Archivio Spinoza. La verità e la vita 8888363297, 9788888363295

"'La verità pubblica e Spinoza' è il documento di un incontro in cui si compendiano per me molti cammini

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Italian Pages 319 [322] Year 2004

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Archivio Spinoza. La verità e la vita
 8888363297, 9788888363295

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SPINOZIANA Collana diretta da Mino Chamla, Roberto Diodato e Vittorio Morfino 5

Carlo Sini

Archivio Spinoza La verità e la vita

Edizioni Ghibli

Progetto grafico di Enrico Delmastro Prima edizione marzo 2005 Edizioni Ghibli sito internet: www.edizionighibli.com

© Associazione culturale Mimesis via Alzaia Naviglio Pavese, 34 - 2013 6 Milano telefax (39) 02/8 9403935 per urgenze (39) 347/4 2 54976 e-mail: [email protected] Sito internet: www.mimesisedizioni.it

INDICE

Avvertenza

l.

Il corpo di Spinoza

p. p.

L'Altro e l'incontro

p. p.

IV. v. VI.

Il mondo La contingenza

p. p.

Il doppio senso di verità ed errore

VII.

Il pensiero abissale

IX. x.

Il finito

p. p. p. p.

II. III.

VIII.

Continuità, differenza, emergenza

L'ambiguità dell'esperienza

La piramide e il papiro

L'infinito XI. XII. La sostanza XI II. Parole e cose

XVI. L'attributo xv. Il modo Epilogo

7

9 35 51 75 97 117 13 1 145 163

p. 177

p. 203 p. 2 17 p. 239

p. 2 59 p. 2 7 5 p. 303

7

AVVERTENZA

La figura dell'archivio, così come c ompare nel testo, figura del limite e del suo paradosso inevitabile, mi ha a lungo affascinat o. Immaginando di porre mano ai materiali di un corso universitario su Spinoza risa ­ lente al 199 1-92, sup ponevo di costruire la finzi one le tteraria di un vero e pro prio archi vio nel quale si sarebbe immaginat odi raccogliere talu­ ni testi e libri di Spinoza e dei suoi interpreti, le mie carte preparatorie, gli abb ozzi e le registrazioni delle lezioni, la l or otraduzi one in dispen­ sa, gli a ppunti collaterali, gli sviluppi e i perc orsi accennati ma non con clusi e così via. L''archivi o' diveniva cos ì, al tempo stesso, una meta fora della vita di S pinoza e dei su oi 'resti' e poi di ogni vita, c om­ presa la mia, in quanto vita trapassante e trapassata nei suoi segni e documenti pubblici : verità pubblica imbalsamata e insieme differita all'occasione della s ua potenziale rinascita in altre vite, secondo quel destino che fa della verità un evento transitante nei segni pub blici del­ l'errare e dell'errore. Questo immaginare era tenuto desto e via via s ol­ lecitato dalle ric orrenti richieste di rendere pubblico, al di là del conte­ . sto universitari o, e cioè disponibile in un libro, un c ors odi lezioni che ha indubbiamente g odut odi un consenso e di un interesse molto par ­ ticolari. La lusinga della cosa si sc ontrava però c on la difficoltà della sua realizzazione e con l'esigenza, sempre disattesa, di trovare un tempo idone oall'impresa; e l'impresa stessa poi, lungamente fantasti­ cata, c ominciò ad accom pagnarsi a dubbi di vario genere, a comincia­ re dalla presumibile e sconsigliabile artificiosità del suo intento f orma­ le originario. La cosa stava a questo punt o, quando i Curatori della presente c ollana di studi spinoziani mi riv olsero l'invit o, g eneroso e molto lusin ghiero, di pubblicare in questa sede le Dispense del corso, rive­ dute e c Orrette. Mi resi conto allora che questa era la s oluzione miglio­ re. Il corso su La verità pubblica e Spinoza era il documento di un

Carlo Sini

8 ·'

incontro in cui si compendiavano per me molti cammini passati e futuri; sotto il segno del rapporto tra la verità e la vita, tra la mortali­ tà in figura e l'eternità in evento. Spinoza è appunto qui la libera occasione di tutto ciò: non l'oggetto di uno studio sistematico e filolo­ gico, ma l'esempio di una vita filosofica e dell'abito stesso, ricorrente e rinascente, della filosofia. E così ho lasciato al testo la sua originaria e spontanea e.spressio­ ne, il modo del suo stile, che è esso stesso l'esercizio di un archivio in azione e quindi, come spero, il migliore esempio della esperienza della verità transeunte. E, con l'approvazione dei Direttori della prestigiosa collana, che ringrazio, ho mantenuto la parola 'archivio' nel titolo del libro; non futile espediente, mi auguro, ma memoria di un atto man­ cato che è insieme segno di un amore inesprimibilmente espresso : per Spinoza, per la filosofia - il più grandioso e fruttuoso atto mancato che io conosca.

c. s.

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I

IL CORPO DI SPINOZA

Un corso di teoretica che si presenta col titolo La verità pubblica e Spinoza non è propriamente un corso su Spinoza, e non è nemmeno un corso sulla verità pubblica. Assumiamo dapprima il titolo come un'in­ dicazione di cammino: c'è un cammino da fare aperto da questo titolo e potremmo per esempio tradurne il senso così: « La verità pubblica che concerne Spinoza». Ecco che però si affollano subito possibilità di fraintendimento e di pregiudizio, perché naturalmente noi siamo dentro una tradizione di lavoro accademico: entro la tradizione dell'enciclopedia delle scienze, per dire così, e in teoretica nop possiamo dare per scontata questa tradi­ zione. E allora ho il timore, molto motivato, che traducendo il titolo nel­ l'espressione che ho usato testé: « La verità pubblica che concerne Spinoza», ognuno di voi, per una sorta di riflesso condizionato, di abitu­ dine culturale, ognuno di noi, sarebbe portato a pensare che il corso rac­ colga una sorta di dossografia su Spinoza: quali sono le opinioni pubbli­ che che concernono Spinoza, cosa si dice pubblicamente di Spinoza. Se vogliamo dare a questa espressione una maggiore incisività accademica potremmo intendere questo titolo come se fosse una storia della storiografia filosofica su Spinoza. Noi però abbiamo parlato di un'indicazione di cammino, il che vuoi dire che c'è un cammino da fare, e in un cammino, essenzialmente, si tratta di incontrare esperienze, non dossogtafie; esperienze, poi, di pen­ siero filosofico, di pensiero filosofico in senso teoretico. Già, ma che vuoi dire filosofico e che vuoi dire teoretico? Devo invitarvi a fare in pro­ posito una epoché, come diceva Husserl, a mettere tra parentesi quello che ognuno di noi crede che significhi 'filosofico', oppure 'teoretico'; altrimenti nessun cammino, nessun'esperienza. È il cammino che ci deve in qualche modo mostrare che cosa significa 'filosofico' e 'teoreti­ co': siamo qui per questo, non per apprendere qualcosa su Spinoza o sulla verità pubblica; questo è secondario, ovvero lo avremo in sovrap-

lO

Carlo Sini

più, come diceva Pascal. Qui non è insegnata la 'filosofia teoretica', anche se questo può sembrare a prima vista un paradosso; qui non è insegnata perché non la si può insegnare: la filosofia teoretica non è una 'materia' del curriculum, anche se si presenta organizzativamente così, anche se ci sono delle ragioni pratiche, delle ragioni ragionevoli, che la configurano così. Io però sarei assolutamente in errore e vi condurrei in errore, se ritenessi di potervi insegnare quella materia che è la filosofia teoretica. Se qui si tratta di un'esperienza di pensiero, se·silprocede addirittura da un dubbio su ciò che significhi 'teoretico', è evidente che io non ho nulla da insegnarvi, nel senso di una situazione codificata da esporre semplicemente alle vostre orecchie e alla vostra pazienza. Diciamo così: la filosofia teoretica è una disciplina, ma disciplina, appunto, non nel senso di materia: è una disciplina di pensiero,. è un esercizio. Detto tutto questo voi vi chiederete probabilmente: «Sì, ma perché proprio Spinoza e perché la verità pubblica, se le cose stanno così? Che nesso c'è tra Spinoza e quella disciplina di pensiero di cui noi tente­ remmo di fare insieme esperienza? E perché muovere proprio dalla questione della verità pubblica? » Anche queste domande devono evidentemente acquistare un senso nel cammino e non sarebbe il caso che io tentassi ora di rispondere diret­ tamente a questi perché. Posso solo indicare alcune condizioni prelimi­ nari di carattere contenutistico e di carattere metodologico. È evidente che un corso di teoretica non nasce da niente; nasce da cammini precedenti e per· questo ho immaginato, come supporto alla vostra preparazione in itinere (ci terrei a che voi non vi lasciaste sfuggire questo suggerimento, cioè non da fare alla fine, ascoltato il tutto, ma da accompagnare nel cammino ), due appoggi che sono due testi che in qual­ che modo riassumono il cammino fatto recentemente da questa cattedra. Il primo testo è I segni dell'anima, edito da Laterza, nel quale è sostan­ zialmente trascritto un corso entro il quale emefg� il problema della veri­ tà pubblica a partire dal problema della verità privata. Il secondo testo è Etica della scrittura, edito dal Saggiatore: esso riprende il cammino degli ultimi due anni. Questo testo vi aiuterà molto a comprendere ciò che qui può essere mostrato ma non dimostrato, può essere alluso, ma non total­ mente analizzato (altrimenti rifaremmo quei corsi, come è chiaro).

Introduzione

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P oic'è l'Etica di S pin oza ; di essa sa rà il n ost rocam min oa suggerir ­ vi che tip odi le ttura proficua se ne p ossa fare, da parte di ognuno di v oi. C oerentemente c on quell oche h o detto sin qui, l'Etica di S pinoza non c ostitu irà pertanto un test od'esame. Vi suggerisco d ileggerla, e questa è un'altra c osa; c red oche sa rà fruttuos o pe rv oile ggerla, fatta quest'espe­ rie nza. Se vo rrete, ne parleremo all'esame. Questo per di re e ribadire: n on è un c ors osu Spinoza, eppure Sp n i oza, certo, c'entra per qualcosa. O ra d obb iam odare un avve rtiment odi metodo. S ipa rla di cammi­ n oe il c amm n i o è anzitutt ofatt oda colui che vi pa rla ; ma che s g i n fi i ca? D irei che una p ci c ola ri flessi one prelim n i are su questo punt os ia essen­ z ai le . Non è che ch ivi pa rla ti ra sem plicemente il cammino per tutti gli altri, c ome si dice nel ci clismo. Non è in quest o senso che d obbiam o intende re la c osa, pe rché n i quest o senso camm n i a un o s ol o. Quindi dici amo che chi pa rla è semplicemente c olui che incarna per tutt i n i s ie ­ me una esemplar ti à di cammino; ma è m olt o m i portante che colu iche ascol ta sa ppia bene qual è il suo rUolo, perché se no l'eserc iz o i di pens ie­ ro non comincia; esso si riduce semplicemente a un esercizio di trasmis­ sione del sa pere. Ma la teo retica n on è trasm si s ione del sa pe re. N on è un ese rcizi odel sapere che com porti una attenz o i ne passiva os pecializzata. Qui è m olto importante li tema dell'ascolt o: sa rà affar m io parlare n i man ei ra esemplare, se ce la fa rò ; ma è affar v ost roasc oltare in man iera attiva. Quest osi gnifica che l'attenz ione dell'asc olt odeve r icevere dall'e­ semp ioun ostim ol oa fare lei il cammin odi pens ei r o, ci oè a rifarl oda sé, a rifa rl o per sé. Se l'asc olto n on fa questo, perde temp o, perché qu inon im pa re rà niente e perché qui in fondo non c'è pr opri oniente da i mpara­ re: non uscirem osa pendo nozi onisticamente ' di più' sul pian odella veri­ tà pubbli ca ci rca S pinoza o circa la ve rità pubblica stessa. Sa rà tutt'alt ro ciò che inc ontre rete, ma l o n i c ont re rete se vi mettete in un atteggiamen­ to attivo . Cosa vuol dire? Sì, l'attenzi one, c erto, questo va da sé, ma anche qualcosa di m olt opiù i mportante : bisogna a nzitutto c om prende re di che natu ra è la trasmissione or ale. La trasmissi one orale n on è la trasm si si o­ ne scritta. La t rasmissione e la tradiz ione orale è una delle forme portanti unive rsali della filosofia. Non ci sa rebbe filosofia senza la pratica della trasmissione orale. Noi stiam o facendo qui quello che h annofat to per 2 500 a nni migl iaia e migliaia di pers one, t ra le quali c'erano anc he Plat one, Arist otele, S. T ommas o, Cartesi oeccete ra, eccetera. La tra dizio -

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ne orale ha delle sue caratteristiche peculiari per cui non c'è tradizione orale, non c'è pratica dell'oralità filosofica, se non a partire dal consenso.

Io pretendo il vostro consenso. Cosa vuoi dire? Non è che pretenda che

mi diate ragione, ma pretendo che nell'acquisizione del messaggio orale, del rapporto orale, voi sentiate assieme a me, cioè partecipiate nell'a­ scolto all 'elaborazione di un'esperienza che è di tutti e di ciascuno. E

in

questo senso chiedo che vi mettiate dal punto di vista del discorso che .si fa, che si viene facendo insieme. Il momento critico avrà tutto il suo

tempo. Il momento critico, che è altrettanto richiesto ed altrettanto importante, accade nella riflessione personale, accadrà appropriatamen­

te sullo scritto, quando queste parole saranno scritte; allora lì farete l'e­

sperienza dell'altro grande braccio portante della tradizione filosofica:

cioè la scrittura, la pratica della scrittura. Lì sta al suo posto il soggetto

critico, il soggetto che non consente, che mette tra parentesi e che vuole assumere una collocazione critica rispetto a ciò che gli viene detto.

Questo è appropriato alla pratica della scrittura, ma non è appropriato

alla pratica dell'ascolto; nella pratica dell'ascolto bisogna accogliere la

parola, mettersi dal punto di vista della parola, fare tutti gli sforzi possi­

bili per consentire con questa parola, per poi fare tutti gli sforzi possibili per distruggerla quando è scritta, per distanziarla, per porla; appunto, in una dimensione di analisi. Critica vuoi dire appunto questo.

«La verità pubblica-e Spinoza»: di cosa parliamo all'inizio? Di quel­

la 'e'. Dell'elemento merio appariscente del titolo. Che significa quella

'e'? A prima vista si potrebbe rispondere così: quella verità pubblica che concerne Spinoza, ma abbiamo già visto che non è questo il tipo di cam­

mino che vogliamo fare. La prima riflessione da fare è che d'altronde Spinoza è lui stesso un nome pubblico, una verità pubblica. Quella 'e'

congiunge due cose molto simili: la verità pubblica e quella manifesta­

zione di verità pubblica che è la parola 'Spinoza'. Spinoza è un nome

g

pubblico come Napoleone, come Fichte, He eJ, Beethoven; oppure

come la rivoluzione francese. Certamente noi'"non sappiamo nulla di

Spinoza in carne ed ossa: Spinoza è un oggetto, un oggetto della nostra

comune cognizione; non c'è nulla di soggettivo dietro questo nome, poi­ ché Spinoza

è morto da più di tre secoli. Nessuno può testimoniare

direttamente e in fondo nemmeno indirettamente della sua vivente pre­ senza. Spinoza è un oggetto contenuto nella verità pubblica.

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Allora il corso intende interrogarsi su ciò che la verità pubblica

dice di quel suo aspetto particolare che è Spinoza? No, non esattamen­ te questo, l'abbiamo già visto: non facciamo storia della storiografia,

non facciamo una storia della fortuna di Spinoza. Infatti anche la veri­

tà pubblica è appunto una nozione pubblica e se noi procedessimo accettandola passivamente, non ne faremmo alcuna esperienza, solo

un compendio di notizie.

E allora qui accade una prima piccola svolta,

che è una di quelle svolte che poi troveremo ancora nel cammino, le

quali hanno, se si vuole, una natura sgradevole, per cui o la si imboc­ ca, o è meglio lasciar lì. O si capisce una determinata svolta, o, dopo,

tutto diventa incomprensibile.

La svolta è semplicissimamente questa: che in filosofia, sollevata

una domanda, non si tratta affatto di rispondere. Non è questo il pro­

blema. La questione non va risolta con proposizioni che dicono «la

ver;ità pubblica è questo, Spinoza è questo e quella 'è' che li congiunge ha questo e questo senso». In filosofia ciò che è davvero in questione non è il contenuto della questione, ma la questione stessa, il questio­

nare stesso : è questa stessa pratica che fa questione. Non la domanda,

non ciò che quella domanda sembra voler pretendere, ma piuttosto il

domandante, colui che domanda. Se non vi è questo rimbalzo, questa riflessione, questo ritorno della domanda su se stessa e del domanda­ re sul suo domandare, se non si attraversa questa soglia, tutto quello

che si dice sarà interessantissimo e importantissimo per i destini del­

l'uomo, e tuttavia resterà totalmente insignificante per la filosofia.

Resterà fuori da un'esperienza di pensiero che possa qualificarsi come

filosofica, e in particolare come teoretica. Se non si afferra questa soglia, si resta fuori dall'ambito della filosofia, il che può capitare fre­ quentemente parlando

di filosofia.

E allora proviamoci a tradurre il titolo e tutte le riflessioni che

abbiamo fatto su questo titolo nell'ottica di questa piccola grande svol­ ta. Come suoneranno sin qui le nostre domande, le nostre questioni?

Semplicemente così: come è data a me ('me' vuoi dire proprio io, l'io di ognuno di noi) la verità pubblica 'e' Spinoza? Come partecipo di que­

sta verità pubblica? Ecco la domanda che rimbalza su di sé, che pone

in questione sé. Spinoza è un nome pubblico come Napoleone, come la rivoluzione francese; se uno mi chiede: «cos'è la rivoluzione francese?»

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qualcosa gli dirò; se uno ci chiede: «cos'è Spinoza? » ognuno di noi qualcosa dirà e quel che dirà testimonia della sua partecipazione entro la verità pubblica, entro un sapere comune. Tutti sappiamo, bene o male, pronunciando questo nome pubblico, di che si tratta. E allora la domanda rimbalzata si potrebbe esprimere nei termini di una espres­ sione alla Montaigne: «che so io di Spinoza? E come lo so? » Perché è più importante, ovviamente, qu�sta precisazione: «come lo so�» Come è data a me la verità pdbblica e Spinoza? Ecco allora come si Ifecisa la domanda, la quale, vedete, non ha una risposta pura e semplice: ha un altro senso che va colto, compreso e tenuto fermo poi. Formulata così, la domanda mira a collocarmi nella domanda. Io che domando vengo invitato ad abitare la domanda, a stare nella domanda, a porre que­ stione su di me che domando. Questo è ciò che propriamente chiamia­ mo mettersi per via e guadagnare questa collocazione. E non crediate che l'abbiamo guadagnata solo perché abbiamo detto quello che abbia­ mo detto sin qui. Vedrete quanto è difficile guadagnare questa colloca­ zione, che ardua esperienza è dare corso a questa semplice domanda. E allora per mostrare come ciò sia importante per noi, ma al tempo stesso complesso, proviamo a rispondere, stando in quel luogo che appunto domanda come sto io nella ventà pubblica 'Spinoza'. Qui naturalmente ognuno di noi deve fare uno sforzo di rimemo­ razione personale; io faccio il mio, ma in quanto esso è esemplare per tutti nella misura in cui tutti, poi, hanno una loro memoria circa l'in­ contro. Ed io invero non lo so quando ho incontrato per la prima volta questa parola. Chissà. L'ho incontrata al liceo? È probabile. Ma ne ho sentito parlare da qualcuno in famiglia, fuori della famiglia? È possibi­ le. Quello che ricordo è certamente che nel liceo mi divenne familiare questo nome, perché bisognava sapere dove collocare il personaggio. Poi ricordo molto bene che in seguito ho letto varie cose su Spinoza; poi ho letto delle cose di Spinoza; poi ho tentato cl�Ue letture più sistema­ tiche. Poi mi sono imbattuto in una quantità 'Qi passi, in una grande quantità di passi relativi a Spinoza per opera di altri autori: Schelling, Hegel, Lessing, Herder, Jacobi, Mendelssohn, Goethe ecc. Spinoza me lo sono trovato intorno in centomila modi; ho sicuramente parlato di lui con qualcuno. E poi ho frequentato anch'io, forse anche voi, espres­ sioni del sapere comune: il panteismo di Spinoza, il naturalismo di

Arcftivio Spinoza

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Spinoza, Deus sive natura, Spinoza e Cartesio, la soluzione del duali­ smo cartesiano, gli attributi, i modi... Una serie di frequentazioni quin­ di che abbiamo avuto e recepito, nel corso delle quali abbiamo appun­ to frequentato la verità pubblica, perché è così che anzitutto è dato Spinoza a noi. Il tutto naturalmente si mischia in una impressione vaga e confusa, ma anche multiforme, per cui tutti crediamo più o meno di sapere chi è Spinoza, poiché ci riteniamo persone colte. Quindi il tutto corrisponde a un'idea generica che ci siamo fatti via via di Spinoza, un'idea che ci può accompagnare fino alla morte, che può accompagnare anche un filosofo professionale serissimo, perché di Spinoza non si è mai occupato (non ci si può occupare di tutto !). Ma sup­ poniamo che vogliamo andare a fondo. Allora non potremo più proce­ dere per sentito dire; dovremo procedere, come si dice, di prima mano. Ma che vuol dire qui di prima mano? Forse che posso chiedere un collo­ quio con Spinoza? come una volta fece Leibniz, con grande difficoltà, facendosi preventivamente presentare da comuni amici parigini, perché Spinoza non riceveva volentieri ospiti sconosciuti, e lo ricevette solo dopo che ebbe assicurazione dagli amici che questo giovane era pieno di talento, era sicuramente affidabile, non era una spia, insomma, non avrebbe determinato conseguenze pericolose per la sua vita; già, Spinoza era stato pugnalato all'uscita dal teatro da un fanatico e si era ritirato nei paesini dell'Olanda, quasi sconosciuto e anonimo, per sfug­ gire alla contesa pubblica sulle sue opinioni, sulla sua filosofia. Leibniz dunque poteva ancora informarsi di prima mano, e ciò fu forse determi­ nante per tutta la sua vita di pensiero. Noi no. La çosa stessa, quella cosa che da Aristotele sino a Heidegger, attraverso Husserl, e Hegel, la cosa stessa che è l'oggetto della filosofia (la filosofia è appunto lo studio della cosa stessa), qui che cos'è la cosa stessa, visto che Spinoza non c'è? Dove sta più Spinoza in modo che lo si possa incontrare? E adesso lo diremo, e diremo in certo modo una serie di banalità; però sarà molto sbagliato se voi non consentite con questo elenco, con questo elenco che ora fac­ cio, e lo prendete come una serie di banalità: sì, sono molto banali que­ ste cose che ora dirò ... solo che nessuno ci pensa mai. Forse perché sono troppo banali; eppure esse sono la cosa stessa di Spinoza. L'unica via che noi abbiamo per poterei collocare nella domanda che chiede come si dà a me la verità pubblica concernente Spinoza è quella

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di fare un elenco; un elenco insufficiente, perché non si potrebbe mai esaurirlo: elenco di dove sta Spinoza oggi, questo nome della memoria collettiva, della memoria pubblica, oggettiva e soggettiva. Dove sta? Potremmo immaginare: certamente nei suoi manoscritti; quindi ci sono luoghi deputati alla conservazione di questi manoscritti: locali, istituzio­ ni che conservano quella 'cosa stessa' di Spinoza che sono i suoi mano­ scritti, fonte preziosa per ogni edizione critica, come si sa, e per una testi­ monianza contro lo scettico che volesse dire che Spinoza ce lb siamo inventato; c'è un suo corpo scritto, che sono i suoi manoscritti! Ci sono poi delle altre cose che sono molto vicine alla realtà vivente di Spinoza: ci sono le sue case, divenute museo, ci sono quei pochissimi oggetti che si sono conservati a testimonianza della sua vita in Olanda; bisogna andare in Olanda, dove .si incontrano le cose di Spinoza. Ma poi ci $Ono le fondazioni, le associazioni che prendono nome da Spinoza, le riviste che si richiamano a lui, e, badate, queste fondazioni hanno locali, regola­ menti, istituzioni, manifestazioni, pubblicazioni e signori in carne ed ossa che tengono viva questa tradizione talvolta �isticciando tra di loro. Poi ci sono i libri di Spinoza; dove sta Spinoza? Nei suoi libri, dalle prime edizioni miracolosamente conservate in qualche biblioteca, alle edizioni successive; e qui dovete pensare alle migliaia di copie di edizioni succes­ sive, edizioni critiche stampate in tutte le lingue immaginabili. Ma non pensate astrattamente, çioè quel libro di Spinoza in quell'edizione; no, intendo tutti gli eseinplan, tutte le copie, perché lì sta Spinoza! Per esempio tutte le copie dell'Etica che sono presenti oggi a Milano, a casa vostra, a casa mia, nella biblioteca, presso le case editrici, presso le libre­ rie pubbliche, compresa l'Etica che è qui nella mia borsa. E potremmo chiederci: « Quante copie di libri oggi ci sono a Milano di Spinoza? » Bisogna chiederlo, perché quella è la cosa stessa 'Spinoza'; la troviamo lì, non in un'altra parte. E poi pensate a quelli che stanno preparando una tesi di laurea su Spinoza, anche questo appartiene al corpo di Spinoza: manoscritti e dattiloscritti che si mettono nel cà.fll'puter. Non basta; adesso dobbiamo almeno accennare a un altro grande settore del corpo pubblico 'Spinoza': le citazioni di Spinoza. Se volessi­ mo inserire le citazioni di Spinoza che stanno in altri libri, in altri auto­ ri, in storie della filosofia, nella storia della filosofia di Hegel, e via dicendo, non finiremmo più; forse nessuno di noi riuscirebbe ad esau-

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rime l'intero. Queste citazioni sono innumerevoli e depositate in innu­ merevoli luoghi. E poi mettiamo un'ultima cosa relativa al corpo pub­ blico della parola 'Spinoza': in questo momento in tutto il mondo il nome 'Spinoza' risuona; quante volte? Non lo sappiamo ... cento, mille, diecimila, centomila... Questo è lo sterminato corpus materiale di quella cosa pubblica che è Spinoza e lo dobbiamo tenere bene davanti agli occhi, perché Spinoza non sta altrove, sta lì. Questo sterminato corpus materiale che si chiama 'Spinoza' si potrebbe riassumere in una mappa geografica. Immaginate che noi componiamo una mappa ideale, dove sono indicati tutti i luoghi in cui sta il corpo pubblico di Spinoza: i suoi manoscritti, i suoi libri, le sue associazioni, i congressi che si fanno, e così via. Biblioteche, librerie, musei... Londra, Amsterdam, Tokio, Berlino, Milano ... Bene, il corpo di questo nome, lo sappiamo, è un'ovvietà, ma ora lo pensiamo, non sem­ plicemente lo sappiamo. Ora, questo corpo è deperibile, come tutti i corpi: la cosa stessa è deperibile. Basterebbe chiedersi quante cose di Spinoza abbiamo perduto dal giorno della sua morte. Basterebbe chiedersi quante di quelle che abbiamo nominate qui resteranno ancora fra cento anni. Fra mille anni, poi, cosa resterà di quella cosa stessa pubblica che chiamiamo 'Spinoza'? Che cosa è già stato polverizzato dalla macchina del tempo, che cosa, direbbe Eliot, è scomparso sotto la collina? È tantissimo: tutte le sue cose, le sue carte, le sue penne, i suoi strumenti ottici. Si sa che per vivere Spinoza faceva il tornitore di lenti, mestiere che aveva appreso quando studiava forse per diventare rabbino; poi non diventò rabbino, anzi lasciò la comunità, la sinagoga, e fu uno strappo molto lacerante. Spinoza venne ufficialmente maledetto, secondo la formula della tradizione. Il rabbino capo al centro della sinagoga (era il 27luglio del1656) recitò la maledi­ zione contro Spinoza: «Sia maledetto di giorno, maledetto di notte! Sia maledetto quando dorme, maledetto quando si sveglia! Sia maledetto quando esce, maledetto quando entra. Che il Signore non gli perdoni mai! Egli estinguerà il suo nome sotto il cielo. Ma voi state in guardia, che nes­ suno gli si rivolga a voce o per iscritto, nessuno gli manifesti favore, nes­ suno dimori con lui sotto il medesimo tetto, nessuno si trattenga a quat­ tro braccia di distanza da lui, nessuno legga una pagina che egli abbia composta o scritta» . Così disse il rabbino quel giorno di luglio.

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Naturalmente la comunità aveva fatto di tutto per non perdere questo suo figlio così promettente; arrivò fino a rinunciare a ch'egli diventasse rabbino; gli chiese semplicemente di non manifestare pub­ blicamente quelle idee che erano in contrasto con la religione ebraica, ma Spinoza non se la sentì, dovette rispondere di no. Di qui poi il ten­ tativo, pare, di pugnalarlo una sera all'uscita dal teatro. Spinoza si dife­ se, come si sa, con un libro che purtroppo è perduto, con un'apologia di se stesso, di cui non :è rimasta traccia; ecco una parte interessantis­ sima del suo corpo pubblico che, se è davvero esistita, è finita nèl nulla. Ma dove sono finite anche tutte le lettere nelle quali si parlava di lui? Noi abbiamo un epistolario di Spinoza, molto vivo anche, conserviamo una serie di lettere, ma certo è una goccia nel mare. E le lettere stesse di coloro che parlavano di Spinoza non ci sono pervenute, sia durante l� sua vita, sia dopo la sua morte, sia nel corso della grande polemica che scop­ piò in Germania sull'ateismo, di cui il soggetto vero era Spinoza. Che cosa si scrive- vano Jacobi, Schelling, Goethe su questo scottante argo­ mento che costò la cattedra di Jena a Fichte, aCC'!JSato di essere ateista proprio perché era spinozista, o abbastanza simpatizzante di Spinoza? Anche tutto questo in massima parte noi lo abbiamo perso. Dicevo prima, cosa resterà di tutto ciò? Fra cento anni forse molto. Fra mille anni, duemila anni? La filosofia come la vita ha degli sviluppi che nessuno può prevegere. Ma immaginiamo adesso, per inoltrarci sempre di più nella nostra domanda che chiede come siamo collocati nella tradizione pubblica che ha nome 'Spinoza', immaginiamo che per effetto di magia in questo momento scompaiano tutti gli oggetti pubbli­ ci, che ancora sono la cosa stessa di Spinoza. Si polverizzano tutti i mano­ scritti, tutti gli esemplari a stampa, e non resta assolutamente nulla. Resterebbe la memoria soggettiva: resteremmo noi che ci diciamo quel che sappiamo di Spinoza. Resta davvero poco: una confusa opinione di idee, tutto ciò che gli uomini attualmente viventi sanno, ricordano, immaginano, fantasticano, allucinano che Spillilza sia nella memoria orale che ne deriverebbe. Gran parte della filosofia antica si è conservata così, attraverso la memoria orale, in assenza di corpi scritti. I presocrati­ ci sono per lo più studiati così. Che sappiamo noi della mente di Talete, se non,rimasugli di una memoria soggettiva che ha perso via via, e molto presto, il corpo pubblico? Forse ancora Aristotele leggeva uno scritto di

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Talete, se è mai esistito, ma dopo di lui? Si inabissò per sempre, e sono rimaste le chiacchiere, le immaginazioni. Quante cose sono fatte così e costituiscono la nostra memoria pubblica. Resto precario, deperibile, perché vi è deperibilità dei corpi e deperibilità della memoria. La materialità della trasmissione della filosofia, come vedete, sem­ bra dapprima una questione banale: tutti gli specialisti sanno che occuparsi di Spinoza vuoi dire andare a vedere i manoscritti, le edizio­ ni critiche, i dizionari ... lo sappiamo tutti; ma abbiamo riflettuto sul fatto che questa è appunto la tradizione della filosofia, o parte rilevan­ tissima della tradizione della filosofia, e che un esercizio di pensiero non può accogliere tutto questo come ovvio? Deve porre una domanda su tutto ciò, e chiedersi: «Ma quale cosa stessa noi frequentiamo? Che cos'è la filosofia?» All'inizio avevamo sollevato due domande: facciamo un esercizio filosofico, ed anzi teoretico, ma cos'è filosofia, cos'è teoretica? La filo­ sofia ha a che fare con questa deperibilità, è questa deperibilità stessa, è la trasmissione di questa deperibilità, di questi corpi che vanno sotto la collina, di queste opinioni che restano ad aleggiare nelle menti; spesso, pure fantasie. Però se guardiamo la fragilità di questa tradizio­ ne, non possiamo mancare di guardare anche la potenza immensa, incalcolabile, di questa tradizione. Proviamo a chiederci quanto ha influenzato il nostro presente, e tuttora lo influenza, questo corpus oggettivo in cui vive quella cosa stessa che è Spinoza. Quanti compor­ tamenti si sono innescati negli esseri umani, da tre secoli in qua, attra­ verso la frequentazione pubblica di quel corpo pubblico che sono la tradizione di Spinoza, lo spinozismo, il circolo dei suoi amici che lo proteggevano affettuosamente e ne diffondevano nascostamente le idee, facendo circolare l'Etica manoscritta in tutta Parigi, dove que­ st'uomo era chiamato cane infedele dai cristiani non meno che dagli ebrei. Quest'uomo però era nel contempo un grande nome, il 'santo del pensiero'. Quanto ha pesato questo corpo pubblico, pur così precario? Sarebbe difficile valutare le conseguenze pratiche della pratica di vita e di pensiero che ha nome 'Spinoza', sia in via diretta, sia in via indiretta; perché Spinoza è arrivato sino a noi attraverso una pratica diversa del suo corpo: percorsi nei suoi libri, nel cuore delle sue idee, ma anche attraverso una catena di innumerevoli riferimenti: il fatto è che egli è

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diventato a un certo punto un simbolo, un emblema, che magari non aveva più molto a che fare con la sua vita vivente. Come Napoleone forse non si riconoscerebbe nel mito .napoleonico, probabilmente Spinoza non si riconoscerebbe nel mito spinoziano; però egli ha dato vita a que­ sto mito, che sempre torna; sarebbe incomprensibile tutto il romantici­ smo tedesco senza Spinoza, senza il peso della rilettura in chiave romantica di Spinoza. Goethe, gli aforismi di Goethe sulla natura, non si possono pensare senza Spinoza. Ma era il vero Spinoza? Che'·' importa, noi ora stiamo dicendo un'altra cosa: quali sono le conseguenze pratiche infinite che derivano da questa tradizione? Spinoza sta in autori che solo a nominarli viene il capogiro: Schelling, Hegel, Freud, immen­ so è il continente Spinoza dentro l'opera di Freud; e poi anche Nietzsche. Quanto di Spinoza sta in costoro? In realtà Spinoza sta anche là dove non sappiamo più scorgérlo, dove non vediamo più dei fatti materiali che ce ne testimonino la presenza; spesso il suo nome risuona idealmente, tacitamente, senza che il nome stesso venga evocato. Ma allora ecco che abbiamo messo a fuoco meglio la nostra doman­ da. Abbiamo davanti agli occhi questo panorama ovvio e al tempo stesso inusitato, poiché non ci riflettiamo. Non solo inusitato, vedrete, e qui sarà la svolta successiva, ma molto problematico. Questa ovvietà, detta sin qui, è invece un paradosso incomprensibile. Ma ora andiamo avanti. Come è data quindi. in verità quella verità pubblica che concerne Spinoza, di cui io sono partecipe? Adesso facciamo questa osservazione; essa apre alla prima svolta ardua di questo cammino. Abbiamo immagi­ nato una cartina con tutti i luoghi deputati a indicare la presenza del corpo pubblico di Spinoza; abbiamo richiamato anche, come suo corpo pubblico sonoro, la parola che risuona, le parole 'Spinoza', 'spinozismo', che continuiamo a dirci per il mondo. Supponiamo di comporla davvero questa mappa, supponiamo che davvero ci mettiamo in questa follia. A questo punto capita una cosa strana: che noi dov.remmo mettere anche noi stessi lì nella cartina, anche queste parole, aiiche quest'aula, anche i vostri fogli, i miei, i nostri appunti. Questo che.facciamo, che scriviamo, frequenta quella tradizione, è determinato da quella tradizione, è sogget­ to a quella tradizione, e in quanto tale si aggiunge al corpus pubblico delle voci che hanno nome 'Spinoza'. Però la prima svolta consisteva sostanzialmente in questo: nel non continuare a portare avanti senza

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domande questa tradizione, a svilupparla e basta; per questo vi ho detto: «nessuna lezione su Spinoza, non aspettatevi di uscire di qui sapendone di più su Spinoza», sul piano del comune sapere storiografico, dossogra­ fico, culturale: No, ci siamo proposti di riflettere sulla collocazione stes­ sa, sulla tradizione entro la quale viviamo, sulla domanda stessa. Quindi quello che stiamo facendo, dicendo e scrivendo pone la questione di que­ sta tradizione, la pone come suo oggetto, e nel far ciò la distanzia, la tiene a distanza: ho detto 'il corpo pubblico di Spinoza' ed ecco che ora scrivo la mappa, la cartina del corpo pubblico di Spinoza. Dove sta questo scri­ vere? Dentro il corpo pubblico di Spinoza? Sì, ma anche no, perché è quel luogo dal quale io voglio farvi vedere il corpo pubblico di Spinoza, voglio vederlo con voi rispondendo alla domanda: «dov'è la cosa stessa che si chiama 'Spinoza'? » Cioè questa domanda pensa l'evento di questi conte­ nuti: il loro avvenire, il loro essere accaduti. Questa domanda pensa quella tradizione come sua provenienza, e mentre dice 'sua' provenienza, si mette fuori da questa provenienza, come è chiaro, la guarda, ideal­ mente, dall 'esterno. E allora è bensì vero che questo foglio va aggiunto all'inventario, va aggiunto a quel 'foglio-mondo' (direbbe Peirce) che si chiama 'Spinoza'. Ma standovi in uno strano modo, perché sta dentro e fuori, è dentro il foglio, ma è anche il gesto che ha composto il foglio. Noi parliamo in immagine di un possibile inventario del corpo pubblico di Spinoza e questo possibile inventario dovrebbe contenere se stesso: paradosso impensabile; bisogna però pensarlo per scoprire quanto è paradossale, ma lo vedremo via via. Diciamo per ora così: questo discorso continua a tessere la trama di quell'evento cumulativo pubblico che si chiama 'Spinoza'; ma d'altro canto quello che facciamo abita questo tessere stesso proprio come ciò che viene espressamente saputo. Non mi limito a tessere il tessuto 'Spinoza', ma so che sto facendo questo, e in questo 'so' c'è un passo indietro, un passo indietro che è pur sempre detto. Di che cosa stiamo facendo esperienza? In termini tecnici si potreb­ be dire così: stiamo frequentando un limite, come è un limite, per esem­ pio, l'oggetto trascendentale in Kant: la famosa cosa in sé. La cosa in sé è un limite; non è quella cosa che sta lì, non è fatta di tutto ciò che fa star lì le cose, non è una cosa-altra-cosa; Kant non ragionava così ingenua­ mente, sapeva benissimo che l'oggetto trascendentale è un limite, qual-

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cosa che sta all'interno della soggettività, ma anche fuori, e che ne è l'o­ rigine. Oppure (altra esemplificazione molto simile di limite del pensie­ ro) è quello di cui parla Wittgenstein nella prefazione del

Tractatus,

in

cui dice, e sa di dire una cosa 'insensata' per usare la sua stessa termi­ nologia : «quello che ho voluto fare è tracciare un limite all'espressione del pensiero». Sa bene che non si può tracciare questo limite, perché quello che sto dicendo è o non è espressione del pensiero? Ho questo pensiero e lo sto esprimendo così : che voglio tracciare un limite al lin­ guaggio, capire cos'è il linguaggio; ma come faccio a tracciare questo limite, se già esso è dentro ciò che vuol limitare, partecipa già di ciò da cui si vuole escludere? Un cammino che conduce al limite è sicuramen­ te un cammino di pensiero ; forse noi non ne usciremo, forse sì, però la strada che ci ha portato sin qui

è

sicuramente buona, perché ci ha por­

tato al limite, e dove c'è limite c'è pensiero, c'è il problema del pensiero, perché il pensiero essenzialmente è proprio questo misurarsi con se stesso, dislocarsi da tutto il resto in cui è collocato: essere dentro di sé, essendo sempre fuori di sé. Ma, detto nei termini più semplici, quelli di Husserl, il pensiero è un limite perché il pensiero è sempre pensiero qualcosa; ora, questo qualche cosa è ancora pensiero?

di

E dove traccere­

mo un limite, e con che cosa lo tracceremo? Questo è il gesto filosofico, il gesto socratico, il problema platonico, questa è la filosofia! Colui che non pensa questo limite non è mai entrato nella filosofia; diciamo meglio: colui che non si fa carico di questo paradosso, non ha nemmeno cominciato a comprendere di che natura sono i problemi della filosofia. Detto questo, auguriamoci che l'aver incontrato un limite non sia ciò che ci scoraggia, ma ciò che ci incoraggia, perché ciò ci doveva capi­ tare nel corso di un cammino che chiedeva dove sta Spinoza e rispon­ deva, come ogni specialista farebbe, dicendo che Spinoza sta in tutta una tradizione critico-storiografica; ora, un limite sta proprio lì, nel­ l'ambito di una questione che di solito viene liquidata nelle prime pagine dei testi dossografici della filosofia.

