per il Mommsen sia rivoluzionario un atto contrario allo spirito od alla lettera della costituzione repubblicana, indifferentemente dalla sua entità, carattere giuridico formale oppure economico sociale» 32. Alle perplessità di De Martino, aggiungerei anche quelle di Antonio Guarino che giustamente ha costantemente parlato di «costituzione materiale e flessibile», concetto ben presente ai Romani sebbene mai «organicamente studiato e tradotto in formule», fatta di «norme forti» 33, arricchita da consuetudini, prassi, exempla, un’autentica sapiente e duttile combinazione costante di tradizione e mutamento 34. E, salvo aderire alla teoria di Giovannini dell’esistenza di una costituzione scritta condensata e custodita addirittura nei libri degli Auguri 35, mi chiederei quale sarebbe la lettera della costituzione repubblicana romana dai Gracchi al secolo terribile delle guerre civili 36.
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F. DE MARTINO, Una rivoluzione mancata?, cit., pp. 22 s. Per un quadro generale vedi pure P. CATALANO, A proposito dei concetti di ‘rivoluzione’ nella dottrina romanistica contemporanea (tra ‘rivoluzione della plebe’ e dittature rivoluzionarie), in SDHI 43, 1977, pp. 440 ss.; P. CERAMI, Ideologie, terminologie e realtà costituzionale, in AA.VV., La rivoluzione romana. Inchiesta tra gli antichisti, Napoli 1981, pp. 66 ss. 33 A. GUARINO, Forma e materia della costituzione romana, cit., pp. 401 s. [= in ID., Studi sul diritto costituzionale romano, cit., I, pp. 17 s.], in critica al saggio dall’eloquente titolo di E. GABBA, Roma, uno Stato senza «costituzione», in Atti Ist. Lomb. Sc. e Lettere, 1988, pp. 25 ss. [lo studio è stato ripubblicato con modifiche, anche del titolo: ID., La costituzione a Roma, in ID., Lezioni al Collegio Nuovo, Pavia 2005, pp. 43 ss.]. Si leggano le pagine dedicate da D. MANTOVANI, Emilio Gabba e il diritto romano, in AA.VV., I percorsi di un Historikos. In memoria di Emilio Gabba. Atti del Convegno di Pavia, 18-20 settembre 2014 (a cura di C. Carsana e L. Troiani), Como 2016, pp. 283 ss. 34 In questo senso M. PANI, Augusto e il Principato, cit., p. 21. 35 A. GIOVANNINI, Magistratur und Volk. Ein Beitrag zur Entstehungsgeschichte des Staatsrecht, in AA.VV., Staat und Staatlichkeit in der frühen Römischen Republik (a cura di W. Eder), Stuttgart 1990, pp. 406 ss. Cfr. F. DE MARTINO, Considerazioni su alcuni temi di storia costituzionale romana, in Mélanges à la mémoire de A Magdelain, Paris 1988, p. 141. 36 V. MANNINO, La costituzione dei Romani: un’idea sostenibile?, in SCDR 13, 2001, pp. 93 ss.; ID., L’idea di sovranità e la constitutio nella Roma repubblicana, in AA.VV., Tradizione romanistica e Costituzione (dir. L. Labruna – a cura di M.P. Baccari e C. Cascione), I.1, Napoli 2006, pp. 585 ss.
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2. RIVOLUZIONE: CRISI DI UN CONCETTO In un recente, denso libriccino, dal titolo eloquentissimo Il tramonto della rivoluzione, Paolo Prodi ha messo a fuoco la tematica nel suo svolgimento storico e nella sua attualità, asserendo, in maniera del tutto convincente, come questo concetto, troppo legato alle ideologie del secolo scorso (ma io direi a partire alla cultura politica e giuridica dell’Ottocento, che sostanzialmente identifica la rivoluzione con i sommovimenti violenti legati alla nazione e alle guerre di classe), fosse estraneo all’antichità e per di più oggi gravemente messo in crisi dalle poderose trasformazioni avviatesi alla fine del XX secolo e nel primo quindicennio del XXI 37. Non a caso, osserva Prodi, «la storiografia italiana recente più avvertita e più attenta ai problemi di metodo ha quindi abbandonato il concetto stesso di “rivoluzione” per mettere al centro della discussione il problema della “transizione” come definizione di epoche assiali e di passaggio, con momenti di accelerazione e di rallentamento nello sviluppo della modernità» 38. 37
P. PRODI, Il tramonto della rivoluzione, Bologna 2015, p. 12. P. PRODI, Il tramonto, cit., p. 17. Cfr. il dibattito storiografico sulle trasformazioni della tarda antichità a cominciare dal saggio di A. GIARDINA, Esplosione di tardoantico, in Studi Storici 40, 1999, pp. 157 ss.; a cui sono seguiti numerosi interventi: E. LO CASCIO, Gli «spazi» del tardoantico. Premessa, pp. 5 s.; G.W. BOWERSOCK, Riflessioni sulla periodizzazione dopo «Esplosione di tardoantico» di Andrea Giardina, pp. 7 ss.; L. CRACCO RUGGINI, Come e perché è «esploso» il tardoantico, pp. 15 ss.; A. MARCONE, La tarda antichità o della difficoltà delle periodizzazioni, pp. 25 ss.; A. SCHIAVONE, Piccolo esperimento mentale in tre sequenze, pp. 37 ss.; A. GIARDINA, Tardoantico: appunti sul dibattito attuale, pp. 41 ss.; tutti saggi pubblicati in Studi Storici 45, 2004; si leggano altresì gli interventi nel corso della Tavola rotonda in occasione della presentazione del volume di CL. LEPELLEY, Aspects de l’Afrique romaine. Les cités, la vie rurale, le christianisme [Bari 2001], pubblicati sotto il titolo Antico e tardoantico oggi, in RSI 114, 2002, pp. 349 ss.; P. DELOGU, Trasformazione, estenuazione, periodizzazione. Strumenti concettuali per la fine dell’antichità, in MedAnt 2, 1999, pp. 3 ss.; A. MARCONE, La tarda antichità e le sue periodizzazioni, in RSI 112, 2000, pp. 318 ss.; M. GALLINA, L’impero d’Oriente, in AA.VV., Arti e storia nel Medioevo. I. Tempi Spazi Istituzioni, Torino 2002, pp. 93 ss.; S. GIGLIO, Continuità, discontinuità, crisi e decadenza: qualche considerazione su tesi vecchie e nuove, in Diritto romano attuale 11, 2004, pp. 81 ss.; J. MARTIN, Le ricerche sul tardoantico, in Diritto romano attuale 11, 2004, pp. 25 ss.; L. DE GIOVANNI, Istituzioni, scienza giuridica, codici nel mondo tardoantico. Alle radici di una nuova storia, Roma 2007, pp. 1 ss.; A. MARCONE, La caduta di Roma all’inizio del III millennio, in Antidoron. Studi in onore di Barbara Scardigli Forster, Pisa 2007, pp. 267 ss.; E. JAMES, The Rise and Function of the Concept «Late Antiquity», in JLA 1, 2008, pp. 20 ss.; e ancora i contributi raccolti nel volume AA.VV., Trent’anni di studi sulla Tarda Antichità: bilanci e prospettive. Atti del Convegno internazionale (Napoli, 21-23 novembre 2007), Napoli 2009; G. TRAINA, Fratture e persistenze dell’ecumene romana, in AA.VV., Storia d’Europa e del Mediterraneo (dir. A. Barbero). I. Il Mondo antico. Sez. III. L’Ecumene romana (a cura di G. Traina). VII. L’impero tardoantico, Roma 2010, pp. 13 ss. Utile pure la lettura di A. KAZHDAN-A. CUTLER, Continuity and Discontinuity in Byzantine History, in Byzantion 52, 1982, pp. 429 ss. e di L. CRACCO RUGGINI, Il Tardoantico: per una tipologia dei punti critici, in AA.VV., Storia di Roma. 3. L’età tardoantica. I. Crisi e trasformazioni, Torino 1993, pp. xxxiii ss. 38
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Se accettiamo il punto di vista di Prodi, che ripeto appare convincente, se ammettiamo cioè l’estrema relatività e inattualità del concetto di rivoluzione per capire il tempo presente e anche passato, resta da considerare l’altra faccia della medaglia, comprendere cioè quando e perché sia apparso il termine revolutio. Revolutio è infatti lemma assente nei grandi dizionari di latino classico e medievale. Il termine revolutio era sicuramente sconosciuto dal latino classico, Cicerone usava l’espressione mutatio (commutatio) rerum, e ci ritorneremo più avanti; e sebbene usato da Agostino nel suo De civitate dei, ma siamo molto lontani dal tempo augusteo, mostra un’accezione inservibile ai nostri fini 39, tanto da potersi attribuire a Niccolò Copernico nel 1543 il merito del conio del termine attraverso la pubblicazione del suo celeberrimo trattato astronomico De revolutionibus orbium coelestium. Da quel momento esso si diffuse con il significato preciso di mutamento; e fu in seguito, con i fermenti e le nuove visioni legate all’umanesimo, che revolutio, nel suo significato consolidato di rivoluzione o rivoluzioni, venne collegato all’antichità classica e alle lotte per il potere politico. *** Ora, chiarita l’estraneità anche semantica del concetto di rivoluzione all’antichità; constatate le difficoltà di applicare sia pure in senso analogico e improprio, come asserito da Pierangelo Catalano 40, seguito da Pietro Cerami 41, del concetto di ‘rivoluzione’, intesa pure nel suo senso più ampio, preso atto ancora delle novità nel campo degli studi dedicati alla cultura dell’era augustea, come quello di Galinski che saggiamente archivia ‘rivoluzione’ a favore del concetto più duttile di ‘evoluzione’ 42, restringiamo il campo per chiederci se, restando comunque all’impianto liberale di Mommsen e dello stesso Syme, sia possibile parlare di un processo rivoluzionario innescato da un atto violento di illegalità costituzionale, attraverso la cosiddetta ‘marcia su Roma’, e degradare così la conquista del potere di Augusto a una strategia eversiva culminante in un ‘colpo di Stato’ 43. 39
Aug. de civ. Dei 12.14; 12.20, su cui vedi G. FIASCHI, s.v. «Rivoluzione», in ED 41, Milano 1989, pp. 68 ss. Tuttavia, non bisogna trascurare come il termine compaia sostanzialmente nell’intitolazione del capitolo XIV del libro XII («De rivolutione saeculorum, quibus certo fine conclusis universa semper in eundem ordinem eandemque speciem reditura quidam philosophi crediderunt»), mentre è ormai accertato che l’intitolazione dei singoli capitoli dell’opera non appartengono ad Agostino ma sono frutto di aggiunte posteriori. 40 P. CATALANO, A proposito dei concetti di ‘rivoluzione’, cit., pp. 440 ss. 41 P. CERAMI, Ideologie, terminologie e realtà costituzionale, cit., pp. 66 ss. 42 K. GALINSKI, Augustan Culture: an Interpretative Introduction, Princeton 1996, passim. 43 Vale la pena, tuttavia, osservare che anche tra i più accesi sostenitori della valenza rivoluzionaria dell’azione e della ricostruzione augustee, come P. DE FRANCISCI, Genesi e struttura, cit., pp. 1 ss., si distingua, disgiungendolo, il termine rivoluzione da quello di violenza sovvertitrice.
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A meritare qualche rimeditazione alla luce della documentazione disponibile è tutta la vicenda iniziale del giovane Ottaviano, brillante protagonista di una manovra politica tanto abile quanto spregiudicata, da scatenare in un angosciato Ronald Syme l’irresistibile suggestione di una marcia su Roma, antesignana di quella fascista 44. A parte l’oscillazione dello stesso Syme che evita di essere davvero esplicito a tal riguardo, bisogna chiedersi perché quella ‘marcia su Roma’, ancora oggi così definita da Luciano Canfora 45, possa considerarsi un vero colpo di Stato, sia dal punto di vista delle forme costituzionali sia da quello delle dinamiche e modalità della presa del potere. La visione comune è quella di un Ottaviano che arruola un esercito privato e marcia su Roma e, sotto la pressione delle armi, condiziona un senato imbelle per impadronirsi del consolato. Questa versione assai schiacciata e semplificata, e al tempo stesso forte e convincente appunto per la sua semplice e apparente linearità, è però sostanzialmente quella dipinta da Tacito, autore non certo benevolo verso Augusto, nel celeberrimo e immaginario dibattito tra fautori e oppositori 46 del novus ordo dispiegatosi alla morte di Augusto; rileggiamola: Tac. ann. 1.10.1-4: Dicebatur contra: pietatem erga parentem et tempora rei publicae obtentui sumpta; ceterum cupidine dominandi concitos per largitionem veteranos, paratum ab adulescente privato exercitum, corruptas consulis legiones, simulatam Pompeianarum gratiam partium. [2] Mox ubi decreto pa44 Tuttavia, recentemente, questa angolatura prospettica sino ad oggi ‘imposta’ anche dall’autorità di Arnaldo Momigliano da cui si è guardato al libro di Syme, cioè la suggestione della genesi dei fascismi e della loro carica eversiva in Europa, è stata messa in discussione da un interessante libriccino di L. LORETO, Guerra e libertà nella repubblica romana. John R. Seeley e le radici intellettuali della Roman Revolution di Ronald Syme, Roma 1999. Tuttavia riconferma l’impostanzione momiglianea G. Traina, nella sua introduzione alla seconda edizione italiana, affermando che il libro «mantiene pressoché intatto lo smalto che mostrava nel 1939 […]. E nonostante il particolare frangente storico che aveva determinato la sua genesi. Va ricordato che il titolo allude alle celebrazioni della “rivoluzione fascista”, con la mostra del 1932-34, e soprattutto con quella del 1937, che si affiancava alla Mostra augustea della Romanità, allestita per celebrare il primo bimillenario augusteo, quello della nascita nel 63 a.C.» (cit., p. ix). 45 L. CANFORA, La prima marcia su Roma, cit., passim. 46 Sul dissenso incontrato da Augusto nel corso del suo lungo governo si rinvia agli studi di M.H. DETTENHOFER, Herrschaft und Widerstand im augusteischen Prinzipat: die Konkurrenz zwischen res publica und domus Augusta, Stuttgart 2000; F. ROHR VIO, Le voci del dissenso. Ottaviano Augusto e i suoi oppositori, Padova 2000; I. COGITORE, La légitimité d’Auguste à Néron à l’épreuve des conspirations, Rome 2002; e ancora F. ROHR VIO, Contro il principe. Congiure e dissenso nella Roma di Augusto, Bologna 2011. Dedicato a dimostrare il chiaro dissenso presente nei componimenti erotici di Ovidio è il lavoro di P.J. DAVIS, Ovid and Augustus. A Political Reading of Ovid’s Erotic Poems, London 2006. Mentre in generale, più di recente, F. ARCARIA, Da Ottaviano ad Augusto: repressione del dissenso e crisi della legalità nel passaggio dalla repubblica al principato, in AA.VV., Le legalità e le crisi della legalità (a cura di C. Storti), Torino 2016, pp. 63 ss., con ulteriore bibliografia.
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trum fasces et ius praetoris invaserit, caesis Hirtio et Pansa, sive hostis illos, seu Pansam venenum adfusum, sui milites Hirtium et machinator doli Caesar abstulerat, utriusque copias occupavisse; extortum invito senatu consulatum, armaque quae in Antonium acceperit contra rem publicam versa; proscriptionem civium, divisiones agrorum ne ipsis quidem qui fecere laudatas. [3] Sane Cassii et Brutorum exitus paternis inimicitiis datos, quamquam fas sit privata odia publicis utilitatibus remittere: sed Pompeium imagine pacis, sed Lepidum specie amicitiae deceptos; post Antonium, Tarentino Brundisinoque foedere et nuptiis sororis inlectum, subdolae adfinitatis poenas morte exsolvisse. [4] Pacem sine dubio post haec, verum cruentam: Lollianas Varianasque clades, interfectos Romae Varrones Egnatios Iullos. Una versione torbida, quella tacitiana, tutta pronunciata per gettare ombre oscure, rafforzata da Cassio Dione, che esplicitamente parla di un Ottaviano in marcia su Roma con il suo esercito, autore di violenze, e di una presa di Roma manu militari 47. Eppure, questa descrizione non corrisponde in nulla allo svolgimento dei fatti, almeno non così come dimostrano i documenti dei contemporanei, tanto da indurre a ricorrere pure ad altre formule, non più convincenti, come quella di una ‘first revolution’, immaginata da Fergus Millar 48, a cui per stretta logica sarebbe seguita «a second revolution». E allora subito qualche precisazione. Primo: Ottaviano, com’è noto, combattè insieme con i consoli Gaio Pansa e Aulo Irzio a favore di Decimo Bruto contro Antonio che aveva arbitrariamente fatto votare una lex che, sottraendolo a Bruto, attribuiva a lui il governo della Gallia Cisalpina. Secondo: il reclutamento dell’esercito privato, capo di imputazione politica per eccellenza contro l’eversore Ottaviano, era stato consentito e forse persino sollecitato dal senato o almeno da frange dello stesso che annoveravano al loro interno personaggi del calibro di Marco Tullio Cicerone. L’epilogo dello scontro, con la morte dei due consoli, la fuga di Antonio in Gallia Transalpina e il riunirsi degli eserciti sotto il comando di Ottaviano fu inaspettato: il vuoto di potere reso drammatico soprattutto dall’assenza di consoli provocava somma incertezza, continui disorientamenti in seno al senato e nel popolo. L’instabilità di governo ormai cronicizzatasi esponeva a serio pericoloso la tenuta dello Stato. Ottaviano, secondo le fonti, rassicurato da un ‘buon partito’ senatorio, decise così di chiedere il consolato cercando di ottenere una deroga alle leges annales relative alle prescrizioni di età minima prendendo la strada per Roma. Resta inspiegabile per quale ragione la deroga a un requisito di età, comunque formalmente concessa, a fronte dei precedenti, ma soprattutto dinanzi alle gravissime fratture istituzionali e della legalità costituzionale repub-
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Cass. Dio 42-45. F. MILLAR, The First Revolution, cit., pp. 1 ss.
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blicana consumatesi sin dai tempi della feroce repressione graccana, sia stata vista come il punto di non ritorno. Dunque, è naturale chiedersi perché Ottaviano, con il suo esercito arruolato privata impensa et privato consilio, come si vanta all’inizio delle sue Res Gestae, abbia finito per suscitare tanto scandalo presso i moderni, nonostante si fosse nel secolo della politica dominata dai ‘signori della guerra’ e nonostante avesse combattuto dietro una deliberazione senatoria accanto ai consoli in carica e dunque dalla parte diremmo lealista alla repubblica. E, soprattutto, è opportuno indagare sulle reali condizioni politiche e istituzionali in cui Ottaviano maturò la decisione di intraprendere la presunta ‘marcia su Roma’. Davvero può dirsi che la scelta fu giocata sul piano della violenza eversiva contro il senato?
3. LA PRESUNTA ‘MARCIA SU ROMA’ Nonostante esistano, dunque, un’infinità di elementi contradditori e frammentari tali da costringere continuamente gli studiosi a tornare a misurarsi sul problema della genesi del principato, ciò che colpisce è la solida resistenza del convincimento dell’aspetto violento ed eversivo dell’ascesa al potere di Ottaviano 49. Sostenuta da una blasonata pubblicistica, l’idea del ‘colpo di Stato’ continua a largheggiare e la ricostruzione storica basata su un Ottaviano tanto giovane quanto arrogante, che arruola un esercito privato e minaccioso per incombere su Roma e far derogare così alle leges annales e conseguire, attraverso un percorso rapido e illegittimo, il consolato, sembra lineare e logica. Eppure, l’intenzione di Ottaviano di evitare un aperto conflitto con l’assemblea dei patres è documentata da Plutarco nella biografia di Cicerone (Cicero 45-46), ma soprattutto dall’epistolario di quest’ultimo, e in particolare il XIV libro della raccolta ad Attico 50. Dai documenti ciceroniani emerge il tentativo ripetuto, continuo, ossessivo di Ottaviano di ricerca di dialogo politico, di costruzione di un’alleanza con il senato, o almeno con suoi ampi settori, per vantare una maggioranza al suo interno. Non sono molti gli studiosi che hanno dedicato la dovuta attenzione alla genesi del rapporto imprevedibile e intenso tra Cicerone e Ottaviano 51; eppure abbiamo tra le mani la prova più diretta di una sua febbrile attività spiegabile soltanto con la negazione dell’esistenza di quelle condizioni di forza solitamente accreditategli e con l’ammissione della sincera intenzione di contribuire comun49
L. CANFORA, La prima marcia su Roma, cit., passim; ID., Augusto figlio di Dio, cit., passim. R. CRISTOFOLI, Cicerone e l’ultima vittoria di Cesare. Analisi storica del XIV libro delle Epistole ad Attico, Bari 2011. 51 Una menzione particolare merita invece J. BLEICKEN, Augustus, cit., pp. 72 ss. 50
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que a evitare una pericolosa deriva in un quadro già fortemente compromesso di drammatica destrutturazione istituzionale del potere. Nei testi che leggeremo, affiora la sua piena consapevolezza degli ampi margini per una condivisione di obiettivi politici con il senato. Certo, egli era consapevole di suscitare una istintiva e significativa opposizione, perché sapeva di essere avvolto da una comprensibile diffidenza: la sua improvvisa, imprevedibile e impetuosa irruzione sulla scena politica e il suo legame familiare e politico con Cesare (figura 14), auctor della magna pestis, indubbiamente non gli garantivano grandi simpatie tra i senatori. Eppure, Ottaviano cercò di farsi accettare e provò a orientare il senato attraverso uno degli esponenti più autorevoli in prima linea del tempo, Cicerone: Cic. ad Att. 16.8.1: Kalendis vesperi litterae mihi ab Octaviano, Magna molitur. Veteranos qui Casilini et Calatiae sunt perduxit ad suam sententiam. Nec mirum, quingenos denarios dat. Cogitat reliquas colonias obire. Plane hoc spectat ut se duce bellum geratur cum Antonio. Itaque video paucis diebus nos in armis fore. Quem autem sequamur? Vide nomen, vide aetatem. Atque a me postulat primum ut clam colloquatur mecum vel Capuae vel non longe a Capua. Puerile hoc quidem, si id putat clam fieri posse. Siamo ancora lontani dalla cosiddetta ‘mar- FIGURA 14. – Giulio Cesare cia su Roma’, e mentre era già esplosa l’ira di Antonio per la prima Philippica malgrado i toni moderati, in questa riservatissima lettera scritta tra il 2 e il 3 novembre del 44 a.C. nella sua casa di Pozzuoli è già delineato l’orientamento di Cicerone e la costruzione del suo rapporto con l’astro emergente. Egli confidava ad Attico i ripetuti contatti di Ottaviano per stringere accordi politici. Convinto della gravità della situazione, Cicerone non si avviliva certo «a chiedere soccorso a chiunque, anche e soprattutto al puer Ottaviano», così interpreta non adeguatamente Filippo Cancelli 52, forse sulla base di Cic. phil. 3.2. Mentre nelle poche righe della lettera ad Attico si afferra quanto l’anziano statista si compiacesse dell’insistenza e delle istanze uasi ingenue di Ottaviano. Questi chiedeva un incontro segreto, in effetti uno c’era già stato come vedremo tra qualche pagina, una richiesta che l’oratore non esitava a bollare come puerile, per definire strategia e tattica co
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F. CANCELLI, Res publica-princeps, cit., p. 113.
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muni. Tra i due comunque era già nata una reciproca fiducia sulla solida convinzione che il nemico non bisognava scorgerlo nel senato romano, il nemico più potente e pericoloso si chiamava Antonio, e ciò fu loro chiaro appena qualche settimana dopo l’eliminazione del dittatore. Ma facciamo un passo indietro perché rimettere bene in fila i fatti documentati aiuta molto a ricostruire uno svolgimento più attendibile e depurato di ogni ideologismo e tesi precostituita. Ottaviano aveva appreso dell’assassinio di Cesare ad Apollonia circa una settimana dopo; messosi immediatamente in viaggio, sbarcava a Lupiae e, dopo una sosta a Brindisi, era ripartito alla volta della Campania per entrare quindi a Roma. La situazione della città era incandescente ed è descritta con efficacia e toni assai inquieti da Cicerone: Cic. ad Att. 14.5.2-3: O meam stultam verecundiam! Qui legari noluerim ante res prolatas, ne deserere viderer hunc rerum tumorem; cui certe si possem mederi, deesse non deberem. Sed vides magistratus, si quidem illi magistratus, vides tamen tyranni satellites in imperiis, vides eiusdem exercitus, vides in latere veteranos, quae sunt eÙr…pista omnia; eos autem qui orbis terrae custodiis non modo saepti verum etiam magni esse debebant tantum modo laudari atque amari, sed parietibus contineri. Atque illi quoquo modo beati, civitas misera.[3] Sed velim scire qui adventus Octavi, num qui concursus ad eum, num quae newterismoà suspicio. Non puto equidem, sed tamen, quicquid est, scire cupio. Era l’11 aprile del 44 a.C., e la città sembrava avvolta da una cappa plumbea: guardie del corpo, veterani minacciosi, condizioni di pericolo per i cesaricidi, sbande scorazzanti per le vie della città 53, pesanti condizionamenti della vita politica istituzionale. Appena un mese dopo, sempre Cicerone rivelava all’amico di essere stato destinatario di inquietanti esortazioni a non recarsi alle sedute senatorie: Cic. ad Att. 14.22.2: […] Ecquidem in his locis moneor a multis ne in senatu Kalendis. Dicuntur enim occulte milites ad eam diem comparati et quidem in istos, qui mihi videntur ubivis tutius quam in senatu fore. Correvano voci di importanti manovre politiche, su cui gravava l’ombra di Antonio che avrebbe disposto l’arrivo segreto di militari per blindare il senato 54 e per giungere rapidamente all’obiettivo della permutatio provinciarum al fine di
53 Cfr. Cic. ad fam. 11.1.6; R. CRISTOFOLI, Sulla contingenza storico-politica di Cic., «Fam.» 11,1, in GIF 51, 1999, pp. 219 ss. 54 Cic. phil. 1.11.27.
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sottrarre le province già attribuite a Bruto e Cassio 55. Insomma, una vera e propria miscela pronta a esplodere (quae sunt eÙr…pista omnia) 56. In questo contesto, incerto e assai nervoso, cresceva forte l’attesa dell’arrivo del giovane Cesare; lo stesso Cicerone era solito chiedersi, pur non nutrendo forti dubbi in cuor suo, se anche costui avrebbe potuto contribuire alla destabilizzazione politica, scuotendone ancor più le istituzioni. Nel frattempo, Ottaviano giungeva a Roma. Grazie a una preziosissima lettera di Cicerone, apprendiamo la notizia densa di implicazioni politiche di una sosta del giovane Cesare presso la sua villa di Pozzuoli 57: Cic. ad Att. 14.11.2: […] Hic mecum Balbus, Hirtius, Pansa. Modo venit Octavius, et quidem in proximam villam Philippi, mihi totus deditus. Lentulus Spinther hodie apud me; cras mane vadit 58. Si tratta di un tassello fondamentale. Il 18 aprile il giovane Cesare aveva già raggiunto Napoli e incontrato Balbo, per poi ritrovarsi, tra il 19 e il 21 aprile del 44 a.C., al centro di un incontro decisivo che avrebbe segnato la strada degli sviluppi futuri. In quella villa, in quel giorno di aprile del 44 a.C., si trovavano, oltre al padrone di casa, Ottaviano accompagnato dal patrigno Lucio Marcio Filippo, un consolare vicino all’oratore Balbo, uno dei cesariani più influenti e meglio disposti verso il giovane, e Irzio e Pansa, già consoli designati per il 43 a.C. Non sappiamo cosa quel manipolo di uomini si dissero. Cicerone non aggiunge nulla sulle questioni politiche affrontate, e sfortunatamente non abbiamo altre informazioni al riguardo. E se bisogna tenere a freno la fantasia è altrettanto difficile pensare a una coincidenza, cioè che Ottaviano si sia fermato a Pozzuoli per caso. Al contrario tutto fa pensare a quell’incontro come una straordinaria occasione per abbozzare una strategia finalizzata a lanciare il giovane Ottaviano sulla scena politica da uno schieramento eterogeneo, oggi diremmo trasversale, ostile ad Antonio ma assai solido. L’asse CiceroneIrzio-Pansa-Balbo-Ottaviano avrebbe infatti preso corpo nelle decisioni senatorie dei mesi successivi. L’attendibilità della successione dei fatti trova conferma in un colloquio tra Pansa, in punto di morte, e Ottaviano, riportato da Appiano (bell. civ. 3.75.305-76.311) giudicato da Canfora preso di peso dai
55
Vedi infra.
56
Cic. ad Att. 14.22.2; ad Att. 15.4.4. In Appian. bell. civ. 3.5.14, si precisa che la guardia armata di Antonio ammontasse a seimila uomini. R. CRISTOFOLI, Cicerone e la II Filippica. Circostanze, stile e ideologia di un’orazione mai pronunciata, Roma 2004, pp. 252, 261 ss.; ID., Cicerone e l’ultima vittoria, cit., pp. 178 ss. 57
Interessanti spunti in M. TOHER, Octavian’s Arrival, cit., pp. 174 ss.
58
Cfr. Cic. ad Att. 14.10.3.
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Commentarii di Augusto 59. Questa, però, non è una questione essenziale, mentre rilevante e indubbio fu il febbrile lavorìo a sostegno di Ottaviano sia di alcuni ambienti cesariani sia soprattutto di Cicerone, una sorta di vero e proprio regista, interprete dell’opposto schieramento 60. L’atteggiamento del giovane Cesare continuava a mostrarsi sempre improntato a un’immensa deferenza verso l’oratore. Il 22 aprile, Cicerone ne restava nuovamente colpito e non mancava di sottolinearlo ad Attico: «Ottavio è qui con me e mi tratta in modo molto onorifico e con spirito di viva amicizia» 61. Il rispetto e la devozione assicurati da Ottaviano al vecchio consolare, evidentemente, dovettero convincerlo se in più lettere e in tempi diversi non esitò a manifestarne simpatia. Appena qualche mese dopo, nel giugno del 44 a.C., Cicerone così scriveva ad Attico: Cic. ad Att. 15.12.2: In Octaviano, ut perspexi, satis ingeni, satis animi, videbaturque erga nostros ¼rwaj ita fore ut nos vellemus animatus. Sed quid aetati credendum sit, quid nomini, quid hereditati, quid kathc»sei, magni consili est. A leggere bene il passaggio epistolare, l’opinione di Cicerone su Ottaviano non appare affatto avventata, ma raggiunta dopo attenta riflessione: buone doti, qualità innate, e soprattutto vitali ragioni di opportunità politica consigliavano di scongiurare che finisse nelle mani dell’assai più esperto console cesariano. Certo è che Ottaviano, non sappiamo quanto consapevolmente, con la sua imprevedibile irruzione sulla scena politica aveva introdotto una variabile che rendeva ancor più fluido e instabile il quadro politico. I posizionamenti in seno agli ambienti politici e militari erano in rapida e tumultuosa evoluzione, e da una parte e dall’altra si coglievano anche aspetti positivi e di speranza se nell’autunno del 44 a.C., a ottobre, Cicerone si avventurava addirittura a predire all’amico Attico, sia pure con una punta di ottimismo, che la res publica stava accingendosi a rientrare nei propri diritti (videtur res publica ius suum recuperatura) 62. Ad ogni modo, a novembre, l’avvicinamento di Ottaviano a Cicerone era maturo perché ciascuno facesse la propria definitiva scelta di campo, sino a immaginare un’esplicita alleanza politica (figura 15). Il giovane Cesare metteva a disposizione della res publica i veterani, che andava reclutando, e chiedeva al consolare il sostegno politico per divenire dux, guida nella guerra contro Antonio.
59
L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., pp. 334 ss. R. CRISTOFOLI, La strategia della mediazione. Biografia politica di Aulo Irzio prima del consolato, in Historia 59, 2010, pp. 480 ss. 61 Cic. ad Att. 14.12.2: Nobiscum hic perhonorifice et peramice Octavius. 62 Cic. ad Att. 15.13.4. 60
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Dal punto di vista di Cicerone l’offerta era FIGURA 15. – Marco Tullio Cicerone vantaggiosa: i veterani avrebbero costituito un non indifferente vantaggio militare nei confronti di Antonio (unico vero pericolo per il senato e quindi comune nemico), e avrebbe così sottratto all’orbita del console il giovane, di cui però l’oratore, nonostante il favore accordatogli, non si fidava ancora del tutto. C’era qualcosa che non lo persuadeva ancora; ad esempio, giudicava puerile quel frenetico ‘agitarsi’ di Ottaviano e tuttavia, nonostante le numerose incognite, il suo formidabile fiuto lo spingeva a trovare utile l’alleanza, se non altro a guadagnar tempo. Incontriamo così un passaggio di assoluto rilievo e assai illuminante nelle righe immediatamente successive dell’epistula, righe solitamente e inspiegabilmente trascurate: Cic. ad Att. 16.8.2: Misit ad me Caecinam quendam Volaterranum, familiarem suum; qui haec pertulit, Antonium cum legionem Alaudarum ad urbem pergere, pecunias municipiis imperare, legionem sub signis ducere. Consultabat utrum Romam cum CIƆ CIƆ CIƆ veteranorum profisceretur an Capuam teneret et Antonium venientem exluderet an iret ad tris legiones Macedonicas quae iter secundum mare superum faciunt; quas sperat suas esse. Eae congiarium ab Antonio accipere noluerunt, ut hic quidem narrat, et ei convicium grave fecerunt contionantemque reliquerunt. Quid quaeris? Ducem se profitetur nec nos sibi putat deesse oportere. Equidem suasi ut Romam pergeret. Videtur enim mihi et plebeculam urbanam et, si fidem fecerit, etiam bonos viros secum habiturus. La testimonianza è sorprendente e preziosa perché contiene tre notizie, per lo più sottaciute o non valorizzate nella ricostruzione della genesi del principato e delle prime mosse di Ottaviano da una storiografia preoccupata piuttosto di puntellare la lettura dominante che ne vede affondare le radici nel terreno della eversione repubblicana. Queste tre preziosissime notizie gettano però una diversa luce. La prima notizia è che, non Ottaviano, bensì Antonio si apprestava a ‘marciare su Roma’ per assumerne anche militarmente il controllo 63. La notizia trova pieno
63
Cfr. anche Cic. ad Att. 16.10.1; ad Att. 16.13b.1; ad Att. 16.14.1.
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riscontro non solo nei testi prima richiamati, ma pure nella versione di Appiano 64, che annotava come Antonio si fosse deciso a muovere non con una legione ma con una coorte pretoria appositamente creata (e in ciò discostandosi da Cicerone, sebbene quest’ultimo mi sembri assai più attendibile). Composta dagli uomini più validi, e con questa messosi in marcia lungo la via Appia verso Roma, ove entrò in modo fastoso, quasi con il piglio del conquistatore 65, dopo aver lasciato presso le mura la cavalleria, e, avendo al seguito una guardia armata, Antonio convocò il senato per ottenere una dichiarazione di ostilità verso Ottaviano. Non è forse questa una ‘marcia su Roma’? La seconda notizia è che Ottaviano chiese consigli a Cicerone, esortando il vecchio statista a indicargli le mosse compiere, quali azioni intraprendere. La terza ‘sorprendente’ notizia è che fu proprio Cicerone a convincerlo a dirigersi verso Roma: equidem suasi ut Romam pergeret. Sempre ad Attico, nei giorni successivi, Cicerone raccontava di aver ricevuto ancora altre due lettere di Ottaviano: Cic. ad Att. 16.9.1: Binae uno die mihi litterae ab Octaviano, nunc quidem ut Romam statim veniam; velle se rem agere per senatum? Cui ego non posse senatum ante Kal. Ian., quod quidem ita credo. Ille autem addit consilio tuo. Quid multa? Ille urget, ego autem sk»ptomai. Non confido aetati, ignoro quo animo. Nil sine Pansa tuo volo. Vereor ne valeat Antonius, nec a mari discedere libet. At metuo ne quae ¢rioste…a me absente. Varroni quidem displicet consilium pueri, mihi non. Firmas copias habet, Brutum habere potest; et rem gerit palam, centuriat Capuae, dinumerat. Iam iamque video bellum. Ad haec rescribe. Tabellarium meum Kalendis Roma profectum sine tuis litteris miros. In questa breve lettera Cicerone, pur riaffermando qualche perplessità, manifestava la maturazione della scelta a favore di Ottaviano, con giudizi di valore abbastanza netti, come la perentoria affermazione dell’azione trasparente, alla luce del sole, di Ottaviano (et rem gerit palam), cosa che fa pensare che altri invece osservassero con timore talune mosse. Il 5 novembre, appena qualche giorno dalla prima, Cicerone inviava una nuova lettera ad Attico: Cic. ad Att. 16.11.6: Ego me, ut scripseram, in Pompeianum non abdidi, primo tempestatibus, quibus nihil taetrius, deinde ab Octaviano cotidie litterae, ut negotium susciperem, Capuam venirem, iterum rem publicam servarem, Romam utique statim. [...] Is tamen egit sane strenue et agit, Romam veniet cum manu magna; sed est plane puer. Putat senatum statim.
64 65
Appian. bell. civ. 3.43.184-185. In tal senso Cic. phil. 13.19.
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Ottaviano giungeva a Roma cum manu magna 66. Cicerone non avrebbe potuto meglio esprimere il favore che nutriva, almeno in quei giorni, verso Ottaviano; non riusciva neppure a dissimulare la compiacenza di aver dinanzi un giovane brillante (ma inesperto, puer continuava a chiamarlo) di cui lui, vecchio ma autorevolissimo statista, intendeva porsi come guida per salvare la res publica (iterum rem publicam servarem). Probabilmente, Ottaviano aveva ben compreso la psicologia del vecchio senatore e, stuzzicandone incessantemente l’orgoglio, ne accrebbe tanto la compiacenza, da indurlo a contrapporsi senza alcuna esitazione persino ad amici fidatissimi come Marco Giunio Bruto: Cic. ad Brut. 1.3.1: Nostrae res meliore loco videbantur. Scripta enim ad te certo scio quae gesta sint. Qualis tibi saepe scripsi consules, tales exstiterunt. Caesaris vero pueri mirifica indoles virtutis. Utinam tam facile eum florentem et honoribus et gratia regere ac tenere possimus quam facile adhuc tenuimus! Est omnino illud difficilius, sed tamen non diffidimus. Persuasum est enim adulescenti, et maxime per me, eius opera nos esse salvos; et certe, nisi is Antonium ab urbe avertisset, perissent omnia. In quel novembre del 44 a.C., buona parte dei veterani però non condivise la linea politica antiantoniana di Ottaviano e Cicerone, molti ne presero apertamente le distanze, mentre il ritorno a Roma del console consigliò al giovane Cesare di lasciare subito la città, tanto da aver fatto pensare, a qualche moderno 67, a un colpo di Stato, tentato e fallito. Antonio, da canto suo, non riusciva a portare a segno le manovre contro Ottaviano; uno smacco plateale fu il rinvio della seduta senatoria convocata per il 24 novembre 68. È in queste settimane che Cicerone redige quella che Giovenale avrebbe chiamata la «divina Filippica» 69, sebbene forse mai pronunciata, cioè la seconda in cui sin dagli esordi scaglia brutalmente l’attacco ad Antonio quale nemico della repubblica. Più avanti, il 2 aprile del 43 a.C., Cicerone avrebbe rivendicato nuovamente la piena paternità del sostegno assicurato a Ottaviano, il merito di aver allontanato da Roma il giogo nefando del console e scongiurato il pericolo della morte dello Stato (perissent omnia), con un giudizio di valore su Ottaviano anche stavolta strabiliante: Caesaris vero pueri mirifica indoles virtutis.
66
P. GRATTAROLA, I cesariani dalle idi di marzo alla costituzione del secondo triumvirato, Torino 1990, p. 98; R. CRISTOFOLI, L’autunno della Repubblica. Lo scontro politico tra Antonio e Ottaviano nei mesi di ottobre e novembre del 44 a.C., in GIF 1 n.s., 2010, p. 61. 67 Per tutti P. GRATTAROLA, I cesariani, cit., p. 99. Contra, giustamente, R. CRISTOFOLI, L’autunno della Repubblica, cit., p. 63. 68 69
Cic. phil. 3.15.39; Liv. perioch. 117; Appian. bell. civ. 3.45.185. Iuven. sat. 10.25; R. CRISTOFOLI, Cicerone e la II Filippica, cit., passim.
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Ancora. Nel giugno successivo sempre allo stesso Bruto, che evidentemente non riusciva a capacitarsi di simili scelte, così ribadiva: Cic. ad Brut. 1.10.4: Quamquam enim dolebam in eam me urbem ire quam tu fugeres qui eam liberavisses, quod mihi quoque quondam acciderat periculo simili, casu tristiore, perrexi tamen Romamque perveni nulloque praesidio quatefeci Antonium contraque eius arma nefanda praesidia quae oblata sunt Caesaris consilio et auctoritate firmavi. Qui si steterit fide mihique paruerit, satis videmur habituri praesidi; sin autem impiorum consilia plus valuerint quam nostra aut imbecillitas aetatis non potuerit gravitatem rerum sustinere, spes omnis est in te. Cicerone credeva davvero nel giovane Ottaviano, nonostante nutrisse verso di lui ancora qualche dubbio per l’inesperienza e malgado l’opposta e arcigna valutazione di Bruto 70 che l’oratore provava continuamente a rintuzzare. La frattura con Bruto si allargò ancor di più, quando nel luglio del 43 a.C. Cicerone gli ribadì il suo definitivo profondo convincimento: Cic. ad Brut. 1.15.9: Suspicor illud tibi minus probari, quod a tuis familiaribus, optimis illis quidem viris sed in re publica rudibus, non probabatur, quod ut ovanti introire Caesari liceret decreverim. Ego autem, sed erro fortasse, nec tamen is sum ut mea me maxime delectent, nihil mihi videor hoc bello sensisse prudentius. Con una buona dose di sarcasmo, Cicerone provava a far riflettere Bruto sul fatto che coloro che si opponevano all’apertura al giovane Ottaviano erano certamente uomini degni ma poco addentro agli affari di Stato (quod a tuis familiaribus, optimis illis quidem viris sed in re publica rudibus, non probabatur). Insomma, quasi dei dilettanti inadeguati a guidare la res publica tra i marosi di quegli anni 71. Argomenti impietosi, per la verità, già espressi a Quinto Cornificio, il 20 marzo dello stesso anno: Cic. ad fam. 12.25.4: Ego, mi Cornifici, quo die primum in spem libertatis ingressus sum et cunctantibus ceteris a. XIII Kal. Ian. fundamenta ieci rei publicae, eo ipso die providi multum atque habui rationem dignitatis tuae, mihi enim est adsensus senatus de obtinendis provinciis. Nec vero postea destiti labefactare eum qui summa cum tua iniuria contumeliaque rei publicae provinciam absens obtinebat. Itaque cebras, vel potius cottidianas compellationes meas non tulit seque in urbem recepit invitus, neque solum spe sed certa re iam et possessione deturbatus est meo iustissimo honestissimoque convicio. 70
Cfr. Cic. ad Brut. 1.4; ad Brut. 1.4a; ad Brut. 1.17. In Cic. ad fam. 12.12.3 vi è invece un elenco di persone meritevoli di segnalazione in senato come benemerite della res publica. 71
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Si tratta di un documento importante, che contribuisce a darci un’idea precisa dello scontro politico che si consumava da mesi all’interno del senato tra la fazione cesariana, o filoantoniana, e quella lealista repubblicana e il ruolo di primissimo piano condotto da Cicerone che, in una precedente lettera del gennaio del 43 a.C., sempre indirizzata a Cornificio, rammentava e giustificava la sua sovraesposizione a favore di Ottaviano: Cic. ad fam. 12.24.2: Cum enim haec scribebam in exspectatione erant omnia. Nondum legati redierant quos senatus non ad pacem deprecandam sed ad denuntiandum bellum miserat nisi legatorum nuntio paruisset. Ego tamen, ut primum occasio data est meo pristino more rem publicam defendendi, me principem senatui populoque Romano professus sum, nec, postea quam suscepi causam libertatis, minimum tempus amisi tuendae salutis libertatisque communis. Ad esser precisi, i due fronti contrapposti erano tutt’altro che compatti, mentre si articolavano specularmente in due gruppi: i cesariani si dividevano tra i filoantoniniani e gli ostili disposti invece a collaborare con Ottaviano pur di logorare il console, considerato l’uomo forte del momento; gli altri, chiamiamoli i repubblicani, erano a loro volta divisi tra gli ottimati, per intenderci i fautori della linea ciceroniana, pronti a stringere qualunque accordo con chiunque contro Antonio, e i cesaricidi, con M. Bruto esponente di punta, disponibili ad ampie alleanze ma con un assoluta pregiudiziale verso Ottaviano 72. Ad ogni modo, in questa breve lettera traspare chiaramente l’orgogliosa rivendicazione di aver colto la prima occasione utile per dare il proprio contributo alla difesa della res publica: meo pristino more, alla mia vecchia maniera, si compiaceva Cicerone, con chiara allusione alla sua gestione della vicenda catilinaria. Non si tratta soltanto di un ulteriore consolidamento della consapevolezza di dover guardare più di quanto si sia sinora fatto, e con maggior attenzione, al rapporto Cicerone-Augusto, ricordando la stima nutrita, opportunisticamente o meno, dall’oratore in Ottaviano, il riconoscimento di doti inusuali in un giovane (intelligenza e coraggio), tanto da immaginarlo dalla propria parte 73. Nella lettera a Cornificio v’è di più; v’è la smisurata aspirazione di Cicerone di assumere ancora la guida dello Stato repubblicano, richiamato secondo le formule istituzionali attraverso il senato e il popolo: me principem senatui populoque Romano professus sum. Con queste rapide pagine, credo, si colga l’importanza dell’enorme giacimento di notizie contenute dal corpus epistolare ciceroniano, un autentico «barile di dinamite» 74, capace di far saltare in aria tutte le certezze dei moderni, e grazie al 72
R. CRISTOFOLI, Cicerone e l’ultima vittoria, cit., pp. 14 ss. Cic. ad Att. 15.16.2. 74 L’espressione, efficacissima, è di L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., p. 427. 73
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quale siamo in grado di seguire con scansione e profondità quelle fasi convulse, caratterizzate da tatticismo, continui capovolgimenti di fronte all’insegna del più imprevedibile opportunismo, alleanze tanto trasversali quanto fragili ed estemporanee, alla cui luce poi diventa assai utile e proficua la lettura complessiva e combinata delle versioni di Cassio Dione, Appiano, Svetonio e di quanto invece esse risultino, se singolarmente prese, ‘schiacciate’ nelle ricostruzioni e impoverite di fatti essenziali.
4. IL COLPO DI STATO: UN’INVENZIONE MODERNA Andiamo così al cuore della questione ovvero, alla luce dei fatti politici e dei passaggi istituzionali, proviamo a valutare rigorosamente sul piano dello ius publicum se Ottaviano davvero consumò un ‘colpo di Stato’. Cicerone nella difficile, complessa e tesa seduta senatoria del 20 dicembre del 44 a.C. aveva proposto un pacchetto di misure, tra cui la dichiarazione di hostis rei publicae avverso Antonio e le onorificenze a Ottaviano. Il testo di quelle proposte fortunatamente è stato conservato nella III Filippica: Cic. phil. 3.15.37-38: Quas ob res, quod tribuni plebi verba fecerunt uti senatus Kalendis Ianuariis tuto haberi sententiaeque de summa re publica libere dici possint, de ea re ita censeo. «Uti C. Pansa A. Hirtius, consules designati, dent operam uti senatus Kalendis Ianuariis tuto haberi possit. Quodque edictum D. Bruti, imperatoris, consulis designati, propositum sit, senatum existimare D. Brutum, imperatorem, consulem designatum, optime de re publica mereri, cum senatus auctoritatem populique Romani libertatem imperiumque defendat; [38] [...]. Cumque opera, virtute, consilio C. Caesaris summoque militum consensu veteranorum, qui eius auctoritatem secuti rei publicae praesidio sunt et fuerunt, a gravissimis periculis populus Romanus defensus sit et hoc tempore defendatur [...]». L’oratore intendeva ancorare su di un piano di assoluta legalità la posizione in effetti anomala del giovane Cesare. Il senato riconvocato per i primi di gennaio del 43 a.C. continuò la discussione, giungendo ad approvare una soluzione di compromesso tra i due schieramenti su una mozione avanzata appunto da Cicerone e anch’essa conservata nelle Filippiche: Cic. phil. 5.17.46: «Quod C. Caesar, Gai filius, pontifex, pro praetore, summo rei publicae tempore milites veteranos ad libertatem populi Romani cohortatus sit eosque conscripserit, quodque legio Martia quartaque summo studio optimoque in rem publicam consensu, C. Caesare duce et auctore, rem publicam libertatem populi Romani defendant, defenderint, [...] ob eas causas senatui placere, C. Caesarem, Gai filium, pontificem, pro praetore, senatorem esse sententiamque loco praetorio dicere, eiusque rationem, quemcumque magistratum peteret, ita haberi ut haberi per leges liceret, si anno superiore quaestor fuisset».
