Archeologia del Mediterraneo. Studi in onore di Ernesto De Miro 9788882651343


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Archeologia del Mediterraneo. Studi in onore di Ernesto De Miro
 9788882651343

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INDICE Presentazione di A. Calderone, M. Caltabiano, G. Fiorentini . .

Bibliografia di Ernesto De Miro ....... PER UN PORTOLANO FENICIO, di Enrico Acquaro . . ANFORE COMMERCIALI DAL CENTRO INDIGENO DELLA MONTAGNA DI RAMACCA È (CATANIA), di Rosa MARIA ALBANESE PROCELLI .

IL GRUPPO DI SCILLA DI SPERLONGA RICOMPOSTO, di BERNARD ANDREAE ......... LA CERAMICA GRECA TRA IL V E IL IV SEC. A.C. RINVENUTA IN ITALIA, di P. E. Arias t .. 61 NOTE SULLA COROPLASTICA RINVENUTA NELL'AREA INDIGENA DELL'ANTICA BASILICATA (VI-II SEC. A.C.), di M. Barra Bacnasco . DEDALO E ICARO A HIMERA, di N. Boxacasa ..... I TIRANNI DI SELINUNTE, di L. Braccesi QUARTIERI DI ETÀ ELLENISTICA E ROMANA A CATANIA, di M. G. BRANCIFORTI EOS RAPITRICE E LE ARULE DI GELA, di A. CaLpERONE UNA STATUETTA IN MARMO DA AGRIGENTO, di V. Cari

MESSANA. TYCHE/FORTUNA SULLE MONETE DELLA CITTÀ DELLO STRETTO, di , M. CACCAMO CALTABIANO.. RECENTI RICOGNIZIONI NEL TERRITORIO DI RODÌ MILICI, di B. CAMPAGNA.

UN CAPITELLO IONICO A QUATTRO FACCE NEL MUSEO REGIONALE DI MESSINA, di L. CAMPAGNA . -

‘RITROVAMENTI MONETARI A FRANCAVILLA DI SICILIA (ME), di A. CarnÈ

NOTA DI TOPOGRAFIA CRISTIANA AGRIGENTINA. A PROPOSITO DEI C.D. IPOGEI MI: NORI, di R.M. CARRA BONACASA NUOVE ISCRIZIONI “TIRRENICHE” DA LEMNO, di M. CRISTOFANI + HIMERA TRA REALTÀ ED IMMAGINAZIONE, di A. CurgONI Tusa ...

LE CERAMICHE DELLA PUGLIA PREROMANA. UNA PROPOSTA DI CLASSIFICAZIONE GENERALE, di E.M. Dr Juuns ...

235

NECROPOLI IN CONTRADA STORNELLO DI RAVANUSA (AGRIGENTO), di A. DENTI .

247

IL VINO DELLO STRETTO, di L. DE Satvo . .

271

LA STANDARDIZZAZIONE DEI BLOCCHI NEI TEMPLI “GEMELLI” DI AGRIGENTO, di LAKE. DE WARLE È . 275 PICCOLA PLASTICA BRONZEA INDIGENA DI AREA SICANA, di C.A. Di STEFANO

285

ERA IL SATIRO DI MAZARA UNA "TUTELA"?, di A. Di Vira

293

ARCHITETTURA DOMESTICA D'ETÀ ELLENISTICA IN CALABRIA. ELEMENTI TECNICI E ‘STRUTTURALI, di D. Fatcone e 301 LA PANTELLERIAN WARE DAL QUARTIERE ELLENISTICO-ROMANO DI AGRIGENTO. ASPETTI DELLA PROBLEMATICA E PROPOSTA PER UNA TIPOLOGIA, di G. FIERTLER .. 321 DIONISO, IL SATIRO E IL “MULO” IN UN VASO PLASTICO DA RAVANUSA, di G. Fiorentint

339

NUOVE RICONIAZIONI IN MAGNA GRECIA E IN SICILIA,

381

i S. GaRRAFFO

ce

CONTRIBUTO ALL'INOUADRAMENTO CRONOLOGICO E STILISTICO DI ALCUNI VASI ATTICI DEL PRIMO RELITTO DI GELA, ED IPOTESI SULLA ROTTA DI DISTRIBUZIONE, di F. Grupice

363

TRA SIBARI, THURII E COPIAE: QUALCHE IPOTESI DI LAVORO, di E. Greco ..

369

RECENTI SCAVI A MONTE ROVETO E ROCCA FICARAZZE DI CASTELTERMINI (AG), di D. Gui... 375 THREE LEKYTHOI BY THE PAN PAINTER IN PROVIDENCE, di R. Ross HoLLoway .

401

LE PROPRIETÀ FONDIARIE DELLA DIACONIA ROMANA DI S. MARIA IN COSMEDIN NEL SECOLO VIII. UNA LETTURA DELL'EPIGRAFE DI DONAZIONE DEI FRATELLI EUSTAZIO E GIORGIO, di A. IanwetLo :

405

KOTYLAI CORINZIE DA VIA VENEZIA A GELA, di C. Incocta

417

“ΝΕ

BOULEUTERIA DI SICILIA, di H. P. Ister . .

429

UNA KOUROTHROPHOS DA MOZIA, di S. LAGoNA .

435

LUIGI SAVIGNONI: UNA PROLUSIONE DI INIZIO SECOLO A MESSINA, di V. La Rosa ....... 439 PER UNA PROPOSTA DI UBICAZIONE DELLA TAYPIANH XQPA (STRABONE VI, 1, 3 di G.F. La Torre.. 455 ARMI MINIATURISTICHE DA IALYSOS, diM. MARTELLI CRISTOFANI 1...

467

CERAMOGRAFIA CORINZIA E CERAMOGRAFIA ATTICA: RELAZIONI E CONFLUENZE, di 413 M.G. Marzi RESTI PREISTORICI A DOSSO TAMBURARO (MILITELLO IN VAL DI 1 CATANIA) E L'ETÀ = DEL RAME NELLA SICILIA ORIENTALE, di B.E. McConneLL

489

STUDI, INDAGINI, RICERCHE E ATTIVITÀ DI TUTELA DEI MONUMENTI DELLA VALLE DEI TEMPLI NELL'ULTIMO DECENNIO, di P. Met .. IL THESMOPHORION DI BITALEMIAt (GELA): | NUOVE SCOPERTE E OSSERVAZIONI, di P. ORLANDINI .. ANTEFISSE DI PROVENIENZA CAMARINESE CERTA O PRESUNTA, di P. PELAGATII . SUL COMMERCIO DEI MARMI IN ETÀ IMPERIALE: IL CONTRIBUTO DEI CARICHI NAUFRAGATI DI CAPO GRANITOLA (MAZARA), di P. PENSABENE... ANCORA IN TEMA DI AGER PUBLICUS SICILIANO IN ETÀ CICERONIANA, di A. PINZONE .... 545 LUCERNE IN SIGILLATA AFRICANA DALLE CASE ROMANE DI AGRIGENTO, di A. POLITO ..... MANFRIA:CONSIDERAZIONI SULLA FACIES DI CASTELLUCCIO, di E. PROCELLI ............... 571

LA LIBERAZIONE DI HERA IN UN VASO ATTICO DA LENTINI, di G. Rizza

579

LE MISURE DELLE COSTE DI SICILIA SECONDO I GEOGRAFI ANTICHI, di F.P. Rizzo

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DUE NOTE A LG. XIV 352, di G. Scrsona

A PROPOSITO DI DUE OSCILLA FIGURATI DA MONTE SARACENO, di A. SIRACUSANO ......... ANFORE DA TRASPORTO NORD-EGEE IN OCCIDENTE NEL PERIODO ARCAICO E CLASSICO: L'ESEMPIO DI GELA, di G. SPAGNOLO . . . UN VENTENNIO DI RICERCHE A FRANCAVILLA DI SICILIA, di U. Srico UN’ARULA CON ZOOMACHIA DA MESSINA, di G. TicANO . .

I CULTI DI IMERA TRA STORIA E ARCHEOLOGIA, di M. ToreLLI AKRAGAS - L'UBICAZIONE DELLA PORTA DELL'EMPORIO, di G. TriPoDI CONSIDERAZIONI SUI VASI INDIGENI CON APPLICAZIONI PLASTICHE DELLA SICILIA e OCCIDENTALE (VII-V SEC. A.C.), di C. Trower .. DALL'URBANISTICA ALLE TERRACOTTE: MOTIVI GRECI NELLE MANIFESTAZIONI mm rd CULTURALI PUNICHE, di V. Tusa .... FROM PALMA DI MONTECHIARO TO THE ISLE OF MAN: THE USE OF THE TRISKELI IN ANTIQUITY AND AFTER, di R.J.A. WILSON . MINIMA AGRIGENTINA, di F. Ζενι .

605

PRESENTAZIONE

Chi ha avuto la fortuna di avere da lunghi anni un maestro, un collega e un amico come Ernesto De Miro non può nascondere l'emozione c insieme l'imbarazzo di esporre adeguatamente non solo quanto egli ha realizzato nella sua intensa e ricca attività scientifica e professionale, ma soprattutto quanto egli ha saputo dare e continua a dare con l'esempio, con la dottrina, con la carica di umana simpatia e squisita generosità nei confronti di allievi, colleghi e di tutti coloro che hanno avuto modo di stargli accanto, sia nella sua attività di funzionario preposto alla tutela e valorizzazione della Sicilia centro-meridionale, sia di docente e studioso nell'attività accademica presso l'Università di Messina. L'occasione di onorarlo con una raccolta di studi di archeologia mediterranea offerti da allievi, colleghi e da numerosi amici studiosi, vuole essere, da un lato, espressione di immensa stima, di profondo affetto e di apprezzamento per quanto egli ha profuso in lunghi anni di lavoro per l'archeologia (nella ricerca e nella tutela) e per l'Università; dall'altro, va intesa come momento di compiacimento e di augurio per il fertile lavoro che, come archeologo, studioso e docente egli continua intensamente a svolgere. Ne sono esempio l'attuale attività di ricerca archeologica sul campo in collaborazione con la Soprintendenza Beni Culturali di Agrigento; le sue opere monografiche sugli scavi di Agrigento antica recentemente pubblicate e in corso di pubblicazione; il suo costante impegno nell'attività di ricerca archeologica a Leptis Magna in Libia; l'apertura ad allievi e studiosi della sua ricca biblioteca personale da circa un biennio allestita in apposita sede ad Agrigento, fucina per un alacre e continua attività di studi e di ricerche: iniziativa, quest'ultima, che non compare nel curriculum ufficiale, ma che forse più di ogni altro compito istituzionale rivela la personalità, il concreto impegno intellettuale e la figura umana di Ernesto De Miro. Questa miscellanea di studi in suo onore si è potuta realizzare con l'aiuto, l'impegno e la pazienza di molti. In ragione di ciò, un ringraziamento va innanzitutto all'Assessorato Beni Culturali e Ambientali della Regione Siciliana che, con grande disponibilità, ha voluto realizzare questa iniziativa includendola tra le proprie edizioni. Grande impegno e pazienza ha richiesto poi tutta l'attività redazionale, curata con particolare zelo e disponibilità dalle dottoresse Valentina Calì e Santina Sturiale, insieme all'architetto Gaetano Tripodi. A loro va la nostra più viva riconoscenza. Esprimiamo gratitudine, infine, a tutti gli studiosi, colleghi e amici che con entusiasmo hanno voluto aderire a questa iniziativa — e con particolare commozione ricordiamo quelli che, purtroppo, non sono più tra noi — i

quali, con enorme pazienza, si sono adattati ai lunghi tempi editoriali di questa opera, purtroppo

prolungatisi più del previsto.

ANNA CALDERO: MARIA CALTABIANO GRAZIELLA FIORENTINI

Ernesto De Miro: archeologo e soprintendente

Ci sembra doveroso riconoscimento per i lunghi anni di lavoro impegnati nella salvaguardia e nella valorizzazione del patrimonio archeologico siciliano - anche con momenti difficili e di gravi rischi personali — dedicare parte della premessa a questa raccolta di Studi in onore di Ernesto De

Miro, a un resoconto sia pure sommario, dell'intensa e incisiva attività da lui svolta come Soprintendente archeologo della Sicilia centro-meridionale. In tal senso assume particolare significato e rilevanza il fatto che la presente pubblicazione sia stata promossa e realizzata dalle edizioni dell'Assessorato Beni Culturali e Ambientali della Regione Siciliana cui rinnoviamo il nostro ringraziamento. Per l'attuale protezione della Valle dei Templi di Agrigento, che vede vincolata l'intera area della città antica, delle necropoli e del territorio extra urbano, dall’Acropoli all'emporio sulla costa (Decreti interministeriali 16/05/1968 e 07/10/1971), determinante è stato l'impegno di Soprintendente di Ernesto De Miro con l'attuazione di forme di difesa attiva per la realizzazione del Parco Archeologico, la cui prima e indispensabile fase, relativa all'acquisizione dei terreni al pubblico demanio, venne assicurata proprio in quel periodo grazie agli ottenuti cospicui stanziamenti assessoriali (circa 30

miliardi di lire) di cui tuttora si avvale la Soprintendenza per la creazione del Parco. Ma già durante la direzione De Miro era stata definitivamente assicurata un'ampia superficie di circa 450 ettari, corrispondente alla massima parte dell'area della città antica, della necropoli romana, dell'Asklepieion e di vaste zone del territorio archeologico rese cost anche indenni dall'invadente. edificazione abusiva. Parallelamente alla tutela della Valle dei templi, veniva svolta una intensa attività di ricerca archeologica diretta dallo stesso De Miro che ~ dopo gli scavi del Marconi e poi del Griffo pertinenti soprattutto le aree sacre dei templi maggiori - impost un programma organico di interventi che ha previsto: l'ampliamento e il sistematico approfondimento delle ricerche in importanti zone monumentali più o meno già note, portando in luce vasti settori dell'abitato greco-romano (il c.d. Quartiere ellenistico-romano) individuando e distinguendo fasi di complessi organici di santuari nel settore occidentale della Collina dei Templi; la ripresa e l'estensione degli scavi degli edifici pubblici civili e delle necropoli greche, mai in precedenza sistematicamente indagati; l'individuazione e l'esplorazione di una nuova area della necropoli romana a Sud della Collina dei templi; e, ancora, la ripresa si stematica dello scavo della necropoli paleocristiana in collaborazione con la Cattedra di Archeologia Cristiana dell’Università di Palermo. A seguito e in ampliamento di tale articolata attività di ricerca, sono stati avviati e realizzati nuovi impegnativi programmi di indagini (tuttora in corso) riferibili soprattutto a: 1) Scavo del complesso del Bouleuterion e di altri edifici pubblici nella zona di S. Nicola, con la individuazione di importanti “snodi” dell'articolazione urbanistica della città antica e con la scoperta di una imponente arca sacra di età romana; 2) l'individuazione e lo scavo del monumentale complesso del Santuario di Esculapio tutt'attorno al tempio già noto (e ritenuto isolato), con la messa in luce di un ampio perimetro di temenos, vasti ambienti e portici; 3) l'avvio di regolari indagini sistematiche del villaggio indigeno di Cannatello, alla foce dell'omonimo fiume a Est di Agrigento - scoperto parzialmente agli inz del secolo dal Mosso e in seguito totalmente obliterato e a rischio di completa distruzione per l'invadente edificazione moderna - del quale si è portato in luce un ampio settore, con capanne e cinta muraria, che ha restituito anche le prime testimonianze contestualizzate di ceramica micenea sulla costa agrigentina. Anche nel territorio della provincia di Agrigento l'attività del De Miro si è posta come obiettivo preliminare e inderogabile la tutela archeologico-ambientale, impegnandosi in una articolata azione di protezione vincolistica e di interventi espropriativi (si citano, in particolare, i siti di Eraclea Minoa, Sambuca di Sicilia, Rocca Nadore e Monte Cronio di Sciacca, Montevago, Palma di Montechiaro, Licata, Ravanusa, San Giovanni Gemini, Naro S. Angelo Muxaro, Favara, etc.). In detto territorio l'indagine archeologica ha seguito e accompagnato l'attività di tutela, con un programma organico, che ha interessato aree culturali omogenee e secondo precise tematiche di cerca che hanno tenuto presente, fondamentalmente, i seguenti indirizzi: ~ individuazione ed esplorazione dei centri indigeni e greci del territorio di influenza akraganti na, a verifica dei processi di ellenizzazione tra il Salso e il Platani, di penetrazione greca e di persi stenza indigena lungo le valli dei due fiumi. In questo senso le ricerche, nell'ambito del territorio di ellenizzazione rodio-cretese, hanno sempre previsti programmi correlati con i centri della provincia di Caltanissetta coinvolti dai medesimi processi culturali. In tale quadro rientrano gli scavi condotti 10

sulla costa e nell'immediato entroterra tra Gela e Agrigento (Manfria, M. Desusino, Montagna di Li-

cata, Casalicchio Agnone, Palma di Montechiaro) e quelli dei centri interni della Valle dell'Himera (da Licata a Ravanusa e Vassallaggi, Sabucina e Capodarso) e della Valle del Platani (Eraclea Minoa, Ribera, Sant'Angelo Muxaro). — programmi di ricerca e di studi particolarmente dedicati dal De Miro ai centri delle culture indigene nell'ambito della "Sikania", i cui scavi hanno rivelato eccezionali risultati scientifici in un‘ rea culturale che interessa zone pertinenti il territorio delle due provincie di Agrigento e Caltanissetta (scavi di Ribera, S. Angelo Muxaro, Milena, Marianopoli, Polizzello); — oggetto, nello stesso periodo, di particolare attenzione il territorio tra il Platani e il Belice con regolare attività di scavi cd esplorazioni (Eraclea, Sciacca, M. Nadore, Sambuca- Monte Adranone, Montevago, Menfi); = l'indagine preistorica, alquanto marginale in passato, ha avuto in quegli anni nuovo impulso, rivelando interessi e orizzonti di studio destinati a successivo fortunato sviluppo (Palma di Montechiaro, Licata, Ribera, Aragona, etc.); = nuovo interesse è stato dedicato anche alla ricerca dei centri e delle fasi di età romana e paleocristiana, oltre che ad Agrigento, a Naro, Palma di Montechiaro, Favara, Canicattì, Castrofilippo, etc. Per quanto riguarda l'attività di studi e ricerche personalmente dirette dal De Miro nel territorio della provincia di Agrigento, un posto particolare occupano il centro di Eraclea Minoa (di cui è stata espropriata l'area dell'intera città antica, resa fruibile con opere di agibilità e con l'allestimento di un Antiquarium in loco) e il centro greco-indigeno di Monte Saraceno di Ravanusa le cui ricerche, come in altro centro della Valle dell'Himera (Capodarso), sono state condotte dal De Miro in qualità di Soprintendente e di Direttore dell'Istituto di Archeologia dell'Università di Messina, con una collaborazione delle due Istituzioni tradotte in una formale Convenzione tra Assessorato Regionale Beni Culturali e Università. Contemporaneamente allo svolgimento delle ricerche, si è proceduto alla acquisizione di gran parte dell'area della città antica di M. Saraceno (Acropoli e terrazzo superiore) e i risultati di oltre vent'anni di scavo sono di imminente esposizione nell'inaugurando Museo di Ravanusa. In provincia di Caltanissetta, dopo gli scavi di Griffo Adamesteanu e Orlandini che rivelarono l'interesse e le potenzialità del territorio geloo e del suo entroterra, avviando a largo raggio, con notevole successo, ricerche mirate a Gela e nel suo territorio, la Soprintendenza diretta da E. De Miro attuò un impegnativo programma di interventi che, da un lato, assicurò continuità e regolarità alle ricerche iniziate e ne intraprese altre in siti archeologici prevalentemente noti solo attraverso ricognizioni o saggi preliminari, di recente e antica data; dall'altro, pose in essere in tutto il territorio della provincia adeguati provvedimenti di tutela (vincoli ed espropri) dei principali siti archeologici, a partire da Gela (ove si acquisì al demanio dei Beni Culturali l'intera collina dell'Acropoli di Molino a Vento, l'area dell’Emporio presso la foce del fiume, la zona di Capo Soprano di cui si ampliò il vincolo, prima limitato al solo tratto delle mura) alla collina di Bitalemi ad est del fiume medesimo, al complesso catacombale di grotticelle presso Manfria, a Ovest di Gela, per risalire nelle valli del Sal so, del Gela e del Maroglio: Monte Desusino, Sabucina (ove venne definitivamente bloccata l'attività di cava mediante vincoli ed espropri), Vassallaggi, Gibil Gabib, Castellazzo e Balate di Marianopoli, Monte Bubbonia, Monte Desueri, Polizzello, Sofiana-Alzacuda, Tenutella di Butera, etc. Anche nell’ambito del territorio suddetto la ricerca si articolò secondo specifici indirizzi ed obiettivi: — ricerche mirate alla conoscenza della ellenizzazione dei centri indigeni lungo le valli dei sum-

menzionati fiumi e del territorio compreso tra il Gela e il Dirillo: particolare nuovo impulso ebbero gli scavi in territorio di Marianopoli, mentre nella zona orientale furono riprese le ricerche a Grotticelle, Biviere (Passo di Piazza); — scavi nei siti indigeni interni della Sikania, con particolare riferimento ai già ricordati centri di Polizzello, Milena e al centro indigeno ellenizzato di M. Raffe: in questi ultimi due siti, gli scavi vennero condotti con la collaborazione dell'Istituto Archeologico dell'Università di Catania. A Polizzello n

le ricerche del De Miro portarono a risultati eccezionali per la conoscenza della cultura indigena con la scoperta e messa in luce dell'intera cittadella dell'Acropoli, occupata da un complesso di edifici di straordinario interesse;

- ricerche finalizzate all'approfondimento e valorizzazione delle testimonianze di età romana imperiale, tardo-romana e paleocristiana della Sicilia centro-meridionale. Con tale obiettivo vennero potenziati gli scavi nel territorio di Gela (Manfria-Grotticelle, Biviere-Casa Mastro) e a Philosophiana (Sofiana-Mazzarino): centro, quest'ultimo, connesso topograficamente e storicamente con il complesso della Villa del Casale di Piazza Armerina, le cui ricerche vennero organicamente riprese e potenziate con progetti abbinati o correlati.

L'attività della Soprintendenza con la direzione di Ernesto De Miro anche in provincia di Enna ha tenuto sempre presente l'articolazione territoriale, secondo la quale sono state programmate e re-

alizzate le attività di tutela e di ricerca, e cioè: area gravitante sull'alto corso del Gela, con i centri di

Montagna di Marzo - Piazza Armerina, Monte Navone, direttamente collegati con il territorio di So-

fiana; il territorio di Aidone con il centro isolato e dominante di Morgantina; il comprensorio di Enna-Pergusa-Calascibetta-Rossomanno; il settore orientale della provincia con i centri di Troina, Agira, Cerami e Centuripe, gravitanti verso il territorio del Simeto. Nell'ambito di questi comprensori venne potenziata l'attività di tutela: ai vincoli archeologici preesistenti in misura e per superfici limitate si aggiunsero nuovi provvedimenti di vincoli e espropri più rispondenti alle effettive nuove esigenze (si citano, per esempio, i siti di Piazza Armerina, Aidone-Morgantina, Cozzo Matrice presso Pergusa, Rossomanno, Centuripe).

Gli scavi archeologici, come su accennato, furono condotti in rispondenza delle suddette aree culturalmente omogenee, coinvolgendo anche tradizionali collaborazioni quali l'Università di Catania per il territorio di Centuripe; le Università americane di Princeton, Illinois e Virginia per Mor-

gantina dove, a concessione conclusa, subentrarono gli scavi della Soprintendenza di Agrigento in collaborazione con l'Istituto di Archeologia dell'Università di Messina. Venne ripreso anche lo scavo nel complesso della Villa Romana di Piazza Armerina, mettendo in luce importanti nuovi settori relativi ad ambienti di servizio (scuderia, magazzini e ambienti gravitanti verso l'accesso dal fiume Gela). Curati direttamente dalla Soprintendenza furono anche gli scavi nel territorio di Enna-Pergusa (Cozzo Matrice), Montagna di Marzo e Rossomanno (Valguarnera). In tutto il territorio di giurisdizione delle tre provincie, l'attività della Soprintendenza diretta da Ernesto De Miro fu particolarmente feconda di opere di valorizzazione, fruizione e di realizzazioni museali. Dopo il Museo di Agrigento, al cui ordinamento scientifico Ernesto De Miro si era particolarmente dedicato, vennero realizzate nuove strutture didattiche di supporto sulla Collina dei Templi, come l'Antiquarium di Villa Aurea per mostre temporanee e attività divulgative multimediali, e altri antiquaria illustranti aspetti particolari dell'archeologia agrigentina, in relazione a percorsi tematici della zona archeologica (Antiquarium di iconografia storica, Antiquarium di Agrigento paleocristiana).

Interventi di valorizzazione si sono accompagnati alle ricerche anche nell'ambito della provincia: oltre ad Eraclea Minoa (cui si è già accennato), strutture didattiche essenziali sul posto vennero realizzate a Sciacca (M. Cronio) e a Monte Adranone (Sambuca di Sicilia). Negli stessi anni vennero acquisiti immobili da destinare ad antiquaria anche a Favara, Palma di Montechiaro, con la sistemazione della Grotta Zubbia, S. Angelo Muxaro, Naro; a Licata, la sistemazione del complesso dello Stagnone, e con la progettazione e il finanziamento del nuovo Museo Archeologico nel plesso monumentale della Badia, in seguito completato e inaugurato. Anche nelle altre due provincie gli interventi di conservazione e valorizzazione realizzati o avviati da Ernesto De Miro sono stati di determinante importanza per la conoscenza e la divulgazione del patrimonio archeologico del territorio: dalla sistemazione del “Parco dell'Acropoli di Gela" a quello delle fortificazioni di Capo Soprano (con modifiche migliorative delle opere di protezione), all'ampliamento e alla risistemazione del Museo di Gela, arricchito dei reperti delle numerose campagne di scavo sistematico dell'Acropoli e di altre zone e siti del territorio; venne realizzato il ben docu12

mentato Museo di Marianopoli, acquisiti gli immobili per gli Antiquaria di Sabucina e Gibil Gabib, poste le basi per quello di Milena.

Si avviò e si portò a compimento la costruzione del grande Museo Archeologico di Caltanissetta in località S. Spirito: opera di cui rimaneva da finanziare solo l'allestimento museografico e che pur-

troppo è rimasta ad oggi inutilizzata. In provincia di Enna, a Piazza Armerina, data l'importanza e la complessità della Villa Romana del Casale, particolare attenzione fu posta, con ingenti impegni finanziari e tecnici, alle opere di salvaguardia, rinnovando le strutture di protezione con materiali ignifughi e di minore impatto ambientale. Sempre a Piazza Armerina venne avviata la realizzazione del Museo Archeologico, con il restauro e la ristrutturazione funzionale della sede monumentale di Palazzo Trigonia di proprietà della Regione Siciliana ed era in corso di progettazione l'arredo espositivo. Purtroppo, anche questa importante realizzazione museale non ha poi avuto seguito. Migliore fortuna ha avuto un'altra realtà museale, già allora completata nella ristrutturazione e nell'arredamento essenziale: il Museo di Centuripe, recentemente inaugurato. Tra le opere museali che si devono all'iniziativa e al determinante impegno del De Miro, vanno ricordati il Museo di Morgantina nel plesso monumentale dei Cappuccini nel Centro Storico di Aidone e il Museo Archeologico in Palazzo Varisano di Enna. Si tiene a fare presente che della grande esperienza, concreta capacità realizzativa e del qualificante livello scientifico espressi dal De Miro nell'attività di alta divulgazione del patrimonio archeologico, la Soprintendenza ha potuto continuare ad avvalersi, grazie alla sua generosa disponibilità, per importanti eventi espositivi, temporanei e permanenti, realizzati dopo le sue dimissioni dall'Amministrazione dei Beni Culturali: si citano la Mostra internazionale “Veder Greco” che, nel 1988, fece confluire ad Agrigento vasi attici delle necropoli agrigentine dai più importanti musei stranieri (Europa e Stati Uniti) in connessione con il Convegno Internazionale “Akragas I" organizzato dalla Provincia Regionale di Agrigento; le mostre tematiche sulle “Necropoli Agrigentine" e su ^I punici ad Agrigento”, nel 1990; la mostra “I Micenei ad Agrigento” nel 1993; la mostra La Sicilia dei due Dioni. si nel 1999, in connessione con il Convegno internazionale “Akragas II". Per tutte le suddette inizia ve il Prof. Ernesto De Miro ha liberalmente offerto la sua alta consulenza alla progettazione e coordinamento scientifico delle manifestazioni.

Non sfuggirà a chi legge, che sia informato sulla recente normativa regionale riguardante il sistema dei Parchi Archeologici e dei Musei di Sicilia, come - ben lungi dall'ipotizzare frantumazioni del territorio in una proliferazione di enti con autonomia giuridico-amministrativa — l'attività di Soprintendente di Emesto De Miro, dispiegata su un territorio corrispondente a tre delle attuali Soprintendenze, nellarticolata programmazione di ricerca, acquisizione e valorizzazione del patrimonio archeologico-ambientale, aveva con lungimiranza individuato le aree, i siti e i comprensori territoriali culturalmente omogenei, attivato le forme di qualificate divulgazioni, creato i poli museali di riferimento di vaste aree territoriali e le strutture didattiche locali (Antiquaria); gli itinerari tematici e interdisciplinari (itinerario della viabilità greco-romana e itinerario paleocristiano di Agrigento): attività ed opere di cui tuttora può avvalersi l'Amministrazione dei Beni Culturali quale base di partenza per i previsti programmi di valorizzazione del patrimonio archeologico nella Sicilia centromeridionale, a partire dal Parco Archeologico della Valle dei Templi di Agrigento.

GF.

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Ernesto De Miro: docente e studioso

A questa miscellanea di studi che colleghi, amici ed allievi hanno voluto offrire ad Ernesto De Miro per rendere omaggio alla sua intensa attività di maestro e studioso, si è voluto dare il titolo: Archeologia del Mediterraneo. Il titolo intende rispecchiare ed essere segno tangibile di quanto la sua figura di studioso abbia spaziato. Partendo da analisi e ricerche incentrate, in gran parte, su temi e problemi di Magna Grecia e di Sicilia, De Miro ? sempre andato oltre i limiti geografici indicati dalle aree di suo interesse ed impegno, approdando ad una lettura che tiene presente, e soprattutto valuta, l'Occidente all'interno del più ampio circuito storico, economico e culturale costituito dal Mediterraneo. In questa direzione si è sempre mosso il suo magistero nei confronti di noi tutti suoi allievi dell'Ateneo messinese. Con il suo rigore metodologico, ci ha insegnato che ogni dato archeologico può essere letto ed interpretato correttamente solo se considerato quale particella della più ampia e onnicomprensiva cultura dell'antichità. Ernesto De Miro è giunto all'Università degli Studi di Messina quasi in punta di piedi, nel 1968, quando la nostra Università, estrema ed attenuata appendice di quel movimento che avrebbe segnato in maniera indelebile la cultura giovanile della seconda metà del 2000, viveva anch'essa una stagione di grande trasformazione. Incaricato prima, e dal 1986 ordinario dell'insegnamento di Archeologia e Storia dell'Arte Greca c Romana, Ernesto De Miro ha sempre osservato quasi a distanza quelle trasformazioni che si stavano producendo in quegli anni sotto i nostri occhi. Ma il suo non era disimpegno, bensì l'atteggiamento discreto di chi fa tesoro di tutto quanto vede e sente per esprimere, dopo aver maturato e meditato, il suo pensiero ed il suo giudizio forte ed incisivo. Ancora giovane docente universitario, così allora egli si poneva dinanzi alla “nuova università”, senza rinunciare mai al proprio forte rigore nei rapporti con la classe studentesca. Un’impronta, questa, che si è sempre più rafforzata negli anni, e che ha caratterizzato sino ad oggi il suo magistero anche nei rapporti con i suoi allievi. Ed è proprio il rigore - un affettuoso ma fermo rigore - quello che ha sempre segnato la sua presenza in Facoltà, con gli studiosi, con gli allievi, con i colleghi. Contemporaneamente al suo ingresso nell'accademia, nel 1968, Ernesto De Miro assumeva la carica di Soprintendente ai Beni Archeologici di Agrigento, Caltanisetta ed Enna. I due incarichi suo-

navano come riconoscimento del suo valore scientifico e si configuravano come tappe di un circolo virtuoso. Di esso, beneficiavano entrambe le realtà: ad Agrigento, la Soprintendenza ed il territorio; a Messina, la Facoltà e noi tutti suoi allievi. Per noi, in particolare, grande era il privilegio di poter accedere a risorse scientifiche e di ricerca così ampie e ben governate quali erano quelle che lo stesso De Miro, in quanto Soprintendente, poteva metterci a disposizione. Tanto più in anni in cui il territorio della Soprintendenza di Agrigento era ancora quello vasto (Agrigento, Caltanissetta ed Enna) precedente la riforma della legge 81 del 1986. Grazie a quel collegamento, invidiabile ed invidiatoci da molti colleghi, con la Soprintendenza di Agrigento, è stato possibile formare una vera e propria Scuola Messinese. Sotto la sua costante guida, di studioso e di operatore culturale, si sono formati numerosi allievi che hanno potuto beneficiare di quella esperienza di ricerca sul campo, assolutamente indispensabile alla formazione di un vero archeologo. Forse solo oggi ci rendiamo pienamente conto di quanto grande sia stato quel nostro privilegio. A questo punto, ci si potrebbe forse aspettare che, da allieva, debba richiamare le tappe salienti del suo percorso scientifico. Ma riassumere in poche righe l'attività di studioso di Ernesto De Miro risulterebbe certamente restrittivo ed incompleto. Meglio, allora, far parlare la sua ampia bibliografia, cartina di tornasole dei molteplici interessi e competenze dello studioso che spaziano dalla preistoria alla tarda età romana. Una particolare sottolineatura merita il grande impegno con il quale Ernesto De Miro si è battuto per l'ampliamento dell'offerta didattica della Facoltà di Lettere dell'Università di Messina nel campo specialistico dell'archeologia. Mi riferisco al prestigioso Dottorato in Archeologia e Storia dell'Arte Greca e Romana, istituito sin dal 1991, che ha dato, e continua a dare, a tanti giovani meritevoli l'opportunità di poter maturare ed affinare le proprie capacità di studiosi. A lui, infine, si deve il merito di aver avviato l'Università di Messina ad una regolare esperienza di 14

ricerca anche all'estero, danto vita alla Missione Archeologica a Leptis Magna in Libia, che sotto la

sua direzione opera ormai da più di un decennio. Grazie ad essa, si è andata formando una équipe di giovani studiosi e collaboratori oggi altamente specializzati su temi e problemi dell’Africa romana e preromana. Per tutti noi allievi il suo ruolo attivo di Maestro continua ad essere fonte di idee e di progetti, e sempre punto di riferimento continuo ed indispensabile. AC.

In un tempo qual'è quello odierno in cui l'Università italiana è chiamata a rinnovarsi profondamente e i suoi docenti a far fronte ad impegni sempre più diversi e onerosi, è con consapevolezza più profonda che mi chiedo come Ernesto De Miro sia riuscito ad assolvere e a conciliare durante i lunghi decenni della sua attività presso l'Ateneo messinese i compiti e le gravose responsabilità concernenti il suo doppio ruolo di Soprintendente Archeologo e di Docente universitario. In una Sicilia in cui ancora oggi la distanza Messina-Agrigento rappresenta un viaggio lungo e disagevole di almeno cinque ore, E. De Miro si è assoggettato settimanalmente a ricoprire quella distanza. Lo sostenevano oltre alla volitività del suo carattere, la passione dello studioso e la tenacia dell'uomo che con grande determinazione ha tutelato, difeso, valorizzato una parte cospicua del patrimonio culturale della Sicilia, impegnandosi costantemente a interpretarlo e a farlo conoscere. Lo sostenevano, io credo, anche il piacere e la volontà di trasferire ai giovani allievi oltre alla dottrina archeologica, quei principi e valori in cui egli stesso era cresciuto e in cui ha continuato a credere. Rigoroso e poco incline a perder tempo nelle cose inutili, ma al tempo stesso signorile nel tratto e sempre generoso del suo, E. De Miro è stato abituato a pretendere preparazione e conoscenza dagli studenti, serietà e lungo impegno dai suoi laureandi, capacità e professionalità dai suoi collaboratori. Pretese che sono tanto più necessarie e indispensabili alla crescita culturale e umana dei giovani in una città meridionale dove la didattica e la ricerca scientifica sono rese più difficili dall'assenza di servizi e di adeguate strutture di contorno. A E. De Miro l'Università di Messina deve la nascita di una Scuola archeologica formatasi sul campo, con esperienze maturate nella partecipazione alle missioni di scavo, nello studio, nella schedatura e nell'edizione dei materiali messi a disposizione dalla Soprintendenza agrigentina, grazie al doppio ruolo ricoperto dal suo Professore. Una Scuola archeologica che ancora oggi con la Soprintendenza di Agrigento vanta un legame privilegiato grazie all'amicizia e alla generosa disponibilità di Graziella Fiorentini e di Giuseppe Castellana, e alla vigile attenzione e continua operosità scienti-

fica di E. De Miro.

Dell'importanza di una stretta collaborazione fra l'Università e la Soprintendenza E. De Miro è

stato sempre convinto assertore, sperimentandola personalmente ma proponendola anche all'attenzione di quanti operano all'interno di queste due grandi Istituzioni: circa venti anni fa, proprio a Messina, insieme a G. Resta, allora Preside della Facoltà di Lettere, egli fu promotore di un Convegno che metteva a fuoco l'esigenza di una collaborazione da cui le due Istituzioni potessero trarre reciproco vantaggio. In questa direzione, ancora oggi in Sicilia, tanta strada rimane da percorrere. Emblematica espressione della stretta collaborazione fra l'Università. di Messina e la Soprintened esemplare nei risultati raggiunti, sono due iniziative di indagine sul campo: denza di Agrigento,

gli scavi decennali a Ravanusa e l'annuale missione archeologica in Libia. In entrambe le iniziative gli archeologi messinesi sono stati affiancati dal personale tecnico della Soprintendenza, anche quando con Mostre sono stati resi pubblici risultati delle indagini scientifiche. A partire dal 1985/86 E. De Miro ha avviato la pubblicazione dei Quaderni di Archeologia dell'Università di Messina, utile a documentare - come scriveva nella presentazione del suo primo numero G. Resta, il “fervore di interessi, la densità dell'impegno, la varietà dei campi di ricerca, la qualità del lavoro, le sue finalità storico-culturali e non asfitticamente tecniche”. Laureatosi in Storia antica (allievo di Santo Mazzarino), questa formazione storica ha costituito

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perE. De Miro quasi la trama della sua figura di studioso aperto ad una visione globale e quanto più possibile documentata dei problemi, e sensibile all'utilizzo storico dell'archeologia. Si deve certo a questa sua propensione e al lungo amichevole rapporto con gli storici antichi la realizzazione di numerosi incontri organizzati in collaborazione, dai Convegni agrigentini dedicati alla storia di Akragas (I 1988, II 1999) all'incontro messinese del 1996 su Origine e incontro di culture nell'antichità. Magna Grecia e Sicilia. Stato degli studi e prospettive di ricerca all'interno del Progetto strategico CNR su “Il sistema Mediterraneo”. Da questa intesa credo che derivi quella che considero una delle maggiori peculiarità degli studi archeologici a Messina: la loro forte connotazione storica e il costante interesse a cogliere ragioni e modalità di macrofenomeni non documentati dalle fonti letterarie, quale quello dei processi di acculturazione greca del mondo indigeno e il rapporto osmotico fra queste due culture, origine di sempre nuovi e fecondi sviluppi. Allo spirito di collaborazione e alla lungimirante consapevolezza della forza che deriva alle pubbliche Istituzioni dalla integrazione degli interessi e delle competenze dei suoi operatori si deve anche una delle più importanti iniziative correlate al magistero universitario di E. De Miro, l'istituzione nel 1991 del Dottorato di ricerca in Archeologia e Storia dell'Arte Greca e Romana, nato dal consorzio delle tre Università Siciliane, e proiettato oggi ad approfondire e valorizzare il ruolo di intermediario e propulsore culturale svolto dalla Sicilia nel Mediterraneo antico. È nella mia attuale veste di Direttore del Dipartimento di Scienze dell'Antichità e con quella maggiore consapevolezza che solo l'età matura consente di raggiungere a proposito delle difficoltà e delle asperità che contraddistinguono il percorso di ciascun uomo che desidera contribuire a migliorare il mondo in cui vive, che oggi desidero dire grazie a E. De Miro, M.CC.

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Enrico Acquaro PER UN PORTOLANO FENICIO *

1l contributo di Ernesto De Miro agli studi di antichità puniche si caratterizza autorevolmente nell'ambito di un filone ben definito della sua attività di ricerca in Nord-Africa? e in Sicilia’. È in particolare un intervento tenuto in occasione del Convegno di Marsala del 1987? che lucidamente delinea le modalità del suo approccio al mondo punico, che si coniugava allora in modo consequenziale con le urgenze conservative del comprensorio moziese. Sono in particolare le saline a guidarne la caratterizzazione: "Mozia e la costa lilibetana con l'istmo artificiale, le saline testudinate e i mulinia vento rientrano nel senso immediato di quel paesaggio che è il denominatore comune degli insediamenti fenici (si pensi a S. Antioco-Sulcis in Sardegna). Questo paesaggio unitario, per quanto tentato e aggredito, si è miracolosamente in buona parte salvato” All'amico e maestro dedichiamo le considerazioni che seguono, in continuità ideale con il suo intervento del 1987. L'itinerario che qui si propone per grandi linee non vuole certo essere comprensivo di tutte le realtà ambientali del Mediterraneo fenicio”, bensi intende proporre solo alcune emergenze di recente rivisitazione suscettibili di meglio definire quel paesaggio fenicio cui si accennava. Vista la sterminata bibliografia di riferimento* è sembrato opportuno limitare l'apparato critico ad opere di sintesi recenti o particolarmente significative. 1. Grecia

Far della Grecia, in particolare dell'Egeo”, un punto di primo riferimento per le motivazioni economiche e commerciali della proiezione fenicia nel Mediterraneo, consente di mettere a fuoco sin dall'inizio del nostro itinerario le strategie dei Fenici e la loro vocazione di sperimentatori di tecnologie, propositori di consumi e suscitatori di mercati. Dal crollo dell'impero miceneo l'interazione fenicia con il mondo greco è ampia e senza riserve: empori misti si aprono nel Levante come nell'Egeo ellenico. Elementi orientali, fra cui in primo luogo fenici, trovano presto posto nella stessa sistemazione mitologica delle saghe di fondazione dei più antichi insediamenti; merci e trasferimenti di tecnologie saranno comuni in più casi alle due etnie, con una prevalenza per quest'ultimo aspetto della prestigiosa tradizione cananea e vicino orientale. La proiezione in Occidente vede operare sui mercati dei metalli del primo Far West comunità miste che nei nuovi territori troveranno motivo di accentuare diversità etniche e rivalità economiche. Nel V secolo a.C. Cartagine ed Atene stringono rapporti funzionali sia al comune impegno antisiracusano sia alla provvigione e al collocamento di derrate agricole per cui l'interesse di Atene è vivissimo. Da qui le massicce importazioni di vasellame attico nei centri punici e, viceversa, la presenza di ceramica da trasporto punica ad Atene. In questo sfondo di circuiti commerciali comuni, che dovrà registrare una graduale flessione ateniese dalla fine del IV secolo a.C., si colloca quindi la diffusa presenza di ceramica attica che drena nella sua dispersione in Occidente un insieme di prodotti egei di manifattura rodia, eredi di quella tecnologia orientale che tanto originalmente ha operato nel campo della pasta vetrosa policroma. Anche le monete di Cartagine giocano un ruolo significativo nel segnalare il rapporto della metropoli africana con la Grecia. Presenti in numero non piccolo nelle collezioni del Museo numismatico di Atene, è vero che la loro provenienza risale nella quasi totalità al mercato antiquario londinese, ma è anche vero che è possibile segnalare di alcune la provenienza da siti della Tessaglia, dell piro e del Peloponneso". 21

1.1. Sporadi meridionali

La presenza vicino-orientale e fenicia nelle Sporadi meridionali interessa le isole di Samo, Coo e Rodi, tutte e tre funzionali agli itinerari commerciali fenici. Samo, la più vicina all'Asia Minore, elabora tra I'VIII e il VII secolo a.C. una cultura composita

debitrice in larga misura del Vicino Oriente e del mondo egeo-anatolico. È l'Heraion che registra le

più chiare presenze orientali. Sono soprattutto gli avori, introdotti a Samo sin dalla fine dell VIII secolo a.C., che mostrano l'opera di diverse botteghe orientali: fenicie, nord-siriane ed assire. Tre pettini, datati alla fine del VII secolo a.C. e attribuiti ad una bottega tartessica fenicizzata del Basso Guadalquivir spagnolo, sembrano confermare nella sostanza una notizia di Erodoto ', che vuole il samio Coleo viaggiatore a Tartesso e portatore da quel centro nell'isola di un'incredibile fortuna. Il pozzo G dell'Heraion restituisce bronzi ciprioti, siriani, fenici e aramei, dedicati fra il 670 e il 640/630 a.C. La componente aramea si rileva, anche in rapporto all'analoga presenza ad Ischia, come uno dei fattori vicino-orientali più vitali accanto a quello fenicio nella prima fase di diffusione nell'Egeo e nel Mediterraneo occidentale. Un frontale, rinvenuto ancora a Samo, porta a conferma di questo ruolo il nome di Hazael, re di Damasco. Coo, situata com'era sulla grande rotta commerciale che dalla Grecia e dal Mar Nero, costeggiando l'Asia Minore, portava a Rodi e quindi a Cipro, in Siria ed in Egitto, è una delle isole più conosciute dell'Egeo per i suoi trascorsi storici e per la sua archeologia. Sino al 366 a.C., anno della fondazione della città di Coo, il ruolo di centro primario dell'isola fu svolto dall'abitato di Cos-Meropide, posto all'estremità nord-orientale dell'isola. La bassa collina del “Serraglio”, abitata senza interruzione dal 2300 a.C. sino ad oggi, accolse una necropoli frequentata dal X alla fine dell'VIII secolo a.C. La presenza cipriota è qui ben evidenziata dalla ceramica insieme ad un tipo particolare di portaunguenti, solitamente fatti risalire ai Fenici e che poi accolsero un repertorio decorativo d'ispirazione attica. Diretto è il riferimento ai Fenici intorno alla fine del IV secolo a.C. grazie ad una bilingue grecofenicia dedicata ad Astarte-Afrodite da un figlio di un re di Sidone. L'iscrizione commemora la costruzione di una struttura portuaria che doveva contribuire a rendere ancora più sicuro l'approdo nel porto della città di Coo, porto di forma regolare e chiuso da un isolotto che lasciava due aperture facilmente difendibili. Gli scavi hanno contribuito a definirne le strutture con l'individuazione nella stessa località di Marmarotò di un tratto del molo occidentale e di resti, sul fondo, degli antichi arsenali per la manutenzione delle navi da guerra. L'isola di Rodi dista nella sua estremità nord-orientale meno di venti chilometri dalla costa anatolica. L'isola ha svolto un ruolo di tutto rilievo nella civiltà greca ed egea !? anche nelle sue proiezioni occidentali. Tre sono i centri situati su punti vitali del più antico traffico marittimo: Ialiso e Camiro sulla costa occidentale, Lindo sull'occidentale. Fin dall'VIII secolo a.C. le tre fondazioni hanno prodotto e diffuso ricchezza ed attivato prestigiosi canali commerciali, con ruoli che schematicamente sembrano individuare nei singoli centri caratteristiche dominanti diverse: politiche in Ialiso, produttiveartigianali a Camiro, religiose a Lindo. Ampia e di antica data è la proiezione di Rodi in Occidente: per circa tre secoli a partire dal 1400 a.C., in pieno periodo miceneo, l'isola è considerata protagonista degli scambi fra l'Egeo e il settentrione della Penisola italiana attraverso lo scalo di Taranto. A coloni di Rodi e di Creta si deve la fondazione di Gela nel 689-688 a.C. Elementi fenici sono presenti sin dagli inizi nella formazione della stessa cultura rodia, come nel mito della presenza ad Ialiso di Fenici al fianco di Cadmo e il ricordo di alcune astuzie grazie alle quali i Greci riuscirono a cacciare i Fenici residenti sempre a Ialiso. Per quanto riguarda l'archeologia, il coinvolgimento dei Fenici nell'isola è confermato da-una serie di rinvenimenti a Camiro, Lindo e Ialiso. Per quest'ultima località si è ipotizzata la presenza di ceramisti fenici che avrebbero operato su modelli importati dalla Siria e dalla stessa Fenicia, dando luogo intorno alla fine dell VIII secolo a.C. ad un'importazione mediterranea di unguentari. Agli inizi del secolo successivo e per tutto il V secolo a.C. Rodi è ritenuta centro primario dei vasetti minia22

turisti in pasta vitrea policromi ad amplissima diffusione. Ritenuti abitualmente fenici“, i vasetti sono ora più correttamente attribuibili ad un produzione greco-orientale", in cui Rodi ha un posto di rilievo soprattutto a partire dalla fine delVI secolo a.C. La necropoli ad incinerazione di laliso ha restituito un frammento ceramico con quattro segni graffiti in scrittura fenicia, datato intorno al 625 a.C. Il graffito sembra da porsi in connessione con il commercio fenicio del vin Le estese necropoli di Ialiso e Camiro registrano una frequentazione che va dal X secolo a.C. sino in età classica, mentre quella di Lindo, presso il villaggio di Lardos, è utilizzata fra I'VIII e il VII secolo a.C. A quest'ultima data risale una coppa fenicia in argento da Camiro, coppa che insieme alla gran copia di oggetti importati da Cipro, dall'Egitto, dalla Ionia e dalla penisola greca testimonia l'alto grado di benessere raggiunto dall'isola, in particolare fra I VIII e il VI secolo a.C. In questa rete commerciale l'intermediazione fenicia sembra aver svolto un ruolo importante soprattutto nei riguardi degli elementi di corredo di cultura egittizzante. Intermediazione, e, in qualche caso, diretto coinvolgimento d'importazione fanno emergere l'elemento fenicio e nord-siriano nel rinvenimento di una serie di ex-voto depositati nel celebre santuario dedicato ad Atena a Lindo, da avori nordsiriani e fenici ad una statuetta in bronzo, probabile prodotto siriano dell VIII secolo a.C. Nel complesso, per le Sporadi meridionali, come anche per Creta * e per l'Attica, è possibile ipotizzare la presenza di comunità stabili di artigiani fenici attivi dal IX all VIII secolo a.C. Furono con ogni probabilità proprio queste comunità, di ceramisti e bronzisti, in cui era dominante la componente cipriota, a determinare la creazione di una “industria” rodia orientalizzante. Il sistema economico all'origine di questo fenomeno, condotto dai Fenici e dal Levante, è dei più evoluti: creare la domanda del mercato con l'importazione e poi soddisfarla sul posto con l'impianto di attività che hanno più diffuso riscontro e facilità di collocamento in mercati più remunerativi d'Occidente. 1.2. Eubea

L'Eubea"” fronteggia le coste orientali della penisola balcanica. La positura in diagonale, con a nord le coste orientali della Beozia e a sud quelle dell’Attica, è tale da controllare il passaggio marittimo fra Atene e l'Egeo settentrionale. L'Eubea è il terminale occidentale delle rotte che toccano le numerose isole che si pongono fra la Grecia centrale e Cipro, la foce dell'Oronte, la Siria settentrionale e la Fenicia. Non altrettanto favi revole è la proiezione verso Occidente, a causa dei rischi che comporta il superamento del Capo Malea: tuttavia è proprio in Occidente che si registrano prestigiose presenze euboiche, a Pithekoussai '* nel golfo di Napoli, nella penisola salentina e nella Sicilia orientale. Presenze che su questo lungo percorso aggregano anche immigrazioni fenicie con mediazioni rodie. La spinta verso un così ampio orizzonte dei commerci dovette venire all'Eubea da una comunità marittima che già nel X secolo a.C. operava dalla Tessaglia alle Cicladi settentrionali. A questa somma di esperienze nautiche le risorse naturali dell'Eubea danno ulteriore supporto economico, dal grano al legname, dall'industria ceramica che poteva contare sugli ottimi giacimenti di argilla della pianura Lelantina, alla lavorazione dei metalli quale emerge dalle scorie di bronzo e dalle matrici per fusione di Lefkandi. Fu Corinto ad ereditare i successi euboici sia in Oriente sia in Occidente e a tramandare tale azioni alla memoria storica, facendo in parte dimenticare il primo, esaltante, ruolo euboico, cui si deve la ripresa ad ampio raggio della centralità della Grecia verso gli altri paesi mediterranei fra il IX e VIII secolo a.C., sfruttando le profonde connessioni con il mondo fenici È soprattutto il sito di Lefkandi con le sue tre necropoli a restituire l'ampia trama commerciale

tessuta dagli Euboici, rete che entrò fin dall'inizio e con reciproco interesse nel più antico ed esteso sistema fenicio di commerci ad ampio raggio mediterraneo. È ΑἹ Mina a dare appieno la misura di quanto fosse allora operante il commercio euboico e rodio nel Levante. I magazzini del centro commerciale sull'Oronte, in cui l'elemento greco si affianca ad una popolazione in prevalenza fenicia, offrono un'apertura notevole alle esportazioni greche verso gli imperi orientali. E non a caso tali esportazioni, tra la fine del IX e gli inizi dell VIII a.C., sono prevalentemente eubco-calcidesi, a ripro23

va della sostanziale sovrapposizione delle reti commerciali levantine ed euboiche, che determineranno analoghe dinamiche nella trasmissione in Occidente. Tramite gli empori di Al Mina e di Tell Sukas i prodotti euboici con e senza intermediazione fenicia investono parecchi siti della Palestina, della Fenicia, di Cipro, di Cilicia e dell'aramea Ungi. È possibile che proprio in Oriente gli Eubei abbiano appreso delle possibilità offerte dal ricco mercato occidentale ed abbiano deciso nell'VIII secolo a.C. di recarvisi sulla scia dei portolani vicino-orientali, aramei e fenici. L'alto grado di lavorazione dei metalli raggiunto in Eubca faceva apprezzare appieno le potenzialità minerarie dell'Occidente mediterraneo. La ricognizione euboica e la comunità vicino-orientale operante a Rodi dovevano volgersi a regioni come l'Etruria tirrenica e la Sicilia orientale. Da qui la fondazione di Pithekoussai, ad Ischia, in cui l'alto numero di materiale vicino-orientale ha fatto ipotizzare il riflesso dell'attività di comunità semitiche attive a Rodi sin dalJa metà del IX secolo a.C. Fra il 770 a.C. e il 700 a.C. gli Eubei giunti nel golfo di Napoli, con i successivi incontri del VII se-

colo a.C. con le popolazioni indigene della Campania, del Lazio e dell'Etruria, furono i più tenaci

diffusori di quella comune cultura orientalizzante che fu all'origine della loro proiezione in Occiden-

te. I Fenici, a loro volta partecipi di tale diffusione, non mancano di far giungere alla loro prime colonie occidentali, come Sulcis e Cartagine, prodotti euboici, mediati o no dalla fondazione ischitana. In questa mutua trasmissione di culture le rotte fenicie ed euboiche si fanno, quindi, portatrici di clementi sostanzialmente comuni, che consegnano all'Occidente una prima sintesi di valori comu greco-levantini, maturati nella vivace dinamica commmerciale egea post-micenea. 2. Sici

Un itinerario dei centri fenici e punici della Sicilia si confronta e si integra costantemente con la variegata e attiva presenza greca ed indigena. Qui, come in Sardegna, l'intervento di Cartagine, che vi consolida le proprie posizioni intorno al 510 a.C. costituisce la discriminante politica che segna il passaggio dall'azione delle fondazioni fenicie alla pianificazione di un impegno politico e militare a modifica della mappa occidentale dell'isola. Ha origine così come risultato politico degli scontri in Sicilia tra Fenici e Greci la costituzione di una vera e propria provincia punica, che comprende l'area occidentale dell'isola sino al fiume Alico e che tale rimarrà sino alla fine della prima guerra punica e al passaggio sotto Roma. Dopo la fase di frequenza commerciale che vede i Fenici diffondere i propri traffici in tutta l'isola, dopo il loro attestarsi a seguito della massiccia colonizzazione greca di Sicilia nei centri di Panormo, Solunto e Mozia, la politica d'intervento di Cartagine si esplica nell'isola con sollecitazioni e reazioni che attraversano in più casi il fronte interno delle stesse colonie greche. 2.1. Marsala

La storia di Lilibeo punica " si svolge in sincronia ed ideale continuità con quella della vicina Mozia e partecipa dello stesso paesaggio caratterizzato da una distesa di lidi sabbiosi e di lagune. L'insediamento occupava l'area dell'odierna Marsala e fin dalla fondazione trae motivo della propria rilevanza strategica dalla posizione sul promontorio di Capo Boco o Lilibeo, già sede di una frequenza preistorica che interessa l'intera valle del Mazaro, dall'Eneolitico finale sino all'età del Bronzo. La distruzione di Mozia del 397 a.C. fu all'origine della pianificazione della città. Le poderose fortificazioni poste a difesa del nuovo centro diedero all'indomani della loro realizzazione la piena misura della propria solidità e capacità di resistenza agli assedi. Lilibeo fu l'unica piazzaforte cartaginese della provincia siciliana a resistere a Pirro. Le operazioni della prima guerra punica, l'assedio e il blocco romani non riuscirono ad aver ragione della città, che fu abbandonata dalla guarnigione cartaginese solo nel 241 a.C. Con Roma il sistema difensivo di Capo Boeo diviene presidio e base della presenza romana contro Cartagine, che tentò in più occasioni di rioccuparlo. Testimonianze archeologiche documentano la consistenza dell'impianto lilibetano in consonan24

za con i resoconti delle vicende belliche riportati dalle fonti storiche : del sistema difensivo restono tratti isolati, sufficienti tuttavia per permetterne la ricostruzione e la datazione come primo impianto al IV secolo a.C ; dell'impianto portuale sono riconoscibili almeno due approdi e la necropoli ha restituito dati lungo il versante orientale della città. L'area fortificata di Lilibeo descrive un quadrilatero limitato per due lati dal mare; una solida muraglia, preceduta ad una trentina di metri da un fossato largo in media 28 metri, difendeva il centro dalla parte della terraferma. Il fossato aveva anche la funzione di raccordare i tre porti alla città: il primo a Punta dell'Alga, con probabile canale e specifica struttura difensiva; il secondo a nord-ovest del Capo Boeo, utilizzato dagli Spagnoli nel 1575; il terzo nel Porto delle Tartane, in prossimità del punto utilizzato sino al'ottocento. L'impianto urbano risale anch'esso al IV-III secolo a.C. I resti di questa prima fase, all'origine del sistematico rinnovamento edi

del II secolo a.C., consistono in ambienti a pianta rettangolare

con fondamenta sulla roccia e di modeste dimensioni. Una vasta area ad oriente del centro urbano, compresa fra il margine esterno del fossato, l'attuale cimitero e la contrada Salinella, era occupata dalla necropoli: anch'essa databile a non prima della metà del IV secolo a.C., attesta il rito sia dell'inumazione sia dell'incinerazione Frequenze puniche a Favignana, nelle isole Egadi, completano per l'area il rilevamento di portolani punici. Tombe rupestri con iscrizione neopunica, ceramica e monete testimoniano l'inserimento dell'isola nelle rotte commerciali puniche: il confronto per il controllo di queste vie fu l'atto che pose fine alla prima guerra punica con la vittoria di Roma. 2.2. Mozia

La fenicia Mozia®, distrutta dai Siracusani nel 397 a.C. e riconquistata subito dopo dai Cartaginesi, sorgeva sull'isola di S. Pantaleo al centro dello Stagnone di Marsala. La piccola isola accoglie sin dalla fine dell'VIII secolo a.C. la colonia fenicia, una colonia che facilmente assimilò le frequenze indigene preesistenti. impianto urbano risultò dei più funzionali, tale da imporsi all'ammirazione degli stessi Greci. un argine di collegamento con la terraferma, una cinta muraria turrita e con porte monumentali, ‘un’area portuale e un bacino di carenaggio, quartieri civili, “industriali”, santuari, necropoli. La distruzione del 397 a.C. coglieva i Moziesi impegnati in un ennesimo ampliamento con la ristrutturazione della cinta muraria e la conquista di alcuni metri del litorale. Una strada assicura fin dal primo impianto il collegamento con il litorale prospiciente: con origine alla porta nord attraversava lo stagnone congiungendo l'isola alla località di Birgi. Punto vulnerabile delle fortificazioni moziesi, fu a più riprese smantellata e poi ricostruita da assedianti ed assediati. Consistenti le rovine che ne segnano ancora oggi il tracciato sotto il livello delle acque. La città occupava interamente i quaranta ettari dell'isola ed era cinta da mura che corrono lungo il litorale lambendo ora in alcuni punti le acque dello stagnone. La linea fortificata data il suo primo impianto agli inizi del VI secolo a.C.: i numerosi rifacimenti giungono sino alla veglia della distruione siracusana modificando in alcuni tratti l'andamento con rafforzamenti degli spessori e restauri nell'ordito litico. Quattro porte dovevano aprirsi nelle mura: solo due sono ancora visibili, a nord e a sud, collegate da una strada che percorreva il centro nel senso della lunghezza. Le cortine occidentali della porta meridionale difendono il cothon. Un canale, con stretto gomito, metteva in comunicazione il corhon con le acque dello stagnone. Solo in questi ultimi decenni inizia a delinearsi l'intenso reticolo urbano. Gli interventi di scavo hanno interessato sia la parte centrale dell'isola sia alcune zone periferiche nord-orientali e meridionali. Abitazioni al centro e a meridione, quartiere industriale a nord-est per la lavorazione ceramica e della porpora testimoniano un'organizzazione edilizia in continuo progresso. Ad oriente della porta sud e a pochi metri dalla cinta muraria, un largo tratto frammentario di mosaico, a ciottoli bianchi e neri con motivi a meandri che inquadrano scene di lotta tra animali, attesta una fase edilizia che con ogni probabilità fu contemporanea o di poco successiva alla distruzio25

ne siracusana. La tecnica impiegata nonché le figurazioni riprodotte riportano ad esperienze compositive fenicie, attestate ampiamente in Spagna.

Alle spalle della porta nord si trova il complesso del Cappiddazzu, con prima frequenza alla seconda metà del VII secolo a.C. Diverse le fasi edilizie individuate, tutte rientranti peraltro in funzionalità sacre.

Ad occidente è il tofet. L'area sacra, approssimativamente triangolare,

impianto all'inizio del VIL

secolo a.C. su un modesto rilievo calcareo presso il litorale. Fra il tofet e la porta nord si estende la necropoli, in uso dalla fine dell'VIII agli inizi del VI, epoca quest'ultima in cui la cinta muraria tagliò l'area sepolcrale. Due reperti indicano in modo emblematico le aree di cultura che interagiscono nella colonia fenicia: una statua acefala in roccia vulcanica ripescata nello stagnone e una statua in marmo di auriga rinvenuta nel centro urbano, a poca distanza dal complesso del Cappiddazzu. Diverse le aree culturali di provenienza. Mentre, infatti, per l'una, datata alla metà del VI secolo a.C., l'ispirazione egittizzante è guida di un'origine dalla madrepatria fenicia, per l'altra, della seconda metà del V secolo 2.C., è con ogni probabilità la scultura siceliota a concorrere al decoro della città. Frammento vicino-orientale in Sicilia, Mozia vi trasferisce quasi inalterata una cultura urbana evoluta che può proporsi come schema di lettura per altri centri fenici d'Occidente. La sua cultura materiale sembra volgere la propria originale creatività artigianale al solo mercato interno. Sono così in particolare le stele votive e, in parte, le terrecotte e la ceramica vascolare a sfruttare le sue capacità, mentre per altre categorie i commerci si volgono, com'è naturale, al mercato greco di Sicilia. 3. SARDEGNA

L'insediamento in Sardegna delle fondazioni fenicie avviene in arce geografiche che la cultura protosarda aveva profondamente antropizzato e già portato ad un elevato grado di integrazione economica. Nascono così, fra la metà del IX e la seconda metà del VII secolo a.C., Cagliari, Nora, Bitia, Mon-

te Sirai, Pani Loriga, Cuccureddus di Villasimius, Tharros, che si propongono come punti focali per il riassetto del territorio e per le sue nuove potenzialità.

Con la fondazione delle colonie fenicie le esperienze orientali, che da sempre avevano raggiunto in pluralità di origini e di mediazioni la Sardegna, sono progressivamente filtrate dalle più stabili agenzie cittadine. Con la Cartagine del VI secolo a.C. e la sua egemonia politico-militare le colonie fenicie di Sardegna sono inserite in un nuovo circuito commerciale che le lega strettamente al Nord Africa. Il controllo territoriale diviene con Cartagine una capillare esigenza di reddito economico, che deve per trame il massimo profitto superare la dinamica del confronto fra città ed hinterland. Da qui le guarnigioni a presidio delle stesse colonie fenicie, la penetrazione all'interno lungo le direttrici fluviali, l'interesse per il versante nord-occidentale, ben esemplificato dai recenti ritrovamenti di Olbia e di Monteleone Roccadoria, in provincia di Sassari. Laboratorio privilegiato della prima esperienza coloniale fenicia, banco di prova dell'efficienza del sistema tributario cartaginesi, l'isola conserverà a lungo l'impronta dell'uno e dell'altro fenomeno. Tali le radici storiche di una civiltà che operò a lungo in Sardegna lasciandone profonde tracce sino ad interessare gli stessi studiosi di tradizioni popolari.

3.1. Sulci

Sulci | Sulcis è il calco romano del nome della città punica slky che sorgeva sull'isola di Sant’Antioco, di fronte a San Giovanni Suergiu®. L'impianto del centro fenicio-punico, poi romano, coincide in larga parte con l'abitato dell'odierna cittadina di Sant'Antioco. L'isoletta si collegava con un istmo in parte artificiale alla terraferma: la viabilità dell'istmo, ottemuta utilizzando l'allineamento di alcuni isolotti alluvionali del rio Palmas, e l'apertura nell'ultimo 26

tratto occidentale di un canale sono opera d'ingegneria riferita abitualmente ai coloni fenici. Ai Romani si deve la costruzione di un ponte a due arcate che supera l'ultimo braccio di mare che divide le due isole, La fondazione fenicia documenta la sua attività di emporio già alla fine della prima metà delI VIII secolo a.C., con piena affermazione tra il 730 e il 700 a.C. Per questa prima fase sono guida gli scavi nell’area del Cronicario cittadino, che restituiscono alla colonia fenicia l'immagine di un emporio di rilevante importanza, legato come appare all'area fenicia della Costa del Sol iberica, all'euboica Pirhkoussai, nell'isola di Ischia, e ai prestigiosi siti della costa siriana, come ΑἹ Mina e Tell Sukas. L'egemonia cartaginese ridisegna in parte l'orizzonte dei commerci, ma non ne attenua la consistenza. Da ultimo, l'intenso processo di romanizzazione iniziato nel ΠῚ secolo a.C. si sovrappone e assume le stesse esperienze civiche puniche note dalla documentazione epigrafica: i sufeti, l'assemblea del popolo e il senato. I resti dell'insediamento fenicio e punico s'individuano in tutta la zona costiera di Sant'Antioco, dal cimitero moderno fino alla località di Is Prunis. La città si sviluppa alle spalle dei porti, con una linea di fortificazioni che si appoggiava alle colline retrostanti, il Monte de Cresia e l'altura occupata da un fortino sabaudo; altre fortificazioni dovevano trovarsi sul fronte del mare. Due le arce cimiteriali, l'una a nord-est dell'altura del fortino, l'altra alle pendici occidentali del Monte de Cresia. Il tofet stato individuato a nord, in località Sa Guardia ‘e is pingiadas. Duplici gli approdi: quello meridionale, volto verso il golfo di Palmas, e quello settentrionale, costituito dallo stagno di Sant'Antioco.

La vastità dell'impianto urbano, i servizi portuali con il notevole impegno in opere d'ingegneria,

le strutture che permangono in evidenza, l'antichità di origine e di frequenze commerciali greche e il lungo permanere in autonomia politica e culturale degli esiti della civiltà punica fanno di Sulci un centro dei più significativi della colonizzazione fenicia in Sardegna.

32. Tharros

Quanto rimane di Tharros? si dispone sul Capo San Marco, che si protende per circa tre chilometri nel mare chiudendo ad occidente il golfo di Oristano. Due zone rilevate sono collegate da una sottile striscia di terra: da nord verso sud, s'individuano la collina di su muru mannu, separata da una breve depressione dalla collina della torre spagnola di S. Giovanni, e l'estrema punta del Capo, costituita da una piattaforma rilevata con a nord-est l'altra torre, la “torre vecchia”. La zona orientale della penisola è interessata dall'accumulo di materiale alluvionale portato dal "Tirso nel suo sbocco al golfo; il litorale occidentale è fortemente eroso da venti e dal mare. La penisola, da cui il centro fenicio e poi romano trae motivo della sua floridezza, produsse nell'antichità un sistema economico integrato fra le culture cerealicole, la pesca degli stagni, le saline, un'intesa attività pirometallurgica e la proiezione mediterranea dei suoi approdi.

La posizione del sito, posto com'è sulle due grandi vie naturali di penetrazione verso l'interno, il Campidano verso sud-est e la valle del Tirso verso nord-est, guidò la strategia insediativa della prima frequenza fenicia dell'VIII secolo a.C. A quest'area, e a controllo delle rotte iberiche e tirreniche di cui Tharros fu buon punto di riferimento, si volse dal VI secolo a.C. l'azione di Cartagine. B con Cartagine che Tharros assume un aspetto urbanistico funzionale ad un centro con responsabilità amministrative e strategiche primarie nel Sinis. Due sembrano essere stati i primi riferimenti dei frequentatori fenici, entrambi in raccordo con i già attivi insediamenti paleosardi: ad occidente della torre di S. Giovanni e sulla collina di su muru mannu. Necropoli di incinerati, seguite poi da cimiteri di inumati in tombe ipogeiche, dovevano servire questi nuclei, rispettivamente a sud-est della torre di S. Giovanni e a nord-ovest della collina di su muru mannu. Con il VI secolo a. C. il centro supera di slancio e unifica l'embrionale topografia di fondaco dei due poli per assumere con le sue realizzazioni in arenaria l'aspetto urbano che lo caratterizzerà nei secoli a venire. A settentrione una cortina di blocchi in arenaria a basso bugnato riprende e comple27

ta in un organico disegno da est ad ovest la linea fortificata già abbozzata nell'antemurale occidentale. Con un'avvertita tecnica al negativo sono definite le prime canalizzazioni per le acque di deflusso; s'imposta e si risolve il problema della rete di rifornimento idrico con l'apertura di nuovi pozzi e la messa in opera delle tipiche cisterne “a bagnarola”. Alla fine dello stesso secolo risale il tempio “monumentale”. Il basamento ricavato nel bancone roccioso nei pressi del litorale orientale testimonia il grado di raggiunta dignità di cui la città vuole dotarsi anche per il sacro. Su questa griglia di arenaria si dispiegò in seguito la città romana che

coprì con basolato e strutture “ciclopiche” ancora in basalto l'intera area urbana sino alle fortificazioni settentrionali.

I monumenti emergenti di Tharros punica si rifanno per indagine di scavo, per tecnica costrutti-

va e per metrologia (l'impiego del cubito punico nel suo valore standard di m. 0,46) ad un'epoca chiave per la storia urbanistica del centro: il VI.V secolo a.C. In questa prospettiva rientra anche quanto di monumentale è stato espresso dal tofet : le stele, i troni vuoti, gli altari. I monumenti o complessi monumentali in grado di meglio caratterizzare tale sforzo unitario dell'urbanistica di Tharros punica sono, da sud verso nord, il tempio monumentale, il tofe e le fortificazioni settentrionali di su muru mannu, con il sottostante porto. Forse il maggior scalo commerciale sulla rotta spagnola-africana; interlocutrice privilegiata di un'ampia dialettica culturale e commerciale con il Tirreno; sede dell'attività di prestigiosi maestri lapicidi che seppero dare all'arenaria modellati originali sia per l'architettura negativa sia per i monumenti votivi del tofet, improntati ad una tradizione vicino-orientale diretta e vitale, ma anche consentanea alla più antica tradizione palcosarda; sede di maestri incisori che seppero determinare la produzione di scarabei in diaspro verde, sintesi di diverse esperienze culturali maturate nell'ambito del mondo fenicio d'Occidente, la città del Sinis si rivela un centro attivo di diffusione nei confronti di gran parte dell'ecumene punico. 4. PENISOLA IBERICA La Penisola Iberica conserva più di ogni altra regione memoria delle prime motivazioni economi-

che che spinsero i Fenici verso l'estremo Occidente: il reperimento e il commercio dei metalli ^. Per raggiungere tale obiettivo i Fenici adottarono uno schema d'occupazione che la storia e l'archeologia mostrano sorprendentemente uniforme, da Villaricos a Cadice e oltre? Da qui i grandi centri peninsulari dell VIII secolo a.C. che collegano la loro fondazione all'attività del tempio tirio di Melgart; da qui le fattorie agricole che danno ai coloni l'autonomia necessaria per approfittare al meglio dei commerci con l'entroterra minerario e che si pongono come punti di raccolta e di prima lavorazione dello stesso minerale. 1l rapporto e l'intercambio con l'elemento indigeno sono assicurati e potenziati nella possibilità di proiezione in profondità dalla scelta di siti posti alla foce di corsi d'acqua, oggi per gran parte lontani dallo sbocco al mare a seguito della secolare adduzione alluvionale. Se le fattorie della Costa del Sol esauriscono in pochi secoli la loro vocazione per ripiegarsi per lo più sull'esclusiva attività agricola, i grandi insediamenti come Cadice, Malaga, Almufécar, con le istallazioni per la salazione del pesce sono testimoni del rinnovato interesse che Cartagine mostra alla fine della prima guerra punica con l'impegno dei Barcidi. Di questo rinnovato interesse è nuovamente protagonista lo sfruttamento minerario, cui si aggiunge un programma, attentamente perseguito, di più diretto coinvolgimento delle comunità locali, dalla politica delle alleanze e dei matrimoni al mercenariato e alla rinnovata veste urbana che alcune città assumono. 4.1. Ibiza

L'arcipelago delle Baleari comprende oltre le isole maggiori di Maiorca e Minorca, anche due isole minori, Ibiza e Formentera. Quest'ultime possono contare sul toponimo greco, Pitiuse. Abitate sin 28

dalla preistoria, costituivano scali chiave per le rotte mediterranee che intendevano raggiungere la costa iberica e, da lì, l'Atlantico. Sull'isola di Ibiza la frequenza fenicia è attestata sin dal VIL-VI secolo a.C. L'impianto di quella che sarà la romana Ebusus si trova nel versante meridionale dell'isola, sotto l'attuale città di Ibiza, su una penisola rocciosa che domina con i suoi 82 m. una grande baia, al cui centro sono tre piccole isole (oggi congiunte), che ne controllavano l'accesso. La ricerca archeologica di questi ultimi anni ha evidenziato la presenza in molte località dell'isoa di una serie di abitati contemporanei o di poco posteriori e, lungo la costa, di una rete di stazioni di vigilanza in stretta relazione con la città di Ibiza, come Illa Grossa, Punta J. Tur Esquerrer, Puig den Jondal, Cap des Llibrell e Puig de Sa Talaia de Jestis. Il ricorso alla prospezione geologica ha costituito un contributo fondamentale per la ricostruzione del paleoambiente ibicenco. Il mare, addentrandosi nella vasta baia che andava dalla spiaggia di Talamanca all'area del Prat de Ses Monges, arrivava in epoca fenicia a lambire il tratto oggi percorso dalle mura rinascimentali ed un'unica isola costituita dalle attuali Illa Plana, Illa Gross e Es Botafoc si trovava quasi al centro dell'insenatura. 1l primo nucleo della città, e successivamente l’acropoli, doveva sorgere alla sommità del Puig de Vila, con la possibilità di collegarsi con un leggero pendio verso nord alla baia e al porto riparato dai venti dominanti. I secoli dal V al III a.C. vedono Ibiza pienamente integrata e funzionale alla politica di Cartagine nel Mediterraneo occidentale, volta com'è a gestire le relazioni con le comunità iberiche del sud-est peninsulare e gli empori focesi di Ampurias e di Marsiglia. Alla fine di questo periodo risalgono le notazioni di alcuni autori classici sul decoro urbano e le munite difese del centro, come al III secolo a.C. possono datare alcuni resti murari rinvenuti all'interno del Castello. Fra il IV e il IT secolo a.C. Ibiza svolge un ruolo di primo piano anche rispetto all'isola di Maiorca con l'occupazione di punti strategici costieri e con una profonda azione di acculturazione sugli indigeni. Le oltre tremila tombe del Puig des Molins costituiscono il più diretto riscontro della lunga vita di Ibiza. La collina di roccia calcarea si pone circa 500 metri ad occidente dell'acropoli fortificata della città antica e moderna: una profonda sella separa la cittadella dalla necropoli, che utilizza un'area di circa 50.000 metri quadrati. Se si fa eccezione per la fase più antica della necropoli, che si data fra il VII e il VI secolo a.C. e che ha restituito la pratica della incinerazione, la totalità dei sepolcri ibicenchi documenta l'uso dell'inumazione Ampio e diversificato è l'orizzonte che emerge dall'esame dei contesti tombali, utile per ricostruire, pur con qualche riserva derivante dall'accentuata specificità funeraria di alcuni oggetti di corredo, la fisionomia economica e commerciale del centro. Con i suoi 4.000 abitanti, tale è la stima fatta sulla consistenza demografica della città punica al momento della sua massima espansione, Ibiza documenta contatti privilegiati con Cartagine.

L'attività di un zecca cittadina, che batte moneta in argento e in bronzo con la figura del dio Bes

a partire dal 300 a.C., è la riprova della vitalità dell'economia. L'ampia diffusione di monete ibicenche nella penisola iberica, nel Nord Africa, in Sardegna c nella penisola italiana, in particolare a Pompei, insieme al recupero in mare di navi adibite al trasporto di anfore olearee e vinarie di tipo ibicenco sia nelle stesse acque baleariche sia in quelle della Francia meridionale: sono questi gli elementi di giudizio che contribuiscono a conferire alla città un ruolo di attiva proposizione economica, ruolo che dovette godere, alla pari di Cadice, di una accentuata autonomia nel passaggio da Cartagine a Roma. Significativa appare al riguardo la registrazione del rinvenimento nell'isola di monete di Marsiglia, di Cadice, di Malaga, di Tingis, di Cirene, della Numidia, di Imera, della Sardegna. A fronte della mancanza di qualsiasi dato certo sulla presenza e natura di luoghi o edifici sacri sullacropoli ibicenca, è possibile trarre dati utili da due monumenti per ricostruire l'ambiente del sacro nell'Ibiza punica: il santuario della Illa Plana; c il santuario in grotta, la Cueva de es Cuiram. Unita alla terraferma da poco più di un secolo, [Πα Plana è oggi interamente coperta da un'intensa urbanizzazione. Ad una prima frequentazione dell'area dalla seconda metà del VII alla metà 29

del VI secolo a.C., seguono una seconda e terza fase, quest'ultima con termine intorno alla fine del V secolo a.C. Il culto si evolve e si accentra intorno ad un deposito votivo scavato nel terreno.

La grotta di Es Cuiram si pone a nord-est dell'isola, tra San Vicente e Cala Mayans, nel comune di

San Juan Bautista. Di difficile accesso, si pone a 200 metri

s.l.m. e a 1 km dalla Cala di Sa Vincente.

Gli scavi hanno restituito, fra l'altro, una grande quantità di terrecotte e due iscrizioni votive puniche in bronzo. La frequenza della grotta come luogo di culto, un tipologia non nuova nel mondo punico con il parallelo siciliano della Grotta Regina, si data fra il IV e il II secolo a.C. e si vuole dedicata al culto fertilistico della cartaginese Tanit. Da ultimo, un sito da pochi anni è divenuto centrale per la ricostruzione della prima storia dell'isola, Mola de sa Caleta. Otto chilometri a sud-est della città di Ibiza, occupa un penisola con un'elevazione di circa 15 metri s.Lm., fra l'insenatura e il colle di es Jondal e l'estremità occidentale della spiaggia del Codolar. L'antico stanziamento, posto allo sbocco a mare di un torrente, ha subito, soprattutto nel versante occidentale della costa, una profonda erosione che ha ridotto di molto la primitiva estensione dell'abitato. II luogo, occupato intorno alla metà del VII secolo a.C. ed abbandonato nel primo quarto del VI secolo a.C., restituisce significative indicazioni su una vocazione commerciale eminentemente di intermediazione, come si deduce dall'alta percentuale d'importazione della ceramica a tornio e mano e dallo stoccaggio e smistamento di grandi quantità di galena argentifera proveniente dalla Catalufa. La fusione e la lavorazione del ferro, che si aggiunge alle maggioritarie attività di pesca, di allevamento e di coltivazione del grano, sembra volgersi alla sola fabbrica di utensili d'impiego locale. È la stessa conformazione geologica della zona a fornire i nuckei ferrosi utilizzati in alcune officine fusorie del centro. I motivi che portano gli abitanti di sa Caleta ad abbandonare il sito dopo 30-50 di vita e a confluire con ogni probabilità nella comunità che occupò il Puig de Vila s'individuano non tanto in termini di crisi commerciale ed economica, quanto nella necessità di concorrere con altri coloni al potenziamento di un altro nucleo già esistente ed evidentemente capace di produrre maggiori garanzie di servizio e sostentamento agricolo.

42. Cadice*

Come e più di altri siti fenici la lettura dell'insediamento di Cadice?” nel suo primo impianto deve tener conto della geografia storica, del contesto ambientale e, soprattutto, delle modifiche che quest'ultimo registrò nei secoli. La baia dove sorge Cadice costituisce al riguardo un'unità paleoambientale in cui opera un fenomeno di progressiva antropizzazione analogo a quello registrato in altri siti mediterranei, come, ad esempio, Cagliari L'archeologia e l'analisi in progressione della cartografia antica hanno rilevato nella baia la interazione di due fenomeni: un'erosione profonda sul versante oceanico ed un potente accumulo all'interno. Quanto rimane del primo insediamento di Cadice è un allineamento di rocce arenarie che si pongono alla foce del Guadalete, limitata ad occidente dal porto e a sud-est dal canale di Sancti Petri. Le correnti oceaniche, il flusso delle maree e l'adduzione della foce del Guadalguivir, nell'ostacolare il deflusso del Guadalete, hanno provocato un considerevole e continuo accumulo nel versante orientale della baia, oggi quasi del tutto interrato. Le alterazioni più rilevanti del paesaggio che vide l'arrivo dei Fenici riguardano, quindi, l'interramento del primitivo porto e la formazione degli isolotti di San Sebastiano e di Sancti Petri. All'epoca dell'impianto fenicio nella baia, il cui controllo assicurava l'accesso alle risorse minerarie ed agricole del vicino regno indigeno di Tartessos, l'arcipelago gaditano era formato, secondo la descrizione di Plinio e di Strabone da tre isole: una minore, chiamata Erythea, Aphrodisias e isola di Giunone ; una maggiore ed allungata chiamata Katinoussa ; la terza, Antipolis, che corrisponde oggi al sito della città di San Ferdinando, sulla terraferma. Nell'isolotto di Erythea, oggi sotto l'urbanizzazione moderna che copre il promontorio del quar30

tiere di Torre de Tavira, è collocato il sito della prima città con resti di mura che risalgono al VI colo a.C.; ad oriente, nelle vicinanze della Punta del Nao si propone la localizzazione di un probabile tempio di Astarte. Nell'isolotto di Katinoussa, particolarmente esposto all'erosione marina, a nord-ovest, doveva collocarsi il tempio di Cronos, il punico Baal Hammon, presso l'attuale impianto del Castillo de San Sebastian, a fronteggiare il tempio di Astarte posto sull'altro versante del porto-canale. Nell'estrema punta di sud-est, nell'attuale isolotto di Sancti Petri, la prima terra gaditana che i naviganti fenici provenienti da Oriente dovevano avvistare, era il tempio di Eracle Gaditano, il tempio del fenicio Melgart, conosciuto in tutto il mondo antico e che godette indiscusso prestigio sino a Traiano ed Adriano. La terza delle isole, Antipolis, così chiamata per il carattere disperso della sua occupazione rispetto al primo nucleo cittadino, conserva tracce di grandi accumuli di murex trunculus e si rapporta così all'attività di stabilimenti per la lavorazione della porpora. II porto era costituito da un canale naturale, di cui si conserva la sola apertura de La Caletta e separava il nucleo più antico della città, posto su Erytreia, dalle necropoli fenicio-puniche rinvenute nella zona delle Puertas de Tierra e Punta de la Vaca. Tale è l'ambientazione geografica della fondazione di Cadice, che Diodoro considera la colonia fenicia più importante d'Occidente, anche più della stessa Cartagine. Qui, secondo le fonti classiche, intorno al 1104 a.C. su indicazione di un oracolo i coloni di Tiro, dopo più tentativi, fondarono la città e un tempio dedicato ad Eracle-Melgart. Cadice è una delle poche colonie fenicie d'Occidente chele fonti classiche accreditano di un articolato mito di fondazione. II divario fra l'indicazione delle fonti e il dato archeologico è di circa trecento anni, visto che quest'ultimo non consente di far risalire la presenza dei Fenici nell'area oltre il 770-760 a.C. Le necropoli occupavano all'inizio la sommità di piccole dune, di emergenze naturali e dei vicini isolati: sino al VII secolo a.C. la tipologia più frequente era quella della sepoltura di incinerati con i resti deposti nella stessa fossa di cremazione. Nel VI secolo a.C. si adotta il rito della inumazione in sepolture individuali costituite da lastre in pietra ben tagliate, sepolture che dai primi del V secolo a.C. sino alla fine del IV secolo a.C. si raggruppano con pareti contigue. Allo stesso secolo risale l'uso di sarcofagi antropoidi. La storia e l'archeologia documentano l'importanza di Cadice e l'influenza del suo commercio, coni suoi rapporti privilegiati con le coste africane dell'Atlantico, lo sfruttamento dei banchi di tonno e il commercio dell'avorio e dell'oro. Probabile metropoli di Lixus, Mogador e dei centri del Marocco atlantico, Cadice batte moneta in bronzo ed in argento solo a partire dagli inizi del III secolo a.C., a testimonianza forse del flusso commerciale rivolto più al reperimento e smercio di materie prime che alla ridistribuzione di beni di consumo già elaborati. I tipi più ricorrenti sono quelli di Eracle-Melgart e dei tonni, simboli della religiosità e dell'economia del centro, cosi strettamente fra loro collegati. Naturale, quindi, che Cadice dovesse poter contare, soprattutto per i primi tempi della sua vita volti in particolare ai commerci con Tartessos, su approdi utili sulla terraferma. Il Guadalquivir, infatti, che nell'antichità sfociava pochi chilometri a sud di Siviglia, collegava il territorio gaditano con la Meseta. I suoi affluenti raggiungevano le regioni più interne dell'Andalusia: il Tinto e l'Odiel portavano ai centri minerari del Rio Tinto e il Guardiana arrivava sino all'Estremadura. In questa ottica doveva rientrare l'insediamento orientalizzante scoperto 4 chilometri a settentrione dell'abitato moderno di Puerto de Maria, in località Castillo de Dona Blanca? L'insediamento era nell'antichità un centro costiero, situato com'era presso l'antica foce del Guadalete c alle pendici della Sierra de San Cristóbal. La ricerca ha indicato per il sito un'estensione di circa 6 ettari; la sua lunga storia è testimoniata da una potenza stratigrafica dai 7 ai 9 metri con una cronologia che va dal secolo VIII alla fine del III secolo a.C., data quest'ultima della distruzione ad opera di Asdrubale o Annibale. A meridione è la zona della necropoli, con una superficie di circa 100 ettari, mentre il porto si poneva sul fianco orientale del centro, sfruttando in parte un'insenatura naturale. 31:

L'abitato già nella prima metà del VIII secolo a.C. mostra l'esistenza di una cinta muraria entro

cui si pongono edifici rettangolari o quadrati che si raggruppano intorno a vie strette. Le mura, con-

servate sino ad un'altezza di 2,5 metri, ha impianto a casamatta e si rapportano a schemi fenici. 5. MAGREB TUNISINO

Per la storia dei Fenici in generale, e dell'espansione fenicia in Occidente in particolare, il Nord Il territorio africano, cui si volge alla fine del IX secolo a.C. la frequentazione e colonizzazione fenicia e su cui Cartagine dal VI in poi eserciterà in primo luogo la propria espansione territoriale ἢ, si pone come naturale punto di appoggio per il traffico dei metalli tra Oriente ed Occidente. Le stesse recenti scoperte della Penisola Iberica indicano con sempre maggiore incidenza il ruolo di appoggio, di raccordo e di smistamento che nella complessa e dilatata attività commerciale feni cia fu riservata fin dall'inizio alle coste africane. La consistenza territoriale che Cartagine diede in seguito alla propria presenza africana e la successiva funzione di metropoli dell'Occidente fenicio derivano da questo ruolo primario che la regione dell'odierno Magreb tunisino fu chiamata in particolare a svolgere. Le stesse risorse del territorio, che iniziano ad essere pienamente remunerative dal VI secolo a.C. anche grazie all'impiego più razionale degli investimenti dei possedimenti d'oltremare non sono che cause concomitanti e comunque sistematicamente attivate solo in epoca successiva alla prima colonizzazione. Cartagine e il suo territorio costituivano uno dei principali approdi della rotta di ritorno verso oriente. Da questo impianto il ruolo di interlocutrice privilegiata dei commerci e i differenti gradi di punicizzazione che le regioni del Nord Africa conobbero. 1 territori dell'odierno Marocco e dell'Algeria occidentale continuarono per lungo tempo, fino a quando furono investiti dalla politica espansionista di Cartagine, a vivere delle loro culture preisto che? strettamente legate alla comune origine iberica con l'istallazione di fondachi fenici largamente distanziati. Il Magreb tunisino, al contrario, fu investito per primo da una capillare azione di acculturazione, in cui l'elemento indigeno, dapprima confrontato, fu poi profondamente coinvolto pur con alterni esiti. Quanto al territorio della Tripolitania, si ha l'impressione di trovarsi di fronte a fondazioni che non derivano dal primitivo movimento di espansione da oriente verso occidente, ma da una successiva fase di ritorno da occidente fra I'VIII e il VI secolo a.C. Africa costituisce un punto di riferimento privilegiato”.

5.1. Cartagine Larcheologia

in questi ultimi anni grazie a scavi in profondità nel cuore dell'abitato arcaico ha

indicato come prima data di frequentazione del sito la metà dell'VIII secolo a.C.: si ha tuttavia la netta impressione che con il progredire delle ricerche la differenza fra questa data e la datazione delle fonti (814 a.C.) andrà sempre più diminuendo. La fondazione di Cartagine avvenne, in accordo con le fonti classiche, su un territorio non raggiunto da alcuna precedente antropizzazione. L'istmo che collegava la penisola scelta dai coloni tirii si prestava con le vaste lagune ad una difesa verso l'interno agevole e facilmente rafforzabile da opere fortificate. Se le linee geografiche essenziali possono ancora rapportarsi alle scelte insediative della città, il terreno è oggi profondamente mutato, principalmente per la deviazione del corso della Medijarda, la stessa che ha privato Utica del suo porto. La città si trova in un golfo, su un promontorio lambito dal mare e da un lago; l'istmo che raccorda il promontorio all'Africa è largo circa quattro chilometri e mezzo; a nord il promontorio guarda il mare c in quella direzione, a poca distanza, si colloca Tunisi Dati preziosi sono forniti da Polibio e da altri storici classici in connessione con la caduta del 145 a.C., dati ancora più utili se si rapportano alla distruzione totale che segui alla caduta, alla colmata e

alla successiva riedificazione di epoca romana sino alla conquista vandalica. Ma prima di giungere 32

alla Cartagine delle guerre puniche, la nuova fondazione di Tiro dovette compiere un cammino lungo e graduale che solo l'archeologia è in grado di ricostruire. A sondaggi condotti fra la collina di Byrsa e il mare si deve la scoperta delle prime strutture urbane riferibili alla fine dell VIII secolo a.C. Si è così potuto anche definire l'area occupata dal nucleo più antico del centro: all'incirca triangolare, con ad ovest la collina di Byrsa, dove si ipotizza l'acropoli, poi rasa al suolo per l'impianto della colonia augustea, ad est il mare, a sud la baia di el-Kram e a nord le colline di Derméch e Douimés, per una superficie di circa 100 ettari. Le tombe si aprivano ai fianchi delle colline circostanti e alle pendici della stessa Byrsa. Se già in quest'epoca appaiono definite le componenti essenziali della città, con le aree artigianali e commerciali, il tofet e le necropoli, l'area dei porti non era ancora definita, ma doveva prevedere l'ancoraggio in una insenatura del lago di Tunisi. Fra la fine del V e gli inizi del III secolo a.C. la città si espande soprattutto a nord, sud e ad est, con nuovo limite a settentrione segnato dalle necropoli di Saida-Bordj-Diedid. Ad oriente, verso il mare, s'impianta un quartiere d'abitazione con strutture modeste: un'area libera da costruzioni, larga circa 30 metri, separa il quartiere da un circuito murario che corre a qualche metro dalla riva e doveva arrivare sino alla zona dei porti. Una strada perpendicolare alla linea di costa attraversa il quartiere per raggiungere una porta monumentale, fiancheggiata da torri. Zone industriali ed artigianali, in particolare officine metallurgiche, di vasai e di lavorazione della porpora si dislocano ai limiti dell'abitato. A nord e ad ovest il nuovo insediamento guadagna poco spazio sull'impianto delle antiche necropoli, fatta eccezione per il versante orientale della collina di Junon. Ancora più a nord delle colline delle necropoli settentrionali, grazie in particolare alle indicazioni delle fonti classiche, s'ipotizza l'esistenza già in quest'epoca di un borgo con un abitato ancora disperso e con larghe zone coltivate ad orto. A sud, la concentrazione d'impianti “industriali” è tale da ritenere che in quest'epoca l'abitato non ha ancora raggiunto il tofer, limitato ad oriente da una zona lagunosa in cui non s'individuano ancora interventi d'ingegneria portuale. La Cartagine di quest'epoca ha restituito tracce di un grande impegno di urbanizzazione: è in questi anni che si pone mano alla realizzazione di un primo tessuto regolare della città, prendendo come base un duplice orientamento, quello ortogonale del quartiere a mare e quello " a ventaglio” delle pendici pendici meridionali ed orientali della collina di Byrsa. Nell'età delle guerre puniche lo sviluppo urbano subisce una notevole accelerazione, con apice negli anni successivi alla guerra annibalica. È la Cartagine che resiste alle legioni di Scipione quella

che appare con maggior evidenza al visitatore, la Cartagine degli inizi del II secolo a.C. Sono soprattutto la collina di Byrsa e l'estrema zona meridionale ad essere investite da tale sviluppo. I quartieri ad oriente, lungo il mare, registrano alcuni cambiamenti: è chiusa la porta monumentale delle mura, che guadagnano non poco spazio sulla linea di costa; è ridotto il terreno di rispetto fra le abitazioni e il paramento interno delle mura; gli edifici hanno impianto più ampio e ricco. È tuttavia il cosiddetto “quartiere di Annibale” rinvenuto nelle pendici meridionali di Byrsa a conservare le tracce più significative e monumentali del periodo. La sistemazione dei porti, che data alla stessa epoca del quartiere di Byrsa, conferma l'impegno del nuovo piano urbanistico, malgrado i pesanti rovesci militari subiti nella guerra contro Roma. A prescindere dalla sistemazione monumentale dei porti, in realtà tutta la costa di Cartagine si presta agli ancoraggi, così come l'ampia riva sabbiosa di La Marsa (“il porto”), 3 km a nord del nucleo antico della città e a ridosso del quartiere suburbano di Megara, ancora entro il circuito delle mura. Qui la riva in dolce pendenza è tutt'oggi comodo approdo per la diportistica nautica. ‘Ad occidente del porto commerciale è il tofet, che non fu certo il solo luogo sacro della città. Le fonti accreditano l'esistenza di un tempio dedicato ad Eschmun, posto sulla collina di Byrsa e un tempio di Apollo, il punico Reshef, nei pressi dello stesso porto. Anche le necropoli, come il tofet, hanno scandito con le loro oltre duemila tombe, la storia del centro punico e per lungo tempo, sino alla campagna dell'UNESCO, sono state le principali fonti archeologiche per la ricostruzione della civiltà di Cartagine. 33

Ancora alla Cartagine del ITI-II secolo a.C. si rifanno le ipotesi più accreditate sui valori demografici. La città, con una probabile estensione dai 300 ai 400 ettari, poteva contare, secondo le diverse interpretazioni, dai 120.000 ai 400.000 abitanti. Quanto alla composizione etnica, estremamente varia, s'ipotizza una maggioranza di discendenti dalle unioni fra indigeni e punici, mentre sempre presente appare essere stata la componente tiria, rafforzata alla pari di Utica dall'esodo della popolazione di Tiro a seguito dell'assedio e della conquista di Alessandro Magno nel 331 a.C. Le minoranze allogene ospitate a Cartagine sono il riflesso dell'intesa attività commerciale svolta dalla città nel Mediterraneo: dai Greci di Grecia, d'Oriente, di Sicilia e di Cirene agli Etruschi e agli Italici, soprattutto Campani. Restano, inoltre, da considerare la cospicua componente libica e i mercenari, iberici, celti, bruzi e sardi di cui Cartagine si servì fino all'ultimo e i numerosi schiavi. Per gli abitanti che occupavano il territorio direttamente dipendente dalla città, la chora di Polibio, che comprendeva con ogni probabilità anche il Capo Bon, sembra verosimile assumere l 'indicazione di 700.000, se a questa si dà l'interpretazione unicomprensiva della popolazione di Cartagine e del suo territorio. Alla relativa densità degli abitanti della chora, distribuiti in grossi agglomerati agricoli, fa riscontro nel restante territorio africano sottomesso a Cartagine una certa rarefazione della stessa con l'aggiunta di ampie zone steppose. Il numero complessivo di abitanti residenti nell'intero territorio cartaginese è calcolabile intorno al milione. 5.2. Kerkouane

II sito? si pone fra due capi che dominano il mare, il capo Jebel Sidi Labiadh, a nord, e il capo di Kelibia, a sud; alle spalle si distende una vasta pianura percorsa da formazioni calcaree consolidate. La geografia del Capo Bon in cui si colloca la città punica ha prodotto ricchezze e prosperità economiche più volte ricordate dagli storici greci e romani. Kerkouane, tuttavia, esposta com'è ai venti e con la povertà del proprio terreno, non sembra partecipare appieno all'ambientazione ricordata dalle fonti storiche. I nome antico del sito, scoperto nel 1952, rimane sostanzalmente sconosciuto, anche se è da registrare fra le tante possibilità quella dell'identificazione con l'antica Tamezrar. Fondata nel VI secolo a.C., fu abbandonata nel corso del III secolo a.C., dopo aver probabilmente subìto nel 310 a.C. una prima distruzione ad opera di Agatocle di Siracusa ed una seconda, definitiva, dovuta alla spedizione africana di Attilio Regolo nel 256 a.C. Gli scavi, tuttora in corso, hanno restituito buona parte dell'abitato eroso nel settore di nord-est dal mare, settore oggi protetto da un muro di contenimento eretto nel 1971. La città, che copre una superficie di circa sette ettari, ἃ difesa da due linee parallele di mura con fondamenta in mattoni crudi, andamento subcircolare e separate da una strada larga in media 10 m. Ancora una larga via doveva costeggiare all'esterno il tracciato delle mura, quasi rettilineo nei pressi della scogliera. Due sono le porte oggi rilevabili sul terreno: una ad occidente ed una a meridione. Tracce di scale in muratura addossate alla cinta esterna nei settori nord e sud e vani aperti nei pressi delle porte e delle postierle, destinati a contenere con ogni propabilità rampe lignee, testimoniano la presenza di un camminamento di ronda che percorreva la sommità delle mura. Quanto alle fasi di costruzione, è probabile che la cinta esterna sia stata edificata in un secondo momento a ridosso della prima, elevata con tecnica a “spina di pesce” e di cui restano alcuni tratti in piena funzionalità. Questa seconda fase, quella che dovette far seguito alla distruzione di Agatocle e cadere sotto gli assalti di Regolo, prevede non solo il restauro delle fortificazioni abbattute, ma anche un ripensamento radicale ed ampio dell'intero sistema poliorcetico. La distruzione del 256 a.C. investe, dunque, questo doppio circuito murario intonacato e ricoperto di calce, come appare ancora oggi in più punti La città all'interno del circuito delle mura appare ben costruita, con strade larghe in media 4 m e risponde ad un piano urbanistico regolare, salvo alcune eccezioni. Numerose piazze e slarghi, diversi per ampiezza e funzioni, completavano il tessuto urbano.

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1 materiali impiegati nelle costruzioni mostrano un'originale sintesi di differenti moduli provenienti sia dal mondo greco sia da quello vicino orientale. Sono in primo luogo le abitazioni a restituire tale indicazione: nelle piante e negli elementi di base si riconoscono motivi fenici e dell'Africa libica, mentre i servizi e la decorazione sono improntati a modelli greci. La tipologia più corrente a Kerkouane è quella della casa a corte centrale, con riscontri più prossimi a Cartagine e in Sardegna. Uno dei vani più ampi ospita la sala da bagno con lo spogliatoio, la vasca a sedere, adduzione e scarico realizzati con tubazioni in piombo. La ricca e quasi affiorante falda freatica spiega sia il ricorso frequente a questa struttura sia lo scarso numero di cisterne. Per l'architettura religiosa, risalgono al 1976 l'individuazione e lo scavo di un santuario posto nel quartiere orientale della città, con pianta rettangolare e ingresso monumentale orientato a sud-est. Quattro aree sepolcrali servivano la città: due si trovavano a ridosso della cinta urbana, lungo la scogliera, a nord e a sud. La necropoli settentrionale era riservata alla sepoltura di inumati infantili in vasi deposti in fosse, la meridionale ad inumati adulti. Le altre due necropoli si aprono nelle colline calcaree che si pongono a nord e ad ovest della città. Quanto all'impianto portuale, le ricerche non hanno finora individuato alcuna struttura. I pescatori di Kerkouane, la cui attività è documentata nel centro con il rinvenimento di attrezzature marinare, dovevano con ogni probabilità utilizzare due piccole spiagge poste qualche metro a nord del sito. Il numero degli abitanti è stato stimato intorno alle 2100 unità, il livello sociale medio. Se la lingua utilizzata e il culto sono punici, considerevole risulta la componente autoctona libica, come appare dalla pratica funeraria e dall'onomastica. L'economia registra una serie di attività artiginali tra-

dizionali per il mondo punico, dalla lavorazione della porpora, come documenta un deposito di murex presso il settore settentrionale delle mura, al taglio della pietra e alla ceramica. Gli scambi commerciali indicano l'Attica, Corinto, la Sicilia e la penisola italica, con probabile tramite cartaginese.

NOTE * Gela, 31-3-1995. * Cfr. ad esempio E. DE Mixo-G. Fioxexrint, Leptis Magna. La necropoli greco-punica sotto il teatro, in QAL 9, 1977, pp. 535. * Cfr. ad esempio E. Dz Miro, Considerazioni generali, in I Cartaginesi in Sicilia al tempo dei due Dionisi (= Kokalos 28-29, 1982-1983), pp. 178-79 ela sua bibliografia sulle ricerche di Monte Adranone, ora raccolta in G. Fionewmxi Monte Adranone, Roma 1995, pp. 35-37. * E. DE Mino, Intervento, in G. Pisano (ed.), Da Mozia a Marsala. Un crocevia della civiltà mediterranea (Marsala, 4-5 aprile 1987), Roma sd, pp. 163-164. * Ibid. p. 164 la stessa Fenicia, Cipro, Malta e le aree nord-alricane della Libia, Algeria * Dall'iinerario proposto restano infatti escluse € Marocco, * È in pratica quella contenuta nella raccolta informatica edita in E. Acuano, Bibliotheca Phoenicia. Ottomila titoli sulla civiltà fenicia, Roma 1994 enel successivo aggiornamento in corso di realizzazione, che indicizza altri 1800 titoli 7 Cli. C. Bonwer, Mond égée, in V. Kkics (ed), La civilisation phénicienne & punique. Manuel de recherche, Leiden-New York-Koln 1995, pp. 646 — 662. * Cfr. M. Orcoxonmes, Les séries de monnaies puniques du Musée numismatigue d' Athénes, in Numismatique et histoire économique phénicienneet punique, Louvain-la-Neuve 1992, pp. 87-92. * Cfr. S. Dier-l. Puracutisropoutos (edd.), Archaeologyin the Dodecanese, Copenaghen 1988. ^ Hát, IV, 152. 1 Cfr. M. Sacrcrs, La partie phénicienne de l'inscription biligue greco-phénicienne de Cos, in AD 35, 1990, pp. 17-30. 7 Cfr. da ultimo, G. Graziani, Egina, Rodi e Cipro: rapporti inter-insulari agli inizi del Tardo Bronzo? in SMEA 36, 1995, pp. 727. ^» Cfr. da ultimo,R. Paxvint, Peas, Torino 1996. μι Cfr. da ultimo, M. L. Unenrt, [veri preromani del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, Roma 1993, pp. 65-81. *5 Cfr. D. Fennani, vaserti di vetro policromo delle necropoli felsinee conservati al Museo Civico Archeologico di Bologna, in StEgAntPun 7, 1990, pp. 95-139, non citato da M. L. User, op. cit, insieme a D. F. Grose, The Toledo Museum of Art. Early Ancient Glass. Core-formed, Rod formedand Cast Vessels and Objects from the Late Bronze Age to the Early Roman Empire 1600 B.C. to A.D. 50, New York 1989. τ. Cfr. ad esempio, M. Sexvcm, L'inscription phénicienne de Tekke, pràs de Cnossos, in Kadmos 18, 1979, pp. 89-93 e da 35

ultimo, C. Bower, L'iterpréte de Crétois (phen. mls [h}krsym), De Mari aux Phéniciens de Kition en passant par Ugarit, in. MEA 36, 1995, pp. 113-123. "Cfr. M. Poruac-L.H. Sacxrr, Lefkandi I The Iron Age, I, London 1979-80; D. Ricoway, L'alba della Magna Grecia, Milano 1984; P. Ducssy-A. ALTHEAR-CHAKox (edd.), Erérie 20 années de fouilles archéologiques suisses en Gréce (DossAParis, 94), Digione 198: ! Cfr.da ultimo, G. BucieeseD. Ricpway, Pithekoussai, I (= MontAnt, IV), Roma 1993; IN. COLDSTREAM, Pithekoussai, Cyprus and the Cesnola Painter, in APOIKIA. Scritti in onore di Giorgio Buchner, Napoli 1994, pp. 77-86; RF. Docrea-H.G. Niemever, Pithekussai: the Carthaginian connection on the archaeological evidence of Euboeo-Phoenician partnership in the 8th ‘and 7th centuries, ibid, pp. 101-115. © Cfr. C.A. Di SteFANO, Lilibeo punica, Marsala 1993. 7 Cfr A, CisciA. Curio: Tosa-M.L. Faath-A. Sraxò Giovoezttno-V. Tusa, Mozia, Roma 1989. ? Cfr C. Τκονομεττι, S. Antioco (= Sardegna Archeologica, Guide e linerari, 12), Sassari 1989. ® Cfr. E. Acotao -A. Mezzoaxi, Tharros, Roma 1966. ? Cfr, M. E. Avner, Tiro y las colonias fenicias de Occidente, Barcelona 1994; JL. Lorez Castro, Hispana Poena. Los Feniclos en la Hispania romana, Barcelona 1995. ® Cfr. da ultimo, S. Moscatt! Fenici in Portogallo, in RAL 1994, pp. 473-483. ? Cfr. ME, Auser Senes, El santuariode Es Cuiram, Ibiza 1982; E. Hacie.-V. Max, El santuario de Illa PinalIbiza). Una propuesta de andliss, Ibiza 1988; J. H. Fenxixpez, Excavaciones en la nécropolis del Puig des Molins (Eivissa), IL, Ibiza 1992: J. Rauox, El yacimiento fenicio de Sa Caleta, in I-V Jornadas de Arqueología fenicio-ptinica, Ibiza 1991, pp. 177-196; Io, La colonización arcaica de Ibiza. Mécanica y proceso, in G. Rosse. (ed. La Prehistória de les ilsde la mediterranea occidental, Palma de Majorque 1992. » Cfr. da ultimo, S. Mosca, La grande Cadice dei Fenici, in RAL 1996, pp. 1-22. 7 Cfr B. R. Corzo Saxcuez, Cádiz fenicia, in IV Jornadas de Arqueología fenicio-pinica (Ibiza 1986-89), Toiza 1991, pp. 7988. = Cf D. Ruz Mata, Los fenicios en la bahía de Cadiz, seg el Castillo de Dona Blanca, ibid, pp. 89-100. » Cfr M. H. Focus, Carthage. Approche d'une civilisation, 1-2, Tunis 1993. » Cfr. da ultimo, S. Moscant, Lespansione di Cartagine sul teritorio africano, in RAL 1994, pp. 203-214. % Cfr. tra gli altr, G. Cau, Réflexions sur l'origine protohistorique des cités en Afrique du Nord, in L. Sessa (ed), La città mediterranea. Atti del Congresso Internazionale di Bari, 4-7 maggio 1988, Napoli 1993, pp. 73-81 ? Cfr. da ultimo S. Lavcei, Carthage, Paris 1992. © Chr. M. B. Fantan, Kerkouane une cité puniqueau Cap-Bon, Tunis 1987.

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Rosa MARIA ALBANESE PROCELLI ANFORE COMMERCIALI DAL CENTRO INDIGENO DELLA MONTAGNA DI RAMACCA (CATANIA)

Come contributo all'analisi della distribuzione delle anfore commerciali di età arcaica e classica in Sicilia, presentiamo in questa sede un quadro sintetico delle principali categorie anforarie importate nel centro indigeno della Montagna di Ramacca (Catania). La definizione delle diverse classi è basata sull'analisi tipologica: ma è noto come sia talora problematica un'attribuzione puntuale alle diverse fabbriche produttrici, soprattutto quando si analizzano esemplari in condizioni estremamente frammentarie, come sono spesso quelli provenienti da contesti abitativi. Si è quindi avviato un progetto di analisi petrografiche di campioni di alcune categorie?, non solo ai fini della identificazione dei centri produttori, ma anche per una convalida oggettiva degli stessi raggruppamenti tipologici di questi contenitori. Una corretta classificazione delle paste (basata sulla tessitura, qualità e distribuzione degli inclusi) appare infatti difficilmente realizzabile solo tramite la visione macroscopica dei materiali, di necessità soggettiva. Quest'ultima può

essere anzi talora fuorviante, visto che i criteri autoptici si basano spesso sulle caratteristiche cromatiche della pasta, che possono variare per motivi di differente cottura nei prodotti dello stesso atelier o in uno stesso esemplare. La maggior parte delle importazioni attestate nel centro della Montagna di Ramacca per il periodo arcaico proviene dalla Grecia, con una presenza maggioritaria delle corinzie A e una minore percentuale di prodotti attici e greco-orientali. A partire dal V sec. a.C. insieme alle corinzie A' e B diventano consistenti le produzioni coloniali greco-occidentali, mentre meno rilevante appare la presenza dei contenitori della Grecia orientale (Chios, Samos) ¢ dell'area dell'Egeo settentrionale (Mende e centri vicini). Estremamente limitate sono le importazioni non greche (etrusche e puniche). Non è attestato sinora nessun esemplare di produzione massaliota. Per quanto riguarda le aree di ritrovamento, le anfore commerciali della Montagna di Ramacca provengono quasi tutte dall'abitato, a parte qualche reperto sporadico dalla necropoli. Il contesto più antico è dato dalla casa RM, dove sono stati ritrovati due esemplari: una corinzia A, presumibilmente destinata a contenere olio, ed una c.d. "levantina", forse vinaria (v. infra)*. Gli altri contenitori provengono, in stato frammentario, da livelli di insediamento. La datazione proposta per gli esemplari qui discussi è formulata sulla base del contesto, quando è possibile, o di riscontri tipologici.

1. ANFORE CORINZIE A E A!

Le anfore corinzie A costituiscono i più antichi contenitori oleari rappresentati nel sito. La seriazione tipologica permette di seguire la continuità dell'importazione di prodotti corinzi dalla fine del ViLinizi del VI alla fine del IV sec. a.C.* I materiali di contesto e le caratteristiche morfologiche permettono di collocare tra la fine del VIT e gli inizi del VI sec. a.C. l'anfora corinzia A dalla casa RM, che reca un graffito cruciforme al collo (fig. 1)". Alla classe A appartengono inoltre frammenti attribuibili al VI e alla prima metà del V sec. a.C. È attestata anche una varietà a breve labbro estroflesso (Tav. I, 1), che è rappresentata meno

frequentemente in contesti di VI sec. a.C. della Sicilia e dell'Italia meridionale‘. Nel corso del V e del IV sec. a.C. l'importazione di anfore corinzie A e A’ appare consistente. La maggior parte dei frammenti appartiene al momento di sviluppo della classe A' databile dalla metà 37

alla fine del V sec. a.C. (Tav. I, 2)”. Importazioni della classe A' sono documentate sino al corso avanzato del IV sec. a.C. (Tav. I, 3)*.

2. ANFORE CORINZIE B - CORCIRÉSI Tale categoria, destinata a contenere vino’,

è ben rappresentata da esemplari distinguibili in due gruppi principali (A e B) sulla base delle paste. Essi corrispondono alle indicazioni fornite da C. Koehler per la classe" e sono stati confermati dalle analisi petrografiche". A. Alcuni esemplari sono caratterizzati da una pasta fine, giallina, tendente al beigeverdino o al beige-rosato, con ingobbio analogo. Gli inclusi di colore bruno, rosso e grigio sono generalmente di minute dimensioni, tranne in alcuni esemplari, in cui raggiungono dimensioni medie analoghe a quelle proprie della classe corinzia A e A'.

B. Altri esemplari sono a pasta arancione. rosata, con ingobbio dello stesso colore o più chiaro e inclusi analoghi a quelli del gruppo precedente. Sono inoltre attestati esemplari in un impasto rossastro apparentemente diverso da quello Fig. 1. Montagna di Ramacca, casa RM, anfora commerciale.

corinzio, che si era incerti se attribuire a even-

tuali imitazioni occidentali della classe, propo-

ste per esemplari della seconda metà del V s

a.C. in area ionica magnogreca'. Ma i campi: ni con queste caratteristiche sinora analizzati

Fig. 2. Poggio Forche (Ramacca). Frammento di an: fora commerciale. 38

petrograficamente sono risultati compatibili con prodotti corinzi", il che conferma la difi coltà e il pericolo di proporre attribuzioni sulla base della sola visione autoptica delle paste. Una buona parte dei frammenti della classe corinzia B - corcirese sono attribuibili alla metà (Tav. I, 4) e alla seconda metà (Tav. I, 5) del V sec. a.C.!. Sono documentati anche i tipi a bocca ovale prodotti dall'inizio alla fine del IVinizi del III sec. a.C.'. A quest'ultimo periodo appartengono anche gli esemplari caratterizzati da una fascia di "paddling marks” alla spalla", che si possono considerare tra le più recenti importazioni di questa classe nel sito. Non mancano nelle anfore di questa categoria iscrizioni dipinte in rosso sul collo (una A in

um esemplare), che sono comuni in tutto il periodo di produzione delle corinzie B, anche se diventano più diffuse nel IV e III secolo. Meno comuni appaiono invece i graffiti, come in un frammento in cui si legge una H!. 3. ANFORE ATTICHE

Le anfore attiche, a destinazione olearia, sono tra le più arcaiche importazioni nel sito nelle forme più evolute della classe SOS". Il frammento più antico è attribuibile al gruppo Late Π del primo quarto del VI sec. a.C. *. Due frammenti di anfore SOS del VII e degli inizi del VI sec. a.C. provengono anche da altri siti del territorio di Ramacca. Altri frammenti sono pertinenti ad anfore à la brosse del VI sec. a.C. tra cui è un piede (Tav. I, 6) vicino al tipo Agora 1503, collocabile nell'ultimo quarto del secolo. 4. ANFORE LACONICHE È scarsa la documentazione di questi contenitori (sinora in tutto sei esemplari frammentari),

pertinenti al tipo 2 Pelagatti, caratterizzato da collo e spalla non verniciati, che si colloca nella seconda metà del VI sec. a.C.®. Ad un momento finale dello stesso secolo può datarsi un esemplare di cui si conserva il fondo (Tav. I, 7) e in parte della spalla, con iscrizione graffita (Tav. I, 8)*. 5. ANFORE GRECO-ORIENTALI

Le importazioni greco-orientali sono scarsamente attestate. Qui si danno solo alcune indicazioni sulle fabbriche sinora identificate. 1. Chios

Due frammenti (Tav. II, 1) appartengono alla serie unslipped con bulging neck, durata dalla seconda meta del VI fino al terzo quarto del V sec. a.C., con alcune modificazioni intorno al 460 a.C. consistenti in una fascia rigonfia limitata alla parte superiore del collo (“bulbous type"). Intorno al 430 a.C. questa forma fu a sua volta rimpiazzata da un nuovo tipo di recipiente privo di rigonfiamento al collo”. Sulla base della tendenza all’allungamento del piede propria dell'evoluzione della produzione chiota, un altro frammento (Tav. II, 2) può collocarsi verso la fine del V sec. a.C.* 2. Samos

Sono attribuibili a questa fabbrica alcuni frammenti databili al VI-V sec. a.C., tra cui un piede con impressione "nu" alla base, effettuata prima della cottura”. Alla produzione della seconda metà delV sec. a.C. appartiene un'anfora con labbro inspessito e collo interrotto da una risega (Tav. II 3), in argilla arancione con diffuse particelle micacee, confrontabile con esemplari databili tra la fine del terzo quarto e gli inizi dell'ultimo quarto del V sec. a.C.* 3. Mileto

A questa produzione sembra attribuibile un frammento di sottile labbro sottolineato da listello, (2.5YR 6/6), con abbondanti particelle di mica (Tav. I, 4). Esso potrebbe collocarsi nel VI e comunque non oltre gli inizi del V sec. a.C., per il riscontro con esemplari del deposito del tempio di Aphaia ad Egina, collocati in un momento precedente al 480 a.C. Anfore di questo tipo sono inoltre attestate nel livello di distruzione del 494 a.C. a Kalabaktepe a caratterizzato da una pasta piuttosto dura, più granulosa di quella samia, di colore rosso-arancione

Mileto”,

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6. ANFORE C.D. "LEVANTINE" La pasta dura rossastra (2.5YR 4/4-4/6), con inclusi biancastri e nerastri e diffuse particelle mica-

cee, consente di attribuire due esemplari a questa categoria, isolatamente documentata in Occidente in contesti di VII sec. a.C., per la quale si ipotizza una produzione localizzata in un'area del Mediterraneo orientale interessata da influenze fenicie (Rodi, Cipro?)®. Un esemplare, conservato solo per Ja parte inferiore del corpo, proviene dalla casa RM ed è databile sulla base del contesto alla fine del VIl-inizi del VI sec. a.C. L'altro, sporadico (Tav. II, 5), è caratterizzato da un aggetto al collo e da impronta del pollice alla base delle anse. Esso sembra collocabile tipologicamente non oltre la fine del VII sec. a.C. 7. ANFORE DEL GRUPPO DELL'EGEO SETTENTRIONALE Tra le importazioni attestate in Sicilia nel V sec.

a.C.

sono dei contenitori prodotti nell’area del-

T'Egeo settentrionale, la cui identificazione appare piuttosto problematica. La differenza nelle paste, già percepibile alla visione autoptica, dei frammenti di Ramacca buibili dubitativamente a questa area, suggerisce che si tratta di un gruppo disomogeneo, che prende possibilmente prodotti di più fabbriche localizzate in centri dell'area nord-egea. Alcuni pioni sottoposti ad analisi petrografiche hanno confermato queste impressioni, permettendo stinzione di due tipi di paste, la cui differenza è a livello di tessitura, mentre l'argilla sembra una provenienza geologica dalle stesse aree".

attricomcamla diavere

A. Un primo gruppo, caratterizzato generalmente da pasta bruno-rosata o bruno-arancione, sembra attribuibile tipologicamente ad anfore di Mende, che ha prodotto contenitori vinari esportati soprattutto nel corso del V e IV secolo”. Si tratta di alcuni frammenti, caratterizzati da breve labbro distinto esternamente da una solcatura, con parete esterna obliqua e interna bombata (Tav. II 6), databili dal secondo all'ultimo quarto del V sec. a.C; e di alcuni frammenti di piede (Tav. II, 7). Questi ultimi, tenendo conto del progressivo aumento dell'altezza e della svasatura del piede nella seconda metà del V secolo, possono collocarsi nell'ultimo quarto del V sec. a.C., in un periodo precedente al momento dello sviluppo esemplificato dalle anfore di Mende del carico del relitto di Porticello, datato tra la fine del V e gli inizi del IV sec. a.C.".. B. Un secondo gruppo (Tav. II, 8) sembra apparentato a forme dell'area nord-egea, senza che sia possibile proporre un'attribuzione puntuale. Questa situazione rispecchia la varietà di fabbriche esistenti nella “production area” dell'Egeo settentrionale”, dove ateliers di centri diversi producevano anfore con caratteri morfologici simili, in un “regionalismo di forme”, cui corrisponderebbe un sistema regionale di markings *. 8. ANFORE GRECO-OCCIDENTALI A LABBRO BOMBATO E COLLO CILINDRICO (C.D. "IONIO-MASSALIOTE")

Le produzioni c.d. “ionio-massaliote” (caratterizzate da labbro bombato ripiegato verso l'esterno, con cavità centrale e listello nella parte inferiore), sono ben attestate nel sito tra la fine del VI e il V sec. a.C.*. Esse sono rappresentate da due principali classi di impasto.

A. Un gruppo è caratterizzato da una pasta dura e ruvida, di colore variante dal beige-giallino al ocra), che arrossano fortemente il corpo ceramico circostante, spesso provocando la lesione della parete. Tale classe sembra identificabile con la produzione di Locri, documentata dalla seconda metà del VI al V sec. a.C. ". beige-rosato (7.5YR 6/6-7/6, 10YR 7/3-7/4), con grossi inclusi rossi teneri (apparentemente simili ad

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AI. Anfore c.d. "ionio-corinzie". Come indizio per la possibile continuità di produzione di certe apparentemente simili a quelli citati, in frammenti di anfore a labbro bombato sottolineato da ampio listello all'inizio del collo, attribuibili al gruppo c.d. "ionio-corinzio" o di “forma corinzia B"*. In tale categoria, di cui si può sospettare una produzione greco-occidentale (in siti magnogreci e/o sicelioti da identificare) a partire dalla prima metà del VI secolo, potrebbero essere visti i precedenti delle serie "ionio-massaliote", diffuse dall'ultimo quarto del VI sec. a.C. Della classe “di forma corinzia B" sono attestati a Ramacca pochi frammenti (Tav. III, 1), di cui uno, a pasta rosata ruvida in superficie e con abbondanti inclusi, presenta un listello alto e aggettante verso l'esterno nella parte inferiore, che sembra caratteristico degli esemplari più arcaici della forma. Per l'attribuzione ad ateliers non-corinzi di queste anfore arcaiche di “forma corinzia B””, interessante appare la non affinità con l'area geologica di Corinto, almeno sulla base della letteratura sinora fruibile, di due frammenti di Ramacca, sottoposti ad analisi petrografica. fabbriche greco-occidentali tra VI e V sec. a.C. è utile notare la presenza di inclusi rossastri teneri,

B. Un altro gruppo di anfore c.d. "ionio-massaliote", rappresentato da pochi esemplari, è caratte-

rizzato da pasta arancione-rossastra con ingobbio biancastro, contenente abbondanti inclusi bianchi e particelle micacee (Tav. III, 2). Il luogo o i luoghi di produzione di questa classe non sono ancora identificati, anche se appare significativo che anfore con impasto di questo tipo abbiano soprattutto una distribuzione tirrenica, sia magnogreca sia siceliota, per cui si potrebbe pensare a produzioni di area tirrenica meridionale (campana?). Un ingobbio biancastro ricopre le anfore ioniomassaliote di Velia, attribuite a produzione locale, la cui pasta è descritta come variante dal “Ton rótlich-gelb SYR 7/6 bis rosa SYR 7/4" Ὁ, Anfore a pasta “rougeatre ou orangée" con inclusi bianchi calcarei, di fabbricazione italiota, sono segnalate dall'area calabro-ionica *. 9. ANFORE GRECO-OCCIDENTALI A LABBRO BOMBATO E COLLO RIGONFIO (C.D. “PSEUDO-CHIOTE”)

Sotto questa definizione si raggruppano tutti gli esemplari a collo rigonfio e labbro bombato, sottolineato sia da risega, sia da listello®. Le anfore c.d. pseudo-chiote costituiscono nel corso del V e della prima metà del IV sec. a.C. una delle classi più numerose a Ramacca. Le differenze negli impasti denotano chiaramente che queste serie erano prodotte da parte di più centri italioti e sicelioti. All'interno di questa categoria sono distinguibili alcuni gruppi principali sulla base della morfologia e delle caratteristiche della pasta. A. Il gruppo più cospicuo (ca. 60 frammenti), a labbro bombato sottolineato da risega e con fondo allungato a piccola base convessa, è caratterizzato da una pasta di colore beige-arancione e beigerosato (7.5YR 6/4-7/4, 10YR 7/3-7/4), a superficie ruvida, con abbondanti inclusi di piccole, medie e grandi dimensioni, visibili anche in superficie, di colore marrone-rossiccio o marrone-nocciola e bianchi (Tav. III, 3). Tipici di questa categoria sono inoltre alcuni inclusi rossi teneri, simili a quelli notati nel gruppo A delle c.d. "ionio-massaliote" (supra). La forma e le caratterististiche tecniche permettono di attribuire questa categoria alla produzione di Locri, destinata probabilmente a contenere vino e documentata dal V agli inizi del III sec. 2.0. Anfore di questa fabbrica sono ben diffuse in Sicilia, soprattutto nell'area centro-orientale. Essa corrisponde al type A della classificazione Cavalier per le anfore di questa forma di Lipari. Tale tipo, già documentato negli strati di décharge ai piedi del muro di piazza Monfalcone intorno al 500 a.C., è attestato soprattutto nel V secolo4. A Ramacca esemplari di questo gruppo provengono da contesti di V e IV sec. a.C. Elementi di re-

cenziorità nello sviluppo tipologico della forma, assegnabili al IV-III sec. a.C., sono rappresentati dall'assottigliamento c allungamento del labbro ¢ da una inflessione più marcata all'interno di esso, dovuta probabilmente all'esigenza di alloggiare più stabilmente il coperchio. L'incavo alla parete interna del labbro si riscontra già negli esemplari di fabbrica locrese del relitto di Porticello, dove è anche documentata la varietà "pseudo-chiota" morfologicamente analoga al seguente gruppo B. 41

B. Alcuni esemplari a labbro bombato con listello, inflesso all'interno, sono caratterizzati da pasta arancione-rossastra con ingobbio biancastro. Essa sembra corrispondere alla variante “ἃ pàte rouge” con "engobe blanchatre” della classificazione Cavalier per le anfore "pseudo-chiote" di Lipari. Qui tale classe è documentata soprattutto nella necropoli in tombe della prima metà del V sec. .C. e perdura fino agli inizi del IV sec. a.C. Anfore affini, considerate di produzione regionale, sono state individuate a Roccagloriosa, dove sono attestate nel corso del IV sec. a.C. Una categoria simile è documentata a Pithecusa e nella terraferma campana tra la prima metà del V e la fine del IV sec. a.C. C. Alcuni frammenti sono caratterizzati da una pasta dura arancione-rossastra (2.5YR 6/6), con superficie esterna bianco-giallina o bianco-verdina (Tav. III, 4), che non sembra ottenuta solo tramite ingubbiatura *; gli inclusi sono bianchi, apparentemente calcarei. Si tratta forse di una produzione siceliota, anche se non si hanno ancora elementi decisivi per proporne una localizzazione. La forma assottigliata del labbro, insellato all'interno e con listello poco marcato, è una caratteristica comune a alcuni tipi di anfore greco-occidentali di età classica avanzata. Dal punto di vista morfologico questi frammenti non sembrano databili prima del corso avanzato del V sec. a.C. D. Diverso dai gruppi precedenti, e sinora isolato tra le anfore del nostro centro per le caratteristiche di fattura, è un frammento di piede emisferico ἃ pasta arancione scura (SYR 5/6), con piccoli inclusi bianchi, marrone-rossicci e nerastri e particelle micacee (Tav. III, 5). La forma trova riscontro in esemplari da Himera e dallo scarico Gosetti di Pithecusa classificati tra le pseudo-chiote*!. 10. ANFORE ETRUSCHE

Tra le produzioni non greche, è stato riconosciuto sinora, su base tipologica e tramite analisi petrografica, un solo frammento di labbro di anfora etrusca (Tav. II, 6). La sua esiguità permette solo di proporre un dubitativo e generico riferimento alla forma 1/2 Py e EMA Gras, attestata in Etruria in contesti che vanno dalla fine del VII alla metà del VI sec. a.C. Tale cronologia coinciderebbe con quella di due isolati frammenti di bucchero nero etrusco (di olpe o oinochoe e di kantharos) ritrovati nell'abitato di Ramacca?. 11. ANFORE PUNICHE

Sono documentati solo pochi frammenti attribuibili a produzioni puniche di età classica. 12. ANFORE DEL TIPO DELLA TOMBA 469 Lipari

Tra le importazioni più recenti documentate nel sito sono i contenitori vinari collegabili a varie fabbriche regionali greco-occidentali, la cui forma, derivata dalle corinzie B di età classica, darà a sua volta origine alle serie greco-italiche. Alcuni frammenti in pasta dura rosso-arancione o rossomattone con ingobbio biancastro si rapportano alle anfore "du type de la tombe 469" di Lipari, dove sono molto comuni nella seconda metà del IV sec.a.C., anche se sono documentate già nella prima metà del secolo, come indica la presenza nello strato di décharge ai piedi della fortificazione della contrada Diana*. Che la forma sia attestata già prima della metà del IV secolo è dimostrato anche dall'evidenza nota dal carico del relitto di ΕἸ Sec (Mallorca), datato al secondo quarto del IV sec. a.C. In esso sono state considerate di possibile provenienza siceliota un gruppo di anfore in argilla rossiccia, distinte in tre va-

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inti (C 1, C 2, C 3, di cui la prima con labbro sottolineato da un listello). Per esse, e in particolare per la variante C 3, è stata notata la affinità con le anfore del tipo della tomba 469 di Lipari *. Un tipo affine, di produzione calabro-campana, è stato identificato a Roccagloriosa, dove si trova in un contesto del 325-300 a.C.**

13. ANFORE RODIE

Di questi contenitori vinari, è stato sinora ritrovato solo un frammento della forma più diffusa n "rolled rim”, che diventa comune dagli inizi del III e continua ad essere prodotta fino agli inizi del II sec. a.C. Esso costituisce una delle importazioni più recenti nel sito, insieme a qualche frammento attribuibile ad anfore delle serie greco-italiche più antiche, diffuse in Sicilia in periodo timoleonteoagatocleo*, La presenza isolata di questi prodotti suggerisce una datazione agli inizi o alla prima metà del III sec. a.C. per il momento finale dell'insediamento sulla Montagna di Ramacca. Tale ipotesi coincide anche con altre evidenze, come quella numismatica *. Per esigenze di brevità, non si affronta in questa sede una disamina delle possibili modalità di acquisizione delle anfore commerciali nel centro della Montagna di Ramacca. È un problema che investe più in generale i fenomeni di redistribuzione di derrate agricole dalle colonie verso il retroterra indigeno, i cui complessi meccanismi ancora in buona parte ci sfuggono. Per gli inizi del VI sec. a.C. la casa RM offre un buon esempio della importazione di prodotti alimentari greci e coloniali nel sito e della dipendenza dell'economia locale da apporti esterni, anche nell'ambito dei beni di sussistenza. Questa abitazione contiene cinque recipienti da derrate, liquide (le due anfore commerciali) e solide (tre pithoi, di cui due di produzione indigena e uno greco-coloniale) La presenza di quest'ultimo contenitore indica che le colonie greche gestivano la distribuzione di loro prodotti, oltre alla ridistribuzione di derrate alimentari provenienti dalla Grecia propria. Per quanto riguarda l'andamento dei consumi, è evidente che in periodo arcaico è prioritario il bisogno di olio (indispensabile non solo per l'alimentazione, ma per usi medicinali e per l'lluminazione), come indicano le anfore corinzieA e attiche, importate dalla fine del VIL-inizi del VI sec. a.C. I contenitori vinari sono invece diffusi, a parte qualche isolata presenza precedente, soprattutto a partire dalla seconda metà del VI e nel V secolo. Questi dati coincidono con l'evidenza nota anche da altri centri siciliani dell'interno. La richiesta di vino si spiega nell'ambito delle pratiche conviviali di modello greco recepite dalle élites indigene soprattutto dalla fine del VI secolo. La consistente importazione di questa bevanda nel V secolo potrebbe anche essere connessa con la presenza ormai stanziale di Greci nel sito. È significativo comunque che l'apporto di vino è talora di pregio (Chios, Mende), ma in percentuale prevalente proviene da produzioni regionali locali, magnogreche e siceliote. Per quanto riguarda i circuiti di circolazione di questi prodotti, è interessante notare che quasi tutte le categorie anforarie rappresentate a Ramacca si ritrovano nella vicina Leontinoi®, alla quale si può attribuire in buona parte la responsabilità della redistribuzione di derrate nel retroterra. Un'altra colonia indiziata per la distribuzione di prodotti nelle aree ai margini della Piana di Catania è certamente Katane, ma non è possibile avere dei riscontri in tal senso, in attesa dello studio dei reperti provenienti dai livelli arcaici e classici dell'abitato, messi in luce negli scavi recenti dell'area del Monastero dei Benedettini. Occorrerà certamente approfondire la discussione sulla definizione dei luoghi e degli agenti (Greci e/o indigeni?) degli scambi e sulle modalità delle transazioni. La presenza di monete a Ramacca dalla metà ca. del V sec. a.C. non indica necessariamente l'attività di “mercanti” greci, potendo avere un valore di semplice tesaurizzazione. Oggi l'evidenza e l'edizione crescenti di anfore commerciali da centri indigeni, oltre che coloniali, in Sicilia rende incoraggianti le indagini sui meccanismi relativi agli scambi di prodotti agricoli, che dovevano essere tra le “merci” prioritarie nei traffici a lunga e breve distanza. 43

NOTE

! Questi contenitori provengono dagli scavi effettuati nel sito dal 1978 in poi sotto la direzione di E. Procelli Per a distribuzione in Sicilia di alcune categorie anforarie arcaiche qui prese in considerazione: P. Petacarms L'atività della Soprintendenza alle Antichità lla Sicilia Orientale. Parte I, in Kokalos XXII-XXIII, 1976-77, tomo II 1, pp. 519-550; Ea. L'attività della Soprintendenza alle Antichità dela Sicilia orientale. Parte II, in Kokalos XXVI-XXVII, 1980-81, I, 1, pp. 694-731; Eap., Le anfore commerciali, in Atti Taranto 1994, Taranto 1995, pp. 403-416; M. Gras, Trafics tyrhéniens archaigues, Rome 1985; In. Archeologia subacquea e commerci in età arcaica, in G. Votre (a cura di), Archeologia subacquea (VIII Ciclo di Lezioni, Certosa di Pontignano, Siena, 1996), Firenze 1998, pp. 477-484; R.M. ALBANESE Proce, Appunti sulla distribuzione delle anfore commerciali nella Sicilia arcaica, in Kokalos XLII, 1996, pp. 91-137; Ea., Echanges dansla Sicle archaique. Amphores commerciales, intermédiaires εἰ redistribution en milieu indigene, in RA, 1997, 1, pp. 325. ? Peri primi risultati di queste analisi petrografiche, condotte dal Prof. A. Pezzinoe dal Dr. P. Mazzoleni del Dipartimento di Geologia dell'Universitàdi Catania: P. Mazzotext -- A. Pezzo, Appendice, in R.M. Axes Procenui, Contenitori da der. rate nell Sicilia arcaica e classica: per una definizione delTevidenza, in (Ati Convegno) Die Agais und das westliche Mittelmeer, Vienna 1999, in ed.s. Per l'autorizzazioneal prelievo dei campioni sottoposti ad analisi si ringrazia la Dott.ssa M.G. Branciforti, Direttore della Sezione III della Soprintendenza ai BB.CC.AA. di Catania. 3 E, Procstui - RM. Ausavese, Ramacca (Catania). Saggi di scavo nelle contrade Castello e Montagna negli anni 1978, 1981 e 1982, in NSA 1988-89, I Suppl, Roma 1992, p. 4 ss. * Perla più recente discussione sullo sviluppo delle anfore corinzie A, A’ c B: C. G. Koss, A Brief Typology and Chronology of Corinthian Transport Amphoras, in .I. Kxrs-- S. 1o. Monaxiov (edd.), Greek Amphoras, Saratov 1992, pp. 265-279; LK. Wisrerza», Greek Transport Amphorae. A Petrological and Archaeological Study, Athens 1995, p. 255 ss. * E. Proceuti- RM. Armanese, Ramacca (Catania), cit, p. 52, fig. 63c. Cr. C.G. Kost, Corinthian A and B Transport Amphoras, Ph. D. Diss. Princeton Univ. 1979 (Ann Arbor 1980), pp. 13 e 96, n. 18, tavi, 3 e 13. Per forme analoghe in Sicilia, ad es: M.C. Lamm, Naxos: esplorazione nellabitato proto-arcaico orientale. Casa a pastas n. 1, in Kokalos XXX-XXXI, 1984-85, II, 2, p. 835, n. 49, tav. CLXXXV, 3; S. Vassauto, Ricerche nella necropoli orientale di Himera in località Pestavecchia (1990-1993), ibid., XXXIX-XL, 1993-1994, II 2, p. 1249, lg. 3, 1, t. 153. Pera rarità di dipinti e graffiti nelle corinzie A: C.G. Kosuter, Corinthian A and B, cit, pp. 65-69. Segni graffiti e incisi sono presenti nelle anfore di questa classe da Naxos (M.T. Mao Pirano, Naxos. Frammenti fitti inseritt, in Kokalos XXXIII, 1987, pp. 42-43, cat. 27, 28, 29, di cul il n. 28 con segno cruciforme) e da Camarina (al locale Museo, cir. Petacarm, opp. cit. in nota 1). Una lettera dipinta sul collo si trova in anfore corinzie A da Poira (V. La Rosa, Un frammento file da Capodarso e il problema delle sopravvivenze micenee in Sicilia, in CASA 8, 1969, tav. XX, 5) e da c.da Maestro (G. Di Sreravo, Camarina VIII: emporio greco arcaico di contrada Maestro sull minio, in BA 44-45, 1987, ig. 13). * Camarina: M.C. Lrxcm, Camarina VI. Un pozzo tardo-arcaico nel quartiere sud-orientale, in BA 20, 1983, p. 25, n. 163, fgg. 17 e 19. Maestro: G. DI Steraxo, Camarina VIII it, p. 131, fig. 3d. Poira: V. La Rosa, Un frammento fittile da Capodarso, cit. Cozzo Presepe: J. pu Puer Tayrox er aun, The Excavations at Cozzo Presepe (1969-1972), in NSA 1977, Suppl. p. 371, n. 417, fig, 141; Porto Cesareo: F. D'Axpaua, Cavallino (Lecce): ceramica ed elementi architettonici arcaici, in MEFRA 89, 1977, 2, p. 541, nota 71, fig. 19.3 * Per un esemplare: E. PRocei11 - R.M. Atmawese, Ramacca (Catania), cit, p. 75, n. 136, figg. 81, 91. Clr. C.G. Koren, Corinthian Developments in the Study of Trade in the Fifth Century, in Hesperia 50, 4, 1981, p. 456, fig. 1b-c, metà V sec. a.C. Per importazioni in Sicilia di anfore corinzie A’ nel V sec. a.C. ad es: M. CavauieR, Les amphores du Vle au IVe siècle dans les fouilles de Lipari, Cahiers Centre J. Bérard XI, Naples 1985, p. 28 ss. cat. 5.6; p. 60 ss. cat. 45-52; p. 73 ss, cat, 94.96; p. 78 s, cat, 108-109; p. 84, cat. 124; P. Petacarn ET Atm, Naxos (Messina). Gli scavi extraurbani oltre il Santa Venera (1973-75), in NSA 1984-85, p. 366, cat. 110, fg. 50, t. 81; Megara Hyblaca: G.V. Gexmui, Megara Hyblaea (Siracusa). Tombe arcaiche e reperti sporadici nella proprietà della “Rasiom” e tomba arcaica in predio Vinci, in NSA 1954, p. 96, n. 10, fig. 19, t. E. Quest'ultimo contesto permetterebbe forse di rialzare almeno agli inizi del V scc la documentazione e quindi l'inizio della produzione della classe ΑἹ cfr. del resto C.G. Koster, Corinthian Developments, cit, p. 456, nota 27, con allusione a cambiamenti nella forma del corpo delle anfore corinzie A, che preludono alla forma A, dalla metà del VI sec. a.C. * Cfr. C.G. Kosmos, Corinthian A and B, cit, nn. 60-65; M. Cavaua,Les amphores, it, p. 31, cat. 8, fig. 3d, tav. IVb; p. 79, cat. 109, tav. XXIV, fg 22a. * Di questa classe è stata individuata una fabbrica a Corfù, grazie alla scoperta di una fornace che produceva anfore di tipo corinzio B dal V alla seconda metà del III sec. a.C. Analisi delle argille indicano che anfore di questa classe sono state prodotte anche a Corinto. Cfr. da ultimo LK. Wirrozap, Greek Transport Amphorae, ct. p. 258 ss. com bibl. prec. * Per la diversa qualità delle argille nel corso della produzione di questa classe: C.G. Korner, Corinthian A and B, cit. p. 3; Eap., Amphoras on Amphoras, in Hesperia 51, 3, 1982, p. 288, nota 12; Eap.,A Brief Typology, cit. Inclusi di quarzo e “a scatter of ine grey, red or white grains” caratterizzano uno degli impasti (‘fabric B^) delle anfore corinzie B di Sabratha: N. Kev, in M. Futrorp— M. Haut (edd.), Excavations at Sabratha 1948-1951,JI, 1, Tripoli 1989,p 6. "Perla distinzione di due fabric classes, rappresentate anche da frammenti tipologicamente attribuibili ad esemplari coevi, databili intorno alla metà del V sec. a.C: P. Mazzouent - A. Pezzmo, Appendice, ct. ® Si tratta di anfore in pasta bruna o rosso-arancio con inclusi biancastri, ritenute di possibile produzione coloniale italota: Cu. Vax DER Menscn, Le matériel amphorigue, in H. Taézno (ed.), Kaulonia I, Cahiers Centre J. Bérard XIII, Naples 1989, p. 101, nn. 502-504, con bibl. prec. sulla distribuzione. 9 P. Mazzoneni - A. Pezzino, Appendice it.

^ Cfr: C. Koster, Corinthian Developments, ct, p. 454, tav. 99c, fig. 1a, metà V sec. a.C. EAD., Corinthian A and B, cit. p.35ss, nn. 229.230, 460440 a.C;N. DI Saxo, Le anfore arcaiche dallo scarico Goset, Pithecusa, Cahiers Centre J. Bérard XIL Naples 1986, p. 37, cat. sg 86. In Sicilia anfore con due listli all'inizio del collo sono attestate ad es. a Lipari (M. Cavark, Les amphores it. p. 63, n.55) e ἃ Lentini (cr Konia, Corinthian A and B, cit, p. 45, nota 6). Per importazioni della se conda metà del V see. a.C. in Magna Grecia: Ct. Vax pen Menscu,Le matériel amphorigue, cit. pp. 9-101, nn. 494-501, fig. 65. ! Per l'evoluzione delle anfore corinzie B — corciesi a bocca ovale: KognueR, Corinthian A and B, cit, p. 36 ss; Fab. Amphoras on Amphoras, cit, pp. 290, nn. 1 e4, 291-2, nn. 17-18, tav. 79; Pu. est- P. De Pasre, Torre San Giovanni (Ugento): les amphores commerciales ellénistiques εἰ républicaines, in StAnt 6, 1990, pp. 187-234. * Kosten, Corinthian A andB, ct, p. 38, nn. 249, 253. " Chr ibid.pp. 58s e 6δ ες, ? Cfr. E. Proceuut~ R.M. Aumeese, Ramacca (Catania) cit. p. 122, nn. 44-45. » Per la classificazione fondamentale delle anfore SOS: A W. Jouxstox - RE. Joxes, The "SOS" amphora, in ABSA 73, 1978,p. 108, n. 62. Per l'ulteriore suddivisione del Late Group: M.A. Rizzo, Le anfore da trasporto e il commercio etrusco acaico, 1. Complessi tombali dell Etruria meridionale, Roma 1990, pp. 16 ss 95.94, cat XI, 1-2, fgg. 166-167, 366; A.W. Jonsrov, Pottery from Archaie Building Q at Kommos, in Hesperia 62, 3, 1993, p. 357. ® Due frammenti i labbro: l'uno, del tipo Late, da Ramacca-Perriere; l'altro, vicino al Middle Group (675-625 a.C.) da Poggio Forche (Fig). Ἣν Per due ft E. ProceLti -R.M. Arsawest, Ramacca (Catania), cit. p.122, nn. 29, 153. 5 BA. Stas - L. Tatcors, The Athenian Agora XII. Black and Plain Pottery ofhe th, Sth and 40h Centuries B.C. Prince» ton 1970,p. 341, n. 1508, 520-500 a.C. Cl. SR. RoneTs, The Stoa Gutter Well a Late Archaic Deposit in the Athenian Agora, in Hesperia 55, 1, 1986, p. 67, n. 418, Big. 42, tav. 18, 535 .C. 5 p. Priacarn, Ceramica laconica in Sicilia e a Lipari: materiali per una cart di distribuzione. Supplemento alla cara di distribuzione (1991), in P. Prtacarm - CM, Stas (edd), Lakonika, in BA, Suppl. n. 64, II 1992, p. 134 ss, con elenco della di stribuzione in Sicilia e bib. prec > Per anfore ἀεὶ tipo 2 con iscrizioni grafie alla spalla: H.W. Jomston, Amasis and the Vase Trade, in AA. WV. Papers on the Amasis Painter and his World, Malibu 1987, p. 130, fig. 2; P. PELAGATT, Ceramica laconica, cit, pp. 138 e 156, note 104-106. Ibid.p. 186, aln. 256: citazione dell'esemplare con graffito da Ramacca. Ἔ peril tipo con "collo rigonfio": V. GaAcE, Wine jas,in C. BOULTER, Pottery of the Mid. Fifth Century from a Well in the At henian Agora, in Hesperia 22, 2, 1953, pp. 104-105,nn. 150-152;ZK. Anverson, Excavations on the Kofinà Ridge, Chios, in ABSA XLIX, 1954, pp. 139 e 169, n. 51, fig. 8; U. Kutcor, Der Sadhigel (Kerameikos IX), Berlin 1976, pp. 23-24, tipo C2; CaK.. Wiccaus, Corinth 1977, Forum Southwest, in Hesperia 47, 1, 1978, p. 18, ig. 5, C-I977-106; SR. Rovers, The Sioa, cit, p. 67, nn. 419-420, fig. 42, tav. 18; $1. Rorsorr - TH. Ow, Debris from a Public Dining Place in the Athenian Agora, in Hesperia, Suppl. XXV, Princeton 1992, pp. 31-32, n. 351. Per l'evoluzione della produzione chiota, inoltre: V. Grace, Amphoras and the Ancient Wine Trade, Princeton 1961, figg. 43-44; ILB. Marrmatx, Coins and amphoras. Chios, Samos and Thasos in he ith century B.C, in HS CI, 1981, pp. 78-86; LK. Wurranzap, Greek Transport Amphorae, cit. p- 135 s * Clr. AK. ANDERSON, Excavations, cit, p. 142, fg, 9g; J. BOARDMAN, Excavations in Chios 1952-1955. Greek Emporio, Oxford 1967, p. 178 ss, fig. 126, n. 948. Per esemplari chiot della seconda metà del VI-seconda metà del V sec. a.C. in Magna Grecia, dove sinora le segnalazioni sono scarso: Cn. Vas pen MERSCK, Le matériel amphorique, cit, pp. 94, n. 473, 101-102,nn. 505.508. 7? E. Procetsi- RM. Aumesess, Ramacca (Catania), cit, p. 73, n. 114, fig. 35; AW. JouNsTON, Emporia, emporoi and Sicians. Some epigraphical aspects, in Kokalos XXXIX-XL, 1993.94, I, 1 p. 165. Il segno "nu" inciso prima della cottura s riscontra in anfore samie dellAgora di Atene e di Egina: Loc. ct. Per una proposta di attribuzione di alcuni di questi esemplari a produzione nord-greca: M.L, Laws, Shape and Symbol: Regionalism in Sth Transport Amphora Production in Noriheastern Greeceyin C. Gis e at (eda), Trade and Production in Premonetary Greece, Goeteborg 1997, pp. 119, 125, nota 39, * Chr. VR. Grace, Samian amphoras, in Hesperia XL, 1, 1971, pp. 71-7, fig. 3, 3, 94, n.9, tav. 15,9, 425-400 a.C; U Kraccz, Der Sudhagel, cit, pp. 25 e 151, n.288, tav. 64. Per esemplari di questo tipo in Sicilia e in Magna Grecia, ad es. N. AL echo er Au, Himera 1989-1993, Ricerche dell'Istituto di Archeologia nell'area della città, in Kokalos XXXDX-XL, 1993-94, I 2, p. 1132, tav. CXXX, 2, t, 27;V. Gassen, insula IL: Spatarchaisch-Frahklassiche Amphoren aus den Grabungen 199091, in Ὁ. e ricerche, Modena 1994, p. 112, n. 25, fig. 144. Per le produzioni samie, v. ora: P. Greco- . Krivancex (edd), Veli. Studi Doronr, Archaic East Greek trade amphoras, in R.M. Cook ~ P. Duvoxt, East Greek Pottery, London - New York 1998, pp. 168, 175, fig. 235. » Per l'identificazione della produzione: P. DuroxT, Amphores commerciales archaigues de la Groce de l'Est, in PP CCIVXII. The storage amphorae, in AA 1990, 1, pp. 47-49, nn. 107 e CV, 1982,p. 203 ss; AW. Jotvsrow, Aegina, Aphaia-Tempel 109, Bg. 7 In, Potter, it, pp. 366-368,nn. 120-128. Per la distribuzione in Etruria nel VI sec. a.C G. Cosoxna, Anfore da tra sporto arcaiche: il contributo di Pyrg, in AA VV., Il commercio etrusco arcaico, Roma 1985, p. 10, fig. 12; M. SLASka, Le anfore da trasporto a Gravisca, ibid. p. 19; F. Borax, Cenni sulla distribuzione delle anfore da trasporto arcaiche nelle necropoli dll'Etruria meridionale, ibid, p. 25; C. Morsetti - È. Togronte,La situazionedi Regisvill, ibid, p. 34, fig. 8, nn. 7-8. Un esemplare da Genova: M. Muawest- T. Maxson, Gli Etruschi a Genova el commercio mediterraneo, in SE LII 1986, p. 133, i. 8, 2. Per il confronto del citato fr. da Ramacca con forme prodotte a Mileto nel secondo - terzo quarto del VI sec. a.C, v. ora: P. Divost, Archaic East Greek, cit, p. 174, fig. 23.8, cu si rimanda per una discussione generale sulla produzione milesa e sulla distribuzione in Sicilia (Camarina, Naxos). ® Clr. M.A. Rizzo, Le anfore da trasporto, cit., pp. 24, 43, cat. 1,3, fgg. 5,27, 348, 350, tav. 2, con discussione sull'origine 45

e sulla distribuzione della classe. Essa corrisponde alle anfore in “purple ware" attestate a Kommos nel deposito del “Building 0", che presenta materiali precedenti la fine del VII sec. a.C.: A.W. Jounstox, Pottery ci. pp. 371-372, nn. 139-142. > Cir. P. Mazzouent—A, Pezzi, Appendice, * Perla produzione di Mende: V. Grace, Wine jars cit,pp. 106-107,nn. 161-163,fig. 5, tav. 40; Eun, Amphoras, cit. fig 43; U. Kiucok, Der Südhügel, cit, pp. 24-25, nn. 296-291, tavi. 65, 5 e 66, 5; CHK. Wrzuuts, Corinth 1977, ci.p. 19, Bg. 5, €-1977-131; S.L. Roreorr - IH. Oaxiey, Debris, cit, pp. 32 e 125, n. 352, av. 60. Anfore di Mende sono abbastanza diffuse in Sicilia ein Magna Grecia nel corso del V sec. a.C. Ades. Naxos: P. PELAGATTI ET AL, Naxos, it, p. 337, t. 23, cat. 24,p. 354, t. 62, cat. 59, figg. 49.50. Camarina: P. Onst,La necropoli di Passo Marinaro a Camarina, a c. di M.T. Lauza, in MAL, 5. mise. IV, Roma 1990, tav. IIb, sep. 569; Pithecusa: N. Di Suo, Le anfore arcaiche, ci. pp. 82-83, sg 197-200, tav. 16; Velia: V. Gasver, Insula IL cit, p. 115, n. 4, fig. 145. 5 C. Jones Eiseux — B. Sisuonno Rivoway, The Porticelo Shipwreck. A Mediterranean Merchant Vessel of 415-385 B.C. Texas University 1987, pp. 37 ss. type 1, Mendean, cat. C1-C13, fig. 4-2. Peril f. ἃ tav. I, 7, cfr ad es: E. Hannpari, Underwater Excavations of a Late Fifth Century Merchant Ship at Alonnesos, Greece: the 1991-1993 Seasons, in BCH, 120, 2, 1996, pp. 575-576, cat. AI-2, fig. 11-12, 420-400 a.C. » P. Duronr, Archaic East Greek, cit. p. 145. 5 ML Lowut, Shape, cit, p. 114 ss ? Cfr. Procetii - Artawese, Ramacca, cit,p. 123,n. 137, fig. 91. 7 Perla produzione locrese di anfore ionio-massaliote, di cui esistono resti di fornace della seconda metà del VI sec. a.C.: M. Banka Buonasco, Due tipi di anfore di produzione locrese, in Klearchos 125-128, 1990, pp. 29-61, tipo a; EAD. Anfore locresi documenti a favore di una produzione locale tra VI e IV sec. a.C., in M. Venprata-Sxz er aun (edd, Studies on Ancient Ceramics, Barcelona 1995, pp. 77-78, fig. 1, a-c, forma con “orlo a cuscinetto rigonfio" * Perla definizione di queste anfore definite variamente “corinzie B arcaiche” (da ultima: C.G. Kors, A Brief Typology. cit) “ioniche” (P. Priacam, L'attività della Soprintendenza alle Antichità della Sicilia Orientale, in Kokalos XXVI-XXVII, 1980-81, I, 1, p.722); di "forma corinzia B", ma a pasta non corinzia (M. Siaska, Le anfore massaliote in Etruria meridionale, in M. Bars (ed. Les amphores de Marseille grecque, Et, mass. 2, Lattes et Aix-en-Provence 1990, p. 231); “ionio-corinthiennes* (M. Py, Culture, économie et société protohistorigues dans la région nimoise, Rome 1990, p. 534) v. inoltre: M. Gras, Les amphores commerciales archaîques, in AA.VV., Leuca, Gelatina 1978, p. 175; I., Amphores commerciales et histoire archaique, in DArch5, 1987,p. 44; In. in Bars (ed), op. cit.p. 273. 7 Cfr da ultimi: RM. Aunaxese Process, Appunti cit,p. 112; Eso. Échanges, cit,p. 12; M. Gras, Archeologia subacquea, cit, p. 480; P. Dupont, Archaic East Greek, cit, p. 209, n. 32 © CA. Βαμμενομι, Velia. Acropoli. Un saggio di scavo nell'area del tempio ionico, in G. Greco- F. KRinzinoeR (edd), Velia, cit pp. 81-82;V. Gassxen, InsulaI, cit, pp. 108-110, cat. 1-16. Δ Ci, Van per Menscit, Le matériel amphorique, cit, pp. 95.97, nn. 482-484. © Per le caratteristiche della serie, soprattutto nel suo sviluppo di età classica avanzata: In, Vins et amphores de Grande Gréce εἰ de Sicile, Naples 1994, p. 65 ss, “amphores MGS II”, con bibl. prec. Ὁ La produzione locrese di anfore pseudo-chiote è documentata da scarti di fornace: M. Banna Bagnasco, Due tipi di ana mandorla”. Perla destinazione vinaria: op. cit. p. 79 (ove non si esclude anfore, cit, p. 78, figg. 1 df, 2-3, anfore con “orlo che un contenuto olerario); Cu. Vax nex Mensct, Vins εἰ amphores, cit, p. 68. Un'anfora di tipo locrese dal relitto di Porticello "lined": C, Jones EiseNax — B. Sisuopo Rinowar, The Porticello, cit, p. 49, cat. C31. Ibid. p. 51 si precisa però che “a resi nous lining” può caratterizzare non solo anfore vinarie, ma anche contenitori di conserve di pesce. ^ M. Cavaur, Les amphores, cit, p. 65 ss, cat. 62-81; p. 75, eat. 103-104 b; p. 80, cat. 115-116;pp. 85-86, cat. 127, "amphores de type chiote © Cl.P. ArriuR, Amphorae, inM. Guatmeni— ἢ. Fracett, Roccagloriosa I, Naples 1990,p. 281, nn. 371-373, fig. 191. ^ C. ses Eistux- B. Sisvionno Rinoway, The Porticello cit, pp. 48-51, “type 3, West Greek’, cat. C29, C30, “pinkish white surface, SYR 8/2"; cat. C31, "very pale brown surface, 10YR 7/3" di fabbrica locrese. 7 M. Cavan, Les amphores ci. pp. 39 ss, cat. 20.35; 70 ss, cat, 82-93; 76, cat. 105-107; 81, cat. 117-118. P. Armin, Amphorae, cit, p. 281, nn. 365-370,fg. 190. ® N. Di Seno, Le anfore arcaiche, ct., pp. 59-60. 7 Bisognerebbe verificare se l'aggiunta di acqua di mare possa determinare un cambiamento nel colore degli impasti, facendo s che arglle rosse diventino di colore giallo. Per questa possibilità cfr: LK. Warrmran, A Microscopic view of Greek Transport Amphorae, in R.E. JONES - H.W. Catlins (edd.), Science in Archaeology, Athens 1986, p. 51. 8" Himera: N. Atttoto - S. Vassatzo, Himera. Nuove ricerche nella città bassa (1989-1992), in Kokalos XXXVII, 1992, p. 98, cat. 43. Pithecusa:N. Di Saxono, Le anfore arcaiche, ci p. 65, tav. 13, sg 151. © M. Py, Les amphores érusques de Gaule méridionale, in AAVV, Il commercio, cit. p. 74, ig. 3; M. Gnas, Trafics yrrhémiens archaiques, Rome 1985, p. 329, fig. 46b. Cfr. M.A. Rizzo, Le anfore da trasporto, cit, pp. 20-21, 104, cat. XII, 3, 138, cat. XXL2 9 Chr Gras, Τναβος, cit, p. 492. * M. Cava, Les amphores, cit pp. 51-52, cat. 36-37;81 ss, cat, 119-121; 87 s, cat. 129-131. Delle due varianti di pasta attestate a Lipari (“de couleur noisette sans engobe" e “rouge brique" con "engobe blanchátre": ibid, p. 82) a Ramacca sembra più attestata la seconda varietà. * D. Crabw, in A. ARRIBAS - M.G. Tuas- D. Ceu - e La Hoz, El Barco de EI Sec (Costa de Calvia Mallorca). Estudios de os Materiales, Mallorca 1987, p.420 ss, nn. 425-437, fig 100. * P. Arm, Amphorae, cit, p. 279 ss, nn. 362-363, tipo tomba 28". 46

9 VR. Grace, Notes on the Amphoras from the Koroni Peninsula, in Hesperia XXXII 3, 1963, pp. 322 ss. e 333, fig. 1, 69; Ea, Amphoras, cit. fig. 62. Per analisi petrografiche delle produzioni rodie: LK. WatmgEAD, Greek Transport Amphorae, ci. p.53ss. *% Cfr. Ch. Vix DER Menscis Vins er amphores, it, p. 76 ss. forma MGS V. ? V. Taataro,La Montagna di Ramacca e l'antica città di Eryke, Catania 1980, p. 97 ss. © Cir. A. Musuxci, Le anforeda trasporto, in L. Grasso- A. Musuasct- U. Spico - M. Ursino, Caracausi (CASA, 28, 1989), Catania 1996, pp. 131-141.

47

Tav.I

1-8: Montagna di Ramacca, abitato. Anfore commerciali. 48

Tav. I

1-8: Montagna di Ramacca, abitato. Anfore commerciali. 49

Tav. ΠῚ

1-6: Montagna di Ramacca, abitato, Anfore commerciali. 50

BERNARD ANDREAE IL GRUPPO DI SCILLA DI SPERLONGA RICOMPOSTO

1I gruppo di Scilla dell’Antro di Tiberio a Sperlonga (fig. 1) ricomposto da circa settemila frammenti (figg. 2-6), fu esposto per la prima volta nella grande mostra “Ulisse. Il mito e la memoria" al Palazzo delle Esposizioni a Roma dal 22 Febbraio al 22 Settembre 1996'. Dopo la mostra il gruppo ha trovato il suo posto definitivo nel Museo della Civiltà Romana a Roma. La ricomposizione fu eseguita da Silvano Bertolin nel laboratorio di Casarsa con l'aiuto di calchi di tutti i frammenti superstiti in marmo artificiale, cioè con resina epossidica e 90% di polvere di marmo rinforzata con fibre di vetro e con tubi di alluminio. La ricostruzione è stata completata con lavori scultorei dello stesso Bertolin secondo le direttive di chi scrive. Sembra che questo gruppo sia rappresentato in un conio dei medaglioni contorniati del quarto e del quinto secolo d.C. (fig. 7). Si vede Scilla, che attacca la nave di Ulisse, la quale è però girata di 90° rispetto alla posizione nel gruppo di Sperlonga. Perciò si potrebbe dubitare che il conio davvero si rifaccia alla stessa composizione. Esiste però una particolarità, che si spiega solo con questa supposizione. Nel medaglione si vede a destra un compagno di Ulisse che cade a capofitto. La posizione di questa figura è strana, perché cade dal vuoto. La figura si comprende solo sapendo che è ispirata dal gruppo originale, dove questo uomo cade dalla nave (fig. 2). Quando l'incisore ha girato la nave di 90° per renderla in forma bidimensionale, nella superficie dell'immagine ha dovuto spostare la figura cadente dall'altro lato, perché altrimenti sarebbe stata coperta, anche se adesso non è più chiaro da dove cadesse l'uomo. Ciò prova che il medaglione ripete in fondo la stessa composizione. Tl confronto con un medaglione contorniate del quarto/quinto secolo dopo Cristo prova che questa composizione era altrettanto famosa come il gruppo del cosiddetto "Toro Farnese" o il gruppo del Laocoonte, incisi anch'essi sulle medaglie contorniate?. Ma il gruppo plastico di Scilla si presenta diversamente. La nave passa sul lato destro di Scilla (sinistro di chi guarda), mentre sul medaglione contorniato si avvicina, e su un rilievo gallico-romano del secondo secolo dopo Cristo a Vienne’ si allontana verso sinistra, proprio perché l'artista voleva far apparire la nave dal lato più largo nella superficie dell'immagine. 1 settemila frammenti del gruppo furono trovati nel settembre 1957 intorno alla base cubica nel bacino al centro della Grotta di Sperlonga*. Fino a poco tempo fa non si sapeva da quale cava provenissero i due grandi blocchi da cui fu scolpito il gruppo di Scilla e della nave. Ma quando nel mese di luglio 1994 abbiamo esposto, coll'aiuto di un elicottero dell'arma dei Carabinieri, un calco della statua di Ganimede in cima alla Grotta di Sperlonga, mi è venuto il dubbio se il marmo di tutte le sculture di Sperlonga non fosse lo stesso in cui fu scolpita questa statua. A causa delle vene rosastre questo marmo venne chiamato dai marmorari romani medievali e rinascimentali "pavonazzetto", ma in antichità il suo nome era marmor phrygium, perché la cava si trovava a Iscehissar in Frigia presso la odierna città di Afyon nella Turchia centrale vicino alle antiche città di Dokimeion o di Synnada, di cui casualmente prende anche il nome. Ad occhio nudo si vede che il rilievo di Venere Genitrice* a Sperlonga, connesso cosi da vicino al programma iconologico delle sculture della Grotta di Tiberio per via dell'adozione di questo imperatore nel casato dei Giuli, è ricavata da un blocco dello stesso marmo frigio come la scultura di Gani. mede. Perciò era probabile che anche altre sculture dell'ensemble fossero del medesimo marmo. È noto che solo la minima parte del marmo delle cave di Dokimeion? è colorato, mentre la massa è di ‘un marmo bianco bellissimo perché diafano. 51

Fig. 1. Sperlonga, Museo Nazionale. Gruppo di Scilla, ricomposizione dei frammenti originali di Mario Moriello, a cura di Baldassare Conticello.

Le analisi della pietra eseguite nei laboratori del Vaticano e dell'Istituto di Geologia dell'Università La Sapienza di Roma hanno portato al seguente risultato: il marmo delle sculture di Sperlonga (e anche quello del Laocoonte) è identico alle prove di marmo raccolte nella cava stessa di Afyon. Perciò si può partire dal fatto che il marmo usato a Sperlonga è quello frigio, risultato del resto non molto sorprendente, dal momento che la provenienza del marmo del Ganimede e del rilievo della

Venere Genitrice da questa cava è sicura, e perché il marmo pavonazzetto, proveniente da una cava del demanio imperiale dai tempi di Tiberio, era molto usato in età imperiale.

Nondimeno questa scoperta è molto importante non solo perché conferma la data tiberiana delle

sculture di Sperlonga, ma perché ha portato al ritrovamento di un elemento decisivo per la ricostru-

zione del gruppo, e cioè alla scoperta, nel museo di Afyon, di un busto di Scilla proveniente proprio dalla cava di Iscehissar*. Questo busto (fig. 8) è rimpicciolito ad un quinto della grandezza originale ma presenta lo stesso identico movimento, che si deve dedurre per Scilla dai frammenti di Sperlonga. In questo busto di una giovane donna graziosa, paffuta, quasi pacioccona si intravede il mito. Scilla era una bella ragazza, di cui si era innamorato il dio Glauco. Per gelosia Circe avvelend l'acqua. nella piccola baia, dove Scilla era solita bagnarsi. Fin dove arrivava l'acqua, cioè dalla cintola in giù, Scilla si trasformò in mostro. Le gambe diventarono due code di pesce e dalla vita proruppero le protomi di sei cani feroci.

La denominazione di Scilla per questo piccolo torso non può essere dubbia per via della corporatura atletica, dei fianchi abbastanza larghi per l'attacco di due protomi canine su ciascun lato, inol-

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Fig. 2. Roma, Museo della Civiltà Romana. Gruppo — Fig. 3. Roma, Museo della Civiltà Romana. Gruppo di Scilla, ricomposizione di tutti i frammenti super- — di Scilla, ricomposizione di tutti i frammenti superstiti con integrazioni di Silvano Bertolin, a cura di — stiti con integrazioni di Silvano Bertolin, a cura di Bernard Andreae, visione frontale. Bernard Andreae, visione da destra.

tre per via dei capelli sciolti ed umidi, dell'attacco del pugno alzato a sinistra della testa, e dell'attacco, sulla tempia destra, del timone che Scilla vibra con la mano sinistra sopra la testa. II fotomontaggio con una fotografia ingrandita? faceva già vedere come questo tipo di Scilla s'inserisse perfettamente nel gruppo. II fatto che il busto fu trovato nella stessa cava, da dove proviene il marmo per il gruppo grande, ci fa pensare che il busto sia il frammento di una copia rimpicciolita, come se ne conoscono anche di altri gruppi, per esempio del famoso gruppo del Pasquino, d'altro canto copiato su scala uno a uno anche per Sperlonga. Dato che il busto di Scilla a Sperlonga è quasi completamente distrutto, il piccolo busto di Afron può dare almeno un'idea della forma originale. Visto che il gruppo non si può intendere senza il busto di Scilla, l'abbiamo ricostruito alla guisa del torso di Afyon, che fu ingrandito da S. Bertolin cinque volte e s'inseriva senza alcuna alterazione nella composizione del gruppo. L'andamento delle braccia e provato dal frammento superstite del braccio sinistro, che si alza per vibrare il timone di tribordo strappato dalla nave, e della mano destra di Scilla che afferra la testa del nocchiero. Da questi elementi superstiti si ricava anche la proporzione di tutto il busto che non si dovrebbe alterare di proprio gusto.

La più importante scoperta per la ricomposizione dell'intero gruppo si può definire l'identificazione di due frammentini informi (fig. 9), che attaccano l'uno all'altro e che combaciono da un lato con la coda sinistra di Scilla e dall'altro con il frammento della base (fig. 10), che porta la coda de53

Fig. 4. Roma, Museo della Civiltà Romana. Gruppo — Fig. 5. Roma, Museo della Civiltà Romana. Gruppo di di Scilla, ricomposizione di tutti i frammenti super- — Scilla, ricomposizione di tutti i frammenti superstiti stiti con integrazioni di Silvano Bertolin, a cura di con integrazioni di Silvano Bertolin, a cura di BerBernard Andreae, visone dal retro. nard Andreae, visione da sinistra.

stra. Con questo frammento fu possibile fissare tutte le parti del gruppo nello spazio, perché tutti i frammenti combacianti sono attaccati alle due code. Vorrei sottolineare che in questa ricostruzione non si doveva inventare nulla, si dovevano solo colmare le lacune nei corpi, i movimenti dei quali sono accertati da frammenti combacianti fra di loro. Per far capire che cosa s'intende con l'espressione “colmare le lacune”, si veda il piede destro del quinto compagno avvinghiato dalla coda destra (fig. 4). Di questo piede si è trovato solo un frammento della punta con due dita, le quali non toccano terra o un'altra parte del gruppo. Ma che il piede penda nell'aria, si può dedurre anche dalla posizione della gamba rinvenuta intera e che si attacca alla coda destra. Silvano Bertolin ha plasmato un piede, in cui si poteva inserire il frammento. Sì vede come sia importante esteticamente il rifacimento del piede destro, perché esiste anche la gamba sinistra (con il piede), spinta in alto per il dolore feroce che l'uomo deve subire. Queste due gambe — con i rispettivi piedi - sono molto importanti per capire il movimento complesso della figura. In altri casi, per esempio nel caso del piede sinistro del terzo compagno (fig. 3), o nel caso dei piedi del timoniere (fig. 5) abbiamo rinunciato ad una integrazione, perché il movimento è evidente anche senza il piede. Ripeto: tutti i frammenti collegati tra loro combaciano con le code, che da parte loro sono fissate

esattamente nello spazio. Perciò i movimenti di tutti questi corpi - con non meno di ventotto tra braccia e gambe e dodici zampe canine ~ sono provate al cento per cento. Mancano alcuni piedi e molte mani, ma tutte le articolazioni sono conservate tranne il gomito sinistro del terzo compagno 54

Fig. 6, Roma, Museo della Civiltà Romana. Gruppo di Scilla, ricomposizione di tutti i frammenti superstiti con integrazioni di Silvano Bertolin, a cura di Bernard Andreae, visione da tre

quarti da sinistra.

55

(fig. 2), di cui esistono però la mano sinistra fino al polso e il braccio sinistro con la spalla, in modo che sia possibile colmare la lacuna con un gomito plasmato dallo scultore in guisa degli altri gomiti conservati. Mancano anche le teste dei primi tre compagni sulla fronte del gruppo (figg. 1, 2). Ci siamo visti costretti ad integrare queste teste tramite dei calchi della parte inferiore della testa del quarto e della parte superiore della testa del quinto compagno (figg. 3, 5), perché, se mancano queste teste, non si capisce se i cani le hanno già divorate (ma non c'era il tempo per un simile atto) o se sono andate perdute. Non era facile questa decisione, ma ci è sembrata necessaria, per rendere comprensibile ciò che succede. In questo senso ci è sembrato anche opportuno, di dare alla figura di Ulisse sulla nave una testa, anche se di questa testa non sia rimasto Fig. 7. London, British Museum.

peccato

Medaglio-

niente. Per intendere ancora meglio per quale motivo era im-

portante colmare le lacune, si guardi il quarto compagno

prima e dopo l'operazione della integrazione dei corpi (figg. 1, 3). Il quarto compagno forma con la coda sinistra, che lo awinghia, una doppia spirale. Le tante lacune nel marmo non permettono, a chi guarda, di individuare bene il movimento. Chiuse le lacune il movimento diventa evidente. Non era invece necessario integrare la testa, perché si capisce senza meno che la parte superiore è rotta. Il terzo compagno, la famosa figura volante (figg. 2, 3), è ricomposta da più di cento frammenti combacianti. Il cane lo morde nel collo e l'infelice si aggrappa alla zampa del mostro che lo aggredisce. Nella nostra ricostruzione non è stato inventato niente tranne la testa (copia peraltro, come si è detto, delle parti esistenti della parte inferiore della testa del quarto e della parte superiore della testa del quinto compagno). Per esempio, la posizione del braccio destro è provata dall'attacco del puntello sul collo del cane. Un frammento della zampa sinistra del cane combacia con la parte inferiore del torso e coll'orlo superiore con le spalle dell'uomo, e permette con ciò d'integrare la figura cosiddetta volante. Lo stesso vale anche per il secondo compagno (contando da sinistra a destra in senso antiorario). 1l suo movimento (fig. 2) si capisce solo se le gambe sono ricostruite. Egli cade nell'acqua con una panciata e viene afferrato alla spalla destra. La gamba sinistra è ricomposta quasi fin alla punta del piede (fig. 4) da frammenti esistenti. Della gamba destra è conservato l'attacco del dito grande sulla roccia (fig. 6). L'andamento di questa gamba perciò non può essere dubbio, e, per far capire meglio la figura, abbiamo deciso di ricostruire la gamba destra, anche se esistono solo pochi frammenti. Non era facile individuare il movimento complesso del primo compagno che cade a capofitto (fig. 2). Chiuse le tante lacune del suo corpo s'intravede questo capitombolo singolare. L'uomo è stato spazzato via dalla nave e cade testa în giù sopra il cane che si stende verso il timoniere. La domanda quale fosse il movimento della gamba destra, è stata risolta, quando si scoprì l'attacco del puntello sul dorso del cane. Adesso si capisce subito che questo compagno viene afferrato al volo e che la coscia con uno sbalzo cade sul dorso del cane, come la parte mobile di un correggiato. Nella prima ricostruzione dei frammenti originali di Sperlonga (fig. 1) il cane, la cui posizione è fissata da frammenti combacianti, risulta troppo in alto rispetto alla poppa della nave troppo bassa. Pare che gli scultori abbiano incontrato un problema, quando accostarono Scilla e la nave scolpite da due blocchi separati. Sappiamo, dalle scaglie trovate sul fondo della piscina intorno al basamento, che il gruppo fu scolpito sul posto da due blocchi trasportati a Sperlonga da Dokimeion in Frigia. Per congiungere il cane al timoniere nell'unico punto dove Scilla e la nave si toccano, gli scultori dovettero praticare con rapida scalpellatura un incavo sul dorso del timoniere, nel quale si posa la branca destra del cane. Con ciò si poteva definire esattamente l'altezza della nave. E solo, se la poppa è tanto alta, la mano di Scilla può afferrare il timoniere per i capelli (fig. 2). 56

L'ultima figura da ricomporre era Ulisse sul ponte della nave (figg. 4, 5). Di questa figura esistono, ma non poco, solo le braccia e le gambe, con cui si poteva ricostruire il movimento dell'intera figura. Nel momento in cui gli viene strappa-

to il nocchiere dal timone, in modo che la nave rimane senza guida, Ulisse salta a poppa, vibra l'ultima lancia contro il mostro e stende il braccio destro, per afferrare l'unico timone rimasto, quello di babordo. Con questo gesto egli salverà la nave. Il terzo colpo di fortuna - completamente inaspettato dopo il ritrovamento del frammento combaciante tra coda sinistra e base e dopo la scoperta del busto di Scilla di Afyon - è stato il ritrovamento di un mosaico a Gubbio (fig. 11) in questi ultimi anni. Venimmo a conoscenza di questo

straordinario rinvenimento solo quando la ricostruzione del gruppo era quasi finita. Questo mosaico rappresenta evidentemente la stessa composizione. Purtroppo manca anche qui il busto di Scilla. Si vede però il terzo compagno aggrappato con il gomito piegato alla zampa del cane, che lo morde nel collo. Si vede il secondo compagno afferrato alla spalla e pescato dall'acqua. Nella rappresentazione bidimensionale la figura è osservata da un punto di vista molto basso, ma è evidentemente la stessa anche se il movimento delle braccia è invertito. Manca il primo compagno, perché qui la scena è adattata alle condizioni di una rappresentazione piana. Il mosaicista ha girato la nave più a sinistra per far vedere una porzione maggiore del lato largo, più di quanto si potesse vedere in uno scorcio del gruppo plastico visto di fronte. Lasciando il nocchiere al suo posto il mosaicista ha abbassato il bordo della nave e ha messi i RARE E so Ulisse in modo illogico in primo piano. Ulisse ha già superato il nocchiere, si rivolge verso Scilla Fig. 8. Afyon (Turchia), Museo Archeologico. Busto e l'aggredisce, con la lancia vibrata col braccio de- di Scilla dalla cava di Iscehissar. stro alzato. Questo cambiamento rispetto al gruppo originale si rende necessario quando un'opera a tutto tondo viene rappresentata in un'unica visione su una superficie piatta. Per rendere comprensibile il movimento di Ulisse, il mosaicista gli fa vibrare un giavellotto. Da tutto ciò si può dedurre che il mosaico ripete la stessa composizione a tutto tondo che si è trovata scolpita in una copia in marmo a Sperlonga. Questo fatto è importantissimo per la datazione della composizione originaria, perché il mosaico di Gubbio si data all'inizio del primo secolo avanti Cristo, cioè cento anni prima dell'esecuzione della versione in marmo di Sperlonga, avvenuta dopo il 4 e prima del 26 d. C. Doveva perciò esistere una versione originale anteriore al mosaico di Gubbio, certamente del secondo secolo avanti Cristo, da cui dipendono sia il mosaico che la copia in marmo. I grandi puntelli, che nel gruppo di Sperlonga sono necessari per fungere da sostegni per il fragile marmo, provano che l'originale del secondo secolo avanti Cristo doveva essere di bronzo. Sappiamo che esisteva un simile gruppo bronzeo, il quale nella tarda antichità fu trasportato a Costantinopoli, esibito nell'ippodromo accanto all'obelisco di Teodosio e distrutto dai crociati 57

nel 1204, che del bronzo fuso coniarono monete. Di questo originale parleremo più avanti. Torniamo prima alla ricostruzione. Quando abbiamo ricostruito la figura di Ulisse sul ponte della nave, avevamo paura che egli coprisse la fi gura del quinto compagno. Questa figura (fig. 4) è una delle più avvincenti. È avvinghiato dalla coda

Fig. 9. Sperlonga, Museo Nazionale. Frammenti del gruppo di Scilla combacianti con la coda sinistra.

Fig. 10. Roma. 1 frammenti fig. 9 inseriti nella ricomposizione del gruppo al Museo della Civiltà Ro-

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serpentina di pesce ed aggredito da un cane feroce. Chiuse le altre lacune si evidenzia il suo movimento. Mentre il cane lo morde sul cranio l'uomo con il dito della mano sinistra gli strappa un occhio e lo acceca con il palmo della mano. La nostra paura fu infondata. La figura viene incorniciata in modo grandioso dalle gambe divaricate di Ulisse (fig. 4). La composizione di questo gruppo spettacolare è tanto interessante perché l'artista ha scelto un istante gravido di sviluppi; un attimo fecondo, cosi l'avrebbe chiamato Lessing". Più si vede, più si deve aggiungere nei pensieri, e più si aggiunge, più si deve credere di vedere. Il momento in cui l'artista ha fissato tutto ciò che si vede svilupparsi davanti agli occhi, è il momento del salvataggio della nave, quando Ulisse afferra il timone. Un attimo prima Scilla, avendo già buttato giù dalla nave cinque compagni, ha afferrato il nocchiere. A questi le gambe vanno in aria, perché ha in sé ancora l'inerzia del movimento della nave. L'aphlaston di poppa si avvicina velocemente e urta contro la mano di Scilla, che nel prossimo batter d'occhio deve lasciar andare il nocchiere. Questi si aggrappa con la mano sinistra alle coordinate della nave e forse riuscirà a tenersi attaccato alla poppa. Ma non è sicuro, perché si nota nei suoi occhi dilatati, con le pupille dipinte, il terrore con cui guarda sotto di sé nell'abisso di Cariddi (fig. 5). In questo momento i tre compagni d'Ulisse, che essa aveva buttato davanti alle sue protomi canine (fig. 2), si trovano in tre fasi successive alla caduta. Si leggono i tempi da destra a sinistra, cioè in senso orario. Il terzo compagno di destra, caduto per primo, vola in alto tirato su dal cane che lo morde sul collo. Il secondo compagno è caduto con una panciata sulla scogliera. Il cane si china per afferrarlo. Il primo compagno in questo momento cade a capofitto e viene afferrato dal cane al volo. Alle spalle di Scilla (fig. 4) ci sono le code, che prendono la preda e la offrono ai cani. Il quarto

Fig. 11. Perugia, Soprintendenza Archeologica. Mosaico con rappresentazione di Scilla da Gubbio.

compagno (fig. 3) è volto verso il lato sinistro di Scilla, il quinto verso il lato destro. S'intravede la sua faccia contorta tra le gambe di Ulisse (fig. 5), che prende la guida della nave mentre gli viene strappato il nocchiere. Adesso ci sarebbe molto da spiegare sull'arte del grande bronzista ellenistico sconosciuto, che creó questo gruppo; sarebbe da parlare molto di Atandoro, Agesandro e Polidoro, che lo scolpirono in marmo come del resto il famoso gruppo del Laocoonte. Ci sarebbe da dire molto sui resti dei colori che si trovano sui marmi. Ciò si deve lasciare alla pubblicazione finale, alla quale sto lavorando. Volevo dare qui una prima notizia in onore di Ernesto De Miro, che vive ed insegna nella città dello stretto di Messina, dove gli antichi collocarono la scogliera di Scilla e il gorgo di Cariddi. Il gruppo di marmo per volontà dell'imperatore Tiberio era esposto a Sperlonga. Il gruppo bronzeo, che servi da modello all'incisore dei medaglioni contorniati (fig. 7), dell'applique di Vienne, del mosaico di Gubbio, della ceramica ellenistica a rilievo di Rodi doveva essere esposto a Rodi in quanto monumento ai caduti nella guerra contro i pirati verso il 180 a. C. Se possiamo credere a non meno di cinque testimoni oculari’, di cui abbiamo delle descrizioni dettagliate, il gruppo sin dal sesto secolo dopo Cristo si trovava a Costantinopoli ed era esposto sulla spina dell'ippodromo accanto all'obelisco di Teodosio. Di questa esposizione esiste una testimonianza nella famosa gemma mediobizantina del museo di Istanbul ®, che rappresenta una corsa di quattro quadrighe intorno alla spina. Si vede l'obelisco al centro e alla sua destra un monumento, che potrebbe essere proprio il gruppo di Scilla. Essendo la larghezza della gemma solo un centimetro e mezzo, il disegno del monumento nell'originale è alto un millimetro, ma si vedono il braccio sinistro alzato e tre cani che prorompono dalla vita del mostro. C'è chi crede di poter individuare in questo disegno la figura di una Cibele cavalcante su un leone. Ma siccome la gemma è di epoca mediobizantina, non può rappresentare nessun altro ippodromo se non quello di Costantinopoli ed è noto che sulla spina di questo ippodromo accanto all'obeli59

sco era esposto il gruppo di Scilla e non un gruppo di Cibele sul leone. Sarebbe anche molto strana in quell'epoca la rappresentazione di una Cibele sul leone. Perciò tutti i Bizantinisti da me interpellati hanno dichiarato che l'interpretazione più probabile del disegno sarebbe una rappresentazione del gruppo di Scilla, che comunque era esposto in questo luogo. La ricomposizione del gruppo di Scilla del tipo rodiese Sperlonga-Costantinopoli fa riconoscere un capolavoro di scultura ellenistica di un'importanza epocale. Come abbiamo cercato di dimostrare altrove, l'originale rodio è stato creato come monumento della vittoria della guerra contro i pirati intorno al 180 a. C. a Rodi. A ricomposizione ultimata si vede ancora meglio che questo capolavoro della famosa bronzistica di Rodi sembra essere stato un importante predecessore storico-artistico dell'Ara di Pergamo, monumento della vittoria della guerra contro i Galli nel 166 a. C., di cui finora nonsi potevano evidenziare le radici nell'arte ellenistica. Ma questo è un altro tema“. NOTE ? B. Anpaeat- C. Parise Presicce (edd.), Ulisse. I! mito e la memoria (Catalogo della Mostra Roma 22 febbraio-22 settembre 1996), Roma 1996; ibid., B. Covriceno, Π gruppo di Scilla e della nave, pp. 280-315; ibid,B. ANpREAE- S. Brarouw, Scilla schede,pp. 298-305, Ὁ B. ANDREAE- C. Parise PRESICCE (edd), Ulisse, cit, p. 154, cat. nr. 269. Ὁ B. Axonene, Laocoonte e la fondazione di Roma, Milano 1989. + B. Axpreag, in B. Covrictuto - B. Anpeear— P. C. Bot, Die Skulpturen von Sperlonga, in Antike Plastik 14, 1974, p. 85. * B. Conricetto, in B. CovriceLto — B. ANDREAE— P. C. Bot, Die Skulpturen, cit, p. 13, p. 19 nr. 67.87. * G. Iacon, L'Antro di Tiberio a Sperlonga, Roma 1963, p. 118, fig. 112; B. Axpazas, Praetorium Speluncae. L'antro di Tiberio a Sperlonga ed Ovidio, Soveria Mannelli 1995, p. 128, fig. 69. "J. RovEx, "Marmor Phrygium", Die antiken Marmorbrüche von Iscehissar in Westanatolien, in IDAI 86, 1971, pp. 251.321;D. Mosa — P. Pexsanene, Marmi dell'Asia Minore, Roma 1977, pp. 29-77; R. Grou, Marmora Romana, Roma 1988, pp. 169-171;H. Muruscis, Buntmarmore aus Rom im Antikenmuseum in Berlin, Berlin 1985, p. 24, fig. 7. * B. Axpaeae - C. Parise PRESICCE (ed .) Ulisse, ci, pp. 290 s., figg. 7-9, pp. 362 ss. cat 5.14. * B. Avparar, Praetorium, cit, pp. 90 s. figg. 46-47. ! 1.G. E. Lessio, Laokoon, Berlin 1776. ? B. ANDREAE, inB. ConriceLLo - B. ANDREAE- P. C. Bot, Die Skulpturen, cit. p. 83, n.53. 5 B. Axpkear - C. Parise Presicce (edd), Ulisse, cit, p. 365, cat. 5.17. ? B. Anpazat — B. Conmicetio, Skylla und Charybdis. Zur SkyllaGruppe von Sperlonga, Abhandlungen Akademie, Mainz 1987 (tr. it), inPP 42, 1987, pp. 343-394 "* Su questo tema è in corso di stampa un mio articolo con il titolo Der hellenistische Hochbarock und Michelangelo. Vorgünger und Nachfolgerdes Pergamonaltares, in Belvedere, Zeitschrift für Bildende Kunst 2, 1997.

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Paoto Exrico Anas + LA CERAMICA GRECA FRA IL V E IL IV SEC. A.C. RINVENUTA IN ITALIA

Esiste un periodo della pittura vascolare greca attica che offre ancora oggi, assai spesso, una inquietante serie di problemi; è quello che va dalla fine della guerra sfortunata del Peloponneso e l'inizio di una politica ricostruttiva nei confronti della supremazia marittima di Atene alla riconquista di un cosiddetto impero che in realtà durerà assai poco. Fra le officine attiche del Ceramico si insinua, insomma, una ricerca scientifica, che possiamo definire anche pittorica, con una tendenza sempre più decisa verso una struttura stilistica espressiva; essa tuttavia conserva il controllo necessario attraverso la permanente tradizione classica. Un'epoca che fa seguito alle prime colonie attiche in Magna Grecia e si manifesta in alcuni pittori vascolari finora ancora inseriti nella grande serie attica degli inizi del IV secolo a.C. Forse il pittore vascolare più significativo, in questo senso, è quello di Suessula, seguito da quello di Meleagro; ambedue oggi tornano all'attenzione degli studiosi attraverso una più intensa e controllata attribuzione di prodotti delle loro officine, rinvenuti a Spina’, Qui parleremo del pittore di Suessula, (fig. 1) in attesa che un altro studio sul pittore di Meleagro, che sta per essere compiuto, dia risultati concreti. Denominato dal Beazley* dal toponimo della località campana, Suessula, vicina alla antica Acerra‘ non ha ancora trovato la collocazione che merita, ed è forse giunto il momento di affrontare in parte con un certo coraggio, una analisi della sua posizione cronologica e stilistica, ormai giunta ad un punto critico. Il vaso principale della sua officina, come tutti sanno, è appunto quell'anfora a due anse di forma rastremata verso il basso, oggi al museo del Louvre a Parigi, dove è rappresentata una complessa scena di lotta fra divinità greche e giganti, giustamente famosa. nel 1966 Pierre Devambez* in un articolo su di un dettaglio di quella scena (cioè sulla presenza, considerata spesso anomala, per l'episodio immerso nella Gigantomachia) si è fermato sul dettaglio della figura di una amazzone, colpita a morte dall'incombente gigante, ed ha messo in rilievo l'assurdità della notizia antiquaria corrente, che la grande anfora sia stata rinvenuta a Melos. La ben nota isola delle Cicladi, tristemente famosa per il crudele assedio subito da Atene in un momento decisivo del grande conflitto fra la Polis e la politica persiana, è proprio fuori luogo. I dubbi avanzati su quella provenienza, diceva il Devambez, si accrescono quando si rifletta che quel cimelio “al pari del cratere di Talos e quello di Pronomos, appartiene ad una categoria assai poco rappresentata nelle nostre collezioni (intendeva dire: del Louvre) e che dovette essere infatti assai limitata, cioè quella dei grandi lussuosi vasi che, nonostante il marasma economico, alcune officine attiche continuavano a creare, a lato di una produzione corrente di natura mediocre, per alcuni clienti ricchi, sul volgere del V sec. e del IV sec. a.C., quando sono state raccolte le altre opere del pittore di Suessula la cui provenienza è nota. È possibile che, in questa triste epoca, ci si sia imbattuti in compratori di vasi di tanto

pregio, fuori d'Italia dove invece sono state raccolte le altre opere la cui provenienza ci è nota? Ed è verosimile credere che se ne siano trovati in quella piccola isola di Melos che (dopo l'epoca lontana in cui traeva i suoi guadagni dal commercio dell'ossidiana) non aveva fatto altro se non vegetare, e la cui situazione intorno al 400 a.C. era stata assai poco splendida?”. E qui si allude alla feroce spedizione ateniese del 415 a.C. I dati dell'acquisto dell'anfora, cosiddetta di Melos, avvenuto il 30 luglio del 1874 non sono molto precisi. Si sa che era stata comprata quando Léon Heuzey era conservatore del Museo del Louvre. Il Devambez non crede all'esistenza di un collezionista riccone che tiene in casa un vaso così prezioso negli anni 70 nella cittadina di Angers, dove venne conclusa la vendita, e conclude: “È dunque dall'Italia, in realtà, che proviene la nostra anfora che era in quel tempo quasi él

τ

la nutrice degli amatori dell'antichità”. La descrizione minuta di questa anfora a f. (alt. cm 68) è stata affrontata più volte e quindi anche dalla ricostruzione della complessa scena di questa lotta gigantesca a suo tempo inserita nello scudo della Athena Parthenos di Fidia, realizzata in un famoso saggio di Arnold von Salis’. Ancora oggi quello studio, per quanto sia stato integrato da altri commenti, resta fondamentale per capire proprio questo straordinario soggetto mitologico. Ma l'intervento del Devambez non si limita al problema della provenienza dell'anfora parigina; perché si ferma su di un particolare piuttosto strano, sul quale molti studiosi hanno espresso qualche perplessità: si tratta della curiosa presenza, ad un certo punto, della figura soccombente di una Amazzone assalita da un Gigante.

La scena nel suo complesso comprende Zeus e Poseidon (sui due lati opposti), Atena con Apollo ed Artemide, Dioniso, Ares, Ermete, Ecate, Demeter e Kore. Ma fra le divinità nominate e chiaramente identificabili ne manca una, importantissima perché sposa di Zeus e indicata in una fonte piuttosto tarda e poco conosciuta, come partecipante e addirittura vittima di un Gigante: Era. La disposizione dei personaggi a struttura piramidale è piuttosto semplice. Il gruppo principale comprende Zeus, orgogliosamente in piedi davanti al suo carro, che colpisce un gigante, a sua volta oggetto della accurata mira di un eroe come Eracle a sinistra in ginocchio; è reso in un atteggiamento che ricorre assai spesso in Gigantoma-

chie rappresentate su vasi più antichi del nostro, specialmente quelli del pittore dei Niobidi. Il gigante oggetto del duplice attacco è Porfirione, re di quegli esseri selvaggi, citato anche in una iscrizione posteriore alla grande opera della Parthenos fidiaca (fig. 2). Sulla destra appena un po' pi basso di questi personaggi una figura femminile caratterizzata indubbiamente come una amazzone colpita dalla lancia del gigante, sta per crollare accasciata dal dolore; è senza copricapo, indossa Fig. 1. Parigi, Louvre. Lato a dell'anfora da Melos una sottile e brevissima clamide a tunica che si con Zeus che assale Porfirione. estende su di una coscia, ha calzari alti tipici di personaggi di origine asiatica; cerca di afferrare, ancora a sinistra con la punta delle dita, il piccolo scudo lunato che sta per sfuggirle di mano, mentre il braccio destro si abbandona sul capo cercando invano di afferrare una lancia. L'identificazione di una amazzone è, diremmo, chiarissima. Le ipotesi fatte sono state molte, e le prime sembrano proprio insostenibili. Lo Heydemann riteneva che fosse Eris, simbolo della discordia, ma conosciamo già questa figura simbolica, mai resa come amazzone ma come personaggio che compare per esempio nel Giudizio di 62

Paride o simbolo di "Mania" e fornita di frusta, mentre la presenza dello scudo lunato non c'entra. affatto con questa ibrida rappresentazione di Eris. Escludendo anche l'idea del Farnell che vedeva addirittura nella figura femminile una Gigantessa, non altrimenti nota, ed ancor meno di Gorgone figlia di Ghe (ben diversamente caratterizzata dovunque) si è presa per buona la identificazione con Erythra, una figlia di Porfirione, immaginabile presenza riferibile ad una fonte poetica perduta, dove si parlava appunto delle vicende del gigante (Furtwangler). Non si deve dimenticare tuttavia che sullo scudo della Parthenos era rappresentata all'esterno una Amazzonomachia a rilievo, mentre all'interno era la Gigantomachia; questo porterebbe a pensare a qualche intrusione, da parte di qualche artigiano di un elemento mitologico diverso da quello principale (la Gigantoma chia). Perché l'incertezza della vera fonte figurati. va di questo dettaglio (che sembra emanare da una necessità narrativa) aumenta, se è possibile, in questa situazione anomala, immaginando simile soluzione, un'unica via che il Devambez trova per risolvere il non facile problema è la rilettura di due fonti letterarie anzitutto quella della Biblioteca dello Pseudo -- Apollodoro e poi quella, in-

Fig. 2. Dettaglio del lato dell'anfora parigina attri-

dubbiamente affascinante, di Aristofane (Aves, v. bui al pittore di Suessula. In alto Zeus che assale

1633) dove Pistetero afferma: “Era, io la lascio a Porfirione, a ds. figura di amazzone che sta per crolZeus mentre la giovane Basileia bisogna darmela lare mentre il gigante con la mano abbassata cerca in moglie”. Il Vian’ richiamando una rappresen- di afferrarla tazione figurata sul cratere del pittore di Altamura ora a Londra, ha confermato l'esistenza di una figura di Era che afferra un giovane Gigante sul suo elmo e che con la mano destra tiene evidente una chiave del tempio, mentre sul suo volto appare una espressione di dolore quasi amoroso. E qui compare l'importanza della notizia di Apollodoro; "Porfirione, durante la lotta si precipitò su Eracle e su Era; Zeus gli ispirò il desiderio di Era, ed essa chiamò aiuto mentre egli strappava il suo peplo, e tentava di violarla. Zeus allora fulminò Porfirione ed Eracle lo soppresse con la sua freccia”. In questa descrizione, indubbiamente sommaria ma significativa, potrebbe vedersi la ragione, non capita dal pittore vascolare, della presenza di questa figura femminile che sta per crollare, ma conserva nella espressione dolorosa e romantica, nonché nel dettaglio sottile di quel panneggio disteso sul suo corpo ed al quale sta per arrivare la mano di Porfirione. Ma l'anfora di Suessula non è isolata nella produzione del nostro pittore, del quale occorre ora occuparsi con maggiore attenzione. Secondo il Beazley erano da attribuirsi al pittore vascolare al 1963, 14 vasi, più qualche frammento (“probably” egli dice) di cratere a campana di Cambridge, delTAgorà di Atene, di Würzburg (questo, al solito, derivato da un filo rosso che per decenni ha legato quel Museo di W. ai frammenti numerosi di vasi provenienti da Taranto). Qui appare una scena di Gigantomachia appartenente ad un cratere con volute". Il centro delle identificazioni "beazleyiane" costituito da alcuni vasi della collezione Spinelli di Suessula, uno dei quali ora a Boston altri a New York mentre quello da Napoli a quel Museo è stato rinvenuto nel 1935. Queste quattro anfore con anse tortili sembra proprio che appartengano alla stessa officina cumana che così grande importanza ha assunto negli studi di Ettore Gabrici effettuati agli inizi del secolo in quella città euboica ". Due dei vasi da Suessula ora a New York contengono scene di combattimento fra un greco e una amazzo63

Fig. 3. Ferrara, Museo Archeologico Nazionale di Spina. Lato A del cratere a volute della. tomba 136 di Valle Pega. Sul collo scena dionisiaca. ΑἹ centro, sotto: probabile Creusa con Ascanio, Aiace, Cassandra, eidolon di Atena Iliés, Priamo, Andromaca, Astianatte, Neottolemo, Ecuba.

ne, e sembra proprio che rispecchino nei dettagli dei contendenti e più ancora nella struttura dei movimenti; particolari atteggiamenti dei personaggi che formano la grande Gigantomachia. Lo dice addirittura anche Gabrici, anche senza un commento in proposito del Beazley; il quale, prudentissimo sempre, ha molto rispetto dei giudizi di Gabrici. L'anfora di New York con scena di congedo di un guerriero, al fianco del suo cavallo, in cui si distingue una certa policromia delle figure è certamente dello stesso pittore di quella del Louvre. Il nove Settembre 1954 veniva scoperta in Valle Pega. dopo diversi rinvenimenti di tombe sul dosso A, la Tomba 136 della zona sotto controllo. Nel corredo compariva in grandi frammenti il cratere (figg. 3-4) con volute su alto piede lavorato a parte con, sul lato A, la scena della cosiddetta Tioupersis e sul lato B quella di una lotta fra Lapiti e Centauri. Il cratere è stato da me pubblicato nel 1955 9: ambedue questi motivi figurati - notissimi nella ceramica greca di stile tardo-severo fra i quali spicca quello sulla idria Vivenzio del Museo Nazionale di Napoli del pittore di Kleophrades e quello della centauromachia ampiamente ripreso nella ceramica figurata della stessa epoca ispirata sia alla tradizione della pittura parietale polignotea sia ai grandi vasi che ne derivano — sono un patrimonio comune della grande officina del Ceramico ateniese che si riporta alla tradizione della grande arte di Polignoto e di Fidia. Gli echi di questa corrente dominante nel Ceramico non

sono scomparsi neanche nei primi decenni del se-

Fig. 4. Ferrara, Musco Archeologico Nazionale di Spina. Lato B del cratere a volute della tomba 136 di Valle Pega con scena di centauromachia.

colo successivo. E crediamo che anche la presenza di arditi scorci che abbondantemente fioriscono sull'anfora del pittore di Suessula siano da collegarsi, insieme con quelli che si colgono sui vasi del pittore di Meleagro, del pittore di Pronomos, ed in genere dei maggiori artigiani della prima metà del IV secolo. Quando stavo studiando il cratere rinvenuto a Spina, scrissi al Beazley chiedendogli un parere; ero stato colpito, come tuttora lo sono, dalla struttura di questo imponente cratere con volute, decorato soltanto nella metà superiore da fregi figurati; oggi non si tratta più di ritenere questa forma una assoluta novità. Il Beazley mi rispose con la solita ormai sperimentata cortesia e premura, che non se la sentiva di pensare ad un prodotto di una officina non greca. Certamente ancora adesso non è possibile pensare ad una officina diversa, ma la situazione di queste notevoli espressioni di ceramica greca su suolo non attico ma italiota è profondamente mutata. Il confronto va subito non tanto al creatore di forma simile a quello della Tomba 136A di Spina proveniente da Gela ed ora New York ma corre verso ben più originale e rara forma di cratere “di tipo dinoide” senza dati di provenienza, ma capitato nella collezione del Museo Paul Getty di Malibu. L'attribuzione del cratere di Spina al pittore di Atene 12255 (Beazley ARV?, 1435) in base al confronto col cratere a calice dell'Avana non regge assolutamente (fatto dal Mc Phee cfr. R. Olmos, Catalogo Mus. Avana, Madrid 1993, n. 96, p. 202-204). Purtroppo per quanto riguarda Cuma, sappiamo che quegli scavi condotti dal sostituto di Gabri; che era lo Stevens, hanno dato dei materiali abbondantissimi sistemati in armadi dove non è ri65

masto, a suo tempo, alcun segno di corrispondenza con i dati di scavo; questo ha reso noto nel 1967 il Trendall. E quindi resta non facile certamente oggi la sistemazione cronologica, e di conseguenza stilistica, di una notevole quantità di materiali sicuramente provenienti da Cuma. Ma a questo punto riteniamo davvero che sia affidato a qualche giovane studioso (locale o addirittura straniero che abbia voglia di cimentarsi in un compito così arduo) una revisione accurata del problema cumano che concerne soprattutto la prima metà del IV secolo a Cuma. La questione si complica quando pensiamo che nel 1928 Karl Schefold intraprese una accuratissima indagine, completa per quel tempo, su vasi provenienti dalla grande colonia greca di Panticapeo (Kertsch) in Crimea; in quella occasione lo Schefold fece un vaghissimo accenno alla affinità

pittorica e stilistica delle ceramiche italiote; questione che non è stata ancora, ci sembra, ripresa

come meriterebbe. Crediamo invece che il nostro Pittore, trattando uno schema di grande tradizione attica appartenga ad una officina italiota che da decenni attende di essere pienamente indagata dagli studiosi

della pittura vascolare Cumana. Siamo in un momento assai singolare della attività delle officine campane; e se non ci fosse stata quella circostanza così inquietante circa le vetrine dei magazzini dei materiali degli scavi cumani, ci troveremmo in una condizione ben migliore.

Comunque sia abbiamo ancora tante cose da dire su questo pittore come su quello che si sta per ne le immortali conquiste della pittura parietale e della scultura della grande scuola fidiaca, sembra ad un certo punto che passi nelle officine delle colonie di occidente e soprattutto in quelle che stanno intorno alle regioni centro meridionali della Magna Grecia; lo stesso pittore di Pronomos ' così ricco di richiami culturali di grande ispirazione sembra proprio avvertire questa esigenza. Il culto della memoria di un grande passato attraversa questi pittori che non sono “mediocri”, come qualcuno ha osato dire, perché hanno avuto il coraggio di credere in un momento fulmineo della grande arte ateniese (intorno alla metà del V secolo e poco dopo di questa) dell’Atene Periclea.

affrontare nei riguardi del pittore di Meleagro. Il compito di trasmettere in ambienti lontani da Ate-

NOTE * Su questo pittore, anzitutto J. D. Beaziex, Attic Red Figured Vase Painters, Oxford 1963, pp. 1344 - 1346. ? Si veda quanto ho appena accennato in S/FC a proposito del cratere con volute della tomba 136 a V.P. a Spina, 1995, ? Sulla località campana di Suessula antica, vicina ad Acerra, e sine suffragio cfr. ora M. R. BorRILLO , v. Cancello, in G. Nrxa - G. Vacter, Bibliografia topografica, Roma - Pisa 1985, pp. 340-344, nonché nostra n. 1 * Sulla collezione di vasi, bronzi e monete della tarda età del ferroe successive necropoli che formano il nucleo della collezione del marchese Spinelli iniziata con gli scavi del proprietario nel 1879, ed ora nel suo nucleo, assai ridotto dopo gli eventi bellici, al Museo Nazionale di Napoli si veda l'introduzione di M.R. BorRIELLO, CVA LXVI, (vol. IV di Napoli), Roma 1991, pp. 12. 7 Sulla scena di Gigantomachia che deriva da una consolidata tradizione figurata anche precedente a quella di Suessula, ctr. la rappresentazione sullo scudo della Athena Parthenos di Fidia, F. Vian, Repértoire des Gigantomachies, Paris 1951, p. 86 nr. 392; per il frammento di Würzburg, pl. XLVI, nel volume di commento al Repértoire, p. 149 ss. dove si parla della scena dell'interno dello scudo della Parthenos, e del rapporto fra il frammento di W. e lanfora di Suessula, anche in seguito all'articolo fondamentale sul problema fidiaco, A. vox Sau, in JDAI 55, 1940, pp. 90-169, e particolarmente pp. 125-126, 133 * P. Devaugez, L'Amazonede l'amphore de la Gigantomachie du Louvre et le Bouclier de la Parthenos în Chairisterion, Athenai 1966, pp. 102-106. ῬΑ, vox Saus, cit. specialmente alle pp. 125-126, 131, figg. 20,25. * Su Apollodoro ora cfr. Apollodoro, miti greci, Milano 1996, I, 6, 35, 2, p. 25. "Porfirione invece durante la mischia, si lancio contro Eracle ed Era. Ma Zeus suscitò in lui il desiderio di Era, il gigante le strappò le vesti cercando di violentarla cla. dea chiamava aiuto. Allora Zeus scagliò un fulmine ed Eracle lo colpì con una freccia e lo uccise”. Devambez non manca di osservare la situazione obbiettiva di quel personaggio che sembra tentare di allungare la mano su quella gamba sinistra della cosiddetta Amazzone. Se così stanno le cose è da pensare che il pasticcio sulla incomprensione della figura di Era possa risa lire addirittura alla scena dell'interno dello scudo della Parthenos che come è noto, riproduce appunto una lotta contro le amazzoni e non una Gigantomachia che, invece, era sulla parte esterna dello scudo della dea. * F. Vins, La guerre des Géans, Paris 1952, pp. 197-198, pp. 208 - 209; p.226; p. 228. In. in LIM VII, 1994, pp. 443-444. Per il cratere del pittore di Altamura in cui Era tiene la chiave del tempio nella destra ed ha un atteggiamento, dice il Devambez "quasi seducente” si veda anche F. Vas, Repértoir, cit, p. 69. J.D, Beaztey, Attic Red Figured Vase Painters, cit, pp. 1344-1346. 66

? A. vox Sus, cit, p. 133, fg. 25. ? E. Gasgici, Cuma, in MonAL 22, 1913, cc. 682-684 nonché, importante, l'anfora di Boston (coll. Borelli) di cui CasranBraz.ey, Att Vasepaintings, Oxford 1954, pp. 87.88, p. 173. ! La tomba 136 VP dosso A col grande cratere decorato soltanto da figure nella parte superiore e, nel resto, da semplici strigilature verticali dipinte di nero cfr. P. E. Anis, in RIA 1955, cfr. F. Beam - G. Guzzo (edd.) Spina, Storia di una città di Greci ed Etruschi, (Catalogo Mostra 1993/94), Ferrara 1993, ner. 440 - 537, pp. 302 - 307. Non c'è bisogno quasi di aggiungere che questo imponente cratere trova ora qualche riscontro nella forma sia con quello non decorato da Gela, ora a New York, ma soprattutto con quello di Malibu del pittoredi Meleagro; cfr. L. Bur, Greek vases in the P.Getty Museum, Malibu, California 1991,pp. 107 -- 130 e specialmente le figure 2-3, p.112. "* K. Scuzsorm, Untersuchungen an Kertscher Vasen, Berlin 1934 (nonché Ip., Die Kerischer vasen, Berlin 1930. Ma per avere una idea del problema del quale accenniamo va anche tenuta presente la ricerca ampia di H. MET20FR, Les représentations dans la céramique attique du IV siecle, Paris 1951, p. 51 n. 1, p. 349, n.3. I rapporto della "imagerie" del IV secolo con la. Magna Grecia è appena sfiorato, e tanto meno quello dello stile di Kertsch con quello della Magna Grecia. E giustamente, pe: ché [Attica indubbiamente dominante nelle colonie della Russia Meridionale appare in Magna Grecia in momenti diversi Oggi i rapporti andrebbero indubbiamente meglio chiariti. E tuttavia si vedano le importanti allusioni contenute nel recente libro di J. Boaroaan, The Greeks Overseas, London 1980 nel capitolo pp. 192 -198. ! Se ricordiamo questo pittore così affascinante non è certo per contrastare il carattere attico della sua ricca esperienza artistica, ma per ribadire (e ce n bisogno) che egli, sensibile alla policromia trionfante nella Magna Grecia e specialmente nella zona centrale sia in Campania e in Apulia, andrà ancora studiato per quanto riguarda il cratere di Ruvo; e senza dimenticare tuttavia un suo assai malridotto cratere a campana della stessa officina rinvenuto nella Russia meridionale. Cfr. per il cratere di Ruvo P.E. Arts - ΒΒ. ϑηξριον, Greek Vase Painting, London-New York 1961, p. 377 ss. pls. 218-219; per il cratere ‘a campana di Baksy, B.B. Surrow in The Eyes of Greece (Misc. Webster), Cambridge 1982, pp. 4-140.

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Marceta BARRA Bagnasco * NOTE SULLA COROPLASTICA RINVENUTA NELL'AREA INDIGENA DELL'ANTICA BASILICATA (VIII SEC. A. C.)

Non è difficile trovare argomenti che si prestino a essere inseriti in una miscellanea di scritti in onore del Prof. De Miro, considerata la varietà dei temi che Egli ha approfondito nella sua attività di archeologo. Pensando, in particolare, ai suoi studi sul mondo indigeno, ho scelto - come mio omaggio personale — di fare il punto sullo stato delle ricerche per quanto riguarda le terrecotte provenienti dagli scavi sinora condotti nell'antica Basilicata. 1. INTRODUZIONE La Basilicata rappresenta oggi campo di particolare interesse per mettere a fuoco aspetti dell'am-

biente italico, grazie all'incremento che ha avuto la ricerca archeologica su questo specifico problema negli ultimi decenni. Tuttavia, tra i numerosi materiali messi in luce e studiati, la coroplastica si è vista assegnare un ruolo minore, un'attenzione un po' limitata, fatta eccezione per alcuni complessi — specie aree sacre - che sono stati pubblicati in modo più o meno esauriente! Sembra quindi utile puntare l'attenzione sui principali problemi collegati a questa produzione che, attraverso il tempo, sempre più venne coinvolgendo il mondo indigeno, secondo quanto indica la massiccia presenza di terrecotte circolanti. Dico subito, anticipando quanto vedremo più diffusamente in seguito, che gli apporti indigeni alle invenzioni iconografiche di questi ex voro furono piut-

tosto limitati. La religiosità locale, nata aniconica, cedette un po' supinamente alla suggestione degli exvoto in argilla, prodotti a stampo nelle città coloniali: si trattava infatti di oggetti piacevoli sotto il profilo estetico, di basso costo, e che potevano facilmente essere assimilati a istanze devozionali indigene. Non è mia intenzione - e sarebbe qui troppo lungo - analizzare in maniera sistematica i molteplici temi e iconografie che circolavano nell'area prescelta: mi limiterò ad alcune osservazioni generali sui contesti di provenienza e sui luoghi di produzione, ricavando poi conclusioni relative ai modi di accettazione dei fittili di origine greca nel mondo indigeno. Una prima osservazione è che il ventaglio di temi presenti in età arcaico-classica è assai più limitato rispetto a IV-III sec. a. C.: l'osservazione deve essere però valutata con prudenza, in quanto, allo stato attuale delle ricerche, i trovamenti riporiabili all'età più antica sono decisamente inferiori come numero. Una seconda considerazione di carattere generale è il perdurare di alcuni temi dall'età arcaica alTellenistica, ovviamente con trasformazioni a livello iconografico. I casi più evidenti sono rappresentati dalla figura femminile in trono e da quella di offerente, nonché dalla madre con bambino, la Kourotrophos. La fortuna di questi soggetti, anche nel mondo greco, si lega al loro valore universale, che singoli contesti di volta in volta qualificavano: ad esempio, la figura in trono è Afrodite o Persefone a Locri e Crotone, oppure Hera, a Poseidonia e al santuario di Foce del Sele. In particolare, la figura femminile in trono appartiene a una rappresentazione mentale, comune a quasi tutte le civiltà, di dea madre, simbolo di fertilità sia nella vita agricola che nel contesto domestico. Non a caso sono le statuette di figure in trono che si rinvengono con maggior frequenza nelle case, più spesso nella stanza destinata alle attività femminili, connotate talvolta dalla presenza del telaio. Qui divengono elemento di protezione dell'oikos, secondo un concetto generale che comprende le persone, la prosperità economica, lo sviluppo e la continuità della famiglia’ 69

2. CONTESTI DI PROVENIENZA

Alla continuità di presenza, attraverso il tempo, delle statuette di terracotta in tutto il mondo indigeno della Basilicata fa riscontro la continuità dei contesti di provenienza. Tuttavia, lo stato attuale della ricerca consente di analizzare in modo più approfondito la situazione dei secoli più recenti, grazie al numero supcriore di reperti riconducibili a questo periodo.

In ogni modo, anche se la quantità dei documenti è decisamente inferiore per l'età più antica, è to, permangono tre i contesti di provenienza della coroplastica e cioè aree sacre, tombe c abitati. In secondo luogo, in nessun periodo sembra di poter enucleare temi creati appositamente per determinati contesti: non esistono, per così dire, temi con valenza specifica. Per quanto riguarda questo secondo aspetto, ricordo che fin dall'età arcaica gli stessi tipi di fittili presenti in alcune tombe, sono stati restituiti anche dalle aree sacre. Basti citare il caso dei due esemplari di protomi c delle tre dee in trono presenti sia nelle sepolture di bambino ad Alianello (figg. 1, 27) che nella stipe di Garaguso*. possibile porre in evidenza due analogie tra realtà di età arcaico-classica e di età ellenistica. Anzitut-

1. Policoro-Museo. Alianello-Cazzaiola, tomba 612, protome femminile (2.23).

Fig. 2. Policoro-Musco. Alianello-Cazzaiola, tomba 612, figura femminile in trono (2.24)

Come è logico, il contesto che offre una documentazione più ricca rimane sempre l'area sacra. In particolare, la presenza di moltissime terrecotte con figura femminile seduta trova giustificazione leggendovi una rappresentazione miniaturizzata ispirata alle grandi statue di culto, in materiali più pregiati, che costituivano il punto centrale della sacralità dei vari santuari. Per la Basilicata indigena un interessante documento in tal senso è rappresentato dalla statuetta in marmo — alta appena cm 21,8- rinvenuta, unitamente alla riproduzione in scala ridotta di un tempio, a Garaguso*. I ritrovamenti più significativi per l'età arcaica e classica sono certamente quelli di Garaguso e

Timmari, mentre per il periodo IV-III sec. la Basilicata indigena offre una ricca gamma di santuari,

di varia connotazione anche a livello delle strutture* - da quello federale di Rossano di Vaglio a quel-

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li "circondariali" di Timmari, S. Chirico Nuovo, Chiaromonte, Colla di Rivello, ecc. — all'interno dei quali sono state scoperte centinaia e centinaia di statuette”. Poco frequente è invece la deposizione di fittili in tombe di età arcaica, contrariamente a quanto avviene ~ fin dal VII secolo - per altri materiali derivati dal mondo greco: armi, bacili, ornamenti in bronzo, ferro e ambra, per citare i principali*. Non è soltanto limitato il numero delle terrecotte rinvenute, ma anche quello delle zone di provenienza. Ad esempio, le statuette sono completamente assenti dalle necropoli di Chiaromonte (Contrada Serrone e Sotto La Croce), di Latronico (Colle dei Greci), e di Guardia Perticara. Nella necropoli di Alianello (Valle delT'Agri) - l'unica ad aver fornito sette esemplari - le terrecotte sono comunque in numero così limitato, rispetto agli altri materiali, da far percepire la loro presenza come un fatto eccezionale e limitato a tombe inFig. 3. Metaponto-Museo. fantili* Nella generale scarsità di esemplari di età arcaica, la valle dell'Agri Pomarico Vecchio, abitato, presenta dunque un episodio che potrebbe testimoniare maggiori scam- _ testa femminile arcaica. bi culturali e commerciali, anche grazie alle caratteristiche naturali, più aperte, ad esempio, rispetto alla vicina valle del Sinni. Bisogna però dire che talvolta terrecotte greche non ebbero difficoltà a raggiungere anche località interne, come ci documenta il materiale dell'ultimo quarto del VI sec. a. C., rinvenuto nel santuario di Garaguso, nell’alta valle del Cavone. Tra IV e III secolo, nella Basilicata interna, la coroplastica viene ad avere, anche a seguito di una maggiore penetrazione dei modi culturali greci, quella stessa diffusione capillare che conosciamo nelle città coloniali, ad iniziare da quelle più prossime di Taranto, Metaponto ed Eraclea. Rispetto ai secoli precedenti, la documentazione dai contesti necropolari diventa più ampia, ma permane limi. tata numericamente - e concentrata in tombe infantili - in rapporto alla massiccia presenza di statuette nelle aree sacre". Venendo al terzo contesto, rappresentato dalle abitazioni, bisogna anzitutto dire che l'indagine sull'edilizia privata non è ancora così sviluppata come quella sui santuari e sulle necropoli. Il quadro attuale presenta pochi rinvenimenti, ed è provvisorio e suscettibile di profonde variazioni. Per l'età arcaica un esempio di evoluzione dei dati è costituito dai recenti rinvenimenti di Pomarico Vecchio e di Roccagloriosa, che mostrano nei due centri l'esistenza di coroplastica di tipo greco — rispettivamente metapontina e siceliota " - fin dalla fine del VI sec. a. C. (fig. 3). delle Per il IV-III sec.a.C. un po’ più ricca è la documentazione di terrecotte figurate all'interno passa Si privato. tipo di devozionali pratiche nelle oggetti, questi di case, a prova dell'introduzione da una o più statuette, come è noto, ad esempio, a Pomarico Vecchio, a Oppido Lucano, a TolveValle Chirico, a Banzi-Mancamasone", al caso macroscopico dei complessi gentilizi di Roccagloriosa, dove si è rinvenuta una stipe con numerosi fitili " 3. CENTRI DI FABBRICAZIONE DELLE STATUETTE E DIFFUSIONE DEI TIPI Mentre per diversi tipi di manufatti in argilla, quali tegole e ceramica comune, è stata ormai as-

sodata l'esistenza di centri di produzione indigeni (da Cozzo Presepe, a Pomarico a Pisticci, e Montescaglioso), per quanto riguarda la coroplastica il problema è ancora aperto. Per inquadrare in modo corretto la questione, dobbiamo rispondere — per le statuette in terracotta τ ἃ due interrogativi. Da un lato il luogo di invenzione, di creazione, del tipo e, dall'altro, il luogo di fabbricazione. Sono due aspetti che non necessariamente coincidono: un tipo creato in un determinato centro poteva infatti essere prodotto a centinaia di chilometri di distanza, mediante la matrice acn

quistata nella bottega di creazione, oppure in modo più indiretto ricalcando un positivo * con il conseguente esito di un fittile identico al primo, ma differente per tipo di argilla e per dimensioni '. Allo stato attuale degli studi, i dati consentono più spesso di rispondere alla prima domanda e cio? quale fosse il luogo di creazione dei prototipi. Infatti, nella maggior parte dei pezzi messi in luce in Basilicata è chiaramente identificabile l'origine coloniale, tanto che è possibile avanzare confronti puntuali con materiali di centri sicuramente creatori quali Taranto, o Metaponto o Eraclea, per citare solo i casi più frequenti, anche se sono numerosi gli esempi di materiali derivati dall'area tirrenicaἢ, A fronte della massa di materiali di aspetto greco, o “grecizzante”, i prodotti definibili locali per caratteristiche particolari sono ancora relativamente pochi. Al riguardo è possibile distinguere due filoni. Da un lato, i pochissimi pezzi che dovevano essere una totale invenzione locale, ad esempio, una serie di oggetti o modellati a mano, o per i quali era sufficiente una matrice molto semplice. Dall'altro, creazione di origine greca, interpretate localmente in un linguaggio semplificato. Al primo filone appartengono i votivi di tipo anatomico, il cui uso era limitato a santuari con valenze iatriche, più diffusi nel mondo italico che in quello greco. Modellati a mano erano, ad esempio, le mammelle, le dita e le gambe rinvenute nel santuario di Chiaromonte, così come i serpenti messi in luce nello stesso santuario, o altri animali serpentiformi dal santuario di Rossano di Va8|10 5. Inoltre, non vanno dimenticati altri oggetti che ricordano forse tradizioni locali, e che dovevano riflettere l'estro momentaneo di un artigiano. Tra gli esempi più antichi vanno citate una figura maschile seduta da Timmari, modellata a mano, che potrebbe essere il più antico pezzo del santuario" e alcuni oggetti messi in luce a Pomarico Vecchio, quali il caratteristico peso da telaio antropomorfizzato e un pestello desinente in testa di serpente”. Esempi di terrecotte modellate con matrice molto semplice sono alcuni sostegni di foculo decorati con teste e altri motivi, rinvenuti in varie località”. Inoltre un piccolo disco con due astragali a rilievo (uno di piatto e l'altro di profilo), sempre da Pomarico; una curiosa testina, con volto appena abbozzato e abbondanza di motivi plastici, aggiunti a formare una doppia corona intorno al capo, rinvenuta di recente nel santuario indigeno di S. Chirico Nuovo (loc. Pila), nel potentino"; e alcune statuette di Rossano di Vaglio, dette di tradizione popolare, realizzate in modo “espressionistico”, con poca definizione dei particolari e resa volutamente marcata di altri. Ricordo infine quella serie di oggetti non centrali, ma secondari per le espressioni del culto - quali tutte le offerte sostitutive, dagli animali, αἱ frutti, ai dolci, ai pani — che per la semplicità della forma potevano essere ideati in loco. AI secondo filone di creazioni locali, ispirate però a modelli greci, appartengono alcune figure tipo Tanagra dal santuario di Chiaromonte, in cui l'eleganza originaria del tipo, puntualmente presente in esemplari coloniali, e specie tarantini, è meno leggibile, per una sproporzione del collo, eccessivamente grosso e lungo, e per una resa massiccia dei panneggi. Ma bisogna anche ricordare la testa maschile, più legata alle tradizioni italiche, rinvenuta nel santuario di Rossano di Vaglio?*, e varie statuette della stipe di Timmari, ad esempio alcuni tipi tanagrini** Diverso e più articolato il panorama che si prospetta per quanto concerne la fabbricazione. Per l'età arcaica la relativamente scarsa richiesta di terrecotte, che dovevano rappresentare un segno distintivo e di prestigio limitato a poche persone, non dovette sollecitare impianti finalizzati a questa particolare attività. Con probabilità si preferiva acquistare la coroplastica direttamente nei centri coloniali. La mancanza di apprestamenti produttivi in loco è spiegabile con un'assenza di domanda, piuttosto che con un'incapacità tecnica, che sappiamo non reale, vista l'esistenza di altre attività connesse con l'argilla, quali, ad esempio la ceramica, anche con la creazione di particolari motivi decorativi, rielaborati localmente Tra IVe III sec. a. C. l'interesse per la coroplastica aumentò, tanto che le statuette in terracotta si diffusero a livello capillare, accrescendo anche l'utilizzo all'interno delle case, per la celebrazione di culti domestici. Questo fatto dovette indubbiamente spingere vari centri ad avviare una produzione autonoma, che possiamo immaginare variamente articolata”. Purtroppo, manchiamo ancora delle informazioni - dalle analisi delle argille, a studi finalizzati che forniscano precisi dati quantitativi, nonché le necessarie misure per stabilire sequenze di gene72

Fig. 4. Policoro. Chiaromonte-S. Pasquale, santuario, matrice di figura femminile (3.45.2).

Fig. 5. Policoro. S. Arcangelo-S. Brancato, tomba 23, figura femminile seduta (3.40.24)

razioni - indispensabili per stabilire l'esistenza di aree di fabbricazione. Dobbiamo quindi servirci di indizi di vario genere che possano permetterci di arrivare, sia pure in via di ipotesi, a qualche conclusione. Anzitutto elementi legati alla lavorazione, quali la presenza di matrici, o di statuette mal cotte o sformate, oppure resti di fornaci, come talvolta si è verificato nei centri della costa. Inoltre l'osservazione delle caratteristiche globali delle terrecotte dei vari contesti. Una certa omogeneità di caratteristiche stilistiche e tecniche - aspetto dell'impasto, modo di rifinitura, ritocchi particolari, loro frequenza o assenza - nonché il confronto con altri prodotti in argilla sicuramente locali, può consentire di leggere quella “aria di famiglia” , che può autorizzarci a ipotizzare una fabbricazione in sito. Posso, ad esempio, proporre sul materiale del santuario di Chiaromonte, nella valle del Sinni qualche osservazione, che deriva da una ricognizione preliminare e da uno studio a livello di catalogo in via di completamento ". Vari elementi concorrono ad ipotizzare la fabbricazione locale degli ex voto. Anzitutto il rinvenimento, non molto distante dal santuario, di un piccolo lotto di matrici (fig. 4), e poi, nel santuario stesso, altri due spezzoni di matrice meno leggibili e alcune statuette di figure femminili sedute, appartenenti ad almeno due generazioni, in cui gli originali più piccoli risultano ottenuti mediante matrici calcate direttamente sui positivi?. Anche per il ricco materiale del santuario di Rossano di Vaglio - dove sono state recuperate alcune matrici- - e per parte della coroplastica della stipe di Timmari - dalle protomi, ai busti, alle figure sedute - viene proposta la possibilità di una produzione locale?. Non mancano dunque - sia pure in modo limitato ~ prove di una produzione locale di terrecotte, se non in tutti, almeno nei pressi dei santuari più importanti. In qualche caso poteva trattarsi delle stesse botteghe nelle quali, fin dal VI sec. a. C., esisteva una tradizione nella modellazione dell'argilla sfruttata per realizzare le terrecotte architettoniche - soprattutto antefisse, e frammenti acroteriali — di cui abbiamo una buona documentazione da varie località". In ogni modo, non in tutti i centri interni si dovette sentire l'esigenza di avviare una produzione di statuette: per richieste numericamente limitate - penso alle necessità di culti domestici, o dei po73

chi esemplari deposti nelle tombe — è da supporre il proseguire dei sistemi in uso in età precedente con l'acquisto nei centri produttori, greci o indigeni è difficile dire. Altrettanto difficile è cercare di ricostruire come avvenisse la vendita, se cioè i locali acquistassero direttamente alla fonte, recandosi nelle città greche della costa ~ soprattutto a Taranto, Metaponto, Eraclea, ma anche Poseidonia, a seconda della maggiore vicinanza ~ oppure se la vendita fosse mediata da mercanti che facevano il giro dei santuari o dei rivenditori locali a offrire le loro merci, allo stesso modo di quanto è intuibile per prodotti differenti, quali, ad esempio, gli oggetti metallici. D'altra parte è noto, sia per il mondo greco che per quello romano* come presso i grandi santuari si sviluppasse una serie di aree finalizzate a rispondere alle esigenze dei pellegrini, quali luoghi per dormire e mangiare, ma anche botteghe, dove si fabbricavano e si vendevano gli ex voto da dedicare nel santuario stesso. È dunque probabile che anche nella Basilicata, a margine delle più importanti aree sacre, si fosse sviluppata la produzione diex voto in terracotta. È indubbio che gli scambi in varie direzioni — verso la costa e verso l’interno — dovettero essere facilitati dalle profonde valli fluviali che solcano la Basilicata e che costituivano allora naturali vie di comunicazioni. In tal modo si giustifica la diffusione degli stessi tipi, c spesso di esemplari derivati dalle stesse matrici, in aree molto lontane. Numerosi sono i tipi che potrei citare a prova di questa capillarità di penetrazione: mi limito a ricordarne alcuni, scelti come campione di realtà differenti,

anche a livello di lettura immediata. Il primo esempio è rappresentato da un particolare tipo di figura femminile seduta, caratterizzata da un himation - che poteva avvolgere completamente la figura risalendo anche sul capo, o lasciare uscire le braccia (fig. 5) - e completata da vari attributi (una patera appoggiata alle ginocchia, un

tympanon posto in genere sul fianco sinistro, o un animale in varia posizione, più spesso un'anatide,

ma anche colomba o leprotto). A creare una serie molto ricca di varianti contribuiscono anche i volti e le acconciature, caratterizzate spesso da un'alta crocchia. Sulla base dei rinvenimenti, è possibile seguire l'ampio raggio all'interno del quale si diffusero esemplari con questo soggetto, identici, o trasformati con piccoli interventi. Così, ad esempio, lo stesso tipo con nella mano destra una patera e un piccolo cigno nella sinistra, compare identico nei santuari di Timmari, di Rossano di Vaglio e di Chiaromonte *. La diffusione in un'area così vasta di questo tipo, trova spiegazione nel fatto che si tratta di un'immagine piuttosto generica, che può essere fatta propria da rappresentazioni religiose di varia ispirazione. Posso anche ricordare alcuni busti femminili, che si ritrovano in alcune città greche e in vari santuari della Basilicata: ne cito uno in particolare, che è alto una ventina di cm ed è caratterizzato dalla parte inferiore ricoperta da un panneggio fermato da grosse fibule (fig. 6). Ne abbiamo documentazione sulla costa tirrenica - a Laos - a Chiaromonte nella valle del Sinni, a Grumento e Armento in val d'Agri, fino a Timmari. La fabbricazione del tipo nel territorio di Laos è provata dai rinvenimenti presso una fornace ed esemplari derivati dallo steso prototipo sono presenti sia tra i materiali della stipe di Grumento che tra i pochi fittili scoperti nel santuario di Armento. Compare tra la ricca serie dei busti di Timmari: infine, alcuni frammenti sono riconoscibili anche tra i fittili del santuario di Chiaromonte. Un altro tema, certo di meno facile comprensione, rispetto a quelli ricordati, ebbe ugualmente diffusione in un'area estesa, anche se con un numero meno rilevante di esemplari. Si tratta di dischi, con diametro che può raggiungere i trenta cm, che recano al centro una testa femminile, vista frontalmente, e ai lati di questa figure ausiliarie, tra cui spesso eroti. Il tema, creato in area tarantina, e presente ad Eraclea, si ritrova anche nel mondo indigeno, in vari contesti: lungo la valle del Bradano, nei santuari di Timmari e di Lucignano; nell'alto e basso Basento, nel santuario di Rossano di Vaglio e nell'abitato di Pomarico Vecchio; nella Basilicata Nord occidentale, nel santuario di Fontana Bona di Ruoti; nella valle del Sinni, nel santuario di Chiaromonte; e infine in area tirrenica, a Roccagloriosa **. Con probabilità, la fortuna di questo tema è dovuta all'essere un piccolo oggetto piatto, facile da trasportare e che poteva venire appeso ad una parete, in differenti contesti, come fanno fede i fori che compaiono sempre al disopra della testa. Alla sua diffusione contribuì anche il collegamento 74

con il mondo di Afrodite, divinità che in ambito indigeno era spesso assimilata a Mefitis. Dobbiamo infatti ricordare le molteplici valenze della dea, legata alla fertilità, al mondo terreno e sotterraneo, cui non erano estranei rituali connessi con passaggi di status, celebrati anche nel mondo indigeno. Paiono plausibili due differenti ipotesi per spiegare l"origine" greca di molti tipi. Le botteghe lucane potevano ospitare artigiani itineranti, provenienti dalle poleis della costa che si stanziavano, per brevi o lunghi periodi, portando con sé matrici, create in area greca. Oppure, nelle botteghe potevano lavorare plastai locali, forse formatisi pressoi centri della costa, che riproponevano - tramite matrici acquistate, o ricavando le matrici direttamente sui positivi greci-- la replica locale della produzione di area coloniale. Al presente, tuttavia, le poche prove esistenti, di cui ho già detto, depongono solo in favore di una produzione locale Quanto alla qualità della produzione, la coroplastica di IV-III sec. a. C. rinvenuta nelle varie località della Lucania, è spesso molto meccanica e ripetitiva. A giudicare da questo materiale, sembrerebbe che, in questo torno di tempo, i figuli laeee vorassero per una clientela dalle possibilità economiche molto omogenee, che privilegiava deter- rig. 6. Armento-Serra Lustrante, santuario, busto minati tipi di ex-voto, accomunati non solo dalle (5.44.1). valenze religiose, ma anche dal basso costo. Si staccano dagli altri alcuni pezzi - più numerosi a Timmari, ma presenti anche a Grumento S. Marco, a Chiaromonte (fig. 7) e anche a Pomarico Vecchio (fig. 8) - che rispecchiano una produzione più raffinata, e presumibilmente, più costosa. Mi riferisco, ad esempio, ad alcuni grandi busti -- a Timmari possono raggiungere i 40-50 cm - nei quali le maggiori dimensioni dovettero di più sollecitare la fantasia e la capacità del coroplasta, con la resa più curata dei particolari - dai capelli a ciocche fiammate, alle bocche carnose — e con l'aggiunta di elementi posticci quali collane, ricchi orecchini, simili a quelli noti nell'oreficeria tarantina, e grandi fibule a bottone". 4. SIGNIFICATO RELIGIOSO

A fronte della quantità di terrecotte diffuse in tutta l'antica Basilicata, specie in età ellenistica, sorge naturale il desiderio di comprenderne il significato puntuale. Come ho detto più sopra, si tratta nella maggior parte dei casi di modelli coloniali. Ora, già in ambito greco la molteplicità di valenze insite nelle rappresentazioni, rende difficile proporre una spiegazione univoca, che individui con precisione, sulla base dei fittili, la divinità venerata nei vari contesti *. Di conseguenza, l'interpretazione si complica ancor più quando le terrecotte di tipo greco si ritrovano in ambito indigeno. Qui dobbiamo chiederci anzitutto se l'accettazione degli stessi fittili implichi anche l'accettazione delle stesse credenze religiose, 0 piuttosto un interesse limitato alle valenze simboliche più esteriori Non è agevole proporre una risposta netta: certamente, con il IV sec. a. C., si era ormai raggiunta una forma di integrazione tra mondo greco ed indigeno a tutti livelli“ per cui era possibile che que75

Fig. 7. Policoro. Chiaromonte-S. Pasquale, santua- —— Fig. 8 .Metaponto-Museo. Pomarico Vecchio, abitario, testa femminile di busto (3.45.8). to, testa femminile di busto.

sta assimilazione toccasse anche la sfera religiosa, pur tenendo conto che le tradizioni cultuali sono tra gli elementi che permangono più a lungo. Tuttavia, una spiegazione forse più vicina al reale va vista nella già ricordata polisemanticità degli ex voto in terracotta, che spesso comportavano un'ampia gamma di significati, chiariti dai vari contesti.

D'altra parte, l'accettazione dei fittili greci in area indigena era facilitata dall'esistenza di numerosi elementi comune ai due mondi, ad iniziare da pratiche legate alla fertilità sia della terra che in ambito familiare. Non a caso, le più diffuse sono terrecotte a soggetto femminile, avvicinabili alle divinità greche preposte alla fertilità umana e dei campi - Demetra e Kore — in unione con valenze ctonie tipiche di Afrodite. Un'altra area di incontro tra mondo greco e indigeno era costituita dalle credenze legate al mondo sotterraneo e dalle concezioni salvifiche. In particolare queste ultime, limitate in età arcaica a ceti aristocratici, si erano con il IV secolo ampiamente diffuse in tuttii livelli dell'ambiente indigeno, accettando e recependo soprattutto i collegamenti con la sfera dionisiaca. In questo senso, mi sembra molto interessante, sotto almeno due punti di vista, il già citato rinveni-

mento fatto di recente a Pomarico Vecchio, di un dischetto in argilla con la rappresentazione di due astragali a rilievo. Esso, da un lato, mostra appunto l'accettazione delle dottrine orfico-dionisiache Yastragalo ha un preciso contatto con l'uccisione di Dioniso e la sua rinascita - e, dall'altro, testimonia con probabilità di una fabbricazione locale di terrecotte figurate*. 1 riferimenti religiosi al mondo maschile sono assai meno numerosi e, tuttavia, sono presenti pressoché in tutte le aree sacre. Cito alcuni esempi: nel santuario di Rossano di Vaglio compaiono alcune figure stanti, di valenza generica; a Timmari, accanto ad una rappresentazione di Eracle - divinità adatta al mondo agricolo-pastorale - più frequenti sono statuette di giovinetti ed eroti, che sono stati rinvenuti anche a Chiaromonte, ancora una volta riportabili alla sfera di Afrodite. 76

Infine, esistono anche altri exvoto legati al mondo della natura, da riproduzioni di animali ad altre. di fiori, frutti e dolci, che costituiscono le offerte sostitutive, meno costose e più durature di oggetti

reali In conclusione, l'analisi della sola coroplastica

ani

offre importanti indizi, ma non consente di rico-

struire in modo completo le forme di religiosità indigena, né permette di individuare in modo puntuale le divinita venerate nelle varie arce. In tal senso, di scarso aiuto sono i pur numerosi attributi, ancora una volta di valenza abbastanza generica e interscambiabili. Del resto, sarebbe addirittura errato proporsi di stabilire un collegamento univoco tra una determinata rappresentazione e una specifica divinità: penso che dobbiamo piuttosto tenere presente che nel mondo indigeno ci troviamo di fronte a forme di culto di tipo sincretistico”, in cui concorrevano

aspetti diversi. Esigenze più propriamente indigene — culti della natura, e quindi della fertilità in tutte le sue accezioni, talvolta abbinati a forme salutistiche © mantiche - si fondevano con altre derivate dal mondo greco, tra le quali grande importanza dovevano avere le dottrine orfico-pitagoriche, e i relativi

Î

Fig. 9. Policoro-Chiaromonte-S. Pasquale, santua-

aspetti salvifici e di rinascita.

rio, testina femminile (3.45.7).

NOTE * Il testo dattiloscrito è stato consegnato nell'aprile 1997 e la bibliografia è aggiornata a questa data. Tra le pubblicazioni successive dedicate alla Basilicata in cui compaiono anche statuette in terracotta, ricordo in particolare: AA. ΨΥ. Il sacro e l'acqua. Culti indigeni in Basilicata, Catalogo della mostra, Roma 1998, in cui M. Tagliente dà notizia del santuario di S. Chirico Nuovo (vedi mia nota 22) AA. VV., Ornamenti e lusso. La donna nella Basilicata antica, Catalogo della mostra, Roma 2000. AA. W., Archeologia dell'acqua in Basilicata, Lavello (PZ) 1999. A. Russo TAGLIENTE, Armento, Archeologia di un centro indigeno, in BArcheologia 35-36, Roma 2000. " Ricordo ad esempio, i casi dei santuaridi Timmati: F.G. Lo Porto, Timmari. L'abitato, le necropoli, a stipe votiva, Roma 1991; di Rossano di Vaglio: D. Apawzsrzasv-H, DiLrarY, Macchia di Rossano. Il santuario della Mefitis. Rapporto preliminare, Galatina 1992; di Ruoti: E. Fasanucorm, Ruoti (Potenza). Scavi in località Fontana Bona, 1972, NSA 1979, p. 347 ss; di Gru mento: P. Βοττινι, Grumento, San Marco-stipe votiva preromana, in AA. VV., Da Leukania a Lucania. La Lucania centro orientale tra Pirro e i Giulio-Claudti, Roma 1992, p. 96 ss. di Colla di Rivello: G. Greco (ed), L'evidenza archeologica nel Lagonegrese, Matera 1982, p. 39 ss; dell'abitato di Roccagloriosa: H. FraccW1a-M. Cingu, Le terrecotte figurate, in M. Gun.meriH. Fraccita (edd.), Roccagloriosa I. Labitato: scavo e ricognizione topografica (1976-1986), Napoli 1990, p. 109ss. © M. Barna Bacwasco, La coroplastica votiva, in E. Lirrous (ed), Are e artigianato in Magna Grecia, Napoli 1996, p. 186. ? Accanto a moltissimi altri materiali, i fittili nelle tombe sono solo sette: nei due esemplari presentati interessante è lo stesso volto utilizzato per due temi diversi, rispettivamente la figura seduta in trono e la protome. * Per Alianello: M. Tacuienre, Segni di trasformazione in una realtà indigena di confine della Val d'Agri, in AA. VV., Studi su Siris Eraclea, Archaeologia Perusina 8, Roma 1989, p. 113 ss; M. Barwa Baciasco, La coroplastica, in AA. VV. Catalogo della - Greci, Enotri e Lucani nella Basilicata meridionale, Napoli 1996, p.94 ss. Per Garaguso: M. Hano, mostra I Greci in Occidente R Haxouxe, J.P. Moret, Garaguso (Matera). Relazione preliminare sugli scavi del 1970, in NSA 25, 1971, pp. 424-438. Nei fitili dei due contesti forte è influenza stilistica del mondo ionico, nei volti larghi e carnosi dalle superfici tondeggianti c con occhi a mandorla fortemente rialzati, che trovano confronti puntuali con fituli rinvenuti a Siri, perle protomi di Garaguso: B. T

Neurscn, Documenti artistic del santuario di Demetra a Policoro, in Atti Taranto 1980, p. 164 ss. tav. XXXI; peri volti di Alia nello: bid. tav. XXIX. 7 Essa, creata prendendo forse a modello, o comunque ispirata ad un tempio con la sua statua all'interno, divenne a sua volta ispiratrice di meno costose opere in terracotta, come mostrano due statuette simili, ma in terracotta, scoperte nella stessa area: M. Serm ΒΕκταπειι, IL fempietto e la stipe votiva di Garaguso, in ASMG 1958, pp. 67-78. * Si passa da aree con strutture più o meno monumentali-più spesso sono piccoli οἴκοί quadrangolari-ad altre connotate soprattutto da stipi molto ricche di materiali: M. Batea Bacwasco, I Culti, in AA. VV., Greci, Enotr e Lucani, Napoli 1996, p. 183. * Per Timmari: F.G. Lo Porro, Timmari, cit; per Chiaromonte: M. Barga Baowasco, Il santuario di Chiaromonte, in AA. W., Catalogo della mostra I Greci In Occidente-Greci, Enotri e Lucani, Napoli 1996, pp. 186-187; per S.Chirico Nuovo: A. Bor‘oa, Atti Taranto 1995, pp. 630-631; per Colla di Rivello, G. Greco, Lvidenza, cit. p. 39 ss. A. Borma-M. TAcuenTe, Nuovi documenti sul mondo indigeno della Val d'Agri in età arcaica: la necropoli di Alianello, in BA24,1984, p. 115. * M. Tacutente, La necropoli di Alianelo, AA-VV., Sirs-Polizion, 1986, p. 167 ss. S. Buisco, Le necropoli enotrie della Basilicata meridionale, in BA, 1-2, 1990, p. 7 ss. !9 Anche in località, dove l'esistenza di aree sacre ha consentito di conoscere la presenza di centinaia di fitili le tombe coeve, pur con ricchi corredi, mostrano scarsi documenti di coroplastica. Un esempio è offerto dalla necropoli di Timmari dove è presente una sola statuetta: F.G. Lo Porto, Timmari, cit, tomba 25 bis, p. 10 ss. ™ Si tratta, a Pomarico Vecchio, un sito interno sulla sinistra del Basento, di due statuette femminili tardo arcaiche, simili a quelle dell'area metapontina: M. Bins Bagnusco, La coroplastica, in M. Baxsa Bacwasco (ed. Pomarico Vecchio I, Galatina 1997, p. 218 ss. e a Roccagloriosa di un frammento in cui è riconoscibile una figura femminile seduta con la caratteri. stica collana a giri multipli: M. GuaLmex-H. Fraccem (edd), Roccagloriosa1, ct. p. 112. ® M. Bara Baowasco, La coroplastica, in M. Biss Bacxasco (ed.), Pomarico Vecchio I οἱ. p. 215 ss. ? Per Oppido, dove è stata recuperata una figura panneggiata: E. Lisst Carona, Oppido Lucano (Potenza). Rapporto prelimivare sulla seconda campagna di scavo (1968), in NSA 1980, p. 240; a Tolve Valle di Chirico, in un complesso di IV secolo, nelloikos al centro del cortile, èstato rinvenuto un modellino fitile di bovinoe una statuetta femminile: A. Russo TAGLIENTE, Edilizia domestica in Apulia e Lucania. Ellenizeazione e società nella tipologia abitativa indigenatra VII II sec. a. C., Galatina 1992, p. 172; a Banzi si tratta di statuette femminili stanti e sedute, di un erote e di una rappresentazione di Helios, rinvenuti all'interno del cortile, in un'edicoletta bid. p. 157. "^ In particolare; nel complesso A, accanto ad un altare, si è individuata una stipe: M. GuaLmERi-H. Faccia (edd), Roccagloriosa I cit., p. 101 ss. * E ciò poteva avvenire con facilità nel mondo antico, visa la mancanza di tutela dell'invenzione dell'autore, un'impostazione giuridica decisamente moderna. Per lo sviluppo di questi concetti e per la distinzione tra surmoulage: interno ed esterno: A. Muster, La coroplathie: un travail de petite fille? Les figurines de tere cuite de l'atelierἃ la pubblication: question de methode, in RA 1994, 1, passime p. 184. τ Per il problema, con tutt i possibili sviluppi: M. Boso Jovmo (ed), Artigiani e botteghe nell! talia preromana. Studi sulla coroplastica di area etrusco-laziale-campana, Roma 1990, pp. 19.59 e passim. Per tutt gli aspetti della produzione coroplastica, utilissimo il recente ampio studio sulle terrecotte di Thasos: A. MULLER, Les teres cuites votives du Thesmophorion, De l'atelier au sanctuaire, in Etudes Thasiennes XVII, Paris 1996, p. 27 ss 7 Mi limito a ricordare le già citate statuette arcaiche rinvenute a Pomarico Vecchio, (supra, nota 11), databili alla seconda metà del VI seca.C,, identiche a tipi ben noti in vari santuari metapontini, sia dell'arca urbana che di San Biagio alla Venella. Purtroppo non è possibile stabilire le caratteristiche del contesto cui appartenevano le statuette: sembra logico pensare ad una qualche area sacra, in cui già in età arcaica erano stati accettati simboli della religiosità greca. Per la diffusione di prototipi derivati da Poseidonia: M. Crui, Il deposito votivo Le terrecotte figurate, in M. GUALYTERHH. Fraccata (edd), Roccaglorosa I, cit,p. 114 s με Per Chiaromonte: M. Barza Baonasco, Il santuario di Chiaromonte, cit, p.222, figg. 345.16, p. 274 e 345.18; 345.19, p. 275; Rossano particolare è la figura definita, con qualche dubbio chimera, dal largo volto tondeggiante e lungo collo, su uno stilizzato busto femminile: D. ADameSTEAxu-H. DiLtHEY, Macchia di Rossano, cit, 8, fig. 56 a ! EG. Lo Porto, Tomar, cit. n. 1, pp. 74-75, Tav. XXI, 1 » M. Barra Baciasco, Pomarico Vecchio (Matera)-Seavi in un abitato indigeno (1989-1991), în NSA 1992-93, 1996, n. 137,p. 215, fig. 52 2 Ad esempio, a Pomarico Vecchio: Barna Bcwasco, in NSA cit, nn. 118, 119, p. 210, fig. 48; C. Letta, Piccola coroplastica metapontina, nel Museo Archeologico provinciale di Potenza, Napoli 1971, (supporto con torcia, o spighe) n. tav. XXXII, 4, p. 154; XXXIIL 1, p. 155. Devo alla cortesia ello scavatore il dott. M. Tagliente, la segnalazione di questo pezzo inedito. D. Abauesrzan-H. Dizruzv, Macchia di Rossano, cit, p.51, figg. 50 8, b. bid. p. 55, fig. 55. » Si trata di figurine, ispirate a modellitarantini, ma rese in modo più pesante e dozzinale, ma anche di grossi busti, in cui sono evidenti elementi indigeni: F.G. Lo Porro, Timmari, cit. pp. 130 e 91 ? M. TAGLIENTE, Segni di trasformazione cit. p. 113 ss. Inoltre in alcune località, e specie a Serra di Vaglio, doveva già essere attiva la fabbricazione di terrecotte architettoniche: ef. infra, nota 34. Accettando l'ipotesi di una diffusa produzione locale, viene ad essere meglio giustificata l'esistenza nei santuari, o nelle tombe, di molte statuette identichee anche la presenza di repliche di generazione inferiore alla prima: è logico, cioè, che un 78

centro produttore sfrutasse a fondo matrici, ed eventuali prototipi, ricavandone decine e decine di esemplari, secondo un uso proprio della fabbricazione inseri della coroplastica, ben noto per centri del mondo greco ed etrusco-campano. Inoltre, un argomento a favore di una fabbricazione locale va visto nella difficoltà di trasportare un numero rilevante di statuette at traverso le non facili strade antiche: molto più semplice era limitare il trasferimento di alcune matrici o di poche statuette, che sarebbero stati i modelli per una produzione in loco. * Abbinando analisi delle argille, necessarie a garantire l'impiego di materia prima locale l fatto che determinati Stili sven n arca indigena son di generazione nie ag esempi noti nc colonies potrebbe stabilire un secudone in arca indigena. * L'esempio più chiaro è rappresentato da Eraclea, dove si è identificato un quartiere dedicato alla lavorazione delle statuette, da ulimo: L. Gromo, Herakeia, in E. Lirrous (ed), Aree artigianato, ct, p. 35 s > L'argomento è stato ampiamente sviluppato, per le protomi arcaiche della Grecia, dove la suddivisione in gruppi è fondata su affinità stilistiche, in F. Chosssavr, Les protomés féminines archaigues, in BEFAR 250, Paris 1983, passim; per Locri M. Barta Baovisco, Proton in terracotta da Locri Epizfiri, Torino 1986, p. 131. > Grazie alla disponibilità della Soprintendenza della Basilicata, e in particolare del direttore del Museo di Policoro, dott. S. Bianco, ci è stato assegnato lo studio di tutto il materiale del santuario, che è stato suddiviso, per classi di materiali tra vari miei laureandi. La tesi sulla coroplastca è opera di Elena Quiri (Università Torino A.A. 1996-97), che ha proceduto al paziente lavoro di ricerca degli attacchi, i identificazione dei ip edi catalogazione di circa un migliaio di frammenti. Per ‘una prima sintesi con osservazioni preliminari: M. BARRA BAGNASCO, I santuario di Chiaromonte, ct. Le matrici meglio leggibili i riferiscono al tipo della figura seduta con alta crocchia, rinvenuto in varie località della Basilicata e anche nel santuario di Chiaromonte; degna di nota anche la testina ellenistica dalla stesa area, completamente grigia per cottura difettosa (fig. 9): M. Bara Bagnasco, L'età lucana. La coroplastica, in AA. VV., Greci Fnotr e Lucani, Napoli 1996,p. 221;οἱ può anche ricordare la piccola matrice per protome scoperta ella casa C di Oppido Lucano: E. Lisi Canosa, Oppido Lucano (Potenza) Rapporto preliminare sulla quarta campagna di scavo (1970). Materiale archeologico rinvenuto nel territorio del Comune, in NSA 1990.91,p. 231 9 Per Rossano:D. ADusesreAxu-H. Ditrazx, Macchia di Rossano, ci. p. 6. È possibile che alcuni ambient, marginali alTarea sacra vera e propria, venissero utilizzati per la vendita degli exvoto prodotti nelle vicinanze. Per Timmari: Lo Porro 1992, passim. CE nota in Basilicata, fin dall'età arcaica, esistenza di figuli locali dedicati soprattutto alla fabbricazione di antfisse f gurate, di cui abbiamo resti non solo a Serra di Vaglio, ma anche in alcuni santuari. La realtà meglio documentata è offerta dai rinvenimenti di Serradi Vaglio. Per l'età successiva, sono state rinvenute antefisse presso i principali santuari, a Timmari, dove è anche propostala possibiltà di un'esecuzione locale: -G. Lo Porro, Timmari, ci. p. 68; a Rossano di Vaglio: H. Dirμεν, Sorgenti, acque e luoghi sacri in Basilicata,in AA.VV, Attività archeologica in Basilicata 1964-1972. Scritti in onore di Dinu Adamesteanu, Matera 1980, p. 546. Perl IV sec. a. C, vari documenti da Oppido Lucano, dove sono state scoperte terrecotte architettonichee un frammento di matrice per anefisa, dalla casa B, e una matrice per testina: E. Lisst Caonn4, Oppido Lat cano (Potenza). Rapporto preliminare sula terza campagna di scavo (1969), in NSA 1983, p. 334. A Serra di Vaglio, accanto ad esemplari chiaramente metapontini, è certa un'esecuzione locale: G. GRECO, Sera di Vaglio ua testimonianza dellantica civiltà lucana, in Atti del XXII Congresso geografico italiano 1975, p. 1 1; inotre a realizzazione. di varianti di terrecotte architettonicheè documentata dalla scoperta di una fornace destinata alla oro produzione: G. Gasco, Bilan critique des fouls de Serra di Vaglio, Lucanie, in RA 2/1988, p. 280 s. Se per eta più antica è stata proposta una deri vazione da modelli greci, ra IV II secolo anche pere antefisse i modelli comprendono adattamenti locali, come si vede neli esemplari di Rossano di Vaglio, piuttosto che in quell della villa di Tolve: M. TactENTE, Moltone di Tobe. La decorazione archilettonica, in AA. VV., Da Leukania a Lucania. La Lucania centro-orientale ta Pirro ei Giulio Claudii, Roma 1992, p. 42 s AI proposito è opportuno ricordare lo sviluppo di fiere e mercati in connessione con le più importanti aree sacre (M. Tonszts, La romanizzazione ἀεὶ territori italici. Il contributo della documentazione archeologica, în AA. VV., La cultura italica Atti del Convegno della Soc. Ital di Glottologia, Pisa 1978, p. 83), tanto che è possibile parlare di “un'industria del pellegrino" T: Gunsarn, Manifestazioni votive, iscrizioni e vita economica nei santuari della Magna Grecia, in Studia patavina 1981-82, I p.263"Y Spesso gli exvoto in terrecotta venivano prodotti in laboratori del santuario stesso e quindi rappresentavano un'altra fonte di ricchezza: G. Bop GicLION, Pecunia fanatica. L'incidenza economica ἀεὶ templi laziali, Rivista storica italiana 1971, p 45 ss, Nell'area sacra di Rossano di Vaglio non sono ancora state identificate le fornai, mala presenza di matrici fa ipotizzare una produzione locale: D. ADAMESTEANU-H, Dizmv, Macchia di Rossano, cit, pp. 53-54. ad esemplari derivati da mada una ricca serie di fti, accanto 7 Nel santuariodi Timmari, doveἢ tema è documentato trici diverse, è stato evidenziato come dalla stessa matrice osse possibile ricavare più di una variante, grazie all'applicazione di diferent attributi: Lo Porro 1992, p. 123. 9 EG. Lo Porto, Timmari, ct. n. 123, p. 123, tav. LIV;D. ApamESTRANI-H. Dict, Macchia di Rossano, ct tav. V. » P. Borma, Grumento, S. Marco. Stipe votiva cit. p.97; AA. W., Greci, Enotr, Lucani ct. n. 3.4. , p. 268 e 270; FG. Lo Porto, Timmari cit n.39, p.95. tav. XXXII; “DI recente è sato redatto un utile catalogo degli esemplari più significativi: A. Cvate, I dischi iti rivi con volto femminile, Tesi di specializzazione in archeologia e storia dell'arte greco, Università degli studi della Basilicata, Matera, A.A. 1993.94, inedita Per gli esemplari di Chiaromonte: M. Bata BaoxAsco, Il santuario di Chiaromonte, ct, p. 187. Per il ram mento rinvenuto a Pomarico Vecchio: M. Banka Baonasco, La coroplastic, in M. Banka Bacxasco (cd.), Pomarico Vecchio I, cit, p 222s. È Per Timmari: F.G. Lo Porro, Timmari, cit, nn, 61-70, p. 103 ss; per Grumento: P. Borne, Testimonianze archeologiche 79

di culti antichi nel territorio di Grumentum, in AA. VV., La vergine del grano, Matera 1983, p. 123. Per Chiaromonte, cfr. la bel Ja testa frammentaria: AA. VV. Greci, Enotri, it, n. 3.45.8, pp. 271 e 274. © La difficoltà di lettura εἰ lega al fatto che, specie mel santuari, i repertorio degli exvoto era molto vario, comprendendo anche rappresentazioni di altre divinità, accanto a quella "titolare" oltre, ben inteo, a figure di offerenti e di oggetti vari, come è statodi recente chiaramente evidenziato per il thesmophorion di Thasos: A. MuLLPR, Les terres cuites cit, p. 513. © M. Ἰλόμεντε, Ceramiche figurate nel mondo indigeno della Basilicata. Il caso di Ripacandida, in C. Getao (ed), Studi in onore di Michele D'Elia, Archeologia, Arte, Restauro e Tutela, Archivistica, Spoleto 1996, p. 42. “ Studiando il caso del sito indigeno di Pomarico Vecchio (M. Basa Bacnasco (ed), Pomarico Vecchio I, cit. p. 34, avevo sottolineato come, tenendo in considerazione solo l'organizzazione urbanistica e le varie classi di materiali, si avesse l'impressione di essere in presenza di un piccolo centro greco. Solo l'analisi dei dati della necropoli-dalla ricchezza quantitativa dei corredì, al rito rannicchiato-aveva invece rivelato la connotazione indigena. ‘© Sono arrivata a questa conclusione anzitutto perla mancanza di puntuali confronti, nonché per la resa naturalistica dei due astragali (uno di piatto, l'altro di profilo) che sarebbe stato semplice calcare direttamente su ossa animali: M. Bara Bacwasco,La coroplastica, in M. Bara Baonasco (ed.), Pomarico Vecchio I cit, p. 217. “ Modellini di frutta si ritrovano in vari contesti: più spesso si tratta del melograno e del fico, le cui caratteristiche dovevano, anche in arca indigena, richiamare aspetti di fertilità e quindi di continuità della vita. Ma altrettanto frequenti sono la melae la mandorla (per Rossano di Vaglio: D. ApaEstEANU-H. Dicrstev, Macchiadi Rossano, cit, p. 60; per Timmari: F.G. Lo Porro, Timmari, cit, pp. 153-154). Un’ interessante documentazione è costituita dal ritrovare, anche in area indigena, ad esempio a Pomarico Vecchio (M. Bina BAoNASCO, Pomarico Vecchio, ci., n. 113, p. 209, fig. 46) frammenti di quelle matrici a disco, in terracotta-così frequenti nel mondo coloniale, e specie a Taranto-che servivano per realizzare focacce particolari da donare alle divinità. Per l'importanza di tute le offerte alimentari e per i loro complessi significati nell'ambito delle cerimonie rituali: V. Margano, Offerte alimentari in terracotta, in BollStorBasil 1996, p. 67 ss. © Completamente abbandonata è la concezione di culti nettamente separati come si aveva nel mondo greco: M. ToRsL13, Greci e indigeni in Magna Grecia: ideologia religiosa e rapporti di classe, in Studi Storici 18, 1971, pp. 45-61. Le fotografie - ad eccezione dei nn. 3 e 8, dell'autore - sono della Soprintendenza Archeologica della Basilicata, e sono state pubblicate (cfr. numeri in parentesi) nel Catalogo della Mostra: 1 Greci in Occidente. Greci, Enotri e Lucani nella Basilicata meridionale, Napoli 1996.

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NicorA Bonacasa DEDALO E ICARO A HIMERA

Riprendo in questa sede il tema già affrontato in un breve intervento presentato a Sant'Angelo Muxaro, il 27 Ottobre 1996, dal titolo Π Dedalo ateniese di Himera'. Oggi, come in quell'occasione fortunata e speciale, dedico queste pagine all'amico Ernesto De Miro, wanax ospitale della chora sicana di Kokalos L'aspetto che possiamo definire “occidentale”, della complessa saga di Dedalo e Icaro, sarà preponderante giacché come significato primario, in Sicilia, esso figura tra i molti valori del binomio storia-mito di Dedalo?. L'indagine mirerà a ricostruire i fatti, attraverso i monumenti, alla ricerca del valore intrinseco di codesto significato, che si annida nella presenza di Dedalo e del figlio suo Tcaro, a Himera. Due protagonisti del sogno di volare che da sempre abita l'uomo, il mito, la letteratura e l'arte: dall'antichità fino a Bruegel, fino a Picasso. Il loro volo è augurale e liberatorio, il primo nella storia dell'uomo d'Occidente. Il volo che accomuna, il volo che distingue, il padre consapevole che porta a termine la missione, lontano dal figlio, e questi che azzarda e cede alla suggestione del Sole e precipita in mare’, 1I mirabile artefice, pieno di metis, si avvale di un modello preso dal mondo animale, tenta il volo e riesce. Questa invenzione strumentale rappresenta l'assoluta novità del mito greco, che vede, appunto, per la prima e unica volta, come suo protagonista, la persona di un costruttore. Il Labirinto era una prigione, realtà e metafora a un tempo; cbbene, il medesimo ingegno che aveva concepito quel capolavoro insidioso fa ora da guida a Dedalo nel tentativo temerario di fuggirlo. La necessità è la causa del volo, ma il fine singolare non è soltanto l'approdo, il posarsi su terreno fermo e sicuro, è piuttosto il carattere di sfida che corona il successo riportato da Dedalo con la sua techne geniale, è la netta sensazione di prodigio che salva dal Labirinto, cioè dalla morte. Questo è anche il messaggio del Dedalo cretese in Sicilia, saga e storia, realtà e metafora. Passiamo, ora, al secondo tempo di questa ineguagliata memoria dell'uomo: il momento classico del Dedalo ateniese, sempre alato, sempre vincitore, sempre volto a Occidente. Insomma, un modelJo attico di Dedalo, in sostituzione del filo-sicano Dedalo della chora agrigentina. Un Dedalo che si iscrive nella prospettiva politica del rapporto Atene-Segesta e che tocca inevitabilmente le coste della Sicilia settentrionale, non escludendo Himera come noi crediamo*.

Analogo al primo ma più maturo, ugualmente luminoso ma più complesso, è il messaggio del nuovo Dedalo, denso di allusioni politiche - la futura alleanza di Himera con Siracusa è nell'aria, ma non al presente — e portatore di segni inconfondibili del potere economico ateniese in Sicilia, di contro all'effimero delle saghe patrimonio delle culture precedenti *. Questo, questo secondo è senza dubbio il Dedalo di Himera. Nel 1970, in appendice al volume Himera I, Achille Adriani aveva pubblicato una sua ricerca dal titolo Nuova versione del mito di Dedalo e Icaro su arule imeresi??, presentando, appunto, alcune delle numerose arule fittili - con la rappresentazione di una figura alata e ammantata, in groppa a un toro, che tiene tra le braccia un giovanetto nudo (fig. 1) - rinvenute tutte nell'abitato di Himera e databili tra il 430 e il 409 a.C., in base all'esito degli scavi*. Lo stesso Adriani, nel suo studio accurato degli esemplari imeresi, dopo avere ritenuto improbabili altre eventuali soluzioni, avanzò l'ipotesi, assai accattivante, che la scena figurata illustrasse un momento del mito di Dedalo e Icaro, in una versione forse locale. Due anni dopo, nel 1972, John Boardman, recensendo il volume Himera 1°, sostenne, fin troppo rapidamente, che la figura alata sembrava a lui femminile e priva di barba, che poteva essere Eos 81

Fig. 1. Himera, Antiquarium. Arula fittile con Dedalo e Icaro, dall'abitato. Gruppo I.

che rapisce Kephalos o Tithonos, in quanto il giovanetto sarebbe vivo, e che unico motivo inspiegabile restava il toro. Eos, continuava il Boardman, dovrebbe cavalcare un cavallo, ma forse vi fu un motivo speciale e locale per una differente scelta, il toro invece del cavallo, per questa particolare

raffigurazione di Eos. Aggiungeva, infine, anche per la vicinanza o per l'assonanza dei nomi EosHemera-Himera, che Eos doveva essere onorata a Himera; ma non spiegava perché ciò sarebbe av-

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venuto soltanto alla fine della vita della colonia e non prima, perché il nome di Eos non figurasse nel pantheon delle divinità imeresi certamente note, perché la nuova iconografia documentata dalle arule fosse sicura o almeno probabile in base a confronti archeologici, ovvero a testimonianze scritte. A parte l'osservazione di fondo che di Eos e Selene, sedute su cavalcature, possediamo scarsissimi esempi, e nessuno può essere ragionevolmente collegato con le arule figurate imeresi, noi non condividiamo quasi nessuna delle affermazioni del Boardman, anche perché esse si fondano sull'esame mediato dei soggetti delle arule. Esattamente a dieci anni di distanza, nel 1982, nel suo lungo lavoro Tipologia e analisi delle arule imeresi"®, Oscar Belvedere riesaminò le arule in questione, rifiutò l'ipotesi di lettura dell'Adriani, accettò solo alcune delle proposte del Boardman, dubitò che il giovinetto sia rappresentato vivo, riconfermò che le ali appartengono alle figura maggiore, avanzò per un momento l'ipotesi che potesse trattarsi di Eos che trasporta il cadavere del figlio Memnon (e, comunque, resterebbe da spiegare la presenza e il significato del toro), e, infine, accennd alla possibilità di associare la figura alata delle arule imeresi a Selene c, quindi, al toro, se non fosse - precisiamo noi - che Selene rapisce sì Endimione addormentato ma è sempre aptera, e, poi, che questa iconografia si afferma soltanto in età ellenistica. Vero è, vogliamo ricordarlo, che Selene, ma anche Pasifae ed Europa, sono divinità lunari minori, connesse col toro come ipostasi di Zeus; ma l'ipotesi fu subito prudentemente accantonata dal Belvedere. In sostanza, l'autore, nello stesso contesto, ha giudicato l'interpretazione dell'Adriani suggestiva, anche se si presta a gravi obiezioni, riteneva arduo proporre un'interpretazione alternativa, e considerava ancora aperta la soluzione del problema, si diceva alla fine convinto che trattavasi di un mito connesso in modo particolare con la città e con i suoi culti, riecheggiando in questo l'Adriani. Lo stesso studioso, nel 1990, a Giardini Naxos, presentando le sue Riflessioni sulle arule di Himera", ha ripreso l'argomento senza sostanziali modifiche. Non mi risulta che, in questi ultimi anni, alcuno sia tornato sul problema, diffusamente, se si toglie il ricordo che delle arule imeresi è in alcune riflessioni di G. Caputo ^, nelle utilissime liste di F. Brommer®, in una nota apodittica contro la lettura Adriani di K. Schauenburg ", nell'accurata voce Daidalos et Ikaros redatta per il LIMC da J.H. Nyenhuis'* e nell'attenta catalogazione di H. Van der

Meijden"5 poco o nulla ho potuto ricavare, per il nostro tema, dalla lettura dell'intrigante volume della Moris”. Ed a questo punto, noi riteniamo che sia giunto il momento per una rivisitazione del problema, convinti come siamo che troppe cose, e alcune del tutto fuori posto, sono state dette su questo gruppo di arule, tanto difficili e ambigue da interpretare oggi, quanto invece gradite e popolari furono in antico. Le arule imeresi, che ho ripreso a studiare, sono in numero di 16, fra intere e frammentarie, compresi i tre frustuli noti dagli scavi di P. Marconi al Tempio “della Vittoria" . Vanno distinte in due gruppi prodotti da due diverse matrici, una di modulo maggiore (fig. 1), individuabile con certezza in 6 esemplari, e l'altra di modulo minore (fig. 2), nota da 5 rilievi fittili, questi ultimi tecnicamente e stilisticamente più accurati rispetto agli esemplari del primo gruppo. Tanta frequenza significa per certo che il tema, il significato e l'importanza della scena dovevano avere valore e incidenza nella vita religiosa, sociale e crediamo anche politica di Himera, pur appartenendo, codeste arule, in maggioranza, alla sfera privata del culto. Questo rende ovviamente ancor più difficile e contrastata la loro lettura e altrettanto ardua l'interpretazione. Conviene muovere, dunque, da una delle quattro ipotesi finora avanzate, quale che sia il personaggio principale — Eos, Selene, Pasifae o Dedalo — precisando che il motivo unico di incertezza, per tutte e quattro le ipotesi, è costituito dalla presenza e dal vero significato del toro (il mare, Poseidon, Creta, o altro?)"-.

Se si toglie Europa, mai alata peraltro, e qui a Himera addirittura insieme ad Amore, secondo il

Marconi? - il quale rinvenne tre frammenti delle nostre arule proprio nello scavo condotto attorno al grande Tempio dorico “della Vittoria” — non ci risulta che altre divinità femminili della mitologia greca abbiano cavalcato il toro; e, passando ad altra qualità di livello iconografico, quand'anche per ipotesi azzardata si volesse sia pure lontanamente pensare a Pasifae, invece del toro, riuscirebbe in-

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Fig. 2. Himera, Antiquarium, Arula fittile con Dedalo e Icaro, dall'abitato. Gruppo II.

comprensibile il giovanetto nudo raffigurato nella scena. Veniamo ad Eos. Per legittima asserzione del Boardman, che noi abbiamo accuratamente verificato, Eos dovrebbe essere in groppa ad un cavallo, ma non lo è; e del tutto gratuita e inaccettabile ci sembra la giustificazione dello stesso studioso, il quale attribuisce ad un arbitrio locale, imerese, la scelta del toro invece del cavallo, posto che il giovanetto sia Kephalos o Tithonos, oppure anche Memnon?”; e, tuttavia, proprio Memnon è quasi sempre raffigurato adulto. Esaminiamo, per ipotesi, l'identificazione della grande figura alata con Selene. Intanto, Selene che rapisce Endimione è sempre aptera e tale iconografia si afferma as84

sai tardivamente, in età ellenistica; poi, la cavalcatura di Selene è di norma il cavallo e quando è presente il toro questo è un toro marino, nella scia delle invenzioni mitologiche ellenistiche minori. E, comunque, in questo caso, il giovanetto sarebbe rappresentato vivo e addormentato, dettaglio questo che assai difficilmente si confà alla figura giovanile in questione. Ma può averlo Selene preso con sé, e in groppa ad un toro, stando a codesta iconografia del tutto nuova nel V secolo a.C., e per giunta esplicitata in una sola colonia, occidentale, e da monumenti minori del culto? Non lo crediamo possibile. Insomma, per quanti sforzi noi abbiamo fatto nel tentativo di immedesimarci nelle ipotesi altrui, diverse da quelle dell'Adriani, siamo stati costantemente respinti o da un'ovvia obiezione o da un'intrinseca contraddizione. Alla fine, siamo venuti nella determinazione che l'ipotesi Adriani non solo è suggestiva, ma risponde ad una logica interna alla raffigurazione ed al riflesso che del mito di Dedalo essa ci tramanda. Anche se restano da chiarire, comunque, alcuni significativi aspetti diacronici del mito stesso. Perciò, la prima cosa che occorre fare, ripercorrendo in parte il lucido ragionamento dell'Adriani, è quella di controllare quale aspetto della saga di Dedalo la tipologia imerese riflette, e se questo aspetto è genuinamente antico ovvero è frutto di una lettura attardata delle imprese e delle peregrinazioni di Dedalo, e quindi satura di contenuti ideologici nuovi. Infatti, accettando la datazione delle arule al periodo 430-409 a.C., ci sarebbe da chiedersi se si tratta della semplice interpretazione figurata di un episodio del mito o non piuttosto di una trasposizione allegorica comunque originata dal travagliato peregrinare di Dedalo e dello sfortunato suo figlio. Ora, a parer nostro, se è scontato il fatto incontestabile della autonomia locale, civica vorremmo dire, delle arule imeresi?*, la cui scena figurata non ha confronti nel mondo greco, ebbene, questo particolare taglia seccamente la via a ipotesi interpretative forse anch'esse suggestive ma certo inattuali per calarci nella realtà politica e cultuale imerese. A questo punto dobbiamo lamentare l'assenza, a Himera, di altri monumenti coevi delle nostre arule e, comunque, di almeno altrettale, notevole rilevanza iconografica” Oggi, noi stes i, dopo molte incertezze, proponiamo di ritornare alla lettura dell'Adriani, perché ci sembra impossibile avanzare altre ipotesi che abbiano un qualche fondamento di logicità, al pari di quella che vede raffigurato nella scena delle arule di Himera un momento significativo, imerese e perciò siceliota e occidentale, della leggenda di Dedalo e Icaro”. In un preciso momento della storia politica di Himera, da collocarsi nel breve periodo finale della sua vita, non precisabile con esattezza, ma che possiamo immaginare press’a poco corrispondente al terzo venticinquennio del V secolo a.C., periodo in cui la città, già affrancatasi dal prepotere degli Agrigentini, dovette darsi reggimenti democratici, gravitando prudentemente tra le rinnovate alleanze ateniesi in Sicilia, fino al patto di Gela del 424 (che accettava in "pansiculismo" di Ermocrate), è questo, secondo la nostra ipotesi odierna, l'unico clima possibile in cui poté maturare una rivisitazione autonomistica del mito di Dedalo, e codesto periodo coincide con il massimo fiorire dell'attività industriale imerese e proprio in rapporto con l'aprirsi della città al commercio attico”. Perciò, com'è ovvio, è da escludere il momento successivo dell'ultima scelta imerese a favore di Siracusa contro Atene, contribuendo alla sanguinosa disfatta dell'Assinaro, nel 413 a.C. Ma si tratta, lo ripetiamo, di un'ipotesi di lavoro che noi stessi, per primi, ci proponiamo domani di approfondire. Intanto, qui, la presentiamo come un'ipotesi probabile e strettamente collegata alle vicende politiche imeresi. Dedalo, dunque, l'Eretteide liberatore, l'eroe attico per eccellenza pieno di metis, inventore e patrono delle arti, il protos euretes, complice di Teseo nell'uccisione del Minotauro®, rinnoverebbe ad Himera ancora una volta quel suo destino di testimone, come era accaduto ad Agrigento al tempo di Falaride e poi di Terone®, ma con finalità del tutto diverse. Là attualizzava la radicale e mai trascurata politica locale dei tiranni”, qui, ad Himera, evocava il patrocinio libertario ateniese a riconfermare la piena autonomia della vecchia colonia di Zankle*, E non escludiamo che i coroplasti imeresi, autori delle nostre arule, abbiamo derivato da originali a rilievo di grande modulo, noti nella stessa città, questo interessante motivo, la cui complessità 85

sintattica e la cui qualità di esecuzione presuppongono un modello attico, un archetipo forse pittorico della metà del V secolo o di poco posteriore". Non è certo un caso, del resto, che il maggior numero di testimonianze figurate relative a Dedalo

ci vengano dalla pittura campana, e che, senza dubbio, i pittori pompeiani hanno derivato da model-

li pittorici ellenistici e romani di grande abilità compositiva e tematica, come ha ben dimostrato, in un raffinato e utilissimo studio, Peter Heinrich von Blanckenhagen™. E c'è di più. In tutte le pittu-

re note, a partire dallo splendido quadro (oecus “A”, parete sud) della Villa Imperiale di Pompei* (fig. 3), Dedalo è sempre pesantemente ammantato, mentre Icaro è costantemente nudo; e altresì, in almeno tre o quattro dipinti, è presente la statua del dio Poseidone, il signore del mare che partecipa muto alla scena. Ma quello che più sorprende, proprio nei dipinti pompeiani, certo derivati da complessi originali ellenistici, dov'è rilevante il senso della spazialita, è il fatto che pure la città di Cnosso vi compaia ben quattro volte. Segno palese di estrazione filologica che il repertorio ellenistico ha trasmesso sottolineando la provenienza e fors'anche la nascita cretese del padre e del figlio volanti, una volta cessato il prepotente interesse attico di età classica™.

Così noi stessi non escludiamo, accettando il suggerimento dell'Adriani, un grande e importante modello”. Da questo archetipo iniziale, pittorico, è probabile che derivino in prima istanza, uno o più rilievi circolanti in Sicilia e ad Himera, e che questi, localmente ed in un secondo momento, abbiano dato origine allo schema delle nostre arule. Nel modello pittorico attico i tre dettagli iconografici tradizionali del motivo — toro = mare-Poseidon, vecchio ammantato in lutto = Dedalo, giovanetto nudo e morente = Icaro - non solo dovevano essere tutti presenti, come nelle arule imeresi, ma vennero trasmessi ai successivi modelli ellenistici che li hanno reinterpretati ed hanno aggiunto di nuovo le figure femminili che piangono la caduta di Icaro, secondo il tipico repertorio patetico dell'Ellenismo, iterato certo dalla pittura pompeiana *; e, del resto, codeste figure femminili sarebbero state inconcepibili e incomprensibili nell'archetipo diV secolo. Infine, com'è ovvio, nei vari modelli ellenistici, forse tutti pittorici, la naturale ipostasi toro = mare = Poseidon è stata semplicemente sostituita da una figura di Poseidone, che in alcuni esemplari di pittura campana è addirittura la statua del dio”.

Concludiamo questa nostra breve discussione ricordando che sussistono almeno tre buoni motivi per supporre che le arule rappresentano Dedalo e Icaro in un momento subito successivo alla caduta del giovanetto. I) Cultuale: perché il mito si radica con le sue origini cretesi nel dorismo di Himera e può essere stato gestito da comunità interessate, preponderanti solo in un preciso momento di vita della città. II) Politico: perché esso segue alla liberazione del giogo agrigentino ed è connesso col periodo della vicinanza politica con Atene, patria del mitico Dedalo.

IIT) Sociale: perché coincide

con il massimo fiorire dell'attività industriale imerese e proprio in rapporto con l'aprirsi della città al commercio attico.

Manca, a tuttora, il movente letterario, il più antico possibile, certo, che colleghi Dedalo a Himera. Ma lo studio di queste arule ci ha richiamato alla mente il vecchio lavoro di A.W. Byvanck*, che presupponeva una versione siceliota, imerese, della leggenda di Dedalo - nel quadro delle antichissime presenze minoico-cretesi in Sicilia - versione probabilmente diffusa da un poema della metà del VI secolo di Stesicoro di Himera, l'Omero lirico dell'Occidente, il quale, è probabile, insieme al “folle volo" abbia cantato il sole e il mare, dunque Poseidon*. E, a questo punto, non possiamo non ricordare che noi stessi, in diverse occasioni e per altra via, abbiamo postulato che la decorazione fittile dei templi arcaici di Himera, e, addirittura, parte dei cicli scultorei frontonali del Tempio dorico “della Vittoria" dovessero riflettere, com'è naturale, i grandi temi delle composizioni liriche di Stesicoro imerese.