·

-

Cosa dicono le prime pagine? Che i testi sono conservati così e così, che per esempio la

Metafisica

di Aristotele ci è stata tramandata

in codici che naturalmente sono molto tardi ; questo problema viene sbrigato subito come informazione, acciocché nessuno pensi che esista da qualche p arte la redazione originale della

Metafisica

(che poi pro-

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babilmente non è mai esistita) . Queste informazioni sono subito liqui­ date in una monografia su Aristotele e si passa poi a dire chi è Aristotele e cosa ha detto nella

Metafisica. Noi invece non abbiamo

oltrepassato le prime due pagine, e stando lì, ci siamo imbattuti stra­ namente in un limite, in qualcosa che non si può pensare, in qualcosa che non si può non sapere, ma che nel momento in cui cominciamo a frequentarlo, ci pone di fronte alla questione stessa del pensiero e del sapere. Per dirla in una maniera semplice : se tutta la storiografia filo­ sofica liquida questo limite in qualche avvertenza iniziale, allora quel­ lo che segue non è filosofia; è dossografia, è storia delle idee o tutto quello che volete, ma non frequenta alcun problema di pensiero.

E allora torniamo all'inizio; non c'è che esporsi alla questione gra­ vosissima dell'inizio, perché lì si è messo in moto questo strano esito che dice che quello che tu pretendi di pensare della tradizione di Spinoza comporta un limite, un non senso, un paradosso. Sei dentro e sei fuori . Ma cos'è accaduto veramente all'inizio? Che cos'è un inizio? Thomas Mann in

Giuseppe e i suoi fratelli, che è forse uno dei più bei romanzi

che siano stati scritti, riflette spesso sulla questione dell'inizio, perché egli vorrebbe mostrare come è iniziata la tradizione ebraica, quella di cui Spinoza era uno degli ultimi figli, invero ribelli, del suo tempo.

E spesso

usa quest'immagine: ogni inizio è una quinta del tempo; sembra che sia l'inizio, e invece è una quinta; dietro ce n'è un'altra. Oppure: dietro que­ sto fondale c'è un altro fondale, non si finisce mai. L'inizio è una voragi­ ne, una vertigine, ogni inizio è una decisione precaria. E allora noi, ammaestrati da queste riflessioni, quando ci chiediamo «com'è andata all'inizio per cui ci ritroviamo in quest'intoppo?», per comprendere come ciò ci è capitato, torniamo semplicemente al nostro iniziale eserci­ zio di discorso . Quello che stiamo praticando è appunto un discorso . Il filosofo non può dimenticarlo e concentrarsi solo su ciò che dice ; questo, caso mai , è proprio della scienza. Il filosofo deve tenere conto del fatto che lo dice, del fatto che dice; non può dimenticare quello che H usserl chiamava il sé filosofante. Si potrebbe obiettare: «SÌ, l'esercizio, certo, non così a caso, l'esercizio con le sue intenzioni» certo, ma le intenzioni da dove vengono? Da dove viene quell'inizio apparente, quella quinta del tempo che è l'intenzione di fare un corso così e così? Posso dire che io decido a partire da nulla? Certamente no; già prima, sul piano del

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.,

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comune buon senso, vi dicevo, ai fini pratici dell'esame: «Ragazzi, leg­ getevi almeno questi due libri per capire alcune cose che qui vengono dette, in quanto hanno un loro retrofondo » . Ma le intenzioni vengono da molto lontano, da molto più lontano che noi non possiamo sapere. Nell'esercizio di parola e di scrittura che facciamo insieme c'è un sé filosofante antichissimo, con le sue inten­ zioni, di cui noi siamo la conseguenza. E quindi non è dalle semplici intenzioni che posso partire, perché parto da qualcosa di estr�amen­ te estraneo e confuso; anzi, proprio qui è il problema: non posso parti­ re vagamente dalle intenzioni che mi hanno preceduto; devo restare alla decisione stessa, a questo inizio così come si presenta di per sé, indipendentemente dalle mie intenzioni. Devo guardare questo inizio senza pensare a quello che volevo fare; guardiamo l'inizio per se .stes­ so, questa cosa stessa che è l'inizio, asserviamolo anche per poco e subito vedremo una cosa straordinaria: che questo inizio è un. grande intreccio. Un intreccio di pratiche in sostanza infinite. Una quantità sterminata di pratiche sta in ogni inizio, nella quinta del tempo, prati­ che che vengono da molto lontano e che sono nel contempo qui. Nel praticare l'inizio io pratico una sterminata quantità di pratiche. Qui dobbiamo fare subito una riflessione importante. Wittgenstein diceva, e si riferiva a sé con la sua modestia: nessuno può pensare, nes­ suno può scrivere più tw il pensiero è ciò entro cui stiamo continuamente : noi, pensando, nnn facciamo altro qui che ritornare sul punto del limite; ma per l'a­ �lone il limite è ciò che non è, che è sempre stato varcato. Il senso comune dice a Zenone: «ma non vedi che Achille passa la tartaruga in un secondo? ! » Zenone lo vede benissimo; il punto è che egli chiede llome ciò sia pensabile. Certo. il limite è sempre ciò che è stato varcato, IUl piano dell'azione; ma il limite è anche ciò entro cui sosta il pensie: ro, e fuori del quale il pensiero non vive più. Vediamo come il limite è sempre varcato nell'azione. Potremmo Npl'imere la cosa così: la decisione (non pubblica) è quella possibilità �(non pubblica) già sempre accaduta nell'accaduto. La decisione è una . poasibilità, qualcosa che ancora non è accaduto; ma che possibilità è? :;Possibilità del già sempre accaduto, possibilità già sempre accaduta. Così >, capitava di inciampare, le usava subito ! Quindi c'è un tropismo verso la verità; ma. c'è anche un tropismo verso la finitudine reale delle cose finite, un'evidenza non scal­ zabile. Sicché in ogni presenza la nostra intenzionalità è sempre rivolta alle cose finite. E se dovessimo poi avvicinare questa evidenza al nostro pensiero abissale, o di Spinoza, che dir si voglia, potremmo anche dire: sì, siamo tutti convinti che il mondo esiste, abbiamo capito quello che in fondo Spinoza cerca di fard ammettere, che il mondo è un'evidenza sovrana, che è sigum sui, che si dà da sé e che qualunque pensiero io faccia per andare al di là di questo mondo, sempre nel mondo lo faccio: però questo mondo del quale parliamo è precisamente quello che si dà a vedere nelle cose finite e nelle loro evidenze; non è appunto altro, è questo. L'abissalità di quel pensiero sta proprio qui: che non si parla di un altro mondo, si parla di questo, e di questo mondo si dice che c'è e che è l'orlo intrascendibile di tutti i nostri pensieri e intenzioni. Ma che il mondo c'è, esiste, che accade nel suo evento, è anzitutto evidente in questo pezzo di carta e nella mano che lo porge, in questa presenza, in questa finitudine. Se invece dico che il mondo è però dappertutto e in ogni luogo, dico palesemente un pensiero vago, molto meno eVidente, che tutt'al più vuoi dire che in ogni concreta cosa presente, che può esse-

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re il foglio, la mano ecc., c'è il mondo. Il mondo come dappertutto e in ogni luogo posso solo contemplarlo col pensiero. Ma come diceva bene un poeta commentato da Heidegger, nessun pensiero dove la cosa manca. Noi abbiamo l'impressione di pensare, ma se la cosa non c'è, se la cosa stessa non si dà come il riferimento di questo pensiero, allora questo pensiero è un vacuo pensare. Abbiamo detto bene? È corretto quel che abbiamo detto sin qui? Le cose stanno eslt.ttamente così, cioè che siamo nell'evid�nza incon­ cussa delle cose finite, le quali sono in presenza, ed è solo i'n loro che si dà il mondo, l'evidenza abissale del mondo? Non abbiamo detto bene. Dobbiamo correggere questo primo passo dentro questa evidenza, peraltro difficile da chiarire. In questo primo passo abbiamo commes­ so delle astrazioni che era bene commettere per poi capire m�glio. Ho detto: l'evidenza stessa del mondo si dà nelle cose presenti. Poi ho esemplificato : questo foglio, la mano che lo regge e il gesto che ve lo fa vedere; oppure anche: il vostro foglio, la penna con la quale state scri­ vendo. Ma sono queste le cose finite che sono propriamente evidenti? Siamo sicuri, o quello che sto dicendo è solo un'astrazione, un ritaglio indebito, la cui operazione si nasconde dietro l'oggetto stesso, non si fa vedere, ma è lei che tira i fili del gioco? In realtà, esattamente presen­ te è proprio questo foglio? è questa mano o non più propriamente, per esempio, il gesto complessivo che li porge? Non dobbiamo cadere nel­ l'ingenuità metafisièa degli 'enti', ingenuità che comincia con la filoso­ fia stessa e arriva sino a Heidegger. Non ci sono propriamente gli enti, se non per un ritaglio, . per un'astrazione. Foglio, mano, penna sono astratti; cioè sono estratti da un contesto, da quella che abbiamo chia­ mato altre volte una situazione, una situazione vivente, un contesto di vita. Io dico, con riferimenti che qui non posso sviluppare, da una pra�, tica di vita, che è la pratica di vita di quel che sto facendo, di quel che state facendo voi, dentro la quale si staglia, tra le sue possibilità, quel­ la di prendere un pezzo di carta e farvelo vèdère. Propriamente il fini­ to di questa situazione non è né il foglio, né la mano, né la penna, ma questo complesso, questo insieme, questa pratica complessa che stia­ mo esercitando insieme; e tutto ciò sorregge silenziosamente quello che noi chiamiamo foglio, mano, penna. Questa pratica trama le sue trame di nascosto, dietro le spalle della coscienza, diceva Hegel, ed è lei

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che silenziosamente sorregge quelli che noi chiamiamo oggetti e ai quali indebitamente attribuiamo una assoluta evidenza. Noi per far presto, perché in fondo ci è comodo così, perché per la prassi comune non c'è bisogno d'altro, diciamo che il foglio è una cosa ben concreta; ma supponiamo che il foglio si metta a ballonzolare davanti a noi senza nessuna mano che lo sorregge: subito vi accorgete che non è una cosa così concreta; o è un delirio, o è un sogno, perché il foglio per essere esibito ha bisogno della mano, ma la mano ha bisogno del braccio, il braccio del corpo, e il corpo di questo tavolo su cui si sorregge e poi della stanza, cioè di tutto l'insieme delle pratiche presenti, dalle quali non possiamo prendere a caso qualche oggetto e dirci che quello è l'og­ getto vero e proprio della nostra evidenza. La nostra evidenza è molto più complessa. La certezza che giusta­ mente le attribuiamo non è relativa al foglio in sé, ma a quella consape­ volezza di praticare una situazione di vita che fa parte del viverla. Tutto ciò non è però nominato quando nominiamo le cose finite, le quali in realtà stanno una dentro l'altra. Le cose finite sono il vertice di una pira­ mide che tagliamo via da quel che c'è sotto e che esibiamo come enti assolutamente evidenti; ma non lo sarebbero se noi non praticassimo la pratica che stiamo praticando, ilon li vedremmo, non li percepiremmo. Anche solo l'immaginazione di un mondo in cui non esistono esseri con due braccia e due gambe, solo questo pensiero mostrerebbe subito che in questo mondo non ci potrebbero essere le cose che per noi ci sono, che appunto ci sono in quanto abbiamo due braccia e due gambe. Come costruirebbe un'automobile un cane intelligente? Come percepirebbe un albero, a differenza di un uomo, di un uccello, di una scimmia? Il cane non si può arrampicare sull'albero; quindi lo vede e lo percepisce secondo modalità differenti che sono inerenti alla sua pratica di vita, al suo corpo, al suo poter fare e poter essere. È sempre alle pratiche che ci dobbiamo dirigere quando parliamo di evidenza. La cosa finita di cui stiamo parlando in realtà è il focalizzarsi astrattivo sull'oggetto, che è il risultato di complesse pratiche di vita, entro un 'che c'è'. Queste prati­ che di vita affondano nel fatto che c'è il mondo, il mondo esibito da que­ ste pratiche di vita. E l'orlo di questo mondo sfuma, come sfumano le pratiche, perché nessuna pratica mai io la posso determinare, delimita­ re; mai posso dire: comincia esattamente qui. È già sempre cominciata,

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partecipa di altre pratiche, rinvia ad altri oggetti. Il fatto per esempio che ora diciamo che io sto parlando, voi state ascoltando, qualcuno scri­ ve, è soltanto una descrizione marginale di quel che realmente stiamo facendo, perché in realtà stiamo facendo una gran quantità di cose col corpo e col pensiero, le quali ci derivano da una familiarità col mondo; mondo che ha una storia infinita dietro di noi. E allora questo 'che c'è' sfuma, non è afferrabile, è ancor più silen­ zioso del silenzio delle pratiChe che esercitiamo, le quali, p' roprio perché le esercitiamo, non fanno chiasso, non si fanno vedere, si accontentano di darci il risultato. Sappiamo benissimo che se ora ci propo­ nessimo una descrizione fenomenologica di questo contesto di vita, di cui l'esibire il foglio e la mano sono solo la punte dell'iceberg, ci scon­ treremmo con un duplice esito : da un lato la necessità di una. infinita descrizione; dall'altro l'impossibilità di inserire nella descrizione la pratica stessa che scrive questo archivio, perché ogni volta che la pra­ tica si scrive, si ritrae dallo scritto; ciò che scrive è di nuovo una prati­ ca silenziosa che agisce di etro le spalle. Ecco allora che partendo dalla evidenza, per noi inconcussa, dell� cose finite, evidenza che il dubbio della filosofia non può scalfire, se non puramente in maniera immaginaria, partendo proprio da questa evidenza, ma guardandola e abitandola davvero, andandoci a fondo, ci scontriamo con i no�tri due tradizionali problemi: l'infinito e il limite inesauribile, che non si dà altrove, si dà proprio qui, in quella che chiamiamo la finitudine delle nostre pratiche, con i suoi oggetti finiti; c'è una inesauribilità infinita e c'è però anche un limite invalicabile, sul quale sempre sostiamo, come soglia di tutti i nostri eventi: quel limite che, ogni volta che lo attraversiamo, si riproduce. Ciò che abbiamo scritto nell'archivio non basta; ha semplicemente segnato un'altra· linea; ma allora bisognerà farne un'altra e poi un'altra e un'altra, come Achille che non raggiunge mai la tartaruga. . Da questa riflessione possiamo trarr�' p rovvisoriamente questa prima considerazione: che in realtà il mondo, quello che chiamiamo 'il che c'è', nella sua abissalità intrascendibile, si dà a vedere in situazio­ ni. Cioè si dà a vedere nelle pratiche definite che in ogni istante prati­ chiamo, filosofia inclusa. Queste pratiche definite, poi, si definiscono ulteriormente, si danno ulteriormente a vedere, si focalizzano in cose

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finite, nel foglio, nella mano; il che accade per una ragione ben preci­ sa, che qui mi limito a nominare: perché ogni pratica è un insieme di molte pratiche, un-insieme che nel contempo si riorganizza secondo un proprio senso, secondo il proprio percorso, secondo i propri obiettivi. E allora, naturalmente, il percorso e l'obiettivo si danno a vedere negli oggetti specifici di quella pratica. Specifici non vuoi dire che siano i soli; vuoi dire che sono quelli che ne disegnano il fine, il telos, come dicevano i greci, il compimento. È evidente che se sto scrivendo, le cose che per prime richiamano la mia attenzione sono il foglio e la penna; il foglio e la penna sono gli oggetti di senso principali di questa pratica. Ma è anche evidente che questa pratica non potrebbe frequentarli se nel contempo non frequentasse tante altre pratiche. Questa pratica è debitrice di altre pratiche, sicché non basta dire che oggetti concreti di essa sono il foglio e la penna. Se per esempio avessi perso la coordina­ zione visivo motoria, non potrei controllare ciò che sto scrivendo. Il che c'è del mondo si dà a vedere solo in situazione, in pratiche definite. La situazione del mondo è sempre l'esser-situati qui, nella pre­ sente evidenza della pratica presente. Ma la pratica va poi pensata con estrema elasticità. Il che significa, come abbiamo spesso ripetuto ma non ancora pensato, che è sempre il medesimo mondo che si da nelle varie situazioni e nella elasticità delle pratiche. Abbiamo così una dua­ lità tra la molteplicità diveniente delle situazioni e delle pratiche, e l'u­ nicità circoscrivente del mondo che eviene. Questo non è che un modo per annunciare il pensiero abissale di Spinoza, quello che ha fatto guer­ ra a tutti: cioè che c'è una sola sostanza, anche se ci sono infiniti modi. Abbiamo così cominciato a mettere a fuoco quella possibilità di mondo, che più volte abbiamo nominato, come ciò che non è pubblico, non è la finitudine delle cose. Ma con questo non abbiamo affatto detto che, per l'unicità del mondo, in questa situazione determinata si danno tutte le cose finite. Abbiamo solo detto che il mondo sorregge tutte le pratiche finite e che è in tutte il medesimo mondo. Perché sia così ora comincia a chiarirsi. Se in ogni situazione il mondo non fosse il medesimo mondo, allora ogni volta sarebbe un mondo finito, e come tale contenuto in altri mondi. Sappiamo però che questo non ha senso. Ciò che è finito dev'essere sempre contenuto in alcunché di più grande, e allora l'ultimo contenitore non può essere un

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contenitore, e quindi non può essere finito. Il mondo dunque non può essere diverso nelle varie situazioni. È sempre lui che sorregge tutte le cose finite. Ma questo non significa: in quanto il che c'è, nei cui orli o ai cui confini sfuma ogni mia pratica non appena la analizzi, fa sì che io possa stendere una mano e mostrare un foglio, allora qui, in questa situazione presente, c'è tutto, tutto in tutto, come dicevano i metafisi­ ci. C'è per esempio la costellazione Vega o il pianeta M.a rte. Stiamo dicendo questo? EVidentemente no. Nessuno qui vede il p(aneta Marte, nessuno ha a che fare con la costellazione Vega. A prima vista possia­ mo dire che qui parliamo e scriviamo benissimo senza la presenza del pianeta Marte. Foglio, mano, pianeta, costellazione sono d'altronde tutte cose finite e, abbiamo detto, come tali astratte, illusorie, incasto­ nate in pratiche; Ma allora, . come dobbiamo riuscire a pensare ·questa unicità della presenza del niondo, che sfuma ai bordi di ogni presenza e che non può non esserci, come suo stesso evento, come dobbiamo pensare questa onnicircoscrivente presenza del mondo insieme con la determinatezza dei suoi enti finiti, che sono questi e non altri, carta e penna, non il pianeta Marte o la costellazione Vega? Dobbiamo pensarla così: se è vero che nel darsi di questa presenza, di questo foglio bianco e di questa mano, non si dà però il pianeta Marte o la costellazione Vega, allora non è che il mondo accada in ogni situa­ zione con tutte le sue cose finite; non è questo che dobbiamo propria­ mente pensare. Dobbiamo invece pensare che in ogni situazione finita è lo stesso mondo che viene alla presenza, che e-viene. Il che c'è, è sem­ pre lo stesso mondo, owero è sempre lo stesso evenire del mondo. Il che non significa, come il buon senso di ognuno sa già, che questo foglio bianco sia il pianeta Marte, anche se è lo stesso evenire del mondo quel­ lo che in presenza si focalizza come questo foglio e la pratica che lo so'r­ regge o come il pianeta Marte, con le pratiche che lo sorreggono. Il che ci orienta sul come pensare l'infinito del .!:U.ondo, secondo una prima accezione positiva di questo infinito. Come dobbiamo pensare questo infinito e come non lo dobbiamo pensare? Non lo dobbiamo pensare come una estensione comprensiva di tutte le sue parti. Non è che il mondo sia l'infinita estensione (tra l'altro pensare un'estensione infini­ ta è pensare nulla; l'estensione è tale proprio perché terminatur) di tutte le pratiche, di tutte le situazioni, di tutte le cose volta a volta pre-

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senti. Di solito pensiamo proprio così, non rendendoci conto della impensabilità di questo pensiero. Prima dicevo : che lo stesso mondo sorregga tutte le situazioni non significa certo che qui, oltre al foglio bianco, sia presente il pianeta Marte; ma perché? perché immediata­ mente noi pensiamo che Marte non può stare qui perché sta là; cioè per­ ché lo assegniamo a un altro luogo di una estensione idealmente infini­ ta. Allo stesso modo pensiamo che in questa presenza sta la stanza nella quale siamo contenuti, ma non sta la stanza di casa nostra. E tuttavia se vi dico: pensate la stanza a casa vostra, voi la collocate subito là, pre­ sente in quel luogo dove sta, quindi idealmente coordinata a questa stanza in un'immaginazione di mondo extensìve tutto presente, che sor­ regge tutti i luoghi, sino ai confini (che non ci sono) dell'universo. Quindi, quando diciamo: il mondo non si deve pensare estensivamente compresente in tutte le sue cose, facciamo bene a dirlo, perché questo è proprio ciò che comunemente ci immaginiamo. Già Berkeley aveva svolto argomenti famosi per mostrare che que­ sta immaginazione è appunto soltanto un'immaginazione e che non c'è nessuna ragione o fondamento per pensare così. Peirce, partendo da Berkeley, aveva mostrato che al fondo di questa opinione stanno cose più concrete che non la semplice immaginazione. Per esempio il fatto che, quando usciremo da questa stanza, ognuno ritroverà la via di casa e andrà a collocarsi nella sua stanzetta. Tutti hanno l'immagine dei luoghi che via via dovranno occupare per arrivare a casa; analogamen­ te potremmo immaginare i luoghi che via via dovrebbe occupare una sonda per arrivare su Marte. Questa immaginazione è strettamente e concretamente collegata con le nostre pratiche e tuttavia disegna chia­ ramente un mondo impossibile. In che senso infatti noi saremmo qui in presenza, ma altrove è in presenza anche il pianeta Marte, o altrove è in presenza anche la nostra stanza? Per chi è in presenza e in rap­ porto a che? In rapporto al mondo, all'occhio del mondo? Ma proprio di questo stiamo parlando: stiamo cercando di capire cosa è il mondo; con che fondamento gli assegniamo addirittura questa funzione di sog­ getto universale assoluto che guarda tutti i luoghi e ce li garantisce? Per questa via non arriviamo a nessun pensiero consistente e allo­ ra ciò significa che non dobbiamo pensare l'infinità che orla le nostre pratiche come una estensione comprensiva. Dobbiamo invece pensar-

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la come presenza intensiva in ogni sua parte. Abbiamo così nominato

il lato positivo dell'infinità, ma non l'abbiamo certo né pensato, né capito. Con questo gioco tra estensione e intensione abbiamo tuttavia aperto un orizzonte di possibilità. Tanto più l'abbiamo aperto se ci

è un attri­ è la sostanza. Quindi pensare il mondo

ricordiamo di Spinoza, quando dice che l'estensione, infatti, buto della sostanza, ma non come presenza estensiva

è certamente sbagliato, petché così facendo

non pensiamo il mondo, ma solo un attributo del mondo/e Cioè qual.t che cosa di diverso dal mondo. Ma per ora lasciamo da parte cosa sia l'attributo; limitiamoci a ricordare una cosa che abbiamo detto. Quando abbiamo letto la defini­ zione della sostanza, abbiamo fatto notare che lì si dice che la sostanza è tutt'intera in ogni attributo. Quindi è tutt'intera nell'estensione. Questa è una prima immagine del concetto di intensione. Se la sostanza consta di 'infiniti attributi', essa però non consta di infiniti attributi perché si distribuisce estensivamente in tutti, un pezzetto per ognuno, come nella

tesi platonica della partecipazione alle idee (� Platone giustamente dice­

va: non può essere così; come si vede, si tratta di problemi antichi) . La sostanza non si distribuisce spazialmente a ognuno degli infiniti attribu­ ti, perché l'estensione è già un attributo, e quindi non può definire la sostanza. Dobbiamo invece pensare che la sostanza

è intensivamente

presente in ogni att:Qbuto : la stessa, con la medesima essenza. Questo per ora l'abbiamo solo detto; adesso cerchiamo di proce­ dere più adagio, per impadronirci di questa idea. dell'intensività del­ l'assoluto. Abbiamo detto che l'evento intensivo del mondo

è appunto

l'infinità stessa del mondo. Perché infinità anzitutto? Lo sappiamo: perché, sebbene il mondo sia intensivamente presente in tutte le cose,

è però definibile, non è circò• è delimitabile da nessuna delle sue cose. Quindi il

o modi, come li chiamava Spinoza, non scrivibile, non mondo

è intensivamente presente in questo foglio, nella mano , nella

pratica del mostrarlo, del fare quel che sti àiÌìo facendo; ma non si può

ridurre a, o delimitare e definire come, e quindi predicativamente enunciare, come questo foglio, questa mano. Questo il senso comune lo sa già: non si sognerebbe mai di dire che il mondo è un foglio bian­ co. Non è delimitabile l'infinita intensione. sente in tutto ciò che

È però intensivamente pre­

è delimitabile. Quindi l'evento del mondo non è

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l'evento di questo foglio bianco; però è intensivamente presente in questo foglio bianco, nella sua finitudine, nella sua delimitabilità. Ma allora, non stiamo in fondo dicendo che l'evento del mondo è l'evento della delimitabilità stessa? Non il foglio bianco, ma ciò che lo delimita. � '""L'evento intensivo del mondo si delinea allora come l'evento della traccia, come l'evento del tracciarsi e del rintracciarsi del mondo. Traccio un mondo come questo mio corpo, delimitato appunto nel mondo, e lo rintraccio ogni volta che mi tocco l'altra mano, che afferro il foglio ecc. Rintraccio le tracce ed è così che rintraccio casa mia e, se proprio voglio, anche il pianeta Marte. Evento intensivo significa quin­ di evento della traccia, cioè del differenziarsi del mondo nelle sue dif­ ferenze. Non l'evento di qualcosa, ma l'evento di quel differenziarsi che dà qualcosa: evento del focalizzarsi operativo, per esempio quello che ora stiamo esercitando, in quanto svolgiamo qui una certa pratica, una lezione di filosofia, con i suoi obiettivi e i suoi oggetti. Questo è un pensiero arduo, ancora tutto da percorrere, perché è di nuovo il pensiero di un limite. La traccia è il limite per definizione; ne apprezzeremo l'importanza molto più avanti (per ora ne abbiamo solo una premonizione) : essa diventerà la questione attraverso la quale metteremo a fuoco il difficile nodo del rapporto sostanza-attributi in Spinoza, ovvero: col pensiero della traccia rintracceremo il senso abis­ sale della relazione sostanza-attributi. La traccia, questo limite, sarà ciò che delimita gli attributi. Vedremo cosa ciò significa, perché non vuoi dire semplicemente metterne uno di qua e uno di là; vuoi dire ben altro e una ben più com­ plicata cosa; che è poi nel contempo quella semplicissima cosa che fac­ ciamo in ogni istante quando prendiamo un foglio e lo esibiamo. Potremmo chiamare questo pensiero della traccia come una sorta di evento della scrittura del mondo. Il mondo si iscrive nella traccia. Quando parliamo di scrittura non parliamo solo di scrittura alfabetica. Evochiamo con la parola scrittura ogni pratica, perché ogni pratica traccia e delinea il mondo. È per questo che se chiedo a qualcuno: dove abiti? In Viale Palmanova. Come ci si arriva? Ecco che lui può traccia­ re uno schemino sulla lavagna e mi può dire: qui si deve girare a destra e poi così e così. Questo schemino lo possiamo fare perché quello che sempre concretamente facciamo è in certo modo una scrittura del

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mondo. La pratica del ritrovare la strada di casa è come fare e rifare quello schemino. O per meglio dire, come diceva Peirce: quello sche­ mino astrae bensì da molti particolari, non si cura di farmi vedere in tutti i particolari come sarà la strada, ma quello che mostra è assoluta­ mente vero. Quello che mostra è effettivamente quello che faccio. Questo gesto della scrittura di mondo è un gesto infinito, ma dob­ biamo capire bene perché è. infinito, tenendo insieme tuttç> quello che abbiamo detto : l'iritensività, la traccia che si traccia, la differenziazio­ ne del mondo nelle sue differenze ecc. È un gesto infinito ogni scrittu­ ra di mondo, ogni pratica di mondo, non per ciò che saremmo indotti a prima vista a pensare: perché questo gesto ha un'infinita replicabili­ tà. Questo gesto non è infinito perché infinite volte faccio la strada di casa; pensare questo gesto infinito come infinità della sua replicabili­ tà, questa è di nuovo una verità finita. Se dico: è infinito perché infini­ te volte lo replicherò, ciò vuoi dire che ogni volta è una, ogni volta è finita. Ma allora questo gesto è ancora pensato sotto il profilo dell'infi­ nità extensive, non intensive; è un infinito pensato ancora nella logica del finito, con tutte le contraddizioni che fatalmente ne conseguono. Non è dunque infinito perché è 1 + 1 + 1 infinitamente replicabile; non è in questo senso, anzi è infinito p�r il senso contrario, per la sua infi­ nita e assoluta unicità sciolta (absoluta) da ogni focalizzazione finita. Questo pensa Spinoza quando sostiene che la sostanza è una e infinita. Una proprio perché non replicabile, non divisibile non quantificabile. Infinite volte potrò fare o seguire lo schemino empirico della via per andare a casa, ma quell'evento è unico nel suo genere, è intensivamen­ te unico. Questo dobbiamo sforzarci di pensare, sapendo che, mentre diciamo questo, il pensiero comincia pericolosamente a vacillare. Guardiamo meglio che cosa ci fa vacillare nel dire che infinite sonò le occasioni, ma il luogo di esse è unico, non delimitabile, evento della delimitabilità stessa, scrittura di mondo. �pj vacilliamo nel punto del mondo, sul punto del mondo, nel punto del suo evento. Vacilliamo in quel 'noi' che diciamo, in quell' 'io' che ognuno dice di sé,' il quale è in una situazione paradossale e peraltro benefica, altrimenti non sarebbe quel­ l'io che è: perché è palesemente nel mondo, si sa nel mondo, frequenta le cose del mondo, e però anche non è totalmente iscritto nel mondo. Egli frequenta le due facce di un limite: sta nel mondo, si può iscrivere nel

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mondo, può disegnarsi mentre torna a casa, può fotografarsi; ma non si tratta di lui, perché lui è anche il luogo in cui questo accade, è anche il luogo in cùi si può vedere nel mondo, si può fotografare nel mondo. L'io è già iscritto nel mondo Ccome le cose, le estensioni) ma è anche ciò a cui capita il mondo in queste scritture. Perché il mondo non capita da nes­ sun'altra parte; che il mondo capiti da un'altra parte, questa è solo una mia fantasia, la quale di nuovo accade come mondo qui, nella mia fanta­ sia, poiché la presenza è sempre la mia presenza. È la presenza di tutti (di tutte le pratiche) e la presenza di ognuno di questi tutti, dove ognuno è intensive il mondo che accade, lo stesso infinito mondo. Questa è l'intuizione sconvolgente che si ricava dalla relazione di Spinoza tra sostanza e modi. Essa è poi nient'altro che il primo germe della monadologia leibniziana. Leibniz, si potrebbe dire, non ha qui inventato nulla, ma ha portato alle estreme conseguenze questo tipo di pensiero di Spinoza; lo ha fatto genialmente, perché era un grande pensatore, però l'avvio, quel pensare la monade come ciò in cui accade il mondo, cioè tutto il mondo in una sua prospettiva, questo era già scritto nella scrittura di Spinoza: momento della parzialità dell'essere iscritti e momento dell'infinità dell'accadere della parzialità. Potremmo riassumere sinteticamente così: l 'evento del mondo è in noi, l'evento del mondo non è in noi. Perché l'evento del mondo è in noi? ridiciamolo. È in noi perché 'noi' significa questo localizzarsi della presenza, esattamente la situa­ zione presente e le pratiche che ognuno di noi sta ora attuando e nelle quali svolge la figura del soggetto (molto più nel senso del soggetto a queste pratiche, che esercita inconsapevolmente, senza pensarci, che non del soggetto di queste pratiche). Perciò sicuramente l'evento del mondo è in noi, così come la cosa pubblica 'Spinoza' è un evento del mondo, è una delle sue cose. Però l'evento del mondo anche non è in noi, proprio nella misura in cui ognuno di noi è il luogo dell'accadere del mondo e della sua prospettiva. Questo luogo non si può più chia­ mare 'io', perché lì accade l'unicità intensiva del mondo, e l'evento del mondo si dà certo a vedere in questa pratica, ma non è questa pratica; è caso mai il tracciarsi di questa pratica. Perciò diciamo: l'evento del mondo è in noi, ci assegna nel mondo; l'evento del mondo non è in noi, ma non perché sia un'altra cosa; questa è la difficoltà da pensare. Non

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stiamo dicendo: l'evento del mondo non è in noi, perché se uno dice 'io sono il mondo', va al manicomio. Se io qui, nella mia effimera presen­ za, pensassi di essere il mondo, sarei folle; e tuttavia l'evento del mondo accade proprio nella mia effimera presenza, salvo che non posso più dire 'io', che proprio là dove accade l'evento del mondo che si dà a vedere come sua parte, quell'evento non è nominabile così, non è delimitabile così. Proprio lì accade, ma propr�o per ciò � fuori dalla determinatezza di :questo accadere, è indelimitabile da es�a essendone piuttosto lui la delimitazione. Questo evento ha in me il suo aver luogo, ma io non sono lui e lui non è me. Sicché si potrebbe dire, con una frase un po' abusata: non lo è essendolo, lo è non essendolo. Vediamo ora l'altro lato della questione. Cioè: e per il pensiero come stanno le cose? La definizione che abbiamo letto dice ·che ogni cosa è contenuta in' un'altra cosa e che il pensiero terminatur da un'al­ tro pensiero, ma che né l'estensione può delimitare il pensiero, né il pensiero può delimitare l'estensione. Che significa che anche le cogita­ tiones sarebbero terminate, finite: «sic cogitato alia cogitatione ter­ minatur»? Qui 'limitato' potrebbe significare che da un pensiero si va all'altro discorsivamente. Ogni pensiero in quanto non si definisce da sé ha appunto bisogno di continuare a interpretarsi per definirsi. Possiamo immaginare che Spinoza alludesse alla inesauribilità dei pensieri finiti. Nessun pensiero è causa sui infatti, ma è delimitato da altri pensieri e va verso altri pensieri. Che accade però alla fine? C'è un pensiero che chiude la serie? No, perché dovrebbe esserè definito e infinito al tempo stesso. E allora se il mondo nomina questa ideale fine della serie, di nuovo ci imbattiamo nel nostro paradosso: il mondo non può essere pensato. Anzi, lo dobbiamo dire meglio: il mondo· non può essere un pensiero. Infatti la sostanza ib. certo modo non pensa, secondo Spinoza. Altro motivo di scandalo: come osi chiamare Dio, tu transfuga maled�tt,o, traditore di tutte le fedi, questa sostanza che non pensa? Egli avr�bbe potuto rispondere: ho troppo rispetto di Dio per attribuirgli il pensiero, cioè questa finitudine dei segni della parola che caratterizza le res extensae umane. n mondo è ben altro che pensabile, è ben altro che un pensiero, non è una somma estensiva di pensieri. Non ha allora niente a che fare col pensiero? n mondo non è pensiero, ma è intensive in ogni pensiero. Esso è esten-

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sione e pensiero, ma non è né estensione, né pensiero. E allora il vacil­ lamento è completo, ma in quanto tale annuncia la pos�ibilità di uno slancio. Non possiamo pensare il mondo come l'aver luogo d,elle cose, sia nel senso del contenitore, sia nel senso dell'accadimento. Questo è peraltro ciò che ci tormenta sin dall'inizio. Dove, in che modo ha inizio un corso di filosofia? Questa è la domanda che ci ha perseguitato sin qui. Che significa l'aver luogo di un pensiero filosofico, di un inizio filo­ sofico, che non sia meramente storiografico e quindi affidato al pensie­ ro di un altro, semplice frequentazione di una verità pubblica? Dove la filosofia giunge all'autochiarificazione delle sue operazioni, dove si autofonda, dove comincia con il porre la sua questione e non con il fre­ quentare il si dice, il si fa, il si ritiene, dove quel 'si' è sempre la fede nella fede di qualcun altro, come diceva J ames? Ora però quel fondamento cercato scappa da tutte le parti. Se il fondamento è nel mondo, se l'ini­ zio di un corso di filosofia è un evento del mondo, come abbiamo detto, ma il mondo è ciò che non ha luogo, allora non capiamo più niente, non siamo in grado di dominare la abissalità di questa situazione. Nessun pensiero si autodefinisce. Ma se ogni cogitano « termina­ tur» da un'altra cogitano, allora quando diciamo il mondo, pensiamo il mondo, che razza di pensiero è mai questo? Il mondo che pensiamo non è il mondo, appunto perché lo pensiamo, lo determiniamo nel pensiero. La parola 'mondo' non si giustifica da sé; è un pensiero che terminatur da altri pensieri, che si precisa, si definisce attraverso altri pensièri. Ma il mondo nel suo puro che c'è che cos'è allora? Non poten­ do essere definito, non è evidentemente un pensiero. Arriviamo di nuovo di fronte a una oscillazione così pericolosa che sembra addirit­ tura cancellare la possibilità stessa della filosofia: il mondo non è pen­ sabile, la parola mondo non è un pensiero. II 'che c'è' non è dunque né estensione, né pensiero. Il mondo non è esteso, il mondo non è un con­ cetto. Solo ora scorgiamo la necessità profonda che ha costretto Spinoza a distinguereJa sostanza dagli attributi; a dire che la sostanza non è né pensiero, né estensione, pur essendo tutt�e due. Ora vediamo, non per semplici definizioni nominali o per nozioni storiografiche, ma per un cammino di pensiero che aveva la sua intrin­ seca necessità, perché si dov_eva arrivare a quelle definizioni così chiu­ se, così ostiche, così stravolgenti il senso comune. E in effetti, il pen�

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siero di Spinoza, ancorché tanto meditato e studiato, non è mai entra­ to nel senso corrente e comune. Solo poche grandi personalità hanno potuto intenderne qualcosa, cioè farne qualcosa; ma certamente il nucleo genuino della sua problematica è ancora molto lontano dalla nostra verità pubblica, dal modo corrente col quale noi parliamo degli uomini, di Dio, del mondo, della natura, dello spirito e dei problemi connessi, sino ai problemi pi,ù quotidiani della bioetica, delJa fisiologia del cervello ecc. Pefisieri che affliggono la riflessione contejnporanea e che però non sono all'altezza della abissalità del confronto che Spinoza ha istituito con la verità. Siamo di fronte al vacillamento, perché il finito ci frana tra le dita; il che significa ché ciò presso erti quotidianamente abitiamo Oe cose finite e i pensieri finiti), tutta questa finitudine entrq la quale la nostra vita è costantemente dispersa e affannata, tutto questo non si vede in che abbia consistenza: che significato ha la sua consistenza, che senso ha e perché è per noi così rilevante? Pochi millimetri più in là e pren­ deva il cuore; pochi chilometri più �n là e c'era la salvezza; poche ore di volo e i giovani americani morivan.o nel Vietnam, mentre altri giovani si annoiavano ballando il vecchio tip-tap a Brodway. Questo è il mondo! Orribile e sublime, incomprensibile e insensato, inaccessibile, impensabile, e tuttavia luogo di ogni senso. Non possiamo d'altra parte disfarci della verità,,pubblica, del nostro accanito amore per le cose finite; anche se il comune buon senso non sa pensare questa evidenza prima, certamente noi frequentiamo il 'che c'è' nella forma della fini­ tudine, di una finitudine inaccessibile al pensiero, di una finitudine che lo stesso pensiero non può pensare, perché lui stesso è finitudine. Siamo iscritti in una logica del finito che non può dar senso a se stessa e che non può, però, rinunciare a se stessa, se non altro per i suoi trion.:. fi. La scienza non è forse tutta iscritta in una logica del finito? Sono sotto gli occhi di tutti i successi delle scienze; è sotto gli occhi di tutti l'impossibilità di pensare il senso e il destirrb 'di questi successi.