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Accogliendo la proposta di rigetto della dichiarazione di hostis rei publicae (ma si ammise quella del tumultus assai meno grave per Antonio, dichiarato soltanto inimicus) sostenuta dal tribuno della plebe Salvio ma soprattutto argomentata da Lucio Calpurnio Pisone, la cui appassionata e per alcuni passaggi convincente orazione ci è consegnata da Appiano 75, si raggiunse un punto di equilibrio, facilitato anche dall’irriducibilità di Antonio a cui fu inviata invano una delegazione composta da Pisone, Marcio Filippo e Sulpicio Rufo a trattare. Sull’ultima proposta di compromesso si coagulò una maggioranza senatoria rafforzata dalla convergenza dei kikerèneioi (i ciceroniani, li chiamava Appiano 76, il che ci dà un’idea precisa dell’intensità del lavorìo politico dell’oratore), che tuttavia dichiarava benemeriti della res publica Decimo Bruto e Ottaviano. A quest’ultimo in particolare si assegnava un imperium pro praetore da esercitare in via coordinata ma subordinata ai due consoli in carica; e ancora il titolo di senatore di rango questorio e la deroga alle leges annales sul requisito di età minima al fine della sua candidatura alle elezioni magistratuali. Il senato intese revocare così la lex de permutatione provinciarum, mediante una proposta di legge del console Pansa, per ratificare gli atti di Cesare e dichiarare nulle le leggi fatte votare da Antonio in contrasto con quegli atti 77, rilegittimando Decimo Bruto nel governo provinciale e facendo invece sconfinare l’attività di Antonio nel campo dell’illegalità costituzionale 78. Lo scenario è confermato dalla significativa conclusione dell’VIII Filippica, ove si riporta il termine ultimo del 15 marzo fissato mediante senatoconsulto per chi fosse intenzionato ad abbandonare Antonio per passare agli ordini dei consoli o di Ottaviano, cioè dalla parte della res publica. Come è facile ammettere, sin qui non vi è traccia di minaccia di Ottaviano verso il senato né alcuna posizione di forza armata che di fatto lo mettesse in condizioni di dettare una sua linea politica, semmai di riconosciuta legalità del suo operato. Non solo. Ottaviano non ottenne neppure l’egemonia del comando delle operazioni militari contro Antonio, come invece avrebbe voluto e aveva inizialmente richiesto a Cicerone. In questo senso, nella versione di Appiano, ma non sappiamo quanto sempre davvero aderente ai Commentarii del princeps 79, si racconta del forte disappunto di Ottaviano, ormai consapevole del75
Appian. bell. civ. 3.54-60. F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana2, cit., IV.1, pp. 71 s. Appian. bell. civ. 3.50-51. 77 Fonti e ricostruzione in F. REDUZZI MEROLA, Aliquid de legibus statuere. Poteri del senato e sovranità del popolo nella Roma tardorepubblicana, Napoli 2007, pp. 102 ss. 78 Una recente ricostruzione dei fatti in R. CRISTOFOLI, A. GALIMBERTI, F. ROHR VIO, Dalla repubblica al principato, cit., pp. 104 ss. 79 F. VON BLUMENTHAL, Die Autobiographie des Augustus, I, in WS 35, 1913, pp. 113 ss.; II, WS 34, 1914, pp. 267 ss.; III, WS 36, 1915, pp. 84 ss.; R.T. RIDLEY, Augustus: the Emperor writes his own account, in AA.VV., Political Autobiographies and Memoirs in Antiquity (a cura di G. Ma76
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l’abile mossa dei senatori di strumentalizzarlo associandolo ai consoli nel comando dell’esercito e svuotando in tal modo di fatto la sua posizione di comando in quanto appunto in posizione subalterna 80. D’altro canto, però, sul piano giuridico-formale Ottaviano riceveva, a seguito di un lungo dibattito dell’assemblea senatoria, la massima copertura politica e istituzionale. Tale è dunque l’incongruenza della tesi del golpe da aver indotto Pietro de Francisci, seguito anche da Francesco De Martino 81, a tentare di far quadrare i conti, bollando la proposta di Cicerone di sovversione della costituzione 82 e cambiando repentinamente il bersaglio della censura di illegittimità costituzionale. Né giova a suffragare la tesi eversiva tanto poggiare sul fatto che Ottaviano abbia usato Cicerone, perché lo stesso argomento varrebbe per l’oratore, avendo questi concepito, e più volte dichiarato, il disegno di usare strumentalmente il giovane Cesare contro Antonio 83, come per esempio possiamo ancora leggere nella V Filippica: Cic. phil. 5.16.42: Venio ad C. Caesarem, patres conscripti, qui nisi fuisset, quis nostrum esse potuisset? Advolabat ad urbem a Brundisio homo impotentissimus, ardens odio, animo hostili in omnis bonos cum exercitu Antonius. Quid huius audaciae et sceleri poterat opponi? Nondum ullos duces habebamus, non copias; nullum erat consilium publicum, nulla libertas; dandae cervices erant crudelitati nefariae; fugam quaerebamus omnes, quae ipsa exitum non habebat. Certo, in un clima del genere qualunque passaggio, se isolato, può essere guardato con sospetto e ritenuto munito di una carica eversiva; ma, se questo vuole sostenersi per Ottaviano, non meno sovversivo dovrebbe allora giudicarsi
rasco), Leiden 2011, pp. 268 ss.; Cesare Augusto Imperatore (a cura di L. De Biasi e A.M. Ferrero), cit., pp. 510 ss. Per L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., praecipue pp. 225 ss., che ha indagato sulle fonti di Appiano, «‘mescolare’ la storia repubblicaneggiante di Seneca padre con i Commentarii di Augusto era una buona trovata per inverare l’“imparzialità” tucididea, modello ormai innocuo se proiettato sulla storia di due secoli addietro». 80 Appian. bell. civ. 3.64.263-264. Senza considerare poi che il senato, dopo Modena, gli negò ogni onore nonostante le opposte raccomandazioni di Cicerone (ad fam. 11.20.1). 81 F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana2, cit., IV.1, pp. 69 ss. 82 P. DE FRANCISCI, Preannunci del Principato, cit., p. 8. Ma quando de Francisci scrive che quella di Cicerone era «una proposta senza dubbio sovversiva della costituzione, in quanto egli veniva a contrapporre ad un console (sia pure colpevole di numerose malefatte) un privato (ma meritevole agli occhi repubblicani di aver salvato lo (stato)», travisa la realtà dei fatti perché omette di dire che Cicerone e il senato si schierarono con i nuovi due consoli Irzio e Pansa a cui associarono, ma in via subalterna, Ottaviano. Per le medesime ragioni, ritengo infondato anche il punto di vista di R. CRISTOFOLI, L’autunno della Repubblica, cit., p. 57, secondo cui «Ottaviano rischiava un processo per attentato alla Repubblica dopo il reclutamento privato fatto in Campania». 83 L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., pp. 296 s., ha ragione nel richiamare il parallelismo con Pompeo, su cui vedi infra.
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il fatto che scatenò la strategia di Ottaviano, cioè la lex de permutatione provinciarum fatta votare da Antonio dai comitia centuriata o tributa 84. Con questo provvedimento legislativo Antonio si assicurava per il 43 a.C. per cinque anni il governo della Gallia Transalpina e della Gallia Cisalpina che veniva così sottratta a Decimo Bruto, destinato lì da Cesare, nonostante ne avesse già assunto la titolarità della giurisdizione. Impossibile, sotto il profilo squisitamente istituzionale e giuridico, non dare ragione a Cicerone che tuonava contro una lex illegittima: per vim et contra auspicia lata 85, assunta contro il parere del senato e per giunta da parte di un’assemblea popolare non competente in materia. È comprensibile che lo schieramento avverso ad Antonio reagisse iure, avrebbero detto, e che Ottaviano riuscisse con insperato successo a inserirsi in questa palese e profonda spaccatura in seno all’assemblea dei patres. Con questo non si vuol negare che non esistessero voci di dissenso interne al senato verso la linea politica ciceroniana di sostegno a Ottaviano; anzi, come abbiamo già ricordato, persino autorevolissimi esponenti dello ‘schieramento repubblicano’, come Bruto, non avevano esitato a mostrare sin dall’inizio perplessità e contrarietà. Non si vuol negare neppure che talune ‘forzature’ in effetti furono compiute, eppure è indubbio che la documentazione a nostra disposizione deponga a favore di un quadro certo turbinoso ma nient’affatto eversivo bensì di rispetto della legalità, e che quelle ‘forzature’ perpetrate a favore di Ottaviano, qualificate invece come eversive da alcune voci della storiografia antica e moderna, furono giocate sul terreno della politica e non della rottura delle
84 Nonostante Appian. bell. civ. 3.30.115-119 parli di comizi centuriati, G. ROTONDI, Leges publicae, cit., p. 432, ritiene essersi trattato dei comitia tributa. Credo che gli strali ciceroniani (Cic. phil. 1.11.25-26: […] “Quas tu mihi” – inquit – “intercessiones, quas religiones?” Eas scilicet quibus rei publicae salus continetur. “Neglegimus ista est nimis antiqua et stulta ducimus: forum saepietur; omnes cladentur aditus; armati in praesidiis multis locis conlocabuntur”. [26] Quid tum? Quod ita erit gestum, id lex erit?), soprattutto quelli fondati sul disprezzo manifestato da Antonio verso la religio, inducano a dar ragione ad Appiano, giacché Antonio convocò in foro i comizi centuriati. Ma anche se si fosse trattato dei comitia tributa, cosa che supererebbe il problema della violazione del vetusto divieto religioso di convocazione del popolo in armi all’interno del pomerio, è palese che Antonio abbia violato le ordinarie norme procedurali soprattutto relative ai tempi di convocazione; a tal riguardo vedi P. BUONGIORNO, La ‘lex’ in Cicerone al tempo delle ‘Philippicae’. Fra teoria e prassi politica, in AA.VV., Leges publicae. La legge nell’esperienza giuridica romana (a cura di J.-L. Ferrary), Pavia 2012, pp. 554 ss. Sul tema delle promagistrature e della prorogatio imperii invece, per tutti, G. NICOSIA, Lineamenti di storia della costituzione e del diritto di Roma, I, Catania 1977, pp. 218 ss.; F. ARCARIA-O. LICANDRO, Diritto romano, cit., I, pp. 151 ss.; I. BUTI, Appunti in tema di “prorogatio imperii”. I. Scansioni temporali delle magistrature, in Index 19, 1991, pp. 255 ss.; ID., Appunti in tema di “prorogatio imperii”. II. La casistica delle fonti fino al 218 a.C., in Index 20, 1992, pp. 435 ss.; ID., Considerazioni sul secondo periodo della prorogatio imperii, in AA.VV., Omaggio ad un Maestro. Per gli ottanta anni di Giovanni Nicosia, Messina 2829 settembre 2012 (a cura di N. Palazzolo e L. Russo Ruggeri), Torino 2014, pp. 65 ss. 85 Cic. phil. 5.3.7; phil. 5.4.10; Liv. perioch. 117.
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forme costituzionali e comunque attribuibili al senato che decise con una votazione convergente e largamente favorevole determinatasi attraverso l’assoluta libertà del dibattito. Nel luglio del 43 a.C., Cicerone scriveva una lettera 86 per spiegare ancora una volta a Bruto le ragioni della sua scelta obbligata dai propositi eversivi di Antonio (his ardentibus perturbandae rei publicae cupiditate): Cic. ad Brut. 1.10.6-7: Romam ut veni, statim in me incitavissem, consilia inire coepi Brutina plane (vestri enim haec sunt propria sanguinis) rei publicae liberandae. Longa sunt quae restant, mihi praetereunda; sunt enim de me. Tantum dico, Caesarem hunc adulescentem, per quem adhuc sumus, si verum fateri volumus, fluxisse ex fonte consiliorum meorum. [7] Huic habiti a me honores nulli quidem, Brute, nisi debiti, nulli nisi necessarii. Ut enim primum libertatem revocare coepimus, cum se nondum ne Decimi quidem Bruti divina virtus ita commovisset ut iam id scire possemus atque omne praesidium esset in puero qui a cervibus nostris avertisset Antonium, quis honos ei non fuit decernendus? Quamquam ego illi tum verborum laudem tribui eamque modicam, decrevi etiam imperium. Un vero manifesto politico e tattico, introdotto con il richiamo dell’abbattimento della tirannide dei Tarquinii vanto della stirpe dei Bruti. Per quanto gli scritti ciceroniani sembrino falsare, come ha scritto Emanuele Narducci, la prospettiva storica, «accreditando l’immagine di un Cicerone che stava praticamente da solo al timone della res publica, e quasi oscurando le altre forze e istanze politiche che pure contribuivano a formare gli orientamenti del senato», non vi è dubbio che l’oratore fosse alla testa di uno schieramento trasversale filottaviano e in grado di manovrare con consumata perizia non pochi incerti 87. Era necessario decretare quei riconoscimenti, quegli onori e quell’imperium a Ottaviano contro la cupiditas dominandi di Antonio. E nulla gli parve più assennato della sua proposta di decretare pure la concessione al giovane Cesare dell’ingresso a Roma con un’ovatio (Cic. ad Brut. 1.15.9: […] quod ut ovanti introire Caesari liceret decreverim […] nihil mihi videor hoc bello sensisse prudentius). Naturalmente le spiegazioni, la scelta di campo gli valsero la rottura con Bruto, e un disprezzo incontenibile espresso con l’asperrima accusa di non aver
86 Secondo L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., p. 364, furono diciotto le lettere inviate da Cicerone a Bruto negli ultimi mesi di vita dell’oratore culminanti con la rottura tra i due. Secondo lo studioso, Attico inserì deliberatamente questo piccolo carteggio che risultò utile ad Augusto per l’uso propagandistico e strumentale che ne fece della figura e del pensiero politico di Cicerone. 87 E. NARDUCCI, Cicerone, cit., pp. 418 s.
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voluto tanto evitare un dominus quanto cercare un padrone amico 88! Né vale scrivere, come pur autorevolmente qualcuno ha ritenuto di fare 89, che si sia così legalizzato il privatum consilium di Ottaviano, cioè il meditato ma non ancora compiuto ‘colpo di Stato’, perché è difficile legalizzare qualcosa di non ancora compiuto. Allora, se proprio un appunto si volesse muovere, si dovrebbe lamentare quello opposto della tronfiezza tracimante di RGDA 1.1, in cui Augusto si attribuiva ingiustificatamente il merito intero di aver riscattato da solo dall’oppressione di una fazione la res publica, così restituita alla libertà (annos undeviginti natus exercitum privato consilio et privata impensa comparavi, per quem rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi). Mentre in realtà il risultato fu conseguito grazie al contributo di uno schieramento largo, resta da sottolineare infatti sia che il trionfo fu decretato solo per Decimo Bruto e unicamente al quale si riconobbe il comando per la continuazione della guerra contro Antonio, sia che a Ottaviano fu negata persino l’ovatio, come pure decisa l’esclusiane dalla commissione per la distribuzione dei premi ai veterani 90. Plutarco, nella biografia di Cicerone, racconta lo stato d’animo di Ottaviano: Plut. Cicero 45.5-6: de…sasa d' ¹ boul¾ nšon ¥ndra kaˆ tÚcV lamr´ kecrhmšnon, ™peir©to tima‹j kaˆ dwrea‹j ¢pokale‹n aÙtoà t¦ strateÚmata kaˆ perisp©n t¾n dÚnamin, æj m¾ deomšnh tîn propolemoÚntwn 'Antwn…ou pefeugÒtoj, oÛtwj Ð Ka‹sar fobhqeˆj Øpšpempe tù Kikšrwi toÝj deomšnouj kaˆ pe…qontaj, Øpate…an m n ¢mfotšroij Ðmoà, crÁsqai d to‹j pr£gmasin Ópwj aÙtÕj œgnwke paralabÒnta t¾n ¢rc»n, kaˆ tÕ meir£kion dioike‹n, ÑnÒmatoj kaˆ dÒxhj glicÒmenon. [6] `Omologe‹ d' oân Ð Ka‹sar aÙtÒj, æj dediëj kat£lusin kaˆ kinduneÚwn œrhmoj genšsqai cr»saito tÍ Kikšrwnoj ™n dšonti filarc…v, protrey£menoj aÙtÕn Øpate…an metišnai sumpr£ttontoj aÙtoà kaˆ sunarcairesi£zontoj. Non è necessario pensare che la fonte di Plutarco fosse vicina a Ottaviano, perché il resoconto appare assai attendibile e oggettivo a cominciare proprio da lui, dipinto in una situazione non certo facile e comunque dipendente da Cicerone. La forte e fondata preoccupazione del giovane Cesare per la diffidenza, se
88 Cic. ad Brut. 1.16.7: Deinde, quod pulcherrime fecisti ac facis in Antonio, vide ne convertatur a laude maximi animi ad opinionem formidinis. Nam si Octavius tibi placet a quo de nostra salute petendum sit, non dominum fugisse sed amiciorem dominum quaesisse videberis. 89 L. LABRUNA, Le forme della politica tra innovazione e ripristino del passato. Dalle Idi di marzo ad Augusto principe, in AA.VV., Res publica e Princeps. Vicende politiche, mutamenti istituzionali e ordinamento giuridico da Cesare ad Adriano. Atti del Convegno internazionale di diritto romano, Copanello 25-27 maggio 1994 (a cura di F. Milazzo), Napoli 1996, p. 166. 90 P. DE FRANCISCI, Preannunci del Principato, cit., pp. 17 s.
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non per l’ostilità, incontrata in larghi settori del senato, pure all’interno dello schieramento a cui apparteneva, lo costringeva a cercare continuamente l’alleanza col vecchio consolare. E la proposta del consolato per entrambi, per quanto ritenuta oscura e non dimostrabile, appariva invece del tutto attendibile, confermata del resto pure da Cassio Dione e Appiano 91. Ad ogni modo, il filo diretto tra il giovane Cesare e l’oratore era solidissimo, e Plutarco ricavava le informazioni pure dagli scritti del secondo. La conferma la troviamo proprio nell’ultimo Cicerone: Cic. phil. 5.18.50: Omnis habeo cognitos sensus adulescentis: nihil est illi re publica carius, nihil vestra auctoritate gravius, nihil bonorum virorum iudicio optatius, nihil vera gloria dulcius. «Conosco ogni più recondito sentimento di questo giovane. Nulla gli è più caro della res publica, nulla gli incute più rispetto della vostra auctoritas, o senatori, nulla gli è più desiderabile che l’approvazione dei boni viri, nulla più dolce della gloria». Il passaggio ciceroniano è pregno di termini chiave e simbolici della cultura politica e istituzionale repubblicana; res publica, auctoritas, boni viri esprimevano alcuni fondamentali valori e Cicerone si faceva garante agli occhi del senato della sincera adesione a essi di Ottaviano. Se queste furono, dunque, le basi della posizione di Ottaviano nei 16 mesi che intercorsero dalle Idi di marzo del 44 a.C. (figura 16) all’elezione al consolato del 19 agosto del 43 a.C., in maniera univoca nonostante qualche sfumatura attestata dalle fonti contemporanee e successive 92, bisogna ammettere che la tesi del ‘colpo di Stato’, o del ‘golpe’, finisca eufemisticamente per sbiadire alquanto. Nella documentazione disponibile, qualche dubbio potrebbe sorgere soltanto grazie alla versione di Cassio Dione che, unico autore, ha raccolto e tramandato la notizia di un senatus consultum ultimum contro Ottaviano, divenuto così hostis rei publicae, con cui si affidava, in mancanza di consoli, ai pretori la difesa della res publica e il compito di notificare allo stesso Ottaviano di non avvicinarsi a Roma a meno di 750 stadii 93. Una notizia, questa, presa come oro colato da una voce autorevole come Matthias Gelzer 94 e da lui persino fantasiosamente arricchita con l’individuazione di un improbabile proponente: Cicerone. Pure Ronald Syme dinanzi alla testimonianza di Cassio Dione ha manifestato una qualche perplessità e non ha
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Cass. Dio 46.42.2; Appian. bell. civ. 3.82.337-339. Fonti: Appian. bell. civ. 3.12.40-42; Cass. Dio 46.44-46; Un quadro dettagliato delle vicende convulse, dei repentini cambiamenti di alleanze politiche e tattiche, oltre che in R. SYME, La rivoluzione romana, cit., pp. 197 ss., si trova nelle pagine di E. BETTI, La crisi della repubblica, cit., pp. 474 ss. 93 Cass. Dio 46.44. 94 M. GELZER, s.v. «Tullius n. 29», in PWRE VIIA, Stuttgart 1939, col. 1087. 92
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FIGURA 16. – Idi di marzo del 44 a.C.
mancato di usare una distaccata ironia 95; mentre in tempi recenti Luciano Canfora ha riconosciuto seccamente l’incauto errore di Mattias Gelzer su Cicerone, bollato come un’«inclinazione malsana a ‘combinare’ le fonti» 96. Diverso invece il convincimento di Canfora sul senatus consultum ultimum dichiarativo della condizione di hostis rei publicae di Ottaviano, che se davvero votato dal senato avrebbe sancito l’illegalità della sua azione. Per quanto allo stato delle nostre fonti la storicità del senatus consultum ultimum sia del tutto indimostrabile, egli dà credito allo storico greco, ma, assai più prudentemente di quanto nel 1939 lo sia stato Gelzer, stima che la versione dei fatti nota a Cassio Dione lo farebbe semplicemente supporre 97. Eppure, a far paurosamente vacillare la credibilità di Cassio Dione ci sarebbero ben altri argomenti. Innanzitutto, è inverosimile l’invio di un’ambasceria di quattrocento soldati con irruzione nella curia senatoria a richiedere il consolato, mentre la versione di Appiano prevede una più credibile delegazione di ufficiali 98. In secondo luogo, è anacronistica l’alleanza di Ottaviano con Antonio e Le-
95 R. SYME, La rivoluzione romana, cit., p. 206: «Se il Senato abbia dichiarato Ottaviano nemico pubblico non si sa: tali formalità stavano perdendo sempre più importanza». 96 L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., pp. 388 ss. 97 L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., p. 383. 98 Appian. bell. civ. 3.88.361.
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pido, quando invece l’inimicizia verso Antonio era già esplosa in maniera virulenta, avendo il giovane Cesare ricevuto dal senato l’investitura di condurre insieme ai consoli la guerra contro di lui. Quale sia la fonte di Cassio Dione su questi fatti è assai difficile capirlo, può osservarsi tuttavia qualche somiglianza nella descrizione della Periocha 119 di Livio 99, ove si menziona la ‘strana alleanza’ di Ottaviano con Antonio decisiva per il conseguimento del consolato, mentre la dichiarazione di hostis rei publicae è riferita ad Antonio. Non può escludersi che Cassio Dione abbia appunto attinto a quei materiali di precedenti epitomi affetti da gravi imprecisioni, che finirono poi nelle Periochae, quando furono redatte proprio tra il III e il IV secolo d.C. Comunque sia, il dibattito senatorio relativo all’apertura di tumultus e iustitium 100 per Antonio o quello, ancor oggi indimostrato, nei confronti di Ottaviano, costituiscono la prova che la dialettica politica nell’assemblea dei patres fosse ancora vitale e libera e concentrata sulle misure emergenziali previste appunto per la salvezza della repubblica. Anche Appiano fornisce una versione dei fatti collocata nell’alveo della legalità. A differenza di Cassio Dione, egli non dà notizie di violenze a cui si sarebbero abbandonati i legionari di Ottaviano, ma pensare che Appiano abbia deliberatamente omesso di raccontare le violenze delle legioni di Ottaviano, in aderenza ai Commentarii augustei, è un’ipotesi forzata 101. Se davvero Appiano avesse svolto quell’operazione selettiva, dovremmo tuttavia trovar traccia di atti eversivi e violenti in altre fonti, mentre di tutto ciò non vi è la benché minima traccia neppure nell’epistolario di Cicerone 102. Né vale puntare poi sulla volubilità del popolo che repentinamente si schierò con Ottaviano mentre i pretori gli si consegnarono. Se atti di violenza ci furono, e non non ci sarebbe da stupirsene, furono sparuti e contenuti negli effetti, e probabilmente esercitati nei confronti di esponenti marginali dello schieramento di Antonio. Quanto alla pretesa del consolato, sempre Cicerone informava Bruto, adirato dalla piega che la situazione prendeva in favore di Ottaviano, del lavorìo in corso, probabilmente da parte di autorevoli senatori, di far intravedere al giovane
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Liv. perioch. 119.6-7: Adversus C. Caesarem, qui solus ex tribus ducibus supererat, parum gratus senatus fuit, qui Dec. Bruto obsidione Mutinensi a Caesare liberato triumphi honore decreto Caesaris militumque eius mentionem non satis gratam habuit. [7] Ob quae C. Caesar reconciliata per M. Lepidum cum M. Antonio gratia Romam cum exercitu venit et praeclusis adventu eius his qui in eum iniqui erant, cum xviii annos haberet, consul creatus est. 100 A proposito del iustitium vedi L. GAROFALO, In tema di iustitium, in ID., Piccoli scritti di diritto penale romano, Padova 2008, pp. 61 ss. 101 L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., pp. 382 ss. 102 Salvo ammettere anche la purga del corpus ciceroniano. Sulla ‘bonifica’ dello stesso vedi le idee di L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., pp. 413 ss.
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Cesare la possibilità di ottenere la carica in coppia con lo stesso Cicerone 103. Ma anche a tal proposito bisogna precisare quello che non appare un semplice dettaglio. Il braccio di ferro che Ottaviano ingaggiò con una parte consistente del senato non riguardava tanto un aspetto legale: cioè Ottaviano non pretendeva un ulteriore ‘strappo’ alle regole a suo vantaggio, perché la deroga dell’età minima era stata già concessa con la precedente deliberazione senatoria (Cic. phil. 5.17.46: «[...] ob eas causas senatui placere, C. Caesarem, Gai filium, pontificem, pro praetore, senatorem esse sententiamque loco praetorio dicere, eiusque rationem, quemcumque magistratum peteret, ita haberi ut haberi per leges liceret, si anno superiore quaestor fuisset»). Lo scontro politico si addensò invece sul tempo della convocazione dei comizi popolari, poiché il senato attraverso un abile gioco di veti e ostruzionismi ritardava appunto strumentalmente la convocazione del comizio centuriato per l’elezione dei nuovi consoli, come rivela ancora Cicerone in una lettera a Bruto 104. Ora, in questo turbinio di fatti, di alternarsi e di continui capovolgimenti di posizioni e di schieramenti, individuare chi fosse fuori dall’alveo costituzionale è impresa non solo azzardata, ma sicuramente fuorviante. Certamente non ha facilitato, perché malcompresa, l’‘imbarazzante’ autodifesa senatoria condotta da Cicerone a proposito degli exempla Pompeii: aver arruolato un esercito privato 105; aver governato due province in età inferiore a quella minima richiesta per l’accesso al senato; aver riportato un trionfo senza essere titolare di una regolare magistratura. E cosa dire, ancora, del gesto, in quel caso davvero al di fuori di ogni consuetudine o prassi, diremmo oggi, costituzionale e perciò causa dello scoppio della guerra civile, di cancellazione dello ius intercessionis dei tribuni della plebe 106? Sebbene si dica ciclicamente che i precedenti del principato si inverarono già nell’esperienza pompeiana, è ad Augusto che si attribuisce ogni responsabilità eversiva. Il che ci fa capire che, proprio partendo dalla biografia di Pompeo, potremmo misurare l’esagerazione nell’interpretazione dei moderni di taluni gesta augustei giudicati come colpi mortali alla res publica.
103 Cic. ad Brut. 1.10.3; cfr. Cic. ad Brut. 1.4a; Cic. ad fam. 10.24.6; Cass. Dio 46.42.2; Plut. Cicero 45.5; Appian. bell. civ. 3.82.337-339, che evidentemente leggeva Cicerone ma disponeva anche di altre fonti ostili all’oratore. 104 Cic. ad Brut. 1.5.4: Omnino Pansa vivo celeriora omnia putabamus. Statim enim collegam sibi subrogavisset; deinde ante praetoria sacerdotum comitia fuissent. Nunc per auspicia longam moram video. Dum enim unus erit patricius magistratus, auspicia ad patres redire non possunt. Magna sane perturbatio. 105 Ma Cicerone presentò come degne di lode anche azioni contra leges di Bruto e Cassio: Cic. phil. 5.2.3; 5.11.28; 5.16.44; 10.11.23; 11.8.20; 11.12.27; 11.13.32; 14.2.4. 106 Caes. bell. civ. 1.7.2: novum in re publica introductum exemplum queritur, ut tribunicia intercessio armis votaretur atque opprimeretur.
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Luciano Canfora, da ultimo, ha giustamente richiamato le somiglianze tra le vicende politiche di Augusto e Pompeo: dalla loro irruzione in età assai giovanile sulla scena politica agli exempla istituzionali; e al tempo stesso non ha mancato di sottolineare quanta consapevolezza Augusto manifestò pubblicamente nel rifarsi a Pompeo princeps, che non volle farsi né monarca né dittatore, come modello utilizzabile tanto da restaurare alcuni luoghi ‘pompeiani’, come la casa 107. Se tutto questo è vero, sebbene da Eduard Meyer 108 a Mario Attilio Levi 109 sino ai nostri giorni si sia sostanzialmente sottovalutata la connessione tra Cicerone e Cesare scolpita limpidamente in alcuni passaggi della pro Marcello, e su cui ci soffermeremo più avanti, e se la ‘marcia su Roma’ allora non costituì certo quel ‘colpo di Stato’ che tanti ancora affermano, appare assai più utile fermarsi e ritornare a rileggere le fonti, provare a districarsi in quel groviglio di notizie in un quadro istituzionale e politico da tempo drammaticamente destrutturato, in cui l’individuazione del principio di legalità costituzionale è forse una delle cose davvero più ardue da ottenere. Soprattutto poi se consideriamo che in quell’esperienza la costituzione formale ebbe un ruolo del tutto residuale, come il pensiero acuto, e l’occhio attento al passato come al presente, di Giuseppe Branca avvertono: «Si può dire che trionfasse il tipo di comportamento favorevole al più forte nella comunità [...]: perciò la costituzione materiale era sempre in movimento, ora andava in un senso ora all’opposto. Il che rende vano, quanto meno nei settori in cui mancavano leggi e fino a quando queste ultime non intervenivano, ricercare una costituzione certa: quella che prevaleva era una costituzione elastica, perché approssimativa ed in continuo movimento pendolare, formata prevalentemente da apporti continui delle convenzioni; anzi, da convenzioni susseguenti a lotte più o meno aspre ovvero da convenzioni accettate dalle parti in conflitto come dichiarazioni di pace, quasi come armistizi» 110, a
107 L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., p. 298. Vedi anche F. HURLET, Auguste et Pompée, cit., pp. 467 ss. 108 E. MEYER, Cäsars Monarchie, cit., passim. 109 M.A. LEVI, Ottaviano capoparte, I, Firenze 1933. 110 G. BRANCA, Convenzioni costituzionali, cit., pp. 76 ss. [ora anche in AA.VV., Diritto e storia. L’esperienza giuridica di Roma attraverso le riflessioni di antichisti e giusromanisti contemporanei. Antologia a cura di A. Corbino, Padova 1995, pp. 85 ss.]; L. GAROFALO, Alcuni appunti di Giuseppe Branca sulle «convenzioni costituzionali» nell’antica Roma, in ID., Piccoli scritti di diritto penale romano, Padova 2008, p. 34. Parla di ‘norme forti’, come nucleo di norme costituzionali «attinenti all’esistenza stessa dello stato e perciò particolarmente rispettate e severamente difese contro i violatori, perseguiti con pene gravissime, privati a volte della cittadinanza, altre volte dichiarati nemici pubblici», A. GUARINO, Forma e materia, cit., p. 402. Più recentemente, P. CERAMI, Prassi e convenzioni costituzionali nel sistema della libera res publica romana, in AUPA 47, 2002, pp. 121 ss.; importanti anche le pagine di P. CERAMI-G. PURPURA, Profilo storico-giurisprudenziale del diritto pubblico romano, Torino 2007, pp. 102 ss.
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cui bisogna aggiungere precedenti e prassi costituzionali. Sicché anche tra i fautori dell’abbattimento rivoluzionario della costituzione repubblicana non è mancato chi ha comunque tenuto conto di questo fondamentale aspetto, come Pietro de Francisci, per riconoscere al princeps uno «squisito senso dei limiti di elasticità della costituzione repubblicana ed una finissima e sottile arte di governo» tali da avergli permesso di «giungere a trasformazioni radicali con mezzi legali» 111.
5. DALLA COMMUTATIO ALLA RESTITUTIO REI PUBLICAE Ora, se la propaganda augustea fu ossessivamente declinata all’insegna della restitutio rei publicae, vuol dire che dei cambiamenti dovettero pur verificarsi: il problema conseguentemente è accertare se, dinanzi a processi degenerativi della costituzione della tarda repubblica, Ottaviano abbia compiuto fatti o introdotto elementi di restaurazione. Allora, per provare a capirci meglio qualcosa, è utile ritornare sul campo della semantica. Una rinnovata e rinvigorita esigenza di riflessione e di indagine su quegli anni sta producendo, sia pur lentamente e con fatica, e nelle ricerche più avvertite, l’emersione di questi aspetti. Non sono mancati infatti studiosi interessati a ‘reinterpretare’ il significato giuridico-costituzionale di restitutio rei publicae, come ha fatto Jean-Louis Ferrary, intendendola nell’accezione ampia e labile di restaurazione di ‘un gouvernement constitutionnel’ 112. Oppure come nel caso di Luciano Canfora, la cui posizione affidata a un recente libro (tra il pamphlet e l’intervista) merita davvero di essere riportata: «Augusto è un grande architetto costituzionale. Conserva in pieno il controllo degli eserciti, attribuendoli solo alle province di cui nomina lui stesso i governatori, e sottrae le forze militari alle province di pertinenza del Senato. Però formalmente Augusto “restaura la Repubblica”: finita la lunga stagione triumvirale, non assume i poteri eccezionali su cui aveva puntato Cesare. Si assicura però la potestà consolare tutti gli anni, come Pericle del resto era stato eletto stratego ad Atene per trent’anni consecutivi. Siamo di fronte a due leader capaci di piegare l’ordinamento costituzionale a un potere personale di fatto, senza violarlo sul piano formale. Il capolavoro di Augusto è dunque una res publica restituta, cioè restaurata, in cui però l’auctoritas (concetto da lui reso quasi una “forma” costituzionale) è lo strumento della sua prevalenza come princeps ri-
111
P. DE FRANCISCI, La costituzione Augustea, cit., pp. 61, 96 s. J.-L. FERRARY, Res publica restituta, cit., p. 421; cfr. ID., À propos des pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 101 ss. 112
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spetto al Senato. Nella sostanza è una geniale finzione per conciliare la tradizione di Roma con un equilibrio politico nuovo» 113. Quelle di Ferrary e di Canfora, per quanto con sfumature diverse, sono idee che riportano con merito sul piano della ricerca la questione del rispetto delle forme costituzionali, sebbene sia questo un terreno assai sdrucciolevole per l’esperienza giuridica di Roma. Difficile anche pensare di poter configuare l’auctoritas come forma costituzionale 114. Entrambe queste posizioni indubbiamente correggono o attenuano drasticamente, come dicevo, la questione del ‘colpo di Stato’, della presa del potere attraverso la violenza e la forza militare, ma lasciano in sostanza irrisolto il dilemma se ci fu o no restitutio rei publicae o come questa debba comunque essere intesa. E, più in generale, cosa si intendeva per cambiamento di assetto istituzionale alla fine della repubblica. Diversi possono essere i testi da cui prendere le mosse per addentrarci nel merito della questione; uno fondamentale ritengo sia quello è contenuto nella biografia svetoniana: Svet. Aug. 28.1-4: De reddenda re publica bis cogitavit: primum post oppressum statim Antonium, memor obiectum sibi ab eo saepius, quasi per ipsum staret ne redderetur; ac rursus taedio diuturnae valitudinis, cum etiam, magistratibus ac senatu domum accitis, rationarium imperii tradidit. [2] Sed reputans et se privatum non sine periculo fore et illam plurium arbitrio temere committi, in retinenda perseveravit, dubium eventu meliore an voluntate. [3] Quam voluntatem, cum prae se identidem ferret, quodam etiam edicto his verbis testatus est: “Ita mihi salvam ac sospitem rem publicam sistere in sua sede liceat atque eius fructum percipere, quem peto, ut optimi status auctor dicar et moriens ut feram mecum spem, mansura in vestigio suo fundamenta rei publicae quae iecero”. [4] Fecitque ipse se compotem voti nisus omni modo, ne quem novi status paeniteret. Siamo dinanzi a un capitolo fondamentale della biografia augustea, in cui Svetonio narra lo snodo centrale della strategia politico-istituzionale di Ottaviano. Dopo aver descritto il travaglio profondo del vincitore di Azio sulla necessità di reddere rem publicam (de reddenda re publica bis cogitavit, ci pensò ben due volte), e sulla prospettiva istituzionale da assumere, di cui troviamo
113 L. CANFORA, Intervista sul potere (a cura di A. Carioti), Roma-Bari 2013, pp. 46 s. Usa l’espressione di «equilibrismo […] tra l’antica forma costituzionale della Repubblica e l’interprete della nascente monarchia», L. BRACCESI, Giulia, cit., p. 161; ID., Livia, Roma 2016, p. 134. Per altri aspetti del confronto Pericle-Augusto vedi infra. 114 Se mai in tempi successivi ad Augusto, secondo l’intrigante tesi di G. PURPURA, Sulla tavola perduta della Lex de auctoritate Vespasiani, in AUPA 45, 1998, pp. 415 ss. [= in Minima Epigraphica et Papyrologica 2, 1999, pp. 261 ss.].
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eco nella celeberrima discussione, sia pure riportata con creatività artistica da Cassio Dione 115, con Agrippa e Mecenate sulla futura forma da imprimere allo Stato, e nel discorso tenuto in senato nel 27 a.C., riferito da Cass. Dio 53.2-12, Svetonio chiude con un finale tanto interessante quanto la premessa, ovvero una citazione di un documento del futuro princeps, un edictum scrive Svetonio, fatto confermato da verba tipici di un intervento edittale: «Così mi sia concesso di porre salda e sicura la res publica nelle sue fondamenta e di coglierne il frutto che desidero: essere chiamato autore dell’ottima costruzione e portare con me morendo la speranza che rimarranno al loro posto le fondamenta della res publica che avrò gettato». Sono parole orgogliose, piene di determinazione, in cui il lettore coglie la sintesi della missione augustea: restituire la res publica, ma porre accanto alle vecchie fondamenta altre di nuove che potessero assicurarne salvezza e vitalità in futuro. Negli ultimi anni il testo svetoniano è tornato sotto i riflettori degli studiosi grazie all’aureus del 28 a.C. che, con la sua legenda LEGES ET IVRA P.R. RESTITVIT, ha riaperto il dibattito, apparentemente sopitosi, intorno alla presunta o reale restaurazione repubblicana condotta da Augusto sin dal 29-28 a.C. Ce ne siamo occupati in precedenza, ma è utile ritornarvi, ribadendo quanto sia del tutto inutile intestardirsi sulla questione della sincerità o ipocrisia di Augusto con un registro storiografico ormai sempre più logoro. Allo stesso modo, appare sempre più incongruo insistere, tentandone la dimostrazione, sui motivi della sete di potere e della perfida astuzia augustee applicate nello svuotamento, anzi nella mortificazione, delle istituzioni repubblicane. Una scaltrezza tanto spregiudicata da diffondere e sostenere questo disegno dinanzi agli occhi di tutti, facendosene persino beffa nelle Res Gestae. Una linea interpretativa questa, davvero contorta e sbiadita che finisce, da un lato, per trascurare persino il dibattito politico relativo alle riforme sostenute negli ambienti politici più autorevoli per condurre in salvo la res publica e che, dall’altro, impedisce pure di comprendere il ruolo di una figura significativa accanto ad Augusto quale Caio Ateio Capitone, giurista espertissimo in diritto pubblico e sacro. Insomma, uno dei più brillanti costituzionalisti in giro, diremmo oggi, del saeculum augusteo. Diventa marginale persino appurare se quelle parole di Ottaviano, nella veste svetoniana, costituirono effettivamente, come io comunque credo, parte del corpo edittale del 28 a.C. abrogativo delle norme eccezionali triumvirali, su cui più avanti tornerò, celebrato dall’aureus augusteo e del quale ci forniscono pre
115
Cass. Dio 52.1-41. Sulla questione vedi U. ESPINOSA-RUIZ, El problema, cit., pp. 289 ss.; ID., Debate Agrippa-Mecenas en Dio Cassio, cit., passim; E. ADLER, Cassius Dio’s Agrippa-Maecenas Debate: An Operational Code Analysis, in AJPh 133, 2012, pp. 477 ss.
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cise testimonianze sia Tacito sia Cassio Dione 116. Zehmacker 117 ha infatti giustamente difeso l’idea che il volumen rappresentato sul verso della moneta sia proprio quello contenente l’editto abrogativo di tutte o di alcune (il punto è ancora controverso) delle misure triumvirali. Tutto ciò, come dicevo, diventa secondario, mentre appare essenziale concentrarsi di più sulla portata del messaggio rivolto dal futuro princeps (e del background teorico e politico) all’opinione pubblica romana. John Scheid ha colto bene la cifra delle Res Gestae, dal punto di vista augusteo, con un preciso giudizio: «Les Res Gestae ne glorifient pas seulement les hauts faits et les libéralités du prince qui sentait la mort approcher ou venait de décéder. Elles présentent également comme une constitution génerale du principat, donnée sous forme de récit autobiographique, dans lequel Auguste essayait, en s’appuyant sur son auctoritas suprême, d’imposer à ses successeurs et aux Romains un modèle de régime politique capable de survivre à sa mort retomber dans les conflits politiques qui avaient déchiré Rome depuis un siècle» 118. Scheid, com’è evidente, utilizza in maniera consapevole le parole augustee dell’editto citato da Svetonio per realizzare una sorta di cerniera con le Res Gestae e in definitiva una continuità ideologica e di azione tra due momenti, ossia il biennio iniziale della transizione e la fine dell’avventura augustea. Scheid parla però di costituzione del principato: è il solo punto da cui mi allontano, perché sarebbe preferibile restare in sintonia con il lessico di Augusto e Svetonio, e quindi utilizzare sempre l’espressione res publica e non principato. Ma non nutro dubbi sul fatto che, per la piena comprensione di questo testo cruciale e del suo messaggio di avvio di una transizione istituzionale della res
116 Tac. ann. 3.28.2: Sexto demum consulatu Caesar Augustus, potentiae securus, quae triumviratu iusserat abolevit deditque iura, quis pace et principe uteremur; Cass. Dio 53.2.5: ™peid» te poll¦ p£nu kat£ te t¦j st£seij k¢n to‹ j polšmoij, te kaˆ ™n tÍ toà 'Antwn…ou toà te Lep…dou sunarc…a, kaˆ ¢nÒmwj kaˆ ¢d…kwj ™tet£cei, p£nta aÙt¦ di' ˜nÕj progr£mmatoj katšlusen, Óron t¾n ›kthn aØtoà àpate…an prote…j (E poiché, durante le agitazioni e le guerre, specialmente nel potere collegiale con Antonio e Lepido, [Ottaviano] aveva emanato moltissime disposizioni illegali e antigiuridiche, le abrogò tutte con un solo editto, ponendo come termine il suo sesto consolato). Sulla questione si rinvia a P. CEAUŞESCU, Das Programmatische Edikt des Augustus (Suet., Aug. 28, 2). Ein missverstandene, in RhMPhil 128, 1981, pp. 348 ss.; K.M. GIRARDET, Das Edikt, cit., pp. 231 ss.; D. WARDLE, Suetonius and Augustus’, cit., pp. 181 ss. Certo, qualche incertezza potrebbe sorgere una contraddizione: nei verba edicti riportati da Svetonio si parla di nuovi fundamenta rei publicae, mentre nell’aureus soltanto di una restitutio. In realtà, la contraddizione è soltanto apparente sia perché bisogna tener conto delle diverse modulazioni della propaganda sia perché restituere non esclude anche un intervento di consolidamento ulteriore delle istituzioni politiche di carattere innovativo. 117 118
H. ZEHNACKER, Quelques remarques, cit, pp. 1 ss. J. SCHEID, Res Gestae Divi Augusti, cit., p. lxi.
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publica verso un nuovo di equilibrio tra conservazione e innovazione 119, sia utile partire proprio dagli scritti di Cicerone in cui è riposta la giusta chiave di lettura per una corretta ricostruzione della vicenda augustea e delle concezioni che stettero alla base dei mutamenti istituzionali determinatisi nell’ultimo cinquantennio del I secolo a.C. Vedremo infatti che l’importanza di Svetonio apparirà ancor più chiara nel momento in cui si proverà a farlo dialogare con alcuni fondamentali testi di Cicerone; dal dialogo si irradierà un fascio di luce nuova tale da consentire una rilettura delle Res Gestae (e di altri documenti) almeno in alcuni dei suoi fondamentali passaggi istituzionali. *** Recentemente, Elisabetta Todisco si è dedicata all’analisi della teoria ciceroniana delle commutationes che avrebbero interessato le ultime convulsioni della res publica romana 120. La ricerca della studiosa ha avuto l’indubbio merito di far emergere il dato quasi mai messo ben a fuoco della concezione dello Stato e delle riforme possibili espressa attraverso il concetto del commutare che Cicerone immetteva con forza e originalità nel dibattito politico e giuridico del tempo. Come vedremo, si tratta di documenti che, da un lato, ci informano sulle reali teorizzazioni del pensiero ‘politologico’ e giuspubblicistico del tempo non filtrate dall’esperienza moderna, mentre, dall’altro lato, misurano l’abissale lontananza delle ricostruzioni storiografiche moderne, elaborate con gli strumenti del costituzionalismo contemporaneo, dalle concezioni formali e sostanziali della realtà istituzionale antica. Nel 55 a.C., ancora a un decennio circa dalle Idi di marzo, ad Anzio, Cicerone scriveva una lettera allo storico Lucceio, vecchio amico e suo sodale nello scontro con Catilina, perché mettesse mano alla redazione di un’opera di carattere storico-celebrativo incentrata sulle vicende pubbliche degli anni 64-57 a.C., per dar conto e interpretare i gravi turbamenti che avevano afflitto la vita politica e istituzionale: Cic. ad fam. 5.12.4: Quod si te adducemus ut hoc suscipias, erit, ut mihi persuadeo, materies digna facultate et copia tua. A principio enim coniurationis usque ad reditum nostrum videtur mihi modicum quoddam corpus confici posse, in quo et illa poteris uti civilium commutationum scientia vel in explicandis causis rerum novarum vel in remediis incommodorum, cum et reprehendes ea quae vituperanda duces et quae placebunt exponendis rationibus comprobabis [...]. 119 E. TODISCO, Il nome Augustus, cit., pp. 454 ss. Cfr. pure E.A. JUDGE, ‘Res Publica Restituta’, cit., pp. 279 ss.; G. ZECCHINI, Il cognomen «Augustus», cit., pp. 129 ss. 120 E. TODISCO, Cicerone politico, cit., pp. 121 ss.
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Da Lucceio, che aveva già narrato il bellum sociale e la guerra civile tra Mario e Silla, adesso l’oratore si attendeva la trattazione della vicenda catilinaria. L’importanza di questo documento è immediata, perché viene esposta, per quanto semplicemente abbozzata, una teoria delle commutationes istituzionali. Non vi è nient’altro del genere nella documentazione sopravvissuta: Cicerone, travagliato dagli scuotimenti del suo tempo, viveva una fase di operosità intellettuale particolarmente stimolante. Ragionava, analizzava, elaborava dedicandosi alla comprensione dei mutamenti, soprattutto quelli degenerativi, per individuarne causae, secondo l’indirizzo storiografico-apodittico, e soprattutto remedia (civilium commutationum scientia vel in explicandis causis rerum novarum vel in remediis incommodorum) 121. In una coeva lettera del febbraio del 55 a.C., indirizzata al proconsole Publio Lentulo, invitava a riflettere sui cambiamenti già verificatisi nello Stato romano: Cic. ad fam. 1.8.4: Commutata tota ratio est senatus, iudiciorum, rei totius publicae. Tutto era già mutato: il ruolo del senato, l’impianto dei processi, l’assetto istituzionale (rei totius publicae) 122. A nessuno sfugge la preziosità di questi dati, spesso non sempre individuati, isolati e valorizzati dagli studiosi moderni. La lettera di Cicerone ci permette di concentrarci meglio su di uno dei concetti generali più significativi in tema di ius publicum, ovvero la legittima concezione dell’esistenza di una pluralità di formae di res publicae e conseguentemente la legittimità del passaggio a una di queste. Prova ne è, tornando all’esortazione a Lucceio, che Cicerone non considerava affatto ogni commutatio esito di un processo degenerativo e/o eversivo. In questo senso, l’oratore ha disseminato nei suoi scritti spunti, dati, riflessioni che non possono vedersi solo come il frutto della propria personale visione, ma elementi della ricchezza del serrato e appassionato dibattito giuspubblicistico del suo tempo sul tema dei mutamenti politici e istituzionali. La riflessione su questi 121 In Cic. ad fam. 5.12.8, l’oratore manifestava l’intenzione di provvedere lui stesso all’opera qualora Lucceio avesse rinunziato, rinunzia che in effetti avvenne; L. CANFORA, Storici della rivoluzione romana, Bari 1974, pp. 50 ss. Però, sebbene non se ne sappia di più, non può escludersi che Cicerone abbia effettivamente scritto qualcosa del genere. Gli indizi, in effetti, ci sono: in Plut. Crass. 13.3 si allude a uno scritto perˆ tÁj Ùpate…aj contenente appunto informazioni sulla congiura di Catilina; mentre in Cass. Dio 39.10.2-3 si parla di «un libro segreto intitolato ‘Apologia della mia politica’», notizia di per sé misteriosa; e infine in Cic. ad Att. 15.4.3, l’oratore metteva l’amico a parte del suo proposito di scrivere un `Hrakle…deuon aliquod. 122 Cfr. Cic. ad Q. fr. 3.5.4: […] Angor, mi suavissime frater, angor nullam esse rem publicam, nulla iudicia, nostrumque hoc tempus aetatis, quod in illa auctoritate senatoria florere debebat, aut forensi labore iactari aut domesticis litteris sustentari […]. Vedi C. D’ALOJA, Legge di natura e lotta politica nell’opera di Cicerone, in AA.VV., Testi e problemi del giusnaturalismo romano (a cura di D. Mantovani e A. Schiavone), Pavia 2007, pp. 144 s.