Un Dedalo, quello stesicoreo, che doveva riecheggiare un modello antichissimo, probabilmente cretese, e in tutto diverso da quello attico e, quindi, del ben più tardo Dedalo imerese, da noi appena sopra postulato, ma pur'esso, come il primo, saldamente ancorato alla Sicilia 86

Fig. 3. Pompei, Villa Imperiale, oecus Ww. parete sud. Dedalo e Icaro, pittura parietale. 87

NOTE Ὁ N. Bonacasa, Il Dedalo ateniese di Himera, in Natura, mito e storia nel regno sicano di Kokalos (Atti del Convegno - SanAngelo Muxaro, 25-27 Ottobre 1996), Agrigento 1999, pp. 227-234. ? V. Tie, Cocalo, Dedalo e Minosse. Archeologia e mito nell'interazione tra Greci e Indigeni in Sikania, ibid., pp. 211-225. ? A. Bosrro, Della guerra e dell'aria, Genova 1992, pp. 60.62 * C. Skrns Faucowt, Historia Alexandri elevati per griphos ad aerem, Roma 1973, pp. 98, 129-130; P. Scarri, Daidalos e il Labyrinthos, în BFiGrPadova 1, 1974, pp. 194-210; S. Srucci,La statua marmorea trovata a Mozia: per una nuova lettura del monumento, in La statua marmorea di Mozia (Atti della Giornata di Studio, Marsala 1 Giugno 1986), Roma 1988, p. 83 ss.; Bosrro, Della guerra e dell'aria, ci, pp. 63.64; D. Wits, Dedalo, in I Greci 2,1 Torino 1994, pp. 1295-1306; K. Lucx-Hust, Der Traum vom Fliegen in der Antike, Stuttgart 1997, pp. 39-77. * G. Mapoous, Il VI e il V secolo, in La Sicilia antica I, 1, Napoli 1980, pp. 67 ss. 74 ss. Per l'arrivodi Dedalo sulle più svarate coste italiane: J. BeRarD,La Magna Grecia (ed. it), Torino 1963, p. 407 ss.; L. Braccesi, Statue di Dedalo e Icaro nell'area del Delta padano, in StRomagn 19, 1968, p.43 ss. ID., Grecità di frontiera, Padova 1994, p. 72 ss. W. Atzinora, Daidalika în Tirol?, in Forschungen und Funde. Festscrift B. Neutsch, Innsbruck 1980, p. 45 ss.; K. Scurrorn, Goetter-und Heldensagen der Griechen in der frueh-und hocharchaischen Kunst (2. Aufl), Muenchen 1993, p. 73; D. Rinewar, Daidalos and Pithekoussai, in AION NSS. 1, 1994, p. 69 ss; F. Ζενι, Gli Eubei a Cuma. Dedalo e l'Eneide, in RivFillstrCt 123, 1995, p. 178 ss.; C. Cauciana, Giasone e Dedalo al Sele, in Ostraka V,1 1996, p. 23 ss: S. De Vino, Orizzonti politici e culturali dellarea elima (Atti Seconde Giornate Intcr. di Studi sullArea Elima, Gibellina, 22-26 Ottobre 1994), Pisa-Gibellina 1997, p. 549 ss. * Sofocle, con le sue tre tragedie, Daidalos, Kamikoi, Minos, ctr. TrGF 4, Sophocles, S. Radt (ed.), Goettingen 1977, pp. 171-173, 310-312, 348 = frgg. 158-1642, 323-327, 407; S. P. Monats, Daidalos and the Origins ofGreek Art, Princeton 1992, pp. 215-216), è anche lei patrocinatrice di un "atticismo" culturale e politico-economico. Cfr. G. Vaxorm, Sofocle e l'Occidente, in I tragici greci e l'Occidente, Bologna 1979, p. 112 ss. S. Buxcurr, Falaride e pseudofalaride. Storia e leggenda, Firenze-Roma 1987, p. 5. 7 Aon, Nuova versione del mito di Dedalo e Icaro su arule imeresi?, in Himera I, Roma 1970, p. 385 ss, figg. 22-26. * E. Jorx,I Materiali, Le terracotte, ibid., pp. 296, 298-299. Ὴ Βολκομαν, Recensione a Himera I, in ClassRev N.S. XXII, 1972, pp. 294-295 “Ὁ. Brivepenz, Tipologia e analisi delle arule imeresi, in Secondo Quaderno Imerese, Roma 1982, pp. 103-106, B-12, tav. XXIV, 1,3-4; XXV; XXVI, 1; XXVIL !' 0. Brxvepens, Riflessioni sulle arule di Himera (Atti del Seminario di studi, Giardini-Naxos 18-19 ottobre 1990) 1993, p. 6558 Ὁ G. Caruro, La rappresentazioneἀεὶ toro e l'antico interesse a questo tema nella terra di Cocalo (Atti I Simposio Inter. Protostoria Ital, Orvieto, 21-24 Settembre 1967), Roma 1969, p. 44. 1 F. BaoMeR, Denkmaelerlisten zur griechischen Heldensagen, Marburg 1976, p. 63. ?* K. ScuavenBuRO, Zwei seliene mythologische Bilder auf einer Amphora, in Classica et Provincialia. Festschrift fuer E. Diez, Graz 1978, p. 172, nota 26. ! H. Nvexsuis, Daidalos et Ikaros, in LIMC TI,1, Zurich-Muenchen 1986, pp. 319-320, n. 50, a. " HE. Van Der Meuen, Terrakotta-Arulae aus Sizilien und Unteritalien, Amsterdam 1993, pp. 122-123 (IV, 4.7.5), 317-319 (MM, 5-18) 7 S.P. Morgus, Daidalos, cit, pp. 36 ss. 195 ss. 215 ss. 271 ss. © P. Marconi, Himera. Lo scavo del Tempio della Vittoria e del temenos, Roma 1931, pp. 111-114, figg. 90-92. Altra lettura ipotetica, ma secondaria, avanzata dal Marconi: Afrodite epitraghia ed Eros giovanetto. Sul tema iconografico di Europa, cfr. ἈΞ Puneet, Europa, in EAA, III, 1960, p. 542 ss.; M. RoweRrsox, Europa, in LIMC, IV, 1-2 1988, pp. 76-92, nrr. 1a-225, tav. 3248. 7" E, altresì, questa incertezza si colora di disappunto perché nell'ambito della ricerca odierna, non sappiamo, e non sapremo mai — se togli il ricordo generico della fonte: Skylax, Periplous. Geographi Graeci minores, p.321 (ed. Gall) n. 15 ( Overseck, Die antiken Schrifiquellen, Leipzig 1868, p. 14, n. 105) - che cosa Dedalo avesse scolpito nel suo magnificato altare dedicato a Poseidon, un altare unico per bellezza (cfr. S.P. Monaus, Daidalos, cit, pp. 74, 244). Certo, è ipotesi probabile chevi avrà rappresentato (ma come?) e onorato il dio del mare. ? Marcona, Himera cit. pp. 112, 114. ἘΠ quale sarebbe vivo, per il Boardman, e dubitativamente per il Belvedere. Entrambi, ad ogni modo, lo riconducono a forme di ispirazione attica, seguendo in questo l'Adriani. ® J. BOARDWAN, Recensione a Himera I cit, p.295; G. CaesseDi-G. CoLoNnA, Eos, in FAA III, 1960, 354; C. Weiss, Eos, in LIMC II, 1-2 1986, pp. 747-789,nn. 2-342, tave. 562-583. 5 G. Cressui, Cefalo, in EAA II, 1959, p. 451 s.; E. Ῥαμαπενι, Tithonos, in FAA VII, 1966, p. 882 s; Rep., Memnon ἽΝ, 1961, p. 999 s; A. Kossarz-Drissuasx, Memnon, in LIMC VI,1, 1992, p. 448 ss. E. SiMastost-Bounts, Kephalos, VII, 1992,p. 1ss. X E. Ράκιμενι, Selene, in EAA VII, 1966, p. 169; Tu. Kraus, Hekate, Heidelberg 1960, p. 102 ss. ® Anziani, Nuova versione del mito di Dedalo e Icaro, cit, p. 392-394; O. BELVEDERE, Tipologia e analisi delle arule imeresi, cit, p. 104. * Male grandi botteghe dei coroplasti di Himera, intorno a quel torno di tempo, avevano ultimatoo stavano per ultimare la terza e ultima decorazione acroteriale del Tempio B: Nikai, figure alate, etc. N. Bonacasa, L'area sacra, in Himera I, pp. 88

166., 177 ss; ID., Ipotesi sulle sculture del Tempio della Vittoria a Himera, in Aparchai I, Pisa 1982, pp. 303-304; ID., La produzione scultorea ad Himera nel V secolo a.C., in Praktika tou XII Dieth. Syn. Klas. Archaoiloghias (Athina 4-10 Sept. 1983) II, At {πα 1988, p. 16; ID. Nuove ipotesi sulla coroplastica templare decorativa a Himera, in Naxos 1953-1995 - Dallo scavo al Museo (Atti Tavola Rotonda, 26.27 Ottobre 1995), Messina 1998, p. 131 ss; ID., Riflessioni su tre nuovi acroteri imeresi, in Koind, Miscellanea di Studi Archeologici in on. di P. Orlandini, Milano 1999, p. 297 ss. 7 A meno che dietro codesto "ritorno" ideale di Dedalo non sia ipotizzabile una riconferma indiretta del dorismo imere. se, forse mantenuto in vita da una minoranza di cittadini. Se così, nel ritorno a formule politiche oramai superate di dorismo = unitamente all'alleanza con Siracusa - si potrebbe annidare una delle probabili concause della tragica fine di Himera nel 409 a.c. è N. Bonacass, L'area sacra, cit, pp. 177-179; ID., Da Agrigento a Himera: la proiezione culturale, in Agrigento e la Sicilia greca (Atti Settimana di Studio, Agrigento 2-8 maggio 1988), Roma 1992, p. 133 ss K. Meister, La rottura degli equilibri, ibid, p. 113 ss; A. Stazio, Moneta, economia e società, ibid., p. 219 ss; N. ALLEGRO, Tipi della coroplastica imerese, in Quaderno Ime rese, Roma 1972, p. 39 ss; ID., Louteria a rilievo da Himera, in SecQuadim, pp. 121-123, 162-166; O. Βεινερεκε, Tipologia e analisi delle arule imeresi, cit. pp. 111-112; N. ALLEGRO, Quartiere Est, I materiali, in Himera II, Roma 1976, I, pp. 501-503; A. Carorsone, Riflessi della politica ateniase in Occidente: I Sicelioti eil mitodi Tritolemo, in Quad AUMessina 7, 1992, p. 33 ss. » G. Becarm, La legenda di Dedalo, in RM LX-LXI, 1953-54, pp. 22-36; G. Rizza, Dedalo e le origini dell scultura greca, in CrASA 2, 1963, pp. 5-49; F. Fronnst-Dvcnoux, Dédale. Mythologie de Vartisan en Gréce ancienne, Paris 1975, pp. 29 ss., 64 ss. 89 ss, 135 ss, 151 ss, 171 ss; R. Concia, Genealogia dedalica e scultura arcaica: un "canone" in forma di mito?, in MEFRA 93, 1981, p. 533 ss; S.P. Morus, Daidalos, cit., pp. 150 ss. 195 ss., 215 ss, 271 ss; K. Scurroun, Goetter-und Heldensagen, cit, p. 1. » R. Houann, Die Sage von Daidalos und Ikaros, Leipzig 1902, pp. 1-38; G. Pucusse Cassaretui, Minos e Cocalos, in KoKalos IL 1 1956, p. 89 ss; F. PristeR, Goetter und Heldensagen der Griechen, Heidelberg 1956, pp. 108, 110-111, 227, 232; E. Maso, Sicilia pagana, Palermo 1963, pp. 53 ss. 67 ss., 80 s; J. Bran, La Magna Grecia, cit., pp. 381, 402, 405-411, 443; S. Buscusrn, Falaride e pseudofalaride, cit., pp. 28-32, 41 ss., 72 ss. R. SauMartAno, Dedalo, Minosse e Cocalo in Sicilia, in Mythos 1, 1989, p. 201 ss; Bosacasa, Da Agrigento a Himera, cit, p. 133 ss; O. Μυκκαν, Falaride tra mito e storia, ibid., p. 47 ss; R. Va Compensoue,La signoria di Terone, ibid., p. 61 ss AA.NV., Dizionario dei culti e miti nella Sicilia antica 1, Palermo 1996, pp. 85-86; C. Castaa, Gli Emmenidi e le tradizioni poetiche e storiografiche su Akragas fino alla battaglia di Himera, (SEIA 12, 1995), Palermo 1999, pp. 9 ss, 81 ss, 101 s ., 123 ss, passim. ?' La restituzione da parte di Terone delle ossa di Minosse ai Cretesi segnò un momento di pace con l'elemento indigeno e produsse il ricompattamento del secolare rapporto Agrigento-Creta. BnciErt, op. cit, pp. 31-32, 41 ss; Bonacasa, art. cit. in Agrigento e la Sicilia greca, pp. 137, 139 ss. * SI potrebbe obiettare che, forse, e più semplicemente, nelle nostre arule, i toro potrebbe non alludere al mare e Poseidon, tomba del figlio di Dedalo, ed essere invece una tardiva ipostasi di Creta. Insomma, alla fine, codeste arule potrebbero si. gniffcare il pietoso ideale ritorno di Dedalo, del vecchio padre in lutto che stringe a sé i filio morto, perché è morto, e senza ali perché si sono sciolte al sole. E allora il toro sarebbe ipostasi per eccellenza del sito originario dei due, Creta. Ma noi stiamo per la prima ipotesi, quella che coinvolge il personaggio Dedalo, ateniese, alludendo pure all'autonomia di Himera. 5f Apauxsi, Nuova versione del mito di Dedalo e Icaro, ct, p. 390; O. BELVEDERE, Tipologia e analisi delle arule imeresi, cit., p. 104 1D., Riflessioni sulle arule di Himera, cit., pp. 67-68. Il particolare ricorre anche per altri rilievi, dietro ai quali sono stati intravisti originali attici, forse pittorici Per il Dedalo ateniese, raffigurato nel Partenone e nello scudo dell'Athena Parthenos: G. Becarn, Problemi fidiaci, Milano: Firenze 1951, pp. 111-112; F. Preissuoren, Phidia-Daedalus auf dem Schild des Athena Parthenos? Ampelius 8, 10, in JdI 89, 1974, p. 50 ss; M. RogeRtsoN, The South Metopes: Theseus and Daidalos, in Parthenon Kongress Basel, Mainz a. R. 1984, pp. 206-208, tavv. 15-16; S.P. Morais, Daidolos, cit, pp. 261-263. In generale, sul tema del viaggio di Dedalo e sulle varie tipologie delle sue raffigurazioni, dopo l'articolo di J.H. Nvextius, Daidalos er Ikaros, cit., in LIMC II, 1, p. 313 ss: cfr. tra gli alti: J. Borcinaror, Myra. Eine Iykische Metropole, Berlin 1975, pp. 221-222, 228; S. Sruccut, La statua marmorea di Mozia e il viaggio aereo di Dedalo, in RendPontAcc 59, 1986-87, pp. 3 ss. 18 s. 28 ss; M. Scuumr, Daidalos und Ikaros auf Kreta, in Kotinos. Festschrift E. Simon, Mainz a. R. 1992, p. 306 ss; M.A. Rizzo-M.MarreLtt, Un incunambolo del mito greco in Etruria, in ASAtene NS. XLVIII-XLIX, 1988-89 (1993), p. 7 ss, figg. 7, 9, 38; L. Bacciaszus, Dedalo mette le ali a ἴοατο, in Studi perP. Zampeti Ancona 1993, p. 23 ss; Sruccit, La posizione del braccio destro della statua di Mozia ed un torso di Cirene, in Lo stile severo in Grecia e in Occidente. Aspetti e problemi, Roma 1995,p. 79 ss; G. Harum, Der Schoenste seines Jahrhunderts, ibid. p. 61 55. % PH. νὸν BLANCKPNIIAGEN, Daedalus and Icarus on Pompeian Walls, in RM 75, 1968, p. 106 ss. » K. Scissor, Die Waende Pompeji, Berlin 1957, pp. 46, 89, 266, 269, 290; P.H. von BiarcxexWacex, Daedalus and Icarus, cit, pp. 107-108 ss. Per altre raffigurazioni, C. M. Dawson, Romano-Campanian Mythological Landscape Painting, New Haven 1944, pp. 80-81, 84, 89, 99, 104-105, 107-108, 119-122, 140-142; U. Parexarno, I mosaici della "Vila Imperiale"a Pompei, in Arti IV Colloguio AISCOM (Palermo, 9-13 Dicembre 1996), Roma 1997, p. 541 ss.; F. Paguse Bano, Ikaros: rappresentazione di un mito greco in ambiente romano, in I temi figurativi nella pittura parietale antica (Bologna 20-23 Settembre 1995), Bologna 1997, pp. 103-105. * G, Becam, La legenda di Dedalo, cit, p. 29 ss. S.P. Momus, Daidalos, cit, pp. 215 ss. 271 ss. ? Apriaxt, Nuova versione del mito di Dedalo e Icaro, cit., pp. 387, 390. » P.H. von BLANCKENKAGEN, Daedalus and Icarus, cit, pp. 132-135. A questo punto, occorre precisare che Poseidone già al cadere del primo arcaismo non appare più sotto forma di toro, ipostasi ceduta ben presto alle personificazioni di fiumi e di fonti, per assumere quella di cavallo e, poi, di cavallo marino. Ma presto il dio è raffigurato, a partire dal tardo arcaismo, sotto forme umane e in seguito, definitivamente, di tipo statuario. La 89

statua, dunque, che compare nelle pitture pompeiane ¢ in altri monumenti, ha un preciso motivo d'essere. P. Courcente, Quelques symboles funéraires du Néo-Platonisme latin, in REA XLVI, 1944, p. 65 ss; R. Harz, Daedalus und Icarus auf Spaetroemischer Sipillatakanne, in Mansel’ armagan, Ankara 1974, p. 25 ss; C. Bear, Une représentation de la chute d'Icare à Lousonna, in ZSchwaAKuGesch 23, 1963-64, p. 1 ss ID-M. Horsrerte, Dédale et Icare: tradition ou renouveau?, in Bronzes hellénistigues et romains (Actes 5. Coll. Inter. Bronzes Ant.) Lausanne 1978 (1979), p. 121 ss.; S. Carorsons, Il mito di DedaloIcaro nel simbolismo funerario romano, in Romanitas, Christianitas. J. Straub zum 70. Geburtstag, Berlin 1982, pp. 749-767; LH. Nvewstis, Daidalos et Ikaros, cit. in LIMC ΤΠ, 1, pp. 315-316, 317 ss.; H. Βικητεαμανν, Die Antiken Sarkophagreliefs 12,2 Die Mythologischen Sarkophage, Berlin 1992, pp. 100-102, nrr. 25-26, tavv. 23-25. AA. W. Byvawcx,De Magnae Graeciae Historia Antiquissima, Leiden 1912, p. 15. Perle due tragedie di Sofocle (Daidalos, Minos), che qui merita richiamare, cfr. n. 6. “J. Vonmiewa, Stesicoros' Fragmente und Biographie, Leiden 1919; W. FERRARI, Stesicoro imerese e Stesicoro locrese, in Atenaeum XV, 1937, p. 244 ss; The Oxyrhyncus Papyri XXXII, 1967, nn. 2617-2619; M.L. West, Stesichorus, in ClQuart XXI, 1971, p. 302 ss; D.L. Pace, Stesichorus: the Geryonels, in JournHellStud XCII, 1973, p. 138 ss; ID, Lyrica Graeca Selecta, Oxford 1973, p. 30 ss C. M. Bowra, Greek Lyric Poetry (II ed.), Oxford 1961, trad.it. La lirica greca, Firenze 1973, pp. 107-109, 126 ss. 131 ss, 171 ss. 182-185. del Tempio, cit, p. 291 ss.; P.H. Brize, Die Geryo© p, Marcona, Himera, cit, pp. 66-70; N. Boxacasa, Ipotesi sulle sculture neis des Stesichorus und die fruehgriechische Kunst, Wuerzburg 1980, pp. 11s. 39, 64s.

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Lorenzo Braccesi I TIRANNI DI SELINUNTE

Per Selinunte, la tradizione ci conserva memoria di due tiranni: Terone e Pitagora. Ma, oltre il loro nome, avarissime sono le notizie in nostro possesso. Del primo, Terone, siamo informati da Polieno', raccoglitore di celebri stratagemmi. Egli ci dice che i Selinuntini subiscono una grave sconfitta da parte dei Fenici di Sicilia, e che, in quella occasione, mentre timorosi sono asserragliati dentro la loro città, Terone, figlio di Milziade, presi con sé trecento schiavi, si offre di andare a seppellire i caduti mentre ancora i nemici controllano le campagne circostanti. I suoi concittadini sono tutti contenti di tanto ardimento; ma egli, condotti gli schiavi fuori della città, li convince a farvi ritorno nel cuore della notte per massacrare i propri padroni usando le stesse scuri con le quali avrebbero dovuto preparare i roghi funebri. Ciò che avviene puntualmente, consentendo così a Terone di operare il colpo di stato che lo rende tiranno in Selinunte. Del secondo, Pitagora, siamo informati, seppure molto incidentalmente, da Erodoto?. Il contesto è quello relativo alla narrazione della sfortunata spedizione siciliana del principe spartano Dorieo; sconfitto, dopo il 510, nei pressi di Erice, dai Fenici e dagli Elimi di Segesta, loro alleati, che lo uccidono radendo al suolo Eraclea, la colonia da lui appena fondata. In quella occasione solo uno dei

suoi compagni si salva, e questi, Eurileonte, prima si insedia in Minoa, quindi aiuta “i Selinuntini a

liberarsi del tiranno Pitagora”, infine si tramuta egli stesso in tiranno. Cosa che però i Selinuntini

non gli perdonano; infatti l'uccidono nonostante che, supplice, egli si sia rifugiato presso l'altare di Zeus Agoraios. Questo è quel pochissimo che sappiamo dei due (0 dei tre?) tiranni di Selinunte. Di Terone conosciamo unicamente l'occasione della sua ascesa al potere, di Pitagora solo la causa della sua caduta. Entrambi esprimono un potere assoluto, ma non sappiamo se i due regimi tirannici siano da considerare distinti, ovvero come estrinsecazione del medesimo governo tirannico durato due generazioni. In ogni caso la tirannide si accompagna a staseis e lotte intestine delle quali superstite eco pare cogliersi nella documentazione epigrafica*. In ogni caso anche qui la tirannide si colora, nella tradizione posteriore, delle consuete e stereotipe note di vituperio che coinvolgono indiscriminatamente tutti i suoi componenti. Come è il caso di Terone, la cui conquista del potere si accompagna alla condanna per l'appoggio derivatogli dall'elemento servile; ovvero di Eurileonte, la cui morte si giustifica anche se sacrilega, anche se avvenuta in spregio alla norma sacra che sancisce l'inviolabilità dei supplici. Delle due tirannidi di Terone e di Pitagora riusciamo a datare solo la seconda perché ancorata

agli eventi che seguono alla disfatta di Dorieo, avvenuta dopo il 510 a.C. Ma a quando datare la ti-

rannide di Terone? Tutto indurrebbe a credere che si ponga in età anteriore a quella di Pitagora, poiché ne saldiamo la genesi a una guerra combattuta dai Selinuntini contro i Fenici. Guerra che può

datarsi solo in età precedente perché non conosciamo fra elemento selinuntino ed elemento fenicio, © punico, altre contese in epoca successiva, e per tutto il secolo che corre fra la sconfitta di Dorieo e la distruzione di Selinunte. In particolare, legandosi il colpo di stato operato da Terone ai postumi di una sanguinosa sconfitta, la critica‘ ha inferito che questa, con tutta probabilità, sia da ravvisare in quella subita dai Selinuntini ai tempi della spedizione di Pentatlo di Cnido: databile nella cinquantesima olimpiade, e quindi nel quadriennio 580/576. La critica, inoltre, seppure senza correlarne fra loro le vicende, ha inferito che entrambi i tiranni fossero di sentimenti filopunici: l'uno perché avventuratosi indisturbato nella campagna selinuntina presidiata dai Fenici*, l'altro perché di "segno contrario" a Eurileonte, il quale certo tentava di proseguire l'azione di Dorieo* Così stando le cose, nulla allora impedisce di congetturare che i nostri tiranni, tanto Terone 91

quanto Pitagora, abbiano preso il potere dopo le due sconfitte inferte, per iniziativa di Fenici e di Elimi, ai Selinuntini e ai loro alleati, approdati da Cnido o da Sparta rispettivamente ai tempi di Pentatlo e di Dorieo. In entrambe le occasioni la sconfitta, sia propria, sia del potente alleato, determina in Selinunte un sovvertimento interno che si traduce nell'instaurazione di una tirannide che è spalleggiata da forze esterne. In entrambe le occasioni la ricaduta degli eventi appare proprio speculare perché analoghe sono le dinamiche che portano al fallimento delle spedizioni transmarine e al colpo di stato all'interno della citt Solo Eurileonte ci appare un tiranno di segno decisamente contrario: ostile, anziché amico, dei Cartaginesi. Alla luce di questa considerazione è bene riflettere nuovamente su tutti gli eventi dei quali è protagonista, così come ci sono tramandati da Erodoto. Si erano imbarcati con Dorieo come compagni nella fondazione della colonia anche altri Spartiati, Tessalo, Parebate e Celea ed Eurileonte, i quali, quando giunsero con tutta la spedizione in Sicilia, morirono vinti in battaglia dai Cartaginesi e dagli abitanti di Segesta. Dei fondatori della colonia solo Eurileonte sopravvisse a questo disastro. Egli, presi con sé i superstiti dell'esercito, occupò Mioa, colonia dei Selinuntini, e aiutò i Selinuntini a liberarsi del tiranno Pitagora. Ma poi, dopo averlo abbattuto, egli stesso tentò di impadronirsi della tirannide di Selinunte e ci riuscì, ma per poco tempo perché i Selinuntini si ribellarono e lo uccisero, sebbene egli si fosse rifugiato presso l'altare di Zeus Agoraios. Ha nome Eraclea la colonia di Dorico abortita sul nascere. Il toponimo, assente in Erodoto, ci è conservato da Diodoro”. Totale è la disfatta del principe spartano, ma non tutti i suoi compagni periscono con lui. Si salva, infatti, Eurileonte che guida i superstiti della sfortunata spedizione a Minoa. La città è ancora colonia di Selinuntini, e molto probabilmente, è proprio in questa occasione che muta il suo nome in Eraclea Minoa*. Eurileonte si inserisce quindi, come protagonista, negli affari interni di Selinunte, e aiuta i suoi abitanti a disfarsi del tiranno Pitagora. Ma poi egli stesso si trasforma in tiranno e per questo motivo viene ucciso. Come decodificare questi accadimenti, tutt'altro che lineari e talora anche apparentemente contraddittori? Se i Selinuntini accolgono a Minoa Eurileonte con i superstiti della spedizione spartana, dobbiamo ritenere scontato (e già l'abbiamo considerato un dato acquisito) che essi abbiano combattuto al fianco di Dorieo, esattamente come avevano combattuto, settant'anni prima, al fianco di Pentatlo. Così stando le cose, la sconfitta di Dorieo determina, contemporancamente, tanto l'asserragliamento di Eurileonte a Minoa, quanto il colpo di stato di Pitagora a Selinunte. Di qui, come sempre in questi casi, saranno poi fuggiti i cittadini di parte avversa: cioè non disponibili a intese con il nemico. Avremmo così giustapposti due schieramenti politici: quello del tiranno e quello degli esuli politici, suoi oppositori. Ma dove potevano riparare questi ultimi fidando in aiuti per la propria battaglia? Se concentriamo l'attenzione sui dati in nostro possesso, è facile concludere che anche essi si siano diretti a Minoa, dove avrebbero convinto Eurileonte a marciare su Selinunte per abbatterne il tiranno. Fin qui tutto potrebbe avere una sua logica giustificazione. Ma perché poi i Selinuntini, sbarazzatisi di Pitagora, decidono di sbarazzarsi anche di Eurileonte, accusandolo, a sua volta, di essere divenuto un tiranno? Chiaramente il motivo è pretestuoso. Altra è la verità. La risposta, a ben vedere, ci è fornita dagli accadimenti successivi: dal fatto che, nel 480 a.C., al tempo della battaglia di Imera, i Selinuntini sono alleati dei Cartaginesi”. Ma che cosa è accaduto nel frattempo? È successo che i

Selinuntini, già schierati al fianco di Dorieo, sono ora costretti a invertire rotta politica se vogliono sopravvivere in una terra che confina con la Sicilia punica. È semplice realismo politico: destinato a evitare alla città di sperimentare altri insuccessi e altri regimi tirannici imposti dall'esterno. Cambia così, di necessità, anche il loro atteggiamento nei riguardi di Eurileonte: prima accolto da liberatore e da amico, quindi, divenuto personaggio scomodo, ucciso come tiranno. Ma come si inserisce l'episodio nel quadro altalenante dei rapporti fra Greci e Fenici, e quindi fra Greci e Cartaginesi? È proprio difficile dirlo, anche perché ignoriamo l'esatta cronologia della sconfitta di Dorieo che può collocarsi tanto in data prossima al 510 a.C. (quando approda in Sicilia) quanto in data sensibilmente posteriore ?. Solo un elemento è sicuro e, per quanto apparentemente 92

marginale, induce alla riflessione. Erodoto' ci informa che, nel 480 a.C., Gelone, il tiranno di Siracusa, rimprovera agli Spartani di non avere appoggiato i Greci di Sicilia nella loro lotta contro il barbaro, pagata appunto con il sangue di Dorieo. L'anno è il medesimo che vede Gelone e Terone di Agrigento trionfare a Imera sui Cartaginesi e sui loro alleati selinuntini. Dobbiamo allora pensare che la lotta iniziata contro Dorico si sia prolungata, fra alterne vicende e mutevoli alleanze, fino a questa data? Non lo possiamo escludere. Chiarita così l’opposta connotazione dei tiranni di Selinunte, possiamo, almeno su un punto, giungere a una conclusione che ci pare difficilmente confutabile. Cioè che a Selinunte, laddove si cocettui il non-selinuntino Eurileonte, l'operato dei tiranni è rivolto all'intesa, anziché alla lotta, con l'elemento elimo, fenicio o cartaginese. I tiranni, diversamente da quanto avviene in età successiva a Siracusa o Agrigento, non calano in forma provvidenziale sul teatro degli umani eventi per sconfiggere il barbaro, bensì, viceversa, perché sorretti o imposti dallo straniero. NOTE * Polyaen. 1, 28,6, ? Herod. 5, 46, 2. Su cui vd. ora G. Nexici, Erodoto, Le Storie, Libro V, Milano 1995, p. 220. ? IGDS 28 (=16 152). * Così già E.A. FREEMAN, The History of Sicily from the Earliest Times, II, Oxford 1891, pp. 81-82. Vd. ora per tutto il problema, con documentazione anche su ipotesi alternative, N. Lueaow, Tirannidi arcaiche in Sicilia e Magna Grecia, Firenze 1994 [con omessa l'indicazione "tesi di dottorato di ricerca in storia antica, ciclo IV, Università di Roma (La Sapienza), di Trieste e di Venezia"), p. 52, nn. 6€ 7. * Così, ancora di recente, G. Muppoti, Il VI e il V secolo, in E. Gasna -- G. Vanier (edd), Storia della Sicilia, TI, Napoli 1979, pp. 1-102, part. 12, nonchéD. stesi, Carthaginians and Greeks, in CAP, IV, 1988, pp. 739-780, part. 757. * Così ora anche N. Lnact, Tirannidi, it, p. 54. τ Diod. 4,23, 3. * Vd.,in generale, la documentazione raccolta da F. Basso, s.v. Eraclea Minoa, in BTCGI, VII, 1989, pp. 234-240. * Come testimonia, con risalto, Diod. 11, 20. τ Vd. sul problema, con ampia documentazione, le equilibrate conclusioni di B. Virciio, Commento storico al quinto li bro delle “Storie”di Erodoto, Pisa 1975, pp. 146 ss. 7 Herod. 7, 158,2.

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MARIA Grazia BRANCIFORTI QUARTIERI DI ETÀ ELLENISTICA E ROMANA A CATANIA

La ricerca archeologica condotta a Catania negli anni 1987-1996 ha permesso L'acquisizione di nuovi dati, utili alla conoscenza dell'impianto urbano di età ellenistica e romana. I risultati più significativi provengono da scavi che, condotti presso l'ex monastero dei Benedettini e in via Crociferi, hanno interessato un'area collinare, ritenuta l'acropoli della polis calcidese, e dagli scavi effettuati all'interno dell'ex Ospedale San Marco, ubicato immediatamente a nord dell'Anfiteatro, in una zona pianeggiante della città nota finora come area extraurbana occupata, in età tardo romana, da necropoli.

Se ne ricava un panorama di notevole interesse in riferimento alla città ellenistica, ai suoi quar-

tieri di abitazione, alla continuità in età romana dell'impianto urbano greco ed alle modificazioni da esso subite per la costruzione di grandi edifici pubblici I risultati di tale ricerca archeologica, peraltro di difficile e complessa esecuzione anche per la limitatezza delle aree indagabili, peraltro sottoposte nei secoli a radicali trasformazioni urbanistiche con la conseguente distruzione dei contesti stratigrafici, si integrano alle notizie dei ritrovamenti dei secoli XVIII e XIX, documentati il più delle volte in maniera sommaria ma in alcuni casi, pochi per la verità, con puntuali descrizioni delle strutture rinvenute. Si può cercare di ricostruire un quadro generale e fissare alcuni dati topografici essenziali c, pure in assenza di una documentazione esaustiva di tutti i ritrovamenti effettuati in antico, dare una lettura per fasi dell'impianto urbano, riconoscendo le aree destinate alla residenza privata in età tardo ellenistica-repubblicana e proto imperiale, e valutando le modificazioni verificatesi, nel corso del II secolo, în occasione della costruzione del Teatro con l'annesso Odeon, dell'Anfiteatro e dei grandi edifici termali di età imperiale. Tl maggiore contributo viene certamente dallo scavo condotto all'interno dell'ex monastero di S. Nicolò l’Arena', dove è stato possibile condurre l'esplorazione archeologica su ampie aree; si è potuto così comprendere quanto profondamente fosse stata alterata, la morfologia dei luoghi con la realizzazione, nel medievo e in età moderna, di poderose operazioni di livellamento con la conseguente asportazione di strutture emergenti e con l'interramento di aree originariamente depresse per la na tura acclive del luogo*

Dopo un breve intervento del 1978, condotto negli ambienti posti a ridosso del muro orientale di

cinta, gli scavi dal 1982 al 1996 hanno interessato essenzialmente tre aree:

i grandi cortili che cir-

condano ad est e a sud l'edificio monastico compresi gli ambienti di piano terra tra il primo chiostro ed il cortile orientale, parte degli ambienti a ridosso del muro di cinta prospiciente via Teatro Greco ed i cantinati posti sotto l'ala nord del secondo chiostro*. Lo scavo del 1978, effettuato all'interno degli ambienti settecenteschi nella porzione sud delle “scuderie” addossate al muro di cinta che prospetta su piazza Dante, permise per la prima volta di verificare la presenza di strutture riferibili a più fasi, inquadrabili dall'età greca arcaica a quella medievale, e di recuperare preziosi documenti risalenti alla colonizzazione calcidese*. Le fasi di vita identificate trovarono ampio riscontro nei successivi scavi condotti nella superficie ben più ampia dei cortili che circondano ad est e a sud l’edificio monastico. Gli strati più profondi di tutte le aree indagate hanno confermato un'imponente frequentazione di età preistorica da inquadrare essenzialmente tra il neolitico tardo (facies di Diana) e l'encolitico recente (facies di Malpasso) dal momento che le fasi più antiche (facies di Stentinello) e quelle più recenti (cultura di Castelluccio, di Pantalica e del Finocchito) sono attestate solo da sparuti fram‘menti ceramici e strumenti litici sopravvissuti in stratificazioni successive; in particolare tra il neoli-

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tico tardo (facies di Diana) e l'eneolitico recente (facies di Malpasso) sul versante orientale della collina dovette svilupparsi un insediamento capannicolo, che probabilmente si estendeva sino al più basso terrazzamento di via Crociferi come lascerebbero intendere i ritrovamenti in piazza Dante, all'angolo tra le vie Carlo Ardizzone e Casa di Nutrizione, e soprattutto in via Crociferi dove, al disotto dei livelli greci, sono stati individuati spessi depositi della facies di Malpasso in tutta la vasta area esplorata*. Nel cortile orientale, al di sopra di una successione stratigrafica, riferibile alle prime testimonianze relative alla colonia calcidese, è attestata una prima fase urbanistica di età arcaica, con abitazioni distrutte nel primo quarto del V secolo a.C., a cui si sovrappose una seconda fase urbanistica, da riconnettere alle notizie delle fonti sulla distruzione operata da Ierone nel 476 a.C. e sulla riedificazione della città, per opera di Dionigi I nel 403 a.C., secondo un nuovo schema che non tenne conto dell'orientamento dell'impianto precedente”. Intorno alla metà del III sec. a.C. l'area ebbe una nuova fase edilizia, conseguente probabilmente all'occupazione romana del 263 sec. a.C., allorché un complesso di abitazioni, in uso sino alla fine del I sec. d.C., si dispose scenograficamente sul fianco orientale della collina in tre terrazzamenti degradanti da sud-ovest verso nord-est”. Tutte le strutture sopradette furono poi inglobate in un edificio di notevoli dimensioni per il quale si può ipotizzare una destinazione pubblica fin dal suo primo impianto alla fine del II sec. d.C.: il lato orientale, l'unico finora messo in luce per tutta la sua estensione di 76 metri, è costituito da una successione regolare di vani addossati al terrapieno che si formò con le rovine delle costruzioni più antiche. Tale edificio, le cui strutture peraltro sono state intercettate anche in saggi di limitata estensione eseguiti nel cortile meridionale ed al di sotto del corridoio orientale del primo chiostro, fu costruito quindi tenendo conto oltre che del naturale declivio anche delle preesistenze che non furono eliminate*. Col suo lato orientale prospetta su una strada di impianto greco che, pavimentata con grandi basole a contorno poligonale in età augustea, era ancora in uso al momento della sua costruzione. 1I primo nucleo del quartiere ellenistico-romano, messo in luce negli anni 1982-1985 nel settore a sud dell'ingresso principale dell'edificio monastico, al momento dello scavo risultò fortemente danneggiato dal passaggio di una fognatura moderna, con la conseguente perdita delle connessioni strutturali con un altro nucleo posto a quota inferiore”, oltrecché dalla costruzione del grande edificio di età imperiale romana e da un insediamento abitativo di età medievale che ne obliterarono una porzione consistente. Pur consapevoli dei limiti insiti nella presentazione di una ricerca ancora in fase di svolgimento, si vuole dare notizia del complesso abitativo di età ellenistico romana messo in luce a seguito dell'indagine condotta su una vasta area e con una attenta analisi delle complesse successioni stratigrafiche. L'ambiente meridionale del primo nucleo, vano A di m. 3 in senso EO a sud e di m 3,10 EO a nord x m 2,65 NS a est x m. 2,40 NS ad ovest, a pianta trapezoidale, che a sud riutilizza quale fondazione una struttura dell'impianto greco precedente, ha un semplice pavimento di cocciopesto con tracce di colorazione in rosso (fig. 1, A)!'; si conserva la decorazione pittorica dello zoccolo, alto m. 0,60, di colore bruno tendente al blu e di parte della zona superiore della parete a fondo bianco tripartita da bande verticali brune che, agli angoli del vano, si accostano (fig. 2). La superficie finemente lisciata dell'intonaco restituisce l'effetto marmorino. La tripartizione decorativa si mantiene in un secondo strato, sovrapposto al primo, dove essa è costituita da ampi pannelli rettangolari, che alternano un fondo rosso ad uno con ovoli gialli delineati in rosso, in contrapposizione ai rettangoli inscritti in ogni pannello, anch'essi decorati ora in rosso ora con ovoli gialli delineati in rosso (fig. 3). Ad est del vano A si conserva parte di un ambiente, vano B, sopravvissuto alla costruzione del muro orientale del grande edificio (fig. 1, B); del vano B è stato possibile riconoscere l'ingresso che prospetta a nord su un cortiletto con pavimento in cocciopesto con due fasce di basole orientate in senso nord sud; il vano B, che sembrerebbe pertinente ad una seconda fase della casa, dal momento che il suo muro perimetrale nord fu impostato a diretto contatto con le basole del cortile, indicherebbe come il nucleo abitativo ad est aveva una estensione maggiore di quella ora verificata; confer96

Fig. 1. Pianta generale dei tre nuclei abitativi nel cortile orie ntale dell'ex monastero di S. Nicolò l'Arena. 97

Fig. 2. Strato più antico di intonaco nel vano A del primo nucleo.

merebbe tale ipotesi la presenza di alcuni lacerti di muri di III sec. a.C. individuati all'interno di un parte orientale della casa ellenistica. Il cortile (fig. 1, C), in parte porticato, come farebbe supporre la presenza di un colonnina in mattoni unica sopravvissuta in uno spazio poi travolto da strutture di età medievale, presenta un pavimento in cocciopesto, definito, come già detto, ad est e ad ovest da due fasce di basole in pietra lavica (fig. 1, C); nella seconda fase della casa esso fu trasformato in un piccolo viridarium: la decorazione pittorica della parete meridionale riproduce, infatti, un giardino visibile al di là di una balaustra di canne legate a reticolo (fig. 4). I numerosissimi frammenti di intonaco recuperati nello strato di crollo, che ha colmato il vano A e il cortile stesso, presentano una decorazione con alberature, rami e foglie, su fondo azzurro riferibile probabilmente alla parte superiore della parete. Il motivo decorativo dello zoccolo del vano A, evidente imitazione dei rivestimenti parietali in marmo‘, si ripete anche in uno stretto ambiente di m 4,30 x 1,57 S -1,64 N, vano D, purtroppo ampiamente danneggiato dalla fognatura moderna, comunicante ad est col vano A (fig. 1, D). Il pavimento di questo ambiente, che fungeva da disimpegno, è un cocciopesto ben battuto, ricco di minuti frammenti ceramici nell'impasto e ritoccato col colore rosso. Il quinto ambiente riferibile a questo nucleo, vano E, ad ovest del vano D, è quello maggiormente danneggiato in età moderna: l'unica porzione non interessata dalla costruzione dell'edificio monastico settecentesco, è stata attraversata dal condotto fognario (fig. 1, E). Si è conservata una esigua porzione del pavimento in signinum lisciato e ritoccato col colore rosso che, alla distanza di m. 1 dalle pareti, presenta il motivo del punteggiato regolare con tessere bianche diposte su file parallele distanti m 0,10 le une dalle altre. L'unico lacerto sopravvissuto dell'elevato, riferibile allo zoccolo dell'angolo sud-est del vano, conservava in posto l'intonaco dipinto ad affresco con il motivo degli ovoli gialli delineati in rosso del tutto simile a quello dello ‘ambiente del grande edificio la cui costruzione avrebbe, dunque, determinato la distruzione della

zoccolo dei vani A e D.

98

Fig. 4. Decorazione pittorica della parete meridionale del cortile C del primo nucleo. 99

Ad una quota inferiore, nell'area prospiciente l'ingresso dell'edificio monastico, si trova il secondo nucleo costituito da almeno otto ambienti con pavimento in opus signinum e pareti affrescate. Questo nucleo ebbe almeno tre diversi momenti d'uso attestati, in quasi tutti gli ambienti che lo costituiscono, da tre strati sovrapposti di intonaco dipinto e dalla presenza di pilastri a base quadrata e colonnine fittili poi inglobati in strutture murarie le quali determinarono la divisione in piccoli vani di grandi ambienti originariamente dotati di colonnati interni (fig. 1, vani G, H ed I). L'ambiente di SO, vano F, a ridosso delle fondazioni dell'edificio settecentesco, presentava tre successivi strati di intonaco dipinto (fig. 1, F). Dopo il distacco dei due più recenti è stato possibile esa-

minare lo strato più antico, rimasto in situ: in esso, al di sopra di uno zoccolo alto m 0,60 di colore nero, mediante sottili fasce brune sono riprodotte lastre marmoree separate le une dalle altre da lesene che agli angoli del vano si accostano e il cui aggetto, derivante nella realtà dalla smussatura dei bordi della lastra, è reso pittoricamente da linee anch’esse brune, che definiscono un stretto rettangolo, poste tra due linee verticali a tratto più largo (fig. 5). Nello strato mediano, al di sopra di una zoccolatura nera spruzzagliata di piccole macchie gialle e rosse, doveva svilupparsi una parete rossa in cui fasce di colore giallo ocra delimitavano riquadri decorati con volatili e oggetti di arredo ". Lo strato più esterno, al di sopra di una zoccolatura alta m 0,58, determinata sul fondo bianco della parete da larghe fasce rosse segnanti campi quadrati e rettangolari spruzzati di rosso, presenta tre ampi riquadri rettangolari alternati a due più stretti delineati da fasce rosse. Nei grandi riquadri, accostati nell'angolo nord est del vano, che si conservano per una altezza massima m 2, è rappresentato il motivo di una tenda, con frangia dipinta in rosso, delimitata da ciascun lato da bande brune che suggeriscono la rappresentazione di una finestra con larghi stipiti. Solo sulla parete settentrionale si conserva parte di uno dei riquadri rettangolari piccoli, che si alternavano a quelli maggiori, decorato con un girale d'acanto rosso e verde tra due sottili linee brune. Il pavimento del vano è un signinum costituito da cocciopesto ben battuto e ritoccato in rosso -- sono visibili in alcuni tratti le tracce di col re - nel quale sono inserite piccole tessere bianche, allineate tra di loro, disposte in file parallele ai muri e distanti m 0,10 l'una dall'altra, che a 1 metro dalle pareti, all'interno di un riquadro formato da una fila di tessere bianche accostate ai lati, sono poste alla distanza di m 0,05 (fig. 6). 1l pavimento del vano G (fig. 1, G) è decorato col motivo del meandro a rete con svastiche alternate a quadrati con una tessera al centro, che si distende a tappeto, delimitato da un'ampia fascia a punteggiato regolare (fig. 7); quest'ultimo è interrotto da un riquadro ornato da un reticolato di lo-

sanghe in corrispondenza di un passaggio tra due pilastri che originariamente metteva in comunicazione il vano G

coll'attiguo vano H sul cui pavimento continua il motivo del punteggiato regolare

(fig. 1, H). La parete meridionale del vano G, nello strato recenziore, presenta nello zoccolo una decorazione analoga a quella dei vani A C, D ed E del primo nucleo (fig. 8); al di sotto di esso attraverso le lacune degli strati sovrapposti si intravede la decorazione più antica della parete costituita, come nel vano F, da una zoccolatura nera e al di sopra di essa da un campo bianco. Ai lati di una colonnina fittile affrescata in nero, inserita in un momento successivo in una parete che chiude a nord il vano I, dapprima munito di colonnato e poi trasformato in un disimpegno tra i vani G e Ha sud ed il cortiletto K a nord (fig. 1, I e K), l'ultimo strato di intonaco presenta, al di sopra di uno zoccolo nero, parte di un riquadro in nero su fondo bianco; il motivo decorativo è costituito da quadrati accostati, delimitati da una doppia cornice ad S oblique ed angoli continui, campiti da grandi fiori a quattro petali lanceolati, ornati da una fila di puntini al centro e da altre due disposte all'esterno di ogni petalo. Un doppio riquadro a fondo bianco, delineato in nero, decora la parete dall'altro lato della colonna affrescata pure in nero (figg. 9 e 10). AI di sotto dello strato mediano, rinvenuto in pessimo stato di conservazione e di cui è stato possibile riconoscere parte di due riquadri posti ai lati della colonna, l'uno rosso e l'altro azzurro, l'intonaco, con superficie levigatissima e stralucida per l'uso di polvere di marmo, è a fondo bianco con ampia fascia orizzontale bruna posta tra lo zoccolo ed un riquadro delimitato da una sottile linea rossa. Tale intonaco si associa ad ‘un pavimento in signinum con punteggiato regolare di tessere bianche movimentato nella parte centrale da due riquadri iscritti di crocette, costituite da quattro tesserine bianche disposte attorno ad una nera, e da scaglie policrome sparse (fig. 11). 100

Fig. 5. Strato più antico di intonaco nel vano F del — Fig.6. Strato più recente di intonaco nel vano F. secondo nucleo.

Fig. 7. Vano G del secondo nucleo. 101

Fig. 8. Decorazione della parete meridionale del vano G.

La faccia nord di questa parete, che costituisce il lato meridionale del cortile K, è decorata sullo zoccolo, bordato superiormente da un'ampia fascia orizzontale bianca, da ampi pannelli rettangolari neri su fondo rosso, con ghirlandine orizzontali stilizzate (fig. 12). I vani F, G, H ed I costituiscono Vala meglio conservata di una casa con ambienti che gravitano attorno ad un peristilio trapezoidale, di m. 7,20 NS X 4,50 EO, con pavimento in cocciopesto delimitato sui quattro lati da file di mattoni e basole poste tra il cortile a cielo aperto e i corridoi del portico. Anche questo nucleo, sulla cui parte occidentale si è sovrapposto il monastero benedettino, fu fortemente danneggiato ad oriente per la costruzione del grande edificio: all'interno di due ambienti-botteghe di età imperiale sono stati individuati lembi dei pavimenti in cocciopesto del vano He di un'altro vano (fig. 1, J) di cui si conserva un lacerto della parete settentrionale (fig. 1, J). Il pavimento in signinum con reticolato di losanghe nel vano M, prospiciente il lato orientale del cortile K (fig. 1, M), potrebbe essere messo in relazione con un altro signinum, anch'esso con reticolato di quadrati, che, sebbene separato dal cortiletto da un'ampia fossa, può essere inteso come il pavimento del lato nord di un peristilio, su cui prospettavano altri ambienti ad est quali il vano L (fig. 1, L), fortemente danneggiato dalle costruzioni di età medievale che, a seguito del crollo del lato settentrionale del grande edificio, occuparono la vasta area a nord di esso (fig. 13). Non vi sono dati che attestino con certezza il prospettare di questi due nuclei abitativi sulla strada NS, basolata in età augustea, oggi in vista per una lunghezza totale di 56 metri nella parte centrale del cortile orientale del complesso benedettino (figg. 1, T e 14); ciò può affermarsi invece per un terzo nucleo che, posto alla quota più bassa finora indagata ( - m 3,90 dal piano attuale di calpestio), è connesso al primo impianto della strada basolata; nell'estremità NO del cortile è stata messa in luce una parte riferibile all'atrio colonnato, con pavimento in cocciopesto (fig. 1, P), delimitato da un corridoio pavimentato con mar-

Fig. 9. Parete settentrionale del vano I del secondo nu 102

mi policromi in opus scutulatum a motivi geometrici (figg. 1, Q e 15). Di questo nucleo si ipotizza uno sviluppo planimetrico verso nord (chiesa di S. Nicolò L'Arena) e verso ovest (lato orientale del primo chiostro del monastero) mentre a sud e ad

Fig. 10. Particolare del motivo decorativo della parete settentrionale del vano I.

Fig. 11. Particolare del pavimento del vano 1, 103

Fig. 12. Decorazione della parete meridionale del cortile K del secondo nucleo.

Fig. 13. Lato settentrionale del peristilio del secondo nucleo.

Fig. 14. Strada basolata est ovest all'interno degli ambienti benedettini prospicenti la via Teatro greco. 104

Fig. 15. Lato settentrionale del peristilio del secondo nucleo.

est, aree in cui è stato possibile scavare in profondità, esso mostra un ampliamento, effettuato tra il I sec. a.C. ed il I sec. d.C., fino alla strada, con L'aggiunta di ambienti posti a livelli differenti (- 3,40/3,90) e comunicanti col portico (fig. 1, R ed S), pavimentati in mattoni rettangolari (m 0,50 x 0,30 x 0,08); la pavimentazione in laterizi copre un sistema di canalizzazione che, mediante tubi di piombo, portava L'acqua in punti di raccolta sulla strada". È forse da riferire a questa fase la realizzazione nell'estremità sud est di un ambiente con pavimento in tessellatum le cui tessere bianche e nere sono state rinvenute non più adese alla malta di allettamento (fig. 1, N). Confronti puntuali per il motivo del meandro di svastiche e quadrati, presente nel vano G, possono stabilirsi con pavimenti in edifici di III sec. a.C. come nel vano 3 della casa del Capitello dorico, nel vano 2 della casa Pappalardo o nel vano 3 della casa della Doppia Cisterna a Morgantina *, o con il pavimento del corridoio 2a della Casa a peristilio di monte Iato, per il quale H. P. Isler non esclude una datazione al III sec. a.C.". L'associazione meandro di svastiche e di quadrati con reticolato è presente Siracusa nel quartiere ellenistico romano di Acradina bassa in abitazioni rinvenute nel 1912. In qualche caso esso è associato ad una decorazione parietale di I stile come nel vano 1 di un complesso di ILI sec. a.C. individuato nel 1950 in piazza della Vittoria e nella casa 2 del quartiere ellenistico romano sovrapposto alla necropoli arcaica dell'ex Giardino Spagna, sempre a Siracusa®, e a Solunto pure in contesto di ILI a.C.*; il motivo del reticolato di losanghe che si distende a tappeto è attestato, oltre che a Siracusa? anche a Marsala nell'atrio di una abitazione di II sec. a.C. e ad Agrigento, associato ad un punteggiato regolare. Si tratta di motivi che insieme al comunissimo punteggiato regolare, documentato a Morgantina” e a Marsala” in abitazioni di III sec. a.C., sono utilizzati in numerosi pavimenti in signinum di Siracusa e Solunto e posti genericamente tra quelli in voga già dalla prima metà del ΠῚ sec. a.C.*. 105

L'associazione ad una parete di I stile di un pavimento decorato con meandro-reticolato e punteggiato, presente pure nel tablino della villa di Grotta Rossa sulla via Flaminia e in un vano della Casetta repubblicana A di Ostia, pone il problema della cronologia del complesso catanese. La Morricone Matini, circa la datazione di pavimenti con siffatta decorazione, da lei compresi nell'ampio raggruppamento dei signina con ornato lineare o punteggiato inquadrati tra il ΠῚ ed il I a.C., precisa come la datazione degli stessi debba basarsi sulle associazioni anche con i tipi delle murature oltre che con gli stili delle pitture parietali®; a tal proposito vale la pena sottolineare come il problema dell'associazione tra pavimenti e struttura dell'alzato induca ad una ben più ampia riflessione sulla permanenza, in un contesto quale quello catanese, della tradizione costruttiva greca; per nulla diversi sono, infatti, in ordine alla tecnica di costruzione, i muri delle case ellenistico— repubblicane da quelli del precedente impianto greco; in entrambi i casi i muri sono costruiti mediante l'uso di pietre laviche di medie dimensioni forse originariamente legate da una malta di terra che al niomento dello scavo si presentava come semplice terra tra le pietre; nei muri delle case ellenistiche, dello spessore di m 0,60, gli strati di intonaco dipinto, fungono quasi da “armatura” perla mediocre qualità della muratura interna”. Inoltre, poiché l'associazione pavimento-decorazione della parete va fatta tenendo conto naturalmente del motivo decorativo presente nello strato di intonaco più antico, si osserva come in tutti gli ambienti del primo e del secondo nucleo esso abbia una decorazione molto semplice con zoccolature monocrome nere e parte superiore a fondo bianco con semplici fasce brune verticali che delimitano riquadri; nell'unica parete che si conserva per una maggiore altezza, quella settentrionale del vano F, è evidente una decorazione, tradizionalmente definita di I stile, attestata nel mondo ellenistico orientale dal 300 al 60 a.C. circa ". Ci si trova in quel panorama culturale, squisitamente greco, che decora la casa privata in maniera sobria sicché , come bene enunciato da I. Baldassarre, la decorazione pittorica, che "...risulta strettamente integrata al quadro architettonico...", non deriva " da un programma decorativo eccezionale, del tipo di quelli che in Grecia venivano attuati solo negli edifici pubblici" ». Ad ambiente siceliota viene inoltre ricondotta la tradizione dell'impiego del signinum: al di là della soluzione che si possa dare al problema della sua origine”, tale tipo di pavimento può essere considerato "tipico lavoro di maestranze occidentali” di età ellenistica *. Tali considerazioni traggono conferma dai dati di scavo: i livelli stratigrafici esaminati in saggi eseguiti sotto il pavimento del vano E, a ridosso del muro meridionale del vano A, tra l'edificio dell'impianto greco di IV secolo e la casa ellenistica*, ed al di sotto del pavimento in cocciopesto conservatosi all'interno del grande edificio * hanno permesso di datare alla metà del III sec. a.C. la costruzione del primo impianto che, in tutti e tre i nuclei, posti ad un dislivello costante di m 0,80 l'uno rispetto all'altro, presenta vani con pavimenti in signinum e cortiletti con cocciopesto non decorato riquadrato da mattoni e da basole laviche. Le pareti di tutti gli ambienti, di cui in percentuale maggiore o minore si sono conservate porzioni dell'intonaco, sono quasi nella totalità decorate con una zoccolatura in nero, raramente in blu molto scuro, da cui si innalza una parete bianca con ripartizioni in pannelli rettangolari definiti da sottili fasce brune e separati l'uno dall'altro da stilizzate comici. Non vi sono elementi sufficienti per affermare che i tre nuclei nel periodo compreso tra la metà del ΠῚ ed il I sec. a.C. formassero un'unica abitazione; ognuno di essi è una struttura chiusa con organizzazione dei vani intorno ad uno spazio interno aperto a cui si doveva accedere dalla strada”. I muri sono orientati, come nell'impianto arcaico, in modo che, attraverso stretti passaggi tra un nucleo e l'altro, le acque piovane potessero defluire verso il basso. In età medio repubblicana essi subirono delle trasformazioni, quali l'accrescimento degli spazi abitativi a discapito delle aree aperte con l'eliminazione anche di portichetti colonnati e con il collegamento dei tre livelli tra di loro. La realizzazione di nuove pareti divisorie, e le modifiche strutturali in generale, posero la necessità di una nuova decorazione; mentre della fase intermedia (ILI sec. 2.C.) poco si può dire allo stato attuale, in quanto è ancora in corso il restauro degli affreschi oltrecché lo studio dei materiali rinvenuti nelle successioni stratigrafiche, certamente omogenea è la decorazione dell'intero complesso, divenuto un'unica abitazione nell'ultima fase quando le zoccolature 106

Fig. 16. Strada nord-sud nel cortile orientale del complesso benedettino. riproducono rivestimenti parietali in marmo (fig. 1, vani A, C, D, E, F, 1 e portico del cortile K); ¢ le

pareti vengono decorate secondo un gusto di Π- ΠῚ stile: la parete sud del piccolo viridarium del primo nucleo presenta la raffigurazione di un giardino, la parete settentrionale del vano F viene decorata con il motivo di una tenda stilizzata, sulla zoccolatura del vano ricavato dalla chiusura del portico meridionale del cortile K del secondo nucleo viene sovrapposta una ricca decorazione con fiori stilizzati; anche i pavimenti sono ora più “lussuosi” come nel caso del pavimento del portico orientale del peristilio, ornato da scutulae*. In quest'ultima fase, che porremmo tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., o più precisamente ad età augustea, è evidente il prospettare della casa sul lato occidentale della strada lastricata”. L'estensione complessiva di mq 704, la presenza di affreschi tipologicamente omogenei in tutti i vani, la cura manifesta nella continua manutenzione a cui venivano sottoposti i pavimenti, sono indicatori del ceto sociale alto dei proprietari: la nuova casa, ingrandita e “rimessa a nuovo”, con il portico del cortile settentrionale pavimentato in marmo, prospetta su una bella strada ora basolata, che poco più a sud incrocia l'altra via pubblica che con forte pendenza conduce al Teatro distante poche centinaia di metri (fig. 16). Come a Solunto“ la casa si aprirebbe dunque su una via trasversale mentre sulla via principale, di recente messa in luce all'interno di alcuni degli ambienti del complesso benedettino prospicienti via Teatro Greco, si affaccia un edificio caratterizzato da una successione regolare di aperture che potrebbero intendersi quali ingressi a botteghe, con prospetto caratterizzato da un paramento a blocchi lavici squadrati‘. La grande strada basolata, con una larghezza finora accertata di m. 6, ha una forte pendenza da est verso ovest; mentre alla quota di m -- 4,50, nell'estremità occidentale dello scavo è stata rinvenuta in ottimo stato di conservazione procedendo verso est essa appare sempre più sconnessa danneggiata dalla costruzione di un edificio medievale e dalle poderose opere di livellamento di cui si è già detto. Nel settore sud est dei grandi cortili dell'ex monastero benedettino si ipotizza l'incrocio, su assi perfettamente ortogonali, con la strada NS in vista nel cortile orientale.

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Fig. 17. Casa della Tavola Imbandita nei cantinati dell'ex monastero di S. Nicolò l'Arena.

Questo importante segno urbanistico, quasi coincidente con l'attuale via Teatro greco, che è posta leggermente più a sud di quella romana, è stato mantenuto nei secoli: lo attestano i numerosi strati di acciottolato che, senza soluzione di continuità, si sovrappongono coprendo un arco temporale che dall'età tardo romana giunge sino ad età medievale (XIII-XIV secolo). Un nucleo abitativo di età tardo ellenistica, attestato da un vano con pavimento in signinum e pareti affrescate, è stato rinvenuto nel 1991, purtroppo ampiamente danneggiato in epoca recente, al di sotto dell'oecus occidentale di una domus a peristilio messa in luce nell'area occidentale dell'ex monastero benedettino e delle cui fasi d'uso ὃ finora meglio conosciuta la seconda, riferibile alla prima metà del II sec. d.C. *. Della domus si conservano cinque ambienti che si aprono sul lato meridionale di un peristilio definito da un portico con colonne intonacate. I raffinati motivi del mosaico in bianco e nero, che decorano il portico del peristilio e alcuni dei vani dove sono utilizzati come bordure di pavimenti in sectile, bene si inseriscono nel gusto per le complesse e decorative geometrie tipiche della prima metà del IT secolo d.C. * Del vano di età ellenistica sottostante la domus, detto al momento del rinvenimento "della Tavola Imbandita", si conserva il pavimento in signinum con un fitto punteggiato regolare di tessere bianche. Sulle due pareti meglio conservate (alt. min. m 0,40/max. m 0,70) sono rappresentati due tavoli disposti illusionisticamente lungo le pareti; il motivo del tessuto sospeso, che riproduce le tovaglie ricadenti sul pavimento, occupa la zona dello zoccolo: le tovaglie di colore giallo chiaro, in cui sottili linee brune restituiscono non solo le ampie e morbide pieghe ma anche la leggerezza del tessuto, sono decorate da coppie orizzontali di nastri rossi poste una all'orlo e l'altra a metà altezza; il piano dei tavoli è coperto da un tappeto rosso orlato da un'ampia fascia blu e da una bianca, leggermente più stretta, rifinita con una corta frangia rossa, che si sovrappone alle tovaglie c che ricade per un breve tratto su di esse. Nella parete meridionale è visibile la rappresentazione del piede di un candelabro, del tipo con base su pieducci, posato sulla tavola (fig. 17). 108

Il motivo del tessuto sospeso o drappeggiato, tovaglia o tenda che sia, presente in uno zoccolo del 50, l'inquadramento tipologico del Mau che, pur avendo considerato tale ambiente tra quelli di Pompei decorati secondo il gusto tipico del II stile, ammise che tali affreschi potessero essere riferibili ad un momento in cui i due stili furono utilizzati quasi in concorrenza l'uno con l'altro. La decorazione del nostro ambiente nell'ultima fase e prima della sua distruzione per la costruzione della domus, potrebbe essere stata eseguita, come nel quartiere orientale, all'inizio del I sec. a.C. Se la costruzione del complesso monastico benedettino in questa parte dell'acropoli ha in qual che misura favorito la conservazione di ampi lacerti della città ellenistica e romana, le edificazioni in età medievale, la ricostruzione della città dopo il terremoto del 1693, il poderoso abbassamento di quota effettuato nelle principali arterie urbane, i lavori per le nuove reti fognarie, idriche, elettriche, realizzate sia tra la fine dello scorso secolo e gli inizi di questo che dopo l'ultimo conflitto mondiale, la costruzione di nuovi edifici in sostituzione di chiese e conventi? e con l'occupazione, talvolta, di giardini di pertinenza di residenze aristocratiche e di complessi monastici“, disposta nell'ambito di un complessivo progamma urbanistico di risanamento e di ammodernamento‘?, hanno apportato gravi danneggiamenti alle stratigrafie archeologiche con la conseguente perdita, a volte purtroppo definitiva, di informazioni sulla città antica. Nel 1918 nel ricostruire un muro nel giardino del Reclusorio delle Verginelle, tra la via Teatro greco e piazza Dante, furono rinvenuti resti di edifici che per la presenza di colonne fittili furono intesi di indubbia destinazione termale‘ (fig. 18, b) ^. A tali resti, a cui vanno certamente riferite anche le strutture rinvenute nel 1851 in occasione della costruzione di “talune corsee nella parte posteriore del Reclusorio Verginelle”* e nel 1857 alla ripresa degli stessi lavori*!, G. Libertini mise in relazione un complesso di costruzioni individuato nel 1923 in piazza Dante, - dalla descrizione da lui fornita sembrerebbe una domus a peristilio -, che egli ipotizzava potesse continuare “anche oltre il muro del convento dei Benedettini presso il quale e dentro il cui cortile si rinvennero avanzi di pas mento, due grandi cisterne a cupola e tracce di canali diretti verso est.” A tale domus di piazza Dante, facente parte di un'insula, sarebbero riferibili alcuni ambienti con pavimento in cocciopesto e in signinum decorato col motivo delle crocette di tessere bianche* oltrecché nel giardino della Questura, ubicata negli anni ‘30, nel convento della Trinità®. Su un terrazzamento di quota inferiore, nell'area a nord del Teatro, durante la ricostruzione di parte del convento dei Filippini* furono ancora rinvenuti resti di un ambiente con pavimento in “opus segmentatum” che G. Libertini mise in relazione all'edificio termale di età imperiale a cui riferire il calidarium noto come "La Rotonda" *, dove egli stesso identificava livelli di età ellenistica romana con ambienti a pianta quadrangolare" (fig. 18, c). Negli anni 1988-1993 nel corso dei lavori intrapresi dal comune di Catania per la messa in posa di un tratto del collettore fognario in via Crociferi, strada che segna in senso nord sud il terrazzamento di quota inferiore ad est della “Rotonda” e del Teatro romano, si è presentata l'occasione per un intervento di scavo che ha dato risultati importanti per la conoscenza della topografia di Catania in età greca e romana (fig. 18, 5). È stata individuata una strada la cui presenza è attestata almeno dalla fine del V sec. a.C. e che tra l'ultimo venticinquennio del I sec. a.C. e il primo ventennio del I sec. d.C. ebbe una sistemazione a grandi basole poligonali (fig. 19). In età greca tardo classica ed ellenistica essa conduceva ad un'area nella quale era una importante stipe votiva: è noto come a piazza S. Francesco (fig. 18, d), alla fine degli anni '50, sia stata rinvenuta parte di una favissa che per gli ex voto in essa contenuti è stata attribuita da G. Rizza, al santuario di Demetra, che nel V sec. a.C. avrebbe sostituito il più antico culto di Hera”. La destinazione sacra di questa propagine sud orientale dell'acropoli sarebbe inoltre attestata dai ritrovamenti degli anni 30 quando in occasione dei lavori di restauro dell'edificio della Banca d'Italia, oggi sede della Questura, in via Manzoni (fig. 18, e) strada esistente ad una quota intermedia tra via Crociferi e la più bassa via Etnea ad entrambe parallela, fu ritrovato un bassorilievo raffigurante Demetra e Kore, che unitamente ai capitelli ionici in pietra lavica rinvenuti nella medesima area, fu cubicolo 31 della casa del Fauno, e inteso da A. Laidlaw di I stile; l'A. condivide cosi, in un certo sen-

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a Complesso monastico di δ. Nicolò l'Arena

Fig. 18. Pianta generale di Catania. 110

Fig. 19. Via Crociferi. Strada basolata di età augustea.

considerato già da G. Libertini il segno della presenza di un'area dedicata a Demetra**; tale ipotesi sarebbe stata confermata dai rinvenimenti successivi in piazza S. Francesco e in via Crociferi dove, in occasione dei recenti scavi, sono stati rinvenuti, in livelli stratigrafici di IV sec. a.C., frammenti di terrecotte architettoniche dipinte e statuette fittili di figura femminile con fiaccola e porcellino oltre che un poderoso muro, datato, per i materiali rinvenuti nella trincea di fondazione, alla metà del VI sec. a.C. posto al di sotto di un ninfeo che, per il motivo decorativo del mosaico della vasca, può porsi tra il Led il II sec. d.C. (fig. 20) In età romana sulla strada a grandi basole poligonali, larga m 4, che conduceva dal Teatro all'Anfiteatro, prospettavano edifici con pavimenti in mosaico muniti di portici colonnati. La recente ricerca ha permesso di verificare infatti la presenza, lungo il margine orientale della strada, di un edificio, posto su un piano terrazzato più basso di 2 metri rispetto all'attuale via Crociferi, i cui muri perimetrali dal lato ovest sono anche muri di contenimento alla strada stessa. L'edificio antico, costruito su livelli degradanti da nord verso sud e da est verso ovest, è costituito da una serie di vani con pavimenti in mosaico con raffinato motivo geometrico policromo a chevron, o in bianco e nero o in sectile; i vani prospettano su un corridoio, aperto ad est, la cui parete di fondo è articolata da una successione di nicchie, poste alla distanza di m. 4 l'una dall'altra; da una di queste, attraverso una scala rivestita in marmo con pianerottolo decorato da un mosaico geometrico in bianco e nero, si raggiungeva la strada. La strada basolata e la costruzione dell'edificio col criptoportico rientrerebbero in un programma generale di età augustea di monumentalizzazione delle pendici orientali della collina. Vale la pena ricordare con Holm che tra la via Lincoln - oggi via A. di Sangiuliano — e la via Gesuiti, “all'angolo della strada che interessando questa (via di Sangiuliano) porta dall'Anfiteatro al Teatro, presso e sotto il palazzo già appartenuto al duca di Tremestieri (fig. 18, f), furono scoperti “pareti rivestite di marmo, pavimenti di mosaico, frammenti di colonne nonché una statua di Ercole, rotta, ma abbastanza completa che oggi [al tempo dell’ Holm] si trova al Museo Biscari"^. Il rivenimento di un pavimento in scutulatum e l'analisi della strutture murarie in opus coementicium ad esso connesso, che già nel 1841 avevano indotto C. Gemmellaro a confutare l'ipotesi della presenza in quel luogo di un tempio di Ercole e ad affermare piuttosto l'esistenza di un edificio termale*!, fu preso nuovamente in considerazione da C. Sciuto ~ Patti in occasione della scoperta, pochi anni dopo, di quindici muri paralleli intersecati ad angolo retto da altri tre che si estendevano in senso N-S per m. 56, dei quali uno è stato messo in luce nel corso dei recenti scavi. L'A. li interpretò come sostruzioni di Horti pensili “luogo di delizia da dove si avrebbe goduto il magnifico quadro della sotui

Fig. 20. Via Crociferi. Muro della metà del VI secolo a.C. al di sotto del ninfeo di età romana imperiale.

tostante città col suo litorale da una parte e l'ampia piana terminata in fondo dai colli Iblei sino a S. Croce, e dall'altra lo imponente spettacolo che offre il famoso Vulcano e le sue incantevoli contrade e in tutto terminato da un esteso orizzonte” ®. I rinvenimenti, che lasciarono ipotizzare a ridosso della attuale via Crociferi la presenza di edifici di culto poi reinterpretati come edifici termali o Horti pensili, confermerebbero comunque un dato importante: da un lato e dall'altro della strada basolata prospettavano edifici di un certo lusso, giardini e fontane. In un'area pianeggiante, a poca distanza dal luogo dove nell'inverno tra il 1910 e il 1911 furono rinvenuti dall'Orsi un pavimento musivo ed una fornace di II sec. d. C.* (fig. 18, g), e più precisamente nel tratto di via Etnea su cui prospetta la chiesa di S. Maria dell'Elemosina“ (fig. 18, h), si ebbe il rinvenimento un ambiente con pavimento in signinum“ (fig. 21) che, insieme a quelli noti già alla fine del secolo scorso, ubicati poco più ad est presso l'ex casa Mancini e la chiesa di San Giovanni di Fleres* (fig. 18, i), ed al rinvenimento, negli anni '30, nel cortile del convento dei Minoriti di un piccolo ninfeo, con pavimento in sectile "di qualche giardino..." secondo G. Libertini “. . che face12

va parte di una abitazione privata romana di età

imperiale"di cui, peraltro, fu individuato pure ‘un ambiente con pavimento in mosaico geometrico policromo (fig. 18, 1) *, testimonierebbe la presenza in età ellenistico-romana di un quartiere di abitazione nella parte più bassa della città alla base delle pendici orientali della acropoli. La cintura delle necropoli individuata a sud est è quindi da spiegare con la contrazione dell’area urbana di età ellenistica e romana che in

epoca tardo imperiale risulta invasa da cimite-

ri. L'individuazione, nel 1896, di un sepolcreto in via A. di Sangiuliano (fig. 18, 2), a poca distanza dalle case ellenistiche descritte, e la segnalazione di sepolcri nella via del Corso (ogΓ — gi via Vitt. Emanuele) “a levante della Cattedra| le" (fig. 18, m) indusse infatti l'Orsi a ipotizzare la distribuzione delle necropoli di età tardo imperiale lungo un arco che da sud-est circondava Fig. 21 Via Etna. Ambiente con pavimento in signtila città antica a nord e a nord-ovest a poca di‘mum presso S. Maria dell'Elemosina. stanza dal sistema difensivo di età medievale e moderna®. Isuccessivi rinvenimenti nel 1916 chiarirono come alcuni nuclei delle necropoli tardo romane si fossero inseriti tra fabbriche più antiche "ridotte già allo stato di rudere, quando avvenne l'adattamento loro al nuovo uso cemeteriale”. All'area delle necropoli dovette dunque preesistere un quartiere di abitazioni di cui fu individuato un interessante lacerto in una cameretta con copertura a botte e pareti affrescate: il pavimento “diligentemente stuccato” e la decorazione sobria della metà meridionale del vano con riquadri delimitati da fasce rosse, la presenza di festoni dipinti al piede della volta, di una figura di un uccello trampoliere a lungo becco e i frammenti di una figura maschile con petaso giallo con alette rosse (Mercurio) fecero attribuire l'ambiente alla tarda età repubblicana o ai primi anni dell'impero”. Tra l'età tardo ellenistica-repubblicana e la prima età imperiale altre dimore private esistevano anche alle pendici meridionali dell'acropoli, non lontano dal Teatro: due camere, con pavimenti in mosaico sovrapposti ad uno con decorazione “di pietre bianche e nere” anch'esso posto al di sopra di un altro "dipinto" [signinum?], furono rinvenute nel 1863 nei pressi del convento di Santa Chiara” (fig. 18, n). Lacerti di questi pavimenti furono portati nel palazzo dell'Università e nel Museo allora esistente presso il monastero dei Benedettini insieme a frammenti di un altro mosaico scoperto nel 1869 demolendo una casa nella piazza del Castello Ursino” (fig. 18, s), probabilmente sul lato orientale della stessa non invaso dalla colata lavica del 1669. La ricerca archeologica effettuata tra il 1994 e il 1996 all'interno dell'ex Ospedale San Marco” (fig. 18, o), si è rivelata di particolare importanza per il problema della ubicazione dei quartieri di abitazione e delle necropoli sul versante nord orientale dell'acropoli. L'edificio barocco sorge nei pressi e, in piccola parte al di sopra dell'Anfiteatro romano. L'area indagata, posta tra la zona urbana e quella extraurbana antica, rientra in un contesto topografico particolarmente importante per la cui ricostruzione le strutture rinvenute forniscono un notevole contributo permettendo la formulazione di nuove ipotesi circa L'estensione dell'abitato antico che, sul lato settentrionale, si riteneva non dovesse estendersi oltre L'Anfiteatro come avrebbero indicato le numerose necropoli rinvenute

immediatamente a nord di esso”*. L'indagine archeologica ha evidenziato la presenza di un'area abitativa di età repubblicana e proto-imperiale, probabilmente travolta per la costruzione dell'Anfiteatro, che fu successivamente inva13

sa dalle necropoli quando, in età tardo romana, per il restringimento della città, esse si spinsero a ridosso del grande monumento già abbandonaτοῦς L'ex Ospedale San Marco, che si affianca alla. chiesa di S. Euplio nei cui sotterranei è nota, fin dal XVIII, la presenza di stanze sepolcrali?* e di una ampia zona di sepolcri “scavati e poi di nuovo

ricoperti”, confina, a nord, col palazzo che ospita i grandi magazzini de La Rinascente (fig. 2, P) dove nel 1959 fu rinvenuta una necropoli datata da G. Rizza ad età tardo romana”. Tale necropoli e le camere ipogeiche di S. Euplio rientrerebbero

Fig. 22. Ex Ospedale S. Marco. Edificio di età tardo — nell'area sepolcrale posta a nord-ovest dell'Anfiellenistica nel cortile meridionale. teatro che, nota già dal XVIII secolo” e in parte

descritta da P. Orsi®, è stata meglio definita dopo ta", Essa rientra nel più ampio circuito che cingeva la città antica, dal Bastione degli Infetti® attragli importanti ritrovamenti degli anni cinquan-

verso la zona del Lago di Nicito® e della selva dei Frati Minori Riformati di S. Maria di Gesù "fino al tratto meridionale di via A. di Sangiuliano* e di via Vitt. Emanuele. L'edificio funerario, messo in luce negli anni 1994-1996 all'interno dell'ex Ospedale San Marco,

conteneva dieci tombe del tipo a forma con cassa costruita in mattoni o tegoloni piani e con copertura in mattoni o lastre in pietra lavica, sigillata da pietre e malta, secondo lo schema adottato anche nel tratto di necropoli sottostante La Rinascente a cui queste si collegano per tipologia e per cronologia. Si è confermata la presenza di due assi viari, ortogonali tra loro, che potevano definire L'isolato o gli isolati destinati, nel VI sec. d. C., a monumenti o edifici funerari. A poca distanza dalla necropoli, in un'area compresa tra questa e l'Anfiteatro, al di sotto di una successione di strati in terra battuta riferibili a livelli stradali di età medievale, ed al di sotto di un poderoso strato di riempimento, sono stati rinvenuti tre ambienti facenti parte di un edificio dotato i impianto di riscaldamento, come attestano i tubuli in terracotta, a sezione quadrangolare, applicati su uno strato di malta idraulica ed incassati nelle pareti”. Due dei tre ambienti, comunicanti mediante una porta di cui si è rinvenuto il piano della soglia (a -3,20), non presentavano, al momento del rinvenimento, il rivestimento dei pavimenti dei quali si conservano il nucleus in cocciopesto

dello spessore di m 0,07, che sulla faccia superiore manteneva le impronte lasciate dalle lastre marmo, ed il rudus, dello spessore di m 0,13; al di sotto, l'ipocausto, con colonnine di mattoni quadrati alternate ad altre in mattoni circolari. Del terzo ambiente, sopravvive la pavimentazione con lastre irregolari di marmo, connesse tra loro da abbondante malta (a -3,27) (fig. 22). Il muro orientale di uno dei vani conserva parte del rivestimento marmoreo. Non sono apprezzabili, allo stato attuale, le dimensioni complessive dell'edificio, del quale si suppone un sviluppo verso sud, verso est e verso ovest. Esso fu impostato, nella prima età imperiale (I-II sec. d.C.), su strutture più antiche che utilizza come sostruzioni. La parete settentrionale di questo edificio si appoggia ad una poderosa struttura muraria orientata in senso nord-sud, dello spesso di m 1,20, costruita in opus coemeni cium con pietre laviche e abbondante malta (a m -2,85 circa) che, per i materiali rinvenuti nella trincea di fondazione, è riferibile pure ad età romana imperiale. Essa appare senza dubbio cronologicamente posteriore ad un'altra struttura (a m - 3,35/3,50), individuata nel settore nord-est dell'area di scavo, della quale si è messa in luce la parete occidentale di I stile, decorata da grandi riquadri in stucco a rilievo disposti su almeno tre assise. Tale struttura, che mostra di proseguire verso nord oltre il limite della trincea di scavo, è il documento archeologico più antico rinvenuto. Della parete, messa in luce fino alla quota di — m 5, non è stata esplorata la parte inferiore perla eccessiva ristrettezza dell'area in cui è stato possibile approfondire lo scavo. 114

Fig. 24. PiazzaS. Domenico. Particolare del pavimento in scurulatum. 115

Che il versante nord orientale della collina di Montevergine fosse sede di un quartiere di abitazione già in età ellenistica può ricavarsi anche dalla presenza di una grande dimora messa in luce negli anni '60 nel terrazzamento di quota superiore in un'area occupata in età tardo antica dalle necropo-

li*. L'area, su cui furono costruiti i complessi monastici dei PP. Domenicani e dei PP. Cappuccini (fig. 18, q ), è stata sottoposta in età moderna a massicce trasformazioni con la costruzione negli

anni '30 dell'edificio della Camera di Commercio al posto della chiesa di S. Maria della Speranza, con l'ampliamento della parte terminale dell'antica salita dei Cappuccini, con l'eliminazione dell'omonimo edificio conventuale e con l'abbassamento complessivo del piano stradale". Di tale ritrovamento purtroppo non si è in grado di riferire dati precisi. Le planimetrie e le fotografie ritrovate nell'archivio dell'ex Soprintendenza ai Monumenti di Catania mostrano un casa con vani disposti ai lati di un peristilio (fig. 23), con pavimento in tarsie marmoree, confrontabile con il portico del terzo nucleo messo in luce nel 1996 presso l'ex monastero di S. Nicolò l'Arena (fig. 24).

In conclusione si ritiene che la distribuzione di quartieri di abitazioni alle pendici dell'acropoli,

posti, nei casi finora verificati, in isolati delimitati da strade che indicano l'esistenza di un impianto

ortogonale, possa risalire ad età greca. La deduzione della colonia augustea potrebbe avere promosso la costruzione di nuovi edifici, segni tangibili del potere, e la monumentalizzazione di aree pubbliche ma non un nuovo impianto urbanistico che presupporrebbe un atto violento di distruzione e riedificazione, peraltro non riferito dalle fonti né attestato dai risultati della ricerca archeologica. NOTE

1 G. Daro, La città di Catania, Roma 1983, pp. 73-79 Ὁ La ricerca archeologica condotta nell'ex monastero di San Nicolò L'Arena, ceduto dal Comune all'Università degli studi di Catania nel 1977, è stata all'inizio mutuata dalla necessità di verificare l'effettiva estensione e consistenza delle realtà archeologiche presenti nel sottosuolo interessato dai lavori finalizzati al recupero architettonico del monumento e alla sua uti lizzazione quale sede della Facoltà di Lettere círAA. VV. Quattro progetti per il monastero di san Nicolò L'Arena, a cura dell'Università degli Studi, Catania 1988; G. Dr Canto, Un progetto per Catania. Il recupero del monastero di San Nicolò L'Arena per l'Università, Genova 1988). > M. Frasca, Tra Magna Grecia e Sicilia: origine e sopravvivenza delle coppieamuleto a figura umana, in BA 76, 1992, pp 19-24; E. Procetis, Appunti per una fopografia di Catania pregroca, in Kokalos XXXVIII, 1992, pp. 69-79. τ Ὁ. Rizza intervento, in Insediamenti coloniali greci in Sicilia, ell VIII e nel VII sec. a.C, in CASA 17, 1978, pp. 113-114; 1o, Catania. Scavi e scoperte negli anni 1975-1978, in CASA 18, 1979, pp. 104-105, tav XXIV-XXIX ; F. Gre, E. Proce, RM. ALBANESE, M. Frasca, Catania. Scavo all'interno del muro di cinta del monastero dei Benedettini, in CASA 18, 1979, pp. 129-141; G. Rizza, Leontini e Katane nell VII e VII sec. .C., ASAA LIX, 1981, p. 317; I. sx. Catania, in BICGI V, 1987, pp. 16s. * E. Pnocent, Appunti per una topografia di Catania pregreca, in Kokalos XXXVII 1992, pp. 69-78 con bibliografía ἀρεῖονmata; sul rinvenimento della tomba della facies di S. Cono-Piano Notaro nel settore sud-est dell'area dei cortili dell'ex monastero di S. Nicolo l'Arena cfr. anche G. Riza, Scavi ricerche in Sicilia dal 1980 al 1984 in Kokalos XXX-XXXI 1984-1985, II, 2 pp. 851, 853; i risultati dell'indagine archeologica effettuata dalla Sezione Archeologica della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Culturali di Catania in via Crociferi ὁ in piazza 8. Francesco d'Assisi tra il 1987 al 1993 con la direzione di ch scrive, sono in corso di pubblicazione. Ha collaborato alla conduzione dello scavo la dott.ssa A. Taormina. * Le diverse fasi dellinsediamento greco e e sue relazioni con le poche testimonianze sopravvissute nel territorio urbano catanese sono argomento di una ricerca, in corso di pubblicazione, del prof. M. Frasca che ne ha già dato una notizia prelimimare (ct. M. Frasca, Tra Magna Grecia cit, p.22) 7 TL profilo orografico originario si ricava dall'andamento dei deposit preistorici e dei Livelli di entrambe le fasi greche individuati in saggi condotti αἱ di otto di alcuni pavimenti di età ellenistica. * Del grande edificio e delle sue reazioni con la strada basolata, certamente una delle acquisizioni pi rilevanti di questo scavo, si darà notizia in altra sede; sebbene oggetto di studi già da anni, alcuni elementi architettonici e stratigrafici, messi in luce da pochi mesi nel corso dell'ultima campagna di scavo conclusasi nel luglio del 1996, hanno in qualche misura posto la necessità di riconsiderare tuttii dati nora examinati. * Llavori per la costruzione della fognatura moderna, effettuati dall'Ufficio tecnico dell Universita degli Studi, nel tratto relativo allatraversamento del cortile meridionale furono seguiti dal dott, E. Procelli che ebbe modo di verificare a presenza di strati preistorici; per tutta la trincea che fu scavata davanti al marciapiede che definiva ἢ prospetto meridionale del monastero dal prof. F. Giudice, fino a quando, oltrepassata l'area dell'ingresso principale, i lavori non furono fermati e non fu presa la decisione di procedere ad una indagine archeologica data la grande quantità di frammenti di intonaco dipinto e di coccio. pesto venuti fuori dallo scavo “a sezione obbligata” della trincea stessa. 116

? Si tratta di poderose strutture in opera cementizia intese come fondazioni di un grande edificio orientato in senso nord-est sud-ovest; anche di esso si darà notizia in altra sede. "TI rilievo dello scavo archeologico presso l'ex monastero dei Benedettini nel corso degli anni è stato curato da G. Salmeri, L. Muni ed O. Pulvirenti dell'Istituto di Archeologia dell'Università di Catania, da S. Rizza, C. Torrisi, C. Gulisano e L. Grasso su incarico della Sezione Archeologica della Soprintendenza BB.CC.AA. di Catania. L'elaborazione che si presenta in questa sede relativa alle case di età ellenistico repubblicana è di C. Torrisi. "© Il motivo degli ovoli βία!!! delineati in rosso imitante il marmo cosiddetto "giallo antico" trova ampia diffusione nel sec. a. C. Esso è utilizzato, ma come ripresa di una moda decorativa più antica nel triclinio della casa di Leda a Solunto (II fase) (cfr. M. DE Vos, Pitture e mosaico a Solunto, in BABesch 1975, p. 201). ? Per ἢ loro cattivo stato di conservazione lo strato superiore e quello intermedio furono distaccati insieme. Pertanto dell'affresco intermedio, in fase di restauro, non si può ancora dare una descrizione completa. "^ Ein atto il restauro di questo e di tuti gli affreschi che si era proceduto a distaccare. Essi in buona parte sono già stati montati su supporti in vetroresina ed alluminio a nido d'ape, dello spessore di 12 mm., separato dall'intonaco antico da un doppio strato di tela "calicot" o "cencio della nonna” precedentemente sfibrata e purificata con diversi lavaggi al fine di rendere completamente reversibile l'operazione di adesione al supporto mobile. Mediante il rilievo e lo studio dei frammenti recuperati negli strati di crollo si sta procedendo al a ricostituzione, su supporto informatico, delle decorazioni parietali. tale intervento è affidato ai restauratori Antonino Nicotra, Mario Arancio e Raffaella Greca e al sig. Pietro Nobile della Sezione Archeologica della Soprintendenza di Catania. ® Un ambiente pavimentato con mattoni rettangolari del tutto simile al nostro è stato messo in luce di recente nella contrada Pagliuzza di Caltavuturo; esso viene riferito ad una fase della fine del Il-metà del I sec. a.C.; cfr. E. M, Pancvca, D. Pax cucat S. VAssALLo, Il ripostiglio monetale e l'insediamento rurale in località Pagliuzza, in Di terra in terra. Nuove scoperte archeologiche nella provincia di Palermo, Palermo 1991, pp. 144-146, fig. 6. "€ B. Tsagincis, The decorated pavements of Morgantina II: the opus signinum, in ATA 94, 1990, p. 427 cat. n. 2, fig.2 (casa del Capitello dorico), p. 431 cat. n. 33, p. 435 cat. n. 74 (casa della Doppia Cisterna) e p. 439. © H. P. Iste, Monte Tato: la sedicesima campagna di scavo, in Sicilia Archeologica XIX, 1962, 1986, p. 38. 1 P. Onst, Scoperte nella Sicilia orientale dalla metà del 1911 alla metà del 1915. Case ellenistiche e romane S. Lucia, in NSA 1915 p. 191 » G. V. Gents, Siracusa (piazza della Vittoria). Resti di abitazioni sotto l'edificio occidentale delle Case Popolari, in NSA 1951,pp. 156-159. 5G, V. Gewm, Siracusa. Le costruzioni ellenistiche e romane, in NSA 1951, p. 280-282. 21 Il pavimento con relativa disascalia è nella fig. 120 della “Storia della Sicilia", Napoli 1979, vol. I ? G. V. Gurus, Siracusa (piazza della Vittoria) cit. p. 157. ? C. A, Di SrerAvo, Lilibeo. Testimonianze archeologiche dal IV sec. a. C. al V sec. d. C., Palermo 1984, pp. 104-105, figg. 59.60. ^ TI pavimento con relativa disascalia è nella fig. 121 della "Storia della Sicilia”, Napoli 1979, vol. IL » B. Τρλκικοις, The decorated pavements cit, p. 438, » CA. Di Srrrivo, Marsala, ricerche archeologiche dell'ultimo quadriennio, in Kokalos XXVI-XXVII, 1980-1981, tomo 11,2, pp. 874, tav. ΟΟΧΧΧ (resti di un pavimento di un edificio della fine del II sec. a. C. rinvenuto nel 1977 in viale N. Sauro), 77 C. Patuenz L^ opus signinum" in Sicilia,in BCA Sicilia 1983,p 173 fig. 3 ep. 175. * E. Sresum, Roma. Grottarossa (vocabolo Monte delle Grotte). Ruderi di una villa di età repubbicana, in NSA 1944-1945, pagg. 52.72; G. Becarrt, Mosaici e pavimenti marmorei in Scavi di Ostia IV, nn. 23-25 pp.19-20 tav. IV. *5 M. L. Morricone Manna, Mosaici antichi in Italia. Studi monografici. Pavimenti di signinum repubblicani di Roma e dintorni, Roma 1971, p. 24 e p. 35. *» J. PApau, L'arte di costruire presso i romani. Materiali e tecniche, Milano 1989, pp. 76-82; C. F. Grouuant, L'edilizia πεῖς l'antichità, Roma 1990, p. 165. 5! Una decorazione simile si trova nel vano III della casa di Monte Porcelloa Centuripe inquadrata dal Libertini nel pri mo venticinquennio del I sec. a. C. per la presenza in altri ambienti di decorazioni di IT stile (G. Lnenra, Centuripe, Catania 1926, pp. 56-57 tav. ἢ. e mosaico pavimentale dal IV al Il sec. .C., in Darch 1984, p. 72. 3T. Barsassanze, Pittura parietale L'introduzione del » Per l'origine punica del signinum cfr. B. Tsuarcis, The decorated pavements, ci. p. 426 e L. Peron,in signinum, in tese del tessellato in Sicilia, in RAAN LXIIL 1991-1992, pp. 649-662. Sull' associazione tra pavimenti Signinum sellatum e pitturedi tile attestata in Sicilia negli anni intorno al 300 a. C. cfr. F. Coane, La cultura figurativa in Sicilia neisecoli I-II a. C., in Storia della Sicilia, Napoli 1979 pp. 171-174. » D vos BorsetaceR, Antike Mosaiken in Sizilien, Roma 1983, p. 80 7* Nel saggio, condotto nel 1982 da chi scrive, sotto il pavimento del vano E, formato da un nucleus di m. 0,09 e da un ru ciascuno (US dus di m.0,23, fu intercettata una complessa stratigrafia. Nei primi quattro strati di pochi centimetri di spessore molto compatta, 120, US 121, US 122 e US 123), che alternavano sottili depositi argillosi pressoché sterili a depositi di terra Howland 29A fiurono rinvenuti oltre ad alcuni frammenti di baciletti acromi, anche minutissimi frammenti di lucerne deltrovatipo numerosissimi (fine del IV sec. a. C. - metà del ΠΙ a. C) ed un frammento di bottiglia a v. n. con palmetta stilizzata che Meligunisconfronti in Sicilia nella produzione della seconda meta del IV sec. (si veda per es. L. BERNABO BREA — M. CavateR, A.M. Bisi, La ceraLipara II, Palermo 1965, tomba 223 e tomba 441, tav. CXIL, 1a - d, e p. 159 tav. CXVIII, 4f pp. 74-75; anchecampagna di scavo mica ellenistica di Lilibeo, in ArchClass XIX 2 1967, p. 280 tav. LXXXIV, 2). La relazione preliminare della del 1982, eseguita da R. M. Albanese, M.G. Brancilorti e M. Frasca, è in corso di stampa in CASA, Si ringrazia il dott. M. Fra: 117

sca per le anticipazioni sui risultati ei saggi effettuati tra il muro meridionale del vano A e il muro settentrionale dell'edificio greco utilizzato come elemento di fondazione. > Il pavimento in cocciopesto rinvenuto all'interno dell'ambiente 5 del grande edificio fu costruito immediatamente al di sopra di un edificio relativo alla seconda fase urbanistica greca (403-263 a. C.). » Si veda per ultimo E. DE Mo, Ricerche sulla casa in Magna Greciae in Sicilia, (Atti del colloquio - Lecce, 23 - 24 giugno 1992), Lecce 1996, pp. 31-38 con bibl. precedente. ** Lo scavo in questo settore, diretto da chi scrive, conla preziosa collaborazione della dott.ssaA. Taormina e G. Monterosso, si è concluso soltanto da alcuni mesi. I dati cronologici a cui si fa qui riferimento derivano dall'esame dei materiali ef fettuato durante le stesse operazioni di scavo. Se ne darà al più presto un' edizione completa da parte delle stesse G. Monterosso c A. Taormina, * Il rifacimento di due case di età ellenistica rinvenute nell'area della stazione ferroviaria a Siracusa fu messo in relazione dall'Orsi alla deduzione della colonia augustea allorché esse furono riunite in un'unica dimora; cfr. P. Osi, Scoperte nella Sicilia orientale dalla metà del 1911 alla metà del 1915. Casa romana eniro la stazione, in NSA 1915 p. 191. © V. TusaSolunto nel quadro della civiltà punica della Sicilia occidentale, in Sicilia Archeologica 17 1972, p. 30. © Lo scavo all'interno delle ex scuderie prospicienti via Teatro greco, iniziato nel mese di febbraio di quest'anno, e diretto da chi scrive, è ancora in corso. Collaborano alla conduzione della ricerca la dott. ssa A. Taormina e la dott.ssa G. Monteros-

© Ti rinvenimento, in occasione di un saggio effettuato per verificare le fondazioni del monastero benedettino e per elimi nare uno scarico fognario realizzato in epoca moderna, fu segnalato dal prof. arch. G. Pagnano, che qui si ringrazia, allora di rettore dei lavori di restauro dei cantinati, ubicati sotto i corpi di fabbrica dell'impianto cinquecentesco. ^* Della domus di ctà imperiale è stata data una notizia preliminare da parte di chi scrive in occasione del IV Colloquio dell'Associazione Italiana per lo Studio e la Conservazione del Mosaico svoltosi a Palermo il 9-13 dicembre 1996 (M. G. Brancirosm, Mosaic di età imperiale a Catania, Att TV Colloquio AISCOM Palermo 1996, pp. 165-188. “ A. Lamiaw, The first style in Pompeii: painting and architecture, Roma 1985, pp. 31-34 e p. 184, pl. 42. ^* Come il palazzo della Camera di Commercio, a nord-ovest di piazza Stesicoro, costruito negli anni '30 al posto della chiesa di S, Maria della Speranza annesa al convento dei PP. Cappuccini poi eliminato negli anni ‘60 per la costruzione dell'edificio dell E. S. E. con la conseguente creazione della via S. Mariala Grande; come nel caso di un palazzetto costruito pure negli anni '60 αἱ posto della chiesa di S. Nicollla nella omonima piazza, o dell'edificio de La Rinascente sulla via Etnea al posto di palazzo Spitaleri ^* Così avvenne per la splendida "Flora" dei PP. Benedettini di S. Nicolò L'Arena caratterizzata anche da numerose rarità botaniche, posta al di sopra della colata lavica del 1669; 'area fu destinata nel 1880 al nuovo Ospedale S. Marco (cf. G. Daro, La città di Catania, Roma 1983, p. 108 nota 67), così peri giardini dei PP. Minori Riformati di S. Maria di Gesù, dove si estendevano le grande necropoli di età romana di primo impero, pr citare solo alcuni dei casi iù cclatant. © B. Gexma-Cusa, Piano regolatore pel risanamento e per l'ampliamento della città di Catania, Catania 1888; G. Daro, La città ei piani urbanistici. Catania 1930-1980. /* Nota di G. Libertini in A. How, Catania antica, traduz. di G. Libertini, Catania 1925, p. 32. Per il Reclusorio delle Verginelle e per l'allargamento di via Quartarone cfr. inolire G. Daro, La città di Catania, Roma 1983, p. 90 e p. 110 nota 100. * La pianta che si presenta è stata elaborata da P. Nobile della Sezione Archeologica della Soprintendenza di Catania. * C. δαῦτο Parm, Notizia sui ruderi recentemente scoperti in Catania di pertinenza del Ninfeo, in Giornale del Gabinetto Letterario dell'Accademia Gioenia, vl. I fasc. 3° 1856, pp. 231-234. ? C. Sciuto-Patti,Sugli avanzi d'un Ninfeo scoperti in Catania, in Giornale del Gabinetto Letterario dell Accade ia Gioenia, vol. IV fasc. 2 1858, pp. 114-131 5: Nota di G. Libertini in A. Hou, Catania, cit. pp. 33-34. Non troverebbe ancora conferma, invece, quanto precedente. mente sostenuto dal Florio Castelli circa le comunicazioni esistenti tra l'area del Reclusorio delle Verginelie con le Terme del. Ja Rotonda, la chiesa di S. Maria la Concezione e la chiesa dll'tria, che attesterebbero l'esistenza di un grandissimo edificio termale a nord del Teatro (cir. G. FLorto CASTELLI, Memorie storiche intor la distruzione dei vetusti monumenti di Catania, Catania 1866, p. 23) ? G. Linerrins, Catania. Scavi nel cortile del palazzo della R. Questura, in NSA 1937, p. 82. 7? La Casa di Poveri dell'Oratorio (Filippini) fu costruitanel 1788 (cfr. G. Daro,La città di Catania, Roma 1983,p. 120). ® G. Limana, Catania, scoperte varie. Scoperte fortute in via Crescenzio Galatola, in NSA 1931, p. 367. 5. G. Lise&mvi,Scoperte recent riguardanti l'età bizantina a Catania e provincia. La trasformazione di un edificio termale in chiesa bizantina (La Rotonda), in Atti dell'VIII Congresso Internazionale di Studi Bizantini, Roma 1953, p. 168 fig. 1. 7 G. Rizza, Stipe votiva di un santuario di Demetraa Catania, in BA 1960, pp. 247-262; Ip, s. v. Katane in "The Princeton Encyclopedia of Classical Sites”; R. Marr, P. PELAGATT, G. VALLET, G. Vora, Le città greche alla voce Catania, p. 540 in Storia della Sicilia vol. I, Napoli 1979. * G. Lisexma, Rilievo demetriaco da Catania, in Bollettino Storico Catanese IV 1939, pp. 124-128. ? M, G. Brancirormt, Mosaici di età imperialea Catania, in atti del IV Colloquio AISCOM, Palermo il 9-13 dicembre 1996 in corso di stampa). © A. Hot, Catania, it, pp. 35-37. Gia L'A. ipotizzava l'esistenza di una strada in età romana che conduceva dall'Anfiteatro al Teatro. © C. Geumezsaro,Sopra un resto di antico pavimento, in Giornale del Gabinetto Letterario dell'Accademia Gioenia, tomo VI, 1841, p. 62. % C. Sciuro-Parm, Sugli avanzi del Tempio di Ercole in Catania. Cenni critici in Giornale del Gabinetto Letterario dell'Acca118

demia Gioenia, nuova serie, vol. I, 1853, p.192; inoltre J. A. BoLrswauSER, Nouveau guide de Catane et de ses environs, Catane 1874, p. 33, ‘SP, Orsi, Nuove scoperte nella provincia di Catania, in NSA 1912, pp. 412;D. vox Boesstacen, Antike Mosaiken in Sizilien Roma 1983, pp. 112-113taf. XXXV, 69. ** V. Messina, Monografia della Regia Insigne Parrocchiale Chiesa Collegiale di Catania, Catania 1898. 4 L'edificio di via Emea davanti la chiesa di S. Maria dell Elemosina è inedito; sono altresì ignote le circostanze del rinvenimento; l'unica testimonianza finora trovata è la planimetria conservata nell archivio della Soprintendenza di Catania che viene presentata rilucidata da L. Grasso della Sezione Archeologica dato il suo cattivo stato di conservazione. © A. Houm, Catania, cit. p. ST. © G. Liver, Catania. Avanzi romani nel cortile del Palazzo del Governo, in NSA 1937 pp. 79-81. & Sepoleri si trovavano sulla piazza di Santa Maria di Novaluce (oggi piazza Bellini) nei pressi di Sant'Orsola e vicino alla badia di S. Agata (cfr. A. How, Catania, cit., pp. 63-64). © P. Orsi, Catania. [pogeo cristiano dei bassi tempi rinvenuto presso la città, in NSA 1893, pp. 385-390; I., Catania. Antico sepolcreto riconosciuto în via Lincoln entro l'abitato, in NSA 1897, pp. 239-242; per le mura di Catania cfr. G. Pioxawo, Il disegno delle difese, Catania 1993, 7? P. Onst, Catania. Scoperte varie di antichità negli anni 1916 e 1917. Scoperte in via Vitt Emanuele, in NSA 1918, pp. 53-64, 7 A, σιν, Catania, cit, p. 51, Del rinvenimento nei pressi di Santa Chiara, diede notizia anche G. Strafforello che riferì del trasferimento dei frammenti di mosaico presso il Museo dei PP Benedettini insieme a quelli rinvenuti nella piazza del CaLa Patria. Geografia dell alia, Torino 1893, p. 265. stello Ursino (cfr. G. Sruarronz110, τ ibid. p.265. > L'Ospedale di S. Marco, istituto di pubblica assistenza fondato dal Senato cittadino nel 1336, fu edificato nell'attuale catanese, Catania 1940, area nel 1720 su progetto di Alonzo di Benedetto (G. Soxce, Lineamenti di storia dell'ospedalità civile all'interno dell'ex Ospepp. 1-57; G. Dato, La città di Catania, Roma 1983, p. 37 e nota 3). [ risultati della ricerca archeologica dale San Marco sono in corso di pubblicazione da parte di chi scrive e da parte della dott.ssa G. Monterosso e della dott. ssa Agata Taormina che hanno collaborato alla conduzione dei lavori. % A. Hou, Catania, cit, pp. 25-26. τ ibid. nota del trad. pp. 22-23. » L Paternò CasreLLo, Viaggio per tutte le antichità di Sicilia, Napoli 1781, p. 43, della porta 7 A. ιν, Catania, cit., pp. 22-23 e p. 62. Anche l'Orsi osserva come nella piazza Stesicorea e nei dintorni di Catania dall'età omonima “ conosciuti come luoghi di provenienza di parecchi titoli cristiani” rientrasse la zona sepolcrale cità, in NSA 1893, p. ellenistica fino all'alto medioevo (P. Onsi, Catania. Ipogeo cristiano dei bassi tempi rinvenuto presso la simili a quelle esistenti 390). Interessante inoltre la breve notizia riportata da P. G. Cesareo sul rinvenimento di altre stanze, Alcune delle Sotto la chiesa di S. Euplio, in occasione della costruzione dell'edificio del Monte di Pietà, nella via omonima. MeCesunro, G. P. (cfr. Biscari Museo il presso trasferite state sarebbero circostanza tale in rinvenute bianco marmo in casse morie archeologiche di Catania, Catania 1926, pp. 31-32) 1958 e 1956, pp. 249.51 e tav. XVII 96 G. Rizza, Necropoli romana scoperta a Catania in via S. Euplio, in ASSO LIV lee LV, erano già state trasformate scuderie cui Spitaleri palazzo di posto al costruiti furono grandi magazzini de La Rinascente nel 1913 nel Cinema Hall opera dell'arch. P. Lanzerotti 7 L Paternò CasTELLo, Viaggio, cit. pp. 38-41. A. Hotw, Catania, cit., pp. 58-64. © P. Ost, Catania. Scoperte varie di carattere funerario, in NSA 1915, pp. 215-225. pp. 170-189; G. Rizza, © G. Lena, Catania. Necropoli romana e avanzi bizantini nella via Dottor Consoli, in NSA 1956, In..Un Martyrium paleocriMosaico pavimentale di una basilica cemeteriale paleocristiana di Catania, in BA XL 1955, pp. del1-11;Concilio Ecumenico Vaticano stiano di Catania e il sepolcro di Iulia Florentina, in Oikoumene. Studi paleocristiani in onore II, Catania 1964, pp. 593-612. ASSO XIX, 1923 p. 59. Ὁ G. Lime, La topografia di Catania antica e le scoperte dell'ultimo cinquantennio, ina nord-ovest del convento dei Dome© I Pareraò Castetto, Viaggio, cit p. 38; A. Hota, Catania, cit, pp. 60-61 (necropoli Altri rinvenimenti di 65-68. pp. 1918, NSA in Androne, via in Fisiologia di Istituto nicani); P. Onst, Catania. Scoperte al nuovo tombe sono stati registrati nel 1959 all'interno di un immobile tra via Plebiscito, via Orto del Re e via S. Vito come attestato da rilievi esitenti presso l'archivio della Soprintendenza di Catania. ipotizzò peraltro "T. Ῥατκανὸ Casret1o, Viaggio, cit. pp. 39-41; A. Hous, Catania, ct., pp. 58-60. In tale zona il Libertini dell'Orsi che le collocava più a nord, Ja sede delle necropoli della città greca del V secolo a. C., non condividendo l'opinione che non fu possibile salnell'area del costruendo Orto Botanico, per il rinvenimento in essa, nel 1915, di sarcofagi in dicalcare R. Soprintendenza Siracusa, e di materiali databi are per la mancata tempestiva segnalazione da parte dell'Università alla Scoperte varie di antichità negli anni 1916 e 1917, în li tra il VI ed il V secolo a. C. recuperati dal De Fiore (P. Orsi, Catania. cinquantennio, in ASSO XIX, 1923 dell'ultimo scoperte le e antica Catania di NSA 1918, pp. 68-70; G. Limeanini, La topografia pp. 59-60). e presso la birreria * Oltre alle notizie relative alla necropoli in piazza S. Maria di Novaluce (A. Hora, Catania, cit, p. 63)239-242) si vd. pure, in NSA 1897, pp. Sangiorgi (P. Oast, Catania. Antico sepolereto riconosciuto in via Lincoln entro l'abitato, poi trasformata in cappella gentilizia, per la cosiddetta Cappella Bonaiuto, intesa dall'Orsi quale parte di un edificio termale 1823 vol. IL p. 16 ; per È Paternò Casrenso, Viaggio, cit, pp. 34-35; F. MuvrER, Viaggio in Sicilia, trad. di F. Peranni,135 Palermo e 136 (il monumento dal curann. ultimo AA.VV, La Sicilia di Jean Houel all'Ermitage, pp. 171-172 e pp. 309-310 schede tore delle schede è erroneamente riferito come “sepolcro presso l'ospedale S. Marco a Catania”); per G. Agnello trattasi di 119

chiesetta bizantina poi trasformata in cappella gentilizia (cr. G. AoneLLO, La basilichettarichora del Salvatore a Catania, in RAC Anno XXIII n. 1-4, 1947, pp. 147-168; lo, L'architettura bizantina in Sicilia, Firenze 1952, pp. 116-129). Ὁ Cfr. supra nota 67. © E. Cunou Grounso, L'edilizia nell'antichità, Roma 1990, p. 160. A. Lubuaw, The first style in Pompeii: painting and architecture, Roma 1985, p. 3 e pl. 67 a. © Per l'area cimiteriale presso i PP. Domenicani di 8. Maria la Nuova chr. anche A. Niney, Itinerario delle Antichità della Sicilia, Roma 1819, pp. 3637 79 cfr. supra nota 44, L'ex convento dei Cappuccini già ospitava la caserma Marvell.

120

ANNA CALDERONE EOS RAPITRICE E LE ARULE DI GELA

È del gennaio del 2000 la notizia del rinvenimento a Gela di tre bellissime arule . Esse si distinguono nel repertorio delle arule di Occidente per la pregevole fattura, la dimensione insolita di due

di esse, e per la raffigurazione esibita da ciascun arula. La prima, alta m 1,16, presenta la Gorgone in corsa con Pegaso e Krysaor. La seconda, anch'essa di grandi dimensioni (alt. m 1,14), mostra la raf-

figurazione di tre personaggi femminili resi frontalmente, delimitata in alto da una zoomachia, di. sposta su un campo più ridotto. La terza arula, infine, alta cm 60, rappresenta la divinità Eos che rapisce uno dei fanciulli da lei amati. Le tre arule provengono da scavi condotti nell'area di Bosco Littorio, alla destra della foce del fiume Gela. Qui è stato messo in luce un settore interessato da strutture arcaiche in mattoni crudi conservate per buona parte della loro altezza. Sulla base della disposizione dei vani e dell'ubicazione del complesso, situato sulla costa e nei pressi della foce del fiume, fuori dalla cinta muraria, è stato ipotizzato che tali resti siano pertinenti all'emporio della città, impostato forse al momento stesso dell'occupazione rodio-cretese del sito® Tante sono le domande che il rinvenimento delle tre arule pone: l'inusuale dimensione dei tre esemplari, la cronologia, lo stile e l'ambiente artistico che li ha prodotti, c così via. Non è mio intendimento in queste pagine tentare delle risposte; risposte, queste ultime, che ci aspettiamo piuttosto dall'edizione definitiva dei risultati dello scavo. Molto più modestamente, l'oggetto di questa mia breve nota è la sola arula con la rappresentazione del ratto di un giovane amato da parte di Eos, con l'obiettivo di svolgere alcune considerazioni di carattere iconografico ed iconologico sul tema figurato. Nell'arula, la dea Eos dalle grandi ali, resa nell'atteggiamento del volo, tiene tra le braccia il giovane amato. Il giovane è di piccole dimensioni rispetto a quelle della dea. Pur se non è possibile allo stato delle informazioni entrare nel merito della cronologia del pezzo, sembrerebbe trattarsi di un'arula i cui tratti stilistici del rilievo orientano per una datazione nella seconda metà del VI sec. a. C. Quest'arula ripropone nella forma e nella raffigurazione un'arula sempre da Gela (fig. 1), rinvemuta nell'area del complesso religioso e artigiana le del cosiddetto

“Ex

Scalo Ferroviario"*.

Que-

st'ultima, è stata rinvenuta negli anni ottanta, reimpiegata nella parete di una canaletta che corre lungo il lato nord del vano 5 dell'edificio III*

Essa, purtroppo mutila sul fianco sinistro, è alta

‘em 56, misura quindi molto vicina a quella recen-

temente rinvenuta al Bosco Littorio. La raffigura-

zione, inserita in una cornice aggettante, mostra

Fig. 1. Arula da Gela con Eos che rapisce un fanciul-

la figura di Eos, nello schema della “corsa în gi- _ lo (Foto Soprint. Caltanissetta).

121

Fig. 2. Arula da Selinunte con Eos che insegue un fanciullo (MonAL 32, 1928, tav. XXXVI)

nocchio”, ad ali aperte e calzari alati, che regge con il braccio sinistro un fanciullo. Per un arcaismo piuttosto alto, specie nel volto del fanciullo, insieme al rendimento del panneggio della dea Eos di un fase più avanzata, Ernesto De Miro ne ha proposto una datazione al 550-530 a.C.* Diversamente, in-

vece, peri tratti stilistici del volto del fanciullo molto vicini a quell tipici dei volti delle statuette fittili tardo-arcaiche, la stessa arula è stata datata dalla van der Meijden alla fine del VI-inizi del V sec.*. Entrambi gli studiosi concordano, però, nell'identificare con Kephalos il fanciullo rapito da Eos. Le due arule, quella dall'Ex Scalo Ferroviario e quella dal Bosco Littorio, oltre ad essere molto cine per le misure, sono entrambe prodotto di artigianato locale, anche se la prima sembra di qu tà e fattura leggermente inferiore rispetto alla seconda. Ricordo inoltre che lo stesso mito della dea Eos è raffigurato ancora su una terza arula, proveniente dal santuario della Malophoros di Selinunte, datata nel primo venticinquennio del V sec. a.C. (fig. 2)7. Qui la figura femminile è rappresentata nell'atto di inseguire il giovane. La presenza di questa raffigurazione sulle tre arule siciliane costituisce un fatto insolito, dal momento che, come sappiamo, il tema è invece ampiamente diffuso su manufatti di altro genere, vasi figurati, lamine, grup-

pi

fittili ecc. Ma proprio per questa ragione, e nella considerazione della funzione escatologica delle

arule, connesse alla sfera della religiosità privata e delle relative pratiche rituali", il riproporsi del medesimo tema figurativo sulle arule siceliote del VI e V sec. a.C. contribuisce a fare maggior luce sulla iconologia dello stesso mito della dea Eos che rapisce il giovane amato. ΤΙ mito fa la sua comparsa nell'imagerie greca a partire dalla metà del VI sec. a.C., divenendo nel V sec. a.C. uno dei temi preferiti dalla produzione vascolare attica a figure rosse”.

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Com'è noto dalle testimonianze letterarie, la. dea Eos, personificazione dell'aurora, si invaghì della bellezza di molti giovani che inseguì e rapi. Tra quelli che ci sono stati trasmessi nelle raffigurazioni oggi note, gli studiosi, anche sulla base degli attributi rappresentati, hanno riconosciuto il giovane cacciatore Kephalos o l'efebo Tithonos, quest'ultimo talvolta accompagnato dalla lira. AI riguardo, però, vale la pena osservare che, ad eccezione dei pochissimi casi di immagini vascolari nei quali il giovane è chiaramente definito da un'iscrizione, il personaggio oggetto dell'interesse di Eos è raramente identificabile con precisione. Sappiano, poi, che Pausania (I, 3, 1 e III, 18, 12), nel descrivere i gruppi acroteriali della Stoà Basileios ad Atene, e ancora nel descrivere il trono di Bathykles, indicando in Kephalos il personaggio rapito a causa della sua bellezza, definisce Hemera quale divinità rapitrice ". La sostituzione di Eos, l'aurora, con Hemera, il giorno, è tuttavia una versione nota soltanto a Pausania '. Circa la tipologia figurativa, le attestazioni relative al mito della dea rapitrice di fanciulli possono essere classificabili essenzialmente in due tipi: nel primo, il fanciullo è retto fra le braccia dalla figura femminile che fugge (fig. 3); nel secondo, la figura femminile insegue il giovane (fig. 4). Un terzo tipo è presente soltanto su pochi vasi di IV Fig. 3. Lekythos attica a £r. da Gela (LIMC III, s.v.

Eos, n. 270)

sec. a.C., dove la figura femminile è raffigurata

mentre alla guida di un carro rapisce il fanciullo (fig. 5)".

Dei due tipi principali, il secondo è ampiamente diffuso sulla produzione vascolare di V sec., e particolarmente su quella attica. Eccezioni sono soltanto due rilievi selinuntini del primo venticinquennio del V sec. a.C.: una metopa dall'Acropoli* e l'arula dal santuario della Malophoros richiamata sopra. Più rare e più variamente distribuite su diversi manufatti sono invece le attestazioni iconografiche del primo tipo. Oltre al sopra richiamato caso dell'acroterio della Stoà Basileios, che è stato ricostruito nello schema della dea con il fanciullo fra le braccia, esso compare, infatti, su pochi vasi atticia figure rosse, su due rilievi “melii”, su una lamina aurea, e su alcuni gruppi fittili e marmorei '. A questi casi oggi dobbiamo aggiungere le due arule di Gela. Un dato, la cui significatività ai fini della nostra riflessione sarà chiara più avanti, consiste nel fatto che in tutte le attestazioni iconografiche del primo tipo, se si escludono quattro casi in cui il giovane regge una lira", l'amato rapito non è mai connotato da attributi La mia ipotesi è che le due versioni figurative, le cui prime attestazioni appartengono a momenti diversi - al VI sec. il primo, al V sec. il secondo- riproducano altrettante versioni del mito, anch'esse cronologicamente distinte fra loro, almeno alle origini, anche se successivamente compresenti. Una diversità cronologica, questa, spiegabile dall'ambito geografico e culturale nel quale le due versioni del mito ebbero maggiore diffusione. L'ipotesi mi viene suggerita dal fatto che le raffigurazioni del primo tipo sono presenti a partire dal VI sec., almeno per quello che ne sappiamo, su manufatti etruschi. Ma provo ad essere più chiara. Nell'iconografia etrusca del rapimento la divinità rapitrice è l'etrusca Thesan, omologa della divi123

nità greca dell'aurora, Eos". Tra i manufatti, ricordo il famoso acroterio in terracotta della seconda metà del VI sec. a.C. da Cerveteri, conservato al Museo di Berlino! o il frammento di acroterio fittile dal tempio arcaico di S. Omobono, appartenente ad una scena di ratto, assimilato all'acroterio ceretano "ἢ l'antefissa del Fondo Patturelli di Capua”. Tre testimonianze, queste, di una predilezione per il tema del rapimento dellamato da parte di Eos, retto tra le braccia della di

vinità, come tema per l'apparato decorativo di

edifici di culto. Nel caso del santuario del Fondo Patturelli, poi, il culto praticato, per il carattere aurorale, ctonio e della fertilità, ha rivelato stringenti analogie con quelli praticati nello stesso periodo in altri importanti santuari di area etrusca e laziale, dedicati a divinità femminili con funzione analoga?!. L'iconografia del rapimento dell'amato da parte di Eos, compare anche sulla cimasa di un bel- Fig, 4. Kylix attica a £r. da Vulci (LIMC III, s.v. Eos, lissimo candelabro etrusco della fine del V sec. n.201) a.C., rinvenuto nella tomba 64 di Ruvo del Monte. Il dato, oltre a costituire un'ulteriore testimonianza della predilezione e della diffusione del mito di Eos in ambiente etrusco, ha dimostrato poi la non casuale assunzione di un mito da parte di una élite indigena che ha acquisito " un grado piuttosto elevato di acculturazione anche nel campo degli atteggiamenti spirituali... direttamente derivate dal costume ellenico”. L'ampia diffusione del mito di Eos in area etrusca ha giustamente indotto la Weiss a mettere in evidenza il particolare apprezzamento da parte del committente etrusco innanzitutto per questa storia mitologica, ma anche per il personaggio oggetto dell'innamoramento di Eos: il giovane Tithonos, la cui origine troiana lo rendeva apprezzabile da parte degli etruschi, di cui è noto il particolare rapporto con gli eroi del ciclo troiano”. Quanto alle tradizioni letterarie, ben note ad Omero (IL, 11,1) erano le vicende amorose di Eos nei confronti di Tithonos, giovane della stirpe reale di Troia. Per esso la dea chiese ed ottenne da Zeus la vita eterna, e con esso visse felicemente presso l'Oceano. Dalla loro unione nacque Memnone, il giovane che, accorso in aiuto dei troiani, trovò la morte per mano di Achille A questo punto, non mi sembra, dunque, azzardato suggerire che, nelle testimonianze iconografiche del primo tipo, il giovane rappresentato tra le braccia della dea Eos possa essere Tithonos piuttosto che Kephalos. Questo almeno per le testimonianze più antiche, quando, come testimonia l'iconografia etrusca, le rappresentazioni sembrano aderire alla versione omerica del mito.

Le attestazioni in ambito etrusco suggeriscono però ancora qualcosa di più anche a proposito delle due versioni del mito, quella con Thitonos e quella con Kephalos. L'ipotesi, in sostanza, è che la prima versione sia anche la più antica e di origine orientale. Di essa Troia potrebbe averne costituito

il veicolo di penetrazione nell'antica Grecia. Più recente, invece, oltre che più diffusa in ambito attico, potrebbe essere stata la versione, attestata da altre fonti letterarie, del mito dell'amore di Eos nei confronti del giovane Kephalos. Sappiamo che la dea dell'Aurora si invaghi della bellezza del giovane cacciatore attico Kephalos, lo inseguì e poi lo rapi**. Se tutto questo è vero, possiamo ipotizzare allora che le due arule di Gela, con il giovane amato tra le braccia della dea, costituiscano il riflesso figurativo della più antica versione omerica del mito di Eos, dove il fanciullo di cui la dea si innamora e rapisce è il giovane troiano Tithonos. Come ho già detto, però, il fatto che questa rappresentazione compaia su delle arule può contribuire a chiari124

Fig. 5. Lekythos

apula a fir. (LIMC III s.v. Eos,n. 284).

re ulteriormente anche il significato e la funzione del mito, nel quadro di una stretta connessione, appunto, tra tema figurativo e tipo di manufatto: le arule. Queste ultime, di cui ho altrove sottolineato il carattere di oggetti strettamente connessi alla prassi rituale di culti che si dovevano svolgere o in ambito domestico o in santuarietti urbani, o, in misura minore, in aree sacre e in necropoli, che

solitamente esibiscono temi e miti il cui comune denominatore sta nel fatto di essere più o meno direttamente allusivi all’aldila”. Il mito di Eos si inserisce, poi, nel gruppo di quelle storie mitologiche, la cui interpretazione metaforica della speranza di una sorte beata dopo la morte si manifesta in termini più espliciti attraverso l'uso simbolico delle immagini di ratto. Miti nei quali un mortale è stato prescelto da una divinità, per essere poi trasferito in una realtà diversa da quella terrestre, che sono stati giustamente e con buone argomentazioni da più parti connessi con l'esigenza dello spirito greco di dare un'immagine nuova del destino che aspetta i mortali dopo la morte. Storie mitologiche, dunque, che possono divenire “facile e trasparente metafora della speranza di conseguire, attraverso la benevolenza divina, una nuova vita oltre la morte"? A proposito dei miti di ratto nel loro complesso, Christiane Sourvinou-Inwood ha sottolineato, 125

tuttavia, come il rapimento abbia costituito di solito un modello iconografico privilegiato per signifi care il rischio del contatto tra uomini e dei. Nel contesto di una cultura religiosa che ha chiara cognizione della incolmabile distanza che separa gli uomini dagli dei, l'eccessiva vicinanza con la divinità è per i primi non meno pericolosa dell'oltraggio. Di questa tradizione mitica fanno parte tanti racconti che si concludono tristemente: splendide fanciulle che, senza colpa, pagano con la perdita della vita o della natura umana il desiderio suscitato nella divinità (esempi sono quelli di Ino, di Callisto, o di Semele). La rappresentazione di queste vicende assumerebbe così la forza simbolica di un monito: l'impossibilità di superare i limiti imposti agli essere umani. Va però rilevato che, a differenza di queste vicende mitiche, nel caso dei giovinetti rapiti da Eos essi sopravvivono. Il contatto con la forza divina li lascia indenni, ed anzi li eleva allo status di privilegiati. Ecco dunque le loro vicende divenire scopertamente paradigma di quella benevolenza divina che sola può concedere all'uomo di vincere la morte e conquistare la beatitudine ultramondana*. Ed è proprio questa l'importante accezione del significato dei miti che si richiamano al tema dell'aldilà, come quello del ratto della principessa attica Orizia da parte di Borea, o quello del rapimento degli amati da parte di Eos. Borea, il Vento del Nord, che può essere causa di distruzione, ma anche portatore di abbondanza, o Eos, la dea astrale preludio della luce del giorno, diventano guida di un viaggio che porterà l'anima verso il luminoso mondo ultraterreno. Ma c'è ancora una seconda accezione, a mio parere di particolare rilevanza, del significato della storia mitologica della dea Eos: sempre il mortale prescelto dalla dea è un fanciullo. ΑἹ di là del fatto che possa trattarsi del troiano Tithonos o dell'attico Kephalos - la cui genealogia, come s'è detto, ha rivestito un forte significato nell'assunzione del mito nella tradizione figurativa rispettivamente etrusca ed attica - o di qualsiasi altro giovane di cui ci resta soltanto il nome ricordato dalle fonti, sempre, infatti, la dea Eos si innamora e rapisce giovani non ancora entrati nell'età adulta. Il significato, allora, della particolarità di questo mito starebbe nel fatto di affrontare e tentare sì una risposta al “dramma” della morte, ma non di quella che colpisce genericamente tutti gli uomini, ma di quella che riguarda, in particolare, i giovani, i fanciulli Sappiamo che il tema della morte è sempre presente nella religiosità del mondo greco. Nel tentativo di definire l'aldilà, la cultura greca è sempre preoccupata dalla necessità di trovare una spiegazione alla caducità della vita terrena. Ma se questa giustificazione è relativamente “facile” a proposito degli uomini adulti, legata alla brevità della vita e al naturale invecchiamento, ovvero, per i meno anziani, al ruolo di guerrieri cui si connette sempre il rischio della morte, ben più difficile è darsi una giustificazione della morte che colpisce in età ancora giovane. Il mito di Eos ne offre la risposta e la giustificazione: indissolubimente legati quali sono nella cultura greca, due facce della stessa medaglia, Thanatos si rovescia nel suo opposto Eros. Al dramma della morte, che tutto conclude ed a cui è sempre difficile doversi piegare, specie allorché essa colpisce un giovinetto, l'uomo greco sostituisce la vicenda di una nuova vita, il cui inizio è segnato dal suo esatto contrario: l'amore”. Alla morte, che segna la “fine” dell'esperienza terrena e il distacco dai propri cari, si oppone così la metafora del giovinetto rapito dalla dea innamorata — una dea che non a caso è definita da Omero “portatrice di luce" (II. 19,2) - che promette una nuova vita. Se questo è il messaggio religioso ed ideologico del mito di Eos, non è casuale che il tema venga raffigurato sulle arule, e in particolare su quelle della seconda metà del VI secolo provenienti da Gela. Non dimentichiamo, infatti, che proprio questo tipo di manufatto, a differenza di molti altri propri della cultura materiale greca, si colloca nel solco della continuità dei temi religiosi esposti con quelli del passato. Se, cioè, ancora in piena ctà arcaica, esisteva coincidenza fra le immagini della dimensione pubblica della religiosità, veicolata dagli edifici sacri, e quelle della dimensione privata, veicolata dalle arule, con la fine del VI sec. le dimensioni privata c pubblica procedono lungo rezioni diverse: mentre quest'ultima segue un processo di sofisticazione ed arricchimento dei temi prescelti, la prima rimane, invece, fedele custode delle passate tradizioni. E l'arula, la cui funzione cultuale è principalmente connessa alla sfera più intima della religiosità privata, ne costituisce la più evidente testimonianza ®. Tutt'altro che semplici arredi per soddisfare il gusto estetico dei committenti, le arule con il mito 126

di Eos svolgono dunque una precisa funzione religiosa e apotropaica. Ad esse doveva essere affidato il compito o di dare conforto alla famiglia per la morte di un giovane congiunto, ovvero di allontanarne il pericolo. Ed è in questo quadro, dove a questo particolare tipo di manufatto è affidato il rispetto della continuità con il passato e della permanenza dei motivi figurativi più antichi, che propongo di vedere nel tema raffigurato sulle due arule geloe la versione più antica del mito: quella del rapimento del giovinetto Tithonos. Siamo tornati così alla questione cui ho accen-

nato sin dall'inizio di questa nota a proposito del-

l'esistenza di due versioni del mito: la prima, la più antica, con Tithonos; la seconda più recente, con Kephalos. L'idea che si tratti di due differenti versioni mi viene suggerita dal fatto che i due personaggi non siano soltanto diversi tra loro per una più precisa specificazione del ruolo di Kephalos in quanto cacciatore, rispetto a Tithonos, generi- Fig. 6. Stamnos attico a fx. da Capua (LIMC III, s.v. camente definito come giovinetto; cid che conta Eos,n. 64). invece è che dietro questa loro diversità stiano società diversamente strutturate, con le loro rispettive culture. In sostanza, dietro il più antico personaggio Tithonos starebbe una società arcaica dove la condizione di giovinetto, al di là della dimensione generazionale, è ancora abbastanza generica e indistinta, senza quelle rigide articolazioni proprie di una società fortemente strutturata. Una società

più arcaica, questa, che ci riporta alla Troia omerica, ma che potrebbe portarci ancora più indietro nel tempo, nell'antico Oriente.

Successivamene, sarà invece con il V sec. che la polis greca avrà quasi la necessità, nell'accogliere le storie mitiche del passato, di reinterpretarle, sofisticandone molti aspetti e articolandole meglio nel rispetto di una società ora ben più strutturata. Ecco allora apparire la seconda versione del mito, con, da un lato, il giovinetto che diviene il cacciatore attico Kephalos (fig. 6), mentre, dall'altro, all'arcaico Tithonos, generico giovinetto, viene assegnato ora quel ruolo di efebo, che l'attributo della lira ora, alcune volte, meglio segnala (fig. 7)*. Giovani, quindi, al cui ruolo, efebo l'uno, cacciatore l'altro, viene assegnato l'iniziale e fon-

dante momento costitutivo dell'articolazione sociale nel mondo greco antico™. Ed è sempre ora che, accanto alla amplissima diffusione del mito di Eos, trova fortuna anche la vicenda mitica della principessa attica Orizia rapita da Borea.

Fig. 7. Lekythos attica a £r. (LIMC IIL, sv. Eos, n. 268). 127

Ora, a partire dagli inizi del V sec. a.C. le due versioni del mito di Eos coesistono, e con esse le

rappresentazioni dei due giovinetti, il primo Tithonos, riveduto e meglio specificato nel suo ruolo rispetto all’articolazione sociale, il secondo, l'attico Kephalos, che finisce per godere di maggior fortuna. Le rappresentazioni si diffondono ora in tutto l'Occidente. Ed è proprio adesso che sull’arula sopra richiamata dal santuario della Malophoros di Selinunte del 480-470 a.C. l'iconografia per il tema prescelto è proprio quella dell'inseguimento del giovane. Avremmo qui riprodotta la versione attica del mito, con Kephalos oggetto dell'amore della dea, secondo lo schema corrente sulla ceramica attica. Appartiene del resto al V sec. quella vera e propria “ossessione” che, come ha osservato Boardman, i ceramografi ateniesi mostrano per tutte le scene di inseguimento”. Scene queste il cui successo nelle regioni occidentali, cui era destinata gran parte della produzione ceramica attica”, va attribuito al fatto che in esse fosse evidente il riferimento a quelle concezioni salvifiche che proprio in quegli anni segnalavano preoccupazioni esistenziali e spirituali ben diverse da quei valori aristocratici della società arcaica cui le immagini sulla ceramica figurata sino ad allora ne erano state il riflesso. Ed ecco che proprio adesso la valenza salvifica del rapimento è fortemente dichiarata nella scelta del tema iconografico sulla lekythos funeraria del Museo del Louvre; 0, ancora, in ambiente indigeno magno-greco, sulla cimasa del candelabro etrusco e sul cratere a calice del pittore di Pisticci, oggetti facenti parte del corredo funerario delle due monumentali sepolture di Ruvo del Monte, NOTE

? A seguito della grande eco sulleccezionale rinvenimento, le tre arule sono state oggetto di alcune mostre. Cir per la mostra di Palazzo Bellomo a Siracusa, R. Pax, Tiranni e cult della Sicilia in età arcaica (Siracusa 2001), Caltanissetta 2000. Ὁ Si veda G. Βιοκεντινι, Cela. La cità antica ei suo territorio, Palermo 1985, p.22; e ancora R. Poma, Ghelas. Stora e ar. cheologiadeltantica Gela, Torino 1996, p. 54-57 ? Cfr G. StuonoLo, Recenti scavi nell'area dell vecchia stazionedi Gela, in Quaderni Messina 6, 1991, pp. 55-10; G. Fionenτινι, Gela, ct, p. 30. * G. SencnoLo, Recenti scavi, cit, p. 64, tav. XLIT3, Sullarula conservata al Mus. Arch. di Gel w. 36195, vedi R. PANviNt (acura di, Gela. 1i Museo Archeologico. Catalogo, Gela 1998, p. 184, V.24 * E. De Mino, Coroplastca geloa del VI e V sec. a.C., in Hestiasis, Studi offert a Salvatore Calderone, vol I, Messina 1986, pp. 393.394, tav, VI. * HL van der Mira Terakotta-arulae aus Sizilien und Unteitalien, Amsterdam 1993, p. 90, e p. 304. Per una datazione alla fine del VI sec. anche dell'aula da Bosco Littorio, si veda F. Gnorta, La Nike di Karlsruhee le are di Gela, in Prospettiva 38.99, pp. 155-159, oltre che pere interessanti considerazioni storco-aristiche. 7 E. Gaseici, I! Santuario della Malophoros, in MonAI 32, 1928, col 195-197, tav. XXXVI. * Sulla funzione privata delle arule e sul significato delle immagini in esse rappresentate, si veda A. CaLbexox®, I mito greco ele arule iceliote di VIV se. a.C., in F.H. Massa PAtRAULT (ed), Le mythe grec dans ali antique. Fonction e image (Ac{es du colloque international Roma 1936), Roma 1999, pp. 163 - 204 * Per una raccolta esaustiva delle testimonianze sulla dea Eos e 1 suot amati, si veda C. Wass, sv. Eos, in LIMC TILI, 1986, p. 758 se, con un ragionato ed utilissimo commento sulla comparsa, lo sviluppo e le variant delle immagini relative αἱ mito. Per una visualizzazione della fortuna delle immagini relative alla divinità Eos sulla ceramica attica nel corso del V sec. e alla "velocità" con cui questo tema raggiunge quasi contemporaneamente ἢ mercato della Magna Grecia, si veda il grafico (a cura di F. Basses) ed i relativo commento di F. Groce, I viaggio delle immagini dalfAtica verso l'Occidente, in F-H. Mass Ῥμαλυιτ (ed), Le mythe gree dans l'lie antique. Fonction et image (Actes du colloque international, Roma 1996), Roma 1999, pp. 267 - 280 (perl grafico pp. 208-299). Lo studiosoa tal proposito sottolinea che a fortuna dell'immaginedi Eos, insieme ἃ quella di altre divinità e di altri temi, sia nella produzione globale attica che nelle esportazioni in Magna Grecia e Sicilia, riveJa una "volontà di propaganda che accelerava il processo di diffusione in Occidente si da far coincidere il momento della pro. duzionedi un certo tema con quello della distribuzione" (p. 273). La vittoria di Atene sui Persianie “atmosfera di prodigio" ad essa connessa, propagandata ad Atene, avrebbe raggiunto in tempo reale anche l'Occidente “sorto la spinta degli stessi Atelesi che intendono comunicare Ie proprie difficoltà o propagandare i propri success (p. 280). ?* HLA, Thompson, Buildingson the West Side of the Agora,in Hesperia 6, 1937, p. 66s 5. Sul trono di Amykha, si veda il recente ed esaustivo lavoro di A. Fausrorens, I trono di Amyklai e Sparta. Bathykles al servicio del potere, Perugia 1996, ed in particolare, per l'episodio del rapimento di Kephalos da parte di Hemera, le pp. 119-120, 242 s. 128

© La preferenza per Hemera rispetto ad Eos, per la Faustoferri, potrebbe aver avuto un significato connesso “con la diversa funzionalità esplicata dalle due donne: Hemera, infatti, in quanto personificazione della luce solare, si contrappone al ‘momento iniziale del giorno” (ibd, p. 120). La studiosa, poi, molto cautamente esprime una suggestione, non confortata tuttavia da alcuna fonte scritta- come viene correttamente sottolineato — che potrebbe far "riconoscere Hemera nella dea con fanciullo nelle braccia ed Eos nella dea che insegue” (ibid p. 120, n. 14). ! Per questa classificazione, proposta sulla scorta elle testimonianze iconografiche, cfr. C. Weiss, cit. p. 59-775. "^ Perla nota metopa selinuntina si vedanoV. Tusa, La scultura in pietra di Selinunte, Palermo 1983, pp. 123-124, e E. DE Mino, La scultura architettonica selinuntina del periodo severo, in Sikanie. Storia e civiltà dell Sicilia greca, Milano 1986, p. 233, fgg. 273-274. ^* Cli. C. Weiss, cit, pp. 773-775, con relativi riferimenti bibliografici; la Weiss include nello stesso tipo anche l'iconografia del tema raffigurato sul trono di Amyklai ! Si tratta dei vasi a figure rosse, nn. 268, 269, 271, 272 del catalogo di C. Wess, cit, pp. 773-774. ? Si veda R. BLoct,sv. Eos/Thesan, in LIMC, IL, pp. 793-795. ! A. ANDREN, Architectural Terracottas from Etrusco-Italic Temples, Lund-Leipzig 1940, pp. 36-37, tav. XI, 40. ! L'ipotesi di A. Ακοκέν, ibid. p. 36 è stata accolta e sostenuta da F. Cone, Il Foro Boario. Dalle origini alla fine della repubblica, Roma 1988, p. 223 ss, anche nel quadro della lettura dell'intero piano figurativo del complesso di S. Omobono. Di diversa opinione è F.H. Massa Puautr, lconologia e Politica nell alia antica, Milano 1992, pp. 62-63, che propone di riconoscere nell'abbraccio dei due personaggi l'immagine dell'iospitium offerto da Carmenta a Matuta, ovvero l'immagine di Fortuna e Matuta sorores. » L. Cencutal, I Campani, Milano 1995, p. 160, av. XXXI, 1. γι È quanto è stato evidenziato da Luca Cerchiai ibi. pp. 159-160. Sul Fondo Patturelli si veda F. Coane, Venus Iovia, Venus Libitina? Il santuario del Fondo Patturelli a Capua, in L'incidenza dellantico (Studi in memoria di E. Lepore), Napoli 1995, vol. I, pp. 371-387. 7: A. Born, Il candelabro etrusco di Ruvo del Monte, in BA 59, pp. 1-14. > Ibid, p. 10. In tal senso parlano le immagini del mito di Eos sui vasi attici rinvenuti in numerosi contesti indigeni magno-greci, come quello della necropoli peuceta di Rutigliano, richiamato da A. Borria, Archeologia della salvezza, Milano 1992,p. 111 9 C. Weiss cit, p. 776. » È quanto si ricava dall'no Omerico ad Afrodite, 218-238. La dea non aveva riflettuto tuttavia che sarebbe stato necessario chiedere per lui anche la giovinezza. E infatti quando sulla bella testa di Tithonos apparvero i primi capelli bianchi, la dea non condivise più con lui il giaciglio, ma lo curo come un bambino. E quando la vecchiaia lo privò anche dei movimenti, la dea lo nascose in una stanza e chiuse la porta. La successiva trasformazione in cicala di Tithonos, nelle cui membra non era rimasta alcuna forza, la si ricava da uno scolioallIliade 11.1, e da uno scolio a Licophrone, Alexandra, 18, Per un'analisi strutturale del mito, ed interessanti considerazioni sulla immortalità della vecchia età e l'assenza nell'Inno Omerico della trasformazione di Tithonos in cicala, si vedano H. Kino, Tithonos and the tetix, in Arethusa 19, 1986, pp. 15-35, e Ch. Sront. Tithonus and the Homeric Hymn to Aphrodite: a comment, ivi, pp. 37-47. Per una raccolta delle fonti letterarieed iconografiche su Tithonos, cfr. A. Kossurz-Desssaunx, sv. Tithonos, in LIMC VIILI, pp. 34-36. Su Memnone e la sua sorte, Hes. Theog. 984. Κ΄ Su questamore siamo più informati, dal momento che il mito originario più semplificato riguardante l'amore di Eos nei confronti di Kephalos subì successivamente una elaborazione e contaminazione con il mito di Prolais, figlia di Eretteo. Per lui, infatti, rivaleggiarono in Attica Eos e Prokris. Il mito è presentato nella forma più completa da Ov. me. 7, 701-704. Per un'estustiva e commentata raccolta delle fonti letterarie ed iconografiche sull'eroe attico, si veda E. ϑιμαντοκι Βουίνιν, sx. Kephalos, in LIMC VI,I, pp. 1-6. > A. CaLDERONE, Il mito greco cit, passim. e pp. 203-204. * A. Bor, Archeologia cit. p. 11; ad Eos che rapisce lo studioso dedica una particolare attenzione alle pp. 106-115, Sul mito di Eos che rapisce si veda J. de La Genre, Un faux autentique du Musée du Louvre, in Studies in Honour of A.D. Trendall, Sidney 1979, pp. 75-80, tav. 19. Cr. ancora A. Born, Il candelabro, cit. p.10 e note 64-67. * C. Sounvinou-lwwoon, Menace and Pursuit: Differentiation and Creation of Meaning, in Images et Société en Grèce ancien: ne. Liconographie comme méthode d'analyse (Actes Colloque international Lausanne 1984), Lausanne 1987, p.51, e pp. 41-58 per il significato delle scene di inseguimento, rappresentazioni metaforiche del matrimonio. L'equivalenza tra matrimonio e morte, traguardi differenti ma entrambi ugualmente traumatici e di transizione, cui nessuno può sfuggire, costituisce poi valenza significativa sulla diffusione delle scene di inseguimento, © Sul punto efr. I. Camasst CoLouno, La salvezza nell'aldilà nella cultura greca arcaica, in StudClas, 15, 1973, pp. 23-39; S. Kasurr-Diurraiapoo, Die Liebe der Gótterin der Attischen Kunst des 5. Jahrhunderts v. Chr., Bern 1979, pp. 16:21, 36-41. 9 In questa direzione si pone l'interessante lettura del significato del mito di Eos rapitrice proposta da E. Ψεκμευιε, Aspects of Death in Early Greek Art and Poetry, California 1979, pp. 162-165. * Cfr. A. CALDERONE, I! mito greco, cit, passim. » Sulla produzione ceramica attica del V sec. a.C. non è tuttavia sempre facile definire con certezzai due personaggi amati. La differenziazione iconografica tra i due giovani, secondo cui Kephalos è sempre i cacciatore e Tithonos il fanciullo che alcune volte tiene tra le mani la lira, proposta da L.D. Caskey - J.D, Braziry, Atti Vase-Paintings in the Museum of Fine Arts, I, Boston-Oxford 1954, pp. 37-38, non è sempre applicabile con certezza. Come rileva, infatti, E. PARIBENI, in EAA VII, Pp. 882-883, sx. Tithonos, il giovane cacciatore raffigurato su una pelike dell'Ermitage è contraddistinto dall'iscrizione Titho» Richiamare gli studi che hanno contribuito a definire e a meglio comprendere il ruolo ricoperto dagli efebi e dai cac129

ciatori nella società greca sarebbe cosa ardua, e certamente incompleta. Mi limito tuttavia a richiamare il volume di A. Brecu Paides e Parthenoi, vol. 1, Roma 1969, e ancora quello di P. Vinu-Naousr, Il cacciatore nero, (trad. ita), Roma 1988, e da ultimoA. Scunare, Le chasseuret la cité, Parigi 1997, anche per l'attenta analisi delle fonti letterarice delle immagini dipinte sulla ceramica. 5 Si vedano a tal proposito le considerazioni di H. van der Meupex, Terrakotta-arulae, cit. pp. 90-92. » J. Bosna, Athenian Red Figure Vases. The archaic period, London 1975, p. 224. » Una conferma in tal senso la fornisceil dato delle numerose attestazioni sulle anfore nolane di V sec. a.C. di immagini dell'inseguimento dell'amato da parte di Eos, inquadrabili cioè nella seconda tipologia: forma e motivo figurativo presenti esclusivamente nell'Italia etrusca. Tale dato, ricavabile dal catalogo di C. Weiss, cit, pp. 159-770, dalla studiosa è stato giust mente interpretato come indicatore sia del particolare apprezzamento degli Etruschi per il mito di Eos, sia del fatto che, nella produzione, i pittori vascolari attici si rivolgevano al gusto del committente (p. 776). La valenza salvifica del tema su oggetti di uso funerario, come abbiamo visto supra, n. 28, è stata sottolineata, per la ledythos parigina, da J. de La Genibae, Un faux autentique, cit, e per i due esemplari di Ruvo del Monte, da A. Born, Archeologia, cit, pp. 106-108.

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VALENTINA CALÌ UNA STATUETTA IN MARMO DA AGRIGENTO * Tra i reperti archeologici conservati nei magazzini del Museo Archeologico Regionale di Agrigen-

to particolare interesse desta una statuetta in marmo', rinvenuta all'interno di un pozzo nell'area sacra tra il Tempio di Zeus e il Santuario delle Divinità Ctonie di Agrigento: (figg. 1-2). La figura, eseguita a tutto tondo, siede su un seggio di forma cubica in atteggiamento ieratico, con le gambe unite e il busto eretto; il corpo è avvolto da un himation a larghe pieghe oblique che lascia scoperto il lato destro del torso e copre la spalla sinistra ricadendo sulla parte posteriore. Dalla frattura sembra che il braccio sinistro fosse accostato al corpo e con il gomito piegato, mentre il braccio destro doveva essere sollevato e reggere verosimilmente qualche elemento oggi perduto, forse un attributo metallico, come è suggerito dalla presenza di un forellino sulla faccia superiore del seggio, accanto al fianco. Nonostante la frammentarietà e le dimensioni miniaturistiche, la piccola scultura ha carattere monumentale. La singolarità del pezzo consiste nell'eccezionale grado di stabilità e di coerenza che esso possiede, offrendo un'immagine solida, rigorosamente articolata nella distribuzione delle parti. Già ad una prima osservazione è possibile cogliere una profonda sensibilità stilistica e un'armo-

Fig. 1. a, b. Statuetta marmorea, (Museo Arch. Reg. Agrigento AG/S 6865). 131

Fig. 2. a, b. Statuetta marmorea. (Museo Arch. Reg. Agrigento AG/S 6865).

nia dei volumi, espresse attraverso le linee oblique delle pieghe della veste aderente al corpo, dalla. quale emergono le forme sottostanti; la stoffa dell'timation che drappeggia le gambe si addensa sul lato sinistro in un fascio di pieghe sottili verticali con orlo ondulato. Il modellato vigoroso ed equilibrato del busto rivela una mano sensibile ed esperta; il rilievo anatomico è reso con eleganza plastica e volumetrica, chiaramente visibile nella vita lievemente assottigliata, e nella schiena, segnata al centro da una lieve depressione. Lo stesso si può dire per la parte inferiore del corpo: le gambe, infatti, sono modellate al di sotto del panneggio con raffinatezza ed abilità tecnica.

La figura non è affatto simmetrica nè statica, tutt'uno con il suo sedile, come appare a prima vista: la gamba sinistra leggermente arretrata rivela un dinamismo interiore.

Essa appare realizzata per una visione non soltanto di pieno prospetto, come sembra indicare la modellazione della parte posteriore della figura. Le caratteristiche formali connotano la statuetta come maschile; la maestà della posa e la provenienza da un'area sacra consentono di ipotizzare che rappresenti una divinità. Tuttavia la mancanza della parte superiore, oltre all'assenza di attributi, ci priva di elementi esegetici fondamentali. Pertanto l'analisi tenterà di approfondire attraverso riflessioni e paragoni stilistici i problemi relativi all'iconografia, cronologia e produzione artistica. La statuetta si inserisce nell'ambito delle sculture in marmo di piccole dimensioni provenienti da aree sacre dell’Italia meridionale e della Sicilia, come la statuetta da Garaguso e le peplophoroi da Selinunte, ascrivibili tra la fine del VI e il V sec. a.C. ‘iconografia della figura in trono discende da tipi orientali. I precursori più arcaici, per la posizione maestosa e la struttura imponente del trono, sembrerebbero ravvisabili nelle statue sedute del 132

VI sec. a.C. provenienti dalla via sacra di Mileto*. Le grandi statue milesie, tuttavia, sono essenzial-

mente figure statiche, di struttura massiccia e pesante, frutto di una concezione stilistica profondamente diversa da quella dell'esemplare di Agrigento. Lo stile della nostra statuetta è, invece, assimilabile ad alcuni rilievi attici della fine del VI sec. a.C. Possiamo richiamare, per la consistenza armonica delle figure ed il rendimento dei panneggi, il rilievo 702 dell'Acropoli di Atene con suonatore di flauto e fanciulle* È inoltre interessante confrontare la disposizione e il rendimento dell’himation della figura agrigentina con il panneggio del kouros 633 dell'Acropoli di Atene“, databile alla fine del VI sec. a.C. Sebbene il kouros indossi anche il chitone, possiamo notare significative somiglianze sotto il profilo tecnico-stilistico nella disposizione dell’himation costituito da pieghe oblique sottolineate da incisioni, sotto le quali traspare la massa muscolare. Ma il raffronto tipologico stilistico più rispondente con la nostra scultura è costituito da un gruppo di statue provenienti dall'Acropoli di Atene, anch'esse di dimensioni minori del vero, identificate come scribi o tesorieri di Atena, datate tra il 510 e il 500 a.C.” L'impostazione delle figure ateniesi ri. chiama in maniera straordinaria quella dell'esemplare agrigentino. In particolare sottolineiamo la somiglianza con lo scriba 146 (fig. 3), per la medesima impostazione della figura seduta e soprattutto per la tipologia dell'himation a pieghe oblique ed aderenti e quella del seggi Nonostante tali affinità, il confronto però, non fornisce utili indizi sull'identità della nostra figura. Le tre statue dell'Acropoli, infatti, sono dotate di un attributo che determina la loro identificazione, ovvero una tavoletta posta sulle ginocchia, interpretata come lo strumento di lavoro dello scriba, sente nell'esemplare agrigentino. Diversamente, la somiglianza iconografica della nostra piccola scultura con la statua del Dioniso seduto 3711 del Museo Nazionale di Atene” (fig. 4), datata intorno al 510 a.C., potrebbe orientarci circa la sua identificazione. Anche dal punto di vista tecnico-stilistico il Dioniso di Atene presenta analogie assai significative nella ponderazione e tipologia della veste. La figura indossa lo stesso tipo di himation, molto aderente al busto e alle gambe, senza il chitone. Tale affinità risulta oltremodo significativa se si considera che nelle contemporanee raffigurazioni generalmente Dioniso indossa sempre il chitone sotto l'himation °.

A queste considerazioni si può aggiungere il confronto con la coeva produzione ceramica in cui si rileva un interessante riscontro non soltanto iconografico ma anche stilistico tra la figura di Dioniso rappresentata nei vasi dei pittori del Gruppo di Leagros"! e la nostra statuetta. Ritroviamo punti di contatto nelle proporzioni e nella resa del panneggio, ma soprattutto nella medesima sensibilità stilistica: si vedano in particolare due anfore da Agrigento in cui Dioniso è avvolto in un panneggio costituito da larghe pieghe oblique”. Ma il confronto più immediato è con una hydria con consesso di divinità, anch'essa attribuita al gruppo di Leagros, ed una oinochoe con Dioniso, Atena ed Hermes, attribuita alla Keyside Class? in cui il dio è rappresentato assiso su un tipo di sedile di forma cubica, analogo a quello della figura di Agrigento. Alla luce di quanto appena detto, saremo quindi tentati di identificare il personaggio della nostra statuetta con Dioniso. Identificazione resa più probabile dal luogo di rinvenimento del pezzo, un'area consacrata alle divinità ctonie Demetra c Kore, con le quali, com'è noto, il dio condivide la sfera cultuale ", Tutto ciò non esclude, s'intende, la possibilità di altre interpretazioni. Indubbiamente, il tipo iconografico di Dioniso nella sua accezione ctonia è assimilabile alla figura di Hades’, la cui presenza nell’area sacra di Agrigento è ancora più suggestiva. Com'è noto, Hades è il rapitore e successivamente lo sposo infero di Persefone'* con la quale conide la sfera mitico-rituale. La tradizione letteraria relativa al hieros gamos della coppia divina in ia, fa riferimento all'antico mito che assegnava la città di Agrigento o l'intera isola come dono di nozze a Persephone da parte di Zeus". Altre testimonianze letterarie ricordano alcune celebrazioni in onore di Persephone legate al momento immediatamente successivo alla theogamia dei due sovrani inferi come gli anakalypteria, ovvero la presentazione dei doni nuziali ? 133

Fig. 3. Scriba, Acro. 146 (da H. Payne-C. Mackwort Young).

Fig.4. Dioniso, Museo Naz. di Atene 3711 (da LIMC 1,2.

L'iconografia del dio infero documentata nella ceramica attica della fine del VI e della prima metà del V sec. a.C. mostra singolari analogie tipologico-stilistiche con la nostra statuetta: sovente il dio è rappresentato vestito con himation e chitone, ma altrettanto frequenti sono le raffigurazioni della divinità vestita soltanto con himation ®. 1l richiamo stilisticamente più vicino alla nostra scultura rimane quello con i vasi dei pittori del gruppo di Leagros. Volendo però fissare qualche più preciso confronto richiamiamo un'anfora con Hades stante con lo scettro” (fig. 5) e, inoltre, un'anfora del pittore di Acheloo con Hades seduto su una roccia, rappresentata a guisa di cubo, avvolto nell'himation e con lo scettro in mano” (fig. 6). La tipologia di Hades in trono è ampiamente attestata in Occidente dall'inizio del V sec. a.C. È naturale che innanzi tutto si affaccino alla memoria le note raffigurazioni sui pinakes rinvenuti nel santuario di Locri Epizefiri* e nella stipe di Francavilla di Sicilia* Queste opere attestano la vasta circolazione dei motivi religiosi nell'ambiente culturale occidentale e testimoniano il grande sapere artistico acquisito dagli artigiani locali. Un esempio tipico si ha su uno dei più completi pinakes locresi dove Hades è seduto in trono accanto alla sposa Persefone (fig. 7). Riteniamo assai significativo il confronto iconografico con la piccola scultura di Agrigento, simile nell'atteggiamento ieratico del dio in trono, oltre che per la disposizione dell'himation con il quale è vestito. Ciononostante, sotto l'aspetto stilistico, la nostra sta-

tuetta denota una rigidità arcaica e un robusto plasticismo che nei rilievi fittili è temperato da un maggiore linearismo decorativo. Tuttavia, poiché la figura di Hades sia dal punto di vista cultuale che da quello iconografico può essere assimilata ad altri tipi di divinità di carattere ctonio, l'identificazione della nostra statuetta rimane ancora incerta, anche se possiamo comunque ritenere che si tratti di una divinità strettamente

legata alle due possenti divinità femminili. 134

Fig. 5. Anfora del Vaticano 372 (da LIMC IV, 2).

Nella letteratura antica, talvolta, Hades è indicato con varie denominazioni eufemistiche che traggono spunto dal ruolo di sovrano degli inferi che egli rivestiva. Tra questi appellativi ricordiamo quello di Ζεὺς καταχϑόνιος riportato nell Iliade? e quello di Ζεὺς χϑόνιος in Esiodo, Eschilo e Sofocle”. Naturalmente, tenuto conto di tali denominazioni, il culto di Hades è stato assimilato a quello di uno Zeus dai caratteri inferi, che la tradizione letteraria ha variamente indicato come Eubouleus, Meilichios, Klymenos o Eukles*. Analogamente, la sua iconografia trae ispirazione da quella di Zeus e in assenza di attributi ne rende controversa l'identificazione. A questo proposito ricordiamo 5,0 M NN

Fig. 6. Anfora di Monaco 1549 (da LIMC IV, 2). 135

la nota metopa del tempio E di Selinunte e il problema dell'identità delle figure in essa rappresentate, Zeus ed Hera oppure, secondo un'altra esegesi, la coppia Persefone-Hades®. Non intendendo entrare nel merito della questione, ci preme però

sottolineare il ripetersi del tipo iconografico della

figura maschile vestita di himation e seduta su un trono di roccia ben sagomato nell'ambiente artistico occidentale. Così, riguardo la nostra scultura, nella mancanza di più puntuali termini di comparazione e in considerazione della indiscutibile importanza del culto ctonio, risulta oltremodo suggestiva la presenza nell'area sacra agrigentina dellimmagine di un personaggio divino che condivide la sfera mitico-rituale demetriaca®, Resta in ultimo da definire il luogo di fabbrica di questa creazione artistica. Si sa che il problema dell'esistenza di una plastica locale in marmo in Occidente è stato a lungo dibattuto dagli studiosi che hanno sostenuto tesi Fig. 5. Pinax da Locri (da LIMC II, 2).

contrapposte! Il principale argomento a favore dell'importa-

zione è considerato l'assenza di marmo locale in Sicilia ed Italia meridionale. Tuttavia questa circostanza non fu certamente un ostacolo allo sviluppo delle officine di scultori che hanno realizzato in Occidente grandiose opere architettoniche lavorando la pietra locale sin dalla fine del VI sec. a.C. Certamente, il marmo a grana cristallina della nostra scultura potrebbe indicare una provenienza dall'Oriente greco ed anche le piccole dimensioni farebbero pensare che possa essere stata trasportata con facilità dalla madrepatria insieme ad altri manufatti. Tuttavia, nonostante la nostra statuetta non trovi diretti riscontri iconografici con la locale produzione coroplastica coeva, dal punto di vista tecnico-stilistico, essa appare in stretta dipendenza dall'artigianato artistico che si è sviluppato in Occidente. L'espressione artistica e formale, l'organicità e la forza plastica della struttura sembrano potersi giudicare propri della corrente del tardo arcaismo. La nostra scultura è il frutto di una convergenza di correnti culturali che risentono di influssi ionici ed attici sapientemente rielaborati nella compresenza di valori plastici e disegnativi. In Occidente, nel periodo tardo arcaico, l'influsso attico subentrò alle influenze ioniche che avevano dominato in tutto il VI sec. a.C. Quest'influsso si manifestò soprattutto nella ricerca del volume, senza però escludere la delicatezza della superficie. Si tratta indubbiamente di un'opera fortemente pervasa di spirito greco che rivela la presenza operante di artigiani colti, la cui esistenza è ampiamente documentata in Sicilia dalle sculture in pietra che decoravano gli edifici sacri delle principali città. In questo particolare periodo la creatività degli artisti occidentali consentì di elaborare nuove forme iniziando quel processo di allontanamento dai modi arcaici che avrà piena espressione in età severa e sfocerà in uno stile originale. Pertanto, per la realizzazione della nostra scultura, l'autore è riuscito a concretizzare l'eleganza propriamente ionica in un naturalismo solido ed equilibrato. I caratteri di stile e cronologia che abbiamo osservato, la costruzione della figura, l'interesse per i volumi e la forza plastica, gli elementi fusi senza contrasti, ci inducono a ritenere la piccola scultura il prodotto di un ambiente artistico di alto livello. II valore dell'opera non appare certamente sminui136

to dalla possibilità che essa sia la riproduzione in scala ridotta di una scultura di ben maggiori dimensioni. Le maestranze che hanno eseguito questa piccola scultura hanno dimostrato di possedere una estrema sensibilità e duttilità artistica come rilevato a proposito delle piccole peplophoroi selimuntine ἢ.

Com'è noto, il settore occidentale della collina dei templi di Agrigento consacrato alle divinità plesso degli edifici sacri fu inserito in un regolare schema urbanistico a strade ortogonali e l'area assunse un aspetto monumentale ?. Si potrebbe immaginare, dunque, che questo sia il periodo in cui la piccola scultura fu dedicata

ctonie ha vissuto tra la fine del VI e il V sec. a.C. il suo più intenso momento di vita, quando il com-

nel santuario insieme agli altri anathemata.

NOTE * Desidero esprimere profonda gratitudine al prof. Ernesto De Miro e al Soprintendente BBCCAA di Agrigento, dott.ssa Graziella Fiorentini, per avermi offerto l'opportunità di studiare e pubblicare la statuetta qui presentata. Il mio ringraziamento va inoltre ai sigg. Pitrone e Nocito, autori delle foto che qui pubblico su concessione della Soprintendenza medesima; ringraio anche il personale del Restauro della Soprintendenza e del Museo Archeologico Regionale di Agrigento, perla disponibilità ela cortesia usata nei miei riguardi. Le foto della tav. 2 sono state realizzate da chi scrive. * Numero d'inventario: AG/S 6865. Dimensioni: al. residua 16 cm; alt. seggio 9,1 cm; larg. seggio 8,1 cm. Materiale c tecnica: marmo bianco cristallino a struttura granulare con tracce di minerali micacei di colore verdastro. Lisciatura accurata; in alcuni punti si intravede ancora il lavoro di raspa. Stato di conservazione: la figura è priva della parte superiore del busto; mancano i piedi e il plinto su cui essi poggiavano; presenta piccole abrasioni superficiali; tracce di fuliggine; ossidazione diffusa per la presenza d'acqua nell'ambito del sedimento; impronte organiche di limivori ? I rinvenimento avvenne durante la campagna di scavo del 1971 condotta dal prof. Ernesto De Miro. Lo studioso, riprendendo le prime ricerche effettuate nell'area più da P. Giurzo, Topografia storica di Agrigento antica. Note ed appunti (Atti dell'Accademia di scienze, lettere e arti di Agrigento, 1948-52), Agrigento 1953, p.9 ss, ne ha approfondito l'indagine con suc. cessive campagne di scavo. Cfr. E. De Mino, Recenti scavi nell'area del santuario delle divinità ctonie ad Agrigento, in SicArch, 5, 1969, p. 5 ss; Ip, Attività della Sopritendenza alle Antichità della Sicilia centro-meridionale negli anni 1968-72, in Kokalos, XVIILXIX, 1972-73, p. 228 ss. Ip. Attività della Sopritendenza alle Antichità della Sicilia centro-meridionale negli anni 1972-76, in Kokalos, XXII-XXII, 1976-77, II, 1, p. 424 ss. c ancora ID., Nuovi santuari ad Agrigento e Sabucina, inIl tempio greco in Sicilia. Architettura e culti (Ati della I riunione scientifica della Scuola di perfezionamento in Archeologia classica dell'Università di Catania), Catania 1976, pp. 94-100; Ip. La casa greca in Sicilia, in Miscellanea di studi in onore di E. Manni, II, Roma 1979, p. 709 ss. Tali studi trovano la loro compiuta realizzazione nella recentissima monografia, Ip., Agrigento, I Santuari urbani. L'area sacra tra Porta V e il Tempio di Zeus", Plilias charin, Roma 2000, dove la statuetta è pubblicata dalla sottoscritta nel catalogo dei materiali in forma preliminare, p. 301, n° 2141, tav. XLIV. ? Cfr. la statuetta in trono da Garaguso in M Sestizai BerTaRELLI, Il tempietto e la stipe votiva di Garaguso, in ASMG II, 1958, pp. 67-78, tav. XXIV. Cfr. i frammenti di figure femminili panneggiate da Selinunte in V. Tusa, La scultura in pietra a Selinunte, Palermo 1983, n. 31, 32, 33, 35, 36, tav, 41-43, p. 186. * Cfr. J. Boars, Greek sculpture. The arcaic period, London 1978, figg, 94-95. * Chr ibid, fig. 257. * Cfr. H. Paywe-C. Mackworts YOUNG, Archaic Marble Sculpture from the Acropolis, London 1936, tav. 102 e p. 176. Ὁ Cfr. ibid. tav. 118, 1-5, p. 177 e p. 144. Per una breve descrizione del gruppo si veda ancheB. S. Ricowar, The arcaic st) te in greek sculpture, 1929, pp. 137-138. Per un'analisi più approfondita delle sculture si veda H. Scanapex, Die archaischen. si veda anche H. ὅλην, DokiMarmorbildwerke der Akropolis, 1939, pp. 207-212. Sul problema dell identificazione delle figure masia, in RA, 1, 1973, pp. 15-16. * Lo scriba 146 dell'Acropoli di Atene si conserva per un'altezza di 29,3 cm; cfr. H. Pavxe-C. Mackworr Yovxo, Archaic Marble Sculpture, cit, tav. 118,2 * Cfr. B. S. Ricoway, The arcaic style, cit, fig. 38-39. Anche nella letteratura antica l'abbigliamento di Dioniso è caratterizzato sin dall'età arcaica dal chitone lungo fino ai piedi, ad es. in Pausania, 5, 19, 6. 8 fp. J. D. Beazusy, The Development of Attic Black-Figure, Berkeley-Los Angeles 1951, pp. 81, 115. 5. Cfr. CVA taw. 11, 12, 13 e 28 (ABV 367, 94); CVA I tavv. 24, 25 (ABV 374, 192). * Cfr; una hydria con consesso di divinità, ABV 364, 52; si veda anche una oinochoe con Atena tra Dioniso ed Hermes, ABV 426, 20. Pindaro (Isthm. 7, 3-5) definisce il dio yahusugorov πάρεδρος Δαμάτερος. A questo proposito si veda B, MoREUX, Déméter et Dionysos dans la septiéme Istmiquede Pindare, în REG 83, 1970, pp. 1-14. ? Nella letteratura antica la componente ctonia del dio è messa in evidenza dal suo accostamento con Hades: cfr. He137

rakl, Diels Vorsokr:', 22 B 15; Clem. Alex. Protr I, 34, 4; Eymol. Magn. p. 406, 46. Sull'argomento cfr. H. Merzoss, Dionysos chthonin d'aprés les monuments figurés de le période classique, in BCH LXVII-LXIX, 1944-45, pp. 296-339. ?* Sull'argomento cfr. G. SrameNt Gasexao, Misteri e culti mistici di Demetra, Roma 1986, pp. 91-99; C. GIueFRÈ Scmmowa, Lo sposo di Persephone a Locri: tipologia e ideologia della coppia nell religiosità demetriaca, in QuadMess 2, 1986-87, Messina 1988, pp. 73-90. © Schol. Pind. ΟἹ. ΤΙ, 15. τι Schol. OL VI, 160; Plutarco Tirol. 8; Diodoro V 2, 3-4 © Sull'argomento cfr. J. Touran, Le rite nuptial de 'anakalypterion, in REA 42, 1940, pp. 350 ss. » Clr. ABV 328, 7; ABV 384, 25; ABV 267, 19; ARV 583, 1 ? Cf, ABV 368, 107. ? Cfr ABV 383, 12. » Cfr. P. E Anus, L'arte locrese nelle sue principali manifestazioni artigianali. Terrecotte, bronzi, vasi, arti minori, in Atti Taranto 1976, pp. 479-549, taw. LXX, 2; LXXI, 2; LXXIT; LXXIV, LXXV, 1:2. * Cfr. U, Srioo, Nuovi contributi allo studio di forme e tipi della coroplastica delle cità greche della Sicilia ionica e della Calabria meridionale, in Atti Taranto 1986, Taranto 1993, tav. XXVIII, 1 * Chr. P. E Anus, L'arte locrese, cit, pp. 527.528, tav. LXXV, 2. ? Hom. Π.1 457. 7 Aes. Erga 465; Aesch. Agam. 1386; Soph. Oed. Col. 1606. ? Si vedano le considerazioni di C. GiurrRÈ Scmona, Lo sposo di Persephone, ci., pp. 75-76 e 89-90. » Chr. V. Tusa, La scultura in pietra, cit, n. 13, p. 120 s. tave. 12, 15-16. » Per il culto di uno Zeus chthonio a Locri non lungi dal Persephoneion, cfr. Bassa Bacnasco, La stipe e le terrecotte di Zeus a Locri Epizefiri, in AANN., I Greci in Occidente. Santuari della Magna Grecia in Calabria, Napoli 1996, p. 55 >) Un quadro complessivo dell'atteggiamento della critica nei confronti della scultura in marmo in occidente, con bibliografia precedente è in S. Sermis, Idea dell'arte greca d'Occidente tra Otto e Novecento. Germania e Italia, in Atti Taranto 1988, pp. 135-176. Si veda anche il recente lavoro di R. Bri Pasoua, La scultura in marmo, inE. Limouis (ed.) 1 Greci in occidente Arte e Artigianato in Magna Grecia, Napoli 1996, 9 Cfr. V. Tusa, La scultura in pietra, cit. p. 186. ? Perla bibliografia relativa allarca, si veda supra nota 2,

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MARIA CACCAMO CALTABIANO MESSANA TYCHE/FORTUNA SULLE MONETE DELLA CITTÀ DELLO STRETTO

L'ultimo quarto del V sec. a.C. rappresenta per la Sicilia numismatica un periodo di grande fioritura artistica. La qualità stilistica dei coni realizzati dagli incisori siciliani, ritenuti veri e propri capolavori nella storia dell'arte antica , viene esaltata dalla presenza di numerose firme di maestri, che incidono il proprio nome sulla moneta. Famosi fra tutti gli artisti siracusani, che si cimentano principalmente nella visione frontale delle teste delle divinità?, e nella rappresentazione spaziale della quadriga in corsa, colta nei diversi momenti della gara*. La bellezza dei modelli suscita l'emulazione delle zecche isolane, e anche Messana si impegna nel rinnovamento delle tipologie e della qualità artistica dei suoi coni, pur rimanendo sostanzialmente legata ad una visione statica della biga di mule, che impedisce l'arditezza delle rappresentazioni del veicolo in corsa sperimentate dalle altre città siciliane. MESSANA AURIGA DI UNA PARIGLIA DI MULE

Intorno al 425 a.C. la consueta tipologia della biga di mule di Messana era stata rinnovata sostituendo all'auriga seduto su un carro da corsa, un auriga eretto a guida di un piccolo carro trionfale‘. Qualche anno più tardi la trasformazione era divenuta più radicale e al guidatore maschile era subentrata la personificazione stessa della città, chiaramente identificata come MEZZANA dal nome che l'accompagna? (Tav. I, 1-2a). Sui coni iniziali la divinità cittadina si presenta associata, al rovescio, a un giovane Pan seduto su roccia (Tav. I, 2b), sostituito ben presto dall’ immagine tradizionale della lepre in corsa*. Con Messana alla guida della biga di mule si sperimentano nuove visioni spaziali che facendo ruotare il carro di tre quarti verso sinistra, rendono visibili entrambi gli animali, e donano -- in una visione prospettica - volume alla figura dell'auriga e profondità alla scena; soltanto in un caso l'incisore si cimenta nella rappresentazione del veicolo al galoppo, tipica delle coeve quadrighe che caratterizzano le emissioni isolane?. L'introduzione di un'auriga femminile a guida del cocchio di Messana non rappresenta in Sicilia un caso isolato. Aitna per prima, nell'isolata emissione realizzata dal dinomenide Hiaron, aveva posto alla guida della quadriga cittadina la dea Atena in unione sul rovescio con lo Zeus Aitnaios*. Sulle emissioni che segnano la ripresa verso il 460 a.C. dell'attività della zecca di Selinunte era comparsa Artemide quale heniochos della quadriga occupata da Apollo, che l'affianca saettando con l'arco? (Tav. II, 10), Intorno al 450 a.C., la città indigena di Henna aveva fatto condurre dalla dea Demetra la quadriga presente al diritto delle sue piccole litre in argento ", e, quasi contemporaneamente alla comparsa nella città dello Stretto della personificazione di Messana, si erano mostrate alla guida della quadriga la dea Atena sui tetradrammi di Camarina ' (Tav. II, 11), Demetra su quelli di Segesta” (Tav. I, 8), e la Nike sui tetradrammi coniati sia a Gela ? (Tav. II, 13) che ad Acragas"* (Tav. II, 12). Per ultima, dopo il 413 a.C., la dea Persephone con la fiaccola in mano compariva quale auriga su un gruppo di tetradrammi siracusani " (Tav. Il, 14) Rispetto alla natura palesemente divina delle altre conduttrici, l'originalità di Messana sembrerebbe consistere nell'aver affidato il ruolo di auriga a un'entità meno importante rispetto ad Atena, a Demetra o a Persephone, divinità sicuramente fra le più rilevanti del pantheon greco. In realtà sotto le vesti di Messana, come sottolineano sia la sua connessione con il dio Pan, presente sul rovescio delle prime monete, che gli importanti attributi che le si accompagnano anche in seguito, sembra 139

celarsi una personalità divina di primo piano che -- in assenza di specifiche testimonianze letterarie ~ gli elementi iconografici e il confronto con altre realtà meglio documentate concorrono a ricostruire.

LE PERSONIFICAZIONI DELLE DEE CITTADINE

Le personificazioni delle Città, protettrici soprannaturali e loro incarnazioni divinizzate, a livello di tipologia monetale si caratterizzano come un fenomeno tipicamente magno-greco e siciliano ". A differenza di quanto si suole ritenere da parte degli studiosi, che - soprattutto a livello storicoreligioso - hanno preso in considerazione quasi esclusivamente il notevole incremento e la diffusione territoriale assunti in età ellenistica dalle personificazioni delle Città sotto forma di Tyche poleos", il documento monetale dimostra come le prime attestazioni rimontino già alla fine dell'età arcaica. Il fatto stesso che il nome delle città coincida con quello delle personificazioni presenti sulle monete, pone il problema se l'esistenza di un'entità divina, strettamente correlata con la polis e sua diretta emanazione, fosse già presente nel patrimonio culturale dei colonizzatori greci al momento dell'impositio nominis alle città che andavano fondando. In ogni caso la comparsa sia in Sicilia che nell'Italia Meridionale di personificazioni di divinità cittadine sulle monete, il documento più uffi ciale e di maggiore diffusione ed impatto visivo realizzato dalle poleis greche, ne sottolinea l'alto livello di funzione rappresentativa, e di conseguenza l'importanza e il ruolo - al tempo stesso sacrale e politico - che ad esse veniva attribuito gia nel V sec. a.C. Le città di Cuma in Campania", Velia in Lucania e Terina? nel Bruttium, intorno al 480 a.C. presentano sulle proprie monete le immagini delle entità soprannaturali da cui hanno preso nome: Kyme?! (Tav. II, 15), Hycle? (Tav. II, 16) e Terina? (Tav. II, 17), ciascuna delle quali è identificata

sulla moneta dal nome che le è stato inciso accanto. In Sicilia è Segesta la prima a rappresentare al diritto dei suoi nomoi (480 a.C. ca.) la testa della progenitrice Aigeste?, adottando un criterio che si manterrà invariato fin quasi alla fine del V sec. a.C. Qualche decennio più tardi la città di Himera identifica la sua “ninfa” eponima nella bellissima figura stante con himation dispiegato dietro le spalle? (Tav. II, 18); in seguito sostituisce a tale immagine la ninfa nell'atto di sacrificare presso un altare, all'interno di un temenos in cui scorre la fonte alle cui acque si bagna un satiro?” (Tav. II, 19-20). Ultima a comparire, sulla monetazione della città cui ha dato i natali, è Camarina (415 a.C. ca): trasportata sul dorso di un cigno, con il velo che le si gonfia ad arco sul capo, ella vola verso le acque dell'amato Hipparis per unirsi allo sposo” (Tav. II, 21); la sua funzione di “nutrice” del popolo camarinese era già stata esaltata da Pindaro sessant'anni prima in un verso famoso della V Olimpical. Nel decennio 430-420 a.C. anche i Cirenei, nel monumentale gruppo scultoreo dedicato a Delfi, avevano posto Kyrene a guida della quadriga del re Batto incoronato da Lybia”!: nella tradizione locale la “ninfa” era stata regina della Libia e madre di Aristeo che aveva generato da Apollo”. Il caso cirenaico si presenta particolarmente interessante dal momento che la rappresentazione della dea cittadina alla guida della quadriga, appare concettualmente la più prossima al tipo monetale di Messana quale auriga della biga di mule. Al tempo stesso, attraverso il ruolo di Kyrene quale regina del territorio e progenitrice del popolo cireneo, è possibile recuperare - e quindi valorizzare ~ il ruolo giocato dalla “ninfa” Kyrene in ambito politico in relazione al potere monarchico dei Battiadi. L'esempio concorre a gettare nuova luce sulla funzione legittimatrice che la dea cittadina esercitava in relazione al potere del Capo, richiamando alla mente l'esempio più famoso della promozione del culto di Atena da parte di Pisistrato. Espulso da Atene, il tiranno era ritornato in città accompagnato da araldi che sollecitavano gli Ateniesi ad accoglierlo con onore perché la dea lo aveva onorato sopra tutti gli uomini e gli aveva affidato la sua cittadella La medesima valenza politica legata al culto della dea poliade sembra emergere agli inizi del V sec. a.C. anche dal potenziamento della figura di Kyme ad opera di Aristodemo il Malaco, assunto il potere nella città campana verso il 504 a.C.*. Kyme è senza dubbio la figura pi 140

matica della complessa realtà ideologica correlata con la divinità cittadina in età arcaica. La sua natura materna, oltre ad essere richiamata dal significato di “Gravida”, insito nel suo nome che la designa come “colei che è ripiena del frutto del concepimento” *, viene esaltata dal simbolo della concl glia che le si accompagna costantemente al rovescio delle monete di Cuma: un mitilo che nell'antichità era noto con un nome analogo a quello di Kyme, kymion”. Altro attributo di Kyme, frequentemente presente sulla moneta cumana, è il seme*, il cui simbolismo allude ai ritmi della vegetazione, e sintetizza l'alternanza dei cicli di vita e di morte: della vita che si svolge nel mondo sotterraneo e di quella che si manifesta alla luce del giorno. Ne emerge il profilo di una divinità della natura feconda, datrice di vita in quanto essa stessa madre, legata col mondo ctonio come ribadiscono sulle monete cumane diversi simboli, da quello del Cerbero a quello del serpente, dell'ippocampo e dell'anatra®. Essa appare legata da un rapporto "materno" con Parthenope, “colei che ha l'aspetto di fanciulla”, il cui nome corrisponde storicamente all'antica denominazione di Neapolis, e che richiama il rapporto esistente tra la colonia e la madrepatria Cuma, venendo a ricreare la coppia divina Madre/Figlia facilmente identificabili con Demetra e Kora‘, ANALOGIE TRA LA DEA CITTADINA E FORTUNA

La comprensione dell'importanza e del ruolo delle dee cittadine nella grecità coloniale d'occidenstudiate, che vanno sotto il nome di Fortunae, l'equivalente latino - anche se per grandi linee — della figura greca di Tyche. Gli studi di J. Champeaux®, che hanno preso le mosse dall'esame del culto della Fortuna Praenestina, ci hanno sensibilizzati alla concezione di una divinità legata alle sorti della città, da cui dipendevano a un tempo la nascita e la crescita umana e della natura, il destino personale, la fortuna e la prosperità dell'intera cittadinanza Il più antico documento archeologico della presenza di Fortuna a Praeneste è fornito dai fregi delle sime fittili dei templi presso S. Rocco e S. Lucia databili già alla fine del VI sec. a.C. ^, poco prima della comparsa delle divinità cittadine sui documenti monetali. In esse la dea appare significati vamente in qualità di auriga e compagna sul carro del trionfatore, con una funzione legittimatrice del potere del Capo, analoga a quella che abbiamo vista svolta da Atena nei confronti di Pisistrato o, più tardi, dalla figura di Kyrene in relazione al re Batto. Nella poliedrica natura di Fortuna è possibile riconoscere i tratti della Dea madre di tipo mediterraneo, signora sovrana della fecondità primordiale e dei segreti del destino, immagine prodigiosa e potente della Terra Madre. Quale divinità che vegliava sulla fertilità agraria e sul ciclo solare, Fortuna poteva vigilare anche sulla crescita e la vita fisiologica dell'uomo, presiedendo in particolare ai passaggi delle classi d'età, che consistevano per i giovani nel superare le tappe della pubertà e diventare adulti, dopo essersi trasformati nel passaggio precedente da pueri in iuvenes ^. 1l simbolismo monetale che si sviluppa a Messana in relazione alla divinità cittadina sembra presentare interessanti parallelismi con le caratteristiche ora ricordate della Fortuna italica. Particolarmente significativo è innanzitutto l'abbinamento della dea Messana con l'immagine del giovane Pan‘, Il dio viene qui rappresentato in figura intera e con aspetto giovanile, mentre sulle precedenti emissioni della città era comparsa soltanto la sua testa barbuta, di divinità matura ornata di robuste corna caprine**. Caratterizzato da sembianze efebiche Pan siede su una roccia: egli afferra con la destra una lepre ritta innanzi a lui sulle zampe posteriori, mentre nella sinistra stringe il lagobolon, il bastone ricurvo impiegato nella caccia all'animale (Tav. I, 2b). Viene qui rappresentato il momento finale della caccia: dopo una lunga corsa, che si è conclusa con la cattura dell'animale, il dio siede stanco sulla roccia, tenendo ben stretta la lepre che cerca ancora di sfuggirgli piegando il capo all te già in età arcaica, è agevolata dal confronto con analoghe figure italiche, meglio documentate e

dietro.

La caccia alla lepre era una pratica venatoria riservata ai più giovani, che all'aiuto del cane ma

soprattutto alla velocità delle loro gambe e alla precisione del lancio del bastone dovevano il buon

esito del loro impegno”. La caccia diventava di conseguenza una specie di prova iniziatica, in cui il

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giovane poteva dimostrare la sua intraprendenza, insieme alla resistenza fisica e alla combattività del carattere, idonee a segnare il suo passaggio di età. Il mutamento giovanile dell'iconografia del dio a Messana potrebbe di conseguenza essere stato determinato dal ruolo che Pan veniva ad assumere accanto alla grande dea cittadina, quale modello emblematico e protagonista di un momento di grande portata sociale, quale era quello del passaggio dei giovani alla loro maggiore età, che comportava l'assunzione di tutti i compiti e delle responsabilità tipiche dei cittadini di pieno diritto. Il dio, d'altro canto, rivestiva un ruolo importante anche in campo militare: col terrore che il suo urlo e la sua sola presenza erano in grado di incutere nei nemici, la sua immagine assumeva un valore fortemente simbolico dell'audacia e del coraggio che la città auspicava per i suoi giovani. L'aspetto più interessante, e perciò tanto più prezioso nella sua funzione di indicatore storico, è che nell'ampia casistica concernente l'iconografia di Pan, l'abbinamento proposto dalle monete di Messana rimane apparentemente isolato. Nella maggior parte dei documenti pervenuti il dio si trova, infatti, rappresentato da solo o in contesti di tipo dionisiaco^*. Più rare sono le scene che lo ritraggono in unione con una divinità femminile, Afrodite o Persephone, all'anodos delle quali Pan è chiamato ad essere partecipe spettatore. Riconducibili a pochi esempi sono, invece, i casi in cui il dio viene raffigurato al servizio di una grande dea, Demetra o Kybele*. Nell'Italia meridionale, agli inizi del IV sec. a.C., la città di Pandosia - su un'emissione di stateri in argento e relativa frazione in bronzo - associa il giovane Pan, rappresentato nelle vesti di eroico cacciatore accompagnato da cani e armato di due lance, alla bella testa frontale di Hera® (Tav. II, 22). Per quanto l'esempio sia unico i recenti studi condotti sulla figura di Hera e sulle caratteristiche che il suo culto viene ad assumere localmente, hanno messo in luce come alla dea si accompagnasse spesso un giovane paredro nel ruolo di figlio, di compagno o di giovane servitore™. Non diversamente, dai primi tempi del suo culto, associato a Fortuna era un giovane dio, figli paredro o servitore della sua divinità, venerato spesso come dio fanciullo (puer), e raffigurato anche sotto i tratti di un Apollo imberbe dai lunghi capelli. Nell'accoppiare la dea Messana al giovane Pan la città dello Stretto seguiva, dunque, con ogni probabilità un esempio ben consolidato. LA DEA CITTADINA E PERSEPHONE

La zecca di Messana, dopo aver rappresentato Pan per intero, ne ripropone la sola testa în piccole immagini abbinate - sul rovescio dei tetradrammi - alla lepre in corsa, mentre al diritto — alla gi da del carro mulare — permane la divinità cittadina. Queste teste, caratterizzate da piccole corna sul. la fronte, sono tutte di bellezza apollinea (Tav. I, 3b-4) e appaiono simili alle teste coeve delle divi tà fluviali sulle monete di Gela o di Camarina**, L'intenzione evidente dei diversi incisori sembra quella di esaltare nella bellezza e giovinezza del dio Pan il principio vivificatore e rigeneratore della natura. Coerentemente con tale concetto di rinascita e di fecondità prevalgono sulle monete in cui la biga mulare è condotta da MEZZANA le simbologie di tipo agrario associate all'immagine della lepre. La spiga di grano* (Tav. I, 5), la spiga in unione con la colomba in volo

(Tav. I, 6), il fascio di tre o

quattro spighe * (Tav. I, 7) sono immagini che richiamano alla mente gli attributi peculiari di Perse-

phone, di Demetra, o di Afrodite, le dee che detengono i segreti della fertilità agraria e del rinnovamento primaverile della vegetazione. Su uno dei più famosi pinakes di Locri Persephone siede in trono accanto ad Hades, il signore degli Inferi, tenendo in mano tre spighe di grano? (Tav. I, 9). Nel mito Persephone è stata rapita dal dio dell'Oltretomba che l'ha costretta a vivere sei mesi nell'oscurità, concedendole di trascorrere la rimanente parte dell'anno sulla terra, dove al suo apparire torna a rifiorire la natura. Ella diviene quindi immagine del perpetuo ricominciamento, espressione di una concezione ciclica del divenire, che grazie all'idea di una morte e di una rinascita senza fine rappresenta anche per l'uomo un segno di speranza in una vita nuova La pertinenza del simbolo delle tre spighe di grano sia alla dea di Messana che a Persephone, ol142

tre ad innalzare Messana su un piano analogo a quello di Persephone, ci sembra evidenzi come le rallelismo che è stato già evidenziato dagli studiosi anche in altri campi tra Persephone e la Fortuna Praenestina®. L'appellativo di Primigenia (Primogenita), tipico di Fortuna, equivale nel significato al

competenze e le funzioni agrarie siano comuni ad entrambe, con ciò richiamando un più ampio pa-

termine greco Protogonos, epiteto rituale di Persephone/Kore nei Misteri celebrati in onore di Demetra e Kore”. L'appellativo esprime l’essenza cosmica della Giovane Figlia Primordiale, quale era ap-

punto intesa Persephone, e il senso profondo della sua relazione con la Madre Demetra, di cui condivide pienamente la natura divina, in quanto Figlia originaria della Madre originaria. MESSANA DEA DEI SOLSTIZI?

Allorché la città di Messana sostituisce sui tetradrammi alla visione della biga ferma di mule quella del veicolo al galoppo, muta nell’area di esergo anche il simbolo, rappresentato non più da due delfini affrontati ma da una spiga®, quasi a sottolineare un mutamento di situazione rispetto a quella che si era voluta rappresentare in precedenza. Analoga intenzionalità, questa volta in relazione alla scelta dello schema iconico, è evidente ~ a distanza di un secolo - allorché la città dello Stretto ripropone la testa di Messana sui bronzi emessi nel penultimo decennio del IV sec. a.C., nella prima età agatoclea*!, Anche in questo caso la dea Messana viene associata a una biga “ferma” di mule, mentre nel medesimo periodo i tetradrammi di Agatocle fanno rivivere il tema della quadriga “al galoppo" dell'epoca dei maestri firmanti®. L'intenzionalità della scelta iconica di una biga "ferma" potrebbe forse spiegarsi considerando come la divinità cittadina, ad analogia di Fortuna, oltre a presiedere ai vari momenti di passaggio a carattere sociale, come quello dei giovani alle classi superiori di età o quello degli schiavi allo stato libero, avesse soprattutto un carattere cosmico che la poneva in stretta relazione col solstizio d'estate. Essa avrebbe contribuito a regolare il corso e il decorso del Sole, aiutando l'astro a superare il difficile momento in cui sembrava dovesse rimanere fermo nel cielo. Il culto di Fors Fortuna a Roma, celebrato il 24 giugno, era quello di una divinità cosmica legata alle acque e che presiedeva al solstizio estivo, 0 ad entrambi i solstizi, guardiana degli equilibri cosmici e sovrana del ciclo solare nella sua intierezza*.

NATURA DELLA DEA CITTADINA

J. Champeaux“ ha ritenuto che già nel primo terzo del V sec. a.C. sia a Siracusa che ad Himera ‘Tyche fosse giunta alla sua esistenza religiosa, elemento che - secondo la studiosa — confermerebbe la priorità della Grecia d'Occidente sulla Grecia propria. Più di recente F. M. Pairault Massa ha evidenziato come proprio nel periodo arcaico, in coincidenza con l'importazione dall'oriente, da Cipro e dall'Egitto, degli oggetti che costituiscono i corredi delle tombe principesche del Lazio e dell'Etruria, si definiscano il concetto e l'ideologia incarnati nella dea Fortuna. La forte persistenza di elementi mediterranei anche in età greca, rinvigoriti dall'apporto delle grandi dee dell'oriente preellenico, potrebbe avere agevolato l'affermazione delle divinità cittadine in Sicilia e in Italia Meridionale, ancor prima del consolidarsi di quei “culti emporici della costa laziale e dell'Etruria che si riferiscono a divinità spesso assimilate a Fortuna e sono quasi sempre trasposi zioni o interpretazioni dell'Afrodite orientale e dei suoi culti" *. L'ampiezza dell’ evidence numismatica, relativa alle personificazioni delle città già nella prima metà del V sec. a.C., pone il problema se tale data sia da innalzare e da riportare forse alle origini stesse delle città, se teniamo conto del genere femminile delle denominazioni delle poleis, e dello stadio avanzato dei caratteri del loro culto all'epoca in cui disponiamo già della documentazione monetale. Di queste figure di dee delle città comunemente chiamate “ninfe”, che alcuni frustuli di tradi143

zione definiscono regine e protettrici delle città che da loro hanno preso nome, alcuni storici delle religioni hanno evidenziato la dipendenza dalla figura orientale di Afrodite/Astarte, dea della fertilità che governava i ritmi della natura e proteggeva la fecondità umana, ed era al tempo stesso signora e patrona del territorio che ella stessa era in grado di difendere‘. Altri ritengono piuttosto che Afrodite sarebbe stata la dea che i Calcidesi avrebbero sovrapposto alla Gran Madre indigena, preesistente all'attività colonizzatrice dei Greci". Le due ipotesi probabilmente si integrano a vicenda, lasciando intravedere la possibilità di continui apporti culturali dall'oriente” e il costante arricchimento di tradizioni e contenuti che i Greci avevano forse trovato preesistenti al loro arrivo. Di Himera è certo suggestivo notare - a riprova dell'identità della divinità che si cela sotto le vesti della ninfa, nonché dell'antichità del suo culto - come il nome sembri un appellativo derivato da una delle funzioni tipiche di Afrodite, quella di suscitare negli esseri viventi ’himeros. Il desiderio amoroso era considerato causa-prima di ogni processo generativo e vitale e del perpetuo rinnovarsi” dell'esistenza, in un divenire ciclico di cui non si conosceva l'inizio e la fine, e al quale presiedeva Tyche/Fortuna con il suo instancabile corso. Non a caso, ad Himera, uno dei simboli che si staglia nel campo dei tetradrammi, accanto alla figura sacrificante della dea cittadina, è proprio la ruota immagine simbolica del ciclico divenire? (Tav. Il 20). Il mondo su cui regna la dea della città di Messana è dunque quello del cambiamento, simboleggiato dal carro che ella guida, un veicolo mulare identificabile con l'antico carro agricolo, utilizzato nei rituali del matrimonio e della morte, nei riti magici di fertilità e di fecondità”, immagine di un viaggio che è beneaugurale peri destini della città e che si identifica con l'eterno fluire della vita stessa. NOTE * Cfr. S. Gargarro, II rilievo monetale tra il VI e il IV secolo a.C., G. Pucusse CarnareLit (ed), Sikanie, Milano 1985, pp. 269.275, ? KP. Eananr, The Development of the Facing Head Motifon Greek Coins and its Relation to Classical Art, New YorkLondon 1979. Per una valutazione storica delle influenze iconografiche esercitate dai modelli siracusani in ambito orientale vd. M. Caccamo Cattasiano, Tipi monetali siracusani in Asia Minore, in G. Rizza (ed. Sicilia e Anatolia. Dalla preistoria all'età ellenistica, Catania 1996, pp. 103-114; Ean., Monetazione e circolazione monetaria, in La Magna Greciae l'Oriente Mediterraneo fino all'età classica, Atti XXXIX Convegno di Studi sulla Magna Grecia 1999, Taranto 2000, pp. 291-328. ? Cfr. CC. Verurur, Chariot Groups in Fith-Century Greek Sculpture, in JHS 75-76, 1955-1956, pp. 104-113; M. Caccano Cautasiano, I decadrammi di Euainetos e Kimon per una spedizione navale in Oriente, in Studi perL. Breglia, 1, suppl. al nr. 4 BNumRoma 1987, pp. 119-137. * M. Caccauo Catasiano, La monetazione di Messana. Con le emissioni di Rhegion dell'età della tirannide, AMuGS XII, Berlin-New York 1993, pp. 96-100. * Ibidem, pp. 101-103, 279-287 nrr. 508-539. Vd. anche M. Caccuto CaLtaniano, in Lexicon Iconographicum Mythologiae Classicae (= LIMC), VI, Zürich-München 1992, . v. Messana p. 558. * Ibidem, pp. 103-106 ner. 508-509, vd. anche tav. 84 nr.1. Π commento alle pp. 103-106. ? Ibidem, pp. 118-120,123-124, 295-305 tavv. 87-88 nrr. 603-630. * CM. Keany, Archaic and Classical Greek Coinage (= ACGC), Oxford 1976, p. 212 tav. 49 nr. 837. Vd. C. BosunxcER, Hieron's Aitna und das Hieroneion, in ING 18, 1968, pp. 67-98. * GE. Rizzo, Monete greche della Sicilia, (» MGS), Roma 1949, tav. XXXI nrr-13-14; SNG Copenhagen, The Royal Collection of Coins and Medals. Danish National Museum I: Italy-Sicily (= SNG Copenhagen I), Copenhagen (1942) rist.1981, nrr. 597-599; SNG New York, The Collection of the American Numismatic Society, Part 4: Sicily 2 (Galaria-Styella)( = SNG ANS 4), New York 1977, nir. 688-692; SNG Paris, Bibliothèque Nationale Cabinet des Médailles. Collection Jean et Marie Delepierre (= SNG Delepierre), Paris 1983, ne. 605-609 ? G.K. Jenkis, The Coinage of Enna, Galaria, Piakos, Imachara, Kephaloidion and Longane, in Le emissioni dei centri si cul fino all'epoca di Timoleonte e i loro rapporti con la monetazione delle colonie greche di Sicilia (Atti del IV Convegno Napoli 1973), Roma 1975, pp. 77-103 (in partic. pp. 77.83), tav. IV, af. © Ὁ, WasTERMARK-K. Jexoxs, The Coinage of Kamarina, London 1980, pp. 43-50, 176-196 nrr. 130-157. 5. P. Lapenes, Die Teiradrachmenprágung von Segesta, München 1910, pp. 45-52; G.E. Rizzo, MGS, tav. LXI, nrr. 18-21; L. Μαιρενβεμο, Kimon in the Manner of Segesta, in A. Cann — G. Le Ripex (edd), Actes du Ville Congrès International de Numi smatique, New York-Washington 1973, I, Paris-Bale 1976, pp. 113-121; SNG G.B. III. The Lockett Collection,II, Part2: Sicily. 144

Thrace (= SNG Lockett III, 2) London 1939, nr. 855; SNG G.B. IV Cambridge. Fitzwilliam Museum, Leake and General Collection, IV Part2: Sicily Thrace (= SNG Fitzwilliam 2), London (1947) rst. 1972, nr. 1148, Ὁ G. K. JENKINS, The Coinage of Gela, AMuGS II, Berlin 1970, pp. 255-257 nrr. 454-462, pp. 265-266 nr. 483, p. 268 nr. 487. ^ GE. Rizzo, MGS, tav. HL, nrr. 3.5. 5. SNG New York. The Collection of the American Numismatic Society, Part 5: Sicily 3 (Syracuse-Siceliotes) (= SNG ANS 5), New York 1988, nrr. 276-280; G.E. Rizzo, MGS, tav. XLIII nrr.13-15, 20-21 ?* L'osservazione era già stata formulata da M. Guarpucci, Epigrafia Greca, IL, Roma 1969, pp. 628-630. ? L. Vituaro, in LIMC VIII, Zürich-Düsseldorf 1997, s. v. Tychepp. 115-125. Pur rivolgendo maggiore attenzione alla Tyche di età ellenistica lo studioso nota come Tyche condivida diversi attributi con figure divine come Afrodite, Artemide, Demetra o Cibele, ma anche con numerose personificazioni di città che si confondono spesso con la Tyche locale. ? NK. Rorren, Campanian Coinages, 475-380 B.C., Edinburgh 1979, pp. 124-125 ner. 22-23 (gruppo 3); p. 125 nrr. 25-27 (gruppo 4); p. 126 nrr. 32-43 (gruppo 6). La cronologia proposta dallo studioso è degli anni 470-460/55 a.C.; per una data precedente, del 480 a.C, dettata da motivi metrologici, iconografici e storici vd. M. Caccamo Casramano, Kyme Enkymon: riflesioni storiche sulla tipologia simbologia e cronologia della monetazione cumana, in ArchStMess XXX, 1979, pp. 19-56, in part. p.48 ss ? RT. Wüzuaus, The Coinage of Velia, London 1992, pp. 20-21. Per un tentativo interpretativo dell'identità della divinità femminile velina vd. P. Eon, Della Persephone sullo statere velino e del suo incisore, in RivItNum 51, 1949, pp. 3-18. ? CM. Krasy, ACGC, pp. 178-179 tav. 41, ner. 707-717; SNG Copenhagen I, nr. 1994. ? AG. Mckay, in LIMC VI, Zürich-München 1992, s.v. Kyme I pp. 162-163. » LL Roncon, La ninfa Hyele, in AtriAcPatav 95, 1982/83, pp. 65-72; M. Caccamo Ca.tasiaxo, in LIMC V, Zürich-München. 1990, s.v. Hyele pp. 553-554. 5. M. Caccuto Ccramuso, in LIMC VII, Zürich-München 1994, s. v. Terina pp. 892-893. Circa la pertinenza delle ali, che caratterizzano la personificazione di Terina, a una Tyche vd. L. Vitae, in LIMC VIIIcit, p. 117; ma si ricordi che esistono. anche attestazioni di divinità femminili (quale Atena) con le ali (P. DemARGNE, in LIMC I, Zürich-München 1984, s. v. Athena p. 1019) e viceversa anche quelle di Nikai aptere (A. Gourax - VouriA, in LIMC VI, Zürich München 1992, s. v. Nike,p. 881 mir. 370-376e p. 902). ? GE. Rizzo, MGS, tav. LXI nr.18; SNG Lockett II, 2, nr. 851-853; SNG Fitzwilliam II, rx. 1134-1142; SNG ANS 4, nr. 615-622; SNG Copenhagen 1, nrr. 570-574; SNG Agrigento, Museo Archeologico Regionale (= SNG Agrigento), Roma-Pisa 1999, ner. 570.571. % C, Anwoo Buucci, in LIMC 1, Zürich-München 1981, s.v. Aigeste pp. 355-357. In particolare, si è talvolta riconosciuta Demetra o Persephone nell'auriga posta alla guida dei tetradrammi (ibidem, p. 356 nrr. 7-8, vol. I, 2 tav. 273), cfr. L. Bescin, in LIMC IV, Zürich-München 1988, s. v. Demeter pp. 857 e 889, che ritiene che nell'iconografia della dea sul carro possa sopravvivere una tradizione arcaica. » C. AgxoLp Bivccin, La monetazione d'argento di Himera classica. I tetradrammi, in NumAntCl XVII, 1988, pp. 85-100; ‘SNG ANS 5, ner. 1339-1340; SNG Agrigento, nz. 497. 7 SNG CopenhagenI, nr. 306; SNG ANS 4, nrr. 164-167. Vd. anche M. Caccamo Cavtasiaxo, in LIMC V, Zürich-München. 1990, s. v. Himera pp. 424-425. 73 U, WesreratucK. JENKINS, Kamarina.. cit, pp. 66-71, nrr. 78-79, 205 nrr. 158-166 (didrammi), nrr. 167-169 (dracme), arr. 170-174 (litre). Vd. anche M. Caccanto CALTASIANO, in LIMC V, Zürich-München 1990, s. v. Kamarina pp. 948-949. ? M. Caccamo Caczuimaso, in LIMC, V, Zürich-München 1990, s. v. Hipparis pp. 432-433; Eap., Immagini/parola, grammatica e sintassi di un lessico iconografico monetale, in La ‘parola’ elle immagini e delle forme di scrittura, Pelorias n. 1, Messina. 1998,pp. 67-69. » Pind. Olymp. 5,4. ? Paus, 10, 15, 6. L'opera viene attribuita dal Periegeta ad Amfione di Cnosso, che avrebbe lavorato ad Atene verso la metà del V sec. a. C. come scolaro di Prolikos, Paus. 6, 3, 5. M. Caccamo CattaBtaNo, Messana, cit., pp. 102-103. ? MA. Zacnou, in LIMC, VI, Zürich-München 1992, s. ν. Kyrenepp. 167-170. ? F, Ὁμαμουχ, Cyrine sous la monarchie des Battiades, Paris 1953, pp. 77-82, 126-127, 171-172, 275-277, 380-385. Lo studioso, tuttavia, non valorizza il ruolo di Kyrene nel consolidamento della monarchia dei Battiadi. % Herod. 1, 60, cfr. Arist Athen. Poli. 14,4. La stessa tipologia delle glaukes ateniesi con testa di Atenaal dirittoe civetta al rovescio, sia nel caso la loro introduzione sia stata opera di Pisistrato che, più verosimilmente, di Ippia ed Ipparco (sulla cronologia vd. C.M. Kraay, The Archaic Owls of Athens: Classification and Chronology, in NumChron 6, 16, 1956, pp. 43-68: 525 a.C; ID., ACGC, pp. 60-61; W. WaL1ace, The Early Coinages ofAthens and Euboia, in NumChron 7, 6, 1966, pp. 9-13: 510 a.C. E. Raven, Problems of the earliest Owls of Athens, in C. Kraay — K. Janis (ed ), Essays to St. Robinson, Oxford 1968, pp. 40-58), evidenzia l'importanza attribuita dai regimi tirannici ad una legittimazione del potere assicurata dalla divinità il cui nome coincideva con quello stesso della città. A proposito dell'ideologia politica dei Pisistratidivd. anche J. BoagDMAN, Herak: les, Peisistratos and Sons, in RA 1972, pp. 60-69 * Tramite il potenziamento del culto della dea (di cui era probabilmente il sacerdote, come lascerebbe intuire l'appella di raf-. vo di Malacos, molle’, ‘effeminato’, giustificato forse da un travestitismo di natura religiosa) Aristodemo contava forse forzare il proprio potere politico, M. Caccamo CaLtaBiaNo, Kyme Enkymon... ci. pp. 46-48; Fap., Aristodemo di Cuma e la reli gione nel potere de tiranni, in Religione e città del mondo antico, Atti CERDAC 11, 1980/81, Roma 1984, pp. 271-279. » Erym. Magn. 545, 13-16 s. v. Κύμη e Serv. ad Aen. ΠῚ ν. 441 e VI v. 2. Và. M. Caccao Catraniano, Kyme Enkymon, cit. pp. 24-26. Nella glossa dedicata a Kyme dall'Etymologicum Magnum, cit. il nome della citi italiota è fatto derivare da una 145

Kyme basilis, che avrebbe governato su quel luogo (ibidem, pp. 26-29), espressione che crea un interessante legame con Kyme colica, madrepatria della città campana, che avrebbe preso anch'essa nome da una donna, l'Amazzone Kyme, vd. Eao.,Trinaia Pelorias. Rapporti fra tipi monetali tradizioni religiose a Messana, in RSN 64, 1985, pp. 22-24; Eap., Considerazioni sulla tpologia della monetazione cumana, in Studi su Kyme colica, in CronAStorArt 32, 1993 (1998), pp. 49-50 5 Oribas. Synop. 4, 27: minores cocleae ides, quas Graeci cymia vocant. Vd. M. Caccamo CattaBiaNo, Trinakia Pelorias cit. pp. 2224. » NC Rurrer, Campanian Coinages, cit. pp. 128 nr. 65; 133 nir. 111-113; 134 nr. 133; 135-141 nr. 145-202. 206 e tavv. 3,6555, 111-113; 14, 133; 7-10, 145-202, 206. Analoga presenza si registra ad Himera sui tetradrammi con divinità sacrificante, dove ἢ seme è posto in alto a sinistra, vd. PR. Franke- M. Hina, Die griechische Münze, München 1964, p. 45 tav. 21-22 nre 68-69, © NK. Rurrra, Campanian Coinages, cit, pp. 130, 76. 80, 83-84 e tav. 4 nrr. 76 (Cerbero), 80 (ippocampo), 81-82 (serpente marino), 83-84 (anatra) etc. A proposito del simbolo di Cerbero in riferimento a una divinità cittadina, interessanti le osservazioni di C.M. Enwans, Tyche at Corinth, in Hesperia 59, 1990, pp. 529-542 sulle connessioni con l'otretomba della Tyche di Corinto, in quanto ci sembrano coincidere con le nostre osservazioni sulla natura ctonia di Kyme. © Cir. N. Vatenza Mete, in G. Nevcr-G. Vater (edd), Bibliografia Topografica della Colonizzazione Greca Isole Tirreniche XII, Pisa-Roma 1993, s. v. Napoli, pp. 165-166; F. Raviosa, La tradizione leterara su Parthenope,in Italia in AA.e nelle VV., Hesperia I. Studi sulla Grecità d'Occidente, Roma 1990, pp. 19-60 “ι Vd. M. Caccanto Catania, in La monetazione di Neapolis nella Campania antica, Atti del VIE Conv. del Centro Intern Studi Num. Napoli 1980 (1986), pp. 85-86. © J, Cunesaux, Fortuna. Recherches sur le culte de la Fortune à Romeet dansle monde romain. Des origines à la mort de César, Col. de l'Ecole Franc. de Rome, n. 64, I: Fortuna dans la religion archaique, Rome 1982; IL Les transformations de Fortuna sous la République, Rome 1987; Exp. Les fortunes italiques: de Varchatsme à la modernité, in Le fortune dell'età arcaica nel Lazio ed in Italia e loro posterità, Atti 3° Convegno di Studi archeologici. Palestrina 15/16 ottobre 1994, Palestrina 1997, pp. 15-37. Vedi anche, ibidem, G. Stara Gasrao, Iside Fortuna: fatalismo e divinità sovrane del destino nel mondo ellenisticoromano,pp. 301-323. © G. Corona, Culti dimenticati di Praeneste libera, in Le fortune delletà arcaica, cit, pp. 87-103. ^ J. Cuaureatx, Fortuna, cit, p. 52. Và. anche F. Rausa, in LIMC VIII, Zarich-Disseldorf 1997, s. v. Fortuna, cit, pp. 125-141 5 M. Caccamo CatraBiaNo, Messana, cit, pp. 81-82, 85, 256, 262-263 nar. 381, 383, 423-424. * Peri significati simbolici della caccia alla lepre cui si dedicavano gli efebi vd. P. Sciurr-A. Scinarr, in Image e société en Gréce ancienne: les représentationsde la chasse et du banquet, in RA 1982, pp. 57-74; A. Scu, Eros en chasse, in La cité des images. Religion et Société en Grèce antique, Lausanne 1984, pp. 67-83. Vedi anche J.K. ANDERSON, Hunting n the Ancient World, Berkeley-Los Angeles 1985, p. 183 (Index s. v. Hare hunting), attento più agli aspetti tecnici e all'iconografia della caccia che al suo significato simbolico e O. Lave Fox, Ancient Hunting: From Homer to Polybios, London-New York 1996. © J, Βολπομαν, in LIMC VIII, Zürich- Düsseldorf 1997, s. v. Pan pp. 923-941. ^ Ibidem, p. 933 ner. 191-196 (Afrodite/Eros) e p. 936 ner. 242-243 (Perscphone/Pandora). Vd. anche A. DELIVORRIAS Et Aux, in LIMC II, Zürich-München 1984, s. v. Aphrodite pp. 128 nrr. 1343-1353, 129. ^ J. Boanpuan, Herakles, ci, p. 933 nr. 198 (Demetra) o p. 936 nr. 241 (Kybele). 7 SNG New York, The Collection of the American Numismatic Society, Part 3: Bruttium - Sicily 1 (Abacaenum - Eryx) (= SNG ANS 3), New York 1975, nrr. 600 (statere)- 601 (sesto); R.R. Hottovar, Art and Coinage in Magna Graecia, Bellinzona 1978, pp. 19 nr. 1-2, 61, 142. Vedi anche J. Boseonaw, Herakles, cit, p. 937 nrr. 246-260 (Pan cacciatore) e pp. 938-939 nr. 269.279 (Pan sulle monete). L'abbinamento della dea Hera con il giovane Pan potrebbe giustificarsi alla luce di alcune tradizioni che ritenevano che la dea, prima delle nozze con Zeus, si sarebbe unita ἃ un dio adolescente, un giovane amphithales, simbolo della fecondità "zampillante" cfr. P. Léveour, Bilan des travaux. La personnalité d'Héra, in J. De LA Geib (cd.), Héra. Images espaces cultes, Actes du Colloque International de Lille 1993, Collection du Centre J. Bérard, 15, Napoli 1997, pp. 267268, 9 Cimrenvx, Fortuna I, it, pp. 113-114. © M. Caccamo Casramano, Messana, cit, pp. 295-299 nre. 603-608, p. 299 ner. 610-613. © A Camarina è rappresentato l'Hipparis vd. U. Wesrenark-K. Jenxiss, Kamarina, cit, pp. 197-204 nrr. 158-166 (alla tav. 28 una visione d'insieme delle testine sicilianedi Apollo c delle divinità fluviali); a Gela i fiume Gelas 1. K. JENKINS, Gea, cit. pp. 254-255 nrr, 454-456, 258 nrr. 463-464 e nr. 465 (testa di tre quarti) 268-269 nr. 489, 271-278 nrr. 497-534. ΞΜ. Caccamo Cattamiano, Messana, cit. p. 279 nr. 511. * Ibidem, pp. 121-122, 300-303 ner. 614-617, 620.624. * Ibidem, pp. 294-295 ner. 600-602. © Và. P. Onuanon, Le ari figurative, in Megale Hellas, Milano 1983, pp. 462-463 nr. 470; G. Goxtver, in LIMC VIII, Zurich Diisseldorf 1997, s. v. Persephone p. 966 nr. 172. Assai peculiare, e apparentemente privo di confronti nel mondo occidentale, è l'attributo della palma tenuta in mano daluriga della biga ferma di mule (Messana?), abbinata sui bronzi messinesi di età agatocle alla testa della divinità cittadina (M. Caccano CAL ABIANO, Messana, cit, pp. 146-147, 322-325 nrr. 783-804). In un vecchio articolo H. F. Mosca, Le rameau de palinier et la gerbe d'épis, in AntCI 24, 1955, pp. 431-437 metteva in evidenza la rarità di ale atributo in relazione alle statue di Tyche e ne riconosceva l'origine orientale, sottolineando come la palma nella cultura della Mesopotamia, quale simbolo di fertilità e fecondità, avesse giocato il medesimo ruolo del cesto di spighe. * La personificazione di Messana, come si evince dai simboli che le si associano, sembrerebbe corrispondere allurbaniz146

zazionedi una dea della fecondità agraria, succeduta forse nel culto a una divinità preesistente, collegata con la cità di Zancle, e della uale si potrebbe trovare una traccia nel ricordo di una sorgente Zancle, cul sarebbe stato correlato il nome più antico della polis (Steph. Byz. Ζάγκλην. Un legame con l'elemento acquatico, dunque, fecondatore e purificatore, che è anche noto per Terina, per Camarinae per Himera, in una dimensione non soltanto reale e umana ma anche metafisica e sphituale di rinascita e rigenerazione. Di un aspetto ctonio, tipico di Persephone e comune anche alla dea Messana, potrebbe essere espressione l'immagine del cavallo marino presente su alcuni coni del medesimo periodo (M. Caccamo CALrAtumo, Messana, cit. pp. 294 nr. 599, 303 nr. 625, vd. anche 305 nr. 632 (hemidracma): il cavallo marinoè infatti una delle principali component di quel tio che nell'immaginario greco rappresentava la nuova realtà,il nuovo mondo che il defunto raggiunge. va nel suo viaggio verso lotretomba > J. Caaueraux, Fortuna, cit, pp. 119-131. © Ibidem, pp. 125-126, 4 M. Caconto Carramaso, Messana, cit. pp, 123-124, 304 nr. 630. * Ibidem,pp. 146-147, 322-325 nr. 783-804 © SNG ANS 5, nr. 632-643; M. Teramo, The ttradrachms of Agathocles of Syracuse: a preliminar study, in AIN 7-8, 1995-1996, pp. 1:73. distanza di qualche decennio, negli anni del governodi Iceta a Siracusa, anche a Messana la bia - gui data ora da Nike, e non più dalla divinità cittadina ~ sarà una biga in corsa e non un veicolo stante (M. Caccauo Cacramano, Messana, cit, pp. 150-152, 332-333 nr. 878-894. “ι΄. Cuaueaux, Fortuna I, cit, pp. 211-223. Sulle analogieele differenze di funzioni di Fortuna a Roma e n Etruria vd. MJ. Siva, Fortuna etruscae Fortuna romana: due cili decorativi a confronto (Roma, via 8. Gregorio e Bolsena), in Ostraca, 11,2, 1993, pp. 317-349 #1 Chaurent Fortuna I, ct, pp. 454-479. “ EH. Patouz Massa, Alla ricerca delle immagini di Fortuna, in Le fortune dell'età arcaica, ci, pp. 105-135. * Ibidem, p. 105. “ Si veda ad esempio l'opera di L. Lacxop, Fleuves et Nymphes éponymes sur les monnaies greeques, in RBNum 99, 1953, p.53 ss; ID, Monnaies et colonisation dans l'Occident Gree, Bruxelles 1965, pp. 115-129. A pp. 115-116lo studioso, con riferi mento al documento monetale, nota che divinità fluviali ninfe delle acque erano considerate potenti divinità © Kyme, l'eponima della cità campana, è definita Basils da l'Etymol. Magn. 545, 13s. v. Kyme (cr, supra, n. 36); analosamente Isidoro di Siviglia 15, 1, ΤΊ fa di Kyrene una regina della Libia e la fondatrice di Cirene. 7 E. Mave, Sicilia pagana, Palermo 1963, p. 105 ss. in campo storico religiosoha difeso l'importanza del sostrato indigemo, mentre A. Brett, La religione greca in Sicilia, in Kokalos 10-11, 1964-65, p. 35 ss, senza escludere che possano esservi elementi locali nella storia dei culti greci in Sicilia, ha ritenuto che i Greci s fossero “sovrapposti” ovunque alla cultura e alla religione locali. "Gli apport culturali orientali, a proposito de culto di Fortuna, sembrano evidenti soprattutto in relazione all'ideologia della regalità. A Pyrgi, porto di Caere, una duplice iscrizione in etrusco e fenicio celebrava agli inz del V sec a.C. il poterere sale di Thefarie Vellanas, affermando che quel potere gli ra tato conferito da una dea, etrusca Uni, identificata con Astart, con evidente analogia con i ruolo legitimatore della medesima divinità a Cipro, dove iedi Paphos erano sacerdoti di Astarte e venivano sepolti nel suo santuario, cr. C. Grorravtius, Servio Tullio, Fortuna e l'Oriente, in DArch 5, 1987, pp. 71-110. Con preferenziale riferimento a Cipro e al culo di Afrodite o studioso evidenzia come nel mondo fenicio sia attestato non solo uno stretto legame cultuale fra il monarca e una dea "ma anche i| iù preciso tema della divinità femminile che conferisce al re ἢ potere regale, nuova realtà della monarchia tirannica del VI sec. a.C." Per ἢ mondo etrusco e romano il Grottanelli (pp 86.90) identifica in Fortuna cole che conferisce l'egemonia e protegge li stessa il re, perché ne è l'amante. * L'ipotesi èstata da me avanzata in LIMC V, Zürich-München 1990, s. v. Himera pp. 424-425. Per Himeros, attributo di Afrodite insieme ad Heros, vd. A. Hezatuny, in LIMC V, cits. ν. Himeros pp. 425-426, ? C. AkxoLo Bruccst, La monetazione d'argento di Himera... οἷα, p. 98 ne. 13-14. Perla ruota quale attributo di Tyche vd L Visano, in LIMC VI, ci. p. 116. Y Per significato simbolico dela biga di mule vd. M. Caccumo CaLtABIANO, I tipo monetale dellapene nell'area dello Stetto, in SteMat 12, 1988, pp. 41-60.

147

TAV.I.

7.019)

Nr. 1 (DI), ner. 2-3 (a DI, b RJ) nrr. 4-7 (R/) tetradrammi di Messana; nr. 8 didrammo di Segesta (a DI, b ἘΠ) nr. 9pinax di Locri 148

TAV. II.

Nr. 10 tetradrammo di Selinunte (DI); nr. 11 tetradrammo di Camarina (R/); nr. 12 tetradrammo di Catana (RI); nr. 13 tetradrammo di Gela (D/); nr. 14 tetradramo di Siracusa (D/); nr. 15 didrammo di Cuma (R)); nr. 16 didrammo di Velia (R); nr. 17 didrammo di Terina (DI); nn. 18-20 tetradrammi di Himera (R/); nr. 21 didrammo di Camarina (R/); nr. 22 statere di Pandosia (D/e RJ) 149

BIAGINA CAMPAGNA RECENTI RICOGNIZIONI NEL TERRITORIO DI RODI MILICI

Scopo di questo breve contributo è quello di presentare una sintesi dei risultati di una ricognizionel territorio di Rodi Milici, un piccolo comune sito nella zona nordorientale della Sicilia, 55 Km ad Ovest di Messina’, L'indagine sul terreno, avviata e realizzata nel 1995, ha avuto come risultato la redazione di una Carta archeologica del territorio, della quale si riportano, in questa sede, le notizie preliminari. Prima di esporre in dettaglio le caratteristiche dell'indagine e i risultati, mi sembra opportuno spiegare le ragioni che hanno giustificato il recente interesse per questo sito. ne archeologica effettuata

STORIA DEGLI STUDI E DELLE RICERCHE Il territorio di Rodi Milici è stato oggetto di indagini solo a partire dal 1950, anno in cui, in segui-

to ad alcune ipotesi formulate da Ryolo, allora ispettore onorario della zona e appassionato studioso di fonti antiche, fu ipotizzata l'ubicazione di “Longane” proprio in questa zona’. Lo stesso Ryolo e Bernabò Brea esplorarono* le campagne circostanti il paese, alla ricerca di indizi che avvalorassero quanto ipotizzato fino ad allora esclusivamente sulla base di pochi dati forniti dalle fonti letterarie e archeologiche. L'esistenza della città Longane, infatti, menzionata appena dagli storici greci*, era stata confermata archeologicamente solo da una moneta e un caduceo (noti già nel secolo scorso) conservati al British Museum’. Altri indizi erano stati inoltre forniti dall'Orsi? circa l'esistenza di una necropoli in Contrada Mustaco (Tav. II, n. 1) dove erano state rinvenute casualmente alcune tombe a fossa rivestite di lastre piane e coperte con tegole o grossi ciottoli. I corredi, sebbene ricostruibili solo parzialmente, dimostrarono la coesistenza di ceramica acroma d'uso comune accanto a vasi a v.n. (imitazione attica? Tra i materiali di corredo era utilizzato anche vasellame bronzeo (lebeti) la cui tipologia richiamava quella di alcune hydriai geloc della metà del VI sec. a.C.* Partendo dallo studio delle fonti e da queste labili indicazioni archeologiche si avviarono pertanto alcune indagini sistematiche sul terreno che portarono innanzitutto al rinvenimento di tratti di muri ancora affioranti sull'altopiano ai piedi di Monte Pirgo, presso casa D'Alcontres (Tav. IL, n. 3). Altre importanti evidenze archeologiche si notarono sulla vetta di Pizzo Cocuzza (Tav. II, n. 2), cinta per tutto il perimetro da una fortificazione a grossi blocchi non squadrati.

In seguito al rinvenimento di tali evidenze archeologiche, nel dicembre del 1951 la Soprintendenza Archeologica di Siracusa iniziò una vera e propria campagna di scavo, diretta da F. Carettoni, sulla sommità di Pizzo Cocuzza e nell'area della casa D'Alcontres. Su Pizzo Cocuzza (m 576 s.l.m.) si portò così alla luce l'intero perimetro di un “fortilizio” in opera megalitica che in taluni tratti si conserva per un'altezza di tre filari. La struttura fu datata da Bernabò Brea alla fine dell'Età del Bronzo, sia per la presenza di numerosi impasti che per la tipologia,

vicina a quella dell'anactoron di Pantalica’.

Nell'area di Casa D'Alcontres (Tav. II, n. 3) fu messo in luce un edificio a pianta rettangolare (m

13x 7), con muri realizzati con piccoli blocchi squadrati privi di malta. All'esterno dell'edificio vi era inoltre un muro di sostegno, a grossi blocchi squadrati, che delimitava il piccolo terrazzamento sul quale sorgeva la struttura. Bernabò Brea datò l'edificio, probabilmente pertinente ad una piccola 151

area sacra, all'età arcaica, sia per la cronologia dei pochi materiali rinvenuti che per la tecnica di costruzione !°,

Sulla sommità di Pizzo Ciappa (Tav. II, n. 4) vennero scoperti anche importanti resti di una fortificazione ad "aggere", realizzata prevalentemente con blocchi irregolari e con conci squadrati agli spigoli. Il muro di fortificazione, riportato alla luce per una lunghezza di m 340, delimitava tutti i lati della collina, escludendone il lato settentrionale, difeso naturalmente grazie ad un ripido pendio. All'interno della fortificazione, provvista in alcuni punti di "porte torri”, si sviluppavano pochi ambienti a pianta rettangolare, immediatamente addossati alle mura. La presenza di almeno due pen-

dii a strapiombo, l'adattamento dei muri all'andamento naturale e alle caratteristiche geomorfologiche del rilievo, la realizzazione della fortificazione con la faccia esterna in grossi blocchi di pietra a volte regolari e l'interno riempito di piccoli ciottoli e terra, sono tutte caratteristiche che si riscontrano in numerose fortificazioni ad aggere di molti altri centri indigeni ellenizzati della Sicilia" La cronologia di questa struttura fu stabilita, infatti, grazie al confronto con altre fortificazioni simili della Sicilia”, intorno alla metà del V sec. a.C. Nei livelli sottostanti l'impianto di questa opera di difesa furono inoltre rinvenuti frammenti di impasti’ riferibili alla Prima Età del Bronzo (XVIII-XV sec. a.C.) e precisamente alla facies di RodiTindari-Vallelunga ".

In un'area topograficamente distante dalla precedente, a Nord-Est dell'attuale centro di Rodi Milici, sul pendio di Monte Gonia (o colle della Grassorella) (Tav. IT, n. 7), furono individuate'* e scavate alcune tombe del tipo a grotticella artificiale. Nel corso della campagna di scavo si notò innanzitutto la presenza di sepolture appartenenti a due orizzonti culturali cronologicamente differenti Lungo il pendio sud-est del Monte Gonia, furono portate alla luce tre tombe (nn. 21, 23 e 24)", con pianta circolare e soffitto a volta, riferibili alla Prima Età del Bronzo".Per quanto concerne i materiali, solo la tomba 21, ha restituito il corredo, tipologicamente affine ai suddetti frammenti rinvenuti su Pizzo Ciappa e dunque appartenenti alla stessa facies di Rodi-Tindari-Vallellunga '.

Lungo i versanti sud-occidentale e sud-orientale di Monte Gonia e in Contrada Paparini (Tav. II, n. 8) (una valletta che limita a Nord-Ovest il Monte Gonia)" furono invece rinvenute venticinque se-

polture a pianta rettangolare o trapezoidale con soffitto piano, databili all'Età del Ferro.

Nei corredi delle tombe dell'Età del Ferro, rinvenuti intatti nella maggior parte delle sepolture, era presente soprattutto ceramica incisa, simile tipologicamente a quella di alcune necropoli coeve locresi?. L'orizzonte culturale, affine a quello di un'altra necropoli a grotticellla scavata da Orsi in contrada Uliveto nella vicina Pozzo di Gotto, sembrava differire dalle altre necropoli siciliane (ad esempio quella di Finocchito) e risentire piuttosto di contatti con l'area ionica della penisola. Nel corso delle campagne di scavo, condotte negli anni '50, brevi sopralluoghi nelle campagne circostanti permisero il rinvenimento di frammenti relativi al IV-III sec. a.C. e di alcune monete di bronzo nell'area immediatamente a Nord di Pizzo Ciappa, nel pianoro tra Monte Lombia e Rocca Bianca (Tav. II, n. 5)®. In seguito a tali rinvenimenti, sebbene sporadici, fu ipotizzata” una frequentazione dell'area a Nord di Pizzo Ciappa, lungo il IV e III sec. a.C. Negli anni 70, alcune indagini condotte dal Genovese nell'area a Nord di Monte Gonia, precisamente nella contrade Pietre Rosse e Mangiaramigna (Tav. II, n. 14), hanno dimostrato l'esistenza di una frequentazione relativa al III sec. a.C.

Di notevole interesse è stata inoltre la scoperta di un'altra importante fortificazione “ad aggere" su

Monte S. Onofrio”, una piccola altura che sorge a ridosso del fiume Patri, poche migliaia di metri a Est di Monte Ciappa.

Questa vetta era stata probabilmente cinta di mura di difesa, così come quella di Monte Ciappa, con lo scopo di creare degli avamposti immediatamente a ridosso della costa e in prossimità di corsi d'acqua per permettere il controllo e la difesa dei territori circostanti, nel corso del V sec. a.C.

152

Nuovi pat

Veniamo adesso alla ricognizione archeologica del 1995,

L'indagine ha interessato un territorio di Kmq 23; l'area prescelta costituisce infatti un'unità geo-

grafica e morfologica ben precisa

(Tav. I), in quanto tra due torrenti, il Patrì o Termini a Est e il

Mazzarà a Ovest; a Sud ha inizio la catena dei monti Peloritani (comuni di Novara di Sicilia e Fondachelli Fantina), a Nord il territorio confine con il comune di Castroreale e dista dal mar Tirreno, in linea d'aria, ca. Km 2. Il lavoro di ricognizione in superficie che, come è noto, implica una discreta leggibilità del terreno, è risultato infatti molto positivo, in quanto nel territorio di Rodì Milici la maggior parte delle arce “archeologiche” ricade in zone non urbanizzate e pertanto destinate a coltivazione di ulivi, v gne, agrumi e grano; parecchie sono inoltre le arce non coltivate, nelle quali la visibilità è tuttavia sufficiente. Si è proceduto pertanto con ricognizioni sistematiche in un'area di ca. Kmq 23, svolte nell'arco di un anno circa, prediligendo i mesi autunnali da Settembre a Dicembre; in questo periodo infatti il terreno presentava buone condizioni di visibilità sia nel caso di aree coltivate (soprattutto i campi di grano) che di aree incolte. La scelta tattica delle zone da indagare è stata spesso dettata dall'osservazione della fotografia acrea che ha consentito una lettura razionale del territorio, scegliendo oculatamente le aree da privilegiare. Mediante la copertura del terreno a piedi, sono state individuate anomalie, variazioni morfologiche, presenza e concentrazione di evidenze archeologiche, aree di frammenti fittii*. La raccolta dei materiali è stata effettuata in maniera sistematica c totale nelle aree a bassa densità (1-2 rep./m?). Nelle aree a media intensità (5-6 rep./m?) e ad alta intensità (più di 6 rep./m?) si è cercato di prelevare tutti i frammenti tipologicamente classificabili nonché almeno un campione per ogni classe di materiali presente. Tutti i dati raccolti, sia quelli provenienti da studi e sporadici rinvenimenti precedenti che quelli relativi alle zone da me indagate, vengono in questa sede presentati in forma preliminare; si è cerc. to, infatti, procedendo con una prima sintesi storico-topografica, di riportare i dati più significativi ricavati nel corso delle ricognizioni, omettendo lo studio sistematico dei reperti rinvenuti in superficie, nonché le considerazioni definitive sulle probabili destinazioni dei siti in questione. ‘Queste notizie preliminari verranno riportate qui di seguito con una suddivisione cronologica dalla Prima Età del Bronzo all'Età romana. 1. Età del Bronzo

Le evidenze relative al popolamento del territorio durante l'Età del Bronzo, come si è detto, erano in parte già state localizzate in due aree topograficamente delimitate e distanti tra loro, la sommità di Pizzo Ciappa e i pendii di Monte Gonia (Tav. II, nn. 4 e 7). Adesso sono state ulteriormente arricchite e meglio definite, grazie all'acquisizione di nuovi dati. Frammenti di impasti della prima Età del Bronzo, tipologicamente vicini ai materiali presenti nelle tre tombe a grotticella di Monte Gonia, sono stati rinvenuti anche a Sud Ovest dell'attuale centro di Rodi, sulla sommità di Monte Lombia (Tav. II, n. 6) (m 423 s.Lm), in un'area di ca. m 50 x 70 (Tav. IIT, fig. 3, a-. La presenza di impasti databili alla prima Età del Bronzo anche su Monte Lombia consente così di arricchire il quadro degli stanziamenti in questo territorio, individuando un'altra area di frequentazione, precedentemente attestata, come s'è detto, solo nei livelli sottostanti la fortificazione di Pi zo Ciappa e sul Monte Gonia. Infatti tali frammenti permettono di ipotizzare l'esistenza di un piccolo insediamento (forse un avamposto di quello esistente immediatamente a Sud, su Pizzo Ciappa) su un'altura molto scoscesa, difesa naturalmente, dalla quale si poteva sorvegliare la pianura sottostante e dunque tutto il territorio che si estende fino alla costa tirrenica. Le caratteristiche del ritrovamento, solo materiale fittile di superficie, non permettono osservazioni più dettagliate; tuttavia la tipologia degli impasti, simile a quella dei frammenti rinvenuti al di 153

sotto della fortificazione di Pizzo Ciappa, suggerisce la presenza di un piccolo nucleo abitativo, già a. partire dal XVIII sec. a.C., in questa fascia di territorio che, dai monti Peloritani, immediatamente a Est del fiume Mazzarà, giunge nei pressi della costa. Per quanto concerne invece l'area a Nord-Est dell'attuale centro urbano di Rodi, le ricognizioni archeologiche hanno consentito innanzitutto l'individuazione di altre tombe a pianta circolare, per lo più già scavate, sia in Contrada Paparini (Tav. II, n. 8) che su Monte Marro (Tav. II, n. 15), un'altura che sorge Km 1 a Nord di Monte Gonia. Uno degli obiettivi della ricognizione è stato poi quello della focalizzazione di un probabile abitato relativo alla necropoli di Monte Gonia. Ma l'indagine sul relativo pianoro non ha dato esiti positivi per la totale assenza in superficie di impasti, forse a causa dei notevoli sbancamenti effettuati in quest'area per l'impianto degli uliveti. Contrariamente, sulla sommità di Monte Marro (Tav. II, n. 15), in una piccola area di m 20 x 30 ca., si sono rinvenuti, nel corso delle ricognizioni, tre frammenti di ossidiana e numerosi frammenti d'impasto (Tav. IV, fig. 3, a-f; fig. 3, n-p), purtroppo non sempre tipologicamente classificabili per la totale assenza di orli, ma riferibili in parte alla prima Età del Bronzo. L'ipotesi della presenza di un piccolo nucleo abitativo sulla sommità di Monte Marro e la totale assenza di indizi riferibili ad un abitato su Monte Gonia non possono certamente far pensare all'esistenza di un'unica area abitativa sul pianoro di Monte Marro, cui sarebbero riferibili anche le tombe rinvenute lungo le pendici di Monte Gonia. È più probabile invece ipotizzare la presenza di due piccoli nuclei abitativi anche in questa fascia

di territorio che si prolunga a Ovest del fiume Patrì. Il rinvenimento di impasti molto simili in due aree distanti e geologicamente differenti, precisamente a Sud-Ovest (Pizzo Ciappa e Monte Lombia) e a Nord-Est (Monte Gonia e Monte Marro) dall’attuale centro di Rodi permette di fare le seguenti ipotesi: - nella prima area, quella di Sud-Ovest, dovevano esistere due piccoli abitati, differenti ma probabilmente affini, sorti nei punti più elevati, come Pizzo Ciappa e Monte Lombia. Le necropoli relative, non ancora localizzate, non potevano però essere del tipo a grotticella artificiale a causa della morfologia del terreno, privo di costoni tufacei nei quali scavare le sepolture”. ~ nella seconda area, quella di Nord-Est, gli abitati si sviluppavano probabilmente sui pianori delle due colline più elevate, Monte Gonia e Monte Marro. Le tombe a grotticella artificiale scavate sul versante orientale di Monte Gonia e le altre tombe a pianta circolare di Contrada Paparini e Monte Marro rientrano tutte in un'area geologicamente differente, che bene si prestava, per i costoni tufacei presenti lungo i pendii, alla realizzazione di questa tipologia tombale. Alla luce delle considerazioni e delle ipotesi fatte, si può pertanto parlare con certezza di un popolamento di queste aree già a partire dal XVIII sec. a.C., aggiungendo un altro tassello a quanto si conosceva della costa tirrenica nord-orientale della Sicilia. Per quanto concerne infine la diffusione della facies di Rodi-Tindari-Vallelunga in Sicilia, mentre un tempo si pensava che fosse ristretta solo alla cuspide nord-orientale della Sicilia”, con i limiti estremi ad Ovest nel sito di Vallelunga (CL)? e a Sud-Ovest nell'abitato di Boccadifalco (PA)", le nuove acquisizioni permettono di ampliare notevolmente il panorama. Recentemente essa sembra attestata, infatti, in altri complessi? distanti dall'area nord-orientale della Sicilia, dove si credeva fino a poco tempo fa che tale orizzonte culturale, nettamente opposto alla cultura di Castelluccio», non fosse mai penetrato. 2. Età del Ferro

Le evidenze archeologiche relative alla frequentazione del territorio durante l'Età del Ferro, come si è detto, riguardavano precedentemente la necropoli a grotticella artificiale messa in luce lungo i pendii meridionale e occidentale di Monte Gonia e nella valletta di Contrada Paparini (Tav. II, nn. 7e 8). Dalla ricognizione archeologica emerge innanzitutto che in tutto il costone tufaceo emergente da. Monte Gonia fino a Monte Marro, sono ancora parzialmente visibili numerosi tagli artificiali, non 154

sempre ben riconoscibili perché alterati sia da cave moderne di pietra che da numerosi scavi clande-

stini.

Altro importante dato è quello della presenza, soprattutto in Contrada Paparini (Tav. II, n. 8) di

tombe della prima Età del Bronzo adiacenti a tombe dell'Età del Ferro. Infatti sepolture, di dimensioni maggiori, a pianta quasi circolare e con soffitto a volta, si trovano accanto a piccole sepolture a pianta quadrata e con soffitto piano. Inoltre, già nel corso degli scavi di Bernabò Brea era stata notata la presenza regolare di tombe dell'Età del Ferro rispetto a quella sporadica di tombe dell'Età del Bronzo.

Il fenomeno descritto ci sembra degno di nota perché attesta una continuità d'uso di determinate Particolarmente interessante appare inoltre l'individuazione, lungo il pendio meridionale di Monte Gonia, di un anomalo allineamento di blocchi di calcare conchiglifero irregolarmente sbozzati, per una lunghezza, in direzione Nord-Sud di m 190; questo allineamento, che ha una larghezza variabile tra m 0,90 e m 1 e si conserva per un'altezza variabile tra m 0,40 e m 0,90, prosegue nella aree in un arco di tempo notevolmente ampio.

parte finale in direzione Est per m 11,40, formando un angolo retto (Tav. III, figg. 1-2).

Questa importante evidenza archeologica può probabilmente essere riferita ad una sorta di recinzione dell'intera necropoli dell'Età del Ferro, che si estendeva lungo il pendio occidentale di Monte Gonia. Ciò induce a formulare l'ipotesi dell'esistenza di una necropoli bene organizzata, provvista altresì di un grande muro a secco che delimitava parte del pendio sud-ovest di Monte Gonia. Pertanto questi nuovi dati potrebbero suggerire un notevole ampliamento e sviluppo dell'abitato protostorico rispetto a quello preistorico, sebbene non sia stata ancora individuata l'ubicazione dei

rispettivi abitati. Nonostante la tipologia dei pochi abitati dell'Età del Ferro noti in Sicilia suggerisca la concentra-

zione dell'abitato in un posto elevato e precisamente definito rispetto all'ubicazione della necropol questo caso la sommità di Monte Gonia, in tutta l'area indagata non si sono rinvenuti frammenti ‘impasto. La ricognizione nell'area che si estende tra Monte Gonia e la base di Monte Marro non ha dato esiti positivi; la totale assenza di dati non può escludere però in maniera assoluta la presenza di un abitato sulla sommità di Monte Gonia, soprattutto perché l'area, come s'è detto, è interamente adibita ad uliveto ed ha quindi subito notevoli cambiamenti dovuti ai profondi scassi per l'impianto degli alberi. È ipotizzabile, tuttavia, che, nonostante gli esiti negativi della ricognizione in superficie, solo il pianoro di Monte Gonia si prestava ad ospitare un abitato correlato alle necropoli delle pendici. Tale ipotesi ovviamente potrà essere confermata solo da uno scavo archeologico. Così come si è già visto per l'Età del Bronzo, l'unica area in cui si sono rinvenuti numerosi frammenti di impasto riferibili all'Età del Ferro, è il pianoro che si estende sulla sommità di Monte Marro (Tav. II, n. 15), ca. Km 1,5 a Nord dalla necropoli. La posizione dominante e ben difesa del pianoro, immediatamente a ridosso di un corso d'acqua e con la possibilità di controllo in direzione della costa, ben si prestava ad un altro piccolo nucleo abitativo, confinante con quello localizzabile su Monte Gonia. Al momento dunque il problema dell'identificazione dell'abitato” relativo alla vasta necropoli individuata rimane ancora insoluto, così come per numerosi altri centri della Sicilia, dei quali si conoscono esclusivamente le necropoli. Inoltre l'individuazione, come già detto, di ulteriori sepolture a grotticella artificiale, lungo le pendici di Monte Gonia, lascia pensare a diversi piccoli nuclei abitativi probabilmente confinanti. 3. Età greca Nel territorio di Rodi Milici le testimonianze di età greca si concentrano in due aree, topografici mente distanti tra di loro: l'altopiano che da Contrada Pirgo giunge fino alla Rocca Bianca (Tav. II, nn. 3, 4, 1, 6, 5) e il pianoro di Monte Marro (Tav. II, n. 15). Le principali evidenze archeologiche, databili dalla metà del VI al V sec. a.C., si trovano nella pri-

ma zona ovvero in quella a Sud-Ovest dell'attuale centro urbano di Rodi. L'area, già interessata da evidenze dell'Età del Bronzo”, viene frequentata successivamente solo a partire dal VI sec. a.C. Dalle notizie desunte dagli scavi precedenti sembra, infatti, che in tutto questo territorio non sia attestata una continuità d'uso tra i livelli della facies di Rodi-Tindari-Vallelunga e quella del VI-V sec. a.C. Le prime indicazioni di una frequentazione dell'area provengono, come già detto", dalla necropoli di Contrada Mustaco (Tav. II, n. 1), ubicata in un piccolo terrazzo posto a valle e a Nord-Est dell'altopiano di Contrada Pirgo, da cui dista in linea d'aria ca. m 500.

La recente ricognizione ha restituito solo numerose tegole. Tutte d'impasto grezzo rossiccio con listello a profilo curvilineo, esse non permettono di stabilire in maniera puntuale la cronologia. Tegole dello stesso tipo, infatti, sono state rinvenute in contesti stratigrafici databili sia al V sec. a.C., come ad Himera*, sia in livelli archeologici di VI sec. a.C., del territorio geloo".

Purtroppo la ricognizione non ha consentito l'esatta localizzazione dell'abitato cui doveva essere connessa la necropoli di Contrada Mustaco. La topografia del territorio e la presenza del già richiamato edificio realizzato in blocchi squadrati presso Casa d'Alcontres (Tav. II, n. 3)", ne suggerirebbero, tuttavia, l'impianto proprio nell'area circostante ad esso. Tale area è delimitata e sovrastata a Nord dal rilievo di Monte Ciappa (Tav. II, n. 4), sulla sommità del quale si trova la fortificazione ad aggere, sopra menzionata”. Nonostante l'esiguità dei dati, la lettura topografica di quanto ancora oggi è visibile consente, tuttavia, di avanzare alcune ipotesi circa la destinazione di questo piccolo centro, attivo nel corso del V sec. a.C. Mi preme sottolineare, infatti, alcuni criteri che, a mio avviso, sono stati determinanti per la na-

scita dell'insediamento: la scelta del luogo dettata senza dubbio da criteri difensivi per la distanza dalla costa, la posizione strategica e l'utilizzo di luoghi già in parte naturalmente fortificati. A questi requisiti risponde certamente la topografia dell'altopiano di Pirgo, una grande distesa pianeggiante delimitata a Est e ad Ovest da pareti scoscese che scendono a valle verso i due corsi d'acqua, rispettivamente del Patri e del Mazzarà. La grande fortificazione ad aggere di Pizzo Ciappa, una sorta di "acropoli" che dominava tutta l'area a Nord, verso la costa tirrenica, consentiva un ulteriore controllo del territorio. È molto probabile che inizialmente l'arca abitata corrispondesse solo allo stretto spazio delimitato dal muro di cinta di Pizzo Ciappa, come si evince dal rinvenimento di strutture con frammenti databili al V secolo all'interno della fortificazione. L'estensione limitata della superficie delimitata dalla fortificazione di Pizzo Ciappa potrebbe far ipotizzare che, in un secondo momento, cessate forse le preoccupazioni difensive, l'abitato si estese anche nell’altopiano sottostante dove l'area, molto più ampia e meno impervia consentiva un maggiore sviluppo dell'insediamento. L'ipotesi però, non è confermata dai dati archeologici; l'edificio di Casa D'Alcontres, ubicato in una zona centrale dell'altopiano costituisce, infatti, l'unica testimonianza certa relativa al VI sec. a.C. La ricognizione, svolta in tutta quest'area ha restituito solo pochi indizi, limitati alla presenza sporadica di frammenti di tegole. Per quanto riguarda altre testimonianze di età greca, nel territorio di Rodì Milici, le recenti ricognizioni hanno fornito nuovi dati Sul piccolo pianoro, nell'area a Nord di Pizzo Ciappa, sulla sommità di Monte Lombia (Tav. II, n.

6), infatti, oltre ai frammenti di impasto relativi alla prima Età del Bronzo“ sono stati rinvenuti

frammenti di anfore da trasporto, ceramica acroma e un frammento di un piede di coppa ionica (Tav. III, fig. 3, ge fig. 4) databile alla prima meta del VI sec. a.C. Un'altra area interessata da frequentazione greca è la sommità di Monte Marro (Tav. II, n. 15), a

Sud-Est dell'attuale centro urbano di Rodi. Numerosi sono infatti i frammenti di ceramica a v.n. (Tav. IV, fig. 1, e). Ciò suggerisce l'ipotesi che, nel corso del V sec. a.C., l'area fosse occupata da un piccolo insediamento. L'assenza in superficie di tracce relative ad opere di difesa farebbe pensare ad un piccolo avamposto, difeso naturalmente, sito in posizione molto favorevole per il controllo della 156

pianura sottostante. La vicinanza, immediatamente ad Est di un corso d'acqua, dell'attuale fiume Patri, ne determinò probabilmente la scelta. Le caratteristiche topografiche e la notevole distanza tra i due insediamenti, quello sull'altopiano

di Pirgo e quello di Monte Marro, suggeriscono l'ipotesi di una loro completa autonomia. Il primo,

certamente più vasto e più importante rispetto a quello di Monte Marro, godeva di una simile posicune alture che proteggevano il territorio, di una necropoli contigua in un piccolo pianoro sottostante e di un'area sacra (?), lasciano, infatti, ipotizzare una scelta e un'organizzazione più razionale di tutta l'arca. Per quanto riguarda la possibilità che l'insediamento rientrasse nella sfera di influenza di Zankle, la città più importante della costa nord-orientale dell'isola, i dati archeologici non forniscono alcun dato. I due nuclei, al di là della loro estensione e articolazione, avevano probabilmente la stessa funzione: il controllo della vicina fascia costiera tirrenica, facilmente raggiungibile.

zione strategica, ma si era sviluppato in un'area topograficamente più articolata. La presenza di al-

4. Età ellenistica

Un quadro meno articolato, attestato solo da rinvenimenti sporadici in diversi punti del territorio, è possibile delineare per l'età ellenistica‘. Nuove attestazioni relative al IV sec. a.C. si ricavano solo grazie al rinvenimento, nell'area circostante Monte Lombia (Tav. II, n. 6), di monete di bronzo; si tratta di esemplari emessi dalle zecche di Tindari, di Abakainon e di Siracusa, rispettivamente nella 2* metà del IV secolo le prime due, nel III secolo la terza. Durante il IV sec. a.C. l'area rientrava probabilmente nella sfera d'influenza di Abakainon, il centro indigeno localizzato nell'attuale comune di Tripi, pochi Km a Sud-Ovest di Rodi ^. Come ci conferma Diodoro (Diod. XIV, 78, 5), Abakainon fu privata di parte del territorio, quando Dionigi il Vecchio, con un gruppo di esuli Messeni, fondò nel 396 a.C. Tindari. A conferma della fonte letteraria il nuovo dato numismatico spinge a ritenere che il territorio in questione fosse dominio dei due grossi centri, di Abakainon prima e di Tindari dopo. L'ipotesi, già ricordata“, di un possibile spostamento dell'insediamento di età classica localizzato sull'altopiano di Pirgo, verso aree più vicine alla costa, è confermato pienamente dai nuovi dati. L'assenza, su Pizzo Ciappa, di materiali databili dopo il V sec. a.C. dimostrerebbero il completo abbandono dell'area fortificata ed una frequentazione dell'area immediatamente a Nord. Poche sono le testimonianze di III sec. a.C. Le sporadiche notizie, già riportate”, circa la frequentazione in questo periodo di Contrada Pietre Rosse e Mangiaramigna (Tav. II, n. 14) sembrano ora confermate, grazie alla ricognizione archeologica. Numerosi frammenti di tegole, reimpiegati in muretti a secco e frammenti di due grossi pithoi sono stati, infatti, rinvenuti (Tav. IV, figg. 2-4) in Contrada Scorciacapre (località “Vadduni 'o fundu") (Tav. II, n. 12), poche centinaia di metri a Est

delle contrade Mangiaramigna e Pietre Rosse.

La tipologia dei materiali rinvenuti suggerisce pertanto l'ipotesi dell'esistenza di piccole fattorie vallata, appare ancora oggi particolarmente adatta ad attività agricole. Si trattava con molta probabilità di insediamenti rurali che si andavano sviluppando nelle aree pianeggianti più vicine alla costa, così come accade in molti altri centri della Sicilia e della Magna Grecia nel momento in cui le città greche, alla fine del IV sec. a.C., attraversarono un periodo di decadenza economica. in aree in cui la conformazione topografica, piccole terrazze pianeggianti a ridosso di una stretta

5. Età romana La ricognizione archeologica ha consentito di delineare la presenza di insediamenti di età romana in due aree, rispettivamente in Contrada Scorciacapre (Tav. II, n. 13) e in Contrada Sulleria (Tav. II n. 18). L'area di frammenti fittili di Contrada Scorciacapre (Tav. II, n. 13), nonostante la modesta con157

centrazione, testimonia, tuttavia la presenza di un insediamento databile tra I sec. a.C. e il II sec. d.C. I materiali di superficie, soprattutto frammenti di ceramica acroma, anfore da trasporto, ceramica da fuoco e sigillata italica (Tav. V, figg. 1-3), suggeriscono l'esistenza di un piccolo nucleo rurale. La presenza, in quest'area, di alcuni grossi blocchi squadrati, che delimitano un'area terrazzata, potrebbe rispecchiare una sistemazione precedente. Un'altra area di frammenti fittili, molto più ampia della precedente, è stata individuata in Contrada Sulleria (Tav. II, n. 18), all'interno di una grande e fertile vallata, ancora oggi intensamente coltivata a grano. I materiali rinvenuti in superficie, numerose tegole a listello alto e stretto, frammenti di ceramica da fuoco, anfore da trasporto e qualche frammento di sigillata (Tav. V, figg. 4-5) ricadono in un arco cronologico che và dal I sec. a.C. al I sec. d.C. Inoltre l'abbondanza di tegole e coppi di età imperiale, l'assenza di elementi di lusso (tessere di mosaici, vetri) indica la presenza di edifici rurali che, a mio avviso, non si possono definire “fattorie” per le modeste estensioni rispetto a quelle di altre aree della Sicilia. Ciò che accomuna questi due siti è dunque il carattere agricolo suggerito sia dalla topografia dei due stanziamenti che dalla prevalenza di materiali tipici degli insediamenti rurali, quali frammenti di anfore, di ceramica da fuoco e di macine in pietra lavica. 1 dati di età romana forniti dalla ricognizione suggeriscono di formulare l'ipotesi di un collegamento tra l'area di Contrada Sulleria e una villa romana, portata alla luce già da molti anni in località S. Biagio”, pochi Km a Nord. È probabile, pertanto, che tutta la grande vallata di Contrada Sulleria costituisse il retroterra agricolo della villa, nella quale dovevano esistere diverse unità produttive, anche di minore portata, tra le quali doveva rientrare anche l'area di Contrada Scorciacapre (Tav. IL n. 13).

In Sicilia questi agglomerati rurali, spesso di notevoli dimensioni, si sviluppano in età tardoantica con carattere sia di latifondo che di retroterra agricolo delle ville a carattere residenziale, dislocate in varie zone della Sicilia *. Segnaliamo infine gli sporadici rinvenimenti di materiali di età tardo-romana (soprattutto frammenti di tegole) in una piccola area in prossimità del fiume Patri (Tav. IT, n. 20) e su Pizzo Cocuzza (Tav. II, n. 2), probabilmente piccoli nuclei agricoli isolati. I quadro da noi delineato, sebbene ricco di presenze, è ancora molto frammentario e problematico sia per la casualità dei rinvenimenti che per la frammentarietà dei materiali. È opportuno segnalare, tuttavia, che questi dati, sebbene ancora lacunosi, possono suggerire im-

portanti e mirate strategie di ricerca per la comprensione di numerose problematiche legate alla frequentazione di questa fascia della costa tirrenica, ancora oggi poco nota. Infatti, mentre sono già abbastanza conosciuti gli orizzonti culturali preistorici e protostorici riguardanti il vicino arcipelago eoliano, l'area compresa tra le future città greche di Zankle e Himera presenta ancora molti punti oscuri. Sarebbe molto interessante, ad esempio, capire se l'unica facies dell'Età del Bronzo attestata sia quella gia nota di Rodi-Tindari-Vallelunga o se coesistano più orizzonti culturali. La frequentazione, poi, nel corso dell'Età del Ferro, attestata solo dal rinvenimento delle tombe a grotticella artificiale potrebbe essere ulteriormente chiarita se si localizzasse e si mettesse in luce l'abitato relativo. Ancora i notevoli indizi sulla frequentazione dell'area in età greca, andrebbero ulteriormente approfonditi, alla luce anche della problematica sull'incontro tra il centro indigeno e l'elemento greco che, dai centri costieri limitrofi, penetrava verso l'interno. Ulteriori ricerche nel territorio dovranno pertanto essere ormai supportate da sistematici scavi archeologici che potranno confermare e approfondire le ipotesi di lavoro finora formulate. Questa prima sintesi dei dati ricavati dalla ricognizioni archeologiche, in vista di una futura pubblicazione della Carta archeologica completa del territorio, vorrebbe in ultimo fornire uno strumento di conoscenza a quanti operano per la tutela di questo territorio.

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NOTE * IGM 253 ΠῚ NE-SE (Tav. D. Ὁ Le ricognizioni dirette sul territorio, precedute da ricerche bibliografiche e completate da schedatura dei reperti, documentazione grafica e fotografica, erano finalizzate alla redazione di una Carta archeologica generale del territorio di Rod! Milici, oggetto della Tesi di Specializzazione in Archeologia classica presso l'Università di Lecce, discussa da chi scrive, nell'anno accademico 1995/1996. Ὁ Ryolo Di Maria (D. Rvoro Di Manus, Il Longano e la sua battaglia, in ASS, S. III IV, 1950-1951, pp. 347-348; D. Rvoto DI Maus, Ubicazione della sicula città di Longane, in “Atti VII Congr. Naz. di Storia dell'Architettura, Palermo 1950", Palermo 1956, pp. 255-256; D. Ryolo DI Maria, Longane, in Aa.Vv. Longane, Rodi Milici 1967, pp. 7-37) partendo dalla lettura del testo di Diodoro (XXII, 13,2) era giunto alla conclusione che l'antica Longane doveva sorgere nell'area a Ovest del torrente Patri o. Termini, a Est dell'attuale abitato di Rod Milici. * L.Beanaso Baza, Sulla città di Longane, in ASS ΠῚ, IV, 1950-1951,pp. 392-393. * In Philist. FGrHist 553 F 38 ap. Steph. Byz. s.v. Λογγώνη troviamo “Λογγώνη πόλι 110 Zeweltac"; la menzione del fiume Λογγάνοσ, presso il quale avvenne la battaglia tra lerone Il e i Mamertini nel 269 a.C. (Polyb. 9,7 c Dod. XXIL13,2 in cut Λοιτάνοςva corretto in Λογγάνος) ha dato adito a numerose discussioni circa la connessione con la città di Longane. * Per quanto riguarda la moneta trattasi di una lira d'argento che reca al d/testa di Eracle giovane con leontè, volto a destrae intorno, delimitata da una fila di perline, la leggenda AOITANAION (retrograda), sul a testa di una divinità fluviale volta a sinistra; la moneta è stata datata al penultimo decennio delV sec. a.C. (R.S. Poots-P. GarpneR-B.V.Hra, British Mueum Catalogue of Greek Coins, Sicily, London 1876, p. 96, nr. 1; B.V. Heap, Historia numorum, 1887, p. 132; A. Hot, Geschichte des sicilisches Munz-wesens (Geschichte Siziliens III), 1898, p. 603, nr. 121; G.F. Hux, Coins ofancient Sicily, Westminster 1903, p. 92; S. Manone, Le monete di Longane o Longone, in RIN, XXIX, 1916, pp. 450-460; G.E. Rizzo, Monete greche della Sicilia, Roma - Libreria dello Stato, 1946, pp. 64-65, p. 261, p. 267, nr. 23 e tav. LIX, 29; S. Coxsoto Lancnrr, Contributo. alla storia dell'antica monetazione bronzea in Sicilia, Milano 1964, pp. 113 ss., p. 134, p. 143; L. BERNABO BREA, Che cosa conosciamo dei centri indigeni della Sicilia che hanno coniato monete prima dell'età di Timoleonte, in "Le emissioni dei centri siculi fino all'epoca di Timoleonte e i loro rapporti con la monetazione delle colonie greche di Sicilia”. Atti IV Conv. Centro Intemaz, di Studi Numismatici, Napoli 1973" ALIN XX, 1975, Suppl., pp. 6-9 e tav. XI; G.K. Jenkins, The Coinage of Enna, Galaria, Piakos, Imachara, in Le emissioni dei centri, cit, pp. 77-78, pp. 99-101; A. Cumoni Tusa, Recenti studi sulla monetazione della Sicilia ‘antica, in Kokalos XXIL-XXIII, 1976-1977, pp. 315-316) II caducco di bronzo (lungh. cm 46,5), acquistato dal British Museum nel 1875 e proveniente da un sepolcro della Sicilia (M. FrarsxeL, Berichte, Erwerfungen des Britischen Museum im Jahre 1875, Archaol. Ztg. XXXIV, 1876, pp. 39-40; H. Rorm, Inscriptiones graecae antiquissimae, praeter Atticas in Attica repertas, Berolini, 1882, p. 150; E.S. Roments, An Introduction to Greek Epigraphy, Cambridge 1887, I, 206; G. Kamer, IG XIV, 1890, nr. 594; H.B. WALTERS, Catalogue of the Bronzes Greek, Roman and Etruscan in the Department ofGreek and Roman Antiquities. British Museum, London 1899, p. 48, nr. 319) reca sullo. stelo l'iscrizione AONTENAIOX EMI ΔΗΜΌΣΙΟΣ. Il caduceo, dallo stelo a sezione cilindrica, termina in fondo con un bottone conico; alla sommità due serpenti, con le teste contrapposte e gli occhi e la bocca incisi, i cui corpi si fondono in basso a formare un anello. Secondo Bernabò Brea lo strumento, insegna del keryx di Longane, è databile nei primi decenni del V sec. a.C. per il confronto con un caduceo simile degli Imacharesi, conservato nel Museo di Palermo (A. Romano, in Giornale di Scienze Lettere ed Arti per la Sicilia, 1835, tomo 53, pp. 717 ss. A. Romano, in Giornale di Scienze Lettere ed Arti per la Sicilia, 1836, tomo 57, pp. 152 ss. A. SaLINAs, in ASS, SIIT, 1865, p. 140; G. KuaeL, IG XIV, 1890, nr. 583) e per la forma già nota nelle figurazioni vascolari attiche (L. Βεκναβὸ Brea, Sulla città i, ci, p. 390). 7 P. Onst, Necropoli siculaa Pozzo di Gotto in queldi Castroreale, in BPI XLI, 1915, pp. 83-84. * IL confronto, stabilito dopo da L. Βεκναβὸ Brea, Sulla città di, cit, p. 394), riguarda sia una Aydria proveniente dalla necropoli di Gela in contrada Spinasanta (P. Orsi, Gela. Esplorazione di una necropoli in contrada Spinasanta, in NSA 1932, p. 141) che un acquisto del Musco di Gela, proveniente da Capo Soprano. * L. Braxano Bera, Sulla città di it., pp. 394-397. ? L. Βεκναρὸ Brea, Sulla città di cit, p. 395. " Per una rassegna delle più importanti fortificazioni ad "aggere" in Sicilia vedi RM. Boxacasa Carra, Le fortificazioni ad aggere della Sicilia, in Kokalos XX, 1974, pp. 91 ss. Una fortificazione tipologicamente molto vicina a quella di Pizzo Ciappa è stata scoperta sulla sommità pianeggiante di Monte S. Onofrio, sito pochi km a Est del fiume Patri (G. Voza, L'attività della Soprintendenza alle Antichità della Sicilia orientale, in Kokalos XXII-XXIII, 1976-1977, pp. 579-581 e tav. CXVI). Anche qui la fortificazione, adattata all'andamento del terreno, è a doppia cortina con riempimento di piccoli blocchi; al lato esterno. del muro sono addossate due torri quadrangolari. La tecnica muraria, molto simile a quella della fortificazione di Pizzo Ciappa fa ipotizzare una datazione al V sec. a.C. ? RM. Bonacasa Cana,Le fortificazioni,cit. p. 112. ? L: Βεκναβὸ Buea, La città di Longane, in An. Vv., Longane, Rodi Milici 1967, pp. 41-45. L. Bernabò Brea, Che cosa conosciamo, cit. p. 9. τι Emateriali rinvenuti nel corso dello scavo sull'acropoli di monte Ciappa negli anni 50 non sono stati ancora pubblicati, ma notizie preliminari fornite da Βεκναβὸ Baza (L. Βεκναβὺ Bata, La città di, cit, pp. 41-49 e L. Benno Baza, Che cosa conosciamo, cit. p.9) attribuiscono i frammenti ad una facies da lui definita di Rodì-Tindari Vallelunga relativa proprio al Bron20 iniziale (XVITI-XV sec. a.C.) ! Nel dicembre del 1951, grazie al rinvenimento fortuito di vasi in quest'area, nel corso di lavori di sistemazione agrico159

Ja, fa fatto un sopralluogo che porto all'identificazione delle tombe (L. Βεκκαβὸ Baza La necropoli di Longane, in BPI LXXVI, 1967, p. 181). Βπκναηὸ Brea, La necropoli cit. pp. 239-253. ? A quelle pubblicate dal Bernabò Brea, vanno aggiunte anche alcune tombe individuate da Genovese in contrada Scorciacapre (TAV. I n. 9) (P. Genovese, Testimonianze archeologiche e paletnologiche nel bacino del Longano, in SicA X, 33, 1977, p.27 e tav. 14,1; P. Gexovese, Testimonianze protostoriche nel teritorio dei comuni di Rodi Milici e Terme Vigliatore, in SicA XII, 40, 1979, p. 73) ?* L. BeRnand Basa, La necropoli, cit., p. 243 e fig. 29. ! L. Bernabò brea, La Sicilia preistorica y sus relaciones con Oriente y con la peninsula iberica, in Ampurias XV-XVI, 1953-1954, p. 176; L. Βεκναβὸ Brea, Dall'Egeo al Tirreno all'alba dell'età micenea, Archeologia e leggende, in Magna Grecia e mondo miceneo, in ASMG XXII, Taranto 7-11 ottobre 1982. Taranto 1983, pp. 19 e 29; L. Βεκναβὸ Brea, Gli oli e l'inizio del Età del Bronzo nelle Isole Eolie e nell'Italia meridionale. Archeologia e leggende. Napoli 1985, pp. 126-127; S. Tusa, La Sicilia nella preistoria, Palermo 1983, pp. 273-281. 7? L. Βεκναβὸ Baza, La necropoli, cit., pp. 180.253. ? P. Orsi, Le necropoli elleniche calabresi di Torre Galli e di Canale lanchina, Patariti in MonAL XXI, 1926, pp. 211-376, tav DEXIX. ® D. Roo Di Maria, Longane, in AAWV., Longane, Rodi Milici 1967, p. 34. Tra le monete di bronzo, vengono dal Ryolo segnalati solo due esemplari, coniati rispettivamente dalla zecca di Tindari e di Siracusa. La prima, probabilmente emessa tra il 395 e il 345 aC, reca sul ditesta di Elena volta a sx con corona e dietro stella a 8 raggi e cerchio di puntini, in alto la legenda. TONAAPIS; sul runo dei dioscuri a cavallo con elmo, clamide e cerchio di puntini. La seconda sembra appartenere alla zecca di Siracusa e probabilmente ad un tipo del ΠῚ sec. a.C. reca sul d/ testa di Atena volta a sx con elmo e dietro il fulmine, sul riclamide e cerchio di puntini. ? Ῥ Rroto Di MARI, Longane, cit. p.9. » P. Genovese, Testimonianze protostoriche, cit. 1979, pp. Τά e 71, tav. 3. * Il centro archeologico di monte S. Onofrio, in seguito alle segnalazioni di Genovese, è stato oggetto di una campagna di scavo da parte della Soprintendenza archeologica di Siracusa (G. Voza, L'attività della Soprintendenza, cit, pp. 579-581 e tav. CXVD, che ha riportato alla luce la fortificazione ad aggere. Anche qui la fortificazione, adattata all'andamento del terre» no, è a doppia cortina con riempimento di piccoli blocchi; al lato esterno del muro sono addossate due torri quadrangolari La tecnica muraria, molto simile a quella della fortificazione di Pizzo Ciappa, fa ipotizzare una datazione al V sec. a.C. In ragione di ciò il Genovese (P. Genovese, Testimonianze archeologiche, ci., p. 46), in disaccordo con quanto detto da Ryolo, ipotizzava che in questo territorio potrebbe essere ubicata l'antica Longane. * I siti le aree di frammenti fittil individuati sono stati posizionati momentaneamente sulla carta aerofotogrammetrica (1:10.000) del comune di Rodi Milici (TAV. ID, in questa sede riportata in riduzione 1:20000. Si ringrazia il prof. A. Zanghì, studioso di storia medievale di Rodi Milici nonché presidente del locale Archeoclub, per la segnalazione di molti dei siti inda gati e studiati da chi scrive. 7 Possiamo ipotizzare l'esistenza di un diverso rito di sepoltura, ad esempio quello ad enchytrismos, solo dal confronto ‘con le sepolture coeve di Naxos (P. PeLacaTm, Naxos - Relazione preliminare delle campagne di scavo 1961-1964, in BA XLIX, 1964, pp. 3-19.; E. ProceLLI, Naxos preellenica. Le culture e i materiali dal neolitico all'età del ferro nella penisola di Schisò în Cronache di Archeologia 22, 1983, pp.9-82.). 2 Frammenti inquadrabili in questa facies erano stati rinvenuti fino a qualche anno fa solo in alcune località della provincia di Messinae precisamente: nella tomba 21 di monte Gonia e nei livelli preistorici sotto la fortificazionedi Pizzo Ciappa a Rodi Milici, nella stazione di Tindari (M. CavauIER, La stazione preistorica di Tindari, in BPI XXI, 1970, p. 75 e fig. 13b) < nelle sepolturead enchytrismos di Naxos (P. PrLAGATTI, Naxos - Relazione, cit, pp. 3-19; Ε. Paocstut, Naxos preellenica, cit., p.982). 7? Tn una tomba a Vallelunga, erano state rinvenute, associate a ceramica castellucciana, delle tazze profonde con altissime anse ad ascia o ad orecchie equine, inizialmente prive di confronto (L. Braxasd mna, La Sicilia preistorica cit, p. 176, tav. XD. ® J. Bovio Maxconi, Il villaggio di Boccadifalco e la diffusione del medio-bronzo nella Sicilia nord-occidentale, in Kokalos XXXI, 1964-1965, pp. 523-524 e tavv. XXXILXXXVI. si E. Process, Naxos preellenica, cit, pp. 72-73 e note 160-171. ? L, Βεκναβὸ sera, La Sicilia prima dei Greci, Milano 1958,p. 114. 5» Lidentificazione della città indigena di Longane (L. Βεκναβὸ Baza, La Sicilia, cit, p. 183. D. RyoLo Dr MARIA, Longane, cit, pp. 9-11; L. Βεκναβὸ Brea, La necropoli, ci p. 42; L. BeRxarÒ BREA, Che cosa conosciamo, ci. p. 8), con l'insediamento cui si riferisce la necropoli a grotticelle di monte Gonia, è ancora un problema aperto; infatti le evidenze più importanti, rela tive al VI e V sec. a.C, si trovano in un'area molto a Ovest da quella in questione, ragion per cui non è certamente sull'altopiano di Pirgo che va ricercato l'abitato indigeno dell'età del Ferro, poi ellenizzatosi nel corso del V sec. a.C. % Vedi supra, pp. 4e 8-9. ® Vedi supra,p. 2. » Aa. Vv, Himera IL Campagne di scavo 1966-1973, Roma 1976, pp. 441-444 e fig. 12,3 * Perla bibliografia sulla tipologia delle tegole i alcune aree della Sicilia, vedi Ax Vv, Himera IT, cit p. 442, nota 141 ™ Vedi supra, p. 3. ® Vedi supra, p. 45. * Vedi supra,p. 8. 160

“Peri rinvenimenti sporadici di ceramica di IV-III sec. a.C. e di alcune monete bronzee a Rod, nell'area tra Monte Lombia e Rocca Bianca vedi supra, p. 5. C. ALIBRANDI-A. Ζανόμι, Rodi Milici nel 40° anniversario dell'autonomia 1947-1987. Una terra da riscoprire, a cura del l'Amministrazione Comunale di Rodi Milici, Rodi Milici, p. 52, figg. 11-12. © F. Vip, Tripi. Ricerche ad Abacenum, in NSA 1954, pp. 46-50; M. Cavauier, Abacenuom, Scavi nell'area urbana, in BA 1954, p. 89 efigg; 46; L. Βεκναμὸ Bara, Che cosa conosciamo, ci. 1975, 9-11. 7 Vedi supra, p. 5. © vedi supra, p. 6. “ G. Vaiter, in Aa. Vv. Storia della Sicilia I, Napoli 1979-1980, pp. 335-338. Per il popolamento in Sicilia dopo le guerre puniche si veda RIA. WiLSox, ix Papers in Italian Archaeology IV, 1 - BAR. 8243, Oxford 1985, pp. 318-319. © La villa di S. Biagio (G.V. Gexru, in FA VIII, 1952 nr. 2524; D. Von Borsttacen, Antike Mosaiken in Sizilien, Rome 1983, pp. 90:97; RIA. Witson, Sicily under the Roman Empire, Worminster 1990, pp. 199-203), edificata in età tardo-repubblicana e rimasta in uso almeno fino al VI sec, d.C., attraversò un momento di massimo splendore tra I sec. a.C. e Il sec. dC. © G. Beton, Gli insediamenti della Sicilia romana: distribuzione, tipologia e sviluppo da un primo inventario dei dati archeologici, in A. Gianna,Le Merci, Gli insediamenti (Società romana e impero tardoantico IIT), Roma e Bari, 1986, pp. 473 ss. © Per una descrizione globale di tutte e ille romane in Sicilia vedi R.I.A. Witson, Sicily under, cit, pp. 189-236. Si riportano in questa breve nota solo due importanti aggiornamenti bibliografici, successivi alla consegna del testo, relativi alla pubblicazione degli scavi di Longane del 1951-52 (L. stiano BREA, Longane, in Quaderni di Archeologia I, 1, 2000, pp. 7-57) e alla prima campagna di scavo svolta dal Dipartimento di Scienze dell'Antichità dell'Università di Messina sulla sommitàdi Monte gonia di Rodi Milici (A. Sreacusaxo - B. Canon - D. Faccowe, Resti di un complesso rural ellenistico sul Monte Gonia presso Rodi Milici, in Quaderni di Archeologia I, 2, 2000, pp. 5-40)

161

Comune di Rodi Milici (IGM 1:25.000-F. 253 ΠῚ NE-SE). 162

trt eee eas. Ubicazione dei siti e delle arce di frammenti fittili (carta aerofotogrammetrica del comune di Rodi Milici. Scala 1:20.000).

163

3 1-2. Allineamento di blocchi lungo il pendio meridionale di Monte Gonia; 3. Frammenti fittili dal pianoro di Monte Lombia; 4. Profilo del frammento di coppa ionica da Monte Lombia (scala 1:4). 164

TAV.IV

E 1. a-m Frammenti fittili da Monte Marzo; 2-3. Frammenti di due pithoi da Contrada Scorciacapre; 4. Prolifi dei frammenti di pithoi da Contrada Scorciacapre (scala 1:4). 165

TAV.V

4

i

s

B

1-2. Frammenti fittili da Contrada Scorciacapre; 3. Profili dei frammenti da Contrada Scorciacapre (scala 1:4); 4. Frammenti fitili da Contrada Sulleria; 5. Profili dei frammenti da Contrada Sulleria (scala 1:4). 166

LORENZO CAMPAGNA UN CAPITELLO IONICO A QUATTRO FACCE NEL MUSEO REGIONALE DI MESSINA Nel Museo Regionale di Messina si conserva un capitello ionico in terracotta con le quattro facce

uguali e le volute poste secondo le diagonali dell'abaco '. Questa conformazione costituisce uno degli elementi che caratterizzano il tipo di capitello ionico più diffuso in Sicilia in età ellenistica, il capitello cosiddetto “ionico-siceliota”; rispetto a questo tipo, tuttavia, l'esemplare messinese presenta diversi motivi particolari nella morfologia e nella decorazione, che invitano ad esaminarlo in modo più approfondito. Il capitello (inv. A 229; figg. 1-2, Tavv. LI) è realizzato in argilla arancio-rosata dura, fessurata, con frequenti inclusi scuri e grigiastri medi e grandi; la superficie è rivestita da un ingobbio rosato chiaro, liscio e abbastanza spesso. Mancano una voluta per intero e circa metà di una seconda, di un'altra sono abrase entrambe le facce; si conservano soltanto due delle palmette verticali ai lati del'echino, appartenenti a due facce diverse. Estese lacune si evidenziano nel sommoscapo, nell'astragalo, nel canale e sugli ovoli dell'echino; abaco, molto rovinato, conserva il bordo originale soltanto in un breve tratto, sulla faccia superiore rimangono solo poche parti dell'originario piano d'attesa?. Il capitello ha un'altezza complessiva di cm 29,5, comprendente anche il sommoscapo della colonna, lavorato insieme (alt. capitello: cm 16,8; alt. sommoscapo: cm 12,7), ed è attraversato al centro per tutta la sua altezza da un ampio cavo circolare, tendente ad allargarsi lievemente verso l'alto (diametro alla base: cm 23,5; diametro superiore: cm 25,5 circa). Il sommoscapo si articola in una fascia liscia inferiore più stretta (diam. cm 37,37; alt. cm 5,6) e in un collarino sagomato a cavetto (diam. cm 42,81; alt. cm 4,7), sormontato da un astragalo a perle sferiche e fusarole a disco (alt. cm 2,4). L'echino (alt. cm 7,3) è decorato da un kyma ionico con tre ovoli su ogni faccia, dei quali i due ai lati erano in origine parzialmente coperti dal calice delle palmette. II calice è mal conservato su tutte le facce e non è riconoscibile nei particolari: sembra si trattasse di un elemento arcuato stretto ed alto, nascente dall'angolo inferiore tra la voluta e Yovolo del kyma. Le palmette, verticali (alt. cm 10), si impostano sul calice all'altezza della parte superiore degli ovoli e raggiungono il limite inferiore dell'abaco: esse sono costituite da nove digitazioni a spigolo vivo con l'estremità superiore rivolta all'esterno. Le volute (alt cm 17) presentano tre spire ricadenti sullo stesso piano verticale, con nastro a sezione concava delimitato da un listello a spigolo vivo, che sembra proseguisse anche sopra il canale a costituirne il margine superiore; l'occhio è a bulbo sporgente (diam. cm 4,30; distanza tra i centri delle volute: cm 31). Al raccordo tra le volute contigue si trova, nella parte superiore, una foglia d'acanto stretta e allungata, con la nervatura centrale cd i lobi laterali delimitati da linee incisc; un'altra foglia si trovava nella parte inferiore, nascente dalla base della voluta, ma è poco conservata in tutti i casi. Il canale (alt. cm 7,5), su un piano arretrato rispetto all'echino, è a profilo rettilineo e presenta una linea incisa con andamento concavo verso l'alto, terminante prima del punto di raccordo con le volute. L'abaco è basso (alt. cm 1,9; largh. cons. cm 44), con i lati concavi; la conformazione degli angoli non è più riconoscibile. Dall'unico breve tratto conservato si può restituire un bordo profilato a gola con estremità superiore lievemente sporgente.

Non è stato possibile rintracciare alcuna notizia relativamente al luogo c all'epoca del rinvenimento del capitello”. La data del suo ingresso nelle collezioni del Museo non è nota, ma è sicuramente precedente al 1929: l'esemplare è infatti registrato nell'inventario redatto in quell'anno, senza indicazioni sulla provenienza‘. Un eventuale rinvenimento nel corso degli interventi di sbancamento che segnarono la ricostruzione di Messina nei decenni successivi al sisma del 1908, sarebbe stato probabilmente segnalato da Paolo Orsi — cui si devono in quegli anni tutte le notizie sui pochi scavi archeologici e sui più numerosi recuperi fortuiti* -, o avrebbe almeno lasciato traccia nella documentazione d'archivio. L'altra possibilità è che il capitello si trovasse già nel vecchio Museo Civico 167

Fig. 1. Messina, Museo Regionale. Capitello ionico a quattro facce (inv. A229). Pianta e prospetto. 168

Fig. 2. Messina, Museo Regionale. Capitello ionico a quattro facce (inv. A229). Veduta angolare. cittadino, rimasto in vita fino al terremoto, all'indomani del quale i materiali superstiti furono portati nella sede attuale. In base ai documenti pervenutici, nel Museo Civico risultano diversi capitelli, ma le indicazioni fornite, sempre molto scarne, non consentono di riconoscere chiaramente tra questi il nostro esemplare. Di uno di essi, tuttavia, portato al Civico nel 1886, quando fu recuperato insieme ad altri materiali durante lo sbancamento di un'area nella zona sud della città, possediamo una brevissima descrizione: nella relazione sui rinvenimenti nell'area in questione, A. Salinas lo indica come "un gentile capitello ionico a volute angolari, con palmettine rivolte in su"*. La coincidenza delle caratteristiche morfologiche indurrebbe, almeno a titolo di ipotesi, ad identificare il nostro capitello in quello menzionato dallo studioso, anche se, naturalmente, non si può escludere che quest'ultimo fosse un esemplare distinto, andato perduto in seguito senza lasciare tracce”. In ogni caso, la mancanza di dati sicuri sul contesto di rinvenimento non permette di avanzare alcuna ipotesi sulla struttura architettonica cui l'esemplare apparteneva. È probabile che esso si in-

nestasse su una colonna non a fusto pieno, bensì realizzata con elementi in terracotta, come laterizi ad arco di cerchio o dischi cavi al centro: la presenza del cavo centrale nel capitello è generalmente interpretata, in casi analoghi, come alloggiamento di un'armatura di sostegno e di raccordo con un fusto di questo tipo“; in Sicilia esempi di colonne costituite da elementi fittili sono ben attestati in età ellenistica, nei peristili di abitazioni di Tindari e di Morgantina, o nella stoà di Halaesa*. In particolare, è probabile che il collare liscio di diametro inferiore che il nostro capitello presenta sotto il sommoscapo vero e proprio a cavetto, servisse all'incasso nel fusto sottostante. Non è possibile purtroppo andare oltre questa considerazione piuttosto generica; non abbiamo, cioè, elementi concreti per stabilire se la conformazione a quattro facce fosse dovuta ad una posizione angolare del capitello, o se invece tale conformazione fosse estesa a tutti i capitelli dello stesso ordine, secondo la disposizione attestata per il tipo ionico-siceliota ". I capitelli ionico-sicelioti di età ellenistica '!, pur nella varietà di rendimento dei singoli motivi decorativi, presentano alcuni caratteri distintivi ricorrenti, rispetto ai quali il capitello del museo di Messina mostra differenze piuttosto significative, che ne fanno quasi un unicum nel panorama delle attestazioni del tipo finora note. L'elemento più rilevante a questo proposito è costituito da una diversa conformazione delle volu169

te: nell'esemplare messinese esse sono costruite secondo un tracciato chiaro e relativamente regolare, definito da spire a nastro concavo delimitate da un sottile listello a spigolo vivo, e da un grande occhio a bulbo sporgente, c si svolgono ognuna su un unico piano verticale. Nella maggior parte dei capitelli ionico-sicelioti, invece, le volute hanno una forma ben diversa, con spire a nastro piatto o convesso, ispessito, che aggettano progressivamente ed individuano al centro un occhio cavo (“en corne de bélier”): il confronto con attestazioni del tipo da Centuripe, Solunto, Monte Tato - per citare solo gli esempi meglio noti -, pone in evidenza immediatamente le differenze *. Anche nel trattamento di altri elementi della decorazione si rilevano nel nostro esemplare soluzioni poco frequenti. Per alcuni di essi, come per il kyma ionico dell'echino" o per l'insieme di calice e palmette “, si tratta solo di differenze nel rendimento stilistico. In altri elementi, invece, si evidenzia l'adozione di modanature non comuni: poco attestata è la profilatura a cavetto che caratterizza il collarino, in luogo della semplice fascia liscia 5; analogamente, la conformazione dell'abaco, basso e sagomato a gola liscia, si differenzia dalle soluzioni adottate nei capitelli ionico-sicelioti'°. Particolare risalto va dato anche ad un altro elemento della decorazione, il coronamento del sommoscapo con l'astragalo a perle e fusarole: molto raro negli esemplari dell'isola, il motivo è invece ricorrente nei capitelli di alcune aree dell’Italia meridionale, soprattutto l'area campana e quella apula, e può costituire un indizio della presenza nel nostro di tratti stilistici derivati da altre tradizioni ". Più in generale, rispetto alla tendenza avvertibile in modo più o meno accentuato in tutti gli esemplari ionico-sicelioti, a disarticolare gli elementi costituenti del capitello e ad enfatizzare invece i valori decorativi e gli effetti luministici, l'esemplare del Museo di Messina - prescindendo dalle asimmetrie e dalle irregolarità che si rilevano su ogni faccia - risulta piuttosto caratterizzato da una maggiore compattezza della conformazione d'insieme e sobrietà nel trattamento dei singoli elementi A considerazioni analoghe porta il confronto con i capitelli ionici a quattro facce dell'Italia peninsulare, nella quale sono riconoscibili diverse elaborazioni regionali del tipo con caratteristiche proprie, dall'area campana" a quella centro-italica®, fino ai non numerosi esempi dell'Italia settentrionale®, La possibilità che tali elaborazioni dipendano, almeno in parte, dagli esemplari siciliani costituisce un tema ancora da esplorare; i caratteri morfologici e stilistici adottati, comunque, si differenziano in modo piuttosto evidente rispetto a quelli del capitello messinese. Nel quadro delle formulazioni siceliote ed italiche del capitello ionico a quattro facce, si possono però segnalare alcuni esemplari nei quali il trattamento del canale e delle volute mostra maggiori affinità con il nostro, e che, significativamente, provengono da zone abbastanza vicine a Messina. Si tratta di un capitello in pietra da Tindari conservato al Museo di Palermo? e di alcuni esemplari frammentari in terracotta rinvenuti a Reggio Calabria, noti oggi soltanto attraverso un disegno di ri costruzione pubblicato da P. Orsi. In entrambi i casi, apparentemente molto simili tra loro, le volute sono costituite da spire a nastro lievemente concavo disposte su uno stesso piano e bordate da un listello piuttosto rilevato; rispetto al capitello messinese, tuttavia, lo schema delle volute è molto semplificato ed inoltre l'occhio non è costituito da un bulbo distinto, ma dalla semplice terminazione delle spire? I caratteri morfologici e stilistici per i quali il nostro esemplare si differenzia dalle soluzioni più ricorrenti nei tipi ionico-siceliota e ionico-italico, inducono a tentare di riconoscervi la presenza di motivi di origine diversa. A questo proposito, l'accento va posto, a nostro avviso, sia sulla particolare morfologia delle volute, sia anche sulla conformazione d'insieme e sui rapporti proporzionali tra le parti. Relativamente al primo aspetto, il tracciato della voluta definito da un listello sottile, che ne accompagna le spire a sezione concava fino a contornare per intero il grande occhio sporgente, sembra richiamare da vicino un tipo ben preciso di voluta, quello che caratterizza i capitelli attici a partire dal tardo V sec. a.C., ed in particolare alcune attestazioni di IV e III sec. *. La conformazione generale del capitello messinese, tuttavia, è ben diversa da quella degli esemplari attici cui si è fatto riferimento. Le sue caratteristiche essenziali sono determinate da due fattori: innanzi tutto da uno sviluppo contenuto in larghezza, per cui la distanza tra i centri delle volute è inferiore al diametro del sommoscapo e le volute sono quindi piuttosto serrate al corpo centrale; in 170

secondo luogo, dalla posizione relativamente alta delle volute stesse rispetto all'insieme echino/ canale: la linea orizzontale che unisce i centri di queste, passa per la metà superiore dell'echino. Ne risulta una struttura compatta e quasi contratta, che sembra abbastanza isolata rispetto ai tipi di ca pitello elaborati tra età tardo-classica ed ellenistica nelle diverse aree del Mediterraneo. Anche tra i

capitelli ionici “peloponnesiaci”, nei quali, come è stato ampiamente sottolineato, è più avvertibile

sin dalle prime attestazioni la tendenza ad una struttura contratta*s, non è facile trovare esempi mili: in questi esemplari, infatti, le volute, sebbene maggiormente serrate al corpo del capitello, sono in genere collocate più in basso e la linea che unisce i centri passa per la metà inferiore dell'echino*. Una conformazione di questo tipo, relativamente alla posizione delle volute, è attestata in ambito occidentale, siceliota e magnogreco. Nei capitelli della Sicilia meridionale analizzati da D. Theodorescu quasi trent'anni or sono”, sin dagli esempi più antichi in età tardo-arcaica e poi ancora nel V e IV sec. a. C., le volute sono collocate piuttosto in alto rispetto al corpo centrale; in particolare, due esemplari del Museo di Palermo, che lo studioso collocava tra le attestazioni più tarde del gruppo, nell'ultimo terzo del IV sec. *, presentano caratteristiche proporzionali abbastanza vicine, sotto questo profilo, a quelle del capitello messinese. Una conformazione simile, d'altra parte, si riconosce in alcuni capitelli ionici di Locri, che G. Gullini ascrive al periodo tra la metà del V e la metà del IV sec. 2.C.*: anche in questi casi, infatti, le volute sono situate piuttosto in alto rispetto all'echino. Il richiamo a questi esemplari permette di inquadrare la conformazione del capitello messinese negli sviluppi del capitello ionico in Italia meridionale a partire dall'età tardo-classica — sviluppi noti, per altro, ancora in modo piuttosto lacunoso e discontinuo -, ed aiuta forse a comprenderne meglio le caratteristiche. Si può aggiungere, inoltre, che nei capitelli locresi citati si trovano già le palmette disposte verticalmente ai lati dell'echino, che saranno poi un elemento costante del tipo ionico-siceliota. Non sfuggono, d'altra parte, le differenze piuttosto nette tra questi esemplari ed il nostro, differenze sia di carattere strutturale - struttura “normale” a due facce e pulvino in un caso, struttura a quattro facce uguali nell'altro -, sia relative al rendimento stilistico delle singole componenti. A questo proposito, gli esemplari siciliani e locresi si collocano ancora nel solco di tradizioni del tardo arcaismo e di età classica, mentre alcune soluzioni adottate nel nostro riflettono tratti stilistici più aggiornati; abbastanza indicativo, sotto questo profilo, sono le dimensioni e la forma del canale. Nei capitelli del musco di Palermo e di Locri, infatti, il canale è ancora a profilo convesso e molto alto rispetto all’echino™; il margine inferiore, nei primi, ha un andamento concavo, sottolineato da un listello curvo, mentre in quelli di Locri è rettilineo, come nel nostro. Ma soprattutto, rispetto ad entrambi i casi nell’esemplare messinese il canale è significativamente ridotto in altezza fino a raggiungere quasi le stesse dimensioni dell'echino (alt. canale: cm 7,5; alt. echino: cm 7,3). La riduzione dell'altezza del canale caratterizza, in generale, il capitello ionico dell'età ellenistica avanzata, almeno dalla fine del ΠῚ sec. *; anche l'andamento rettilineo del margine inferiore, d'altra parte, diventa più comune a partire dallo stesso periodo. Rispetto a questo quadro, tuttavia, in alcune aree del Peloponneso sono attestati già dagli ultimi decenni del IV sec. a.C. esempi nei quali il canale è interamente rettilineo e ha un'altezza pari, o anche inferiore, a quella dell'echino, come indicano i capitelli di alcuni edifici di Epidauro e di Olimpia®. È probabile che la presenza di queste caratteristiche nel nostro capitello sia dovuta all'influenza di modelli peloponnesiaci, fenomeno, questo, tutt'altro che isolato in Italia meridionale; è significativo, peraltro, che proprio nell'ambito della tradizione peloponnesiaca dell'ordine ionico si diffonda il capitello ionico a quattro facce e volute in diagonale, la cui più antica attestazione risale, com'è noto, agli esemplari del tempio di Apollo a Bassae. G. Roux ba ampiamente illustrato, più di quarantani or sono, la diffusione di questo tipo di capitello nell'architettura del Peloponneso di IV c III sec. a.C., dalla quale deriverebbe, secondo una tesi ampiamente condivisa, la sua introduzione in Italia meridionale e in Sicilia *. Queste considerazioni permettono, in definitiva, di riconoscere nel nostro esemplare non tanto la dipendenza da un modello ben definito di capitello ionico, quanto piuttosto la compresenza di motivi stilistici di origini differenti. Da un lato, infatti, nella conformazione generale, soprattutto nella 171

posizione delle volute, si ravvisano caratteristiche simili a quelle individuabili nelle elaborazioni di area magnogreca e siceliota a partire da età tardo-classica; dall'altro, nel rendimento dei singoli elementi, sembrano recepiti tratti appartenenti ad altre tradizioni, di derivazione attica nel trattamento delle volute, peloponnesiaca nella forma del canale, rettilineo inferiormente, e nelle sue contenute dimensioni in rapporto all'echino. In questo quadro si può forse tentare di spiegare la presenza nel capitello messinese di un el mento abbastanza insolito: la linea incisa con andamento concavo verso l'alto che divide in due parti orizzontali il canale. Se non si tratta di una semplice decorazione, senza alcun significato particolare, vi si potrebbe riconoscere un motivo simile a quello presente in alcuni capitelli del relitto tardoellenistico di Mahdia: in questi esemplari, la cui fabbricazione in Attica non sembra più dare adito a dubbi, il canale è delimitato inferiormente da un listello con andamento concavo più o meno accentuato, che individua tra il canale stesso e l'echino una zona non decorata, interpretata come reminiscenza del cuscinetto dei capitelli ionico-attici di età arcaica e classica *. È possibile, in altri termini, che il solco concavo nel nostro capitello rappresenti, come negli esemplari del relitto, un richiamo a modelli attici, nei quali, scomparso l'antico cuscinetto, si conservava solo una sorta di bipartizione del canale tramite un listello concavo; probabilmente, nel nostro caso, il motivo sarà stato ripetuto senza un preciso riferimento al suo originario significato*.

La compresenza, dunque, nel nostro capitello, di tratti morfologici e stilistici di origini diverse, definisce un insieme con caratteristiche peculiari, che non trova riscontri realmente significativi tra le attestazioni attualmente note in Sicilia e in Italia meridionale. Un dato di un certo interesse è offerto, invece, dalla presenza di motivi simili in capitelli rinvenuti in centri punici e numidici del Nord-Africa: in particolare, alcuni esemplari a due facce e pulvino, da Thugga e da Cartagine, ed uno a quattro facce da Thuburbo Maius, mostrano affinità con il nostro nella posizione alta delle volute in rapporto all'insieme di echino e canale e nel tracciato delle spire”. Anche in questi casi, appartenenti tutti al periodo anteriore alla caduta di Cartagine o a quello di poco successivo, piuttosto che la dipendenza da singoli modelli sono riconoscibili componenti stilistiche di diversa derivazione, soprattutto attiche e peloponnesiache. Le affinità con il nostro capitello invitano a considerare, almeno a titolo di ipotesi, la possibilità che queste componenti siano state mediate nel Nord-Africa dalla Sicilia o dall'Italia meridionale; nella decorazione architettonica dei centri punici e numidici, del resto, gli apporti da queste aree risultano tutt'altro che irrilevanti*. Per la datazione del nostro esemplare, gli unici elementi di valutazione di cui disponiamo, sono di natura stilistica; i dati di rinvenimento sono, come si è visto, incerti e, comunque, poco significatii. Si possono a questo proposito, seppure con cautela, avanzare alcune considerazioni. Gli esemplari del museo di Palermo e di Locri, cui si è fatto riferimento, rispecchiano una fase di elaborazione del capitello ionico in Sicilia e Magna Grecia tra il tardo V sec. e l'avanzato IV sec. a.C.; rispetto ad essi, il capitello messinese mostra alcuni tratti comuni, ma presenta anche, come si è visto, elementi propri ad elaborazioni successive, come il canale di altezza pari all'echino, a profilo non più conves5o ma rettilineo, e con il margine inferiore pure rettilineo; a questi si possono aggiungere altri indizi di una datazione più recente, quali l'assenza del listello inferiore di delimitazione del canale e l'abaco basso e dal profilo semplificato”. Un altro elemento da valutare ai fini della datazione, potrebbe individuarsi nelle differenze piuttosto consistenti messe in evidenza rispetto al tipo “canonico” di capitello ionico-siceliota. È probabile, come è stato ribadito anche di recente, che la creazione del tipo sia da attribuire alle maestranze attive nella Sicilia orientale sotto Ierone II^; la cronologia delle singole attestazioni, tuttavia, rimane un problema aperto, anche perché della maggior parte di esse non si conosce il contesto di provenienza. Un'eccezione significativa, sotto questo profilo, è rappresentata dai capitelli della casa a peristilio 1 di Monte Iato: indagata sistematicamente in tempi recenti da H. P. Isler, la casa è stata datata tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C. Come è stato più volte sottolineato, tale datazione risulta forse troppo alta, almeno per la fase monumentale portata in luce dallo scavo, mentre è più 172

verosimile una data non anteriore agli inizi del II sec. a.C.*'.