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XI

L'INFINITO

Ora che il pensiero abissale è stato indagato come volevano la terza e la quarta domanda, cioè dal punto di vista del finito, conducendo infi­ ne il pensiero a vacillare, consideriamolo successivamente dal punto di vista dell'infinito. Saltiamo le definizioni della sostanza, degli attribu­ ti, dei modi, che esamineremo dopo e concentriamoci sulla sesta defi­ nizione, che già avevamo letto, relativa all'infinito. Rileggiamone la traduzione italiana e aggiungiamo la explicatio che nel testo dell'Etica è subito dopo fornita. «Intendo per Dio l'ente assolutamente infinito, cioè la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime l'eterna ed infinita essenza » . Esamineremo più avanti che cosa vuoi dire eterna. Leggiamo ora l'explicatio, in cui inserisco un breve inciso che è caduto nell'edizione dell'opera postuma ed è stato recuperato più tardi. «Dico

absolute infinitum, non autem in suo genere; quicquid enim in suo genere tantum infinitum est, infinita de eo attributa negare possu­ mus. Hoc est infi.nita attributa concipi possunt quae ad eius naturam non pertinent. Quod autem absolute infinitum est ad eius essentiam pertinet, quicquid essentiam exprimit, et negationem nullam involvit» . « Dico assolutamente infinito, e non infinito nel suo genere;

possiamo infatti negare infiniti attributi a tutto ciò che solo nel suo genere è infinito. Si possono cioè concepire infiniti attributi che non appartengono alla sua natura. Appartiene invece all'essenza di ciò che è assolutamente infinito tutto quel che esprime l'essenza e non com­ porta alcuna negazione>> . Si vede subito che la questione coinvolge due nozioni di infinito: c'è un infinito assoluto e c'è un infinito nel suo genere. Ovviamente l'infinito assoluto è Dio, la sostanza; infiniti nel loro genere sono gli attributi. Riferiamoci al Breve trattato su Dio, l 'uomo e la felicità, che non compare nell'opera postuma di Spinoza. Trattato incompiuto che si dice sia stata la prima opera scritta da Spinoza; esso restò scono-

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sciuto e quindi inedito sino alla metà dell'Ottocento. È tradotto in ita­ liano da Sansoni, Firenze 19 53. Qui ci riferiamo solo a un punto dove Spinoza parla di Dio. Ne parla in modo che è soltanto a metà spinozia­ :rio e che mostra bene la tradizione da cui Spinoza deriva; nel contem­ po mostra lo stacco che si produce rispetto alla tradizione. Dio, si dice, è un essere del quale tutto, o infiniti attributi, sono affermati, ciascuno dei quali è infinitamente perfetto nel suo genere. Cioè: se Dio è tutto, allora ha infiniti attrìbuti, e o gnuno di questi attributi è a su � volta infi­ nito, nel suo genere. Poi Spinoza scrive una nota in cui comincia a gio­ care col tutto, col niente e con la parte (una nota che in certo modo conforta la nostra lettura di Spinoza). Egli dice: « La ragione di ciò è che il niente non potendo avere nessùn attributo, il tutto deve avere tutti gli attributi. E come il niente. non ha attributi, perché non è n.ulla, il qualcosa ha attributi, perché e qualcosa. Dunque più è qualcosa e più deve avere attributi. E per conseguenza Dio, essendo quel qualcosa che possiede la più alta perfezione, l'infinità, la totalità, deve avere anche attributi perfetti, infiniti e la totalit� degli attributi» . D i fronte a questo pensiero di Spinoza gli storici hanno osservato: Spinoza sta semplicemente ripetendo la nozione medievale di Dio, cioè l'ens quo maius concipi non potest; l'ente di cui non si può pensare niente di più grande. È la questione della tradizionale prova antologi­ ca di S. Anselmo. Tuttavia non c'è chi non abbia notato che, sì, Spinoza parte da queste definizioni di Dio, dalla sostanza medievale, e quindi in ultima analisi aristotelica, ma mette già le cose in una. maniera un po' inquietante, perché è proprio quel concetto di perfezione che in lui assume un sapore differente; e in particolare il concetto di attributo. Per Spinoza (e già lo si percepisce col riferimento a niente, tutto e qual­ cosa) gli attributi non sono aggettivi di Dio, non sono notiones, appli­ cate a Dio, non sono predicati di Dio. E Spinoza è così consapevole della differenza che egli marca su questo pu:r:tç. che, se voi leggete l'ap­ pendice al primo libro dell'Etica, si vede che' proprio di questo si occu­ pa: mostrare che i suoi attributi non sono qualcosa che si aggiunge dal­ l'esterno a Dio, una nozione di Dio; gli attributi sono, al contrario, costituenti essenziali della sostanza, sono la stessa sostanza; ognuno è la sostanza, nel suo genere. Di qui il pensiero abissale: quell'esser mondo e non esser mondo, che però è il nodo che se non si scioglie

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niente viene davvero pensato, ma viene teologicamente messo sul conto di Dio: è lui che fa tutto e buonanotte. Dio non è quindi un luogo della perfezione, delle essenze perfette, come è pensato normalmente dalla metafisica: poi c'è il mondo, ci sono gli enti finiti. Per Spinoza Dio non è il luogo degli oggetti eterni di Whitehead e non è il luogo degli oggetti di Wittgenstein; Dio è invece la totalità reale e perfetta di tutto ciò che c'è, in quanto gli attributi sono lui stesso, il suo stesso corpo, la sua stessa vivente presenza. E questo è il pensiero abissale. Abbiamo detto che ci sono due infiniti. Tutti sappiamo quanto la filosofia, e anche la matematica, siano state tormentate dal concetto di infinito, sin dai tempi di Zenone. Cerchiamo però di stare a questi due infiniti: l'infinito assoluto e l'infinito nel suo genere. Che significa che un attributo è infinitamente perfetto nel suo genere? Perché non riusciamo agevolmente a distinguere tra l'assolutamente infinito e l'in­ finito nel suo genere? Credo che la difficoltà nasca dalla nostra incapa­ cità di pensare la perfezione come la pensa Spinoza. Quando diciamo perfezione vi aggiungiamo di nostro molte cose di cui non siamo con­ sapevoli; cioè, in parole povere, è inevitabile per noi che quando ci sen­ tiamo dire: Dio è l'ente assolutamente perfetto, e quindi infinito per­ ché niente lo può limitare o negare (omnis determinarlo est negatio, dicevano i logici medievali), quando diciamo così, prendiamo la cosa come se stessimo facendo dei complimenti a Dio. È inevitabile pensa­ re questo, perché alla base c'è tutta una educazione filosofico-teologi­ ca. Complimenti feuerbachiani. Feuerbach aveva le sue ragioni quan­ do osservava che definire Dio perfetto, infinito ecc., e l'uomo invece finito, miserabile e peccatore, significa anche mostrare l'inconsapevo­ le generosità dell'uomo; perché è l'uomo che proietta in Dio tutti i pre­ dicati positivi dei quali ha nozione ed esperienza. È l'uomo che è cari­ tatevole, buono, pietoso, previdente; poi se ne spoglia e li attribuisce tutti a questo immaginario Dio potenziandoli all'infinito; e dice: lui sì che è buono, io invece ... il mondo è una valle di lacrime ! Questa però è una proiezione. Feuerbach ragionava in maniera significativa perché si riferiva appunto a una tradizione che quando dice che Dio è perfetto gli fa un complimento. Cioè crea un ente immaginario in cui si sono alie­ nate tutte le qualità positive dell'uomo, il quale tiene invece per sé tutte le negative.

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Feuerbach aveva ragione, ma non si tratta di questo in Spinoza, non è questo il Dio di Spinoza; egli rompe proprio con questa tradizio­ ne. Come allora orientarci? In verità Spinoza ce l'ha data una bussola, solo che noi siamo distratti. Stiamo alle definizioni e cerchiamo di capire cosa vuole Spinoza che noi pensiamo quando dice perfezione. Cosa dice della perfezione? «Nulla re indiget ad existendum», non manca di nessuna cosa per esistere. E allora applichiamo su'Qito questa definizione all'attriDuto : l'attributo nel suo genere è perf�ho perché non abbisogna di nessun altro attributo per sussistere. Non è che l'estensione per sussistere abbisogni di esser pensata; non è che il pensiero per sussistere abbisogni di tradursi in un'esten­ sione, di vedersi come una cosa. L'attributo ha bisogno di una sola cosa per sussistere (e perciò è perfetto e infinito solo nel suo genere): della sostanza. E in questo senso è perfetto, ma nel suo genere. La sua per­ fezione ha questo limite, che si appoggia alla sostanza. E di infinito, stando sempre alle definizioni, che cosa sappiamo? Ciò che non può essere limitato da altra cosa della stessa natura. Spinoza intende dire: se Dio è ciò che esiste assolutamente per se stes­ so, che non si appoggia ad altro e non è terminato da altro, che non è contenuto in altro, perciò è l'esistente stesso, preso nel suo evento puro, nella sua intrascendibilità, indefinibilità Oa sostanza, come sap­ piamo, non si definisce, ma si autoesibisce), se Dio è ciò che esiste assolutamente per se stesso, allora in questo senso è perfetto. Cioè nient'altro che perfettamente esistente. Perfettamente esistente significa che se immaginate altri mondi, non sapete pensare, perché gli altri mondi sono ancora questo mondo, sono il mondo stesso, l'esistente stesso, Dio: e Dio è qui, dappertutto: intrascendibile che c'è (che è poi il primo aspetto del pensiero abissa­ le) . Cominciare a pensare questo vuol dire comprendere l'assoluta infi­ nità di Dio, con delle conseguenze etiche ç,h� ora possiamo meglio apprezzare e che sono molto importanti. Anzitutto dobbiamo dire: se questa è l'accezione in base alla quale dobbiamo pensare la perfezione in Spinoza (e d'altra parte, come pen­ sare altrimenti la perfezione se non in maniera pregiudicata, quindi non pensandola davvero?), se questa è l'unica accezione autoconsi­ stente, allora ogni altro concetto di perfezione va tenuto fuori dalla ·



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porta. Questa è la perfezione di ciò che sussiste da sé, che è principio, origine, fondamento di sé. Ma allora la perfezione dell'assoluta auto­ sussistenza non ha nessun bisogno, e non è anzi opportuno, che sia pensata come buona, caritatevole, intelligente, provvidenziale ecc. Questo non è pensare, ma colorire indebitamente in maniera antropo­ logica questo vasto e incomprensibile mondo. Infatti, buono, intelli­ gente ecc., certo esistono, ma sono gli attributi, non la sostanza. E anzi più determinatamente sono modi di certi attributi e non la sostanza, non ciò per cui ciò che c'è, c'è, sicché nessun pensiero potrà mai tra­ scendere questo fatto. Spinoza prende bensì dalla tradizione i concetti di perfezione e di infinito, ma ne stravolge il senso. Così almeno comu­ nemente si dice. Io direi: ne pensa più profondamente il senso. Questa certamente è la via per comprendere l'Etica di Spinoza. Egli non pensa che Dio sia intelligente; non lo si può pensare perché il mondo non è pensabile. E allora la via che Platone, frequentando pensieri altrettan­ to profondi, trovandosi di fronte allo stesso nodo, che è il nodo stesso della filosofia, aprì nel Sojista fu in realtà un equivoco, un trucco o sofi­ sma del pensiero. Di esso è vittima il povero Teeteto che, essendo gio­ vane e inesperto, ci casca subito. Quando lo straniero di Elea, di fron­ te a questa necessità di definire l'essere, gli dice: Teeteto, insomma tu cosa pensi, che questo essere debba essere intelligente o no? Teeteto subito gli risponde che certamente l'essere è intelligente. Allora lo stra­ niero di Elea fa un gran sospiro e gli dice : bravo, hai fatto benissimo a rispondere così, e ti dico che se non lo avessi fatto, ci saremmo ferma­ ti qua e io avrei insistito fino alla morte per convincerti con ogni mezzo che bisognava pensarlo come intelligente, sicché non ti avrei lasciato andar via sino a che non ti fossi convinto. Già, perché la questione si gioca tutta lì. Se Dio è intelligente, è dotato di nous, di intelletto, allo­ ra tutta la filosofia platonica si mette in movimento; la strategia dell'a­ nima, l'immortalità, il bene sommo, tutta la metafisica si mette in movimento. Ma se noi ci fermiamo lì e diciamo : guarda che stiamo indebitamente giocando ed equivocando sulle nozioni di intelligenza e perfezione, allora anche ci accorgiamo che questo è un gioco pericolo­ so. Perché noi abbiamo chiesto che è essere, non se l'essere è buono, bello, sapiente ecc., abbiamo chiesto che è questo mondo che è. Con tutto questo l'intelligenza non c'entra per niente. L'intelligenza è un'at-

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tribuzione ulteriore, ed è una proiezione. Certamente è un attributo di questo essere, ma non è l'essere in quanto tale che, come tale, non ha bisogno di essere intelligente. Diciamo che è altro dall'intelligenza. In conclusione: Dio è tutto ciò che esiste; quindi non può essere limitato da niente altro. In questo senso è infinito, e in questo stesso senso ora dovremo comprendere come sono infiniti gli attributi, in quanto essi sono infiniti ognuno nel suo genere, rispetto a questo infi­ nito assoluto. Potremmo esprimerci in questo modo: un attributo è infi­ nitamente perfetto nel suo genere perché coincide . con l� sostanza, ovvero ne esprime l'eterna essenza. La quale è poi l'autosussistenza. Anche l 'attributo quindi, congenere alla sostanza, è autosussistente e perciò non è limitato da niente altro nel suo genere, come infatti ed espressamente aveva detto subito Spinoza. Ma allora dobbiamo Jar gio­ care due nozioni differenti di infinità. La prima, quella della sostanza, quella assolutamente perfetta, chiamiamola, per intenderei, un'infinità intensiva. La sostanza infatti è la totalità dei generi, degli attributi, il che significa che è non estensivamente, ma inten�ivamente, in ognuno. La sostanza è infinitamente perfetta in senso intensivo. Gli attributi hanno invece un'infinità estensiva; sono, nel loro genere, infiniti. Sorge però una questione, una di quelle che, guardata bene adden­ tro, getta luce su tutto. Ogni attributo è infinito perché congenere alla sostanza; ma allora ppssiamo pensare che il numero degli attributi sia finito? No, devono essere infiniti gli attributi, perché, come appunto ricordavamo, omnis determinatio est negatio. Per di più la finitudine del numero degli attributi delimiterebbe la sostanza stessa. Ecco per­ ché devono essere infiniti, ognuno, e infiniti nel numero. Questo è in realtà un punto delicatissimo. Non accontentiamoci del valore forma­ le del discorso e cerchiamo di capire cos'è in gioco in tale questione dell'infinità di numero degli attributi; la quale poi conduce a quella nota posizione secondo la quale, sebbene siano infiniti di numero, noi però ne conosciamo solo due (estensione e p tfusiero), infatti non abbia­ mo altro che questi due nella nostra limitata esperienza. Solo che pro­ cedere così, significa seguire Spinoza passivamente. Cosa si dice infat­ ti di solito, come si spiega questo passaggio dall'infinità della sostanza · alla infinità del numero degli attributi? (Anche, bisogna aggiungere, utilizzando espressioni ambigue che lo stesso Spinoza usa quando

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parla della sostanza come causa efficiente). Il ragionamento che si fa è il seguente: se la sostanza è infinita, non può che avere infiniti attribu­ ti; cioè non si può che vederne zampillare infiniti attributi, perché se infinita è la causa, infinito è l'effetto. Così però si ragiona alla Bruno, cioè neoplatonicamente. Per dir così, l'infinità degli attributi è dedotta dall'infinità della sostanza. In realtà non si tratta affatto di questo, sic­ ché così deducendo, non si pensa il nodo vero che lì è in questione. Infatti, riflettiamoci un attimo : le cose non possono essere messe così; se le mettiamo così, allora tutto quello che abbiamo detto prima non sta più in piedi. Noi ragioniamo come se la situazione fosse la seguente: che la sostanza se ne sta da una parte; essa è infinita e se ne sta là, in sé, senza gli attributi. Ma poi essa, essendo sovrabbondante e molto 'energica' (enérgeia), dà luogo a infiniti effetti, a infiniti attribu­ ti, che se ne stanno dall'altra parte. Ma la sostanza non se ne sta da sé; non c'è mai scritto questo in Spinoza, e non è questo il suo pensiero abissale. Il quale dice invece che la sostanza e gli attributi sono la stes­ sa cosa, stanno nello stesso luogo ; niente è prima o dopo tra sostanza e attributi. E poi la sostanza non è qualcosa da cui si possa inferire qualcos'altro. Quale cosa? In che modo? L'infinità della sostanza non la possiamo tenere sotto gli occhi, come abbiamo l'aria di far credere quando diciamo : essendo infinita, vedete, ne derivano infiniti attribu­ ti. Ma cos'abbiamo sotto gli occhi quando formuliamo questo pensie­ ro: la sostanza infinita donde poi ne derivano ecc.? Non abbiamo sotto gli occhi niente, perché nessuna esperienza ci dà la sostanza, il mondo. Esso è qui, in ogni esperienza, ma non come la sostanza in sé, o come il mondo in sé. Quindi non c'è un luogo che le è appropriato; abbiamo anzi imparato che è il luogo di tutti i luoghi, il che è appunto ciò che non sappiamo come pensare. Sicché l'oggetto finito dell'intuizione sen­ sibile non si sa proprio dove parlo. Diciamo: le coordinate di ogni evento finito sono fittizie, e quindi la sostanza non vi può ricadere, assumendola come qualcosa donde deriverebbe qualcos'altro. Le coor� dinate di ogni evento sono una pratica ermeneutica (direi nel mio Un guaggio), non qualcosa da mostrare. Perciò l'infinità della sostanzn che non può essere nemmeno nel pensiero presupposta come uno sttu·e n sé, come un 'che' che sta a sé, fa vacillare e smentisce ogni preteHt\ d l dedurne alcunché. ..

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Quello che invece dobbiamo pensare fermamente, per essere fede­ li al senso delle definizioni spinoziane, è che l'infinità della sostanza consiste unicamente in ciò : che è impensabile un esistente che la deli­ miti. Questa è la sua perfezione, la sua infinità, perché ogni delimita­ zione è già una traccia del suo corpo, sicché solo in questo senso l'esi­ stente in quanto tale è infinito. Solo in questo senso. Ma in che senso? Che vuoi dire indelimitabi­ le? Ci siamo già scol!ì.trati con questo pensiero, e ne siamo v�nuti fuori con le ossa rotte. Pensando l'indelimitabilità a partire dalla limitazione finita, abbiamo semplicemente visto che il finito ci franava tra le mani. Ma adesso dobbiamo venire a una resa dei conti con questa indelimi­ tabilità, in quanto è propria �ella sostanza stessa. Perché, trattandosi della sostanza stessa; del mondo, di Dio, è evidente che qui indelimita­ bile non può voler dite 'esteso'; non può voler dire che questa sostanza è infinitamente estesa, che il suo infinito è un infinito extensive. Se dicessimo così: indelimitabile vuoi dire che non c'è un altro luogo oltre il mondo, non c'è un altro spazio al di là del mondo, se pensassimo in questo modo, staremmo facendo prpprio quel che non dobbiamo fare, secondo Spinoza; cioè staremmo già determinando la sostanza. Infatti la staremmo pensando sotto il profil� dell'estensione. Ma omnis deter­ minatio est negatio: la sostanza non si può definire e quindi non la si può pensare neppure,.,estesa; sicché indelimitabile non può voler dire: più grande di ogni più grande. E d'altra parte, cos'è l'estensione se non appunto un attributo della sostanza? È ben evidente che Spinoza frequentava questi pensieri. L'estensione è un infinito nel suo genere, ma non è un infinito assolu­ to. L'estensione è la materialità della sostanza, ma non la sostanza. È ciò per cui non posso entrare nel muro, perché la sua estensione si scontra con la mia. Tanto gli era chiaro che, quando parlava di esten­ sione, diceva: essa esprime la stessa essenza çlella sostanza, ma non è la stessa essenza della sostanza. Sicché l'este lisione è infinita solo in quanto genere della sostanza, non assolutamente. E allora l'estensione è infinita nel suo essere essenziale di esistenza pura e semplice, cioè come sostanza o come Dio, non per il genere esteso esso stesso o per il genere pensato, o per qualsivoglia altro. Non è infatti sotto il profilo dell'estensione, né sotto il profilo di qualsivoglia altro attributo, per

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esempio del pensiero, che dobbiamo pensare l'assolutamente infinito della sostanza. Torniamo ora agli attributi. Dopo quel che abbiamo detto, ha forse senso porre la questione dell'infinità numerica degli attributi? Non ha senso e ora mostreremo perché. Gli attributi della sostanza, infiniti quanto la sostanza, sebbene ognuno nel suo genere, sono evidente­ mente a loro volta indelimitabili. Ognuno è anzitutto indelimitabile per sé:' ce l'ha detto chiaramente Spinoza. L'attributo è infinito proprio perché nell'estensione non ci può essere un'estensione più grande che chiude l'attributo dell'estensione, oppure non può esserci un pensiero più grande che chiude l'attributo del pensiero. Ma questo allora signi­ fica che, se ognuno è indelimitabile per se stesso, la loro totalità è a sua volta numericamente indelimitabile, proprio come la sostanza non è misurabile, non si può dire che è più grande, più piccola, che è lunga, bassa, o alta. Come faccio a delimitarli numericamente? Se lo faccio, li sto delimitando l'uno con l'altro. Ma questo è precisamente ciò che Spinoza dice che non si può fare. E allora dobbiamo cominciare a ten­ tar di pensare, ancorché sia arduo, che gli attributi sono infiniti non perché numericamente infiniti. E perché allora? Proviamo a dire così, poi vediamo se regge la proposta: non perché sono di numero infinito, e quindi delimitabili l'uno con l'altro, il che non ha senso (il pensiero non delimita l'estensione, l'estensione non delimita il pensiero, e ognu­ no per sé è indelimitabile perché è uguale all'essenza della sostanza), ma perché infinitamente possibile è la qualificazione della sostanza. Per ora naturalmente è solo una frase. Ragioniamo un attimo sulla sostanza. Abbiamo detto che la sostanza è una totalità infinita non perché è la somma di infiniti attri­ buti. Che è totalità infinita è pleonastico, va da sé, è tautologicamente espresso nelle definizioni. Se la sostanza è ciò che assolutamente è per sé, non può che essere infinita, cioè indelimitabile da alcunché. Questo è in fondo il ragionamento di Melisso: l'essere deve essere infinito, per­ ché l'essere non può essere delimitato da un altro essere. Ma la sostan­ za è poi infinita, proprio in quanto non comprende in sé un numero infinito di attributi. La sostanza non è fatta di attributi; chi pensa così non pensa, o pensa rozzamente. La sostanza non è fatta di attributi perchè l'attributo è definito da Spinoza: ciò che l'intelletto percepisce

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della sostanza, come costituente la sua essenza, laddove la sostanza è ciò che si concepisce di per sé. Questo è appunto il nodo che dovremo sciogliere. Ma cosa ricaviamo di utile da questi avvertimenti? Che la sostanza è potersi concepire di per sé, cioè è attributo, essendo l'attri­ buto ciò che viene percepito della sostanza. E allora Spinoza scrive: ogni attributo quindi esprime un'essenza eterna e infinita, cioè l'essenza infinita della sostanza. . Adesso faccianih il passo decisivo. Se stiamo fermi e a�enti a quel che abbiamo detto, allora dobbiamo dire che, quanto agli attributi, l'es­ senza che essi esprimono, per così dire, è una e ogni volta una, cioè la stessa. Non è una, più una, più una, più una, all'infinito, come se la sostanza fosse fatta appunto di attributi. Ogni attributo esprime la totalità della sostanza, specificata in un genere che è ogni volta uno, cioè tutt'uno. Quindi non dobbiamo assolutamente pensare la sostan­ za come se la sua totalità fosse l'insieme, la somma, l'aggregato di que­ sti infiniti attributi numericamente uno più uno. Ma dobbiamo pensa­ re che ognuno è tutta la sostanza intensive. All'infinita esistenza in sé della sostanza è del tutto indifferente quanti siano gli attributi, perché gli attributi sono indifferenti. Pensiamo bene questo pensiero. Ho detto due cose: la prima più banale, la seconda più profonda. Alla sostanza è indifferente quanti siano gli attributi; infatti non è lì il problema; gli attributi non si pos­ sono quantificare, sorio indelimitabili, non sono '1+1+1+1+n. Ma poi ho detto un'altra cosa dentro questa: alla sostanza l'attributo è in-diffe­ rente. Non c'è differenza, per la sostanza, tra gli attributi. Sono gH attributi che fanno differenza, mentre alla sostanza non interessa esser pensata, o esser estesa, è indifferente. Dal punto di vista della sostan­ za tre attributi non sono più di due, trecento di duecento, tremila di·. duemila. Tre non la delimiterebbero più di due perché nessuno la deli­ mita, essendo la sostanza l'indelimitabile. Quindi dal punto di vista della sostanza la questione dall'infinito nu rll� ro degli attributi non si può neppure porre; essa non ha senso, perché per la sostanza gli attri­ buti, in quanto tali, sono indifferenti. Questo però si deve dire anche degli attributi fra loro. Neppure un attributo delimita l'altro: questo lo sappiamo, ce lo ha detto Spinoza, sebbene noi continuiamo a pensarlo sul piano della mera definizione

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formale. Per esempio pensiamo che il pensiero non si delimita con l'e­ stensione, perché sono cose eterogenee. Ma non è questo il problema. Gli attributi non si delimitano l'un l'altro perché non c'è niente da deli­ mitare: questa è la vera questione. Ognuno infatti percepisce l'intera essenza della sostanza, non un pezzettino. Stiamo lavorando sul gran­ de problema di Platone di come si mettono gli individui rispetto all'i­ dea: grandi problemi della metafisica, ed è proprio questi nodi che Spinoza affronta a suo modo. In quanto ogni attributo percepisce l'in­ tera essenza della sostanza nel suo genere, allora è indelimitabile dal­ l'altro perché lui stesso ha già l'intera essenza. È per questo che si dice nella seconda definizione: un corpo non è limitato da un pensiero, né un pensiero da un corpo. Se poniamo la questione sul piano, a prima vista ovvio, per il guale non posso pensare di fermare una cosa in moto col pensiero, oppure non posso pensare di far pensare una cosa estesa perché si tratta di cose eterogenee, allora stiamo ancora pensando come Malebranche, come gli occasionalisti e infine come Descartes; cioè stiamo pensando che le estensioni siano res, sostanze, e che i pen­ sieri siano a loro volta res, sostanze; donde il grande problema che nella storia della filosofia è appunto rubricato sotto il capitolo dell'Occasionalismo. Grande problema che poi non è giusto pensare sia solo dell'Occasionalismo; esso arriva sino a oggi, con le attuali discus­ sioni insensate sul rapporto mente-corpo, sul cervello, il pensiero ecc. Donde la grande questione: come fa una sostanza che non ha parti a recepire le percezioni delle cose che invece sono fatte di parti, sono spaziali? quindi come faccio a percepire il muro di fronte? Se seziono e analizzo la mia testa e la divido col bisturi, trovo bensì una serie di movimenti, per dirla nei termini della metafisica cartesiana, trovo una ,serie di stati di fatto, di cose che si possono sperimentalmente esibire, addirittura simulare, indurre con scariche elettriche; ma dove trovo l'immagine, dove la rappresentazione, dove trovo il muro come io lo percepisco? In nessuna cellula del cervello; allora devo ammettere qualcosa d'altro dal cervello (supponiamolo pure nella ghiandola pineale come voleva Cartesio): è evidente che la natura della nostra esperienza non si spiega in termini materialistici, perché resta sempre un ultimo esito che non è materialistico e che oltre a tutto è lui stesso che fa tutto questo discorso.

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La percezione che mi viene dall'esterno, . dove si colloca all'inter­ no? Oppure l'altro problema: se voglio muovo un braccio, ma dov'è questo io voglio? dove comincia? nei nervi, nei muscoli, nelle cellule cerebrali, nelle loro infinite diramazioni? « Io voglio » non lo trovo lì. Dobbiamo ammettere, secondo Cartesio, gli Occasionalisti, e infine tutti noi, che qui siamo di fronte a cose differenti: un conto è il corpo come mac�hina; un altro conto è la volontà, la libertà, la sc�lta, la deci­ sione; queste non nascono fn nessuna cellula del cervelloff in nessun muscolo; nascono in una sostanza differente. Ma sorge nondimeno il grande problema: come fa una cosa che è estesa a muoverne un'altra che invece non è estesa? Come fa una cosa che è estesa come il muro di fronte a determinare un effetto, la percezione, su una cosa che non è estesa, l'anima? Ecco il grande problema dell'Occasionalismo. Dappertutto si legge che Spinoza 'risolve' o 'supera' questo proble­ ma, in quanto che nega la sostanzialità e dell'estensione e dei pensieri; e si dice: egli ne fa due attributi della sostanza. Ma Spinoza non ha semplicemente pensato nella sostanza un ponte fra due eterogeneità; né ha semplicisticamente e verbalisticamente pensato che se estensio­ ne e pensiero sono entrambi attribùti della sostanza, allora non c'è più problema, perché appartengono per definizione già alla:sostanza, sono già nell'unità della sostanza. La grandezza di Spinoza, ciò per cui effet­ tivamente egli va oltt.e il dualismo cartesiano, ciò per cui effettivamen­ te ha da insegnare qualcosa anche a noi, che siamo ancora dualisti car­ tesiani in tutta l'organizzazione della ricerca scientifica, sta in ciò: che egli appunto dice che non abbiamo due 'cose' come due attributi; gli attributi non sono cose e non sono delimitabili l'uno con l'altro; e quin­ di non sono un numero né finito, né infinito, non si tratta di questo. Si tratta invece di capire che ogni attributo è ogni volta uno, è l'unica sostanza, l'unica essenza; sicché è esattamente lo Stesso (torna lo Stesso, che emerse quando parlavamo dell'Altro come lo Stesso, in base alla nostra decisione dell'inizio) dire eh� l'a sostanza è estesa e dire che la sostanza è pensata: sono la stessa cosa. Ecco perché non ha nep­ pure senso dire che la sostanza è intelligente, buona, ecc. È esattamen­ te lo Stesso dire che la sostanza è estesa o pensante. Gli attributi sono indelimitabili: sono infiniti non numericamente, ma in quanto ognuno di essi è l'infinità stessa della sostanza, vista in un genere.

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Ma allora è questa stessa indifferenza che è infinita: è lì che dob­ biamo cogliere l'infinito nel suo genere. Abbiamo detto: è esattamente lo stesso dire che la sostanza è estesa e che la sostanza è pensata; è lo Stesso; ciò è indifferente alla sostanza rispetto ai suoi attributi, perché gli attributi le sono indifferenti, non differenti. Allora è questa indiffe­ renza che è infinita. È infinitamente indifferente che io dica esteso o che dica pensante, cioè la qualificazione attributiva della sostanza; in quanto qualificazione attributiva della totalità, essa è a sua volta tota­ le, cioè indelimitabile, cioè indefinibile. Non posso definire un attributo con l'altro, perché ogni attributo è infinito in sé, nel suo genere; esso si autopresenta, si autoesibisce, come la sostanza di cui esprime l'essenza. Non c'è definizione dell'in­ telligenza, non c'è definizione della materia: esse si autopresentano come lo Stesso, e così non si possono quantificare e dire che ci sono infiniti modi di dire la sostanza, cioè infiniti attributi numericamente. Diciamo ora così: cosa sono allora questi infiniti attributi, infiniti nella loro indifferenza, infiniti nel loro genere, per cui uno è indiffe­ rentemente l'altro? Gli attributi sono il trascolorare infinito della sostanza attraverso di essi, sono la sua pura transitività, la sua pura traducibilità, in modo tale che uno è esattamente identico all'altro, lo ricopre identicamente nel suo genere. Anzitutto possiamo metterei davanti agli occhi uno schemino. Supponiamo di affidare a un semplice circolo l'immagine della sostan­ za: diciamo che quel circolo simboleggia la sostanza. Poi prendiamo i due tradizionali attributi e diciamo che le linee oblique verso sinistra simboleggiano l'estensione, e che le linee oblique verso destra simbo­ leggiano il pensiero (potremmo anche supporre che le prime siano verdi e le seconde rosse).

sostanza

estensione

pensiero

sostanza e attributi

Il rapporto .sostanza-attributi, che non è il rapporto di una infini­ ta totalità con l'infinito numerico quantificarsi dei medesimi, ma è un

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infinito intensive, questo rapporto potrebbe allora essere rappresenta­ to così: la sostanza, la quale ha dentro di sé l'attribuzione dell'esten­ sione (le linee verdi), cioè il pensiero O.e linee rosse) . E immaginiamo­ ci che continuamente si passi dalle linee verdi alle linee rosse, che si trascolori dall'una all'altra. Aggiungendo una cosa fondamentale : non tenete distinta la linea circolare della sostanza da questo trascolorare; l'abbiamo dovuto fare; perché non potevamo fare altrimenti con un disegno, ma cancellatela nella vostra immaginazione. La! linea che 1 abbiamo tracciato pensiamola non come linea che delimita {la sostan­ za infinita non delimita e non è delimitata da niente); la sostanza è tutta in questo trascolorare delle linee: verde-rosso, verde-rosso, in questo lampeggiare, in questo tracciarsi nella differenza, in questo dif­ ferenziarsi in se stessa; cioè nel daJ;si a vedere come estension�, ovve­ ro come pensiero, nel darsi a vedere come pensiero, ovvero come estensione. Cancellare l'orlo del circolo è essenziale perché la sostanza non è una cosa, ma è il trapassare stesso di quelle d9ppie righe verdi e rosse, le quali sono continuamente l'una ;il doppio e il rovescio dell'altra e ognuna tutta la sostanza. Pensare questo trascolorare, l'essere ognuna il rovescio dell'altra ed essere ognuna tutta la sostanza (pensiero pale­ semente contraddittorio per la logica del finito) : questo è il nodo che abbiamo davanti; sciolto il quale, se lo scioglieremo, essendo il nodo dello Stesso e dell'Altro, allora forse il pensiero abissale ci apparirà in tutta la sua portata.

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XII LA SOSTANZA

Veniamo finalmente alla terza, quarta e quinta definizione, cioè alla questione che continuamente aleggia dietro ciò che diciamo: sostanza, attributi, modi, la questione cardine di Spinoza. La terza definizione, che abbiamo già letto in latino, dice : «Intendo per sostanza ciò che è in sé e che per sé si concepisce; vale a dire. ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un'altra cosa dal quale debba essere formato>> . Quarta definizione: «Per attributum intelligo i d quod intellectus

de substantia percipit, tanquam eiusdem essentiam constituens» .

«Per attributo intendo ciò che l'intelletto percepisce della sostanza, come costituente la sua essenza» . Quinta definizione (anch'e.ssa rapidissima e chiarissima, e forse troppo chiara, perché è la definizione del problema più grosso di tutto il sistema di Spinoza) : «Per modum intelligo substantiae affectiones, sive id quod in alia est, per quod etiam concipitur » . « Per modo inten­ do le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro [è sempre in un attributo, non in sé, è sempre nella sostanza, non è causa sui], ossia ciò che è in altro e per cui anche viene concepito» [il modo può essere con­ cepito solo entro l'attributo in cui sta: è in virtù del pensiero che c'è un modo del pensiero, cioè questo pensiero determinato; è in virtù del corpo che c'è un modo del corpo, che è questo corpo determinato. Quindi: sta al corpo, non iD; sé, ed è definito attraverso il corpo; sta nel pensiero, non in sé, ed è definito tramite il pensiero] . E qui siamo di fronte alla caratteristica impenetrabilità di Spinoza; adesso gli giriamo intorno, prima di buttarci in questo vortice. Non c'è dubbio che Spinoza sta nascosto dietro le sue otto defini­ zioni, sulle quali si sono scritte migliaia di pagine; sta dietro queste muraglie, assorto in una visione irrecuperabile: che cosa aveva visto, che cosa aveva domandato? Quello che Spinoza ha visto è un segreto che le indagini storiografiche potranno continuare all'infinito, e conti-

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nueranno chissà per quanto, a interrogare; ma non ci porteranno, per sé sole, nel cuore della visione di Spinoza, il cui segreto ha ispirato tante

altre visioni, da Goethe, Schelling e Hegel, sino a oggi, Deleuze,

Althusser ecc. Quello che colpisce di più è che colui che cerca di com­ mentare Spinoza fa ogni sforzo dell'intelletto per capire; ma questo

sforzo ha lo strano effetto di vanificare il segreto. Più la sottigliezza si esercita, più sfugge qualcosa di essenziale. Lo sforzo analitico, poi, con­

duce spesso a dire che il sistema di Spinoza è assurdo, pierlo di con­ traddizioni, di oscurità; Spinoza dice delle cose che poi non i possono



più tener ferme con quelle che dice dopo. Il che però dovrebbe indurre tutti a pensare che non abbiamo ancora capito bene, e non a conclude­

re sbrigativamente che Spinoza è caduto in contraddizioni, in assurdità

e oscurità. Resta il fatto che per quanto l'intelletto eserciti la sua. anali­ ticità, al di là e all'interno di questa analiticità, che giustamente vuoi capire parola per parola, si rianima di continuo una visione possente,

un senso generale, ed è questa intuizione possente e misteriosa che sospinge nei secoli all'impresa di espugnare la cittadella. Leggiamo due p�gine della prefazione di Giorgio Colli alla tradu­

zione dell'Etica nell'edizione Bollati Boringhieri. « L'Etica richiede let­

tori non pigri, discretamente dotati

e

soprattutto che abbiano molto

tempo a loro disposizione. Se le si concede tutto questo, in cambio offre molto di più di qvello che ci si può ragionevolmente attendere da un libro : [già, ma perché l'Etica non è un libro, così come il Tractatus

o la Fenomenologia dello Spirito; chi non ricorda questo, ragiona corr la logica degli editori; i libri di filosofia non sono libri, sono altra cosa. Il libro è una materializzazione per modum, ma ciò che il filosofo vuoi fare in un libro non è della letteratura; egli coagula nella scrittura una esperienza, una visione, un incontro, un momento di vita] svela l'enig.,.

ma di questa nostra vita e indica la via della felicità, due doni che nes­

suno può disprezzare. Ogni filosofo vuoi trovare un senso - ossia un'u­ nità - del mondo; ma gli oggetti che deve co�·siderare sono infiniti, e i

nessi concettuali che deve stabilire tra di essi sono, se possibile, anco­

ra più infiniti. Il vigore di un filosofo è misurato dall'ampiezza di que­

sta rete, che egli getta sulle cose [immagine wittgensteiniana] , tentan­ do di afferrarle e di stringerle. Ma ciò che conta ugualmente è la quali­

tà del tessuto di questa rete. La bava del ragno [un'immagine di

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Bacone] deve essere rilucente e uniforme, e tenue abbastanza da

ingannare la preda [cioè da cogliere la cosa] . È la forza dello sguardo che stabilisce questa unità, lucida e avvolgente. Per profondità di un

filosofo si intende appunto ciò e, dopo i greci, nessun filosofo è stato profondo nella misura di Spinoza. Chi si accinge a leggere l'Etica, si trova anzitutto di fronte a difficoltà grandissime: le definizioni, gli assiomi, le proposizioni, gli scolii, si presentano come bastioni inespu­ gnabili, quasi isolati e ostili gli uni agli altri. Ma approfondendo l'inda­ gine, cioè scendendo nei cunicoli sotterranei di ciascun bastione, si scoprono i collegamenti. Per inoltrarsi nel buio di queste gallerie,

occorre possedere un cuore fermo, e un occhio notturno. I contrasti tra

i pensieri spinoziani vanno attenuandosi, man mano che si segue cen­

trifugamente la loro concatenazione. E chiunque si compiaccia di indu­ giare sull'incompatibilità di due proposizioni, dovrebbe ragionevol­ mente dubitare dell'ampiezza del proprio respiro intellettuale, prima che della coerenza di Spinoza. Perché il punto dove convergono i pen­ sieri di costui - l'unità della sua visione - è sepolto in un abisso, e occorronò giorni e mesi di meditaz ne, per scavare sino in fondo il



pozzo di ogni singola proposizione. Se tale è la natura di Spinoza, a ben

poco serve il collocarlo nel suo tempo, e studiarlo storicamente, inda­ gando il nesso che lo collega ai filosofi precedenti, e ricercando le trac­ ce del suo pensiero nella speculazione posteriore. Certo, egli si serve di molti concetti offerti dalla tradizione, ma li riempie dei suoi contenuti; e quando avremo stabilito i suoi presupposti culturali e i suoi influssi, continueremo a scivolare lungo la superficie di una sfera, in cui invece si tratta di penetrare sino al centro. D'altronde non ha senso chiederci che cosa sia vivo di lui oggi, perché l'unica risposta sincera è: nulla [nessuno filosofa più come Spinoza, anche se molto è presente di Spinoza attraverso la tradizione] . Ma tale risposta, anziché autorizzar­ ci a trascurarlo, dovrebbe indurre a riprenderlo seriamente in conside­ razione. Perciò sono più stimabili; o almeno utili, i suoi denigratori che non i tiepidi e cauti ammiratori. Perché quelli fecero rumore intorno alle parole miti, ma terribili, che suggerivano agli uomini la liberazio­ ne dai miti della religione e della filosofia, dalla credenza nel libero arbitrio, dalla millenaria superstizione sul valore assoluto del bene e del male. Eppure, ancora oggi il bene e il male sono concetti assoluti, e

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Carlo Sini -�

il finalismo domina le menti degli uomini. In Spinoza non vi sono frat­

ture: la sua vita fu in armonia con il suo pensiero. L'uomo non si distin­ gue dalla sua opera [ecco perché l'opera non è un libro] . E ancora, il

problema della conoscenza non si divide dal problema morale [è una delle rivoluzioni dell'Etica] . Così in ogni parte della sua opera. L'antitesi tra razionalismo e irrazionalismo, cui da secoli tutti soggiac­ ciono, è guardata dall'alto, secondo la prospettiva del

conatus

[che è

uno dei concetti ca!ldine per spiegare le passioni e il loro mbvimento] . Il crepaccio che separa l'individuo dal tutto viene saldatd [questo lo vedremo: è la questione del modo] , senza danno né per l'una, né per l'altra parte. Attraverso la cosa singola si può giungere intuitivamente alla totalità : la tesi mistica è dimostrata con la ragione. Spinoza è un'u­ nità, mentre il mondo moderno è una molteplicità frantumata. La voce di Spinoza giunge a; noi da lontano, sommessa; non chiede di essere

ascoltata.