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ultimi, in atto già da lunghi decenni e frutto dell’eredità annibalica, lo conduceva a manifestare, quasi ossessivamente, la preoccupazione di assicurare una qualche res publica. Nella terza orazione contro Catilina l’idea della varietà delle formae rei publicae era già sufficientemente tracciata: Cic. Catil. 3.10.25: Atque illae tamen omnes dissensiones erant eius modi quae non ad delendam, sed ad commutandum rem publicam pertinerent. Non illi nullam esse rem publicam, sed in ea quae esset se esse principes, neque hanc urbem conflagrare, sed se in hac urbe florere voluerunt. Atque illae tamen omnes dissensiones, quarum nulla exitium rei publicae quaesivit, eius modi fuerunt ut non reconciliatione concordiae sed internecione civium diiudicatae sint. Descrivendo le discordie civili, da Silla e Mario a quella tra Lepido e Catulo, Cicerone ammetteva che l’obiettivo dei protagonisti di quelle vicende non era affatto la distruzione della res publica, dello Stato (non ad delendam), bensì quello di guidare una propria commutatio (sed ad commutandum rem publicam). Appare in questo brano. È appena il caso di sottolineare la comparsa di uno dei motivi centrali della teorica ciceroniana, i principes, su cui torneremo più avanti. La differenza di polarità dei concetti è però chiarissima, e di questo non ha voluto tener conto Francesco Guizzi nella sua radicale persuasione di vedere in Cicerone un campione di quel conservatorismo più retrivo e pregiudizialmente terrorizzato dalle res novae 123. Giudizio, questo, infondato, almeno per Cicerone, nei cui scritti è perfettamente visibile lo spartiacque tra seditio e commutatio legittima determinato dalla precisa individuzione del concetto di res publica, solitamente intesa come precisa forma di governo repubblicano, e invece da interpretare come assetto istituzionale incompatibile con il regnum, ma flessibile o suscettibile di commutatio, cioè di cambiamenti di forma attraverso modalità legittime, come vedremo tra qualche pagina, che non solo potevano essere varie ma soprattutto ben distinte dall’evertere e dalla seditio. Se dobbiamo credere alla convizione con cui Cicerone scriveva ancora nel 45-44 a.C. della positiva commutatio rerum, cioè l’abbattimento del regnum, annunciata in sogno a Tarquinio il Superbo, mutamento della forma civitatis che avrebbe reso eccelso lo Stato romano (de div. 1.45.9), non vi è dubbio che siano proprio questi il senso e la portata nel pensiero ciceroniano del commutare, verbo che, ripeto, esprime un’idea e una concezione del cambiamento possibile purché nell’alveo della legalità repubblicana, a differenza del delere che invece sposterebbe ogni azione nel campo dell’eversione e dell’illegalità costituzionale 124. Eppure, le vicende politiche e le dinamiche istituzionali innescatesi, vissute e osservate con trepidazione da Cicerone, a partire dal conflitto tra Pompeo e Ce123 124
F. GUIZZI, Il principato, cit., pp. 208 ss. Per altri testi si rimanda a E. TODISCO, Cicerone politico, cit., pp. 124 ss.
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sare, avevano creato una così profonda, grave perturbatio della res publica, da indurlo a confessare, nel maggio del 49 a.C., a Marco Celio i suoi più reconditi timori della sopravvivenza della res publica stessa: Cic. ad fam. 2.16.5: Filio meo, quem tibi carum esse gaudeo, si erit ulla res publica, satis amplum patrimonium relinquam in memoria nominis mei; sin autem nulla erit, nihil accidet ei separatim a reliquis civibus. Con il gioco semantico ulla-nulla Cicerone traduceva gli eventuali, possibili esiti istituzionali delle turbolenze politiche tali da mettere in discussione la sopravvivenza di una qualche res publica (si erit ulla res publica) e tali da generare il forte timore di un crollo definitivo (nulla erit) 125. Il 10 ottobre del 44 a.C., Cicerone tornava a scrivere di forma rei publicae: Cic. ad fam. 12.23.3: Habes formam rei publicae, si in castris potest res publica. C’è evidente sarcasmo nelle parole di Cicerone: come potesse mai parlarsi di res publica in castris gli riusciva incomprensibile; ma l’oratore anche stavolta ci fa capire cosa bisogna intendere per forma rei publicae, ovvero un assetto istituzionale nel gioco degli equilibri politici liberi da forme di costrizione politiche o militari. Nel luglio del 43 a.C., in una missiva a Bruto vaticinava con impressionante lucidità ciò che sarebbe accaduto nel successivo quindicennio: Cic. ad Brut. 1.15.10: Satis multa de honoribus. Nunc de poena pauca dicenda sunt. Intellexi enim ex tuis saepe litteris te in iis quos bello devicisti clementiam tuam velle laudari. Existimo equidem nihil a te nisi sapienter. Sed sceleris poenam praetermittere (id enim est quod vocatur ignoscere), etiam si in ceteris rebus tolerabile est, in hoc bello perniciosum puto. Nullum enim bellum civile fuit in nostra re publica omnium quae memoria mea fuerunt, in quo bello non, utracumque pars vicisset, tamen aliqua forma esset futura rei publicae: hoc bello victores quam rem publicam simus habituri non facile adfirmarim, victis certe ulla umquam erit. Lo stanco oratore e statista non riusciva a contenere il pessimismo che da qualche tempo lo attanagliava, che lo precipitava in un baratro di oppressione morale, quasi di prostrazione per l’incapacità di scorgere una prospettiva di salvezza dell’ordinamento repubblicano oltre le nubi tempestose già stagliate all’orizzonte: nullum enim bellum civile fuit in nostra re publica omnium quae memoria mea fuerunt, in quo bello non, utracumque pars vicisset, tamen aliqua forma esset futura rei publicae. Mai nella storia di Roma era accaduto – scrive Cice-
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Cic. de re publ. 5.1.2; ad Att. 4.18 (16.10); ad Q. fr. 1.2.15.
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rone – di finire in una tale spirale di violenza e contrapposizione tra due schieramenti (partes) da rendere così incerta la sopravvivenza della res publica. Cicerone, però, non era turbato tanto dalla futura forma che la res publica avrebbe potuto assumere, quanto piuttosto dall’assoluta incertezza di poterne assumere una 126. Poco prima, sempre nella medesima lettera, Cicerone, nel rinnovare il plauso a Bruto e ai cesaricidi per aver spazzato la burrasca incombente del dominio di Cesare, non aveva lesinato accuse a Lepido e Antonio: Cic. ad Brut. 1.15.4: Post interitum Caesaris et vestras memorabilis Idus Martias, Brute, quid ego praetermissum a vobis quantamque impendere rei publicae tempestatem dixerim non es oblitus. Magna pestis erat depulsa per vos, magna populi Romani macula deleta, vobis vero parta divina gloria, sed instrumentum regni delatum ad Lepidum et Antonium, quorum alter incostantior, alter impurior, uterque pacem metuens, inimicus otio. His ardentibus perturbandae rei publicae cupiditate quod opponi posset praesidium non habebamus. Debellata la magna pestis cesariana, la sorte volle che il governo (instrumentum regni) spettasse a un incoerente, Lepido, e a una canaglia, Antonio, preoccupati soltanto di perturbare la res publica a vantaggio dei loro interessi. Il perturbamento dello Stato era dunque in atto da tempo, secondo Cicerone; gli scuotimenti erano tali non solo da aver incrinato irrimediabilmente la forma rei publicae da lui conosciuta ma anche tali, da rendere persino incerta qualunque forma di res publica: Cic. ad Brut. 1.15.12: Sed haec quidem non ita necessaria, illud valde necessarium, Brute, te in Italiam cum exercitu venire quam primum. Summa est exspectatio tui; quod si Italiam attigeris, ad te concursus fiet omnium. Sive enim vicerimus, qui quidem pulcherrime viceramus nisi Lepidus perdere omnia et perire ipse cum suis concupivisset, tua nobis auctoritate opus est ad collocandum aliquem civitatis statum; sive etiam nunc certamen reliquum est, maxima spes est cum in auctoritate tua tum in exercitus tui viribus. Invocava, Cicerone, l’arrivo immediato di Bruto e del suo esercito perché potesse nutrirsi ancora qualche speranza per lo Stato romano. In questo frammento Cicerone usa un’espressione sinonimica status civitatis, che è assolutamente equivalente a forma civitatis o forma rei publicae. E altrettanti equivalenti sono le espressioni alle quali Cicerone consegna tutta la sua profonda preoccupazione: aliqua forma rei publicae = aliqui status civitatis. Il dato inconfutabile che si ricava da questa comunque splendida lettera ciceroniana è la percezione della frantumazione dello Stato romano, cioè della res publica, in maniera così grave, così drammatica da far temere che non se ne potesse neppure plasmare una nuova forma.
126
A. LINTOTT, Cicero as Evidence, Oxford 2008, p. 418.
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Dello stesso tenore era stata l’esortazione a Marco Marcello dell’agosto del 46 a.C.: Cic. ad fam. 4.8.2: Illud tamen vel tu me monuisse vel censuisse puta vel propter benevolentiam tacere non potuisse, ut, quod ego facio, tu quoque animum inducas, si sit aliqua res publica, in ea te esse oportere iudicio hominum reque principem, necessitate cedentem tempori; sin autem nulla sit, hunc tamen aptissimum esse etiam ad exsulandum locum. e ugualmente ad Aulo Torquato nel 45 a.C: Cic. ad fam. 6.1.6: Quod facere non debes nec dubitare quin aut aliqua re publica sis is futurus qui esse debes aut perdita non adflictiore condicione quam ceteri. Eppure, la recrudescenza delle vicende degli ultimi tempi era tale, e ormai talmente destabilizzante, da indurre Cicerone persino a riporre in Cesare la speranza di ripristinare una qualche forma di res publica. La medesima tensione attraversata da Cicerone correva in tutti i suoi scritti degli anni 46-45 a.C., ma è davvero palpabile nella pro Marcello: Cic. pro Marcell. 9.27: Haec igitur tibi reliqua pars est; hic restat actus, in hoc elaborandum est ut rem publicam consituas, eaque tu in primis summa tranquillitate et otio perfruare. Tra agosto e settembre del 46 a.C., così scriveva a Lucio Papirio Peto: Cic. ad fam. 9.17.1-2: [...] primum quia de lucro prope iam quadriennium vivimus, si aut hoc lucrum est aut haec vita, superstitem rei publicae vivere; deinde quod scire quoque mihi videor quid futurum sit. Fiet enim quodcumque volent qui valebunt; valebunt autem semper arma. [...]. [2] [...] Qui si cupiat esse rem publicam qualem fortasse et ille vult et omnes optare debemus, quid faciat tamen non habet 127; lo sconvolgimento del quadro politico e istituzionale era così profondo da far dire a Cicerone che non era vita sopravvivere alla res publica. Addirittura c’era da augurarsi che Cesare, almeno una qualche forma di res publica, volesse assicurarla. Similmente, nell’ottobre successivo, confidava a Publio Servilio Isaurico un’apertura verso Cesare, nutrendo nel dittatore la fiducia di coltivare una qualche cura rei publicae: Cic. ad fam. 13.68.2: Sperare tamen videor Caesari, collegae nostro, fore curae et esse ut habeamus aliquam rem publicam. 127 Vedi M. PANI, Sul rapporto cittadino/politica a Roma tra repubblica e principato, in Politica antica 1, 2011, p. 126, ntt. 12 e 13.
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Anche in questa lettera ricorre il tema della speranza di preservare un’aliqua res publica. Ora, non ci interessa tanto sapere quanta connessione ci sia con alcuni frammenti della pro Marcello nella svolta filocesariana praticata da Cicerone; qui ci basta prendere atto di come l’oratore, anche in un tornante difficilissimo, quale furono gli anni dal 46 al 44 a.C., fosse principalmente avvolto dalla preoccupazione di assicurare alla res publica una qualche forma. Cicerone, dunque, non si preoccupava della repubblica, intesa quale precisa forma di governo, e per essere più precisi neppure di una precisa forma repubblicana, ma delle sorti dell’intero Stato. Res publica, dunque: sebbene sia questione ampiamente nota, l’espressione non va tradotta con repubblica ma è più prossima a ‘Stato’, da intendere cioè come organizzazione statale comunque opposta al regnum e alla tirannide: Cic. ad fam. 6.21.2-3: Atque utinam liceat aliquando aliquo rei publicae statu [...]. [3] De tuis rebus nihil esse quod timeas praeter universae rei publicae interitum tibi confirmo. Questo tema ricorrente, in modo quasi drammaticamente ossessivo, nelle opere e negli ultimi scritti di Cicerone, da filtrarsi anche mediante una lettura psicologica di un uomo prostrato dalla temperie infuocata che lo avvolgeva, in realtà ne contiene appunto uno più generale già presente in lui da tempo. Nella convulsione degli ultimi decenni, era mosso dall’urgenza di assicurare una qualche forma alla res publica, non una in particolare, ma certamente una che non somigliasse o non preludesse al regnum o peggio, ovvero l’assenza di res publica, di res publica nulla: Cic. de amic. 12.43: Mihi autem non minori curae est, qualis res publica post mortem meam futura, quam qualis hodie sit. Anche nel Laelius de amicitia, scritto all’indomani della morte di Cesare, Cicerone, sempre più impegnato a promuovere una profonda riflessione etica, morale della politica e un programma di riforma dello Stato, non si tratteneva dal ribadire ciò che più lo angustiava; un rovello continuo che non gli dava pace e che gli impediva di immaginare quale potesse essere dopo la sua morta la res publica. L’ossessione era tale da impegnarlo intellettualmente e preoccuparlo più per la futura res publica che per quella in cui stava vivendo. Nel novembre del 44 a.C., proprio quando si stagliava all’orizzonte la figura di Ottaviano e decideva di ritagliare, con il sostegno al giovane astro, il proprio ruolo politico di guida del senato, Cicerone attendeva alla stesura del De officiis. Sono i mesi che preludono all’ultima grande battaglia politica di Cicerone contro colui che si rivelerà il suo avversario mortale, Antonio: Cic. de off. 1.11.35: Mea quidem sententia paci, quae nihil habitura sit insidiarum, semper est consulendum. In quo si mihi esset obtemperatum, si non optimam, at aliquam rem publicam quae nunc nulla est.
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Nonostante l’incessante attività politica, Cicerone non riusciva a liberarsi dello sconforto che lo avvolgeva: la carta Ottaviano da giocare dinanzi al rifiuto del suo appello alla pace, lo induceva comunque a ritenere di essersi sprecata una straordinaria occasione di garantire un’aliqua res publica, mentre il caos, sempre più sovrastante la vita politica e istituzionale, era il presagio dell’annientamento della stessa (quae nunc nulla est). Sebbene in tutte le sue opere scorra forte questa tensione, il tema dell’aliqua forma rei publicae non costituiva affatto il frutto di un’esclusiva elaborazione ciceroniana, ma apparteneva alla concezione politica e istituzionale del tempo, quale organizzazione statale incompatibile col regnum. Nel carteggio tra Cicerone e il cesariano Dolabella vi è una lettera in tal senso particolarmente interessante: Cic. ad fam. 9.9.2-3: Satis factum est iam a te vel officio vel familiaritati, satis factum etiam partibus et ei rei publicae quam tu probas. [3] Reliquum est, ubi nunc est res publica, ibi simus potius quam, dum illam veterem sequamur, simus in nulla. Dolabella, che mantenne sempre rapporti saldissimi con Cicerone (ne aveva sposato la figlia Tullia), probabilmente su mandato dello stesso Cesare alla vigilia della vittoria definitiva contro Pompeo, lo invitava alla neutralità; ma lo faceva consigliando a Cicerone di scegliere di vivere dove un’aliqua res publica comunque esisteva, piuttosto che ostinarsi nella ricerca di una vetera res publica ormai nulla. In effetti Cicerone condivideva le valutazioni di Dolabella, riconosceva che un mutamento era già avvenuto; seppure a suo giudizio non si era trattato di una commutatio eversiva, come sosteneva in una lettera inviata nel 46 a.C. a Bruto, a raccomandazione del neoquestore M. Terenzio Varrone Gibba: Cic ad fam. 13.10.2: Sed tamen causa communis ordinis mihi commendatissimi fecit amicitiam nostram firmiorem. Deinde versatus in utrisque subselliis optima et fide et fama iam ante hanc commutationem rei publicae petitioni sese dedit honoremque honestissimum exsistimavit fructum laboris suis. Nell’ultimo suo anno di vita, esattamente nell’aprile del 43 a.C., un Cicerone sempre più esasperato, angosciato, tornava nuovamente a esortare Bruto a prendere in mano la situazione: Cic. ad Brut. 2.1.2-3: Ego autem ei qui sententiam dicat in principibus de re publica puto etiam prudentiam esse praestandan, nec me, cum mihi tantum sumpserim ut gubernacula rei publicae prehenderem, minus putarim reprehendendum si inutiliter aliquid senatui suaserim quam si infideliter. [3] [...] Quam ob rem ita te para, Brute, ut intellegas aut, si hoc tempore bene res gesta sit, tibi meliorem rem publicam esse faciendam aut, si quid offensum sit, per te esse eandem reciperandam.
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Dopo avergli ricordato che lui, Cicerone, non aveva esitato, tra gli uomini più illustri (principes) e competenti, a prendere in mano il timone dello Stato (gubernacula rei publicae prehenderem), lo invitava accoratamente ad analizzare le condizioni generali della res publica per assicurarle gli eventuali miglioramenti (meliorem rem publicam esse faciendam) o addirittura restaurarla (aut ... esse eandem reciperandam). Le medesime considerazioni trovano però posto anche nelle opere teoriche di Cicerone. In questo senso interessantissimi sono alcuni passaggi come quello contenuto in ciò che resta del libro V del De re publica dedicato al princeps, rector, moderator rei publicae: Cic. de re publ. 5.1.2: Nostra vero aetas cum rem publicam sicut picturam accepisset egregiam, sed iam evanescentem vetustate, non modo eam coloribus isdem, quibus fuerat, renovare neglexit, sed ne id quidem curavit, ut formam saltem eius et extrema tamquam liniamenta servaret. [...] Nostris enim vitiis, non casu aliquo, rem publicam verbo retinemus, re ipsa vero iam pridem amisimus. Una res publica vecchia, logora, scolorita, sfocata nei lineamenti, tanto da essere diventata quasi un simulacro, una vuota espressione priva di sostanza (rem publicam verbo retinemus, re ipsa vero iam pridem amisimus), è quella che ormai Cicerone vedeva sin dal 54 a.C., e ne scriveva anche in una lettera ad Attico 128. La visione di quella res publica ormai priva di colore, esangue, atterriva l’oratore in cui prorompeva incontenibile l’aspirazione a quello che era fine ultimo: la salvezza dello Stato romano (res publica), inteso in una qualunque forma che non fosse riconducibile però né a tirannide né a dominatus multitudinis (Cic. de re publ. 3.33.45). Nell’ultimo scorcio della sua vita 129, il tratto psicologico di Cicerone appare ancora più confuso e tormentato dal rovello drammatico dell’incertezza assoluta sulla futura forma della res publica: Cic. ad fam. 12.10.4: Persuade tibi igitur in te et in Bruto tuo esse omnia, vos exspectari, Brutum quidem iamque. Quod si, ut spero, victis hostibus nostris veneritis, tamen auctoritate vestra res publica exsurget et in aliquo statu tolerabile consistet. Sunt enim permulta quibus eirt medendum, etiam si res publica satis esse videbitur sceleribus hostium liberata. Dunque, l’auspicio della vittoria di Cassio e Bruto e, una volta conseguita questa, l’esortazione a rimettere in piedi la res publica e farle assumere uno sta128
Cic. ad Att. 4.18.2: Dices «Tu ergo haec quo modo fers?». Belle mehercule et in eo me valde amo. Amisimus, mi Pomponi, omnem, non modo sucum ac sanguinem sed etiam colorem et speciem pristinam civitatis. Nulla est res publica quae delectet, in qua acquiescam. 129 La lettera viene datata all’1 luglio del 43 a.C., cioè il giorno dopo la dichiarazione di Lepido come hostis rei publicae.
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tus tolerabilis; naturalmente, siamo ormai assai lontani dalla discussione sui migliori ordinamenti della città di de re publ. 1.20.33: Quam ob rem, ut hae feriae nobis ad utilissimos rei publicae sermones potissimum conferantur, Scipionem rogemus, ut explicet, quem existimet esse optimum statum civitatis.
6. LE LEGES COME STRUMENTO DELLA COMMUTATIO E REMEDIA AI MALI DELLA RES PUBLICA
Nella visione ciceroniana delle commutationes, a conferma di quanto sinora detto, un ruolo particolare era riservato alle leggi quali remedia contro le crisi istituzionali e strumenti fondamentali per varare legittime riforme istituzionali. Ripristinare condizioni di pace, ridare voce agli organi costituzionali repubblicani (senato e popolo) e procedere alle necessarie commutationes attraverso la lex erano le direzioni di marcia per uscire dalla gravissima crisi che scuoteva ormai da decenni la res publica: Cic. de inv. 1.68: Quinquepertita argumentatio est huiusmodi: “omnes leges, iudices, ad commodum rei publicae referre oportet et eas ex utilitate communi, non ex scriptione, quae in litteris est, interpretari. Ea enim virtute et sapientia maiores nostri fuerunt, ut in legibus scribendis nihil sibi aliud nisi salutem atque utilitatem rei publicae proponerent. Neque enim ipsi, quod obesset, scribere volebant, et, si scripsissent, cum esset intellectum, repudiatum iri legem intellegebant. Nemo enim leges legum causa salvas esse vult, sed rei publicae, quod ex legibus omnes rem publicam optime putant administrari. Quam ob rem igitur leges servari oportet, ad eam causam scripta omnia interpretari convenit: hoc est, quoniam rei publicae servimus, ex rei publicae commodo atque utilitate interpretemur. Nam ut ex medicina nihil oportet putare proficisci, nisi quod ad corporis utilitatem spectet, quoniam eius causa est instituta, sic a legibus nihil convenit arbitrari, nisi quod rei publicae conducat, proficisci, quoniam eius causa sunt comparatae. Ergo in hoc quoque iudicio desinite litteras legis perscrutari et legem, ut aequum est, ex utilitate rei publicae considerate”. Ricorrendo alla metafora della medicina utile al benessere del corpo, Cicerone prospettava la somma utilità delle leges contro la crisi delle istituzioni repubblicane, il degrado e il malfunzionamento: «infatti come dalla medicina non si può richiedere nulla se non ciò che sia di giovamento al corpo, in quanto, per questa ragione è stata istituita, così deve ritenersi che dalle leggi non si può richiedere nulla che non sia di beneficio per la res publica, perché le leggi sono state istituite per questo scopo» 130. 130 T.P. WISEMAN, Cicero and the Body Political, cit., pp. 133 ss.; E. TODISCO, Cicerone politico, cit., pp. 126 ss. In Cic. de off. 2.12.42 appare tutta la consapevolezza ciceroniana del valore
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La metafora organicistica, come è noto, un motivo sempre presente, largamente ripreso pure in età tardoantica, basti pensare alla chiusa finale del de rebus bellicis 131. Ciò che conta è che anche grazie a questo testo esce rafforzata l’idea di un Cicerone nient’affatto contrario ai cambiamenti istituzionali in sé (formae diverse di res publica), purché condotti attraverso la lex: con queste modalità e non con altre, secondo il pensiero giuspubblicistico, comunque si preservava una qualche forma di res publica. Del resto, lex e consensus, quest’ultimo implicito nella forma istituzionalizzata della voluntas populi, costituivano cardini fondamentali nella teorica ciceroniana, ancora ribaditi in una solenne e assai nota domanda retorica del De re publica: Cic. de re publ. 3.31.43: Ergo illam rem populi, id est rem publicam, quis diceret tum, cum crudelitate unius oppressi essent universi, neque esset unum vinculum iuris nec consensus ac societas coetus, quod est populus? Già nel 1981, Claude Nicolet aveva colto l’‘ansia riformatrice’ di un conservatore, un apparente ossimoro, che avvertiva pericoli mortali per lo Stato romano se non modellato in altre forme, un’aliqua forma rei publicae; il vecchio consolare non nutriva alcuna esitazione nell’assumere posizioni imprevedibili per la sua storia politica, dietro la forza argomentativa della necessità di interventi, qualunque ne fossero l’entità e la portata, sulla forma per il fondamentale valore della salus rei publicae 132: Cic. ad fam. 12.4.1: Itaque ad nos concurritur, factique iam in re salutari populares sumus. Non vi è alcun dubbio che la concezione ciceroniana possa risultare non leggibile o incomprensibile ai moderni giuspubblicisti che restano ancorati, e non potrebbe essere diversamente, a una linea di giurisprudenza costituzionale ancora oggi rinsaldata 133, secondo cui la salus rei publicae non ammetterebbe rimedi extracostituzionali, in quanto ogni emergenza dovrebbe essere affron-
isonomico della legge, su cui A. SCHIAVONE, Ius, cit., p. 95; E. STOLFI, Quando la Legge non è solo legge. Introduzione di U. Vincenti, Napoli 2012. 131 Anon. de rebus bell. 21.1-2: Divina providentia, sacratissime imperator, domi forisque rei publicae praesidiis comparatis, restat unum de tua serenitate remedium ad civilium curarum medicinam, ut confusas legum contrariasque sententias, improbitatis reiecto litigio, iudicio augustae dignationis illumines. [2] Quid enim sic ab honestate consistit alienum quam ibidem studia exerceri certandi ubi, iustitia profitente, discernuntur merita singulorum? Sui vari problemi su cui si è incentrato il dibattito scientifico vedi S. MAZZARINO, Il de rebus bellicis, cit., pp. 221 ss.; ANONIMO, Le cose della guerra, cit., passim. 132 CL. NICOLET, Legittimità di un interrogativo, in AA.VV., La rivoluzione romana. Inchiesta tra gli antichisti, Napoli 1981, pp. 8 ss. 133 Cort. Cost. nn. 148, 151 e 198 del 2012.
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tata con i rimedi consentiti dall’ordinamento costituzionale. Eppure anche oggi la prassi è cosa ben diversa da questo orientamento teorico. Si pensi alle riforme, anche incostituzionali, imposte da organismi sovranazionali non elettivi; e ancora, se è lecito chiedersi, a costituzione scritta, rigida e lunga, possiamo dire di trovarci ancora con una forma di governo parlamentare oppure siamo già con più di un piede in una repubblica con accentuati tratti di presidenzialismo? Questa lunga rassegna di testi, forse meritevoli di ben altro approfondimento, ha dimostrato come il contenuto del dibattito storiografico moderno sul tema della restitutio rei publicae sia, non voglio dire fuorviante, ma certamente non l’unico punto di vista. Evitando di fraintendere questa espressione, inadeguata a essere letta e interpretata con le lenti delle nostre attuali concezioni, non assimilabile ai parametri del nostro costituzionalismo o della moderna teoria generale del diritto e dello Stato, ma secondo criteri e concezioni del tempo 134, altre vie di indagine e di ricostruzione sono possibili. Se così è, accertate la centralità e la forza del termine forma 135, le moderne e variegate interpretazioni dell’espressione restitutio rei publicae mostrano tutte la loro intrinseca debolezza. Che significhi restituire, o restaurare o rimettere in piedi, o altro ancora 136, credo che bisogna prendere atto di ciò che Augusto nella sua estrema, lapidaria semplicità affermava: per quanto possa apparire banale, egli si limitava a dire di aver restaurato la res publica, obiettivo che in fin dei conti, come abbiamo sinora visto coincideva con l’aspirazione di Cicerone. Il problema è semmai vedere quale fu alla fine la forma che essa, la res publica, ovvero lo Stato romano 137, assunse.
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Per avere un’idea precisa di tali condizionamenti è molto utile la lettura di C. LANZA, Auctoritas principis, cit., I, passim. A cui aggiungerei il recente contributo di M. FIORAVANTI, Il problema dell’ordine costituzionale nell’epoca del diritto pubblico statale, in AA.VV., L’ordine costituzionale come problema storico. Atti del Convegno della Società Italiana di Storia del diritto, Parma 15-16 dicembre 2011 (a cura di S. Puliatti), Torino 2016, pp. 17 ss. 135
Cic. tusc. 2.15.36: Itaque illi, qui Graeciae formam rerum publicarum dederunt [...]. Vedi infra § 10. 137 Vedi i saggi di M. BRETONE, Il tempo e la norma, pp. 7 ss., e I. LABRIOLA, La legge del tempo e il tempo della legge, pp. 21 ss., entrambi pubblicati in AA.VV., Continuità e trasformazioni fra res publica e principato. Istituzioni, politica, società (a cura di M. Pani), Bari 1991. Per ulteriori aspetti di carattere generale sono utili le pagine di F. GRELLE, L’archeologia dello Stato in Savigny e Mommsen, in AA.VV., Problemi e metodi della storiografia tedesca contemporanea (a cura di B. de Gerloni), Torino 1996, pp. 133 ss. [= in ID., Diritto e società nel mondo romano (a cura di L. Fanizza), Roma-Bari 2005, pp. 433 ss.]. 136
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7. IL GRADUALISMO DELLA STAGIONE RIFORMATRICE: I NUOVI DOCUMENTI E LA LORO INTIMA CONNESSIONE
Una volta tratteggiato il quadro, in maniera sufficientemente chiara e coerente grazie al corpus ciceroniano, vediamo adesso l’aspetto, a mio giudizio, maggiormente sottovalutato, ovvero la gradualità del processo riformatorio di Augusto composto da una pluralità di gesta. Gradualità credo che sia infatti la prospettiva per lo più mancata nelle analisi dedicate alla genesi del principato: guerre, scontri, fazioni, attentati, atti di rottura istituzionale, destrutturazione del potere politico hanno insieme contribuito perché si schiacciasse ogni profondità storica e si perdesse la prospettiva dinamica e processuale della costruzione del novus ordo. Eppure, in un penetrante saggio apparso nel 1986, Werner Eck aveva sottolineato che «in der heutigen Wissenschaft ein Faktor zu wenig zum Tragen zu kommen, der doch für die Beurteilung der augusteischen Politik von fundamentaler Bedeutung ist: der Faktor Zeit» 138. Il ‘fattore tempo’ sostanzialmente accantonato dalla storiografia moderna diventa ineludibile per capire sino in fondo la strategia politica e le mosse istituzionali di Augusto: prudenza, pragmatismo, necessità dettarono scelte e tempi, di un capo incontrastato che si trovava dinanzi il problema di rassicurare quella medesima ed esausta opinione pubblica sui tratti del nuovo regime politico. Le forme costituzionali, per quanto assai elastiche, andavano rispettate, osservate, ripristinate, laddove violate o stravolte dal turbinio dell’ultimo decennio, dimostrando che il novus ordo di cui stava facendosi auctor sarebbe stato cosa ben diversa da quello espresso dagli odiati nomina di rex e regnum 139 e che la nuova forma rei publicae sarebbe stata, come scriveva Cicerone, quantomeno tolerabilis. Per la verità, in passato vi è stato pure chi, come Palmer 140, ha pensato addirittura di retrodatare al 36 a.C. i primi tentativi augustei di restaurazione repubblicana, sulla base della profonda consapevolezza della «immense unpopularity» goduta dal triumvirato. Quarant’anni dopo il contributo di Palmer, possiamo dire di disporre di una migliore documentazione e minori condizionamenti culturali. In questo senso, anche la sottovalutazione del ritorno al regime consolare collegiale dopo un lungo ventennio, cioè dal 48 a.C., costituisce un grave errore storiografico. Se proviamo allora a mettere in connessione il passo della biogra138 W. ECK, Augustus’ Administrative Reformen: Pragmatismus oder systematisches Planen?, in Acta Classica 29, 1986, p. 105. Vedi pure F. HURLET-A. DALLA ROSA, Un quindicennio di ricerche su Augusto, cit., pp. 206 s. Non è, a ben vedere, una assoluta novità, perché già P. DE FRANCISCI, La costituzione Augustea, cit., p. 61, aveva già riconosciuto la dimensione processuale dell’impianto augusteo, parlando di «tentativi e di esperienze». 139 A. LA PENNA, Sallustio, cit., pp. 60 ss. 140 R.E.A. PALMER, Octavian’s First Attempt to Restore the Constitution (36 B.C.), in Athenaeum 66, 1978, pp. 315 ss.
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fia svetoniana relativo al 28 a.C. con alcuni tra i documenti di recente rinvenimento, la nostra ricostruzione acquista una particolare solidità. Cominciamo con l’aureus 141 del 28 a.C., la cui legenda leges et iura p(opuli) R(omani) restituit 142, secondo la convincente interpretazione di Dario Mantovani, è messa in diretta connessione con l’edictum del 28 a.C. menzionato da Cassio Dione e Tacito: Cassio Dio 53.2.5: 'Epeid» te poll¦ p£nu kat£ te t¦j st£seij k¢n to‹j polšmoij, ¥llwj te kaˆ ™n tÍ 'Antwn…ou toà te Lep…dou sunarc…v, kaˆ ¢d…kwj ™tet£cei, p£nta aÙt¦ di' ˜nÕj progr£mmatoj katšlusen, Óron t¾n ›kthn aÙtoà Øpate…an proqe…j 143. Tac. ann. 3.28.2: Sexto demum consulatu Caesar Augustus, potentiae securus, quae triumviratu abolevit deditque iura, quis pace et principe uteremur; editto di cui io non dubito, a differenza della cronologia immaginata da Girardet 144 e da Wardle 145, trattarsi del medesimo di cui parla Svetonio (de reddenda re publica), quale probabile avvio formale della restitutio rei publicae. Alcune voci della critica moderna sono incorse in un eccesso di semplificazione, operando invece un nesso tra l’aureus e il rem publicam transferre di RGDA 34.1. In realtà, si tratta di momenti e di profili diversi 146. L’emissione monetaria del 28 a.C. attesterebbe che la restitutio non consistette affatto in quell’atto solenne e unico consumatosi teatralmente nella seduta senatoria del gennaio del 27 a.C., ma che ebbe carattere ‘processuale’, nel senso che si trattò di una fase di restaurazione e di ricostruzione repubblicana dipanatasi in più atti e nell’arco cronologico di due anni, culminanti in quella seduta del 27 a.C. In particolare, l’aureus allora, nella cui legenda il restituere significherebbe ‘ripristinare’ o ‘rimettere in piedi’ piuttosto che ‘riconsegnare’, celebrerebbe soltanto l’abrogazione dell’odiosa legislazione speciale triumvirale in assoluta concordanza con le versione di Cassio Dione e di Tacito che si integrano con quella di Svetonio 147.
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Vedi supra CAPITOLO PRIMO, § 4. Sullo scioglimento di p.R. al genitivo vedi principalmente D. MANTOVANI, Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit, cit., pp. 5 ss.; E. TODISCO, La res publica restituta, cit., pp. 341 ss. 143 Cass. Dio: «E poiché, durante i disordini e le guerre, specialmente nel potere collegiale con Antonio e Lepido, aveva emanato molti provvedimenti illegali e ingiusti, li abrogò tutti con un solo editto, ponendo come termine il suo sesto consolato». 144 K.M. GIRARDET, Das Edikt, cit., pp. 231 ss. 145 D. WARDLE, Suetonius and Augustus, cit., p. 198 nt. 58, rende noto di aver raccolto, attraverso una comunicazione privata, l’opinione di J.W. Rich che giudica probabile si tratti dello stesso editto. Wardle però ritiene che la promulgazione risalga al 27 a.C. e in relazione alla translatio rei publicae. 146 L. FANIZZA, Autorità e diritto, cit., pp. 93 ss.; cfr. P. BIANCHI, Iura-Leges, cit., pp. 8 s. nt. 11. 147 Vedi supra e infra. 142
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Con un recente contributo, Alberto Dalla Rosa 148 ha affacciato l’ipotesi, ben argomentata, secondo cui l’abrogazione delle misure triumvirali, soprattutto quelle odiosissime sulle proscrizioni, fu l’ultimo atto di esercizio dei poteri speciali triumvirali da parte di Ottaviano, che aveva del resto già avviato il processo riformatore e di restaurazione nel 29 a.C. A questa lettura, si è contrapposta quella di Luigi Pellecchi 149 che, riprendendo una proposta di Mantovani 150, ha invece spostato nettamente la questione su altri piani: innanzitutto, l’abrogazione del 28 a.C. non costituì una sorta di «colpo di spugna generale» e indiscriminato di tutte le odiose misure triumvirali, ma riguardò essenzialmente quelle di carattere fiscale adottate dai triumviri con l’obiettivo in particolare di «ripristinare quella condizione di immunità tributaria, rotta dalle guerre civili, di cui i cives avevano goduto per decenni». Inoltre, la legittimazione all’emanazione dell’editto non risiedeva nella titolarità dei poteri straordinari bensì nella potestas censoria concessa con delega legislativa a Ottaviano. Molto penetrante e ben argomentata è questa seconda ricostruzione; che si aggiunge allo spettro di ipotesi sui poteri di Augusto formulate a partire da Mommsen: che non avesse ancora deposto quelli straordinari, o che i poteri a cui si faceva riferimento fossero quelli, soprattutto militari ed eccezionali, derivati dalla coniuratio, oppure ancora che fosse la tribunicia potestas a vita (forse già conferita dal 36 a.C.) 151 a costituire la fonte di legittimazione dell’editto del 28 a.C., quale atto conclusivo di quella terribile stagione 152. Al contrario, continuo a sostenere come ad Augusto per tenere il controllo della situazione bastasse la carica consolare. Non solo perché questo sembrerebbe logicamente dedursi da RGDA 34.1-2, ma anche perché convergono sia la versione di Svetonio, che ricorda il rovello continuo che afflisse Ottaviano sulle vie d’uscita dalla crisi istituzionale, con il riscontro del dialogo tra Ottaviano, Agrippa e Mecenate sulla forma di governo da adottare per la res publica collocato nel 29 a.C. 153, sia perché verrebbe meno la ragione di trovare ad ogni costo una particolare legge di delega a Ottaviano di poteri ulteriori rispetto a quelli consolari di cui non v’è traccia nella documenta-
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A. DALLA ROSA, L’aureus del 28 a.C. e i poteri triumvirali di Ottaviano, cit., pp. 171 ss. L. PELLECCHI, ‘Quae triumviratu iusserat abolevit’, cit., pp. 431 ss. 150 D. MANTOVANI, Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit, cit., pp. 36 ss. 151 Vedi le riflessioni di F. HURLET-A. DALLA ROSA, Un decennio di ricerche su Augusto, cit., pp. 180 s. A questa conclusione sembrerebbe giungere l’indagine di D. KNIBBE, Lex portorii Asiae. Versuch einer Wiederewinnung des lateinischen Originaltextes des Zollgesetz der römischen Provinz Asia (nomos telous Asias), in IÖAI 69, 2000, p. 166, secondo cui le città potevano ottenere l’esenzione fiscale del portorium grazie alla tribunicia potestas del princeps. 152 Per tutti F.J. VERVAET, The Secret History, cit., pp. 100 ss. 153 Cass. Dio 52.1-41, vedi supra. 149
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zione disponibile, bastando invece soltanto un senatoconsulto grazie al quale emanare appunto un editto 154. L’aureus con il suo forte messaggio politico era certamente il segno celebrativo di un accadimento, ma nel suo significato più ampio costituisce per noi la preziosa e inequivocabile documentazione dell’inizio ufficiale della restitutio rei publicae. Come lo stesso Augusto scrive nel cap. 34.1, la translatio rei publicae avvenne durante il sesto e settimo consolato, ovvero in un preciso lasso di tempo, i due anni cruciali del 28 e del 27 a.C. Ora, se è indubbio che leges et iura populi Romani restituere sia cosa diversa da rem publicam transferre; altrettanto incontestabile è l’affinità tra restitutio rei publicae e translatio rei publicae. Restituere rei publicae, espressione di linguaggio figurato, esprimerebbe l’idea di Augusto che rimette in piedi uno Stato prostrato, mentre transferre rem publicam avrebbe una connotazione assai più politica e giuridica del ripristinato funzionamento dei legittimi organi costituzionali dello Stato romano. In definitiva, schematizzando potremmo dire che nel 28 a.C. Ottaviano, privo dei poteri triumvirali, abrogava la legislazione triumvirale 155 e ripristinava così il normale funzionamento delle cariche magistratuali nel loro rapporto istituzionale con le assemblee popolari. Ancora. Reintrodotto il regime della lex Pompeia de provinciis del 52 a.C. relativo alle modalità di attribuzione dei governatorati, riconsegnava formalmente il potere decisionale al senato e ai comizi. In cambio gli veniva attribuito per dieci anni (ma è verosimile che il periodo sia stato un quinquennio rinnovabile) il governo delle Spagne, Gallie, Siria, Cipro ed Egitto. Nel 27 a.C., invece, nel corso della celeberrima seduta senatoria del 13 gennaio, egli avrebbe perfezionato la ‘restaurazione repubblicana’ con l’affermazione della centralità del senato; la cessazione della sua condizione di potentia non aveva altro senso che il ritorno definitivo nell’alveo della legalità repubblicana, a cui si faceva seguire, come inedito e altissimo riconoscimento, l’attribuzione dell’appellativo di Augustus. Questo assetto, ora assai meglio documentato, dissolve ogni dubbio sulla chiarezza, persino banale, di RGDA 34.3, in cui
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L. PELLECCHI, ‘Quae triumviratu iusserat abolevit’, cit., pp. 469 ss., sebbene in via congetturale, osserva che la legge di delega della potestà censoria abbia potuto avere uno stilema tipo (provideant consules ambo alterve), a legittimazione delle misure adottate da Ottaviano console in assenza del conlega. Pellecchi ricorda però che a stilemi del genere si ricorreva non solo per le leges (vedi per esempio quelle municipali), ma anche per i senatusconsulta. 155 Non convincente e per certi versi incomprensibile è invece la ricostruzione di F.J. VERVAET, The Secret History, cit., pp. 100 ss., laddove crede che Ottaviano avrebbe mantenuto sino alla translatio rei publicae la carica di trimvir r.p.c., estendendola cioè sino al 27 a.C. Si distinguono H. BÖRM-W. HAVENER, Octavianus Rechtsstellung im Januar 27 v. Chr. und das Problem der ‘Übertragung’ der Res Publica, in Historia 61, 2012, pp. 202 ss., per i quali erano scaduti i poteri straordinari costituenti e il fondamento del potere immenso di Ottaviano era il consensus universorum sino al 28-27 a.C.
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Augusto afferma di essere stato titolare di una potestas pari a quella di coloro che gli furono colleghi nella magistratura, cioè i colleghi nel consolato 156. Quando nel 23 a.C., per diverse ragioni politiche 157, Augusto giungeva a un nuovo compromesso con il senato relativo a una riorganizzazione degli organici delle magistrature 158, rimetteva definitivamente anche il consolato per assumere il proconsolato che dal 22 a.C. al 19 a.C. lo avrebbe tenuto lontano da Roma impegnato nella fondamentale missione orientale. Tale proconsolato ampio, speciale, forgiato sull’esperienza degli imperia extraordinaria tardorepubblicani, e in particolare su quelli di Pompeo 159, ma anche di Cesare, conferiva un imperium superiore (maius) rispetto a quello degli altri proconsoli, sebbene avesse bisogno di riconferme quinquennali ex senatoconsulto e lege (secondo l’informazione assai attendibile di Cassio Dione) 160. L’equilibrio così raggiunto era del tutto soddisfacente per Augusto. Quando il principe usciva dall’Urbe per recarsi nelle province rivestiva la carica di proconsole 161 per quelle direttamente assegnategli dal senato e ne usava il titolo, mentre per le altre attribuite a un altro proconsole poteva intervenire, come nel caso di Cirene, grazie al suo imperium maius. Quando rientrava a Roma, senza però essere costretto a rimetterlo 162, per il governo civile si avvaleva della tribunicia potestas rinnovata annualmente.
156
Vedi supra CAPITOLO PRIMO, § 3. Da RGDA 5.3 (Consul[atum] quoqu[e] tum annuum e[t perpetuum mihi] dela[tum non recepi]) sembrerebbe che l’unica ragione sia stata la remora di Augusto di occupare permanentemente un posto di console; ma mi sembra convincente l’argomento addotto da A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., p. 177 nt. 2, che centra l’attenzione sul consolato, carica su cui si addensava l’interesse dell’aristocrazia senatoria, a favore della quale Augusto decise di liberare il secondo posto. 158 I pretori furono ridotti a dieci, numero dimezzato rispetto all’epoca triumvirale, mentre con Cesare erano stati portati a sedici raddoppiando l’organico sillano che ne contemplava otto. 159 Importante A.E.R. BOAK, The Extraordinary Commands, cit., pp. 1 ss. 160 Cass. Dio 53.13.1; 53.16.2; 54.12.4-5; 55.6.1; 55.12.3. 161 Tuttavia, è giusto riconoscere che altri studiosi, pur in assenza di documenti incontrovertibili come il bronzo del Bierzo, avevano visto giusto e riconosciuto il proconsolato in capo al princeps; così G. FERRERO, Grandezza e decadenza di Roma, cit., III, pp. 581 s.; J. BÉRANGER, Recherches sur l’aspect idéologique, cit., pp. 80 ss.; ma si vedano anche i saggi relativi a diversi e disparati aspetti del principato raccolti in un unico volume ID., Principatus, cit., passim; e ancora ID., L’imperium proconsulaire, cit., pp. 1 ss.; E. BETTI, La crisi della Repubblica, cit., pp. 564 ss., che giustamente ricorda in maniera secca come: «un imperium – e un imperator – disgiunto da una magistratura (nella quale si esprime il rapporto tra il detentore dell’imperium e il populus sovrano), ordinaria o straordinaria, che ne sia il sostrato e il titolo, non esiste secondo il diritto pubblico romano»; in questo senso già TH. MOMMSEN, Römisches Staatsrecht, cit., II, p. 845: «ein Imperium schlechthin kennt das römische gemeinwesen nicht». 162 Cass. Dio 54.10.5. 157
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Oggi, a questa ricostruzione ha contributo notevolmente pure il rinvenimento dell’Edictum del Bierzo 163, epigrafe del 15 a.C., dunque ben otto anni dopo quella celebre seduta senatoria del 23 a.C. considerata l’evento in cui si modellarono i pilastri del potere imperiale. In questa preziosa e del tutto anomala epigrafe, nella parte contenente la titolatura imperiale, compare la prima e sino a oggi unica testimonianza coeva della titolarità di Augusto del proconsolato della provincia Transduriana, territorio particolarmente turbolento (poi riassorbito a seguito del riordino definitivo delle Hispaniae), ove il principe si era recato per sedare ribellioni di tribù iberiche. Ne abbiamo già discusso in altre pagine di questo libro, ma è utile anche adesso ricordare il valore eccezionale del documento che mette fine alla radicata e infondata tesi della divaricazione tra carica e poteri magistratuali comunemente 164, attribuita a Pietro de Francisci 165, ma in realtà formulata da Pietro Bonfante nel 1903 nella prima edizione della sua Storia del diritto romano 166, e poi tralatiziamente raccolta dalla critica moderna 167. In via generale, è questa ricostruzione che sembra stia facendosi ormai sempre più strada tra gli studiosi, nonostante ancora qualche resistenza e salvo l’incertezza sul profilo dell’esistenza o meno di una gerarchia definita e istituzionalizzata tra gli imperia. Questa idea, a lungo dominante, è stata messa in dubbio da autorevoli studi innovativi, da quelli di Giovannini e di Girardet, tendenti ad escludere tout court l’esistenza di un imperium maius, essendo quello consulare un imperium non subalterno ad altri, a quelli di Pani, che riconosce la strutturazione di una gerarchia di imperia soltanto da Tiberio in avanti, e di Ferrary, propenso invece ad ammetterla ma a partire dal 23 a.C., anno in cui ad Augusto venne assegnata la missione ad ordinandum statum provinciarum per le regioni orientali e per il tempo della permanenza del princeps in quelle province; per finire ai contributi di Alberto Dalla Rosa, sostenitore di un’interessante soluzione soluzione mediana, in virtù della quale, se da un lato, era logico ammettere una superiorità del princeps sul piano militare, da un altro lato, nessuna gerarchia esisteva tra imperium augusteo e imperium dei proconsoli in quanto, la superiorità rispetto a questi ultimi era assicurata dal fatto che «nella sua opera di revi-
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In merito alla letteratura accumulatasi sul documento epigrafico rinvio a quanto supra nel CAPITOLO PRIMO, § 5, nt. 137. 164
A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., p. 253, attribuisce all’articolo di J.-L. FERRARY, À propos des pouvoirs d’Auguste, cit., pp. 148 s., questa conclusione in realtà già pubblicata nel 2000 in F. COSTABILE-O. LICANDRO, Tessera Paemeiobrigensis, cit., pp. 63 ss. 165 P. DE FRANCISCI, Storia del diritto romano, cit., II.1, p. 288; ID., Sintesi storica, cit., p. 280. 166 P. BONFANTE, Storia del diritto romano, cit., p. 191 (= 2a ed., Milano 1909, p. 359). 167 Ancora di recente e in via assai esplicita F. SERRAO, Il modello di costituzione, cit., II.2, p. 36.