I capitelli di Monte lato riflettono una

fase nella quale il tipo ionico-siceliota non solo è già definito in tutte le sue caratteristiche morfologiche, ma appare anche sottoposto ad un'esaltazione delle sue possibilità decorative attraverso un processo di arricchimento degli elementi ornamentali. Sulla stessa linea si pongono altri esemplari di Centuripe e Lilibeo, per i quali però non disponiamo di elementi certi di datazione; tuttavia, considerazioni di carattere generale sullo sviluppo monumentale di questi centri - soprattutto SoJunto e Lilibeo -- in età tardo-ellenistica, indurrebbero a riferire anche tali esemplari al periodo tra la

fine del III ed il I sec. a.C.*. Rispetto a questi esempi, i caratteri stilistici del capitello di Messina

sembrano ascrivibili ad un momento precedente, probabilmente nella fase iniziale dell'elaborazione del tipo ionico-siceliota. Alla luce di queste osservazioni si potrebbe proporre una datazione nel corso del ΠῚ sec. a.C., orientativamente verso la metà.

In merito a questa indicazione cronologica occorre, tuttavia, fare alcune considerazioni. La posi-

zione isolata, da un punto di vista formale, del capitello potrebbe essere dovuta, come abbiamo proposto, al fatto che esso appartiene ad una fase iniziale, quasi di sperimentazione, della serie ionicosiceliota. Tuttavia, i caratteri stilistici sostanzialmente eclettici,

ibridi, su cui si è posto l'accento nel-

l'esame dell'esemplare, inducono a valutare anche un'altra possibilità: che esso sia il prodotto di una. bottega artigiana che lavora su un repertorio tradizionale, reiterando motivi desunti da ambiti e tempi differenti; potrebbe cioè trattarsi dell'adattamento di un modello di capitello già ben definito, da parte di maestranze che rimangono legate piuttosto ad un repertorio di motivi decorativi di più antica formazione. Secondo questa eventualità, che al momento non è possibile, a nostro avviso, escludere, la datazione effettiva dell'esemplare potrebbe essere anche più tarda rispetto a quella suggerita dall'analisi stilitica fin qui condotta. Un importante elemento di valutazione sarebbe rappresentato dal contesto architettonico cui il capitello era des ‘attività di maestranze di questo tipo si comprenderebbe infatti meglio in relazione ad una committenza privata piuttosto che alle realizzazioni dell'architettura pubblica ed ufficiale. Purtroppo, nel nostro caso, i dati di rinvenimento sono, come già si è detto, estremamente in-

certi e, comunque, molto generici, al punto che risulta del tutto impossibile identificare la struttura architettonica cui il capitello apparteneva“; date le sue dimensioni - di un formato medio -, più che ad un edificio pubblico si potrebbe pensare che appartenesse ad una struttura di carattere privato, ma si tratta naturalmente di un'impressione che non è possibile in alcun modo confermare. Volendo affrontare la questione da un altro punto di vista, quello dell'uso della terracotta in luogo del più frequente ricorso alla pietra, i dati certi non sono più numerosi: l'attività delle botteghe che realizzavano manufatti architettonici in terracotta nella Sicilia ellenistica, ed il loro rapporto con la produzione lapidea, costituisce un campo ancora tutto da esplorare. In base alla documenta: zione edita sembra si possa riconoscere nell'isola un'area abbastanza circoscritta per la diffusione di questi manufatti, identificabile con la sua parte nord-orientale; un dato, questo, che andrà adeguatamente verificato ed interpretato. Ma relativamente al tipo di committenza per cui tali botteghe la-

voravano, gli elementi a nostra disposizione sono del tutto insufficienti. Allo stato attuale, infatti, si può rilevare che i pochi capitelli fitili -- sia di tipo ionico, che corinzio-siceliota - di cui sia nota la provenienza, appartengono a contesti di architettura privata, domestica o funeraria, mentre non esiste alcun esemplare sicuramente riferibile ad un edificio pubblico; si potrebbe aggiungere che anche per gli esemplari di provenienza sconosciuta, le dimensioni medio-piccole lasciano ipotizzare nella maggioranza dei casi un'appartenenza ad edifici di carattere privato. Si tratta, comunque, di un nu-

mero piuttosto esiguo di attestazioni, per cui risulta problematico comprendere se tali prodotti fittili fossero destinati effettivamente solo ad alcune tipologie edilizie. Lo stato attuale della documentazione, dunque, non permette di dare una risposta ai problemi che abbiamo sollevato. Queste considerazioni, tuttavia, servono a dare la misura delle difficoltà di inquadramento stilistico e cronologico che si presentano nell'esame di esemplari isolati; e fanno luce, d'altra parte, sulle gravi lacune che rimangono da colmare nelle nostre conoscenze sulla decorazione architettonica di età ellenistica in Sicilia.

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NOTE

* Ringrazio la Direzione del Museo Regionale di Messina c la dott.ssa M.A. Mastelloni, dirigente tecnico per Ia sezione archeologica del Museo, per avere autorizzato la pubblicazione del capitello ed averne agevolato in ogni modo lo studio. Sono inoltre grato alla prof.ssa M.P. Rossignani per avere accettato di leggere questo testo e peri suggerimenti che ha voluto dar mi. rilievi sono di R. Burgio, le fotografie dell'autore. Benché noto da tempo, l'esemplare è rimasto sostanzialmente inedito. Brevi menzionisi trovano in G. Cuma, Siracusa. Scoperte nel Giardino Spagna, in NotSc 1943, IV, fasc. 1, p. 121; A. Vita, capitelli di Solunto (SIKELIKA, 3), Roma 1988, p.32; H. Lavnsa, L'architettura dell'llenismo, tad. it. Milano 1999, p.55, tav. 32a. Una scheda molto sintetica è inolre in G. Consoti, Messina. Museo Regionale (Musei d'Italia - Meraviglie d'Italia, 15), Bologna 1980, p. 62, n. 162 (fg. a p. 61). * Sul capitello è sato effettuato in epoca imprecisata un intervento di restauro con integrazione di parte delle lacune in cemento rivestito con malta - come si vede in una fotografia conservata nell'archivio dell'Istituto Archeologico Germanico di Roma (neg. n. 1932.1054) ed in una dell'archivio del Museo Regionale di Messina (neg. n. 2821), eseguita nel 1958 - ed è verosimile che nello stesso momento siano state apposte sulle pareti del cavo centrale del pezzo quattro grappe e due tiranti incrolati in ferro, tutora esistenti. Le integrazioni sono state invece asportate con un nuovo intervento cui è stato recentemente sottoposto il pezzo (1996), curato dai restauratori prof. Ernesto e Carmelo Geraci, che ringrazio perle informazioni che hanno voluto fornirmi ? G. Cuurena (Siracusa. Scoperte nel Giardino Spagna, ct. p. 121) cita i capitello come proveniente da Tindari, senza addurre alcun argomento; alla luce delle ricerche effettuate, tuttavia, tale provenienza non risulta documentata in alcun modo. * Si veda anche la breve menzione nella guida del Museo pubblicata nello stesso anno dall'allora direttore, E. Μαύςεαι (I Museo Nazionale di Messina, Roma 1929, p. 68). * In proposito, G. Scisoxa, s.v. Messina, Storia della ricerca archeologica, in BTCGI vol. X, Pisa-Roma 1992, part. pp. 2123. "A. Saunas, in NorSe 1886, p. 462. Lo stesso esemplare è menzionato anche nella guida al Museo Civico redatta nel 1902 da G. La Corre Cancer (Il Museo Civico di Messina, edizione a stampa del manoscritto a cura di F. Cameacna CICALA, Chiaravalle 1981, p. 151). * Occorre tenere conto, a questo proposito, che il capitello rinvenuto nel 1886, secondo quanto afferma Salinasera realizzato in pietra, non in terracotta; se effettivamente si trattava dello stesso esemplare, dovremmo pensare ad un'imprecisione da parte dello studioso. * Cfr K. Ronczewsks, Kapitelle aus Tarent im Museum von Bari, in AA 1928, coll. 37-38; G. Locus, La teenica edilizia romana, Roma 1957, vol. I, pp. 548-549; R. J. A. Wason, Brick and tiles în Roman Sicily, in A. McWims (ed.), Roman Brick and Tie Studies in Manufacture, Distribution and Use in the Western Empire (BAR International Series 68), Oxford 1979, p. 11; H. Lorzs-Burr, Die Geschichte des sikeliotisch-korinthischen Kapitells, Mainz am Rhein 1987, p. 14; LavreR, Architertura dellllenismo, cit, p. ST. capitelli ellnistici in terracotta rinvenuti in Sicilia sia ionicossiceliti che corinzio-sicelio presentano {almeno in tut i casi in cui è possibile accertarlo) il cavo al centro; peri riferimenti bibliografici relativi, cfr. infra, nota 46. * Wnison, Brick and tiles, cit, p. 11. ? Si vedano a questo proposito i capitelli ionico-sicelioti della casa a peristilio 1 di Monte Tato: K. Dacci, Studia Ietina VI. Das Peristythaus 1 von laitas: Architektur und Baugeschichte, Zurich 1994, pp. 49-51, 53-55, 69-70, tavv. 20-22, 55-56. "t La denominazionesi riferisce ad un tipo di capitello, i cui ratti distintivi rispetto al capitello ionico normale sono, ol tre le quattro facce uguali e le volute disposte secondo le diagonali delfabaco, una particolare conformazione delle volute e delle palmette ai lati di esse. Non dissimili, almeno perle caratteristiche morfologiche d'insieme, sono i capitelli ionico-ialii: Je due definizioni pongono piuttosto l'accento sulle aree in cui questo tipo è maggiormente attestato, la Sicilia da un lato, al cune regioni dell'Italia meridionale e centrale dall'alto. Sulle due classi di capitelli, in generale, cfr. R. DrtmRUcx, Hellenistische Bauten in Latium, vol. II Strassburg 1912, pp. 155-157; uisi, Siracusa. Scoperte nel Giardino Spagna, cit, p. 124; V. Zio, Introduzione αἱ capitello composito, in Palladio V, 3, 1941, pp. 97-111; M. Narou Il capitello ionico a quattro facce a Pompei, in Pompeiana. Raccolta di studi per il secondo centenario degli scavi di Pompei, Napoli 1950, pp. 230-265; E. Castezis, Les chapiteaux ioniques à quatre faces d'Ordona, in BBelgRom 46-47, 1976-77, pp. 13-33; infine, al recente studio di A. Via (I capitelli i Solunto, ci. pp. 27-38) si deve un primo tentativo di sistemazione tipologica complessiva. Una suddivisione di tutti capitelli ionici a volute diagonali, basata sulla di sposizione delle palmette ai lati dell'echino - orizzontali secondo lo schema canonico o verticali - i trova già nello studio ci tato di E. Casteels, che però non considera affatto il ricco corpus degli esemplari siciliani. Per un quadro riassuntivo delle aree in cui sono attestati i tipi ionico-siceliota e ionico-italico, si veda inoltre R. J. A. Wirson, Roman Architecture in a Greek World: the Example of Sicil, in M. Hzouo (ed.), Architecture and Architectural Sculpture in the Roman Empire, Oxford 1990, p. 74, fig. 5.9, necessitante però di alcuni aggiornamenti. ® Centuripe: Vita, I capiell di Solunto, cit, p. 30, nota 78, tav. XLI, lc, e p. 31, nota 85, tav. XL, 6; Solunto: ibi, pp. 109-115, nn. 149-165, tav. XXVIXXX; Monte Iato: DaucueR, Studia letina VI, it, pp. 53-55, 69-20, tav. 20-22, 55-86. Un'analoga conformazione delle volute caratterizza la maggior parte dei capitelli corinzio sicelioti: cr. in proposito Lavren-Burs, Geschichte des sikeliotisch-korinthischen Kapitlls, ct. p. 2. Ὁ. Nell'echino det capitelliionico-sicelioti è molto più frequente il kyma con ovoli tagliati nella parte superiore, invece che interi come nel nostro caso; un rendimento simile si ritrova in un capitello di semicolonna da Siracusa (CuLtRERA, Siracusa. Scoperte nel Giardino Spagna, ct. p. 79, fg. 36, con cinque ovoli su ogni faccia, anziché tre) e nei capitelli della casa a periti Jio 1 di Monte lato (Durs, Studia [etina VI, cit, tave. 20.22). 174

^ Abbastanza simili solo in un capitello da Solunto (Viti I capitelli di Solunto, cit, p. 111, Ci 153, tav. XXVII, 5-6), nel quale però le palmette non sono rigorosamente verticali, ma leggermente inclinate, e in un esemplare frammentario in terracotta da Tindari (inedito; conservato nei depositi dell Antiquarium locale) 5 Nei capitelli ionico sicelioti il collarino a cavetto è adottato in alcuni esemplari da Tindari (inediti, dei quali uno esposto al Museo di Palermo, inv. 5602, per cui cr infra, nota 21; gli altri sono conservati nei depositi dell'Antiguarium di Tindari), in uno frammentario da Halaesa (G. CarETTONI, in NotSc 1961, 293-294, fig, 32), nonché in parte dei capitelli della casa a peristilio 1 di Monte Iato (cfr. Darcur, Studia leta VI, cit. p. 69, cat. A 20/126 e A 95/97, tav. 20, 55). Si veda inoltre un esemplare da Heraclea Minoa, con il sommoscapo decorato da rosette a quattro petali a rilievo (Museo di Agrigento, inv. 1877; cf. E. Vos MracxLIN, Antike Figuralkapitelle, Berlin 1962, pp. 61, 62-63, 68, n. 178, fig. 337; Via, capitelli Solunto, cit, p.31, nota 83, tav. XLII, 4; Wason, Roman Architecture ina Greek World: the Example of Sicil, cit, nota 20). Nei capitelli corinzio-sieliti, il sommoscapo a cavetto è attestato in un solo caso: cfr. LuureR-Bure, Geschichte des sikeliotisch-korinthischen Kapitells ct, p. 22, cat. n. 31, tav. 12 a-b (da Siracusa) ! L'abaco dei capitelli ionico-sicclioti, invariabilmente liscio, presenta molto spesso una modanatura ad ovolo, più o meno alta, o a profilo lievemente concavo ed alto 0 ancora, ma meno frequentemente, a cyma reversa. ? Nei capitelli ionico-siceliot le attestazioni del sommoscapo decorato con l'astragalo a perle e fusarole sono limitate - a giudicare dai dati disponibili alfesemplare da Heraclea Minoa già citato (supra, nota 15) e ad un altro di provenienza incerta, conservato pure al museo di Agrigento (inv. C1878; Detrick, Hellenistische Bauten in Latium, cit, pp. 156-157; Via, I capitelli di Solunto, cit, p. 31, nota 83, tav. XLII 5). Le soluzioni più ricorrenti sono invece gli astragai lisci, ovvero uno o più listelli, o ancora le due modanature abbinate Per il tipo corinzio siceliota, nessuno dei capitelli censiti da H. Lavren-Bure (Geschichte des sikeliotisch-korinthischen Kapitells cit) per la Sicilia, presenta tale caratteristica, che invece si riscontra in un interessante esemplare figurato da Selinunte: cfr. V. Tusa, Capitello figurato ellenistico da Selinunte, in BAA XXXIX, s. IV, 1954, n. II, pp. 261-264. Per l'area campana si vedano, a titolo esemplificativo, i capitelli di Pompei, dove il motivo è molto ricorrente sia negli esemplari ionico-italici (NaPou, Il capitello ionico a quattro facce a Pompei, ci, passim), che corinzio-italici (LavteR-BUFE, Geschichte des sikeliotisch-korinthischen Kapitll, it, tav. 27-32); cfr. inoltre: capitelli ionico-italici di Torre Annunziata (L. Fencota, Un capitello ionico-talico da Torre Annunziata, in RivStPomp II, 1988, pp. 49-56) e Mirabella Eclano (I. Sconno, in NorSc 1930, p. 408, fig. 6); capitelli corinzieggianti del tempio dorico-corinzio di Paestum (Vox Menckci, Antike Figuralkapitelle cit, pp. 66-67, n. 175, figg. 311-320). Per l'area apula, oltre i capitelli ionico.italici di Ordona (Casreets, Les chapiteaux doniques à quatre faces d'Ordona, cit, pp. 14-20, figg. 23, tavv. EV), cr. numerosi capitelli corinzieggianti di Taranto (Vox Menckcx, Antike Figuraltapitelle, cit, pp. 49 ss, in part. nn. 137, 157, 160, 165, figg. 235, 262, 264-268, 272-273, 287-290), di Brindisi (ibid, pp. 63-64, n. 170, -b, figg, 292-299) e di Lucera (ibid. p. 59, n. 161, figg. 274-278); i capite ionici e corinzieggianti del tempio di San Leucio a Canosa (P. Pexsasexz, II tempio ellenistico di San Leucio a Canosa, in Ialici in Magna Grecia. Lingua, insediamenti, strutture (Leukantia, 3), Venosa 1990, pp. 281-285, fgg. 12-13, tavv. CXII.CXIX). ! Per le caratteristiche dei capitelli fonico-italici di Pompei e dell'area campanasi veda Narou, Il capitello ionicoa quattro facce a Pompei, cit; Fexcot, Un capitello ionico italico, ci. Ai capitlli dell'arca campana si potrebbero accostare gli esemplari a quattro facce rinvenuti ad Ordona - gli unici in area apula -, che presentano caratteri morfologici e stilistici simili, ma appartengono già alla prima età imperiale: cfr Cisresis, Les chapiteaux ionigues à quatre faces d'Ordona, cit ? Cfr. ad esempio, per l'area laziale, i capitelli di Anagni (M. Mazzo.ast, Anagnia, Forma Italiae, Regio I, vol. VI, Roma 1969, p. 86, fig. 104) e di Castel S. Elia presso Nepi (Zuno, Introduzione al capitello composito, cit, p. 109, fig. 19), dei quali non si conosce il contesto originario di appartenenza, o ancora quelli rinvenuti nel santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina (F. Fasoto, G. Gut, Il Santuario della Fortuna Primigenia a Palestrina, Roma 1953, pp. 131-132, fig. 198, tav. XIX, 1; p. 170, fig. 248, tav. XXIIL 8; p. 296, tav. XXV2), e, a Roma, un esemplare dagli scavi del tempio di Cibele sul Palatino (P. Pensanene, Nuove acquisizioni nella zona sud-occidentale del Palatino, in Archeologia Laziale IV [Quaderni del centro di studio per l'archeologia etrusco-italica, 5), Roma 1981, pp. 114-116, fig. 6, tav. XX.11). A questi assocerei i capitelli, molto simili ma purtroppo mal noti, del portico del santuario di Monterinaldo nel Piceno, per cui cfr. L. Mexcanpo, Lellenismo nel Piceno, in. P. Ζανκεᾳ (ed), Hellenismus in Mitelitalien (Kolloquium in Gottingen, 1974), I, Géttingen 1976, pp. 171-172 e nota 97, fig. 79-80). Per Etruria, si vedano ad esempio i capitelli da Tarquinia e da Vulei, per cui CuzrsEa, Siracusa. Scoperte nel Giardino Spagna, cit, p. 122, figg. 74-77. 'Esilano da questo tema alcuni capitelli di Roma databili a partire dall'età augustea, che pur mantenendo lo schema a quattro facce e volute diagonali, mostrano già l'influenza del capitello ionico normale di tipo ermogeniano, affermatosi a Roma sin dalla fine del Il sec. a. C.: ctr. in proposito D. E. Stone, Some early examples of the composite capita, in JRS L, 1960, p. 120, nota 9 e P. Paxsanenr, Scavi di Ostia, VII: I Capitelli, Roma 1973, p. 214, nota 26. È Tra questi spicca in particolare il gruppo dei capitelli di Aquileia, per cui cfr. G. Cavalteni Masse, La decorazione architettonica romana di Aquileia, Trieste, Pola. I. L'età repubblicana, augustea e giulio-claudia, Padova 1978, pp. 44-50, cat. nn 29,12, taw. 1-5. 21 TL capitello (inv. n. 5602) è attualmente esposto nel cortile del Museo; una breve menzione si trova in Va, capitelli di Solunto, cit. p. 34, nota 105. 3 Cfr. P. Onsi, Reggio Calabria - Scoperte negli anni dal 1911 al 1921, in NotSe 1922, p. 171, fig. 20. I capitelli, la cui ubicazione attuale è purtroppo ignota, sono stati recuperati nel 1921 in occasione del rinvenimento fortuito di un edificio identificato come teatro o come odeion, al quale probabilmente appartenevano; per un riesame dei resti dell'edificio cfr. F. MAxTORAmo, Il porto e l'ekklesiasterion di Reggio nel 344a. C. Ricerche di topografia ε di architettura antica su una polis ialita, in Riv sta Storica Calabrese n.s., a. VI, 1-4, 1985, pp. 231-257, senza alcun elemento nuovo sui capitelli. 175

Le misure dei pezzi date dallOrsi nel esto, p. 171, non corrispondonoal disegno di ricostruzione della figura 20, che re stituisce un capitello di proporzioni più schiacciate ed allungate; esse indicano invece un capitello proporzionalmente più si luppato in altezza, con un rapporto tra diametro del sommoscapo ed altezza molto vicino, pur nella differenza di dimensioni assolute, a quello de capitello messinese. L'impossibilità di vedere i pezzi non mi ha permesso purtroppo alcuna verifica diretta. 75 Va inoltre segnalato un capitello a quatiro facce conservato al Museo di Vila Giulia, proveniente da Vulei, che, pur non essendo nel complesso assimilabile al nostro, presenta però anch'esso le volute disposte δὰ uno stesso piano, non aggettanti, con nastro a sezione concava ed occhio a bulbo: L. T. Sio, Etruscan and Republican Roman Mouldings (Memoirs ofthe American Academy in Rome, vol. XXVIT, Roma 1965, p.201 e tav. LXII 6. ΑἹ capitello fa riferimento anche Cultera (Sracusa. Scoperte nel Giardino Spagna, cit. p. 122), ma la foto relativa, da lut presentata alla fig. 73, non sembra corrispondere assolutamente al capitello, che dovrebbe invece essere quello raffigurato alla fig. 74, coincidente con il profilo dell'esemplare presentato dalla Shoe; rterrei dunque probabile che i sia stato nel testo di Cultrera un'inversione delle figure 73 e 74. * Particolarmente indicativi due capitelli dallAsklepicion di Atene, per cui cfr. R. Μακπν, Chapiteaux ionigues de VAsklépicion d'Athènes, in BCH LXVIL-LXIX, 1944-1945, pp. 343-345, figg. 35 tav. XXVII (attribuit alla stod ovest e datato alla fine del V-inii del IV sec. a. CJ;pp. 344-347, fig. 6, tav. XXVITI (dubitativamente attribuito ad un rifacimento di età romana, ma sui modelli originali, della stà orientale del santuari); capitelli del Pompeion (ini del IV sec.a. C.; cr. W. HoEPeNE, KerameikosX. Das Pompeion und seine Nachfolgerbauten, Berlin 1976, pp. 58-62, 134-135, figg. 76,81); o, ancora, uno di fabbricazione stica da Epidauro(G. Roux, L'rchüeeture de TAygoide aux IVe e Ile siecles avant J-C. (BEFAR 199), Paris 1961, pp. 340-341, tav. 90,1, attribuito alla fine del V-inizi del II sec.). Si vedano inoltre i capitelli ionici delle semicolonne addossate ad un pilastro, del tempioin calcare di Atena a Delf (prima metà del IV sec. ibi. pp. 351-352, tav. 4.1; L-P. Micxato, Fouilles de Delphes, 1. TI Le Sanctuaire d'Athéna Pronaia (Marmaria), 4. Le Temple en Calcare, Paris 1977, pp. 63-64, 111-112, figg. 89-91, tav.27). In età tardo-llenisic, nella delimitazione delle spire della voluta s sostituiscono nei capiteli attici nuovi elementi come ad esempio l'astragalo liscio tra due sotilissimi listelli: cfr. in proposito L S. Mna, Athenian Ionic Capital from the Athenian Agora, in Hesperia 65, 1996, 2, p. 140e tav. 47. 7 SÌ veda in proposito Roux, Architecture de lArglide, ct, part. pp. 339, 343, 345, 349-350. * Cfr. ad esempio un capitello dal santuario di Apollo Pizio ad Argo, in Roux, Architecture de l'Argolid, cit, tav. 25, e diversi esemplari di Epidauro, ibid, avv. 68,1 (tempio L), 75,1 (Propilei Nord), 85,1 (portico di Cor), 93,2 (proscenio del teatro) ? Ὁ, Tueoporssct, Chapiteaus ioniques de la Sicile meridionale (Cahiers du Centre Jean Bérard, 1), Napoli 1974. » Tiseoporescu, Chapiteatx ioniques, ci. capitelli n VI, pp. 20-21, tav. VII, fig. 15, tav. XVI, fig. 16;n. VIL, pp. 21-22, tav. DX fig 17, tav. XVII, fig 18 (al museo di Palermo, provenienti entrambi da Selinunte), 9 Cfr G. Guuunt La cultura architettonica di Locri Epiefr, Taranto 1980, pp. 133-134,tav. XIX, 2:3. Si tratta, in partico: lare, di alcuni esemplari conservati nella collezione Scaglione e di un altro rinvenuto casualmente in contrada Strago: per i primi si veda anche E. Lisi, La collezione Scaglionea Locri, in ASMG n. s. IV, 1961, p. 7, nn. 21-22, ta. XXIIXXI, peril secondo, L. Costauona, C. Susan, Una citt in Magna Grecia, Locri Epiceftri, Guida archeologia, Reggio Calabria 1990, p. 152, fig. 213. » ‘Tiovoresct, Chapiteaux ionigues, οἷ, pp. 20, 33, 7 Si veda il capitello ionico del Portico di Filippo a Delo, degli ultimi decenni ἀεὶ ΠῚ se. a. C. (EAA, Atlante dei complessi figurati, Roma 1973, tav. 333, n. 33); la riduzione dell'altezza del canal, fino a raggiungere proporzioni par o inferiori a quelle dell'echino, si generalizza nel corso delIT sec. a.C: cir. in proposito Vtruve, De L'Architecture, livre II, texte établi, tradu et commenté par P. Onos, Paris 1990 pp. 166-168; N. Fencitot, Recherches sur les éléments architecturaux, in AAWV., Das Wrack. Der ante Schifffund von Mahdia, I, Koln 1994, p. 204. © R. Mama, A. Lézins,A propos des déments architecturas de Mahdia, in Karthago X, 1959-1960, p. 151; Tueooonssco, Chapiteaux ioniques, ci. p. 33, nota71 * Si vedano, ad esempio, i capitelli ἀεὶ Philippeion di Olimpia (EAA. Atlante, cit, tav. 327, n. 21), e, ad Epidauro, quelli del tempio Le dei Propilei Nord (Roux, Architecture de 'Arolde it, tv. 68, 1; tav. 75,1: datati entrambi al primo trentennio del II sec a. C). Caratteristiche simil sí possono riconoscere anche negli esemplari delle regioni nord-occidental dela Grecia e dell'odierna Albania, purtroppo in gran parte inediti abbastanza indicativi in proposito sono i capitelli della tod nord dell'agorà di Cassope, datata alla seconda metà-fine del ΠῚ sec. a. C, per cui cfr. Σ. IL AAKAPI, ᾿Ἀνασκαφὴ εἰς Κασσώπην Πρεβέζης, in Praktika 1954 (Athenai 1957), p. 204, figs. 34; In Κασσώπη. Νεώτερες "Avaoragés 1977-1983, Toannina 1984, p. 23, tav. 5a; W. Horrmea,E-L. Scmveioxen, Haus und Stadi im Kassischen Griechenland, München 1994 (Neubearbeitung), p. 96 € Figg. 85-86. Nella prima metà del ΠῚ sec. a. C. ἢ canale rettilineosi riscontra anche nei capitelli di edifici di altre arce: fr in partico. lare i capilli del Propylon di Tolomeo IT a Samotracia (A. Faxzet, Samorhrace X. The Propylon of Ptolemy I, Princeton 1990, tav. LI, fig. 55) S Roux, Architecture de l'Argolid, cit. fr inoltre: Materi, Lézie, A propos des éléments architecturaux de Mahdia, cit. p. 153; T. βεμγκακο, in EAA. Atlante, cit p. 22; F. Ruuscusm, Untersuchungen zur Kleinasatischen Bauoramentik des Hellenisus, Mainz am Rhein 1994, I p. 102, nota 220; B. Wesennero, sv Capitello. La Grecia fino alla fine dll'Elnismo, in EAA Supplemento Il (1971-1994), vol. I, Roma 1994, p. 856. Tuttavia la presenza di capitelli angolari a quattro facce uguali e volute in diagonale nel Monumento delle Nereidi di Xanthos (P. Cours, P. Denncne, Fouills de Xanthos, IL Le Monument des Néréides, Paris 1969, pp. 77-78, τᾶν. 3435 e 176

XXXILXXXIID lascia aperta, secondo R. Martin e A. Lézine (A propos des éléments architecturaux de Mahdia, cit, p. 153, nota 73) la possibilità di un'origine diversa, non peloponnesiaca, di questo tipo di capitello. * Cfr. in proposito Marmi, Lezine, A propos des éléments architecturaux de Mahdia, cit, pp. 151-152. Sul relitto in generale si veda, da ultimo, AA.VV., Das Wrack, cit, I-II. > In alternativa, si potrebbe pensare che il motivo nel capitello messinese sia un riferimento ad una vera e propria bipartizione del canale, quale è attestata nei capitelli dei portici nord ed est dell'Eretteo ad Atene (per cui cfr. G. Pu. STEVENS, L. D. Caskey, H. N. Fowiza, J. M. Paro, The Erechtewm, Cambridge (Mass.) 1927, tav. XVI; J. TaavLos, Pictorial Dictionary of Ancient Athens, New York 1980, figg. 286, 289) e in altri esemplari dipendenti strettamente dal modello dell'Eretteo: il monumento delle Nereidi a Xanthos (Covret, Dzwancwe, Fouilles de Xanthos, III cit, pp. 75-76, tav. 32-35 e XXX) ed alcuni capi telli di Delfi databili nel corso del ΠῚ sec. a. C. (F. Couxav, Fouilles de Delphes t. I, La terrasse du Temple, fasc. 1, Paris 1927, pp. 42-43, tav. VIII; J. Reptat, Remarques sur un chapiteau ionique, in BCH XLVI, 1922, p. 435-438; G. Daux, A. Sx Fouilles de Delphes t. 11, Epigraphie 3, Paris 1932, n. 149, pp. 119-121; Mantis, Chapiteaux ioniques de l'Asklépicion, cit., p. 373, nota 5). Ancora al modello dell'Eretteo viene ricondotta la presenza di un motivo analogo sul capitello di coronamento di una stele punica: cfr. A. Lézie, Architecture punique. Recueil de documents, Paris-Tunis 1960, p. 52, fig. 29,C b 658; cfr. ibid, note 12-13, per altri capitelli punici con la stessa caratteristica. Thugga: cfr. N. Feackioy, L'évolution du décor architectonique en Afrique Proconsulaire des derniers temps de Carthage aux Antonins. Lhellénisme africain, son déclin, ses mutations et le triomphe de l'art romano-africain, s. 1989, pp. 114-115, n. VJ ALL, figg. 22 e 24a, tav. XXII, b-c-d; Cartagine: ibi, pp. 119-120, n. V.IV.A.6, tav. XXV, a-b; Thuburbo Maius: ibid. pp. 121-122, n. VIV.B.1L, tav. XXVI ac, fg. 34, (cfr. inoltre Lezive, Architecture punique, cit, p . 15-19, fig. 7, tav. 1). * Cir. in proposito Fencimoo, L'évolution du décor architectonique, cit., passim, part. p. 105; pp. 126-127. » Cfr. Fenciou, L'évolution du décor architectonique, cit. p. 120; Rumscurm, Untersuchungen zur kleinasiatischen Bauornamentik, cit. I, p. 305. "^ Wnsox, Roman Architecture in a Greek World: the Example of Sicily, cit, p. 73. Allo stato attuale delle nostre conoscen8, tuttavia, considererei questa come un'ipotesi di lavoro da verificare, in quanto formulata per lo più su considerazioni generali sull'attività delle maestranze dei cantieri ieroniani. 4 In proposito cfr. L. Caupana, Note sulla decorazione architettonica della scena del teatro di Segesta, in Atti delle seconde giornate internazionali di studi sull'area elima (Gibellina, 1994), Pisa-Gibellina 1997, pp. 233-234 c note 43-44 (con altri iferimenti bibliografici). © Per gli esemplari di Centuripe e Solunto, cfr. i riferimenti supra, nota 12; per Lilibeo: Via, [capitelli di Solunto, cit, p. 29, nota 72, tav. XL, 1-4, p.31, nota 88, tav. XLI, 2, 5-6. © Chr. in proposito, Witsox, Roman Architecture in a Greek World: the Example of Sicily, cit, pp. 75-16; Ip, Sicily under the Roman Empire. The archaeology of a Roman province, 36 BC-AD 535, Warminster 1990, pp. 23-24 (con altri riferimenti bibiografici). ** Supra, pp. 171-173. “ [siti siciliani nei quali risultano rinvenuti capitelli ftti di età ellenistica, oltre Messina, sono Tindari, Centuripe, Morgantina e, dubitativamente, Taormina; a questi vanno aggiunti anche, data la vicinanza geografica, alcuni rinvenimenti di Reggio Calabria. Per tutt i riferimenti bibliografici relativi cfr. nota seguente. ** Gli unici capitelli ionico-sicelioti in terracotta di cui si conosca il contesto di rinvenimento - a quanto mi risulta -, sono quelli messi in luce nello scavo dell'insula IV di Tindari, ancora inediti (ne ho potuto prendere visione grazie alla cortesia della dott.ssa Madeleine Cavalier, responsabile dello scavo, che ringrazio) Per la serie corinzio-siccliota, cr. i capitelli appartenenti alla casa C della stessa insula (Lauren-Bure, Geschichte des sikeliotisch-korinthischen Kapitell cit. pp. 17-21, cat. nn. 27-29), ai quali si aggiungono due esemplari dalla "Casa dell'Ufficiale” a Morgantina, per cui cfr. B. Tsuxmcts, The domestic architecture of Morgantina in the hellenistic and roman periods (Ph. D. 1984), Ann Arbor 1985, pp. 212-213 e 379-380. Da contesti funerari provengono invece i capitelli miniaturistici rinvenuti nella necropoli di Reggio Calabria: cfr. Laurza-Burz, Geschichte des sikeliotisch-korinthischen Kapitels, ci pp. 9-17, cat. nn. 426. Ἴ tutti gli alti casi noti, le indicazioni di provenienza sono estremamente generiche o del tutto assenti. Per la serie jonico-siceliota si vedano: un altro capitello da Tindari, inedito, conservato nell'Antiquarium locale, uno da Centuripe al Museo di Palermo (Detantck, Hellenistische Bauten in Latium, cit, p. 156, nota 2, fig. 92.2 = Vitia I capitelli di Solunto, cit, p. 31, tav. XL 6); altri due, pure al Museo di Palermo, per cui cfr. ibid. p. 31, nota 84 e tav. XLI, 2 (uno da Tindari o da Taormina, l'altro di provenienza ignota). Dubbio rimane il contesto originario anche nel caso dei capitell fitti rinvenuti a Reggio Calabria nello scavo del cosiddetto odeion (cfr. supra, nota 22), in quanto la loro effettiva appartenenza all'edificio non è accertaPer la serie corinzio-siceliota, cfr. Lavrer-Bure, Geschichte des sikeliotisch-korinthischen Kapitells,cit., pp. 23-24, cat. n. e 204-205 (al Mu33 (da Tindari); p. 58, cat. n. 202 (a Karlsruhe, provenienza sconosciuta); p. 59, cat. nn. 203 (da Centuripe) ‘scodi Catania, provenienza sconosciuta). Inoltre, Tsuxircis, The domestic architecture, cit. p. 380, note 34-35, accenna a diversi frammenti di capitelli corinzi in terracotta da varie aree di Morgantina.

177

TAV.I

Fig. 2. Messina, Museo Regionale. Capitello ionico a quattro facce (inv. A229). 178

TAV. IL

Tav. II. Messina, Museo Regionale. Capitello ionico a quattro facce (inv. A229). 179

ANNA CaRBE RITROVAMENTI MONETARI A FRANCAVILLA DI SICILIA (ME) *

Nel 1979 il rinvenimento fortuito di materiali ceramici nel cantiere edilizio di via Russotti, consenἃ l'esplorazione di ricchi depositi votivi che rivelarono la presenza di un importante complesso cultuale, al centro di una zona fino a quel momento priva di interesse archeologico '. I numerosi saggi e le indagini sistematiche condotte nei decenni successivi in vari punti dell’area urbana hanno riportato alla luce lembi dell'abitato, con porzioni di isolati e tratti della rete viaria. Attraverso i risultati degli scavi è stato possibile ricostruire a grandi linee le fasi di vita di questo centro greco e distinguere tre periodi cronologici: tra il secondo quarto del VI sec. e gli inizi del V sec. a.C., nel corso del V sec., e dopo la rioccupazione del sito, tra la meta del IV e non oltre il terzo quarto del ΠῚ sec. a.C." Le arce interessate dalle ricerche sono situate oltre che nella già citata via Russotti, in via Asiago, e, soprattutto, nella parte sud-occidentale del paese, in contrada Fantarilli; una dracma d'argento di Rhegion è stata rinvenuta, inoltre, in via Liguria, durante uno scavo per la posa della condotta di acque bianche. Nel corso degli scavi sono state ritrovate poco più di un centinaio di monete: piccole frazioni in argento e soprattutto nominali in bronzo. Le 118 monete rinvenute, di cui 32 risultano non identificabili a causa del cattivo stato di conservazione, coprono un arco cronologico piuttosto ampio che dal V sec. a.C., pur con lacune, giunge all'età moderna. La maggior parte del numerario si pone tra la fine del IV e la metà del ΠῚ sec. a.C., mentre quasi del tutto assente, se si eccettua un consunto bronzo di Gordiano ΠῚ ed un mezzo follis di Costante II", sembra essere la monetazione di età romana e bizantina, per la quale mancano, peraltro, dati archeologici di alcun tipo. Anche se il loro numero non risulta clevato, esse si propongono come documento di primo piano per una valutazione della circolazione monetale e quindi della vita economica di questo, ancora anonimo, insediamento greco, situato all'interno della valle dell'Alcantara. DEL SantUARIO (S 1) Via Russotti, proprietà Grifò e proprietà Puglia.

Le esplorazioni archeologiche hanno messo in luce due complessi architettonici; all'interno di uno di essi (edificio B), eretto nella seconda fase del Santuario, fu accumulata una gran quantità di materiale votivo, che costituisce un insieme cronologicamente compreso tra la fine del VI ed il terzo quarto del V sec. a.C.‘ Sulla base dei reperti vascolari più recenti, la frequentazione del santuario sembra diradarsi e poi cessare tra la fine del V e gli inizi del IV sec. a.C.* La ripresa della vita urbana, riscontrabile nell'area dell'abitato dopo la metà del IV sec. a.C., non portò al ripristino della destinazione cultuale dell'area, tuttavia una frequentazione della zona risulta testimoniata dal ritrovamento di 61 monete*. Gli esemplari di età greca sono 28, di cui la maggior parte di zecca siracusana (22 esemplari), ma sono presenti anche due monete di Tauromenio, una moneta di Abaceno, una di Rhegion, una siculo-punica ed infine una moneta mamertina. Oltre ad undici esemplari, più recenti, di età post-medievale e provenienti per lo più dallo sporadico o comunque dal piano superficiale”, si riconoscono una moneta bizantina (un mezzo follis di Costante Il), ed una moneta romano-imperiale attribuibile a Gordiano III; 20 monete, infine, risultano purtroppo illeggibili. Gli esemplari più antichi provenienti da tale area sono cinque “tetrantes”* siracusani con i tipi te181

98288fi

Fig. 1. Planimetria generale.

sta di Atena/ippocampo, piuttosto usurati, ma verosimilmente appartenenti alle serie leggere”; il cattivo stato di conservazione e soprattutto la presenza di due esemplari con contromarca fa supporre per essi una datazione degli inizi del IV sec. a.C. Particolarmente importante la presenza a Francavilla dei due ippocampi contromarcati, dal momento che piuttosto scarsi sono i dati ufficiali della loro circolazione": su uno di essi appare ben chiara la contromarca ruota a quattro raggi e OTKI accoppiata ad una testina, probabilmente maschile, volta a s., meno leggibile la contromarca dell'altro esemplare, forse una ruota ' Le emissioni successive si datano soltanto a partire dalla metà del IV sec. a.C. e sono costituite da due esemplari di zecca tauromenitana, il primo, un piccolo bronzo, piuttosto usurato, reca il monogramma TA” entro corona di alloro, e si data intorno al 358 a.C., momento della rifondazione andromachea5, l'altro, posteriore, addirittura d'età post timoleontea, secondo una recente proposta di D. Castrizio “, reca la testa di Apollo Archagétes accompagnata dal toro stante. Nel quadro delle emissioni timoleontee si inserisce l'hemilitron di Abaceno con testa coronata di 182

canne/toro cozzante ἃ s. L'identificazione non è purtroppo sicura dal momento che il cattivo stato dell'esemplare non consente la lettura della leggenda; tuttavia la resa della testina sul D/, il simbolo sopra il toro sul R/, l'elemento ponderale e, come vedremo in seguito, la presenza di un'altra moneta di Abaceno tra i ritrovamenti a Francavilla rende probabile questa attribuzione*. Tra l'età post-timoleontea e gli anni immediatamente precedenti la presa di potere da parte di Agatocle, va datata l'emissione siracusana con testa di Apollo/cane retrospiciente‘, in piena età agatoclea, più precisamente a partire dal 304 a.C., si pone invece l'emissione con testa di Artemis! fulmine". Alla fine del IV-inizi ΠῚ a.C. si datano l'esemplare siculo-punico con testa di Persefone/cavallo stante e palma" e la moneta di Rhegion con testa di leone frontale/testa di Apollo volta a d. *. Molto interessante la presenza di un gruppetto di emissioni di Iceta? con testa di Zeus Hellanios/aquila su fulmine: provenienti da due saggi vicini (Saggio 3/81 e 4/81) e dallo stesso taglio, potevano, infatti, costituire un piccolo gruzzolo. Oltre ad una moneta, piuttosto usurata, attribuibile ai Mamertini con testa di Ares/toro cozzante, databile negli anni della prima guerra punica? gli altri esemplari sono tutti siracusani: all'età di Pirro si datano le due monete caratterizzate dalla testa di Eracle/Atena Alkidemos?, tre sono invece gli esemplari di Ierone II: uno con testa di Core/toro cozzante, uno con testa laureata di Ierone II cavaliere, l'altro con testa di Poseidon/tridente®. L'analisi dei materiali ceramici ha mostrato la distruzione, o comunque, l'abbandono del Santuario intorno alla fine del V sec. a.C., evento che sembra avere interessato l'intero abitato di Francavilla. La maggior parte delle monete rinvenute nell'area è invece databile dalla metà del IV sec. a.C. alla metà del ΠῚ a.C., più antiche soltanto le poche emissioni dionigiane. 2. ABITATO GRECO

Via Asiago, proprietà Cacciola (S 2). Le esplorazioni archeologiche intraprese dal 1989 hanno interessato alcuni settori dell'antico abitato. Sulle pendici nordoccidentali del colle del Castello, in Via Asiago, le indagini effettuate in seguito ad uno sbancamento edilizio, hanno permesso di identificare alcune strutture che documentano ben tre fasi cronologiche, delle quali, la seconda, risalente al V sec. a.C., sembra meglio attestata; ad essa appartengono quattro ambienti, contigui, e lacunosi lungo il lato nord, sul quale si dovevano aprire gli ingressi, ben databili grazie ai numerosi frammenti di ceramica a vernice nera rinvenuti». Più esigui, o comunque, meno conservati, i resti di strutture murarie della fase più recente, la III, alla quale si riferisce anche una semplice tomba ad inumazione entro una fossa di terra*. Perfettamente compatibili con tali contesti sono le 21 monete recuperate. Oltre alcune monete più recenti (due di età aragonese, tra cui si riconosce un denaro di Giovanni, due spagnole * e due illeggibili) sono presenti, infatti, 15 monete greche che vanno dagli inizi del V sec. a.C. alla metà del Il sec. a.C. A parte la litra argentea di Leontinoi con i tipi protome di leone/chicco databile tra il 480 ed il 466 a.C.”, ritrovata sul piano di calpestio ben sigillato dal crollo delle tegole del tetto e della parte sommitale dei muri di uno degli ambienti della II fase*, le altre presenze monetali sono pertinenti piuttosto alla fase piü recente. Tra queste più antiche sono tre fetrantes di Siracusa: uno con i tipi testa femminile/polpo databile a partire dall'ultimo ventennio del V sec. a.C., e due con Atena/ippocampo databili tra il 405 ed il 367 a.C. *, Nei nostri contesti la prima moneta si associava a ceramica a vernice nera della seconda metà del IV sec. a.C., al pari di uno dei due ippocampi. L'altro, purtroppo, risulta proveniente da uno strato inquinato. Il maggior numero di esemplari risale alla metà del IV sec. a.C. Si tratta di un hemilitron di Tauromenio databile tra il 345 ed il 338 a.C.™; e di emissioni siracusane d'età post timoleontea con testa di Atena/pegaso e testa di Apollo/pegaso, serie, soprattutto quest'ultima, che sembrano circolare fino 183

ai primi anni di Agatocle?'. Si segnalano, ancora, una litra di Messana del 317/310 a.C., proveniente da un livello rimescolato che ha restituito materiali ceramici di V e IV sec. a.C.", un'emissione siculo-punica con testa di Persefone/cavallo stante e palma, due mamertine della I guerra punica, e infine una moneta siracusana di Ierone II (testa di Cora/toro IE). Dal grosso interro superiore, o comunque, da tagli superficiali provengono le monete recenti e alcune illeggibili. Piazza San Francesco (S 7). Lo scavo, svoltosi agli inizi del 1996, ha posto in luce il muro perimetrale della casa 4”. I saggi effettuati hanno restituito 6 monete comprendenti una litra di Abaceno, databile intorno al 430 a.C. un esemplare di Siracusa con testa di Apollo/pegaso, una moneta di età aragonese e tre illeggibili Particolare interesse riveste proprio la litra di Abaceno. Il nostro esemplare, in cattivo stato di conservazione, rinvenuto in associazione con ceramica della seconda metà del IV sec. a.C., presenta al diritto la testa della divinità indigena con capelli raccolti sulla nuca e al rovescio il cinghiale a sini stra; esso rappresenta una variante rispetto ai tipi conosciuti da A. Bertino*, ponendosi cronologicamente nel momento di passaggio ad un nuovo tipo di diritto con testa della divinità con capelli corti sulla nuca. Appare significativo che una litra di Abaceno simile alla nostra sia stata rinvenuta a Naxos, assieme a piccoli nominali dell'ultimo quarto del V sec. a. C. di Naxos e di Rhegion”. Contrada Fantarilli.

Area della palestra comunale (S 5).

A circa 500 m. a Sud-Ovest delle strutture antiche individuate in Via Asiago, nell'area destinata alla realizzazione di una palestra comunale, sono state rintracciate modeste strutture murarie ed esigui resti di una fornace; si tratta, verosimilmente di un'area piuttosto periferica del settore abitativo, come dimostra anche lo scarso numero di monete rinvenute nel corso di due campagne di scavo. Si contano, infatti, sei esemplari di cui solo due identificabili: l'uno sembrerebbe un consunto hexas agrigentino con aquila/granchio, l'altro un hemilitron siracusano con testa di Apollo/pegaso. Contrada Fantarilli, proprietà Currenti Malatino (S 8). Nell'autunno del 1995 le esplorazioni archeologiche sono continuate in un settore dell'abitato antico, di limitata concentrazione abitativa, probabilmente destinato ad attività artigianale. All'interno dell'Ambiente 2 sono state rinvenute due litre in argento, una attribuibile a Naxos, l'altra a Sticla”. La moneta di Naxos appartenente al 3° gruppo del Klassische Period di Cahn* e databile fra il 461 ed il 430 a.C., è stata trovata al di sotto del crollo delle tegole, su un piano di calpestio che ha restituito vasellame a vernice nera databile tra il secondo ed il terzo quarto del V sec. a.C." Di particolare interesse il rinvenimento della piccola moneta di Stiela, probabilmente un hemilitron, rinvenuta in un saggio effettuato al di sotto del filare di fondazione di un muro, in uno strato di natura alluvionale, insieme a frammenti ceramici acromi e a vernice nera ascrivibili nell'intero arco del V sec. a.C.® Essa costituisce a tutt'oggi l'unico esemplare di Stiela restituito da uno scavo stratigrafico, mentre le altre monete conosciute e comparse sul mercato antiquario, mancano di contesto e anzi, spesso provengono, probabilmente, da scavi clandestini e da località ignote‘!

Contrada Fantarilli, proprietà Silvestro Laudani (S 6) Un ampio settore di abitato è stato evidenziato nel corso del 1994 sempre nella contrada Fantarilli: le indagini, ancora in corso, hanno portato alla luce un tratto di plateia, e ai lati di essa due porzioni di isolati con parte di due case Nell'area sono state ritrovate 20 monete: 19 dalla campagna di scavo del 1994, una rinvenuta nel corso della recente ripresa delle ricerche archeologiche. Tutte provenienti dai livelli di caduta di pietrame e di tegole degli ambienti più antichi, sono pertinenti alla III fase, al momento, cioè, successi vo al primo abbandono del sito, e comprendono un arco cronologico che va dalla metà del IV alla metà del III sec. a.C. La moneta più antica, una litra siracusana con testa di Atena/astro e delfini, databile a partire 184

dal 395 a.C. 5; ritrovata all'interno del vano 1, in un livello inquinato che ha restituito materiali ceramici riferibili al riutilizzo della fase più recente“ si associa ad una moneta di Tauromenio posteriore alla metà del IV sec. a.C. e a due monete agatoclee (testa di Cora/toro cozzante). Un gruppetto di sei monete proviene dall'area della strada: quattro di esse, le più pesanti, sono state trovate insieme e comprendono due litre di Tauromenio con testa di Apollo Archageta/toro, e due emissioni di Siracusa con testa di Cora/toro cozzante, lettere e delfino; le altre sono un kemilitron di Tauromenio con testa di Apollo/toro e uno di Siracusa con testa di Apollo/pegaso. Da altri saggi provengono un esemplare di Tauromenio, una moneta siculo-punica con testa di Persefone/protome di cavallo databile tra il 300 ed il 264 a.C., ritrovata insieme all'emissione siracusana con testa di Eracle/leone del 289/88 a.C. Non è possibile attribuire con sicurezza a Siracusa o ai Mamertini l'esemplare con i tipi dello Zeus Hellanios/aquila su fulmine“, rinvenuto, comunque, in uno strato rimescolato. Nel corso dei saggi effettuati nell'aprile del 1997, è stato trovato, all'interno dell'ambiente 2, un pegaso di tipo corinzio il cui cattivo stato di conservazione non ne permette una adeguata lettura. Sembrerebbe confrontabile con i pegasi del V periodo Ravel corrispondenti alla metà del IV sec. a.C. * Contrada Fantarilli, proprietà Silvestro-Arcidiacono (S 9) e Merlo-D'Aprile (S 11).

Tra la fine del 1998 e gli inizi del 1999, nuove indagini archeologiche si sono svolte in altre aree della contrada Fantarilli, interessando nuovi lembi dell'abitato antico. Lo studio della stratigrafia di scavo e dei materiali è ancora in corso, ma i ritrovamenti monetari sembrano mostrare una situazione analoga a quella emersa nel resto dell'abitato. Dai saggi condotti in proprietà SilvestroArcidiacono provengono una litra di Rhegion databile tra il 480 ed il 461 a.C. e due monete non identificabili. Più abbondanti i ritrovamenti nella proprietà Merlo-D'Aprile, purtroppo tutti provenienti da livelli di sconvolgimento alluvionali; sono presenti una litra di Rhegion con testa di leone frontale/RECI entro corona e cinque monete di Siracusa, precisamente un'emissione con testa di Core/quadrato incuso entro cui astro e due ippocampi databili tra la fine del V e gli inizi del IV sec. a.C., e due monete con testa di Core/toro cozzante di fine IV — inizi III sec. a.C.

Via Nel perata alloro,

Liguria luglio del 1996, mentre si eseguivano i lavori per la posa di una condotta d'acqua è stata recuuna dracma di Rhegion, con testa di leone frontale/Divinità seduta a s., entro una corona di databile tra il 450 ed il 415 a.C.

Le emissioni rinvenute sino ad oggi nel centro anonimo di Francavilla, pur nell'esiguità del loro numero, costituiscono un campione sufficientemente articolato per valutare il fenomeno della circolazione monetale nell’area della città antica, che significativamente si pone all’interno della chora di Naxos. Le monete esaminate provengono dagli strati della II fase, che si sviluppa nel corso del V sec. a.C. sino, sembra, all'ultimo decennio circa, e della III fase, che dalla seconda metà del IV sec. a.C. si prolunga poco dopo la metà del III sec. a.C. Il dato numismatico purtroppo non fornisce indicazioni puntuali sulla datazione ultima della II fase, sull'epoca, cioè, riferibile ad un presunto abbandono del sito, cui sarebbe seguita una rioccupazione, da connettersi probabilmente, al generale incremento demografico e alla rinascita economica della Sicilia greca in seguito alla venuta di Timoleonte. I dati archeologici e numismatici sembrerebbero concordare sulla cronologia dell'abbandono definitivo della città5. Nella fase più antica, la circolazione monetale della città appare caratterizzata dalla presenza di frazioni in argento, databili a partire dall'inizio del V sec. a.C. fino all'ultimo quarto circa. Definite in greco “kermata” costituiscono, prima dell'introduzione della moneta di bronzo, uno strumento di economia quotidiana, soggetto ad un veloce passaggio di mano e conseguentemente ad una rapida usura e ad una facile perdita9. Sono presenti soprattutto emissioni delle città calcidesi (Naxos, Rhegion, Leontinoi) e di due centri indigeni quali furono Abaceno e Stiela. 185

In questa fase, la più attestata è la zecca di Rhegion con tre esemplari tra cui una dracma. Il dato non desta meraviglia considerato che lo studio dei rinvenimenti di monete reggine in tesoretti siciliani ha mostrato la gravitazione di Rhegion verso la Sicilia sin dai tempi più antichi". La distribuzione dei tesoretti evidenzia, tra l’altro, una penetrazione pressoché in tutte le aree della Sicilia, ma con punte di addensamento nel settore calcidese dell'isola©. Il confronto, inoltre, con i ritrovamenti effettuati durante gli scavi a Naxos mostra rilevanti similitudini con quello che doveva essere il circolante di V sec. a.C. nell'anonimo centro antico di Francavilla. Abbiamo già sottolineato la presenza a Naxos, come nel nostro centro, della litra di Abaceno caratterizzata da un tipo sconosciuto dal Bertino, e ritrovata insieme a monetine della stessa Naxos e di Rhegion, dell'ultimo quarto del V sec. a.C. Dalle esplorazioni più recenti, inoltre, in strati di età classica, e in associazione a materiali databili intorno alla metà del V sec. a.C. provengono, oltre ad esemplari della stessa Naxos, un tetradramma di Rhegion databile tra il 461 ed il 445 a.C., c due oboli di Leontinoi dello stesso tipo presente a Francavilla®, Le presenze monetali sembrano dunque confermare i rapporti stretti, probabilmente economici e culturali con Naxos, rapporti che apparivano evidenti sin dall'età tardoarcaica per la tipologia di alcune forme ceramiche e per la produzione coroplastica®. Si giustificherebbe così più facilmente il momento di abbandono di Francavilla verso la fine del V sec. a. C., in concomitanza con la distruzione di Naxos ad opera di Dionisio I nel 403 a.C. * È soltanto a partire dalla seconda metà del IV sec. a.C. che il centro mostra una modesta rinascita, con il riutilizzo e la ristrutturazione almeno di una strada e forse di alcune abitazioni dell'impianto precedente. Dal punto di vista monetale assistiamo a dei cambiamenti: predomina la valuta bronzea, diventando pressoché esclusiva * e sarà il numerario siracusano a costituire durante il IV e il ΠῚ sec. a.C., il circolante principale, manifestando il netto delinearsi della nuova leadership politica di Siracusa. Le emissioni siracusane più antiche comprendono, oltre a due bronzi databili a partire dall'ultimo quarto del V sec. a.C.*, soprattutto te/rantes dionigiani con ippocampo ed una litra con testa di Atena/astro e delfini. Purtroppo ancora insoluto appare il problema della durata della produzione di tali serie; l'esame del materiale giunto sino a noi sembra indicare una coniazione piuttosto lunga, probabilmente per tutto l'arco della vita di Dionisio I, e la circolazione dei suoi bronzi, inoltre, pur logori o riconiati, continuò probabilmente anche dopo Timoleonte". Il periodo compreso tra la morte di Dionisio e l'arrivo del condottiero corinzio fu, infatti, caratterizzato da una scarsissima, se non inesistente, attività monetale da parte delle città greche che avevano coniato abbondantemente nel secolo precedente, e da una serie di riconiazioni e contromarcature effettuate da alcuni centri indigeni situati su posizioni strategiche dell'interno dell'isola o lungo il confine con il fiume Halykos* Alla luce di queste considerazioni, e senza l'ausilio di nuovi dati di scavo®, sorge il dubbio che le monete siracusane emesse verso la fine del V sec. a.C. (testa femminile/polpo e testa femminile/astro entro quadrato incuso), costituiscano un residuo di circolazione e gli ippocampi dionigiani abbiano costituito per Francavilla la componente principale della circolazione monetale nel IV sec. a.C., dopo la rioccupazione del sito, sino ad età timoleontea e forse oltre. Una conferma alla nostra proposta potrebbe derivare dal confronto con le presenze monetali rilevabili in altri siti. Già lo studio dei ritrovamenti a Morgantina ha evidenziato come la circolazione monetale nel periodo che va da Dionigi all'età timoleontea, appaia caratterizzata oltre che dai bronzi siracusani (ippocampi e testa di Atena/Astro e delfini) anche dalle emissione a leggenda KAINON“ e dalle emissioni siculo-puniche con testa maschile/cavallino in corsa©, assenti invece da Francavilla**. Anche a Monte Saraceno di Ravanusa risulta attestata una continuità di frequentazione dell'acropoli nella prima metà del IV sec., grazie alla presenza di alcuni reperti ceramici, di monete dionigiane e soprattutto di due pegasi corinzi del IV periodo Ravel (414-387 a.C.) e delle emissioni a nome Kainon®. L'analisi del solo materiale numismatico non può comunque offrirci indicazioni precise, che posso-

no derivare soltanto dal confronto con gli altri reperti rinvenuti nella medesima stratigrafia o sequenza stratigrafica, in particolare i frammenti ceramici;

186

e a tutt'oggi, purtroppo, i materiali recuperati, anco-

ra, tra l'altro, in fase di studio, non sembrerebbero condurre oltre la fine del V sec. a.C., mentre alquanto rara risulterebbe la ceramica sicuramente databile alla prima metà del IV sec. a.C.** Considerando dunque la lunga possibilità di circolazione delle monete, il rapporto tra la datazione stessa della moneta e il momento della perdita risulta fondamentale per stabilire la cronologia del contesto di provenienza. Mancano, sino ad oggi, ad eccezione degli ippocampi e contrariamente a quanto è riscontrabile in altri centri, emissioni databili nella prima metà del IV sec. a.C. Oltre un rovinatissimo bronzo di Tauromenio battuto a nome della Symmachia timoleontea, risulta assente anche numerario emesso dal comandante corinzio. Un evidente aumento di presenze monetali si registra soltanto dopo il 338 a.C. con le emissioni di Tauromenio”, che sembra essere subentrata a Naxos nell'entroterra”. La presenza di numerario siracusano sarà abbondante soltanto successivamente, soprattutto nell'età agatoclea, e poi anche con Hiceta ed, in parte, con Hierone II. Oltre alle più comuni serie agatoclee con testa di Cora/toro cozzante, sono presenti alcune monete con testa di Apollo/pegaso; la presenza di lettere e simboli confrontabili con quelli caratterizzanti gli elettri e i tetradrammi di Agatocle su queste emissioni ha fatto ipotizzare per essi una analoga datazione. Ben rappresentata è la serie con testa di Zeus Hellanios/aquila su fulmine, dell'età di Hiceta, anche se, la concentrazione di queste monete, come abbiamo già supposto, potrebbe far pensare ad un gruzzoletto nascosto nell'area da tempo abbandonata del Santuario arcaico. Dal punto di vista archeologico dobbiamo però dire che non esiste alcun elemento a sostegno di questa ipotesi: se è vero che sette di questi esemplari sono stati rinvenuti nello stesso strato, altri due provengono da un saggio vicino. Si potrebbe pensare, quindi, ad una duplice spiegazione: la dispersione del gruzzoletto, originariamente unitario, verificatasi dopo un'azione di disturbo, oppure avvenuta in seguito ad uno spostamento conseguente ad una sistemazione successiva dell'area, della quale però lo scavo non ha dato elementi. Pochi gli esemplari d'età ieroniana, e tutti appartenenti alla prima fase, presumibilmente entro il 241 a.C. Si ritrovano le serie con testa di Core/toro cozzante IE, testa di Ierone laureato/cavaliere e testa di Poseidon/tridente coniate su tondello grande, e mai i tipi con il ritratto di Ierone diademato cronologicamente più recente”. Accanto alle monete siracusane, tra la fine del IV e la prima metà del III sec. a.C., si riconoscono anche alcune emissioni siculo-puniche, databili a partire dall'ultimo decennio del IV al primo quarto del III sec. a.C. Vanno segnalati due esemplari mamertini con i tipi testa di Ares/toro cozzante e testa di Zeus! toro cozzante, privi di segni di valore e coniati in seguito all'impegno finanziario legato alle vicende della prima guerra punica, che rappresentano insieme alle monete ieroniane le monete più recenti restituite dagli scavi. Catalogo” Via Russotti ABEGIONI 1

DI Testa di leone frontale. R/ Testa di Apollo volta a d., davanti PH TIN, dietro

RI Toro cozzante a s., in alto simbolo (cornucopia), in esergo tracce di lettere. AE gr. 5 mm 20 Cater I, p. 73, 4: 336-317

MAMERTINI simbolo. 3 AE gr. 7,6 mm 21 Morgantina Studies, pp. 73-74, 44-45: 350-270 a.C; DI Testa laureata di Aresa d RU Toro cozzante, in esergo tracce di leggenda: MasteLLONI 1994, pp. 218 ss: 300-270a.C. NON AE gr. 15,48 mm 24 ABACENO SiRsmROW 1940, serie I, gruppo A, pp. 39-40: 288-278 2 2.C; Caccamo CaLTABIANO, p. 15: 264-241 a.C. DI Testa coronata di canne volta a s 187

SIRACUSA 4.6 DI Testa di Atena a s. R/ Ippocampo e contromarca. AE gr. 6,50 mm18; gr. 5,42 mm 19; gr. 4,05 mm 19 Curgoni Tusa: dal 409 a.

7 DI Testa di Atena con contromarca (testina maschile volta as.) RI Ippocampo con contromarea (ruota e OTKI) AE gr. 5,86 mm 16 Garzarro, p. 202, 14: dal 400 a.C. ca.

RJ Cavaliere al galoppo con elmo, lancia, corazza e clamide. AE gr. 14,95 mm 25 Carroccio, pp 210-218: 269-241 a.C.

25 DI Testa di Poseidon diademato volto a s. RI Tridente IEP/ AE gr. 4,02 mm 17 CarRoccio, pp. 214-216: 256-215 a.C.

TAUROMENIO 26 DI Testa di Apollo laureato as., davanti APXATETA 8 RI Toro androprosopo a s., davanti grappolo d'uva. DI Testa di Atena ἃ 5. RI Ippocampo e contromarca non identificabile (ruo- AE gr. 12,31 mm23 Coxsoro LancreR, p. 76, gruppo A, litra: 357-345 a.C. ta?) Marmo, p. 67 : post 338 a.C. AE gr. 5,14 mm 18 27 9 DI Elmo campano. D/ Testa di Apollo volta a s. R/TA in monogramma (entro corona di alloro). RI Cane con testa retrospiciente. AE gr. 0,30 mm 0,7 (Mercenari campani) AE gr. 1,87 mm 11,5 Hotoway 1970, p. 142: 344-316 a.C; Garrarro 1987, Catciat III, pp. 327-328, 2ss.: 344-336 a.C; CastRiZio : 354-336 a.C. p. 125: 320-318 a.C. 10 D/ Testa di Artemis volta a d. R/ ATA@OKAEAE ΒΑΣΙΛΈΟΣ Fulmine. AE gr. 5,94 mm 21 Hotzoway 1979,p. 92: 304-290 a.C.

SICULO-PUNICA 28 DI Testa di Persephone volta a s. RI Cavallo stante c palma, in alto ἃ s. si vede un globetto. AE gr. 1,13 mm 15 Morgantina Studies II, p. 113, 436: 310.270 a.C.; Frey Κύνρεᾷ : 300-275 a.C.

n DI Testa di Zeus Ellanios volta a s. Tracce di leggenda. RI Aquila stante su fulmine a s., a s. astro. AE gr. 7,64 mm 22 Hottoway 1962, pp. 6-17: 287-278 a.C. Via Asiago (proprietà Cacciola) 12.20 LEONTINI DI Idem. 29 RI Aquila stante su fulminea s. ZYPA. DI Testa di leone. AE gr. 6,15 mm 21; gr. 3,71 mml8; gr. 3,6 mm 23; gr. RI Chicco di grano AEON 3,37 mm 22; gr. 3,1 mm 19; gr. 3,05 mm 16; gr. 2,53 AR gr. 0,55 mm 11 mm 18; gr. 2,47 mm 19; gr. 1,20 mm 16 Gross, p. 275, 2325 : 500-466 a.C. 2122 DI Testa di Eracle con leonte volta a s. R/ ZYPA Atena Alkidamos. AE gr. 8,64 mm 23; gr. 2,70 mm 18 GarRici, p. 347-354: 278-276 a.C. 23 D/ Testa di Cora coronata di canne volta a s. R/ Toro cozzante a s., in alto A e clava, in esergo IE. AE gr. 4,12 mm 20 CosRoccio, pp. 202-204: 275-263 a.C. 24 DI Testa di Ierone II laureato volto a s. 188

MESSANA 30 DI Testa di Messana volta a s., davanti leggenda. RI Biga al passo a d. AE gr. 9,8 mm 25 Caccamo CaLtaBIANo 1993, pp. 146-148: 317-311 a.C. MAMERTINI 31 D/ Testa di Zeus laureato volto a d., dietro fulmine. R/ Toro cozzante, in esergo tracce di leggenda. AE gr. 7,15 mm 21

Sássrubn, serie II, gruppo B, 43-49: 288-278 a.C.; Caccamo CALTABIANO: 264-241 a.C.

32 DI Testa di Zeus laureato volto a s. davanti AIOE RI Aquila su fulmine, in alto da d. MAME AE gr. 3,7 mm 18 ϑλαβτμόμ periodo V, gruppo C : 280-278 a.C.; Caccamo Cattaziano: 264-241 a.C. SIRACUSA 33 DI Testa femminile volta a d. con i capelli tirati in alto. Intorno delfini RI Polipo (si vedono due globetti). AE gr. 3,8 mm 15 Gamrtci, p. 171, 1 ss. : 2nda metà V sec. a.C; Houoway 1979, pp. 124 s .: dal 425 a.C.

3435 DI Testa di Atena volta a s. R/ Ippocampo con briglie AEgr. 7,15 mm 20; gr. 6.6 mm 19 Οὕτκονι Tusa: dal 409 a.C. 36 DI Testa di Atena elmata volta a d. R/ Pegaso a d. gr.6,0mm21 Gabrici, p. 177, 226229 : 310-308 a.C; Houowav 1970, pp. 140-141: 330-316 a.C. 37 DI Testa di Apollo volta a s. RI Pegaso in volo a s., in basso A. gr. 44 mm 18 Gunsrct, p. 174, 121 ss. 336317 a.C.; JENKINS , p. 152: 317-310 a.C.

3839 DI Testa di Cora coronata di canne volta ἃ s. R/Toro cozzante a s. AE gr. 2,5 mm 15;gr. 2,2 mm 15 Gasuic,p. 177, 206-221: 317-310 40 DI Testa di Zeus laureato volto a s. RI Aquila su fulmine. AE gr. 2,5 mm 17 Hottowar 1962, pp. 6-17: 287-278 a.C. 41 DI Testa di Cora coronata di canne volta a s. R/ Toro cozzante a s., in alto lettera e clava, in esergo TE AEgr. 2,25 mm 17 Carroccio, pp. 202-204: 275-263 a.C.

TAUROMENIO a2 DI Testa di Apollo volta a s. RJ Cetra, ai lati leggenda. .. ENITAN AE gr. 7,1 mm22 Consoto LancHER, pp. 97-98: 345-338 a.C.; MARTINO, p. 67: post 338 a.C. SICULO-PUNICA 43 D/ Testa di Persefone a 5. R/ Cavallo stante e palma. AE gr. 2,15mm 15 Morgantina Studies VI, p. 113, 436: 310-270 a.C.; Frey KuPPER : 300 - 275 a.C. Palestra Comunale

AGRIGENTO (2) 44 DI Aquila che divora una preda. RY Granchio e sotto due pesci. AE gr. 4,00 mm 19 Morgantina Studies, p. 76, 73: prima del 406 a.C.; WeSTERMARK, pp. 13-15: 425 a. SIRACUSA 45 DI Testa di Apollo laureato volto a s. RJ Pegaso in volo a 5. AE gr. 3,1 mm 19 Ganruci, p. 174, 121 ss. : 336-317 a.C; JENKINS, p. 152: 3173102.C. P.zza San Francesco

ABACENO 46 DI Testa di un dio indigeno con i capelli raccolti volta ad. RI Cinghiale stante a s. su linea di esergo, davanti ghiande, in lato BAK AR gr. 0,79 mm 13 Berrino 1973: 440 a.C. SIRACUSA a DI Testa di Apollo laureato volta a s. R/ Pegaso in volo a s. AE gr. 3,75 mm 20 Gasnici, p. 174, 121 ss. : 336-317 a.C; Jenkins, p. 152: 317-310 a.C. 189

Contrada FANTARILLI Proprietà Currenti-Malatino

AE gr. 2,3 mm 15;gr. 1,9 mm 17 Cannoccio, pp. 202-204: 289-285 a.C.

NAXOS 48 DI Testa di Sileno volto a d. R/ Grappolo d'uva con intorno tralci di vite e leggenda. AR gr. 0,55 mm 13 Car, tav. IV, 74 ss. (III gruppo): 461-430 a.C.

57 DI Testa giovanile di Eracle com i capelli cinti da bendaad., dietro arco, davanti SYPAK R/ Leone andante a d. con la zampa anteriore sollevata, sopra clava, in esergo freccia. AE gr. 6,7 mm23 Hottoway 1979, pp. 92-93: 290-289 a.C.; Caccamo Cat TAbIANO, p. 152: 289-288 a.C.

STIELA 49 o MAMERTINI DI Testa maschile laureata volta a s., davanti al viso SIRACUSA 58 foglia. di Zeus Ellanios voltaa s. RI Parte anteriore di toro androprosopo andante a s., RIDI Testa Aquila stante verso s in alto STI AE gr. 6,7 mm. 21 AR gr. 0,45 mm 9,5 Mancanaro 1984, pp. 35-36: 430-420 a.C. TAUROMENIO 59-61 D/ Testa di Apollo laureato volto a s. Proprietà Silvestro-Laudani RI Toro androprosopo a s., sopra TAYPOM..., davanti grappolo d'uva. Statere di tipo corinzio AE gr. 14,8 mm 25; 13,8 mm 25; 13,65 mm 24,5 50 Μάκτινο: post 338 a.C.; Consoto LANGHER, p. 76 53. DI Testa di Atena volta a s. gruppo A litre: 357-345 a.C RI Pegaso a 5. 6 AR gr. 6,44 mm 21 DI Testa di Apollo laureato volto a s, davanti Ravel V periodo: metà IV sec. a.C. APKATE... RI Toro cozzante a s. Intorno TAYPOMENITAN (anSIRACUSA che in esergo). 5t AE gr. 2,95 mm 19 D/ Testa di Atena a s. Martino: post 338 a.C.; Consoro LancHER, pp. 80-81, RY Astro e delfini. gr.B 357-345 a.C. AE gr. 28,5 mm 28 ‘Curnont Tusa: 400 a.C.

52 DI Testa di Apollo laureato volto a s. Ry Pegaso in volo a s. AE gr. 2,65 mm. 18 GaericI, p. 174, 121 ss. : 336-317 a.C; JENKINS, p. 152: 3173102.C. 53 DI Testa di Cora coronata di spighe volta a s. R/ Toro cozzante a s., sopra delfino e AI, sotto delfino. AE gr. 9,55 mm.21 Ganricr, pp. 174-5, 143 ss. 54 DI Idem. RJ Idem, ma sopra delfino e N, sotto delfino. AE gr. 9,45 mm. 22 55-56 DI Testa di Coraa s., davanti YYPAKOZION. R/ Toro cozzante, sopra simbolo. 190

63 D/ Testa laureata di Apollo volto a s. RI Toro cozzante a s. AEgr.74 mm.21 Mamo: post 338 a.C.; Coxsoto LANGHER, p. 76 85., gruppo B: 357.345 a.C. SICULO-PUNICA E D/ Testa di Persefone volta a s. R/ Protome di cavallo a d. AE gr. 2,9 mm 16 Cacciari, IIL, pp. 393-398: 300-260 a.C. Proprietà Silvestro - Arcidiacono

RHEGION 65 DI Lepre in corsa a d. R/ Leggenda retrograda RE

AR gr. 0,67 mm 11 Caccamo CALTABIANO, pp. 350-352, 119-136: 480-474/ 462/1 a.C.

Proprietà Merlo - D'Aprile. RHEGION 66 DI Testa di leone frontale. R/ RECI entro corona. AR gr. 0,7 mm 12 HerzerLDER, p. 25, tav. IV, B : 445-435 a.C.

Ampliamento N Set. acc., taglio 1 1 Siracusa, n. 24 (269-241 a.C.) Sporadico nella terra smossa dalla pala meccanica 1 Siracusa, n. 21(278-276 a.C.) 2 Mleggibili Via Russotti (proprietà Puglia, scavo 1981)

Saggio 3/81. Taglio 1 1 Tre Piccioli 1 Meggibile Taglio 3 2 Siracusa, nn. 12 e 15 (287-278 a.C.) Saggio 4/81. Taglio 3 1 Siracusa, n. 6 (dopo il 405 a.C.) SIRACUSA Siracusa, nn. 13-14, 16-20 (287-278 a.C.) 67 Taglio 3, sul muro durante la ripulitura. D/ Testa di Cora volta a s. 1 Abaceno, n. 2 (336-317 a.C.) RJ Quadrato incuso entro cui astro Saggio 6/81. Taglio 4 AE gr. 4,85 mm 17,5 1 leggibile HotLoway: 415-405 A.C. Saggio 7/81. Taglio 3 1 Siracusa, n. 22 (278-276 a.C.) 68-69 1 Rhegion, n. 1 (300-270 a.C.) DI EYPA Testa di Atena volta a s. 1 Età spagnola R/Ippocampo Saggio 8/81. Superficiale dal piano di calpestio. AE gr. 8mm 21; gr. 7,6 mm 20 4 Mleggibili Curgoxt Tusa: dal 409 a.C. Taglio 4 70 1 Siracusa, n. 11 (287-278 a.C.) DI Testa di Cora volta a s., davanti leggenda. Saggio 9/81. Taglio 1 e 2 RI Toro cozzante a s., in alto delfino, in esergo (A). 2 Età spagnola AE gr. 3,3 mm 16 Taglio 3 Cannoccio,p. 203: 317-310a.C. 1 Siracusa, n. 4 (dal 409 a.C.) Trincea 9/81, sett. B, taglio 2 τι 1 Mamertini, n. 3 (264-241 a.C.) DI Testa di Cora volta a s., dietro monogramma. Sporadico R/ Toro cozzante a s., in alto monogramma, in esergo 1 Tre picciolinei pressi della trincea 9 XYPAKOZION Saggio 10/81 Tra le pietre cadute a Sud del muro E AE gr. 3,35 mm 16. 1 Siracusa, n. 8 (400 a.C.ca.) Conaoccio, p. 203: 317-310 a.C. Trincea 11/81. Taglio 1 dal piano di calpestio 1 Guglielmo Il (1166-1189). 1 Vittorio Emanuele Via Liguria. 1 Ileggibile

n RHEGION DI Maschera di leone frontale R/ Jokasto seduto su sgabello a s. regge con la d. un'asta. RECIN /O/N. Intorno corona. AR gr. 4,25 mm 18 Henzestben, pp. 18-19, tav. ΠΙ, 26: 461-445 a.C. ELENCO DELLE MONETE SECONDO I SAGGI DI SCAVO Via Russotti (proprietà Grifò, scavo 1979) Saggio 1. Taglio superiore del piano ruspa 1 Siracusa, n. 23 (275-263 a.C.)

Contrada Matrice. Ritrovamento fortuito 1 Mezzo follisdi Costante II, n. 32 Via Russotti (proprietà Piliero ex Puglia, scavo 1984)

Sporadico durante l'abolizione del piano alto con la pala meccanica 2 Età spagnola 3 Mleggibili Saggio 13/84. Taglio 1 1 Età spagnola. Saggio 14/84. Taglio 1 1 Siracusa, n. 5 (dal 409 a.C.) 191

Saggio 16/84. Taglio 2 1 Tauromenio, n. 26 (post 338 a.C.) 1 GordianoII, n. 31 Saggio 17/84. Taglio2 1 Tauromenio (Mercenari campani), n. 27 (354-336 aC.) Saggio 18/84. Taglio 1 1 Ileggibile 1 Non attribuibile, ma di età greca. Sporadico dopo la pioggia 1 Carlo It 3 Meggibili Saggio 21/84. Taglio 1 1 Età spagnola Taglio 3 1 Siracusa, n. 9 (344-316 a.C.) 1 Siracusa, n. 25 (256-215 a.C) 1 Frammento, forse Siracusa? Saggio 24/84. Taglio 2 1 Siracusa, n. 10 (304-290 a.C.) Taglio 3 1 Siracusa, n. 7 (post 400 a.C. ca.) 1 Siculo-punica, n. 28 (310-280 a.C.) Abolizione passaggio 11-12/81 unificato 1 Illeggibile. Via Asiago (proprietà Cacciola, scavo 1989-90) Saggio 2/89. Taglio 8 1 Messana, n. 2 (317-311 a.C.) Saggio 3/89 — 4/89. Rifilatura parete NE 1 Mamertini / Siracusa, n. 12 Abolizione passaggio fra 3/89 4/89. Taglio 1 1 Siracusa, n. 5 (post 425 a.C.) Saggio 5 A/89 unificato. Taglio 8 1 Siracusa, n.13 (275-263 a.C.) Saggio 5 B/89 unificato. Taglio 4 1 Mamertini, n. 4 (264-241 a.C.) Saggio 55/89. Ambiente I. Taglio 5. Allargamento NW 1 Siracusa, n. 9 (330-316 a.C.) 1 Siracusa, n. 10 (317-310 8.0) Saggio 5 B/89 A NW del murof. Taglio 10 1 Siracusa, n. 6 (post 409 a.C ) Abolizione passaggio 3/89 — 5B/89. Taglio 4 1 Siculo-punica, n. 15 (310-280 a.C.) Rifilatura parete (rampa) 1990 1 Siracusa,n. 11 (317-3102.C.) Abolizione passaggio 1990 1 Siracusa, n. 8 (330-316 a.C.) Saggio 6/89. Taglio superficiale 1 Tre piccioli di Filippo III 1 Età argonese 1 Ileggibile Spicconatura 1990, primo spianamento 1 Siracusa, n. 7 (post 409 a.C.)

192

Saggio 6/90

1 Denaro aragonese Saggio 6/90. Nel grosso interro superiore. 1 Tre piccioli di Filippo IIT 1 Meggibile Saggio 6/90. Taglio 2 1 Tauromenio, n. 14 (post 338 a.C.) Saggio 7/9. Spicconatura generale 1 Mamertini, n. 3 (264-241 a.C.)

Ambiente 4. Saggio 10/90. Taglio 2. Allargamento NW 1 Leontinoi, n. 1 (480-466 a.C.) Palestra comunale

Trincea 5/9. Taglio] 1 Siracusa, n. 2 (330-316 a.C.) Saggio 8/9. Taglio 1 1 Illeggibile. Saggio 16/91 Nella ripulitura del saggio 1 1 Ileggibile Saggio 17/91. Taglio 2 1 Due centesimi Taglio 4 1 Agrigento?, n. 1 (425 a.C.circa) Saggio 18/94. Taglio 1 Meggibile P.zza San Francesco (scavo 1996)

Saggio 1/96. taglio 1 Non attribuibile, ma di età greca 2 Tlleggibile Saggio 2/96. Taglio 3 1 Abaceno, n. 1 (440 a.C.) 3 Età aragonese Taglio 4 1 Siracusa, n. 2 (330-316 a.C.) Contrada Fantarilli (proprietà Currenti-Malatino)

Ambiente 2. Saggio 3/95 Aldi sotto della caduta di tegole 1 Naxos, n. 1 (461.430 a.C.) Saggio 5/95. Taglio 3 1 Stiela, n. 2 (430-420 a.C.) Contrada Fantarilli (proprietà Silvestro Laudani)

Ambiente 1. Saggio 1/94. Taglio 1 1 Siracusa, n. 6 (289-285 a.C.) Taglio 2 1 Siracusa, n. 2 (395-367 a.C.) 1 Siracusa, n. 7 (289-285 a.C.) 1 Tauromenio, n. 12 (post 338 a.C.) Strada. Saggio 3/94. Taglio 2 1 Siracusa, n. 3 17-310 a.C.)

2 Siracusa, nn. 4-5 (316-290 a.C.) 2 Tauromenio, nn. 10-11 (post 338 a.C Saggio 3/94 — 4/94, Taglio 3 1 Tauromenio, n. 14 (post 338 a.C.) Saggio 4/94 Area del saggio, taglio 5 1 Weggibile e frammentaria Saggio 5/94. Taglio 3 1 Ieggibile Saggio 6/94. Taglio 2 1 Mleggibile Saggio 12/94. Taglio 2 1 Siracusa, n. 8 (289-288 a.C.) 1 Siculo-Punica, n. 15 (300-275 a.C.) Saggio 14/94. Taglio 1 1 Meggibile Taglio 2 1 Tauromenio, n. 13 (post 338 a.C.) Saggio 15/94. Taglio 1 1 Siracusa o Mamertini, n. 9 Ambiente 2. Saggio 21/96. Taglio 3 1 Statere di tipo corinzio, n. (metà IV sec. a.C.) Contrada Fantarilli (proprietà Silvestro-Arcidiacono) Saggio 3/97. Taglio 1 1 Illeggibile Saggio 4/97. Taglio 1

1 Rhegion, n. 1 (480-474/463-461 1 Ieggibile

a.C.)

Contrada Fantarilli (proprietà Merlo D'Aprile) Saggio 3/98. Taglio 2 1 Età spagnola? Saggio 6/98. Taglio 3 1 Siracusa, n. 5 (317-310 a.C.) Taglio 4 1 Siracusa, n. 2 (415-405 a.C.) Saggio 7/98. Taglio 4 1 Siracusa, n. 3 (dal 409 a.C.) Taglio 6 1 Siracusa, n. 4 (dal 409 a.C.) Taglio 7 Ileggibile. Saggio 10/98. Taglio 1 leggibile Saggio 1/99. Taglio 2 1 Rhegion, n. 1 (445-435 a.C.) Area dei Saggi 1 Siracusa, n. 6 (317-310 a.C.) Via Liguria, saggio 1996 Trincea per la posa condotta acque bianche 1 Rhegion (466-415 a.C)

193

PRESENZE MONETALI A FRANCAVILLA DI SICILIA

Zecca emittente ‘Abaceno Abaceno Akragas? Leontinoi Messana Messana-Mamertini Messana-Mamertini Messana-Mamertini Naxos Rhegion Rhegion Rhegion Rhegion Siculo. punica Siculo-punica Siracusa Siracusa Siracusa Siracusa. Siracusa Siracusa. Siracusa Siracusa Siracusa Siracusa Siracusa Siracusa Siracusa Siracusa Siracusa Siracusa Siracusa Siracusa Siracusa Statere “Corinzio” Sticla Tauromenio Tauromenio Tauromenio Tauromenio 194

Metallo [Tipo TAR — [Testabarbata/cinghiale stante IAE | Testa imberbeltoro cozzante IAE — |Aquila/granchio ΤΑΝ — | Testa di leone/chicco IAE | Testa di Messana/biga al passo TAE | Testa di Arestoro cozzante TAE | Testa di Zeusitoro cozzante IAE __ | Testa di Zeus Hellanios/aquila ΤᾺΝ — | Testa di Sileno/grappolo d'uva ΤΑΝ — [Leprein corsa/RE retrogrado ΤᾺΝ — [Testadileone/divinità seduta ΤΑΝ — [Testadileone/RECI entro corona TAE__| Testa di leone /testa di Apollo 2AE — | Testa di Tanit/Cavalloe palma TAE [Testadi Tanit/protome di cavallo TAE __| Testa femminile/polpo 1AE _| Testa femminile/astro entro quadrato TAE Τρία di Atena/ippocampo 2AE | Testa di Atena/ippocampo e contr. IAE | Testa di Atena/Astro e delfini IAE — | Testa di Apollo/cane retrospiciente TAE___| Testa di Atena/pegaso 4AE — |Testadi Apollo/pegaso IAE _ | Testa di Persephoneltoro cozzante AI IAE — | Testa di Persephoneltoro cozzante N IAE | Testa di Persephoneltoro cozzante A SAE — [Testadi Persephone/toro cozzante ΤᾺΕ | Testa di Artemis/fulmine alato IAE — | Testa di Eracle/leone gradiente 12ΔῈ |TTesta di Zeus Hellanios/aquila ZAE _ | Testa di Eracle/Atena Alkidamos 2ΔΕ |Testa di Persephone/toro cozzante IE IAE | Testa di lerone Il laureato/cavaliere IAE | Testa di Poseidon/tridente IEP). ΤᾺΝ — | Testa di Atena /pegaso ΤᾺΝ — [Testa maschile/parte anteriore di toro TAE | Elmo frigiolmonogramma TA 4AE | Testa di Apollo/toro gradiente IAE — | Testa di Apollo/cetra 2AE |Testadi Apollotoro cozzante

Cronologia. 430-420 a.C. 336317 a.C. 406 a.C. ante 480-466 a.C. 317311 aC. 264-241 a.C. 264-241 aC. 264-241 aC. 461-430 a.C. 480-461 a.C. 461-415 a.C. 445-435 a.C. 300-270 a.C. 310-280 a.C. 300-275 a.C. 415 aC. 415-405 a.C. 409 a.C. post 400/395 a.C. 395367 a.C. 320-318 a.C. 317-308 a.C. 317310a.C. 317-3106. 317-310 80. 317310 a.C. 289-285 a.C. 304-290 a.C. 289-288 a.C. 287-278 a.C. 278-276 a.C. 275-269 a.C. 269-241 a 256215 a.C. 350aC. ca. 430-420 a.C. 354-344 a.C. 338 aC. post 338 a.C. post 338 a.C. post

NOTE * Ringrazio il dott. U. Spigo e la dott.ssa C. Rizzo per avermi concesso di esaminare e studiare le monete oggetto di questo contributo, e perla cortese disponibilità offertami. * Por una sintesi delle ricerche effettuate finora sul sito si veda U. Seico, Francavilla di Sicilia, in Kokalos, XXVI-XXVII, 1980-81, Ipex, Ricerche a Francavilla di Sicilia: 1979-81, in BCA Sicilia, ΠΙ, 1982, pp. 151-162 e Input, in BTCG, VII, Francavilla di Sicilia sv, Pisa-Roma 1989, pp. 484-488. ? Si veda U. Smco, Francavilla di Sicilia s-v., in ECO (EAA) Il Suppl, Roma 1971-1994, pp. 688-700; U. Srico - C. Rizzo, Ricerche a Francavilla di Sicilia: 1989-1991, in Kokalos, XXXIX-XL, 1993-1994, 1,1, pp. 1039-1057 e U. Srico, Un ventennio di ricerche a Francavilla di Sicilia, infra, pp. 643-663. ? La moneta di Gordiano è stata ritrovata nel saggio 16/84 di Via Russotti, mentre il mezzo follis di Costante II proviene da un ritrovamento fortuito in Contrada Matrice. La monetazione più recente proviene dall'area del Santuario, da Via Asiago e da Piazza San Francesco: tra questi sono stati identificati, un trifolaro di Guglielmo II, tre denari aragonesi, otto grani e quattro tre piccioli di età spagnola. * U. Srico, in BTCG cit. pp. 484-5, e infra, pp. 643-648. * Ibidem, pp. 648-650. * Vedi U. Srico, infra, p. 650, Le monete sono attualmente conservate presso il Medagliere della Soprintendenza di Siracusa; colgo l'occasione per ringraziare i responsabili per la cortese disponibilità. * È stato possibile identificare un trifollaro di Guglielmo II e un grano di Carlo II; 5 grani, molto rovinati, non attribuibili, recanti sul R/il tipo VT COMMODIVS, 2 “tre piccioli” è una moneta di Vittorio Emanuele. * Nonostante i numerosi contributi al riguardo, non è dato di sapere ancora con sicurezza la reale tariffazione di queste serie bronzee e della serie più pesante con testa di Atena/Astro e delfini. Su tutto il problema vedi F. Mario, Evidenze numismatiche e ipotesi interpretative su alcune emissioni bronzee di Sicilia, ASM s. III, 49, 1987, pp. 41 ss. S. Gannarro, La monetazione dell'età dionigiana: contromarche e riconiazioni, in La monetazione dell'età dionigiana, Atti dell VIII Convegno del CISN, Napoli 1983, Roma 1993, pp. 211-218; M. Caccamo Carzamavo, La monetazione di Messana, Berlino 1993, pp. 140-142. D. Catmz, La monetazione mercenariale in Sicilia (Strategie economiche e territoriali tra Dione e Timoleonte), Soveria Mannelli 2000. Recentemente M. Caccauo CaLtantaxo, La monetazione di Dionisio I fra economia e propaganda, in La Sicilia dei due Dionisi. Ati della Settimana di Studio, Agrigento, 24-28 febbraio 1999, Roma 2002, pp. 33-45, ha ribadito il valore reale delle monete bronzee dionigiane ed evidenziato la destinazione specifica di questa valuta, tesa soprattutto a soddisfare l'esigenza di pagamenti di truppe (pp. 36-40 in particolare). * Gli esemplari sembrano appartenere alle serie B e C secondo la classificazione di S. Gaznarro, La monetazione dell'età dionigiana, cit. pp. 200-201. Per una visione di insieme delle cronologie proposte dagli studiosi per queste emissioni e la serie Atena/astro e delfini, di poco successiva, oltre a S. Consoro Lanciter, Contributo allo studio dell'antica monetazione bronzea in Sicilia, Milano 1964, pp. 159-166, la prima degli studiosi moderni ad aver riaffermato la cronologia dionigiana di tali serie, si veda C. Bozmiuxcen, Die Munzprigung von Syrakus unter Dionysios, in La monetazione .. cit, pp. 85-89. E più recentemente MA Μαστειτονι, Delfini e ippocampi sullo Stretto: riflessioni su alcune seri in bronzo di Siracusa, in AIIN 1998, pp. 23-96. ?! 8. Gannatro,La monetazione dell'età dionigiana, cit., pp. 206-207, sottolinea l'esiguità dei rinvenimenti da scavo di tali esemplari; lo studioso, comunque, anche se da notizie non ufficiali, è a conoscenza di una loro circolazione nelle arce interne della Sicilia Orientale. Ἧι Vedi catalogo nn. 7-8. La presenza di "OTKI" sulle serie con ippocampo ci informa sul valore assunto da tali esemplari, contromarcati probabilmente dalla stessa Siracusa in seguito all'introduzione di serie più pesanti, ma con gli stessi tipi. τὰ Ormai certa è l'attribuzione di questa serie a Tauromenio per lo scioglimento del monogramma in tal senso, piuttosto che come KAM (Kampanoi). Si veda infatti, G. Muxcanaro, Recensione al Corpus Nummorum Siculorum, in Gnomon, 60, 1988, pp. 4554457. ὁ 8. Guurro, La monetazione dell'età dionigiana, cit, pp. 233-234; D. Castaizio, it. p. 53. Ibidem, p. 85. L'emissione era stata datata da S. Covsoto Lacum, Numismatica tauromenitana, in Ricerche di Numismatica, Messina 1967, pp. 76-95, tra il 357 edil 345 aC. © L'emissione sarebbe stata emessa quando ancora la città sicula era riuscitain qualche modo asottrarsi all'egemonia si racusana poco prima dell'ascesa agatoclea, e coniava sporadicamente alcune monete in bronzo, con peso sempre più decrescente, destinate ad una circolazione limitata. W'S, Garnaero, Note sulla monetazione siracusana dal 344 al 318 a.C., in NAC XVI, 1987, pp. 125-126, ha fissato la sua datazione, oscillante tra la fine della terza Repubblica e l'età agatoclea, tra il 320 ed il 318 a.C. 77 L'emissione presenta la leggenda AT A@OKAEOE BAZIAEOS, che fornisce un preciso terminus post quem. Per l'intro. duzione del titolo regale sulle monete vedi S.Cossoto Laxcwes, Oriente Persiano-Ellenistico e Sicilia. Trasmissione e circolazione di un messaggio ideologico attraverso i documenti numismatici, in REA, XCII, 1990, pp. 29-43. * La cronologia delle emissioni puniche è stata di recente oggetto di nuovi contributi, si vedano infatti L. Gaxnouro, Ricerche a Montagna dei Cavalli, Rinvenimenti monetari, in Archeologia e Territorio, Palermo 1997, pp. 315-335; S. Frey Kursen, Ritrovamenti monetali ad Entella (scavi 1984-1997) (Atti della ΠΙ Giornata di Studi sull'area elima, Gibellina 1997, Pisa-Gibellina 2000, pp. 479-498). ? La presenza di moneta reggina in Sicilia è da considerarsi un fatto piuttosto usuale già a partire dal sccolo precedente: si vedano a tal proposito M. Caccamo CaLTABIANO, Per una storia della circolazione della moneta reggina in Sicilia (secc.V.1 a.C.), in CronArch, L 1970, pp. 35-59; Eapex, La monetazione di Messana, cit, p. 114. Su questa emissione in particolare, si vedano 195

Je osservazioni di M. A. MsrettoN, Appendice I Le monete rinvenute nello scavo, in Meligunis Lipara II, Lipari. Contrada Diana. Scavo in proprietà Zagami (1975-84), Palermo 1944, p. 218. ® Vedi nostro catalogo nn. 12-20. 2 Alla vecchia cronologia di M. Skxsmaou, A Study in the coinage of the Mamertines, Lund 1940, serie I, gruppo A. pp. 39-40, si preferisce M. Caccano CaLTABIANO, 5. v. Messina. Fonti Numismatiche, in Bibliografia Topografica della Colonizzazione greca n Itala e nee Isole Tirreniche, X, Pisa-Roma 1992, pp. 1415. * Vedi catalogonn. 21-22. 2 Vedi catalogo nn. 23-25. κι U. Sco- C. Ruzo, Ricerche a Francavilla di Sicilia, cit. pp. 1044-1045. 7 U, Srico -C. Rizzo, Ricerche a Francavilla di Sicilia, οι. p. 1046, ἃ Si tratta di 2 “tre piccili” rispettivamente di Filippo I edi Filippo I ? Vedi nostro catalogo,n. 29. 7? U, Snco~C. Rizo, Ricerche a Francavilla di Sicilia, it, p. 1045. ? Vedi nostro catalogonn. 33-35. » 8. Consoro Lanner, Numismatica, cit, pp. 96-98. ? La serie testa di Apello/pegaso è stata datata da G. K.Jenxins, Electrum Coinage at Syracuse, in Essays in Greek Coinage presented o Stanley Robinson, Oxford 1968, p. 152, seguito, più recentemente, da M. CacCAwo CalTABiano, rinvenimenti mometali monte Saraceno sede di xenoi?, in Monte Saraceno di Ravanusa, Un ventennio di ricerche e studi, Messina 1996, p. 192, in età agatociea trai 317 cd il 310 a.C. Tale serie, comunque, abbastanza cospicua, presenta una diffusione attestata n grande misura nella Sicilia centro-orientale. * Vedi Ὁ. Srico - C. Rizo, Ricerche a Francavilla cit, pp. 1046-1047. » VediU. Snco, infra,p. 656. » A. Beto, Le emissioni monetali di Abaceno, n Le emissioni ἀεὶ centri siculi fino all'epoca di Timoleonte e loro rapporti con la monetazione dell colonie greche di Sicilia, Atti del IV Convegno del CISN, Napoli 1973, suppl. vol. 20 AIIN, Roma 1975, pam. * G. Guazetta, Soprintendenza Archeologica della Sicilia Orientale. Siracusa - Museo Nazionale: nuovi rinvenimenti a Na205, in AIIN, 21-22, 1974-75, pp. 209211, pensa si possa trattare di un modesto gruzzoletto, smarrito in um momento vicino alla distruzione di Naxos nel 403 a.C. Una litra di Naxos e due litre ed una dracma di Rhegion sono state rinvenute in vari punti dell'abitato di Francavilla, vedi infra pp. 145-146. * U. Seco - C. Rizzo, Ricerche a Francavilla di Sicilia, cit, pp. 1055-1087. PU, Snico, Rinvenimenti numismatici a Francavilla di Sicilia (ME): Naxos e Sie, in AIIN 42, 1995, pp. 197e note se guenti. 7 HLA. Cuin, Die Münzen der Siilischen Stadt Naxos, Basel 1944, p. 14, tav. IV, 71-7 » U. Spico, Rinvenimenti numismatic cit, pp. 199-200 5 Per maggiori dettagli vedi Ibidem,pp. 2012. * V. Casata, Numismatica e topografia antica, in Demetra. Semestrale di Architettura ed Arte, 7, Dicembre 1994, pp. 23.24 © Una breve presentazione dello scavo ὃ data in U. Sio, Rinvenimenti mumismatii, it, p. 200, nota 12. Ὁ La cronologia di questa serie è sicuramente da porsi in un momento successivo rispetto al nominale inferiore con testa di Atenarippocampo. A tl proposito vedi per esempio F. Maio, Evidence numismatiche, cit, p. 42. “ VediU. Sio, infra,p. 650. ^* Vedi nostro catalogo n. 58. “Ὁ. Rava, Les "poulains" de Corinthe, TI, London 1948. © Sono presenti, inoltre, una moneta di età post-medievale e due monete illeggibili. ^ Vedi U. Saco, infra,p. 650. ^ Non sembrano ancora conoscersi le cause dell'abbandono definitivo della città. Per alcune considerazioni si veda U. Sco, infra, p. 650 ® Si veda G. Manomono, Dai mikrà Kermata di argento al chalkokratos kassiteros in Sicilia nel V sec. a.C. in ING XXXIV, 1984, pp. 11-39. Le discussioni intorno alle frazioni in argento hanno riguardato in questi ultimi anni sopratutto il problema della loro definizione: oboli o litre? Per un riassunto delle varie posizioni si veda C. De Pino, Le fiazioni di Nasso, Zancle ed Imera: brevi considerazioni, in RIN 94, 1992, pp. 11-25; M. Caccano CALTABIANO, La monetazione, cit, pp. 27e 31. 7? M. Caconto CaLtaBiano, Per una storia dela circolazione, cit, pp. 50-59. Eaven, La monetazione bronzea di Reggio nel V sec. a.C, Cron Arch 18, 1979, pp. 178-180; Eaptat, La moneta di bronzo e l'economia delle poleis magno-greche nei sec. VIV a.C, in Actes du Seme Congres Intemational de Numismatigue, Bern 1978, Louvain la Neuve-Luxembourg 1982, pp. 91-93. "© Eau, Per una storia della circolazione, ct, p. 9. La presenzadi numerario reggino risulta frequente anche dagli scavidi Himera, dove Rhegion costituisce la terza presenza dopo Siracusa ed Agrigento. Si veda a tal proposito A. CUrRoNI Tusa, Le monete, in HimeraIl Campagne di scavo 1966-1973, Roma 1976, pp. 705-716. ? Vedi supra, p. 145. * Per maggiori dettagli su tali rinvenimenti si veda: M. C. Lex, Vita dei Medaglieri Soprintendenza Regionale per a Si cilia, Museo di Naxos: nuovi rinvenimenti monetai di V sec. a.C. dall'solato Dé (proprietà Autra-Ryolo, scavi 1995), in AIIN 83, 1996,pp. 259-266 * Vedi a propositole osservazioni di U. Sc, infra,p. 649. ** Ad analoghe conclusioni giunge anche U. Srco, infra, p. 649. 196

© Vedi U. Srico, infra, p. 654. 5. È presente soltanto uno statere di tipo corinzio databile intorno alla metà del IV sec a.C. » Ricordiamo si tratta delle emissioni con testa femminile/polpo e testa femminile/astro entro quadrato incuso. © S. Gannarro, La monetazione dell'eà dionigiana, cit, pp. 236-239. Lo studio dei materiali numismatici di Morgantina ha evidenziato, per esempio, come nei livelli αἱ distruzione del 211 a.C.,a volte sigillati dalla caduta di tegole, accanto a monete battute nella seconda meta del ΠῚ sec. a.C, si riscontri altro numerario emesso nella prima metà dello stesso, durante il secolo precedente ed anche, pur se n misura minore, alla fine del V sec. a.C. (Morgantina Studies, pp. 162-168.) *' Si vedano a tal proposito le osservazioni di D. C4STRIZIO, op. cit. pp. 24-29. © Gli ippocampi ritrovati a Francavilla provengono purtroppo da strati piuttosto superficiali, o comunque in livelli di frequentazione riferibili ala successiva fase ΠῚ (Vedi Se, infra, p. 650). * Perla circolazione monetale in età dionigiana vedi A CUrkoNI Tusa, a circolazione in Sicilia, in La monetazione dell'età dionigiana, cit, pp. 245-269, dove viene evidenziato come il bronzo pesante dionigiano c gli ippocampi segnarono la circolazione monetaria nella Sicilia centrale ed orientale sino ad età timoleontea ed oltre. Analoghi dati si rilevano, per esempio, anche a Crotone, dove si evidenzia la tendenza di monetazione emessa nelV sec. inizi IV sec. a.C. a confluire in gruppi e strati posteriori, causando una permanenza nella circolazione di materiali antichi che potrebbe aver dato, durante il IV sec. a.C. e forse fino alla metà del ΠῚ a.C., “un aspetto eterogeneo alla massa del circolante, ricco di pezzi sopravvissuti” (M.A. MasrrizoRinvenimenti Numismatic. Brevi note sulla circolazione, in Crotone e la sua storia tra il IV edi Il sec. a.C., Napoli 1993, pp. 210. ^ Già da R. Mucauuso, Monete a leggenda ΚΑΙΝΌΝ, in Philias Charin. Miscellanea di studi classici in onore di E. Manni, WV, Roma 1980, pp. 1365-1374, e ormai, dalla maggior parte della critica moderna (vedi per esempio R. Cauciati, La monetazione di KAINON. Problemi tipologici metrologici e cronologici, in E Arslan Studia Dicata, I, Milano 1991, pp. 35-65, con bibliografia precedente), è stato evidenziato come questi bronzi, coniati tail 400ed il 367 a.C, circolino insieme alle emissioni siracusane, muovendosi insieme con gli eserciti di Dionigi ^! Negli studi più recenti (L. GanpoLto, Ricerche a Montagna dei Cavalli, ci. pp. 321-322, e S. Frey Kurren, Ritrovamenti monetali ad Entella, ci. la cronologia di queste emissioni, coniate in maniera pioutiosto abbondante e ampiamenti dilfusi in Sicilia, è stata fissaia nella prima metà del IV sec. a.C. ^ Per una valutazione della circolazione monetaria nel IV sec. a.C. a Morgantina vedi S. Ganearro, Gli scavi di Morgantina e la monetazione nella Sicilia Orientale tra Dioniso e Timoleonte, in La moneta a Morgantina. Dal tetradrammo al denario Atti della giornata di studi Aidone 1992, Catania 1993, pp. 27.54. © Si veda A. Stucuswso, L'Acropoli, in Monte Saraceno di Ravanusa. cit, pp. 27-31; e M. Cacao Ca.tastaNo, Rinvenimenti numismatici, ct. p. 192. ^^ Vedi U. Snco, infra, p. 650. Nell'ultimo decennio numerosi studi si sono occupati della problematica moneta/contesto archeologico; si vedano in particolare i contributi di M. Ciusmisa Mornvuu, 1 valore ed i significato dei rinvenimenti monetari nell'ambito di siti pluristraificati. Il caso di Via el foro Romano, pp. 1-20 e S. S.ERStEIN TREVisAM, Le monete rinvenute ad Ostia nella taberna presso il muro del castrum, pp. 121-137, in La moneta nei contesti archeologici. Esempi dagli scavi di Roma, Atti dellTncontro di Studio, Roma 1986; Roma 1989, con bibliografia ivi citata ” Seguendo l'allincamento ponderale con le sere siracusane successive all'emissione della lita di gr. 24-20, F. Mario, Evidenze numismatiche, cit, p. 67, ha ritenuto opportuno datare le serie tauromenitane in questione dopo il 338 a.C.; si veda inoltre D. Casrazzo, op. it. pp. 85-86. ἘΠ I territorio della nuova città doveva coincidere in gran parte con quello della distrutta Naxos. Secondo Diodoro (XVI, 7,1) i profughi nassi, sotto la guida di Andromaco si insediarono sul monte Tauro intorno al 358/7 a.C. Al momento della vemuia in Sicilia di Timoleonte, Andromaco fu il primo e il più fedele alleato del condottiero corinzio, arrecando alla città una notevole vitalità testimoniata dall'attività della sua zecca. 7 M. Bett, Monete ironiche in nuovi contesti di scavo a Morgantina, in M. Ciccio Ca.tastano (a cura di) La Sicilia tra l'Egitto e Roma. la monetazione siracusana dell'età di lerone If, Atti del Seminario di Studi Messina 2-4 dicembre 1993, Messi na 1995, pp. 289-293, riscontra analoghe presenze monetali allinterno delle botteghe sigillate da uno strato di livellamento aggiunto dopola costruzione della gradinata verso la metà del I sec. a.C. * Elenco delle abbreviazioni usate nel catalogo: rero 1973: A. Bermno, Le emissioni monetali di Abaceno, in “L'emissioni dei centri siculi fino all’epoca di Timoleonte e i loro rapporti con la monetazione delle colonie greche di Sicilia, Atti del IV Convegno del CISN, Napoli 1973, suppl. vol. 20 “AIIN", Roma 1975, pp. 105-131 Caccamo CALTABIANO : M, Caccamo CALTABIANO, σιν. Messina. Fonti numismatiche, in BTCG, X, Pisa-Roma 1992, pp. 12-16. Cacao Catrastano 1993: M. Caccamo CattABaNO, La monetazione di Messana, Berlin 1953. Caer: CancR., Corpus Nummoram Siculorum, HI, Milano 1983-87. Ciasoccio: B. Carkoecto, M. CaccaMo CALTABIANO, B. Cargocccio, E. Ora, Il sistema monetale ieroniano: cronologia e problemi, in La Sicilia tra l'Egitto e Roma. La monetazione siracusana dell'età di Ierone II (M. Caccamo Caltabiano a cura di), Atti del Seminario di Studi Messina 1993, Messina 1995, pp. 198-225. Casmauzio D., La monetazione mercenariale in Sicilia (Strategie economiche e tertoriali tra Dione e Timoleonte). Soveria Mannelli 2000. Consoro Laxcuex: S. 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198

Francavilla, Via Russotti: Rhegion,n. 1; Abaceno, n. 2; Mamertini, n. 3; Siracusa, nn. 4-19.

199

τὰν. TI

Francavilla, Via Russotti: Siracusa, nn. 20-25; Tauromenio, n. 26, (Mercenari campani), n. 2; ; Siculo-punica, n. 28. Via Asiago: Leontinoi, n. 29; Mamertini, nn. 31-32; Siracusa, nn. 33-37. 200

TAV. IL

Francavilla, Via Asiago: Siracusa, nn. 38-41; Tauromenio, n. 42; Siculo-punica, n. 43. Palestra Comunale: Agrigento (9), n. 44; Siracusa, n. 45. Piazza San Francesco: Abaceno, n. 46; Siracusa, n. 47. Contrada Fantarilli, proprietà Silvestro: Statere di tipo corinzio, n. 50; Siracusa, nn. 51-55. 201

TAV.IV

Francavilla. Contrada Fantarilli, proprietà Silvestro: Siracusa, nn. 56-57; Siracusa o Mamertini, n. 58; Tauromenio, nn. 59-63; Siculo-punica, n. 64. Contrada Fantarilli, proprietà Merlo-D'Aprile: Rhegion, n. 66; Siracusa, nn. 67-71. Via Liguria: Rhegion, n. 72.

202

Rosa MARIA CARRA BONACASA NOTA DI TOPOGRAFIA CRISTIANA AGRIGENTINA. A PROPOSITO DEI C.D. ‘IPOGEI MINORI"

Nel 1948, nell VIII volume delle Memorie della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, Catullo Mercurelli dedicava un intero capitolo del suo saggio su “Agrigento paleocristiana” ai c.d. "ipogei minori”!. È la prima e l'unica volta in cui un aspetto così particolare del primo Cristianesimo di Agrigento viene trattato e sviluppato con completezza. Nel passato, nessuno dei descrittori di antichità agrigentine - dal Fazello al D'Orville, dal Pancrazi al Principe di Biscari, dal Muenter al Brydone, dal Denon al Conte di Stober, dal Serradifalco al Picone - aveva dedicato più di qualche breve segnalazione a questi monumenti?. Una descrizione più attenta ed accurata si trova nel volume sulla Topogafia di Agrigento dello Schubring e più tardi nell'opera del Führer, il quale dichiara espressamente di avere esplorato più di venti ipogei raccogliendo un'adeguata documentazione grafica e fotografica, che, purtroppo, è andata dispersa con la morte dell'autore e non fu mai più pubblicata nell'opera postuma edita dallo Schultze’. Bisognerà attendere gli inizi degli anni '80 del secolo XX perché Ernesto De Miro riproponga all'attenzione degli studiosi, in un quadro più ampio ed aggiornato delle conoscenze sulle antichità paleocristiane di Agrigento‘, anche i più significativi “ipogei minori” inaugurando un fronte di ricerche interdisciplinari che ha visto coinvolta, negli anni successivi, la Cattedra di Archeologia Cri na dell'Università di Palermo in una stretta e fattiva collaborazione con la Soprintendenza di Agrigento nel programma di riesame, ricerca e valorizzazione del patrimonio paleocristiano e bizantino*. E di questo gli sono particolarmente grata. Nel contesto della necropoli paleocristiana agrigentina i c.d. “ipogei minori” rappresentano un aspetto assai significativo in ragione del loro numero considerevole e per il fatto che sono un complemento del grande cimitero comunitario paleocristiano della città - in parte ipogeo e in parte sub divo - la cui vita, come hanno dimostrato i più recenti scavi, inizia con l'ultimo venticinquennio del IN secolo*.

Gli ipogei minori affiancano la catacomba comunitaria -c.d. Grotta di Fragapane - e l'annesso cipniitero sopra terra e si dispongono — almeno quelli più interessanti, per consistenza e monumentali tà - lungo un'unica direttrice O-E, che era stata già riconosciuta dal Führer e dal Mercurelli ed è poi stata confermata dal De Miro. Infatti l'intera area cimiteriale paleocristiana si colloca sul lato meridionale della città, sfruttando l'ampia terrazza di calcarenite sul cui margine esterno correva il tracciato dell'antica cinta muraria, e occupa soprattutto la zona compresa tra il Tempio di Ercole e il Tempio della Concordia, estendendosi altresì ad Est e a N-E di quest'ultimo, con i c.d. arcosoli bizantini (fig. 1) lungo le mura meridionali, con gli ipogei di Casa Malogioglio, tra i templi di Giunone e della Concordia, e specialmente con l'interessante complesso della Latomia Mirabile (fig. 2), nel quale è stato sistemato, proprio in anni recenti, il piccolo Antiquarium Paleocristiano della Valle dei Templi”. Le scoperte effettuate con le campagne di scavo promosse dalla Soprintendenza di Agrigento negli anni 1993 e 1996*, hanno ulteriormente chiarito che una siffatta disposizione dell'intera necropoJi paleocristiana non è del tutto casuale, ma è stata determinata da precisi condizionamenti, prima fra tutte la sequenza ininterrotta di cavità preesistenti, già intuita dai precedenti descrittori — cisterne per la raccolta dell'acqua, depositi per cereali, vecchie cave di pietra, come la Latomia Mirabile ma soprattutto per il fatto che sia la catacomba Fragapane col suo vasto cimitero subdiale, sia una gran parte degli “ipogei minori” (Tav. I: D,E,F,L,P,Q,M,N,O) si affacciano con i loro ingressi lungo la direttrice di uno stesso asse viario preesistente, orientato O-E e largo m 5,50, del quale sono state ri203

Fig. 1. Lc. d. arcosoli bizantini lungo le mura meridionali. portate in luce le sponde tagliate nella roccia davanti agli ipogei P, Q, M, due dei quali (P e Q) erano finora sconosciuti?.

Del resto, la presenza di un tratto di strada di età greca era già stata riconosciuta anni or sono a Nord dell'Ipogeo D dal De Miro, che giustamente la ritenne in stretta relazione con quest'ultimo per il fatto che risulta collegato al livello superiore della carreggiata da una rampa di sei gradini. Indagini topografiche promosse dalla Soprintendenza di Agrigento, in seguito a queste nuove scoperte effettuate nell'area della necropoli paleocristiana ad Est della catacomba di Fragapane, hanno in parte modificato le conoscenze che si avevano sul tessuto urbanistico di età classica ed hanno confermato, altresì, che l'asse viario O-E, antistante l'Ipogeo D, non è mai stato dismesso, anzi venne mantenuto in perfetta efficienza per servire il cimitero paleocristiano collegandolo con la città.

Questa strada - da ora in poi ci piace definirla "via dei sepolcri” - col suo tracciato incrocia ad Ovest il cardo che, scendendo dall'area del Ginnasio, arrivava fino al Santuario di Esculapio, fuori porta. Anche questo asse viario, almeno nell'ultimo tratto prima della porta urbica, doveva essere funzionale alla necropoli paleocristiana, dal momento che è stata riscontrata la presenza di altri due “ipogei minori" (G e H, Tav. II) proprio nel punto di confluenza tra le due strade N-S ed O-E. Più ad Est, oltre gli ingressi degli Ipogei E, F (Tav. ID) e D e lungo il fronte meridionale della nostra “via dei sepoleri” si attestava, a distanze abbastanza regolari, una fila di sarcofagi monolitici a cassa, di calcarenite locale, nella quale abbiamo riconosciuto

il limite nord della necropoli sub

divo*. Sullo stesso asse viario si aprivano sia il lungo dromos che attraversando la necropoli sub 204

Fig. 2. Particolare dell'interno di uno degli ipogei di Casa Pace.

divo dava acceso alla Grotta di Fragapane, collegandola anche con l'area della necropoli romana Giambertoni, fuori le mura, sia gli ingressi degli altri “ipogei minori" L,P,Q,M,N,O che si trovano più ad Est (Tav. I). Ad Oriente di questi ultimi e a NE del Tempio della Concordia, la suddetta “via dei sepolcri” incrociava un altro cardo, che, scendendo dal quartiere dell'abitato greco-romano in contrada San Nicola, lambiva il complesso di Villa Atena, nel quale è stata riconosciuta la presenza di una chiesa urbana del V-VI secolo con un altro cimitero annesso. Quindi, dopo aver superato il complesso della Latomia Mirabile, caratterizzato dalla presenza altri due “ipogei minori" ed di alcuni arcosoli, il cardo proseguiva fino ai piedi della terrazza dei templi in prossimità del Tempio della Concordia; sicché quest'ultimo dopo la trasformazione in chiesa cristiana, nel VI secolo, continuò come nel passato, ad essere direttamente collegato con l'abitato, ma era anche in stretta relazione con la necropoli paleocristiana e bizantina di Agrigento. Ne risulta che l'intero cimitero, la cui frequentazione dovette protrarsi dall'ultimo venticinquennio del III secolo almeno fino all'VIII, se non addirittura fino alla conquista araba della città, era concentrato in un'area estesa e nello stesso tempo ben circoscritta, delimitata com'era a Sud dalla balza rocciosa su cui si impostavano le antiche mura meridionali, ad Ovest dal cardo che scendeva dall'area del Ginnasio, e ad Est da un secondo cardo proveniente dal quartiere greco-romano di San Nicola. La distribuzione delle aree funerarie comunitarie e degli ipogei a carattere privato lungo l'unica 205

Fig. 3. L'accesso all'Ipogeo Ὁ dalla strada.

direttrice di quella che abbiamo definito “via dei sepolcri”, che scandisce il limite settentrionale del cimitero, dimostra una ben chiara e premeditata pianificazione ed una ordinata gestione dell'intera necropoli che è stata rispettata nel tempo, senza sconfinamenti né occupazione di suolo pubblico, come le strade, fino al momento del definitivo abbandono. Questa organica distribuzione degli spazi fu certamente determinata dall'intervento diretto di una gerarchia ecclesiastica vigile e presente; il suo sviluppo nel tempo sembra coinvolgere anche il gruppo sparuto di arcosoli che si trova immediatamente a Nord della necropoli sub divo, all’interno di una conca semicircolare inserita in una depressione, forse il residuo di un'antica cava di pietra. Infatti, sia la conca I, sia l'Ipogeo Q — una recentissima acquisizione, come abbiamo detto, che si estende più avanti ad Est lungo la “via dei sepolcri” — sfruttarono la stessa balza rocciosa che si trovava ad una quota più bassa del livello stradale, tant'è che il dislivello davanti all'ingresso dell'Ipogeo Qè stato colmato, come nell'Ipogeo D, da una stretta rampa di quattro gradini (fig. 3). Meno chiara risulta al momento la relazione tra la viabilità preesistente i due Ipogei B e C e quel settore della necropoli subdiale che si sviluppa immediatamente ad Ovest della Grotta di Fragapane. Eppure, ritengo che anche questa parte del cimitero, se non altro per coerenza, debba avere avuto un qualche collegamento con il resto della necropoli palcocristiana sfruttando probabilmente qualche tratto minore della viabilità preesistente che, al momento, per mancanza di dati più sicuri, ci sfugge. A partire dal X secolo un modesto impianto artigianale con due fornaci per la produzione di ceramiche di uso comune occuperà sia un buon tratto della "via dei sepolcri”, che ormai aveva cessato la sua funzione, sia parte dell'area della necropoli paleocristiana, che era stata abbandonata da oltre due secoli, perché troppo lontana dall'abitato. Sappiamo, infatti, che in età altomedievale il cen206

Fig. 4. L'interno dell'Ipogeo D.

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Fig. 5. L'ipogeo F nel secolo XVII.

tro abitato agrigentino venne trasferito dai quartieri della Valle sulla collina a NO, in località Balatizzo, per ragioni difensive, si ritiene, oltre che per le necessità commerciali dettate dalla nuova posizione dello scalo marittimo più ad Occidente5.

Alla concentrazione di sepolture che caratterizza, com'è ovvio, gli spazi destinati alla comunità —

quali sono quelli della Grotta di Fragapane e della necropoli subdiale con le formae scavate nella roccia che si estendono, fitte e ordinate, ai lati del dromos di accesso alla catacomba e negli spazi liberi a NO e a SO - si contrappone l'ampiezza, la monumentalità e la luminosità degli “ipogei minori”. Le camere, quasi sempre illuminate da un grande lucernario centrale, la cui apertura coincideva con Yimboccatura della cisterna preesistente, presentano la caratteristica comune dell'impianto, che è quasi sempre di forma quadrangolare, scandito alle pareti da ampie e monumentali nicchie rettansolari o trapezoidali con volta piana oppure da arcosoli polisomi con volta a botte. Si tratta per lo più di camere singole e indipendenti, di varia ampiezza, come gli Ipogei H, G, D (fig. 4), C, L, M, R. Talvolta due camere contigue sono state collegate fra di loro, probabilmente in un momento successivo all'impianto: è il caso dell'Ipogeo F nel quale, allo spazio quadrangolare con un ampio arcosolio polisomo nella parete di fondo, se ne aggiunse un secondo, più piccolo, ad Ovest, con arcosoli monosomi alle pareti e un grande sarcofago monolitico al centro. Il collegamento che oggi si vede tra l'Ipogeo F e l'Ipogeo E, contiguo ad Est, è invece la conseguenza del riuso delle camere come 208

Fig. 6. L'interno dell'Ipogeo B.

cantine della soprastante Villa Aurea. Un disegno del Pancrazi rappresenta un interessante documento dello stato dell'Ipogeo F prima della costruzione della Villa (fig. 5). Ben diverso è il caso dell'Ipogeo B (figg. 6-7), che nasce dalla fusione di due cisterne rettangolari contigue e dal loro ampliamento a SO in relazione con un pozzo, che probabilmente fu mantenuto in uso per le necessità del rituale funerario. Arcosoli e loculi trapezoidali si aprono in più ordini sovrapposti alle pareti, un tomba a cassa litica e formae sul pavimento denotano lo sfruttamento così intesivo degli spazi da far distinguere l'Ipogeo B dagli altri «ipogei minori», tanto da ipotizzare l'uso più come cimitero comunitario (di una confraternita, di qualche associazione o altro) che privato. Una conferma indiretta a questa ipotesi verrebbe sia dalla presenza del pozzo che dallo stretto rapporto che sembra intercorrere tra le due camere funerarie e il sopra terra, dove un altro lembo di 209

Fig. 7. La rampa di accesso all'Ipogeo B.

necropoli sub divo risulta in stretta connessione con l'ipogeo, collegato com'è da una ripida e stretta rampa di 16 gradini (fig. 7). Del resto, all'interno della necropoli agrigentina non è questo il solo caso in cui un c. d. ipogeo minore si integra perfettamente col resto del cimitero comunitario circostante. Cito l'esempio dell'Ipogeo L (fig. 8), al momento un unicum non solo ad Agrigento, ma in tutta la Sicilia. Le due camere rettangolari, gemelle, contigue, ma non comunicanti, avevano accessi assolutamente indipendenti ricavati sui lati minori prospicienti su due brevi e stretti dromoi, che erano di rettamente collegati alla "via dei sepolcri” (Tav. Le fig. 9). Come ebbi a dire più volte, la particolarità di questo complesso sta nel fatto che è solo parzialmente ipogeo, scavato com'è per una profondità media di m 0,91 nel banco di calcarenite. La copertura consisteva in un'unica volta a sesto ribassato interamente costruita, come i muri perimetrali sopra ter210

Fig. 8. Le strutture dell'Ipogeo L.

ra e la parete divisoria, con blocchi da taglio di reimpiego (fig. 10). La volta era inglobata in un tetto piano a terrazza rivestito di cocciopesto e chiuso nel perimetro da un basso muro a telaio con accesso sul lato ovest, dove si estendeva la maggior parte della necropoli sub divo contigua alla Grotta di Fragapane, le cui tombe venivano a trovarsi allo stesso livello della copertura a terrazza dell Ipogeo L. Per la sua posizione in una zona intermedia tra il cimitero comunitario e la serie degli “ipogei minori” che si sviluppa verso Est proprio a partire da L, lungo l'asse della "via dei sepoleri”, ritengo che questo spazio, così ben delimitato e curato nei dettagli, possa essere stato funzionale al rituale funerario e che pertanto potesse essere destinato piuttosto all'uso della comunità, che soltanto o esclusivamente a quello dei legittimi proprietari dell'Ipogeo L. Se è esatta questa ipotesi di lettura, il tetto a terrazza dell'Ipogeo L potrebbe configurarsi come l'unico esempio agrigentino di dispositivo per il refrigerium che ricalca modelli presenti in altre aree cimiteriali mediterranee, dall'Africa, alla Sardegna, alla Spagna, alla stessa Roma". Alle stesse arce, del resto, ci rimanda anche la tipologia della costruzione con la volta a sesto ribassato interamente costruita!?. Quando il Mercurelli ebbe a descrivere 24 degli “ipogei minori" agrigentini ' nell'analisi globale che fornì del cimitero, tentò di stabilire una sequenza cronologica relativa, sulla base di osservazioni fondate sul confronto delle tipologie tombali e sul rapporto tra le caratteristiche peculiari degli “ipogei minori" e lo sviluppo che nel tempo avrebbe avuto, secondo la sua tesi, la catacomba di Fragapane. Più scettica appare in proposito la posizione del De Miro, il quale pur condividendo alcune delle osservazioni del Mercurelli circa le peculiarità struttive degli ipogei agrigentini, non va oltre una loro generica attribuzione al V secolo, che si fonda principalmente sul rinvenimento ricorrente di luceme africane di forma X. 211

Fig. 9. Ipotesi di restituzione dell'alzato dell'Ipogeo L. 212

Fig. 10. Pianta dell'Ipogeo L.

Fig. 11. Veduta dell'Ipogeo M. 213

Gli esiti degli scavi condotti negli ultimi quindici anni hanno consentito di puntualizzare meglio le fasi cronologiche del cimitero. Innanzi tutto hanno dimostrato che l'Ipogeo L, che inaugura la serie degli “ipogei minori” ad Est della catacomba comunitaria lungo la "via dei sepolcri”, ha avuto una fase di frequentazione che si colloca tra

il IV e il V secolo, come provano i rinvenimenti in strato di monete tardo romane (per lo più AE/3 e

Fig. 12. Ipogeo M: Disegno ricostruttivo della lastra dipinta.

AE/4 e minimi), di ceramica fine da mensa in terra sigillata D, di lucerne africane, per lo più di forma X, e di due orecchini d'argento a cerchio con chiusura a gancio di un tipo molto comune nel V secolo. Quanto al lembo di necropoli sub divo che si estende ad Ovest della catacomba Fragapane le stratigrafie consentono di collocare il periodo di maggiore frequentazione tra l'ultimo venticinquennio del III e il V secolo ". La scoperta recente di altre due unità di "ipogei minori", gli Ipogei P e Q, dei quali sono stati individuati gli ingressi, che si aprono proprio sulla “via dei sepolcri”, ma che per motivi statici non è stato ancora possibile indagare all'interno, ci ha

—á—

Fig. 13. Ipogeo M: arcosolio meridionale. Pianta, restituzione e sezione della copertura della tomba. 214

Fig. 14. Ipogeo M, la lastra con la decorazione dipinta. indotti a intervenire con maggiore interesse in questo settore della necropoli riportando meglio alla luce quanto ancora si conservava del contiguo Ipogeo M (Tav. I). Si è così potuto stabilire che la camera a pianta quadrangolare sfruttava una cisterna campaniforme di età greca, nella cui parete di fondo era stato ricavato un'ampio arcosolio per accogliere una tomba a cassa (fig.11); un altro arcosolio si apriva sulla parete occidentale, tombe a fossa scavate nella roccia occupavano lo spazio residuo fino all'ingresso sulla “via dei sepolcri’ L'Ipogeo M è stato particolarmente disturbato in età altomedievale dall'impianto delle fornaci in quanto, la camera venne di nuovo trasformata in una cisterna più capiente di quella originaria di età greca. Siamo certi dai frammenti numerosi di rivestimenti parietali (fig. 15) recuperati all'interno delle tombe, che le pareti della camera dovevano avere una decorazione dipinta con motivi prevalente215

Fig. 15. Ipogeo M, frammenti di intonaci con decorazione dipinta.

mente fitomorfi, nei colori rosso e verde su un fondo beige chiaro. L'elemento certamente più interessante che è stato possibile recuperare di questa decorazione pittorica riguarda una delle lastre di chiusura della tomba a cassa inserita nella nicchia della parete di fondo. ΤΙ grafico che qui si presenta alle figure 12 e 13”, è una ipotesi di restituzione dell'intera copertu-

ra della tomba che doveva consistere in tre lastre di uguale dimensione (m 0,91x 0,63 x 0,14) acco-

state tra di loro, interamente intonacate e decorate con delicati fiori rossi dal lungo stelo, arricchito da foglie di un colore verde pallido, e alternati a una serie di ghirlande stilizzate di colore rosso trattenute alle estremità da fettucce svolazzanti (fig. 14). 11 motivo decorativo, che in origine doveva essere assai più complesso e doveva necessariamente raccordarsi con gli altri soggetti presenti nella parete di fondo e sulla fronte della cassa, richiama altri esempi siciliani come il cubicolo delle rose nella necropoli dell'ex Vigna Cassia a Siracusa di età post-costantiniana?!, o anche, per il tipo di ghirlanda, la decorazione del Mausoleo Politi sempre a Siracusa, e ancora quella dell'Ipogeo di Crispia Salvia a Lilibeo, risalente al III secolo? Né mancano i confronti con gli esempi della pittura funeraria nord africana di IV secolo come ITpogeo di Adamo ed Eva a Gargaresh o la catacomba di Sabratha?. Questo tipo di decorazione, si ritrova indistintamente su monumenti pagani e cristiani e allude genericamente al pensiero della morte, specialmente alla dimora paradisiaca dei defunti. La tomba fiorita e ricca di ghirlande costituisce l'esempio terreno di un immaginario giardino fiorito ultraterreno, che ricorre senza apprezzabili variazioni per tutta la tarda antichità, e, annullando i confini tra paganesimo e cristianesimo, entra a far parte di diritto del repertorio dell'iconografia cristiana delle origini, com'è evidente in molti cicli pittorici delle catacombe romane? 216

NOTE * C. Mercurelli, Agrigento paleocristiana, Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia. Memorie vol. VIII, 1948, pp. 67-89. ? Per gli antichi descrittori vedi la bibliografia in C. MercunELI, Agrigento paleocristiana, cit., pp. 67-68, note 1-15, ? J, ScuuriNG, Historische Topographie von Akragas in Sizilien, Leipzig 1870, pp.18, 65; J. FuruReR — V. Scuurrze, Die altchristliche Grabstatten Sizliens, Jahrbuch des deutschen Archeologischen Instituts VII Erganzungsheft, Berlin 1907, pp. 208, 215217, fig. 82. * E. DE Mio, Agrigento paleocristiana e bizantina, in Felix Ravenna CIX-CXX, 1980, pp. 131-171 * G.Fionzeria, Premessa in Agrigento paleocristiana. Zona archeologica e antiquarium, (a cura di R.M. Bonacasa Carra), Palermo 1987, pp. 5-8; E.De Miro, Ricerche e valorizzazione dei monumenti paleocristiani bizantini in Agrigento e nel territorio, în Kokalos XXILXXXIII, 1986-87, pp. 285-296. + RM. Bonacasa Cagna e altri, Agrigento. La necropoli paleocristiana sub divo, Studi e Materiali dell'Istituto di Archeologia dell'Università di Palermo, 10, Roma 1995. ? Che è stato sistemato in una antica struttura rurale, opportunamente restaurata, oggi nota col nome di casa Pace: Bona‘casa Cana, Agrigento paleocristiana, cit, pp. 42-62. © Sono grata a Graziella Fiorentini per l'amichevole ospitalità e per la grande disponibilità con cui ha incoraggiato le ricerche in collaborazione conla Cattedra di Archeologia Cristiana dell'Università di Palermo, continuando una tradizione di studi inaugurata felicemente da E. De Miro. * RM, Boracisa Canna, in da Akragas ad Agrigentum: le recentissime scoperte archeologiche nel quadro della storia ammini strativa e culturale della città, Kokalos XLII, 1996, pp. 59-74. E. DE Mino, Agrigento paleocristiana e bizantina, cit., pp. 142-144. ? Vedi G. Tiropi, supra, p. 00. ? ἘΜ. Bonacasa CARRA, in Agrigento. La necropoli paleocristiana sub divo cit., pp. 33 ss, 38 ss. © E. DE Mino, Agrigento paleocristiana e bizantina, cit, pp. 161-169. Non è improbabile che si trattasse della prima cattedrale agrigentina che precedette la trasformazione in chiesa del Tempio della Concordia voluta dal vescovo Gregorio: R.M. Bonacasa CARRA, in Agrigento paleocristiana cit., pp. 37-40; in Actes du XI" Congrès International d'Archéologie Chrétienne, (Lyon 1986), vo. I, Città del Vaticano 1989, p. 199; in Quattro note di Archeologia Cristiana in Sicilia, Palermo 1992, pp. 3, 68-69, 71-72. "^ R, M. Bonacasa CARRA - F. Anoizzoxe, in L'Età di Federico II nella Sicilia centro meridionale (Giornate di studio, Gela 8-9 dicembre 1990), Agrigento 1991, pp. 217-223; Bonacasa Canta, in da Akragas ad Agrigentum, cit; BONACASA CARRA ARDIZZONE, in Atti seconda Conferenza di Archeologia Medievale, Cassino 1999, in stampa. © E Dz Mino, Agrigento paleocristiana e bizantina, cit. pp. 169-171; R.M. Bonacasa Cauta, in Agrigento paleocristiana cit. pp. 33-35. Archeologia Cristiana. ^ AM. GiuvteLLA, Mensae e riti funerari in Sardegna, Martina Franca 1985, pp. 17 ss. 55 ss; E. Jasrezenowsta, Üntersucungen zum christlichen Totenmahl aufgrund der Monumente des 3. Und 4. Jahrhunderts unter der Basilika des HL Sebastian in Rom, Frankfurt am Main 1981. δι In Sardegna a Samassi e Quartucciu: P.B. Serra, in Mediterraneo tardoantico e medievale. Scavi e ricerche, 8, Oristano 1990, pp. 133-155; a Sidi Djerba in Algeria e in Sicilia nella necropoli del Piombo: J. Lassus, in Fasti Archeologici XVI 1961, n. 4856; P. Capexor, in Antiquités Africaines 24, 1988, pp. 59-61; G. Di SrzrAvo, in Kokalos XXX-XXXI, 1984-85, pp. 782-793. *5 C. MeRcuRELL, Agrigento paleoeristiana, ct. p. 87. ? Boxacasa Canna, in Agrigento. La necropoli paleocristiana sub divo cit., pp. 33 ss, 38 ss. » La restituzione del motivo decorativo dipinto sulla lastra è opera di Antonino Cellura; a Michele Bevilacqua dell'Ufficio Tecnico della Soprintendenza di Agrigento si deve la planimetria dell'ipogeo e la restituzione della copertura della tomba. % A. Antows, Pitture e mosaici nei cimiteri paleocristiani di Siracusa, Venezia 1995, pp. 258-260, n. 80/SD14, fig. 61 (con bibl, prec). 2 A, Auovist, Pitture e mosaici, cit. pp. 199-206, figg. 41 e 43; R. Grouo, Lilibeo: l'ipogeo dipinto di Crispia Salvia, Paler mo 1996, p.10 ss. R. M. Bonacasa Canta, Nota Lilibetana. A proposito dei cimiteri tardoantichi di Marsala, in Miscellanea in onore di A. Nestori, Citta del Vaticano 1998, pp. 147-154. © A. Di Vira, in Atti DE Congr. Intern. Archeologia Cristiana (Roma 1975), Il Roma 1978,p. 199 ss. fi.17; A. Nestori, in Libya Antiqua. = E. Bisconm, Sulla concezione figurativa dell'habitat paradisiaco: a proposito di un affresco romano poco noto, in Rivista di Archeologia Cristiana LXVI,1990, pp. 25-80, in particolare p. 39 ss. per gli esempi siracusani; In. Altre note di iconografia paradisiaca, in Bessarione IX, 1992, pp.89-117 e in Le catacombe cristiane di Roma, Regensburg 1998, pp. 97-99; In. Temi di iconografia paleocristiana, Città del Vaticano 2000, p. 13 ss, 61 ss, 78 ss.

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MAURO CRISTOFANI f NUOVE ISCRIZIONI “TIRRENICHE” DA LEMNO

Solo ora, usciti gli Atti l'ottobre 1993, può essere pavimento del Telesterion gni e apografi sui quali ci

del XXXIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, svoltosi ἃ Taranto nelvalutato appieno il piccolo corpus di iscrizioni “tirreniche” rinvenute sul arcaico di Lemno, illustrate da Luigi Beschi, che ne ha fornito anche disebaseremo, essendo impossibile, almeno al momento, una loro visione autoptica'. Il dossier dei documenti, tutti della seconda metà del VI secolo a.C, antecedenti cioè l'incendio del complesso perpetrato dai Persiani nel 512/11 a.C., è il seguente:

—1mentaria: manca l'illustrazione; Beschi trascrive sia 1-5. novaisna inciso, con direzione destrorsa, sul collo di un'oinochoe (fig. 1, a) e sotto il piede di kar- — — "..lovais" (p. 43), sia JOFAIS (p. 46). 7. zari{--] dipinto, con direzione sinistrorsa, sul chesia (fig. 1, b). 6. Jovais graffito sul collo di un'oinochoe framcollo di un'olpe (fig. 2, a).

A questi si aggiunge un altro rinvenimento epigrafico che, ripreso or ora da de Simone, risul rebbe invece scoperto "negli scavi di Chloi (Cabirion) dalla Scuola Archeologica Italiana (1937-1939)"*, ma che Beschi, per la verità, inserisce nell'elenco dei documenti rinvenuti nel corso degli scavi da lui diretti fra il materiale della stipe e il livello di distruzione del Telesterion: 8. atita$ inciso, con direzione destrorsa, su un peso da telaio (fig. 2, b)

Una serie di lettere isolate, graffite o dipinte su altri vasi, include anche segni non usati nella scrittura (segno a clessidra, 7 x; a croce diritta, 4 x; a croce di S. Andrea, 19 x; E, 3 x) accanto a alpha (1%), zeta (31 x), kappa (2 x), lambda (2 x), ny (13 x) La discussione, a Taranto, si concentrò essenzialmente sul rapporto instaurato da Beschi fra lemnio novaisna (nn.1-5) ed etrusco aisna “divino”, messo in relazione "bilinguistica" con le iscrizioni greche di età classica ed ellenistica ἱερόν e simili rinvenute sempre nel Cabirion: problema che ostacola fondamentalmente questa interpretazione, come fu notato da de Simone e da chi scrive a Taranto, è l'impossibilità di giustificare, alla luce dell'etrusco, una segmentazione nov-aisna. Se il n. 6 può essere integrato []ovais, la segmentazione possibile è solo novais-na, ove - potrebbe avere la stessa funzione del suffisso etrusco. Manca per tale lessema un corrispondente etrusco, anche in sede onomastica (il cognome nuvi e connessi sembrerebbe infatti prestito dal latino Novius?), mentre la formazione potrebbe essere confrontata con quella dei molti gentilizi etruschi in -s-na la cui genesi è chiara in anesna (ET Vt 1.70), derivato dal nome individuale ane, genitivo anes (molti esempi: ET, ad voces), o calisna < “caliesna (molto diffuso: v. ET, ad voces) rispetto acalie, genitivo calies (ET Cl 1.261, 1430; Vc 6.11). Il lemnio conserva, in sede finale, il dittongo ai che in etrusco recente viene realizzato con eile. Il significato, accettando per il morfema -s il valore di genitivo, come si vedra successivamente, sarebbe quindi “di novai” e “appartenente (alle cose) di novai”, come accade per l'etrusco calusna (ET Vs 4.7, Pe 3.8) rispetto a *calu (genitivo calus: cfr. il Piombo di Magliano, ET AV 4.1 bI, dove calusc funge da pendant a caudas dell'altro lato; pertinentivo calusi-m: ET Ta 1.170), "che appartiene (alle cose) di Calu”. Carlo de Simone, che ha trattato a lungo nel suo libro sui Tirreni a Lemnos l'iscrizione n. 8‘, ha proposto una nuova lettura, latita. Da un punto di vista paleografico è obbligato a riconoscere nella lettera iniziale un lambda calcidese con traversa ascendente verso l'alto, e due alpha con la traversa 219

Fig. 1. Oinochoe e karchesion iscrittida Lemno.

interna nella stessa direzione. Ne consegue un'interpretazione la tita in cui la sarebbe abbreviazione di un prenome femminile formato su lard, in età arcaica lardaia, e tita un appositivo, considerato un gentilizio formato su nome individuale di derivazione latino-italica. La lunga dimostrazione si basa sul presupposto (a mio avviso opinabile) che in etrusco, a questa quota cronologica, sia operante il fenomeno dell'abbreviazione dei prenomi e che possa essersi trasferito a Lemnos. I più antichi casi citati, infatti, prevedono una sigla la isolata, e il loro contesto non può in alcun modo suggerire la funzione di prenome abbreviato, né, ad esempio, il contemporaneo corpus di titoli funerari volsiniesi si avvale di tali forme acrofoniche. Quanto al gentilizio tita, la. lunga trattazione raggiunge un risultato noto quanto del tutto scontato, e cio? che l'etrusco Tite, femm. Tita, deriva dal latino-italico Titus, Tita. Ne discende che l'iscrizione sarebbe una prova decisiva per il problema della etruscità di Lemno, un'etruscità trasferitasi dall'Occidente e non di area egeo-anatolica*, In effetti la nuova lettura non regge di fronte all’ evidenza paleografica. Anzitutto presume una direzione destrorsa dell'iscrizione che viene invece esclusa proprio dalla traversa interna dellalpha — la quale, sia nei testi di nuovo rinvenimento, sia nella stele di Kaminia, bustrofedica, sia infine nei frammenti dalla casa di Efestia pubblicati a suo tempo da A. Della Seta‘, si presenta calante verso il basso - e dall'ultima lettera, che è un sigma a tre tratti di tipo encorio, rappresentante il suono [5], priva del tratto superiore perché interessato da una visibile lacuna. La difficoltà, sottovalutata da de Simone, consiste nel giustificare la presenza di un lambda calcidese, non congruente con l'ambientazione della scrittura lemnia, e in contraddizione con il lambda con lo spigolo in alto, sistematico sia nel sistema di Kaminia, sia in quello di Efestia (cfr. Jelerloy nel frammento 3 di Della Seta). 220

La lettura atita$ appare dunque quella corretta. Il tipo di occorrenza, sulla base di dati esterni quali i testi su pesi da telaio, depone a favore di un nome personale isolato in genitivo, forse con ellissi della copula, come nelle iscrizioni di possesso etrusche (cfr. ad es. l'arcaico CIE 10697 raikas, e i recenti CIE 10563 mi velias [p]umpus, CIE.

11483 viplas, CIE. 11495 v. statinal), presente invece in greco (come sul peso da telaio da Policoro Ἰοοδίκης ἐμ). -s, al pari di quanto si verifica in etrusco, potrebbe allora essere morfema del genitivo di un nome personale femminile atita. Di un genitivo in -s nelle iscrizioni “tirreniche” di Lemno potrebbero risultare altre attestazioni holaie all’inizio del lato A della stele di Kaminia o il a » frammentario [--Jasas{---?] del frammento 2 di Della Seta. Se *holaie è prestito dal greco Ὑλαῖος, t e come si è supposto a partire dal Bugge*, e se il = funzionamento del prestito è simile all'etrusco, Fig. 2. Olpe e peso da telaio iscritti da Lemno. avremmo infatti *holaie (nom.), holaies (gen.), holaiesi (pertinentivo). In altri termini, l'enunciato iniziale della iscrizione sul lato A della stele, apparentemente più recente di quella incisa sulla faccia B, dichiara il possesso*, mentre la dedica contenuta nel più complesso elogio del lato B inizia con holaiesi gokiasiale " a Ylaios focese” ". NOTE L. Bsscm, I Tineni di Lemnos alla luce dei recenti dati di scavo, in Magna Grecia Etruschi Fenici (Atti XXXIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 8 -13 ottobre 1993), Napoli 1996, pp. 43-48, fige. 34. Si vedano anche gli interventi i C. de Simone c di chi scrive ibi. pp. 65-66. ? C. pe Sion, Tirreni a Lemnos. Evidenza linguistica e tradizioni storiche, Firenze 1996, p.7 ? H. Rix, Das etruskische Cognomen, Wiesbaden 1963, pp. 218, 253 (documentazione). + C: og Simone, Tirreni, cit. pp. 7-23. * Tesi sostenuta con ricchezza di documentazione sia nella relazione di Taranto, I problema storico-linguistico, pp. 89 ss. (perG. Colonna e chi scrive poco convincente: cfr ibid, pp. 170-174), sia nella seconda parte del volume (pp. 39-96). Anche nell'articolo I Tirreni a Lemnos: l'alfabeto, in StEtr LX, 1994 [1995], pp. 145 ss, de Simone sostiene, a mio avviso senza alcuna. wa decisiva, che l'alfabeto lemnio sarebbe in qualche modo una derivazione etrusca (forse da Caere, dove il sistema delle sibilanti trova uno statuto tardivo). Il problema non è tanto quello della selezione delle sibilanti, che potrebbe essere una creazione encoria (come quella del rifiuto delle lettere che in greco indicano le sonore c della ypsilon), quanto piuttosto quello dell'aso del segnoa tridente con valore di velare aspirata (?)e del digamma, ambedue non impiegati in area orientale. Cir. Ve sposizione breve ma lucida di M. Leurue, Un phocéen è Lemnos?, in CRAI 1980 (février 1981), pp. 600 s ., che riprende quanto già scritto in Tyrrhenica, Saggi di studi etruschi, Milano 1957, p. 168 s; L. AGostWuI, Sull'etrusco della stele di Lemno e su alcuni aspetti del consonantismo etrusco, in ArchGilt, LXI, 1986, pp. 25 ss. La tesi di de Simone collima in parte con quella avanzata da M. Gras, in L'talie préromaine et la Rome républicaine, Rome 1976, p. 367 e più diffusamente in Trafics yrhéniens archalgues, Rome 1985, pp. 631 ss. già confutata, su basi linguisti che, da L. Acosta, Sull'trusco, cit, p. 42 s. Per una visione “tradizionale” del problema, anche alla luce della storiografia antica, J Heuncon, A propos de l'inscription tyrrhénienne de Lemnos, in Atti Secondo Congresso Internazionale Etrusco (Firenze 1985), Roma 1989, pp. 93 ss. A. Deua Stra, Iscrizioni tirreniche da Lemno, in Sritti in onore di B. Nogara, Città del Vaticano 1937, pp. 120 ss. > LJ. Jerrenv, The Local Scripts of Archaic Greece, Oxford 1990", p. 288, n.1; M. Guaenucci, L'epigrafia greca dalle origini al tardo impero, Roma 1987, p. 371 * S. Bucor, in Christiania Videnskabs Forhandlinger, 6, 1886, p. 7. * Cr. già I. Heucon,A propos de l'inscription, cit, p. 101. Anche in holaies nagofls??) iat : mara potrebbe essere distinta una congruenza grammaticale, da cui l'interpretazione “di Ylaios, il nipote () all'avo (0), (di Ylaios) il magistrato (?2)": in nagodfs?2] la letteratura ha riconosciuto pressoché una nimemente "nipote" (dubbi sull effettivo significato sono esposti da Lejeune, Un phocéen, cit., p. 604, che pensa piuttosto a 221

“figlio”), onde, per H. Rx, in Studien zur Sprachwissenschaft und Kulturkunde, Gedenkschrift W. Brandenstein, Innsbruck 1968, p. 222, siasi potrebbe corrispondere a "Onkel" in dativo; per J. HeuRcon, A propos de l'inscription "ryrrhénienne"de Lem nos, in CRAI, 1980, (février 1981), p. 592, si tratterebbe di un "oncle maternel". Tradizionale, anche se sostanzialmente incerta, la relazione, già intravista da S. Buoce (in Christiania, cit, p. 5), fra lemnio mara ed etrusco maru, accolta quasi generalmente (cfr, con letteratura, L, Agostini, Sulletrusco, cit, p. 25). τ Sullimprestito dell'etnico dal greco cfr. da ultimo C. ΡῈ Simone, I Tirreni, cit. p. 26 s.

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ALDINA CUTRONI Tusa HIMERA TRA REALTÀ ED IMMAGINAZIONE

Nel 1991 D. Bérend, pubblicando una piccola nota', faceva presente che "pour savoir ce qui est advenu d'une ville, on peut avoir trois sortes de preuves: littéraires, archéologiques et numismati ques: tant que nos trois preuves ne concordent pas, notre connaissance de l'histoire de la cité n'est pas complete". La studiosa partiva sia da una considerazione di carattere generale sul fatto che "la storia di alcune città ed in certi casi la prova della loro esistenza, puo essere provata soltanto dalle monete”? sia da uno studio di Chr. Boehringer, sostenitore della sopravvivenza della città di Himera nel IV sec. a.C.* Qualcuno potrebbe chiedersi come mai riprendiamo un vecchio problema di cronologia monetaria e storica dopo tanti anni, a notevole distanza da uno dei più appassionanti dibattiti napoletani che vide impegnati in accese discussioni molti studiosi in occasione del VI CISN *. Impegni vari ce lo hanno impedito ma, soprattutto, volevamo riflettere ancora sulla questione, anche in attesa dei risultati delle recenti ricerche archeologiche condotte ad Himera e nel suo territorio e di verifiche per altri siti dell'isola che alla fine del V secolo avevano subito anch'essi violente distruzioni ad opera dei Cartaginesi o di Dionisio di Siracusa. Il nostro primo obiettivo é stato quindi quello di una attenta rilettura dei rapporti di scavo posteriori alla pubblicazione dei due volumi sulle ricerche archeologiche condotte ad Himera fino al 1976". Ci siamo prefissi questo obiettivo prima di procedere ad un riesame delle emissioni imerce di bronzo e di alcune serie di argento meno comuni c della documentazione relativa alla circolazione, per potere obiettare alle argomentazioni di Boehringer tendenti a ribaltare a dopo il 409 tutto un gruppo di emissioni di bronzo, in linea con le conclusioni di Kraay* e con le considerazioni di Hackens? che attraverso rimaneggiamenti cronologici e di attribuzione hanno portato ad un totale sconvolgimento di quella che era stata considerata da sempre la produzione monetaria di Himera. Oggi, alla luce dei risultati derivati da una intensa attività di ricerca ormai ultraventennale, sia da parte dell'Istituto di Archeologia dell'Università, sia da parte della Soprintendenza ai Beni Culturali di Palermo, riconosciamo che è giusto, per l'esattezza scientifica, riproporre e criticare tutte queste argomentazioni da sempre in forte contrasto con quello che è sempre stato il nostro convincimento personale, espresso in tante occasioni di incontro ed a viva voce agli studiosi che si sono occupati del problema, ma caduto purtroppo nel vuoto. Dopo le prime campagne di scavo che avevano lasciato il posto ad alcune incertezze cronologiche in attesa di soluzioni definitive, le ricerche sono state riprese per essere eseguite “con rigoroso metodo stratigrafico” e con l'intento di rispondere agli interrogativi che gli scavi degli anni precedenti avevano lasciato aperti ed ai tanti complessi problemi che via via si erano andati presentando*. Per prima cosa si è potuto appurare che la rifrequentazione intorno al tempio della città bassa (le cui rovine poggiano direttamente sul piano di calpestio di V sec.) poteva giustificarsi tanto con la ubicazione del santuario, vicino al punto più favorevole per il guado del fiume, quanto, soprattutto, con l’attività di ceramisti, anche dopo la distruzione, per la presenza, nella zona, di consistenti depositi di argilla». Successivamente, il ripensamento su quanto già pubblicato ed un severo controllo stratigrafico nell'area del quartiere est localizzato sul pianoro, hanno portato alla verifica di uno strato superiore di distruzione datato al 409 a.C., preceduto da ampi rimaneggiamenti nella II metà delV sec., conseguente ad una fase di distruzione causata precedentemente da un sisma che in quegli anni si verificò nell'isola". Una fine violenta di natura bellica veniva intanto riconosciuta nel tratto scavato per l'impianto di un albergo nella città bassa dove si recuperava lo scheletro di un ovino schiacciato sul pavimento, sotto il peso dei tegoli della travatura del tetto crollata nel vano XVII di un isolato indicato 223

come ‘isolato ovest’. Si trattava di un'area occupata da un quartiere a prevalente destinazione artigiana, abitato da un ceto abbastanza agiato, come dimostrano le suppellettili rinvenute negli strati di frequentazione della fine del V sec. a.C. Sullo spesso strato formatosi per il crollo dei tetti ed il conseguente, rapido disfacimento dei muri di argilla, sono state isolate soltanto “labili tracce di una occupazione di età ellenistica”, in corrispondenza soltanto dei vani XVI e XX del quartiere saggiato (Kokalos XXXIV-XXXV, p. 709). Ma andiamo con ordine. Fino ad oggi saggi e ricerche finalizzate alla problematica relativa alla sopravvivenza o meno della città di Himera hanno avuto come obiettivo o la definizione delle ricerche in corso sul pianoro, cioè nel temenos di Athena e nel quartiere est, o interventi di urgenza riguardanti la tutela dell'area urbana e delle zone limitrofe della città antica, nella parte in pianura. I risultati conseguiti hanno messo in evidenza "un quadro storicoarcheologico ancora più complesso ed articolato" rispetto a quanto si supponeva.in partenza. Nell'attesa di ulteriori, più approfondite ed ancora più probatorie verifiche, per i due impianti urbani,

quello ubicato sul pianoro e quello in pianura, a coronamento degli accurati controlli stratigrafici cui si è accennato, oggi possiamo intanto riconoscere che gli archeologi sono riusciti a definire meglio le varie fasi edilizie dello sviluppo urbano nella città alta ubicata sul pianoro, individuando anche qui una distruzione da terremoto, riferibile alla Il metà del V sec. a.C., seguita da una successiva ricostruzione prima che la città venisse distrutta definitivamente nel 409 ad opera dei Cartaginesi, come dimostrano anche qui fitti crolli di muri e coperture che hanno sigillato strati ed oggetti sottostanti. Nel quartiere est lo scavo di un ampio vano all'interno di una abitazione piuttosto grande e ricca ha messo in luce un ripostiglio costituito da 30 monete di argento di Himera e di Acragas della II metà del V sec. a.C. mentre, a ridosso del muro di un'altra abitazione, su un piano di calpestio della fine del V secolo, si sono rinvenuti gli scheletri di un uomo e di un cavallo travolti ed uccisi dal crollo della casa durante l'irruzione dei Cartaginesi nel 409 a.C.", Nella città bassa, poi, prima del 409 sarebbero stati riconosciuti addirittura due momenti di distruzione di cui il primo legato all'intervento di Terone nel 476 a.C. (Diodoro XI, 48-49), il secondo a quel terremoto che aveva interessato la città bassa, il quartiere est ed altri settori della città alta. In effetti la città in pianura più estesa rispetto a quella in collina, e la città collinare hanno avuto fasi di sviluppo analoghe con “livelli di cultura materiale" forse qualitativamente superiori nella prima, pur essendo state entrambe segnate e coinvolte, alla fine, da un'unica distruzione, quella della fine del V sec. A questo proposito è inoltre da sottolineare l'individuazione di tracce e resti di tratti riferibili alle cinte murarie Dopo questo approccio archeologico che ha ridefinito meglio le varie fasi di vita della città e la sua fine inequivocabile come polis autonoma dotata di strutture amministrative pienamente funzionanti, evidenziando una coerenza cronologica tra le monete ed il resto dei materiali, ci apprestiamo ora a riconsiderare alcune delle affermazioni dei numismatici citati le cui opinioni divergono dalle nostre e da quelle di altri studiosi Innanzi tutto precisiamo che è “conditio sine qua non” che una polis per potere battere moneta, cioè per potere esercitare un diritto che le deriva da una istituzione tipica della sua struttura di cittàstato, debba avere o avere conservato una sua fisionomia di entità statale con piena autonomia politica. Dopo la distruzione del 409-408 a.C. non ci sono più né uno ‘stato di Himera' né uno ‘stato di Selinunte”: le due poleis al momento della loro fondazione erano sorte a presidio e barriera, in certo qual modo come punti avanzati lungo la linea di demarcazione di una frontiera tra Greci e gruppi etnici di diversa estrazione: questi, pur tra defezioni e scontri di frontiera, diventeranno parte integrante dell'area di influenze punica, rappresentandone gli interessi. Le incertezze che si sono via via ‘accumulate’ sulla datazione delle emissioni finali di Himera, sono derivate da una incerta lettura di partenza delle varie fasi di vita della città, cioè della documentazione delle fonti archeologiche, dello stato e delle modalità della sua distruzione? e dal mancato approfondimento storico legato alle vicende ed al riassestamento territoriale di una vasta area caratterizzata da un dinamismo che le ricerche recenti hanno finalmente evidenziato ed al quale, personalmente, avevamo già accennato durante il Congresso'*. Oggi, dopo i nuovi scavi, si coglie ancor meglio l'irradiamento e lo spostamento della vita dalla vecchia polis in varie direzioni e la sua concentrazione tanto nelle fattorie della piana, già parte della originaria χώρα, quanto verso le zone interne, senza per altro escludere, localmen224

te, ancora per breve tempo, la presenza di piccoli nuclei di politai legati alle attività agricole e produttive sparse nella zona: come si è notato, ne è un esempio la persistenza delle fornaci in pianura, nell'area adiacente al tempio della Vittoria. I piccoli gruppi che ancora per qualche tempo hanno continuato a mantenere la loro residenza sul pianoro o nella città bassa, affrontavano il disagio di abitare in luoghi che sempre più andavano desertificandosi determinando la fatiscenza dei pochis: mi edifici superstiti. È Diodoro (XIII 59-62 e 75) a darci la reale portata della distruzione subita dagli Imerei quando dice che Annibale saccheggiòed incendio i loro templi e fece radere al suolo la città, tanto che, non molto tempo dopo, Ermocrate ritrovò il sito talmente ridotto ad un cumulo di macerie, da essere costretto ad accamparsi nei sobborghi. Della vecchia città non erano rimasti che agglomerati umani senza riferimento ad una organizzazione politica vera e propria mentre al tempo stesso 1000 cittadini, alla guida di Ermocrate, si erano mossi alla volta di Selinunte (Diodoro XIII 63) ed altri gruppi spostavano la loro residenza nella vicina Θέρμα πόλιν ἐν τῃ Σικελία dove confluivano anche elementi di provenienza africana (Diodoro XIII 79,8). La storia politica dello Stato imereo si concludeva cioè con il 409 a.C. I casi di Gela e di Selinunte, portati a confronto da Boehringer, sono un'altra cosa: ad Himera infatti non si verificò quanto è stato possibile riscontrare a Selinunte dove il trasferimento dei cittadini superstiti sull'acropoli diede luogo ad una intensa attività di recupero e riutilizzo dei materiali provenienti dal crollo dei templi e di rifacimenti di muri secondo la tecnica detta a ‘telaio’, tecnica attestata ad Eraclea Minoa ed anche a Gela * c ad Agrigento dove è stata riconosciuta in un quartiere a caratterizzazione e destinazione artigianale che, distrutto alla fine del V sec., fu ricostruito nel IV”. Non è escluso che l'uso di questa tecnica fosse dettato dalla premura della ricostruzione e dalla necessità di economizzare pietra da taglio. Se ci fosse stata una parvenza di ristrutturazione e di rioccupazione si sarebbero trovate anche ad Himera tracce di questa tecnica: ne consegue perciò che una precaria e momentanea frequentazione della distrutta Himera da parte di sparuti nuclei di politai che non riuscirono ad organizzarsi stabilmente è una cosa ben diversa dalla ripresa o “rifondazione” di vecchie strutture statali e dal ritorno della vita organizzata; i rinvenimenti monetali nelle fattorie e negli agglomerati in pianura, non verificati o sporadici nell'area della vecchia polis, ne sono una chiara dimostrazione. Quando Diodoro (XIII 114,1) parlava del trattato di pace del 405 tra Dionisio ed i Cartaginesi non poteva che usare il termine Ἱμεράιοι per riferirsi ai vecchi abitanti dispersi cui, in base agli accordi di pace, veniva concesso di ritornare nella loro città, che non disponendo di autonomia, poteva essere riabitata ma non fortificata. Nella fonte diodorea non riscontriamo cioè nessuna contraddizione e quindi non possiamo condividere l'interpretazione di Hackens nel senso che il trattato del 405 “expliquerait ainsi la renaissance d'un monnayage à Himéra", facendo ricorso ad una "hypothése extrème" apportando "quelques retouches”. Ipotesi estreme e ritocchi cronologici non ci trovano assolutamente d'accordo: la fonte diodorea è più veritiera ed esatta di quanto non si creda, solo che bisogna leggerla ed interpretarla per quella che é. Nello stesso modo non condividiamo l'altra affermazione di Hackens laddove egli osserva che “Himera a très bien pu tre réduite par Denis lui méme après 402 et subir le sort des cités de son royame": nessuna fonte lo attesta e d'altra parte la ubicazione della città oltre che lontana rimaneva troppo decentrata rispetto a quella delle città facenti parte dell'impero dionigiano: fortemente contrastato dalle forze cartaginesi a presidio dell'area occidentale, Dionisio non riusci mai a sottomettere questa parte dell'isola. In riferimento poi alla fase post bellica del 409 crediamo sia altrettanto arbitrario pensare che “pendant tout un temps, les cités de Thermai et de Himéra ont du coexister. L'ultime catastrophe peut aussi étre due à un raid carthaginois dans la guerre après 398”. Qui le precisazioni di Hackens, arbitrarie ed indimostrabili, risultano perfettamente in linea con quelle di Boehringer" che si è mosso tra fonti storiche interpretate in maniera alquanto personale, ricerche archeologiche appena iniziate e dai risultati ancora non chiari, sopralluoghi personali e critiche a scavi già eseguiti e per di più da altri (wie ich mich bei einem Besuch im September 1977 tiberzeugte). La conclusione finale tenderebbe ad attribuire agli anni intorno al 380 a.C. quegli strati di distruzione accertati dagli archeologi per il 409” È facile quindi capire da dove tragga origine tutta questa confusione che ha finito per sconvolge225

re in maniera totale la monetazione bronzea di Himera, la più documentata negli scavi della città dove le monete finora pubblicate hanno dato indicazioni molto interessanti sulla portata degli scambi e sulle condizioni economiche della città fino alla distruzione operata dai Cartaginesi. Intanto riguardo alle emissioni anepigrafi pesanti contrassegnate dal Gorgoneion, Kraay, basandosi sui due soli ess. (Tav. I, 1) rinvenuti in occasione delle prime campagne di scavo”! e senza tener conto che ad Himera intanto i rinvenimenti di nominali di questa serie erano saliti a 10 ess.", ha riconosciuto che "Tattribution of the Gorgoneia to Himera is extremeley thin" e che invece Mozia avrebbe potuto essere la “possible candidate for the mint of the Gorgoneia”®, il tutto con argomentazioni piuttosto deboli che lo hanno portato a puntare sui "large pellets, regularly disposed" i quali “will appear as distinctively Punic" in quanto rappresentati a Mozia sui "Gorgoneia uninscribed" (cioè su quel bronzo da sempre attribuito ad Himera), a Panormos sul bronzo "Cock/SYS" (Tav. I, 2), a Solunto sulle emissioni bilingui con i tipi di “Heracles and cray-fish”. La riattribuzione ed il passaggio della serie pesante imerea a Mozia non poteva che determinare uno sconvolgimento cronologico in profondo contrasto con i dati storici anch'essi sowertiti*. Di ragionamento in ragionamento, basandosi ancora una volta sui dati iniziali ancora parziali ed in attesa di conferma, senza considerare quanto andava delineandosi meglio anche in rapporto con i nuovi materiali che venivano pubblicati, Kraay spostava a dopo il 409 le centinaia di ess. della serie con testa di ninfa-sei globetti in corona (Tav. I, 3-4) che per Himera rappresentavano uno dei momenti più fecondi per la produzione monetale di bronzo e le attribuiva al “revival of Himera in the period after 409”. Con questa serie venivano abbassate anche quelle meno comuni, tutte a leggenda IME caratte-

rizzate dalla testa di ninfa di tre quarti-gambero e sei globetti (Tav. I, 5) (gr. 2.30/1,20), conchiglia e quattro globetti (Tav. I, 6) (gr. 1,50/1,10) “minted on a still lower standard?" murex e tre globetti (Tav. 1, 7) con ess. oscillanti tra gr. 1,20/1,007*. E così alla zecca di Himera, prima del 409 a.C., veniva lasciata soltanto la serie con il giovane a cavallo di un caprone (Tav. I, 8-9) in quanto per Kraay “the goat-rider series was the only substantial bronze coinage at Himera before 409 a.C.” Per questa serie Hackens si spingeva ancora più in là, proponendone addirittura la emissione al periodo di occupazione punica. Tl secondo motivo di confusione è collegabile al mancato aggiornamento da parte del Kraay che nel 1977, anno in cui si svolgeva il Congresso di Napoli, si rifaceva ancora a considerazioni di alcuni anni prima ormai superate”. Il mancato aggiornamento dei rinvenimenti monetali a seguito delle nuove ricerche archeologiche, ha allontanato quindi lo studio del Kraay dalla realtà e complessità dei nuovi dati acquisiti e ne ha vanificato i risultati tanto che la Consolo Langher (Atti VI CISN, cit., p. 287) ha messo in evidenza la debolezza della cronologia assoluta proposta, auspicandone la revisione. A questo punto bisogna far notare che proprio la localizzazione dei rinvenimenti delle monete di bronzo delle serie pesanti costituiva la conditio sine qua non per potere capire i motivi della prima coniazione del bronzo nella Sicilia occidentale che impiegava contemporaneamente la tecnica della fusione, con tondelli circolari, ad Himera, sigilliformi ad Agrigento, triangolari a Selinunte. In un suo recente studio G. Manganaro tra gli esempi di metoikismoi inseriva il caso di Thermai, un sito che, stando a Stefano Bizantino”, doveva gia esistere prima del 407 a.C., cioè ancor prima del trasferimento, in esso, dei politai imerei superstiti, in seguito al quale Θέρμα avrebbe preso il

loro nome, trasformandosi da semplice χωρίον in una struttura statale organizzata politicamente”. A sua volta Diodoro (XIII 79, 8) aveva spiegato il motivo del nome Θέρμα in quanto πρὸς &vroic τοῖς θερμοῖς ὕδασι, indicandone e specificandone quasi sempre l'ubicazione. La proposta di ribassamento della produzione del bronzo della serie leggera con i sei globetti in corona in data posteriore al 409 ed il conseguente prolungamento dell'attività monetaria di una città che non esisteva più come tale è in in aperto contrasto con la massa degli esemplari rinvenuti finora negli scavi ed in parte già pubblicati. Era scontato che analogo ritocco cronologico toccasse alla produzione dell'ultima serie selinuntina con testa di Heracles-arco, faretra e leggenda abbreviata XE" allineata stilisticamente con le hemidracme caratterizzate anch'esse da una testa di Heracles® ed emesse prima della distruzione del 409. Inoltre questo abbassamento cronologico finiva per coinvolgere anche la serie siracusana del delfino e conchiglia, molto attestata ad Himera, metrologicamente e stilisticamente 226

collegabile al periodo delle emissioni imeree della serie con i sei globetti in corona: il tutto a scapito degli clementi di confronto a livello tipologico e stilistico che contraddistinguono le emissioni finali del bronzo delle città che, tra il 409 ed il 396 a.C., saranno occupate e distrutte dai Cartaginesi o da Dionisio. Fortunatamente oggi troviamo un valido supporto cronologico nella facies della circolazione individuata a Gela a seguito degli scavi effettuati nell'area dell'ex scalo ferroviario ed egregiamente illustrata da A. Carbé™. Questa facies è molto simile a quella evidenziata ad Himera, con il risultato che oggi sono due le località che, con perfetto sincronismo, rispecchiano l'andamento generale della circolazione della moneta siceliota nel settore occidentale dell'isola nel V secolo. A Gela l'attenta lettura dei dati archeologici, in un'area che oltre al famoso tesoretto rinvenuto nel 1955 e datato da Jenkins al 485 a.C. aveva restituito anche un gruppo di monete di bronzo con es . siracusani della serie con delfino e conchiglia, ha permesso di individuare nei nuovi ritrovamenti di monete in strati sigillati dal crollo delle tegole e delle travi bruciate in conseguenza della distruzione del 405 a.C., un gruppo consistente di emissioni di bronzo di Agrigento, Camarina, Gela e Siracusa (serie con il polipo, con la ruota, con delfino e conchiglia), appartenenti alle stesse serie già messe in luce ad Himera. Né ci sembra che sia da sottovalutare il fatto che molti ess. della serie con giovane sul caprone risultino dimezzati intenzionalmente, presentando ognuna delle due metà un peso equivalente a quello degli ess. della serie successiva con testina femminile-sei globetti in corona e leggenda abbreviata IME, diffusi e tesaurizzati nella città e presenti anche a Mozia e Morgantina”. Per quanto riguarda poi le serie dello hemilitron con il gambero, discretamente attestata finora negli scavi, del trias con la conchiglia, riconoscibile in un es. e del retras con il murex, tutte serie di cui non si hanno finora indizi ufficiali di circolazione al di fuori di Himera, è singolare il fatto che la iconografia di questi nominali presenta un riferimento costante al mare, conferendo compattezza tipologica ad emissioni legate metrologicamente tra di loro a catena: i ritrovamenti circoscritti al luogo di emissione ed il peso bassissimo le caratterizzano come emissioni di brevissima durata e di emergenza, quasi in previsione di incombenti vicissitudini belliche e di difficili situazioni economiche. Con il loro cadenzato e successivo calo ponderale, ridotte ormai a moneta ultrafiduciaria, esse completano l'articolato quadro della produzione bronzea imerea che, con i segni di valore espressi fino all'ultima emissione, resta caratterizzata da quella marcatura metrologica tipica della monetazione di bronzo siceliota di quinto secolo. E neanche lo schema della testa di tre quarti può costituire un elemento valido per postdatare tutte queste serie in quanto si tratta di uno schema che determina la costante iconografica propria dell'ultimo decennio del V sec. a.C. che ritroviamo anche in emissioni di Siracusa, Katane, Kamarina (dracme del periodo 3° datate da Jenkins tra il 410 ed il 405 a.C.). Nella città sul pianoro sono pressoché inesistenti i bronzi punict (serie con cavallino in corsa, con palma-protome, palma-pegaso, testa femminile-cavallino e palma) posteriori alla occupazione dei territori occidentali dell'isola da parte di Cartagine che invece cominciano a diffondersi a macchia d'olio e ad attestarsi nella fattoria di Pestavecchia, negli immediati dintorni ed a ridosso della distrutta città e nello hinterland, prendendo il posto di quelle emissioni imeree che Kraay e successivamente Bochringer, hanno postdatato attribuendone la coniazione alla città sconfitta e senza autonomia alla quale mai i Punici avrebbero permesso di battere moneta a proprio nome: da parte sua Hackens, contraddicendo i dati di rinvenimento, avrebbe pensato a coniazioni non effettuate nella città sul pianoro ma addirittura altrove (Hackens, cit., p. 370). La presenza di questo numera rio punico, soprattutto quello delle due serie più antiche con avancorpo di cavallo e con cavallino in corsa, i cui rinvenimenti sono invece frequentissimi nel tratto da Himera a Termini Imerese compreso tra la piana e l'entroterra verso cui si addentrano, avrebbe potuto costituire la conferma della ripresa e della continuazione della vita nella città distrutta. Passiamo ora ad una serie poco cont sciuta fino ad alcuni anni fa e ricordata da Boehringer. Per essa ci è venuto in aiuto il recente studio di C. Arnold Biucchi che ha proposto una revisione della sequenza dei coni dei tetradrammi emessi da Himera tra il 472 ed il 409 a.C. aggiornata con il materiale rinvenuto dopo il 1929, cioè dopo la pubblicazione del Corpus di Gutmann e Schwabacher**. Tra questi materiali di nuova accessione ci 227

interessano qui gli ess. facenti parte del c.d. ripostiglio "Himera 1984", un ripostiglio disperso sul mercato antiquario e chiamato "The Himera Treasure" ? causa la massiccia presenza di 119 tetra-

drammi imerei che lo datano all'ultimo decennio del V sec., in coincidenza con la distruzione della città. Come nel rip. Seltmann ICGH 2076, le monete più recenti di questo nuovo rip. sembrano essere quelle di Himera: di esse almeno una ventina, secondo la Biucchi, apparterrebbero all'ultima emissione con quadriga al galoppo a d., ippocampo a s. in esergo, e firma MAI su una tavoletta portata, da una Nike in volo nell'atto di incoronare l'auriga (Tav. II, I), emissione corrispondente all'accoppiamento Q8-H17 della seriazione G-S20. Il rov. di questo tetradramma ripete la tipologia della

ninfa sacrificante e del satiro che si bagna alla fontana con etnico in esergo. Se nel loro complesso, schema ed impostazione delle figure si legano ai tetradrammi delle serie precedenti tipologicamente simili, lo stile se ne allontana sia perla foggia ed il diverso trattamento del vestito della ninfa che qui appare più statica sia per la nuova struttura squadrata dell’altare con due lastre inserite sulla superficie superiore verticalmente: deve trattarsi evidentemente di un nuovo conio ridisegnato da un artista diverso. Di questa emissione troviamo altri due ess. di buona conservazione tesaurizzati rispettivamente nel rip. di Schisò IGCH 2096* e in quello di Reggio Calabria IGCH 1911“, quest'ultimo da-

tato da Jenkins al 387 a.C. sulla base della presenza, in esso, di un es. siracusano del primo decennio del IV sec. ed in relazione con la caduta della città di Reggio. Le variazioni stilistiche farebbero pensare ad un artista di diversa estrazione e formazione ma non ci sentiremmo di postdatare questa

emissione, come suggerirebbe la Biucchi, sull'onda della suggestione determinata dall'articolo di Boehringer che però data questa serie al 409 perché “ist unwahrscheinlich, dass die Polis in einer Aufbauphase nach 405 die Mittel zu einer solchen Emission besessen hatte”. Nè ci sembra di poterla considerare come prodotto di una zecca punica‘ Il particolare dalla tavoletta con il nome di un probabile artista incisore, come sulle monete siracusane del periodo dei “signierenden Künstler" riporterebbe la serie allo stesso periodo mentre la significativa presenza di es . di questa emissione in un ripostiglio che per composizione e struttura affianca il rip. Seltmann (IGCH 2076), ne indicherebbe la provenienza dagli immediati dintorni della città, se non proprio direttamente da essa, nonostante le contraddizioni relative alla sua composizione. Restano ora da prendere in considerazione due serie frazionarie costituite, la prima dalla litra e dalla doppia litra^ (Tav. II, figg. 2-3), la seconda dalla sola litra* (Tav. II, fig. 4), entrambe caratterizzate dall'etnico Ἱμεραίον. Queste emissioni, rapportabili per tipologia al periodo di Timoleonte ed a quello di Agatocle, con la presenza dell’antico etnico riportato per intero come nelle emissioni di pieno V secolo, costituiscono la documentazione di un breve risveglio della passata identità nazionale, in concomitanza con quelli che rappresentano due momenti alquanto particolari per la storia siceliota del IV sec. ed anche per la nuova città di Thermai che, stando alle fonti, ha vissuto anch'essa i vari eventi storici posteriori alla sua rifondazione. Era scontato, infatti, che la città, inglobata nella epikrateia cartaginese, ma in stretto contatto con la grecità siceliota, soprattutto con Kephaloidion, vivesse tutte le contraddizioni legate ad una politica bifronte. E proprio la emissione delle litre è un chiaro riferimento all'ascesa di Siracusa negli anni di Timoleonte ed in quelli di Agatocle : quest'ultimo, tra l'altro, aveva avuto a Thermai i natali. Per la datazione di queste emissioni frazionarie non è quindi necessario ricorrere a nessuna forzatura cronologica, né postulare la sopravvivenza della vec‘chia Himera, ormai ridotta ad un cumulo di macerie.

Vorremmo concludere queste nostre considerazioni riconoscendo che, pur nel breve tempo della sua esistenza, Himera diede vita ad una delle monetazioni di bronzo più ricca di serie a tipologia di ferenziata e soprattutto di facile lettura. In essa riusciamo a seguire l'evoluzione ponderale della litra nelle sue cadenzate riduzioni verificatesi nell'arco del V secolo cui non è estranea 1a emissione con il gallo a leggenda SYS (Himera II, p. 714); di conseguenza essa va considerata, prima come espressione della contrapposizione, poi dell'adeguamento tra le due aree monetali dell'isola, la occidentale e la siracusana. Infatti, causa il grande numero di serie che vanno da quelle pesanti a quelle leggerissime, essa ci permette di cogliere perfettamente il passaggio graduale e l'adattamento a quel tipo di valuta fiduciaria che prima di Dionisio era stata la caratteristica delle emissioni di bronzo dell'area

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orientale siracusana. In questo processo di adattamento non sembra essere stata estranea una influenza ed una scelta di matrice politica. NOTE

* D. Ben, Le taureau en question, in BSEN 46, 6, 1991, pp. 97-99, fig. 3. ? G.K. Jens, Ancient Greek Coins, London 1990, p. 11 2 Cir. Boeuscer, Himera im IV Jahrhundert v. Chr, in C. M. Kraay - O. Monsatonu, Essays, Louvain-la-Neuve 1989, pp. 29.40, tav. VILVIIL + AAV. Le origin’ della monetazione di bronzo in Sicilia e Magna Grecia (Att VI CISN), Roma 1979. ? Oltre ai due volumi Himera 1 ed Himera Il edit rispettivamente nel 1970e nel 1976, sono stati pubblicati molti studi e relazioni preliminari: N. Boxacasa, (Atti IV Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia antica) in Kokalos XXITXXII, 1976-77, 1 2, p. 702 ss; Το. (Atti V Cogresso Internazionaledi Studi sulla Sicilia antica) in Kokalos XXVI-XXVII 1980-81, 7, pp. 854-855; I, in Quaderni de ‘La ricerca scientifica, n. 100, Roma CNR 1978, p. 609 ss. en. 112, Roma CNR 1985, p. 131 ss; Ib, Greci, Italiae Sicilia nel VII e VII sec a.C. (Atti Convegno Internazionaledi Atene 15-20 ottobre 1979), in ASAA LIX, 1981, L pp. 319-340; 0, Brxvnenz, in CrA 17, 1978, pp. 75-89; Io. in Sicivch XIL 1979,n. 40, pp. 46-47. 7 CIM. Kraay, The Bronze Coinage of Himera and “Hier in Ati VI CISN, ci, pp. 2732. * T. Hicxexs, Les equivalences des metaux monetaires argent et bronze en Sicil au Ve s av. J.C. in Atti VI CISN, cit, pp. 309-340. In questo articolo 1. parla di una "interprétation divergente donnée au couches archéologiques" ed a“stratigraphic plus complexe que l'on a pu croire" AA VV.,Himera. Scavo nella cità bassa (Ati VI Congresso Internazionale di Studi sula Sicilia antica), in Kokalos XXXXXXI, 1984-85, ΠῚ, pp. 629-635; N. ALLEGRO, Himera 1984-1988, Ricerche dell'Istituto di Archeologia nell'area della città (Atti VII Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia antica), in Kokalos XXXIV-XXXY, 1988-89, I, pp. 637-658 e R. Cuumxata la SS 113, ibid, pp. 697-709; N. Atueono - 5. Scovazzo - S. Vissuto, Hier: cità bassa -Scavi 1984-87. Area albergo lungo XXXVII, 1992, pp. 79-150; AA VV, Himera Nassuzo, Himera: nuove ricerche nella città bassa 1989-1992, in Kokalos 1989-1993 — Ricerche dll Istituto di Archeologia nell'area dell città (Ati VITI Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia ‘antica), in Kokalos XXXIX-XL, 1993-94, 12, pp. 1119-1133. Lo scavo totale degli isolati ha evidenziato una suddivisiorie ra zionale in lotti, pianificata da costruttori. Lo sfruttamento di questi banchi di argilla e la presenza di fornaci ancora in epoca recente, ha dato lla zona il nome di Bonfornello, tutt'oggi in uso. 2" Potrebbe trattarsi, come suggerito dagli archeologi, dl sisma ricordato da Girolamo (Eusebio ed. Schoene, p. 109) e da Orosio (I1 18, 6-7) avvenuto nel 426 aC. τ Boehringer aveva lamentato che "Bisher sind zwischen den Trürnmern der Hauser in Himera wohl Píelspitzen, jedoch comunque piuttosto rari dal momento keine Skeleite gefunden worden”. Pensiamo che questi rinventimenti sarebbero stati città abbandonata o quasi dai che, come ci sembra di avere capio rileggendo Diodoro, la battaglia, divamp al i fuori della e riportati n patria per dare loro cittadini mentre le ossa dei Siracusani uccisi furono pietosamente raccolti da Ermocrate onorata sepoltura, notizia che ci viene tramandata da Diodoro il quale (XII. 75,2), pur raccontando un avvenimento posteriore alla distruzione, riferendosi alla città distrutta la indica con il nome che aveva avuto, senza avallarne con questo la sua sopravvivenza secondo la interpretazione datane da Boehringer. giovane satiro sul caprone as* S. ConsoLo LaNGHER, in Att VI CISN, ci, p. 34, soprattutto a proposito della serie conl'invasione punica che distrugge dell'A. è esplicito: “dopo segnatada Hackens a dopo la distruzione di Himera. L'intervento della città di Himera (la quale risorge n sto vicino col totalmente Himera, noi non possiamo postulare serie coniate ada nome col satiro che vanno poste anteriormennome di Thermai e conia con leggenda analoga) né assegnare Himera le emissionidionigiana, in Atti VIII CISN Napoli 1983, te alla distruzione della cità”. M. Caccano CaLzamiaxo, La monetazione dell'età della monetazione ad Himera dopo la distruRoma 1993, pp. 186-87 e 5. Garsarro, ibid, p. 197, n.43. Fermacon all'interruzione il terminus ante quem per lo schezione del 409, la Caccamo considera lo hemiliron di Himera testina di tre quartisi puòcomeammettere la continuazione di emistna dell Arethusa cimoniana. I Garalfo a sua volta si chiede se dopo la distruzione ‘sioni autonome a forte valenza "politica" che con i loro picchi quantitativi denotano la vitalità economica di una città ancora in pieno sviluppo. int. a p. 264, lamentava l'incertezza dei contesti archeologici. Ὁ Hackens, e di controllo lungo il Per fare un esempio, a breve distanza dalla cost, il sito di Cozzo Sannita, in posizione strategica insediamento di IV sec. con annessa necropoli (D. Lauro, corso del fiume S.Leonardo, riconosciuto come sede di un piccolo il corso ἀεὶ fiume S. Leonardo, in Archeologia e territorio Cocco Sannita: un insediamento indigeno e punico-ellenistico lungo percorso, in tutta la Palermo 1997, pp. 349-360), doveva costituire una linea guida di penetrazione punica lungo un territorio diretrice di conuna lungo Verdura, Sosio, Mendola, fiumi dai anche S.Leonardo, dal che sua lunghezza da nord a sud, oltre Lungo questa linea di penetrazione si dispongono una Ziunzione tra la costa settentrionale © la costa meridionale dell'isola. numerario punico che segna le tappe più importanti a Termini Serie di centri segnati da accentuata presenza e circolazione di Monte Adranone (A. Curnoni Tusa, Sicilia: ricognizione topograImerese, Caccamo, Montagna Vecchia, Montagna dei Cavalli, del IV Congreso Internacional de estudios fenicios y pini fica dei rinvenimenti di monete puniche di bronzo anepigrafi, Actaspunica dopo la distruzione di Himera, in conco τὸς I, Cádiz 2000, pp. 471-482). In questo territorio la presenzapiù spostatasi evidenzia verso ovest rispetto al vecchio sito di Himera. Si mitasza con la rifondazione di Θέρμα che non a caso risulta 229

tratta spesso di siti a forte connotazione militare che sfruttano una conformazione geografica caratterizzata da difese naturaJi. Da qualche tempo alcuni di essi come Montagna Vecchia, Montagna dei Cavalli, Monte Adranone, sono oggetto di esplorazioni archeologiche che dovrebbero estendersi anche ad alti siti perché si tratta di centri indicatori di una situazione geopolitica che a partire dal 409 a.C. si fa molto interessante, in coincidenza con il profondo cambiamento dell'assetto politico del territorio e della sua conseguente ristrutturazione. ? A. Rauto, L'abitato di Selinunte il quartiere punico e la sua necropoli in Kokalos XXVIIL-XXIX, 1982-83, pp. 169-177. ' P. OgLaNDI, in ArchCI IX, 1957, p. 52, n. 1. G. SraonoLo, Recenti scavi nell'area della vecchia stazione di Gela in QuadMess 6, 1991 (1994), p. 64 n. 63, tav. XLI, 2-4. © D. DE Ossola, Il quartiere di Porta Il ad Agrigento in QuadMess 6, 1991 (1994), pp. 71-105. ?* C. Boswaunce&, Bemerkungen zur sizilischien Bronzeprügung im 5 Jahrhundert v.Chr., in SM 1978, 28, 111, pp. 49-65 (per Himera, in particolare, pp. 53-54). In questo articolo l'A. faceva un libero bilancio del congresso che si era svolto a Napoli l'anno precedente. * Gli storici antichi che si sono occupati di Himera o l'hanno ricordata vanno da Enea Tattico (IV scc. a.C.) a Diodoroe Cicerone (I sec. a.C.) a Strabone (I sec. d.C.), Frontino e Polieno (II sec. d. C.). Gabrici giustificava la persistenza del vecchio ‘nome con il fatto che i profughi imerei avrebbero costituito l'elemento più numeroso della nuova fondazione, * Secondo Boehringer "die stratigraphische Situation von Ober-Himera ist wegen der meist schr niedrigen verschiittung schwierig zu deuten" © A. Tusa CumosI, Rinvenimenti monetali ad Himera e nel suo territorio nel periodo arcaico. Loro significato, in La monetazione arcaica di Himera fino al 472 a.C. (Atti II CISN Napoli 1969), Roma 1971, p. 69 ss. ® A. Cursos Tusa, La circolazione della moneta bronzea in Sicilia, in Atti VI CISN (Napoli 1977), Roma 1979, p.230. Giustificato invece, a motivo della data anteriore di pubblicazione, il mancato aggiornamento di A.M. Loxco, La circolazione della moneta di Himera, in ALIN 18-19, 1971-72, p.43, la quale, riprendendo una mia annotazione (Himera I, p. 365), osservava che "gli scavi confermerebbero la continuazione della vita ad Himera dopo il 409 a.C.", ma al tempo stesso si augurava che la pubblicazione del materiale proveniente dagli scavi successivi potesse dare elementi più precisi al riguardo, cosa che infatti si è verificata. Recentemente poi il bronzo imereo pesante ha fatto registrare la sua presenza in località S. Luca, in territorio di Castronovo, dove saggi archeologici eseguiti nel sito di una fattoria, hanno messo in luce un tetras di b.c. della serie ancpigrafe con ἢ gorgoneion (ctr. Kokalos XXXIX-XL, 1993.94, I2, p. 1277, tav. CLXXV, fig. 3) ® Gli ess. invenuti a Mozia sono soltanto due: un tetras proveniente dagli scavi del 1921 (cfr. G. Wrriuxsa, Motya, aPhoenician Colony in Sicily, London 1921, p. 351, n. 11)ed un hemilitron di gr. 25,72 proveniente dagli scavi della c.d. "Casa delle anfore” (Mozia V, p. 177, tav. LXXXIV, 8 a-b) δ Perfino lo stesso Boehringer, durante lo svolgimento dei lavori del Congresso (Att, p. 259) in un suo intervento annotava: “Ho avuto l'impressione che la distribuzione delle località di ritrovamento dei tipi con gorgoneion fosse un pò differente da. quello che abbiamo avuto dal prof. Kraay”. Tenendo conto dell'aggiornamento dei rinvenimenti sarebbe stato opportuno riflettere su questa osservazione che purtroppoè caduta nel vuoto. Eppure la presenza del bronzo pesante era segnalata a SoJunto, Pizzo Cannita, Mozia, Milena, Agrigento, Sabucina Vassallaggi, Gela, indicando una dispersione maggiore e più antica, rispetto a quella delle serie leggere successive. 7? Nominale riconosciuto come trias gia in Grek Coins acquiredby the British Museum im 1926, in NC 1927, p. 193,1, tav. Pal 55 Oltre alles. in G. Maxcasaxo, Dai mikrà kermata di argento al chalkokratos kassiteros in Sicilia nel V sec.a.C., in ING 34, 1984, 19, tav. 2,12, recentemente è comparso un secondo es. nll'Auktion 7, 503 del 27-29 aprile del 1987, a cura dello Schweizerische Kreditanstalt di Berna. Il mancato “assorbimento” territoriale di queste serie rappresentate finora da pochi ess. è dovuto al fatto che, essendo state emesse poco prima della distruzione, non fecero in tempo ad entrare in circolazione. 7 A, Apuana, L'esplorazione archeologica di Himera, in La monetazione arcaica, cit, p. 89, laddove si legge che “Yabitato del VI.V secolo, in base alla cronologia di alcuni ritrovamenti, sarebbe stato per lo meno in parte rioccupato dopo la catastrofe del 409 a.C.”. Per Kraay (The bronze coinage, cit., p. 32) la puntualizzazione di Adriani, riferita ad una estensione alquanto limitata dello scavo, diventava l'elemento portante per l'affermazione categorica "but the site was re-occupied afterwards 55 G. Maxcaxano, Metoikismos. Metaphora di poleis in Sicilia il caso dei Geloi di Phintias e la relativa documentazione epigrafica, in ASNSP 1990, XX, 2-3, pp. 391-408, in particolare pp. 393-394. Secondo l'A. il caso di Thermai sarebbe testimoniato da alcune serie frazionarie di argento che saranno illustrate alle fine di questo nostro contributo. 7 La menzione del sito Θέρμα χωρίον Σικελίας sarebbe riferibile al 480 a.C.: ci chiediamo perciò se fondatori di questo χωρίον non siano stati elementi imerei filocartaginesi esuli a seguito della vittoria siceliota del 480 a.C. ® Questo si evince dal fatto che, parlando della rifondazione del 407 a.C., Diodoro (XIII 79,8) definisce Θέρμα come πόλις ἐν τῃ Σικελίᾳ cioè come un organismo già strutturato politicamente. δι Diodoro XX 56, 3 (τῆς νήσου Θερμίτας); XX 77,3 (Θέρμα καὶ Κεφαλοίδιον); XIX 2,2 (bv Θέρμοις τῆς Σικελίας). ® Labbreviazione della leggenda è tipica delle emissioni di bronzo della fine del V sec., prima della chiusura definitiva delle zecche tantoa Selinunte quanto ad Himera. Anche le ultime emissioni siracusane dell'ultimo decennio del secolo, con delfino e conchiglia al rov, presentano la leggenda abbreviata SYPA. ® SNG Cop. 605-606; BMC, Sicily 47-49. Da segnalare che la SNG France 3, tav.108, nn.2001-2002 ha attribuito erronea: mente alla città di Selge, in Pisidia, due ess. bronzei selinuntini di gr. 3,73 e 3,40 appartenenti a questa serie. Un rip. di 14 ess. è stato rinvenuto a Manuzza, nell'area della Selinunte antica (CH V, 1979, 13), % A. Ca, Circolazione monetale a Gela. I rinvenimenti negli scavi dell'ex scalo ferroviario (1984-85 e 1987), in QuadMess 8, 1993, pp. 51-59, tavv. XXLXXV. * G. Sracoto, Recenti scavi, cit. pp. 55-70. Si tratta di una zona interessata dalla distruzione della città di Gela operata 230

dai Cartaginesi nel 405 a.C. nella quale le presenze monetali si fermano agli ippocampi dionigiani (Cfr. anche SNG X, The John Morcom collection of Western Greek Bronze Coins, Oxford 1995, a proposito dei nn. 682-690). % Himera IL nn. 11, 208, 248, 267, 307, 319, 323, 369, 374, 466, 522. » Per Mozia cfr. Mozia II, p. 106; per Morgantina, cfr. Studies Il The Coins, Princeton 1989, p. 86, n. 186 (gr. 3,77). » Himera IL p. 756, n. 415, dell'isolato XV: leggermente scheggiata, pesa gr. 0,94. Un es. di gr. 1,09 proveniente dall'asta Sternberg del 20/4/1988 è confluito nella coll. Morcom, segnato con il n. 602 nella Sil oge gia citata. » F. Gurus W. SciwazacueR, Die Tetradrachmen und Didrachmenprigung von Himera (472-409 a.C), in MBNG, 47, la monetazio di Himera era stata trattata da E. Ganci in Topografia e numismatica del1929, pp. 101-144, tavv, VIII-X. Tutta l'antica Himera e di Therme, Napoli 1894, ripresa in RIN 1894, pp. 11-24, 143-167, 407-453 e RIN 1895, pp. 11-30. Dell'ultima serie di tetradrammi con la quadriga al galoppo, Gabrici riportava gli ess. del British Museum (gr. 17,08), di Napoli Fiorelli 4430 (digr. 17,43), Monaco (gr. 16,44), e della coll. Labbecke (gr. 17,35). “ CA. Briccii, La monetazione d'argento di Himera classica. terradrammi, in NAC XVII, 1988, pp. 85-100, tavv.L-HI, con riferimentiai cataloghi di vendita. Secondo la Biucchi nella composizione del ripostiglio comparirebbero 11 zecche cioè ess. di Leontinoi, Segesta, Selidi Rhegion, Acragas, Camarina, Catane, Gela, Himera, Messana ed anche ess. delle quattro zecche nunte, Siracusa. Diversa la composizione datane dai Coin Hoards VIII, London 1994, n. 66 (Rhegion 3 tetr., Messana 5, Acragas 9, Camarina 1, Catane 3, Gela 7, Himera 119). Più complessa la composizione in M. Caccamo Caltabiano (La monetazione di Messana, Berlino1993) tratta dalla consultazione dei cataloghi di vendita. Come sembra di capire questo complesso mone. tale faceva parte di un gruppo di più di 400 monete messe in vendita sul mercato americano senza un inventario preciso: sono state fotografate e descritte in cataloghi di vendita soltanto 126 monete. κι Les. di questo ripostiglio rinvenuto nel 1852-53 e formato da circa 2000 monete d'argento, finì nella coll. De Luynes sul cui catalogo è riportato al n. 977 della tav. XXXVI. Il tetradrammi di Himera figura tra le monete più tarde del rip. composto, tra l'altro, da dracme di Catan firmate da Euainetos, tetradrammi di Messana con Pan seduto, due dracme ed un didramma di Naxos, dracme siracusane con Athena di frontee Leucaspis, tutte emissioni che segnano la chiusura del rip. alia fine del V Sec, in connessione con la conquista ed il saccheggio dionigiano di Naxos nel 403 a.C. ‘è Rinvenuto nel 1913: cfr. NSA 1914, pp.159-160. © Ch. ΠΡΟ ΤῊ. Tuner, Die Tetradrachmenprágungvon Syrakus in der Periode der signierenden Künstler, Bertin 1913, pp. 257-260. Dopo il 409 la firma dell'incisore non avrebbe senso come non avrebbe senso che una città impoverita dopo la diStruzione potesse avere una disponibilità di metallo prezioso tale da potere effettuare una emissione così rappresentativa. Dopo essere stato il nominale più coniato nelle zecche siceliote della seconda metà del V sec. a.C. tra la fine del V e gli inizi del IV, il tetradramma scompare anche a Siracusa. + La litra e la doppia litra sono contrassegnate al dritto da una testa maschile barbata e dalla leggenda KPONOZ in c. deriva dal modello oppure c.p., al rov.da un fulmine e leggenda IME/PAION retrograda in c.p. oppure c.1. La testa del dritto due di orzo dello Zeus Eleutherios a capelli corti raffigurato sui bronzi siracusani di età timoleontea. Per la itra, conGabrici chicchi 73, n.116, tavai lati del fulmine, cr. IuHoor BLUNER, Monnaies grecgues Amsterdam 1883, 21, 33, tav. ΒΑ: gr. 0,88 = VI,16: per la doppia litra, con chicco di orzo a s. del fulmine, aquila con serpente tra gli artigli a d. cfr.Boehringer cit. p. 36: ‘gr. 1,23, da collezione privata. 7 Queste litre sono caratterizzate al dritto da una testa di Herakles con leonté c leggenda ἹΜΕΡΑΊΩΝ, al rov. dal Palladio (BMC n.49: er. 0,70 = Gabrici 73, n. 117, tav. VLIS).

231

TAV.I

Himera - AE: 1, 3-5, 8, hemilitra; 6, trias; 7, 9, tetrantes. Sis - AE: 2, hemilitron. 232

Τὰν. πὶ

Himera - AR: 1, tetradramma; 2, 4, litrai; 3, delitron. 233

Ettore M. De Juuis LE CERAMICHE DELLA PUGLIA PREROMANA ‘UNA PROPOSTA DI CLASSIFICAZIONE GENERALE *

La produzione vascolare è quella che meglio contraddistingue, dal punto di vista dell'archeolose si esclude la parte romana, si presentino essenzialmente come raccolte, grandi o piccole, di vasi. Tale produzione si sviluppa, senza soluzione di continuità, dall'età del Bronzo alla piena romanizzazione della regione ed oltre. In tale percorso più che millenario nascono, si sviluppano e scompaiono innumerevoli classi di ceramica diverse tra loro per tecnica, forme e stili decorativi. A questa produzione ricca e multiforme si aggiungono le ceramiche importate da altre regioni, soprattutto dalla Grecia. Di queste, però, non si tratterà in questa sede, ma solo delle ceramiche fabbricate sul suolo pugliese, di tradizione indigena ὁ di derivazione greca. L'area geografica considerata, corrispondente al territorio occupato dagli antichi Iapigi, è costituita da tutta l'attuale Puglia con l'aggiunta di alcune zone limitrofe, attualmente appartenenti alla Basilicata: l'area melfese, a Nord, e la parte del Materano posta sulla sinistra del fiume Bradano, a Sud. Per quanto riguarda l'arco cronologico oggetto di questo studio, esso è compreso tra il Bronzo Finale (XI secolo a.C.) e la tarda età ellenistica (1 secolo a.C.). In termini culturali questi estremi cronologici corrispondono rispettivamente alla fase di formazione della civiltà iapigia c alla sua piena romanizzazione. Nell'ambito delle numerose classi vascolari, che saranno elencate più avanti, si osservano significative differenze nella tecnica della modellazione e della decorazione, così come nello stile. Nelle pagine che seguiranno elencherò le classi vascolari “pugliesi”, per quanto possibile, in ordine cronologico di apparizione, fornendone i dati fondamentali in una breve scheda. gia, la Puglia antica. Non è un caso, infatti, che i musei pugliesi,

1. IMpasto

È una ceramica non depurata, formata oltre che da argilla anche da numerose impurità, sia minerali sia di natura organica, che producono una scarsa coesione all'interno e una tendenza allo sgretolamento. I vasi d'impasto hanno, perciò, generalmente pareti molto spesse ed appaiono rozzamente articolati nelle loro varie parti. Essi erano modellati a mano o alla ruota lenta e cotti in fornaci aperte, che producevano macchi scure o avvampature sulla superficie esterna. Quest'ultima si presenta nei prodotti migliori levigata grazie ad un uso esperto della stecca. Non mancano decorazioni superficiali sia incise a crudo, sia di tipo plastico (bugne, solcature). La tipologia è molto varia e articolata; manca, però, ancora, uno studio sistematico della ceramica d'impasto della Puglia. Nella fase più antica, del Bronzo Finale (XI sec. a.C.), si rileva una forte sopravvivenza di alcune forme subappenniniche tradizionali, cui si affiancano quelle di tipo protovillanoviano. Nella successiva I età del Ferro scompaiono del tutto gli elementi decorativi di derivazione protovillanoviana e si stabilizzano forme e tipi della più solida tradizione locale*. Questa classe è diffusa in tutta la regione ed è ben rappresentata dal Bronzo finale fino all'età del Ferro. Essa perdura anche nel VI e nei primi decenni del V secolo con frequenza molto più ridotta e con forme meno significative e tecnicamente più scadenti.

2. PROTOGEOMETRICO TAPIGIO Questa classe costituisce una chiara innovazione, trattandosi di una ceramica depurata e provvista di una decorazione dipinta di stile geometrico. Essa era modellata a mano o alla ruota lenta e decorata con un colore rossastro 0 bruno-nero, secondo motivi geometrici molto semplici: tremoli ver235

ticali, angoli inscritti, triangoli riempiti a reticolo, fasce parallele angolose, fasce fiancheggiate da punti, fasce parallele o angoli inscritti alternati a grossi punti o dischi. Mentre la decorazione deriva sia dalla ceramica micenea che da quella protovillanoviana, le forme, sono di tradizione nettamente italica. Le più comuni sono le olle con anse orizzontali, la scodella monoansata a labbro rientrante, la brocca a collo troncoconico, l'askos. La cronologia assoluta di questa classe è ancora non del tutto accertata, soprattutto nel suo termine iniziale, tuttavia può essere posta tra XI e la metà del IX secolo a.C. La sua diffusione copre tutta la Puglia e il Materano?.

3. GeomerRICO TaPIGIO

Discende direttamente dal protogeometrico Iapigio da cui comincia a differenziarsi intorno alla metà del IX secolo. I vasi sono modellati alla ruota lenta, ma è attestato anche l'uso del tornio, almeno per alcune parti del vaso. L'argilla varia dal giallastro, al rosa, al bruno chiaro. La decorazione è di colore bruno scuro, opaco. Nella seconda metà del IX secolo il repertorio delle forme e dei motivi decorativi si presenta ancora abbastanza limitato. Tra le prime si registrano le olle biconiche o globose, le brocche biconiche, le scodelle monoansate con labbro rientrante; tra i secondi sono attestati gli angoli inscritti, le fasc frangiate o fiancheggiate da una fila di punti, i triangoli pieni, tratteggiati o riempiti a reticolo. Dall'inizio dell'VIII secolo questa classe continua a svilupparsi nella Puglia centro-meridionale, mentre in Daunia al suo posto nasce e si sviluppa il Geometrico Protodaunio. Nell'area centro-

meridionale il Geometrico lapigio assume, in maniera evidente, motivi decorativi di altre aree geografiche, albanese (ceramica “devolliana”) e greca (ceramica tardogeometrica corinzia). L'intera classe si sviluppa dalla metà circa del IX ai primi decenni del VII secolo. Essa è stata articolata in tre fasi: antica, media, tarda, corrispondenti ciascuna ad un cinquantennio circa‘. All'inizio del VII secolo compare la bicromia, ottenuta con l'aggiunta del colore rosso a quello bruno-nero tradizionale. 4. CERAMICA ACROMA INDIGENA

Questa classe si sviluppa parallelamente alla ceramica geometrica indigena, con la quale ha in comune la tecnica di fabbricazione e il repertorio delle forme. Essa costituisce una produzione minore rispetto a quella dipinta e si trova nei livelli di abitato piuttosto che nei corredi funerari. Dopo la I età del Ferro la ceramica acroma indigena continua ad essere prodotta dalle stesse officine che fabbricavano le ceramiche subgeometriche nelle diverse aree geografico-culturali della Puglia. Perciò, al termine più generico di “Ceramica acroma indigena” dovranno essere sostituiti, quando le nostre conoscenze saranno più avanzate, quelli più specifici e adatti di “Ceramica acroma messapica”, “peucezia” e “daunia”, per indicare le produzioni parallele e quelle subgeometriche locali. Per quanto riguarda la cronologia, la ceramica acroma indigena, considerata nel suo complesso, va dalla I età del Ferro alla fine dell'età arcaica, prolungandosi, in alcune aree, come in Daunia, anche nell'età successiva, fino al IV secolo a.C. 5.

GEOMETRICO PROTODAUNIO

Nella parte settentrionale della Puglia, la Daunia, a partire dall'inizio dell'VIII secolo, si sviluppa dal Geometrico Iapigio uno stile geometrico nuovo, il Geometrico Protodaunio. Anche questa classe generalmente è modellata a mano o alla ruota lenta, ma nei prodotti più cu236

rati e recenti è accertato l'uso del tornio. Il colore bruno opaco è steso su una superficie nocciola o giallina, molto levigata nei prodotti migliori. Le forme più comuni sono le olle, globose, piriformi e ovoidi, le brocche piriformi con alta ansa angolosa, gli askoi. Il repertorio decorativo, vario e originale, presenta i seguenti motivi: zig-zag orizzontali, raggiere a punte mozze, losanghe piene, pscudo-tenda. Nella fase più tarda compaiono motivi riconducibili al Geometrico greco: losanghe e triangoli puntinati, meandro continuo e spezzato, file di quadrati disposti a scacchiera. Questa classe occupa tutto 'VIII secolo, ma si articola in due fasi, media e tarda, corrispondenti alla prima e alla seconda metà del secolo. Il Geometrico Protodaunio è diffuso non solo nel territorio daunio, ma anche al di fuori di esso. Infatti, oltre che in Campania, vasi protodauni sono stati trovati nel Piceno, in Dalmazia e in Istria’.

6. ϑυβοξομετμιοο DAUNIO

Questa classe deriva direttamente dal Geometrico. Simile è la tecnica di modellazione e di decorazione, mentre una novità è costituita dall'eventuale aggiunta, in alcuni vasi, del colore rosso al nero bruno tradizionale. L'intera produzione è stata suddivisa in tre fasi cronologiche: Daunio I (700-550 circa); Daunio II (550-400 circa); Daunio III (400-300 circa)‘. Essa, nei primi due secoli, si articola in due gruppi stilistici, di ciascuno dei quali è stato individuato il centro di fabbricazione. Il primo è Ordona, il secondo Canosa. A questi due centri principali se ne aggiungerà un terzo, Ascoli Satriano, ma solo dalla fine del VI secolo. Molto ricchi e articolati si presentano il repertorio delle forme c il sistema decorativo. Come il Geometrico, così il Subgeometrico Daunio viene esportato ampiamente in Campania e in ambito adriatico, con l'aggiunta, ora, dell'area slovena. Tale esportazione si estingue, però, verso la fine del VI secolo, e riguarda soprattutto i vasi di Canosa.

7. SuncEOMETRICO MessaPICO

In seguito all'esaurimento dello stile Geometrico Iapigio, nei primi decenni del VII secolo, nasce che si può chiamare ormai “Messapico”, essendo caratteristico del Salento e distinguendosi nettamente dalle contigue produzioni indigene, peucezia ed enotria. Sul piano tecnico i vasi del VII e della prima metà del VI secolo non differiscono da quelli tardogeometrici, essendo modellati alla ruota lenta e dipinti con colori opachi. In questa prima fase dell'età arcaica è ormai ampiamente diffuso accanto al bruno il colore rosso. Le forme più diffuse sono l'olla globosa e l'anforetta con basso collo trococonico ed alte anse a nastro, spesso angolose. I motivi decorativi appaiono più numerosi, ricchi e complessi rispetto a quelli dell'età precedente. Intorno alla metà del VI sec. si verifica un mutamento fondamentale nella produzione della caramica messapica: l'adozione generalizzata del tornio e l'uso di una vernice sottile e lucente al posto del tradizionale colore opaco. Il fenomeno si spiega con l'influsso esercitato dai vasi torniti e decorati a fasce, di produzione coloniale, che giungono numerosi in Messapia dal secondo quarto del VI secolo. Dopo l'acquisizione della tecnica greca la ceramica messapica continua a svilupparsi, perdurando, nell'uso funerario, fino alla metà del III secolo a.C. La forma più caratteristica di questa classe, nata proprio in concomitanza con il mutamento tecnologico, è la trozzella, la caratteristica anfora con le anse alte e angolose, provviste di rotelle agli attacchi inferiori e alla sommità”. e si sviluppa un nuovo stile “Subgeometrico”,

8. SUBGEOMETRICO PEUCEZIO Solo intorno alla metà del VII secolo si registra in Peucezia la nascita di uno stile subgeometrico

locale, ben distinto da quelli delle regioni vicine. I vasi, modellati alla ruota lenta, hanno una superficie levigata, chiara, su cui è stesa la decorazione di stile geometrico. Nell'ambito di questa produ237

zione si registra una netta divisione tra vasi monocromi (classe A) e vasi bicromi (classe B).

I primi

presentano una decorazione di colore bruno-nero, nei secondi al bruno-nero si aggiunge il rosso, vivo o vinaccia. Nella classe A il motivo decorativo più diffuso e caratteristico è quello della svastica e del “pettine”; nella classe B sono frequenti i raggi e gli uncini penduli e peculiari le figure di gallinacei, disposti in file orizzontali o verticali. Le due classi vascolari, prodotte certamente, da centri diversi, mostrano anche due differenti ambiti di circolazione. Infatti la classe A è diffusa nella fascia costiera, pianeggiante, che va da Bitonto ad Egnazia, mentre la classe B si addensa nella zona interna, collinosa, tradizionalmente collegata ai centri enotri della valle del Bradano. Questa classe, nel suo complesso, è stata distinta nelle seguenti tre fasi cronologiche: Peucezio I (650-575 circa); Peucezio II (575-525 circa); Peucezio III (525-475)*.

9. CERAMICAA FASCE COLONIALE

Le prime ceramiche decorate a fasce vengono importate, già dall'inizio del VII secolo, dalla Grecia (Egeo, Cicladi, Corinto), in Occidente. Qui, in particolare nelle colonie del golfo di Taranto, i vasi importati vengono presto imitati (cosiddette ceramiche coloniali). Il percorso successivo consisterà, come si dirà più avanti, nella diffusione di tali prodotti nelle aree interne della Puglia e della Basilicata e nella loro ulteriore imitazione locale. Manca tuttora uno studio complessivo su questa classe, sia per quanto riguarda il repertorio delle forme, sia per la cronologia. La sua durata conplessiva occupa un arco cronologico estremamente dilatato, dal VI alla fine del II secolo. Una prova archeologica certa della produzione di questa classe a Taranto si è avuta recentemente (1987-88), con la scoperta, in via Leonida, di una fornace, che produceva vasi a vernice nera, acromi, a fasce (coppette monoansate)’, Essa si aggiunge a quella ben nota da tempo del Ceramico di Metaponto. I materiali della fornace si datano dalla fine del V alla metà circa del III secolo. 10. CERAMICA A FASCE E DI STILE MISTO MESSAPICA E PEUCEZIA

Questa classe deriva direttamente da quella precedente, prodotta nelle colonie greche del golfo di

Taranto. Essa è ampiamente diffusa nella Puglia centro-meridionale dove soppianta le tradizionali

ceramiche matt-painted. L'acquisizione da parte delle officine indigene della tecnica di modellazione al tornio e della semplice decorazione a fasce è precoce e rapida, Essa comincia nel secondo quarto del VI secolo e dura sino alla fine del IIL. Le forme più comuni in età arcaica sono le seguenti: il cratere stamnoide e quello di tipo laconico, l'idria, la coppa di tipo ionico, la coppa monoansata. In una fase più recente appaiono il cratere a colonnette, lo stamnos, il lebete, l'oinochoe trilobata, il vaso cantaroide. La decorazione originaria, a semplici fasce e linee, viene arrichita in ambiente indigeno con l'aggiunta di motivi vegetali che dà vita alla sottoclasse dei vasi di "stile misto”. Quest'ultima appare sporadicamente già dalla fine del VI secolo, ma si afferma e si diffonde dalla metà del V a tutto il IV secolo. Infine, molto rara è l'inserzione di figure rese con una semplice linca di contorno o in silhouettes in uno stile elementare e ingenuo. 11. CERAMICA A VERNICE ROSSA ARCAICA

Questa classe non era stata oggetto di studi specifici, nonostante il suo evidente interesse®, Essa nasce nell'ambiente delle colonie greche del golfo di Taranto, ma si diffonde presto nei territori indi-

geni enotrio-iapigi, dove in seguito viene anche prodotta. I vasi sono torniti e ricoperti interamente o in parte da una vernice rosso-arancio. Le pareti si presentano nei prodotti migliori molto sottili. Le

forme principali sono tre: il vaso cantaroide, la brocchetta, e la kylix. La cronologia assoluta tra la seconda metà del VII e la fine del VI secolo. 238

12. CERAMICAA VERNICE NERA

E questa una delle classi vascolari pià importanti presenti in Puglia, sia per la sua lunga durata, sia per la quantità e qualità dei suoi prodotti, sia, infine, per l'influsso esercitato sulle classi indigene, grazie all'imitazione di parecchie delle sue forme. Tuttavia non esiste ancora su di essa una trattazione organica e autonoma, ciò è dovuto soprattutto alla difficoltà di distinguere ed isolare i prodotti importati da quelli coloniali prima e indigeni poi. Infatti ai più antichi esemplari, dell'inizio del VI secolo, importati dalla Grecia, si affiancano presto quelli fabbricati da Metaponto e da Taranto e, infine, le imitazioni indigene. Le forme, con qualche rara eccezione, restano sostanzialmente quelle attiche. Lo sviluppo cronologico di questa classe è compreso tra il VI e la metà del III secolo !!.

13. CERAMICA “MACCHIATA”

Viene così chiamata, qui per la prima volta, una categoria di vasi attribuiti finora, non senza difficoltà, a diverse classi. Si tratta di vasi che presentano macchie di vernice di vario colore, dal nero al bruno, al rosso, cioè, in sostanza, di vasi acromi macchiati casualmente e parzialmente da una traccia di colore. Tra le più antiche si annoverano le forme della classe a fasce, macchiate con una pennellata, o, più spesso, per immersione. Un'altra categoria di vasi che rientra in questa classe è quella dei vasi miniaturistici e talvolta rozzamente sbozzati destinati ai depositi votivi. Infine a questa stessa classe possono essere ascritti gli unguentari fusiformi di età ellenistica. Nonostante la sua evidente incoerenza questa classe è attestata con continuità dal VI al Il secolo. 14. CERAMICA A FIGURE E A DECORAZIONE NERE

In questa classe, rientra un gruppo di vasi prodotti da artigiani anellenici, probabilmente etruattici a figure nere". La forma largamente più diffusa è il cratere a colonnette. I pochi esemplari noti si collocano tra la fine del VI e i primi decenni del V secolo e provengono da alcune località della costa pugliese e dal loro immediato retroterra. In questa stessa classe può essere, inserito un esiguo gruppo di vasi di probabile fattura locale, avente forme e decorazione tratti dal repertorio greco e rielaborati. Tali vasi sono attestati soprattutto nelle necropoli daunie di Lavello, Canosa, Salapia, Ordona e si datano dalla metà del V ai primi decenni del IV secolo". Le forme rappresentate sono quelle del kantharos, ad alto e a basso piede, della kylix su alto e basso piede, dello skyphos. La decorazione consiste in semplici serie di foglie a goccia, o cuoriformi, in palmette e fiori di loto, oppure, raramente, in qualche scena figurata. schi, ma in forme prettamente greche e con una decorazione figurata che si avvicina a quella dei vasi

15. CERAMICA APULA A FIGURA ROSSE

Questa classe è troppo nota e nello stesso tempo troppo complessa per essere descritta nelle poche righe di una scheda. Ci si limiterà a ricordare, pertanto, che la sua produzione inizia a Taranto intorno al 430, ad imitazione della ceramica attica figure rosse, così come l'affine e coeva ceramica lucana. Trendall e Cambitoglou, i massimi studiosi di questa ceramica, hanno distinto l'intera produzione nelle seguenti tre fasi stilistico-cronologiche: “Apulo antico” (430-370); "Apulo medio” (370-340); “Apulo tardo" (340-300) ". 16. CERAMICA ACROMA TORNITA La lunga tradizione delle ceramiche non decorate, rappresentata prima dai vasi d'impasto e poi

da quelli di argilla figulina non torniti, continua in età classica ed ellenistica con i vasi torniti, che si distinguono tra loro soprattutto per funzioni e per forme. Infatti, ai vasi torniti di uso prettamente 239

funerario, compresi in questa classe, si devono aggiungere i vasi di uso domestico e i vasi da fuoco. I

vasi acromi torniti prendono il posto dei vasi d'impasto e acromi indigeni gia dal VI secolo e soprat-

tutto nel V. In un primo tempo essi ricalcano le forme della ceramica a fasce, successivamente, nel IV e III secolo, quelle dei vasi a figure rosse, a vernice nera e dello stile di Gnathia. Le forme più comuni sono le seguenti: la coppetta monoansata, lo stamnos, il cratere a mascheroni, la grande phiale biansata, la pisside, piatti e coppe di vario tipo. In una fase ancora più avanzata (III e II secolo) la ceramica acroma tornita è presente in maniera costante nei corredi tarantini, dove è rappresentata

dalla lagynos e dagli unguentari fusiformi. 17. CERAMICA ACROMA D'USO.

Questa classe è costituita da una ceramica di uso domestico, che come tale entra anche nei corredi funerari. Tuttavia la sua presenza è molto più abbondante nei contesti abitativi. L'argilla è chiara, ben depurata e levigata. Le forme più diffuse sono le seguenti: i grandi contenitori per derrate, come i dolii e le olle panciute, l'orcio biansato, il mortaio, l'olletta ovoide, il bacile, le scodelle di vario tipo. Anche le anfore da trasporto dovrebbero entrare in questa classe, ma per una consolidata tradizione di studi esse sono ormai trattate a sé ¢ collegate diacronicamente ad esemplari di ampia diffusione internazionale. 18. CERAMICA DA FUOCO

Questa classe è costituita da vasi adatti ad essere posti sul fuoco per la cottura o per il riscaldamento del cibo. Tale funzione richiedeva una lavorazione particolare che distingue, anche nell'aspetto, questi vasi da quelli di uso comune. Infatti l'argilla si presenta indurita da numerosi inclusi, soprattutto sabbia, sottile e di colore scuro, per lo più rossastro. Anche nei corredi funerari tali vasi mostrano spesso tracce evidenti di bruciato. Il repertorio delle forme è quello caratteristico dei recipienti da cottura, accompagnati dai rispettivi coperchi e privi di una stabile base d'appoggio. Sono comuni la pentola (chytra), la casseruola e il tegame (lopds), la teglia, la brocca globosa, l'olletta ovoide. 19. CERAMICAA FASCE E DI STILE MISTO DAUNIA

Anche in Daunia, come già in Messapia e Peucezia (classe n. 10), viene prodotta e si diffonde la ceramica tornita, con decorazione a fasce e di stile misto. Manca però qui la fase arcaica e subarcaica, documentata solo da pochi pezzi d'importazione. Infatti l'inizio di una produzione locale va posto nella nella seconda metà del V secolo, con uno sviluppo e un'intensa diffusione nel corso del successivo. In questo stesso periodo essa risente della moda delle decorazioni fitomorfe, cosicché, accanto ai vasi decorati con semplici fasce e linee parallele, appaiono vasi più riccamente ornati, grazie all'aggiunta di motivi vegetali (palmette, fiori di loto, girali vegetali) accanto e negli spazi compresi fra fasce e linee. Più raro è l'inserimento di figure. Le forme, varie e numerose, sono riconducibili in gran parte al repertorio italiota coevo. 20. CERAMICA SUDDIPINTA. La tecnica della suddipintura in bianco sulla parete verniciata di nero del vaso è già presente nel-

la ceramica attica (vasi di Saint Valentin). Essa viene presto imitata, con l'aggiunta del colore rosso, dalle officine italiote che danno vita ad una prima serie di vasi suddipinti, denominati “Gruppo di 240

Xenon". In una fase successiva, a partire dal secondo quarto del IV secolo, le suddipinture in biancoo in bianco e giallo si rarefanno, mentre diventano canoniche quelle in rosso o in rosa. Nello stesso tempo si sviluppa, inoltre, una produzione di vasi miniaturistici. Le forme più comuni sono le seguenti: Yoinochoe, il kantharos su alto e basso piede, lo skyphos, la kylix. Negli ultimi decenni del IV secolo si diffondono i prodotti del gruppo cosiddetto “del Cigno rosso", formato soprattutto da kylikes a basso piede, recanti sul fondo interno, al centro, la figura di un cigno. 21. CrRAMICA DI GNATHIA

Questa classe, come la precedente, è contraddistinta da una decorazione suddipinta sulla parete del vaso verniciata di nero. Il centro di fabbricazione, si localizza a Taranto. La classificazione generale di questa ceramica, proposta da Webster, la distingue in tre fasi stilistico-cronologiche: Antico G. (360-340); Medio G. (340-325); Tardo G. (325-270) ". Nella prima fase sia le forme sia la decorazione sono strettamente collegate alla ceramica a figure rosse. Nella fase media diventano più rare le figure; la decorazione consiste soprattutto in elementi vegetali legati al mondo dionisiaco: grappoli d'uva, foglie di vite e di edera. Nell'ultima fase prevale nettamente l'uso di costolature verticali, derivanti da prototipi metallici, che riducono sensibilmente lo spazio per la decorazione dipinta. La vittoria dei Romani su Taranto non avrebbe fatto estinguere completamente questa produzione, come aveva ritenuto Webster, ma ne avrebbe procurato solo una flessione, cosicché i prodotti più tardi giungerebbero sino alla fine del III secolo *, 22. CERAMICA A VERNICE BRUNA O ROSSA

Questa classe viene prodotta soprattutto in Daunia dalla fine del V secolo e per tutto il successi vo. Le forme riprendono sia quelle della ceramica a fasce (brocca a labbro obliquo, vaso cantaroide, coppetta monoansata), sia quelle dei vasi a vernice nera (oinochoe di forma 8, olpe, ecc.). La vernice, generalmente sbiadita e poco lucente, va dal bruno scuro al marrone chiaro e dal rosso all'arancio. I vasi possono essere verniciati interamente o, più spesso, parzialmente, cioè nella metà superiore, oppure sulla bocca e sull'ansa. In questa classe si può riconoscere una produzione minore e povera delle officine indigene, volta ad imitare i vasi a vernice nera di produzione italiota, ancora scarsamente diffusi in alcune aree interne”. 23. CERAMICA LISTATA

Questa classe, nata e sviluppatasi a Canosa, si collega direttamente alla tradizione indigena, in particolare allo stile geometrico-vegetale del Daunio III (classe n. 6). Essa si sviluppa attraverso le seguenti tre fasi stilistico-cronologiche: "Listata A" (350-320); "Listata B" (320-300); "Listata C" (prima metà del III secolo)”. Nelle prime due fasi vengono utilizzate due forme, prettamente locali, modellate ancora alla ruota lenta: l'olla con labbro a imbuto e l'askos. La decorazione, generalmente monocroma, consiste in motivi vegetali inseriti entro pannelli o liste, da cui deriva il nome della classe. La fase C è la più originale, essendosi distaccata ormai dalla precedente tradizione daunia. I vasi sono torniti e compaiono forme del tutto nuove, come gli askoi a bocca doppia o tripla, i thymiateria, le anforette, i vasi multipli. La decorazione, disposta in maniera fitta, comprende, accanto al tradizionale colore bruno-nero, il rosso e il rosa. Inoltre nel contesto decorativo fitomorfo vengono inserite piccole figure zoomorfe e antropomorfe. 24. CERAMICA SCIALBATA I vasi cosiddetti "scialbati" sono dei vasi acromi che presentano una parziale ingubbiattura di lat-

te di calce. Essi rientrano tipologicamente tra le ceramiche apule del IV e III secolo e sembrano rappresentare uno stadio non completo di lavorazione. Infatti la scialbatura potrebbe presupporre una

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decorazione policroma o una doratura, oppure rimanderebbe ad un effetto simile a quello offerto dai vasi cosiddetti argentati. Questa classe è diffusa in tutta la Puglia indigena e soprattutto in Peucezia”!. Le forme sono quelle della ceramica a figure rosse, cui si aggiungono quelle imitanti prototipi metallici: phialai ombelicate, semplici o baccellate, kantharoi, vasi plastici (rhyta e fiaschette), ed altre con baccellature e costolature nette. 25. CERAMICA ARGENTATA

Questa classe ἃ collegata alla precedente ed ὃ vicina a quella dorata per caratteristiche tecniche e formali. Tuttavia se ne distacca per l'area di distribuzione e per i centri di produzione, essendo diffusa in tutta la Puglia, compresa Taranto”. Essa presenta una spessa ingubbiatura biancastra di caolino, ad imitazione di prototipi argentei. Le forme più comuni sono le seguenti: l'oinochoe di forma 1, il kantharos, la pisside e la phiale mesonfalica, sia liscia, sia con cavità ovali e testine in rilievo ἢ. 26. CERAMICA DORATA

I vasi di questa classe presentano una superficie di colore, giallo ocra intenso. Essi sono prodotti al tornio in forme che denunciano chiaramente la loro imitazione del vasellame metallico, di bronzo ὁ di bronzo dorato. Il colore è steso a freddo mediante un legante di tipo organico. Le forme più comuni sono le seguenti: la patera a manico antropomorfo o a manico semplice, la patera mesonfalica, Yoinochoe a becco e di forma 1, il kantharos, la pisside e la pscudopisside. Il centro di produzione di questa classe era Canosa, nei cui corredi funerari è stata trovata la massima parte degli esemplari nora noti. La cronologia complessiva è compresa tra la metà del IV sec. e i primi decenni del III secolo, con un'evidente intensificazione nel ventennio 340-320 a.C. 27. CERAMICA POLICROMA DAUNIA

Comprende vasi decorati con figure o con altri motivi ornamentali eseguiti in una tecnica particolare, “a tempera" o a "freddo". Tale tecnica conferisce loro un aspetto pulverulento e una scarsa tenuta del colore, che ne spiega l'uso esclusivamente funerario. Di questi vasi, quelli rinvenuti nei grandi ipogei di Canosa, dove erano certamente fabbricati, furono chiamati in passato "canosini" o, più di recente “plastici o policromi”, per la coesistenza, accanto alla decorazione dipinta policroma, di una sovrabbondante decorazione plastica^. Accanto a questa produzione canosina, caratterizzata da un'esuberante decorazione plastica e dall'impiego di forme del tradizionale repertorio daunio, come l'olla con labbro ad imbuto, recentemente è stato individuato un secondo gruppo, contraddstinto da una tipologia derivata dalle coeve classi apule e dalla mancanza della sovrabbondante decorazione plastica. Tale gruppo è stato attribuito alle officine di Arpi”. La cronologia assoluta dell'intera produzione è compresa tra gli ultimi decenni del IVe la prima metà del III secolo. 28. CERAMICA POLICROMA TARANTINA

Questa classe rientra tra le ceramiche decorate “a tempera”. Tecnicamente essa è contraddistinta da una scialbatura di base in latte di calce, cui si aggiunge una decorazione dipinta e plastica. La prima è costituita da tenui colori mal fissati a freddo, soprattutto l'azzurro e il rosa; la seconda consiste in figure plastiche cotte separatamente c applicate per mezzo di collanti. Questi vasi avevano una funzione esclusivamente funeraria. Le forme utilizzate sono soltanto due: il lebes gamikos e un bacino su piede con coperchio. Il luogo di fabbricazione è Taranto; la cronologia è compresa tra gli ultimi decenni del III secolo e la fine del II o gli inizi del I". 242

29. CERAMICA A VERNICE NERA TARDA

È questa una delle ultime produzioni apule, diffusa in tutta la regione, compresa Taranto. Essa è compresa tra l'ultimo quarto del III secolo e la metà circa del I. Questa classe è stata distinta da quella diffusa dall'età arcaica al primo Ellenismo (n. 12), poiché presenta caratteristiche tecniche e formali diverse. Infatti essa appare ormai svincolata dalla tradizione attica, affermandosi come una ceramica nuova, di passaggio verso quel repertorio di forme “internazionali”, che caratterizza le successive ceramiche sigillate di età romana *. Nell'ambito di questa classe è stato recentemente individuato un gruppo, chiamato HFR (hard fired red), la cui area di diffusione comprende tutto il Salento, compresa Taranto”.

30. CERAMICA A PASTA GRIGIA

Questa classe è affine alla precedente ed è diffusa ampiamente nell'Italia meridionale ionica c adriatica. La sua caratteristica principale è l'argilla di colore grigio, la quale si associa ad una vernice tendente spesso ad un colore grigio-nero. Le forme più frequenti sono i piatti a orlo verticale o sagomato, le scodelle con orlo estroflesso, le coppe, le ciotole, le coppette biansate, i calamai. La cronologia generale è compresa tra le prima metà del II secolo e la metà del 1". Le trenta classi vascolari sopra descritte possono essere suddivise in gruppi se considerate da di versi punti di vista”. Per la tecnica della decorazione esse possono essere suddivise nei seguenti quattro gruppi: A) ceramiche acrome o non dipinte; B) ceramiche dipinte con decorazione opaca o matta (matt-painted); C) ceramiche verniciate, lustre o semilustre; D) ceramiche dipinte nella tecni-

ca “a tempera” (Cfr. Tabella A) Un altro principio fondamentale di classificazione delle ceramiche sopra elencate è quello etnici culturale. Esse possono essere distinte, infatti in tre ampie e fondamentali categorie: A) ceramiche indigene; B) ceramiche greche o di derivazione greca; C) ceramiche di tipo misto (cfr. Tabella B). Della prima categoria fanno parte le ceramiche di produzione e di tradizione locale. Esse risalgono alla fase di formazione della civiltà iapigia e continuano ininterrotte fino all'età ellenistica, conservando le proprie peculiarità nonostante il contatto e la concorrenza delle ceramiche elleniche, tecnicamente più evolute e più ricche e varie sul piano decorativo. Alla seconda categoria appartengono le ceramiche di tipo e di tradizione greca, cioè quelle classi prodotte în Italia dai vasai delle colonie greche e imitate da quelli indigeni, oppure imitate da questi direttamente dagli esemplari importati dalla Grecia. Esse si svilupperanno ulteriormente e per lungo tempo in Puglia, senza perdere, però, la loro originaria e chiara impronta greca. La terza categoria è formata dalle ceramiche di tipo misto, ossia da ceramiche che presentano caratteri tecnico stilistici ibridi, greci e indigeni, fusi e trasformati per lunga consuetudine dalle officine indigene. Sulla base di questa tripartizione sono state formulate delle sigle per ciascuna delle trenta classi individuate. In ciascuna sigla la prima lettera, seguita da un trattino, indica appunto l'appartenenza della classe ad una delle tre categorie: I (indigena); G (greca); M (mista). Tali sigle sono elencate nella prima colonna da destra della classificazione generale qui proposta (cfr. la Tabella C).

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TABELLA A

Articolazione delle classi per la tecnica della decorazione B) Ceramiche dipinte matte"

Impasto Ceramica Ceramica Ceramica Ceramica | ©) ceramiche Ceramica Ceramica Ceramica Ceramica

Ceramica Ceramica Ceramica Ceramica Ceramica Ceramica Ceramica Ceramica

acroma indigena. acroma tornita acroma d'uso da fuoco

a a a a

dipinte verniciate (lustre e semilustre) fasce coloniale fasce e di stile misto messapica e peucezia vernice rossa vernice nera

“macchiata” a figure e a decorazione nere apula a figure rosse a fasce e di stile misto daunia suddipinta di Gnarhia a vernice bruna e rossa a vernice nera tarda

Protogeometrico Iapigio Geometrico iapigio Geometrico Protodaunio Subgeometrico Daunio Subgeometrico Messapico Subgeometrico Peucezio Ceramica Listata D) Ceramiche dipinte “a tempera” Ceramica scialbata Ceramica argentata Ceramica dorata Ceramica policroma daunia

Ceramica policroma tarantina

Ceramica a pasta grigia

TABELLA B. Articolazione delle classi su base etnico-culturale A) Ceramiche indigene (D) B) Ceramiche “greche” (G) Impasto Ceramica a fasce coloniale Protogeometrico lapigio Ceramica a vernice rossa Geometrico lapigio Ceramica a vernice nera Ceramica acroma indigena Ceramica apula a figure rosse Geometrico Protodaunio Ceramica suddipinta Subgeometrico Daunio Ceramica di Gnathia Subgeometrico Messapico Ceramica policroma tarantina Subgeometrico Peucezio Ceramica Listata ©) Ceramiche di tipo misto (M) Ceramica a fasce e di stile misto messapica c peucezia Ceramica a vernice bruna e rossa Ceramica “macchiata” Ceramica scialbata Ceramica a figure e a decorazione nere Ceramica argentata Ceramica acroma tornita Ceramica dorata Ceramica acroma d'uso Ceramica policroma daunia Ceramica da fuoco Ceramica a vernice nera tarda Ceramica a fasce e di stile misto daunia Ceramica a pasta grigia 244

TABELLA C. TABELLAC Le ceramiche ella Puglia preromana - Ietoprumma cronologico

TSI pu qx qe a CLASSE ΤΙ T ]impasto ΡΟ 2 [Protogeomenico Tapio το a apio 3_[Geometrico TA 4 [Ceramica seroma indigena [Teor 3 [Geemetrico Protedsunio LSGD " 6 |Subgeometrico Daunio TSGM. 7 [Subgeometrico Messapica TSGP 3 [Subgeometrico Peucezio GF s fasce coloniale 9_| Ceramic MEME L a fasce e isle misto mess s pere TO [Ceramica GVR I! I Ceramica a vernice rossa arcaica Ceramica a venice nera [ΠῚ [Ceramica “macchiata” MCFDN a igure e a dez nere Ceramica GER Ceramica aula a figure rosse. MAT Ceramica croma toria. MCAU Ceramica aroma d'uso MAE È — Ceramica da fuoco MED Ceramica a fasce ed ile misto Gaia Gs Ceramica suddipinta G-G Ceramica di Gnathia_ M-VBR Ceramica vernice bruna e ross TL Ceramica Tata MS Ceramica scinata MA aj ᾿ Ceramica argentata MD Ceramica dorae MPD [^ Ceramica policroma diunia GPT dd tarantina policroma Ceramica MENT = ] a vernice nera tarda [55 [Ceramica MPG 30 [Ceramica a pasta grizia

NOTE

^ Nelle lunghe more della pubblicazione della presente opera l'argomento qui trattato è stato ripreso e pubblicato dallo scrivente nella seguente opera monografica: E.M. De Tutus, Mille anni di ceramica in Puglia, Bari 1997. "E. M. De Juliis Gli lapigi Storia e civiltà della Puglia preromana, Milano 1988. Ὁ R. Prio, Archeologia della Puglia preistorica, Roma 1967, pp. 115-128. + D. Yurewa, The matr-painted Pottery of southern Italy, Galatina 1990, pp. 19-30. * D. ὕντεμμα, The matt-painted Pottery cit. pp. 31-85. + E. M. De Jours, La ceramica geometrica della Daunia, Firenze, 1977; I., Centri di produzione ed aree di diffusione com: merciale della ceramica daunia di stile geometrico, in ASP XXXI, 1978, pp. 3-23; In, Nuove osservazioni sulla ceramica geometrica della Daunia, in La civilià dei Dauni nel quadro del mondo italico, (Atti XIII Convegno di studi etruschi e italici, Manfredonia, 21-27 giugno 1980), Firenze 1984, pp. 153-161. * E. M. De Jumns, La ceramica geometrica della Daunia, ct. 7 D, Yurews, The matt-painted Pottery, cit., pp. 86-108; 334-337. La ceramica geometrica della Peucezia, Roma 1995. * E. M. De Jours, 245

* A. Datt'Acuio, in I Greci in Occidente -- Arte e artigianato in Magna Grecia, (citato in seguito Arte e artigianato), Napoli 1996, pp. 56-57. ! Si veda, ora: A. DI Zanni, La ceramica coloniale arcaica a vernice rossa dal sud-est d'Italia Taras, XVII, 2, 1997, pp. 237304. "Sulla ceramica a vernice nera della Puglia, cr: L. MenzaGORA, ['vasi a vernice nera della Collezione H.A. di Milano, Milano 1971; M. O. Jexrzz, Les gutti e les askoi à reliefs etrusques et apuliens, Leiden 1976; F. Gnotta, Guiti e askoi a rilievo italioti ed etruschi, Roma 1985. ! F. DIANDRIA, Messapi e Peuceti, in Italia omnium terrarum alumna, Milano 1988, p. 668; E. M. De Juuus, Importazioni e influenze etrusche in Puglia, in Magna Grecia, Etruschi e Fenici (Atti del XXXIII Convegno di studi sulla Magna Grecia, Taran10, 8-13 ottobre 1993), Taranto 1994, pp. 528-532. © Forentum I. Le necropoli di Lavello, Venosa 1988, pp. 221-224. % A.D. TaenpatL- A. Caustroctou, The Red figured Vases of Apulia, Oxford 1978-1982. * E.M. De Jus, La ceramica geometrica della Daunia, cit, pp. 56-71. J.D. Beazizy, Etruscan Vase Painting, Oxford 1947. Recentemente, per i vasi di questo gruppo, è stata proposta una fabbricazione a Metaponto, che ne avrebbe indirizzato l'esportazione soprattutto verso i centri indigeni della Peucezia e della Daunia meridionale (E.. G. D. Romnson, Between Greek and Native: the Xenon Group, in Greek Colonists and NativePopulations (Proceedings of the First Australian Congress of Classical Archaeology Sydney 1985), Sydney 1990, pp. 251-266. Cfr.pure E. G. D. Rosixson, in I Greci in Occidente - Arte e artigianato, cit. pp. 446-452. Si veda, da ultimo: M. DE Jutns, La ceramica sovraddipinta apula, Bari, 2002. T. B. L. WessteR, Toward a classification of Apulia Gnathia, in BICS XV, 1968, pp. 1-33. Altri studi fondamentali sono quelli di L. Foa, La ceramica di Gnathia, Napoli 1965 e di J. R. GREEN, Some Painters of Gnathia Vases, in BICS XV, 1968, pp. 3450. “5. 8. Fozzer, in Catalogo del Museo Nazionale Archeologicodi Taranto, TI, 1. Taranto. La necropoli: aspetti e problemi della documentazione archeologica dal VII al I sec. a.C., Taranto 1994, pp. 325-333. Cfr. pure: A. D'Axtici, in Arte e artigianato, ci. pp. 433-445; M. T. Guannorra,ibid., pp. 453-468. " M. Carrara Roxzany Ceramica apula a vernice bruna e rossa, in RSL XLIV, 1978, pp. 219-232; E. M. Dr Juuns, Ceramica di tradizione indigena e di derivazione greca nella Puglia preromana. Un tentativo di inguadramento generale, in Eumousia, Ceramic and Iconographic Studies in honour of Alexander Canibitoglou, Sidney 1990, p. 168; Forentum I, cit, pp. 213-220. ® G. Annuzzese, Un gruppo di vasi dell'ipogeo “Varrese” e il problema della ceramica listata di Canosa, în AFLB XVII, 1974, pp.7.53. 5: Ceglie Peuceta I, Bari 1982, pp. 203 e 205. ® Vecchi Scavi. Nuovi Restauri, Taranto 1991, pp. 71 e 78. 55 Elorentum IL L'acropoli in età classica, Venosa 1991, pp. 72-73. » G. De Pau,La ceramica dorata in area apula. Contributo al problema delle ceramiche di imitazione metallica, in Taras XIV, 1989, pp. 7-96. ἦα F, Van Der WieLex Vax Ovens, La céramique à decor polycrome et plastique dite de Canosa, Genève 1985 (tesi di dottorato); Eao., Vases with polycrome and plastic decoration from Canosa, in Italian Iron Age Artefacts in the British Museum (Pa. pers of the Sixth British Museum Classical Colloquium London 1982), London 1986, pp. 215-226. ?* M. Mazzet, Nota su un gruppo di vasi policromi decorati con scene di combattimento, da Arpi (FG), in AION (archeol) IX, 1987, pp. 167-188, Eap., Note sulla ceramica policroma di Arpi, in J. CHRISTIANSEN— T. MeAxDER (edd.), Ancient Greek and Related Pottery, (Proceedings of the 3rd International Vase Symposium Copenhagen 1987), Copenhagen 1989, pp. 407-413. E. Lireouis, La ceramica policroma tarantina, in Taras XIV, 2, 1994, pp. 267-310. Clr. pure In. in I Greci in Occidente ~ Arte e artigianato, cit. pp. 471-474. ® F. Rossi, in Monte Sannace. Gli scavi dell'acropoli (1978-1983), Galatina 1989, pp. 164-168. 5. D. Yuri, A specific group of black-gloss ware excavated at Valesio: the HFR group and its connections, in SAL 6, 1990, pp. 167-186. Cir. pure K. G. Hewret, in Arte e artigianato, ci., pp. 337-342 ® L. Guapivo, in Leuca, Galatina 1978, pp. 126-130; Rad., in SAL 1, 1980, pp. 247-287; F. Ross, in Monte Sannace, cit. pp-169-174. Cir. pureK. G. HempzL, in Arte artigianato, cit., pp 343-345. > Non si tiene conto qui della tecnica della modellazione, finora considerata come un elemento decisivo nella classifica zione delle ceramiche della Puglia preromana, poiché è in corso un processo di revisione dei dati ritenuti un tempo acquisi infatti la netta distinzione tra ceramiche greche e di tipo greco tornite e ceramiche di tradizione indigena modellate alla ruota lenta è stata messa in dubbio da nuove analisi di laboratorio (xeroradiografia), le quali hanno indicato la conoscenza e l'uso del tornio, anche se non esclusiva, già nella fabbricazione dei vasi iapigii (Protogeometrico e Geometrico) e protodauni (Geometrico). Cfr. P. Boccuccia, P. Desocus, S. T. Lev, Π problema dell'uso del tornio tra la fine dell'età del Bronzo e la prima età del Ferro: ceramica figulina da Coppa Nevigata (FG), in Preistoria e protostoria in Etruria (Atti del I Incontro di Studi, i.cs.). La limitatezza geografica e cronologica dei campioni prelevati, provenienti tutti da Coppa Nevigata, non consentono, però, ancora di modificare le tesi precedenti sulle ceramiche di altri ambiti cronologici e culturali

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ANTONIA DENTI NECROPOLI IN CONTRADA STORNELLO DI RAVANUSA (AGRIGENTO) Gli scavi condotti a partire dal 1973 a Monte Saraceno di Ravanusa, nella provincia di Agrigento

(fig. 1), hanno messo in luce resti cospicui di un insediamento di età greca (fig. 2)". In un circostanziato articolo pubblicato nel 1956 da Adamesteanu, a questo insediamento venne riconosciuta, dalla seconda metà del VI sec. a.C. in poi, la specie di una polis, nella quale l'autore proponeva di identificare Kakyron; essa sarebbe fiorita da un originario centro indigeno, al termine di un rapido processo di ellenizzazione, avviato nella seconda metà del VII sec. a.C. da Gela e compiutosi nell'età di Falaride, sotto l'influenza agrigentina?, È proprio alla seconda metà del VI sec. a.C. che risalgono le sepolture più antiche, siceliote a tutti gli effetti, messe in luce fra il 1985 ed il 1988 nella necropoli orientale di Monte Saraceno, in Contrada Tenutella (fig. 2, e)* Una propaggine di questa vasta necropoli è costituita dalle sepolture esplorate durante gli scavi dell'anno 1989 in Contrada Stornello (fig. 2, g), a NO della Tenutella, sempre ad Oriente dell'acropoli

(fig. 2, a) ma a NE rispetto all'abitato del terrazzo mediano (fig. 2, b). area archeologica di Contrada Stornello presenta una forte pendenza da N verso S. Attualmente adibita a magro pascolo, vi permangono resti di coltura arborea, costituiti da pochi mandorli, semisecchi o arsi da incendi. Affiora dovunque la roccia; l'originario strato soprastante di terreno argilloso è stato in gran parte dilavato nel corso dei secoli da episodi di natura alluvionale. Se i caratteri geologici del sito avevano favorito l'affiorare di parecchie sepolture ed il conseguente loro pessimo stato di conservazione, gli immancabili interventi degli scavatori clandestini e i lavori agricoli, eseguiti quando ancora potevano dare frutto, sono stati causa di guasti ulteriori. Venne esplorata una superficie continua di metri 70 (in direzione E-O) x 20 (in direzione NS), divisa in tre settori e mezzo (fig. 3). Furono rilevate complessivamente ventidue sepolture, comprese

in due raggruppamenti intervallati fra loro: ad O, le sepolture 1-9; ad E, con tendenza a disporsi lung0 una fascia con andamento diagonale in direzione NE-SO, le sepolture 10-22 (fig. 3). Le due aggregazioni non avevano alcuna giustificazione palese.

DESCRIZIONE DELLE SEPOLTURE E DEI CORREDI

Sepoltura 1 (Tav. 1,1) Inumazione di bambino, con protezione “alla cappuccina". Orientamento NE-SO. Violata? Fossa a planimetria ellittica, con perimetro assai irregolare; sembrava danneggiata sul lato SO (cfr. sep. 2) Dimensioni: m 1,20x0,70x0,40 di profondità nello strato. Sul lato SE vi erano, contigue, due grosse pietre. Spioventi rudimentali, composti da due spezzoni di embrici fitili - quello a SO con listello, l'altro rotto in due parti -, con columen orientato in direzione NE-SO, secondo l'asse minore della fossa. Della piccola salma inumata si conservavano soltanto pochi e minuti frammenti di ossicini. 11 corredo (Tav. II, 1) comprendeva quattro elementi, tutti rinvenuti sotto la protezione a spioventi. La sepoltura è databile alla fine del VI sec. a.C. 1-1 Kylix a vernice nera. Inv. Rav. 3463. Argilla chiara. Modello con piede molto basso. Alt. cm 3,8; diam. orlo cm 8,4. Cerchi neri e risparmiati nel tondo interno. 247

1 m Fig. 1. La Sicilia centro-meridionale.

1-2 Kotyliskos tardocorinzio. Inv. Rav. 3464. Argilla rosata. Intero. Alt. cm 3,3, Parte inferiore coperta di pigmento nero, quasi del tutto svanito.

1-3 Kothon avernice nera. Inv. Rav. 3465, Argilla rosata. Intero, con scheggiature nelf'orlo. Alt. cm 1,9; diam. orlo cm 3,9. Pigmento nero in parte svanito. 1-4 Testina fittile femminile. Inv. Rav. 3466 (tav. V,1).

Argilla pallida. Matrice stanca. Rottura alla base del collo. Alt. cm 5,5. Sul capo, diadema e velo. Sulla fronte, acconciatura con riccioli a lumachella. 248

Fig. 2. Monte Saraceno di Ravanusa, carta archeologica del territorio (su fogli IGM 272 IV NO, 272 IV SO). a) acropoli; b) abitato del terrazzo mediano; c) abitato del terrazzo inferiore; d) resti della cinta muraria orientale; e) necropoli orientale di Contrada Tenutella; f) necropoli occidentale; g) necropoli di Contrada Stornello.

Nel volto, dal contorno ovale, i lineamenti sono scarsamente distinguibili; si notano tuttavia il taglio spiovente delle arcate sopraccigliari e degli occhi, mentre gli angoli delle labbra sono rivolti in sù. Sepoltura 2 (Tav.1, 1) Inumazione di infante enchytrismenos. Orientamento E-O. Violata? Fossa a planimetria ellittica, con perimetro notevolmente irregolare; addossati al tratto SE vi erano due massi contigui. Dimensioni della fossa: m 1x1,20x0,30 di profondità nello strato. Sembrava aver subito danno sul lato E, a meno che non fosse comune alla sep. 1 (cfr.), nel qual caso le dimensioni della sua planimetria, sempre di forma ellittica, sarebbero state di m 1,20x1,70, con l'asse maggiore orientato in direzione NE. Il contenitore era un vaso fittile acromo, i cui frammenti furono trovati disposti da E ad O; l'imboccatura guardava verso O. Dello enchytrismenos si conservavano poche schegge di ossicini e qualche dente. I corredo consisteva di un solo vasetto, rinvenuto frammentato, sotto i pezzi del contenitore. La sepoltura è databile tra la fine del VI e il primo decennio del V sec. a.C. 249

Fig. 3. Planimetria generale dello scavo in Contrada Stornello (dis. A. Catalano). 250

2-1 Vaso fittile acromo. Argilla scura. Frammentato. Non ricomposto. 2-2 Lekythos attica a figure nere (Tav. Il, 2). Argilla rosata, Frammentata; ricomposta. Alt. cm 104. Abrasioni sul pigmento nero; decorazione figurata in parte abrasa. Tipo II. Sono coperti di pigmento nero il labbro, la superficie esterna dell'ansa, la parte inferiore del corpo con la faccia superiore del piede. Sulla spalla, boccioli di loto collegati da archetti. La decorazione figurata comprende quattro personaggi. Da sinistra: figura maschile nuda che incede a grandi passi verso sinistra, retrospiciente, con il braccio destro piegato sul petto e l'altro aperto; cavaliere nudo, con due lance nella sinistra, su cavallo al passo verso destra; personaggio ammantato, seduto di profilo a destra, forse su diphros, che alza la mano sinistra; figura maschile nuda, incedente verso destra, con la mano sinistra alzata. 1 particolari interni delle figure sono graffiti. Fine del Vinizio del V sec. a.C Sepoltura 3 Deposizione di adulto nella nuda terra. Orientamento NE-SO. Fossa ampia, con planimetria absidata (lato curvo a NE), poco profonda nello strato. Dimensioni: m 2,38x1,05x0,20 di profondità nello strato. Le pareti presentavano aspetto estremamente irregolare, specie nei lati SE e NO. Era suggellata da uno strato di argilla. Conteneva pochi resti dello scheletro, pertinente ad un individuo deceduto in età adulta. Il corredo vascolare (Tav. II, 3), rinvenuto in frammenti, comprende due elementi. La sepoltura è databile nella seconda metà del VI scc. a.C. 3-1 Aryballos ovoidale acromo. Inv. Rav. 3467.

Argilla pallida. Ricomposto. Alt. cm 19. 3-2 Lekythos samia a profilo sagomato. Inv. Rav. 3498. Argilla pallida. Ricomposta. Alt. cm 24,4, Sepoltura 4 Inumazione di bambino, con protezione "alla cappuccina”. Orientamento E-O. Fossa a planimetria trapezoidale (m 1,30x0,90), con le basi orientate in direzione E-O, dotata di una sorta di grande controfossa a planimetria ellittica, con perimetro irregolare, poco profonda nello strato pictroso e roccioso (m 1x1,30x0,30 di profondità) Conteneva alcuni spezzoni di embrici fttili, poche schegge di piccole ossa ed un vasetto di corredo, frammentato. La sepoltura è databile fra il terzoe l'ultimo venticinquennio del V sec. a.C.

41 Lekythos aryballica a vernice nera (Tav. II, 1). Argilla rosata. Ricomposta. Alt. cm 10,2. Pigmento nero in parte svanito. Sepoltura 5 Deposizione di bambino nella nuda terra. Orientamento E-O. Piccola fossa a planimetria ellittica, con perimetro irregolare, poco profonda nello strato roccioso e pietroso. jensioni: m 1,02x0,88x0,30 di profondità nello strato. Non si conservavano resti della piccola salma. 251

Si rinvenne un solo vasetto di corredo, frammentato. La sepoltura è databile nel IV sec. a.C. 5-1 Olpe globulare a vernice nera (Tav. II, 2). Argilla rosata. Ricomposta. Alt. cm 64. Pigmento nero in parte svanito. Sepoltura 6 Inumazione di adulto, con protezione “alla cappuccina" (?). Orientamento SE-NO. Fossa molto ampia, a planimetria ellittica. Dimensioni: m 3,50x1,50x0,50 di profondità nello strato. Le radici di un carrubo, distrutto dal fuoco quando già era adulto, vi erano penetrate, sconvolgendo sia la protezione di embrici fittili che i resti della salma. Di conseguenza, l'estrema frammentazione degli clementi non consentì di precisare la tipologia della protezione. Si conservavano resti di uno scheletro notevolmente robusto. Presso la testata NO furono trovati parti di due vasi (6-1, 2); altri tre (Tav. III, 3), frammentati, erano sulla fiancata NE, a metà circa della sua lunghezza. La sepoltura è databile nell'ultimo ventennio del VI sec. a.C. 6-1 Frammento di kylix o di patera acroma. Argilla pallida. Rimane soltanto il piede, a stelo. 6-2 Aryballos acromo. Argilla pallida. Minutamente frammentato. Ansa a staffa. 6-3 Olpe ovoidale a vernice nera. Inv. Rav. 3500. Argilla chiara. Ricomposta. Alt. cm 14,4. Pigmento in gran parte svanito. Forma allungata, a collo non separato e base ampia. 6-4 Lekythos atticaa figure nere. Inv. Rav. 3507 (Tav. V, 2). Argilla rosata. Ricomposta, con integrazioni. Alt. cm 14,5. Della decorazione sia figurata che accessoria, e del pigmento nero, rimane ben poco. Forma 2. Pigmento nero sul labbro, sulla parte esterna dell'ansa, sulla parte inferiore del corpo e sulla faccia superiore del piede. Sulla spalla, palmette trilobate. Sul corpo, resti di tre figure ammantate. Da sinistra: due personaggi che si fronteggiano; il terzo è di profilo a sinistra. Drappi appesi alla parete. Gruppo del Vaticano G 52. Intorno al 520 a.C. 6-5 Scodellina a vernice nera. Inv. Rav. 3502. Argilla rosata. Ricomposta. Alt. cm 3,4; diam. orlo cm 9,4.

Sepoltura 7 Deposizione di adulto nella nuda terra. Orientamento E-O. Violata e sconvolta. Ampia fossa a planimetria ellittica; venne in luce al di sotto di un sottile stacco di terreno superficiale. Dimensioni della fossa: m 2,50x1,50x0,80 di profondità nello strato. Vi si rinvennero resti di uno scheletro, rimescolati 252

Conteneva inoltre frammenti di un grande vaso acromo e parte di un piccolo oggetto non identificabile, in ferro. La sepoltura ὃ databile nell'ultimo venticinquennio del VI sec. a.C. 7-1 Lekane acroma (Tav. IV, 1). Argilla chiara. Ricomposta, con integrazioni. Alt. cm 19; diam. orlo cm 38,7. 7-2 Frammento di applique (?) in ferro. Molto ossidato.

Sepoltura 8 (Tav. I, 2) Incinerazione primaria di adulto (con osteologia?). Orientamento NE-SO. Violatae distrutta. Area di bruciato a planimetria ellittica, venuta in luce al di sotto di un sottile stacco di terreno superficiale. Era delimitata lungo il lato SE da quattro grandi spezzoni di embrici, infissi nel terreno dalla parte del listel Jo, a mo' di spalliera, forse residuo di una protezione acassa di tegole. Dimensioni: m 1,70x 0,70x0,28 di profondità nello strato (dimensione superstite) Conteneva resti di ossa calcinate, pertinenti allo scheletro di un individuo deceduto in età adulta. L'ipotesi che fosse stato praticato il rito della osteologia è supportata dalla presenza di frammenti di un grande craterea vernice nera (8-1). Del corredo (Tav. IV, 2) si conservavano frammenti combusti di due vasi (8-2, 3). La sepoltura si può datare nella seconda metà del VI sec. a.C. 8-1 Frammenti di cratere a vernice nera. Argilla rossa. Pertinenti all'orlo.

8-2 Olpe ovoidale a vernice nera. Combusta; ricomposta per circa due terzi dell'altezza, a partire dal basso. Alt. residua cm 6. Pigmento nero quasi del tutto svanito. 8-3 Lekythos tardocorinzia. Combusta; ricomposta, manca dell'imboccatura. Alt. cm 15,2. Coperti di pigmento bruno: l'anello, rilevato, alla base del collo, e la faccia superiore del piede. Tre fasce brune alla base della spalla ed intorno alla parte inferiore del corpo. Sepoltura 9 (Tav. 1,2) Incinerazione primaria di adulto. Orientamento NE-SO. In parte sottoposta alla sep. precedente, rispetto alla quale si presentava notevolmente sfalsata verso SE. La fossa era dotata di controfossa scavata nella roccia. Fossa a planimetria approssimativamente rettangolare; dimensioni: m 1,60x0,42x0,45 di profondità nello strato. Controfossa a planimetria ellitica: m 1,60x0,30x0,20di profondità. Conteneva ceneri. Non vi erano tracce di corredo. La sepoltura sembra attribuibile, perla tipologia, alla seconda metà del VI sec. a.C. Sepoltura 10 (Tav. I, 3) Inumazione di adulto, con protezione “alla cappuccina”. Orientamento E-O. Fossa a planimetria approssimativamente rettangolare. Dimensioni: m 1,80x0,80x0,47 di profondità nello strato. Della protezione di tegole pertinente alla fiancata N, si conservavano in posto spezzoni di due embrici. Si conservava in posto, abbattuto all'interno, anche lo spezzone di embrice che fungeva da testata O: era stato collocato con il listello per lungo, verso il lato N, rivolto all'interno. Sul fondo, nella metà O della fossa, poggiava un grande embrice, adagiato per lungo, con i listelli a vista, parte superstite della pavimentazione, composta in origine da due elementi. 253

Si rilevarono segmenti di ossa pertinenti agli arti inferiori di un soggetto deceduto in età adulta, la cui salma era stata deposta con la testa ad E. Non vi era traccia di corredo. Databile nel primo venticinquennio del V sec. a.C. Sepoltura 11 Incinerazione primaria di adulto. Orientamento NE-SO. Fossa a planimetria absidata (lato curvo a SO). Dimensioni: m 2x0,90x0,63 di profondità nello strato. Le pareti presentavano segni evidenti del rogo; quella NO, meglio conservata, mostrava tracce di un rivestimento a mattoni crudi; lungo il lato SE si notava una stretta risega. La parte NE della sepoltura era mal conservata, certamente a causa della pendenza del terreno. Tn prossimità della testata NE si rilevarono frammenti di ossa craniche calcinate e, vicino, i presumibili resti del corredo. La sepoltura sembrerebbe databile nel secondo venticinquennio del V sec. a.C. 11-1 Frammenti ceramici. Minuti e fortemente combusti. Forse pertinenti a più vasetti. Sepoltura 12 Inumazione di adulto, con protezione “alla cappuccina". Orientamento NE-SO. Violata e distrutta Fossa a planimetria approssimativamente rettangolare. Dimensioni: m 1,90x0,80x0,50di profondità nello strato. Della protezione a spioventi rimanevano soltanto spezzoni sparsi di embrici fittili; presso la testata SO, vi era un coppo, elemento superstite di un sistema di coprigiunti. Nella metà NE della sepoltura il livello del fondo si presentava rialzato, a causa di jovimenti del terreno, Il fondo era in origine coperto da due embrici, posati nel senso della lunghezza, con i telli verso l'interno: si trovavano ancora in posto quello della metà SO e 2/3 circa dell'altro. Non si rilevarono resti della salma e neppure tracce di corredo. Fine del VI-primo venticinquennio del V sec. a.C. Sepoltura 13 Inumazione di adulto, con protezione “alla cappuccina". Orientamento E-O. Violata e distrutta. Fossa con planimetria ellittica irregolare. Dimensioni: m 1,90x0,90x0,50 di profondità nello strato. Si presentò rovinata nella parte orientale, certo a causa di uno smottamento del terreno, in quel punto in forte pendenza. Della protezione a spioventi si conservavano spezzoni sparsi di embrici fitil; la testata O - costituita da un mezzo embrice, sistemato coni listelli in senso orizzontale ed a contatto con la parete della fossa -, fu trovata ancora in situ. In posto era anche il rivestimento del fondo, composto di due tegoloni posati per lungo, con listelli verso l'interno della sepoltura. Non si rinvennero resti umani e neppure traccedi corredo. Primo venticinquennio del V sec. a.C. Sepoltura 14 Deposizione di adulto, in fossa coperta da tegole (?). Orientamento NE-SO. Violata e distrutta. Fossa con planimetria absidata (lato curvo a SO). Dimensioni: m 1,90x0,80x0,40 di profondità nello strato. Sul riempimento, in prossimità delle testate, si rinvennero pochi spezzoni di embrici fitili; poiché il riempimento non conteneva frammenti di tegoloni e non vi erano in posto elementi o parti di elementi di testata, si può presumere che la fossa possedesse in origine soltanto una copertura piana, composta di embri All'interno, non si rilevarono resti dell'inumato né tracce di corredo. Fine del VI sec. a.C.? 254

Sepoltura 15 Inumazione di adulto, con protezione “alla cappuccina”. Orientamento E-O. Violatae semidistrutta. Fossa a planimetria absidata (lato curvo ad E). Dimensioni: m 1,90x0,70x0,20 di profondità nello strato (dimensione superstite) Conteneva spezzoni di embrici fitti Non si rilevarono resti umani. Nessuna traccia di corredo. Non databile. Sepoltura 16 Inumazione di adulto, in sarcofago fittile (2). Orientamento NE-SO. Violata e distrutta. Fossa con planimetria absidata (lato curvo a SO); distrutta nella parte NE. Dimensioni: m 2x0,90x0,55 di profondità nello strato. Nel riempimento si rinvenne uno spezzone di sarcofago fittile Non si rilevarono resti dell'inumato. Non vi erano tracce di corredo. Prima metà del V sec. a.C.? Sepoltura 17 Inumazione di adulto, con protezione mista (?). Orientamento NE-SO. Violata. Fossa con planimetria approssimativamente ellittica, danneggiata nella parte NE. Dimensioni: m 1,90x0,75x0,45 di profondità nello strato. Lungo la testata SO ed il lato SE adiacente, alla profondità di m 0,25 dallo strato, vi era una stretta risega — estinguentesi progressivamente in direzione della testata NE - che conferiva alla metà più bassa della fossa una planimetria a ferro di cavallo (lato curvo a SO). Della protezione rimanevano spezzoni di embrici fittil, allineati lungo il lato NO, ritti sui listelli che poggiavano sul fondo, rivolti verso l'interno della sepoltura. Se gli spezzoni di tegole si trovavano ancora in posto, si deve ritenere che fossero pertinenti ad un rivestimento del lato NO della fossa, anziché alla fiancata SE di una protezione “alla cappuccina”, spinta verso quella opposta, o a rivestimento del fondo. Non è chiara, tuttavia, la funzione della risega: per esempio, la protezione potrebbe anche essere consistita, in origine, di un solo spiovente sul lato SE, oppure, sempre sul lato SE, potrebbe esservi stato un altro tipo di rivestimento, forse a mattoni crudi, di cui però non rimaneva traccia alcuna. Non si rilevarono resti dell'inumato. Dubbia la presenza di un corredo vascolare. La sepoltura è databile dalla fine delVI al primo venticinquennio del V sec. a.C. 17-1 Frammenti di ceramica acroma. Non ricomponibili.

Sepoltura 18 Inumazione di adulto, con protezione “alla cappuccina”. Orientamento E-O. Violata e distrutta. Fossa a planimetria rettangolare, venuta in luce al di sotto di un sottile stacco di terreno superficiale. Franata nella parte orientale, a causa della forte pendenza del terreno; inoltre, almeno la metà superiore è da ritenersi perduta. Dimensioni: m 1,80x0,70x0,20 di profondità nello strato (dimensione superstite). Nel riempimento fu trovato qualche spezzone di embrice fittile; sul lato N rimaneva ancora in posto parte frammentata di uno degli elementi impiegati per rivestire il fondo, posato per lungo e con il listello a vista. Non si rilevarono resti dell'inumato. Non vi erano tracce di corredo. Fine del VLinizio del V sec. a. Sepoltura 19 Incinerazione primaria di adulto. Orientamento NE-SO. Probabilmente violata; semidistrutta. Fossa-ustrino con planimetria approssimativamente rettangolare; la parte NE era quasi affiorante nello strato: si può ipotizzare un franamento delle pareti a causa della forte pendenza del terreno; evidenti segni del rogo. Dimensioni: m 1,70x0,70x0,15 di profondità nello strato (dimensione superstite),

Della salma cremata rimanevano soltanto frammenti calcinati di ossa craniche e due molari. Non vi erano tracce di corredo. Non databile.

Sepoltura 20 Violata e distrutta Inumazione di adulto, con protezione “alla cappuccina”. Orientamento NE-SO. appariva più danneggiata parte, gran per franata Fossa a planimetria approssimativamente rettangolare; nella metà NE. Dimensioni: m 2x0,70x0,25 di profondità nello strato (dimensione superstite) Conteneva pochi spezzoni sparsi di embrici itii. Nonssi rilevarono resti della salma. La sepoltura era forse dotata di corredo. La sepoltura è databile dalla fine del VI al primo venticinquennio del V sec. a.C. 20-1 Frammento di vaso acromo. Argilla pallida. Tl frammento comprendeva parte del fondo. Sepoltura 21 Inumazione di adulto, con protezione “alla cappuccina”. Orientamento NE-SO. Violata e distrutta.

Fossa a planimetria approssimativamente rettangolare, franata per almeno 1/2 della sua profondità originaia; maggiormente danneggiata nella parte NE. Dimensioni: m 1,70x0,75x0,20 di profondità nello strato (dimensione superstite) Conteneva spezzoni sparsi di embrici fittili, specie nella parte SO. Si rilevarono pochi frammenti di ossa umane. Non vi erano tracce di corredo. Imizio del V sec. a.C.? Sepoltura 22 (Tav. 1, 4) Inumazione di adulto, con protezione “alla cappuccina”. Orientamento E-0. Violata e distrutta. Fossa a planimetria approssimativamente rettangolare; la profondità originaria si era probabilmente conservata. Dimensioni della fossa: m 2,20x0,98x0,40 di profondità nello strato. Nella metà orientale furono trovati pochi spezzoni sparsi di embrici fitili, forse pertinenti anche a rivestimento del fondo. Nonssi rilevarono resti dell'inumato. Non vi era traccia di corredo. Non databile

TIPOLOGIA DELLE SEPOLTURE

La classificazione tipologica delle ventidue sepolture esplorate è stata eseguita applicando il medesimo criterio adottato per le sepolture rinvenute in Contrada Tenutella. La distinzione fondamentale evidenzia due serie di deposizioni: quelle dotate di sistemi di protezione delle salme e quelle prive di tali sistemi‘ Alla prima serie, sono pertinenti una inumazione in sarcofago fittile, un enchytrismos di infante, tredici sepolture con protezione di tegole, una incinerazione in fossa-ustrino rivestita di mattoni crudi, una incinerazione secondaria; all'altra, tre deposizioni nella nuda terra e due incinerazioni primarie. Deposizioni protette

a) In sarcofago fttle (Sepoltura 16, violata) La fossa presentava planimetria absidata, con illato curvo a SO. 256

II pessimo stato di conservazione di questa sepoltura non ha consentito di rilevare la tipologia del sarcofago, di cui si è potuto recuperare soltanto un frammento della parte superiore del coperchio, a doppio spiovente, in argilla rossa, mescolata a particelle di tritume lavico. b) Enchytrismos di infante (Sepoltura 2; violata?) La fossa, a planimetria ellittica assai irregolare, era forse comune alla attigua sep. 1 (Tav. I, 1), anch’essa infantile ma dotata di protezione "alla cappuccina”. Se tale ipotesi corrispondesse alla realtà, si avrebbe una testimonianza di inumazione doppia nella medesima fossa. Due massi, con allineamento NE-SO, avevano probabilmente la funzione di proteggere l'area e fors'anche di contrassegnare in superficie la presenza delle due piccole sepolture. Il contenitore, ridotto in frammenti, dello enchytrismenos, era un vaso fittile acromo a pareti spesse; sembrava deposto con l'imboccatura verso O. ©) Con tegole (Sepolture 1, 4, 6, 10, 12, 13, 14, 15, 17, 18, 20, 21, 22; non violate: 12,4, 6). Le sepolture 1 e 4 erano infantili. La planimetria prevalente delle fosse era a rettangolo, più o meno regolare; ma sono stati rilevati anche esempi di planimetria ellittica (sepolture 1 - Tav. I, 1-, 13, 17) o absidata (nr. 14, con lato curvoa SO e nr. 15, con lato curvo ad E). Le dimensioni variavano dai m 3,50x1,50 della sep. 6, ai m 1,20x0,70 della nr. 1. La sep. 4, infantile, era dotata di controfossa: caso eccezionale per un sistema ad inumazione. La mancanza di riseghe laterali mostra che gli elementi della protezione a spioventi poggiavano sul fondo. Alcune sepolture presentavano resti di pavimentazione, eseguita mediante due embrici fitili posati nel senso della lunghezza (nrr. 10 - Tav. I, 3-, 12, 13, 18 e, probabilmente, anche 22 - Tav. I, 4). In ben sette casi (sepolture 1, 6, 15, 17, 20, 21 e 22) non ὃ stato possibile identificare il numero e la disposizione degli embrici ftti che componevano la protezione a spioventi, ma si può ragionevolmente presumere che nelle sepolture con il fondo della fossa pavimentato come si è detto, gli spioventi comprendessero una coppia di embrici ciascuno, disposti con i listelli nel senso della lunghezza. Nella sep. 12 è stato trovato un frammento di coppo fittile, sicuramente adibito a coprigiunti. Rimane dubbia l'identificazione della tipologia delle polture 14 e 17: la prima sarebbe anche potuta essere una fossa semplice coperta da tre embrici posati con stelli per largo mentre la seconda possedeva forse una protezione mista. Nelle sepolture infantili (nrr. 1 e 4) gli spioventi erano costituiti da uno o due spezzoni di embrici per fiancata. Raramente si sono potuti riconoscere i modi adottati per occludere i triangoli di scarico della protezione: uno spezzone di embrice, alla testata O, nelle sepolture 10 (Tav. I, 3) e 13. ἀν In fossa-ustrino con rivestimento di mattoni crudi (Sepoltura 11) Tracce di un rivestimento eseguito con filari di mattoni crudi sono state rilevate sulla parete lunga NO della fossa, che era quella in migliore stato di conservazione. In origine, il rivestimento doveva estendersi almeno alla parete SE, impostato su una stretta risega osservata nel corso dello scavo. Questa sepoltura costituisce un esempio, anomalo per le necropoli fin'ora esplorate nel territorio di Monte Saraceno, di fossa-ustrino dotata di un rivestimento, totale o parziale, alle pareti ©) Incinerazione secondaria (Sepoltura 8; violata) Lo stato di conservazione della sepoltura (Tav. I, 2) ha reso alquanto incerta la ricostruzione del suo aspetto originario.

Della fossa-ustrino, franata nella parte superiore, si è potuta individuare soltanto la planimetria, ellittica Una sorta di spalliera, composta di embrici fitli, rinvenuta lungo il lato E, era stata forse predisposta per contenere la pendenza del terreno; ma non si può neppure escludere che costituisse la fiancata superstite di una protezione del tipo a cassa di tegole, della cui esistenza però non sono state rilevate altre tracce. L'unico indizio di una osteologia, seguita dalla deposizione dell'urna nel luogo stesso del rogo, è rappresentato dai frammenti a vernice nera dell'orlo di un grande cratere. 257

Deposizioni non protette

ἃ) Seppellimenti nella nuda terra (Sepolture 3, 5, infantile; 7, violata) La sep. 3 era suggellata da uno strato di argilla, la nr. 5 era stata scavata nella roccia. Le planimetrie delle fosse si presentavano ora obsidata, con il lato curvo a NE (sep. 3), ora ellittiche (nrr. 5 e 7). Le dimensioni variavano dai m 2,50 di lunghezza della nr. 7, notevole anche per la larghezza e la profondita, che misuravano, rispettivamente, m 1,50 e 0,80, al m circa di lunghezza, misurato all'asse maggiore, della sep. 5, infantile, dove la profondità non superava i m 0,30. b) Incinerazioni primarie (Sepolture 9; 19, violata?) Le fosse-ustrino non dotate di sistemi di protezione dei resti erano due, entrambe a planimetria rettangolare; soltanto la 9 (Tav.l, 2) presentava una controfossa a planimetria ellittica, scavata nella roccia. Le dimensioni differivano nei due casi: più ampia appariva la sep. 19 (m 1,70x0,70). La profondità, rilevabile soltanto nella 9, era modesta: m 0,65, compresa la controfossa. Rm

Anche in questo settore della necropoli è stata rilevata la cocsistenza dei riti della inumazione e della cremazione, per quanto attiene alle salme degli individui deceduti in età adulta’, e si è avuta ulteriore conferma dell'uso di non sottoporre a cremazione le salme degli infanti e dei bambini". Si deve però osservare che la incidenza dei casi di cremazione risulta notevolmente inferiore rispetto a quella calcolata per la necropoli della Tenutella: quattro testimonianze in tutto (nrr. 8, 9, 11 e 19), su un totale di diciotto sepolture di adulti, è pari al 22,22%, contro il 35,09%. Prevale la cremazione in fossa-ustrino, con seppellimento in situ dei resti (sepolture 9 e 19: 50% delle cremazioni); figurano poi, pariteticamente, la cremazione seguita da osteologia, con deposizione dell'urna nella fossaustrino (sep. 8), e la cremazione in fossa-ustrino rivestita di mattoni crudi, con seppellimento in situ dei resti (sep. 11)”, che rappresentano l'altro 50% delle cremazioni. Tra le inumazioni, prevalgono le tipologie caratterizzate da sistemi di protezione delle salme: dodici sepolture su quattordici (nrr. 6, 10, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 20, 21, 22: 85,71% delle inumazioni di salme di individui adulti). Dovrebbe trattarsi nel 75% dei casi di protezioni a spioventi di tegole, del tipo cosiddetto “alla cappuccina”: infatti, a parte qualche testimonianza di dubbia interpretazione (nrr. 14 e 17), è stata rinvenuta una sola possibile deposizione in sarcofago fittile (sep. 16: 8,33% delle deposizioni di adulti con sistema di protezione) Le deposizioni nella nuda terra sono rappresentate da due esempi (sepolture 3 e 14,29% delle inumazioni di adulti). Le sepolture infantili databili fra la metà del VI e quella del V sec. a.C. sono soltanto due (nrr. 1 e 2)*. Sotto l'aspetto tipologico, si tratta di una deposizione protetta col sistema a spioventi (nr. 1) e di an enchytrismos. I dati di scavo non hanno fornito elementi obiettivi che consentissero di identificare il sesso degli individui defunti e pertanto qualunque illazione in proposito appare arbitraria. L'orientamento delle sepolture seguiva prevalentemente l’asse NE-SO (nrr. 1, 3, 8, 9, 11, 12, 14,

16, 17, 19, 20, 21: dodici casi, 54,54% del totale); un gruppo di nove sepolture presentava orienta-

mento E-O (nrr. 2, 4, 5, 7, 10, 13, 15, 18, 22: 40,90%); la rimanente era orientata SE-NO (nr. 6: 4,54%). Vi era quindi una stretta osservanza del rituale che prescriveva di deporre le salme con la testa verso Oriente*.

CorREDI

Le sepolture nelle quali si è potuta accertare o ragionevolmente presumere la presenza di un corredo funebre, erano undici:

258

sette di adulti (nr. 3, 6, 7, 8, 11, 172, 20?) e le quattro infantili (1, 2, 4, 5).

Si tratta, invero, di un dato interessante, soprattutto se si considera l'alto numero di sepolture che all'esplorazione si presentarono violate o distrutte (quindici) ^.

Per quanto attiene alle sepolture degli individui deceduti in età adulta, i dati di scavo relativi alla presenza di corredì parrebbero privilegiare le deposizioni con protezione (mr. 6, 8, 17, 20: 57,14%

delle sepolture di adulti certamente dotate di corredo), rispetto alle deposizioni nella nuda terra (nrr. 3,711). I corredi comprendono vasi acromi, a vernice nera ed a figure nere; una testina fittile proviene da una sep. infantile (nr.1); soltanto nella sep. 7 è stato trovato un frammento di laminetta di ferro, di cui non è stato possibile individuare la pertinenza (lama di rasoio o coltello, applique oppure ornamento personale). Nei due casi in cui è stato possibile rilevarne la posizione, gli elementi del corredo si presentavano adagiati ai piedi e lungo il lato destro dei resti della salma (sep. 6) o accanto al cranio (sep. 11). I piccoli vasi recuperati da fosse-ustrino sono sempre combusti e pertanto dovevano aver accompagnato la salma sul rogo. Infine, nelle sepolture dotate di sistemi di protezione, non vi è testimonianza della presenza di oggetti fuori delle protezioni medesime, ad eccezione del corredo funebre del piccolo enchytrismenos della sep. 2, trovato sotto il contenitore". CERAMICHE

1 vasetti pertinenti ai corredi funebri sono in prevalenza a vernice nera: tre olpai, una lekythos aryballica, una kylix, una scodellina, un kothon. Una lekythos con decorazione a fasce brune attesta, assieme ad un kotyliskos, la presenza dei prodotti corinzi.

La ceramica attica figurata è rappresentata da due piccole lekythoi a figure nere. Vi è poi un gruppetto composito di vasi acromi, che comprende un aryballos ovoidale, una lekythos “samia”, una grande lekane. Ceramica tardocorinzia

Il kotyliskos 1-2 (Tav. II, 1) appartiene al LC II, Gruppo C, della classificazione di Payne. La serie è documentata anche nella necropoli della Tenutella "; gli esemplari sono databili nella seconda metà del VI sec. a.C.