L'Etica ha la fermezza di un tempio,

in un paesaggio disabi­

tato : se sapremo contemplarlo, penetrare devoti nel suo interno, cono­ sceremo il divino » . Riprendiamo la questione de�la sostanza e introduciamoci con ' prudenza, anzitutto ricordando che i tentativi di chiarire la sostanza di Spinoza sono stati e sono tuttora innumerevoli. Il principale riferi­ mento è a Cartesio. Certamente la definizione che Spinoza dà della sostanza risente mo�to da vicino della definizione cartesiana, anche se è palesemente una modificazione · di questa definizione. Però gli stu­ diosi non si sono accontentati del riferimento a Cartesio, ma hanno tirato in ballo tutta la storia della filosofia, da Aristotele a S. Tommaso, a Giovanni Damasceno, a Suarez, agli scolastici vari, persino a un certo Burgersdijck, che era uno scolastico olandese che sappiamo noto a Spinoza; anche lì hanno cercato di scavare per vedere che cosa even..:, tualmènte Spinoza avesse preso da questo precedente. Trovate una bella rassegna di tutti questi vari riferimenti nell'importante commen­ ' to di Giovanni Gentile alla edizione dell'Etica di Sansoni. Tra tutte queste varie citazioni ce n'è urta però che voglio ricorda­

È un passo cartesiano contenuto nelle Responsiones Renati Descartes ad quasdam difficultates etc., raccolte dal B urman (Entretien avec Burman) e stampate nella edizione Adam, Parigi 1937, re.

p. 34. Di fronte alla domandà di cosa egli intendesse per sostanza,

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Cartesio pare che rispondesse così: «Omnia attributa, collective sunta,

sunt quidem idem cum substantia, sed non singola et distributive sunta; et sic maius est producere substantiam quam attributa, scili­ cet singula ex attributis, vel nunc unum, nunc aliud, et sic omnia» . Q ui Cartesio dice una cosa che per metà è spinoziana e per metà non lo

è; proprio per ciò ci dà un buon punto di riferimento, ci fornisce uno sfondo attraverso il quale comprendere il movimento spinoziano. I movimenti concettuali della filosofia sono quasi impercettibili. Pensate la differenza del modo aristotelico di pensare la parola ousia rispetto a quello di Platone, dove si possono trovare analogie continue; poi c'è una piccola differenza, che disegna un orizzonte che sempre più si sta­ glia, tale per cui Aristotele non è Platone, con conseguenze di incalco­ labile portata. Cosa dice Cartesio di simile rispetto a quello che sin qui abbiamo appreso da Spinoza? Dice che tutti gli attributi, presi insieme ( «collec­ tive sunta» ), sono la stessa cosa con la sostanza. Questo è proprio Spinoza. Ma Cartesio aggiunge: tutti insieme, non assunti singolar­ mente e distributivamente. Qui c'è somiglian,za e differenza, come vedremo. Spinoza, credo, avrebbe detto : in un certo senso è così, ma in un altro non è così; si deve dire che ognuno è tutta la sostanza. E que­ sta trasformazione (già abbiamo cominciato a vederlo) è grandiosa per le sue conseguenze. Cartesio spiega la cosa in questo modo: «perciò è qualcosa di più produrre la sostanza che non gli attributi» . Cioè: se li prendiamo singolarmente, traendoli dall'insieme degli attributi, se li prendiamo uno per uno, gli attributi allora, considerati come 1+1+1, sono meno della sostanza, anche se collective sunta sono tutta la sostanza. Quindi: se prendo gli attributi ora uno, ora l'altro, e infine tutti nel senso di 1+1+1... (distributive sunta), sono meno della sostan­ za; se li prendo nella loro totalità sono la sostanza. Si potrebbe dire che in queste righe c'è molto di Spinoza. Abbiamo osservato però che tutti questi sforzi esegetici attraverso la nozione della sostanza nei vari autori non ci portano al segreto di Spinoza. Una cosa nondimeno va fissata: è sicuramente da non accettare, perché improduttiva, e in questo senso erronea, ogni interpretazione formali­ stica del rapporto sostanza-attributi, interpretazione che definisce le due cose distintamente. Spinoza all'inizio le voleva addirittura definire

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msteme. Quindi non si può procedere formaliter, distinguendo la sostanza da un lato e gli attributi dall'altro; bisogna guardare alla sostanzialità stessa della definizione. E oltre a ciò vanno rigettate, a mio avviso, almeno in senso metodologico, tutte quelle conclusioni e argomentazioni che ravvisano in Spinoza insostenibili contraddizioni, oscurità e paradossi, perché certamente Spinoza era in grado di veder­ li da sé e non ha scritto l'Etica in fretta. È più saggio pensare che là dove ci scontriamo: con una incompatibilità, vuoi dire chè non com­ prendiamo ciò che Spinoza aveva in mente. Inoltre sono1 inadeguate tutte quelle letture, e sono moltissime, che muovono da una loro idea preconcetta: ciò che si deve intendere per sostanza, sicché credono già di saperlo. Tra coloro che hanno un'idea preconcetta c'è proprio Gentile, e lo useremo perché per differenza ci farà comodo. Riferiamoci invece ora a'una lettera importantissima di Spinoza, del febbraio 1663, rivolta al suo allievo e amico De Vries, dove si vede chiaramente che nella prima redazione dell'Etica (che ha varie reda­ zioni e una gestazione molto complessa) uni.ca era la definizione della sostanza e dell'attributo. Notate che nel 1663, sembra incredibile, Spinoza aveva solo trentun anni. Ricordiamo che erano passati sette anni da quel giorno, 27 luglio 1656, in cui il rabbino Isaak Aboab (se era lui) aveva pronunciato nella sinagoga di Amsterdam la famosa con­ danna, alla quale �.pinoza replicò con un libro, purtroppo perduto. Spinoza si era allora· rifugiato a Rijnsburg, presso Leyda, e qui aveva stretto amicizia con alcune sette o circoli cristiani liberali, cioè non intolleranti; in particolare con la setta dei Mennoniti, alla quale appar­ teneva Simon De Vries. Assieme a lui aveva conosciuto Peter Balling e Jarig Jelles, che sono considerati i primissimi discepoli del non ancora trentenne Spinoza. È qui che più tardi entra in contatto con i De Witt, con gli Huyghens, cioè con le grandi famiglie della aristocrazia intel­ lettuale olandese. Nel '61 conosce il tedesco Oldenburg, che poi diven­ terà segretario della Società Reale di Lon'di-à. . Attraverso Oldenburg, Spinoza entra in rapporto con il grande chimico Robert Boyle. Abbiamo uno scambio di corrispondenza tra Boyle e Spinoza, tramite Oldenburg: Boyle gli manda i suoi libri, ma Spinoza non legge l'ingle­ se. Si avvale di traduzioni, così come Oldenburg traduce le sue lettere a Boyle. In questo dialogo a distanza si trattano questioni prevalente-

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mente scientifiche. È qui, nel villaggio di Rijnsburg, in cui c'è ancora la casa di Spinoza, diventata museo, che si forma il primo circolo spino­ ziano, la prima cellula di una successiva proliferazione di questi circo­ li. Spinoza vive della vendita delle sue lenti, che divennero presto molto famose in tutta Europa. Nel '63, anno di questa lettera, Spinoza pubblica i Principi della filosofia cartesiana (un libro sollecitatogli insistentemente dai suoi allievi); in esso espone Cartesio, ma nell'e­ sporlo già traluce la sua differenza. Nello stesso anno Spinoza si tra­ sferisce poi a Voorburg, presso l'Aia. Il '63 è un anno decisivo nella vita di Spinoza; dal primitivo esilio, dopo la maledizione, il tentativo di assassinarlo con una pugnalata ecc., Spinoza comincia a tirar fuori la testa. A Voorburg non soltanto lavora all'Etica, ma entra nei grandi cir­ coli politici liberali, diventa anzi il pensatore di questi circoli, conosce appunto e frequenta Jan e Cornelius De Witt, conosce il ministro degli esteri, poi ambasciatore, Conrad van Beuringhen, Giovanni Hudde, borgomastro di Amsterdam. Comincia a crearsi quel partito liberale che vuole portare la tolleranza in campo religioso e politico, passando a un governo di tipo inglese. Il tutto culminerà..nella tragedia, cioè nella morte per opera di una folla sobillata e inferocita, dei due De Witt, sus­ seguente alle sconfitte nella guerra con la Francia. Spinoza lavora all'Etica e Simon De Vries è uno dei suoi interlo­ cutori. Abbiamo notizia precisa che in quel tempo, proprio in quei mesi, si tenevano ad Amsterdam riunioni regolari di questo piccolo cir­ colo di spinoziani, i quali lavoravano in questo modo: uno dei discepo­ li leggeva il manoscritto dell'Etica in gestazione, che via via Spinoza mandava agli allievi; lo comméntava, esponeva le sue obiezioni, le sue difficoltà, ciò che non aveva capito; allora gli altri prendevano la paro­ la e cercavano di chiarirsi i problemi. Quando non ci riuscivano, scri­ vevano a Spinoza, che rispondeva molto sinteticamente, cercando di sciogliere i loro dubbi e di chiarire le loro difficoltà. C'è una lettera di De Vries, molto simpatica, in cui si dice: facciamo questo lavoro per conoscere la verità, per diventare più felici e per sostenere vittoriosa­ mente l'urto di tutto il mondo. Essi erano consapevoli che Spinoza era il maledetto, il fedifrago. De Vries era un facoltoso commerciante; erano abbastanza frequenti allora in Olanda queste figure di persone dedite agli affari o ai commerci, che avevano fatto fortuna nelle Indie,

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ma che accompagnavano a questa capacità pratica un grande interesse per la cultura, la filosofia, l'arte. De Vries era uno di questi; non aven­ do eredi, voleva a tutti i costi che Spinoza diventasse suo erede univer­ sale; alla fine riuscì a fargli accettare una piccola pensione. Vediamo dunque cosa dice Spinoza nella lettera a De Vries, evi­ dentemente inquisito dai discepoli, i quali non avevano chiaro il nesso tra sostanza e attributi: «Per substantiam intelligo id quod in se est et

per se concipitur; hoc est, ci.J.ius conceptus non involvit cbnceptum alterius rei. Idem per attributum intelligo, nisi quod attrib ti tum dica­ tur respectu intellectus, substantiae certam talem naturam tribuen­ tis. Haec, inquam, definitio satis clare explicat quid per substantiam sive attributum intelligere volo». «Per sostanza intendo ciò che è in sé

e si concepisce per sé; cioè ciò il cui concetto non comporta il concetto di alcun'altra cosa. La stessa cosa intendo per attributo (importante è quell'idem: la stessa cosa), se non che l'attributo si dice relativamente all'intelletto, il quale attribuisce alla sostanza una certa tale natura. Questa definizione spiega abbastanza chiara,mente che cosa voglio intendere quando parlo di sostanza, ovvero (sive), di attributo» . Cerchiamo di capire. Una cosa è assolutamente chiara: attributo è la sostanza stessa, definita però in rispetto all'intelletto. Nella stessa lettera c'è una precisazione molto interessante, dove si dice: «attenti, l'intelletto però è naty.ra naturata, non è natura naturans; credo di aver chiaramente ed evidentissimamente dimostrato che l'intelletto, benché infinito [perché, come sappiamo, è infinito nel suo genere], appartiene alla natura naturata, e non alla natura naturante» . Questa distinzione Spinoza la prendeva da Bruno. Ancora nella stessa lettera, per far comprendere quello che era il nodo che i discepoli non com­ prendevano, cioè come la sostanza potesse essere detta indifferente­ mente estensione o pensiero, cioè potesse esser chiamata indifferente­ mente con uno di questi attributi, dove gli attributi erano però tutta la sostanza, fa due esempi. Prendiamone uno. tiìèe così: per piano inten­ do ciò che riflette senza mutarli tutti i raggi della luce, e la stessa cosa intendo per biànco, con la sola differenza che bianco si dice rispetto all'uomo che osserva il piano. Abbiamo dunque le seguenti corrispondenze : sostanza si dice nel­ l'esempio come ciò che riflette senza mutarli tutti i raggi della luce; ina

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sostanza si dice anche come ciò che all'uomo pare bianco:\Queste due maniere di dire sono gli attributi, mostrano il gioco degli attributi rispetto alla sostanza. La prima cosa che viene da sé è quindi che la sostanza non è né bianca, né non bianca; vale a dire : lo è solo rispetto all'uomo; ma nemmeno la sostanza è la riflessione immutata della luce, poiché questo è di nuovo ciò che l'intelletto intende di lei. I due nomi sono attribuiti al piano, l'uno ratione, l'atro sensu. L'uno dice razionalmente che il piano è ciò che riflette i raggi della luce senza modificarli; l'altro è ciò che viene detto del piano sulla base del senso che percepisce il piano come bianco. Facciamo un'altra riflessione. Spinoza è notevolmente competen­ te nelle scienze. Ora, la dualità qui esemplata rispecchia il problema delle qualità primarie e secondarie, tipico della moderna scienza della natura da Galileo in avanti. Le cose sono affrancate da ogni finalismo aristotelico; esse non hanno certe qualità perché devono raggiungere delle forme sostanziali o finali; esse sono in se stesse come sono e come sono lo si dice sul piano di una ragione geometrica, matematica, che va al di là dei sensi. Queste sono le qualità primarie. Le qualità seconda­ rie designano invece gli effetti che le cose in sé, geometricamente pen­ sate, esercitano sul corpo senziente. Tutta la scienza sino a oggi si basa su questa distinzione, ovvero si dibatte in questa distinzione; essa è infatti paradossale, ma non si può fare a meno di perseguirla, altri­ menti non c'è scienza. Kant per esempio diceva: sino a che la chimica non diventerà matematica, non sarà una scienza. Pensate a tutto il dibattito epistemologico che arriva sino a Husserl e a Whitehead: ma allora il mondo che vediamo e percepiamo è un mondo illusorio, secondario, un momdo che non esiste? Però come farebbe lo scienzia­ to senza questo mondo alla mano? Quindi, dopo tutto è utile questo mondo secondario. Ma il mondo primario non sarà infine una costru­ zione convenzionale, economica, di concetti utili, pratici, ma non veri (Mach, Avenarius, Croce, Poincaré, Bergson)? E ancora: come si met­ tono le cose oggi che la questione è diventata ancora più sottile e più inquietante per lo scienziato? Non soltanto c'è una contraddizione in questi due mondi, uno dei quali sarebbe assolutamente vero, ma espri­ mibile solo in formule, e l'altro illusorio, ma è il mondo concreto della percezione; per di più anche il mondo razionalmente concepibile della

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fisica si rivela contraddittorio: se entriamo nella meccanica quantisti­ ca, i conti non tornano, ciò che dovrebbe essere dopo appare prima, la freccia del tempo sembra reversibile, gli eventi non hanno più una localizzazione univoca; oppure, se andiamo ai livelli del macrocosmo, della rivoluzione einsteiniana, anche qui i conti non tornano: questo universo del cronotopo non è più comunemente concepibile; cioè, si può bensì scriverlo nelle formule, ma che cosa vogliono dire in ultimo quelle formule? La contraddizione ha aggredito la stessa ret cogitans, 1 le stesse qualità primarie. Qui Spinoza, col suo semplice esempietto, sta toccando il punto centrale o definitivo della questione della verità nella scienza moderna. Egli sta dicendo una cosa che la scienza non ha pensato, che non può pensare, sta dicendo: badate, è la stessa cosa, non c'è da scegliere, non ha senso dire che il tnondo vero è quello degli elettroni, oppure che il mondo vero è quello delle sensazioni; né ha senso pensare che (come diceva ironicamente Whitehead) ci sono due mondi, dei quali uno è un sogno, e l'altro un racconto di fate. Un sogno perché le nostre perce­ zioni sarebbero soggettive, cioè illusorie, e l'altro un racconto di fate, perché chi li ha mai visti gli elettroni? Spinoza sta dicendo che bisogna pensare più a fondo; bisogna comprendere questo nodo e capire che i suoi nomi, non intesi in senso formalistico, ineriscono all'essenza della sostanza. Non dobbiamo cadere nella superstizione, e la scienza moderna vi cade, se non pensa questi suoi fondamenti. Non dobbiamo cadere nella superstizione che crede che le cose non siano bianche, o che crede che le cose siano geometricamente stabilite una volta per tutte, perché il mondo sarebbe scritto in caratteri matematici (Galileo). Abbiamo così di fronte la portata della questione che Spinoza sta affrontando; il suo esempietto ci fa per ora capire una cosa sola: che , non vi è differenza alcuna tra sostanza e attributi (il che viene detto più volte nell'Etica), salvo il punto di vista qella loro concepibilità. Precisazione ambigua: l'intelletto è sì sosta nza, perché gli attributi sono tutt'uno con la sostanza, ma presa da un particolare punto di vista, ,quello appunto dell'intelletto. Quanto a lei, invece, l'essere della sostanza è uno col suo essere intelligibile, estesa o ancora in altre infi.­ nite maniere. Come dice Spinoza: idem est ordo et connectio rerum ac ordo et connectio idearum. Prima di cercare di entrare in questo nodo

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enigmatico, gioviamoci, come esempio negativo, di Gentile. Gentile ci perdonerà; era un grandissimo filosofo, e i filosofi servono anche quando si dice che sbagliano. A p. 670 del suo citato commento a queste proposizioni Gentile sol­ leva una critica che mostra, secondo me, come non si deve leggere il nodo che abbiamo davanti agli occhi, come lo si fallisce; e allora vedendo come non si deve, ci avviciniamo a comprendere forse qualcosa di come si potrebbe. Riassumo l'argomentazione di Gentile. Egli dice: qui c'è il punto debole dello spinozismo, perché la sostanza è causa sui, ma per se stessa non è né questo né quell'attributo; quindi «dalla sostanza come tale [che come tale non è né questo né quell'attributo] non c'è passaggio all'attributo, perché la sostanza divisa dall'attributo è priva della sua stessa essenza. Si vede perciò che gli attributi di cui parla Spinoza sono dedotti solo empiricamente» . Cioè: dall'esperienza che io penso è ricava­ to l'attributo del pensiero, dall 'esperienza che sono un corpo che sta nello spazio è ricavato l'attributo del corpo o dell'estensione. Gentile sta dicendo due cose: 1) la sostanza in Spinoza è formale, non sostanziale, perché ha fuori di sé gli attributi; presa per sé non ha essenza e quindi è nulla, essendo essa altra cosa dagli attributi. 2) Stante cosi la cosa, non c'è passaggio tra la sostanza e gli attributi. Come si deduce il passaggio dalla sostanza alla necessità intrinseca di esser pro­ prio pensiero ed estensione? Non si deduce; non c'è nella sostanza un principio in base al quale dedurre che essa è appunto pensiero ed esten­ sione. E allora come fa Spinoza a dire che la sostanza è pensiero ed estensione? Ma è chiaro come fa, è l'errore che fanno tutti i filosofi quando si trovano in difficoltà: raccatta dall'esperienza empirica due evidenze comuni e le appiccica sulla sostanza; lui sa già empiricamente che ci sono estensioni e pensieri, e allora dice: la sostanza ha due attri­ buti, anzi infiniti, però noi ne conosciamo solo due. Ma non è questo che doveva fare un bravo metafisica; doveva invece mostrare il principio, l'i­ nizio, e di qui dedurre le determinazioni della sostanza, farle venir fuori per intrinseca necessità. Per esempio come tenta di fare Fichte rispetto a Kant: l'io penso kantiano è astratto, perché che attività sintetica è, se in se stessa non ha rappresentazioni, ma le deve raccattare da fuori? E allora bisognava mostrare (Fichte) come sia il pensiero a darsi da sé le sue rappresentazioni. Salvo che Fichte non ce l'ha fatta molto bene; gli

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è rimasto fuori un non-io. E allora è venuto Schelling e soprattutto Hegel; Hegel sì che ha capito bene: non bisognava partire dall'io piutto­ sto che dal non io, bisognava partire dalla loro dialettica unità e diffe­ renza. Anche lui però non ha capito bene del tutto, perché le determi­ nazioni della logica di Hegel sono comunque astratte. Chi ha capito bene sono io, Gentile, perché parlo dell'autoctisi, cioè dell'atto in atto. Spinoza è solo un antecedente storicamente apprezzabile di tutto ciò; ma il suo dire è orrrfai morto � perché pensava oggettivamente, naturali­ sticamente, sicché la sua sostanza era solo un vuoto nome. J Questo modo di leggere Spinoza va naturalmente benissimo per Gentile, che segue i suoi sentieri e si serve di Spinoza come interlocu­ tore della sua visione. Ma a noi hon va bene, perché qui chi divide la sostanza dagli attributi non è Spinoza, è proprio Gentile; è lui che dice: la sostanza è causa sui, ma per se stessa non è né questo, né quell'at­ tributo. Spinoza però ha detto tutt' altro. È ancora Gentile che imma­ gina che la sostanza debba causare gli attributi; è vero che certe espres­ sioni di Spinoza lo giustificherebbero, ma appunto bisogna intenderle, come diceva Colli, nel loro cunicolo sotterraneo e non nella loro appa­ renza. È Gentile che pensa che si debbano 'dedurre' dalla sostanza gli attributi, altrimenti non ci sarebbe passaggio logico dalla sostanza agli attributi e la sostanza resterebbe senza essenza. Questo è però un suo preconcetto modo "di intendere il principio, la filosofia e Spinoza. Quest'ultimo non si preoccupa minimamente di dedurre dalla sostan­ za gli attributi; non è in questo senso che egli procede geometricamen­ te. Per esempio Spinoza non dice che la sostanza è naturans gli attri­ buti, ma che è naturans negli attributi. È ovvio che debba dire così, perché ha continuamente insistito che idem est sostanza e attributo; perciò non ha niente da dedurre dalla sostanza, non deve muovere verso nessun altro; piuttosto la sostanza deve naturare negli attributi se stessa, la sua propria essenza. Come dobbiamo leggere allora qu}�l causa sui che appunto Spinoza mette in causa? Lo leggerei così: la causa sui della sostanza è il suo stesso sussistere in sé, cioè il suo essere substantia degli (negli) attributi. Gentile ovviamente pensa la causa come un atto puro (questa è la sua filosofia), cioè come enérgeia spirituale, come fons et origo neoplatonica, come creazione spirituale, autoctisi; ma ciò è affar suo,

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non di Spinoza. Quando accusa di empiricità gli attributi, quando dice che invece dovrebbero venir dedotti, ragiona appunto come Fichte (nemmeno più come Kant) ; solleva un'esigenza tipica dell'idealismo da Fichte sino a lui. Cioè Gentile pone un'esigenza trascendentale. Ma in Spinoza (è questo lo spostamento che sin dall'inizio abbiamo cercato di fare, è questo il pensiero abissale) non si tratta affatto di risalire dal­ l'empirico al trascendentale, dal condizionato alla condizione. Gentile vuol veder derivare qualcosa dal non-qualcosa, dal non determinato, cioè da nulla; vuoi vedere come qualcosa di determinato si determina, diventa quel qualcosa che è a partire da un non-qualcosa, da un non­ determinato, e in questo senso dal nulla: grande problemi di tutto l'i­ dealismo. Ma proprio così fallisce il pensiero abissale, il quale non vuoi veder derivare il qualcosa da qualcos'altro che non è determinato, ma ci pone invece di fronte all'incontrovertibile 'fatto' che appunto c'è qualcosa; qualcosa che non va e non può essere dedotto, non va rica­ vato, non deve uscire come un passaggio da chissà quale principio. n punto della speculazione spinoziana è che c'è qualcosa, che il mondo c'è, la cui esistenza è un presupposto assoluto che non è da dedurre, che non è da ricavare, che non è conseguenza, fine, esito meccanico, oppure intelligente e finalistico, di alcunché. Non ci sono qui né amici delle idee, né materialisti. n problema è che c'è questo presupposto assoluto e insormontabile, e che questo presupposto assoluto è però così e così determinato. È la sostanza, cioè gli attributi. È il pensiero di questa duplicità che si dice e si contraddice, è il suo problema il punto, non quello di derivare da alcunché alcun altro. Ecco perché, accusando di empiricità gli attributi, Gentile mostra proprio di non entrare nello spirito del pensiero fondamentale di Spinoza. E d'altronde valga la regola metodologica detta prima: crede­ te davvero che se la questione fosse stata quella di dedurre gli attribu­ ti dalla sostanza, Spinoza non sarebbe stato in grado di vedere da sé che non ce l'aveva fatta e che la sua strada non era quella da seguirsi, poiché gli attributi li aveva raccattati empiricamente? Evidentemente il problema era un altro. Serviamoci ora di una frase riassuntiva: la sussistenza (sub-sistenza, sostanza) del mondo (e la nostra in esso, per non dimenticarci dei modi) è la stessa sussistenza degli attributi. In termini semplicissimi si potreb-

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be sintetizzare anche così: c'è mondo, ossia estensione e pensiero. Dobbiamo capire questo nodo. E allora torniamo alla sostanza, alla sua definizione. Della sostanza si dice: «ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un'altra cosa dal quale esso debba essere formato» . Pensiamo ancora questa definizione; ne ricaviamo almeno due corollari. n primo si potrebbe esprimere così: se questa è la sostanza, allora ogni concepibili­ tà è nella sostanza. Cosa vuoi dire? Non ogni concepibilità è della sostan­ za: non è la sostanza the concepisce, perché se fosse essa che d.t oncepisce, allora avrebbe bisogno del concetto di un'altra cosa per formarsi. Per esempio dell'anima. È la questione platonica del Sojista: se l'essere abbia pensiero o no; è la dialettica platonica e poi hegeliana. Ma Spinoza non pensa così. La sostanza, per lui, è il che c'è del mondo, che è prima di ogni concepibilità, e che ndn ha bisogno della concepibilità per esserci; è quel dato, quell'evento orikinario intrascendibile, poiché ogni pensiero che lo pensasse, proprio perché lo pensa, lo presuppone: dev'esserci già mondo, perché possa sorgere un pensiero sul mondo. n che significa che qualsivoglia cosa che ci sia, ha bisogno del concetto della sostanza, ma la sostanza di nessuno: essa è sostanza proprio perché non ha bisogno del concetto di nessun'altra cosa. Qualùnque pensiero che si riferisca alla sostanza ha bisogno dunque della sostanza, ma la sostanza non ha biso­ gno di pensiero. Proprio per ciò il pensiero è definito attributo. Su que­ sto non abbiamo certo scavato abbastanza, ma cominciamo almeno a comprendere questo: che ogni concepibilità è già nella sostanza; quindi non c'è nessun motivo di attribuire alla sostanza in quanto tale il pensie­ ro, sebbene il pensiero sia un attributo della sostanza. Il secondo corollario, sul quale Spinoza è stato molto più largo di chiarificazioni, è che quindi non ci può essere che una sostanza. Conseguenza tremenda e terrifica. Perché non può esserci che una ' sostanza? Perché non può esserci dipendenza della sostanza da altre sostanze. Per cui è come se Spinoza dicesse .� ,cartesiani, ai leibniziani, a tutti i pluralisti, a tutti i soggettivisti, i pers onalisti, gli individualisti, gli empiristi.ecc. : signori siamo seri, o la sostanza è la sostanza e pen­ siamo davvero questo pensiero, e allora non c'è scappatoia: è una; o voi la volete moltiplicare perché vi fa comodo, perché in questo modo vi tro­ vate più d'accordo con l'esperienza comune, perché in questo modo sal­ vate le vostre anime, e allora tutte queste ragioni saranno ideologica-

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mente comprensibili, ma filosoficamente sono inesistenti; in realtà non state parlando di sostanze, perché non si può parlare di sostanze; si può parlare solo della sostanza. La sostanza non può moltiplicarsi, non può esserci rapporto tra sostanze; la sostanza o è il che c'è assoluto, o non è sostanza. Questo è poi quello che Spinoza magistralmente dimostra in tutto il primo libro dell'Etica, intitolato 'Dio'. Con abilità incomparabi­ le, Spinoza all'inizio gioca in modo ambiguo; continua a parlare della sostanza e sembra che ce ne siano tante; però, di dimostrazione in dimostrazione, di proposizione in proposizione, ci stringe nell'angolo; sicché a un certo punto è come se ci ridesse in faccia, dicendoci in modo inconfutabile: eh, perché ovviamente la sostanza è una sola. Asserzione terribile, perché se la sostanza è una, allora le cose non sono sostanze, e neppure le persone o le anime. Quindi non ha senso l'espressione car­ tesiana res cogitans, o res extensa: questa è la mannaia che si abbatte sul cartesianesimo. D'altra parte solo per quella via si risolve il dualismo cartesiano, si comprende il rapporto enigmatico pensiero-materia, pen­ siero-natura, e si perviene infine a un'etica del pensiero. Le cose non sono sostanza, neppure gli uomini e le loro anime; ma va fatta un'aggiunta altrettanto importànte: a sua volta però la sostan­ za non è una cosa. Ecco perché il nodo sostanza-attributo-modo è un nodo inestricabilmente complesso. Non si trattà ovviamente di chia­ mare le cose modi, invece che sostanza, illudendosi che così tutto è risolto. Il problema comincia proprio lì. Avevamo osservato tempo addietro, quando ci siamo scontrati la prima volta con la definizione della sostanza, che è difficile concepire un concetto, per esempio il con­ cetto di sostanza, e quindi un segno Oa parola sostanza è un segno), che si definirebbe da sé. Definire vuol dire mettere in relazione qual­ cosa con qualcos'altro, o, nella terminologia di Peirce, mettere in rela­ zione un segno col suo interpretante; se non c'è l'interpretante del segno, il segno non è un segno. Ma avevamo chiarito la questione dicendo che Spinoza rifiuta la definizione tradizionale; egli perciò intende piuttosto la sostanza come ciò che è fondamento di ogni defi­ nibilità. Essa non si definisce, ma si mostra nel definire. Quindi la sostanza non è una cosa, dicevamo poc'anzi, ma non è nemmeno un segno; già se fosse una cosa sarebbe un segno, perché una cosa è una cosa in quanto funziona come segno, diceva Peirce. Ma certamente la

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sostanza non è un segno, perché segno è sempre ciò che 'si dice' della cosa; come segno quindi la sostanza si darebbe a vedere nell'attributo piuttosto che come sostanza. E tuttavia abbiamo detto un istante fa che la sostanza è il fondamento della definibilità, della concepibilità, della significatività. Come dobbiamo pensare questo fondamento? Teniamo presenti i due corollari testé enunciati: la sostanza non è il fondamento materiale, oppure reale, in tutti i sensi della parola reale. Quindi la posizioné di Spinoza non è assimilabile né alla{ metafisica classica, né all'ermeneutica contemporanea, se possiamo permetterei questi rapidissimi riferimenti. Spinoza non sta né con Aristotele, né con Heidegger, perché la sostanza non è qualcosa di sostanziale nel senso tradizionale, non è una cosa, ma non è nemmeno un rimando di segni. Che cosa è? Facciamo una proposta, con l'intento di metterla in opera e alla prova nel nostro cammino. Si potrebbe leggere così: la sostanza è il fondamento della definibilità, della concepibilità, della significatività, perché è l'evento di tutto ciò; non è il movimento oriz­ zontale dell'interpretare, ma è l'accadere dell'interpretante. Dicevamo che Peirce mostra che ogni segno es�ge un segno precedente e un segno successivo; si interpreta perché si è' già interpretato e perché ci si diri­ ge verso un interpretante futuro. Problema diventa a questo punto come nasce il primo interpretante, dove sta il primo; problema che Peirce non manca di-vedere. In termini spinoziani si potrebbe rispon­ dere: ma il primo è la sostanza; è appunto la sostanza ciò che già sem­ pre c'è, l'entro cui di ogni interpretazione, di ogni attribuzione, di ogni definizione. Ma è un eritro cui che naturalmente non si può tracciare col gesso o indicare con la mano, perché non è una cosa. Esso è là dove accade il rimando, dove accade l'interpretazione. Detto così è però troppo poco spinoziano. Diciamolo proprio nei termini di Spinoza: là' sostanza è là come evento dove accadono gli attributi, è là come even­ to dei suoi attributi, e in questo senso non è .né una cosa né un segno, ma l'evento di entrambe, res extensa e res cbgitans, cioè attributo del­ l'estensione, attributo del pensiero. Con un linguaggio alla Hegel si potrebbe anche dire che la sostanza è il presupposto di ogni posto. A questo punto possiamo osservare: la sostanza è l'avvertire di ogni avvertire, ciò che è primamente avvertito, certo; ma ciò che viene avvertito della sostanza, ovvero, ciò che viene avvertito come sostanza,

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non è nient'altro che l'attributo. Questa è alla lettera la quarta defini­ zione, salvo che per comprenderla davvero era necessario fare un lungo giro. La sostanza si riassume in sé, si concepisce per sé come pensiero-estensione, che poi non è altro che la definizione della sostan­ za. Ma un conto è la definizione verbale, formalmente logica (geome­ trica), un altro conto è la definizione filosofica, la quale esige uno spro­ fondamento del pensiero nell'abisso, cioè un andare nei fondamenti ultimi. Ciò che stiamo proponendo allora è che la sostanza stessa non è altro che l'accadere, l'evento. Quell'esserci che sempre c'è non è altro che l'accadere del pensiero e dell'estensione, i quali sono la sua evi­ denza. La sostanza è la stessa evidenza (il darsi da sé, a partire da sé, causa sul) del che c'è, che c'è mondo; sicché se lo diciamo proprio nei termini fedeli alle definizioni spinoziane possiamo ulteriormente pre­ cisare: la sostanza è in particolare l'evento stesso della sua concepibili­ tà, perché Spinoza ha detto: l'attributo è ciò che l'intelletto dice della sostanza, non l'estensione. Potremmo immaginare un punto da cui muovono due frecce; ai vertici delle frecce mettete P E, pensiero ed estensione; il centro del punto indichiamolo con una E per significare l'evento. Ciò significa: la sostanza non è che l'evento del pensiero e del­ l'estensione, con particolare riguardo al pensiero perché il tutto del disegno accade come evento della sua concepibilità. Ma ricordiamoci anche un'altra immagine che avevamo usato e che è equivalente a que­ sta: la sostanza come un cerchio, entro il quale si disegnano delle righe verdi e rosse intrecciate; il trascolorare delle righe dalle verdi alle rosse, quel gioco per cui le righe verdi diventano rosse e le righe rosse diventano verdi, è la sostanza. Dicevamo poc'anzi che nulla si concepisce se non tramite la sostanza; ma la sostanza si concepisce tramite gli attributi, i quali infatti sono definiti il per sé della sostanza, il per sé dell'in sé della sostanza. E l'in sé della sostanza (adesso credo sarà chiaro) è l'evento stesso degli attributi, non un'altra cosa, è l'evento della sostanza negli attributi, il suo naturarsi come attributi. Aggiungerei tra parentesi che parte della difficoltà sta nel fatto che noi giochiamo con tre nomi: sostanza, pensiero ed estensione. Questo costituisce di per sé un errore di linguaggio, come avrebbe detto Wittgenstein, il quale, nonostante le chiarificazioni che cerchiamo di

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fornire, insinua nella nostra mente una convinzione implicita: che c'è la sostanza e poi gli attributi. Giochiamo solo apparentemente con tre nomi; in realtà giochiamo con due, poiché c'è solo estensione e pensie­ ro. La sostanza invece non c'è; è semplicemente l'accadere di questi due. E tuttavia come introdurci in questo pensiero se non partendo dalla sostanza, come ha fatto Spinoza, cioè cominciando a dire: c'è un che c'è, c'è il mondo. . La sostanza non è un attributo, non pensa, non è estes� . Non perl ché sia un'altra cosa dagli attributi, ma perché li è tutti e si manifesta in tutti. L'unica vera differenza è la differenza tra evento e significato. Se chiamiamo significati gli attributi, in quanto segni della sostanza, la sostanza differisce da essi in quanto è il loro evento, non un 'altro signi­ ficato; quindi non è qualcosa che potrebbe essere esteso o pensare: è essendoli tutti che la: sostanza 'è l'evento del loro concepirsi. Già aveva­ mo cominciato a capirne qualcosa affrontando la definizione dell'infi­ nito, che per questo esaminammo introduttivamente. La conclusione cui eravamo arrivati era che gli infiniti attributi di cui parla Spinoza non costituiscono certamente un infinito numerico, non sono 1+1+ l+n. Quando dice che la sostanza non è attributo, nel senso che non pensa e non è estesa, perché insieme è tutti gli attributi, certamente Spinoza non intende dire: perché è tutti gli attributi 1+1+1. La sostan­ za non è il loro et, et,,et, ma allora neppure l'uno o l'altro. Quell'evento che la sostanza è, l'evento della sostanza negli attributi e come attribu­ ti, non è et, et, e non è aut, aut. La sostanza, ci ha detto Spinoza, si con­ cepisce a partire da ciò che ne dice l'intelletto, dall'attributo che l'intel­ letto le attribuisce. Allora Spinoza sta dicendo c.he la sostanza si con­ cepisce sempre a partire da un attributo; però questo 'un' non è né 'un' di et, et, et, né 'un' di aut, aut. Non è uno e poi ci sono gli altri, uno tra' gli altri; e non è nemmeno uno invece di tutti gli altri. La sostanza si concepisce sempre come un attributo: sive,. ossia, cioè come tutti. E questo è quello che dobbiamo capire. Capinrq�esta frase è capire final­ mente la chiarificazione del rapporto sostanza e attributi (non ancora i modi, che per ora non sono venuti fuori). Facciamo un'ulteriore·messa a punto. Come è da intendersi la rela­ zione degli attributi fra loro? Se è vero che la concepibilità della sostan­ za accade tramite gli infiniti attributi, sembrerebbe che stiamo dicendo ·

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che ogni attributo allora si concepisce per differenza dagli altri. Questa non è che la formula dialettica della logica tradizionale da Platone in poi: un attributo non è tutti gli altri, l'estensione non è pensiero e così via. Ma la cosa non sta affatto così e già avevamo cominciato a vederlo a proposito dell'infinito (se stesse così, Spinoza non avrebbe detto pro­ prio niente di diverso dalla tradizione). Supponiamo per un momento che sia così; che accadrebbe allora alla sostanza? La sostanza incorpo­ rerebbe questa negatività stessa, questa negazione differenziale; anzi sarebbe la totalità di queste negazioni differenziali: un attributo non è gli altri, sicché la sostanza, che è l'evento di tutti, sarebbe l'evento di tutte 'queste differenze; dell'essere ogni attributo il non essere degli altri, e la sostanza trarrebbe dal non essere gli attributi il suo essere. Questo non è che l'intero hegeliano del concetto o del sillogismo dis­ giuntivo. Ma noi sappiamo che la sostanza non è concetto in Spinoza e che non è pensiero; e che perciò non è spirituale, il che non significa che sia materiale. Proprio per questo Hegel criticava Spinoza. Egli diceva: certamente Spinoza ha compreso il problema dell'assoluto, come totali­ tà di ciò che è; purtroppo però nella sostanza di Spinoza la coscienza, il pensiero, è andato a fondo. Il bersaglio vero di questa critica era poi lo spinoziano Schelling, cioè l'assoluto in cui tutte le vacche sono nere e di nuovo il pensiero è andato a fondo. Schelling prendeva Spinoza dal lato della· natura Oa sostanza è l'inconscio della coscienza) ; Hegel da quello dello spirito. M a Spinoza non pensava nessuna di queste cose. Egli poneva un problema molto più radicale, che, espresso semplicemente, dice: non si può caratterizzare la sostanza per differenza, perché allora non è più la sostanza, in quanto diventa qualcosa che abbisogna di un'altra cosa per esser formata o concepita. Non si può concepire la sostanza come una coscienza che pensa, neanche come una coscienza infinita, né come un pensiero che intuisce (come avrebbe detto Kant riferendosi al pensiero di Dio). Tutte queste determinazioni in quanto tali presuppongono la sostanza, già cadono dentro di lei e quindi non sono lei. È appunto muovendo dalla critica di Hegel a Spinoza che poi Gentile a sua volta la approfondiva, come abbiamo visto. La sostanza di Spinoza non incorpora nessuna differenza, nessuna negatività; non si divide in tanti pezzettini già stabiliti, né in un movi­ mento che distingue i pezzettini. Il punto è che la sostanza non sta

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all'attributo in modo che questo attributo sia un segno della sostanza; cioè la sostanza non sta, come direbbe Peirce, per un interpretante, perché è piuttosto l'evento di qualsivoglia interpretante. Potremmo dire paradossalmente così: la sostanza è un segno senza interpretante. Questa però è una frase priva di senso. Diciamo qualcosa di più sensa­ to: la sostanza è appunto l'evento dell'interpretante; quindi la sostan­ za non sta all'attributo in modo che questo sia un segno della sostanza per un intelletto; la :sostanza ' è invece l'equivalenza degli attributi, l'e­ quivalenza tra loro, compreso l'intelletto. Gli attributi non stanno uno in rapporto all'altro in un nesso di negazione (questo è il non quello, pensiero non è estensione); per la sostanza infatti non è che pensiero non sia estensione: è vero esattamente il contrario! Per la sostanza pensiero è estensione, ed estensione è pensiero. Questa è la .grande intuizione di Spinoza, che idèm est ordo et connectio rerum ac ordo

et connectio idearum.