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sione degli statuti cittadini e provinciali, il principe aveva un ruolo paragonabile piuttosto a quello del popolo o del senato» 168. Tuttavia, è appena il caso di dire che ad ammettere con radicalità l’idea dell’inesistenza di un imperium maius si finirebbe per relegare almeno dal 23 a.C. Augusto, non più console, sul piano formale in posizione quasi di subalternità ai consoli o di parità con essi e gli altri proconsules 169. Perciò, nonostante il papiro contenente la laudatio funebris di Agrippa 170, l’iscrizione leidense di Kyme 171 e il Senatusconsultum de Cn. Pisone patre 172 indichino chiaramente l’esistenza di un imperium maius in capo al princeps e ai correggenti (tutti proconsules), in questa sede è più congruo limitarci a osservare come, sebbene con sfumature diverse, vi sia un nocciolo comune nelle posizioni dei suddetti studiosi, ossia l’inesistenza del problema dell’imperium maius di Augusto (e dunque di una stabilizzata gerarchia di imperia), cosa che però sgrava di ogni dubbio il fatto che Augusto godesse di una posizione di supremazia perché munito di un’auctoritas capace di eclissare tutti gli altri organi dello Stato romano. Che si tratti però di un falso problema, appare chiaro per diverse ragioni. Innanzitutto, perché l’imperium del principe fu superiore a quello di chiunque altro per la sua natura consolare sino al 23 a.C.; poi, perché da quel momento ebbe l’imperium proconsulare maius et infinitum. Questi punti servono a spiegare il silenzio di Augusto sul tema della titolarità di un proprio imperium maius. Ma, anche accettando tout court la tesi dell’assenza di un imperium maius, non si intaccherebbe la sostanziale veridicità delle affermazioni autobiografiche di Augusto: la Roma di Augusto voleva essere una res publica in cui il miglior civis esercitava ¹ front…j ¹ te prostas…a tîn koinîn p©sa, cioè una funzione di cura et tutela, per usare la più accreditata e affine traduzione latina della formula usata da Cassio Dione 173. Ora, sebbene Béranger abbia avvertito dell’ine-
168
A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., p. 313. Questo è l’esito a cui si giunge, seguendo il ragionamento di A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., p. 217 e nt. 26, che ritorna sulla superiorità costituzionale dei consoli sui proconsoli. 170 Sulla scorta di Cass. Dio 54.28.1, si ritiene che la prima concessione di imperium maius risalga al 13 a.C., ma non manca chi pensa di doverla anticipare al 18 a.C., come J.-M. RODDAZ, Marcus Agrippa, cit., pp. 347 ss.; cfr. ID., Imperium, cit., pp. 189 ss. 169
171
Vedi letteratura supra CAPITOLO PRIMO, § 6, nt. 170. A. CABALLOS-W. ECK-F. FERNÁNDEZ, El Senadoconsulto de Gneo Pisón Padre, cit. [= A. CABALLOS-W. ECK-F. FERNÁNDEZ, Das «senatus consultum de Cneo Pisone patre», cit.]; W.D. LEBEK, Das Senatus consultum de Cn. Pisone patre, cit., pp. 183 ss.; F. GRELLE, Il senatus consultume de Cn. Pisone Patre, cit., pp. 223 ss. [= in ID., Diritto e società, cit., pp. 463 ss.]. 172
173 Cass. Dio 53.12.1. Naturalmente non si tratta di una novità: già E. BETTI, La crisi della repubblica, cit., p. 542, che ha usato la formula di «diritto di alto controllo e ingerenza sull’amministrazione in nome proprio (autonoma) sia indiretta sia diretta»; impianto autoritario, conforme all’ideologia del tempo, in seguito approfondito da P. DE FRANCISCI, La costituzione Augustea,
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sistenza nei testi di età augustea dell’espressione latina cura et tutela rei publicae 174, deve invece dirsi che le cose stanno diversamente. Non solo in Cic. de re publ. 2.29.51 ricorrono locuzioni assolutamente coincidenti come tutor et procurator rei publicae (avvertita dall’autore come equivalente di rector et gubernator civitatis), ma pure in un’epistula ricorre l’espressione cura rei publicae: Cic. ad fam. 13.68.2: Sperare tamen videor Caesari, collegae nostro, fore curae et esse ut habeamus aliquam rem publicam. E dunque il problema non è tanto verificare la cronologia di un’espressione, come potrebbe condursi in un asettico laboratorio chimico, perché sono sufficienti i testi ciceroniani a chiudere la questione. Il punto essenziale è il significato politico di certe espressioni come quella di Cassio Dione. Sebbene sia priva del tecnicismo giuridico che si vuole ricercare o attribuirle, indubbiamente apparteneva già al pensiero politico tardorepubblicano e corrispondeva a una valutazione politica dell’egemonia del princeps (cioè del civis più autorevole) in un assetto istituzionale in cui l’imperium gli era conferito per senatusconsultum e lex, come avvalorano, oltre alle Res Gestae, pure la Tabula Siarensis 175 e il senatus consultum de Cn. Pisone patre. Il contesto generale, infatti, in cui si inscriveva la posizione del princeps era l’inalterata permanenza dell’impianto istituzionale dello Stato romano incentrato su senatus e populus e sui suoi valori fondanti, in altri termini la res publica appunto restituta. Inoltre, l’iscrizione del Bierzo, permette di superare anche l’annosa questione del regime delle province. Le province erano tutte ‘populi Romani’ (come io ritengo) 176, o ‘publicae’ (come aggiunge, in alternativa, Fergus Millar) 177 e tutte attribuite a proconsoli, sebbene una parte rilevante avesse uno stesso speciale proconsole, cioè Augusto 178; mentre sembra del tutto artificiale, nonché priva di qualunque aggancio alle fonti, la denominazione di ‘province affidate col sistema del sorteggio’, avanzata da Della Rosa 179. cit., pp. 13 ss.; ID., La costituzione Augustea, cit., pp. 75 ss.; e A. VON PREMERSTEIN, Vom Werden und Wesen, cit., pp. 117 ss. 174 J. BÉRANGER, Recherches sur l’aspect ideologique, cit., pp. 186 ss., 204. 175 AA.VV., Estudios sobre la Tabula Siarensis, cit., passim; J. GONZÁLEZ, Tácito y las fuentes documentales: ss.cc. de honoribus Germanici decernendis (Tabula Siarensis) y de Cn. Pisone patre, Sevilla 2012. 176 F. COSTABILE-O. LICANDRO, Tessera Paemeiobrigensis, cit., pp. 94 ss. 177 F. MILLAR, The Emperor, cit., pp. 156 ss.; ID., “Senatorial Provinces”, cit., pp. 93 ss. 178 Per il dibattito e la relativa letteratura vedi supra CAPITOLO PRIMO, § 7. 179 A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., p. 61. Riscontro un’incoerenza nel ragionamento di Dalla Rosa, infatti se il princeps era un proconsole, seppure sottoposto a un regime speciale, anche le province a lui sottoposte erano proconsolari e quindi provinciae populi Romani, perché riconducibili a questo.
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Come si vede questi documenti permettono di assicurare una maggiore profondità alla ricostruzione storica e tutti convergono sul motivo della graduale restitutio rei publicae. Del resto, a tal proposito, quelle appena esaminate non sono le uniche informazioni, perché tasselli significativi provenienti da altre iscrizioni irrobustiscono ulteriormente l’impianto complessivo: si pensi, ad esempio, alla registrazione dei Fasti Praenestini di Verrio Flacco peritissimus nello ius pontificium 180. In questo calendario marmoreo vi è l’incisione celebrativa della consegna della corona civica ad Augusto per la restitutio rei publicae populi Romani, secondo la revisione dell’integrazione mommseniana 181 da parte di Elisabetta Todisco 182, o per la restitutio di leges et iura populi Romani, secondo l’alternativa e seducente lettura avanzata da John Scheid 183; o si pensi ancora alla notizia di un’epigrafe sita nel Foro, oggi purtroppo scomparsa sebbene documentata da Ligorius, celebrativa di una res publica conservata 184. In definitiva, come appare sufficientemente chiaro tutte le testimonianze sono coerenti e convergenti a favore della complessa operazione riformatrice, il cui manifesto politico era riassunto nei verba dell’editto del 28 a.C. riportati nella biografia augustea di Svetonio, a dimostrazione dell’attenzione rigorosa, anzi quasi ossessiva, di Augusto nel collocare le innovazioni istituzionali all’interno degli schemi repubblicani: “Ita mihi salvam ac sospitem rem publicam sistere in sua sede liceat atque eius fructum percipere, quem peto, ut optimi status auctor dicar et moriens ut feram mecum spem, mansura in vestigio suo fundamenta rei publicae quae iecero” (Aug. 28.3).
180 Macrob. sat. 1.15.21. A. OTTAVIANI, I Fasti di Verrio Flacco e i Fasti ovidiani nel commento di Foggini, in AA.VV., Vates operose dierum. Studi sui Fasti di Ovidio (a cura di G. La Bua), Pisa 2010, pp. 211 ss. 181 CIL I2.231 (= InscrIt XIII.2): Corona querc[ea a senatu, uti super ianuam Imp. Caesaris] / Augusti poner[etur, decreta quod cives servavit, quod rem publicam] / p(opulo) R(omano) rest[it]u[it]. 182 CIL I2.231 (= InscrIt XIII.2): Corona querc[ea a senatu, uti super ianuam Imp. Caesaris] / Augusti poner[etur, decreta quod cives servavit, re publica] / p(opuli) R(omani) rest[itu]t[a]; E. TODISCO, La res publica restituta, cit., pp. 341 ss. 183 J. SCHEID, Res Gestae Divi Augusti, cit., p. 89: Corona querc[ea a senatu, uti super ianuam Imp. Caesaris] / Augusti poner[etur, decreta quod iura] / p(opuli) R(omani) rest[it]u[it]; leggera variante in F. MILLAR, The First Revolution, cit., pp. 6 s.: … [quod leges iura et iura] / p(opuli) R(omani) rest[it]u[it]. 184 CIL VI.873 (= ILS 81): Senatus Populusque Romanus Imp. Caesari Divi Iuli f(ilio), consuli quinct(o), con(s)uli des(ignato) sect(o), imp(eratori) sept(imo), re publica conservata.
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8. RGDA 34.1: LA POTENTIA AUGUSTEA Un ulteriore documento di straordinaria importanza si inserisce perfettamente come in una sequenza di fotogrammi, nella ricostruzione in corso: si tratta del nuovo frammento di RGDA 34.1, proveniente da Antiochia di Pisidia (rinvenimento dovuto a Paula Botteri) 185. Ritorno, pertanto anche a tal proposito, sulla nuova e assai diversa restituzione di quel passaggio e sul relativo dibattito scientifico che ne è scaturito e sempre più arricchitosi negli ultimi anni 186. Come è noto, Theodor Mommsen, attraverso la sua proposta d’integrazione del mutilo RGDA 34.1, aveva aperto il varco all’interpretazione dell’azione violenta esplicata dalla factio di Ottaviano, sfociata in un ‘colpo di Stato’, enfatizzata storiograficamente nel secolo scorso da Ronald Syme 187. La ricostruzione per oltre un secolo accreditatasi negli studi politici e giuridici del principato augusteo si fondava sul potitus rerum omnium: RGDA 34.1: In consulatu sexto et septimo, postquam bella civilia exstinseram, per consensum universorum potitus rerum omnium rem publicam ex mea potestate in senatus populique Romani arbitrium transtuli 188. Sulla base di potiri con ablativo o con genitivo, esprimente la conquista del potere attraverso la forza, con atti ed eventi traumatici, si radicò largamente e in profondità la convinzione che Augusto avesse voluto ammettere, sia pure non in maniera del tutto esplicita, la conquista illegale del suo potere. Stravagante interpretazione questa: accusato di perfida ipocrisia, Augusto poi sarebbe stato sincero proprio sull’imbarazzante natura eversiva della sua azione, confessando il peggior crimine politico? Nella visione mommseniana, la successione degli eventi sarebbe stata la seguente: 1) acquisizione della posizione di dominio da parte di Augusto con il consensus universorum; 2) conduzione e fine delle guerre civili; 3) rimessione della res publica all’arbitrium del senatus e del populus. Secondo questa ricostruzione, Augusto avrebbe deposto i poteri straordinari soltanto dopo essere dive-
185 P. BOTTERI, Missione in Turchia, cit., pp. 133 ss.; EAD., L’integrazione mommseniana a Res Gestae 34, 1, cit., pp. 262 ss.; TH. DREW-BEAR-J. SCHEID, La copie des Res Gestae, cit., pp. 217 ss. 186 Vedi supra CAPITOLO PRIMO, § 2. 187 R. SYME, La rivoluzione romana, cit., nella nuova traduzione adesso disponibile. 188 Riporto le seguenti traduzioni: a) «Durante il mio sesto e settimo consolato, dopo ch’ebbi posto termine alle guerre civili, con i pieni poteri conferitimi per unanime consenso, trasferii il governo della res publica (Stato) alla libera determinazione del senato e del popolo romano» [F. GUIZZI, Augusto, cit., pp. 143, 145]; b) «Durante il mio sesto e settimo consolato, dopo aver estinto le guerre civili, avendo conseguito tutto il potere attraverso il consenso universale, trasferii il governo dello Stato dalla mia potestà al libero volere del senato e del popolo romano» (Cesare Augusto Imperatore [a cura di L. De Biasi e A.M. Ferrero], cit., pp. 217, 219).
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nuto padrone di ogni cosa, e potitus, potiri esprimerebbero oltre ogni ragionevole dubbio l’idea dell’uso della forza, della violenza al fine della conquista del potere. L’autorevolezza di Mommsen ha talmente largheggiato da far credere diffusamente, ancorché in maniera non unanime, che Augusto conseguì il controllo dello Stato romano attraverso un nuovo ‘colpo di Stato’, di cui francamente esistono ancor meno tracce dei precedenti del 44 o del 43 a.C. Quando sarebbe stato consumato questo secondo ‘colpo di Stato’, dopo quello presunto dell’estate del 43 a.C., resta un mistero, anche perché sulla scena politica non vi sono più avversari temibili, tali da impensierire ancora Ottaviano. Dunque, un vero e proprio enigma; ma un enigma, che perderebbe molto della sua forza se, per esempio, il potitus fosse stato un semplice quanto banale, seppur comprensibile, errore di integrazione della lacuna epigrafica. Infatti, il quadro interpretativo cambia radicalmente proprio grazie a quel minuscolo frammento di pietra proveniente da Antiochia di Pisidia in cui si legge TENS RE: sei lettere che nella loro limpida chiarezza consentono di emendare il potitus in potens. Botteri, dunque, con la pubblicazione dei risultati delle sue ricerche, dal 2003 ha spostato il terreno della ricerca. Con la nuova integrazione, l’apertura del cap. 34 avrebbe un tenore assai diverso: RGDA 34.1: In consulatu sexto et septimo, postqua[m b]el[la civil]ia exstinseram, per consensum universorum po[titus] re[ru]m om[n]ium rem publicam ex mea potestate in senat[us populi]que R[om]ani [a]rbitrium transtuli.
RGDA 34.1: In consulatu sexto et septimo, postqua[m b]el[la civil]ia exstinseram, per consensum universorum [po]tens re[ru]m om[n]ium rem publicam ex mea potestate in senat[us populi]que R[om]ani [a]rbitrium transtuli.
[Durante il mio sesto e settimo consolato, dopo aver estinto le guerre civili, essendomi impadronito di tutto il potere attraverso il consenso generale, trasferii il governo dello Stato (res publica) dalla mia potestà al libero volere del senato e del popolo romano].
[Durante il mio sesto e settimo consolato, dopo aver estinto le guerre civili, potente per consenso generale, trasferii il governo dello Stato (res publica) dalla mia potestà al libero volere del senato e del popolo romano].
Ho già espresso il mio convincimento che il mutamento del frammento, adesso così restituito, non sia cosa da poco, e che apra il varco a nuove e generali considerazioni che inevitabilmente implicano una rivisitazione di alcune tra le più consolidate e tralatizie opinioni relative alla posizione costituzionale di Ottaviano a seguito della vittoria aziaca 189.
189
Vedi supra CAPITOLO PRIMO, § 2.
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Quell’emendamento produrrebbe la caduta dell’idea dell’ammissione del colpo di Stato da parte di Augusto, cioè dell’acquisizione del suo potere, e pertanto della sua supremazia, in maniera irregolare e attraverso forzature traumatiche, come invece il potitus indurrebbe, e sino ad ora ha effettivamente indotto, a credere. Verrebbe cioè meno l’idea che quella posizione di supremazia fosse stata conseguita attraverso uno o più atti illegali in un preciso momento temporale, mentre comincerebbe a delinearsi assai più nitidamente una genesi e uno svolgersi del principato augusteo nei termini assai diversi della transizione analizzata nelle precedenti pagine, in cui il passaggio del 27 a.C. non dovrebbe più intendersi come il momento improvviso e solenne in cui Augusto rinunciò teatralmente alla sua posizione di potere agguantata illegalmente per assestare su una base di ipocrita legalità costituzionale la nuova fase di dominio. O, almeno, non è questo che Augusto ‘confesserebbe’ nelle Res Gestae. Come ha giustamente affermato Nicosia, «Augusto dà palesemente per scontato che l’acquisita posizione costituzionale di predominio (dall’alto della quale discendeva la sua rinuncia) si era ormai stabilizzata, era da considerare definitiva, ed egli avrebbe potuto avvalersene con assoluta tranquillità e sicurezza» 190. A me pare, alla luce della mole dei documenti e degli argomenti sin qui addotti, che le Res Gestae non nascondano nulla, ma proprio nulla, e che Augusto sia stato orgogliosamente sincero. Augusto era sincero quando ricordava di aver rifiutato l’epiteto di Romulus perché strettamente connesso alla monarchia e alla preminente caratura militare della figura romulea 191; era sincero quando rifiutò l’offerta della dittatura e del consolato a vita; non fingeva quando rifiutò per ben tre volte la praefectura morum e tutte quelle cariche in aperto e intimo contrasto con le forme repubblicane: RGDA 6.1-2: [Consulibus M(arco) V]in[icio et Q(uinto) Lucretio] et postea P(ublio) Lentulo et Cn(aeo) L[entulo et terti]um [Paullo Fabio Maximo et Q(uinto) Tuberone senatu populoq]u[e Romano consentientibus,] ut cu[rator legum et morum summa potestate solus crearer, nullum magistratum contra morem maiorem delatum recepi. [2] Quae tum per me geri senatus] v[o]luit, per trib[un]ici[a]m p[otestatem perfeci, cuius potes]tatis conlegam et [ips]e ultro [quinquiens a sena]tu [de]poposci et accepi. E non sfuggono alcuni contorcimenti storiografici, come per esempio quello che capita di leggere ancora nel pur brillante saggio di Luca Canali: «La più importante fra tutte è la formale restaurazione della legalità costituzionale, nel riconoscimento, e anzi nella vigorosa sottolineatura del punto di partenza extra
190 191
G. NICOSIA, Potens rerum omnium, cit., p. 2327. G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., pp. 48 ss.
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legale e rivoluzionario di tale presunto ritorno alla res publica e al mos maiorum, che in realtà era la sanzione di un radicale mutamento» 192. Ora, per quanto simili posizioni resistano ostinatamente, è anche da cogliere con attenzione i segnali del dischiudersi di una positiva ‘fase revisionista’. Non è senza significato che, appena qualche anno fa, un attento e raffinato studioso di ‘cose augustee’, come Tullio Spagnuolo Vigorita, abbia giustamente ribadito come il rispetto esibito da Augusto verso la legalità repubblicana non fosse «una facciata, ma una necessità politica» 193. Per la verità, già Mario Bretone, in un libro importante, aveva ammesso il carattere di «documento lucidissimo» delle Res Gestae; «il motivo dominante di quella lunga iscrizione, alla quale Augusto si preoccupò di consegnare il significato “autentico” della sua vita, è il ritorno alla legalità repubblicana dopo la parentesi “rivoluzionaria” degli anni fra il 33 e il 28 a.C.» 194. Similmente, in recentissime pagine, Luigi Capogrossi Colognesi ha riconosciuto che nelle Res Gestae non costituisce certo «una menzogna la lettura della sua azione di governo e del suo potere in linea con le istituzioni repubblicane», semmai una sintesi incompleta 195. Augusto era ben conscio della necessità vitale di evitare i medesimi errori in cui incorse Cesare; il consolato continuo, la dittatura perpetua, la prefettura dei costumi, come ricorda in una pagina memorabile Svetonio 196, furono errori che non solo gli costarono la vita, ma anche il giudizio di assoluta riprovazione politica e morale che ne stette alla base dell’omicidio giudicato ‘iure’ dall’opinione pubblica repubblicana: ut et abusus domina-
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L. CANALI, Il «manifesto» del regime augusteo, cit., p. 245. T. SPAGNUOLO VIGORITA, La repubblica restaurata, cit., p. 532. 194 M. BRETONE, Tecniche e ideologie dei giuristi romani2, Napoli 1984, p. 23. 195 L. CAPOGROSSI COLOGNESI, Storia di Roma tra diritto e potere, cit., p. 228. 196 Svet. Iul. 76.1-3: Praegravant tamen cetera facta dictaque eius, ut et abusus dominatione et iure caesus existimetur. Non enim honores modo nimios recepit: continuum consulatum, perpetuam dictaturam praefecturamque morum, insuper praenomen Imperatoris, cognomen Patris patriae, statuam inter reges, suggestum in orchestra; sed et ampliora etiam humano fastigio decerni sibi passus est: sedem auream in curia et pro tribunali, tensam et ferculum circensi pompa, templa, aras, simulacra iuxta deos, pulvinar, flaminem, lupercos, appellationem mensis e suo nomine; ac nullos non honores ad libidinem cepit et dedit. [2] Tertium et quartum consulatum titulo tenus gessit contentus dictaturae potestate decretae cum consulatibus simul atque utroque anno binos consules substituit sibi in ternos novissimos menses, ita ut medio tempore comitia nulla habuerit praeter tribunorum et aedilium plebis praefectosque pro praetoribus constituerit, qui apsente se res urbanas administrarent. Pridie autem Kalendas Ianuarias repentina consulis morte cessantem honorem in paucas horas petenti dedit. [3] Eadem licentia spreto patrio more magistratus in pluris annos ordinavit, decem praetoris viris consularia ornamenta tribuit, civitate donatos et quosdam e semibarbaris Gallorum recepit in curiam. Praeterea monetae publicisque vectigalibus peculiares servos praeposuit. Trium legionum, quas Alexandreae relinquebat, curam et imperium Rufioni liberti sui filio exoleto suo demandavit. Cic. ad fam. 9.15.5; Cass. Dio 43.14.4. 193
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tione et iure caesus existimetur, scrisse Svetonio, condensando in queste dure e fredde parole il trauma avvertito dal sentimento repubblicano. Si torna così per l’appunto a Svetonio, che costituisce il ‘prequel’ di RGDA 34: chiusa l’emergenza con la sconfitta degli avversari, sebbene formalmente soltanto consul, Augusto era ormai potens rerum omnium grazie a un consensus universorum e poteva restituire la res publica al suo normale funzionamento attraverso i suoi organi repubblicani (senatus e populus) 197. La res publica del novus ordo augusteo era salva e incolume nella sua sede, ma per affrontare il futuro andava rafforzata da nuove fondamenta: “Ita mihi salvam ac sospitem rem publicam sistere in sua sede liceat atque eius fructum percipere, quem peto, ut optimi status auctor dicar et moriens ut feram mecum spem, mansura in vestigio suo fundamenta rei publicae quae iecero” (Svet. Aug. 28.3).
9. DALLA POTENTIA ALL’AUCTORITAS La nuova restituzione di RGDA 34.1, che ci descrive la reale condizione in cui venne a trovarsi Ottaviano dopo la vittoria di Azio, quella cioè di potens omnium rerum 198, da un lato, induce ad archiviare la teoria del ‘golpe’, mentre, dall’altro lato, dà piena luce alla successiva affermazione dei fatti del 27 e della seduta senatoria in cui gli si assegnò quell’epiteto di Augustus che lo rese da quel momento impareggiabile per auctoritas. Ma per comprendere il processo evolutivo bisogna partire da potens e potentia. Si dubita che l’uso di questi termini fosse effettivamente invalso nel latino del tempo. Si tratta, a ben guardare, di preoccupazioni ingiustificate, di perplessità davvero infondate. A tal proposito, per quanto di poco successivo, potrebbe bastare richiamare ancora una volta il noto passo degli Annales tacitiani: Tac. ann. 3.28.2: Sexto demum consulatu Caesar Augustus, potentiae securus, quae triumviratu abolevit deditque iura, quis pace et principe uteremur. Il testo si riferisce anch’esso a quel cruciale 28 a.C., quando Ottaviano, console per la sesta volta, ormai sicuro della posizione di assoluta preminenza politica (potentiae securus), decideva appunto di chiudere definitivamente la fase straordinaria del triumvirato con l’emanazione dell’edictum de reddenda re publica relativo all’abrogazione della legislazione eccezionale. Tacito, insomma, da
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F. COSTABILE, RG. 34.1: «[POT]IENS RE[RV]M OM[N]IVM», cit., pp. 255 ss.; ID., Caius Iulius Caesar, cit., pp. 95 ss. 198 F. COSTABILE, Caius Iulius Caesar, cit., pp. 95 ss., ha riproposto la lettura del frammento recuperato, già avanzata da W. SEYFARTH, Potitus rerum omnium, cit., pp. 305 ss. Vedi supra CAPITOLO PRIMO, § 2.
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un lato conferma la versione di Cassio Dione sulla svolta del 28 a.C.: «e poiché, durante le agitazioni e le guerre, specialmente nel potere collegiale con Antonio e Lepido, (Ottaviano) aveva emanato moltissime disposizioni illegali e antigiuridiche, le abrogò tutte con un solo editto, ponendo come termine il suo sesto consolato» 199; e aiuta pure a mettere meglio a fuoco il passo di Svetonio. Ma, dall’altro lato, e sul punto la cosa assume particolare interesse, il suo latino mostra una straordinaria corrispondenza, per non dire un’assoluta coincidenza, con la nuova restituzione del cap. 34.1 delle Res Gestae; un’equivalenza tra le due espressioni tanto combaciante da far dire a Dario Mantovani 200 che il tacitiano potentiae securus sarebbe un calco dell’autobiografico potens rerum omnium di RGDA 34.1. Si potrebbe obiettare sulla forza non decisiva dell’uso di potentia fattone da Tacito 201; ma la questione diventerebbe insuperabile grazie a quanto invece si ricava da Cicerone. La potentia, i potentes sono figure assai ricorrenti del lessico ciceroniano, e si tratta di concetti a cui Cicerone attribuiva una precisa valenza negativa, se non contraria, certamente estranea alla res publica e al suo corretto funzionamento. Nella pro Quinct. 1.9, Cicerone non esitava a bollare la potentia quale aspetto precipuo delle tendenze oligarchiche e illegali della classe dirigente romana. Nella sua teorica del princeps, come ben sottolineato da Ettore Lepore 202, l’oratore plasmava un governo della res publica assolutamente alieno da quei tratti, contrapposto nella cultura e nella prassi alla potentia e alle opes dei pauci o ancor più del singolo: Cic. pro Sest. 66.139: Sudandum est iis pro communibus commodis, adeundae inimicitiae, subeundae saepe pro re publica tempestates, cum multis audacibus, improbis, nonnumquam etiam potentibus dimicandum. Il governo ideale, secondo Cicerone, doveva accantonare ogni pulsione verso la potentia, espressione di un dominio di fatto, fuori da ogni ordo o schema di matrice repubblicana, per assumere il volto morbido, rassicurante e legale dell’auctoritas, ovvero il prestigio politico-morale, come spiega chiaramente nella pro Milone:
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Cass. Dio 53.2.5. D. MANTOVANI, Leges et iura p(opuli) R(omani) restituit, cit., pp. 44 nt. 111. 201 In verità, oltre a Tacito, vi è anche Vell. hist. rom. 2.93.1: Ante triennium fere, quam Egnatianum scelus erumperet, circa Murenae Caepionisque coniurationis tempus, abhinc annos quinquaginta, M. Marcellus, sororis Augusti Octaviae filius, quem homines ita, si quid accidisset Caesari, successorem potentiae eius arbitrabantur futurum, ut tamen id per M. Agrippam securo ei posse contingere non existimarent, magnificentissimo munere aedilitatis edito decessit admodum iuvenis, sane, ut aiunt, ingenuarum virtutum laetusque animi et ingenii fortunaeque, in quam alebatur, capax. 202 E. LEPORE, Il princeps ciceroniano, cit., pp. 296 ss. 200
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Cic. pro Mil. 5.12: Declarant huius ambusti tribuni pl. illae intermortuae contiones, quibus cotidie meam potentiam invidiose criminabatur cum diceret senatum non quod sentiret, sed quod ego vellem decernere. Quae quidem si potentia est appellanda potius quam propter magna in rem publicam merita mediocris in bonis causis auctoritas aut propter hos officiosos labores meos non nulla apud bonos gratia, appelletur ita sane, dummodo ea nos utamur pro salute bonorum contra amentiam perditorum. Eppure, c’è un testo chiave per comprendere la concezione della potentia sul piano più squisitamente generale della teorica di Cicerone ed è contenuto nel De re publica: Cic. de re publ. 1.44.68: Tum LAELIUS: ‘prorsus’ inquit ‘expressa sunt a te quae dicta sunt ab illo. (SCIP.) ‘atque ut iam ad sermonis mei auctorem revertar, ex hac nimia licentia, quam illi solam libertatem putant, ait ille ut ex stirpe quadam existere et quasi nasci tyrannum. Nam ut ex nimia potentia principum oritur interitus principum, sic hunc nimis liberum populum libertas ipsa servitute adficit. Sic omnia nimia, cum vel in tempestate vel in agris vel in corporibus laetiora fuerunt, in contraria fere convertuntur, maximeque id in rebus publicis evenit, nimiaque illa libertas et populis et privatis in nimiam servitutem cadit. Itaque ex hac maxima libertate tyrannus gignitur et illa iniustissima et durissima servitus. Ex hoc enim populo indomito vel potius immani deligitur aliqui plerumque dux contra illos principes adflictos iam et depulsos loco, audax, inpurus, consectans proterve bene saepe de re publica meritos, populo gratificans et aliena et sua; cui quia privato sunt oppositi timores, dantur imperia, et ea continuantur, praesidiis etiam, ut Athenis Pisistratus, saepiuntur, postremo, a quibus producti sunt, existunt eorum ipsorum tyranni; quos si boni oppresserunt, ut saepe fit, recreatur civitas; sin audaces, fit illa factio, genus aliud tyrannorum […]. Il passo costituisce una premessa del tema principale delle forme di governo che segue subito dopo. Sono due i momenti salienti che illuminano il profilo concettuale della potentia: quando Scipione ammonisce sull’eccessiva potentia fonte di distruzione degli ottimati (principes); e quando i tiranni vengono abbattuti non dai migliori cittadini (boni cives) ma da una factio e in tal caso si precipiterebbe in un altro genus tyrannorum. Insomma, il princeps ciceroniano ci svela le intime ragioni politiche di RGDA 34.1-4, cioè il passaggio dalla potentia all’impareggiabile auctoritas augustea. Se volessimo indicare un esempio della forza del condizionamento storiografico esercitato dalla visione di Syme non potremmo scegliere un argomento migliore 203. La tendenza a legare il titolo di
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Basta leggere le osservazioni di F. GUIZZI, Il principato, cit., p. 129, dedicate al tema.
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princeps a quello di potentia fonte negativa di «potentati politici» caratterizzati dall’esercizio di un potere illegale finalizzato al dominio personale (e da qui il nesso tra principatus e dominatus) ha fatto perdere di vista il senso più evidente dell’impianto ideologico augusteo. È un passaggio cruciale quello della comprensione dell’intenzione augustea di abbandonare ogni pulsione attrattiva verso un modello di esercizio del potere fondato sulla potentia per scivolare verso un’egemonia incardinata sul concetto repubblicano etico e giuridico dell’auctoritas. Tutto ciò conferma come Augusto seppe muoversi con prudenza e far propri elementi, idee, concetti repubblicani comunque abbozzati o compiutamente elaborati da Cicerone. Chiuse le guerre civili, potens rerum omnium, Augusto, a dispetto dell’accusa di perfida ipocrisia, ammetteva apertamente la sua potentia, lo stato di assoluto predominio che gli avrebbe consentito un controllo totale e arbitrario dello Stato romano. Certo, era un potentia derivata ormai da un consensus universorum, e pertanto cosa assai diversa da quella fondata sulla coniuratio occidentale, perché costituiva dopo anni di sangue e lutti la «prima manifestazione dell’unanimità dei consensi […] nata come reazione contro la più patente rottura dell’unione civica» 204. Eppure, era sempre quella stessa potentia bollata dal pensiero politico repubblicano come condizione di fatto destabilizzante se non eversiva della res publica, ed essa manteneva Ottaviano su un binario pericoloso. Egli aveva infatti piena e lucida consapevolezza che tale condizione di omnipotentia, come scrive efficacemente Giovanni Nicosia 205, potesse finire per collocarlo su di un piano extracostituzionale, incompatibile con la tradizione politica e istituzionale romana. Perciò, dinanzi al bivio decisivo, scelse deliberatamente la strada della legittimità istituzionale attraverso la delimitazione di quella posizione di fatto e di potere assolutamente illimitato, avviando la transizione 206. Una transizione determinata, irreversibile, ma prudente e formalmente collocata nell’alveo repubblicano. Una transizione che significava appunto sia transferre o reddere rem publicam sia restitutio rei publicae: da quel momento egli fu superiore a tutti soltanto per auctoritas, individuando in questa l’elemento ordinante 207 della nuova forma rei publicae.
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M. HUMBERT, Le guerre civili, cit., p. 22. G. NICOSIA, Potens rerum omnium, cit., pp. 2326 s. 206 Vedi pure A. MARCONE, Augusto, cit., pp. 95 ss., 292 nt. 28. 207 P. CERAMI, Potere ed ordinamento, cit., pp. 186 ss. In un certo senso analoga la posizione di P. DE FRANCISCI, Genesi e struttura, cit., p. 93, disponibile, sulla scia di A. VON PREMERSTEIN, Vom Werden und Wesen, cit., pp. 176 ss., a scorgere nell’auctoritas un «elemento costitutivo del nuovo diritto pubblico». 205
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In un recentissimo saggio, Massimo Brutti 208 ha posto l’accento su un brano delle Noctes Atticae di Gellio contenente un frammento di una lettera di Ateio Capitone: Gell. n.a. 13.12.1-2: In quadam epistula Atei Capitonis scriptum legimus Labeonem Antistium legum atque morum populi Romani iurisque civilis doctum adprime fuisse. [2] ‘Sed agitabat’ inquit ‘hominem libertas quaedam nimia atque vecors usque eo ut divo Augusto iam principe et rempublicam obtinente ratum tamen pensumque nihil haberet, nisi quod iussum sanctumque esse in Romanis antiquitatibus legisset’ […]. In effetti, come ha pensato Brutti la frase ut divo Augusto iam principe et rempublicam obtinente sembrerebbe in contraddizione con il transferre rem publicam delle Res Gestae, per di più se scritta dalla mano di uno degli uomini più vicini e fondamentali come fu Ateio Capitone. Ma come spesso accade la contraddizione è soltanto apparente, perché la riconsegna della res publica agli organi repubblicani non significò affatto, com’è ovvio, l’uscita dalla scena istituzionale di Augusto; né questi né Capitone ebbero mai la tentazione di negare che una nuova forma rei publicae stava plasmandosi, una nuova forma in cui però senatus e populus riacquistavano un ruolo forte, rispetto all’umiliazione subita negli ultimi decenni e durante il triumvirato. L’ammissione, anzi l’intento programmatico, ema su cui ci siamo soffermati a lungo, era dichiarato dallo stesso Augusto nell’editto del 28 a.C.; e gli argomenti sin qui sviscerati sono sufficienti per cogliere il senso che Capitone attribuiva a obtinens. Augusto, princeps per quarant’anni, secondo l’orgoglio smisurato, traboccante da quelle parole, si distingueva radicalmente dal potens o dai potentes che avevano condizionato negativamente la vita dello Stato romano: mentre costoro erano guidati dalla cupiditas dominandi e tante macerie avevano causato attraverso quell’inutilis potentia e le invidiosae operae, il princeps invece fondava il proprio ruolo e la propria azione sulla moderatio ricorrendo alla vis soltanto quando era in gioco la difesa della res publica 209.
208 M. BRUTTI, Il dualismo giudiziario nel principato, in AA.VV., Il processo e le sue alternative. Storia, teoria, prassi. Atti del Convegno, Cagliari 25-27 settembre 2014 (a cura di F. Botta e F. Cordopatri), Napoli 2017, pp. 45 ss. 209
Cic. phil. 5.18.50: Cuius igitur singularem prudentiam admiramur, eius stultitiam timemus? Quid enim stultius quam inutilem potentiam, invidiosas opes, cupiditatem dominandi praecipitem et lubricam anteferre verae, gravi, solidae gloriae? F. CANCELLI, Res publica-princeps, cit., pp. 1 ss., di recente ha fermato la sua attenzione su questi temi generali e di inquadramento res publica, princeps, ecc., indagando più a fondo su ideologia e lessico ciceroniani giungendo a risultati convergenti con quelli qui proposti ma autonomi. Nel rappresentare la contrapposizione tra regnum e res publica è fondamentale far emergere come il princeps fosse figura repubblicana nient’affatto riconducibile al regnum o a un qualsivoglia assetto monarchico della forma di governo.
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Anche nel disegno consapevole di riportare la pace e di ripristinare il patto di alleanza con gli dèi era necessaria abbandonare la dimensione negativa e minacciosa della potentia per assumere una nuova posizione conforme alla normalizzazione religiosa. Da qui la sua auctoritas in quanto Augustus. Dopotutto, c’è un dato interessante a tal proposito nella versione greca delle Res Gestae. Non a caso, nel lessico greco per esprimere il passaggio da potentia ad auctoritas, in assenza di una precisa corrispondenza terminologica tra i due concetti, si è fatto ricorso ad axiomati, ovvero a un termine polisenso che va da onore, stima a potenza politica e che, come è noto, sino alla scoperta del frammento mancante, Theodor Mommsen aveva versato in latino con dignitate 210. Il senso della scelta di Augustus, secondo la sententia Plancii 211, costituisce, dunque, il suggello della strategia elaborata e avviata con determinazione nel biennio 29-27 a.C. L’innovazione e l’ampliamento della valenza di augustus furono straordinarie. Come leggiamo in Festo, prima di allora, il termine aggettivava esclusivamente loca: Fest. s.v. «Augustus» (ed. Lindsay, 2): Augustus locus sanctus ab avium gestu, id est quia ab avibus significatus est, sic dictus; sive ab avium gustatu, quia aves pastae id ratum fecerunt. Su questi loca primeggiava Roma, così qualificata da Ennio ([...] sicut etiam Ennius docet scribens: “Augusto augurio postquam incluta condita Roma est”) 212; eppure dal quel gennaio del 27 a.C., augustus fu riferito per la prima volta a una persona, certamente non un uomo comune, la cui azione, la cui vita, la cui aurea si legavano indissolubilmente a Roma 213. Quel cognomen non a caso proiettava colui che ne veniva insignito su un piano prossimo agli dèi (Ovid. fast. 1.587590, 607-608: Idibus in magni castus Iovis aede sacerdos / semimaris flammis viscera libat ovis. / Redditaque est omnis populo provincia nostro / et tuus Augusto nomine dictus avus. [...] Sed tamen humanis celebrantur honoribus omnes: / hic socium summo cum Iove nomen habet) 214.
210 Per un quadro delle coordinate dell’intenso dibattito storiografico sull’auctoritas principis mi limito a rinviare al denso libro di C. LANZA, Auctoritas principis, cit., I, passim. 211 Svet. Aug. 7.4: […] alterum Munati Planci sententia, cum, quibusdam censentibus Romulum appellari oportere quasi et ipsum conditorem urbis, prevaluisset, ut Augustus potius vocaretur, non tantum novo, sed etiam ampliore cognomine quod loca quoque religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicantur, ab auctu vel avium gestu gustuve […]. Cfr. Vell. hist. rom. 2.91.1; Flor. 2.34; Cass. Dio 53.16.7-8; Cens. de die nat. 21.8. 212 Svet. Aug. 7.4. 213 Così anche G. ANSELMO ARICÒ, Numa Pompilio, cit., pp. 54 s. 214 Per il dibattito imponente e inesauribile si rinvia ai seguenti studi grazie ai quali risalire a ulteriore bibliografia: L. ROSS TAYLOR, Livy, cit., pp. 158 ss.; G. PUGLIESE CARRATELLI, Auctori-
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10. RESTITUTIO REI PUBLICAE TRA SEMANTICA, POLITICA E ISTITUZIONI Le resistenze ad accettare una ricostruzione più distaccata, alcuni direbbero filoaugustea e assolutoria, sono, e continueranno ad essere notevoli; eppure è oltremodo difficile negare la mole di documenti disponibili. Ormai, per quantità e portata, essi appaiono decisivi e convergenti nell’attestare il gradualismo della restitutio rei publicae augustea, tanto inadeguatamente rappresentata dalla moderna storiografia come espressione di una palese e insopportabile modalità di comunicazione di Augusto e del suo staff, quasi una sentina di vizi intrisa di ipocrisia, furbizia, astuzia e cinismo. Fu invece un magistrale programma politico che determinò giustamente la grande fortuna e il duraturo consenso augusteo, concretizzatosi in una serie rilevante di gesta, il cui catalogo è fornito con assoluta chiarezza ed efficacia da Velleio Patercolo: Vell. hist. rom. 2.89.3: Finita vicesimo anno bella civilia, sepulta externa, revocata pax, sopitus ubique armorum furor, restituta vis legibus, iudiciis auctoritas, senatui maiestas, imperium magistratuum ad pristinum redactum modum, tantummodo octo praetoribus adlecti duo. Prisca illa et antiqua rei publicae forma revocata. Davvero notevole quanto scrive il magistrato e alto ufficiale militare, leale al nuovo regime politico e vicino agli eventi augustei, che, dobbiamo presumere, fosse assai meno assillato di altri da problemi di documentazione. È giusto osservare subito come nella concezione velleiana sia sottesa una presa di distanza rispetto agli imperia extraordinaria della tarda repubblica 215. E nel tentativo augusteo del ripristino dell’antico regime magistratuale non si può affatto escludere che il princeps, o almeno così vedevano i suoi contemporanei o gli storici di epoca immediatamente successiva, abbia provato a ritornare alla concezione magistratuale presillana, a cominciare dall’imperium consolare, secondo cui i consoli erano titolari di un imperium potenzialmente illimitato (maius e infinitum) 216 rispetto a quello delle altre magistrature ad eccezione, non casualmente, del dictator, perché proprio quella pretesa di ricoprire la dittatura vitalizia costituì il più grave errore, rivelatosi infine mortale, di Giulio Cesare.
tas Augusti, in PP 4, 1949, pp. 29 ss.; G. DUMEZIL, Remarques sur «augur», cit., pp. 126 ss.; S. MAZZARINO, Le alluvioni del 54 a.C./23 a.C., cit., pp. 621 ss.; A. DEGRASSI, I nomi dell’imperatore Augusto, cit., pp. 573 ss.; M. MORANI, Augurium, cit., pp. 65 ss.; G. ZECCHINI, Il cognomen «Augustus», cit., pp. 129 ss.; E. TODISCO, Il nome Augustus, cit., pp. 441 ss. 215 Così F. GRELLE, «Antiqua forma rei publicae revocata», cit., p. 329 [= in ID., Diritto e società nel mondo romano (a cura di L. Fanizza), Roma-Bari 2005, p. 419]. 216 Oltre che TH. MOMMSEN, Römische Staatsrecht3, cit., I, p. 53 ntt. 3-4, è da ricordare P. DE FRANCISCI, Preannunci del Principato, cit., pp. 29 ss.
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Potrebbe essere questa un’interpretazione plausibile; tuttavia nulla può nascondere l’estrema difficoltà di capire cosa intendesse davvero Velleio con prisca illa et antiqua rei publicae forma revocata, la cui versione pur nell’apparente ingenuità vuole indicare certamente un ritorno alla normalità e a un uso moderato del potere politico da parte di Augusto da far dimenticare il caos terribile degli anni triumvirali 217. Anche Seneca in un passo del De beneficiis relativo al rimprovero a Bruto parla di una forma precedente: Sen. de benef. 2.20.1-2: Disputari de M. Bruto solet, an debuerit accipere ab divo Iulio vitam, cum occidendum eum iudicaret. [2] Quam rationem in occidendo secutus sit, alias tractabimus; mihi enim, cum vir magnus in aliis fuerit, in hac re videtur vehementer errasse nec ex institutione Stoica se egisse. Qui aut regis nomen extimuit, cum optimus civitatis status sub rege iusto sit, aut ibi speravit libertatem futuram, ubi tam magnum praemium erat et imperandi et serviendi, aut existimavit civitatem in priorem formam posse revocari amissis pristinis moribus futuramque ibi aequalitatem civilis iuris et staturas suo loco leges, ubi viderat tot milia hominum pugnantia, non an servirent, sed utri! Quanta vero illum aut rerum naturae aut urbis suae tenuit oblivio, qui uno interempto defuturum credidit alium, qui idem vellet, eum Tarquinius esset inventus post tot reges ferro ac fulminibus occisos. Questi passi, al di là delle differenti letture che possono far sgorgare, ci fanno anche capire quale fosse la reale percezione dei contemporanei e come a Bruto, per esempio, Seneca addebitasse l’errata valutazione di poter riportare la res publica alla sua forma precedente (in priorem formam, ma quale?) perduti gli antichi mores 218. A cosa si riferivano Velleio e Seneca? Forse all’equilibrio dei poteri raggiunto con la restaurazione aristocratica sillana o a quello modificato da Pompeo, oppure ancora intendevano la forma precedente all’insorgere del movimento graccano e poi dei populares? Difficile davvero, allo stato della documentazione, rispondere alla domanda, intendere sino in fondo a cosa essi guardassero. Certamente, come ha sottolineato Francesco Grelle 219, agli occhi dello storiografo campano la prisca forma rei publicae costituiva innanzitutto un modello attuale soprattutto alternativo a un novus status vagheggiato da alcuni sediziosi ambienti militari, questa sì una nova res publica che avrebbe condotto a nuovi pericoli e caos 220, a differenza di quanto assicurato invece dalla restaurazione augustea 221. 217
Cfr. A. MARCONE, Augusto, cit., pp. 96 ss. Vedi ancora E. TODISCO, Cicerone politico, cit., p. 139 nt. 68. 219 F. GRELLE, «Antiqua forma rei publicae revocata», cit., pp. 330 s., 336. 220 Vell. hist. rom. 2.125.1-2: Tulit protinus et voti et consilii sui pretium res publica, neque diu latuit aut quid non impetrando passuri fuissemus aut quid impetrando profecissemus. Quippe exerci218
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Un significativo contributo alla comprensione, però, lo scoviamo ancora una volta tra i documenti ciceroniani: Cic. pro Marcell. 8.23: Omnia sunt excitanda tibi, C. Caesar, uni quae iacere sentis belli ipsius impetu, quod necesse fuit, perculsa atque prostrata: constituenda iudicia, revocanda fides, comprimendae libidines, propaganda suboles, omnia quae dilapsa iam diffluxerunt severis legibus vincienda sunt 222. È un testo fondamentale, di rara potenza, a torto poco considerato o frainteso dagli studiosi. Chi ha voluto fornire una lettura ironica di questa orazione, lo ha fatto senza tener conto dell’intera visione ciceroniana in elaborazione da anni 223. Ad un certo momento, Cicerone non vedeva ormai altra strada che quella di rivolgersi a Giulio Cesare, per risollevare una res publica prostrata, giacente in terra; ed è un documento la cui portata eccezionale ci stupisce ancor di più se messo in ‘dialogo’ con quello di Velleio Patercolo: Cic. pro Marcell. 8.23: Omnia sunt excitanda tibi, C. Caesar, uni quae iacere sentis belli ipsius impetu, quod necesse fuit, perculsa atque prostrata: constituenda iudicia, revocanda fides, comprimendae libidines, propaganda suboles, omnia quae dilapsa iam diffluxerunt severis legibus vincienda sunt.