L'altro vaso di produzione corinzia (8-3: Tav. IV, 2), una lekythos "with angular shulder" decorata a fasce brune, risale al LC I e dovrebbe essere attribuibile alla metà circa del VI sec. a.C.; una lekythos di forma analoga proviene dalla sep. 14 della Tenutella* Ceramica greco-orientale Potrebbe essere imitazione locale di un modello greco-orientale il grande aryballos ovoidale, con collo molto corto, imboccatura stretta a labbro espanso e breve ansa a staffa (3-1: Tav. II, 3), rinvenuto in associazione con una lekythos samia a profilo sagomato (3-2). Un altro aryballos di forma e dimensioni molto simili, ma privo dell'ansa, proviene dalla sep. 26 della Tenutella*. Nessuno dei due vasi presenta tracce leggibili della decorazione a bande caratteristica della produzione grecoorientale, decorazione che invece si conserva su un esemplare simile di Agrigento". I confronti suggeriscono un inquadramento cronologico nella seconda meta del VI sec. a.C. '°. Questa datazione sembra convenire anche alla lekythos “samia” a profilo sagomato (Tav. II, 3) Lekythoi di tipo cosiddetto samio si incontrano spesso nei corredi funebri delle sepolture arcaiche di Monte Saraceno, anche nella variante a profilo convesso!” 259

Ceramica attica figurata. La lekythos 6-4 (Tav. V, 2), pertinente al Gruppo del Vaticano G 52, è databile verso il 520 a.C. l’altra (2-2: Tav. II, 2), per la forma peculiare del Gruppo “little lion", attribuita all'invenzione del Pittore di Saffo, si inquadra tra la fine del VI e l'inizio del V sec. a.C. *. La produzione di queste due officine è documentata anche altrove nell'ambito siceliota ?. Ceramica a vernice nera

La olpe 6-3 (Tav. III, 3), è variante a vernice nera di una serie la cui forma ovoidale, caratterizzata dalla linea continua collo-spalla, è stata considerata “probabilmente creazione delle fabbriche corinzie della prima metà del VI sec. a.C.”?!. Si può proporre il confronto con una olpe che proviene dall'agora di Atene, purtroppo mutila dell'ansa, datata 500-480 a.C. 2. Un altro esemplare di forma ovoi dale (8-2: Tav. IV, 2) è conservato soltanto per circa due terzi e differisce dal precedente nella rastremazione che presenta verso la base; il confronto più pertinente è fornito ancora da un reperto dall'agora di Atene, del 500 a.C. circa. La piccola olpe globulare 5-1 (Tav. III, 2), prodotto locale, appartiene invece ad un ambito cronologico più recente. La forma, diffusa soprattutto nel V e IV sec. a.C., e le dimensioni la pongono in una delle serie di vasetti che riproducono in miniatura modelli della cosiddetta ceramica da cucina; nel nostro caso la forma è quella della chytra, le cui miniaturizzazioni, usate, sembrerebbe, come contenitori da profumi, sono attestate dal VI al IV sec. a.C.*. In ambito siceliota, confronti, limitati alla forma, con brocchette acrome: tre dalla necropoli occidentale di Monte Saraceno* un'altra dalla necropoli di Assoro*, suggeriscono una datazione nel IV sec. a.C. La lekythos 4-1 (Tav. II, 1), probabilmente anch'essa prodotto locale, propone una forma simile a quella di un reperto dell'agora di Atene, che appartiene al gruppo delle lekythoi aryballiche “patterned"; la necropoli meridionale di Vassallaggi, dove però il tipo di lekythos aryballica a vernice nera più documentato è quello con baccellature, fornisce alcuni utili termini di confronto, la cui datazione dal terzo venticinquennio alla fine del V sec. a.C. corrisponde a quella dell'esemplare dell'agora sopra citato. La kylix 1-1 (Tav. II, 1) rappresenta a sua volta una variante locale, con piedino molto basso; richiama un esemplare dell'agora di Atene, datato nel ventennio 500-480 a.C.?. La scodellina emisferica 6-5 (Tav. III, 3) rientra anch'essa nel novero dei prodotti locali e si distingue per uno spesso orlo a sezione rettangolare; dovrebbe essere databile fra il 530 ed il 520 a.C. *. Vi è infine un minuscolo kothon (1-3: Tav. II, 1), privo di anse e di piede, databile, in base al contesto cui apparteneva, verso la fine del VI sec. a.C." Ceramica acroma

Dalla sep. 7 provengono frammenti di una grande lekane acroma, con ansa unica impostata sull'orlo (7-1: Tav. IV, 1). Il contenitore appartiene alla categoria dei vasi di uso domestico. La linea di sviluppo della forma non è stata bene individuata: sembra che la forma stessa avesse origini molto antiche; è presente, con caratteri evoluti, tra i materiali dell'agora di Atene, nel VI sec. a.C., ma in seguito non se ne hanno ulteriori testimonianze fino alla seconda metà del V, quando la serie riappare, importata da Corinto®. Una grande lekane fittile molto simile alla nostra, dalla necropoli agrigentina di Pezzino, è stata considerata prodotto locale di imitazione ed attribuita alla seconda metà del VI sec. a.C.. Plastica fitile L'unico esemplare recuperato è una testina femminile, spezzata alla base del collo (1-4: Tav. V, 1). Tipologicamente il frammento mi sembra confrontabile con quello rinvenuto in un edificio, identificato come “bottega”, dell'abitato del terrazzo inferiore ; esso era forse pertinente ad una statuetta del tipo stante della Athena Lindia, datato alla fine del VI sec. a.C.™. 260

CONCLUSIONI CRONOLOGICHE

Lo stato di conservazione delle ventidue sepolture esplorate in Contrada Stornello ha spesso ostacolato l'individuazione della loro cronologia. Per datare le sepolture, in linea di massima sono stati applicati i criteri adottati nello studio della necropoli arcaica di Contrada Tenutella ". In primo luogo, si è tenuto conto della tipologia delle sepolture stesse. Le fosse scavate in parte nella roccia, hanno trovato riscontri nella necropoli agrigentina di Contrada Pezzino, dove sono attestate nel VI e nel IV sec. a.C. per le fosse rivestite di mattoni crudi, i riferimenti sono stati forniti dalla necropoli di Contrada Diana a Lipari, con i suoi “sarcofagi di mattoni crudi” scaglionati tra il secondo venticinquennio del V e il terzo venticinquennio del IV sec. a.C. Per le sepolture che contenevano resti di sarcofagi fittili, i cosiddetti “bauli”, il confronto più pertinente è dato dalle necropoli di Gela, dove gli esempi datati nel VI sec. a.C. sono rari e molti, invece, quelli del V:*. Quando vi erano resti di embrici, si è tenuto conto dei profili dei listelli». La presenza nella necropoli di Stornello di un numero notevole di inumazioni protette col sistema “alla cappuccina”, ha facilitato l'attribuzione di una cronologia alle sepolture prive di corredo, pur nel rispetto delle dovute cautele ed entro termini di tempo relativamente ampi ^ Le sepolture di Contrada Stornello, sono pertanto da considerare comprese tra la metà circa del VI e la prima metà del V sec. a.C. Rimangono fuori da questi limiti cronologici soltanto la nr. 4, con datazione fra il terzo e l'ultimo venticinquennio del V sec. a.C. (corredo: lekythos aryballica a vernice nera - Tav. III, 1), e la nr. 5, sulla cui datazione si può discutere, ma che mi è parsa attribuibile al IV iccola olpe globulare a vernice nera - Tav. III, 2 —, e tipologia della inumazione, poco profonda nello strato). Inoltre, nel caso della nr. 4, non si può, a mio avviso, escludere l'ipotesi di una riutilizzazione, suggerita dalla presenza della controfossa, fino a questo momento mai rilevata nelle inumazioni In definitiva, soltanto tre sepolture (15, 19 e 22) non hanno fornito alcun indizio che ne potesse suggerirne la cronologia; diciassette sono sembrate classificabili nei seguenti gruppi: — seconda metà del VI sec. a.C. (nrr. 3, 6, 7, 8, 9); = dalla fine del VI a tutto il primo venticinquennio del V sec. a.C. (nrr. 1, 2, 10, 12, 13,145, 17, 18, 20,215); - secondo venticinquennio del V sec. a.C. (nrr. 11 e 165). A parte quindi le “interferenze” rappresentate dalle sepolture 4 e 5, la necropoli di Contrada Stornello presenta un ambito cronologico analogo a quello della necropoli di Contrada Tenutella, e ciò conferma che la prima costituiva una propaggine, forse l'estrema a NO, della seconda. D'altra parte, anche per quanto attiene agli aspetti culturali, le sepolture di Stornello suggeriscono le medesime considerazioni elaborate dopo lo studio delle sepolture della Tenutella ?, Si è avuta infatti conferma, dall'ulteriore rinvenimento di ceramica tardocorinzia ed attica, che l'anonimo centro indigeno ellenizzato di Monte Saraceno guardava costantemente al mondo greco. Anche la più modesta ceramica, a vernice nera oppure acroma, di produzione locale, imita sempre modelli corinzi, greco-orientali o attici; inoltre, allo stato attuale, si mantiene la più completa assenza nei corredi funebri di vasi indigeni: sotto questo aspetto, la necropoli appare tuttora affine a quella, in parte coeva e ben più ricca, di Contrada Pezzino ad Agrigento. Affinità, invero, conseguente al gravitare del centro ~a partire dall'età di Falaride — nell'orbita agrigentina. Non si interrompono tuttavia i rapporti con Gela, come si desume dal perdurare dell'importazione dei sarcofagi fittili e, nello stesso tempo, si confermano le aperture verso altri ambiti geografico-politici (rivestimento delle sepolture con mattoni crudi, tecnica probabilmente importata dall'ambiente liparota). Sullo status sociale dei defunti non sono stati purtroppo acquisiti dati nuovi. I corredi funebri recuperati rispecchiano sempre un tenore di vita medio-basso ed un contesto sociale alquanto modesto e apparentemente privo di notabili, poiché non sono state ancora rinvenute sepolture di tipo monumentale. Infine, la partizione in gruppi delle sepolture (fig. 3) risulta tutt'ora spiegabile soltanto con l'esistenza di legami familiari tra gli individui le cui salme giacevano in tombe così organizzate nell'ambito della necropoli. 261

Ringrazio sentitamente: il Prof. Ernesto De Miro, per avermi affidato la direzione scientifica dello scavo; la Dott. Graziella Fiorentini, Soprintendente ai BB.CC.AA. di Agrigento, ed i funzionari dell'Uffi cio Tecnico della Soprintendenza geomm. Collura e Galante, che mi hanno agevolata con squisita cortesia nel corso della ricerca; il disegnatore Sig. Antonio Catalano, il restauratore Sig. Salvatore Burgio, l'assistente agli scavi Sig. Pasquale Burgio, per la solerte collaborazione; il fotografo Sig. Pitrone. Esprimo inoltre la mia più viva gratitudine ai Dottori Piero Coppolino, Maria Ravesi e Gina Campagna, che mi hanno affiancata con impegno e competenza nella direzione dello scavo. NOTE

* Sui rinvenimenti (rest dell'acropoli, sul Monte Saraceno: fg 2, a; resti di due quartieri di abitazioni, articolati su due terrazzi: fig. 2, b e c; resti di due necropoli, una a SE l'altra a SO dellacropoli: fig. 2, e ed ἢ, cfr A. CaLDERONE - M. Caccamo Cattanno - E. De Mino - A. Dexr - A. Sizacusaxo, Monte Saraceno di Ravanusa. Un ventennio di ricerche e studi, Monografie di Archeologia. Supplemento dei Quaderni di Archeologia, Messina 1996 (con bibliografia); A. Caupero»e, Greci e Indigeni nella bassa valle dell'Himera: i sito di Monte Saraceno di Ravanusa, in M. Bara Baoxasco - E. DE Mino — A. Pinzone (edd) Origine e incontri di culture nell'antichità. Magna Grecia e Sicilia. Stato degli studi e prospettive di ricerca (Atti dell'Incontro di Studi, Messina 2-4 Dicembre 1996), Pelorias 4, Messina 1999, pp. 203-212. Gli scavi sono stati condotti in collaborazione dalla Cattedra di Archeologia e Storia dell'Arte Greca e Romana dell'Universtà di Messina e dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Agrigento, con fondi della Regione Siciliana e con contributi del CNR. ? D. ADAMESTEAKU, Monte Saraceno ed il problema della penetrazione rodio-cretese nella Sicilia meridionale, in ArchClass VIII, 1956, pp. 121 ss. In precedenza, l'ipotesi del centro indigeno ellenizzato era stata avanzata da P. Marcon, Ravanusa (Agrigento). - Borgo siculo-reco, in NSA 1928, pp. 499 ss: cfr. anche: In., Ravanusa (Agrigento). - Scoperta di tombe greche, in NSA 1930, pp.411 ss; Mingazzini a sua volta riteneva che a Monte Saraceno si conservassero i ruderi di una delle sub-colonie fondate da Gela, forse Maktorion: cr. P. MinGazzii, Su un'edicola sepolcrale del IV sec. rinvenuta a Monte Saraceno presso Ravanusa (Agrigento), in MonAL XXXVL2, 1938, coll. 621 ss. > Cfr. A. Deam, Le Necropoli, in Monte Saraceno di Ravanusa. Un ventennio, cit, pp. 91-120, 170-175. Perla necropoli occidentale, frequentata dalla metà circa del V a tuto il IV sec. a.C., cr ibid, pp. 121-175. * Sulle tipologie sepolcrali attestate nella necropoli di Contrada Tenutella cr. A. Denti, Le Necropoli, cit, pp. 111-114. * Cfr. ibid., pp. 114-116. * Cfr. P. Petacarri- G. Vauter, Le necropoli, in E. Ganna - G. Vauuer (edd), Storia della Sicilia Napoli 1979, pp. 368, 371 τ Nelle necropoli di Monte Saraceno questo tipo di fossa-ustrino è comparso qui per la prima volta * Nella necropoli della Tenutella, su un totale di settanta sepolture, tredici erano di infanti o bambini: A. Dex, Le Necro poli cit, p. 14. * Ch. A. Denn, Le Necropoli, cit, p. 111; contra: P. PeLacatm - G. Vauter, Le necropoli, cit. pp. 364 s. * Per i corredi delle sepolture in Contrada Tenutella e per la loro composizione, cfr. A. Dexm, Le Necropoli, ci, pp. 115-120. 7! Come nella sep. 43 della Tenutella: ibid, pp. 103, 115. 5 Ibid, sep. 36: pp. 102, 116, tav. CXVIILI. Cfr. H. Pawns, Necrocorinthia. A Study of Corinthian Art in the Arcaic Period, Oxford 1931, p. 334, fig. 181,B; E. Dz Mino, Agrigento. La necropoli greca di Pezzino, Necropoli dell Sicilia Antica 1, Messina 1989, tomba 434, nr. AG 22550, p. 31, tav. IX. "5 A. Der, Le Necropoli, cit. pp. 95, 116, tav. CKIV,I. Clr. H. Par, Necrocorinthia, cit, p. 325, fig. 169. Cfr. anche: P. Oxs, Gela. Scavi del 1900-1905, in MonAL XVII, 1906, col. 373, fg. 275; E. Ds Mino, Agrigento, ct. tomba 434, nr. AG 22549, p.31, tav. IX. A, Dex, Le Necropoli, cit, pp. 98 s. 118, tav. CXV; * Chr E. De Miro, Agrigento, cit, tomba 1463, nr. Βι63, p.35, tav. XXIV. A. Dex, Le Necropoli, it, p. 118, nn. 104-105; cfr. anche supra, n. 15. " A. Dex, Le Necropoli cit, pp. 17 s, nn. 92-103, tavv. CXIV.2, CXV, 1, CXVIIL2. κι Cir: ΜΙ. Moore - M.Z. Pease Punsevies - D. von BOTHNER, Attic Black-Figured Pottery, The Athenian Agora XXIII, Princeton (New Jersey) 1986, nr. 806, pp. 44, 92 e 204, tav. 75: esemplare datato al tardo terzo venticinquennio del VI sec. a.C; E. DE Mino, Agrigento, cit, tomba 1254, nr. 5/88, pp. 33 5, tav. XVII: “Vicina al Gruppo del Vaticano G. 52. 525 a.C.”; ibid. tomba sconvolta, nr. AG 22630, p. 43, tav. XXXII: associata a due lekythoi della Classe di Phanyllis; ‘associazione. pone le due leythoi della classe Phanyllis non più tardi del 510 a.C."; CL. Lvovs, The Arcaic Cemeteries, Morgantina Studies V, Princeton (New Jersey) 1996, tomba 28 A-2: pp. 34 200, tav. 58: circa 520 a.C. Sul Gruppo del Vaticano G 52, efr: ID. Beauty, Attic Black-Figure Vase-Painters, Oxford 1956, pp. 460.463; 698 s., 715; ; Paralipomena. Additions to Attic Black-Figure Vase-Painters and to Attic Red-Figure Vase-Painters, Oxford 1971, pp. 202 s. 519; L. Churcs, Ceramica attica a figure nere, piccoli vasi e vasi plastici, Materiali del Museo Archeologico di Tarquinia TI, Roma 1981, pp. 45, 7 s, mr. 45, tave. VIIIe IX; F. Giuotce, I Pittori della Classe di Pharyllis. Organizzazione produzione distribuzio ne dei vasi di un'officina di età pisistratideolistenica T, Studi e Materiali di Archeologia Greca 1.1, Catania 1983, pp. 41, 44 s. 262

creR - Ti. Μαννλος - M. Menpoga, Beazley Addenda. Additional References to ABV, ARV (2 ed.) and Paralipomena, Second Edition, Oxford 1989, pp. 115s. ! Sul Gruppo Little Lion, cfr: C.H.E. Hasrets, Attic Black-Figured Lekythoi, École Frangaise d'Athènes, Travaux et Mémoicit., pp. 512-516, 703; In. Attic res Fasc. IV, Paris 1936, pp. 98-100, 107, 116-120, 227, 230s; J. D. Beazley, Attic Black: Figure Red-Figure Vase-Painters, Oxford 1963 (2.a ed), p. 301;In, Paralipomena, cit. pp. 231, 247, 249, 251-254; D.C. Kuntz, Atheniam White Lekothoi. Patterns and Painters, Oxford 1975, pp. 80, 120 ss.; F. Giuoice, 1 Pittori, cit, p.45; TW. T. Cuarerra, Ad: denda, cit, p. 128. ? Chr supra,nn. 18e 19. ? G. Vitis- F Viano, La céramique archaique, Mégara Hyblaea 2, MEFR, Supplements 1, Paris 1964, p. 183, tav. 204, 7-9; perla diffusione, cfr. ibid, nn. 4 5. Cfr. ancheH. Payne, Necrocorinthia, cit, p. 325 (Oinochoai, Forma II) Per la diffusione di questo tipo di vaso, cfr. inoltre: J. BoaRbuAn - J. Hayes, Excavationsat Toera 1963-1965. The ArcaicDeposits Il and Later Deposits, PBSA Suppl. 10, Oxford 1973, nrr. 2074-2075 (pp. 29, 33-34), 2112 (pp. 39 s), 2181-2182 (pp. 49, 51), 2300 (p. 69), con i riferimenti a Tocra I, Oxford 196 ; M. MarreLLI CaistoranI, La ceramica greco-orientalein Etruria, in Les céramiques de la Groce de l'Est et leur diffusion en Occident (Colloques Internationaux du Centre National de la Recherche Scientifique 569, 6-9 Juillet 1976), Bibliothéque de l'Institut Francais de Naples, 2.me Série IV, Paris ~ Naples 1978, pp. 185 e ‘in. 108 s. (con bibliografia), 190, tav. VIIL53; E. DE Muro, Agrigento, cit, tombe: 143, nr. AG 22177 (p. 30, tav. VII), 396, nr. AG 22221 (pp. 30 s, tav. IX), 461, nr. AG 22238 (p. 31, tav. XD, 425, nrr. AG 22233 e AG 22234 (p. 32, tav. XIII), 93, nr. AG 22154 (pp. 32 s. tav. XII, 330/CF, nr. AG 22915 (p. 33, tav. XVI), 245, nr. AG 22209 (p. 35, tav. XXI), 1287, nr. S/34 (p. 35, tav. XXID, 1316, nr. S/21 (p. 36, tav. XXV), 685, nr. AG 22800 (pp. 70 s, tav. LVI); CLL. Lvons, The Arcaic Cemeteries, cit, p. 59, » BA, Spankes - L. Tatcorr, Black and Plain Pottery of the 6th, Sth and 4th Centuries b.C., The Athenian Agora XII, Prince1970, nr. 289, pp. 79, 255, tav. 13. ton (New Jersey) è Ibid, nr. 265, pp. 78s, 254, tav. 13. ~ II gruppo), 334, tav. 45. * Thid., rr. 1400-1402, pp. 185s. (Vasi miniaturizzati è datata nel IV Le Necropoli, cit, sep. 37 ner. 6-8, pp. 134, 164 s, conla n. 327 (Tav. CXXVI, 2). La sepoltura » A. Dixi, sec aC. e fig. 18d,a p. 243 (seconda me: in NSA 1966: tomba 19, p. 246 X. - Assoro. - Scavi nella Necropoli, x ΤΡ Monzt, (Sicilia) tà del IV sec. a.C.). Le brocchette sono particolarmente numerose in questa necropoli. 425 a.C. Black and Plain Pottery, cit., nr. 1123, pp. 154, 315, tav. 38 (datazione: circa 7 BA. Sparkes- L. Tatcorr, * P Oso, Vassallaggi. Scavi 1961. I La necropoli meridionale, NSA (Supplemento al vol. XXV) 1971, sepolture nrr. c fig. 2026,a p. 127), a p. 114), 82-8 (p. 129 e fig. 178a, 15-8(p. 42 e fig. 52d,a p. 41), 28-3 (pp. 56 5. fig. 80c), 73-2 (p. 113 100-1 (pp. 140 ss. fig. 228a, a p. 142). Queste lekythoi sono interamente coperte di pigmento nero ed a superficie non baccellata. Ἵν BA, Senes- L. Taxcorr, Black and Plain Pottery,ct, nr. 448, pp. 98 s., 266, tav. 21: "Small: bevelled foot" » La scodellina ὃ stata infatti trovata in associazione con la ekythos attica a figure nere attribuita al Gruppo del Vaticano G S2: cfr supra,p. 260e n. 18. »' Per la cronologia degli altri elementi che componevano il corredo della sep. 1 (oriliskos del LC II, Gruppo C; kylix a vernice nera di produzione locale; testina fite) cfr. rispettivamente, supra, p. 247, con le nn. 12, 29; e qui infra, con la n. 34. s. 365, tav. 87. Black and Plain Pottery, cit. nrr. 1839-1841,pp. 215 ? BA. Saas- L. TaLcorr, » E. Dr Mino, Agrigento,cit, tomba 93, nr. AG 22153, p. 32, Tav. XIII AGS 5753; "Simile al tipo AIIL 2b 2b di Dzwnix 1992": A. CatpeRoxe, L'Abitato, in Monte Saraceno di Ravanusa. Un è con l'esemplare in M. Drwanzcy, Les statuettes aux parures du sancventennio, cit, p. 9 e n. 163, tav. LXXXV, 7. Il confronto tuaire de la Malophoros à Sélinonte. Contexte, typologieet interprétation d'une catégorie d'ofrandes, Cahiers du Centre Jean Bérard XVII, Naples 1992, p. 59, fig. 24. cit, p. 171. 5 Cf. A. Denn, Le Necropoli, » E. DE Mino, Agrigento, cit, p.17. 7 L. Bexxano BREA - M. CAVALIER, Meligunis-Lipdra II. La necropoli greca e romana nella contrada Diana, Palermo 1965, pp. 207 s. Questo tipo tombale è documentato nella necropoli liparota con maggiore frequenza fra il 470 ed il 335 circa a.C. Successivamente, diviene sempre più raro, fino a scomparire del tutto: ibid, pp. 221, 229, 243, 251, 255. ci. coll. 233 ss, 518 ss. ? P. Orsi, Gela, » Adamesteanu ha sottolineato — e proprio a proposito di Monte Saraceno - la differenza che corre tra i profili dei listelli e del IV sec. a.C., rispettivamente: cr. D. ApameStEANU, Monte Saraceno, cit, p. 128, tav. XXVII, 3 degli embrici di tipo arcaico $4). Ho pertanto esperito il tentativo di individuare una linea di sviluppo, in base a coefficienti ricavati dalla formula (b-a):c, dove figurano i valori dello spessore dell'embrice (a), dello spessore massimo del listello (b) e della larghezza del listello (c). I coefficienti più bassi risultano propri degli esemplari più antichi, quelli più alti degli esemplari via via più recenti (cfr. A. DENcit, p. 171 e n. 395) m, Le Necropoli, “© Come già per la necropoli della Tenutella, il criterio ἃ tato applicato soltanto nei casi in cui nelle fosse si conservavano 6embrici o parti di essi ancora in situ; negli altri casi, si è proposta la datazione ipotizzabile, seguita da asterisco. 1 coefficienti sono, in ordine crescente: 0,204 (sep. 22, 2); 0,237 (sep. 6, a); 0237 (sep. 12, a); 0,275 (sep. 14); 0,280 (sep. b); 0,357 (sep. 10); 20,a); 0,301 (sep. 6, b); 0,304 (sep. 17, a); 0,310 (sep. 18); 0,314 (sep. 21); 0,341 (sep. 1); 0,347 (sep. 12, si vede, alcune 0,367 (sep. 4, a); 0,375 (sep. 13); 0,377 (sep. 20, b); 0,386 (sep. 17, b); 0.400 (sep. 4, b); 0,416 (sep. 22, b). Come sepolture (nrr. 22, 6, 12, 20, 17, 4) contenevano embrici con listelli di forme diverse, che hanno dato coefficienti diversi (a e b); in qualche caso (sep. 22) la differenza sembra indicare che erano stati introdotti frammenti pertinenti ad altre protezioni: 263

non bisogna infatti dimenticare che si trattava di sepolture in massima parte violate c sconvolte; in qualche altro (sep. 4), la differenza si può attribuire a una semplice diversità di modelli prodotti nel medesimo periodo, poiché lo scarto non è rilevante. © La controfossa è invece abbastanza frequente nelle incinerazioni primarie; cfr. supra, pp. 255 e 259 (sep. 9); e, per la necropoli della Tenutella, A. Deni, Le Necropoli,cit, pp. 113s. © Chr. ibid pp. 172,174 s.

264

TAV.I

D

lo scavo, 1. Lesepolture 1 e 2, durante

2. Le sepolture 8 e 9, durante lo scavo.

3. La sepoltura 10, all'atto del rinvenimento.

ELS E SEC T 4. La sepoltura 22, interno.

265

3 1. Corredo della sep. 1. Da sinistra: testina fittile, kothon avernice nera, koryliskos tardocorinzio, kylix a vernice nera; 2. Dalla sep. 2: lekythos attica a figure nere; 3. Da sinistra: aryballos ovoidale acromo e lekythos samia, dal-

la sep. 3. 266

τὰν. III

1. Lekythos aryballica a vernice nera, dalla sepoltura 4; 2. Olpe globulare a vernice nera, dalla sepoltura 5; 3. OL pe ovoidale a vernice nera, lekythos attica a figure nere e scodellina a vernice nera, rinvenute nella sepoltura 6 267

TAV.IV

1. Lekane acroma, dalla sepoltura 7; 2. Da sinistra: lekyrhos tardocorinzia e olpe ovoidale frammentaria a vernice nera, rinvenute nella sepoltura 8. 268

TAV.V

1. Testina fittile, dalla sepoltura 1; 2. Lekythos attica a figure nere, dalla sepoltura 6. 269

Lierta DE Salvo IL VINO DELLO STRETTO

In età romana lo Stretto di Messina era inteso in senso molto più ampio di quanto non lo sia ai nostri giorni, comprendendovi, dalla parte della Sicilia, tutta la costa ionica, a Sud; tutta la fascia costiera prospiciente le Eolie e la zona delle isole stesse, a Nord; dalla parte della Calabria la costa fino a Capo Spartivento da un lato e fino a Capo Vaticano dall'altro. Peraltro, anche nella descrizione di Strabone la zona del Πορθμός comprende tutta la costa orientale della Sicilia, fino a Siracusa? e, sul litorale calabro, una larga fascia costiera ricade nell’area dello Stretto, da Porto d'Eracle (forse Tropea), a Medma, a Emporion (nei pressi dell'attuale Nicotera), fino a Colonna e Reggio, e, verso est, fino al promontorio di Leucopetra e al litorale locrese?. Attraverso questa zona transitava la maggior parte del commercio mediterraneo e dunque l'importanza economica dello Stretto non sfugge a nessuno. Com'è noto, e come ha sottolineato C. Panella in un denso saggio di qualche anno fa‘, in età imperiale muta l'organizzazione commerciale del mondo romano: a una organizzazione centrifuga del commercio, che aveva caratterizzato l'età repubblicana, con un movimento di merci da Roma verso le terre da poco conquistate, se ne sostituisce una centripeta, mirante a convogliare verso Roma le merci provenienti dalle province, in maggioranza derrate annonarie, derivate in massima parte dai tributi imposti ai provinciali. E tuttavia, se è vero che il mercato di Roma faceva la parte del leone nelle attività commerciali, non si può certo escludere che esistessero anche scambi tra le varie province, alimentati dal commercio privato, espressione di quella che sembra essere stata un'economia di mercato. Il movimento delle merci avveniva prevalentemente mediante trasporti marittimi e le vie del Mediterraneo ne erano “i percorsi portanti“. I generi di prima necessità seguivano un flusso interregionale e interprovinciale, dalle aree di produzione a quelle di consumo. Naturalmente la vicinanza al mare o ai corsi d'acqua — oltre naturalmente alla capacità produttiva di certe zone - aveva un'importanza determinante. Le merci che circolavano più regolarmente erano, com'è noto, il grano (proveniente da varie province e principalmente dall'Africa), l'olio, la salsa di pesce (di cui era massima produttrice la Spagna, almeno fino agli inizi del V sec.), il vino (dalle regioni orientali, ma anche dall'Africa, dall'Italia e dalla Sicilia) Non intendo, ovviamente, soffermarmi in generale sui grandi flussi commerciali del Mediterraneo, ma considerare solo un aspetto di essi, che interessò l'area dello Stretto in età tardoantica, e cioè la produzione e il commercio del vino, di cui restano varie testimonianze, oltre che in alcune fonti letterarie, nella documentazione archeologica, che proprio in questi ultimi tempi si è particolarmente arricchita. A differenza del grano, da sempre derrata annonaria, e dell'olio, oggetto di regolari distribuzioni a partire dall'età severiana, il vino era per lo più oggetto di commercio privato”, e, in età tardoantica, occasionalmente, era anche oggetto di distribuzioni *. L'indagine, come ho accennato, può essere condotta solo raccogliendo i pur scarsi indizi offerti dai rinvenimenti subacquei e dall'archeologia sul territorio, che si aggiungono alle brevi attestazioni delle fonti letterarie. Non sarebbe infatti possibile tracciare le linee dell'attività commerciale mediterranea senza il supporto di questa evidence. La necessità dell'utilizzo da parte dello storico di questi tipi di materiali oggi non è più in discussione: è ormai un dato acquisito. È indubbio, in effetti, che una ricerca attuale deve tener conto dei dati concreti di queste testimo-

271

nianze, che, per fortuna, da qualche decennio cominciano a diventare più dense e consentono di delineare in gran parte i flussi commerciali mediterranei. Tra i materiali che in questi ultimi tempi hanno suscitato maggiore interesse sono indubbbiamente le anfore Keay LII, che assumono un'importanza notevole nel commercio mediterraneo, particolarmente nell'attività commerciale delle province dell'Italia meridionale e della Sicilia in età tardoantica, per quanto riguarda la produzione ed esportazione vinaria. E su tale attività vorrei soffermarmi in questa breve nota. Queste anfore, ritenute di produzione orientale’, sembrano invece essere state prodotte nelle due aree dello Stretto ? e largamente esportate, e cid in relazione all'accresciuta produzione vinari quelle regioni in età tardoantica. In questi ultimi tempi gli studi sulle Keay LII si sono intensificati e i risultati consentono di delineare alcuni dei movimenti commerciali, rendendo più che mai attuali le affermazioni di Tche in occasione del congresso di Siena del 1986, che ha costituito una pietra miliare nello studio delle anfore", durante il quale lo studioso francese sottolincava come il materiale anforario sia soggetto a continue reinterpretazioni, perché c'è sempre qualche nuova scoperta che induce a rettificare opinioni precedenti, per cui bisogna "accorder à l'historien le droit à l'erreur" ", il che tuttavia non deve impedire di ricostruire tasselli di vita economica e sociale sulla base della documentazione che fino a quel momento si possiede. La presenza di fornaci sulla costa orientale della Sicilia, a Naxos, in contrada Mastrociccio, e in varie località della costa calabra: Pellaro-Fiumara di Lume, Lazzàro Vecchio, Marina di S. Loren2055, rende indubbia la produzione di questo tipo di anfore nell'area dello Stretto. Naturalmente le attestazioni delle Keay LII sul territorio calabro e siculo non riguardano solo le zone di produzione. Tali contenitori sono ampiamente diffusi: finora sono infatti presenti-- oltre che nelle zone delle fornaci - nella villa di Casignana Palazzi "; a Bova Marina", a Scolacium 4, Vibo Valentia" a Nicotera (località Mortelleto), a Reggio Calabria" e, in ambito siciliano, a Siracusa *e a Punta Castelluzzo, nella Baia del Riccio a Nord di Augusta, dove recenti esplorazioni subacquee ne hanno restituito vari esemplari??. Ma la diffusione di questo tipo di anfore ὃ abbastanza ampia: a Roma sono particolarmente abbondanti in contesti tardi, soprattutto sul Celio e sul Palatino e al Lungotevere Testaccio, dove probabilmente le anfore venivano stoccate per conto della res privata *. Le Keay LII sono anche attestate in varie zone del Mediterraneo, sulle coste tirreniche, a Napoli, S. Maria Capua Vetere”, Capua, Ostia, Tarquinia, Luni?', Genova, Albenga; in Gallia, ad Arles, Mar-

siglia, Lione ?, in Spagna, ad Ampurias, Tarragona, Sevilla; in Africa a Cartagine*, nell'Adriatico a Classe e sulla costa dalmata® e in varie altre località della Grecia e dell'Asia Minore. L'ampia dislocazione dei reperti mostra una diffusione direi ‘a 360 gradi’, cioè verso Occidente e verso Oriente, verso Nord e verso Sud, anche se con una maggiore frequenza in alcuni luoghi - frequenza che, tuttavia, potrebbe essere determinata solo dal caso -- e induce a concludere che in età tardoantica le esportazioni del vino che si produceva sulle sponde dello Stretto dovevano avere una certa consistenza, coinvolgendo i mercati sia delle province occidentali che di quelle orientali. E questo, evidentemente, presuppone una commercializzazione a vasto raggio, che doveva coprire una parte non piccola delle esportazioni vinarie dall'Italia meridionale e dalla Sicilia. La presenza — anche se limitata - di alcuni contenitori nell'Adriatico potrebbe far pensare anche ad esportazioni verso le province del Nord. Secondo i dati elaborati dalla Panella, queste anfore destinate al trasporto del vino rappresentano il 15-16% circa della totalità delle anfore raccolte in contesti di Roma e di Marsiglia nella prima metà del V secolo”. Peraltro, non solo la loro presenza in varie aree del Mediterraneo, ma anche l'esistenza di fornaci che le fabbricavano sulla costa calabra e su quella siciliana sono prove evidenti della vitalità della produzione agricola, e in particolare vinaria — non solo per uso locale, ma anche per esportazioni — delle regioni del Sud, Bruzio e Sicilia, peraltro documentata dalle fonti letterarie. E questo in un periodo in cui le produzioni italiche di altre zone servivano ormai solo mercati locali?*. 272

È noto che nel IV secolo, come ricordato dalla Expositio totius mundi, l'attuale Calabria era rinomata produttrice di vino ?, mentre la Sicilia è descritta dalla stessa fonte come terra che multa bona generat *; inoltre, una costituzione del 367 attesta l'abbondanza del vino bruzio, del quale veniva ri chiesto un tributo ai possessores . Del vino bruzio, peraltro, fa l'elogio Cassiodoro**. Le attestazioni di Keay LII diventano sempre più cospicue di giorno in giorno. È di questi ultimi

tempi l'individuazione di anfore di questo tipo anche nel messinese, in uno scavo in località Ganzirri, a Pistunina e in vari altri siti; ogni conclusione al riguardo, come si è detto all'inizio, non può dunque che considerarsi provvisoria. In ogni caso, il reperimento di tali contenitori in vaste aree del bacino mediterraneo può fornire un contributo non indifferente allo studio dell'economia della zona dello Stretto — e forse più in generale della Calabria e della Sicilia — e costituisce indubbiamente una parte notevole nelle correnti di traffici che movimentarono il Mediterraneo tardoantico. In questo momento, tuttavia, si può solo fare il punto della situazione allo stato attuale delle ricerche. Penso che un progresso nel campo delle ricerche su questa tipologia potrà portare lo studio dei bolli*. Forse non è lontano il giorno in cui la storia di questi contenitori sarà ben delineata, com'è oggi il caso delle Dressel 20. È proprio per questo che le Keay LII ci danno una chiara lezione di metodo: dal punto di vista

metodologico, infatti, lo studio di questi contenitori e della loro diffusione può costituire un importante saggio di come le nostre conoscenze del passato si possano e si debbano continuamente rinnovare e aggiornare, e di come ogni nuova ricerca possa portare a rivedere opinioni e teorie. Forse domani si scoprirà che la produzione delle Keay LII abbraccia tutto il bacino del Mediterraneo, dando ragione sia a chi ne vede un'origine orientale, sia a chi le considera di produzione magnogreca. NOTE

* Cfi quanto ho detto nella mia relazione su Trffci maritimi nello Stretto di Messina, in Messina e Reggio nell'antichità. storia società, cultura,Ati del Conv. Int. (Messina: Reggio Calabria 1999), Messina 2002, pp. 297.309. ? Strab. 6,2, 2 (p. 625. Jones). ? Strab. 6,1, 5s. (p. 20ss. Jones). Sulla descrizione di Strabone delle due coste dello Stretto, cl. F. Paowrrau, Lo Stretto di Messina nella tradizione geografica antica, in Lo Stretto, crocevia di culture, Atti del Ventiselesimo Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto-Reggio Calabria 1986), Taranto 1987 [1993], p. 124 ss. [107-131] °C. PaNBtta, Merci e scambi nel Mediterraneo tardoantico, in A. CARANDINI - L. CRacCo RUGGINL— A. Giagoina (edd), Storia di Roma 3**, Torino 1993, p. 613 ss [613-697] * Che. E. Lo Cascio, Forme dell'economia imperiale, in A. CaranDini-L. Ctacco Ruan A. Giannina (edd), Storia di Roma 2.5, Torino 1991,p. 326 ss. [313-3651C. Panetta, Merci scambi, cit, p. 613 s. * C. Panetta, Merci e scambi, ct, p. 613. * A Tenes, Le vin de alle romaine. Essai d'hstore économique d'aprs les amphores, BEFAR 261, Roma 1986, p. 299 e passim; C. Pasta,La distribuzione e i mercati. A) Merci destinate al commercio transmarino: il vino, in A. GiaRDINA-A. Scutaose (edd), Società romana e produzione schiavitica 2, Bari 1981, pp. 55-80; pp. 273-275 (note); Eap., Le anfore italiche de I secolo d. C, in Amphores romaines et histoire dconomique: dix ans de recherches, Actes du Colloque de Sienne (1986), CEFR 114, Roma 1989, pp. 139-178; N. Puncett, Wine end wealth i ancient Italy, in JRS 75, 1985, pp. 1-19;F. Winewax-A. Nacim Analisi delle anfore galliche d'Ostia, in Amphores romaines et histoire économique cit, pp. 284-296; A. CaxaNDI, L'economia italica tra tarda repubblica e medio impero considerata dal punto di vista di una mere: i vino, ibid, pp. 505-521; J. Resa Roprucuez - V. ReviLis-Calvo, Weinamphoren der Hispania Citerior und Gallia Narbonensis in Deutschland und Holland, in HEB 16, 1991, pp. 389-439. * P. Haz, Studien zur romischen Wirschaftgeserzgebung. Die Lebensmitieversorgung, Historia Einzelschr., Heft 55, Stutgart 1988, p. 194 s; p. 296 ss; B. Sinks, Foodfor Rome. The legal structure of the transportation and processing of supplies for the imperial distribution in Rome and Constantinople, Studia Amstelodamensia ad Epigraphicam, [us antiquum et Papirologicam pertinentia 31, Amsterdam 1991, p. 391 ss; p. 393s; L. DE Satvo, Economia privata e pubblici servizi nell'impero romano. eorpora naviculariorum, Kleló 5, Messina 1992, p.92 ss: p. 184 s C. Pata, Merci scambi, cit. p. 648e n. 137. BAR Int. Ser. 136, Oxford 1984, p. 267s; F. Pacrm,La "S.J. Keay, Late Roman Amphorae in the Western Mediterranean, e impero tardoantico vo. 3. Le distribuzione delle anfore orientali tra IV e VII secolo d C., in A. Gazota (ed), Società romana merci, gli insediamenti, Bari 1986, pp. 278 ~ 284;M. Boxiray- F. Vieni, Importations d'amphores orientales en Gaule (Vesur la céramique byzantine, BCH Suppl. 18, 1989, pp. 17-46, dove Vile sce), in V. Denoce— I. M. Srisen (edd), Recherches ad una più vasta area di produzione, vengono individuate officine n area egea. Il che potrebbe forse indurre a pensare e anche direi mediterranea (questa è, peraltro, un'potesi avanzata da C. Parzzia, Merci scambi, ct, p. 647, n. 134); non è escluso che ulterior rinvenimenti possano corroborare questa tes 273

? P. Aeruox, Some observations on the economy of Brattium under the later Roman empire, in JRA 2, 1989, p. 134 s [133-142]; AM. Fauizco, Naxos. Fomaci tardo-romane, in Kokalos 22-23, 1976-77, p. 632 s; A..R. Wnson, Sicily under the Roman empire, Warminster 1990, p. 264 e n. 128; P. Axstun - D. Wis, Campanian wine, Roman Britain and the third century A. D, in RS 5, 1992, p.251 [250-260]; C. PaxeLLA, Merci e scambi, ct, p. 646e n. 134; B. Basic, Ricognizioni subacquee lungo la costa siracusana nell'ultimo quinquennio, in M.C. Lexroa (ed), VI Rassegna di archeologia subacquea (Giardini-Naxos 1991), Messina 1994, p. 25 [11.29]. !' Amphores Romaines et histoire économique, cit. p. 529 s. 2 A. Teueania, Les modeles économiques des amphores, in Amphores Romaines et histoire économique, cit, p. 529 s 529.539]. Ὁ P. Armi, Some observations, cit p. 134 s; E. ANDRONICO, Il sito archeologico di Pellaro (fraz di Reggio Calabria), in La Calabre de la fin de l'antiquité au Moyen Age, Actes de la Table ronde, Roma 1989, MEFRM 103, 1991, p. 731-736; G. GaspeREr1 V. Di Giovasw, Precisazioni sui contenitori della Tarda Antichità, ibid, pp. 875-885; D. Faucone, L'evoluzione dei centri abitati in Calabria dal Tardo-Antico all'età bizantina (IV-XI secolo d. C.), in Vivarium Scyllacense 5,1-2, 1994, p. 46 [43-122] κι ἘΞ Bagetto - M. Carposa, Casignana Palazzi, in La Calabr, it, p. 676 [669.687]; AB. Saxcixero, Produzioni e commerci nelle Calabro tardo romane, in La Calabre, cit p. 151 [749-757] * L. Costos, La sinagoga di Bova marina nel quadro degli insediamenti tardoantichi della costa ionica meridonale della Calabria, in La Calabre, cit, p. 616 [599-609]; M. Rumitc, Osservazioni sul materiale ceramico di Bova Marina, ibid. p. 635 ss. [631-642]. Tutti gli indizi portano a individuare un emporio nella zona intorno al a sinagoga A. Race, Osservazioni su alcune classi di materiali rinvenute in territorio calabrese, in La Calabre, cit, p. 719 e commerci, cit, p. 751. 709-729]; A.B. SanciveTO, Produzioni σι G. GasreREtTI-V. Di Giovanna, Precisazioni sui contenitori calabresi, ct. p. 875 5, 2 P. AgmiuR, Economy of Bruttium, ct. p. 134. AM. Faruco, Siracusa. Saggi di scavo nell'area della Villa Maria, in NSA 1971, p. 609 fig. 32 nr. A183; » B. Basie, Ricognizioni subacquee, cit, p. 22-27 2? P. Amm, Economy of Bruttium, ct. p. 135; 138 5 ? Chr. G. Gisrener - V. DI Giovan, Precisazioni sui contenitori calabresi, ct, p. 880 e n. 12. 5 . G. Massini, Ceramica comune in A. FROVA (ed.), Scavi di Luni II, Roma 1979, p. 198, fig. 129, ner. 10-11; cfr. G. Gasersern- V. DI GIOVANI, Precisazioni sui contenitori calabresi, cit, p. 882. Per Ostia B. Cianroccit - A. Marta - L. Pakott~ H. Parrexsox, Produzione e circolazione di ceramiche tardoantiche ed altomedievali ad Ostia e Porto, in AA.W., La storia economi. ca di Roma nell'Alto Medioevo all luce di recenti scavi archeologici, Firenze 1993, pp. 203-246 (partic. 206; 208). ^ Vedi la mappa tracciata da P. Axrsur, Economy of Bruttium, cit. pp. 140-141. cfr. A.B. SaNGINsTO, Produzioni e commerci, cit, p. 753; cr. anche AR. Wson, Trade and Industry in Sicily, in ANRW TI, 11, 1, Berlin-New York 1988, p. 289 5207-305] e In, Sicily, cit, p.264 s. il quale non parla ancora di Keay LII, ma di anfore nassie a fondo piatto. * Cfr, anche A. RACHEII, Osservazioni, cit, p. 170; AB. SaNGINETO, Produzioni e commerci, cit, p. 754 è Sembra essere assai simile alle Keay LII rinvenute a Naxos e a Punta Castelluzzo il contenitore segnalato a Salona; cfr. N. Cavan, Anfore romane in Dabmazia.in Anfore romane e storia economica, cit, p. 334 s e fg. 37 [331-337]; B. Basie, Ricognizioni subacquee, cit, p. 23. 7? C. Paxenta, Merci e scambi, it, p. 648, n. 138. 55 Sulla prosperità della Calabria in età tardoantica e bizantina, cfr. Ctacco Rcoon, Società provinciale, società romana, società bizantina in Cassiodoro, in S. Lexwza (ed), Flavio Magno Aurelio Cassiodoro, Atti della Settimana di Studi (Cosenza-Squillace 1983), Soveria Mannelli 1986, pp. 245-261. Cf. anche A.B. Sanciero, Produzioni e commerci, cit. p. 753. > Exp. tot mun. 53 (SC 124, ρ. 190 Rouge): Post anc [cil Calabria], Bruttium et ipsa optima cum sit negotium emitti ve stem, birrum et vinum multum et optimum. > Exp. tot. mun. 65 (SC 124, p. 208 Rouge). Sulla floridezza dell'economia siciliana in età tarda, cr. L. Ciucco Rucona, La Sicilia fra Roma e Bisanzio, in A. Vv. Storia della Sicilia, vol. 3, Napoli 1980, p. 7 ss; M. Mazza, Economia e società nella Sicilia romana, in Kokalos 25-27, 1980-81, p. 292-358; Ip. La Sicilia fra Tardo-antico e alto Medioevo, in La Sicilia rupestre nel contesto della civiltà mediterranea, Atti del VI Convegno di Studi sulla civiltà rupestre medievale nel Mezzogiorno d'Italia (Catania 1981), Galatina 1986, pp. 43-84. 9 CTh 14,4,4. ® Cassiod. var. 12, 12 (CSL 96, p. 476 5. Fridh); 12, 14 (CCSL 96, p. 479 s. Fridh). Cf. G. Nov£, Les Bruttii au Vie sibcle, dn La Calabre, cit, p. 508 [505-551], * A Milazzo, cfr. G. Ticano, Milazzo, scavi ricerche tra il 1994 e il 1997, in Kokalos 43-44, 1997-98, pp. 513-545; a Ganzirri, G. Tioano, Ganz. Insediamento tardoromano-protobizantino, in C.M. Bacci ~ G. Ticao (edd. Da Zanclea Messina. Un percorso archeologico attraverso gli scavi, 2, 1 Messina 2001, pp. 247-255; a Pistunina, A.M. RovatiA, Introduzione al catalogo dei materiali ceramici rinvenuti nell'area di Pistunina, ibid, pp. 231-233, * Su alcune di esse, rinvenute a Roma e nel Nord-Africa, ricorre il monogramma chi-ro, con evidente riferimento a possedimenti della Chiesa; in ltr il nome ASELLUS, nome diffuso in Calabria; cr: P. Agrit, Economy of Brattiom, cit, p. 139.

274

LAKE. DE WaeLk f LA STANDARDIZZAZIONE DEI BLOCCHI NEI TEMPLI ‘GEMELLI’ DI AGRIGENTO

Durante gli scavi archeologici sulla Rupe Atenea di Agrigento (1971-1978), svoltisi sotto l'egida dell'allora Soprintendenza alle Antichità, diretta da Ernesto De Miro, sono venuti alla luce gli avanzi di un poderoso muro di terrazzamento, che secondoi dati stratigrafici deve risalire al V secolo a.C.' Facendone il rilievo archeologico abbiamo notato che questo muro era composto da conci isodomi regolari con le dimensioni standard di m 1,24 x 0,62 x 0,465 in media. Dalle iscrizioni attiche risulta che i blocchi di costruzione hanno varie dimensioni, fra le quali appaiono frequentemente anche quelle di 4 x 2 x 1 piedi. Abbiamo allora suggerito che per i blocchi del muro di terrazzamento di Agrigento bisognasse ammettere un ‘piede’ di 31 cm?. Un'unità pressoché uguale si poteva ricavare dai blocchi — ortostati e conci - del tempio di Demetra di Agrigento», la cui lunghezza originariamente era composta da 25 ortostati di 1,25 m (= 4 piedi). IH tempio si presentava così come hekatompedos (100 piedi di 31,25 cm). Le proporzioni pronaos: naos erano 1:2 ossia 33:67 p. La larghezza del tempio, che probabilmente era in antis, era di m 13,30, ossia 42 } piedi.

Per il ‘tempio di Eracle’ (A) l'unità del piede si lascia determinare sottraendo alla media dei plinti di colonna (2,46 m ossia 8 p.) la media dei plinti d'intercolumnio (2,1525 m ossia 7 p.): 0,3075 m.* Che i blocchi isodomi nell'architettura greca fossero espressi in piedi, era già stato accettato dal Doerpfeld, il quale stabili così il < piede dell'Erechtheion > , unità successivamente postulata per l'architettura attica e, generalmente, per l'architettura greca“. Insieme al piede attico-romano (29,4 cm) e quello samio (34,9 cm), queste sono le sole unità ammesse da gran parte degli studiosi di architettura greca*. Se si partisse dallo stesso principio nell'architettura medievale e moderna, un coro di proteste sorgerebbe da parte degli specialisti... c a pien diritto. Sappiamo infatti troppo bene che ne esisteva una grande varietà - fino a più di 60. Se invece proponiamo -come abbiamo fatto - che più di tre unità fossero in uso nel mondo greco antico, si sente lo stesso coro. Eppure, dal momento che attraverso il rilievo metrologico di Salamis, trovato nel 1988”, sono documentate due altre unità finora non accettate dal mondo scientifico, la situazione cambia. Non dobbiamo più noi provare che erano in uso più di tre unità di piede, ma tocca adesso agli altri provare che erano soltanto tre! Il che, visto alla luce del sopraddetto rilievo metrologico, è assurdo. Nello stesso lavoro abbiamo rivolto lo studio ai templi ‘gemelli’ di Agrigento: il tempio di ‘Giunone Lacinia' ed il tempio ‘della Concordia’, dove i blocchi presentavano misure standard rispettivamente di 1,535 e m 1,60". Secondo l'unità di misura il piede ‘variabile’ sarebbe costituito da blocchi di 5 piedi, rispettivamente di:

tempio di «Giunone Lacinia» tempio «della Concordia»

m 1,535:5 =m0,307 m 1,60:5 =m0,320

A questo modo di analizzare si è opposto Dieter Mertens’, il quale ha cercato di stal me, alle quali, secondo lui, dovrebbe corrispondere la progettazione del tempio greco. Anche se egli suggerisce implicitamente che molti dei suoi punti di partenza non sarebbero condivisi da me, tuttavia molti sono gli elementi, ai quali - anche secondo me - un tempio greco deve corrispondere. Il punto cruciale però è quello del piede «variabile», quale si ritrova anche nei templi «gemelli». Tanto più strano è che Mertens", poco tempo dopo, sia stato indotto a riconoscere per l'interasse dei templi, cioè per la distanza tra i due centri di colonna, che corrisponde a due conci (m 2 x 275

1,535=

m 307

em 2 x 1,60 =m 3,20), 10 unità del triglyphon. Essendo il triglyphon composto da

due triglifi e due metope, i quali secondo la regola classica sono in proporzione triglifo: metopa come 233, le unità della trabeazione del Mertens sarebbero identiche a quelle già da me proposte. Senza trarne delle conclusioni per l'analisi del tempio, Mertens calcola i due templi gemelli con il piede ‘dorico’ di 32,8 cm, che sarebbe quello usato su grandi aree del mondo antico. Anche altri? hanno adottato il sistema del piede variabile; però senza insistere troppo sull'ori ne del piede variabile, il che gli sarebbe costato la reputazione nel mondo della Bauforschung tedesca, nella quale non si accettano eresie o idee rivoluzionarie ". Due sono quindi i possibili punti di partenza nell'architettura greca: accettare un numero limitato di piedi e convertire tutte le dimensioni in un piede prestabilito, come ad es. il piede dorico di cm 32,8; l'unità metrica assoluta viene sostituita da un'altra unità assoluta, in tal caso il piede dorico. Le dimensioni di templi diversi vengono quindi rapportate ad un modo assoluto, esprimendosi nello stesso valore di misura assoluto (piede di cm 32,88): tempio di Giunone Lacinia

m 1,535

tempio della Concordia

= 4 piedi 11 daktyloi

m 1,60 = 4 piedi 14 daktyloi (

= 75") 78")

— partire da un piede variabile, da stabilire in ogni tempio in base al taglio dei conci.

tempio di Giunone Lacinia tempio della Concordia

m 1,535 5 piedi di m 0,307 m 1,60 5 piedi di m 0,320

Abbiamo così un sistema semplice di blocchi di un tipo che potremmo definire ‘Lego’ (ted. ‘Baukasten?). Sono i blocchi standard ad indicarci quali dimensioni voleva che il suo edificio avesse. Dalla pianta eseguita in conci si può cercare il modo in cui il tempio fu dimensionato dall'architetto e da qui si può arrivare alla progettazione, al disegno. Tr TEMPIO DI GIUNONE LACINIA 1. Larghezza (fig. 1, lato ovest) Sul lato ovest 5' assisa concio (N-S) 1 081m 2 157π| 3. qm 4. 1485m

lo stereobate consta di cinque assise. 26) 5 os 5

5S 6 7 8.

14m 155m 154m 1555m

5 5' 5$ 5'

9 10 1] 12.

159m 148πι 1485πι 157m

St 5, 5$ 5,

13

244m — 788

Anche se i blocchi non sono tutti delle stesse dimensioni, quelli di mezzo (nr. 2-12), pur avendo surano 10'//. L'architetto dunque ha progettatto la larghezza in questo punto nel modo seguente: è partito da 11 blocchi di 5' (= 55'), collocando quelli estremi 101} (= 2,63' + 7,85) ad ambo i lati,

oscillazioni da 1,48 m a 1,57 m, erano calcolati come di 5', mentre quelli estremi (1 e 13) insieme mi.

così da ottenere la larghezza intenzionale totale di questa assisa: 65'/,'

4^ assisa concio (N-S) 1 402m 2 25m 276

13° ΤῊΝ

3. 4.

227Sm 2345m

TW DI

5 6.

232m 2315m

TR Tj

55' + 104").

7 8.

259m 156m

8% s

siste si Mna Fig. 1. Il basamento del ‘tempio di Giunone Lacinia' (da Koldewey-Puchstein).

Questa assisa è costituita da 5 blocchi di 17/, del taglio standard (1/ x 5' = 7'/,), mentre il blocco 7 è più grande di un piede 8/'. Questo fa un totale di (5 x 7'/' + 8/' =) 46'. Alle estremità i blocchi (1 e 8) sono di 13' e 5°. Lo stereobate qui misurava dunque (46' + 18' =) 64' 3rassisa. concio (N-S) 1 2495m 2. 142m 3. 1558m L547m 4

82 410) 5' 5

2" assisa concio (N-S) 1 27m 14m 2 3. dqsém

9 5 5'

4 5 6

155m 155m 156m

1535m 158m 156m 1545m

5. 6 7 8.

1207-12)

5' 5' 5'

7 8. 9.

9 15m 100? no

5' 5 5' 5

5 15m 5$ 150m 152m!

5'

100? no

Mancano qui alcuni blocchi, ma la larghezza totale era di 65(/;)' stilobate plinto (N-S)

1 2 3

156m 14m 156m

5' 5 5'

4 5 6

155m 156m 15m

5 5 5,

7 8 9

151m 15m 147m

5' 5' 5'

10 Ho

158m d58m

5' 5,

277

La larghezza dello stilobate è calcolabile dal taglio standard dei blocchi. Si tratta dunque di 11 plinti da 5', come già ho suggerito altrove ". 2. Lunghezza (stereobate) (fig. 1, lato nord)

Consta di un basamento di 8 filari, dei quali 4 formano lo stereobate (filari 5-8) ed altri 4 la krepis (filari 1-4). 8' assisa 1 099m 2 1535m 3 ι54π| 4 153m 5 152Sm 6$ 1535m 7 153m

322 5 5, $ 5 5' 5

8 9 10 uU 2 13. 14

154m 195m 1537m 1535m 153m 153m 153m

5' 5 5' 5 5, 5, 5'

15 16 177 18 19 20 21

1485m 148m 14m 147m 148m 154m 153m

5' 5 5' 5 5, 5' 5'

22 23 24 25 26 27 28

5 5 5 5 5 5 2T

L'intenzione dell'architetto nel collocare le fondazioni è chiaro: ha scelto 26 ‘blocchi standard’ (nr. 2-27) e alle estremità ha collocato due blocchi di risulta, in principio di 2'/5', ma dato che alcuni blocchi sono poco meno dello standard, i due blocchi estremi servono come compensazione. Tr assisa 1 162m 2 3 4 5 6 7 8 9 10 n 12 13 m

15. 16 17 18. 19. 20 21. 22 23. 24. 25. 26 27

4 blocchi da 5' = 20°

20 blocchi da 5' = 100'

153m L52m 1,545m 153m 154m 134m 153m 154m 152m 154m 140m 152m 1,56m

3blocchidaS'- 15'

È ben ovvio che i 20 blocchi di mezzo costituiscono l'unità stabile di 100'. Alle estremità vengono aggiunti rispettivamente: 20' e 15'. Cosi si può dedurre la lunghezza intenzionale dello stereobate del tempio: 135'.

6% assisa 1 084m 2 15m 3 152m 4 dam 5 146m $ 1535m 7. 153m

245 5$ 5 5 5! 5 5$

8 9 10 11 12 13 14

1525m 195m 154m 15m 155m 154m 154m

5 5 5' 5' 5 5' 5'

15. 16 77 18 19 20 21

1535m 15m 153m 155m 153m 153m 1535m

5$ 5 5 5' 5' 5$ 5

22 23 24 25 26 27 28.

156m 152m 1455m 146m 154m ι53π ΟἿπι

5 5 5 5 5 5; 2.»

I blocchi di mezzo sono tutti idealmente di 5', ma poiché alcuni (4, 5, 24 e 25) risultano ridotti, la

differenza viene compensata ad ambo i lati (nr. 1 e 28). 278

5* assisa (euthynteria) 1 157m 5 2 15m 5 3 147m 5 4 146m 5 5 144π| 5 6. 16m 5$ 7 153m 5

8 9 10 n 12 13 14

1,53m 153m 154m 1535 πὶ 1,545m 1,525 πὶ 134m

E 5) E 3 5 5 5

153m 155m 152m 154m 152m 153m 154m

si 5 Η * E E 3

22 23 24 25 26 27

143m 154m 146m 1,45m 154m 153m

Benché alcuni blocchi siano piuttosto ridotti (m 1,45 e 1,46 sono 4”), altri sono stati tagliati più grandi (m 1,63 e 1,57) per compensare le differenze. Lo stereobate, secondo il modo di pensare dell'architetto, misura indubbiamente 135". 4 assisa, gradino inferiore della krepis 1 227m 739 2. 1,49m 485 (1696) 17" 3 145m Am 4 154m " 5. 1535m 5 $6 1535m $ 7 15m 5$ 8 d54m 5' 9 dim 5

154m 154m 131m 153m 1535m 1525m 153m 155m 152m

20x5'- 100

19 20 2 22 23 24 25 26

153m 153m 1,525πὶ 1545m 153m 1.46πὶ 145m 475° (169) um 2245m 7,39

Le dimensioni della krepis su questo gradino sono: (17° + 100" + 17"). È chiaro che l'architetto ha calcolato partendo dai 20 blocchi di mezzo, ai quali ha aggiunto sui due lati 3 blocchi di 17°. 3 assisa, 2° gradino della krepis 1 248m " 1285 2. 149m 485 3. 153m 5' 4 154m 5' 5. 1545m 5 86. 1535m 5 7 15m 5 8 154m 5 9. 1535m 5 10 154m 5' H 15m 5' 2 153m 5' 13. 154m 5 21x5

105'

1,535m δ' 153m 5' 153m 5' 15m 5' 19m 5' 1475m 5 154m 5' 1535m 5 153m 5' 13m 0$ 149m — 485 24l5m 7,85

12,7

Ai 21 blocchi di mezzo (3-23: 21 x 5' 105') vengono aggiunti ad ambo i lati (12,85' + 12,7 25), così da ottenenere la lunghezza complessiva di 130'/' 25 assisa, 3° gradino della krepis E 1535m 13 154m 1 4285m 1395" 7 3 153m 14 2 154m 5' 8 153m 3 152m 15 3. 154m s 9 153m 5 148m 157m 153m 16 4 dm 5, 10 E 278m 1 1475 m 152m 5 L54m 5' n 5 18 154m 1545m 6 153m 5 12 Anche in questo filare i 21 blocchi di mezzo sono il nucleo (1057) da cui parte l'architetto per cal279

csc

pepper

IER

Fig. 2. Il basamento del ‘tempio della Concordia' (da Koldewey-Puchstein). colare l'intera lunghezza dell’assisa. Aggiunge ad ambo i lati 14' e 9'. Così il totale diventa (105' + 23' =) 128". Lo sriomArE 155m 143m 154m 154m 152m 153m 153m

8 9 10 n 12 13 14

154m 153m 152m, 155m 154m 152m 155m

a 3 5 3 5 3

1,53 πὶ 154m 153m 154m 152m 153m 154m

s 9 E E H H H

Anche se i penultimi blocchi (2 e 24) sono di dimensioni ridotte (m 1,43

22 23 24 25

153m 1,54τὶ 148m sim

= 4,65); m 1,48

5 5 3 3

= 4,837),

crediamo che non siano stati ridotti per eseguire la contrazione angolare, bensì per una compensazione che appare più logica sui penultimi plinti di intercolumnio che non su quelli angolari. IL TEMPIO DELLA CONCORDIA

1. Larghezza (fig. 2, lato ovest) L'EUTHYNTERIA (5° filare da sopra)

1l basamento del tempio è conservato sul lato nord per 8 st i di conci e presenta le stesse caratteristiche di quelle del basamento del ‘tempio di Giunone Lacinia'; consta cioè di 4 strati per lo ste280

reobate e 4 dei gradini per la krepis. Le dimensioni dei conci sono stati misurati da KoldeweyPuchstein in un modo più completo sui lati ovest e sud. La media dei blocchi standard è di m 1,60 ossia 5 piedi di m 0,32. Si può osservare che sul lato breve la doppia contrazione angolare è stata eseguita con la riduzione a m 1,36/7 ossia 4,3' di due blocchi verso l'esterno (nr. 1,3,11 e 13), mentre

due blocchi verso l'interno (nr. 5 e 9), sotto il secondo e quinto intercolumnio, sono di m 1,50, ossia

4,6’. Così la contrazione viene preparata fin dal primo strato di conci 5.

concio 1 2 3. 4

(N-S) 13m 4 160m 5 136m — 4$ 160m 5

5. 6 7 8

150m 1585m 159m 161m

46 5 5 5

9 10 Ho 12.

150m 160m 138m 06m

46 5' 4. 5'

— 13

135m

43

17 blocchi (nr 2, 4, 6, 7, 8, 10, 12) sono di 5' ciascuno (insieme 35'), mentre gli altri sono stati ri-

dotti di (2 x) 1/3 e 2/3’. Indubbiamente il fine era quello di ottenere una larghezza di (35' + 26' = 61', ma il podio fu fatto un poco più ampio. KREPIS gradino inferiore (quarto) della krepis concio (N-S)

1 2 3.

215m 148m 147m

675 46 46

4 5. 6

155m 1535m G21m

48 48 10)

7 8 9.

1545m 155m

48 48

10 11° 12

1475m 1475m 2l5m

46 46 675°

I blocchi di mezzo (6 e 7) sono di 10°, mentre ad ogni lato di essi sono collocati 4 blocchi (2-5; 8-11) di 18,8' complessivamente. Alle estremità si trovano blocchi angolari di 6. '. Così fu ottenuta una krepis di 10 + 2x 188 + 13% = 61'. gradino terzo (da sotto) della krepis concio 1 2 3. 4

(N-S) 090m 16m 135πὶ 158m

28 5 40 5'

5 6 7 8

150m 159m 16m 1575m

46 5 5$ 5

9 10 Ho 12.

1515m 160m 135m 159m

46 5' 4' 5

— 13

090m

28

Sette blocchi (2, 3, 5, 6, 7, 9, 11) sono della misura standard (1,60 m): 7 x 5' = 35'. I blocchi (2, 4, 8 e 10) sono insieme (2 x 9' =) 18" Alle estremità furono collocati due blocchi minori di 0,90 m ciascuno, cioè 2,8'. Risulta cosi in una larghezza complessiva di (35' + 18' + 51,’ =) 58/7.

penultimo gradino concio 1 2. 3

(N-S) 124m 148m 1475m

38 46 46

4 5 6

155π| 153m (320m

4,8 48 10)

7 8 9

055m 156m

48 4,

10 11 12

145m 46 149m — 46 126m — 38

I due blocchi di mezzo (6 e 7) sono di taglio regolare (2 x 5'), i due successivi, da ambo i lati (4, 5, 8, 9), sono di (2 x 2 x 4,8'=) 19,2". Seguono i blocchi 2, 3, 10, 11 2 x 2 x 4, 18,4’, mentre quelli angolari sono di (2 x 3,8' =) 7,6. Il totale della larghezza risulta cosi 55,2".

281

SmiLoBATE

Si può facilmente vedere come è stata eseguita la contrazione angolare. Si sono ridotti gli ultimi interassi (1 e 5) di 2/3 di piede, mentre i penultimi (2 c 4) sono ridotti di 1/3" ciascuno. Questo implica una contrazione angolare di (2 x 2/3’ + 2 x 1/3’ =) 2 piedi. A causa della concordanza delle giunture bisognava tener conto della contrazione fin dallo stereobate. plinto 1 2. 3

(N-S) 159m 5 038m — 4$ 15m 5'

4 5 6

150m 160m 160m

4,7 5 5

7 8 9

18m 053m 15m

5 47 3

10 Ho

138m Lm

4,3 5

2. Lunghezza (fig. 2, lato nord) EUTHYNTERIA 1 2115m 66 10 159m 5$ 19 160m 5$ 2. 158m Ss 1 1605m 5$ 20 159m 5$ 3. 149m — 423 209 12 L59m 21 15m 5$ 4 155m 4213 13. 320m 18x59 290 22 158m — 5 5. 155m 5.» 144 () 23 155m — 42 6 160m 5 15 160m 24 149m — 4213. 20", 7 1595m 5 16 116] πὶ 25 149m 8 15m 5' 17 L60m 26 211m 9. 160m 5, 18. 160m 118 conci di mezzo (5-22) sono del taglio regolare (1,60 m ossia 5'), mentre verso gli angoli gli ultimi quattro conci misurano insieme (4 2/3' + 4 2/3' + 4 2/3' =) 20'// ". Cosi viene raggiunta la larghezza totale di 131,4', probabilmente una euthynteria poco più ampia (0,4') dei necessari 131), 1l gradino inferiore 1 25m 8 2. 137m 413 3. 160m * 4 151m — 420' 5. 160m 5$ 6 160m 5$ 7 159m 5$

8 — 9 10 1! 2 13. 14

lém L65m 16im 160m 160m 1,595m 1595m

5' 5' 5$ 5$ 5$ 5 5

15. 16 8 18 19 20 21

480πι ( ( 1605m 160m léim 160m

5, 5) 5) 5 5$ 5 5'

22 23 24 25

149m — 4259 16m 5' 1,365m 4U* 25m 8

La contrazione angolare dello stilobate nello strato dei conci viene già preparata con la 'concordanza delle giunture’. Vediamo eseguita la doppia contrazione angolare nel penultimo (4 2/3) e ultimo (4 1/3) plinto dell'intercolumnio. I blocchi negli angoli sono di 8', cioè 3' più grandi dello standard, il che significa che i due gradini superiori della krepis sono di 17. ciascuno.

Penultimo gradino della Krepis 1 2. 3. 4 5. $ 7 8 9

282

134m 147m Ls0m Xiü5m ( 318m 6) 960m (5

418" 42» 420 420 5) (5) (5)

1B

10 noc 12 13. 1 15 16 17 18

(

5) 5) 5) 5)

( ( lém Lé0m 320m m 158m

5' 5’ 18blocchidis' (5) 6) 5'

19 20 21 22 23. 24. 25 26

16m 5 1,60m 5 059m 5' 155m 5' 155m — 42,3)" 148m — 42/j 153m — 428! 184; 125m 418°

1 18 blocchi di mezzo misurano 5' ciascuno, mentre alle due estremità ci sono conci del valore complessivo di 18,61' e 18,31', così che per questo filare viene raggiunta una lunghezza totale di (18,61' + 90 + 18,31" = )127! Lo stilobate (da est ad ovest) 1 16m 5 2 138m 41|3' 3 60m 5) 4 (49m 425) 5. (60m 5) 6 161m 5 7 161m 5 8 159m 5, 9 1605m 5

10 i 122 13 14 15 16 17 18

16m 1605m Léim 159m 1,605m 158m 1,615m 158m 16m

5 5 5 5 5 5 5$ 5’ 5

19. 20 21 22 23. 24. 25

lém 5' 1,60m 5 lém 5$ 149m — 425 16lm 5' 136m — 41$ 16m 5

La contrazione angolare dello stilobate fu progettata in un modo molto semplice. I plinti dell'ultimo e penultimo intercolumnio furono contratti ad ambedue i lati di 2/3' e 1/3’. Con 25 plinti di 5' ciascuno la lunghezza sarebbe stata 125'. Dopo la contrazione invece lo stilobate misurava 123 CONCLUSIONE

Se ammettiamo per i templi ‘gemelli’ di Agrigento un piede variabile, risulta chiaro il modo in cui furono progettati i templi stessi. Il ‘tempio di Giunone Lacinia' non presentava la contrazione angolare. Lo stilobate, che era composto da plinti pressoché uguali di 5', in base ad un piede di m 0,307, misura dunque: larghezza

lunghezza

11 plinti x 5"

25 plintix 5'

55! 125.

Il ‘tempio della Concordia’ che aveva invece una contrazione angolare di 2 x 1' e plinti standard di 5 piedi di 0,32 m, misura: larghezza lunghezza

11 plintix5' = 55'-2' = 53 25 plinti x 5' = 125'-2' = 123"

È ironia della storia che la larghezza del ‘tempio di Giunone Lacinia' (55' x m 0,307 = m 16,885) sia quasi la stessa della larghezza del ‘tempio della Concordia’ (53' x m 0,32 = m 16,96 idealiter; ma misurata 16,91 m da Koldewey e Puchstein). Nella lunghezza si osserva chiaramente che un piede più largo fu usato per il ‘tempio della Concordia’ che misura m 39,44 contro m 38,18 del ‘tempio di Giunone Lacinia" Se si continua a non accettare questo principio di base nell'architettura, gli edifici più grandiosi del genio greco, come il Partenone ed i Propilei, non saranno mai capiti nel loro senso reale e storico. NOTE ? LAKE. De Warez, Agrigento - Gli scavi sulla Rupe Atenea (1970-1978), in NSA 1980, pp. 248-264. ? TAKE. De Waste, [ grandi templi, in L. BraccestE, DE Miro (edd.), Agrigento e la Sicilia greca (Atti Convegno Agrigen10 1988), Roma 1992, p. 158 5. > LAKE. De Watr, Der Entwurf der dorischen Tempel von Akragas, in AA 1980, pp. 209-211 283

+ JAKE. De Waste, I grandi templi, cit, p. 177; 'nterasse (15 p. si compone di un plinto di colonna (o meglio 2 mezzi plinti)e dt un pintodi intercolumnio (4 «7 4. =) 15° 5 W. Doenrrzzo, Metrologische Beitrige, in MDAI(A) 15, 1890, p. 167 s. * D. Meeress, Der Tempel von Segesta und die dorische Tempelbaukunst des griechischen Westens in assischer Zeit, Mainz 1984, p. 44; W. Koexaos, Polke Kat. Frankfurt, Mainz 1990, p. 126. Ὁ JAKE, De Waste, randi templi cit.p. 175, fig. 10. * LAKE. De Waste, Der Entwurf, ci; JAK.E. De Waste, I grandi templi, cit p. 184 ss allo stesso risultato è pervenuto anche C. Hock, Die Kassischen Ringhallentempel von Agrigent, Diss. Hamburg 1993, p.79 85. * D. Mearexs, Enigegnung zu den Entwurshypothesen von J. De Waele, in AA 1981, pp. 426-430. ?* D. Μεκτενς, Der Tempe, ci. 1 1, Cenerto Casmiguone-C. Savio, Considerazioni sula metrlogia e sula genesi consettuale del tempio di Giunone ad Agr genio, in BA 68, 1983, pp. 35-8; C. Hocxea, Die Hassischen ci. © JAKE, De Wale, Rev; C, Hocker, Die klassischen Ringhallentempel von Agrigent, Diss. Hamburg 1993, in Gnomon 68, 1996, pp. 245-253. 5 JAKE. De Wants, Der Entwurf, cits p.219; LAKE. De Wants, grandi templi, cit.p. 184. RKorveway-O. Pucuistexs, Die griechischen Tempel in Unteritalin un Sicilen, Berlin 1899, tav. 25, 1 È ancora distinguibile αἱ i sotto un alto flare. ^ I blocchi furono tagliati della stessa lunghezza, ma il primo dovrebbe essere ridotto a m 1,50 m c il seguente di tipo standard (m 1,60). ‘blocco 2 di grandezza standard S, sicché qui tre blocchi misurano insieme 20,9" ? 1,55 + 0,08 me 1,55~0,05m.

284

CARMELA ANGELA DI STEFANO PICCOLA PLASTICA BRONZEA INDIGENA DI AREA SICANA

1l primo esame critico della piccola plastica bronzea rinvenuta nella Sicilia centro-meridionale risale agli anni Sessanta, dopo che un articolo di P. Orlandini ' aveva presentato una serie di bronzetti inediti ritenuti esempio di una produzione indigena, sollecitata dalle importazioni greche ad elaborare prodotti di imitazione di carattere provinciale e barbarico*. Fra il 1963 e il 1966 si pone un riesame del complesso dei bronzi di Castronovo, le cui incerte condizioni di rinvenimento lasciavano il campo a differenti interpretazioni :se infatti, da un lato, veniva sottolineata, almeno per alcuni esemplari, una possibile valenza premonetale? dall'altro veniva avanzata l'ipotesi di una prevalente valenza religiosa e di un possibile collegamento dell'intero gruppo ad un luogo di culto sicano*. Nel catalogo dei bronzetti indigeni della Sicilia pubblicato dal La Rosa nel 1968? sono compresi anche i piccoli bronzi figurati di area sicana fino ad allora noti. Le incerte condizioni di rinveniment0 hanno però ostacolato una valutazione scientifica esauriente; in assenza di elementi più precisi la datazione restava ancorata fondamentalmente legata ad un'analisi stilistica. Il progredire degli scavi nella Sicilia centro-meridionale, oltre ad accrescere il numero degli esemplari, ha fornito alcuni nuovi elementi di valutazione.

È dunque opportuno, a distanza di tanti anni, un riesame dei mate-

riali. Si tratta, purtroppo, di un riesame parziale, dal momento che ancora oggi molti materiali sono inediti e le relazioni preliminari di scavo non consentono una visione completa e un esame analitico dei singoli contesti Un primo gruppo di materiali proviene dalla montagna di Polizzello presso Mussomeli, sito nel quale nel 1889, nel corso di lavori di aratura, venne scoperto un vaso contenente un ripostiglio di bronzi acquistato nel 1922 dal Museo di Palermo e pubblicato per la prima volta da E. Gabrici*. La deposizione di questo ripostiglio viene oggi riferita alla metà dell VIII secolo a.C". anche se l'eterogeneità dei diversi elementi che lo compongono farebbe supporre un periodo prolungato di formazione*. Se per il ripostiglio viene indicato come luogo di rinvenimento la montagna di Polizzello, altri tre piccoli bronzi figurati (Tav. I, 1 e 2) sono frutto di scoperte fortuite e pertanto sono privi di un contesto di riferimento. Genericamente inquadrati nell'ambito delle manifestazioni della plastica minore mediterranea prearcaica a carattere geometrico, sviluppatasi fin dagli inizi dell'età del ferro, i tre esemplari, molto diversi tra loro, sono stati spesso citati come esempio di una produzione indigena più o meno influenzata da modelli greci. Il primo esemplare, pubblicato per la prima volta da P. Griffo nel 1959", presenta, pur nella schematica esemplificazione dell'anatomia, una grande espressività, accentuata dalla flessione delle zampe anteriori fortemente divaricate. Di difficile inquadramento è il noto bronzetto a forma di tridente (Tav. I, 1), il cui prototipo è stato riscontrato negli idoletti micenei “a psi”! La sua presenza a Polizzello non sarebbe un fatto isolato se risponde al vero la notizia riferita dal La Rosa, purtroppo finora mai confermata, dell'esistenza di altri tre esemplari della stessa provenienza in possesso di collezionisti privati '. II terzo esemplare, pure conservato nel Museo di Caltanissetta, è una figura schematica di offerente (Tav. I, 2), stante, ignudo, con una patera nella mano destra e con l'altra mano protesa. Il volto, largo e appiattito, rivolto verso l'alto, è reso con notazioni sommarie ma efficaci e contrasta con la struttura corporea fortemente geometrizzata, che si caratterizza solo per il marcato restringimento alla vita, per la forte accentuazione del sesso e per un tentativo di articolazione della ginocchia. 285

Le campagne di scavo condotte a Polizzello dalla Soprintendenza di Agrigento a partire dalla metà degli anni ottanta hanno tuttavia fornito nuovi importati elementi di valutazioneÈ. Come molti insediamenti indigeni la montagna di Polizzello si erge isolata a dominio di un vasto territorio. La parte sommitale (acropoli), articolata in gruppi di edifici abbinati, si configura come area sacrale. Sull'acropoli sono state esplorate in particolare due capanne-sacello contigue denominate rispettivamente Edificio A e B e caratterizzate dalla presenza di numerose deposizioni votive. Alla prima fase dell'edificio B va assegnata una deposizione che ha restituito un bronzetto raffigurante un'offerente (Tav. I, 3) ignudo, stante, che regge nella mano destra una ciotola e nella sinistra un frutto. Questo esemplare, nella struttura della testa e nella rude semplificazione del corpo, rivela molte analogie con l'altro offerente del Museo di Caltanissetta. Un significativo elemento cronologico, è dato dalla presenza di uno skyphos protocorinzio tardo del tipo "a levrieri”, databile intorno al 640 a.C.; associato a ceramica geometrica incisa del tipo S. Angelo in una deposizione della fase IT dell'edificio A, fase che risulterebbe coeva al primo impianto dell'edificio B. Il bronzetto pertanto dovrebbe assegnarsi intorno alla metà del VII secolo a.C... La fase più tarda dell Edificio B, che si colloca tra la fine del VII e gli inizi del VI secolo a.C. è caratterizzata da un'ampia serie di deposizioni votive (grande stipe) comprendenti anche ceramiche di importazione, in particolare coppe ioniche del tipo A 2 associate a ceramiche indigena dipinta e incisa. Da tale deposito, oltre ad anellini di bronzo, ad un coltello e un pane di ferro, e a vaghi di collana d'ambra, proviene una grande quantità di materiali in osso, in particolare un consistente numero di astragali. Sotto le pietre dell'altare è stato inoltre recuperato un altro bronzetto (Tav. I, 4) costituito da due gambe calzate di figura umana unite superiormente da una piastrina a ponticello. Il carattere eminentemente sacro dell'acropoli di Polizzello è ulteriormente confermato dall'esplorazione di altri due edifici, denominati rispettivamente C e D, che costituivano un complesso unitario essendo struttivamente e funzionalmente collegati da stretti passaggi obbligati, quasi labirintici, e da banchine. Dal complesso delle deposizioni dell'Edificio C, oltre a due interessanti torelli fittili con tracce di giogo (Tav. I, 5), proviene una figurina bronzea di serpente che si incurva addentandosi il ventre. Le deposizioni dell'Edificio D, oltre a materiali ceramici di importazione, hanno restituito numerosi astragali d'osso. Sempre dalla montagna di Polizzello proviene infine un ultimo bronzetto, finora inedito, che rientra nella caratteristica seri e dei c.d. lettucci-astragali (Tav. II, 1). Anche se non tutto il materiale proveniente da Polizzello è stato ancora pubblicato, due dati emergono in modo rilevante: da un lato, lo stretto rapporto dei piccoli bronzi con un contesto legato alla presenza di una importante comunità sacrale; dall'altro alcune caratteristiche di carattere tecnico che accomunano la figurina di torello e i due offerenti *; questi ultimi, in particolare, si distinguo no nettamente, per la struttura corporea tozza e per la rozza potenza espressiva, dalle figurine analoghe di offerenti, anche symplegmata, allungate e filiformi, provenienti da contesti coevi di varie località della Sicilia orientale'*, Se a ciò si aggiungono le osservazioni più recenti su alcuni elementi del ripostiglio * potrebbe ritenersi verosimile l'esistenza a Polizzello,fra l'VIII e la prima metà del VI secolo a. C., di una produzione locale metallurgica probabilmente dipendente dal potere della comunità'*. Tl luogo di rinvenimento dei centosessanta bronzetti di Castronovo resta ancora incerto. La loca-

lizzazione riferita dal primo editore, il Marchese A. De Gregorio" (nell'altipiano presso il Pizzo della

Guardia) è generica. Il Salinas, segnalando l'acquisto attraverso la mediazione del Cav. Francesco Landolina di Castronovo di un primo gruppo di centocinquantatrè esemplari in una lettera inviata 18 ottobre 1887 al R. Commissario dei Musei degli Scavi di Sicilia riferisce che il rinvenimento era stato fatto in un sepolcro scavato in contrada Cassaro di Castronovo.

L'anno successivo il Salinas ri-

uscì a recuperare altri sei pezzi e 42 astragali naturali che facevano parte dello stesso rinvenimento;

un ultimo esemplare venne recuperato più tardi dal Ministero dalla Pubblica Istruzione ". Altri pezzi, forse i più interessanti della serie, andarono dispersi ". Una breve campagna di scavi eseguita dalla Soprintendenza del 1984? sulla sommità del Monte Cassaro mentre ha evidenziato la consistente fase bizantina ha consentito di esplorare solo in minima parte i livelli riferibili alle fasi più antiche dell'abitato. Appare però sufficientemente documenta286

ta la presenza di un abitato indigeno, verosimilmente organizzato in capanne, con una fase di distruzione inquadrabile tra la fine del VI e i primissimi anni del V secolo a. C. Se, i bronzetti, come sembra probabile!, provengono dal perimetro dell'abitato, non è da escludere la loro possibile appartenenza a un'area sacra. La provenienza da uno o più depositi votivi, analoghi alle deposizioni dei sacelli binati dell'acropoli di Polizzello, giustificherebbe infatti molto bene le caratteristiche peculiari di questi esemplari, che presentano caratteri omogenei anche se tipologie diverse. Quattro esemplari consistono in figurine isolate di quadrupedi, molto diverse tra loro. Un vivacissimo torello aggiogato (Tav. II, 2) rivela la stretta dipendenza da esemplari in terracotta, primo fra tutti il già ricordato torellino fittile, pure aggiogato, del deposito votivo dell'Edificio C di Polizzello®. Ugualmente richiama esemplari fittili un'altra vivace figura di quadrupede (Tav. II, 3), la cui sommaria e approssimativa resa anatomica è compensata dal dinamismo impresso dal collo allungato e dalle corna tirate indietro. Il piccolo ariete (Tav. II, 4) con le zampe anteriori poggianti su una piastrina rettangolare presenta la medesima struttura tubolare del corpo, lo stesso sommario rendimento anatomico e la stessa forza espressiva del già ricordato torello di Polizzello. Molto diverso è infine il quarto esemplare (Tav. II, 5) che si caratterizza per la struttura trapezoidale della testa, per il tronco a sezione triangolare con i piani laterali convergenti lungo la linea di schiena e per la decorazione a linee trasversali incise a crudo sui due lati del tronco. Un secondo consistente gruppo è composto dai c.d. lettucci, piccolo bronzi rettangolari, cavi all'interno, provvisti su ciascuno degli angoli di una piccola prominenza appuntita. Generalmente sulla superficie superiore, convessa, insistono figurine di torelli (Tav. II, 6) di uccelli, (Tav. III, 1), di serpenti (Tav. III, 2), 0 sono collocate protomi taurine (Tav. II, 6). Alcuni esemplari recano astragali plasticamente modellati, oppure contrassegni diversi, non sempre ben individuabili (doppia ascia, una o due prominenze coniche). Il terzo gruppo è costituito da esemplari che ripetono la forma più o meno stilizzata dell'astragalo (Tav. III, 3). Le figurine isolate sono fuse appieno; i cd lertucci e la maggior parte degli astragali sono cavi. Asimmetrie, ruvidezza della superfici, porosità diffuse e tentativi più o meno riusciti di rimediare ai difetti di fusione fanno dubitare della perfezione dei procedimenti usati. Un esemplare è stato ottenuto saldando, con un metodo di lavorazione alquanto rozzo e primitivo, due frammenti compatibili ma non perfettamente combacianti, provvisti di una diversa decorazione. La decorazione veniva generalmente eseguita a crudo. I motivi decorativi trovano piena corrispondenza nella ceramica a decorazione geometrica impressa del tipo S. Angelo Muxaro-Polizzello. Colpisce l'uniformità dei materiali, confermata ulteriormente della descrizione di due esemplari dispersi che presentavano una raffigurazione più complessa: la raffigurazione di un uomo che trascina un torello e quella di una troia în atto di allattare, figurine entrambe inserite su un supporto a forma di lettuccio. L'attribuzione all'attività di officine locali non sembra ormai che possa essere messa in discussione. Resta aperto, il problema della difficile interpretazione dei singoli elementi che compongono questo singolare complesso. Se, infatti, per le figurine isolate non mancano possibilità di confronti

anche con la produzione fittile di tipo subgeometrico o arcaico, nessun confronto è emerso finora per gli esemplari che producono figure di torelli, uccelli e serpenti, o protomi taurine, inseriti su supporti a forma di lettuccio. Per quanto riguarda invece i bronzetti di tipo astragaloide emergono interessanti riscontri che possono contribuire in parte alla soluzione dei molteplici interrogativi posti dal gruppo dei bronzetti di Castronovo. Una decina di bronzetti che ripetono in modo più o meno stilizzato la forma dell'astragalo proviene infatti dal ripostiglio del Mendolito di Adrano. Questo ripostiglio-deposito, datato dall’Abanese Procelli alla seconda metà del VII a.C.? e giustamente considerato dalla stessa studiosa osservatorio privilegiato per un'analisi della metallurgia della seconda età del ferro in Sicilia in un'epoca già coeva alla colonizzazione greca, presenta anche alcuni materiali di importazione: si tratta, in particolare, dei frammenti di calderoni di lamina bronzea, presenti nei depositi votivi di Giarratana” e di Bitale287

mi” oltre che nei santuari di Olimpia e Delfi e dei frammenti di tripodi greci geometrici di produzione attica e peloponnesiaca. Se ὃ vero che la condizione frammentaria di molti materiali potrebbe avvalorare l'ipotesi della importazione di “rottami” e quindi della tessaurizzazione di metallo grezzo, sembra tuttavia più convincente l'ipotesi avanzata dell'Albanese Procelli che interpretò il ripostiglio di Adrano come un deposito di fonderia collegato ad un santuario, forse anche sotto il controllo del potere politico della comunità.

In quest'ottica potrebbero trovare una spiegazione sia la presenza, nel santuario di S. Anna pres-

so Agrigento dei due bronzetti astragaloidi analoghi come forma e decorazione, agli esemplari di Castronovo, dentro un pithos decorato con motivi incisi allo stile S. Angelo-Polizzello? sia il rinvenimento in due depositi votivi del secondo strato del Thesmophorion di Bitalemi di altri due esemplari di forma astragaloide:*. Le due deposizioni di Bitalemi facevano parte di un gruppo di offerte votive sepolte durante la prima fase di vita del santuario, quando nella collina non esisteva alcun edificio monumentale. La costruzione del santuario intorno alla metà del VI secolo a.C. comportò la gittata di uno spesso battuto di argilla che sigillo questo primo gruppo di deposizioni. Anche il phitos di S. Anna sembra riferibile ad una deposizione anteriore all'impianto del Santuario che si colloca ugualmente intorno alla metà del VI secolo a.C. In questa prima fase di vita dei due santuari il culto si attuava mediante il sacrificio di piccoli animali, pasti rituali e offerta di ex voto (vasi, lucerne, statuette, strumenti agricoli, ma anche depositi di metallo grezzo)”.

Un terzo gruppo di bronzetti figurati proviene da Butera. Si tratta, anzitutto, di una figurina di

bovide (Tav. III, 4) da corpo tubolare, dalla coda corta e appuntita e dalle corna lunate proveniente da una stipe votiva legata al culto delle acque». L'esemplare, che presenta sul collo un foro di sospensione, era probabilmente un pendente c viene raggruppato con gli oggetti più antichi della stipe che si inquadrano nell'ambito del VII secolo a.C.. L'estrema semplificazione della struttura corporea, la rigidità e la povertà delle notazioni anatomiche evidenziano la modesta qualità di questo bronzetto rispetto al già ricordato torello di Mussomeli che viene normalmente segnalato come il più immediato confronto.

Gli altri tre bronzetti figurati? provengono da tombe del secondo strato della necropoli di Piano della Fiera, strato riferibile al VII secolo a.C. e caratterizzato dalla presenza di vasi protocorinzi, pithoi a flabelli e ceramica di fabbrica locale. Si tratta di pendenti di collane con funzione ornamentale (Tav. III, 5)e, nel caso di esemplari a doppia protome di ariete, forse anche con funzione di amuleti

(Tav. III, 6). Gli esemplari sono largamente noti, perché più volte pubblicati con un approfondito

esame stilistico e con riferimenti, più o meno puntuali, al mondo greco. Notevoli sono, in questo caso, le analogie, tecniche e stilistiche con alcuni dei bronzetti di Castronovo (doppia protome di ariete e torello con giogo), I piccoli bronzi figurati di area sicana si collegano, nella concezione formale, ai prodotti della piccola plastica in bronzo che fiorisce nel corso del VIL.VI secolo a.C., in molti centri dell'isola. Generalmente si tratta di figure isolate, talvolta montate su basi rettangolari o su lettucci-astragali. La figura umana è rappresentata nello schema dell'offerente. È sempre di sesso maschile, nuda e itifallica, con un attributo di offerta nelle mani protese. Si tratta di uno schema iconografico diffuso in altri contesti coevi siciliani; ma tale tema viene interpretato con una maggiore coerenza strutturale,

ricchezza di dettagli e forza espressiva. Particolarmente numeroso è il gruppo di bronzetti raffiguranti animali, resi a figura intera o solo come protome. Malgrado nella resa delle figure prevalga uno schematismo formale quasi disegnativo che non lascia spazio per l'organicità della struttura anatomica, quasi tutte le figure zoomorfe rivelano la stessa vivacità e immediatezza di alcune figure fittili cronologicamente contemporanee di tradizione subgeometrica e arcaica che più o meno risentono

della presenza greca coloniale.

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NOTE * P. Ontanpia, Piccoli bronzi raffiguranti animali rinvenutia Gela e a Butera, in ArchClass VIII 1956, p. 1 ss. ? Sulla possibilità di una produzione locale a Polizello si cfr. anche P. Gaio, in FA XII, 1/957, n. 2555; In., Sulle orme della civiltà gelese, Agrigento 1958. Per centri di produzione dei bronzetti dell'entroterra di Gela cfr. anche D. ADAMESTEANU, Butera. Piano della Fiera, Consi e Fontana Calda, in MAL XLIV 1958, c. 583, * A. Tusa Curnost, Osservazioni sui bronzetti di Castronovo. Contributo agli studi sull'origine della moneta, in Kokalos IX, 1963, pp. 129 ess. * CA. DiSreraso, Nuove ipotesi sui bronzetti di Castronovo, in ArchClass XVIII, 1966, p. 175 e ss. 5 V. Ta Rosa, Bronzetti indigeni della Sicilia, in CronAch 7, 1968, pp. 7.68. * E. Gasnicy, Polizzello. Abitato preistorico presso Mussomeli, in AttiAcc. Palermo XIV 1925, pp. 355. ? C. Giuapino, IL ripostiglio di Polizzello, in SicArch 65, 1987, pp. 39-55; A. Tusa Cumosa, Iripostigli di bronzo e la loro funzione pre o paramonetale, in Prima Sicilia, alle origine della società siciliana, Palermo 1997, p. 574. * IL ripostigliosi compone di un'ascia ad alette, tre asce a cannone, cinque asce a occhio, due frammenti di ascia, due di lancia, una verga a sezione quadrangolare, due panelle intere e una frammentaria, frammenti di bronzo informe. * P. Guurto, in FA ΧΗ, 1959, n. 2555. * T, Nicoterm, La bronzistica figurata indigena,in Prima Sicilia, οἷ, p. 536. τι V. La Rosa, Bronzetti indigeni, cit p. 15, n. 51. 5. E. De Miro, Polizzello centro della Sicania, in QuadMess 3, 1988, pp. 25-42; Ip., L'organizzazione abitativa e dello spazio nei centri indigeni della valle del Salso e del Platani, in Magna Grecia e Sicilia. Stato degli studi e prospettive di ricerca. Atti delT'Incontro di Studi, Messina 2-4 dicembre 1996, Soveria Mannelli 1999, pp. 188-191. ? V. La Rosa, Bronzetti indigeni, cit; D. PaLeRMO, Polizzello. Contributi alla conoscenza dell'età del ferr in Sicilia, in CronArch 20, 1981, pp. 124-125. ^ V. La Rosa, Bronzetti indigeni,cit. * C. Guarino, La metallotecnica nella Sicilia pre e protostorica, in Prima Sicilia, cit. p. 413. "^ E. De Miro, Polizzello cit, p. 41. Una situazione analoga sembrerebbe configurarsi a Colle Madore presso Lercara; cfr Colle Madore. Un caso di ellenizzazione în terra sicana, Palermo 1999. "A. DE Gneconio, Luogo dove furono trovati i bronzi di Castronovo, in Studi Archeologici Iconografici IX, Palermo 1921, pp. 10-11 ?* C.A. Di Sreravo, Bronzetti figurati ἀεὶ Museo nazionale di Palermo, Roma 1975, p. 119. " CA. Dr Srerao, Nuove ipotesi, cit., p. 176, tav. LVIL2. » A. Vitia, Indagini archeologiche e ricognizioni nel territorio di Castronovo di Sicilia, in Seconde Giornate Internazionali di Studi sull'area elima, Pisa-Gibellina 1997, I, pp. 1385-1397. 2 A. Tusa Creo, Osservazioni sui bronzetti di Castronovo, it, p. 130. 2 E. De Miro, Polizzello,cit, tav. XIL2. ? RIM, ALBANESE PROCELLI, Considerazioni sul ripostiglio del Mendolito di Adrano, in Kokalos, XXXIV-XXXV, 1988-89, pp. 125-141 δεῖ, Berwand pata, La Sicilia prima dei Greci, Milano 1958, p. 199, fig. 50a, » P, OrtanpmI, Depositi votivi di bronzo premonetale nel santuario di Demetra Thesmophoros a Bitalemi, in AIIN 12-14, 1965-67, pp. 1-20. » L γλόνεττι, Appunti sui bronzi ege e ciprioti del ripostiglio di Contigliano, in MEFR 86, 1974, p. 661. 7 G. Ειομεντινι, in CronArch 8, 1969, p. 74, tav. XXXV. ?* P Ontaxoin, Lo scavo del tesmophorion di Bitalemi, in AIIN, ct. ® Una situazione analoga è stata offerta a Lercara dagli scavi recentemente condotti sulla sommità del Colle Madore; cfr 8. Vassaizo, in Colle Madore. Un caso di ellenizzazione in terra sicana, Palermo 1999, p. 29. » P. Οπιλνρινι, in ArchClass VIII, 1956, p. 3 tav. 1, Bg. 5; D. ADawusteawu, in MAL XLIV 1958, col. 597, fig. 228 e col. 444, fig. 157; V. LaRosa, Bronzetti indigeni, cit, p. 33, n. 43, av. XVIII ? V. La Rosa, Bronzett indigeni, cit, p. 34, nn. 44-46, tav. XVIII,

289

TAV.I

4

5

1. Bronzetto a forma di tridente da Polizzello; 2. Statuetta di offernti da Polizzello; 3. Statuetta di offerente dall'edificio B di Polizzello; 4. Bronzetto dall'edificio B di Polizzello; 5. Figurine di torelli dall'edificio C di Polizzello. 290

τὰν. πὶ

1-6: 1. Lettuccio bronzeo da Polizzello; 2. Torello bronzeo da Castronovo; 3, Quadrupede in bronzo da Castro-6. novo; 4. Figurina di ariete in bronzo da Castronovo; 5. Statuetta in bronzo di quadrupede da Castronovo; Lettucci-astragali in bronzo da Castronovo. 291

ταν III

1-6: 1-2. Lettucci di bronzo da Castronovo; 3. Lettuccio-astragalo di bronzo da Castronovo; 4-5. Statuette in. bronzo di quadrupede da Butera; 6. Pendente di bronzo a forma di doppia protome di ariete da Butera.

292

ANTONINO DI Vira ERA IL SATIRO DI MAZARA UNA “TUTELA”?

Non starò qui a rifare la descrizione né l'esegesi stilistica dell'ormai famoso bronzo ripescato dal sta. Non la descrizione perché l'immagine del bronzo è stata ampiamente diffusa e commentata dai media, e addirittura è stata scelta dalla Regione Siciliana quale logo per ricordare il 52° anno dello statuto della stessa, sicché me la sono ritrovata dinanzi in ogni angolo di Mazara ancora prima che, il 5 giugno 1998, avessi la fortuna di vedere l'originale nel magnifico palazzo settecentesco che lo accoglieva (figg. 1-6). Non ne darò poi un'analisi stilistica e un inquadramento storico-artistico perché ritengo che sia all'amica e studiosa egregia Rosalia Camerata Scovazzo che vada l'onore della pubblicazione di queCapitan Ciccio nel Canale di Sicilia, nel 1997 la gamba sinistra e il 4 marzo del 1998 il torso con la te-

Fig. 1. Il Satiro a Mazara nel 1988.

Fig. 2. Il Satiro, evidente il foro per l'inserzione della coda. 293

Fig. 4. Il Satiro, dettaglio del volto e dei capelli 294

Fig. 5. Il Satiro, evidente il foro nella volta plantaFig. 6. Il Satiro, i fori nel calcagno. re. sta significativa scultura, dopo il restauro che permetterà certamente di meglio apprezzarne i dettagli e la qualità En passant dirò soltanto che sarei ancora un po' più ribassista di Nicola Bonacasa che fra quanti hanno detto del Satiro mi pare abbia dato la datazione più vicina al vero: il Satiro è opera di assai buona qualità del tardo ellenismo o fors'anche dei primissimi anni dell'Impero. Che si tratti della tipologia ben nota nel mondo greco a partire dal IV secolo del Satiro in estasi è stato detto da tutti? (fig. 7); aggiungerd qui che i capelli accostati al viso e straordinariamente tirati all'indietro senza fare massa si possono giustificare già solo col torcersi vorticoso della figura ma s'accorda anche col fatto che essa fosse immaginata colpita dal vento (figg. 1-5). Indubbio poi che il Satiro stesse sulla gamba destra tesa, poggiando forse sulla metà anteriore del piede. Ciò che mi ha colpito esaminando la scultura con tutto il mio agio, per la cortesia della dott.ssa Camerata Scovazzo cui va il mio ringraziamento più vivo e a cui debbo anche alcune delle foto che qui presento, sono stati anzitutto la dimensione della statua alta più di 2 metri (Satiri così grandi in bronzo finora non ne avevamo recuperato e le figure che per confronto tipologico sono siate accostate alla nostra sono tutte prodotto di "arte minore") e poi i due fori presenti al centro e sul lato interno dell'area posteriore del tallone sinistro ed il foro, identico ai precedenti, nel mezzo dell'arco plantare. Si tratta di tre fori larghi all'origine poco più di un centimetro, che mi apparvero subito troppo regolari per essere prodotti di ossidazione anche se tutti e tre slargati dalla consunzione del bronzo (figg. 5-6). È su questi due punti che mi fermeroò. Si è detto che il Satiro formasse gruppo ma viene difficile immaginare un complesso di statue bronzee, un thiasos dionisiaco, in cui i Satiri fossero alti circa m 2,40. Quanto avrebbe dovuto essere alto il Dioniso? 295

Soltanto il Bonacasa si ὃ posto il problema e, nel caso in cui il Satiro fosse stato solo, allora la "sua destinazione primaria non potrebbe che essere strettamente funzionale e insieme decorativa, poniamo, della stessa nave”. Peraltro si tratta di un'ipotesi a cui egli stesso non crede molto se conclude: “Il Satiro faceva parte senza dubbio di un carico (bronzi, marmi, ecc.), forse proveniente dalla Grecia continentale, che viaggiava per mare da Est ad Ovest, alla volta di mercati certi e di prestigio" ^. A mio parere questo Satiro in realtà non faceva

gruppo, era solo ed era strettamente funzionale alla nave. Non poteva certo trovarsi a prua dove la sua altezza ne avrebbe fatto una ingombrante polena senza confronti; mentre a poppa, dove credo che si trovasse, non avrebbe dato alcun fastidio. Infatti io ritengo che il nostro Satiro era la tutela della nave con cui affondò, vale a dire era una di quelle figure mitologiche o divinità che erano piazzate sulla più alta poppa delle navi sia mercantili sia da guerra e che alla nave stessa davano sovente il nome‘. Le grandi dimensioni allora si spiegano essendo correlate all'importanza e alla grandezza della nave ma soprattutto non saprei spiegare in nessun altro modo i fori al tallone e alla pianta del piede se non con una staffa esterna che afferrasse il bronzo intorno al tallone e si allungasse fino al centro della pianta del piede dove un lungo perno metallico da un lato affondava dentro il bronzo e dall'altro arpionava la statua ad una parete che, data la posizione della gamba sinistra, doveva alzarsi rispetto al piano su cui essa poggiava con la sua gamba destra (fig. 8). Ed un recente accurato esame autoptico della gamba sinistra effettuato per convalidare questa mia ipotesi* unitamente ai tecnici dell'ICR che a Roma hanno in cura il bronzo, ha confermato che perlomeno il foro sull'arco plantare era originario poiché ne resta intatto un segmento di cerchio che permette di fissarne il diametro in cm 1-1,2. Inoltre, in corrispondenza di tale foro, all'interno del piede, esiste un incasso a sottosquadro, largo circa cm 2x3,5, nel quale fu alloggiata una placchetta, certo assai spessa, la quale conteneva probabilmente un foro che vedrei come una vera e propria madre-vite, atta a ricevere il filetto di un perno destinato a legare il piede ad un elemento di bronzo o di legno. Si può ragionevolmente pensare che quest'ultimo andasse incassato nella struttura cui era previsto che il Satiro andasse collegato‘. 296

p

Fig. 7. Il Satiro in un disegno ricostruttivo (arch. Monica Livadiotti).

Fig. 8. Ricostruzione ipotetica della posizione del Satiro, sulla poppa della nave cui apparteneva (dis. arch. Monica Livadiotti).

Fig. 9. Rilievo Torlonia con nave che entra nel porto di Ostia (Istituto Centrale Catal. Doc. E 36841/36848).

Ammesso pertanto che i due fori al tallone siano dovuti al consumarsi naturale del bronzo, come i tecnici dell'ICR ad un primo sommario esame sarebbero propensi a credere, ma come si saprà solo a pulizia avvenuta, è perlomeno sicuro che quando l'opera fu concepita nella cera fu prevista l'inserzione di un perno al centro dell'arco plantare sinistro. E se dunque l'ipotesi che qui si prospetta coglie nel vero la scultura fu fusa in funzione della sua collocazione sulla poppa di un naviglio. In poche parole ritengo che la nostra statua sulla nave affondata al largo di Capo Bon avesse occupato la stessa posizione e avesse lo stesso significato che aveva la Vittoria sulla nave mercantile raffigurata mentre entra nel porto di Roma nel famoso rilievo Torlonia datato circa il 200 d.C. e conservato nella Collezione omonima? (figg. 9-10). Il nostro Satiro ci avrebbe pertanto conservato un eccezionale e bell'esempio di tutela di nave. Lionel Casson ha tracciato con competenza la storia delle tutelae, vere e proprie statue già dall'età greca classica, e ha redatto un elenco di quelle rutelae di cui ci è pervenuto il nome*. Fra i nomi attestati in connessione con navi da guerra romane c'è anche Satura-Satyra c nota il Casson come in età romana si usarono molto più figure mitologiche e molto meno divinità come sculture legate alla poppa della nave. La Satura (il nome delle navi dalla più alta antichità greca fu sempre e solo femminile) ricordata dal Casson era il nome di una liburna appartenente alla classis Ravennatium circa la metà del I sec. d.C. Ce lo attesta l'epitaffio di un tagliatore di rampini nemici imbarcato su tale nave (dolator) seppellito appunto a Ravenna’. E quanto all'uso in latino del femminile di Satiro e di Sileno il Casson cita Lucrezio 4, 1169. Il Satiro di Mazara, se questa interpretazione è giusta, era quindi la tutela di una nave cui dava il nome e la scelta di una figura così agile stava certo a sottolineare la leggerezza e la velocità di movimento della nave che contraddistingueva, con ogni probabilità, pertanto, non una nave oneraria. Quella affondata nel canale di Sicilia al largo della costa africana non fu forse la liburna del cui 297

10. Dettaglio della fig. 9. 298

equipaggio faceva parte il dolator sepolto a Ravenna, anche se la datazione dell'epigrafe tombale di quest'ultimo potrebbe non farlo escludere; ma fu probabilmente pur sempre una nave da guerra, pronta a saltare sulle onde più agile e veloce di una nave da carico ', D'altronde le tempeste furiose che si scatenano di tanto in tanto nel canale di Sicilia e che, come ben sappiamo dalle fonti, durante ad esempio la prima guerra punica, fecero scomparire fra i flutti intere flotte romane e cartaginesi, non risparmiavano certo le più leggere navi da guerra. E probabilmente proprio con una di queste, colò a picco anche il nostro Satiro incatenato al suo relitto come un capitano senza paura degli abissi. Atene, luglio 1998

PS. 113 marzo 2001 si è tenuto a Mazara del Vallo un Convegno (La statua bronzea del Satiro danzante) in cui sono stati presentati da funzionari tecnici dell ICR i primi dati sul restauro del Satiro; essi non contrastano né con Ja datazione né con le ipotesi qui avanzate tre anni fa. ADV.

Fig. 11 Disegno della nave delle figg. 9-10

NOTE

* Fine del ILinizi del sec. a.C. Da un articolo pubblicato su La Repubblica del 25. 3. 98, Palermo pp. 1 e IV (Oranel lasuoSicilia supaffidi il Satiro a Roma). Lo stesso quotidiano ha dedicato un ampio articolo alla scultura, con belle illustrazioni, Archeologica, Sicilia in segnalazione Breve PANErrA, Ravina M. firma a 154-162, pp. 1998, giugno 5 del Venerdì plemento Il 93.95, 1997 (1998), pp. 9-12 (R. Giglio) ? Con documentazione pertinente da P. Moneo, L'estasi del Satiro, in Archeo luglio 1998, pp. 98-99, ove il pezzo èritenuto un “originale del primo ellenismo": scritto ripreso da E. Satvarosa, in Airone 208, agosto 1998, pp. 20-24 (II Satiro danzava in compagnia). ? Art. cit. à nota 1 εἴν Casson, Ships a. Seamanship in the ancient World, Princeton 1971, pp. 344 ss. Utile la consultazione anche di J. Monauisos]. Coates, The Athenian trireme, Cambridge 1986, p. 144, figg. 38-39, e di L. Basc, Le Musée imaginaire de la marine antique, Athènes 1987, specie pp. 327,339,427, Beg. 698,722,723,923. * 1124 novembre 1998. © Un'altra osservazione è stata fatta: sul tallone è rimasta un'impronta di pochi cmq di un tessuto che potrebbe essere stata lasciata da una vela della nave aderente per secoli almeno al calcagno della statua. volta da G. Menzex negli Annali dellIstiper la prima 7 1. Casson, Ships a. Seamanship, cit. figg. 144,146. Il rilievo, edito Roman Ostia, Oxford 1997), didatuto del 1844, alla p. 3, è stato ripubblicato molte volte. Un esteso commento in1977,R. Micos, p. 47, tav. 16, ed ora LIMC, s.v. Poseidon Scalia alla tav. XX: e si veda anche R. Caiza, [ ritratti, (Sc. DI Ostia IX), Roma 38 efoto sv. Alexandria 83. * L. Casson, Ships, loc cit. la quale dà altra interpretazio* AE. 1967, p. 114 = G. Brastoxn Moxravant, Dolator, in Epigraphica XXVIII, pp. 155-158, ne di dolator. "© Satyra fu anche il nome di una trireme della classis Misenatium attestato da CIL X 3400 a (= X 8210) e X 3456: cr. M. Renpt, Mare nostrum, BEFAR 260, Roma 1986, Appendice I

299

Domenico FALCONE ARCHITETTURA DOMESTICA D'ETÀ ELLENISTICA IN CALABRIA ELEMENTI TECNICI E STRUTTURALI

Le indagini archeologiche compiute negli ultimi decenni hanno permesso di apportare nuove e significative conoscenze al processo evolutivo dell'architettura domestica in Magna Grecia’ tra lultimo quarto dell VIII e la fine del III secolo a.C.

In particolare, per quel che concerne la Calabria, mentre limitati rimangono i dati relativi al periodo arcaico? e classico?, notevolmente accresciute sono le conoscenze sul'architettura domestica

d'età ellenistica (fig. 1).

Va, tuttavia, osservato che tali testimonianze sono spesso riferibili ad esempi isolati: ciò, se da un lato permette una lettura (talvolta parziale) della singola tipologia edilizia, non consente pero di fornire un quadro generale del sistema abitativo di ogni singolo centro‘. 1 dati da noi considerati per quest'ultima età sono certamente connessi con le vicende storiche,

che interessarono l'area geografica in questione a partire dalla metà del IV secolo a.C. , allorché si de‘terminarono nuovi equilibri socio-politico-miltitari tra Greci d'Occidente, Lucani? e Brettii*.

Questi ultimi, come è noto, estesero rapidamente la propria influenza lungo la costa tirrenica, nelle zone interne e, più lentamente, sulla costa ionica, creando una serie di piccoli centri principalmente di tipo rurale. Tali insediamenti erano generalmente edificati su alture e plateaux già occupati durante la tarda età del bronzo/prima età del ferro” o posti a controllo di aree pianeggianti ed alla confluenza di importanti vie di comunicazione per lo più dirette verso l'entroterra*.

Quanto poi all'edilizia privata, la presenza di tipologie abitative eterogenee (case di tipo semplice con annessi ambienti di lavoro, lussuose dimore di notevoli dimensioni riccamente decorate, fattorie isolate) è attestata sia in ambito greco, sia in ambito brettio, sia in ambito lucano”. Nelle pagine seguenti, si prenderanno in esame alcune peculiarità di carattere tecnico, strutturale

Insediamenti 1. acquareesa pd 3. CASTIGLIONE DI PALUDI 34 cosenza 5. choros. 6. RAULONA ΠῚ 8. Loca ενίσεγιμι 9. MONTEGIORDANO 10. mortas. clovaxnt 11. OPPIDO MAMERTINA 12. φατε το DI STILO

13. necor0 caLABRIA 14. 5. DOMENICADI RICADI 15.8. LUO 16:5 MAIRÀ DI RICADI 17. SeRRA cASTELLO 18, senna DiMELLO 19, STRANO DI CAULONIA 20. STRONGOLI-URGE 2L STRONGOLI-PIANETE 22. muni 23. uoto 24, TORRE DEL MORDILLO

Fig. 1. Località della Calabria nelle quali sono presenti testimonianze d'architettura domestica tra la seconda metà del IV e la prima metà del I secolo a.C. 301

Fig. 2. Crotone: abitazione presso l'area "GravinaPignara" (da Caino 1993, p. 38, fig. 1).

Fig. 3. Crotone: abitazione presso l'area "GravinaPignara" ricostruzione assonometrica (disegno dell'autore).

e funzionale concernenti le testimonianze abitative d'età ellenistica presenti nell'odierna Calabria; verranno evidenziati, inoltre, eventuali confronti con tipologie attestate in altre aree del mondo greco. Preliminarmente a tale disamina, però, verrà tracciato un breve quadro dell'evoluzione dell'architettura domestica in tale regione nel periodo compreso tra la seconda metà del IV e la prima metà del I secolo a.C.

ARCHITETTURA DOMESTICA D'ETÀ ELLENISTICA NELL'ODIERNA CALABRIA: LINEAMENTI GENERALI

L'analisi delle testimonianze d'architettura domestica d'età ellenistica presenti all'interno degli impianti urbanistici di tipo regolare delle poleis greche calabresi (principalmente quelli di Crotone, Kaulonia, Locri Epizefiri, Medma, Reggio Calabria e Thurii, ispirati alla concezione d'isonomia urbana, con strade scandite secondo unità modulari costanti, edifici pubblici ed una divisione regolare dei lotti destinati alle abitazioni) ha evidenziato l'esistenza di modelli abitativi diversificati, capaci di rispondere funzionalmente alle esigenze di classi sociali eterogenee. Più precisamente, la tipologia abitativa maggiormente diffusa è la “casa a cortile”, caratterizzata dalla presenza di uno spazio aperto (posto generalmente al centro dell'edificio) attorno al quale si dispongono vari ambienti residenziali e di servizio". Le evidenze archeologiche, altresì, testimoniano la diffusione endemica della "casa a cortile" nelle principali poleis di Grecia (Abdera", Kassope, Olinto'* e Pireo "ἢ, d'Asia Minore (Priene) e di Sicilia (Eraclea Minoa " e Himera "'). Nell'area da noi presa in esame tale tipologia edilizia è attestata a Crotone (aree “Campo Sporti-

vo”, “Banca Popolare Cooperativa"? e “Gravina - Pignara"" — figg. 2, 3), a Kaulonia (insula 1 --

figg. 4, 5, 6%, "casa del drago” e abitazione a Sud di questa ultima’, “proprietà Guarnaccia" 59), a Locri Epizefiri (abitazioni degli

isolati di contrada Pirettina? e degli isolati I2 e I3 di contrada Cento-

camere ) e a Medma (“proprietà Scarano”? e "proprietà Montagnese” *).

Esigui sono i dati concernenti la "casa a pastas": infatti, in solo quattro abitazioni ("casa W" presso l'area “Banca Popolare Cooperativa"? e “casa B" presso l'area "Ospedale Civile" di Crotone**; "insula 1° di Kaulonia*"; "casa dei leoni” di Locri Epizefiri?) è stato individuato tale vano di disimpegno, che collega il cortile agli ambienti residenziali della casa. Una così limitata presenza della pastas, talvolta identificata in maniera problematica ed incerta (come nel caso dell'abitazione della “Cooperativa Licinia", dove viene definita pastas un'area all'interno del cortile coperta da una tettoia 5), potrebbe essere stata dettata dalla necessità d'impiegare diversamente lo spazio funzionale occupato da tale vano. 302

Fig. 4. Kaulonia: insula 1 presso la regione Corelli (da Orsi 1915, tav. VID.

Fig. 5. Kaulonia: insula I, ricostruzione assonometrica (disegno dell'autore).

Fig.6. Kaulonia: insulaI, ricostruzione assonometrica (presenza ipotetica di un piano superiore, disegno dell'autore).

303

A tal proposito è stato osservato dalla Barra Bagnasco che nelle poleis di Occidente l'adozione di “una pianta di tipo più flessibile fosse più adatta, rispetto ad uno schema rigidamente configurato a rispondere alle esigenze di una popolazione di tipo medio basso” *. Emblematici, in tal senso, sono gli esempi attestati a: = Crotone, dove le abitazioni con annessi esercizi artigianali — commerciali delle aree “Campo Sportivo" e “via Tedeschi"* presentano articolazioni planimetriche diversificate, che non prevedevano l'impiego della pastas attestato presso la casa W dell'area "Banca Popolare Cooperativa” e presso la casa B della area dell'Ospedale Civile®; - Kaulonia, dove la planimetria delle case con annesse officine della "proprietà Guarnaccia** presentano un'articolazione degli spazi interni peculiare, mentre il modello della casa a pastas è attestato presso l'insula I della regione Corelli %; — Locri Epizefiri, dove, le case-bottega degli isolati 12-13 di Centocamere, presentano una organizzazione funzionale degli spazi interni legata alle necessità specifiche dei singoli proprietari. In esse non viene utilizzato il modello “a pastas", peraltro noto in città nello stesso periodo, utilizzato per l'ampia e lussuosa “casa dei leoni”. È attestata, infine, seppur limitatamente, la presenza di abitazioni di considerevoli dimensioni,

riccamente decorate e talora articolate su più piani. L'esistenza di edifici di tale genere è ricordata da un'autorevole fonte letteraria, quale Platone, che nel “Protagora”, descrive la casa di Callia*! che trova riscontro tipologico-strutturale con abitazioni presenti in Grecia (Olinto®, Pireo), Asia Minore (Priene“) e Mesopotamia (Dura Europos ©). Nell'area da noi presa in esame gli esempi più significativi di complessi residenziali di considerevoli dimensioni sono rappresentati dalla “casa dei leoni" di Locri Epizefiri**, dalla "casa del drago" e dall'insula 1 di Kaulonia. È interessante evidenziare che l'articolazione planimetrica di quest'ultima abitazione prevede l'ubicazione a nord degli ambienti maschili (andronitis) ed a sud di quelli femminili (gynaikonitis), secondo uno schema descritto da Senofonte” e da Vitruvio". Una planimetria simile è presente in Sicilia, a Morgantina, presso la “casa del magistrato”. In maniera sostanzialmente conforme a quanto è stato osservato per le aree d'influenza greca e lucana, è ravvisabile, all'interno degli impianti urbanistici regolari di tipo greco dei principali centri brettii (Castiglione di Paludi®, Oppido Mamertina® e Torre del Mordillo*), la presenza di un progetto urbanistico predeterminato, che prevede l'esistenza di un reticolo stradale scandito secondo moduli ben definiti e di aree destinate ad edifici pubblici ed a quartieri residenziali: emblematico è il caso di Castiglione di Paludi, dove il teatro c gli edifici pubblici sono ubicati presso l'acropoli, mentre gli edifici privati si trovano nel settore settentrionale dell'abitato *. Per quel che concerne le tipologie edilizie è attestata l'esistenza di modelli abitativi diversificati propri del mondo greco (riscontrati, altresì, come s'è visto, nell'area d'influenza lucana), capaci di rispondere funzionalmente ad esigenze di classi sociali eterogenee: ~a Castiglione di Paludi, dove sono presenti un'abitazione rettangolare con due vani in asse (edificio "II nord") e case a pastas (edifici Ἵ nord" e “III nord"); - ad Oppido Mamertina, dove è attestata la presenza di una casa “a cortile" (edificio I A); - a Torre del Mordillo, dove è attestata la contestuale presenza di abitazioni "a cortile” ("casa 1"*figg. 7, 8 - e casa “Quadrato 34 - Scavo 8”) e di una casa a pastas (casa presso la “trincea 13)" Come è stato evidenziato dal Lombardo, l'acquisizione da parte dell'ethnos brettio di canoni architettonici, artistici e culturali propri del mondo greco, “o forse meglio non distinguibili da quelli riscontrabili nelle città greche contemporanee”, pare essere stata favorita da una situazione socio politica, che avrebbe risentito positivamente di un momento di pace. La particolare conformazione geomorfologica del territorio calabrese‘ sembra non aver costituito un elemento di turbativa per la diffusione di tali canoni nelle aree interne della regione (si pens alla già citata presenza di impianti urbani regolari di abitazioni lussuose di tipo greco in aree particolarmente impervie poste alle pendici dell'Aspromonte - Oppido Mamertina — o sull'altopiano sila304

Fig. 7. Torre del Mordillo: quadrato 23/casa 1 (da CotsuRN 1977, fig. 14).

Fig. 8. Torre del Mordillo: quadrato 23/casa 1, ricostruzione assonometrica (disegno dell'autore).

no - Castiglione di Paludi e Torre del Mordillo-), anche se è possibile ipotizzare che ne abbia ritarda-

to la penetrazione.

Ed anche all'interno degli impianti urbanistici regolari di tipo greco dei principali centri lucani ricadenti nell'odierno territorio amministrativo calabrese (Blanda* e Laos‘), è ravvisabile, sebbene i dati archeologici disponibili siano ancora preliminari o parzialmente editi, l'esistenza di modelli abitativi diversificati, capaci di rispondere funzionalmente ad esigenze di classi sociali eterogenee. Come è stato evidenziato dalla Russo Tagliente “i modelli abitativi riscontrati nell'area d'influenza lucana presentano una più accorta organizzazione degli spazi e, all'esterno, sono sempre provvisti di cortili acciottolati forniti, il più delle volte, di opere di canalizzazione e delimitati da solidi muri in pietra" 9. Particolari tipologie edilizie sono ravvisabili in alcune ricche abitazioni di notevoli dimensioni (che presentano similitudini planimetriche con le ricche case di Delos)*, talvolta dotate di impianti artigianali e produttivi tipici delle abitazioni di tipo rurale. Tl principale esempio è dato dalla “casa della rampa” di Laos®, caratterizzata dalla notevole estensione (oltre 700 mv). Tale abitazione può essere raffrontata con altri edifici presenti in altri importanti centri lucani (“complesso A" di Roccagloriosa” e “casa 1" di Serra di Vaglio”) La presenza di edifici lussuosi dotati di ambienti commerciali e produttivi confermerebbe la ric-

chezza dell'ethinos lucano, di cui è possibile trovare riscontro indiretto sia nelle fonti letterarie”, che nei corredì provenienti dalle necropoli di Pontecagnano, Paestum - Gaudo, Roccagloriosa, Lavello, S. Maria del Cedro”.

È, infine, interessante osservare che peculiarità tipologico - funzionali quali l'articolazione planimetrica basata sulla assialità "fauces - vestibulum — atrium" (riscontrabile nella “casa della rampa” di Laos) e la presenza di oikoi - lararia destinati alla celebrazione di culti religiosi domestici (quale è il lararium della “casa della rampa” di Laos”) paiono trovare riscontro sia nelle fonti letterarie *, che sia nelle testimonianze archeologiche coeve ampiamente attestate in area italica ” (“casa del chirurgo” di Pompei 5; casa della insula IV di Marzabotto ?). Per quel che concerne, infine, l'architettura domestica d'ambito rurale, elementi interessanti sono offerti dalle fattorie presenti nella chora cauloniate (Strano di Caulonia") e locrese (S. Barbara di Mammola), nelle aree d'influenza brettia (Aria del Vento di Acquappesa", S. Maria di Cariati®, Serra Castello" e Serra d'Aiello*) e lucana (Bagni - Menzinaro di Montegiordano - figg. 9, 10** e S. Lucido). L'articolazione planimetrica di tali edifici rurali prevede l'esistenza, accanto agli ambienti residenziali, di numerosi vani di servizio e di lavoro (quali horrea, stabula, elaiotribeia) secondo uno schema tipologico simile a quello della Dema House", della fattoria di Vari in Attica ", delle fattorie 305

della chora metapontina® e della fattoria di Poggio Marcato di Agnone in Sicilia”. MATERIALI E TECNICHE EDILIZIE

Scarsa, nella regione, risulta essere stata la reperibilità di pietra da costruzione, idonea ad essere duttilmente lavorata ed impiegata per le strutture murarie di abitazioni.

Ne sono noti, tuttavia, alcuni esempi - a Castiglione di Paludi, negli edifici "III Nord”, è attestata la presenza di ortostati costituiti da blocchi squadrati di pietra arenaria”. Presso l'edificio “III Nord” è presente uno zoccolo murario”, realizzato in “orditura litica” (altrimenti definita “orditura di ritti” o "opera a telaio")* con ritti parallelepipedi di arenaria alternati a filari orizzontali di pietrame eterogeneo, messo in opera in maniera irregolare. Notevoli sono le afi finità di tale tecnica, ampiamente attestata in area siculo — punica (ad es. a Lilybaeum, Selinunte e SoFig. 9. Montegiordano: fattoria presso località — lunto)*, con l'opus Africanum, di cui autorevoli Bagni-Menzinaro (da Guzzo 1982, p. 325). ‘esempi sono presenti a Dougga ed a Bulla Regia *5; — a Crotone, l'abitazione dell'area "Gravina — Pignara", presenta uno zoccolo murario costituito da blocchi parallelepipedi di arenaria (muro nord — orientale del vano 0)”; — a Laos, presso l'area “Campilongo A”, il muro perimetrale occidentale della “casa della rampa” risulta costituito da blocchi squadrati di conglomerato legati a secco”; ~ a Locri Epizefiri, dove uno dei muri delle abitazioni di località Piani Caruso risulta realizzaFig. 10. Montegiordano: fattoria presso località 1 in blocchi squadrati di calcare locale alternati a

Bagni-Menzinaro ricostruzione assonometriea (di. — flaridi frammenti di tegole e pietrame”.

segno dell'autore). Va ricordato, inoltre, che i muri 3 e 66 dell'abitazione F dell'isolato I2 di Centocamere sono realizzati con ritti di calcare alternati a filari irregolari di ciottoli e di pietra mollis - a Tiriolo, presso l'abitazione indagata dal Ferri in località “Donnu Petru’, il muro perimetrale settentrionale risulta costituito da grossi blocchi di tufo bianco alternati con filari orizzontali di mattoni rettangolari con bordi rialzati (spessore m 0.55), secondo la tecnica dell "orditura litica" 1% - a Torre del Mordillo, dove lo zoccolo murario dell'abitazione indagata all'interno del

“Q.34/Scavo 8" risulta costituito da blocchi squadrati di conglomerato silano "ας, La carenza di pietra da costruzione pare aver favorito, di conseguenza, l'endemico impiego di

materiali edilizi eterogenei per l'edificazione delle strutture di fondazione e di quelle ortostatiche. In gran parte dei siti esaminati (principalmente presso le abitazioni degli isolati I2 e 13 di contrada Centocamere di Locri Epizefiri) 5 sono attestate strutture murarie costituite da ciottoli fluviali o marini di dimensioni variabili, messe in posa in maniera irregolare ed approssimativa. La loro faccia — vista veniva, talora, sbozzata e regolarizzata e gli interstizi esistenti tra i vari ciottoli erano generalmente ostruiti con pietrame, scaglie calcaree, materiali laterizi e scarti di fornace. 306

Meno frequente è, invece, l'impiego di altri materiali qual — l'ammolithos, o pietra mollis, o “parrera”, arenaria particolarmente friabile, quindi poco adatta ad essere lavorata e messa in opera. Il suo impiego è attestato a Locri Epizefiri, presso gli isolati 12-13 ™ ed a Tiriolo presso gli edifici "B-B'" e “N” in località “Donnu Petru" 5. = il granito silano a mica nera, il cui uso è attestato nelle abitazioni di località “Donnu Petru” di Tiriolo "s — la malta cementizia, adoperata presso l'abitazione “IA” di Oppido Mamertina, assieme a pietrame e materiali laterizi per ostruire gli interstizi presenti nello zoccolo murario realizzato con ciottoli fluviali!” — la pietra lavica, impiegata a Kaulonia, presso una delle abitazioni della collina della Piazzetta "* eda Locri Epizefiri, negli isolati 12-13; — il tufo, impiegato a Torre del Mordillo presso il “Q.24/Scavo 2" ed il “Q.29/Scavo 3°!0. Particolare è l'uso, nelle strutture murarie portanti, di filari di spezzoni di tegole piatte: tale tecnica è diffusamente impiegata a Crotone (area “Gravina-Pignara”)'!!, a Kaulonia (abitazioni rinvenute nella “proprietà Zaffino”)", a Laos (area “Galiano A”, muro/US 6)'", a Locri Epizefiri"* ed a Oppido Mamertina (vano 1 dell'abitazione "IA")'5. Un'interessante variante di quest'ultima tecnica è data dall'impiego, sempre nelle strutture murarie portanti, di filari di interi tegoloni a listelli rialzati. I! loro uso è segnalato: ad Acquappesa (muro divisorio tra gli ambienti A e B della fattoria) s - a Crotone (muri Ovest e Sud dell'ambiente 6 dell'abitazione occidentale dell'area “Banca Popolare Cooperativa") 7; ~ a Kaulonia (abitazioni presso il settore meridionale della collina della Piazzetta c presso la "proprietà Gazzera" !!); - a Locri Epizefiri (muro/US 594 della “casa dei leoni") "*; —ad Oppido Mamertina (muro divisorio tra gli ambienti 6 e 7 della casa “IA")"; - diffusamente a Tiriolo "5. I tegoloni garantivano solidità e stabilità per l'impostazione delle strutture d'alzato e di copertura, assicuravano un perfetto isolamento termico (le intercapedini presenti tra i vari filari erano riempite di pietrame e di terra) e consentivano una più agevole stesura dell'intonaco senza l'uso di strati preparatori d'allettamento ?, Tale tecnica edilizia presenta analogie tecnico-strutturali con opere murarie del V-IV sec. a.C. presenti a Cozzo Presepe "* ed a Velia "5 e, in maniera sorprendente, in Mesopotamia presso la Haus II di Babylon **. Per quel che concerne le strutture d'alzatova osservato sia il diffuso impiego di mattoni crudi che l'uso di pietrame eterogeneo di piccole dimensioni. L'uso di mattoni crudi è noto a Castiglione di Paludi (edifici “TI Nord”), a Crotone (area “Gravina-Pignara”)'*, diffusamente a Locri Epizefiri !?, ad Oppido Mamertina (edificio "IA")'? ed a Reggio Calabria (area di “Reggio Lido”). È interessante ricordare che tali mattoni erano talvolta

rafforzati da spezzoni di tegole o da un'intclaiatura lignea: gli esempi principali sono attestati presso l'abitazione occidentale dell'area “Banca Popolare Cooperativa” di Crotone!” e presso la casa “Il A" di Oppido Mamertina '". Strutture d'alzato in ciottoli, attestate sicuramente a Locri Epizefiri (muro perimetrale 64 dell'abitazione F dell'isolato 12 e muro perimetrale 77, comune alle abitazioni G, H e I dell'isolato 13)'* sono probabilmente da mettere in relazione con l'esigenza di conferire maggior solidità a determinate opere murarie e, forse, anche per sorreggere un eventuale piano superiore, analogamente a quello che è stato riscontrato in altre località!”. Va, infine, ricordato che il Guzzo ha ipotizzato per la fattoria di Acquappesa "* l'esistenza di un alzato in legname. Limitato risulta l'impiego di colonne e di pilastri realizzati in pietra, in legno e in mattoni fittili. Le uniche testimonianze pertinenti a colonne litiche sono rappresentati dal capitello dorico e da due fusti di colonna in arenaria dell'edificio "III nord" di Castiglione di Paludi '”, dal capitello dorico 307

e dalle basi di calcare presenti nella pastas c della "casa dei leoni" di Locri Epizefiri™ e dai fusti e dalle basi di colonne in poros rinvenute presso l'edificio “B-B" di Tiriolo!”. L'uso di colonne lignee è stato ipotizzato per il vano 6 della casa della “Cooperativa Licinia" a Crotone ^ e per il vestibolo della “casa 1" di Torre del Mordillo "". Colonne in mattoni fittili centinati (legati tra loro con malta cementizia) sono presenti solamente ἃ Kaulonia (presso la pastas e l'exedra dell'insula 1'* e presso il portico della “casa del drago" “*): esse presentano analogie tipologiche con quelle della “casa del Moralista" e della "casa di T. Proculo" a Pompei '*. Esigue sono le testimonianze di elementi architettonici fittili: gli unici esempi sono rappresentati

da alcune antefisse provenienti dall'edificio "III nord” di Castiglione di Paludi"'*, da Laos (antefisse a testa di sileno) ", dagli isolati I2 e 13 di Locri'^ e da una sima a protome leonina, che ornava l'andron della fattoria di Montegiordano Per le opere di copertura, comune è l'impiego di coppi a sezione semicircolare (kalypteres) e di tegoloni piatti con listelli rialzati (solenes)': questi ultimi presentano, talvolta, opaia, capaci di assicurare una maggiore illuminazione a vani di notevoli dimensioni™. È stato ipotizzato il ricorso a coperture in fasciame di legno perla fattoria di Acquappesa! e per l'abitazione dell'area "Gravina-Pignara" di Crotone. In ambedue i casi risulterebbe singolare l'uso di elementi di copertura lignci, ipotizzato soltanto in considerazione dell'assenza di tegole negli strati di crollo. Ma se per la fattoria di Acquappesa una siffatta copertura può essere verosimile in considerazio-

ne del carattere rurale dell'edificio (anche se, come si è detto filari di tegoloni sono presenti nella

struttura muraria che divide i vani A-B)'*, per la casa crotoniate l'esistenza di un tetto ligneo par-

rebbe non essere in accordo sia con la notevole estensione delle aree coperte della casa, sia con l'uso di tegole impiegate per la costruzione di vaschette nel cortile P e per impermeabilizzare il muro perimetrale sud-occidentale dell'edificio (confinante con un ambitus) '*.

DECORAZIONI PARIETALI E PAVIMENTALI.

Poco attestato è l'uso di elementi decorativi, generalmente destinati agli ambienti più rappresentativi di alcune ricche abitazioni sia d'ambito greco che d'ambito indigeno. Più precisamente, esistono limitate testimonianze di intonaci e di stucchi parietali di colore bianco (Crotone '$, Kaulonia'**, Laos **, Locri Epizefiri'” e Montegiordano

!*), rosso (Kaulonia

'*, Ti-

riolo e Torre del Mordillo '1) e policromi (Locri Epizefiri) ‘2, Limitati sono gli esempi di “decorazioni pavimentali”, riconducibili a tre tipologie: laterizi rivestiti d'intonaco, signino e mosaico policromo.

La prima tipologia è riscontrabile presso l'andron f della “casa dei leoni” di Locri Epizefiri, dove è presente una pavimentazione costituita da tegoloni piatti rivestiti d'intonaco bianco '®. Al centro del vano è presente, inoltre, un sostegno (anch'esso costituito da tegole piatte rivestite d'intonaco), su cui era originariamente collocata una trapeza (o una statua o un louterion). Va ricordato che pavimentazioni in mattoni di terracotta rivestiti d'intonaco bianco sono, inoltre, presenti: — nel cortile A della casa "proprietà Guarnaccia” di Kaulonia ""; — nel cortile dell'abitazione posta a Sud dello stenopos presso contrada Pirettina di Locri Epizefiris

— nel cortile 5 dell’edificio "IA" di Oppido Mamertina '*. La seconda tipologia, quella in opus signinum'™, è attestata:

= nel cortile della “casa del drago" di Kaulonia, in cui la pavimentazione è in opus signinum “a tasselli” ^, costituito da un reticolo di tessere di calcare bianco inserite all'interno di uno strato uniforme di frammenti fittili cementati con malta bianca. Pavimentazioni con disegni simili sono pre308

senti (nel III sec. a.C.) in Sicilia ad Eraclea Minoa'*

ed a Morgantina '"

— nel domation, sempre della “casa del drago”, è stata adoperata una pavimentazione mista: l'emblema centrale, in opus signinum “a tasselli” ΟῚ, è del tutto simile alla pavimentazione del cortile, mentre la soglia gresso è realizzata in opus signinum "à plaquettes"'?, in

cui sono disposte, in maniera irregolare, tessere policro-

me di varie dimensioni in pietra ed in terracotta.

Tale pavimentazione "à plaquettes" presenta notevoli similitudini con esempi presenti, in età romano-re-

pubblicana, in area italica ("casa del tramezzo di legno” e apodyterium delle terme del foro Ercolano e a Roma (case repubblicane sotto le camere a Sud — Est del peristilio rettangolare della Domus Aurea, ed abitazione sotto la chiesa di S. Prudenziana alla Via Urbana)" La terza tipologia, rappresentata dal mosaico poli- Fig. 11. Kaulonia: "casa del drago”, mosaico raffi‘cromo, è nota: gurante un drago marino (da Pisapia 1987, fig. 1). = presso la casa a Nord della strada 5 di Laos, dove è stata segnalata, l'esistenza di un frammento di mosaico in opus tessellatum τ; — nell'andron della “casa del drago” di Kaulonia, dove è una soglia in opus tessellatum policromo raffigurante un drago marino (fig. 11), i cui contorni sono delineati mediante lamine di piombo e frustuli di terracotta dipinta ὅς Passando ad un'analisi più dettagliata della “soglia del drago”, va evidenziato che essa risulta inserita in una fascia di cocciopesto rosso, che corre lungo le pareti del vano. Una cornice decorata da un motivo ad onde” costituisce l'elemento di raccordo tra la fascia in cocciopesto e il litostrato centrale. Questo ultimo, in opus tessellatum, è costituito da undici moduli rettangolari, ognuno dei quali

risulta composto da tessere policrome in pietra ed in terracotta". Va rilevato che interessanti analogie emergono dal confronto della planimetria della “casa del drago” (fig. 12) con una delle più importanti testimonianze di abitazioni di lusso attestate nella Grecia d'età classica: la “villa della buona fortuna” di Olinto (fig. 13)!”. Si può osservare, infatti, la corrispondenza dell'ubicazione di gran parte dei vani (principalmente quella dell'andron e del domation)'* rispetto al cortile centrale, che, in ambedue i casi, era delimitato da un portico colonnato. Analogamente a quel che si è osservato nella “casa del drago”, anche nella “villa della buona fortuna" sono presenti mosaici pavimentali nell'andron (litostrato centrale e soglia in ciottoli policromi, raffiguranti rispettivamente il trionfo di Dioniso e due Pani affrontati) e nell'anticamera di collegamento tra lo stesso vano e il portico. Nell’anticamera, in particolare, è presente un mosaico in ciottoli policromi con la raffigurazione della consegna delle armi ad Achille da parte di Teti accompagnata da un corteo di Nereidi su draghi marini (fig. 14)!" Pare opportuno evidenziare che i due draghi dalla coda bifida del mosaico di Olinto, databili all'ultimo quarto del VI secolo a.C.', potrebbero costituire un importante antecedente del motivo figurativo della “soglia del drago”, che, invece, è stato considerato quale prima rappresentazione di un soggetto del tutto nuovo nel repertorio dei mostri marini". Si osservi, inoltre, che, in età ellenistica, è noto un altro mosaico raffigurante un drago marino: ad Arpi, in una casa di contrada Menga '**.. E se è pur vero che le valenze principali degli esseri fantastici sono di carattere protettivo, apotropaico ed ultraterreno", è altrettanto vero, come è stato evidenziato dal Pesando per i mosaici presenti nella “villa della buona fortuna”, che essi fanno parte di un complesso di rappresentazioni, che “esprimono molto chiaramente valori cari al mondo aristocratico” ^ 309

Fig. 12. Kaulonia: “casa del drago” (da Prsmm 1987, fig. 1).

Fig. 13. Olinto: "villa della buona fortuna" (da RopinSON, GRAHAM 1988,pl. 84) Pertanto, se è attribuibile "alla soglia del drago” una valenza apotropaica, è anche ipotizzabile che tale immagine sia stata voluta dal

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proprietario della ricca casa cauloniate quale elemento distintivo per indicare la sua apparte-

nenza all'aristocrazia legata, forse (vista la vici-

nanza della stessa abitazione alla porta marina. e vista la natura stessa del soggetto della rapVIISITTITIFITTITY eas presentazione), al commercio marittimo. In conclusione, il richiamo, probabilmente Fig. 14. Olinto: “villa della buona fortuna", mosaico casuale, per la "casa del drago" allo schema raffigurante Achille, Teti e Nereidi su draghi marini planimetrico della "villa della buona fortuna" (da Rosinson, MyLonas 1946, pl. ID) conferma ulteriormente la diffusione in Occidente di tipologie abitative proprie della Grecia. continentale '* ed evidenzia la piena rispondenza funzionale sia che esse vengano attestate in ambito urbano (“casa del drago"), sia che vengano impiegate in ambito rurale ("villa della buona fortuna"). APPROWVIGIONAMENTO, DISTRIBUZIONE E SMALTIMENTO DELLE ACQUE

Benché la Calabria, grazie alla sua particolare conformazione geomorfologica, abbia sempre posseduto notevoli risorse idriche '8, non è, tuttavia, attestata per tutta l'antichità, la presenza di canalizzazioni, che potessero convogliare verso le abitazioni le acque provenienti da sorgenti montane o da fiumi o da altri invasamenti naturali. In considerazione di ciò è ipotizzabile che, analogamente a quello che è stato evidenziato dalla Barra Bagnasco per Locri Epizefiri e per gran parte del mondo greco d'Occidente, l'approvvigionamento idrico fosse "un problema lasciato ai privati, i quali si recavano ad attingere l'acqua alle sorgenti o, in presenza di falde, scavavano pozzi nei lotti di loro proprietà”®. Va, tuttavia, ricordato che proprio a Locri Epizefiri, tra il V ed il I secolo a.C., sono in funzione

complesse condutture idriche costituite da tubi cilindrici fittili. La loro presenza è attestata presso la torre di Parapezza (a poca distanza dal tempio ionico di Marasa), presso la cosiddetta “grotta del310

l'imperatore” di Vallone Saitta (identificabile come luogo di culto della ninfa eponima/fonte Lokria) Quest'ultimo, oltre ad una valenza cultuale, ebbe certamente quella di approwigionamento idrico per le abitazioni presenti nella limitrofa località di Piani Caruso, tra la metà del V e la fine del IV secolo a.C. Per quel che concerne l'edilizia privata si osservi che tubature in terracotta, generalmente collee, soprattutto, presso il ninfeo di Grotta Caruso".

gate a cisterne e pozzi ubicati nei cortili, sono present

— a Castiglione di Paludi, presso l'“edificio III Nor — a Kaulonia, presso la “casa del drago" e presso l'abitazione posta Sud di quest'ultima **; a Locri Epizefiri, presso l'edificio B dell'isolato I2 "5 e presso la “casa dei leoni" "s; —a Torre del Mordillo, presso la “casa 1" e la casa della “trincea 13"!”: singolare è la similitudine dell'impianto idrico presente în quest'ultima abitazione con quelli della “casa della cisterna ad arco" ** e della “casa di Ganimede” a Morgantina '*. Tali condutture consentivano il deflusso delle acque dei balaneia, talvolta dotati di vasche fittili “a sedile"κα, La presenza di vasche, simili a quelle presenti già nel V sec. a. C. în numerose abitazioni di Olinto?", è attestata:

= presso l'edificio “III nord" di Castiglione di Paludi*®; — nelle abitazioni della regione Corelli ® e nel vano I dell'insula I di Kaulonia?*; = nell'ambiente i della “casa dei leoni” a Locri Epizefiri*; — nel vano 3 della “casa 1”? e nel vano B della casa presso la “trincea 13"?", a Torre del Mordillo. È interessante, infine, segnalare l'esistenza di aphodoi, anche esse collegate a condutture, che consentivano lo smaltimento delle acque reflue all'esterno delle abitazioni presso ambitus e spazi aperti La loro presenza è attestata: _ a Kaulonia, nell'abitazione a Sud della “casa del drago'?* e nella casa presso la “proprietà Guarnaccia" "*;

— a Laos, nella "casa della rampa" 2%; a Locri Epizefiri, nella “casa dei leoni"?; - ad Oppido Mamertina, nell'edificio "IA"*; =a Torre del Mordillo, nella casa della “trincea 13°?"

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

1 dati emersi dall'analisi delle peculiarità tecnico-strutturali delle abitazioni d'età ellenistica della odierna Calabria paiono sostanzialmente non discostarsi da quelli riscontrati in altre arce del mondo greco. Innegabile è una minor disponibilità di dati rispetto a quelli provenienti, ad esempio, dalla vicina Sicilia?*, da addebitare sia ad ancor limitate indagini archeologiche sistematiche, sia alla particolare conformazione geomorfologica del territorio calabrese. Tuttavia, proprio la conformazione geomorfologica pare aver rallentato, ma non impedito la diffusione di elementi architettonici, artistici ed artigianali propri delle poleis costiere nelle arce interne poste sotto l'influenza brettia e lucana" Ulteriori elementi di conoscenza della diffusione dei canoni e delle tipologie architettonico-artisticoartigianali potrebbero venire dall'analisi della funzionalità degli spazi interni delle abitazioni. Più precisamente, si è potuto osservare che l'articolazione funzionale degli spazi interni delle abitazioni greche ed indigene d'età ellenistica, riportate in luce nell'area presa in esame, risulta legata a fattori socio-economici individuabili sia attraverso le fonti letterarie che attraverso le evidenze archeologiche?*. 311

Sono proprio fattori socio-economici ad aver condizionato le dimensioni dell'abitazione, la cui planimetria, in base alla ricchezza ed alla grandezza del nucleo familiare, prevedeva una serie di ambienti disposti attorno ad un cortile centrale. Tl numero dei vani variava, generalmente, da cinque a sette, anche se in alcuni casi poteva essere superiore: — edifici “I Nord"*" e “ITI Nord”?! di Castiglione di Paludi; — casa presso l'area "G.V. Gravina - ignara”?! di Crotone; — insula ™, "casa del drago"?! e casa "proprietà Guarnaccia" ?? di Kaulonia; — “casa della rampa"? di Laos, — “casa Sud” di contrada Pirettina®, case A**, C** D?" dell'isolato I2, casa F?*, G2 dell'isolato 13 e “casa dei leoni** di Locri Epizefiri — case "LA" e IL A" di Oppido Mamertina?! ; —casa della “trincea 13”?! di Torre del Mordillo. Va, inoltre, osservato che il numero degli ambienti poteva risultare maggiore in base alla presenza di un piano superiore, la cui esistenza è stata ipotizzata per la insula I di Kaulonia, per la “casa della rampa” di Laos?"; per la case A?*, B** dello isolato I2 di Centocamere e per la “casa dei leoni" di Locri Epizefiri^*. È interessante evidenziare che le grandi dimensioni di una abitazione in ambiente rurale paiono

essere determinate dall'esigenza di organizzare le attività necessarie alla sopravvivenza di un nucleo agricolo economicamente e produttivamente indipendente. Analizzando l'articolazione planimetrica della fattoria di Bagni Menzinaro di Montegiordano, si evidenzia l'esistenza di un cortile attorno al quale erano ubicati, oltre agli ambienti residenziali, nu-

merosi vani di servizio e di lavoro (quali elaiotribeia, horrea, stabula) secondo uno schema tipologico simile a quello della Dema House?”, della fattoria di Vari in Attica?*, delle fattorie di Kastoria®® e di Vrastia? in Macedonia, di Maroneia in Tracia, della fattoria Strzheletskii*" nel Chersoneso, ed anche a quello delle fattorie siciliane dell'entroterra gelese?? e camarinese?*, di Monte Adranone di Sambuca di Sicilia? e di Poggio Marcato di Agnone di Licata” Ulteriori fattori socio-economici, che paiono aver influenzato l'organizzazione funzionale degli spazi abitativi, sono, inoltre, ravvisabili nella presenza: — di vani destinati a lavori domestici e ad attività commerciali?”, dei quali sono presenti esempi sia in area greca (abitazioni delle aree “via Tedeschi” "Gravina-Pignara"? a Crotone; case della collina della Piazzetta?” e casa "proprietà Guarnaccia"* di Kaulonia; isolati H1-H5?% e 12-139 di Centocamere e “casa dei leoni”* di Locri Epizefiri), che in area indigena (edifici "I Nord"?* e "IIT Nord”* di Castiglione di Paludi; “casa della rampa” di Laos*”; fattoria di Montegiordano; edificio “B-B'”: di Tiriolo; "casa 1"? e casa della “trincea 13” di Torre del Mordillo); = di ambienti esclusivamente maschili distinti da altri femminili. I principali esempi di vani maschili sono rappresentati dall'andron e dall'exedra dell'insula 1* e dall'andron e dal domation della “casa del drago” di Kaulonia®*; dallo andron della “casa della rampa” di Laos?*; dall'andron della casa dei leoni di Locri Epizefiri*; dall'andron, dall'exedra e dai domatia della fattoria di Montegiordano*. Le testimonianze di vani femminili sono dati dai gynaikonitides (complessi costituiti, generalmente, da magheireia con focolari e, talvolta, con telai ‘la presenza dei quali può essere riscontrata in base al rinvenimento di pesi fittili-) dell'insula I di Kaulonia *, delle case A, B e G degli isolati I2 e 13 di Locri Epizefiri**, della “casa Cimitero” di Medma ? e della casa presso la trincea 13 di Torre del Mordillo=9; ~ di oikoi destinati alla celebrazione di culti religiosi domestici. La loro presenza, che trova confronto con i lararia delle abitazioni italiche e romane è attestata presso la “casa della rampa” di Laos, e presso la "casa del drago” di Locri Epizefiri ^; — di stanze per gli schiavi. Thyroreia sono stati individuati nell'insula I di Kaulonia”", nella “casa della rampa” di Laos?", nella casa C? dell'isolato I2 e nella “casa dei leoni" di Locri Epizefiri™, L'analisi comparativa dei fattori socio-economici e delle peculiarità tipologico-funzionali non 312

permette d'individuare, nell'area presa in esame, la esistenza di una “casa-tipo”, che sia attestata con sufficiente c costante regolarità. Ne deriva, quindi, în uno stesso ambito geografico e cronologico, la coesistenza di costruzioni dalle peculiarità planimetriche differenziate, in conseguenza di diverse esigenze (anche esse d'ordine socioeconomico)”, che paiono aver influenzato la scelta di determinate tipologie a scapito di altre. Tuttavia, l'analisi dei fattori socio-economici ha apportato interessanti contributi alla conoscenza dei rapporti esistenti tra architettura domestica e uso funzionale degli spazi interni nelle realtà greche ed indigene presenti in Calabria in età ellenistica. In tale prospettiva una più approfondita conoscenza di tali rapporti potrà venire dalla pubblicazione di dati archeologici a tutt'oggi editi in maniera preliminare o incompleta. L'acquisizione di nuovi elementi sulla distribuzione degli spazi interni, sui rapporti funzionali tra i singoli ambienti, sull'individuazione delle aree coperte e scoperte potrà consentire di identificare i vari moduli organizzativi secondo i quali si svolgeva la vita dei singoli nuclei sociali e di individuare la connessione esistente tra unità sociale (famiglia) che costruisce la casa e le connotazioni tecnico-

strutturali della casa stessa.

NOTE

* Perun quadro generale s vedano: M. Bass Bacwasco, Fdiliza privata in Magna Grecia: modell abitativi dall'età arcaica allellenismo, in Aa. V, Magna Grecia. Art c artigianato, Milano 1990, pp.49-79; Fab. Edilizia privata ed impianti produttivi ur bani, în AAW, 1 Greci in Occidente, Milano 1996, pp. 353-360; Ea». La casa in Magna Grecia, in F. D'Avbius, K. Mannino (a cura di), Ricerche sulla casa in Magna Grecia e in Sicilia (At del colloquio, Lecce, 23:24 Giugno 1992), Galatina 1996, pp. 41-66, Ὁ Tali dati provengono, soprattutto, dagli Stombi di Sibari, da S. Nicola di Amendolara e dal Timpone della Mota di Francavilla Marittima. Si veda:P. G. Guzzo, Sibari. Materiali per un bilancio archeologico, in ACT 1992, pp. 51-82 (vi bibiliografia precedente). ? Le testimonianze più significative sono quelle provenienti da Medma. Si vedano: M. Paotern-S, Serns (edd), Medma e suo teritorio. Materiali per una carta archeologica, Bari 1981; M. PaouerreM. C. Panna, Nuove ricerche sull'bitat di Media Saggi a Rosarno (lo. "Plan dell Vigne") 1984, in RSC 6, 1985, pp. 217-229, * Per [eth arcaica sono state indicate le coordinate generali del sistema abitativo degli Stombi di Sibari (D. Fusano, Note di architettura domestica greca nel periodo tardo geometrico e arcaico. in DArch, n.54, 1, 1982, p. 26, fg. 36;P. G. Guzzo, SibaTi cit. pp. 57-60) e di S. Nicola di Amendolara (J. DE La Gextexs-A. Nicxets, Amendolara (Cosenza). Scavi 1969-73 a S.Nicola, in NSA 1975, pp. 438-458; D. Fusano, art. cit, pp. 2-26, fig. 37), mentre per l'età classica quell ἀεὶ sistema abitativo di Meda (cfr. supra nota S; R. AcoSTtINO, Medma: rinvenimento di una strada lastricata in un'area urbana, in ASCL LVI, 1989, pp. 29) Per l'età ellenistica sono note le coordinate degli impianti urbanistici delle poles di Crotone (R. Sraora, La Topografia, in ACT 1983, pp. 119-165), Kaulonia (M. T. LowenttS. Ruza, Kaulonia. Indagini ed ipotesi sull'impianto urbano d'età ellenistica alla luce delle più recenti campagne di scavo, in RSC 6, 1985, pp. 281-316), Locri Epizefir (M. Bara Baonasco(a cura di), Locri Epicfiri I. Gli isola I2 [5 dellarea di Centocamere, Firenze 1989; Ea. (a cura di) Locri Epizfiri IV. Il sacello tardo ‘arcaico e la casa dei leoni, Firenze 1992) Thurii (P. G. Guzzo, rt; cit, pp. 51-82),de centri brettidi Castiglione di Palu Paludi, in AAW, La Sila Greca. Guida turistica generale della Comunità Montana Sila Greca Rossano, Catanzaro 1987, pp. 162-175), Oppido Mamertina (P. Visonà, Gli scavi americani a contrada Mella, Oppido Mamertina, 1987-1991: risultati e prospetive, in Klearchos XXXII, 1990, pp. 69.94), Tirolo (R. Stadea, Nuove ricerche sul territorio del'ger Teuranus, in Klearchos XIX, 1977, pp.123-158), Torre del Moruillo (O. C. Cotwuns, Torre del Mordill (Cosenza). Scavi egli anni 1963, 1966 e 1967, in NSA 1977, pp. 423-526) e del centro lucano di Laos (Aa Wv., Laos I Scavi a Marcellina 1973-1985, Taranto 1989). * Tali gent, d'origine sannita (Strab. VI 1,3; Pin. NI, TI, ΤΙ), si insediarono (secondo la testimonianza di Strabone Strab. VI, 1, 4-) "in un luogo di varie comunità indigene, in un ampio territorio che abbraccia tutta l'odierna Basilicata (ad esclusione delle sue frange più orientali, specie a Nord), l fascia tirrenica tra Sele © Lao, la costa ionica da Metaponto a Thourior" (A. Borns, I Lucani, in As Vv. Magna Grecia. Lo sviluppo politico, sociale ed economico, Milano 1991 p. 259). Per l'evoluzione delle vicende strico-poliico.economico sociali dell'in lucano, si confrontiA. Bor, ar: it, pp. 259-280) * L'epifania dei Betti come ethnos (359-356 a.C), è attestata in font storiche atendibili Diodoro (XVI, 15,1) ricorda i Bret come una moltitudine formata di persone i varia provenienza e per la maggior parte schiavi fuggiaschi, dediti ad ati vith predatorie. Strabone (VI, 1, 4) li presenta come pastori soggetti ai Lucani ad a questi ribllatisi. La massa eterogenea, per Jo più schiavi fuggitivi, provenienti da ogni part, staccatisi dai lucani, diede via alla confederazione bretia. Per l'evoluzione delle vicende storico-politico-economico-scialidelfthnos bretio s confrontino: P G. Guzzo, 1 retti. Storia e archeologia della Calabria preromana, Milano 1989; Id, incontro con i Brett, in AXVV., Greci in Occidente, Milano 1996, pp. 559-562. pp. 559.562. 7 Tale fenomeno è attestato a Castiglione di Paludi (P. G. Guzzo, Paludi(Cosenza): località Castiglione. Necropoli dell'età 313

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del ferro, in Klearchos XVII, 1975, pp. 99-177), a Oppido Mamertina (P. Visor, art. it.), a Serra Castello (P. G. Guzzo, Sibari, cit, p.70), a Tiriolo(R. Seat, Nuove ricerche ci.) ed a Torredel Mordillo(O. C. Coraut,a cit). * Per un quadro generale si controntino: G. P. GiviiaNo, Sistemi di comunicazione e topografia degli insediamenti di età greca nella Brettia, Cosenza 1978; In, Percorsi e strade, in As Vv, Storia della Calabria, 2. Età italica e romana, Roma-Reggio Calabria 1994,pp. 260-298. P. G. Guzzo, Archeologia dell città ialiote, costruzioni private, in Storia dell Calabria 1, pp.497.501. * Per un quadro generale si veda: D. MERrEns-E. Greco, Urbanistica della Magna Grecia, in 1 Greci in Occidente, cit, pp 243-263. ? La planimetria di tli abitazioni si richiama a quella della casa di Eufileto, descritta da Lisia, nell'orazione “per luc sione di Eratostene” (Lys. 1, 9-14; 17; 22-23), ! W. Homma. L. SckwaxpeR, Haus und Stadt in Klassichen Griechenland, München 1994, abb. 176-177. ? W. Hormux-E. L. ScnwaxpweR,op. cit. abb. 136 (abitazioni 1, 3,6, 14). ? D. M. Ronnisos-J. W. Grams, Excavations at Olynthus, VIII. The Hellenic House. A Study of the Houses found at Olynthus with a detailed account of those excavated in 1931 and 1934, Baltimore 1938; D. M. Ronson, Excavations at Obynthus XII. Domestic and Public Architecture, Baltimore 1946; W. Horrsma-E. L. SCHWANDNER, op. ci, abb. 60-69, 89 (abitazioni presenti negli isolati A V, A VI, A VIII, B VD. ^5 W. Hopman B. L. ScimanpiR,op. cit, abb. 20 (abit zioni3, 5, 8). τ W. Hormar-E, L. ScawanDweR, op. cit, abb. 198. ? E. De Mino, Heraclea Minoa. Scavi eseguiti negli anni 1955-56-57, in NSA 1958, pp. 232-287. ? R Spapea, La topografia, cit, p. 155. © cfr, supra, nota 19. » A. Racutui, Lo scavo nell'area della “Banca Popolare Cooperativa" via Panella, in Ak Vv. Crotonee la sua storia tra IV e III secolo a.C, Napoli 1993, pp. 51-80. #1 M. G. Cino, Lo scavo dell'area "G.V.Gravina-Pignara" a Crotone: risultati preliminari, in Crotone e la sua storia, cit, pp. 32a. 7! P. Ost, Caulonia. Campagne archeologiche del 1912, 1913 e 1915, in MAL, suppl., 1915, col. 806-827. » M.T. Iannis, Kaulonia e l'organizzazione urbana ellenica, in Aa.W., Roccella Jonica. Storia degli insediamenti ed evoluzione urbanistica, Roccella Jonica 1985, pp. 30-51;M. T. lawe1-S, Rizzi, art. cit, pp. 305-306; M. S. Pisae, La casa del drago ἃ Caulonia, in Klearchos XXIX, 1987, pp. 7.15, 7 M. T IANNBLLS, ar cit,p. 45;M. T. Immenu-S. Rizzi, ar. cit. pp. 292-293. 7 L. Costautaana-C. Sanzione, Una città in Magna Grecia. Locri Bpiefiri, Reggio Calabria 1990, p. 252. » M. Banka Bacwasco (a cura di), Locri Epizefiri I, cit. pp. 15-32. ? M. Paotermi-S. Serns (edd), Medma e il suo territorio. cit.pp. 98-106. » M. Pater- M. C. Para,art. cit. pp.217-224. > A Racittt,art cit, pp. 51-55. » E. Lattanzi, L'attività archeologica in Calabria, in ACT 1992, pp. 799.800. » P. Orst op. cit, coll. 806-827. ® M. Banka Bacwasco (a cura di), Locri Epizefiri IV. it. ® R Stava,La topografia, cit,p. 155. » M. Barra Bacnasco, La casa in Magna Grecia, cit, p. 66. 7 R. Senza, La topografia it, pp. 163-164. » R. Stara, La topografia it, pp. 112, 155-156, 163-164, 245,405. 7 A Racist art. cit pp. 51-55. ? cfr supra, nota 80. » cfr supra, nota 24. ^* P. Orsi, op. cit col. 806 - 827; M. T Inxzttsart. cit, p.41;M. T. Iove S. Rizzi, at cit, pp. 288-289. Ὁ Plato, Prot. 3, 314, 316 al. 2 W. Ἠδνενεα—E. L. ScHwaNDNER, op. cit, abb. 87 (case A V 6.8). “© W. HoreNeR— E. L. SciwanbvER,op. cit, abb. 17 (casa 6). ^ W. Hormver E. L. Scuvanpses, op. cit, abb. 218 (casa33) + W. Hormven- E. L. Scuwaxowe, op. cit, abb. 262 (Haus agora ΟἹ - B). eft. supra, nota 32 © MT. lawnsart cit, pp. 41 - 42; M. T. Tanne S. Rizzi, art. cit, pp.305 - 306. 4 P. Ossiop. cit, coll. 806-827;M. T. Tans,art. cit,p.41; M. T. Iawwenu— S. Riza, art. cit,pp. 288-289. ? Memor.HI, 8, 22. 7? De Arch, VIT. © B. Tencsots, The Domestic Architecture of Morgantina in the Hellenistic and Roman Period, Ann Arbor 1984. © S; Lorem, at. cit, pp. 167- 175. » P. ψιβονὰ, art. cit. pp. 69 - 84. * Ὁ.C. Corsuns,ar cit. 5. efe supra, nota 52. E, Lattanzi, Attività della Soprintendenza Archeologica della Calabria, 1987, in Klearchos XXIX, 1987, pp. 99-111. 9 cfr. supra, nota 53. 314

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* 0. C. Cornu,art cit, pp. 431-432. ? Q. C Cossu art. cit, p.437 “ Ὁ. Ὁ Coca, art. cit; pp. 444-451 * M. Loumano, L'organizzazione ei rapporti economici sociali dei Brett, in G. De Sti Sestrto - M. INTRERI A. Zuvno (acura di) Brett. Atti del 1* corso seminariale (Rossano 20, 26 Febbraio 1992), II, Soveria Mannelli 1995 pp. 120-121. © G. Poousse Carnate, I Bret, Magna Grecia, Lo sviluppo politico, ct, pp. 281-294. © cfr supra, nota 8. fr supra, nota 63. * AR, Nuove testimonianze di archeologia calabrese. Greci, indigeni nell'alto treno cosentino, Roma 1995, p.41 © AXWv, Laos I it. ^ A. Russo Tote, Edilizia Domestica in Apulia e Lucania. Ellnizzazione e società nella tipologia abitativa indigena tra ΨΗΙ e LI secolo a.C., Galatina 1992, pp. 196 - 197. ^ Pa, Bruneat-Ducar, Guide a Delos, Athenes 1965. © Mv, Nuove testimonianze di archeologia calabrese, pp. 51-52. 7 An Vv, Roccagloriosa I. L'abitatoe ricognizione topografica (1976-86), Napoli 1990, pp. 4-108 7! G. Greco, Per una definizione dell'architettura domestica di Serra di Vaglio, Ricerche sulla casa, cit, pp. 255-300. 5 Diod. Sic’ XIV, 101; Herod. VI, 21. ? A. Born,art cit, pp. 259-280. δι cre. supra, nota 71. 7 cre, supra, nota 71 τι Vitru». De Arch. VI, 7; Petron. Coena Trimalchionis. Su tali problematiche si confrontino: E. DE AraewiIs, La casa dei romani, Milano 1991, pp. 71-89; J. R. Cuunxs, The Houses9 E.of DeRoman A.D. Ritual, space and decoration, Berkeley 1993, pp. 1-30. Aui,Italy op.100 it,B.C-250 Milano 1991, fig. 14. E. Ds Arsexats, op. it, fig. 12. ? Santon,sv. Caulonia -2, in BTCGIV, 1987,p. 184 © R. Fupa, Un didrammo punico del Museo Nazionale di Reggio Calabria, in Klearchos XXI, 1979, pp. 107-108 © P. G. Gozzo, Acquappesa. Loc. Aria del Vento. Cosenza. Scavo di una struttura di epoca ellenistica, in NSA 1978, pp. 465479. © S, Lueemo, Carati, in Sila Greca,cit, pp. 118-119. % BG. Guzzo, Sibari, cit, p.70. A. Russo Tacciere, op. cit, pp. 196, 214, 263 % S, Lurmno, Calabria. Montegiordano, Cosenza, in SE XLIX, 1981, pp. 495-496 © A B. Suwoiwero, L'area di S Lucido, in MV, Temesa il suo territorio, Taranto 1982, pp. 67.68. 8 E Jowes, Two Attic Country Houses, in AAA 7, 1974, pp. 303-312. “ΤῈ Jowes, A.J. Grana, L. M. Sacxerr, An Attic Country House below the Cave of Pan at Vari, in ABSA 68, 1973, pp. 355452. » 1 C. Carter, Agricoltura e pastoricia in Magna Grecia (tra Bradano e Basento), in Magna Grecia 1990, pp. 173-212; τς, Insediamenti agricoli, in I Greci in Occidente, cit, pp. 361-368. ΞΜ. Bagna Buousco, Poggio Marcato di Agnone (Licata), Scavo 1989, in QuadMess 4, 1989, pp. 85-99. ? cfr. supra, nota 52. % ch supra, nota 58 » Per la definizione e perle peculiari tecnico strutturali: R. Orsouves-R. Maxmx, Dictionnaire méthodiguede l'rchitcture, grecquee romaine, I. Materia, techniques de construction, techniques et formes du decor, Rome 1985, p.97 "fr. supra, nota 96. * R. Gimouves-R. Mum,op. cit.pl. 261 ? M.G. Chao, ari cit. p. 43. ? AVV, Loos I cit, p. 14. 7 PLE. Ans, Locri (Piani Caruso). Scavidi case antiche, in NSc 1947,p. 167. "© M. Banna Buovisco (a cura d Lori Epizft IL, pp. 2-27. 7" S. Fen, Tiriolo. Trovamenti fti sage di scavo, in NSc 1927, pp. 336-358. κε 0. C. CoLauRN,art cit,p. 437. 7? Per un quadro più dettagliato si confronti: M. Bass Bicxasco (a cura di), Locri Epiefr I. cit, pp. 349-364 (tabb. 121) 79 M. Barua Bacxasco (a cura di) Locî Epiefr I, cit, p. 357 (muro 6a della casa C; muri 57e 66 della casa F; muro 104 della casa) "e R Spapea, Nuove ricerche, cit, pp. 143-146, 149-150. ?* S. Fetnt ari ct, pp. 336-358. © P.Visond, art cit, p.79, fig, 11 b. ?* P.Onsi op. cit, coll 61.64 79 M, Baia Brouisco (a cura di) Locri Episefir IL. cit, pp. 49-352 (muri 2, 4 e 9 della casa A; muri 4 e 14 della casa By muri 1e 44 della casa C; muri 3, 51 e 55 della casa D; muri 77, 79 e 80 della casa G; muri 77, 80 e 100 e della casa H) "0. C. Cousurs,a. ct, p. 433, 315

τὲ M. G. Ciano, art. cit. pd. è E. Touasetto, Monasterace Marina (Reggio Calabria). Scavi presso il tempio di Punta Stilo, NSc 1972, pp. 638-643. 1 Ax Vv, Laos. cit,p. 101. ?* Per la presenza diffusa di tali strutture all'interno di tutte le abitazioni degli isolati 12 e I3 si veda: M. Bassa Bacxasco (a cura di), Locri Fpizefiri I. cit, p. 8. WY P. Visonà,art. cit. p. 70. us P. G. Guzzo, Acquappesa, cit., pp. 466-468. ?* A, RAcuELL, at. cit.p. 58. ?" P. Ors, op. it, coll. 67-68, fig. 29. ?* MT. TANNELLES. Rizi, art. cit, p. 292. v M. Barra Bagnasco, La casa in Magna Grecia, citpp. 55-56, figg. 7,9. ti P. Visowh, art. cit, p. 80, fig. 12. 72 S, Fran, art cit, pp. 336-339;R. SPanza 1977, Nuove ricerche, cit, pp. 142-145. 1 efr. supra, nota 107. 7?» J, P. Monzt, Fouilles à Cozzo Presepe, près de Metaponte, in MEFRA 82, 1970, p. 73-116. 75 W, Scanio, Velia in Lucanien, in IDAI IV, 1889, p.184 7» W. HoPrsss-E. L. SCHWANDNER, op. cit, abb. 285. © off. supra, nota 52. © M.G. Cino, ar. cit, pp. 43-4. 7» M. Bina BAcNasco, Documenti di architettura minore in età ellenistica a Locri Epizeiri, in N. Bonacasa, A. DI Vita (edd), Alessandria e il mondo ellenistico-romano. Studi in onore di A. Adriani, 3, Roma, 1984, p. 514 (ivi bibliografia precedente sul problema dell'impiego di intelaiature lignee per le strutture d'alzato) 7» P. VisoxA, ar. cit. pp. 73-75. ? A. M. Ακρονινο, Edifici ellenitici e romani ed assetto territoriale a nord-ovest delle mura di Reggio, in Klearchos XX, 1978, pp. 77-83, "5 A. Racueu,art cit, p. 59, © P. Visonà, art cit, pp. 80-81. 1 M. Banka Bacwisco (a cura di), Locri Epizefr IL, cit, pp. 25, 28. 1» L'esempio principale è riscontrabile presso l'abitato a W dell'Olympieion di Agrigento (E. Ds Mio, La casa greca in Sicilia. Testimonianze nella Sicilia centrale dal VI al III secolo a.C., in AAVi., Φιλίας χάριν. Miscellanea di studi in onore di E. Manni, Roma 1979, pp. 711-715). 1 P.G. Guzzo, Acquappesa, cit, p. 469, 1 cfr. supra, nota 58. 1 M. Bara Bacnasco (a cura di), Locri Epiefiri IV., p.34. ?» R. SPapea, Nuove ricerche, cit, pp. 143-146. uo C, Sasmione, Attività della Soprintendenza Archeologica della Calabria nelle Province di Reggio e Catanzaro, in ACT 1976, pp. 908-909. ? O, C. ConmuRs, art. cit, p. 431. re P. Ons,op. ci, col. 129-130. 0 Μ. 5. Pisama, art. cit, pp. 7-15. ?« J.P. Anau, L'arte di costruire presso i romani, Milano 1988, p. 168, τῷ chr supra, nota SB. © cfr, supra, nota 71. μον M. Bagna Bacnasco, Documenti, cit. p. 515. "^ S. Lurmo, Calabria. Montegiordano., cit. p. 496. "^ Per un quadro generale, si veda: M. BARzA Bacxasco (a cura di), Locri Epizefiri I, cit, pp. 322-328 (ivi bibliografia precedente). 7» Tegole con opaia sono state rinvenute presso l'Insula I di Kaulonia (P. Oxst, op. ci, coll.129-130, fig. 69), presso la “casa della rampa” di Laos (Aa. Vv. Nuove testimonianze, cit. p. 52) e negli isolati 12 e 13 di Locri Epizefiri (M. Barra Bacnasco, Documenti, ci, p. 514). ? P. G. Guzzo, Acquappesa, cit, p. 470. ται P. G. Guzzo, Acquappesa, cit,pp. 466-468. ‘> M. G. Cimino, art cit,p. 44. ?* Presso l'area "Gravine-Pignara"(M. G. Cnuno, art cit, p. 43). 75 Presso l'insula I (P. Ost, op. cit. coll. 129-132) e presso la "casa del drago" (M. S. Pisapia,art cit, p. 5). 1 Presso la casa della rampa (A.Vv., Laos I. cit. pp. 74-83). 75 Presso l'andron f della "casa dei leoni” (M. Barga Barga (a cura di), Locri Epizefiri IV, cit, p. 27). Presso l'andron della fattoriadi Bagni-Menzinaro(S. Lurewo, Calabria, Montegiordano, cit, p. 496) 1 Presso il domation della "casa del drago" di Kaulonia(M. S. Prsaras art. cit. p. 9). 76 Presso l'edificio "N" di località Donnu Petru di Tiriolo (R. Senza, Nuove ricerche, cit, pp. 149-150). 7^ Pressola “casa 1"di Torre del Mordillo (O. C. CornuxN, art. cit, pp. 431-432). I soli esempi sono le cornici, le modanature, gli ovoli ed i frammenti eterogenei di colore azzurro, bianco, blu e grigio rinvenuti presso la pastas c della "casa dei leoni" (M. Bazsa Bacnasco (a cura di), Locri Epizefiri IY. it. p. 35) 316

79 M. Biss Bacxasco (a cura dî), Locri Epiefir IV. cit, pp. 2128 κα MT Lawnart cit p. 45;M. T. Iwett-S. Rizz 1985, art cit, pp. 292-293. ? E Leva, L'attività archeologica in Calabra, cit, p.804. κα P. Visonà, ar. cit, pp.12-73, © Sallorigine dei pavimenti n opus signinum si veda Plin. N.H, XXXV, 165. ?^ M. S. Pisama, art. cit. pp. 6-7;R. GINOUVES-R. Mar, op. ct, p 150. ?* E. De Mino, La casa reca in Sicilia, cit,p. 718 (casaI A) 1 B, Teucincis, The decorated pavements of Morgantina, 2: he opus signinum, ATA 94, 1990, p. 430, fig. 8 (vano 25 della “casa della cisternaad arco?) ὅν M. S. Pim,art cit. pp. 9-10, 7? R. GiNouvEsR. Marti,op cit pp. 148-149. 7? M.L. Mosgicone Marna, Scutidata Pavimenta I pavimenti con inseri di marmo o di pietra trovati a Roma e nei dintorni, Roma 1980, p. 34, XIV, tav. XII 7* ML. Moszicose Mara, op. cit, p. 27, IX, tav. XII 10. πὴ E. Greco, Laos, colonia di Sibari, in Ricerche sulla casa, cit, p. 132. 2 MS. Pista, art cit pp. 9-10. © R, GrsouvesR. MARTIop. cit, pp. 181-183,pl 52. © MLS. Pisanu art. cit, pp. 1213, 77 Ὁ. Romnson-J. W. Geta op. ci, pp. 59-62, pl 8485, ?* Nella casa cauloniate tli vani sono posti ad Fst e non a Nord del cortile per seguire l'orientamento degli isolati che, ἃ loro volta, sono disposti ortogonalmente in rapporto alla naturale pendenza del terreno (M. T. levsr111. Rizi 1985, ar. ci, pp. 303-304) " D.M. Romnsox, op. cit pp. 323-368, pl. LII © DAE Rosivson, op. cit p. 363 © M.S. Pisama art cit pp. 1213 7" P. Tixt Bertoccin, La civiltà dauna alla luce delle recenti scoperte, n Actes du VITI Congrès International des Sciences Prehistoriguesεἰ Protohistoriques, Beograd 1973, p. 128. #5 M.S. Pisu, art. cit, pp. 13-15, ii bibliografia precedente; C. Venseute, Greek Funerary Animals, in AIA 76, 1972, pp. 49.59; A. Scinure Goussenion,J. P. DaRMoN, sv. Animaux et Mythologie inY. Boswaroy (ed), Dictionnairedes Mythologies, Paris 1981, pp. 3642; D. Suzan, Untersuchungen zu den antiken Kieselmosaiken, in IDAL, AF, 1982, pp. 122, 158;E. Sox, 53. keto, in Lexicon Ieonographicum Mythologiae Classica, vol. VI, I, 1992, p. 41; N. ctun, G. An, V. Sraos, sv. Nereids, in LIMC, vol. VI, I, 1992, pp. 785-824. 1 ἘΞ Pesunpo, La casa dei greci, Milano 1989, p.171 1 M. Banna Buouisco, La casa în Magna Grecia, ct. , pp. 4647. μη ch supra, nota 8. 1 Tuttavia è attestata la presenza di sistemi idraulici che consentivano il convogliamento e lo smaltimento di acque in diverse oleis della Magna Grecia (Cuma, Heraklia, Locri Epizefi, Metaponto, Paestum, Sibari, Taranto e Velia), Si veda: R. Sconmenza, Sistemi idraulici in Magna Grecia: classificazione preliminare e proposte interpretative in BollStorBas 12, 1996, pp. 25-48. 7? M. Bara Bacsasco, Edilizia privata, cit, p. 74 κι F. Costame (a cura di), ninfe di Locri Epizefiri, Soveria Mannelli 1992, pp. 7:15. i PE. Anus, art. cit, pp. 71.78. ?» E. Lurtanz, Attività ell Soprintendenza Archeologica, ct, p.101; A. Russo TAGLIENTE, op. cit, pp. 229-230. M.S. Pisanti art. cit, p. 6. σε M Bassa Baonasco (a cura di), Locri Epizefii IL, ct, pp. 17-19. ^ M. Bussi Bacxssco (a cura di), Loeri Epiefir I, cit pp. 18-19, 0.C. CousuRn,art. cit, pp. 431, 447-448, B. Tsuunats, The decorated pavements, cit, p. 430. 29 B. Tsaecis, The decorated pavements, cit, p.428. 2° Per un quadro generale si vedano: R. Gixovves, Balaneutike. Recherches sur le bain dans la antiquite grecque, Paris 1962; M. Barra Bacwsco (a cura di), Locri Epizefiri IV. cit. p. 32 (ivi bibliografia precedente). 7 D. M. Roguson-I. W. Granax,op. it, pl. 53,2. 2 cfr. supra, nota 195, P. Ost, op. cit, fig. 57. P. Orsi op. cit, coll, 131-134,fig. 73. M. Bassa Baosasco (a cura di), Locri Epizefii IV. cit; p. 32. Ὁ. C. Corsuns,art. cit, pp. 431-432. Ὁ. C. CoLeuRa art. cit, pp 447-448. M.T. Lanes, art cit, pp. 41-42. M. T. Luswettaart. cit, p.45. AXVv., Nuove testimonianze, cit p. 52. M. Bara Bacwasco (a cura di), Locri Epizefiri IV, cit, p32 P. VisonA,rt. ci. p. 73.

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29 0. C. Cousony,art cit, pp. 447-448 ?* E. De Mino, La casa greca in Sicilia, cit; Lb. La casa grecain Sicilia, in Ricerche sulla casa, it, pp. 17-40. 2 M. Lomnazno, L'organizzazione e i rapporti, cit. p. 120. 2° Perun quadro generalesu tali problematiche si vedano: F. Pasaxo, Oikos e ktesis. La casa greca in età classica, Roma 1987; ID.La casa dei greci, cit, pp. 98-124. 57 cfr. supra, nota 52 21 chr supra, nota 195, ? M. G. Cuano,art. cl. pp. 37-44 ?» P. Oxs, op. it, coll. 129-132. 21 MLT. Lwwetuart, cit, pp. 41-42;M. T. lwwntttS. Rizzi, art. ct, pp. 305-306;M. S. Pisana, art. et, pp. 1-19. 7 MT. Lanes,are. cit, p.45;M. T. ient. Riza, a. ct, pp. 292-293. 7» AAW.,Nuove testimonianze, cit, pp. 51-52. 22 ανM, Costanacna - C. Sanzione, cit, p. 251;E. Laax, L'attività archeologica cit, pp. 791-792. Bassa Baonasco (a cura di),op Locri EpieftIL cit. pp. 15-17 20 M. Banna Baciusco (a cura di), Locri Epizeftri IL lt, pp. 19-21. 272 M.Μ Barra di), Locri Epizefiri I. ct, pp. 21-24. Baia Baonasco Bacnasco (a(a cura cura di), Locri Epizeiri I. ct, pp. 25-27. 2° M. Bus Baoxasco (a cura di), Locri Epizefiri I cit, pp. 31-32. 20 M Banna Bacasco (a cura di), Locri Epizefiri IV, ct. > ch. supra, nota 53 2 Ὁ. C. Coran,ar. cit, pp. 444-451. 2 ch supra, nota 71. 2 M. Baka Bucxasco (a cura di), Locri Epizefir I. cit, p. 66. 2% M. Banta B aonasco (a cura di), Locri Epizefiri I. cit, p.67. 2» M Bara Baonasco (a cura di, Locri Epizeir IV, cit. 2 LE. Jones, art cit, pp. 303-312. Ἦν T E Jouts, A.J. Glarus,L. M. Sucker,art. cit, pp. 355-452. 2 GP. Lunnus, Agdía και παραδοσιακή Maredou) situ: in Ancient Macedonia, V, 2, 1993, pp. 763-777. 2° D. Atsazoctov- Dona, K. E. Οἰκοκόμου, Αρχιτεκτονική ἀρχαίας καὶ παραδοσιακής κατοικίας, in Ancient Macedonia V, 1, 1993,pp. 51:75. 2 chr supra, nota 241. 20 M. Dirkova, J. Premia, Excavations of Farmhouses in the chora of Chersones in the Crimea, n Eirene VII, 1970 20 D. Ἀραμεστεανυ, Manfra (Gela). Scavo di una fttoria-officina in NSc 1958, pp.290-347 2 P. Petaarm, L'attività della Soprintendenza alle Antichità della Sicilia Orientale, Parte I, in Kokalos XXVI-XXVII, 1980-1981, pp. 724-725; G. Di Starano, Insediamenti rurali vella chora di Camarina, in AITNA 2 (Att delle Giornate di Studio sugli Insediamenti Rurali nella Sicilia Antica, Calatgirone 1992), Catania1996, pp. 23-26. Ὅν G. Fou, Monte Adranone, Itinerari punici XVI, Roma 1995, pp. 11 ~ 12, Big. 24, 29-32; n., Monte Adranone. Mostra Archeologica Sambuca di Sicilia 23 Aprile 1998, Agrigento 1998, pp. 36 37. 2 M. Butea Bnonasco, Poggio Marcato di Agnone (Licata), εἰς, pp. 85-59. > per un quadro generale si vedano: M. Baza Bacnusco, Edilizia privata in Magna Grecia, cit, pp.49-79; Exp, La casa in Magna Grecia,cit, pp. 41-6. ^ cfr. supra, nota 19. 2 fr supra, nota 21 77 chr supra, nota 22 2 MT. Tantus,art. cit, p. 45;M. TANNELLS. Rizzi, art cit, pp. 292 - 293. 23 E, Lis, Gli scavi della Scuola Nazionale di Archeologia a Locri Eptzefri (1950-56), Atti ἀεὶ 7* Congresso Internazionale di Archeologia Classica, 2, Roma 1961, pp. 109-115. 7? M. Butta Buorasco (a cura di) Locri Epizfii IL cit. 2 M. Bussa Baonasco (a cura di), Locri Epizefiri IV, it 2 ch. supra, nota 52. 55 chr supra, nota 58. 57 chr supra, nota71 29 R.Srapea, Nuove Testimonianze, cit, pp. 143-146. © 0.C. Comun,ar, cit,pp. 431-432. 7?" 0. C. Commun,art cit pp. 444-451. x P. Onst, op. cit, col. 129-132. 2 M.S. Pisana art cit, pp&9. 20 cfr supra, nota 71. 2? M. Bassa Baoosco (a cura di), Locri Epizfiri IV, cit, pp.27-28 20 cfr supra, ota 88. ™ P. Ons op. cit, coll 129-132. 27 M. Baita Bacxasco (a cura di), Locri Epiefr I, cit. pp. 15-19, 27-28. ? ML. Piocerm, M.C. Parga, Nuove ricerche, cit, pp. 217-229, 318

» ch supra, nota 62, 2° M Bassa Bacvasco, IL culto di Adone a Locri Fpizeiri, in Ostraka III, 2, 1994, pp. 231-243. 7" P. Ons, op. ct, coll. 131-132 2 AAW., Nuove testimonianze, art. cit. p. 52. 77 M, Batra Baonasco (a cura di) Locri Epicefiri I, ct, pp. 2022 7^ M. Barra Buorasco (a cura di), Locri Epizeftri IV, cit, p. 31. 75 A, Raroronr (a cura di), The mutual Interaction ofPeople and Their Buil Environment, A Cross - Cultural Perspective, The Hague, Paris 1976, pp. 264-265.

319

Grutiana FIERTLER LA PANTELLERIAN WARE DAL QUARTIERE ELLENISTICO-ROMANO DI AGRIGENTO ASPETTI DELLA PROBLEMATICA E PROPOSTA PER UNA TIPOLOGIA La Pantellerian ware! è una produzione di ceramica da fuoco, in uso dal I sec. a.C. al VI sec. d.C.

ca., modellata a mano - anche se non si può escludere l'uso di un turn-table? — e realizzata con un'arsilla in superficie generalmente lisciata con politura a stecca che, in base alle analisi mineralogiche e petrografiche?, sembrerebbe essere tipica di Pantelleria. Ciò ha indotto Peacock ad individuare nell'isola oltre al luogo di provenienza dell'argilla anche il centro di fabbricazione di tale classe ceramica‘ che, secondo lo studioso, sarebbe stata frutto di una produzione household. Il modello dell'housekold non va tuttavia inteso in senso stretto, cioè finalizzato alle necessità del nucleo familiare, ma come produzione di tipo artigianale non industrializzato*. La Pantellerian Ware, oltre che a Pantelleria, è infatti documentata in diversi siti della costa del Nord-Africa, in Sardegna, nella penisola italiana e, in quantità forse notevole, in Sicilia*. Secondo Peacock questa ampia e massiccia esportazione potrebbe trovare spiegazione o nell'uso di tali recipienti quali contenitori di merci più pregiate o in una specifica capacità di resistenza al fuoco, pro-

pria dell'argilla di Pantelleria. Quest'ultima ipotesi risulta a nostro avviso più convincente; nella maggior parte dei casi, infatti, tali recipienti conservano tracce di lunga esposizione al fuoco ed è pertanto indubbio che fossero impiegati per la cottura dei cibi. Risulta invece assai improbabile che venissero adoperati come contenitori da trasporto, dal momento che si tratta per lo più di forme aperte. Lo studio della Pantellerian ware è ancora allo stadio iniziale, siamo pertanto ancora lontani dal poter trovare soluzioni ai vari aspetti della problematica. Ma è forse opportuno richiamare l'attenzione sui problemi che fin da ora si intravedono ed evidenziare alcune tematiche che andrebbero sviluppate. Non sono state infatti ancora analizzate le modalità di distribuzione di tale classe ceramica, le cui cospicue e diffuse attestazioni in diverse parti del bacino del Mediterraneo occidentale — dal Nord Africa alla penisola italiana, dalla Sicilia alla Sardegna - sembrerebbero indicare che fu oggetto di un commercio non occasionale. Dall'esame dei siti in cui essa è attualmente documentata, risulterebbe infatti una distribuzione prevalentemente costiera; ma, trovandoci in una fase ancora iniziale degli studi, è prematuro escludere a priori una diffusione anche all'interno. Sarebbe inoltre interessante chiarire in che rapporto la Pantellerian ware si pone con la ben più nota e diffusa ceramica da cucina africana a patina cenerognola. L'area di distribuzione sembra infatti coincidere in quanto entrambe sono spesso attestate negli stessi siti e associate negli stessi con-

testi. Se ne può forse dedurre che la Pantellerian ware rientrò nei circuiti di distribuzione della ceramica a patina cenerognola, dapprima probabilmente solo come merce accessoria acquistabile a buon prezzo, data la fattura poco curata? Col tempo la qualità dell'argilla, refrattaria al calore, unitamente alla robustezza dei manufatti dovettero comportare una più ampia richiesta da parte del mercato. Ad eccezione dei contesti nordafricani - in cui è documentata già a partire dal I sec. a.C. - le maggiori attestazioni si hanno infatti in contesti di fine IV-V sec. d.C. Periodo in cui, come ha evidenziato la Panella”, generalmente si registra un decremento delle patine cenerognole, la cui produzione sembra ormai manifestare segni evidenti di decadenza ed impoverimento morfologico. In questo lavoro viene presentata la Pantellerian ware rinvenuta nel Quartiere ellenistico-romano di Agrigento". Su questi dati si è tentato di impostare una tipologia che, in mancanza di associazioni stratigrafiche, si baserà solo su criteri di sviluppo morfologico, supportati e dai confronti con altre 321

produzioni maggiormente studiate -quale la ceramica da cucina africana -- c da coordinate cronologiche emerse da altri contesti. La trasmigrazione delle forme ceramiche da una produzione all'altra e la continuità di esse nel tempo sono, infatti, fenomeni ormai assodati anche in altre produzioni? e dovettero a maggior ragione verificarsi nel campo della ceramica da cucina, dal momento che quest'ultima doveva rispondere a delle caratteristiche squisitamente funzionali. Non vanno tra l’altro esclusi fenomeni di imitazione di prodotti maggiormente diffusi sul mercato, in quanto frutto di una produzione "industrializzata"; anche se, ribaltando la prospettiva, si potrebbe pensare che in realtà siano stati questi ultimi ad ispirarsi ad oggetti di produzione "artigianale”. È d'altronde ancor più probabile che un'unica spiegazione non sia valida per tutti i casi, ma vada

valutata di volta in volta. Si è pertanto ritenuto opportuno segnalare in fase di catalogo i rapporti morfologici con le altre produzioni di ceramica da fuoco, în attesa che, con il prosieguo degli studi, si giunga ad una maggiore precisazione cronologica, che consentirà di chiarire e/o articolare ulteriormente questi fenomeni. In questa sede verranno presentati degli esemplari relativi alle varie forme e la loro eventuale articolazione in tipi. Dal momento che conformazioni diverse rispondono a funzionalità diverse, in base alla struttura (aperta o chiusa) e profondità della vasca e alla forma del fondo (piatto o convesso), le varie forme sono state inserite in ‘categorie funzionali”: pentole, casseruole, tegami, coperchi. Per la definizione di tali categorie si è ricorso a termini moderni in quanto l'identificazione delle suppellettili da cucina in Pantellerian ware con i lessemi antichi, qui di seguito proposta, è valida solo a livello di ipotesi. Con il termine pentola indichiamo pertanto quei recipienti di forma chiusa, a corpo emisferico, globulare o cilindrico, la cui profondità è in genere maggiore del diametro di apertura. Dal momento che solo di alcune forme conosciamo integralmente la conformazione del corpo e del fondo, non siamo infatti per ora in grado di attuare una distinzione tra ollae e caccabi ". La funzione dei due recipienti sembra d'altronde molto simile: se l'olla veniva impiegata per far bollire l'acqua o per cuocere legumi ecc., il caccabus, che costituisce una sorta di via di mezzo tra l'olla e la patina, poteva essere utilizzato sia per la bollitura che perla cottura a fuoco lento. Il termine patina negli autori antichi viene invece impiegato per indicare recipienti poco profondi, caratterizzati da un'ampia apertura; ma occorrerà distinguere tra la casseruola "., utilizzata per la cottura a fuoco lento di pesce, carne e verdura, e il tegame ? impiegato per la cottura entro forno di pani e focacce"*. Dall'analisi dei materiali è emerso che tipi appartenenti a forme inquadrabili in categorie funzio nali diverse, sono però accomunati da alcune caratteristiche morfologiche (quali la conformazione dell'orlo e delle anse). Si tratta probabilmente di tipi prodotti nello stesso periodo, che costituivano quella che con termine moderno potremmo definire una “batteria da cucina”. In alcuni tipi delle forme AS, A6 e B1 -nelle quali proponiamo di riconoscere rispettivamente l'olla, il caccabus e la patina per la cottura a fuoco lento — riscontriamo infatti lo stesso tipo di orlo". Quanto alle forme A8 e B2, la prima forse un caccabus e la seconda una patina per la cottura a fuoco lento, esse sono accomunate, oltre che dalla conformazione dell'orlo, anche da quella delle anse. Non è ancora possibile cogliere tutte le relazioni esistenti tra tipi appartenenti a forme diverse, in quanto la documentazione morfologica, offerta dai materiali rinvenuti nel Quartiere agrigentino, pur rivelandosi varia, è chiaramente parziale. Riteniamo tuttavia che aver evidenziato questo aspetto, possa comunque contribuire alla conoscenza della Pantellerian ware. Essa risulta così, già da ora, una produzione notevolmente articolata, capace di soddisfare le diverse esigenze dell'utenza. I MATERIALI

La tipologia qui proposta costituisce un'ipotesi di lavoro che potrà essere testata solo quando verrà effettuata la pubblicazione definitiva degli scavi del Quartiere abitativo di Agrigento e di tutti i materiali ivi rinvenuti 322

Si è optato per una tipologia aperta e, per quanto riguarda la denominazione delle forme, si è ri-

corso a formule alfanumeriche, in cui la lettera indica la categoria funzionale (A = pentole, B = casseruole, C = tegami, D = coperchi), cui segue un numero che identifica la forma (A1) e, separato da una sbarra, un numero che indica il tipo (A1/1) cui possono eventualmente seguire, separati da una virgola, i numeri relativi agli esemplari inquadrabili in quel tipo (A1/1,1). Ogni categoria ha una numerazione a sé stante, al fine di consentire aggiunte e modifiche successive. Per l'identificazione degli esemplari è stato posto tra parentesi, dopo la denominazione della Forma o del Tipo, il numero (ad es. AG 533) con cui essi sono stati designati nel catalogo della tesi di Laurea da me discussa nell'Anno Accademico 1991-92 presso l'Università degli Studi di Messina",

Per ciascuna forma presentata in catalogo sono stati inoltre di volta in volta indicati i confronti,

che è stato possibile stabilire con esemplari già editi, ricorrendo alle seguenti abbreviazioni bibliografiche: AGRIGENTO NECROPOLI = R. M. Boxacasa Carra (Ed.), Agrigento. La necropoli paleocristiana sub divo, Roma 1995. CaxrHAGE I = M.G. Fürronp-D.P.S. Peakock, Excavations at Carthage: The British Mission vol. 1,2. 1984. CartinoE II = M.G. Futroan-D.P.S. PEAKOCK, Excavations at Carthage The British Mission vol. I1,2, 1994. Cantuace ΠῚ = H. Huwparey (Ed.), The Circus and a Byzantine Cemetery at Carthage, vol. I, Ann Arbor 1988, Castana = R.A. Witson, Un insediamento agricolo romana a Castagna (comune di Cattolica Eraclea, AG), in SicA 57-58, 1985. ‘Conrrapa SaRACENO = G. CASTELLANA-B, McCoNwet, A Rural Settlement of Imperial Roman and Byzantine Date in Contrada Saraceno near Agrigento, Sicily, in AIA 94, 1990. Lerrnuos = N. Bex Lazeeo-DJ. MATTINGLY, Leptiminus (Lamta): a Roman port city in Tunisia. Report no. 1, in Journal of Roman Archaeology Suppl. Serie 4, Ann Arbor 1992. ΒΑΒΒΑΤΗΑῚ = P.M. Kenrick, Excavations at Sabratha 1948-1951, Journal of Roman Studies Monograf. n. 2, 1986. Samara Π = J. Dore-N. Keay, Excavations at Sabratha 1948-1951, II, The finds, part I, Glouchester 1989. ‘TERMINI IMERESE = O. BELVEDERE-A. BURGIO-M.S. Rizzo, Termini Imerese. Ricerche di topografia e archeologia urbana, Palermo 1993,

Per quanto riguarda i dati quantitativi riportati, si ritiene opportuno precisare che il termine “esemplare” è stato impiegato per definire sia i vasi integri, o interamente ricomposti, che i frammenti. Le riproduzioni grafiche sono in scala 1:4. A: Le PENTOLE

Forma Al = SabRATHAI fig. 88 nn. 139-142 — SapRATHA II type 286 — CarmitaGE I form 7 - CarTmAGE IL fig. 4.4 type 8 - Lerriwmvs type 33.

Pentola a corpo globulare abbastanza ampio (diametro di apertura 24-28 cm) con parete non eccessivamente spessa (0,5-0,7 cm); l'orlo leggermente obliquo o verticale è sempre munito all'interno di una scanalatura per la posa del coperchio. In base alla diversa conformazione dell'orlo sono stati distinti quattro tipi la cui cronologia relativa è ancora da definire. Varianti di questa forma possono considerarsi la forma A2 e, forse, la forma A3.

Tipo AVI (AG 533) |

Tipo A1/1 Orlo ingrossato, leggermente obliquo, esternamente sagomato ed internamente concavo per la posa del coperchio. Un solo esemplare ". 323



Tipo A1/2 (AG 528)

Tipo A1/2 Orlo verticale, superiormente piatto, esternamente convesso ed internamente sagomato per la posa del coperchio. All'esterno vi è un piccolo listello in corrispondenza dell'attacco dell'orlo alla parete. Un solo esemplare",

Tipo A1/3,1 (AG 527)

Tipo A1/3,2 (AG534)

Lr |

jJ

‘Tipo A1/3,1-2 Orlo verticale, superiormente piatto, esternamente convesso ed internamente concavo. Quattro esemplari '.

Tipo ΑἿΜ (AG 531)

Tipo A1/4 Orlo verticale superiormente piatto a sezione quasi triangolare, internamente concavo per la posa del coperchio. Un solo esemplare*. Forma prodotta anche in ceramica a patina cenerognola o bianco-grigiastra?'; attestazioni in Pantel-

lerian Ware a Cartagine”, Sabratha® e Leptiminus* in contesti databili dalla fine del I sec. a.C. agli inizi del VI sec. d.C. Forma A2 (AG 532) = Sannarua II types 290, 315

FS Pentola a corpo globulare con orlo verticale superiormente arrotondato, esternamente convesso ed internamente concavo per la posa del coperchio. Un solo esemplare (diametro 22 cm; spess. parete 0,5 cm). Si confrontino esemplari simili a Sabratha®. 324

Forma A3 (AG 5354536)

Pentola a corpo ovoidale (2) con orlo verticale superiormente quasi piatto, esternamente convesso ed internamente concavo. Due esemplari (diametro di apertura 28-30 cm; spess. parete 0,7 cm). Confronti non puntuali, per il diverso andamento della parete, a Sabratha*. Forma A4 = Saprarua II types 291-292 - Lepriminus type 32 ~ Castacna fig. 13 nn. 2-3

Pentola a corpo globulare con orlo a mandorla. Tipo A4/1 (AG 678)

Tipo A4/1 Pentola con orlo a mandorla verticale (diametro cm 26; spess. parete cm 0,5). Tipo A4/2 (AG 540)

Tipo A4/2 Pentola con orlo a mandorla leggermente obliquo verso l'esterno (diametro cm 31; spess. parete cm0,5).

Deriva probabilmente dalle ollae con orlo a mandorla di età repubblicana, la cui produzione dura forse sino all'età augustea ”, Scarse attestazioni nel Quartiere: solo due frammenti attribuibili a due tipi diversi. Il tipo 4/1 è documentato a Sabratha a partire dalla fine del I sec. a.C.*, a Leptiminus” e, nel territorio di Agrigento, a Castagna in un contesto databile tra il 160-170 e la fine del II sec. d.C*. Forma AS (AG 472)

Pentola a corpo ovoidale. Orlo superiormente convesso con labbro ingrossato ed arrotondato ripiegato sulla parete, dalla quale è separato da una piccola gola. 325

Tre esemplari (diametro 20 -24 cm; spess. parete 0,6-0,8 cm). Confronta per la forma dell'orlo le forme A6/1 e B1/3.

Forma A6 = ContRapA Saraceno fig. 8, 86/43

Pentola a corpo cilindrico con orlo ingrossato e arrotondato, fondo probabilmente convesso (diametro 22-25 cm; spess. parete 0,7-1 cm).

In base alle caratteristiche dell'orlo sono stati distinti tre tipi.

"Tipo A6/1 (AG 495)

Tipo A6/1 Orlo obliquo superiormente convesso con labbro ingrossato ed arrotondato separato dalla parete da una gola (cfr. forme A5 e B1/3). Due esemplari*!

Tipo AGI2 (AG 468)

Tipo A6/2 Orlo superiormente convesso con labbro ingrossato ed arrotondato aderente alla parete (cfr. forma

B1/4). Sei esemplari.

Tipo A6/3 (AG 442)

Tipo A6/3 Orlo superiormente piatto, esternamente ingrossato ed arrotondato. Un solo esemplare. Forma prodotta anche in ceramica africana a patina cenerognola *. In Pantellerian ware pentole si-

mili, ma con orlo differente, sono state rinvenute a Favara, probabilmente si tratta di un tipo diverso inquadrabile però in questa forma. Per la conformazione dell'orlo confronta anche la forma B1, dalla quale si differenzia però per il minore diametro di apertura e per la parete verticale o legeermente ricurva verso l'interno, e la forma AS a parete però fortemente convessa. 326

Forma A7 (AG 538) = Caxraace III fig. 17 nn. 335, 337

Piccola pentola a corpo cilindrico; orlo superiormente convesso con labbro ingrossato aderente alla parete. Fondo probabilmente convesso. Un solo esemplare (diametro 16 cm; spess. parete 0,6 cm). Confronti, anche se non del tutto puntuali, possono stabilirisi con degli esemplari rinvenuti a Cartagine in contesti di fine IV-inizi V sec. d.C. Forma A8 = CarrHacrI form 3.5 - CarmuaoE TII fig. 17 n. 333 - SaenATHA II type 298.3922 — Lemminus type 37 - TERMINI IMERESE nn. 163-164 — AGRIGENTO NECROPOLI tipo 86.595.

Pentola a corpo emisferico con anse a linguetta” orizzontale, in genere leggermente inflesse nella parte inferiore, impostate poco sotto l'orlo che può essere indistinto o appena ingrossato. La parete curvilinea si raccorda al fondo, che può essere piano o convesso, determinando all'esterno uno spigolo abbastanza accentuato e all'interno un piccolo gradino (diametro 20-30 cm; spessore parete 0,7-1,1 cm). Sono stati distinti due tipi che si differenziano esclusivamente per la forma dell'orlo e per la convessità più o meno accentuata della parete.

Tipo ABI (AG 561)

‘Tipo A8/1 Orlo indistinto, parete curvilinea fortemente convessa. Sette esemplari. Tipo A8/2 (AG 543)

Tipo A8/2 Orlo appena ingrossato, parete curvilinea. Quattro esemplari. 327

Attestazioni in contesti di fine IV-V sec. d.C. a Cartagine*, Sabratha ", Leptiminus *, Termini Imere-

e? e nella necropoli sub divo di Agrigento”. Per la forma dell'orlo e delle anse confronta la forma

ΒΖ con la quale a nostro avviso è stata talora confusa. Confronta anche esemplari simili, ma in produzione diversa, rinvenuti a Berenice“, Sabratha4, Porto Torres“

e Cornus5.

Forma A9 (AG 539)

Piccola pentola (?) ad orlo arrotondato notevolmente ingrossato, parete curvilinea convessa. Un solo frammento di orlo e breve tratto di parete (diametro 18 cm; spess. parete 0,6 cm). B: Le CasseRUOLE

FormaBI = SABRATHA II types 295-296 — Lerrimmnus type 35 - Caxriaz ΠῚ fig. 17 nn. 336,338 — AGRIGENTO NECROPOLI tipi 86.415, 86.700, 86.611, 86.571, 85.88, 86.906, 86.456 - CONTRADA SARACENO fig. 8, 86/16, 86/15, 86/19 - TERMINI IMERESE nn. 588, 589, 866, 909.

Casseruola a vasca più o meno ampia (diametro 22-40 cm) non eccessivamente profonda, con parete rettilinea abbastanza spessa (0,6-1,1 cm), leggermente svasata e fondo convesso. L'orlo, inizialmente a tesa orizzontale con labbro ingrossato, subisce un progressivo ingrossamento ed avvicinamento del labbro alla parete che finisce per unificarsi con essa assumendo un profilo “a mandorla"*. Sono stati distinti sei tipi che si differenziano essenzialmente per la conformazione dell'orlo; solo negli ultimi tre si ha una progressiva diminuizione della profondità della vasca.

Tipo B1/1 (AG 513)

Tipo BI/1 Orlo a tesa orizzontale superiormente piana, inferiormente convessa, con estremità ingrossata ed arrotondata. Nove esemplari. Tipo B1/2,1 (AG 520)

3 328

L

Tipo B1/2,2 (AG 501)

Tipo B1/2,1-2 Orlo a tesa inclinata verso il basso, superiormente piana o leggermente convessa, con estremità ingrossata ed arrotondata. Quaranta esemplari. Attestazioni a Sabratha nella prima metà del III sec.d.C.* e a Leptiminus®. Tipo B1/3,1 (AG 492)

Tipo B1/3,3 (AG 465)

NU

‘Tipo B1/3, 1-3 Orlo obliquo, superiormente convesso con labbro ingrossato notevolmente ravvicinato alla parete, dalla quale è separato da una gola più o meno accentuata. Quarantacinque esemplari. Attestazioni a Sabratha in contesto databile al 300 ca. - anche se non si possono escludere intrusioni da livelli più tardi’ — e ad Agrigento in contesti di IV-V sec. d.C.. Per la forma dell'orlo confronta le forme AS e AG/1.

329

Tipo B1/4,1 (AG 561)

Tipo B1/4,1-2 Orlo superiormente convesso; il labbro, ormai aderente alla parete dalla quale in alcuni casi (Tipo B1/4,1) è ancora inferiormente separato da un piccolo solco, assume la forma di un “cordone” applicato. Sedici esemplari. Attestazioni ad Agrigento*, Favara e Termini Imerese® in contesti di IV-V sec. d.C. Per la forma dell'orlo confronta la forma A6/2. Tipo B1/5 (AG 447)

Tipo B1/5 L'orlo, congiunto alla parete, assume un profilo a “mandorla”; superiormente conserva ancora una scanalatura estremo ricordo dall'antica distinzione dei due elementi. Otto esemplari. Attestazioni a Sabratha intorno al 300 d.C., anche se non si possono escludere intrusioni da livelli più tardi Tipo B1/6 (AG 438)

‘Tipo B1/6 Orlo “a mandorla”; la scanalatura che caratterizzava il tipo precedente è ormai scomparsa. Cinque esemplari. Attestazioni in contesti di IV-V sec. ad Agrigento? e Cartagine, della seconda metà del V sec. d.Ca Termini Imerese”.

Attestazioni a Sabratha nella prima metà del III sec. a.C.* — ma l'inizio della produzione potrebbe essere più antico” - e intorno al 300 .C.®; in Sicilia in contesti di IV-V sec. d.C. *. 330

Forma B2/1,1-2 = CaxtuaceI form 3 types 1, 4 — Cartuace TII fig. 17 n. 334 - Saprarua II type 298.2332 - AGRIGENTO NECROPOLI tipo 86.279. Tipo B2/1,1 (AG 554)

Casseruola a vasca ampia non eccessivamente profonda (h. cm 7-8), con parete molto spessa, ad andamento curvilineo. Il fondo leggermente convesso si raccorda alla parete determinando all'esterno uno spigolo abbastanza accentuato e all'interno un piccolo gradino. L'orlo può essere indistinto o leggermente ingrossato. All'esterno, poco sotto l'orlo, due anse a bastoncello orizzontale o a linguetta. Questa forma, attestata in contesti di IV-V sec. d.C. a Cartagine" e ad Agrigento nella necropoli sub divo®, deriva probabilmente da una forma simile prodotta in ceramica a vernice rossa interna. Si confronti anche la forma Lamboglia 10B = Hayes 23A in ceramica africana da cucina* e, per la forma dell'orlo e delle anse, la forma A8. Nove esemplari (diametri 19-36 cm; spess.

parete 0,7-1,1 cm).

Forma B3 (AG 570) = SamratHa II type 305.

Casseruola o tegame con orlo notevolmente ingrossato inclinato verso l'interno. Vasca non eccessivamente ampia (diametro di apertura 24 cm), probabilmente poco profonda, a parete curvilinea abbastanza spessa (0,7 cm) fortemente rastremata al fondo, che quasi sicuramente doveva essere convesso. Un solo esemplare peraltro frammentato. Attestazioni a Sabratha dal I sec. a.C. al III d.C. e forse anche dopo. È forse possibile stabilire un confronto anche con frammento di orlo rinvenuto a Cartagine in un contesto della 2* metà del I sec. d.C.”.

331

C:1 Tecami Forma C1 = CagrHaGE I form 1.1 - SaBRATHA II types 293-294 — LePriMINUS type 34.

Tegame ad orlo ingrossato con vasca bassa più o meno ampia, a parete curvilinea o quasi rettilinea e fondo piano o appena convesso. In base alla conformazione dell'orlo e della parete si è ritenuto di proporre la seguente tipologia, basata anche su elementi cronologici desumibili dai dati di rinvenimento di tipi simili appartenenti peτὸ a produzioni diverse*: Tipo CI/1 (AG 588)

Tipo C1/1 Tegame con orlo pendulo a sezione semicircolare e vasca a parete quasi rettilinea leggermente svasata. Nessuno dei due esemplari rinvenuti conserva il fondo (diametro 22-26 cm; spess. parete 0,6 cm). Tegami di incerta produzione con orlo simile sono attestati a Cosa. Tipo C1/2 (AG 818)

Tipo C1/2 Tegame con orlo a “mandorla”, vasca a pareti curvilinee, fondo piano. Cinque esemplari (diametro 28-33 cm; spess. 0,7-0,9 cm). È forse possibile stabilire un confronto con un frammento di orlo in Pantellerian

ware rinvenuto a Sabratha in contesti della 2* metà del I sec. a.C. e della 2* metà del I sec. d.C." Tegami simili, forse in ceramica a vernice rossa interna, sono attestati a Cosa e in “rozza terracotta” a Sabratha ". Tipo C1/3,1 (AG 708)

Tipo C1/3,2 (AG 582)

Tipo C1/3,1-2 Tegame con orlo a sezione triangolare, vasca a parete più o meno curvilinea, fondo piano o leggermente convesso. Confronti a Sabratha", Leptiminus? c Cartagine” e, in altre produzioni di ceramica da fuoco, a Sabratha™, Cosa” e Ostia”. Quindici esemplari (diametro 27-30 cm; spess. parete 0,7-1,1 cm). 332

Questa forma dovette essere molto diffusa nell'ambito della ceramica da fuoco, essa e infatti comune a diverse produzioni e la sua evoluzione dura all'incirca dal ILI a.C. fino al V sec. d.C.”. D: I Pirri/Corzscsmo Forma DI (AG 470)

d LI Piatto/coperchio a parete rettilinea, fortemente obliqua con orlo inferiormente scanalato.

È stato rinvenuto un solo frammento (diametro ricostruibile 32 cm) che ricorda un coperchio in

Pantellerian ware rinvenuto a Cartagine databile alla fine del I-inizi II sec. d.C.®.

Forma D2 = SasratHa II type 309 — CartHAGE I form 5 - CartHAGE III fig. 17 n. 340 - TERMINI Imerese nn. 147, 165 -- AcriceNTO NecropoLI tipo 86.420 e sua variante 85.99, tipo 85/586 c sua variante 86/583.

Piatto/coperchio a profilo campanato con parete rettilinea e presa/piede a disco piuttosto basso internamente ombelicato. I due tipi, all'interno dei quali sono state distinte delle varianti, si differenziano essenzialmente per la forma dell'orlo, essi pertanto sono probabilmente riconducibili ad un'unica forma. ‘Tipo D2/1,1 (AG 871)

Tipo D2/1,2 (AG 873)

LS, Tipo D2/1,1-2 L'orlo ingrossato è appena distinguibile dalla parete quasi rettilinea. I due esempl: inseriti in catalogo si differenziano essenzialmente per il piano di posa che in D2/1,2 è piatto. Attestazioni in contesti della fine del I sec. a.C. a Sabratha" e in contesti di IV-V sec. d.C. ad Agrigento", Termini Imerese® e Cartagine”. Dieci esemplari (diametro 21-33 cm).

Tipo D2/2,1 (AG 861)

333

Tipo D2/2,2 (AG 869)

Tipo D2/2, 1-2 L'orlo ingrossato e ripiegato all'esterno è separato dalla parete rettilinea da una gola più o meno accentuata, Attestazioni ad Agrigento in contesti della 2* metà del IV sec. d.C. 5, a Termini Imerese* e a Cartagine". Cinque esemplari (diametro 28-37 cm). In Pantellerian Ware questa forma è attestata dalla fine del I al IV-V sec. d.C. e forse costituisce l'evoluzione dei coperchi ad orlo indistinto rinvenuti a Cartagine in contesti della seconda metà del I sec. de. Forma D3/1, 1-2 = SasraTHA II type 311.2330 - Lepriminvs type 36 = AGRIGENTO NECROPOLI tipo 86.585 - ConTRADA SanacENo fig. 8 nn. 86/5 e 86/10.

Tipo D3/1,1 (AG 891)

L E Tipo D3/1,2 (AG 862)

Piatto/coperchio a profilo campanato convesso, con orlo più o meno ingrossato e arrotondato e presa/ piede a disco piuttosto basso internamente ombelicato. Attestazioni ad Agrigento", Favara?, Cartagine”! e Leptiminus®; un confronto, anche se non del tutto puntuale, può stabilirsi con un esemplare di Sabratha®. Si confrontino anche esemplari rinvenuti ad Ostia e Berenice? in contesti databili dal I al IV d.C., probabilmente in produzioni diverse. Otto esemplari (diametri 32-40 cm). NOTE * La sua identificazione si deve al Peacock cfr. D.P.S. Peacock, Pottery in the Roman World: an ethnoarchaeological approach, London - New York 1982, p. 75 ss ? D.P.S. Peacock, Pottery, cit, p. 79 e M.G. Futronp-D.P.S. Peacock, Excavations at Carthage: The British Mission vol. 1,2. 1984, p.8, * Perla descrizione e per le caratteristiche petrologiche dell'argilla cfr. M.G. Futrorp-D.P.S. Peacock, Excavations at Cartage 1, cit, p. Be s. c R. M. Boxacasa Canza (ed.), Agrigento. La necropoli paleocristiana sub divo, Roma 1995, p. 372 ss. * Rinvenimenti ancora inediti, effettuati nel tempo intercorso tra la consegna del testoe la sua pubblicazione, sembrano confermare l'ipotesi di Peacock. A Pantelleria, in località Scauri Scalo, sono stati infatti individuati dei magazzini di stoccaggio della Pantellerian Ware e nel porto di Scauri, oltre a numerosi frammenti pertinenti a tale classe ceramica, è stato rinvenuto un relitto ~ probabilmente una nave mercantile di fineV sec. d.C. - che trasportava sigillata africana e, secondogli scopri334

tori, stava facendo scalo nellisola per completare il carico con suppellettili in Pantellerian Ware. Debbo queste informazioni ad una gentile comunicazione personale del Dott. Sebastiano Tusa, che mi ha indicato il sito internet “archeoclubdipantelleria." nel qualeè possible reperire notizie preliminari sulle ricerche effettuate nell'isola dalle Università di Parma e Bologna in collaborazione con la Soprintendenza di Trapani e l'Archeoclub di Pantelleria 5 DPS. Peacock, Pottery cit, p. 8. * Cfr. carta i distribuzione in D.P.S. Peacock, Pottery, cit, p. 78, cui vanno oggi aggiunti per la Tunisia il sito di Leptimimus (cfr N. Ben Laznec-D.J. Marmncuy, Leptiminus (Lamia): a Roman port city in Tunisia. Report no. I in JRA Suppl. Serie4, Ann Arbor 1992), per la Sardegna i siti di Porto Torres (cfr. G. Maske, Porto Torres. Tombe romane a camera con arcosolio in località Scoglio Lungo, in NSA 1965; F. Ψάπεριευ, Turris Libisonis. Fouille d'un site romaine tardifà Porto Torres, Sardaigne, in. BAR S 224, Oxford 1984) e Cornus (cr. Ax Vv. Cultura, materiali fasi storiche del complesso archeologico di Cornus: primi ri sultati di una ricerca, Mediterraneo tardo antico e medievale - Scavi e ricerche 3. L'archeologia romana e altomedievale nelTristancse (Atti del Convegno di Cagliari 22-23 giugno 1984) Taranto 1986), per la Sicilia quelli di Termini Imerese (cf. O BRivEDERE-A, Buacio-M.S. Rizzo, Termini Imerese. Ricerche di topografia e archeologia urbana, Palermo 1993), Castagna c Contrada Saraceno in provincia di Agrigento (cfr. RIA. Witsox, Un insediamento agricolo romana a Castagna (comune di Cattolica Eraclea, AG), in Sica 57-58, 1985, pp. 11-36; G. Casrezaxs-B. McConva, A Rural Settlement of Imperial Roman and Byzantine Date in Contrada Saraceno near Agrigento, Sicily, in AJA 94, 1990, pp. 25-44). 7 A questo proposito cfr. C. PANELLA, Le merci: produzioni, itinerari e destini, in A. Giannina (edA) Società romana e impero tardo antico: Le merci, gli insediamenti, Laterza 1986, p. 442, 49. * Colgo l'occasione per ringraziare il Soprintendentedi Agrigento dott.ssa G. Fiorentini per aver autorizzato lo studio di questo materiale e per avermi agevolato in tutte le fasi relative all'analisi e documentazione dei materiali. Per gli scaviP. eseguiti nel Quartiere vedi E. Ganci, Girgenti - Scavi e scoperte archeologiche dal 1916 al 1924, in NSA 1925, pp. 420-444; GriFFo, Ultimi scavi e ultime scoperte in Agrigento, in Quaderni di Archeologia, Artee Storia 1946, p. 5 ss E. De Miro, Il Quartiere Elle nistico Romano di Agrigento, in RAL 1957, pp. 135-140. * Perla trasmigrazione delle forme ceramiche cfr. J.P. Monzt, Céramique campanienne: Les formes, Roma 1981, p. 23 ss. 1 All'interno di ciascun tipo sono stati inserit esemplari che a volte presentano minime differenze dovute al fatto che si tratta di suppellettili modellate a mano. τι Per linterpretazione della terminologia riportata dagli autori antichi cfr. M. ANNEcHINo, Suppelletl itle da cucina di e Pompei nella prima età imperiale, Roma 1977; A. Ric Pompei, in A. Carano (ed. Linstrumentum domesticum di Ercolano ἃ Settefinesre una villa schiavistia nel'Etruria romana, vol. IL 1985 (abbrev. Setefinestre ID; M. Bars, Vaisselle er limentation à Olbia de Provence, in RAN, suppl. 18, Parigi 1988. ma 5 Con ἢ termine casseruola, dal francese casserole, indichiamo pertanto un utensile da cucina simile a un tegame, delpiù profondo. Queste forme si differenziano infatti sia da quelle che abbiamo definito tegami per la maggioredi profondità a vasca, sia dalle pentole per la parete svasata e per ἢ diverso rapporto tra profondità della vasca e diametro usoapertura letteraἐν Tali recipienti corrisponderebbero alle teglie da forno, ma si è ricorso al termine tegame perché già in nellaTesta, in tura archeologica per definire forme simili in ceramica a vernice rossa interna, nelle quali (cr. G. Pucci, Cumanae PP, 30, 1975, pp. 368-371) è stato proposto di identificare le cumanae patella citate dagli autori antichi. Che recipienti di que-di sto tipo, soprattutto quelli a vernice rossa interna, fossero usati per la cottura entro forno è testimoniato dai 5,rinvenimenti Pompei (Cir. S. Loescucxs, Keramik funde in Halter, in Mitteilungen Alterums-Kommission für Westfalen 1909, p. 268). Per la raccolta completa delle Fonti antiche vedi W. Hioens, Lateinische Gefassnamen, Dusseldorf 1969. par un "^ M. Bars, Vaisselle cit, p. 67 55. distingue infatti la patina per la cottura a fuoco lento “ἃ flancs peu èvasés terminès rabombe, lagerement general en creux fond et couvercle, un recevoir à dedtinèe gorge une par parcouru marli sans ou vec bord forno con "lancs phus courts, recilignes rement plat derivata probabilmente dalla lopas reca, dalla patina perla cottura entro simple ra &vasés à legèrement rentrants, à bord èpaissi (en amande, en triangle, en rectangle) ou non, parcouru ou non par uneQuest'ultima, plat”. mure (mais le couvercle éventuel peut aussi bien s'appuyer directement au sommet du bord interne) et fond che non sembra avere precedenti in età greca, secondo Bats è probabilmente una creazione dell'Italia centrale BI; # La forma A5 ha infatti un orlo del tutto simile a quello del tipo 1 della forma A6 e a quello del tipo 3 della formarisulTorlo del tipo 2 della forma A6 ὃ simile a quello del tipo 4 della forma BI. Che queste forme siano strettamenteHI correlate ta d'altronde dal fatto che, perla forma del'rlo, trovano tutte confronto nella Forma Ostia I , fig. 310-Ostia fig. 108 in ceramica africana a patina cenerognola. * La ceramica comune da Agrigento (Area del Quartiere Ellenistico Romano), Università degli Studi di Messina, Facoltà di Lettere e Filosofia, Anno Accademico 1991-92. *7 Cfr. I. Dorz-N. Keay, Excavations at Sabratha 1948-1951, II, The finds, part I, Glouchester 1989, fig. 59, tipo 286.2199 in JRS Monograf. n. 2, 1986, fig. 8B, n. 140. Cir. ΒΜ. Kenrick, Excavationsat Sabratha 1948-1951, » Cfr MG, Furon-D.P.S. Peacock, Excavations at Carthage I ci. fig. 56 forma 7; J. Dons-N. Keay, Excavations at Sabratha, cit, fig. 59, tipo 286. 364. LiniziI sec. d.C). ἐν Cfr Forma Ostia I, 314in ceramica a patina cenerognola (seconda metà deldatabile a partire dal I sec. d.C; cfr. PM. ? Produzione probabilmente tripolitana o della Tunisia centro meridionale, cit, p. 126 e fig. 34, ipi 58, 60, Kexucr, Excavations at Sabratha, cit, fig. 92, 42-43; I. DoRE-N. Keay, Excavations at Sabratha, Libya Antiqua XI-XII, 1974-1975, pp. 62, 63; G. Pucci, La ceramica, in A Vv. Lo scavo a Nord del Mausoleo A di Sabratha,Sidiin Khrebish Benghazi (Berenice), Suppl. a 69:13, JA. RILEY, The coarse pottery [rom Berenice, in A. Lion (ed.) Excavations at Libya Antigua V, IL Tripoli 1979, ig. 127, nn. 941-942; Ostia II, 331, p. 416. 5 Cf. M.G. Futrono-D.P.S. Peacock, Excavations at Carthage I, it, fig. 56, forma 7; M.G. Furronp:D.P.S. Peacocx, Excavations at Carthage The British Mission vol. 11,2, 1994 fig. 4.4, tipo 8. 335

? Chr. J. Donz-N. Keay, Excavations at Sabratha, cit. fig. 59 tipo 286; P.M. Kenrick, Excavations at Sabratha, cit, fig. 88, mn. 140-142. ?* CfrN, Ben Laznec-DJ. Marninoty, Leptiminus, cit, p. 144, tipo 33 ® Chr. J. Dore-N. Keay, Excavations at Sabratha, cit. fig. 61 tipo 290.4015 - variante del tipo 286 corrispondente alla forma Al - e fig. 64 tipo 315. * Cfr. I. DREN. Keay, Excavations at Sabratha, cit, fg. 61, tipo 288.2283, variante non in Pantellerian ware del tipo 286 corrispondente alla forma Al. ? Questa forma di ceramica da fuoco è molto diffusa in contesti di età repubblicana; essa è infatti attesta a Cosa (SL. Dysow, Cosa: The utilitarian Pottery, in MAAR, XXXIII, Roma 1976), a Sutri (G.C. Duncan, A Roman republican pottery from the vicinity of Sutri, in PBSR XXXIII, pp. 135-176) a Ventimiglia (N. Lausocuia, Gli scavi di Albintimilium e la cronologia della ceramica romana, Bordighera 1950), a Luni (A. Fnova (ed), Gli scavi di Luni I, Roma 1973) a Pompei (M. Bowcan Jovio (ed), Ricerche a Pompei. Linsula 5 della Regio VI. Campagne di scavo 1976-79, in Biblioteca Archeologica, 5), ecc. ™ Chr. J. Donz-N. Ksar, Excavations at Sabratha, cit, fg. 61, tipo 292.2309; G. Poca, La ceramica, cit, p. 108, n. 209 forse in Pantellerian ware. ? Cir. N. Bex Lazanc-D.J. Marmor, Leptiminus, cit, p. 144, type 32. » Cfr. ΒΊΑ. Wüison, Un insediamento, cit, fig. 13, n. 2. » Un confronto puntuale può stabilirsi con un esemplare in ceramica africana a patina cenerognola cfr. Settefinestre II, tav. 32, n. 1, Ρ. 117, considerato come appartenente alla forma Ostia II fig. 310-Ostia ΠῚ, fig. 108 e probabilmente da collocarsi tra il tipo Ostia ἢ, 312 e il tipo Hayes 199. ® Cfr. Forma Ostia II, fig. 310-Ostia ΠῚ, fig. 108, in Atlante delle Forme ceramiche I (abbrev. Atlante 1),p. 218 ss. ? Cfr. G. CasteLAni-B. McConvri, A Rural Settlement, εἷς, p. 33, fg. 8, n. 8643. Nella villa di Contrada Saraceno la Pantellerian Ware è stata rinvenuta nei contest della I fase, databile dalla fine del ILini IT ad un momento imprecisato del IV sec. d.C. e, soprattutto, in quelli della IT fase che inizierebbe dopo il 312-317 e durerebbe fino agli inizi della 25 metà del IV sec. d.C. * Cr. J. H. Howrey (ed), The Circus and a Byzantine Cemetery at Carthage, vol. I, Ann Arbor 1988, fig. 17, nn. 335, 337 (fine IV-inizi V sec. d.C.) > Gli esemplari rinvenuti a Termini Imerese (cfr. O. Belv&DERE-A. Buncto-M.S. Rizzo, Termini Imerese, cit., p. 245) presentano tre anse; lo stato di conservazione del materiale rinvenuto nel Quartiere non ci consente di indicare con precisione il numero delle anse. * Cfr. MG. FutroRo-D.P.S. Pracoc, Excavations at Carthage I cit. Bg. 55, forma 3.5; J. H. Ἠυμρηκευ, The Circus, cit, pp. 494-495, fig. 17, n. 333. 7 Chr. J. Doas-N. Keay, Excavationsat Sabratha, cit, fig, 61, tipo 298.3922 a fondo piatto. © Chr. N. Ben Lazaro-D.I. MATTINGLY, Leptiminus, ci, p. 144 tipo 37. » Cfr. O. BeLveDERE-A, Buncio-M.S. Rizzo, Termini Imerese, ci, pp. 165-166, nn. 163-164, rinvenuti in contesto del primo trentennio del V; a Termini Imerese questa forma è attestata anche in contesti di fine IV-inizi V e della seconda metà del V sec. d.C. “©^ Cfr. Bonacasa Canna, Canna, Agrigento, cit, fig. 72, 86.595. In R. R. M. M. Boxacasa Agrigento, cit i tipi 86.595 e 86.279 sono considerati come appartenenti ad un'unica forma; mentre noi riteniamo, in base alla diversa conformazione della vasca, che il tipo 86.595 sia una pentola del tipo A8/2 e il tipo 86.279 sia una casserucla riconducibile alla forma B2. Le due forme dovettero essere probabilmente coeve. © Chr, LA. RILEY, The coarse pottery, cit, "Late roman cooking ware 1”, figg. 105-106, nrr. 539, 541, 543, 544 di produzione locale databili agli inizi del VI sec. d.C. ma forse anche prima. Secondo l'autore questa forma sarebbe stata sviluppata "soJely by the local Cyrenaican pottery industry”, questa affermazione oggi andrebbe probabilmente rivista. © Chr. J. Dore-N. Krav, Excavations at Sabratha, ct. figg. 61, 64, tipo 299. ^ Cfr. F. Viuueoie, Turris Libisonis, cit. tipo 10, p. 310, fig. 164. Datazione proposta V sec. d.C. (ed oltre?) © Cfr. AM. GiuteLiA-G. Borcserr-D. Smarrna, Mensae e riti funerari in Sardegna: la testimonianza di Comus, in Me. terraneo tardoantico e medievale. Scavi e ricerche 1, Taranto 1985, p. 104, tav. XXXIII, n. 157 a fondo però piatto c realizzata con argilla grigia probabilmente locale. © Una simile evoluzione dell'orlo si ha nella forma Ostia II, fg. 310-Ostia II, fig. 108 in ceramica africana a patina cenerognola. Carandini (Ostia III pp. 411-413) ha individuato per questa forma quattro fasi evolutive (iniziale, intermedia, finale e della decadenza). Secondo lo studioso non si tratterebbe di una evoluzione lineare ma del sorgere e del prevalere in epoche successive di alcune varianti di una forma fondamentale. Per i tipi B1/1 e B1/2, cfr. rispettivamente Ostia II, 320, 322 e Ostia I, 311-312 (fase iniziale dall'età flavia alla metà del II sec. ca, anche se secondo lo studioso l'inizio della produzione dovrebbe essere più antico). Per il tipo B1/3 cir. Ostia II, 104, 324 (fase intermedia dalla tarda età flavia fino alla metà del II sec. ca). Peri tipi BL/A, BUS e BU cfr. Ostia ΠῚ, 267; Ostia I, 265; Ostia IV, 52 (fase finale dalla prima metà del T fino al V sec. d.C.) © Chr. J. Dore-N. Keay, Excavations at Sabratha, cit, fig. 61, tipo 296.2319. * Cfr. N. Bex Luzuro-D.I. Ματτινοῖν, Leptiminus, cit, p. 144, n. 35. © Chr.G. Pucci, La ceramica, cit. p. 108, fig. 212. 5 Cir. RM. Bonacasa Canna, Agrigento, cit, fig. 70, tipo 86.415 e sue varianti 86.700 e 86.611. Un confronto può forse stabilirsi anche con un esemplare rinvenuto a Favara (cfr. G. CasteLLANa-B. McConuet, A Rural Settlement, cit, p. 33, fig. 8, n. 86/16) ? Cfr. R. M. Bowacasa Canna, Agrigento, cit, fig. 70, tipo 86.571 e sua variante fig. 71, 85.88. © Cl. G. CasteLLANA-B. McConnet, A Rural Settlement, cit, p. 33, fig. 8, n. 86/15, 86/19. Per la cronologia vedi supra nota 33. 336

? Cfr. O. BELVEDERE-A. Buncuo-M.S. Rizzo, Termini Imerese, cit, p. 180, nn. 588-589, in contesti della fine del IV-prima metà V sec. d.C. * Cfr. G. Pucci, La ceramica, cit, p. 108, fig. 211 in contesto databile al 300 ca. anchese non si possono escludere intrusioni da livelli più tardi. Un confronto può forse stabilirsi anche con J. Dore-N. Keay, Excavationsat Sabratha, cit, fg. 61, n. 295.2318 datato al tardo VI see. d.C. * Cfr- R. M. Bonacasa Cut, Agrigento, ci, fig. 71, tipo 86.906 e variante 86.456, * Cfr- J.H. Hüwrimex, The Circus, it. fig. 17, nn. 336, 338 (fine IV-inizi V sec. d.C.) © Cfr. O. Brivenens-A. Burcio-M.S. Rizzo, Termini Imerese, cit, p. 188, n. 866e p. 189, n. 909 rinvenuti in un contesto della 25 metà del V sec. d.C. * Cfr. J. DoRE-N. Kar, Excavations at Sabratha, cit.fig. 61, tipo 296.2319. » Il tipo 296 di Sabratha corrisponde infatti al tipo BU2; mancano invece ancora confronti per i tipo B1/1 la cui cronologia potrebbe essere anteriore. “ὦ Cfr. G. Pucci, La ceramica, cit.p. 108, figg. 211-212. © Cfr: O. BeLveDERE-A. Buncio-M.S. Rizzo, Termini Imerese, cit, nn. 866, 909, pp. 244-245;G. CastetsaNa-B. McCONNEL, A Rural Settlement, cit, p. 33, lg. 8, nn. 86/15, 86/19, 86/16; R. M. Bowacisa Casta, Agrigento, cit, figg. 70-71. © Cfr. M.G, Fuironp-D.P.S. Peacock, Excavations at Carthage I, cit, fig. 55, forma 3.1, 3.4 (datazione proposta dal IV sec. 21450475 d.C.); cfr. 1. H. Humpaney, The Circus,cit, p. 495, ig. 17, 334. © Cfr. R. M. Bonacisa Canna, Agrigento, cit, fig. 72, tipo 86.275. ** Cfr. JA. Rue, The coarse pottery, cit., fig. 123, n. 865. © Cfr. Atlante I, p. 217 (fine del Linizi del V sec. d.C). ** Cfr.J. DoRE-N. Keay, Excavations at Sabratha, cit. figa. 64-65, tipo 305. © Cir. M.G. Funror-D.P.S. Peacock, Excavations at CarthageII, cit, fg. 4.5, n. 21.2 ^ Riteniamo opportuno precisare che non siamo in grado di affermare con certezza se la sequenza tipologica proposta corrisponda alla sequenza cronologica. È infatti probabile che non ci si trovi di fronte ad un'evoluzione tipologica lineare e pertanto tipi differenti possono essere stati prodotti contemporaneamente, anche se limitatamente ad alcuni periodi. © Cfr. S.L. Dyson, Cosa, cit, fg. 28, PD 1-2 (2 forse in ceramica a vernice rossa interna), rinvenuti in un deposito databile tra gli inizi del IL l'ultimo quarto del 1 sec. a.C. 7 Cfr. J. Donz-N. Kray, Excavations at Sabratha, cit, fig. 61, tipo 294. ? Cfr, S.L. Dyson, Cosa, cit, fig. 29, PD 14-15 (prima metà del I sec. a.C.) e fig. 59, LS 51 rinvenuto in un deposito databiJe alla fine del I-inizi Il sec. d.C. π Chr. G. Pucci,La ceramica, cit, p. 90, figg. 142-143 rinvenuti in associazione con materiale databiletra la metà del Il e la fine del Il sec. d.C. τ Cfr. J. Donz-N. Keay, Excavations at Sabratha, εἰς, fig 61, tipo 293. 7 Cr; N. Ben Lunec-D.J. MATTINGLY, Leptiminus, cit, p. 144, tipo34. ? MG. Fucsorp-D.P.S. Peacock, Excavations at Carthage I, cit. fig. 55, forma 1.1. % Cfr. G. Pucci, La ceramica, cit. p.90, nn. 139-141 rinvenutiin associazione con materiale databile tra la metà delIL ela. fine del II sec. d.C. 9 Cfr. SL Dysox, Cosa, cit. fig. 59, LS 54 (in deposito databile dalla fine del Lagli inizi II sec. d.C, ma forse anche IV sed). ® Chr. Ostia I, fig 405 (II sec. d.C). 7 In MG. Futrorp-D.P.S. Peacock, Excavations at Carthage I, εἰς. p. 157 si propone di datare questa forma dal Tag inizi del V sec. ἃ Οἱ ma il confronto con esempari rinvenuti a Cosa (cfr. nota 69) consente forse di rialzare la cronologia iniziale della forma. * Cfr. MG. Fuironp-D.P.S. Pracock, Excavations at CarthageII, cit. fig. 4.8, tipo 2.2. at Sabratha, cit, tipo 309 per l'illustrazione vedi fig. 39 tipo 95. © Cfr. J. Donz-N. Krav, Excavations IV sec. d.C.) e sua variante Canna, Agrigento, cit, fig. 72 forma 86/420 Gn contesto della 2' metà del © Cfr. R. M. Boxacass 85/99 (in contesto databile dal IV alla metà delV sec. d.C.) © Cfr. O. BELVEDERE-A. Burcio-M.S. Rizzo, Termini Imerese, cit.p. 166, n. 165. * Cfr, M.G. Futroro-D.P.S. Peacock, Excavations at Carthage 1, cit, Bg. 56, forma 5 (datazione proposta dal 475al 500 d.C) e DPS. Peacock, Pottery, ci. fg. 36. * Cfr.R. M. Boacsa Canna, Agrigento, cit, fig. 73, forma 85/586 e sua variante 86/583. » Cfr. O. BeLveneRE-A. Buncio-M.S. Ruzzo, Termini Imerese, cit.p. 163,n. 147. V sec. d.C.) The Circus, it, fig. 17,n. 340 (fine IV-inizi cit, fig. 36; J. H. Hunmuney, © Cfr, D.P.S. Peacock, Pottery, » Chr. M.G. Furrorp-D.P.S. Peacock, Excavations at Carthage IL cit. fig. 48, tipo 6.3 » Cfr. R. M. Boxacasa Canna, Agrigento, ct. fig. 72, forma 86.585. » Cfr. G. CasteLLaa-B. McCown, A Rural Settlement, cit, p. 3, fg. 8, nn. 86/5 e 86/10. » Cfr. DJ. Pracocx, Pottery, cit. fig. 36. © Cfr.N. BEN Lazaec-D.J. MArmNGLY, Leptiminus, cit, p. 144, tipo 36. » Chr. I. Done-N. Keay, Excavations at Sabratha, cit.fig. 64, tipo 311.2330. % Cfr. Ostia I, 403 (II sec. d.C). 5. Cfr. 1A. REY, The coarse pottery, cit, "Lid type 8", p. 325 (1 sec. d.C)

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GRAZIELLA FIORENTINI DIONISO, IL SATIRO E IL “MULO” IN UN VASO PLASTICO DA RAVANUSA

Tra il luglio e il dicembre 1996 una breve ma fruttuosa campagna di scavo - intrapresa a seguito di rinvenimenti fortuiti per lavori di un cantiere edile — ha consentito di individuare l'area di una ricca necropoli alla periferia del moderno abitato di Ravanusa (AG), nei pressi di via Olimpica. Dell'insediamento greco-indigeno di Monte Saraceno erano state sino ad allora localizzate due aree cimiteriali, l'una (la più antica) ad Est, l'altra (non anteriore alla metà del V secolo a.C.) lungo le pendici Ovest e Sud-ovest del monte stesso, sede dell'acropoli e dell'abitato che, in posizione dominante sulla valle dell'Himera, presenta continuità di vita dalla metà del VII alla fine del IV-inizi III sec. a.C., con una fase di massima floridezza ed estensione tra la metà del VI sec. e la meta del V sec. 8.0."

La necropoli di via Olimpica si sviluppa su un'ampia area che segue l'originario pendio di una

collinetta marnosa a Nord di Monte Saraceno, pendio ormai in gran parte obliterato dai riporti di terreno realizzati nel tempo da lavori di urbanizzazione dell'area. Gli scavi hanno interessato tre settori: il settore A e B più direttamente connessi con gli interventi del cantiere ed il settore C, relativo ad un'area contigua ai precedenti, ma risparmiata dagli sbancamenti edilizi, anche se non indenne da più antichi lavori agricoli di arature*. La tipologia, la qualità e la cronologia delle tombe e dei corredi di quest'ultimo settore si differenziano notevolmente rispetto a quelle della zona contigua. Infatti, mentre nel settore B prevalgono povere tombe in tegole alla cappuccina con scarsi corredì in ceramica locale, inquadrabili nella seconda metà del V sec. a.C., e nel settore A si sono individuate, più che altro, resti di strutture circolari in pietra e straterelli di bruciato, forse legati ad ustrina e a riti sacrificali della necropoli, nel settore C — che occupa la parte più occidentale della necropoli stessa - si riscontra una notevole varietà nella tipologia dei contenitori tombali ed una maggiore ricchezza e abbondanza di corredi delle varie tombe, tutte databili tra gli ultimi decenni del VI sec. a.C. e la prima metà del V sec. a.C. e, pertanto, il suddetto settore di necropoli è relativo alla fase di maggiore prosperità ed estensione della città ellenizzata. Delle quattordici sepolture portate in luce in questo settore, nove sono costituite da sarcofagi fittili di varia tipologia: a) con copertura a spioventi e cassa rettangolare, talora con decorazione ad elementi architettonici di semicolonne doriche sulla parete esterna (sepp. 26 e 28); b) con cassa e copertura ad orlo rettangolare e pareti a fondo convesso a “vasca”. Una sepoltura era alla cappuccina con embrici fittili e lastre di gesso (sep. 29); un'altra alla cappuccina di soli embrici (sep. 31); una sepoltura era costituita da grande fossa coperta da lastre di gesso (sep. 33); due sepolture erano ad u: trino, una per deposizione monosoma (sep. 21), l’altra per deposizioni plurime (sep. 32). Da questo settore di necropoli (settore C) proviene il reperto di cui in questa sede ci occupiamo,

facente parte del ricco corredo della sepoltura n. 25. Si tratta di una tomba intagliata nel banco marnoso, orientata N/NW — S/SE. Del contenitore fittile rimaneva solo la cassa inferiore, parzialmente danneggiata dai lavori agridi tipo rettangolare con bordo piatto lievemente sporgente, a pareti verticali, delle dimensioni h. 0.30. Si tratta, pertanto, della tomba di un bimbo o giovanetto, anche se non si di m. 1.40 x 0. sono trovate tracce dello scheletro. TI corredo, deposto sul fondo, era così composto e ripartito: nell'estremità S/SE, 2 lekythoi attiche ed un'olpe acroma locale, all'estremità N/NW, due vasetti acromi miniaturistici (un askos e una brocchetta), 2 lekanides, 1 piccola oinochoe trilobata plastica configurata a protome femminile c, infine, altro vaso plastico di fabbrica attica, a figure rosse, che qui presentiamo. 339

Vaso plastico attico da Ravanusa con scene dionisiache (lato frontale).

Vaso plastico attico da Ravanusa con scene dionisiache (lato posteriore).

Il vaso ha forma composita, costituita dal vero e proprio recipiente inglobato in un gruppo plastico (satiro su quadrupede: h. tot. cm. 26; lung. max. cm. 22,5; h. supporto cm. 8,5; larg. max. base cm. 7,7; larg. max. supporto cm. 7,5) (figg. 1-2).

Si tratta di una sorta di pisside stamnoide, a corpo ovoide, collo cilindrico, bocca sagomata a listello sporgente per l'appoggio del coperchio (perduto), vernice nera con decorazione a figure rosse sui due lati. (h. cm. 13; diam. bocca cm. 7,3; diam. bocca con listello cm. 8,01; diam. max. corpo vaso cm. 9,09).

Pressoché al centro di ciascuna delle due pareti è applicato un astragalo fittile, in posizione verticale, attraversato da un foro, dipinto a vernice rossa quasi completamente perduta (h. cm. 3; larg. cm. 2,2). Il recipiente poggia sul dorso di un quadrupede (muletto o asino), stretto tra il collo dell'animale che vi aderisce verticalmente con la criniera, e la testa e le braccia del satiro che lo monta posteriormente. L'animale stante, con gambe ferme in posizione verticale, il collo eretto, il muso sollevato, puntato in avanti, l'orecchio sinistro, portato obliquamente all'indietro, si congiunge con la punta al collo del vaso (l'orecchio destro è perduto). Meglio conservate le notazioni sovrappinte sul lato destro, realisticamente rese: la criniera è indicata da una banda di vernice bruna, una fascia nera appuntita scende obliquamente sulla spalla del quadrupede. Gli occhi ben aperti, con arcate orbitali e bulbo aggettanti, hanno contorno a mandorla definito da una linea di vernice bruna. Sul muso sono accennate le froge, mentre la bocca è definita dalla linea di contorno a vernice nera e da una rientranza allungata, campita a vernice rossa, attraversata longitudinalmente al centro da una linea nera interrotta da tratti verticali (indicanti, forse, il morso e la dentatura); la parte anteriore del muso, campita a vernice bianca, è protetta da una museruola, definita da una fascetta rossa collegata al nastro dello stesso colore che avvolge orizzontalmente il capo dell'animale*; una serie di punti neri circonda alla bocca sul lato destro. Il ventre dell'animale, sia sul lato destro che sul sinistro, presenta una campitura a vernice bianca dal contorno curvilineo che sembra rappresentare, più che una sorta di "sottopancia", il colore del pelame*, attraversato nella parte anteriore e posteriore da cinghie o cordelle a vernice rossa in parte scomparsa, evidenti solo sul lato destro dell'animale. Gli stinchi presentano tratti trasversali paralleli a vernice bruna indicanti le striature del pelo; vernice bruna anche sugli zoccoli. Le gambe dell'animale aderiscono alla parete verticale del supporto che gira sui quattro lati e si allarga lievemente alla base a rappresentare il suolo, dipinto a vernice rosso-bruna. Sui due lati maggiori del supporto, decorazione a figure rosse su fondo nero che simula lo spazio vuoto tra le gambe del quadrupede. Il satiro è aggrappato, a cavalcioni, sul dietro dell'animale, con la gamba sinistra flessa e la punta del piede appoggiata al suolo, mentre la gamba destra è piegata ma sollevata, aderente al ventre dell'animale; i piedi sono avvolti in pantofole a vernice bianca in cui sono riconoscibili le rustiche scarpe di pelame usate dai pastori; sui polpacci, lunghi peli ondulati a vernice nera. Curvando il dorso, egli appoggia il petto ed il lato destro della testa al recipiente che sembra in parte sostenere con il braccio sinistro portato avanti mentre la mano sinistra doveva essere rappresentata dipinta, posata sul fianco dell'animale (tracce impercettibili); il braccio destro, anch'esso portato avanti, ma lievemente piegato, afferra con la mano il fallo dell'animale, espresso a vernice bruna. La testa del satiro, dal cranio dolicocefalo, è calva e la chioma - a vernice rosso-bruna -- è limitata ad una sorta di rotolo attorno alla fronte, a qualche pelo sull'occipite e ad una striscia attorno alle orecchie equine, dipinte di rosso nella parte anteriore. Un'abbondante barba rigonfia, anch'essa espressa in unica massa, circonda il volto sino all'attacco della chioma. I tratti del volto sono resi in forma semplificata ma espressiva della rozza bestialità del satiro: fronte bassa dalle arcate sovrorbitali sporgenti, occhi dal bulbo aggettante, con le iridi il contorno delle palpebre e le ciglia radiate espressi a vernice nera; la bocca, dalle labbra rigonfie, è semiaperta, quasi in un ebete sorriso; il naso è largo e schiacciato con narici arrotondate sporgenti. Il dorso è coperto da una pelle di animale (pantera?) maculata, a fondo nero con macchie a vernice bianca espresse a brevi tratti verticalmente accostati, ricurvi e ondulati a 3; gli arti posteriori del340

la pelle di animale ricadono sul davanti, fuoriuscendo, da sotto le ascelle del satiro, le zampe a dita aperte; gli arti anteriori della stessa pelle pendono sui fianchi e ricadono con le zampe sui lati dei glutei del satiro, mentre al centro del posteriore pende la testa dell'animale, con le orecchie aperte lateralmente e il pelame del muso ricadente a destra e a sinistra; attraversa longitudinalmente al centro la pelle d'animale una fascia bianca, con tratti laterali a frangia, che si allarga in basso in un ciuffo (fig. 3): potrebbe trattarsi della coda dell'animale, ricadente all'indietro, desinente a fiocco, o, più verosimilmente, di una fascia di irsuto pelo bianco lungo il dorso dell'animale allargantesi sulla testa in una sorta di ciuffo o cespugliosa criniera. Ben reso plasticamente il modellato sia dell'animale sia del satiro di cui sono espresse la tensione muscolare del dorso e la contrazione della muscolatura dei glutei e delle gambe nello sforzo della posizione che inturgidisce le cosce e i polpacci. La decorazione figurata si svolge sui due lati del vaso (e del supporto) con scene compositivamente analoghe e inversamente simmetriche. TI lato principale (A) della decorazione figurata della pisside stamnoide corrisponde a quello che abbiamo definito il lato posteriore del gruppo plastico relativo alla parte occipitale della testa del Satiro (fig. 2). Infatti la composizione si dispiega in forma aperta con le due figure componenti la scena che volgono il corpo verso lo spettatore, mentre sul lato opposto (B) (fig. 1), le due figure corrispondenti, în posizione destra/sinistra invertita, chiudono la scena presentando di scorcio il dorso, quasi a rappresentare due momenti successivi della stessa scena, vista dal lato anteriore e da quello posteriore. Inoltre sul lato A si svolge la prima parte dell'iscrizione acclamatoria che si conclude sul lato opposto. Lato A (fig. 4): sulla sinistra un satiro completamente ignudo sembra sul punto di avere raggiunto, in una corsa danzante, il luogo di incontro per un simposio con una figura virile ammantata e compostamente assisa che gli sta di fronte, identificabile, anche per l'attributo di un tralcio nella mano sinistra, con Dioniso. La testa del satiro, dalla lunga barba, sta di profilo con lievissimo scorcio frontale che evidenzia le protuberanze arrotondate delle narici e della punta di un naso dal setto schiacciato, la bocca dalle grosse labbra semiaperte, quelle superiori marginate da lunghi baffi; il cranio è allungato e calvo nella parte superiore e sull'occipite mentre una folta chioma circonda, ondulata, le orecchie equine e ricade dalla nuca sulla spalla con lunghe ciocche serpentine pendenti; una tenia a vernice paonazza circonda la fronte e la testa; l'occhio spalancato, dalla pupilla dilatata e il sopracciglio rialzato esprimono esaltazione, ebbrezza ed eccitazione, sottolineata dal gesto del braccio sinistro portato in avanti, dal sesso eretto, dalla posizione delle gambe di cui la sinistra, con il ginocchio piegato in alto, poggia trasversalmente il piede sull'orlo di un sostegno (costituito dell'astragalo-ansa del vaso), la destra, piegata all'indietro, posa il piede sul suolo; nella mano destra, abbassata, tiene una oinochoe dal lungo manico rialzato. Ben definita l'anatomia del torso, con i pettorali segnati da due curve convergenti nella linea allungata dello sterno, le clavicole espresse con terminazione ad uncino; i muscoli addominali sono segnati a vernice nera nei contorni essenziali in primo piano (retto verticale addominale e cresta iliaca), a vernice bruna liquida le notazioni particolari delle parti in scorcio, dell'addome e del dorso. Di fronte al satiro, a destra - da questo separato dall'astragalo sporgente dal vaso che assume l'aspetto e la funzione di una sorta di trapeza - Dioniso, rappresentato assiso su diphros. 1I dio - dalla lunga barba con ciocche a frangia sul contorno, chioma ondulata, circondata da tenia a vernice paonazza e ricadente in lunghe ciocche serpentine sulla spalla - indossa un chitone sottile dal semplice bordo al collo e alla manica all'altezza del gomito, ed un himation dal ricco drappeggio che, raccogliendosi in pieghe verticali sulla spalla sinistra, parte pende con un lembo ondulato dal braccio sinistro, parte avvolge trasversalmente la metà inferiore del corpo e ricade a ventaglio sopra le caviglie, lasciando intravvedere il profilo delle gambe; liberi i piedi che indossano leggerissimi calzari segnati con sottili listelli a vernice paonazza. II volto, lievemente abbassato, accenna un sorriso, mentre con la destra porge un cantharos al satiro pronto, con l'oinochoe, a riempirlo?. 341

Fig. 1. Gruppo plastico con satiro e asino da Ravanusa; lato frontale.

Fig. 2. Gruppo plastico con satiro e asino da Ravanu- — Fig. 3. Particolare della figura plastica del satiro; lato sa; lato posteriore. posteriore.

342

Fig. 4. Particolare della scena figurata sul vaso; latoA.

In alto, a vernice paonazza, la prima parte dell'iscrizione acclamatoria che inizia con la prima lettera (H) dietro il capo del satiro, continua con altre tre nello spazio tra le teste delle due figure (O TIA) e scende, curvando, dinanzi al volto di Dioniso: D(=H O ΠΑΙ͂Σ). Tra le gambe del quadrupede, sulla parete del sostegno a fondo nero (figg. 2 e 6), una figura di satiro con coda equina, che avanza ricurvo, verso destra (la testa dalle caratteristiche analoghe, nel volto barba e chioma a quelle del satiro della parte superiore del vaso); regge innanzi a sé - con la destra leggermente abbassata e impugnando un'ansa con la sinistra - un'anfora vinaria a punta dal lungo e stretto collo con orlo a listello (assimilabile ai tipi greco-orientali, sami, ad esempio), circondata alla base del collo da una ghirlanda di edera. Anche in questa figura, dettagliate e precise le notazioni anatomiche, dal sesso eretto, alla muscolatura del petto, a quella interna ed esterna dell'addome (di cui son messi in evidenzai dentati) a quella dorsale di scorcio con la sporgenza della scapola nello sforzo dell'azione svolta. Sul lato B del vaso la scena, come s'è detto, è vista con le figure in posizione invertita e vista in scorcio dorsale (fig. 5). A sinistra Dioniso assiso, il volto atteggiato come sul lato A, porge con la destra avanzata una patera, decorata a baccellature a sbalzo, al satiro che gli sta di fronte. L'ampia manica del sottile chitone è segnata da minute pieghe ondulate e da semplice orlo all'altezza del gomito, mentre l'rimation avvolge completamente la parte inferiore del corpo e risale trasversalmente sul dorso ricadendo dalla spalla sinistra con un drappeggio di pieghe verticali dal bordo ondulato. Meglio evidenti su questo lato le modanature del diphros e le relative minute decorazioni di fregi 343

Fig. 5. Particolare della scena figurata sul vaso; lato B.

(intarsi?), sovrappinte. Di fronte a Dioniso il satiro, in posizione alquanto più stabile rispetto al lato A, si regge sulla gamba destra solo leggermente flessa, mentre la sinistra piegata in avanti poggia orizzontalmente il piede sul piano superiore del sostegno-astragalo; il braccio destro è piegato indietro, con la mano nascosta dietro il fianco, che lascia però vedere la parte inferiore dell'oinochoc, (completamente evidente sul lato A). Tra le gambe, il sesso sporge orizzontalmente, mentre semplici linee a vernice nera segnano le notazioni anatomiche essenziali del dorso, con i tratti curvilinei dell'anca e della scapola e la linea allungata della muscolatura dorsale che asseconda la posizione leggermente piegata del torso; la mano sinistra è portata in avanti al di sopra della patera che porge Dioniso, e da sotto il braccio proteso spunta la parte inferiore della barba, mentre al di sopra della spalla, il volto di profilo evidenzia il naso schiacciato con le sporgenze arrotondate della punta e delle narici. Nella parte superiore del vaso, tra il volto di Dioniso c quello del satiro, la conclusione dell’ iscrizione acclamatoria (KALOS) evidente solo nelle tracce opache della vernice scomparsa e in particolare le prime due lettere (KA) tra la fronte di Dioniso e la mano protesa del satiro; le tre rimanenti, al di sopra dell'avambraccio del satiro stesso (AOS). Sulla parete a fondo nero del sostegno (figg. 1 e 7), tra le gambe del quadrupede, satiro ignudo con coda equina che corre verso sinistra piegato sulle ginocchia (idealmente, all'incontro del compagno con l'anfora), il torso ruotato frontalmente, il braccio sinistro flesso all'indietro, con la mano posata sul fianco, il destro piegato in avanti, regge verticalmente un r/rytón (corno potorio) al quale è rivolto, verso l'alto, il volto dagli stessi tratti e caratteristiche delle altre figure di satiri già descritte, con la stessa espressione ebbra; tra le cosce emerge il sesso eretto, anche le notazioni anatomiche del torso (delle clavicole, dei pettorali e della cresta iliaca) sono efficacemente rappresentate come 344

Fig. 6. Particolare della scena figurata sul supporto; lato A (parte posteriore del gruppo plastico).

Fig. 7. Particolare della scena figurata sul supporto; lato B (parte frontale del gruppo plastico).

nei satiri del lato A. A vernice scomparsa è leggibile l' iscrizione acclamatoria: H PAI la prima lettera (H) innanzi alla punta del rhyton, la seconda e la terza (PA) al di sopra della fronte del satiro, la quarta (1) al di sopra dell’ omero sinistro.

Si tratta, indubbiamente, di un pezzo di straordinario interesse. Innanzitutto va rilevato come siano assolutamente rari i vasi plastici di produzione attica con figure di animali interi (comuni, invece, nella produzione orientale ed egeo-cipriota nel II millennio, con rari attardamenti locali). In Attica, invece, a partire dagli ultimi decenni del VI e soprattutto gli inizi del V, compaiono i vasi configurati a protome animale ed umana che vanno sotto la denominazione di rytdn, anche se tale definizione dovrebbe essere esclusiva dei vasi provvisti del particolare accorgimento tecnico di un apposito foro di uscita per versare i liquidi, a prescindere dalla forma‘. Tra i rari esemplari di forme più complesse di vasi plastici di produzione attica vanno citate innanzitutto le opere di Sotades (metà circa del V sec. a.C.) e tra queste, il noto gruppo di Parigi (molto imitato in seguito) del pigmeo divorato dal coccodrillo”, dell’Amazzone a cavallo di Boston, o del pigmeo che porta il trofeo della gru*. Dei vasi del nostro tipo, invece, abbiamo solo pochi e frammentari confronti relativi, innanzitutto, al noto “muletto di Dioniso” del Museo Archeologico di Agrigento, rinvenuto da P. Marconi nel 19307, in una favissa esterna ad un sacello nell'area dei santuari arcaici di Demetra e Persefone, nel settore occidentale della Collina dei Templi. 345

E h

᾿ς.

Fig. 8. “Muletto di Dioniso” del Museo di Agrigento.

Il pezzo esposto al Museo di Agrigento fu a suo tempo completato con un restauro che ha ricostruito quasi per intero la figura del quadrupede (fig. 8), secondo la “reintegrazione ideale” proposta dal Marconi, che riteniamo tuttora corretta e attendibile, anche se realizzata sulla basa di pochi frammenti relativi alla parte superiore (fondo del vaso e il dorso dell'animale) e alla parte inferiore, cioè il supporto, con porzione delle zampe e della coda del “muletto”. Della decorazione figurata sul vaso restano solo le estreme parti inferiori che consentono di individuare, da un lato, un satiro accoccolato e, dall'altra, una figura giovanile in corsa verso sinistra con bastone o tirso e, dietro a questo, una figura panneggiata che doveva reggere un capretto (o lepre) di cui resta la parte inferiore pendente. Su ciascun lato del supporto un comasta ignudo rannicchiato sotto il ventre del

quadrupede di cui uno, conservato per intero, in

equilibrio sul piede destro e sul ginocchio sinistro, regge nella destra una kotyle. Lo stesso Marconi, nel presentare il pezzo, evidenzia l'assoluta rarità dello stesso, soprattutto per Yorganicita della "fusione degli elementi contrastanti plastici e disegnativi” e "la felice unione dell figura e del vaso” ®, considerandolo il prototipo dei vasi attici plastici a figure rosse, in quanto il pi antico noto del genere. Nello stesso articolo Marconi, infatti, citava due soli esempi confrontabili, del tutto frammentari (del Museo del Louvre, di cui uno proveniente da Susa) " riferibili a “statuette di cavallo": una superstite solo nella base e nelle zampe anteriore, l'altra in porzioni delle zampe anteriori e posteriori con la coda e nella parte piana a decorazione figurata. La firma (incompleta) di Sotades su una delle due opere, stilisticamente e tipologicamente simili, indicano seriori i due esempi citati dal Marconi rispetto al “muletto” di Agrigento. Considerando in particolare quest'ultimo reperto, si rilevano immediatamente le analogie con il gruppo di Ravanusa, relativamente sia alla struttura di insieme supporto figurato-parte plasticavaso, sia agli clementi sovradipinti sull'animale (fascia cuneiforme bruna sulle spalle, strisce brune del pelame nella parte inferiore delle zampe, pelame bianco sul ventre con cordelle rosse di sostegno), oltre che, come vedremo in seguito, per la parte figurata. Entrambi gli animali sono itifallici, ma nel vaso di Agrigento il membro è espresso plasticamente e si sovrappone alla figura del comasta dipinto sotto le gambe del muletto (o asino), nel nostro esemplare, invece, è dipinto a vernice scura e ad esso si sovrappone, impugnandolo, la mano, espressa a rilievo, del satiro del gruppo plastico. Anche nel vaso di Agrigento alla parte figurata cra associata l'iscrizione acclamatoria (dietro la figura del comasta accoccolato, Marconi leggeva, appena percepibili anche allora, le lettere KA[AOZ]).

Un secondo, significativo confronto è con il frammento ricongiunto di vaso plastico del P. Getty Museum ® (figg. 9-10) comprendente il dorso e la parte posteriore di un mulo o asino itifallico e della parte del supporto decorato a f.r. Anche in questo esemplare sono evidenti le cordelle rosse attorno al ventre del quadrupede, in questo caso collegate ad un basto di cui restano i bordi a rilievo sul dorso. La decorazione figurata sul supporto presenta un satiro ignudo su ciascun lato: l'uno, coronato di edera, procede carponi verso sinistra; l'altro avanza ricurvo verso destra. Attorno a quest'ultima. figura, resti dell'iscrizione declamatoria che sembra procedere da destra verso sinistra e dal basso verso l'alto: E AL 346

Figg. 9. “Muletto” plastico con Satiri a figure rosse (frammento del P. Getty Museum).

Figg. 10. “Muletto” plastico con Satiri a figure rosse (frammento del P. Getty Museum).

Ci sembra non debbano sussistere dubbi che i tre rari esemplari considerati di vasi plastici (muletto di Agrigento, frammento del P. Getty Museum e gruppo di Ravanusa) provengano dalla stessa officina e che la decorazione figurata, se non allo stesso pittore, appartenga verisimilmente alla stessa cerchia o scuola di ceramografi. Il vaso di Agrigento, ritenuto dal Marconi opera di uno dei “pittori vicini o seguaci di Epiktetos”, viene attribuito dal Beazley alla scuola o maniera di Euthymides Ὁ L'esemplare da Ravanusa (e forse anche quello del P. Getty Museum), tuttavia, se non presenta la stessa raffinata essenzialità nel disegno e nella commisurata eleganza compositiva dei comasti del muletto di Agrigento, mostra, da un lato, scioltezza e vivacità di tratto e un uso “pittorico” della vernice liquida nei dettagli, dall'altro, un interesse per la rappresentazione dinamica e realistica della scena figurata, una attenzione per le notazioni anatomiche dei corpi in movimento che ricordano alcune scene di atleti e di komoi del pittore di Kleophrades. '* Ci sembra, infine, che il pittore del vaso di Ravanusa tenga ad evidenziare l'aspetto di vivace smodatezza della natura satiresca nell'esaltazione dell'ebbrezza dionisiaca e a rappresentare una scena di komos e di simposio in momenti successivi del suo svolgersi e da punti di vista opposti. Quanto all'uso, il vaso - come in genere, i rhyrà e la maggior parte dei vasi plastici di libagione od offerta - doveva avere una destinazione rituale. Il “muletto” di Agrigento, come s'è detto, fu rinvenuto in una favissa di un sacello del Santuario delle divinità ctonie il cui culto, per certi versi, era connesso con quello di Dioniso. * Il nostro vaso faceva parte del ricco corredo della tomba di un fanciullo o giovinetto. '* Il carattere rituale del nostro reperto è sottolineato anche dalla singolarità delle anse del recipiente in forma di astragali, dipinti in rosso, e attraversati longitudinalmente da un foro", per il quale pensiamo dovesse passare una cordicella o una catenina collegata al coperchio (perduto) per assicurare la chiusura del recipiente che doveva verisimilmente contenere sostanze legate al culto dionisiaco'* 347

Infine, ci sembra che qualche considerazione sia da aggiungere sul significato del soggetto rappresentato dal nostro vaso plastico, l'unico fra gli esemplari a noi noti che costituisca un gruppo o meglio una coppia di figure espresse per intero (non contando, evidentemente, le opere più tarde, da Sotades in poi). D'altra parte, se abbiamo sottolineato la stretta affinità tra le figure dei “muletti” dei tre esemplari sopra descritti, va tuttavia precisato che i vasi di Agrigento e del P. Getty Museum si inquadrano più normalmente nelle categorie dei vasi di versamento o di libagione come gli askoi e rhytà (e in quest'ultima categoria di forme il Beazley inserisce l'esemplare di Agrigento), mentre il reperto di Ravanusa si distingue nettamente sia per la forma chiusa del vaso vero e proprio, sia per la elaborazione e il tema della parte plastica del pezzo. Evidentemente si tratta di una scena di accoppiamento - o in ogni caso di approccio “erotico” ~ tra un satiro e l'animale, per la cui comprensione non sembra superfluo riproporre qualche riflessione sulla natura particolare di tali esseri nell'immaginario della tradizione culturale e religiosa dei Greci, tema sul quale sentiamo di condividere pienamente le osservazioni del Lissarague nel suo penetrante lavoro sui satiri e il mondo animale " Egli sottolinea, infatti, come con Dioniso vengano ri messi in discussione i principi fondamentali della cultura greca che, ponendo l'uomo greco al centro dell'universo, fissava nette barriere tra l'uomo e l'animale, il maschio e la femmina, il greco e il barbaro; lo stesso dio giunge da straniero ad Atene con il seguito di menadi e satiri, dove le donne sono menadi frenetiche, i satiri esseri ibridi, in parte uomini in parte animali, che possono abolire in se stessi la frontiera tra l'umano e il bestiale, comportandosi indipendentemente da uomo o da bestia. Tale particolare natura dei satiri viene rappresentata comunemente dalla iconografia greca laddove i satiri, come uomini, cacciano gli animali, come animali hanno rapporti alla pari con essi, prendono gli stessi atteggiamenti o, addirittura, invertono i rispettivi ruoli (satiri che camminano carponi, che si trasformano in animali da tiro e da soma, portando addirittura sul dorso altri animali)? Ciò vale anche per la sfera sessuale, in quanto essi possono rivolgersi come uomini verso le menadi, come esseri bestiali tendono ad altri animali, ad alcune specie in particolare, cervidi ed asini: in un ‘ambiguo giuoco tra caccia ed erotismo con i primi, come partners omosessuali con i secondi. Gli asini, infatti, sono animali dionisiaci per eccellenza, che ragliano e danzano partecipando comunemente ai komoi (dove, iconograficamente, sono sempre rappresentati, accanto ai satiri o a Dioniso, con contrassegni particolari del loro mantello, quali le bande scure cuneiformi sulle spalle? e le strisce nere sulla parte inferiore delle zampe, come anche nei nostri esemplari plastici). E approcci erotici tra satiri ed animali sono spesso rappresentati nella ceramica attica”, sempre rivelando l'ambiguità della natura satiresca nei suoi atteggiamenti e comportamenti che, talora, più avvicinano il satiro all'uomo, come nell'anfora di Monaco con satiro che afferra, da dietro, un asino; altre volte più lo assimilano alla bestia, come nella scena di accoppiamento tra satiro e asino nella kylix di Perouse 7865" che ci ricorda la scena di accoppiamento tra asini, di una choe di Mona60%; altre ancora, ed è il caso del satiro plastico di Ravanusa, assume aspetti dell'una e dell'altra natura. Ma del pezzo di Ravanusa ci piace sottolineare ancora la personalità e la fantasia inventiva dell'arista (che riteniamo unico autore, ceramista e pittore) proprio in connessione con l'immaginario mitologico dell'ambiguo mondo dei satiri nel loro rapporto privilegiato con Dioniso, al limite tra reale ed irreale. Ci riferiamo, non solo alla organicità e coerenza, sia formale che dei temi rappresentati, tra parte plastica e parte figurata, ma anche, e soprattutto, all'effetto giuocato sulla studiata composizione delle scene figurate in rapporto con il gruppo plastico, dove sia le figure dei satiri sotto l'animale, sia le scene dipinte sul recipiente, rappresentate da punti di vista opposti e in fasi successive, tendono ad annullare i limiti di una rappresentazione grafica ed emergere nello spazio libero, in movimento, e a presentarsi, in una specie di illusione ottica, anch'esse quasi a tuttotondo. Sorta di ambiguità che si replica anche nelle rappresentazioni alternate, del prospetto e del retro del gruppo

dove il volto del satiro plastico è rivolto verso la parte “di spalle” della scena figurata sul vaso, ma

nello stesso tempo il gesto fallico, più significativo, dello stesso satiro si svolge sotto la scena figurata principale.

Ci pare, pertanto, che lo straordinario esemplare da Ravanusa, ancora una volta dimostri come i

348

satiri siano sentiti e rappresentati dall'artista greco quali "creature immaginarie, pure costruzioni visuali” nelle quali “si manifesta la ricchezza inventiva dei pittori, come per ricordarci che l'iconografia dei satiri è soprattutto un giuoco di immagini”. NOTE

* Sulla storia delle ricerche e degl studi di Monte Saraceno, v. E. De Mino in A. Capenoxe, M. CaLzABiaNo, E. DE Mino, A Dann, A. Sitaccsio, Monte Saraceno di Ravanusa, vo ventennio di ricerche e studi, Messina 1996, pp. 1-5. Pe le ricerche più recenti (e relativa bibliografia), v.ibid., pp. 7 ss. ? Desidero ricordare e ringraziare per l'atenta e partecipe collaborazione nella conduzione dello scavo, l'archeologa Dott Valentina Cal per l'assistenza e la documentazione fotografica di scavo, Operatore Tecnico della Soprintendenza Be Culturali e Ambientali di Agrigento, sig. Profumo Giuseppe, per la documentazione grafica l'Arch. Giuseppe Cavaleri e pe il rilevamento topografico l'Assistente Tecnico Geom. G. Plano della stessa Soprintendenza. Per il restauro del reperto che qui presentiamo ricordiamo gli operatori del laboratorio di restauro della Soprintendenza, Sigg. Vincenzo Graci, Pasquale Farruggia e Franco Termine. Le riprese fotografiche dei vasi plastici sono del Sig. Angelo Pitrone, responsabile del Gabinetto Fotografico della Soprintendenza di Agrigento, * Cr il rhyton B. 378 del Britisch Museum con kantharos a testa d'asino - utilizzata tra 'altro dal Marconi per la rico. struzione del “muletto” di Agrigento (v. infra, pp. 343-44) - che presenta pure la parte anteriore del muso a vernice bianca collegata ai finimenti della museruola (v. P. Marcora, I1 muletto di Dioniso, un vaso plastico da Agrigento, in ΒΔΑ XXV, s. ll 1931,p.69 fig. 7.8) “ Tipica di una diffusa razza mediterranea, tuttora esistente, a manto grigio è la presenzadi pelame bianco sul ventre e sulla parte anteriore del muso. + Per lo schema compositivo - anche se invertito ds - di Dionis, assis su diphros, che porge il aniharos al Satiro che accorre con oinochoe, cfr. anfora a En. di fine VI scc di Bruxelles (Mus. Roy. R. 278), P. Seas, 59, figg. 11-12, LIMC, IL, p. 460 n.419, * Cfr. E. Buscuon, Das Krokodil des Sotades, in Manchner Jahrbuch, 11,1919, p. 26; I. in Furtwangler Reichhold, VI, 296; 7 CVA Paris, Petit Palais, Coll Dutuit, pl 26, 27; E. BuscuoR, Das Krotodil ci * Sui vasi plastic di produzione attica, Ch. H. Horm, Aitic Red figured Rota, Magonza 1962, che precisa, fra l'altro, che il termine rhyton è usato in Grecia solo a patire dalla fine del V sec. a.C. L'Hoffmann, inoltre, sottolinea come nella proazione dei vasi plastici, generalmente, la forma viene considerata prima della decorazione dipinta che visi adatta. Circa il processo di manifattura di tali prodotti, esso non differiva da quello dei coroplasti per la produzione di statuette, Jn genere, veniva realizzato per prima il "patri con la forma essenziale senza i dettagli (narici angoli della bocca, etc.) che venivano definiti sula matrice o direttamente sul prodotto finito Le due mezze matrici erano distinte nell parte anteriore c posteriore della testa nelle protomi umane, nei due lati sini stro c destro lungo l'asse mediano nelle protomi animali: la parte del vaso era lavorata al tornio. Le parti plastiche ricavato dalle matrici, così come la parte prodotta al torio, venivano congiunte tra loro incidendone i bordi e spalmando poi le superfici con argilla liquida (Cf. H. Horruawx, Att, ct. p. 3 ss; A. Cit Greek Pottery, London, p. 5). Nel nostro esemplare tale giunzione sembra percepibile, e solo lievemente, nella parte anteriore del corpo dell'animale. * P. Mancosa,/l muletto, ct, pp. 64-70; Io, in Agrigento arcaica, Roma 1933, p. 58: JA, Beaztey, Attic Red Figure Vase Painters 1, Oxford 1963, p. 29; P. Gurro, Il Museo Archeologico Regionale di Agrigento, Roma 1987, p. 102, p. 8I; G. Fora, Agrigento - Museo Archeologico, Palermo 1992, p.63. "è P. Magcost, Il muletto, cit. p. 68. γι Pommes, CC.RR. del Academie des inscriptions 1902, p 428; 1903, p. 216; Morcax, Memoires de la Delegation en Perse I, 1900, tav. V. * Come si desume da una annotazione su una stampa fotografica, conservata nell'Archivio Fotografico della Soprintendenza di Agrigento, del frammento contrassegnato E.326.E. (per quanto ci risulta, inedito; senza esito, le richieste di notizie al riguardo) *» V. supra, nota 9-10 μι Per le figure di satir del nostro vaso, sembra significativo il confronto con gli atleti e con i satiri della nota anfora di Monaco (CVAII, avv. 199-204), datata al 00 a.C. * Sul culto di Dioniso in generale, v. W. Βύκκεκτ, Griechische Religion der archaischen und Hassischen Epoche, 1977, pp. 251-260; 339-343; 432-440; Ip, Mio rituale in Grecia, Bari 987; H. Jewwiun, Dioniso, Religione e cultura in Grecia, Torino 1972; K. Kexzi, Dionysos Archetypical Image of Indestructible Lyfe, 1976; v. inoltre, pe i ari aspetti e temi, anche sul piano figurativo, del culto di Dioniso, bibliografia dettagliata in LIMC, I 1, pp. 419-420. "^ Non sappiamo se possa avere qualche significato, per tle circostanza, ricordare che una parte rituale essenziale delle festività delle Antesteri, in onore di Dioniso, ra svolta proprio dai fanciulli che, nel terzo giorno delle feste, dedicato agli aepettictoni c insieme propriziatori del culto, celebravano i rito di passaggio dall'infanzia all'adolescenza. D'altra parte sappiamo da Timeo che anche in Sicilia, a Siracusa, ancora all'epoca di Dionisio I si celebrava il rito delle choes in festività ana349

loghe alle Antesterie (Cfr. Timeo, Athen. 437b; V. ancheE. Ciacess, Culti e miti nella Storia della Sicilia antica, Catania 1911, p. 222). Sulle festedi Dioniso nel mondo greco, v. W. Burks, Griechische Religion, cit., pp. 358-364; ID. Homo Necans, 1972, pp. 83-85; 223-224; 236-273; L. DeuaeR, Attische Feste, 1932; G. Van Hoorx, Choes and Anthesteria, 1951; E. Stuox, Festival of attica - An Archaeological Commentary, 1983. " Frequente la presenza di unoo più fori negli astragali ossei ma sempre in senso trasversale (Cfr. P. AMANDRY, Oset coquilles, in l'Antre corycien IL, in BCH Suppl. IX, 1984, pp. 349 ss. Come è noto gli astragali, oltre che pezzi di un gioco, praticato prevalentemente da bambini o ragazzi, erano considerati oggetti magici, di significato apotropaico legatoal culto di Dioniso, o di uso divinatorio: se ne trovano frequentemente come deposizioni votive in santuari e in tombe soprattutto infantili e, in proposito, l'Amandry (P. AMANDRY, Os et coguille, cit, p. 377) avanza l'ipotesi che in alcuni casi possa trattarsi di offerte votive di giovinetti e fanciulle, consacrate all'uscita dalladolescenza o forse prima del matrimonio. Si potrebbe, suggestivamente, pensare ad una mistura di semi che, proprio nel terzo giorno delle Antesterie (Chytroî), venivano bolliti per una consumazione rituale come auspicio di prosperità (Clr. Aristoph. Ach. 1076-1077 E Schol). * F. LissaraGue, Les Satyrs et le monde animal, Procedings of the third symposium on ancient Greek and related pottery, Copenaghen, 31 August -4 Septmber 1987 - Cristiansen-Melander ed., Copenaghen, 1988 - pp. 335-350. * Chr. F. Lissarague, Les Satyrs ci. pp. 338 ss, figg. 2a, 57. ^ Tali fasce, dette in greco μυκλαι, secondo Esichio caratterizzavano gli asini (Hes, ed. K. Latte, S.V. μικλαι, 1834, 1836) Cf. F. Lissasacus, Les Satyrs, cit, nota 20. Altra ipotesi è che si tratti di segni artificiali o marchi a fuoco indicanti il proprietario ola stalla di provenienza. ‘Sebbene non siano facilmente distinguibili le raffigurazioni degli asini da quelle dei muli, sembra anche a noi che nella gran parte dî queste immagini sia da riconoscere la specie, sessualmente più forte e feconda, degli asini. Sulle caratteristiche iconografiche degli asini e/o muli, v. anch. D. Vox Botan, AK 1960, p. 73; R. Lutus, in CVA Munchen, 2, p. 7; C. ΚΈκενυι, Dyonisos, cit, pp. 170, 290, fig. 55. * Cfr. F. Lissaacue, Les Satyrs cit. pp. 345 ss; Ip, De La sexualité des Satyres, in MetislI, 1 (1987)pp. 63-90 ? CVA Munchen (2), it. tav. 53,1; 56,1 ? Cfr. F. Lissagacue, Les Satyrs cit. p. 347, fig. 12. ® R, Lutues, in CVA Munchen, 2, tav. 89, 4: secondo il Lullies si trattadi un asino e di un mulo; Cfr. anche C. Keasm, Dyonisos, cit, fig. 55 ἀν F. LissARacue, Les Satyrs, cit, p. 348.

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SALVATORE GARRAFFO NUOVE RICONIAZIONI IN MAGNA GRECIA E IN SICILIA Coloro che E per virtù Non fecero Nerrarono

furono oceani di perfezione e di scienza rilucenti divennero Lampade al mondo, un passo nemmeno fuori di questa notte scura: fiabe, e poi ricadder nel sonno. Onan Koo, Roba'iyyat (trad. Bausani)

Con l'intensificarsi, negli ultimi decenni, del commercio di monete greche e romane ad opera di una sempre più numerosa schiera di case di vendita all'asta, attraverso lo spoglio dei rispettivi cataloghi ho notato un certo numero di nuovi esemplari italioti e sicelioti riconiati, non sempre tuttavia classificati come tali, e talvolta letti in maniera imprecisa. Altri casi, d'altra parte, sono stato in grado di identificare attraverso una attenta ‘rivisitazione’ di materiali appartenenti a collezioni pubbliche, italiane o estere, mettendo a frutto una capacità di ‘lettura’ maggiormente affinata dall'arricchimento della esperienza personale: esperienza che, in attesa della definizione di nuove tecnologie scientifiche, rimane ancora l'unico strumento per il riconoscimento degli esemplari riconiati e la corretta attribuzione dei sottotipi. Pertanto, in attesa del necessario aggiornamento del mio lavoro del 1984*, ormai da tempo in preparazione, segnalo in questa sede alcuni nuovi nominali in argento, molti dei quali apparsi recentemente in cataloghi di vendita all'asta stranieri, che ritengo di un certo interesse per una migliore comprensione del fenomeno della riconiazione nella monetazione italiota e siceliota. Dedico le pagine che seguono al prof. Ernesto De Miro, il quale ha sempre tenuto in gran conto nei suoi studi la testimonianza numismatica. Poseiponta (Tav. I, 1)

D/TIOM (retr.). Poseidon nudo stante a d., con la clamide poggiata sulle braccia e i lembi desinenti a punta, in atto di scagliareil tridente. Circolo a nastro. R/IIOM. Lo stesso tipo del D/, a s., ad incuso.

Sotheby, London, 5/7/1995, 6 = ex Bank Leu, 45, 1988, 16, g. 7,392, Riconiato su uno statere ad incuso di Metaponto, del tipo Noe -JonxstoN, Metapontum 1-2, 101 sg. Visibile al Di, trasversalmente alla figura di Poseidon, nel campo a s., la parte superiore s. a rilievo della spiga metapontina in direzione «=, con alcune delle cariossidi e parte delle ariste; al R/, sempre trasversalmente al tipo di Poseidonia, il profilo delle cariossidi della Blas.

L'esemplare qui pubblicato è stato battuto con la medesima coppia di conii di quello, da tempo noto, del British Museum che ha utilizzato tuttavia uno dei più antichi didrammi di Akragas?. Come è stato confermato in un recente lavoro sulla monetazione di Poseidonia, la coppia di conii intere: sata è tra le più tarde delle serie incuse di Poseidonia, e può datarsi alla fine del VI secolo‘. La riconiazione su un esemplare di Metaponto, benché evidente, non è stata notata in almeno due cataloghi di vendita nei quali è apparso il pezzo. Siamo dunque in presenza del quarto statere di Poseidonia visibilmente riconiato su un esemplare di Metaponto, che si segnala per aver offerto nella fase ad incuso largo, in qualita di tondelli, il 351

90% delle monete reimpresse da zecche italiote. Il peso dello statere è stato ridotto, così come è avvenuto negli altri casi, per adattarlo a quello proprio degli stateri poseidoniati, più basso in media di 0,80 g.ca*. L'esemplare utilizzato non è riconoscibile con esattezza tra quelli catalogati dal Noe. Tuttavia, a giudicare dal profilo delle cariossidi, dalla loro successione e dalla inclinazione delle ariste, non sembra appartenere alle prime serie, quanto piuttosto a quelle più tarde ad incuso largo. Ci sembra opportuno rilevare che, come in tutta la casistica nota (vedi anche il successivo statere riconiato di Caulonia) la direzione relativa dei due conii — originario e successivo— è di 90° circa; questo è dovuto al fatto che la coincidenza degli assi, benché in teoria auspicabile, in quanto poteva assicurare una migliore obliterazione, non era in pratica realizzabile in quanto avrebbe rischiato di spaccare il tondello. Viceversa, non sempre è praticata l'identica sovrapposizione dei conii (D/ su D/ in alcuni casi, come in questo; D/ su R/ in altri). Trovrio! (Tav. I, 2) DI Testa di Athena in elmo attico a d. conla calotta decorata da Scilla che tiene in mano un tridente. R/ @OYPION. Toro cozzante a d. su linea di esergo; sopra, NY; sotto, pesce, SNG ANS 1053. Classic Numismatic Group Inc., Auction 39, 18/9/1996, 204, g. 7,82. Riconiato su uno statere corinzio delle serie XII-XIII del IV Periodo (βάνει, Poulains, II, 443 sgg.) o di Siracusa (cfr. Gisstckr, Sicilia, Tav. 15, 5). Visibile al D/, con il tipo di Thourioi in posizione J, la parte anteriore del Pegaso a s.; al R/, sulla parte posteriore del toro, il profilo del paranuca dell'elmo e la foglia (di quercia?) del RY siracusano, in direzione => rispetto al conio di Thouri.

Lo statere di tipo corinzio reimpresso è identificato nel catalogo di vendita come uno statere di Corinto, del tipo Catciam, Pegasi, I, 101. Tale attribuzione mi sembra da escludere in quanto nello statere citato la testa di Athena è rivolta a s. mentre quella del ‘Pegaso’ riconiato doveva essere chiaramente a d., giacché diversamente sarebbe stata eccessivamente ‘fuori conio’. Meno chiaro è invece se si tratti proprio di un pegaso corinzio con il simbolo della palmetta, della serie XII-XIII Ravel o se piuttosto le tracce rimaste sulla parte posteriore del toro di Thouri siano quelle della foglia (di quercia), costituente il simbolo di una rara serie di stateri siracusani che presentano al D/ il koppa sotto il "Pegaso'*; tipologia che esprimerebbe una ‘emissione di alleanza. La coppia di conii di Thouri fa parte di una sequenza interessata da numerose riconiazioni, tutte su "Pegasi' di Corinto, Leucas o Anactorium, purtroppo non databili con precisione”. Nella ipotesi della attribuzione dello statere riconiato alla zecca di Corinto, il terminus post quem è costituito dalla metà circa del quarto secolo, in quanto le serie XII-XIII Ravel appartengono ad una delle fasi seriori del IV periodo*; il temine cronologico sarebbe invece di alcuni anni più basso nel caso che il ‘Pegaso’ riconiato fosse di zecca siracusana, dato che esso va posto già in età timoleontea, probabil-

mente nella prima fase (344-339).

Cavtonia (Tov. I, 3)

D/ KAVL (retr.). Figura virile nuda avanzante a d. su breve linea di esergo perlinata. Nella mano d. sollevata sopra la spalla tiene un ramo; sul braccio s. proteso in avanti corre una piccola figura con un ramo nella d. ed uno più piccolo nella s.; nel campo, a d., una cerva retrospiciente. RI Simile, ad incuso. Circolo tratteggiato. Nor, Caulonia, 30-32. a) Athena Gmbh (Monaco di Baviera), Lagerliste 16 (s.d.), 12, p. 6,92. Riconiato su uno statere ad incuso di Metaponto, del tipo Nor, Metapontum, Classe 1 (?). Al DI, in posizione =, visibile sulle gambe del tipo di Caulo352

nia la parte inferiore della fila destra delle cariossidi della spiga di Metaponto con tracce delle relative ariste; al RJ, in posizione « rispetto al tipo di Caulonia, il contorno della fila s. delle cariossidi della spiga metapontina e le relative ariste. CauLoNn (Tav. I, 4) D/ KAVL. Simile al precedente, ma di stile più tardo e in conio più piccolo. RJ KAV. Cerva stante a d.; nel campo, a d. ramo di alloro. Noe, Caulonia, 83. Classical Numismatic Group, Auction 41, 19/3/1997, 137, g. 7,90. Riconiato su un didrammo di Akragas (piuttosto che Himera): visibile al D/, nel campo a s., tra la legenda e la figura virile, e in parte sul polpaccio, tracce del carapace e delle zampe del granchio in posizione c- rispetto al tipo di Caulonia (Tav. 1,4)

Così come nel caso di Poseidonia, anche lo statere di Caulonia reimpresso su Metaponto appartiene ad una sequenza di conii interessata da una riconiazione analoga, più precisamente della prima fase del gruppo B del Noe, che rappresenta il momento più tardo della serie ad incuso largo*, databile dopo il 510, in quanto i tondelli mostrano già una leggera riduzione: dal che deriva, ancora, un sostanziale parallelismo cronologico con il nuovo statere poseidoniate riconiato, da porre anch'esso tra il 510 e il 500 ca. L'esemplare pubblicato è il secondo statere noto di Caulonia ‘visibilmente' riconiato su uno di Metaponto. La riconiazione è stata effettuata, come al solito, tenendo la spiga perpendicolare al nuovo conio, in modo da evitare una possibile frattura del tondello; il che, tuttavia, ha determinato un grado minore di obliterazione del tipo metapontino, che risulta in gran parte riconoscibile. Non è tuttavia possibile, attraverso gli elementi a disposizione, una classificazione precisa dei sottotipi nell'ambito della sequenza Noe. Mi sembra tuttavia da escludere che esso faccia parte delle prime emissioni, dove la spiga assume una forma piuttosto piramidale: se questo è vero, saremmo dunque di fronte ad un esemplare simile a quelli riutilizzati da Poseidonia. 1I secondo statere di Caulonia appartiene invece alle emissioni a doppio rilievo, già di fase avanzata, e più precisamente alle prime coppie di conii del gruppo F del Noe. Il gruppo in questione è interessato da almeno altre quattro riconiazioni con i sottotipi purtroppo non identificabili con precisione". II nuovo esemplare riconiato di Caulonia è degno di nota in quanto testimonia la continuità della utilizzazione di didrammi sicelioti a Caulonia, così come nelle altre città della Italia Meridionale, lungo tutto l'arco del secondo venticinquennio del V secolo a.C. I tipi agrigentini, tenendo conto della forma e delle proporzioni del granchio, sembrano appartenere all'ultimo gruppo della classificazione Jenkins, databile tra il 483 ed il 472". Il gruppo del quale i conii di Caulonia fanno parte si può porre tra il 460 e il 450/445 ca. 2, e pertanto si deve postulare circa un ventennio tra le due coniazioni del didrammo agrigentino. Croton (Tav. I, 5)

DI SPOT. Tripode con le tre maniglie del lebete circolari e di prospetto su linea di esergo perlinata. Nel campoad., uccello palustre. C.p. RI Tripode ad incuso. Bourn, Cat. Pozzi, 733 Numismatique (S. Bourgey), 24/11/1995, 4, g. 8,07. Riconiato su un didrammo di Akragas del tipo Jenxns, Gela, Tav. 37, 10 sgg. (gruppi I-IV): visibili al R/, con il conio di Crotone in posizione το, la testa, il profilo della parte superiore delle ali e le zampe dell'aquila, di piccolo modulo, a s. Lo statere di Crotone si colloca in una sequenza della quale fa parte un nutrito numero di esem353

plari riconiati su didrammi sicelioti, in particolar modo di Akragas e Gela ", del cui significato ci siamo già in passato occupati. Il nuovo caso rafforza ancor più l'opinione che gran parte della produzione monetaria delle città italiote della costa ionica, databile a partire dal 470 ca., sia in effetti basata sulla riutilizzazione massiccia di numerario siceliota. Croton (Tav. I, 6)

DI Aquila in volo a d. con un ramo di alloro tra gli artigli. C. R/ KPO. Tripode su linea di esergo. Nel campo, a d., A. C. SNG V, Oxford, Ashm.Mus., 1515. Muenzen u. Medaillen A.G., Liste 535, 1, g. 7,94. Riconiato su uno statere di tipo corinzio del tipo Raves, Poulains, TI, 1001. Visibile al Di, sulla parte centrale del corpo dell'aquila, la parte posteriore dell'elmo di Athena a 5 la lettera A e la parte superiore del kantharos.

Lo statere di Crotone în questione fa parte di una ben nota serie di IV secolo interessata da nuquanto, allo stato, è l'unico a rivelare tracce che permettono un sicuro riconoscimento dei tipi originari, appartenenti ad una delle emissioni iniziali del V periodo Ravel, precisamente con koppa c kantharos, databile non prima del 340 ca. Una riconiazione su un esemplare simile ὃ stata effettuata. a Metaponto nel corso della battitura della serie Testa di Herakles con la leonté / Spiga". È dunque confermata la datazione proposta in altra sede", nell'ambito della seconda metà del IV secolo a.C., parallelamente a quella delle serie di Taranto, Metaponto, Thourioi, Velia, ampiamente discussa negli ultimi anni, ma sulla quale si dovrà comunque tornare, possibilmente allorché sarà pubblicato il merosi casi di riconiazioni su ‘Pegasi’“. L'esemplare, tuttavia, riveste particolare importanza in

promesso corpus dei ‘Cavalieri’ tarantini ad opera di W.Fischer-Bossert. Axracas (Tav. I, 7)

D/ AKRACANTO®. Aquila stante con le ali chiuse a s. R/ Granchio, Jenxans, Gela, Tav. 37, 2 (gruppo Ia).

Parigi, Bibl. Naz., Coll. Gen., 46, g. 8,46, asse 12. Riconiato su uno statere di Corinto a doppio rilievo del tipo Ravet, Poulains, I, T 88 sgg. Visibile al Di, sulla parte inferiore del corpo dell'aquila, il contorno del ventre del ‘Pegaso’ a s. c l'attacco delle zampe posteriori; al R/, con il conio agrigentino in posizione ἐς, sotto il carapace del granchio, chiare le tracce della testa di Athena a d. di piccolo modulo.

Il nuovo statere corinzio a doppio rilievo riconiato da Akragas nel corso delle prime emissioni di didrammi fa ritenere che la utilizzazione di ‘Pegasi’ come tondelli all'atto della inaugurazione della attività monetaria della colonia rodio-cretese lungi dall'essere stata episodica abbia riguardato una parte significativa del numerario corinzio esistente nell'arca, il quale sino ad allora doveva essere stato utilizzato come standard di riferimento. Vi è comunque da osservare che almeno sino ad oggi non sono note, per questa zecca, riconiazioni effettuate su ‘Pegasi’ con la c.d. 'svastika' al R/, che appaiono documentate solo da Selinunte, nell'ultima fase della coniazione dei didrammi ". 1I tondello, rispetto all'originale corinzio, appare sensibilmente schiacciato a seguito della nuova coniazione, e tuttavia in perfetta sintonia con il modulo piuttosto largo delle prime emissioni agrigentine, che si accorda tuttavia non con quello delle prime serie corinzie a doppio rilievo, bensì con quello dei ‘Pegasi’ corinzi arcaici. Un modulo piuttosto largo è pure tipico, come è noto, dei didrammi selinuntini; questi, tuttavia, nel corso della loro seriazione, sino al 480 ca., non mostrano vistosi

segni di riduzione, diversamente da quelli di Agrigento, i quali oltrepassano i 24 mm. solo nel caso degli esemplari appartenenti alla prima serie. L'osservazione puntuale della tecnica di coniazione

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dei didrammi agrigentini, ove essa risultasse differire da quella usuale a globetto con matrice di fusione bivalve, potrà fornirci qualche utile indicazione sulla consistenza di una possibile ipotesi di una riconiazione generalizzata di monete non siceliote, segnatamente di ‘Pegasi’, anche quando esse non siano riconoscibili per l'obliterazione perfettamente riuscita dei tipi originari; e, di riflesso, ci chiarirà se il modulo piuttosto largo proprio della serie agrigentina sia il frutto di una scelta consapevole, o piuttosto dell’ inevitabile schiacciamento dei tondelli in conseguenza della riconiazione. Lidentificazione dei tipi corinzi risulta difficoltosa per le scarse tracce rimaste, a seguito della notevole cura e dell'abilità con le quali è stata effettuata la riconiazione, in particolare per quanto riguarda il D/ originario, il cui asse è stato perfettamente allineato con quello dell'aquila agrigentina ". Gli indizi più significativi sono quelli ricavabili dal profilo rimasto della calotta e di parte della visiera dell'elmo di Athena, molto piccolo, e in particolare, dal rilievo dato al paranaso; la combinazione di questi elementi ci fa escludere le primissime coppie di conii delle serie a doppio rilievo, suggerendoci un R/ non anteriore a T88 e comunque non posteriore a T131, oltre il quale le dimensioni della testa di Athena non risultano più compatibili con quelle rilevabili nell'esemplare in questione ". Tenendo dunque presente questa forbice, in verità piuttosto ampia, il terminus post quem per la serie agrigentina è determinabile, con una certa approssimazione, tra il 515 e il 500 ca.®, e questo, pur nella sua incertezza, conferma comunque una data ‘bassa’ per l'inizio della monetazione agrigentina, non anteriore, grosso modo, al 510 ca.* Himera (Tav. I, 8) DI HIMERA. Gallo stante di profilo a s. R/ Granchio. SNG ANS, Sicily II, Galaria - Styella, 156.