Dunque non dobbiamo pensare che la sostanza sia l'insieme delle differenze tra gli attributi, né dobbiamo pensaJ,"e gli attributi uno in rela­ zione all'altro per differenza o per negazione. Dobbiamo invece pensare ciò che Spinoza ha detto e che è difficile da pensare: che la sostanza è l'unità degli attributi, è la loro equivalenza, è l'idem esse di tutti gli attri­ buti. Naturalmente stiamo dicendo una cosa difficile per la grammatica e per il pensiero. Pe:g.siero ed estensione sono equivalenti; il pensiero non si concepisce per differenza dall'estensione, l'estensione non si concepisce per differenza dal pensiero, in quanto almeno li pensiamo nella sostanza e come manifestazioni della sostanza. Sarebbe del resto sensato dire che il pensiero può concepirsi per differenza dall'estensio­ ne? È sensata questa frase? Essa presuppone quanto meno una situa­ zione di questo tipo: che il pensiero, dal di fuori, tiene davanti a sé in�· una mano il pensiero stesso e nell'altra l'estensione, e dice: come sono diversi! Questa è evidentemente una sciocchezza. Il pensiero, come ogni attributo, è infinito nel suo _genere, non abbisogna di niente altro per essere ciò che è, non ha bisogno di uscire da sé, e in effetti neppure può uscire da sé. Quando il pensiero concepisce la sostanza, cioè le attribui­ sce uri. predicato, non lo fa guardando la situazione dall'esterno, ma stando dentro di sé, nella sua unità infinita (infinita nel genere). Non dice: ecco qua la sostanza, e, guarda un po', è fatta di infiniti attributi,

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tra cui il pensiero e l'estensione. Come potrebbe dire questo il pensiero? Come sarebbe questo un pensare fondato? Fondato su che? Fondato solo sui pregiudizi del senso comune e sulla sempre irrisolta questione: come fanno le parole a dire le cose, e come fanno ad esserci cose dette che sono anche differenti dalle parole? Il che è lo stesso che dire, nei ter­ mini di Spinoza, come fanno ad esserci dei pensieri che corrispondono a delle estensioni e delle estensioni che corrispondono a dei pensieri? Ma questo non è altro che il problema eterno della filosofia: come c'è il tauton tra einai e noein? Come c'è identità tra essere e pensiero? Quello che Spinoza ci sta dicendo (e che per noi è così arduo) è che, così come la sostanza non ha bisogno d'altro ecc., a sua volta il pensiero, attributo della sostanza e quindi sostanza esso stesso, si concepisce a partire da sé, dal suo genere infinito. Noi ora abbiamo tradotto le cose così: il pensiero si concepisce a partire dal suo evento, dal suo evento sostanziale, cioè dal suo essere evento della sostanza, darsi a vedere della sostanza nell'attributo che è il pensiero. Però la questione si complica in questa piccola aggiunta (poiché se avessimo soltanto sostanza e pensiero, saremmo angeli e non avremmo bisogno di fare filosofia) : c'è equivalenza tra il pensiero e l'evento del pensiero, quindi tra la sostanza e questo attributo che è il pensiero, ma vi è anche equivalenza con l'attributo dell'estensione, che è una differenza rispetto al pensiero. Come sostenere che il pen­ siero si concepisce a partire da sé, cioè dal suo evento sostanziale, e che concependosi a partire da sé concepisce anche l'estensione? Ecco il nodo. Noi per ora abbiamo capito solo questo: che non dobbiamo arre­ trare da questa postazione avanzata, che la dobbiamo difendere tena­ cemente, perché ogni resa ci porterebbe a posizioni assurde, quali quelle che poc'anzi esemplificavamo. Dobbiamo star fermi su questo punto: che l'unità della sostanza è in ogni concepirsi, in ogni rappre­ sentarsi della sostanza. La sostanza è nell'unità del concepirsi di pen­ siero ed estensione. Questo è ciò che Spinoza chiama la legge geometrica della sostan­ za. La sostanza non è una terza cosa, designata con un terzo nome; è la regola, la norma di questa corrispondenza, è l'ordine geometrico (che è al tempo stesso, come vedremo, libertà e necessità). Tutto il pensie­ ro dell'Etica consiste nel sollevarsi a contemplare questo nesso, attra-

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verso l'amor Dei intellectualis; contemplazione che implica appunto un'etica. La questione della filosofia, abbiamo detto, è come essere e pensare siano il medesimo. Di lì deriva la dialettica di Platone, perché nel dire che l'essere e il pensare sono il medesimo, stiamo però dicen­ do due cose. Dobbiamo mettere una differenza in questo tauton, ed ecco che tutta la dialettica si mette in cammino e con essa tutta la sto­ ria della ragione, che è poi la stessa cosa, come direbbe Heidegger, della storia dell'essere. Il problema è quello, ma Spinoza ci.lsta dicen­ do: la soluzione di questo problema non si arresta alla fuetafisica, all'antologia; questo problema va al di là di sé nell'etica. Se ricordiamo un'altra cosa che abbiamo detto a suo tempo, cioè che tutto ciò accade attraverso una meditazione sulla scienza moderna, sul copernicanesimo ecc., allora potremmo tradurre la cosa ancl}e cosi: la questione di Parmenide è ciò . che in ultimo rende possibile la scien­ za moderna; alla lunga è proprio la scienza galileiana che si fa carico di produrre l'identico tra il pensare e l'essere, tramite la scrittura mate­ matica, l'esperimento ecc. Se questo, come dice bene Heidegger, è il compimento della metafisica Oa sci�nza moderna e la tecnica sono la fine e il fine della verità della metafisìca, cioè della volontà di verità sol­ levata da Parmenide nel suo interrogativo iniziale), allora l'unico modo per pensare la scienza e la tecnica è l'etica, non più la metafisica: solo l'etica si può fare carico del senso della scienza e della tecnica. Spinoza, sotto questo profilo (ma anche Bruno), è allora colui che per primo si è posto per questa strada. Di qui l'abissalità del suo pensiero.

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XIII PARO LE E COSE Tutte le premesse sono state esaminate, e allora andiamo al nodo della questione. Come lo affrontiamo? La mia proposta è di assumere come guida e come luogo di interrogazione, diciamo così, il più celebre motto di Spinoza. Che cosa sanno tutti di Spinoza? Che egli ha detto: Deus sive natura. Motto che fece scandalo e che venne interpretato in infi­ niti modi: come naturalismo, ateismo, misticismo, neoplatonismo, ecc. Cosa · vuol dire Deus sive natura ? Il problema, evidentemente, è che significa 'natura'. Dio è il nome del primo libro dell'Etica, sicché potremmo rispondere tranquillamente che Dio è tutto quello che stia­ mo dicendo: la sostanza, gli attributi ecc. Dio riassume in sé tutto que­ sto cammino che alla fine perviene all'amor Dei intellectualis. Perché però la sostanza, Dio, viene qualificata come natura? Se diciamo Deus sive natura, ciò significa: la sostanza, ossia la natura. Vale a dire: natura e sostanza sono sinonimi nel vocabolario spinoziano. La sostanza è ciò che si concepisce tramite i suoi attributi, è l'evento di questo concepirsi stesso tramite gli attributi; allora dob­ biamo anche dire: la natura, ossia estensione e pensiero. Di solito però, quando usiamo la parola natura, non pensiamo a niente del genere. Come a suo tempo abbiamo fatto con la parola mondo, un'analoga epo­ ché dobbiamo ora applicare alla parola natura. Natura, cioè la sostan­ za; natura cioè i suoi attributi (estensione e pensiero) : la natura è il tutto nel pensiero di Spinoza, è il che c'è originario. Noi invece per natura pensiamo un'altra cosa, e anzitutto una cosa distinta da noi che la diciamo. Quando usiamo il termine .natura non pensiamo l'anni­ coinvolgente sfera dell'essere che c'è, inclusi noi; quando pensiamo la natura pensiamo l'altro da noi, il di contro. Per il fatto stesso che nominiamo la natura come una cosa, non la pensiamo come sostanza; per il fatto stesso che la nominiamo, ci mettiamo da un'altra parte. Nell'atto di nominare stesso, ci tiriamo fuori dalla natura; ma poi, se uno ci chiede: fuori dove? incontriamo molti imbarazzi. Perché, che cosa non sarebbe natura? Certamente la terra e il cielo sono natura,

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certamente le piante, gli animali, il corpo dell'uomo; e certamente sono natura anche le parole. Le parole sono.flatus vocis, esigono qualcosa di fisico; e se sono parole scritte esigono una mano, un occhio, uno stru­ mento, sicché sono cose della natura, come tutte le altre. Qui però subito diciamo: adagio; certo le parole sono, come direb­ be Spinoza, porzioni di estensione; ma non sono solo questo. Perché appunto le parole trasportano pensieri, se no non sarebbero parole. Sicché le parole hanno. una natura duplice, proprio come l'udmo: sono naturali, fatte di natura, ma anche non lo sono. Si potrebbe dite che per loro natura sfuggono alla natura, pur appartenendovi; esse infatti nomi­ nano la natura, e così fanno un passo indietro e la indicano. Ma quello che abbiamo sostenuto qui non è altro che la distinzione tra spirito e natura; distinzione e contrapposizione che fonda e accompagna tl,ltta la nostra tradizione, tutta la nostra civiltà, sin dal Sofista: - Stai attento Teeteto, come lo penserai l'essere, col pensiero o senza il pensiero? Meno male che hai detto col pensiero, altrimenti non saresti uscito di qui sino a che non ti avessimo convinto che era col pensiero. Ancora sulla scorta di questa tradizione dicia1po: non è in virtù della bocca, caro scienziato, caro uomo del senso comune, non è in virtù del cervello che l'uomo può parlare. È verissimo che senza bocca e senza cervello non parlerebbe; però queste cose non parlano da sé. Il bisturi non trova parole nelle circonvoluzioni cerebrali. Le sinapsi sono certo fatti conco­ " mitanti e ha ragione lo scienziato a mostrare che quando sogno si muo­ vono certe parti del cervello, quando parlo se ne muovono certe altre. Chi può negare questo? Ma così ha mostrato soltanto dei fatti concomi­ tanti, non dei fatti che parlano o sognano. Lo scienziato risponde: non ho nient'altro in mano, sicché vado dritto per la mia strada. Vai pure, ma ciò non risponderà mai alla questione: cos'è una cosa che pensa? L'espressione è di Cartesio: « Cosa sono infine? Una cosa che pensa» . Non è dunque in virtù di questi fatti, di estensioni concomitanti (secondo il parallelismo psico-fisico, ancor'oggi\iiì auge, sia pure in forme più raffinate, nelle scienze neurologiche e nel dibattito mente-corpo), non è in virtù di questi corpi materiali che si può dire che l'uomo parla e pensa. Allora non resta che dire che è in virtù di un altro principio: quello che si chiama spirito. È lo spirito che infatti distingue l'uomo da tutti gli altri enti; perché certamente, caro scienziato naturalista, io avrò un embrione

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di coda malcelato alla fine della schiena, poi sarò sceso dagli alberi come i cugini miei antenati che chiamiamo scimmie; però, vedi, resta il fatto che io nomino la scimmia, ma lei non mi nomina proprio, che io nomino gli enti, ma gli enti proprio non mi nominano. E in questo sta la mia diffe­ renza, ciò per cui bisogna ammettere un altro principio: che non c'è solo l'essere, ma c'è l'essere che pensa, come dice Platone. Ed è poi in virtù di questo spirito che, non soltanto l'uomo nomina, come Adamo gli enti del creato, ma addirittura se ne costruisce di nuovi, con arte e pensiero. Con artificio crea. enti artificiali: quelle cose, come diceva già Aristotele, che non sono physei, per natura, ma che risalgono alla techne, all'intelligenza, perché i letti (famoso esempio di Aristotele) non crescono da sé sugli albe­ ri; ci vuole l'opera del falegname per trarre dal legno dell'albero il letto. Seguendo questo modo di ragionare, potremmo riassumere la situazione così: le parole hanno una natura non naturale, ma anzi sovrannaturale, artificiale, fatta ad arte, spirituale; sebbene esse siano anche fatte di natura, cioè di voce, di suono, di tracce. E se ora esami­ niamo la parola spirito, in particolare, potremmo dire, scherzando un po', che la parola spirito ha dello spirito, come tutte le parole, che sono parole appunto perché sono spirituali; ma oltre ad avere dello spirito, la parola spirito è la parola archetipica, perché nomina ciò che fa sì che le parole sian parole, cioè cose spirituali, e non mere tracce, meri suoni, meri segni. Questo non è altro che l'enigma e la frontiera del lin­ guaggio sulla quale oggi infatti tanto si discute. Il nostro problema è come un veicolo materiale (Wittgenstein diceva: qualcosa di sensibile) possa portare un significato, cioè qualcosa di spirituale ovvero di sim­ bolico. Le parole infatti sono simboli, e non soltanto meri segni. Come fanno ad essere segni simbolici? Come acquisiscono questa virtù? In effetti la parola spirito, che ha dello spirito come tutte le paro­ le, e che nomina insieme ciò che tutte le parole hanno, cioè lo spirito, \. la capacità simbolica, nomina dunque ciò che per principio non si può vedere, nòn si può mostrare, non si può far apparire, o esibire come una cosa naturale. Cominciamo così a vedere come pensiamo la natu­ ra a partire da questa tradizione: è da essa infatti che viene fuori il nostro corrente concetto di natura. Natura è ciò che si può vedere, esi­ bire, manipolare. Spirito è ciò che non si può vedere, che non si può esibire; esso appartiene a Dio, al pensiero, all'anima, che sono luoghi

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invisibili. Non si può vedere perché è lui, lo spirito, che fa vedere, è lui la scaturigine della visione. Analogamente il linguaggio è l'orlo del mondo, ciò che fa apparire il mondo nelle sue parole. Come potremmo mai vedere il linguaggio dentro il �onda, come una cosa del mondo? Non potremmo. Anche facendolo, non faremmo altro che replicare il gesto del linguaggio e averlo sempre dietro le spalle. Il linguaggio che volesse vedersi è un linguaggio obiettivato che rimanda a un linguag­ gio precedente che non si fa vedere; o che si fa vedere soltanfo nel dire. Sicché tutto ciò che le parole dicono, cioè le cose naturali, dipende da un luogo che non può essere naturale, che non può essere visto nel luogo naturale. Tutto questo lo dice oggi Wittgenstein; ma in fondo non è nient'altro che la conclusione del mito della caverna. Sicché oggi viviamo il concludersi di una vicenda che è cominciata col mito della caverna di Platone, cioè con la distinzione celeberrima travisione sen­ sibile e visione ultrasensibile: due tipi di visione, senza i quali non vi sarebbe la razionalità occidentale, la scienza e tutto quello che noi siamo. Di qui la distinzione tra mondo natura,le e mondo soprannatu­ rale, o spirituale. Adesso abbiamo abbastanza chiara la differenza tra natura e spirito: come essa si è speculativamente posta, per quali ragioni, perché quando diciamo natura, siamo tendenzialmente porta­ ti a pensare un'altra cosa da ciò che è pensato nel inotto Deus sive natura e a pensare Ìll;,particolare in termini umanistici. Tutto l'Occidente si compendia nel suo ricorrente umanesimo, che stabilisce la differenza e la centralità dell'uomo, l'importanza dell'uomo; da Protagora, a modo suo, a Platone, ad Aristotele e via via ad Agostino ecc. L'uomo è la differenza, l'eccezione; ovvero, come diceva Pico della Mirandola, è la copula che congiunge il cielo e la terra. L'uomo è pertan­ to l'unico valore dell'universo; la natura è senza valore; solo l'uomo ha valore, perché è spirito. Bene, se le cose stanno così, allora bisogna dire che il pensiero di Spinoza è un pensiero antiumanistico, o, se vogliamo dire più prudentemente, a-umanistico; non è 'fu.' effetti anti niente; sem­ plicemente non è umanistico, non accoglie la differenza umanistica del­ l'uomo, non pensa l'uomo come la centralità del senso della natura; anzi pensa la natura in un nuovo senso; non stabilisce una differenza tra l'uo­ mo e le estensioni. Ben si può intendere la scandalosità del rinnegato Spinoza. Egli sta dicendo che c'è equivalenza assoluta tra estensione e

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pensiero, che sono la stessa cosa. Quindi sta dicendo che non c'è diffe­ renza tra gli enti della natura, uomo incluso. Sta dicendo, in verità, un pensiero già bruniano. Anche Bruno chiedeva, sulla base di certe sue riflessioni sull'infinito copernicano: che differenza c'è tra le ostriche, i moscerini e l'uomo stesso? Non si tratta però di un pensiero 'naturalisti­ co', come si dice di solito molto sbrigativamente e aproblematicamente. In sostanza quello che non troviamo in Spinoza, e che contraddice le nostre abitudini di pensiero, è la riduzione della natura a un aspetto della realtà, a un aspetto della totalità, o a un attributo della realtà. Spinoza dice invece: Deus sive natura, la natura è tutta la realtà, è la Sostanza stessa, è Dio stesso. Parlavamo tempo fa di itinerarium mentis in Deo, di cammino dentro Dio, che è il che e l'intorno a cui di ogni cosa. Natura è ancora il nome di questo itinerario; essa non è attributo, nòn è qualcosa che si possa predicare di alcunché a differenza d'altro, ma è ciò di cui sempre si dice, è ciò di cui e in cui si concepisce. È proprio la sostanza e il soggetto, ma come la sostanza e il soggetto non sono stati pensati dalla tradizione. Cosa dice Aristotele della sostanza e del soggetto? In ultimo degli ultimi dice che è Dio, cioè 'pensiero di pensiero'. Di qui deriva tutto, da Cartesio a Hegel a Gentile. Ma Spinoza dice appunto un'altra cosa. Ripetiamo sinteticamente alcune cose che avevamo fissato nella nostra discesa nella sostanza e poi torniamo alla questione delle paro­ le. Avevamo detto due cose: ogni concepibilità è nella sostanza; e la seconda cosa: non c'è che una sostanza. Spinoza iSta dicendo che la sostanza è il fondamento stesso del definire, che lui intende come l'es­ sere concepito della sostanza. La sostanza è quel 'che c'è' entro il quale ogni definizione si rende possibile. Il che si può esprimere anche così: la sostanza è l'accadere delle sue distinzioni, vale a dire l'accadere dei suoi attributi, cioè del pensiero e dell'estensione, che vanno intesi nel loro trascolorare l'uno nell'altro. Gli attributi sono il per sé della sostanza; la sostanza è l'in sé degli attributi. Ma questo è appunto il nodo che dobbiamo riuscire a comprendere. L'avevamo espresso con questa frase, che anticipava quello che stiamo facendo : l'esser concepi­ to della sostanza come un attributo, quindi come estensione o pensie­ ro, è sempre insieme l'evento di tutti gli attributi. E avevamo detto che proprio per ciò la sostanza e l'attributo si identificano, ma che proprio questo è il da comprendersi. Torniamo ora al problema della parola.

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Tutti abbiamo questa convinzione: che le cose e le parole sono real­ tà diverse. Nessuno di noi pensa che la parola 'piove' faccia piovere, e diciamo tutti che se scoppia un temporale, questo è un evento naturale.

Ecco come ragioniamo comunemente, e su questa base poi impostiamo i nostri problemi, le nostre domande scientifiche, filosofiche, logiche. Ma è così sempl�ce, è tutto qui? È verissimo, ne siamo tutti convinti, che la parola 'piove' non faccia piovere; però è solo attraverso la parola che pos­ siamo stabilire che ciò. che accade è un temporale. E allora la-�ituazione si presenta così: che guardando le cose dal punto di vista dei loro puro accadere, guardandole in quanto sono eventi, in quanto accadono, nien­ te è parola. Anche l'evento della parola non è una parola, evidentemen­ te; anche la parola, dicevamo prima, è un evento naturale; se non muovo la voce e le labbra, nessuno mi sente. Quindi, se guardiamo le cose in quanto accadono, come eventi, 'esse non hanno niente a che fare con la parola, e la parola stessa è un evento naturale. Ma se poi guardiamo le stesse cose, non dal lato del loro accadere, non dal lato dell'evento, ma dal lato del loro significato, che cosa accade? Un temporale, non una qualsiasi cosa. Se osserviamo ciò che è accaduto, l'oggetto che accade, l'oggetto in un senso logico o filosofièo generale, ci accorgiamo di dover ammettere che tutto è parola, che la parola . non posso scollarla da nes­ sun evento : non c'è mai la pura natura, e il linguaggio circonda il mondo, come diceva Wittgen�tein. Di più, il linguaggio penetra nel mondo, e, come diceva benissimo Hegel, la parola ha un divino potere: che qua­ lunque cosa tocchi la trasforma in un universale, in un significato. Se dico: «Ecco il inìo amico Alfredo » , cosa c'è di più determinato e indivi­ duato del mio amico Alfredo? Eppure tutte le parole che ho detto sono universali. 'Ecco' è per tutti gli 'ecco', 'il' è per tutti gli articoli, 'amico' è la categoria degli amici, 'Alfredo' è un nome generico che si può attribuire a infiniti uomini; perché la parola fa proprio questo: nomina l'universa­ le, se no non nomina. Alla parola accade quello che era accaduto al re Mida, al quale venne conferito il privilegio, ciédeva lui, di poter trasfor­ mare in oro tutto quel che toccava; ma era un ben pericoloso privilegio, poiché anche il cibo e la donna amata si trasformavano in oro. Vediamo dunque questi due mondi che si rovesciano l'uno nell'altro.

Dal lato dell'evento niente è significato, dal lato del significato niente è

evento. O meglio: le parole stanno dappertutto e non stanno in nessun

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luogo. Differiscono in un punto. Certo, la differenza l'abbiamo posta. Uno potrebbe dire: ma la differenza tra evento e signifi�to l'avete posta. È vero; abbiamo detto che c'è un punto in cui la stessa cosa differisce, ed è la differenza tra l'evento e il significato, tra l'evento del temporale e il suo significato 'temporale'. Ma la questione per il pensiero è che questo punto di differenza non è di per sé distinguibile, non è di per sé determinabile. Ogni volta che voglio guardare il punto, là dove l'evento differisce dal significato, faccio la fine del povero Mida: mi ritrovo sempre in mano il significato. Non appena voglio dire che cos'è questo evento, devo dire: è l'evento del temporale. In realtà, poi, sono in trappola già molto prima, se sono anche solo minimamente avvertito dal punto di vista filosofico, per­ ché la parola 'evento' è appunto un significato; quindi la parola stessa che dovrebbe fare la differenza, nega la differenza. Usando le nostre categorie comuni (e infatti è stata una grande tentazione della metafisica occiden­ tale), dovremmo concludere: tutto dunque è spirito. Non è per caso che vengono fuori filosofie così strane, così singolari, come quella di Berkeley o di Leibniz, dove appunto si arriva a dire che tutto è spirito: non si usci­ rà mai dalla dimensione del significato, della parola, dello spirito; noi pensiamo i pensieri di Dio . . Che poi ci siano anche le cose è inesplicabile e in fondo non è necessario: dato Dio, tutto funzionerebbe lo stesso. Ma lo spirito poi dove sta, se non appunto in quelle cose che chia­ miamo natura? Senza queste cose che chiamiamo natura, non avrem­ mo i luoghi dello spirito. Lo spirito se ne sta dappertutto, ma, appun­ to, dappertutto c'è natura; c'è la 'tempestosità', ma la tempestosità sta nelle tempeste, non altrove, e anzi in queste determinate tempeste, come la 'cavallinità' sta nei cavalli. L'intero mondo del significato, quello che non riesco mai a oltrepassare, che, se appena parlo, ci sono dentro, e anzi, non appena mi muovo intelligentemente, ci sono den­ tro, perché ogni pratica intelligente segue un fine, cioè un significato, questo intero mondo del significato non è altro che l'intero mondo del­ l'accadere del significato, cioè il mondo degli accadimenti naturali. E non c'è che questo mondo degli accadimenti naturali; non ce ne risul­ ta un altro, così come non c'è pensiero senza il cervello: ne siamo tutti convinti. E però non è la materia grigia che propriamente 'pensa'. Potremmo dire così, riassumendo in una formula: non c'è mai aper­ ta davanti a noi la differenza; non riusciamo a vederla né a dirla: di qua

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c'è lo spirito, di là là natura. Ma più esattamente la cosa non sta così, per­ ché non è che vediamo che non c'è la differenZa. Vediamo la differenza, ma vediamo sempre la differenza che si cancella non appena viene posta; vediamo la differenza che si cancella sempre a partire dalla differenza. Per esempio dico: tutto è spirito; ma non appena lo dico, mi accorgo che sto in realtà dicendo: tutto è natura. Ecco che la differenza 'spirito' si can­ cella a partire dalla spa differenza. Oppure dico: tutto è natur�; ma come lo dico, mi accorgo che sto dicendo in realtà una cosa spiritual'e , un signi­ ficato, ed ecco che anche questa differenza si cancella; ma a partire da sé. Dunque non è tanto il non esserci la differenza quello che esperisco; esperisco piuttosto l'esserci la differenza, come evanescente cancellarsi che continuamente trascolora: sempre a partire da una differenza, Per esempio mi imbatto in-una cosa qualsiasi, come potrebbe esse­ re il mio orologio: me lo trovo fra le mani, ha una sua indipendenza, si ferma, si rompe, cade per terra ecc. Però non riesco a tenere ferma que­ sta differenza nel suo 'in sé'; non appena la voglio afferrare, questa dif­ ferenza dell'orologio, mi trovo invec� in mano le parole: è un orologio, è mio, ha questi e questi altri caratteri che mi consentono di descriver­ lo e di parlarne, ecc. Non appena parlo della differenza della cosa, vedo che essa differisce verso il suo significato, cioè verso la parola. Già, ma se poi prendo le parole, ecco che subito esse differiscono verso la cosa. Non posso mettermi àLpolso 'l'orologio'; devo mettermi proprio questo, che è l'unica cosa che ho. 'L'orologio' non ce l'ho e non l'ha nessuno. A partire dalla parola mi scontro subito con la differenza della cosa: la dif­ ferenza della parola svanisce, impallidisce in favore della cosalità della cosa. Ma se poi cerco di guardare la cosalità della cosa, la cosa diventa un seguito di parole e così via. Come diceva Spinoza in un esempio, che diverrà sempre più utile, bianco si dice come evento naturale della luce, oppure come evento detto dall'uomo; e Spinoza dice che sono lo stesso. Noi dobbiamo capire questo esser lo stesso: è'ptoprio questo il nodo. In esso sta il segreto di Spinoza; è questo il pensiero abissale. Deus sive natura; tutto, dunque, è natura, sebbene sempre nella differenza di un attributo, pensiero ed estensione, ciò che noi laconicamente, impro­ priamente, chiamiamo spesso natura e spirito. 17 Ora diciamo qualcosa che ci aiuti a vedere questa situazione pro­ blematica, trascolorante, cioè la differenza che sempre si cancella a par-

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tire da una differenza, la sostanza che sempre è detta in un attributo, proviamoci a dire qualcosa che ci aiuti ad afferrare un primo barlume positivo, ancorché ciò che ora è detto sia negativo. La prima difficoltà che dobbiamo sormontare sta nel comprendere che quando parliamo di natura e di Dio, di pensiero e di estensione, di sostanza e di attributi, non si tratta affatto di cose, non si tratta di cose diverse. L'errore del pensiero comune (che tutti abitiamo con quotidiano profitto pratico) è la cosalizzazione dei pensieri; questo infatti ci torna comodo sul piano della prassi comune. Proprio questo fa il linguaggio: non soltanto uni­ versalizza, ma oggettivizza. Ne deriva che, in quanto diamo la consi­ stenza di cose a questi termini, poi ci poniamo inevitabilmente il pro­ blema di come stiano in relazione, di come si corrispondano. Spinoza ha dietro le spalle proprio questa discussione, la discus­ sione dell'occasionalismo: se nel mondo c'è estensione più pensiero, nelle animucce degli uomini, allora, come si può capire che l'estensio­ ne influisca sul pensiero o il pensiero influisca sull'estensione? Come faccio a comprendere che subisco delle passioni estensive, corporee, e come nel contempo le penso, le traduco in pensieri? Come si fa a com­ prendere che penso di muovere il braccio e poi effettivamente lo muovo? Questo problema tormentava l'occasionalismo e tormenta anche noi oggi (basterebbe rendere la terminologia più attuale e, come si dice, sofisticata). Ma questo problema sconta anzitutto un grande pregiudizio, per il quale emerge appunto come problema: noi credia­ mo di star parlando di cose, e quindi ci chiediamo come possano cor­ rispondersi, visto che sono cose eterogenee, differenti; un conto sono i pezzi di estensione, un altro sono i pensieri. Ed è qui che Spinoza ha incentrato la sua rivoluzione metafisica e il suo pensiero abissale. Badate: Spinoza non ha detto che poi, misteriosamente, l'anima e il corpo si uniscono chissà dove, nella ghiandola pineale o in quel che volete; cioè che poi si verifica una congruenza tra i due ordini di real­ tà. Ha detto invece con forza: idem est ardo et connectio rerum ac ordo et connectio idearum. Sono il medesimo, non qualcosa che si riunisce poi. Infatti, una volta che li abbiamo separati, non li riuniamo mai più. Egli sta dicendo quindi che ogni attributo è tutta la sostanza, ogni significato è tutto l'evento. Avevamo osservato: l'attributo è l'esser concepito della sostanza, ma questo concepire come un attributo è

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insieme l'evento di tutti, o l'evento del tutto. (E avevamo avvertito: potessimo capire questa frase, avremmo già compiuto il cammino.) Ora aggiungiamo semplicemente: le due cose sono uno; è il medesimo concepirsi come un attributo e accadere come tutti gli attributi. Ricordiamo che anzitutto la sostanza è l'intero dominio dell'esi­ stente (primo incontro con Spinoza); è il suo intrascendipile che c'è, è il suo accadere che accade anche nella decisione di fare un corso su Spinoza: la sostanza:'è ciò che era già là, prima di ogni nostia iniziati­ va. Essa è l'esistente puro e semplice, ciò che si fonda in sè , che non rimanda ad altro, che è causa sui, dentro il quale stanno tutte le nostre decisioni, i nostri itinerari, le nostre scelte, che sono piuttosto un nostro essere scelti: itinerarium mentis in Deo, scelti nel corpo stesso di Dio, che ci circonda dappertutto: provenienza e destino di ogni nostra decisione, ovvero l'Altro, come il nostro essere stesso. La sostanza è il mondo, avevamo anche detto, cioè la sostanza in quanto tale. Ora vediamo però che tale sostanza non è la somma di cose diver­ se, non è questo più quello, estensione più pe:p.siero, non è né questo, né quello, ma è idem, simultaneamente questo e quellç>. Questo simul­ taneamente ha segnato il secondo incontro con Spinoza, Cioè l'incon­ tro col mistero, o l'enigma, dell'infinito; dell'infinito intensivo per cui ogni attributo è in sé infinito e non ha niente al di là di sé. La sostanza, dunque, nel suo in sé�_nella sua semplicità, è questo e quello. Tutto il nostro problema diventa quello di pensare quella 'e': cosa vuoi dire? Qui di nuovo ci giova il riferimento alla dialettica tradizionale. Potremmo cominciare col dire che quella 'e' né unifica, né distingue. Hegel, e già Platone, avrebbe osservato che non si tratta di un aut aut (o unifica, o distingue), perché fa tutt'e due le cose: distingue perché unifica e unifica perché distingue. Questo è il famoso superamento del carattere formale del principio di identità A = A; nel dire che questo A è uguale a quest'altro, già li ho distinti; non li ho però distinti come A e B, ma proprio nella loro identità. Ciò c.lié' 'unifica unifica perché distingue, e ciò che distingue distingue perché unifica, sicché bisogna pensare l'insieme dell'identico e del diverso, come avrebbe detto Piatone, e non scegliere tra essi. Spinoza però non sta dicendo questo; non sta dicendo che la sostanza è questo e quello, in quanto distingue due cose o unifica due cose, ovvero le distingue unificandole o le unifi-

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ca distinguendole; Spinoza non sta pensando dialetticamente. Egli sta pensando sulla base dell'analogon, dell'immagine, del carattere sim­ bolico, nel senso di tenere insieme (symbolon). Dunque quella 'e' non unifica, non distingue; ma allora cosa significa quella 'e'? Ma Spinoza l'ha detto! Ha detto: Deus sive natura. La 'e', ciò per cui la sostanza è l'unità di questo e quello, va pensata come un sive, un ossia, un cioè, un ovvero. Egli sta dicendo: estensione sive pensiero, pen­ siero sive estensione, o, con la terminologia platonica che siamo abituati a usare, natura sive spirito, spirito sive natura. L'ossia non è né un aut aut, né un et et. Perché? Per quello che abbiamo prima indicato come l'er­ rore generale nel quale sempre incorriamo. Perché 'e e', ovvero 'o o', anche nella loro combinazione hegeliana, pensano sempre due cose: pensano due cose che poi si tratta di mettere in relazione, o di vedere in che rela­ zione stanno; sive ne pensa una sola, ma in sembianza di due. In questo senso possiamo dire tranquillamente: 'due' è l'attributo, non la sostanza; però l'uno della sostahza si dà solo nel due, e come uno non c'è mai. La sostanza non è altra cosa dal suo attributo. Sive quindi pensa una sola cosa: in sembianza di due, in quanto due, cioè due, ossia due. E allora anche la sostanza è due, o lo è in quanto con­ cipitur, si concepisce. Quando diciamo che aut aut, o et et, nomina due cose, diciamo qualcosa che è in accordo col nostro senso comune; noi diciamo l'orologio e il microfono, l'orologio oppure il microfono, e ci orientiamo; ma io non posso dire l'orologio e anche (ossia) il microfono, e viceversa. Se dico così non sono capito, e non mi capisco io stesso per primo. Quello che stiamo tentando di dire è proprio ciò che il linguaggio non dice e che quindi neppure può pensare. Il nostro dirlo assomiglia alla frase famosa di Husserl, secondo la quale Dio suona col violino un'equa­ zione di secondo grado. Questa è bensì una proposizione, ma è priva di senso. Infatti stiamo dicendo che una cosa è un'altra, o che il linguaggio dice un'altra cosa da ciò che dice. Il gioco è sempre lì: essere e dire. Diciamo che una cosa è un'altra, e l'essere sfuma; che cosa è? Non si sa più. Oppure diciamo che il linguaggio dice un'altra cosa da quello che dice. Applichiamo tutto ciò al nostro evento, alla sostanza, all'in sé, al mondo. Non si può dire il mondo! Così non si può dire l'estensione nei termini di Spinoza, perché ogni volta che dico mondo, o estensione, non dico il mondo in quanto mondo, non dico l'estensione in quanto esten-

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sione, cioè la sostanza in quanto pura e semplice, o puro in sé. Dico sem­ pre un detto, già traduco nel detto, dico 'mondo', e cioè la parola mondo, il significato. Dico qualcosa di afferrato nel detto, ma non di afferrato come è il mondo. Dico: «sono fatto di estensione» , il che subito significa che sono fatto della parola estensione. L'estensione in sé non riesco mai ad afferrarla; ovvero la afferro nel detto, cioè in una traduzione, in un transfert, in una metafora, in un Altro; e cioè non la afferro affatto. Che è il mondo in quanto mondo? Che è il corpo in quanto corpo?-·''Per la stessa ragione non posso dire neanche il linguaggio. Come faccio a dire il linguaggio? Il linguaggio è già sempre mondo, si dà a vedere nelle cose, nelle cose che dice. Vedo le cose che dice il linguaggio, comprendo i suoi segni, ma non vedo che le dice. E se cerco proprio di nominare quel « che le dice», se per esempio faccio il furbo e dico l'evento del linguaggio, anche questo è linguaggio; la pruoola 'evento' funziona come un meta-lin­ guaggio che esige già il linguaggio per potersi mettere in opera; quindi esige già un mondo dietro il mondo, e così via all'infinito. Dobbiamo allora ribadire: la difficoltà è questa? Bene, la ragione deve stare in ciò che abbiamo detto poc'anzi e che non riusçiamo a pensare: che tutto ciò che è uno è uno di due e che il due è sempre due di uno. Ecco per­ ché il dire non è ciò che pretende di diTe, e l'essere non è ciò che pretende di essere. Il dire pretende di dire la cosa, ma non la dice; l'essere preten­ de di essere la cosa, IIla non la è. È un disastro? Dobbiamo cospargerci il capo di cenere? Adagio; è verissimo che il dire non dice mai ciò che pre­ tende di dire; tuttaVia, non è forse altrettanto vero che solo così può dire? che se non fosse così non ci sarebbe il dire? Supponiamo che il dire, per una sorta di miracolo, diventasse veritiero, che riuscisse ad attingere la cosa, che non gli capitasse di non dire ciò che pretende di dire, ma gli capi­ tasse proprio di dirlo. Allora io dico: 'una rosa'. Cosa significa qui che il dire sormonta il suo limite? Significa che, come dico 'una rosa', ecco che qua fiorisce una rosa. Allora finalmente il dire è yeritiero, dice la cosa, cioè la fa accadere; nominare infatti vuoi dire far Védere la cosa. Ma se il dire fosse questo, proprio il dire sarebbe cancellato;' esso non avrebbe più nes­ sun luogo, nessun senso e funzione. La sua funzione infatti è di mancare la cosa (della cosa), non di darèela; di pronunciare la sua assenza, non la sua presenza. Noi possiamo dire, perché il dire non è la cosa, non è mai la cosa che dice. Esserlo è esattamente la pretesa di Mida applicata al lin-

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guaggio: se diventassi così fortunato, sarei il più infelice degli uomini; o meglio non sarei più nemmeno un uomo, perché non avrei più il linguag­ gio, non potrei più pensare. Perdo così in un colpo solo quello che crede­ vo di acquistare: non ho più la distanza della parola, l'assenza dell'ogget­ to della parola, la distanza del significato; cioè non posso parlare. Come mi provo a pronunciare qualcosa, mi trovo cosa tra le cose. Quindi le perdo tutte. Ecco perché nel fatto che il dire non dica ciò che pretende di dire non c'è soltanto un limite; anzi c'è una costitutiva positività del lin­ guaggio. La quale naturalmente significa che questa rosa non può esser detta, certo, proprio questa non può esser detta. Perché non è un detto, infatti. Ciò che dico è altro. Se c'è lei non c'è la rosa; e nemmeno c'è una rosa, perché tutte le rose sono uno e tutte sono 'rosa'. Non basta però dire così. Posso ostinarmi a indicare la rosa col dito, a designarla con la parola 'questa'. Hegel direbbe: come Mida, ti ritrovi sempre con · un universale, perché anche ogni indicare è un indicato. Benissimo. Però è anche vero che questa rosa, che non posso dire, c'è, pro­ prio perché io la chiamo 'rosa'. La parola non può dire proprio questa rosa; ina proprio questa rosa non potrebbe esserci, senza la parola che la dice. Questo è l'altro lato della faccenda, e va tenuto assieme al primo (cioè, ossia). È il lato che concerne l'essere, appunto; l'essere della rosa, nel nostro esempio. L'essere non è mai ciò che pretende di essere, perché l'essere pretenderebbe di starsene lì indifferente alla parola, indifferente al nome, al significato. Ma anche l'essere non ce la fa: non può stare lì fuori del linguaggio. Diciamo che può stare li in sé solo nella differenza del linguaggio. L'essere è in sé solo essendo immediatamente nella traduzio­ ne del linguaggio. Come già la parola essere suggerisce, in quanto appun­ to è parola, l'essere come essere puro non c'è, non c'è nulla. Abbiamo fatto un po' di strada, ma il senso comune non si è acquie­ tato. Se dite che si è acquietato, mentite; vi fate la via troppo facile. Il senso comune infatti ribadirebbe più o meno questo. Dire 'rosa' non è far apparire un fiore; e allora bisogna distinguere tra quello spirito che è nelle parole e quella natura che è nelle cose (vedi che Platone aveva ragione?). Perché questo è evidentissimo a tutti ed è innegabile per tutti: che l'essere delle rose, la natura, non ha bisogno per esserci di venir detto; non è che dicendo 'piove' scoppi il temporale. Ciò che il senso comune testardamente ribadisce (ma il senso comune bisogna

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trattarlo bene, perché da esso nasce il vero stimolo del pensiero, non dalla mera cultura che si giova di frasi imparaticce) è una cosa sempli­ cissima, lapidaria e per lui insormontabile: la rosa .sta là, anche se nes­ suno lo sa. Le stelle alpine stanno in cima alle montagne e nessuno le vede. Nascono, fioriscono, muoiono, e nessuno ·è mai andato a guardar­ le a quelle altezze; eppure sappiamo che sono là, che stanno là, fuori di ogni pensiero, fuori di ogni significato. Dobbiamo rnisurarci.eon questa convinzione, perché l'abbiamo tutti radicata in noi, e per qi più non è sbagliata, come vedremo cammin facendo; piuttosto è insufficiente. Potremmo rispondere al senso comune: guarda bene cosa hai detto, traduci bene quel che hai affermato e che nessuno pretende di negare sul piano stesso che tp hai assunto. Cosa hai detto? In realtà hai detto che l'evento del dire non è l'evento di una cosa. Il fatto che io dica ecco una rosa, non la fa apparire davanti a me. Sicché l'evento del dire non è l'evento di una cosa diversa dall'evento del dire stesso. L'evento del dire è l'evento del dire; l'evento di una cosa è l'evento di una cosa. E questo evento di una cosa non dipende dall'evento del dire, dal suo venir detta o meno. Vediamo, senso comune, se hai detto tutto e se hai detto bene, però. Il · senso comune i non ha invero interesse a questa analisi, e qui è tutto il suo limite. Esso è sempre lì a stimolare il senso filosofico, ma lui, per parte sua, non ci vuole entrare. È riottoso, e pro­ prio letteralmente nq,n ha interesse a entrarci, cioè non è dentro que­ sto problema, non gli interessa. Solitamente oppone un perentorio: «a che cosa serve?» . Infatti non serve; è qualcosa di molto più profondo che non il servirsi delle cose e delle parole, come intende il senso comune. Il senso comune non ha interesse a procedere oltre, dopo che ha detto quello che ha detto e che noi abbiamo precisato meglio; si chiama senso comune proprio per questo: perché non ha interesse a procedere oltre. E però, se un uomo comincia a domandare, anche per poco che si trovi coinvolto nella domanda, ec.co che allora si stupisce. Allora il senso comune non si ferma più, dev� procedere, non può atte­ starsi su se stesso, deve andare avanti e sono 2500 anni che corre. Sicché alla fine deve dire proprio quello che gli ripugna, ciò che all'ini­ zio non voleva dire; deve dire che sì, l'evento e la cosa, l'evento e il significato, sono differenti, ma che cosa sia un evento implica la loro indifferenza. Infatti, come può negare che ciò accada?

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Prendiamo i suoi esempi: noi non c'eravamo quando c'erano i dinosauri; oppure: non ci siamo quando fioriscono le stelle alpine. Benissimo. L'evento di una stella alpina, preso come un puro evento, come ciò che accade in sé (causa sui), non abbisogna del significato 'stella alpina' per accadere; cioè non abbisogna del sapere umano e del linguaggio. Ma che cosa di questo puro evento 'stella alpina' è il puro evento? Non 'stella alpina', ma puro evento. Senso comune, stai atten­ to. Stai dicendo che il puro evento è puro evento. Ma così non è nulla. Il puro evento in sé non sarebbe nient'altro se non l'evento di nulla. Tu invece stai contrabbandando che sia una 'stella" alpina' ciò che è acca­ duto, non nulla. Anzi, sei ben convinto di questo: accadono cose, non nulla, cose ben determinate. Già, ma determinate da che? Ecco che non appena provi a dire, a difendere questo tuo puro evento, devi subito passare dall'altra pane, e fàr uso di quel linguaggio, di quel pensiero, che volevi tenere fuori dalla porta. Perché ogni evento, sei tu stesso che lo dici, è evento di qualcosa; ma come nominerai questo qualcosa? È una stella alpina che è fiorita, non un'altra cosa; ma questo solo il_lin­ guaggio può determinarlo. Ecco che allora quello che è accaduto è indi­ pendente, sì, ma solo nella differenza e nella dipendenza del linguag­ gio; e quindi insieme non è indipendente. Il senso comune di fronte a questa girandola risponde: un momento, fammi fermare la testa, perché sono certo che mi hai imbro­ gliato. E allora tenta la seguente difesa: adagio, un conto è l'indipen­ denza del suo che (che è fiorita la maledetta stella alpina) ; su questa indipendenza sono fermissimo e credo che anche tu la pensi così; se non lo confessi, è solo per il gusto sofistico di venire a intorbidar le acque; in realtà lo sai quanto me che le stelle alpine, quanto al loro che sono fiorite, ignorano il linguaggio. Quindi, quanto all'indipendenza del che, questa va ribadita. Altra cosa invece, altro conto è la dipen­ denza del che cosa. Bisogna distinguere il che dal che cosa. Tu filosofo li tenevi insieme e ci giocavi; io senso comune non sono nato ieri e ti dico: no, non ho detto una cosa sola, ne ho dette due; ho detto che c'è l'indipendenza dell'evento, ma sono d'accordo che il che cosa dell'e­ vento dipende dal linguaggio. Il che è fiorita la stella alpina non è la stessa cosa del che cosa è fiorito. Il primo fatto è indipendente dal lin­ guaggio; il secondo no. Il secondo implica la differenza del linguaggio.