Vell. hist. rom. 2.89.3: Finita vicesimo anno bella civilia, sepulta externa, revocata pax, sopitus ubique armorum furor, restituta vis legibus, iudiciis auctoritas, senatui maiestas, imperium magistratuum ad pristinum redactum modum, tantummodo octo praetoribus adlecti duo. Prisca illa et antiqua rei publicae forma revocata.
[A te solo, Cesare, spetta di rimettere in
[Finirono dopo vent’anni le guerre civi-
tus, qui in Germania militabat praesentisque Germanici imperio regebatur, simulque legiones, quae in Illyrico erant, rabie quadam et profunda confundendi omnia cupiditate novum ducem, novum statum, novam quaerebant rem publicam; quin etiam ausi sunt minari daturos se senatui, daturos principi leges; [2] modum stipendii, finem militiae sibi ipsi constituere conati sunt. Processum etiam in arma ferrumque strictum est et paene in ultima gladiorum erupit impunitas, defuitque, qui contra rem publicam duceret, non qui sequerentur. 221 Vell. hist. rom. 2.89.4: Rediit cultus agris, sacris honos, securitas hominibus, certa cuique rerum suarum possessio. 222 Significativa anche l’esortazione contenuta in Cic. pro Marcell. 9.27: Haec igitur tibi reliqua pars est; hic restat actus, in hoc elaborandum est ut rem publicam constituas, eaque tu in primis summa tranquillitate et otio perfruare. 223 Secondo R.R. DYER, Rhetoric and Intention in Cicero’s ‘Pro Marcello’, in JRS 80, 1990, pp. 19 ss., l’orazione apparterebbe a una fase successiva all’apertura di credito a Cesare del 46 a.C. Tuttavia, Dyer non tiene conto del progetto di una lettera a Cesare di un Cicerone, assai dimesso, su cui vedi infra. Cfr. M. PANI, L’ultimo Cicerone fra crisi dei principes e ciclo delle repubbliche, in Il triumvirato costituente alla fine della repubblica romana. Scritti in onore di M.A. Levi, Como 1993, p. 27.
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piedi tutto lo Stato che tu vedi giacere per terra, completamente rovinato sotto i colpi violenti della guerra, com’era inevitabile; a te spetta il compito di riorganizzare l’amministrazione della giustizia, ristabilire la fides, reprimere gli eccessi del malcostume, favorire l’incremento demografico e frenare con una severa legislazione quel disordine generale che è ormai dilagante].
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li, furono chiuse definitivamente quelle esterne in corso, riportata la pace, sopito ovunque il furore delle armi, restituita forza alle leggi, autorità ai tribunali, maestà al senato, ricondotto il potere dei magistrati alle modalità, originarie, solo che furono aggregati due pretori, scelti dal principe, agli otto eletti (dai comizi). Fu così richiamata in vita quell’originaria forma costituzionale, che lo Stato aveva avuta un tempo].
Il confronto è illuminante. Cicerone elencava a Cesare un preciso programma di governo e di restaurazione della res publica: riportare la pace spegnendo ogni residuo focolaio di guerra civile; riformare l’amministrazione della giustizia; ristabilire la fides; colpire il malcostume 224; una politica demografica; una severa legislazione per il dilagante disordine generale. Non vi è solo la straordinaria, millimetrica coincidenza programmatica con quanto è espresso, sia pure con toni e termini diversi e andamento più asciutto sotto il profilo istituzionale, nel passo di Velleio che, invece, traeva il bilancio della politica augustea: pace; leggi; fides e rigore morale; tribunali 225; senato; magistrature. Ripristinata la pace, scacciato il caos e riportato l’ordine istituzionale, poteva dirsi, secondo Velleio, compiuta la missione: prisca illa et antiqua rei publicae forma revocata. Nei due testi compaiono gli elementi e gli organi che assicuravano identità e continuità dello Stato romano, attraverso un insieme materiale 226. Nel mantenimento dei vecchi organi costituzionali, nella rivitalizzazione degli stessi si conservava l’identità della res publica. Da Cicerone a Velleio, e da quest’ultimo a Tacito: Tac. ann. 1.2.1: Postquam Bruto et Cassio caesis nulla iam publica arma, Pompeius apud Siciliam oppressus exutoque Lepido interfecto Antonio ne Iulianis quidem partibus nisi Caesar dux reliquus, posito triumviri nomine consulem se 224
Motivo altamente repubblicano; Liv. 39.41.4: […] castigare nova flagitia et priscos revocare mores (a proposito di della candidatura di Catone alla censura nel 189 a.C.): sul tema in generale E. ROMANO, «Allontanarsi dall’antico», cit., pp. 7 ss. 225 Sulle leges Iuliae iudiciariae la letteratura è talmente sterminata da renderne inutile, ed errata in questa sede, l’indicazione perisno di un’essenziale bibliografia, perciò mi limito a rinviare al denso contributo (di fatto una vera e propria monografia) di M. TALAMANCA, Il riordinamento augusteo, cit., pp. 63 ss.; e a quello di B. SANTALUCIA, Augusto e i «iudicia publica», cit., pp. 261 ss. 226 In tal senso anche C. LANZA, “Crisi della legalità” esperienza contemporanea. Exempla romani, in AA.VV., Le legalità e le crisi della legalità (a cura di C. Storti), Torino 2017, pp. 124 ss., il quale giustamente osserva che «il deficit di astrazione dei Romani concedeva a un riformatore esigui margini di ‘ingegneria costituzionale’».
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ferens et ad tuendam plebem tribunicio iure contentum, ubi militem donis, populum annona, cunctos dulcedine otii pellexit, insurgere paulatim, munia senatus magistratuum legum in se trahere […]. Insurgere paulatim, munia senatus magistratuum legum in se trahere: anche in Tacito, che non amava certo Augusto e i principi, c’è l’ammissione della conquista del potere secondo la concezione e gli schemi repubblicani. Una continuità ideologica e istituzionale sino al tempo di Tacito davvero sorprendente, comprensibile soltanto dietro la rinuncia a pensare alla res publica romana non ricorrendo all’astratto e moderno Stato-persona, ma guardando alla sua struttura e alle sue istituzioni politiche. E anche quando invece i moderni credono di scorgere le innovazioni più ardite, i fundamenta più lontani dalla tradizione repubblicana, come nel caso dell’imperium maius del principe, in realtà è sempre Cicerone, come abbiamo visto, a ricordarci come non si trattasse affatto di novità inusitate o addirittura di rotture della legalità repubblicana 227. Per le semplici ed essenziali ragioni sinora esposte in questi due testi (Cic. pro Marcell. 8.23 e Vell. hist. rom. 2.89.3) possiamo scorgere il riflesso preciso, analitico, dettagliato, della restitutio rei publicae che continuiamo a leggere nella scarnificata e apologetica sintesi autobiografica delle Res Gestae. Quei punti programmatici stilati per Cesare, decenni dopo, costituirono l’esito dei lunghi anni di egemonia politica di Augusto. Gli effetti benefici non tardarono a manifestarsi, secondo l’opinione pubblica sorretta dall’adeguata propaganda: Vell. hist. rom. 2.89.4: Rediit cultus agris, sacris honos, securitas hominibus, certa cuique rerum suarum possessio; leges emendatae utiliter, latae salubriter, senatus sine asperitate nec sine severitate lectus. La successione logica di questo frammento conferma la strategia e il consenso che attrasse. Potremmo anzi parlare di una geometrica simmetria rispetto al paragrafo precedente relativo alle misure adottate dal principe, perché Velleio potesse meglio esaltarne gli effetti: «I campi tornarono a essere coltivati, gli dèi a essere onorati con sacrifici, gli uomini vissero in pace, ciascuno sicuro del possesso dei propri beni; si portarono utili emendamenti alle leggi, altre salutari furono proposte, i senatori furono scelti senza durezza ma non senza rigore». 227 Cic. ad Att. 8.15.3: Quod videris non dubitare, si consules transeant, quid nos facere oporteat, certe transeunt vel, quo modo nunc est, transierunt. Sed memento praeter Appium neminem esse fere qui non ius habeat transeundi; nam aut cum imperio sunt, ut Pompeius, ut Scipio, Sufenas, Fannius, Voconius, Sestius, ipsi consules, quibus more maiorum concessum est vel omnis adire provincias, aut legati sunt eorum; Cic. phil. 4.4.9: Deinceps laudatur provincia Gallia meritoque ornatur verbis amplissimis ab senatu quod resistat Antonio. Quem si consulem illa provincia putaret neque eum reciperet, magno scelere se astringeret: omnes enim in consulis iure et imperio debent esse provinciae. Negat hoc D. Brutus imperator consul designatus […].
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La nuova èra prendeva dunque corpo in una normalizzazione a lungo agognata grazie a quegli interventi, grazie a quell’azione politica di ricostruzione e di riassetto degli equilibri istituzionali. Per questa ragione penso abbia torto Dalla Rosa nell’affermare che la restitutio rei publicae sia destinata «a rimanere un mito della storiografia moderna su Augusto ancora per molto tempo» 228, oppure che abbia ragione nella misura in cui i moderni continuano a equivocarne il significato. *** Vi è però un punto essenziale, quasi impercettibile, su cui vale la pena riflettere ancora e riguarda l’ambiguità semantica dell’espressione restitutio rei publicae che apparentemente sembra far slittare ora su un piano ora su un altro l’interpretazione istituzionale dei passaggi. Tornando così alla storiografia contemporanea, credo che proprio sul versante filologico sia giunto un contributo fondamentale e davvero decisivo per la corretta interpretazione, a cui queste ultime pagine sono in parte debitrici e in parte complementari: mi riferisco al denso e importante saggio di Mario Citroni. Concentrandosi sull’uso ciceroniano della formula res publica restituta, Citroni ha finemente avvertito della doppia ambiguità semantica dell’espressione in questione: una prima ambiguità è relativa a res publica che «può indicare lo ‘stato’ [...], la compagine politico-istituzionale di una comunità, indipendentemente dagli ordinamenti costituzionali adottati e dalle sedi e le forme di esercizio effettivo dei poteri. Oppure può indicare lo stato in quanto garante degli interessi, dei diritti e della libertas di tutti i membri di una comunità [...] in opposizione implicita o esplicita a uno stato che è invece gestito nell’interesse solo di una parte, o di un unico despota»; mentre una seconda ambiguità è invece pertinente a restituo che «può indicare il restauro di un edificio danneggiato, il recupero di un corpo debilitato, il ridar vita e vigore a istituzioni o a pratiche decadute o abolite, la ricollocazione di cosa o persona in una posizione che le era propria e idonea e che è stata perduta e in generale il ripristino di una situazione precedente. Oppure può significare la riconsegna a qualcuno di qualcosa che gli era appartenuto e di cui era stato privato, o di cui si era privato. Solitamente questo secondo significato si distingue in modo netto dal primo. Ma si dovrebbe tenere presente che i due significati sono in realtà intrinsecamente connessi, perché la riconsegna a qualcuno di ciò che gli appartiene rappresenta il ripristino di un equilibrio che era temporaneamente stato alterato, indipendentemente dal fatto che ciò fosse avvenuto per concorde volontà delle parti o per prevaricazione di una di esse, o per altra circostanza. Il senso etimologico di ‘ricollocare (o rimettere in piedi, e
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A. DALLA ROSA, L’aureus del 28 a.C., cit., p. 194.
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quindi in vigore) facendo tornare allo stato anteriore’ (da re- che indica movimento all’indietro, e statuo) si riconosce dunque anche nell’idea di ‘riconsegna’» 229. L’illustre latinista ha provato in tal modo a rimettere le cose sul giusto binario e a mio avviso ci è riusciuto, indicando la corretta chiave di volta per interpretare quelle formule che tanto interesse e letteratura hanno prodotto 230: restituere rem publicam, espressione di linguaggio figurato, allora esprimerebbe l’idea di Augusto che rimette in piedi uno Stato prostrato, ovvero un’intensa e prolungata attività di restaurazione. Una conferma indiretta d’altronde la troviamo nell’orazione funebre, riportata da Cassio Dione, ove non casualmente Tiberio ha utilizzato la metafora del medico valente che prende in cura un corpo malato (la res publica) e lo guarisce, e una volta guarito, una volta rigenerato, questo corpo viene restituito, recuperato al suo normale funzionamento 231. E la ‘terapia’ seguita dal medico aveva contemplato l’abrogazione delle orribili leggi triumvirali, la riconsegna ai suoi organi politici costituzionali dei poteri sovrani e delle funzioni pubbliche e la riaffermazione, come parametri della vita politica e istituzionale, di diritti e libertas di una comunità di cives e non di sudditi a un potere tirannico. In questo contesto bisognerebbe dunque fugare ogni perplessità sulla polisemia di restituere, negandogli appunto il significato esclusivo di ‘rendere’, ‘restituire’, invece espresso da reddere 232, e sul concetto di res publica contenente, al di là di ogni dubbio, in sé il significato di qualunque forma rei publicae in quanto opposta a un regime monarchico o tirannico 233. Con l’azione restauratrice di Augusto tornava a prendere corpo una res publica in cui ridivenivano cardini centrali della cultura politica antichi valori come il merito, l’aspirazione al pubblico riconoscimento delle proprie virtù, l’ideologia del primato del bene dello Stato persino sui legami famigliari. Erano le massime speranze nutrite da Cicerone e da lui affidate ai suoi scritti, che si trovano condensate nei tre messaggi della comunicazione augustea 234: 229
M. CITRONI, Cicerone e il significato della formula, cit., pp. 165 s.; si legga pure ID., Res publica restituta et la représentation du pouvoir augustéen dans l’œuvre d’Horace, in AA.VV., Le Principat d’Auguste. Réalités et représentations du pouvoir. Autour de la Res publica restituta. Actes du colloque de l’Université de Nantes 1er-2 juin 2007 (sous la direction de F. Hurlet et B. Mineo), Rennes 2009, pp. 245 ss. 230 Oltre ai saggi indicati nelle note precedenti, è sufficiente ricordare gli altri numerosi contributi contenuti nel volume collettaneo AA.VV., Le Principate d’Auguste, cit. 231 Cass. Dio 56.39.2. 232 Per esempio, anche Ovid. fast. 1.589: Reddita est omnis populo provincia nostro. 233 M. CITRONI, Res publica restituta, cit., p. 246. Cfr. W. SUERBAM, Von Antiken zum frühmittelalterlichen Staatsbegriff2, Münster 1970, pp. 87 ss. 234 In questo senso anche J. BLEICKEN, Augustus, cit., p. 332; cfr. F. MILLAR, The First Revolution, cit., pp. 6 ss.
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1) la res publica restituta 2) la res publica reddita 3) la res publica in libertatem vindicata Insomma, risorgeva uno Stato nelle condizioni di libertà politica e riconsegnato ai suoi legittimi organi di direzione, comunque riparato dai guasti della dittatura cesariana e dei terribili anni triumvirali, in cui l’ordinamento giuridico nel suo complesso divenne oggetto di uno spaventoso sovvertimento con drammatici risvolti sociali 235. Per averne un’idea, basti ricordare il potere immenso e inusitato accordato dalla lex Titia ai triumviri: essi potevano designare tutti i magistrati, attribuirsi tutti i territori provinciali sostituendosi al senato e ai comizi; avevano il potere di esautorare i proconsoli sgraditi; i loro editti, al pari delle leggi, non subivano limiti territoriali ed erano vincolanti per qualunque magistrato o promagistrato. Augusto cominciava a realizzare dunque la restitutio rei publicae nel 28 a.C. con lo smantellamento della legislazione triumvirale 236, mentre con la rinuncia al titolo e ai poteri speciali e con il ristabilimento della centralità del consolato, come sottolineava anche Tacito 237, metteva clamorosamente in atto la translatio rei publicae, cioè la fase finale della restitutio rei publicae, ovvero con la ‘riconsegna’ dello Stato romano all’arbitrium del senato (all’interno del quale mantenne sino alla morte il titolo di princeps senatus) e del popolo, che tornavano così ad acquistare la pienezza delle loro funzioni 238 e il controllo dei territori e degli eserciti (almeno in gran parte) grazie alla restituzione delle province all’imperium del popolo Romano, per la cui assegnazione ritornava in vigore il regime della lex Pompeia del 52 a.C. Come poi venne riassegnata la formale legittimazione del governo delle province al senato – se cioè con una reviviscenza della lex Pompeia varata nel 52 a.C. oppure mediante una lex Iulia Vipsania, rogata nel 28 a.C. dai due consoli 239 – non cambia la sostanza, mentre è interessante 235 Sul tema L. CANFORA, Proscrizioni e dissesto sociale, cit., pp. 215 ss.; cfr. E. NARDUCCI, Cicerone, cit., pp. 3 ss. In generale, resta fondamentale E. GABBA, Appiano, cit., passim. 236 Almeno i provvedimenti tributari, come abbiamo visto nelle pagine precedenti; cfr. L. PELLECCHI, ‘Quae triumviratu iusserat abolevit’, cit., pp. 431 ss. 237 Tac. ann. 1.2.1. 238 Sulla produzione legislativa comiziale in età augustea si leggano le recenti pagine di J.-L. FERRARY, La législation augustéenne, cit., pp. 569 ss. Che anche su questo aspetto, ovvero di un legame molto stretto con il popolo nella sua funzione legislativa, Augusto sentisse l’influenza di Cicerone e ne seguisse le indicazioni, si può desumere da de leg. 2.4.9, in cui populares leges, contrariamente a quanto possa ictu oculi sembrare, esprime non una matrice politica (i populares), ma il senso di leggi votate dal popolo. Cfr. P. CATALANO, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, p. 125. 239 Come propone J.-L. FERRARY, La législation augustéenne, cit., pp. 579. Cfr. A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., pp. 52 ss., praecipue 83 ss. (a proposito della lex Pompeia), con fonti e ampia bibliografia.
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ricordare come il regime della lex Pompeia abbia condotto a un rafforzamento del consolato 240. Così Augusto restituiva vigore allo Stato romano, riconsegnandolo ai suoi legittimi e ordinari organi costituzionali o centri di potere e ripristinando, per usare sempre le parole di Citroni, «la sua natura di res publica» e l’identità di res populi 241. Tutta la documentazione in nostro possesso, è stato ancora acutamente sottolineato, relativa ad atti politici e istituzionali di Augusto «mostra inequivocabilmente la precisa preoccupazione del principe di configurare il suo potere come conforme al quadro delle istituzioni tradizionali della libera res publica, e in esso coerentemente collocato. E questa preoccupazione, determinata e sistematica, presuppone la consapevolezza da parte di Augusto che l’opinione pubblica, o almeno una parte di essa da lui considerata di decisiva importanza, non avrebbe accettato l’esplicita assunzione di forme monarchiche di gestione del potere, e pretendeva da lui quantomeno un atteggiamento rispettoso nei confronti delle istituzioni della res publica, e possibilmente un ripristino di esse» 242. Chi dunque, e perché, dei contemporanei avrebbe potuto smentirlo sul piano politico-istituzionale? E perché dovrebbero oggi bollarsi quelle orgogliose affermazioni delle Res Gestae come improntate alla più bieca ipocrisia? Restitutio rei publicae contrassegnava così la valutazione complessiva dell’azione riformatrice o, come sarebbe più corretto e consono alle fonti, restauratrice augustea, mentre translatio rei publicae possedeva una portata più limitata consistente più concretamente nell’atto formale di rinuncia a quella potentia goduta per consensus universorum dal 31 a.C. dopo la vittoria di Azio. Questa interpretazione di restitutio rei publicae, ampia e duttile, che appare inequivocabilmente ricorrente nel corpus ciceroniano, era certamente quella più invalsa e condivisa nel mondo della politica e delle istituzioni negli anni della crisi e della transizione repubblicana. Ma non solo. Non deve trascurarsi neppure il fatto che il motivo della restitutio punteggi la storia del principato sino a Traiano. La restaura240
A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., p. 94, che non a caso Dalla Rosa parla «di principato imperniato sul consolato». Propone una ricostruzione dettagliata, e sostanzialmente condivisibile nella lettura politica, del regime della lex Pompeia F. HURLET, Le proconsul et le prince, cit., pp. 24 ss. 241 M. CITRONI, Cicerone e il significato, cit., p. 187. Cfr. E.T. SALMON, The Evolution of Augustus’ Principate, in JRS 5, 1956, pp. 456 ss.; D. EARL, The Age of Augustus, London 1968, p. 66; J.-L. FERRARY, Res publica restituta, cit., pp. 419 ss. Secondo F. MILLAR, Triumvirate and Principate, cit., p. 63, res publica non poteva affatto intendersi come repubblica prima del consolidamento del regime costituzionale imperiale, e dunque la locuzione indicava lo Stato nella forma ereditata e conosciuta dai romani. Tuttavia, questa interpretazione accettabile in linea di massima, appare però eccessivamente generica, perché resta irrisolto da Millar a quale tipo di assetto ci si riferisse. 242 M. CITRONI, Autocrazia e divinità, cit., p. 245; cfr. W. EDER, Augustus and the Power of Tradition, in AA.VV., The Cambridge Companion to the Age of Augustus (a cura di K. Galinsky), Cambridge 2005, pp. 13 ss.
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zione repubblicana non si trova enunciata soltanto nelle Res Gestae, perché restaurava la res publica Galba alla morte di Nerone richiamandosi al modello e ai temi augustei 243, e ancora la restaurava Nerva dopo Domiziano, mentre Plinio, sotto Traiano, era convinto di vivere in una res publica 244. Allora, in questo senso ha ragione Felice Costabile 245 nell’aver ricordato quanto abbia pesato inadeguatezza delle lenti della moderna dottrina nell’applicare all’esperienza augustea delle categorie di matrice ottocentesca del ‘colpo di Stato’ o ‘golpe’ 246. La visione appannata e distorta ha impedito di prendere atto che ciò che appariva come una palese violazione della legalità in realtà non lo era per la semplice conseguenza dell’assenza, in quanto estranea alla cultura giuspubblicistica romana, di un corpus di principi costituzionali codificati, ad eccezione dell’adfectatio regni, vera grundnorm del regime repubblicano; mentre i nuovi documenti di età augustea incrociati con le testimonianze tardorepubblicane, provenienti dall’‘archivio’ di Cicerone, uno degli indiscussi protagonisti di quella temperie, ci trasmettono il geniale, vasto e autentico processo riformatore di Augusto, lontano da ogni spirito o disegno demolitorio della res publica e assai aderente alle posizioni dell’oratore.
11. DAI PRINCIPES CICERONIANI AL PRINCEPS AUGUSTEO I termini del dibattito sulla teorica ciceroniana del princeps e sulle analogie o differenze rispetto al concreto princeps incarnato da Augusto sono noti 247. Ma anche lungo questo versante i nuovi documenti e una mutata sensibilità spingono verso letture più attente e meno ideologicamente orientate. Anche la connessione personale tra Cicerone e Augusto, nonostante sia stata a lungo indagata, 243 Coglie bene la questione P. BUONGIORNO, Galba bonus princeps? Frammenti di una memoria fluttuante, in IAH 8, 2016, pp. 137 ss.; ma si legga pure M. ZIMMERMANN, Die “restitutio honorum” Galbas, in Historia 44, 1995, pp. 59 ss., praecipue 81 ss. 244 Per tutti, L. CANFORA, Giulio Cesare, cit., p. 423. Anche in età tardoantica ricorrono costantemente, quasi un’ossessione ideologica, nella documentazione epigrafica ufficiale i termini restitutor, restitutio, restituta o formule del tipo restitutor/restitutores orbis, reparator/reparatores rei publicae: CIL III.22; CIL III.6626; CIL III.13578; CIL IX.417; CIL X.516; CIL XI.4781; ILS 617; ILS 739; AÉ 1964, 218a; AÉ 1974, 417; AÉ 1984, 367; AÉ 1987, 896; AÉ 1990, 865; AÉ 2006, 440; AÉ 2007, 1228; AÉ 2008, 1341. 245 F. COSTABILE, Caius Iulius Caesar, cit., pp. 108 s. 246 Cfr. F. D’IPPOLITO, Modelli storiografici fra Otto e Novecento, con un inedito di Francesco De Martino, Napoli 2007; AA.VV., Modelli storiografici fra Otto e Novecento. Una discussione (a cura di F. Lucrezi e G. Negri), Napoli 2011. 247 P. DE FRANCISCI, Preannunci del Principato, cit., pp. 1 ss., 5 nt. 20 (per bibliografia essenziale e ovviamente meno recente); E. LEPORE, Il princeps ciceroniano, cit., passim; mentre F. CANCELLI, Res publica-Princeps, cit., passim, per una panoramica più aggiornata.
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merita di essere rivista. Tra gli studi più accurati continuano a meritare attenzione le ricerche di de Francisci e di Lepore, sebbene entrambi, pur muovendo da punti di vista assai diversi e lontani, giungano a negare ogni influenza del vecchio consolare sul giovane Cesare. Ma procediamo con ordine. Ora, il tema delle forme di governo tratteggiate nel De re publica è ritornato ad attrarre l’attenzione degli studiosi e non sono mancati contributi dedicati alla ricerca della forma rei publicae effettivamente vagheggiata da Cicerone. Una recente interessante indagine ha condotto a un esito interlocutorio, per la difficoltà di ricavare dagli scritti dell’oratore indizi utili a favore di una precisa ipotesi identificativa: «potrebbe trattarsi di una correzione della quarta forma di res publica (la costituzione mista) ovvero dell’attuazione di una delle altre tre forme possibili (considerate se non ottime tollerabili, de re publ. 1, 43) addirittura della proposta di una nuova, quinta, forma di res publica» 248. Questa la conclusione di Elisabetta Todisco, che contiene tuttavia un’intuizione importante meritevole di essere approfondita e dimostrata. Per comodità, però, riportiamo il celeberrimo frammento del De re publica (1.45.69), ove Cicerone ricordava come ai tre genera (monarchia, oligarchia e democrazia), potessero succedersi le rispettive degenerazioni (dominus, factio, e turba et confusio), mentre un’altra forma (cioè una quarta) segnata da elementi di regalità epperò temperata da taluni poteri deferiti all’auctoritas dei principes e a una riserva di poteri al popolo, sarebbe stata quella sempre preferibile perché assai più stabile e non foriera di commutationes negative: Cic. de re publ. 1.45.69: Quod ita cum sit, ex tribus primis generibus longe praestat mea sententia regium, regio autem ipsi praestabit id, quod erit aequatum et temperatum ex tribus optimis rerum publicarum modis. Placet enim esse quiddam in re publica praestans et regale, esse aliud auctoritati principum impartitum ac tributum, esse quasdam res servatas iudicio voluntatique multitudinis. Haec constitutio primum habet aequabilitatem quandam magnam, qua carere diutius vix possunt liberi, deinde firmitudinem, quod et illa prima facile in contraria vitia convertuntur, ut exsistat ex rege dominus, ex optimatibus factio, ex populo turba et confusio, quodque ipsa genera generibus saepe conmutantur novis, hoc in hac iuncta moderateque permixta constitutione rei publicae non ferme sine magnis principum vitiis evenit. Non est enim causa conversioni, ubi in suo quisque est gradu firmiter collocatus et non subest, quo praecipiter ac decidat. Questo testo, in cui riecheggiano com’è ampiamente noto, i tratti della teoria polibiana dell’anaciclosi 249, mostra tutta la freddezza della riflessione pacata e
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E. TODISCO, Cicerone politico, cit., p. 139. J. THORNTON, La costituzione mista in Polibio, in AA.VV., Governo misto. Ricostruzione di un’idea (a cura di D. Felice), Napoli 2011, pp. 67 ss.; U. ROBERTO, Aspetti della riflessione sul go249
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distaccata delle ‘esperienze statuali’, ed è un documento su cui la scienza romanistica si è sempre misurata. Tuttavia, è assai utile richiamarlo anche adesso perché vi ricorrono tutte le coordinate della nostra discussione, ovvero il tema della stabilità delle varie formae o genera rei publicae, quello connesso delle commutationes e la deduzione facile del convincimento di come non ogni commutatio debba ineluttabilmente possedere una valenza negativa assimilabile all’eversione o alla seditio. E soprattutto, come detto prima, è una testimonianza importante perché Cicerone manifesta la preferenza verso una forma di res publica a guida ottimate, quella cioè fondata sull’attribuzione di poteri di governo a una ristretta cerchia di principes attraverso il fondamento dell’auctoritas: placet enim esse quiddam in re publica praestans et regale, esse aliud auctoritati principum impartitum ac tributum. Nel rifiuto dell’impianto ‘biologico’ polibiano, Cicerone distingueva le res publicae sulla base degli equilibri tra centri di potere politico (senatus/principes, populus, magistratus), e individuava in tal modo come forma ottimale la costituzione mista a guida ottimate perché idonea in astratto a sottrarre (o almeno a preservare per un lungo arco cronologico) la res publica alle leggi di natura e alle ineluttabili forme degenerative 250. Lo stato gravemente mutilo del De re publica non offre appigli più saldi per profilare con maggior nettezza la costruzione ciceroniana, ma nell’epistolario troviamo un brano particolarmente interessante che getta nuova luce per una migliore definizione di questa forma: Cic. ad fam. 1.9.21: Accepisti quibus rebus adductus quamque rem causamque defenderim quique meus in re publica sit pro mea parte capessenda status. De quo sic velim statuas, me haec eadem sensurum fuisse si mihi integra omnia ac libera fuissent. Nam neque pugnandum arbitrarer contra tantas opes neque delendum, etiam si id fieri posset, summorum civium principatum neque permanendum in una sententia conversis rebus ac bonorum voluntatibus mutatis, sed verno misto nel pensiero politico romano da Cicerone all’età di Giustiniano, in AA.VV., Governo misto. Ricostruzione di un’idea (a cura di D. Felice), Napoli 2011, pp. 119 ss.; C. CARINI, Teoria e storia delle forme di governo. I. Da Erodoto a Polibio, Napoli 2017, pp. 275 ss. Sulle diverse interpretazioni del governo misto nel pensiero politico romano si veda C. CARSANA, La teoria della «costituzione mista» nell’età imperiale romana, Como 1990, passim. 250 Vedi U. ROBERTO, Aspetti della riflessione sul governo misto, cit., pp. 123 ss., e A. EVERITT, Cicerone. Vita e passioni di un intellettuale, Roma 2006, pp. 199 ss. Cicerone, inoltre, marcava un’altra differenza rispetto a Polibio, in quanto non individuava in un solo uomo l’artefice del sistema politico e della sua costituzione, ma, abbracciando la visione catoniana, li riponeva nella sagacia e nell’ingegno di intere generazioni: Cic. de re publ. 2.1.3: […] nostra autem res publica non unius ingenio esset, sed multorum, nec una hominis vita, sed aliquot constituta saeculis et aetatibus; sul testo che mette a nudo le differenze tra costituzionalismo greco e romano, si rinvia a G. MANCUSO, Sulla definizione ciceroniana dello Stato, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, II, Napoli 1984, pp. 609 ss.; P. CERAMI, Potere ed ordinamento, cit., pp. 57 ss.; P. CERAMI-G. PURPURA, Profilo storico-giurisprudenziale, cit., p. 40.
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temporibus adsentiendum. Numquam enim in praestantibus in re publica gubernanda viris laudata est in una sententia perpetua permansio; sed ut in navigando tempestati obsequi artis est etiam si portum tenere non queas, cum vero id possis mutata velificatione adsequi stultum est eum tenere cum periculo cursum quem coeperis potius quam eo commutato quo velis tamen pervenire, sic, cum omnibus nobis in administranda re publica propositum esse debeat, id quod a me saepissime dictum est, cum dignitate otium, non idem semper dicere sed idem semper spectare debemus. È il dicembre del 54 a.C., e Cicerone invia una lunga lettera, per noi di straordinaria importanza, a Publio Cornelio Lentulo Spinther. Dopo un’esplicito richiamo dell’impianto ideologico di Platone (ad fam. 1.9.12: erant praeterea haec animadvertenda in civitate quae sunt apud Platonem nostrum scripta divinitus, quales in re publica principes essent talis reliquos solere esse civis), spiega e rivendica il cambiamento di opinione verso Cesare, senza nascondere peraltro il suo legame con il dittatore anche attraverso il fratello Quinto e il giurista Trebazio Testa. Giunge, quindi, al passaggio più pregnante, ossia alla metafora della navigazione, in cui al gubernator, garante di un approdo sicuro, si richiede una mano sicura e capace di assecondare i flutti perigliosi per cambiare ove necessario direzione (la mutata velificatio) 251. Nel contesto di questa efficace e suggestiva metafora dell’arte del comando ovvero dell’esercizio del potere (gubernatio/ gubernare, oggi governo/governare), Cicerone richiamava il primato dei principes che insieme costituivano il tratto saliente della forma rei publicae vagheggiata: il summorum civium principatus, quale guida necessaria della res publica contrapposta a uno Stato con assetto monarchico. Notiamo l’uso di ‘principatus’: quel sostantivo, che neppure Tacito usava, appariva già nel linguaggio politico a metà del I secolo a.C. Ora, il tema delle vere o presunte influenze ciceroniane su Augusto e la tesi del principato come continuazione o restaurazione repubblicana (ampiamente sostenuta, per esempio, da un battagliero Otto Th. Schulz 252, a cui si sono aggiunti Guglielmo Ferrero, Jean Béranger e, più recentemente, Helmut Castritius) 253 sono problematiche ben conosciute e studiate, che tuttavia forse oggi
251 M.C. MITTELSTADT, Cicero’s Political velificatio mutata: 54 B.C - 51 B.C. Compromise or Capitulation, in PP 40, 1985, pp. 13 ss. 252 O.TH. SCHULZ, Das Wesen des römischen Kaisertums, cit., passim. 253 G. FERRERO, Grandezza e decadenza di Roma, cit., III, passim; J. BÉRANGER, Recherches sur l’aspect ideologique, cit., pp. 80 ss.; ID., Cicéron précurseur politique, in Hermes 87, 1959, pp. 103 ss.; H. CASTRITIUS, Der Römische Prinzipat als Republik, Husum 1982. Mentre di evoluzione sulla base di presupposti tradizionali e secondo strumenti legali parla A.H.M. JONES, Studies in Roman Government and Law, Oxford 1960, pp. 1 ss.; lungo la medesima scia si colloca W. EDER, Augustus, cit., pp. 13 ss., che vede in Augusto il «missing link» tra Repubblica e Impero.
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meritano una nuova messa a punto e su questo tema cruciale infatti torneremo tra qualche pagina, perché a parte il corposo saggio di Pietro de Francisci, apparso sul Bullettino nel 1964, con l’eloquente titolo Preannunci del Principato nelle Filippiche di Cicerone 254, non molto altro è stato prodotto. E malgrado il titolo evocativo, dedicato a verificare quanto negli scritti dell’Arpinate fossero chiaramente tratteggiati alcuni dei futuri mutamenti istituzionali, anche la prospettiva assunta da de Francisci è rimasta lontana dall’aderire allo schieramento dei continuisti, persistendo nella lettura eversiva non solo della condotta di Ottaviano ma persino delle mosse politiche di Cicerone. Diversa è stata invece l’attenzione posta da Ettore Lepore, in quello che ormai appare a buon diritto un classico della storiografia moderna 255. La riflessione di Lepore, solidamente incentrata sul pensiero politico e sull’elaborazione teorica e istituzionale di Cicerone, nei flutti della tempesta tardorepubblicana, contiene elementi di estremo interesse ai nostri fini. Lepore ha giustamente sottolineato come il summorum civium principatus, di cui Cicerone scriveva a Lentulo Spinther, fosse del tutto «alieno da ogni concezione di predominio e governo del singolo e non confondibile, se non agli occhi del lettore suggestionato dagli avvenimenti contemporanei e poco accorto, con una dittatura o con un potere di tipo monarchico» 256. Sarebbe un grave errore sganciare la cultura politica e istituzionale di Cicerone da uno dei concetti fondamentali della tradizione repubblicana, cioè l’avversione radicale verso ogni forma di monarchia (o regnum), incompatibile in quanto tale con i valori repubblicani (Cic. de re publ. 2.51.69). «Contro siffatte latenti esigenze e aspirazioni», continua Lepore, «vi sono appunto nelle lettere accenni chiaramente ostili che dovrebbero, a nostro avviso, metter in guardia su ogni prammatica identificazione». Anzi a dire il vero, il summorum civium principatus costituiva il superamento di una fase conflittuale tra due leader, Cesare e Pompeo, colpiti dall’accusa di licentia cupiditatum suarum 257. Il termine principatus, quindi, indicherebbe una precisa evoluzione del pensiero di Cicerone e della sua visione istituzionale e, com’è evidente, in quella lettera egli anticipava, prefigurava il quarto genus rei publicae che avrebbe teorizzato e argomentato nel De re publica, ovvero la costituzione mista, segnata dal rafforzamento del potere esecutivo conseguito nelle forme legali e temperata dalla guida dei principes, ovvero i più ragguardevoli cives tra gli ottimati. Identici motivi li ritroviamo ancora in:
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P. DE FRANCISCI, Preannunci del Principato, cit., pp. 8, 21. E. LEPORE, Il princeps ciceroniano, cit., passim. 256 E. LEPORE, Il princeps ciceroniano, cit., p. 313. 257 Cic. phil. 13.1.2: […] Proximo bello si aliquid de summa gravitate Pompeius, multum de cupiditate Caesar remisisset, et pacem stabilem et aliquam rem publicam nobis habere licuisset. 255
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Cic. pro Balb. 27.61: C. Caesarem senatus et genere supplicationum amplissimo ornavit et numero dierum novo. Idem in angustiis aerari victorem exercitum stipendio adfecit, imperatori decem legatos decrevit, lege Sempronia succedendum non censuit. Harum ego sententiarum et princeps et auctor fui, neque me dissensioni meae pristinae putavi potius adsentiri quam praesentibus rei publicae temporibus et concordiae convenire; ove ritorna la rivendicazione della duttilità nel confronto politico, che agevola il cambiamento di rotta del timoniere nel guidare la res publica tra le onde di una burrasca. Osserviamo qui non solo un Cicerone princeps e auctor di proposte favorevoli a Cesare alla guida del senato, ma ancor più una res publica in gravissime difficoltà. Eppure, quella visione legata a una concezione aristocratica dello Stato romano a guida collettiva (i principes), che consentiva a Cicerone di sconfiggere il pessimismo insito nell’ineluttabile anaciclosi polibiana e di individuare così nella costituzione mista romana la forma perfetta ed eterna, possedeva tuttavia un ‘tallone di Achille’: il presupposto dell’esistenza di uomini degni di essa e capaci di guidarla. La loro mancanza avrebbe condotto inevitabilmente al declino della res publica, e Cicerone sapeva bene come ormai si fosse ridotto lo spazio politico per quell’assetto istituzionale, anzi possiamo ben dire a questo punto per quella precisa forma di res publica a guida senatoria caratterizzata da una pluralità di principes 258. L’amara disillusione gli faceva levare alto il lamento verso l’assenza di leader di vera caratura politica e morale, un lamento che leggiamo nell’VIII Filippica: Cic. phil. 8.7.22: Dolenter hoc dicam potius quam contumeliose: deserti, deserti, inquam, sumus, patres conscripti, a principibus 259. Dov’erano i principes? Come sarebbe mai stato possibile immaginare ancora un summorum civium principatus? Eppure, in quel grido bisogna leggere altro; significa ben altro, come ha osservato Filippo Cancelli, e cioè la convinzione
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M. PANI, Augusto e il Principato, cit. p. 28, mette a fuoco il tema ciceroniano ma di fatto lo riduce a poca cosa: «… è anche evidente che il riferimento di Cicerone ai principes però… è rivolto a persone, non ad organi istituzionali, né si può pensare che a tutti i senatori potessero addirsi nella visione di Cicerone gli epiteti di auctor, gubernator, conservator civitatis (o rei publicae). Il quadro, in realtà, non era piano: il senato, anche se sempre dato ideologicamente come organo leader, pare, in realtà, disfarsi in questa concezione “principesca”». 259 Cic. phil. 7.2.5: Et quidem dicuntur vel potius se ipsi dicunt consularis: quo nomine dignus est nemo, nisi qui tanti honoris nomen potest sustinere; Cic. ad fam. 12.4.1: Vellem Idibus Martiis me ad cenam invitasses; profecto reliquiarum nihil fuisset. Nunc me reliquiae vestrae exercent, et quidem praeter ceteros me. Quamquam egregios consules habemus, sed turpissimos consularis; senatum fortem, sed infimo quemque honore fortissimum. Populo vero nihil fortius, nihil melius, Italiaque universa, nihil autem foedius Philippo et Pisone legatis, nihil flagitiosius.
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profonda della necessità di una classe dirigente ampia: «più si è in principes, in quel partito di principi per antonomasia, meglio riesce e più incisiva la tutela della res p., anche se di eccelsi non ve ne può essere tanti» 260. Ma devastazioni, sovvertimento politico e istituzionale, sangue, le terribili vicende delle guerre civili avevano a tal punto assottigliato lo spazio politico da permetterne l’esistenza di uno solo: il princeps, uno dei principes, il più autorevole, il più eminente, a cui affidarsi e affidare le sorti della res publica. La preoccupazione di Cicerone, certo non sorta nell’ultimo anno della sua vita, non si limitava a osservazioni politiche estemporanee, ma attraversava le pagine di un altro celebre trattato, il De legibus, dalle finalità ben precise: Cic. de leg. 3.18.41: […] est senatori necessarium nosse rem publicam (idque late patet: quid habeat militum, quid valeat aerario, quos socios res publica habeat, quos amicos, quos stipendiarios, qua quisque sit lege, condicione, foedere) tenere consuetudinem decernendi, nosse exempla maiorum. Videtis iam genus hoc omne scientiae, diligentiae, memoriae, sine quo paratus esse senator nullo pacto potest. In questo frammento, in cui si racchiude davvero lo spirito del De legibus, quale trattato del giusnaturalismo romano 261, affiorano gli influssi precisi delle Leggi platoniche. Si indaga da tempo, da Henkel a Ferrary, sull’influenza esercitata dalle Leggi su Cicerone e sul De re publica, e i risultati ne hanno dato ampia conferma 262. Come in Platone era centrale il concetto di techne politica (più nel Politico che nella Repubblica), intesa come tecnica segnata da sapere, procedure e finalità (cioè l’episteme del governante), nel De legibus Cicerone tratteggiava quasi una sorta di ‘scienza di governo’, menzionata nel De oratore quale sapere necessario all’oratore ideale, e che ogni senatore, impegnato concretamente nell’azione di governo, avrebbe dovuto possedere e per la quale sarebbe stata indispensabile una formazione e un’informazione quanto più complete e dettagliate possibile 263. È vero che il senato descritto e regolamentato dal De legibus era un senato ideale – e infatti Cicerone raccoglieva lo scetticismo di Quinto e di Attico dinanzi al degrado e alla temperie di quegli anni – però l’oratore chiariva
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F. CANCELLI, Res publica-princeps, cit., p. 100. A. SCHIAVONE, Ius, cit., p. 287. 262 Per tutti vedi H. HENKEL, Studien zur Geschichte der griechischen Lehre vom Staat, Lipsia 1872, p. 111 nt. 22; V. PÖSCHL, Römische Staat und griechisches Staatsdenken bei Cicero. Untersuchungen zu Ciceros Schrift De re publica, Berlin 1936, pp. 47 ss.; R. PONCELET, Cicéron traducteur de Platon. L’expression de la pensée complexe en latin classique, Paris 1957, passim; J.-L. FERRARY, L’archéologie du De re publica (2, 2, 4-37, 63): Cicéron entre Polybe et Platon, in JRS 74, 1984, pp. 87 ss. 263 Su questo testo vedi A. MARCONE, Augusto, cit., pp. 105 s. L’insegnamento ciceroniano fu seguito con scrupolo da Augusto. 261
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che il suo trattato era rivolto alle generazioni future, alla costruzione di una nuova classe dirigente, munita, rispetto al passato, di nuovi strumenti di formazione 264. Ad ogni modo, Cicerone dovette ben presto archiviare la sua costruzione e, dinanzi alle torsioni autoritarie e alla sua incapacità di scorgere un approdo sicuro, spingersi sino a riporre le ultime speranze in un uomo solo, in Cesare. Siamo lontani però dal modello di una dittatura costituente, come alcuni hanno continuato a credere 265; Cicerone riplasmava il suo impianto di res publica fondata dapprima sull’auctoritas dei principes infine soltanto su quella del princeps più autorevole tra quelli. Fu una delle sue ultime carte giocate, perché mai abbandonò l’idea di continuare a essere un protagonista della ricostruzione: Cic. ad fam. 9.2.5: [...] non deesse si quis adhibere volet, non modo ut architectos verum etiam ut fabros, ad aedificandam rem publicam, et potius libenter accurrere [...]. Non si rassegnava a uscire di scena, e anche soltanto come semplice operaio e non architetto, il vecchio consolare aveva l’ambizione di voler continuare esercitare il suo compito di difesa e puntello dello Stato, di indicazione della rotta da intraprendere; e la rotta lo conduceva direttamente a Cesare 266. Ritorniamo a quel passo della pro Marcello: Cic. pro Marcell. 8.23-24: Omnia sunt excitanda tibi, C. Caesar, uni quae iacere sentis belli ipsius impetu, quod necesse fuit, perculsa atque prostrata: constituenda iudicia, revocanda fides, comprimendae libidines, propaganda suboles, omnia quae dilapsa iam diffluxerunt severis legibus vincienda sunt. [24] Non fuit recusandum in tanto civili bello, tanto animorum ardore et armorum quin quassata res publica, quicumque belli eventus fuisset, multa perderet et ornamenta dignitatis et praesidia stabilitatis suae, multaque uterque dux faceret armatus quae idem togatus fieri prohibuisset. Quae quidem tibi nunc omnia belli volnera sananda sunt, quibus praeter te mederi nemo potest . Ne abbiamo già sottolineato la portata, v’è semmai da aggiungere un’osservazione. Indubbiamente questo frammento chiave della pro Marcello rende chia264 Cic. de leg. 3.12.28: Nam ita se res habet, ut, si senatus dominus sit publici consilii, quodque is creverit, defendant omnes, et, si ordines reliqui principis ordinis consilio rem publicam gubernari velint, possit ex temperatione iuris, cum potestas in populo, auctoritas in senatu sit, teneri ille moderatus et concors civitatis status, praesertim si proximae legi parebitur. Nam proximum est: «Is ordo vitio careto, ceteris specimen esto». Rimando pure a O. LICANDRO, Cicerone alla corte di Giustiniano, cit., pp. 105 ss. 265 M. PANI, Augusto e il Principato, cit., pp. 36 ss. 266 Cfr. R. CRISTOFOLI, La strategia della mediazione. Biografia politica di Aulo Irzio prima del consolato, in Historia 59, 2010, pp. 469 s.
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ro lo slittamento impresso da Cicerone dal summorum civium principatus al princeps (Giulio Cesare), capace di realizzare un forte programma di riforme tale da realizzare una legittima commutatio rei publicae vagheggiata già dal 54 a.C. 267. Un epilogo auspicabile, analogo all’esperienza periclea del resto non del tutto estranea allo stesso Cicerone, di cui è nota l’estrema ammirazione del leader ateniese manifestata nel De re publica (de re publ. 1.16.25: […] Pericles ille, et eloquentia et consilio princeps civitate suae, uomo indisturbato al governo per diversi decenni). Egli era ormai del tutto convinto dell’ineluttabilità di una fase di transizione in cui la res publica fosse guidata da un uomo solo: un princeps. E ammette che, proprio perché uno Stato resta comunque sconvolto da un’esperienza di guerra civile (in tanto civili bello, tanto animorum ardore et armorum quin quassata res publica, quicumque belli eventus fuisset, multa perderet et ornamenta dignitatis et praesidia stabilitatis suae), questa guida deve essere in grado di sanare le dolorose ferite (nunc omnia belli volnera sananda sunt). Pure in questa occasione è agevole raccogliere l’eco di un tipico motivo di vanto augusteo: il pacificatore, il princeps che restituisce libertà, pace e ordine. Appena più avanti, lungo questo solco, puntando sull’onore e sull’orgoglio di Cesare, l’oratore cesellava ancora una precisa esortazione: Cic. pro Marcell. 9.27: Haec igitur tibi reliqua pars est; hic restat actus, in hoc elaborandum est ut rem publicam constituas, eaque tu in primis summa tranquillitate et otio perfruare: tum te, si voles, cum et patriae quod debes solveris et naturas ipsam expleveris satietate vivendi, satis diu vixisse dicito. Come in un quadro di assi cartesiani, Cicerone tracciava le coordinate eticopolitiche del princeps, già presenti nel Somnium Scipionis: un nuovo assetto da garantire alla res publica con la ricompensa di una vecchiaia serena e consapevole di aver servito la propria patria. Tuttavia, pur nell’acutezza, nella profetica lucidità di analista, osservatore e protagonista sino alla morte della scena politica, Cicerone sbagliò intravedendo in Cesare quel princeps e definendolo così dapprima in una lettera del 46 a.C. a L. Papirio Peto 268, e poi optimus civis in una lettera indirizzata al dittatore stesso, ma da consegnargli soltanto previo consen-
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Cic. de re publ. 1.42.65: Est omnino, cum de illo genere rei publicae quod maxime probo quae sentio dixero, accuratius mihi dicendum de commutationibus rerum publicarum […]; cfr. de div. 2.6; de re publ. 1.29.45; 2.25.45. Sulla Pro Marcello A. TEDESCHI, Lezione di buon governo per un dittatore. Cicerone, Pro Marcello: saggio di commento, Bari 2005; più in generale sui cicli M. PANI, Potere e valori a Roma fra Augusto e Traiano, Bari 1993, p. 43; ID., L’ultimo Cicerone, cit., pp. 21 ss.; ID., Augusto e il Principato, cit., pp. 36 ss. 268 In quella lettera, in cui Cicerone non dissimulava affatto all’amico la cifra enorme della scommessa politica, Cesare appare effettivamente come quel principe sopra tutti gli altri (Cic. ad Att. 9.17.2-3).