Muenzen und Medaillen, AG., Basel, Aukt. 29, 28-2/1-3-1994, 109, g. 8,47, asse 12. Riconiato con ogni probabilità su uno statere di tipo corinzio, verosimilmente a doppio rilievo. Visibile al D/, sul corpo del gallo, la parte centrale del Pegaso a d. con la zampa anteriore d. sollevata.

L'esemplare qui segnalato è in assoluto il primo didrammo imerese visibilmente riconiato, con ogni verosimiglianza su un ‘Pegaso’ corinzio. Anche se questo non risulta riconoscibile appieno, per l'accuratezza con la quale è stata effettuata l'operazione, ponendo cio? sullo stesso asse il tipo della moneta originaria rispetto ai nuovi conii, ci sembra comunque da scartare la possibilità che l'esemplare riutilizzato appartenga alla zecca geloa, trattandosi di un didrammo con il tipo del cavaliere; in tal caso, infatti, sarebbero rimaste tracce delle gambe di quest'ultimo che non sono invece per nulla visibili. Se l'attribuzione dei sottotipi a Corinto è pertanto oltremodo probabile, non pare possibile tentare una identificazione precisa della emissione, anche a causa del fatto che al R/ sono vi bili pochissime tracce dei tipi precedenti, e segnatamente sulla parte superiore d. del carapace del granchio. In considerazione, tuttavia, del diametro non molto elevato del tondello, che pure ha subito una notevole schiacciatura e deformazione al momento della riconiazione, non pare probabile che il ‘Pegaso’ sia da riferire alle prime serie con la svastika al R/, bensì a quelle a doppio rilievo, databili dopo il 515 ca. 1 tipi imerei appartengono al secondo gruppo della classificazione Jenkins databile nell'ambito del terzo decennio del V secolo? LeoNriNt (Tav. I, 9)

DI Testa laureata di Apollo a s. C.p. R/ AEONTINON. Protome leonina ἃ s. tra quattro chicchi d'orzo. ‘SNG ANS, Sicily II, Galaria - Styella, 2344.

Cat. Bank Leu, 53, 21/22 οἵ. 1991, 31 = ex SteRNBERG, 20, 1988, 287, g. 17,22. Riconiato su un tetradrammo di Selinunte del tipo Scimomacurn, Selinus, 9 (cfr. SNG ANS, Sicily II, Galaria -Styella, 690). Visibili chiaramente al RI, sul bordo in basso del tondello, con il conio di Leontini in posizione =, parte della foglia d'appio, la parte posteriore del toro e della base. 1l tetradrammo di Leontini è il primo nominale chiaramente riconiato su un tetradrammo di Selinunte, mentre si rivelano sempre più numerose le reimpressioni effettuate da parte di Catane®, Gela e Messana. Grazie alle tracce rimaste, e in particolare alla foggia e all'altezza della base sulla quale poggia il toro, il sottotipo è chiaramente identificabile ed appartiene alla emissioni finali della prima serie dello Schwabacher, vale a dire la stessa alla quale si riferiscono tutti gli altri esemplari selinuntini reimpressi sinora noti, datata dallo studioso svedese tra il 467 ed il 445 ma certamente non anteriore al 460 ca.* I conii di Leontini appartengono invece alle prime emissioni della fase classica, da porre nel decennio 440-430; datazione, questa, che si può convenientemente confrontare con quella delle serie di Catania, Gela e Messana che hanno ugualmente riutilizzato tetradrammi selinuntini della prima fase Schwabacher.® Messana (Tav. I, 10) D/ Biga di mule guidata da auriga maschile a d. In esergo, foglia.C.p. R/ MESSENION. Lepre corrente a d. Caccamo CALTABIANO, Messana, 354, BI.

Auktiones A.G Basel, Aukt. 25, 19-21/6/1995, 141, g.16,86. Riconiato probabilmente su un tetradrammo di Acanto, del tipo Deswevx, Akanthos, Tav. V, 3 oppure V, 9 (R3). Visibile al R/ il perimetro del quadrato incuso del R/ di Acanto disposto a 45 gradi rispetto al tipo di Messana.

Il tetradrammo di Akanthos che è servito da tondello per l'analogo nominale di Messana, con quadrato incuso al R/ a forma di svastika, è il più antico nominale sinora noto delle serie macedoni ad essere riconiato in Sicilia, posto che che i tetradrammi di Mende, e, forse, di Acanto, riconiati rispettivamente a Gela c ancora a Messana, in una fase più tarda, appartengono alle emissioni seriori, con legenda al R/. Il tetradrammo è stato battuto con le prime coppie di conii della sequenza ricostruita dal Desneux, la cui fase iniziale non può risalire oltre il 530/520 a.C. *; studi più recenti, tuttavia, basati an-

che sui nuovi esemplari restituiti dal ripostiglio di Asyut”, hanno prospettato una revisione della sequenza stabilita dallo studioso belga. Per loro conto, i tipi sovrapposti trovano uno stretto parallelo con quelli di Messana dell'età della tirannide. La Caccamo Caltabiano, in verità, ha incluso gli esemplari di questa serie tra le monete ‘barbarizzate’, non riconducibili direttamente alla zecca della città dello stretto: e questo tenendo conto del R/, sia per lo stile della lepre, sia soprattutto per la legenda, in particolare per la resa della lettera N, che non trova confronti nell'ambito dell'epigrafía monetale di Messana®. Se questa tesi cogliesse nel vero, il caso di riconiazione qui presentato sarebbe ancora più interessante în quanto saremmo di fronte al primo caso di riutilizzazione di monete da parte di una zecca irregolare. La riconiazione non offre nuovi spunti per una migliore definizione cronologica delle serie interessate, visto il divario esistente tra la prima e la seconda impressione. Viceversa, essa risulta di notevole importanza in quanto ulteriore documento della penetrazione in Sicilia dei tetradrammi macedoni a partire dall'età tardoarcaica, sinora attestata solo dai ripostigli, in particolare di Messina (IGCH 2065), oltre che di Gela (IGCH 2066) e di Caltagirone (IGCH

2071), che tuttavia hanno resti-

tuito esemplari con il R/ già di tipo regolarmente quadripartito, di periodo seriore; l'arrivo dei tetra-

drammi di pieno V secolo, con legenda al R/, è invece sinora documentato solo dalle riconiazioni, segnatamente di Gela? e Messana *. 356

Qualche considerazione alla luce dei nuovi materiali

A seguito della presentazione dei nuovi esemplari reimpressi sopra discussi, riteniamo utile esprimere alcune considerazioni di ordine più generale sul fenomeno della riconiazione nella monetazione argentea in Magna Grecia e in Sicilia, ad integrazione di quelle già svolte nel nostro lavoro del 1984.

Per quanto riguarda la fase ad incuso largo, i due nuovi esemplari, di Poseidonia e di Caulonia, ambedue reimpressi su stateri di Metaponto, non modificano sostanzialmente il quadro delineato in precedenza, prospettante una riutilizzazione generalmente modesta di numerario della medesima area nell'ambito delle emissioni italiote. Anche se attraverso un riesame attento della documentazione disponibile, possibilmente con l'ausilio di nuove tecnologie scientifiche in via di elaborazione, la casistica potrà essere ulteriormente arricchita, non riteniamo comunque probabile un sostanziale mutamento dell'attuale quadro di riferimento: la particolare tecnica di coniazione adottata, con un tondello molto sottile e con il rilievo, in positivo e in negativo, dei due conii molto pronunciato, che imponeva un orientamento a 90° dei tipi relativi alla successiva impressione, non permetteva infatti un alto grado di obliterazione dei tipi in caso di riconiazione. Diversa è invece la prospettiva per quanto riguarda la riutilizzazione, sempre in epoca arcaica, di numerario non ad incuso di area diverse, della Sicilia e della Grecia Continentale (ad es. ‘Pegasi’. In questo caso, infatti, la martellatura preventiva, probabilmente effettuata a caldo, alla quale veniva sottoposta la moneta utilizzata, per aumentarne e regolarizzarne il diametro, e il rilievo comunque basso dei tipi originari, assicuravano una obliterazione spesso pressoché perfetta di questi ultimi, con un alto numero risultante di riconiazioni ‘invisibili’. La dimensione reale del fenomeno, in questo caso, deve supporsi sensibilmente superiore a quanto sinora si è pensato sulla base della osserv: zione dei pochi esemplari riconiati identificati; l'uso e Vaffinamento delle tecniche più avanzate di conoscimento è dunque indispensabile per delineare un quadro più esatto della situazione. Accanto ai ‘tradizionali’ sottotipi corinzi potrebbero forse essere ipotizzati anche altri, non escluso ad es. quelli eginetici, la cui diffusione in Occidente in età arcaica è ora provata in rilevante misura dal ripostiglio di Selinunte”. Certamente, la notevole differenza ponderale — oltre 4 g. - non ne avrà consigliata una riutilizzazione sistematica, anche se almeno un caso, pure in epoca più tarda, è forse documentato a Caulonia, e in ambito italiota non sono certo estranee le riconiazioni su nominali di dimensioni e peso ben maggiori, quali i tetradrammi sicelioti 5, In ogni caso l'evidenza del ripostiglio di Selinunte impone di ridiscutere, ormai a più di quarant'anni di distanza dalle pur brillanti ipotesi di L. Breglia sui processi di formazione dei sistemi ponderali e monetali in Magna Grecia e in Sicilia”, il ruolo politico ed economico della moneta eginetica in Occidente nella seconda metà del VI secolo. Tutto questo, come è nostra convinzione, nella prospettiva di una ormai urgente ridefinizione delle caratteristiche originali della prima fase dei sistemi in questione, nella quale, oltre agli evidenti elementi di ‘formazione’ siano, di necessità, attentamente valutati quelli di ‘derivazione’ dai principali sistemi al momento in uso nel mondo greco di origine, che invece anche nel più recente dibattito continuano ad essere sottovalutati, a favore di altri clementi di invocata circolazione ‘me terranea’ quali il piede fenicio e quello c.d. micrasiatico*. D'altra parte, riteniamo necessario sottolineare che sino a quando non saranno effettuate rigorose e puntuali analisi ponderali delle singole emissioni italiote, e in particolare di quelle della prima fase, basate su un numero significativo di esemplari, la definizione dei piedi ‘reali’ e ‘teorici’, pure recentemente e puntigliosamente perseguita, non avrà solido fondamento *.

Per quanto riguarda invece il periodo più tardo di emissioni in Magna Grecia, lo statere di Crotone ad incuso stretto e quello di Caulonia appartenente ad una serie già a doppio rilievo, documenta-

no, seppure in tempi diversi, quel massiccio arrivo di monete siceliote che deve essersi verificato negli anni tra il 470 e il 450 ca. 0 poco dopo, per la cui spiegazione abbiamo altrove avanzato alcune ipotesi di lavoro", In questa sede non possiamo non sottolineare, anche alla luce delle nuove identificazioni, così come di altre purtroppo non altrettanto chiare, la nostra impressione che alcune serie italiote, in particolare di Crotone, oltre che di Metaponto”, siano pressoché integralmente riconiate 357

su numerario dell'Isola: anche in questo caso, una attenta valutazione della tecnica di coniazione utilizzata per gli stateri italioti potrà offrirci

indicazioni preziose.

Anche per quanto riguarda la Sicilia, il numero di nominali reimpressi in epoca arcaica, segnatamente su stateri corinzi, si va lentamente arricchendo, con l'edizione del nuovo didrammo agrigentino che ha utilizzato un ‘Pegaso’ dei primi tipi a doppio rilievo. Gli esemplari di Akragas noti appar-

tengono alle prime due classi della sequenza Jenkins, databili tra il 515 e il 495 ca., addensandosi piuttosto nella prima. Un quadro attendibile della reale diffusione del fenomeno nelle serie della fondazione geloa potrà desumersi, come abbiamo già osservato, dalla osservazione di alcuni particolari tecnici dei tondelli, e più precisamente dalla verifica della presenza delle c.d. orecchiette di fusione simmetricamente poste sul bordo, tipiche del processo di fusione dei tondelli in ambiente siceliota, con l'utilizzazione di matrici bivalvi; l'assenza di queste ultime potrà indicare, con buon grado di sicurezza, l'utilizzazione di monete battute in area diversa, senza tuttavia offrirci indicazioni univoche riguardo la loro attribuzione. Ancora per quanto riguarda la penetrazione in Sicilia dei ‘Pegasi’ corinzi, l'esemplare riconiato da Himera nel corso della battitura delle serie di tipo agrigentino colma una lacuna nell'ambito del terzo decennio del V secolo. Tuttavia l'utilizzazione come tondelli, in ambito siceliota degli stateri corinzi dopo il 480 risulta, sino ad oggi, eccezionale», mentre la loro presenza nell'isola è documentata da pochi ripostigli. Cronologicamente non lontano dal didrammo imereo è il tetradrammo ‘barbarizzato’ di Messana reimpresso su un analogo nominale della Grecia Settentrionale, con ogni probabilità di Acanto. Comunque si voglia classificare e attribuire l'emissione interessata, a legenda Messenion, databile verosimilmente nel decennio 480/70, l'esemplare è del più grande interesse non solo perché rappresenta una ulteriore testimonianza dell'arrivo e della diffusione in Sicilia dalla fine del sesto sino ad almeno la metà del quinto secolo dei nominali battuti nel Nord della Grecia, ma anche in relazione al fatto che si tratta di un esemplare ‘arcaico’ con quadrato incuso al RY, la cui presenza nell’ Isola non era stata sinora rilevata.

Per quanto riguarda la seconda metà del V secolo merita attenta considerazione la utilizzazione di tetradrammi selinuntini appartenenti alla sequenza finale della prima serie Schwabacher attestata per la prima volta da Leontini, in un momento che può essere fissato attorno al 435 ca., e pertanto vicino alla data delle riconiazioni di analoghi nominali da parte di Messana, Catane e Gela. Catane, a sua volta, ha utilizzato, nell'ambito della battitura delle medesime serie, un tetradrammo di Himera le cui relazioni tipologiche e cronologiche con quelli di Selinunte sono note*. Tenendo anche conto della nuova riconiazione di Messana su Akragas, segnalata dalla Caccamo Caltabiano*, ci troviamo di fronte ad un numero ormai significativo di riconiazioni effettuate da alcuni dei centri maggiori della Sicilia Orientale su monete battute nell'Occidente dell'Isola. Il fenomeno è degno di attenzione in quanto è databile, per tutte e quattro le zecche, poco prima, o in contemporanea alla battitura della seconda serie selinuntina©, che dovette probabilmente seguire alla prima con un qualche distacco temporale. Non potendo le riconiazioni, a causa della similarità tipologica tra le due serie di Selinunte, attribuirsi ad un ‘fuori corso’, potrebbero piuttosto spiegarsi con un accentuata cesura tra due diverse zone di circolazione dell'isola, da addebitare, in tutto o in parte, a conflittualità di ordine politico e/o economico *. Per quanto riguarda le riconiazioni siceliote del V secolo, in definitiva, l'evidenza disponibile si va arricchendo, anche se lentamente, con la pubblicazione e l'identificazione di nuovi nominali. Tuttavia, a parte il caso di Messana, dai materiali noti, diversamente che nel caso della Magna Grecia, non sembra desumersi per il fenomeno in questione un ruolo significativo in seno alla produzione globale delle singole zecche; vi è pertanto qualche difficoltà ad ipotizzare che esso sia la spia della ‘esclusione della moneta al di fuori del proprio territorio locale *, che avrebbe viceversa dovuto causare una reimpressione sistematica del numerario ‘estero’. Per quanto riguarda specificatamente il caso di Messana (e quindi di Reggio), l'elevato numero di reimpressioni note si spiega piuttosto con la particolare posizione geografica sullo Stretto e pertanto con la notevole acquisizione, diretta o in358

diretta, da parte della tesoreria di moneta estera a seguito dei dazii; acquisizione che fu certamente la base per una produzione monetaria cosi elevata da essere seconda solo a quella siracusana. Per ciò che concerne il secolo successivo, e segnatamente la seconda metà di esso, è noto come questo periodo segni in assoluto la maggiore diffusione delle riconiazioni nella monetazione argentea della Magna Grecia, segnatamente su ‘Pegasi’ di Corinto e delle c.d. ‘colonie’. Qualcuno dei nuovi esemplari riconiati, identificabile con precisione (vedi il caso dello statere di Crotone) conferma il parallelismo cronologico di alcune serie di diverse poleis che sinora poteva essere ipotizzato solo attraverso la testimonianza dei ripostigli. La nuova casistica, tuttavia, di per sé non offre dati nuovi per la soluzione del dibattuto problema della datazione della monetazione argentea italiota tra l'età di Archidamo e quella di Pirro, che abbiamo avuto occasione altrove di affrontare, come siamo certi, in maniera sempre problematica e sempre rispettosi delle opinioni altrui: equilibrio, che ci spiace purtroppo notare, non sembra essere stata virtù sempre praticata“, ma che nel nostro caso ha portato al raggiungimento di risultati, sia nella direzione della definizione cronologica, sia in quella di esegesi generale del fenomeno, oggi confermati da altri studiosi*. Nell'impossibilità di riprendere la questione in questa sede, e nell’ attesa che nuove identificazioni possano portare maggiore luce su questo certo intricato problema, vorremo qui fare presente che, secondo quanto emerge sempre più chiaramente dai nuovi materiali, vi è ragione di ritenere che il fenomeno della riconiazione in età latu sensu timoleontea, vale a dire dal 345 al 317, si presenta massiccio già dalla fase iniziale: si ha infatti ragione di ritenere che diverse emissioni delle principali zecche, sia della riva ionica che di quella tirrenica, siano pressoché integralmente riconiate su ‘Pegasi’, Sarà pertanto possibile ipotizzare volta per volta, anche se in misura solo indicativa, a causa della persistente incertezza sulla esatta tiratura di ogni coppia di conii, la dimensione presunta del fenomeno in tutte le sue fasi. Solo in questo modo, e tenendo conto del fatto che siamo oggi in grado di ricostruire con buona accuratezza le vicende politiche ed economiche dell'età timoleontea, all'interno della quale la sostanziale cesura è costituita dalla grande colonizzazione del 338, si potrà dibattere con chiarezza, e soprattutto, con elementi di giudizio veramente affidabili, la plausibilità storica delle datazioni proposte in relazione alle diverse serie. NOTE * Contributo consegnato per la stampa nel luglio del 1998, 1 S. Ganearro, Le riconiazioni in Magna Grecia e in Sicilia. Emissioni argentee dal VI al IV secolo a.C., Catania 1984, successivamente abbreviato come GaxgArro, Riconiazioni. Altre abbreviazioni usate nel corso dell'articolo: ‘Arsot-Biucci, Randazzo Hoard = C. Agxotp Biuccat, The Randazzo Hoard 1980 and Sicilian Chronology in the Early Fifth Century BC (ANSNM 18) London 1980. Caccaso CALTABIANO, Messana. = M. Caccamo Carramano, La monetazione di Messana con le emissioni di Rhegion dell'età della tirannide, Berlin-New York 1993. Desweux, Akanthos = J, DESNEUX, Les Tétradrachms d'Akanthos, Bruxelles 1949. Giesscxz, Sicilia = W. Giesucxe, Sicilia Numismatica, Leipzig 1923. Jenkins, GELA = G.K. JeNknss, The Coinage of Gela, Beslin-New York 1970. Jonxstos, Metapontum 3 = A. JOHNSTON, The Coinage of Metapontum, Part 3 (ANSNNM, 164) New York 1990. Kraay, ACGC = C.M. Kraay, Archaic and Classical Greek Coins, London 1976. Noe, Caulonia = S.P. Nor, The Coinage of Caulonia (ANSNS, 9), New York 1958. Noc -Jomssrox, Metapontwn 1-2. - S. Nok, The Coinage of Metapontum, Part 1-2, with Additions and Corrections by Anne Johnston (ANSNNM 32,47), New York 1984. βάνει, Poulains = O. Ravet, Les Poulains de Corinthe, I, Basel 1936; II, London, 1948. ScHWABACHER, Selinus = W. ScHWanACHER, Die Tetradrachmenprügung von Selinunt, in Mitteil Bayer. Num.Ges. A3, 1925, pp. 1.90. è Tl peso di g. 8,30, riportato nel catalogo Sotheby è errato; vedi il catalogo dell'asta di provenienza Bank Leu. ? Gago, Riconiazioni, Poseidonia 4a. + M. Tautencio Mexsrmen, Aspetti e problemi della monetazione di Poseidonia, in Poseidonia-Paestum (Atti del XXVII Convegno di Studi sulla Magna Grecia, 9-15 ottobre 1987), Taranto 1988, p. 139 sg * Su questo punto vedi pe. G. Le RIDER, A propos d'un passage des Poroi de Xénophon: la question du change et les monand O.Morkholm, naies incuses d'Italie du Sud, in Kraay - Morkholm Essays Numismatic Studies in Memory of C.M.Kraay prima in RiconiaLouvain-la-Neuve 1989, p.59 sgg. il quale purtroppo non conosce quanto avevo ipotizzato già cinque anni 359

zioni, p. 163 sgg. Non ci sembra invece che siano state intese appieno la complessità e le peculiarità del fenomeno in Magna Grecia in Jouxston, Metapontum 3, p. 39. Ma su questo punto e su altri ritorneremo prossimamente. * Per ἢ tipo siracusano e la sua cronologia vedi R. CaxriLexa, L'emissione dei ‘pegasi’ nelle zecche siciliane, in La monetazione corinzia in Occidente (Atti del IX Convegno del Centro Internazionale di Studi Numismatici, Napoli 27-28 ottobre 1986), Roma 1993, p. 71 * Gasnarro, Riconiazioni, p. 163 sgg. Per la cronologia dei ‘Pegasi’ delle zecche di Leucas e Anactorium vedi C. Cares, The Staters of Leucas: a Numismatic and Historical Study, in La monetazione corinzia in Occidente cit., pp. 35-82; D.D. Fona‘té, The Fourth Century Mint of Anactorion, ibidem, pp. 43-60. Raves, Poulains, IL p.22. * Nor, Caulonia, p. 8 e 26-27. © Gar&arro, Riconiazioni, Caulonia, 14a-17a. ? Jexcoss, Gela, Tav.37, 15 sgg. perla datazione, vedi più avanti, a nota 19. 7? Per questa cronologia vedi Gar®arro, Riconiazioni, p.100; C.M. Kraay, A mid-fifth century Hoard from South Italy, in SNR, 66, 1987, pp.7-32. Ὁ. Gargarto, Riconiazioni,p. 104, nn. 11 sgg. Non entriamo qui nel merito specifico della definizione della cronologia iniziale delle serie ad incuso stretto di Crotone, così come di Metaponto, recentemente ridiscussa in Nor-Jonsron, Merapontum 1-2, p.37 sgg., con un abbassamento di oltre un decennio. δὲ GugRaeFO, Riconiazioni, Crotone, p. 107, nn. 42 seg, ove sono citati 8 cas di riconiazioni, tutti su ‘Pegasi’, nessuno dei quali purtroppo identificabile con precisione. Per un'altra riconiazione non adeguatamente rilevata di Crotone su un ‘Pegaso’ di IV secolo, avvenuta durante la battitura della stessa serie, vedi W.L. Gate, The Sacred Tripod. Kroton and its Coin, Mosman 1995, p.19,51 = G.Hirsch Nackf, Aukt. 10/2/1994, 73 (Cfr. SNG Dewing 908). 5 Guaarro, Riconiazioni, Metaponto, 62a; JoxxstoN, Metapontum 3, p. 64, A6.1, + Gagsurro, Riconiazioni, pp. 112-113; Jonxsrox, Metapontum 3, p. 59. © Gassarro, Riconiazioni, p. 138. ? La stessa tecnica è stata utilizzata per la reimpressione di uno statere corinzio da parte di Himera, per il quale vedi più sotto (Himera, la) " Rava, Poulains, I, p. 61 seg., nn. 120-169. ? Guusarro, in La monetazione corinzia in Occidente cit. p. 317. ?' Una migliore approssimazione sarebbe possibile ove conoscessimo la posizione relativa dei conii agrigentini nell'ambito della sequenza della prima serie di didrammi, la quale dovrà essere pubblicata a breve da Ulla Westermark. 71 GK. Jexxans, Himera: The Coins of Akragantine Type, in La monetazione arcaica di Himera fino al 472 a.C. (Atti del Il Convegno CISN, Napoli 15-19 aprile 1969), Roma 1971, pp. 27-28 etav. I, 3 (nel corpo del testo vi sono spesso richiami erronei alle tavole II e ΠῚ il che genera una notevole confusione). Per la cronologia relativa dei didrammi imeresi rispetto al IV gruppo dei didrammi agrigentini, secondo la classificazione Jenkins, vedi tuttavia le osservazioni della Westermark in Overstrikes of Taras on Didrachms of Akragas, in Greek Numismatics and Archaeology. Essays in Honor of M.Thompson, Wetteren 1979, 287-293 e Ganrarro, Riconiazioni, p. 47: cfr. PJ. RICKNELI, An Himera Mistery, in Journal of Numismatic Association of. Australia, 8, 1995, pp. 15-20. ? Per Catane, oltre a GARRAFFO, Riconiazioni, Aetna-Catane, 4a, 6a, Ta, Cat. Numismatica - Ars Classica, Aukt.1, 1989, 75 ricordato in G. Maxasano, Per una storia della chora Katanaia. Appendice. La monetazione di Katane dal Val I sec. a.C., in C tania Antica, (Atti del Convegno della S..S.A.C., Catania 23-24 maggio 1992), Pisa- Roma 1996, p. 325, 41 e tav. IV; per Gela, Gararro, Riconiazioni, Gela, 4a; per Messana, GaRsarzo, Riconiazioni, p. 135 sgg. (Messana, 6a, 8a, 9a) e le nuove identifica: zioni in Caccamo Cazzasaso, Messana, pp. 92-93 sulle quali ritorneremo altrove. Risulta degno di nota il tetradrammo di Himera riconiato a Catane in una serie interessata da riconiazioni su Selinunte, pubblicato dal Mancaxaro in Per una storia della chora katanaia cit, p. 325, 44 e tav. IV. ? Per questa cronologia vedi la discussione in Gar&ArrO, Riconiazioni, p. 141 e nota 25; Arnotp Biuccit, Randazzo Hoard, p. 46 (data finale non anteriore al 440/35, dedotta anche dall'analisi del ripostiglio di Selinunte /GCH 2084). * Per Catania, vedi Gamarro, Riconiazioni, p. 141; per Gela, vedi Jexxaxs, Gela, p. 73; per Messana, Caccamo CALTABIANO, Messana, pp. 92.93. ?* Desweux, Akanthos, pp. 24-25; In. in RBN,98, 1952, pp. 113-115. Kraay, ACGC, p. 135. 7 M. ParceN. WaccorR, Archaic Greek Silver, The Asyut Hoard, London 1975, pp. 40-42. 3 Caccamo Cacsamano, Messana, p. 354 e tav. 67,B1. ? Gamnarro, Riconiazioni, Gela, p. 134, 2a ? Gannarro, Riconiazioni, Messana, p. 136,12a; Caccamo CaLtaBlaNo, Messana, Serie IX, 383; Serie X, 418; Serie XI, 445, » Cfr. C. AkNoup Bivccai, L. BEER Tone, N.M. Waoconen, A Greek Archaic Silver Hoard from Selinus, in ANSMusN, 33,1988, pp. 524. 7? Il cui riuso è ben testimoniato in Magna Grecia: cfr. GaRRArPO, Riconiazioni, p.69, 26a (Metapontum); p. 92, Sa (Caulonia); a questo si aggiunga pol il caso degli stateri di Thasos. Per lo statere di Egina reimpresso a Caulonia, ibidem, p. 95, 13c 9 L. Breau, Le antiche rotte del mediterraneo documentate da monete e pesi, in RAAN, 30, 1955, pp. 211-326. ^ Su questo punto vedi i lavori più recenti di N.F. Parise trai quali, da segnalare: Sull'organizzazione della valuta d'argen10 nella Sicilia greca, inLa circolazione della moneta ateniese in Sicilia e in Magna Grecia, Roma 1969, pp.111-124; Struttura e funzione delle monetazioni arcaiche di Magna Grecia, in Economia e Società della Magna Grecia (Atti Convegno Studi sulla Ma‘gna Grecia, Taranto 1972), Napoli 1973, pp. 87-124; Valuta ‘calcidese’ e valuta fenicia". Un rapporto di cambio dimenticato, in RIN, XC, 1988, pp. 15-18; Unità ponderali in Occidente. Osservazionie postille intorno alle ‘Antiche rotte del Mediterraneo", in Il 360

Commercio greco nel Tirreno in età arcaica, s1. 1981, pp. 97-110; La prima monetazione etrusca. Fondamenti metrologci e funzioni, in Il commercio etrusco arcaico, Roma 1985, pp. 257-261; Unita ponderali orientali in Occidente, in Kokalos, 39-40, 1993-1994, pp. 135-141; Le prime monete. Significato e funcione, in Greci Storia, cultura, are, società, 2,1, Torino 1996, sp. p. 730. Vedi ora, tuttavia, J. ELSEN, La masse théorique des statéres milésiaques, phocaiques, lydiens, samiens et du shegel persique (δε siecle avant notre ee) in Jean Elsen S.A, Liste 191, Mai-Juin 1997, pp. 1-6. Per una motivazione ‘politica’ piuttosto che economica nella adozione dei sistemi monctali adottati dall città greche, vedi recentemente M. Gras, Il Mediterraneo nell'età arcaica, Paestum 1997, p. 150. *5 Cfr. ΝῚ Panis, Lo statere itliota fra Sibari e Tur, in NAC, 25, 1996, pp. 97-103;M. Buono, Forme di contatto e processi di trasformazione in Magna Grecia: la moneta di Sibari fondata nel 44615 a.C, in RIN, 98, 1997, p.S6 se. » Gakarro, Riconiazioni, pp. 151-153. 7 Quali quelle battute con le note coppie di coniî 233-235 Noe. » Rimanendo limitata, a parte il caso qui pubblicato, allo statere riconiato ad Erice per il quale vedi Gatearro, Riconiazioni, Ena, 1a. Ὁ Gaksatto, Riconiazioni, p. 145 con nota 65 5 Vedi Mancanano, Per una storia della chora katanaia cit. p. 325, 44 e tav. IV. + Caccauo Cattamano, Messana, p.257, 383,4, teradrammo reimpresso con l'ultima coppia di conii ella serie IX datata al 445-439. © C. Anno» Brucci, Riconiazioni Siciliane, in NAC, 25,1996, p49 sgg, ove si ricorda, ta l'altro, la nuova riconiazione di Naxos su Catane (Tipo ToroiNinla) già pubblicata in SAN 19/1, 1995, pp.24-26: perla cronologia di queste seri, con una ri della data ante 476 vedi tuttavia R. Dex, Naxos, Katane und der Fund von Randazzo, in Mitt ester Num. Ges. proposizione 34, 1994, pp. 6 ‘© Perle vicende della storia siceliota dal 440 alla Pace di Gela' vedi in generale G. Maspous, Il VI e il V secolo, n E. Gama: G. Vnus (Edd), La Sicilia antica, I I, Napoli 1980, p. 70 sag; K. MEISTER, IN Agrigentoe la Sicilia Greca, Roma 1992, p. 113 spp S. ConsoLo Luscnzn, Siracusa nei secoli V e IV a.C: un imperialismo tra democrazia e tirannide, Suppl. a Kokalos, 11, p. 49 seg. Tale periodo è caratterizzato dalla ripresa dellespansionismo di Siracusa anche verso la Sicilia Orientale, in primis verso le città calcides, che causò nel 433 rinnovo o, più verosimilmente, la stipula dei tattati con Atene e successivamente, nel 427, l'intervento diretto di quest ultima in Sicilia (per una discussione della bibliografia piu recente vedi, ad. es, G. BRUNO \Sunseri, Storia della storiografia della Sicilia Antica in Atti VIII Congresso Int. Studi Sicilia Antica [Kokalos, 39-40, 1993-1994,

D. 566 sgg.]. In tale quadro potrebbero spiegarsi, a nostro parere, le riconiazioni su Selinunte da parte di talune zecche della

zona est dell'isola, e segnatamente di Catania e Leontini, attorno al 435 ca. o poco dopo; su questo punto tuttavia, che merita ima trattazione a parte, ritorneremo in altra sede. “Diversamente argomenta la Arnold Bucchi, in Riconiazioni Siciliane cit, p. 55, citando L. BREGLA, Contributo all studio della circolazione monetale in Magna Grecia, in RAAN, 19, 1939, pp. 138-171, la quale tuttavia si riferisce specificatamente al caso della Magna Grecia propriamente detta e non dell Sicilia greca. ‘© Ἰοήνστον, Metapontum 3, p. 37 sex. * Per gli aspetti cronologici, vedi H.B. Ματτινοιν, The Roma/Victory ROMANO Didrachms and the Start of Roman Coinage, in Glaux 7,2, Milano 1991, p. 261 seg, e la recente, equilibrata messa a punto del problema in R. Vitale, Un ripostiglio di Baselice, in AIIN, 42, 1995, p. 94 sgg; per l'interpretazione del fenomeno, M. Loumanpo, Circolazione monetaria ed attività commercial tra VI e IV secolo, in I Greci εἰς, 22, Torino 1997,p. 694 sg. c, in una prospettiva diversa, G. Le Runza, A propos d'un passage des Poroi de Xénophon citato a nota 5. Cautela ancora in A. Stazo, Corinto e l'Occidente fino alla fine del V sec. Ὁ nella documentazione numismatica, in Atti XXXIV Convegno Studi sulla Magna Grecia Taranto 7-11 ottobre 1994, Taranto 1995, p. 182. * La grande colonizzazione post 338 (60,000 coloni ricordati da Athanis in Plutarco) non può comunque spiegare, nella sua globalità l'arrivo di Pegasi in Sicilia - in generale in Occidente — sino al 306, bensl solo la fase iniziale di esso, del quale dovettero essere protagonisti i primi esemplari del V periodo Ravel: cr J. Stax, Trade and Corinthian Coins in the West, in La monetazione corinzia in Occidente cit, pp. 15-17; G-K. JENKINS, Notes on the Mint of Corinth, ibidem, pp. 24-27.

361

TAV.T

1-10: Nuove riconiazioni in Magna Grecia e in Sicilia: 1. Poseidonia su Metaponto; 2. Thourioi su Corinto o Si-

racusa; 3. Caulonia su Metaponto; 4. Caulonia su Acragas; 5. Croton su Acragas; 6 Croton su Corinto o statere di tipo corinzio; 7. Acragas su Corinto; 8. Himera su Corinto; 9. Leontini su Selinunte; 10. Messana su Acanto.

362

Fiuipro GIUDICE CONTRIBUTO ALL'INQUADRAMENTO CRONOLOGICO E STILISTICO DI ALCUNI VASI ATTICI DEL PRIMO RELITTO DI GELA, ED IPOTESI SULLA ROTTA DI DISTRIBUZIONE Un legittimo interesse ha suscitato, circa dieci anni fa, il rinvenimento dei “resti di una nave gre-

ca di età tardo-arcaica presso le coste di Gela, nell'area dell'attuale pontile dell’ A.N.LC. e, pertanto, non lontano dal sito in cui è stato localizzato l'antico emporio alla foce del fiume Gela”!. "L'imbarcazione”, come ricorda Graziella Fiorentini “fu rinvenuta a circa 500 metri dalla costa ad una profon-

dità di circa 5 metri, con prua verso il mare aperto e la poppa verso terra, con un orientamento del-

l’asse della nave in direzione Nord-Sud”. Ella ricorda che "all'atto del rinvenimento il relitto risultava ricoperto da uno spesso strato di pietrame, rimosso dallo scavo nella misura di 7/8 tonnellate, particolarmente abbondante nella zona centrale della nave, lasciando libera solo la trave longitudinale mediana corrispondente al paramezzale dell'imbarcazione". “Il carico della nave”, annota la studiosa, “al momento dello scavo non esisteva nella sua totalità, sia perché probabilmente già in parte recuperato in antico, sia perché la scarsa profondità e le ma-

reggiate favorirono la distruzione di quanto affiorava o emergeva”. È, ancora: "Circa la presenza della eccezionale quantità di pietre e la relativamente scarsa presenza di materiali del carico, si è avanzata l'ipotesi che il carico in partenza fosse costituito da più gruppi di merci che sarebbero stati via via scaricati nei diversi porti toccati dalla nave; al posto delle merci nelle diverse località sarebbero state caricate le pietre come zavorra, distribuite in vani definiti da paratie lignee: tutto il pietrame sarebbe poi stato probabilmente scaricato nell'ultimo porto toccato della costa siciliana per imbarcare un carico completo di merce di commercio e beni di consumo da esportare”. In realtà, nelle parole della Fiorentini emerge - e non potrebbe essere diversamente -, la difficoltà di spiegare lo “specifico” del naufragio, la destinazione finale del carico, la presenza della grande quantità di zavorra, ed, in ultima analisi, la disparità delle diverse classi rappresentate, fra cui si annoverano anfore chiote, samie, lesbie, greco-orientali, corinzie, attiche, marsigliesi, puniche; e, ancora, tra le ceramiche di pregio acrome, una piccola olpe chiota, un fr. di lekythos samia, brocche, alcune delle quali di tipo rodio? ecc.; e fra le ceramiche verniciate, skyphoi tardo-corinzi, coppe di tipo ionico, coppette attiche a vernice nera, un askos attico a vernice nera; ed, infine, tra le ceramiche attiche figurate, una grande tazza ed un'oinochoe a figure nere, e due askoi a figure rosse* T vasi rappresentati, quindi, comprendono classi ceramiche le più varie prodotte dall'estremo Oriente della Grecia all'estremo Occidente: individuare lo “specifico” dell'ultimo viaggio di questa nave è un'impresa chiaramente disperata. Una sola via d'uscita, a mio parere, resta: considerare "ultimo" come il "campione" della serie di viaggi che questa nave intraprendeva nelle acque del Mediterraneo: è evidente, infatti, che una rotta commerciale non s'inventa, e le variazioni possono solo essere di dettaglio, una volta individuato il ventaglio di bisogni e di scelte lungo una rotta, che può prevedere carichi e scarichi di merce, imbarchi da un punto intermedio ad un altro, e quindi non coincidente necessariamente con quello finale. La rotta "normalmente" seguita determina un accumulo di resti, che possono documentare la vita della nave e non coincidere quindi con il suo ultimo viaggio. A questo punto, se è impresa disperata

ricostruire questo, ? pur sempre possibile tentare di tracciare la rotta commerciale usuale utilizzata dal suo proprietario o dall'emporos*. Non abbiamo, purtroppo, finora, un elenco completo delle merci trasportate, mancando ancora l'edizione definitiva di tutte le campagne di scavo: in ogni caso, un'immagine complessiva può essere quella offerta dalla bella vetrina del nuovo museo di Gela, in cui il carico della nave è esposto. Riten363

go utile, quindi, nelle more, esaminare alcune delle ceramiche attiche recuperate, nel tentativo di individuare la rotta di distribuzione alla luce dei risultati che si possono ottenere con l'analisi qualitativa e quantitativa dei vasi trasportati*. Tra i vasi del relitto ἃ un'oinochoe attica figure nere*. Il vaso, a bocca trilobata, presenta nel corpo Athena che affronta con lancia e scudo un gigante, il quale fugge verso destra, volgendo indietro la testa protetta da un elmo, mentre oppone lo scudo e tiene nell'altra mano la lancia. L'oinochoe trova precisi confronti, per la scena e per il rendimento delle figure, in una prima oinochoe trilobata della classe di Sevres con un guerriero che assale un secondo oplita”; o, ancora, in una oinochoe della stessa classe proveniente da Spina". Tutte queste ceramiche trovano collocazione all'interno delle cosiddette "oinochoai by or from the workshop of the Athena Painter"*, distinte all'interno della produzione, e comunque, dell'officina del pittore di Athena! Dal quadro distributivo di questa officina"! emerge con chiarezza che il mercato più importante per l'area orientale è Rodi, e, per il Mediterraneo centrale (area padana a parte), la Sicilia (Tab. 1). Per quanto riguarda i tre askoi, essi sono stati recentemente attribuiti ad Epiktetos ". Di questo pittore erano finora ignoti vasi in Sicilia; in Oriente si conoscevano vasi dall'area del ponto Eusino e da Camiro, nell'isola di Rodi (Tab. 2).

Relativamente alla forma dell'askos, sono noti pochissimi esemplari, di Makron " di questi uno proviene da Aleria'* (Tab. 3). Altre forme di questo pittore sono state rinvenute ad Ampurias'*. A questi bisogna aggiungere un askos frammentario rinvenuto dall'Orsi proprio a Gela nell'area del Piazzale S. Giacomo con satiri dagli enormi falli, che richiama in maniera sorprendente quelli del relitto”. Se da questi dati vogliamo trarre qualche ipotesi di rotta, appare credibile che la nave di Gela, proveniente dalla Grecia orientale - come indicano le ceramiche greco-orientali presenti nel relitto ~ avesse come tappa intermedia la Sicilia e come destinazione finale qualcuno dei mercati occidentali periferici. Per quanto riguarda le tappe intermedie del viaggio, l'ipotesi facilior sarebbe quella di una nave, che, partita dalla Grecia orientale (probabilmente da Samos, situata in un punto centrale rispetto da una parte a Lesbo e Chio e, dall'altra, a Rodi), abbia raggiunto Atene, quindi Corinto, il golfo ionico, la costa orientale e, quindi, quella meridionale della Sicilia alla volta della punta occidentale dell'isola, in direzione dell'estremo Occidente. Un terribile maestrale, che sulle coste meridionali della Sicilia si abbatte persino durante la stagione estiva, avrebbe interrotto la sua rotta di cabottaggio vicino alla costa gelese. Il carico residuo mostrerebbe che non era l'isola, l'ultima sua meta, ma la Corsica, e probabilmente, da qui, l'area del golfo del leone. Ma, in alternativa, una seconda ipotesi appare più intrigante, e potrebbe spiegare la forte presenza dell'officina del pittore di Athena a Rodi e in Sicilia, in uno con numerose altre classi", rendendo percorribile l'idea che la nave non abbia mai toccato Atene. È possibile che la nave sia partita dalla Grecia orientale, probabilmente Lesbo; da qui avrebbe raggiunto Chio, e quindi Rodi. E non è improbabile che proprio in questa isola avrebbe imbarcato quei vasi attici (come la oinochoe del pittore di Athena, che nell'isola di Rodi è ampiamente rappresentata, o gli askoi di Epiktetos, ceramografo già noto a Rodi); percorsa la costa africana la nave avrebbe virato verso la Sicilia, diretta probabilmente, via Corsica (Aleria), nell'area del golfo del leone. Significativa a questo proposito può essere la coppa skyphoide con Eracle contro il leone nemeo e palmette ai lati, rinvenuta nell’emporion di Bosco Littorio. La forma ed il soggetto del vaso consentono di attribuirla al gruppo di Haimon, un'officina terribilmente prolifica della quale sono noti, con provenienza certa, circa settecento vasi. Ebbene, l'analisi di distribuzione del gruppo indica chiaramente una forte presenza a Rodi (per l'area orientale), e ad Ampurias (per l'estremo Occidente)? (Tab. 4) Allo stesso modo che per i vasi dell'officina del pittore di Athena e per gli askoi di Makron, l'impressione che si ricava, sempre nell'ipotesi di una nave che dall'Oriente venga verso la Sicilia senza passare da Atene, è quella di un imbarco delle ceramiche attiche sempre a Rodi, e da quest'isola verso la Sicilia alla volta di Ibiza?!, Ampurias®, Vaccares, a S-E di Arles, 364

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em om Tab. 1. Pittore di Athena ed officina. Totale vasi: 132.

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Tab. 2. Epiktetos. Totale vasi: 74

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Tab. 4. Pittore di Haimon e maniera. Totale vasi: 653.

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Tab.3. Makron, askoi. Totale vasi: 3.

Resta in ogni caso da valutare la presenza nel relitto delle anfore da trasporto corinzie: ci si chiede se, alla stessa maniera delle ceramiche attiche, non sia legittimo immaginare navi che non necessariamente attracchino a Corinto, ma colleghino Rodi con Gela trasportano materiali corinzi già presenti nell'isola o raccolti lungo la rotta africana, possibilmente nell'area libica. Bibliografia

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+ Sulla figura dell'emporos v. da ultimo F. Giunrcr, Emporos, in Céramique et peintures grecques. Modes et moi d'emploi (Atti el convegno organizzato dall'cole du Louvre, École du Louvre 26-28 avril 1995, Paris 1999, pp. 403-408, * E. Gupte, Vasi e frammenti"Beazley" da Locri Epizefii e ruolo di questa città lungo le rotte verso l'Occidente, Catania 1989; p. Le rotte commerciali dei vasi attici dal VI al IVsec. a.C. Analisi quantitativa e qualitativa, in Archeologiae calcolatori 4,1993,pp. 181-196 © G. Εἰοκεντινι, La nave di Gel, ct. (riprodotta la oinochoe con Athena che assale un gigante); R. Pt, Ghelas Storia e archeologia dell'antica Gela, Torino 1996, tav. 35, Ean., La nave greca di Gela, in Omaggio a Gela, Agip S.p.a., settembre 1997, pp. 127-137; Eao., La nave arcaica di Gela, in Atti del convegno nazionale di archeologia subacquea, Azio 30-31 maggio e 1 giugno 1996, Bari 1997, pp. 135-142 ? JD. Bea, Attic Black-figure Vase-painters, Oxford, 1956, p. 525, n. 6 (citato come Beazuev, ABY). * JD. Beaztev, Paralipomena. Additions to Attic Black figure Vase-painters and to Attic Red-figure Vase-Painters (second edition), Oxford 1971, p. 263 = Beazisy, ABV, post 12. V. pure Beaziey, ABV, pp. 529, n. 52 (Harvard 1972.143); 529, n. 54 (Compiegne 1009: guerriero assale un altro guerriero); 529, n. 55? (Napoli Ste.) opp. Bavar, Paralipomena, ci, p. 265 = ‘Beaztey, ABV, n. 31 (Ferrara 16339-T.59 D VP). * Beaztey, ABV, pp. 524-533, 704-705; Beazev, Paralipomena, cit. pp.183, 195, 260-262; Beazley Addenda. Additional References to ABV, ARV_ & Paralipomena, second edition, compiled by Thomas H. Carpenterat the Beazley Archive, Oxford 1989, p. 131. G. Fiorentini (6. Frorevma, La nave di Gela, cit. pp. 32-35) aveva dato indicazioni diverse. " Beazizy, ABV, pp. 522-524; 533, 704; Beazity, Paralipomena, cit, pp. 189, 213, 260-262; Beazley Addenda, cit, pp.130131 "Dei 132 vasi attribuiti al pittore di Athena ed alla sua officina, Rodi sembra essere il mercato principale (con 31 vasi), superando quello dell'area di produzione (con 14). Per l'arca occidentale, a parte quella adriatica (con 24 vasi), simponc. come terzo mercato esterno la Sicilia (con 13 vasi). " G. Giupice, Askoi attici figure rosse, in Il museo archeologico. Catalogo, Gela 1998, pp. 104-105. Ὁ La produzione di questo pittore di coppe è, inoltre, ampiamente presente in Etruria tirrenica (specie ἃ Vulei); esemplari sono presenti in Etruria interna (Chiusi, Orvieto) e padana (Adria e Spina). “J.D. Βελξιξυ, Attic Red figure Vase-painters,Oxford 1963 (citato come Braztev, ARV), p. 480, nn. 338-339; Braztay, Paralipomena,cit. p. 379, n. 39 bis. * Brazzey, Paralipomena, cit, p. 379, n. 339 bis. Di due altri conservati a Providence e a Brunswick (Maine) - Bowdoin College si ignora purtroppo la provenienza (Beazter, ARV, p. 480, nn. 338-339), ! Βελζιευ, ARV, pp. 466, n. 115;479, nn. 331-332. ? P. Orsi, Gela. Scavi del 1900-1905, in MonAL XVII, 1906, col. 182 " Ringrazio le dott.sse Ela e Giada Giudice, a cul è stato affidata la schedatura delle ceramiche attiche conservate nelTiscla di Cipro, le quali, analizzando il problema del rifornimento di ceramica attica dei mercati orientali in rapporto alla di stribuzione in quelli occidentali (Sicilia, costa iberica e golfo del leone) mi hanno segnalato la notevole somiglianza qualitativa e quantitativa tra le ceramiche attiche presenti a Rodi e in Sicilia. Il fenomeno è stato riscontrato, per es, in pittori come quello di Ampurias o della megera. 7" Sono grato alla dott.ssa Rosalba Panvini per avermi precisato la provenienza del vaso, attualmente esposto nelle stesse vetrine del museo di Gela, dedicate al relitto. Per l'emporio di Bosco Littorio, cfr. G. Fioxexmu, Gela. Area del bosco littrio, in BCASicilia, 1987-88, pp 1987-88, p. 23 ss. ? H 241-249; B539-571, 705-708, 716; P 269-287, 520; Add. 134-137. I vasi di questo gruppo, a parte la predominante pre. senza nell'area di produzione c nelle regioni attorno allAttica, hanno come mercato più importante Rodi, e, per l'Occidente, Tarea padana, che supera le presenze in Etruria tirrenica ed in Etruria. La Sicilia registra una buona presenza di vasi (special: mente a Megara Iblea e a Gela), ma— ed è questo il dato interessante - una presenza ancora maggiore ad Ampurias (con un esemplare pure a Ibiza e a Vaccares, S-E di Arles) 2 Beuzisv, ABV, p. 548, n.263. ? CHE. Haspats, Attic Black figured Lekythoi, Paris 1936, pp. 241-249 (passim); Bexzuev, ABV, pp. 539-571; 705-708 (passim); Beazizy, Paralipomena, cit, (passim). ? Bizier, Paralipomena, cit, p. 285 * Ringrazio il dott. V.G. Rizzone per aver controllato i dati ed il dott. D. Malfitana per aver elaborato al computer gli istogrammidi distribuzione dei pittori attici citati nell'articolo.

368

EMANUELE GRECO TRA SIBARI, THURII E COPIAE: QUALCHE IPOTESI DI LAVORO

L'esplorazione di Sibari, condotta tra la fine degli anni '60 e la metà degli anni "70, con le ben note grandi campagne di scavo estensivo, ci permette di disporre oggi di una tale massa di dati, grazie anche alla prontezza con cui sono stati pubblicati i rapporti preliminari, da rendere possibile qualche nuova riflessione sull'insieme della documentazione topografica e stratigrafica, al fine di ampliare le possibilità di lettura dell'esistente ed offrire spunti alla ricerca che auspichiamo possa essere ripresa al più presto su vasta scala '. Conviene qui riepilogare, come punto di partenza, la situazione generale, quale risulta nei quattro grandi cantieri di scavo: Stombi, Incrocio-Parco del Cavallo, Prolungamento Strada, Casa Bianca (fig. 1). Stomibi*: nella più settentrionale delle aree esplorate, come è noto, è stata rinvenuta importante documentazione relativa ad un quartiere di Sibari (strutture domestiche del VII-VI secolo a.C.) semplicemente perché, dopo la distruzione e l'abbandono (510 a.C.) il sito non conobbe nessuna sovrapposizione dovuta a quartieri urbani di Thurii, ma solo una costruzione (il cd. edificio c e la vicina cisterna) che, risultando completamente isolata, non esiterei ad identificare con una fattoria di età classic’, Ma, su quest'ultimo monumento mi soffermerò brevemente in seguito, perché mi sembra determinante non solo per definire l'estensione di Thurii verso nord, il che è pacifico, ma anche di notevole interesse per i problemi della chora thurina. Incrocio-Parco del cavallo (P4C)*: vecchie e nuove scoperte assicurano la presenza di livelli di abitato di Sibari in entrambe le zone, ma con qualche distinzione che è bene sottolincare: nell'area del cantiere Incrocio, saggi recentissimi (1993-97) provano l'esistenza di un quartiere urbano di Sibari, organizzato in congruità di orientamento con una strada (una plateia?) che corre da nord a sud; non solo, i livelli in questione furono ricoperti, dopo il 510 a.C., dalle inondazioni del Crati e del SybarisCoscile e, successivamente, dalla grandissima plateia (larga 100 p.) che corre anch'essa da nord a sud e che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, rappresenta l'arteria più grande dell'impianto ippodameo di Thurii; in ultimo, verso la fine del I sec. a.C., fu eretto il muro di cinta in opera cementizia che tagliò in due Thurii, riducendo sensibilmente (io credo per circa la metà) l'area urbana precedente”. Al PAC, invece, a giudicare dai saggi di limitata estensione, che hanno però restituito elementi assai significativi, dobbiamo prendere atto della continuità Thurii-Copiae; per quanto attiene Sibari, le testimonianze arcaiche pongono un problema di discontinuità funzionale, osservando la stratigrafia orizzontale, rispetto alle coeve testimonianze di Stombi ed Incrocio, perché nell'area (il PAC) in seguito occupata dal teatro di Copiae va ubicato, con grandissima probabilità, un notevole santuario arcaico, a giudicare da testimonianze archeologiche molto perspicue, che segnalano qualcosa di decisamente diverso dai livelli di abitato puro e semplice‘. Ma il problema topografico più rilevante di questa zona riguarda, qualche centinaio di metri a sud, il rapporto delle diverse città, succedutesi nel tempo, con il Crati: si tratta di un argomento assai complesso c spinoso, per le sue ovvie implicazioni di carattere geologico, che limitano di molto l'osservazione del topografo/archeologo . Come è noto, un braccio secco del Crati (messo tradizionalmente in rapporto con la celebre osservazione, certamente autoptica, di Erodoto, V, 45) è facilmente percepibile sulle foto aeree, circa km. 1,5-1,8 a sud del corso attuale. L'opinione corrente, anche se non unanimemente, vuole che sia questo il corso del fiume in età arcaica e classica, mentre quello attuale risulterebbe da divagazioni realizzatesi in epoca recente (cioè durante le ultime fasi di vita di Copiae in età imperiale avanzata e nella tarda antichità). A me pare che il problema meriti di essere riconsiderato, con quell'approccio 369

scientifico che le tecnologie moderne sempre più raffinate consentono di fare, per affrontare al più presto un problema di capitale importanza. Vediamo perché, ovviamente alla luce di considerazioni archeologico-topografiche, che servano da fossile-guida alla ricerca. Prima possibilità: dal quartiere urbano di Stombi fino alla riva sinistra del Crati attuale, misuriamo una distanza di oltre due km. (con oscillazioni dovute all'andamento sinuoso del fiume). Se partiamo dal presupposto che tra Stombi, Incrocio e PdC siamo in presenza di un assetto urbanistico continuo (ammissibile

Fig. 1. Sibari. Ubicazione dei cantieri di scavo conle

testimonianze di Sibari, Thurii e Copiae.

alla luce delle dimensioni della megalopoli achea

all'akmé della sua potenza) mi pare molto difficile supporre un'estensione ulteriore della città verso sud, anche in considerazione del fatto che non conosciamo il limite nord di Stombi. Strabone (VI, 1, 12) sa che all'apogeo della sua espansione Sibari riempiva un kyklos di 50 stadii, cioè circa 9,25 km.*. Ora, a parte il rapporto tra la notizia, la tradizione da cui dipende e la realtà, direi che è piuttosto arduo immaginare che l'asse nord-sud varcasse il Crati a sud ed il Coscile a nord; nel contempo, per quel pochissimo che sappiamo degli assetti urbanistici magnogreci e segnatamente del mondo acheo (Metaponto, Poseidonia, ma un po' anche Crotone) alla fine del VI secolo a.C. è da escludere che il kyklos sibarita inglobasse una serie di komai sparpagliate intorno ad un centro monumentale; certamente ci saranno stati amplissimi spazi non urbanizzati, ma è lecito supporre che i quartieri di abitazione avessero in buona parte raggiunto la forma di isolati compiuti. Riepilogando, dunque, i dati relativi alla topografia urbana di Sibari, avremmo all'estremità nord le case di Stombi occupassero un'area periferica, a giudicare, non tanto dalle fornaci, argomento non dirimente, in quanto non si tratta ~ per ora! - di un kerameikòs organizzato di tipo metapontino — p. es. — ma piuttosto di impianti domestici, quanto per una certa varietà di orientamenti seguiti dalle diverse abitazioni indagate, rispetto alla regolarità che si è finora riscontrata più a sud, nell’ rea che doveva essere quella centrale della città) e, all'estremità sud, a non molta distanza (tra i m 300 e 400) dalla riva sinistra del Crati, il santuario indiziato dai numerosi elementi osservati e recuperati nell'area del teatro di Copiae. È sufficiente dare un'occhiata, anche superficiale, alle piante di Metaponto e di Poseidonia, per cogliere la suggestione di una tale ricostruzione: in entrambe le città achee i santuari sono situati alla periferia della città. Se il letto del Crati si trovava, a quel tempo, due km. più a sud, avremmo una scelta obbligata da compiere tra due ipotesi: un'estensione da nord a sud di circa 4 km., oppure, nel caso di una più ridotta dimensione, la limitazione della città ad una fascia situata ad una certa distanza dal fiume, che comporterebbe come conseguenza la lontananza da un formidabile elemento di difesa e di comunicazione, laddove è invece più semplice ipotizzare una gravitazione, un rapporto stretto di Sibari con il fiume, gli oikountes epi to Krathidi di Strabone (VI,1,12) in ultima analisi. Seconda possibilità: tra Incrocio e PdC si verificherebbe la cesura, vale a dire che il limite sud dell'abitato di Sibari verrebbe a trovarsi in un punto non definibile situato tra le due aree; in questo caso, il santuario situato sotto il teatro di Copiae sarebbe suburbano ed occuperebbe una fascia di terreno sulla riva sinistra del Crati. Mi sembra, tuttavia, di dover accantonare questa possibilità, che avevo sostenuto in passato*, per le ragioni che ho addotto a sostegno dell'ipotesi precedente ed anche perché la complessità architettonica del hierón, con uno o più templi decorati con fregi e metope, sembrerebbe più consona ad un grande santuario extraurbano (tipo Lakinion, Sele) con tutte le caratteristiche che nel mondo acheo questi impianti hanno nel processo di definizione del territorio, ciò che presuppone, tuttavia, una un quartiere di abitazioni (sempre, ripeto, per quanto ne sappiamo oggi, anche se si può ritenere che

370

loro ubicazione molto lontano dall'abitato, che, nel caso sibarita sembra da escludere, come abbiamo visto, trovandosi il santuario sotto il teatro di ca. 400 m. a nord del fiume e ca. 400 m. a sud delle case e della plateia del cantiere Incrocio. Per quello che sappiamo finora dei santuari suburbani situati nelle immediate vicinanze delle porte urbiche (v. S. Venera

a Poseidonia

e Vigna

Nuova

a Crotone,

p.es.) sarei portato ad escludere che il santuario s barita appartenga a quest'ultima categoria. Non mi resta che ipotizzare una collocazione entro il kyklos ed immaginarne anzi una funzione centrale, come di un santuario poliadico, analogamente a quanto osserviamo a Poseidonia e Metaponto.

Dobbiamo, naturalmente, considerare anche Fig. 2. Sibari. La piana tra i fiumi Crati e Coscile. una terza possibilità: che il Crati abbia cambiato corso tra il 510 ed il 444 a.C., così da lasciarci immaginare che Sibari si estendeva ancora di molto a sud, fino alla riva sinistra del vecchio Crati; in tal caso, ripeto, avremmo un asse nord-sud di oltre km. 4, senza tenere conto che, in mancanza di una cartografia corretta che ci consenta di valutare la distanza ed il rapporto di Stombi con la riva antica del Coscile, non siamo neanche in grado di apprezzare la ipotetica estensione della città verso nord (fig. 2). Con tutto il rispetto per la tradizione sulla megalopoli, tali proporzioni sembrano francamente esagerate; del resto, a ben vedere, e contrariamente a quanto si afferma spesso, Erodoto, testimone oculare certo autorevole, non ha mai affermato che i Crotoniati hanno deviato il fiume, ma ha solo citato il Crati secco, presso il quale Dorico avrebbe votato il tempio ad Atena che lo storico vedeva ancora. La tradizione sui Crotoniati che deviano il fiume nasce dopo ed è, a mio avviso, poco credibile. Resta il fatto che la foto acrea segnalerebbe tracce di vasti quartieri sulla riva destra del Crati, dove dai sondaggi Lerici il terreno risulta in stragrande maggioranza sterile, salvo qualche addensamento di materiale prevalentemente arcaico "; ora, data l'evidenza, affermare che il Crati si è spostato o è stato deviato in modo da scorrere attraverso Sibari sembra assai prematuro. Se le tracce così interpretate sulla foto aerea (ma auspicherei un controllo) davvero corrispondono a presenze antiche, nulla vieta di ritenerle relative a qualche insediamento suburbano. Insomma, credo che, allo stato attuale, un buona serie di indizi ci induca, tra tutte le possibilità finora delineate, a ritenere che il corso del Crati in età storica (dalla fondazione di Sibari in poi) non si sia di molto spostato da dove scorre attualmente, salvo, ovviamente, le variazioni della foce. Prolungamento Strada: benché esplorato solo nei suoi livelli più recenti, anche in questo cantiere sono state rinvenute attestazioni arcaiche, difficilmente valutabili, tuttavia, a causa della loro esiguità Casa Bianca: non si hanno qui tracce di preesistenze alle fasi di Thurii e Copiae; il problema fondamentale di quest'area è quello della linea di costa.

La chiarezza esemplare delle stratigrafie, in tutti i punti in cui si sono operati saggi in profondi documenta in modo inequivocabile lo strato di limo giallastro, ricchissimo di ceramiche (soprattutto

tardo-arcaiche) corrispondente alle inondazioni dei fiumi che hanno ricoperto i ruderi di Sibari tra il 510 ed il 445-444,

La fondazione di Thurii, archeologicamente parlando, a parte tutte le ovvie considerazioni di caratgenerali", argomento tere storico, segna un momento di netta cesura, non tanto in termini urbanistici in termini toquanto cominciata, appena ricerca una di oggetto essendo parte, in che affronto qui solo di Thurii nord-sud plateia dalla dato è coincidenza quasi di riscontrato pografici: l'unico caso finora 371

che ne ricopre una di Sibari con la medesima dire-

zione, con la molto maggiore larghezza della più recente, al punto che sotto la strada di Thurii si rinviene non solo la plateia precedente ma anche le case tardo-arcaiche che su di essa affacciavano; i dati in nostro possesso, a questo riguardo, sono ancora troppo pochi, anche se la sovrapposizione verificata su una decina di metri è ben evidente; direi che il mantenimento dell'asse, anche nella fase classica, si potrebbe spiegare con ragioni di carattere geologico, trovandosi, forse, la strada in questione, come mi fa notare P.Guzzo, sulla cresta di una duna. È tuttavia molto probabile che, al momento del tracciato di Thurii, la plateia nord-sud di Sibari fosse percepibile se non altro attraverso la cresta dei muri delle case distrutte ed abbandonate. Su lato orientale, verso il mare, Thurii va ad occupare una zona vergine, a quanto ci è dato di saFig. 3. Sibari. Cantiere Stombi: planimetria dell'edifi. — pere, altrove va a sovrapporsi a Sibari, con la sola

cio C.

eccezione di Stombi, area che, dunque, all'epoca di Thurii, è diventata campagna. Anche per Thurii si

pone il problema del rapporto con il Crati. Allo stato attuale, dell'apoikia panellenica conosciamo una fascia scavata di oltre 400 m., da nord a sud e di ca. 800 m. (ma con discontinuità) da ovest ad est; all'estremità orientale il limite di Thurii coincide con quello della colonia latina di Copiae (salvo le modifiche tardo-antiche). Di sicuro, sul lato nord la città del V secolo a.C. non arrivava fino a Stombi, che si trova ca. km 1,4 a nord di Incrocio, anche se era sicuramente molto più estesa di Copiae, visto che il muro di cinta della città romana, dalla fine del I sec. a.C., tagliò in due la città precedente. Nessuna ipotesi, invece, possiamo avanzare sui limiti occidentali in mancanza di ricerche su questo lato. In ogni caso l'impianto di Thurii va ad accomodarsi entro la grande ansa del Crati attuale, mantenendo con il fiume, grosso modo, un rapporto non diverso da quello tenuto da Sibari, salvo le perplessità sulla datazione del letto secco. A Stombi, come si è detto, lo scavo ha riportato alla luce, nei livelli più alti (ca. m 0,50 sopra quelli arcaici) una costruzione di età classica, i cui muri sono fondati negli strati alluvionali che ricoprono gli edifici di Sibari, che possiamo agevolmente identificare con una fattoria (fig. 3). Il monumento, individuato sin dalle prime campagne, fu poi parzialmente indagato nel 1974, anche se non ne è stata ultimata la esplorazione, venendo la sua parte orientale a cadere sotto l'impianto di una well-point “. Non molto si può dire, perciò, sulla sua organizzazione planimetrica; sicuro, dal momento che lo scavo intorno è stato condotto per un'estensione di ca. 5000 mq., è il suo isolamento, la sua non appartenenza ad una struttura di abitato urbano. Il problema che credo meriti la nostra attenzione, a questo riguardo, è non solo quello topografico appena ricordato, ma anche quello cronologico; a giudicare dai materiali raccolti nei livelli di vita dell'edificio rurale, saremmo in presenza di una struttura riportabile, nella sua ultima fase, al IV-III secolo a.C.; l'edificio non era dunque più in uso all'epoca della colonia latina. I materiali recuperati segnalano, tuttavia, la fase finale della vita del monumento, mentre documenti, tra l'altro di alta qualità (tanto da far supporre che si possa anche trattare di corredì di tombe distrutte) raccolti nelle vicinanze, testimoniano presenze databili nella seconda metà del V secolo a.C. 5, dunque non molto dopo la fondazione di Thurii, sicché l'impianto agrario che certamente precede l'edificio c ha tutte le probabilità di essere una delle fattorie appartenenti agli apoikoi che si divisero ἐπ᾽ σης la chora thurina. Naturalmente, non è lecito spingere l'analisi oltre queste sommarie considerazioni; ma, a giudicare da questo primo pallido segnale, verrebbe da concludere che la occupazione del territorio deve essere avvenuta con un piano ben preciso di sfruttamento e con strutture agrarie che genericamente possiamo riferire ad attività agricole specializzate, presupponendo la residenzialità, tra l'altro in un'epoca in cui il fenomeno in Magna Grecia sembra abbastanza raro. La 372

stragrande maggioranza dei documenti in nostro possesso, ovviamente a livello monumentale, riguarda la vita, per lo più tardo-antica, di Copiae, che, com'è noto, ma non sembra inutile ribadirlo, conservò pressoché inalterato l'assetto urbanistico di Thurii, salvo la modifica, per ora la più importante tra quelle a noi note, su cui abbiamo attirato l'attenzione all'inizio: la colonia latina (ma due secoli dopo la sua deduzione) occupò un'area molto più ridotta rispetto alla città precedente, a giudicare dalla ubicazione del muro di cinta in cui si apre la Porta Nord (cantiere Incrocio). Come aveva ben visto il Castanoli *, colpito dall'andamento estremamente regolare e perfettamente inserito nel reticolo urbano del muro di cinta di età romana (il tratto nord del cd. lungo muro), la struttura difensiva ripercorre per un buon tratto il tracciato di una plateia est-ovest di Thurii. Ancora una volta l'esplorazione stratigrafica’ propone in modo preciso una sequenza di eccezionale interesse provando la sovrapposizione del muro ad una plateia, ma quello che ci preme qui sottolineare, traendo qualche conseguenza da queste osservazioni sul terreno, è il fatto che, al momento della scelta, dovendo ridurre lo spazio urbano (evidentemente per il minore numero degli abitanti) i coloni latini tennero dentro le mura tutta la parte meridionale della città precedente, cioè quella che gravita sul fiume, e trasformarono in campagna i quartieri settentrionali di Thurii. Concludendo, di fronte alla complessità ed alla ricchezza di questo formidabile insediamento in cui sono stratificati circa 13 secoli di storia, con tutte le problematiche topografiche, storiche ed archeologiche (pes i contesti chiusi rappresentati dalle cesure, come la ruralizzazione, operata dopo la deduzione della colonia latina, di aree in precedenza occupate da isolati di abitazione della città di età classica ed ellenistica) credo che Sibari-Thurii-Copiae sia uno di quei siti nel quale si possa mettere alla prova, con la utilità del mestiere dell'archeologo, anche la capacità della cultura scientifica e politica di organizzare un lavoro di ricerca sul campo di ampio respiro, certo molto di più di quanto mostrino queste righe. NOTE

Sono grato alla dott.ssa E, Lattanzi, Soprintendente archeologo della Calabria ed alla dott.ssa S. Luppino, Direttrice del di campagne Museo e degli Scavi di Sibari, che mi hanno offerto la possibilità di partecipare, a partire dal 1993, ad una serie di saggi stratigrafici a Sibari, organizzate e dirette dalla Soprintendenza calabrese. Queste note sono il frutto delle osservazioni da me compiute sul terreno che ho potuto confrontare in discussioni sempre fruttuose con S. Luppino, P. Guzzo e con D. Theodorescu, P. Viti, O. Voza, P. Munzi e P. Galiuto. Naturalmente è solo mia la responsabilità di quanto ho creduto di poter sostenere in questo articolo. Ringrazio Ottavio Voza per aver messo a punto le piante. * V. Ax Vv, Sibari. Scavi al PAC (1960.62:1969-70) e agli Stombi (1969-70) in NSA XXIV, ΠῚ suppl. 1970 (abbrev. Sibari II), pp. 74-113 e pp. 216-23 I; AAW, Sibari III. Rapporto preliminare alla campagna di scavo: Stombi, Casa Bianca, PC, S, Mauro (1971) in NSA XXVI suppl. 1972 (abbrev. Sibari III) pp. 19-48, p. 144, p. 442; Aa. Vv. Sibari IV. Relazione preliminare della campagna di scavo: Stombi, PAC, PS, CB (1972) in NSA suppl. XXVIII 1974 (abbrev. Sibari IV), pp. 17-44; AAV, Sibari V. Relazione preliminare delle campagne di scavo 1973 (PDCCB) e 1974 (Stombi, Incrocio,PdC, PS, CB) in NSA II suppl. XLIIXLITI, 1988-89 (1992) (abbrev. Siburi V), pp. 171-179. > E. Greco, Magna Grecia, Roma-Bari 1980, p. 129 e P.G. Guzzo in Sibari V, p. 171-179. + V. AAW, Sibari. Saggi di scavo al PdC (1969) NSA 1 suppl. XXIII 1969 (abbrev. Sibari 1); Sibari II, pp. 24-73, pp. 113-215, pp. 367-548; Sibari IIT, pp. 265-310; Sibari IV, pp. 200-302; Sibari V, pp. 13-141. * Ipotizzo una riduzione della città per un'estensione di circa la metà dello spazio precedente, in base a considerazioni distano cirsull'urbanistica di Thurii ed alla convinzione che le tre plateiai di Diodoro XII, 10, 7 siano quelle est-ovest, p.)perché ca 400 m. (cioè pressappoco 1300 p.) mentre le nord-sud, essendo distanziate di circa 300 m. (cioè 1000 dovrebbero essere, quelle in numero maggiore, quattro, cid che conferizebbe alla pianta una forma più vicina al quadrato, mentre, nell'altro caso, avremmo un rettangolo molto allungato. Ora dal momento che non credo ad un'estensione di Copiae più a sud del Crati di cinta romano, ὃ, considerato che a nord della est-ovest scavata davanti al teatro, per ora c' solo quella obliterata dal muro ne consegue che a nord di quest'ultima si dovrebbe trovare almeno un'altra plateia est-ovest, a 1300 p. di distanza: il calcolo non può spingersi oltre perché non possiamo ipotizzare a priori la distanza tra l'ultima fascia urbanizzata e le mura, sia a nord che a sud. * V.P. Zaxcant Μοντύομο, Nella Piana del Crati in ASMG 1961, pp. 7-63; Sibari I, pp. 51-96; Sibari II, pp. 113-115; D. MERreus, Appendice. Architettura arcaica dal Parco del Cavallo in Sibari III, pp. 451-478; Sibari V, pp. 13-148. la Sibaritide (Atti del 7 V. da ultimi, V.Coreccma, Incidence geologiche e geotecniche su Sibari e la Sibaritide in Sibari e Lineamenti XXXI Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 1992), Napoli 1993, pp. 21-49 e A.Gurmauccmo, ‘geomorfologico-idrogeologicì della Piana di Sibari e problemi di salvaguardia degli scavi archeologica, ibid., pp. 863-881 (con bibl precedente) 373

* Se dovessimo tradurre letteralmente le dimensioni di Sibari dal passo di Strabone avremmo circa 500 ha ed un diame. tro di km.3, * E. Geco, Archeologia della Magna Grecia, Roma-Bari 1992, pp. 29-33. ?* V. E. Ratwey-C.M, Lexi (edd.) The Search for Sybaris 1960-65, Roma s.d. (ma 1967), pp. 303-304. Secondo il Guerricchio, art. it. alla nota 7, nel 510 a.C. i due fiumi si sarebbero uniti ed avrebbero avuto unica foce fino al 1525 d.C.; dopo questa data e fino al 1794 si sarebbero nuovamente separati, quindi dal 1794 ad oggi sarebbero tornati ἃ foce unica. Conviene ricordare 1) che Erodoto V, 45 cita solo il letto secco del Crati δὰ il tempio di Atena Krathia votato da Dorieo, a proposito della disputa sugli alleati di Crotone (v. D.A. Kuxora, Das martyrion megiston der Sybariten (Herodot,5,43-46) in Hermes CXIX, 1991, pp. 374-380; Diodoro Siculo XII, 10. 1-2 paria di distruzione e desertificazione della città solo nella tradizione nota a Strabone VI,1,12 (ma stranamente non ad un testimone come Erodoto) troviamo la notizia della deviazione del fiume ad opera dei Crotoniati, che deve evidentemente risalire ad epoca di molto posteriore lo svolgimento dei fatti; 2) nel 415 a.C., teste Tucidide XXXVI, la flotta ateniese sosta a Thurii ed i comandanti Demostene ed Eurimedonte passano in rassegna l'esercito schierato sul fiume Sybaris; verrebbe di concludere che l'azione si è svolta sulla spiaggia, come se il Sibari fosse il luogo delTattracco ed avesse dunque una sua foce autonoma. Resta la testimonianza di Erodoto sul “Crati secco”; ma si può escludere a priori che il cambiamento di corso del fiume sia di epoca molto più antica? " V. Sibari IV, pp. 303-322 e Sibari V, pp. 331-366. ? Cfr. la discussione tra S. Tin? e P.Guzzo in Sibari e la Sibaririd, ct. rispettivamente a pp. 906-907 e pp. 909-910. ^ V. n. 5; rapporti preliminari a cura di S. Luppino e dello scrivente sono in c.d.s in “AION ArchSt":v., inoltre, E. Greco, Ippodamo e Thuri in Atene e l'Occidente (Atti del Convegno di Acquasparta 1993), in c.d.s. in Ostraka e E. Greco-D. MERTENS, Urbanistica della Magna Grecia in I Greci d'Occidente, Milano 1996, pp. 259-260, conla fig. a p. 259 (rilievo dell'arch. P. Vitti, basato sulle ipotesi scaturite dalle ricerche di cui ho fatto menzione alla n. 1 salvo la diversa disposizione delle plateiai su cui vin.5). ? V. Sibari V, pp. 171-179. #8 VI Sibari III, p. 144. % F.Castacsous, Topografia e urbanistica in A.Vv., Stbari-Thurii, in ASMG n. s. XIII-XIV, 1972-73, Roma 1974, pp. 47-55; Ip, Sulf'urbanistica di Thurii in PP XXVI, 1971, pp. 301-307; Ip., Ancora sull'urbanistica di Thurii ibid. XXVIII, 1973, pp. 220222. Mi preme ribadire che la grande plateia di Thurii misura 100 p. e non 12 metri, perché quest'ultima è la misura della sola carreggiata e non della distanza tra le fronti due isolati che è invece di poco inferiore a m. 30, 5 L'ultima osservazione è stata effettuata durante la campagna dell'estate 1997, i cui risultati saranno al più presto, spero, pubblicati da S. Luppino e dal sottoscritto (con la collaborazione di P. Munzi e A. Parente ed i rilievi di P. Viti, O. Voza e A. Santoriello), Mentre questo articolo era in corso di stampa, sono usciti due nuovi contributi su Sibari: E. Greco — S. L No (a cura di), Ricerche sulla topografia e sull'urbanistica di Sibari-Thuri-Copiae, in AION ArcSt 1999 (2001), pp. 115-164; E. Carano, Sibari: note per una revisione dei dati, ibid., pp. 165-176.

374

Domenica Gutti RECENTI SCAVI A MONTE ROVETO E ROCCA FICARAZZE DI CASTELTERMINI (AG)

Il moderno paese di Casteltermini si inserisce nell'ambito di un vasto territorio compreso nelle tavolette G.M. Casteltermini, S.Biagio Platani e Torre del Salto! (fig. 1); a dominio del medio corso del Platani, alla confluenza con il Gallo d'Oro, confina con Milena a SE, con Aragona e S.Angelo Muxaro a SO, con Cammarata a N. A SE del moderno paese si snoda, in direzione NE-SO la serie collinare di Monte Roveto e Rocca Grande di Roveto, localmente nota come Rocca Ferro, che raggiunge la quota massima di m 605 slm. e che si affaccia, nella sua terminazione meridionale, con alte pareti a strapiombo, sul letto del Platani. A questa imponente serie collinare fanno riscontro una serie di elevazioni isolate come Rocca Ficarazze, Cozzo delle Miniere, Cozzo Disi, Montagna Giarre, Cozzo Luponero. Dal punto di vista pedologico il territorio è dominato dai suoli provenienti da substrati della serie gessoso solfifera la cui potenzialità produttiva è nel complesso bassa*; media è la potenzialità produttiva dei suoli acidi, ottimi invece per il bosco. Vaste le aree dei litosuoli, costituiti da roccia affiorante e pressocché improduttivi ‘ Solo nella piana del fiume, ove sono presenti suoli alluvionali, la potenzialità produttiva è molto alta’. JI territorio si caratterizza per peculiarità geologiche che uno studio in corso di tecnici geologi della Soprintendenza di Agrigento sta evidenziando in tutta la sua complessità‘. La particolare attenzione alle risorse fisiche del territorio, che si svolge parallelamente alla ricerca archeologica, si fonda sul principio, ormai generalmente accolto, dello strettissimo legame fra le risorse del territorio e la presenza di insediamenti stabili”. Lo studio geologico del territorio di Casteltermini (fig. 2), che si inserisce nell'ambito di un progetto di studio dell'intera valle del Platani, attraverso la comparazione dei dati geomorfologici, geolitologici, pedologici*, ha avuto come punto di partenza l'individuazione su carta delle presenze minerarie note, della rete idrografica e dei fenomeni pseudovulcanici (fumarole, maccalube, bitume, sorgenti di acque calde e sulfuree, ecc... Nella bassa valle del Platani si è constatato, con sorprendente regolarità, come negli areali interessati da insorgenza di olio bituminoso, maccalube, sorgenti di acqua sulfurea, fumarole, depositi di salgemma e di zolfo”, vi siano insediamenti a lungo periodo che vanno dalla preistoria ad età protostorica, greca, romana e, in alcuni casi, fino ad età medievale; i fenomeni pseudovulcanici in genere possono aver costituito un elemento di attrattiva per le popolazioni antiche, sia in riferimento alle potenzialità curative delle zone termali, sia per le implicazioni di carattere religioso connesse con tutte quelle manifestazioni naturali generate dalla terra. Fra le caratteristiche ambientali degne di nota, si registra un' attività eruttiva ben documentata, che ha influenzato anche la toponomastica locale: fenomeni pseudovulcanici chiamati localmente maccalube, simile a quelle ben più note del territorio di Aragona, ma ampiamente documentati lun-

go tutta la valle del Platani ?, sono presenti a SE del paese, nei pressi di Montagna Giarre, altri nei pressi di casa Petix, aree in cui le prime ricognizioni hanno documentato una lunga occupazione

dall'Eneolitico medio ad età tardoromana.

Il territorio è notoriamente ricco di giacimenti di zolfo e di salgemma, alcuni dei quali coltivati

fino a qualche decennio fa. Agli spessi depositi di sale sotto le alluvioni del fiume Platani, in località Isola Longa, fanno riscontro le spesse incrostazioni di salgemma affiorante lungo il vallone Mandravecchia depositatosi 375

in superficie per effetto della evaporazione di acqua salata proveniente da alcune sorgenti presenti su entrambe le sponde del vallone. Filoni solfiferi si riscontrano sia nell'ambito di ‘ammassi gessosi che in quelli calcarei. Ai noti depositi di Cozzo Disi e di contrada Rossi, fanno riscontro estese incrostazioni di zolfo presenti praticamente su tutto il territorio, da contrada Roveto, alle pendici meridionali di Rocca Ficarazze, al vallone Mandravecchia, dove, oltre a sorgenti di acqua salata, sono presenti anche sorgenti di acqua sulfurea, detta localmente acqua "mintina" o acqua amara. ‘A Monte Roveto (localmente noto come Rocca Ferro) e a Rocca Ficarazze (Tav. III, 4) sono state identificate delle discontinuità tettoniche lungo le quali si riscontrano minerali ferrosi. Casteltermini entra nella letteratura archeoloFig. 1. Cartina schematica della valle del Platani. ’gica grazie alle ricerche di Vincenzo La Rosa nell'ambito del programma dell'Istituto di Antichità Egee dell'Università di Catania di ricognizione del territorio della media valle del Platani fino al territorio posto alla confluenza con il Gallo d'Oro. Furono individuate allora le due ormai note tombe a tholos sulle pendici orientali di Rocca Ficarazze" e fu effettuata una prima ricognizione dell'areale, da Rocca Ficarazze a Monte Roveto: sulla sommità di Rocca Ficarazze fu individuato un piccolo coemeterium tardo antico costituito da tombe fossa scavate nella roccia " e raccolta abbondante ceramica, costituita da “diverso materiale tardo (V-VI sec. d.C.), tratti di tegoloni della stessa età ed un paio di frammenti verosimilmente di periodo arabo” "5. Sulle pendici orientali furono raccolti frammenti arcaici di produzione locale, sia a decorazione dipinta che incisa. La particolare ricchezza dell'areale portò il La Rosa ad ipotizzare “un ruolo egemonico del comprensorio sulla falsariga di centri come S.Angelo Muxaro e Polizzello.."? e indicò come uno dei probabili fondamenti dell'economia locale lo sfruttamento dello zolfo. Un fondamentale impulso alla conoscenza delle realtà archeologiche del territorio, è stato dato dalla locale Associazione Archeologica che, attraverso prospezioni periodiche, svolge ormai da anni, una preziosa ed insostituibile opera di conoscenza e tutela del territorio. Le due campagne di scavo, svoltesi nel 1995 1" e nel Giugno del 1998, hanno interessato il versante est di Monte Roveto e la contrada Sanfilippo, a SE di Rocca Ficarazze. Con questo primo resoconto si intende presentare i dati in forma preliminare, rinviando l’analisi delle strutture e della ingente quantità di materiali, quando sarà completato lo scavo degli ambienti e il restauro dei reperti. TI pianoro di contrada Sanfilippo si allunga dalle pendici sud-orientali di Rocca Ficarazze fino ad una balza rocciosa che da q. 500 circa s.l.m., scende in forte pendio verso la vallata dove, a q. 138 s.m. scorre il fiume Platani. In questo settore, con la breve campagna di scavo del giugno del 1998, si è portato in luce un complesso architettonico costituito da tre vani rettangolari e cinque recinti addossati a naturali escrescenze rocciose (fig. 3)". I vani rettangolari messi in luce si dispongono nel senso della lunghezza lungo l'asse est-ovest: i vani 2 e 3, comunicanti attraverso il lato lungo tramite un'apertura larga m 0,80, misurano rispettivamente m 5,50 x 2,50 e m 6,20 x 2,30. Dei muri si conserva un unico filare di pietre, poggiate nella terra: nel lato breve occidentale del vano 3, i muri 128 e 120 si appoggiano ad un'escrescenza naturale della roccia, u.s. 126, che diviene così parte integrante del muro del vano. 376

CARTA DEI PRINCIPALI ELEMENTI GEOLOGICI 1:25.000 Legenda: Dept hon raza (Peer supine) amass t osi Pause esa Fexmaconedé si Cata acis (sen) Comiso tres nos (Trenno int doco teri hingele us canto mi es Ar ges cn sun cile Vili sesso d razor gerere genti ca sta Sene an 68 d Cana. Foe

Fig. 2. Carta dei principali elementi geologici del territorio di Casteltermini (a cura di F. Lo Cascio e G. Presti) 377

Fig. 3. Contrada Sanfilippo. Planimetria generale. 378

Il vano 1 sembra essere la costruzione più recente, essendo sovrapposto, nel lato lungo meridio2: il muro meridionale 52 si sovrappone in parte al muro 107 con una direzione leggermente spostata verso nord. Il muro 52 copre in parte un sistema di canalette scavate nella roccia che confluiscono in alcune buche scavate sotto il pavimento del vano 2 la cui funzione deve essere ancora accertata. Il complesso si sviluppa verso ovest come si evince dai muri, messi in luce solo per un brevis imo tratto, che si appoggiano ai muri 122 e 99 dei vani 1 e 3. 1 recinti sono situati lungo la linea rocciosa che delimita a SE il pianoro: alla roccia sono addossati i recinti 1, 3, 4 e 5, mentre il recinto 2, quadrangolare, si trova in uno spazio libero fra il recinto 3 e la deposizione 150, in anfratto della roccia. Nel caso dei recinti è evidente come sia la roccia la base da cui si generano forme e spazi architettonici: ciò è particolarmente evidente nei recinti 3, 4 e 5 dove non solo le dimensioni ma anche lo sviluppo planimetrico complessivo sono condizionati dall'elemento naturale. Escrescenze del banco gessoso (u.s. 118) e gli alti speroni di roccia che costituiscono il ciglio meridionale (u.s. 117), fanno parte integrante dei recinti. Le escrescenze di gesso costituiscono il lato est del recinto 4. Agli alti speroni del ciglio roccioso si addossa, nel lato interno, un muretto costituito da un unico filare di pietre (muro 119). Per l'adiacente Recinto 5, si sfrutta la positura degli speroni di roccia (117 ad E e 138 ad O), e si impostano due muri ad angolo retto, 135 e 136 creando così uno spazio approssimativamente triangolare la cui base è costituita da un muro che, sul lato meridionale, chiude lo spazio fra gli speroni rocciosi. Anche nel Recinto 3, due muri si addossano a speroni di roccia naturale definendo uno spazio approssimativamente quadrangolare. Il Recinto 1, di forma quadrangolare, si addossa ad una escrescenza della roccia che si dispone in senso allungato est-ovest, caratterizzata da una profonda cavità che l’attraversa per tutta la sua lunnale, al vano

ghezza. Il recinto, di cui si è perso quasi integralmente il muro est, misura m 1,30 x 1,80.

Sia nei recinti che nei vani rettangolari, i materiali erano distribuiti su tutta la superficie in un

unico strato, e deposti anche in fossette scavate nella terra, spesso protette da un giro di pietre, scavate a ridosso dei muri, sia all'interno dei vani che all'esterno. Nel vano 1, strutturalmente posteriore ai vani 2 e 3, si è rinvenuto un grande pithos deposto lungo il lato breve del vano (Tav. I, 2). Al di sotto del pithos si è rinvenuto uno scodellone troncoconico indigeno con orlo dipinto in rosso vivo e, quasi al centro del vano, un anfora acroma locale. Nel recinto 1 i materiali erano deposti intorno ai muri esterni, entro fossette scavate nella terra e protette da un giro di pietre. All'interno, a ridosso del muro 89 era il collo di un anfora greco occidentale infissa capovolta nel terreno (Dep. 95). All'esterno del recinto, in una fossetta scavata nella terra e protetta da un giro di pietre era un vaso acromo locale all'interno del quale erano due pestelli litici di forma cilindrica e il fondo di una lekythos attica a vernice nera (Depp. 93, 94). Nell'angolo esterno nord-ovest del recinto era una scodella acroma indigena (Dep. 97), deposta in una fossetta scavata nella terra. All'interno dei recinti 2, 3, 4 e 5 ricche deposizioni costituite da ceramica indigena a decorazione impressa e incisa, ceramica attica a vernice nera, ceramica corinzia, tra cui kothones, pissidi, askoi e ancora molti piccoli pestelli e lsciatoi litici Il recinto 2 (fig. 3, Tav. II, 7) conteneva decine di piccoli vasi, indigeni e greci di importazione, un grande vaso indigeno acromo a fondo piano deposto capovolto all'interno del quale erano pestelli litici; altre deposizioni erano addossate, in un groviglio spesso inestricabile, tutto intorno ai tre muri. In una piccola fossetta era la brocchetta a bocca trilobata decorata sul corpo da una serie di rombi inscritti ancora databile nell'ambito della seconda metà del VII sec.a.C®. (Tav. VII, 1; fig. 7, 3). Isolata invece la deposizione 150 (fig. 3) costituita da uno scodellone (interamente ricostruibile) ad orlo piatto estroflesso, corpo biconico e ricca decorazione incisa e impressa organizzata a fasce; il vaso era deposto in una cavità naturale del banco di gesso, regolarizzata in alcuni punti per rendere più agevole la deposizione del vaso; all'interno la cavità è risultata rinzeppata con pietrelle saldate 379

insieme con fango e argilla, concentrate soprattutto lungo i fianchi con lo scopo di colmare lo spazio vuoto fra le pareti della fossetta e lo scodellone. Nel 1992 il Presidente dell'Associazione archeologica locale, Salvatore Rizza, durante una prospezione in contrada Sanfilippo rinvenne, nel punto in cui lo scavo del 1998 mise in luce il Recinto 5, i frammenti di una brocca conformata a stivale con imboccatura trilobata e ansa a nastro (Tav. VII 4; fig. 8), unitamente ai frammenti di coppette, lucerne, skyphoi, databili fra la fine del VI e gli inizi del V sec. a.C. Tutto il deposito verrà presentato nell'edizione definitiva dello scavo. All'esterno del muro 136, in due fossette rotondeggianti scavate nel banco di roccia erano deposte una grande anforaà la brosse", tipo Agorà 1502?, decorata con fasce di colore dal bruno all'arancio, realizzate a spazzola con vernice diluita, con collo e anse acromi, e uno scodellone troncoconico. Nei vani rettangolari 2 e 3 (comunicanti tramite porta attraverso il lato lungo) i materiali erano deposti su tutta la superficie, con dei punti di maggiore o minore accumulo, e in fossette scavate a ridosso dei muri.

Particolarmente interessante è la deposizione, presso l'angolo nord-ovest del vano 3, di un grosso scodellone del tipo troncoconico con orlo a mandorla dipinto in rosso vivo (Tav. I, 4; VI, 6). La particolarita risiede nel fatto che lo scodellone fu deposto già in frammenti con la faccia concava verso l'alto; lungo le linee di frattura sono dei fori circolari (diametro medio di cm 0,5), evidentemente praticati per “restaurare” il vaso. Lo scodellone è quasi interamente ricomponibile riaccostando i frammenti lungo le linee di frattura antica dove sono praticati i fori che sono aperti su una linea orizzontale in modo da poter facilmente "legare" insieme i frammenti. All'interno e all'esterno dei vani rettangolari e dei recinti” si sono rinvenuti molti frammenti, tutti di grandi scodelloni, con fori lungo la linea di frattura, alcuni dei quali sono ancora ricomponibili (Tav. VI, 7). Nel vano 2, presso il lato breve occidentale si è rinvenuto una grossa macina di pietra calcarea, di forma quadrangolare con la faccia superiore concava (angolo sud-ovest) e un orcio interrato fino all'orlo (angolo nord-ovest) (Tav. I, 4). Le deposizioni, che presentavano una maggiore concentrazione presso il lato orientale, erano costituite da ceramica indigena, greca di importazione e locale di imitazione greca; molti vasi erano deposti in fossette scavate nella terra, spesso protette da un giro di pietre. Tra i materiali indigeni meritano senz'altro particolare rilievo una fiasca da pellegrino, una cassettina rettangolare a decorazione impressa, alcuni modellini di capanna e coppe del tipo a larga tesa e corpo convesso, a decorazione impressa e dipinta. La fiasca da pellegrino (fig. 4, 1; Tav. V, 4) è di forma lenticolare, imboccatura svasata, piccole ansette forate destinate a trattenere la cordicella: limboccatura e l'incavo per l'alloggiamento della cordicella, trattenuta dalle ansette, indicano che l'uso richiedeva una posizione verticale, per essere portata al fianco o al collo ?. La cassettina rettangolare (fig. 4, 2; Tav. IV, 1) di cui è suggestivo il richiamo al tipo dell'arula greca, è lunga cm 25,5, larga cm 12,5 (larghezza interna cm 5,5) e alta cm 9,5: una base è piana con margini leggermente rilevati, non rifinita, l'altra cava di forma rettangolare. I lati lunghi sono decorati ad incisione e impressione con il motivo di losanghe campite da tremolo e cerchietti inscritti. La cassettina è interamente plasmata a mano: per la sua realizzazione l’artigiano ha realizzato dei panetti rettangolari che, giustapposti, hanno creato le pareti. Con la successiva rifinitura con argilla diluita e l'impressione dei motivi decorativi si è mascherata la struttura a panetti sovrapposti: la scarsa

coesione fra gli stessi ne ha però causato lo scollamento *. Frammenti simili si sono rinvenuti sia nel

vano 3 che all'interno dei recinti: di rilievo è il frammento del lato breve di una cassettina che reca una particolare decorazione costituita da un motivo a “stella” con lunghi raggi dentellati e cerchietti inscritti merlati (Tav. IV, 2-3). Non mi risultano, ad oggi, confronti puntuali per la cassettina: sembra essere un frammento di un panetto rettangolare a decorazione impressa simile ai nostri, un esemplare proveniente dall'insediamento di Mura Pregne®.

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Fig. 4. 1. “Fiasca da pellegrino” dal vano 2; prospetto e sezione. 2. Cassettina indigena a decorazione impressa; prospetto e sezione (disegni dell'Arch. Manola Cotroneo).

All'interno dei vani 2 e 3 si sono rinvenute cinque coppe a larga tesa, tipo definito variamente “scudetto””, con decorazione incisa e dipinta (Tav. II, 6; fig. 5, 1-5). Il tipo presenta delle varianti in riguardo alla forma del corpo, convesso, più o meno profondo e profilo esterno angolato (fig. 5, 1-5). In tutti gli esemplari la decorazione è limitata esclusivamente alla superficie esterna: questo suggerisce che la coppa dovesse essere vista dal basso, verosimilmente appesa a delle cordicelle, come indica la presenza di piccoli fori circolari sulla tesa, caratteristiche che possono far pensare alla funzione di bruciaprofumi. Le coppe uniscono alla decorazione impressa e incisa, la decorazione dipinta, limitata alle bande orizzontali e alla parte inferiore del labbro: in un esemplare le bande sono dipinte alternativamente in rosso vivo e in nero (colore meno conservato) con un elegante effetto bicromico**. TI tipo, per cui è stato fatto un generico riferimento al mondo geometrico cretese”, è noto in molti siti indigeni di età arcaica, S. Angelo Muxaro®, Agrigento“, Caltabellotta*; Butera. Certamente grande rilievo hanno i modellini di capanna rinvenuti nei vani 2 e 3 di contrada Sanfilippo e nei sacelli di Monte Roveto (fig. 6). Tutti gli esemplari presentano sostanzialmente lo stesso

"piatto ad umbo"?

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Fig. 5. 1-5. Coppe a larga tesa dai vani 2 e 3 dell'insediamento di contrada Sanfilippo. 6. Alcuni motivi decorativi della ceramica impressa di Casteltermini (disegni dell'Arch. Manola Cotroneo).

impianto formale: a pianta circolare, alzato a pareti verticali e spalle oblique con imboccatura svasata e ansa a ponte. La porta è rettangolare, molto ampia, che può essere semplice o definita da spessa cornice. L'ansa a ponte è in alcuni esemplari in asse con la porta, in alcuni parallela a questa. Si presentano in questa sede solo alcuni modellini, essendone ancora in corso il restauro: alcuni esemplari hanno la porta definita da spessa cornice e presentano, agli angoli superiori, due appendici apicate oblique? (fig. 6, 1, 3-4; Tav. V, 1-2). In un esemplare dal vano 3, al centro dell'architrave della porta, è un incavo ovoidale in cui è rimasta la traccia evidente di una applicazione, probabilmente un medaglione o un applique che possiamo immaginare del tipo, per esempio, del modellino di capanna da Sabucina (fig. 6, 1; Tav. V, 1). Sul collo e sul corpo, bande parallele costituite da linee incise sono dipinte alternativamente in colore rosso vivo. La decorazione, in tutti gli esemplari, co382

Fig. 6. Modellini di capanna (in corso di restauro) dai vani 2 e 3 di contrada Sanfilippo e dal sacello V di Monte. Roveto (disegni dell'Arch. Manola Cotroneo). 383

pre l'intera superficie: sul collo linee incise parallele, spesso alternativamente campite dal colore rosso vivo; sul corpo decorazione impressa organizzata a fasce costituita da triangoli, rettangoli, motivo a farfalla campiti da tremoli e variamente composti. La cornice delle porte risulta anch'essa variamente decorata, da motivo a spina di pesce, gruppi di tremoli fra due trattini paralleli, gruppi di tremoli obliqui. In un esemplare frammentato del vano 3, le appendici apicate sono decorate da una rosetta impressa; in un esemplare da Monte Roveto, ancora in corso di restauro, la decorazione si estende anche all’interno della bocca svasata, con triangoli alternativamente campiti da tremoli (Tav. V, 3). I modellini di capanna sono ormai noti in molti centri indigeni: ai due modellini rinvenuti all'inizio del secolo a Polizzello*, si sono aggiunti gli esemplari rinvenuti nei recenti scavi del De Miro: tre esemplari a decorazione dipinta, a corpo conico, larga apertura trapezoidale sottolineata da una larga cornice, sono stati rinvenuti nella stipe esterna alla tomba 5°. Altri esemplari provengono da Vassallaggi, rinvenuti in associazione con ceramica stile S.Angelo Muxaro-Polizzello™. Un frammento della base di un modellino proviene dalla area esterna alla tomba B37 della necropoli della V collina: il frammento non fu identificato correttamente dalla sottoscritta e fu definito genericamente “frammento fittile di una base circolare cava al centro”. Di piccole dimensioni è il modellino di Colle Madore: a corpo conico e semplice decorazione dipinta, presenta l'ansa a ponticello in asse con la porta. Dal punto di vista strettamente formale i modellini di Casteltermini si discostano dagli esemplari finora noti in tutti gli esemplari noti infatti il corpo è conico, con pronunciata rastremazione dalla base all'imboccatura, larga apertura trapezoidale, con o senza cornice, e piccola ansa a ponticello. I modellini di Casteltermini presentano invece il corpo cilindrico a pareti verticali con spalle oblique ben distinte dal corpo e porta di forma rettangolare. La decorazione di motivi impressi e incisi è sovente arricchita dal colore, rosso vivo, che decora le bande orizzontali del collo e del corpo”. Oggetto di rara tipologia, il tipo di modello fittile di capanna viene genericamente datato fra il VII e il VI sec. a.C. I modellini di Casteltermini non offrono ulteriori precisazioni cronologiche in quanto i depositi dei vani rettangolari, in un unico strato, contano materiali ben datati nell'ambito della seconda metà del VI sec.a.C*, ma associati a materiali più antichi come le coppe a larga tesa, la brocca dipinta sul corpo da rombi inscritti, databile ancora nell'ambito della seconda metà del VII sec. a.C. (Tav. VII, 1, fig. 7,3) Molto interessante, tra i materiali indigeni di imitazione greca, è il krateriskos a decorazione di-

pinta rinvenuto pieno di ocra rossa (Tav. VII, 2): è del tipo a colonnette con piastre quadrangolari, breve collo concavo, corpo globulare e base piana. La decorazione, in vernice arancio, è costituita da punti sull'orlo, asterisco a quattro tratti sulle piastre, larga fascia sul collo. Sul corpo è una fascia a decorazione zoomorfa costituita da quattro quadrupedi (due per lato) incedenti a destra e gro: punti sullo sfondo. La forma del krateriskos, derivata dalla kelebe corinzia a corpo cuoriforme e anse sollevate collegate all'orlo mediante la piastra quadrangolare, è una delle forme maggiormente imi. tate in ambito indigeno dove però il tipo viene miniaturizzato diventando una normale coppa *. Anche la decorazione ripropone l'imitazione del modello corinzio con la realizzazione di un fregio 200morfo con quattro quadrupedi incedenti a sinistra; l'imitazione corinzia è resa ancor più evidente dal riempitivo a grossi punti e dai raggi alla base del piede *. Nella costruzione complessiva del vaso si nota una particolare cura sia dal punto di vista tettonico che nella decorazione, nonostante la resa astratta e disorganica dei quadrupedi, rappresentati senza dettagli anatomici interni, ma con i genitali bene in evidenza; il riempitivo a grossi punti è disposto in modo ordinato e la raggera alla base è costruita con precisione nel tratto e nella ripartizione geometrica dello spazio. Dal punto di vista quantitativo la ceramica indigena a decorazione dipinta è di gran lunga inferiore a quella a decorazione incisa-impressa ma presenta motivi particolarmente interessanti, solo in parte assimilabili ai motivi della ceramica impressa: è stata ricostruita una bella serie di anfore, del tipo a collo svasato, corpo ovoide e anse a bastoncino impostate orizzontalmente sul corpo, con semplice decorazione a bande orizzontali sul corpo (fig. 7, 1) e di scodelloni del tipo troncoconico 384

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Fig. 8. Brocca conformata a stivale di produzione locale dal Recinto 5 (disegni dell'Arch. Manola Cotroneo). 386

con anse a bugna o a rocchetto* e con labbro dipi to in rosso vivo o con semplice decorazione geometrica. In quattro frammenti di vasi diversi il motivo del tremolo, così tipico e distintivo del repertorio indigeno, è risultato strutturalmente identico: questo può far pensare all'uso di uno stampo, in cui il motivo a rilievo del tremolo veniva intinto nel colore e poi impresso sul vaso. Altri motivi, come lo schema metopale composto in molteplici combinazioni, sono chiaramente riconducibili alla tradizione greca. La ceramica acroma è costituita da una serie di pentole plasmate a mano del tipo a base piana e pareti oblique con prese a bugna forata, a piastra quadrangolare o ad archetto. La ceramica greca di importazione è costituita da ceramica di produzione corinzia, ionica e attica, con una larga prevalenza di quella corinzia. Molti sono gli skyphoi e le pissidi tripodate tardocorinzie i kothones a corpo lenticolare e anse ad apici riferibili al cd. white style databili agli ultimi decenni del VI sec. a.C... Tra la ceramica attica sono interessanti alcuni frammenti di lekythoi a f.n., coppe attribuibili alla classe dei Piccoli Maestri. Tra le anfore da trasporto la classe di maggiore diffusione è rappresentata dalle cd. greco occi dentali seguite dalle anfore attiche del tipo à la brosse. Come gia più volte evidenziato da R. M. Albanese, lo studio delle anfore da trasporto in centri indigeni è particolarmente importante in quanto permette di evidenziare il fenomeno della domanda di prodotti agricoli di pregio da parte delle comunità indigene. Riveste grande interesse il rinvenimento, nei vani 2 e 3 e nel recinto 2, di “strumenti” utilizzati perla decorazione della ceramica: si tratta di due conchiglie e cinque strumenti in selce rossa. La prima conchiglia ^ appartiene alla classe dei bivalvi, la seconda dei gasteropodi. La prima presenta i lati spezzati e successivamente levigati in modo da ottenere un tratto (quello centrale) solo leggermente curvilineo. Si è effettuata una prova con un campione di argilla imprimendo il bordo della conchiglia in diverse angolazioni: con la conchiglia tenuta verticale si sono ottenuti dei quadratini dal bordo netto; con la faccia concava verso il vaso si sono ottenuti dei tremuli dai bordi sfumati”, entrambi i decori presenti nella ceramica di Casteltermini. Con l'impressione sull'argilla cruda dell'apice del gasteropode si ottengono dei cerchietti inscritti di cui quello centrale a rilievo, anche questo motivo ben documentato nella ceramica di Casteltermini; inoltre, imprimendo sull'argilla la conchiglia come fosse una rotella, si ottengono dei puntini, ora rotondi, ora più quadrangolari, documentati in un frammento di coppa svasata da Monte Roveto (Tav. VI, 4). Le conchiglie sono entrambe forate: questo può indicare che erano destinate ad essere sospese ad una cordicella. Con i piccoli strumenti in selce rossa si ottengono tre differenti tipi di decorazioni. Due punte hanno riprodotto due differenti solcature: una sottile a sezione acuminata, l'altra più larga a sezione convessa. La terza punta ha riprodotto i tipici triangolini, comunissimi nel patrimonio decorativo indigeno.

Tl rinvenimento di tale strumentario, unitamente agli innumerevoli frammenti con i fori per il restauro, fa pensare a spazi dove si svolgeva una qualche attività artigianale. Oltre allo scodellone deposto già in frammenti in una fossetta all'interno del vano 3, si sono trovati molti frammenti, tutti di scodelloni, con i fori circolari lungo la linea di frattura; molti sono ancora riaccostabili lungo la linea di frattura antica dove erano stati praticati i fori probabilmente con grappe metalliche (non rinvenute) o con altro materiale deperibile, come cordicelle. Altro elemento di grande interesse è la presenza di segni incisi e graffiti. In un frammento di anfora a decorazione dipinta con anse a cordone impostate sul ventre, compare un segno inciso molto profondamente alla base dell'ansa, una sorta di stretto triangolo senza base (Tav. VI, 3). Sul collo del pithos del vano 1 compare lo stesso segno, graffito, ripetuto tre volte; quattro linee verticali parallele ‘sono incise alla base del vaso acromo del recinto 2 (Tav. VI, 2). Lo stretto triangolo senza base ricorre in anfore di produzione corinzia e greco orientale rinvenute all'Incoronata di Metaponto, datate alla fine del VII sec. a.C.*: il segno, sostanzialmente simile al nostro, è qui presente su contenitori di origine diversa, il che ha fatto pensare che potesse essere ri387

ferito alla permanenza in un medesimo luogo di raccolta, una sorta di stoccaggio’. Questa interpretazione però non può essere valida per i nostri esemplari, inequivocabilmente locali.

Cosi come nei recinti, anche nei vani rettangolari colpisce la presenza copiosa di macine e pestel-

li, molti di piccole dimensioni. È particolarmente interessante una piccola macina dalle dimensioni di cm 20, in pietra calcarea durissima, quadrangolare, con la faccia inferiore piana e angoli ben smussati: nella faccia superiore è un incavo ovoidale (Tav. VII, 8). Risulta evidente come, per le dimensioni ridotte, la piccola macina fosse destinata alla trasformazione di sostanze particolari come, si può pensare, a rocce coloranti ocra, limonite o altro, o degrassanti per la ceramica, e allo stesso scopo fanno pensare i piccoli pestelli e lisciatoi. La pietra utilizzata, in molti esemplari, è un calcare durissimo a tessitura molto fine e la pietra lavica, dalla tessitura a grana grossa, entrambe di provenienza allogena. Il grado di abrasione per le macine in calcare, caratterizzate da una superficie molto liscia è ridotta al minimo, mentre è elevata per la pietra lavica: è probabile che le prime non servissero perla trasformazione dei cereali ma per triturare rocce o minerali vari in quanto per i cereali è molto più adeguata la pietra a tessitura grossa che permette al chicco di incastrarsi in modo da separare il chicco dalla crusca”. L'insediamento di Monte Roveto presenta caratteristiche differenti rispetto a quello di contrada Sanfilippo: sono stati portati in luce alcuni sacelli scavati nella roccia di cui un gruppo significativo è stato rinvenuto lungo il versante sud-est, alla base di un poggetto calcarco a q. 584, da cui si domina il fiume Platani. Quattro sacelli quadrangolari intagliati nella roccia si dispongono radialmente al poggetto, a poca distanza l'uno dall'altro. La necessità di rielaborare interamente la planimetria generale dell'arca, nonché la caratteristica di edizione preliminare del presente contributo, impone di rimandare la pubblicazione del rilievo dei sacelli nell'ambito dell'edizione dettagliata dello scavo. Presentiamo brevemente solo il sacello V, di forma rettangolare, scavato alla base di un mammelone roccioso. Lungo tutto il perimetro è una banchina risparmiata nella roccia nel cui spessore sono aperte tre fossette allineate di forma oblunga. All'interno del sacello si sono isolate ampie aree di bruciato e decine di deposizioni ceramiche, alcune delle quali entro fossette o coperti da tegoloni, altre stratificate in tutta la superficie del sacello. La ceramica rinvenuta, indigena, greca, e indigena di imitazione greca, è databile nell'ambito del VII e VI sec. a.C., con pochi frammenti di ceramica a decorazione piumata presenti nello strato di terra nera superficiale“! Le prime rilevazioni sulle presenze ceramiche degli insediamenti di Monte Roveto e di contrada Sanfilippo, anche se non definitive, forniscono comunque dati orientativi riguardo la presenza e di stribuzione delle classi e delle forme: nel sacello V si è registrata la decisa prevalenza della ceramica indigena, che rappresenta I’ 86,50% rispetto alla ceramica greca d'importazione pari al 13,50%. La quantità percentuale, ad un primo sommario esame, sembra essere pressappoco uguale nell'area di contrada Sanfilippo, dove però la ceramica greca di importazione si impone per particolare qualità (skyphoi, pissidi, oinochoai corinzie). All'interno del 13,50% della ceramica importata va messo in risalto il deciso predominio della ceramica corinzia rispetto alla ceramica attica e ionica. Essendo il materiale ancora în corso di restauro, si presentano in questa sede solo dati generali e alcuni fra i materiali particolarmente significativi, rimandandone lo studio analitico ad altra sede. Particolarmente elegante, per formae decorazione è un vaso con filtro di forma biconica, con tre ansette a bugna all'altezza della carena (Tav. IV, 4); sulla sommità è l'attacco di un ansa a cordoncino di cui rimane breve porzione. La decorazione è costituita da doppi triangoli con vertice in alto e campiti da punti impressi con un punzone a testa quadra. Tipologia rarissima è il piccolo vasetto biconico desinente a punta e attacco di un'ansa all'altezza. della carena, (forma presente con tre esemplari), decorato con fasce verticali in colore bruno che formano bande metopali verticali (fig. 7, 5; Tav. V, 5) destinato certamente a contenere unguenti o olii profumati*? Molti, ancora, i modellini di capanna, le coppe su alto piede, a decorazione impressa e dipinta, le brocche a bocca trilobata, le scodelle e i grandi scodelloni (tutti in corso di restauro) del tipo ad orlo ingrossato, a volte dipinto in rosso vivo o decorato con linee incise orizzontali, pareti oblique e base piana, o del tipo a corpo biconico. Probabilmente elemento decorativo era il piccolo serpente, pla388

smato a mano, costituito da lungo corpo tubolare, testa triangolare, occhi a rilievo e bocca aperta da cui esce una lingua appuntita (Tav. VII, 3). Dobbiamo segnalare infine la estrema esiguità di materiali metallici, sia dai sacelli di Monte Roveto che dall'insediamento di contrada Sanfilippo: si contano pochi esemplari di anellini digitali a sottile filo, alcuni ardiglioni in ferro di fibule, due aghi. Questo contrasta certamente con la grande quantità di frammenti di metallo informe affioranti su un vasto areale, con concentrazione davvero elevata soprattutto su Monte Roveto (la Rocca Ferro locale) ?. A conclusione di queste brevi note di presentazione preliminare di scavi i cui risultati sono ancora in corso di studio, si possono trarre degli spunti interessanti circa l'interpretazione della destinazione d'uso delle strutture. Sia a Monte Roveto che in contrada Sanfilippo sono gli elementi della natura a costituire i principali fondamenti dello spazio. I sacelli di Monte Roveto sono aperti alla base di cocuzzoli mammelliformi e radialmente ad essi; nell'area a Sud di Rocca Ficarazze, i recinti sono addossati alle escrescenze naturali della roccia, la cui posizione, genera e condiziona, volta per volta, forme, dimensioni e sviluppo planimetrico. Come sacelli sacri si possono interpretare gli ambienti scavati nella roccia di Monte Roveto, con le deposizioni ceramiche poste al loro interno, nelle fossette ricavate lungo la banchina, lungo le pareti spesso ricoperte con tegoloni. La tipologia ceramica, che conta esemplari di vasi “di prestigio” concorda senz'altro con questa interpretazione. Più problematica è l'interpretazione dell'insediamento di contrada Sanfilippo: i tre vani rettangolari infatti fanno parte di un complesso più vasto come risulta dai tratti di muri messi in luce nel lato ovest: se dal punto di vista architettonico-planimetrico, non è ancora possibile, data la ristrettezza dell'area scavata, tentare di identificare la destinazione d'uso degli ambienti, ancora meno indicazioni offre la tipologia del materiale rinvenuto. Come conciliare infatti la presenza di materiali “di prestigio” sia indigeno che greco, quali il tipo della capanna-sacello, le coppe, coppe su alto piede, i krateriskoi di imitazione corinzia, nonché il materiale greco di importazione, con materiali che fanno pensare a spazi dove si svolgeva una qualche attività artigianale, come la grande quantità di piccoli pestelli e lisciatoi, (spesso rinvenuti all'interno dei vasi deposti nelle fossette), le piccole macine, oltre a quello strumentario che senza ombra di dubbio serviva alla decorazione di vasi, come le conchiglie e i piccoli strumenti in selce? Come interpretare la deposizione di materiali entro fossette scavate nella terra, spesso a ridosso dei muri e protette da un giro di pietre? Come interpretare i vasi con i fori per il restauro deposti già in frammenti dentro le fossette? Solo con l'assunzione di nuovi dati offerti dall'indagine archeologica si potrà chiarire la destinazione d'uso degli ambienti e dei recinti finora portati in luce ma che già certamente offrono interessanti spunti di riflessione e, senz'altro, entusiasmanti prospettive. Gli insediamenti di contrada Sanfilippo e di Monte Roveto si inseriscono nell'ambito di un vastissimo territorio in cui, lavori di prospezione ancora in corso, finalizzati alla redazione della carta archeologica hanno evidenziato una lunga e composita presenza umana dal neolitico al medioevo, una lunga stanzialità che deve necessariamente fondarsi sulla disponibilità di particolari risorse del territorio. Alle “risorse sicane” indicate dal Caputo, il grano, il sale e lo zolfo, si aggiungono senz'altro i minerali ferrosi, l'ocra rossa, presenti in forte concentrazione lungo un punto di faglia a Monte RovetoRocca Grande di Roveto (Rocca Ferro) e Rocca Ficarazze, risorse che consentono al comprensorio di Casteltermini una collocazione privilegiata nell’ambito del circuito di scambi e contatti commerciali, e certamente non solo circoscritta all'età del ferro. Mi sembra importante evidenziare la diffusissima presenza, su un areale vastissimo, di manufatti di pietra di provenienza allogena come pietra pomice, pietra lavica, ossidiana, calcare, il cui utilizzo era reso necessario dalla particolare caratteristica petrografica della locale pietra di gesso, troppo friabile, che non ne consente l'utilizzo come macine, pestelli e percussori, strumentario indispensabile per molteplici attività. La presenza di tali litotipi (in quantità veramente notevole per essere casualmente reperiti lungo l'alveo del fiume), presuppongono un quadro di scambi e contatti a vasto 389

raggio, iniziati già in epoca preistorica, come documenta ceramica dello stile di Diana rinvenuta sulla sommità di Rocca Grande di Roveto, pietra lavica etnea e ossidiana di Lipari. Il portato storico dei nuovi processi culturali innescati dall'incontro con le genti greche, si legge nella cultura materiale, nella presenza di vasellame greco di importazione e, soprattutto, di imitazione locale. L'elaborazione di modelli allogeni non cancella affatto il patrimonio culturale indigeno, che si evince nell'organizzazione dello spazio architettonico, con il recinto addossato alla roccia naturale, il sacello scavato alla base di mammelloni rocciosi, deposizioni votive in anfratti naturali della roccia e la presenza di vasellame indigeno che in entrambe le aree costituisce la parte più cospicua delle deposizioni. I recenti scavi hanno conferito particolare risalto ad un preciso periodo storico, il VILVI sec. a.C., e hanno contribuito a dare consistenza scientifica a quel “ruolo egemonico sulla falsariga di centri come S. Angelo Muxaro e Polizzello”, che Vincenzo La Rosa rivelò nel corso di un suo più ampio lavoro di prospezione della media valle del Platani e che recentemente ha ribadito evidenziando la "notevole ricchezza dell'insediamento, inevitabile controparte del centro di S. Angelo Muxaro nella gestione e nel controllo del territorio lungo il fium. Ed è certamente il fiume l'attore principale in un contesto in cui monti e colline offrono gia tanto: i minerali ferrosi, l'ocra, lo zolfo e ancora il sale e l'argilla. E non sappiamo ancora con certezza quale interesse abbiano suscitato le numerose “fumarole” aria calda sulfurea che soffia da stretti varchi della roccia, o le vaste aree di maccalube, diffusamente presenti nel territorio. Ma è il fiume, fonte perenne di acqua, a rendere fertili le ampie valli circostanti e consentire una buona agricoltura: ed ecco che si profila la figura dell'agricoltore, del pastore, forse dell'artigiano ceramista sulle alture di contrada Sanfilippo: e come interpretare ancora la presenza diffusa di metallo informe, tipo aes rude, se non ipotizzando la presenza di artigiani metallurghi, estrattori e fonditori? La disponibilità di risorse preziose danno al comprensorio di Casteltermini una collocazione senZaltro particolare nell'ambito della valle del Platani, dove altre risorse come il sale e lo zolfo, o caratteristiche ambientali come la presenza di maccalube o le acque calde sulfuree sono diffusamente presenti: lo studio geologico, ancora in corso, darà risposte più precise riguardo la consistenza e la possibilità di estrazione di tali minerali in antico. Certamente ricca di risorse primarie, indubbiamente tali da costituire un surplus di produzione, dovette far fronte alla mancanza di buona pietra per la realizzazione di vario strumentario indispensabile per molteplici attività: la presenza di pietra lavica, calcare, ossidiana, tufo indica, se non altro, l'area geografica di provenienza, e ne lascia intravvedere rapporti commerciali. Le conoscenze acquisite attraverso scavi e prospezioni di superficie lungo la valle del Platani, hanno permesso di delineare, per grandi linee, con l'indispensabile supporto dello studio geologico, le dinamiche del popolamento in età preistorica. È certamente il fiume l'elemento su cui ruota la vita delle comunità locali, tanto che sono i siti prossimi al corso d'acqua a mostrare i segni di maggiore importanza e ricchezza, come Monte Sara, S. Giovanni Gemini, Cammarata, Casteltermini da cui in particolare provengono dati di indubbio rilievo, oggi presentati in forma preliminare e che, soprattutto in ragione della ristrettezza dell'area scavata, promettono entusiasmanti sviluppi futuri. NOTE * Lo studio del territorio di Casteltermini è iniziato nel 1992 con una serie di prospezioni nell'ambito di un più vasto progetto di studio della media e bassa valle del Platani, i cui primi dati sono confluiti in una serie di studi in corso di pubblicazio. ne. Ancora una volta il mio ringraziamento va al Soprintendente di Agrigento, Dott. Graziella Fiorentini, per avere sempre, nel corso di questi anni, agevolato benevolmente il mio lavoro. Un particolare ringraziamento per il permesso alla pubblicazione della brocca configurata, di Sua competenza scientifica. A Lei e al Prof. Ernesto De Miro mia guida nello studio e nella ricerca rinnovo il mio sentimento di stima, riconoscenza e affetto. La segnalazione di molti siti archeologici del territorio di Casteltermini si deve in primo luogo al lavoro appassionato della locale Associazione Archeologica che da anni, grazie a prospezioni periodiche, svolge una preziosa e insostituibile opera di tutela del territorio. Desidero ringraziare tuttii componenti, in primo luogo il Presidente, Prof. Salvatore Rizza e il Sig. Giuseppe Sciarrabone che hanno seguito tutte le fasi del lavoro, 390

dalle prospezioni allo scavo, agevolandole in tutti i modi possibili. Ringrazio inoltre l'Amministrazione comunale per la sensibile disponibilità e per i sollecito interessamento alle iniziative volte alla conoscenza e alla valorizzazione del patrimonio ar cheologico locale. La buona riuscita dello scavo si deve anche alla perizia e alla pazienza dell'Arch. Fabio Quadarella, autore dei rilievi di ‘scavo e dell'assistente di scavo Sig. Calogero Fuca a cui devo un ringraziamento particolare per avere sempre partecipato ivamente, con entusiasmo e generosità, ai miei lavori di scavo e di ricognizione. I rilievi dei materiali sono dell'Arch. Manola Cotroneo che ringrazio ancora per la pazienza con cui segue i mici lavori; le foto dei materiali sono del Signor Vincenzo Cucchiara. Π restauro dei materiali, ancora in corso, è curato dal Laboratorio della Soprintendenza di Agrigento diretto dal Sinor Vincenzo Graci, che ringrazio per la consueta, cortese disponibilità. Lo studio dei materiali, ancora in corso, non sareb. be possibile senza la straordinaria bravura di due tecnici specializzati nel restauro della ceramica, i Sigg. Franco Termine e Pasquale Farruggia, a cui va il mio apprezzamento e il mio grazie più sentito. Sono molto grata al Prof. Nunzio Allegro per le osservazioni egli utili suggerimenti. Ὁ G. Fitnorm, La carta dei suoli della Sicilia, Palermo 1988, associazione 11. > G. Firrorm, op. cit, associazione 13, * G. Fissorri op. cit, associazione |. * G. Fienorr, op. ci, associazione 17. * Studio in corso da parte di Francesco Lo Cascio e Giuseppe Presti. ? Sul rapporto fra mutamenti culturali e trasformazione del territorio, cfr. M. Caswascur, Gli apporti delle scienze della ter ra in Archeologia per la ricostruzione degli ambienti del passato, in Atti XXVII RSPP 1989, pp. 339 ss; G. BATTAGLIA-V. ALUATA, Modelli di insediamento in Sicilia nel Bronzo Finale, in SicA 75, 1991, pp. 7 ss. * Primi risultati della ricerca per l'areale da 8. Angelo Muxaro ad Eraclea Minoa in D. Guu, Nuove indagini e nuove scoperte nella media e bassa valle del Platani, in Quaderni di Archeologia Università di Messina, 1, 1 2000, pp. 139 ss;; sullinsediamento preistorico di S. Giovanni Gemini: D. Guil, Recenti scavi sulle Montagnola di San Giovanni Gemini (AG). Relazione preliminare, in Atti I Convegno Internazionale di Preistoriae Protostoria di Corleone, 31 Luglio 1997, in c.d.s. * A. Cazzeria, Manuale di archeologia. Le società dela preistoria, Roma-Bari 1989, p. 37. "^ D. Gu, Nuove indagini, ci. ? B. Pace, Artee Civiltà della Sicilia Antica UI, pp. 241 ss.; G. CasreLtana, All'origine del culto di Efesto-Vulcano nel territorio agrigentino, in PP CXCIX, pp. 234 ss. "© Cartina di distribuzione e notizie storiche in D. Gui, Nuove indagini, ci. ? P. Mezzap, La serie gessoso solfifera della Sicilia ed alire memorie geominerarie, Roma 1989, pp. 353 ss. * V. La Rosa, Sopralluoghie ricerche attorno a Milena nella media valle del Platani, in Cronache XVIII 1979, pp. 94 ss.; V. La Rosa, Nuovi centri indigeni della media valle del Platani, in Kokalos XXXIV-XXXV, 1988-89, II, pp. 555 ss; F. Tomaseio, Le tombe a tholos della Sicilia centro meridionale, Cronache 1985-86, pp. 141 ss. 7* V. LA Rosa, Sopralluoghi e ricerche, cit. p. 158, tav. XXXVII 7. τ. V. La Ross, Sopralluoghi e ricerche, cit, p. 158. 7 V. La Ross, Nuovi centri indigeni, cit, p. 557; il problema è ripreso in V. La Rosa, Riconsiderazioni sulla media e tarda età del Bronzo nella media valle del Platani, in Quaderni di Archeologia, Universita di Messina 1, 1, 2000, p. 137. ? Campagna di scavo condotta daA. Tannello. Considerato il carattere preliminare del presente contributo si presenta in questa sede solo la planimetria generale e si rimanda la pubblicazione dei rilevi di dettaglio. 7» V. Taxpo, Ceramica indigena a decorazione dipinta, in Colle Madore. Un caso di ellenizzazione in terra sicana, Palermo 1999, p. 139, nn. 78-79,p. 153. Ἢ B, A. ϑραβκες - L. TaLcorr, Black and Plain Pottery of ὁ, 5 and 4 century B.C., Princeton 1970, p. 192, n. 1502, tav. 64. ® Uno scodellone con dei fori lungo la linea di frattura proviene dal suolo della capanna β dell'acropoli di Monte Saraceno, cfr. A. Sitacosavo, L'acropoli, in Monte Saraceno di Ravanusa, Messina 1996, tav. XXI, 6. La tecnica è comunque documentata sin dal Neolitico. © Ἢ tipo della cosiddetta fiasca da pellegrino è ben documentato a Creta dall'età tardo minoica all'arcaismo (cfr. J. K. Βαρακ, Fortesta, Cambridge 1957, tomba L, n. 312, p. 34, pl. 21). A Cipro è presente in tombe dell'età del ferro (cfr. CVA Louvre 4, Π, pl. 6, 8). Sulle fiasche con decorazione plastica cfr. D. Pacem, Un vaso configurato da Prinias, in Cronache di Archeologia, 22, 1983, pp. 99 ss. Una fiasca simile ma a decorazione incisa c impressa proviene dalla necropoli della valle del Marcellino (R. M. ALBANESE, Le ernie dell'età del ferro e le prime fondazioni coloniali, in S.TUSA (a cura di), Prima Sicilia. Alle origini della società siciliana, Palermo 1997, p. 511, fg 4. % La tecnica potrebbe essere assimilabile alla cosiddetta “slab building”, tecnica utilizzata per la realizzazione di forme tendenti al rettangolare mediane l'assemblaggio di “lastre” o “mattoncini”: O. S. Rez, Pottery Technology, Washington 1981, p. n © C. A. Di Steravo, Mura Pregne. Ricerche su un insediamento nel territorio di Himera, in Secondo Quaderno Imerese, 3, 1982, tav. XLV, 1 % D. Apaatesreasv, Butera: Piano della Fiera, Consi e Fontana Calda, in MonAnt. XLIV, coll. 487 s., fig. 180. 7 D. Patera, S. Angelo Muxaro. Saggi di scavo sulle pendici meridionali del Colle Castello, Cronache di Archeologia, 18, 1979, p. 56. Butedi contrada Spinello di Butera: D. ADAMEstEANU, è anche nell'esemplare della necropoli 3 La decorazione bicromica ra, cit 391

7» D Ῥμκαμο, SAngelo Miaxaro, cit, pp. 565. V. LA Ros, Influencedi tipo egeo e paleogreco in Sicilia,in Kokalos XXXIXXL LL p. 36. 7 D. Patio, S Angelo Muxaro, cit, pp. 565. 2 Inedito dalla necropoli arcaica di Montelusa: D. Guus, Agrigento prima dei Greci, in cds. = Re Panvna, Scavi ricerche a Caltabellotta fra i 1983 e ἢ 1985, in Kokalos 1988-89, tav. LXVI, fi. 4. » Apicature laterali quasi verticali in un modellino da Polizzelo: D. azn, Material di tradizione cretese a Poizzello, in Antichità Cetesi Studi in onore di Doro Levi, Catania 1978, tav. XXVII 1 (E. Gauc, Polizcll. Abitato preistorico presso Mussomeli, in Ati Regia Accad. Di Scienze, Lettere e Ari di Palermo, XIV 1925, pp. 3 ss; D. Pus, Materiali di tradizione cretese, tav. XXVII, 1, 3; D. Parenuo, Contributo alla conoscenta dell'età del ferro in Sicilia, in Cronache 20, 1981, p. 112, nn. 74-75, tav. XLI, pp. 145 ss V. LA Rosa, Influenze di tipo, ci, p. 38;V. LA ROSA, in Italia omnium terrarum parens, Milano 1989, p. 68, figg. 96.97; Prima Sici della Sicilia Sicani, Siculi, limi, Le popolazioni lia TL pp. 225 s, V. 160. PE. De Miro, Polizello centro della Sikania, in QuadMess 3, 1988,p. 38, taw. XII, 5; XVI, 6. Alcuni particolari tettonici a Creansa a ponte lla sommità, hanno richiamato confronti con esemplari minoici largamente diffusi quali la caratteristica ta e a Cipro (D. PaLERMo, Materiali di tradizione,at. cit, p. 209 ss V. La Rosa, Nuovi ritrovamenti e sopraviivenze egee nella Sicilia Meridionale, n Traffici micenei nel Mediterraneo. Problemi storici e documentazione archeologica, Taranto 1986, p. 217; E. De Mio, Polizello, arci. p.38 F. Nicouera, Iradizione ed innovazione negli apporti trasmarin alle produzioni indige: ne, in Prima Sicilia, p. 528, RecentementeV. La Rosa, ribadendo il valore ἀεὶ confronti minoici per ἢ ipo del modellino di capanna, ha citato un esemplare di una collezione privata svizzera, ma proveniente dalla Sicilia e attribuito all sile di Naro. Partanna: ἢ particolare della sommità, definito a forma di cono rovescio non forato, non altererebbe, secondo lo studioso, i valore del confronto del tipo di ansaa ponte degli esemplari indigeni con esemplari minolci V. La Rosa, Processi di formaziohe e di identificazione culturale ed emica dell popolazioni locali in Sicilia dal medio-tardo bronzo all'età ἀεὶ erro, in Origine e incontri di culture nell'antichità. Magna Grecia eSicilia, Stato degli studi e prospettive di ricerca Pelorias 4, 1996, pp. 170s. * P. ORLANDIM, in Fasti Archeologici, XVI, n. 2247; V. LA Rost, Nuovi ritrovamenti,p.82 fig. 3 5 D. Guia, La necropoli indigena di età greca di Vassllagi (S.Catalo), in QuadMessina 6, 1991, p. 29, tomba BST: 57, tav XX, 2,57. 9 S, Vassazto, Modello di capanna, in Colle Madore, cit., pp. 117 ss. Per gli esemplari di Polizzello cfr. E. Ds Miro, Polizell, cit. p. 38. tavi XII, 5,6 Ἢ La decorazione impressa e dipinta ricorre in materiali da Colle Madore, ch. Colle Madore, op. it, pp. 1268, n.70, fig 143, Alti riferimenti in Colle Madore, p. 129, nota 19; si veda ancheD. ApawestzaNu, Butera, it © D. Pau, Contributo ala conoscenza, cit, p. 14; V. LA Ross, Le popolazioni dela Sicilia, εἷς, p. ig. 89, 91:S. VAs sutro, Modello di capanna,cit, pp. 117 5, con aggiornata bibliografia. 5 D, Guu, La necropoli indigena, i. p. 35, nota 71 “ Sul problema dell'imitazione indigena di modelli greci è ormai vasta la bibliografia. Per una sintesi del problema e un aggiornata bibliografia si veda A. CaLpsxone, L'abitato, in Monte Saraceno di Ravanusa, Messina 1996, pp. 43 s. * Del tipoV. Fara, La ceramica geometrica di Sant'Angelo Muxaro, 1983, p.40, fi. 2. “ Corinth XV, n. 1677, p. 66, 307; D.A. Aux, Corinthian Vase. Painting of he Archaic Period, 1988, I, p. 473, © RM. Aures, Importazioni greche nei centr interni della Sicilia n età arcaica: aspetti del'acculturazione", in I vasi attici e alte ceramiche coeve in Sicilia, I, Cronache 30, 1991, p. 97 ss; R. M. ALBANESE, Contenitori da derrade nella Sicilia ar calca e classica: per una definizione dellevidenza, in Die agais und das westliche mittlmeer, Beziehungen und Wechselwirkungen & bis 5. Jh. v. Chr, Wien, 24. bis 27. Marz 1999, Wien 2000, pp. 479 ss, in cui viene sottolineata la necessità di analisi petrografiche. “ P. Riconpi, Le conchiglie nella preistoria in Sicilia, in Prima Sicilia,pp. 157 s. © Uno studio inteso ad identificare la procedura di applicazione del decoro è stato efettuato sulla ceramica del nel antico (cd. impresse arcaiche) dallinsediamento di Favela: V. Tixi-E. Nara, Favela, in Forme e tempi della neolitizzazione in Ialia meridionalee in Sicilia, I, pp. 299 s. ** L. Cavacnera, Anfore commerciali, in Ricerche archeologiche all'Incoronata di Metaponto, 3. L'oikos greco del saggioS.

Lo scavo e i reperti, Milano 1995, p. 54,n. 39, p. 55,fg. 44. Δ L. CAVAGNERA, Anfore commerciali, cit., p. 47.

A. Scrounacxs, Apports d la téchnologie et de la pérographie pour la caractérisation des meules, i Actes du Colloque international "Traces et functions: les gestes Litge Roveto 8-9 Décembre 1990, Liege 165sdi Rocca Ferro). Discu 5, V. LA Rost, Nuovi cent indigeni, pp. etrouvés*, 555 s. (Monte viene indicato con ἢ1993, nome p.locale sione sulla genesi della decorazione piumata e storia degli studi in R. M. Ausawese, Calascibetta (Enna). La necropoli di Cozzo S Giuseppe in contrada Reales, in NSc 1982, pp. 593 5 RCM, Atnaxest, Importazioni greche,ct p. 000. » VI La Rosa, Riconsiderazioni, ct, p. 138, » V. Τὰ Rosa Riconsiderazioni, it, p. 138. 5 D. Gu, Nuove indagini, ct

392

TAV.I

1-4: 1. Contrada Sanfilippo. Area dei recinti; 2. Particolare del vano 1 con il pithos in corso di scavo; 3. Vano 2. Strato delle deposizioni in corso di scavo: 4. Vano 2. Particolare del lato ovest con la macina e l'orcio interrato. All'angolo esterno (vano 3) lo scodellone u.s. 109 in corso di scavo. 393

TAV.II

1-7: 1. Vano 2. Particolare dello strato di deposizioni; 2. Vano 3. Particolare dello strato di deposizioni; 3. Vano 3. Particolare dello strato di deposizioni; 4. Vano 3. Particolare dello strato di deposizioni; 5. Vano 3. Strato delle deposizioni in corso di scavo; 6. Vano 3. Coppa a larga tesa al momento del rinvenimento (fig. 5, 1); 7. Recinto 2. Fondo di grande vaso capovolto con all'interno pestelli litici. 394

ΤᾺΝ III

3 1-4: 1. Monte Roveto; 2. Monte Roveto, “Ambiente” quadrangolare intaliato nella roccia; 3. Pendici ovest di Rocca Ficarazze. Particolare della roccia con affioramenti di minerali ferrosi, e grossi noduli di ferro; 4. Monte Roveto. Struttura intagliata nella roccia. 395

1-6: 1. Cassettina a decorazione impressa; 2. Frammenti di cassettina a decorazione impressa; 3. Frammento di laterale breve di cassettina a decorazione impressa; 4. Vaso a filtro biconico, frammentato, da Monte Roveto; 5 Frammento pertinente a coppa su alto piede, da Monte Roveto; 6. Coppe a larga tesa a decorazione impressa e dipinta dai vani 2 e 3 di contrada Sanfilippo. 396

TAV.V

4

6

1-5: 1. Modellino di capanna dal vano 3; 2. Modellino di capanna da Monte Roveto; 3. Frammenti di modellini di capanna (in corso di restauro); 4. "Fiasca da pellegrino” dal vano 2; 5. Unguentario a decorazione dipinta, da Monte Roveto. 397

TAV. VI

1-7: 1. Vaso biconico a decorazione impressa dalle pendici di Rocca Ficarazze; 2. Fondo di vaso acromo con tre linee incise verticali, dal recinto 2; 3. Particolare dell'anfora a decorazione dipinta con segno inciso alla base dell'ansa; 4. Conchiglia utilizzata come strumento per la decorazione della ceramica: panetto di argilla con cerchietti iscritti ottenuti con l'impressione della conchiglia, simili al frammento di coppa da Monte Roveto; 5. Pithos a decorazione impressa dal vano 3; 6. Alcuni frammenti dello scodellone u.s. 109 con fori per il restauro (da ricomporre); 7. Frammenti di scodellone con fori peril restauro. 398

TAV. VII

1-4: -1. Brocchetta decorata da rombi inscritti, dal recinto 2; 2. Krateriskos indigeno di imitazione corinzia; 3. Piccolo serpente plasmato a mano, da Monte Roveto; 4. Brocca trilobata configurata a stivale, dal recinto 5 di

contrada Sanfilippo.

399

ALFREDO ÎANNELLO LE PROPRIETÀ FONDIARIE DELLA DIACONIA ROMANA DI S. MARIA IN COSMEDIN NEL SECOLO VII UNA LETTURA DELL'EPIGRAFE DI DONAZIONE DEI FRATELLI EUSTAZIO E GIORGIO * INTRODUZIONE

La monumentale epigrafe collocata presso gli stipiti del portale principale di S.Maria in Cosmedin, può essere considerata alla stregua di uno spiraglio di luce sul panorama socio politico di Roma altomedievale. Nella generale scarsità di fonti di prima mano per il periodo in oggetto, essa fornisce spunti di diverso tipo in merito al ruolo del papato agli albori di una dichiarata e consapevole assunzione su di sé di potere temporale. Trascrizione Prima parte (su supporto marmoreo in tre pezzi vd. fig. 1). + HAEC TIBI PRAECLARA VIR. GO CAELESTIS REGINA s(an)e(t)a sv PEREXALTATA ET GLORIOSA D [0]

MINA MEA D(e)I GENETRIX MARIA DE TVA TIBI OFFERO DONA EGO HIVMILLIMVS SERVVLVS TVVS EVSTATHIVS INMERITVS DVX QVEM TIBI DESERVIRI ET VIC. s(an)c(t)ug TVAE piac(oniae) DISPENSATO REM EFFICI IVSSISTI TRADENS DE PROPRIIS MEIS FACVLTATI BVS IN vsv (i)srtus s(an)c(t)Ae piac(oniae) Pn[o] [s]vstENTATIONE xP(ist)I PAVPER(UM) [e]r ouxivwt sic peseRvienr(i] ‘VM DIACONITAR(UM) OB MEORVM

VENIAM DELICTORVM HAEC INFERIVS ADSCRIPTA LOCA Ib(est) FVND(um) POMPEIANV(M) CVM CASIS ET VINEIS FVNDOR(UM) TREA SCROFA NV(m) ET MERCVRIANV(m) SEV CAMPIS

CVM CASIS ET VIN (eis) SEV OLIBETIS rvnp(um) ANTIQ(uum) vNc(iarum) mi seM(is) cv(m) casis ET BiN(cis) NEC NON HOLIBETIS Sì MVE BINEAS QV SVN IN PORTIS TABVLAS VI + ITEM ET EGO GE ORGIVS GLORIOSISSIMVS OFFERO vwc(iarum) m FvNp(um) ANTICV(m) cvM casis. ET BINEIS SEV OLIVET(IS) FVND(um) AGELLII IN INTEGRO CVM OMNIB(US) AD SE P « ER > TINEN 1 B(US) OVOD VISVS SVM EGO QVI SVPRA OFFERERE VNA CVM GERMANO MRO CAVITE 405

‘Trascrizione seconda parte (su supporto marmoreo in due pezzi): ET BV ΠΗ͂ NEC NON ΜΙ ET BINEAS OVI SVN < T > IN PINCIS BERS VRÍARUM) IIT SEV ALIAS V BERSVR(arum) B \VBARICAS QVI SVNT IN FUNDO ARÎT] ANI CVM CASIS ET BIN(cis) SIMVL V BERSVRAS IN s(upra) s(crip)ro FvND < 0 > ovo pla] TA SVNT AB EREDIB(US) GERMANA[E]

MEAE MOLA QVEM DATA EST

AB ERED(ibus) PAVLI IVXTA Eap(em) p[e1] JI VNCIAS MOLAE QVI DATA(E) < SVNT >

BINEAS TABVL (arum) XI QVI SVNT IN AGERE TI (em) BINEAS TABVL(arum) nis QVI SV N« T > TESTACIO NEC NON TABVL(as) XVII ον! > svNT IN s(an)c(0o GORDIANO NEC No[N] TABVLAS LO SUNT IN s(an)c(t)o E VPLVN DE BERO DIPTIC(0) P(resbiter) ‘OVI PRO TEMP(Ore) FVERIT FACI(ens) QVOTIDIANA MISSA ACCIPIAT A PA TRE SOLID(OS) ILL ET SI VIS PRES VMPSER(it) TAM DE HIS LOCIS Q.

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+ Queste cose a te o Vergine celeste, regina santa e molto venerata gloriosa signora mia, Madre di

Dio, Maria io ti offro.Io umilissimo servo tuo Eustazio, duca senza meritarlo; perché tornino utili a te e a questa tua santa diaconia, che al dispensator hai ordinato di radunare attingendo al mio patrimonio a vantaggio di codesta santa diaconia, per il sostentamento dei poveri appartenenti a Cristo e di tutti coloro che reggono la diaconia; per ottenere il perdono per i miei delitti (offro) questi luoghi segnati qui di seguito. Il "fundum Pompeianum” con le abitazioni e i vigneti, dei fondi “Trea Scrofanum” e “Mercurianum”, con campi e vigneti e abitazioni, come anche oliveti. Il "fundum Antiquum" di IV uncie e mezzo con abitazioni e vigneti, e anche oliveti insieme alle vigne che si trovano in Portis... VI tabule. + E così anche io gloriosissimo Giorgio, offro ΠῚ uncie del "fundum Antiquum" con abitazioni vigne-

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Fig. 1. L'epigrafe. S. Maria in Cosmedin, Roma, (da Silvagni). 407

ti e oliveti. Il "fundum Agelli” (lo offro) per intero insieme a tutto ciò che vi insiste. Sicché sia chiaro che io col fratello mio abbia offerto...

Seconda parte: traduzione libera. e i vigneti che si trovano "in Pincis” per (l'estensione) di tre bersure; e ancora altre cinque bersure bubariche? che si trovano nel “fundum Ariani” unitamente ad abitazioni e vigneti; con anche cinque bersure site nel "fundum" soprascitto e che sono offerte dagli eredi di mia sorella. Una mola che è offerta dagli eredi di Paolo presso questa stessa (diaconia?) di Dio, tre uncie di mola che sono offerte, vigneti di due tabule che sono "in agere" fino ai vigneti di "IIS? tabule” che si trovano al Testaccio; così pure diciotto tabule che si trovano in San Gordiano; così pure due tabule che si trovano in S. Euplo. E direttamente, per il dittico, il prete che celebrerà quotidianamente la santa messa, riceva tre solidi da parte di mio padre*.

E se qualcuno pretendesse sottrarre alcunché di questi luoghi che da me sono offerti e ordinati, oppure offerti da altri cristiani o che in qualunque modo siano stati offerti per uso di questa santa diaconia, e volesse por condizioni, sappia (questo qualcuno) che dovrà rendere conto di ciò nel giorno del giudizio finale, alla Madre di Dio; e sia stretto nel nodo dell'anatema, privo del regno di Dio e destinato, lui con tutti gli empi e col diavolo, al fuoco eterno. DESCRIZIONE E MOTIVI D'INTERESSE

L'iscrizione si presenta in lettere latine, su cinque lastre di marmo bianco di diversa altezza ma di uguale larghezza (marmo reimpiegato). Le lastre sono riunite a formare due iscrizioni distinte di m 2.20 ciascuna di altezza (l'una formata da tre lastre e l'altra da due). Le due iscrizioni sono poste ai due lati del portale maggiore della basilica romana di S.Maria in

Cosmedin, e risultano in buono stato di conservazione eccetto che per il primo rigo della seconda

iscrizione e per quelle lettere incise in corrispondenza delle linee di giunzione, inferiore e superiore, della lastra centrale della prima iscrizione. Entrambe le iscrizioni evidenziano una disposizione complessivamente ordinata delle lettere e delle righe, anche se la prima ha righe più ravvicinate nella sua parte inferio In generale si hanno righe più spaziate nella prima iscrizione e più ravvicinate nella seconda; la prima iscrizione si compone di 31 righe con lettere molto tendenti al quadrato e la seconda iscrizione si compone di 36 righe con lettere dalle stesse caratteristiche di cui sopra. Il testo è suddiviso in due parti distinte a mezzo di una croce latina apicata all'inizio di ciascuna delle parti. Piuttosto diffuso è l'uso di nessi (quasi sempre con sopralineature) e abbreviazioni sia per contrazione che per caduta Nell'impostazione generale esterna e per i contenuti, nonché per il luogo dove venne ostentatamente collocata, l'epigrafe (si intendono entrambe le lastre) può essere riguardata quale esempio di "charta lapidaria" medievale*. Vi si elencano una serie di donazioni fondiarie a favore della diaconia romana di S. Maria in Cosmedin*, da parte soprattutto dei due nobili fratelli Eustazio e Giorgio e di alcuni altri personaggi in probabile rapporto di parentela con loro. Ai fini della datazione del monumento, ? preziosa la menzione del titolo di cui si fregia uno dei due fratelli: Eustazio dice infatti di essere “duca”. E proprio questo titolo, unitamente alle caratteristiche esterne e paleografiche dell'iscrizione, ha permesso di identificare in Eustazio il "dispensator”? della diaconia ai tempi di papa Stefano II (752-757) e ad un tempo l'esponente più alto dell'aristocrazia militare romana del periodo*.

Ma non sono soltanto di natura politica i motivi d'interesse del testo in oggetto: oltre a testimoniare alcuni aspetti dell'origine di un certo tipo di potere temporale del papato nella Città e nel terri-

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torio circostante, a causa dei legami tra Eustazio e il papa Stefano”, l'epigrafe offre una messe di dati topografici di grande interesse per la storia del suburbio e del territorio urbano. Non solo per i molti "fondi"citati nel testo, qualcuno infatti offre buone possibilità di identificazione, ma dall'insieme dei siti e delle notizie accessorie che li accompagnano, può condursi qualche riflessione utile alla comprensione di certi fenomeni economici tipicamente medievali come, per esempio, l'economia di tipo curtense. Molto interessante dicevamo, è il quadro (sia pure scarno) che si può ricavare dalla descrizione offertaci per i fondi donati alla diaconia: Tutti risultano variamente abitati e coltivati con le tre tipiche colture mediterranee (ulivo, vite e grano), nonché serviti da mulini che vengono anch'essi offerti in dono in qualche caso. La donazione quindi si configura non solo come un'offerta di beni fondiarii semplicemente, ma anche come offerta di un'insieme di cose (terre, abitazioni, mulini) atte a garantire autosufficienza per ogni fase del processo di produzione e trasformazione del prodotto agricolo. Dalla terra si arriva fino ai mulini, attraverso gli stessi contadini che lavorano i fondi (offerta, questa, mai esplicita ma plausibile) Per mezzo di espressioni specifiche i terreni vengono distinti a seconda della loro destinazione economica: ci sono i seminativi o destinati a colture arboricole (i "campi"); ci sono gli arativi (le "bersurae bubaricae"); ci sono i vigneti suddivisi in "tabulae" certamente in riferimento alla loro disposizione geometrica e ordinata sul terreno. Sarà importante notare poi, se le nostre identificazioni per i singoli fondi colgono nel segno, come anche topograficamente, le terre offerte alla diaconia, formassero in qualche caso un insieme di siti contigui: soprattutto nell'area degli antichi “ager faliscus” e Veientanus”; un altro insieme sembrerebbe configurarsi a ridosso delle mura a sud di Roma (dunque all'opposto rispetto alla posizione dei siti già citati), tra Trastevere e Porta Latina. L'interrogativo fondamentale (che purtroppo non può avere risposta certa) sarebbe quello sul modo in cui queste donazioni interagivano con quelle grandi aziende agricole create nel suburbio dal papato altomedioevale: le domuscultae. In altre parole, è possibile ipotizzare che le donazioni ad una diaconia (rammentando il ruolo "annonario" di questi istituti in un certo periodo) fossero intese in modo da andare ad integrarsi nel sistema di produzione agricola gestito dalla Chiesa intorno a Roma? E inoltre, quali erano i vincoli e i rapporti amministrativi tra questi territori? '* Qualche spunto di risposta a questi interrogativi può venire proprio dalla nostra iscrizione che, per finire, mostra anche altri aspetti d'interesse: Vi si fa menzione del personale addetto alla diaconia (i “diaconites”); viene ricordato l'uso della quotidiana celebrazione della Messa con relativa lettura del dittico così importante nel nostro contesto. C'è poi l'esposizione così tipica dei motivi che Eustazio pone a giustificazione della sua donazione (il soccorso ai "pauperes Christi" e la richiesta di “venia delictorum" alla Vergine); la chiosa finale del testo, con la diffida verso coloro che volessero sovvertire le disposizioni stabilite. Le INDICAZIONI TOPOGRAFICHE E LE LORO POSSIBILI IDENTIFICAZIONI Fundum pompeianum

Due luoghi potrebbero essere identificati con quello citato nell'iscrizione. “Fundum Pompeianum": È attestato con questo nome un fondo lungo la Via Labicana, presso l'attuale sito di Torrenova. Della zona parla un regesto di papa Gregorio II (715-731), a margine di un’assegnazione di terre ad una chiesa romana. È probabile che allora come oggi, il luogo prendesse nome da una "memoria di Pompeo" (il c.d. “Pompeetto") esistente sul posto. “Fundum Pompenianum": Il nome del fondo è attestato peril territorio di Nepi. L'identificazione con questo luogo è resa probabile (nonostante la lieve difformità del nome) considerando la giacitu409

ra topografica della maggior parte dei siti citati dall'iscrizione che si possono identificare con più certezza (vd. infra). Il fondo è citato in documenti del sec. X e XI. Nepi e il suo territorio divengono definitivo possesso papale a partire dall'anno 817 (donazione di Ludovico il Pio; cf. Liber Censuum, ed. Duchesne, vol.

I, p. 363)?

Trea scrofanum Si tratta di due siti che non presentano problemi per l'identificazione. Essi costituiscono un sicuro riferimento anche per collocare gli altri siti citati dall'iscrizione. Entrambi indicano il medesimo luogo. “Trea”: Indica l'odierno fiume Treia che scorre a poca distanza dal Borgo di Sacrofano. "Scrofano" (o Sacrofano): È un luogo posto in un punto chiave per le comunicazioni tra la Via

Cassia e Flaminia (attraverso l'Agro Veiente) che corrono pressoché parallele in quella zona. Una bolla di papa Giovanni XIX (1024-1032) del 1027, cita una chiesa di S.Giovanni “in Scrofano” e costituisce il più antico documento (esclusa l'epigrafe che trattiamo) per la denominazione del sito. Fundum mercurianum

L'identificazione è fortemente incerta, ne offriamo tre di possibili. Due si avvicinano al luogo in questione per assonanza del nome,ed una è offerta dal Tomassetti senza particolari spiegazioni e proprio in riferimento alla nostra epigrafe. Rimane da segnalare come la maggior parte delle identificazioni proposte, ricada nella zona maggiormente indiziata dai siti citati dall'iscrizione: ci troviamo nel territorio degli Agri Veiente e Falisco.

Ipotesi Tomassetti: Si basa sulla lettura di un passo della nostra epigrafe, là dove si parla del fondo in questione, nel senso di “Fundum Mercurianum” ovvero "Campis" (accettando il primo toponimo come sinonimo del secondo).

Identifica perciò questo fondo nella località di Schiaci sulla Via Ostiense (a circa dieci miglia da Porta S.Paolo). "Fundum Merulanum": Se ne può proporre un'ipotesi di identificazione, nonostante la difformità del nome rispetto al nostro. Il fondo è citato in due contratti di locazione risalenti rispettivamente agli anni 1229 e 123S.Il luogo è detto ricadente nel territorio di Sacrofano.

"Fundum Martinianum": Anche in questo caso si tratta di un luogo nell'area della Via Cassia. Il sito è quello dell'attuale lago di Martignano e territorio ad esso circostante. Il toponimo è antic

una bolla di papa Sergio III (904-911) del 905, lo cita con precisione. Anche qui andrebbe ammessa una forma del nome dissimile presente sull'epigrafe ". Fundum agelli

Quattro siti sono indiziati per l'identificazione. Uno si trova sulla Via Aurelia; l'altro sull'Ostiense;

un altro sulla Nomentana e l'ultimo dovrebbe coincidere col borgo di Formello sulla Via Cassia.

"Fundum Agellus”: Lo troviamo in un'area tra Malagrotta e Boccea, lungo la Via Aurelia. Nell'

rea dell'antica “domusculta Laurentum” fondata da papa Zaccaria (741-752). Il nome del fondo si trova citato in documenti del sec. XI relativi al monastero romano di S.Cosma in Mica Aurea.

“Casale Agelli”: È ricordato da una bolla di papa Sergio III (904-911) del 905, che abbiamo avuto già modo di citare (vd. supra). Il terreno risulta confinante con il Casale di Rivo Petroso, sito a sei dalla Porta S. Paolo (Via Ostiense). 'Agellus": La Passio delle sante Agnese ed Emerenziana, risalente al sec. VI, sepolte in cimiteri della Via Nomentana, afferma che la prima avrebbe trovato sepoltura "in agello" e l'altra “in confinio agelli”. “L'ipotesi Formello”: Due piste portano ad una identificazione del

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ito col borgo di Formello.

Una è la lettura che del passo in questione della nostra epigrafe faceva il La Ragione nel senso di L'altra ipotesi si può ricavare dall'esistenza in Formello, dell'antica chiesa di S.Angelo: essa potrebbe aver tratto la sua denominazione dal toponimo tradito dall'epigrafe. Quanto alle vicende storiche del borgo intorno all VIII secolo, recenti indagini archeologiche connesse al vicino sito della “domusculta Capracorum" e alle sue fasi di vita, inducono ad anticipare (rispetto al periodo intorno al X secolo tradizionalmente accettato) il tempo della fondazione del borgo fortificato di Formello (e di altri consimili nelle vicinanze) fino alla metà del sec. VIII, forse in corrispondenza degli attacchi “Forum Lelli” per “Fundum Agelli”, ricavando una forma leggermente corrotta del toponimo.

di Astolfo e Liutprando contro il Ducato di Roma.

Fundum antiquum Identificazione abbastanza sicura. Abbiamo tre siti degni di segnalazione e cosa particolarmente importante, tutti gravitanti in un'area geografica che abbiamo riscontrato già indicata in altri casi Siamo nel triangolo tra Nepi, Calcata e Monterosi. “Fundum antiquum": Nella stessa lista citata a proposito del "Fundum pompeianum”, presso Nepi compare anche il toponimo in questione (cfr. ivi) "Fundum antiquum": È così definito un terreno nell'area della odierna Monterosi; citato nella Bolla di papa Innocenzo III (1198-1216) del 1211, molto importante anche per altri territori del nepesino e del campagnanese. "Fundum antiquum": Territorio circostante l'odierna Calcata, così indicato negli Annales Camaldulenses del X secolo. Inoltre il Bertolini vide nel nome un'allusione all'antico Ager Faliscus *. Fundum ariani

Il luogo non è mai stato identificato con alcun sito di Roma o del suburbio. Esso probabilmente ricade nell’area dell’attuale borgo di Lariano, lungo la Via Latina. A sostegno di questa ipotesi, nonostante il nome di Lariano non appaia in documenti anteriori al sec. XII, potrebbe stare il fatto che la nostra iscrizione menzioni la chiesa di S.Gordiano tra i suoi riferimenti topografici: ebbene, questa chiesa non solo è sita dal Bartolini all'inizio della Via Latina, ma potrebbe essere facilmente ricondotta al complesso di S.Gordiano ed Epimaco esistente nella medesima zona. È anche da considerare l'ipotesi del Tomassetti sulla possibile origine del nome di Lariano da un antico "praedium arrianum” che si trovava in zona ". Altri siti Riguardo gli altri siti urbani e suburbani, citati dall'iscrizione (vd. figg. 2 e 3), essi non presentano problemi di identificazione. Ci troviamo nell'area delle vie Cassia e Flaminia a nord e delle vie Ostiense e Latina a sud. Conciusioni (vd. figg. 2 e 3)

Nell'ambito del suo fondamentale (ancorché datato) studio sulle diaconie romane, il Bertolini afferma: “Si ha l'impressione che, dagli ultimi anni del secolo VI, lo Stato, per quanto riguarda Roma, si preoccupasse più dei rifornimenti d'interesse militare che non di quelli d'interesse civile, lasciando alla Chiesa la cura di provvedere essa stessa alle necessità alimentari della popolazione cittadima" Da questa osservazione si pub partire per cercare di porre in luce quegli elementi d'interesse che 411

nee

4 i

Steen Saran eni rino (a te Equo Ciicconie): pe ere:

manu,

Fig. 2. Proprietà elencate per l'area di Roma: Vigneti "in Pincis": Pincio; Bersurae "in Fundo Ariani”: Lariano (Via Latina, sito suburbano); Mola "iuxta eadem (diaconiam): Ripa graeca; Vigneti "in Testaccio”: Monte Testaccio; Tabulae “in S. Gordiano”: Porta Latina; Tabulae “in S. Euplo": Porta S. Paolo; Vigneti "in Portis’: Porta Portuense.

si colgono dall'esame dell'iscrizione di S. Maria in Cosmedin. Quanto affermava Bertolini apre infatti la via a diversi spunti di riflessione: uno, più immediato, è quello che conduce a riflettere sulle condizioni economico politiche della città di Roma e del suo territorio a partire dalla fine del secolo VI fino all'avvento dei franchi, ed alla conseguente rottura di una serie di annosi legami e prerogative di Roma rispetto all'ordinamento (o quanto ne rimaneva) imperiale; l'altro spunto è quello che ci porta a valutare con più attenzione ciò che sappiamo di un sistema di gestione della sfera primaria dell'economia che caratterizzava la Roma altomedievale così come quella antica, attraverso una rete di organismi atti alla capillare distribuzione di generi di sussistenza alimentare alle classi meno abbienti e un indotto strettamente legato ad essi, tale da costituire un sistema complesso per finalità e modalità di gestione. Ciò che in entrambi gli indirizzi di riflessione riveste importanza (e riceve lumi da come riusciamo a ricostruire il dipanarsi delle cose) è naturalmente il ruolo della Chiesa, con le caratteristiche e

le tappe di un sempre maggiore impegno nella sfera delle urgenze di carattere secolare dei suoi sot-

toposti 9. Il codice giustinianeo offre vari esempi di casi in cui l'imperatore affidava a vescovi una fattiva

collaborazione nel funzionamento dei servizi di una città®, ed è quindi evidente che cid che riscontriamo nella Roma di VII/VIII secolo prenda, nelle grandi linee, le mosse da tempi più antichi. Tuttavia quello che osserviamo come “fotografato” dalla testimonianza dell'iscrizione di S. Maria in Cosmedin, è il quadro di una compiuta sinergia tra poteri laico e religioso (con un margine di vantaggio del secondo, comunque) nell'ambito di un attivismo politico ed economico che si palesa con chiarezza per la Chiesa altomedievale di Roma. Se siamo nel giusto nell'interpetrare l'iscrizione di S. Maria in Cosmedin, soprattutto dal punto di vista della possibile giacitura topografica della maggior parte dei siti che si riscontrano, ricaviamo alcuni elementi che possiamo inquadrare nel loro valore grazie all'ausilio di studi sul Lazio altomedievale? Innanzitutto l'evidenziarsi di due zone ben precise del suburbio romano, dove si raggruppano i 412

=

E

Fig. 3. Proprietà nel suburbio: direttrice Cassia-Flaminia “Pompeianum”: area di Nepi; “Trea+Scrofanum”: Sacrofano; “Mercurianum”: Area di Nepi o Martignano; "Antiquum”: Area dell'Agro Falisco; "Agelli": Area di Formello?

nostri fondi, può essere facilmente messa in relazione con la viabilità altomedievale del suburbio stesso, oltre che con aspetti del riassetto delle proprietà fondiarie della Chiesa all'indomani della cri si iconoclasta. I fondi gravitano sull'asse della via di collegamento con il nord per eccellenza, costi. tuita dall'Amerina; e su quell'altro fondamentale asse costituito dalle vie Ostiense/Portuense, verso Porto e il mare. Una circostanza che potrebbe non essere casuale, se pensiamo che le diaconie si caratterizzavano per la loro presenza in punti nevralgici della Città? e a contatto con le direttrici, ivi compreso il Tevere, di penetrazione delle derrate*, I fondi agricoli offerti sarebbero così da intendersi, seguendo lo stesso ragionamento, non soltanto disposti strategicamente rispetto alle necessità di approvigionamento che andavano a soddisfare, ma molto probabilmente anche scientemente correlati con il resto della rete di produzione agricolo economica promossa dalla Chiesa stessa: ovvero la rete delle Domuscultae intorno a Roma”. Se pare accertato sulla scorta del Toubert *, che una via via maggiore frammentazione dell'integrità delle donazioni fondiarie a istituti religiosi si riscontri in corrispondenza cronologica con i rivolgimenti longobardi e franchi prima a ridosso e poi all'interno del Ducato di Roma, nel senso che da quel momento le proprietà donate vanno sempre meno conservando un carattere unitario ed esteso sul territorio; nel caso testimoniato dall'epigrafe, avremmo una situazione che contraddice questo asserto solo in apparenza.

Infatti è vero che i fondi non sono mai di grande estensione; e che non si evidenzia con certezza

la loro pertinenza ad unità territoriali anch'esse di grande estensione; è però altrettanto vero che, se

andiamo a verificare le possibili identificazioni topografiche, ci troviamo comunque all'interno di un paio di zone ben distinte (supra). Inoltre in molti casi, si esprime la donazione di fondi insieme agli immobili che su di essi insistono (ed è lecito ritenere che le case ospitassero i contadini): il che configurerebbe una sorta di fisionomia autosufficiente (riguardo le varie fasi della produzione agri-

cola) in qualcuno dei casi.

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Si tratta di un'ipotesi, che può essere posta in valore da quel fenomeno tipicamente medievale che è l'economia di tipo curtense e che vediamo in atto in epoche poco posteriori quella di cui ci occupiamo”. Nell'agro romano dell'VIII secolo, per vari motivi di ordine politico ed economico legati alla singolarità della situazione romana e del papato che sempre più si configura come "dominatus", ne avremmo la prefigurazione. Domuscultae e fondi rustici donati da privati, spesso a conduzione autarchica, si amalgamano a costituire un sistema che indizia della sua efficienza proprio per il fatto di rivelarsi gravitante intor-

no alle principali vie di approvigionamento dal territorio verso la Città, e soprattutto nel far capo a

quei collaudati organismi con implicazioni di carattere annonario che appunto sono le diaconie”. NOTE

* Questo piccolo contributo è stato da me elaborato nel lontano 1994, nel frattenpo l'pigrafe in questione è stata naturalmente oggetto di altri studi. Per tutti segnalo il lavoro di Federico Marazzi dal titolo: patrimonia di Sanctae Romanae Ecclesiae nel Lazio nei secc. N/K: struttura amministrativa e prassi gestionale, pubblicato a Roma nel 1998 a cura dell'Istituto Sto. rico per il Medioevo, in particolare le pp. 195-197 per lepigrafe di Eustazio e Giorgio ele pp. 235 e ssg. per quel che concerne. Je diaconie. Da ultimo rimando agli Atti della XLVII settimana di Studi di Spoleto a cura del Centro Italiano di Studi sull'Alto Medioevo, tenutasi dal 27 Aprile al 1 Maggio 2000 e dedicata a Roma nell'alto Medioevo 1 ^, ct merevrianvm sev campis cvm casis e vineis sev olibtis... 11 passo è stato anche tradotto interpetrando "sey" come disgiuntivo ¢ intendendo "campis" sinonimo di "mercurianum', ad indicare il medesimo luogo. Potrebbe invece tradursi “sev" col valore di un "et" sia per l'itrazione chese ne riscontra, sia per il senso generale del discorso. Vd. R. Kawa, Corpus Basilicarun: Christianaram Romae, Città del Vaticano 1959, vl. I 5. S. Maria in Cosmedin. 7 Si è considerata l'espressione "bersuras bubaricas" come riferita a terreni arativ I termine "bersura" potrebbe essere corruzione di un “versura’ che, unito all'altro termine (riferito al bove da aratro), indicasse il solco da semina. Lipotesi con‘rasta col significato medioevale della parola “bersura” (terra da caccia) ma appare più appropriata al contesto. Per questi problemi vd. LF. Niturvzm, Mediae latinitatis lexicon minus, Leiden 1976. ? IIS": Con “S" i è indicato un segno che potrebbe essere un episemon * Pater, indica probabilmente il dispensator stesso. * Con il termine si vuole indicare essenzialmente, il carattere di scritto ufficiale che si rileva peril contenuto delliscrizione; non è nemmeno escluso che ἢ testo sia stato tratto direttamente da un documento esistente ai tempi, nella fattispecie un testamento, e di cui riporterebbe caratteristiche del formulario e paleografiche. N.Gxay, The paleography of latin inscriptions in the εἴρια, ninth and tenth centuries in Italo, in PBSR XVI, 1948, pp. 38-163. * Per le diaconie romane, che nel secolo VITI esistono già da tempo, cf. O. Broun, Per la storia delle diaconie romane nell'Alto medioevo fino alla fine del sec. VII, in Archivio storico dell società romana di storia patria 1987, pp. 1-145; J. Lestocvor, Administration de Rome et diaconies du VIII au IX siéle, in RAC VII, 1930, pp.261-298; J. Duras, De la ville antique à la ville byzantine. Le probleme de subsistances, Ecole francaise de Rome 136, 1990, in particolare pp. 123 s e, da ultimo, F. Masozz, IL conflto tra Leone II il papato tra il 725 e il 733, i definitivo inizio del Medioevo a Roma: un'ipotesi di discussione, in PBSR LIX, 1991, pp.231-257. Nel caso di S Maria in Cosmedin è oggi superata ipotesi di una continuità d'ufficio sul medesimo sito occupato dalla statio annonae" imperiale; l'area della "ripa gracca” e quella prospiciente di Trastevere, tuttavia, dovevano comunque avere impianti stabili dll'annona che ne sfruttavano la vantaggiosa positura topografica. Su questi ar. gomenti vd. M. DE Douncs, La statio annonae Urbis Romae, in BCA 52, 1924, pp. 135-149; F. Coaneui, I Foro Boario dalle origini alla fine della Repubblica, Roma 1988, in particolare p. 76: Ἔ probabile, del resto, che gli edifici dell'annona fossero im. gran parte concentrati in Trastevere... Per S.Maria in Cosmadin, ancora: F. ToLovn, Sugli edifici antichi di S.Maria in Cosmedin, in F. ConseLLI, Il Foro Boario, cit, pp. 439-442; G.B. Giovexat, La basilica di S. Maria in Cosmedin, Roma 1927; G. Masstnt La chiesa di S.Maria in Cosmedin (in Schola Graeca), Roma 1979. ? Altre figure di "dispensatores" sono note per le alte diaconie romane. Questi personaggi erano di nomina papale, c proprio questa circostanza indizia di grande interesse il rapporto tra papato e ducato (rappresentato da Eustazio) in quest epoca. * O. Benroumy, Perla storia it, pp. 31 ss. del suo contributo, identifica Eustazio con il duca di Roma inviato da papa Stefano IL a Ravenna (insieme al presbitero Filippo) per prendere possesso di quella "donatio" alla Chiesa da parte di Pipino il Breve (c. Liber Pontificali, vita di Stefano II. Ed. Duchesne). Per le vicende storiche vd. V. Vox Fatxesmatsex, in bizantini in Italia, Milano 1982, pp. 1-137 Va. supra © Peri problemi relativi infra. "t Nella Chiesa del periodo, la lettura del dittico rappresentava il momento della iurgia in cui il Celebrante ricordava ai presenti il nome dei benefattori della comunità ei doni da essi offerti, A proposito possiamo rammentare la deplorazione che già tempi precedent S.Gicolamo manifestava per qustuso, che non favoriva cero esercizio di umiltà por li abbienti delcomunità in questione. "In generale, per le identiicazioni relative al “Fundum Pompeianum’, cf. G. Towussern, La Campagna romana antica 414

medievale e moderna, Roma 1979 (nuova ed), vol II, pp. 485-486 e pp. 184-185 e Io., Della campagna romana nel Medioevo, in Archivio della reale società di Storia Patria 1882, pp. 617 ss. Per il regesto di papa Gregorio II vd. Drusornrr, Collectio Canonum, p. 324; per i documenti nepesini di X e XI sec. νὰ, G.P. MrrrarkLLI-A. Costanoni, Annales Camaldulenses, Venezia 1755-1773, p. 182 ? Per l'identificazione di “Trea Scrofanum" cf. O. Bertoun, Per la storia, cit. pp. 57-58 e 142-145; G. Towasserm, La Campagna romana, cit, vol. III, pp. 344-345; N. Kine, An archeological field survey near Campagnano di Roma, Southern Etruria, in PBSR LXI, pp. 115-124; C.J. Wicxnaw, Historical and topographical notes on early medieval south Etruria in PBSR XLVI, 1978, p. 165; A. Tomassern, Bullarum, diplomatum et privilegiorum sanctorum romanorum pontificum taurinensis editio, Tori no1857,vol. I, p. 535. % Per l'identificazione del “Fundum Mercurianum" cf. F. Towusserm, Della Campagna romana nel Medioevo, in Archivio deli ταὶς società romana di Sri Para 1896 p 302 ss E elm, G Towser, La Campagna romana ci voL po 344-345 e pp. 173 ss; G. Marna, I papiri diplomatici, Roma 1865; C. J. Wickiaxt, Historical and topographical notes, cit, 156. Per contratt i locazione del Fundum Merulanum” vd. A. Moxac, I regeto dî S Alessio, n Archivio della Reale Società Romana di Storia Patria 1905, pp.159-162. La Bolla di papa Sergio ΠΙ in A. Tomasserns, Bullarum, cit, p. 379. * Per l'identificazione del “Fundum Agelli" cf. G. Towasserm,La Campagna romana, cit. vol. IL, pp. 595-596; ibid., vol. V, pp. 172-173; ibid, vol. II, pp. 137. D. BartoLiN, Gli atti del martirio della nobilissima vergine romana S.Agnese, Roma 1858, pp. 18-19. F. La Racioxe, Profili storici di Formello, Foligno 1898. N. Cuiusmz, C.M. Dawes, in AAVv, Three south Etrurian churches: Santa Cornelia, Santa Rufina and San Liberato, in Archeologica! monographs of the British schoolat Rome 4, London 1991, pp.6 ss. per S.Cornclia. F. Matozzi-T. Pormia-A. Kino, Mola di Monte Gelato (Mazzano romano VT): notizie preliminari sulle campagne di scavo 1986/88 e considerazioni sull'origine dellincastellamento in Etruria meridionale alla luce dei nuovi dati archeologici, in Archeologia Medievale, XVI, 1989, pp. 103-120. C.J. Wicknas, Historicaland topographical notes on early medieval south Etruria (seconda parte, in PBSR, XLVII, 1979, p. 158. 1 documenti relativi a S.Cosma in Mica Aurea in P. Fepete, estratto da Archivio della Reale Società Romana di Storia Patria XXI, 1898 e XXII 1899, pp. 449-488. Per le sante Agnese ed Emerenzianavd. Acta Sanctorum lanuarii, vol. IL, Paris 1863, pp. 714-717. "4 Per l'identificazione del “Fundum Antiquum" cf. G. Towassern, La Campagna romana, cit, vol. VI, p. 175 e p. 428; O. BegoLINI, Perla storia, cit, pp. 58-60. La Bolla di papa Innocenzo ΠῚ in D.P. Gatterni, Del primicero della Santa Sede Apostolica e di altri ufficiali maggiori del sacro palagio lateranense, Roma 1776, p. 333. Per gli annales camaldulenses vd. G.B. MrrraReLLI-A. Costapona, Annales Camaldulenses, Venezia 1755-1773, p. 182 ? Per l'identificazione del “Fundum Ariani” cf. G. Towassern, La Campagna romana, cit. vol. IV, pp. 546 ss; O. Berto: va, Perla storia, cit., pp. 58-60; E. Jost in RAC 1939, p. 197; Io, in RAC 1940, p. 31; Io, in RAC 1943, p.9. Per il complesso di S. Gordiano ed Epimacovd. P. Testa, Le catacombe e gli antichi cimiteri cristiani in Roma, Bologna 1966, p. 11. "O. BertoLINI, Per a storia, cit, p. 79. 7 Tutti i testi esaminati a riguardo, concordano nel considerare il pontificato di Gregorio Magno, come quello che meglio indizia una volontà di pianificare (sulla base di coeve esperienze orientali o su ispirazione autonoma?) questo tipo di atti vità. Dunliat attribuisce già a papa Gelasio disegni consimili (vd. J. Duetiar, De la vile antique à la ville byzantine, cit... » Peril Codice Giustinianeo vd. P. KrucEr, Geschichte der quellen v. lieratur des romischen Rechts, Leipzig 1912 (nuova ed) Ὅν Toubert, pur prendendo in esame il periodo tra IX e XII secolo, presenta sempre, per ogni fatto, un puntuale riferimenτὸ ai sec. VILe VIII (vd, F. Τουμεατ, I sistema curtense in Ialia nei sec. VIII, IX, X, n Storia d'Italia Einaudi, Torino 1983, vol. VI, pp. 5.65). Riferimenti a notizie utili sono presenti anche in PBSR 1991; altri spunti in F. Marazzi, Il conflto tra Leone III e il papato, cit, pp. 236 ss. © J. DuRuar, De la ville antique à la ville byeantine, cit, p. 182 ss., annette importanza capitale alla crisi di rapporti tra papato e impero intervenuta a causa dell'iconoclastia. Questa avrebbe messo in pericolo le proprietà della Chiesa di Roma in Sicilia (in quanto provincia facente parte del patrimonio privato imperiale), inducendo la Chiesa stessa a dedicarsi alla migliore organizzazione possibile delle terre prossime alla Città: in tale quadro sarebbero state istirtuite le Domuscultae e il conseguente sfruttamento intensivo del suburbio (vd. F. Marazzi, Il conflitto tra Leone IIIe il papato, cit, pp. 232 - 233). ? Ancora in O. BERTOLINI, Per la storia, cit, p. 68: “.. caratteristica a tutte (le diaconie) comune, era l'ubicazione sulle maggiori arterie cittadine, raccordate in modo da costituire una fitta rete di scali che confluivano agli scali fluviali del Tevere ed ai relativi magazzini di deposito." Un punto questo che ne' il Coarelli ne' il Durliat (vd. infra, bibliografia.) pongono in di^ Da dovunque esse provenissero. Sia che si voglia pensare, sulla scorta di Marazzi, ad un contesto completamente autarchico di produzione gestito dalla Chiesa sia che, sulla scorta del tradizionale indirizzo del Bertolini, si voglia pensare ad un sistema di approvigionamento ancora supportato da quote di derrate di provenienza oltremarina, * Si tenga presente, a proposito delle Domuscultae in generale, che i recenti scavi di Monte Gelato presso Mazzano rodi questi istituti di almeno un semano, hanno fornito precisi riscontri archeologici a favore di una sopravvivenza di at ività colo oltre il termine ultimo tradizionalmente accettato (cf. E. Marazzi-T. Porres-A. Kisc, Mola di Monte Gelato, cit. 7» Vd. F. Tounenr, Structures du Latium méridionalεἰ la Sabine du IX siécl ἃ la fin du XII siécle, Ecole francaise de Rome, 221 e To, Il sistema curtense, ci. 7 Fatte le debite distinzioni di carattere storico rispetto ai temi che trattiamo in questa sede, è il tipico frazionamento gestionale (e non amministrativo) delle Curtes medievali che può offrire spunti di confronto con le nostre problematiche. Per le Curtes vd. Cu. Du Canoe, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Niort 1883, v. relativa; ma anche F. Touneat, Il sistema curtense, cit. La principale fonte rimane il "Capitulare de villis di Carlo Magno (in M.G.H. Capitularia I, 1835, a p. 181). Da ultimo vd. F. Marazzi, conflitto ira Leone IIIe il papato, cit, p. 256 ss. 415

? Ta J, Douua, De la ville antiqueà la ville byzantine, cit, p. 183, si dice: "L'annone instituée pour calmer et attacher au pouvoir imperial le peuple de la Ville, finit par servir à encadrer le peuple de la Ville éternelle en assurant sa fidélité au pape en train de fonder dans l'indifférence générale un nouvel Etat millénaire... Si tenga presente anche quanto affermato da A. Gouniov.F. Boscanrt1a, L'Italia bizantina. Dall Esarcato di Ravenna al Tema di Sicilia, Torino 1988, p. 35 a proposito dei quadri amministrativi e di Roma in particolare: "L'annona, anche se ormai rappresentava una prestazione assai ridotta di quanto spesso si dice, era affidata alla responsabilità dei servizi pontifici. Il fatto è che i granai della Chiesa erano anche quelli dello Stato e le vettovaglie necessarie all'esercito venivano prelevate contro ἢ rilascio di ricevute dette cautiones dai funzionari imperiali » Fer l'origine delle diaconie romane questo è un punto che tutti gli studiosi (chi annettendovi minore chí maggiore importanza) danno per acquisito.

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CATERINA INGOGLIA KOTYLAI CORINZIE DA VIA VENEZIA A GELA

IH rinvenimento di numerosi frammenti figurati corinzi attorno all'imboccatura di un pozzo, durante uno scavo condotto a Gela nel 1991, mi ha dato l'opportunità di esaminare cinque kotylai, parzialmente ricostruibili: ho scelto di presentarle in questa sede come omaggio al prof. Ernesto De Miro, cui sono grata per avermi avviato agli studi sulla ceramica corinzia. Particolarmente interessanti per le peculiarità degli aspetti stilistici e iconografici le kotylai possono attribuirsi tutte, in base allo stile, alla produzione en masse del Corinzio Medio”, contribuendo ad accrescere il numero già elevatissimo di vasi meso-corinzi di questa forma restituiti dagli scavi di Gela. L'analisi dei fregi ha prospettato per un verso, la possibilità di individuare pittori sconosciuti o meglio definire l'evoluzione stilistica di altri già noti; per un altro, l'importante attestazione di scelte iconografiche eccezionali, non soltanto nell'ambito del repertorio figurativo corinzio, ma di tutta la produzione vascolare greca di età arcaica. Si è così analizzata, da una parte, l'attività del Pittore di Taranto 50284 (1) e del meno conosciuto Pittore di Gela 18015 (2), individuando per ciascuna personalità le caratteristiche dello stile e la sua evoluzione; dall'altra, ὃ stato possibile identificare la mano, altrimenti sconosciuta, del Pittore delle Teste Femminili, autore di una curiosa scelta iconografica - l'inserimento di teste femminili di profilo all'interno di due rosette — (3) che ha indotto alcune osservazioni su rapporti stilistici tra ceramica e coroplastica durante il Corinzio Medio. Particolare, per il significativo soggetto rappresentato, la kotyle con il cavallo di Troia (4) che costituisce un documento importantissimo per gli studi sulla tradizione del mito dell'Ilioupersis. I frammenti della kotyle 5, infine, pur non trovando precise corrispondenze stilistiche nelle letteratura specialistica, si distinguono per la vivacità dello stile, fornendo così un ulteriore, seppure piccolo contributo alla conoscenza della fase di mezzo dello stile corinzio. Kotyle del Pittore di Taranto 50284 (o Pittore di Bucarest 18796) (Tav. I, 1) - Le condizioni

di fram-

mentarietà della kotyle non consentono di ricostruirla integralmente. Durante lo scavo sono stati recuperati dodici frammenti: di questi, dicci, ricomposti, hanno restituito una porzione della vasca con labbro, ansa e una piccola parte del piede; due si riferiscono ad altri punti del labbro e conservano una ridottissima sezione della parete superiore della vasca‘. II fregio zoomorfo, compreso tra la consueta fascia con tremoli e la serie di raggi alla base, è delimitato sopra da due filettature tra due linee, sotto da una coppia di linee. Nonostante la sua superticie sia per lo più lacunosa, le peculiarità stilistiche della zona conservata consentono di risalire all'artista che lo decoro. 1 soggetti del fregio, ripetuti durante il meso-corinzio secondo uno schema che può definirsi standardizzato, sono i più cari alla tradizione orientalizzante: un ungulato pascente, un volatile, un felino. Sotto l'ansa rimasta, abbiamo un caprone pascente a ds., di cui si conservano la testa, il collo ela parte terminale di una zampa anteriore; seguono la coda e le zampe di un volatile a ds.; il petto, la parte inferiore della testa e, su uno dei frammenti più piccoli, le orecchie di una pantera a s. Sullo sfondo, i riempitivi, non troppo fitti — rosette a raggi, punti, alcuni dei quali con piccoli tratti incisi macchie con tratti paralleli - sono ben distribuiti, secondo una consuetudine tipica della fase di mezzo dello stile corinzio. 1 particolari del caprone (la testa grande, con il muso arrotondato, distinto da due “virgolette” («) l'occhio tondo, con gli angoli evidenziati da due brevissimi tratti e sovrastato da due linee che in417

dicano le pieghe della fronte, le orecchie rese con due motivi amigdaloidi spezzati agli angoli, il piccolo semicerchio inciso che distingue la parte posteriore dello zoccolo), la costruzione di quanto resta della pantera e i pochi dettagli a nostra

disposizione, quali le orecchie a ferro di cavallo e la linea

verticale che corre lungo la zampa anteriore, i riempitivi, sono tutti elementi che connotano la mano di un artista già noto, denominato da Benson, che per primo lo identificò, Pittore di Taranto 502845.

La lista di attribuzioni redatta dallo studioso nel 1983 è caratterizzata da kotylai attestate esclusivamente a Taranto e dall'assenza, tra i materiali restituiti dagli scavi del Ceramico di Corinto, di prodotti del pittore“, assenza curiosa, come osserva Benson stesso, se si considera l'evidente legame stilistico tra l'artista in questione ed i pittori attivi nelle officine che produssero i vasi recuperati nel Well I a Corinto, in particolare il Pittore di KP 17”. Alla luce delle nuove acquisizioni dagli scavi di Gela* e dei risultati delle ricognizioni effettuate da Neeft*, una riconsiderazione dello stile delle kotylai tarantine edite assegnate da Benson al pittore"? ha consentito di attribuire all'artista anche i vasi ritenuti perhaps related da Benson! (ad eccezione di Siracusa 17254) e di meglio conoscere le sue peculiarità stilistiche. Egli, come abbiamo già osservato, sceglie per i suoi fregi i soggetti zoomorfi più diffusi in quel periodo, ma non disdegna temi particolari, composizioni più complesse. Nella kotyle conservata a Bucarest", accanto a due pantere affrontate, separate da una sirena androposopa, osserviamo infatti la rappresentazione di una scena di caccia (?): un uomo in corsa, tenendo con una mano la coda di una pantera, tocca con l'altra il treno posteriore di un cinghiale minacciato a sua volta da due(?) cani.

La kotyle da Via Venezia a Gela insieme agli altri cinque frammenti recuperati nella stessa città

durante scavi in punti vari può assegnarsi alla prima fase dell'attività del pittore, trovando confronti abbastanza puntuali, ad esempio, nella kotyle eponima dellartista, ma anche in Taranto 52739*, 27010*, Malibu 77. AE.57 ^, Ginevra 8874* e Messina SP 672.

Durante questa prima fase, gli animali dai corpi allungati presentano elementi che caratterizzano inconfondibilmente lo stile del pittore. I felini hanno gli occhi solitamente resi con due cerchietti concentrici per lo più accompagnati da due uncini per indicare gli angoli, a loro volta uniti alle estremità da un archetto che si dispone lateralmente all'occhio; le orecchie hanno una forma simile al ferro di cavallo. A volte, il maestro con pochi rapidi tratti simili a virgole richiama la peluria tipica delle guance dei felini, come sul frammento 16664 da Bitalemi "^. Le zampe anteriori, corte, hanno i dettagli anatomici disegnati molto accuratamente, come si può osservare, ad esempio, sulla kotyle Malibu 77.AE. 57. La zampa avanzata ha di solito un breve tratto obliquo nel punto di attacco della coscia ed è percorsa da una linea che, scendendo, piega all'altezza della caviglia con un segmento quasi parallelo al breve tratto su menzionato; la zampa portata indietro è attraversata dalla prosecuzione della linea centrale del “fagiolo” che disegna la coscia anteriore, linea che termina all'attacco con l'estremità, curvando leggermente. Sulla parte terminale delle zampe, sia anteriori che posteriori, una linea continua incisa (più lunga nella zampa posteriore avanzata) dalla caviglia corre fin sotto la zampa lasciando scoperto soltanto il tallone, e, talvolta accennando, con due piccoli curve, alla suddivisione delle dita. Peculiari sono anche i due tratti paralleli incisi sulla coscia della zampa posteriore avanzata, sotto la breve linea che chiude la zona dalla pancia. Gli ungulati sono caratterizzati dalla testa larga con il muso arrotondato, distinto da due virgolette più o meno simmetriche. Come nei felini, gli angoli dell'occhio indicati da due trattini. Nei caproni, in particolare, si osserva l'indicazione delle pieghe della fronte sovrastanti l'occhio, con due o tre brevi linee pressocché orizzontali. Le orecchie sono rese con due motivi a mandorla inscritti, più © meno allungati. Talvolta, un piccolo semicerchio indica il lato posteriore dello zoccolo. I volatili (a volte retrospicienti) hanno l'occhio disegnato da un cerchietto, il becco indicato con due tratti quasi perpendicolari (quello verticale appena curvo), la testa compresa tra due linee", Le ali, tripartite, hanno la sezione terminale delimitata all'interno da una doppia linea e le piume descritte da tratti paralleli vicini tra loro. La coda, quando lo spazio disponibile è sufficiente, come ad 418

esempio sul nostro vaso, è allungata e anch'essa divisa, da due coppie di linee, in tre sezioni: le prime due campite da un tratto ondulato, l'ultima con l'indicazione del piumaggio. I riempitivi sono caratterizzati da una notevole varietà: oltre ai motivi attestati nel nostro frammento, il pittore adopera diversi altri elementi, ad esempio le palmette o le macchie che richiamano, con un grosso uncino inciso, il fiore di loto o ancora macchie con croce incisa o con coppia di trattini, ecc. Alla fase più avanzata della carriera del ceramografo può ricondursi invece il frammento di kotyle da Perachora" con animali meno accurati: i dettagli delle zampe non sono più indicati; il treno posteriore del felino a ds. è allungato con un disegno molto accennato e approssimativo della coscia; manca la sezione della pancia; il volatile, con le zampe corte e tozze, ha il becco ed il collo più corti, i particolari dell'ala e delle coda ridotti all'essenziale; i riempitivi sono meno vari, più semplici e radi. Lo stile più tardo del maestro è attestato poi su una kotyle conservata a Bucarest ': la forma più tozza del vaso, con la base più larga e i raggi ravvicinati, sono elementi che da soli potrebbero non essere sufficienti per una datazione più recente, per la quale invece dello stile. Malgrado la scelta di soggetti più complessi, il disegno è in generale approssimato e poco curato, i quadrupedi hanno le zampe più corte, prive dei dettagli incisi; le pantere, in particolar: con i corpi più corti e assottigliati al centro, sono l'una più proporzionata ed equilibrata, l'altra pii sinuosa e superficiale, con il corpo assottigliato ed il treno posteriore ingrossato; i riempitivi, poco variati, con pochi punti e molte macchie prive di incisioni, sono disegnati rapidamente. Il maggior numero di prodotti a disposizione ha permesso di individuare, inoltre, il frammento di kotyle KP 2267 dall’East Deposit del Potters’ Quarter, importante attestazione della presenza dell'artista a Corinto”, la cui attività può così riportarsi definitivamente al Quartiere Ceramico corinzio, cui già Benson come abbiamo visto, l'aveva ipoteticamente riferita, constatando le relazioni stilistiche con il gruppo di artisti noti dal Well I". Del maestro sono noti in conclusione quindici vasi: si tratta soprattutto di kotylai di medie dimensioni?, ma anche di due vasi frammentari di forma chiusa? ed una pisside con anse ad anello**, Quanto alla distribuzione, osserviamo che la gran parte della documentazione proviene da scavi condotti in Occidente (dieci vasi dalla necropoli di Taranto*, uno da Saturo*, uno da Locri**, uno da Catania”), mentre pochi sono gli esemplari noti dalla Grecia continentale?! e quattro risultano di provenienza ignota”.

Kotyle del Pittore di Gela 18015 (Tav. I, 2) ~ Malgrado le ridotte dimensioni del frammento - che presenta soltanto una piccola porzione del labbro con tremoli e della parte superiore del fregio” con testa di pantera -, siamo in grado di riconoscere la mano dell'artista che lo decorò. I dettagli del felino e quanto resta dei riempitivi trovano riscontro, infatti, nei particolari stilistici che distinguono la fase di mezzo dell'attività del Pittore di Gela 18015". Le orecchie del felino indicate con due coppie di semicerchi contrapposti, i due archetti nella parte alta della fronte, gli occhi resi con un cerchiello accompagnato da un archetto laterale, la spalla con la curva superiore spezzata, il riempitivo a forma di fiore con i petali indicati da tratti obliqui paralleli trovano stringente corrispondenza nella kotyle 18015, rinvenuta nel santuario di Bitalemi a Gela®, dal cui numero d'inventario abbiamo denominato il maestro. 1 trattini simili a virgole che, disposti in fila verticale tra le orecchie ed i baffi, chiudono ai lati il muso della pantera sono confrontabili invece con le pantere della kotyle di Lund 231", rappresenta tiva, con quella di Taranto 143550*, della prima fase dell'artista. Le marche stilistiche del pittore, influenzato dai maestri della Gruppe des Polychromen Skyphos ed in particolare dal Pittore di Corinto KP 63%, cui fu certamente vicino, si riconoscono nei dettagli

dei fregi zoomorfi di ben dodici kotylai, tutte di medie dimensioni Tl ceramografo che, allo stato attuale, possiamo dunque ritenere specializzato nella decorazione di tazze per bere, preferisce come soggetti per i suoi fregi, la pantera ed il capro pascente, a volte il volatile *, secondo la consuetudine del periodo. Nei felini, oltre alla caratteristiche osservate per il frammento da Via Venezia, specifica dello stile 419

del pittore è l'indicazione delle pieghe della parte interna della coscia posteriore avanzata con tre tratti paralleli. Rappresentativi sono inoltre i particolari stilemi che distinguono il disegno della spalla. La mano del pittore, durante la fase di mezzo, procede tracciando tre linee curve che indicano il “fagiolo” della coscia anteriore, convenzionalmente chiamato, negli studi di ceramica orientalizzante, spalla. La prima linea, più vicina al petto, parte dall'estremità superiore del “fagiolo” e prosegue scendendo lungo la zampa anteriore avanzata, dove, a volte, è affiancata da un breve tratto parallelo*; la seconda, indicando la piega al centro della spalla, talvolta continua, accompagnata, come la prima, da un segmento parallelo lungo la zampa arretrata, come si può osservare sulla kotyle D.08.2.51 di Rennes” o in quella più recente di Laon 37.785 bis*; la terza chiude posteriormente il “fagiolo” e a volte si arresta con un breve curva all'attacco della zampa con la pancia, altre volte continua lungo la zampa arretrata, come sui vasi di Schwerin 715*, di Corinto C62-872* o in quello

eponimo da Gela.

Questa maniera di disegnare la spalla dei felini, canonica nelle fasi centrale e tarda dell'attività dell'artista, è ancora incerta e in via di definizione nelle pantere delle kotylai di Lund 231* e di Taranto 143550*. Nella prima, la pantera a s. ha la spalla disegnata con una linea continua, che, dalla caviglia della zampa anteriore avanzata, sale curvandosi, per poi scendere fino alla caviglia della zampa arretrata, mentre un breve tratto indica la piega in mezzo al “fagiolo”; sulla pantera a ds., invece, il pittore adotta un sistema dei tratti diverso, tracciandone solo due con un ductus peraltro ancora incerto. Nella seconda, sulla pantera a s., il maestro incide i tre tratti per indicare la spalla, ma essi sono brevi, terminando in alto prima delle zampe. Negli ungulati è peculiare la testa quasi triangolare con il muso molto allungato, l'occhio collocato in alto e indicato da uno“ o due cerchielli, più tardi da un cerchio e punto, come nella kotyle di Laon*, ma soprattutto si distingue la spalla, disegnata come un “fagiolo” piccolo, con la linea posteriore che s'interrompe molto prima dell'attacco con la zampa. Della fase di mezzo sono inoltre rappresentativi, nella parte superiore della zampa anteriore avanzata, due rapidi tratti verticali ?, completati in alto da due brevi, orizzontali. Non è difficile notare, osservando tutti i quadrupedi delle kotylai ricordate, che il pittore tende a rendere i corpi degli animali più sinuosi durante la fase di mezzo, sollevando il treno posteriore fino a toccare il limite superiore del fregio, distanziando e allungando le zampe anteriori con un effetto che richiama la corsa. Quanto ai riempitivi, diversi sono i motivi adottati. Più radi e affrettati nella prima fase, prevedono palmette e macchie a forma di fiore con tratti obliqui paralleli, come nel frammento gelese di Via Venezia, rosette a raggi e a doppio centro, ma soprattutto grossi punti. Questi ultimi, spesso in fila, si ripetono sopra e sotto il dorso dei felini e sopra e sotto il collo degli ungulati, costituendo uno dei motivi-firma dell'artista. Prima radi, in una sola fila tra il dorso e la coda della pantera nelle kotylai di Lund* e Taranto*, a gruppi di due o tre, in quella di Rennes? o di Schwerin, diventano più numerosi, in gruppi ripetuti più volte, di quattro o cinque nella kotyle 27806 da Gela‘ o in quella conservata a Berlino, fino ad occupare in modo quasi esclusivo il fondo dei vasi più tardi, come si può osservare nella kotyle di Laon 37.785bis*. Più in generale, possiamo constatare, ancora, il ricorrere, alla base delle kotylai della fase di mez20, dei raggi con punte allungate fino ad oltrepassare le linee che delimitano inferiormente il fregio. In conclusione, osserviamo che, attualmente sono riconducibili al Pittore di Gela 18015 dodici kotylai. A quelle più antiche - Taranto 143550* e Lund 231* — aggiungiamo in particolare, oltre quel-

la frammentaria di Via Venezia, la kotyle eponima da Bitalemi che, compendiando i principali stilemi della fase di mezzo dell'artista, trova confronto in Rennes D.08.2.51*, Schwerin 715%, in una kotle conservata a Berlino, nei frammenti Corinth C-62-872* ed in un altro frammento da Gela, inv. 278065, sempre dal santuario di Bitalemi. La fase più tarda può riconoscersi nelle kotylai attribuite da Benson ad un artista denominato Pittore della Kotyle di Laon. Questa fase, caratterizzata da una maggiore trascuratezza dello stile, che, più rapido, tratta sbrigativamente i corpi degli animali, indicandone frettolosamente i dettagli e dal ricorrere quasi esclusivo delle file di punti disposte in vario modo tra i riempitivi, trova l'esempio più rappresentativo nella kotyle di Laon 37.785 bis*. 420

Kotyle del Pittore delle Teste Femminili (Tav. I, 3) - La kotyle, recuperata in condizioni frammentarie è stata restituita alla sua forma originaria integrando in più punti con interventi di restauro che hanno consentito, nonostante le lacune della decorazione, l'inquadramento stilistico del fregio. Coni soliti tremoli sul labbro e i raggi alla base, il vaso presenta, compresa tra due coppie di nee, una serie di grosse rosette a raggi c a doppio centro alternate. Una particolarità si distingue nella campitura di due di esse: al posto dei dettagli incisi che solitamente le connotano come fiori (i raggi per indicare i petali, i cerchi per la corolla), è rappresentata una testa femminile, di profilo, con tenia e capelli lunghi fin sulle spalle, circondata da una serie di semicerchi graffiti che chiudono all'interno la sagoma dei petali. Entrambi i volti, affrontati ai lati di una rosetta, sono lacunosi: mancano naso, bocca e mento. 1 riempitivi, nella parte superiore ed inferiore degli spazi che separano le rosette, sono costituiti da grossi punti per lo più trasformati in macchie a tre punte con croci incise. Dietro le rosette con teste femminili, invece, il pittore ha preferito macchie verticali allungate, espanse alle estremità e per-

corse da brevi tratti obliqui incisi, alcuni incrociati *. La ripetizione della rosetta come soggetto decorativo del fregio è tutt'altro che rara nel repertorio figurativo della ceramica corinzia, ove anzi, essendo di semplice e rapida esecuzione, sembra essere molto apprezzata. Essa non può considerarsi caratteristica di un solo maestro. D'altra parte, già Benson, constatando la presenza, a Corinto, di una serie di kotylai con decorazione a rosette, databili dal Medio al Tardo Corinzio®, ha ipotizzato l'esistenza di un gruppo di pittori attivi in un ‘Officina delle Rosette del Ceramico', cui assegna soltanto, Corinth KP 150 e Taranto 527657. In effetti, passando in rassegna le kotylai con rosette attestate nella letteratura archeologica®, non è difficile osservare che maestri diversi hanno decorato kotylai accomunate dagli stessi motivi decorativi sia principali che secondari, ma differenziate da peculiarità stilistiche. Ad esempio, rima-

nendo nell'ambito del Corinzio Medio è evidente che l'elegante e composto decoratore di Perachora cat. n. 2495 si distingue nettamente dal pittore che decorò la meno accurata kotyle Corinth KP 150°, a sua volta diverso dal maestro, più affrettato e superficiale, del fregio della kotyle Corinth KP 253^. Questa, con un ridotto numero di punti negli spazi tra le rosette, punti per lo più degenerati nel motivo a tre punte o a "V", trova un confronto puntuale nella nostra kotyle da Via Venezia, tanto da potersi ritenere prodotto dello stesso pittore, che denominiamo Pittore delle Teste Femminili. L'interesse del vaso da Via Venezia è dato soprattutto dalla rappresentazione delle teste femminili. Dal punto di vista iconografico, infatti, il soggetto può, ad oggi, essere considerato un unicum nel repertorio figurativo corinzio, non essendo note altre attestazioni, vascolari e non, con teste femminili incise entro rosette. La testa femminile di profilo, singolao in coppia, ricorre per lo più sulle piastre delle anse dei crateri corinzi a colonnette* e, disegnata a contorno, sulle anse degli aryballoi del

Gruppo Liebeghaus*, ma la ritroviamo anche sul fondo di alcune kylikes mesocorinzie9. Nei fregi figurati, gli esempi di raffigurazione di teste umane comprendono esclusivamente teste maschili “. Più comuni nella produzione vascolare corinzia sono invece le teste femminili plastiche: compledi te busto e applicate alle pissidi globulari tra il labbro e la spalla, sono di notevole importanza per gli studi sullo stile corinzio, in particolare della fase di mezzo, nella ceramica, ma soprattutto nella coroplastica e nella scultura corinzia di età arcaica. È a tal proposito che le nostre teste, pur essendo frammentate, forniscono un ulteriore, sebbene piccolo contributo a conferma delle datazioni fin ora proposte dagli studiosi. Negli anni 30, fu Payne che per primo si avvalse del confronto tra i busti delle pissidi e la decorazione dipinta sui vasi, trovando conferme per la fine dello stile Corinzio Antico e per tutto il Corinzio Medio e ponendo le basi per gli studi sull'evoluzione stilistica della coroplastica e della scultura corinzia arcaica“.

L'argomento fu ripreso più tardi da Amyx, a proposito della pisside con busti femminili Coll

Hearst SW 9985. Lo studioso, avvalendosi di un maggior numero di esempi rispetto a quelli noti a Payne, ha distinto, nel corso del Corinzio Medio, tre momenti stilistici. Durante il MC I le teste sono

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allungate, il mento prominente, gli occhi molto grandi, le sopracciglia molto curve. Con il MC II le teste sono ancora più lunghe e strette, il profilo del volto più sporgente rispetto ai capelli, gli occhi ‘un po’ più piccoli. Ancora più stretta è la testa durante il MC III, quando i capelli sono più arretrati sulla fronte, dove seguono una curva che, dal centro, va sino alle tempie e poi, scendendo, gira dietro le orecchie e arriva sulle spalle, lasciando scoperta metà del collo; le sopracciglia sono più vicine agli occhi, più piccoli rispetto alla fase precedente; il mento è ancora prominente e la linea della fronte e del naso continua. Le medesime caratteristiche sono state individuate negli anni ‘70 da Wallenstein, che, pur apportando minime modifiche nelle assegnazioni dei documenti noti alle diverse fasi, sostanzialmente ricalca nella distinzione dei suoi Gruppi delle Pissidi I, II, ΠῚ“ la suddivisione proposta da Amyx. Le peculiarità delle teste dipinte sulla kotyle di Gela ben s'inquadrano nel III Gruppo della classificazione di Wallenstein, databile alla fine del meso-corinzio™, I capelli - che lasciano scoperta una buona parte della fronte, girano dietro le orecchie e, scendendo, coprono una parte del collo - trovano confronto infatti nel busto della pisside di Corinto 1513”. La frammentarietà delle teste, tuttavia, coinvolgendo la parte anteriore del volto, con naso e mento, lascia aperta la possibilità che il nostro vaso si possa collocare qualche anno più tardi, nel gruppo Londra-Oxford, che segna il passaggio dal Meso-corinzio al Tardo-corinzio”. Kotyle con rappresentazione del cavallo di Troia (Tav. I, 4)" - Il vaso, restituito dallo scavo in più frammenti, sebbene sia stato ricomposto e integrato, conserva lacune sul labbro e su buona parte della parete superiore della vasca“. Il fregio zoomorfo, compreso tra i soliti tremoli sul labbro ed i raggi alla base, è delimitato da due coppie di linee orizzontali e presenta lo sfondo campito da grossi punti, rosette a raggi, macchie con tratti obliqui e con croci. Pur comprendendo i soliti quadrupedi, pantera a ds. (di cui si conserva solo il corpo) e caprone pascente a s. (di cui abbiamo il collo e la testa) la rappresentazione figurata della nostra kotyle va annoverata tra le più rare della ceramica corinzia e più in generale di tutto il repertorio vascolare figurato arcaico. Tra i due animali succitati, infatti, il pittore ha disposto un cavallo rivoltoa ds. con nove teste elmate di guerrieri sul dorso, delle quali l'ultima, sul treno posteriore del quadrupede, è volta a sinistra. Dal punto di vista stilistico il vaso non trova precise analogie, ma può genericamente assegnarsi alla nota serie di kotylai meso-corinzie decorate in uno stile affrettato, con indicazione dei dettagli sommaria ed essenziale, come quella che ritroviamo, ad esempio, nei vasi attribuiti al Pittore di Corinth KP 2487. Dal punto iconografico, invece, il soggetto del cavallo merita alcune osservazioni particolari. Nel repertorio figurativo corinzio i cavalli sono per lo più associati al cavaliere e sono prediletti nei fregi del lato B dei crateri”, dove, al galoppo ὁ in parata, si riferiscono alla sfera eroica”, ma sono abbastanza attestati anche su aryballoi, coppe, kotylai, pissidi. Nel caso della nostra kotyle, invece, la fila di teste galeate sul dorso, riferendosi verosimilmente al contenuto del cavallo, richiama la vicenda del cavallo di Troia. Sebbene nel VI sec. a.C. diversi poeti riprendano il mito dell’ lioupersis ®, la rappresentazione del cavallo di legno nelle arti figurative risulta rara e comprende sostanzialmente due esempi di pittura vascolare: un aryballos tardo corinzio da Caere conservato a Parigi”, con scene di eroi impegnati nella battaglia attorno e dentro il cavallo, tra una pantera ed un uccello; un frammento attico a figure nere da Orbetello* con una zampa di cavallo ed eroi che vi si arrampicano salendo l'uno sulle spalle dell'altro. L'originalità della kotyle di Gela è determinata, rispetto alle scene ora ricordate, innanzitutto dalla scelta del momento rappresentato. Il cavallo è visto prima della battaglia. Forse già dentro le mura della città, se interpretiamo il guerriero rivolto indietro, in direzione opposta al senso di marcia, vigile, come preposto a comunicare con segnali di fuoco con i Greci nascosti nell'isola di Tenedo. O forse ancora fuori, davanti alle mura di Ilio, se invece supponiamo che l'artista abbia volutamente trascurato di disegnare le ruote che, secondo la versione già nota, alla fine dell'VIII sec. a.C., all'artigiano che decorò la fibula beoti422

ca con la più antica rappresentazione figurata del mito dell'Iioupersis*!, i Troiani applicano al "sacro legno” per facilitarne il trasporto, quando decidono di introdurlo all'interno della citta®. La frammentarietà della figura rivolta indietro, purtroppo, rende incerta l'identificazione dell'eroe. È possibile che il nostro eroe possa identificarsi con Sinone. Non sappiamo però se con il Sinone che agita la fiaccola di Arctino*, poiché non conosciamo eventuali attributi della figura, che, come si è detto, è mutila, o con il Sinone che riceve il segnale della versione virgiliana“. In entrambi i casi, comunque, poiché non sarebbe realistico immaginare che il guerriero avesse la possibilità di vigilare dall'interno della cavità, si può verosimilmente pensare che il pittore abbia collocato l'eroe sul cavallo, perché costretto dall'esiguità dello spazio disponibile. Ma l'intenzione dell'artista di richiamare un particolare episodio del mito si manifesta ancor più nella scelta del numero di nove guerrieri. Osservando la rappresentazione, infatti, si ha l'impressione che la quantità delle teste dei soldati non sia casuale; non può essere ascritta cioè alla superficie disponibile per il disegno, bensì alla volontà da parte del pittore di riportare sul vaso con prec sione la tradizione a lui nota. Una tradizione certamente non omerica, poiché nell'Odissea gli eroi menzionati sono solo cinque" E a questo proposito la kotyle di Gela si configura ulteriormente come documento eccezionale, poiché non può ascriversi al caso, a nostro avviso, la coincidenza del numero degli uomini rappresentati in fila sul cavallo con quello degli eroi menzionati da Virgilio nel II libro dell'Eneide, vv. 261-262". 1l vaso, in questo modo, diviene una importante testimonianza dell'esistenza di una tradizione letteraria con nove eroi nascosti nel cavallo di legno già formulata, non sappiamo se oralmente o per iscritto, all'inizio del VI sec. a.C. Tradizione certamente fortunata se consideriamo che, direttamente o indirettamente, Virgilio vi attinse diversi secoli più tardi. Volendo proporre delle ipotesi per la fonte di ispirazione della kotyle corinzia dobbiamo fare i conti con le grandi lacune della nostra conoscenza della più antica produzione greca epica e lirica” Pur non avendo elementi sufficienti per stabilire quanto Virgilio debba, per l'episodio del cavallo di Troia, al Ciclo Epico, a Stesicoro, a Sofocle, ece.”, ci sembra oltremodo suggestivo richiamare un'importante scoperta effettuata da Timpanaro nel Codice Monacense lat. 18059 dell XI secolo" Uno scolio al v. 15 del II libro dell'Eneide riporterebbe la descrizione virgiliana del cavallo di legno al poeta ciclico Aretino, autore di una Ilioupersis sui cui contenuti, essendo i frammenti dell'opera a noi pervenuti veramente esigui, gli studiosi ancora dibattono, oscillando nella cronologia, tra il VII e la fine del VI sec. a.C. Poiché, come abbiamo visto, la versione di Virgilio coincide, almeno per alcuni dettagli, con quella presentata dalla kotyle corinzia in questione, e, secondo la proposta di Timpanaro, la fonte, diretta o indiretta, di Virgilio per la descrizione del cavallo di legno potrebbe essere l'Ilioupersis di Arctino, si può, con ogni verosimiglianza, ritenere che il poema sulla “Distruzione di Ilio” attribuito ad Arctino, o almeno la versione confluita in esso, fosse già formulato all'inizio del VI sec. a.C., avendo ispirato, intorno al 580-570 a.C. l'artista corinzio che dipinse il vaso rinvenuto a Gela. Non agevole è l'attribuzione della kotyle 5 (Tav. II, 1). Il vaso ci è stato restituito in tre frammenti non ricomponibili che conservano una buona parte della vasca con labbro decorato dai soliti tremoli sotto due filettature, e della base con raggi ”. Del fregio zoomorfo, delimitato in alto da una filettatura tra due linee ed in basso da una coppia di linee, rimangono la testa, il collo ed una zampa posteriore di pantera a ds. affrontata ad un caprone (di cui mancano la testa ed una zampa posteriore) ed un volatile a ds. (con testa e coda mutila). I riempitivi comprendono, oltre a punti e motivi di forma varia con tratti obliqui paralleli incisi, caratteristiche macchie con serie di brevi onde parallele incise. La decorazione del vaso si allinea, sia per l'impiego dell'abituale bestiario del periodo, sia per il linguaggio stilistico, alle consuete esperienze del Meso-corinzio, rivelando, nel contempo, una mano esperta e originale. Pur attenendosi all'indicazione essenziale dei dettagli e alla rapidità del disegno, tipici della produzione en masse? con la particolare scelta dei riempitivi, delle macchie con bordi 423

ondulati campiti da motivi incisi ad onde che danno quasi l'impressione di essere palpabili, il pittore contribuisce a rendere vivace ed originale un fregio altrimenti monotono e ripetitivo. Priva, per il momento, di correlazioni stilistiche puntuali, la decorazione di questa kotyle va assegnata dunque ad una personalità dotata di buone capacità disegnative, come si evince, pur nell'allungamento degli animali, dall'eleganza delle figure e dal ductus fermo e preciso, soprattutto nell'indicazione di alcuni dettagli, nei particolari della testa della pantera o nella linea curva spezzata in alto della spalla dell'ungulato. NOTE * Desidero ringraziare la dott.ssa G. Fiorentini e la dott.ssa G. Spagnolo che mi hanno affidato lo studio di questi materiali. La mia più profonda gratitudine va anche al compianto assistente di scavo Arcangelo Burgio, al restauratore del Museo di Gela Salvatore Burgio, al sig. Salvatore Biccini e, infine, a Rocco Burgio che ha curato la documentazione grafica di questo lavoro. Lo scavo, condotto dalla dott.ssa G. Spagnolo sotto la direzione dell'allora Soprintendente BB.CC.AA. di Agrigento e Caltanissetta, dott.ssa G. Fiorentini, ha messo in luce i resti di un quartiere (?) i piedi della collina di Gela, lungo la fascia che a nord si affaccia sull'omonima piana: cfr. G. Fionewrnu, Artività di indagini archeologiche della Soprintendenza Beni culturali e ‘ambientali di Agrigento. Area sacra di via Venezia, in Kokalos XXXIX-XL, 1993-1994, II, 1, pp. 722-723, Ὁ LL. Benson, Corinthian Kotyle Workshop, in Hesperia LII, 1983, pp. 317-328; J.L. BENSON, Mass Production and the Competitive Edge in Corinthian Pottery, in Greek Vases in the John Paul Getty Museum, 2, 1985, pp. 16-21. Per la cronologia del Corinzio Medio, vedi H. Pavse, Necrocorinthia, Oxford 1931, pp. 23-24 (d'ora in avanti abbreviato NC); D. A. Aux, Corinthian Vase-painting ofthe Archaic Period, Berkeley-Los Angeles 1988 (d'ora in avanti abbreviato CorVP), pp. 428 sgg. che comprende il meso-corinziotra il 590 ed il 570 a.C. Vedi anche C. W. Nzrr, Tarantine Graves containing Corinthian Pottery, in E. Liprouis (a cura di), Catalogo del Museo Nazionale Archeologico di Taranto, II.1, Taranto 1994, p. 236, n. 21 ? Vedi C. Incoct1, Le kotylai corinzie figurate a Gela, "Quaderni del C.V.A.-Italia", 2, Roma 1999. * S. inv. Argilla rosa. Vernice nero-marrone, paonazzo suddipinto. Dimens.: a) h. max. 14,2; b) h. max. 4,5; c) h. max. 4,9, 5 XL. Βενϑον, Corinthian Kotyle, cit, p. 325; L . Benson, Mass Production, cit, p. 19. * KL. Benson, Corinthian Kotyle, cit, p . 324-325 lo inserisce nel Gruppo di pittori di kotylai non documentate a Corinto. 7 XL. Benson, Mass Production, cit, pp. 19-20 propone, come ipotesi di lavoro per spiegare il "fenomeno", la possibilità che alcuni pittori, ed in particolare il Pittore di Taranto 50284, dopo un tirocinio presso l'officina del Well I di Corinto, si siano trasferiti a Taranto per soddisfare le pressanti richieste della clientela “italiana” (vedi anche J.L. Brxson, Corinthian Kotyle, cit, p.318, n.8). * Oltre la kotyle qui considerata, altre sono state rest ite dagli scavi gelesi: vedi C. Incocun, cit,p. 29s., cat. nn. 244-247, 695, tavv. 28,59. ? Voglio qui ringraziare il prof. Neeft che con straordinaria liberalità mi ha messo a parte di molti d isultati delle sue ricognizioni, fornendomi utili consiglied i preziosissimi dati inediti qui indicati con *. “5 Ci riferiamo alla kotyle eponima, Taranto 50284 (F.G. Lo Porto, in NSA 1936, pp. 132-133, fig. 21), e a Taranto 52739 (F.G. Lo Porro, Ceramica arcaica dalla necropoli di Taranto, in ASAA, n.s. XXI-XXII, 1959-1960, p. 152, figg. 128, c-129). "^ XL. Benson, Corinthian Kotyle cit, p. 325. ? CVA Bucarest 2, ταν. 6,14. ? L'originalità del soggetto ha indotto Neeft a ribattezzare l'artista con il nome nuovo di Pittore di Bucarest 18796, per ovviare alle possibili confusioni derivate da un errore constatato sul registro d'inventario a proposito del vaso assunto come eponimo da Benson, il cui numero è 50234 e non 50284. τ Vedi supra, n.8. *5 XL. Bensox, Corinthian Kotyle, it, p. 325; J.L. BENSON, Mass Production, cit, pp. 19-20, figg. 1-3 ?* C. Incogua, cit, cat. 244, tav. 28. ? Vedi particolare in J.L. Benson, Mass Production, cit. p. 18, fig. 1. ?* Perachora V, cat. n. 2475, tav. 101 ? CVA Bucarest2, iav. 6,14. » Corinth XV,3, cat. 529, tavv. 28,96. 2 JL Bexson, Mass Production, cit, p. 19. ® Di dimensioni più ridotte la kotyle frammentaria da Perachora (Perachora II cat. 2475, tav. 101). » Rispettivamente Asprovalta C7103 A-B*; Locri, coll. Scaglione". ** Ginevra 8874* (CorVP, 451). ® A quelli noti a LL. Bexson, Corinthian Kotyle,cit. p. 325, aggiungiamo Taranto 27010*, 27011", 50729", $1208 (a-d)* e Taranto coll. Baisi 208". * Locri, coll Scaglione”, © L. Grasso, Stipe votiva del Santuario di Demetra a Catania. Kotylai e coppe corinzie figurate, Catania 1988, p. 39, tav. XIV, nn. 104-105,

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5 Asprovalta C7103 A-B, probabilmente C161,C3427 da Argilos*; Perachora II cat. 2475, tav. 101 ® A quelli già elencati da J.L. BeNsow, Corinthian Κοισΐε, ct., p. 325, aggiungiamo Ginevra 8874" (CorVP , 451) e Messina SP 672 (coll. priv). ? 8. inv. Argilla camoscio. Vernice marrone, in parte evanide, paonazzo suddipinto. H. max. 48 ? C. Incocun, cit, p. 30, ? C. Incooun,cit. p. 30, cat. 181, tav. 20. » Sul quale vedi 11. Bexson, Corinthian Kotyle, cit. p. 321; Corinth XV, 3, p. 118, cat. 578, tav. 28. » Presente soltanto in Taranto 143550*, Lund 231°, Corinth C-62-872 (= Corinth XVIII, 1, p. 117, cat. 229, tav. 24), Laon. 37.785bis". # I tratti sono quattro in CVA Rennes, tav. 10,3. % Cfr. Lund 231°: Antiken aus Berliner Privatbesitz 1975, nr. 45, i. CVA Rennes, tav. 103. ?* CVA Schwerin 1, tav. 3. » Corinth XVII, 1, p. 117, cat. 229, tav. 24. © C. Incocua, cit. cat. 180, tav. 20. In questi casi viene aggiunto un breve tratto verticale nel punto di attacco della zampa con la pancia. * Antiken aus Berliner Privatbesitz 1975, nr. 4S. © Cfr. Lund 231". © CVA Rennes, tav. 10,3. + CVA Schwerin 1, tav. 3. © C. Incooun, cit. cat. 181, tav. 20. ** Antiken aus Berliner Privatbesitz 1975, nr. 45, ill © CVA Rennes, tav. 10,3. © CVA Schwerin 1, tav. 3. © Antiken aus Berliner Privatbesitz 1975, nr. 45. 5. Corinth XVIII, 1, cat. 229, tav. 24. ? C. Incocua, cit, cat. 181,p. 20 e P1070 (dallAgorà di Atene) cui pos© JL. Benson, Corinthian Kotylai cit, p. 325: Laon 37.785bis*, 335 (da Cheroneia) siamo aggiungere P 13021 (sempre dall'Agorà di Atene) non vidi. ? 5. inv. Argilla camoscio; arancio per ossidazione. Vernice arancio, in parte evanide. H. 12. Diam. 13. % Una degenerazione di questo riempitivo può vedersi in Corinth XV,3, cat. 825-827, tav. 38, p. 161, con serie di rosette (Tardo Corinzio). sette da Corinto. 5 V. commento a Corinth XV;3, p. 110, cat. 526, tav. 26 con elenco di kotylai con serie ® Corinth XV,3, cat. 526, tav, 26. © JL. BENSON, Corinthian Kotyle, ci, p. 320. "Ad esempio, Perachora II cat. 2495, tav. 100; Perachora II cat. 2519, tav. 100; Corinth XV,3, p. 110, cat. 526-528, 596, tav. 26,28; Taranto 52765 (vedi nota precedente); CVA Braunschweig 4, tav. 5,3. ® Corinth XV,3, cat. 26, tav. 26. © Corinth XV,3, cat. 96, tav. 28. Vedi D.A. Aux, Aftermath, cit, pp. 36-37. © Vedi CorVP, pp. 164-165. © Ad esempio,D.A. Aux, The Medaillon Painter, in AJA,65, 1961, p.2, tav. 1,a(=NC 998). Una testa femminile affrontata ad una maschile nell'aryballos Würzburg L110 (E. Lawatovz, Griechische Vasen in Würzburg, Roma 1968, tav. 11) attribuîto da Amyxal pittore di Otterlo (CorVP, p. 179, n. 26). ‘ Per lo più singole teste, cfr. Corinth XV,3, cat. 525, tav. 26; CVA Louvre 9, Micia, 33:6; Perachora II cat. 1615, tav. 63. Una coppia di teste affrontate in NC, cat. 908, tav. 29,6; DA. Aux, Dodwelliana, in ClAnt 4,1971, p. 32, tav. 12,1 entrambe del Pittore Geledakis. © NC, pp. 60, 62-63, 232 spe. Sulla scultura corinzia arcaica vedi, recentemente,N. Booranis, Archaic Corinthian Sculpturesa summary, in Corinto e l'Occidente, Taranto 1994, pp. 231-256. © Cfr. ad esempio, NC, pp. 234-235,cat. 880-882, tavv. 47, 12-13; 481-4. © Cfr. ad esempio, NC, cat. 883-884; MonAL 32, 19, tav. 84,6 (da Selinunte); Perachora II cat. 223, tav. 107. ^ Cfr. ad esempio, Coll. Hearst SSW 9985 (vedi n. 40), NC, cat. 887-888, 890,892, tav. 8:5,11,12-15. © K Wirzzssreis, Korinthische Plastikdes 7. und 6. Jahrunderts vor Christus, Bonn 1981, pp. 44-57. ? K WALLENSTENN, cit, pp. 49.51. τι Corinth XII, tav. 87; K. WALLENSTEIN, cit, p. 49, tav. 9,4. 5. Κα WALLENSTENN, cit, p. 59. 7? Nelle more di stampa di questo volume, la kotyle in questione è stata pubblicata, in una versione più approfondita, nei Quaderni Urbinati di Cultura Classica,n. 65,n. 2, 2000, pp. 7-13. % S. inv. Argilla rosa, arancio per ossidazione. Vernice arancio e paonazzo suddipinto. H. 11,1. Diam. piede 9,2. 5. Sul pittore vedi C. Incooun, cit., p. 29. ?* CorVP, pp. 646-648. 7 M. Custorixt,M. MagreLLI, La distribuzione dei crateri corinzi: ἢ mito e l'immaginario dei simposiasti, in I vasi attici ed 425

altre ceramiche coeve in Sicilia, (Ati del Convegno internazionale, Catania-Camarina-Gela-Vittoria, 28 marzo-1 aprile 1990), Catania 1995, p. 18. ™ BA. Seanxes, The Trojan Horse in Classical Art, in G&R, 18, 1971 7 NC, cit. p. 136, cat. 1281; CVA Paris 1, pp. 15 ss, fi. 2, tav. 18; von Sreusen, pp. 72 ss, fig. 37, p. 124, K-1; CorVP, p. 642; BA rines, cit,p. 57, fig 2. ‘n 1. Beane, Attic Black figure Vase-painters, Oxford 1956, pp. 314, 695; Seanxes, it, p. 58, tav. b. " Londra BM 3205; LIMC II 1, 815, nre. 23-24. In tutte le raffigurazioni di età greca arcaica riferite alla battaglia sono presenti le ruote. "8 Aen. TI, 235-236. Vedi commento di K.G. Ausmx, Vergilius, Liber Secundus, Oxford 1964, p. 111. © V. G. Annsac-conwcz, Myth and Epos in Early Greek Art Rapresentation and Interpretation, Jonsered 1992, p. 77. Perle rappresentazioni del cavallo trasportato sotto le mura, tutte posteriori al IV sec. a.C, vedi LIMC III, p. 814, nrr. 5-1. * M. Davies, Epicorum Graecorum Fragmenta, Gottingen 1988, p. 62, 14-15; A. Βεκναδὲ, Poetarum epicorum Graecorum testimonia et fragmenta, Leipzig 1987, pp. 88-89. "Aen. ΤΙ, 254259, * Nel codex Vergilius Vaticanus 3225 del V sec. d.C. la testa del personaggio che appare dietro lo sportello sollevato dal fianco del cavallo è stata interpretata come Sinone, v. LIMC VILL, s. Sinon, p. 778, nr. 3. © Od. IV, 271-273; VIM, 512-513; XI, 523. A. SnopG®ass, Homer and the Artist. Text and picture in early Greek Art, Cambridge 1998, passim, osserva che fino alla metà del VI sec. Omero fu utilizzato raramente come fonte per le rappresentazioni figurate di scene epiche. S. Lowexsrau, Talking Vases: the Relationship between the Homeric Poems and Archaic Representations of Epic Myth, in TAPHA 127, 1997, p. 66, attraverso l'analisi puntuale di rappresentazioni vascolari di episodi epic diveri dalla tradizione omerica, conclude affermando che i poemi omerici furono redatti, nella versione a noi nota, molto tardi, non prima della fine del VI sec. a.C. Se fossero più antichi, osserva lo studioso, dovremmo concludere che fino a quella data non ebbero alcuna autorità perli artist. # KG. Aust, Vergil and the Wooden Horse, in JRS 49, 1959, pp. 18,22. 7 V.C. M. Bowna, Greek Lyric Poetry, Oxford 1961, pp. 102-106, 242, 244, 253; B.A. Srankes, it, p.57. © KG Avsmis cit, p. 24. © 8. ‘Turano, Contributi di filologia e storia della lingua latina, 1978, pp. 429-527. Più di recente, lo stesso studioso, n S. Tuipasaso, Eschilo, Agamennone, 821-838 (con alcune osservazioni sull ATA MIKPA), in RFIC 125, 1997, p. 33, riprende il problema del contenuto del cavallo di Troia distinguendo una versione realistica rappresentata dalllloupersis di Arctino di Mileto c confluita in Virgilio, da una paradossale-fiabesca che riporta un numero elevato di eroi, probabilmente dellllias Mikra di Lesche, confluita n Stesicoro e poi in Fschilo. V. anche K.G. Ausrb, cit, pp. 17-18. © G. Huxwer, Greek Epic Poetry, Londra 1969, pp.144 ss.; più recentemente J. Giurris, The Epic Cycle and the Unigueness of Homer, in JES, 97, 1977, p. 39, data i poemi ala fine del VII see., mentre M. Davies, The Date f the Epic Cyele, in Glotta 67, 1989, pp. 35, li colloca alla fine del VI sec a.C. 5 8. inv. Argilla rosa. Vernice nero-marrone, paonazzo suddipinto. Dimensioni max: a) em 14,2; b) cm 4,5; ) cm 4,9. * XL. Benson, Mass Production,ci.

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TAV.I

1-5: Gela, Via Venezia. Kotylai del Corinzio Medio. 427

TAV. 11

1-5: Gela, Via Venezia. Kotylai del Corinzio Medio. 428

Hans PETER ISLER BOUL ‘RIA DI SICILIA Ricordo bene il momento in cui Ernesto De Miro, con grande soddisfazione, annunciò ai parteci-

panti del VI congresso internazionale di studi sulla Sicilia antica del 1984 di aver scoperto un bouleuterion anche ad Agrigento che in seguito puntualmente pubblicò . Vorrei discutere in questa sede alcuni aspetti connessi con la presenza di bouleuteria in non poche città della Sicilia di epoca ellenistica e repubblicana. Non ci interesserà però l'aspetto architettonico dei bouleuteria e in particolare di quelli siciliani, aspetto studiato di recente. Ci proponiamo piuttosto di riflettere sulla funzione di tali edifici e perciò sul loro aspetto politico-costituzionale e quindi storico?. Non sono infatti rare le testimonianze sia monumentali che letterarie su bouleuteria in Sicilia. Da resti monumentali sono noti i seguenti bouleuteria *:

'

~ Agrigento’ — Akrai* Jaitas, primo bouleuterion* laitas, secondo bouleuterion* Morgantina* Solunto

Attraverso fonti letterarie o epigrafiche! sono attestati i seguenti bouleuteria: - Agyrion” — Agrigento!

- Entella" — Siracusa, nel quartiere di Achradina. ~ Da tener presente è inoltre una menzione generica, molto tarda. Punto di partenza delle nostre riflessioni è laitas. Il bouleuterion di questa città venne scoperto nel 1980" sul lato ovest dell'agorà. Gli scavatori hanno visto presto che non faceva parte dell'assetto originale della città, messo in opera verso la fine del IV sec. a.C., ma che era stato costruito non prima dell'ultimo venticinquennio del II sec. a.C.". Non poteva sorprendere perciò la scoperta, nel 1991, di un altro bouleuterion retrostante il portico settentrionale della stessa agora.

Si trattava, in

questo caso, del bouleuterion più antico, contemporaneo al nuovo impianto urbanistico di Iaitas della fine del IV sec. a.C. Mentre la pianta generale e anche la tecnica costruttiva dei due monumenti non è sostanzialmente diversa, quello che distingue anzitutto i due monumenti, oltre la collocazione cronologica, è la loro capienza. Il bouleuterion anteriore è infatti molto più piccolo: anche se non si conservano resti di sedili è comunque possibile calcolare la capienza in maniera approssimativa, partendo da uno spazio di 0, 5 m di larghezza per persona”. Il numero delle persone che trovavano posto non poteva in nessun caso superare i 70. Per il bouleuterion posteriore è invece stata calcolata una capienza massima di 212 posti”. Fin dall'inizio abbiamo ritenuto, e ci pare ovvio, che la presenza di due bouleuteria costruiti in momenti differenti e con capienza diversa debba rispecchiare un cambiamento costituzionale della città di Iaitas?, sia esso o no accompagnato da un incremento della popolazione cittadina. Ora, i due momenti di costruzione si possono interpretare in un contesto storico più generale. 429

Quando i cittadini di Iaitas decisero — come pare, senza necessità esterna -- di ricostruire ex novo il

loro insediamento*, Iaitas faceva parte dell'eparchia cartaginese, ma partecipava, come gli altri centri della Sicilia Occidentale, al nuovo sviluppo economico, accompagnato forse anche da un nuovo spirito politico, dovuto all'opera di Timoleonte, stratego di Siracusa dal 345/4 al 337 a.C.*. Il secondo bouleuterion cade invece in pieno periodo di dominio romano repubblicano: la sua costruzione avvenne in seguito alle guerre servili del 136/5-132 a.C.** e venne messa in opera su iniziativa romana, come provano, oltre ad altri indizi”, le tegole bollate con lettere latine che ricoprivano il tetto del portico antistante. Di notevole interesse ci sembra, in questo contesto, la notizia di Diodoro Siculo a proposito del bouleuterion di Agyrion. Diodoro? descrive i successi militari di Timoleonte nella lotta contro i i vari tiranni delle città minori, tra cui Agyrion. Dopo le vittorie Timoleonte fece venire nuovi coloni dalla Grecia, di cui 40000 per Siracusa e non meno di 10000 per Agyrion. Timoleonte fece inoltre revisionare la costituzione di Siracusa”. Come conseguenza di tale operato, e cioè della pace tornata in tutta la Sicilia, le città si ripresero anche economicamente, il che permise loro una rinnovata attività

costruttiva. Servono da esempio alcune opere a Siracusa, tutte eseguite da Agatocle, e cioè dopo il 322 a.C. Poi viene menzionato Agyrion dove si costruirono il teatro, templi per gli dei, il bouleuterion

e l'agorà. Il contesto del racconto di Diodoro dimostra chiaramente che queste attività sono la conseguenza delle riforme timoleontee, ma pure che le costruzioni si effettuarono solo più tardi, anche se non viene indicata una data precisa, come per Siracusa. La costruzione del bouleuterion di Agyrion si daterà quindi più o meno alla stessa epoca di quella del primo bouleuterion di Iaitas”. Per Taitas non ci è attestata una nuova colonizzazione, che d'altronde non è neppure probabile, vista l'appartenenza della città all'eparchia punica. Significativa sembra nondimeno la comune collocazione cronologica, propizia sia economicamente che politicamente. Per il bouleuterion di Agrigento non sembra si disponga, per ora, di una datazione precisa basata sulla stratigrafia, ma sembra certo che il monumento si collochi nell'ambito del IV/III sec. a.C.®. L'iscrizione*, che gia il De Miro ha collegato con l'edificio di recente scoperto, è databile tra il penultimo decennio del III sec. e la metà del I sec. a.C.* ed è un chiaro terminus ante quem per l'esistenza. del bouleuterion. Niente esclude quindi che anche il bouleuterion di Agrigento risalga al periodo di ripresa economica della Sicilia nel tardo IV sec. a.C. La sua capienza di 300 posti circa? non risulta troppo alta se si confronta con i 70 posti di laitas tenendo in debito conto la diversa dimensione e importanza delle due città. Per la costruzione del bouleuterion di Entella si desume un terminus ante quem dalla data, purtroppo ancora controversa, delle iscrizioni. Una datazione tra la fine del IV e la prima metà del ΠῚ sec. a.C., anteriore comunque al 282 a.C., viene proposta dal Nenci, che non esclude neppure che possa essere seguita alla colonizzazione di Entella da parte di Timoleonte. Altri, tra cui M. Corsa107, datano i decreti entellini nel periodo della prima guerra punica e cioè intorno alla metà del ΠῚ sec. a.C. Il bouleuterion di Siracusa era situato, come il prytaneion sull'agorà porticata, non lontano del tempio di Zeus Olympios *. Non se ne conoscono finora resti monumentali, e le menzioni da Cicerone non permettono di datarlo con maggior precisione. Ci sembra probabile che a Siracusa, come ad Atene”, sia esistito un bouleuterion fin dal periodo classico. Non è però, d'altro canto, da escludere che la sua costruzione, o ricostruzione, possa risalire a Timoleonte, riformatore, come abbiamo detto, anche della costituzione della città; tale edificio potrebbe aver servito poi da modello per costruzioni analoghe nelle città mino Per quanto riguarda la datazione degli altri bouleuteria di Sicilia, di cui si conservano resti monumentali, disponiamo di indicazioni stratigrafiche a Morgantina, dove viene datato alla seconda metà del ΠῚ sec. a.C. . Il bouleuterion di Solunto sembra sia contemporaneo al teatro e deve perciò risalire ancora alla fine del IV sec. a.C. Il bouleuterion di Akrai è stato datato dal Bernabò Brea al periodo ieroniano®, ma tale data, che si basa su considerazioni di carattere storico, non è accertata‘. Non si può escludere che anche questo edificio risalga a un periodo anteriore, ma in mancanza di nuovi elementi stratigrafici il problema rimane aperto. 430

Sembra quindi che nel primo bouleuterion di Iaitas e in quelli di Agyrion, di Solunto, probabilmente di Agrigento, e forse anche di Entella, si rispecchi un momento importante dello sviluppo costituzionale delle città siciliane seguito all'intervento di Timoleonte in Sicilia. Solo Morgantina, e forse Akrai, seguono alquanto più tardi. Per Iaitas è stato possibile, in base alle ghiande missili trovate nello scavo“, accertare che la costituzione della città nel tardo IV secolo^ seguiva un modello noto da altri centri dorici della Sicilia, ben attestato anzitutto a Camarina “, con l'organizzazione dei cittadini in non meno di 12 fratrie. L'unico bouleuterion finora noto in Sicilia databile al periodo repubblicano avanzato, e cioè dopo la seconda guerra punica, rimane per ora il secondo bouleuterion di Iaitas, costruito, come pare, su intervento di un esponente del potere romano, probabilmente un magistrato. In base alla lettura del bollo PR. proposta per le tegole bollate avevamo pensato, seppure a titolo di mera ipotesi tuttora valida, a Publio Rupilio, vincitore della guerra degli schiavi”. Anche la lex Rupilia^ che regolava l'amministrazione giuridica nella Sicilia segnata dalle vicende della grande guerra degli schiavi porta il suo nome. Lo stesso Publio Rupilio aveva provveduto, come ci dice Cicerone a regolare per legge la nomina dei senatori cittadini a Eraclea Minoa. Aveva inoltre stabilito il numero dei vecchi e nuovi coloni che dovevano far parte del senato cittadino. Non sappiamo se anche a Eraclea Minoa la riforma abbia portato alla costruzione di un nuovo bouleuterion. Una legiferazione simile, non attestata dalle fonti*, potrebbe aver causato la costruzione del secondo bouleuterion di Iaitas, anche se una deduzione di coloni, o perlomeno un ripopolamento, non è attestata per questa città. Aggiungiamo che pure nel bouleuterion di Agrigento si sono osservate tracce di un rifacimento databile al ΠῚ scc. a.C. che si collegano per ora con un piano di battuto secondario, senza che sia stato possibile osservare un cambiamento nelle strutture. Sembra fosse una strategia politica romana diffusa trasformare in senso oligarchico le costituzioni cittadine”. E sarà da interpretare in tale senso la costruzione del secondo bouleuterion di Iaitas, che sia esso connesso con un incremento della popolazione oppure la conseguenza di una riforma costituzionale. La vecchia boulé, che contava una sessantina di membri sarebbe stata sostituita da un consiglio di probabilmente 200 membri? che si possono chiamare senatori, nel senso romano della parola *. Potrebbe essersi trattato di un ulteriore esempio “della ben nota tendenza romana ad intervenire direttamente nella vita di città che non erano né municipi né colonie ma godevano dello statuto di civitates liberae et immunes o foederatae" *. Un senatus è attestato per Entella *, dove Cicerone discusse i malfatti di Verre. Non conosciamo purtroppo, per mancanza di fonti scritte, lo statuto di Iaitas in epoca romana repubblicana, ma ci sembra importante ritenere che interventi costitu-

zionali romani sono attestati non solo per comunità legate più strettamente a Roma come i municipi e le colonie, ma anche per città di diritto più autonomo; il modello romano sembra sia stato propagato ovunque. In conclusione pare che i due bouleuteria di Taitas rispecchino sì la storia costituzionale di questa città, ma testimoniano anche di due momenti cruciali della storia costituzionale delle città greche libere in Sicilia, e cioè le riforme che comportavano il ripristino dell'autonomia locale, primo, in seguito all'intervento di Timoleonte di Corinto in Sicilia, e, poi, gli interventi romani, manifesti anche nella lex Rupilia, che tendevano a conformare sempre di più le costituzioni locali, di tradizione greca, ai modelli di tradizione romana, e cioè latina. ADDENDUM AGOSTO 2001

Ai bouleuteri di Sicilia si aggiunge ora quello di Segesta, scoperto nel 1995 vicino all'agorà. L'iscrizione dedicatoria nor na l'architetto, Bibachos, e ἢ costruttore, lepistates Asklapos. Cf. per ora i contributi diG. NecI e diM. C. Pana, in Wohnbau Giornate di forschung in Zentral- und Westsizilien. - Sicilia occidentale e centro-meridionale: ricerche archeologiche nell'abitato. e 10,2. M. DE Cesanz-M.C. Pan a cura di H. P. Istere D. Kic, Zurigo 1997,p. 128e pp. 142 s. tav. 9,6 studio, Zurigo 1996. Ati, ma, IL bouleuterio di Segesta: Primi dati per una definizione del monumento nel contesto urbanistico di età ellenistica, in Terze Giora Entellina 1997, Pisa-Gibellina 2000)I, pp. 273-286. G. - Erice - Contessa mate Internazionali di Studi sull'area Elima, Gibellin he dall'area Elima, ibid., pp. 8105. e cultuali Never, Varia Elyma: Novità epigrafiche, numismatiche, toponomastic 431

NOTE * cfr. E. De Mio, Il bouleuterion di Agrigento, in Kokalos 30/31, 1984-1985, pp. 460-464. Ib., Il bouleuterion di Agrigento. Aspetti topografici, archeologico e storici, in QuadMess 1, 1985-1986, pp. 7-12. ? cir, H.-Sr. Daw, Studia letína 3: Die Gebaude an der West-seite der Agora von laitas, Zurich 1991, pp. 52-64. L'assenza di uno studio dei bouleuteria siciliani è stata deplorata da De Miro, in Kokalos 30/31, ci., p463 e ancora QuadMess 1, cit, p. 10, Per i bouleuteria in generale vedi inoltre F. KxusckeN, Antike Rathauser, Berlino 1941. W.A. McDoxaLD, The Political Meeting Places of the Greeks, Baltimora 1943; questi autori non potevano ancora conoscere i bouleuteria siciliani. Anche R. Mtrχει, Das Odeion, Francoforte 1980, pp. 159-187, non tiene conto dei bouleuteria siciliani. I libro recente di D. GNEsz, Das antike Rathaus, Vienna 1990, è invece un plagio che non conviene tenere in considerazione, cr. la recensione di H. Laver, in Gnomon 63, 1991, 74S. ? Ringrazio il collega Christian Marek per le indicazioni bibliografiche fornitemi. * H-Sr. Dark, Studia Ietina 3, cit, pp.58-61. Inoltre M. Giawciunio, Edifici pubblici e culti nelle nuove iscrizioni da Entella: 2. Bouleuterion, in Materiali e contributi per lo studio degli otto decreti da Entella, in ASNP XII, 1982, pp. 963-970, particolarmente p. 965. * cfr. sopra nota 1. Inoltre H.-Sr. Dazsn, Studia Ietina 3, cit. pp. 60s. ὁ cfr; L. Βεκναβό Brea, Akraí, Catania 1956, pp. 39s. e pp. 44-51, fig. 12. H.-Sr. Dassin, Studia letina 3, cit, p. 59. 7 cfr: HP. Itn, in SicA XXV 78/79, 1992, pp. 13-18. Io. in AK 35, 1992, pp. 57s., con bibliografia anteriore. ? Β ὅτ. Dazio, Studia Jetina 3, cit, pp. 17-51, Beilage s * E. Sióovisr, Excavations at Morgantina (Serra Orlando) 1963. Preliminary Report VII, in ATA 68, 1964, pp. 40s., fig. 1 1-57. Dazu, Studia Fina 3, ct. pp. 56s. ! V. Tusa, Solunto, il teatro e l'odéon, in AAVY., Odeon e altri “monumenti” archeologici, Palermo 1971, pp. 91s. fig. 13. H-Sr. Dazu, Studia Ietina 3, ct., pp. 58s. Come hanno sottolineato giustamenteil Daehn e anche il Gianciunio, Edifici pubblici, cit, p. 965, nota 60, si tratta anche nel caso di Solunto di un bouleaterion e non di un odeion. τε Le fonti sono state raccolte da M. Giaveno, Edifici pubblici, cit, pp. 9635. ? Diod, 16, 83,3. ? IG XIV, 952. Il decreto onora Demetrio, figlio di Diodoto da Siracusa; una delle due copie era collocata nel bouleuterion di Agrigento. Viene datato dall'autore di IG XIV a poco dopo il 210 a.C. Ma vedi anche sotto, nota 34, © Il bouleuterion viene menzionato in non meno di quattro degli ormai famosi otto decreti: IV, 14-16; V, 28-30; VII, 13-17; VIII, 18-22. Per i decreti cr. per ultimo G. NENCI, in G. Nena (ed.) All ricerca di Entella, Pisa 1993, pp. 36-50. * Cie, Verr. 112, 19; 2, 21; 2, 59; 4, 53; 4, 61-64 passim. Cicerone traduce bouleuterion con curia, come ci dice lui stesso op. cit. 2, 21. La base di Betitius Perpetuus, IG XIV, 1078a (Addenda). Il personaggio ha amministrato (?) i bouleuteria di Sicilia in ‘un momento non meglio determinato della prima metà del IV sec. d.C. Non è facile cogliere il significato reale di questa afferτ Per la scoperta cfr. H.P. Istea, Monte lato: Decima campagna di scavo, in SicA XIII, 44, 1980, pp. 17-20. Anche In., Grabungen auf dem Monte Tato 1980, in ΑΚ 23, 1980, pp. 112s. ? H.P. Iste, Monte lato: Decima, cit. p.19. In., Monte Jato: Dodicesima campagna di scavo, ibid. XV 49-50, 1981, p. 11 11.-Sr. Dain, Studia Jeina 3, cit. pp. 93-99 e 120. ? Chr. sopra nota 7 e già H.-Sr. Daenx, Studia Ietina 3, cit, p. 57. ® Peril problema della larghezza da aggiudicare a ogni singola persona cfr. H.-Sr. Dari, Studia Jetina 3, cit. p. 42 con nota 43. Anche, a proposito della capienza dei teatri, H.P. Ister, in NAC X, 1981, pp. 132-134 con nota S; ID., Grabungen auf dem Monte Tato 1982, in AK 26, 1983, p. 38. 1 cir, H.P. ἴδει, Monte lato: Ventunesima campagna di scavi, in SicA XXV 78/79, 1992, p. 18. Ip., Grabungen auf dem Monte [ato 1991, in AK 35, 1992, p. 58. Per la funzione c lo sviluppo della boule nelle città greche in genere cfr. V. EHRENBERG, The Greek State*, London 1969, pp. 59-65. Il basso numero di membri a Iaitas si potrebbe interpretare come indizio per una costituzione di tipo aristocratico. 7? cfr. H.Sr. DaBsn, Studia letina 3, cit, p. 43 5. HP. Isuxa, Monte lato: Ventunesima, ci p. 18. Ip. Grabungen auf dem Monte lato 1991, in AK 35, 1992, p. 58. » cfr. H.P. IsueR, Monte lato: Guida archeologica, Palermo 1991, p. 21. ® cfr. RIA. TausorT, Timoleon and the Revival of Greek Sicily, 344-317 B.C., Cambridge 1974. Il periodo di fioritura perdurò fino in epoca agatociea ed interessò tutta la Sicilia, cfr. RA. Tatporr, Timoleon, cit pp. 1475. *® Per la datazione stratigrafica cfr. H.-Sr. Dart, Studia Ietina 3, cit, p.120. Anche H.P. IsteR, Monte lato: Guida, cit. p. 35. Ricordiamo il tempio a podio sul lato ovest dell'agorà che fa parte dello stesso insieme architettonico, cfr. H-Sr. Dark, Studia letina 3, cit, pp.86-88. Anche H.P. Istem, Monte lato: Guida, cit. p. 37. % Per queste tegole οἷς. P. MULLER, Gestempelte Ziegel, in H. Buossci-H.P. ISLeR (Edd.), Studia Jetina I, Erlenbach-Zurigo e Stoccarda 1976, pp. 64s. Per l'interpretazione storica delle tegole vedi inoltre HP. Istem, Grabungen auf dem Monte Tato 1978 und 1979, in AK 22, 1979, pp. 64s. Ip., Monte lato: Guida, cit, p. 35. ctr. inoltre H.-Sr. Dazax, Studia letina 3, cit, p. 45 con nota 55. ? Diod, 16, 82, 2-83, 3. 7? cfr. RIA. Taunort, Timoleon, cit, pp. 130-143. L'autore ritiene probabile una trasformazione oligarchica della costitu432

zione siracusana, con un consiglio forte, cfr. pp. 139-142. In tale contesto un synedrion, una boule, e con ciò il bouleuterion riveste ovviamente un'importanza maggiore. »' Non è in realtà attestato che esso venisse fatto costruire da Timoleonte stesso, come sosteneva il M. Guxcrutm, Edifici pubblic, it, p. 964. ? De Mino, in QuadMess 1, cit, p.9. » cfr. sopra n. 13. * De Miro, in QuadMess 1, cit, p. 11 conn. 8. 5. De Mio, in QuadMess, cit, p. 11. » cfr, G. New, Considerazioni sui decreti da Entella, 1 Datazione, in Materiali e contributi perl studio degli otto decretida Entella, in ASNP XII, 1982, pp. 1069-1077. Bibliografia aggiornata da Ip, Alla ricerca di Entella, cit., p. 50, n.2 »' M. Consano, La presenza romana a Entella: Una nota su Tiberio Claudio di Anzio, in Materiali e contributi per lo studio degli otto decreti da Entella, in ASNP XII, 1982, pp. 993-1032, in particolare pp. 1026ss. ® Cie, Ver. IL4, 53: curia, Per la zona dell agora c la localizzazione degli edifici pubblici cfr. R. Maki Fr AL, Le città greche, in E. Gusta.G. μια (Edd.), La Sicilia antica I, 3, Napoli 1980, pp. 680s » Peri bouleuteria di Atene ctr. J. TRAvL0S, Bildlexikon zur Topographie des antiken Athen, Tubinga 1971, pp. 191-195,s. Bouleuterion. Inoltre H.-Sr. Dazu, Studia letina 3, cit, pp. 61-63. © eft. E. Sioavist, Excavations, cit, p.141. La cronologia delle monete di lerone II sulla quale sembra unicamente basarsi la datazione proposta, non è comunque accertata. Non si può perciò escludere una datazione ancora prima della metà del TII secolo. © TI Tusa, Solunto, cit., pp.91s. non ne propone una cronologia, pur sottolineando il parallelismo con il teatro. Il Dara, Studia letina 3, cit, p. 59 accetta con riserve la data qui proposta. Per la datazionedel teatro di Solunto cfr. H.P. Ist, Una. cariaride dal Teatro di Solunto, in SicA XVIII 59, 1985, pp. 695. Ip. in P. Ciancio Rosserzo-G. Pisana Sartorio (Edd.), Teatri greci e romani alle origini del linguaggio rappresentato 3, Roma 1994, p. 39 © cfr. L. Berxan6 Brea, Akrai cit, pp. 39s. © Così anche M. Gianciurio, Edifici pubblici, cit, p. 965,n. 60. + cfr. H.P. ἴδμεν, Glandes, in AA 1994, pp. 250-252. ^^ Una datazione di poco posteriore, nel contesto della guerra di Pir o d'Epiro in Sicilia è stata ora proposta da D. Kick. Per Pirro e laitas cfr. la testimonianza di Diodoro 22, 10, 4; H.P. Ister, Monte ato: Guida, cit, p. 81 “ Per Camarina cfr. F. Connixo, Le tessere pubbliche dal tempio di Atene a Camarina, Roma 1992. ‘cfr, anche sopra n. 26, Per il personaggio e il suo operato anche H.G. GunpeL, in Der kleine Pauly 4, Monaco 1972, p. 1469, s.v. Rupilius, 3, e in particolare A. Hou, Storia della Sicilia nell antichita II, Torino 1901, pp. 208s. e p. 624, n. 68. An: che Ὁ. Mancanano, La provincia romana, in E. Gaana-G. Valuer (Edd), La Sicilia antica 11,2, Napoli 1980, pp. 4395. “ cfr. Cic, Ver. T2, 13; ancheIl 2, 16112, 37. © Cic, Ver. I 2, 50. Inoltre M. Corsaro, La presenza romana, cit, p. 1023. Sull'istituzione del senatus nella Sicilia romana repubblicana cfr. già A. Hou, Storia cit, pp. 1615. | Questo argomento non ha comunque molto peso dato che anche per Eraclea Minoa l'attestazione è puramente casuale; avviene nel contesto di un misfatto di Verre raccontato da Cicerone. Sembra molto probabile, che Publio Rupilio abbia svolto attività simili in più città. * cfr. De Mimo, in QuadMess 1, cit, p.11, n.12. © cfr. L. Gatto, Polyanthropia, eremia e mescolanza etica in Sicilia: I caso di Entella, in Material e contributi per lo studio degli otto decreti da Entella, in ASNP XII, 1982, p. 938s. Le costituzioni locali nella parte occidentale dell'impero romano sono discusse da A. Livrorr, Imperium Romanum. Politics and administration, Londra 1993, pp. 132-145; le nostre conoscenze si ri velano, in effetti, assai limitate. ἐν Secondo il A. How, Storia, cit, p.162 "nulla ci è tramandato intorno al numero dei senatori” nelle singole città; lo stesso Holm pensa a un minimo di 100 membri per formare un senato cittadino. % Oltre a senatus è stato usato anche il termine ordo decurionum. Per l'uso dei due termini in gencre e particolarmente nella Hispania romana cfr. H. GatsreRea, Untersuchungen zum romischen Stüdtewesen auf der Iberischen Halbinsel, Berlino 1971,pp. 51-55. 7M. Consano, La presenza romana, cit, p. 1025 con n. 183. Perle tre categorie di città esistenti nella Sicilia romana cfr G. Macaxano, La provincia, cit. p.418. 9 Cic., Ver. IL3, 87. Il senato come consiglio delle città siciliane è attestato per la lex Rupitia, cfr. Οἷς, Verr. Π 2, 13.

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SEBASTIANA LAGONA UNA KOUROTROPHOS DA MOZIA Ho il piacere di presentare qui una statuetta di terracotta rinvenuta a Mozia presumibilmente nei

primi anni del nostro secolo e conservata nella collezione Withaker' (fig. 1). La statuetta, purtroppo frammentaria, rappresenta una kourotrophos. La figura è di prospetto e seduta; veste un ricco abito a pieghe che coprono anche le braccia creando una specie di manica; la scollatura è larga e lascia ampiamente scoperta la base del collo; il volto di un ovale regolare, è piuttosto massiccio, con fronte larga, occhi grandi a mandorla e con palpebre a bordo rilevato, naso grosso (manca la punta), zigomi evidenti, mento largo e pieno, bocca piccola e dritta con labbra carnose; capigliatura a morbide ciocche ondulate divise al centro, che incorniciano il volto; alle orecchie nascoste dai capelli, sembra avere degli orecchini; intorno al collo, una collana a cordoncino 2); sul capo, un largo polos, decorato da una serie di rosette che corre orizzontalmente; dal capo, sul retro, scende un velo che copre anche le spalle. La figura, probabilmente seduta su di un trono di cui compare soltanto un elemento a cui si appoggia la sua spalla destra, regge sul ginocchio sinistro un bambino nudo, rappresentato anch'esso quasi completamente di prospetto; manca della parte inferiore, rotta secondo una linea curva che risparmia parte del ginocchio sinistro e dell'abito che lo ricopre. La statuetta, per gli elementi stilistici sopra elencati, rientra in una produzione che durante tutta. l'età classica, si riscontra in molti centri dell'Occidente mediterraneo. In particolare, essa si riporta al tipo di figura femminile panneggiata con polos (indipendentemente dalla caratterizzazione come kourotrophos), molto diffuso in età classica in tutto il bacino del Mediterraneo, ma particolarmente presente nell'Italia meridionale e in Sicilia, nell'area agrigentina, in quella selinuntina e nella Sicilia orientale, con figure singole o a gruppi di due, tre o più figure”. In particolare, si possono accostare per lo stile alla nostra statuetta alcuni esemplari rinvenuti in Sicilia? e nell'Italia meridionale‘, soprattutto per la stessa morbidezza del modellato, e datati nel periodo che va dalla metà del V alla metà del IV secolo a.C. Chi rappresenta, a quale culto si riporta la piccola kourotrophos di Mozia? Il tipo della figura femminile con un bambino in braccio, nel mondo mediterraneo* è presente fin da epoca antichissima in molte regioni dell'Egeo ed è in genere riferito al culto della dea Madre che nell'area anatolica è rappresentata ad un certo momento da Cibele o da Afrodite, spesso da Artemide e più tardi da Iside*; in Occidente si riporta in genere al culto di Demetra”. Le rappresentazioni figurate finora conosciute* presentano, in genere, una figura stante con il piccolo in braccio (più spesso lo regge con il braccio sinistro), o seduta in trono con il bambino in grembo (qualche volta in atto di prendere il seno materno). Il luogo di rinvenimento è quasi sempre un santuario nel quale si venera una divinità femminile, che è generalmente connessa con il culto della natura e della riproduzione. L'esempio più antico che conosciamo è una statuetta della Tessaglia (Sesklo)’, datata nel Neolitico recente, nella quale la madre, nuda e seduta su di uno sgabello, tiene stretto al petto il bambino. La figura, che è decorata su tutto il corpo suo e del bambino da fasce di colore bruno (alla maniera dei vasi), è interpretata come rappresentazione della “fecondità” Il tipo è presente anche nell'arte micenea, a cui appartiene la figurina del Museo del Louvre da Micene", anch'essa nuda e seduta su di un trono con alta spalliera e con il bambino in grembo (sul ginocchio sinistro), datata nel Miceneo recente III (fra il 1400 ed il 1200 a.C. .). La statuetta, che presenta una decorazione a fasce di colore bruno che ricorda quella di Sesklo, si riporta al culto tessalico della Grande Madre. 435

Fig. 1. Statuetta di kourotrophos da Mazia (coll. Withaker).

Nei centri greci dell'Egeo, la kourotrophos compare con una certa frequenza in età tardo arcaica, in particolare sulla costa ionica ", in Beozia", a Corinto ^ e sulla costa eolica,

a Kyme "ἢ e a Myrina™.

Qualche tipo di poco piü tardo (datato tra gli inizi e la metà del V secolo o poco dopo), si trova a Tebe”, Rodi? e ad Eléonte *. In Occidente, il tipo è rappresentato in età tardo-arcaica e classica in Sicilia, nell'Italia meridionale ed in qualche esemplare da ambiente fenicio. In Sicilia, il tipo di kourotrophos seduta compare alla fine dell'età arcaica ed è rappresentato, oltre che dalla notissima statua di Megara Hyblaea, da statuette di terracotta rinvenute in massima parte nelle aree frequentate da Gela (con Agrigento) e da Megara Hyblaea (con Selinunte), databili all'incirca nella seconda metà o alla fine del VI secolo a.C.". In particolare, citiamo una terracotta del Louvre, proveniente da Selinunte, che rappresenta la dea seduta e con il bambino in braccio?! ed una statuetta ad Agrigento, di fattura piuttosto rozza”, presumibilmente imitazione locale di uno dei tipi noti; perle terrecotte siceliote, confronti abbastanza calzanti fanno spesso pensare ad un tramite rodiota, come nel caso di due statuette del museo archeologico di Gela?. 436

Ma nessuna delle statuette rinvenute in Sicilia si confronta in modo soddisfacente con quella di Mozia, anche se per la vicinanza si sarebbe tentati di supporre la provenienza dell'offerente da una città siceliota. Lo stesso si può dire per le statuette rinvenute nell'Italia meridionale, dove i tipi più antichi di kourotrophos, come per esempio quelli rinvenuti a Cuma* o a Taranto”, si possono ritenere legati all'ambiente egeo, attico o corinzio. Più vicini appaiono, invece, alcuni esemplari rinvenuti in ambiente fenicio, dove il tipo è abbastanza frequente e variamente interpretato. Interessante, per la vicinanza stilistica con il nostro, un esemplare da Ibiza”, colonia fenicia in un'isoletta delle Baleari, grande produttrice di statuette di terracotta dal VI al II sec. a.C. *; la statuetta, che mostra una figura femminile seduta, presenta forti analogie nella resa del volto, del polos, del drappeggio della veste intorno al collo; diversa, invece, è la posizione ed il tipo dell'infante, molto piccolo e posato sul grembo. Più facile, d'altra parte, lattribuzione del reperto ad una città fenicia, da cui poteva più probabilmente venire il devoto; città che diventa difficile individuare se si cerca di collegare il manufatto ad un culto locale: a Mozia, colonia fenicia, la divinità femminile a cui la statuetta si può riportare poteva essere Iside”, la dea egiziana che secondo Erodoto ® corrisponde a Demetra. Il che non sorprende se si tiene conto dell'esistenza di altri dati che attestano la presenza di culti egiziani nell'area vicina a Mozia: ricordiamo una kourotrophos da Lilibeo? ed un bronzetto da Erice rappresentante Iside che allatta Horus. Se si accetta questa ipotesi, appare spiegabile la somiglianza con la citata terracotta della fenicia Ibiza, che presenta uno schema simile ed un modellato morbido molto vicino a quello della statuetta di Mozia, che porta ad una datazione tra la fine del V e gli inizi del IV sec. a.C. NOTE

sui materiali di Mozia: L.S. Wirratem, Morya, A * La statuetta figura n na tavola della prima pubblicazione(lascientifica da sn. fig, 101 inferiore, quarta phoenician colony în Sicily. London 1921, pp. 120-121, Antonia Ciasca, che liberalmente autorizzò lo studio Ripeto qui le mie espressioni di gratiudine nei confronti della1973prof.fece da tramite pe la trasmissione delle fotografie, opeche nel lontano dela statuetta della prof. ldina CutroniancheTusa,la dott.ssa Maria Luisa Fama, della Soprintendenza ai Beni culturali c ambientatadi Petruccioli, Ringrazio vivamente malgrado le dificolt create dal fattoe con cui miha fornito tutte le indicazioni possibili li di ‘Trapani, per la squisita cortesia perché stria il Musco è in fase di ristrutturazione (ML. Fa, La collezione Whitaker: che la Collezione non è accessibile 1987, Marsala Nazionale Convegno del Ati mediterranea, civiltà della crocevia Un Marsala, a Mozia Da in future, prospettive pp. 145-148) statuette di questo tipo, in genere connesse con culti relativi lla fecondità, s veda 8. Lacona, Rappresenazioni * perle multiple di divinità femminili, in Cronache I 1962, pp. 28-35 del di Gela (R. Pavia, elas, Stora C,e archeologia Fra le statuette siceliote con polos si possono ricordare gli(E. esemplari in Hestasis, V DE Mino, Coroplasia gela del VI e sec. antica Gea, Torino 1996, p.58 ss, tav. 49,16-18), Agrigento in StTardoant 2, pp. 287-396), Selinunte (G. Fanara, Frammento di kourotrophos da Selinunte, in Sicilia Archeologica XVII, Terrecotte ar in MonAnt IX, 1899, XIV, 1904), Cataniagreca,(A. n. Pautasso, 1984, ns. 5455, pp. 59.61), Camarina (P Orat, Camarina, 6, Catania 1997) Studi e materiali di archeologia Gaichee classiche del Museo Civico di Castello Ursino a Catania, da Locri (M. Bark Bioxasco, Appoti este3 e ed4), elaborazione locale nella coropl"Ricordiamo Εἰ interessanti esemplari 1984, pp. 39.52, particolarmente le figg. 25, BA i a.C, secolo stica locrese ta il Ve iL IV tipo di Mozia, Esempi più anellenico, per spiegare l'eventuale derivazione dlcitiamo * Limitiamo la nostra indagine alin mondo il caso della statuetta di egea quella con contatto in spesso lontane, più arce preistorica fase nella esistono tichi in piedi archeologico, rappresentata nuda, nel II millennio a.C. (Ankara, diMuseo da una necropoli di Mersin databile nutrice Musco Civico Milano (side. 1I mio, mistero, la magia, a cura Econ ἢ bambino stretto tale braccia, quell egizianachedelallatta Arpocrate (XXII XXXV dinastia). Iside EE. Ansus, Milano 1997, p. 44) rappresentante "side È molto venerate, soprattutto a partire dal IV sec. a.C. in tutto il bacino dell'Egeo e spesso la si rappresenta come kourorrophos (basti ricordare gli esempi di Kyme, Rodi e Gel). "Si veda per questo P. Oxs, Gel, in MonAnt XVII, 1906, pp. 704-710. * Una serie abbastanza completa si trova in Tu. Hapzisrrziov Price, Kourotrophos. Cults and Rapresentations of the Greek Nursing Dite, Leiden 1978 Arte egea,,trad. it, Milano 1964, fig. 3536. "È. Denson ‘cella preistoria ipo si trova nell Anatolia orientale, come attesta la citata statuetta del Museo archeologico di Ankara (the Anatolian Civilizations I: rebitorc/iite(Eurly Iron Age Istanbul 1983, p. 113, A 249). 437

? P, DeascNE, Arte egea, cit, p. 240, fig. 334. 1 Si veda la statuetta con figura seduta del Louvre B 357 (S. Besouzs, Catalogue raisonné des figurines en terre-cuite en grecs, étrusques et romaines, Paris 1954), datata nel 500 a.C. ca. 7» Da Tebe vengono tre esemplari del LouvreB 112, tav. XV, con figura stante, dellul 10 quarto del VI scc. a.C.; B 292, stante, degli inizi del V sec. a.C.; B 89, tav. XI, seduta, degli inizi delV sec. a.C. "Corinth XII, tav. 10, 141,n. 3457, del V sec. a.C. ! Oltre alle statuette dagli scavi Baltazzi, conservate nel museo archeologico di Istanbul, qualche esemplare di questa. fase viene dagli scavi italiani; numerosi tipi più tardi vengono dagli scavi del Salag (A4.W., Anatolian Collection of Charles University. Kyme I, Praga 1974, pp. 122-125); dagli scavi italiani sulla sommità della collina nord vengono numerosi esemplari di età ellenistica, rinvenuti nello scarico votivo del santuario. ! Louvre B 341, dei primi del V sec. a.C. © RevArch XXXIV, 1889, p. 11, ? Interessanti un tipo da Camiros al Louvre (Busaves, Catalogue, cit. Ο 136), datato intorno al 460 a.C., ed alcuni esemplari da Lindos (C. BinkenmERC, Lindos. Fouilles de l'acropole 1902-1914, Berlino 1931, tav. 139). ? Museo del Louvre (Bssaues, Catalogue, ci., C 147, stantee C 577e 578, seduta), ® Si potrebbero riportare a tale ambito due statuette del Louvre (Brsours, Catalogue, cit. Coll. Campana B 536-537). ? Besouss, Catalogue, cit., B 560 (da Selinunte), datata intorno al 500 a.C. ® NScVL p. 83, fig. 17. » R Poma, Gela. Il Museo archeologico. Catalogo, Gela 1998, p. 178 (inv. nn. 8739 e 31331). 6 La statuetta da Cuma, pubblicata dal Gabrici (Cuma, tav. CXI, 5), con uno schema simileal nostro, ma priva di polos, fa parte di una serie interessante di kourotrophoi provenienti da necropoli e santuari indigeni del Lazio, della Campania e delTApulia, derivate da originali greci di età classica di ambiente attico (L.A. ScarozzA Hogucut, Le terrecotte figurate di Cuma del Museo archeologico Nazionale di Napoli, Roma 1987, pp. 64-65, n.F 1, Ga 1, tav. XI). ? Hanzisretioo Paice, Kourotrophos, cit, fig. 24. κι Per il significato di questo tipo in ambiente fenicio, si veda: A.M. Bist, Le terrecotte figurate di tipo greco-punico di Ibiza III, in Rivista di Studi Fenici VI 2, 1978, pp. 222-224; G. Gana,La dea di Tharros, in Rivistadi Studi Fenici XXI, 1, 1993, pp. 99-110, 7 Bis,Le terrecotte, cit, tav. LII, 2. 5 Ibiza fu la prima colonia fenicia di occidente (metà VII sec. a.C.); in età protoarcaica approdo strategico sulla rotta fra la Sicilia e Tartessos, fu importante scalo cartaginese per il commercio con l'Iberia. Famoso il suo santuario di Tabnit e le sue necropoli, da cui vengono numerose terrecotte fabbricate sul posto (cfr. Bis, Le terrecotte ci.) * Iside compare come kourotrophos già alla fine del I millennio, come attesta la statuetta di Milano (v. sopra, nota 5). » “Iside in lingua greca è Demeter’ (II, 59). Il suo culto si diffuse in Sicilia ad opera dei coloni di Thera (Herod. VII, 53) ? G, Srantent Gasranxo, I culti orientali in Sicilia, Leidene 1973, pp. 257-263 (kourotrophos da Lilibeo n. 298 a p. 261), ? Βέάμενι Gaspanro, I culti orientali cit, p. 252, n. 274.

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‘Vincenzo La Rosa LUIGI SAVIGNONI: UNA PROLUSIONE DI INIZIO SECOLO A MESSINA

Inverno 1962-63: ‘zio Ernesto’ (i. . . fratello di Giovanni) mi tira fuori dal cilindro l'argomento definitivo della tesi di laurea, condizionando indirettamente una lunga fase dei miei studi e persino la mia etichetta accademica. Ottobre 1977: ancora lui mi autorizza a sbarcare a Milena e ad iniziare l'avventura sicana, nella quale continuo a sentirmi coinvolto. Basta ed avanza credo, per giustificare una sincera gratitudine, che i comuni interessi di ricerca, la Sua costante disponibilità, le Sue doti umane e scientifiche, hanno, nel corso degli anni, trasformato in amicizia: e questa nota mi consente di esternarGlicla. Ernesto De Miro vuol dire, accademicamente, sempre e solo Messina, con una fedeltà costatagli improba fatica e notevoli disagi nell'arco di oltre un quarto di secolo. E proprio in una simile prospettiva ... centenaria (ben giustificata in una Miscellanea di studi archeologici!), mi pare utile ricordare che i due soli cattedratici prosperati all'ombra dello Stretto si collocano quasi esattamente (con la chiamata in ruolo del primo ed il collocamento a riposo del secondo), all' inizio e alla fine del XX secolo. Come ordinario messinese di archeologia, Ernesto sarebbe stato preceduto, per quanto io abbia potuto appurare, soltanto da Luigi Savignoni (1864-1918), vincitore nel 1901 '. Onorare il secondo facendo qualche considerazione sul primo, è stata la mia opzione. È forse opportuno ricordare preliminarmente che la Facoltà messinese corse . il rischio di un

ordinario ‘intermedio’ agli inizi degli anni ‘20, come mi è capitato di accertare attraverso un paio di lettere, che pubblico in appendice (doce. nn.1 e 2)". Si trattava del fiorentino Tito Tosi che, allievo di L. A. Milani, aveva avuto l'incarico della disciplina subito dopo la morte di quest'ultimo, a partire dall'a.a. 1915-16; in quello successivo, a causa del pensionamento del docente di ruolo, aveva anche esercitato la supplenza del Greco. Sostenitore del Tosi per il conferimento dell'incarico poté essere, all'inizio, lo stesso Milani; ma toccò quasi certamente al suocero di questi, D. Comparetti?, completare l'opera. E proprio per offrire le dovute garanzie alla Facoltà messinese (decisasi a prendere in considerazione una chiamata del Tosi), il Comparetti sent il bisogno di chiedere dettagli bibliografi ci sull’ aspirante al latinista G. Funaioli*, che dal 1918 aveva cattedra a Messina. I pochi lavori citati nelle lettere? (lavori che forse costituivano allora tutta la produzione scientifica del Tosi), palesano esclusivamente interessi iconografici (limitati alle rappresentazioni dell'Iiupersis e a quelle del sacrificio di Ifigenia), supportati però da una buona conoscenza letteraria. La raccolta dei materiali relativi all'/liupersis risaliva addirittura agli anni del corso di perfezionamento a Firenze, concluso nel 1902. La notizia (sempre contenuta nella lettera), sul catalogo del Museo etrusco di Firenze, effettuato (a detta del Funaioli) fra il 1909 e il 1913, è da intendersi, con tutta probabilità, come semplice collaborazione con il Milani, dal momento che a quest'ultimo si deve, proprio in quel lasso di tempo, l'edizione della guida“. Una noterella epigrafica del Tosi su un altare adrianco dell' isola d'Elba apparve, nel 1930, in un volume di Studi Etruschi, dedicato a Gh. Ghirardini nel decennale della scomparsa”. Ma le cose migliori della sua produzione (se non quasi tuita) confluirono in un volume di scritti curato, nel 1957, da N. Terzaghi, che stilò un'ampia prefazione su La filologia classica a Firenze al principio del secolo XX, dalla quale ho potuto attingere qualche dato sul Nostro*: accanto ai contributi sull'lupersis e sul sacrificio di Ifigenia (citati già nelle lettere), si trovano lavori che riconfermano questo tipo di interessi iconografici, ma anche più decisamente filologici (su un peana di Pindaro, su un passo di Senofonte Efesio, sul “Cato Maior" di Cicerone etc.), o archeologico-antiquari (note su Pausania), o letterari nel senso più vasto (F. Nietzsche, R. Wagner e la tragedia greca). Nella citata prefazione il Tosi, definito ‘classicista’, viene ricordato fra quelli che “salirono su cattedre universitarie”: ma il riferimento è a quella di Lingua e letteratura latina presso la facoltà di Magistero di 439

Firenze”. Le vicende che è possibile ricostruire per il Tosi e per la sua non vasta, scrupolosa e tormentata attività scientifica, fanno dunque escludere che l'ipotesi di chiamata come archeologo presso l'ateneo messinese avesse avuto seguito. A giudicare anche da un accenno del Terzaghi ", il Nostro avrebbe tenuto l'incarico a Messina fino al 1921-22, per poi passare come latinista (ed ignoro se direttamente da ordinario) all'università di Firenze: proprio una simile oscillazione di insegnamento, indipendentemente dal dato di curiosità, risulta di un qualche interesse per la prospettiva oggetto di questo charistirion. Tornando finalmente a L. Savignoni, non tenterò una ricostruzione sistematica della sua personalità scientifica; mi limiterò piuttosto a metterne a fuoco l'approccio allo specifico problema della natura e degli ambiti dell'archeologia, che fra la fine dello '800 e gli inizi del '900 arrovellò, e non solo in Italia, i cultori delle diverse scienze dell'antichità. Quanto alla ‘preistoria’ di un tale dibattito, conviene appena ricordare che il carattere ‘ausiliario’ dell'archeologia rispetto alla filologia dipendeva dal fatto che la storia dell'arte veniva ricostruita quasi esclusivamente sulle testimonianze degli antichi scrittori, tradizionale riserva di filologi e letterati"' (secondo l'indirizzo allora in voga che P. Treves ha causticamente definito "crenologicogermanizzante"5), E a quale grado di consapevolezza fosse giunta, in Italia, la definizione degli ambiti della filologia classica e quale la nicchia riservata alla ‘archeologia dell'arte’, è efficacemente documentato dal Proemio che E. Ferrai scrisse, nel 1857, all'edizione italiana della Istoria della lettera-

tura greca di K.O. Miller. Ancor più interessante, da questo punto di vista, risulta la prolusione che

lo stesso Ferrai tenne, dieci anni dopo, all'Università di Padova, dal titolo Degl'intendimenti e del metodo della filologia classica * Nella prima metà dello '800 l'Accademia europea non conobbe, come è noto, insegnamenti autonomi di archeologia; nello specifico italiano, saranno gli scavi borbonici di Ercolano e Pompei a favorire l'introduzione del termine, ma anche il suo contestuale abbinamento alla Lingua e alla Letteratura greca ‘. Bisogna inoltre aggiungere che nella stessa Germania, dove la tradizione di studi era di ben altro spessore rispetto a quella nazionale, il riconoscimento accademico tardò fino al 1865, quando H. Brun’ (che aveva già pubblicato i due volumi della Geschichte der griechischen Künster) ottenne la cattedra di archeologia a Monaco. E si trattava pur sempre di una ‘archeologia filologica’, nel senso che applicava all’ opera d'arte (o meglio alle copie di età romana) lo stesso metodo riservato a testi e codici "..

Non saprei quanto casuale sia la coincidenza che pure in Italia la piena autonomia accademica

dati allo stesso 1865: la prima cattedra di archeologia toccherà infatti al palermitano Antonino Salinas (1841-1914), chiamato da quell'ateneo quando non aveva ancora compiuto i 25 anni di età. Dalla sua prolusione, intitolata significativamente Dello stato attuale degli studi archeologici in Italia e del loro avvenire, conviene dunque prendere le mosse *, Il neofita, patriota nazionalista e anticlericale, fa un discorso decisamente politico. Accanito filogermanico, dichiara con orgoglio i suoi viaggi nelle capitali europee, da Berlino a Roma, da Londra a Parigi; ma non nasconde il giusto compiacimento per gli scavi ateniesi presso il Ceramico o peri sopralluoghi all'isola di Tenedo o nelle pianure della Troade. L'archeologia l'hanno fatta i Tedeschi, mentre i docenti Francesi e Italiani sono ispirati “da un interesse di abbagliare le menti con un falso splendore, piuttosto che di nutrirle con verità e sem-

plicità” (p. 37). Ma a differenza dei Teutonici, noi Italiani possiamo, con maggior profitto e minori

rischi metodologici, passare dai monumenti alla scienza e non viceversa. ‘Sveltezza di ingegno’ e ‘dirittura di mente’ sono essenziali nello studio dell'archeologia, nell'ambito della quale "bisogna che il buono senso sia caposcuola e che la scienza sua figliola non l'uccida" (p. 39); soltanto disprezzo meritano i dilettanti, che si trastullano inseguendo borie municipali. Riflessioni non particolarmente profonde, insomma, puntando sulle quali il Salinas si guarda bene dal tentare una definizione degli ambiti e dei fini della nuova disciplina: ma il fatto è che egli dà per scontata la validità delle riflessioni metodologiche dell'archeologia tedesca. In questo senso, il nocciolo della questione, ¢ cioè il rapporto fra filologia e archeologia, non è espressamente affrontato; ed un paio di incisi al riguardo sembrano addirittura contraddittori. Il primo è a proposito del raffronto fra l' insegnamento accademico in Germania e in Italia: “E a far ben prosperare gli studi archeologici noi possediamo i migliori

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elementi, se ne togli un solo, quello della filologia; la quale in Italia è in uno stato oltremodo miserevole..." (p. 38). Se forse può sembrare non lecito dedurre che la filologia vada considerata ausiliaria dell'archeologia, è certo da escludere l'ipotesi contraria. In apparenza più esplicito, anche se in direzione opposta, sembrerebbe il secondo riferimento: "Spero che i giovani che vorranno addirsi allo studio dell'antica filologia non si priveranno del potente sussidio che lor fornisce l'archeologia...." (p. 43). L'impressione complessiva, tuttavia, è che il Salinas abbia chiara, pur senza esplicitarla (per la sua giovane età, per convenienze accademiche, per le insicurezze proprie di ogni pioniere?), la differenza di ambiti e la reciproca autonomia delle due discipline e che si limiti a mostrarne il vicendevolc ausilio. Ispirato, in questo più che mai, dalla situazione accademica tedesca, egli potrebbe essere considerato, come avremo occasione di vedere, una sorta di precursore di L. Savignoni. Salinas è già, a suo modo, un archeologo militante: ha esplorato Grecia e Turchia, ha scavato ad Atene, è venuto a contatto con una realtà composita di testimonianze del passato; è dunque inevitabile, pur nelYacerbo panorama accademico nazionale, il suo credo in una specificità di campo e di studi archeologici. A contentarsi di semplici accenni, è possibile rintracciare nella prolusione palermitana qualche altro utile spunto metodologico. Nessuna concessione, per es., è disposto il Salinas ad accordare al positivismo e agli spunti etnografici (che coinvolgano Messico, Egitto o Caucaso). E se dichiara di “considerare separatamente” la numismatica e la ‘paleografia lapidaria’, aggiunge però, subito dopo, che saranno sussidi per le sue lezioni anche ‘copie di monete' e centinaia di calchi personalmente eseguiti ad Atene “sui più importanti monumenti epigrafici ed alcuni plastici di quella capitale” (p. 42). È, se si vuole, una forma di impostazione del problema delle discipline di confine, ulteriore punctum dolens del dibattito accademico’. La posizione di fondo del Salinas, per altro buon cultore di studi numismatici, rimane, in ogni caso, quella di difendere l'autonomia, la specificità e la dignità accademica di una disciplina, l'archeologia, da altri (leggi Tedeschi)” già decretate. Una simile affermazione è ormai scontata al tempo in cui Giovanni Patroni (1869-1951)? legge, il 9 dicembre del 1898, la sua prolusione ad un corso libero tenuto presso l'Università di Napoli. Il titolo originario, modificato nell'edizione a stampa, è senz'altro esplicito: I progressi dell'archeologia in relazione con le scienze naturali e sociali. Personalità di formazione composita e di saldissima cultura, polemista nato (anche nei confronti di mostri sacri del calibro dell'Orsi?), con interessi che spaziavano dalla mitologia classica all'etnologia, G. Patroni fu professore di archeologia nelle Università di Pavia e Milano; coltivò tuttavia, sistematicamente, anche l'ambito preistorico, dando alle stampe un ponderoso manuale*. E proprio dalla prospettiva paletnologica verrebbe, secondo lui, la nuova orientazione della disciplina archeologica. La sua iniziale professione di “metodo critico e positivo”, è figlia della tradizione evoluzionistica anglosassone che con Darwin e Spencer aveva mutato radicalmente la prospettiva ‘teologica’ della storia dell'umanità, riportandola nell'alveo ben più vasto della storia della natura. Ed i collaterali interessi per i gradi del processo di sviluppo dei gruppi umani (da Lubbock a Morgan) avevano favorito l'affermarsi delle ricerche sociologiche che costituivano, per gli archeologi puri, l'approccio alternativo alle loro classificazioni tipologiche e al pittoresco peregrinare ed intrecciarsi di tali tipologie. Non c'è dubbio, d'altro canto, che proprio l'incremento delle ricerche preistoriche è risultato, insieme con lo storicismo di A. Riegl, il motivo determinante della crisi e del tramonto del modello winckelmanniano negli studi di storia dell'arte antica. Archeologia è stata finora «argomenta il Patroni - solo quella del mondo classico. Ma le nuove scoperte e il continuo ridelinearsi degli ambiti delle diverse discipline, hanno determinato reazioni a catena, paragonabili da un lato al distacco dei tanti rami dal loro albero, e dall'altro all'avvilupparsi dei superstiti a quelli degli alberi vicini. Uno dei risultati di una tale ridefinizione è consistito nella cessione alle scienze storico-filologiche, da parte dell'archeologia, delle due ‘vastissime provincie che avevano costituito, in un primo tempo, l'elemento portante della stessa disciplina, e cioè l'epi grafia e le antichità private e pubbliche. Fa sorridere che l'unico esempio addotto dal Patroni per dimostrare l'ineluttabilità del nuovo stato di cose riguardi proprio il suo maestro nell'ateneo napoletano, Giulio De Petra*, capace di riciclarsi da docente di epigrafia e antichità in genere a cultore di scultura e ceramica greca e preellenica (p. 224, n. 1). Era questi l'ultimo rappresentante di una vera 441

e propria ‘scuola’ di archeologi, cui sta stretta forse l'etichetta, affibbiatale da P. Treves, di “scavismo pompeianistico” come sinonimo di tecnica antiquaria legata all'operazione stessa dello scavo”. Ben più interessante è per noi l'inciso nel quale le scienze storico-filologiche vengono considerate ‘sussidiarie’ dell'archeologia, con la rivendicazione di un primato che pochi sarebbero stati allora disposti ad accettare. Ed il Patroni non era certo in grado di sospettare che la prospettiva ‘sussidiaria’, mutatis mutandis, avrebbe trovato nei nostri anni ‘70 illustri teorizzatori, i quali avrebbero sparso a piene mani ‘scienze sussidiarie dell'archeologia’ (dagli Istituti di ricerca del C.N.R. ai raggruppamenti concorsuali): alla malcelata idea del ‘prestigio’ accademico, che sola ispirava i sacri furor del Patroni, si sarebbero aggiunti interessi assai più concreti di spartizione di fondi e di controllo di cattedre. Rispetto ad epigrafia ed antichità, diverso appare il destino della numismatica, alla quale il Patroni sembra propenso a concedere quell'autonomia scientifica che S. Ambrosoli aveva qualche anno prima rivendicato, all'ombra del Gabinetto numismatico di Brera, in una sua prolusione presso la R. Academica Scientifico-letteraria di Milano (nel 1893)®, successiva al conseguimento di una libera docenza specifica (nel 1891). 1 distacchi dei rami ‘classici’ sono ampiamente compensati dalla paletnologia e dall'etnologia, la quale ultima consente di coinvolgere le istanze di tipo sociologico. “Così i confini del mondo classico sono oltrepassati nel tempo e nello spazio, ed il terreno perduto verso le scienze storico-filologiche e con la separazione della numismatica si riguadagna sopra le scienze naturali e sociali” (p. 225). 1l vero nucleo del problema è, dunque, quello delle ‘discipline contese’, che il Patroni intende sciogliere, con il suo tipico modo di procedere, tramite una serie di argomentazioni, così da permettergli di precisare finalmente i nuovi e genuini ambiti (il vero obbietto) della disciplina archeologica ed il suo fine specifico. Non è certo il caso di entrare nel merito di tali argomentazioni: quel che conta, nella nostra prospettiva, è l'affermazione in sé, piuttosto che la via usata per proporla. Un testo epigrafico è solo “il suo contenuto verbale”, dal momento che “si legge meglio sul calco cartaceo che sulla pietra” (p. 226): il suo interesse è, quindi, esclusivamente filologico, anche a volervi includere i dati di tipo paleografico. Sfugge in questo caso al Patroni, nonostante l'esplicita adesione al positivismo, proprio lo stretto legame fra il metodo epigrafico e l'indagine ‘positiva’, o addirittura il ruolo giocato dai corpora di iscrizioni per convogliare verso l'antichistica in genere e l'archeologia in particolare gli apporti del nuovo approccio ideologico e metodologico”. Le antichità, che per troppo tempo hanno costituito il surrogato dell'archeologia, si fondano quasi esclusivamente sull’interpretazione delle fonti, mentre si attendono dai monumenti reali solo isolate conferme; ma il loro fine ultimo rimane quello “di aumentare e rendere più precisa l'intelligenza della lingua e della letteratura" (p. 227). Sarà sempre il monumento o la scoperta archeologica, tuttavia, a dire l'ultima parola, pur rimanendo possibile, ma solo in ambito classico, un qualche reciproco aiuto fra antichità c archeologia. E comunque — il Patroni non ha dubbi — “non tanto l'archeologia serve alla filologia, quanto questa a quella" (p. 228). La soluzione, per lui discepolo che ha ormai preso le distanze dalla “scuola napoletana di classicisti e pompeianisti’, è a portata di mano: bisogna uscire dalla ‘prigione’ del mondo classico, “da quella specie di Vaticano che è stato . il mondo greco-latino” (p. 229); ed invece, ‘l'archeologo classico italiano disprezzò il paletnologo" (p. 233), il quale niente fece, a sua volta, per uscire dalla sua cittadella: non ci si era, dunque, resi conto che bisognava allargare proprio gli orizzonti classici. Va allora preso atto della profonda rivoluzione apportata, nonostante l'eterogenesi di fini, dagli scavi dello Schliemann ®, rassegnandosi però “ad abbandonare nella questione micenea la via dell'ellenismo a tutti i costi" (p. 231). A maggior ragione fuori dall'ambito greco e romano (“siamo in piena Asia barbara e preistorica”) si devono collocare le scoperte di Hissarlik, delle quali il Patroni si vanta di essere stato, nel 1893, testimone, quando era ormai W. Dorpfeld il responsabile degli scavi. Proprio i nuovi dati di Micene e di Troia hanno consentito la dilatazione degli orizzonti classici ed operato la netta distinzione fra ambito linguistico e letterario da un canto, e monumentale-archeologico dall'altro. Non si può dire che il giovane libero docente non abbia già idee precise; colpisce, tuttavia, quella specifica asserzione che ‘questione micenea' e mondo greco vadano senz'altro distinti. Eppure, il fine omerista G. Patroni non dovrà atten442

dere, in futuro, la decifrazione della lineare B, per affermare il contributo che alla cultura greca venne da quella ‘achea’, a sua volta indebitata verso un più antico e non meglio precisato (minoico?) orizzonte ‘mediterraneo’”.

Alla nuova linfa paletnologica, che resta per il Nostro la vera artefice del cambiamento spettiva, va aggiunta quella dell'archeologia cristiana (ed il riferimento occulto è all'opera Rossi), a conferma del fatto che la scienza archeologica italiana “fosse veramente gloriosa merita sì negli antecedenti come nei conseguenti del mondo classico” (p. 233). Compito dichiarato dell'archeologo deve essere, dunque, di "studiare e porre in relazione

di prodel De e benel'arte e

l'industria di tutti i popoli antichi" (p. 234). E proprio in questa prospettiva il Patroni era pronto ad

intraprendere ricerche in Etiopia, nel sito di Axum (dal momento che l'Orsi aveva declinato l'invito,

perché mal sopportava i climi caldi!): ma le condizioni politiche non lo consentiranno e bisognerà attendere gli anni dell’ Impero (nel 1939) perché vi lavori, ma per poco, S. Puglisi.