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Anche questa estrema difesa però non sta in piedi, perché il senso comune continua a pensare due cose; è lì che si sbaglia e non vede. La difesa non regge perché è facilissimo rispondergli: che è che fa la diffe­ renza tra il che e il che cosa? Non la fa forse il linguaggio? Non è il lin­ guaggio che distingue il che di una cosa che accade dal fatto che quel che accade è poi anche un che cosa? È in quanto vedo delle stelle alpine che vedo che accadono. Se non vedessi stelle alpine, ma puri eventi (cioè nulla), come potrei: sapere che accadono? E come potrei apptendere che il loro fiorire non dipende dalla mia parola? Come potrei immllginare che se ne stanno lassù anche se io non le vedo e che il loro che c'è non dipende dal fatto che io le veda e le dica? Tutto questo è appunto il linguaggio che me lo insegna, è il pensare. Per ciò le posso pensare in sé sussistenti lassù, indipendenti da me, come certamente sono; ma questo loro che. è già una differenza del linguaggio. È il linguaggio che dice appunto il loro evento, essendo da un lato l'evento di una stella alpina, che però non dipende dal fatto che io dica 'stella alpina'. Come vedi, non sono l'idealista che credi (in realtà non è mai esistito questo tipo di id�alista che si sono inventati i manuali; non c'è mai stato nella storia della filosofia un simile sciocco che hà immaginato che pensare una stella alpina volesse dire farla accadere). Non sto dicendo che, in quanto la differenza tra che e che cosa è essa stes­ sa una differenza di linguaggio, àllora è il linguaggio che fa le stelle alpine; non sono matto, né un volgare sofista. So benissimo che posso dire 'stella alpina' solo perché � è un 'che', un che che accade. Nessuna parola dove la cosa manca, ha detto un poeta. E anche la parola 'spirito' presuppone la cosa, presuppone che gli uomini parlino, che abbiano un corpo, polmoni, gola ecc. Ma tutto questo significa appunto quello che abbiamo sempre detto e che il senso comune non vuoi mandar giù: che ogni cosa è imme­ diatamente un significato e che ogni significato è immediatamente una cosa. Cioè che ogni cosa è immediatamente nella differenza di un signifi­ cato, e che ogni significato è nella differenza immediata del suo rinvio a una cosa. Non fioriscono generiche rose, màrquesta rosa. Adesso possiamo dire finalmente una cosa importante. Il nodo è la questione della differenza tra evento e significato; ma la difficoltà è che questo nodo precipita subito dàlla parte del significato. Adesso però proviamo a dire così: quando parliamo dell'evento, cioè della sostanza nei termini di Spinoza, del che c'è ultimo, quando parliamo per esempio

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dell'evento di una rosa, non parliamo di qualcosa che poi anche accade nella forma di rosa. Se fosse così, penseremmo due cose. Stiamo invece dicendo che l'evento è l'accadere di questa différenza stessa: l'evento è la differenza dell'accadere di questa stessa differenza. Ma possiamo anche capovolgere il senso della frase: l'evento è l'indifferenza dell'ac­ cadere di questa differenza stessa. Entrambe le cose sono vere a secon­ da di come le guardiamo. Questa frase dice il punto e risolve la questio­ ne; essa chiarisce il pensiero abissale relativo al rapporto sostanza-attri­ buto. Ora però bisogna capirla, bisogna vedere cosa ha detto. A prima vista dice questa strana cosa: che è il medesimo che acca­ dano rose in sé o che io dica che accadono rose in sé. È il medesimo che io dica che il piano riflette tutti i raggi della luce oppure che io dica che è bianco. Il senso comune risponde: sarà come dici, ma non ho capito niente. Allora vediamo perché non ha capito, perché ognuno di noi non ha capito. Che cosa mai può indicare questa strana proposizione: «l'e­ vento è la differenza dell'accadere della differenza, ossia è l'indifferen­ za dell'accadere di questa differenza stessa? » Torniamo a quello che sappiamo come senso comune e che sin qui non è mai stato negato, ma piuttosto guardato nella sua complessità e problematicità. Il senso comune sa che l'evento non è un significàto, che il 'che' non è un 'che cosa'. Questo fatto descrive un aspetto fenomenologico indiscutibile dell'esperienza che nessun filosofo 'idealista' si è mai sognato di nega­ re. Il fatto però è che il senso comune che è in noi equivoca sul senso di questa sua convinzione, di questo suo sapere fondato: che il 'che' è il che, non il 'che cosa', che l'evento è l'evento non il significato, che la rosa è la rosa, non la parola rosa; equivoca perché (dicevamo prima e forse ora si comincia a vederlo) inavvertitamente pensa che il che e il che cosa siano due cose, due cose differenti e anzi addirittura, per certi versi, opposte. Così si rifiuta di pensare la loro unicità, anche se la logi­ ca ve lo costringe. Ha ragione nel sostenere che non si tratta di un'i­ dentità, ma non capisce il senso della distinzione stessa che esso pone, perché la equivoca come due cose: c'è quella cosa che è l'evento, il fatto che accade una rosa, e c'è un'altra cosa che è il significato di quel fatto. Il senso comune non si avvede che, come direbbe Spinoza, si tratta di una stessa cosa. La quale è da pensarsi così: che il 'che' è un aspetto del che cosa, così come potrei dire che il che cosa è un aspetto del che.

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L'evento quindi è un aspetto del significato, non un'altra cosa accanto al significato. Cosa vuoi dire che l'evento è un aspetto del signi­ ficato? Diciamolo nel modo più semplice possibile: l'evento è il fatto dell'accadere del significato. Non è che c'è l'accadere delle rose più il significato 'rosa'; no, c'è l'accadere delle rose e il loro accadere, il loro evento, è il fatto dell'accadere di rose, e non di stelle alpine. A sua volta possiamo leggere la situazione a termini invertiti e caP,irla lo stesso dall'altro punto di vista, che è poi uguale. Possiamo diref il che cosa è un aspetto del che, perché è una stella alpina che è accaduta, non un'al­ tra cosa. Quindi il che cosa, la stella alpina, è un aspetto di quell'acca­ dere lì, se no che accadere è? Ma appunto perché l'accadere non è un'altra cosa dal che cosa �he accade. Allora proviamoci a dire così la situazione: l'evento, ·il che, la sostanza, non può'mai essere isolato da ciò che accade; però nello stes­ so tempo non può mai esser posto sullo stesso piano di ciò che accade. Non stiamo appunto dicendo quello che quella strana frase diceva prima? Non stiamo dicendo che ciò che accade, accade sempre in una differenza? (In una distanza, direi nella mia terminologia, cioè in un segno.) Questo appunto significa the la sostanza è sempre nella diffe­ renza del suo attributo. Questa differenza stessa è l'accadere dell'even­ to, non un'altra cosa. L'evento è l'accadere di questa differenza. Ecco perché il che è un �petto del che cosa. Perciò è vero quello che il senso comune difende ostinatamente con le unghie e con i denti (ma anche male, poi; in ultima analisi): è vero che l'evento non va confuso col qual­ cosa che accade; l'evento non sono le stelle alpine. Però non va distinto dal qualcosa che accade come se fosse un'altra cosa, come se ci fossero le stelle alpine più quelle altre cose che sono gli eventi delle stelle alpi­ ne. L'evento è proprio in questa cosa çhe accade, nella sua differenz i., nel suo essere il concipitur di ciò che accade, l'esser detto di ciò che accade: è lì che l'evento accade, non altrove, è lì che l'evento è. E allora possiamo conclusivamente dire così: qufudl l'evento, la sostanza, è un'unica cosa, che accade nella forma del due, cioè della sua differenza. Salvo che ora dobbiamo capire bene questo due, questa diade ori­ ginaria, come avrebbe detto Platone. Dobbiamo capire bene, perché per tutto ciò che abbiamo detto circa l'et et, l'aut aut, questo due non ha il senso dell'uno più uno. Il che, tradotto semplicemente: non ha il

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senso dello spirito più la natura, non ha il senso dell'evento più lo spi­ rito, non ha il senso dell'evento più la natura. Queste sono appunto le tre strade ideologiche, i tre errori superstiziosi, le tre idolatrie del pen­ siero, le tre passioni dalle quali l'etica deve affrancarci, purificarci. Queste tre strade fuorvianti sono quelle rispetto alle quali Spinoza ha pronunciato il verdetto definitivo, cioè l'invito al loro abbandono, non­ ché l'invito ad abitare altrimenti il mondo, a concepire altrimenti Dio, e quindi a concepire altrimenti l'uomo, il pensiero e la natura. Vediamo perché il due non può essere spirito più natura (ricordia­ moci che noi diciamo sempre spirito e natura per comodità; dovremmo dire estensione e pensiero). Nel pensare così si commette l'errore del senso comune, il quale pensa due cose, pensa che lo spirito e la natura, cioè l'estensione e il pensiero, siano due cose. Questa è appunto tutta la scoperta di Spinoza: non sono due cose Oa sostanza è una sola) ; sono invece attributi della sostanza e si tratta di capire questo. Il senso comu­ ne le tiene distinte: c'è lo spirito che è una cosa e c'è la natura che è un'altra cosa; ci sono le parole e ci sono le cose di cui parlano le parole. Ma la verità è che non c'è quella cosa che sarebbe la natura da una parte e quella cosa che sarebbe lo spirito dall'altra; né c'è la sostanza da una parte e il suo apparire in forma di attributo dall'altra, sia esso estensio­ ne o pensiero, spirito o natura. Né infine possiamo identificare la sostanza, l'evento, o con lo spirito o con la natura. Tutti questi modi di ragionare, che sono così comuni, che costituiscono spesso il quadro di riferimento della ricerca scientifica, il suo quadro inespresso, che sono alla base di innumerevoli sistemi di metafisica o di filosofia dell'età moderna, senza parlare di quella antica, tutto questo per Spinoza è sem­ plicemente superstizione, assenza di pensiero, incapacità filosofica. Chi pensa così pensa ideologicamente, cioè superstiziosamente. Cioè non pensa Dio. Crede di pensarlo, ma Dio, la sostanza, pensato così, è ridot­ to a mera ideologia, a mera superstizione. Non si tratta mai di tenere la natura e lo spirito come cose separate, né il loro apparire come cosa separata dalla sostanza, né si tratta di dire che la sostanza è spirito, oppure che la sostanza è natura. Queste sono le due alternative con le quali abbiamo a che fare quotidianamente nella divisione ideologica degli Occidentali, che sono o religiosi o atei, o spiri­ tualisti o materialisti; cioè che sono ancora totalmente incasellati n�lle

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due grandi alternative platoniche: i figli della terra e gli amici delle idee.

Non si tratta di questo, non si tratta di scegliere se Dio ha una mente spi­ rituale e ultrasensibile oppure se queste sono fole e tutto quello che c'è è la materia nella sua evoluzione, è la natura nel senso naturalistico del ter­ mine, sicché dietro non c'è niente, c'è il caos, c'è il senza senso. Spinoza ha

per sempre sbarrato la strada a questa idolatria, che è la medesima negli uni e negli altri: non sono diversi; si combattono proprio perché hanno

qualcosa in comlllne, che è la loro idolatria, la loro super�ione; sono i poli opposti della medesima strategia metafisica. Spinozk, senza molta fortuna, devo dire, almeno sino a oggi, ha per sempre sbarrato, sul piano

del pensiero, la strada a questo errore; errore per il quale potremmo rievo­ care una celebre frase di Nietzsche, quando egli diceva: ma per quanto ancora ci perseguiteranno queste ombre di Dio? Per quanto ançora dovre­ mo stare circospetti e attenti? E proprio in quell'aforisma invocava alla fine la 'pura natura', il ritorno alla pura natura finalmente redenta dalla superstizione. Il che non va letto, credo, nel senso di un ingenuo vitalismo o naturalismo; credo lì si annià.i proprio Spinoza, la sua natura che è il e che non è impigliato nelle ombre di Dio, cioè nelle ombre spiritualistiche o materialistiche Cessendo il materialismo una filo­ sofia quanto lo spiritualismo, ma direi anche più sciocca, visto che lo spi­ ritualismo almeno è consapevole del problema che pone).

Deus sive natura,

Quello che non si può fare, quindi, è identificare la sostanza con un suo attributo, cioè"fissarla in un significato; per esempio dire che è esten­

sione, o dire che è intelligenza, o pensiero, perché questo, per Spinoza, è un pensare vanamente antropologico, che sconta la fallacia dei modi (come vedremo più avanti). Donde l'infelicità, perché è quell'errore che

genera le passioni e la loro infelicità; è ciò da cui dobbiamo purificarci per raggiungere, non tanto, o soltanto, la verità, ma la felicità, visto che il fi,ne dell'Etica non è principalmente quello di costruire un sistema di metafisi­ ca, ma è quello di mettere gli uomini nella condizione di comprendere la loro posizione nella sostanza, cioè nella vita. e nel mondo. Ogni attribuzio­ ne della sostanza è, per dirla ancora con Nietzsche, umana, troppo

umana; cioè non coglie il carattere sostanziale del mondo. Quindi non si

deve pensare che l'evento della sostanza sia altra cosa dal suo attributo. Ma allora come si deve pensare? Questa indicazione l'abbiamo già data e, dopo questo lungo percorso, ora la possiamo riprendere.

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XIV L'ATIRIBUTO

Il punto concerneva l' 'ossia' (sive) che non è et et e non è aut aut. Cioè non è1+1. Diciamolo ora con una formulazione semplice e poi vedremo cosa ciò comporta: l'evento è sostanza, ossia estensione, natura; l'evento è sostanza, ossia pensiero, spirito. Quell'ossia cade così originariamente nella forma del due, sicché in principio è il due, la diade, perché ciò che accade, l'evento, sempre rimanda. Accade un rimando, una differenza, per esempio dell'attributo alla sostanza; ovvero, di un attributo all'altro attributo. Ma adesso dobbiamo aggiungere una cosa fondamentale: ciò che accade rimanda, ma ciò a cui rimanda non è un'altra cosa; è ancora lo stesso. Lo vedremo; per ora ci prepariamo il terreno. D'altronde, ricor­ derete, la questione dell'Altro e dello Stesso era una delle questioni d'ini­ zio del nostro corso. Dicevamo che chi comincia è sempre l'Altro, non io; o sono io perché sono già nel segno dell'Altro, nella differenza dell'Altro. Questo però sono anche io stesso, questo Altro non è altro che il me stes­ so più profondo. Qui stiamo dicendo, a livello metafisica, quindi in astra­ zione totale da ogni situazione contingente: l'evento è l'accadere del due, è l'accadere di qualcosa per un altro, un attributo per un altro, un attri­ buto per un altro attributo, l'attributo per la sostanza; ma ciò a cui rimandano non è un'altra cosa, è lo Stesso. Mettiamo la formulazione così per cominciare a dipanarla: l'esten­ sione è il segno della sostanza, è la natura naturata di quella natura naturans, come direbbe Spinoza, che è la sostanza. Il che vuoi dire che la sostanza è qui in figura di estensione, nel segno della estensione. Ma la natura naturans è allora un'altra cosa rispetto alla natura naturata? No, è lo stesso che la natura naturata; salvo che è il suo accadere come natu­ ra naturata, è l'evento stesso in quanto accade in sembianza di natura naturata, come natura naturata, sive natura naturata. Questo però dobbiamo ripeterlopari pari per lo spirito o il pensiero, La sostanza è evento del pensiero, ovvero è la sostanza che si dà in figura di pensiero, ossia come pensiero; ma il pensiero non è un'altra cosa dalla sostanza.

Carlo Sini

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Cominciamo a dipanare questo nodo a partire dalla differenza dei

due attributi tra di loro; in realtà qui si giocano tutte le nostre cartuc­

ce. Abbiamo detto : per esempio, l'evento accade come natura, la

sostanza è natura

(natura naturata);

pensiamo questa proposizione

dal punto di vista dell'attributo, cioè dal punto di vista della natura. La sostanza allora è natura, il che significa anzitutto che non è spirito.

È

natura perché non è spirito ; si qualifica come natura perché esclude

dalla sua qualificazione il' suo altro, come direbbe Platorle . Ma il punto

1

che ora è da pensare è che, se questo è vero, al di là de la natura non c'è però lo spirito, perché abbiamo detto : natura e spirito non sono due

cose; ognuna è tutta la sostanza. Quindi quando la natura accade come

figura della sostanza, come suo

ossia,

certamente accade in quella

determinazione che esclude lo spirito, ma non nel senso che di là ci sia o resti lo spirito : ·di là c'è solo la sostanza.

Se vogliamo esprimerci in una maniera semplice, i due attributi

non si spartiscono la sostanza, non ne hanno un pezzo per uno, perché

non c'è quest'altra cosa reale che è lo spirito oltre la natura; perché non

c'è neppure questa cosa reale c�e è la natura; perché - Spinoza lo dice all'infinito, ma è difficile pensarlo - reale è solo la sostanza.

È questa la

grandiosità del suo pensiero abissale, è questo lo scandalo : non ci sono tante sostanze, ce n'è una sola, 'sicché non dobbiamo fare l'errore di

pensare gli attrihqti come sostanze. Così pensava Cartesio. Gli attributi

non sono cose reali e la natura non ha fuori di sé quella cosa reale che

sarebbe lo spirito ; e lo stesso vale ovviamente per lo spirito. Se la

sostanza è spirito, se si mostra ip. figura spirituale, certo lo spirito è la

differenza dalla natura; ma non ha fuori di sé un'altra cosa reale che sarebbe la natura. Dobbiamo insomma ribadire quello che avremmo dovuto capire sin da quando esaminavamo la definizione dell'infinito.

Dobbiamo capire quello che in fondo sappiamo già, ma che non riuscia­

mo a pensare, a cogliere distintamente: che ogni attributo è tutta la

sostanza. La natura è tutta la sostanza, qiii:Ìldi non può avere fuori di sé

un'altra cosa che è lo spirito; ma anche lù spirito è tutta la sostanza, e quindi non può avere fuori di sé quell'altra cosa che sarebbe la natura.

Ogni attributo, diceva Spinoza, sotto il profilo dell'infinito, è infinito nel

suo genere, è infinito quanto la sostanza, coincide totalmente con l'infi­

nito della sostanza; però nel suo genere, cioè in quanto attributo.

Archivio Spinoza

261

Fermiamoci un attimo e diciamo cosi: quindi al di là della natura

non c'è assolutamente nulla.

quando dicevamo :

È questo che è da pensare,

sin dall'inizio,

il mondo è qui, Dio è qui, noi siamo nel percorso di

Dio; questo è il concretarsi di quel pensiero abissale. Al di là della natu­

ra non c'è assolutamente nulla, salvo la sua differenza dalla sostanza,

potremmo dire, cioè salvo che è accaduta la natura. Questa differenza

dalla sostanza non è poi la differenza tra due cose; non è la differenza

tra la sostanza e l'attributo, ma la semplice differenza dell'accadere con l'accaduto, dell'evento col suo attributo, che è 'natura'. Adesso dobbia­

mo ripetere la stessa cosa per lo spirito. Dobbiamo ripetere che al di là

dello spirito non c'è assolutamente niente, nessuna altra cosa, salvo la

sua differenza rispetto alla sostanza; che però non è una differenza tra due cose, ma è la differenza tra l'accadere e l'accaduto, che è accaduto come l'attributo dello spirito.

Che cosa in sostanza abbiamo detto? Adesso facciamo un balzo,

diciamo una cosa che si può dire solo con un balzo. Abbiamo detto due

cose; ma è chiaro che non possiamo dirle così come le abbiamo dette.

Abbiamo detto: fuori della natura non c'è niente altro salvo la differenza per cui la natura non è la sostanza; fuori dello spirito non c'è niente altro,

salvo la differenza per cui lo spirito non è la sostanza. Ma questa diffe ­

renza? È questa differenza che si tratta ora di pensare. Ma allora che cosa abbiamo detto in ultima istanza? Che la differenza della sostanza rispet­

to ai suoi attributi, non essendo un'altra cosa,

della differenza tra gli attributi stessi.

non è altro che l'accadere

Cioè, appunto, il medesimo che

accade nella figura della differenza. L'uno, che non è una cosa, che acca:­

de nella forma del due. Abbiamo detto già la soluzione; adesso la doh­

biamo vedere. Dobbiamo vedere la dinamica della differenza come even­

to stesso della sostanza, come rapporto all'attributo, come rapporto tra gli attributi, e uscire una volta per tutte dalla superstizione.

Cerchiamo allora di comprendere la sostanza come evento della

differenza tra gli attributi. Supponiamo che l'attributo sia la natura;

allora diciamo che la sostanza differisce dalla natura in quanto è l'even­ to della natura. L'evento non è in sé 'naturale'; piuttosto si dà in figura

naturale, si figura come natura. L'evento è tutto ciò che ci circonda (il

mondo) . Stiamo dicendo che la natura differisce dalla sostanza; questa differenza dalla e della sostanza è appunto il suo segno, la sua figura,

Carlo Sini

262 ...

perché non è la stessa cosa dell'eventuarsi dell'evento, non lo esaurisce.

Attenzione però, con una aggiunta: non è la stessa cosa, ma anche lo è, perché l'evento non è un'altra cosa, è l'accadere di questa differenza,

Chiediamo ancora: cosa significa che la natura non esaurisce l'e­

vento della sostanza, è una sua figura, un suo ossia? Noi diremmo subi­

to: perché non è l'unico significato della sostanza, non è l'unico signifi­ cato dell'evento; la sostanza potrebbe darsi in figura spirituale, cioè come pensiero e non come estensione. Detto così, però, detto male, perché sembrerebbe che

è !icuramente vi sia un'alternativa tta due possi­

bilità reali. Come · se noi dicessimo: la sostanza potrebbe essere natura,

oppure potrebbe essere un'altra cosa, spirito. Ma non c'è quest'alterna­

tiva. Abbiamo detto: fuori della natura non c'è niente, fuori dello spiri­ to non c'è niente, se non la sostanza. Quindi si tratta di mettere all'ope­

ra propro questa differenza e'non una alternativa. Cioè si tratta di com­ prendere che significa che

il darsi della sostanza come estensione non

esaurisce la possibilità dell'evento, è qualcosa che è posto a distanza dali

'evento stesso e che perciò ha la differenza dello spirito fuori di sé.

Per ora possiamo dire solo co�ì (e non l'abbiamo ancora capito) : la

natura ha la differenza dello spirito fuori di sé; non però come un'alterna­

tiva. Perché? Per una ragione semplicissima: che lo spirito fuori della natura non è altro che la sostanza, non è un'altra cosa. L'evento della

sostanza in figura naturale, o come estensione, ha la differenza dello spi­

rito fuori di sé, ma questa differenza è la sostanza stessa. TI che porta a

questo paradosso: se la natura è la figura della sostanza, in quanto ha fuori di sé la differenza dello· spirito, la quale è però di nuovo la sostanza, allo­ ra la natura non ha niente fuori di sé, perché lo spirito è sostanza come lei. Si potrebbe tentare di esprimere quel che stiamo dicendo in questo modo:

che la natura, avendo lo spirito fuori di sé come intero della sostanza, pro­

prio per questo differisce dalla sostanza. Non c'è infatti la sostanza e poi il suo darsi, non c'è quest'alternativa, perché na:tura e spirito non sono cose,

tari'Zà, figure della sostanza.

ma configurazioni dell'accadere della sos

Prendiamo una di queste figure. La natura, per esempio, è l'acca­

dere di tutta la sostanza; tutta la sostanza accade in figura di natura. In

quanto accade in questa figura, la natura è in sé una differenza. Lo è nel senso che ha fuori di sé lo spirito o il pensiero. Ma lo spirito o il pensie­ ro sta a sua volta nella stessa relazione con la sostanza. Anche lo spirito

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è tutta la sostanza, tutta intera. Sicché né lo spirito ha fuori di sé quel­ l'altra cosa che è la natura, né la natura ha fuori di sé quell'altra cosa che è lo spirito. In conclusione: la natura, figura della sostanza, ha la sua dif­ ferenza, rispetto alla sostanza, in quanto per lei, che è natura, la sostan­ za è spirito, è pensiero. La natura ha fuori di sé lo spirito, ma questo significa: .la differenza della natura nella sostanza sta nel fatto che per la natura la sostanza ha, il senso dello spirito. Ora la stessa cosa rovescia­ mola per lo spirito. Il pensiero è quella differenza, o figura, quell'ossia della sostanza che ha fuori di sé la natura; ma questo non significa altro se non che ha fuori di sé la sostanza; ossia che la sua differenza sta nel fatto di concepire la sostanza come natura. L'intera sostanza è l'evento dello spirito, e questo evento non è altro che natura. Che significa dunque, come diceva Spinoza, che noi siamo pensiero ed estensione? Che significa per esempio che io sono pensiero? Qui ragioniamo a livello di modi; quindi l'esemplificazione è imperfetta. Non siamo ancora arrivati ai modi, e qui dovremmo pensare soltanto l'attri­ buto del pensiero. Ma nell'esemplificazione non possiamo pensare l'at­ tributo (e questo avrà il suo significato, come comprenderemo quando arriveremo ai modi). Dunque, cosa vuoi dire che io vivo nella differenza del pensiero, in figura spirituale, cioè parlo, uso parole? Che cosa vuoi dir questo, se non che il pensiero, lo spirito, vede sempre il differito della dif­ ferenza, cioè vede la natura naturata? Spinoza lo dice chiaramente in varie proposizioni dell'Etica: il pensiero è sempre ciò che dice e immagi­ na le cose. Il pensiero non è altro che il coglimento della differenza della natura; infatti il pensiero pensa sempre qualcosa, e non niente. Ecco per­ ché, dicevamo, dal punto di vista di quell'attributo che è il pensiero, la sua differenza è la natura. La quale però vale per il pensiero come l'inte­ ra sostanza: la sostanza è natura, ciò che c'è è ciò che è naturato. Non ci sono che cose naturali, gli oggetti del pensiero; dappertutto non è che estensione. Se un chirurgo spiritualista si mette a sezionare un cervello per trovare il pensiero, di certo non lo trova, perché trova solo estensio­ ne, solo natura. E se un cosmonauta va nel più alto dei cieli, trova solo atmosfera, polvere di stelle. Non c'è altro da vedere che natura, e questa è la differenza dello spirito: che esso ha fuori di sé la natura, e nient'al­ tro, sicché la sostanza gli vale come natura, Pensare in altro modo è superstizione: soprattutto non è pensare. Potremmo anche dire così:

Carlo Sini

vedere la natura, la sostanza come natura, il tutto come mondo, è il pro­ dotto dell'operare come spirito, è la sua differenza, ovvero il mòdo in cui lo spirito opera la propria differenza dalla sostanza. Ma Spinoza non l'a­ veva appunto detto benissimo? L'attributo non è altro che ciò che l'intel­ letto concepisce della sostanza, non è che il suo far differenza in quanto differire della sostanza stessa. Si potrebbe anche dire: l'intelletto è tutta la sostanza dal punto di vista della sua differenza. E qual è questo punto di vista? Che fuori:� di sé non c'è che estensione, non c'è ch1- natura, cioè la sostanza stessa nel suo differito, in quanto natura naturata. La stessa cosa va detta ora della natura. La natura, ponendosi come differenza dalla sostanza, è il differito dello spirito e noi dobbiamo com­ prendere questo ritmo altalenante, questo bilico della sostanza, che non appena si dice come natura, si dice così per lo spirito, per cui tutta la sostanza diventa spirito; e non appena si dice come spirito, si dice così per la natura, sicché tutta la sostanza è natura. E come Spinoza ci vuole far comprendere, le due cose sono una. Riassumiamo queste considera­ zioni così: la natura ha il senso dello spirito, ossia della sostanza; lo spi­ rito ha il senso della natura, ossiaì della sostanza. La natura è ciò che si può vedere nella differenza dello spirito, perché la natura è ciò che si può vedere nella differenza del ved�re dello spirito; ma anche lo spirito è ciò che si può vedere nella differenza della natura, perché, dove lo vedo lo spirito se non nel suo far differenza? Ecco, questo trapasso, que­ sto metapherein, questo transfert è la sostanza, la quale è sempre la distanza da una sua figura che si trascolora nell'altra. Altra che peraltro è già, perché potremmo dire con una terminologia alla Hegel, la sostan­ za è il presupposto già sempre posto della sua differenza. Non è il pre­ supposto più la sua differenza, non è sostanza più gli attributi, ma il pre­ supposto che è già sempre posto nella figura, che è già sempre ossià­ estensione, che è già sempre ossia-pensiero, che è già sempre questo rimando. La sostanza è l'evento di questa differenza, di questa oscilla­ zione, e la differenza è l'attributo (notate cÌi� parlo al singolare); sicché la sostanza è questo immoto differire che è l'attributo. Adesso cominciamo a vedere terra. Sino a che parliamo di attribu­ ti al plurale non capiamo niente. Di qui la difficoltà nel comprendere che gli attributi sono infiniti: infiniti come, di numero? Certamente no ! Ognuno piuttosto è infinito nel suo genere, nella sua figura, corrispon-

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dente all'infinito assoluto della sostanza, cioè all'infinito sciolto dalle sue figure. Allora potremmo dire: infinita è l'oscillazione della sostanza, di questa sua differenza e distanza; ma unico è l'attributo, unica è la figura, come unica è la sostanza; perché l'attributo non significa altro che essere in figura, essere un ossia, essere segno, distanza, differenza. Non questa o quella differenza, non natura oppure spirito, pensiero oppure estensione, perché se diciamo così, non abbiamo capito neanche la prima definizione di Spinoza; continuiamo a pensare gli attributi, le figure, come cose, come delle sostanze, mentre unica è la sostanza. Torniamo al noto esempio che Spirioza usa in una lettera: il piano che riflette la luce e in quanto riflette tutti i raggi della luce non ne conserva nessuno; e la percezione, che dice che questo piano è bianco. Spinoza diceva: attenzione, queste due cose sono la stessa cosa, sono due nomi dif­ ferenti per la stessa cosa. Già così aveva spiegato tutto. Quando diciamo che la sostanza consta di infiniti attributi, stiamo dicendo che la realtà consta della infinita differenza della figura, della differenza dell'attributo. Per esso abbiamo due nomi, che dicono però assolutamente il medesimo. Possiamo dire che la sostanza è bianca; possiamo dire che la sostanza riflette tutti i raggi della luce; sono due figure attraverso le quali l'intellet­ to concepisce la differenza della sostanza. Allo stesso titolo possiamo dire che la sostanza è natura, estensione; oppure possiamo dire che la sostan­ za è pensiero, spirito. Questi due nomi sono l'identico trascolorare della sostanza nella loro differenza. Non sono due cose, e neppure due punti di vista: non è esatto; sono il punto di vista, perché l'attributo è unico. Punto di vista che è fatto in modo tale che non appena si dice si nega. Non appe­ na dice bianco, deve aggiungere: bianco che poi vuoi dire la riflessione di tutti i raggi. Non appena dice: la riflessione di tutti i raggi, aggiunge: che poi vtiol dire bianco. Natura, che poi vuoi dire il pensato del pensiero; pensiero, che poi vuoi dire il darsi a vedere come natura. Proviamo a recuperare l'insieme di queste considerazioni · così: la natura, come attributo, come figura della sostanza, non ha fuori di sé l'at­ tributo dello spirito, ma la eveniente totalità della sostanza, che figuran­ dosi come natura ha il senso dello spirito. Lo spirito, a sua volta, non ha fuori di sé la natura come un altro attributo, ma come totalità dell'even­ to che è il suo stesso evento, il quale, figurandosi la natura, si figura come spirito. Sicché la sostanza, che sin dall'inizio era causa sui, non è qualco-

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sa che poi, differendo, si dà a vedere come natura o come spirito, intesi cartesianamente come cose derivate. Cartesio voleva salvare la creazione divina; quindi non poteva dire che le cose create non sono cose: doveva­ no essere sostanze, cose reali, sia quelle della natura, sia quelle dello spi­ rito, della 'persona' ecc. Tutti questi presupposti costringevano Cartesio al paradosso: che c'è la sostanza infinita di Dio; poi però ci sono anche le sostanze derivate, o di seconqo grado. Ma Spinoza ha buon gi,oco a obiet­ targli: o sono sostailze (causa sul), o non sono sostanze. A\fora si vede che la sostanza non può che essere unica, sicché non può avere sostanze derivate. Infatti, se le sostanze sono derivate, non sono sostanze; oppure sono ancora la sostanza. Tutto è nella sostanza, non c'è che la sostanza, e quelle che tu chiami sosta�e derivate non sono altro che le differenze della sostanza, il suo darsi a vedere in figura: ciò per cui la sostanza si concepisce essendo tausa sui,' causa di questo suo concepirsi, non altra cosa da questo suo concepirsi. Sicché la sostanza non è che il darsi a vedere come natura, cioè come spirito; mi correggo: come spirito, cioè come natura. Ma dobbiamo smettere queste correzioni (queste supersti­ zioni) : sono infine la stessa cosa. La sostanza è l'evento di questa diffe­ renza, di questo trascolorare, sicché là dove c'è natura c'è spirito, là dove c'è spirito c'è natura. L'ossia, il sive, è questo differenziarsi stesso dell'at­ tributo unico e sovrano, a partire dalla sostanza, unica e sovrana. L'attributo, nel suo genere infinito, è la sua (della sostanza) differenza determinata; che è irisieme, a partire da sé, l'unità con l'Altro, con la sostanza. In questo senso diciamo: in principio è il due, l'ossia. Il due che ha però il senso dell'urio; sicché l'uno non c'è, l'uno non è. In questo senso la frase di Spinoza prende appunto senso: Deus sive natura, dove è il sive il soggetto, il luogo dell'oscillazione. Avevamo detto a suo tempo che la sostanza non ha a che fare né con l'essere, né col tempo; ora lo vediamo chiaramente. Essere e tempo non sono congrui col che c'è della sostanza,. ,p�rché la sostanza non c'è, non è, e quindi non è nemmeno nel presente, né in una eternità conce­ pita come eterno presente, (è il passo che faremo quando affronteremo la definizione di Spinoza dell'eternità). L'eternità della sostanza non è un'eternità dell'essere, non è un'eternità della presenza, non è un'eter­ nità del tempo. Queste sono categorie cosali, tratte dal senso comune (cioè dai modi) e non così profonde come la metafisica solitamente

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crede. L'ossia non è essere, l'ossia non è tempo, perché l'ossia è un'o­ scillazione, è l'orlo di un infinito transjert. Il che in altri termini signi­ fica che l'ossia non è pensabile, e che non è da pensare. Deus sive natu­ ra: il problema è quel sive. Ma il sive non è una terza cosa; il sive è que­ sta differenza, che se non è colta, tenuta, abitata, sollevata al pensiero, induce a credere di avere di fronte a sé delle altern.ative casali: o Dio o la natura, o il pensiero o l'estensione. Ma non ci sono queste alternati­ ve. Come alternative non sono cose, bensì fantasmi, illusioni, immagi­ nazioni direbbe Spinoza. Dio è la natura e la natura è Dio, ma questo non è il risultato di un giudizio: è la possibilità dell'installarsi in quel­ l'ossia; in quell'aver luogo della differenza, cioè in quell'aver luogo del pensiero che è il pensiero del mio corpo, come dice Spinoza. Il pensiero non è altro che il pensiero del mio corpo; ma il corpo non è altro che questo corpo pensante e pensato. Non è che io ho il pensiero più il corpo: ho il pensiero, ossia il corpo; ho il corpo, ossia il pensiero. Non ho altro pensiero fuori dal corpo; non ho altro corpo fuori dal corpo pensato. Così, non c'è altro Dio al di là della natura (che non è trascendi­ bile in nessun al di là in quanto sostanza) e non c'è natura prima di Dio, al di là di Dio. Questo ossia, dicevamo, non è pensabile. La filosofia con­ temporanea continuamente lamenta l'impossibilità di pensare l'evento (cioè l'ossia), e così ha continuato a giocare con le categorie del razionale e dell'irrazionale, della fede e della ragione, dell'intuizione e del concetto, del simbolo e del segno; evidentemente restando in tal modo nella super­ stizione che l'ossia sia qualcosa, e poi che sia qualcosa da pensare. Ma pensare è sempre e nient'altro che pensare la natura; non c'è altro pen­ siero che questo: il pensiero che pensa la cosa e non l'ossia. L'ossia è' inve­ ce la differenza tra il pensiero e la natura, il loro metaballein, il loro tra­ sfigurarsi l'uno nell'altro. Non appena ho uno, ho subito il senso dell'altro. Perciò la questione non è decidere se l'ossia è pensabile o non è pensabile; ovvero se qui c'è un limite del linguaggio (come fa il linguag­ gio, che sempre dice la cosa e la obiettiva, a dire se stesso senza obietti­ varsi, al fine di cogliere il principio stesso dell'obiettivazione?) E così via all'infinito: ermeneutiche dell'immaginario. La questione non è la pen­ sabilità o meno dell'ossia, ma è la abitabilità dell'ossia. Come si fa a stare nell'ossia? Come si fa a stare in questo bilico, in cui tutto ciò che c'è è il mio corpo? Come si fa a stare in questo bilico, in cui questo mio

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corpo non è altro che il mio pensiero, la mia coscienza? Perciò Spinoza non ha propriamente scritto una metafisica, ma un'etica. Perché la sostanza non è da pensare, è superiore al pensiero. Chi pensa Dio come pensiero è un idolatra, pensa antropomorficamente. Dio è ben altro. Non questo ente, ma la sua oscillazione, il mistero del suo trapasso, del suo metapherein che non chiede di essere tradotto in un concetto cono­ scitivo, ma di essere abitato nel suo stesso darsi a conoscere. In questo sensb'il duali smo cartesiano è abbandonato{e superato, perché viene abbandonata l'ideologia al tempo stesso dell a metafisica e della scienza, che vorrebbero pensare gli attributi separati. La meta­ fisica vuole pensare l'anima, l'immortalità ecc.; la scienza vuole pensa­ re l'estensione, la natura, il cotpo. Ma fanno la fine di Enea, che nell'Ade si abbraccia sempre con se stesso, perché non ci son0 queste cose; esse sono solo superstizione e ideologia. La differenza natura­ pensiero, estensione-pensiero, è da abitare, non da pensare. È il luogo della purificazione dai pregiudizi, dalle superstizioni. È una pratica di purificazione del pensiero, come direbbe Wittgenstein oggi; o è una pratica genealogica, come avrebbe !detto Nietzsche. Prendiamo come esempio l'oggi dibattutissimo problema mente­ corpo (mind-body problem). In esso ;si rispecchia ancora la tipica menta­ lità cartesiana, peraltro ignorata dal neurobiologo, che si crede antimeta­ fisico e non si interessa dell'opinione del filosofo. In quanto neurobiologo, è un materialista conVinto, almeno in senso metodico (poi come uomo potrà anche essere un uomo di fede; ma questa è una questione mera­ mente personale). Egli persegue una via naturalistica, cioè procede con i suoi esperimenti, con le sue macchine, con le sue tecniche, con la sua com­ puter science, nella prospettiva, seppure all'infinito, che una buona anali­ si del cervello, per dirla in termini rozzi, finirà per offrirei una conoscen.:.' za molto più ampia di quello che chiamiamo percezione, pensiero, ricor­ do, immaginazione, sogno e così via. Se tutt;(). �a bene, arriveremo poi a delle possibilità di intervento, come è nella nhtura delle scienze naturali. Un poco di gocce e sogni quello che vuoi; un po' di pillole e ti passa la malinconia. Nella sua opinione non è possibile che la malinconia non cor­ risponda a qualcosa di fisico,\ a qualcosa di esteso, a qualcosa di naturale; pensare altrimenti è pensare non scientificamente e dal suo punto di vista ha perlettamente ragione, sicché, sempre dal suo punto di vista, non sa

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che farsene delle obiezioni del filosofo. Però il filosofo le sue obiezioni le solleva lo stesso, e non si tratta di argomenti trascurabili. Per esempio mostra che ogni volta che lo scienziato parla il suo linguaggio, in base al quale imposta i suoi esperimenti, letteralmente non sa quel che dice. Anche il filosofo ha ragione, perché non sono dello stesso livello di realtà parole come sinapsi cerebrale e ricordo, o malinconia. Una buona analisi dei giochi linguistici, direbbe Wittgenstein, mostra quanto lo scienziato sia ingenuo e in errore, perché le cose che va cercando sono parole, e sono parole che stanno in giochi linguistici diversi, dove hanno sensi differen­ ti. Non si può pensare di mettere insieme una sinapsi con un ricordo, per­ ché queste cose sono in realtà modi di dire di giochi linguistici differenti (e non solo linguistici naturalmente). E allora l'illusione di arrivare mai a congiungerli è priva di fondamento e priva di senso. Se si vuole capire come l'uomo pensa, non serve molto sezionargli il cranio; piuttosto biso­ gna vedere come parla ed esaminare i giochi del suo linguaggio. Allora ci accorgeremo che, per esempio, la parola anima ricorre in determinati contesti e non in altri, che la parola corpo ha certi significati e non altri; e così materia, spirito, mortalità, immortalità. Da questa analisi dei vari gio­ chi e contesti di senso, in cui le parole accadono, comprenderemo che non si può impostare una metodologia di carattere generale e proporsi di andare a vedere se c'è l'anima, perché questa parola non vuoi dire una cosa sola, e non vuoi dire una cosa. Quindi possiamo solo procedere pazientemente a districare i nodi del nostro linguaggio. Ma il punto è che non si tratta affatto di scegliere tra questi due con­ tendenti, lo scienziato e il filosofo. Ognuno dei due ha le sue ragioni. Lo scienziato, proponendosi la sperimentazione, sa che prima o poi qualcosa vedrà. Ed è vero. Ma si tratta di capire cosa vede; la qual cosa, direi, va al di là della sua competenza. Il filosofo sa che, per capire che cosa si vede, ci vuole un addestramento che non si fa nei laboratori scientifici, ma attra­ verso un'educazione al linguaggio e al pensiero che è molto complessa. Noi però li dobbiamo mandare a spasso tutti e due, cioè lasciare al loro lavoro e alle loro discussioni, che moriranno nel tempo come tutte le dis­ cussioni; dobbiamo !asciarli al loro destino e badare ad altro. Non si trat­ ta di scegliere tra i due, perché entrambi seguono una superstizione che, sulla base di Spinoza, non possiamo più condividere e che quindi rende insignificante, per i nostri scopi, il loro lavoro. Che cosa il neurologo per

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esempio non capisce, essendovi impedito dalla sua stessa metodologia? Che il cervello non è una cosa. Lo scienziato vuole mostrare sperimental­ mente che il pensiero è un prodotto del cervello, sicché, se si comprendo­ no certe relazioni cerebrali, ecco che si è spiegato questo grande fatto: che l'uomo è un animale che pensa. Ma il cervello non è una semplice realtà naturale, ma l'oggetto differente di molte pratiche, linguistiche e non lin­ guistiche. Però anche il filosofo del linguaggio compie il suo salto nella superstizione. Quando egli analizza i contesti di verità, o i sensi del lin­ guaggio, non è disposto ad ammettere che ciò che fa non ha mfme niente a che vedere con la verità. Egli invece è portato a credere di frequentare una più alta verità rispetto a quella del neurobiologo. In che senso il cervello non è una cosa? Siamo tutti afflitti dal carte­ sianesimo del senso comune e non riusciamo a pensare questa semplice verità. Tutti pensiamò che il ce'fvello sia quella cosa che abbiamo nella scatola cranica e riteniamo che il nostro pensiero ci abbia a che fare. Il filo­ sofo del linguaggio osserva che 'cervello' è anzitutto una parola. Il fatto è che la questione del cervello inizia molto prima del linguaggio. Secondo certe testimonianze etnologiche e archeologiche, che presumibilmente colgono nel vero, i ritrovamenti dei crani dei nostri più remoti antenati spesso presentano nella testa un buco rotondo. Perché mai uomini la cui sopravvivenza era assai più minacciata della nostra stavano a fare buchi nei crani dei loro comp�gni morti? La risposta è: perché si bevevano il cer­ vello e lo succhiavano, al fine di impadronirsi della forza dell'altro, del suo pensiero. La questione del cervello precede di molto la scienza moderna e la pratica articolata del linguaggio. Ora, ciò che qui si sta dicendo è che non esiste il cervello fuori da una sterminata catena di esperienze e di pra­ tiche. Il cervello è sempre un oggetto interno a una qualche pratica, com­ presa quella linguistica. Da questo punto di vista è un prodotto spirituale, se vogliamo dire così, nella misura in cui una pratica è sempre qualcosa di più della pura materia. Ma adesso lo stesso ar&?J:?.ento lo dobbiamo rove­ sciare e dobbiamo dire: però ogni pratica di $apere non è spirituale nel senso che è un fantasma che volteggia nella notte; è un darsi a vedere come prodotto, è un praticare la contingente materialità, è una messa in opera di ciò che chiamiamo normalmente natura. Qualcosa che sta nell'e­ sistente, non fuori di esso. E allora è lo stesso dire: il cervello è il prodot­ to di una pratica di saperi infiniti, infinitamente collegati; ,oppure dire: le

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Archivio Spinoza

pratiche dei saperi a loro volta non sono che un modo di manifestarsi della

natura. Si tratta di comprendere questa equivalenza la quale non chiede scelte, ma chiede di esser guardata.