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so di Attico e di una ristretta cerchia di cesariani 269. Il senso dell’elogio ciceroniano, non gratuitamente concesso, è preciso. Cicerone esigeva da Cesare, in quanto vero ¢n¾r politikÒj, «l’adeguarsi dell’uomo agli ideali della bonitas, la presenza di quel carattere morale e del suo contenuto programmatico; soprattutto quale fondamento dell’azione, la res publica restaurata e il consensus omnium bonorum, che è per eccellenza consensus Italiae» 270. Non fu azzardo l’avvicinamento a Cesare, poiché era stato proprio lui nel marzo del 49 a.C., con una lettera conservatasi, a chiedere un incontro all’oratore per ottenere consigli 271 e dare rassicurazioni sulla moderazione della sua azione lontana dall’exemplum di Silla 272. Il dittatore però, al contrario, deluse le aspettative di Cicerone e di tutti coloro che nutrivano ancora qualche speranza per un governo moderato e costituzionale, la sua cupiditas di potere lo fece agire senza più alcuna remora, senza bussola, per sfociare in un falso principato 273. Cesare, purtroppo, non ricercò quell’approdo moderato e rassicurante auspicato dal vecchio consolare, ma al contrario, come dimostra il drammatico epilogo della sua vicenda politica, il suo governo fu esercitato all’insegna degli eccessi e di un’insana temerarietà 274: Cic. de off. 1.8.26: Declaravit id modo temeritas C. Caesaris, qui omnia iura divina et humana pervertit propter eum, quem sibi ipse opinionis errore finxerat, principatum. Temeritas, causa di sovvertimento di iura divina et humana, e irrimediabile arroganza furono i tratti cesariani sottovalutati da Cicerone. Egli a un certo punto finì per ammettere di aver compiuto una valutazione totalmente sbagliata nel269 Cic. ad Att. 12.51.2. Credo che M. PANI, Augusto e il Principato, cit., p. 39, dietro il condizionamento del Somnium Scipionis (6.12), forzi il testo interpretandolo come una manifestazione di consenso dell’oratore verso una dittatura costituente. 270 E. LEPORE, Il princeps ciceroniano, cit., pp. 361 s. 271 Caes. ad Cic. 9.6A: Cum Furnium nostrum tantum vidissem neque loqui neque audire meo commodo potuissem, cum properam atque essem in itinere praemissis iam legionibus, praeterire tamen non potui quin et scribere ad te et illum mitterem gratiasque agerem, etsi hoc et feci saepe et saepius mihi facturus videor; ita de me mereris. In primis a te peto, quoniam confido me celeriter ad urbem venturum, ut se ibi videam, ut tuo consilio, gratia, dignitate, ope omnium rerum uti possim. Ad propositum revertar; festinationi meae brevitatique litterarum ignosces. Reliqua ex Furnio cognosces. 272 Cic. ad Att. 9.7. 273 F. CANCELLI, Res publica-princeps, cit., p. 104, esclude l’assoluta inesistenza nel De re publica di ogni accenno a un princeps unus, ma non tiene conto di quanto Cicerone ha scritto altrove. Sul «magistero morale» dell’oratore sull’uccisione di Cesare si legga E. GABBA, I falsi stati nel ‘De re publica’ di Cicerone, in Studi in onore di E. Volterra, III, Milano 1971, pp. 1 ss.; cfr. E. LEPORE, Il princeps ciceroniano, cit., pp. 305 ss. 274 Ritiene che sia Giulio Cesare il precursore dell’impianto politico e costituzionale augusteo P. CERAMI, Caesar dictator, cit., pp. 101 ss.
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l’affidarsi a Cesare 275, eppure l’amaro pessimismo non gli impediva di continuare nella ricerca di colui che avrebbe potuto interpretare la figura del princeps: Cic. phil. 5.14.44: Caesar ipse princeps exercitus faciendi et praesidi comparendi fuit; e, dopo Cesare, non restava molto altro; non restava che come ultimo, estremo azzardo di puntare su Ottaviano, un puer, per quanto virtuoso ai suoi occhi pur sempre un puer. Così Cicerone nel 44 a.C. cesellava ancor più compiutamente la teorizzazione di una nuova forma rei publicae fondata su di un dignus principatus: Cic. de off. 1.25.86: Hinc apud Athenienses magnae discordiae, in nostra re publica non solum seditiones, sed etiam pestifera bella civilia; quae gravis et fortis civis in re publica dignus principatu fugiet atque oderit tradetque se totum rei publicae neque opes aut potentiam consectabitur totamque eam sic tuebitur, ut omnibus consulat. Il princeps è già ben configurato in questo frammento ciceroniano che, tra tanti può ben individuarsi come quello contenente la ‘cifra politica’ della teorica del principatus 276, o se preferiamo il canone a cui si ispirò l’azione e la relativa propaganda augustea poi incise nelle Res Gestae. *** Non possiamo escludere che nel De re publica, giuntoci gravemente mutilo, si trovasse l’abbozzo più disteso di questa idea di governo di un princeps coadiuvato da un ristretto numero di altri principes, e dunque di una vera e propria quinta forma rei publicae. Ci sono numerosi passi del trattato che spingono verso la figura del princeps o gubernator o tutor rei publicae 277. Conservando un sereno distacco, è difficile negare come ogni passaggio di Augusto ci riporti a Cicerone e viceversa: straordinaria è l’analogia tra il passaggio edittale dell’Augusto di Svetonio (Aug. 28.3: “Ita mihi salvam ac sospitem rem publicam sistere in sua sede liceat atque eius fructum percipere, quem peto, ut optimi status auctor dicar et moriens ut feram mecum spem, mansura in vestigio suo fundamenta rei publicae quae iecero”) e l’ultimo Cicerone (ad fam. 12.25.4: Ego, mi Cornifici, quo die primum in spem libertatis ingressus sum et cunctantibus ceteris a. XIII Kal. Ian. fundamenta ieci rei publicae) 278. L’optimus status augu275 M. PANI, L’ultimo Cicerone, cit., pp. 32 s., tende ad attribuire qui a principatus un significato astratto di regime, mentre sembra chiaro che Cicerone si riferisca al principatus di Cesare: fu quell’esperienza a tradire le aspettative, fu quel principatus ad averlo indotto in errore. 276 Cic. phil. 2.11.26; phil. 4.1.1; phil. 5.11.28; ad fam. 10.6.3; ad fam. 12.24.2. 277 Cic. de re publ. 1.26.41-42; 1.29.45; 2.29.51; 5.3.5; 5.6.8. 278 Cfr. pure Cic. de nat. deorum 3.1.5: Cumque omnis populi Romani religio in sacra et in auspicia divisa sit, tertium adiunctum sit si quid praedictionis causa ex portentis et monstris Sibyllae
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steo 279, naturalmente, costituiva il superamento del quarto genus rei publicae, come abbiamo già accennato, tracciato da Cicerone un decennio prima, nel 54 a.C., nel De re publica (1.45.69) 280. Il modello della res publica guidata dai principes corrispondeva a una visione non più attuale neppure agli occhi di Cicerone 281. Le Idi di marzo avevano spazzato via tutto e non restava che provare ad approdare a quella restitutio rei publicae che l’oratore aveva cominciato ad abbozzare guardando a Cesare, puntando dunque sul potere di un uomo solo, con una forma inedita, tanto inedita da sfuggire a qualunque inquadramento: sfuggente certamente, come appena detto, a quello aristotelico-polibiano dei cicli e interpretes haruspiciesve monuerunt, harum ego religionum nullam umquam contemnendam putavi mihique ita persuasi, Romulus auspiciis Numam sacris constitutis fundamenta iecisse nostrae civitatis, quae numquam profecto sine summa placatione deorum immortalium tanta esse potuisset. 279 Si è dispiegato in dottrina un ampio dibattito sul significato da attribuire a status visto il diffuso ricorso del termine in autori lontani e diversi, come nel caso appunto di Cicerone e Gaio o di Ulpiano, quest’ultimo da ricordare soprattutto per la celebre definizione di ius publicum (D. 1.1.1.pr.-2). Per lo più, sebbene con sfumature diverse, l’accezione più accolta è stata quella di «stabilità», «solidità», «saldezza» e altri sinonimi: per tutti, G. GROSSO, Riflessioni in tema di “ius publicum”, in Studi in onore di Siro Solazzi nel 50° anniversario del suo insegnamento universitario, Napoli, 1948, pp. 461 ss.; H. ANKUM, La nocion de “ius publicum” en derecho romano, in AHDE 52, 1983, pp. 523 ss.; G. ANSELMO ARICÒ, Ius publicum – ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in AUPA 37, 1983, pp. 447 ss. (di cui vedi quanto sostenuto nella rec. di A. CARCATERRA, in SDHI 50, 1984, p. 549 ss.); M. KASER, «Ius publicum» und «ius privatum», in ZSS 103, 1986, pp. 1 ss.; P. STEIN, Ulpian and the Distinction between ius publicum and ius privatum, in Collatio iuris romani. Études H. Ankum, II, Amsterdam 1995, pp. 499 ss.; W. WALDSTEIN, Zum Problem der vera philosophia bei Ulpian, in Collatio iuris romani. Études H. Ankum, II, Amsterdam 1995, pp. 608 ss.; V. MAROTTA, Ulpiano e l’Impero, cit., I, pp. 153 ss.; G. NOCERA, Ius publicum e ius privatum secondo l’esegesi di Max Kaser, in SDHI 68, 2002, pp. 1 ss.; e da ultimo G. FALCONE, Un’ipotesi sulla nozione ulpianea di ius publicum, in AA.VV., Tradizione romanistica e Costituzione (dir. L. Labruna – a cura di M.P. Baccari e C. Cascione), I.2, Napoli 2006, pp. 1167 ss., che ripercorre il filo che da Ulpiano risale a Cicerone attraverso la connessione con il concetto di utilitas communis o civium; da aggiungere peraltro, come in altre sue ricerche, Falcone metta anche in luce l’interessante slittamento concettuale di aequum verso l’utilitas nel suo profilo pubblicistico: G. FALCONE, ‘Beneficia’ imperiali e ‘logica del sistema’. Spunti di metodo tra le righe di Alberto Burdese, in AA.VV., Giornate in ricordo di Alberto Burdese. Venezia, 29-30 aprile 2016. Atti (a cura di L. Garofalo e P. Lambrini), Napoli 2017, pp. 178 ss. 280 Su questo tema la letteratura scientifica è davvero copiosa e pertanto, non soltanto per comodità, si rimanda al saggio di M. MICELI, ‘Governo misto’, quartum genus rei publicae e separazione dei poteri, in AA.VV., Tradizione romanistica e Costituzione (dir. L. Labruna – a cura di M.P. Baccari e C. Cascione), I.1, Napoli 2006, pp. 659 ss.; ma pure P. CERAMI, Costituzione e interpretazione dei princípi costituzionali nel sistema istituzionale della libera res publica, in AA.VV., Tradizione romanistica e Costituzione (dir. L. Labruna – a cura di M.P. Baccari e C. Cascione), I.1, Napoli 2006, pp. 633 ss.; cfr. più in generale G. MANCUSO, Forma di Stato e forma di governo nell’esperienza costituzionale greco-romana, Catania 1995, passim. 281 M. EVANGELISTI, L’irresistibile ascesa di Ottaviano, in Diritto@Storia 14, 2016, pp. 10 s. [estr.], parla di esigenza di palingenesi dello Stato romano, di un piano di riforme non rinviabile neppure da chi avversò duramente Cesare, come Cicerone.
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delle relative degenerazioni (monarchia-tirannia, aristocrazia-oligarchia, democrazia-oclocrazia); una forma anche assai diversa negli equilibri politici da quella espressa nel quarto genus prima descritto, da apparire addirittura una quinta forma, in cui Cicerone metteva da parte la figura tratteggiata nel Somnium Scipionis (6.12) del dittatore costituente, per modellare quella del princeps auctor presente nella pro Marcello 282. Si sostiene ancora che la strada percorsa da Augusto che conduce alla soluzione istituzionale denominata ‘principato’ avvenne per fasi diverse, senza un piano prestabilito e senza una teoria politica che ne delineasse in anticipo il profilo 283. Per la verità, Salvatore Riccobono jr. parecchi decenni fa aveva colto l’essenza della questione su basi esattamente contrarie: «Noi non possiamo oggi con sicurezza affermare se e fino a qual punto l’autore del “De Republica”, in alcuni colloqui avuti con l’adolescente Ottaviano, abbia manifestato le proprie idee intorno alla necessità d’una ricostruzione organica e giuridica dello Stato su basi costituzionali. Ma certo, dall’osservazione dei fatti che seguirono, non è improbabile ritenere che quel giovinetto, dotato di un nascosto tesoro di energie e di calcolato equilibrio, abbia già sin dal primo ingresso nell’agone della storia, meditato sulle varie correnti politiche del suo tempo ed abbia risentito, in qualche modo, dell’influsso delle conversazioni e degli scritti di Cicerone, uomo, allora, venerando e d’incontrastata autorità nel mondo romano, quantunque l’ironia del destino e della vita volle accomunare il futuro imperatore di Roma nella tragica, delittuosa proscrizione del vecchio grande consolare» 284. L’intuizione di Riccobono jr. è decisamente fondata, e dopo la mole dei documenti sin qui esaminati, possiamo pure aggiungere qualcos’altro e di più significativo. La teoria politica c’era, non era originale, non era cioè frutto dell’elaborazione strategica augustea, ma apparteneva a Cicerone. Augusto, insomma, raccoglieva l’eredità ciceroniana e la attuava: pacificatore, mise fine allo sconvolgimento dei iura divina et humana; costruì la propria immagine di predestinato, di uomo più amato dagli dèi, in grado di riportare la pax deorum, valore pri
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Di avviso diverso è E. TODISCO, Cicerone politico, cit., pp. 139 ss., secondo cui «negli scritti di Cicerone non vi è nulla che ne consenta un’ipotesi identificativa». Posizione eccessiva che invece non tiene conto al riguardo della notevole quantità di elementi assai precisi, sebbene in conclusione del suo saggio riconosca nel principatus augusteo «nei fatti una realizzazione (certo personale e svincolata) di quella intuizione politica rappresentata dalla commutatio continuamente cercata per tutto il I sec. A.C. e (forse) mai da Cicerone stesso completamente formalizzata o ammessa nelle sue estreme conseguenze». 283 Così D. ROGER, Ottaviano conquista il potere assoluto, in AA.VV., Augusto, Milano 2013, p. 142. 284 S. RICCOBONO JR., Augusto, cit., p. 435.
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mordiale e insuperabile della res publica quale realtà sociale prima ancora che organizzazione politica. Ma anche restauratore della res publica, attraverso la restituzione dell’autorità al senatus e al populus (in tutte le opere ciceroniane quando si fa riferimento alla res publica nelle sue articolazioni costituzionali si menzionano congiuntamente senato e popolo) 285. Autore di una riforma vasta e profonda dell’amministrazione della giustizia con le leges iudiciorum, Augusto promosse un’altra sulle unioni attraverso la severissima legislazione matrimoniale che prefigurava anche obiettivi di crescita demografica, intrecciata con un’inflessibile riforma etica attraverso il richiamo in vigore di antichi mores 286. Eppure, il princeps ciceroniano non aveva niente a che vedere con quella figura di monarca che non solo la storiografia ottocentesca ma pure quella successiva 287 tende a scorgervi. Cancelli ha provato recentemente ha puntualizzare alcuni aspetti, nella convinzione che a non aver agevolato la comprensione del princeps sia stata «l’ermeneutica non centrata della definizione di res publica» e poiché questa si contrappone al regnum conseguentemente il princeps non deve essere ricondotto alla monarchia. Ad aver giocato, poi, in particolare a favore della lettura monarchica della figura del principe è stato, secondo lo studioso, Cic. de re publ. 5.5-6. Ma in questo testo nulla autorizza a trarre prove a sostegno della teorizzazione di una carica istituzionale dal tratto marcatamente monarchico, munita di poteri e di funzioni speciali 288. In realtà, princeps, principes, non erano altri che il primo cittadino e i migliori cives dell’aristocrazia, i più eminenti che avrebbero potuto assicurare per le loro virtù un governo equilibrato, tendente a un compromesso armonico fondato sulla fiducia (o consenso generale) 289. E tuttavia, detentore di un potere assolutamente interno all’alveo repubblicano, «di quelli previsti nella costituzione tradizionale e secolare, o, se altro, quello che il senato e il popolo vorranno assegnare: ordinario o straordinario, persino eccezionale, purché sempre e solo temporaneo per la durata della speciale funzione» 290. Ecco i tratti di continuità con il regime istituzionale repubblicano piuttosto che la concezione mmomseniana del principe/magistrato. Il princeps nella sua 285
Considerazioni significative di G. FERRERO, Grandezza e decadenza di Roma, cit., III, pp. 580 ss. Anche M. HUMBERT, Le guerre civili e l’ideologia del principato nel pensiero dei contemporanei, in AA.VV., Res publica e Princeps. Vicende politiche, mutamenti istituzionali e ordinamento giuridico da Cesare ad Adriano. Atti del Convegno internazionale di diritto romano, Copanello 2527 maggio 1994 (a cura di F. Milazzo), Napoli 1996, pp. 15 ss., punta sulla continuità e ravvisa le radici dell’ideologia imperiale nel periodo delle guerre civili. 286 SPAGNUOLO VIGORITA, Casta domus, cit., passim. 287 Un esempio è offerto da E. CIACERI, Cicerone e i suoi tempi, II, Milano 1941, pp. 182 ss. 288 F. CANCELLI, Res publica-princeps, cit., pp. 7 ss. 289 J. VOGT, La repubblica romana, Roma-Bari 1968, p. 346. 290 F. CANCELLI, Res publica-princeps, cit., p. 96.
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genesi non fu certo una carica immediatamente istituzionalizzata, forgiata mediante un intervento di ingegneria costituzionale e quindi innestata nell’impianto repubblicano, ma cominciò a esserlo, e a venire così percepita, con i successori di Augusto 291, come si può trarre da un celebre resoconto di Tacito relativo a un discorso tenuto nel 22 d.C. da Tiberio in senato, in cui il princeps richiamava tutti alle proprie responsabilità: Tac. ann. 3.53.3: Sed illi quidem officio functi sunt, ut ceteros quoque magistratus sua munia implere velim; mihi autem neque honestum silere neque proloqui expeditum, quia non aedilis aut praetoris aut consulis partes sustineo: maius aliquid et excelsius a principe postulatur. Se avessimo fatto più attenzione alla limpida eredità ciceroniana, ai suoi scritti, al suo vastissimo e inestimabile epistolario, magari avremmo mutato i corni del dilemma e ci saremmo interrogati non tanto se fu vera restitutio rei publicae o menzogna, ci saremmo chiesti invece cosa fu la res publica commutata o res publica conservata, come vorrebbe l’epigrafe del Foro letta da Ligorius, oggi scomparsa. Ha sbagliato nel 1940 Pierre Grenade nel suo radicale rifiuto di isolare e osservare i contatti straordinari e molteplici tra Cicerone e Augusto e nella simmetrica denuncia dell’abisso che li separava 292; e deve pure dirsi che Cicerone non fu tanto un semplice ‘précurseur politique’, per dirla con Jean Béranger 293, ma assai di più: egli fu il lucido e fine teorico di una riforma dello Stato romano, nel profondo mutamento delle condizioni dell’ultimo trentennio del I secolo a.C., una riforma incentrata sui valori fondamentali di quello Stato che i Romani ereditarono e conobbero come costruzione di tante generazioni 294 opposta al regnum. Questa strada aperta nel 1917 da Richard A. Reitzenstein 295, e presto abbandonata, tra tutte appare quella più conducente a una decifrazione della complessa fase augustea e alla più affidabile ricostruzione della genesi del principato 296. Augusto raccolse l’eredità ciceroniana imperniata sull’idea centrale del 291
M. WEBER, Economia e società, IV, Milano 1922, pp. 229 ss. P. GRENADE, Remarques sur la théorie cicéronienne du princeps, in MEFR 57, 1940, pp. 32 ss. 293 J. BÉRANGER, Cicéron précurseur, cit, pp. 103 ss.; ID., Diagnostic du principat: l’empereur romain, chef de parti, in ID., Principatus. Etudes de notions et d’histoire politiques dans l’Antiquité gréco-romaine, Genève 1973, pp. 259 ss.; seguito da M. SCHÄFER, Cicero und der Prinzipat des Augustus, in Gymnasium 64, 1957, pp. 310 ss. 294 Vedi supra nt. 263. 295 R.A. REITZENSTEIN, Die Idee des Principats bei Cicero und Augustus, Berlin 1917, pp. 481 ss.; cfr. F. ARNALDI, Cicerone2, Bari 1948, p. 237. 296 A. MARCONE, La prospettiva sociologica, cit., pp. 57 s., sottolinea l’intuizione di Anton von Premerstein, che, pur escludendo «una dipendenza diretta della concezione augustea dello Stato dalla filosofia di Cicerone», ne ammetteva il fondamento ideologico nella filosofia tardorepubblicana. 292
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governo dei migliori 297 nella forma più ampia possibile, seguendo, oltre alla concezione principesca del senato 298 e al princeps auctor, anche altre precise indicazioni politico-ideologiche disseminate qua e là nelle sue opere, come il tema della difesa dell’Occidente, dell’Italia e dei municipi (Cic. ad fam. 12.5.3: Populi vero Romani totiusque Italiae mira consensio est); la critica a Pompeo di perseguire una monarchia di stampo orientale, poi estesa a Cesare e ad Antonio; il motivo generale e decisivo del consensus. Anche in quella strategia di divinizzazione della persona di Augusto, tratteggiata in precedenza 299, ritroviamo l’ispirazione ciceroniana, del tutto esplicita nella XIII Filippica 300. Ma straordinaria, per quanto incredibilmente sottaciuta, è l’assoluta corrispondenza ideologica della libertas nel suo nesso essenziale e identificativo con la res publica quale valore romano primario tale da legittimare persino l’intervento estremo di ogni civis a sua tutela. E se gli studiosi di diritto costituzionale (non solo romano) non hanno esitato a manifestare sconcerto, se non scandalo, per l’incipit delle Res Gestae, considerando un impudente saggio dell’arroganza augustea, la sfacciata ammissione di essersi arrogato, lui stesso, privato cittadino, il potere di intervenire nelle vicende pubbliche (ma non era un abile mistificatore?), hanno trascurato però con disinvoltura quei passi ciceroniani in cui si magnificava il merito di L. Bruto Collatino, privato cittadino, di aver bandito «dalla città l’ingiusto giogo di quella dura schiavitù». E pure stavolta è opportuno fermarci sul lessico, che non è mai un dettaglio secondario, e ancor meno lo è nella genesi imperiale, in cui è essenziale cogliere e interpretare qualunque affinità, assonanza tra il linguaggio e il tono ciceroniani e quelli augustei 301: Cic. phil. 3.5.12: […] Faciendum est igitur nobis, patres conscripti, ut D. Bruti privatum consilium auctoritate publica comprobemus.
RGDA 1.1: Annos undeviginti natus exercitum privato consilio et privata impensa comparavi, per quem rem publicam a dominatione factionis oppressam in libertatem vindicavi.
Questi due testi trovano un’impressionante corrispondenza in un altro passaggio della III Filippica, di cui RGDA 1.1 davvero appare come un calco: 297
Cic. de re publ. 1.34.51; 2.29.51; 3.25.37. Cfr. F. CANCELLI, Res publica-princeps, cit., p.
105. 298
Sottovaluta questo aspetto M. PANI, Augusto e il Principato, cit., pp. 28 s. Vedi supra CAPITOLO SECONDO. 300 Cic. phil. 13.8.18: quo tempore di ipsi immortales praesidium improvisum nec opinantibus nobis obtulerunt; 13.9.19: Caesaris enim incredibilis ac divina virtus […]; 13.20.46: quo maior adulescens Caesar maioreque deorum immortalium beneficio rei publicae natus est […]. 301 Sul tema, meritevole di maggior approfondimento, cfr. A. MAGDELAIN, Auctoritas principis, Paris 1947, pp. 40 s.; E. LEPORE, Il princeps ciceroniano, cit., pp. 384 ss. 299
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Cic. phil. 3.2.5: Qua peste privato consilio rem publicam – neque enim fieri potuit aliter – Caesar liberavit; a cui si aggiunge per completezza: Cic. de re publ. 2.25.46: Qui cum privatus esset, totam rem publicam sustinuit, primusque in hac civitate docuit in conservanda civium libertate esse privatum neminem. Quo auctore et principe concitata civitas […]. Ora, nei frammenti simmetrici di Cicerone e di Augusto sta racchiuso il nocciolo duro dell’ideologia fondante della civitas. Forse è davvero il cuore del problema in cui è scolpito il punto teorico per eccellenza del pensiero ciceroniano, ovvero il legittimo intervento del privato a difesa della libertas della res publica e il disprezzo di ogni potere personale e arbitrario estraneo alla volontà del popolo e del senato 302, perché salus populi suprema lex esto 303. L’essenza di un civis, non di una carica istituzionale, risiedeva in un concetto tanto semplice quanto fondamentale: dinanzi alla necessità di salvare la res publica nessuno è davvero un semplice privatus. Sono i casi di Bruto che abbattè il regnum 304, di Cornelio Scipione Nasica che oppose le armi alle riforme avvertite come destabilizzanti ed eversive di Tiberio Gracco; è il caso del giovane Cesare che si schierò da privato con i consoli e la res publica contro la factio antoniana. Ma davvero potente è l’operazione ciceroniana, perché siamo dinanzi a una teorizzazione gravida di future, immediate, implicazioni: la scelta di ricondurre il momento genetico della res publica all’azione di un privato infatti non trova spazio solo in qualche orazione 305 ma nel trattato fondamentale sulle forme di governo. Alla nascita della res publica, regime opposto e incompatibilile con il regnum, Cicerone poneva tre cardini che ritroviamo nell’autobiografia augustea: l’azione forte, persino violenta, di un privatus, la difesa o meglio la restituzione della libertas 306, la fondazione di un nuovo regime grazie a un auctor e una civi302 Così anche F. CANCELLI, Res publica-princeps, cit., pp. 118 ss.; contra E. LEPORE, Il princeps ciceroniano, cit., p. 376. 303 Cic. de leg. 3.3.8: […] Regio imperio duo sunto, iique a praeeundo, iudicando, consulendo praetores, iudices, consules appellamino; militiae summum ius habento, nemini parento; ollis salus populi suprema lex esto. Sul tema di recente C. MASI DORIA, «Salus populi suprema lex esto». Modelli costituzionali e prassi del ‘Notstandrecht’ nella «res publica» romana, in EAD., Poteri magistrature processi nell’esperienza costituzionale romana, Napoli 2015, pp. 1 ss. 304 F. RUSSO, L’odium regni a Roma tra realtà politica e finzione storiografica, Pisa 2015 passim. 305 C. MASI DORIA, «Periculum rei publicae», in Index 45, 2017, pp. 3 ss., 23, in un contributo appena dato alle stampe, ne ha centrato l’obiettivo sul concetto di periculum rei publicae tardorepubblicano e sia da un diverso angolo di visuale riconosce a Cicerone la paternità di quell’inquadramento che avrebbe generato «molte delle categorie istituzionali del principato». 306 È appena il caso di ricordare come lo stesso motivo apra il secondo libro della storia liviana da cui appunto prende avvio la narrazione delle vicende della res publica: Liberi iam hinc populi
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tas risollevata e guidata da un princeps, a cui sarebbero spettate cura et tutela. La libertas assumeva nella teorica ciceroniana il connotato di fundamentum rei publicae, anzi tra i fundamenta forse quello cardinale 307. Ecco perché il princeps non avrebbe potuto che essere l’ottimo cittadino che vegliava sulla res publica, ma la sua dimensione istituzionale, il campo principale della sua presenza e della sua azione era il senatus, presidio della libertas. E lì il princeps avrebbe potuto esercitare liberamente e massimamente la propria auctoritas, tanto più forte quanto maggiore fossero state le sue virtù e i suoi meriti verso la res publica: nella pro Sestio, ritornando sulla genesi repubblicana e incrociando quelle vicende con quelle del suo tempo, a proposito dei ‘padri fondatori’ diceva che «essi fecero del senato il tutore, il protettore e il difensore della res publica» 308. Sicché, come srotolando un papiro il lettore ne apprende il contenuto, allo stesso modo si schiarisce il significato di quel passo decisivo di Cassio Dione in cui si narra che Augusto «fece ratificare il suo dominio dal senato e dal popolo in questo modo: volendo apparire rispettoso dell’ordinamento della res publica, egli accettò una responsabilità e una supervisione generale degli affari pubblici in quanto bisognosi di una certa attenzione, ma non acconsentì a governare tutte le province» 309. L’assunzione di quella che lo storiografo di Nicea definì come la ¹ front…j ¹ te prostas…a tîn koinîn p©sa, espressione corrispondente al latino cura et tutela rei publicae universa, non corrisponde ad altro che al compito politico ed etico del prendersi cura del bene dei cittadini formulato ancora una volta in un’opera dell’oratore, il De officiis, definita da Santo Mazzarino come il manuale destinato alla classe dirigente romana: Cic. de off. 1.25.85: Omnino qui rei publicae praefuturi sunt duo Platonis praecepta teneant: unum, ut utilitatem civium sic tueantur, ut, quaecumque agunt, ad eam referant obliti commodorum suorum; alterum, ut totum corpus rei pu-
Romani res pace belloque gestas, annuos magistratus, imperiaque legum potentiora quam hominum peragam. 307 Sul tema vedi V. ARENA, Libertas and the Practice of Politics in the Late Republic, Cambridge 2012; G. CLEMENTE, Democracy without the People: the Impossible Dream of the Roman Oligarchs (and of Some Modern Scholars), in QS 87, 2018, pp. 87 ss, praecipue 95 s. 308 Cic. pro Sest. 65.137: Haec est una via, mihi credite, et laudis et dignitatis et honoris, a bonis viris sapientibus et bene natura constitutis laudari et diligi; nosse discriptionem civitatis a maioribus nostris sapientissime constitutam; qui cum regum potestatem non tulissent, ita magistratus annuos creaverunt, ut consilium senatus rei publicae praeponerent sempiternum, deligerentur autem in id consilium ab universo populo aditusque in illum summum ordinem omnium civium industriae ac virtuti pateret. Senatum rei publicae custodem, praesidem, propugnatorem collocaverunt, huius ordinis auctoritate uti magistratus et quasi ministros gravissimi consili esse voluerunt; senatum autem ipsum proximorum ordinum splendorem confirmare, plebis libertatem et commoda tueri atque augere voluerunt. 309 Cass. Dio 53.12.1.
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blicae curent, ne, dum partem aliquam tuentur, reliquas deserant. Ut enim tutela, cic procuratio rei publicae ad eorum utilitatem, qui commissi sunt, non ad eorum, quibus commissa est, gerenda est. Qui autem parti civium consulunt, partem neglegunt, rem perniciosissimam in civitatem inducunt, seditionem atque discordiam; ex quo evenit, ut alii populares, alii studiosi optimi cuiusque videantur, pauci universorum. È condivisibile perciò la recente tesi di fondo di Alberto Dalla Rosa 310 che ha battuto molto sulla equivalenza delle due espressioni (greca e latina) indicanti la posizione costituzionale generale di Augusto. In effetti, non siamo dinanzi a mere assonanze ma al medesimo concetto espresso nelle due maggiori lingue dell’antichità da due figure lontane cronologicamente: Cicerone e Cassio Dione. Il primo tracciava un suo preciso insegnamento sui punti cardinali, sui principali fini di un uomo di governo e della sua azione politica finalizzata al vantaggio dei cittadini e sull’ufficio di tutore della res publica; il secondo invece, mosso da finalità di ricostruzione storica, nel resoconto dell’accordo del gennaio del 27 a.C. non indicava poteri ma ripercorreva il perimetro della posizione costituzionale generale di Augusto, quella cura et tutela rei publicae di cui strumento era appunto quell’auctoritas menzionata nelle Res Gestae.
12. IL CICERONE PERDUTO? Se si rinvenissero i quaternioni smarriti del De re publica, indubbiamente molti altri dubbi verrebbero risolti e verificate l’attendibilità di talune congetture. Purtuttavia, qualche tessera del complesso mosaico è ancora rintracciabile. Di straordinaria importanza è quanto può trarsi da un codice palinsesto del X secolo (cod. Vat. gr. 1298) contenente un manoscritto mutilo e adespota, prezioso esemplare di un trattato di governo redatto nel VI secolo d.C., il perˆ politikÁj ™pist»mhj ovvero Dialogo sulla scienza politica. In questa eccezionale opera, due dialoganti, Menas e Thomas, a mio avviso due componenti delle commissioni giustinianee incaricate del gigantesco disegno compilatorio, affrontano il tema delle forme di governo mediante la comparazione dei trattati di Platone e Cicerone 311. Nel prediligere il secondo, accennano in un passaggio estremamente interessante a una res publica retta da un basileÚj (un princeps), il migliore degli ottimati, legittimato nel potere da Dio e dal popolo, coadiuvato da una commissione di ¥ristoi (principes, ottimati). Il valore del manoscritto è immenso: a parte l’attualizzazione del pensiero ciceroniano e in particolare
310 311
A. DALLA ROSA, Cura et tutela, cit., pp. 7 ss. Rimando a O. LICANDRO, Cicerone alla corte di Giustiniano, cit., passim.
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dell’idea del governo temperato in un’età di ferro dell’assolutismo imperiale (cosa già di per sé assai notevole), l’altro aspetto significativo è che quell’assetto istituzionale apprezzato dai due intellettuali-funzionari imperiali pare si fondasse su di un frammento del De re publica evidentemente appartenente alla parte oggi perduta. Nonostante il danno assai grave, grazie a quanto visto sinora, e grazie ad altri testi ciceroniani, in particolare ad alcuni cruciali frammenti epistolari (fondamentale quello relativo al summorum civium principatus) e a diverse altre testimonianze, possediamo una serie di indizi ed elementi che ci permettono di restringere l’obiettivo sulla commissione menzionata dal perˆ politikÁj ™pist»mhj avente funzione di gabinetto di governo per il princeps e prefigurata nel De re publica. È utile partire da una premessa che apre un interrogativo: posto che i principes ciceroniani non coincidevano con l’intero senato e che, ugualmente, gli ¥ristoi del manoscritto costituivano un ristretto numero di ottimati, si è in grado di scovare indizi di questa commissione? Formuliamo diversamente la domanda. Poiché non disponiamo di quella parte del De re publica citata nel perˆ politikÁj ™pist»mhj, è possibile trovare aliunde altri elementi? Per provare a rispondere, è importante un presupposto, cioè capire il rapporto tra Augusto e il senato. Dinanzi a un rapporto difficile e segnato se non da una sorda ostilità certo da un’allarmante diffidenza, come attesta il suo principale biografo 312, il princeps ritenne utile condividere in via preventiva con alcune componenti le questioni e le proposte che avrebbe affrontato in senato. Augusto, al contrario di quanto ancora si scrive, preoccupato di non creare continuamente conflitti con l’assemblea dei patres, e orientato invece a sciogliere quei grumi di diffidenza o di dissenso sin dall’inizio di un iter, decise di affiancarsi una commissione di senatori. Il fine era eminentemente politico: confrontarsi ed
312 Svet. Aug. 35.1-5: Senatorum affluentem numerum deformi et incondita turba (erant enim super mille, et quidam indignissimi et post necem Caesaris per gratiam et praemium adlecti, quos orcinos vulgus vocabat) ad modum pristinum et splendorem redegit duabus lectionibus: prima ipsorum arbitratu, quo vir virum legit, secunda suo et Agrippae; quo tempore existimatur lorica sub veste munitus ferroque cinctus praesedisse, decem valentissimis senatorii ordinis amicis sellam suam circumstantibus. [2] Cordus Cremutius scribit ne admissum quidem tunc quemquam senatorum nisi solum et praetemptato sinu. [3] Quosdam ad excusandi se verecundiam compulit servavitque etiam excusandi insigne vestis et spectandi in orchestra epulandique publice ius. [4] Quo autem lecti probatique et religiosius et minore molestia senatoria munera fungerentur, sanxit, ut prius quam consideret, quisque ture ac mero supplicaret apud aram eius dei, in cuius templo coiretur, et ne plus quam bis in mense legitimus senatus ageretur, Kal. et Idibus, neve Septembri Octobrive mense ullos adesse alios necesse esset quam sorte ductos, per quorum numerum decreta confici possent; sibique instituit consilia sortiri semenstria, cum quibus de negotiis ad frequentem senatum referendis ante tracaret [5] Sententias de maiore negotio non more atque ordine sed prout libuisset perrogabat, ut perinde quisque animum interderet ac si censendum magis quam adsentiendum esset.
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elaborare le strategie più adeguate per ottenere il miglior e più rapido risultato possibile. Svetonio appunto fornisce qualche notizia: Svet. Aug. 35.4: […] sibique instituit consilia sortiri semenstria, cum quibus de negotiis ad frequentem senatum referendis ante tractaret. Nell’adottare questa soluzione, Augusto non mancò di manifestare, come di consueto, prudenza e abilità. La scelta dei senatori non fu una per tutte ma, probabilmente per non scontentare molti e al tempo stesso per allargare il consenso, il principe affidava a un sorteggio semestrale (consilia sortiri semenstria) la selezione e la rotazione dei componenti di questa commissione. La mossa fu estremamente abile e gli effetti benefici erano di duplice ordine: con il sorteggio il princeps, da un lato, evitava il fenomeno della cristallizzazione degli incarichi, da un altro lato, invece la rotazione continua e imparziale di esponenti della vita politica coinvolti come protagonisti dell’azione di governo finiva inevitabilmente per garantire un’estensione del consenso attorno alla sua persona. Svetonio però non dice nulla di più; non dice neppure quanti fossero questi senatori. Il resoconto svetoniano quindi non è decisivo, sebbene nessuno possa sottovalutarne la particolare rilevanza. Informazioni più dettagliate invece le dobbiamo a Cassio Dione: Cass. Dio 53.21.3-4: oÙ mšntoi kaˆ p£nta „diognwmonîn ™nomoqštei, ¢ll' œsti ¡ kaˆ ™j tÕ dhmÒsion proexet…qei, Ópwj, ¥n ti m¾ ¢ršsV tin£, promaqèsV: protršpetÒ te g¦r p£nq' ὁntinoàn sumbouleÚein oƒ, e‡ t…j ¥meinon aÙtîn ™pino»seien, kaˆ parrhs…an poll¾n œneme, kaˆ tina kaˆ metšgrafe. [4] tÕ d ple‹ston toàj te Øpatouj À tÕn Ûpaton, ὁpÒte kaˆ aÙtÕj ØpateÚoi, k¢k tîn ¥llwn ¢rcÒntwn ›na par' ˜k te toà loipoà tîn bouleutîn pl»qouj penteka…deka toÝj kl¾rJ lacÒntaj, sumboÚlouj ™j ˜x£mhnon parel£mbanen, éste di' aÙtîn kaˆ to‹j ¥lloij p©si koinoàsqai trÒpon tin£ t¦ nomoqetoÚmena nom…zesqai. Tale commissione senatoria, di durata dapprima semestrale (infine, annuale), fu istituita da Augusto per istruire preliminarmente gli affari all’ordine del giorno e rendere più agevole il raccordo con l’assemblea senatoria plenaria al fine di rendere più spediti i lavori. Secondo un’autorevole opinione, affermatasi alla fine dell’Ottocento 313, ci troveremmo dinanzi alle prime embrionali pratiche dei consilia principum. Esplicito in tal senso Edouard Cuq. Con una radicalizzazione della lettura di queste notizie, Cuq ha creduto che «c’est au profit du conseil 313
E. CUQ, Le conseil des empereurs d’Auguste à Dioclétien, Paris 1884, passim; E. DE RUGs.v. «Consilium», in Dizionario epigrafico di antichità romane, II/1, Roma 1900, p. 615; ma si leggano pure R. ORESTANO, Il potere normativo degli imperatori, cit., p. 53; A. MAGDELAIN, Auctoritas principis, cit., pp. 89 s. GIERO,
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ainsi constitué que le sénat abdica ses pouvoirs» 314, ma di recente Bernardo Santalucia 315, nel sottolineare gli aspetti di utilità istituzionale, ha ribadito a ragione come tale commissione vada tenuta del tutto distinta dal consilium principis. Sempre a Cassio Dione dobbiamo, poi, la notizia che nel 13 d.C., a un anno dalla morte, Augusto fece richiesta, ricevendone concessione, di avvalersi di una commissione composta di 20 consiglieri con mandato annuale per coadiuvarlo nel governo della res publica; questa soluzione, che fu certamente un exemplum istituzionale, lo esonerava dall’obbligo di recarsi in senato per le ormai precarie condizioni di salute 316. La menzione della commissione senatoria semestrale appare, poi, anche in un testo epigrafico, esattamente nel senatus consultum Calvisianum, contenuto nel V Editto di Augusto ai Cirenei (linn. 84-90), che ne attesta il funzionamento almeno sino al 4 a.C. 317, sebbene ci si possa spingere sino al 2 d.C. grazie a un altro editto menzionato stavolta da Giuseppe Flavio 318. Non abbiamo certo trovato la citazione ciceroniana, ma abbiamo individuato un filo, tenue, che ci riporta ad Augusto e attraverso lui al gubernator di Cicerone, al suo rapporto con il senato e i principes, e a determinate commissioni senatorie. Per quanto sia chiaro il carattere circolare dell’argomentare, non può negarsi l’alta probabilità che nella parte lacunosa del trattato ciceroniano abbia trovato posto la riflessione su simile forma rei publicae, da cui Augusto trasse ispirazione 319. È noto come ancora nel VI secolo d.C. il materiale ciceroniano circolasse negli ambienti della corte imperiale, e fosse letto e studiato da quel
314
E. CUQ, Le conseil des empereurs, cit., p. 136. B. SANTALUCIA, ‘Consilium semenstre’. Alberto Burdese e la costituzione augustea, in AA.VV., Giornate in ricordo di A. Burdese, Venezia, 29-30 aprile 2016. Atti (a cura di L. Garofalo e P. Lambrini), Napoli 2017, pp. 183 ss. [= ID., Consilium semenstre, in AA.VV., Studi su Augusto. In occasione del XX centenario della morte (a cura di G. Negri e A. Valvo), Torino 2016, pp. 115 ss.]. Altra bibliografia: J. CROOK, ‘Consilium principis’. Imperial Councils and Counsellors from Augustus to Diocletian, Cambridge 1955, pp. 8 ss.; W. KUNKEL, Die Funktion des Consiliums in der magistratischen Strafjustiz und im Kaisergericht (II), in ZSS 85, 1968, pp. 265 ss. [= in ID., Kleine Schriften, Weimar 1974, pp. 575 ss.]; V. ARANGIO-RUIZ, L’editto di Augusto ai Cirenei, cit., p. 27 e nt. 32; F. AMARELLI, ‘Consilia principum’, Napoli 1983, pp. 100 ss.; ID., La commissione senatoria augustea ovvero di un espediente che ebbe successo, in AA.VV., Studi su Augusto. In occasione del XX centenario della morte (a cura di G. Negri e A. Valvo), Torino 2016, pp. 1 ss.; J.W. RICH, ‘Cassius Dio’. The Augustan Settlement (Roman History 53-55.9), Warminster 1990, p. 154; F. ARCARIA, Commissioni senatorie e ‘consilia principum’ nella dinamica dei rapporti tra senato e principe, in Index 19, 1991, pp. 288 ss. 316 Cass. Dio 56.28.2-3. 317 G. PURPURA, Edicta Augusti ad Cyrenenses, cit., p. 466; B. SANTALUCIA, ‘Consilium semenstre’, cit., pp. 190 ss. 318 Ios. Flav. antiq. iud. 16.162-165; in tal senso W. KUNKEL, Die Funktion, cit., pp. 266, 315 ss. 319 O. LICANDRO, Cicerone alla corte di Giustiniano, cit., pp. 161 ss. 315
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ceto di burocrati intellettuali al servizio dell’imperatore. Deve anzi dirsi che si deve proprio ad Augusto se l’ideologia repubblicana dei migliori e del migliore abbia costituito uno dei perni principali dell’eredità raccolta dal pensiero politico della tarda antichità. In questo senso, merita allora di segnalarsi il fatto che, sempre nel VI secolo d.C., nei frammenti susperstiti dei suoi panegirici, Cassiodoro, rivolgendosi ai senatori, li chiamasse principes viri 320.
13. I CONSIGLIERI DEL PRINCEPS: RETORI, FILOSOFI E GIURISTI Pur giunti alle battute finali, e alla luce dei numerosi e significativi testi ciceroniani riportati, ancorché tanti altri potrebbero aggiungersi, è utile ribadire che soltanto la voglia di abdicare alla funzione di ricerca storiografica potrebbe indurre a parlare di mere coincidenze o di assonanze letterali: Augusto leggeva e rileggeva, e ancora studiava, le opere di Cicerone. Certo, talune differenze e distanze tra teoria ciceroniana e prassi restarono, ma Augusto provò ad applicarne sinceramente la visione a una res publica uscita in condizioni disastrose da oltre un secolo di nefandezze e di drammatiche crisi politiche. Il princeps non operava certo dentro un asettico laboratorio, ma nella carne viva di una società disgregata e di un sistema politico-istituzionale destrutturato e paralizzato; eppure impossibile negare quanto lui e il suo entourage abbiano lavorato sapientemente e con metodo sistematico restando fedeli all’impianto ciceroniano sin qui delineato. Non devono sorprendere allora quelle notizie sullo stretto legame tra Cicerone e Ottaviano che abbondano nella biografia plutarchea: l’ossequio del giovane Cesare tale da indurlo persino a chiamarlo padre 321; la difesa contro le terribili pulsioni di vendetta nutrite da Antonio e la capitolazione dietro un feroce compromesso 322; il colloquio tra Augusto e un giovane nipote, forse il piccolo Claudio 323 figlio di Druso, sorpreso a leggere scritti di Cicerone, e il giudizio amaramente nostalgico dell’oratore 324: un uomo saggio (o di alto va320
Sul punto, vedi principalmente J.-P. CALLU, Principes de Cassiodore à l’Histoire Auguste, in AA.VV., Historiae Augustae Colloquium Bambergense, X (a cura di G. Bonamente e H. Brandt), Roma-Bari, 2007, pp. 109 ss. Significativi pure Cassiod. Var. 8.19.5: Creditis forte, principes viri, novam in hunc imparatamque apparuisse prudentiam? (Lettera di Atalarico al senato di Roma – 527 d.C.); Var. 10.4.8: Ad bonum publicum veritatem non pudet confiteri. Agnoscite, principes viri, sapientissimae esse dominae quod in nobis potuerit plus placere. (Lettera di Teodato al senato di Roma – 534 d.C.) 321 Plut. Cicero 45.1-2. 322 Plut. Cicero 46.5. 323 Autore di una Difesa di Cicerone contro Asinio Gallo, cioè contro il figlio di Asinio Pollione, che non nutriva affatto simpatie verso il vecchio consolare. 324 Plut. Cicero 49.5.