La definizione proposta per l'archeologia non può che essere di schietta derivazione positivistica: “quella scienza che studia i prodotti dell'attività manuale umana i quali rispondono immediatamente e direttamente ad un fine pratico o etico, per cercare in tali prodotti le leggi della evoluzione delle forme" (p. 235). Dove etico, come espressione di una scala di valori comune a gruppi umani più o meno vasti, è una concessione alle istanze sociologiche e le leggi della evoluzione sono la riproposizione di quanto i Tedeschi andavano proficuamente applicando anche allo studio dell'arte antica. Ma una specifica problematica artistica esula dagli interessi del Nostro: eppure, soltanto un anno dopo la

nostra prolusione, E. Loewy (che già insegnava a Roma dal 1889) darà alle stampe Die Naturwiedergabe, destinata ad influenzare generazioni di studiosi italiani. Che “la materia crea lo stile" (p. 239)

(alla stessa stregua della legge di Fisiologia della funzione che crea l'organo) era affermazione già canonizzata dal danese J. Lange”, e così pure la legge che, nel passaggio da un materiale impiegato ad un altro, si possano verificare attardamenti stilistici. Fine pratico o etico non hanno (e bisogna pertanto espungerli dall'ambito archeologico) né i documenti epigrafici, né quelli numismatici: sarebbero, questi ultimi, il "risultato di una convenzione economica"; ed infatti la natura intima della moneta non si rivela né nella figura né nella leggenda, ma nel valore (p. 235). E le variazioni di valori soggiacciono a leggi economiche, che niente hanno a che vedere con gli scopi dell'archeologia. La numismatica va dunque considerata disciplina specialistica, che ha oltrepassata la sua fase archeologica quando si limitava alla descrizione, trascurando il peso (p. 236). Ma già qualche decennio prima, come ? noto, Th. Mommsen aveva fatto della Geschichte des Rómischen Münzweses (1860), una storia economica, politica e giuridica a tutti gli effetti. E sorprende che un positivista quale il Patroni tenga completamente in non cale le indagini numismatiche a risvolto non tanto economico quanto sociologico, che a quella data avevano una discreta diffusione anche in Italia *. Devono essere le scienze naturali, per il nuovo archeologo, il punto di riferimento. Il lavoro e i prodotti del regno animale hanno il loro corrispondente in quello umano, la cui comprensione è il fine stesso dell'archeologia. E il fatto sociale come condizione della produzione e del progresso costituirà l'elemento catalizzatore dell'indagine archeologica, al punto che l'archeologia più che scienza, sarà Enciclopedia sociologica (p. 239). In questo grande ambito delle scienze sociali potrà esserci ‘un cantuccio' anche per la filologia, quel cantuccio nel quale si era invece cercato, finora, di relegare l'archeologia. Solo a questa spetterà l'altissimo compito di dare con una migliore nozione di quello che fummo, una più chiara percezione di quello che siamo, una più perfetta preparazione a ciò che saremo (p. 240): secondo il continuo e inevitabile dispiegarsi dell'evoluzione, del quale il Patroni è seguace ortodosso e coraggioso, tra i pochi allora inclini, in Italia, a considerazioni metodologiche. Una lodevole eccezione, in una relativa latitanza del dibattito teorico, si realizzò proprio in quell'ambito numismatico cui il Nostro aveva dedicato specifica attenzione. Conviene perciò, a questo punto, far cenno ad una terza prolusione, quella già citata di S. Ambrosoli, del 18937 In verità, interessi numismatici si erano da tempo concretati a Milano attorno al Gabinetto di Brera, al quale già dal 1850 era stata annessa una cattedra di Numismatica, quasi in concomitanza con la nomina a conservatore del linguista e poligrafo B. Biondelli ®: tale cattedra sarà passata nel 1859 alla R. Acca443

demia Scientifico-letteraria t ed assegnata, addirittura con l'etichetta di “Archeologia e Numismatica”, proprio al Biondelli ΤΙ fine dell'Ambrosoli, naturalmente Direttore del Gabinetto numismatico di Brera, è esplicit “vorrei che la Numismatica, in luogo di essere ancella (scilicet dell'archeologia), vivesse di vita propria, vorrei renderla indipendente, vorrei conquistare per questa Cenerentola il posto da eguale che, secondo me, le compete di pien diritto al banchetto delle scienze" (p. 22). Le argomentazioni, tuttavia, latitano ed il complesso di inferiorità è palese. Il Nostro sembra afflitto, piuttosto, dalla congerie di documenti disponibili, che gli suggerisce un accostamento con le scienze naturali (per una comune suddivisione quasi infinitesimale). Lo scopo della numismatica (cioe lo studio delle monete di tutti i tempi e di tutti i popoli, considerate sotto l'aspetto storico ed artistico) (p. 27) rimane semplice enunciazione: ed i tanti raccoglitori-dilettanti diventano la linfa che impedisce alla pianta della scienza di disseccarsi. Gli accenni finali sono da portatore di borracce: la numismatica va considerata "degna alleata dell'Archeologia, della Storia, dell'Economia politica, che a sommi cultori di tali severe discipline fornisce argomento di mirabili investigazioni, e che in mille altre guise può giovare alle scienze e alle arti” (p. 35).

A differenza di S. Ambrosoli, il suo ‘subalterno’ Serafino Ricci non nasce numismatico*. Laureatosi presso la R. Accademia Scientifico-letteraria di Milano, ma allievo della Scuola Archeologica di Roma nel 1892-94 (cioè un anno dopo il Savignoni ed insieme con Taramelli e De Sanctis), il Ricci coltivò inizialmente interessi epigrafici ed antiquari, probabilmente proprio nell'ambito della Scuola di Roma, presso la quale insegnava già F. Halbherr^; ed il roveretano, con la sua solita generosità, ebbe a passargli appunti, calchi e copie di epigrafi ateniesi e di varie isole dell'Egeo, aiutando l'allievo a trovare una prestigiosa sede per la pubblicazione . Delle tre conseguite dal Nostro, la libera docenza in Numismatica e Medaglistica fu, nel 1907, anche l'ultima (dopo quelle in Antichità ed Epi grafie classiche, ed in Archeologia). La sua scelta numismatica fu infatti, quasi certamente, determinata dalla circostanza che, entrato nei ruoli come Ispettore agli Scavi e ai Musei del Regno, fu assegnato, dopo una breve esperienza a Torino, proprio al Gabinetto numismatico di Brera (prima come conservatore e poi come direttore). Ed in favore della numismatica egli si batté anche presso I’ Università di Bologna (dove la professò dal 1928 al 1938), riuscendo ad ottenerle dignità di materia complementare nell'ambito delle discipline storiche. La prolusione che qui ci interessa, bibliograficamente ben informata, si riferisce ad un corso libero di archeologia, tenuto nell'anno 1900-1901 all'Università di Pavia“, nel momento in cui il Ricci veniva trasferito a Brera: per questo è la più adatta a documentare come i nuovi interessi del numismatico si innestino su quelli già collaudati dell'epigrafista e dell'archeologo. Si consideri inoltre che tale prolusione (come un'altra appena precedente dello stesso Ricci) è direttamente in polemica proprio con il Patroni, il quale viene ritenuto, insieme con il Gabrici, l'alfiere dell'indirizzo economico negli studi italiani sulla monetazione antica. La necessità di individuare una adeguata collocazione alle ricerche numismatiche è evidente già dal titolo (La Numismatica e le scienze archeologiche ed economiche. Ricerche e confronti), quasi a commento delle varie tendenze proposte al Congresso Internazionale tenutosi lo stesso anno a Parigi (Congresso, le cui comunicazioni il Ricci conosce ancora a livello di Compte Rendu Sommaires). Esplicita è la convinzione dei basilari rapporti fra l'archeologia dell'arte e la numismatica classica, nonostante non si intenda disconoscere il valore, accanto all'indirizzo di studi storico-artistici, di quello metrologico ed economico: ‘la numismatica non si deve togliere completamente dalle discipline archeologiche, come non si deve toglierla completamente dalle discipline economiche perché essa tiene e delle une e delle altre" (p. 409). Ma la dichiarata preoccupazione del Ricci è che prenda corpo, a completamento di quella del Patroni, la proposta del Gabrici* di cedere la numismatica alla economia politica, come l'organismo scientifico più atto ad accoglierla (p. 410). Il Nostro si rende conto di avere a che fare con una disciplina di ‘confine’, che rischia di essere “a tutte debitrice di qualche sua parte”; l'autonomia diventa allora una scelta obbligata, anche perché in grado di assicurare, sola, ‘l'autenticità dei monumenti”. La conclusione è anche l'ultima, civile, stoccata per il Patroni, reo “secondo il Ricci ~ di considerare "la moneta come era e valeva quando uscì dalla zecca corrispettiva, non quella che noi ora vediamo, ... per la quale facciamo di solito astrazione del valore intrinseco che 444

aveva al suo tempo, per badare al valore storico che assume..." (p. 415). La moneta, dunque, è oggetto specialmente, esclusivamente archeologico, il solo, in qualche caso, in grado di consentire la determinazione cronologica del monumento che la conteneva. Autonomia sui generis, insomma, propria delle discipline di ‘confine’, con una collocazione fra le scienze storico-archeologiche. Anteriormente alla prolusione del Ricci, sempre per quanto attiene alla numismatica, è il caso di ricordare la presa di posizione di L. A. Milani *, direttore del Museo di Firenze e professore di archeologia in quell'Istituto di Studi Superiori. La serie di Studi e Materiali di Archeologia e Numismatica da lui pubblicata (e arrestatasi al IV volume) riconosceva già dal titolo l'autonomia della numismatica, autonomia sommariamente argomentata (e al tempo stesso limitata!) nella prefazione al I volume: Il campo di studio abbraccia tutte le discipline dell"Archeologia"; e la “Numismatica”, che per molte ragioni ho creduto di aggiungere nel titolo, sarà trattata tanto quale scienza a sé, quanto, e principalmente, dal punto di vista delle ricerche archeologiche, storiche e cronologiche *. Non si dimentichi, infine, che nel 1901 apparve anche il primo volume del famoso trattato del Babelon sulla monetazione greca e romana consacrato alla “Teoria e Dottrina"*'; e già qualche anno prima il prestigioso autore aveva considerato la numismatica come “una delle basi fondamentali” dell'archeologia, riconoscendole tuttavia valore primario anche per lo studio dei sistemi economici. La digressione numismatica, giustificata dal fatto che prendeva le mosse proprio dalla prolusione del Patroni, chiarisce indirettamente i termini del dibattito in ambito c.d. archeologico. Proprio una disciplina di confine, nel modo di vedere del Ricci, riesce di grande aiuto per proporre collegamenti e saldature fra le varie branche dell'ambito storico-archeologico. Ed è significativo che un problema di identità si ponga, fra le discipline di confine, soltanto per la numismatica; la provocazione del Patroni avverso l'epigrafia urtava infatti contro una consolidata tradizione che proprio in Italia si era guadagnata grande rispetto grazie all'opera di figure come B. Borghesi o F. Cavedoni ?. La prospettiva del Savignoni, nella sua prolusione messinese**, rappresenta un preciso contraltare tanto al positivismo ortodosso e al sociologismo (di stampo preistorico) del Patroni, quanto all'orgoglioso ma sterile indipendentismo del numismatico Ambrosoli; ed ha, semmai, un qualche riferimento nella visione più storica del Ricci, al quale lo accomunava, d'altro canto, l'esperienza dei M. stri alla Scuola Archeologica di Roma. La nuova proposta, aliena da specifiche adesioni metodologi che, tende ad una ricostruzione globale del passato, ed affonda piuttosto le radici, come vedremo, nella empiria di un archeologo militante. In compenso, il passato torna ad essere soltanto quello del mondo classico. Nell'introduzione, il novello cattedratico vola decisamente alto. L'archeologia, cioè la scienza che ha per soggetto lo studio dei monumenti antichi, non è più erudizione antiquaria, ma ha ormai piena dignità accademica fra le scienze storiche; ed è “storia essa stessa, in quanto si occupa delle cose, che a quei popoli appartennero o che comunque ebbero con essi relazione, e le esamina e tratta metodicamente, storicamente” (p. 5). L'epigrafia, almeno per la materia e pel carattere monumentale, entra di diritto nel dominio dell'archeologia. Le fonti antiche che consentono la ritessitura della storia politica, o quelle più propriamente ‘filologiche’, utili soprattutto per la ricostruzione di letteratura e filosofia, formano l'oggetto di discipline che, come l'archeologia, hanno metodo proprio e principi ben definiti. Ma questi diversi ambiti di studio non possono ignorarsi l'un l'altro, se si vuole tendere ad una ricostruzione integrale del passato. L'immagine evocata è didatticamente assai felice: “Così è che storia, filologia, archeologia, come tre sorelle si tengono per mano e procedono insieme per la stessa via; me l'una può andare disgiunta dall'altra, e tutte e tre insieme cooperano, e tendono insieme alla medesima meta, a comporre cioè il grande quadro, che ci offra la visione completa del mondo antico” (p. 6). Siamo alla sconfessione delle gelosie e dei potentati accademici; siamo di fronte ad un'esplicita proposta di approccio multidisciplinare (se non interdisciplinare), del tipo ancor oggi costantemente invocato e molto di rado applicato. La prospettiva proposta dal Savignoni cra già stata codificata dalla Scienza tedesca; e gli apporti più originali erano venuti, non è un caso, dagli archeologi militanti. A. Conze, fondatore della Scuola viennese, aveva addirittura identificato come ambito specifico della vera e propria archeologia

classica l'area di intersezione fra le ricerche filologiche e quelle puramente di storia dell'arte**. Sarà 445

questo, negli anni successivi, il punto di non ritorno anche per I’ Accademia italiana, all'interno della quale le riflessioni di G. E. Rizzo" rappresenteranno una delle espressioni più elaborate e consapevoli. Nella prolusione al suo corso del 1911 presso l'Università di Torino, egli si troverà ad affermare che tanto più efficace risulterà l'insegnamento archeologico, quanto più in sinfonia sarà con le altre discipline filologiche e storiche”. Ed è appena il caso di ricordare che anche nel campo specificamente storico-artistico (che è per il Rizzo la parte precipua della nostra disciplina) i Prolegomeni al suo Manuale costituiranno per parecchio tempo, in Italia, una proposta esemplare. Ma torniamo alla prolusione messinese*. Lo svolgimento vero e proprio del tema (importanza e materia dell'archeologia), pur non attingendo la modernità della proposta iniziale, contiene anch'esso qualche spunto interessante, dal quale trapela I’ ambiente di formazione del Savignoni e le sue molteplici esperienze in Grecia e a Creta. È in lui assai chiara la svolta propiziata, nella scienza archeo-

logica, dalle scoperte di E. Schliemann ("ierofante fanatico e fortunato dell'archeologia”); altrettanto evidenti gli risultano le conseguenze delle ricerche italiane ed inglesi a Creta: i risultati di queste imprese rappresentano i primi capitoli della storia del popolo greco, che non sarebbero stati scritti senza l'ausilio dell'archeologia. La civiltà ellenica è, con buona pace del Patroni, erede diretta della mice nea, ed anzi le tavolette scoperte nei palazzi cretesi rendono impossibile (e sappiamo invece che è possibile!) il risorgere di una questione omerica per quello che riguarda la scrittura dell'Iliade e dell'Odissea (p. 8) Decisamente vaghi sono, al confronto, gli accenni del Savignoni ai periodi più antichi della storia d'Italia, per i quali egli considera determinanti le ricerche del Pigorini (suo “venerato maestro)? e dell'Orsi*: e con salomonico eclettismo contamina le loro affermazioni, riproponendo una doppia corrente civilizzatrice: quella che scende dal nord per via di terra e l'altra che viene dall'Oriente per le vie del mare. Ma bisognerà attendere la fondazione delle colonie perché nel bel giardino d'Italia sboccino i primi fiori dell'arte (p. 13). Tra un'affermazione e l'altra, il Nostro propone indirettamente una sua graduatoria di merito per i musei italiani più prestigiosi, con omissioni significative: libri aperti, dove possiamo leggere molta parte del nostro passato sono il Museo preistorico di Roma, l'Etrusco di Firenze, il Civico di Bologna, l'Archeologico di Siracusa, affidati a dotti laboriosi ed onesti (p. 14) (leggi L. Pigorini, L. A. Milani, E. Brizio, P. Orsi); manca il Museo di Napoli, presso il quale pure Savignoni aveva lavorato da ispettore (allora affidato a G. De Petra, che proprio in quel lasso di tempo era stato costretto a dimettersi *); manca il Museo di Palermo, onore e vanto dell’ autorevole collega siciliano A. Salinas, che lo aveva inaugurato diversi anni prima ©. Gli esempi delle nuove scoperte in Grecia sono numerosi ed esposti in maniera piana, con qualche paragone accattivante, come quello sugli Asklepieia di Epidauro e di Lebena, definiti “il Montecatini e l'Aix-les-Bains della antichità”. Ma la retorica, in una prolusione d'ordinariato, era quasi inevitabile: Roma, regina del mondo, Roma immortale! Quante memorie, quanta storia in questo solo nome! (p. 17). L'elemento indigeno latino viene rivitalizzato dall'apporto greco, sia direttamente che tramite I'Etruria; e del miracolo di Roma l'espressione in assoluto più completa viene da un campo di scavo: quello di Pompei, grazie alla particolare natura della catastrofe che la distrusse. Nell'ultima parte della prolusione, dedicata alla materia precisa dell'archeologia, la prospettiva torna ad essere metodologicamente significativa. "Tutto è argomento di studio, tutto quello che in qualsiasi modo faceva parte del mondo antico, così le più sublimi creazioni del genio artistico, come le più umili cose che ci rimangono” (p. 18), anche quei cocci che il volgo disprezza: come a dire che la distinzione fra Archdologie des Spütens e Kunstarchüologie, tanto cara alla scienza tedesca, non ha motivo di esistere. Stabilito che tutto va studiato e catalogato perché fonte di conoscenza, il Savignoni non puo che concludere, nel suo solito ed efficace tono didascalico, con il riferimento allo spirito artistico degli antichi ed ai monumenti che meglio lo rappresentano, quelli dell'arte vera e propria, della grande arte, i quali sono infine l'obbietto più bello e giocondo dell'archeologia (p. 23). Ed affiora, qua e là, una certa idealizzazione: gli antichi “non si appagavano che l'oggetto rispondesse semplicemente allo scopo materiale, cui era destinato, ma volevano altresì che avesse in pari tempo una forma aggradevole alla vista,

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una forma artistica" (p. 20). E nell'arte si rispecchia anche l'anima della nazione, come dimostrano le diverse espressioni artistiche di Greci, Etruschi e Romani.

Il positivismo di Patroni non lo sfiora. Non esiste un problema di condizionamento di materia sulla forma, anche se in campo artistico non si può negare un susseguirsi di stadi di sviluppo, fino alla decadenza: la materia 2 mezzo dell'arte, tanto da averla docile e fedele interprete del pensiero (pp. 25-26) Le ultime pagine sono anche le meno significative, con una miscela di motivi di stampo winckelmanniano e di istanze nazionalistiche. Frasi come “per quello squisito sentimento del bello, che è una qualità innata della razza, è appunto il bello il fine supremo e nobilissimo dell'arte dei Greci” (p. 27), non abbisognano di chiose”. Parimenti inequivocabile, per noi Italiani, è l'affermazione che "nell'arte, in questo frutto bellissimo che si maturò sul ceppo italico innestato col succo gentile della pianta ellenica, noi ritroviamo non solo la nostra gloria ed il nostro primato, ma ancora la unione e la comunanza degli spiriti italiani" (p. 30). Posto in maniera più storica, rispetto al corrispondente accenno del Patroni, appare infine il problema del rapporto fra presente e passato, dal momento che non solo è scomparso qualsiasi riferimento ad un . investimento per il futuro, ma che il discorso è posto in termini di migliore intelligenza o comprensione: “sopprimete l'antico, spezzate l'anello che unisce a quello il mondo presente, e questo voi non comprenderete più per intero” (p. 29). La modernità della posizione del Savignoni sul problema del rapporto reciproco fra le varie scienze storiche merita, a conclusione, qualche scolio. La sua formazione accademica e le sue prime esperienze di esploratore e di archeologo militante ne forniscono, a mio avviso, la migliore chiave di Jettura. Terminati gli studi nell'atenco romano (dove ebbe come docenti L. Pigorini, F. Halbherr, E. Loewy, R. Lanciani, E. De Ruggiero), il Nostro fu allievo, dal 1890, della Scuola Archeologica attiva presso la stessa Università, assieme a L. Mariani e a G. Patroni in tale veste compì il terzo anno di corso, come previsto dallo statuto, in Grecia (nel 1893). Sulla sola base della bibliografia sono pochi gli elementi per valutare il suo rapporto culturale e scientifico con L. Pigorini, che pure abbiamo già sentito definire ‘adorato Maestro’ nella prolusione, ed in onore del quale il Savignoni pronunciò, nel 1914, un generico discorso d'occasione’. L'unico dato di rilievo appare l'affidamento al Nostro degli scavi di Norba, che interessavano al Pigorini soprattutto per le implicazioni etniche collegate all'esistenza della monumentale cinta muraria, allora considerata ‘ciclopica’ o ‘pelasgica’. Assai più significativo e foriero di conseguenze fu invece il sodalizio con F. Halbherr, che gli procacciò le attività di ricerca e di scavo nell'isola di Creta. Compiuto l'anno di alunnato in Grecia nel 1893, il Savignoni fu cooptato nelle ricerche cretesi e divenne, nel breve periodo, uno dei più apprezzati cultori, in Italia, di quelle ‘cose Cretine’, sulle quali si esercitava la gratuita acrimonia del Pais, rintuzzata da un altro pioniere delle nostre ricerche nell'isola, G. De Sanctis”. Già in occasione della prima venuta a Creta, nel 1896, il Savignoni si vide affidare da J. Chatzidakis, allora presidente del Filekpedeftikòs Syllogos di Candia, l'incarico della compilazione di un catalogo di quelle raccolte archeologiche che rappresentarono l'embrione del Museo di Iraklion. Con la costituzione, nel 1899, della Missione archeologica italiana di Creta, il Nostro fu chiamato dallo Halbherr a farne parte, lavorando subito a Gortyna (e li si trovava nel febbraio del 1900, come risulta dal nostro doc. n. 3) e compiendo un faticoso giro di esplorazione nelle province occidentali dell'isola, in compagnia di G. De Sanctis". Specifica menzione, in quest'ambito geografico, meritano le ricerche ad Axòs condotte dallo stesso De Sanctis, che rinunciò allo studio dei materiali. E proprio al Savignoni, considerato dal responsabile della Missione il più... ‘archeologo’ fra i protagonisti di quel primo ciclo di lavori", fu assegnato sia lo studio delle terrecotte che quello delle mitre in bronzo, purtroppo mai portati a termine”, come risulta dal doc. 4 in Appendice. E dei tre vasi in steatite TM I con decorazione a rilievo da H. Triada, parimenti affidatigli dallo Halbherr, soltanto quello c.d. dei mietitori (o, per lui, dei guerrieri) vide la luce”*. Ormai del 1902, quando Savignoni era già professore a Messina, è l'esperienza nelle necropoli TM ΠῚ di Kalivia e Liliana, sulle alture a Nord di Festòs”, impresa per la quale era scoppiato un piccolo incidente diplomatico con le Autorità cretesi del Museo di Iraklion, dal momento che l'ispettore S. Xanthoudidis, iniziando lo scavo di quei complessi, aveva violato il diritto di concessione assegnato agli Italiani per l'intera Messarà”.

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Questi scarni richiami alla biografia e alla bibliografia del primo Savignoni (e soprattutto alle esperienze cretesi) sembrano sufficienti a rendere ragione del suo modo di intendere materia e fini dell'archeologia, quali abbiamo constatato nella prolusione messinese. Il capo Missione e suo professore” a Roma, F. Halbherr, è un filologo-epigrafista, trasformatosi, per necessità di cose, in archeologo militante già dal 1885, quando aveva dovuto scavare all’ Antro Ideo. Ed il giovane Federico, a sua volta, aveva da sempre imparato, tramite D. Comparetti, che filologia classica ed archeologia erano destinate, per lucrare reciproci vantaggi, a tenersi costantemente d'occhio”. Il problema, in questo caso, era quello di superare il gradino puramente tematico e di tendere ad una comprensione il più possibile estesa del mondo antico”: la stessa prospettiva, se si vuole, degli studi filologico letterario-iconografici del mancato ordinario messinese T. Tosi. I cenni iniziali su di lui, dunque, trascendono la curiosità ‘locale’ e sono anzi espressione delle tendenze metodologiche meno caduche dell'antichistica italiana (quella aliena dalle ricerche sul campo), già dagli anni della prolusione siciliana del Savignoni. Il compagno di esplorazioni del Nostro nella Creta occidentale è, non si dimentichi, uno storico (G. De Sanctis), ma anche scavatore del tempio di Afrodite ad Axds. E se il sito di H. Triada restituisce quegli splendidi vasi di steatite a rilievo, è necessario che il Savignoni si cimenti con l'iconografia minoica®, coinvolgendo religiosità e costumi di popoli antichi e moderni, senza per questo fare professione di sociologismo; le fonti letterarie (da Omero in giù) costituiranno, nella fattispecie, il termine di paragone costante, mentre le osservazioni stilistiche sul rendimento dei corpi o sul reali-

smo della rappresentazione saranno un modo per reinterpretare la lezione artistica di E. Loewy"! Ed infine, se fra i materiali delle raccolte del Syllogos c'è qualche bel pezzo di scultura, si possono anche battere ex professo i rarcfatti sentieri della “archeologia dell'arte”. In quel contesto ‘militante’ cretese, che più di tutti segnò nel Savignoni gli anni anteriori alla prolusione siciliana, certi steccati disciplinari erano quasi inconcepibili, ed un approccio globale alla ricostruzione storica del passato diventava l'unico possibile. Non sarà certo un caso che non molto dopo, rispondendo ai suoi detrattori, G. De Sanctis si farà a sua volta paladino della necessità che storia, archeologia e filologia si sostengano a vicenda: quando si cerca di scrivere storia senza studiare a fondo monumenti e documenti, non si scrivono che romanzi**. Era per la scienza italiana, ancora una volta, la grande, empirica, lezione delle Antichità cretesi. APPENDICE Documenton. 1

Lettera di G. Funaioli a D. Comparetti (Firenze, 25 maggio 1920) Illustre Sig. Senatore, Secondo il desiderio da Lei or ora espressomi, m'affretto a comunicarLe alcuni dati sull'attività didattica del Tosi. Egli fu chiamato a coprire in qualità d'incaricato la cattedra di Archeologia nella nostra Facoltà letteraria di Messina nell’ anno accademico 1915-16, e l'anno appresso 1916-17, ritiratosi a riposo il Michelangeli, ebbe anche l'insegnamento del greco; e come professore delle due materie classiche, ha svolto argomenti complessi e vasti, con speciale riguardo alla scultura e alla poesia del periodo antico ed aureo degli Elleni e al mito ispiratore d'arte e di poesia. Egli si è soffermato, per esempio, sul mito d'Ifigenia e sopra i suoi riflessi nell'arte e nella letteratura, E questo felice connubio di conoscenza e d'intelligenza del fenomeno artistico e letterario è la nota caratteristica dell'operosità didattica, del pari che scientifica, del Tosi; è la qualità che più è stata messa in rilievo dalla Facoltà di Messina nel proporre il Tosi stesso per l'art. 24, Tutti i lavori di lui portano, se non erriamo, codesta impronta, e più di tutti l'ultimo dal titolo di Studi archeologici e letterari sull'liupersis. Ma anche lavori di pura archeologia possiede il Tosi; e basterebbe per tutti il catalogo del Museo Etrusco di Firenze, compiuto fra il 1909-1913 per incarico del compianto prof. Milani e dal Milani molto lodato. Cosicché noi crediamo di aver fatto opera giusta e meritoria a chiedere che l'insegnamento dell'arte antica sia affidato in maniera definitiva, e non più a titolo precario, ad un uomo che nell'agone scientifico e nella scuola ha dato prove non dubbie del suo valore. 448

o La ringrazio, illustre Sig. Senatore, dell'appoggio ch'Ella si compiace di dare a noi coll'autorità del Suo nome. E voglia accogliere i sensi dell'ossequio più profondo e della più alta ammirazione. Di Lei Devot.mo obbligat.mo Gino Funaioli Documento n. 2

Minuta della lettera di D. Comparetti al Preside della Facoltà di Lettere dell Università di Messina (Firenze, 26 maggio 1920) Gent.mo Sig. Preside, Richiesto dal prof. Funaioli a nome della Facoltà da VS. presieduta vengo a dirle il mio parere circa il prof. T. Tosi Le molteplici e luminose prove che questi coi suoi lavori scientifici ha dato e che sta (?) dando tuttora del suo valore come archeologo assicurano ch'egli possiede tutte le qualità d'ingegno dottrina e perizia che si ri chiedono per l'alto e scientifico insegnamento dell'archeologia nelle università. Fra i cultori di questi studi nel nostro paese egli si distingue perla sua profonda conoscenza delle lingue e lettere classiche che si manifesta in tuttii suoi lavori e di cui ha dato più diretta prova reggendo egregiamente la cattedra di greco in cotesta Università di Messina. Per questa dote ci mostra di essere della scuola de! mio discepolo il compianto prof. Milani di cui fu assiduo collaboratore c da cui come pur da me che fui sempre informato dei suoi studi e lavori fu altamente stimato. Se dunque la Facoltà di Lettere di cotesta Università fa voti perché ei sia senz'altra prova nominato professore ordinario di archeologia, io non posso che plaudire a questo suo divisamento ed aggiungere il mio voto al suo, ben sicuro che sarà questo un egregio acquisto per quell'is Ossequi cordiali dal Suo dev.mo D. Comparetti

all'Illimo sig. Preside della Facoltà di Lettere dell'Università di Messina Documento n. 3

Dalla lettera di F. Halbherra D. Comparetti (Santi Dieci di Creta, 14 febbraio 1900): Ho piantato ai Santi Dieci una piccola stazione, mandando da Candia due letti da campo due tavole e quattro sedie. Temo però che il settembre si dovrà sospendere il lavoro per causa delle febbri e non si potrà riprendere che dopo le pioggie. Intanto si potrà fare la campagna di Axds e Prinia. Ciò sempre nella supposizione che la salute ci assista, perché sentiamo molto lo strapazzo, specialmente ora che dopo anni di anarchia il paese è immiserito e demoralizzato e non si trova nel più delle provincie assolutamente nulla altro che la più sordida sporcizia. ..I Francesi scaveranno a Gulas (n.d.r. Latò) e il signor Demargne è già all'opera coi primi saggi. Là però non essendoci campi coltivati non ci sono le difficoltà di Gortyna. Gli Inglesi verranno nell'inverno entrante. Hanno un piano grandioso e mettono insieme un fondi di £ 5000. Evidentemente nessuno potrà competere con essi. Con gli omaggi miei e di Savignoni, sono Suo dev.mo Federico Halbherr Documento n. 4 Dalla lettera di F. Halbherr a D. Comparetti (Roma, 25 marzo 1918): ‘La morte del Savignoni è stata anche per me un colpo che ha aggravato lo stato di prostrazione nervosa in cui mi trovo per stanchezza e per altre ragioni... La morte del povero Savignoni ha recato anche un grave danno alle pubblicazioni della Missione. Il defunto era incaricato degli articoli più strettamente archeologici della Missione e da diciott’anni stava elaborando 1° Le

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terrecotte del tempio di Axds, 2° Le mitre arcaiche di bronzo di Αχὸς ed Eleutherna, 3° I vasi di steatite di H. Triada con rappresentanza figurata. Quest'ultimo lavoro mi diceva l'autore di averlo quasi pronto. Egli teneva inoltre tutte le tavole eseguite dallo Stefani per i due ultimi articoli. Ora bisognerebbe poter avere tutto il materiale di manoscritti, di schede e di disegni per ultimarlo e pubblicarlo in suo nome. Ma il cavarlo dalle mani di una famiglia di quella mentalità, quali sono i superstiti del nostro amico, non sarà, o almeno non sarebbe per me, agevole cosa. Costoro mi riguardano, e lo vanno dicendo, come autore della morte del professore, perché, secondo essi dicono, è per cagione mia che egli è venuto a professare a Firenze - come se soltanto a Firenze si dovesse morire! I soli che potranno forse ottenere il ricupero di quel materiale saranno il Pigorini e il Pernier*. Suo dev.mo Federico Halbherr NOTE

Ὁ Commemorazione di largo respiro: L. Pese, Luigi Savignoni e la sua opera scientifica, in A & R XXI, 1918, pp. 115-130 (con bibliografia dello scomparso); vedi anche L. Peri, in BA XII, 1918, 9-12, pp. 39-40; L. Picogna, in RAL XXVII, 1918, p. 10. * Conservate (in originale ο in copia) presso la Scuola Archeologica Italiana di Atene, cui Direttore prof. A. Di Vita vivamente ringrazio per avermene concesso la pubblicazione. Ὁ Elficace profilo in P. Taevrs, Lo studio dell'antichità classica nell'Ottocento, Milano-Napoli 1962, pp. 1051-1063. Biblio grafia su di lui G. Sawnt, Epigrafía e storia antica nel Mediterraneo: il “caso” italiano, in V. La Rosa (ed), L'archeologia italiana nel Mediterraneo fino alla seconda guerra mondiale, Catania 1986,p. 215, nota 64. * Su di lui A. Tita, L'opera di Gino Funaioli, in A ὦ R, 1959, pp. 26:30. + T. Tost, Nuove rappresentanze dell'liupersis, in Studi e Materiali di Archeologia. e Numismatica YI, 1905, pp. 159-181; Rappresentanze ἀεὶ sacrfiio d'fgenia, ivi IV, 1912, pp. 1-36; I, Scene dell'iupersis nell'arte vascolare e nella poesia epica, ivi V, 1912, pp. 39-74. 1 Tosi risulia citato (insieme con il suo maestro), fra gli studiosi che si sono interessati “alla mitologia figurata, alla reli gione, ai cult, al contenuto sacrale e simbolico delle opere d'arte antica" in G. GiaRDnI, L'archeologia del primo cinquantennio della nuova Ialia, Roma 1912, p.48 * L.A. Mua, IIR. Museo Archeologico di Firenze, Firenze 1912. Ὁ T. Tost, Monumenti elbani dell'età di Adriano, in SE IV, 1930, pp. 189-190. Proprio dell'isola d'Elba era originario il Tosi ef. prefazione citata infra alla nota 8, p. VD. * Vedi T. Tost, Scritti d filologia e di archeologia (ed. N. Terzacm), Firenze 1957 (Pubbl. Fac. Magistero Univ. Firenze, 7); prefazione alle pp. V-XXXIII (consultata in copia grazie alla cortesia del dott. M..Iozzo). * Ibid, p. XXVI (e in genere, per specifiche notizie sul Tosi, pp. XXVI-XXXII) Tito Tosi: Porto Longone (isola d'Elba), agosto 1876 - Apiro (MC), marzo 1945. Normalista (e filologo) a Pisa, si fece successivamente coinvolgere da interessi di tipo archeologico al tempo del corso di perfezionamento presso istituto di Studi Superiori di Firenze. ? Ibid. p. XXXII 7? Cfr R. Buncw Βανρινειῃι, Introduzione all'archeologia classica come storia dell'arte antica, Roma-Bari 1981, p. XVI. ? P. Teves, Lo studio dell'antichità classica, cit p. XXXIV. © Parzialmente riprodotta ibid., pp. 968-992 (special. pp. 989.992). * Sulla figura di E. Ferra, vedi ibid., pp. 953-965. © Per il caso dell'Università di Catania, vedi V. La Rosa, Paolo Orsi: una storia accademica, in ArchStorSicOr LXXIV, 1978, pp. 468-469. Ad una cattedra di Lingua, letteratura c archeologia greca nella stessa Università aspirav tà dell’ 800, il militllese V. Natale, personaggio di un qualche merito nella storia dell'antchistica isolana; per esso vedi V. La. Rosa, ‘Archaiologhia'e storiografia: quale Siciia?, in La Sicilia (coll. Le Regioni d'Italia dall'Unità ad oggi), Torino 1987, pp. 710-712. Dati essenziali in M. WeoxsR, Brunn Heinrich, sv., in ECO II, 1959, pp. 190-191; vedi anche Io, in Altertumskunde, Freiburg 1951, pp. 248.254 ? Efficace sintesi sulle problematiche della ‘archeologia filologica in Buavcit BaxwiweLLI, Introduzione all'archeologia classica, cit, pp. 29-49. ! Letta il 12 dicembre del 1865: A. Saunas, Dell sato attuale degli studi archeologici in Italiae del loro avvenire, in Rivista Nazionale, 1, 1866, pp. 195-212; ripubblicata in A. Sauusas, Scritti scelti (ed. V. Tusa), Palermo 1976, pp. 27-45. Sulla possibile collocazione di questo studioso nell ambito di una riflessione storica riguardo alla interpretazione del passato nella cultura siciliana, V. La Rosa, ‘Archaiologhia'e storiografia, cit, pp. 714-716 (con riferimento, seppure in altra ottica, alla citata prolusione). Sullantiquaria siciliana dello 800, vedi G. Saruerx, L'antiguaria italiana dell'800e la sua variante siciliana, in Sicilia romana, Catania 1992, pp. 61-96 (passim). ν᾽ Già sottolineata, per il Salinas, nella commemorazione fattane da G. Columba (Antonino Salinas, in Annuario R. Univ. Palermo, 1915, spec. pp. 10-11) ? Per restare sempre in ambito di prolusioni accademiche, è interessante ἢ confronto con la situazione della scienza archeologica tedesca negli ultimi anni della seconda guerra mondiale prospettata da R. Bianchi Bandinelli all'atto della sua ri 450

presa di servizio a Firenze, nel 1944: vedi R. Buwcin Bisnmsgzus, A che serve la storia dell'arte antica?, in Archeologia e cultura, Milano-Napoli 1961, pp. 98-104. * Notizie bio-bibliografiche: G. O. Gicuou, in ArchClass III, 1951, pp. 488-489; P. Fauccaro, in SE XXI, 1950-51, pp. 498-500; breve nota di A. Press, in RendlstLomb LXXXIV, 1951, pp. 101-102. © G, Parnont, Di una nuova orientazione dell'archeologia nel più recente movimento scientifico, in RAL VIII, 1899, pp. 221-240. Una posizione assai simile è sostenuta in uno scritto di poco posteriore, L'insegnamento dell'archeologia e la sua misSione pratica in Italia, Firenze 1904 (citato in D. ManacorDa, Cento anni di ricerche archeologiche italiane: il dibattito sul metodo, in QdS 16, 1982, p. 89). ? V. La Rosa, La preistoria della Sicilia da Paolo Orsi a Luigi Bernabò Brea, in Atti del Convegno P. Orsi e l'archeologia del ‘900 (AnnMusRov, suppl. vol. VI, 1990), 1991, pp. 56-58; I, "Prima Sicilia’: per una storia degli studi, in Prima Sicilia (Alle origini della Società Siciliana), Palermo 1997, pp. 9-19. * G. Paro, La preistoria (Storia politica d'Italia), Milano 1937. » Lucida enunciazione in R. Binet BaxpixeLLI, Introduzione all'archeologia classica, cit, p. XVII. & Ricordato in V. La Rosa, Paolo Orsi: una storia accademica, cit, p. 482, nota 72. 7 P. Taeves, Lo studio dell'antichità classica, cit. p. XXXVI. 5 La stessa prospettiva risulta del resto applicata, in ambito filologico e a discapito dell'archeologia, fino in anni assai re centi: una disciplina ausiliaria (assieme a numismatica, geografia storica, papirologia, epigrafia, paleografia) è infatti consi derata l'archeologia nel ponderoso manuale della casa editrice Marzorati, Introduzione allo studio della cultura classica, 3 voll, Milano 1988-89. 7 Cfr. V. LaRosa, Paolo Orsi: una storia accademica, cit, p. 491, nota 124. » Cr.V. Bracco, L'archeologia classica nella cultura occidentale, Roma 1979, p. 207. » Clr. G. ParroN,, La preistoria, cit, p. 8 ? Su di lui, per es, A. Giuttano, in ECO VII, 1966, p. 107; V. Bracco, L'archeologia classica, cit. pp. 202-204; H. G. Nisever, Heinrich Schliemann, Gedanken zum 100, Todestag eines Weghereiters der modernen Archologie, in HBA 15-17, 1988-90, pp. 9-16; G. S. Konats, Heinrich Schliemann. Ein Leben für die Wissenschaft. Beitrüge zur Biographie, Berlin 1990. * Una siffatta opinione è alla base degli Appunti di filosofia e di diritto omerici, apparsi in 9 puntate sui RendIstLomb (1930 -1931 e dal 1940 al 1948). Indicativa è anche la raccolta di scritti Commenti mediterranei all'Odissea di Omero, Milano 1950. * Bibliografia in G. Satueni, Epigrafia e storia antica, εἷς, p. 206. * Vedi V. La Rosa, Archeologia e Imperialismo, in E. Senna e C. Sero-Warson (edd,), Italia e Inghilterra nell'età dell'Imperialismo, Milano 1990, p. 233; vedi anche le toccanti note autobiografiche di S. Pucuis, I sentiero degli scarabei, Palermo 1987,pp. 40-48. 3E, Loew, Die Naturwiedergabe in der lteren griechischen Kunst, Rom 1900. 7 J. Lance (Vordingberg 1838-Copenbagen 1896 ?). Autore, fra l'altro, di Darstellungdes Menschen in der dlteren griechischen Kunst, Strassburg 1899 (pubblicata originariamente in danese, in due puntate, negli Abhandlungen dell'Accademia di Copenhagen del 1892 c del 1898) e di Die menschliche Gestalt in der Geschichte der Kunst, Strassburg 1903. ed economiche, in RI N XIII, 1900, p. 403. 3 Chr: 5. Ricci,La numismatica ele scienze archeologiche » S, AunsosoLi, Della numismatica come scienza autonoma, in RIN VI, 1893, pp. 21-35. ^ B. Texnacmi, Biondelli Bernardino, sx., in Enclt. VIL, 1930, p. 55. © Cfr. V. La Rosa, Paolo Orsi: una storia accademica, cit p.471, nota 20. ^ Identica definizione, con esplicita esclusione dei fatti tecnici ed economici dall’ ambito della disciplina in S. Axmaosouz, Numismatica (Manuale Hoepli), Milano 1891, pp. 1ἢ Su di lui vedi G. G. Betton, Serafino Ricci, in RIN, 1943, pp. 3-10; vedi anche V. La Rosa, Paolo Orsi: una storia accademica, cit, p. 491, nota 124. “Ὁ Chr. V. La Rosa, Federico Halbherr e Creta, in V. La Rosa (ed), L'archeologia italiana nel Mediterraneo fino alla seconda guerra mondiale, Catania 1986, pp. 53-72 (passim). appendice relativi ‘5 Vedi S. Ricci, Miscellanea epigrafica (Atene, Keos, Amorgos, Melos, Thera, Creta) con alcuni appuntidel inRicci, l'uno ancora contributi due altri ospita volume stesso Lo 253-316. coll. 1893, II, MonAL in Venezia, di Nani Museo αἱ [I “testamento di Epikteta”, di epigrafia e l'altro relativo ad un disegno di un monumento di Gortyna in documenti di veneziani: Storia e revisione dellepigrafe con testo, traduzione e commento, coll. 69-158; Il Pretorio Gortyna secondo un disegno a penna. e manoscritti inediti del secolo XVI, col. 317-334. ed economiche, in RIN XIII, 1900, pp. 395-415. 9 S. Ricci,La numismatica e le scienze archeologiche ^ Prolusione dell'anno precedente, ad un corso libero di Archeologia e storia dell'arte presso la R. Accademia Scientifico1900. letteraria di Milano, dal titolo Del metodo sperimentale nelle discipline archeologiche, Firenze 1900, citata anniin RassNaz, di ricerche ar(non vidi; recensita in Riv Sto Ant V, fasc. 4, 1901, pp. 635-637); di recente ripresa in Maxaconpa, Cento cheologiche italiane, cit., pp. 88-89. "^! T riferimento è a E. Gai, Le réle de la numismatique dans le mouvement scientifique contemporain, in Congrès Intem. de Numismatique, Paris 1900, pp. 35-50 (consultato in copia grazie alla cortesia della collega S. Sorda).p. 265; vedi ancheN. Bibliografia su L. A. Milani (Verona, 1854-Firenze 1914) in L. PERNIER, s. in Enclr XXIII, 1934, Tenzacia,La filologia classicaa Firenze, Firenze 1957,pp. X-XIIL ? L.A. MILANI, in Studi e Materiali di Archeologia e Numismatica, I, 1899-1901, pp. V-VI. ? E. Βάβειον, Traité des Monnaies Grecques et Romaines , I, Paris 1901. © E. Banttox, Les origines de la monnaie considérée au point de vue économique et historique, Paris 1897, p. 1. 451

? Bibliografia in G. Sauri, L'antiguaria italiana dell'800, cit, passim. * L. Savionona, Importanza e matera dell'archeologia, Messina 1902, pp. 5-31. Chiamato a Messina nel 1901 come straordinario e divenuto ordinario nel 1905, rimase nella città dello Stretto fino αἱ sisma del 1908. Riuscì quindi a farsi comandare presso l'Università di Roma, dove suppl a più riprese lo Halbherr nell'insegnamento di Fpigrafia greca e professo anche Archeologia italica. Dal 1914 fu chiamato dal R. Istituto superiore di Firenze alla cattedra di Archeologia, che tenne fino alla morte (cfr L. Perster, Luigi Savignoni, cit.) ? Hannover, 1831 / Berlino 1914. Allievo ad Atene nel 1860 (insieme con A. Michaelis), scavò dal 1870 a Samotracia e successivamente a Pergamo, Su di lui G. Kano, in MDAI(A), 1914, pp. FXV. * Citato in G. E. Rizzo, La cultura classica e l'insegnamento dell'archeologia, Firenze 1911, p. 6; il riferimento è probabilmente ad A. Conze, Uber die Bedeutung der Archiologie, Wien 1869 (non vidi). 7 Melilli (SR), 1865 / Roma, 1950. Funzionario al Museo di Napoli dal 1900, e poi al Foro Romanoe al Museo Nazionale Romano (dal 1905 al 1908), ottenne la cattedra di Archeologia a Torino nel 1908 e fu successivamente trasferito a Napoli (dal 1915) e a Roma (dal 1926). Su di lui G. Q. Giouiou, in ArchClass 2, 1950, pp. 220-221; G. Linerma, in SicGym 3, 1950, pp. 174-184 (con bibliografia alle pp. 185-187); F. Mosino, Giulio Emanuele Rizzo e la Sicilia, in ArchStorSicOr LXII, 1966, pp. 5-14; Ax Vv, Giulio Emanuele Rizzo, Melli 1985; M. Barnaxera, L'archeologia degl laliani, Roma 1998, pp. 112-114. 9 GE. Rizzo, La cultura classica, cit, pp. 5-24. L'A. diede alle stampe, qualche anno dopo, anche una prolusione napoletana: Archeologia e Arte nella scuola, Napoli 1922. ? GE. Rizzo, La cultura classica, cit, p.13. © G.E. Rizzo, Prolegomeni alla storia dell'art greca, in Storia dell'arte greca, Milano-Napoli ec. 1914, pp. 13-49. © Citata ora inM. Baxmaxena, L'archeologia, ct, pp. 107-108. © Bibliografia su L. Pigorini (Fontanellato di Parma, 1842 ~ Padova 1925) in U. Astoxmes, s.v., in Enelt XXVII, 1935, p. 270. Vedi anche A. Cambwserirl. Put, in G. BracoNziA. M. Brerm SesteRtA. Cazzetia (cdd, Prospettive storico. antropologiche in Archeologia preistorica, Roma 1987, p. 87, nota 68; R. Prosa, Preistoria e Protostoria. La vicenda degli studi in Itala, in Le vie della preistoria, Roma 1992, pp. 33-41. © Da ultimo, V. La Rosa, "Prima Sicilia”, cit, pp. 9-10. “ Riferimenti in V. La Rosa, Paolo Orsi: una storia accademica, cit. p. 482, nota 72. Vedi anche V. Bracco, L'archeologia classica, cit, pp. 224-225. ‘ Cl. A. Saunas, Del R. Museo di Palermo, Palermo 1873 (ripubblicato in Scritti celti, it, I, pp. 240-281). © Formulazione esplicita della distinzione, qualche anno dopo la nostra prolusione, in A. Micuaeus, Ein Jahrhundert Kunstarchüologischer Entdeckungen, Leipzig 1908, pp. VI-VITI (e tuttavia senza un collegamento di questa ‘archeologia del piccone' alle istanze positivistiche, come giustamente osservato in V. Bracco, L'archeologia classica, cit, p. 219, nota 343). L'espressione Archdologie der Kunst risale, come è noto, a C. O. Müller (nel suo Handbuch der Archdologie der Kunst, Breslau 1830). Termini del problema in V. La Ross, Paolo Orsi: una storia accadentica,cit, p. 490 (ma anche, p. 474, nota 32). © Cfr. pers, V. Bracco, L'archeologia classica, cit. pp. 144-146. * Vedi G. Giinanoan, L'archeologia del primo cinquantennio, cit, p. 13, nota 3. La notizia (senza l'indicazione dell'anno di ingresso) si ricava anche da una lettera inviata da F. Halbherr a D. Comparetti, in data 22 marzo 1913 (da Roma): “Gli alunni della Scuola Archeologica di Roma, dalla sua fondazione ad oggi, sono: Pellegrini, Spinazzola, Ciccotti; Mariani, Patroni, Savignoni; Ricci (Serafino), Biondi, De Sanctis, Taramelli; Quagliati, Scrinzi, Gigli; Pernier, Valle; Mancini Augusto, Negrioli, Jatta, Paribeni, Spano; Breccia, Cardinali, Della Seta; Cultrera, Ducati, Mancini Gioacchino; Gervasio, Pettazzoni, Aurigemma, Minto, Maiuri, Pareti, Tina Campanile, Sorrentino; Anti, Fornari (attualmente nella Scuola)" La lista dello Halbherr omette, in effetti, D. Orano, S. Bellino e A. Vogliano; differenze si notano anche nella suddivisione per anni (che nella lettera sembra indicata dai punti e virgola) * In onore di Luigi Pigorini (Roma, XI gennaio MDCCCCXIIIT), Roma 1914. E, Pus, Ricerche storiche e geografiche sull'Italia antica, Torino 1908, p. 481 (“quegli archeologi che oggi trovano traccie di cose Cretine in tutte le coste del Mediterraneo"); cfr. G. De Saxcrts, Per la scienza dell'antichità. Saggi e polemiche, Torino 1909, p. 518. Alla valutazione dell'opera del Pais sono interamente dedicati gli Atti del Convegno di Acquasparta del 1992, in eds. * L. Savioxont.G. De Savers, Esplorazione archeologica delle provincie occidentali di Creta, în MonAL XI, 1901, coll 285-550, 7? “Tl defunto era incaricato degli articoli più strettamente archeologici della Missione": da una lettera di F. Halbherr a D. Comparetti, pubblicata come doc. 4 della nostra Appendice. 5. Edizione delle terrecotte: G. Riza, Le terecotte di Axds, in ASAA XLV-XVI, 1967-68, pp. 211-302; edizione dei bronzi: D. Levi, I bronzi di Axós, in ASAA XIII-XIV, 1930-31,pp. 43-146. ™ L Savionowa, Il vaso di Haghia Triada, in MonAL XII, 1903, coll. 77-182. ® Τ᾿ Βανιόνονι, Scavi e scoperte nelle necropoli di Festós, in MonAL XIV, 1904, coll. 501-666. ™ L'intera vicenda si ricostruisce nei dettagli grazie alle lettere di F. Halbherr a D. Comparetti nell'anno 1901. Cenno sull "incidente" in L. Saxon, Scavi e scoperte, οἷς, coll. 503-504. Una lettera di Savignoni a Xanthoudidis, di qualche anno dopo, è pubblicata in Creta Antica. Cento anni di archeologia italiana (1884-1984) , Roma 1984, p. 64 7 Definito "mio maestro ed amico" in MonAL XIII, 1903, col. 78. 7? Chr. N. Tenzacim, La filologia classica, cit. p. IX. Sul Comparetti vedi supra, nota 3. N. Texznou, La filologia classica, cit, p. X. © L. Savionona, Π vaso di Haghia Triada, ci. 452

© Bibliografiasu E. Loewy (Vienna, 1857-1938) in E. Passus, in ECO IV, 1961, p. 678. © L. ϑανιονονι, Di una testa di Afrodite scoperta in Creta, in MonAL VIII, 1898, coll. 77-88. © Un'enfatizzazione dell'influenza dell'ambiente romano (non necessariamente in contrasto con la nostra prospettiva ‘eretese’) è in M. BaraneRA, L'archeologia, cit, p. 108 (" Savignoni è un rappresentante esemplare della Scuola di Roma in cui, accanto ad un concreto approccio al terreno, permane una visione della storia dell'arte puramente winckelmanniana."). κι G. De Savers, Perla scienza dell'antichità, cit, pp. 530-531. Di grande interesseè anche la breve disputa fra il De Sanctis ed il Patroni a proposito della naturae dei limiti dell'archeologia, sorta nel 1914: vedi S. Acca, La "breve disputa" sulfarcheologia di G. De Sanctis e di G. Patroni, in Nona Miscellanea greca e romana, Roma 1984, pp. 343.356. Molti degli argomenti proposti dal Patroni ricalcano quelli qui ricordati a proposito della sua prolusione. © Di una qualche utilità, anche ai fini della destinazione messinese del Nostro, è un oscuro accenno a camarille accade. miche e ‘politico-scientifiche’ fatto, in data 3 maggio 1902, a F. De Sanctis da D. Vaglieri, allora nella segreteria particolare del Ministro dell'Istruzione, a proposito della composizione della Spedizione italiana in Cirenaica. "Al Savignoni io non ho pensato. Non vi ha pensato volutamente la Scuola archeologica, perché il Pigorini vuole che egli si occupi di Norba e non inizi altra impresa. Le aggiungo in tutto confidenza che, per ragioni che meglio le esporrò, c'è ora tale ostilità contro il Savignoni - escluso il solo Pigorini — che ἢ suo nome non sembra accettato. Del resto il Savignoni deve esser grato a quelfostilita, che gli ha fruttato il posto a Messina”: cfr. S. Acca, F. Halbherr e G. De Sanctis (nuove lettere dal carteggio De Sanctis 1892-1932), Roma 1986, p. 105.

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GioAcciiixo FRANCESCO La TORRE PER UNA PROPOSTA DI UBICAZIONE DELLA TAYPIANH XQPA (STRABONE VI, 1, 3)

Nella descrizione degli insediamenti interni delle popolazioni non greche della Lucania (Lucani veri e propri, Sanniti e Brettii), Strabone menziona una così detta regione Tauriana, situata molto genericamente nell'entroterra di Thourioi ὑπὲρ de τῶν Θουρίων kai ἡ Ταυριανὴ χώρα λεγομένη ἵδρυται, di non facile ubicazione nella geografia della Calabria antica. L'indicazione ci riporterebbe naturalmente alla regione occupata dal popolo italico dei Tauriani, ubicata lungo la costa tirrenica reggina, nel territorio di Palmi e nel circondario, ἢ dove esiste anche una città dal nome Tauriana o Taurianum, più volte ricordata dalle fonti*, se non vi fosse l'indicazione straboniana ὑπὲρ τῶν Θουρίων tanto generica quanto dirimente? (fig. 1). È merito del Maddoli

avere riaperto la questione dell'ubicazione di questa assai vaga Ταυριανὴ χώρα; egli, portando l'attenzione su alcuni toponimi antichi e moderni del Cosentino, ha ritenuto di poter riconoscere la presenza di due aree “Tauriane” o, più probabilmente, l'estensione di un'unica area “Tauriana” dal reggino fino a Nord del Golfo Ipponiate, ad abbracciare la zona compresa tra la media valle del Crati ed il Tirreno“. Il Maddoli, oltre alla Ταυριανὴ χώρα di Strabone, ricorda il toponimo moderno Torano, lungo la media valle del Crati, un culto tributato alla Madonna della Tauriana presso Longobardi col vicino convento di Tu(r)rianum; tra le testimonianze antiche, inoltre, prende in esame il Ταυριανὸς σκόπελος di Tolemeo* e la menzione congiunta di Consentini et Tauriani nel passo di Livio relativo agli eventi della seconda guerra punica“; tutta questa documentazione viene addotta a sostegno dell'attribuzione a Temesa di un noto passo del terzo libro delle Origines di Catone, nel quale si fa pure menzione di Tauriani’. A mio giudizio, tuttavia, i termini del problema possono essere meglio precisati, sia sotto il profilo geografico che da un punto di vista più propriamente storico. Il popolo dei Tauriani, infatti, proveniente dal Sannio e calato nella Brettia nella seconda metà del IV secolo a.C., non ha lasciato tracce sicure del suo passaggio al di fuori del comprensorio di Palmi e Oppido Mamertina*, dove frequenti sono i rinvenimenti di laterizi bollati tauRIANOUM?. Tentare di ricostruire eventuali tappe intermedie nella marcia di avvicinamento dei Tauriani dalle loro sedi originarie al territorio di Reggio, alle quali eventualmente attribuire il consolidamento di toponimi derivati dalla medesima radice, mi sembra assai arduo, vista la mancanza di qualunque appiglio storico, archeologico o epigrafico "; né, come si vedrà, mi pare verisimile attribuire a degli ipotetici Tauriani settentrionali il passo di Livio relativo all'atteggiamento di alcune comunità brezie durante la guerra romano-annibalica ". L'indicazione geografica ὑπὲρ τῶν Θουρίων e l'intero contesto nel quale è inserita la citazione straboniana, non rendono possibile, a ben vedere, neanche un puro e semplice prolungamento del concetto di Ταυριανὴ χώρα, dal territorio di Palmi al Tirreno cosentino, come suppone il Maddoli; i toponimi chiamati in causa, che analizzeremo nel dettaglio, non si distribuiscono, come ci saremmo attesi in tal caso, lungo tutto il tratto costiero intermedio tra Palmi e l'area di Longobardi-Amantea, ma si concentrarano esclusivamente nel basso Tirreno cosentino, saltando tutta l'ampia fascia tra Rosarno e Lamezia. Ritengo, pertanto, che sia più utile partire dal presupposto dell'esistenza di due distinte aree chiamate "Tauriane": una nel territorio di Palmi, occupata dai Taureani e dai Mamertini, quella parte della Sila chiamata Tauricana, secondo la testimonianza di Alfio", e nell'ambito della quale si trovava un centro di nome Tauriana; l'altra, molto più indefinita, ubicata certamente più a Nord, in un'area posta da Strabone nell'entroterra di Thourioi, sulla quale concentreremo l'analisi. Se ci sia un rapporto tra le due e quale ne sia l'eventuale natura, al momento non siamo in grado di stabilire ". A tale opzione metodologica conduce soprattutto l'analisi del paragrafo VI, 1, 3 della Geographia di Strabone, dedicato, come visto, ai popoli che abitano nell'interno (Lucani e Sanniti); è verisimile 455

Fig. 1. La Calabria con i siti ricordati nel testo.

che qui Strabone abbia utilizzato fonti più antiche (Apollodoro? Timeo?) '*, dal momento che, nel passo immediatamente precedente, ricorda come ai suoi tempi non sopravviva alcunché delle tradizioni e degli insediamenti di quei popoli5; dapprima elenca le fondazioni di Filottete: Petelia, Crimisa c Chone, ubicate nell’area tra Sibari e Crotone; il passo seguente, invece, lo riportiamo per intero: «Nell'entroterra si trovano anche Grumentum, Vertinae, Calasarna ed altre piccole città fino a Venusia, che è una città importante. Ritengo che sia questa sia le altre città che vengono di seguito per chi procede verso la Campania siano sannite. Un po' all'interno rispetto a Turi c'è anche la così detta regione Tauriana^». Nell'economia del passo, pertanto, verrebbe da pensare ad un'area in qualche modo contigua ai centri lucani menzionati in precedenza e, quindi, nell'entroterra nord-occidentale di Thourioî; ma tuttavia, la mancanza di ogni appiglio toponomastico nell'area limitrofa a Grumentum, tra quelli elencati il centro più vicino a Thourioi, e l'assenza di un preciso riferimento logico alla frase precedente consentono di cercare la Ταυριανὴ χώρα nel più vasto ambito della Calabria centro-settentrionale, dall'istmo Lamezia-Squillace in sù, area che, comunque, può essere considerata nell'entroterra di Thourioi ". Prima di affrontare l'esame delle testimonianze antiche, occorre premettere come alla radice del coronimo straboniano in questione vi sia la base mediterranea *auro = monte, altura, massiccio montuoso, assai diffusa nella toponomastica greca '; questa indicazione, quindi, ci indirizza verso un territorio caratterizzato da consistenti rilievi, come non ne mancano nella Calabria centrosettentrionale. Si deve notare, tuttavia, come molto probabilmente all'origine dell'etnico italico Tauriani vi sia, invece, il termine greco ταῦρος = toro, l'animale totemico nel quale, secondo il costume di molte altre stirpi sannitiche, i Tauriani si riconoscevano e dal quale trassero il nome". La medesima forma aggettivale che qualifica la χώρα nell'entroterra di Thourioi, Ταυριανὸς:ὴ, ricorre in altri documenti letterari antichi, come posto all'attenzione degli studiosi dal Maddoli: carat456

terizza in primo luogo uno σκόπελος = promontorio o isoletta costiera, ricordato da Tolemeo nella descrizione della paralia brezia e ubicato in posizione intermedia tra la città di Tempsa ed il Golfo Ipponiate e, quindi, all'estremità sud-occidentale della vasta area per la quale si può ritenere ancora ammissibile una localizzazione ὑπὲρ τῶν Θουρίων; anche per questo σκόπελος sono state proposte varie ipotesi di identificazione, sulle quali torneremo in seguito; per il momento è importante aver potuto stabilire la ricorrenza di un'altro toponimo antico, ancora in uso nel Il sec. d.C., derivante dalla radice *tauro posto sicuramente al di fuori del comprensorio tirrenico reggino. Il Maddoli si è lungamente soffermato su una seconda menzione di Tauriani non unanimemente riferita al comprensorio di Palmi e di difficile attribuzione; si tratta, come detto, dell'importante testimonianza offerta dal frammento 71 P2 delle Origines di Catone’; il passo, riportato da Probo, sintetizza in poche righe le vicende storiche più salineti e la corografia di una comunità il cui etnico tradito, Theseunti, è certamente corrotto nella tradizione manoscritta da un ignoto polionimo origi nario; l'etnico è seguito dalla qualificazione di Tauriani derivante, secondo Catone, o la sua fonte (Timeo?), dal nome del fiume che scorre nelle vicinanze «Theseunti Tauriani vocantur de fluvio qui propter fluit» ?. Della città (oppidum) sede di questi “cosiddetti Tauriani” Catone dice che dapprima la abitarono gli Aurunci e successivamente Achei di ritorno dalla Guerra di Troia; ne presuppone, quindi, una fondazione antichissima e precoci contatti col mondo greco precoloniale. Questa singolare notazione, fondazione indigena e rifondazione greca, ha suggerito al Maddoli di istituire un confronto con le più antiche vicende del popolamento di Temesa così come le narra Strabone®: una primitiva fondazione della città ad opera di Ausoni* e poi una rifondazione greca da parte degli Etoli di Toante al ritorno dalla spedizione troiana”*. Dal momento che per nessun altro centro calabrese è attestata una doppia fondazione di tal genere” e che male si addice al territorio della Tauriana reggina un momento coloniale greco”, il Maddoli ha acutamente proposto di emendare il corrotto Theseunti con Temesaioi®. Questa intuizione ci riporterebbe ancora una volta all'area tirrenica della Calabria centrale, come per il Ταυριανὸς σκόπελος, e più precisamente alla zona di Temesa, città non ancora definitivamente identificata sul terreno”, a Sud della quale Tolomeo collocava il Ταυριανὸς σκόπελος stesso”. Si deve tener presente, tuttavia, come il successivo periodo del passo catoniano sembra contraddire drasticamente questa ipotesi, dal momento che vi si dice che in quel territorio scorrono sei fiumi e che il settimo, dal nome irrimediabilmente corrotto in Pecoli, costituisce il confine tra il territorio reggino e quello tauriano*; il riferimento al confine con la χώρα di Reggio è, infatti, chiaramente da addebitare al territorio dei Tauriani meridionali, effettivamente posto al margine settentrionale di quello di Reggio”, grosso modo all'altezza di Bagnara. Vi è, tuttavia, la possibilità che Catone, o la sua fonte (Timeo?), se non addirittura Probo, abbia potuto confondere le due aree "Tauriane" ed aver accostato notizie storiche relative agli abitanti di quella settentrionale alla descrizione delle caratteristiche geografiche di quella meridionale *; questa ipotesi, che comunque presuppone un grave errore di compilazione difficilmente attribuibile a Catone, tantomeno alla sua fonte, non può tuttavia essere scartata dal momento che, pur provenendo dal territorio dei Mamertini e dei Tauriani importante documentazione di insediamenti protostorici attribuibili ad Ausoni, in contatto con l'Egeo (Castellace e Palmi)*, in nessun'altra fonte si fa mai riferimento ad una mitica rifondazione greca di Tauriana all'epoca dei nostoi ”. La questione, pertanto, rimane aperta e con essa il dubbio se a Catone fosse nota o meno l'esistenza di una zona abitata da Tauriani più settentrionali o, meglio, di un'area “Tauriana” più settentrionale; il dubbio permane anche in considerazione del fatto che, nel passo in esame, il termine Tauriani non sembra essere, come visto, un etnico, ma piuttosto ur'apposizione all'etnico vero e proprio celato sotto il corrotto Theseunti, il che autorizza a non attribuire incondizionatamente il passo ai Tauriani di Palmi, il cui etnico coincide col polionimo?*. Il persistere di questa incertezza autorizza ad estendere l'indagine ed a prendere in considerazione anche altre possibili soluzioni alla corruttela nel passo di Catone; si è visto come il termine, Tauriani, che qualifica ulteriormente, come appositivo, l'etnico che si cela sotto il corrotto Theseunti, deriva, secondo Catone, da un idronimo: il Merauros/Petrace, nel caso che tutto il passo vada riferito ai 457

Tauriani meridionali ”; altrimenti un flumen Taurus-Ta$9oc o Taurianus-Tavgravòg da ricercare evi-

dentemente molto più a Nord, nel territorio di Teresa secondo l'ipotesi Maddoli. La possibilità di individuare un'area "Tauriana" più settentrionale, già da me argomentata in altra sede“, mi aveva portato a proporre una ipotesi di riconoscimento di questo presunto flumen Taurus nel fl. Tanno della Tabula Peutingeriana*!, un idronimo certamente corrotto nel quale si è visto di preferenza l'Amato*, ma anche il Savuto®, senza poterne spiegare il processo di corruzione dagli originari idronimi Λαμήτος e Sabatus, ben attestati nella tradizione“. Se, invece, ipotizziamo un originario fl. Taurus, idronimo che il passo di Catone autorizza a ritenere realmente esistito, mol-

to più facilmente ricostruibile sarebbe la dinamica della corruttela “. La maggior parte degli studiosi, come visto, è concorde nell'identificare, per considerazioni geografiche ed itinerarie, questo fl. Tanno con ‘Amato, il principale fiume della Piana Lametina che sfocia nel Golfo Ipponiate *; io stesso ho aderito a questa ipotesi, ventilandone, tuttavia, seppur in subordine, una seconda che, dal punto di vista geografico, non sposta molto i termini della questione, ma che oggi mi pare più rispondente alla realtà antica: in considerazione del fatto che il nome moderno del fiume Amato deriva direttamente dall'idronimo ecataico di VI secolo a.C. Λαμήτος, verosimilmente conservatosi anche in epoca ellenistico-romana, sebbene non direttamente attestato‘, per giungere fino ai tempi moderni, sarebbe meglio vedere nel fl. Tanno/Taurus della Tabula Peutingeriana il limitrofo Torrente Bagni o il confluente Torrente Cantagalli‘: si tratta di due modesti corsi d'acqua pressoché paralleli che discendono dalle Terme di Sambiase per gettarsi nel Tirreno pochi chilometri a Nord della foce dell'Amato; si deve notare, tuttavia, che lungo le vallate di questi due corsi d'acqua correva la strada consolare, Annia o Popilia, proveniente da Cosenza e diretta nella piana lametina®; i due segmenti dell’/tinerarium Antonini che riportano questo tracciato, nel tratto fra Consentia e Vibona menzionano una stazione di sosta dal nome Ad Turres o Ad Turris? che ho già dimostrato essere coincidente con quella chiamata Tanno fl. nella Tabula Peutingeriana®, da collocarsi al limite settentrionale della piana lametina, nell'area che fu della città greca e poi brettia di Terina5. Dal momento che questa stazione, allo stesso modo di quelle fluviali, è introdotta dalla preposizione Ad, non si può escludere che derivi il nome dall'originario Flumen Taurus e ne rappresenti un primo stadio della alterazione; che non si tratti di un'altro caso di corruttela testuale, ma di un toponimo realmente esistito in epoca tardo-romana, lo dimostra il fatto che, in questa stessa zona, evidenti sono le tracce di una diocesi molto antica (V-VII secolo) che trae il nome, Turritana, da quello della stazione di sosta?" Possiamo quindi concludere che, dall'esame delle fonti letterarie, si evince chiaramente come al margine settentrionale della Piana di Lamezia, nel territorio che si ritiene essere stato di Terina fino alla guerra annibalica, è esistita un'area chiamata Turritana, attraversata da un flumen Tanno, probabilmente un originario Taurus o Taurianus. Dalla testimonianza di Flegonte di Tralles, riportata da Stefano di Bisanzio, sappiamo che il nome Terina designava tanto la città dell'Italia, colonia di Crotone, quanto un fiume omonimo, così come nei casi delle vicine Pyxous, Laos e Metauros, ricordate da Strabone; dal momento che, come ormai sembra accertato, la città antica doveva essere collocata nell'area dell'Abbazia benedettina di S. Eufemia Vetere, tra i corsi paralleli e ravvicinati dei Torrenti Bagni e Cantagalli, provenienti da Sambiase “, si potrebbe anche avanzare una diversa c suggestiva ipotesi: il polionimo greco Terina avrebbe potuto derivare da questo idronimo” e, quindi, il passo di Catone, piuttosto che non a Temesa, potrebbe essere riferito a Terina: la città tirrenica, fondazione coloniale achea, contigua a Temesa *; la citazione ecataica relativa alla presenza di Λαμηῖνοι, abitatori di una città dell'Iralia che trae il nome dal fiume Λαμήτος che le scorre accanto, potrebbe riflettere un momento precedente la colonizzazione”; si può supporre, cioè, che in una fase “arcaica”, precoloniale, la Piana di Lamezia fosse abitata da indigeni (Ausoni?) Λαμητῖνοι, il cui etnico trae il nome dal fiume Λαμήτος così come il golfo nel quale si getta, Λαμητικὸς kólaroz^; in un secondo momento, all'inizio dell'età classica, quando la città di Terina si consolida e diviene il centro egemone del comprensorio, allora anche il golfo assume il nome di Τεριναῖος ~ Terinaeus come documentato in Tucidide? e poi in un

discusso passo di Plinio; è probabile, quindi, che tanto il polionimo quanto il nome del golfo deri458

vino dall'idronimo pregreco proprio del Torrente Bagni, fiume strettamente legato alla città da un punto di vista topografico. In tal caso, pertanto, il fiume Tatooc-Taurus, dal quale deriverebbe la denominazione di Tauriani attribuita ai Terinaei, dovrebbe essere il Torrente Bagni, il cui nome si sarebbe conservato anche in epoca romana per giungere fin nella Tabula Peutingeriana, sebbene corrotto in Tanno. A questo punto occorre richiamare alla mente il Ταυριανὸς σκόπελος di Tolomeo, elemento geografico di rilevante interesse, intermedio tra Temesa ed Hipponion; il Maddoli vi ha riconosciuto il maggiore dei due scogli Isca δ΄, insignificanti prominenze rocciose poste qualche centinaio di metri a largo di Amantea. Tale identificazione, funzionale ad una ubicazione più settentrionale di Temesa,

nel territorio di Fiumefreddo, alla quale il Maddoli pensava prima del Colloquio perugino del 1981, viene inficiata, a mio giudizio, da diverse osservazioni; anzitutto il fatto che isole costiere ben più visibili ed importanti, anche in funzione di approdi, come Cirella e Dino, non sono state ricordate da Tolomeo; in secondo luogo vi è la difficoltà costituita dal fatto che gli Scogli Isca sono solo due piccole prominenze rocciose, inutilizzabili come approdo e scarsamente visibili da lontano e, quindi, poco utili come punti di riferimento nelle rotte di cabotaggio®. Il termine σκόπελος, inoltre, non qualifica di necessità uno scoglio o un isolotto, ma può essere attribuito anche ad un'altura isolata o ad un promontorio costiero equivalendo, in tale accezione, al termine ἄκρον, pure più spesso util zato in questo senso nelle opere dei geografi antichi”. Altrettanto errata mi pare, tuttavia, l'identificazione con il Capo Vaticano, più consolidata in letteratura e di recente riproposta dal Settis**, dal momento che questo promontorio, in una descrizione della costa tirrenica da Nord verso Sud, com'è quella di Tolomeo, segue e non precede il Golfo Ipponiate, del quale, anzi, costituisce il limite meridionale. Tenute presenti queste considerazioni geografiche e l'ormai quasi accertata ubicazione di Temesa nel comprensorio costiero tra Oliva e Savuto, a Sud di Amantea e degli Scogli Isca, ricavabile dall'analisi della documentazione archeologica e da una diversa interpretazione delle fonti itinerarie®, ritengo che l'identificazione più probabile per il Ταυριανὸς σκόπελος sia quella con il Capo Suvero, pronunciata prominenza, molto ben visibile dal mare, che separa effettivamente il bacino tributario del Savuto dalla Piana di Lamezia. ΤΙ promontorio di Capo Suvero, realmente intermedio tra Temesa ed Hipponion e punto di riferimento certo per la navigazione, tanto da essere menzionato nei portolani”, costituisce l'estrema propaggine occidentale, protesa verso il mare, del Massiccio montuoso della Sila Piccola che sovrasta da Nord l'istmo Lamezia-Squillace per tutta la sua larghezza e costituisce l'ultima catena della Calabria settentrionale E proprio sulle pendici meridionali della Sila Piccola, a controllo dell'istmo ed in una posizione strategica straordinaria, dalla quale si scorgono sia il Tirreno che lo Tonio, è ubicato l'importante centro brettio di Tiriolo”; qui, come è noto, fu rinvenuta una copia bronzea, oggi a Vienna, del famosissimo senatusconsultum de Bachanalibus”, quella inviata ufficialmente da Roma "in agro Teurano"; il territorio di Tiriolo, dopo la conquista romana, non aveva quindi consistenza urbana ed in un documento ufficiale dello Stato veniva definito ager; ma è sul nome attribuito a quest'ager che vorrei fare qualche osservazione; in considerazione della non inammissibile oscillazione -eu- -au-?, potremmo avere qui un'ulteriore attestazione di un toponimo derivato dalla radice *tauro, ancora una volta nel comprensorio intermedio tra Temesa e Terina, in questo caso non riferito ad un sito o ad un elemento geografico costiero, ma ad un territorio interno, verosimilmente allora occupato secondo modalità paganico-vicane" a questo punto bisogna ricordare come già il Pais aveva ipotizzato una eguaglianza tra la Ταυριανὴ χώρα di Strabone e l'ager teuranus”, per la verità senza grande seguito”. Tutte queste attestazioni, dal diverso grado di affidabilità, alcune più sicure, altre solo ipotetiche, permettono, tuttavia, di certificare l'esistenza nella tradizione antica di una regione chiamata "Tauriana”, altra rispetto a quella più meridionale, priva di ogni rapporto visibile, di natura geografica o etnico-politica, con questa; la convergenza delle testimonianze e degli indizi presentati intorno ad un'area specifica e circoscritta mi pare molto significativa; si tratta della zona costiera intermedia 459

tra Temesa e Terina e del suo retroterra, costituito dal massiccio della Sila Piccola, sistema montuoso che si salda alle spalle di Crotone e di Sbari (ὑπέρ δὲ τῶν Govotov) con la Sila vera e propria e che si protende sul mare Tirreno, incuncandosi tra le vallate di Savuto ed Amato e culminando proprio nel Capo Suvero. In tale quadro, pertanto, la Ταυριανὴ χώρα = "regione montana”, potrebbe costituire il nome antico del comprensorio della Sila Piccola (fig. 1); nell'ambito di questa regione mi pare piuttosto certo il riconoscimento di un Ταυριανὸς σκόπελος = “promontorio montano”, il Capo Suvero, che ne costituisce la punta protesa sul mare Tirreno e di un fiume Tadgos/Taurus/Tanno = "Fiume montano” (il Torrente Bagni, con ogni probabilità) che, nato sulla Sila Piccola stessa, dopo aver lambito la citdi Terina, si getta nel Golfo di Lamezia all'estremità settentrionale della piana; meno sicura ed assai più problematica, sebbene non impossibile, è, invece, l'attribuzione del passo di Catone a questo comprensorio ed, in particolare, alla città di Terina, così come la sostanziale coincidenza della Ταυριανὴ χώρα con l'ager Teuranus, il territorio di Tiriolo, nomen ufficiale di un comprensorio

paganico-vicano della Sila Piccola subito dopo la conquista romana e la conseguente sparizione di Terina”. Pur tenendo presenti le difficoltà linguistiche che l'alternanza -au ~ -eu - comporta, non si può non sottolineare, tuttavia, come il termine ager Teuranus costituisca la traduzione letterale di Ταυριανὴ χώρα; se poi quest'ultima denominazione straboniana fosse da addebitare veramente ad Apollodoro, le due citazioni sarebbero quasi contemporanee. A questo nucleo di testimonianze di buona epoca se ne aggiunge un'altra più tarda che, tuttavia, sembra postulare un perdurare nel tempo del toponimo Tauriana nella stessa area, accanto ad Ad Turres e alla diocesi Turritana; dalle fonti itinerarie, infatti, oltre alla già discussa menzione della

stazione fluviale Tanno, nell'Itinerarium Antonini riportata col nome di Ad Turres, si apprende una notizia assai interessante; nel passo IV, 34 dell'Anonimo Ravennate, autore nel VII secolo di una Co-

smographia, e nella più tarda Geographia di Guidone (paragrafo 43), opere entrambe mutuate dall'archetipo della Tabula Peutingeriana *, a proposito della stazione Angitula, ben collocabile al limite meridionale della piana Lametina a Sud dell’Amato”, è riportata una interessante annotazione che dice: «Angitula, quae confinatur cum territorio civitatis Tauritanae, quae est in litore maris Gallici seu. Tyrreni»®. Questa notazione aggiunta dall’Anonimo Ravennate e ripresa da Guidone, per quanto possano essere stati già corrotti i testi sui quali hanno lavorato i due tardi geografi", presuppone comunque l'esistenza, ancora nel VII secolo, di una civitas Tauritana, chiaramente derivante anch'essa dalla radice *tauro, il cui territorio deve essere limitrofo ad Angitula; in considerazione del fatto che tra Angitula e l'area della Tauriana meridionale, pure nota alle fonti itinerarie®, oltre ad una grande distanza, si trovano anche i centri intermedi di Vibo, Nicotera e Tropea, è probabile che il territorio di questa civitas Tauritana sia da ubicare piuttosto a Nord dell'Angitola e, quindi, ancora una volta, nel settore settentrionale della piana lamctina*. Le testimonianze antiche di toponimi derivanti dalla radice *tauro, non riferibili al territorio dei Tauriani di Palmi, sono quindi tutte raggruppabili intorno ad una particolare area della Calabria centro-settentrionale, il massiccio della Sila Piccola con le sue pendici, intermedia tra i centri di Temesa e Terina; i toponimi più recenti ricordati dal Maddoli, ubicati ancora più a Nord, lungo la Catena Costiera e nella valle del Crati, potrebbero ricondursi ad una successiva ulteriore estensione del termine; il moderno culto della Madonna della Tauriana presso Longobardi, infatti, deriva certamente dal Convento Tur(r)ianum, ubicato nella zona di Fiumefreddo e documentato a partire dal XIII secolo*; questa importante attestazione credo che possa essere messa in relazione con le testimonianze più antiche di una diocesi Turritana nell'area della stazione di sosta Ad Turres/Ad Turris da ubicare qualche decina di chilometri più a Sud; per ragioni che sconosciamo, quindi, in epoca arabo-normanna vi deve essere stato qualche evento che ha causato uno spostamento nell'area di Fiumefreddo della diocesi Turritana o di qualcuno dei culti che si praticavano nel suo ambito. In conclusione, credo che il riferimento di Strabone alla Ταυριανὴ χώρα, probabilmente estrapolato da una fonte più antica ed inserito un po’ a forza nel passo sui centri interni della Lucania, sia da attribuire al comprensorio della Sila Piccola; interpretando alla lettera le parole di Strabone, ritengo inoltre che tale riferimento abbia soltanto un carattere ed un valore geografico e non già etni460

co e derivi dalla radice mediterranea *tauro; l'aggettivo ταυριανὸς -ἡ, infatti, viene sempre attribuito ad entità geografiche: una regione, un promontorio, un fiume, un'ager e mai ad un popolo, come invece è il caso dei Tauriani veri e propri ubicati a Palmi e dintorni. Questa osservazione mi porta ad escludere, infine, un'attribuzione all'area “Tauriana” settentrionale del passo di Livio XXV, 1, 2, dove si fa menzione della comunità (populus) dei Tauriani che, insieme ai Consentini, dopo aver partecipato alla defezione dei duodecim populi in Bruttiis, nel 213 a.C. tornarono ad appoggiare i Romani “; il Prontrera, traendo spunto dalle osservazioni del MaddoJi in relazione all'esistenza di un'arca "Tauriana" più settentrionale, ritiene di vedere nei Tauriani di Livio gli abitatori di questa regione, i Temesaioi o una comunità che, comunque, gravitava nella stessa area"; ma poiché sappiamo che il territorio in questione era occupato, all'epoca degli eventi, dai centri brezi di Clampetia, Temesa e Terina, tutti noti a Livio, ritengo che si tratti dei Tauriani meridionali; a conferma di ciò si deve addurre il fatto che di questi Tauriani non si fa più menzione nel racconto liviano, mentre Consentia, Clampetia e le ignobiles aliae civitates tornarono a defezionare nel 204 e 203 a.C."; si deve ragionevolmente ritenere, quindi, che i Tauriani, dal 213 in poi, siano rimasti fedeli alleati di Roma; e del resto, la storia insediativa dei centri ricadenti nella regione abitata dai Tauriani, che solo da poco vengono indagati archeologicamente con sistematicità, Tauriana presso Palmi e Mamertion, probabilmente da identificare, come visto, col centro in contrada Mella di Oppido Mamertina, mostrano una ininterrotta continuità di vita a cavallo della seconda guerra romano-cartaginese, a differenza di quasi tutti gli altri centri brezi alleatisi con Annibale e drasticamente puniti alla fine del conflitto”. In conclusione, sono dell'avviso che occorra tenere ben separate geograficamente le due aree cosiddette “Tauriane” e valutare con attenzione i riferimenti alle vicende storiche dei due comprensori che le testimonianze antiche consentono di intravvedere; a Sud abbiamo l'indiscussa presenza di una comunità di genti italiche che si definiscono Tauriani, con ogni probabilità derivando il nome dal toro, l'animale sacro sotto la cui insegna totemica intrapresero l'emigrazione*, insediati nell'omonimo centro di Taurianum ed in quello vicino di Mella, presso Oppido Mamertina, area di dist buzione dei laterizi bollati TAURIANOUM, evidentemente il loro emico ufficiale; nell'area tirrenica centro-settentrionale, invece, abbiamo potuto riscontrare soltanto il ricorrere di toponimi che convergono intorno ad uno specifico comprensorio geografico, abitato da comunità diverse; se l'identificazione proposta con il massiccio della Sila Piccola e le sue pendici coglie nel vero, in epoca brettia quest'area montana con le sue propaggini, la cui denominazione deriva certamente dalla radice mediterranea "tauro, era occupata da almeno tre cit à: Temesa a Nord, Terina a Sud e l'anonimo centro di Tiriolo ad Est; ogni riferimento a quest'area "Tauriana" settentrionale, quindi, non può rivestire alcun carattere etnico, politico o istituzionale, ma solo geografico; soltanto in epoca proto-bizantina, quando ormai si erano dissolte le città classiche e si era sfilacciato il tessuto insediativo, riscontriamo la presenza, nella stessa arca, di una civitas Tauritana e di una diocesi Turritana che, con tutta evidenza, derivano le loro denominazioni da quei toponimi che continuavano ad indicare i principali elementi geografici del comprensorio. NOTE

ὁ Strano, Geo. VI, 1, 3. Il problema non è stato affrontato mai in maniera critica e sistematica; l'ipotesi di identificazione con lager Teuranuis, proposta da E. Pis Terina colonia di Crotone, in Ricerche storichee geografiche sull'Italia antica, Torino X, p. 104, U. KanasteoT, Ager publi1908, p. 63, che analizzeremoin seguito, non ha trovato consensi; cfr. TH. Moumsex, CIL cus und Seibstverwaltung in Lukanien und Brattium, in Historia, VIII, 1959, p. 191 ss. e F. PaoxreEsA, Cosentini e Tauriani in Livio XXV 1,2, in Klearchos 53-56, 12, 1972, pp. 83-87. * Su Tauriana si veda 8. Serris, Tauriana (Bruttium). Note storico-archeologiche, in RAL s. 8, 19, 1964, pp. 117-144, ri e pot L. CosriwacNa, Prospettive di ricerca nel tere temi, Roma 1987, pp. 63-105 in Ib. Archeologia in Calabria. Figure stampato Costamagna priritorio anticodi Reggio: i Tauriani,in Klearchos 125-128, 1990, pp. 63-68. Negli ultimi anni, a curadi Liliana ma e di Rossella Agostino pol, che ringrazio delle informazioni fornitemi e degli spunti di riflessione offertimi, si sono potute effettuare indagini sistematiche, prospezioni e saggi di scavo che, quando saranno editi, consentiranno di meglio inquadrare le caratteristiche dell'insediamento di Tauriana e la cultura materiale dei suoi abitanti. Si veda ora R. Agostino (ed.), Palmi, un territorio riscoperto, Soveria Monnelli 2001. 461

Lo stesso Settis, pur senza affrontare il problema dell'ubicazione della Ταυριανὴ χώρα, non la riferisce alla Tauriana reggina proprio in virtù dell'indicazione straboniana, Cfr. S. Ser, Tauríana, ci. p. 65. * Cir. G. Manoou, Temesa nelfr 71 P*delle «origines» di Catone: una proposta di restituzione testuale, n SIFC XLIX, 1977, p.270 € G. Mapoou, La Tabula Peutingerana e il problema dell'ubicazione di Temesa, in PP CXLVI, 1972, pp. 333-335 ? Tor, Geo, TIL 1,9. * Lv, XXV, 1,2. 7 Car, Fr. ΤΙ, Peter HHR, 1, pp. 75 ss. in Provo, n Ver. Bue, p. 326 Hagen. * Non molte e notizie relative ale vicende di questa stirpe sannitica; si vedano le osservazioni di S. rms, Tauriana, cit, pp. 68-69 e, da ultimo, F. Cosranite, Le Origines dei Tauriani e dei Mamertini nel Bruzio. Fonti e dati archeologici, in L. CosramnosaP. Visosà (a cura di), Oppido Mamertina 1, ricerche el territorio e n contrada Mella, Roma 1999, pp. 5-16; colgo occasione per ringraziare l'amico Costabile per avermi permesso di usufruire del suo molto stimolante lavoro e per aver discusso con me alcuni aspetti del problema. Il Setts nota la coincidenza tra l'insediamento dei Tauriani e la contemporanea sparizione degl insediamenti greci di Media © Metauros intorno alla metà del IV secolo a.C, fr. S. Serns, Tauriana, cit, p. 67

* Su questi laterizi si veda ibid., p. 90 e A. De FRanciscis-O. ParuanceLi, Gli Italici nel Bruzio nei documenti epigrafici, Napoli 1960, p. 18 ss; si tratta di laterizi recanti in caratteri greci letnico osco in genitivo plurale, databili tra la fne del IV ed il TII secolo a.C. τ. Una ipotesi simile viene discussa e rigettata da Cosaaus; egli, infatti, pur notando l'assenza di bolli laterizi TAYPIANOYM nei siti italici intorno a Thourioi, prende in considerazione l'ipotesi che l'accenno straboniano alla Ταυριανὴ χώρα, possa essere il relitto di una tappa intermedia nella migrazione dei Tauriani verso il Reggino, e come tale sembra considerarlo Strabone, traendo la notizia da qualcuna delle sue fonti, probabilmente Apollodoro, cr. F. Costante, Origines, ci. " Sul passosi vedano le opinioni divergenti di S. Serms, Tauriana, cit, pp. 68-69, che lo attribuisce ai Tauriani meridionali, seguito da F. Costasite, Origines, cit. e di F. Powtaena, Cosentini, cit, pp. 83-87, che invece propende per dei Tauriani stanziati sopra Thourioi. ? Il territorio abitato dai Tauriani è occupato anche dai Mamertini; di questi Mamertini sappiamo da Strabone che, nell'entroterra di Locri e Reggio, vi era un centro chiamato Mamertion, verosimilmente da identificare con il sito antico di Mella, presso Oppido Mamertina, cfr. P. Visoxd, Gli scavi americani a contrada Mella (Oppido Mamertina), 1987-1991: risultati prospettive, in Klearchos 125-128, 1990, pp. 69-103; qui si sono rinvenuti laterizi bollati TAYPIANOYM e monete dei Mamertini; i Mamertini, all'inizio del II secolo occuparono Messina, dove si sono rinvenuti laterizi bollati MAMEPTINON: Alfio (Fest. 150 L), storico nazionale dei Mamertini, vissuto tra il Il ed il sec. a.C., nel raccontare la katabasis del suo popolo, dice che i Mamertini si stabilirono in quella parte della Sila che allora prese il nome di Sila Tauricana; è probabile, quindi, che quella parte di Sila ove si insediarono i Mamertini prese dai Sanniti loro immediati predecessori, i Tauriani, il nome di Tauricana: su tutta la questione si veda F. Costante, Origines, cit. Sembra, pertanto, che da un punto di vista etnico, politico ed istituzionale i termini Tauriani c Mamertini siano sostanzialmente coincidenti e qualifichino le medesime genti, calate dal Sannio in due momenti successivi, seppur ravvicinati, nel medesimo territorio; cfr. F. CostaBite, Origines, cit. La distinzione sarebbe solo nominale, quindi; i due centri urbani dei quali serbiamo il nome, avrebbero desunto il polionimo, quindi, dall'mico: da un lato Tauriana, più vicina al mare, e dall'altro Mamertion, nell'interno, come giustamente notava Strabone. Il toponimo Mamertion e Vetnico Mamertini derivano evidentemente, come lo stesso Alfio rammenta, dal nome osco del dio Marte, Mamers, particolarmente venerato presso le comunità italiche, come è noto; sebbene Alfio sostenga che tale divinità, sotto la protezione della quale i Mamertini posero l'intera spedizione, sia stata estratta a sorte, considerata la vocazione guerriera dei Mamertini ed il loro impiego in qualità di mercenari, credo invece che si debba dare un significato programmatico a tale denomina' Ho già accennato alle perplessità che suscita il collegamento tra le due aree nell'ambito del tentativo di ricostruzione della katabasis dei Tauriani; il prosieguo dell'analisi mi porterà a separare con nettezza la Ταυριανὴ χώρα dai Tauriani veri e propri. Ne consegue, ovviamente, come non appaia condivisibile la tesi di J. Heucox, in ΜΈΡΕΑ 68, 1951, p. 78, che identifica con la Τανριανὴ χώρα straboniana con la Sila Tauricana di Alfio. ?* ἢ Catalogo delle Navi, commento al II libro dell'Iliade, opera di Apollodoro, viene citato da Strabone nel paragrafo in. esame a proposito delle fondazioni di Filottete in Calabria. Molte delle informazioni sul popolamento delle varie regioni della Magna Grecia sono tratte, tuttavia, dall'opera di Timeo, spesso filtrata attraverso Polibio. Ὁ Sano, Geo., VI, 1,2. Traduzione di A.M. Biuscm, Strabone. Geografia. L'Italia, Milano 1988, p. 209. * In una prospettiva grecocentrica, quale quella delle nostre fonti di epoca greca, anche territori gravitant sulla costa tirrenica, rispetto alle colonie dello Ionio vengono considerati interni. L'indeterminatezza della ubicazione proposta da Strabone, inoltre, ha consentito di ritenere la Ταυριανὴ oa vna denominazione non più in uso all’epoca della composizione della Geographia; la notizia, quindi, sarebbe stata tratta direttamente dalla sua fonte, mentre in epoca tardo-repubblicana si sarebbe già persa ogni cognizione dell'esistenza di una regione "Tauriana" nel Bruzio settentrionale, cr. F. Costamue, Le fonti, cit. ciò contrasta, tuttavia, con la sopravvivenza di un Τανριανὸς σκόπελος ancora nella Geographia di Tolemeo. * Alla stessa radice riconducono il polionimo Tauromenion in Sicilia (Diod,, XIV, 59 e St, VI, 2, 2), l'oronimo Ταῦρος in Cilicia (Thvc., IV, 119, Sm. VI, 4, 2), il coronimo Ταυρικὴ che qualifica la Tauride (Ht. IV, 20) e, forse, anche il popolo dei Tauroi, in Crimea (Hat. IV, 99). ν᾽ Cfr. S. Serns, Tauriana, cit. p. 65; la connessione col toro parrebbe confermata dalla presenza dell'animale sulle monete mamertine, cfr. M. Sanstrom, A Study in the Coinage of the Mamertines, Lund 1940, p. 45; si deve tener presente, tuttavia, 462

come alcuni glottologi ritengano che l'enico derivi comunque dalla radice *tauro = monte, cir. F. Rmezzo, in Riv.Indo-Gr. IL, XV, 1931, fasc. IILIV, pp. 47-52 e G. Auzssio, Saggio di toponomastica calabrese, Firenze 1939, p. 403. ® A giudizio del Settis il Ταυριανὸς σκόπελος ὃ, invece, sicuramente collegato a Tauriana, sebbene egli stesso ritenga che sia da collocare più a Nord della città, cr. S. Serms, Tauriana, cit, p.65. * " Theseunti Tauriani vocantur de fluvio qui propter luit. Id oppidum Aurunci primo possederunt, inde Achaei domum redeuntes, In eorum agro fluvii sunt sex; septimus finem Rheginum atque Taurianum dispescit fluvii nomen est Pecoli. Eo Orestem cum Iphigenia atque Pylade dicunt matrem necem expiatum venisse, et non longigua memoria est, cum in arbore ensem vi derint, quem Orestes abiens reliquisse dicitu^. Sul passo si vedano S. Serns, Tauriana, cit pp. 63-67, G. Maopou, La Tabula, cit, εἰ soprattutto, G. Manpots, Temesa, cit, poi le osservazioni di F. Costasite, Origines it. 2 Sulle fonti di Catone si veda L. Morir, Le «Origines» di Catone. Timeo ed Eratostene, in RFIC XXX, 1952, p. 289 ss. ® Si può concordare col Maddolinel ritenere il corrotto Theseunti soggetto della frase, mentre Tauriani ne costituisce il cognomen tratto dal fiume, cfr. G. Manpo, Temesa, cit, p. 268. ^ Stato, Geo. VI, 1,5: «Partendo da Laos, la prima città dei Brett è Temesa (che ora chiamano Tempsa). La fondarono gli Ausoni, poi gli Etoli che vi giunsero con Toante, cacciati poi dai Bretti.», traduzione A.M. Bnuscir, Strabone, ci, p. 213. * È siato ormai dimostrato come non vi sia alcuna differenza tra Ausoni e Aurunci; si vedano, ad esempio, G. Devoro, Gli antichi Italici, Firenze 1957, p. 20e M. PauLorrino, Genti e culture dell'Italia preromana, Roma 1981, p. 56. * Sulla vicenda storica di Temesa e sulle problematiche legate al popolamento del suo territorio in epoca protostorica, alla luce della nota testimonianza omerica (Oo. I, v. 184), si vedano i numerosi contributi in AA.VV., Temesa e il suo territorio in G. Manoou (a cura dî), (Atti ἀεὶ colloquio di Perugia e Trevi 30-31 maggio 1981), Taranto 1982, A. Mete, L'eroe di Temesa tra Ausoni e Greci, in AANV., Forme di contatto e processi di trasformazione nelle società antiche (Oriente e Occidente), Pisa Roma 1983, pp. 848-888 e quindi in AA VV., A Suddi Veli, Taranto 1990. τ Chr. AM. Brrascat, Aspetti e problemi della più antica storia di Temesa nella tradizione letteraria, in Temesa e il suo terri torio, pp. 29-39. % TL territorio che sarà abitato dai Tauriani a partire dalla metà del IV secolo, altre alle testimonianze di epoca protosto rica alle quali faremo cenno (cir infra, nota 36), ha restituito la nota dedica all Eracle Reggino da Castellace, segno inequivocabile dell presenza nel V secolo a.C. di un santuario di confine e, quindi, dll'appartenenza di questo comprensorio alla cit tà calcidese prima dello stanziamento italico; le tombe ad inumazione di Castellace consentono di collocare alla metà circa del IV secolo la prima comparsa dellelemento italico, cfr L. Costmacsu, Prospettive, ci, pp. 64-66. > Cfr. G. Mappoti, La Tabula, cit, e G. Mappou, Temesa, cit. p. 271. A giudizio del Maddoli, i Temesaioi sarebbero stati chiamati anche Tauriani per distinguerl dai cittadini dell'omonima città cipriota, alla quale una antica corrente di pensiero attribuiva il passo omerico nel quale Atena, sotto le spoglie di Mente, re dei Tafi dice a Telemaco di essere diretta a Temesa portando ferro ed in cerca di bronzo; echi di questa polemica giungono anche nella Geographia di Strabone, come è noto (Geo. VI, 1,4). Senza voler enfatizzare questo particolare, ricordo tuttavia come anche Plinio (II, 72) definisca Tempsa con il termine oppidum, così come Catone fa con la città abitata dai Tauriani. ® IH problema dell'ubicazione di Temesa che ha appassionato generazioni di studiosi, riproposto alla fine degli anni ‘60 dalla Zancani e poi dal Maddoli,? stato affrontato nel colloquio di Perugia e Trevi del 1981 agli atti del quale rimando per la vastissima bibliografia: dopo quel colloquio si sono succedute numerose ricerche e scoperte che consentono oggi di meglio affrontare i termini della questione, come vedremo; cfr. da ultimo, G.F. La Torte, La questione Temesa. Nuovi documenti e prospettive di ricerca, in G. Ds Sensi Sestrvo (a cura di), Tra l'Amate il Savuto, I, Sovria Mamelli 1999, pp. 237-252. % 1 contributi del Maddoli sul problema dell'ubicazione di Temesa, precedenti al Colloquio perugino, avevano indicato Yarea di Fiumefreddo Bruzio come la più indiziata, area che, invece, al vaglio delle ricerche topografiche ed archeologiche successivamente condotte, si è rivelata di scarsissima consistenza, tanto che lo stesso Maddoli ha in qualche modo ritrattato la sua proposta. Cfr. G. Maopou, La Tabula, cit, G. Mannoui, Temesa, cit. e G. Mambo, in Temesa e il suo territorio, pp. 221-223, 9! Non vè alcuna possibilità di istituire un confronto tra questi fiumi e quelli ricordati da Varrone, ctr. Vara, R. Human. XI, fr. XI Mirsch, in Pros, in Verg. Buc., p. 326 Hagen. 9A tal proposito si rimanda alle osservazioni di S. Serms, Tauriana, cit, pp. 66-67 e F. Costante, Origines, cit I Tauriani si sono riservati la parte settentrionale del territorio di Reggio, al confine con l'area di espansione di Locri c delle sue colonie sul Tirreno. % È questa a tesi di G. Manpous,La Tabula, cit. e G. Manpou, Temesa, ct. » Così ritiene F. Costanie, Le fonti, it; il Maddoli, invece, pur preferendo addebitare l'accostamento tra la Temesa Tauriana e la Tauriana meridionale a Probo, non esclude che, già all’epoca di Catone o, addirittura, della sua fonte, trovandosi Te‘mesa in decadenza, notizie a lei relative possano essere state localizzate nel territorio dei Tauriani meridionali. Queste ultime considerazioni del Maddoli, tuttavia, non tengono conto del fatto che all'epoca di Timeo Temesa era una fiorente città bretta, come gli scavi sul Piano della Tirena hanno dimostrato (cfr. N. Vauenza Mete, Nocera Terinese. Ricerche nella Brettia, Napoli 1992) e che all'epoca di Catone doveva essere sede di una colonia civiu Romanorum, stante la testimonianza di Liv, XXXIV, 45,45. 9 1 rinvenimenti di materiale protostorico di grande interesse effettuati sia a Castellace che a Palmi saranno pubblicati nel volume, L. Costamagna e P. Visonà (a cura di), Oppido Mamertina I, cit, da parte di M. Pacciareli si tratta di materiale del Bronzo medio e recente che mostra contatti con la cultura ausone delle Eolie ed influssi dal mondo miceneo ed epirota, cfr. R. Parona, La protostoria, in Storia della Calabria. La Calabria antica I, Reggio Calabria 1987, p. 104 ss. Su questo aspetto si veda S. Sert, Tauriana, cit, pp. 66-67; egli ritiene che tutto il passo di Catone sia da riferire a Tauriana; alla cità italica sarebbero state attribuite notizie relative alla vicina Metauros, città effettivamente colonizzata dai 463

greci, della quale sarebbe stata l'erede, non solo del territorio, ma anche del patrimonio mitico. Altrettanto si può dire della collocazione a Tauriana del mito di Oreste propostaci ancora da Catone, anch'essa una palese eredità di Metauros. Anche il Costabile ritiene che il passo di Catone debba essere attribuito per intero a Tauriana, cfr. . Costasite, Origines, cit. ?* In tal caso il passo potrebbe spiegarsi solo immaginando nel corrotto Theseunti un originario Mamertini, come argutamente proposto dal Costabile; i Mamertini di Mamertion, quindi, sarebbero stati chiamati Tauriani probabilmente per distinguerli da quelli omonimi della Messina da loro assoggettata. ? È questa l'opinionedi S. Sern, Tauriana, cit, p. 66 e F. Costante, Origines cit * Cfr. G.F. La Tons, Per lo studio della viabilità romana in Calabria: considerazioni sul tracciato della via Annia o Popilia dalla Conca di Castelluccio a Vibo, in Klearchos 125-128, 1990, pp. 181-183 e G.F. La Tons, Blanda, Lavinium, Cerillae, Clampetia, Tempsa. Forma Italiae 38, Firenze 1999, pp. 130-139. τ Tab. Peut., seg. VIL Il fiume epigrafato Tanno nelltinerario picto, viene stranamente rappresentato come confluente di sinistra alla foce di un altro fiume proveniente dall'interno, erroneamente chiamato Crater, nel quale comunemente si riconosce il Savuto, cfr. G.F. La Tonne, Per lo studio, cit. con bibliografia precedente. © Chr. K. Mitte, Itineraria Romana, Stuttgard 1916, c. 386, R. Saora, L'area di Piano della Tirena e S. Eufemia Vetere, in. Temesa e il suo territorio, p. 88 e S. Crocitz, Les stationes du cursus publicus en Calabre: un état de la recherche, in MEFRA 102, 1, 1990, p. 425. © Cfr. G. Mapoou, La Tabula, cit, p. 338. ^ Il fiume Aduntos è alla base dell'etnico Λαμητῖνοι secondo la preziosa testimonianza di Ecateo, cfr. Sr. Biz, s». Λαμητῖνοι. Il Sabatus fL, invece, è ricordato nell'tinerarium Antonini: lungo il suo corso era la stazione posta a 18 miglia a ‘Sud di Cosenza, lungo la via Appia, diretta all'imbarco per la Sicilia cfr. ft. Ant. 110, Ad Sabatum fluvium. Sull'origine di questi idronimi si veda D. Suvestai, A proposito di alcuni idronimi del Bruzio, in P. Poccern (a cura di), Per un'identità culturale dei Brett, Napoli 1988, pp. 217-221. © Un processo di corruzione analogo ha fatto si che il termine terinaeus di PL. III, 10 divenisse tennes nel Cod. Florentimus Riccardianus, per esempio. “ I termini della questione sono esposti in G. Mappoti,La Tabula, cit. e G.F. La Tons, Per lo studio, cit. © Come Λάμητος, Λάμης e Λαμήτης lo troviamo negli scholii a Licofrone, Alexandra, v. 1085, dove si parla di Λαμητίαι δίναι. * Cir. GF. La Tors, Per Lo studio, cit. Oggi, come allora, ritengo preferibile il Torrente Bagni. © Sul tratto n esame della via consolare interna si vedano LA TorRE 1990 e G.P. Gractuxo, Percorsi e strade, in Storia della Calabria Antica II, Reggio Calabria 1994, pp. 313-318. ? Cfr. It Ant. 1056 ΠῚ ? Alla confluenza tra i fiumi epigrafati Crater e Tanno, presso la foce, la Tabula Peutingeriana colloca una stazione chiamata anch'essa Tanno fl, intermedia tra Temsa e Vibona lungo l'itinerario costiero tirrenico; cfr., G.F. La Toms, Per lo studio, cit, p. 185. * Pur non potendosi portare documenti definitivi circa l'ubicazione di Terina nell'area di S. Eufemia Vetere, molteplici e convergenti sono gli indizi venuti alla luce nelle contrade circostanti; cfr. R. Srapza, Fonti su un insediamento della Piana di S. Eufemia Lamezia (Terina?), in Klearchos 81-84, 1979, pp. 5-53e R. SraprA, L'area cit, pp. 79-89. ® Si tratta di alcuni documenti ecclesiali di VI e VII secolo che consentono di ipotizzare l'esistenza di una diocesi Turritana, probabilmente intermedia tra quelle di Tempsa e Vibo; vi sono, infatti alcune lettere inviate nel 501 da Papa Gelasio ad un episcopus Joannes Turritanae ecclesiae che nel 504 parteciperà anche al Sinodo indetto da Papa Simmaco; vi sono, poi, altre due lettere di Papa Gregorio, del 602, che menzionano una chiesa Turritana, relative a fatti che interessano le diocesi del versante tirrenico della Calabria centro-meridionale; la prima è rivolta alle comunità dei fedeli di Tauriana, Turres e Consentia affinché si preoccupino di eleggere i loro vescovi; l'altra è indirizzata ai vescovi Venerio di Vibo e Stefano di Tempsa, affinché facciano visita, rispettivamente, alle chiese vacanti taurianese (in questo caso il riferimento è alla Tauriana di Palmi, nota sede vescovile assai precocemente attestata, cfr. S. Sertis, Tauriana, cit, pp. 69-70 e p. 83, n. 16) e turritana. Mi sembra chiaro, quindi, come nei pressi della stazione di sosta di Ad Tures, da collocare vicino alla foce del fiume Tauro/Tanno, nell'area. che fu di Terina e dove poi sorgerà la celebre abbazia di S. Eufemia, almeno dall'inizio del VI secolo vi fosse una comunità piuttosto consistente, tanto da esprimere un vescovo; che l'ubicazione di questa ecclesia Turritana sia da collocare nel settore settentrionale della Piana di Lamezia lo conferma ἢ fatto che, durante la vacanza della sede vescovile, dei fedeli si doveva occupare il vescovo della vicina Tempsa; su tutta la questione si vedano D. Taccone GatLucci, Regesti dei Pontefici alle chiese di Calabria, Roma 1902, p. 38, P.F. Rosso, Le origini del Vescovato di S. Marco Argentano, in Arch.St.Cal.Luo. XXIV, 1956, pp. 133-134 © G.F. La Towns, Per lo studio, cit, p. 182, nota 86. # Ch St. Biz, sv. Τέρινα: «Τέρινα, πόλις Ἰταλίας καὶ ποταμὸς ὁμώνυμος, κτίσμα Κποτωνιατῶν, ὡς Φλέγων». 5. Strano, Geo., VI, 1, Le VI, 1, 5. *« Dal diploma di fondazione dell'abbazia benedettina di S. Eufernia, datato al 1062, sappiamo che essa fu fondata sul sterritorium, videlicet, veteris civitatis infra duo flumina usque ad mare consistens. .», evidentemente il ricordo dell'antica città di Terina, cfr. R. Sraora, L'area, cit, p. 88. 7 Tl Greco ha sottolineato la circostanza che molto spesso, nelle aree interessate dalla colonizzazione, i polionimi delle città greche derivino da idronimi indigeni preesistenti, cf. E. Gatco, L'approccio topografico ad una regione dell'Ialia antica: il litorale tirrenico da Palinuro al Golfo di Lamezia, in ATON(ling) IV, 1982, p. 50. A questo proposito si deve qui ricordare come il Pais sostenne una identificazione dei Tauriani ricordati nel citato passo di Livio (XXV, 1, 2), con gli abitanti di Terina, cfr. E. Puis, Storia di Roma durante le guerre puniche, Roma 1927, p. 350, nota 172. ? Chr. GF. La Tonss, Per lo studio, cit, p. 183, nota 87. Sulla vicinanza delle due città e sullo stretto rapportotra le vicen-

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de dell'una e dell'alta si veda E. Ganco, Temesa e Cosentia, in AION(archeol) IV, 1982, pp. 58-9. I] concetto è ben espresso dal termine συνεχής utilizzato da Strabone e riferito a Tena ne riguardi di Temesa, cfr. tano, V, 1, . » Per quanto riguarda l'applicazione del termine πολιςad una comunità indigena di epoca arcaica si rimanda alle considerazioni di E. Gxsco, Lapproceo, cit, . 51, da condividere în too, Sulla colonizzazione di Terina ad opera di Crotoniati non Ve dubbio; maggiori e incertezze sulla cronologia di questo evento, a mio giudizio strettamente connesso alla politica cspanSionistica di Crotone sul Tirreno in funzione anti sibarita o più probabilmente, anti locrese; dal momento che ἢ suo destino appare intimamente legato a quello della contigua Temesa, credo che, in accordo con la testimonianza di Ecateo e con la pur scarsa documentazione archeologica, si possa pensare all'istituzione di una colonia solo nella prima metà del V secolo; per tuna diversa ipotesi tendentead accreditarne una assai precoce colonizzazione, cfr. G. SpabeA, Terina e lo Pseudo-Scymmno, in PPCLIV-CLY, 1974, pp. 81-83. τ Il golfo viene chiamato Λαμητικὸς da Aristotele (Pol. II, 1329b) e Nexrivos da Antioco (in Sreaso, VI, 1, 4 ein Dio.Ar. AR, I, 35) ἢ termine antiocheo viene unanimemente ritenuto una corruzione di Λαμητικὸς; cfr. E. GRECO, L'approccio, ci pp. 45:52, F. Provmena, Sinus ingens Terinaeus (Pin. nat hist. I, 72), in Annali Perugia XII, 1975-76, pp. 341-346 e R. Sta Dea, Fonti, ci, po. 16:19. di Tale egemonia è assai ben documentata dalle bellissime monete, dalla formazione dell'eguaglianza Terina = Megale Hells riferita da Stefano di Bisanzio: «ἐκαλεῖτο δὲ καὶ μεγάλη Ἑλλάς» e dai numerosi riferimenti dell font (Tucidide, Licofrone, Strabone). Thuc, VI, 104; sullinterpretazione del passo si vedano i già citati contributi di E. Gr&co, L'approccio, ci. F. ProwmRA, Sinus, ci, R. Sane, L'area, cit; particolarmente convincente quest'ultimo, cir. R. Sua, Fonti, cit. pp. 19-22. 7 PL. nat. ist, I, 72; sul passo si veda F. PRoNTRERA, Sinus, ci. e E. GRECO, L'approcio, cit. che considerano la menzione pliniana una citazione colta, dal momento che Terina non esisteva più da quasi tre secoli e che lo stesso golfo si chiamava ormai Vibonensis, come lo stesso Plinio riferisce e come conferma Tolomeo (definendolo ἱππωνιάτης, alla greca, cfr IL 1, 9); col sinus terinaeus, tuttavia, definito ingens da Plinio, si ritiene che si intendesse la più ampia falcatura compresa tra il Capo Palinuro ed il Capo Vaticano se non, addirittura, estesa fino allo Stretto di Messina. % G. Mapou, La Tabula, it, e C. Tusano, Le conoscenze geografiche del Bruzio nell'antichità classica, in Klearchos 65-68, 1975, p.68. “Abbiamo già visto come ἃ tale ipotesi identificativa non creda più neanche lo stesso autore ^» Si deve osservare, per inciso, come nessun Portolano antico vi faccia riferimento, sintomo evidente di scarsa visibilità e scarsa utilità nella navigazione, tanto come ormeggio che come punto di riferimento. ἢ termine è usato anche in riferimento all Acropoli di Atene e di Tebe, sebbenein contesti non geografici. Cfr. LooezScorr, Greek ~ English Lexicon,sv. σκόπελος. 9 Cr. S. Serms, Tauriana cit p. 65, ma anche Hu.sex, RE, II 1 (1897), c. 909 e Patue, RE, IV, A2, c. 2540. ? Per l'analisi dettagliata di questi argomenti rimando a G.F. La Tomar, Per lo studio, ct, e soprattuto a G.F. LA Torre, Forma Iaia, cit, 9 ρα. κά esempio Portolan Rizo, 75, in K. Krersesa, Die tlienischen Portolane des Mitelalers Hildesheim 1962, p.489. * Sulle scoperte archeologiche effettuatea Tiriolo si vedano, S. Femu, in NSA 1927, pp. 336-358 e R. Senn, Nuove ricer. che sul terioro delfager Teuranus, in Klearchos 73-16, 1977, pp. 123-159, 7! Ci. A. Decnasst, ILLRP, Firenze 1963, n. 511 * Cr G. Ausssto, Saggio, cit, p. 403 che fa derivare il toponimo moderno Tiriolo-Te(u)riolum da Teuranus, e questo da "turo = *tauro; contra S.Setms, Tauriana, cit, p.69, nota 55. 9 Cir. R Stanea, I Brett e Ager Teuranus, in P. Poccert (a cura di), Per un'identità, cit, pp. 203-208. 5 Cfr, E. Pus, Terina colonia di Crotone, p. 63. Sullager Teuranus si veda pure E. Cucam, Storia della Magna Grecia, Milano-Genova-Roma-Napoli 1932, III, pp. 202 e 281 ν Nettamente contrario a tale proposta identificativa, come visto, è S. Serms, Tuuriana, it. p. 69 e nota 55, con bibliografia precedente, seguito anche da F. Proxrnena, Cosentii, ci τ Sì deve anzi notare come, dopo la conclusione della guerra annibalica e la definitiva scomparsa di Terina dalla poleografia del Bruzio, l'estensione dellager Teuranus potrebbe aver compreso anche l'area pianeggiante del settore settentrionale della Piana Lametina, a Nord dell Amato. * Cir J, Scixerz, Ineraria Romana II, Leipzig 1940. » Ch. K, Seavea, Fonti, cit, e G.P. Gwiciiso, Percorsi, cit, pp. 307-308. Dirimente in proposito la conservazione dellidronimo nell'odierno Fiume Angitola "9 II passo riportato è quelo della versione data da Guidone, meglio tradita: il passo dell'Anonimo Ravennate, nella sostanza coincidente, presenta pero una lacuna:eAngil, que confinatur cum territorio super scriptae civitatis... integrata sulla base del testo di Guidone. *' Le notazioni, evidentemente aggiunte rispetto allarchetipo sul qualesi basano le due opere, sono integrazioni inserite sulla base di altre fonti, probabilmente successive; quelle che qui οἱ interessano compaiono lungo fl tracciato della via Appia, da Roma verso lo Stretto, confrontabile con l'analogo itinerario riportato dalllinerarium Antonini. * Cfr. Tab. Peut, seg. VIL Av. Rav, IV, 32 eV, 2; Gu, 31 6.73. infatti, elencano i centri ? Si deve tener presente, tuttavia, come i due passi in questione presentino dei problemi; esi, entrambi ad Angila/Angitula; posti lungo ἢ tracciato della via Appia scendendo da Roma verso lo Stretto, ma si interrompono inseriscono qui la frase che abbiamo riportato, facendola seguire da un altro gruppo di centri di difficile ubicazione: et supersc in Scillaceum si debba riconoscere sunt civitates in eadem regione Ballarum id est Bille, Crater, Coccinium Scilaceum»; Scolacium, riportata nella Tabula Peutingeriana col nome di Scilario, come pure è probabile, potrebbe trattarsi di centri posti 465

lungo la via istmica Lamezia - Squillace; se, invece, visi debba riconoscere Scilla, si tratterebbe di centri non altrimenti noti posti ra la Piana di Lameziae l'area dello Stretto; il tratto meridionale successivo, invece, con l'elenco dei centri sostanzialmente coincidente con la Tabula Peutingeriana, viene descritto nei paragrafi IV, 32 e V, 1 dell'Anonimo Ravennatee nei para ταῦ! 31-35 e 73-79 dell'opera di Guidone, che seguono l'itinerario costiero tirrenico da Reggio fino ad Albintimilium. % Lo stesso Maddoli ha notato come toponimi simili si riscontrano anche in altri ambiti dell'Appennino centromeridionale: il territorio degli Aurunci e quello degli Irpini, cfr. G. Mabou, La Tabula, cit. p. 333, nota 5. * Chr. F. Proxmna, Cosentini, cit., p. 87 e V.A. Pormiast, Regesta Pontificum Romanorum, Berlino 1874, I, n. 9302. % Sul passo si vedano AJ. Toywnrr, Hannibal" Legacy, Oxford 1965, II p.27, nota 6 e F. PuoxruzsA, Cosentini, ci © Le argomentazioni storiche addotte dal Prontrera non sembrano probanti e, comunque, non sufficienti a chiudere il problema, cfr. F. Proxtasea, Cosentini, cit, pp. 84-87; alla stessa sostanziale conclusione pervenne il Pais, attribuendo, come visto, il passo addirittura a Terina; cfr. supra, nota 75. # Lv, XXIX, 38, 1 e XXX, 19, 10. ? Chr. F. Costas,Le fonti, cit. che pure preferisce attribuireil passo liviano ai Tauriani meridionali. © Il toro ἃ l'animale più frequentemente attestato, insieme al lupo, nelle pratiche del ver sacrum, cfr. M. Paorrio, Genti, cit, p.86.

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Marina MARTELLI CRISTOFANI ARMI MINIATURISTICHE DA IALYSOS

Nella perspicua varietà dei suoi costituenti il deposito votivo dell'Athenaion di Talysos, di cui ho riproduzioni miniaturistiche. Nel novero di queste, oltre a scudi e bipenni (sia in bronzo che in ferro che in avorio), figurano in particolare una corazza ed un elmo in lamina di bronzo ritagliata. L'elmo (inv. 11257; h. em 9,5), a silhouette di profilo a d., ha alto cimiero ricurvo alla sommità, ove è praticato un foro pervio, sì da assumere l'aspetto di una protome ornitomorfa, e calotta lievemente rientrante nella regione occipitale, paranuca accennato, paragnatide distinta, apertura in corrispondenza degli occhi priva di paranaso (fig. 1, a). fornito una presentazione d'insieme seguita da altri interventi ', propone, accanto ad armi reali, loro

La corazza (inv. 11258; h. cm 8,2; largh. cm 7,3), limitata alla parte anteriore, a piastra rettangolare, priva di partizioni anatomiche, tranne i capezzoli, a rilievo (i quali, come mi ha suggerito epi-

stolarmente il prof. A. M. Snodgrass, che ringrazio per la sollecita cortesia, possono "to be a ‘memoαὐ of the attachment-pins which were used, in real life, to secure the shoulder-pieces to the breastplate, and which were located more or less in the same place”), ha gli spallacci, a fettuccia, congiunti direttamente alla placca, che conservano la curvatura originaria e recano pure, presso l'estremità, un foro passante di sospensione (fig. 1, b). In virtù della loro spiccata rarità i due oggetti si segnalano all'attenzione, giacché, se - come ha rilevato uno specialista dell'argomento quale A.M. Snodgrass - armature e armi reali ricorrono comunemente nei luoghi di culto ellenici, quelle in scala ridotta sono invece piuttosto infrequenti?, configurandosi per di più come “mainly a speciality of Crete”, alla tipologia dei cui esemplari puntualmente corrispondono quelli rinvenuti agli inizi del ‘900 nel tempio di Apollo Epikourios a Bassai. Analizzando questi, lo studioso inglese ha riferito tale tipo di offerta a mercenari cretesi che, nel-

lo specifico caso arcade, avrebbero partecipato, a fianco degli Spartani, alla seconda guerra messenica e all'assedio del Monte Ira, su cui si era arroccato Aristomene *: una vicenda che, tramandata da

a

^

Fig. 1. Elmo e corazza miniaturistici da lalysos, Athenaion: 467

Fig. 2. Armi miniaturistiche da Gortyna.

Pausania, fonte i Messeniaká del poeta epico cretese Riano di Bene, fiorito nella seconda metà del IIT sec. a.C., s'innesta nella dibattuta questione della cronologia delle guerre messeniche e della figura di Aristomene*. D'altro canto, di τοξόται cretesi ἔκ te Λύκτου καὶ ἑτέρων πόλεων ingaggiati come μισθωτοί dai La-

cedemoni il Periegeta parla espressamente come autori della cattura dello stesso leader della rivolta messenica, momentaneamente assentatosi da Ira durante una tregua (Paus. IV,19,4), e di un mercante di Cefallenia che riforniva del necessario gli assediati (ibid. 20,8). Secondo Musti, tuttavia, si tratterebbe di episodi inseriti in quella sorta di racconto eroico di sfondo omerico, di ‘romanzo’ avventuroso di stampo ellenistico di cui Aristomene sarebbe protagonista, ma che Snodgrass ritiene veritieri almeno a livello di partecipazione cretese in questo scena-

rio, pervenendo a ipotizzare che le armi di modulo miniaturistico siano state dedicate nel santuario

di Bassai, poco distante dal Monte Ira, proprio da arcieri cretesi per commemorare qualche successo bellico, come uccisioni o catture di opliti, messeni o árcadi. Come s'è accennato, la maggiore concentrazione di armi miniaturistiche riproducenti elementi

della panoplia si registra in effetti, nella prima metà del VII sec. a.C., in santuari di Creta ~ Praisos, Palaikastro e Gortyna (fig. 2) - ove figurano vari elmi del tipo B - ‘Open faced Helmet della classificazione di Snodgrass e uno del tipo Ca — ‘Cretan Helmet'*, corazze, scudi, mitre e uno schiniere in lamina ritagliata e, nel caso degli elmi e delle corazze, anche in due parti distinte poi congiunte, mentre a Bassai, oltre alle stesse categorie di armi e ad un maggiore numero di schinieri, compaiono forse anche dei copribraccio*. L'elmo ialysio appare una sorta di contaminazione tra il tipo corinzio di prima fase evoluta? e quello cretese, il summenzionato Ca: con l'uno condivide infatti la conformazione complessiva e l'indicazione della paragnatide, la quale articola e infrange Yorizzontalita del margine inferiore canoni468

ca nella formulazione cretese, e con l'altro l'apertura a profilo ricurvo in corrispondenza degli occhi e l'assenza del nasale, del quale il corinzio è invece di norma dotato. Tuttavia, la conformazione della parte superiore della calotta e la mancanza del paranaso richiamano più propriamente l'lmo ‘ionico’, che talvolta è dotato, come appunto nel caso in esame, di un alto cimiero (ad es., su un sarcofago clazomenio del Borelli Painter: R.M. Coox, Clazomenian, cit. infra, pp. 9 ss., B 8, tavv. 6-7). Pur con queste specificità, il nostro elmetto

trova i suoi corrispondenti dimensionali, tecnici e semantico-funzionali in quelli cretesi e árcadi. La corazza, invece, si distacca nettamente dal-

la foggia tubolare o a campana con notazioni anatomiche dei succitati complessi di Creta e Bassai essa è infatti a corsetto rigido con spallacci e, în assenza di adeguati paralleli tipologici, pare una sorta di antecedente del tipo a spallacci*, noto Fig. 3. Frammento di sostegno da lalysos, Athenella documentazione figurata dal 540-30 a.C. ca., incluse le hydriai ceretane e i sarcofagi clazomeni®, che potrebbero se non altro attestarne una precoce diffusione proprio in ambito greco-orientale, e di cui l'esempio più celebre e fastoso è quello, in ferro e oro, della tomba ‘reale’ di Vergina ritenuta di Filippo II di Macedonia”. Come nei santuari di Lindos", di Creta, di Bassae, oltre che di Olimpia, di Delfi e di altri centri ellenici, anche quello di Ialysos — che annovera pure piccoli scudi del non comune tipo ‘Herzdi formato miniaturistico si accompagna a quella di armi reasprung’ - l'offerta simbolica di armi Nella stipe ialysia abbiamo paragnatidi di elmi ‘ionici’, frammenti di scudi decorati da guilloches e figurazioni a sbalzo, spade con fodero, punte di lancia e di freccia, in quella lindia elmi di tipo corinzio, illirico e ‘ionico’, corazze, cnemidi, scudi, spade, bipenni, cuspidi e sauroteres di lancia e di giavellotto, punte di freccia 4; in quest'ultima poi un elmo miniaturistico con lophos ricurvo è ricavato, come vari esemplari cretesi, da due lamine congiunte con un ribattino, mentre un altro è fuso ". Ex voto di tale natura, cioè appunto armi ' sia reali che in miniatura, interpretate di solito come spoglie vere o simboliche, sono indirizzati non solo a divinità maschili, come Zeus nei succitati casi di Praisos e Palaikastro o Apollo Epikourios a Bassai, ma anche a divinità femminili, fra le quali in primis Athena”, titolare dei santuari delle acropoli di Ialysos, Kamiros e Lindos, come di quello delYacropoli gortinia, le cui basilari, ancorché certo non esclusive, competenze guerriere sono valorizzate altresì dall'immagine di Promachos, del pari eseguita in lamina ritagliata e con elmo peculiarmente cretese sovrastato da un'alta cresta, rinvenuta nel santuario di DrerosΝ᾽. Se, in generale, gli anarhemata di genere militare nei luoghi di culto esprimono la volontà da parte del devoto di offrire al nume ciò che più significativamente lo qualifica, e forse anche il riferimento a modelli eroici, l'offerta di armi reali indica nei dedicanti esponenti di una classe sociale elevata", laddove i più modesti e accessibili sostituti in scala ridotta costituiscono dediche di carattere ‘economico’, in quanto provenienti da ceti militari meno abbienti quali quelli mercenari. È possibile quindi che questo tipo di anathema nell’Athenaion del Monte Fileremo provenga da un epikouros che ha consacrato alla dea poliadica la spoglia simbolica di un nemico battuto (e converrà ricordare che mercenari di Talysos al soldo del faraone Psammetico II sono espressamente attestati dalle iscrizioni tracciate da due di essi ad Abu Simbel, sulle statue colossali di Ramses II, nel corso della campagna nubiana del 591 a.C.), ma, alternativamente, altrettanto possibile è una sua connessione con un rito di passaggio di un giovane all'età adulta, affidata alla forma simbolica della miniaturizzazione al momento di assumere una funzione militare.

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D'altra parte, la stipe di Ialysos comprende il frammento di un manufatto di pregio tutt'altro che frequente, della fine dell'VIII sec. a.C., riferibile con sicurezza alla toreutica cretese tardo-geometrica, e precisamente un sostegno bronzeo a quattro facce (fig. 3), lavorato a giorno con figure zoomorfe saldate a verghette, del tipo — esemplato su modelli ciprioti del Tardo Bronzo sovente forniti di ruote - documentato nell'Antro Ideo, nel dromos di una tomba a tholos di Khaniale Tekke (Knossos) e nel santuario di Hermes Kedrites cd Aphrodite a Kato Syme, oltre che a Delfi. Le evidenze considerate vengono a prospettare un'ulteriore, piccola ma non trascurabile, testimonianza archeologica di quei rapporti rodio-cretesi che hanno giocato un ruolo non secondario nella storia della colonizzazione greca in Occidente, sfociando, proprio quasi in concomitanza con il periodo al quale esse rimontano, nella fondazione di Gela, la città che ha costituito il perno della mia antica e duratura amicizia con Ernesto De Miro, cui questo munusculum è rivolto.

NOTE ? M. Marretti, La stipe votiva dell'Athenaion di Jalysos: un primo bilancio, in S. Diez - I. Parxck®ISTODOULOI (ed), Archaeology in the Dodecanese, Copenhagen 1988, pp. 104-120; EAb., Avori vicino-orientali e greci dll'Athenaion di Jalysos, in Akten des XIII Internationalen Kongresses für Klassische Archaologie (Berlin 1988), Mainz 1990, p. 396; EaD., I Fenici e la questione orientalizzante in Italia, in Atti del Il Congresso Internazionale di Studi Fenici e Punici (Roma 1987), Roma 1991, pp. 1050-1053, figg. 1 a-b; Ea, La stipe votiva dell'Athenaion di Ialiso, in M. Livaniort - G. Rocco (edd.), La presenza italiana nel Dodecaneso tra il 1912 e il 1948. La ricerca archeologica, la conservazione, le scelte progettuali, (Catalogo Mostra Rodi 1993, Roma 1996, Atene 1997), Roma 1996, pp. 46-50, figg. 106-119; Eap., Cintura urartea da llysos, in Alle soglie della classicità. II Mediterraneo tra tradizione e innovazione (Studi in onore di Sabatino Moscati, I) Pisa-Roma 1996, pp. 853-861; Ἐκ, La stipe di lalysos: avori orientali e greci, in Un ponte fra l'Italia e la Grecia (Atti del Simposio in onore di Antonino di Vita, 13-15 febbraio 1998), Padova 2000, pp. 105-118. Ὁ Oltre alla bibl. concernente gli exx. cretesi e di Bassae cit. infra a note 3 e 6, sulle armi miniaturistiche, tra cui prevalgono gli scudetti rotondi sia bronzei che διε, v. W-H.D. Rouse, Greek Votive Offerings, Cambridge 1902, pp. 116, 387 s., 390, figg. 51-52; A.M. Suoncrass, Early Greek Armour and Weapons from the End of the Bronze Age to 600 B.C. (in seguito abbreviato EGAW), Edinburgh 1964, pp. 41, 45, 47, 49, 57, 63, 65 s. 203, 240, nota 53, con lett; In, Arms and Armour of the Greeks. (poi abbreviato AAG), London 1967, pp. 65, 71 s., 73; J. Bonn, Excavations in Chios 1952-1955, Greek Emporio, London 1967, p. 232 s. fig. 153, tav. 94, con rifer.; M.W. Sroor, Note sugli scavi nel santuario di Athena sul Timpone della Motta (Francavilla Marittima-Calabria), 3, in BABesch 55, 1980, p. 173, fig. 27; M. Muss, Aegina, Aphaia-Tempel. Neue Funde von Waffenweihungen, in AA 1984, p. 277, fig. 11, con vari rifer. a note 58, 64; A. Lemess, To hiero tou Erme kai tes Aphrodites ste Syme Viannou, I, Chalkina kretika toreumata, Athena 1985, pp. 73, 140, nota 373; C.G. Sion, The Archaic Votive Offerings and Cults of Ionia, Ph. D. Diss. University of California, Berkeley 1986 (Ann Arbor microfiches), pp. 240 ss., 256-258; Pa. Biuzz, Archaische Bronzevotive aus dem Heraion von Samos, in Scienze dell'antichità 3-4, 1989-1990, (1991), pp. 323 ss, figg. 4-7; ΜῈ. Vovarais, The early Sanctuary ofAthena Alea at Tegea and other Archaic Sanctuaries in Arcadia, Goteborg 1990, pp. 198-200, 337 ss, 186-196, tavv. 135-140, p. 279, L. 28, tav. 141, con bibl. prec. (scudetti variante arcade del tipo Dipylon da Tegea, Lousoi, etc); M. Sroor, Dish or Votive Shield?, in BABesch 66, 1991, p. 165 s; G. Rizza, Uno scudo dipinto del Museo di Chania, in RAL s.IX, 1V.1, 1993, pp. 39-44 (con monomachia a 2); A. Moustaxa, Fin Votivschild aus dem Heraion von Samos. Zum Verhaltnis zwischen Vasenmalerei und Toreutik in lonien, in MDAI(A) 109, 1994, pp. 30 ss., tav. 11, 1-2. V. inoltre per piccoli elmi corinzi: Antikenmuseum Berlin, Die ausgestellten Werke, Berlin 1988, p. 75, n. 5, con bibl. prec. cui adde E. Κύκαην, Der griechische Helm, Marburg 1936, p. 46; H.P. Istex- M. Scuartauarst (Hrsg.), La collezione Collisani - Die Sammlung Collisani, Z0rich 1990,p. 157 s. n. 226, tav. 37, con rfer.; J. CHRISTANSEN, Greece in the Geometric Period, Ny Carlsberg Glyptotek, Copenhagen 1992, p. 92, n. 71, con bibl. prec. ("acquiredon the art market 1963" con una cinquantina fra bronzetti a figura maschile ed equina, pendagli sigilli, ibule, etc, “allegedly from the Athena Ithonia sanctuary at Philia"); Christies, New York, 9 December 1999, p. 118, n. 435. Per le armi miniaturistiche in area etrusco-laziale e italica, prevalentemente, ancorché non esclusivamente, documentate in corredi funerari, v. PF. Staty, Zur eisenzeitlichen Bewaffnung und Kampfesweise in Mittlitalien, Mainz am Rhein 1981, pp. 26 s., 47, 89, 177-180, 184, 465 s, Liste W 60, Karte 40; per un complesso di provenienza scono. scita v. Italy of the Etruscans (Catalogo Mostra Gerusalemme 1991), Mainz 1991, p. 91 s. n. 109. ? A.M. Swopanass, Cretans in Arcadia, in Antichità cretesi (Studi in onore di Doro Levi, Il = Cronache di Archeologia 13, 1974, [1978)), pp. 196-201, tav. XXIII, con bibl. prec. seguito da ME. Vovaras, The early Sanctuary, cit. pp. 38 s. 218-220, 267 s, con rifer. adifferenti ipotesi interpretativedi altri studiosi. * Sul problema cronologico delle guerre messenichee sulle fonti di Pausania ad esse relativev. ora D. Must, in Pausania, Guida della Grecia, Libro IV, La Messenia, Milano 1991, pp. XVI ss. oltre che Ib., Storia greca. Linee di sviluppo dall'età micemea all'età romana, Roma-Bari 1989, p. 147s. * A.M. Sxoponass, EGAW, rispettivamente pp. 16 ss. e 28 ss, con lett che, come Kukahn caltri lo ritiene una variante o modificazione cretese del tipo corinzio, opinione contestata da H. Horruaxn, Early Cretan Armorers, Mainz 1972, pp. 1 ss. e da J. Borcutanot, Helme, in Archaeologia Homerica, I, Kapitel E, Kriegswesen, Teil 1: Schutewaffen und Wehrbauten, Gottin470

gen 1977, p. 69, tav. VI a Raupenhelm"), i quali fondatamente hanno sostenuto l'indipendenza da essoe l'influsso di modelli assi e tardo-hittiti. * 8. Buntox, Bronzes from Palaikastro and Praisos, in ABSA 40, 1939-1940, (1943), p. 54, nn. 17-29 (scudi),31 (elmo), tav. 27.17, 28.31, 29.29, p. 56 s. (scudi), nn. 2-14 (corazze), 17-23 (elmi), 24-27 (mitra), tav. 31.2.13.17.C, 32.23, con bibl. prec; a. The Dating of Helmets and Corslets in early Greece, ibid, pp. 79-82; inoltre A. HAGENANN, Griechische Panzerung. Fine entwicklunggeschichiliche Studie zur antiken Bewaffnung, I, Der Metaltharnisch, Leipzig-Berlin 1919, pp. 30, 55 s, 146, nota 1, fig. 44; D. Lem, I Bronzi di Axos, in ASAA 13-14, 1930-1931, (1933), pp. 75, 84; E. Κύκλην, Der griechische, cit., pp. 15, 32; R. NIERavs, Eine frühgriechische Kampfform, in JDAI 53, 1938, p. 106, n. 11, con altra bibl: HLL. Lorna, The Hoplite Phalanx with special Reference to the Poems of Archilochus and Tyrtaeus, in ABSA 42, 1947, p. 108 s D. Lava, Gli scavi del 1954 sull'acropoli in ASAA 33-34 (n.s. 17-18), 1955-1956, (1957), pp. 260 ss. figg. 71-74; A.M. Swoponass, EGAW, pp. 16, 28, 30, 41 di Gortina, 65 s., 74-76, 240, nota 53; In. AAG, pp. 52, 63,ΤΊ s; H. Horsuws, Early Cretan, cit, pp. 2, 7, 22, tav. 41.2.4; A.M. Snopowass, Cretans, cit, pp. 196-198, fig. 1; 1. Boncnsuapr, Homerische Helme. Helmformen der ἀραῖς in ihren Beziehungen zu orientali schen und europaischen Helme in der Bronze — und frühen Eisenzeit, Mainz 1972, pp. 69, 145, tav. 30,2, Beil. E, IL6; I., Helme, cit. lc. 7 AM. SxoncRAss, EGAW, pp. 10 s, 20 ss con bibl. prec, e I, AAG, p. 51; H. Privo, Korinthische Helme, in AA.WV., AntiJe Helme, Sammlung Lipperheide und andere Bestande des Antikenmuseums Berlin, Mainz. 1988, pp. 67 ss In., Schutz und Zier, Helme aus dem Antikenmuseum Berlin und Waffen anderer Sammlungen, Basel 1989, p. 20 s. * A. HAGEMAN, Griechische Panzerung, cit. pp. 1653. AM. Suoncaass, AAG, pp. 90 5., 109, 119 s. la n. 1, p. 7, figg- 1-2, tav. e n particolare * Perle une v. J. M. Hentttaum, Caeretan Hydriae, Mainz 1984, p. 131 s. IIIG4, 1 nel lato A), la n. 7, p. 18, fig. 7, tav. 43 ac, 44 c (oplita 3 nel lato A), la n. 23, p. 41, fig. 67, tavv. 88 a, 89, 21 ς, 22 α (oplita 90 a.c (Tolao nel lato A), tuttee tre del Pittore dell'Aquila. Per gli altriv. R. M. Cook, Clazomenian Sarcophagi, Mainz 1981, p. 123, e in particolare, per quanto si pub scorgere nelle poco leggibili riproduzioni, G 8, p. 36, tav. 48, 3 e G 18, p. 41, fig. 25, tav. 71.1, entrambi dell'Albertinum Group, del primo trentennio del V sec. aC. "© Μ. ANDRONICOS, Vergina. The Royal Tombs, Athens 1984, pp. 140 s., figg. 33, 95-96. de l'acropole, 1902-1914, I Les petits objets, Berlin 1931, c. 391 s, nn. 1562-1566 b, ? Cus. BusxeNsexo, Lindos, Fouilles tav. 63 (doppie asce, elmi, scudi). "HLL. Lora, Homer and the Monuments, London 1950, p. 169, con cenno a tre exx. ripreso da A.M. Swopcrass, EGAW, p. 228, nota 67 e I. Borcamarot, Frühe griechische Schildformen, in Archaeologia Homerica, cit. p. 41, c. Ὁ. M. Marretti, La stipe votiva dell Athenaion di Jalysos: un primo bilancio, cit. p. 109 e Ea, La stipe votiva dell Athenaion di laliso, cit., p. 49. Cum, Broxxexarno, Lindos, cit, cc. 185-196, nn. 565-611, tav. 22-23; v. anche E. ΚύΚΑΗΝ, Der griechische, cit, pp. 37, Der ionische Helm, Diss. Gottin79,n. 95; A.M. Swoperass, EGAW, pp. 32, 128, N3, 129, 07, 151, 239, nota 53; K. H. Epaicu, a fig. 10, 33, 51 e carta di distribu. gen 1969, pp. 1 s, 66, 103, 118; H. Priva, Korinthische, cit, pp. 21 e cartadi distribuzione zione a fig. 9, 104 e carta di distribuzione a fig. 48. Cur, BunkenneRo, Lindos, cit, c. 391 s, nn. 1564-1565, tav. 63. è utile, pur se incompleto, l'elenco di F. di armi dedicatee a diverse divinità % Per testimonianze letterarie ed archeologich Baowuer, Griechische Weihegaben und Opfer (in Listen), s4. 1985, passim e in ptc. p. 61; v. inoltre A.W. JoxNstON, Supplement s. B, 442,n. 1d a, C, 1961-1987, in L.H. Jerrexv, The Local Scripts of Archaic Greece, Oxford 1990), pp. 434, 436, nn. 12V, a-b,460,440 462, C, 479,A, 481. 443, n. Ta, 445, nn. 3-3 a, 449 s, nn. 11 a, 202,264, 37 a, 454 s, n. 6a, C, E-F, 456, n. 30 a, 458, alla bibl. dei nn. 1-5, 11, 12 va ag7 Per dediche iscritte di armi ad AthenaF. BrouweR, Griechische, ci. p. 18, nn. 1-15: XIX.2, 1976, pp. 241, n. 462 b (dalVIII, s MonAL in arcaica, Grecia nella votive dediche delle formule Le giunta M. L. Lazzari, di Athena Chalkioikos a Sparta: corazza miniaturistica), Tacropoli di Atene: cinque punte di lancia), 236, n. 425 (dal santuario con M. L. Lazzasuvi, Ῥ 186, n. 46, tav. L2 (dall'acropoli di Atene: aspidion). Tale listadi Brommer va inoltre integrata almeno 198, n. 145 (elmo mi. a Megalopoli) Le formule delle dediche, cit, pp. 193, n. 106 (frr. di cnemide dal santuario di Zeus Lykaios niaturistico da Leucade), 391, n. 989 (fr. di elmo dall'acropoli di Atene). " AM. Sxopoaass, EGAW, p. 16, con bibl. prec; H. Horrwaxx, Early Cretan, cit., pp. 16, 37, tav. 41.1, 76,contav.altra58. bibl; LIMG, II Zürich-München 1984, p. 965, n. 68, s.v. Athena; A. Lesesst, To hiero tou Erme, cit. pp. 57, 15,und1, Waffeneinsatz bei "7 Sulle armi come oggetti di prestigio e status symbols v. di recente S..G. Gróscisi, Waffenbesitz den Griechen, Frankfurtam Main 1989, pp. 75 ss. di Jalysos: un primo bilancio, cit. p. 109, fig. 6, con cfr. ἃ nota 59, ai quali si 9/ M. Mantes, La stipe votiva dell'Arhenaion aggiunge M. Brane, The Greek Geometric Warrior Figurine, Interpretation and Origin, Louvain-La-Neuve - Providence (Rhode Island) 1991, p. 234,n.27, tav. XXI, fg. in alto. AbbENDUM

trattati nel Nelle more della stampa sono apparsi alcuni lavori concernenti questioni o materiali di confronto per quelli nota 3) ha avanpresente contributo. Un'interpretazione diversa da quella di Snodgrass in merito alle armi di Bassai (supra, of War, Protectorof e valorizzando Apollo come divinità marziale, N. Frstns, Apollo: God ato, riferendole a mercenari árcadi pp. 104 ss. Mercenaries,in K. A. Sutebv, Archaeology in the Peloponnese. New Excavations and Research, Oxford 1994, ‘Mentre di nessun momento è il brevissimo riassunto di V. Rowcer, Miniarunwaffen-Votive von der Agdis zur Magna Grecia. 4n

Kulturkistorische Überlegungen, in Kult und Funktion gricchischer Heiligttimer in archaischer und klassischer Zeit (1. Archàcologisches Studentenkolloquium, Heidelberg, 18..20. Februar 1995), Mainz 1996, p. 97, delle armi e dell'armamento nelJa Grecia arcaica tratta l'informata monografia di E. Jatva, Archaiologia on Archaic Greek Body Armour, Rovaniemi 1995 (nonché la recensione di A. Jouwsron, in Faravid (Acta Societas Historicae Finlandiae Septentrionalis) 18-19, 1994-5, pp. 281287): a proposito delle corazze ‘composite’ (pp. 33 ss), tipologia cui appartiene l'esemplare ialysio esaminato (supra, note 8-10), lo studioso finlandese propone, recependo una precedente indicazione di A. Johnston formulata sulla scorta di figurazioni vascolari tardo-geometriche, la retrodatazione dell'origine del tipo a tale epoca (pp. 35, 44), cosicché plausibile appare tuna datazione al VII sec. a.C. dell'e voto di Ialysos, che verrebbe quindi a configurarsi, al momento, come la più antica attestazione diretta, ancorché di modulo miniaturistico, dî siffatta foggia di corazza. Per scudi greci in scala ridotta (supra, nota 2) v. anche PH. BRIZR, Offrandes de l'époque géométrique et archalque à l'Héraion de Samos, in Héra. Images, espaces, cultes (Actes du Colloque International du Centre de Recherches Archéologiques de TUniversité de Lille Il et de l'Association P.RA.C,, Lille, 29-30 novembre 1993), Naples 1997, p. 116, figg. 16-17 (Fitili), 18-19 (bronze; R. ϑέννε-Μ. Hum, Arbeiten am Zeytintepe im Jahre 1994, inAA 1997, p. 116, fig. 3 (da Mileto, santuario di Aphrodite); K. Braun, Katalog der Antikensammlung des Instituis für Klassische Archdologie der Univesitatdes Saarlandes, Mohnesce 1988, p. 79, nn. 186 (quattro exx. "angeblich aus einem Grab bei Tanagra") - 187, tav. 29,9, con rifer. (tutti fitti; W. Het», Das Heiligtum der Athena in Milet, Mainz 2000, p. 144, B 52-53, fig. 71, tav. 31. Per exx. bronzei di ambito etrusco (supra, nota 2) v. anche C: Moria: Govr-S. Tovo, Due piccoli scudi di bronzo e il problema dell'armamento nella società villanoviana bolognese, in ArchCl 45, 1993 (1995), pp. 1 ss., figg. 1-5 (Bologna, tombe 70 e 340 Benacci; Verucchio, tomba 89 Lippi). Per armi miniaturistiche in aree sacre della Lucania (Banzi - loc. Fontana dei Monaci; Rossano di Vaglio) v. Armi. Gli strumenti della guerra in Lucania (Catalogo Mostra Melfi 1993), Bari 1994, p. 168, nota 50, con rifer. Per gli elmi ‘ionici’ (supra, nota 14) v. inoltre H. Borx-S. Hause, Sammlung Axel Guttmann, I, Frühgriechische Bronzehelme, Mainz 1994, p. 21, figg. 10 (da Olimpia) - 11 (da Lindos); W. Het, Vom urartdischen Raupenhel zum ionischen Helm. Zur einer Wangenklappe aus dem Athenaheiligrum in Milet, in ISIMit 49, 1999, pp. 141-157 Gn pte. sugli exx. lindi , pp. 1465. figg. Sa, 6a, 149, fig.9, 154 s. fig. 15);Ib. Das Heiligtum,cit, pp. 137-139, B 44-45,fig. 67, tavv. 29, 40.

472

MARIA GRAZIA MARZI CERAMOGRAFIA CORINZIA E CERAMOGRAFIA ATTICA: RELAZIONI E CONFLUENZE

I motivi decorativi floreali usati dai ceramografi corinzi e attici dalla fine del VII secolo a.C. ai primi decenni del VI permettono di cogliere il particolare rapporto tra Corinto e Atene in questo periodo. Lo studio di tale tematica floreale è sembrato adatto a rendere un cordiale omaggio al Prof. Ernesto De Miro che, operando in Sicilia, si è trovato coinvolto in simili problemi. I pittori corinzi come quelli attici usano disporre gli ornamenti floreali in motivi continui e in motivi isolati. Gli elementi principali di tali ornamenti sono la palmetta e il fiore di loto, oltre alla rosetta usata quasi sempre per riempitivo. Mentre la palmetta è comunemente rappresentata da un ventaglio di petali accostati più o meno grandi, esistono diverse forme del fiore di loto. Nella ceramica corinzia il tipo più comune è il fiore costituito da petali di palmetta e limitato lateralmente da due foglie più lunghe, sorgenti da un calice trapezoidale. Il fiore di loto attico è simile a questo, ma è caratterizzato non da due ma da tre lunghe foglie uscenti dal calice’. Poiché nel Protocorinzio è usato il fiore di loto con una terza foglia centrale’, si può ipotizzare che questa particolarità della ceramica protocorinzia sia stata imitata dai pittori del Protoattico Tardo* e quindi sia rimasta in Attica.

MOTIVI CONTINUI

Tra i motivi continui la catena floreale più usata in entrambe le classi ceramiche è quella formata da fiori di loto e palmette contrapposti e alternati, tenuti insieme da tralci ondulati. A Corinto questo motivo è attestato già nel Protocorinzio Tardo, come per esempio nell'olpe Cl gi (Tav. I, 1)* e continua con alcune varianti in tutte le fasi della produzione corinzia; lo troviamo infatti nel cratere di Eurythios’ (fig. 5), in cui fiori di loto hanno la forma compatta e il calice corto e quasi trapezoidale; le palmette inoltre sono piccole e gli anelli di unione piuttosto elaborati e richiamano quelli dell'olpe Chigi. Nel Medio e Tardo Corinzio i petali delle palmette sono esili e disegnati sommariamente, i fiori di loto diventano snelli e allungati (Tav. I, 2)*. Se ci trasferiamo in Attica vediamo che il Pittore di Nesso”, le cui opere sono ancora ispirate alla grandiosità e allo stile monumentale del Protoattico, riprende tuttavia da Corinto questo particolare nastro floreale. In effetti l'alta fascia sopra la scena pittorica dell'anfora di Atene, Mus. Naz. inv. 1002 " (fig. 2) è simile a quella dell'olpe Chigi, sia per il disegno dei fiori di loto e delle palmette che per la disposizione dei tralci. Il fiore di loto ha un calice molto basso, da cui sbocciano le due foglie esterne grandi e molto slanciate; esse sono unite da piccoli petali disegnati a graffito su una striscia di vernice. Con lo stesso sistema sono resi anche i petali delle palmette assai piccole, da cui nascono le volute che terminano in spirali; ma nell'anfora di Atene il sistema dei viticci è più complicato rispetto all'olpe Chigi ed è ornato inoltre con dei cerchietti che sono posti al centro dei motivi “a otto” formati dai tralci; nell'insieme risulta come una fila di tanti “occhi”. Questo nastro diventa caratteristico del Pittore di Nesso e decora molti dei suoi vasi — come il louterion di Berlino, inv. 1682 (fig. 1)", la lekanis di Atene, Mus. Naz. inv. 16369 (fig. 3)" e il cratere frammentario dell'Acropoli di Atene, inv. 391? — e si trasmette ai pittori della sua scuola, cui si può attribuire, grazie a queste osservazioni, un frammento di Heidelberg (fig. 4)'* che presenta soltanto una palmetta e due lacci circolari decorati nel centro con degli “occhi”. La catena di fiori di loto e palmette viene ripresa quindi dalla generazione successiva dei pittori attici e si afferma definitivamente. Tuttavia non sarà inutile notare che essa non deriva dal Pittore di Nesso, ma fa di nuovo capo a Corinto come se la produzione attica seguisse passo passo la rivale in 473

pa

T

Fig. 1. Pittore di Nesso, louterion, già Berlino, Staatl. Museeninv. 1682 (da Ducati).

Fig. 2. Atene, Mus. Naz. inv. 1002. Pittore di Nesso, anfora (da Papaspyridi Karousou).

Fig. 3. Atene, Mus. Naz. inv. 16369. Pittore di Nesso, lekanis (da Papaspyridi Karousou). 474

cerca di affermazioni commerciali. La ceramica attica sta attraversando în questo momento una fase di transizione prima della codificazione dei suoi schemi e la sintassi decorativa risulta costituita da un insieme di elementi diversi "5, ma è soprattutto nella ceramica corinzia che essa trova punti di contatto e si crea una evidente corrente corinzieggiante per riuscire ad imporsi nei mercati del Mediterraneo. Sembra perfino che i ceramografi attici prendano a prestito per questo scopo non solo motivi corinzi, ma qualcosa anche dello stile corinzio, sebbene non si tratti di un'imitazione pedissequa, perché gli artisti attici trasformano i motivi importati in modo tale che questi vengono ad assumere caratteristiche assai diverse da quelle originarie”. II Pittore della Gorgone infatti sull'anfora del Louvre, inv. E 817" (fig. 6) traslittera la sua catena floreale da quella in uso nel Corinzio Arcaico. Se confrontiamo questo tipo con quello sul cratere di Eurythios, si osserva come la disposizione dei viticci è uguale in entrambi, ma nel fregio attico è maggiore la distanza fra il fiore di loto e la palmetta opposta, per cui i lacci vengono a formare dei motivi a "otto": ne risulta una catena meno compatta di quella corinzia; i calici dei loto attici sono più lunghi di quelli corinzi; essi terminano

con un motivo a ondulazioni profonde, orlato sopra e sotto da due linee orizzontali. Particolarmente caratteristiche del Pittore della Gorgone sono le due foglie esterne dei fiori di loto, sottili e slanciate, che formano quasi un arco sopra le palmette adiacenti. Sul piatto di Atene, Acr. inv. 474% e sul cratere frammentario proveniente da Mounychia, Atene, Mus. Naz. s. inv." (fig. 7), che sono fra le opere più arcaiche del Pittore, la catena è disposta in senso verticale per incorniciare lateralmente la scena, mentre nell'olpe di Tubingen, inv. 5445.28? è usata per decorare il collo del vaso. L'impiego più fastoso del motivo è sul dinos del Louvre, inv. E 874? (fig. 8) ove l'omamento originario corinzio viene usato varie volte sul so-

Fig. 4. Heidelberg, Universitat inv. 196. Scuola del

stegno e ulteriormente trasformato e ampliato Pittore di Nesso, cratere fram. (da CVA) sulla circonferenza del vaso; il grande fregio floreale sotto la scena figurata è infatti composto da doppi fiori di loto e doppie palmette alternati e tenuti insieme da una serie complicata di tralci; la sua ricchezza non ha confronti nella ceramica corinzia e la sua importanza è confermata dal fatto che il nastro ha la stessa altezza e quindi lo stesso valore del fregio figurato. pi 5. Parigi, Louvre inv. E 635. Cratere di EurytConsiderando anche alcuni frammenti dell'Acropoli di Atene, inv. 491 e inv. 506, vediamo γος (da Payne, NC). che il Pittore utilizza questa catena con particola᾿ re frequenza e predilezione, per cui anche i ceramografi della sua cerchia la usano spesso come ornamento sul collo e sulla spalla dei vasiἢ. Il Pittore KX, il più geniale e innovatore del Gruppo dei Comasti, dispone questa catena sul labbro della kylix di Samo, inv. 1184* (fig. 9), sostituendo con essa la decorazione a rosette oppure a reticolato consueta nelle kylikes del tipo dei Comasti**. Egli si distingue anche dai pittori corinzi per questo particolare adattamento perché nelle coppe corinzie il nastro è utilizzato per incorniciare il tondo ~ come nel Gruppo del Gorgoncion® - anziché distendersi sul labbro. Al confronto di quelli corinzi inoltre i fiori di loto sono esili e allungati e le palmette assai piccole. All'inizio del secondo quarto del VI secolo a.C. la ceramica attica si libera dall'imitazione pressante della ceramica corinzia per un più ricco interesse narrativo, i cui temi vengono ripresi dal mito. I motivi floreali, che prima avevano quasi la stessa importanza del fregio figurato, vengono ora relegati ad un ruolo subordinato e di cornice rispetto alla scena principale. Infatti i pinakes di Sophilos della Collezione Vlasto di Atene? con la raffigurazione di compianto funebre hanno il consueto fregio posto in alto, sopra la scena figurata; dai pinakes della prima produzione il motivo continua sul dinos che porta la firma del Pittore, Atene, Acr. inv. 587 (fig. 10), sul dinos di Londra, Brit. Mus. inv. 1971.11-1.1 (fig. 11) e chiude in alto la metopa dell'anfora di Jena, inv. 178”, dove la disposizione dei viticci mostra un cambiamento rispetto a quella dei precedenti pittori attici, perché l'unione tra palmetta e palmetta è resa con un sistema di sovrapposizioni alternate e non semplici, come nei nastri del Corinzio Tardo. Caratteristica del Pittore è la palmetta dal bulbo grande e i petali corti e disegnati con sottile graffito, che troviamo ugualmente nei ceramografi della sua scuola, per esempio nel dinos dell'Agora di Atene del Gruppo della Lekanis di Dresda”, in cui l'ornamento è troncato bruscamente verso la metà del fregio, come abbiamo veduto in esemplari del Pittore della Gorgone "e troveremo in seguito nel cratere di Kleitias”. Anche il dinos della Collezione Blatter (fig. 12) con la caccia al cinghiale calidonio, vicino all'ambiente di Sophilos, mo475

Fig. 7. Atene, Mus. Naz. Pittore della Gorgone, cratere ram., da Mounychia (da Ath Mitt.)

476

Fig. 8. Parigi, Louvre inv. E 874. Pittore della Gorgone, dinos (da Jarbuch).

Fig. 9. Samo inv. 1184. Pittore KX, kylix (da Ath.Mitt.).

stra le stesse caratteristiche" per le palmette con il bulbo grande ed i petali corti, per i fiori di loto di forma compatta e per il sistema di sovrapposizioni alternate dei viticci. A poco a poco i pittori ateniesi modificano e perfezionano i loro modelli e dal secondo quarto circa del VI secolo a.C. il carattere dello stile attico a figure nere è completamente libero. Anche se troviamo ancora alcuni motivi corinzi sul cratere di Kleitias, essi vengono ormai in secondo ordine incorporati nella tradizione attica del Pittore. Infatti già nella forma il cratere di Ergotimos mostra di avere lasciato alle spalle i prototipi ceramici corinzi, sebbene non sia da escludere una derivazione in senso lato da possibili esemplari metallici, cui potremmo ascrivere forse il cratere di Vix®. L'arte attica ormai ha dichiarato la sua indipendenza e sta minacciando Corinto, come attestano

ricche esportazioni in tutto il Mediterraneo, parti-

colarmente per l'Italia. Non a caso il cratere di Er-

gotimos è stato rinvenuto a Chiusi. Il nostro

motivo

è dipinto infatti anche

sul

vaso Frangois* (figg. 13-14) e proprio nel fregio della caccia al cinghiale calidonio come nei due Fig. 10. Mus. Naz. inv. Acr. 587. Sophilos, dinos, dinoi precedenti; disposto verticalmente, divide la Atene (da Ath Mitt.) 477

Fig. 11. Londra, Brith. Mus. inv. 1971.11-1.1. Sophilos, dinos (da Antike Kunst).

Fig. 12. Scuola di Sophilos, dinos fram., Collezione Blatter (da Antike. Kunst). 478

Fig. 13. Firenze, Mus. Arch. Naz. inv. 4209. Kleitias, cratere (da Bollettino d'Arte).

ὀἠ Fig. 14. Firenze, Mus. Arch. Naz. inv. 4209. Kleitias, cratere (da Bollettino d'Arte).

scena dalle sfingi e decora inoltre un'ansa del vaso. Diversamente dai prototipi corinzi i fiori sono uniti per mezzo di una particolare treccia, che troviamo pure su un frammento dell'Acropoli di Atene” e sul dinos proveniente da Naukratis del Pittore dell'Acropoli 601 *, contemporanei a Kleitias. Il motivo diventa molto mediocre sulle anfore Tirreniche, in cui è usato spesso per decorare il collo 0 un fregio del vaso. È quasi sempre dipinto affrettatamente, i fiori di loto e le palmette sono rozzi e grossolani, i particolari interni graffiti in modo sommario e tutti gli elementi sono sempre

mal connessi fra di loro. Un altro tipo di fascia corinzia adottata dai pittori attici, anche se non frequentemente, è la catena di doppia palmetta‘°, (Tav. I, 3) come attestano alcuni frammenti dell'Acropoli di Atene e il cratere di Kleitias®,

Morir ISOLATI

Un percorso parallelo si ha nei motivi isolati. Fra questi uno dei più comuni è quello composto da due fiori di loto e due palmette disposti a croce, tenuti insieme da viticci intrecciati e ornati con volute. Appare nella ceramica corinzia del periodo Arcaico con struttura compatta, piccole palmette, quattro volute che terminano in spirali e la disposizione a rettangolo dei tralci; continua fino al Corinzio Tardo con lievi varianti‘ (Tav. I, 4). È posto comunemente al centro di un gruppo di animali

479

affrontati, spesso in uno dei tanti fregi zoomorfi e viene ad essere quasi confuso in mezzo al tessuto decorativo. Ha talvolta delle edizioni trionfali su aryballoi e piatti, in cui costituisce il perno della figurazione o addirittura l'esclusivo ornamento del vaso“ (Tav. I, 5 e fig. 16). In Attica questa infiorescenza è attestata alla fine del Protoattico Tardo. Nel grande cratere proveniente da Vari del Pittore di Nesso, Atene, Mus. Naz. inv. 16383* (fig. 15), è dipinta sul coperchio, in mezzo a due grandi uccelli; risulta un ornamento molto vistoso, equiparato alle imponenti figure, diverso quindi dai corrispondenti piccoli esemplari corinzi bene appropriati del resto alle dimensioni dei vasi “. Il pittore protoattico riprende da Corinto, ma interpreta i motivi corinzi ancora secondo le regole ed i principi protoattici e il motivo è reso più ricco con l'inserimento al centro di due piccole palmette. Questo trofeo fitomorfo diviene molto comune nella ceramica attica dei primi decenni del VI secolo a.C. È già stato esaminato lo sviluppo del motivo nell'opera del Pittore della Gorgone^; è evidente che per tali decorazioni egli può essere considerato come il maestro attico guida, poiché ha ripreso, facendoli suoi, motivi corinzi e li ha trasmessi alla generazione successiva di pittori attici. Il fatto che assai spesso l'infiorescenza, specie questa a croce, è al centro di due figure araldiche, ne rivela l'importanza. È la protagonista e gli artisti vi imprimono una propria individualità e ne svilup-

pano le forme come si trattasse di quei meditatissimi intricatissimi viluppi di corde e di elementi vegetali che ossessionarono Leonardo, come ripeteva spesso Enrico Paribeni. Il Pittore KX decora molti dei suoi vasi con questo motivo. Nella lekanis di Rodi, inv. 5008* (fig. 17) essa appare al centro del fregio superiore fra due sfingi affrontate: non ricopre più il ruolo di protagonista come nelle opere del Pittore della Gorgone®, ma è sempre così importante da fare il opposta del vaso. Soltanto nei caratteri generali può dirsi simile al tipo corinzio arcaico: è diverso infatti per la disposizione dei viticci che ripetono i motivi a otto già visti nel Pittore della Gorgone, per i petali delle palmette e quelli interni dei fiori di loto trattati sommariamente in fasci di foglie grafite, secondo lo stile seguito dal Pittore della Gorgone nell'olpe di Tubingen (Tav. I, 6); caratteristiche del pittore sono le tre linee fra le foglie esterne dei fiori di loto. Con le particolarità precedentemente osservate il pittore ripete l'infiorescenza su un tripodekothon di Atene, Acr. inv. 5045, su un sostegno di cratere, Atene, Acr. inv. 472? e su alcuni frammenti dell'Agora di Atene, inv. P 508 e inv. P 131237. Diversamente dai ceramografi corinzi il Pittore KX amplia il motivo a croce con altri due fiori di loto e due palmette, disposti in senso verticale, nella kotyle di Boston, inv.97.366 (fig. 18)** e nella kylix di Samo, inv. 1184*. Nella coppa di Boston il motivo ἃ veramente l'unico protagonista e il pittore vi si dedicato con la massima cura. I fiori di loto e le palmette sono decorati con raffinatezza ed eleganza e ritornano tutti i motivi del Pittore, da quello a ondulazioni profonde alle tre linee fra le foglie esterne dei fiori di loto. Nella kylix di Samo colpisce in modo particolare il complesso sistema dei viticci. Un'altra variante attica dell'infiorescenza originaria è quella formata da quattro fiori di loto e quattro palmette alternati e disposti all'interno della lekanis di Londra, Brit. Mus. inv. 1905.7-11.4**, opera anche questa del Pittore KX, sempre molto geniale e innovatore. Sophilos* disegna il trofeo con un sistema di viticci assai semplificato e con palmette dal bulbo molto grosso e i petali corti, resi con graffito denso e poco curato. Nell'anfora proveniente da Maratona, Atene, Mus. Naz. inv.1036" ricorre per due volte sul collo, viene ripresa quindi sulla zona delle spalle ed è ampliata poi nel fregio sottostante. Il motivo è presente anche sulla loutrophoros di Atene, Mus. Naz. inv. 991”, sul tripode-kothon di Boston, inv. 98.915 Ὁ, sul dinos del Louvre, inv. E 873°, sulla lekanis di Atene, Mus. Naz. inv. 998 e sul dinos da Farsalo*. Ormai il motivo è divenuto molto comune e popolare anche fra i pittori della scuola di Sophilos ed è usato sempre come elemento centrale di un gruppo araldico in fregi zoomorfi. Ritroviamo l'intreccio di fiori di loto e palmette sul dinos dei Musei Vaticani, inv. 306*° (fig. 20), il cui Pittore è considerato un imitatore fedele di Sophilos per le grandi palmette, più grandi dei fiori di loto stessi, con ampio bulbo e petali corti. Un'infiorescenza simile alla precedente appare anche sull'anfora di Taranto del Gruppo della Lekanis di Dresda“ e su un frammento proveniente da Brauron (fig. 21). 480

Fig. 15. Atene, Mus. Naz. inv. 16383. Pittore di Fig. 16. Berkeley, Univ. of California inv. 8/104. Gruppo delNesso, cratere (da Papaspyridi Karousou) la Chimera, piatto (da CVA).

Fig. 17. Rodi inv. 5008. Pittore KX, lekanis (da Ath.Mitt.). 481

Fig. 18. Boston, Mus. of F. Arts inv. 97.336. Pittore KX, kotyle (da Ath.Mitt.)

Fig. 19. Atene, Mus. Naz. inv. 995. Sophilos, calice (da Ath. Mitt.). 482

Fig. 20. Musei Vaticani inv. 306. Scuola di Sophilos, dinos (da Albizzati).

Fig. 21. Scuola di Sophilos, fram., da Brauron (da Antike Kunst)

Una felice soluzione è quella adottata dal Pittore del Ceramico per decorare l'interno di una lekanis® (fig. 22) perché l'ornamento a croce si adatta bene ad uno spazio circolare; soluzione adottata anche dai ceramografi corinzi su alcuni piatti’ il motivo è vicino inoltre ai prototipi corinzi per le palmette dal bulbo stranamente allungato e i fiori di loto senza calice. Sulle anfore Tirreniche il trofeo fitomorfo decora il collo del vaso, ma più frequentemente è posto al centro di un gruppo di animali in schema araldico in uno dei fregi del vaso; è sempre disegnato poco accuratamente e talvolta il fiore di loto non ha la terza foglia centrale, come a Corinto”. L'ampliamento del motivo in senso verticale, come quello usato dal Pittore KX, è presente anche in Sophilos, nel dinos di Londra con le nozze di Peleo e Teti oltre al calice di Atene (fig. 19)” e nel Pittore del dinos dei Musei Vaticani, inv. 306”. Il motivo diviene molto grossolano nel Pittore delT'Uccello Grifo”. Appare anche sul cratere di Kleitias?*, in cui il sistema dei viticci ricorda quello della kylix di Samo del Pittore KX. Un altro motivo che ricorre spesso sui vasi attici di questo periodo è quello formato da un fiore di loto rivolto in basso e da una palmetta posta sopra ad esso, ornati entrambi con volute. È un motivo ripreso dalla ceramica corinzia 5; costituisce la decorazione usuale sotto le anse delle kylikes e kotylai del Gruppo dei Comasti ed è stato già ampiamente discusso e illustrato nell'ultima edizione di questa classe vascolare”. È adottato pure sulle Anfore Tirreniche”, dove il fiore di loto e la palmetta sono disposti generalmente al centro di un gruppo araldico e sono ornati spesso con due volute, come in alcuni esemplari corinzi dei periodi Arcaico e Medio. In una lekythos del Pittore di Berlino 1659” l'ornamento, ripetuto in due fregi e proprio al centro del vaso in mezzo ad animali affrontati, è decorato con volute desinenti in boccioli, che caratterizzano quasi sempre questa infiorescenza nella ceramica corinzia, ma che sono rari nell'adattamento attico del motivo. A Corinto uno sviluppo del motivo precedente è quello formato con l'aggiunta di altre due palmette poste negli angoli derivati dall'incrocio delle volute” (Tav. I, 7). Il Pittore KX, che si rivela continuamente il più innovatore del Gruppo dei Comasti, decora con esso lo spazio sotto le anse della kotyle di Atene, Mus. Naz. inv. 940* e la lekanis di Londra, Brit. Mus.

inv. 1905. 7.11.4". Anche il

Pittore di Berlino 1659 riporta questo ornamento sul coperchio di Atene, Acr. 539® con le volute desinenti in spirali. Una disposizione diversa è quella adottata dal Pittore di Palazzolo nella kylix di Gottingen® (fig. 23), dove l'ornato è applicato, elegantemente, al tondo del vaso. È presente, sebbene non frequentemente, nella ceramica attica anche il fiore di loto doppio di tipo corinzio; è generalmente un ornamento assai mediocre e quasi grossolano, come quello su una oinochoe del Pittore del Ceramico**, diverso da quelli corinzi, sempre molto raffinati . Anche il Pittore del Polos® e il suo Compagno" adottano questo motivo ma è disegnato sempre

483

Fig. 22. Atene, Mus. del Ceramico. Pittore del Ceramico, lekanis (da Arch. Anz).

Fig. 23. Gottingen 1.11. Pittore di Palazzolo, kylix (da Jacobsthal) 484

in modo così rozzo, da diventare quasi irriconoscibile. I vari elementi sono soltanto frettolosamente

accennati e per di più ricoperti in modo esagerato da linee graffite. Questa fabbrica provinciale mostra sempre troppo palesemente il suo scopo di imitare la ceramica di Corinto. Ma fra la produzione attica contemporanea è senza dubbio quella che si allontana invece di più dall'eleganza e raffinatezza corinzia' Queste osservazioni non sono fini a loro stesse, perché possono essere utile strumento di datazione anche per altri tipi di manufatti come bronzi, terrecotte, avori e oreficerie. Negli ambienti poi di influenza greca, come Sicilia e Magna Grecia, possono servire a caratterizzare meglio determinati influssi culturali e precisare cronologie. Per esempio la lamina aurea di Sibari” può essere avvicinata a prototipi attici in base alla decorazione floreale. NOTE * H. Payne, Necrocorinthia, Oxford 1931, p. 144 ss. (in seguito abbreviato Pine, NC); D. A. Aux, Corinthian Vasepainting of the Archaic Period Berkeley-Los Angeles 1988, p. 673. è Pame, NC., p. 145e figg. 52-A, B; una variante senza calice trapezoidale è rappresentata nelle figg.52 C, 55 G, 57D. L'altra forma del fiore di loto corinzio è senza calice e ha un grande bocciolo centrale (NC., fig. 52 E); è sconosciuta avanti il VI sec. a.C. e sembra che sia una forma ionica; appare per la prima volta nell'aryballos, NC n. 807 e nelle kotylai del gruppo di Samo (per es. NC., tav, 33, 8). > In Atticac in Beozia sono preferite le re foglie, invece il calicea due èattestato nell'ambiente peloponnesiaco, come a Corinto e Calcide. È interessante osservare però che sui pinakes corinzi di Penteskouphia appare spesso il tridente di Nettuno fatto come una specie di fiore di loto a tre petal: Antike Denkmaler, Berlin 1887-1895,I, 1, tav. 7 (2, 3, 11, 18, 21, 24, 28); IL 2, di loto a tre punte, ma senza i petalidi pal: tavv. 23 (1, a, 13a, 15a, 17) e 24 (2,3, 6, 8, 10, 11). Anchela zona ionica ha il fore metta che le uniscono;cir: H. TuueRsck, Tyrrhenische Amphoren, Leipzig 1899, p. 70; Pars, NC.,p. 145 (riporta una sola eccezione corinzia con tre foglie: n 913). * K.F. JonansEN,Les vases sicyoniens, Paris - Copenhague 1923, figg. 72-78, taw.30, 1c; 31, 1d. * Vedere per es. l'anfora di Atenee a lekanis di Berlino del Pittore di Nesso: J.D. Brazzev, Atti Black-figure Vase-painters, Oxford 1956 (in seguito abbreviato ABV), p. 4, n. Le p. 5, n. 4. © Cfr, K F. Josavsex, Les vases sicyoniens, cit. pp. 125-128; tav. 39, la e fig. 102. ? Louvre, inv. E 635: Payne, NC., n. 780, tav. 27 e fig. 62 B. * Paywe, NC, figg. 620 c D e 45B, tav. 32 (n. 991)e n. 970, 971, 986, 989: peril periodo Corinzio Medio; fig. 62D e ταν. 42, 2-3: per ἢ periodo Tardo. La fig. 62E (n. 1186: tav. 34,4) è una variante con i fiori connessi da un singolo laccio; è un motivo regolare nella decorazione architettonica corinzia dall'inizio del VI sec. a.C. (NC., p. 259). ? ABV, pp. 4-6; J. D. BEAZiey, Paralipomena, Oxford 1971 (în seguito abbreviato Paralipomena), pp.1-S; L. Bosw - R. Grxws, Beazley Addenda, Oxford 1982, (in seguito abbreviato Addenda I) p. 1; Ta. H. CAnpeNTER, Beazley Addenda, Oxford 1989, (in seguito abbreviato Addenda ID, pp. 1-2 con bibliografia. ABV, p. 5, n.4; Paralipomena, p.2, n. 8; Addenda I, p. 1; Addenda II,pp. 1-2. Particolari riferimenti al fregioin: K. F. Jomosse, Les vases sicyoniens, cit, p. 127;A. Ritat, Problemidi stile, Milano 1936,p. 180;E. Homarn-WepEKING, Archaische Va: senomamentik, Athen 1938, pp. 37-39. "ABV, p. 5, n. 4; Paralipomena, p. 2, n. 8; Addenda 1, p. 1; Addenda VL, p. 2. 5 Paralipomena, p. 4, n. 20. © ABV, p. 5,n. 10; Paralipomena, p. 4, n. 16; Addenda II,p. 2. » C.V.A» Heidelberg I, tav. 31, 4. Altri frammenti di questo tipo di catena in S. Parisrmupr-Kazouzov, Angela tou Anagyrountos, 1963, pp.132-133, fig. 95-96; M. B. Moore - M. Z. Pease Punretes, The Athenian Agora XXIII, 1986, p. 264, tav. 94, n. 1362. * Cfr. P. Jaconsit, Omamente Griechischer Vasen, Berlin 1927; W. Scimenuwc, Werkstatten orientalisierender Keramik auf Rhodos, Berlin 1957. τς Tra l'ampia bibliografia sull'argomento cfr. Pine, NC, p.18 ss. I. D. Beaziy, Groups of Farly Attic Black-figure, in Heof Attic speria 13, 1944,pp. 38-56; T. J. Duxausus,An Attic Bowl, in BSA 45, 1950, pp. 193-202; J.D. Beazuex, The Development Black-figure, Berkeley-Los Angeles 1951, pp.13-25; J. L. BENSON, Die Geschichte der Korinthischen Vasen, Berlin 1953, pp. 100-108;R. M. Cook, Greek Painted Pottery, London 1960, pp. 38-43 e 68-78; Aut, op. cit, p. 678 ss. " ABV, p. 9, n. 7; Paralipomena,p. 6, n. 7; Addenda I, p. 1; Addenda II, p. 2. Peril motivo floreale cfr. in particolare E. Homasn-WeDexinc, Archaische Vasenornamentik cit., pp. 39-40. Ὁ ABV, p. 8,n. 2; Addenda IL p. 2. ?* ABV, p. 8, n. 3; Paralipomena, p. 6, n. 3. » Paralipomenap. 7, n. 11; Addenda I, p. 1; Addenda TI, p. 3. ® ABV, p. n. 1; Paralipomena,p. 6, n. 1; Addenda I, p. 1; Addenda IL p. 2. 7? ABV, p. 10, n. 22 ep. 9,n. 10. 7? Per esempio lekythos, Londra, Brit. Mus. inv. 1931.8-10.1 (ABV, p. 11, n. 17; Paralipomena,p. 8, n. 17; Addenda I, p. 2 485

Addenda IL p. 3}; lpe, Atene, Agora, inv. P 18531 (ABV p. 1,n. 14; Paalipomena, p. 8, n. 14; Addenda I, p. 3) lp, Firenze, Mus. Arch, Naz. (ABV. p.14,n. 2) anfora, Atene, Agora, inv. 25417 (Paralipomena,p. 8; Addenda, IL p.4 n. 12). *« ABV, p. 26, n. 27; Addenda IL p. 8. La coppa non è del ipo dei Comasti sia per la forma che perla decorazione, cf. ew, Development, ci, p.20 5 HAG, Buren, Siana Cups Land Komast Cup, Amsterdam 1983, p.67 ss vi. 1-6 * Cir Pim,NC, p. 31 e tav. 32,546 7 ABV, p.42,nn. 38-40; Addenda I,p. 4, Addenda IL, p. 10. * 1) ABV, p.39, n. 15; Addenda I p. 4; Addenda I, p.10; 2) Paraliporena, p. 19 n 16 bis; Addenda I p. 4; Addenda Τὶ, pp. 1. lr. G. Ban, Sophilos, Mainz am Rhein 1981,pp. 6465, A-LA tav. 1:3. 5 ABV, p. 35, . 7; Parlipomena, p.18, n. 7; Addenda IL p. 10 > Cfr. Payne, NC, fig. 62D. Rispetto ai prototipi corinzi il motivo in Sophilos è ancora più complicato. » Ch dinos Atene, Agora, inv. P334 (ABV, p.23 Addenda II p. 7) ? Chr supra p. 474. ? Chin seguito p. 479. » Collezione R. Blatter, cfr. R. Buren, Dinosfragmente mit der Kalydonischen Eberjgd, in Antike Kunst 5, 1962, pp 4541 Ὧν. 16; K. Scion, Frukgrechische Sagenbiler, München 1964, av. 61, b. Confrontare i iri i loto con quell del dinos di Sophilos, Atene, Ac. 587, divers da quel esl del PittoreKX. *r Chr BAA, VIL sx. Vix ? NL Cusrórist - M. G. Manz er AL, Materiali per servire alla storia del vaso Frangois,in BdA 62, 1977 (1981) Serie Sp. 1, p. 125, Figg. 60-6 ep. 150, figg. 108-109. Un piccolo nastro disposto in senso orizzontale è dipinto anche all'interno delle anse (p. 152, fgg. 112-115) Hesperia 4,1935, p.262, fig. 25, n. 54. % Londra, Brit. Mus, inv.B 601.13 (ABV, p. 80, n. 2). Contemporaneoai frammenti precedenti forse anche Atene, Ac. inv. P323: Hesperia 4, 1935, pp. 215-217, fig. ? Cfr. Firenze, Mus. Arch. Naz., inv. 3773 (ABV,p. 95,n. 8). ** Cfr.

Pane, NC, p. 156, fig. 67B.

^ B. Grass-E. Lancvorz, Die antiken Vasen von der Akropolis zu Athen, Berlin 1925-1933,tav. 98, nn. 2400-2405. Per altri esempi cr. th, Mitt. 15, 1890, tav. 12, 2, CVA, ouvre tav. 31 Se11 "PM. Caustorani-M.G.. Manzi er AL, Materiali, it,pp. 125 c 151 * Pra, NC, p. 30, fgg 57, AE ^ Peres, Pase, NC, tav 33, 3 e 11: CVA, Louvre,VI tav. 389, 14; CVA, Copenhague, I, av. 87, 14:1; CVA, Musée Rodin, tav. 6,4; CVA, Univ. of California, L tav. 6, 4a; CVA, Stuttgart I tv 12, 3 (quattro fiori i loto) e 8; Delos, X, tav. a, 152, cf. anche ἢ Pitore ei Fiori di Lotoe Palmette in Bexcon, op cit, pp. 41-42; L. avr, in EAA, I 1960, v. For di oto a croce, Pittore dei, anche seil motivo? diverso, “© ABV, p. 7; Paralipoment, p.n. 12. 2 Vedere peres, Perachora,I tv 69, 2245; CVA, Schloss Fasanere IL av, 59, 1-3; CVA, Frankfurt am Main, tav. 15,34 © M.G. Manat, Un'anfora dell scuola del Pittore della Gorgone, in Prospettiva 26, 1981,pp. 47530. ^ ABV, p.26, n l Paraliporena, p. 14, n. Addenda ,p 3; Addenda IL p. 7. “ Chr MG. Manzi, Un'anfora, ct Ξ ABV,p.9,n I; Paralipomena, p. 7; AddendaI, p. 1; Addenda I p. 3. ABV, p. 2, n. 14 2ABV LAT ® ABV,p27,n 5e p26, 30; Paralipomena, .15; Addenda TL p& » ABV, p. 25,19. 5 ABV, p. 26,1, 27; Addenda IL p. 8 P ABV p 24,03 7 Ὁ. Bai, Sophilos, cit pp. 5758. 7 ABV, p. 8, n. 2 Addenda Up. 10. » ABV, p.38,n. 1; Addenda Lp. 4; Addenda Tp. 10. Ὁ ABV, p.41, n. 27 Addenda I, p.1 ABV, p. 39 n 12 AddendaLp. 4; Addenda I, p. 10. © ABV, p. 4L n. 28; AddendaIl p. 11. © ABV, p. 3n 16; Parliporena,p. 18, n 16; AddendaI, p. 4; Addenda TL p.10. ^ Cfr dinos da Naukratis, Lonérs, Brit Mus, inv. B 100 e B 601.26 (ABV, p. 39/13; AddendaIL p. 10 G. Bux, Sophos, cit, p. T2sdcino a Sophils); idi, tene, Mus. Naz inv. 19191 (G. Baka, Sophos ct, p.74, B 15) dra, ex-Collecione Gelodalis (ABV, p.42;G. Bn, Sophos, it, p.74,B 16) ©, Ducan, Storia della ceramica greca, Firenze 1922, p.217, fig 174-175; C. Ausezam, Vasi antichi dipinti dl Vaticano, Roma 1924, p. 101 ss tav. 29, "Taranto, Mus. Naz inv 20.885: ABV, p. 21, n. 2: Addenda I p. 3; AddendaI p.7. © Cin Antike Kunst 1, Beh, 1963, p. 6 n. 2, tv 12 ABW, p.19,n.6. *

486

Peres. CVA, Univ. of California I, tav. 6, 4a; CVA, Musée Rodin, tav. 6, 4.

τ Chr. CVA, Louvre, tav. 32-36; CVA, Louvre, II tav. 58; CVA, British Museum,II, av. 143, 1-3; C. Austzzan, Vasi antichi, cit, tavw. 31, 309-32, 310. ?' Calice, Atene, Mus. Naz, inv. 995: ABV, p. 39,n. 11;Addenda I, p. 4; AddendaII p. 10. » P. Ducam, Storia, cit. p. 217, figg. 174-175;C. Aunzzan, Vasi antichi, ct. p. 101 ss., tav. 29. 7? ABV, pp. 71-75; cfr. peres. CVA, Heidelberg, I, ταν. 43, 3-6 e 44, 3-4. ? M. CRistoFANI - M. G. Mazi ET AL, Materiali, cit. p. 173. 5 Chr. Pare, NC, pp. 148-150. ™ HLAG. Bauen, Siana Cups, cit., pp. 85-87 ss. 7 Cfr. per es. CVA, Louvre, I, tav. 33, 10.111 7? ABV, p.20,n. 1; Addenda IL p. 6. » Cir. Pam, NC,p. 150. fig. 56. © ABV, p.26,n. 25. © ABV, p.24, n. 3 © ABV, p. 20; Addenda II, p. 6. Negli esemplari attici precedenti le volute terminano in spirali. © ABV, p.35, n.4, % Atene, Mus. Naz. inv. 16285: ABV, p. 19, n. 3; Addenda I, p. 3; AddendaI, p. 6. © Chr. Pe, NC, tav. 22 (1 63,7). * ABV, p. 44, n. 1; p. 45, nn. 24 e 26. Cfr. M. G. Manzi, Il cratere del Pittore del Polos nel Museo Archeologico di Firenze, în Archaeologica — Scritti in onore di Aldo Neppi Modona, Firenze, 1975, pp. 173-181. © ABV, p.49, n. 1 " In tutti gli esempi attici precedenti il Bore di loto doppio costituisce l'elemento centrale di gruppi araldi olii fre εἰ di animali, come vediamo spesso nel vasi corinzi.Il fiore di loto singolo è poco usato nella ceramica corinzia. Nella ceramica attica un fiore di loto isolato appare sullo skyphos-cratere Atene, Mus. Naz. inv. 907, del Pittore del Ceramico (ABV, p.19, n.4); è posto nel centro del fregio superioreed è troppo grande per lo spazio in cui è collocato, tanto che le due foglie esterne. cadono sulle due pantere ai lati; e sembra quasi che sia stata troncata la parte inferiore del motivo. * Cfr. P.G. Guzzo, Lamina in argento e oro da Sibari, in Bollettino d'arte 58, 1973, p. 65 ss. Interessante la catena floreale che decora un rilievo etrusco rinvenuto a Chiusi (C. Laviosa in Fasti Archeologici 17, 1965,n. 2677, tav. 15, fig. 46)

487

TAV.I

ὃς


Oltre la tomba di San Cono, in Sicilia orientale tombe a pozzetto sono segnalate sono per la zona di Ossini di Militello e nel territorio di Avola, ef. Ossini) S. Lacoxs, La necropoli di Ossini, ct. e (Avola) R.M. Atbaxtst, Calascibetta (Enna) - Le necropoli di Malpasso, Carcarella e Valle Coniglio, in NSA, Ser. VIII Vol. 42-43, 1988-1989, I Supplemento, Roma, 1992, pp. 161-398, qui p. 185, n6. » Per esempio S. Tin, L'origine elle tombe a forno dela Sicilia, i Kokalos IX, 1963, pp. 73-92. » G. Cisritums, La necropoli protoenedlitica di Piano Vento, cit; BIE. McConwna, Indagini preistoriche nel territorio di Ribera (AG): le tombe delfetà dl rame in Contrada Castello ed a Cozzo Masirogiovanni, in Sicilia Archeologica XXI, 1988, pp. 101-112; il concetto della tomba come mezzo di raggruppamento familiare può essere esteso anche al concetto della necropoli stessa, cfr. RR. Hotzoway, Scavi archeologici alla Muculufa e premesse per lo studio della cultura castellcciana, in Atti della Seconda Giornata di Studi sullArcheologia Licatese e della Zona della Bassa Valle dellHimera, Licata - Palazzo Frangipane, 19 gennaio 1985, pp. 69-90. 495

7 (S. Cono) I. Carici, Di un sepolero neolitico scoperto a S. Cono presso Licodia-Eubea (Catania), in Bullettino di Paletnologia Italiana 25, 1899, pp. 53-66. ® (Grotta Zubbia) G. Casriuiana, Capanne della cultura di San Cono - Piano Notaro - Grotta Zubbia alla Zubbia di Palma di Montechiaro (Agrigento), in Congresso Internazionale «L'Età del Rame in Europa», Viareggio 15/18 ottobre 1987, Rassegna. di Archeologia, 7, 1988, pp. 546-547; (Monte Grande) In, La necropoli protoeneolitica di Piano Vento, cit; Roccazzo) S. Tusa, La Sicilia nella Preistoria, seconda edizione, ci; ID. Sicilia Preistorica, cit; (Cozzo Matrice) sito presentato presso il Museo Archeologico Regionale di Enna.

496

TAV.I

4 1-4: 1. Pianta della Tomba 1 (nota la posizione in situ del frammento di lastra tombale); 2. Sezione della Tomba 1 (nota la posizione in situ del frammento di lastra tombale); 3. Scodella tipo San Cono - Piano Notaro dalla Tomba 1; 4. Scodella tipo San Cono - Piano Notaro dalla Tomba 1. 497

1-6. 1. Frammento di orlo di un vaso a calice dall'Area 1; 2. Frammento di parete con ansa verticale di una coppetta dall'Area 1; 3. Frammento di parete e orlo di un vaso a fiasco dello stile di San Cono ~ Piano Notaro; 4. Frammento di orlo di scodella dello stile di San Cono - Piano Notaro con decorazione incisa a due bande; 5. Frammento di parete di un contenitore chiuso dello stile di San Cono ~ Piano Notaro con decorazione incisa a triangolo campito da linee oblique (‘dente di lupo’); 6. Frammento di parete di ciottolo dello stile di San Cono — Piano Notaro con decorazione incisa a scaletta con accenno di zig-zag. 498

Prerro Mel STUDI, INDAGINI, RICERCHE E ATTIVITÀ DI TUTELA DEI MONUMENTI DELLA VALLE DEI TEMPLI NELL'ULTIMO DECENNIO

La storia moderna dei monumenti classici agrigentini, e del sito archeologico della Valle dei templi, si può fare iniziare con la liberazione del tempio della Concordia, operata dal Torremuzza per conto di Ferdinando di Borbone tra il 1788-89, dalle residue strutture della chiesa che oltre mille anni prima vi era stata insediata dal vescovo Gregorio. Nel primo secolo di vita dei ritrovati monumenti della grecità, gli interventi si susseguono con frequenza e risultati diversi ma non sempre al massimo dei livelli possibili. 1I grado di sensibilità che induce il Torremuzza, custode delle antichità per conto di Ferdinando di Borbone, a ricordare la regis augustissimi providentia con la tabella marmorea posta sulla fronte orientale del tempio della Concordia, è molto diverso rispetto a quello che un secolo dopo, sul finire dell'800, induce il Patricolo a ripudiare il suo progetto per la sostituzione di un mezzo capitello della fronte occidentale dello stesso tempio, intervento che traeva spunto da quelli, analoghi, realizzati qualche decennio prima da Francesco Saverio Cavallari (spigolo del timpano orientale con porzioni della cornice e del fregio, fronte dell'opistodomo, nel quale vennero rifatti metà dei capitelli, le ante, il fregio, l'architrave) Dall'anastilosi ottocentesca del tempio dei Dioscuri, una delle operazioni più impegnative e certo quella di maggiore successo turistico realizzata ad Agrigento, alla musealizzazione, nel Museo Regionale di Agrigento, dei resti dei telamoni del tempio di Zeus negli anni sessanta di questo secolo, agli innumerevoli restauri effettuati sui monumenti della Valle, non sempre gli interventi vengono realizzati con la consapevolezza degli effetti che essi avrebbero prodotto nel tempo*. I templi continuano a vedere applicati materiali il cui comportamento nel tempo non è noto. Alle malte di calce e di cemento utilizzate dalla fine dell'800 e ai ferri e al cemento armato dei decenni successivi fino agli anni ‘40, sul finire degli anni 70 si aggiungono le resine epossidiche, che fanno il loro ingresso al tempio dei Dioscuri e, in maniera più modesta, al tempio di Giunone*. Ma l'atteggiamento di estrema prudenza subentrato ai ponderosi interventi eseguiti tra la fine della prima grande guerra e gli anni cinquanta sul tempio di Giunone* e sul tempio della Concordia, atteggiamento maturato proprio dalla constatazione degli effetti di quegli interventi*, conduce ad una lunga pausa di riflessione nel corso della quale gli interventi di maggiore consistenza risultano quelli realizzati, a partire dalla fine degli anni settanta, al tempio della Concordia per il rifacimento delle copertine di protezione dell'estradosso delle murature, e al tempio di Giunone per l'occlusione delle cavità interessanti la base di quasi tutte le colonne, particolarmente degradate anche a motivo di precedenti interventi. Tale prudenza nasce dalla constatazione delle conseguenze deleterie prodotte da taluni interventi: e ciò porta ad un approccio più cauto verso le problematiche del restauro e all'approfondimento della conoscenza sotto ogni aspetto dei monumenti, delle cause del degrado, e del comportamento di certi materiali ai quali forse con eccessiva fiducia si era fatto ricorso. A questo atteggiamento prudente inducono i risultati di alcuni interventi i quali, nel volgere di pochi anni, si dimostrano più deleteri dello stesso male al quale si era inteso rimediare. L'esempio limite è quello tempio di Giunone le cui colonne presentano, ancora oggi, un preoccupante quadro fessurativo indotto proprio dalle barre metalliche che dovevano garantirne una migliore conservazione. Ma considerazioni analoghe valgono tuttora per gli interventi realizzati sul tempio della Concordia che hanno comportato l'utilizzazione di barre metalliche. L'inarrestabile avanzare del degrado, legato, oltre che alla inadeguatezza degli interventi, anche alla natura del materiale costituente i monumenti, la calcarenite di Agrigento, impone ugualmente 499

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come nel caso del Tempio dei Dioscuri sul quale si interviene intonaco antico. L'operazione evidenzia una serie di problemi derivanti sia dal degrado della pietra, sia dalle conseguenze di vecchi restauri, in particolare l'ossidazione delle barre di ferro infisse sulla copertura per collegare tra di loro i conci di coronamento della trabeazione. Si programma pertanto un ulteriore intervento, progettato nello stesso anno, e realizzato il successivo, previa l'esecuzione di indagini chimico-fisiche per la caratterizzazione dei materiali costitutivi, la definizione dello stato di conservazione e l'identificazione dei sali presenti nella pietra. Le operazioni effettuate vengono documentate fotograficamente e graficamente su schede appositamente elaborate ed utilizzate poi per tutti gli altri interventi eseguiti sui monumenti della Valle. Contemporaneamente all'intervento sul tempio dei Dioscuri, vengono programmati nel 1993, e realizzati nel biennio successivo, anche altri interventi: sullo stesso tempio dei Dioscuri, sui templi di Giunone, Concordia, Ercole, Vulcano, Giove, Esculapio, sulla tomba di Terone, nel santuario di Demetra, e nella Porta V7. Questa azione ad ampio raggio, interessante buona parte dei monumenti agrigentini, nasce sulla scorta dei primi risultati conseguenti alla ricognizione alla quale si è fatto cenno e vienel corso del 1993 a seguito del distacco di un ampio brano di

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timi anni, Concordia e il tempio di Demetra e i grafici diventano la base per la mappatura del degrado (effettuata su Giunone e Dioscuri e, in corso attualmente, su Concordia). Spesso, l'intervento nasce per rimediare a situazioni di degrado in atto,

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vati Vulcano, Ercole, Giunone, Dioscuri e, infine,, in questi ul-

i

continue opere di manutenzione. Da queste, e dal contatto diretto con il monumento favorito dall'impianto dei cantieri, nasce la consapevolezza che le problematiche della conservazione e del restauro dei monumenti vanno affrontate attraverso un programma organico di ricerca e di documentazione finalizzato alla migliore conoscenza dello stato e dei problemi di essi. Così, contestualmente alle operazioni che si vanno effettuando’, si dà inizio ad una prima ricognizione generale sui maggiori monumenti, consistente in una dettagliata schedatura fotografica dei templi della Concordia, Giunone, Ercole e Dioscuri e nella individuazione e nella mappatura dei ferri utilizzati in passato nel restauro dei templi di Giunone e della Concordia e dei Dioscuri (figg. 1-2), monumenti maggiormente interessati dall'uso di questo materiale. Si prosegue altresì con il rilievo archeologico dei principali monumenti: vengono rile-

Fig. 1. Tempio di Giunone. Tavola dell'indagine pacometrica eseguita sul tempio con il fine di individuare la presenza di materiali metallici. Disposizione dei feri nei rocchi del colonnato settentrionale. Le colonne degli altri lati non sono interessati da ‘una presenza così estesa di barre metalliche che si riscontrano solamente nella prima e nella seconda colonna del prospetto orientale, nella quarta colonna del prospetto occidentale e nell'ottava colonna del prospetto meridionale.

ne messa in cantiere nel corso dell'anno 1995, con l’obiettivo ed entro i limiti di una ordinaria operazione di manutenzione,

Ci si trova però subito di fronte, specialmente a Giunone e Concordia, a diffusissimi fenomeni di degrado della superficie lapidea e delle strutture stesse dei monumenti. Da questa constatazione nasce l'esigenza di approfondire la conoscenza del monumento sia dal punto di vista del comporta mento dei materiali costituenti che degli interventi realizzati nel passato, i quali, quasi sempre, contribuiscono in maniera determinante a definire la realtà fisica e percettiva dei monumenti. Spesso, 500

inoltre, alle integrazioni è stato assegnato un ruolo attivo dal punto di vista statico, come nel caso delle barre e degli architravi metallici che si ritrovano in quasi tutti i templi, o concorrono a determinarne l'immagine, come nel caso della fronte occidentale del tempio della Concordia che conserva solo un capitello originale essendo gli altri cinque il risultato di interventi di restauro eseguiti dalla fine dell'ottocento fino agli anni trenta e cinquanta di questo secolo. Ci si rende conto, ancora, che la previsione di utilizzare materiali seppure già ampiamente sperimentati, quali i consolidanti di superficie derivati dagli esteri dell'acido silicico, non è sufficientemente suffragata dalla conoscenza delle cause di alterazione del materiale da proteggere (la pietra costituente i monumenti), né appare sufficiente la cautela, già prevista, di sottoporre a sperimentazione quei prodotti.

I dubbi sull’applicabilita di essi direttamente sui monumenti,

sia pure con le

cautele dette, nascono dalla constatazione che il degrado, soprattutto al tempio della Concordia, appare molto più grave di quanto non fosse apparso in un primo tempo da una visione non ravvicinata quale quella che si era avuta prima dell'impianto dei cantieri, mentre si denuncia, con tutta la sua gravità, il meccanismo del degrado della superficie lapidea: il processo di solubilizzazione dei sali presenti nella pietra per effetto della penetrazione delle acque meteoriche c/o di risalita e di ricristallizzazione di essi all'interno della superficie della pietra, che provoca l'esfoliazione, il distacco e il crollo della pietra all'interno di un processo apparentemente ciclico e inarrestabile, convince che il previsto, seppure non totale, trattamento della pietra con consolidanti di superficie quali quelli descritti, non può dare alcuna garanzia di riuscita se, nel contempo, non si riesce a comprendere ~ e poi in qualche modo ad arrestare — quel processo di solubilizzazione e di successiva ricristallizzazione dei sali, o almeno non si è certi della presenza c della qualità e della quantità di quei sali e dei meccanismi innescati da quel fenomeno. Altri motivi di dubbio sull'applicabilità immediata di certe metodologie, nascono dalla constatazione che tra le cause di alterazione del monumento sono certamente individuabili, e in maniera non secondaria, alcuni degli interventi di restauro eseguiti nel passato. Da questa serie di considerazioni emerge la necessità di predisporre una indagine globale, attraverso la quale non solo approfondire la conoscenza della materia costituente i monumenti e le metodologie e i prodotti più idonei ai fini dell'intervento, ma anche la storia dei restauri, in quanto ormai storia dei monumenti. Nel 1995 si avvia pertanto un programma di “studi propedeutici al progetto di restauro dei monumenti della Valle dei Templi” comprendente, inizialmente, tre progetti: il primo, finalizzato all'esecuzione di indagini chimico-fisiche-petrografiche per la conoscenza del materiale costituente il monumento e delle cause e degli effetti del degrado; il secondo, all'esecuzione di prove di laboratorio tese alla sperimentazione dei prodotti da utilizzare per il restauro; il terzo, all'esecuzione di campioni sperimentali per la definizione delle metodologie e dei prodotti da utilizzare per gli interventi di restauro. Nello stesso anno si definisce il progetto peril rilievo aerofotogrammetrico della Collina dei Templi per il rilievo fotogrammetrico del tempio della Concordia. Quest'ultimo riguarda l'intera superficie visibile del tempio (prospetti interni ed esterni, pavimentazione, intradossi degli architravi). Il rilievo, oltre a costituire una indispensabile fonte di conoscenza, fornisce una idonea base per la mappatura del degrado, in atto in fase di completamento. La ricognizione conoscitiva sul tempio della Concordia comprende anche un progetto, definito nel 1997 e attualmente in fase di realizzazione, di “ricerca storico archivistica ed indagini finalizzate alla individuazione ed agli effetti degli interventi effettuati sul tempio”, con due grandi ambiti di approfondimento: il primo riguardante una fase di ricerca storico-archivistica, relativamente alla determinazione della datazione, dell'attribuzione, e della metodologia degli interventi manutentivi compiuti nel passato sul tempio; il secondo, relativo alla classificazione in sito delle integrazioni, conla raccolta di tutte le informazioni di carattere metrico-dimensionale, morfologico, attinenti alla tessitura e alla materia delle integrazioni apportate sulla matrice originaria dei paramenti, comprendendo anche una fase di caratterizzazione chimica, fisica e petrografica in laboratorio dei campioni prelevati. La notevole messe dei dati raccolti ha indotto altresì all'elaborazione di un metodo ragio501

INDAGINE PACOMETRICA

Fig. 2. Tempio di Giunone, Tavola dell'indagine pacometrica con l'individuazione dei ferri riscontrati sul colonnato settentrionale.

nato di acquisizione informatica dei singoli dati, al fine di una lettura incrociata e di una gestione interattiva di essi, con il doppio obiettivo di sistematizzare i dati raccolti c di metterli più agevolmente a disposizione della comunità scientifica. Questa operazione consentirà altresì di costituire, ad Agrigento, un archivio della documentazione sugli interventi effettuati sul tempio della Concordia, attualmente sparsi in diversi archivi siciliani e della penisola*. La ricerca viene effettuata presso la Biblioteca Comunale di Palermo, la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana, il Gabinetto delle stampe e dei disegni della Galleria Regionale Siciliana in Palazzo Abatellis, l'Archivio di Stato di Palermo, l'Archivio della Soprintendenza Archeologica di Agrigento, l'Archivio della Soprintendenza per i Beni ambientali e Architettonici di Palermo, l'Archivio di Stato di Roma, l'Archivio di Stato di Napoli. Contestualmente alla raccolta sistematica della documentazione, viene approfondita la storia del monumento attraverso tutti gli interventi di cui è stato oggetto: dagli interventi di restauro eseguiti nel ‘700 a quelli più recenti, viene valutato sia il comportamento dei materiali impiegati sia la necessità dalla quale essi scaturivano. Tale studio potrà fornire anche delle utili indicazioni sui materiali e sui metodi da adottare nei successivi interventi, se gli interventi effettuati nel pas-

sato saranno ritenuti validi e perciò riproponibili. Il programma di ricerca e di indagini è stato previsto per il tempio della Concordia, nella convinzione che irisultati di esso sarebbero stati utilizzabili, con gli indispensabili adattamenti, anche agli altri monumenti che presentano problematiche del tutto simili. La necessità dell'approfondimento della conoscenza, sempre relativamente al tempio della Concordia, ha indotto a programmare altre indagini e altri studi. È stato pertanto impostato un programma

globale di studi propedeutici al restauro del tempio riguardante la conoscenza del monumento sotto ogni aspetto. Gli studi programmati comprendono oltre agli aspetti fisico-chimici del materiale costituente il monumento, e del degrado, ulteriori indagini fisico-chimiche sulle conseguenze e sullo stato degli interventi di restauro realizzati nel passato. Altro studio fondamentale avviato su Concordia è quello riguardante la sperimentazione, nell'ambito si un “progetto diagnostico per la definizione delle metodologie e dei prodotti per gli interventi di restauro” dell'efficacia dei trattamenti e degli interventi conservativi, al fine di programmare un idoneo intervento di restauro delle superfici lapidee. Attraver80 questo studio, sono stati in particolare messi a punto i sistemi di incollaggio con malte e collanti, sono state sperimentate le malte perla stuccatura e i prodotti perla riadesione (sistema roccia-collante malta-roccia) valutati i sistemi di pulitura e disinfestazione, effettuate prove di consolidamento e protezione e sperimentata anche la messa in opera di perni perla riadesione della roccia. A tale fine sono stati prelevati in situ, in una cava localizzata mediante un'apposita ricerca che ha condotto all'individuazione di un litotipo simile a quello del tempio, numerosi blocchi di biocalcarenite di natura petrografica simile alla roccia utilizzata nella costruzione del tempio. Per l'esecuzione delle prove è stato predisposto un totale complessivo di 379 provini normalizzati, di forma e dimensioni variabili a seconda delle indagini di controllo da eseguire, di 6 provini irregolari e di 68 cam502

pioni, per un totale quindi di 453 campioni. L'efficacia dei diversi trattamenti, dei sistemi c dei prodotti sia di stuccatura che di riadesione è stata valutata mediante il controllo di alcuni parametri fondamentali sui provini prima e dopo i diversi processi di invecchiamento artificiale, realizzato tramite cristallizzazione dei sali per immersione totale, cristallizzazione dei sali per risalita capillare forzata ed esposizione alla radiazione UV. Le prove hanno riguardato oltre 15 diversi materiali, presenti sul mercato e considerati tra i più affidabili c testati (sia materiali naturali quali grassello di calce, calci idrauliche etc., sia resine), e di essi sono state valutate non solo durabilità e tenacia in assoluto, ma anche la compatibilità con il materiale lapideo e la reversibilità. La grande quantità di dati raccolti è stata sintetizzata in tavole di raffronto, che rendono più immediata la conoscenza del comportamento dei materiali testati, soprattutto in ordine alla compatibilità con la biocalcarenite di Agrigento, e l'interpretazione globale della diagnostica tecnologica effettuata anche in funzione della applicazione pratica in cantiere L'ISPEZIONE CON SONDA TELEVISIVA NELLE MURATURE DEL TEMPIO DI GIUNONE E DEL TEMPIO DELLA CONCORDIA

L'intervento eseguito nel 1996 sui templi di Giunone e Concordia evidenziava anche gravi problemi di carattere statico la cui soluzione non poteva essere avviata se non dopo una approfondita e specifica indagine di carattere statico, successivamente avviata con la collaborazione del Dipartimento di Ingegneria Strutturale e Geotecnica dell'Università degli Studi di Palermo?, e attualmente in corso di definizione. Nel tempio di Giunone, lo stato di estremo degrado di alcune colonne del prospetto settentrionale, induceva al puntellamento dell'epistilio in due tratti. Ma il problema più grave sembrava quello derivante dalla presenza delle barre di ferro collocate negli anni cinquanta-sessanta a collegamento dell’architrave con le colonne e dei vari rocchi di esse tra di loro, sempre sul lato settentrionale del tempio. L'ossidazione delle barre ha indotto fenomeni fessurativi molto preoccupanti in quasi tutte le colonne che, al foro di entrata del ferro, presentano delle fessure radiali, alcune delle quali molto accentuate e tali da provocare la totale frattura del rocchio da parte a parte. Occorrerà pertanto valutare l'eventuale necessità di procedere all'estrazione dei ferri, e non solo di quelli che hanno già provocato un evidente danno alla pietra, ma anche, a scopo preventivo, di tutti gli altri. Non potrà comunque essere deciso un programma di liberazione dalle chiodature senza prima verificare il comportamento statico della struttura e senza valutare la effettiva realizzabilità di una simile operazione. A tale fine, nel corso dell'ultimo intervento realizzato nel tempio nel 1996, si è proceduto all'estrazione di due barre dalla quarta colonna (da est) della fronte settentrionale, che manifestavano già problemi di ossidazione con conseguente frattura della pietra. L'operazione è stata eseguita con una carotatrice munita di corona diamantata del diametro esterno di 40 mm e diametro interno di 30. I tubi di prolunga, aventi lo stesso diametro interno della corona diamantata, hanno consentito alla barra di acciaio del diametro di 20 mm, di penetrare all'interno del sistema di sovracarotaggio fino alla sua completa estrazione. L'operazione è stata preceduta dalla cerchiatura della colonna effettuata con travetti di legno rivestiti con tessuto non tessuto collocati all'interno della scanalature della colonna, e tenute da cinghie pretensionate (fig. 3). Il sacrificio di materiale lapideo è stato pressoché nullo in quanto la carotatrice ha operato all'interno del vecchio foro realizzato per l'infissione della barra. In particolare è stato possibile osservare che una delle barre estratte, quella che collegava il pi mo rocchio allo stilobate, lunga m. 1,30 e del diametro di 20 mm, non presentava particolari fenomeni di degrado, mentre la barra di collegamento tra i primi due rocchi, lunga m. 1,10 e del diametro di 20 mm, presentava per tutta la sua lunghezza evidenti fenomeni di alterazione, già del resto denunciati dalla frattura del rocchio. Estratto il ferro, è stata eseguita una prospezione con sonda televisiva (figg.

4-6). L'ispezione

503

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IrTT Ι Fig. 3. Tempio di Giunone. Prospetto della colonna con indicazione del sistema di protezione montato primadi procederealle operazioni di sovracarotaggio.

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ROCCHO

sali

del primo foro ha evidenziato l'assenza di soluzioni di continuità all'interno del rocchio, individuando alla profondità di 65 cm dal boccaforo il passaggio tra il rocchio stesso e lo stilobate. È stata osservata una fessura di piccole dimensioni nella parte iniziale del foro. Inoltre è stata osservata una cavità, alla profondità di 110 cm, interessante il blocco di base. L'ispezione del secondo foro ha evidenziato una fessura all'interno del rocchio verosimilmente provocata dalla barra di ancoraggio e visibile anche all'esterno. Detta fessura ha uno sviluppo parallelo al foro di carotaggio fino al passaggio tra i due rocchi che è stato individuato a 65 cm dal boccaforo. Una seconda fessura interessa il rocchio inferiore alla profondità di circa 80 cm. L'operazione sopra descritta, mentre ha dimostrato la realizzabilita di essa, e quindi la reversibilità quasi totale delle barre, non ha fornito elementi utili per la valutazione degli effetti delle virazioni indotte dalle stesse operazioni di carotaggio, né sulla effettiva necessità dell'operazione di chiodatura eseguita negli anni sessanta. Entrambe tali verifiche devono ovviamente precedere ogni eventuale operazione di estrazione dei ferri, e ciò sia per valutare gli ulteriori danni che possono essere indotti dall'operazione medesima, sia per programmare l'eventuale sostituzione dei

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Fig. 4. Tempio di Giunone. Pianta della colonna con l'ubicazione e la numerazione delle due barre in acciaio sovracarotate, 504

ferri con un sistema o con materiali più adeguati, se

dalla verifica statica dovesse risultare indispensabile il collegamento tra i vari rocchi e di questi allo stilobate e all'architrave. LA PROSPEZIONE VIDEO AL TEMPIO DELLA CONCORDIA

I problemi di carattere statico evidenziati nel tempio della Concordia riguardavano soprattutto la fronte occidentale. Qui, lo stato di alcuni capitelli, frutto di interventi di restauro eseguiti dalla fine dell'800 agli anni trenta di questo secolo, induce ad approfondire una problematica finora non emersa sulla natura e sulla consistenza delle integrazioni e sui rischi che il venir meno delle caratteristiche meccaniche di esse può comportare. V? inoltre da rilevare che una verifica statica del tempio con analisi dei carichi basata sulle sole caratteristiche geometriche di esso, può risultare molto sommaria e poco attendibile, se consideriamo che la compagine lapidea è interessata da una grande quantità di vuoti, come è stato verificato nel corso dell'ultimo intervento sui

Fig. 5. Tempio di Giunone. Schemi della posizione delle barre sovracarotate. Planimetria della colonna con l'ubicazione e la numerazione delle due barre in acciaio sovracarotate.

muri della cella e su molte delle colonne la cui sezione resistente è ben diversa da quella che appare da una visione sommaria del paramento esterno. Occorre pertanto prevedere una serie di indagini diagnostiche che diano la garanzia di una lettura dei monumenti il più aderente possibile alla realtà e che diano delle indicazioni adeguate ai fini di un intervento di restauro.

Relativamente alla prospezione con sonda televisiva, essa è stata effettuata sull'integrazione del capitello della quarta colonna del prospetto occidentale, che, presentando vistosi fenomeni di dagrado, induceva ad un approfondimento della conoscenza del suo stato e della sua consistenza (fig. 6). Attraverso 7 fori praticati nell'integrazione eseguita nel 1917, si è potuto constatare la modestissima consistenza della muratura e la sua estensione, che interessa oltre un terzo dell'abaco e dell'echino ".

Seala 1 : 20

Fig. 6. Tempio della Concordia. Ubicazione e numerazione dei fori di piccolo diametro eseguiti sull'integrazione del 1917 del capitello della quarta colonna della fronte occidentale del tempio, ispezionati con sonda televisiva. 505

In considerazione che ben altri quattro capitelli della stessa fronte si presentano nella stessa tuazione, in uno stadio del fenomeno di degrado comunque meno evoluto, si evidenzia la necessità di estendere la ricognizione anche a questi elementi, al fine di precedere l'evoluzione del fenomeno con gli interventi più opportuni. Sulla scorta delle considerazioni precedenti, si è ritenuto necessario impostare il programma di indagini finalizzate all'approfondimento della conoscenza dei due monumenti dal punto di vista statico, al quale si è fatto cenno, momento fondamentale del quale è la ricerca in corso da parte del Dipartimento di Ingegneria Strutturale e Geotecnica dell'Università degli Studi di Palermo. La ricerca ha il fine di sviluppare metodi di analisi strutturale atti ad accertare le condizioni dei due templi tramite indagini statiche e dinamiche, teoriche e sperimentali, e di descrivere il complesso degli interventi da porre in atto ai fini della loro salvaguardia. Le informazioni che scaturiranno dagli studi intrapresi, in massima parte definiti, costituirà la base di conoscenze dalla quale muoverà l'azione conservativa del patrimonio monumentale della Valle, che non dovrà più scaturire dalle necessità del momento - come in effetti è avvenuto fino ad oggi — bensì derivare da una programmazione a scala globale, che prevenga o rallenti al massimo il degrado. Si deve a tale proposito sottolineare come la salvaguardia dei monumenti, obiettivo primario della tutela della Valle, potrà essere validamente perseguita solo impostando una continua opera di manutenzione e protezione degli stessi con tutti i mezzi che le conoscenze attuali consentono. NOTE ? Su questi e gli altri interventi operati sul tempio della Concordia nel passato, v. L. Turzzvo, Tempio della Concordia, Flaccovio, 1984. ? Una esauriente storia degli interventi eseguiti sul tempio della Concordia è in: L. Truzzivo, Tempio della Concordia, Flaccovio editore, 1984. ? Le resine epossidiche vennero utilizzate nel tempio dei Dioscuri per il collegamento, con barre di acciaio, dei conci che formano il tratto di gheison superstite del frontone occidentale e di alcuni conci della trabeazione sul lato settentrionale; al ‘Tempio di Giunone solo come collante di una malta in argilla espansa utilizzata per ricolmare i vuoti rimasti dopo l'asportazione della muratura in pietrame e malta di gesso asportata alla base delle colonne. * L'intervento realizzato al tempio di Giunone è consistito in una serie di chiodature di collegamento tra i vari rocchi del le colonne e tra queste e lo stilobate, con la finalità di renderle monolitiche e quindi più resistenti ad un temuto ribaltamento. L'ossidazione delle barre metalliche ha provocato una preoccupante serie di lesioni che interessa soprattutto il colonnato settentrionale. * Le opere realizzate sul tempio della Concordia(v. L. Tezzzso, op. cit, p. 77), di grande consistenza, realizzate dal 1948 al tempio della Concordia, sono oggi in fase di quasi completo disfacimento. * Dalla metà degli anni 80 alla metà degli anni '90, vengono realizzati interventi di manutenzione, che diventano occasione per la documentazione dello stato generale dei monumenti e per un approfondimento della conoscenza dei loro problemi, a templi di Giunone, Esculapio, Giove, Dioscuri, Vulcano, Demetra, Ercole, al santuario di Demetra, alla tomba di Terone. * II programma della sezione archeologica del 1993 destinava, su complessivi 2523 milioni, ben 2173 milioni ad interventi di restauro dei monumenti della Valle. Gli interventi vennero realizzati per la disponibilità, nell'ambito del bilancio della Regione Siciliana, di un capitolo, il 78132, destinato specificamente alla Valle dei Templi * La Soprintendenza Archeologica di Agrigento nasce nel 1939 motivo per il quale la documentazione sugli interventi anteriori a quella data si ritrova presso gli archivi di altri istituti. * Una ricerca sulla meccanica delle strutture murarie dei templi di Giunone e della Concordia è oggetto di una convenzione con il Dipartimento di Ingegneria Strutturale e Geotecnica stipulata alla fine del 1998. La ricerca, in corso, si protrarrà per tutto il 1999, * Lo stato del'integrazione del capitello ha imposto un intervento di restauro, in corso di realizzazione. V. P. MELI, Il restauro del quarto capitello della fronte settentrionale del tempio della Concordia, in I Beni Culturali, Anno VI, n° 3, Maggio Giu: gno 1988. ?* "Ricerca sulla meccanica di strutture in muratura di edifici monumentali di rilievo storico ed archeologico. Il caso delle condizioni statiche attuali dei Templi di Giunone e della Concordia", convenzione tra Soprintendenza e Università di Palermo del 13/11/1998.

506

PIERO ORLANDINI IL THESMOPHORION DI BITALEMI (GELA): NUOVE SCOPERTE E OSSERVAZIONI

Negli Atti dell'VIII Congresso internazionale di studi sulla Sicilia antica Gabriella Fiorentini ha dato notizia della scoperta di due nuovi graffiti vascolari nell'area del santuario di Bitalemi a Gela, graffiti che confermano l'attribuzione del santuario stesso a Demetra Thesmophoros' (figg. 1, 2, 3a). Vorrei prendere lo spunto da questa scoperta per alcune considerazioni e aggiornamenti sulle scoperte e gli studi relativi a Bitalemi dopo il 1967. Lo scavo sistematico di questo santuario, da me condotto negli anni 1963, 1964 e 1967, si era infatti arrestato sul bordo meridionale della collinetta di Bitalemi dove, al margine del pendio che scende verso la spiaggia, erano state messe in luce le fondazioni a blocchi di arenaria di un sacello del V sec. a.C., indicato nelle planimetrie come edificio ΟἹ. Negli anni successivi questo pendio sabbioso, ancora inesplorato, ha attirato l'interesse degli scavatori clandestini che hanno compiuto alcuni scavi di frodo, provocando l'intervento, nel 1991, della Soprintendenza di Agrigento. Come ha riferito la Fiorentini questi scavi di frodo non avevano fortunatamente raggiunto lo strato arcaico più profondo (strato 5), ma avevano intaccato lo strato del V secolo a.C. (strato 4), risparmiando però un piccolo settore con la stratigrafia ancora integra. Da questo settore provengono i due frammenti di skyphoi con graffiti che vorrei qui riconsiderare. Il primo frammento (figg. 1 e 2) appartiene all'orlo di uno skyphos attico dell'inizio del V sec.a.C." sul quale era graffita una dedica votiva di cui restano le lettere . eouorpoe. Si tratta evidentemente di una dedica alla dea Thesmophoros, non sappiamo se in caso genitivo o dativo. Il secondo frammento (figg. 1 e 3) appartiene al fondo di uno skyphos attico databile verso il 450/440 a.C.“ sul fondo è graffita la dedica della quale restano le lettere Aquat. . Si tratta del nome di Demetra, nella forma dorica, da integrare, anche in questo caso, in Δάματρος o Aanarot. Un'ulteriore testimonianza epigrafica è emersa dalla recente revisione di tutto il materiale degli scavi 1963-67. Si tratta di un frammento di skyphos attico a vernice nera della metà V sec. a.C. sul quale resta l'inizio di una dedica graffita: AM... ..... Si tratta, anche in questo caso dell'inizio di una dedica a Demetra. (Fig. 3)

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Fig. 1. Frammenti di skyphoi attici con dediche alla Thesmophros e Demetra (scavi 1991).

Fig. 2. Grafico del frammento fig. 1 (a sinistra). 507

La scoperta di queste nuove iscrizioni votive è importante per due motivi:

1. È la conferma definitiva dell'attribuzione del

santuario di Bitalemi a Demetra Thesmophoros,

come già sottolineato dalla Fiorentini. I due nuovi

graffiti si aggiungono infatti a quello, da me pubBlicato, con la dedica haga Beopogogo εκ τὰς Aukato σκανας (fig. 4) graffito su un frammento di vaso attico rinvenuto nello scavo del 19645. I nuovi graffiti con il nome di Demetra rendono poi tale indicazione ancora più esplicita, confermando

che, nell'ambito del culto, la dea era invocata sia con il nome proprio (Demeter) sia con l'appellativo (Thesmophoros).

2. Come già rilevato i due nuovi graffiti provengono dall'area immediatamente a sud del sa-

cello G 1, di fatto presso l'angolo S/O del sacello

stesso. Dall'area di questo sacello e dallo stesso strato (n. 4) proveniva anche il citato graffito con la dedica di Dikaio alla Thesmophoros*. Si può quindi ritenere che il sacello G 1 fosse il nuovo edificio di culto che aveva sostituito, nel V secolo,

i precedenti sacelli arcaici (G 5 e G 7), distrutti al-

Fig. 3. Frammento di skyphoi attico con dedica a Demetra (scavi 1964).

l'inizio del secolo”. Questo nuovo edificio era più grande e solido dei precedenti, costruito con blocchi di arenaria e non con muretti a secco. Attorno a questo sacello dovevano essere deposti i vasi votivi che ora recano iscrizioni di dedica non docu-

mentate, finora, sui vasi dei depositi votivi della

fase arcaica di VILVI sec. a.C. Ci fu evidentemente a Gela, nel periodo di massimo splendore della città, una diffusione dell'uso della scrittura documentato dalle centinaia di graffiti votivi rinvenuti nell'area sacra dell'acropoli della città*, uso che si riflette, sia pure in misura minore, anche nel più modesto e popolare santuario di Bitalemi. L'esplorazione di questo pendio meridionale della collinetta è ripresa nel 1994 quando la nuova Soprintendenza ai beni archeologici di Caltanissetta Fig. 3a. Grafico del frammento fig. 1 (a destra). ha affidato all'Istituto di Archeologia dell'Università Statale di Milano la direzione di un saggio di scavo lungo il settore S/E del pendio stesso®, Sono stati rinvenuti, ancora intatti, gli strati 4 c 5 della fase greca; in questa zona marginale del santuario i depositi votivi erano, naturalmente, piuttosto radi rispetto alla forte concentrazione riscontrata sulla piattaforma sommitale della collina. Caratterizzavano lo strato 4 le consuete deposizioni votive di statuette fittili di donne offerenti con il porcellino (fig. 5) databili nel corso del V sec. a.C. Nello strato sabbioso (n. 5) della fase arcaica prevalevano i consueti focolari, con ampie zone di bruciato, resti di pasti votivi e conseguente deposizione di vasi acromi o dipinti collegati al banchetto rituale, come l'oinochoe e la coppa (fig. 6) databili nella prima metà del VI sec. a.C. Nel complesso si può dire che i nuovi graffiti ci recenti interventi di scavo hanno rafforzato, sen508

za modificarlo, il quadro storico-archeologico da me proposto al termine dello scavo sistematico degli anni 1963-1967 sulla base dei risultati raggiunti. Questi risultati hanno però avuto significativi

riflessi sugli studi successivi, grazie ai solidi punti

di riferimento relativi sia al culto tesmoforico, sia alla cronologia e tipologia dei materiali nell’ambito della precisa e fortunata sequenza stratigrafica che ha caratterizzato lo scavo di Bitalemi. Mi sembra opportuno, în questa sede, ricordare alcuni di questi studi. Già nel 1967 la mia pubblicazione, sugli Anna-

li dell'Istituto Italiano di Numismatica, di tutti i

depositi votivi di bronzo premonetale rinvenuti

Fig. 4. Grafico del frammento di vaso attico con de. dica alla Thesmophoros (scavi 1964).

nello strato 5 del santuario, dava lo spunto a Laura Breglia per sottolineare, in un articolo pubblicato sullo stesso volume degli Annali, l'importanza della scoperta del noto frammento di aes signatum del deposito n. 26": per la prima volta un lingotto di aes signatum aveva una precisa collocazione e cronologia: non era un relitto di fonderia in un generico ripostiglio di incerta cronologia,

ma parte di un deposito votivo databile, per la sua

collocazione stratigrafica, tra il 560 e il 540 a.C. Questo dato cronologico, secondo la Breglia, permetteva un interessante accostamento con il passo

di Plinio (N.H. XXXIII, 43) nel quale si attribuisce a Servio Tullio l'iniziativa di marcare con un se-

gno i pani di bronzo (Servius rex primus signavit aes). Anche per quanto concerne le terracotte figurate lo scavo di Bitalemi ha offerto importanti punti di riferimento agli studiosi di coroplastica siceliota. Mi riferisco, in primo luogo, al bel volume di Michel Sguaitamatii sulla tipologia dell'offerente con porcellino nella coroplastica geloa". L'autore conferma l'importanza del santuario di Bitalemi per quanto concerne l'origine di questa immagine di offerente sottolineando che "les types les plus anciens proviennent exclusivement de Bitalemi“". Da questo santuario proviene, in particolare, il tipo più antico (T 1) della classificazione) quello dell'offerente con il porcellino nella mano destra distesa lungo il fianco e il fiore di papavero nella mano sinistra stretta al petto?, Fondamentale, per il culto e la cronologia, è la presenza di questa statuetta nella nota stipe collocata presso le fondazioni del sacello arcaico G 5 (Strato 48)". La posizione della statuetta, collocata all'angolo del grande deposito di coppe capovolte e il dato cronologico (520/510 a.C.), indicano sia il momento iniziale di questa nuova tipologia di offerente, sia il suo particolare significato nell'ambito del Thesmophorion di Bitalemi nel quale il sacrificio e la consu‘mazione del porcellino sono largamente attestati dagli avanzi dei pasti rituali delle strato 5. Anche nel libro di Jaimèe P. Uhlenbrock sulla produzione geloa di protomi fittili di divinità femminili 5, lo scavo e i dati stratigrafici di Bitalemi sono il punto di riferimento obbligato per quanto riguarda l'inizio di questa produzione che corrisponde, stratigraficamente, al momento finale dello strato 5 e all'inizio dello strato 4, vale a dire al 540/530 a.C. "5. È questo il momento in cui alle protomi importate di produzione e tipologia ionica (Samo, Rodi, Mileto) subentrano quelle di fabbrica locale, per corrispondere alle nuove esigenze conseguenti alla ristrutturazione e ampliamento del santuario. È una produzione che si diffonde ed è presente, con diverse tipologie, in tutti i santuari di Gela fino al 490 circa a.C., come dimostrano i dati stratigrafici di un altro importante scavo gelese, quello della stipe votiva del santuario del predio Sola ”. Il commento più significativo e penetrante ai risultati delle scavo di Bitalemi è però il lungo articolo di Uta Kron pubblicato nel 1992 sull'Archaeologischer Anzeîger!. Non è il caso, in questa sede, 509

di analizzare dettagliatamente il contenuto di questo articolo che, partendo da un'attenta e intelligente lettura delle relazioni di scavo, mette in evidenza le concordanze tra le scoperte di Bitalemi e i dati delle fonti letterarie relative al culto e alle feste delle Tesmoforie. Da questo punto di vista si può dire che il saggio della Kron è il miglior commento e arricchimento, sul piano storicoreligioso, dei dati archeologici offerti dallo scavo

di Bitalemi. Solo su due punti c'è una divergenza di interpretazione dei dati di scavo che richiede, da parte mia, un breve chiarimento. Il primo punto riguarda i piccoli ambienti rettangolari in mattoni crudi delle strato 5". Nelle mie relazioni avevo avanzato l'ipotesi che questi oikoi fossero le abitazioni provvisorie delle donne che partecipavano alle Tesmoforie (le skenai ricordate dalle fonti e dal citato graffito di Bitalemi); mi basavo sullorientamento N/S dell'oikos più conservato (Ὁ 8), insolito per un edificio sacro, e sul rinvenimento, all'interno dell'ambiente, di una lunga collana femminile di perline di pasta vitrea che, evidentemente, si Fig. 5. Deposito votivo di statuette di donne con il era sfilata e persa tra la sabbia su tutta l'area delporcellino (scavi 1994). Yoikos®, Giustamente però la Kron sottolinea che, per costante tradizione e in relazione al rito Demetriaco legato alla vegetazione, le skenai delle Tesmoforie, come i giacigli delle donne, erano costruite con rami e foglie; non erano costruzioni stabili ma semplici e provvisori ripari per la durata delle feste. È vero, inoltre, che all’interno e all

atat

Fig. 6. Deposito votivo di vasi (scavi 1994).

sterno dell'edificio G 8 sono stati rinvenuti alcuni depositi di vasi votivi*!. Pertanto la Kron ritiene che questi piccoli ambienti in mattoni crudi fossero dei sacelli, non diversi da quelli in pietra e mattoni crudi 0 a blocchi delle fasi successive (strati 4b e 4a). Ritengo giusta l'osservazione della Kron e mi sembra ora più plausibile considerare questi oikoi in mattoni crudi come i sacelli della fase più antica (VII-VI sec. a.C.) all'interno dello strato 5.

1l secondo punto riguarda il significato delle due note stipi votive delle strato 4b: quella collocata accanto alle fondazioni del sacello G 6, già ricordata a proposito del libro di Sguaitamatti, e quella sistemata tra i muri del sacello G 77. Nella mia pubblicazione del 1967 avevo collegato queste due tipi, accuratamente “costruite” con vasi acromi capovolti (coppe e oinochoai), alla distruzione dei sacelli del VI secolo e alla successiva fase di ristrutturazione del santuario nel corso della prima metà del V secolo a.C.; în pratica a una cerimonia religiosa relativa al seppellimento dei resti dei sacelli distrutti e alla conseguente formazione di un nuovo piano (strato 4a) su cui impostare le fondazioni dei nuovi edifici di culto (G 1,G 2, G 3) in blocchi di arenaria”. Nel suo articolo la Kron ritiene invece che queste stipi non fossero collegate alla ristrutturazione del santuario, ma fossero semplici depositi votivi non diversi dalle altre deposizioni rituali, singole o 510

collettive, che caratterizzavano il santuario stesso, Su questo punto, però, non posso che confermare il mio convincimento e mi sembra che, a questo riguardo, la collocazione della stipe del sacello G 7 costituisca un dato di fatto difficilmente confutabile. Nella fig.1 della tav. XIV della pubblicazione su Kokalos del 1967 si vede infatti chiaramente la stipe di forma rettangolare, formata da oinochoai capovolte e sovrapposte in più file, e collocata tra i muretti del sacello. È evidente che una costruzione così fragile e precaria di vasi sovrapposti non avrebbe potuto rimanere cosi miracolosamente intatta fino ai nostri giorni se non fosse stata sepolta subito dopo la sua collocazione. Ma il seppellimento della stipe implica, necessariamente, anche il seppellimento dei muri di fondazione del sacello che, come risulta dalla foto, sono più bassi e non raggiungono l'altezza della stipe. In altre parole ci fu, in quest'area, un seppellimento unico che comprendeva sia i resti del sacello sia la stipe appena sistemata. Di fatto fu una sopraelevazione del piano di calpestio che interessò tutta l'area del santuario e sigillo i resti dei sacelli arcai i ve collocate tra i ruderi dei sacelli distrutti quale testimonianza della pietas collettiva e della cerimonia religiosa compiuta all'atto della ristrutturazione del santuario. Queste mie osservazioni dimostrano che l'articolo della Kron è uno stimolante

punto di riferimento

Fig. 7. Pellegrinaggio di donne e bambini alla cappella della Madonna di Bitalemi (1963).

per chiari-

menti e precisazioni sullo scavo di Bitalemi; spero pertan-

to di riprendere quanto prima la discussione e di poterlo commentare in maniera più dettagliata. Il santuario di Bitalemi è stato ripreso in esame, nel 1998, da Valentina Hinz nel suo importante e accurato libro sul culto di Demetra e Kore in Sicilia e in Magna Grecia. Tra le considerazioni della Hinz, che si richiama alle mie pubblicazioni di scavo e al citato studio di Uta Kron, c'è quella relativa alla probabile partecipazione al culto, în determinati giorni del Tesmoforie, anche dell'elemento maschile. La cosa è naturalmente possibile anche se, come nota la stessa Hinz oggetti che normalmente appartenevano alla sfera maschile (coltelli, punte di lancia, strumenti agricoli) potevano, nel quadro del culto di una divinità agraria, essere dedicati anche dalle donne. A questo proposito è bene ricordare che vomeri di aratro sono stati rinvenuti nel santuario di Demetra a Gravisca e che come ha Fig. 8. Pellegrinaggio di donne e bambini sottolineato Mario Torelli, “La loro presenza va riconnessa alla cappella di Bitalemi (1994) con il culto di Demetra nella sua funzione di Dea pronuba”, e che la loro simbologia nuziale è chiaramente precisata in un passo di Plutarco” D'altra parte coltelli di ferro e asce di bronzo sono presenti, ad esempio, nei corredi femminili di tombe dell'area campana dell VIII sec. a.C. in quanto all'interno della famiglia "la donna è depositaria degli strumenti del sacrificio e dell'alimentazione carnea"? Per quanto poi riguarda il significato dei complessi depositi di oggetti votivi accanto ai muri di fondazione dei sacelli G 5 e Ὁ 7, la Hinz, pur ricordando il citato punto di vista della Kron che li considera semplici depositi votivi come quelli dello strato 5, considera più probabile, sulla base dei dati 5n

di scavo, la mia proposta di collegare questi depositi con l'abbandono dei vecchi sacelli e le cerimonie relative alla ristrutturazione del santuario all'inizo del V sec. a.C.”. Nuove osservazioni sul Tesmophorion di Bitalemi sono poi contenute in un recente e approfon-

dito studio di Angelo Maria Ardovino che mette a confronto i santuari demetriaci di Gela e Paestum?,

Il santuario di Bitalemi è giustamente accostato, per quanto riguarda la collocazione topografica appena fuori della città, sul mare e alla foce del fiume, al santuario pestano di Demetra in località Torre distrutto purtroppo all'inizio del XIX sec. ", Per quanto riguarda le offerte è precisato inoltre il significato dei numerosi depositi di frammenti di bronzo di Bitalemi, già commentati, come si è detto în precedenza da Laura Breglia a proposito del frammento di aes signatum del deposito n. 26. Per queste offerte e altre simili in bronzo o argento, l'Ardovino sottolinea che l'intento di queste deposizioni era “quello di sottrarre alla circolazione la ricchezza e destinarla alla terra” pre propiziarne la fertilità in parallelo con l'offerta e il seppelimento rituale di cibi avanzi dei pasti e vasi capovolti che caratterizzano sia Bitalemi, sia, ad esempio il santuario pestano di S. Nicola di Albanella”? Ardovino riprende il tema della eventuale partecipazione maschile alle Tesmoforie, documentata a Paestum da statuette di giovanetti con porcellino, e suppone inoltre, per il santuario di Bitalemi, la presenza di un paredro maschile, in particolare Dioniso, pre formare una triade divina con Demetra e Kore. Anche se il “dio barbuto” di Bitalemi, cui accenna l'Ardovino, non è Dioniso ma un Sileno con le orecchie equine e due otri di vino”, l'esistenza di un culto dionisiaco a Bitalemi è sen'altro

ipotizzabile nel quadro di quella sacralità del pane e del vino che, fin dai tempi di Omero, era uno dei caratteri fondamentali e distintivi della religione e della civiltà greca. Un altra novità degli studi su Bitalemi è quella del riesame, effettuato dal doti. Ermanno Arslan, dei gruzzoli di monete di bronzo medievali rinvenute tra gli scheletri delle sepolture, singole e collettive, del cimitero dello strato 1. La presenza di fosse comuni coperte da uno strato di calce polverizzata e la stessa presenza dei sacchetti con le monete, indicavano che si trattava di un seppellimento collettivo e affrettato conseguente a un'epidemia. Secondo Arslan però le monete con l'iscrizione Federicus Rex Siciliae non sono di Federico II di Svevia (come pensavo allora), ma di Federico III di Aragona (1342-1377). Sembra plausibile, in questo caso, collegare l'epidemia che ha provocato la sepoltura collettiva presso la chiesetta medievale di Bitalemi alla grande peste che colpì, nel 1348, tutta l'Italia e da cui prese spunto il Boccaccio per il Decamerone. In attesa che il problema sia riesaminato dai colleghi medievisti nell'ambito di un sistematico riesame dei rinvenimenti dello strato 1 di Bitalemi, vorrei sottolineare che la nuova cronologia delle sepolture non modifica la mia proposta di datare al XIII secolo, dopo la fondazione federiciana di Eraclea-Terranova (1233), la costruzione

della prima chiesetta dedicata alla Vergine sulla collinetta di Bitalemi. Nell'area intorno alle fondazioni dell'abside di questa cappella, rimesse in luce nelle scavo del 1964%, sono stati rinvenuti infatti numerosi frammenti delle caratteristiche protomaioliche gelesi del XIII secolo, studiate e classificate dalla dott.ssa Salvina Fiorilla, che ci riportano comunque all'età di Federico II". Da quell'epoca il culto della Madonna ha sostituito quelle di Demetra, ed è stato osservando alcuni aspetti del moderno pellegrinaggio delle donne alla cappella di Bitalemi che, come è noto, avevo proposto nel 1964 di identificare nel santuario greco un Thesmophorion prima ancora che la scoperta del frammento vascolare con la dedica di Dikaio alla Thesmophoros confermasse tale ipotesi» Oggi a Gela le profonde (e non sempre positive) trasformazioni di carattere sociale ed economico conseguenti all'installazione del grande impianto petrolchimico dell'E.N.L, non hanno interrotto questi pellegrinaggi nè modificato, sostanzialmente, la devozione delle donne gelesi verso la Madonna di Bitalemi. Se confrontiamo la mia vecchia fotografia del 1964 (fig. 7) con quella scattata nel 1994 (fig. 8) possiamo notare sotto la patina del nuovo benessere (i bei vestiti, i fiori, la carrozzina per il bambino) lo stesso atteggiamento di devozione e fiducia. L'unico elemento nuovo e sgradevole è la rete metallica che separa la cappella dall'ingresso c dai posteggi dell'impianto E.N.I. e ha tolto ogni spazio alle donne in pellegrinaggio, costrette ora a muoversi dentro una vera e propria gabbia. Sarebbe giusto e umano (è un invito che rivolgo al Comune e all'E.N.L) ripristinare l'antico spazio 512

verde antistante la cappella per un senso di rispetto verso le donne di Gela, la Madonna di Bitalemi e (perché no?) l'antica Demetra Thesmophoros.

NOTE

* G. Fiorentini, Ativit αἱ indagini archeologiche della Soprintendenza ai Beni culturali e ambientali di Agrigento, in Kokaos XXXDCXL, 1993-94, I, 1, p. 721. La trascrizione è però inesatta. 7 P. Ontanona, Lo scavo del Thesmophorion di Bitalemi ε ἢ culto delle divinità cronie a Gela in Kokalos XU, 1966, av. I I. Gela: topografia dei santuari e documentazione archeologica dei cult in RIA 1968, tav. IL > Questo skyphos decorato lungo l'orlo da sottili lince violette, che richiamano modelli corinzi, appare a Gela già in corredi di tombe della fine del VI seca.C. Cr. D. Apaesteanu-P. Onarasns, Gela. Ritrovamenti vari, in NSA 1956, p. 380, fig. 8. * Questi skyphoi caratterizzano i corredi funerari di Gela verso il 450/440 a.C, cfr. D. ApESTEANU-P. OrALAXDII, Gela, cit, p.363, fig. Le p. 375, fg. 3 5 P. Orlandini, Lo scavo del Thesmophorion di Bitalemi, cit, pp. 20 e 21, tav. XA; In, Gela: topografia ἀεὶ santuari, cit. 5.40, Bg. 25 jns 7 P Ogtaxona, Lo scavo del Thesmophorion di Bitalemi, cit, p. 22e ss, ave XIILe XIV. * Pi OntaxonI, Nuovi graffiti dagli scavi di Gela, in RoemMitt 68, 1956, p. 140 ss M.T. Mana Piano, Nuove iscrizioni dal T'acropoli di Gela, in Miscellanea Eugenio Manni, 1979, p. 1767 ss; R. ARENA, Iscrizioni arcaiche di Sicilia e Magna Grecia Il {Iscrizioni di Gela e Agrigento), Milano 1992, p. 23 ss. "Ringrazio, perla fiducia la dott. Rosalba Panvini: lo scavoὃ stato condotto dalle mie collaboratrici, dottoresse Maddalena Pizzo e Luisa Cavagnera con l'aiuto del personale tecnico del Museo di Gela, "8 P. OntaNoin, Gela: depositi votivi di bronzo premonetale nel santuario di Demetra Thesmophoros a Bitlemi in AUN 12-14, 1965-1967, p. ss; L. Bazua, A proposito dell'as signatum, ibidem, p. 269 ss. M Scuouem, Lofrantede porelet dans la coroplahie geléenne. Etude typologique, Mainz 1984. 5. MSouarsawarn, Loffrante cit p. 42 7 MScuntauarn, Loffrnte, cit tv. 1, fgg. 2e 3. ?* P. ORLANDI, Lo scavo del Thesmophorion di Bitalemi, ct, p. 22, tav. XII © LP. Unzzxanock, The terracotta protomai from Gela, Roma 1988, * TP. Unensnocx, The terracotta, cit. p. 38 © 39; P. ORLANDI Lo scavo del Thesmophorion di Btalemi, it. p. 2325. 2 P. On.aNpin, Gela: la stipe votiva del Predio Sola, in MonAL XLVI, 1962, coll. 2-78 κι UL Kaon, Frauenfeste in Demeterheligtuemern: das Thesmophorion von Bitalemi in AA 1992; pp. 611-650. » P Ontanona, Gela: nuove scoperte nel Thesmophorion di Bitalemi in Kokalos XIII 1967, pp. 177-179, av. XXI, fgg 1 62; 1o. Diffusione del culto di Demetra e Kore $n Sicilia,in Kokalos XIV-XV, 1968-1969, p. 337, tav. LII, ig. I; Io. Gela topografíadei Santuari, cit.p. 41e tv. II (nr. G7 e G8). ® P. Ouanna, Difusione del culo, it. tav. LIL fig. 2 Gela: nuove scoperte nel Thesmophorion cit,p. 179, tav. XXI, figg 1 2. ? P OgtanpiI, Gela: nuove scoperte nel Thesmophorion, ci. p. 179, tav. XIII e XIV. » P. Ossana, Gela: nuove scoperte nel Thesmophorion, cit, p. 179, tav. VI e ὙΠ: l'innalzamento dl livello del piano di calpestio (corrispondente allo strato 4A) è ben visibile nella fg. 1 della tav VI. Ἣν Ὁ, Kaon, Frauenfese, ct, p. 645. ? V. Hina, Der Kult von Demeter und Kore auf Sizlien und Magna Graecia, Wiesbaden 1998. » V. Hina, Der Kult, cit. p. 60 7? M. Toniau, Il santuario greco di Gravisca, in PP CLXXVTI, 1977, pp. 411 e 438. » Cfr. L. Cenci, Campani, Milano 1995, p. 36; C. Cutnssonte, rer in Miscellanea di Studi in onore di Piero Orlandini, Milano 1999, . 119. 9 V. Hm, Der Kult, cit. p.64 » AM, Arbovmo, Sistemi demetriac nell Occidente greco. casi di Gela e Paestum, in Miscellanea di Studi in onore di Piero Orlandini, Milano 1999, pp. 169-188 3AM, ἀκρονινο, Sistem demetraci, ci, p. 179 » AM. Λαρονινο, Sistemi demetriai cit, pp. 171-172 » AL Ἀκρονινο, Sistemi demetriaci, it pp. 177-178 % P. OnLANDDG, Lo scavo del Thesmophorion di Bitalemi, ct tav. X. » P. Onsaxpn™, Gela: nuove scoperte nel Thesmophorion cit, pp. 11 12, tav. V. » P. Ontaspna, Gela: nuove scoperte nel Thesmophorion cit, p 12e tav. 1 M. » 5. Ponti, Considerazioni sulle ceramiche medievali dll Sicilia ceniro-meridionale, in Leta di Federico II nella Sicilia centro-meridional (At delle giornatedi studio, Gela 1990), pp. 115-169. 7! P. OtLivbix, Lo scavo del Thesmophorion di Bitalemi, it. tav. DX.

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PAOLA PELAGATTI ANTEFISSE DI PROVENIENZA CAMARINESE CERTA O PRESUNTA Questo piccolo omaggio a E. D. M., al quale mi lega un'antica amicizia dai tempi della Scuola di

Atene, proseguita nei comuni anni siciliani e anche dopo, si ricollega ad un suo lavoro sulle terrecotte architettoniche di Agrigento uscito nel 1965: e ad altri contributi sulle antefisse arcaiche, tuttora di riferimento per quanto riguarda la coroplastica siceliota collegata all'architettura. Alcuni siti della Sicilia, Himera, Agrigento, Gela, Siracusa, Naxos e Megara Hyblaca, e, nell'entroterra, Morgantina e Monte San Mauro hanno restituito negli ultimi lustri un numero cospicuo di rivestimenti fittili: alcuni appaiono oggi come centri in grado di elaborare terrecotte templari secondo un proprio stile originale, cosa impensabile fino a qualche tempo fa. Ciò non è ancora avvenuto per Camarina. Qui infatti la situazione non sembra di molto mutata rispetto alle conoscenze anteguerra e degli anni '60, che si basavano prevalentemente sui repertori della Van Buren, del Darsow, o, al più, a quanto da me segnalato nel 1965". L'esplorazione di Camarina, l'abitato e le due necropoli, è stata, come si sa, piuttosto intensa ma a messe di antefisse e terrecotte architettoniche è rimasta ridotta. A che cosa cid sia dovuto non saprei dire, ma giova forse ricordare che i livelli dell'abitato arcaico sono stati raggiunti solo in pochi punti in relazione all'estensione dell'abitato stesso e che le strutture della colonia siracusana nella sua fase iniziale risultano, per quanto si può dedurre dalle osservazioni fatte via via, in parte compromesse delle sovrapposte fasi dell'abitato classico ed ellenistico. Anche l'area del santuario della divinità poliade, il temenos di Athena che risale certamente all'età arcaica mentre l'edificio templare non sembra essere stato costruito prima del 460 a.C. è stata manomessa a più riprese, soprattutto nel corso dell'800 — inizi '900 con la costruzione di alcuni casolari (la masseria Fiorilla dei tempi delYOrsi, poi case Cassi-Susino) e di conseguenza ben modeste sono state le trouvailles emerse dal suolo circostante la cella. Naturalmente non va dimenticato che in quest'area si è avuta negli anni '80, grazie all’accortezza di G. Di Stefano?, la scoperta dell'archivio, già divenuto famoso, delle tessere pubbliche con i nomi dei cittadini. È un bel malloppo di fascette plumbee iscritte rimasto incapsulato, per nostra fortuna, sotto il pavimento di una delle case della “masseria di Cammarana”, costruita sopra il lato nord della cella, sicché possiamo ancora sperare che il terreno nasconda, chissà, una stipe o altri depositi significativi. Ciò premesso, ritengo che possa essere di una certa utilità un excursus sulle antefisse finora attribuite a Camarina, Va anche detto che se le antefisse di provenienza camarinese, presunta o certa, non sono numerose, ve ne sono tuttavia alcune singolari o addirittura problematiche che meritano di essere richiamate.

Da tempo sono note in bibliografia cinque antefisse* che, essendo entrate più volte nelle discussioni, sono in qualche modo emblematiche dell'intreccio di problemi - di provenienza, produzione, e cronologia - spesso suscitati da questa come da altre categorie di materiali riprodotti in serie. L'individuazione del tipo, della bottega e quindi del luogo di produzione dell'archetipo, ma anche di un'eventuale distribuzione di repliche in antico, rimangono elementi centrali per una proficua interpretazione dei diversi aspetti archeologici e stilistici. Sarà utile perciò ripercorrere dall'inizio i dati d'ingresso al Musco di Siracusa dei cinque esemplari registrati nell'Inventario redatto da P. Orsi come si sa, l'inventario orsiano è una fonte inesauribile di notizie utili ancora oggi per il progresso delle ricerche. Orsi acquistò a Camarina, o nei pressi (S. Croce Camerina), le cinque antefisse in due diversi mo515

menti, nel novembre 1898 e nel gennaio 1899, poco dopo la prima campagna camarinese, quella nelJa necropoli classica di Passo Marinaro del 1896. Egli stesso inventario i materiali come appartenenti a due distinti lotti, interessanti, come vedremo, anche per altri aspetti, ma, per quanto mi consta, non ne fece cenno nelle sue pubblicazioni. Per avere elementi circa la attendibilità della provenienza è utile soffermarsi sulla composizione dei due acquisti. Del primo lotto, composto di dieci pezzi (nn. 18879-1888), facevano parte due antefisse sileniche (nn. 18882, 18884), una gorgonica (n. 18885), inoltre un "grande askos siculo” (n. 18879), un frammento di lastrina in marmo iscritta (n. 18880), detta provenire dai dintorni di S. Croce Camerina, altri quattro pezzi (nn. 18881, 18883, 18886, "fr. di piastra fittile con maschera gorgonica in stile sviluppato” e n. 18887, "metà inferiore di maschera silenica in stile sviluppatissimo”), e infine un frammento di statua marmorea, n. 18888, “forse proveniente da Licodia Eubea”. È dunque un insieme eterogeneo per provenienza, epoca e tipologia dei materiali.

Il secondo lotto (sei pezzi), acquistato circa un mese dopo, comprendeva due sileni (nn. 18923, 18924), un'urna cineraria in piombo (n. 18925) e tre elementi di armatura: l'appendice inferiore di una cnemide in bronzo (bella patina) con forellini al margine”, alt. cm. 12 (n. 18926); una "lancia in ferro, curva con il tagliente logoro e sdentato”, lungh. 35 cm. (n. 18927); e un “guanciale-paragnatide in lamina di bronzo, rotta in due, con fori ai margini”, alt. 12,5 (n. 18928)*. Di questi ultimi, inventariati in successione, non era, a quanto pare, sfuggita all'Orsi la singolarità. Si consideri che a tutt'oggi armi e parti di armature (elmi e schinieri) rimangono rare nella Sicilia greca, se si esclude, per le armi, l'eccezionale e ricchissimo deposito votivo del vicino abitato di Monte Casale-Casmene". Anche questo secondo lotto “camarinese”, apparentemente non unitario, rimane dunque enigmatico. Per quanto mi risulta, l'Orsi non ritornò più su tali materiali. Un nesso tra i due lotti è peraltro suggerito dal fatto che i due sileni n. 18882 (del primo lotto) e n. 18924 (del secondo lotto) sono quasi gemelli per tecnica e dimensioni, aspetti sui quali ritorneremo. Non è improbabile che i due lotti siano stati venduti da uno stesso raccoglitore, sull'attendibilità del quale l'Orsi non espresse dubbi e, tenuto conto del suo metodo di lavoro e della sua abitudine a registrare puntualmente le notizie al momento dell'acquisto (si v. per es. la esplicita distinzione per i nn. 18880, 18888), tenderei a dar credito ad una provenienza dal territorio camarinese delle antefisse. La Van Buren, nel suo pionieristico repertorio del 1923, seguita dal Darsow (1938), collegò a Camarina l'antefissa gorgonica (n. 18885) ben riconoscibile e “antefisse sileniche” di V sec. di "tre tipi”, senza indicare i numeri di inventario né le dimensioni *, così che il riconoscimento dei pezzi ha dato luogo nel tempo a qualche incertezza. Nel suo breve excursus sulla città, la Van Buren richiama la prima ampia descrizione del sito, quella di J. Schubring (1873), che nell'accennare alla Casa Armaiddo (poi Lauretta), nelle vicinanze del fiume, luogo in cui collocava il culto della ninfa eponima, dichiarava di aver visto sparse sul sito (della città) una notevole quantità di “terrecotte” di ogni tipo e dimensione. “ Of this abundance of material only a few antefixes have come to us, three types of satyrs' heads from some small shrine (ant. 40) and a Gorgoneion in low relief (ant. 26)". Ma non possiamo far dire a Schubring di aver visto i sileni e una gorgone e, tanto meno, riconoscere nei reperti acquistati dall'Orsi, molti anni dopo, alcune delle “terrecotte” genericamente evocate dallo stesso autore’. Come è noto, alcune terrecotte di grandi dimensioni e, tra queste, il famoso kalypter hegemon con figura di cavaliere’, furono ritrovate, più tardi (1905) dall'Orsi nell'ansa del fiume, all'incirca sotto Casa Lauretta, dove ancora in anni recenti vennero in luce, nel letto del fiume, i resti di uno scarico di terrecotte di vario tipo, forse da un deposito votivo"'. 1. Antefisse sileniche

Prendiamo innanzitutto in considerazione le quattro antefisse sileniche appartenenti, come vedremo, a tre diversi tipi, di età tardo arcaica e di età classica. Di una di tali antefisse si occupò P. Orlandini ed esse furono poi incluse nel mio contributo del 1965. Sono state riprese recentemente da V. Kaestner, nel suo esauriente studio sulle antefisse dell'Italia e della Sicilia ". 516

Fig. 1. Antefissa silenica (Siracusa Museo P. Orsi, Inv, 18882).

Fig.2. Antefissa silenica (Museo P. Orsi, Inv. 18924).

a) Antefisse nn. 18882, 18924

Queste due antefisse tardo arcaiche (figg. 1-2) possono essere ricondotte, come già proposto, al tipo del Sileno A di Naxos di cui sembrano essere repliche da matrici consunte di terza o quarta generazione. Sono esempi interessanti della trasformazione e forse sopravvivenza del tipo in un arco di tempo non facilmente precisabile. Lo indicano le dimensioni ridotte (18882, alt. cons. 0,15; 18924, alt. 0,18) e la scomparsa di dettagli indicanti le ciocche della chioma sulla fronte, divenuta qui una sorta di rotolo compatto trattenuto dalla benda. Manca ogni traccia di policromia, così importante in questo tipo; rimangono leggibili alcuni particolari come le lunghe orecchie equine diritte, con la probabile presenza dell'orecchino a pastiglia sul lobo inferiore a destra, e la barba segnata da ciocche fitte e sottili. Anche l'argilla marrone e con tritumi lavici ricorre in esemplari naxi Il tipo A è oggi tra i più documentati a Naxos, che è il centro in cui è accertata la produzione di tale serie di antefisse", una delle più antiche in Sicilia e quello dove la antefissa silenica perdura più a lungo. Un buon numero di splendidi esemplari conservano tracce consistenti della policromia, grazie anche al trattamento delle superfici operato a Naxos, da anni recenti, immediatamente dopo lo scavo“. Anche se non appare da tutte le repliche, per effetto della giacitura o anche dell'esposizione alla polvere nei musei per i pezzi rinvenuti nel corso dell'800, la superficie di questi sileni era certamente ravvivata dal colore, come ha osservato Kaestnera proposito di uno dei sileni già nel Museo di Palermo. Appare così evidente il ruolo che il colore ha quale elemento unificante delle superfici dei capelli e della barba, appena segnata da solchi sottili. Tale uso del colore è ben diverso da quello testimoniato dal più tardo sileno B di Naxos e dai sileni geloi di via Apollo, dove esso tende piuttosto a evidenziare la forte plasticità delle singole parti. Nel nostro sileno la barba, partendo dall’altezza degli occhi, riduce il viso, dipinto di bianco, quasi ad un triangolo e ciò contribuisce a dargli un aspetto ieratico. Il carattere disegnativo è messo inoltre in risalto dalla arcaica decorazione a crocette alternate a coppie di punti della tenia, dagli orecchini e dalla linea di contorno degli occhi e delle orecchie; tale decorazione dipinta, in alcuni esemplari, si sbizzarrisce in coriandoli sulle guance ¢ in linee ondulate sulla fronte. Tutti questi elementi rimandano ancora una volta ad ambiente samio tardo arcaico: trovano riscontro nella ben nota maschera femminile ad occhi forati, di produzione samia, di poco più antica, resa nota or è un secolo dal Boehlau'*, di cui alcune repliche pervennero 517

forse in Sicilia, come indicherebbe l'esemplare da Monte San Mauro", quest'ultimo non conservante la policromia. Tutto ciò sembra confermare una derivazione samia (dalla ben nota maschera del British Museum 523), a suo tempo proposta per il modello ispiratore del sileno pensieroso di Naxos, e una attribuzione alla generazione dell'ultimo trentennio del VI sec. Ciò non esclude una continuità dell'uso di repliche fino agli inizi del secolo successivo 8. Ritornando alle due modeste repliche acquistate dall'Orsi, sarei tuttora orientata a considerarle prodotte a Naxos, trasferite a Camarina forse in antico. Peraltro, come ebbi già occasione di rilevare, dagli scavi di Siracusa, necropoli del Giardino Spagna, proviene un esemplare parziale ma da matrice fresca e con decorazione dipinta, vicino dunque all'invenzione del tipo, che ben testimonia la sua circolazione in area siracusana già in età arcaica. È questa una ulteriore conferma del rischio di

identificare il luogo di provenienza di uno o due pezzi con quello della bottega in cui il tipo fu crea: la dispersione delle repliche non favorisce infatti tale identificazione.

b) Antefisse nn. 18884 e 18923

Delle due antefisse sileniche di età classica, il modesto frammento n. 18923 (fig. 4) ha dato luogo ad una complicata vicenda. Già il Darsow lo collegava ad altre tre antefisse note al Kekulé, di cui due a Palermo, dono Salinas, e la terza, la più importante, completa e ben conservata, delle collezioni dei Benedettini al Museo di Castello Ursino a Catania”. Proprio sulla base della presunta provenienza da Camarina dell'esemplare n. 18923, egli proponeva che si trattasse di un tipo di invenzione camarinese, opinione accolta anche dall’Orlandini”. Gli scavi di Naxos hanno poi evidenziato come il tipo B sia ben radicato a Naxos, e una matrice proviene dal quartiere dei vasai a nord della città, sicché ritengo che sia giustificato il cambio di indirizzo anche per questo tipo silenico non più Camarina ma Naxos, come luogo d'origine. Del resto anche le due antefisse, già a Palermo, provenivano dal mercato taorminese e quindi verosimilmente dalla vicina Schisò o dai terreni a ovest del Santa Venera e lo stesso dicasi per un'analoga antefissa già nella Collezione olandese Hubrecht-Grandmont, acquistata a Taormina ai primi del novecento, resa nota nel '59 e passata dagli eredi all'Allard Pierson Museum di Amsterdam”. Questo tipo di antefissa, oggi documentato a Naxos con un centinaio di esemplari? è una crea-

zione importante degli anni 460-450 a.C.

La quarta antefissa, n. 18884 (fig. 3), conserva solo la parte superiore del volto caratterizzata dalla massa di capelli a calotta liscia sulla fronte alta increspata e le piccole orecchie equine, quasi orizzontali all'altezza degli occhi. Il tipo fu considerato dall'Orlandini come siracusano perla provenienza di un esemplare forse dall'Athenaion * Non a caso furono rilevate da Darsow e poi da Orlandini le somiglianze tipologiche e stilistiche con l'esemplare di Castello Ursino sopra ricordato (linea dei capelli sulla fronte, posizione e forma delle orecchie ecc.) tanto che il secondo (allora attribuito a Siracusa) può considerarsi una variante del primo, e cioè del cd. sileno B di Naxos. Anche di questo secondo tipo si ritrovano a Naxos numerose repliche. Si tenga inoltre presente che, nel caso di frammenti della sola parte inferiore, la distinzione tra i due tipi è spesso ambigua. Alcuni frammenti contribuiscono a ricostruire il tipo nella sua interezza, compresa la collocazione della testa silenica rispetto al coppo, mentre una diversa variante è data da un esemplare completo, di grande vivacità e forza espressiva, recentemente pubblicato da M.C. Lentini^.

Ritornando alla seconda coppia di antefisse acquistate da Orsi (inv. 18884, 18923), non saprei di-

re se esse siano state prodotte a Naxos ed esportate in antico o prodotte da una ipotetica matrice naxia pervenuta a Camarina in antico, ipotesi che pure non va trascurata nei casi di rinvenimenti estranei all'area di origine. Questo sembrerebbe verosimile almeno per l'esemplare n. 18884 (fig. 3), la cui argilla giallina, molto fine senza tritume lavico, si distingue da quelle più comuni a Naxos e ha una qualche somiglianza con le ben note argille giallo chiaro camarinesi a suo tempo osservate da T. Dunbabin*: ma restiamo nel campo delle ipotesi. Va comunque precisato che non si sono finora ritrovati frammenti di sileni, dei tipi naxi A-C e varianti, negli scavi che si conducono a Camarina, dal 1958 in poi, per quanto mi risulta. 518

Fig. 3. Antefissa silenica (Siracusa Museo P. Orsi, Inv. 18884),

Fig. 4. Antefissa silenica (Siracusa Museo P. Orsi, Inv. 18923).

©) Un cenno faremo infine alla quinta antefissa del medesimo acquisto: il frammento di sileno n. 18887" (fig. 5) rimasto inedito, in argilla brunastra, di cui resta parte della barba e la parte sinistra del volto. Va ricollegata a schemi di IV sec., come l'esemplare del Museo di Palermo, del tipo c.d. del "filosofo", di provenienza sconosciutaὃ, soprattutto per il trattamento della barba a pesanti ciocche attorcigliate.

d) Antefissa silenica da Camarina, case Susino (area del temenos, Sc. Di Stefano 1981) Passiamo ora ad una antefissa inedita di sicuro rinvenimento camarinese (fig. 6). È un frammen-

to rinvenuto nel 1981, negli scavi diretti da G. Di Stefano sotto i pavimenti delle Case Susino, a nordest dell'area dell'Athenaion, nelle immediate vicinanze del lato orientale del temenos, in terreno manomesso. È conservata solo la parte inferiore del sileno comprendente la barba, i baffi e parte della bocca semiaperta di cui resta il labbro inferiore e forse l'inizio di un dente a destra”. Nella barba, a spesse e lunghe ciocche, un po’ lanose e disposte a raggiera, si distingue una sorta di collarino che segue la linea del labbro composto di elementi filiformi. ΤΙ confronto con alcune antefisse geloe non lascia dubbi circa l'appartenenza ad un tipo ricollegabile a quello del famoso gruppo geloo di Via Apollo, la cui scoperta fu giustamente salutata da Orlandini come una vera e propria rivelazione della coroplastica greca degli anni 470-60, tanto da fargli affermare che “mai scavo archeologico, eccettuata forse la scoperta delle antefisse sileniche di Thermos, riportò alla luce un gruppo di antefisse più belle e potenti di queste” . Un cospicuo numero di rinvenimenti indicò a suo tempo che questo tipo di antefissa era ampiamente usato a Gela in quel periodo, in numerose varianti che sono state recentemente ridefinite da Kaestner™. Circa i rinvenimenti da altri siti, vanno richiamati i due minuscoli frammenti di Himera già noti*, conservanti

solo un tratto della fronte alla radice del naso con l'inizio delle sopracciglia, gli occhi e, în uno, le orecchie molto ravvicinate, che sembrano suggerire una parentela o derivazione piuttosto che strette analogie.

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Fig. 5. Antefissa silenica (Museo di Camari- — Fig.6. Antefissa silenica (Museo di Camarina, Inv. C. 1383), na, Inv. 18887).

Che una o più antefisse derivanti dai sileni di Via Apollo sia stata importata a Camarina con la ri fondazione geloa del 460 a. C. mi sembra più che probabile: anche in altri prodotti, come negli imponenti ed elaborati sarcofagi in terracotta rinvenuti a Passo Marinaro, la relazione privilegiata con Gela si coglie in maniera consistente negli stessi anni: nel caso di manufatti pesanti, come i sarcofagi, non porrei più tanto il problema di una loro provenienza da lontano *, ma è evidente invece l'adozione del costoso modello geloo negli usi sociali e in particolare in quelli funerari da parte di famiglie di tale origine, trapiantate a Camarina, che oggi, grazie ai nomi delle tessere civiche, possiamo assai meglio riconoscere.

Se la parte conservata dell'antefissa non lascia dubbi per le strette analogie con alcuni dei sileni di Gela, la mancanza del tratto superiore del viso, della fronte e della capigliatura - in cui sono più facilmente riconoscibili gli elementi distintivi delle varianti finora individuate — non consente accostamenti più puntuali. Le misure della barba e della bocca del sileno “Susino”, sensibilmente più piccole di quella degli esemplari geloi, farebbero pensare ad una replica di seconda o terza generazione, forse prodotta a Camarina dato il tipo e il colore dell'argilla. L'esistenza di costruzioni minori e forse di sacelli intorno al tempio di Atena, ai quali attribuire antefisse di questo tipo, è ipotizzabile anche in base ad altre terrecotte architettoniche di piccolo modulo raccolte nel temenos e a spezzoni di muri di non facile interpretazione. È solo, dunque, con l'antefissa dalle case Susino, databile all'incirca al 460 a. C., che si può dare per certa la presenza di antefisse sileniche a Camarina, 2. Gorgoni Un'unica antefissa gorgonica era finora nota, quella inv. 18885 (figg. 7-8), dal primo acquisto delYOrsi, esposta da sempre nella sala di Camarina del vecchio Museo Nazionale di Siracusa, poi passata nel Museo Regionale P. Orsi. È stata più volte ricordata, ma è rimasta, per quanto ne so, inedita. È un'antefissa di modeste dimensioni (alt. cm. 14,5, largh. cm. 17,7,) conservata quasi integralmente, a schema quadrangolare, che presenta un volto di gorgone piuttosto appiattito, con la superficie appena modellata: capelli a onde con sottostanti riccioli, occhi rotondi con sopracciglia arcuate, naso a punta, lingua che copre il mento, ai lati della quale sono tre spiraline allineate a indicare la barba; due piccoli serpenti barbati delimitano le guance. L'argilla rosso-mattone, fine e compatta, è estranea al territorio camarinese, per quanto mi consta. Sul lato posteriore è conservato l'inizio del 520

Figg. 7-8. Gorgone (Siracusa Museo P. Orsi, Inv. 18885).

Fig. 9. Lastra fittile (Siracusa Museo P. Orsi, Inv. 18886).

Fig. 10. Gorgone (Vittoria, propr. priv.)

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Fig. 11. Frammento di gorgoneion (Museo di Camarina, Inv. C. 13 84).

ὀ — Fig. 12. Antefissa a testa femminile (Palermo MuseoA. Salinas).

coppo che è di forma pentagonale: frammenti di coppi di questo tipo c.d. corinzio, meno comune in Sicilia, si trovarono negli scavi della parte occidentale tra il muro del temenos e lo stenopos n. 17 e in antefisse a palmetta (v. infra). Il tipo dei capelli con larghe onde trasversali e riccioli piccoli e sottili, quasi nascosti al margine della fronte, è ben diverso da quello delle antefisse gelesi e trova piuttosto confronto con una mutila antefissa da area etnea *. Un frammento di un secondo esemplare (fig. 10), un tempo in proprietà privata a Vittoria, è di probabile provenienza camarinese”. Questo secondo frammento, di schema diverso, conserva la parte inferiore centrale (naso, bocca e lingua che tocca il mento). Sono questi gli unici pezzi finora riconducibili con qualche riserva a Camarina , dove non sembra aver attecchito la moda siracusana e geloa delle antefisse gorgoniche. Va tuttavia segnalato un bel frammento di chioma (fig. 11), relativo alla parte inferiore laterale, consistente in tre trecce a globetti, dipinte di nero (cm. 8,5x6, spessore 3,5), rinvenuto nel 1987 nell'area del santuario”. Appartiene verosimilmente ad una gorgone di non piccole dimensioni, probabilmente una lastra a figura intera del tipo della famosa lastra siracusana dell'Athenaion, alla quale si avvicina per la forma e le dimensioni delle trecce. Il frammento è databile ancora entro la prima metà del VI sec. e la sua sicura provenienza a pochi metri a sud est della fronte del tempio, ne fa un raro cimelio di quella fase arcaica del santuario ancora poco documentata, o quasi solo dal gruppo di frammenti ceramici rinvenuti lungo il muro occidentale del temenos negli scavi del 1961

3. Antefissa a testa femminile nel Museo Regionale A. Salinas (Palermo) Presentata fin dal 1873 dal Cavallari come rinvenuta a Megara H., provenienza modificata in Ca-

marina un decennio dopo dal Kekulé*, è la bella antefissa a testa femminile (fig. 12) che si trova da allora al Museo Nazionale, ora Regionale A. Salinas di Palermo, e ha dato origine ad una vicenda intricata. È un esemplare della seconda metà del VI sec., di chiara influenza ionica. Di recente Madeleine Mertens-Horn*', dopo aver esaminato con acutezza un raro esemplare di antefissa a testa femminile da Akrai, già in collezione privata a Dresda, che era rimasto ignorato (dopo una prima notizia apparsa nel 1902), ha collegato un gruppo di antefisse dell'area siracusano/camarinese al culto delle 522

Figg. 13-14. Antefissa a testa femminile (Museo di Ragusa, da Castiglione).

ninfe in Sicilia: tra queste ha preso in considerazione anche l'esemplare del Museo di Palermo riferendolo al culto della ninfa Camarina: giustamente l'esimia studiosa sottolinea il carattere primario del culto della ninfa eponima nella fase arcaica della vita della colonia, al quale non è stato forse dato finora nei nostri studi lo spazio dovuto©. Giova dunque ripercorrere la singolare vicenda antiquaria relativa al rinvenimento dell'antefissa, che vede coinvolti, e non per la prima volta, due protagonisti dell'archeologia siciliana della seconda metà dell’800, F. S. Cavallari e R. Kekulé. Il Cavallari aveva infatti dichiarato, nel suo rapporto sul Bullettino della CABA uscito nel 18735, di aver ritrovato l'antefissa a Megara Hyblaea, durante le ricerche appena intraprese sul sito in quello stesso anno e di averla inviata subito al Musco di Palermo, “perché fosse esposta nella sala delle metope di Selinunte”: l'intento era quello di suggerire un rapporto stilistico con le importanti sculture della subcolonia megarese, dal cui studio si rammaricava di essere stato escluso. All'incirca nello stesso periodo si trovava a Megara anche Kekulé che aveva intrapreso il suo lavoro sulle terrecotte siciliane ma che era stato anche autorizzato dalla Commissione Antichità e Belle Arti a scavare una tomba. In “Die antike Terrakotten", in relazione alla provenienza dell'antefissa, il Kekulé smentisce a più riprese il Cavallari, sulla base, dice, di notizie avute da persona degna di fede, non meglio precisata“ Un'attenta lettura di numerosi documenti inediti relativi alla lunga attività del Cavallari a Megara Hyblaea (anni 1868/1889) è oggi disponibile grazie alla dissertazione di André Jacovella*s tanto più utile dato che per quegli anni avevamo “pochi dati, per lo più confusi”, come asserito da Georges

Vallet con il consueto humour“.

Si possono dunque fare alcune precisazioni. ‘Appare prima di tutto chiaro che i rapporti tra i due non furono mai buoni. Risentito dalle affermazioni di Kekulé, il Cavallari” ritornò sull’antefissa per ribadire quanto aveva già dichiarato, precisando che era stata da lui scoperta a Megara Hyblaca assai prima della sua prima visita a Camarina e che la provenienza era stata, a suo dire, poi confusa dall'informatore del Kekulé. La provenienza dell'antefissa rimase comunque dubbia in bibliografia: mentre Van Buren e Darsow“ davano credito all'opinione del Kekulé, il rinvenimento di un esemplare analogo, di altra matrice, avvenuto entro un pozzo nella stessa Megara H., intorno al 1950, rende più verosimile oggi una provenienza megarese. Tale provenienza è stata accolta da Nancy Winter e dal Kaestner9. Va peraltro osservato che tipi di antefisse a testa femminile dovevano circolare nel territorio camarinese nel corso del VI sec., se si considera l'esemplare rinvenuto a Castiglione (Sc. Di Vita), ritenuto una protome, ma che in realtà presenta nella parte posteriore tracce di abrasioni, forse indicanti l'attacco semicircolare del coppo (figg. 13-14). Questa antefissa, interessante anche per la sua provenienza dal centro indigeno più importante 523

Fig. 15. Antefissa a testa maschile (Museo di Ragusa, Inv. RG.9154),

Fig. 16. Antefissa a testa di felino (Coll. Mildenberg, USA).

del retroterra camarinese, con forti indizi di influenza greca già nel VI sec., si ricollega al tipo della antefissa arcaica, della metà del VI, non solo per il volto rotondo e per la curiosa acconciatura (con bande triangolari sulle orecchie), ma soprattutto per le sottili trecce che scendono ai lati del volto: giustamente M. Mertens Horn* ne sottolinea i caratteri atticizzanti che la collegano alla antefissa, oggi dispersa, di Dresda, da Akrai. 4. Antefisse a testa maschile a) Antefissa con leontea

Di provenienza camarinese sicura è l'antefissa inedita? (fig. 15), che rappresenta, per il tipo, una novità. Raccolta negli anni sessanta tra le pietre di un muro a secco nell'area dell'acropoli, à purtroppo assai mal conservata, ed è tuttavia interessante. Si tratta di un esemplare a decorazione plastica eseguita a stampo da matrice stanca e con superficie consunta forse anche per essere rimasta esposta alle intemperie. Ha forma grosso modo circolare, con la superficie a rilievo piuttosto tenue. Le condizioni, pur modeste, consentono di leggere la pelle ferina e la parte centrale del volto con due piccoli occhi ravvicinati alla radice del setto nasale increspato. La pelle di animale non presenta una criniera a ciocche distinte, e va riferita forse ad una pantera piuttosto che a un leone, con le due piccole orecchie sulla sommità e gli occhi indicati da due fossette ai lati di un solco verticale che la segna al centro. Essa ricopre la testa come un cappuccio e scende, in forma arcuata, sulla fronte, fino alle sopracciglia. Non è chiaro come fosse il margine inferiore della testa che ha un andamento rettilineo. Sembra esservi traccia dell'inizio delle zampe pendenti ai lati. In un primo momento pensai alla raffigurazione di una testa di Herakles con leontea. L'iconografia richiama quella di alcuni vasetti plastici greco-orientali della seconda metà del VI sec. a testa maschile ricoperta da leontea®. Gli occhi piccoli e i tratti ferini rendono tuttavia incerta tale ipotesi. Si potrebbe pensare ad un sileno, tenendo conto che Dioniso e il suo seguito indossano spesso pelli di pantera o leopardo portate come un mantello®, ma non conosco teste di sileno con un simile copricapo. Colpisce una forte assonanza con le antefisse tardo arcaiche con testa di felino, per la posizione delle orecchie e lo schema generale del volto in cui la bocca non è indicata e il naso scende in basso forse fino al limite inferiore. Tali antefisse sono oggi meglio note in Sicilia per il cospicuo gruppo della Cittadella di Morgantina, studiato dal Kenfield * che ne attribuì giustamente l'invenzi ne a un maestro coroplasta greco-orientale immigrato, il “Maestro delle antefisse di Morgantina”. È 524

interessante sottolineare che l'edificio al quale si riferiscono le antefisse con testa di felino alternate a gorgoni era probabilmente legato al culto di Herakles, come suggerì a suo tempo il Kenfield. Vi sono poi rari esemplari sporadicamente presenti a Naxos, a Messina e al Mendolito di Adrano, ognuno con diverso schema, tutti di età arcaica. Alcuni di tali esemplari furono messi in evidenza da un studio anticipatore di K. Phillips, che seguì il tipo dall'Etruria settentrionale alla SiciΜὰ". Se la nostra lettura dell'antefissa camarinese è condivisibile, la somiglianza con il tipo a testa di Fig. 17. Antefissa a testa di Eracle (Museo di Ragufelino potrebbe derivare dal fatto che ci troviamo sa, inv. RG.915 5) di fronte ad un esemplare derivante da un archetipo più antico di quello delle ben note antefisse soprattutto tarantine di IV sec., in cui si riconosce, dubitativamente, la testa di Eracle con leontea”. L'esemplare originario potrebbe essere infatti un incrocio tra l'uno e l'altro tipo, una sorta di proto-antefissa, a testa ricoperta da pelle ferina, ancora vicina alle antefisse tardo-arcaiche a semplice testa di animale. Per quanto mi consta non abbiamo tuttavia confronti pertinenti. Una data nel V sec., probabilmente agli inizi, è in ogni caso proponibile.

b) Antefissa con testa di Eracle Citiamo infine una nuova e inedita piccola antefissa frammentaria a testa di Eracle® (fig. 17),

che conferma l'interesse camarinese per il tipo ben testimoniato dalle monete almeno dal 460 a.C. È

emersa da una recente revisione dei materiali dalle ricerche degli anni '80 del quartiere occidentale. Si conserva la parte inferiore del volto, compreso il naso e la bocca, ai lati della quale sulle guance si distingue parte delle fauci della testa leonina: pur nella sua frammentarietà non si può non pensare alle monete camarinesi. Non saprei indicare confronti calzanti in ambito siciliano, nel quale, come si sa, l'antefissa a testa di Eracle è rara e, nei casi noti, non si discosta, per quanto mi consta, dai tipi tarantini ®. Data proponibile: V sec.-inizi IV a. C.

5. Antefisse pentagonali a palmetta Chiudo questa rassegna con tre diverse antefisse incomplete, di sicura provenienza camarinese®, con decorazione a rilievo di un tipo inconsueto in Sicilia. Di forma pentagonale, dovevano essere decorate da un fiore centrale a pochi petali, loto o palmetta ora mancante, tra due volute. Della prima (fig. 18 e dis.), di rinvenimento sporadico (inizi anni '60), resta solo la voluta laterale a sinistra con l'inizio del canale e piccole inflorescenze agli angoli. Una sorta di basso kymation plastico decora il Jato superiore rampante, mentre quello orizzontale presenta un breve listello liscio. Sul retro è conservata la traccia dell'attacco del coppo di forma pentagonale"?. La seconda (fig. 19), proveniente dall'area sud/orientale della città, da un pozzo limitrofo alla casa di Dione®, è anch'essa a lastra pentagonale. Della decorazione plastica resta la voluta laterale a destra, ben rilevata, e parte del canale che ha andamento apparentemente rettilineo. Il tratto di impronta sul lato posteriore sembra indicare in questo caso un coppo ricurvo. Un po' diverso da quello della precedente è lo schema del motivo decorativo, ricostruibile con qualche incertezza sia nell'una che nell'altra antefissa. Esse hanno tuttavia in comune il fatto di derivare da schemi di tradizione della Grecia propria e in particolare da antcfisse pentagonali con fiore centrale, a tre petali tra volute, in uso a Corinto fin dall'età arcaica®. In via propositiva indicherei per i nostri due esemplari una datazione nell'ambito del V sec.: forse agli inizi per il primo esemplare. 525

Fig. 18. a, b. Antefissa a palmetta (Vittoria, prop. priv.)

Analoga alla precedente è la terza antefissa (fig. 20), di cui si conserva la parte sinistra con la voluta, Circa la decorazione plastica si può osservare che questa tendenza è presente anche in alcune

delle non numerose terrecotte architettoniche camarinesi dagli scavi recenti: ad es. nei meandri plastici continui, alternati a riquadri sul listello di tegole piane e in particolare nella sima in proprietà privata a Vittoria, segnalata a suo tempo, con palmette e meandro a basso rilievo*. Su questa piccola sima è ritornato di recente G. Barello, nel suo importante studio sulle terrecotte di Caulonia“, con una fine analisi delle caratteristiche cauloniati, supportata da confronti calzanti da Caulonia stessa. La piccola sima con anthemion, con la sua decorazione plastica, rimane estranea, per quanto mi consta, al panorama siciliano di V sec. e fu forse prodotta da uno stampo cauloniate importato in antico in Sicilia: il frammento di matrice cauloniate di lastra con anthemion rinvenuto a Naxos, nell’area portuale, è un buon indizio di simili trasferimenti di matrici operati in antico. Segnalo in proposito che da Camarina proviene anche una aruletta miniaturistica, a dado, con animali sui quattro lati, del tipo cauloniate ormai ben documentato a Naxos‘. Diremo, per ultimo, che rimane nel suo isolamento la antefissa arcaica di Diopos, ormai ben nota®, appartenente alla categoria delle antefisse a decorazione solo dipinta, categoria che, come abbiamo visto, non dovrebbe essere considerata in modo schematico, come separata da quella degli esemplari plastici. Singolare anche per tecnica disegnativa, con la sua palmetta di tradizione anellenica e la sua iscrizione greca, essa offre un indizio significativo di quei rapporti e scambi tra camas nesi e siculi che portarono alla sfortunata alleanza contro Siracusa del 553/2, e alla sconfitta presso T'Irminio: sono gli anni in cui Camarina, affrancatasi dal suo stato di sub-colonia, si afferma come città di confine, aperta ai commerci marittimi, e sbocco naturale del retroterra indigeno. Ringrazio per fotografie e verifiche G. Di Stefano (Museo di Camarina), R. Amato (Soprintendenza di Siracusa), C. Ciurcina e A. Curcio (Museo P. Orsi), M.C. Lentini (Museo di Naxos), C.A. Di Stefano e G. Sarà (Museo di Palermo); F. Fouilland (Ecole Francaise de Rome); inoltre M. Mertens-Horn (DAI Roma) e G. Aversa (Museo di Crotone) che hanno discusso con me di alcuni esemplari; M. Gras per chiarimenti sugli scavi megaresi; M. 526

Fig. 19. Antefissa a palmetta (Museo di Ragusa, Inv. RG. 8103).

Fig. 20. Antefissa a palmetta (Museo di Ragusa, Inv. RG. 8015).