Voi direte: ma insomma, c'è la natura o c'è lo spirito?

È difficile far

capire che non si tratta di questo ! Far capire che quando diciamo · natura

diciamo la messa in opera della natura, sicché la natura è indubbiamente

tutto ciò che c'è

(Deus sive natura) e non c'è altro da cercare. Ha ragione il neurobiologo: non c'è altro che il cervello. Sì, certo, ma nella differenza determinata della sua pratica; e poi di molte altre. E quando diciamo spi­ rito non diciamo altro che la pratica stessa nel suo far differenza; quel far differenza che è il pensiero, che è l'attributo. Non si tratta quindi di ope­

rare una scelta ideologica o dogmatica; si tratta di sapere in quale pratica si è, cioè di comprendere che l'oggetto, sia esso estensione, sia esso. pen­

siero, non esige solo di essere guardato e frequentato come oggetto. Ci vuole un secondo sguardo che rimbalza indietro all'evento di quella prati­

ca che lo pone in essere; e questo rimbalzo non è un oggetto di conoscen­ za, ma un modo di stare in quella pratica.

È ancora il

caso dell'esempio

della Melanie Klein, a suo tempo avanzato. Cosa diventa un neurobiologo

che rivolge la sua attenzione all'evento della sua pratica? Probabilmente un'altra cosa, non tanto perché farà un'altra cosa, ma perché abiterà altri­ menti ciò che fa. La questione è etica. Ma ora cerchiamo di dirlo sul piano

delle nostre conoscenze comuni per comprenderlo meglio.

Potremmo dire così: non esiste la natura 'pura'. Non è che esten­

sione, cervello, natura, materia, alludano a qualcosa di puramente

materiale, di puramente naturale ed estensivo, come se si trattasse di

cose sostanziali in sé. Questi nomi si riferiscono all'attributo, non a

cose, non sono la sostanza. Ciò che chiamiamo natura, o estensione, è

da sempre qualcosa di impuro, di ambiguo; qualcosa che è colto nella differenza di una pratica. Ciò non accade per una nostra incapacità,

come se noi fossimo siffatti da non poter incontrare mai la "pura" natu­

ra, consegnati come siamo ai limiti finiti delle nostre pratiche. Pensare

in questo modo è ostinarsi a pensare che la natura, che la materia, sia qualcosa in sé, che sia una cosa fuori di noi e delle nostre pratiche.

Quello che chiamiamo natura è proprio l'oggetto di pratiche infinite.

Non c'è natura senza l'occhio che la ravvisa, la mano che la tocca, il corpo che la percepisce; senza il bisturi o gli acceleratori di particelle.

Carlo Sini

272 ·�·

..;

La natura, l'estensione è sempre messa in opera in abiti determinati, in pratiche determinate, come guardare il cielo, camminare sulla terra ecc. È verissimo che in ogni pratica ciò che incontriamo non è altro che natura, che estensione, perché l'estensione è l'intero stesso della sostanza, ovvero è la sostanza stessa. Non è che al di là dei confini del­ l'esperibile ci sia chissà che. Non c'è altro che natura; questo fatto va pensato radicalmente, e non naturalisticamente, né naturisticamente.

{

Non si tratta di dire� c'è soltanto l'evoluzione invece che lo spirito; né si tratta di dire : la natura pura è qualcosa di non artificiale : La natura sta sempre nell'artificiale, perché sta sempre nella pratica. Non c'è opposizione o alternativa tra il naturale e l'artificiale, poiché la natura pura non si incontra mai. Non si incontra perché non c'è. Che tutto è natura, o che natura è il nome del tutto, lo sappiamo sempre nella dif­ ferenza di una pratica, cioè in ùn saper fare, percepire, dire, scrivere. Indubbiamente le pratiche sono pensiero, sono un sapere, un com­ portamento intelligente. Poiché ogni cosa è incontrata nelle pratiche, allo­ ra tutto è pensiero, è spirito; ma non ,come altra cosa da ciò che abbiamo detto prima. Questo spirito si dà a vedere nel prodotto, cioè nella natura, e sta solo lì. Non c'è altro che natura in questo spirito; non c'è altro che spirito in questa natura. E la sostanza\non è che l'oscillazione, non è che la soglia che continuamente si trapassà . Ecco perché non c'è da scegliere tra questi due nomi.

4,l scelta è già messa in opera dall'azione:

è l'azione

che si dirige alla cosa e che così sceglie. L'azione è sempre un frequentare l'estensione. Ogni messa in opera dell'azione è un dirigersi all'esten'Sione come ciò che c'è; però nello stesso tempo è assumere questa estensione nella differenza del pensiero. Ma questo assumere nella differenza del pensiero è il darsi a vedere di tutto ciò che c'è da vedere, non è che lo estendersi del pensiero, l'esser lì nelle estensioni che esso pensa. Per que­ sto Spinoza diceva:

il pensiero non è che l'idea del proprio corpo. È l'as­

sunzione del suo corpo nella differenza del pensjero; ma la differenza del pensiero non è che lo estendersi del suo corpo ''é nel suo corpo. Cosa vuoi dire che un bambino infante pensa? Che risolve equazioni di secondo grado? Egli pensa perché innanzitutto pensa (mette in opera) le sue brac­ cia, mani, gambe; e certamente pensa anche col cervello. Vi sono pratiche consce e pratiche inconsce; anche le inconsce sono a loro modo intelli­ genti, cioè si orientano, danno un senso, rivolgono ad oggetti. Ecco allora

Are,hivio Spinoza

che que sta differenza nel pensiero non è altro che il manifestarsi dell'e­ stensione; e d'altra parte il manifestarsi dell'estensione non può che stare nella differenza del pensiero. Questa differenza è sempre la differenza del­ l'attributo, della figura della sostanza, cioè della sostanza colta dal punto di vista dell'intelletto . È l'intelletto nel suo far differenza che vede la diffe­ renza nella differenza. Ma questo non significa che l'intelletto sia un'altra cosa dalla natura o dalla sostanza '· è il differenziarsi stesso della sostan. za. Vico, per esempio, si riferisce al fulmine, quando vuole mostrare come gli uomini, i bestioni dei primordi che stavano tutti rincantuccia­ ti nella selva nemea che li ricopriva completa mente, impararono a par­ lare e a pensare. A questi bestioni un giorno accadde un evento straor­ dinario: fulminò dal cielo. E in quanto fulminò , essi si resero conto che c'era il cielo: alzarono gli occhi e lo videro. E così accadde la lacerazione di questa soglia primaria tra il cielo e la terra, che è come la scossa elet­ trica che dà inizio alla storia dell'umanità. « Alzarono gli occhi e avver­ tirono il cielo» . Cosi pensarono il primo pensiero umano, immaginando che fosse il cielo che parlava. Pensarono che il fulmine fosse un detto della lingua degli Dei e quindi scoprirono che c'erano gli Dei. Che cosa voleva dire Vico? Come possiamo frequentare per i nostri scopi questo pensiero di Vico? Vico diceva di fatto una cosa profonda: che il fulmine non è un evento naturale puro e semplice. Così appare alla scienza obiettivante, cioè entro la sua pratica. Il fulmine è un even­ to duale : c'è perché è ravvisato, perché si duplica in sé, perché la natu­ ra si duplica in sé, è segno di se stessa in se stessa . Anche il levare gli occhi non va pensato come un evento contrapposto e magari spiritua­ le. È esso stesso un evento della natura. L'occhio sta dentro la natura; non c'è un occhio dal di fuori che la guarda. Né il temporale è un even­ to naturale in sé: è un evento che fa questa differenza, che pone il tem­ porale da una parte e l'occhio che lo vede dall ' altra. Non c'è una pura natura, senza un chi, un perché, un dove, un che cosa. È la pratica del medesimo abitare la natura come evento quella che la mette in opera come oggetto, come natura-oggetto. C'è una natura evento che è il suo esser messa in pratica come oggetto del guardare. Possiamo tirare le fila dicendo che non si tr atta di due nature, una pura, l'altra impura, una materiale, l'altra spirituale; semplicemente, la prima natura, l'evento, si dice nel modo della seconda, la natura del

2 74

Carlo Sini

guardare, il mettere in opera il temporale e il fulmine; la quale secon­ da è ancora la prima, nella differenza del detto. È questo il pensiero abissale di Spinoza, sicché non c'è la prima e poi la seconda (così ragio­ na la pratica teorica della scienza che scambia la sua pratica determi-. nata di aggettivazione per la verità in sé). Quello che c'è all'inizio è que­ sto praticare la differenza, cioè avvertire la relazione duale che accade originariamente tra la sostanza come evento e la sua figura come attri­ buto; poiché la sostanza è sempre compresa nell'attribuì� in tutti i sensi della parola compresa. Sta tutta nell'attributo, nell'essèr segno di sé; è di lì che viene compresa, capita, ravvisata, detta. E allora potrem­ mo dire, tornando all'esempio di Vico: il ravvisare dell'occhio, ciò che chiamiamo pensiero, in realtà è un occhio ravvisante, cioè è estensio­ ne. Ma l'accadere del fulmine, che è estensione, non è mai al�ro che fulmine ravvisato, cioè pensiero. Questo bilico è la soglia costante della nostra esperienza. Si tratta di abitare questa continua indecidibilità della decisione. Poiché, certo, sempre sono nella decisione, nella messa in opera, ho sempre qualcosa da fare (l'uomo non tace mai, diceva bene Heidegger, anche di notte non tace,; sicché, quando non può far altro, sogna, cioè parla). C'è sempre la differenza della messa in opera; ma questa differenza è indifferente, ind�cidibile, già decisa: sono sempre già nel transito. Ogni decisione presa di volta in volta è allo stesso tempo l'esser già decisi: è già estensione là dove credevo di averla in pugno come pensiero; è già pensiero là dove credevo che non fosse altro che la necessità della natura e dell'estensione. Ciò che c'è, dunque., è il praticare questa apertura, collocandosi con differente consapevolezza nella sostanza. Questa poi è l'etica: pra­ ticare l'apertura come natura, come estensione; ossia nella forma del sapere, dell'estensione saputa. Potremmo dire, con i termini di Spinoza: la differenza tra estensione e Sé\pere non è che il naturarsi della natura, nel modo di quella determinata pratica che stiamo abi­ tando, cioè nei modi del nostro saper fare, �aper dire, saper scrivere. Sapere che è un abito, un'etica: non si tratta di "raggiungere" l'etica; si tratta di purificare la mente e di comprenderla.

275

xv IL MODO

Se in qualche misura siamo riusciti a comprendere il nesso tra sostan­ za e attributo, primo strato del pensiero abissale, ora ci dirigeremo al secondo: il modo. Tuttavia non passeremo subito alla quinta definizio­ ne, ma batteremo una via di avvicinamento attraverso le altre due defi­ nizioni che ancora ci mancano (cioè la settima e l'ottava), poiché da queste due saremo inviati al modo in maniera molto più agguerrita. La settima definizione concerne la questione della libertà. Spinoza la risolve nel giro di poche righe; diciamo meglio : la manda a spasso. «Ea res libera dicitur quae ex sola suae naturae necessitate existit, et a se sola ad agendum determinatur; necessaria autem, vel potius coacta, quae ab alio determinatur ad existendum et operandum certa ac determinata ratione». «Si dice libera quella cosa che esiste per la sola necessità della sua natura e che si determina ad agire da sé sola; mentre si dice necessaria, o piuttosto coatta, quella cosa che è deter­ minata da altro ad esistere ed è determinata da altro ad operare in una certa e determinata maniera» . Qui, come sempre, è messa i n opera l a prima intuizione: necessa­ rio è l'esistente in sé e per sé. Ma andiamo subito all'essenziale: cosa intende Spinoza quando parla di libertà, distinguendola da ciò che è coatto, necessitato? (Non tanto necessario; ecco perché c'è quella corre­ zione; infatti la libertà è necessaria; quindi non c'è differenza tra libertà e necessità; c'è differenza tra libertà e coazione.) Ho scelto uh brano della Lettera 58 rivolta da Spinoza a Giovanni Ermanno Schuller, medi­ co di Amsterdam, che era tra gli amici e gli iniziati che leggevano e com­ mentavano la sua Etica. Scrive Spinoza: «Io dico libero ciò che esiste e opera per la sola necessità della sua natura; costretto invece ciò che a esistere e a operare è determinato da altro, secondo una certa determi­ nata maniera. La prima situazione è quella di Dio, cioè della so�tanza; la seconda situazione è quella del modo. Quindi è propria di Dio quella libertà che esiste e opera per la sola necessità della sua natura; è propria

Carlo Sini

del modo quella costrizione per cui è determinato da altro ad esistere e ad agire, secondo i vari modi determinati in cui uno esiste ed agisce. » Segue u n esempio. Supponiamo una pietra che cade o che riceve un impulso. Naturalmente questa pietra continua a essere mossa necessa­ riamente sulla base dell'impulso che ha ricevuto. Supponiamo però che la pietra, a un certo momento del suo tragitto, acquisti coscienza di sé e del suo movimento. Allora potrebbe pensare di essere lei stessa che vuole questa persisfènza del movimento. Ecco, questo è précisamente ciò che accade all'uomo; l'uomo è come la pietra che pensa l� sua persi­ stenza nel movimento; cioè che pensa il suo corpo, come dicevamo prima, e che in questo modo ritiene di determinare il movimento col suo pensare, e cioè di essere libera. S�rive Spinoza: «In quanto è consa­ pevole unicamente del suo sforzo di persistere nel movimento, al quale non è affatto indifferènte, la pietra crederà di essere liberissima e di non persistere nel movimento per nessun altro motivo se non perché lo wole. Proprio questa però è quell'umana libertà che tutti si vantano di possedere e che solo in questo consi�te: che gli uomini sono consapevo­ li del loro istinto, delle forze che li urgono, delle loro passioni, e ignari ' delle cause da cui sono determinati. Così il bambino crede di desidera­ re liberamente il latte, il fanciullo ri�soso la vendetta, il timido la fuga. L'ubriaco poi crede di dire di sua libera spontaneità quelle cose che da sobrio preferirebbe ayer taciuto. » Questa posizione 'di Spinoza fu uno dei grandi motivi di scandalo del suo pensiero, e fu motivo anche di fraintendimento. È molto facile dire: tu sei un fatalista, neghi la libertà umana e vedi in tutto la fatalità materiale del destino; sicché la parola Dio in bocca tua è una bestem­ mia. Infatti è facile credere di aver capito, mettendo tutto sul conto del­ l'estensione, della natura, e cioè della negazione del pensiero. Ma non dimentichiamo quello che abbiamo appreso nelle precedenti definizio­ ni. È evidente che Spinoza non può star dic�ndo questo. Sta dicendo qualcosa di molto più profondo e different�: èsi può capire perché si rifugiasse nei villaggi, perché rinunciasse ad andare a insegnare a Heidelberg, come gli avevano offerto; se avesse pronunciato in pubbli­ co proposizioni come queste, avrebbe corso seri pericoli.) Spinoza parla della ignoranza di essere trasportati da un impulso e dice che questo è un innato pregiudizio difficilissimo da scalzare. Perché noi l'impulso lo

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pensiamo come qualcosa di materiale; non pensiamo che l'impulso è il libero evento della sostanza. Spinoza vuol dire che, allo stesso modo in cui sono nella necessità della sostanza, sono anche nella sua libertà, e le due cose sono una. La mia necessità di modo non è altro che la estrin­ secazione della libera necessità della sostanza. E non c'è niente di più libero di questa necessità, appunto perché non ha ragioni, non ha fini, non ha scopi, cioè non si confonde con fantasie umane, che sono tut­ t'altro che libere. Esse dipendono proprio dal pregiudizio della passio­ ne, dalla cecità del modo, e infine dalla sua violenza; la quale, peraltro, è di nuovo da considerarsi all a luce della libertà della sostanza. Il punto da comprendere è che la libertà metafisica di cui sta parlando Spinoza non ha niente a che fare con ciò che siamo soliti chiamare liberum arbi­ trium indif.ferentiae. Egli parla della libertà metafisica, non di quella supposta libertà del volere che si esprime nella questione tradizionale del liberum arbitrium, cioè del volere psicologico umano. La libertà per Spinoza è la libertà della sostanza, che è l'unica cosa reale; cioè è la libertà di esistere. (Vedremo che la parola esistenza risuona proprio nel­ l'ottava definizione.) Libertà di esistere, cioè di non essere determinato ad esistere da alcun altro se non da sé; il contrario appunto è coazione. � Nel Trattato politico (II, 7) leggiamo: «l'uomo può dirsi ben poco libero, per il fatto che può non esistere» . L'intuizione originaria di tutta l'Etica regge la nozione di libertà, sicché essa (e qui è lo scandalo) fa tut­ t'uno con la necessità. Necessità e libertà, nella sostanza, non sono due cose differenti. Necessariamente la sostanza esiste, è l'intrascendibile del suo che c'è, come dicemmo all'inizio, e questa necessità è appunto esser liberamente quel che è, non avere cause esterne, né fini esterni. Pensare questo pensiero, pensarlo davvero, immedesimarvisi come pensiero vivente, significa buttare all'aria tutto quello che solitamente riteniamo circa la libertà, la necessità, l'uomo, Dio, la natura ecc. È ben evidente che Spinoza non poteva andare in giro a dire queste cose. Questo è ancora il pensiero abissale, secondo il quale l'esistente neces­ sariamente è e non può non esistere. Potremmo anche dire: non c'è ragione che l'esistente non esista; se ci fosse questa ragione, essa lo pre­ cederebbe, e sarebbe di nuovo l'esistente. Vi ricordo quel che dicevamo circa la differenza di Spinoza rispetto a coloro che pensano il mondo come contingente: forse costoro pensano il mondo, ma non la sostanza;

Carlo Sini

se la sostanza è il mondo nel senso di tutto ciò che c'è, il mondo non è contingente; è necessariamente, e in questa necessità è libero. La ferma premessa dell'Etica, la condizione perché si dia l'etica (comprenderete più avanti perché dico così), la condizione della virtù nel senso della virtus, cioè la felicità vera, è una libertà senza ragioni. Là dove si invocano ragioni si è ben lontani dalla verità e quindi dall'etica, e infine dalla felicità. La libertà non è in Spinoza la manifestazione di un immaginario volere. in effetti, non può che essere così. Se a:Hfdassimo la libertà al volere, cioè a un fatto interiore, a una scelta dello spirito, ciò non farebbe che riprodurre il dualismo cartesiano, proprio quello contro il quale si è battuto per tutta la vita Spinoza. Il volere, per Spinoza, è una rappresentazione dell'intelletto; ma la rappresentazione dell'intelletto non è altra cosa dalla rappresentazione del corpo; è la rappresentazione del corpo. Quindi non è altra cosa dalla rappresentazione necessaria del corpo. Ma questo non significa che allora non vi è libertà. Non dobbiamo cadere in un materialismo sconsiderato o in una necessità senza ragioni e oscura. Il corpo, a sua volta, non � altro che. la rappresentazione del­ l'intelletto: bisogna tener ben ferma questa eguaglianza dell'attributo, questa differenza indifferente, e allora si comprende che ogni pensiero che pensa la libertà come fatto interidre, diversa dal mondo che sarebbe il fatto esteriore, ovvero la contingenza nella sua necessità in senso bana­ le, ogni rappresentazione di questo genere è fortemente in errore, non ha davvero pensato la realtà. Libero è l'evento di questa relazione tra ciò che mi rappresento e il corpo rappresentato, non il contenuto della figura (per esempio che ora mi rappresento che ho fame o altro). Potremmo anche esprimerci così, suscitando nuovamente scanda­ .lo: la libertà non è la manifestazione di un immaginario volere interio­ re, non è il fatto dell'autocoscienza, dell'imperativo categorico; la liber­ tà è il fatto dell'esistenza del mondo. L'obiezione comune sarebbe: i fatti sono empirici. Ma se si obietta così, no.I} �i è compresa la portata del pensiero di Spinoza. Egli non si sta riferendo a nulla di empirico; si sta riferendo a quella natura di evento, di essere già là del mondo, che possiamo designare 'fatto' perché precede ogni ragione, ogni decisione, ogni volontà, ogni immaginazione; tutto ciò è anzi in lui contenuto, ne è la conseguenza inevitabile. Quindi non si tratta qui di distinguere tra empirico e trascendentale, tra materiale e spirituale, proprio perché

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non si tratta di distinguere tra 'estensione e pensiero, i quali sono la stessa realtà nell'evento della sua differenza. Libertà è proprio dire: necessariamente avrò fame fra due o tre ore. Come si sa, l'ermeneutica contemporanea, o quello che passa per ermeneutica contemporanea, pensiero che ha tanti aspetti, ha detto in vario modo che le cause e le ragioni Iion possono preesistere al mondo; esse sono fenomeni del mondo. Di qui ha tratto l'idea del carattere finito del mondo stesso, e cioè del suo carattere interpretativo. Non posso porre ragioni prima del mondo, o fuori del mondo, perché questo porre è anche e a sua volta un evento del mondo; ogni dar ragione, ogni spiegare, inter­ pretare è dunque un evento finito del mondo stesso. Ogni ratio essendi è una nostra interpretazione finita, frequenta già l'essere di cui vorrebbe dar ragione. A partire da questa consapevolezza l'ermeneutica prende due vie. Ogni ratio essendi, essendo finita, mostra da sé la sovrabbondanza, la trascendenza dell'infinito; infinito che non si può cogliere, perché ogni tentativo di coglierlo è nuovamente un'interpretazione finita. Ma per la stessa ragione si può dire anche l'opposto (accade sempre così in ogni ragionare ideologico): al di là del finito non c'è nulla da cogliere; proprio l'interpretazione mostra che la trascendenza è nulla: non c'è che il finito. Spinoza però non ragiona così; dice anzi espressamente che ragio­ nare così è mera superstizione. In tal modo Spinoza (per definizione grande metafisico) sfugge a ciò che l'ermeneutica intende per metafisi­ ca. Bisogna dunque abbandonare queste etichette (metafisico, erme­ neutico); si tratta piuttosto di comprendere al di là di esse. Non ci inte­ ressa più se Spinoza appartenga o no alla storia della metafisica o alla storia dell'essere. Spinoza ragiona in quest'altro modo; il fatto che il mondo è finito, cioè che è sempre in una prospettiva, non è altro che il principio dell'attributo; il quale, come sappiamo, non è finito, ma infi­ nito nel suo genere. Cioè, è di nuovo ciò che è e non può non essere. La sua finitudine, infinita nel suo genere, è quel tipo di finito cui manca nulla. Non c'è quindi alcuna trascendenza, sia nel senso ottimistico della sovrabbondante essenza del divino, sia nel senso pessimistico del niente. Non c'è né l'una cosa né l'altra: c'è questa finitudine perfetta, nel suo genere, che poi è proprio il modo, come vedremo. Ma allora (per trarre una conclusione da questa brevissima digres­ sione), se ci mettiamo a camminare per questa via, ci accorgiamo che

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l'opposizione tra ermeneutica e metafisica è molto superficiale. Fare i pappagalli parlanti di queste etichette significa perdere di vista l'eser­ cizio filosofico. Non perché tale opposizione non sia stata a suo tempo una vivente emergenza: tutte le cose, al loro tempo, hanno la propria necessità. Ma quando esse si sclerotizzano, allora diventano una super­ ficiale verità pubblica; proprio quella verità pubblica in cui il soggetto è massimamente privo di libertà; è soggetto a ciò che si dic�, e non sog­ getto di ciò che sf dice, sicché assomiglia al sasso di Spi j10za. Non si tratta di pensare più in questa figura l'opposizione tra ermeneutica e metafisica. L'incontro con Spinoza è anche, ai miei occhi, l'occasione per lasciare da parte parole che pure ci sono servite, come storia del­ l'essere, nichilismo, verità essenziale, e cosi via. Passiamo senz'altro all'ottava definizione: «Per aeternitatem intelligo ipsam existentiam, 'quatenus ex sola rei aeternae defi.nitione necessario sequi concipitur» . Spinoza ha fatto seguire una explicatio che suona così: « Talis enim existentia, ut aeterna veritas, sicut rei essentia, concipitur, proptereaque per durationem, aut tempus expli­ cari non potest, tametsi duratio principio et fine carere concipiatur». «Per eternità intendo la stessa esistenza, in quanto è concepita come ciò che consegue necessariamente dalla sola definizione della cosa eterna» . La spiegazione dice così: « Infatti tale esistenza viene conce­ pita come eterna verità, quale cioè essenza della cosa, e perciò non si può spiegare con la durata o con il tempo, anche se la durata è conce­ pita così da mancare di principio e fine». È evidente che Spinoza si rifà alla prima definizione, là dove dice­ va: « Intendo per causa sui ciò la cui essenza implica l'esistenza, ossia ciò la cui natura non si può concepire se non come esistente» . Ciò che è definito qui è l'eternità in qu;into essenza della sostanza. La prima cosa che balza agli occhi è che l'eternità di cui si parla, l'eternità della sostanza, non ha a che fare con la durata t�J71porale. Il che va pensato bene. Si potrebbe osservare che l'estraneità di Dio al tempo, l'eternità intemporale di Dio, è un concetto metafisica tradizionale. Si potrebbe citare già il Timeo; poi Aristotele, Plotino, Proclo ... sino a Hegel. Ma in Spinoza, dato il suo pensiero abissale, tutto assume un nuovo senso. Per come egli intende substantia, existentia et essentia, non è Dio che, nella sua estraneità, è eternità atemporale, e che perciò non ha a che

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fare con la durata: è il mondo stesso che è così. In tal modo viene meno persino il termine di paragone rispetto al quale Dio era definito eterno. In realtà siamo di fronte a un conflitto con la temporalità dei modi: Dio è, nella sua libertà e necessità, nell'eternità; i modi, coatti, contingen­ ti, 1)0no nella temporalità. Non riusciamo a mettere agevolmente a fuoco l'abissalità di questo pensiero: l'eternità è il carattere di esistenza della sostanza, cioè di Dio, mentre la durata è il carattere di esistenza dei modi, cioè degli individui. Spinoza aggiunge: la prima, l'eternità, è infinita; la seconda, la durata, quella dei modi, è soltanto indefinita. Indefinita pro­ prio in senso stretto: i modi potrebbero esistere o non esistere, perché la loro esistenza non deriva dalla loro essenza; perciò non sono liberi di esi­ stere, cioè infine liberi, e quindi non hanno verità eterna. Nella Epistola12Spinoza si spiega un po' di più: i modi «quamvis existant, eos ut non existentes concipere possumus» . E dice ancora: il fatto che loro esistano non ci consente di concludere che esisteranno o non esisteranno. E conclude: « Unde clare apparet nos existentiam sub­ stantiae tota genere a modorum existentia diversam concipere». «Donde appare chiaramente che noi concepiamo l'esistenza della sostanza in maniera del tutto diversa dall'esistenza dei modi». Nei Pensieri metafisici si era espresso così: l'aeternitas è il termine sotto il quale concepiamo l'infinita esistenza; la duratio è il termine sotto il quale concepiamo l'esistenza delle cose finite, fintantoché perseverano nella loro actualitas. Il termine actualitas si potrebbe tradurre con «realtà in atto» . E aggiunge: questa actualitas non si distingue, nisi ratione, da tutta l'esistenza di una cosa. Una cosa, dunque, non è che la sua intera durata. Se distinguo la durata dalla cosa, lo faccio come ente razionale, con un concetto intellettualistico, con una astrazione mentale. Non è che ci sia la durata, e la cosa si iscrive poi in essa. Ogni cosa ha la sua durata che coincide con la sua actualitas, cioè per quanto è reale. Questo è un pensiero che è stato pensato a fondo da Whitehead, per il quale il tempo è piuttosto uno spessore temporale che appartiene a ogni evento dell'esistenza, ad ogni individuo. Non c'è un tempo omogeneo nel quale siamo tutti noi; c'è il mio tempo, il nostro tempo, il tempo del microfono, quello dell'albero ecc. : durate che perseverano nella loro actualitas, che certo si incrociano, si scontrano, e che solo per astrazio­ ne mentale possiamo pensare iscritte in una durata generale, che non c'è.

Carlo Sini

Infatti Spinoza dice nei Pensieri metafisici che il tempo non è un'affectio rerum, un'affezione delle cose, ma un puro modus cogitan­ di, un ens rationis che serve a spiegare la durata, cioè a dispiegarla, a misurarla, a numerarla, a dire ieri e domani. La durata è così concepi­

ta come maggiore o minore, per il fatto che l'abbiamo ridotta a parti.

Ma in realtà la durata è l'unità dell' actualitas. Si potrebbe dire, con una intuizione che già risale ad Aristotele: il tempo per Spinoza è misu­

ra dell'attualità-realtà, cioè dél perdurare dell'esistenza dei modi, sic1

ché non solo l'eternità della sostanza non ha niente a che vedere col tempo, perché non ha niente a che vedere con la durata finita; ma anche la durata stessa non è temporale in sé. Ciò che chiamiamo tempo

la spiega, la dispiega, la quantifica, ma non la costituisce. La durata ha

inizio e fine, certo, e perciò è indefinita, non infinita; ma non ha. inizio

e fine nel tempo;

il tempo non le preesiste. Ma la durata poi, sebbene

non sappiamo come, riposa infine nella infinita eternità della sostanza.

Pensare il tempo come orizwnte dell'essere vuoi dire allora esser

molto lontani dalla aeterna

veritas della sostanza.

Si potrebbe forse dire

che a partire da Kant comincia la superstizione del tempo, che è così carat­

teristica del nostro modo

di pensare. Spinoza non ce l'ha; Leibniz nem­

meno. Certamente la superstizione del tempo si ribadisce nello storici­

smo, però bisogna anche tener presenti le remote condizioni agostiniano­

cristiane. Se tenete insi.eme tutte queste linee, abbiamo la raffigurazione di quello che oggi si chiama il moderno. Questa combinazione di metafi­

sica, cristianesimo e storicismo, che determina la superstizione del tempo,

è proprio l'impalcatura dell'uomo contemporaneo. Se percorriamo questo

sentiero, Heidegger non è per nulla interessante. Visto in questo scorcio

Heidegger è largamente preso da queste categorie del moderno:

il tempo,

l'essere, l'essere in colpa, ecc. La sua ostinazione a pensare il tempo Spinoza l'avrebbe guardata senza comprendere.

corso

E infatti, quando, in un di lezioni risalente ad anni ormai lontani, a noi crollò nelle mani il

ÌÙra del moderno crollò,

tempo e la questione del tempo, tutta l'impalca

tutta l'ermeneutica nel senso della storia dell'essere venne meno;

il che

consente una rilettura della metafisica oltre il nichilismo. Ci sarebbe da

chiedersi: ma qual è il pensiero abissale di Nietzsche? Come si sa, è l'in­ tuizione dell'eterno ritorno, cioè proprio la messa in crisi del concetto di

tempo. Forse Nietzsche è m questo

il segno di una svolta che non è stata

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ancora pensata sino in fondo e che comunque costituisce problema per ogni interpretazione nicciana. Chiudiamo queste considerazioni. La questione che ci sta davanti è il nesso eternità-durata, che è il nesso, ora lo sappiamo, sostanza-modo. Potremmo riassumere sintetica­ mente così: la sostanza, il mondo, è in eterno le sue cose, i suoi modi, è l'infinita verità dei suoi modi; e i modi quindi, affezioni della sostanza, non stanno nella sostanza secondo la successione di durate temporali. Facendo un esempio potremmo dire: nella sostanza Abramo, il padre, non sta prima di Isacco, il figlio, in quanto i modi sono modi della exi­ stentia, cioè della eternità della sostanza; quindi sono essi stessi eterni. Ma dobbiamo subito aggiungere che in sé, nella loro durata indefinita, che potrebbe esserci o non esserci, non lo sono. Ma che significa «i modi in sé» e «i J;Il.Odi dal punto di vista della sostanza»? La sostanza ha forse un punto di vista? Stiamo mettendo a fuoco il paradosso e lo facciamo come possiamo. Ricordiamoci che dire che in sé i modi non sono eterni non significa che durino meno dell'eterna sostanza, perché l'eterna sostanza non dura (non ha inizio né fine); pensare che il mondo dura più di me, cosa che sembra così ovvia, è meta:fisicamente privo di senso, è null'altro che un'immaginazione, un ens rationis: io non duro meno del mondo, e neanche di più. Il fatto è che la qualità della durata non mi serve per comprendere la mia collocazione nell'eterno esistere. Tutto ciò che sappiamo da quel che Spinoza ci ha detto è che l'esistenza dei modi, cioè la loro durata, è indefinita: potrebbe esserci o non esserci, perché l'essenza del modo non implica l'esistenza; è solo la sostanza che è causa sui. Ma causa sui dove? Nel modo, è evidente. Noi constatiamo che ci sono modi a partire dal nostro corpo; vediamo la loro actualitas. Non vediamo, certo, la necessità dell'esserci di questa actualitas, la nécessità a essere così com'è. Analogamente, all'inizio non vedevamo nessuna necessità nell'inizio di un corso di filosofia. Qual è la necessità dell'inizio? Ma se non c'è, qual è la sua verità? E se non c'è nessuna verità, cos'è un corso di filosofia? Non vediamo la necessità dell'actualitas, e tuttavia Spinoza ci sta dicendo che una eterna e necessaria esistenza la sottende. E così ci ritroviamo al centro della questione del , modo; adesso l'abbiamo ben circoscritta. Rileggiamoci la quinta definizione: « Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, e per cui anche viene concepito» .