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lore) e un patriota, lÒgioj e filÒpatrij 325, un riconoscimento che pronunciato dalla bocca del Pater patriae possedeva un significato particolare. Non è soltanto Plutarco a testimoniare l’intimo e intenso rapporto che legò i due uomini, perché lo stesso risulta da Nonio Marcello 326, da Seneca che, nel De Clementia 327, dipinge un giovane triumviro che compila a cena e sotto dettatura del potente Antonio le liste di proscrizione, che videro in testa proprio Cicerone: un’immagine umiliante e assai diversa dallo stereotipo del cinico Ottaviano, descritto come un freddo calcolatore pronto ad abbandonare i propri amici alla ferocia dei nuovi alleati 328. Mentre altre conferme si traggono da un altro scorcio di Plutarco a proposito di un passaggio della dedica dei Commentarii augustei: «tutti e due ebbero allo stesso modo abilità oratoria e politica, tanto che di loro ebbero bisogno quelli che avevano armi ed eserciti: Carete, Diopite e Leostene ebbero bisogno di Demostene e Pompeo e Ottaviano di Cicerone; lo ha detto Ottaviano nella sua Autobiografia dedicata ad Agrippa e Mecenate» 329. Ma il racconto di Plutarco merita di essere scrostato di ogni patina aneddotica per acquistare dignità d’informazione preziosa sul rapporto tra Augusto e Cicerone, sino al senso risarcitorio del ‘fotogramma’ dell’elezione a console pretesa dal principe per il figlio dell’oratore: atto certo non necessario ma eminentemente simbolico sul piano politico. Non c’è dunque verso a comprendere davvero il princeps augusteo e la sua sostanza politico-istituzionale senza ricorrere a Cicerone. L’affilata lama di un gladio aveva reciso quella potente voce, ma di certo non arrestato la sua forza di imprimere il cambiamento la cui matrice ciceroniana non sfuggiva, secoli dopo, neppure a Sant’Agostino: Aug. de civ. Dei 5.13: ‘etiam Tullius hinc dissimulare non potuit in eisdem libris quos de re publica scripsit, ubi loquitur de instituendo principe civitatis, quem dicit alendum esse gloria, et consequenter commemorat maiores suos multa mira atque praeclara gloriae cupiditate fecisse’. Allo stesso modo, è un fatto notevole che, nell’epoca dell’autocrazia e dell’affermazione dell’imperatore quale legge vivente, Menas, praefectus praetorio di Giustiniano, recuperasse Cicerone e la sua prospettiva aristocratica repubblicana per assimilare il ruolo del basileÚj a quello del rector (o princeps) ciceronia-
325
Per tutti, L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., pp. 418 ss. Ha richiamato recentemente i diversi relativi frustuli contenuti nel De compediosa doctrina, L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., pp. 396 ss. 327 Sen. de clem. 1.9.1-3. 328 Cfr. Svet. Aug. 27.1-2; Vell. hist. rom. 2.66. 329 Plut. Demost. et Cic. 3.1 = 6 HRR. The Lost Memoirs of Augustus and the Development of Roman Autobiografy (a cura di C. Smith e A. Powell), Swansea 2009; L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., pp. 294 ss. Sul parallelo Pompeo-Ottaviano vedi Cic. phil. 5.42-44. 326
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no 330. C’è in effetti un profilo dell’oratore costantemente messo in secondo piano, cioè l’interesse fondamentale verso lo ius publicum e la sua sapientia in materia: Cic. de leg. 1.4.14: Summos fuisse in civitate nostra viros, qui id interpretari populo et responsitari soliti sint, sed eos magna professos in parvis esse versatos. Quid enim est tantum quantum ius civitatis? Quid autem tam exiguum quam est munus hoc eorum qui consuluntur? (Quamquam est populo necessarium). Nec vero eos, qui ei muneri praefuerunt, universi iuris fuisse expertis existimo, sed hoc civile quod vocant eatenus exercuerunt, quoad populo praestare voluerunt; id autem in cognitione tenue est, in usu necessarium. Quam ob rem quo me vocas aut quid hortaris? Ut libellos conficiam de stillicidiorum ac de parietum iure? An ut stipulationum et iudiciorum formulas conponam? Quae et conscripta a multis sunt diligenter et sunt humiliora quam illa, quae a nobis expectari puto. Duro, a volte caustico, come abbiamo appena letto, nel criticare la dimensione pratica dei prudentes dei suoi tempi e l’inadeguatezza dell’interpretatio iuris 331, nel De legibus Cicerone chiariva come non fosse sua intenzione affrontare questioni giuridiche eminentemente tecniche ma inutili dal suo punto di vista; egli non intendeva scrivere libercoli in tema di proprietà e servitù, come gli iura stillicidiorum o gli iura parietum (libellos conficere de stillicidiorum ac de parietum iure), né approntare formulari negoziali o processuali (stipulationum et iudiciorum formulas conponere) 332. Quel fastidio espresso nel De legibus, vieppiù radicatosi in quegli anni, verso l’attività interpretativa dello ius civile, intesa come un’attività intellettuale ridotta a talento, abilità, tecnica, affidata a conoscitori esperti, lontani però da ogni tensione teorica 333, lo ritroviamo espresso ancora in una nota e gustosamente sarcastica lettera scritta all’amico Trebazio Testa: 330
Sul tema rinvio al mio Cicerone alla corte di Giustiniano, cit., passim. L’appunto critico di Cicerone riguardava più complessivamente il ceto dei giuristi e la loro attività quotidiana che la scientia iuris vera e propria verso cui, invece, Cicerone manifestava tutto il proprio rispetto (nel De oratore in particolare) quale sapere fondamentale, accanto alla retorica e alla filosofia, del buon governante. 332 . Sul tema, con fonti e letteratura, M. BRETONE, Tecniche e ideologie, cit., pp. 71, 85, 117 ss.; ID., Il giureconsulto e la memoria, in AA.VV., Questioni di giurisprudenza tardorepubblicana. Atti di un seminario, Firenze 27-28 maggio 1983 (a cura di G.G. Archi), Milano 1985, pp. 12 ss.; cfr. F. CANCELLI, Per l’interpretazione del de legibus di Cicerone, in RCCM 15, 1973, p. 212; F. TAMBURI, Il ruolo del giurista nelle testimonianze della letteratura romana. I. Cicerone, Napoli 2013, p. 204. Per altri aspetti e approfondimenti D. MANTOVANI, Cicerone storico del diritto, in Ciceroniana 13, 2008, pp. 325 ss. [Atti del XIII Colloquium Tullianum]. 333 Cfr. A. SCHIAVONE, Ius, cit., p. 427, che non esclude di interpretare la definizione celsinea dello ius quale ars del bonum e dell’aequum attribuendo ad ars l’accezione in senso appunto preciceroniano. 331
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Cic. ad fam. 7.12.1-2: Mirabar quid esset quod tu mihi litteras mittere intermisisses: indicavit mihi Pansa meus Epicureum te esse factum. O castra praeclara! Quid tu fecisses si te Tarentum et non Samarobrivam misissem? Iam tum mihi non placebas cum idem intuebare quod † eius † 334, familiaris meus. [2] Sed quonam modo ius civile defendes cum omnia tua causa facias, non civium? Ubi porro illa erit formula fiduciae, ‘ut inter bonos bene agier oportet’? quis enim bonus est qui facit nihil nisi sua causa? Quod ius statues communi dividundo cum commune nihil possit esse apud eos qui omnia voluptate sua metiuntur? Quo modo autem tibi placebit Iovem lapidem iurare cum scias Iovem iratum esse nemini posse? Quid fiet porro populo Ulubrano si tu statueris politeÚesqai non oportere? È il 4 marzo, e Cicerone non resiste a non rimproverare al giurista la sua adesione all’epicureismo: «Epicureum te esse factum»! Si è discusso sull’attendibilità della lettera, e non è mancato chi, anche di recente, piuttosto che credere a una effettiva e genuina conversione del giurista, ha interpretato la lettera come scherno del mittente sull’incostanza e influenzabilità dell’amico 335. Comunque sia, la sostanza non muta di molto, perché la lettera conferma la condanna ferma e aspra verso tutte quelle dottrine, appunto l’Epicureismo, professanti la rinuncia alla partecipazione attiva alla cosa pubblica (Quid fiet porro populo Ulubrano si tu statueris politeÚesqai non oportere?), un genere di otium concettualmente incompatibile con le metafore della gubernatio della civitas nelle tempeste della vita politica, tratteggiate nel De re publica. In quell’aspra critica all’interpretatio iuris, egli voleva semplicemente manifestare una diversa e, in quella circostanza, più pressante esigenza. Cicerone, insomma, anche a costo di apparire particolarmente brusco e incoerente voleva dimostrare di avere a cuore lo ius civitatis, la codificazione dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico romano piuttosto che minuti aspetti giuridici privatistici, e in tale prospettiva chiariva l’intendimento di parlare de institutis rerum publicarum secondo un’angolazione tendente a esaltare il ruolo, appunto 334
Resta incomprensibile guasto zeis, che non necessariamente deve essere interpretato come il nome corrotto di un epicureo: discussione in M.T. GRIFFIN, Philosophical Badinage in Cicero’s Letters to his Friends, in AA.VV., Cicero the Philosopher. Twelve Papers (a cura di J.G.F. Powell), pp. 334 s. 335 M.T. CICERONE, Lettere ai familiari. Vol. I (Libri I-VIII), a cura di A. Cavarzere, introduz. di E. Narducci, Milano 2007, p. 684 nt. 87. Per un quadro più dettagliato dei profli dibattuti dalla storiografia vedi A. WATSON, Cicero. Ad fam. VII, 5, 3, in Klio 52, 1970, pp. 473 ss.; M. D’ORTA, Giurisprudenza e Epicureismo (Nota su Cic., ‘ad fam.’ 7.12.1-2), in Iura 42, 1991, pp. 123 ss.; V. SCARANO USSANI, L’epicureismo di C. Trebazio Testa, in Ostraka 1, 1991, pp. 151 ss.; Y. BENFERHAT, Ciues Epicurei. Les épicuriens et l’idée de la monarchie à Rome et en Italie de Sylla à Octave, Bruxelles 2005, pp. 274 ss.; F. TAMBURI, Il ruolo del giurista, cit., pp. 281 ss. e ulteriore bibliografia ivi citata.
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essenziale, della lex publica come baluardo delle istituzioni politiche, il tutto secondo un canone saldamente affermato che voleva ogni ordinamento traesse legittimità dalla sua ispirazione alle leggi immutabili dell’universo 336. Ecco perché Cicerone definiva la legge recta ratio imperandi atque prohibendi 337, rinviando a una generale recta ratio capace di associare gli uomini agli dèi. La figura del rector, o gubernator, teorizzata nel De re publica come elemento di moderazione, detentore della civilis prudentia, tale da proteggere la costituzione mista da fenomeni degenerativi finiva per assumere diversa veste semantica e diventare il princeps, ma quel segno linguistico, gubernatio, a caratterizzare la funzione di governo del princeps lasciò traccia indelebile nell’ideologia e nei testi giustinianei 338. Il princeps, superiore agli altri principes, era espressione senatoria e si poneva come elemento di guida e coordinamento, poiché il suo ruolo fondamentale consisteva nella salvezza dello Stato romano. Sbaglia chi crede che sin dall’inizio si sia repentinamente consolidato un regime di monarchia assoluta 339. Basti ricordare quanto ancora in età augustea si discutesse sul governo misto, come testimonia Giovanni Stobeo 340 che al riguardo nell’Anthologium ha
336
Cic. de leg. 1.5.15: […] de institutis rerum publicarum ac de optimis legibus disputavit […].
337
Cic. de leg. 1.15.42.
338
C. 1.27.1.8 (Imp. Iustinianus A. Archelao pp. Africae): Ergo post tanta beneficia, quae nobis divinitas contulit, hoc de domini dei nostri misericordia postulamus, ut provincias, quas nobis restituere dignatus est, firmas et illaesas custodiat et faciat nos eas secundum suam voluntatem ac placitum gubernare; C. 1.27.2 (Imp. Iustinianus A. Belisario magistro militum per Orientem): […] Per ipsum enim imperii iura suscepimus, per ipsum pacem cum Persis in aeternum confirmavimus, per ipsum acerbissimos hostes et fortissimos tyrannos deiecimus, per ipsum multas difficultates superavimus, per ipsum et Africam defendere et sub nostrum imperium redigere nobis concessum est, per ipsum quoque, ut nostro moderamine recte gubernetur et firme custodiatur confidimus; C. 1.17.1pr. (Imp. Iustinianus A. Triboniano q.s.p.): Deo auctore nostrum gubernantes imperium, quod nobis a caelesti maiestate traditum est, et bella feliciter peragimus et pacem decoramus et statum rei publicae sustentamus; Nov. 69.4.1: […] Sed currit semper multas evolvens mutationes, quas neque providere facile est neque praedicere, deo solummodo et imperatore sequente deum haec gubernare mediocriter et mansuete valente; a questi documenti possono aggiungersi i papiri ravennati in cui ricorre la formula Romanum gubernans imperium: J.-O. TJÄDER, Die nichtliterarischen lateinischen Papyri Italiens aus der Zeit 445-700, I. Papyri 1-28, Lund 1955 (P. 8; 13; 20); cfr. P. CLASSEN, Romanum gubernans imperium, in DAEM 9, 1952, pp. 103 ss. Sul tema in generale sempre utile C.M. MOSCHETTI, Gubernare navem. Gubernare rem publicam. Contributo alla storia del diritto marittimo e del diritto pubblico romano, Milano 1966, passim; cfr. O. LICANDRO, Cicerone alla corte di Giustiniano, cit., pp. 231 ss. 339 Eccessivo in tal senso U. ROBERTO, Aspetti della riflessione sul governo misto, cit., pp. 139 ss. Propensi al gradualismo evolutivo del principato P. CERAMI-G. PURPURA, Profilo storicogiurisprudenziale, cit., p. 31. 340 Io. Stob. Anth. 2.7.150-151 (ed. Wachsmuth). Fondamentale S. MAZZARINO, Il pensiero storico classico, II, Roma-Bari 1990, pp. 319 s.
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fortunatamente conservato un interessante frammento di Ario Didimo, filosofo e consigliere di Augusto. Ora, se a un intellettuale alla corte del principe era consentito di discutere delle forme costituzionali secondo l’impianto repubblicano e, dobbiamo presumere, del De re publica ciceroniano; oppure se Claudio, come racconta Svetonio 341, tirò un sospiro di sollievo alla fine dei due angosciosi giorni, dopo la congiura ai danni di Caligola, in cui si discusse una commutatio rei publicae, intendendosi quella augustea, è evidente che le cose fossero assai diverse da quanto i moderni intendono ancora oggi ricostruire e che sia comunque azzardato sostenere una fine repentina della libertas. *** Cicerone, per quanto autorità indiscussa nel campo dell’oratoria, non esauriva certo il novero dei retori della cui sapienza il principe si avvalse o di cui amò in seguito circondarsi. Accanto a lui, infatti, come una vera e propria ombra sin dai primi passi, ci fu Apollodoro di Pergamo, valentissimo in oratoria e retorica, ammirato da Giulio Cesare 342, tanto da non esitare un istante a ritornare con il giovane Ottaviano a Roma da Apollonia una volta giunta la notizia dell’assassinio del dittatore 343. Ad Apollodoro, merita di essere accostato Verrio Flacco, uno dei più rinomati maestri di grammatica del tempo chiamato dal principe nel palazzo imperiale per curare l’istruzione dei nipoti Gaio e Lucio. Autore del celebre De verborum significatu, giuntoci in compendio, e dei purtroppo assai frammentari Fasti Praenestini, Verrio Flacco fu anche filologo e scrisse molte opere dedicate all’origine e al significato di antiche istituzioni. Ma soprattutto il De verborum significatione, un ricco giacimento di erudizione linguistica, culturale, politica, giuridica, lascia intuire il suo fondamentale ruolo di intellettuale eclettico esperto pure in materia di ius sacrum e di mores antiqui. Tuttavia la cerchia di amici-consiglieri dotati di straordinari bagagli culturali era ancora più ampia e variegata di quanto solitamente si faccia apparire, e il cammeo di Giovanni Stobeo riferito ad Ario Didimo, richiamato poco prima, è utile anche sotto tale diverso profilo. Esso spinge infatti ad allungare lo sguardo sulla cerchia dei veri consiglieri di Augusto, quelli tra tutti più decisivi nell’orien
341 Svet. Claud. 11.1.1: Imperio stabilito nihil antiquius duxit quam id biduum, quo de mutando rei p. statu haesitatum erat, memoriae eximere; cfr. Ios. ant. 19.224-225. Sulla questione è intervenuto di recente V. MAROTTA, Legalità repubblicana e investitura imperiale nell’Historia Augusta, in AA.VV., Le legalità e le crisi della legalità (a cura di C. Storti), Torino 2016, pp. 40 ss. e nt. 59. 342 Stando a Velleio Patercolo (hist. rom. 2.59.4), fu proprio Cesare a inviare il giovane Ottaviano a studiare in Grecia ad Apollonia presso Apollodoro (Plut. Brut. 22). Cfr. H. BARDON, Les Empereurs et les lettres latines, cit., p. 9. 343 Svet. Aug. 89.1-2: Ne Graecarum quidem disciplinarum leviore studio tenebatur. [2] In quibus et ipsis praestabat largiter, magistro dicendi usus Apollodoro Pergameno, quem iam grandem natu Apolloniam quoque secum ab urbe iuvenis adhuc eduxerat […].
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tare le scelte del principe e ben oltre il consueto e scontato riferimento alla ristretta cerchia di Agrippa e Mecenate. È fuor di dubbio infatti che, senza il lavoro diuturno e sapiente di costoro, Augusto forse non avrebbe costruito quel novus ordo e segnato profondamente il solco in cui si sarebbero posti i suoi successori. E dunque, dopo aver guardato ai retori, passiamo ai filosofi, cioè a quegli intellettuali che influirono altrettanto profondamente sulla formazione culturale di Augusto segnata da rilevanti influssi platonici e di Panezio, in particolare. Nel complesso le informazioni disponibili sono sufficientemente precise. Svetonio nel raccontare del circolo di filosofi, Ario e i figli Dionigi e Nicanore, vicini ad Augusto, usa con una ricercata proprietà il termine contubernium, che come è noto provenie dal gergo della vita militare e indica coloro che dormono nella stessa tenda (conturbenales), un termine, pertanto, allusivo al carattere cameratesco di un reciproco rapporto di profonda solidarietà che lega gli appartenenti a uno stesso mondo 344. Cronologicamente, il primo di questi maestri fu l’antico precettore, il filosofo stoico Atenodoro di Tarso. La presenza di Atenodoro, a cui Augusto fu molto legato e ricambiato dal maestro, fu indubbiamente centrale nella formazione delle sue idee politiche; grazie alla visione etica di Atenodoro, Augusto assimilò l’alto insegnamento morale secondo il quale l’azione dell’uomo avrebbe dovuto sempre tendere a un utile scevro da tornaconti individuali, al vantaggio dell’interesse generale, cioè della collettività, consistente in definitiva nel servizio alla res publica. Il motivo, come è facile riconoscere, è affine a quelli ciceroniani; ed è a Cicerone che torniamo, non certo per una coincidenza, ma perché Atenodoro e Cicerone furono allievi del grande Posidonio, e perché il filosofo collaborò strettamente con l’oratore alla stesura del De officiis. La notizia ci proviene direttamente Cicerone: Cic. ad Att. 16.11.4: Haec ad posteriorem. t¦ perˆ toà kaq»kontoj quatenus Panaetius, absolvi duobus. Illius tres sunt; sed cum initio divisisset ita, tria genera exquirendi offici esse, unum, cum deliberemus honestum an turpe sit, alterum, utile an inutile, tertium, cum haec inter se pugnare videantur, quo modo iudicandum sit, qualis causa Reguli, redire honestum, manere utile, de duobus primis praeclare disserit, de tertio pollicetur se deinceps scripturum sed nihil scripsit. Eum locum Posidonius persecutus est. Ego autem et eius librum arcessivi et ad Athenodorum Calvum scripsi ut ad me t¦ kef£laia mitteret; quae exspecto. Quem velim cohortere et roges ut quam primum. In eo est perˆ toà per…stasin kaq»kontoj. Quod de inscriptione quaeris, non dubito quin
344 Svet. Aug. 89.2: […] deinde eruditione etiam varia repletus per Arei philosophi filiorumque eius Dionysi et Nicanoris contubernium.
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kaqÁkon «officium» sit, nisi quid tu aliud; sed inscriptio plenior «De officiis». prosqwnî autem Ciceroni filio; visum est non ¢no…keion. Il secondo consigliere fu ancora un filosofo, appunto l’alessandrino Ario Didimo, la cui identificazione proposta da August Meineke 345 e consolidata da Hermann Diels 346 prima e da Ernst Howald e Michelangelo Giusta in tempi più recenti 347, per quanto non pacifica 348, è meritevole di essere accolta. Così come il legame di Atenodoro con il principe fruttò la cittadinanza romana ai cittadini di Tarso, quelli di Alessandria trassero giovamento dall’affetto nutrito da Augusto per il loro illustre concittadino. Infatti, secondo la concorde la narrazione di Cassio Dione 349 e Plutarco 350, dopo la conquista essi vennero risparmiati dal principe in omaggio a Serapide, Alessandro e Ario Didimo. Grande fu l’intimità che segnò il rapporto non solo tra i due ma più in generale tra il filosofo e l’intera famiglia imperiale. Ne è serbata traccia in Seneca, a proposito di un brano di triste dolcezza in cui Livia, solita cercare conforto in Ario, in occasione della prematura morte di Druso gli si rivolse chiamandolo philosophus viri sui, il filosofo del suo uomo (sposo) 351. Le tracce di Ario sono, comunque, cosparse lungo momenti importanti della vita di Augusto. Plutarco, ancora, racconta del consiglio richiestogli dal principe sulla sorte da riservare a Cesarione, figlio di Cesare e Cleopatra 352, oppure quando una volta elaborato l’assetto dell’Egitto, ridotto sì a provincia ma con delle specificità, Augusto gli propose di assumere la carica di Praefectus Alexandriae et Aegypti. Un gesto di enorme fiducia, che tuttavia Ario declinò restando al suo posto accanto al principe come filosofo consigliere. Ciò che conta, tuttavia, è l’indubbia ripercussione delle sue idee sulla politica augustea 353; la sua convinta adesione aristotelica
345
A. MEINEKE, Zu Stobaeus, in Zeitschrift für das Gymnasialwesen 13, 1859, pp. 563 ss.; ID., Ioannis Stobaei Eclogarum physicarum et ethicarum libri duo, Leipzig 1860-1864, p. clv. 346 H. DIELS, Doxographi Graeci, Berolini 1879, pp. 80 ss. 347 E. HOWALD, Das philosophiegeschichtliche Compendium des Areios Didymos, in Hermes 55, 1920, pp. 68 s.; M. GIUSTA, I dossografi di etica, II, Torino 1964-1967, pp. 196 ss.; cfr. PH. SCHMITZ, Cato Peripateticus. Stoische und peripathetische Ethik im Dialog, Berlin-Boston 2014, p. 231; F. BONIN, Evoluzione normativa e ratio legum, cit., pp. 272 ss., praecipue 295 ss. 348 Contestata infatti da O. HEINE, Kritische Beiträge zum siebenten Buche des Laertios Diogenes, in Jahrbücher für classische Philologie 99, 1869, pp. 611 ss., e in tempi più recenti da T. GÖRANSSON, Albinus, Alcinos, Arius Didymus, Gothenburg 1995, pp. 203 ss. 349 Cass. Dio 51.16.3. 350 Plut. Ant. 80. 351 Sen. cons. ad Marc. 4.3-5.6. 352 Plut. Ant. 81. 353 Si legga il recente contributo di J. GILTAIJ, Augustus and Self Defense as the Stoic Reason of State in the Roman Legal Order, in History of Political Thought 1, 2016, pp. 25 ss.
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al ruolo del matrimonio che ne fece un pilastro a sostegno delle riforme in materia matrimoniale e di incremento demografico. E neppure trascurabile la condivisione con Cicerone delle concezioni esposte nel De finibus sul sommo bene. Ma a consigliare il principe non vi erano soltanto retori e filosofi. Un’altra figura di consigliere che mai abbandonò il principe, e che forse più di chiunque altro svolse un ruolo chiave nell’azione politica e riformatrice di costruzione del novus ordo, fu il giurista Caio Ateio Capitone. La vulgata su Capitone, radicalizzata da Ronald Syme, come un «giurista dai modi sacerdotali, conservatore e insieme compiacente» 354, non solo mette in ombra lo spessore politico e di consigliere giuridico del principe ma fa perdere di vista quanto il principe fu invece saggiamente ‘accompagnato’ sul campo dello ius publicum nella delicatissima e complessa missione di restitutio rei publicae, di elaborazione di nuovi fundamenta rei publicae e di riforme legislative senza destare particolare allarme nell’opinione pubblica e soprattutto nel ceto dei giuristi. Da qualche tempo si è riacceso un certo interesse su questa figura autorevole e influente di giurista, soverchiamente disprezzato perché considerato, sotto la pressione del giudizio soprattutto di Tacito e di quello, ma in misura diversa e obliqua, di Pomponio 355, eccessivamente prono al nuovo potere politico mentre sul versante più squisitamente giuridico sottovaluto per la sua propensione al diritto pubblico piuttosto che al diritto privato ove eccelleva Marco Antistio Labeone, a sua volta rifulgente per la sua fredda distanza da Augusto 356. Ma, dicevo, c’è negli studi più recenti 357 una nuova tendenza di maggior apertura e curiosità rispetto a Capitone, peritissimus nello ius sacrum 358, e dunque nello ius publicum. E in effetti la sua competenza nella scientia iuris veniva riconosciuta anche da chi non lo ‘amasse’ affatto per la sua vicinanza al princeps, come Tacito, assolutamente obiettivo – in diversi luoghi degli Annales – nel riconoscere quanto il giurista in quei campi eccellesse: intellexit haec Tiberius, ut erant magis quam ut dicebantur, prestititque intercedere. Capito insignior infamia fuit, quod humani divinique iuris sciens egregium publicum et bonas artes dehonestavisset (ann. 3.70.3); o ancora più nettamente in un altro luogo:
354
R. SYME, La rivoluzione romana, cit., p. 457. D. 1.2.2.47 (lib. sing. ench.). 356 Cfr. E. STOLFI, ‘Plurima innovare instituit’. Spunti esegetici intorno al confronto tra Labeone e Capitone in D. 1.2.2.47 (Pomp lib. Sing. ench.), in Studi per G. Nicosia, VIII, Milano 2007, pp. 57 ss. 357 Mi limito a segnalare i contributi di S. RONCATI, Caio Ateio Capitone e i Coniectanea (Studi su Capitone, I), in SDHI 71, 2005, pp. 271 ss.; E. STOLFI, ‘Plurima innovare instituit’, cit., pp. 57 ss.; P. BUONGIORNO, Ateii Capitones, in Iura 59, 2011, pp. 195 ss.; ID., C. Ateius Capito. Appunti per una biografia politica, in Scritti per A. Corbino (a cura di I. Piro), I, Tricase (LE) 2016, pp. 413 ss. 358 W. STRZELECKI, C. Atei Capitonis fragmenta, Lipsiae 1967, passim. 355
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Tac. ann. 3.75.1-2: Obiere eo anno viri inlustres Asinius Saloninus, Marco Agrippa et Pollione Asinio avis, fratre Druso insignis Caesarique progener destinatus, et Capito Ateius, de quo memoravi, principem in civitate locum studiis civilibus adsecutus, sed avo centuriato Sullano, patre praetorio. Consulatum ei adceleverat Augustus, ut Labeonem Antistium isdem artibus praecellentem dignatione eius magistratus anteiret. [2] Namque illa aetas duo pacis decora simul tulit: sed Labeo incorrupta libertate et ob id fama celebratior; Capitonis obsequium dominantibus magis probabatur. Illi, quod praeturam intra stetit, commendatio ex iniuria, huic, quod consulatum adeptus est, odium ex invidia oriebatur. Principem in civitate locum studiis civilibus adsecutus, è l’espressione assai lusinghiera, con cui Tacito, secondo una ‘ficcante’ lettura guariniana 359, mette ‘accortamente una toppa’ alla esagerata e ingenerosa denigrazione di Capitone e che trova una simmetria nella chiusa finale odium ex invidia oriebatur da leggere come un’esplicita allusione a un odio, catalizzato dall’invidia suscitata, più che in Labeone presso altri 360, dalla sua fortuna politica 361. Merita però di essere menzionato il giudizio su Capitone formulato da Mario Bretone, nel suo fissare un nesso tra libertas e antiquitas: «La “libertà” labeoniana fa tutt’uno con la difesa del vecchio stato, delle antiche strutture; è la libertà del ceto senatorio più tradizionalista, disposto a intese momentanee e praticamente opportune, ma intransigente sui valori culturali e sulle istituzioni della “repubblica”» 362, mentre l’impegno di Capitone si profilava nell’obiettivo di «saldare, nello spirito del compromesso augusteo, il nuovo ordinamento all’antico» 363. Mi sembra, questa, la luce più adeguata per osservarne e valutarne con obiettività l’impegno politico e comprenderne lo specifico ruolo effettivamente svolto. Le eccellenti competenze in materia di ius sacrum avranno reso certamente indispensabile Capitone in quella strategia di rigenerazione religiosa della comunità e della res publica condotta con forte determinazione da Augusto, e su
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A. GUARINO [alias C. SOFO], Pro Ateio Capitone, in Index 3, 1972, pp. 601 ss. [= in ID., Pagine di diritto romano, V, Napoli 1994, pp. 131 ss.]. 360 In questo senso aiuta infatti l’escerto di una lettera di Capitone in cui è tracciato il profilo di un Labeone tanto dotto quanto ingenuamente rigido; Gell. n.a. 13.12.1-2: In quadam epistula Atei Capitonis scriptum legimus Labeonem Antistium legum atque morum populi Romani iurisque civilis doctum adprime fuisse. [2] “Sed agitabat” – inquit – “hominem libertas quaedam nimia atque vecors usque eo, ut divo Augusto iam principe et rem publicam obtinente ratum tamen pensumque nihil haberet, nisi quod iussum sanctumque esse in Romanis antiquitatibus legisset”. 361 Cfr. E. STOLFI, ‘Plurima innovare instituit’, cit., p. 76. 362 M. BRETONE, Tecniche e ideologie, cit., p. 19. 363 M. BRETONE, Tecniche e ideologie, cit., p. 26.
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cui ci siamo soffermati nel capitolo precedente. Merita qui di essere ricordata la notizia di Macrobio in cui si definiva Ateio Capitone un grande esperto di ius pontificium 364; e la marcata traccia sopravvissuta in Zosimo (2.4.2) di un intervento appunto da specialista a proposito della cerimonia dei Ludi saeculares del 17 a.C., in cui si segnalò come assoluto protagonista per aver fissato le norme per il rito 365. Altrettanto preziose saranno state le sue capacità e la conoscenza dello ius publicum per la linea augustea giocata sul terreno della restitutio rei publicae e dell’elaborazione delle nuove fondamenta volte a rafforzare le tradizionali ma sfibrate forme repubblicane. Abbiamo, infatti, ricordato più volte la celebre definitio di lex e la presenza tra i senatori qui scribundo adfuerunt nella praescriptio sia del senatus consultum de Cn. Pisone patre (19 d.C.) sia del senatus consultum di Larino (20 d.C.), abbiamo riscontrato le sue tracce a proposito dell’imperium maius del principe, e possiamo ancora aggiungere la notizia gelliana sul De officio senatorio, opera da collegare, verosimilmente, con la lex Iulia de senatu del 9 a.C. relativa al regolamento di funzionamento dell’assemblea senatoria 366 Si tratta di notizie molto significative che svelano il ruolo essenziale di Capitone e la fiducia assegnatagli dal principe nel forgiare, teorizzandone la legittimità, nuovi equilibri istituzionali e relative innovazioni normative regolamentari attraverso cui si declinava la centralità ideologica dell’azione e della relativa propaganda di normalizzazione delle istituzioni repubblicane, in particolare di populus e senatus.
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Macrob. sat. 7.3.11: […] Ateium Capitonem pontificii iuris inter primos peritum […]. Sulle diverse interpretazione del contenuto dell’intervento di Capitone vedi S. RONCATI, Caio Ateio Capitone, cit., pp. 274 ss.; P. BUONGIORNO, C. Ateius Capito, cit., p. 415; cfr. pure L. ROSS TAYLOR, New Light on the History of the Saecular Games, in AJPh 55, 1934, pp. 101 ss.; J. GAGÉ, Apollon Romain. Essai sur le culte d’Apollon et le développement du ‘ritus Graecus’ à Rome des origines à Auguste, Paris 1955, p. 623; G. RADKE, Aspetti religiosi ed elementi politici nel carmen saeculare, in Rivista di cultura classica e medievale 20, 1978, pp. 1093 ss. 366 G. ROTONDI, Leges publicae, cit., p. 452. Gell. n.a. 4.10.7-8: […] Id ipsum Capito Ateius in libro, quem de officio senatorio composuit, scriptum reliquit. [8] In eodem libro Capitonis id quoque scriptum est: ‘C.’ inquit ‘Caesar consul M. Catonem sententiam rogavit. Cato rem, quae consulebatur, quoniam non e republica videbatur, perfici nolebat. Eius rei ducendae gratia longa oratione utebatur eximebatque dicendo diem. Erat enim ius senatori, ut sententiam rogatus diceret ante quicquid vellet aliae rei et quoad vellet. Caesar consul viatorem vocavit eumque, cum finem non faceret, prendi loquentem et in carcerem duci iussit. Hac’ inquit ‘invidia facta Caesar destitit et mitti Catonem iussit’. Il caso dello scontro procedurale tra Cesare e Catone induce a ritenere altamente probabile che Capitone abbia lavorato molto alla stesura. Lo scritto di Capitone dedicato all’officium senatoris introdusse un’innovazione nella concezione repubblicana di officium, termine e concetto sino ad allora riservati all’attività del giureconsulto e che da quel momento finì per estendersi al componente di un’assemblea. Sull’opera di Capitone si veda anche F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana, cit., p. 246 nt. 3. 365
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Il primo, il populus, tornava a essere depositario della sovranità 367 con la lex, generale iussum populi, precipua espressione non solo della volontà normativa ma anche fondamento di legittimità degli incarichi di governo (magistrature e governatorati delle province) ma soprattutto della posizione costituzionale e dell’imperium del princeps: Gell. n.a. 10.20.2: Ateius Capito, publici privatique iuris peritissimus, quid ‘lex’ esset, hisce verbit definivit: “Lex” – inquit – “est generale iussum populi aut plebis rogante magistratu”. L’esistenza di un un preciso progetto politico, come ebbe a scrivere qualche tempo fa Bauman 368, è dimostrata dall’elaborazione di un assetto teorico in cui il punto di equilibrio era dato dalla paritaria simmetria di populus e plebs: Gell. n.a. 10.20.5-6: ‘Plebem’ autem Capito in eadem definitione seorsum a populo divisit, quoniam in populo omnis pars civitatis omnesque eius ordines contineantur, ‘plebes’ vero ea dicatur, in qua gentes civium patriciae non insunt. [6] ‘Plebiscitum’ igitur est secundum eum Capitonem lex, quam plebes, non populus, accipit. Un errore o, se preferiamo, un limite della moderna storiografia giuridica è stato in generale la sottovalutazione di Capitone e, in particolare, della sua elaborazione di un nuovo paradigma della lex come prova e strumento della normalizzazione istituzionale. La teorica riferita da Gellio dimostra invece tutta l’abilità scientifica del giurista e il suo autorevole ruolo in una elaborazione funzionale alla ricerca di nuovi equilibri politici e istituzionali purché coerenti, e non soltanto apparenti, come banalmente spesso si ripete, con l’eminente motivo e obiettivo politico della restitutio rei publicae. Quell’elaborazione avrebbe offerto ad Augusto diverse ‘piattaforme popolari istituzionali’: i comitia ai quali, direttamente come console o indirettamente attraverso il collega, avanzare rogationes e i concilia plebis, attivabili grazie allo ius agendi cum plebe derivatogli dalla tribunicia potestas. E non è un’esagerazione riconoscere ad Ateio Capitone il
367 Spunti di riflessione, da un punto di vista non consueto, in G. LOBRANO, I ‘modi di formazione della volontà collettiva’, omologhi ma non uguali, dei Popoli greci e del Popolo romano. Elementi attuali di storia e sistema della “Repubblica”: democratica e imperiale, in Scritti per A. Corbino (a cura di I. Piro), IV, Tricase (LE) 2016, pp. 341 ss. Vedi pure F. SERRAO, Classi, partiti e legge nella repubblica romana, Pisa 1974, pp. 107 ss.; G. LOBRANO, Popolo e legge: il sistema romano e la deformazione moderna, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate a F. Gallo, I, Napoli 1997, pp. 453 ss., praecipue 464 ss.; G. COPPOLA BISAZZA, Dallo iussum domini alla contemplatio domini. Contributo allo studio della storia della Rappresentanza. Corso di diritto romano, Milano 2008, pp. 23 ss. 368 R.A. BAUMAN, Lawyers and Politics in the Early Roman Empire. A Study of Relations between the Roman Jurists and the Emperors from Augustus to Hadrian, München 1989, pp. 30 s.
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merito di aver raggiunto un risultato divenuto un vero punto d’arrivo del dibattito in materia, come dimostra il recepimento in Gai. 1.3 369. Il secondo polo istituzionale della restitutio rei publicae, ovvero l’assemblea senatoria, ritornava dopo la sospensione triumvirale al suo ruolo essenziale di istituzione di governo permanente e di sede istituzionale competente alla definizione, con il concorso del populus, dell’ampiezza degli imperia. E anche riguardo al senato sarebbe ingiustificato disconoscere il ruolo attivo di Capitone, basti pensare, per esempio, al riferimento contenuto nel senatus consultum de Cn. Pisone patre allo ius publicum e alla «puntigliosa precisazione nella delibera, non necessaria, che l’imperium di Tiberio era superiore (non aequum come era stato quello fra Augusto e Tiberio sulle province) a quello di Germanico, che pure era titolare di un imperium maius» 370. I nuovi, decisivi, documenti epigrafici dimostrano la sua presenza nel dibattito politico teorico relativo agli imperia, e la forza del suo pensiero nell’elaborazione di nuove linee della prassi di governo. Se non delle prove dirette, le recenti iscrizioni offrono certo indizi forti della lucidità con cui Capitone mise a frutto la sua dottrina per imprimere talune direzioni invece di altre, per orientare con mirabile precisione scelte istituzionali infine armoniche con l’esito finale del sistema augusteo 371. Nel recente passato la strada della rivalutazione di Capitone era stata indicata da interventi di Francesco Grelle e Mario Pani, adesso, per fortuna, si mostra ancor più consolidata, e ne possiamo trarre un saggio anche dalle conclusioni di un recente contributo di Pierangelo Buongiorno proteso a tratteggiarne il ritratto di «raffinato tecnico del diritto, che lentamente percorse tutti i gradi del cursus honorum, in ragione non solo di un’opportuna collocazione politica, ma anche delle proprie competenze, convintamente poste a servizio di Augusto prima, di Tiberio dopo. Fu pertanto non solo un fine teorico, ma anche un attento consigliere e artefice, che seppe plasmare sul piano istituzionale, dando loro concretezza, le istanze politiche che si andavano a condensare nel novus statuts rei publicae» 372. Se le tracce di Capitone in relazione a populus e senatus si sono conservate con una certa evidenza, discorso particolare deve farsi per un altro aspetto istituzionale fondamentale, cioè per il titolo di princeps. A tal riguardo, si può 369
Gai. 1.3: Lex est quod populus iubet atque constituit. Plebiscitum est quod plebs iubet atque constituit. Plebs autem a populo eo distat, quod populi appellationi universi cives significantur connumeratis etiam patriciis; plebis autem appellatione sine patriciis ceteri cives significantur; unde olim patricii dicebant plebiscitis se non teneri quia sine auctoritate eorum facta essent; sed postea lex Hortensia lata est, qua cautum est ut plebiscita universum populum tenerent; itaque eo modo legibus exaequata sunt. 370 M. PANI, L’imperium del Principe, cit., p. 201. 371 P. BUONGIORNO, C. Ateio Capito, cit., pp. 423 ss. 372 P. BUONGIORNO, C. Ateio Capito, cit., p. 427.
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senz’altro riconoscere come non fosse di nuovo conio; nelle pagine precedenti, infatti abbiamo scorso alcuni testi inequivocabili a conferma della sua matrice appartenente alla cultura repubblicana politica e giuridica. Quel titolo indicava il migliore civis, al plurale i migliori cives su cui la res publica poteva contare; la classe dirigente; la crema dell’aristocrazia politica e senatoria, per dirla con Cicerone. Ma c’è qualcosa in più; traslato sul piano rigorosamente istituzionale, princeps valeva al singolare perché vi poteva essere un princeps, cioè quel titolo, non carica, qualificato da un genitivo senatus. Sicché l’espressione princeps senatus spettava al senatore più autorevole e carismatico, colui che apriva la seduta e veniva consultato per primo; era comunque una guida, un capo, un princeps appunto. Augusto era smisuratamente orgoglioso del titolo di princeps tenuto ininterrottamente per quarant’anni: RGDA 7.2: [P]rinceps s[enatus usque ad e]um d[iem, quo scrip]seram [haec per annos] quadra[ginta] fui; questo titolo, a cui si associava automaticamente la smisurata auctoritas, costituì assai più di qualunque altro potere il cardine principale del regime che plasmò nei lunghi decenni di governo. Per quanto possa apparire un ragionamento assai indiziario o circolare, non esito a vedere la ‘mano’, o meglio l’intelligenza di Capitone nella sapiente utilizzazione di una nuova, per quanto antica e tradizionale, leva. Il titolo di princeps senatus, che mai entrò nella nomenclatura ufficiale imperiale, continuò infatti a restare l’appellativo del senatore chiamato a presiedere l’assemblea dei patres perché più influente, più meritevole, ancor più se servator o restitutor rei publicae, o pater patriae. Si può ben dire che Ateio Capitone fu sul piano dello ius publicum l’artefice del canone repubblicano di Augusto. Sul piano della speculazione politica e filosofica invece bisogna tornare a guardare a Cicerone. Augusto, nuovo ‘Pericle’ (figure 17 e 18), princeps senatus di Roma, restò al potere per quarant’anni e la funzionalità del parallelismo fu, non a caso, ancora una volta tratta dal quel «testo luminoso della coscienza civile romana» 373: Cic. de re publ. 1.16.25: […] Pericles ille, et auctoritate et eloquentia et consilio princeps civitatis suae […]. Alla figura del princeps e alla sottostante ideologia del primato, ha detto bene Canfora 374, un Cicerone dipendente da Tucidide lavorò a lungo 375: un lascito pre-
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A. SCHIAVONE, Ius, cit., p. 123. L. CANFORA, Alle origini del «principato», in Fides Humanitas Ius. Studii in onore di L. Labruna, I, Napoli 2007, pp. 639 ss.; ID., Augusto figlio di Dio, cit., pp. 404 ss. 375 Così L. CANFORA, Sul «princeps» ciceroniano, in CICERONE, Sullo Stato. Libro secondo, Palermo 1992, pp. 10 s., con riguardo a Thuk. 2.65.9. A tal proposito, Canfora enuclea tre elementi 374
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FIGURE 17 e 18. – Pericle e Augusto
preciso rispetto al quale non sfuggono gli innumerevoli riferimenti, le costanti allusioni di Augusto. L’esperienza di Pericle, eletto per quasi trent’anni alla carica di stratego, l’esser stato al ‘potere’ per quarant’anni di fila, il suo stretto legame con il popolo, le numerose riforme foriere di uno spostamento di fondamentali poteri politici e giudiziari in capo al Consiglio dell’Areopago e all’assemblea del popolo, costituivano un fascio di motivi e un modello politico funzionale e capace di esercitare un fascino straordinario su una società stremata alla ricerca di nuovi equilibri e di una guida forte 376. Insomma, il modello era lì, ammaliante, autorevole, carismatico, pronto per l’uso. Come non sentire allora l’eco dell’esaltazione ciceroniana della durata del potere pericleo, il suo dominio quarantennale 377, nell’orgoglio smisurato di quel
cardine nella riflessione di Cicerone a favore della definizione di princeps riconosciuta a Pericle: a) l’eloquenza antidemagogica; b) l’esercizio quarantennale del potere; c) il raffronto con i principes della Roma repubblicana. 376 L. CANFORA, Il mondo di Atene, Roma-Bari 2011, pp. 113 ss.; M.H. HANSEN, La democrazia ateniese nel IV secolo a.C. (ed. it. a cura di A. Maffi), Milano 2003, passim. 377 Cic. de orat. 3.34.138: […] itaque hic doctrina, consilio, eloquentia excellens quadraginta annis praefuit Athenis et urbanis eodem tempore et bellicis rebus; de orat. 1.49.216; de re publ. 4.10.11; Plut. Pericl. 16.3. Sul tema vedi L. CANFORA, Sulle fonti del princeps ciceroniano, in L’incidenza dell’antico. Studi in memoria di E. Lepore, I, Napoli 1995, pp. 207 ss.; A. BANFI, Il governo della Città. Pericle nel pensiero antico, Napoli 2003, passim; C. MOSSÈ, Pericle. L’inventore della democrazia, Bari 2009, pp. 195 ss.; F. COSTABILE, Caius Iulius Caesar, cit., pp. 147 ss.; V. AZOULAY, Pericle. La democrazia ateniese alla prova di un grand’uomo, Torino 2017.
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rigo prima ricordato delle Res Gestae in cui Augusto magnificava il mantenimento del titolo di principe del senato per quarant’anni! Il principe leggeva e utilizzava continuamente Cicerone 378. E si discuta pure se la fonte di Cicerone sia Demetrio Falereo 379 o Teopompo, ma ciò che non deve perdersi di vista è un punto: il sostanziale modello pratico restava quello tucidideo, rinverdito da Cicerone, del Pericle ‘primo degli Ateniesi’ 380, celeberrimo statista rimasto a lungo, molto a lungo, al governo democratico della città attraverso iterazioni della carica e nel rispetto delle forme legali. Non deve così sorprenderci né costringerci ad astruse interpretazioni, quando in tempi successivi, Tacito, alla morte del principe, in un immaginario dibattito sulla forma civitatis faceva asserire ai suoi sostenitori non regno tamen neque dictatura, sed principis nomine constitutam rem publicam (ann. 1.9.5). Non c’è dubbio che il testo ci mette dinanzi a un preciso fatto, cioè alla percezione da parte dell’opinione pubblica di una forma rei publicae consolidata come se fosse la stessa dei momenti genetici. Eppure, nel tempo in cui Tacito scriveva la forma rei publicae esistente non era più quella augustea; essa non era inquadrabile nei tradizionali schemi aristotelici-polibiani e non è meglio definibile se non attraverso la posizione egemone di un primo cittadino, del migliore, del princeps che, nella sostanza politica e istituzionale, sovrastava i tradizionali organi costituzionali con la propria ineguagliabile auctoritas. Velleio ricordava l’enorme concentrazione di potere nelle mani di Tiberio 381, ma quell’imperium trovava pur sempre fondamento nel senato e nel popolo 382. Ciò del resto corrispondeva davvero a un senso comune nel suo racconto, in cui a proposito della posizione di Crasso, dopo la vittoria su Spartaco, se ne parlava come di un principe con il consenso di tutti (Vell. hist. rom. 2.30.6: Huius patrati gloria penes M. Crassum fuit, mox rei publicae omnium consensu principem), oppure quando esaltava la capacità di coinvolgimento da parte di Augusto, principe tra principi, delle migliori risorse nella ricostruzione della città (Vell. hist. rom. 2.89.4: Principes viri triumphisque et amplissimis honoribus functi adhortatu principis ad ornandam urbem inlecti sunt). Oppure ancora, quando a proposito di Tiberio, ricorreva all’eloquente locuzione di princeps eminens: 378 Come del resto ci informa lo stesso Cicerone che attraverso Marcello, già nel giugno del 44 a.C. inviava suoi scritti a Ottaviano (Cic. ad Att. 15.12.2: […] Sed tamen alendus est et, ut nihil aliud, ab Antonio seiungendus. Marcellus praeclare, si praecipit nostra; cui quidem ille deditus mihi videbatur); sul punto cfr. E. TODISCO, Cicerone politico, cit., p. 142 nt. 78. 379 A. BANFI, Sovranità della legge. La legislazione di Demetrio del Falero ad Atene (317-307 a.C.), Milano 2010. 380 Thuk. 1.139. 381 Vell. hist. rom. 2.126.4: Namque facere recte civis suos princeps optimus faciendo docet, cumque sit imperio maximus exemplo maior est. 382 Così giustamente F. GRELLE, «Antiqua forma rei publicae revocata», cit., p. 330.