Frasca per materiali di Catania. Le figg. 6, 11, 13-14 sono del fotografo Mario Russo di Ragusa; le figg. 1-5, 10, 15-18, dell'Arch. fotografico della Soprintendenza B. C. di Siracusa; la fig. 12 del Museo A. Salinas di Palermo; le altre sono della scrivente. (Roma, giugno 2000) Abbreviazioni bibliografiche particolari

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» V. PetaGaTti 1977, p. 50.52; BARLETTA 1981, p. 27-8 e da qui N. Winter, nel breve excursus sulle terrecotte architettoniche siciliane in chiusura alla sua monografia sulle terrecotte greche (Wixrei 1993, p. 279). Del tipo A si conoscono oggi una trentina di esemplari, tra cui un frammento dal quartiere dei vasai, Inv. 61 (BdA, 57, 1972, p. 213, fig. 9). "* Levria 1996, p. 639, nr. 59; Ea. in Stile severo, pp. 250-251, n. 89. τ Kazsrutn 1982, p. 184-185, Tipo O 1 * J. Borntau, Aus jonischen und italischen Nekropolen, Lipsia 1898, tav. XIII nr. 7. Per la cronologia v. Croissaxt 1983, Samos A 1, pp. 33-48, p. 47. * Monte San Mauro, Se, 1973, T. 164 (cfr. EAA, II Suppl. 3, sx. San Mauro di Caltagirone (U. Spigo), p. 766, fig. 958, da definirsi samia, non genericamente “greco-orientale"). !# La maschera di Samos, Br. Mus. 523 (Hiccxs, Terracottas in the British Museum, Londra 1954, p. 142, n. 523) ha, altro segno distintivo della “bottega samia”, non gli occhi ma le narici forate. Per gli esemplari attardati del tipo v. LesT1st 1990, p. 19, fig. 16. 77 Es. di Siracusa, Inv, 51002, Petacarrt 1965, p. 84, tav. XXXII, 1. 7» Daasow 1938, p. 17, n. II, e; Musco di Castello Ursino, Inv. 5453; Κακυιε 1884, col. 43, fig. 91 bis. 21 Cfr, Oxtanpin 1954, pp. 254-255 e nota 9, tav, LXXX, 2. 7: V. Ontxbna 1959, p. 77, tav. XXXII l'attribuzione è ripresa da G. Uocem, Carta Archeologica 1.G.M., F. 275, Firenze p. 53, nota 59. Per ἢ i 1974, p. 69, g, che non tiene conto della successiva bibliografia, PeLacarm 1965, p. 91, n. 24; En. 1977, potrebbero esservi presenti, tuttora incrostazioni, le sotto 10246: Inv. Mus. Pierson Allard ora Grandmont, Coll. in leno già tracce di colore. Debbo una nuova fotografia alla Prof. Patricia Lulof, dell'Università di Amsterdam, che sta curando il catalo1998, n. 1, p. 24. go delle terrecotte di quel museo. Per la raccolta Grandmont un cenno nel mio contributo in Kalds, 10, 1377-81, 1401-12: sulla ἀν Cfr. per alcuni esemplari: Kokalos, XXVI-XXVII, 1980-81, p. 704, nota 37: sileni tipo B 1338, gorgoniche e a testa di produzione del ceramico di Naxos, ramificata in diverse botteghe, con antefisse maschili, femminili, ‘animale (pantera, bovide ecc.), protrattasi per più generazioni ritornerò prossimamente. Per un importante esemplare di tradizione dedalica v. Lexus 1997, p. 126, fg. 2. dell'Athenaion Ἐν Pezacarn: 1965, tipo C, p. 92, n. 35, cfr. OrLAnDII 1954, p. 255, tav. LXXXI, 1: la provenienza dall'area può essere aggiunto un non è sicura, non risultando il pezzo registrato nell Inventario Orsi, per quanto mi consta. A questotesta e l'ini(fronte, occhi secondo esemplare siracusano sporadico e inedito, Inv. 66458, che conserva la parte superiore della zio dei capelli). 5 Inv. 193, 641, 747, ecc; per les, 2350 (propr. Rosa), v. Lenti in Greci in Occ., p. 646, n. 183, % T, Donau, The Western Greeks, Londra 1948, p. 255; PaLAGATTI 1965, p. 92, n. 36. Ora al Museo di Camarina: dimensioni cm. 13x12. Cfr. Otia 1954, tav. LXXXIL Parte di una matrice di testa di sileno (circa la metà in senso longitudinale) è consered offre qualche possibilità vata al Museo di Siracusa, da Megara Hyblaea (s. inv., Arch. Sopr. Siracusa neg. 23609-B, 1966), Una matrice di sileno tardo, di confronto soprattutto per quanto attiene il rendimento dei baffi molto corposi e delle guance. infine un “mascherone Segnalo 125. nr. 1989, 8, Kat. Puhze, G. Galerie in indicata è tipo, altro di ma siciliana, di provenienza Siracusa n. 20322, tra silenico, cm. 17x15, a superficie molto logora e mancante di quasi tutta la barba" registrato nell Inv. di Not. Se., 1984-85, pp. gli acquisti del 1901, in un lotto considerato calabrese e passato al Museo di Reggio Calabria (v. 301-303) ivi non rintracciato, Museo di Camarina Inv. C.1383, alt. cons. cm. 9,5; largh. cm. 15; at. labbro cm. 1,02. Argilla verdina con inclusi piccoli bruni. ? OrtANDINI 1954, pp. 261-262. compren» Karsten 1982, pp. 168-172. In una testa della collezione vittoriana di Osborne House (Gran Bretagna), chesuppl. al nr. in ΒΔΑ, Lakonika, de cimeli raccolti dal principe Alberto durante i suoi viaggi nel Mediterraneo, c. fig. pag.di 6IX,antefisse geloe, ORLANDINI 1954, ‘64, 1990 (1992), potrebbe riconoscersi una antefissa di tipo geloo. ΑἹ piccolo gruppo può aggiungersi un settimo esemplare (Puhze, tav. LXXXIIL 3; Id. 1956, tav. XVII, 1-3 (KaestWER 1982, tipo R, pp. 168-169) meglio conservata tra quelle finora note, che poKat. 1983, nr. 118 = Kat. 6, 1987, nr. 150), da matrice fresca e con superficie trebbe confermare l'esistenza di una variante senza coroncina sulla tenia. 7 Οκιάνρινι 1954, tav. LXXXIII, 1-2, segnalo la somiglian7 Omzaxpixt 1954, tav. LXXXIIL 1-2. In merito agli esemplari più antichi, citati ibidem pp. 257-258, gorgonica rinvenuta a Gela per l'analoza del frammento di fronte€ chioma tav. LXXXIV, 4, p. 258, con l'anomala antefissa fronte i lati (DE Mino-FloREwriNr gia nella resa delle chiome, a grosse ciocche tubolari degradanti dal centro della dunque, verso con ogni probabilità, non ad un. 1976-77, tav. XXXVI, 3). Il frammento Ortanpixt 1954, tav. LXXXIV, 4, appartiene del sacello Carrubazza è oggi proposileno ma ad unvantefissa gorgonica di età tardo arcaica. Quanto al sileno tardo arcaico 155) uguale a P. Getty nr. 72, AD. 124; nibile l'abbinamento con la bellissima gorgone del tipo British Mus, 1137 (Ficcws tav. Hannover, Coll. Kropatschek (Horxsostz1, n. 104), tipo al quale appartiene anche il piccolo frammentodi guancia (Not. Sc. 1956, p. 243, fig. 1 b) rinvenutosul sito. p. 565, tav. XXXVIII, 2 (stesso tipo, ‘Va ricordata poi la singolare antefissa da Sabucina, pubblicata da DE Mino 1980.81, delle precedenti: dal luogo di rinvariante 42, p. 1962, 1, XIV, Class., Arch. Id, anche v . 3; XXXVII, tav. 92, p. 1963, Ossasini collegamento, proposto da Orlandivenimento - lungo il pendio che scende da Porta Marina verso la spiaggia - il verosimile del tetto del sacelloτὰ, di questultima al santuario di Hera sotto il Municipio). L'antefissa sabucinese, rinvenuta neldel crollo geloo classico. Inf sileno derivazione diretta una sensibile, modo in modificato schema uno ‘capanna, pur presentando al Museo P. Orsi (non δὲ sembra rimanere isolato il bel frammento di antefissa silenica, Inv. 38908 da Aidone (Morgantina) entrato finora in bibliografia, per quanto mi consta), registrato dall'Orsi, con la consueta attenzione alla provenienza: “Fa 529

parte di un lotto di terrecotte provenienti dalle case dell'antica città esistente presso Aidone, acquisto 23.VL1917; dimensioni cm. 12x10; in creta rossa”, restala parte centrale del volto. Va osservato che nel movimento delle superfici e nel trattamento della barba pur più finemente incisa, ricorda la grande famiglia delle antefisse geloe, eg. i frammento OnzavpIvi 1956, tav. XVII, 4, ma non nel naso e negli occhi allungati e ridotti ad una fessura sotto le palpebre pesanti che danno al volto uniespressione intensa e corrucciata: data la provenienza una qualche reminiscenza greco-orientale non sorprenderebbe, ma l'argilla rossa intensa non sembra avere riscontro negli esemplari di Morgantina (mie note anni 70). Non si hanno notizie dell'eventuale rinvenimento di altre analoghe negli scavi americani del sito, come sarebbe auspicabile. * Pace C. Bonanso, I sarcofagi fitili della Sicilia, Roma 1998, p. 224 (il lavoro risente di mancanza di aggiornamento in vari punti: eg, il sarcofago di Passo Marinaro, Sc. Orsi T. 1344, Inv. 26713 - recentemente ricostruito ed esposto al Museodi Camarina - dato per inedito, è pubblicato in P. Oss-M.T. Laxza, La necropoli di Passo Marinaro a Camarina, Sc. 1904-1909, MAL s. Misc. IV, 1990, pp. 132-133, con il relativo corredo, tav. XCIL Avrebbe potuto essere utilmente consultato anche I Hrzi, Die griechischen Sarkophage der archaischen und klassischen Zeit, Jonsered 1991, con ampi capitoli sui sarcofagi sicilia ni, pp. 55-69). ® Siracusa, Museo Regionale P. Orsi, Inv. 18885. Cm. 14,8x17,8; spessore alla base em. 2,5; coppo cons. cm. 3,5. Vax Buκεν 1923, p. 142 n. 26; Darsow 1938, p. 17, Ile; Bookibis 1967, p. 431, 443, nota 59; Betso 1981, 126-127; KaestxeR 1982, type E, p. 177, E 3, nota 904. La supposta indicazione della provenienza, Bszso p. 126, dalla Casa "Armaiddo” (non Amaiddo), ora Lauretta, sulla base di generiche indicazioni della Van Buren, che peraltro — a ben leggere - non la collega di fatto a quell'angolo della città è, come abbiamo visto all'inizio, priva di fondamento; inoltre, la piccola antefissa (le cui misure furono rese note già dal Darsow, mentre quelle della Van Buren, cm. 8x8, sono errate, se non espresse in via approssimativa in “inches") non rientra in alcun caso nella categoria dei grandi gorgoncia frontonali o acroteriali: la discussione, p. 126, è dunque superflua. (Nel pur utile lavoro di compilazione svolto dalla Biasox non mancano altre inesattezze e pecche: saranno da rettificare, eg, i dati di provenienza del grande gorgoneion di Naxos dal santuario a ovest del Santa Venera, che viene indicato inspiegabilmente come di provenienza incerta (n. 34, pp. 144-145), sulla base di comunicazione verbale di B. Sismondo Ridgway; non si colgono inoltre le ragioni per cui la antefissa ΒΔΑ 57, 1972, p. 215, fig.8 (rinvenuta nel quartiere settentrionale) sarebbe da attribuire al Tempio B, situato a Sud-Ovest, come “original building’). Sulle gorgoni siciliane v. da ultimo B. Wont, A gorgon antefix rom Gela, Getty Mus. Journ., 5, 1977, pp. 75-78; V. KAsStNER, Gorgoneionantefixe aus Siditalien, in Forschungen und Berichte. Staatliche Museen zu Berlin, 27, 1989, pp. 115-128. ® V. U. Srioo-C. Rizzo, Ricerche a Francavilla di Sicilia, Kokalos, 1989-1991, 39-40, 1993-1994, tav. CVII, 3; si cr. per la forma e per le caratteristiche del volto anche una antefissa siracusana inedita, Inv. 16491 (da S. Lucia) Arch. Sopr. Siracusa. neg. 119142-D(= Dassow, p. 25, nr. IV,d) 7 Proprietà De Martino (Vittoria), Arch. Sopr. Siracusa neg. 21838, Agosto 1966 (stessa raccolta della sima a palmette plastiche e lot alternati, v. infra note 64, 65). * Per l'esemplare di Catania, Museo di Castello Ursino, v. infra nota 60. ? Museo di Camarina inv. C. 1384, Sc. Di SreFANO 1987. Argilla beige-gialla. Tracce di colore bruno-rossastro sulla superfici. ^^ KexuLé 1884, p. 44, figg. 92.93. ^ Meszexs-Hosw 1991, pp. 15-16. Attraverso alcuni esemplari non presi in considerazione da precedenti lavori (Winter 1977), sottolinea il ruolo delle botteghe siracusane nell'adozione di questo particolare tipo di antefissa. ©, ora il mio contributo «Camarinanel VIe V sec. Problemi di cronologia alla luce della documentazione archeologica», in Un ponte fra "Taliae la Grecia, Padova 2000, pp. 175-176. ‘© ES. Cavani, Le terrecotte figurate di Megara Ibiea, Boll. Comm. A.B.A. Sicilia, Palermo n. 6, Agosto 1873, VI, pp. 1-10, tav. L'antefissa non fu ritrovata con il primo gruppo di terrecotte rinvenute tra il 1863 e il 1868, depositato al Musco di Siracusa, ma nel primi mesi del 1873. 7 Κακυιε 1884,p. 4, figg. 92-93. © A. Tacovztza, Nécropoles et reconstitution de l'espace. Analyse des données (Le cas de la nécropole occidentale de Mégara Hyblaea). Université Lyon-Lumière, 1997 (sotto la direzione di R. Etienne e M. Gras). Per i rapporti tra Cavallari e Kekulév. pp. 2427. “© G. Ver, in BTCGI IX, 1991, s.v. Megara Hyblaea, p. 519, cfr. anche MertENS-HoRx 1991, p. 25, nota 45. © ES. Cavattan, «Su alcuni vasi orientali con figure umane rinvenuti a Siracusa e Megara Hyblaea», Memoria letta il 28 marzo 1886 dal socio Prof. Franc. Sav. Cavallari. Atti della Accademia delle Scienze, Lettere e Arti di Palermo, 1887, IX, p. 1-42, nota alla p. 20. II Cavallari sembra aver accertato che persona «non solo degna ma degnissima di fede confuse il cimelio con qualcuna delle due figurine trovate in Camerina e pur da noi consegnate al Museo di Palermo nel 1876», e cioè al momento della sua prima visita a Camarina. Fonte dunque non cosi degna di fede, dalla quale derivò l'errata informazione al Keallé Ringrazio il Dott. Jacovella per avermi aiutato a districare questa ingarbugliata matassa! * Van Buren 1923, p. 6; Dansow 1938, p. 17. © N. Winterha per prima collegato i due esemplari ritenendoli tuttavia di due matrici diverse (WINTER 1974, p. 18; Fap. in Roem. Mit. 1978, p. 40, nota 31); KarstuE& 1982, p. 188: l'antefissa (Inv. 845, alt. cm. 17) è registrata nel Museo di Palermo come proveniente da Megara Hyblaea. Per les, da un pozzo di Megara Hyblaea (MuscoP. Orsi, s. inv. Argilla gallina chiara, grossolana, con inclusi vulcanici e mica, ingubbiatura rosata, alt. em. 15,7, largh. 12,5, alt. diadema/mento cm. 10-11 ca.) v. G. Vanier F. Vinzaro in BAA, 45, 1960, p. 267, fig. 11; Wixren 1978, tav. 16,6; C. Ciuxcixa, "Rapporti tra le terrecotte architettoniche della Sicilia”, in Deliciae Fictiles, Acta Inst. Rom.R.S,,L., 1993, p. 34. Non ritengo possano esservi dubbi sulle strette analogie tra i due esemplari e sul fatto che essi appartengano alla stessa serie, ma un confronto diretto degli stessi potrebbe dare una risposta più puntuale, essendo oggi di nuovo accessibile anche l'antefissa di Palermo, non più ricoperta dalle incro530

stazioni che ne rendevano incerta la lettura (si v. la nuova fotografia, che dobbiamo alla cortesia della Soprintendente Dott. CA. Di Stefano). Di tutt'altro ceppo sono le antefisse rese note da R.M. AusaNese Paocezti Antefisse a protome femminile dal centro indigeno del Mendolito di Adrano, Sic. Arch. XXIII, 1990, n. 73, pp. 731, che potremmo definire il "Gruppo delle antefisse femminili del Mendolito”, risalente ad un modello più antico, dai caratteri stilistici coerenti, e di circolazione etnea circoscritta. È peraltro unitario anche come provenienze: non si può considerare naxia, ad es., la modesta antefissa Siracusa, Inv. 20280 (ibidem p. 26, nota 33) registrata come proveniente “dalla piana di Giardini": in quanto appartenente al primo dei due nuclei acquistati dalfOrsi il 21-24 marzo del 1901 (nn. 20278-20280, 20281-20341)poi rivelaisi eterogenei, fruttodi accorpamenti di materiali da varie località, anche non siciliane (cfr. Not. Scavi, 1984-85, pp. 288, 301-304, v. anche supra nota 28). % Museo di Ragusa, s. inv. A. DI Vita, Breve rassegna degli scavi archeologici, BAA 44, 1959, p. 359, fig. 34; Merrens.Honx 1991, p. 1. 7! Museo di Camarina, inv. RG. 9154, cm. 16,5x14, Arch. Sopr. Siracusa neg. 26684-B (sett. 1968). Resta parte del coppo. * Cfr. Br. Mus. Catalogue, I n. 50 (da Naukratis) 95 (da Rodi). © Come ha osservato J. Neils a proposito della bella antefissa (fig. 16) a testa di felino della Collezione americana Leo Mildenberg: Animals in AncientArt from L. Mildenberg Collection. The Cleveland Museum of Art. A. E. KoztoF®, Ed., n. 112, p. 133-134 (J, Neils) Tale antefissa fu acquistata prima del 1981 e l'A. asseri eno other examplesare known. Τὶ is probably Si lian and datable to the late sixth or early Fifth cent». Siciliana certamente, e di un'area ben definita: l'antefissa Mildenberg. può essere attribuita infatti alla serie della Cittadella di Morgantina, di cui un esemplare era stato gia da tempo reso noto da TL Aries (AJA, 74, 1970, tav. 95, fg. 26), ed è verosimile che sia stata trafugata dal sito in anni lontani. Sembra essere sfuggita al Kenfield nel suo studio su tali antefisse (v. nota infra). La superficie dell'esemplare Mildenberg non ha conservato, a quan: to risulta dalla descrizione, traccia della originaria decorazione dipinta, forse per la giacitura in un terreno diverso. Delle antefisse morgantinesi ha anche i serpentelli che delimitano le zampe in basso. % Kexrttzo 1991: ἢ brillante contributo è per molti aspetti innovativo, in particolare per l'attribuzione di tipi diversi di antefisse, sileni e gorgoni, sulla base di elementi stilistici coerenti, ad un unico coroplasta, oltre che a un ben definito rivestimento fittle e sue fasi. La più vicina a quelle di Morgantina è l'antefissa naxia frammentaria dall'area sacra extra moenia di proprietà La a suo tempo (Pelagatti 1977 (1985), p. 49, fig. 5; v. anche Ciurcina, “Rapporti” cit. a nota 49, p. 37, fig. 24), Musa che segnalai ed era allora isolata e per me enigmatica. Il suo schema potrebbe essere forse oggi integrato sulla base delle antefisse della Cittadella, con le zampe pendenti ai lati e forse anche con i serpenti. L'ingubbiatura bianca e le macchiettea indicare la pelle ‘maculata sono un altro segno di tale somiglianza. Singolare è 'antefissa di Messina (U. Spigo, "Nuovi contributi allo studio di formee tipi della coroplastica”, Atti Taranto, XVI, 1986 (1993), p. 281, nota 27, tav. XXI, 1) con la criniera a spesse ciocche a punta di diamante che presenta tuttavia i due serpenti i lati come quelle morgantinesi: anche qui sono dipinti sia la criniera che i serpenti, la cui pelle maculata è indicata da striscette oblique. Infine vi è la solitaria antefissa del Mendolito (Musco Regionale P. Orsi 30019, Pius 1983, p. 15, fig. 4), inclusa ma non edita nel repertorio del Darsow (pace Albanese, Sic. Arch. s.cit, p. 16, fig.17 con didascalia errata), che si rifà ad un archetipo completamente diverso di forte qualità disegnativa, per la crinicra bipartita e resa a lunghe c spesse ciocche serpentiformi disposte a raggiera intorno alla fronte. Tale testa, per il rendimento del naso, sembra in relazione piuttosto con ileoni dei gocciolatoi in pietra, come rilevato da Mertens-Horn 1988, p. 88, 144, tav. 71, ej cfr, anche Kazsrura 1982,p. 191, tipo U 2. ^ Puis 1983. 7? Ti tipo tarantino è peraltro preceduto in Sicilia dalla anomala antefissa siracusana con la testa di Eracle di profilo, analizzata a suo tempo in un articolo magistrale, per finezza e concisione, da E. Paribeni (Di un gruppo di antefise siciliane, in DAA, 1, 1967, n. 3, pp. 281-287) che l'accostò ad altri esemplari a testa maschile, un secondo a Siracusa, uno nella Biblioteca capitolare di Agrigento e il quarto a Pesaro, nella Villa Vittoria. Di quest'ultimo Paribeni ricostrui, quasi con arguzia, la singolare storia antiquaria, dichiarando che in quel caso "anche leffimero dato di cronaca non è senza valore", e risalendo alla oriine siracusana del pezzo. La testa era infatti inserita nel muro della dimora appartenuta a Carolina di Brunswick, e proveniva da un viaggio in Sicilia della principessa. Le quattro antefisse sono opera di un coroplasta che potremmo chiamare il "Maestro delle antefisse siracusane a testa maschile”, o, meglio, il "M. delle antefisse di Paribeni”. Non si tratta infatti di una per materiali accomunati da caratteri» classe (pace Spigo, in Sile severo, pp. 258-259, nn. 9596), termine che userei piuttosto stiche tipologiche, e non quindi in questo caso: si tratta infatti di creazioni individuali, legate appunto da motivi firma. Osserabbondanti disquisizioni stilisti vo in proposito che per questo piccolo gruppo straordinario, di V sec., nonostante le recenti che di stampo langlotziano, manca ancora un'analisi tecnica puntuale con riferimenti alle argille (tutte di Siracusa?) che accerti definitivamente ἢ luogo di produzione degli archetipi. *® Museo di Ragusa, Inv. RG. 9124, Alt. cons. cm. 12,5, largh. em. 19,5 gilla beige chiara. Manca la parte superiore, mentre è conservato un tratto del coppo. ® Di alcuni esemplari inediti al Museo di Siracusa: Inv, 20532 da Agrigento,S. Biagio, (acquisto 1901, lotto comprendente anche gorgoni di tipo tarantino, Inv. 20527) e di un altro gruppo di antefisse pure inedite della ex ~ Coll. Judica, (inv. 2296 = Br. Mus, Terracottas 1, 1363; 2297 = ibid., 1364; 2298 = ibid., 1361) potrebbe considerarsi dubbia la provenienza si na, ma una antefissa di tipo tarantino (Herakles-Artemis Bendis) rinvenuta a Gela, pubblicata con ampio commento da Orlandini, «Tipologia e cronologia», Arch.Class., IX, 1957, pp. 160-161, tav. LXII, che la considera di produzione geloa, è un sicuro indizio della diffusione nell'Isola di ali tipi "^ Non prendo in considerazione l'antefissa del Museo Biscari (Il Museo Biscari, I, tav. 100, 876) (attribuita a Camarina dal Darsow, p. 17, Id, 33; Belson 1981, p. 128; Kaestner 1982, p. 179, "o da Catania?”, nota 920), indicata da Libertini come proveniente da Catania, Peraltro sulle provenienze camarinesi dei materiali di Castello Ursino faccio mia la saggia riflessione di Libertini, p. 212, a proposito del busto femminile 879, «II Kekulé (p. 58) pensò a Camarina e forse con ragione, ma nulla 531

vieta di supporre che questa provenga da qualche altro sito siciliano», le stesse riserve circa una provenienza camarinese vengono espresse, a p. 209, a proposito delle terrecotte architettoniche arcaiche. Per il grande busto 879, v. ora A. Pavrasso, «La. Kore Biscari del Museo Civico di Catania e la coroplastica tardo-arcaica a Camarina», in Cronache di Archeologia, 33, 1994, pp. 1-13, che sembra dar credito, pur con riserve, ad una provenienza camarinese. © Propr. privata Vittora, Arch. Sopr. Siracusa neg.21838, Agosto 1966. © Musco di Camarina, Inv. RG.8103, 1978, area «Casa delfiscrizione (o di Dione)», vano 17, lotto D.; argilla rossicciae superficie chiara. © Chr. per esemplari più antichi, C. Roemucr, Archaic Architectural Terracottas from Corinth, Hesperia 1989, pp. ***, tav. S. ^ Musco di Camarina, Inv. RG.8015, prov. Platea C, arca insule 10-11, in superficie (26.7.1978); argilla chiara insuperficie. ‘ Proprietà De Martino (Vittoria), Arch. St. Sir. XIL, 1966, tav. 111, 1, pp. 17-18, nota 47; per frd tegoloni con meandro a rilievo v. ibid. tav. 111,2; e Inv. 32250, da Dieci Salme 1910 (largh. cons. cm. 9, alt. cm. 7). ^^ Banetio 1995, pp. 103-104 (non «nel Museo di Ragusa» ma in proprietà privata, v. sopra nota 65). © Kokalos, p. 705, nota 43, tav. CXLV, 2 (Museo di Naxos, Inv. 1662, alt. cm. 24, lungh. cons. em. 23, spessore cm. 5,5), cfr. Barello 1995, p. 104. “ Arületta cauloniate da Camarina, Inv. RG.9156 (Museo di Camarina). Per le arule di Naxos v. Lrxrix 1993, pp. 42 43, * Perl'antefissa di Diopos, v. da ultimo Casrotoi 1998, p. 93, nr. 25; e inoltre MERTENS-Hoxx 1988,p. 25 e nota 72.

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PATRIZIO PENSABENE SUL COMMERCIO DEI MARMI IN ETÀ IMPERIALE: IL CONTRIBUTO DEI CARICHI NAUFRAGATI DI CAPO GRANITOLA (MAZARA)

Sempre più rilevanza ha assunto negli ultimi decenni lo studio di relitti di navi che trasportavano direttamente dalle cave al luogo di impiego blocchi di marmo ed elementi architettonici in vari stadi di lavorazione: infatti, a seconda del periodo del naufragio, da essi si possono ricavare notevoli informazioni non solo sui modi di lavorazione e sul tipo di produzione nelle cave imperiali, ma anche sul ruolo che l'architettura ufficiale di tradizione microasiatica, a cui normalmente s'ispirano i capitelli ionici e corinzi di questi carichi, ebbe nel conferire prestigio ai contesti nei quali dovevano essere impiegati. Da qui la necessità di un'analisi sistematica della diffusione dei prodotti delle cave orientali — non solo degli elementi architettonici, ma anche delle statue, degli elementi dell'arredo (candelabri, traspezofori, bacini, sostegni di bacini) e dei sarcofagi - come contributo alla definizione delle classi sociali nelle varie province dell'impero. Le informazioni fornite dall'uso di manufatti marmorei di importazione sono tanto più importanti quando essi si trovino a Roma, in Italia e nelle province occidentali, in quanto più facilmente individuabili dalle produzioni locali e più esplicitamente interpretabili come l'indizio di particolari situazioni sociali ed economiche: queste vanno di volta in volta spiegate a seconda del momento storico, ma hanno come elemento comune una committenza pubblica o privata, a seconda dei casi, che si vuole distinguere proprio con l'uso di tali manufatti e che a tale scopo affronta un notevole impegno finanziario. In questo ambito la Sicilia offre un notevole contributo in quanto proprio nel II secolo e in età severiana furono costruiti grandiosi monumenti con l'impiego di marmi e manufatti di importazione e con la presenza di officine itineranti. Citiamo in particolare i teatri di Catania e di Taormina, il ginnasio di Siracusa e la Basilica di Tindari. Questa scelta di manifestazioni dell'architettura orientale è presente anche nell'ambito privato come mostra la più tarda villa di Piazza Armerina! nella quale sono impiegati capitelli ionici e corinzi asiatici ed elementi architettonici sempre di tradizione asiatica: se parte di questo materiale era di reimpiego (forse proveniente dalla stessa Sicilia come indica l'uguaglianza di alcuni dei suoi capitelli corinzi? con esemplari di Taormina e di Catania) proprio il fatto che siano stati scelte classi omogenee di capitelli orientali? è di nuovo la testimonianza di un modello architettonico che faceva coincidere anche l'uso di capitelli e trabeazioni di tipo orientale con la manifestazione del lusso. Ma dove erano rifiniti i capitelli e la basi? direttamente nelle cave o da officine itineranti o locali che completavano manufatti semilavorati sul luogo di impiego? Una risposta a queste domande puo essere data da alcuni relitti con carichi di marmo rinvenuti presso le coste della Sicilia*: non necessariamente questi erano diretti nell'isola stessa ma la loro esistenza documenta in quale stadio di lavorazione erano esportati dalle cave i manufatti architettonici. In questa sede ci limitiamo a menzionare due naufragi, noti dalle indagini di G. Purpura rinvenuti entrambi tra Mazara e Selinunte, più precisamente nelle immediate vicinanze di Capo Granitola (fig. 1), dove sono anche segnalati, sempre dal Purpura, almeno altri due relitti con carichi di anfore e forse l'evidenza di ulteriori relitti con marmi, come si ricava dal ritrovamento sempre nella zona di frammenti di verde antico, di marmo pario e di un altro marmo bianco*. Del primo relitto, individuato a circa 150 m dalla riva e a una profondità di tre metri‘, non sono state trovate tracce dello scafo, ma soltanto il carico di circa 150 tonnellate costituito da 49 blocchi di marmo proconnesio? (fig. 2), insieme a cui sono stati rinvenuti frammenti di anfore del tipo Kapi

tn 2 (la cui produzione inizia dal 180 d.C. e prosegue fino all'ultimo quarto del ΠῚ sec.d.C.*):

i bloc-

chi, di forma parallelepipeda o trapezoidale (m.3x1x1), erano disposti su otto file parallele e costituivano un carico di circa 350 tonnellate.

533

Fig. 1. Cartina dei rinvenimenti archeologici sottomarini della Sicilia Occi-

dentale: nn. 89, 123 = relit di Capo Granitola e Torre Tre Fontane (Da Purpura, 1993) Del secondo relitto rinvenuto a bassa profondità in prossimità della costa, a pochi km dal precedente, tra Capo Granitola e Tre Fontane" si sono recuperati nel 1988 alcuni elementi del carico: tre capitelli corinzi, due ionici e tre basi di colonne in marmo bianco, che sono stati prima depositati presso VAntiquario di Selinunte’, poi spostati al Museo Civico di Mazara, dove sono esposti nel cortile. Va subito detto che una lettura puntuale dei capitelli corinzi è solo possibile per un esemplare, (v. oltre n. 1 del catalogo), mentre per gli altri due è quasi impossibile, se non limitatamente alle proporzioni e allo schema vegetale, perché le incrostazioni marine ricoprono del tutto le superfici degli elementi vegetali (cat. nn. 2,3); nascosta è anche la superficie dei due capitelli ionici, nei quali però si riconosce lo stato di semi o quasi rifinitura perché la spirale è stata intagliata ed è stato assottigliato il pulvino al centro dove è visibile il balteo (cat. nn. 4,5). Le basi, nonostante le incrostazioni marine, sono chiaramente riconoscibili come attiche, essendo modanate con due tori separati da una scotia e poggianti sul plinto (cat. nn. 6-8). L'unico capitello corinzio leggibile (Tav.

I, 1) appartiene ad un tipo microasiatico del tardo II sec.

d.C. (160-190 d.C.) che ebbe proprio in questo periodo una certa diffusione, come testimoniano non solo esemplari molto simili in varie località dell'Asia Minore, ma anche lungo le coste siropalestinesi (Foro occidentale di Berytus, Teatro di Caesarea di Palestina), ancora in Sicilia (Tindari, Taormina, (Tav. II, 10, 11) Piazza Armerina, Catania), in Italia meridionale (Canosa, Gerace) e a Roma (v. bibliografia citata nella scheda n.1 del catalogo). Il tipo è caratterizzato: da due corone di foglie d'acanto spinoso separate o con le fogliette inferiori dei lobi che si sfiorano appena formando piccole figure geometriche; da caulicoli non ancora ridotti a spigolo, ma conservanti un certo arrotondamento derivato dal modello originario del cauli534

colo cilindrico; da foglie abbastanza espanse che sostituiscono il calicetto per lo stelo del fiore delYabaco e infine da volute ed elici con una spirale schematica, più sviluppata negli esemplari più antichi dell'età antonina, più ridotte in quelli invece del tardo II secolo. Si tratta dunque di un tipo che ebbe una certa diffusione nella seconda metà del II secolo, e che fu adottato anche da officine specializzate in elementi architettonici “prefabbricati” che lavorava no direttamente presso le cave o in città direttamente collegate a cave, i cui prodotti erano destinati ad una esportazione interprovinciale e non

Fig. 2. Schizzo del carico del primo relitto di Capo

Granitola (da Purpura, 1977). solo locale o regionale. Anche i due capitelli ionici e le tre basi del relitto vanno ricollegati ad una produzione in cava di colonne, basi e capitelli semi o quasi rifiniti destinati all'esportazione e forniscono un'ulteriore documentazione ad un fenomeno già noto da altri relitti, quali il carico naugragato di Punta Scifo, presso Crotone, che trasportava i prodotti di due cave, Docimium e Proconneso, costituiti da bacini, colonne, sostegni, capitelli ionici c basi". Capitelli ionici, molto probabilmente importati in uno stadio di quasi rifinitura, si trovano a Piazza Armerina, a Canosa, a Roma", e si ricollegano direttamente a modelli asiatici ". Le basi di Capo Granitola presentano leggibile come elemento cronologico la sporgenza del toro superiore rispetto alla scotia che consente un collegamento a tipi ancora di II secolo: infatti con il III secolo sempre più schematica è la resa del toro superiore che non sporge o sporge di poco rispetto al listello che limita superiormente la scotia. TI primo relitto di Capo Granitola s'inserisce, dunque, in un fenomeno già ampliamente testimoniato da altri carichi naufragati nel Mediterraneo e anche in Sicilia (relitti di Capo Taormina" (fig. 6), Isola delle Correnti (fig. 4 e 5) e di Marzameni A, questi attribuiti al III secolo"), del trasporto e della commercializzazione di blocchi grezzi di cava, in questo caso dal Proconneso, scelti con ogni evidenza perché più convenienti economicamente rispetto ad altri marmi bianchi allora più preziosi, quali il Pentelico e il Pario, e perché connessi ad un sistema di distribuzione talmente sviluppato da renderlì più convenienti, nel caso della Sicilia e dell'Italia, del marmo bianco delle cave di Luni, più vicine di quelle dell'Asia Minore: le dimensioni dei blocchi e la qualità (bianco azzurrastro, a cristalli grandi) fanno propendere per una loro destinazione architettonica, o per il taglio di lastre o per la scultura di elementi della trabeazione o di pilastri. Si tratta di una merce scelta dunque perché più economica rispetto ai marmi di qualità simile di altre cave. Un'analogia può essere fatta con un'altra merce abbastanza diffusa, i sarcofagi a cassa rettangolare liscia e a ghirlande del Proconneso e i sarcofagi a vasca delle cave di Taso, esportati in uno stadio di semilavorazione"5, ed evidentemente scelti perché il costo della loro rifinitura sul luogo d'impiego più quello della cassa, dunque importata già semilavorata dalle cave, doveva essere minore rispetto alla lavorazione di un sarcofago, in tutte le sue fasi - dal blocco alla cassa decorata — direttamente nelle officine presso il luogo d'impiego Che il carico del primo relitto di Capo Granitola non fosse necessariamente destinato ad essere impiegato a Roma, per edifici pubblici di committenza imperiale, ma che possa essere considerato come una merce destinata al mercato, e quindi accessibile a privati o a città italiane o provinciali per l'edilizia pubblica finanziata dal governo locale e/o da evergeti, lo si può dedurre dal grandissimo uso anche da parte di privati, nelle loro case, nelle ville, in sedi di corporazioni (v. Ostia), o dall'uso nei fori, templi, terme e teatri di tantissime città dell'Impero, sia di questo marmo, sia di altri bianchi e colorati, estratti dalle cave di proprietà imperiale. La quantità è talmente enorme da potersi escludere tranquillamente che ci si trovi di fronte a donativi imperiali (se non in casi nel complesso limitati). Sui meccanismi di come un prodotto di cave statali fosse immesso nel mercato privato non si hanno ancora informazioni esaurienti: si può comunque pensare che il sistema degli appalti, am535

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Fig. 3. Relitto della Baia di Camerina (da Di Stefano, 1990).

pliamente documentato anche nelle cave di marmo, consentisse ai redemptores di disporre di parte del prodotto; in ogni caso le fonti, quali Strabone ?, e più tardi l'Editto di Diocleziano ci confermano non solo l'esistenza di prezzi per i marmi, ma anche la suscettibilità al loro rialzo in determinate condizioni di mercato". ‘Se dunque la scelta di casse semilavorate dal Proconneso e da Taso è dovuta a ragioni di costi minori (e le navi addette al loro trasporto ne caricavano un notevole numero: v. il relitto di S.Pietro presso Taranto), al contrario la scelta di acquistare sarcofagi attici in marmo Pentelico o microasiatici a colonnette o a fregio scolpito delle cave di Docimium (Frigia), non può essere più ascritta a ragioni di risparmio, bensì di maggiore prestigio conferito dall'uso di un prodotto più costoso c rinomato: infatti questi sarcofagi erano esportati nel II e INI secolo anche in Italia, in Gallia e in Hispania, ma del tutto rifiniti (eccetto la testa ritratto e i lati che non sarebbero stati visibili nel luogo d'impiego). I committenti scelgono, dunque, prodotti molto più costosi di quelli che avrebbero potuto trovare sul mercato locale e ne condizionano le modalità di rifinitura (lati non visibili lasciati semilavorati) e anche del trasporto, perché questo non doveva riguardare un gran numero di sarcofagi iti, bensì singoli esemplari costituenti solo una parte del carico, eventualmente completato con anfore o altre merci: questo spiega perché i ritrovamenti marini di sarcofagi attici (Trinquetaille, Tarragona") e microasiatici (Melfi, Pozzuoli - coperchi -)®° hanno consistito appunto di un solo esemplare. Lo stesso si deve essere verificato anche per gli elementi architettonici e statue in marmi colorati particolarmente pregiati o in marmi bianchi celebri o scolpiti da officine particolarmente prestigiose (attiche, docimene, afrodisiensi), quando erano destinati a privati. Ad esempio, nel caso delle coJonne, i naufragi lungo le coste dell'Italia meridionale con un carico esclusivamente di fusti molto probabilmente erano diretti a Roma o in altri siti costruiti su iniziativa imperiale o comunque pubblica, come indicano il numero e soprattutto le dimensioni dei fusti: citiamo ad esempio i relitti di Torre Chianca in Puglia e di Capo Cimiti in Calabria, ciascuno con almeno 5 colonne in cipollino 536

dell'Eubea, alte m. 8-9", Tuttavia, quando ci si trova in presenza di fusti isolati o poco numerosi, in un carico che conteneva anche o in prevalenza anfore, si deve invece pensare ad un singolo acquirente privato, anche se di classe molto elevata. dati i costi di tali prodotti, che poteva destinare Tacquisto anche ad un intervento evergetico: in questo senso citiamo il relitto di Dramont I lungo le coste della Gallia Narbonense con soli tre blocchi di breccia di Teos (“africano”)? e il carico misto della “nave delle colonne” rinvenuta nella Baia di Camerina (fig. 3), che trasportava solo due grandi colonne di giallo antico e alcuni blocchi molto piccoli di arenaria (forse per stabilizzare le colonne), insieme ad anfore del tipo Africana I, per il vino o per il garum dell’Africa Proconsolare (dove erano collocate anche le cave di giallo antico) e vasellame in terracotta e in bronzo”. Un ritrovamento isolato di una statua è quello nel capo Boco presso Marsala, dove a circa m. 200 dalla costa e a una profondità di circa m. 4, ἃ stata ripescata una statua in marmo bianco del II sec. d.C. forse rappresentante un Dioscuro**, Anche i cari-

chi misti di statue ed elementi architettonici, quando costituiti da un numero limitato di pezzi, possono essere l'indizio di merci destinate ad acquirenti privati (per le loro ville ecc.), come potrebbe indicare il ritrovamento a Lixouri, presso Cefalonia, di sci statue, due capitelli ionici e quattro basi di semicolonne, effettuato a 4 metri di profondità e a circa m. 200 dalla costa 11 secondo relitto di Capo Granitola, dunque, è da considerare come la testimonianza di una committenza che si vuole distinguere attraverso l'uso di manufatti architettonici d'importazione dall'Oriente e conferma come anche nel II secolo si verificasse il trasporto e la commercializzazione di capitelli ionici e corinzi rifiniti o quasi, prodotti in cave dell'Asia Minore, ma anche dell'Attica (in questo caso come testimoniano i capitelli corinzi in Pentelico del frigidario delle Terme del Foro di Ostia finanziate dal prefetto del pretorio Gavio Massimo” sotto Antonino Pio, o i capitelli a calice dell'Anfiteatro di Lecce). Siamo in un secolo nel quale tutti i centri principali, non solo quelli che si affacciavano direttamente sul Mediterraneo, disponevano di officine locali in gradi di lavorare anche il marmo, come proprio diversi capitelli di Catania e di Taormina”, della prima fase imperiale del teatro, confermano, e come ancora confermano le trabeazioni in marmo e in calcare

Fig. 5. Relitto di Isola delle Correnti con uno schizzo ricostruttivo della posizione del carico ὃν. fig. 4.

locale, ad opera di officine regionali, di Tyro, Berytus, Biblos, Caesarea, Scythopolis?*, ecc., tut via impiegate spesso insieme a fusti di granito della Troade e di cipollino dell'Eubea e a capitelli corinzi asiatici in marmo d'importazione: ἃ per questo che risalta maggiormente l'uso di prodotti d'importazione, che ha dunque lo scopo di esaltare il potere economico e il prestigio della comm: tenza locale. Se la produzione in serie di capitelli corinzi

microasiatici è ancora più ampliamente documentata peril ΠῚ secolo e per il tardo antico dai ritrovamenti nelle cave del Proconneso? di manufatti in vari gradi di lavorazione rimasta interrotta e dal riscontro di pezzi uguali in tantissimi siti del Mediterranco, il fenomeno assumerà un significato diverso, in quanto spesso è in diretta relazione con la crisi delle città in epoca tarda e con il conseguente impoverimento delle attività e delle tradizioni arti stiche delle officine locali, che renderà sempre più obbligatorio il ricorso a fusti, basi e capitelli d'importazione nei casi di edifici dotati di un particolare significato nella società di allora (v. in particolaFig. 6. Relitto di Capo Taormina (da Basile 1988). — rele vie colonnate, le basiliche cristiane, ecc.). Catalogo 1. Capitello corinzio asiatico (Tav. I, 1). Alt. cm 51, alt. I corona cm 18, alt. II corona cm. 28, diametro scamillus cm 35, spess. abaco cm 10. Marmo bigio grigiastro a cristalli grandi. Intorno al kalathos si articolano due corone di foglie ad acanto spinoso: i lobi delle foglie contigue non si toccano con le fogliette protese eccetto per quelli inferiori tra i quali si forma un piccolo triangolo; va rilevata la costolatura centrale che si svasa in alto e presenta due scanalature verticali che ne evidenziano la nervatura mediana ed altre due laterali che la distinguono dai lobi. La sagoma di sfondo dietro la cima di queste foglie è liscia, a contorno semiogivale fuso lateralmente con le fogliette inferiori delle foglie della seconda corona: questa sagoma, inoltre, forma superiormente un gradino che la distingue dal caulicolo conservante ancora forma circolare. I calici si articolano in due foglie delle quali quella interna è ad uncino e sfiora una foglia liscia rettangolare che nasconde lo stelo del fiore dell'abaco. Il piano inferiore conserva una specie di scamillus rientrante di ‘em 1,5 rispetto alla circonferenza di base. L'esemplare appartiene ad una produzione asiatica di capitelli corinzi”? che fu esportata lungo le coste siropalestinesi (Foro occidentale di Berytus, Teatro di Caesara di Palestina") e anche in Occidente: confronti si trovano anche in Sicilia ad esempio nella villa di Piazza Armerina? e a Taormina dove nell'area del teatro, ma proveniente da una casa romana di via Di Giovanni,si conserva un esemplare molo simile (Tav. II, 10) che mostra come anche il capitello di Capo Granitola doveva presentare volute ed elici con spirali abbastanza sviluppate”. Come elemento cronologico può fissarsi l'attenzione sul caulicolo non ancora del tutto stilizzato in una sagoma triangolare come avviene dall'età severiana in poi. Databile tra il 160 - 190 d.C. circa. 2. Capitello corinzio (Tav. I, 2). Alt. cm 47,5, alt. I corona foglie cm 18, alt. II corona foglie cm 28, spess. abaco cm 8. diametro abaco compreso fiore cm 52; senza fiore cm 47, lato abaco mass. cm. 54. Marmo bianco a cristalli medi 538

Due corone di foglie d'acanto che non si toccano. Sembra non ci siano calici ma che le foglie angolari della II corona reggano le volute, ampiamente sviluppate. Forse le volute nascono dalla cima delle foglie centrali della Il corona. 3. Capitello corinzio (Tav. 1, 3). Alt. cm 51, alt. I corona 18, alt. Il corona cm. 31,5, diametro inferiore cm.37, spessore abacocm 8. Marmo Il kalathos presenta due corone di foglie d'acanto spinoso: tra le foglie della prima corona pare visibile un dosso angolare sporgente. Si distinguono i caulicoli, le elici e le volute. Il capitello protrebbe essere identico al n.1 4. Capitello ionico (Tav. 1, 4). Inv. SL 13 603. Alt. cm 14, diametro inferiore cm 38, spessore abaco cm 3,5, lati abaco cm 47x 47, diametro volute mass.cm 22-23, lungh. pulvino cm 46. Marmo bigio grigiastro. Sia questo esemplare, sia il seguente hanno il pulvino sottile con evidenziato il nastro mediano (balteo). Tra Yabaco e il pulvino sembra esserci una decorazione. 5. Capitello ionico (Tav. 1, 5) Inv. SL 13604. ‘Alt. cm 16, lato abaco cm 47 x 47, spess. abaco cm 3,5, diametro volutecm 22-23, lungh. pulvino c. 46. Come il precedente privo di fori per i perni su entrambi ipiani.

6. Base attica di colonna (Tav. II, 6, 7). Alt. cm 25, alt plinto cm 10, diametro superiore cm 54, lungh. plinto em 63,50, alt.toro inferiore cm 5. , alt toro superiore cm 4. Marmo Sulla faccia superiore tracce di incisione circolare, dal diametro di cm. 44,5 Sia questa base, sia le due seguenti sono articolate in un plinto, e due tori separati da scotia. I toro superiore è abbastanza stilizzato ma pronunciato e sporgente rispetto al listello che corona la scotia. 7. Base attica di colonna (Tav. II, 8). Alt. cm 25, alt. plinto 10, alt. toro cm 5, alt. scozia cm 6, lato plinto cm.65, diametro superiore cm 53. Marmo Sulla faccia superiore è incisa una circonferenza dal diametro di cm 44. 8. Base attica di colonna (Tav. Il, 9). Alt. cm 25,5, alt. plinto cm 10, alt. toro cm 6, alt. scoziacm 6, diametro cm 56, lato plinto cm 64. Marmo Sulla faccia inferiore è incisa la circonferenza di diametro cm 45,5.

Appendice: il pezzo ὃ conservato insieme ai precedenti, ma non presenta incrostazioni marine. Viene qui catalagato per le affinità con tipologie asiatiche nella decorazione.

Picdistallo con base. Alt. cm 47,5, largh. toro cm 41,5, largh. base cm 50, spess. cm 34,5. 11 piedistallo è modanato su tre lati mentre il quarto sul retro è liscio e piattoin quanto doveva addossarsi ad — sono intagliate con una parete, Tutte le tre articolazioni in cui si divide zoccolo campo centrale coronamento una decorazione: lo zoccolo è sagomato con un sottile plinto inferiore, un sottile toro ornato con un festone di alloro e un'alta gola dritta ornata con un cyma di foglie acantizzanti rovesce. In primo piano alternate a foglie d'acqua con orlo arcuato in secondo piano. Il campo centrale è convesso e decorato con foglie d'acanto alternate a palmette poste negli spigoli che nascono da caulicoli originantesi alla basi delle foglie: la foglia del lato centrale è piuttosto espansa e si articola in tre grandi lobi a lunghe fogliette aguzze separati da ampie zone d'ombra romboidali; le foglie dei lati corti sono invece più strette e suddivise molto schematicamente in lunghe fogliette aguzze ai lati con una piccola cyma ricurva al centro. Il coronamento è sagomato, apartire dal basso, da un 539

astragalo a perline e fusarole, da kyma ioico a ovuli contenuti in larghi sgusci e separati da lancette infine da un kyma lesbio trilobato. Intagliata insieme al piedistallo è anche la base di pilastro sagomata con un plinto e due tori separati da una scozia: va rilevato il motivo a tralci che decora i lati del plintoe lo spesso listello che distingue la scotia dal toro superiore, questo piuttosto sottile e poco sporgente. La lavorazione è piuttosto schematica e poco curata nei particolari: il tipo dell'acanto e i motivi decorativi farebbero pensare ad officine asiatiche o che subiscono l'influsso asiatico. Databile nel ITI sec. d.C. NOTE * Cfr. P. Pensanene, La villa del Casale a Piazza Armerina: gli clementi decorativi architettonici, in MEFRA 83, 1971, pp. 207-224, ? Ibid., pp. 209-10; figg. 59-63. ? Su queste tematiche e sull'importazione dei vari tipi di capitelli asiatici in Italia v. il mio contributo: la decorazione architettonica, l'impiego del marmo e l'importazione dei manufatti orientaki a Roma, in talia e in Africa (I-VI sec. d.C.) in Società romana e impero tardo-antico, III, Le merci, gli insediamenti, Bari 1986, p. 304 ss. * Per un elenco dei relitti nel Mediterraneo: A.J. Parkin, Ancient Shipwrecks of the Mediterranean ὃ the Roman Provinces, BAR 580, 1992. * Ibid., p.116. * G. Βύκρυκα, Un relitto con un carico di marmo a Capo Granitola (Mazara), in Sicilia Archeologica, 33, 1977, pp.55-59; In. IL relitto di Capo Granitola, in Archeologia Viva, 1983,5, pp.44-48; CaLpERoNe et ali, in Sicilia Archeologica 56, 1985; G. Purvκα, Rinvenimenti sottomarini nella Sicilia occidentale, in BA, Supplementoal n. 37-38, 1986, p.153, n. 89; A.J. PARKER, Ancient ‘Shipwrecks, cit, p. 115, n. 229; In, Attività marittima e rinvenimenti archeologici nella Sicilia romana, in (Atti convegno) La Marittimità in Sicilia, Studi Romanistici in tema di diritto commerciale marittimo, Soveria Mannelli 1996: del carico fanno parte 2 blocchi a gradoni, tre piedistalli e un lungo monolite parallelepipedo spezzato in quattro parti. τς Lazzari, G. Mosca, B.M. Srievaso, Alcuni esempi di identidicazione di marmi antichi mediante uno studio petrografico e la determinazione del rapporto CalSr, in Quaderni Soprint. B.A. Venezia, 9, 1980, p.44 ss. * DPSS. Peacock, D.F. Wn.tiaws, Anphorae and Roman Economy, London-New York 1986, pp. 193-195 (Class. 4 Kapi tin II) * G. Purpura, Nuovi rinvenimenti sottomarini nella Sicilia occidentale (quadriennio 1986-9) (Atti IV Rassegna Archeologia Subacquea), Giardini di Naxos 1989 (Messina 1991), p. 137; In. Rinvenimenti sottomarini nella Sicilia occidentale (1986-1989), in Archeologia subacquea, Studi, ricerche e documenti, 1, Università degli Studi della Tuscia, Roma 1993, p.182, ‘n. 123 (la collocazione del n. 123 sulla cartina dei ritrovamenti pubblicata alla fig. 1 non coincide con quanto detto dal resto della collocazione del relitto tra Capo Granitola e Tre Fontane, in base al quale nella riproduzione della cartina nella nostra. pubblicazione abbiamo riportato il n. 123 preso il capo); A.J. PARKER, Ancient Shipwrecks, cit, p.116, n.232. "© L Vauente, Rinvenimenti sottomarini nella Sicilia occidentale, in Bollettino di Archeologia subacquea, 2-3, 1995-1996, pp. 366, fig. 1. "© P. PensaneNE, A cargo of marble shipwrecked at Punta Scifo near Crotone, in LINA, 1978, pp. 105-118. 1 Da ultimov. JJ. Ἠξκμανν, The Ionic Capita in ate antique Rome, Roma 1988, p. 61 ss. 66 (sullesemplaredi Canosa: P. Pensanene, in *** Bari 1992, p. 5. O. Bixcot, Das ionische Normalkapitell in hllenistischer und roemischer Zeit in Kleinasien, Tubingen 1980, passim. ?* B, Basis, Recenti esplorazioni nella Baia di Giardini di Naxos, in IIT Rassegna di Archeologia Subacquea, Giardini di Naxos 1988; Eap., A Roman wreck with a cargo of marble in the bay of Giardini Naxos (Sicily), in UNA, 17, 1998, pp. 133-142. *5 Parker, cit, nn. 522, 670 c bibl. citata: ἢ relitto di Isola delle Correnti trasportava un carico di blocchi di marmo blanco grigiastro forse dalla Grecia (sono stati individuati 15 blocchi per un peso di 172 tonnellate, di cui solo uno di 40) ?* T. Κοζει etal, in Pensabene (ed.). Manni antichi, StMisc, 26, 1985, pp. 75-81: come tasie si possono considerare le vasche del relitto di8. Pietro: presso Taranto; Ward Perkins, P. Throckmorton, The S. Pietro wreck, in Archeology, 18, 1965, pp. 201-209. ® Ci si riferisce al noto passo di Strabone, IX, 5, 16, sulla diminuzione del prezzo dei marmi bianchi per la concorrenza esercitata da quelli colorati. ! Su queste tematiche v. il mio contributo Osservazioni sulla diffusione dei marmi e il loro prezzo nella Roma imperiale, in BMusArt, 53, 1982, pp. 57.69. 7 J.B, Warp ΡΕκκινς, The Hippolytus Sarcophagus from Trinquetaille, in JRS, 46, 1957, pp. 10-16; A. Gtuto, Il commer: cio dei sarcofagi antichi, Roma 1962. 7 Cr, da ultimo, G. Kock, Sarkophage der roemischen Kaiserzeit, Darmstadt 1993 ® Parker, cit. pp, 113; 426; nn. 222, 1153 e bibl. citata. ? A. Lopez et alii in L'epave Drammont, I fouille 1993 5 G. Di Sreravo, in Rassegna di Archeologia Subacquea, Atti, Giardini di Naxos ottobre 1990, pp. 196-205; S. Tortorella, in MEFRA,93, 1981, p. 362; Parker, cit. p. 94, n. 163 540

κι G, Panevtw in Bollettino d'Arte, Supplemento,ln, 37-38, I986, p. 153, n. 84, fig. 27; Parker, cit p. 115. 7 Parker, cit p.254, n. 604, κι P. Paxsant, Le vie del marmo, Roma 1995, p. 365 e bib. citata ? Cfr. oraP. Pensasene, Edilizia pubblica e committenza. Marmi e officine in Italia Meridionale e Sicilia durante il II e III sec. C, in Rendiconti Pontificia Accademia di Archeologia 69, 1996 97, pp. 88. 2 Ip, Tradizioni microasiatiche esiriane, nella decorazione architettonica in mamo e in pietra Locale d alcuni centri siriopalesinesi in ArCl 49, 1997, pp. 275-422. PN. Ascari, The Siage of Workmanship of the Corinthian Capital in Proconnesus and its Export Form, in N. Herz, M. Waelkens (ed), Classical Marble. Geochemistry, Technology, Trade, Dordrecht, London, Boston 1988, pp. 115-125. Confront Efeso e Labraunda, ecc W. Ὁ. Heilmeyer, Korintische Normalkapitelle, 16. suppl, RM, 1970 δ. M. Piscine, Das Korntsche Kapitel altem Irae, Mainz 1990, p. 44, ipo Il De 5 Cf Pessanen, La vila del Casale, cit, p.209; gg. 59-60. 7 Altri esemplari molto simili si trovano reimpiegati in altre chiese romaniche dell'italia meridionale ad esempio nel duomo di Gerace c in quello di Canosa: Pensabene, I reimpiego nellarchitetura romana, in RIASA 13, 1990, pp. 6, 88: fi 117,123.

541

1-5. Mazara, Museo Civico, da relitto tra Capo Granitola e Torre

Tre Fontane. 1. Capitello corinzio, cat. n. 1; 2. Capitello corinzio, cat. n. 2; 3. Capitello corinzio, cat.n. 3; 4. Capitello ionico, cat. n. 4; 5. Capitello ionico, cat. n. S. 542

TAV. IL

6-9: Marzara, Museo Civico, da relitto tra Capo Granitola e Tre Fontane. 6. Base attica, cat. n. 6; 7. piano di posa del precedente cat. n. 6; 8. Base attica, cat. n.7: 9. Base attica, cat. n.8; 10. Taormina, teatro, da Casa Romana; 11. Palermo, Museo, da Tindari. 543

ANTONINO PINZONE ANCORA IN TEMA DI AGER PUBLICUS SICILIANO IN ETÀ CICERONIANA

Tl tema dell'ager publicus siciliano è tra quelli sui quali più si è scritto e polemizzato in passato, a causa soprattutto dell'oscurità e dell'ambiguità delle scarne notizie ad esso relative’, Punto cruciale della discussione è la corretta interpretazione di un famosissimo passo delle Verrine, ed esattamente della de frumento, in cui Cicerone delinea velocemente il quadro delle città della provincia Sicilia in una prospettiva che mescola, a dire il vero un po’ confusamente, aspetti di diritto internazionale e caratteristiche più propriamente tributarie. Il quadro delle città siciliane risulta articolato in civitates foederatae, civitates immunes ac liberae, civitates soggette alla decuma e civitates definite normalmente "censorie" dagli storici, con aggettivo mai attestato in Cicerone con tale valenza, e che sarebbe meglio indicare come città il cui agerè diventato, tutto o in parte, publicus populi Romani. Queste ultime, a quanto si legge nella de frumento, sarebbero state perpaucae e corrisponderebbero alle città bello (o superiori bello?) subactae, cioè probabilmente alle città sottomesse con la forza dai Romani durante le operazioni militari in terra di Sicilia nella prima e/o nella seconda guerra punica *. Sulla scorta di calcoli aritmetici basati sulle quote del frumentum imperatum dovuto da alcune città e con l'ausilio del passo in cui Livio, probabilmente basandosi su documenti ufficiali quali la formula provinciae, dà un resoconto, per bocca di Marcello, delle operazioni concluse durante le campagne siciliane, si è proceduto a quantificare in maniera precisa anche il numero di tali città, col risultato di circoscrivere così l'ager publicus siciliano in zone precisamente determinate’. Tn realtà già il vago termine usato dall'oratore - perpaucae - avrebbe dovuto mettere sull'aveiso i lettori: se il numero fosse stato così ridotto (non costituendo perciò ostacolo alcuno agli intenti retorici e accusatori perseguiti, tendenti a mostrare la sostanziale “decumanita” del territorio siciliano) e Tager publicus così perfettamente delimitato, è difficile capire perché Cicerone si sarebbe mantenuto così nel vago e non lo avrebbe esplicitato, così come faceva invece contestualmente per altre categorie di città, le foederatae, cioè, e le immunes ac liberae. E questo tanto più, quanto si identifichino (come non credo sia però possibile fare) tali presunte città *censorie" con i sex publica di cui, come ci informa Cicerone, Carpinatius sarebbe stato magister in Sicilia per conto di una compagnia di publicani, cosa della quale egli stesso dà altrove notizia, dimostrando così che un numero preciso poteva ben averlo in mente*. Per quanto ci si possa impegnare, risulta difficile liberarsi dalla suggestione che la vaghezza dell'aggettivo perpaucae avesse a che fare con un'altrettanto vaga idea di Cicerone, che pur era stato questore in Sicilia e avrebbe dovuto quindi conoscerne con precisione il quadro amministrativo, così come avrebbe dovuto aver presenti l'estensione e la situazione dell'ager publicus isolano”. Che d'altro canto in quel lasso di tempo non solo Cicerone, ma anche i Romani in genere non avessero in merito cognizioni precise, è al di là di ogni discussione testimoniato dall'iniziativa che a sette anni dal processo di Verre avrebbe preso il tribuno P. Servilio Rullo, che nella sua rogatio agraria del dicembre del 64 a.C., poi bocciata per la veemente reazione del console Cicerone, proponeva in particolare di dare incarico alla commissione decemvirale, che doveva portare avanti la riforma. agraria da lui proposta con l'appoggio di Cesare, di censire anche i beni demaniali localizzati in Sicilia*. Quel che ci interessa in questo caso da vicino è il fatto che a tale commissione decemvirale Rullo avrebbe voluto affidare anche il compito di dirimere i casi dubbi, col decidere definitivamente circa l'appartenenza o meno di taluni terreni al demanio pubblico’. Il che è chiaramente indicativo della mancanza di chiarezza regnante nel settore. 1l perché della confusione lo si può forse capire confrontando la situazione dell'ager publicus siciliano con quella dell’ ager publicus italico in età graccana; e meglio ancora guardando alle vicende, 545

ancorché poco conosciute, della sua formazione. I Romani erano soliti incamerare per diritto di guerra, inserendolo appunto nella categoria dell'ager publicus, il territorio delle città vi captae e non c'è dubbio che tale sorte abbia subito anche il territorio delle città siciliane prese con la forza durante il bellum punicum. ? Non si può però non ammettere che il medesimo destino abbia potuto subire, sia pure parzialmente, anche il territorio di città prese con altre modalità (col tradimento, o anche in seguito a deditio) nella misura in cui le terre e i beni di personaggi appartenenti a componenti cittadine ostili ai Romani, non siano state donate ai “traditori”, a quella parte cioè della popolazione che in disaccordo con la fazione avversa avrebbe consentito ai Romani di ottenere il controllo della città. Il caso del siracusano Soside, tramandatoci da Livio', è a tal proposito molto eloquente. Così come lo è quello di città come Agrigento o altre, per le quali sono attestati casi di rincalzo della popolazione in vari modi decimata dagli eventi bellici. Qui i terreni espropriati ai cittadini uccisi o privati dei loro diritti civici e venduti come schiavi, anziché essere inclusi nelle tabulae censorie come ager publicus da locare, furono assegnati ai novi cives provenienti de oppidis Siculorum con lo scopo di rimettere subito in movimento i processi produttivi in vista delle necessità della città padrona ". Ragionamento analogo va fatto anche per l'ager di Morgantina, assegnato agli Hispani di Merico, che, tradendo i Cartaginesi, aveva dato un importante contributo all'affermazione delle armi romane durante la fase siciliana della seconda guerra punica". La restituzione o l'assegnazione di terreni facenti già parte, o in predicato di far parte, dell'ager publicus populi Romani in Sicilia, può contribuire ad illuminare il passo della de frumento ricordato prima, in cui si dice tra l'altro che lager delle perpaucae città bello subactae, pur essendo stato fatto ager publicus, tuttavia era stato redditus, purché si tenga presente che questa non sarà stata necessariamente l'unica forma di “restituzione”, potendosi altrettanto bene individuare altre possibili operazioni a vantaggio dei coltivatori locali, capaci anch'esse di spiegare il senso della parola usata da Cicerone *. La confusione non nasce, come è noto, soltanto dall'affermazione che Yager in questione sarebbe stato redditus, quanto anche dalla notizia che segue, secondo cui lager redditus avrebbe continuato ad essere oggetto di locatio censoria. La contraddizione è palese e a tutt'oggi manca una soluzione definitiva dei problemi che pone, anche se è prevalente quella secondo cui la censoria locatio di cui parla Cicerone avrebbe riguardato non il terreno, bensì il vectigal su esso ricadente, e che avvenisse, diversamente che per la decima, oggetto di appalto presso il pretore siracusano, a Roma, dove naturalmente spadroneggiavano le societates publicanorum "ες Se si continua a fissare l'attenzione sui soli passi delle Verrine, o se ci si limitaa rifarsi ad approcci comparativistici, richiamando situazioni attestate per altre province, difficilmente i lati oscuri della situazione potranno essere definitivamente chiariti. È giocoforza uscire dalle secche in cui è venuta a cacciarsi la ricerca e procedere per altre vie, cercando di recuperare il maggior numero possibile di dati utili ad una se non attuale, almeno futura composizione del puzzle. Del resto, è stato già evidenziato come parecchia luce getti sulla questione la De lege agraria ciceroniana, pronunciata all'incirca sette anni dopo le Verrine, che ci dà notizie riflettendo sulle quali è possibile fare passi avanti, come quello di sfumare ricostruzioni tendenti a compattare in zone definite lager publicus siciliano e di considerarlo invece, come del resto, si faceva una volta, come frammentato e presente in varie zone dell'isola ". Ma non è tutto. Finora, a quanto ne so, nessuno degli studiosi interessati al problema ha prestato la giusta attenzione ad una importante frase dell'orazione contro Rullo ed esattamente a quella in cui si parla, in riferimento alla Sicilia, di (ager publicus partus) re c e n t i victoria". Quale sarebbe la victoria a cui fa riferimento Cicerone, considerandola come causa di formazione (o di recupero) di ager publicus? L'aggettivo usato (recenti) esclude che si possa pensare alle guerre puniche (neanche con la sfumatura di vederlo riferito alla seconda fase della guerra, più recente della prima, nel qual caso ci saremmo verosimilmente trovati di fronte ad un grado diverso dell'aggettivo). Ecco perché qualche studioso ha pensato che la vittoria in questione fosse quella riportata contro gli schiavi, ovviamente ai tempi dell'ultima rivolta servile siciliana, la seconda (104-101 a.C.)®. A me la cosa sembra poco verosimile, nella misura in cui, come ho più volte sottoli neato, non si riesce a capire come Roma potesse arrivare a prendere provvedimenti del genere, di penalizzazione, cioè, di comunità cittadine o di semplici privati, in considerazione del fatto che in 546

occasione delle guerre servili, e in particolare nella seconda, città e singoli erano stati vittime dell'azione violenta dei ribelli e non soggetti di azione capace di provocare vendette e punizioni da parte dei Romani, quali quelle prefigurate da una multatio agrorum. Logica a parte, è anche un passo della stessa orazione contro Servilio Rullo a testimoniare la solidarietà esistita invece nell'occasione tra Siciliani e Romani, col presentarci Aquillio, il console vincitore di Atenione, pronto a soccorrere le città isolane vessate dai fugitivi offrendo loro mutuum frumentum". In realtà, tra la seconda guerra servile e gli anni in cui Cicerone scriveva la De lege agraria, c'è sicuramente un altro avvenimento a cui può senz'altro meglio riferirsi l'espressione recenti victoria.

Intendo riferirmi alla fase siciliana delle operazioni di repressione dei mariani messa in atto da Silla, alla congiuntura, per l'esattezza, che vide impegnato in prima persona l'ancora giovanissimo, ma quanto già deciso e autoritario, Pompeo”. In tale occasione, erano gli anni 82-81, i mariani presenti in Sicilia, dal governatore M. Perpema® al console Cn. Papirio Carbone”, che cercava di raccogliere una flotta nei mari dell'isola, furono facilmente sconfitti dal giovane generale spedito da Sil a in Sicilia (e poi in Africa) al comando di 120 navi e 6 legioni, con una forza d'urto, dunque, che, per la sua consistenza, è indice indiscutibile di quanto, almeno nelle previsioni, si presentassero impegnative le operazioni militari a cui Pompeo era stato preposto. A cose fatte, le città dell'isola, che malvolentieri si sarebbero prima piegate ai mariani, a giudicare da alcune fonti sarebbero state trattate dall'astro emergente della politica romana in maniera alquanto mite ed accomodante*. Il notissimo episodio di Stenio di Terme, città che precedentemente aveva aderito toto corde alla fazione mariana e che quindi aveva molto da temere dall'azione restauratrice di Pompeo, da cui era stata invece perdonata per il coraggioso comportamento dello stesso Stenio, mostra a quali livelli di generosità possa essere arrivato il giovane generale con i Siciliani. E lo stesso dicasi se si guarda ad altri episodi raccontati da Plutarco, come quello relativo ai suggelli fatti apporre alle spade dei soldati per impedire che commettessero degli eccessi contro le popolazioni locali”. Per converso la durissima e spregiudicata posizione assunta nei confronti dei Mamertini, che cercavano di sfuggire alla sua giurisdizione invocando un nomos palaios, verosimilmente le clausole del loro foedus*, fa capire come sarebbe troppo ingenuo generalizzare, prendendo troppo alla lettera le benevole notizie ciceroniane o plutarchee”*. In verità, fatta qualche eccezione, Pompeo sembra essere stato anche piuttosto duro, e in alcuni casi addirittura crudele (vedi il processo all'ex amico Carbone), con i mariani*. Nonostante ciò, sembra aver lasciato tra i Siciliani e i residenti un buon ricordo, a giudicare da quel che ne dice Diodoro®, dalla dedica a lui apposta dai negotiatores italici di Agrigento? o dalla lunga lista dei suoi clienti siciliani *. Va ricordato che proprio in quegli anni potrebbe aver costruito la via Pompeia*, nel qual caso si potrebbe avere un ulteriore dato testimoniale a sostegno della tesi di un consistente impegno militare nell'isola contro i mariani. Se esistevano tutte le premesse perché la victoria siciliana (ma non solo tale) contro i seguaci di Mario potesse aver conservato echi duraturi, specie nella cerchia dei fautori di Pompeo, resta comunque da capire come e in che termini tale victoria potesse aver interessato il settore dell'ager publicus isolano. La risposta non è difficile se da un lato si tiene presente la rigidezza con cui pochissimi anni dopo, ed esattamente nel 77, lo stesso Pompeo procedette in Gallia ad operazioni di multatio agrorum, con un decreto con cui costrinse gli indigeni che gli si erano opposti a ex agris... decedere%; e si considerino dall'altro le conseguenze delle confische ai danni delle vittime delle proscrizioni sillane, di cittadini romani eventualmente proprietari di terre (o possessori di ager publicus, come tanti cavalieri”) in Sicilia. Gli agri confiscati furono di norma venduti *, ma non si può escludere che almeno in parte, assieme a terre appartenute a siciliani legati alla fazione mariana (e non perdonati, come Stenio e i Termitani) abbiano finito con l'essere demanializzati (o ridemanializzati, messi cioè nel giro delle locationes): donde l'ager publicus partus recenti victoria. Di fronte a tale espressione e a tale interpretazione, è difficile non cedere ad una tentazione, quella di collegarvi anche il non meglio identificato ager Recentoricus, citato da Cicerone sia nella prima che nella seconda orazione della De lege agraria?. C'è stato varie volte in passato il tentativo di considerare l'aggettivo Recentoricus - non collegabile a nessun nome o toponimo siciliano a noi noto come frutto di corruttela, alla stregua di diversi altri casi presenti in un'opera così frammentaria e 547

dalla parecchio tormentata tradizione testuale‘, Zumpt nel 1861, leggeva ad es. agrum censorium in luogo del tradito agrum Recentoricum di 1, 4, 10-11. In tempi a noi più vicini Jonkers ha proposto la lettura Receptoricum, con riferimento alla precarietà del possesso giuridico di tale agro, concesso ai Siciliani solo dalla misericordia senatus®. Considerando che nelle orazioni contro Rullo si parla di ager Recentoricus in contesti vicini a quelli in cui compare il riferimento ad una recens victoria quale generatrice (0 rigeneratrice) di beni demaniali, pare invece lecito avanzare, sia pure con le dovute cautele, un'altra ipotesi e considerare l'espressione agrum Recentoricum come errore per agrum cil. publicum) recentem (o meglio ancora recentiorem). L'esser tale agro accomunato dalla de lege agraria ad agri individuati attraverso un nome, quello di lempsale, nella benevolenza di Rullo, darebbe maggiore forza alla palmarita paleografica dell'errore, contribuendo a spiegare meglio una trasformazione dell'aggettivo da semplice qualificativo in relazionale (etnico o denominale) nella mente del copista. La correzione sopra proposta e la relativa interpretazione consentirebbero, al di là delle illazioni avanzate in merito da Cicerone nell'orazione, di dar meglio conto dei privilegi concessi da Rullo al Yager “Recentoricus”. Se è vera la nostra lettura, si sarebbe trattato di terreni acquisiti (o riacquisiti) dal demanio romano neanche venti anni prima e di terreni appartenenti, a titolo vario, a partigiani, romani e siciliani, di Mario, ad esponenti, cioè, della stessa fazione dei populares a cui apparteneva anche Servilio Rullo, uomo di paglia di Cesare e Crasso “, il cui antipompeianesimo* si sposerebbe molto bene con un tentativo di restaurazione di situazioni pregresse, che proprio Pompeo, sia pure in obbedienza a direttive sillane, aveva cancellato. Impedire che l'ager in questione subisse la stessa sorte del rimanente ager publicus isolano e diventasse quindi soggetto a venditio, poteva rappresentare un ineliminabile primo passo in vista del ristabilimento delle vecchie situazioni, della restituzione, cioè, dei beni ai vecchi proprietari o possessori. Donde l'eccezione serviliana. C'è però una grossa difficoltà contro l'accettazione della proposta prima avanzata, e cioè il fatto che il discorso relativo all'ager "Recentoricus"è introdotto da Cicerone in un contesto specifico e precisamente quello relativo ad ager publicus non più come quello di cui aveva parlato immediatamente prima, risalente ad un periodo successivo all'anno di consolato di Silla e Pompeo Rufo, cioè l'88 a.C., bensì a quello esistente infinito ex tempore“, L'obiezione si può accoppiare ad altra analoga relativa all'interpretazione della frase recenti victoria. Questa è usata in un contesto in cui i suoi effetti sull'ager publicus sono legati alla lungimirante azione dei maiores. La contraddizione è, all'apparenza, piuttosto evidente, ed è per questo che i commentatori hanno spesso pensato che l'effetto della “recente vittoria" non sia stato quello, o non sia stato solo quello, della formazione di ager publicus nuovo, bensì anche di recupero del vecchio. E tuttavia il passo può intendersi benissimo anche nel senso di formazione nuova, e recente, di ager publicus, sol che si consideri il lascito dei maiores come genericamente riferentesi alla conquista dell'isola e alla creazione quindi dei presupposti perché si potesse acquisire ager per il demanio, anche a distanza di secoli. Quanto all'ager Recentoricus, lo si può benissimo considerare come ager recuperato”, in seguito alla recens victoria, al demanio statale. Ager Recentoricus a parte, dalle orazioni ciceroniane contro il tribuno Rullo, credo si possa desumere sicuramente una notizia altrettanto interessante che quella relativa alla frammentazione e alla dispersione dell'ager publicus siciliano, cui si è già accennato; quella, cioè, che la sua formazione avesse attraversato diverse fasi. ΑἹ momento iniziale, che data delle guerre puniche, ne va aggiunto almeno un altro, esattamente quello della guerra civile tra sillani e mariani. La constatazione serve a chiarire diversi lati oscuri della vicenda dell'ager publicus siciliano. E anzitutto: se è vero che buona parte dell'ager publicus più vecchio sarebbe stato redditus ai Siciliani, non importa in quali termini, non è detto che lo stesso sia accaduto per quello recenti victoria partus, che, pur risultando in "possso" di isolani o residenti, appare altresì con certezza rientrare nelle mire politiche e ricadere sotto il controllo giuridico dello stato romano, se è vero che su di esso aveva fermata la sua attenzione Rullo nella sua rogatio agraria, sia pure per privilegiarlo rispetto al resto. La stessa constatazione, poi, serve a dare in qualche modo conto della confusione denotata da Cicerone ai tempi delle Verrine. Allora l'ager publicus siciliano gli si presentava in maniera ambigua, forse perché non aveva ancora fatto mente locale alle varie fasi dell'acquisizione e alla conseguente 548

diversità di trattamento. L'iniziativa di Rullo, con le sue note distinzioni e le sue eccezioni, avrebbe messo successivamente in primo piano l'esistenza di una categoria particolare di ager publicus siciliano, quello appunto recenti victoria partus. Intenti retorici ed esigenze accusatorie a parte, ὃ probabile che, se tale esperienza fosse stata anteriore alle Verrine, Cicerone si sarebbe espresso diversamente in queste ultime, e ci avrebbe trasmesso notizie per noi più chiare e precise, sicuramente meno confuse, di quanto invece non abbia fatto”. NOTE * Da ultimo sul tema E. Causa, La de lege agraria di Cicerone e il problema dell ager publicus siciliano, Instrumenta Doctrinae 3, Messina 1990; e M. Gexovese, Condizioni delle civitates della Sicilia ed assetti amministrativo-contributivi delle altre province nella prospettazione ciceroniana delle Verrine, Iura 44, 1993, pp. 171-243. Ivi bibliografia precedente. ? Gio. Verr 2, 3, 6,13. > È la lezione che dà la prima mano del Lagomarsinianus 42 (copia del Cluniacensis 498 del XV sec.) ed è solitamente utilizzata dagli studiosi per far risalire alla prima guerra punica la genesi dell'ager publicus siciliano. Cfr. R. Mario, Levino e la "formula provinciae"in Sicilia, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, 3, Napoli 1984, pp. 1086-1087. * A situazioni di sottomissione con requisizione di agera vantaggio del demanio romano (o di alti) fa riferimento la frase polibiana (richiamata da D. Must, Polibio e l'imperialismo romano, Napoli 1978, pp. 58 s. in 24, 13, 4, in cui Siciliani vengoo definiti dorialoto e assimilati ai Capuani. Il contesto, un discorso di Filopemene, in un dibattito con Aristeno, databile all'autunno del 191 a.C. (cfr. M. Ersuxcron, Philopoemen, Oxford 1969, pp. 224-226; Musi, ibid., pp. 66-67, n.26), induce a cautela, ma è comunque indice di come nell'oriente greco (o nella mentalità polibiana?) si guardasse alle vicende che vedevano protagonisti i Romani in rapporto alla grecità d'occidente. * Ampio quadro delle posizioni e delle teorie ricostruttive degli studiosi in Genovese, Condizioni dell civitates, cit, pp. 200, con n. 53; e 207 ss. * Peri sex publica di cui parla Cic. Verr. 2, 3, 71, 167 e per la loro identificazione, cfr. Cau,La de lege agraria, cit, pp. 11 ss; e À. Pinzone, L'immigrazione e i suoi riflessi nella storia economica e sociale della Sicilia dl I1 sec. a.C., in M. BARRA BAGNAsco - E. DE Miro — A. Pivzone (a cura di), Origine e incontri di culture nell'antichità. Magna Grecia eSicilia. Stato degli studi e prospettive di ricerca (Att Incontro Progetto Strategico CNR II sistema Mediterraneo, Messina 2-4 dicembre 1996), Pelorias 4, Messina 1999, p. 394 n. 60. * Sulle attività di Cicerone durante la sua questura, cfr. E. FaLtv, Examen de la fonction questorienne dans le domaine de la fiscalité en Sicile, in CEA 2, 1973, pp. 31-53. * Cfr. Cic leg. agr. 2, 18, 48. Sulla rogatio agraria di Servilio il meglio si trova ancora in E.G. Hanoy, The Policy of the Rullan proposal in 63 B.C., già in IPh 32, 1913 e poi in Ip., Some Problems in Roman History, Oxford 1924, pp. 68-98. V. anche A. Arzeuvs, Das Ackerverteilungsgesetz des P. Servilius Rullus, in C&M 3, 1940, pp. 224-226; L. Ans, Intorno alla "rogatio Servilia", in RFIC ns. 21, 1963, pp. 41-45; E.I. JoxkERS, Social and Economic Commentary on Cicero's de lege agraria orationes tres, Leiden 1963; E. Gamma, Nota sulla "rogatio agraria”di P. Servilio Rullo, in "Melanges Piganiol”, Paris 1966, pp. 769-775 (ora in 1o, Esercito e società nella tarda repubblica romana, Firenze 1973, pp. 449-458); L. Havas, La rogatio Servilia, in Oikoumene 1, 1976, pp. 131-156;e I. L. Fexraky, Rogatio Servilia agraria, in Athenaeum n.s. 76, 1988, pp. 141-164. * Ibid. 2,21, 56. το Si vedano le articolate osservazioni svolte ora in merito dal Genovese, Condizioni delle civitate, cit. pp. 207 ss. ? Perla presenza di beni demaniali all'interno dei fines e delle mura cittadine dei socii v. anche Cic. leg. agr. 2, 18, 49. I caso più noto è naturalmente quellodi Leontini (per cui cf, da ultimo, A. Piszone, Provincia Sicilia. Ricerche di storia della Sicilia romana da Gaio Flaminio a Gregorio Magno, Catania 1999, p.97, n. 20). © Liv. 26, 21, 12-13: His ambobus civitas data: Sosidi in agro Syracusano, qui aut regius aut hostium populi Romani fuisset, et aedes Syracusis, cuius velle eorum in quos belli iure animadversum esset. ! Per il caso di Agrigento (simile a quello di Heraclea Minoa), testimoniato dalle Verrine, cfr. ora F.P. Rizzo, Il bouleuterion e la syncletos dei Centodieci, in Kokalos 42, 1996, 75 ss. e C. Axusrast, Studi vecchi e nuovi sulle dinamiche migratorie nella Sicilia romana di età repubblicana, in Barra BAcxAsco-De Miro -PINZONE, Originee incontri, cit., pp. 405 s. nn. 7-11 (con bibl. prec). τ Cir. Liv. 26, 21, 12-13: Moerico, Hispanisque qui cum eo transierant, urbs agerque in Sicilia, exiis qui a populo Romano defecissent, iussa dari. Id M. Cornelio mandatum ut, ubi ei videretur, urbem agrumque eis adsignaret. In eodem agro Belligeni, per quem inlectus ad transitionem Moericus erat, quadraginta iugera agri decreta. Più in basso si legge che la città e l'agro in. questione furono quelli di Morgantina. ? Da ultimo sulla tematica Genovese, Condizioni delle civitates, ci., pp. 207 ss. (con ampio resoconto della prec. bibl). κα È tesî, questa, risalente almeno a Nicbuhr, ripresa tra gli altri anche da S. CapeRONE, Problemi della organizzazione della provincia di Sicilia, in Kokalos 10-11, 1964-1965, p. 19. Un quadro delle varie posizioni in Grxovese, Condizioni delle civit. tes, cit, pp. 208-211, ἢ Tn questo senso Cau, La de lege agraria di Cicerone, ci. Il Genovese, Sulle condizioni dell civitates, cit, p. 211, n. 73, si limita a ricavare dai passi dell'orazione contro Rullo il convincimento che i teritori in questione fossero delimitati rispetto all'estensione della Sicilia. 549

* Cic, leg agr. 2, 18, 48-49: Perge in Siciliam. Nihil estin hac provincia quod aut in oppidis aut in agris maiores nostri proprium nobis religuerin, quin id venire iubeat, Quod partum re ce n ti victoria maiores vobis in sociorum urbibus ac finibus εἰ vinculum pacis et monumentum bell, id vos ab llis acceptum hoc auctores vendetis? ὁ Non si capisce in base a quale ragionamento JonxeRs, Social and Economic Commentary, it, p. 93 possa riferire all'Asia c non alla Sicilia i passo ciceroniano e identificare la victoria con quella di Silla nella prima guerra mitridatica. Giusta mente alla Sicilia legano invece il contesto A. BoutaxceR, Cioéron, Discours IX, Sur la loi agraire, Paris 1952, p.75; J.H. FREE28, Cicero, De lege agraria, London 1956, p. 422 (come già AW. Zuwer, Marcus Tullius Cicero, Orationes tres de lege agraria, Berlin 1861, p. 86). ? Così Fueszz, Cicero, cit, che non escludeva però, checi potesse essere un riferimento “to some recent achievement of Pompeius? Non specificava però quale. Alla vittoria di Manio Aquillio contro Atenione pensa anche G. Betta, Le razioni di M. Tullio Cicerone, IL Torino 1981, p. 586 n.2. 2 Cfr. Cic leg. agr. 2, 30,83: Siciliae civitatibus bell fugitivorum M^ Aquilius etiam mutuum frumentum dedit, ridotti effeti delle guerre servili sulla consistenza del numero di proprietari e agricoltori sono (a dire il vero un po' troppo ottimisti mente) enfatizzati da Cic. Ver. 2, 3, 54, 125. Sulle guerre servili siciliane v. ora L.C. Duwowr, Servus. Rome et l'esclavage sous la république, CEFR 103, Rome 1987, p.197 ss. (con ampi e articolati ragguagli bibliografici); KR. Branury, Slavery and Rebellion in the Roman World, 140 B.C-70 B.C., London 1989, pp. 46-82; e Pixzont, Provincia Sicilia, cit, p. 50 n. 48. 5. Sulla spedizione di Pompeo in Sicilia ci ragguaglia soprattutto Plutarco (Pomp. 10, 1-11, 1, su cui cfr. ora H. Hrrzwta, Plutarch und der Aufstieg des Pompeius: ein historischer Kommentarzu Plutarchs Pompeiusvita, Frankfurt 1995, pp. 104-110) Le altre fonti sono tutte elencate da T.R.S, Boucirow, The Magistrates of the Roman Republic, New York 1954, 2, p.70. Cfr. A. Hou, Storia della Sicilia nell'antichità, t. it. Torino 1896-1901, III, pp. 222 ss.; J. Van Oorzou, Pompéele Grand, batisseur Empire, Bruxelles 1954, pp. 58 ss G. Maxcanano, La provincia romana, in AAWV., Storia della Sicilia, II, Napoli 1979, pp. 443; J. Leaci, Pompey the Great, London-Sidney-Dover 1986^, p. 28 s ; R. SeacER, Pompey, A political Biography, Oxford 1979, 9-10; A. Κελνενεν, Sulla. The Last Republican, London-Canberra 1982, pp. 160; 194; 197; In., Young Pompey, 106-79 B.C, in AC 51, 1982, p. 131; F. Hixano, Sylla Paris 1985, pp. 204 ss; G. Wye, The Genius and the Sergeant. Sertorius versus Pompey, in C. Desoux (ed), Studies in Latin Literature and Roman History, VI, Coll. Latomus 217, Bruxelles 1992, pp. 151-152; e ora Pzone, Provincia Sicilia, ct. p. 192 con n. 67. ? Chi. Βκουοητον, The Magistrates, cit, 2, pp. 67-68. Sfuggito a Pompeo, l'ex governatore raggiunse Sertorio in Spagna. * Sul collega di Mario nel consolato dell82, cfr. BRovGMTON, The Magistrates, it, 2, pp. 65-66. ® Così Cic. de imp. Cn. Pomp. 30: quam multis undique cinctam periculis non terrore belli, sed consili celeritate explicavit Cfr. Hot, Storia dela Sicilia, cit, II, pp. 222 ss. è Proprio perché perdonata Terme mantenne la sua condizione giuridica precedente. Infatti ancora "decumana" nell'età di Verre (Cfr. Cic. Verr.2, 3, 2, 99). Steniosi sarebbe assunte tuttele responsabilità, confessando di avere spinto lui, con la sua grande autorità, i concittadini a seguire la fazione mariana. Pompeo colpito dalla franchezza e dal coraggio perdonò anche lui, che divenne suo cliente ed amico. Che Stenio fosse di Terme risulta da Cic. Verr. 2,2, 34, 83. Per Plutarco è imerese nella Vita di Pompeo, 10, e mamertino altrove (Apopht. Pomp. 2). L'origine (se non anche la cittadinanza) mamertina è attestata con certezza dal nome. Cfr. Pinzoxe, Provincia Sicilia, p. 161. Sul iudicium subito da Stenio, accusato di essere legatoa Mario da rapporti di familiaritas c hospitium, cf. F. Haro, Les proscriptions de la Rome républicaine, CEFR 83, Rome 1985, pp. 64-65. Sui rapporti tra Stenio e Caio Mario (che avrebbe ospitato a Terme), cfr. T.F CARNEY, Cicero's Picture of Marius, in WS 73, 1960, p. 113; I, The Flight and the Exile of Marius, in G&R 8, 1961, p. 111. Sulla presenza di Mario in Sicilia (e in particolare sul monte Erice)v. ora C.F, Konnap, Marius at Eryx (Sallust, P. Rylands 474.1), in Historia 46, 1997, pp. 28-63. 7 Cfr. Plut. Pomp. 10,7. » Cfr Plat Pomp. 10,2. Ὁ Ambiguo giudicava il comportamento di Pompeo in Sicilia (nell'ambito di una azione ritenuta nel complesso non rilevante) C. Lax, Silla e Pompeo, La spedizione di Sicilia e Africa, in Historia 1933, pp. 348 ss. (= in I. Lucio Cornelio Silla dittatore, Stora di Roma negli anni 82-78 .C., Milano 1936, pp. 31 ss.) ™ Plut. Pomp. 10,3. ? Le notizie che dava in proposito il cesariano Caio Oppio (riferite da Plut. Pomp. 10, 4), per quanto di parte possano essere considerate, non possono essere del tutto disattese. Lo stesso Plutarco, nel paragrafo precedente, nel presentarci la sorte subita dal console Carbone ad opera di Pompeo, non può esimersi dal chiamare in ballo la disumana insolenza del vincitore. ? Diod, 38,20. ? CILT, 2710 = ILLRP 387. » Cfr, da ultimo, Pizzone, Provincia Sicilia, ct. p. 192 n. 68. * Esistono dubbi relativamente al tragitto di tale vi, la cui esistenza è attestata dal solo Cicerone (Verr. 2, 5, 66, 169). Andava essa da Messina verso ovest, come vorrebbe, ad es G.P. Vexamuooht, Sicilia, in Itinera romana, 2. Betraege zur Strassengeschichte des roemischen Reiches, Bern 1976, 51? O non piuttosto verso sud, come crede anche G. Ucci I sistema viario ro‘mano in Siciliae le soprawivenze medioevali, in C.D. Fonseca (a cura di), La Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterra nee (Atti del Sesto Convegno Internazionale di Studio sulla civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d'Italia, CataniaPantalica-Ispica, 7-12 settembre 1981), Galatina 1986,p. 88? Sulla via Pompeia v. anche G. MANcAKARO, Per una storia della Sicilia romana, in ANRWI, 1, 1, Berlin - New York 1972, p. 442 s; G. Satuent, Strade greche e romane: il caso della Sicilia, in I. Sicilia romana, Storia e storiografia, Catania 1992, pp. 16 e 25 s, n. 45; e, da ultimo, L. nt Pots, Le vie di comunicazione, in assa Baonasco-De Mino-Przone, Origine e incontri, it, pp. 460s. * Cfr Cic. Font. 6, 14. 7. Su tali presenze, v. ora Pivzonz, L'immigrazione, cit, pp. 387 s. 550

La tematica è stata abbastanza recentemente trattata da Keavexex, Sulla ct, 148 ss; e soprattutto da Haro, Les proseriptions de la Rome républicain, ct, 51 ss 85 s Cic. leg.agr. 1,4, 10-102, 21, 57 © Cfr. a tal proposito Fersany, Rogatio Servlia agraria, ct, p. 142 n. 4; e (per possibili correzioni del copista) p. 153 n. 56 * Zuurr, Marcus Tullius Cicero, cit. p. 9 Cfr. Jonxers, Social and Economic Commentary, it, p. 27. © Cir; Gana, Nota sull rogatio agraria” ct, p.450. “ Sulla posizione politica di Rullo, cr. G.V. Sou, Cicero, Pompeius and Rullus, in TAPA 97, 1966, pp. 569-572. © Cic. lag agr. 1,21, 56. ^^ Alla maniera di quello campano, ad es. recuperatum in publicum dal console Postumio, di cui οἱ parla Liv. 42, 19, 1-2 peril 175 a.C (per cui cf. L. Bove, Ricerche sugli "agr vectigalis" Napoli 1960, p.43; e C. Mor, Archives et partage de la tere dans le monde romain (Il siecle avant - I" siècle après J-C.), CEFR 173, Rome 1993, p. 83). 7 Nelle more della pubblicazione sono venuto a conoscenza di V. Marx, Ager Recentoricus in Sicilia, in GPL 15, 1997, pp. 105-111, un lavoro nel quale, pur partendo dalla comune premessa di una corruttea estuale relativa allaggettivo Recenforicus, οἱ arriva ἃ conclusioni (anche in merito al tema generale dellager publicus siciliano) non del tutto condivisibili.

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ANTONELLA POLITO LUCERNE IN SIGILLATA AFRICANA DALLE CASE ROMANE DI AGRIGENTO

Argomento di questo studio è un gruppo di lucerne in terra sigillata africana, provenienti dagli scavi dell'abitato in Contrada San Nicola ad Agrigento ' Si tratta di esemplari in massima parte inediti", confluiti nella collezione del Museo Archeologico Regionale di Agrigento negli anni della sua inaugurazione”, e rinvenuti nel corso degli scavi degli anni cinquanta, quando fu posta in luce quell'ampia porzione dell'abitato antico di Agrigento convenzionalmente definita Quartiere Ellenistico-Romano‘, Il gruppo di lucerne in esame si compone di 22 esemplari, in gran parte in condizioni frammentarie, dai quali risultano rappresentate le due forme più comuni, ed al tempo stesso più esportate, della produzione africana di lucerne in terra sigillata: 16 esemplari sono riferibili ai tipi più diffusi della serie 4, mentre 6 lucerne appartengono alla forma della "africana classica”, corrispondente alla serie 6 della classificazione del Museo Nazionale Romano’. Le caratteristiche morfologiche delle lucerne appartenenti alla serie 4 sono esemplificate dai grafici alla figura 1: il serbatoio è allungato, con parete a profilo carenato nel punto di congiunzione con la spalla; il becco è allungato, con il canale aperto, in comunicazione con il disco; la spalla ha andamento convesso, è generalmente inclinata verso l'esterno, e presenta una banda decorata profi lata da una solcatura; il disco, di andamento concavo, è nettamente distinto dalla spalla, e munito di uno o due fori per il rifornimento e l'aerazione; l'ansa è verticale, segnata sul dorso da una solcatura longitudinale, e può essere piena o forata; il fondo poggia su un anello appena rilevato, talora profilato da una solcatura, collegato all'ansa da una nervatura larga e appiattita, che può presentare una solcatura centrale, e talora è fiancheggiata da due solcature longitudinali, diritte oppure aperte a ventaglio verso l'ansa. Nel catalogo che segue*, le lucerne sono raggruppate in base alla tipologia di appartenenza all'interno della serie 4. MNR SERIE 4.1.1.1.2.1 (Atlante VIII Ala)”: ansa piena verticale, non sporgente dal serbatoio, segnata da una solcatura longitudinale sul dorso; spalla decorata da un ramo di palma schematizzato; decorazione del disco libera. 1. Inv. AG.591 (tav. 1.1) Mutila dell'estremità del becco. Lungh. cm 10,6; h. cm 5,4. Argilla di colore rosso-arancio (M 2.5 YR 5/8), abbastanza ben depurata, ricca di minuti inclusi micacci, e in minor quantità quarzosi. Vernice di colore rosso-arancio (M 2.5 YR 4/8), spessa, uniforme e brillante; annerita per la combustione durante l'uso in prossimità del becco. Matrice stanca. Piccolo fondo circolare con piede ad anello appena rilevato, collegato all'ansa da una larga nervatura appena rilevata con una solcatura centrale. Decorazione: sul disco è un motivo arilievo illeggibile (forse un animale în corsa). Datazione: secondo venticinquennio del IV ~ metà del VI sec. d.C. 2. Inv. AG.S95 (tav. L4) Mutila del becco. Lungh. cm 8,3; h. cm 5,2. 553

ED

scala 1:2 Fig. 1. Caratteristiche morfologiche della serie 4 (lucerna n. 10).

Argilla di colore arancio chiaro (M 2.5 YR 6/8), non ben depurata e ricca di inclusi micacei e quarzosi. Vernice di colore rosso-arancio (M 10 R 5/8), spessa e lucente, in gran parte scrostata dalla superficie ampiamente erosa. Piccolo fondo circolare, leggermente concavo, la cui circonferenza è segnata da una solcatura profonda, che si apre a ventaglio con tre solchi sulla parete del serbatoio fino all'ansa. Decorazione: sul disco è il chrismon, con l'occhiello della rho a destra, inscritto entro una corona circolare a dentelli* Datazione: 440 - 460/70 d.C. 3. Inv. AG.14413a (tav. L2) Frammento di spalla, disco e parte del serbatoio. Lungh. cm 5,8; h. cm 2,5 Argilla di colore rosso-ara (M 10 R 5/8), ricca di molti piccoli inclusi micacei, e in minor misura di inclusi calcarei. Vernice del medesimo colore dell'argilla (M 10 R 5/8), uniforme e poco lucente. Superficie annerita intorno al foro per il lucignolo per effetto della combustione. Decorazione: sul disco si conserva una palmetta frammentaria. Datazione: secondo venticinquennio del IV - metà del VI sec. d.C. 4. Inv. AG.14413b+AG.14415 (lav. L3) Porzione di spalla, disco e ansa, ricomposta da due frammenti. Lungh. cm 7,8; h. cm 2,4. ᾿ Argilla di colore arancio (M 10 R 6/8), ricca di inclusi micacei e quarzosi. Vernice di colore rosso-arancio (M 10 R 5/8), lucente, sottile e uniforme. 554

Decorazione: sul disco è una figura maschile frammentaria, conservata dalla cintola in giù, volta a destra; indossa una corta veste, il cui panneggio si ferma poco al di sopra delle ginocchia; la mano destra impugna il bastone di un forcone; con il piede sinistro avanzato, la figura sembra rappresentata nell'atto di dissodare il terreno con il suo attrezzo da lavoro. Datazione: secondo venticinquennio del IV - metà del VI sec. d.C.

5. Inv. AG.14416 (tav. 1.7) Mutila di parte del becco, e integrata in gesso colorato. Lungh. cm 11,0; h. cm 4,8, Argilla di colore arancio chiaro (M 2.5 YR 6/8), abbastanza ben depurata, con inclusi micacei. Vernice del medesimo colore dell'argilla, tendente a sfaldarsi. Intorno al becco la superficie è annerita per effetto della combustione durante l'uso. Matrice stanca. Piccolo fondo circolare, con piede ad anello appena rilevato, collegato all'ansa da una larga nervatura appena rilevata, con solcatura centrale. Decorazione: sul disco è appena leggibile la figura di un leone in corsa verso destra”; sul fondo è una croce a rilievo. Datazione: 430/440 - fine del V sec. d.C.

6. Inv. AG.14417 (tav. 15-6) Porzione di serbatoio, con parte di spalla e becco. Lungh. cm 82; h. cm 3,7. Argilla di colore arancio chiaro (M 2.5 YR 6/8), ben depurata, con molti minuti inclusi micacei. Vernice di colore rosso-arancio (M 10 R 5/8), uniforme e poco lucente Decorazione: sul fondo, al centro del piede ad anello poco rilevato, è una croce a rilievo. Datazione: secondo venticinquennio del IV — metà del VI sec. d.C. 7. Senza inventario (tav. L8) Integra, con una lacuna al becco, ed una piccola lacuna al disco. Lungh. cm 10,6; h. cm 5,4. Argilla di colore rosso-arancio (M 10 R 5/8), ricca di inclusi micacei, e in minor quantità quarzosi. Vernice del medesimo colore dell'argilla (M 10 R 5/8), uniforme e lucente, in gran parte crostata. Matrice stanca. Piccolo fondo circolare, con piede ad anello poco rilevato; una nervatura, con solcatura centrale, collega il piede all'ansa, più stretta all'attacco con il piede, e più larga presso la base dell'ansa. Decorazione: sul disco è la figura probabilmente di un leprotto in corsa volto a sinistra, poco leggibile c frammentaria. Datazione: secondo venticinquennio del IV — metà del VI sec. d.C. MNR

SERIE 4.1.1.1.2.3 (Atlante VIII AIc) *: ansa verticale piena, segnata da una profonda solca-

tura longitudinale sul dorso; spalla decorata da un ramo di palma schematizzato; decorazione del disco a pianta centrale. 8. Inv. AG.14408 (tav. Π.1-2} Mutila di gran parte del serbatoio e del becco. Lungh. cm 5,8; h. cm 4,9. Argilla di colore arancio (M 2.5 YR 6/8), abbastanza ben depurata, con numerosi inclusi micacei e quarzosi. Vernice del medesimo colore dell'argilla, sottile e uniforme, quasi matta, tendente a fondersi con il corpo ceFondo circolare, la cui circonferenza è segnata da un solco bene impresso; tre solchi aperti a ventaglio si allungano sul serbatoio, collegando il fondo all'ansa. Decorazione: sul disco è un rosone frammentario, di cui si conservano sei degli otto petali con doppio contorno, intorno al foro di alimentazione in posizione centrale; sul fondo è impresso un ramo di palma frammentario. Datazione: seconda metà del IV - seconda metà del V sec. d.C. 555

MNR SERIE 4.1.1.1.3.1 (Atlante VIII Aa)": ansa piena, con solcatura longitudinale; spalla decorata da incisioni; decorazione del disco libera.

9. Inv. AG.14410 (tav. 1.9) Frammento di spalla e disco. Lungh. cm 5,3; h. cm 1,9 Argilla di colore arancio chiaro (M 2.5 YR 6/8), ricca di minuti inclusi micacei e quarzosi, e in minor misura di inclusi calcarei e di colore bruno e bruno rossiccio. Vernice di colore arancione, leggermente più scura dell'argilla (M 2.5 YR 6/8), lucente, sottile e uniforme, tendente a fondersi con il corpo ceramico. Decorazione: sulla spalla è una banda profilata da una solcatura, al cui interno sono impresse ripetutamente larghe e rozze incisioni oblique; sul disco è una figura frammentaria di volatile, di cui si conserva la coda, le lunghe zampe, e la parte inferiore del corpo, entrambe ornate da globetti impressi (forse uno struzzo). Datazione: primo venticinquennio del V — metà del VI sec. d.C. 10.Inv. AG.593 (tav. IL4-5) Integra, con un’ampia lacuna tra spalla cserbatoio. Lungh. cm 11,7; h. cm 4,9. Argilla di colore arancio chiaro (M 2.5 YR 6/8), ben depurata, con minuscoli inclusi micacei. Vemnice di colore arancio, leggermente più scura del corpo ceramico (M 10 R 5/8), spessa, lucente e uniforme, parzialmente scrostata sul fondo. Fondo circolare ad anello appena rilevato, circondato da una solcatura, che si apre con un ventaglio di tre solchi lungo il serbatoio fino all'attacco dell'ansa. Decorazione: sulla spalla è una banda profilata da una solcatura, al cui interno si ripetono coppie di incisioni oblique alternate ad incisioni trasversali; sul disco è una colomba a rilievo, volta a sinistra, con il corpo decorato da globetti impressi ed una lunga coda; sul fondo è impresso il marchio B, Datazione: primo venticinquennio del V - metà del VI sec. d.C.

MNR SERIE 4.1.1.1.3.3 (Atlante VIII A2b)*: ansa verticale, piena oppure forata, segnata sul dorso da una solcatura longitudinale; spalla decorata da larghe incisioni oblique bene impresse; decorazione del disco a pianta centrale. 11.Inv. AG.14102 (tav. 11.3) Frammento di spalla e disco, con ansa integra. Lungh. cm 5,8; h. cm 4,9. Argilla di colore giallo-arancio (M 2.5 YR 7/8), ben depurata, con minuscoli inclusi micacei. Vernice di colore arancio, simile al corpo ceramico, ma resa irregolarmente bruna per effetto di combustione (estranea all'uso della lucerna); sottile e uniforme, quasi matta, tendente a fondersi con l'argilla del corpo ceAnsa piena. Decorazione: sul disco si conservano parzialmente tre petali con campitura interna rilevata, appartenenti ad un rosone frammentario", disposto intorno al foro di alimentazione in posizione centrale. Datazione: entro il V sec. d.C. 12.Inv. AG.14414 (tav. 11.6) Porzione di spalla e ansa. Lungh. cm 4,7; h. cm 3,9. Argilla di colore arancio chiaro (M 2.5 YR 6/8), ricca di minuti inclusi micacei e quarzosi. Vernice di colore rosso-arancio (M 10 R 5/8), sottile e uniforme, quasi matta, tendente a fondersi con il corpo ceramico. Ansa forata. Decorazione: sulla spalla è una banda, delimitata verso il serbatoio da una doppia solcatura, ornata da larghe incisioni oblique, fitte e bene impresse; sul disco si conservano i resti estremamente frammentari del petalo di un rosone". Datazione: entro il V sec. d.C. 556

MNR SERIE 4.1.1.1.4.1 (Atlante VIII B)'*: ansa verticale forata, segnata da una solcatura longitudinale sul dorso; spalla decorata da tralci; decorazione del disco libera. 13.Inv. AG.14409 (tav. 11.7) Porzione di spalla, disco c ansa. Lungh. cm 5,6; h. cm 3, Argilla di colore arancio chiaro (M 2.5 YR 6/8), ben depurata, con inclusi micacei. Vernice di colore arancione, leggermente più scura del corpo ceramico (M 2.5 YR 6/8), quasi matta, sottile e uniforme. Decorazione: sul disco si conserva una testa maschile barbata, di profilo volta a sinistra, con i capelli trattenuti da una benda e un modium sul capo. Datazione: V sec. d.C. 14. Inv. AG.14411 Porzione di spalla e ansa. Lungh. cm 6,8; h. cm 4,1 Argilla di colore arancio chiaro (M 2.5 YR 6/8), ben depurata, con inclusi micacei. Vernice arancione, leggermente più scura del corpo ceramico (M 2.5 YR 6/8), poco lucente, sottile e uniforme. Datazione: V sec. d.C. 15.Inv. AG.14421 (tav. IL8) Porzione di spalla, serbatoio e ansa. Lungh. cm 6,5; h. cm 34. Argilla di colore arancio chiaro (M 2.5 YR 6/8), abbastanza ben depurata, ricca di inclusi micacei. Vernice dello stesso colore dell'argilla (M 2.5 YR 6/8), sottile, uniforme e poco lucente. Si conserva una piccola porzione del piede ad anello appena rilevato, collegato all'ansa da una nervatura con solcatura longitudinale. Decorazione: sul disco sono i resti frammentari e illeggibili di un motivo arilievo. Datazione V sec. d.C. MNR SERIE 4.1.1.1.4.2 (Atlante VIII B)"': ansa piena verticale, segnata sul dorso da una solcatura centrale; spalla decorata da tralci; decorazione del disco a pianta centrale; disco rotondo di andamento accentuatamente concavo, con foro di alimentazione centrale '*,

16.Inv. AG.14412 (tav. 1.9) Ansa e porzione di spalla e disco. Lungh. cm 5,9; h. cm 3,2. Argilla di colore arancio chiaro (M 2.5 YR 6/8), ricca di minuti inclusi micacei, e, in minor misura, di inclusi calcarei Vernice di colore arancio (M 2.5 YR 6/8), quasi matta, e quasi totalmente abrasa. Decorazione: sul disco è un rosone frammentario, di cui si conservano cinque petali con campitura interna rilevata Datazione: V sec. d.C.

Le lucerne della serie 6 sono tutte riferibili al tipo diffusissimo della cosiddetta "africana classica" (fig. 2): il serbatoio è meno allungato e più tondeggiante, con la parete a profilo arrotondato; il becco, allungato e ἃ canale aperto, è ben distinto dal serbatoio; la spalla è nettamente distinta dal disco, appiattita e leggermente inclinata all'interno, con una banda ben definita decorata a rilievo; sul disco, di andamento concavo e di forma leggermente allungata, si aprono generalmente due fori; l'ansa è piena, obliqua e sporgente posteriormente dal serbatoio; il fondo presenta un piccolo piede ad anello appena rilevato, unito all'ansa da una nervatura. 557

scala 1:2 Fig. 2. Caratteristiche morfologiche della serie 6 (lucerna n. 17). MNR SERIE 6.1.1.1 (Atlante X Ala):

17.Inv. AG.594 (tav. TIL3) Mutila dell'estremità del becco. Lungh. cm 11,9;h. cm 4,9. Argilla di colore arancio chiaro (M 2.5 YR 6/8), ricca di inclusi quarzosi, micacei e calcarei, e di piccoli inclusi di colore bruno. Vemnice di colore rosso-arancio (M 2.5 R 5/8), semibrillante; in gran parte abrasa, si conserva soprattutto sulla spalla e sul disco. Intorno al becco tracce della combustione. Decorazione: sulla spalla si ripete il motivo di un triangolo gemmato, allineato con i vertici alternati; sul disco è una croce latina gemmata, ornata da medaglioni con la raffigurazione dell'Agnus Dei; ai piedi della croce è una foglia cuoriforme gemmata, con il vertice rivolto verso il becco”. Datazione: fine del V - VII sec. d.C. 18.Inv. AG.14427 (tav. IIL4) Porzione di spalla, serbatoio, fondo e ansa. Lungh. cm 8,8; h. cm 3,9. Argilla di colore arancio acceso (M 10 R 6/8), di aspetto leggermente poroso; ben depurata, con pochi inclusi quarzosi e micacei. Vernice di colore arancio acceso (M 10 R 6/8), lucente e uniforme. Decorazione: sulla spalla si alternano ripetutamente doppie volute gemmate? e triangoli a contorno multiplo*. Datazione: seconda meta del V sec. d.C. 558

19.Inv. AG.14428 (tav. TILS) Spalla c parte di ansa. Lungh. cm 6,8; h. cm 3,0, Argilia di colore arancio (M 10 R 5/8), ricca di inclusi in massima parte quarzosi, in minor misura micacei e di colore bruno, e in minima parte calcare. Vernice di colore arancio (M 10 R 5/8), quasi matta. Decorazione: sulla spalla si alternano ripetutamente quadrati gemmati e cerchi concentrici con campitura araggi. Datazione: inizi del V - VII sec. d.C. 20.Inv. AG.14429 (tav. IIL6) Disco, spalla, ansa e parte del becco. Lungh. cm 9,3; h. cm 2,2. Argilla di colore rosso-arancio (M 10 R 5/8), poco depurata e ricca di inclusi quarzosi, calcarei, micacei, e di colore bruno. Vernice di colore rosso-arancio (M 10 R 5/8), poco lucente e in gran parte abrasa. L'estremità del becco è annerita dalla combustione. Matrice stanca. Decorazione: sulla spalla si alternano motivi vari, parzialmente leggibili a causa dell'usura della matrice e della lucerna stessa: si distinguono una lepre in corsa”, un cardioide, un pesce e una rosetta quadrilobata; sul disco sono due pesci", affiancati longitudinalmente ai lati del foro centrale di alimentazione, un cardioide a contorno gemmato” all'inizio del canale, e una rosetta quadrilobata? tra le teste dei pesci presso l'ansa. Datazione: seconda metà del V — inizi del VI sec. d.C. 21.Inv. AG.14430 (tav. TIL7) ‘Ansa, spalla e parte del disco. Lungh. cm 6,1; h. cm 2,9. Argilla di colore arancio (M 10 R 6/8), ricca di inclusi quarzosi, micacei, calcarei e di colore bruno. Vernice di colore rosso-arancio (M 10 R 5/8), matta. Matrice stanca (soprattutto per i motivi della spalla). Decorazione: sulla spalla si ripetono motivi triangolari, con i vertici variamente orientati; sul disco si conserva la metà posteriore di un cane stante, volto a sinistra, con il corpo campito a globetti c nervature arilievo. Datazione: inizi del V - VII sec. d.C. 22.AG.14431 (tav. IIL8) Ansa, spalla, disco e parte del canale e del becco. Lungh. cm 9,4; h. cm 3,0. Argilla di colore grigio-marrone (M 5 YR 5/3) per effetto di una combustione estranea all'uso della lucerna; l'impasto è ricco di inclusi quarzosi, e presenta in minor misura inclusi calcarei. Vernice di colore bruno-grigiastro per effetto di combustione; sul fianco della spalla si conserva il colore arancione originario, poco lucente. Matrice stanca (soprattutto per i motivi della spalla). sul disco Decorazione: sulla spalla si ripetono foglie cuoriformi gemmate, con i vertici variamente orientati; è una lepre in corsa verso sinistra, con il capo retrospiciente, il cui corpo è campito con globetti a rilievo. Datazione: inizi del V-VII sec. d.C.

Le caratteristiche morfologiche sono gli elementi distintivi più evidenti delle due forme di lucerne in sigillata africana presenti nell'abitato, ma anche le caratteristiche tecniche, nonché quelle pertinenti al repertorio decorativo, riconducono a due gruppi distinti. Le lucerne della serie 4 sono caratterizzate in linea di massima da un corpo ceramico di aspettoe compatto, realizzato con un’ argilla accuratamente depurata, che ad una prima analisi generalmentlumostra soltanto minuscoli inclusi micacei e, in minor quantità, quarzosi; la vernice è uniforme, cente e sottile, a volte tendente a fondersi con il corpo ceramico. Diversa è la qualità dell'argilla impiegata per le lucerne della serie 6, alla quale un processo di de559

purazione meno accurato conferisce un aspetto poroso, e decisamente più rozzo per la considerevole quantità di inclusi di varia natura (quarzosi, micacei, calcarei) Le lucerne della serie 4 sono tecnicamente ricollegabili al vasellame in sigillata africana delle ultime fasi della produzione C (C3, C4), geograficamente localizzata nella Byzacena, anche se non risulta provato che la produzione delle lucerne sia avvenuta nelle medesime officine del vasellame. Le caratteristiche del corpo ceramico delle lucerne della serie 6, invece, trovano riscontro nella produzione D del vasellame in sigillata africana, geograficamente localizzata nella Zeugitana. In particolare la stretta relazione esistente tra il repertorio decorativo di tale vasellame da mensa e quello ricorrente sulle lucerne africane classiche conferma l'ipotesi di officine comuni, dal momento che i medesimi punzoni venivano impressi sul fondo di scodelle e coppe e contemporancamente sulle matrici delle lucerne, con il risultato che i motivi incisi a stampo sul fondo del vasellame ricorrono ἃ rilievo sulle lucerne. Soltanto un esemplare della serie 6 (cat. n. 18) presenta caratteristiche tecniche confrontabili con quelle della serie 4: tale dato trova un riscontro nelle considerazioni di J.W. Hayes, il quale distingue due sottotipi della “africana classica” in base alle peculiarità dell'impasto". l'esemplare in questione apparterrebbe ad una prima fase di produzione della lucerna "africana classica”, legata all'attività delle officine della Byzacena*. Anche il repertorio dei motivi decorativi forma due raggruppamenti distinti e bene individuati, corrispondenti alle due serie, sia perla scelta dei soggetti che per lo stile. Nelle lucerne della serie 4 è evidente una maggiore attenzione all'ornamentazione del disco rispetto a quella della spalla. Gli elementi decorativi di quest' ultima si limitano a serie di incisioni oblique, a tralci continui, oppure al ramo di palma stilizzato, che rappresenta il motivo di gran lunga più frequente (fig. 3, 1-4). Notevolmente più varia è la decorazione del disco, ispirata a motivi vegetali, zoomorfi ed anche antropomorfi. Lo stile di tali soggetti è caratterizzato da una resa naturalistica e plastica, per quanto sommaria, confrontabile con quella delle decorazioni a rilievo applicato del coevo vasellame in sigillata africana C. Sugli esemplari n. 8, 10 e 11, ricorre il motivo del rosone, i cui petali, disposti intorno al foro centrale di alimentazione, occupano interamente lo spazio circolare del disco (fig. 3, 5-6). Probabilmente come palmetta è da interpretare il motivo frammentario presente sulla lucerna n. 3 (fig. 3, 7). Al mondo animale si ispirano la colomba sulla lucerna n. 10 (fig. 3, 8), la figura frammentaria di un volatile dalle lunghe zampe e dalla grossa coda piumata sulla lucerna n. 9 (fig. 3, 9), forse da interpretare come struzzo, ed infine la figura del leone in corsa sulla lucerna n. 5, che trova un preciso confronto con un motivo a rilievo applicato ricorrente sul vasellame coevo in sigillata africana”. I motivi antropomorfi ricorrono sulle lucerne n. 4 e n. 13, purtroppo entrambi frammentari. Sulla lucerna n. 4 si conserva la porzione inferiore di una figura umana in movimento verso destra (fig. 3, 10): l'uomo indossa una corta veste, il cui panneggio si ferma poco al di sopra delle ginocchia; la mano destra impugna il lungo manico di un forcone; il piede sinistro è avanzato, evidentemente per bilanciare il peso del busto, che doveva essere piegato in avanti. Tale raffigurazione corrisponde ad una iconografia familiare in ambiente nord-africano, in relazione con le rappresentazioni di lavori campestri. Un riferimento iconografico proponibile è il pannello con i lavori di zappatura del mosaico del Maestro dei Lavori Campestri di Cherchel, in Algeria, datato in una fase avanzata dell'età severiana™. Molto simile alla figurina della lucerna nel mosaico è lo schema iconografico del contadino piegato in avanti, verso sinistra, nell'atto di affondare la zappa nel terreno, con il piede destro avanzato, e con il panneggio della corta veste agitato dal movimento al di sopra delle ginocchia. Sulla lucerna n. 13 si conserva una testa maschile barbata di profilo, volta a sinistra, con i capelli trattenuti da una grossa benda e sormontati da un copricapo cilindrico ad anelli sovrapposti (fig. 3, 11). Sembra trattarsi di un'iconografia ancora di valenza pienamente pagana, da identificare come la rappresentazione di Serapide per la presenza del modium , caratteristico attributo del dio con riferimento alla fertilità, associato al cercine, attributo tipico di Asclepio”, dei cui poteri terapeutici è partecipe anche l'eclettico dio di origine alessandrina™. 560

11

Fig. 3. Elementi decorativi della serie 4. 561

scala 1:1 Fig. 4. Elementi decorativi della serie 6.

Raramente vengono adottati simboli con valenza esplicitamente cristiana: su un solo esemplare dal Quartiere Ellenistico-Romano è presente il chrismon, nella forma del monogramma costantiniano”, inscritto all'interno di un cerchio dentellato ©. Lineare e disegnativo è lo stile decorativo sulle lucerne della serie 6, confrontabile con quello delle decorazioni a stampo del vasellame in sigillata D.

Notevolmente accurata è l’ornamentazione della spalla piatta, sulla quale appaiono ripetuti, o alternati in serie, piccoli motivi puramente decorativi, di ispirazione geometrica, vegetale, o anche

zoomorfa. Sulle lucerne dal Quartiere Ellenistico-Romano le decorazioni della spalla non sono sempre facilmente leggibili, generalmente a causa dell'eccessiva usura della matrice. Sono comunque

identificabili i seguenti motivi, i quali tutti trovano riscontro più o meno puntuale con le decorazioni impresse a stampo sul vasellame in sigillata africana: tra i motivi geometrici sono il triangolo a con-

torno multiplo, il triangolo ed il quadrato gemmati, ed i cerchi concentrici con campitura interna a la foglia d' edera gemmata (fig. 4, 5-7); i motivi zoomorfi sono rappresentati da un pesce e da una piccola lepre in corsa verso sinistra (fig. 4, 9-10). Tl disco è generalmente occupato da figure di animali: si conserva parzialmente il motivo di un cane (fig. 4, 11), identificabile come tale grazie al confronto puntuale su materiale edito‘; integra è raggi (fig. 4, 1-4); di ispirazione vegetale sono la doppia voluta gemmata, la rosetta a quattro petali, e

Ja figura di una lepre in corsa verso sinistra, con il capo retrospiciente (fig. 4, 12)*; appaiati in senso

longitudinale, sono due cuore gemmato (fig. 4, gemmata, che presenta Per quanto riguarda 562

pesci (fig. 4, 10), accompagnati da una rosetta quadrilobata e da un piccolo 8). In un solo caso è presente il simbolo esplicitamente cristiano della croce sull'asse verticale tre tondi con la raffigurazione dell'Agnus Dei (fig. 4, 13). la valenza simbolica delle decorazioni, il dibattito rimane aperto tra le oppo-

E ++ È Fig. 5. Motivi sul fondo delle lucerne della serie 4.

ste posizioni degli studiosi, che da una parte hanno creduto di poter individuare in maniera sistematica il significato religioso di tutti i motivi“, e dall'altra tendono piuttosto a limitare tale valenza soltanto ai simboli esplicitamente cristiani, come la croce ed il chrismon, o a quegli animali che in epoca paleocristiana manifestamente si caricavano già di un preciso significato cristologico. Le altre raffigurazioni, generalmente legate al mondo animale, sarebbero da considerare elementi essenzialmente decorativi, e privi di significato religioso, singolarmente estrapolati da composizioni più complesse, generalmente costituite dalle scene di caccia raffigurate su opere musive, pittoriche o scultoree, giunte ai ceramisti attraverso la mediazione di opere artistiche minori (oreficerie, vasi in metallo, avori) * In realtà, a prescindere dai motivi di contenuto pagano ricorrenti ancora sulle lucerne della serie 4, c assenti su quelle della serie 6, e considerando il valore puramente decorativo delle piccole decorazioni geometriche e vegetali, generalmente le raffigurazioni sul disco sembrano portatrici di un preciso messaggio legato alle diffuse allegorie della predicazione, che stanno alla base del simbolismo cristiano. Sulle lucerne dal Quartiere Ellenistico-Romano simboli esplicitamente cristiani sono il monogramma di Cristo e la croce gemmata, ornata da medaglioni con la figura dell'agnello, nel quale i vangeli indicano il simbolo di Cristo come vittima espiatoria dei mali del mondo. Carica di un significativo messaggio simbolico è anche l'immagine del pesce, legato all'acqua del battesimo come elemento di rigenerazione spirituale, c nel cui nome i fedeli riconoscevano il ben noto acrostico Ἰησοῦς Χριστός Got Yiós Xuxrjo**. La colomba, oltre a simboleggiare lo Spirito Santo, per i primi cristiani rappresentava l'anima libera dai legami del corpo, come testimoniano le innumerevoli iscrizioni funerarie, che paragonano la colomba all'anima del defunto. Più incerta appare la valenza simbolica della lepre, che potrebbe esprimere la brevità della vita umana attraverso la caratteristica rapidità della sua corsa. Un problema, che sembra destinato a rimanere irrisolto, riguarda l'interpretazione di alcuni motivi sul fondo delle lucerne della serie 4. Sulle lucerne in esame in un caso è presente il ramo di palma impresso; su due lucerne è una croce a rilievo; e soltanto in un caso si legge la lettera B incisa (fig. 5). Nel caso del ramo di palma e delle croci si tratta di elementi già presenti nella matrice, mentre la lettera B sembra incisa sul fondo prima della cottura‘. Gli studiosi si dividono tra le ipotesi che si tratti di elementi ornamentali, forse anche con valore simbolico, oppure che siano da interpretare come marchi di fabbrica. Per quanto riguarda i primi due motivi sarebbe sostenibile anche la valenza simbolica, evidente non soltanto nel caso della croce, ma anche in quello della palma, simbolo già pagano della vittoria, che in ambiente cristiano conserva ed esalta il proprio significato in relazione al martirio. Non appare sostenibile tale interpretazione nel caso della lettera B, che sembra connotarsi, piuttosto, come marchio di fabbrica^. In effetti, le lucerne in sigillata africana sono generalmente prive di marchi di fabbrica, ad eccezione dei motivi e delle lettere talora ricorrenti sul fondo delle lucerne della serie 4. Tuttavia l'utilizzo dei marchi di fabbrica non è estraneo a tutte le produzioni di lucerne di età cristiana: un esempio corposo è quello della produzione attica di lucerne tra il II e il VI sec. d.C., su gran parte delle quali è il nome del ceramista per intero, abbreviato a volte fino alla sola iniziale, e talora 563

associato a rami di palma o a cerchi concentrici, o addirittura da essi sostituito®. Un simile esempio non consente di escludere, dunque, anche nel caso delle lucerne africane, che questi motivi, per quanto carichi di una valenza simbolica o di un carattere ornamentale, abbiano comunque una relazione con l'organizzazione del lavoro nelle officine. Ancora qualche considerazione di un certo interesse riguarda la cronologia delle lucerne provenienti dal Quartiere Ellenistico-Romano, e l'abbondanza delle lucerne della serie 4, le cui attestazioni all'interno di tale gruppo prevalgono nettamente su quelle della serie 6. La cronologia di 10 lucerne su 22 non supera la fine del V secolo; altre 8 non superano il VI secolo; mentre soltanto 4 si distinguono per una datazione che si può spingere fino al VII sec. d.C. Da questi dati quantitativi e cronologici sembra di poter ricostruire un quadro delle importazioni delle lucerne africane ad Agrigentum, secondo il quale il commercio più ricco si sarebbe svolto nel corso del V secolo, seguito da un leggero declino nel corso del VI, e da un netto calo a partire dal principio del VII secolo. Un quadro analogo si ricava dal calcolo in percentuale delle attestazioni relative ai due diversi gruppi di lucerne: il 73% riguarda la serie 4, ed il restante 27% la serie 6 In base ai dati generali di produzione e di diffusione delle lucerne africane, ci si aspetterebbe un rapporto di percentuale invertito rispetto a quello ricavato dall'analisi delle attestazioni agrigentine. Già nella seconda metà del V secolo, infatti, sul piano quantitativo la produzione delle lucerne della serie 4 inizia a diminuire in favore di quella della serie 6*; inoltre, già a partire dalla prima metà del VI secolo, la circolazione delle lucerne della serie 6 mostra una diffusione molto più capillare e quantitativamente molto più rilevante rispetto alla serie 4. Anche in Sicilia le attestazioni relative alla lucerna africana classica risultano in generale più ricche rispetto ai tipi della serie più antica *. Si ricava, dunque, un quadro delle attestazioni anomalo rispetto alle condizioni generali di produzione e di distribuzione delle lucerne africane. Non è improbabile che le ragioni di tale anomalia siano da ricercare nella condizione di generale decadenza economica della città antica, che solo in parte è da imputare alle conseguenze degli assalti vandalici*, ma che è piuttosto da inserire sullo sfondo di quel fenomeno, ben più ampio, del progressivo abbandono dei centri urbani a favore del popolamento delle campagne, fenomeno che invest il territorio agrigentino, come tutto il resto della Sicilia, nel corso degli ultimi secoli dell’ impero romano*. L'indizio in tal senso, fornito dallo studio del gruppo delle lucerne africane, rimane al momento una semplice ipotesi di lavoro, suscettibile di una verifica e di un più ampio approfondimento, entrambi legati ai risultati dello studio globale di tutte le classi di materiali provenienti dagli scavi dell'abitato di Agrigento Ottobre 1997 NOTE * Ringrazio il Direttore del Museo Archeologico Regionale di Agrigento, Dott.ssa Graziella Fiorentini, ed il Prof. Ernesto De Miro, che ha curato le operazioni di scavo nell'area dell'abitato, per avere autorizzato lo studio dei materiali qui presentati. Ringrazio, ancora, i tecnici del Museo per avere agevolato le operazioni di studio dei materiali, i fotografi Sigg.ri Pitrone e Nocito perle riprese fotografiche, ed il Sig. Polito per le relative stampe. * È stata data notizia, con la relativa documentazione fotografica, di tre di queste lucerne in R.M. Boacasa Cana, Agrigento paleocristiana, Palermo 1987, p. 34, tav.4 ? Le lucerne sono attualmente custodite nella Sala 7 del Museo, dedicata appunto al Quartiere Ellenistico Romano, in parte esposte nella vetrina 72, ed in parte nel cassetto della medesima vetrina. * E. Dz Mino, [I Quartiere ellenistico-romano di Agrigento, in RAL 1957, pp. 135-140; In., Agrigento paleocristiana e bizantina, in FR CXIX-CXX, 1980, pp. 169-171, * Per l'identificazione dei tipi si farà costante riferimento alla più recente classificazione, elaborata nel catalogo delle lucerne del Museo Nazionale Romano: M.R. Baxera-R. Perwiacct, Le lucerne tardo-antiche di produzione africana, Roma 1993. Partendo dall'esperienza dell'Arlante (L. ANSeLMiNo-C. Pavoun Terra sigillata: lucerne, Atlante delle forme ceramiche, vol. I, Enciclopedia dell'Arte Antica Classica e Orientale, Roma 1981, pp. 184-207) è stata realizzata una classificazione più funzionale, com un sistema a struttura aperta, che consente l'eventuale inserimento di nuovi tipi non ancora classificati. * Le caratteristiche distintive di ogni singolo tipo sono indicate nella breve nota descrittiva di introduzione ad ogni gruppo, mentre la descrizione all'interno del catalogo si limita alle peculiarità del singolo esemplare. 564

? MR Barsera-R, Perucci, Le lucerne tardo-antiche, cit. p. 27. * Ibid. p. 374, tav. 17, motivo 207. * Cir. ibid. p. 380, tav. 22, motivo 304 B. ? Ibid., pp. 4748. τι Ibid, pp. 57-58. * Ibid, p.78. ? Ibid. p. 367, tav. 13, motivo 103, μι Con Tunica differenza dell'ansa forata, l'esemplare trova un confronto locale nella lucerna in sigillata africana rinvenuta ad Agrigento nella necropoli Giambertone, sulle pendici della collina dei templi, immediatamente al di fuori della cinta muraria. A. Saunas, Girgenti. Necropoli Giambertone a S. Gregorio, in NSA 1901, p. 36, fig. 6. ^5 Anche per questo esemplare vale il confronto sopra indicato, identico anche nella caratteristica dell'ansa forata. “ MR. BaraERA-R. PETRIACGI, Le lucerne tardo-antiche, cit, p. 83. ? Ibid. p.83. ™ Si propone qui una ulteriore divisione della serie 4.1.1.1.4 della classificazione del Museo Nazionale Romano, distinguendo il tipo con decorazione del disco libera (4.1.1.1 4.1) dal tipo con decorazione del disco a pianta centrale (4.1.1.1.4.2), documentata da un esemplare ad Agrigento. ! ΜΆ. BagneRA-R. PETRIACGI, Le lucerne tardo-antiche, cit. p. 367, tav. 13, motivo 103, » Ibid, p. 159. κι Ibid. p. 376, tav. 19, motivo 212. ? Ibid, p. 371, tav. 15, motivo 123. ? Ibid, p. 363, tav. 12, motivo39. 5 Ibid. p. 359, tav. 11, motivo 18. » Cfr. L. Ansriaayo-C. Pavounu, Atlante, cit, p. 126, tav. LVII (a), 1, motivo 61. 7 MLR. Barpera-R. Pertmucot, Le lucere tardo-antiche, cit, p. 381, tav. 23, motivo 307. 7 Ibid., p. 386, tav. 27, motivo 327 B. 5 Ibid,p. 362, tav. 12, motivo35. » Ibid, p. 368, tav. 14, motivo 107 A. » In assenza di dati concreti di scavo, l'ostacolo maggiore per l'attribuzione alle medesime officine della produzione sia del vasellame che delle lucerne, è rappresentato dalle scarse relazioni individuate tra il repertorio decorativo del vasellame in sigillata africana C3 e C4 e quello delle lucerne della serie 4. M.R. Barbera-R. Petriaggi, Le lucerne tardovantiche, cit. p. 421 ss. ?! LN. Haves, Late Roman Pottery, London 1972, p. 311 (type ILE). © MR. Barger, Perincot, Le lucere tardo-antiche, cit, p. 422. » Ne esistono esempi anche su materiali rinvenuti in Sicilia: C.Voza Prerzowe, Ceramica tardo-imperiale nella Sicilia orientale, in ACNACT, 1971, p. 466, fig. 3; G.V. Gextts, Piazza Armerina-Grandiosa villa romana in contrada “Casale”, in NSA 1950, 7.293, fig. 1; In, La Villa romana del Casale di Piazza Armerina, in ACNAC I, 1971, p.180, tav. XXIX. ?' Nel secondo decennio del III sec. d.C. (W. Doxsco, Pittura tardo-romana, Milano 1966, p.73 ss, fig. 50). ? Sarebbe improponibile pensare che i ceramisti si siano ispirati direttamente ad opere di grande respiro come i tappeti musivi, ma la mediazione di singoli temi iconografici era sicuramente garantita dalla circolazione di opere di arte minore e di artigianato artistico. * L'insolita rappresentazione del modium ad anelli sovrapposti trova confronto nella decorazione di un anello in alabastro del Musco di Alessandria, dove analoga è la resa di tale attributo su una testa di Zeus Ammone (A. Apwuaxt, Repertorio d'Arte dell'Egitto Greco-Romano, serie A, vol. Il, n. 176, fig. 276). 5 G. Capuro-G. Taaversai, Le sculture del teatro di Leptis Magna, Roma 1976, p. 63, tav. 38. » Sebbene l'iconografia rimanga priva di confronti sulle lucerne africane finora pubblicate, non stupisce comunque la presenza di Serapide; è nota, infatti, la raffigurazione di Iside, divinità strettamente legata a Serapide, su lucerne africane della serie 6 (MLR. BarneRA, Lucerne africane nel Museo Nazionale Romano: riflessioni su iconografia e ideologia, in Opus IV, 1985). > Questo tipo particolare di monogramma fa la sua prima comparsa in età costantiniana, negli anni 320-324 d.C., nel periodo in cui viene emanata una serie di leggi che conferiscono sempre maggiore libertà e potenza alla chiesa cristiana, F. Camror-H. LecurRco, Dictionnaire d' Archéologie Chrétienne et de Liturgie, vol IL.1, 1948, coll 1493-94. “ L'inserimento del monogramma di Cristo all'interno di un cerchio o di una corona simboleggia il trionfo di Cristo sul male, eil dominio di Dio sul mondo. F. Casgot-H. Lrctseco, Dictionnaire, cit. vol. ΤΠ.1, 1948, col. 1501. “i A. Enwaats, Lampes chretiennes de Tunisie, Paris 1976, p. 107, tav. XXI, n. 417; E. Joy, Luceme del Museo di Sabratha, in Monografie di Archeologia Libica XI, Roma 1974, tav. XLIX, n. 1181; S. Smssontaw, Lamps from Carthage in the Kelsey Museum, in Excavations at Carthage 1975, Ann Arbor 1978, p. 233, pl. 6, n. 51. ‘© Tl motivo trova un confronto preciso sul disco di una lucerna del Museo di Sabratha. E. Jovy, Lucerne, cit. tav. XLIX, n.117. ‘© Tra le attestazioni dall'abitato sono assenti le lucerne con soggetti narrativi più complessi, ispirati a brani delle sacre scritture, che si diffondono sul vasellame e sulle lucerne africane a partire dalla metà del VI secolo. * Daarme, Lampes chretiennesde Carthage, Lille 1890. © A. Envants, Lampes chretiennes, cit. a proposito dei motivi decorativi. * F. Canmor-H. Lecienco, Dictionnaire, ci., vol. XV.2, 1953, coll. 1782-1785. 565

© L'incisione prima della cottura potrebbe essere l'indizio di un segno di controllo della produzione dei singoli artigiani all'interno di una medesima officina. D.M. BulLzy, A catalogue of the lamps in the British Museum II, London 1980, p. 89 ss. * MR. Barwin.R. PerRuGGI, Le lucerne tardo-antiche, cit, pp. 154-157. * Contrario è il parere di E. Joly, la quale, considerando come le lucerne cristiane siano sempre prive di firme, rifiuta Ii potesi del marchio di fabbrica. E. JoLy, Lucerne, cit, p. 51 7 1. PerL2WEIO, Lamps of the Roman period, The Athenian Agora VII, 1961, p. 26 55. 51 L. Axselumo, A proposito delle lucerne romane di Cartagine, in Opus 1983, ILI, pp. 31-41. 5. A tal proposito, si vedano le carte di distribuzione elaborate da Pavolini in relazione alle lucerne di forma Atlante VIII e x: C. Pavount, Considerazioni sulla diffusione delle lucerne in tera sigillata prodotte in Tunisia, in Opus 1983, ILI, pp. 43-51. *» Tracce della distruzione violenta operata dal sacco di Genserico del 440 sono state rintracciate in diverse aree della zona archeologica: R.J.A Wi1s0x, Sicily under the Roman Empire, London 1990, pp. 330-337; R.M. Caza Boxacasa, Agrigento. La Necropoli sub divo, Roma 1995 (la necropoli sub divo cessa di essere frequentata proprio nel corso del V secolo, c risulta siillata da un evidente strato di distruzione collegato all assalto vandalico). * D. Asi, Le cità della Sicilia fra il IT e il IV sec. .C., in Kokalos XXVIILXXIX, 1982-83,pp. 461-475; L. Caacco Rucorκι, Sicilia, IUIV secolo: il volto della non città, in Kokalos XXVIIT-XXIX, 1982-83,pp. 477-515.

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TAV.I

1-9: Lucerne in sigillata africana MNR serie 4.

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TAV.II

1-9: Lucerne in sigillata africana MNR serie 4.

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ΤᾺΝ. IIL

6

1

8

di lucerne della serie 4; 3-8: lucerne in sigillata africana MNR serie 6. 1-2: Particolari della decorazione del disco

569

ENRICO PROCELLI MANFRIA: CONSIDERAZIONI SULLA FACIES DI CASTELLUCCIO

11 villaggio di Manfria “. è il primo villaggio preistorico della Sicilia vera e propria che sia stato completamente rimesso in luce, con le sue capanne, i suoi forni c i suoi scarichi.” Così P. Orlandini iziava il capitolo delle considerazioni generali nella pubblicazione definitiva dello scavo da lui condotto nell'area dell'abitato dell'Antico Bronzo di Manfria'. Alle capanne, ai forni, agli scarichi da lui scavati, erano da aggiungere le tombe della necropoli indagata da Paolo Orsi nel giugno del 19012, Purtroppo a distanza di quasi quarant'anni Manfria è, e resta, il solo villaggio della facies di Castelluccio interamente scavato e, quel che più conta, integralmente pubblicato . A dispetto di ciò, gli studi su questa facies si sono susseguiti negli anni e possiamo oggi affermare che essa è la meglio conosciuta‘ tra quelle preistoriche e protostoriche della Sicilia*. Mi è sembrato quindi utile proporre una riconsiderazione dei dati forniti da questo scavo alla luce degli studi più recenti. La topografia del villaggio, collocato com'è nella valletta tra le colline di quota 120 (Costa del Sole, presso le Case Manfria) e 105 (a Nord-Est della Torre di Manfria), appare per certi versi emblematica di questa facies, soprattutto per la posizione che, in accordo con la maggior parte dei villaggi noti, perlopiù situati in vallette o alla sommità di basse colline, denota scarse preoccupazioni di dife5a. Questa caratteristica è in netta contrapposizione con quella di una percentuale minore di insediamenti che sorgono in luoghi forti e che, come è noto, in quattro casi* (Petraro, Thapsos, Branco Grande e Monte Grande) presentano opere di fortificazione. Questa differente scelta della posizione topografica è indizio di esigenze differenti probabilmente da collocare a mio avviso in tempi diversi. Infatti non ritengo possibile che l'eccezionale numero di abitati della facies di Castelluccio possa essere ritenuto contemporaneo, considerata anche la lunghissima durata di questo periodo. Probabil‘mente i villaggi venivano costruiti, cessavano di esistere, o si spostavano a seguito di varie esigenze. per esempio necessità di difesa, cui si potrebbero aggiungere quelle dell'esaurimento dei suoli? o delle sorgenti o più semplicemente a causa di una distruzione dovuta ad un incendio o ad altre calamità più o meno accidentali“. Nella zona di Manfria uno degli indizi di spostamento di un abitato potrebbe essere rappresentato dalla presenza di un altro villaggio di questa età a circa un chilometro a Nord-Est, nel pendio 2 settentrione di una terza collina, quella di quota 103 indicata anche con il toponimo di Zinghilinò, individuabile grazie a un'area di abbondante cocciame cui è pertinente una seconda necropoli di tombe a grotticella artificiale”. La vicinanza di questi due abitati alla costa (c.a 1 km nel primo caso e c.a 1,5 km nel secondo) non stupisce più, in quanto sono ormai numerosi gli insediamenti di questa facies situati presso il mare, soprattutto lungo la costa meridionale della Sicilia ". Per quel che riguarda la topografia della necropoli essa presenta sette nuclei riuniti in tre gruppi distinti che sono disposti, come naturale per le tombe a grotticella artificiale, attorno agli affioramenti calcarei delle tre colline di quest'area !'. Orsi ritenne che i tre gruppi facessero capo ciascuno ad un abitato, ma è più probabile che le tombe delle quote 120 e 105 servissero il villaggio scavato da Orlandini, mentre soltanto quelle di Zinghilinò fossero pertinenti al secondo abitato a Nord di esse. T numero delle tombe è di “non meno di centoventicinque" ". Il gruppo più numeroso, composto da circa settanta grotticelle, è quello di Zinghilinò per cui gli altri due gruppi dovrebbero contare una cinquantina di sepolcri. Prendendo per buona la nostra deduzione secondo la quale gli altri due gruppi della necropoli hanno servito il villaggio scavato nel 1960 avremmo un rapporto capanne/ tombe vicino all' a 5, il che potrebbe indicare come il villaggio scavato da Orlandini fosse solo uno degli abitati che si sono succeduti (in senso temporale, non spaziale) nell'uso della necropoli.

Il fatto di essere in presenza di un villaggio scavato integralmente ci permette, caso più unico che raro, di fare alcune considerazioni circa il suo impianto. La distribuzione degli spazi in base alla loro destinazione: abitazioni, focolari e forni, scarichi, è già stata sottolineata dallo scavatore che ne ha messo in risalto la scelta basata sulla direzione dei venti dominanti. Esso comprende due gruppi di abitazioni, il primo formato da tre capanne e il secondo da sette, disposti rispettivamente ad Ovest ed Est di un grande spiazzo largo m 17,50 aperto verso Nord. Orlandini spiegò la presenza di questo spazio libero tra i due nuclei di capanne con l'assenza in questa zona dello strato di gesso in cui sono incassati i fondi delle medesime. Anche se questa interpretazione è plausibile, personalmente ritengo che i motivi della suddivisione dell'abitato in due gruppi distinti non siano di ordine tecnico, ma più probabilmente sociale. In realtà la tecnica edilizia delle genti di Castelluccio ci appare alquanto varia ed in grado di adattarsi alle più svariate circostanze. A parte la varietà di piante, che vanno da quella circolare a quella rettangolare, anche l'elevato presenta caratteristiche diverse. Mi riferisco soprattutto all'uso dei pali di sostegno che, nei casi in cui abbiamo una descrizione dettagliata delle capanne, è segnalata in 4 villaggi (Fogliuta, Manfria, Mezzebbi e Valsavoia), mentre è assente nei restanti 11 (Agrigento, Baravi-

talla, Branco Grande, Caldare, Garrasia, Monte Casale di San Basilio, Monte Grande, Monte Racel-

lo, Sante Croci, Settefarine e Torricella). È sempre possibile che in determinate condizioni le tracce

dei buchi per palo non si siano conservate o non siano state rilevate, ma sia nella capanna dell'Olimpieion di Agrigento, sia in quella di Garrasia, ambedue impiantate direttamente su un banco roccioso, se ne sarebbe dovuta individuare la traccia con facilità, se essi fossero esistiti. Questo induce a pensare che l'uso di pali verticali per sostenere la copertura non fosse sempre considerato indispensabile. In ogni caso sono numerose le capanne impiantate direttamente in strati terrosi anziché sulla roccia. Sono quindi propenso a ritenere che i due gruppi distinti indichino una suddivisione in seno alla comunità del villaggio. Tale ipotesi mi sembra corroborata dall'esistenza in altri villaggi della facies di Castelluccio di suddivisioni interne all'abitato. In quattro siti (Torricella, Valsavoia, Baravitalla e Monte Grande) sono stati individuati recinti costituiti da mura con andamento irregolarmente circolare che racchiudono aree destinate ad attività umane e che in qualche caso hanno conservato tracce delle capanne che si trovavano all'interno. Essi sono probabilmente da interpretare come nuclei di abitazioni appartenenti alla stesse famiglie, intendendo con questo termine la “famiglia allargata", e svolgevano forse la funzione di custodire il bestiame e di mantenerlo separato da quello appartenente ad altri gruppi “. 1 confronti più vicini per quel che riguarda l'organizzazione di un abitato in raggruppamenti di capanne o "compounds" ci viene dalle Eolie, dove abbiamo più di un esempio di abitati scavati estensivamente e largamente pubblicati. Qui, sia nel villaggio della Montagnola di Capo Graziano, che possiamo grosso modo considerare contemporaneo a quello di Manfria, 5 sia nel più recente abitato del Milazzese di Panarea, appare chiara un organizzazione in gruppi di abitazioni separati tra loro'*. Questi gruppi di capanne disposte intorno ad un cortile sarebbero pertinenti ad una “famiglia allargata”, con la capanna più grande a più vani, residenza del “capo famiglia” e quelle più piccole per gli altri membri. Questo schema, come vedremo, si ripete a Manfria. Riprendendo l'analisi dell'impianto del nostro villaggio, il gruppo di capanne 2, il più numeroso, è a sua volta disposto intorno a quello che possiamo definire come un “cortile”, aperto verso il grande spiazzo, largo m 4 e lungo m 15 il cui lato meridionale è chiuso dalla grande capanna ellittica 9. A Nord di queste abitazioni sono disposti gli scarichi, mentre l'area destinata ai forni e ai focolari chiudeva il grande spiazzo a Sud. Possiamo ritenere che questi due spazi liberi, che abbiamo chiamato il “grande spiazzo” e il “cortile” fossero adibiti ad usi comuni, il primo probabilmente per quelli inerenti all'intero villaggio, il secondo per quelli degli abitanti del gruppo di capanne 2. ‘Tornando ai raggruppamenti di abitazioni è interessante notare che in ambedue è presente una capanna di dimensioni maggiori, la n. 3 nel primo e la n. 9 nel secondo. Ambedue sono collocate ai margini dei rispettivi gruppi e adiacenti al grande spiazzo. Anche i questo caso troviamo nelle Eolie, 572

sia nella facies di Capo Graziano (Acropoli di Lipari), sia in quella del Milazzese (villaggio eponimo) una capanna di dimensioni maggiori ”. La capanna n. 3! presenta inoltre una pianta quadrangolare, che è alquanto rara nella tipologia edilizia della facies di Castelluccio. Ne abbiamo un esempio da Morgantina e un altro, pertinente peτὸ alla facies di Sant'Ippolito, da Settefarine, presso Gela. * Fanno parte di questa abitazione tre ampie nicchie, forse aggiunte successivamente. È significativo il fatto che da questa capanna provenga

non solo una gran quantità di ossa “più che in ogni altra capanna del villaggio”, ma anche il 21 % delle coppe su piede? e ben il 43 % del vasellame per bere rinvenuto entro le capanne, abbastanza per ritenere che vi si svolgessero attività non ordinarie come riunioni di un qualche tipo connesse con il consumo di cibo?!. A questo proposito non è forse privo di significato il fatto che sia stata trovata în questa capanna la singolarissima scodella con che all'epoca del rinveni mento non aveva confronti in Sicilia, ma di cui oggi un altro esemplare è noto dal villaggio di Torricella”, e che di solito è ritenuta essere un coperchio, forse per pithoi. Si deve comunque rilevare che per il resto la suppellettile di questa struttura fa ritenere che essa sia stata utilizzata soprattutto come abitazione comune, infatti vi furono rinvenuti, oltre ad attrezzi per la produzione e manipolazione del cibo (macinelli, lame, etc.) anche quelli per la normale attività domestica (fuseruole, rocchetti, punteruoli, vario strumentario litico). Diverso sembra il caso della grande capanna n. 9, che sembrerebbe avere una posizione preminente nell'ambito dell'intero villaggio, visto che oltre a chiudere a Sud il "cortile", ne fiancheggia l'accesso al grande spiazzo ed inoltre è la sola ad essere in stretta relazione con un focolare, indicato con la lettera I, che è uno dei maggiori tra quelli presenti nell'abitato. In essa la presenza di “abbondanti frammenti di grossi vasi a calice” (coppe su piede) e di non meglio quantificati attingitoi, ci rimandano ad attività analoghe a quelle della capanna n. 3, con qualche significativa differenza. Innanzi tutto la presenza di contenitori medi (anfore) e grandi?" e la grande quantita di lame in selce e di macine e macinelli, ma mi sembra degna di nota l'assenza di strumenti che possono indicare una normale attività domestica come fuseruole, rocchetti, etc. Se ne può dedurre che in questa capanna si conservassero (contenitori), preparassero (macine e industria litica e contiguità del grande focolare T), distribuissero (industria litica) e consumassero (attingitoi e bacini su piede) i cibi. Inoltre essa era utilizzata forse per riunioni non necessariamente legate al consumo del cibo, in quanto nonostante la notevole quantità di suppellettile connessa con questo utilizzo “il numero delle ossa di animali" era "piuttosto scarso" indicando quindi una regolare attività di pulizia dell'ambiente. Veniamo ora alle due capanne maggiori e alla loro interpretazione soprattutto se esse fossero o meno l'abitazione di personaggi emergenti. Forse la capanna n. 3 poteva essere appartenuta ad uno di essi, probabilmente dello stesso gruppo familiare che abitava il raggruppamento minore di capanne. È però impossibile stabilire quale posto occupasse questo gruppo nell'ambito dell'intero villaggio e soprattutto capire perché le sue capanne ne erano discoste. Può trattarsi di un gruppo egemone che preferiva distinguersi così dal resto della comunità, o di membri staccatisi di recente dall'insicme del villaggio o ancora di nuovi arrivati qui giunti dopo che l'abitato era stato costituito. In ogni modo mi sembra di poter escludere che la grande capanna n. 9 fungesse da abitazione, ma fosse piuttosto adibita a luogo di riunione che, data la posizione occupata nell'ambito del villaggio, doveva riguardare probabilmente l'intera comunità. Si tratta ovviamente di ipotesi di lavoro in quanto, come già detto, siamo in presenza dell'unico villaggio della facies di Castelluccio scavato per intero, e quindi ci mancano i necessari raffronti con altri abitati. Purtroppo per quello che è stato negli anni appena trascorsi il principale problema per coloro che si occupano di questa facies, cioè la possibilità di una sua periodizzazione attraverso l'evoluzione della ceramica, anche lo scavo di Manfria non ci è di nessun aiuto? infatti le scarne stratigrafie delle capanne nn. 1 e 9 non ci forniscono dati utilizzabili in questo senso. Si può soltanto affermare che questo villaggio ebbe probabilmente le sue origini nelle ultime fasi dell'età del rame, come testimonierebbe il bicchiere semiovoide a piastra tipo Malpasso” del Saggio 16, i frammenti di vasi attribuibili, non senza qualche incertezza, ” allo stile di Sant'Ippolito? e non ultimo la presenza del bicchiere campaniforme”, che nella Sicilia centro-occidentale è spesso associato alle ceramiche del573

lo stile di Naro-Partanna™ ed è comunemente ritenuto pertinente ad una fase antica della facies di Castelluccio. * Per quel che riguarda gli oggetti rinvenuti nell'abitato una precisazione è possibile riguardo la funzione dei rocchetti fittili che lo scavatore, data la vicinanza del mare, ritenne potersi trattare di pesi per reti da pesca.” Una certa quantità di questi oggetti provengono però anche dagli strati delYAntica Età del Bronzo di Morgantina dove dovevano necessariamente essere utilizzati per altri scopi, forse come pesi da telaio. Passando alle tombe scavate da Orsi, sia nel gruppo presso le case Manfria sia in quello di Zinghilinò, le osservazioni possibili assumono un interesse più vasto. Dalla tomba 2? (case Manfria) provengono due oggetti particolarmente interessanti importati dall'esterno e come tali identificabili come “beni di prestigio”. Il primo “un vasetto ovolare, decorato, a punta, di uno scacchiere con quadri alternatamente lisci o reticolati" fu attribuito allo stile della Moarda *, ma è forse più correttamente attribuibile alla cultura maltese di Tarxien Cemetery”. Il secondo oggetto assume un'importanza maggiore, si tratta di una capocchia conica in bronzo, forse un rivetto pertinente a vasellame metallico o il terminale di uno spillone*. Nel secondo caso si tratta di un oggetto di importa: probabilmente egea, presente in Sicilia in tre esemplari, oltre a quello di Manfria abbiamo quelli della tomba 31 di Castelluccio? e della tomba 3 di Valsavoia*. È interessante notare come dalla prima di queste provenga il più noto dei portelli scolpiti di quella necropoli. Essa conteneva almeno 17 deposizioni e aveva un corredo numericamente poco consistente, ma di grande interesse oltre dal citato oggetto conico in bronzo, da un grano informe e da un “gancetto” di lamina (forse un frammento di vaso metallico, il che avvalorerebbe la tesi che la capocchia conica sia pertinente ad un rivetto) ambedue in bronzo, Tra il materiale fittile abbiamo una fuseruola biconica, una perletta, due scodelle che si sbriciolarono appena toccate, “due vasetti globari rotti, manufatti, con ansette acuminate” e una scodella o patera a calotta “con sicure tracce di tornio primitivo”. Gli ultimi tre vasi hanno un particolare interesse, sia perché lo stesso Orsi confronta i “due vasetti” con simili esemplari provenienti dalle necropoli del Molinello e del Plemmirio®, quindi pertinenti alla facies di Thapsos, sia ovviamente per l'uso del tornio nel terzo vaso che costituisce senz'altro un elemento di recenziorità rispetto alla ceramica tipica di Castelluccio che, per altro, pare essere assente dal corredo di questa tomba che lo stesso Orsi riteneva, insieme agli altri sepolcri vicini, cronologicamente più recente rispetto alle altre tombe della Cava della Signora“. Certo l'attribuzione alla facies di Castelluccio della tomba 31 diviene a questo punto per lo meno incerta, e le possibilità che si aprono sono più d'una. Esse vanno dall'assegnazione ad una fase tarda del Castelluccio, che presenterebbe già forme simili a quelle di Thapsos “, alla testimonianza di una fase di passaggio tra i due periodi, e l'ultima, la più traumatica, all'attribuzione tout court di questa tomba alla facies più recente. Certo tutto dovrà passare attraverso l'esame diretto e l'analisi di questo interessante quanto inquietante corredo. Altri oggetti in bronzo, per la precisione due perle, provengono dalle tombe 3 (case Manfria) e 40 (Zinghilinò) Prima di concludere vorrei solo accennare brevemente ad un altro rinvenimento particolarmente interessante per la sua estraneità all'ambiente culturale di Castelluccio, questa volta purtroppo sporadico. Si tratta del boccale (di un impasto color bruno chiaro) con decorazione incisa a punti disposti a formare fasce verticali*. Per la forma è stato confrontato con un analogo boccale dalla Grotta della Chiusazza* proveniente dallo strato III (facies di Castelluccio) e appartenente al tipo ceramico denominato dallo scavatore come Dé (c.d. Castelluccio bruno), Se lo schema decorativo non è estraneo a questo ambiente culturale lo è senz'altro la tecnica adoperata. Sebbene quest'ultima potrebbe richiamare alla mente alcuni frammenti di Capo Graziano? il complesso di questa decorazione non trova finora confronti nel Mediterraneo centrale. Il caso posto da questo boccale come unicum ricorda molto da vicino quello riguardante due reperti ambedue di provenienza catanese, il frammento, forse di bicchiere o di olletta, dalla Grotta Curci di Barriera® e Illa dalla Grotta di Nuovalucello ®, i quali, sebbene apparissero chiaramente come delle importazioni in seno ai complessi della facies di Castelluccio da cui provenivano, non trovavano, fino a pochissimo tempo fa confronti. Oggi essi sono finalmente attribuibili alla facies calabrese di Zungri*. 574

Per finire il villaggio di Manfria permette di trarre interessanti conclusioni circa la struttura della società di Castelluccio, che ci appare via via più complessa con il procedere degli studi come dimostra la suddivisione delle capanne in due gruppi, che rispecchierebbe una suddivisione interna alla comunità in, mi si passi il termine, "clan", struttura che cra per altro già indicata dal rito funebre. Esso inoltre conferma ancora una volta, qualora ce ne fosse ancora bisogno, come questa società, lungi dall'essere rinchiusa su se stessa e timorosa dei contatti con genti transmarine, intratteneva con esse un rapporto che sebbene ancora da definire con precisione, non era certo di rifiuto. In effetti man mano che la documentazione va arricchendosi aumentano le testimonianze degli apporti esterni allo sviluppo di questa società e un sito costiero come Manfria, per altro scavato integralmente, non poteva non dare un importante contributo non solo nei riguardi dei rapporti con l'arci pelago maltese, per altro già altrove messi in rilievo”, ma anche di quelli con il modo egeo, che se ‘ampiamente attestati per la Sicilia ionica, erano passati inosservati per quella mediterranea.

NOTE * P. Οκιάνρινι, Il villaggio preistoricodi Manfia, presso Gela, Palermo 1962, p. 73. ? P Ons, Siculi della regione gelese, in Bullettino di Paletnologia Italiana, 27, 1901, p. 160. > È interessante notare che questa impresa, finora unica in Sicilia, è opera di un archeologo i cui interessi sono prevalentemente rivolti al mondo classico. A questi interventi più vecchi sono da aggiungere gli scavi recenti condotti dalla Soprintendenza ai BB. CC. ¢ AA. di Caltanissetta e ancora inediti. Negli ultimi tempi si sono susseguite interessanti pubblicazioni di scavi e materiali provenienti da insediamenti della facies di Castelluccio, ma nessuna di esse riguarda un abitato indagato nella sua totalità. * E. Processi, Sicily between the third and second millennium B.C. a brief survey, in R. Lerciro (Ed.), Early Societies in Sicily. New developments in archaeological research, London 1996, pp. 89-100, con bibliografia precedente; In, La civiltà agropastorale siciliana matura: l'antica età del bronzo, in S. Tusa (a cura di), Prima Sicilia. Alle origini della società siciliana (Catalozo Mostra Palermo 1997-98), Palermo 1997, pp. 343-351 * Con l'owia esclusione delle Eolie in cui l'opera di L. Bernabò Brea e M. Cavalier ha creato una situazione eccezionale che trova difficilmente riscontro altrove. * G. Voz, Villaggio fortificato dell'età del bronzo in contrada Petraro di Melilli (Siracusa), in (Atti XI e XIl Riunione Scientifica Ist It. Pr. e Prot. Siracusa 1966), Firenze 1968, pp. 173-187; Ip., Thapsos, primi risultati delle più recenti ricerche, in (Atti XIV Riunione Scientifica Ist. It. Pr. e Prot. Foggia-Maglie 1970), Firenze 1972, pp. 192-193; P. Oxst, Due villaggi del primo periodo siculo. 1. Il villaggio di Branco Grande presso Camarina, in Bullettino di Paletnologia Italiana, 36, 1911, pp. 158-176; G. Castentana, Il santuario di Monte Grande presso Palma di Montechiaro e la stipe votiva del Ciavolaro presso Ribera: aspetti religiosi delle popolazioni del bronzo antico in Sicilia, in QuadMess 5, 1990, pp. 5-17; Ip, Π santuario castellucciano di Monte Grande e l'approvvigionamento dello τοῖο nel Mediterraneo dell'età del Bronzo, Agrigento 1998. 7 M. PAcCiARELL, Considerazioni sulla struttura delle comunità del bronzo medio dell'Italia centro- meridionale, in Rassegna Archeologica, 10, 1991-1992, pp. 276-277. * E. Process, Sicily between, cit. pp. 91-92; In. La civiltà agro- pastorale, it, p. 344. * P. Orsi, Siculi, ci, p. 163. * E. Procetu, Sicily between, cit, p. 92; I., La civiltà agro-pastorale, cit, p. 344. Un calcolo approssimativo, che necessiterebbe un controllo più rigoroso sulle notizie pubblicate, sembrerebbe indicare per questa età una densità di un villaggio ogni 8 + 18 km lungo la costa meridionale contro quella di un abitato ogni 26 = 41 km della costa orientale. ? P. si, I Siculi, cit. p. 162; P. OntaNpin, Π villaggio preistorico, cit, p. 10. 5 P. Orsi, Siculi cit,p. 160. ? P. Ontawpan, Il villaggio preistorico, ct. p. 15. % Una organizzazione simile tuttora in uso in comunità pastorali dell'Africa '© Un problema a parte è costituito dal fatto che gli studiosi di preistoria e protostoria della penisola italiana tendono, in massima parte, ad applicare la seriazione cronologica peninsulare alle facies siciliane con il risultato di collocare la prima fase di Capo Graziano nel Bronzo Antico e la seconda nel Bronzo Medio 1/2. Per quel che riguarda le Eolie la proposta potrebbe essere ancora accettabile anche se stabilire una cesura tra Bronzo Antico e Medio eoliano solo sulla base della decorazione ceramica mi sembra un po' rischioso. Il problema diviene ben più grave per la facies di Castelluccio che seguendo questa tendenza rientrerebbe in parte nel Bronzo Antico e in parte nel Bronzo Medio 1/2 senza alcuna possibilità di collocare con certezza la maggior parte dei complessi ceramici in un periodo o nell'altro (per i problemi ancora irrisolti posti dalla seriazione della ceramica del tipo di Castelluccio vedi più avanti) per cui saremmo costretti a collocare tutta la facies nel Bronzo Antico/Medio 1/2. Ritengo che sia più funzionale lasciare alla penisola e alla Sicilia le rispettive seriazioni anche se esse si accavallano, per altro il problema si riproporrebbe ad esempio tra la Sicilia e Malta che hanno anch'esse fasi non coincidenti, ma forse tra organismi statali diversi è lecito aspettarsi periodizzazioni differenti. A proposito di ciò il volere a tutti i costi uniformare la pariodizzazione in aree geograficamente e culturalmente diverse pone anche inquietanti problemi di gestione del materiale. 575

?* L. Βεκναβὸ Bara - M. Cavauex, Meligunis Lipdra. II. Stazioni preistoriche delle isole Panarea, Salina e Stromboli, Palermo 1972, pp. 53-55; M. Paccuarzt1, Considerazioni, cit, p. 267. © L'Brasaso Brea — M. CavauieR, Meligunts Lipóra. III. Stazioni preistoriche delle isole Panarea, Salina e Stromboli, Palermo 1972, pp. 53-55 (Milazzese); L. Βεκναβὸ Brea - M. Cavaurr, Meliguris Lipára. IV. L'acropoli di Lipari nella preistoria, Palermo 1980, p. 225 (Acropoli di Lipari). ?* P. Οκίανρινι, I villaggio preistorico, cit. pp. 23-28. E. PaoceLu, Insediamenti della tarda preistoria nell'area di Morgantina, c. ἃ. s P. Orsi, Due villaggi del primo periodo siculo IL Ivilaggio di Settefarine presso Terranova, in Bullettino di Palemologia Italiana, 36, 1911, pp. 176-193. Perla stretta relazione tra la facies di Sant Ippolito e la Cultura di Castelluccio si veda: E. ProceLs, Sicily between, cit, p. 90 ® Questa forma aveva probabilmente la funzione di contenitore o supporto per i cibi © L'esistenza di riunioni che potessero presentare caratteri di “convivialità” è attestata alla Muculufa: R. R. Horzowav ET Aun, La Muculufa, the Early Bronze Age Sanctuary: the Early Bronze Age Village (Excavations of 1982 and 1983), in Revue des Archéologues et Historiens d'Art de Louvain, 23, 1990, pp. 16-18. ? M. Fuasca- F. Messina- D. Patenuo - E. ProceLLI, Ramacca (Catania). Saggi di scavo nel villaggio preistorico di contrada Torricella, in NSA 1975, fg. 14. ? P. Ortanpna, Π villaggio preistorico, cit. pp. 40-45. κι Purtroppo per questa capanna ci mancano i dati quantitativi sulla ceramica che sarebbero stati molto interessanti. 2 Misia lecita una riflessione tra il serio ed il faceto. Il problema della periodizzazione della facies di Castelluccio si è rivelato finora un miraggio e una frustrazione. Non vi è dubbio che si tratti di un miraggi, a cui ha portato il suo contributo anche chi scrive, visto il numero di volte in cui sono state proposte seriazioni senza poter disporre di agganci certi, cioè pro. venienti da scavi condotti con rigoroso metodo stratigrafico o dall'analisi di complessi chiusi. Che si sia in presenza di una. frustrazione è dimostrato dal fatto che nonostante l'impossibilità pratica di distinguere con l'applicazione di metodologie rigorose periodi cronologicamente diversi, pubblicando anche piccoli gruppi di ceramica di questa cultura, difficilmente si sfugge alla tentazione di attribuire questo o quel reperto ceramico al “protocastellucciano”, al "castellucciano" classico o al Castelluccio tardo. Recentemente è stato proposto un nuovo tentativo di periodizzazione in ben quattro fasi che non è però esente dai difetti suddetti, v. M. Cutrraao, La fascies di Castelluccio, in D. CoccHi Gextcx (ed), L'antica età del bronzo. (Atti Convegno Viareggio 1995), Firenze 1996, pp. 163-174. ἘΞ P Ontanoiny [villaggio preistorico, cit, tav. 4514. 7 Le incertezze nell'attribuzione di queste ceramiche derivano soprattutto dalla non eccelsa qualità delle immagini fotografiche e dalla mancanza di documentazione grafica. 7? P. Οκιάνρινι, Il villaggio preistorico, cit, tavv. 28/1; 36/2; 46/1: 50/2 in basso a destra; 51/2 anse a piastra forata. L'olletta. dal forno H (tav. 36/2) era già stata attribuita allo stile di Sant Ippolito dall'editore: bid, pp. 82-83. > Ibid, tav. 511. % 8. Τύρα, Il bicchiere campaniforme in Sicilia: evento, congiuntura o dinamica strutturale, in Studi sulla Sicilia Occidentale in onore di Vincenzo Tusa, Padova 1993, pp. 203-205, 207-208. Ἢ M. Pacci- S. Tusa, La collezione dei vasi preistorici di Partanna e Naro, Palermo 1990, pp. 105-109. ? P. Οκιάνρινι, I villaggio preistorico, cit. p. 89. ? E. Paocenu, Insediamenti della tarda preistoria nell'area di Morgantina, in c.d.s. » P. Orsi, Siculi,cit, p. 160. * Peril problema dell'emergenza nelle necropoli dell'Antico Bronzo e il suo sviluppo nella fase successiva si veda: A. Cizzzi, Usi funerari nell talia Meridionale e in Sicilia nel corso dell'età del Bronzo: una riconsiderazione, in La Sardegna nel Mediterraneo tra il Bronzo Medio e il Bronzo Recente (XVI-XIIIsec. a.C.) (Atti Convegno Selargius-Cagliari 1987), Cagliari 1992, pp. 331-341; M. PaccuRenu, Considerazioni, cit, p. 274; E. ProctLLU, Sicily between, cit., pp. 96 e 99; Ib. La civiltà agro-pastorale, cit, p. 347. * P. Ontaxpin, IL villaggio preistorico, cit, p. 85. ® E. Procsu, Il complesso tombale di contrada Paolina ed il problema dei rapporti tra Sicilia e Malta nella prima età del bronzo, in BA, 66, 9, 1981, p. 105 ? M. Curmuzo, Il castellucciano emeo nel quadrodei rapporti tra Sicilia, Penisola Italiana ed Egeo nei secc. XVI e XV a.C., in Sileno, 15, 1-2, 1989, pp. 280-281. » P. Oasi,La necropoli sicula di Castelluccio, in Bulletinodi Palemologia Italiana, 18, 1892,pp. 68-72. “ P. Oxs, Necropoli e stazioni sicule di transizione. 1. La necropoli di Valsavoja (Catania), in Bulletino di Paletnologia Italiana, 28, 1902, pp. 108-109. © P. Oxs, La necropoli sicula di Castelluccio, in Bulletino di Palemologia Italiana, 18, 1892, pp. 71-72. © La mia attenzione su quest'ultimo vaso e di conseguenza su tutta la tomba in questione è stata richiamata da una conversazione avuta qualche anno fa con Massimiliano Marazzi che qui ringrazio per lo spunto fornitomi © P. Orsi, La necropoli sicula del Plemmirio (Siracusa), in Bullettino di Paletnologia Italiana, 17, 1891, tav. VII. < P. Orsi,La necropoli sicula di Castelluccio, in Bullettino di Paletnologia Italiana, 18, 1892, p.71 © Per una derivazione della cultura di Thapsos da quella di Castelluccio si veda E. Procz1L, Sicily between, cit, pp. 97-99, ^^ Ricordiamo che nel centro eponimo di Castelluccio la facies di Thapsos non è assente, si veda ad esempio: P. Onst, Scarichi del villaggio di Castelluccio (Sicilia), in Bulletino di Paletmologia Italiana, 19, 1893, tav. V/34, © Purtroppo l'unico oggetto di questa tomba esposto al Museo Archeologico di Siracusa è il celebre chiusino. Δ P. OrtanDna, Il villaggio preistorico, cit, pp. 68 c 84, tav. 48/5. 576

© S. Tixt, Gli scavi nella grotta della Chiusazza, in Bullettino di Paletnologia Italiana,74, ns 16, 1965, tav. XXXI2. 5% Per questa classe oltre ovviamente a Tint, Gli scavi, cil, pp. 229-235; si veda anche: E. Proce. Il complesso tombale di contrada Paolina, cit, p. 106; A. L. D'Acata - V. La Rosa, Uno scarico dell'età del bronzo sulla Serra del Palco di Milena, in Quaderi dell'Istituto di Archeologia della Facoltà di Lettere dell'Università di Messina, 3, 1988, p. 22. ? L. Βεκναβὸ BREA - M. CavALIER, Meligunis Lipdra. IV. L'acropoli di Lipari nella preistoria, Palermo 1980, tav. CKXXII/2-3 ? P. Orsi, Necropoli e stazioni sicule di transizione. VII. Cavernedi abitazione a Barriera (Catania), in Bullettino di Paletnologia Italiana, 33, 1907, p. 82, fig. 30. ? 5, Τινέ, Giacimenti dell'età del rame in Sicilia ela cultura tipo "Conca d'oro*,in Bullettino di Paletnologia Italiana, 69-70, 1s 13, 1960-61,pp. 122-123, tav. VI. 9 E, Procstu, Considerazioni sul passaggio dall'antica alla media età del bronzo nella Sicilia orientale: Catania e Naxos, in Rassegna di Archeologia, 10, 1991-1992, pp. 561-562. 5 D. MaRino - M. PAcciaReLtI, Il Bronzo antico in Calabria, in L'antica età del bronzo in Italia, (Atti del Congresso Nazionale, Viareggio 1995), Firenze 1996, pp. 147-162. Recentemente mi è stata addossata la responsabilità dell'attribuzione del boccale di Nuovalucello al Protoappeninico B: M. Cutraa®o, La fascies di Castelluccio, in D. Coccui Gexicx (ed.).L'antica età del bronzo. (Atti Convegno Viareggio 1995), Firenze 1996, p. 164 e nota 9. In realtà mi limitavo a collocare un particolare tipo di ansa pertinente a coppe a leggera carena e alto labbro (forma totalmente distinta dal suddetto boccale) "tra le anse a gomito del Bronzo iniziale e quelle ad ascia del Protoappenninico" (E. Paocet11, Considerazioni sul passaggio, cit, p. 562). % E. ProcELLI, Aspetti religiosi e apporti trasmarini nella cultura di Castelluccio, in Journal of Mediterranean Studies, 1, 1991, pp. 252-266; Ip, Sicily between, cit, p. 96. 9 E. Proce, Il complesso tombale di contrada Paolina, cit., p. 105; I., Aspetti religiosi e apporti, cit, p. 260. A proposito dei rapporti con Malta alle imitazioni locali degli idoletti a disco maltesi già note (ibid. p. 255) è da aggiungere due nuovi esemplari con decorazione dipinta in bruno su fondo chiaro costituita da un motivo a croce, provenienti da Contrada Forche al Museo Archcologico di Camarina (inedito) e da Monte Grande (G. CasreLLAWA, Π santuario castellucciano, ct. fig. 44).

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Giovanni Rizza LA LIBERAZIONE DI HERA IN UN VASO ATTICO DA LENTINI Nel deposito votivo di un santuario scoperto a Lentini nel 1987, in contrada Alaimo, circa 500

metri a Nord-Ovest della città antica, fu rinvenuta la parte inferiore di un grande cratere skyphoide a figure rosse decorato a fasce figurate sovrapposte, e con una vistosa iscrizione dedicatoria graffita alla base (fig. 1). Il vaso, ' la cui sezione è riprodotta alla fig. 1, poggia su un piede ad anello sagomato la cui altezza nel punto di appoggio è m. 0,027; il fondo è decorato all'esterno con cerchi concentrici a v. n.; l'interno è coperto di vernice nero-rossiccia molto erosa. Il piede si conserva per circa metà della sua superficie; la linea di frattura corre irregolarmente al centro. Dell'alzato rimane un tratto della parete per una altezza massima di m. 0,295; la larghezza massima si conserva nella prima fascia figurata che si sviluppa per m. 0,36; la sua lunghezza complessiva era di circa un metro. Si conservano parzialmente le prime due fasce figurate distinte da due fregi: quello superiore (alt. cm. 1) con kymation fra due linee parallele; quello inferiore (cm. 1,8) con gruppi di tre meandri alternati a croci e ad una X inscritte in rettangoli. Sotto la prima fascia figurata, tra questa e il piede, in una zona coperta di vernice nera (alt. cm. 5,5) si legge l'iscrizione . EOHKEN: TOIZ AIOXKO...

Le lettere, la cui altezza oscilla fra i cm. 2,3 dello Σ di Atooxo..., e i cm. 1,5 dell'O di τοις, sono incise dopo la cottura. La dedica ai Dioscuri è un punto di riferimento per l'attribuzione del deposito votivo e del relativo santuario, ubicato fuori le mura, ai margini dei “Campi Leontini” . Nella prima fascia si conservano i resti di un fregio figurato il cui punto di divisione cade sulla O di Avoox (fig. 3). Due personaggi si muovono qui in direzione opposta: a destra un satiro incede verso destra preceduto da una figura femminile, anch'essa incedente, di cui rimane un piede e un lembo della veste (fig. 6); a sinistra una figura femminile che si muove in senso opposto chiude un altro gruppo che presenta al centro (?) una figura femminile in trono assistita da un'altra figura femminile stante in veduta frontale. I personaggi rappresentati rientrano in massima parte nella cerchia dionisiaca. La figura fem1 | minile che si muove verso sinistra (figg. 5-6) è caratterizzata da un lungo tirso appoggiato obliqua| | mente sul braccio sinistro; tiene la mano destra alzata come ad esprimere meraviglia, ed è vestita di un lungo chitone pieghettato su cui è panneggiato un himation che lascia scoperto il braccio destro; / | i capelli sono avvolti nel sakkos al di sotto del quale si vede un piccolo orecchino a cerchietto. Davanti ad essa un Sileno barbato (fig. 5), stante sulla punta dei piedi come se si fosse improvvisamente fermato subito dietro il trono, porta il braccio destro in alto con la mano alla fronte nel carat"m teristico gesto dell'“aposkopein”; il braccio siTu mano la nistro, portato leggermente indietro, con aperta e il palmo verso il basso, sembra accompaFig. 1. Sezione del cratere LE 4489. gnare il movimento con un gesto di meraviglia. 579

Fig. 2. Lentini, Museo. Cratere LE 4489: fregio inferiore, primo tratto da sinistra. Al di là del gruppo centrale, una figura maschile ignuda si muove verso la figura in trono portan: do in avanti un kantharos (fig. 2); si conserva la parte inferiore della figura, fino alla vita, insieme alla metà anteriore del kantharos. Segue una figura femminile incedente, vestita di lungo chitone pieghettato, di cui rimane la gamba che avanza fino al ginocchio, e un tratto del panneggio rotto obliquamente fino al tallone dell'altro piede.

Il gruppo centrale, verso il quale convergono i quattro personaggi sopra descritti, è costituito da

una figura femminile in trono, di profilo a sinistra, e da una figura femminile stante, in veduta frontale, che sembra assistere quella seduta stando davanti ad essa sulla destra (fig. 4). Quest'ultima è avvolta in un lungo himation in parte raccolto sul braccio sinistro piegato e appoggiato orizzontalmente al petto, mentre il braccio destro, aderente al fianco, è piegato verso l'alto; manca la parte superiore destra della figura, con la spalla, la testa, e la parte anteriore del braccio. La figura seduta è anch'essa avvolta in un ampio himation che la copre interamente disponendosi ad arco sulla nuca; ha una corta acconciatura con i capelli ondulati sulla fronte e sulle tempie, e porta un orecchino a cerchietto simile a quello della figura femminile che chiude il gruppo a destra: la testa è cinta da un diadema segnato ai margini da due linee parallele e da una serie irregolare di puntini al centro. Sui piedi poggia un ampio chitone pieghettato. II trono, visto di profilo, ha la spalliera sottile, rigida, leggermente inclinata verso l'esterno, modanata con una larga curva nel punto di incontro col sedile, desinente in alto con una larga palmetta. I piedi, leggermente rastremati verso il basso, sono a sezione quadrangolare e desinenti in alto in un capitello ionico stilizzato con due cerchi accostati, raccordati da una linea curva che ne unisce i centri; sotto i capitelli si vedono due zone decorate nettamente delimitate, mentre resti di altre decorazioni sono visibili sulla rimanente superficie dei piedi fino alla base. Al centro è indicata una sbarra orizzontale di collegamento, mentre nel-

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Fig. 3. Lentini, Museo. Cratere LE 4489.

la parte anteriore, davanti al trono, si vede una semplice base su cui poggiano i piedi della figura seduta.

La presenza della figura femminile seduta, immobile e avvolta nell'himation, il ricco trono decorato, la presenza di tanti personaggi del thiasos dionisiaco, fanno pensare al raro mito della liberazione di Hera dal trono d'oro e del ritorno di Efesto all'Olimpo ricordato da Pausania (I, 20, 3) a proposito di un dipinto nel tempio di Dioniso ad Atene che egli cosi comment vi è Dioniso che porta Efesto in cielo; si racconta infatti anche questo presso i Greci: che Hera abbia buttato (giù dal cielo) Efesto appena nato; che questo per vendicarsi abbia mandato in dono un trono d'oro che aveva 581

Fig. 4. Lentini, Museo. Cratere LE 4489: Hera in trono (particolare del fregio inferiore)

legacci invisibili, e che quella appena si sedette rimase legata; che degli altri dei a nessuno Efesto aveva fiducia, ma Dioniso, di cui Efesto si fidava, dopo averlo ubriacato lo portò in cielo”. La più antica e completa rappresentazione del mito si trova nel cratere Francois,‘ dove occupa metà della fascia intermedia che decora il corpo del vaso, in continuazione della scena dell'agguato di Achille a Troilo. Qui i personaggi occupano l'intera altezza del fregio: a sinistra Hera e Zeus in trono, di profilo a destra, con le divinità dell'Olimpo, attendono Efesto che arriva dal lato opposto a cavallo, guidato da Dioniso e seguito da Satiri, Menadi e Sileni. Hera indossa un chitone, ha le braccia

piegate con le mani portate leggermente in avanti, e poggia i piedi su di un alto sgabello; la spalliera del trono ha come terminale una testa di cigno Lo stesso terminale della spalliera si trova su di un'anfora di Oxford’ attribuita al Pittore di Burgon, del 560 circa, dove si ripete anche l'alto sgabello su cui Hera poggia i piedi; diverso è invece l'abbigliamento, costituito da un pesante himation che avvolge il corpo della dea passando anche sulla testa; Hera ne solleva un lembo con la mano destra. Lo stesso schema iconografico si ritrova, alla fine del quinto secolo a. C., in uno skyphos di Toledo (Ohio) databile fra il 430 e il 420 circa.*

Qui lo sgabello è molto basso, e sostiene anche il trono, riccamente decorato e con terminale della

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Fig. 5. Lentini, Museo. Cratere LE 4489 (particolare del fregio inferiore). spalliera a testa di grifo; Hera ha sulla fronte una corona in parte coperta dall'himation (fig. 7). La

composizione rimane piana, con i personaggi disposti in unica fila, in ordine paratattico. Una variante di questo tipo appare in un cratere a volute di Bologna del 420/410 circa, attribuito al Pittore del Deinos;? Hera è qui completamente avvolta nell'himation che le fascia anche le braccia accostate al corpo, e che passa sulla testa lasciando libero soltanto il volto e formando un largo kolpos davanti al collo e sul petto; il trono, come nello skyphos di Toledo, ha la spalliera desinente a testa di grifo (fig. 8). I personaggi sono variamente disposti in una composizione spaziale. Ancora una variante nella figura di Hera adattata alla rappresentazione di Efesto all'Olimpo appare in un cratere del Cairo del 460-450 circa, attribuito al Pittore di Altamura; * Hera, incoronata, è in trono, di profilo a sinistra, vestita di chitone a puntini, con una phiale nella destra protesa e con lo scettro nella sinistra." A partire dalla fine del IV secolo a.C., con l'abbandono della rappresentazione su un semplice fregio di figure singole in serie, e col diffondersi di più complesse rappresentazioni prospettiche, con le figure disposte su più piani, si impone la figura di Hera con lo scettro, seduta in trono, vista di tre quarti, come nel cratere a volute da Spina, del 420 circa, attribuito a Polion. ^ La Hera del cratere di Lentini presenta lo schema iconografico utilizzato dal Pittore del Deinos nel cratere di Bologna 283 (fig. 8) pur conservando la composizione paratattica tradizionale; la figu583

Fig. 6. Lentini, Museo. Cratere LE 4489 (particolare del fregio inferiore).

ra, completamente avvolta nel mantello, sembra rappresentare, con maggiore efficacia delle altre, lo stato della dea avvinta nci legacci invisibili del trono d'oro. Ma non si tratta di una invenzione connessa con la rappresentazione della liberazione di Hera; già in un kantharos a f. r. di Londra della metà del V sec. a.C., attribuito al Pittore di Anfitrite" lo schema iconografico è utilizzato nella rappresentazione della punizione di Issione condotto da Ares di fronte ad Hera. In questa, come nelle altre rappresentazioni dei pittori di vasi attici, personaggi e composizione delle scene figurate venivano attinti al repertorio della lunga tradizione figurativa che li aveva preceduti, e adattati agli spazi da decorare, e alle esigenze e capacità espressive del decoratore. Il mito della liberazione di Hera, pur avendo probabilmente, come può far supporre il passo di Pausania, modelli della grande pittura a cui ispirarsi, conferma questa regola a dimostrazione della libertà c della varietà del comporta-

mento dell'artigianato attico. !?

Della scena figurata superiore (fig. 3) si conservano pochi elementi: a destra la parte inferiore di una figura maschile seduta, di profilo a sinistra, di cui si vedono i piedi e la parte inferiore delle gambe coperte da panneggio; immediatamente davanti ad esso, alla sua destra, una figura femminile stante, panneggiata, verosimilmente in veduta frontale. Di fronte ai due personaggi si vede un mo-

bile, uno sgabello o un tavolo, su cui poggia un ampio elemento panneggiato. A sinistra, attraversato

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Fig. 7. Toledo (Ohio), Mus. of Art. Skyphos 8288.

Fig. 8. Bologna, Mus. Civico. Cratere 283,

obliquamente dalla rottura, un grande recipiente (louterion?) poggia sul pavimento; dietro di esso un lembo di panneggio, indica la presenza di una figura probabilmente stante. Il diphros su cui siede la figura maschile ha i piedi sottili, leggermente ricurvi e divergenti; dietro di esso un piede indica la presenza di un'altra figura rivolta a sinistra. Non è possibile stabilire l'altezza del fregio non essendosi conservato alcun tratto del suo margine superiore, ma le dimensioni delle figure fanno supporre che esso dovesse essere più alto rispetto a quello sottostante come si può facilmente dedurre dal rapporto fra le due figure femminili stanti: anche le dimensioni dei piedi, facilmente misurabili, confermano la maggiore altezza della fascia superiore. Se, come abbiamo supposto, le figure di Hera in trono e di Ebe (?) costituiscono il centro della scena della liberazione di Hera, si può anche supporre che il louterion del fregio superiore fosse al centro della composizione, sicché bisogna immaginare, nel lato sinistro, la presenza di altre due o tre figure. Il fregio con la liberazione di Hera trova collocazione nell'ambito della pittura vascolare attica della seconda metà del V sec. a.C.; il disegno delle pieghe, spezzate e talora sovrapposte, sembra inserirlo in una particolare tendenza a rendere effetti di movimento nella rappresentazione del panneggio. Nel cratere di Lentini lo sfaldamento della superficie all'interno delle figure non permette di leggere con sufficiente chiarezza il tracciato delle linee, specialmente nella figura del Satiro incedente a destra e del Sileno dietro il trono; ma nella Menade col tirso, e nelle figure di Hera e della sua assistente (Hebe?), nonostante le numerose abrasioni si individuano delle interruzioni intenzionali ed un maggiore spessore di alcune linee che evidenziano talune parti del panneggio: il tratto più marcato è evidente nelle lince che nella Menade rendono sommariamente la mano sinistra che tiene il tirso coperta dall'himation, e segnano verso il basso le pieghe che ne derivano (figg. 5 e 6) 585

Fig. 9. Lentini, Museo. Cratere LE 4489: particolare della Menade con tirso.

Fig. 10. Boston, Mus. of Fine Arts 97371: Figura femminile con "nartex"..

Il rendimento di dettagli come quello sopra indicato ci ricorda la maniera del Pittore della phiale, ed in particolare una lekythos a f. r. di Gela con una scena di commiato * in cui il giovane che si allontana e saluta impugna allo stesso modo due lance con la sinistra tenuta sotto la clamide. Un punto di riferimento ancora più significativo è costituito dalla stessa phiale di Boston“ da cui il pittore prende il nome: il confronto fra la Menade col tirso di Lentini e la figura femminile con nartex di Boston (figg. 9 e 10) colpisce per il ripetersi dell'impianto delle due figure con l'avambraccio destro solJevato, ma si estende anche a singoli dettagli come il rendimento della mano o il caratteristico orecchino a piccolo e spesso anello, che portano sia la Menade sia Hera nel cratere di Lentini, e che è ripetuto tre volte nella phiale di Boston". Per quel che riguarda la mano, anche se le due figure sono nella identica posizione, sono viste una da sinistra e l'altra da destra, sicché la mano è rappresentata dalla parte del palmo nel vaso di Lentini e vista dal dorso nella phiale di Boston. La stilizzazione è tuttavia identica: il pollice, incurvato, è portato in fuori; le rimanenti dita, definite con tratti rettilinei, sono molto distanziate e contenute complessivamente in un quadrilatero (figg. 9 e 10). Identico è il disegno in altri vasi attribuiti allo stesso pittore: in una pelike di Londra '* con due Menadi a colloquio, la Menade con la lira, con la destra portata in avanti, è rivolta a destra, e pertanto la mano è rappresentata di dorso come nella phiale di Boston (fig. 12); in un'altra pelike di Mona: co" con due Amazzoni incedenti a sinistra, la mano della seconda Amazzone, portata in avanti, è costruita allo stesso modo e vista dal palmo (fig. 14). In una lekythos di Basilea "' una figura femminile che sta di fronte ad Athena, col petto in veduta frontale e la testa di profilo a destra, alza il brac cio sinistro nella medesima posizione, e pertanto la mano, aperta, è vista dal palmo (fig. 13). Nei cinque casi ricordati la mano presenta una identica stilizzazione: nel vaso di Lentini e nella phiale di

Boston le quattro dita distese, tutte uguali c parallele, sono delimitate nella parte terminale superio586

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Fig. 15. Lentini, Museo. Cratere LE 4489, particolare del sileno.

ἄς Vivenel. Anfora 968. 588

re da un taglio rettilineo che conferisce al loro insieme un contorno quadrangolare (figg. 9-10); negli altri tre casi la parte terminale delle dita è disposta lungo una linea curva che sembra ugualmente interrompere le dita con un taglio netto; in ogni caso l'effetto sembra da attribuire ad uno stesso procedimento tecnico, in cui il campo destinato alla mano veniva risparmiato come massa unica sul fondo nero, procedendo successivamente con pennellate sommarie alla distinzione delle dita. Nei casi menzionati si osserva che quando la mano è vista dall'interno (figg. 9, 13, 14) una linea retta corre lungo la base delle dita evidenziando il punto di attacco col palmo della mano, mentre una linea curva segna l'andamento del pollice e dei muscoli che lo delimitano alla base; la linea curva non è riscontrabile nel vaso di Lentini (fig. 9) per lo sfaldamento della superficie. Nessuna linea interna è visibile nei due casi in cui la mano è rappresentata in veduta dorsale ((figg. 10, 12). Nella produzione dello stesso pittore trova riscontri anche il Sileno che sta dietro il trono di Hera (fig. 15), anche se il cattivo stato di conservazione della figura limita notevolmente la possibilità di confronti specialmente per il disegno anatomico in gran parte perduto. Fra la ricca serie del repertorio dei Sileni attribuiti al Pittore della phiale particolarmente vicino al Sileno di Lentini appare un Sileno con tirso su un'anfora di Compiègne", sia per il disegno della testa, sia per le indicazioni anatomiche sul nudo (fig. 16): uguali appaiono la struttura e la posizione della testa, la disposizione di barba e capelli, il disegno degli occhi e della bocca, anche se l'erosione della superficie ha portato via una parte della vernice nel Sileno di Lentini; ugualmente strette appaiono le connessioni fra le due figure per il disegno anatomico caratterizzato dall'ampio segno del muscolo pettorale che partendo dalla spalla abbraccia l'intera superficie del petto formando una grande U irregolare. Lo stesso disegno appare nella figura di un Satiro su un cratere di Orvieto® in cui si ritrova la linea che segnando il margine anteriore della gamba sinistra prosegue verso l'alto fino ad indicare la linea alba (fig. 17). II disegno della mano portata alla fronte dal Sileno di Lentini si ritrova nella phiale di Boston, nella figura femminile panneggiata che porta con la sinistra una grande tazza (fig. 11). Quest'ultima appare vicina anche alla Menade con tirso per la concezione del panneggio le cui pieghe sono spezzate, e talora sovrapposte, sicché danno una accentuata impressione di movimento; nelle due figure, in particolare, è molto simile il sistema delle fitte pieghe della parte superiore del chitone che rimane scoperto dalla spalla destra alla metà circa del petto; le linee che le definiscono sono spezzate e di andamento irregolare, sicché danno un notevole movimento alla superficie; non solo, ma ad esse si sovrappongono, nella Menade di Lentini due semicerchi in posizione verticale, ed uno nella figura della phiale di Boston, che indicano i seni, ma hanno anche la funzione di movimentare la superficie del panneggio (figg. 9 e 11). Il movimento delle pieghe nel cratere di Lentini appare notevolmente più complesso che nella phiale di Boston, ma più semplice rispetto a quello della tazza con Niobidi di Londra attribuita allo stesso pittore; se il riferimento è valido il cratere di Lentini si potrebbe datare fra i due, intorno al 435 a.C.

NOTE

ὁ Lentini, Museo Archeologico, Inv. 4489. 2 Per il gesto dell'aposkopein vedi I Jocken, Der Gestus des Aposkopein. Ein Beitrag zur Gebürdensprach in der antiken Kuost, Zürich 1956. ὡς Ἥρα dip: γενόμενον. ?'paus.L 20, 3: Διόνυσός ἔστιν ἀνάγων Ἥφαιστον ἐς οὐρανόν’ λέγεται δὲ καὶ τάδε ὑπὸ Ἑλλήνων, Ηφαιστον, ὁ δέ οἱ μνησικακῶν πέμψαι δῶρον χουσοῦν ϑρόνον ἀφανεῖς δεσμοὺς ἔχοντα, καὶ τὴν μὲν ἐπεί τε ἐκαθέζετο δεδέσθαι, ϑεῶν δὲ τῶν μὲν ἄλλων οὐδενὶ τὸν Ἥφαιστον ἐθέλειν πείθεσθαι, Διόνυσος δέ - μάλιοτα γὰρ ἐς τοῦτον πιστὰ ἦν Ἡφαίστῳ — μεθύσας αὐτὸν ἐς οὐρανὸν ἤγαγε: * La rappresentazione di un cavaliere col piede girato indietro su un anforisco corinzio degli inizi del VI sec. a.C. ὃ stata. riferita ad Efesto eal suo ritorno all Olimpo, ma l'inerpretazione è per lo meno incerta (T.H. Carenres, Art and Myth in ancient Greece, London 1991, p. 14, fig. 3). Per la rappresentazione sul vaso Francois vediM. Cristoraat et AL., Materiali per ser1 (pubbl. 1981), tav. IV, p. 22, fig 55; pp. 139-141 Sire lla storia dl vaso Frangoîs, in Boll d'Arte, XII, 1977, Serie Speciale figg. 89.95; LIMC. IV, 1 (1988), s.v Hera, p. 693, n.309 Ὁ Oxford, Ash. Mus., 1920.107. LIMC, IV, 1 (1988), so Hera, pp. 693-694, n. 310. * Toledo (Ohio), Mus. of Art, 8288. Attribuito da Von Bothmer (CVA 2, tav. 84-87 ) al Kleophonmalere da M. HalmTisserantal Cort Maler (LIMC, IV, 1, 1988,v. Hera, p. 694,n. 315) 589

? Bologna, Mus. Civ., 283. CVA 4, Tav. 68 (1222)3-5; 69 (1223) 1; F. Browser, Hephaistos, Mainz am Rhein 1978, tav. 8,2; LIMC, IV, 1 (1988),s.v. Hera, p. 694,n. 317. * Cairo, Mus. Eg. JE 38661 (C.G. 32338), da Saqgara. Baowurn, Hephaistos cit, tav. 8,1; LIMC, IV, 1 (1988) s.v. Hera, p. 694, n. 312 * Seduta in trono, e avvolta in un chitone con himation sovrapposto, appare ancora, anche se mal conservata, su un craterea calice del Louvre (G. 162) del 490.480 circa, attribuitoal Pittoredi Kleophrades (LIMC, IV, 1, 1988, sv. Hera, p. 694, n. 311). Lo stesso schema viene utilizzato in un cratere a calice dell'Agorà (Atene, Agora P. 44) del 430 circa (HLA. Trowesov, in Hesperia, VI, 1937, pp. 47-49, figg. 27-28; LIMC, IV, 1, 1988, s.v. Hera, p. 694, n.14). Della figura di Hera rimangono pochi frammenti. ?* Ferrara, Mus. Naz. 3033(T 127 VT). ARV 1171, 1; 1685; LIMC, IV, 1 (1988), s.v. Hera,p. 694, n. 316, Lo stesso schema appare in un cratere a volute lucano di Leningrado, della metà circa del IV sec. a.C. (Hermitage 988; LIMC, IV, 1, 1988, s.v. Hera,p. 694, n. 318); in un cratere apulodi Londradi circa un decennio più tardo (Br. Mus. F. 269; LIMC, IV, 1, 1988, s.v. Heγα,p. 694, n. 319); in un'anfora apuladi Foggia (Mus. Civ. 132723; LIMC, IV, 1, 1988, s.v. Hera, p. 695,n. 320) 5. Br. Mus, E 155. CVA, 4, IIII C, tavv. 33,2; 35,2; LIMC, II, 1 (1984),s.v. Ares,p. 485, n.86) ? Peri rapporti frail ritorno di Efesto all Olimpo e la liberazione di Hera nella pittura vascolare della seconda metà delV secolo a.C., vedi M. HaLu-TisseRanT, La répresentation du retour d'Héphaistos dans l'Olmpe. Iconographie traditionelle et înnovations formelles dans l'atelierde Polygnotos (440-430) (in Antike Kunst, 29, 1986), pp. 18-22, in particolare fig. 8. ? Gela, Mus. Arch. Reg., Ant. Inv. 118 B. Vedi LH. Ouxtev, The Phiale Painter, Mainz am Rhein 1990, p. 84,n. 111, tav. 908. ™ Oaxtev,Op. cit. p.90, n. 146, tav. 120B. “5 Per l'uso di orecchini a piccolo e stretto anello nei vasi del Pittore della Phiale, vedi anche Op. cit, nn. Slter, 64, 76, 77, 79,94,96, 104, 117ter, 118, 119, 120, 120 bis, 130, 148, 150. London, Br. Mus. E384. Vedi Op. citp. 74, n. 48, tav. 27A. ? Manchen, Glypt. 2351. Vedi Op. cit.p. 74, n. 49, tav. 27B. 7* Basel, Antikenmuseum BS 404. Vedi Op. cit. p. 83, n. 106 bis, tav. 84, 7" Compiègne, Musée Vivenel 968. Vedi Op. cit. p. 70, n. 24, tav. 14C. 7? Orvieto, Mus. CI. Farina 2632. Vedi Op. cit. p. ΤΊ, n. 64, tav. SOB. ? London,Br. Mus. E 81. VediOp. cit. p. 91,n. 150, tavv. 128-129.

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Francesco PAoLo Rizzo LE MISURE DELLE COSTE DI SICILIA SECONDO I GEOGRAFI ANTICHI

1. Nel 1883 Karl Müller compild una tabella delle misurazioni antiche delle coste siciliane!. Basta scorrerla velocemente per accorgersi delle divergenze esistenti fra le cifre tramandate a tale riguardo. Ciò potrebbe anche non sorprendere da un punto di vista tecnico-geografico, giacché le conoscenze e gli strumenti di indagine degli antichi si differenziavano gli uni dagli altri a seconda delle epoche e sulla base dei sistemi matematico-astronomici o empirici di volta in volta impiegati. Tuttavia in questo genere di studi anche gli antichi tenevano assai in conto le conoscenze precedentemente acquisite, sicché, sia pure con largo uso di procedimenti correttivi, venivano a formarsi delle tradizioni, oggi suscettibili di esame e valutazione con più affinata sensibilità filologica. Ma quando ci si accinge a coordinare appunto in un quadro coerente le diverse tradizioni sulle misure costiere della Sicilia, si ha l'impressione che non se ne possa venire in alcun modo a capo. Il Manni^, nel tirare le fila delle ricerche compiute in questo settore, poteva segnalare niente più che qualche magro risultato, rilevando al tempo stesso la necessità di “indagini nuove e accurate” in riferimento specialmente a Strabone e a Plinio, Ed è da questi due autori che conviene prendere le mosse. Strabone all'inizio del capitolo dedicato alla Sicilia? indica - se si bada bene - tre specifici criteri o tipi di misurazione delle coste, così da distinguere misure ἃς ἀφορίζουσιν ai ἄκραι, o rilevate κατὰ μέρος, ovvero calcolate πεζῇ, Tale ultimo criterio, dal significato abbastanza chiaro, concerne misure calcolate per via di terra, sulle strade che correvano più o meno vicine alla costa. I primi due tipi, invece, da Strabone a quello contrapposti, pertengono a misure da intendersi come calcolate per via di mare; quanto alla loro ulteriore distinzione, occorre osservare che la peculiarità della misurazione κατὰ μέρος consiste nel ri. levare în successione ininterrotta le lunghezze dei tratti congiungenti singole località delle coste, secondo segmenti di linea “spezzata” aderenti all'andamento sinuoso delle coste medesime; le misure, infine, relative alle distanze fra i tre promontori (ἃς ἀφορίζουσιν ai ἄκραι), devono intendersi pertanto come calcolate su linee “rette”, congiungenti le punte estreme dell'isola: Strabone sottolinea che esse risultano minori delle precedenti proprio perché rilevate in modo diverso. Delle indicazioni straboniane siamo in grado di conoscere la provenienza. Questa è, tuttavia, ora dichiarata puntualmente, come nel caso di due grandezze calcolate col criterio di misurazione fra promontori, che si dicono attinte da Posidonio, ora indicata genericamente, come nel caso delle misure κατὰ μέρος che son fatte risalire a una χωρογραφία non meglio specificata. Tutte le misure, poi, tradiscono una diversa provenienza sulla base dell'unità lineare adottata: quelle calcolate in stadi risalgono a fonti greche, e riguardano le distanze prese fra promontori; quelle valutate in miglia hanno paternità latina, e vengono impiegate per le linee di terra e di costa. L'ambito greco, riconoscibile fra l'altro dalla già ricordata menzione di Posidonio, è quello in cui Strabone si muove a proprio agio in tutta l'opera, selezionando il materiale secondo una metodologia "scientifica" che si lascia identificare nel nostro contesto. I dati geografici vi sono registrati secondo differenti modalità, che ne riflettono altrettanti gradi di attendibilità. Vi sono dati, anzitutto, per i quali il geografo non ritiene necessario fornire l'indicazione delle fonti, che in tal modo vengono tacitamente dichiarate concordi. ΑἹ contrario, le fonti di un dato vengono richiamate ogni qual volta occorra rilevare che esso sia stato trasmesso in modo discorde oppure da un solo autore. Ma si dà pure il caso in cui il geografo omette del tutto l'indicazione di una misura, lasciando presumere a riguardo di essa un'incertezza risalente alle fonti stesse. In concreto, pertanto, le misure“ costiere 591

dell'isola si presentano nella "pericope greca" della descrizione straboniana cosi diversamente attestate: concordemente dalle fonti: | illato Peloro-Pachino (1130 stadi = 141 mp.) con discordanza delle fonti: | il lato Lilibeo-Peloro (Posidonio 1720 stadi = 215 nap;; le altre fonti 1700. stadi = 212 mp.) omesso (perché incerto?): — | illato Pachino-Lilibeo soltanto da Posidonio: il periplo (4400 stadi = 550 m.p.)

Si osservi anzitutto la lacuna a riguardo della misurazione del lato Pachino-Lilibeo: se per esso Strabone evita di proporre un'indicazione di lunghezza, si può pensare che egli dovette trovarsi di fronte a qualche difficoltà manifestata dalle stesse sue fonti. Tant'è che queste, ad eccezione di Posidonio, rinunciano conseguentemente a fornire la determinazione del periplo. Quanto a Posidonio, però, proprio il fatto che egli indichi la dimensione perimetrale sta a significare che da parte sua era stata assegnata una misura anche al lato Pachino-Lilibeo; una misura di cui Strabone non teneva conto, giacché appunto le perplessità che riteniamo fossero espresse nel caso specifico dalle altre fonti lo avrebbero indotto a dubitare dell'esattezza di quel dato. Coerentemente, nel riferire il calcolo mmante del periplo, non poteva che lasciarne tutta la responsabilità a Posidonio stesso. Resta da vedere quale tipo di difficoltà in effetti abbia potuto giustificare tanta precauzione del geografo di Amaseia. A tal uopo, occorre prendere in considerazione anche le misure che lo stesso Strabone traeva dall'autore latino della chorographia. 2. Queste misure, come già sappiamo, vengono riportate soltanto in relazione ai tratti che compongono ciascuna delle tre coste. Dobbiamo anzitutto sommarle*: otteniamo così le lunghezze di 263 m. p., di 159 m. p. e di 165 m. p. rispettivamente per i lati nord, est e sud. Conviene poi evidenziarne, attraverso lo schema che segue, il raffronto con le precedenti (le quali, limitatamente al tratto Pachino-Lilibeo, vanno integrate col dato che si ricava dalla determinazione posidoniana del periplo, sottraendo da essa la somma delle misure conosciute degli altri due lati: stadi 4.400 — [stadi 1.720 + 1.130] = stadi 1.550* = m. p. 194):

Lato settentrionale Lato orientale. Lato meridionale Periplo

ἃς ἀφορίζουσιν αἱ ἄκραι, (da fonti greche) 212m. p. 215 m. p. (da Posidonio) 141 m. p. 194 m. p. (solo da Posidonio) 550 m. p. (solo da Posidonio)

κατὰ μέρος (dalla Chorographia) 263 m. p. 159 m.p. 165m.p.

Abbiamo già detto che lo stesso Strabone avverte che le seconde misure devono risultare maggiori delle prime, calcolate su linee rette di congiunzione fra i promontori. Senonché, questa particolarità non si verifica proprio nei riguardi del lato Pachino-Lilibeo: la corrispondente misura corografica di 165 m. p., infatti, risulta inferiore a quella posidoniana, mentre l'affermazione sulla maggiore lunghezza delle distanze segmentate si verifica puntualmente negli altri casi. Intanto, a riguardo di tale “irregolare” dato corografico, c'è da dire che proprio esso è stato ritemuto errato in base ad un altro ordine di considerazioni. Il nostro rilievo sull'inesatto rapporto con la corrispondente misurazione in linea retta si aggiunge ora a quello diversamente sollevato da altri 592

studiosi. Questi hanno fatto notare che, nella descrizione della costa meridionale, il tratto che corre tra Akragas e Kamarina, misurato in 20 miglia, si presenta eccessivamente accorciato: pur tenendosi conto dell'inadeguatezza delle misurazioni antiche, esso appare distanziarsi troppo dalla lunghezza reale", e del resto una sproporzione si coglie anche nel confronto con le altre distanze contestualmente indicate. Generalmente, gli editori e gli studiosi di Strabone integrano il testo, interpolando tra Akragas e Kamarina altri luoghi e altre misure”. A nostro avviso, però, non un difetto della tradizione manoscritta in questo caso accusa il testo di Strabone, bensì un errore verificatosi a monte, visto che una tale défaillance sembra essersi ripercossa in qualche modo anche sul calcolo (incompiuto) della distanza interpromontoria. Si potrebbe pensare, per esempio, ad un autore che disponesse di una indicazione di misura relativa al tratto Gela-Kamarina, e insieme di una fonte (forse storiografica) nella quale veniva presentato il tragitto Akragas-Kamarina con omissione di Gela, ormai inesistente; privo di cognizioni precise della storia e della topografia dei luoghi, questo autore sarebbe stato indotto a identificare gli estremi occidentali dei due tratti, che già coincidevano in quello orientale. ‘Abbiamo formulato un'ipotesi, che vedremo si rivelerà idonea a fornire una spiegazione plausibile della disparità di misure con cui sono state tramandate le lunghezze costiere della Sicilia. Completiamo intanto il quadro delle nostre testimonianze. Rinviando ad altra sede la considerazione del terzo gruppo di misure straboniane, quelle πεζῇ, non pertinenti al presente argomento, passiamo a Plinio. 3. Quest'ultimo apre la sezione siciliana dei suoi libri geografici col riportare la misura del circuitus isolano secondo la stima di Agrippa, che la calcolava in 618 m. p. Nel paragrafo successivo"! Plinio passa a descrivere i tre lati (latera) dell'isola, iniziando col darne le lunghezze misurate terreno itinere: 186 m. p. dal Peloro al Pachino, 200 da qui al Lilibeo, e altri 142 ancora fino al Peloro. Agrippa non è citato per questi ultimi dati: la somma di essi, del resto, eguale a 528 m. p., accusa da sé un ordine di misurazione differente. È arbitrario, pertanto, il tentativo compiuto da alcuni studiosi di ‘emendare queste ultime cifre relative al terrenum iter al fine di farne combaciare la somma col circuitus dato da Agrippa"; tali cifre, infatti, a torto si suppongono corrotte: stando a loro favore la concordantia codicum 5, non è un buon motivo per supporle corrotte il semplice fatto che esse non rientrano nel calcolo di Agrippa, quando invece proprio da quest'ultimo Plinio le presenta del tutto indipendenti. La stessa indicazione terreno itinere, assente nel contesto agrippeo, caratterizza le misure dei tria latera secondo un'ottica di complementarità, sicché il circuitus di Agrippa viene a rappresentare il sistema alternativo a quello itinerario. Il testo di Plinio, pertanto, ripropone, nell'ambito della produzione geografica latina sulla Sicilia, esistenza di quella duplice tipologia di fonti, che già Strabone ravvisava con precisione nel riferire le misure κατὰ μέρος e quelle πεζῇ. E. significativo il fatto che lo stesso geografo di Amaseia, come abbiamo già rilevato, riporti queste misure in miglia, distinguendole da quelle fornitegli in stadi dagli autori greci. Ma anche ora dobbiamo tralasciare le misure terreno itinere, come abbiamo fatto con quelle straboniane πεζῇ: entrambe saranno più appropriatamente esaminate in un altro contributo dedicato ai riferimenti itinerari. Conviene pertanto concentrare l'attenzione sulle misure di costa. Nell'ambito di queste ultime il raffronto di un Agrippa con l'autore della chorographia trova buone ragioni di giustificazione. Entrambi si erano occupati, in sostanza, di determinare le misure del periplo isolano, ed è comprensibile dunque si sia indotti a ricercare le loro fonti su un terreno comune. È su questo terreno che potrebbe assumere un profilo più definito l'ipotesi da noi formulata per spiegare l'errore commesso dal corografo nel rilevare la misura (20 m. p.) del tratto AkragasKamarina. Tenendo sullo sfondo la tabella di misure - parzialmente errata — fornita da quest'ultimo, consideriamo anzitutto appunto il caso di Agrippa. Abbiamo visto che il calcolo del periplo (618 m. D.) che gli attribuisce Plinio suppone un ordine di grandezze diverso da quelle dallo stesso Plinio definite terreno itinere. Agrippa doveva in sostanza occuparsi del tracciato costiero e abbisognava di 593

una fonte che facesse al caso. Proviamo pertanto ad adattare il suo calcolo perimetrale alla tabella del corografo, mantenendo inalterate le prime due misure: se ne ricava che, per ottenersi il totale di 618 m. p., la lunghezza del lato sud doveva essere determinata in 196 m. p.: Corografo Agrippa

Lato settentrionale Lato orientale Lato meridionale Periplo

263 m. p. 159 m. p. lésm.p. ͵

[263 m. p.] [159 m. p.] | (196m. p.] 618m. p.

Ora, i 196 m. p. cosi ottenuti non rappresentano una cifra qualsiasi, ma conseguono a una preci-

sa correzione apportata all'errata misura della costa meridionale: essi infatti risultano dallaggiunta di31 m. p. (165 m. p. + 31 m. p. = 196 m. p.), che reintegrano con sufficiente esattezza l'omesso tratto Akragas-Gela. Ma è ancora indicativo il fatto che questa misura di 196 m. p. riferita al lato sud viene a coincidere" con quella che abbiamo visto adottata da Posidonio. Questi era intento a determinare le lunghezze ἃς ἀφορίζουσιν αἱ ἄκραι e certamente lavorava nell'ambito di quelle fonti greche, presso le quali Strabone non avrebbe trovato l'indicazione del tratto meridionale della Sicilia. Di queste fonti pertanto Posidonio poteva servirsi limitatamente ai lati nord ed est: tant'è che a riguardo di questi ultimi Strabone richiama, assieme alle altre, anche la testimonianza posidoniana. Ma quanto al dato mancante, l'Apameo dovette integrarlo medianie l'utilizzo di un materiale diverso. Da questo egli ricavava la misura medesima che qualche tempo dopo conoscerà anche Agrippa. Giacché il ministro di Augusto ignora l'insieme delle misure riportate da Posidonio (quelle ἃς ἀφορίζουσιν αἱ ἄκραι), si dovrà pensare all'esistenza di una fonte, o di fonti strettamente apparentate, cui entrambi gli autori dovettero ricorrere per determinare la medesima realtà geografica: in ogni caso occorre parlare di una fonte già corretta nel punto in cui il corografo era manchevole. Potremmo chiamare questa fonte “chorographia 2”. Posidonio introduceva pertanto un dato estranco nel contesto del materiale greco che pure stava alla base della propria compilazione. Strabone, che su questo medesimo materiale basava le proprie verifiche, ritenne di dovere trascurare il nuovo dato di Posidonio e lasciò alla sola responsabilità delT'Apameo il conseguente calcolo del periplo (che evidentemente gli altri autori greci non erano stati in grado di determinare). Ma appunto perché Posidonio attendeva alla determinazione delle lunghezze ἃς ἀφορίξουσιν ai ἄκραι, fu a lui necessario apportare al dato reperito qualche piccolo ritoco, per tener conto della riduzione (sia pur minima nel caso di quella costa) che la misura del lato sud dell'isola subiva venendo calcolata sulla linea retta congiungente i due promontori: così egli riduceva di due miglia il percorso integrato:

Choop.! | Lato settentrionale Lato orientale Lato meridionale Periplo

263 159 1654315. T

choregr2 [263] [159] [196] Uu

| Posidonio 2158 141 -2-4194] 550

Agrippa [263] [159] [196] 618

4. Ma non bisogna dimenticare che anche le fonti greche del contesto di Strabone accusano un rapporto con l'errore corografico: la presente analisi è partita proprio da una considerazione che postula tale rapporto. L'inaspettata interruzione, infatti, che si verifica nella sequenza straboniana delle lunghezze ἃς ἀφορίζουσιν αἱ ἄκραι rimarrebbe inspiegabile se non fosse dipesa dalle fonti che il geografo di Amascia seguiva, così come le stesse avevano privato Posidonio del dato corrispondente. Ciò significa che tali fonti o avevano esse stesse tralasciato la misura del lato sud, o l'avevano riferita in maniera discorde e incerta. Nell'uno e nell'altro caso la défaillance non potrebbe non imputarsi a un errore di origine. Ma un errore come quello qui supposto è chiaramente riconoscibile nell'opera del corografo. È quest'ultima pertanto che le tradizioni raccolte da Strabone lasciano intravedere. Tale opera, anzi, viene a configurarsi come un supporto che si era reso necessario in condizioni - è da presumere - di scarsa disponibilità di materiale geografico: vi dovettero infatti, quei geografi greci, ricorrere, sebbene non potessero trovarvi rappresentazioni omogenee a quelle cui essi stessi attendevano; per determinare le loro linee di navigazione fra un promontorio e l'altro, avrebbero essi dovuto adattare le lunghezze estese dei tratti costieri, calcolandone per così dire la proiezione su rette tracciate fra estremi delle coste stesse. Ma esistono altre significative conferme del ruolo che tale chorographia avrebbe ricoperto nelTantichità come punto “obbligato” di riferimento: esse sono date da autori quali Timeo, Timostene di Rodi, Orosio. Si tratta di testimonianze particolarmente eloquenti in quanto la fonte che emerge dall'insieme delle misure siciliane da esse riportate si presenta assodata per i lati nord ed est dell'isola e labile per il lato sud, dunque con quella caratteristica che è fondamentale nel caso della chorographia. Ma vediamole, queste testimonianze, singolarmente. ‘La prima è offerta da Timeo", il quale misurava, precisamente come le fonti greche di Strabone, in 212 m. p. il lato nord e in 142 m. p. "quello est. Già tale coincidenza varrebbe da sola a identificare nello storico di Tauromenio una delle fonti anonimamente richiamate dall’Amaseiota; ma non è tanto questo che qui conta, quanto la “novità” costituita dalla terza misura timaica, che, indicando in maniera divergente (187 m. p.) la lunghezza del lato sud, ripropone puntualmente la questione ricorrente: tale cifra non era certamente contestuale alle altre due nella fonte originaria, perché altrimenti assieme a quelle sarebbe passata — anche mediatamente — in Posidonio e in Strabone; essa pertanto conferma quell'approccio correttivo cui andò variamente incontro la fonte stessa: è poi irrilevante stabilire se nella fattispecie l'emendamento sia stato apportato direttamente da Timeo. Il caso di Timostene di Rodi è più semplice. Ufficiale sotto Tolomeo II, questo geografo avrebbe scritto un'opera sui porti: di lui ci rimane in Agatemero'* appunto la misura di una costa siciliana, precisamente di quella Lilibeo-Peloro. Essa veniva data in 212 m. p., dunque con perfetta corrispondenza alla tabella greca dello storico di Amaseia: riaffiora pertanto nominatim ancora un autore delYanonima tradizione "straboniana", di cui si confermano il carattere composito e quella uniformità di dati che dispensava Strabone dalle citazioni. Non sappiamo quali misure Timostene riportasse a riguardo degli altri due lati: sebbene indebolita da questo "silenzio", non resta del tutto senza significato però la circostanza che Agatemero abbia pensato a trasmettere proprio una delle misure che conosciamo come unanimemente accettate. Quanto alla testimonianza di Orosio", invece, il suo nesso con la tabella del corografo è più esplicito: ne richiama infatti con precisione (159 m. p.) la misura del lato orientale c ne rappresenta l'errore relativo a quello meridionale col proporre la divergente misura di 177 m. p., rivelatrice ancora una volta dei tentativi di emendamento cui andò sottoposto quel dato. Il fatto poi che lo storico ispano non dia alcuna misura per il lato nord può forse spiegarsi con il fatto che gli bastavano due dimensioni per rappresentare, secondo l'uso invalso ai suoi tempi, l'estensione "latitudinale" e "longitudinale” dell'isola. Insomma, non può essere un caso il fatto che esista un insieme di testimonianze tutte coincidenti con le cifre esatte della chorographia e parimenti tutte discordi proprio a riguardo di quella misura che il compilatore di detta opera aveva mal calcolato. In altre parole, ci troviamo di fronte ad un corpo solidale di testimonianze, all'interno del quale un solo dato viene riportato sempre con cifre diverse: giacché poi una di queste cifre è inficiata da un errore commesso per evidente omissione di un 595

Chorographia Γ 2634159165 trasferite in linee rette. lIradizione greca [Timeo [Timostene. n Strabone. [Posidonio

212+142+187 212 20120412 — 215+141+[194]

Chorographia 2 [263«159«196] —

Orosio (Fonte di) 1594177

Agrippa. [263:159+196] tratto costiero, le altre — tutte più alte - sono da considerare determinate dal tentativo di recupero del tratto omesso e pertanto necessariamente in rapporto con la fonte responsabile dell'omissione stessa e tuttavia alla base della concorde tradizione del contesto. Possiamo rappresentare tale stato di cose col seguente schema:

5. Lo sviluppo della tradizione sulle misure costiere di Sicilia che così viene a delinearsi presenta la sua acme nel momento di Agrippa. È l'età della pax augustea e di nuove inderogabili esigenze delimperium: la pacatio orbis andava consolidata riassettando le province? e rendendo i sudditi consapevoli del mondo conquistato. Consigliere e interprete della politica del Principe, Agrippa provvedeva a soddisfare queste due esigenze anche con lo scrivere dei Commentarii, annotazioni che sarebbeΤὸ servite a realizzare una Carta geografica dell'impero: vi dovevano essere contenuti dati essenziaJi sull'estensione e sulla densità di popolazione dei domini. Plinio attingeva a quest'opera quando scriveva "Sicilia circuitu patens, ut auctor est Agrippa, DCXVIII m. p.". Attraverso Agrippa, in sostanza, Plinio raccoglieva parte della tradizione romana sulle coste di Sicilia. A questa faceva da pendant, come si evince dalla documentazione da noi esaminata, quella greca, che, quasi preludendo a Tolomeo, misurava in ‘lince rette” le coste medesime. Ma appunto romana preminentemente era la descriptio corografica: misuratori dei tratti di costa, i Romani lo sarebbero presto divenuti anche delle tappe di terra. Un criterio empirico, insomma, si contrapponeva ad un altro che potremmo definire “razionale”. E si manifestò, l'interesse empirico dei Romani, nel correggere quella precedente chorographia e nell'approntarne una migliore. Se ne poteva avvalere già Posidonio: anch'egli pertanto ce ne fornisce una qualche conoscenza. E Strabone, che vi si riferisce nominatim (ὁ χορογραφός) e dettagliatamente, ce ne palesa anche il contenuto. Soprattutto, fu questa Chorographia conseguenza dell'attenzione che Roma riservò alla Sicilia, e venne pertanto a trovarsi in linea con gli indirizzi del regime augusteo. Sfruttata dapprima da Agrippa per il calcolo del periplo, questa dettagliata descrizione delle coste siciliane si tradusse poi nell'evidenza cartografica dell'orbis subiectus: non per niente l'autore della Divisio orbis terrarum dirà di quest'orbis che "divus Augustus primus omnium per chorographiam ostendit" >. Veicolo efficace dell'ideologia dell'impero "universale", tale Carta fu vista da Plinio, che dunque raccoglieva — pure per tale tramite -- la traditio geografica romana. Non solo però corografica fu questa tradizione, bensì anche odologica. Già Strabone - l'abbiamo visto —, a fianco delle misure κατὰ μέρος aveva rilevato quelle πεζῇ, ed entrambe in miglia, come per significame la matrice non greca. Ma fu specialmente la "Carta di Augusto" che portò in onore questa tradizione: le singole parti del dominio dovevano essere mostrate, oltre che nella loro geografica estensione, anche nella mirabile connessione dei loro allacciamenti stradali.

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Plinio ne approfittava

per registrare nei suoi terrena itinera anche questo filone, venendo cosi ad aggiungere la propria alla testimonianza di Strabone. In seguito, il ventaglio dei testi sulle misurazioni viarie di Sicilia si allarghera, fino ad includere l'Itinerarium Antonini, la Dimensuratio provinciarum, la già menzionata Divisio, e naturalmente la Tabula Peutingeriana. Ma tutto questo esula dall'aspetto al quale ho voluto qui limitare la mia attenzione. NOTE * K. Mower, Prolemaeus, Paris 1883,p. 388 con note. 2 E. Manat, Geografia fisicae politica della Sicilia antic Roma 1981, p. 23. ^ $21. * Delle misure in stadi date da Strabone indichiamo qui di seguito anche la riduzione in miglia, αἱ fine di renderne. agevole il raffronto con quelle fornite dalle fonti latine. Quanto al rapporto fra stadio e miglio, stiamo a quello di 1 : 8, adottato generalmente (v. i particolare E. Maxi, op. cit, p. 14) quando non si diano serie ragioni per tener conto delle oscillazioni (Gin ogni caso poco rilevanti) che esso subiva. * *25 da Peloro a Mile, alirettante da Mile a Tindari, ancora 30 fino ad Agatirno, altrettante da qui ad Alesa ed altrettante anal fiume Imera... sono 18 miglia, di là finoa Palermo 35 e altre 32 fino allemporio di Fgesta; infine, cora fino a Cefaledio..; fino altre 38 fino a Capo Lilibeo. Doppiato il Capo e proseguendo lungo la successiva costa fino a Eracleio, sono 75 miglia, ancora 20 fino allemporio di Akragas e altre 20 fino a Camarina; di là fino a Pachino ancora 50. Da Pachino lungola terza costa: 36 miglia fino a Siracusa, 60 fino a Catania; poi altre 33 fino a Tauromenio più altre 30 per arrivare a Messina”. * È la cifra che pure Müller ottiene per calcolo, indicandola fra parentesi quadra. ? Non si comprende perché Müller calcoli qui 168 m. p. + K. Mies, Prolemaeus, cit, p. 388, indica, con buona approssimazione, le lunghezze reali di 285 m. p., 150 m. p., 195 m. p. rispettivamente per i lati settentrionale, orientale e meridionale. et Ge* Già K. MOLE, Ptolemaeus, cit, p. 394, registrava tale congettura: "Strabonis verba lacuna laborare atque Phintiae lae mentionem excidisse viri docti statuerunt"; tuttavia, la sua opinione personale si avvicinava più al vero: "vitia haec ex ipsa χωρογοαφία repetenda esse censeo", Ma la persistente vecchia congettura si riflette ancora oggi, per es. in N. Bu, L'Italia di Strabone, Bari 1988, p. 164. Si imita invece a riportare il testo, così come è tradito, A. M. ΒΙΆΑΒΟΗΙ, Strabone, Geografia. L'Italia, Milano 1988, p. 250. ? 3,86. "3,87. "^ Tale "correzione" dei dati pliniani ha avuto inizio con K. MOLLER, Prolemaeus, cit, p. 388, che, attribuendoli tutti ad Agrippa, li fissa rispettivamente nelle cifre di 170, 200 e 248, ' La modificazione intervenuta rispetto allo stato della tradizione manoscritta è rilevata con precisione da A. KLorz, Die geographischen Commentarii des Agrippa und ihre Ueberreste, II, n Klio 6, 3, 1931, p. 406: quanto al lato orientale, “CLXXVI Cap: CLXXXVI codd. et Dic." per illato settentrionale, "CCXLII Mayhoff: CXLII codd. et Dic". infra. "^ Della differenza (del resto irrilevante) di 2. p. in meno della misura posidoniana diamo la ragione subito pre° Dopo quanto detto, può forse spiegarsi anche la lieve maggiorazione di tre miglia che qui la misura (siaposidoniana pure un poco senta rispetto a quella (212 m. p.) data dagli altri autori (in Strabone); l'utilizzo della misura corografica adattata) per il ato sud, infatti, avrebbe indotto il geografo ad attenuare - per uniformità — la contrazione della misura “linea: τοῦ del lato nord. τ Supposto che occorra riconoscerlo - come generalmente è ammesso - in Diod. 5,2, 2 = FGH 566 F 164. 7 Il Müller legge 145 m. p. 5G M.2, p.482. » 12,100 » Spesso come contraccolpo della passata guerra civile Su ciò non posso qui che limitarmi a richiamare le conclusioni cui sono giunto in due indagini - fra di loro comple Augusto" mentari - rispettivamente dedicate alle due seguenti specifiche tematiche: Dai Commentarii di Agrippa alla "Cartae didi Plinio (in (in SEIA 11-1994, pp. 9-45) e I Commentarii di Agrippa e la Chorographia nella Geografia siciliana di Strabone SEIA n.s.1-1996, pp. 9-33). ? GLM, p.15

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Giacomo Scisona DUE NOTE A LG. XIV 352! “les fdlicitations, pour étre bien recues, ne doivent pas importuner..." TM. Loic

01. Sul significato delle ‘gives, "nasi" o meglio, come vedremo, “narici”, presenti nelle mura urbiche di Halaesa, Ἐν τῷ πύργῳ come finora è documentato esclusivamente dalla tabula halaesina: IG XIV 352, II 36, 39, 53, 63-66, 76-79 - si è sostanzialmente d'accordo da GuaLTERUS 1625, 33-35 canalis, a Dugois 1989, 245 canalisation, passando dalla felice definizione nares canalis di Adolf Wilhelm in Scuwyzer, DGE 1923, 159, poi sviluppata dallo stesso WILHELM 1935, 252 e, ancor prima, dall'ampia fondamentale analisi di Sicca 1924, 196 fino alla pregnante ripresa di WILHELM 1935 in MANGANARo 1979, 432 nasi (gli sbocchi dei canali di scolo) di cloache. Di contro sta l'interpretazione, per così dire “plastica”, più strettamente legata all'immagine di ‘oic-naso come di un elemento aggettante dal πύργος. Viene accolta da Franz, CIG III 5594 de prominente quodam loco dictum, precisata da Kar. 1882, 16 in supercilium, semplicemente ripresa infine da Otto Hoffmann in Cotz-Becnet, SDI 1905, III 2, 235. 02. Pur ribadendo che solo l'indagine archeologica, dando specifico conto del manufatto alesino, potrà chiarire ulteriori significati del lemma, è tuttavia possibile dare ancora un qualche contributo al problema. 03. Dopo le ricerche di Gianfilippo Carettoni (CarETTONI 1959, 293 ss.), sia in quelle in cui ho affiancato l'illustre studioso che nelle successive (BerNaBO' BREA 1975, 23; Scisona 1975, 89, 96), non sono state effettuate altre esplorazioni del πύργος perché la cinta muraria di Halaesa - tra le più belle ed articolate della Sicilia antica - presenta un imponente insieme di problemi di archeologia, di conservazione e tutela che verrebbero ad esplodere disastrosamente nel momento in cui, con uno scavo qualunque, non seguito da massicci interventi generali di consolidamenti del pomerium, venisse ad essere alterato quell'equilibrio fugace di terreno e vegetazione entro cui la struttura muraria - ad aggere - formando balza sul pendio sempre forte, è ormai inestricabilmente abbarbicata. 04. Se la parte sommitale del πύργος, costruito nel primo tratto orientale (zona Feu) con l'opera ps.isodoma e poi con quella più elastica “a telaio", manca del tutto, sostituita da muri a secco moderni, quella mediana ed inferiore sono per lo più ancora interrate. Si converrà quindi che non saremo più in grado di riconoscere le ‘gives se si sarà trattato di sbocchi d'acqua posti in alto (supercilia di Kaibel = Hyginus p. 108,16) a mò di canali di gronda - gocciolatoi. Non siamo poi nella possibilità di verificare eventuali 'otves, da intendere come particolari aperture? praticate nella parte medio-inferiore della cinta muraria, proprio per via dell' interro cui dobbiamo la conservazione della maggior parte della fortificazione di Halaesa. D'altra parte se la base di quest'ultima, ove fosse tutta esplorata nei tratti superstiti, dovesse presentare una tessitura muraria continua, compatta, saremo in futuro anche noi forse indotti, con Franz e Kaibel, ad interpretare “gig come supercilium.

Nella consapevolezza di non poter affrontare in questa sede i tanti problemi della interpretazione topografica del testo epigrafico, ritengo comunque opportuno presentare il contesto in cui i termini "ole e διάπαυμα ricorrono, per meglio chiarirne, se non il significato, le implicanze.

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1.1 La prima ‘gis - narice si trova nel primo appezzamento di quella che si potrebbe definire la regio del fiume Aleso (II 23-74) composta da sette δαιθμοὶ... “παρὰ τὸν ροῦν τὸν “Αλαισον". Come hanno raffigurato Sicca 1924 tav.2 ed ARANGIO RuIz-OLIVIERI 1925, 59 dobbiamo immaginare sia gli appezzamenti (δαιθμοῦ) di questa che quelli della regio seguente, degli Scireoni (Pare — BeseLeR, 1417) (II 75-88, forse solo tre), grosso modo di forma variamente rettangolare o meglio trapezoidale, in quanto tracciati su un terreno collinare anche accidentato, sempre in pendio, tra le due linee quasi parallele del fiume Aleso, in basso ad est, e quella, divergente poi a nord-ovest, delle mura urbiche che si affacciano sulla valle fluviale. Suscita enorme suggestione la certezza che queste due regiones, contigue (cfr.II 76-77), occupano il fianco orientale della collina di Halaesa, dalla zona Ferraria (su cui mi auguro non vengano ad essere impiantate premature e quindi sterili elucubrazioni toponimiche) verso nord, e dalla fascia sottostante il pomerium verso est, ἐς τὸν ροῦν τὸν ἼΑλαισον. II tracciato del primo lotto (II 24-38) inizia quindi dal fiume (angolo SE del perimetro), risale il pendio facendo riferimento ad una serie articolata di punti caratterizzanti il percorso, e concludendo il primo dei lati lunghi (sud) in un terminus segnato nel muro di fortificazione (angolo SO). Come sarà per altri lotti (2, 4, 6) di questa regio, il lato ovest a monte, necessariamente più breve, viene semplicemente fatto corrispondere alla zona sottostante il pomerium, ὑπὸ πύργον, mentre la sua lunghezza è misurata dal terminus sopraddetto fino ad un canale di deflusso idrico (ἔς τὸν δοίσκον)

che scorre dalla “narice” della fortificazione (τὸν ὑπὸ τὰν diva τὰν ἐν τῷ πύργῳ), ubi terminus (el τέζομων)), cioè là dove è posto il segnale di confine. Da qui (siamo nell'angolo NO) ha inizio l'altro lato lungo (nord) del lotto. Esso, identificandosi con il canale di deflusso, discende il pendio per raggiungere il greto dell'Aleso, (καὶ κατὰ τοῦ δοίσκου ἐς τὸν ροῦν τὸν " Akcucov). Il perimetro del lotto viene poi chiuso risalendo (da NE) la riva sinistra del fiume (καὶ ἄν τοῦ ᾿Αλαίσου) fino a raggiungere (a SE) il punto iniziale da cui aveva avuto inizio la descrizione del lotto (ἐς τὰν ἀρχὰν τᾶς περιωρεσίας) 1.2 La seconda ‘gis -- narice rappresenta il vertice NO del quarto lotto di terreno (II 52,57). In realtà anche in questo, come si è già visto nel primo, il tracciato dei confini indica come punto iniziale il canale di che fuoriesce Ἐκ τοῦ διαπάυματος (su cui torneremo più avanti) e come estremo del lato ovest il canale di scorrimento (ἔστε ποτὶ τὸν ροίσκον) più che la ‘gis che lo alimenta (τὸν έοντα Ἐκ τὰς 'owóc), quella che, in questo caso, si apre all'altezza del tempio (τᾶς κατὰ τὸ t296v). Questo perché i confini dei lotti possono coincidere ma non inglobare il terreno di diritto pubblico, indisponibile, del vero e proprio pomerium. Le ‘gives - narici presenti sul muro della città rimarranno esclu-

se dall'area dei κλᾶροι; i punti topografici ricadenti nel pomerium dovranno essere considerati tutti punti di riferimento visivo per i tracciati che sotto di essi si sviluppano, lungo il pendio, nella posizione privilegiata di chi osserva dal basso verso l'alto. 1.3 Due "otvec-narici segnano i punti estremi del lato ovest del sesto lotto (II 63-72): quella che già abbiamo conosciuto come seconda (II 53-54), posta all'altezza del tempio - stavolta specificato come quello di Apollo (II 64: "Azó τᾶς 'Qwóc τᾶς κατὰ τὸ ἱερὸν τοῦ ᾿Απόλλωος) - e quella, appunto la terza ‘gic, che si apre vicinissima alla torre della cinta muraria (II 65:

...&ote ποτὶ τὰν “getva τὰν.

πελαστάταν ποτὶ τὸ tuogidiov...), non altrimenti specificata forse perché l'unica esistente tra queste due regiones nel loro sviluppo a monte. 1.4 E infine sono ancora una volta due ‘otveg ad essere scelte come punti estremi del lato ovest nel primo lotto della regio degli Scireoni (II 76-77), topograficamente anonima, per dir così, è la prima (Ἀπὸ τᾶς Ῥεινὸς καθὼς Ὁ πύργος), mentre è localizzata prossima alla "seconda torre” l'altra

(ἄχρι ποτὶ τάν ‘getva τάν εχομέναν τοῦ f’ τυρρίδιου). Bisognerà considerare anche la possibilità -- duplice in questo caso come in quello precedente riguardante lo ἱερόν del quarto lotto, precisato poi nel sesto come τὸ ἱερόν τοῦ ᾿Απόλλωνος — che anche il τυρρίδιον del sesto lotto (II 65-66) possa coincidere con il τυρρίδιον B' del primo lotto degli Scireoni (II 77): una eventualità dal sapore di rebus (contra Kuinra 1882, 16). 1,5 Il carattere festante di questa nota e il suo primo assunto sarebbero inevitabilmente appesantiti da una eventuale analisi topografica - con relative documentazioni cartografiche c foto — di que600

sto come dei passi precedentemente esaminati.

Non posso non ricordare che le ricerche preliminari sul πύργος di Halaesa (Carerront 1959) hanno evidenziato ben tre torri proprio su questo lato orientale della cinta muraria, a non contare quella che si ergeva all'angolo SE, connessa alla fabbrica della omonima porta. 1.6 Ma è la fortificazione dell'anonimo centro ellenistico - romano di Troina, sui Nebrodi meridionali a SE di Halaesa, che ci olfre a tutt'oggi il riscontro più probabile sul significato di 'olz ad

Halaesa. La cortina muraria, anche qui ad ag-

gere, che asseconda la balza rocciosa su forti pendii, presenta nel settore A (località Rusone) e in quello G (località Catena) gli sbocchi di due canali di deflusso di cloache che si presentano con una apertura realizzata a due luci da un setto mediano a doppia assise di ortostati. L'esplorazione parziale del settore G ha comunque accertato che la cloaca, parecchi metri prima di presentarsi sulla fronte della cortina, piega ad angolo retto, formando “martello”. Da questo punto, peraltro non più in pendio, la violenza del deflusso idrico era ulteriormente spezzata dalla presenza di un setto mediano che sul fronte

compatto dell'apparecchio ps.isodomico della fortificazione veniva, per così dire, a “disegnare”

Fig. 1. Troina (Enna). Cinta muraria in località Catena (settore G). Sbocco di cloaca a «narice» (oic).

una δὺς: vorrei dire più che un “naso” le nari-

ci di un naso (fig.1). 1.7 Tra le implicazioni suggerite da questo testo epigrafico si pone subito in evidenza quella urbanistico - idraulica, suggerita dalla possibile equazione ‘gis = cloaca e cioè decumano, e quindi decumano = ‘gis. È proprio il fianco orientale dell'area urbana ad averci restituito numerosi tracci ti stradali E-O che scendono a gradoni verso le mura (CaRETTONI 1961). Essi sembrano tutti dotati di cloaca centrale (alta fino a m.0,80), essenziale per lo smaltimento delle acque meteoriche, devastanti in un terreno in pendio. Sappiamo poi che l'interasse dei decumani è di m. 35 c.a. L'indagine futura chiarirà se ad ogni decumano corrisponde una 'oiz o se la canalizzazione urbana ha adottato improbabili sistemi cumulativi o di conserva d'acqua. Altrettanto perplessi si rimane nell'ipotesi (4° — 6° lotto, Π 53:64) di una scansione per ‘gives successive, dal momento che la distanza con il fiume corre dai 300 ai 500 m. Altre ‘otvec potrebbero trovarsi intermedie tra quelle scelte come vertici dei κλᾶροι. Sarà certamente l'insieme dei dati archeologici che si raccoglieranno in futuro nell'area del pomerium che potranno rendere, come tutti auspichiamo, questo “catasto” da adnotatum, pictum. IL διάπαυμα

2.1 Se Guarerus 1625 nella sua versione latina traslittera semplicemente il termine, STEFANUS

TGL III 1263, facendo riferimento alla tabula halaesina, traduce intervallum. Sicca 1924, 170 candidamente esplicita che ...si vuole indicare il luogo donde esce il ruscello e dalla stessa descrizione appare

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che esso è nel πύργος. ARANGIO Ruiz e OLIVIERI 1925,59 disegnano una interruzione nella cortina mu-

raria, dopo aver citato a p. 57 van Herwerden (quid sibi velit, obscurum) e lo Schwyzer (qua sunt moenia intermissa, lacuna?). Infine Dusors 1989, 245 suppone che . pourrait designer un endroit où la canalisation est interrompue et coule en cascade (?). 2.2 Διάπαυμα ricorre in II 48, 52, 56 con riferimento al medesimo punto topografico - catastale e cioè al canale (ροίσκος) che da esso scorre per giungere al corso dell'Aleso, così delineando il confine tra il terzo e il quarto lotto della regio del fiume Aleso. Se consideriamo che ogni ροίσκοςΓροείδιον è alimentato sempre da una ‘gis - narice aperta nella fortificazione, per lo smaltimento del deflusso di cloache, dobbiamo concludere che con διάπαυμα si è voluto indicare una “interruzione” — "intervallo" — "sospensione" che, riferita ad una fabbrica struttura muraria di cui non si indicano forma e sviluppo ma solo alcuni elementi macroscopica mente visivi che di essa caratterizzano lo svolgersi, come punti di riferimento per divisioni agrarie, possiamo meglio definirla “squarcio”, “fenditura per crollo del muro”, là dove si apriva la ‘gig che alimentava il ροίσκος che divide il terzo dal quarto lotto. 2.3 To credo che l'indicazione che da ciò consegue è di grande portata. Se è vero che in una divisione agraria gli elementi scelti come punti fermi tali devono rimanere nel tempo, è anche vero che questo “crollo” — διάπαυμα della cinta muraria deve essere stato considerato parte integrante del “paesaggio”, dando al contempo la certezza che tale sarebbe rimasto. Un crollo - non risarcito - della fortificazione ci suggerisce tante cose, sulla sua funzione e funzionalità, diacronicamente considerata, e quindi anche sul momento in cui questo stato di “rovina” ormai duraturo viene registrato in un documento pubblico. Siamo ansiosi di leggere la promessa edizione della tabula halaesina (PRESTIANNI 1977); per intanto dobbiamo constatare che le magistrali indicazioni fornite da G. Kaibel nella suo insuperato commentariolus del 1882 — mi riferisco in special modo a ciò che Egli ha prodotto per quanto concerne l'età in cui è stata scritta la tabula - sono state fraintese, o ignorate dagli studiosi - probabilmente per l'ingenua persistente tendenza a volersi occupare solo di documenti “antichi”, per esempio "greci”, addirittura più antichi di quanto non mostrino di essere - inconsapevolmente suggestionati, pur nella ricerca, dal mito dell'Ellade o da quello esiodeo della primigenia età dell'oro, tesi verso quel passato originario contro cui “ . il concetto di un progresso umano si era trovato a combattere... NOTE * Abbreviazioni: ARaNGIO Ruiz - OLiERI 1925 = V.Asaxcio Riz - A.Ouveas Inscriptiones Graecae Siciliae et Infimae Italiae ad ius pertinentes, Milano. Beznasó Bara 1975 = LBesxand Bria, Che cosa conosciamo dei centri indigeni della Sicilia che hanno coniato monete prima dell'età di Timoleonte, in “Le emissioni dei centri siculi fino all'epoca di Timoleonte e i loro rapporti con la monetazione delle colonie greche di Sicilia’, Atti del IV Convegno del Centro Intern. di Studi Numismatici - Napoli, 9-14 aprile 1973, Roma, 3-51. Carasso 1989 = I. Cunisso, Corsi d'acqua come indicazione di confine nella grande iscrizione di Alesa, PAP 44, 1989, 281285. Cuero 1959 = GF. Canerton, Tusa (Messina); Scavi di Halaesa (prima relazione), in NSe, serie VIII, vol.XII, 293.347, G.F. CarettoNI, Tusa (Messina); Scavi di Halaesa (seconda relazione), in NSc, serie VIII, volXV, CarertoNa 1961 266321 Cour - Becr SDI, 1905 = H.Coutsrz - F.Becrrzt, Sammlung der griechischen Dialekt - Inschriften, BÀ.III, 2 Halte (Otto Hoffmann, Die Sicilischen Inschriften): n.5200. Dusors 1989 = L Durors, Inscriptions grecques dialectales de Sicil, Roma. Franz CIG = Franz, Corpus Inscriptionum Graecarum,vol. III, 5594. Guarrenus 1625 = G.GuaLrenus, Siciliae antiquae tabulae, Messina. IG XIV 352 1890 = IG XIV, Inscriptiones Graecae volumen XIV. Inscriptiones Italiae et Siciliae, ed. Georgius Kaibel, Berolini, 61-67. ‘Kupei 1882 = GKumet, De inscriptione halaesina commentariolus, Rostochii Kan.sson 1992 = L. Kagisson, Fortification Towers and masonry techniques in the hegemony of Syracuse, 405-211 B.C. Stockholm 1992. Mascavano 1979 Mancano, La provincia romana, in Storia della Sici , Napoli, vol. I 602

Pare-Bensener = Pare-Bensener, Worterbuch der Griechischen Eigennamen (8 ed.), 1417 Σκυρεῶνοι. PrestAnNI 1977, 209 = A.M. PrestiannI, Per una edizione dei frammenti della Tabula Halaesina, ASM II serie, XXVIII, 35. ScuwvzR DGE = E.Sciwvzer, Dialectorum Graecarum exempla epigraphica potiora, Lipsiae, n.313. Scinoxa 1975 = G.Scmona, Gli scavi di Halaesa, in Sica, 76, 1975. Sicca 1924 = U.Sicca, Grammatica dell iscrizioni doriche dell Sicilia, Arpino. Srenuvs TGL = ϑτερμανυς, Thesaurus Grecae Linguae,1829, I 1263, VIL 2391-92. WiteLa 1935 = A.WilweLx, Diodoros XIX 45, in Rheinische Museum für Philologie, 84, Helft 3. ? Escludo che possano essere considerate vec le due fessure (cm 30 ca.) distanti tra loro oltre una decina di metri, presenti “ad intervalli di uno ogni sei” nelle c.d. Mura inferiori (ctr. CARETTONI 1959, 340) al centro di due dei piloni di marna argillosa che costituiscono l'elemento portante "chains" (είς. Kanusson 1992, 93) della struttura muraria "a telaio”. In realtà per quanto si tratti di pietra estremamente debole, i blocchi che le costituiscono non presentano alcuna traccia di usura imputaἃ scorrimento idrico, almeno nella parte a vista, non interrata. ? Si legga il bel saggiodi Giuseppe Giaknizzo, If progresso come ritorno?, in "Storia, Filosofia e Letteratura: Studi in onore di Gennaro Sasso", Bibliopolis, Napoli 1999, 403-412.

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ANNA SIRACUSANO A PROPOSITO DI DUE OSCILLA FIGURATI DA MONTE SARACENO

Due oscilla con raffigurazioni insolite provengono dall'acropoli dell'antico centro di Monte Saraceno, sede di un villaggio indigeno della cultura di S. Angelo Muxaro-Polizzello trasformato in città greca nel corso del VI sec. a.C. !. La presenza umana sulla montagna, almeno nella parte sommitale, è però anteriore alla prima età del bronzo; il succedersi, spesso drammatico, degli insediamenti si spiega con la posizione elevata, a ridosso, dal lato ovest, della bassa valle del fiume Himera, importante via di penetrazione dalla costa meridionale verso l'interno della Sicilia, e di comunicazione con la costa settentrionale, che pure costituisce una linea di confine naturale, di incontro-scontro tra culture e poi tra diverse entità politiche. Con la posizione si spiega dunque in parte la storia peculiare del centro, che ovviamente corrisponde a quella della regione, così come gli aspetti strutturali ed i caratteri culturali di ciascuna fase corrispondono ai sistemi delle civiltà di appartenenza? Alla sfera di una storia individuale si vuole però ricondurre gli oscilla, che in un mezzo povero e con ingenuità trascrivono immagini elaborate dell'arte greca. Su uno di essi è raffigurata, da un lato, una quadriga alata guidata da Nike; dall'altro, la testa di un leone? (fig. 1). Il disegno della quadriga è confuso, lo stampo era forse consumato o l'impressione è mal riuscita. Le teste di tre cavalli sono rese di profilo verso sinistra, mentre quella dell'ultimo cavallo a destra, che è l'unico visibile per intero, sembra rivolta nella direzione opposta, e resa forse frontalmente o di scorcio, come del resto si è inteso rappresentare il corpo; in forte scorcio è la sottile, ellittica ruota. Nell'intrigo di linee che indicano le zampe, si percepisce tuttavia come quelle posteriori poggino sulla linea orizzontale che rappresenta il terreno, quelle anteriori siano invece molto sollevate e flesse. La Nike s'intravede appena dietro i cavalli, che sovrasta; in alto, al centro, il volto inclinato ed una delle lunghe ali striate, che percorre il campo figurato estendendosi fino al margine sinistro, quasi ad inquadrare l'intera scena ed orientarla spazialmente. Dell'altra ala rimane solo l'attacco, ma si può presumere che fosse similmente ampia. La superficie corrosa dell'oscillum non permette di rilevare altri dettagli del corpo della Nike, che si interpreta stante, non in volo, o un'eventuale altra figura affiancata. La Nike è infatti sullo sfondo, non a lato della quadriga, secondo la più consueta posizione di auriga; rimane così posto per un altro personaggio, esso pure arretrato rispetto ai cavalli. L'effetto ricercato con qualche ingenuità era forse quello di una visione quasi frontale, malgrado il rendimento di profilo di tre degli animali, i quali tutti sembrano impennarsi anziché galoppare. La raffigurazione impressa su questo oggetto di uso domestico, di valore umile, riflette un'esperienza artistica di alto livello. La quadriga è un soggetto ricorrente nell'arte greca fin dal periodo geometrico, in contesti agonali, o di battaglia, o come veicolo di epifanie divine. Sia nella visione frontale che in quella laterale, più diffusa, il rendimento è all'inizio rigidamente bidimensionale, la linea di contorno disegna profili senza spessore, anche se replica alcuni dettagli variandone appena la posizione, per indicare tutti i cavalli, e quindi l'esistenza di diversi piani, su cui spesso altre figure sono dislocate. Le figure anteriori clidono in parte quelle più lontane, senza tuttavia creare un senso di reale profondità ‘. Il progredire dell'arte greca, con metodo che definirei "sperimentale", nel senso dell'organicità, investe ovviamente anche il rendimento della quadriga, nella pittura come nella scultura’. 605

Fig. 1. Oscillum AGS 6104. Nike su quadriga.

Εἰ. 2. Oscillum AGS 6104. Testa — Fig, 3. Oscillum AGS 6263. Testa

di leone.

di leone.

Dapprima si anima la composizione variando la posizione dei cavalli o distanziandoli l'uno dall’altro, in modo da rendere visibile quasi interamente la parte anteriore, descrivendo alcuni clementi di prospetto, altri di profilo, per dare l'impressione di una veduta "obliqua" o di un movimento "circolare"*. Inizia così, già allo scadere del VI sec. a.C., la tendenza a rappresentare la quadriga, oltre che di fronte e di lato, di tre quarti, tendenza che si afferma, secondo Vermeule”, nell'ultimo ventennio del V sec. a.C. In effetti matura, nel corso del V sec. a.C., la capacità di realizzare, nel disegno e nel rilievo, lo scorcio, che declina corpi ormai pienamente volumetrici in uno spazio tridimensionale definibile con coordinate prospettiche. Una sperimentazione intensa, continua e significativa del motivo della quadriga, delineata da Vermeule e precisata dalla Caltabiano*, si realizza nella monetazione siceliota tra gli ultimi anni del V ed i primi del IV sec. a.C. Presente da tempo come tipo stabile di Siracusa e ricorrente in altre città, la quadriga assume ora, più o meno accentuatamente, la nuova impostazione spaziale. Tra i risultati migliori, il decadramma di Akragas datato al 411 a.C.: alla composizione della scena è qui sottesa una serie di direttrici oblique convergenti oltre la figura plastica ed energica dell'auriga nudo, evidenti nello scalare delle teste mosse dei cavalli, nella linea continua delle redini e del braccio, nelle zampe scalpitanti senza limitazione di esergo, nell'asse della ruota inclinata ed ellittica. L'effetto è di un movimento irruente da un fondo lontano, fuori del campo visibile, di uno slancio ascensionale, di un volo nello spazio quale si addice al dio Helios’ Forse ad uno stacco verso l'alto voleva alludere l'esile ruota dell'oscillum, similmente, e insolitamente, inclinata; è tuttavia da escludere che la moneta agrigentina abbia fornito il modello diretto per lo schema dell'oscillum. In realtà, nessuna delle monete siceliote, in cui la quadriga presenta notevoli varietà di formulazioni e diversi personaggi, tra cui Nike, come aurighi, sembra costituire un precedente specifico. Esistono oscilla ispirati a tipi monetali, come quello proveniente da Taranto ", in cui è raffigurato un giovane su un delfino. Ma si tratta di casi piuttosto rari, a differenza di quanto ci si aspetterebbe considerata l'analogia del campo figurato tra monete e oscilla; e l'ispirazione risulta generica, legata forse più ad altri mezzi di trasmissione dei motivi. Il motivo della quadriga guidata da Nike'!, già presente nella ceramica attica, è frequentissimo nella ceramica italiota di IV sec. a.C. Tra gli esempi attici, si può ricordare un cratere a campana di Olinto3, della fine del V sec. a.C., in cui la quadriga costituisce il soggetto principale; in questo caso i cavalli, piuttosto distanziati l'u-

no dall'altro, sono resi in leggero scorcio.

In posizione decisamente obliqua è invece disposta la quadriga raffigurata sul collo di un cratere

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a volute italiota "; di tre quarti la quadriga guidata da Zeus e da una divinità alata nella gigantomachia dipinta su un cratere a calice da Taranto" Ormai comunque l'uso dello scorcio è diventato normale nel disegno di tutte le figure, e ne sottolinea la plasticità, lo spessore, la collocazione in uno spazio multidimensionale che le stesse figure rendono percepibile, più delle eventuali indicazioni prospettiche. La qualità degli esiti è però estremamente varia, e dipende dallo stile o dall'abilità del singolo artista o artigiano; il risultato più comune è quello di una generica verosimiglianza, senza preoccupazioni di rigorosa coerenza. Anche nella glittica e nella oreficeria si riscontra una diffusione del motivo della quadriga guidata da Nike, sola, come nel castone di una anello d'oro del British Museum datato alla fine del V sec. 2.C.5, o accompagnata da un altro personaggio, come nella patera ombelicata d'argento di Basilea, di IV sec. a.C., nel cui fregio a rilievo la quadriga era replicata quattro volte e Nike vi compariva con Eracle, Atena, Ares e Dioniso '*. In riferimento alla glittica, è opportuno ricordare che molti oscilla e pesi da telaio piramidali sono marcati con sigilli e anelli, secondo un uso che Burr Thompson data a partire dalla fine del V sec. a.C"; e che esiste una notevole corrispondenza tra sigilli e monete'*. 1 soggetti di questi bolli sono svariati e più o meno generalmente diffusi ?: motivi decorativi semplici, come palmette, rosette, meandri, svastiche®, croci e ghirlande, anfore, ciste, clave, kerukei; personaggi divini, o talora forse semplicemente umani," o mitici, come Nike, in volo o stante di fronte a un trofeo”, Scilla e altri esseri serpentiformi, Eracle in diversi atteggiamenti 3, Atena™, Dioniso, Afrodite sul cigno, Menadi danzanti e centauri *; cavalli *, pegasi, grifi®, delfini e anche lepri”; altre scene, come quella di un giovane appoggiato a un cippo o seduto vicino a un'erma, o incedente, forse Apollo”, o quella di un cavaliere al galoppo”. Fra i soggetti inconsueti, una figura virile nuda sdraiata nel bollo di un oscillum di Selinunte è stata interpretata come Filottete?. In genere questo tipo di decorazione è costituita da un solo bollo, ma non mancano i casi in cui il bollo è ripetuto più volte, come in un oscillum da Taranto al Museo di Trieste, con la figura di un uomo seduto ai piedi di un'erma (dicci volte)”, e su un peso tronco-piramidale da Oppido Lucano, con scena illeggibile (il sigillo ovale è impresso sette volte su un lato, sei su un altro, cinque sugli altri due lati e una volta in alto)”; un oscillum da Solunto presenta su uno dei lati cinque bolli ovali col motivo di Eracle che strozza il leone e sul bordo una serie di tredici bolli rotondi con una Menade danzante Talora l'affinità tra le figure pressoché miniaturistiche impresse con sigilli e anelli sugli oscilla e sui pesi tronco-piramidali e alcuni tipi monetali è chiara, c potrebbe essere diretta, come nel caso del cavallo libero al galoppo» o dell'Eracle in lotta con il leone di monete dionigiane, del pegaso timoleonteo, o della Nike che incorona un trofeo di età agatoclea *. Per il motivo della Nike che erige un trofeo, un confronto interessante è pure costituito da uno scaraboide di Onatas, di IV sec. a.C. In qualche caso si riesce anche ad individuare il lontano modello “monumentale” all'origine di repliche di così piccole dimensioni, come probabilmente le menadi sulla base del donario votivo per le Baccanti di Euripide, opera di Callimaco del 406/405 a.C., per la menade dell'oscillum di Solunto». Ma si tratta normalmente di motivi comuni nel repertorio figurativo di IV sec a.C. e di età elleni stica, anche se qualcuno risale ad un periodo più antico, per cui è difficile stabilire dei precisi rapporti di derivazione; tuttavia si può almeno occasionalmente proporre una correlazione cronologica o contestuale, come nel caso dei bolli con raffigurazione di Scilla su alcuni pesi tronco-piramidali di Himera, che Belvedere connette al rilievo di un'arula e a determinate serie monetali*. Raffigurazioni di Scilla di varia iconografia sono però diffuse anche nella ceramica italiota e siceliota; probabilmente alla seconda metà del IV sec. a.C. appartiene l'oscillum in cui la figura di Scilla è impressa a tutto campo, trovato tra gli scarti di una fornace a Gela insieme ad una quantità di oscilla con il consueto Gorgoneion *. 607

Anche il motivo della quadriga appare un paio di volte entro bolli di pesi tronco-piramidali a Oppido Lucano, in questi casi interpretata come quadriga di Helios^. Su tutto il campo si riscontra invece a Metaponto, in un oscillum del santuario di Apollo*; lo schema è però diverso da quello dell'oscillum di Monte Saraceno, e presenta un auriga imprecisato sulla destra ed i cavalli con la testa rivolta alternativamente a destra e a sinistra. Zeus è l'auriga della quadriga raffigurata su alcuni oscilla tarantini, elencati da Wuilleumier®. Non sono invece noti esemplari analoghi in Sicilia, per cui la provenienza dell'oscillum di Monte Saraceno rimane incerta; è d'altronde ragionevole supporre che lo stampo circolare, concepito appositamente per oscilla, ne abbia decorati altri. È anche singolare la testa di leone impressa sull'altro lato dell'oscillum (fig. 2). L'espressione è mite; una linea incisa sottolinea lo stacco tra la fronte e la criniera che doveva essere fiammeggiante e circondare tutta la faccia fino ai baffi ondulati. Un'altra linea divide verticalmente la fronte; le orecchie sono piuttosto piccole, quella sinistra, più chiara, risulta quasi triangolare. Le tempie sono marcate, le arcate orbitali, in cui risaltano gli occhi tondi, profonde e sinuose, anche le guance sono ben differenziate e gonfie. La bocca, non indicata, doveva intendersi chiusa. Il tipo del leone frontale è presente su monete di Reggio e di Messana di V sec. a.C.**, ma non è paragonabile; solo genericamente somigliante è un tipo reggino della seconda meta del IV sec. a.C. Le gronde leonine sono diffusissime, ma un confronto non è facile. L'unico confronto stringente, anzi pressoché identico, è costituito da un altro oscillum di Monte Saraceno, che presenta la testa leonina su entrambi i lati (fig. 3). Anche in questo caso, non ἃ verosimile che questo tipo di decorazione fosse esclusivo di Monte Saraceno, ma non sono noti al momento esemplari simili. I due oscilla propongono altri interrogativi riguardo al significato delle figure impresse, e, di conseguenza, alla funzione degli oscilla. È proprio il fatto che alcuni oscilla siano figurati, oltre che la loro forma ed i fori di sospensione, ad aver suggerito l'ipotesi di un uso sacrale. II termine con cui si sono definiti, impropriamente perché latino, questi dischi di terracotta, appare nelle Georgiche, in riferimento alle feste di Liber Pater". Si è poi proposta una relazione tra queste feste e quelle ateniesi di Dioniso, in particolare con la pratica dell'aisoa; si è collegata la sospensione di oscilla alla decorazione di alberi sotto cui si celebrava il komos bacchico. Ultimamente è prevalsa invece l'ipotesi di un uso domestico degli oscilla come pesi da telaio, al pari c in alternativa ai pesi tronco-conici e tronco-piramidali^, Anche i bolli con lettere, iscrizioni’ figure, i vari tipi di incisioni spesso elementari, come croci®, frequenti sui pesi, sarebbero marche di fabbrica", o indicherebbero il proprietario, o segnalerebbero la posizione o il numero dei fili dell’ordito®, Per tutti, si ammette però la possibilità di usi secondari, non precipuamente connessi alla natura degli oggetti, come doni votivi o funerari. È indubbio che i pesi tronco-conici e tronco-piramidali servissero per i telai, come dimostrano

anche raffigurazioni vascolari e moltissime circostanze di rinvenimento; queste però risultano varie. Si considerino infatti, da un lato, a titolo di esempio, i numerosi pesi rinvenuti nell'abitato peucetico di Monte Sannace, significativi di un'intensa attività tessile domestica. Dall'altro, i pesi del santuario di Apollo a Metaponto, dove furono trovati anche molti oscilla con l'iscrizione tev; i pesi e l'oscillum con protome femminile, verosimilmente Afrodite, dalla stipe votiva di Lucignano, nella Lucania orientale; i tre pesi piramidali e i “δισκοι" in terracotta, alcuni inornati, altri decorati con rosette, uno con incisa la torcia a quattro braccia, sacra a Demetra e Kore, dal deposito votivo di Cozzo Presepe, presso Metaponto (320-270 a.C.)*. Una quantità notevole di pesi piramidali era collocata a livello delle fondazioni di un edi io di età timoleontea, sull'acropoli di Gela, insieme ad una minuscola lekythos acroma ?.. Simili depositi si riscontrano altrove a Gela, sulla stessa acropoli*, e a Manfria, in una fattoria608

officina”. Anche ad Oppido Lucano (Potenza), nel contesto di una necropoli, un gruppo di trentotto pesi era incluso nel letto di preparazione di un muro®. A Morgantina, invece, è un peso discoidale a trovarsi, insieme a frammenti di statuette e a vasetti, sotto le fondazioni dal lato interno del muro di fortificazione, del I quarto del ΠῚ sec. a.C. Non mancano rinvenimenti nelle necropoli, come a Centuripe®, da dove proviene un grande oscillum con testa di Medusa a rilievo; o a Oppido Lucano, con i pesi tronco-piramidali variamente decorati deposti in numerose sepolture? Non si può dunque negare il valore rituale dei pesi da telaio in determinati contesti, valore già rilevato da Orlandini, che lo considerava prevalente “; Di Vita tuttavia ne corresse l'ipotesi, ricordando sia le antiche raffigurazioni di telai che le documentazioni degli scavi, e affermando l'uso pratico primario anche dei cosiddetti oscilla La funzione degli oscilla come pesi sarebbe fra l'altro indicata dalla figura di una civetta con braccia umane, che fila su un kalathos pieno di lana, impressa su alcuni oscilla pugliesi a forma di ferro di cavallo“ la civetta, presente anche su pesi piramidali dell'acropoli di Atene, è indubbiamente legata alla dea Atena, protettrice della tessitura. La decorazione, in effetti, è inerente all'uso, ma certo non in senso strettamente pratico; proprio questo caso induce pertanto a supporre che comunque la decorazione di molti pesi da telaio avi se uno scopo relativo all'uso stesso, in senso decorativo e insieme forse religioso, magico o propi torio. L'importanza dell'attività tessile può anche spiegare le pregnanza rituale, che sembra riduttivo considerare occasionale, assunta spesso da pesi e oscilla. Come sottolinea Bérard’, ad Atene filare la lana è imitare la dea tutelare della città, che porta l'epiteto di Ergane e incarna il modello esemplare; la fabbricazione di vestiti quotidiani ricorda la preparazione rituale del grande mantello ricamato offerto alla dea per ornare la sua statua. Anche in altri contesti sacri doveva essere comune la dedica di tessuti come doni votivi. Il lavoro al telaio era dunque riferito ad un ordine trascendentale che lo caricava di un valore simbolico pos tivo, e che probabilmente valorizzava anche i suoi strumenti **. Forse l'idea di decorare i pesi, che ad Atene si rileva già in età geometrica‘, non è disgiunta dalla cognizione di un particolare valore; i motivi decorativi, che raramente hanno un'incidenza notevole sugli oggetti dal punto di vista estetico, potevano esprimere in qualche modo la qualità simbolica, la preziosità. Dalla molteplicità dei tipi di decorazione è impossibile dedurre un concetto unico o prevalente, anche se numerosi motivi sono generalizzati o ricorrenti; ed è pure difficile capire il significato specifico di ciascuno, o intuire quanta consapevolezza ne avesse il proprietario. Ma se alcuni segni, spesso graffiti geometrici elementari, restano indecifrabili (erano forse magicia), le scene e le figure divine e mitiche avevano certamente un senso, percepibile in qualche misura, dal momento che la loro diffusione corrispondeva alla dinamica dell'intero sistema culturale, anche se era talora originata da modelli monumentali celebri; questi d'altronde scaturivano anch'essi dal sistema culturale e a loro volta ne orientavano la trasformazione, a livello figurativo e insieme concettuale. Anche semplici oggetti o animali non erano insignificanti, spesso costituivano gli attr ‘ibuti di personaggi divini o mitici, come la folgore, la clava o il kerukeo, o rappresentavano una sfera rituale o cultuale, come ciste e ghirlande, ricorrenti nel contesto di innumerevoli scene vascolari di IV sec. a.C. Il riscontro, cui si è fatto cenno, con diversi tipi monetali, è indicativo del valore simbolico delle figure impresse sui pesi da telaio; infatti l'apparizione di un tipo, come anche la presenza di un dettaglio, non poteva essere casuale, ma determinata dalla volontà di trasmettere un messaggio di necessità abbastanza esplicito, nei limiti di un linguaggio allusivo. Τ collegamento tra segno e significato è più o meno diretto, spesso corrispondente ad associazioni comuni, di ordine generale o stabilite per antiche e diffuse tradizioni mitiche o cultuali; talora 609

connesso a situazioni locali specifiche, radicate nel passato o decisamente attuali, relative a contingenze politiche. Figure e scene hanno dunque per lo più un significato convenzionale radicato nel sistema culturale, ma con valenze variabili secondo i contesti; anche soggetti inconsueti attingono in genere a schemi iconografici tradizionali, di cui si riconosca il riferimento ad un carattere, ad una funzione, ad una qualità. In molti casi, almeno per noi, il significato risulta oscuro, a volte per la rarità o la complessità di una raffigurazione, per cui manchino elementi di confronto, a volte anche se la raffigurazione è semplice, ma priva di una connotazione che precisi il valore di un simbolo polivalente o ambiguo. È dunque ragionevole supporre che le figure impresse sui pesi da telaio, come anche i segni incisi

e le iscrizioni, non avessero una funzione esclusivamente pratica, di cui tra l'altro non si spiegherebbe l'utilità; ma la funzione di “qualificare” oggetti umili, ma importanti, con motivi che anche al di là del significato intrinseco ne denotavano l'appartenenza alla comunità culturale caratterizzata da un repertorio di immagini. Se la presenza di bolli accomuna pesi piramidali e oscilla, per questi ultimi rimane l'interrogativo su un eventuale, altro uso connesso proprio alla forma discoidale, ai due fori, alle figure impresse, seppure in una minoranza di casi, sull'intero campo. La figura più frequente, quasi normale sia in Sicilia che in Magna Grecia, è il Gorgoneion". La funzione apotropaica del Gorgoneion, ricorrente in tutto il mondo greco su ogni tipo di manufatto, dal campo frontonale al fondo delle kylikes, è indubbia, per quanto paradossale; infatti il volto della Gorgone è "incontemplabile"", immagine mostruosa che pietrifica chi la guarda. Rappresentato sugli oscilla, il Gorgoneion può dunque spiegarsi con lo scopo di proteggere il lavoro al telaio; la forma degli oscilla si presta d'altronde a contenere quella circolare del Gorgoneion, che nei vasi attici appare inscritto entro cerchi perfetti, sia pure per adattarsi al campo, fondo di coppe e talora pupilla degli "occhioni Si sarebbe tentati di considerare la coincidenza tra le due forme non casuale, ma ricercata, per adattare l'una all'altra; e in effetti la forma degli oscilla risulta incongrua rispetto a quella dei pesi conici e piramidali in funzione esclusiva del telaio, anche se questa funzione è provata dalle raffigurazioni vascolari. L'ipotesi di un rapporto tra forma e decorazione negli oscilla sembra però negata dalla circostanza che gli oscilla più antichi, quelli ateniesi, erano inornati o decorati con bolli”. È comunque verosimile che la presenza del Gorgoneion renda esplicita una capacità di protezione degli oscilla particolare, esercitata anche al di fuori del telaio, attribuita proprio alla forma coincidente con la testa della Gorgone e adatta in ogni caso a contenere e mostrare raffigurazioni più dei pesi conici e piramidali. Quanto alle altre raffigurazioni, i soggetti non si prestano ad una interpretazione univoca; si deve inoltre ammettere che i motivi sono relativamente limitati, soprattutto in Sicilia, a quanto è noto. I modelli si trovano diffusi nel repertorio figurativo di IV sec. a.C., come i piccoli eroti con animali”, la Nike in volo con la ghirlanda “o l'Erote dalla sessualità ambigua, seduto con una cista in mano”, di cui non mancano esempi nella ceramica italiota e siceliota". Queste figure, apparentemente profane, sono inserite in scene di pertinenza muliebre, ma dal carattere simbolico, connesso alla sfera afrodisiaca ed alle sue nuove implicazioni di tipo soteriologico, che si diffondono verso la fine del IV sec. a.C.”; si tratta dunque di esseri familiari e certo benevoli. Come Afrodite è d'altronde identificato il volto femminile raffigurato su diversi oscilla tarantini, spesso affiancato da due figure alate”. Lo schema è attestato anche nella stipe votiva di Lucignano, nella Lucania orientale”. In Sicilia, invece, non presenta alcuna caratterizzazione il volto femminile definito “classico” da Orsi, che Orlandini considera di IV-III sec. a.C., perla pettinatura “a mellone"*; il rilievo in questo tipo, che rimane raro e limitato a Gela, per quanto sembra, è insolitamente pronunciato. Il volto maschile barbato che compare su alcuni oscilla di Gela" c su altri di Catania "e di Siracu610

sa, fu interpretato da Orsi come Dioniso o, preferibilmente, come Eracle, ipotesi quest'ultima in effetti confermata da tracce di leonté su qualche esemplare. Il mitico eroe poteva certo assumere una funzione protettiva, come indica una iscrizione di chiaτὸ intento apotropaico su un oscillum di Gela, databile agli inizi del IV sec. a.C.: "Qui abita Eracle, non entri alcun male" δ᾽ Sull’altro lato dell'oscillum è presente un Gorgoneion in rilievo. Non si sa quanto la formula fosse diffusa“, e perciò quanto comunemente ad Eracle fosse attribuito un simile ruolo, analogo a quello della Gorgone; in questo caso la formula rafforza l'azione del Gorgoneion, e conferma la qualità magico-religiosa dell'oscillum, anche se non prova che questa si esplicasse al di fuori del telaio, e fosse cioè un carattere primario dell'oggetto in quanto tale, che ne determinasse le applicazioni, e non solo un carattere secondario, inerente alla funzione di peso. Tra le altre figure rappresentate su oscilla, peraltro raramente, almeno per quanto è noto, quella del " cavaliere al passo con clamide svolazzante“, riscontrata a Gela, trova confronto in una serie di pinakes scolpiti, quadretti votivi datati tra la fine del IV e gli inizi del III sec. a.C., provenienti da Akrai, Siracusa e Morgantina®. Si tratta di un'immagine ideale, un tipo eroico per eccellenza, forse simbolo di immortalità; la presenza di serpenti talora precisa il ruolo funerario, comunque benefico di questo ἀγαϑός δαίμων. Probabilmente ai pegasi timoleontei si ispira la rigida figura di un pegaso descritto da Orsi e da Orlandini. Un'altra figura, pure considerata un unicum, è il volto di sileno su un oscillum di forma oblunga di Gela*. Di un fauno a rilievo su alcuni dischi si ha notizia per Selinunte”. In una matrice fittile, forse di oscillum, rinvenuta a Siracusa tra materiali misti, era raffigurato un cavallo corrente verso destra entro un giro di perle". Si ricorda ora la figura di Scilla su uno degli oscilla trovati tra gli scarti di una fornace ellenistica a Gela” la circostanza che su tutti gli altri fosse rappresentato il Gorgoneion induce a supporre che alla mostruosa creatura marina si attribuisse una funzione analoga. Un prevalente intento decorativo può invece forse riconoscersi nell'oscillum ornato con palmette e girali dell Antiquarium dell'Università di Catania”, come in altri più o meno simili dell'Italia meridionale**, Tra questi, un esemplare presentato da Bejor e proveniente da Taranto propone uno schema composito, con una palmetta, due delfini e rosette™. Un motivo a meandro è impresso su un oscillum di Gela”. Decorati con meandri e svastiche su tutto il campo sono dei pesi tronco-piramidali da Locri. ‘Tornando agli oscilla di Monte Saraceno, la raffigurazione della quadriga guidata da Nike, forse con un dio o un eroe, ha senza dubbio un significato positivo, ben augurante, tradizionalmente e diffusamente legato alla natura di Nike, personificazione della vittoria. Lo schema iconografico è anch'esso antico, formulato o esaltato da modelli monumentali e celebri, assunto in Sicilia come tipo monetale precocemente e stabilmente. Se la scena dell’oscillum rappresentasse, com'è possibile, l'apoteosi di Eracle, motivo favorito nei vasi attici e in quelli dell'Italia meridionale di V e IV sec. a.C., e nelle patere d'argento di tardo V sec. a.C.”, potrebbe significare anche ogni umana speranza di immortalità '* Non sorprende dunque che un'immagine così nota, il cui valore propiziatorio doveva essere apprezzato con immediatezza, al di là di possibili, diverse sfumature concettuali, sia stata applicata anche su un oscillum; né credo sia necessario pensare ad un'idea importata dalla Magna Grecia, dove comunque la presenza di schemi analoghi su vari oscilla ne conferma l'attualità. D'altronde, la testa di leone raffigurata sull'altro lato di questo e sui due lati dell'altro oscillum non trova, per quanto è noto, alcun confronto, e lascia propendere, al momento, per un'esecuzione locale. Ed anche la testa del leone, usata spesso come tipo monetale con diversi, pregnanti significati, doveva avere al fondo un potere apotropaico equivalente a quello del Gorgoneion, che ne spiegherebbe le numerose applicazioni, segnatamente in campo architettonico; una qualità "demonica", che si sarebbe esplicata anche nella funzione apparentemente solo decorativa di gronda "* 611

L'oscillum con la testa di leone su entrambi i lati è stato trovato fuori contesto"™, mentre quello con la quadriga apparteneva ad un piccolo insieme, coerente e tuttora in situ, costituito da altri due oscilla, uno dei quali inornato e bruciato, l'altro con bollo ovale dal disegno illeggibile; da un peso tronco-piramidale, da una fuseruola, dalla base di una lucerna acroma su alto piede, da un pestello, e da una monetina argentea databile al 480-470 a.C. !®

La monetina, una litra, è la barbarizzazione di un tipo degli oboli geloi ™, coniata perciò da qualche centro indigeno o indigeno ellenizzato. La sua presenza in un contesto certo più recente non sembra casuale, ma indica che la monetina fu custodita a lungo, insieme ad oggetti di uso domestico dal valore intrinseco molto minore. La posizione dei reperti e le circostanze di rinvenimento non consentono di precisare la cronolo-

gia dell'oscillum più delle indicazioni desunte dallo schema della quadriga con i relativi confronti, di cui forse il più significativo, perché raro, è costituito dal dettaglio della ruota inclinata del decadramma agrigentino, del 411 a.C., valevole tuttavia solo come termine post quem. Lo strato archeologico infatti non era conservato, a parte l'insieme di oggetti protetto da un lembo di terreno. L'ambiente in cui questi si trovavano, riposti in prossimità di una parete, in parte ricavata nella roccia (nella roccia era ricavato a tratti il pavimento), apparteneva ad un complesso residenziale, pur se ubicato sull'acropoli, a giudicare dalla planimetria. La struttura originaria risale a metà circa del VI sec. a.C., ma dopo una grave distruzione che interessò l'intera acropoli verso la fine del V sec. a.C. ", fu riutilizzata con qualche adattamento nel IV sec. a.C., conservando probabilmente lo stesso piano di calpestio, a differenza di altre strutture della fase arcaica, tra cui il muro di cinta, che servirono come sostruzioni di nuove strutture, dopo essere state livellate o coperte", Non è chiaro, pertanto, se l'insieme di oggetti preservato sia stato collocato in quella posizione prima della distruzione o dopo, quando l'acropoli fu ripopolata nel corso del IV sec. a.C., probabilmente già in età dionigiana, come indicano alcune monete!%, e con maggiore densità in età timoleontea e agatoclea *, La monetina suggerisce comunque che il proprietario (o la proprietaria) appartenesse ancora alla popolazione, che aveva abitato Monte Saraceno dall'età tardo-arcaica, costituita verosimilmente da coloni greci di Agrigento e forse da indigeni ellenizzati"Ὁ. Il contesto abitativo e gli altri oggetti associati all'oscillum sembrano confermarne l'uso domestico, ma non escludono di per sé un uso diverso da quello al telaio. Si è già considerato che la presenza di motivi decorativi sui pesi da telaio non può essere spiegata pienamente con uno scopo pratico, come quello di segnalare la fabbrica o il proprietario, se non riconoscendovi anche il senso di una valorizzazione; valorizzazione attraverso una forma di personalizzazione, quale si manifesta con molta probabilità anche nei numerosi nomi impressi o incisi ^, talora con un'esplicita dichiarazione di proprietà"!. Forse l'importanza della funzione di peso in sé sarebbe sufficiente a giustificare, come prima si accennava, questa personalizzazione, di cui altrimenti sfuggirebbe l'effettiva necessità o utilità; bolli iscrizioni riguardano infatti pesi trovati prevalentemente in ambienti domestici, prescindendo da

quelli del santuario di Apollo a Metaponto con la dedica "Bev. Le raffigurazioni a tutto campo impresse, seppure in una minoranza di casi, sugli oscilla, denotano con maggiore evidenza la volontà di decorare, perciò di impreziosire e qualificare oggetti di poco valore economico, con immagini del repertorio tradizionale, in genere dal valore apotropaico chiaτο, talora dal significato protettivo più sfumato, qualche volta in apparenza puramente ornamentali La ricorrenza della figura del Gorgoneion suggerisce la possibilità che anche gli oscilla decorati diversamente e quelli inornati avessero un carattere magico-religioso; è vero tuttavia che la presenza del Gorgoneion non sempre denota una funzione apotropaica specifica dell'oggetto interessato, come risulta evidente nel caso delle coppe attiche.

Se motivi decorativi diversi, seppure più rari, indicano forse che la funzione apotropaica non do-

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veva essere primaria o esclusiva, rimane indubbio che di frequenza agli oscilla era attribuita tale funzione, sia pure per il tramite del Gorgoneion o di altre figure dal significato analogo. La decorazione degli oscilla, nelle sue varie forme, tra cui si comprende lo scopo apotropaico, sarebbe spiegabile anche soltanto nell'ambito del lavoro al telaio, in cui sembra provato che pesi discoidali, o a ferro di cavallo, venissero utilizzati; l'impiego come doni votivi, al pari dei pesi troncopiramidali e tronco-conici, non dovrebbe sorprendere, perché anche gli oggetti di uso domestico pi umili ed economici potevano essere sacralizzati '*. Tuttavia è ragionevole ammettere una variabilità nell'uso anche domestico degli oscilla, in senso decorativo e/o apotropaico; risulta difficile invece ipotizzare un uso cultuale o rituale specifico, legato ad una particolare festività, al di là della normale e provata offerta come ex-voto. Per quanto ovviamente non disgiunto dall'aspetto funzionale, si è qui inteso sottolineare il gusto per la decorazione quale elemento determinante nella tendenza a marcare i pesi da telaio con bolli figurati, nomi e altri segni e, nel caso di molti oscilla, con raffigurazioni a tutto campo. La decorazione non è fine a sé, ma serve a qualificare e personalizzare, con immagini della propria tradizione culturale che confermano l'identità sociale e perciò anche individuale, attinte secondo i mezzi disponibili correnti; immagini comuni mai del tutto prive di significato, anzi spesso intensamente evocative persino nelle forme più semplici, talora con una decisa connotazione magicoreligiosa.