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Il modo è nella sostanza ed è concepito tramite la sostanza. Cosa vuoi dire tramite la sostanza? Attributo è ciò che l'intelletto concepisce della sostanza, in quanto l'intelletto concepisce della sostanza questo e quello, in generale la sua estensione, e questo è appunto il modo. Per ora accontentiamoci di questa spiegazione generica. Poi Spinoza ha detto che i modi sono affezioni della sostanza, conseguenze della sua libera necessità e della sua eternità. Quindi i modi sono tutt'altro che trascurabili; non sono effimere luminescenze della sostAnza (come qualcuno dice) ; sono la sua eterna verità. Ma avanziamo s�bito questa osservazione: chi sta dicendo tutto questo è il modo! Ciò che stiamo dicendo è appunto un'actualitas del modo. Questa osservazione è però Spinoza a farla? Oppure la facciamo noi? Conosciamo questo problema. Potremmo rispondere che essa appartiene a Spinoza come emergenza, come possibilità infinita di riattualizzazione, non come sua verità pub­ blica. Questa emergente possibilità che si fa verità pubblica per noi è la nostra stessa possibilità ed emergenza, sicché sollevare la questione: «è il modo che dice che i modi sono affezioni deHe sostanze?)) , non è molto appropriato. Anzitutto perché nofl; sappiamo che significa essere un modo e che Spinoza stesso e il suo pensiero lo sono (lo stiamo appunto indagando). Sicché è irrilevante dir!:!, a questo punto, che chi sta par­ lando è Spinoza oppure che siamo noi. Accade ora e il modo dice que­ sto; questo è appunto l'accadere del modo, fuori da ogni durata tempo­ rale, in quanto concipitur come eterna verità, cioè come sostanza. Ma vediamo più da vicino cosa dice il modo. Dice due cose. Prima cosa: il modo dice che, come affezione che sta nella sostanza, che ha il suo fondamento nella sostanza e non in sé, potrebbe anche non esistere, non esser mai esistito, non esistere più. Secondo il nostro esempio, !sacco potrebbe non esistere, o non esser mai esistito. Ma, seconda cosa: come affezione della sostanza, cioè come conseguenza della sua necessa­ ria esistenza che liberamente è ciò che è, il modo esiste necessariamen­ te; per la sostanza quel modo non può non eSi�iere. Dal punto di vista di Dio, Abramo ha già sempre frenato la mano omicida. Dal punto di vista del modo, prima c'è Abramo, poi viene Isacco, e infine accade Abramo che ferma la sua mano (ma avrebbe potuto anche non fermarla). Per la sostanza quel modo non può nòn esistere; così però non è più un modo! Perché la definizione del modo è sì che è un'affezione della

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sostanza, ma anche che è qualcosa che non ha in sé la propria essenza, la propria necessità. Ecco il paradosso che ci fa vacillare. Proviamoci a riprendere ia questione ripartendo dall'attributo, poiché è tramite l'at­ tributo che il modo concipitur, quindi è ragionevole chieder lumi all'at­ tributo. L'attributo è infinito nel suo genere; cioè non è limitato da nul­ l'altro. Non però perché gli attributi sono eterogenei tra di loro (e allora un pensiero non può essere delimitato da un'estensione, e un'estensio­ ne non lo può da un pensiero): questo è in fondo il modo in cui pensa­ no Cartesio, Pascal, Malebranche e tutto l'occasionalismo che dà credi­ to a Cartesio, cioè che crede che ci siano due sostanze, là dove Spinoza ci ha detto che ce n'è una sola. Noi abbiamo compreso che l'attributo è infinito nel suo genere perché fuori di sé ha soltanto la sostanza, perché oltre il pensiero non c'è un'altra cosa che sarebbe l'estensione, e vice­ versa. Oltre il pensiero c'è la sostanza, cioè il suo evento nella figura del pensiero. E poi abbiamo compreso che gli attributi non sono in numero infinito, 1 + 1 + 1 +n; il numero è appunto un'immaginazione che ha il suo ruolo nella durata temporale. L'attributo è uno solo nella sua dive­ niente differenza estensione-pensiero. Differenza non tra due cose, per­ ché quando la sostanza si dà a vedere nel pensiero fuori non c'è nien­ t'altro, se non la sostanza; ma allora questo significa che la sostanza è estensione, la quale è però sempre estensione pensata. Ecco questa con­ tinua oscillazione, la dualità originaria, cioè il nesso sostanza-attributo. Ora però abbiamo fatto un piccolo passo a lato e abbiamo detto: è il modo, o siamo noi in quanto modi che stiamo dicendo tutto questo. L'attributo pensa la sostanza, cioè pensa l'esistente. Ma l'estensione non è l'estensione in sé: è l'estensione pensata, concepita nella differenza del pensiero; ma una estensione che si concepisce nella differenza del pen­ siero non è appunto un'estensione pensante? Sicché questo concepirsi come pensiero non è che il darsi di una nuova estensione e così via. Tutto ciò però (ribadiamolo ancora) non lo dice il pensiero sive l'esten­ sione, l'estensione sive il pensiero. Questo lo dico io, lo dite voi, lo dice ogni modo (Spinoza incluso) nel momento in cui lo dice. Ognuno di noi lo dice nella determinatezza della sua estensione pensata o nella deter­ minatezza del suo pensare l'estensione. La sostanza di cui diciamo, a cui ci rivolgiamo, è proprio questo dire di questo istante, determinato così e così, pensato nella sua determinatezza, in quanto pensa un'estensione

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determinata. Pensare è sempre il pensare determinato del modo, del mio modo qui; pensiero di quella determinata estensione, che è il mio corpo. Questo è ciò che sempre succede e sta accadendo; è questa l'e­ mergenza, ed è in essa che è da vedere l'eterna veritas della sostanza. Sicché potremmo dire: questo modo di pensare la sostanza in quanto pensiero determinato che pensa un fatto determinato O'azione del nostro corpo nel suo incontro con l'azione del mondo e con l'azione della verità pubblica), questa concrezione di determinatezze! è qualcosa di contingente e di indefinito. Lo dice proprio Spinoza. La sua determi­ natezza cioè non è sostanziale, non risiede in sé, ma risale sempre ad altro, ad altri modi di pensiero, cioè ad altri modi dell'estensione. Ogni emergenza è così un inizio indefinito, ogni mattina è la prima mattina del mondo e insieme non lo è, ogni inizio di corso è up' arché infinita. In questo stesso senso il modo di !sacco è indefinito, potrebbe esserci o non esserci, perché !sacco è l'idea determinata di un corpo determinato, l'emergenza di un'esperienza di mondo in quella durata che possiamo misurare nel tempo; modo in cui per noi può essere pen­ · sata l'estensione di !sacco, la realtà .di !sacco, così come l'estensione di Spinoza e di ognuno di noi. Ed è infatti in una simile deriva temporale che a noi si è dato Spinoza all'inizio; come tradizione misurabile entro la verità pubblica, come ciò che sta nell'estensione contingente dei libri, nell'archivio di tutti i suoi testi. Ora forse cominciamo a com­ prendere meglio in che senso il modo, che è l'emergenza ora di un determinatissimo nodo tra estensione e pensiero, è qualcosa di contin­ gente, di indefinito. Ma se guardiamo ora dove il modo si radica, o, come dicevamo prima, dal punto di vista della sostanza, la cosa sta in tutt'altra manie­ ra, perché qui l'affezione !sacco è affezione della sostanza, della sua necessità libera, del suo evento emergente; è la sua stessa emergenza e quindi !sacco è legato alla necessaria autosussistenza della sostanza. Sicché, come la sostanza, è intrascendibile· ·ànche !sacco, in quanto emergenza della sostanza: non potrebbe eternamente non essere e non potrebbe eternamente non essere la verità della sostanza. È qui che misuriamo tutta l'abissalità del paradosso di Spinoza. Stiamo dicendo: !sacco è contingente, !sacco è necessario; !sacco in se stesso potrebbe non essere, !sacco nella sostanza non può non essere. E cosi ci travia-

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mo tra le mani due !sacchi, uno contingente e temporale, l'altro neces­ sario ed eterno. Rileggiamolo bene però questo paradosso, e vedremo che chi si arresta al paradosso, si arrende troppo presto. Il paradosso presenta questi due aspetti : se la sostanza è l'esisten­ te eterno, allora i suoi modi, che ne sono per dir così la manifestazio­ ne, a loro volta devono essere eterni. Ma così i modi ci svaniscono tra le dita come sabbia; che resta della loro modalità una volta che l'ab­ biamo eguagliata all'eterna sostanza? Se non hanno realtà nella loro contingenza, non sono i modi che sono e l'intera esperienza è un sogno ad occhi aperti. Questo è uno Spinoza mistico che in verità non ha molto da dirci, poiché l'hanno già detto tanti mistici meglio di- lui, posto che sia questo ciò che voleva dire. Se nella sostanza tutti i modi, tutte le differenze, sono andate a fondo, come diceva Hegel, allora essa stessa è nulla, è la notte in cui tutte le vacche sono nere, è l'assoluto vuoto e indeterminato. Ma allora ecco farci luce il secondo aspetto: no! no! i modi nella loro esistenza non vanno cancellati; vanno tenuti fermi come modi nella differenza concreta della loro contingenza, della loro durata. Altrimenti Spinoza avrebbe detto che i modi non ci sono e buona notte! Ma anche così le cose non si risolvono; perché allora stiamo dicendo che nella sostanza tutto è contingente: nella sostanza non ci sono altro che i modi, che ne sono le affectiones (gli attributi non sono cose, ma solo maniere di concepire). Quindi la sostanza è la totalità di queste contingenze, sicché non vi è che contingenza finita. Nulla più qui è necessario. La sostanza stessa non è necessaria. Insomma, l'alternati­ va nella quale spesso si imbattono le interpretazioni canoniche di Spinoza è che o teniamo fermo che tutto è necessario, ma allora non ci sono modi, non ci sono più contingenze e questo tutto egualmente necessario è uguale a nulla; oppure ci sono queste contingenze, ma allora non c'è più nessuna necessità e la sostanza precipita di nuovo nel nulla. Ecco il paradosso. Qual è la sua soluzione? È semplicissima: è che non ci sono affatto due !sacchi. Sulla scorta dell'esempio di Abramo e !sacco abbiamo mostrato qual è il paradosso dei modi, cioè la dura scorza del pensiero abissale, ovvero ciò per cui Spinoza è tuttora oggetto di continui studi. Ciò che comunemente si dice è che il problema dei modi non trova in Spinoza

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una chiarificazione ultima; il che giustificherebbe poi la differente impostazione che Leibniz, pur assimilandosi largamente al sistema di Spinoza, avrebbe dato al problema della sostanza. Non condivido nes­ suna di queste opinioni, ma vediamo come è produttivo per noi questo cammino e recuperiamo allora la questione dei due !sacchi. Sarebbero due perché il modo in Spinoza ha, per così dire, due valenze. Da un lato è qualche cosa di contingente · (il modo è la contingenza stessa, è una affezione che potrebbe esistere o non esistere, sicché Isacéo potrebbe i � non essere mai esistito, potrebbe in ogni momento non es stere più, e così per ognuno di noi). Però nello stesso tempo, in quanto Isacco è una affezione della sostanza, non può non esistere, è iscritto nella necessità della sostanza. Salvo che, nel momento in cui si iscrive in questa necessità, non capiamo più in che modo è un modo, poiché dal modo non può togliersi la contingenza. Il modo poi è sempre un pen­ sare l'estensione, un cogliersi in idea, come idea del corpo determina­ to, non generico; è appunto Isacco, non Abramo. Ma dal punto di vista di Dio non si vede che differenza ci sia tra Abramo e Isacco : qui non solo non si distinguono, ma non l?Ono neppure successivi, sono con­ temporanei, perché sono nella eterna necessità della sostanza o di Dio. Questa contemporanea contingenza-necessità del modo ci rende impossibile una comprensione intellettuale. In sintesi: o tutto è neces­ sario, e allora i moqi sono pure apparenze e questa necessità si confi­ gura come il niente stesso; o tutto è contingente, ma allora di nuovo questo tutto è esso stesso contingente, uguale a niente. È a questo punto che abbiamo pronunciato però la frase: ma non ci sono due !sacchi. Cominciamo col dire che infatti non c'è nessun Isacco nella sostanza. Isacco è la determinazione nel pensiero di una estensione determinata, è l'idea di un corpo determinato, sia per me che dico Isacco, sia per Isacco che si coglie come la sua durata, così come si coglie ognuno di noi. Sicché determinarsi i.n questo modo è proprio l'essere del modo, il quale si determina attràverso l'attributo. Cioè si determina in figura di estensione pensata e sappiamo poi che l'attribu­ to è la sostanza stessa. È in questo senso che dobbiamo intendere la parte finale della definizione del modo, dove Spinoza, dopo aver detto che il modo è affezione della sostanza, aggiunge che si concepisce tra­ mite la sostanza. Evidentemente si concepisce tramite la sostanza nella

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figura dell'attributo, che è quell'evento della differenza tra pensiero ed estensione su cui abbiamo tanto insistito. Detto questo allora riflettiamo: qual è il ràpporto tra modo e sostanza? Per la sostanza l'essere del modo, caratterizzato così come ora l'abbiamo caratterizzato, appare in una assoluta indifferenza, per­ ché in ultima istanza diciamo del modo quel che possiamo dire: e cioè c'Qe è pensiero di una estensione, idea di un corpo. Quando diciamo pensiero di un'estensione, idea di un corpo, abbiamo appunto detto qualcosa di indistinto in due sensi: che è uguale per tutti i modi (tutti i modi sono idea di un'estensione), e che è non ulteriormente determi­ nabile, perché non possiamo rispondere alla domanda: «che cos'è poi pensiero, che cos'è poi estensione? » Su questo Spinoza è chiarissimo. Definire il modo pensiero di estensione equivale a !asciarlo indefinito. Perché non possiamo definire il pensiero e l'estensione? Perché non possiamo chiederci: ma in ultima analisi che cos'è pensiero? che cos'è estensione? Perché non sono cose. Sono il concipitur della sostanza; ciò attraverso cui, appunto, la sostanza si concepisce; e sono lo stesso della sostanza, il suo darsi a vedere in figura altalenante, come questa estensione pensata o come questa estensione pensante. È superstizio­ ne, pregiudizio, incomprensione (Aristotele direbbe incomprensione di ciò che si può definire e di ciò che non si può definire) pretendere di definirli. Sono essi che qualificano la sostanza e sono generi infiniti, o infiniti nel loro genere; quindi non sono determinabili da altro, né rife­ ribili ad altro: il pensiero si mette in esercizio, non si definisce; l'esten­ sione è la vivente natura naturata, non si definisce. Diciamolo meglio. Non si tratta qui di una impotenza del pensiero, ma anzi della massima potenza del pensare. Se non si coglie questo punto, si resta fuori dalla rivoluzione essenziale che appare con Spinoza rispetto a tutta la metafisica. Non stiamo dicendo: non è possibile dire cosa sono il pensiero e l'estensione (e quindi in ultimo non è possibile dire cosa sono i modi), perché la sostanza sarebbe un'altra misteriosissima cosa rispetto ai suoi attributi; e allora il pensiero non si sa in ultima analisi cosa sia, per­ ché dovremmo vederlo riferito alla sostanza, e l'estensione anche; la sostanza però non la vediamo, resta nascosta, ci si sottrae. Queste sono espressioni dell'ideologismo e della superstizione filosofica. Si tratta inve­ ce del fatto che il dire, il pensare è appunto un attributo della sostanza,

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cioè l'evento stesso della sostanza nella figura dell'attributo: è la sostanza predicata, o concepita. E la sostanza non è un'altra cosa da questo evento, ma è l'evento stesso di questa differenza altalenante: concepirsi come un'estensione, essere un'estensione che si concepisce. Ma allora, se abbiamo capito questo, che non ci sono attributi e poi anche la sostanza, e che gli attributi non sono indefinibili per una nostra impotenza di pensier9, ma perché sono l'atto stesso. di definirsi della sostanza, abbiamo anche capito che i modi non v�nno cercati dentro la sostanza. In questo senso poco fa dicevo che non c'è nessun !sacco nella sostanza. Tanto meno i modi saranno nell'attributo, che è il concepirsi della sostanza. Detto questo in maniera stringente, e scrit­ to emblematicamente a lettere cubitali per non dimenticarlo mai, per­ ché la nostra natura di modo è siffatta che ce lo dimentichiamo sempre · ' (e vedremo perché) , diciamo così: la sostanza non è una cosa, quindi non ha né dentro né fuori, non è qui, non è là, non è prima, non è poi, e nemmeno ora, se l'ora è il limite del prima e del poi. La sostanza non è una cosa e i modi, le cose, non sono sostanze. Questo è il punto vero, questa è la visione di Spinoza. Questo è l'ultimo strato dell'abissalità che ora dovremo scandagliare. Il senso comune, che studia Spinoza e lo riassume nei manuali, e talvolta lo stesso Spinoza, costretto ad esprimersi nella lingua comune, mettono la cosa così: c'è una sostanza; ci sono due attributi, e in realtà infiniti; e poi ci sono tantissimi modi. Questo significa cosalizzare tutti questi termini, cioè significa fallire completamente la comprensione del pensiero di Spinoza. Spinoza ci direbbe: queste sono pure immagi­ nazioni, pure fantasie. Così come è una fantasia credere che ci sia il passato, trovandoci poi, come ci è già capitato, a dover fare i conti con un circolo di nozioni che non si sapeva come incardinare l'una nell'al'­ tra: il passato è la continuità, però è anche la discontinuità, se no in che senso sarebbe il passato; poi però tutto qu�.sto accade solo nella emer­ genza presente, che non è né passata, né nòn passata, non è una cosa, è un evento, è l'esplosione di un punto di vista. In realtà non c'è una sostanza, non ci sono due attributi e non ci sono moltissimi modi. Che cosa c'è? È di una evidenza talmente chiara, che ci stupiamo (dopo) di non averla vista: c'è per esempio il sottoscritto che si sta sgo­ lando in questo momento; questo c'è, cioè c'è il modo; il quale si conce-

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pisce come si concepisce, per esempio come durata temporale nella contingenza della sua immagine; e potremmo aggiungere, della sua verità pubblica. È verità pubblica che mi sono alzato alla tal ora ecc. Si potrebbe aggiungere: ogni modo sperimenta la durata nel modo della sua verità pubblica.' Già lo dicemmo: quando si parla della verità pub­ blica di Spinoza, in realtà stiamo parlando della nostra, del nostro modo di guardare il passato 'Spinoza', che non è quello di Spinoza. C'è una verità pubblica che è la verità pubblica dell'europeo contemporaneo e civilizzato; c'è la verità pubblica dell'uomo del mito che non sa né leg­ gere né scrivere, e che però sa a memoria tutti i racconti fondatori della sua tradizione; c'è una verità pubblica storica, insomma, e ce n'è una mitica. E poi ce ne sono tante altre. I modi non sono che il concepirsi attraverso queste immaginazioni, attribuzioni, figure, sicché, come sap­ piamo, nel concepirsi contingentemente così come ogni modo si conce­ pisce, l'idea della sua durata, l'idea che lui si fa del suo corpo, cioè le idee che ha in testa si iscrivono in una infinita catena di idee e di corpi; pro­ prio come la tradiz1one che da Spinoza viene sino a noi. Il modo è appunto ciò che c'è qui, è questo qui (come diceva Aristotele). Il modo è ciò che qui esercita su di sé un'immagina,zione che in realtà è un rimando infinito: rimando ad infiniti pensieri e ad infinite estensioni. Nella realtà non c'è altro che questo, e nient'altro da vedere: pensieri di estensioni, direbbe Spinoza. Se cominciamo a fre­ quentare questo tipo di atteggiamento, possiamo ben dire, come dice Spinoza, che nel modo di sostanziale, di reale, non vi è altro che l'esse­ re pensiero di estensione. Il modo coglie la sua realtà attraverso gli attributi della sostanza, cioè attraverso la sostanza stessa, come dice la sua definizione. Ma aver detto questo (che ciò che vi è di sostanziale, di ultimativamente reale, nel modo è questo esser sempre pensiero di estensione, estensione determinata nell'idea, nel pensiero), aver detto questo significa che il modo è indifferente in sé? Che allora i modi sono tutti uguali? No, non abbiamo detto questo. Abbiamo detto che ciò che c'è è questo modo qui, che nella sua differenza si scopre pensiero di estensione. È nel modo, come modo e in quanto modo, che proprio questo accade; che accade la rivelazione della sostanza. Ma certo per la sostanza questo modo è indifferente. Per la sostanza sono del tutto indifferenti Abrami, !sacchi, Giacobbi ecc. ; per essa sono lo stesso,

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sono il medesimo cogliersi come estensione concepita e nient'altro; poiché la sostanza, Dio, è appunto l'evento di questo cogliersi stesso. Adesso aggiungiamo una cosa importante: e questa è tutta la sostan­ za, tutta quanta! Essa è tutta in questo cogliersi (vedremo perché) e la sostanza tutta non è che questo cogliersi. Non ci sono altre rivelazioni, della prossima settimana, del prossimo anno, evo o secolo. Questa è la sostanza, se non siamo superstiziosi. Ma cosa vuol dire? Non è che la cosa vada pensata come m olti l'hanno pensata e tuttora la pensiamo • istintivamente: che la sostanza poi è Dio; quindi sta lassù, ed essendo un po' miope, o stando così in alto, l'estensione la vede, ma i particolari non li distingue: Abramo, !sacco e Giacobbe son tutti uguali. Evidentemente non si sta frequentando questa sciocchezza. Ma non si sta nemmeno dicendo quest'altra: · che siccome la sostanza è tanto in alto, allora de minimis non curat. Questo ridicolo Dio era il Dio di Voltaire, niente meno! ll Dio che certamente dà la legge universale alla natura, ma che poi non si preoccupa troppo del possibile terremoto di lisbona, che mas­ sacra tante formiche umane. I modi sono indifferenti per Dio, non nel senso che egli, troppo in alto, ne vede solo la generalità; non nel senso che egli, troppo sommo, non si occupa dei particolari. La sostanza infat­ ti non è un'altra cosa (non sta sopra, l né sotto), non è un'altra cosa rispet­ to ai modi: questo è il pensiero scandaloso di Spinoza e però innovativo. La sostanza è tutta nel modo e non c'è altro da vedere. Né d'altra parte sono cose il pensiero e l'estensione, ma solo l'evento del concepirsi della sostanza, cioè l'evento di quelle uniche cose che sono i modi. Sicché è la sostanza chè, pensandosi e raffigurandosi, si dà a vedere come modo immaginante. Modo che si misura nella durata come sua peculiare e transeunte verità pubblica. È proprio il modo che, pensandosi così, non può infine che concludere che la sostanza è il suo fondamento necessa* rio, che è il suo che c'è originario, il suo evento peculiare, indubitabile, insormontabile, intrascendibile, eterno. . II modo che si pensa sino in fondo, eh� si pensa come idea di un'e­ stensione, incontra il pensiero abissale nel primo aspetto in cui anche noi lo abbiamo incontrato: cioè che tutti noi siamo qui in questa sostanza; che è questa sostanza, non un'altra; che non prevede altre cose, perché esse sarebbero ancora questa sostanza, questo mondo intrascendibile che Spinoza giustamente chiama Dio. È il modo che, pensandosi, raffiguran-

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dosi, trova il fondamento inconcusso della sua esistenza: fondamento che è unico o lo stesso per ogni esistenza: il mondo. In realtà non abbiamo ancora detto bene, perché abbiamo detto fondamento unico per ogni esi­ stenza: ma 'ogni' possiamo dirlo? O già qui cadiamo nell'immaginazione? Se è fondamento unico, se il mondo è l'evento del modo stesso, allora ogni esistenza, ogni modo, è ancora uno con la sostanza. È solo l'immaginazio­ ne che separa le durate, che dice qua e là, io sono più vecchio, tu sei più giovane, io sono il padre, tu sei il figlio. Solo questa immaginazione pensa per 'ogni', 'ogni', 'ogni'. Ma se si pensa nel suo profondo, ogni immagina­ zione si scopre una con la sostanza, che Spinoza ha definito così sin dall'i­ nizio: una, eterna, indelimitabile, non scomponibile. E allora potremmo tirare le somme così: pensare l'estensione è ciò che caratterizza l'attività del modo, ciò che continuamente il modo fa; pensare l'estensione non è altro che la maniera di esprimere l'unità sostanziale. _F orse adesso comprendete perché, sotto questo profilo, cioè in quanto pensati nella loro unità sostanziale, che è il loro espri­ mere, pensandosi come estensione, la sostanza, Abramo e !sacco sono il medesimo, ovvero sono uno, sempre lo stesso uno. Esattamente come 'uno' ci siamo trovati a un certo punto a essere noi e Spinoza. Allora, quando frequentammo questo pensiero, che poi lasciammo da parte, eravamo a un passo dalla questione dei modi. Ci chiedemmo: ma chi parla, Spinozà? Noi? Ha senso questa domanda? Si può porre que­ sta domanda ingenuamente, come se potessimo fare e discriminare un mucchietto di polvere (questo è Spinoza) e poi un altro (questi siamo noi)? O non è piuttosto vero che nell'emergenza, nel momento dell'in­ contro e della rivelazione della possibilità inesauribile di ogni vita, Spinoza e noi siamo uno? Egli è l'Altro dello Stesso, sicché io trovo nell'Altro me stesso : così dicemmo. Nella frequentazione dell'Altro divento me stesso, e divenendo me stesso, divengo contemporanea­ mente l'Altro dell'Altro, che è ancora lo Stesso. Questa relazione non abbiamo altro che da vederla esemplata più in grande in Abramo e !sacco. Essi sono certamente il medesimo, sono uno in quanto si colgono nella loro unità sostanziale, in quanto sono coinvolti nell'infinità generica del loro essere figure della sostanza, attribuzioni della sostanza. L'ha detto bene Spinoza; però lo capiamo solo adesso: affectiones appunto. E la sostanza non è altro che l'evento di questo esse-

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re affezione determinata, contingenza e libertà al tempo stesso. La sostan­ za è libera nella contingenza della sua figura. Quindi, da questo punto di vista è ben comprensibile che si possa e si debba dire che Abramo e Isacco sono il medesimo: proprio perché la sostanzialità dell'attribuzione è ciò che caratterizza il modo e lo rende unico in tutti gli eventi della sostanza. Ma con questo abbiamo detto solo la prima metà del vero; adesso dob­ biamo aggiungere la seconda, che già abbiamo enunciato. Attenzione, chi dice questo è sempre un modo determinato! È verissimo che fa sostanzia­ lità generica del modo è il fatto di essere la sostanza nella fi�ra di un'e­ stensione pensata, là dove tra Abramo e Isacco la differenza non c'è più o non c'è mai stata; ma è altrettanto vero che chi dice questo è Spinoza, chi pensa concretamente questo è quel concreto modo lì, determinato nella sua contingenza e nella sua figura irripetibile. È altrettanto contempora­ neamente vero che il modo è pensiero ed estensione e che il modo è pen­ siero determinato di un'estensione determinata, cioè questo modo qui. Le due. cose si devono poter presentare insieme, si deve vederle insieme: vederle come quell'evento che è la sostanza stessa. Dicevamo che pensare l'estensione è sempre un pensare determi­ nato, che scopre la sua sostanzialità, cioè l'essere iscritto nella sostan­ za una in questo suo pensare l'estensione. Ma la pensa a partire dalla propria determinatezza, sicché, nella sua determinatezza, il modo è l'e­ vento stesso della SQStanza: nella sua determinatezza che è immagina­ zione, cioè veduta pubblica, in sé poco reale. Però in questa immagina­ zione contingente accade l'evento della sostanza, e anzi l'evento della sostanza non è un'altra cosa, sicché infine è tolta quella opposizione che ci fa guerra. Non c'è opposizione tra la necessità della sostanza e la contingenza del modo. La necessità della sostanza è l'evento stesso della contingenza del modo: quel che ora necessariamente accade qui, nella sua contingenza. La sostanza, si potrebbe dire, è l'emergenza del modo, l'evento di questa stessa emergenza.: sicché non c'è differenza tra modo e sostanza. Non poteva che esset� 'così. Naturalmente atten­ zione! Teniamo la contingenza nella contingenza e la necessità nella necessità, pur avendo detto che sono il medesimo. Come le teniamo distinte e come unite? Abbiamo detto: la sostan­ za non è altro che il necessario evento, la necessaria emergenza di que­ sta determinata contingenza. Ciò però non ci autorizza a identificare la

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sostanza con il contenuto di questa contingenza. La sostanza non è identificabile con l'immagine pubblica che me ne faccio ora e qui, con l'immagine pubblica che mi faccio del mio corpo, e poi del mondo secondo la teoria darwiniana, secondo quella .newtoniana, o secondo quella einsteiniana. Questi contenuti restano, nella loro contingenza, come luoghi di emergenza della sostanza. Certo, ognuno è uno con la sostanza, ognuno è l'evento della ·sostanza, sicché è imprescindibile la loro determinatezza: è in quel luogo lì che accade la sostanza, non altro­ ve. E però, se guardo il contenuto, e a questo mi aggrappo per dire que­ sta è la sostanza, tale atteggiamento è semplicemente idolatria, per Spinoza. È identificare Dio con la figura contingente attraverso la quale egli mi è dato in figura. Né d'altra parte devo separare il contenuto dalla sostanza, come se essa stesse altrove: questo è il pensare superstizioso, o è il seguire immaginazioni superstiziose. Non posso identificare la sostanza con questo contenuto, ma non la posso neanche separare da questo contenuto, immaginandola come un'altra cosa. Non è una cosa, e va tenuto fermo che proprio la contingenza è il luogo di manifestazio­ ne di ciò che può essere solo lì colto e compreso, come appunto la sostanza, il Deus sive natura, il mondo intrascendibile che c'è, compre­ so al di là della contingenza nella contingenza, e non fuori di essa. Se comprendiamo questo luogo, allora vanno a fondo sia il conte­ nuto, sia la forma, cioè i concetti della metafisica tradizionale, che non sono altro che questa posizione e distinzione. Va a fondo il contenuto nella sostanzialità trovata in questa contingenza. Se dico: la sostanza è quello che ho detto in questo corso, sono un idolatra. Ma va a fondo anche la forma, cioè va a fondo il pensiero, perché la sostanza è in sé indifferente al pensiero: è indifferente che io la pensi in questo o in altro modo. Naturalmente è indifferente al pensiero non perché sia un'altra cosa che non può essere pensata, ma perché essa è l'evento della di:ffe'­ renza del pensiero, e non c'è altro da fare che pensarla. Ma pensarla equivale a pensarla determiì:J.atamente, e questo è il suo darsi in figura, non il suo puro darsi, il suo semplice che c'è. Peraltro, questo puro che c'è di nuovo non è una o un'altra cosa; questo puro che c'è è nel pensa­ re determinato che c'è, Spinoz.a l'ha detto nelle sue d�finizioni. Nella determinatezza del modo è il luogo dell'evento della sostan­ za; la sua contingenza è la stessa necessità, che è appunto la libertà;

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sicché non dobbiamo affatto cancellare i modi: anzi i modi sono tutto quello che c'è. Nello stesso tempo non dobbiamo prendere né il conte­ nuto, né la forma dei modi, né ciò che pensano, né il fatto che pensano (cogito ergo sum), come la sostanza (ecco perché Spinoza è abissal­ mente lontano da Cartesio e da tutto il pensiero moderno). Riuscire a vedere tutto questo è precisamente la puri:ficazione del modo. Il modo che vede questo è il modo c"Qe sì solleva al sapere, come purificazione del pensiero deterniinato dell'idea di estensione determin4ta che ogni modo è. Mi purifico dalle immaginazioni e le prendo come luoghi o occasioni in cui si manifesta Dio, la sostanza. Pensate le ultime terzine del Paradiso di Dante, dove il poeta dice: il mio volere e il mio essere a quel punto non si disgiungevano dal volere e dall'essere di Dio, là dove egli aveva colto e ravvisato l'unità trina. Questo in Spinoza è ciò che egli chiama Amor Dei intellectualis: comprensione della necessità della sostanza nel modo; purificazione dalle immaginazioni o passioni del modo, in quanto libertà nelle passioni: in quanto, cioè, queste con­ tingenze sono manifestazioni della sostanza1 non si possono cancella­ re, sicché non si tratta per Spinoza di scegliere un ascetismo fuori dal mondo, ma un ascetismo nel mond�. E infine si tratta dell'accesso alla vita felice, libera dalle immaginazidni nelle immaginazioni. Amor per­ ché ciò non si compie attraverso una teoria della sostanza, ma si com­ pie in una modificazione della passione: la passione non ama più il suo contenuto, che è poco reale; ama l'evento di questo contenuto, cioè la sostanza stessa: amor Dei. Beninteso, è amor Dei anche in Nerone, come dice Spinoza, anche nella tigre, anche nella catastrofe; ma nello stesso tempo non è un semplice amor Dei, non è una sapienza dell'in­ tuizione mistica, della sensazione del far tutt'uno; è un'altra sapienza, perché è la sapienza della filosofia. Perciò è intellectualis. La si rag"'" giunge attraverso la purificazione dell'intelletto, camminando in un cammino di pensiero: ed è questo ciò che �!. çhiama etica. Ripetiamo sinteticamente il nucleo di quello che abbiamo creduto di vedere. In ultima istanza il modo in Spinoza è una passione. La passione è il concepire questo corpo qui; non il concepire nel senso del solo riflet­ tere: concepire è anche muovere le mani, avere impulsi che mi fanno parlare, ecc. Queste sono le passioni, il concepirsi come estensione che si manifesta nella natura. Noi diremmo che il modo è l'insieme delle sue

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pratiche. Le passioni sono infatti le pratiche, sono il pathos dell'azione, l'essere già sempre in azione; vengo al mondo e già devo succhiare il latte, altrimenti muoio e così via. La passione è questo aver sempre da misurare, a partire da sé, la propria estensione e l'estensione di tutti gli altri corpi. Questa misurazione, questa passione, questo conatus, come diceva anche Spinoza, non è che un'immagine del mondo. Noi siamo immagini del mondo viventi, immagini . del mondo ambulanti, supporti, figure pubbliche. Abbiamo visto, infatti, che per quanto scaviamo dentro di noi, non troviamo mai l' 'io': io sono sempre l'Altro, l'azione dell'Altro, l'immagine dell'Altro. 'Io' ho deciso di fare un corso su Spinoza? In real­ tà, infinite altre cose hanno deciso per me; 'io' mai ero lì come una cosa separata da queste passioni, cioè in condizione di poter decidere, perché non c'è questa sostanza 'io'. L'io è appunto un modo di passività in que­ st'attività che si tramanda. Immagini del mondo che disegnano una veri­ tà pubblica: questo sono i modi, cioè il comune operare di tutti gli indi­ vidui, il loro costituirsi nelle loro reciproche immaginazioni. Però questo accadere della passione, questa apertura di tutte le nostre pratiche, questo darsi in un mondo in queste immagini, come oggetto di queste immagini, tutto ciò è da sempre e per sempre iscritto nell'evento del mondo. Evento che preso in sé (ma possiamo poi pren­ derlo in sé?) non è misurabile, distinguibile, non è mio piuttosto che tuo; questo 'mio' e 'tuo' è la mia immaginazione a parli, costituendomi appunto come modo. Questo evento è unico, necessario, eterno, incirco­ scrlvibile, intrascendibile, onnipresente, pervadente, circoscrivente: pre­ senza intensiva del mondo. E allora il conatus del modo, ciò che il modo fa, patisce, agisce, non è che il configurarsi della sostanza unica. Queste configurazioni, certo, per se stesse sono poco reali, non sono sostanze, non sono la sostanza; piuttosto sono nella sostanza, sue affezioni, come dice Spinoza. Sono poco reali, come poco reale infatti è l'immagine che ognuno di noi si dà della propria vita, del proprio tempo, della propria . esistenza: figure transeunti, ricapitolabili in luoghi di emergenza in cui accade un senso che non è esprimibile attraverso il linguaggio pubblico. Forse vi può alludere, talvolta e in modi diversi, la parola della poesia, della filosofia, della mistica, della religione, dell'arte. Luoghi di coagulo in cui tutto il senso di una vita si manifesta, se si manifesta, e non è sem­ plicemente esprimibile in un diario che dice: oggi, martedì, sono malin-

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conico. Queste e altre sono immaginazioni poco reali. E tuttavia queste immaginazioni hanno il loro fondamento e la loro necessità nella �ostan­ za, non sono altro luogo che quello in cui la libertà della sostanza accade. Per esempio potrei dire: necessariamente doveva accadere questo corso nel mio cammino, per una necessità che è iscritta, come per ognuno, nella libertà stessa della sostanza. Non si può cogliere la natura naturans, come dice Spinoza, tra­ mite l'immagine, elle è la natura naturata; tuttavia l'immllgine non è altra cosa dalla natura naturans: è appunto il naturato della natura naturans: sicché non è uscendo dall'immagine verso altre immagini supposte più vere, non dal pensiero comune per altri pensieri supposti più profondi, non dal linguaggio per una lingua più "originaria", non è per queste vie che la ·sostanza è incontrabile. Per queste vie sono incon­ trate altre immaginazioni della sostanza, altre fantasie pubbliche, altre idee, che in quanto si spacciano per la sostanza sono idolatriche e superstiziose. Non è uscendo dall'immagine, dal pensiero, e dalla paro­ la, ma solo permanendovi in modo appropriato (l'etica), e cioè purifi­ candoci dal contenuto e tuttavia frequentandolo come luogo dell'even­ to, che il problema della verità di Dio è incontrato come problema della sostanza. Verità che non è ovviamente la verità della proposizione, sia essa pure quella di Spinoza. La proposizione, la definizione è il luogo attraverso il quale Dio è incontrato eticamente, non conoscitivamente. È un metodo geometrico della conoscenza che deve ridestarci; però, non il metodo in quanto tale, ma lavia stessa, la rivelazione stessa, l'in­ contro stesso con la sostanza. Sicché questa verità fa tutt'uno con felicità e libertà. Non è nella veri­ tà, per Spinoza, colui che non è nella libertà e che non è nella felicità. Colui che non è felice e colui che non è libero dalle sue passioni, ovvero che non le abiti in modo libero, non ha nessuna verità da dire e da inse­ gnare, anche se ha tante verità pubbliche da. trasmettere. Nel punto di arrivo della soluzione dei modi esperiamo ccrsi una trasvalutazione etica della scienza - e questo è un punto su cui avrei voluto soffermarmi a lungo, ma non ne abbiamo ormai il tempo. La libertà dalle passioni nelle passioni, nell'esser comunque pathos, conatus, sforzo, volontà di sussi­ stere, questa libertà configura una nuova dimensione etica dell'uomo contemporaneo. Egli non può più volere l'imposizione. Questo è il suo

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liberalismo (a partire dal liberalismo politico che Spinoza teorizzò e dife­ se): la comprensione che la libertà non può essere impositiva, che non può essere metafisica. Egli non può più credere nella sostanzialità dei suoi contenuti e nemmeno nella sostanzialità della sua forma; e tuttavia non ha motivo di rinunciare del tutto ai suoi contenuti e alla sua forma, in quanto luoghi, tra altri, in cui l'evento accade, in cui la sostanza c'è, si dà. Sicché si tratta per lui di un libero gioco delle pratiche delle passioni nella loro pluralità, in quanto esse sono tutte espressione della necessità della sostanza. Tutte meritano (e anche non meritano) di essere salva­ guardate nella loro libertà, secondo un'etica non più metafisica che non ha più verità assoluta di contenuto. Tutto ciò poi per l'uomo contempo­ ranee si configura come conseguenza della scienza, o del modo scientifi­ co e copernicano di guardare, e anche del modo storiografico (pensiamo appunto alla critica testamentaria avviata da Spinoza). Ma la capacità di pensare speculativamente la scienza moderna (il che non accade con Cartesio o Leibniz) si configura, proprio a partire da Spinoza, come ten­ tativo di mostrare il senso etico della scienza moderna, al di là e insieme all'interno stesso della sua impresa conoscitiva. Modo e attributo in fondo non sono, in Spinoza, che gradini di una scala per arrivare all a sostanza. Qui però non si tratta affatto di buttar via la scala una volta che la si è usata. Non c'è un'altra visione oltre la scala, sicché il punto è concepire la scala sub specie aeternitatis, nella luce dell'eterno, dove l'immagine del contingente si conserva, ma in quanto trasparenza dell'unità eterna della sostanza. Per questo richia­ mavo prima Dante. La scala è occasione intrascendibile della sostanza stessa: contingente, indifferente nel suo modo, e però necessaria, per­ ché ogni scala, cioè ogni destino individuale, è un modo della infinita necessità della sostanza. Se il modo si attribuisce una realtà sostanzia­ le, attraverso le sue passioni, cade in assurdità, in contraddizioni, ma, quel che è peggio, cade nella infelicità. Tutto ciò che di 'sostanziale c'è in questo attribuirsi una sostanzialità è l'attributo stesso: il fatto che ci si pensa come estensione determinata che si coglie come durata vivente. È questa genericità l'unico lato sostanziale della sua passione, l'intrascen­ dibile aspetto della sua passione, che comunque è un modo che si coglie nella sua passione. Ma per sé questa passione, o il suo contenuto, è poco reale, non è più che un'occasione, e la sua durata è una immaginazione.

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Questo non significa affatto che il modo non sia niente nella sua contingenza e nella determinatezza della sua passione, perché questo di nuovo sarebbe un'assurdità e una contraddizione. Pensare che Spinoza abbia pensato che il modo stesso non sia niente significa non comprendere tutto l'edificio dell'Etica, nonché tutta la fatica della purificazione attraverso la comprensione. Il modo è la via di accesso alla realtà, anche se la sua immaginazione è poco reale. E se diciamo che ogni modo è là' via di accesso all a realtà, ecco che qui tabbiamo di fronte agli occhi finalmente un'espressione che, nel suo errore e nella correzione di questo errore, forse ci fa vedere l'amor Dei intellectualis, ovvero l'esercizio etico. Ogni modo è la via di accesso alla sostanza, a Dio, al mondo che c'è. Ma come lo è nel più alto grado, cioè nel momento in cui si purifica da quell'ogni? È nell'esercizio etieo che il modo, restando modo, accede alla sostanzialità della sua affezione. Egli non può più dire 'ogni modo', perché deve sollevarsi all'unità sostanziale che è in ogni 'ogni' e che quindi è una in ognuno, una in tutti, e tutti uno con lei. In quanto un modo. toglie l'ogni, in quanto si vede come luogo in cui accade il mondo, in quanto vede che in ogni modo della sua vita stessa accade il mondo, quando vede questo, vede anche che ciò che accade è la vita �tema. È a questo punto che deve togliere l'ogni: accade la vita eterna e non c'è più distinzione tra la par­ ticolarità della mia passione e la vita eterna. Questo è precisamente l'esercizio di purificazione, l'esercizio etico. Chi vive in questa dimensione, vive nel luogo della verità, cioè della felicità, secondo Spinòza. Quindi la verità e la realtà non sono da vedersi dopo, al di là della vita temporale, altrove, ma qui, nell'esisten­ te assoluto, infinito, uno. Questo è il fondo ultimo del pensiero abissa­ le; questo è quello che abbiamo incontrato dapprima e poi portato sino alla sua estrema conseguenza. Perché c'è tanta difficoltà a intendere questo fondo ultimo? Perché noi pensiaii!;p ,ambiguamente la realtà. Identifichiamo la realtà con le cose che si toccano, cioè con quelle immaginazioni oggettivanti dell'intelletto che hanno il loro luogo e la loro giustificazione nella pratica quotidiana, ma che non sono la verità della pratica quotidiana. La realtà non è una cosa, ma è un incontro; e allora i modi sono reali in quanto sono nell'incontro con la sostanza: punti di incontro con l'evento del mondo. Ma non sono reali, e non

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sono nel vero, se si concepiscono come sostanza, se sostanzializzano la modalità del loro incontro, se scambiano questa modalità con l'evento. Ed è di questo che l'etica li purifica, se vogliono, naturalmente. Se vogliono poi significa: nella misura in cui sono voluti da questa strada, poiché certo essi non possono attribuirsi veritieramente la volontà di scegliersela. Il senso comune invece equivoca sulla nozione del reale, in quanto non la tiene ben nitida davanti agli occhi. Poi equivoca sulle posizioni di Spinoza e si chiede: ma è reale la sostanza o sono reali i modi? E fa una gran confusione. I modi, abbiamo detto, sono passioni, sono pratiche, sono un impe­ tus, un conatus, un movimento, molto prima di essere una conoscenza astratta. È così, nel loro essere passioni, che misurano la loro durata, il loro perdurare, il loro persistere nel loro essere. È in questo persistere che i modi sentono, incontrano, avvertono la sostanzialità insuperabile del mondo, di Dio; ma la equivocano continuamente, perché la identifi­ cano col contenuto del loro conatus e non con il conatus stesso come evento della vita eterna. Essi non vedono che è l'unicità della sostanza che permane nella differenza, cioè in quella figura della dualità che abbiamo descritto parlando dell'attributo. Sollevarsi a questa unicità non è però cogliere obiettivandola la differenza; non è nemmeno cancellarla e dire: non è una cosa, non è reale e allora non c'è. Se questo davvero lo facessimo, allora non resterebbe niente, perché sostanza non è un'altra cosa; è l'evento di questa stessa differenza. La sostanza non è una cosa di cui i modi sarebbero mere apparenze. Tolti i modi, è tolto l'esistente stes­ so, perché l'esistente è la vita eterna brulicante nel modo. Solo in questo senso la sostanza è l'intrascendibile del pensiero abissale. E allora potremmo dire: !sacco è e resta !sacco, in quanto figura di Dio, ma non in quanto realtà separata, o supposta tale, cioè separata da Dio. Il supporsi tale, separata, è precisamente il suo modo, il suo essere di modo, e perciò una necessità essa stessa. Si tratta di solleva­ re la differenza che è !sacco nella sua libera necessità all'unità di Dio, cioè all Am o r Dei intellectualis. Nel momento in cui vediamo questo, vediamo il pensiero abissale, quello che si annunciò nella questione del causarsi da sé. Toccando il fondo di questo pensiero, come è necessa­ rio, Spinoza dilegua: non ci serve più, se ne va come è arrivato. Non è più questione di Spinoza, né di noi stessi, ma di tutti e due, in una sin'

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