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Vell. hist. rom. 2.124.2: Una tamen veluti luctatio civitatis fuit, pugnantis cum Caesare senatus populique Romani, ut stationi paternae succederet, illius, ut potius aequalem civem quam eminentem liceret agere principem. In questo assetto, che Velleio descriveva come un ritorno alla prisca forma rei publicae, il principe era compatibile, perché il principe eminente aveva un senso ed era evidentemente tale perché vi erano altri cives principes, i quali, sebbene non eminentes, primeggiavano sui restanti cives 383. Questa visione aristocratica repubblicana, e non monarchica nella sua fase genetica come abbiamo sin qui constatato, apparteneva al pensiero politico-istituzionale di Cicerone 384. Che il nesso Cicerone/Augusto fosse ancora chiaramente leggibile durante il principato di Tiberio lo confermano un’altra pagina di Velleio dedicata all’esaltazione del vecchio consolare in demolizione di Antonio: Vell. hist. rom. 2.66.2-5: Nihil tam indignum illo tempore fuit, quam quod aut Caesar aliquem proscribere coactus est aut ab ullo Cicero proscriptus est. Abscisaque scelere Antonii vox publica est, cum eius salutem nemo defendisset, qui per tot annos et publicam civitatis et privatum civium defenderat. [3] Nihil tamen egisti, M. Antoni (cogit enim excedere propositi formam operis erumpens animo ac pectore indignatio) nihil, inquam, egisti mercedem caelestissimi oris et clarissimi capitis abscisi numerando auctoramentoque funebri ad conservatoris quondam rei publicae tantique consulis inritando necem. [4] Rapuisti tu M. Ciceroni lucem sollicitam et aetatem senilem et vitam miseriorem te principe quam sub te triumviro mortem, famam vero gloriamque factorum atque dictorum adeo non abstulisti, ut auxeris. [5] Vivit vivetque per omnem saeculorum memoriam, dumque hoc vel forte vel providentia vel utcumque constitutum rerum naturae corpus, quod ille paene solus Romanorum animo vidit, ingenio complexus est, eloquentia inluminavit, manebit incolume, comitem aevi sui laudem Ciceronis trahet omnisque posteritas illius in te scripta mirabitur, tuum in eum factum execrabitur citiusque e mundo genus hominum quam Ciceronis nomen cedet; oppure la Vita di Attico (16.4) di Cornelio Nepote che gli tributò un significativo elogio: «profetizzò come un oracolo quel che accade oggi». Nessuna profezia, in verità, ma soltanto la traduzione in prassi di una teorica alta da parte di Augusto e nessun uso politico postumo dell’oratore, condotto con cinismo abile e freddo 385, certamente un’adesione convinta a quell’orizzonte tracciato e lascia-
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In questo senso anche F. GRELLE, «Antiqua forma rei publicae revocata», cit., pp. 330 ss. Cic. ad Brut. 2.1.2; ad fam. 11.6.3; 12.24.2; de re publ. 1.47.71; pro Flacc. 23.54; de leg. 3.6.14; 3.14.32; de off. 2.1.2. 385 In tal senso ancora L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., pp. 418 ss. 384
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to in eredità in pagine e pagine pensate e scritte. In un frammento di una lettera (frg. 14 ed. Watt), scritta durante gli otto mesi dell’assedio di Modena nel 43 a.C., il giovane Cesare e Cicerone si ripromettevano che «avrebbero liberato insieme la res publica». E nell’oratio letta nella seduta senatoria del 27 a.C. Augusto chiudeva con un auspicio squisitamente ciceroniano: «affidate sempre i poteri sia della sfera civile che di quella militare nelle mani degli uomini che di volta in volta sono i migliori e i più saggi» 386. Quel legame con la punta più avanzata del pensiero repubblicana giuspubblicistico 387 ad un certo punto però non fu più visibile, ma non si ruppe certo, per scivolare sotto la pelle di un nuovo assetto politico. Forse Tacito non riusciva più a riconnettersi con quella cultura politica e giuridica; tantomeno ne furono capaci l’egiziano Appiano (smisurato fan dell’istituzione monarchica conforme del resto alla millenaria cultura politica egizia), e Cassio Dione. Questi uomini ormai vivevano pienamente l’approdo monarchico dell’evoluzione istituzionale dello Stato romano, la sua stabilizzazione e avevano perduto di vista appunto il carattere inizialmente assai instabile. Instabilità all’origine e successiva stabilizzazione in senso monarchico della res publica furono i due poli, di partenza e di arrivo, del principato, rispetto a cui la dissonanza tra Augusto e le ricostruzioni della storiografia successiva non deve ridursi al velo di una perfida ipocrisia 388, quanto piuttosto diretta conseguenza della peculiarità dell’azione riformatrice e restauratrice del princeps che seppe imprimere alle fondamenta istituzionali, anche quelle di carattere più innovativo, come abbiamo sin qui visto, l’antico segno repubblicano. Si può semmai aggiungere ancora una breve riflessione sulla lungimiranza augustea nell’ampliare la base di uno dei punti fondamentali della teorica ciceroniana, cioè la concordia ordinum o dei boni viri 389. In effetti, e a solo scopo 386 Cass. Dio 53.10.3: “t£j te ¢rc¦j kaˆ t¦j e„rhnik¦j kaˆ t¦j polemik¦j to‹j ¢eˆ ¢r…stoij te kaˆ ™mfronest£toij ™pitršpete, m»te fqonoàntšj tisi, m»q' Øp r toà tÕn de‹na À tÕn de‹na pleonektÁsa… ti, ¢ll' Øp r toà t¾n pÒlin kaˆ sèzesqai kaˆ eÙprage‹n filotimoÚmenoi”. 387 Tant’è che anche tra i più inflessibili accusatori della menzogna augustea, come F. GUIZZI, Il principato, cit., p. 29, è difficile negare il «repubblicanesimo ideologico» della propaganda del princeps. 388 Vedi L. CANFORA, Augusto figlio di Dio, cit., passim. 389 Sull’interpretazione dell’espressione viri boni, rimando al confronto tra G. FALCONE, L’attribuzione della qualifica ‘vir bonus’ nella prassi giudiziaria d’età repubblicana (a proposito di Cato, Or. Frg. 186 Sblend. = Malc.), in AUPA 54, 2010-2011, pp. 57 ss.; ID., La formula ‘ut inter bonos agier oportet et sine fraudatione, e la nozione di ‘vir bonus’, in Fundamina 20, 2014, pp. 258 ss.; ID., La definizione di obligatio, tra diritto e morale. Appunti didattici, Torino 2017, pp. 34 ss.; R. FIORI, Bonus vir. Politica filosofia retorica e diritto nel de officiis di Cicerone, Napoli 2011, passim; vedi anche i contributi pubblicati nel volume Vir bonus. Un modello ermeneutico della riflessione giuridica antica, Bari 2013. Secondo F. GUIZZI, Il principato, cit., pp. 75 s., la concordia ordi-
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esemplificativo, è sufficiente ricordare Cic. in Pis. 3.7: Atque ita est a me consulatus peractus ut nihil sine consilio senatus, nihil non approbante populo Romano egerim, ut semper in rostris curiam, in senatu populum defenderim, ut multitudinem cum principibus, equestrem ordinem cum senatu coniuxerim. Queste poche righe forniscono una rappresentazione plastica di un certo modo di conduzione della res publica e della concordia, non solo dal punto di vista sociologico degli ordines, come amerebbero dire alcuni, ma da quello più strettamente istituzionale, perché concordia fatta di popolo, senato e principes 390. Il quadro diventa quindi nitido e del tutto coerente se ci spostiamo al 5 a.C., quando in occasione dell’anniversario della dedica del tempio della Concordia, il senato su proposta di Messalla Corvino decretava il conferimento del titolo di Pater patriae 391. Afferrare il senso pieno di quell’evento è possibile grazie al resoconto di Svetonio: Svet. Aug. 58.1-2: Patris patriae cognomen universi repentino maximoque consensu detulerunt ei: prima plebs legatione Antium missa; dein, quia non recipiebat, ineunti Romae spectacula frequens et laureata; mox in curia senatus, neque decreto neque adclamatione, sed per Valerium Messalam. Is mandantibus cunctis: “Quod bonum” – inquit – “faustumque sit tibi domuique tuae, Caesar Auguste! Sic enim nos perpetuam felicitatem rei p. et laeta huic precari existimamus: senatus te consentiens cum populo R. consalutat patriae patrem”. [2] Cui lacrimans respondit Augustus his verbis (ipsa enim, sicut Messalae posui): “Compos factus votorum meorum, P. C., quid habeo aliud deos immortales precari, quam ut hunc consensus vestrum ad ultimum finem vitae mihi perferre liceat?”;
num cessa di essere quell’aspirazione etico-politica ciceroniana per diventare con Augusto un’ideologia. Che si preparasse un ancoraggio solido all’ideologia repubblicana lo rivela anche la difesa di Catone acerrimo nemico di Cesare condotta da Augusto. Il tema è rappresentato efficacemente in Macrob. sat. 2.4.17: Non est intermittendus sermo eius, quem Catonis honori dedit. Venit forte in domum in qua Cato habitaverat. Dein Strabone in adulatione Caesaris male existimante de pervicacia Catoni ait: ‘Quisquis praesentem statum civitatis commutari non volet et civis et vir bonus est. Anche in un testo di un autore tardo come Macrobio, si conservano bene le coordinate ideologiche repubblicane tra cui uno dei cardini, ossia il vir bonus, quale modello dell’ideale classe di governo ciceroniana. Sul passo si veda pure F. COSTABILE, Atene e Roma. Alle origini della democrazia moderna e la tradizione romanistica nei sistemi di Civil Law (a cura di F. Costabile), Torino 2016, pp. 29 s., per il quale però il passo dimostrerebbe ancora una volta il cinismo di Augusto. Cfr. G. PUGLIESE CARRATELLI, Auctoritas Augusti, cit., pp. 29 ss. 390
F. CANCELLI, Res publica-princeps, cit., p. 69. Cicerone, nell’ultimo suo anno di vita, sarebbe tornato a qualificarsi princeps cum multis: Cic. ad fam. 10.6.3; 12.24.2; ad Brut. 2.1.2; phil. 4.1.1; 4.6.16. 391 Già riconosciuto parens patriae da Cicerone (phil. 13.11.25), sottolineato giustamente da P. DE FRANCISCI, Preannunci del Principato, cit., p. 35.
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da affiancare alle battute finali delle Res Gestae: RGDA 35.1-2: Tertium dec[i]mum consulatu[m cum gereba]m, sena[tus et e]quester ordo populusq[ue] Romanus universus [appell]av[it me p]atr[em p]atriae idque in vestibu[lo a]edium mearum inscribendum et in c[u]ria [Iulia e]t in foro Aug(usto) sub quadrig[i]s, quae mihi ex s(enatus) c(onsulto) pos[it]ae [sunt censuit. 2. Cum scri]psi haec, annum agebam septuagensu[mum sextum]. Quell’ennesimo riconoscimento era pregno di significati, ma certamente trasmetteva con forza l’idea augustea di essere, il princeps, riferimento di tutti e non soltanto di una pars populi né soltanto degli ordines o, ancor meno, di una cerchia di optimates. E non è certo un caso se a chiusura del bilancio autobiografico il principe, con tracimante orgoglio, volle diffondere in tutto l’impero quello straordinario messaggio, anch’esso alla base dell’ideologia imperiale dei secoli successivi e medievali. Difficile costringere in formule definite, e perciò rigide, la complessa costruzione augustea; eppure, anche in conseguenza del fatto indubbio che il regime istituzionale repubblicano fosse davvero il risultato di «una straordinaria combinazione di ossequio alla tradizione e apertura al mutamento» 392, credo sia giusto riconoscere a quella attuata da Augusto il carattere di una ‘transizione morbida’ verso uno status rei publicae che il princeps non esitò a definire felicissimus 393 in una lettera inviata in occasione del suo sessantaquattresimo anno al nipote Gaio, impegnato in operazioni militari in Siria. Augusto nel momento in cui si proclamava erede della paura del nuovo e del discontinuo tipica della più antica mentalità romana 394, tanto da affermare solennemente di non aver mai compiuto nulla contro la tradizione, aveva bisogno tuttavia di ricostruire un nuovo orizzonte e Ateio Capitone, giurista esperto di ius sacrum e publicum, era l’uomo giusto per sedare quella paura e consentire alla felicitas del principe, auctor del novus ordo e garante della rinnovata pax deorum, di riverberare il favore divino su tutti i cives 395.
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Così M. PANI, Augusto e il Principato, cit., pp. 21 s. Gell. n.a. 15.7.3. 394 La richiama A. SCHIAVONE, Ius, cit., p. 135. 395 Sull’utilizzazione da parte dei successori della concezione ellenistica della eÙtuc…a vedi D. FIORE, La felicitas del principe in Plinio il Giovane, in AA.VV., Epigrafia e territorio. Politica e Società. Temi di antichità romane, V, Bari 1999, pp. 205 ss. 393
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14. CONCLUSIONI Siamo giunti alla fine. Da queste pagine sembrerebbe uscirne, se non proprio una riabilitazione, una rivalutazione di Augusto, comunque una ricostruzione buona a confutare quanto, per esempio, nel 1981 Sirago scriveva con un’inusuale ed eccessiva perentorietà filosymeniana: «Mi dispiace per Augusto, ma dopo la Rivoluzione Romana del Syme credo che non si alzerà più nella stima dei posteri. Il “buon Augusto” di Dante aveva riempito d’ammirazione compiaciuta decine e decine di generazioni, per raggiungere l’acme degli applausi osannanti nell’Italia fascista che si riempiva la bocca nell’esaltazione retorica del mito augusteo. Il libro del Syme, analitico, documentato, spietato, che mostra tutte le pieghe dell’“avventuriero senza scrupoli”, ha il merito soprattutto di essere uscito nel 1939 (ma scritto nel 1938) quando il fascismo, alleato al nazismo, stava per scatenare la più orrenda guerra micidiale del mondo moderno, in nome d’un principio a dir poco arcaico, dell’egemonia sui cosiddetti “popoli vecchi”. Sotto tal profilo la Rivoluzione Romana è un testo di coraggiosa denuncia, di avvertimento appassionato ai popoli liberi della bufera che sta per scatenarsi, sull’esempio del più illustre episodio della storia antica. Difatti, resta l’episodio più illustre, sempre degno di meditazione: la libertà civile, in senso democratico, che pur c’era stata per lunghi secoli sia in Grecia che in Italia e in Occidente, con tutte le limitazioni dei tempi, fu soppressa per sempre. Il Syme spogliava Augusto di tutto il retoricume che l’interessata cultura ufficiale da Dante in poi aveva accumulato sul “fondatore dell’impero”» 396. Forse qualcun altro, in queste stesse pagine, scorgerà una profonda influenza di Gugliemo Ferrero, fautore dell’opposta tesi della piena restaurazione repubblicana. Oltre a quanto esposto nel suo trattato, immeritatamente oscurato in Italia, non bisogna dimenticare che in un libriccino stampato nel 1925 dal titolo La democrazia in Italia, sfortunatamente subito sequestrato e dunque non distribuito, Ferrero tornava sulle analogie delle violente affermazioni di Cesare e Mussolini, sottolineando tuttavia ancora una volta la profonda differenza che invece distanziava quelle esperienze dalla storia politica e istituzionale di Augusto: «Io non ho mai creduto che il fascismo, dopo aver conquistato il potere, violando la legalità, potrebbe risanare lo Stato; ho sempre creduto che avrebbe aggravato la malattia; non mi sono mai cullato in nessuna illusione, appunto perché il difetto era nel procedimento. [...] Mi venne l’idea di scrivere una lettera aperta al Presidente del Consiglio, pregandolo, poiché mi sembrava non disprezzare come certi suoi colleghi le lezioni di storia, di voler leggere con particolare attenzione non il secondo, ma il quarto e il quinto volume: quelli che raccontano
396 V.A. SIRAGO, L’aspetto economico dell’opera di Augusto, in AA.VV., La rivoluzione romana. Inchiesta tra gli antichisti, Napoli 1981, p. 258.
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la storia della “ricostruzione” di Augusto. La lettera restò nella penna; ma se l’avessi scritta, avrei detto che i tempi richiedevano non un Cesare ma un Augusto, il quale restaurasse lo Stato, incominciando dal principio, ossia dalla legittimità del governo. Poiché questa è oggi la suprema necessità, sulla quale occorre non cessar mai di battere e ribattere, non ostante tutte le ingiurie di chi non capisce o di chi capisce anche troppo. Augusto insegna» 397. Oggi non importa tanto schierarsi con Syme o con Ferrero 398; semmai, credo che sia giunto il tempo di cominciare ad ammettere che l’influenza esercitata dalla retorica e dalla propaganda fascista, capace di spostare repentinamente i riflettori da Cesare su Augusto per assicurare natali illustri alla sgangherata rinascita dell’impero, ha fatto perdere ai moderni, impegnati in una simmetrica ricerca di riequilibrio, la percezione delle concezioni e delle dinamiche politiche e delle forme istituzionali degli ultimi decenni repubblicani, su cui ancora occorre indagare più a fondo, tenendo ben distinte, e non invece costrette nelle visioni della contemporaneità, forma e sostanza 399. Luciano Canfora, pure con il suo libro, per la verità più dedicato ad Appiano che ad Augusto, ha continuato autorevolmente a rinnovare la freschezza del parallelismo Augusto-Mussolini lanciato sulla scena storiografica internazionale da un Ronald Syme profondamente impressionato dalle vicende italiane del 1922 e dalla drammatica diffusione dei fascismi in Europa. In quel suggestivo quanto efficace parallelismo i protagonisti dell’antichità e dell’attualità sembravano giocare un’eterna partita pronta a ripetersi nella Storia: così Cicerone-Giolitti che tenta di usare Ottaviano-Mussolini, «ed il giovane e abile demagogo che lascia ai vecchi e sperimentati statisti tale illusione per poi impadronirsi con un colpo a 397
G. FERRERO, La democrazia in Italia, Soveria Mannelli 2000, pp. 83 ss.; sul tema si rinvia al bel saggio di C. SCHIANO, Borgese, Ferrero e la marcia su Roma, in QS 71, 2010, pp. 110 ss.; vedi pure L. POLVERINI, Cesare e Augusto nell’opera di Guglielmo Ferrero, in AA.VV., Römische Geschichte und Zeitgeschichte in der deutschen und italienischen Altertumwissenschaft während des 19. und 20. Jahrhunderts, I: Caesar und Augustus (a cura di K. Christ ed E. Gabba), Como 1989, pp. 277 ss. 398 Sulla visione negativa e antimommseniana di Cesare elaborata da Ferrero e vicina a quella di Eduard Meyer (Kaiser Augustus, in Historia Zeitschrift 91, 1903, pp. 385 ss.) si legga E. GABBA, Cesare e Augusto nell’interpretazione di Ed. Meyer, in RSI 94, 1982, pp. 581 ss.; L. POLVERINI, Cesare e Augusto, cit., pp. 277 ss.; E. NARDUCCI, Cicerone e Cesare nella Grandezza e decadenza di Roma di Guglielmo Ferrero, in ID., Cicerone e i suoi interpreti. Studi sull’Opera e sulla Fortuna, Pisa 2004, pp. 349 ss.; sul clima culturale europeo e sulle influenze reciproche sulle teorie ‘elitiste’ vedi pure il saggio di L. FEZZI, Matthias Gelzer, Guglielmo Ferrero e Gaetano Mosca, in QS 76, 2012, pp. 155 ss. 399 Del tutto condivisibile l’approccio demartiniano, secondo cui: «la storia di una costituzione politica non dovrebbe mai essere soltanto storia delle forme giuridiche, ma dovrebbe essere ad un tempo storia del potere, quindi della classe di governo» (F. DE MARTINO, Una rivoluzione mancata?, cit., p. 30).
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sorpresa di tutto il potere» 400. Eravamo, e siamo ancora, dinanzi a un Syme che ha fatto brillantemente calzare alla vicenda augustea il calco di quel passaggio storico in cui il re d’Italia accoglieva l’usurpatore e gli affidava il 28 ottobre del 1922 l’incarico di primo ministro 401. Eppure, ciò che bisogna evitare è proprio la tentazione di piegare alle visioni moderne quelle antiche. Ma non solo. In questi ultimi decenni una storiografia contemporanea più avvertita e attenta ai documenti aiuta a liberarci anche dei fantasmi del passato e di facili alibi. Grazie alla utilizzazione rigorosa di tutti i materiali disponibili, quei concetti di rivoluzione e colpo di Stato, come abbiamo avvertito all’inizio di questo capitolo, stanno entrando in un cono d’ombra, mentre nuova luce si getta su aspetti sinora oscurati da propaganda e ideologia, accrescendo la consapevolezza che le vicende politiche e costituzionali sono complesse e sovente ingannevoli. E allora, restando alla suggestione conclusiva di queste pagine, cioè al parallelismo Augusto/Mussolini e alle relative marcie su Roma, in conclusione è utile menzionare la recente ricerca di Donald Sassoon, contenuta in un acuminato e godibilissimo libro dedicato all’avvento al potere della cosiddetta rivoluzione fascista iniziata con la marcia su Roma dell’ottobre del 1922, di cui riporto il seguente brano: «La mattina del 30 ottobre 1922 Benito Mussolini arrivò a Roma, non a cavallo, come forse avrebbe vagheggiato inizialmente, ma nel vagone letto di un treno notturno proveniente da Milano, consapevole che re Vittorio Emanuele lo avrebbe nominato presidente del consiglio e gli avrebbe dato l’incarico di formare un governo di coalizione. Mentre il futuro Duce discuteva di strategie con i compagni di viaggio e rifletteva nel suo scompartimento, i suoi sostenitori si avvicinavano alla capitale: alcuni in automobile, altri a piedi, ma soprattutto a bordo di treni speciali, noleggiati con l’aiuto del governo. Era la cosiddetta “Marcia su Roma”, che aveva avuto inizio il 28 ottobre. [...] Accade spesso che coloro che agiscono illegalmente cerchino di procurarsi delle ragioni legali per giustificare quanto fatto. A volte i rivoluzionari insistono sulla legittimità delle proprie azioni, ignorando le scorciatoie che dovettero prendere. Nel caso di Mussolini avvenne piuttosto il contrario. Il Duce volle fingere di aver preso il potere con la forza, di averlo conquistato sul campo di battaglia. Ma la sua ascesa al potere, tecnicamente parlando, avvenne all’interno della legge. Come l’ex presidente del consiglio Giovanni Giolitti spiegò nel discorso di Dronero del 16 marzo del 1924, Mussolini era stato nominato costituzionalmente, aveva prestato giuramento al re e alla Costituzione e presentato il suo programma al parlamento al quale aveva chiesto e ottenuto pieni poteri. [...] Venti anni dopo, nel 1944, mentre il Duce affrontava la sconfitta, [...] ridotto ormai a un pateti400 L. CANFORA, La prima marcia su Roma, cit., p. 72; cfr. ID., Ottaviano e la prima «marcia su Roma», cit., pp. 51 s. 401 Vedi supra CAPITOLO PRIMO, § 1 nt. 17.
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co fantoccio dei nazisti, fuggito dalla prigione nella quale era stato rinchiuso dallo stesso monarca che gli aveva dato l’incarico, Mussolini riconobbe che il fascismo non era salito al potere con una rivoluzione. Una vera rivoluzione, scrisse, avrebbe richiesto un fondamentale mutamento nella cornice istituzionale dello stato, ma questa non era stata nemmeno scalfita dagli eventi dell’ottobre del 1922: “Sia prima che dopo c’era un re”. Aveva dimenticato di aggiungere che il re non gli si sarebbe rivoltato contro se il Gran Consiglio del Fascismo non lo avesse obbligato a dare le dimissioni. Il dittatore era salito al potere legalmente e legalmente ne era stato rimosso, non soltanto da una vecchia istituzione come la monarchia, ma anche da una, il Gran Consiglio del Fascismo, che lui stesso aveva creato» 402. Non occorre commentare, se non appena osservare come a volte sul piano della ricerca storiografica si consolidino luoghi comuni, tanto errati quanto difficili poi da estirpare, perché non sempre i processi e gli elementi genetici necessariamente coincidono con gli sviluppi e gli approdi successivi; e questo vale sia nelle esperienze statali moderne sia in quelle dell’antichità. Avvento al potere e caduta di Mussolini, in buona sostanza, avvennero nelle forme legali, nulla mutò in quel ventennio della preesistente forma dello Stato italiano che rimase una monarchia, archiviata soltanto dopo la seconda guerra mondiale a seguito di un referendum popolare. Ma la differenza tra i due però resta enorme. Il princeps dichiarava di aver agito per restituere rem publicam e in libertatem vindicare, dunque per conservare, ripristinare non abbattere. Invece, il duce condusse teatralmente un falso colpo di Stato nel nome della ‘rivoluzione fascista’. Anche su questo versante è giunto il tempo di riaprire una seria riflessione per rimettere alcune cose al loro posto. E per concludere davvero, appare calzante ricorrere alle parole finali di un saggio di Riccardo Orestano licenziato alle stampe nel 1981, il cui titolo, Rivisitazione di Augusto, ben si attaglia anche a queste pagine, circa l’importanza delle nozioni di fatto normativo, di costituzione materiale, di costituzionalità: «Se c’è cosa anzi a fare un po’ di meraviglia – oggi – è che, dopo quante il nostro secolo ne ha viste, il concetto stesso di ‘costituzionalità’ non sia dissolto e qui ancora ne sia dato liberamente discorrere, anche se in modi mutati e attenuati, con qualche attendibilità e fondamento; e confidando, per il futuro, in buone ‘costituzioni materiali’, ché quelle ‘scritte’ ormai son tutte belle, sovente anche troppo» 403.
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D. SASSOON, Come nasce un dittatore, cit., pp. 9 ss. R. ORESTANO, Rivisitazione di Augusto, in AA.VV., La rivoluzione romana. Inchiesta tra gli antichisti, Napoli 1981, p. 307 [= in ID., Scritti. IV. Sezione prima. Saggistica, Napoli 1998, p. 1976]. Su cui vedi le osservazioni di F. GALLO, L’uomo e il diritto, pp. 215 ss. 403
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342
AUGUSTO E LA RES PUBLICA IMPERIALE
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INDICE-SOMMARIO
INDICE DELLE FONTI
FONTI DI TRADIZIONE MANOSCRITTA CAESAR
AELIUS ARISTIDES Orationes 58
150 nt. 155
215 nt. 106
Epistula ad Ciceronem 9.6A 270 nt. 271
APPIANUS Bella civilia 2.18 3.5.14 3.12.40-42 3.30.115-119 3.43.184-185 3.45.185 3.50-51 3.54-60 3.75.305-76.311 3.82.337-339 3.88.361 3.94.388-389 4.11.54 4.15.58 5.130 5.140
77 199 nt. 56 212 nt. 92 208 nt. 84 202 nt. 64 203 nt. 68 207 nt. 76 206 nt. 75 199 212 nt. 91; 215 nt. 103 213 nt. 98 173 nt. 247 111 112 146 nt. 137 146 nt. 137
Celtica 18
150 nt. 157
AUGUSTINUS De civitate Dei 5.13 12.14 12.20 18.23
De bello civile 1.7.2
284 193 nt. 39 193 nt. 39 142 nt. 122
CASSIODORUS Variae 8.19.5 10.4.8
282 nt. 320 282 nt. 320
CASSIUS DIO Historiae romanae 37.24 39.10.2-3 42-45 43.14.4 43.45.3 45.7.1 45.7.1-2 46.42.2 46.44 46.44-46 47.18.2-5 48.39.2 50.25.3 51.16.3 51.20 51.20.1 51.20.4 52.1-41
132 222 nt. 121 195 nt. 47 245 nt. 196 40 nt. 107; 117 nt. 37 39 nt. 105 125 nt. 63 215 nt. 103 212 nt. 93 212 nt. 92 124 nt. 59 115 nt. 24 115 nt. 30 290 nt. 349 36 nt. 98 124 132 49; 172 nt. 241; 219 nt. 115; 235 nt. 153
344 52.40.1 53.1.3 53.2.5 53.2.6 53.3.1-3 53.4.1-4 53.5.1-4 53.9.6 53.10.3 53.11.2 53.11.5 53.12.1 53.12.1-2 53.12.1-9 53.12.7 53.13.1 53.13.1-7 53.13.1-13 53.16.2 53.16.7 53.16.7-8 53.17.1 53.17.3-4 53.17.10 53.17.11 53.21.3-4 53.32.3 53.32.5 53.32.6 53.35.5 54.1.4 54.2.1 54.6.9 54.10.3 54.10.5 54.12.4-5 54.28.1 55.6.1 55.12.3 56.28.1 56.28.2-3 56.35-41 56.39.2 57.8.2 57.23.5 57.24.1
AUGUSTO E LA RES PUBLICA IMPERIALE
91 nt. 282 95 nt. 294 13 nt. 42; 41 nt. 117; 157 nt. 187; 177 nt. 263; 220 nt. 116; 234; 247 nt. 199 91 nt. 282 23 23 25 26 57; 300 nt. 386 28 91 nt. 282 62 nt. 189; 239 nt. 173; 278 nt. 309 55; 85 81 54 nt. 144 54 nt. 143; 72 nt. 227; 237 nt. 160 81 155 237 nt. 160 134 nt. 95 172 nt. 238; 179 nt. 269; 251 nt. 211 89 73; 88; 97 70 nt. 214 74; 88 281 78 nt. 246 55; 70 nt. 214; 73 nt. 228; 74 74; 89 nt. 280 161 90 90 68 nt. 210 35 nt. 96 85; 237 nt. 162 72 nt. 227; 237 nt. 160 239 nt. 170 72 nt. 227; 237 nt. 160 72 nt. 227; 237 nt. 160 72 nt. 227 282 nt. 316 155 nt. 177 175 nt. 254; 258 nt. 231 95 nt. 294 101 nt. 313 101 nt. 314
CENSORINUS De die natali 21.8
179 nt. 269; 251 nt. 211
CICERO I. ORATIONES
De haruspicum responsis 28.60 94 nt. 289 De lege agraria 2.17.44
83 nt. 261
In Catilinam 3.10.25
223
In Pisonem 3.7 4.9
301 111
In Verrem 2.3.2.10
94 nt. 289
Philippicae 1.11.25-26 1.11.27 2.11.26 3.2 3.2.5 3.5.12 3.15.37-38 3.15.39 4.1.1 4.4.9 4.6.16 5.2.3 5.3.7 5.4.10 5.11.28 5.13.7 5.14.44 5.16.42 5.16.44 5.17.46 5.18.50 5.42-44 6.3.8
208 nt. 84 198 nt. 54 271 nt. 276 197 277 54 nt. 148; 276 206 203 nt. 68 271 nt. 276; 301 nt. 390 54 nt. 148; 58 nt. 173; 256 nt. 227 301 nt. 390 215 nt. 105 209 nt. 85 209 nt. 85 215 nt. 105; 271 nt. 276 54 nt. 148 271 208 215 nt. 105 206; 215 212; 250 nt. 209 284 nt. 329 54 nt. 148
345
INDICE DELLE FONTI
7.2.5 8.7.22 10.11.23 11.8.20 11.12.27 11.12.30 11.13.32 13 13.1.2 13.8.18 13.9.19 13.11.25 13.19 13.20.46 14.2.4
266 nt. 259 266 215 nt. 105 215 nt. 105 215 nt. 105 67 215 nt. 105 136 265 nt. 257 136; 276 nt. 300 136; 276 nt. 300 301 nt. 391 202 nt. 65 136; 276 nt. 300 215 nt. 105
Post reditum in senatu 4.9 94 nt. 289 Pro Balbo 6.16 27.61
146 nt. 137 266
Pro Flacco 23.54 41.104
299 nt. 384 16
Pro Marcello 8.23 8.23-24 9.27
254; 255 268 226; 254 nt. 222; 269
Pro Milone 5.12
178; 248
pro Murena 28.59
16
Pro Plancio 39.93
94 nt. 289
Pro Quinctio 1.9
16; 178; 247
Pro Sestio 39.84 65.13 66.139
94 nt. 289 278 nt. 308 178; 247
Pro Sextio Roscio Amerino 1.22 16
II. OPERA PHILOSOPHICA De amicitia 12.43
227
De divinatione 1.45 2.6
223 269 nt. 267
De legibus 1.4.14 1.5.15 1.7.23 1.15.42 2.4.9 2.12.30 3.3.8 3.6.14 3.7.18 3.10.25 3.12.28 3.14.32 3.18.41
285 287 nt. 336 174 nt. 253 287 nt. 337 259 nt. 238 94 nt. 289 54 nt. 148; 278 nt. 303 299 nt. 384 54 nt. 148 94 nt. 289 268 nt. 264 299 nt. 384 267
De natura deorum 2.24.62 3.1.5 3.5.11 3.15.9
128 nt. 79 271 nt. 278 128 nt. 79 128 nt. 79
De officiis 1.8.26 1.11.35 1.25.85 1.25.86 1.30.108 2.1.2 2.12.42 2.17.60
270 227 270; 278 271 94 nt. 289 299 nt. 384 230 nt. 130 94 nt. 289
De re publica 1.16.25 1.20.33 1.26.41-42 1.29.45 1.34.51 1.42.65 1.43 1.44.68 1.45.69 1.47.71
94 nt. 289; 269; 296 230 271 nt. 277 269 nt. 267; 271 nt. 277 276 nt. 297 269 nt. 267 262 248 94 nt. 289; 262; 272 299 nt. 384
346 2.1.3 2.19.34 2.22.45 2.25.46 2.29.51 2.31-33.55-57 2.51.69 3.25.37 3.31.43 3.33.45 4.10.11 5.1.1 5.1.2 5.3.5 5.5-6 5.6.8
AUGUSTO E LA RES PUBLICA IMPERIALE
263 nt. 250 94 nt. 289 269 nt. 267 277 271 nt. 277; 276 nt. 297 94 nt. 289 265 276 nt. 297 231 229 297 nt. 377 165 224 nt. 125; 229 271 nt. 277 274 271 nt. 277
Somnium Scipionis 6.12 270 nt. 269; 273 Tusculanae Disputationes 2.15 94 nt. 289 2.15.36 232 nt. 135 3.18.41 9
6.1.6 8.15.3 9.7 9.17.2-3 12.51.2 12.53.2 13.4.2 14 14.5.2-3 14.10.3 14.11.2 14.12.2 14.22.2 15.4.3 15.4.4 15.12.2 15.13.4 15.16.2 16.8.1 16.8.2 16.9.1 16.10.1 16.11.4 16.11.6 16.13b.1 16.14.1
226 54 nt. 148; 256 nt. 227 270 nt. 271 226; 269 nt. 268 270 nt. 269 40 nt. 107; 117 nt. 37 40 nt. 107; 117 nt. 37 196 198 199 nt. 58 199 200 nt. 61 198; 199 nt. 56 222 nt. 121 199 nt. 56 200; 298 nt. 378 200 nt. 62 205 nt. 73 197 201 202 201 nt. 63 289 202 201 nt. 63 201 nt. 63
ad Brutum 1.3.1 1.4 1.4a 1.5.4 1.10.3 1.10.4 1.10.5 1.10.6-7 1.15.4 1.15.9 1.15.10 1.15.12 1.16.7 1.17 2.1.2 2.1.2-3
203 204 nt. 70 204 nt. 70; 215 nt. 103 215 nt. 104 215 nt. 103 203 107 nt. 328 210 225 204; 210 107; 224 225 209 nt. 88 204 nt. 70 299 nt. 384; 301 nt. 390 228
ad familiares 1.7.10 1.8.4 1.9.11 1.9.12 1.9.21
16 nt. 52 222 77 nt. 244; 94 nt. 289 264 263
III. OPERA RHETORICA De inventione 1.68 2.166 2.169
174; 230 16 16
De oratore 1.49.216 3.34.138
297 nt. 377 297 nt. 377
Topica 5.28
173 nt. 248
IV. EPISTULAE ad Atticum 1.16.11 2.9.2 4.1.1 4.1.7 4.8.2 4.18 (16.10) 4.18.2
111 16 107 nt. 328 67 226 224 nt. 125 229 nt. 128
347
INDICE DELLE FONTI
1.9.25 2.16.5 5.12.4 5.12.8 6.6.10 6.21.2-3 7.12.1-2 9.2.5 9.9.2-3 9.15.5 9.17.2-3 10.6.3 10.24.6 11.1.6 11.6.3 11.20.1 12.4.1 12.5.3 12.10.4 12.12.3 12.23.3 12.24.2 12.25.4 13.10.2 13.68.2
73 nt. 228 224 221 222 nt. 121 54 nt. 148 227 286 268 228 245 nt. 196 270 nt. 268 271 nt. 276; 301 nt. 390 215 nt. 103 198 nt. 53 299 nt. 384 208 nt. 84 231; 266 nt. 259 276 229 204 nt. 71 224 94 nt. 289; 205; 271 nt. 276; 299 nt. 384 204; 271 228 226; 240
ad Quintum fratrem 1.2.15 224 nt. 125 2.4.5 111 3.5.4 222 nt. 122
CORPUS IURIS CIVILIS Codex 1.17.1pr. 1.27.1.8 1.27.2 6.23.3
97 nt. 301; 287 nt. 338 287 nt. 338 287 nt. 338 88 nt. 278
Const. Deo auctore 7 88 nt. 278; 97 nt. 301 Digesta 1.1.1pr.-2 1.1.7.1 1.2.2.4 1.2.2.47 1.4.1 1.4.1pr. 1.16.1 1.16.8 1.17.1 48.10.1.4 48.22.7.5
271 nt. 279 66 nt. 206 168 291 nt. 355 97 88 nt. 278 75 nt. 233 66 nt. 208 84 nt. 265; 98 83 nt. 262 83 nt. 262
Institutiones 1.2.6
88 nt. 278
Novellae 69.4.1
287 nt. 338
DE REBUS BELLICIS (ANONIMUS)
frg. 14 (ed. Watt) 300
21.1-2
CODEX BERNENSIS
DIODORUS SICULUS
109, fol. 136
154 nt. 171
174 nt. 249; 231 nt. 131
Bibliotheca historica 2.55-60 110 nt. 6
CODEX VATICANUS GRAECUS DIONYSIUS HALICARNASENSIS 1298
279
CORNELIUS NEPOS
Antiquitates romanae 2.70 35 nt. 97 2.71 35 nt. 97 3.32 35 nt. 97
Vitae Atticus 16.4
EDICTUM ROTHARI 299
386
164
348
AUGUSTO E LA RES PUBLICA IMPERIALE
ENNIUS Euhemerus 91
HORATIUS
171
EPIGRAMMATA BOBIENSIA 39
124
EUTROPIUS Breviarium ab urbe condita 7.6.1 116 nt. 32
Carmina 3.3.10-12 3.5.1-4 3.5.2-2 3.6 3.24.35-36 4.5.30-37
134 nt. 97 132 123 nt. 54 110 nt. 5 165 nt. 206 170 nt. 231
Epistulae 2.1.15-17 16.42-64
132 nt. 89 110 nt. 6
IOANNES MALALAS FESTUS GRAMMATICUS De verborum significatu cum Pauli epitome (ed. Lindsay) s.v. «Augustus», 2 33; 179; 251 s.v. «Roma», 330 33 s.v. «Romam», 327 33
Chronographia 10.298
141 nt. 122
IOANNES STOBEUS Anthologium 2.7.150-151
287 nt. 340
FLORUS Epitoma 2.34
IOSEPHUS FLAVIUS 179 nt. 269; 251 nt. 211
Antiquitates Iudaicae 19.224-225 288 nt. 341
GAIUS Institutiones 1.3 1.5
ISIDORUS HISPALIENSIS 295 e nt. 369 88 nt. 278; 97
Etymologiae 5.1.3 9.3.16-17
168 34
GELLIUS Noctes Atticae 4.10.5-8 4.10.7-8 10.20.2 10.20.5-6 13.12.1-2 15.7.3
IULIUS OBSEQUENS 100 nt. 309 293 nt. 366 100; 294 294 250; 292 nt. 360 302 nt. 393
Liber prodigiorum 68 39 nt. 105 68.3-4 125 nt. 63 70.1-23 113 nt. 16
IUVENALIS GEOGRAPHI LATINI MINORES 15
149
Satirae 10.25
203 nt. 69
349
INDICE DELLE FONTI
LACTANTIUS
OROSIUS
Divinae institutiones 7.24 142
Historia adversus paganos 6.20.6-7 139 6.22.1-2 140 6.22.5-7 140
LIVIUS OVIDIUS
Ab urbe condita 1.16.7 1.19.1 1.21.5 1.27.7 4.20.7 39.41.4 42.15.3
128 168 170 nt. 228 35 nt. 97 134 nt. 93 255 nt. 224 94 nt. 289
Periochae 117 119 119.6-7 136 141.4
203 nt. 68; 209 214 214 nt. 99 146 nt. 141 146 nt. 141
frg. 55 (apud Apon. in canticum canticorum 12) 148 nt. 145
LUCANUS Pharsalia 10.358-359
116 nt. 32
MACROBIUS Saturnalia 1.15.21 2.4.11 2.4.17 2.4.31 3.9 3.17.14-15 7.3.11
241 nt. 180 131 nt. 84 301 nt. 389 154 nt. 172 113 nt. 19 116 nt. 32 293 nt. 364
MARTIALIS Epigrammata 11.20
154 nt. 170
Carmina 1.2.50 1.21.14
92 92
Fasti 1.13 1.149-150 1.587-590 1.589 1.607-608 1.719-722 2 2.9-10 2.130 4.949 5.145
152 141 nt. 121 180; 251 180 nt. 272; 258 nt. 232 180; 251 153 92 151 139 176 nt. 258 170
Methamorphosen 15.826-828 15.831-836 15.832-833 15.832-839 15.858-870
116 nt. 32 46 nt. 126; 49 168 171 133
Tristia 2.54-58 4.4.19-20
133 nt. 92 132
PANEGYRICI LATINI 7(6).2.4
166 e nt. 209
PLINIUS MAIOR Naturalis historia 2.23.93-94 2.28.98 3.3.16-17 3.6.46
125 39 nt. 105; 125 nt. 63 148 nt. 148 149 nt. 151
350 3.7.49 14.28.148
AUGUSTO E LA RES PUBLICA IMPERIALE
149 nt. 151 115 nt. 27
PLINIUS MINOR Panegyricus Traiani 67.3 181 nt. 277 67.5 181 nt. 277 67.7 181 nt. 277 94.1 181 nt. 277
PLUTARCHUS Vitae parallelae Antonius 24.4 24.5 26.4-5 54.7 75.3 80 81
114 nt. 22 114 nt. 26 114 nt. 23 115 nt. 28 144 nt. 130 290 nt. 350 290 nt. 352
Brutus 22
288 nt. 342
Caesar 22
150 nt. 157
Cato minor 45 51.2-3
76 nt. 239 150 nt. 157
Cicero 45-46 45.1-2 45.5 45.5-6 46.5 49.5
196 283 nt. 321 215 nt. 103 211 283 nt. 322 283 nt. 324
Demosthenes et Cicero 3.1 284 nt. 329 Crassus 13.3 16 37.2
222 nt. 121 76 nt. 239 150 nt. 157
Pericles 16.3
297 nt. 377
Pompeius 53
76 nt. 239
SENECA PHILOSOPHUS Apokolokyntosis 10
134 nt. 98
De beneficiis 2.20.1-2
253
De clementia 1.9.1 1.9.1-3
184 nt. 4 284 nt. 327
De consolatione ad Marciam 4.3-5.6 290 nt. 351 Naturales quaestiones 1.2.1 39 nt. 105; 125 nt. 63 7.17.2 125 nt. 63
SERVIUS GRAMMATICUS Ad Aeneidem 1.287 1.292.25-28 6.790 8.861
125 nt. 63 34; 116 125 nt. 63 125 nt. 63
In Vergilii eclogas 9.46 125 nt. 64 9.47 125 nt. 63
STRABO Geographica 3.4.20 17.3.24-25 17.3.25
SVETONIUS De vita Caesarum
81 155 81; 95 nt. 296; 104 nt. 320
351
INDICE DELLE FONTI
Iulius (Caesar) 11 24.3 76.1-3 88 Augustus 7.1-4 7.4
83 nt. 261 150 nt. 157 245 nt. 196 125 nt. 63
18.2 21.7 26 27.1-2 28.1 28.1-4 28.3 31.5 35.1-5 35.4 40.4 58.1-2 58.1-3 60 70 85.1-2 85.3 89.1-2 89.2 89.3 94.1-12 95 95.1 100.5
32 128 nt. 79; 179; 251 ntt. 211-212 83 146 89 284 nt. 328 148 nt. 146 6 nt. 21; 46; 158; 218 41 nt. 119; 241; 246; 271 132 280 nt. 312 281 49; 64 301 20 nt. 64 172 nt. 237 175 nt. 255 153 nt. 169 154 nt. 173 288 nt. 343 289 nt. 344 153 nt. 168 129 125 nt. 63 39 nt. 105 128 nt. 80
Claudius 11.1.1
288 nt. 341
TACITUS Annales 1.2.1 1.8.5 1.9.5 1.10 1.10.1-4 1.33.2 2.36.1 2.43.1 3.28.2
15 nt. 47; 255; 259 nt. 237 181 nt. 276 79; 87; 92; 298 184 nt. 4 194 12 28 nt. 78 68 13; 41 nt.118; 157 nt. 188; 177; 220 nt. 116; 234; 246
3.53.3 3.70.3 3.75.1-2 6.30.3 15.74.3
91; 275 291 292 12 124 nt. 60
THEOPHILUS Institutionum graeca Paraphrasis 1.2.6 88 nt. 278
THUKYDIDES 1.139 2.65.9
298 nt. 380 296 nt. 375
TIBULLUS Carmina 1.10.45-50
153
VARRO De lingua latina 7.26-27
36 nt. 98
VELLEIUS PATERCULUS Historia romana 2.30.6 2.66 2.59.4 2.59.6 2.66.2-5 2.88.2 2.89.3 2.89.4 2.91.1 2.93.1 2.99.4 2.124.2 2.124.3 2.125.1-2 2.126.4
298 284 nt. 328 288 nt. 342 39 nt. 105; 125 nt. 63 299 152 nt. 165 44; 63; 160; 252; 254; 256 160; 254 nt. 221; 256; 298 20; 33; 147 nt. 142; 179 nt. 269; 251 nt. 211 12; 178 nt. 265; 247 nt. 201 13 nt. 40 299 134 nt. 96 254 nt. 220 298 nt. 381
352
AUGUSTO E LA RES PUBLICA IMPERIALE
VERGILIUS Aeneis 6.809-812 6.851-853 8.678-706 8.685-688 8.688 6.791-794
168 150 144 nt. 130 116 nt. 32 144 nt. 131 120
Eclogae 4.4-14 4.6.12 4.6-17 9 9.47-49
142 nt. 123 141 nt. 121 120 nt. 44 126 126 nt. 70
ZOSIMUS Historia nova 2.4.2
293
FONTI EPIGRAFICHE E PAPIROLOGICHE ANNÉE ÉPIGRAPHIQUE DEGRASSI 1894, 117 1940, 68 1964, 218a 1974, 417 1984, 367 1987, 896 1990, 865 2006, 440 2007, 1228 2008, 1341
123 nt. 53 66 261 nt. 244 261 nt. 244 261 nt. 244 261 nt. 244 261 nt. 244 261 nt. 244 261 nt. 244 261 nt. 244
Inscriptiones Italiae XIII.2 45; 83 nt. 259; 241 ntt. 181182 DITTEMBERG Sylloge Inscriptionum Graecarum p. 442 n. 760 — 40 nt. 107; 117 nt. 37
EDICTA AUGUSTI AD CYRENENSES CORPUS INSCRIPTIONUM LATINARUM I.214 144 nt. 132 I.231 (= InscrIt XIII.2) 45; 241 ntt. 181-182 III.22 261 nt. 244 III.6626 261 nt. 244 III.13578 261 nt. 244 IV.6893 39 VI.873 (= ILS 81) 40 nt. 108; 47; 135 nt. 100; 241 nt. 184 IX.417 261 nt. 244 IX.4191 18 nt. 56 X.516 261 nt. 244 XI.4781 261 nt. 244 XII.4333 (= ILS 112) 123 nt. 53
III, lin. 58 V, linn. 84-90
65 282
FIRA III2 (Laudatio Turiae) 69 — 40 nt. 108 linn. 25-27 135 linn. 35-36 45
FRAGMENTUM NICOPOLIS (ZPE 24, 1977) — 145 nt. 137
INSCRIPTIO KYME (ed. Pleket) —
58; 62; 239
353
INDICE DELLE FONTI
INSCRIPTIONES GRAECAE XII.2.202 (= ILS 8876) 146 nt. 137
32.3 34 34.1
INSCRIPTIONES LATINAE SELECTAE 81 112 617 739 8876 9459
40 nt. 108; 135 nt. 100; 241 nt. 184 123 nt. 53 261 nt. 244 261 nt. 244 146 nt. 127 146 nt. 137
34.1-2 34.1-4 34.2 34.3 35.1 35.1-2
93; 94 6; 9; 13; 14; 15; 28; 29; 158; 246 6; 7; 11; 12; 16; 20; 25; 29 e nt. 86; 30; 31; 41; 43; 114; 136; 158; 177; 178; 234; 236; 242; 243; 247 235 178; 248 94 29; 36; 54; 114; 136; 184; 236 21 302
SEG (= OGIS II.458) LEX DE IMPERIO VESPASIANI —
101
IV.490 XVIII.555
37; 119 58
RES GESTAE DIVI AUGUSTI (ed. Scheid)
SENATUS CONSULTUM DE CNEO PISONE PATRE
1.1 1.1-4 1.3-4 3.2 4.4 5.1 5.1-2 5.3 6.1 6.1-2 7.2 7.3 8.1 8.5 9.2 10.1 10.2 13 19.1-2 20.4 25.2 27.1 28.2 29.2 30.1
— linn. 30-32 linn. 34-37
138; 211; 276 183 14 149 70 20 90 237 nt. 157 21; 89; 163 nt. 200 163; 244 93; 94; 296 131 21 41; 49; 96; 101; 137; 163 20 35; 36; 131; 143 90 92; 94; 122 nt. 49; 133 132 nt. 90 133 nt. 90 16; 103 nt. 318 83 41; 137 146; 147 nt. 144 93; 94
66; 156; 238 68 nt. 210; 98 68; 98
SENATUS CONSULTUM CALVISIANUM linn. 78-79 65
TABULA SIARENSIS — linn. 15-16
99; 156
TESSERA PAEMEIOBRIGENSIS —
50; 71; 155; 238
P. KÖLN (VI.249) — linn. 7-11 linn. 13-14
14; 62; 156; 239 61 27 nt. 75
354
AUGUSTO E LA RES PUBLICA IMPERIALE
MONETE AUREUS AUGUSTEO (28 A.C.) — 6; 42
ROMAN IMPERIAL COINAGE I 37a 340
AUREUS DI LENTULO (12 A.C.) — 47
FONTI GIURIDICHE MODERNE CORTE COSTITUZIONALE 148, 151, 198 – 2012 231 nt. 133
127 e nt. 72 127 e nt. 72
INDICE DELLE FONTI
355
356
AUGUSTO E LA RES PUBLICA IMPERIALE
INDICE DELLE FONTI
Finito di stampare nel mese di maggio 2018 nella Stampatre s.r.l. di Torino Via Bologna, 220
357
358
AUGUSTO E LA RES PUBLICA IMPERIALE