L'immagine della quadriga e quella del leone avevano sicuramente un senso per i proprietari (o le proprietarie) degli oscilla, il senso di immagini tradizionali diffuse e forse viste su altri, più costosi oggetti; immagini che rendevano preziosi i pesi da telaio per chi lavorava e ne proteggevano il lavoro con la loro qualità ben augurante. NOTE

* Ringrazio il Prof. Ernesto De Miro, già Direttore della Sezione Archeologica del Dipartimento di Scienze dell'Antichità della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Messina, cui è dedicata questa raccolta di studi, per avermi affidato la direzione e la pubblicazione degli scavi sull'acropoli di Monte Saraceno. Ringrazio anche la dott. Graziella Fiorentini, Soprintendente ai BB.CC. di Agrigento, per la Sua disponibilità, e il personale della Soprintendenza per la collaborazione di tanti È Vedi AA.VV. Monte Saraceno di Ravanusa. Un ventennio di ricerche e studi, Messina 1996. Ivi bibliografia precedente. ? AGS 6104, Diametro cm 8, spessorecm 2,3. Argilla rosa M.7.5YR 7/4. (dinos del Pittore dell'a + Cr, ad es, J. Bonrpwaw, Athenian Black Figure Vases, Thames and Hudson 1974, p. 35, fig. 47 fig.168 (anfora di Psiax, cropoli 606), p. 34, fig. 46,3 (vaso Francois), p. 36, fig. 54 (iydria del Pittore di Londra B76), p.106, (Tesoro dei Sif212,3 fig. 159, p. 1978, Hudson and Thames Period, Archaic The Sculpture. Greek 525-500 a.C.) J. Boanpwas, ni); p.166, fig.256 (quadriga frontale dall'Acropoli di Atene, secondo quarto del VI scc. a.C.); W. Fucus, Storia della scultura greca, Milano 1982, p. 341, figg. 427-428, 520 a.C. circa. 7 Cfr. W. DeonnA, Le quadrige dans le dessin et le relief grecs et romains, in Genava IX, 1931, pp. 125-167. «© Cfr. J. Boarpaas, Athenian Black Figure Vases, cit. p.64, fig. 154,2, psykter di Nikosthenes, del Pittore N, tra il 550 e il 510 a.C. (il carroè frontale); p.151, fig. 292, skyphos del gruppo CHC; p.168, fig. 299, anfora panatenaica del gruppo di Leagros, fine del VI sec. a.C. (le ruote sono di scorcio). + C.C. Venueeune, Chariot Groups in Fifth-Century Greek Sculpture, in JHS LXXV-LXXVI, 1955-56, pp.in 104-113. * M. Caccano Catramano, I decadrammi di Evainetos e Kimon per una spedizione navale in Oriente, BNum 1987, suppl. al NA, Studi per Laura Breglia, pp. 119-137. Sui decadrammi sicelioti, vedi pure S. Gaxsarro, Note sui decadrammi sicelioti. e funzioni, in RIN XCV, 1993, pp. 167-187. Aspetti I decadrammi, ci. p. 128. * Per linterpretazione dell'auriga come Helios, vedi M. Caccano Catrastano, © Chr. P. WunxeusueR, Les disquesde Tarente, in RA XXXV, 1932, p.43, tav, IV,1; P. Wun1eustueR, Tarente des origines à la 1. conquéte romaine, Biblioteque des Ecoles Francaises d’Athenes et de Rome, 148/1-2, Paris 1939, p. 439, tav. a XLIV, δὲ La prima rappresentazione di Nike che guida una quadriga sarebbe il gruppo scultoreo di Pitagora Olimpia, con Nike e Kratistene di Cirene, cfr. A. Goutaxs-Vourika in LIMC VI, 1-2, Zurich und Munchen 1992, s.v. Nike, p. 899. * Cfr. Olinihus V, pp. 99-100, tav. 72. » Chr. K. ScHAUENBURG, Zu einigen ikonographischen Besonderheiten in der Unteritalischen Vasenmalerei, in JDAI 1994, p. 139, fig. 18. ‘è Cfr. A D. TRENDALL-A. Cantrrtoctov, The red figured vases of Apulia, I, Early and Middle Apulian, Oxford 1978, pp. 39-40, tav. 12,1 # Cfr. A. Govax-Vovrika, in LIMC VI, s.v. Nike, p. 866. n. 179. 613

τ. Cfr. A. Gouraxi- Vovrio, in LIMC VI, s.v. Nike, p. 874, n. 282; K. ScueroLo-F. Jwxc, Die Urkonige, Perseus, Bellerophon, Herakles und Theseus in der klassischen und hellenistischen Kunst, Munchen 1988, p. 224, fig. 277 (qui è datata al 420 a.C. circa). La scena dell'apoteosi di Eracle, frequente su patere d'argento, sarebbe il simbolo per tutte le speranze umane di immortalità. Patere simili in G.M.A. Ricrer, A Greek Silver Phiale in the Metropolitan Museum, in ATA 43, 1941, pp. 363.89; G.M.A. Tacirer, Greek fifih-century silverware and later imitations, in ATA 54, 1950, pp. 357-70, tutte datate al tardo V sec. a.C. © Chr. GR. Davapson-D. Bora Taowrsov, Small objects from the Prix, I, in Hesperia suppl VIL, 1943, p. 75. ?^ Cfr. ΜᾺ. Vorzzaniemnes, sv. Glittica, in EUA, vol. VI, 1958, c. 267, MLL. Vot1eNweIER, s.v. Sfragistica, in BUA, vol. XI, 1964, c. 431. 5 Una vasta gamma dei motivi qui di seguito riassunti (e di altri), s riscontra sui numerosi pesi di Monte Sannace, cfr. B.M. Scan, Gioia del Colle (Bari). L'abitato peucetico di Monte Sannace, in NSA 1962, pp. 160-162; Monte Sannace. Gli scavi dellacropoli (1978-1983), Galatina 1989, p. 198, tav. 284-363. Vedi anche P. Mascot, Himera, Roma 1931, pp. 119 ss. (tra al i, figurati o decorativi, si segnala il cavallo libero al galoppo); B. Neurscu, Archaeologische Studien und Bodensondie. rungen bei Policoro i.dj. 1959-1960, in Herakleiastudien II, Heidelberg 1967, pp. 173-175, tav. XL (palmetta a tutto campo, bolli con Scilla e Nike stante); D. AnaesrEAN FT Au, Metaponto I, in NSA, Suppl. al vol. XXIX (1975), p. 58, fig. 46 (anfora); O.C. Cormunx, Torre del Mordillo (Cosenza). Scavi negli anni 1963-66 e 1967, in NSA 1977, pp. 423-526, (molti pesi, anche di forma discoidale con varie impressioni, tra cui calice di fiore e testina); E.M. De Juuus, Manfredonia. Masseria Cupola (Foggia). Scavi nella necropoli, in NSA 1977, pp. 347-371 (in un bollo ovale è raffigurata la folgore, che richiama alla memoria tipi monetali di alcune delle principali città daunie); F. Lissi Carona, Oppido Lucano (Potenza). Rapporto preliminare sulla seconda campagna di scavo (1968), in NSA 1980, pp. 119-297 (su un peso piramidale proveniente da una tomba, fig. 103,2 e 133a, è impresso un sigillo ovale con una figura femminile seduta, per cui sono richiamati confronti tipologici nella glitica; su un al tro peso, trovato insieme ad altri trentatré nelle bottega del vasalo, una stella a cinque punte è tracciata a crudo su un lato, mentre sulla superficie superiore è impresso un sigillo con una figura femminile armata, probabilmente Atena, p. 217, fig. 134, 1 e 6); E. Lissi Caowna, Oppido Lucano (Potenza). Rapporto preliminare sulla terza campagna di scavo (1969), în NSA 1983, pp. 215-352 (ad Oppido Lucano sono frequenti i segni graffiti di tipo geometrico); J.P. More, Fouilles à Cozzo Presepe, près de Métaponte, in MEFR LXXXII 1970, pp. 73-116 (rosette incise, bolli, medusa e torcia); P. Wunl1euwizr, Les disques, ci. . 42; E.G. Lo Porto, Metaponto, Scavi e ricerche archeologiche, in NSA 1966, p. 1, tavv. IV-V (oscilla decorati a tutto campo, al tri con iscrizionie con punzonature; tra queste, motivo della svastica e quello più diffuso a rosetta); J. De La Grane, Alla ri cerca di Segesta arcaica, in ASNP 5.11, XVIII, 2, 1988, pp. 281-316 (alcuni pesi tronco -piramidali sono decorati con fasce colorate incrociate, altri con punzonature, di cui una con il motivo di un Eros volante verso destra); E. ToaseLLO, Monasterace Marina (Reggio Calabria). Scavi presso il tempio dorico di Punta Stilo, in NSA 1972, pp. 574, 638, fig. 156 (bollo con figura îlleggibile su un peso piramidale e su un oscillum); V. Cammwrci, Pesi, in Agrigento. Necropoli paleocristiana sub divo, Roma 1995, pp. 82-84, tav. XIL (pesi eoscilla databili al IV-I sec. a.C., inornati; un oscillum con una rosetta stampigliata, identica a quella impressa su un peso tronco-piramidale della prima età ellenistica rinvenuto nell'agorà di Atene); M. VALENTINO, La Montagnoladi Marineo. Pesi da telaio e oscilla, in AA.WV., Archeologia e territorio, Palermo 1997, pp. 197-207. ® Cfr. F.G. Lo Porto, Metaponto, cit, tav. V.8 (su un oscillum); F. FrazanDua TRoxs, Pesi da telaio. Segni e interpretazioni, in MGR X, fasc. 36, Roma 1986, tav. VIII fig. 20 (Museo di Bari, su un peso tronco-piramidale), 7?! Non sempre le figure presentano una connotazione decisa; vedi ad esempio il volto femminile in una gemma su un peso conico da Siracusa descritto da G.V. Gexmiu, Siracusa. Contributo alla topografia dell'antica città, in NSA 1956, p. 120. © Ch. De La Gentexe, Alla ricerca di, cit. p. 297, n. ΤΌ, tav. CLXXXVI (da Segesta); P. Manconi, Himera, cit, p. 120, fig. 107, 3 (su venticinque esemplari) ® Chr. P. Marcon, Himera, cit, pp. 120, 122, nrr. 1, 10; Giusrousi, Cronia, Paropo, Solunto (Sicilia archeologica che scompare n° 1), Palermo 1972, p. 22, figg. 1-2 (vedi anche infra, n. 27); E. Lissi Carowwa, Oppido Lucano (Potenza). preliminare sulla seconda campagna di scavo, cit, p. 210, fig. 133 b (Eracle stante con clava, da Oppido Lucano); B.M.Rapporto Gioia del Colle (Bari). L'abitato, eit, p.81(Eracle in lotta col leone, da Monte Sannace); F. FERRANDISI Thois, Pesi da telaio,Scartì, cit. pp. 106-107, figg. 14-15(Eracle sacrificante, tipo frequente su monete della Magna Grecia, in particolare di Eraclea) * Su un peso trovato ad Oppido Lucano insieme ad altri trentadue pesi nella bottega di un vasaio, nel sigillo impresso sulla superficie superiore è probabilmente rappresentata Atena, cfr. E. Lisst Canonxa, Oppido Lucano (Potenza). Rapporto preliminare sulla seconda campagna di scavo, cit.,p.217, fig. 134, 1 e 6 (vedi supra, n. 18) ® Un oscillum con bollo raffigurante un centauro è stato trovato sull'acropoli di Monte Saraceno, vedi A. Smacusixo, L'acropoli, în AA.VV., Monte Saraceno di Ravanusa. Un ventennio di ricerche e studi, Messina 1996, tav. XLIV. il motivo del centauro, vedi anche un peso da Selinunte, in F.S. CavaciaRI- A. SALINAS, Selinunte, in NSA 1884, pp. 330, tav. PerV, 345. * Cfr. P. Macon, Himera, cit. p. 121, n. 8; bolli simili a Monte Sannace (B.M. Scanrl, Monte Sannace. poli cit. tav. 362,1) e a Manfredonia (cfr. E.M. De Juins, Manfredonia. Masseria Cupola, cit. p. 369, fig. 26, b).Gli scavi dell'acro7 Vedi il grifo impresso otto volte su un peso di Oppido Lucano, in E. Lisst Canone, Oppido Lucano (Potenza). Rapporto preliminare sulla seconda campagna di scavo, cit, p. 213, fig. 133,d. δ Cl. N. Auisoro, L'abitato Il quartiere est, in AA.VV., Himera II, Roma 1976, pp. 557-559 (nell'abitatodi Himera, quartiere est, da uno stesso ambiente provengono trentadue pesi con il motivo del leprotto in corsa, chiaramente della stessa fab. brica, ma forse con destinazione votiva) > Chr. P. Zancant Μοντύομο, L'edificio quadrato nell Heraion alla foce del Sele, in ASMG n.s. VI-VIL, 1965-66, p.81, tav. XVII, bc (nell'edificio quadrato dell Heraion alla foce del Sele furono rinvenuti numerosissimi pesi tronco-piramidali con segni forse numerici; in un bollo, figura efebica forse simile all Apollo di un emistatere di Metaponto, in un altro, Eracle inginocchiato) 9 Chr. FS. Cavattari - A. Samus, Selinunte, cit, p. 330, tav. V, n. 296; (figura a cavallo col petaso dietro la testa) 614

4 Cfr. FS. Cavatiagi- A. Saunas, Selinunte, it, p. 330, tav. V, nn. 806, 569. ? P. WunievaER, Les disques, cit, p.42, tav. IV.2. » E. Lisst Carona, Oppido Lucano (Potenza). Rapporto preliminare sulla terza campagna di scavo, cit, p. 134, fig. 85,2. » Giustouisi, Cronia, Paropo, Solunto, cit, p.22. ? Vedi supra, n.22. » Cfr.A. Stazio, Monetazione ed economia monetaria, in G. Pucuiese CarmateLLI (ἘΔ), Sikanie, Milano 1985, p. 111, fig 28/3166; fig. 29, 317; p. 112-113, figg. 31-33;p. 114, fig. 35, 7 Vedi M.L. Vortenwemer,sv. Glittica, in EUA, vol. VI, 1958,c. 280, tav. 180. > Vedi supra, nota 34, e οἷς. W. Fucus, Storia della scultura, cit, pp. 461-463, figg. 610-616. Potrebbe essere invece la menade scopadea, cfr. ibid.p. 190, fig, 235 (del 340-330 circa a.C). » Clr. O. BELVEDERE, Un rilievo con Scilla, in Quaderno Imerese I, Roma 1972, p. 53. Per un bollo ovale con Scilla, per cui cisi richiama alle monete di Eraclea, vedi anche B. Nevrsci, Archaeologische Studien, ct, p. 174, tav. 0,1 © Cfr.D. ApawestEANU, Uno scarico di fornace ellenistica a Gela, in ArchClass VI, 1954, pp. 129-132, tav. XXXVI,2. Un mo. stro anguiforme è rappresentato a tutto campo su un oscillum di Heraclea di Lucania, cfr. F.G. Lo Porto, Ricerche archeologiche in Heraclea di Lucania, in BA 46, 1961, p. 139, fg. 19, b. © Chr. E. Lissi Caronna, Oppido Lucano (Potenza). Rapporto preliminare sulla terza campagna di scavo, cit,fg. 127. © Cfr. D. ADaweSTEANU ET ALI, MetapontoI, cit, p. 62, lig 48, d. © P. Wuniscutrs, Les disques, ci, p43. + Cfr. M. Caccamo CattaBiaNo, La monetazione di Messana, Berlin-New York 1993. © Cfr. Sylloge Nummorum Graecorum. The Royal Collection of Coins and Medals. Danish National Museum. Italy, New Jersey 1981, tav. 36, nr. 1945, 350-270 a.C.; D. Casrazzio, Reggio ellenistica, Roma 1995, tav. 1,1 * AGS 6263. Diametro cm 7,6. Argilla arancione M.7.5.YR 8/4. © Cfr. LH. Hu, sv. Oscillum, in Ch. DarempERG-C. Sactio-E. PorneR, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines IV, 1,257.58;W. EHLERS,ιν. Oscilla,in Pauty-Wissowa, vol. 36, 1942, cc. 1567-78; G.A. Mansuenu,s.v. Oscillum, in EAA, vol. V, 1963, p. 780. * Cfr. F. Βεκμανρινι Trois, Pesi da telaio, cit., pp. 91-114, tav. LXIIT;M. Ansoern, I pesi da telaio, in AAWV., Locri Epi cefiri IV, Firenze 1992, pp. 296-302. ‘© Tra i tantissimi pesi c oscilla con iscrizioni, si ricorda il pesoda Siris, datato al VI sec. a.C. con iscrizione Toobuxns eu, per cui cfr P. Oast, Crotone. Materiale inedito del museo civico, in NSA Suppl. 1912, p. 61; L1H. Jerreay, Comments on some archaic greek inscriptions, in JHS LXIX, 1949, pp. 5-38; l'oscilum da Solunto, con duc iscrizioni, una in caratteri punici, l'altra in caratteri greci, ΦΑΔΙΣ, per cui cfr. V. Tusa, "Oscillum" inscrito da Solunto, in Oriens Antiquus IV, 1965, pp. 199-201, pp. 1992201. Cîr. pureS. Fens, Tiriolo. Ritrovamenti fortuit e saggi di scavo, in NSA 1927, pp. 336-358 (da Tiriolo); F. FERRANDINI “Troisi, Pesi da telaio, cit., pp. 100-108. Per altri pesi provenienti da varie località, con diversi motivi incisi, cfr. pure E.M. Dr Jucus, Ordona (Foggia) Scavi nella necropoli,in NSA 1973, pp. 285-399. 5. Gia in questo senso li interpretava P. Mucazzini, Sull'uso e sullo scopo dei pesi da telaio, in RAL XXIX, 1974, pp. 201-220. © Chr. F. FergaxpiNI Thoisi, Pasi da telaio, cit, pp. 93-94. © Cfr. B.M. Scaxrì, Gioia del Colle (Bari). L'abitato, cit., pp. 1-283. A Monte Sannace numerosi pesi da telaio erano in molte stanze, in qualche caso una fornitura completa, da 50 a 70 pesi, che rende certa la presenza del telaio (cfr. Olinthus VIII, p. 209). Svariati i tipi di decorazione, da semplici linee graffite a rosette, croci, foglie, fibule, a bolli con raffigurazioni di origine classica o ellenistica (Eracle, Menadi, Eroti). L'uso pratico non esclude dunque la presenza di motivi decorativi. Cfr. anche R. Lauprecurs-P. Fostaine, Artena (Roma), in NSA 1983, pp. 183-213: ad Artena (Roma), nelle abitazioni i pesi erano numerosissimi, quaranta in uno stesso ambiente, forse cucina, con vari segni. ἐπ Cfr.D. ADAMESTEANU ET AL, Metaponto I cit. p. 59, fig 48,c; p. 106, fg. 100,a. ? La protome è fiancheggiata da eroti, cr. F.G. Lo Porto, Civiltà indigena e penetrazione greca nella Lucania orientale, in MonAL XLVITI, 1973, pp. 147-250, tav. LXVIII, 2 (due pesi con lo stesso marchio proverrebbero dalla stessa officina). Ὁ LP. Moret, Fouillesà Cozzo Presepe, ci. pp. 105-107, fig. 31, a. 7 P. Ortanpisi-D. ApamesreaNu, L'acropoli di Gela, in NSA 1961, p. 323, fig. 8 già in P. OrLANDINI, Scopo e significato dei cosiddetti pesi da telaio, in RAL s. 8, VIII, 1953, pp. 441-444. % P. Ogsawpi, Gela, in NSA 1962, p.362, fig. 24. » p, Apnicesreanu, Manfria-Gela, ci, pp. 297-308 (queste thusiai sono costituite anche da kylikes e skyphoi). ^ E; Lassi Carona, Oppido Lucano (Potenza). Rapporto preliminare sulla seconda campagna di scavo, cit., p.203, fig. 112. * Chr. E. Sroovisr, Excavations at Morgantina (Serra Orlando) 1959, Preliminary Report IV, in AIA 64, 1960, p. 126, tav. 21, fig. 3. “© Cfr. C. Linen, Centuripe. Scavi nella necropoli in contrada Casino, in NSA 1947, pp. 259-311. © E. Lissi Canova, Oppido Lucano (Potenza). Rapporto preliminare sulla seconda campagna di scavo, cit. pp. 134 ss; E. Lissi Canonna, Oppido Lucano (Potenza). Rapporto preliminare sulla terza campagna di scavo (1969), pp. 227-235. * Cfr. P. OrtanpiI, Scopo e significato, cit, pp. 441-444. © Cfr. A. DI Vita, Alena Ergane in una terracotta della Sicilia e i culto della dea in Atene, in ASAA XXX-XXXIL, n.s. XIVXVI, 1952-54, pp. 141-154; Ip. Sui pesi da telaio: una nota, in ArchClass VII, 1956, pp. 40-44. "^ Per un oscillum con la raffigurazione della civetta, vedi pure H. HERDESURGEN, Die tarentinischen Terracotten des 6 bis 4 615

νοῦν. im Antikenmuseum Basel, Basel 1971, p. 74, tav. 24, n. 84; un esemplare simile ἃ nel'Antiquarium dell'Università di Catania, c 8. Lacows, Oscill itii nell'Antiguarium dell Università di Catania, in ASSO 1954, p.98, n. 15. 7 C. Bega, La condizione della donna, in La cità delle immagini. Religione e società nella Grecia antica, Modena 1984, pp. 798] * Per l'offerta ad Atena degli utensili della tessitura, di cui anche le Carit erano protettrici, attestata da epigrammi di Leonida di Taranto, edi F. FeRsanoos Trois Pesi da elio it. pp. 9198 © D. Bons, A geometric house and a proto-attc votive deposit, in Hesperia I, 1933, p.602. » Cfr. C. Lintamsa, Centuripe. Scavi, cit, pp. 259-311 (grande oscillum con testa di Medusa di età ellenistica); P. Onst, Idischi figurati da Gela, in MonAL XVII, 1906, c. 153-54, av. LVI (diversi tipi di Medusa), pol in P. Οκιάκοιν,, Materiale archeologico geles del III sec. a.C. nel Museo Nazionale di Siracusa, in ArchClass XII, 1960, pp. 61-62, tav. XV, Ij; D. ADAMESTEANU, Manfria-Gela, ci, p. 307, 1,9 (nove oscilla da una fattoria officina): D. ApauSrEAN, Uno scarico di fornace, ci. p.130, tav. XXXVI, 2 (oscilla con volto di Medusada una fornace ellenisticadi Gela); D. ADwESTEANE - P. OgtanDnA, Gela. Ritrovamenti vari, in NSA 1956, pp. 358, ig. 3 (uno degli oscilla è decorato con volto di Medusa su entrambe le facce), p. 315, fig. 30,p. 35, figa. 3-4, pp. 345-351, fig. 2 (ritrovamenti vari da Gela); P. Ontaxons, Tipologia e cronologia del materiale archeologico di Gela dalla nuova fondazione di Timoleonte all'età di lerone, in ArchClass TX, 1957, pp. 44-75, 153-167 (matrice); P. ORLANDIN, Gea. Topografia ἀεὶ santuari e documentazione archeologica ἀεὶ cult, in RIA 1968, pp. 54-56, fg. 38 a (oscillum gelese con volto di medusa da un lato, e dall'altro iscrizione dedicatoria ad Eracle, per cui vedi infra, p. ***); P. ORLNDINLD. ADAMESTEANU, Gela, Nuovi scavi, in NSA 1960, pp. 67-246 (vari oscilla con Gorgoneion, di cui uno anche con erote alato sull'altro lato, sempre da Gela); S. Lacona, Oscill fiti it, p.91, av. XII, 1-23 (oscila nell'Antiquarium dell'Università di Catania; a ferro di cavallo A. Bove, Rocca di Entella: gi oscilla(1985-89), in Entella I, Pisa 1995, pp. 163-67, n. 9, Big. 11(a Entella le figure di Gorgoni sono frequenti); R. SmuwsiL-E, Siooust, Excavations at Sera Orlando, Preliminary Report, in AIA 61, n. 2, 1957, pp. 150-159, tav. 60, fig. 30 (da Morgantina, tipo di Gorgoneion arcalzzante); B. Pace, Arte e dell Siciliae Liibeo, antica, in1,NSA(da 1961, Kekul),p. 293,po. 460-461, fig. 107, tipo "umano"; È. Ganmuct, Rinvenimenti ella zona archeologiaCiviltà di Panormo fig. 50 (ipo "negroide?);AM. Bus-A. Tusa Craoxt, Lilibeo (Marsala). Nuovi scavi nella necropoli punica (1969-70), n NSA 1971, p. 685, fig. 33 (oscillum ellenistico di fattura scadente); D. Dr Onsora, IL quartiere di Porta I ad Agrigento, in QuadMess 6, 1991, pp. 101-102, tav. LIX, 6-8 (numerosi oscilla inornati, quattro con Gorgoneion del tipo “umanizzato”, per cui vedi P. Onsi, 1 disci figurat, cit fig. 1,4, ellenitici); E. Gasnic, Girgenti. Scavi e scoperte archeologiche dal 1916 al 1924, in NSA 1925, p. 446, fig. 17 (disco in tufo, da Agrigento); E. De Mino, Fraclea Minoa. Scavi eseguiti negli anni 1955-56-57, in NSA 1958; MR. LA Lowta, Ricerche archeologiche nel eritorio di Canicatti, in Kokalos VII, 1961, p. 161, tav. XXVI fg. 1, con lineamenti quasi del tutto umani; J. De La Gexten, Alla ricerca di cit, pp. 297.316, n.149, tav. CCI (da Segesta); G. Brot, Su al cuni oscilla, in SCO XXII, 1973, pp. 200-206, nr. 9, tav. IT, 4 (oscilla alAntiquarium di Pisa, circolari ca ferro di cavallo for ma tipica tarantina, per cui c P. WunceuwirR,Les disques, cit, n. 88; un unicum la raffigurazione di cui alla fg. 5, versione inorganica, mostruosa del Gorgoneion); F.G. Lo Posro, Ricerche archeologiche cit, p. 139, fig. 19 a (oscilum circolare, da Heraclea di Lucania); F.G. Lo Porto, Satyrion (Taranto). Scavi e ricerche nel luogo del più antico insediamento laconico în Puglia, in NSA 1964, p. 254, lg, 7,2 (a ferro di cavallo, rilicvo mal riuscito; F.G. Lo Porro, Metaponto, it. p. 1, tav. V, 2 (tipo uma nizzato);LP. Monat, Fouilles à Cozzo Presepe, cit, p. 107 (quasi ileggibile); P. Wun.euwiR, Les disques, cit, p 4, tav. IV.6. ἘΞ Froxmst Ducnoux, Senza maschera né specchio: l'uomo greco e suoi doppi, in AKVV., La maschera, il doppio e il ri tratto, Bari 1991, p. 152. 7 GR DiviosorcD. Burn Troursov, Small objets, cit, p. 79 ? Cfr.5. Lacon, Oscil fili, cit. p. 93, tav. XII, fig 5 (incedente a sinistra), fig. 6 (alato, inginocchiato l'oscilun è a ferro di cavallo) nell'antiquarium dell'Università di Catania; i tipo del piccolo erote, con alcune varianti, è frequentissimo a Taranto. Vedi gia P. Wonzeuntes, Ls disques cit, p.46: F.G. Lo Porto, Metaponto, ci. p. 1, tav. IV, 1 (oscllum a ferro di cavallo; lerote è accovacciato, non alato), tav. 3 (Ferote è alato, incedente); FG. Lo Porto, Sayrion (Taranto) ct. p. 273, ig. 90, 5, oscillum a ferro di cavallo, percui cfr. H. HERDEIURGEN, Die tarentinischen Terracotten, ci. p.73, tav. 23, nr. 81-83; si mile al nr. 81, un oscilum che sull'altra faccia presenta due testine affrontate, in G. Biror, Su alcuni oscila, ct. p. 204, tav IIL 1. Anche il motivo dell testine affrontateè diffuso in Magna Grecia, cr P. WuiL.staut, Torente, it, p.429, tav. XLIV, H. εξκρειυκοεν,Di tarentinischen Terracotten, cit. p. 73, tav. 24, nn. 81-83 (qui interpretate come Dioniso c Arianna) Gli esemplari di Catania (8. Lacows, Osclla fili, cit, p. 93, nn. 7-10) sembrano leggermente diversi, pe cui non se ne può dedrre una origine tarantina. Per 1 volti, femminile e maschile, afrontat, A.D. TnENbatt, The redfigured vases of Paestum, Hertford 1987,p. 48, av. 161, A 6-7, in cul questo schema è definito “inusuale”. 7 La figura è nota solo in Magna Grecia, cf. P. Wurzeuwrzi, Tarente, cit, ρ 439, tav XLIV, 2 Chr. P. Oxs, dichi figurati, it, tav. LVI, 9 (da Gela, sull'altro lato di un oscilu decorato con il Gorgoneion); invece della cita, può trattarsi di un altro oggetto, probabilmente uno specchio, cf. P. OrL4xDINI-D. Aptzsmzac, Gela. Nuovi scavi, cit, p. 211,fig Ibe P. Οκιανοινι, Material archeologico gelese it. p.62,tav. XVI, g (con alto nodo, di età timolcontea) * Chr: AD. TuenpaLL, The red figured vases of Lucania, Campania and Sicily, Oxford 1967, gruppo di Eros, tav. 87,109 (eroti in volo}; av. 229 (assisi) pittore di Lentini, Eros ha l'identica acconciatura “femminile, tav. 225, con cisá; A.D. Tuenatt, The red figured vases of Paestum, Hertford 1987, p. 87, tav. 226, bed (erote seduto con la cita; tav. 224-225 (erote con chignon); F. Gupice, I ceramograf del IV sec. .C., i Sikanie, Milano 1985, pp. 257.58, figa. 289-290 (erote seduto, da Scordia, ed erote inginocchiato con phiale e corona, da Caltagirone); E. Jotv, L'llenismo e la tradizione ellenistica. La ceramica: botte: ghe e Maestri della Sicilia ellenistica, in Sikanie, Milano 1985, pp. 350-51, fig 432 (lanis con erote in volo, con velo e corona, del Pittore di Lipari, 335-280 a.C; ΡῈ. Anus, La pittura vascolare, in G. Poctiess Cumt (e), Magna Grecia IV, Arte e arti: gianato, Milano 1990, p. 210, fg. 310 (nestors el Pittore del Primato, 340.330 a.C. con crote in volo davanti ad um'ara). 7 Cir. Βεκναρὸ Bata, Menandroil teatro reco nelle terecotelparei, Genova 1981, pp. 21-24. 616

? Cfr. P. Μσπ κύτει, Tarente, cit,p. 439, tav. XLIV,4. ? Chi. FG. Lo Porro, Civiltà indigena e penetrazione greca, cit, p. 147-250, tav. LXVIIL2. Un esemplare frammentato proviene da Ruoti (Potenza), cr. E. Fasmmucorri, Ruoti. Scavi in località Fontana Bona, in NSA 1979, pp. 347-413, * Chr. P. Osi, I dischi figurati, cit.c. 755, fig. 565. © Cfr: D. Ἀραμεστεάνὺ - P. OrLAnDII, Gela. Ritrovamenti vari, cit., p. 359, fig. 3, d. © Cfr. P. Oasi, dischi figurati, cit, c. 755, tav. LVI, 6 (poi in P. Οκιάνυικι, Materiale archeologico gelese, cit.,tav.XV, 1, b); D. Aoasesrean— P. ORLANBINI, Gela. Ritrovamenti vari, cit, p. 359, fig. 3, a (qui è anche proposta l'identificazione con Zeus Ammon). © S. Lacoxs, Oscilla itil, cit. p. 92, τὰν ΧΙ], 4 (cfr. P. ORst I dischi figurati, cit, tav. LVI,6). » GV. Genus Siracusa. Saggio di scavo a Sud del Viale P.Orsi in predio Salerno Alleta, in NSA 1954, p. 331, 4, fig. 12,8 (quiè considerato Zeus). © Ch. P. Onuanoin, Gela. Topografia dei santuari e documentazione, cit, pp. 56-57, fig.38 b. Orlandini fa cenno ad un oscillum di Montagna di Marzo, con iscrizione pure relativa ad Eracle. * Solo la parola Herakles era incisa su un peso piramidaledi Atene, cfr. G.R. Davinson-D. Burk THOMPSON, Small objects, cit, p.75, fig33. © Cfr. P. Ons, Idischi figurati, cit, c. 756, tav. LVI, 7 (P. OnAxpmu, Materiale archeologico gelese, cit, tav. XV, 1, e); D. - P. ORLANDINI, Gela. Ritrovamenti vari, cit, p. 359, fig. 3,3; P. Ontaxpine-D. ApsMestEaNv, Gela. Nuovi scavi, cit. [Apaatesreaxv p. 206, fig. 5b (la raffigurazione di un giovane cavaliere sarebbe comune). N, Bonacasa, Lellenisrio e la tradizione ellenistica, in G. Puoumse CarnateLII (ed.), Sikanie, Milano 1985, p. 309, fie. 3536359. 9 P. Onst, dischi figurati, cit,c. 756, tav. LVI, 8; P. Ortanpwa, Materiale archeologico geese, cit, p. 62, tav. XV, 1, c. Materiale archeologico gelese, cit., p. 61, tav. XV, 1,a. * Pr Orsi, I dischi figurati, cit, c. 156, fig. 566; P. ORLANDINI, i Chr, A. Satis, Relazione del prof. Salinas sugli oggetti rinvenuti nei lavori fatti a Selinunte nell'inverno 1984-85, in NSA 1888,p. 605, n. 130. © Cfr. G.V. Gexmu, Scoperte nelle due nuove arterie stradali, la via della cirvonvallazione, ora viale P.Orsi, ela via archeologica, ora viale FS. Cavallari, in NSA 1951, p. 271, fig. 9 e. 9! Vedi supra, p. 6, n. 29. % Cfr. S. Lacona, Oscilla fitti, it, p. 94, tav. XIV, fig. 14. * Ch: F.G. Lo Porto, Metaponto, cit, .1, tav. IV, 4; B. Necrscis, Archaeologische Studien, cit. p. 174, tav, 39, 1-2. Un'anadal taglio Joga decorazione floreale ricopre interamente un lato di un peso tronco-piramidale di Heraclea di Lucania, ricavato a otto punte, più che una rodi un grande oscillum,cfr. F.G. Lo Ponto, Ricerche archeologiche, cit, p. 139, fig. 19, c.Una stella I setta, sembra invece impressa su un oscillum del santuario di Apollo a Metaponto, cfr. D. AnamestzANU FTLo Att,Porto,Metaponto Metaponcit, p. 62, fi. 48 ; lo stesso motivoè su un oscillum da contrada Sansone, sempre a Metaponto, cfr. F.G. to, cit, p.1, tav. IV,3. *' Cfr. G. Bison, Su alcuni oscilla, cit, p. 204, tav. II fig. 1. Corrispondeal nr. 90 della classificazione di Wuilleumier;al nr. 102 corrisponde un altro oscillum decorato sulle due facce da un delfino che si tuffa nel mare rappresentato da un motivo ad onde ricorrenti (G. Baron, Su alcuni oscila, cit, p.205, tav. IL fig. 2). “πὶ Cfr. P. ORLANDINED. AbaMESTEANU, Gela. Nuovi scavi, cit,p. 168, fig. 20a. "Cfr. P. Onsi, Locri Epizepkyri, in NSA Suppl. 1912,p. 48, fig.52-55 ? Cfr. GMA. Ricurer, Greek fifih-century, cit. p. 357. 1 Vedi supra, nota 16. τι Cfr. M. Mrerexs-Honw, Die Lowenkopf- Wasserspeier des Griechischen Westens im 6. Und. 5. Jahrhundert v.Chr., in MDAI(R) 1988, 28° suppl, pp. 16-18. "© Cir.A, Smacosivo, Lacropoli cit, p.14, n. 41, tav. XLIV,S. ?9 Cfr. A. Siracusaxo, Lacropoli cit, p.21, n. 90; p. 31, tav. XLIV, 1:2,6. #8 Vedi M. Caccanto CaLtABIANO, I rinvenimenti monetali: Monte Saraceno sede di Xenoi?, in AAVV., Monte Saraceno di Rae di studi, Messina 1996., p.186, tav.CXXXVII, n. 20. vanusa. Un ventenniodi ricerche "© Cfr. A. Siracusa, Liacropoli cit, p . 19-21. τω Cfr. A. Siracusano, Lacropoli, cit. pp.27.31 I rinvenimenti monerali, cit, pp. 187-188. τον Cfr. M. Caccamo Cattamtano, 1 Cfr.A. Smaccsaxo, L'acropoli, cit, pp. 27-32. 1» Cfr. A. CatpeRONE, Labitato. in AA.VV. Monte Saraceno di Ravanusa. Un ventennio di ricerche e di studi, Messina 1996, pp. 42-50. ἧς Cfr. B. Nevrscu, Archeologische Studien, cit. fig. 26. in alfabeto ων Cfr. il peso troncopiramidale rinvenuto agli Stombi (Sibari), con graffito il nome della proprietariap.45,Icheta tav. LVIa. Vedi acheo (metà del VI sec.a.C.circa), in P.G. Guzzo, | risultati degli scavi, in AMSMG ns. XIILXIV, 1972-73, pure supra, n. 52. ?" Cfr supra, n.71

617

Grazia SpAGNOLO ANFORE DA TRASPORTO NORD-EGEE IN OCCIDENTE NEL PERIODO ARCAICO E CLASSICO: L'ESEMPIO DI GELA

Con questo lavoro, che prende spunto da uno studio su tutte le anfore da trasporto arcaiche e classiche documentate a Gela', vorremmo richiamare l'attenzione ~ attraverso il campione offerto dalla colonia rodio-cretese - su alcune produzioni anforiche poco note o problematiche, la cui conoscenza lacunosa ha determinato finora una scarsa valutazione della loro presenza sia in Oriente che in Occidente. Ci riferiamo alle fabbriche attribuibili ad una regione ricca di centri produttori di vino molto antichi e rinomati, vale a dire l'area dell'Egeo del Nord, comprendente tutta la fascia costiera traco-macedone, con la penisola Calcidica e l'isola di Thasos (fig. 1). Dalle fonti antiche sull'argomento, di recente raccolte da F. Salviat?, si apprende l'alta arcaicità del famoso vino di Ismaros, cioè di Maronea, probabilmente il capostipite di tutti i grandi vini greci, in quanto attestato fin dall'epoca omerica e celebrato ancora in età classica ed oltre’. Si trattava di un vino rosso forte e liquoroso, forse prodotto da un vitigno fenicio‘, la cui immagine simbolica appare peraltro nelle monete di Maronea del V-IV sec. a.C.* A partire dall'età arcaica è documentata pure la presenza di un altro importante vino rosso, detto "biblino" o dei monti Biblini, anch'esso di probabile origine fenicia, la cui localizzazione pare si debba individuare nella zona costiera compresa tra Neapolis (Kavala) e la Calcidica, dove sorgeva la colonia thasia di Oisyme*.

Dall'età classica, poi, sono menzionati dalle fonti il vino di Akanthos, in Calcidica”, nonché quelli ben più famosi di Thasos e Mende. Il vino di Thasos, che si inserisce nella tradizione dei vini rossi omerici’, contendeva a quello di Chio la palma del vino più prestigioso di tutto il mondo greco*; mentre il vino di Mende, a sua volta, rivaleggiava con i precedenti per le sue caratteristiche peculiari di bianco delicato *. È utile ricordare infine altri probabili centri produttori di vino, che non sono menzionati come tali dalle fonti antiche, ma che si rivelano a noi grazie alla tipologia monetale: è il caso di Torone, in Calcidica, i cui tetradrammi tardo-arcaici recano al diritto un'anfora da trasporto", oppure di Abdera, dove l'anfora compare come simbolo secondario sul diritto dei tetradrammi del secondo quarto del V sec. a.C." Come si è accennato, i dati archeologici finora editi sulle più antiche produzioni anforiche nordegee sono per lo più esigui o generici. A tutt'oggi manca una vera e propria classificazione di riferimento: di recente si segnalano soprattutto le riflessioni di M. Lawall sui materiali dell'Agorà di Atene e la tipologia preliminare proposta da P. Dupont sulla base di alcune forme isolate dalla Zeest^; a proposito delle fabbriche di Thasos e Mende, poi, vanno citati anche i contributi di Y. Grandjean e di S. Iu. Monachov!*. In effetti, lo studio tipologico è reso arduo dal fatto che, nell'ambito dell'area in questione, le serie anforiche presentano molti caratteri comuni: da qui la difficoltà, più volte segnalata in letteratura, di distinguere tra loro le diverse fabbriche e naturalmente anche di attribuirle a centri noti. Dal punto di vista morfologico, nelle anfore nord-egee - tranne poche eccezioni — gli elementi pressoché costanti sono: l'orletto breve a sezione triangolare o trapezoidale, sottolineato da una solcatura o da una risega; il collo cilindrico piuttosto corto ed il corpo panciuto (che diventano via via più slanciati dalla metà del V sec. in poi); le anse a sezione ovale con una tipica impressione digitale all'attacco inferiore. Anche riguardo alle caratteristiche tecniche del corpo ceramico, occorre segnalare che non solo finora manca l'ausilio di approfondite analisi di laboratorio”, ma per di più le differenze rilevabili 619

TORONE

"qa Fig. 1. La regione nord-egea. ad occhio nudo tra gli esemplari sono poco marcate. Nella maggioranza dei casi, infatti, si tratta di impasti alquanto depurati, di colore tendente al rossiccio, lisciati in superficie e spesso ingubbiati. La vicinanza geografico-culturale tra le città dell'Egeo del Nord deve avere determinato quindi una specie di koiné nella produzione anforaria", all'interno della quale è necessario osservare con attenzione anche i più piccoli indizi, morfologici e tecnici, che possano rivelarsi caratterizzanti delle singole fabbriche: spesso si tratta del profilo del ventre e del piede o del raccordo tra questi, ma talvolta sono importanti anche alcuni particolari del corpo ceramico, come le sfumature di colore, la presenza di determinati inclusi o di mica ed il trattamento della superficie. Tali distinzioni risultano ovviamente ancora più difficili quando i materiali sono frammentari, come purtroppo nel caso della maggioranza dei pezzi provenienti dagli scavi di Gela. Passando ad esaminare questi ultimi nel dettaglio, è opportuno precisare che l'esposizione si articolerà per gruppi, corrispondenti, a nostro giudizio, ad altrettante fabbriche sulla base delle osservazioni morfologiche e tecniche di cui si è detto. Vi sono rappresentate — ove possibile in ordine cronologico - sia le produzioni più note, come Thasos e Mende, sia quelle ancora anonime, che talvolta sono state convenzionalmente indicate in letteratura con la denominazione generica di "rhasian circle". Per ultimo è inserito il gruppo delle anfore "pseudo-samie" e "protothasie", poiché la sua pertinenza alla regione traco-macedone è tuttora dubbia”. Per ciò che riguarda i contesti di rinvenimento, quasi la totalità dei pezzi proviene dagli scavi dell'abitato e delle arce sacre: ci riferiamo innanzitutto all'acropoli di Molino a Vento?! e, in secondo luogo, alle zone di Bosco Littorio? e della vecchia stazione”. È necessario puntualizzare, a questo

proposito, che ciascuno dei livelli stratigrafici messi in luce in tali aree abbraccia un arco cronologico più o meno ampio, all'interno del quale è difficile fornire una datazione precisa del pezzo esaminato. In particolare, per le classi di anfore di cui trattiamo, le fasi di frequentazione interessate sono: la fase tardo-arcaica e protoclassica, che va dal 540 a. C. circa al 450 a.C. circa, e la fase classica, che comprende la seconda metà del V sec. a.C., fino alla distruzione della città nel 405 a.C. ad opera dei Cartaginesi *. Dall'area delle necropoli purtroppo provengono soltanto pochi esemplari, che sono frutto di rinvenimenti casuali e per di più privi di corredo datante™. 620

Gruero I - Anfore con piede ad anello La forma panciuta, con il corpo “a trottola” o cuoriforme ed il piede ad anello, è piuttosto frequente nella produzione anforica nord-egea. Gli esemplari con queste caratteristiche possono essere tuttavia ricondotti ad almeno due o tre tipi, pressappoco contemporanei, attribuibili verosimilmente a fabbriche diverse ma, come vedremo, forse operanti nel medesimo territorio e finalizzate al trasporto dello stesso vino. In primo luogo è possibile distinguere una serie di anfore ~ che corrisponde sostanzialmente al tipo B Dupont? — con il corpo molto espanso ed il piede piuttosto massiccio, svasato e ombelicato nel fondo esterno. La serie è documentata soprattutto ad Atene, in un pozzo dell'Agorà datato tra il 520 ed il 480 a. C.”, e in alcuni esemplari dal Ceramico* e dalle pendici settentrionali dell'Acropoli”, tra i quali forse è possibile rintracciare anche lo sviluppo del tipo intorno al 480 a.C. Un'altra probabile attestazione proviene dal territorio di Orphani, nel tratto di costa ad Ovest di Kavala, che apparteneva alla sfera di influenza di Thasos; mentre sulle coste del Mar Nero, secondo i dati raccolti da P. Dupont, esiste solo un esempio dubbio da Torikos Potrebbe essere attribuita a fabbrica diversa, o rappresentare semplicemente una variante, la forma del tutto analoga alla precedente ma con il piede meno svasato, non propriamente ad anello bensì a profilo continuo con il ventre, e con un largo piano di posa. Finora essa è documentata soltanto ad Atene, nel pozzo dell'Agorà già citato”. Esiste poi un'altra serie di anfore simile alla prima ma di dimensioni lievemente inferiori, con il collo più corto, il corpo meno espanso, il piede sempre distinto e ombelicato ma complessivamente più piccolo e poco svasato. Tale forma, identificabile con il tipo A Dupont", sembra la più diffus infatti, è ben attestata ancora una volta ad Atene, ma compare anche ad Egina*", nel territorio di Orphani * e nelle coste del Mar Nero”. In Occidente, possiamo riconoscerla in due esemplari completi da Himera e da Morgantina nonché probabilmente in un frammento da Monte Bubbonia, nell'entroterra geloo *. La definizione precisa delle fabbriche non risulta agevole, in quanto i corpi ceramici sono somiglianti tra loro nell'aspetto liscio e depurato e nel colore per lo più rossiccio?. La difficoltà di separare nettamente le produzioni anforiche emerge in maniera evidente dall'esame dei pezzi provenienti da Gela, dove forse sono attestate entrambe le forme principali, mentre sembra assenie la variante caratterizzata dal piede a profilo continuo con il ventre. Le analogie tecniche tra gli impasti sono tali da indurci a prendere in considerazione gli esemplari in maniera unitaria:

tutti i pezzi, infatti, presentano una pasta ben depurata, dura e “secca”, di

colore rossiccio cupo o rosa-violaceo (2.5 YR 5/4, 6/4 e 6/6; 5 YR 6/4); la mica è pressocché assente,

ma si notano numerosi piccoli inclusi bianchi o vacuoli contornati di bianco; la superficie è molto liscia e ricoperta da una ingubbiatura o scialbatura poco coprente, di colore beige-rosato o crema (7.5 YR82 e 8/3). Dal punto di vista morfologico i caratteri fondamentali sembrano attribuibili soprattutto al tipo A Dupont", cioè a quello più diffuso, ad eccezione, come vedremo, di un frammento di piede®. Tuttavia, la documentazione di Gela rivela anche un altro dato, nuovo ed interessante, che complica in un certo senso la classificazione tipologica, ma che forse offre un indizio per la localizzazione di una o, più verosimilmente, di entrambe le fabbriche nello stesso ambito geografico-culturale di Thasos. Due esemplari, infatti, presumibilmente i più antichi, si discostano dalla tipologia dell'orlo comune alla maggioranza delle anfore nord-egee, quello cioè a sezione triangolare o trapezoidale, e presentano strettissime analogie con la produzione arcaica thasia. L'anfora integra SC 1 (tav. I, 1) proviene da un rinvenimento casuale nella zona della necropoli arcaica presso la via Crispi e purtroppo era priva di corredo. L'orlo appare verticale, appena ingrossato e piatto superiormente ed è distinto dal collo mediante un sottilissimo cordoncino a rilievo. Un confronto stringente si trova in due frammenti dal tempio di Aphaia ad Egina“ c in un'anfora completa da un contesto di Corinto ben datato tra la seconda metà del VI ed i primi anni del V sec. a.C. 5 Questi esemplari presentano le anse costolate ed un impasto molto diverso dal nostro - assai 621

micaceo e di colore rosso mattone - che possiamo attribuire con certezza a Thasos , come peraltro aveva già ipotizzato la Campbell”.

Un discorso simile vale per l'orlo MAV 19* (tav. I, 2), anch'esso verticale ma con un profilo a doppio gradino, che trova preciso riscontro in alcuni pezzi ancora una volta attribuibili a Thasos sulla base dell'argilla micacea di colore rosso intenso, provenienti da Thasos, dall'Agorà di Atene e

da Egina®.

Probabilmente è nel corso dei primi anni del V sec. a.C. che l'orlo delle anfore del nostro gruppo I assume la forma canonica a sezione triangolare, che permane per il resto della produzione. È il caso dei frammenti MAV 8, BL 67 e MAV 94

(tav. I, 3-5), che trovano confronti molto stringenti, anche

per le dimensioni del collo, nelle anfore già citate del tipo A Dupont?

Occorre notare che il piede non subisce sostanziali modifiche, pertanto i frammenti BL 66 e BL

877 (tav. I, 6-7) potrebbero appartenere sia ad esemplari con l'orlo di tipo arcaico che ad esemplari

più evoluti. Riguardo a BL 87, tuttavia, bisogna aggiungere che le sue dimensioni non escludono la

possibilità di classificarlo nel tipo B Dupont. La produzione delle anfore del gruppo I pare interrompersi dopo il 480 a.C., poiché mancano attestazioni più recenti sia in Grecia che in Occidente, e non è da escludere, a nostro parere, che tale circostanza costituisca un elemento significativo per l'eventuale localizzazione delle fabbriche. A questo proposito, riteniamo opportuno sottolineare in modo particolare la presenza già citata delle anfore con il piede ad anello nella zona di Orphani, cioè nella regione in cui sorgevano alcune colonie di Thasos, come Antisara, Oisyme, Galepsos, ecc. Nella medesima area, infatti, dovrebbero localizzarsi i cosiddetti monti Biblini e la produzione del vino "biblino" di cui si è detto sopra*, assai apprezzato fin dall'età arcaica, ancor prima di quello di Thasos. Considerata la collocazione cronologica delle anfore in questione, nonché le affinità morfologiche che le accomunano alle anfore di Thasos, avanzeremmo quindi un'ipotesi di attribuzione delle fabbriche alla zona di influenza thasia e, in particolare, a quella interessata dalla coltivazione del vitigno "biblino". In tal caso, l'assenza di documentazione delle nostre anfore nel secolo quarto del V sec. a.C. si potrebbe spiegare con le alterne vicende subite dalle città della costa traco-macedone nel periodo delle guerre persiane. Gruppo II - Anfore a corpo ovoide

La produzione è stata isolata per la prima volta da V. Grace* che, tra gli esemplari provenienti da un pozzo dell'Agorà di Atene, databile al 460-440 a.C., individuò alcuni frammenti caratterizzati dal corpo ovoide e dal piede tozzo e li denominò convenzionalmente "buff amphoras" a causa del colore dell'argilla. La studiosa non avanzò alcuna ipotesi riguardo al centro di produzione, tuttavia, classificando i pezzi insieme a quelli di Mende* ed alle anfore ‘red ware”, cioè di Tasos”, intese probabilmente collocarli nella regione nord-egea. Successivamente, la Zeest attribuì in maniera più esplicita la forma alla “cerchia di Thasos”®, a cui oggi la riconduce anche P. Dupont, classificandola come tipo C*. Le anfore presentano un orlo breve a sezione triangolare o trapezoidale, come quello già notato nel gruppo precedente, il collo però è più corto, svasato verso il basso e a profilo continuo con la spalla spiovente. Il ventre è ovoide allungato, a profilo continuo con il piede, mentre quest'ultimo è simile ad un pomello basso e poco svasato, con una piccola cavità (talvolta ombelicata) al centro del piano di posa largo e piatto. Le anse, a sezione ovale più o meno ingrossata, sono poco arcuate, congli attacchi piuttosto distanziati. La fase arcaica della produzione ci sembra attestata in primo luogo da un esemplare del Ceramico di Atene, datato sulla base del corredo nel primo decennio del V sec. a.C."'; ma è documentata anche a Mileto* c sulle coste del Mar Nero“ La diffusione del tipo, tuttavia, diviene notevole soltanto nel secondo quarto del V sec.a.C. e prosegue anche nel terzo quarto, quando, come accenna V. Gra622

ce“, la forma subisce un certo allungamento del collo e delle anse. Essa è documentata ad Atene", ad Egina#, a Samotracia *, nel Mar Nero“ e, in Occidente, a Naxos e a Palermo ®.

Un discorso a parte occorre fare per un esemplare proveniente dagli scavi della necropoli di Akanthos®, che sembrerebbe ovoide e che presenta un timbro circolare sull'ansa, ascrivibile alla stessa Akanthos”. Purtroppo, però, l'anfora non è ben visibile in foto, pertanto la sua attribuzione alla nostra serie restá assai dubbia. A ciò si aggiunga che C. Rhomiopoulou non fornisce la datazione del pezzo in particolare, ma segnala soltanto che le anfore timbrate rinvenute nella necropoli appartengono soprattutto al IV sec. a.C. identificazione della fabbrica delle anfore ovoidi con Akanthos, d'altra parte, non trova conferma nelle caratteristiche dell'impasto locale, che viene descritto come di colore rossiccio piuttosto intenso dalla stessa Rhomiopoulou, nonché nella pubblicazione di altri frammenti di Akanthos del IV sec. a.C., provenienti da un pozzo di Thasos?. Il problema rimane dunque ancora aperto”. Per quanto riguarda la documentazione delle anfore ovoidi a Gela, il corpo ceramico è di solito depurato, duro e compatto, di colore rosa camoscio o nocciola rosato chiaro (7.5 YR 7/4;

5 YR 6/4 o

6/6); la mica è generalmente poco frequente, ma in alcuni casi è abbondante, puntiforme e a scagliette minutissime dorate; numerosi sono gli inclusi bianchi piccoli. La superficie è spesso ricopei ta da una scialbatura beige-biancastra (10 YR 8/3). Talvolta l'aspetto complessivo della pasta, specialmente quando è micacea, appare assai simile a quella di Mende", sebbene più depurata; del resto, anche la forma del piede ricorda il tipo più antico delle anfore di Mende". ‘Tra gli esemplari presi in esame, è il caso di evidenziare l'anfora MAV 182” (tav. IT, 1), priva della parte inferiore, con un interessante monogramma dipinto sul collo”. La forma abbastanza espansa del corpo si può confrontare con gli esemplari più antichi di anfore ovoidi attestati al Ceramico di Atene”, pertanto potrebbe datarsi entro il 470 a.C.

T due piedi MAV 509 e MAV 510” (tav. II, 4-5), oltre agli esemplari appena citati del Ceramico, ricordano anche, come già accennato, la forma del piede delle anfore più antiche di Mende™, tuttavia sono più bassi e meno svasati. La datazione potrebbe collocarsi nel secondo quarto del V sec. a.C., come quella delle anse BL 45 e MAV 96% (tav. II, 2-3). Grupo III - Aufore di Thasos

L'indagine archeologica e le analisi chimiche e mineralogiche effettuate negli ultimi decenni hanno apportato notevoli progressi nella conoscenza della fabbrica, o meglio delle fabbriche di anfore esistenti nell'isola di Thasos dal IV sec. a.C. in poi. Sono noti infatti diversi tipi di impasto, riconducibili a cave differenti" e al tempo stesso è abbastanza chiaro lo sviluppo morfologico degli esemplari, che spesso risultano anche forniti di timbri ben databili. Resta invece molto problematica ed oscura la fase iniziale della produzione, riguardo la quale -- a causa della disomogencità morfologica che, come vedremo, sembrerebbe caratterizzarla — sono state avanzate finora soltanto alcune ipotesi, fondate esclusivamente sulla somiglianza macroscopica del corpo ceramico con quello delle anfore timbrate più recenti. Già nel 1938 M. Thorne Campbell aveva proposto ipoteticamente l'attribuzione a Thasos di un esemplare tardo-arcaico da Corinto, sulla base dell'argilla micacea di colore rosso mattone acceso, simile a quella delle anfore thasie ellenistiche. Successivamente, V. Grace ha isolato una fabbrica di anfore, denominandola “red ware”, tra gli esemplari di un pozzo dell’Agorà di Atene databile tra il 460 ed il 440 a.C., ma tuttavia ~ come nel caso delle cosiddette "buff amphoras"*^ - non ha avanzato proposte precise sul centro di produzione. Più di recente il problema della prima produzione di Thasos è stato ripreso da Y. Grandjean nonché da S. Tu. Monachov® e, limitatamente ad un esemplare di Atene, da A.W. Johnston ®. Anche in questi casi l'attribuzione si fonda sul confronto con la pasta delle anfore thasie timbrate, sebbene Y. 623

Grandjean segnali che l'argilla delle anfore più antiche è di colore più intenso e più cupo rispetto a quella degli esemplari tardo-classici ed ellenistici ". A giudicare dalle ipotesi attributive fin qui menzionate, l'esordio della fabbrica thasia, collocabile tra la fine del VI e l'inizio del V sec. a.C., dovrebbe essere caratterizzato, come si accennava sopra, da una certa varietà morfologica, nonché da taluni particolari del profilo che non trovano alcun riscontro nella fase successiva, ma che ricordano piuttosto le coeve anfore con il piede ad anello del nostro gruppo I®. Infatti, nell'esemplare da Corinto già citato”, l'orlo appare verticale e appena ingrossato, margi nato in basso da un cordoncino a

rilievo”, come nell'anfora da Gela SC 1? (tav. I, 1); mentre in altri

esemplari da Thasos, Atene ed Egina, esso presenta l'articolazione a gradini o fasce sovrapposte già notata nel frammento di Gela MAV 19* (tav. I, 2). Anche il corpo è alquanto panciuto, “a trottola" o cuoriforme, proprio come quello delle anfore del gruppo I, sebbene in genere il collo sia un po’ più alto. Elemento peculiare ed esclusivo di questa fabbrica ci sembra invece la costolatura centrale che compare di frequente sul dorso delle anse* e che non ha confronti nel panorama delle altre produzioni dell'Egeo settentrionale. Un discorso a parte richiede il profilo del piede, che nell'esemplare da Corinto si presenta ad anello piuttosto alto e quasi cilindrico”, nei frammenti da Egina è ad anello troncoconico*, mentre negli esemplari da Thasos appare come un piccolo bottone cavo e rientrante”. Allo stato attuale del la documentazione, pertanto, possiamo ipotizzare che la forma del piede era varia e che, probabi mente nei pezzi più antichi, presentava dimensioni maggiori ed un profilo ad anello meglio marcato e distinto dal ventre, come nelle anfore del gruppo I. Quanto allo sviluppo morfologico della fabbrica dopo i primi anni del V sec. a.C., i dati più significativi provengono da alcuni esemplari dell'Agorà^ e del Ceramico"^; tuttavia non mancano attestazioni dalla stessa Thasos e dal Mar Nero'® nonché, in Occidente, dal relitto 1A di Pointe Lequin!®, ΤΊ corpo dell'anfora è abbastanza panciuto e tuttavia un poco più allungato rispetto alla fase precedente, ma le differenze più marcate si notano nel profilo dell'orlo e del piede. L'orlo ha assunto ormai la forma canonica a sezione triangolare o trapezoidale, che nel medesimo periodo va affermandosi anche nelle altre fabbriche della regione nord-egea '*; il piede è un bottone più stretto e basso ed ha un aspetto complessivamente meno evidente, poiché il raccordo con il ventre è solo accennato". La costolatura delle anse scompare quasi del tutto! Dalla metà del V sec. a.C. — come attestano alcuni esemplari ben datati da Atene '*, nonché altri pezzi da Thasos'® e dal Mar Nero", la cui attribuzione è però talvolta incerta - si assiste ad un progressivo affusolamento del corpo dell’anfora, il collo diviene più alto e snello, le anse più lunghe e senza costolatura. Spesso il piede appare come un puntale cilindrico indistinto dal ventre, con una cavità centrale più o meno profonda sul fondo esterno. Nell'insieme, il profilo del vaso ricorda ora più da vicino le coeve anfore di Mende, anche se queste si differenziano per alcuni particolari dell'orlo e per la caratteristica svasatura all'estremità inferiore del puntale In alcuni casi esiste una oggettiva difficoltà di distinguere le due fabbriche anche a causa della somiglianza degli impasti: infatti, soprattutto a partire dall'ultimo quarto del V sec. a. C., l'argilla di Thasos presenta talvolta un colore più chiaro, tendente al beige-rossastro, come quello tipico di Mende". Fortunatamente, però, nello stesso periodo si afferma anche l'uso della timbratura delle anfore", che in genere risulta determinante nell'identilicazione del centro di produzione. Passando adesso alle attestazioni della fabbrica thasia a Gela, bisogna premettere che sono state riscontrate tre varianti del corpo ceramico. La prima variante, la più caratteristica, è costituita da un impasto di colore rosso mattone molto acceso (2.5 YR 5/8), con abbondante polvere di mica e frequenti inclusi bianchi piccolissimi. La superficie ha lo stesso colore della pasta, è ben lisciata e forse ricoperta da una scialbatura. La seconda variante è assai simile alla precedente, ma è meno depurata e presenta un colore tendente al rosso violaceo (2.5 YR 5/6 e 10 R 5/6), anche în superficie. La ter624

za variante è più chiara, di colore quasi rosso arancio (2.5 YR 6/8), più tenera e irregolare, sia in frattura che in superficie, con abbondante mica puntiforme ma anche a scagliette dorate e color ambra. La fase tardo-arcaica della produzione thasia è testimoniata dai frammenti MAV

176, BL 52,

MAV 482 e MAV 487, i cui corpi ceramici rientrano nelle prime due varianti appena descritte. Nell'e-

semplare MAV 176" (tav. IIT, 1) l'orlo è articolato in due fasce sovrapposte, ma ha un profilo meno rigido rispetto al frammento di forma analoga del gruppo I' ed agli esemplari già citati di Thasos, Atene ed Egina !*, Manca la costolatura sulle anse, che compare invece nel frammento BL 52! (tav. II, 2); mentre MAV 482 e MAV 487! (tav. III, 3-4) sono piedi ad anello ben confrontabili con quelli del gruppo I. La datazione dei pezzi probabilmente si colloca entro il 480 a. C. Con l'esemplare SC 3 (tav. III, 5), che proviene dalla necropoli di via Crispi", verosimilmente non ci discostiamo molto dal suddetto termine cronologico, tuttavia si osserva già nell'orlo l'adozione della forma a sezione trapezoidale, con una risega al margine inferiore, mentre il piede mantiene il profilo ad anello. Altre attestazioni che si possono datare nel secondo quarto del V sec. a.C., sono i piedi MAV 483 e MAV 480" (tav. III, 6-7), la cui forma ad anello sembra diventare più sfuggente!?. In questi due casi, però, l'attribuzione a Thasos non è sicura, in quanto l'impasto, che dovrebbe appartenere alla nostra terza variante, rivela una tessitura appena diversa, nonché la presenza di inclusi scuri che potrebbero essere indizio di un'altra fabbrica. 1 due frammenti MAV 571 e MAV 484, insieme all'orlo MAV 488 (tav. III, 8-10), sono databili almeno nel terzo quarto del V sec. a.C., poiché vi si osserva la linea più stretta e slanciata del collo, così come abbiamo già notato a proposito di alcuni esemplari da Atene e Thasos'?. Alla medesima fase vanno associati i piedi MAV 476 e MAV 485 ?* (tav. III, 11-12), per i quali tuttavia sussistono gli stessi dubbi di attribuzione a fabbrica thasia già segnalati nel caso di MAV 483 e MAV 480. Nel gruppo di esemplari della seconda metà del V sec. a.C. appena elencati, i corpi ceramici rientrano nella seconda e terza variante sopra descritte. Allo stato attuale della documentazione, a Gela non sono attestati i più antichi timbri di Thasos: verosimilmente non vi erano ancora giunti nel 405 a.C., quando la città fu distrutta dai Cartaginesis Gruppo IV - Anfore di Mende

La fabbrica di Mende è stata identificata per la prima volta da V. Grace, grazie ad un timbro anforario recante il tipo monetale di Mende con Dioniso sull'asino "*. Poco più tardi e indipendentemente dal lavoro della Grace, anche lo studioso russo LB. Brasinskij'? è pervenuto alle medesime conclusioni, attribuendo a Mende una serie di esemplari già isolata dalla Zest. Sia la Grace che Brasinskij hanno tratteggiato lo sviluppo morfologico della produzione attraverso alcuni pezzi, rispettivamente dall'Agorà di Atene"? e dal Mar Nero™, databili non prima del secondo quarto del V sec. a.C.; ulteriori contributi alla conoscenza della fabbrica sono stati forniti da S. Iu. Monachov e, per l'arco cronologico compreso tra la fine del V e l'inizio del IV sec. a.C., da C. Jones Eiseman™ Da ciò si evince che a tutt'oggi rimane poco nota la fase più antica della produzione, vale a dire quella anteriore al secondo quarto del V sec. a.C. - analogamente a quanto già osservato per Thasos, nonché la fase più recente, posteriore al principio del IV sec. a.C. Per quanto attiene l'esordio della fabbrica, che ci riguarda più direttamente in questa sede, occorre evidenziare che in letteratura non è stata avanzata alcuna ipotesi attributiva, come invece è avvenuto a proposito di Thasos"5. Tuttavia, però, nelle anfore di Mende del secondo quarto del V sec. a.C. si individuano, a nostro parere, alcuni elementi peculiari, tecnici e morfologici, che distinguono

la fabbrica da quelle del medesimo ambito regionale e che pertanto potrebbero favorire l'identificazione di eventuali esemplari più antichi. Caratteristico delle anfore di Mende è innanzitutto il profilo dell'orlo, breve e a sezione trapezoi625

dale come nei gruppi precedentemente trattati, ma in genere più svasato, con un andamento per cosi dire “a virgola”, separato dal collo mediante un solco. Un secondo solco si osserva nella maggioranza dei casi anche sul collo, all'altezza dell'attacco delle anse, in corrispondenza del quale spesso compare un leggero rigonfiamento del collo stesso. Il corpo è per lo più espanso, “a trottola”, con il ventre ora più teso ora più arrotondato. Il piede, a profilo continuo con il ventre, è svasato verso il basso come un rocchetto, con una tipica cavità circolare, piccola e poco profonda, sul fondo esterno. Le anse sono a nastro ingrossato, talvolta abbastanza largo. La tendenza della forma dell'anfora nella seconda metà del V sec. a.C. consiste nell'allungamento del collo e delle anse (queste ultime più strette e sinuose nel tratto inferiore); il corpo assume un profilo “a trottola” più rigido, con il punto di massima espansione marcato e quasi angoloso; il puntale si fa più alto, massiccio e svasato al margine inferiore, dove talvolta compare una carenatura. Per quanto riguarda il corpo ceramico, possiamo affermare senz'altro che nella maggioranza dei casi esso è abbastanza ben caratterizzato "*. Si tratta di un impasto duro, piuttosto "secco" e sabbioso, di colore rosato o rossiccio chiaro (7.5 YR 7/6 oppure 6/6; 5 YR 6/6), con abbondante mica a scagliette dorate, argentee e color ambra (queste ultime anche di medie dimensioni). La superficie presenta un tipico aspetto ruvido e granuloso ed è per lo più coperta da una evidente ingubbiatura color crema rosato oppure rosa chiarissimo (10 YR 8/8; 7.5 YR 8/3). Esiste anche una variante di tessitura più compatta e di colore rossiccio più acceso (5 YR 6/8; 2.5 YR 6/8), con inclusi di minori dimensioni. La superficie, in questo caso, è abbastanza liscia ed è ricoperta da una ingubbiatura rosata diluita. Un elemento peculiare della fabbrica di Mende, infine, è la presenza frequente di sottili bande rossicce o brune dipinte sotto l'orlo, alla base del collo e nella parte inferiore del ventre. Come si è detto, sulla base delle caratteristiche distintive della produzione di Mende, si potrebbe tentare di indagarne meglio la fase iniziale. A questo proposito, per esempio, riteniamo che possa essere attribuito a Mende un esemplare dell'Agorà di Atene ben datato entro il 480 a.C."*: il profilo svasato dell'orlo, la doppia solcatura sottostante ed il leggero rigonfiamento del collo all'attacco delle anse, dovrebbero costituire indizi significativi in tal senso. È interessante notare, d'altra parte, che il collo è più corto e la forma del corpo è assai più panciuta rispetto alle anfore del secondo quarto del V scc. a.C.'% il piede, infine, è piccolo e quasi cilindrico. ΑἹ periodo tardo-arcaico verosimilmente appartiene anche un'anfora dal Ceramico!”, purtroppo priva di corredo, che potrebbe essere poco più evoluta della precedente a causa del profilo appena più allungato del corpo. Proprio a questa fase, a nostro parere, vanno riferiti i primi due esemplari da Gela, BL 105 e MAV 535" (tav. IV, 1-2). Il collo, infatti, appare ancora piuttosto largo e tozzo, come nelle anfore da Atene appena citate, e l'attribuzione a Mende è confortata in MAV 535 dalla tipica linea svasata delYorlo e dalla banda dipinta alla base del collo. Il frammento MAV 491" (tav. IV, 3) può essere collocato già nel secondo quarto del V sec. a.C., per l'articolazione più complessa delle scanalature sotto l'orlo. Sul collo è dipinto in rosso un segno alfabetico (delta), seguito da una probabile indicazione numerale ^. Ancora più elaborata è la decorazione dell'orlo nell'esemplare MAV 512! (tav. IV, 4), dove le scanalature determinano due sottilissimi cordoncini a rilievo. II collo appare già più stretto e slanciato rispetto agli esemplari precedenti e la spalla spiovente è indizio di una linea più affusolata del corpo: il confronto più stringente è quello con un'anfora frammentaria da Atene, ben datata intorno alla metà del V sec. a.C. ! L'impasto ceramico rientra nella variante meno frequente, caratterizzata dalla tessitura più fine e dal colore più acceso. I piedi MAV 572 e 573" (tav. IV, 5-6), ancora piuttosto bassi e poco svasati, trovano anch'essi confronto nell'esemplare di Atene appena citato e, analogamente a quest'ultimo, recano una banda dipinta in rosso nella zona inferiore del ventre. Nel terzo quarto del V sec. a.C. collocheremmo invece i frammenti MAV 490, MAV 516 e MAV 489 (tav. V, 1-3), e l'anfora MAV 401 (tav. V, 4)". Il collo è ormai alquanto alto e snello, il corpo ha assunto una forma marcatamente “a trottola”, il piede è svasato “a rocchetto”. Numerosi sono i confronti, sia dall'Attica ‘5 che da Corinto“, Thasos!, Mileto, Cipro ^ e Mar Nero", 626

Il frammento MAV 494** (tav. V, 5) attesta invece la presenza a Gela della forma più evoluta, che si data nell'ultimo quarto del V sec. a.C., caratterizzata da un puntale pieno assai alto, che al margine inferiore ha un profilo svasato e carenato. Anche in questo caso si possono citare parecchi confronti dalla Grecia", da Cipro e dal Mar Nero", nonché da Pithecusa '* e dal relitto di Porticello*s, Grupro V - Anfore "pseudo-samie" e "protothasie"

La scelta di esaminare per ultimo questo gruppo di anfore non si basa su considerazioni di carattere cronologico, ma soltanto sul fatto che la sua attribuzione all'area nord-egea non è sicura come lo è invece per le serie già illustrate. Tali anfore, infatti, sono a tutt'oggi assai poco conosciute e presentano, come vedremo, alcune peculiarità morfologiche piuttosto singolari nel quadro delle produzioni dell'Egeo settentrionale. Si tratta di due serie, la cui stretta interrelazione si è evidenziata soltanto di recente, grazie agli studi di P. Dupont. Entrambe, infatti, erano state individuate per la prima volta dalla Zeest, che però aveva assegnato l'una a Samo! ~ seguita da V. Grace!‘ — l’altra a Thasos'*, sulla base di presunte somiglianze con gli impasti delle rispettive isole. Successivamente, l'attribuzione della serie stata ripresa in occasione di alcuni rinvenimenti nella stessa Thasos!*'; ma, d'altra “protothasi: parte, C. Peristeri Otatzi ha proposto di assegnare la forma ad Abdera sulla base del confronto con l'immagine di un'anfora che compare sulle monete della città. Nel lavoro già citato di P. Dupont, invece, le due serie sono state finalmente connesse tra loro e si è avanzata l'ipotesi di una molteplicità di fabbriche, localizzate nella medesima area geografica "ἢ. A questo proposito, lo studioso propende per una ubicazione nella regione nord-egea, tuttavia riconosce che le affinita morfologiche con le produzioni greco-orientali - specialmente quella samia e quella milesia "^ — nonché la consistente presenza a Mileto della forma "protothasia '*, non consentono di escludere del tutto l'ipotesi della Tonia meridionale Tl tipo “pseudo-samio” è attestato almeno dalla metà del VI sec. a.C. fino allo scorcio dello stesso", in un ampio raggio che va dalla Grecia (Atene, Egina) '‘’ al Mar Nero, Cipro, Egitto, Etruria L'anfora presenta un orlo ingrossato a cordone o a mandorla, sottolineato da una gola più o meno marcata; il collo è per lo più snello e cilindrico, ornato da una solcatura all'altezza dell'attacco delle anse; il corpo appare piuttosto espanso nella parte superiore ed affusolato in quella inferiore; il piede ad anello — piuttosto largo e basso da principio e poi via via più stretto e a profilo continuo con il ventre negli esemplari più recenti ~ presenta un'articolazione assai tipica con una o più carenature a spigolo vivo; le anse, a sezione ovale o a nastro ingrossato, non hanno impressioni digitali alla base. La forma “protothasia” è assai simile ma sempre di dimensioni inferiori, con il corpo piriforme ed il piede stretto!, Essa sembrerebbe costituire lo sviluppo morfologico della serie "pseudo-di samia”, in realtà però, per un breve periodo, le due serie si sovrappongono, con una certa quantità e forme “intermedie”. Le anfore "protothasie" compaiono infatti nell'ultimo quarto del VI sec. a.C. sono attestate per tutta la prima metà del V sec. a.C. Gli esemplari più antichi provengono dal Mar Nero, dove si registra la presenza più cospicua; assai meno frequenti sono invece le attestazioni nel Mediterraneo, se si eccettuano quelle di Thasos, Abdera e Mileto '??. Passando all'esame dei materiali di Gela, occorre premettere che quasi tutti gli esemplari sembrano collocarsi verso la fase finale del tipo “pseudo-samio”, ad eccezione di un frammento di orlo forse di poco più antico.

Riguardo al corpo ceramico, P. Dupont segnala l'esistenza di una certa varietà di impasti '?, tut

tavia nei nostri pezzi risulta prevalente una pasta piuttosto dura e “secca”, abbastanza compatta, di colore rossiccio chiaro (5 YR 6/6), con mica puntiforme poco abbondante, frequenti inclusi bianchi, di cui spesso restano soltanto i vacuoli, e meno frequenti inclusi rossicci e scuri. Nella maggioranza dei casi la superficie è ricoperta da un'ingubbiatura di colore giallino chiarissimo (2.5 Y 8/4).

627

È probabile quindi che a Gela sia documentata soltanto una fabbrica, ma i dati in nostro posses50 sono troppo esigui per tentare di trarre delle conclusioni. Se si dovesse trattare effettivamente di una città dell'Egeo settentrionale, tuttavia, possiamo dire che, oltre al confronto tra la forma "protothasia” c il tipo monetale di Abdera'”, ci sembra altrettanto interessante, per la forma “pseudosamia”, il richiamo al tipo monetale già citato di Torone, in Calcidica ”*. L'esemplare verosimilmente più antico è l'orlo MAV 407 (tav. VI, 1), che per le dimensioni ed il profilo bombato del bordo si accosta alle anfore "pseudo-samie" della seconda metà del VI sec. a c.m L'orlo MAV 5961” (tav. VI, 2) e forse anche MAV 233" (tav. VI, 3) possono essere invece attribuiti ad una variante "pithoide" — cioè con il corpo ovoide a profilo continuo con il collo - attestata in due esemplari dal pozzo già citato dell'Agorà di Atene, datato tra il 520 ed il 480 a.C. "Ὁ L'orlo MAV 240!" (tav. VI, 4) probabilmente è vicino alla fase finale della serie, poiché il collo snello e privo di solcatura ricorda quello delle anfore “protothasie”. Di incerta attribuzione è invece il frammento SF 1" (tav. VI, 5), che è simile al precedente ma ha un profilo piuttosto irrigidito che non trova confronti prec I piedi MAV 599, MAV 600 e GL 2"

(tav. VI, 6-8) hanno ancora un diametro piuttosto ampio, ma

al tempo stesso presentano una doppia carenatura che fa pensare ad una datazione non anteriore allo scorcio del VI sec. a.C. '** CONSIDERAZIONI

A conclusione della panoramica sulle produzioni nord-egee, vorremmo aggiungere alcune brevi considerazioni generali sui rapporti commerciali che coinvolgevano la città di Gela. Nell'insieme delle anfore relative al periodo esaminato, la presenza a Gela di materiale dell'Egeo settentrionale, sebbene non molto cospicua dal punto di vista quantitativo '“, si può ritenere comunque significativa, specialmente se si tiene conto del fatto che finora essa è stata del tutto trascurata in letteratura. Occorre sottolineare, poi, che tale presenza è anche piuttosto varia ed articolata e cioè che vi sono documentate pressoché tutte le fabbriche della regione a noi note. Ciò vale soprattutto per i primi decenni del V sec. a.C. e forse è da connettere con la situazione politica e sociale di Gela nell'età dei Dinomenidi. L'attestazione di vini pregiati come quelli nordegei o quello di Chio, infatti, potrebbe essere interpretata quale indizio delle raffinate abitudini di vita dell'aristocrazia locale”, Dalla metà del V sec. a.C. e nel corso delle alterne vicende che seguirono al crollo della tirannide, le importazioni nord-egee sembrano subire una flessione, ad eccezione però della fabbrica di Mende, che, al contrario, è documentata in misura crescente. A questo punto, tenendo conto del carattere per così dire composito dei traffici commerciali arcaici e classici "*, sarebbe lecito porsi il problema delle modalità e degli eventuali intermediari attraverso cui il vino nord-egeo giungeva nella colonia siceliota. Ma purtroppo allo stato attuale delle conoscenze è difficile formulare ipotesi in tal senso: l'esiguità dei materiali finora editi per l'Occidente non consente infatti di tracciare un quadro attendibile della distribuzione dei prodotti in questione. Concludendo, però, vorremmo segnalare un dato che potrebbe rivelarsi in qualche modo significativo nell'insieme dei fattori che agivano sugli scambi tra Grecia e Sicilia. Dall'analisi fin qui condotta sulle singole fabbriche di anfore emerge che, per la maggior parte esse, ad Atene si concentra una documentazione assai ricca e completa "Ὁ; anzi, soprattutto sulladi base dei rinvenimenti del Ceramico, si potrebbe pensare che, specialmente in età tardo-arcaica, i vini della regione nord-egea fossero senz'altro i più apprezzati in Attica. D'altra parte, gli interessi politico-economici ateniesi nei confronti di questa regione sono ben documentati storicamente’? e, riguardo i rapporti commerciali tra le due arce, una testimonianza interessante, seppure riferibile ad un periodo più recente, è offerta da una nota orazione demosteni628

ca" in cui si parla di mercanti greco-orientali che, partiti dal Pireo con un finanziamento ateniese, dovevano caricare vino a Mende, trasportarlo nel Ponto Eusino e da qui tornare ad Atene con un carico non precisato (forse grano). A nostro parere, dunque, è possibile che Atene abbia giocato un certo ruolo, diretto o indiretto, nel commercio dei prodotti vinicoli dell'Egeo del Nord, e pertanto che anfore di tale regione giungessero a Gela per vie analoghe a quelle percorse dalla ceramica attica ', NOTE 1 Ὁ. Seacxoto, Le anfore da trasporto di età areaica e classica dagli scavi di Gela, Tesi di dottorato di ricerca in Archeologia e Storia dell'arte greca e romana,VII ciclo, Università di Messina 1995, Colgo l'occasione per esprimere profonda gratitudine al prof. Frnesto De Miro per avermi dato la preziosa opportunità di svolgere una lunga e diversificata attività di ricerca a Gela, che ha costituito un'esperienza fondamentale per la mia formazione. Desidero ringraziare vivamente anche il prof. Piero Orlandini e la dott.ssa Graziella Fiorentini per avermi concesso l'autorizzazione allo studio dei materiali provenienti dagli scavi condotti a Gela dagli anni '50 al 1991; l'arch. Salvatore Scuto, già Soprintendente ai Beni Culturali e Ambientali di Caltanissetta, per avermi consentito di accedere al magazzino del Museo Archeologico di Gela; il restauratore Salvatore Burgio, in qualche caso coadiuvato da Salvatore Biccini, per aver eseguito la ri documentazione gra‘composizione dei pezzi con grande perizia e competenza; mio marito, Rocco Burgio, per aver curato laagevolato il mio lavoro ficae per essermi stato vicino nello svolgimento della ricerca. Sono grata inoltre a coloro che hanno l'American School of consentendomi di visionare alcuni dei materiali depositati presso i musei della Grecia e precisamente: (Museo di Thasos), la Classical Studies (Agora di Atene), la dott.ssa K. Orphanou (Ceramico di Atene), il prof. Y. Grandjean dott.ssa Ch. Koukouli Chrysanthaki (Musco di Kavala), la dott.ssa E. Trakosopouloue il dott. K. Soueref (Museidi Salonicco e Polighiros). Ὁ F. Saar, Le vin de Thasos. Amphores, vin et sources érites, in BCH Suppl. XIII, 1986, pp. 145-196; Ea, Vignes et vins anciens de Maronée à Mendé, in AANV., Muèm D. Lazaridi (Actes du Colloque archéologique de Kavala, 9-11 mai 1986), Paris. 1990,pp. 457-476. ΤῈ. Samar, Vignes et vins, cit, pp. 459-462. Le fonti principali sono: Od. IX, 204 ss. (dove si parla del vino offerto a Polifemo, vino che era stato donato ad Ulisse da Maron, figlio di Evanthos, sacerdote di Apollo, che protegge il monte Ismaros); Archil fr. 5 D.; Eur., Ge, 147 ss.; Tib. 4, 1, 7; Verg. georg. 2, 37-39. * Ach.Tat. I 2 (F. Sivur, Vignes et vins, cit, p. 461). 145, 1-7 * SW. Grosé, Catalogue of the McClean Collection of the Greek Coins, I, Cambridge 1926, tawv. 144, 4-21; * A. Mri, Il commercio greco arcaico. Prexis ed emporie, Napoli 1979, p. 56; F. SaLviat, Vignes et vins, cit., pp. 462-467. Le St. Byz. s. fonti principali sono: Hes, Op., 588-596; Ath. 31 a (dove sono riportati passidi Epicarmo, Philyllios e Armenidas); parlano v. βιβλένη; Etymologicum Magnum 197, 32, s. v. βίβλινος οἶνος; Hsch. s. v. βίμβλινος. In particolare, poi, alcune fonti e Hippys di di un vitigno "biblino" trapiantato anche nell'Italia meridionale e in Sicilia, nel territorio siracusano et(Epicarmo Rhegion citati in Ath. 31 a-b). Su quest'ultimo dato, vedi di recente: Ca. Van Der Mrnsci, Vigne, vin économie dans Italie du Sud grecque à l'ipoque archaique, in Ostraka V, 1, 1996, pp. 161-162. Ἢ SaLvia, Vignes er vins, cit. pp. 469-470. Si tratta di Thuc. IV, 84-88, e Ath. 30 e. © E. Satwia, Le vin de Thasos, cit, pp. 157 s ., 177-179: il vino di Thasos era un vino rosso, da invecchiamento, famoso peril suo profumo fruttato (vedi, per csempio, Hermipp. fr. 82 Kock = Ath. 29 e Le vin de Thasos, cit, pp. 189-191. * Hermipp. fr. 82 Kock = Ath. 29 c-E F. Savi, τ Ibid., pp. 470-474. Le fonti più significative per ἢ vino di Mende sono: Ermippo e Cratino in Ath. pp.29 d-e. tav. XXII, ? H. Gant, Die Antiken Münzen, Nord-Griechenlands, IH, Makedonia und Paionia, Berlin 1935, 114-115, di Torone invece raffigu1.9; PR. Franke - M. ϊαμεν, Die Griechische Manze, München 1964, p.97, tav. 130. Altre emissioni rano, a nostro parere, un'anfora da tavola o una Adria: H. GarniER, Die Antiken Münzen, cit, tav. XXIL nn. 6-8 e 10. ἢ LALF. May, The Coinage of Abdera (540-345 b.C.), London 1966, pp. 134-135, tav. XI, 165. in C. Gnus ὁ. M. Lawatt, Shape and Symbol: Regionalism in 55 C. Transport Amphora Production in Northeastern pp.Greece, P. Do114-118; 1997, Jonsered Crafisman, the and Production Greece: Premonetary in Production and Trade (edd), ‘er aun 1998, pp. post, Archaic East Greek Trade Amphoras, in RM. Cook - P. Dupont, East Greek Pottery, London - New York 178-190. Cfr. LB. Zeesr, Il materiale ceramico del Bosforo (in russo), in Materialy i Issliedovania po Archeologii SSSR 83, 1960, tavv. I, 3; V, 15 abi VI, 15 v-g; VIL, 18 b-19; XXV, 56 a-b. 1992, pp. 541-584; "Y. Graxpitax, Contribution à l'tablissement d'une typologie des amphores thasiénnes, in BCH CXVI, de la Mer Noire, in Y. GaRLAx (ed.), ProducS. Iu. Moxactiov, Quelques séries d'amphores grecques des VII-V.s. av. n. è. au Nord tion et commerce des amphores anciennes en Mer Noire (Colloque international organisé a Istanbul, 25-28 mai 1994), Aix-enProvence 1999, pp. 163-194. 5 Vedi, per esempio, A\W. Jonxstox, Aegina, Aphaia-Tempel. XIII. The Storage Amphorae, in AA 1990, pp. 52-181; I. An Archaic Amphora ofThasian Type, in Hesperia 60, 1991, p. 364; Y. Graunizax, Contribution, cit, p. 578; M. Lawatt, Shape and ci, p. 114. ‘Symbol, "© Si tratta delle anfore cosiddette “pseudo-samie" e “protothasie” (vedi pp. 627-629) e limitatamente al profilo dell'orlo =di alcune varianti di fabbrica thasia (vedi p. 623) nonché della serie con piede ad anello (vedi p. 621). 629

© Se per le produzioni tardo-classiche ed ellenistiche di Thasos e Mende sono note diverse indagini tecniche (vedi infra note 81 e 134), per i materiali nord-egei più antichi, invece, si può citare soltanto una sintesi dei risultati di analisi petrografiche condotte su una limitata campionatura dall'Agoràdi Atene: M. Lawa, Shape and Symbol, cit, pp. 117-118 e nota 31. ἃ. Cfr. M. Law, Shape and Symbol cit, p. 114 ("Northern Greek regional style”). ? Vedi: LB. Zeest, Il materiale ceramico, ci, tav. VII, 18 b-19; L. Lowo - 1. Miro- G. Votre, Les épaves archaiques de la Pointe Lequin, in AANV., Marseille grecque et la Gaule (Actes du Colloque international d'Histoire et d'Archeologie et du V Congrès archéologique de Gaule méridionale, Marseille 1990), Études Massaliètes 3, Lattes-Aix en Provence 1992, p. 223; P. Duroxt, Archaic East Greek, cit, p. 186. ® Vedi pp. 627-629. Cir. P. Durowr, Archaic East Greek, cit., pp. 182-183. * Sugli scavi a Molino a Vento vedi soprattutto: D. ApaussrzANt ~ P. OntAxbiMi, Gela. Scavi e scoperte 1951-1956, I, in ΝΑ 1956, pp. 205 ss.; Ii, Gela. L'acropoli di Gela, in NSA 1962, pp. 340 s .; P. OgtaNDNI, La terza campagna di scavo sull'acropoli di Gela, in Kokalos VII, 1961, pp. 137-149; E. De Miro — G. ΕἸοκαντινι, Relazione sull'attività della Soprintendenza alle Antichità di Agrigento, in Kokalos XXII-XXIII, 1976-77, pp. 430 s ; Ii, Gela protoareaica, in ASAA LXI n. 5. XLV, 1983, pp. 55 55; G. Fionexria, Gela. La città antica e il suo territorio. Il museo, Palermo 1985, pp. 11 ss; EAD, s. v. Gela,in EAA, II Suppl. 1971-1994, Roma 1994, pp. 729-730. 5 G. Fionn, Gela. Area del "Bosco Littorio", in Beni Cultura e Ambientalili Sicilia IX-X,3, 1988-89,pp. 23-24; En, s.v. Gela, cit, p. 731 ® G. Ῥίοκεντινι, Gela. La città antica,cit, pp. 29-30;E. Ds Miro, Coroplasti geloa delcaVI e V sec. a.C., in AAVV., Hestiasis, Studi offerti a Salvatore Calderone, Messina 1986, pp. 393 ss.;G. Sncxoto, Recenti scavi nell'area della vecchia stazione di Gela, in QuadMess 6, 1991,pp. 55 ss. * Sulla articolazione in due fasi della frequentazione del V sec. .C., vedi G. Stucnoto, Le anfore da trasporto, cit, cap. I. * Sugli scavi nell'area della necropoli arcaica: D. ApanESTEANU - P. ORLANDI, Gela. Scavie Scoperte, I, cit, pp. 281 ss. (predio La Paglia); ibid, pp. 289 ss. (Villa Garibaldi); ibid,pp. 318 ss. (Via Salerno); lin, Gela. Scavi e scoperte 1951-1956, I, in NSA 1960, pp. 137 ss. (Via Crispi). ® P. Duront, Archaic East Greek, cit. p. 189, fig. 23.13 ef. 7 SR. Βοβπατο, The Sioa Gutter Well. A Late Archaic Deposit in the Athenian in Hesperia 55, 1986, pp. 68-70, nn. 429-430, fig, 43, tav. 17-18 (si tratta degli esemplari P 24889e P 24895). Sempre Agora, dall'Agorà (deposito E 14: 5) si segnala anche un frammento di piede pubblicato in M. Lawati, Shape and Symbol, cit. p. 116, fig. 1 ® U. Koos, Der Stidhiigel (Kerameikos IX), Berlin 1976, p. 88 n. 16, tomba 167, tav. 44, 6 (500-490 a.C); p. 177, E. 37, tomba b 23, tav. 89, 3 480 a.C); p.147n. 268, tomba SW 84, tav. 63, 2 (metà delHWV sec. C.) ?* C. Roentcx, Pottery from the North Slope of the Acropolis, 1935-1938, in Hesperia 9, 1940,. 257, n. 338, fig. 61 (A-P 2535. dal pozzo A) ? M. NixotAmou-Pareaa, Hoóra μηνύματα and μια πόλη της Πιαρίδας κοιλάδας, in Τό ἀρχαιολογικό ἔργο στὴ Μακεδονία καὶ om Θράκη, 1, 1987,p. 344, fig. 12. » P. Durovr, Archaic East Greek, ci. p. 189, nota 305 e bibliografía ivi citata. ® SR. Roneats, The Sioa Gutter Well, cit. pp. 68-70,nn. 423, 432-433, figg. 43-44, tavv. 17-19 (si tratta degli esemplari P 24887, P 24897, P 24896). L'anfora P 24887 è pubblicata anche in: V. Grace, Amphoras and the Ancient Wine Trade, Princeton 1979, fig. 35 (al centro, in prima fila) ® P. Duront, Archaic East Greek cit, pp. 187-189, fig. 23.13 ad. & Agorà: SR. Ropents, The Sioa Gutter Well, cit., pp. 68-70, nn. 425-428, fig. 43, tav. 17 (P 24892, P 24888, P 24891, P 24890). Ceramico: U. Kxicce, Der Siidhigel, cit, p. 85 n. 5, tomba HW 169, tav. 4, 7 (510-500 a.C.); p. 172,E 11, tomba d 49, tav. 85, 3 (circa 500 a.C.) 7 AM. Jounston, Aegina, cit, p. 54, nn. 133-134, fig. 13. ? M. Nixorumnov-ParER, Πρώτα μηνύματα, cil, p. 344, fig. 10. δ P. Durost, Archaic East Greek, cit, p. 187 nota 298 e bibliografia ivi citata. Alla stessa serie è forse da aggiungere anche ‘un esemplare da Olbia:S. Iv. Moxaciiov, Quelgues séres, cit. p. 174, fg. 17/1 (attribuito a Thasos). ** Himera: S. Vassatto, Ricerche nella necropoli orientale di Himera in località Pestavecchia (1990-1993), in Kokalos XXXIXXL 1993-1994, p. 1249, ig. 5,3 (anfora viene definita "di tipo Thasos-Mende"). Morgantina: C.L. Lvos, The Archaic Cemeteries, Morgantina Studies V, Princeton 1996, pp. 52 e 187, tav. 1, n. 17-42 (esemplare ὃ attribuito dubitativame nte samia) fabbrica Monte Bubbonia: D. Pancucci - M.C. Naro, Monte Bubbonia, Roma 1992, p. 115 n. 355, fig. 2la, a tav. 9 » In letteratura l'impasto è quasi sempre definito di colore arancio (S.R. RomERTS, The Stoa Gutter Well cit, p. XXVIII 68: "orange", "tan", ecc), ma all'esame autoptico ci sembrano invece prevalenti le sfumature del rosa e del rossiccio (vedi infra e cf. AW. JokxstoN, Aegina, cit. p. 54: ‘pink’. Sulla base di analisi petrografiche, M. Lawall distingue tre fabbriche fore con piede ad anello, ma non specificail colore degli impasti (M. Lawxt1, Shape and Symbol cit, pp. 117-118)diverse di an© La caratteristica durezza del corpo ceramico si potrebbe forse confrontare con il fabric group II" di M. Lawall (Shape and Symbol, cit. p. 118) © Vedi nota 33. © Vedi p. 622 (BL 87) 5 L'esemplare è stato recuperato nel 1984 in proprietà Scerra, tra via Petrarca Ariosto (per la necropoli presso la via Crispi, vedi supra nota 25). Le sue dimensioni sono: alt. cm 56,5; diam. orlo cm 13;e via diam, cm 44,8; diam. piede em 7. Il pezzo, come tutti gli altri qui presentati, ὃ identificato da una sigla convenzionale, relativa max alla sua provenienza, e da un numerodi inventario che s riferisce al catalogo delle anfore di Gela citato alla nota 1. “ AW. Jouxstox, Aegina, cit, p. 52, nn. 128-129, fig. 11 (entro il 480 a.C.) 630

^ M. Tronxe Contre, A Well of Black-figured Period at Corinth, in Hesperia 7, 1938, p. 608 n. 20, ig. 29 (540-480 a.C). ^* Vedi p.623. © Vedi nota 45. Ἢ frammento (alt, conservata cm 7) proviene da Molino a Vento, scavo 1973. ^ Thasos: .Y. ἘΜρεκευκ — A. Sivosst, Thasos. 1. Le port, in BCH CXIV, 1990, pp. 881-883,fi. 6; Y. Graxoreax, Contribution, cit, p. 545 n. 2. fig.1; p. 547, nn.7 e 10, fig.2; p. 551, nn. 26-28, ig. 4; p. 553,n. 34, ig. 5: p. 560, nn. 61-63, fig. 9 (prima. della metà del V sec. a.C), Atenc: A.W. JouxsTON, An Archaic Amphora, cit, pp. 363-365, fig. 1, tav. 96 (fine Vl-inizio V sec. a.C). Egina: To, Aegina, cit, p. 54, nn. 140 e 144, fig. 13 (entro il 480 a.C). * Si trattadi due frammenti di oro, di cui MAV 8 (alt. conservata cm 10; diam. orlo cm 11) proviene da Molinoa Vento, scavo 1973; mentre BL 67 (alt. conservata cm 8) proviene da Bosco Littorio, scavo 1987. MAV 94 è costituito da due fram. menti non ricomponibili, comprendenti l'uno, una parte dell'oro, del colo e della spalla con un'ansa; l'alto, il piede con l'attacco del ventre (diam. ricostruito orlo cm 11,5; diam. piede cm 5.6). L’esemplare proviene da Molino a Vento, scavo 1973. 8 Vedi supra, note 33-38, © 1 frammenti provengono entrambi da Bosco Littorio, scavo 1987. Le misure sono rispettivamente: alt. conservata cm 5 €98; diam. piede cm 7,4 e 78. © Vedi suprap. 621 e note 26-27. * Vedi supra p. 619 e nota6 δ. V. Grace apud C. Boutren, Pottery of the Mid-Fifth Century from a Well în the Athenian Agora, in Hesperia 22, 1953, p. 106, nn. 158-160, tav, 39, * Ibid.pp. 106-108, nn. 161-163, tav. 40, fig. 5. 7 Ibid, pp. 105-106, nn. 153-158,tav, 39 * LB. Zezsr, Il materiale ceramico, cit, tav. VII, 18 b-19. * P, Dupont, Archaic Fast Greek, cit. pp. 189-190, fig. 23.13 g. © L'aspetto complessivo del piede ricorda molto da vicino quello delle anfore che abbiamo classificato come probabile variante del tipo B Dupont (vedi supra p. 621 e nota 32); rimane tuttavia oscuro il legame che potrebbe essere esistito tra le duc fabbriche. © U. Koucor, Der Südhigel, cit, p. 171,E 9, tomba c 26, tav. 85,2. P. Dupont (Archaic Fast Greek, cit, nota 298) inserisce invece l'esemplare nel tipo A. © W. VoisriàpeR, Grabung westlich des Buleuterion, in W. Müttem Wiexeg, Milet 1980, in MDAI(I) 31, 1981, pp. 125 e 128, cat. 6, fig. 14.3, tav. 42. 1 ^ P. Durovr, Archaic East Greek, cit, p. 190 nota 308 e bibliografia ivi citata. + V. Grace apud C. Bourres, Pottery cit,p. 106. ‘5 Si datano nel secondo quarto del V sec. a.C. le anfore già citate alla nota 55, alle quali V. Grace aggiunge due anfore inedite (P 5176 e P 5178), provenienti da un altro pozzo dell'Agorà studiato da L. Talcott (L. Tatcorr, Vases and Kalos-names from an Agora Well, in Hesperia 5, 1936, pp. 334-354), nonché un'anfora appena più recente, anch'essa inedita, dagli scavi di Eleusi. Ancora dall'Agorà (deposito F 19: 4) proviene il frammento di piede pubblicatoin M. Lawatt, Shape and Symbol cit, p. 117, fig. 3. Dal Ceramico sono attestati alcuni esemplari trail 470 ed ἢ 450 a.C.: U. Kxicos, Der Südhágel, cit. p. 121, n. 132, tomba HW 190, tav. 53, 2; p. 130, n. 178, tombaHW 186, tav. 56, 7; p. 137, n.213, tomba HW 218, tav. 59,5; pp. 143-144,n 244, tombaHW 193, tav 61, 1. Si potrebbe aggiungere infine un esemplare dalla necropoli di Eridanos, datato alla fine del V sec.a.C.: U. Kuicos, Eridanos-Nekropole, in MDAI(A) 81, 1996, p. 49, n.99, tav. 38, 2. * A.W. Jouxsrox, Aegina, ci.,pp. 49-50, nn. 110112,fig. 7. EB. Dosenurav, Samothrace: The Nekropoleis, Princeton 1998, pp. 141-142 e 753, n. S80-1 (470 a.C); pp. 164-166e 753, nn. $102-1, $103-1 (secondo quarto del V sec. a.C. ^* Vedi nota 58 ed inoltre: P. Duroxr, Archaic East Greek, cit, nota 309 e bibliografiaivi citata; S. Tv. Mowaciov, Quelgues séries, cit, pp. 178-179, figg. 27/1, 301,32. “© Naxos A. RastREn.I, La necropoli del Poker Hotel. Scavi 1973, in NSA 1984-1985, p. 337, n. 24, figg. 49-50 (inv. 955, tomba 23, intorno alla metà del V sec. a.C; il pezzo viene confrontato con le anfore di Mende); p. 354, n. 59, figg, 49-50 (inv. 984, tomba 62, prima metà del V sec. a.C; non vengono avanzate proposte atributive) Palermo: G. Sari, Anfore greche, in AuVV., Palermo punica, Palermo 1998, pp. 157, 184, 327, 332, cat. 201 (il frammento viene attribuito a "probabile fabbrica cgeoorientale?) 9 C. Riomoroutoy, Amphores de la nécropole d'Acanthe, in BCH Suppl. XIII, 1986, p. 482, fgg. 1-2. * Ibid. figg. 3-4. Sui timbri “a ruota" di Akanthos, vedi anche: M. NIKOLAoU-PATERA, Un nouveau centre de production d'amphores timbreés en Macélonie, in BCH Suppl. XIII 1986, pp. 485 ss. M. Law, Shape and Symbol, cit, p. 115. 7 F. Βιοκρέ — A. Mutter - D. Mum, Le comblement d'un puits public à Thasos. 5. Le matériel amphorique, in BCH CXV, 1991, pp. 224-226,nn. 26-29, fig. 4. * A questo proposito, peraltro, si attende la pubblicazione di un atelier di anfore di Akanthos, di eta più recente, annunciata da Y. Garlan (Y. GaRtan, Les timbres céramigues, in BCH CXIII, 1989, p. 480, nota 11). ? Vedi infrap. 626. Veal infra p. 626. τὸ L'anfora proviene da Molino a Vento, scavo 1973. Le sue dimensioni sono: alt. conservata cm 29; liam. orlo em 11; diam. max cm 38. 7 IH segno si può ricondurre al gruppo dei "broad-stroke monograms or multi letter dipinti”, che nella classificazione di M. 631

Lawall (Shape and Symbol, cit, pp. 118-121, fig. 5, tav. I) si collocano tra i più antichi tipi di marchi commerciali attestati sul le anfore nord-egee. p.171,E 9, tomba c 26, tav. 85, 2 (500-490 a.C); p. 121, n. 132, tomba HW 190, tav. 9, 4 ™ U. Κνιοσε, Der Sadhugel, (circa 470 a.C.) 7 Entrambi provengono da Molino a Vento, rispettivamente dalle campagne di scavo 1974 e 1973. Le rispettive dimensioni sono: alt. conservata cm 5 e 3,5; diam. 5,9e 7. © Vedi infra p. 626. © L'ansa BL 45 (alt. conservata cm 18,5) è stata rinvenuta a Bosco Littorio, scavo 1985; l'ansa MAV 96 (alt. conservata ‘om 15), invece, proviene da Molino a Vento, scavo 1973. © Vedi soprattutto: M. Picox — Y. GaRLAN, Recherches sur l'implantation des ateliers amphoriques à Thasos et analyse de la pate des amphores thasiennes, in BCH Suppl. XIII, 1986, pp. 287-309; LK. Warrnatap, Greek Transport Amphorae. A Petrological and Archaeological Study, Athens 1995, pp. 165-197 ebibliografia ivi citata. © Vedi soprattutto: AM. Box - A. Box, Les timbres amphoriquesde Thasos, Paris 1957; Y. GARLAN, Vin et amphoresde Thasos, Paris 1988; Y. Granprran, Contribution, cit., pp. 541-584. * Vedi nota 45 © V. Grace apud C. Bourse, Pottery cit, pp. 105-106,nn. 153-156, tav. 39. ® Vedi supra p. 622. © Y. Granorean, Contribution, ci, pp. 581-584; S. Io. Moxacuov, Quelques séris, cit, pp. 173 ss. * AN. Jonwstox, An Archaic Amphora, ci,pp. 363-365, fig. 1, tav. 96. Su questo problema vedi anche: M. LawALt, Shape and Symbol, ct. pp. 116-115 ® Y. Granprzax, Contribution, cit, p. 581. © Vedi supra p. 621. % Vedi nota 45. © Di forma analoga sono alcuni frammenti dal tempio di Aphaia ad Egina, già riportati alla nota 44, cui si aggiunge un esemplare inedito del Museo Vecchio di Egina citato dallo stesso Johnston (A.W. JouNStON, Aegina, cit, p. 52). © Vedi supra p. 621. ^ Vedi nota 49. © Vedi supra p.622. ® La costolatura è attestita nell'anfora da Corinto sopra citata (vedi nota 45), in tre frammenti di anse da Egina (A.W. Jonusrox, Aegina, cit., pp. 53-53, nn. 131-132 e 177, fig. 12), nonché in alcuni esemplari da Thasos (Y. Graxbrean, Contribu: tion, ct. fig. 1, n. 2; fig 4, n.26; fig.9, n. 63) τ Vedi nota 45. Purtroppo, però, nella foto il profilo del piede non è perfettamente leggibile e sembrerebbe aver subito anche un intervento di restauro, ”* Secondo Johnston, infatti, agli esemplari con orlo verticale citati alla nostra nota 44, va associato probabilmente un frammento di piede troncoconico con impasto analogo (A.W. Jossrox, Aegina, cit, p. 53, n. 130, fi.11). ® Y. Grannizan, Contribution, ci, pp. 549 e 582, nn. 16-18, fig. 3. Vedi anche: F. BLoxpé - A. Muster - D. Muniz, Le comblement d'un puits public cit. p. 228, n. 35, fig. 5. ?* Gli esemplari da Corinto c da Egina si datano infatti sicuramente prima del 480 a.C. (M. Tuorne CurmeLi, A Wellof Black-figured, cit.p. 560; AW. JouxsroN, Aegina, ci. pp. 37-38). ?? L. Tuicorr, Vases and Kalos-names, cit. p. 344, nota 4, fig. 12: si tratta degli esemplari P 5174 c P 5175, che presentano entrambi alcune lettere graffite sulla spalla. L'autrice si ἃ limitata a definire " non attica” la produzione, mentre successivamenteV. Grace (V. Grace apud C. Boutzen, Pottery cit, p. 106) l'ha assimilata alla fabbrica detta "red ware" (vedi supra nota 85). Dal medesimo contesto, datato tra il 480 ed il 450 a.C., provengono anche due anfore a corpo ovoide (vedi supra p. 623 e nota 65). Sempre dall Agora, potremmo menzionare inoltre il frammento P 16798, citato da Johnston (A.W. JonsstoN, Aegina, 2 e nota 28), che, essendo privo dell'orlo, potrebbe appartenere tuttavia al tipo thasio più arcaico già trattato sopra. * U. Kwicce, Der Südhiügel, cit, p. 116, n. 112, tomba SW 56, tav. 52, 4 (480-470 a.C.). La studiosa confronta l'esemplare con l'anfora dell Agora P 5174, citata alla nota precedente, ma non si pronuncia sul centro di produzione. 1 Thasos: Y. Gaxpseax, Contribution, cit, p.545, n.3, ig. 1; p. 547, nn. 8-9, fig. 2 (prima della metà del V sec. a.C.). Mar Nero (Ucraina):S. Iu. Moxactov, Quelgues séries, it, p. 176, fig. 19/1-2 (secondo quarto del V sec. a.C. Λα L. Lon - J. Miro- G. Votre, Les épaves archaigues, cit, p. 223, fg. 45,n. 4. L'esemplare è datato tra la fine del VI ed il principio del V sec. a.C. ed è attribuito al "asian circle". La medesima attribuzione viene riportata da P. Dupont, che colloca il pezzo nel tipoBr P. Durowr, Archaic East Greek, cit. p. 189, nota 302. ** Vedi supra gruppi Le II. »* Nell'esemplare dell'Agorà P 5175 (vedi nota 101) e negli esemplari dall'Ucraina (vedi nota 103), il piede ha anche un profilo rientrante, come nelle anfore da Thasos citate alla nota 99. 79 Essa è documentata soltanto negli esemplari dell’Agorà P 5174 e P 16798 (vedi nota 101), nonché nel frammento dal relitto 1A di Pointe Lequin, che tuttavia probabilmente è un poco più antico (vedi nota 104). ?* Agorà: V. Grace apudC. Boutrer, Potter; cit, pp. 105-106, nn. 153-156, tav. 39 (460-440 a.C.); L. Taucorr, Attic Blackglazed Stamped Ware and Other Pottery from a Fifth Century Well, in Hesperia 4, 1935, pp. 495-496, 514-515, fig. 17, n. 87 (460-430 a. C.); R. Ross Houoway, Exploration of the Southeast Stoa in the Athenian Agora, in Hesperia 35, 1966, p. 84, tav. 28, i (ultimo quarto del Vsec. a.C.). Ceramico: U. Kxicos, Der Südkügel cit, p. 145, n. 251, tomba HW 105, tav. 61, 3 (circa 450 2.C.). Alla fabbrica thasiaci sembra attribuibile anche un'anfora da Eridanos: U, Kuucce, Eridanos-Nekropole, cit, p. 35, n. 62, tav.27, 6 (450-440 2.C). 632

"© L. Gnai-Kanm, Thasos. Chronique des fouilles en 1955. Amphores et puits du sondage Platis, in BCH LXXX, 1956, p. 428, fig. 37; Exp. La céramique grecque (fouilles 1911-1956), Etudes thasiennes VII, Paris 1960, p. 54, tav. XIX, 7 ('anfora è collocata nella prima metà del V sec. a.C, ma probabilmente la sua datazione deve essere abbassata di qualche decennio sulla base del confronto con gli esemplari da Atene citati nella nota precedente);Y. Graxpieas, Recherches sur l'habitat thasien à 'epogue grecque, Études thasiennes XII, Paris 1988, ταν. 78, nn. 5-6; In. Contribution, cit, p. 564, fig.11,nn. 72-73 (prima metà del IV sec. aC, secondo l'autore; intorno al 430 a.C., secondoY. Garlan, in LY. Enrerrur- Y. utra, Bulletin archéologique: amphores et timbres amphoriques, 1987-1991, in REG CV, 1992, pp. 211-213, n. 157). Altri esemplari da Thasos sono di atr buzione meno sicura, in quanto morfologicamente simili alle anfore di Mende: Y. Gunrta, Recherches, ci. tav. 78, nn. 3-4 € 8; Ip, Contribution, cit. pp. 562-564, nn. 69-71, figg. 10-11 (autore specifica che Yargilla sembra thasia; per la datazione, vale quanto detto sopra a proposito degli esemplari provenienti dal medesimo contesto) 1 LB. Zeest, Il materiale ceramico, cit, tav. V, nn. 16 a-b (datate genericamente nel V sec. a.C. LB. Bra8wskus, La ceramica di importazione greca nel basso Don dal Val II se. a. C. (in russo), Leningrado 1980, tavv. Il, VII-VIII, nn. 25 e 27 (terzo quarto del V sec. a.C.) n. 33 (fine del V sec. a.C); In, I metodi di analisi del commercio antico (in russo), Leningrado 1984, taw. V, XVII, 4 e XVIII 3 (terzo quarto del V sec. a.C.) tave, XXXI-XXXII (sviluppo diacronico delle produzioni anforiche greche); S. Iv. Monacov, Quelques séries, cit, p. 179, fig. 11/6-8, 2877-8 (seconda metà V-inizio IV sec. aC). Di attribuzione dubbia: ibid, pp. 175 ss. figg. 18/12, 20/13-14, 2713-6 ? Vedi infrap. 626. ?? Vedi infra p. 626. Per alcuni esemplari di incerta attribuzione, vedi nota 109. 1 V. Grace, Early Thasian Stamped Amphores, in AJA L, 1946, pp. 31 ss A.M. Bon — A. BON, Les timbres, ci, pp. 40 s. Y. Gantax, Vin et amphores cit, pp. 14 ss. Prima del 425 a.C, tuttavia, sono attestati alcuni esempi di timbratura con simboli figurati assai semplici, come quello impresso sotto l'orlo delfanfora dall'Agorà di Atene citata alla nota 108 (L. Ta.corr, Atti Blackeglazed, cit. fig. 17, n. 87; peril timbro, vedi anche: V. Grace, Stamped Amphora Handles found in 1931-1932, in Hesperia 3, 1934,p. 304, n.2). "* Molino a Vento, scavo 1974. Alt. conservata cm 16; diam. orlo cm 1 18 Vedi supra p. 622 (MAV 19) να Vedi nota 49. 1? Bosco Littorio, scavo 1987. Alt. conservata cm 6,3. !* Entrambi i pezzi provengono da Molino a Vento e precisamente il primo dallo scavo 1974, il secondo dallo scavo 1973. Le rispettive dimensioni sono alt. conservata cm 3,5 e 5,6; diam. piedecm 7,3 e 63. ! Ἢ contesto è il medesimo dell'anfora SC 1 (vedi supra p. 621 e nota 43). Si tratta di due frammenti, pertinenti rispetti vamente all'orlo (alt conservata cm 11; diam, ricostruito cm 11,5) eal piede (diam. cm 7,7). 7" Entrambi provengono da Molino a Vento: il primo dallo scavo 1973, il secondo dallo scavo 1974. Le misure sono ri spettivamente: alt. conservata cm 4,5 e 3,6; diam. piede cm 4,5 5,6. δι Vedi supra note 100 e 106. ?? Tutti e trei pezzi sono stati rinvenuti a Molino a Vento, rispettivamente nelle campagne di scavo 1976, 1961 e 1973. Le misure sono le seguenti: lt conservata cm 19,5; 20,7; 72; diam. orlo cm 11,6; 11,6; 11 7? Vedi supra p. 624 e note 108-110. 7" Entrambi provengono da Molino a Vento, scavo 1973. Le dimensioni sono le seguenti alt. conservata cm 4,3 e 11; diam. piede cm 5. ti Perla datazione dei timbri thas, vedi nota 113. 1 V. Grace, Standard Pottery Containers of the Ancient Greek World, in Hesperia Suppl. VIII, 1949, p. 182, tav. 20 n. 1; PEE. Conse, Attic Pottery of the Later Fifth Century from the Athenian Agora, in Hesperia 18, 1949, p. 345, n. 166, tav. 98, fg. T; V. Grace apudC. Bovtrer, Pottery cit. p. 107. τ LE. Baastwsx, Anforedi Mende (in russo), in KSIA 1976, pp. 67 ss. Vedi anche: C. Jones Esemax - B. Sismonpo Rin way, The Porticello Shipwreck. A Mediterranean Merchant Vessel of 415-385 B.C., Texas University Press 1987, pp. 39-40, nota 2 con bibliografia citata. τε LB. Zeest, fl materiale ceramico, it, tav. XII n.25. 1 V. Gaack apud C. Botte, Pottery, ci. pp. 106-107, nn. 161-163, fig. 5, tav. 40 (460-440 a.C.) L. TaLcorr, Attic Blackglazed, ci, pp. 495 e 514-515, n.88, fig. 17 (460-430 a. C.); PE Connrrr, Atti Pottery, cit, pp. 336-337 e 345, nn. 106 e 166, tav. 98, fig. (ultimo quarto del V sec. a.C. ‘n'1.B. Βκλξινβκυ, I metodi, cit, avv. XIII-XIV. δι S. Iv. Movacxov, Quelgues séries, cit., pp. 177-178, Bg. 20/10-12, 21/1-2, 22/1, 23/1, 24/1, 25-26, 27/2, 28/1112, 29,31; C. onus Eiseaax, Amphoras from the Porticello Shipwreck (Calabria), in LINA 2, 1973, pp. 13-15, figg. 1-3; C. owes EistuN — B Siswoxo Riopway, The Porticello Shipwreck, cit, pp. 39-42 e nota 3, figg. 4, 1.3. 7? Vedi supra p. 623. 7 Vedi supra pp. 623-624. Sul problema della più antica produzione di Mende, vedi anche: M. Lawatt, Shape and Symbol, cit, p. 115 7^ Per un'analisi petrografica dettagliata delle anfore di Mende: LK. WitTEREAD, Greek Transport Amphorae, cit, pp. 198-209, ἐν SR. Rosexts, The Stoa Gutter Well cit, p. 68, n. 424, fig. 43, tv. 17. P. Dupont (Archaic East Greek, cit, p.187, fig 23.13 d, nota 299) inserisce l'esemplare nel tipo A del "ihasian circle", ma segnala una certa somiglianza con la fabbrica di Mende. 633

© Vedi gli esemplari di Atene itati alla nota 129 e inoltre: S. Tu. Moxacaov, Quelques séries, ci, p. 177, fg. 21 (Russia meridionale). 1” U. Kxicoz, Der Südhügel, cit, p. 184, E 80, tomba a 31, tav. 92, 4. Con l'anfora del Ceramico si possono confrontare due esemplari da Mileto, la cui attribuzione a Mende è tuttavia da verificare: W. Vorortipen, Grabung westlich, cit, pp. 125, 128-129, cat. 4 e 8, figg. 14,1 ὁ 5. P. Dupont assegna le due anfore da Mileto al tipo A del “asian circle” (P. Dupont, Archaic East Greek, it, p. 187 nota 298). δὲ BL 105 proviene da Bosco Littorio, scavo 1983; alt. conservata cm 14,5; diam. ricostruito cm 12. MAV 535, invece, proviene da Molino a Vento, scavo 1961; lt. conservata cm 10,5; diam. ricostruito cm 12. Ὁ Molino a Vento, scavo 1974. Alt. conservatacm 10,5; diam. ricostruito cm 11. “© Secondo la classificazione di M. Lawall (Shape and Symbol, cit., pp. 118-121, fig. 6, tav. I) il marchio appartiene al gruppo di “small letter dipinti" attestati nella produzione di Mende a partire dal secondo quarto del V sec. a.C. τα Molino a Vento, scavo 1961. Alt. conservatacm 19,5; diam. orlo cm 11.8. τ V. Grace apud C. Bout, Pottery cit, pp. 106-107, n. 161, tav. 40, ig. 5. Vedi anche gli esemplaricon il corpo più affusolatoin: . Io. Monacirov, Quelques séries, it, p. 177,Bg. 20/10-12 (Ucraina). Alla medesima fase della produzione di Mende pub essere forse assegnata un'anfora da Mileto: W. VorcrLipem, Funde aus der Insula westlich des Buleuterion in Mile, in MDAI(I) 32, 1982,provengono p. 69, fg. 27.da 168.Molino το Entrambi a Vento, scavo 1975, ed hanno un diametrodi cm 6,5. ?* MAV 490: Molino a Vento, scavo 1974; alt. conservata cm 9,5, diam. ricostruitoem 11,5. MAV 516: Molino a Vento, scavo 1953; αἷς. conservata cm 16, diam. ricostruito cm 9.5. MAV 489: Molino a Vento, scavo 1973; alt. conservata cm 13, diam. ricostruitocm 11,5. MAV 401: Molino a Vento, scavo 1974; alt. cm 58, diam. orlo em 11, diam. piede cm 6,8. Ms Agorà: L. Tancorr, Atti Black glazed, ci,pp. 514-515, n. 8, fg. 17; V. Grace, Amphoras, cit, fig. 43 (in primo piano). Ceramico: U. Kxtoc, Der Südkigel ct. p. 153, n. 296, tomba SW 87, tav. 65, 5; ibid, n. 297, tomba SW 113, tav. 66,5. Eridanos: Eap,, Eridanos-Nekropole, cit, p. 35, n. 63, tomba hS 148, tav. 28, 5. # CK. Wuzuws, I, Corinth 1977: Forum Southwest, in Hesperia47, 1978, p. 19 lig. 5. to Y, GraxpieaN, Recherches, cit, tav. 78n. 2; Ip, Contribution,ci, p. 562, n. 67, fig. 10. Dall'area nord-egea si segnalano anche due esemplari rinvenuti nella necropoli di Samotracia, interpretati come probabili imitazioni locali di anfore di Mende, a causa dell'insolito profilo del piede: E.B. Dusennerv, Samothrace,cit, pp. 444 e 758, n. H6-1;pp. 452 e 759, n. H12-1 ?* P. Howat, Funde von der Oberburg, in G. Κιξινεκ - P. How — W. MtteR Wiener, Panionion und Mele, Berlin 1967,p. 148 n. 20, fg. 80. ἐν E. GreRStAD ET atu, The Swedish Cyprus Expedition. Finds and Results of the Excavations in Cyprus 1927-1931, vol. IL, Stockholm 1935, tav. LXV, CXXXV, n. 58. 69. ?* LB. Βκαδινβκι, La ceramica di importazione, ct. tav. II, VIILIX, nn. 31-32, 37-38; Io. I metodi, ci, tave. XIIL-XIV, n. 12 8. Ju. Monacnov, Quelques séries, cit,p. 178, figg. 28/11-12,31 i Molino a Vento, scavo 1973. Alt. conservata cm 10; diam. piede cm 8,5 ?» Atene: vedi nota 126. Alonissos: E. Cnarzipakt, Ανασχαφή σε κλασσικό γανάγιο omy Ἀλόννησο (505 a. X. a), in Eva 1, 1992,p. 16, fig.3. Collezione privata: LK. Wirmnasao, Greek Transport Amphorae, ci. p. 198, tav. 4,60. 1 E. GJERSTAD ET Alit, The Swedish, ci, av. LXV, CXXXV, n. 58, 47. Per la forma un poco più evoluta: ibid, tav. XLVIIL 2 e CXXXVIL n. 34, ΤῸΝ sec. aC). 7» LB. Brains, La ceramica d'importazione, cit tav. I, IX,n. 39; In, I metodi, cit, tavw. XII-XIV, n.3; M. Lazanov, Anfore antiche (VII sec. a.C.) dal litorale bulgaro del Mar Nero (in bulgaro), in Bulletin de Musée Nationalde Varna IX (XXIV), 1973, taw. XIV-XV,nn. 147-152; S. Iv. Monacuov, Quelques séries cit, p. 178, Big. 22/1, 23/1, 24/1, 25, 27/2. Perla forma del IV scc. a.C LB. Zeest, Il materiale ceramico, cit, tav. X, n. 23; LB. BRASINSK, La ceramica, cit, tav. IL IX, nn. 42-43, 46; Ib, 1 metodi, cit, tave, XIILXIV, nn. 4-5; M. Lazanov, Anfore antiche, cit. tav. XV, n. 156; S. To. Monacnoy, Quelques séris, cit. p178, gg. 11/2, 26, 29. * N. Di Saxono, Le anfore arcaiche dallo scarico Gosetti, Pithecusa, Cahiers du Centre Jean Bérard XII, Naples 1986, pp. 32-84, tav, 16. Vedi anche: EAD., Appunti sull distribuzione delle anfore commerciali greche in Campania tra VIII sec. e il 273 a. C, in AION(archeol) TIL 1981, pp. 10-11, fig. 3.4 (Vico Equense) νι Vedi nota 131. Per la forma del IV sec a.C., vedi anche i relitto di ΕἸ Sec: A. Anuumis ~ M.G. Trus - D. Cena -1.Dz LAHor, El Barco de El Sec. (Calvia- Mallorca). Estudio de los materiales, Mallorca 1987, pp. 468-470, nn. 625-627, ig. 126. 77 P. Duront - L.C. Gorox, Amphores grecques archalques de Gurna: à propos d'une publication récente (Atti Sesto Congresso Internazionale di Egittologia, D Torino 1992, p. 155, fig. 118; P. Duronr, Archaic East Greek, cit, pp. 178-186, fgg. 23. 1042. ἀρ LB. Zessr, Il materiale ceramico, cit, tav. L,3. 1 V. Grace, Samian Amphoras, in Hesperia 40, 1971, pp. 69e 73, note 45 e 55, fig. 2, 4, tav. 15,3, fig. 3, 1 (parte superioτε).

?* LB. Zresr, Il materiale ceramico, cit, . 80, tav. V, 15 a-b; tav. VI, 15 v-g; tav. XXV, 56 b. ?* D. Graunenos, in AD 34, 1979, B7, pp. 322-325, tav. 142 b; Ch. Kouxouti ΘΗκυβαντηιλκι, in AD 35, 1980, B' 2,p. 419, tav. 249 a "è C. Pexrreni-Orarat, Amphores et timbres amphoriques d'Abdire, in BCH Suppl. XIII, 1986, p. 496, figg. 13-14, Per 'emissione monetale, vedi anche supra nota 12. "© P. Dupont, Archaic East Greek, cit., pp. 178-186. ' Vedi: V. Grace, Samian, cit., pp. 52 ss; P. Dupont, Amphores commerciales archaiques de la Gréce de Est, in PP CCIVCCVII, 1982, pp. 203 ss. Ip. Archaic East Greek, cit, pp. 164-177.

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κ ax pronto, Grab weich, cit pp. 125 128, fg 14.24 In, Rundeaus der sula, εἰς, pp. 670, ig 27. 167 8.28. 172. " P. Duronr, Archaic East Greek, cit, p. 184, figg. 23.10 ae, 23.12 am. "© Atene: V. Grace, Samian, cit fig. 2, 4, tav. 15, 3 (pubblicata anche in V. Grace, Amphoras, cit, fig. 35, la prima da destra in seconda fila); S.R. Ronzars, The Stoa Gutter Well cit, p. 65, nn. 412-413, fig. 41, tav. 17 (P 24869 e P 24870), p. 72, nn. 440-441, fig. 44, tav. 19 (P 24884 e P 24885), Egina: AW. JOHNSTON, Aegina, cit, pp. 47-51, nn. 99-105, 114-117 e 121, fgg 740. ' Vedi supra note 158 e 160, nonché soprattutto: P. Duroxt, Archaic East Greek,cit, p. 184, note 262-268 e 271-273 con bibliografia. Potrebbe essere attribuita allo stesso tipo anche l'anfora da Samotracia in: È.B. Ὀυξενβεαυ, Samothrace, cit, pp. 147 755, n. S844. ΔῈ P. Dovonr, Archaic East Greek, cit, p. 185, figg. 23.11, 23.12 q«i. "© P. Duronr, Archaic East Greek, cit, p. 185, fig, 23.10 fg, 23.12 n-p. Vedi anche: U. Kxiccx, Der Stdkügel, cit, p. 101n. 50, tomba HW 177, tav. 49, 3 (490-480 a.C.) #1 Vedi P. DuPont, Archaic Fast Greek, cit, p. 184, note 265-267 e bibliografia ivi citata 7? Vedi note 161, 162 e 165. 7 P. Duronz, Archaic East Greek cit,p. 183. ?* Vedi supra p. 619 c note 12 c 162. 75 Vedi supra nota 11. Cfr. P. Duronr, Archaic East Greek, cit, p. 182 Proviene da Molino a Vento, scavo 1974. Alt conservata cm 6,2, diam. ricostruitocm 13. Cfr: AW. Jounsrox, Aegina, ci. p. 49 n. 102, fig. 7; O. D. Loroxaraxtozs, Colchis in the Early Antique Period and her Relations with the Greek World, in Archeologia (Warsaw) XIX, 1968, pp. 39-40, fig. 21 (da Simagre); P. Durovr, Archaic East Greek, ci, fig. 23.122. "9! Molino a Vento, scavo 1974. Alt. conservata cm 7. 1 Molino a Vento, scavo 1974. Alt. conservata cm 5,6, diam. ricostruitocm 15,5. uo SR. Βοδεκτο, The Stoa Gutter Well cit.p. 72, nn. 440-441, fig. 44, tav. 19(P 24884 c P 24885), La forma è documentata anche a Cipro (I. Nicoaou - IY. Ewreatux, Amphores rhodiennes du Musée de Nicosie, in BCH Suppl. XIII, 1986, p. 531 n. 16, fig. 15 ab) e nel Mar Nero (P. Duroxt, Archaic East Greek, cit, p. 184, nota 274). ti ἢ frammento proviene da Molino a Vento, scavo 1974. Alt. conservata cm 7,5; diam. ricostruito cm 13,4. "© È stato rinvenuto nell'area della stazione vecchia (vedi supra p. 620 e nota 23), scavo 1984. Alt. conservata cm 7,4 diam. ricostruito cm 14. "> MAV 599: Molino a Vento, scavo 1974; alt. conservata cm 4; diam. piede cm 7. MAV 600: Molino a Vento, scavo 1973; alt conservata cm 5; diam. piede cm 5,9. GL 2: cisterna di via Gelone (D. ApasstRANÙ- P. OgtaxpINI, Gela. Scavi e scoperte, I cit, p . 236 ss); lt. conservata cm 15,5; diam. piede cm 5,4. ™ Cfr. P. Dupont, Archaic East Greek, cit, fig. 23.12 i. ?*?* Peri dati quantitativi le percentuali, vedi G. SeAaNoto, Le anfore da trasporto, cit, cap. I.1.5. Per la presenza delle anfore chiote a Gela, vedi G. Sracxoto, Le anfore da trasporto; cit, cap. IL... 1 Sul significato del commercio del vino in età arcaica, vedi per esempio: M. Gras, Il Mediterraneo nell'età arcaica, Paestum 1997, pp. 132-133, 171-173. μὲ Sulle problematiche generali connesseal commercio arcaicoe classico, vedi per esempio: A. Mx, Il commercio greco, cit; M. Gras, II Mediterraneo, cit; P. Gase - K. Hopkins ~ CAR. Warrraken (edd.), Trade in the Ancient Economy, London 1983; D.W.J. Gu, Positivism, pots and long distance trade, in I. Morris (cd), Classical Greece: Ancient Histories and Modem Archacologies, Cambridge 1994, pp. 99-107; H. Pasmss ~ Cu. Surra (edd.), Trade, Traders and the Ancient City, London - New York 1998. ! Vedi supra note 38, 69, 104, 131, 155 ?*! Vedi supra, passim (soprattutto i gruppi Le I " L'area mineraria del Pangeo esercitò una forte attrazione sugli Ateniesi fin dall'età arcaica, come dimostrano i possedimenti personali dei Pisistratidi, emporion ateniese di Eion alla foce dello Strimone, la fondazione della colonia di Ennéa Hodoi (futura Amphipolis, l'assedio di Thasos, ecc: Thuc. I, 98, I; I, 100, 2-3; IV, 102; Diod. XI, 60; XII, 68; Arist. Ath. Resp. 15 (vedi D. Must, Storia greca. Linee di sviluppo dall'età micenea alfetà romana, Roma-Bari 1989, pp. 239-241, 243-244, 334336). 7"! Dem. XXXV, Contro Lacritos. Sull'importanza di questa orazione come fonte di informazioni sostanzialmente valide anche peril V sec. a.C, vedi di recente: U. Fantasta Grano siciliano in Grecia nel V e IV secolo., in ASNP XXIII, 1, 1993, pp. 21-22; M. Lawnu, Premonetary and Monetary? A Note on Trade in the Fifth Century B.C., in C. Gus er ata (edd), Trade and Production in Premonetary Greece: Aspects of Trade, Jonsered 1995, p. 141 °° I problema dell'identità dei vettori che trasportavano la ceramica attica è ancora aperto: si pensa a mercanti di origi ne diversa, anche non greca (A.W. Jouxstox, Trademarks on Greek Vases, Warminster 1979, pp. 49, 52; K. ARaFar - C. Moncan, Pots and Potters in Athens and Corinth: A Review, in OJA 8, 3, 1989, p. 340). Per la presenza della ceramica attica a Gela, vedi soprattutto: J. Boanpuani, The Arhenian Pottery Trade, in Expedition 21, 1979,pp. 37-39, figg. 5, 7; F. Giupice, Gela e il commer. cio attico verso l'Etruri nel primo quarto del V sec. .C., in SE LIII, 1985, pp. 115-139,

635

1-7: Museo di Gela: anfore con piede ad anello. 636

TAV. II

1-5: Museo di Gela: anfore a corpo ovoide. 637

TAV.IV

1-6: Museo di Gela: anfore di Mende. 639

TAV.V

1-5: Museo di Gela: anfore di Mende. 640

TAV. VI

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)

1-7: Museo di Gela: anfore "pseudo-samie". 641

Unperro Srico UN VENTENNIO DI RICERCHE A FRANCAVILLA DI SICILIA Dalla scoperta fortuita che, nel 1979, diede l'avvio alla prima indagine di scavo, e per almeno un

decennio, il nome di Francavilla di Sicilia è stato associato ai complessi votivi (în particolare alla coroplastica) del santuario di via Don Nino Russotti, nel settore nord-occidentale del centro urbano moderno, i cui resti superstiti, nei pochi lembi "liberi" di un'area da tempo urbanizzata, sono stati oggetto di altre due lunghe campagne di scavo nel 1981 e nel 1984! Se il collegamento di quest'area sacra con un esteso abitato era gia ipotizzabile, sin dagli esordi ricognitivi, per indizi di soprassuolo, dalla fine degli anni '80 si è iniziato ad affrontare, (conseguentemente ad un controllo coordinato dell'edilizia e delle opere pubbliche) la conoscenza diretta della topografia, dell'impianto urbano e delle fasi di vita del centro di età greca attraverso interventi esplorativi anche di ampio respiro, soprattutto nel settore sud-occidentale del paese? (fig. 1): attività i cui esiti - oltre ai riflessi positivi, già tangibili sul piano di una tutela integrata (là dove esistano i presupposti) col graduale compimento di progetti di valorizzazione - hanno indubbiamente ampliato, pur fornendo le prime risposte, il raggio dei problemi e degli obiettivi di indagine volti alla ricostruzione ed all'analisi organica del quadro storico ed archeologico, per il cui sviluppo offriamo alla riflessione, attraverso un riepilogo “ragionato” dei risultati, alcuni percorsi di ricerca. Le attestazioni di insediamenti preistorici e protostorici nel sito di Francavilla, risiedono essenzialmente in densi livelli di frequentazione, con ceramica di impasto, in particolare negli strati sottostanti il santuario di via Russotti e in S2, per ora non associati a resti certi di strutture salvi i dubbi, c la concatenata esigenza di approfondimenti di verifica, su un cospicuo tratto di muro E-W in arenaria, nel settore sud-ovest di 865. ‘a parte il rinvenimento, sinora isolato, da S6, di un frammento di alto piede di coppa della media Età del Bronzo (tipo Thapsos-Milazzese), pochi frammenti, (in particolare due delle caratteristiche anse a terminazione cornuta di coppe o attingitoi) qualificherebbero una fase Ausonia dai termini cronologici ancora incerti. Prevalgono però frammenti di impasto bruno-rossastro con minuti inclusi di tritume lavico, soprattutto situle, a profilo verticale, con spesso cordone di presa a rilievo sottostante il labbro o, meno frequentemente, trasversale alla parete, riconducibili ad un orizzonte del Bronzo Finale e/o, più probabilmente, della prima età del Ferro‘. Una lunga persistenza di questa produzione vascolare di tradizione indigena sarebbe confermata dalla presenza di frammenti tipologicamente analoghi anche negli strati di frequentazione sicuramente riferibili all'abitato di età greca, pur se i fattori di associazione e la “giacitura” vanno verificati caso per caso. Fra la ceramica di fabbrica o tradizione indigena si distinguono due "kyathoi" o capeduncole carenate con labbro estroflesso ed ansa a nastro sopraelevato con decorazione incisa a semplice motivo “ad onda” sul ventre, in ceramica grigiastra, da un livello tardo-arcaico in S6 e un altro simile, sia pur a pareti più spesse, di pasta “buccheroide” dall'area di una fornacetta dell'inoltrato VI secolo a.C. in S2*, "tipologia assai diffusa nella Sicilia Orientale a partire dalla fase Pantalica SudFinocchito: stimolanti, al proposito, le considerazioni di M. Frasca relative alla presenza prevalente di ceramica a pasta grigia soprattutto nei siti ricadenti sotto la sfera di influenza di colonie calcidesi All'attuale stadio delle indagini non siamo ancora in grado di poter tracciare un disegno attendibile della configurazione dell'abitato indigeno incontrato dai Calcidesi di Naxos nella loro penetra643

Fig. 1. Francavilladi Sicilia: planimetria generale con indicazione delle aree di scavo (dal 1979 al 1999).

zione, probabilmente progressiva, all'interno della valle dell'Alcantara (l'Akesines di Tucidide: Thuc. IV, 25) e dei fattori di formazione e sviluppo. Framemntarie risultano per ora le nostre informazioni sugli stanziamenti preistorici e protostorici anche nel territorio circostante Francavilla: gruppi di tombe a grotticella, perdipiù violate da lunga data o riutilizzate si aprono nei costoni rocciosi di Rocca Guardia, a Sud Est del paese moderno, mentre, contrariamente alle aspettative, sull'arroccata formazione del monte Cucco, immediatamente ad Ovest, non si sono sinora raccolti segni certi di antichi insediamenti stabili. È indicata genericamente una provenienza da Francavilla, per un'ascia ad occhio della Tarda Età

del bronzo, acquistata da Paolo Orsi nel 1902 e conservata al museo Archeologico di Siracusa”.

L'evolversi delle ricerche e l'eccezionale messe di risultati, sia in Sicilia sia in Magna Grecia, ha condotto, anche attraverso la revisione dei dati e degli studi precedenti, ad assumere posizioni alie644

ne dall'univocità verso la definizione del rapporto greci-indigeni del rapporto greci-indigeni(per esempio quando possa effettivamente prospettarsi un violento impatto di conquista) e dei processi di ellenizzazione legate all'espansione territoriale-e quindi ai modi e alle concause della medesima-e alle "reazioni" e "risposte" dell'ethnos indigeno". ΑἹ nostro vaglio interpretativo difettano d'altronde convincenti termini di confronto territorialmente prossimi, mostrandosi ancora ampiamente lacunosa la conoscenza, attraverso le evidenze archeologiche, la conoscenza della penetrazione si naxos lungo la costa, in direzione sia di Katane sia di Zancle, e nell'entroterra, risalendo sia lungo il corso dell'Akesines sia verso le propaggini meridionali dei Peloritani sino almeno alla Valle d'Agrò. Le attestazioni più significative si riferiscono al periodo compreso all'incirca fra l'ultimo trentennio dell'VIII, dalla fondazione di Naxos o poco dopo, e il corso del VII secolo a.C. La documentazione più ricca è offerta, com'è noto, dai corredì della necropoli rupestre di Cocolonazzo di Mola, caratterizzati dall'abbondanza di ceramica tardo-geometrica. Dal complesso è emerso il carattere pacifico dei rapporti iniziali fra indigeni e Calcidesi di Naxos già posto in evidenza da Orsi e poi successivamente ripreso, e approfondito nelle sue implicazioni,

da altri studiosi*. Mentre si attende ancora l'individuazione sicura del corrispondente abitato della necropoli del Cocolonazzo, si sono nell'ultimo ventennio rinvenute tracce (frr. ceramici di VII e VI secolo e di terrecotte architettoniche di un insediamento nel sito dove sorgerà la Tauromenio di Andromaco, nelYarea a sud del teatro: presumibilmente, come ritiene G. Bacci, un phrourion di diretta fondazione nassia piuttosto che un centro indigeno fortemente acculturato. La sua nascita, tenendo conto della tradizione, riportata da Diodoro Siculo (XIV, 88, 1) relativa alla cacciata dei Siculi da parte dei Greci dal sito della futura Tauromenio potrebbe essere legata al mutamento dei rapporti non bellicosi con gli indigeni, dopo il momento iniziale, o comunque ad una presa violenta del Monte Tauro contrariamente a quanto avvenuto per il Cocolonazzo ". Nella fascia costiera registriamo essenzialmente, per ora, i due insediamenti arcaici, oggetto sinora solo di ristretti saggi di scavo, di capo S. Alessio a Nord, presso quello che doveva costituire il limite settentrionale dell'espansione di Naxos sulla costa, al confine col territorio di Zankle ed, a sud, di c/da S. Marco di Calatabiano, dove P. Pelagatti propone prudentemente di ricercare Callipolis". A proposito del sito di Callipolis, pur se si pone l'esigenza di proseguire le ricerche a S. Marco, non può trascurarsi, all'indagine, la proposta di M. Frasca che il sito di questa subcolonia, piuttosto che sulla costa, secondo gli orientamenti tradizionali, vada ricercato "all'interno della principale via di espansione nassia, cioè lungo la valle dell'Alcantara" ". Ora, se va prestata fede alla notizia dello Pseudo Scymnos (286) che ne colloca la fondazione cronologicamente vicina a quella di Naxos e Katane, troviamo arduo, al momento, l'eventuale sviluppo di una proposta di identificazione con Callipolis dell'anonimo abitato di Francavilla: le presenze più antiche di ceramica greca o di tipo greco consistono in un limitato gruppo di frammenti dipinti a motivi geometrici databili nell'ambito del VII secolo a.C. ^ Ma l'acquisizione di nuove ipotesi di indagine per il problema di Callipolis è condizionata ad una maggior conoscenza dell'entroterra di Naxos e del territorio bagnato dall'Alcantara attraverso l'intesificarsi della ricerca sistematica sul terreno. Attualmente la mappa degli insediamenti di età greca è limitata a pochi rinvenimenti, fortuiti o di superficie, però essenzialmente relativi ai periodi classico e d ellenistico: il noto elmo bronzeo acquistato da Orsi di Mojo Alcantara, probabilmente da una tomba dell'alta Valle, l'indizio di un piecolo abitato sotto Roccella Valdemone. Fa eccezione, oltre a Francavilla, l'abitato delle cide Imbischi-S. Anastasia presso Randazzo che potrebbe forse aver avuto maggiori rapporti con l'espansioen territoriale di Katane e del quale, d'ac‘cordo con Frasca, non riteniamo scontata l'identificazione con Tissa '*. 1l ritrovamento, in $8, di un hemilitrion di Stiela, il primo noto da un contesto scientificamente indagato, ha riproposto il problema dell'identificazione dell'antica città, non naturalmente nel senso 645

di un'ipotesi plausibile su Francavilla ma, se mai, di un'ubicazione comunque diversa da quella di recente preferita da diversi studiosi nel comprensorio fra Megara Hyblaea e Leontinoi ". Nei livelli dell'abitato arcaico di Francavilla (fase I) risultano quindi in decisa minoranza percentuale tipologie e forme ceramiche tipologie che potremmo definire di persistente tradizione indigena. A parte limitate presenze di ceramica attica, a figure nere e a vernice nera, predominano classi di produzione o tipo coloniale, rappresentate certo da alcune importazioni di centri sicelioti (soprattutto da Naxos) ma, principalmente, da un apporto continuativo, e probabilmente assai cospicuo, delle officine locali già deducibile dall'omogeneità di fattura dell’abbondante vasellame votivo a vernice nera, o semiacromo, dal santuario (olpette, kylikes di tipo ionico, kylikes miniaturistiche e krateriskoi etc): tipologie che in gran parte si perpetuano, con alcune varianti, nel secolo successivo, come mostrano perspicuamente i materiali ceramici dal deposito votivo della seconda fase del santuario ™ La conferma di una locale produzione di ceramica ὃ venuta, nel 1994, dal rinvenimento dello scarto di fornace di S5 costituito da una kylix miniaturistica di forma analoga a quelle deposte nel santuario e che, insieme ai numerosi krateriskoi possiamo definire di tipo "calcidese" ". 1l rinvenimento in 86 di una matrice di antefissa silenica di tipo ΒΖ ", offre certa testimonianza, nel V secolo a.C. , dell'attività di ateliers coroplastici, operanti accanto alla bottega che realizza i noti pinakes. Ma l'attività delle officine coroplastiche locali era fondatamente assai intensa anche nel secolo precedente: cospicua è infatti, accanto alla ceramica, la presenza, nelle deposizioni votive della prima fase del santuario, di protomi femminili e di statuette (dee in trono, dee stanti etc.) della quale sono già state sottolineate le affinità tipologiche e stilistiche con la produzione di Naxos”. Fra gli ex voto della stessa fase arcaica ben pochi ci paiono i manufatti dalla più spiccata connotazione indigena: la riproduzione miniaturistica di un'anfora di forma tipo Licodia Eubeapurtroppo sporadica-e forse un tipo di statuetta “xoaniforme” di divinità femminile, in due esemplari dalla stessa matrice, uno dei quali parimenti sporadico”. Ricapitolando, i lembi sinora indagati dell'abitato arcaico (non si è ancora individuata la corrispondente necropoli) e le deposizioni votive del santuario offrono una "facies" prevalentemente “siceliota" dalla quale ἃ enucleabile un assai esiguo gruppo di tipologie di "impronta" indigena. Nel nostro giudizio, dobbiamo certo considerare l'ammonimento di E. Procelli, richiamato e svi luppato da E. Greco, sulla necessità di non affidare l'accertamento del “grado di ellenizzazione delle comunità indigene” alla “sola presenza di manufatti greci” e, forse ancor più, le considerazioni dello stesso Greco e di altri “sulle capacità mimetiche delle culture indigene”! Ma, per contro, non possiamo non dare peso al segno tipologico e, più intimamente, formale preponderante nella ceramica e nelle terrecotte figurate di certa e assai probabile realizzazione locale, pur imponendosi la verifica di approfondite analisi archeometriche (già avviate, come diremo) per definire su basi più certe consistenza produttiva e caratteri delle officine. In ogni caso la definizione di “centro greco” non dovrebbe suonare impropria qualora la si carichi del corretto significato da attribuire ad un abitato di una certa consistenza (e anche di non trascurabile incidenza sul territorio) che si sarebbe costituito dopo oltre un secolo di rapporti non ostili fra i calcidesi e le popolazioni autoctone della bassa e media valle dell'Akesines, se vale ancora per questo comprensorio, l'archetipo “pacifico” offerto dal Cocolonazzo di Mola: rapporti di cui non si è ancora assolutamente in grado di delineare-e tantomeno diacronicamente-l'impatto sull'assetto territoriale, ma nei quali certo devono aver giocato una partita importante sia gli scambi commerciali sia, probabilmente, l'insediarsi di gruppi stanziali di greci che si assicurano il controllo-o forse meglio vi partecipano in congrue forme di accordo e convivenza cogli indigeni-delle vie di transito e delle direttrici di mercato. Il riconoscimento della presenza dell'elemento indigeno non pregiudica, nel caso di un abitato con caratteri consimili al nostro, la determinazione della “grecità“pur peculiare e pur anche da intendersi come esito di un lungo processo di penetrazione culturale. Per ampliare il raggio “dialettico” delle ipotesi non va però eluso un altro interrogativo riguardo agli effettivi sviluppi storici dei rapporti greci-indigeni in questa parte della Valle dell Alcantara. 646

In sintesi, se la chiave interpretativa sin qui seguita ci ha condotto a suggerire i termini di un quasi totale assorbimento dei modelli culturali greci da parte degli indigeni, la medesima situazione, in un'ottica di “rovesciamento”, potrebbe dar adito ad una diversa ricostruzione: un quadro iniziale di conflitto violento, in concomitanza col più antico movimento di espansione nassia (situazione ben diversa da quella propostaci dalla necropoli di Cocolonazzo maforse, come dicevamo, non dagli eventi legati alla fondazione del phrourion nell'area di Taormina) che insieme ad altre conseguenze avrebbe portato all'emarginazione della componente anellenica in una condizione di minoranza culturale 0, se si preferisce, di simbiosi indotta.

L'ingrandirsi ed il consolidarsi del centro greco furono certo, in grande misura, influenzati dall'estensione delle aree coltivabili, alla sommità pianeggiante di un piccolo terrazzo alla confluenza tra le valli dell'Alcantara e del S. Paolo dove la feracità dei suoli era anche accresciuta dalla natura lavica del “corpo” del terrazzo stesso”.

Ma vanno considerati altri due, forse più determinanti, fattori costitutivi. In primo luogo, l'ubicazione lungo, o in prossimità di, un'importante via di transito fra versante

ionico e tirrenico, certo felicemente aperta ai flussi commerciali oltre che ad eventuali propositi espansionistici. Per meglio “visualizzarla” è sintomatico ricordare che includono Francavilla e il suo territorio almeno due diverse ricostruzioni dell'itinerario seguito da L. Cornificio del 38 a.C. durante la sua ritirata dall'area di Tauromenion per ricongiungersi alle forze di Agrippa sulla costa settentrionale fra Tyndaris e Mylae (App. V 373 sgg.. ): quella di Aiello ripresa da Holm e l'alternativa indicata dal Pace. Tl ritrovamento a Francavilla (in S7 e S1) di due monete di Abacaenum, una litra, del 440-430 a.C. e un bronzo della seconda metà del IV secolo a.C., può suggerire qualche considerazione interessante sui contatti del nostro centro con l'importante città indigena poi ellenizzata in prossimità della quale passavano entrambe le due citate vie interne, in particolare la seconda^ Attraverso Francavilla, o nelle sue vicinanze, doveva correre anche la "strada" interna percorsa nel 396/395 dall'esercito cartaginese di Imilcone per raggiungere Catania (e poi Siracusa) aggirando la costa ionica devastata dalle colate laviche di una recente eruzione dell'Etna (Diod. XIV, 59, 4) che, secondo la ricostruzione di D. Adamesteanu "avrebbe dovuto, lungo il fiume Alcantara, toccare la città antica di Tissa a Randazzo, per raggiungere poi il passo obbligato fra Adrano e Centuripe e di qui finire a Catania" 55. Non è poi secondaria la possibilità che il sito sta stato prescelto anche per ospitare una base mili-

tare potendo usufruire delle indubbie qualità strategiche del colle del Castello, che proteggeva ad ovest l'abitato raggiungendo una quota massima di m. 475 (rispetto alla quota di m. 330 della attuale

Piazza Municipio) e che offriva, con la sua elevazione e le sue balze scoscese, eccezionali risorse sia

di difesa naturale sia di controllo ad ampio raggio del territorio e della citata via di comunicazione: i

suoi caratteri morfologici più che ad una "semplice" acropoli - che riterremmo piuttosto ubicata sulla meno erta altura dove sorge la Chiesa Matrice, a quota 336, nel settore sud-orientale del paese, avrebbero potuto addirsi infatti ad una vera e propria piazzaforie. L'ipotesi attende naturalmente la verifica di un'estesa indagine di scavo sulla vetta del colle, dominato dai ruderi della rocca il cui primo impianto risalirebbe ad epoca normanna*. Nella vita e nello sviluppo del centro è sinora possibile distinguere, attraverso i risultati degli scavi, tre principali fasi cronologiche, i cui caratteri salienti si delinceranno nel corso della nostra esposizione. Fase I: TARDO-ARCAICA: FRA IL SECONDO QUARTO AVANZATO DEL VI SECOLO A.C. E GLI INIZI DEL V SECOLO A.C.

Nell'abitato sono state finora raggiunte ed indagate solo limitate porzioni dei livelli all'impianto

arcaico, con resti assai frammentari: in particolare una piccola fornace nel “terrazzo superiore” di 82 ed a brandelli di muri nel settore meridionale di S6. 647

ΑἹ momento iniziale dell'abitato corrisponde la fase più antica del santuario di via Russotti, cui appartengono le numerose deposizioni votive tardo-arcaiche ἢ. Come già rilevato, i rapporti con Naxos appaiono palesi sia nella tipologia di alcune forme ceramiche sia, ancora più incisivamente, nella coroplastica: a parte il recente ritrovamento di un’antefissa silenica di tipo A, probabilmente realizzata “in loco” da matrice ricavata da prototipo “nassio”, ricordiamo soprattutto gli accenti stilistici di diversi tipi di protomi femminili votive dal santuario*. Pur se non è stato ancora possibile svolgere indagini estensive nei livelli della fase I aldisotto delle strutture relative all'impianto della fase II, ci chiediamo se possano collegarsi ad una distruzione violenta e radicale conseguentemente alla conquista di Naxos e del suo territorio nel 476 d.C., da parte di Ierone di Siracusa. La realizzazione di un nuovo impianto seguirebbe quindi, come a Naxos, I"obliterazione” del precedente e l'allontanamento degli originari abitanti per trasferirvene altri. A meno che non si prenda in considerazione l'ipotesi di Callipolis, distrutta da Ippocrate (Erodoto VII 154 2) durante la sua prima campagna di conquista, collocabile seconda Maddoli fra il 498 -497 e il 494 a.C. e che, in questo caso, sarebbe stata “successivamente ripopolata e rifondata” da Terone, in concomitanza con la conquista di Naxos, per ragioni strategiche”.

Ma, come si diceva, l'identificazione con Callipolis, anche se non improbabile, non è al momento

suffragata da segni convincenti né attraverso i materiali ceramici e coroplastici (sia dai livelli dell'abitato sia sia dal santuario) è agevole presumere - il problema comunque è da approfondire-uno “hiatus” abitativo fra il corso del primo e il terzo decennio del V secolo a.C. Fase II: NEL CORSO DEL V SINO AI PRIMI ANNI (?)DEL IV SECOLO A.C.

Più avanti osserveremo con maggiori dettagli come soprattutto dall'articolazione del settore di abitato sinora indagato in S6, possa desumersi un impianto urbano riflettente, “mutatis mutandis", i caratteri della rifondazione ieroniana di Naxos, conquistata dal tiranno nel 476 a.C. Come avvenne a Katane-Aitna e probabilmente alla stessa Naxos, secondo quanto ipotizza la Consolo Langher analizzando un passo di Diodoro Siculo (XVI, 49-2) anche questo anonimo “avamposto" nel cuore della Valle dell'Alcantara, per la sua privilegiata posizione, ai fini del controllo strategico del territorio e di cruciali vie di comunicazione, potrebbe essere stato adibito a sede di mercenari dopo la deportazione degli abitanti". Per la prima parte del secondo venticinquennio del V secolo abbiamo già avuto modo di porre in evidenza, soprattutto attraverso l'edizione dei "pinakes" di “tipo” locrese, i segni di una non lieve impronta religiosa e politica della Siracusa dinomenidica L'ipotizzata occupazione siracusana potrebbe spiegare, se non un totale cambiamento della centralita devozionale, comunque l'introduzione e la diffusione di modelli cultuali — nella fattispecie quegli aspetti del culto di Persefone legati soprattutto alla sfera di una ritualità "prenuziale" manifesta nell’ "imagerie" dei "pinakes" - probabilmente volti anche a sfruttare, secondo mirati “orientamenti" politici, una già consolidata rinomanza ad ampio raggio del santuario Così, come un diretto collegamento alla rifondazione dinomenide di Katàne in Aitna è stato proposto da Rizza per la svolta accentuatamente “demetriaca” constatata nel santuario catanese di Piazza S. Francesco? anche l'introduzione dei "pinakes" di tipo locrese fra gli “ex voto" del santuario di Francavilla — e, come documentato di recente, a Naxos* — ed anzi l'incremento di una produzione sia su matrici “parallele” probabilmente realizzate a Locri (o dirette “varianti” di quelle locresi) sia su altre create “ex novo” riprendendo e variando forme iconografiche e figurative affini potrebbe mostrare proprio una spiccata nota siracusana. Né deve dimenticarsi che nei soggetti di almeno quattro tipi sinora riscontrati nella sola Francavilla sono più esplicitamente espressi, rispetto al contesto figurativo dei pinakes locresi aspetti cultuali e connotazioni di assai probabile impronta tesmoforica *. Ma, a parte queste eccezioni, e semplificando qui i termini di una più ampia analisi, pur se non ci 648

spingiamo a vedere nei “pinakes” la prova della partecipazione locrese al ripopolamento, "programmato” di Naxos, secondo una certo suggestiva ipotesi di Torelli, potremmo riconoscere un carattere di "ex voto” indotto nel gruppo di pinakes derivati da prototipi realizzati nella città italiota o affini per soggetti e schemi, riflesso di una "logica" di potere che investe anche il "sacro" all'interno di un programma di “egemonia” non solo politica ma anche ideologica e culturale”. Queste connessioni non vanno considerate troppo perentoriamente condizionanti l'arco di produzione dei "pinakes" di Francavilla che si protrae, come si è visto, oltre la caduta dei Dinomenidi, datandosi diversi tipi fra il 460 ed il 450 a.C. e che consta anche di soggetti sinora non documentati a Locri?

Ma più avanti torneremo con maggiori dettagli su altri aspetti rivelatori della "fase" ieroniana relativamente al tessuto urbano.

Con la caduta dei Dinomenidi, nel 466 a.C. e col ritorno degli originari cittadini a Naxos nel

461-460 a. C, anche l'anonimo centro, dati i suoi stretti rapporti con Naxos, deve aver sicuramente

vissuto il mutamento politico e, probabilmente, come nella "polis madre” (se così vogliamo chiamarla), vi deve aver avuto luogo il ritorno degli abitanti originari (se effettivamente anche questi, come abbiamo ipotizzato, avevano subito la deportazione). Anche qui, almeno, dai dati sinora raccolti, non sembra però di leggere cesure o sostanziali modifiche dell'impianto urbano. Probabilmente vi si è “riflessa” la situazione di Naxos dove “dopo la caduta della Tirannide", come nota M. C. Lentini non “si colgono... tracce sul terreno” del “cambiamento di popolazione e degli inevitabili susseguenti rivolgimenti” e "la città sembra aver vissuto sino al momento della distruzione dionigiana senza scosse e sbalzi””. A questo periodo appartiene la "litra" di Naxos da S8, il cui rinvenimento può inquadrarsi in un logico quadro di rapporti *. Ma un più significativo riflesso del momento storico, e del nuovo “corso” politico, potrebbe scorgersi nella probabile rappresentazione di Zeus Eleutherios sul pinax tipo XVII, derivato, nello schema iconografico, da un tipo locrese ma rielaborato però, pensiamo in ambiente nassio, ad espressione di una forma cultuale che dovette incontrare particolare fortuna nelle poleis tornate ad un regime democratico dopo la cacciata di Trasibulo: pregnante, in particolare, per Siracusa, la “testimonianza” diodorea (XI, 68, 1-5) sul voto di gratitudine a Zeus Eleutherios*. Dati i suoi rapporti con Naxos non è improbabile che il centro possa essere stato coinvolto dal425 a.C., a Naxos c nel suo territorio (Thuc. IV, 65, 1-2). Inoltre, venendo alla successiva svolta politica della città calcidese ed alla sua alleanza con Atene, dal 415, non è da escludersi, pur non possedendo al momento alcun indizio concreto, che contingenti ateniesi abbiano sostato, o si siano, anche per breve tempo, attestati a Francavilla sfruttando le qualità strategiche del sito. 1 materiali ceramici, soprattutto a vernice nera, nei livelli di uso e frequentazione della fase II, oltre che nel deposito votivo del santuario di via Russotti, non condurrebbero oltre la fine del V secolo a.C. quando l'intero centro dovette venir abbandonato, non riscontrandosi - nei settori ad oggi esplorati - segni di una ripresa stabile sino almeno alla metà del IV secolo a.C. Anche per la mancanza, sinora, di sicure tracce di distruzione violenta, non cogliamo con certezza le cause di questo abbandono che ci pare probabile porre in relazione con la conquista e distruzione di Naxos da parte di Dionigi il Vecchio nel 403 a.C. Vi è però un'altra ipotesi plausibile anche se per ora non sostenuta da indizi concreti: il centro potrebbe aver fatto parte del territorio di Naxos donato da Dionigi ai Siculi dopo la conquista (Diod. l'incursione compiuta da Messene, in concomitanza con la prima spedizione ateniese in Sicilia del

XIV, 15, 3) e poi, nel 396/395 a.C., esser stato distrutto dai Cartaginesi di Imilcone durante la già ricordata marcia verso Catania *.

Né, all'analisi numismatica, sembrano risultare utili, per una puntualizzazione cronologica, le 649

poche monete "dionigiane", di zecca siracusana, appartenenti ad emissioni la cui circolazione è documentata come di raggio temporale assai ampio, peraltro rinvenute, per la maggior parte, in livelli di frequentazione riferibili alla successiva fase III, come dimostrerebbe la tipologia dei frammenti ceramici associati**. Ciónondimeno, riprendendo un prudente suggerimento di M. A. Mastelloni, non va trascurata la possibilità di collegare la presenza a Francavilla di duc esemplari della terza sottoserie delle emissioni con testa di Atena elmata e ippocampo, dai livelli di riempimento e abbandono del santuario di via Russotti alle vicende storiche che “investono la zona intorno al 396 a.C."* Fase III: FRA LA METÀ DEL IV SEC. A.C., ALL'INCIRCA E LA SECONDA METÀ DEL III SECOLO A.C.

Il centro sembra rimanere in abbandono per più di un cinquantennio, sino almeno alla metà del IV secolo, o pochi anni dopo, epoca a cui risalirebbe la sua rioccupazione, da connettersi più (od oltre) che al generale incremento demografico di età timoleontea, alla sia pur modesta prosecuzione della vita di Naxos“ e, soprattutto, ai probabili interessi “espansionistici” della da poco nata Tauromenion (nel 358 a.C.) sul territorio della vicina Valle dell'Alcantara, della cui zecca si sono rinvenuti otto bronzi ‘7. La rioccupazione e la ripresa del centro si palesano soprattutto, come diremo, nelle ristrutturazioni e modifiche dell'impianto viario e delle case della Fase II in S6 (fig. 2) e in S2*. 1 materiali ceramici e le monete, in alcuni casi in associazioni stratigrafiche, coprono un arco temporale piuttosto ristretto, forse meno di un secolo, poiché i più recenti non scenderebbero oltre la metà del III secolo a.C., al più tardi, come alcuni bronzi di Siracusa del periodo iniziale del regno di Terone II che, secondo la notizia diodorea, ebbe Tauromenion in suo potere prima della battaglia di Longane (Diod. XXII, 13). Statisticamente dominante, fra i materiali numismatici sinora rinvenuti, è la presenza, nei livelli della Fase ΠῚ nell'abitato e nell’area già occupata dal santuario di via Russotti, di monete della zecca di Siracusa, fra l'età agatoclea e, appunto, le prime fasi del regno di Ierone, come testimonianza, non solo di un'ampia circolazione, ma forse anche di una persistenza di interessi siracusani, non solo sul piano commerciale, nella Valle dell'Alcantara^. Ancora non chiare ci appaiono le cause del nuovo abbandono, nel corso probabilmente del terzo venticinquennio del ΠῚ secolo a.C., forse da legarsi alle sorti ed alle conseguenze della prima guerra punica. Per le epoche successive, sino all'alto medioevo, non si hanno per ora segni certi della presenza di nuclei abitativi di una certa consistenza: per le età imperiale-romana e bizantina due testimonianze

sporadiche sono costituite, rispettivamente, da una moneta in bronzo di Gordiano e un mezzo follis di Costante II”.

Per urgenza di tutela le indagini dell'ultimo decennio si sono concentrate prevalentemente nell'area sud-occidentale del paese, nella c/da Fantarilli, e alle estreme pendici sud-orientali della Collina del Castello. Difetta ancora l'individuazione dei limiti certi dell'abitato né sono ancora emersi tratti di cinta muraria: una diversa funzione - delimitazione di un modesto settore abitativo destinato soprattutto ad attività agricole ed artigiane - riterremmo infatti doversi attribuire alla "poderosa" ma piuttosto "informe" struttura in pietrame lavico in direzione NE-SW, frammisto a frammenti di arenarie locali e di kalypteres e solenes fittili, messa in luce per una lunghezza max. di circa m. 23 in c/da Fantarilli nell'area dell'ex Palestra Comunale (S5), databile nel corso del V secolo a.C. (Fase II) in base ai pochi frammenti significativi a vernice nera rinvenuti nei saggi eseguiti al di sotto dei piani di imposta? Il breve tratto di necropoli fortuitamente scoperto in un cantiere di via Regina Margherita (S3), nella parte nord-occidentale del paese, con sepolture del secondo e del terzo quarto del V secolo a.C., 650

e, forse precedente Fase di cronatogia da accertar all'abitato greco

BEL sei

con med IV prima me see aC)

[ET SCALA il Francavilla ματα di Sicilia

ELABORAZIONE GRAFICA: F. CALABRÒ] Fig. 2. Francavilla di Sicilia: settore di abitato in proprietà di Silvestro. Arcidiacono (8,6). Planimetria generale.

una sola delle quali - un'inumazione infantile in cassa di lastre fittili - indicherebbe che la zona ricadeva già all'esterno del perimetro urbano™. Quasi contigui, a circa 80-100 m. ad est, sono i resti del santuario di via Russotti, del quale non è stato ancora possibile chiarire il reale rapporto con l'impianto urbano, presso il cui limite sud-occidentale era ubicata questa area sacra alla quale potrebbe addirsi la definizione di "suburbana", o 651

Fig. 3. Francavilla di Sicilia: settore di abitato in proprietà Silvestro-Arcidiacono (5.6). Veduta da est. Al centro il tratto di plateia in direzione E-W. Ai lati, le case 1 e 2. forse più propriamente di"periferica" secondo la terminologia di recente proposta da R, Leone per i

luoghi di culto in posizione marginale rispetto al centro urbano. * Abbiamo già avuto modo di osservare come non appaia insolita la vicinanza -- e quindi la connessione cultuale — fra temene ed aree cimiteriali, ricordando almeno il caso del tesmophorion "extraurbano" di Lipari, antistante alla cinta muraria occidentale della città*. ΑἹ santuario di via Russotti appartengono le sino ad oggi le due uniche testimonianze certe di edilizia cultuale a Francavilla: i resti dei due edifici della fase più recente, A, sul lato orientale, e B. L'edificio A, impiantato, rispettandole, al di sopra delle deposizioni votive della fase arcaica sembrerebbe-nell'assetto pervenutoci-essere stato realizzato in due momenti distinti. Il primo nucleo era composto da due stanze -i vani 1 e 2-purtroppo lacunose, probabilmente comunicanti sul lato est, all'interno delle quali sono state ammassate le offerte votive in “deposizione” secondaria. Lo costituiscono un ambiente rettangolare stretto e allungato, orientato nord/ovest-sud/est (il vano 3, di m.

13, 70 x 3 con un ampiezza max. interna di circa m. 1, 50) cui sono ortogonali sul lato

orientale due stanze adiacenti, conservate purtroppo solo parzialmenteli vani 1 e 2: ampiezze max.

sul lato occidentale rispettivamente m. 6, 10 e 5, 60), intercomunicanti, se è esatto riconoscere uno

stipite di soglia nel superstite braccio di muro divisorio. La morfologia del vano 3-una sorta di corridoio-potrebbe avvicinare l'assetto dell'edificio al particolare modulo planimetrico nel quale è stato supposto, a nostro avviso impropriamente, il precedente della casa a pastas vera e propria L'assenza di segni certi di soglie fra il vano 3 e le due stanze contigue e le condizioni di lacunosita sconsigliano un troppo puntuale confronto con questa tipologia. 652

Fig. 4. Francavilladi Sicilia: Piazza S. Francesco (S7). Porzione della "casa 4".

Inoltre, la prosecuzione verso est del muro perimetrale nord del vano 3 viene ad addossarsi a quella del vano 2 (almeno al suo breve tratto superstite) costituendone una sorta di rinforzo e facendo così supporre la sua pertinenza ad una successiva fase di ristrutturazione dell'edificio. I muri, in filari di pietre arenarie appena sbozzate (materiale di costruzione meno comune nell'antico centro rispetto alla pietra lavica) costituivano il probabile “zoccolo” (della largh. max. di m. 0, 70 circa e con un altezza originaria dei tratti a vista che non doveva essere inferiore ad 1 m.) di uno spiccato di mattoni crudi. La realizzazione dell'edificio A e la sistemazione della stipe al suo interno dovrebbe rientrare nel quadro di un programma di ampliamento e ristrutturazione del santuario, intrapreso probabilmente, a giudicare dalla datazione dei materiali più recenti, nell'ultimo trentennio del V secolo a. C, probabilmente non condotto a termine a seguito degli eventi che portarono alla distruzione, o comunque all'abbandono, del centro verso la fine dello stesso secolo. Non risolta rimane anche la “relazione” funzionale, insieme naturalmente al rapporto cronologico, intercorrente con l'edificio B, messo parzialmente in luce circa 20 m. ad ovest del primo“ La mancanza di uno spesso strato di frequentazione sia all'interno dell'edificio B sia in prossimità del medesimo ci fa pensare che il suo impiego abbia coperto un lasso cronologico piuttosto ridotto, nella fase finale di vita del santuario, e che possa essere stato eretto nell'ambito di quello stesso programma di interventi che vede la realizzazione dell'edificio A e la sistemazione della stipe al suo interno. Riprendendo il problema della destinazione: se da un lato permane il dubbio di trovarci di fronte ad un sacello, sia pur di tipologia anomala, non riteniamo da scartarsi la possibilità di un altro edificio destinato alla conservazione di offerte, poi non utilizzato a seguito dell'abbandono dell'intero complesso di culto. 653

Fig. 5. Francavilla di Sicilia: Proprietà Merlo-D'Aprile (8.11). La “casa 5", da Ovest.

La ripresa della vita urbana, nella Fase III, non portò al ripristino della destinazione cultuale dell'area come documenta soprattutto lo spesso riempimento (o "preparazione" di sede stradale?) che copriva i resti dell'edificio A. Una frequentazione non sporadica della zona, pur se periferica, e probabilmente esterna all'abitato, è attestata dai numerosi rinvenimenti monetali nei livelli corrispondenti. Riguardo agli altri complessi e spazi cultuali dell'anonimo centro si sono raccolti indizi della presenza di edifici sacri sui fianchi occidentali del Colle del Castello alla cui decorazione plastica, franata dall'alto nell’area del quartiere abitativo sottostante dopo l'abbandono e la distruzione, potevano appartenere i due frammenti di statua femminile (acroteriale o frontonale?) degli ultimi decenni del V secolo a.C., da $2*. Forse dall'area di un vicino piccolo santuario urbano tardo-arcaico, i cui resti sono stati sconvolti dallo straripamento di un corso d'acqua, provengono i frammenti di grande antefissa gorgonica (da un kalyptér hegemón) e di statuette femminili rinvenute in S11, in un livello di trascinamento alluvionale, nell'area ad ovest della “casa” 5. Allo stato attuale non è agevole pervenire a un giudizio certo su caratteri e tipologia della parte messa in luce della cosiddetta “casa 5" in S 11 (fig. 5) costituita da due vani adiacenti a e b ricavati da un unico ambiente quadrangolare (che chiameremo A) in una successiva fase di ristrutturazione e riutilizzo dell'edificio, con l'erezione di un muro divisorio N-S*. Il vano A, cui è adiacente a Nord un altro ambiente -di esso è visibile il solo angolo SW al limite

settentrionale dell’area di scavo-apparteneva quindi al primo impianto che non escluderemmo rea-

lizzato nella fase arcaica dell'abitato (fase 1)*. La tecnica costruttiva dei muri perimetrali in blocchi lavici a taglio pseudo-poligonale disposti con un certo effetto di monumentalità (fig. 6), confrontata con edifici sacri di Naxos, potrebbe suggerire la possibilità-necessitante di accertamenti-di un sacello arcaico, nel confronto col paramento murario di piccoli edifici sacri di Naxos, in particolare il tempietto H del santuario suburbano a ovest del Santa Venera (Santuario Scalia-Maloprovvido) ". L'edificio, potrebbe poi essere stato ristrutturato per un diverso utilizzo, probabilmente nel corso del V secolo a.C., nella fase "ieroniana". 654

Fig. 6. Francavilla di Sicilia: Proprietà Merlo-D'Aprile (8.11). La “casa 5". Particolare del muro perimetrale Ovest. Un indizio a convalida di questa ipotesi potrebbe leggersi nella citata antefissa silenica di tipo A, rinvenuta nel vano a*.

Nella parte sud-orientale della c/da Fantarilli, moderatamente acclive, è stata messa continuativamente in luce, in S6, in un'area di quasi 1. 300 ma. la porzione sinora più ampia di un settore abitativo della Fase II (figg., 2, 3) costituito dal “fronte” (?) di due case -- convenzionalmente denominate casa 2 e 3 - i cui vani si dispongono, rispettivamente, lungo i lati meridionale e settentrionale di una strada in direzione E-W dell'ampiezza di m. 6, 10.6, 20, scoperta sinora per un tratto lungo circa m. 18, (la "plateia" 1). 1l fondo stradale era assai compatto, in terra battuta; non si sono però ancora effettuati saggi in profondità per accertarne la composizione oltre che eventuali fasi anteriori. L'ampiezza, corrispondente a quasi 20 piedi dorici, si avvicina a quella di due delle tre “plateiai” su cui è organizzato l'impianto ieroniano di Naxos -- la "plateia" B, di m. 6, 70-6, 80, e la C, di circa m. 6, 50 - oltre che dello “stenopos” 6, di m. 6, 40% La “casa 2", è costituita da un grande ambiente rettangolare- il vano 1, con ingresso a nord, sulla strada - cui è adiacente una stanza sul lato occidentale, il “vano 2"*. Non sono comparsi, a sud dei due predetti ambienti, tratti di muri ad essi ortogonali delimitanti altri vani; rimane quindi da definire l'articolazione del complesso. Più vicina alla tipologia planimetrica delle coeve abitazioni di Naxos pare la “casa 3” il cui fronte si dispone lungo la strada con una sequenza di tre vani (3, 4, 5) dei quali, sino al limite della trincea, è stata messa in luce la parte sud. Nella ripresa abitativa della Fase III «dalla seconda metà del IV secolo a. C-la sede stradale viene 655

occupata da alcune nuove strutture murarie che ne vengono a ridurre sensibilmente l'ampiezza, a soli m. 1, 60°. Appartengono forse ad un rifacimento del piano stradale durante la Fase III alcuni basoli (?) superstiti in pietra lavica nel tratto più occidentale. I muri costituiscono un ampliamento della "fronte" delle due case del V secolo a.C. che, nell'ambito di questa fase recenziore, vengono ristrutturate e riutilizzate con modifiche al loro originario impianto planimetrico, come riscontrato anche in S2. Alla Fase Il appartiene anche il tratto di muro perimetrale ovest della “casa 4”, (fig. 4), in accurata fattura di blocchi lavici, " messo in luce in Piazza S. Francesco (in S7), di fronte alla chiesa omonima: poiché la sua “faccia” occidentale non mostra attacchi di altri muri ortogonali penseremmo al “fronte” di una casa se non al vero e proprio prospetto di un isolato. Quanto può sinora leggersi dell'organizzazione planimetrica delle case 2 e 3 - oltre che della già preliminarmente edita “casa 1" in S2 - con sequenze di ambienti giustapposti, richiama da vicino i criteri distributivi delle abitazioni della “riedificazione” ieroniana di Naxos e del coevo impianto di Himera con le quali dovevano condividere, data la ridotta ampiezza dei muri perimetrali, anche la tecnica costruttiva, dal probabile elevato in mattoni crudi su uno zoccolo di base in muratura di pietre, o blocchi, dell'altezza di circa 1 m. Abituale, appare, dai crolli, la tipologia del rivestimento fittile dei tetti, alla "siciliana", con solenes piani e Kalypteres coprigiunti convessi". A proposito della copertura segnaliamo la non comunissima contingenza di ritrovamento, nel crollo all'interno della “casa 5", di due non esigui frammenti di travi lignee carbonizzate ". Fra gli altri elementi di cultura materiale all'interno delle case ricordiamo, nel vano 1 (un grande spazio aperto?) della "casa 2", una vaschetta rettangolare in lastre fittil, di funzione da definire, e, nel settore orientale del “vano 2", uno spazio destinato alla conservazione di pithoi”. Immediatamente ad ovest della “casa 5” non si sono posti in evidenza,

come si pensava, tratti di

strada o comunque piani di frequentazione ma una situazione di sconvolgimento alluvionale da un vicino corso d'acqua, probabilmente lo stesso chiaramente riscontrato, circa una quarantina di metri a nord, nel settore meridionale di $8”* Nelle aree sinora esplorate della parte nord-occidentale della c/da Fantarilli (S6, $8, $9, $10) la distribuzione dell'abitato, su basse terrazze che seguivano i sia pur modesti dislivelli del suolo, mostra, a giudicare almeno dai resti superstiti, una minore densità che, a parte le eventuali conseguenze di una maggior distruzione di strutture dovute a fenomeni alluvionali posteriori all'abbandono, è forse rivelatrice del carattere periferico di questo settore della città (che verrà pure interessato dal riutilizzo della Fase II. In questa zona si si localizzano piccoli impianti artigiani, documentati dagli scarsi resti di due fornaci per fittili, sia in S5, presso la citata grande "struttura muraria”, sul lato ovest, e nel vicino

‘S47,

Più complessa è l'articolazione su tre terrazzi artificiali, razionalmente commisurata ai marcati

dislivelli originari del suolo, del quartiere abitativo in 52, alle pendici sud-occidentali della Collina del Castello, con strutture relative soprattutto alla Fase II, fra cui la casa 1, sul "terrazzo" inferiore". Sostando ancora, invece, nella parte sud-occidentale della c/da Fantarilli e nella fascia - della lunghezza di circa m. 150 in direzione nord-sud, fra S6 e S7 (Piazza S. Francesco), vediamo che non solo le convergenze stratigrafiche e tipologiche ma anche le corrispondenze di orientamento fra vani delle case 2, 3, 4, 5 conducono ad assegnare le tre abitazioni ad un impianto unitario che forse i riprende, almeno parzialmente, gli orientamenti del tessuto urbano della precedente fase arcaica. A questa supposizione conduce l'evidenza della “casa 5", se è veritiera l'ipotesi della ristruttura zione di un edificio (sacro?) della fase precedente. * Dalle già osservate analogie, nella larghezza della strada e soprattutto nell'adozione del piede dorico, e nella articolazione planimetrica delle case, con il coevo impianto della Naxos dinomenide, possiamo già riconoscere, almeno in quella parte della città dove la natura del suolo lo ha consenti656

to, con moderate opere di adattamento e terrazzamento, l'applicazione di un piano urbano (“per strigas"?) conformato a simili principi organizzativi Anche nelle parti di case sinora in luce scorgiamo aspetti comuni ad alcune delle abitazioni di Naxos, non solo nella tecnica costruttiva e nell'organizzazione planimetrica, ma in quei particolari caratteri quasi di “monumentalizzazione” - per riprendere il felice termine usato da M. C. Lentini per le case nassie prospicienti le "plateiai" (soprattutto agli incroci) - nell'impiego di filari di blocchi nel muro perimetrale della casa 4”. La nuova fase costruttiva dell'anonimo centro si configurerebbe, con le dovute distinzioni, come riflesso complementare della Naxos “dinomenidica”, un corollario “ideologico”, oltre che strategico per la sua ubicazione geografica, di quella che P. Pelagatti ha definito la “città dei tiranni”, nell'ambito di una ristrutturazione radicale successivamente alla conquista ieroniana del 476 a.C. che può aver condotto, anche per questo centro, alla “cancellazione” del precedente tessuto tardo-arcaico, quanto meno un'obliterazione consistente e “programmatica”, come potrebbero far supporre anche Ja frammentarietà e l'esiguità dei resti appartenenti alla Fase 1°. NOTE

? Per una sintesi del risultati delle indagini condotte a Francavilla sino al 1991 e degli aspetti relativi l'inquadramento stilistico e cronologico dei materiali oropiastici dal santuario e la bibliografia U. Setco, Francavilla di Sicilia sv. in ECO, Supplemento 1971-1994, II, Roma 1994, p.700. Diversi fra i contributi compresi in questa bibliografia saranno comunque richiamati in nota nel corso del presente lavo Successivamente U. Snico-. Rizo, Ricerchea Francavilla di Sicilia, 1989.1991, in Kokalos 1993-1994 (Atti dell VIT Con. gresso Internazionale di Studi sulla Sicilia Antica), I, 1, pp. 1039-1057 (resoconti preliminari sulle ricerche condotte nell {ato e nell'area della necropoli fra 1989 e 1991); C. Pare, Artemide tra Lori, Reggio e Siracusa: un contributo da Francavilla di Sicilia, in Klearchos 129-136, 1991, pp. 77.88; U. So, Recent rinvenimenti numismatici a Francavilla) (ME): Naxose Sila, in AIN, pp. 197-208; M. Must, Schede di tre protoni femminili iii arcaiche; 86-1 Protome femminile, 87-1 Protome femminile, 87-111 Protome femoninile, in I Greci in Occidente, (ed. Ο. Puoutese Cane») (I ediz), Milano, 1996, pp. 642-643 (Schede analitiche di te protomi femminiliU. Sco, 167. Pinax figurato a rilievo ibidem,p. 647; M.A. Masresiom, Delfini e ippocampi sullo Stretoilessioni su alcune serie in Bronzo di Siracusa in AIN, 45, 1998 pp. 41 nota 53, 50; U. Srco, Ricerche a Francavilla di Sicilia e Capo d'Orlando. Breve nota d'aggiornamento in Kokalos XLIN-XLIV 1997-1998 Att del IX congresso internazionale di Studi sulla Sicilia Antica, II, 1 pp. 475-483; Inu, in Barone Snico Tuca 2000: G. Barone-M. Tuscis -U. Sco, Prime carattrizazioni di materiali ceramici provenienti da Francavilla di Sicilia, ti della Giornata di Studio su Manufatti di Interesse archeologico ed artistico: tecniche fisiche applicate alle problematiche del settore (Messina 9/12/1998) (ed. G. Motpio.M.A. Masteiion!), CSRFA., Messina 2000; Inbu, I pinakes di Francavilla di Sicilia. Nuova classificazione e breve mota sugli aspetti cultuli in Damarato.Studidi antichità classica offerti a Paola Pelagatti (cdd. I. BratiNGO,H. BLavcx, F. CoRpiso, P.G. Guzzo, M.C. Lexi), Milano 2000, pp. 208-219: Int, pinakes di Francavilla di Sicilia. Parte 1, n. 111, Gennaio Marzo 2000, pp. 1-60; Ioza,pinakes di Francavilla di Sicilia. Parte II n. 113, Luglio-Settembre 2000, pp. 1-78; Le indagini di scavo a Francavilla di Sicilia, tutte svolte con finanziamenti dell'Assessorato Regionale BB.CC.AA. e P.I sono state avviate nel 1979 dalla Soprintendenza Archeologica di Siracusa, retta da Paola Pelagatt e successivamente da Giuseppe Vora Dal 1987 le ricerche e i connessi interventi di tutela e valorizzazione sono promossi ed attuati dalla Sezione ai Beni Archeologici della Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Messina diretta da Giovanna Maria Bacci. Nel coordinamento sclentifico e operativo e nella direzione dei lavori sono validamente coadiuvato dal 1981 dalla dssa Concetta Rizzo che cura la conduzione degli scavi sul tereno. L'assistenza tecnica della prima campagna di scavi nel 1979 (Santuario di via Russoti) edi altre successive è stata svolta con competenza c impegno dal sig. Filippo Capizzi, della Soprintendenza di Siracusa e, dal 1990, della Soprintendenza di Messina. Le planimetrie c le sezioni degli scavi sono stat effettuati dal 1979 αἱ 1984 dal sig, Francesco D'Angelo, della Soprintendenza di Siracusa e dal 1987 dal sig. Francesco Calabrò della Soprintendenza di Messina. T rilievi con strumentazione elettronica e l'elaborazione informatica delle palanimetriedi scavo sono curati dal sig. Gaetano Cucinotta con la collaborazione del sig. Antonio Castorina, entrambi della Soprintendenza di Messina. ? Per maggior facilità espositiva i divers scavi saranno indicati nei testi dalla sigla S seguita dal numero d'ordine, come da leggenda nella planimetria generale ἃ tav. I IL muro in direzione E-SE-W.NWè stato messoin luce perla lunghezza max di circa m. L'impiego dell'arenaria come materiale di costruzione, costituisce un fato insolito a Francavilla, dove per muri dell'abitato greco viene usata più abitualmente la pietra lavica. Pe livelli con ceramica ad impasto di S2: Sto Ryo, Ricerche, cit p.1088.* Shico-Rizzo, Ricerche, cit, p. 1048. 657

Confronti preliminari si possono prudentemente istituire con un tipo di situla presente nell'insediamento dell'Età del Bronzo Finale-Prima Ftà del Ferro di Monte Tidora, presso Messina: M.C. Maamwetu-U. Serco in Da Zancle a Messina. Un percorso archeologicoll 1 (edd. G.M. Bacci-G. Ticaxo), Messina 2001, pp. 186-188. * Le due capeduncole sono state rinvenute in un livello relativo alla Fase I nel settore sud-occidentale di S6. V.anche: Srico in Ricerche a Francavilla di Sicilia in cs. it. Per il “kyathos" da S2: Seico-Ruzo, Ricerche, cit, p. 1043. * M. Frusca, in M. Frasca - F. FoumLAND, P. PELAGATTI, Monte Casasia. Campagne di scavo 1966, 1972-1973 nella necropoli indigena, (ed. M. Frasca), in NSc 1994-1995, pp. 491-494 (a p. 491 si sofferma sulla tipologia della capeduncola; a p. 494 considerazioni generali sulla ceramica a pasta grigia in ambito calcidesc). 7 R. Aumaxese ProceLLI, Ripostigli bronzei della Sicilia nel Museo Archeologico di Siracusa, Palermo, 1994, pp. 29, 36 (n. 34), 39, Big. 7. È utile rammentare qui che una delle più significative testimonianze preistoriche della Valle dell'Alcantara, purtroppo non ancora collegatead un preciso contesto, è, a tutt'oggi, costituita dal ripostiglio di bronzi di Malvagna: L. Βεκναβο' BREA, La Sicilia prima dei Greci (5 EDIZ.), Milano 1972, p. 190; Albanese, Ripostigi, cit * Fra i contributi più recenti e significativi - per ulteriori approfondimenti e discussioni - anche in chiave di dissenso costruttivo - di una composita problematica in "progress" (in rapporto allo sviluppo delle indagini sul terreno alle pubblicazioni esaustive dei risultati di ricerche recenti o meno). E. PRoceLtt, Aspetti e problemi dellellenizzazione calcidesie nella Sicilia orientale in MEFRA 101,1989-2, pp. 678-689 dedicato essenzialmente all'espansione di Katane e Leontinoi; G. Vauuer, Quelques reflixions en guise de conclusion in Les Grecs et l'Occident. Actes du Colloqui de la Villa "Kerylos" (1991) (Collection de Ecole Francaise de Rome 208), Roma 1995, pp. 153-155,V. La Ross,Le popolazioni della Sicilia: Sicani, Siculi, Elimi in Itala Omniuom terrarum parens, Antica Madre (ed. G. Pucrisse Carate), Milano 1991, pp. 50-69; RM, Ausaxese PROCELLI, Le ermie dell'età del Ferro ele prime fondazioni coloniali in Prima Sicilia. Alle origini della società siciliana (ed. S. Tusa) Catalogo della Mostra. (Palermo,18 ottobre-22 dicembre 1997), pp. 511-20; E. Garco, Siculied Enotri: tra analogie e differenze in Actes de la rencontre scientifique en hommage à Georges Vallet organisée par le Centre Jean Berard, l'Ecole Francaise de Rome , l'Istituto Universitario Orientale et l'Università degli Studi di Napoli(Rome-Naples 15-18 Novembre 1995), Coll. Ec. Franc. de Rome, 251), Roma 1999, pp. 281-292; RM. Atsaxess ProcetL, [dentità e confini emico culturali: la Sicilia centro-orientale in Confini e frontiera nella grecità di Occidente. Atti del XXXVII Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 3-6 ottobre 1997), Napoli 1999, pp. 327-359. Di particolare interesse anche per i parallelismi e le diversificazioni fra contesti siciliani e magno greci, R.M. ALBANESE, V. inoltre i diversi contributi su specifiche realtà territoriali (di M. Tacuievre, M. Baza Bacsasco, E. De Jutns, G. F. La Torre, V. LA Rosa, E. Ds Mino etc) in Origine ed incontri οἷς. * Perla storia delle ricerche e degli studi sul Cocolonazzo e per la relativa bibliografia: M. C. Lew, Cocolonazzo di Mola in BTGC, V, Roma, 1987, pp. 368-372. * Per l'insediamento arcaico nel sito di Taormina: G. M. Bacci, Due antefisse arcaiche dal centro di Taormina in Damarato cit. pp. 52.53. % a) Sulle poche testimonianze archeologiche relative allirradiazione di Naxos, e in generale calcidese, sulla costa ionica e nell'entroterra: P. Petacarn, B. Storia dell ricerca archeologica, in Nasso (s. v. ), in BTCG XII, Pisa-Roma 1993, p. 286. b) Per i saggi presso il Capo S. Alessio: M. C. Lentit, S. Alessio Siculo: rinvenimenti archeologici nell'area antistante il Capo, in BCA Sicilia, III, 1982, p. 163. 7 a) Peril problema dell'identificazione di Callipolis una sintesi aggiornata con bibliografia completa nel 1986 in: G. Cauassa, Gallipoli di Sicilia, in BTCG VII, Pisa-Roma, 1989, pp. 544-548. Per le considerazioni di M. Frasca: M. Frasca, È anonima la città siculo-greca di Monte S. Mauro di Caltagirone? in PAP 1997 (dedicato ad un'interessante proposta di identificazione della subcolonia calcidese di “Euboia” con l'abitato greco di Monte S. Mauro di Caltagirone), p. 412, nota 28. Per il problema dell'identficazione di “Euboia” v. anche: G. Camassa, Eubea di Sicilia, in BTCG VII, Pisa-Roma, 1989, pp. 391-397. ? b) Relativamente ai sinora pochi materiali ceramici "di tipo greco" anteriori agli inizi del VI secolo a.C. dall'abitato di Francavilla di Sicilia, ricordiamo un piccolo gruppo di frammenti ceramici a decorazione geometrica di probabile fabbrica. coloniale databili nel corso del VII secolo a. C. rinvenuti in approfondimenti stratigrafici effettuati nello scavo S. 11 nel 1999 (Scavi Spigo) e, soprattutto nel 2000 (scavi M. C. Lentini). % a) PerT'elmo acquistato da Orsi a Mojo Alcantara, del quale è però incerta la provenienzav. da ultimo: P. G. Guzzo, Un elmo decorato da Mojo Alcantatara in Naxos a quarant'anni dall'inizio degli Scavi (ed. M. C. Lenis), Messina 1998 pp. 159-164 con bibliografia precedente. b)Per un cenno sull'insediamento presso Roccella Valdemone: M. C. Lexrna, Alcantara la Valle del ponte in Itinerari archeologici nella provincia di Messina : Taormina-Folie-Alcantara-Tindari estratto da Archeologia viva , 46(Luglio -agosto 1994) p.27. Ὁ Per le ricerche archeologiche nel territorio di Randazzo, nelle cde S. Anastasia ed Imbischi (dove sono state riprese le indagini della Soprintendenza ai Beni Culturalidi Catania) ed il problema di Tissa: G. E. Rizzo, Antichità greche dell'Etna, in MAL XVI, 1900, pp. 238 ss; B. Pct, Art e civiltà della Sicilia Antica I, Città di Castello, 1938, pp. 218, 334; Duxsantx, The Western Greek, Oxford, 1948, pp. 134-135; E. Manni, Geografia fisica e politica della Sicilia Antica, Roma 1981, pp. 236-237, con altra bibliografia; Seico, Recenti rinvenimenti numismaticici. pp. 205-206; Frasca, È anonima cit. p. 412, nota 28. τ Cir. Srico, Recenti rinvenimenti numismatici, ct., pp. 201-206. ! Per la ceramica dai depositi votivi del santuariov. ora in particolare: Seico, I pinakes di Francavilla di Sicilia. Parte Il cit. pp. 53-54 con alti riferimenti bibliografici 658

? Perla piccola kylix di scarto da 8 5: Srico-Rizzo, Ricerche cit. pp. 1055-1056; Srico, Ricerchea Francavilla in c. s. cit " Sno, Ricerche a Francavilla inc. s. cit tav. CAXI, 2 ! Shico, Nuovi contributi cit. pp. 277-291, Ioxu, Per un contributo allo studio della coroplastica arcaica di Naxos in Un'Aula tra Heidelberg e Naxos. Atti del Seminario di Studi. Giardini-Naxos 18-19 ottobre 1990. Arule di Sicilia e di Magna Grecia. Museo di Naxos. 18 ottobre-19 novembre 1990 (ed. M. C. Letina), Firenze, 1993, pp. 47.52 . Inoltre: J. Untensnock, Concerning Some Archaic Terracotta Protomi from Naxos in Xenia 18, 1989, pp. 9-26; M. Musuuci, Schede di tre protomi cit. A. Pavtasso, Terrecotte arcaiche e classiche del Museo Civico di Castello Ursino a Catania(Studi e materiali i Archeologia Greca 6), Palermo 1996, passim ™ Una menzione della statuetta xoaniforme in U. Serco, Ricerche a Monte S. Mauro di Caltagirone, Francavilla di Sicilia, Acireale, Adrano, Solarino in "Kokalos XXVI-XXVII, (1980-1981), (Atti del V Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia Antica), Π, 1, p. 778. #1 Perle considerazioni di Procelli e di Greco: Proce, Aspetti e problemi cit. pp. 287-288; Gasco, Siculi ed Enotr cit. pp. 287-288, V. anche: Inex, La città e il territorio in I Greci d'Occidente cit. pp. 233-234 dove viene acutamente rilevata la "capacità mimetica" delle comunità indigene. ® Riporto qui una scheda sui lineamenti geologici di Francavilla di Sicilia e del suo territorio fornitami dalla Prof. ssa Laura BonriGuiO, Direttore dell'Istituto di Scienze della Terra dell'Università di Messina, che ringrazio perla Sua cortesia. «L'abitato di Francavilla è ubicato in un'area pianeggiante, sommità di un piccolo terrazzo alla confluenza fra le Valli dell'Alcantarae delS. Paolo, circondato da rilievi molto acelivi, ubicati a nord (Chiappe di S. Venera), ad ovest (M. Cucco) e a sud (Collina del Castello) II terrazzo è costituito da arenarie arcosiche di colore grigio giallastro, in banchi di spessore variabile da decimetrici e metrici, alternati a strati decimetrici anglloso-marnosi. Localmente sono presenti conglomerati poligeni a struttura caotica, a ciottoli prevalentemente cristallini ed eterometrici. La formazione nota come Flysch di Capo d'Orlando, di età compresa fra l'Oligocene Superiore ed il Burdigaliano Inferiore, costituisce parte dell'antico basamento dell'Etna. 1l corpo del terrazzo è invece formato da lave appartenenti ad una delle fasi meno antiche dell'attività ctnea, nota come “ciclo del Mongibello recente”, datata ad un intervallo compreso fra 3000 e 5000 anni. Le colate di lava hanno parzialmente colmato l'antico corso, inciso nelle formazioni oligomioceniche originando alcune aree pianeggianti, quali il terrazzo di Francavilla. Sulla superficie delle lave il nuovo corso del fiume ha depositato sedimenti alluvionali recenti, rappresentati da limi, sabbie e ghiaie prima di erodere le stesse lave originando strette incisioni (gole), presenti lungo il corso del fiume Alcantara, anche a nord di Francavilla. Depositi colluviali provenienti dalle pendici di antichi rilievi sono interdigitati col depositi alluvionali nelle zone marginali del terrazzo. ve risultano spesso collocate sui depositi alluvionali recenti soprastanti alle lave» V. anche M. Tuscan in Banoxe-Seico-Tuiscant, Prima caratterizzazione cit. » Per l'Itinerario della ritirata di L. Cornificioe il commento al passo di Appiano innanzitutto: E. Gabba, Appiani Bellum Civile Liber V (commento di E. Gana), Firenze 1970, pp. 193 ss. Ricostruzione di Aiello: lungo la riva settentrionale dell'Alcantara, Gaggi, Francavilla, piana di Mojo, S. Domenica Vittoria, Roccella Valdemone, Pianoro dell Arcimusco-Montalbano Elicona e da qui alla costa (A. Atrzto, La spedizione di Ottavianoa Tauromenio e la via della ritirata di L. Cornificio, Catania 1896: A. Hotu, Storia della Sicilia III, 1896-1901, pp. 393-394, nota 42). V. anche: Pace, Arie e civiltà J, cit. pp. 308-309, nota I; S. N. Coxso.o Lancer, Documentazione numismatica e storia di Tyndaris in Helikon, 1965, p. 94, n. 104; G. Mancaxano, La provincia romana, in Storia della Sicilia (a cura di E. Gamma e G. VacceT) 1979, pp. 449-450; M. C. Leni, Alcantara cit. p. 23. Tpotesi alternativa di Pace: da Francavilla lungo la Valle del torrente Zavianni sino alla Portella Mandrazzi e di qui, attraverso Novara di Sicilia, a Barcellona (Pace, Arte e civili I, cit, 1958, pp. 308-309, nota 1) ® Per le due monete della zecca di Abacaenum: v. Cars supra pp. 186, 187, 189. Notiamo che la litra da 87, variante di tun tipo datato da Bertino al 440-430 a.C., proviene da un livello ( tg. 3 del Saggio 2/96) che ha restituito materiali ceramici relativi alla fase TI (in particolare due frr. di un coperchio di lekane siceliota a figure rosse decorato con teste femminili). 5 D. ADAMESTEANU,Su alcune viedi penetrazione siceliote, in Kokalos VIII 1962, p. 200. » Citazioni delle fonti letterarie che menzionano il Castello (T. Fazello ed A. Filoteto Amodei) in G. Racxo, Francavilla di Sicilia. Leggenda e storia, Reggio Calabria 1980, pp. 255-256. 7 Perla fase arcaica di S2: Srico-Ruzzo, Ricerche, it., pp. 1043-1044. Per la fase arcaica del santuario di via Don Nino Russotti e le sue deposizioni votive: Srico, I pinakes di Francavilla diSicilia, Parte I cit. pp. 3-5. DEN, 1 pinakes di Francavilla di Sicilia. Part II, it, pp. 53-54. Per coppe di tipo ionico vicine alla forma BI, diffuse sia a Naxos sia a Francavilla: Srico-Ruzzo, Ricerche, p. 1043. L'antefissa silenica di tipo A è stata recentemente rinvenuta nello strato di crollo all'interno della casa 5 (vano A) in S11: è stata probabilmente realizzata localmente, come attesta la tonalità rosso-viva della terracotta, diversa da quella abituale negli esemplari di Naxos. Per le antefisse sileniche di tipo A v. soprattutto: P. PELAGATTI, Antefisse sileniche siceliote, in Cronache IV, 1965, pp. 79-80; Eapex, Sacelli e nuovi materiali architettonici da Naxos, Monte δ. Mauro e Camarina, in Il tempio grecoin Sicilia: architettura e 659

culti. Ati della I riunione scientifica della Scuola di Perfezionamento in Archeologia Classica dell'Università di Catania, Siracusa, 24-27 novembre 1976, Cronache di Archeologia 17, 1978. Per affinità stilisiche fra protomi di Francavilla e di Naxos: J. Uuzexamocx, Concerning Some Archaic Terracotta cit. passim; U. Stico, Nuovi contributi cit pp. 278-287: U. Stico, Per un contributo cit. pp. 47-52. Ὧι Sull'impresa di Ippocrate almeno: TJ. Dusan, The Western Greeks.The History of Sicily and South Italy from the foun dation of the Greeks Colonies, Oxford 1948, pp. 379-384; G. Manpoti, Il VI e il V secolo a.C in Storia della Sicilia I, Napoli 1979, pp. 31-32; N. Lugacta, Tirannidi arcaiche in Sicilia e Magna Grecia. Da Panezio di Leontini alla caduta dei Dinomenidi (Fondazione Luigi Firpo. Centro Studi sul Pensiero Politico), Firenze 1994, pp. 116-150, con riferimenti aggiornati αἱ dati archeologici(per la conquista di Naxos: pp.147-148). ? S. Consoro-LancKER, Naxos nella colonizzazione calcidese e nella politica dinomenide e siracusana, in Siracusa e la Sicilia Greca tra età arcaica ed alto ellenismo, Messina 1996, pp. 441-442. Dubbi sull'attribuzione a Terone del nuovo impianto urbano di Naxos sono stati mossi da N.Luraghi che lo ascriverebbe piuttosto alla riedificazione da parte degli abitanti originari, rientrati successivamente alla caduta dei Dinomenidi, nel 461-460 a.C.: Luracta, Tirannidi arcaiche ci, pp. 345-346. Ma l'analisi dei dati archeologici conduce a convalidare la rifondazione ieroniana. Per riferimenti bibliografici cf. infra nota 64. ? Per il complesso quadro storicoe religioso espresso dai pinakes di Francavilla v.soprattutto le considerazioni di sintesi in Srico,I pinakes di Francavilla di Sicilia. Parte II ci, pp. 50-55. ? Per l'esegesi delle diverse figurazioni e i rapporti, e le differenze, col panorama cultuale espresso dai ^pinakes" locresi: pea, I pinakes di Francavilla di Sicilia. Pari e II. Per il rapporto stretto fra le figurazioni dei pinakes locresi c la sfera prenuziale e nuziale del culto di Persefone v. almeno M. Tors, culti di Locri, in Locri Epieefiri. Atti del XVI Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Locri-Taranto 1976), Napoli 1980, pp. 147-184 con puntuali riferimenti bibliografici in particolare agli studi ed alle interpretazioni della Zancani Montuoro; M. Τοκκιτι, I culti, in Storia della Calabria. Calabria Antica (a cura di S. Settis), Roma 1987, pp. 589-612. Per gli articolati rapporti fra pinakes locresi e pinakes di Francavilla Srrco, 1 pinakes di Francavilla di Sicilia Parte | e Parte I οι. ® G. Rizza, Intervento, in Gli Eubei in Occidente in Atti del XVIII Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 1979), 1978, p. 158. Di recente G.Manganaro ba ripreso da una diversa angolazione, le considerazioni di Rizza, riscontrando, attraverso la tipologia dei materiali votivi del santuario di Piazza S. Francesco, il passaggio da “un culto demetriaco meno specifico”, in età arcaica,ai caratteri riconducibili aculti tesmoforici, successivamente alla conquistadi Karane da parte di lerone: G. MANCANAxo, Mondo religioso e mondo greco indigeno in Il dinamismo della colonizzazione greca Espansione e colonizzazione greca di età arcaica: metodologie e problemi a confronto, Venezia 1995 (a cura di C. Axrowerm,, P. Levrous), Padova 1998, p. 75. Per la valenza politica della diffusione in Sicilia del culto demetriaco, e in particolare “tesmoforico” in età dinomenidica: x G. SrAMENI-GaseaRxo, Politica, religione e cult, in Lo stile severo in Sicilia. Dall'apogeo della tirannide alla prima democrazia, Palermo 1990, pp. 53-54, * Una posizione più critica nel collegamento fra diffusione dei culti demetriaci e volontà politica dei Dinomenidi è ora espressa da V. Hinz: V. Hiwz, Der Kult von Demeter und Kore auf Sizilien und in der Magna Graecia, Wiesbaden 1998. * Seco, 1 pinakes di Francavilla di Sicilia Parte I, cit. p. 10 con altri riferimenti bibliografici. 7 Shico, I pinakes di Francavilla di Sicilia Parte I, cit, pp. 39-47: tipi VII (scena di offerta: giovinetta con gallo e colomba e bambina con porcellino fra le braccia),VIII (peplophoros con fiaccola e kanoun con offerte), IX (rito presso una nave); Se1co, I pinakes di Francavilla di Sicilia Parte II, cit, p. 32, pp. 53-4, tipo XVII (Hades e Persefone con probabiloe fiaccola). % Togenui, I culti, in Storia della Calabria, cit, p. 610. V. ora Srico, I pinakes di Francavilla di Sicilia Parte II, pp. 51-53. » Nella politica religiosa dinomenide, più che nei semplici rapporti di amicizia Locri-Siracusa, è indicata una (pur se non esclusiva) della motivazioni della diffusione di tipi della coroplastica locrese-medmea in Sicilia nel secondo quarto del V secolo a.C: N. ALLEGRO, Le terrecotte citate, in Lo stile severo, cit, pp. 128-130. V. anche le citate considerazioni della Sfameni Gasparro: SraMEN! Gaspanzo, Politica, religione culi, cit, pp. 53-54. Da ul. timor. p. 52. * Sono fondatamente databili intorno al quinto decennio del V secolo a.C. i tip VIN, IX, XV/1: supra nota 35. ? M. C. Lewnni, Naxos: alcune case dellisolato C 4 (V secolo a.C.), in Xenia, 20, 1990, p. 19. Sul ritorno degli originari abi tanti a Naxos esiliati da Ierone: D. Asuesa, Rimpatrio di esuli ridistribuzione di terre nelle città siceliote, in φιλιασ yagw Miscellanea di Studi Classici in onoredi E. Manni, Roma 1979, pp. 158-159; Cossoro LancueR, Naxos nella colonizzazione calcidese, cit, pp. 442-443 Perla diversa posizione diN. Luraghi: supra nota 30. *% Siico, Recenti rinvenimenti numismatici ci. pp. 198-199; Cau, supra,p. 186. ^^ Il tipo XVII con le sole teste di profilo della coppia, dove Hades-Zeus Katachtonios è cinto da una corona di foglie di quercia, attributo che si addice anche all "epiklesis" di Eleutherios. Per lo sviluppo e la motivazione di questa proposta esegetica: Smico, I pinakes di Francavilla di Sicilia Parte II, cit, pp. 38-39, 53-54. Dal deposito votivo più recente del santuario provengono l'esemplare maggiormente conservato anchese con diverse lacune (inv. 85664) ed oltre una ventina di frammenti di diverse dimensioni alcuni dei quali probabilmente pertinenti ad uno stesso esemplare. © Sulle vicende storiche di Naxos nell'ultimo trentennio del V secolo a.C. e le relative fonti v. almeno: P. Rizzo, Naxos siceliota. Storia, topografia, avanzi monete, Catania 1894, pp. 49-57; Coxsoto Lanaiter, Naxos nella colonizzazione calcidese, cit., 660

pp. 444 ss; M. GiureiDa, Leontini, Catane e Naxos dalla II spedizione ateniese al 403 a.C., in filas carin, cit, IV, pp. 1137-1156; T. Conpano, A. Fonti letterarie, epigrafiche e numismatiche, s.v. Nasso, in BTCG XII, cit. pp. 266-267. ^^ Sulla distruzione di Naxos da parte di Dionisoil Vecchio v. almeno: Rizzo 1894; Coxsoto Laxcuter, Naxos nella colonizzazione calcidese cit, pp. 452-453; S. N. Coxsoto LaxcWe®, Andromaco e Tauromenio. Dalla indipendenza politica ed economica di età timoleontea alla sottomissione ad Agatocle, in Siracusa e la Sicilia greca, cit, p. 539. Per le vicende della marcia di Imilcone verso Catania v. almeno: Hous, Storia della Sicilia Antica, cit, IL pp. 250-251. ** Associazioni tenute presenti da M. A. Mastelloni a proposito dei contesti di ritrovamentodi due esemplari contromarcati della IV serie delle emissioni siracusane con testa di Atena ed ippocampo (classificazione della stessa studiosa) dai live di riempimento dell'area del santuario di via Don Nino Russotti: M.A, MastELLONI, Delfini e ippocampi, ct., pp. 52, 59-60 Clr. anche Cassi supra pp. 181-182. Sempre a proposito di monete della zecca siracusana da Francavilla, nei livelli relativi alla Fase ΠῚ, la Mastelloni considera anche come, a Francavilla, “altri cinque esemplari non contromarcati - della terza serie-risultano nettamente sopravviventi nella circolazione e dispersi nel corso della seconda metà del IV secolo a.C." ibidem, p. 60 nota 77. Perle schede dei singoli esemplari e per altre considerazioni: Cus, supra pp. 186-188. © M.A. MasteLLONI, Delfini ed ippocampi, ci. pp. 50-51. © Le più recenti ricerche hanno rivelato che in realtà Naxos “sopravvisse” alla distruzione dionigiana, pur sensibilmente ridotta nella sua estensione oltre che nel tenore di vita. Un breve accenno in M. C. LexmNI, Naxos, in ECO. Secondo Supple: mento 1971-1994, II, Roma 1995, p. 883. V. Eaprat, Testimonianze della prima metà del IVsecolo a.C. a Naxos, in La Sicilia Dei Due Dionisii (edd. N. Bonacasa, L. Braccesi, E. Dr Mino), Roma 2001, pp. 223-241. ^ Per la fondazione di Tauromenion e le sue vicende storiche nel IV secolo a.C., cfr. almeno: S. Coxsoto Lancus, Ando: maco e Tauromento, cit, pp. 537-574. Per le monete della zecca di Tauromenion da Francavillav. Cixat, supra pp. 188-190. * Infra, p. 737-738. ^ Cars, supra, pp. 181-183. 5. Carpe, supra, 181. ? Notizie preliminari in Srico-Ruzzo, Ricerche, cit., pp. 1055-1057; Sco, Ricerche a Francavilla di Sicilia e Capo d'Orlando * Smco-Ruzo, Ricerche, cit, pp. 1050-1055. Ad integrazione della prima presentazione dei materiali della necropoli vorremmo qui osservare che la brocchetta in bronzo recuperata purtroppo sporadicamente (Spico-Rizzo, Recenti ricerche, ci. p. 1054, tav. CVIII, 5) ci sembra, dopo un ulteriore esame, tipologicamente inseribile in una classe diffusa soprattutto in area etrusco-campana, fra la fine del VI e la metà del V secolo, il cui centro di produzione è ipotizzato da P. G. Guzzo in area vulcente-bisentina: P. G. Guzzo, Una classe di brocchette. di bronzo, in RAL CCCLXVII 1970-Serie VIII XXV, 1980, pp. 87-110. L'esemplare di Francavilla si aggiunge quindi all'altro di provenienza siciliana sinora noto da Monte Adranone, riconosciuto da Guzzo. > a) Per i resti e la stratigrafia del Santuario di via Don Nino Russotti: Srico, Ricerche a Monte S. Mauro di Caltagirone, Sicilia 1982, p. 151; Ioxx, Ricerche e rinvenimentia Brucoli cit., pp. 777-786; Ipex, Ricerche a Francavilla di Sicilia, in B.C.A. (clda Gisira), Valsoia (Lentini), nel territorio di Caltagirone, ad Adrano e Francavilla di Sicilia, in Kokalos XXX-XXXI 1984-1985 (Atti del VI Congresso Internazionale di Studi sulla Sicilia Antica), II, 2, pp. 891-892; Ipex, Francavilla di Sicilia, cit, pp. 484-487; Srico,pinakes di Francavilla di Sicilia Parte I pp. 2:8. b) Per la definizione di santuario "periferico": R. Love, Luoghi di culto extraurbani d'età arcaica in Magna Grecia, Torino 1998, p. 17; con riferimenti bibliografici. *X Chr. Srico-Ruzzo, Ricerche, cit, p. 1055. 5: Per questa tipologia planimetrica, diffusa soprattutto nell'architettura domestica ma documentata anche in edifici di culto o pubblici, sino all'età tardo-classica v. in particolare: C. Kaaust, Grundformen des griechischen Pastashauses, in Arch. Anz. 1977, fasc. 2, pp. 167-169. Per la Sicilia Greca in particolare: E. De Miro, La casa greca in Sicilia, in Ricerche sulla casa in Magna Grecia e in Sicilia - Κ᾿ Masio), Galatina (Lecce) 1996, pp. 23-25 con alti riferimenti bibliografici. ed. F. D'anpaa % Sco, Ricerche a Francavilla di Sicilia, cit., pp. 160-161, fig. 20; Smco, Francavilla di Sicilia "BTCG", p. 485; Smco, I pimakes di Francavilla di Sicilia Parte I, pp. 6-7. © Cixat, supra pp. 181-183. ** Srico-Ruzo, Ricerche, ci. pp. 1047-1048, tav. CVI, 1 Ad un edificio sacro tardo-arcalco sugli stessi lanchi del Castello poteva appartenere anche l'antefissa gorgoniCa frammentaria raccolta nella stessa area di S2: Srico-Rizzo, Ricerche, cit, 1993-1994, p. 1047 (dovesi ipotizza la sua pertinenza ad un edificio sacro), tav. CVIIL fig. 1 ? Dimensioni della "casa 5°. Prima fase: ambiente A: m. 8 (N-S) x m. 7,50 E-W). Seconda fase: Vano a: m. 6, x m. 3,5 Vanob: 6x2,5. ‘Alla prima fase apparterrebbe il vano adiacente a N l'ambiente A (ambiente B) del quale è stata evidenziata 49,sul margine nord «ovest dello scavo breve tratto del lato meridionale (con l'angolo sud-est) ^^ L'estensione delle ricerche nell'area nord-occidentale di S 11, curata da M.C.Lentini, non sembra aver offerto elementi a convalida di tale ipotesi. ἮΝ MC. Leva, Le ultime esplorazioni a Naxos (1983-1995) in Naxos a quarant'anni dall'inizio degli scavi, cit. pp. 89-90, Beg. 20-26 da p. 84 a p. 86 (un particolare del paramento esterno alla fig. 26). © Chr. supra p 733, p. 742 nota 28. 661

© V. anche Seco, Ricerche a Francavilla di Sicilia e Capo d'Orlando in pp. 476-477 cit 2) Perla “rifondazione” ieroniana dell'impianto urbano di Naxos ei suoi caratteri, individuata e definita dalle ricerche dagli studi di P. Pelagatt: P PeLacarm, L'attività della Soprintendenza alle antichità della Sicilia Orientale. Parte I, in Kokalos XXILXXIII, 1976-1977, p. 519, pp. 537-542; Eanta, Sacell e nuovi materiali, ct. pp. 44-47; Eaven, Naxos nel VIII e VII secolo a.C, in Insediamenti coloniali greci in Sicilia nell VII e VI secolo a.C. (Ati della 2 riunione scientifica della Scuola di perfezionamento in Archeologia Classica dell'Università di Catania. Siracusa, 24-26 novembre 1977). Cronache di Archeologia 117, 1978, p. 136; Eapsm, Naxos, in Storia della Sicilia, I, Napoli 1980, pp. 619-635; A. Di Vira Gara, L'urbanistica in Sikanie. Storia e civiltà dell Sicilia roca (ed. G. Pucuese CALRATELL), Milano 1985, p. 409; O. BetvepeRE, Himera, Naxos, Camarina, tre casi di urbanistica coloniale, Xenia, 14, 1987, pp. 5 ss. Int, L'urbanistica, in Lo stile severo in Sicilia, cit, pp. 63-65; LENTINI, Naxos: alcune case, ci. 1990, pp. 8-9; Lexrint, Nuove esplorazioni, ct., pp. 1002-1007; A. Di Vira Garà, Urbanistica dell città greche, in I Greci in Occidente, cit, pp. 296-297; P. Ῥειλόλττι, Dalle perlustrazioni di Paolo Orsi e Antonio Salinas alle ricerche recenti, in Naxos a quarant'anni, cit, pp. 51-53; M. C. Lex, Le ultime esplorazioni a Naxos (1983-1995) cit. ibidem, pp. 71-76, b) Per l'ampiezza delle arterie stradali: Lexi, Naxos: alcune case cit, p. 8; Lexnsa, Le ultime esplorazioni a Naxos, cit, pp. 72:76. ©) Per l'impiego del piede dorico nell'impianto urbano di Naxos nel V secolo a.C. . in particolare: P. Petacarn, L'attività della Soprintendenza, it., 1976; P. Peracatm, Sacellie nuovi materiali, p. 4, nota 9; ΒΕ νεῦσις, Himera, Naxos, Camarina, ci. 1987, pp. 8.9; Lm, Naxos: alcune case, ci, pp. 8-9; PrLAGATT, Dalle perlustrazioni, cit, p.52. Per l'utilizzo della stessa unità da misura n altre città siceiote (Himera Siracusa) rimandiamo ai riferimenti bibliografici in Lexi, Naxos: alcune case cit, p. 20, nota 11. © Dimensione del vano 1: m. ὃ (E-W) x 5 (N-S). Dei lati brevi è in luce solo quello orientale, conservato peraltro per un breve tratto dim. 1,50. © Éinteramente in luce il fronte dei tre vani, volto ἃ sud. © TH riutilizzo successivo di arterie viarie dell'impianto di V secolo a.C., con sensibile riduzione di ampiezza della sede stradale, si verifica anche a Naxos, nella ripresa abitativa di età ellenistica (I-II sec. a.C.) Lexrevs, Naxos: alcune case ci. p. 5; Lexma, Naxos, in ECO Secondo Supplemento, cit, p. 9. * ST è stato effettuato nella breve sopraclevazione di Piazza S. Francesco, nell'ambito di una stretta ed “obbligata” trincea d'emergenza in occasione di lavori del Comune di Francavilla (1995) per la rete idrica Ti muro a stato seguito per m. 5 verso nord, in direzione dei declivi del Castell. Gli sono ortogonali, sul lato orientale, due tratti di muri in direzione E-W il muro b ed il muro c (scoperto maggiormente, quest'ultimo, per la lunghezza di m. 3,50 verso est, forse appartenenti ad un successivo momento costruttivo (probabilmente nelal ripresa abitativa della fase IIT a delimitare uno stretto vano rettangolare (larghezza: cm. 2). Brevi spicchi di due vani adiacenti al primo sono stati individuati ai margini meridionale e settentrionale ella trincea di ‘Auspicandola possibilità di una futura campagna estensiva nella Piazza S. Francesco, riteniamo possibile che il muro A delimitasse il lato orientale di una casa (o meglio di un “blocco” di abitazioni lungo una strada (probabilmente uno stenopos la cui presenza non è stata possibile definire con certezza data l'angustia della trincea) © Per l'articolazione planimetrica delle case di Naxos v. LeNmnt, Naxos: alcune case, ct. (in particolare pp. 9-11); Eapzu, Il contesto di rinvenimento, cit. pp. 7-13; Eapem, Le ultime esplorazioni, ct, pp. 81-86; BELVEDERE, Aspetti della cultura abitativa ἃ Himera ea Naxos nel V sec. a.C.,in Naxos a quarant'anni dall'inizio degli scavi, ci, pp. 125-130, pp. 127-130. Per Himera: O. Βεινερεκε Tipologia e sviluppo delle abitazioni in Himera Il Campagne di scavo 1966-1973, Palermo 1976, pp. 577-594; Int, Aspetti della cultura abitativa cit. pp. 127-130. Per entrambe le cittàv. anche: Dr. Mio,La casa greca, ci. 1996, pp. 26 ss. con la possibilità di confronti, e di diversificazioni, con altri esempi di edilizia privata siceliota del V secolo a.C. a Gela ed Agrigento. 7 La larghezza dei muri perimetrali delle case 1, 2, 3 e 5 oscilla fra i m. 0,40 e im. 0,50 con un max. di 0,60 per il muro orientale (quello posteriore) della casa 1, la cui maggior ampiezza è legata alla finalità di meglio sostenere la “spinta” del soprastante terrazzamento. Più robusto il muro A della casa 4, della larghezza di m. 0,80. Per la congettura di un elevato in mattoni crudi nelle casedi Naxos: Lena, Naxos: alcune case, cit, 1990, pp. 11-12. Per Himera: Beivepene, Tipologia e struttura, cit, pp. 586-587. Per la prima illustrazione dello scavo condotto in S8 e della relativa situazione stratigrafica: Srico, Recenti rinvenimenti numismatici, ci pp. 198-208 e note 7, 8, 9 17, 18. ἘΠΕ diffuso sistema alla "siciliana" cra fra l'altro adottato anche nelle coeve abitazioni di Naxos: Lewrt, Naxos: alcune case, cit 1990, p. 12. * 1 frammenti d trave, che verranno sottoposti ad analisi sono stati recuperati nel settore meridionale del vano A. ? La vaschetta, cui bordi sono costituiti da frammenti di solenes posti di coltello - costituisce, in un certo senso la delimitazione del vano 1 ad ovest. Il fondo e i frammenti di pithoi sono concentrati nel settore meridionale dell'adiacente vano 2. 7^ In questo strato di trascinamento alluvionale sono stati recuperati diversi frammenti anche relativi livelli della Fase I sconvolta, fra cui quelli già citati di statuette itii e di una grande antefissa gorgonica. Nel settore ovest di S11 insiste anche un tratto di muro in direzione E (NE)-W (SW), piuttosto rovinato, forse apparte. nente alla ripresa abitativa della Fase III. δ Perla prima illustrazione dello scavo condotto i S8 e dell relativa situazione stratigrafica: Sco, Recenti rinvenimenti numismatici, ct, pp. 198-208 e note 7,8, 9, 17,1. Per il grande muro di S 5 e per resti di fornaci v. supra nota 53. 662

A proposito degli impianti artigianali di clda Fantarilli è opportuno un breve cenno alle al problema delle produzioni locali di ceramica e terrecotte figurate. Pare certo il collegamento ad una produzione di manufatti vascolari della fornace «di cui sopravvivono scarsi rest-presso il ato ovest del grande muro di "55°, documentata dallo scarto di una piccola lix integra ma fortemente deformato in cottua (Srico, Ricerche a Francavilla di Sicilia e Capo d'Orlando ci, p. 482 tav. CXXI,3) di un tipo, databile fra la seconda meta del Vie i primi decenni del V secolo a.C, presente in abbondanza fra i materiali votivi del santuario di via Don Nino Russotti oltre che assai diffuso soprattutto ni centri siceliot italioti nel raggio delle officine “calcidesi”, almeno una delle quali, di ce amica non figurata era quindi attiva nellanonimo centro dell Vall dell'Alcantara (v. supra not). La presenzadi "ateliers coroplastici ὃ invece mostrata concretamente dalla matrice di antefssa slenica di tipo B da S6 (vsupra nota ), così come quella utilizzata per il positivo dell'antefisa silenica d tipo A da S11, anch'essa probabilmente in argilla locale (v. supra p. 000). Un notevole apporto alla definizione dei caratteri della consistenza delle fabbriche locali ver. Τὰ dato dallo sviluppo e dall'approfondimento, con altre metodologie, di una prima fase di analisi isico-chimiche delle argille curate dal dr. Maurizio Triscari, dell'Istituto di Scienze della Terra dell'Università di Messina e dalla dssa Germana Barone del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Catania Le indagini sono state effettuate su una campionatura di materiali ceramici, per ora essenzialmente di frammenti di tegolee di vasi acromi da vari settori dell'abitato È quindi stato possibile individuare c distinguere tipologie e componenti d'impasto di ceramica di uso comune e di fattura grossolana la ui fabbricazione locale se non scontata è molto probabile anche per a natura geologica degli inerti vulcanici utilizzati. Per l'esposizione dei metodi e dei risultati delle analisi: G. Baroxe-M. Tuscunr in Prime caraterizzazioni di materiali ceramici cit. a nota. È superfluo osservare come l'ampliamento delle analisi dovrà anche essere esteso sia alla ceramica fine sia alla coropla stica votiva del santuario-dalle protomi ai pinakes- che per ampia maggioranza, salvo limitate eccezioni e qualche caso dub. bio, sono fondatamente attribuibili ad officine locali Sco, I pinakes di Francavilla di Sicilia Parte cit. pp. 8-10. * Spigo Rizzo, Recenti ricerche, cit, pp. 1040-1050 © V. supra, p.737. 7? Laxmi, Naxos: alcune case, it, p. 10. La definizione potrebbe addirsi anche al reinserimento, nell'impianto urbano, del prestigio architettonico dell'edificio che viene trasformato nella "casa 5 * Le conferme sono affidate, speriamo a breve termine, ll'individuazione dl reticolo stradale, del modulo degli isolati e della composizione degli spazi pubblici e privati e del rapporto fra gli stesi, dei criteri di lottizzazione e divisione della proprietà e di esempi completi dellarticolazione interna delle case oltre che alla definizione del collegamento urbanistico fra ‘questo settore dell'abitatoe quell distribuiti sulle pendici collinari (come in S2 ‘Risultati decisivi per la definizione del tessuto urbano si attendono da un'indagine estensiva e sistematica immediata» mente a nord di S6 — in un'area in parte in corso di esproprio ~ da parte dell'Assessorato Regionale ai Beni Culturali e Ambientli su proposta della Soprintendenza ai Beni Culturali ed Ambientali di Messina (proprio a seguito delle indagini in S6) ed in direzione del settecentesco Palazzo Cagnone — in area di proprietà del Comune — sino alla Piazza S. Francesco, dove ili vello del suolo inizia un graduale aumento di quota verso le pendici del Castello e dove, in $7, è stato messo in luce il breve tratto della "casa 4° sopradescritt. Cruciale per l'indagine c la comprensione dell'impianto urbano è anche, in sequenza, la vasta zona nord-occidentale, con notevole estensione in continuità di ‘erreni non ancora ingombra da costruzioni compresa fra la via Liguria a sud (per intenderci iniziando, grosso modo, a nord di S11 ed $8), la via Asiago ad est (insieme alla fascia di terreni ancora liberi a monte della stessa via, dal confine nord di S2 αἱ colle della Matrice), la via Russotti e sue continuazioni a nord, la via Regina Margherita ad ovest Tn questa zona, nuove porzioni dl tessuto urbano del V secolo a.C, con orientamento corrispondente a quella di S6, sono state individuate nel 2000 (saggi di M.C. Lentini e U. Spigo) in S, 12, n via Verga, presso via Liguri. hr. la planimetria aggiornata al 2000 in U.Srico, pinakes di Francavilla di cilia I, cit, p. 3, fg. 3. L'abitato potrebbe ancora distribuirsi nel sottosuolo dell'ampia fascia che, iniziando a SE di S6 si distende, ai piedi del è necessaria l'attuazionedi un proversante meridionale della collina del Castellon direzione delAlcantara: in questa zona a definire articolazione e densità a vasto respiro con una prima fase di prospezioni archeologiche mirate ‘gramma di indagine del contesto insediativo ai fini, in “primis”, della tutela eell'impostazione di successive campagne di scavo.

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GaBRIELLA Ticano UN'ARULA CON ZOOMACHIA DA MESSINA

N rilevante numero di arule restituite dagli scavi condotti in Magna Grecia e Sicilia giustifica la particolare attenzione da sempre rivolta a questo prodotto della coroplastica nell'ambito degli studi storico-artistici e archeologici dalla fine dell'ottocento a oggi Studiati principalmente per i temi figurati?, ma anche al centro di un serrato dibattito per i problemi connessi alla loro precipua funzione’, questi altarini solo di recente hanno formato oggetto di ricerche monografiche, che hanno cercato di definire, grazie alla raccolta completa dei materiali, anche frammentari e aniconici, caratteristiche tecniche, tipologiche e artistiche di alcuni centri di produzione*. Sebbene tali trattazioni segnino tappe importanti, anche per il tipo di approccio da esse inaugurato’, siamo ancora ben lontani dal possedere un quadro di insieme definito di questa produzione: ogni nuova, pur piccola acquisizione assume pertanto un certo rilievo per la migliore conoscenza di tali manufatti.

Ed è questo appunto lo scopo~ e la giustificazione - della presente nota. Lo studio dell'arula rinvenuta a Zancle - come si vedrà — offre infatti vari spunti di riflessione, e solleva in particolare il problema della circolazione di questi prodotti in area siceliota e magnogreca, ancora di recente riproposto* all'attenzione del mondo scientifico in relazione alla diffusione delle arule locresi”. L'arula (fig. 1) proviene da un settore dell'abitato arcaico di Zancle messo in luce, tra il 1990 e il 1993, nell’area dell'isolato Z di via Torino, in una zona prossima alla falce del porto*, nella quale, come gli scavi recenti hanno ribadito, la città antica si sviluppò fin dai primi decenni della sua fondazione?. Essa, come molti altri esemplari editi", fu rinvenuta nel crollo degli alzati di un ambiente che probabilmente costituiva il cortile di una abitazione. Ricomposto da più frammenti, il pezzo è lacunoso, sia sul lato anteriore che posteriore (fig. 2). La forma rientra nel tipo consueto a cassetta parallelepipeda, appena rastremata, su base rettangoare, con ampia cavità aperta sul fondo (figg. 4, 5).

Fig. 1.15. z, Arula.

Fig. 2. Is. z, Arula (dis. R. Burgio). 665

Fig. 3. Is. z, Arula, mappatura del degrado (dis. R. Burgio).

Fig. 4. Is. z, Arula, sezione logitudinale (dis. R. Burgio).

IL lato superiore liscio è orizzontale; i due lati brevi sono intaccati da ampi fori ovali (cm.14,6 x cm. 5), che servivano da sfiatatoi in fase di cottura, e poi da prese"! Di formato medio, la nostra arula può quindi essere classificata nel tipo A2 I di Locri, ed accostata ai tipi B1 — B2 della recente esemplificazione tipologica della Van Der Meijden ^.

L'osservazione delle pareti interne conferma che l'altarino, al pari di altri pezzi editi delle stesse dimensioni, è il risultato dell'assemblaggio di più lastre!‘ dalle pareti non troppo spesse, opportunamente saldate e rinforzate sul lato interno, specie in corrispondenza della sommità, con argilla fresca sulla quale sono rimasti impressi i segni della lavorazione. L'argilla, giallo-rosata in superficie, grigia al nucleo, contiene, ad una visione macroscopica, inclusi minerali bianchi o grigi minuti, finissime scaglie di mica e peculiari grani rossicci, visibili în frattura, che hanno provocato aloni5. Un denso ingobbio giallino (M8Y/3) fu steso per mascherare le impurità dell’impasto. La policromia originaria - di certo piuttosto vivace, a giudicare dai residui di colore ancora leggibili al momento del rinvenimento - è oggi sbiadita e quasi del tutto scomparsa. Rimane infatti traccia di una ornamentazione a brevi pennellate rosse oblique verso destra sulla cornice inferiore" e di colore bruno sul fondo del lato decorato ". La scena figurata, impressa a stampo, orna il solo lato lungo superstite" (fig. 1). Il tema scelto è tra i più comuni nella decorazione di questi manufatti: si tratta infatti di una zoomachia, che coglie il tragico momento dell'aggressione di un toro da parte di un felino, che, da quanto si conserva sulla lastra, può essere identificato con una pantera. La resa è plastica, malgrado l'esemplare derivi da matrice stanca, come indica la scarsa nitidezza di alcuni particolari, in altri esemplari meglio leggibili (si osservi la zampa, o la parte terminale della coda del felino). II rilievo è basso, con modellato morbido. Il felino, nel nostro esemplare purtroppo acefalo, è raffigurato di profilo mentre avvinghiato al toro lo azzanna sul dorso e, così come si ricostruisce dall'unico esemplare di Locri meglio conservato, para il colpo mortale che il bovino cerca di infliggergli, trattenendolo al suolo con una delle zampe posteriori, che doveva poggiare sull'unico corno convenzionalmente rappresentato, del quale resta solo l'attacco. Tipica della pantera è anche la coda lunga, ad andamento sinuoso, passante tra le gambe del felino, con l'ultimo tratto perfettamente orizzontale, diversamente da altre zoomachie *. II toro, di profilo, con corpo robusto e gambe sottili, è innaturalmente caduto sul ginocchio destro, secondo uno schema particolarmente caro all'arte arcaica ^. La testa massiccia, quasi gonfia nello spasimo, è schiacciata a terra con la bocca aperta?!. L'occhio è grande, sbarrato, rotondo. Ben evidente è l'orecchio destro, l'unico rappresentato.

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Fig. 5. Is. z, Arula, prospetto laterale e sezione trasversale (dis. R. Burgio).

Le pieghe del sottogola sono nel nostro caso poco marcate, a differenza di altri esempi, mentre le pastoie sono ‘appuntite’. La coda, lunga e sottile, è rigida ed ha un andamento perfettamente verticale. L'arula in esame rientra nel novero dei numerosissimi altarini domestici rinvenuti in Sicilia e Magna Grecia decorati con scena analoga, nei quali, com'è noto, le varianti possibili riguardano sia il felino rappresentato - ora una pantera, ora un leone, ora un leopardo -, che la composizione generale della scena ~ nella quale i protagonisti occupano tanto il lato destro che il sinistro -, che, ovviamente, la resa stilistica del prototipo - ora plastica, ora disegnativa, a seconda dei centri di produzione. In Sicilia esemplari di questo tipo sono stati rinvenuti in molti centri, sia della costa”, ivi compresa l'area punica? che dell'entroterra ", a conferma dell'ampia fortuna di questi oggetti d'uso corrente, prodotti nell'Isola”. In Magna Grecia numerose arule con questo tema sono state reperite a Locri?*, uno dei centri produttori più prolifici, i cui “altarini” furono sporadicamente diffusi sia in arce prossime (Medma”, Hipponion."), che in Sicilia”. Sempre in Magna Grecia, anche Caulonia ? e Metauro ebbero una propria produzione, ben caratterizzata nella scelta dei formati e dei temi, che godette di una sia pur limitata circolazione”. L'analisi puntuale dell'esemplare dall'isolato Z evidenzia però un preciso confronto con un'arula di Locri, l'unica, tra le repliche note di questo tipo, a conservare per intero la decorazione. Il confronto è stringente sotto vari aspetti. L'arula di Zancle ha dimensioni appena inferiori rispetto a quella di Locri (fig. 2). In entrambe si osservano cornici squadrate a listello aggettante, decorate a pennellate, ben diversamente dagli esempi siciliani, nei quali si rileva in genere un gusto più barocco nell'inquadramento della scena *.

Anche i grandi fori ovali dei lati brevi sono tipici degli altarini prodotti nel centro magno-greco,

¢, almeno alla luce di quanto edito, non si ritrovano in esemplari siciliani*. Per quanto riguarda la decorazione frontale, il confronto, suggerito dalla identità dello schema, trova conferma anche da un punto di vista stilistico nella resa delle figure che risaltano dalla superficie della lastra con un rilievo basso, dal modellato morbido. Che l'arula di Zancle possa derivare da ‘una matrice dello stesso prototipo e della medesima generazione dell'arula n. 17 del catalogo di Locri®, è confermato dalla perfetta coincidenza delle dimensioni degli animali raffigurati L'unico elemento iconografico differente è costituito da un taglio verticale nell'occhio del toro, 667

che compare nel solo esemplare di Locri; ma si tratta, con tutta evidenza, di un particolare realizzato a stecc: Tutto ciò fa ipotizzare che ci si trovi di fronte ad un pezzo importato da Locri, piuttosto che ad un prodotto locale di ispirazione locrese, benché la diffusione di prototipi locresi nella Sicilia orientale sia già stata segnalata in letteratura, ed interpretata come indizio di una circolazione di matrici, e fors'anche di artigiani”. L'ipotesi di un'importazione dell'arula da Locri si fonda anche su altre considerazioni, che, prescindendo dalla resa stilistica dell'altarino, riguardano aspetti più strettamente connessi alla fabbricazione del pezzo. Già ad una prima osservazione l'arula si distingueva dai materiali prodotti a Zancle, tutti caratterizzati da impasti rossi o rosati.

Le analisi chimico-fisiche condotte su un campione hanno peraltro confermato la confrontabilità del nostro pezzo con materiali di sicura produzione locrese?*. Larula dovette quindi esser fabbricata a Locri, e importata a Zancle intorno all'ultimo quarto del VI sec. a.C., come suggeriscono sia l'inquadramento stilistico, che i dati di scavo forniti dall'associazione del nostro altarino con vasellame databile entro la fine del VI sec. 2.C.. Resta dunque tuttora aperto il problema di una possibile produzione di arule nella Città dello Stretto, produzione ancora tutta da definire. Sottolineiamo infatti che l'unica arula edita è stata, con buoni argomenti, attribuita a Medma*, e che lo studio di pochi altri esemplari aniconici reperiti di recente è appena avviato‘. TI nostro altarino offre invece spunti interessanti per una ricostruzione più puntuale dei rapporti culturali e commerciali esistenti tra Zancle [ma diremmo più in generale l'area dello Stretto, includendo anche le isole Eolie^] ed il mondo magno-greco. Si tratta di un pur piccolo tassello, che getta comunque luce su un periodo (quello dell'ultimo venticinquennio del VI sec. a.C.) non a caso definito "...d'oro della transitabilita dello Stretto" *: in esso la città di Locri in particolare appare già ben proiettata verso la Sicilia, ancor prima che legami di tipo politico sanciscano l'alleanza con i tiranni di Siracusa. Quale sia la portata di questi rapporti ‘commerciali’ è difficile precisare allo stato attuale delle ricerche. La soluzione di tale problema dovrà necessariamente ancorarsi ad una ben più ampia ricerca che sintetizzi quanto lo studio analitico di più categorie di materiali potrà fornire 5. Tra queste l'arula di Via Torino troverà certo un'adeguata collocazione. NOTE ? La prima raccolta di arule siceliote, pur sempre nell'ambito di un'opera generale, si deve aR. Kexu’, Die Antichen Terracotten. II. Die Terracotten Von Sicilien, Berlin-Stuttgart 1884, pp. 46-49. Sempre utile, anche se superato il lavoro di E.D. Van Buren, Terracotta Arulae, in MemAmAc, Il (1918), pp.15-53. Vedi anche P. WuiLtevwter, Brile parfums en terrecuite, in MEFRA XLVI (1929), pp.43-76; E. Iastaow, Tonaltarchen aus den westgriechen Kolonien, in AA 1920, coll 102-104; H. Van DER Meupax, Terracotta arulae aus Sizilien und Unteritalien, Amsterdam 1993. In generale sugli aspetti artistici si rinvia a E. LancLorz-M. Hirer, L'arte della Magna Grecia, Roma 1968, pp. 34; 268-269; P. E. Annas, L'arte locrese nelle sue principali manifestazioni artigianali. Terrecotte, bronzi, vasi, arti minori, în Locri Epizefiri (Atti XVI Convegno Taranto 1976), pp.506-507; 576-577; G. Rizza, L'arcaismo maturo, in Sikanie, Storia e Civilta della Sicilia Greca, Milano 1985, pp. 207-208; A. CaLveRONE, Π mito greco e le arule siceliote di VI-V sec. a.C., in Le mythe Grec dans Italie antique. Fonction et image, Actes du colloque internatioal organisé par l'École francaise de Rome, Istituto italiano per gli studi filosofici (Naples) et l'UMR 126 du CNRS, Rome, 14-16 novembre 1996, C.E.F.R. 253, pp. 163-204. Per analisi esaurienti della produzione di alcuni centri, si vedano: O. BELVEDERE, Tipologia e analisi delle arule imeresi, in Quaderno ImereseII pp. 61-113; M. RUBbICK -V. OnuoLIA, Le arule a Locri Epizefri, in M. Bani Bacnasco (ed.), Locri Epizefiri III, Torino 1984, pp. 41-184 con ulteriori riferimenti; M.C. Lew, (ed.) Un'arula tra Heidelberg e Naxos (Atti del seminario di Studi, Giardini Naxos 18-19 ottobre 1989), Firenze 1993. # ED. Van Burex, Terracotta, cit, p. 16; E. LacLorz-M. Hinutet, L'arte, cit, p. 34. ? II significato e l'utilizzazione di questi altarini sono stati a lungo discussi. Sul problema, oggi in gran parte superato, vedi almeno P. Wunuevazs, Brule parfums, cit; T. Fiscirer Hansen, Some Sicilian Arulae and their significance, in AnalRom VIII (1977) pp. 7-18; D. Ricciorn,Le Terrecotte votive dell'Antiguarium Comunale di Roma. I. Le arule. Roma 1987, pp. 5-8; M. Rusraci, Arule con zoomachia, in M. Bara Bacwasco (ed.) Locri Epizefiri I, cit, pp. 57-58. 668

* In tal senso sono stati fondamentaligli studi condotti sui materiali di Imera e Locri già menzionati alla nota 1 * Va infatti sottolineato che, sia nel caso di Imera che in quello di Locri, ὃ stata data ampia documentazione anche degli esemplari non decorati. Vedi O. BeLvenERE, Tipologia, cit., pp. 68-86; V. Onicu1a, Arule con iconografie varie, in M. Baga Ba‘oxasco (ed), Locri Epizefri III, cit, pp. 168-169. * La presenza in Sicilia di arule di probabile provenienza magno-greca era già nota in letteratura, vedi O. BeLveDeRE, Tipologia, ci, pp. 87-91, e nota 97. ἘΜ. RUBINICH, Arule, cit, pp. 128-129; In. Le arule di Locri Epizefiri e i rapporti con le produzioni siceiote, in M. C. Lentixt (ed), Un'arula, cit, pp. 83-89. Per i dati di scavo, vedi G. Ticaxo, L'indagine archeologica nell'area dellis. Z di Via Torino, in Ὁ. M. Bacci -G. Ticaxo (edd.), Da Zancle a Messina. Un percorso archeologico attraverso gli scavi, Palermo 1999, vol. I, pp. 103-108. * Peri lembi di abitato riportati alla luce in questa zona già a partire dagli anni ‘70, vedi G. ScmonA, Punti fermi e problemi di topografia antica: Messina 1966-1986, in Lo stretto crocevia di cultura (Atti del XXVI Convegno di Studi sulla Magna Grecia) Taranto-Reggio Calabria 1986, pp. 448-453; In. Messina. La ricerca archeologica, in BTCG X, Pisa 1992, pp. 27-31, 35. Per i rinvenimenti recenti: G.M. Bacci-Srico, Attività della Sezione ai Beni Archeologici della Soprintendenza B.C.A. di Messina negli anni 1989-1993 in Kokalos 1993-1994, pp. 932-933. "© O. BeLvenes, Tipologia, cit. p. 109 e note 218-219. τὲ In generale sul significato e sulla funzione di questi fori: M. Rumacn-V. Onscu, Le arule, cit., pp.47-48 e note 56-57 (con ulteriore bibliografia); M. Rupinicu Le arule di Locri, ct, p. 83. Nelle arule siceliote fori ricorrono anche sul piano superiore: vedi P. OrtanDisI, Arule arcaiche a rilievo nel Museo Nazionale di Gela, in RM, vol 56, 1959, pp. 97, 99. 7? Per le forme e le iconografie delle arule di Locri: M. Ruzuca-V. Onsctis, Le rule, cit., p. 45 ss M. Rumucs, Arule, cit, pp. 70-71 5. H. Van Den Meuen, Terracotta arulae, cit, p. 4 ss. μι O. Betveoene, Tipologia, ci, p. 65; H. Vx Dex Meupex, Terracotta arulae, cit. p. 10; M. Rumi. OricLIa, Le arule, cit. p.45. In generale vedi anche D. Ricciorm, Le Terecotte votive, cit. pp. 5-8. ! Si tratta di ossido di ferro, già segnalato anche negli impasti utilizzati per la fabbricazione delle anfore da trasporto di produzione locrese; vedi in propositoM. Barra Bacwasco, Le anfore, in Ἕλος, Locri Epizefiri IV, Torino 1994,p. 209. ?* Per analoghe pennellate oblique verso destra, si veda l'arula n. 50 di Locri: M. Ruswwics, Arule, cit. p. 81; in generale, per questa decorazione, M. Rusmuc-V. Omi Le arul, cit, p49. τ Per la policromia: O. BeLveDERE, Tipologia, cit, pp. 86-87; per il diverso utilizzo della policromia nelle arule sicilianee magno-greche: M. Rusbick.V. OnicuA, Le arule, cit. e nota 67. "^ Del lato posteriore si conserva una porzione troppa piccola della lastra, perché possa escludersi che essa non fosse decorata, come pure si deve ipotizzare sulla base del confronto con gli esempi di Locri. 7 M. Rususaca, Arule, cit, pp. 55-57, con ulteriore bibliografia. Si veda, ad esempio, la resa della coda nei tipi A 2 IL A 2 VILA31 di Locri (ibi, pp. 73, 83,89), o su arule siceliote da Naxos (M. C. Lexis, Arle figurateda Naxos, in Exp. (ed.) Un'arula, cit, p. 41), da Paternò (C. Ciurcna, Arule con scene di z0omachia, in M. C. Lexroa (ed. Un'arula, cit., pp. 137-138), da Centuripe (E. Lxctorz-M. HramrR, L'arte, cil, pp. 268-269) ® Vedi ad es., nel campo della plastica frontonale, due lastre del fregio di Assos, o anche, nella produzione ceramica figurata: M. Τοῦτο, Ceramica < calcidese >. Nuovi documenti e problemi riproposti, in ASMG, Roma 1994, tav. Cl; A. CaLDERONE, Catalogo in Veder greco. Le necropoli di Agrigento, Roma 1988, p. 96, ? Per questo particolare si rinvia alle osservazioni di M. Ropixxcs, Arule, ci, p. 70 e nota 92. Analoga soluzione nell'arula di Paternò(C. Ciurcina, Arule ci. pp. 137-138). 7? Per Lipari, L. Βεκναβο' BREA-ML CavauirR, Meligunis Lipára I, Palermo 1965, p. 28, fig. 5.; per Imera: P. Marcona, Himeτα, 1931, p.110, fig.88 (Tempio della Vittoria); per Gela: P. ORLANDINY at. ci., tav.29, 4; R KexULE', op. ci, tav. 54, 2; H. Van Dra MeuiveN, Terracotta arulae, cit, p. 255 TK 37, tav. 35; per Selinunte: Ip, op cit, p. 259, TK 53, tav. 36; per Naxos: M. C. LexTN, art. cit, p.34; p. 41; pp. 107-110; per Agrigento: H. Vax Der MEUDEN, Terracotta arula, it., p. 256; per Eraclea Minoa: E. De Mino. Eraclea Minoa. Scavi eseguiti negli anni 1955-56-57, in NSc 1958, p.275 fig.46; per Megara Hyblaca: M. Rusinicu, Arule, cit. p. 1 nota 95, 5. H, Vax Den MeupeN, Terracotta arulae, cit. p. 261. » Per Caltagirone: P. Orsi, in MAL 20, 1910, col. 823, fig. 77; per Monte S. Mauro: H. Vix Der Muupex, Terracotta arulae, cit,p. 258 TK 49 tav. 42; per Centuripe: G. Rizza, Le ari figurate dalle origini al V secolo a.C., in Sikanie, cit, fig. 213; per Paternò! C. Ciurcina, Arule, cit, p. 137-138; per Vassallaggi: H. Vax Dex MeupeN, Terracotta arulae, cit, p. 256 TK39; per Monte Saraceno di Ravanusa: A. CALDEKONE, L'abitato, in AA.VV., Greci e indigeni nella Valle dell Imera, Messina, 1985, p. 113 n. 114 ep. 145 n. 217; per Ramacca: F. Messmu-E. PRoceLti, Ramacca (Catania). Esplorazione di una città greca sicula in contrada < Montagnola > e di un insediamento preistorico in contrada Torricela, in NSc 1971 pp.544-547, fig.11; per Monte Castellazzo di Poggioreale: A. Fresma, Un frammento di arula con lotta di animali, in Kokalos XXVIXXVII, 1980-81, pp. 948.952, fig.7 (con lettura incerta circa l’animale: toro o cervo). * Allo stato attuale gli unici centri che hanno offerto evidenza di una vera e propria produzione sono: Himera (O. Bstvzpene, Tipologia, cit. pp. 61-113 e in particolare pp. 62-63; Ip. Riflessioni sulle arule di Himera, in M.C. Lexi, (ed.), Un'arua, cit, pp. 65-69), Naxos (M.C. Lenna, (ed), Un'arula, ci. pp. 3-42), Megara Hyblaea (M. Rumnict, Le arule, cit, p. 89 e nota 22), Monte Saraceno di Ravanusa (E. De Miro, Le arule di Monte Saraceno in M.C. Lexmni (ed.), Un'arula, cit., p. 55), Gela e Agrigento (I. Aspetti della coroplastica locale, Le rule, în AA'VV., Monte Saraceno di Ravanusa. Un ventennio di ricerche e studi, Messina 1996, pp. 178-180). 7? M. Ruanaci, Arule cit, pp. 53-127, tavv. IX, X, XI, XII, XIII, XIV, XV, XVI. 669

7 R. Acosrino, Medma: il deposito votivo in contrada Calderazzo (saggi 1964-1966). Catalogo, in AANV. I Greci in Occidente. Santuari della Magna Grecia in Calabria, Napoli 1996, p.114 scheda 2/36 (produzione locrese) 7? M. Siuonert, Hipponion: il santuario in località Cofino. Catalogo. Ande (2.124), in AA.VV. I Greci in Occidente, cit, p. 154, ? M. Rumci, Arule cit pp.128-129 ; Fan, Le arule di Locri Epicefri ei rapporti, cit, pp. 83-89. » M. Βυπινῖση, Arule, cit. pp. 118-119, note 182-183; per altri esempi da Naxos, M.C. Lei, Arle figurate di Naxos, Calogo, in M. C. Lextin (ed), Un'arula, cit. pp. 111-114, 9 P. Orsi, Gioia Tauro (Metaurum). Scoperte varie, in NSc 1902, p. 129 fig. 3, n. 1. ® Questo almeno per Caulonia, e cui arule sono state rinvenute anche a Himera, Agrigento, Gela, Mozia (M. Rustici, rule, cit. pp. 118-119 e nota 183 con bibliografia completa) e Naxos (M.C. Lexni, cit, pp. 42-43. © M. Ruanuct, Arule, cit. p.71, n. 17, tav. XI, XXXVI. Per un altro esemplare di questa serie, vedi H. Vax Dem Meme, Terracotta arulae, ci. p. 256, tav. 37 (TK 41). % VediM. RusiICH, Le ardle, cit, 83. ® Vedi O. Betvevene, Tipologia, cit, pp. 85-86; figg. 19-20. * Vedi M. Runmacn, Arule,ci., p.71, tav. XLe XXXVI 7 Vedi M. Rusnaci, Le rule, ct. p.85; più in generale vedi anche V. Onictis, Arule, ci. pp. 183-184 e nota 240. 55 Peri risultati delle analisi condotte su frammenti di anfore da trasporto, vedi G. Baone, S. Iorroto, D. Marouno, P. Micuunno, S. Srioxoto, G. Ticaxo, Contributo delle analisi archeometriche allo studio delle ceramiche provenienti dagli scavi di Messina. Risultati preliminari, in G. M. Bacci, G. Ticano (edd.), Da Zancle a Messina, cit, vol. 1.2, c. d. s. Per le analisi su materiali locresi vedi anche R. E. Jours, Greek and Cypriot pottery, BSA, Occasional Paper I, 1986, pp.354-355, con ulteriore bibliografia ® Per il contesto ben databile, vedi G. Troano, L'indagine archeologica, cit p. 107. ^ U, Srroo, Nuovi contributi allo studio di forme e tipi dela coroplastica dell città greche della Sicilia ionica e della Calabria meridionale, in Lo Stretto crocevia di culture, ci, pp. 291 ss. ID, Arula con quadriga in corsa, in M.C. Lexa (ed. Un'arula, cit. pp. 141-142. Altri due altarinidall'Isolato 224, uno con zoomiachia (leone che azzanna cervo), l'altro con la parte posteriore di un cinghiale, sono menzionati da U. Srico (Nuovi contributi, it. p. 142), che li accosta a tipi locresi senza formulare ipotesi circa la fabbrica. Per l'età ellenistica, si veda il frammento pubblicato da G. Scions, Messina, Ritrovamenti archeologici in Via F. Faranda, in NSc 1969, pp. 204-205. ‘1 Frammenti inediti relativi ad arule non decorate si segnalano dai recenti scavi degl isolati S e 158 “Ὁ. Srico, Alcune considerazioni sull plastica arcaica e del V secolo a.C. dal «Bothros» di Eolo, in Meligunts Lipdra IX, parte Il pp. 415416. © È. Giupice, Vasi e frammenti "Bearzley"da Locri Epizefri, vol. I, Catania 1989, p.99 ^ M, Rostacn, Aru, ci. p. 129. Vedi anche M. Bua Bacwasco, Aspetti di vita quotidiana a Locri Epicefir, in M. Bara Bocxasco (d, Locri Epizefr TI, ct, pp. 34-35; V. Ontcia, Aral, it, pp. 183-184 ^* In generale, sul problema della presenza di coroplastica di produzione italiota, o da questa influenzata, vedi U. Srico, Nuovi contributi, cit, pp. 290-291; A. Pautasso, Terecotte arcaiche e classiche dal Museo Civico di Castello Ursino a Catania, Palermo 1996, pp. 135-136.

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‘Mario ToRELLI I CULTI DI IMERA TRA STORIA E ARCHEOLOGIA

Ad Ernesto De Miro va il grande merito di aver contribuito in maniera notevolissima alla conoscenza della Sicilia antica attraverso un‘infaticabile e accorta opera di studio, di scoperte e di organizzazione della cultura: sono perciò particolarmente lieto, anche in ricordo di un'antica amicizia cementatasi trent'anni or sono sul campo di scavo di Leptis Magna, di potermi unire ad altri amici nel festeggiare il suo settantesimo compleanno, offrendogli il gradito tributo di una piccola nota sull'archeologia della religione di Imera, riprendendo qualche spunto che anni addietro ho anticipato in forma assai cursoria in una guida archeologica della Sicilia pubblicata insieme a F. Coarelli L'opera di riscoperta di questa città?, tenacemente voluta da Achille Adriani e con altrettanta tenacia e fortuna proseguita da Nicola Bonacasa, ha avuto, fra i molti, il grande merito di offrire un preciso spaccato della religiosità ufficiale di una colonia greca, una realtà che assai spesso ci sfugge in parti essenziali o comunque ci è pervenuta quasi sempre sostanzialmente monca. E infatti la colonia occidentale meglio nota sul piano archeologico (coinvolta, al pari di Imera, nella distruzione per mano cartaginese del 409 a.C., ma a differenza di questa non interamente distrutta e dunque "congelata" sul piano religioso), Selinunte, mentre ci offre con dovizia di dettagli - ma non senza controversie - i dati dei templi urbani dell'acropoli e di quelli extraurbani della collina orientale, non ci ha restituito un quadro sufficientemente chiaro per i culti “politici” dell'agorà, appena da pochi anni localizzata, ma non compiutamente esplorata. I culti di Imera, invece, appaiono virtualmente concentrati in un'unica area sacra, la quale, per collocazione all'estremità NE dell'altopiano ove sorse la città, per l'enfasi topografica e urbanistica e per la presenza di un imponente complesso di culti al suo interno, può essere considerata come l'acropoli della colonia; inoltre se contiamo che il santuario risulta adiacente ad un largo spiazzo esplorato in estensione, da Bonacasa correttamente identificato come l'agorà della polis‘, dalla quale solo tardivamente, agli inizi del V sec. a.C. (in circostanze di cui diremo più avanti), è stato separato grazie alla grande stoà ovest, possiamo concludere che il quadro dei culti urbani più importanti e prestigiosi della città, tradizionalmente localizzati nell'acropoli e nell'agorà, ci è sostanzialmente noto. In questo senso, l'esplorazione estensiva del santuario, pur senza essere stata totale, certo è stata amplissima e tale da darci un quadro sufficientemente ampio delle strutture sacre presenti al suo interno, un dato che gran parte delle altre città coloniali dell'Occidente non ci ha trasmesso con eguale chiarezza e soprattutto in seguito a scavi moderni e adeguatamente pubblicati. Per tutti questi motivi, il caso del santuario dell'acropoli di Imera assume un'importanza notevolissima, dal momento che da esso è forse possibile trarre una serie di indicazioni sulla storia politico-religiosa di Imera in età arcaica e classica, bruscamente interrotta dalla conquista cartaginese del 409 a.C. e sull'immagine che di sé la polis ha voluto dare attraverso i propri culti più “politici”, dei quali è evidente il ruolo di centro spirituale, di presidio sacro della collettività e di sede delle memorie più preziose ed auguste della città. Una esaustiva analisi dei dati archeologici relativi ai culti imeresi, condotta abbastanza di recente da N. Bonacasa*, ha fatto il punto sulla documentazione nota, da cui si può partire per tentare alcune considerazioni su quella realtà cultuale. Nel santuario “di acropoli” di Imera (fig. 1), racchiusi da un unico temenos, sono stati scoperti quattro templi, che tuttavia si riducono a tre, dal momento che due di essi, il tempio A e il tempio B, di cui diremo fra breve, costituiscono due fasi edilizie, cro nologicamente l'una successiva all'altra, di un unico edificio. L'attribuzione più certa è quella del tempio D*, un sacello ad oikos di m 13,75 x 6,55, che in base alla cronologia del materiale votivo deposto con le fondazioni dell'edificio, è stato datato agli anni 530-20 a.C.”; il tempio è sorto vicino al en

lato meridionale del temenos, il cui muro, eretto in epoca anteriore alla costruzione del tempio”, letteralmente lo sfiora ed ha avuto due contrafforti eliminati dalle fondazioni del tempio: due iscrizioni vascolari dal deposito votivo, una metrica sul piede di una coppa”, ed un'altra sull'ansa di un kantharos", entrambe contenenti il nome della divinità di pertinenza, ci informano infatti che il tempio era dedicato ad Atena, fatto questo confermato dalla scoperta nell'area del tempio di statuette della dea in atteggiamento di promachos"', Queste scoperte tuttavia rendono assai meno certa l'attribuzione alla stessa dea proposta dagli scavatori ! anche per un altro edificio sacro collocato al centro del santuario, il tempio A con il suo successore B, il quale per la sua relativa antichità e per la tipologia dei doni votivi ad esso pertinenti, ha tutte le caratteristiche di tempio di carattere poliadico.

1 dati relativi alla cronologia e alle fasi di questo tempio sono relativamente pochi: in questa sede degli scavatori. In una prima fase, che coincide latamente con la fondazione della colonia" e il 570-60 a.C., il culto, cui si riferiscono i numerosi ex-voto recuperati racchiusi dalle fondazioni del tempio A, deve essersi svolto sub divo, incentrato su di una massiccia base in forma di dado, sulla cui sommità è praticato un regolarissimo cavo circolare a fondo piatto e dalle pareti rastremate per costituire alloggiamento di un oggetto posato sulla base“: a questa fase si potrebbe forse attribuire la fase più antica dell'altare monumentale in asse con i successivi templi A e B e riconoscibile nel piccolo rettangolo contenuto nel quadrante SO di quest'ultimo altare*, anche se gli scavatori fanno mostra di pensare piuttosto ad un altare provvisorio da ricercare nelle immediate vicinanze della base. N, Bonacasa" ha proposto di riconoscere nel dado la base di un betilo, di una trapeza o di un altare, mentre N. Allegro ha suggerito di invertire il rapporto cronologico tra tempio A e base, di fatto togliendo a quest'ultima il particolare significato cultuale che essa avrebbe, secondo l'ipotesi di Bonacasa, per la fase più arcaica della vita del santuario. Come vedremo fra breve, la proposta di identificazione a mio avviso più verosimile fra tutte quelle avanzate, che vuole riconoscere nel dado una base per un betilo della consueta forma cilindrica, trova un conforto nella possibile attribuzione del culto ad una ben precisa divinità. Dopo una vita durata all'incirca un mezzo secolo, intorno al 570-60 a.C. il betilo cessava di funzionare come agalma di un culto ipetrale c a stretto contatto del lato orientale della base venivano tracciate le fondazioni di un primo edificio sacro, il tempio A, un edificio ad oikos di m 15,75 x 6,04 con adyton quasi quadrato, al centro del quale si è rinvenuta una lastra di calcare da interpretare come la base della statua di culto li posta in evidente sostituzione della primitiva immagine betilica: quest'ultima, secondo la già ricordata ipotesi di N. Allegro" (ipotesi in sé ben possibile, se non addirittura probabile, viste le precauzioni “magiche” seguite nella sostituzione), avrebbe in origine occupato questo posto e sarebbe stata spostata là dove è stata rinvenuta in occasione dell'inaugurazione della nuova statua di culto. La cronologia di questo intervento è assicurata dai materiali più tardi del deposito votivo pertinente alla fase più antica e sistemato per evidenti ragioni rituali come riempimento all'interno del perimetro del nuovo edificio: come afferma lo stesso Bonacasa, "il suolo del pronaos e del sekos, soprattutto in prossimità dei muri, era cosparso di svariate decine e decine di vasetti di ogni tipo e di un ingente numero di frammenti ceramici, oltre che di alcune armi di ferro e di bronzo e di qualche oggetto votivo di squisita fattura eseguito in oro, in bronzo, in osso ed in faience". La cronologia di questo riempimento”, che comprendeva ceramiche greco-orientali importate o di imitazione (essenzialmente coppe ioniche di tipo A2 e bucchero ionico) e ceramiche corinzie che vanno dal protocorinzio tardo al corinzio medio II, si basa come è ovvio sulla datazione attribuibile agli oggetti più recenti, piuttosto pochi in verità, essenzialmente un korhon della fine del corinzio medio II? ed un alabastron greco-orientale configurato a testa elmata ?. La cronologia della chiusura del deposito appare confermata dalla data (570-60 a.C.) attribuibile ad una placchetta aurea con figura di Gorgone in corsa”, che era stata deposta esattamente al di sotto della lastra di calcare al centro del sekos e base della nuova statua di culto con l'evidente scopo di costituire talismano ed apotropaion per la nuova opera. Il tempio A, a quanto pare non decorato da terrecotte architettoniche, deve essere vissuto poco più di una generazione, poiché ad un trentennio successivo (circa 530 a.C.) viene datato dagli scavatori il suo rifacimento definito come tempio B, un altro edificio ad per ragioni di chiarezza ne riprenderò la sostanza, discostandomi tuttavia in parte dalle valutazioni

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οἶκος tripartito preceduto da una rampa sulla fronte orientale e munito di pronao, naós e adyton (m 30,70 x 10,60). Sullo stesso asse del tempio, ma ad una certa distanza ad E, sorge un altare monumentale”, collocato visibilmente in asse con il tempio A e con il suo rifacimento B, ma anche in relazione all'altro tempio C posto a poca distanza a N; l'altare è l'unico di tutto il santuario (ciò che contribuisce ulteriormente a conferire al tempio il carattere di culto più augusto dell'intero santuario) e in esso si ravvisano due fasi, una più antica che abbiamo poc'anzi visto coincidere con un piccolo rettangolo racchiuso dall'altare più recente presso l'angolo SO, ed una più tarda, datata dagli scavatori come sincronica alla costruzione del tempio C*. I dati finora resi noti in relazione alla cronologia del tempio B si presentano in certa misura contraddittori e consentono anche una diversa interpretazione. N. Allegro, autore delle ultime esplorazioni ad Imera, nella sua più recente sintesi sul santuario parla" di una data dell'inizio dei lavori di costruzione del tempio B, che, fissata "intorno alla metà del VI sec.a.C. sulla base dei materiali votivi più recenti sepolti insieme alle rovine del tempio A”, precederebbe “di qualche decennio la costruzione della stoà sul lato ovest”, mentre i lavori di completamento del tempio non sarebbero avvenuti “di getto”, ma si sarebbero protratti “per un certo tempo”, con pentimenti in corso d'opera e mutamenti di progetto, per essere conclusi “nel decennio 540-30 a.C.”, in sincronia o poco prima della costruzione di un altro edificio sacro più a N, il tempio C, dalla fronte allineata con il tempio B. D'altro canto la medesima datazione ci offrono le terrecotte architettoniche del tempio B, che si riferiscono a due diverse fasi, la prima, relativa sia alle fronti che ai lati e datata dal Bonacasa? al terzo venticinquennio del VI sec.a.C., e la seconda, decorante le sole fronti, la cui cronologia, sempre secondo il Bonacasa®, può collocarsi tra gli ultimi anni del VI e il primo venticinquennio del V sec.a.C.: alla prima fase del rivestimento si riferisce cer‘tamente una serie completa di terrecotte figurate, ossia lastre di decorazione di metope con gli athla di Eracle? e frontoni con gorgoneia 5, mentre alla seconda fase corrisponde una nuova decorazione frontonale nella quale, oltre ad alcune zoomachie, era una possibile gigantomachia *; restauri ed aggiunte di acroteri con Nikai * sono infine documentati per l'ultimo quarto del V sec.a.C. L'ultimo edificio è un altro oikos con adyton di m 14,30 x 7,15, posto sul lato N del temenos con la fronte allineata a quella del tempio B e noto come tempio C. La cronologia dell'edificio, fissata dal Bonacasa * “ai primi decenni del V sec.a.C.", ancorché messa in dubbio da N. Allegro», appare a mio avviso confermata dalla datazione più probabile delle antefisse nimbate di tipo campano con gorgoneion già severo, sostituite nel corso del V sec. a.C., forse verso la metà, da altre antefisse di ugual tipo campano, ma ornate da palmetta pendula”. Anche su questo tempio non abbiamo dati epigrafici diretti che ci possano orientare sulla divinità intestataria del culto. Possiamo a questo punto riepilogare i dati in nostro possesso per tentare una sia pur ipotetica attribuzione dei templi del grande santuario poliadico imerese ad altrettante divinità. Anche se terrecotte con la figura di Athena promachos provengono da più luoghi del santuario, non c'è dubbio che, come abbiamo visto, ad Atena si può attribuire il tempio D, per la presenza di più di un documento epigrafico e di statuette della dea; sempre come si è detto, appare difficile attribuire alla stessa divinità un secondo luogo di culto, quello costituito dalla sequenza betilo-tempio A-tempio B, anche se, secondo quanto ci insegna l'esempio augusto e notissimo dell'acropoli di Atene, dove il culto di Atena Polias era affiancato da altrettanti templi, recinti o sacelli dedicati ad Atena Ergane, Atena Hygieia e Atena Nike, è sempre possibile che il culto della dea poliouchos potesse disporre di più di un tempio. La cosa potrebbe apparire tanto più probabile se ci volgiamo ad un noto luogo di Diodoro (che in questo passo riflette certamente Eforo), anche se il contesto topografico, e non solo quello cronologico della fonte si riferisce palesemente non alla città distrutta nel 409 a.C., bensì alla fondazione cartaginese di Thermai; Diodoro così si esprime: λαχεῖν ἑκάστην αὐτῶν (scil. dea) χώραν, τὴν μὲν ᾿Αθηνᾶν ἐν τοῖς περὶ τὸν Ἱμέραν, μέρεσιν, ἐν οἷς τὰς μὲν Νύμφας χαριζομένας ᾿Αθηνᾷ τάς τῶν

Θερμῶν ὑδάτων ἀνεῖναι πηγὰς κατὰ τὴν Ἡρακλέους παρουσίαν, τοὺς δ᾽ ἐγχρίους πόλιν αὐτῇ καθιερῶσαι καὶ χώραν τὴν ὀνομαζομένην μέχοι τοῦ νῦν ᾿Αθήναιον. Tuttavia la testimonianza della forma più arcaica del culto, e cioè il più volte ricordato dado basamentale, se, come sono incline a credere, va messa in rapporto con un betilo, difficilmente può mettersi in rapporto con il culto di Atena. Agalmata betilici sono infatti esplicitamente attestati nel mondo greco per Apollo e per Artemide, ma 674

non per Atena: purtuttavia, la bella statuetta bronzea di una dea promachos databile al 600-590 come immagine della titolare del culto una dea armata. A questa preziosa testimonianza si aggiungono altri elementi provenienti dallo stesso deposito votivo, una immagine molto consunta di dea seduta su trono e munita di polos * non particolarmente congruente con la tradizione iconografica di Atena, mentre altri doni votivi, come scudi^ e lance? in miniatura e armi*, ne confermano il carattere guerriero. Altri ex-voto mettono ancor più in forse un'identificazione della dea titolare del più importante culto del santuario dell'acropoli di Imera con Atena: penso qui alla singolare faience egittizzante che raffigura un orientale prono in atto di fare un anasyrma ^, da interpretare senza dubbio come immagine di uno hierodoulos simbolicamente ceduto al tempio per un servitium, immagine che trova stretti confronti con un esemplare virtualmente identico trovato nel santuario di Aphaia di Egina* e con una faience da Gravisca “, raffigurante una ierodula impegnata nell'identico anasyrma. La risposta a tutte le aporie finora elencate può venirci solo evocando un'altra divinità guerriera, alla quale competono doni votivi come quelli finora elencati, e questa è Afrodite. Si tratta dell'arcaica Afrodite armata di indubbia ascendenza fenicio-cipriota", come quella venuta in luce appunto a Gravisca, ma ben nota anche da altre testimonianze di culto assai antiche: basterà qui ricordare le attestazioni di Citera, dove il santuario di Afrodite armata, dalla epiclesi di Οὐρανία, è considerato da una tradizione assai antica nota ad Erodoto * come una fondazione fenicia, di Corinto, la cui ierodulia, universalmente conosciuta e sopravvissuta fino all'età romana”, era oggetto di attenzioni speciali, o di Sparta", dove è stata recuperata anche un'altra statuetta bronzea della dea promachos®, dopo quelle di Gravisca e (se è corretta la mia ipotesi) di Imera, e dove di recente M. Osanna? ha riconosciuto una serie di dediche all'Afrodite Areia dell'acropoli con l'epiclesi di Βασιλίς, un'epiclesi nota a Satyrion porto della colonia laconica di Taranto e di fatto identica alla Afrodite pávaooa di Cipro”. L'ipotesi che nella divinità del tempio principale dell'acropoli di Imera ci si trovi difronte ad un'Afrodite ἔγχειος o ὠπλισμένη di origine fenicio-cipriota può effettivamente spiegare tutte le caratteristiche del culto documentate dalle scoperte archeologiche, ivi comprese le apparenti aporie che abbiamo notato cercando di collegare il tempio con Atena: ciò spiega sia la più antica forma betilica del culto“, perfettamente normale sia in Fenicia che a Cipro (dove è ben documentata nelle immagini monetali fino alla piena età romana) *, che la presenza di ex-voto come la faience raffigurante uno hierodoulos impegnato in un anasyrma spiegabile solo con le pratiche di prostituzione sacra sia maschile che femminile legate con il culto di origine cipriota”? e in generale con tradizioni orientali. Tradizioni ed usanze religiose di area siro-fenicia in età orientalizzante vanno ad aderire a culti di lontanissima ascendenza minoica, come quello di Aphaia ad Egina, tutt'altro che casualmente poi identificata in termini iconografici ad Atena, ma la cui natura cultuale, sentita affine alla cretese Diktynna®, è di certo quella di una tipica *Hóhengóttin" minoico-micenea ἢ, tutt'altra dalla "Palastgóttin" Atena: in epoca storica, l'essere un grande santuario di una polis mercantile come Egi na ne ha sviluppato squisite vocazioni emporiche®, divenendo non certo per caso luogo per la dedi ca di una faience identica a quella di Imera e il cui significato di dono "speciale" appare indubbio. La grande enfasi, che un santuario di Afrodite - e in particolare di un'Afrodite di squisita marca fenicio-cipriota - ha nel contesto poliadico imerese, richiede più di una parola di commento. Non οὐ dubbio che una motivazione speciale per l'accoglimento di questo culto nella colonia mista calcidese-siracusana sia da ricercare nella sua collocazione all'estremo ovest sulla costa settentrionale della Sicilia, dove un polo di straordinaria attrazione, religiosa, politica e mercantile era esercitato dal grande santuario di Erice", fondazione fenicia nel cuore dell'importantissimo distretto elimo e sulle rotte del Mediterraneo centrale, nelle quali la colonia di Imera intendeva inserirsi e dove a.C.”, scoperta fra i materiali votivi più arcaici trovati nel riempimento del tempio A, ripropone

di fatto finì per inserirsi, come mostrano da un lato l'adozione di un comune piede ponderale “mi.

croasiatico" da parte di Imera, Zancle, Nasso, dell'Etruria e, più tardi, della stessa Cartagine© e dal-

l'altro l'ingresso nella cultura imerese di fatti culturali tirrenici assai specifici, come le terrecotte ar105, la grande diffusione del culto dell’Afrodite cipriota da parte dei mercanti e naviganti greci nel

chitettoniche di tipo campano del tempio C, di cui si è detto poc'anzi. Come ho fatto notare in passa-

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Mediterraneo, da Naucrati a Gravisca, è frutto di accorte scelte di mimesi culturale (e politica), che facevano presentare codesti emporoi presso le popolazioni interessate allo scambio sotto vesti analoghe a quelle dei grandi dominatori del mercato mediterraneo nei primi due secoli del I millennio a.C., i Fenici. Nulla di strano perciò che Calcidesi e Siracusani si siano messi sotto la protezione di una dea la cui connotazione fenicia era evidente e dalla quale ci si attendeva un prezioso supporto, come dea posta a presidio della nuova polis, nell'opera difficile di fondazione e rafforzamento di una colonia così dichiaratamente proiettata verso zone sotto secolare controllo fenicio prima e punico poi. E che Afrodite facesse parte del novero delle grandi divinità imeresi è attestato da un'iscrizione di Thermai* e dalle monete della stessa città, nelle quali la dea compare per cosi dire "aggiornata" secondo la più tradizionale iconografia classica di dea panneggiata . Ma se questa può essere stata una motivazione dettata da contingenze di natura politica proprie di ogni operazione di natura coloniale, la scelta di onorare Afrodite come degna di un luogo eminente sull'acropoli della nuova città nasceva anche da un'altra situazione. La dea in realtà apparteneva al livello più profondo della cultura religiosa dei fondatori di Imera e non era un'Afrodite qualunque, bensì proprio un'Afredite ἐπόπλιος, come quella raffigurata dal bel bronzetto scoperto nei riempimenti del tempio A. I fortunati scavi di P. Pelagatti** a Naxos hanno messo in luce due aree sacre, una urbana ed una extraurbana, ambedue con templi dedicati ad Afrodite. L'area sacra urbana, racchiusa da un ampio femenos e collocata in posizione strutturalmente analoga al santuario imerese (în funzione cioè di acropoli urbica), conteneva due templi ed è stata identificata con buoni argomenti con l'Aphrodision ricordato in connessione con eventi della campagna di Ottaviano contro Sesto Pompeo nel 36 a.C. da Appiano” e da Zenobio il quale lo definisce come ἐπιθαλάσσιος come in effetti è il temenos in questione: gli ex-voto ben si attagliano alla stessa versione dell'Afrodite di Imera, dal momento che comprendono statuette di divinità seduta in trono con colomba o con melograno e soprattutto armi‘. Ma nell'altra area sacra extraurbana, la c.d. Area Sacra II, dove sono documentati anche altri culti con ben tre sacelli attorno ad un altare monumentale” l'attestazione del culto della dea armata non è frutto di congetture, anche se fondate, come è il caso dell'altro santuario, ma è documentato in maniera inequivocabile da un cippo marmoreo iscritto della fine del VII sec.a.C., assai dottamente commentato da M. Guarducci”, che riporta la seguente dedica: Aveagols]

hégos

"Evivo[i] Si tratta di una dedica alla paredra di Enyalios, Enyò, divinità armata, che appare marginale nel pantheon classico, ma che è di origini micenee e di sicura rilevanza all'epoca dell'alto arcaismo". La dea, nota dai poemi omerici, dove figura non a caso menzionata accanto ad Atena”, con la quale finirà per essere iconogralicamente confusa *, conosce ancora una significativa attestazione classica ad Atene con la statua di Cefisodoto e Timarco figli del più celebre Prassitele, collocata assieme ad altre statue di Afrodite e di Atena nel tempio di Ares trapiantato in età augustea nell'agorà, dove figura chiaramente per la sua ascendenza "orientale" e “troiana””: di tale origine ancora a quell'epoca, grazie alla grande antiquaria ellenistica, in qualche modo si conservava memoria, come mostra l'iconografia dell'Afrodite del fregio del Grande Altare di Pergamo, armata di spada, scudo e lancia”. L'aver attestato a Nasso, forse in posizione centrale, questo culto così arcaico di una dea guerriera altra da Atena ed assimilata ad Afrodite è in qualche modo fondamentale per capire l'emergere della stessa divinità ad Imera, per origini e storia al pari di tutte le altre colonie calcidesi di Sicilia legata a Nasso, prima fondazione dello stesso ceppo sul suolo siceliota: il fatto che Imera avvii la sua monetazione in argento nel terzo quarto del VI sec. a.C. (se ne noterà il sincronismo con la nascita del sontuoso tempio B) contemporaneamente e sullo stesso piede non solo della madrepatria Zancle, ma anche della “protocolonia” calcidese Naxos” sta a dimostrare che tra queste tre città esisteva una solidarietà politica ed economica, il cui riflesso a livello ideologico riaffiora anche nella comu676

nanza - almeno tra Naxos ed Imera (della religione arcaica di Zancle poco o nulla sappiamo) - di questo arcaico culto di Enyò-Afrodite armata orientale; e tale solidarietà ci appare tanto più significativa dal momento che, come abbiamo visto, la scelta di porre tanta enfasi su questa antichissima dea nella fondazione imerese aveva anche l'altro pregio di porsi come elemento centrale di solidarietà e di rapporti culturali e mercantili con le popolazioni vicine, sicane, ma in primis elime e fenicie, così legate ad una Afrodite dalle medesime caratteristiche. D'altro canto la letteratura storica (da ultimo ricordiamo i nomi di G. Vallet, P. Gauthier, E. Manni e A. Tusa Cutroni)” ha da tempo messo in risalto i rapporti particolarmente buoni intercorsi, prima della catastrofe del 409 a.C. e soprattutto in epoca arcaica, tra Imera e le colonie fenicie di Panormos e Mozia, fino addirittura a proporre per il nome della città un etimo fenicio”, ipotesi peraltro infondata perché basata sulla lettura errata di sigle di monete. Per quanto attiene al tempio C, edificio sacro che nasce in stretto rapporto architettonico e perciò stesso anche concettuale e “teologico” con il tempio B, la proposta più ovvia è quella che esso ospitasse il culto di Zeus Soter, di cui abbiamo la testimonianza epigrafica in una ghianda bronzea con l'iscrizione Διὸς σωτῆρος trovata nell'ambiente 2 della stoà del lato ovest®, un culto che trova un importantissimo riscontro anche in monete della città con la leggenda SQTHP". Questa attribuzione può anche spiegare la circostanza, in precedenza osservata, del raddoppiamento dell'altare monumentale: in tal modo le due divinità, Afrodite-Enyò e Zeus Soter, verrebbero ad essere σύμβωμοι e ciò in virtù del fatto che l'Afrodite armata di origini fenicie tradizionalmente riceve l'epiclesi di Urania®, ossia di “divinità celeste", la cui associazione alla somma delle divinità celesti riusciva del tutto naturale e non era priva di sottili allusioni cosmologiche e politiche, così come ad esempio accade nella celebre Skiàs di Sparta, coeva del tempio B di Imera e “fatta costruire da Epimenide”, dove erano visibili i due agalmata di Zeus e di Afrodite entrambi contraddistinti dall'epiclesi di Olimpii". Ma c'è forse di più. Nei primi due versi di apertura della sua Olimpica XII, nella quale viene cantata la vittoria di Ergotele di Imera nel dolichodromos conseguita ad Olimpia nel 472 a.C, Pindaro così invoca la divina protezione sulla città "t Alooopar, xat Ζηνὸς Ἐλευθερίου, Ἱμέραν εὐρυσθενέ' ἀμφιπόλει, σώτειρα Toya.

Corentemente con l'erhos e la cultura del poeta, del quale è ben nota l'estrema cura nell'invocare divinità e nel rievocare miti in forma appropriata e coerente con il tema del suo canto, i connotati di questa σώτειρα Τύχα nelle precise ed inequivocabili parole di Pindaro (si pensi al pregnante significato del verbo ἀμφιπόλει) sono quelli della divinità protettrice di Imera, che egli definisce "figlia di Zeus Eleutherios", in un accoppiamento che trova perfetta rispondenza nell'accoppiamento tra i templi B e C dell'acropoli della città, ben sapendo del nesso funzionale strettissimo intercorrente in epoca arcaica e classica tra Zeus Soter e Zeus Eleutherios, come notoriamente insegna l'accezione dello Zeus Eleutherios insediato nell'omonima stoà dell'agorà di Atene". I versi successivi cantano l'estensione del potere di questa Tyche, dal governo dei mari (tiv γὰρ ἐν πόντῳ κυβερνῶνται θοαὶ νᾶες, vv. 3 s.) al dominio delle battaglie (ἐν χέρσῳ te λαιψηροὶ πόλεμοι, v. 4) e fino alla sfera delle decisioni politiche (κἀγοραὶ βουλαφόροι, v. 5): non sfuggirà, credo, il riflesso nell'attività di questa Tyche pindarica di tutto quanto si accompagna all'attività della nostra Afrodite arcaica, εὐπλοία ed ὡπλισμένη, ma anche, come abbiamo visto nel caso della Skias di Sparta, capace di ispirare l'attività decisionale politica. Sempre dai poteri della dea discende anche la γνώμη, consueta negli epinici di Pindaro, dal momento che a Τύχα si debbono (v. 16-19) il trasferimento ad Imera di Ergotele dalla natia Cnosso in seguito ad una στάσις e, con un caratteristico rivolgimento del fato, i successi olim-

pici, pitici e istmici del committente. Naturalmente, non si può non concordare con la critica tradi-

zionale sul fatto che nell'invocazione a Zeus Eleutherios, autore di un'appena ritrovata ἐλευθερία, sarebbe celata un'allusione politica alla liberazione dall'odiato tiranno Trasideo nel 472 a.C. e che quindi anche la conseguente allusione alla “Fortuna salvatrice" acquisirebbe toni ad un tempo collettivi per ciò che concerne la città di Imera e personali per ciò che concerne il destinatario dell'ode, 677

Ergotele, probabilmente giunto esule ad Imera in occasione del ripopolamento della città nel 476 a.C. Ma ciò non toglie che questa Τύχα di Pindaro non va certo confusa con una generica Fortuna di età ellenistica, ma, come ci insegna una pagina famosa di Wilamowitz", rispecchia la fisionomia della divinità in epoca arcaica, da collegare direttamente con la nozione di Moira. Eccoci dunque ancora una volta ricondotti all'Afrodite di ascendenza orientale, dal momento che, secondo quanto ci informa Pausania®, la Afrodite ἐν κήποις di Atene (ancora un'altra variante della stessa divinità) è la πρεσβυτάτη τῶν Μοιρῶν, capace cioè di svolgere un ruolo del tutto coerente con le sue funzioni di celeste divinità del fato con i compiti specifici di dea “che compie i destini regali”: σὺν δ᾽ ἀνάγκᾳ πᾶν καλόν, canta Pindaro nell'encomio di Senofonte Corinzio rivolgendosi alle cinquanta ierodule donate dal committente del suo poema al santuario dell'Afrodite armata dell'Acrocorinto”. Del pari, non a caso il nome della Afrodite romana di epoca regia è Fortuna”. Ma nel santuario di Imera anche un'altra installazione di natura cultuale suscita il nostro interesse. Alludo ad un apprestamento al centro del più meridionale degli ambienti, il vano 6, nei quali si articola la grande stoà ovest dal prospetto interno definito da N. Bonacasa “a paraskenia”. Questa toà agli inizi del V sec.a.C., con un'operazione non meramente edilizia, ma politica che meriterebbe un commento a parte, venne a chiudere il femenos e a separarlo dallo spazio libero più ad ovest, identificato con l'agorà cittadina™. Al di sotto di questo lunghissimo vano sono stati scoperti "cospicui resti di strutture preesistenti in parte collegabili con il femenos del VI secolo” *; esattamente al centro di questo vano “al di sotto degli strati di V secolo, si conserva parte di una eschara arcaica costruita con conci squadrati di calcare friabilissimo bianco, identici a quelli impiegati nell'altare monumentale sorto, insieme col Tempio B, intorno alla metà del VI secolo”. È del tutto evidente che siamo in presenza di una preziosa testimonianza di un culto eroico (è fin troppo noto infatti che l'eschara contraddistingue proprio le pratiche di devozione verso gli eroi) praticato in epoca arcaica nella città, in una posizione significativa che ne fa uno dei grandi culti poliadici, e successivamente valorizzato con l'enfatica collocazione centrale del luogo per i sacrifici all'interno di un vastissimo ambiente. È ben nota l'estrema rarità di culti eroici in ambiente coloniale, con l'ovvia eccezione di

quelli degli ecisti* e a diffusione panellenica, come i culti di Achille o di Elena: non a caso, proprio per Elena, sulla base di un accenno di Pausania" e della celebre palinodia di Stesicoro, cittadino imerese, si è pensato di collocare ad Imera uno dei culti occidentali dell'eroina*. Ma vista la forte valenza politica di questo culto sottolineata dalla collocazione al centro di questo vasto ambiente, è difficile sottrarsi alla suggestione di un collegamento con una testimonianza numismatica, rimasta a tutt'oggi sostanzialmente inesplicata, costituita dalla leggenda ΠΈΛΟΨ posta accanto ad una quadriga raffigurata su di un tetradramma di Imera datato al 470 a.C. circa”: l'apparizione di questo eroe fra le figure onorate da tipi e leggende di monete della polis imerese ha attratto finora scarsa attenzione fra gli studiosi e il ritrovare un apprestamento cultuale con una collocazione urbanistico architettonica di straordinaria valenza religiosa e politica, che in qualche modo riflette il peso del culto eroico documentato all'apparizione fra i tipi monetali, induce a considerare con attenzione siffatta ipotesi. Scartata perché ingenuamente semplicistica la spiegazione che vorrebbe collegare la scena della moneta con la vittoria olimpica di Ergotele cantata da Pindaro, quale significato dobbiamo attribuire alla presenza di questo eroe di origine orientale fra i culti della nostra colonia? Per brevità, lasciando per ragioni di spazio ad un altro momento lo svolgimento delle implicazioni politiche di questa congettura, mi limiterò in questa sede a dire che Pelope, essendo figura eroica sostanzialmente estranea al mondo religioso euboico, non può che essere il capostipite di questi misteriosi Μυλητίδαι, i quali, a detta di Tucidide”, sarebbero quei ἐκ Συρακουσῶν φυγάδες στάσει. νικηθέντες che avrebbero accompagnato gli Zanclei posti sotto la guida di tre ccisti, Eukleides, Simos e Sakon, nella fondazione di Imera. Come quasi tutti gli storici hanno convenuto '®, questi Myletidai non possono essere che un gruppo gentilizio scacciato in seguito ad una stasis, un evento politico cioè che, com'è noto, in epoca così arcaica segue logiche prevalentemente, se non esclusivamente, gentilizie: di loro non a caso non si nomina un ecista perché non designato in forma ufficiale dal-

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la polis, ma che per gli antichi senza dubbio coincideva con il capo riconosciuto del genos. Non fa meraviglia che il genos potesse vantare origini eroiche dal fondatore della casa reale di Micene. In una tradizione, che alcuni vogliono far risalire ad Ellanico e che comunque ὃ da mettere in relazione con il desiderio dei gene basilici peloponnesiaci di collegarsi al grande eroe eponimo della regione, sono noti dodici figli di Pelope (in Strabone questi sono addirittura πολλοῦ, i quali, lasciata Pisa, sarebbero divenuti gli eponimi di altrettante città del Peloponneso: tuttavia, anche se tra questi era certamente un Korinth(iJos (che collegherebbe in maniera diretta i siracusani Myletidai con la madrepatria Corinto), dati di natura cultuale sembrano orientarci, piuttosto che in direzione della città di Corinto, verso il territorio della Corinzia e in particolare a Fliunte, dove il tetto del locale santuario di Demetra, detto significativamente anaktoron™, si adornava del carro di Pelope, il cui figlio Cleone era annoverato come eponimo della vicina città di Kleonai sempre nel territorio della Corinzia "Ja partecipazione alla colonizzazione di Siracusa di gruppi provenienti dagli insediamenti della chora di Corinto sembra assicurato dal fatto che come luogo di raduno dei futuri coloni fu prescelto il tempio di Apollo di Tenea% piccola cittadina della Corinzia. È utile ricordare che a parte la tomba eroica di Pelope riconosciuta tradizionalmente nel Pelopion di Olimpia, questa di Fliunte è la sola testimonianza concreta, per così dire archeologica, del culto eroico di Pelope nella madrepatria greca. La possibilità, che dietro al culto imerese di Pelope si annidi una genealogia aristocratica, si rafforza ulteriormente, se si dà credito ad uno scolio a Pindaro "*, che in connessione con l'attributo di Koówoc dato dal poeta a Pelope'" ricorda come madre dell'eroe, in luogo della più consueta Niobe, una Pluto figlia di Crono: tale circostanza si verrebbe ad accordare con il fatto che monete di Imera con la leggenda ΚΡΟΝΟΣ"" attestano inconfutabilmente l'esistenza nella città del culto (peraltro per nulla diffuso in area coloniale) del dio. Ma il fatto che ancora una volta a Naxos nelle Cicladi sia conosciuto un culto di Crono”, attestato dall'esistenza di un mese con il suo nome, ci induce alla più grande prudenza e a preferire l'idea che la tradizione religiosa che ha portato Crono ad Imera vada fatta ascendere piuttosto al retaggio calcidese che all'apporto siracusano dei Myletidai: dove si trovi il santuario del dio al momento non è dato di sapere. La presenza del culto da me attribuito a Pelope al centro della grande sala della stoà ovest resta comunque un fatto di grande significato politico e consente di formulare qualche ipotesi sulia destinazione della sala 6. È evidente che l'esaltazione del culto dell'eroe peloponnesiaco deve essere direttamente collegata all'opera di progressiva dorizzazione della città attestata dal celebre passo di Tucidide", che va collocata già nel corso del VI sec. a.C. (giusta la datazione attribuita alleschara in questione) e di cui un altro segnale va forse registrato nella scelta dei temi eraclei per la decorazione della prima fase del tempio B anch'essa databile al VI sec.a.C.: la costruzione della stoà ovest “razionalizzava” tutto l'assetto del temenos, venendo a creare un tramite e al tempo stesso un diaframma tra santuario e agorà, e dava al culto eroico di Pelope un'enfasi tutta speciale quasi costruendogli attorno la vasta sala 6. La nascita della stoà viene di fatto a rappresentare un passo significativo in direzione di quella dorizzazione, che vorremmo poter ben datare per così dire ad annum, per decidere se questo evento si inquadra in un momento anteriore o posteriore al ripopolamento della città con clementi dorici, episodio notoriamente datato al 476 a.C. In ogni caso, quale che sia la data esatta

della realizzazione della stoà e quale che sia il culto eroico in essa praticato, l'ambiente 6 va considerato come un edificio di forte valenza politico-religiosa: le sue caratteristiche, tanto quelle formali (la collocazione della stoà a cavallo tra temenos e agorà e le dimensioni della sala presumibilmente munita di aperture su ambo gli spazi) quanto quelle ideologiche (il collegamento con un culto eroico), lo candidano per un ruolo politico non secondario, quale bouleuterion o pritaneo - se mai Imera ebbe pritani - della città, con il piccolo annesso 7 come vano di servizio in funzione delle riunioni celebrate nella sala adiacente. Sotto questo profilo una notevole importanza assumono anche i due ambienti 8 e 9 di tardo V sec.a.C. appoggiati sia al muro sud del temenos che al vano di servizio 7 della sala 6 e preceduti da una struttura descritta da N. Bonacasa come portico bipartito di m 17,10 x 2,40, Non escluderei l'eventualità che le due sale 8 e 9 possano aver avuto la funzione di hestiatoria per banchetti sacri c politici, vista la contiguità, certo non casuale, tra tali sale e il grande ambiente 6. 679

BIBLIOGRAFIA E ABBREVIAZIONI

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go di dover far fronte alle necessità di un nuovo culto”; come si vede le nostre opinioni di fatto non sono fra loro incompatibiJi, differendo soltanto in ordine ad una valutazione strutturale e di cronologia di fasi del monumento. 1 Auzcno 1994, p.65 s. 1 Boxacash 1970, pp. 9-71;Io. 1980, p. 261s. κι Sulfaspetto dei betili oggetto di culto nel mondo greco, v. esauriente studio di E. Di Fiiro Baresmazzi, Lemiciclo di Pratomedes a Cirene: la testimonianza di un culto aniconico di tradizione dorica, in QAL VIII, 1976, p. 109 ss. sulla rappresentazione di bei nelle pitture augustee del Palatino nelle lastre Campana provenienti dallo stesso complesso, v. M.1. Sriminua, I principato di Apollo, Roma 1990, pp. 22-29 (con ampia bibl. prec). 5 ALLEGRO 1994, p. 67: secondo Allegro l'operazione sarebbe tuttavia frutto di una seconda fase del tempio A, da lui datatoa 625a C. ® Boxacasa 1970, p. 87. ? ibid,p. 87. 7 ibid,p. 100, tv. 14, 5,6, 5. ibid, p. 116, tav 15,4, * ibid. p.93, tav. 33,1, tav agg. 2a. 5 ibid, pp. 230-232. » ibid. p.231. ALLER 1994, p. 68 s. ? La circostanza deriva dal fatto che "all'interno di questutima (scl Ia stoà ovest, N..A,) furono trovati strati di schegse provenienti dalla rifinitura delle lastre di arenaria utilizzate per il tempio (scl i tempio B, N.d.A.': ALLORO 1994, p. 6. Boxacasa 1970, p. 139. » ibid, p.144. » ibid,pp. 169-173. ? Così ibid, p. 1655 » Riepilogo dell tematiche delle terrecotte Bgurate di N. Bonacass, Himera: a saga di racle fra mito e storia, in Studi di filologia classica in onore di G.Monaco, IV, Palermo 1991, pp. 1431-1439. * Come ha ben visto il Bonacasa (Boxacass 1970, 177-179), con ogni probabilità a Nikai appartengono i numerosi frammenti di torso femminile in terracotta piallo-erdognola, divers da quella in cui sono eseguite le sculture arcaiche e tardoarcaiche protoclassiche delle due fasi della decorazione. 5 ibid. p.219. κι Atzcho 1994, p.71. * E. Enranto, Nuovi rivestimenti fil di Himera, in Il tempio greco in Sicilia. Architettura e culti, i Cronache di Archeologia XVI, 1977 (ma Catania 1985), pp. 165-168. * Diod. V, 3,4; la derivazione da Eforo ὃ chiarissima da V1, 4. » Boxacasa 1970, p. 91, av. XXXI, tav. agg 2 c (Inv.H 64.607). © ibid,p.92, tav. XXII, 4 (Inv. H 64.799). ^ ibid; p. 92, tav. XXII, 5,8, quale ne menziona due integri (Inv. H 64.614, 618), sei lacunosi (Inv. H 64.614 bis, 616, 749,753, 754, 795), più diversi frammenti di un numero imprecisato di alti esemplari (Inv. H 64.726). © ibid, p.92, tav. XXXII, 3 (Inv. H 64.620. © ibid; p.92, tav. XXXII 2 (Inv. H 64.606, 679). “bid, p.93 s, tav. XXXI, 3, tav. agg, 26 (Inv. 64.610) “© A Furrwiscten, Aegina, Das Helium der Aphaia, München 1906, p. 374, n.10, tav. 108 32: li altri confronti con figurine di falence di ambiente egizio o egiticzante citati da K. Parlasca (in Boxacass 1970, p. 94, nota), riferite genericamente ad immagini in pose erotiche (fra le quali sono anche coppie in symplegmate), vanno considerati come indicativi di una tematica ‘enon hanno valore iconografico cogente. “© NL Toneit, Π santuario greco di Gravisca, in PP 1977,p. 429, fg. 10. e dunque non utilizzabile per il presente lavoro, i recen7 ibid, 427-438, Appena compllativo sul plano stoico-religioso te libro di. Fuewsenc, Venus armata. Studien zur bevaffneten Aphrodite in der gricchisch romischen Kunst (Skrifter utgivna av Svenska Institutet Athen, 3, Stockholm 1991, il qualea p. 43 s s libera in maniera ingenua e spiciativa del caso imere superficiale la letteratura su Gravisca, cita. see di quello graviscano; n particolare, non conoscendo o avendo leto in manierafacendomni grazia, a proposito dele statuette fra i culti del santuario un'altrimenti inesistente Atena accanto a Turan (2), pur bronzee di Afrodite armata dai livelli arcaici del sacello di Afrodite-Turan, di un "Torellis Deutung nicht unvarscheinlich una "Deutung" peraltro sostenuta da numerose e significative testimonianze epigrafiche da lu ignorate ^^ Herodot I 105; cf. aus I, 14,7, 1,23,1. © Pays. 11,5, 1; ch I,2, 8 % Strab. VIT, 378; cr XII 559. * Le fonti per culti delle due Afroditi armate spartane, quella Morphò venerata pressoil teatro e quela Areia con un prestigioso santuario sull'acropoli, sono numerosissime: Paus. Il, 15, 10 (Afrodite Morph); IL, 17, 5; 18, 8 (Afrodite Area); cr. anche Plut Inst Lacon, 239 A: Apophh. Lacon. 232 D: De fort. Rom. 317F; Ant Gr. IX, 320-321; XVI, 171, 173-177; Quinti Linstor.IL, 4,26; Lact. Di inst 20; Auson. Epigr. 42-43; Nonn.Dionys. XXXV, 175-177; XLII 4.7. Ἔ G. Dickns, n BSA XIV, 1907/1908, p. 1455. fig. 2 5. M. Osta, Sui culti arcaici di Sparta e Taranto. Afrodite Basilis, in PP 45, 1990, p. 8194. κι Attestato dalle epigrafi SGDI 38-40; per culto cipriota e la sua grande diaspora occidentale (fra i cui cas i inserisce. 681

ora anche quello di Imera), v. W. Fav, Aphrodite Parakyprousa. Untersuchungen zum Erscheinungsbild der vorderasiatische Dea prospiciens, in AbhAkad Main 6, 1966, F. Cona, II Foro Boario, Roma 1988, pp. 301-363 (con bibl. prec) S VA. Deuvonsus, in LIMCI p. 19, sv Aphrodi * Chr. C. Βυινκενβέκο, Le temple de Paphos, Copenhagen 1924, p. 6 s. % Sulla pratica in ambito greco-coloniale v. M.Torz2L, cul di Loci, n Locri Epizefiri (Ai del XVI Convegno di Studi sulla Magna Grecia - Taranto 1976), Napoli 1977, pp. 147-184 da leggere insieme alle pagine di D. Musn, Problemi della storia di Locri Fpizefni, ibid, pp. 23-147. * Paus. Π, 30, 3; Hesych. sv, Agata; Verg Cris 303; cf.M. Guazpucci, in SMSR XI, 1935,p. 198 s. 7 Su Aphaia, v. M. Nisson, Geschichte der griechischen Religion, München 1967, p. 312; in generale su queste continuità, v.1p, The Minoan-Mycenaean Religion and its Survival in Greek Religion, Lund 1950. τῷ Significativa la documentazione di natura emporica del santuario egineta, attestata da ultimo anche da una dedica etrusca recentemente resa nota da M. Cristoraat, Un etrusco a Fina, in SE LIX, 1993, pp. 159-162; cr I, Fruschi e altre gent nell'Italia preromana, Mobilità in età arcaica, Roma 1996, pp. 49.57 (ove e rfluito i precedente articolo ‘Su questo importantissimo santuario, che ha avuto per Roma un ruolo di portata straordinaria e che meriterebbe nuove e più moderne indagini, ancora valida la sintesi di K. Gas, Aeneas, Sicily and Rome, Princeton 1969; v. anche M. Tonztτ, Lavinio e Roma. Riti iniziarici e matrimonio tra archeologia estori, Roma 1984, pp. 203-216 © Cfr. L. Busca, Le antiche rote del Mediterraneo documentate da monete e pesi in RAN XXX, 1955, p. 246 ss, e NF. Passe, Sull'oganizzazione della valuta di argento nella Sicilia greca, in Ati I Convegno del Centro Internazionale di Studi NumiSmatici, Roma 1969, pp. 112-114. 5. M Tons, Perla definizione del commercio greco orientale i caso di Gravisca, in PP 1982, pp. 304-325. # IG XIV, 313; sui culti di Thermal, v. G. Maucanano, Per la storia dei culi in Sicilia,in PP 1965, p. 166 s © Sui tipi monetali,v. E. Gangic, Topografia e numismatica dell'antica Himera e di Terme, Napoli 1894 (Atti Accademia di Archeologia di Napoli XVID, rist. (RIN VID, Milano 1894; B.V. Heap, Historia numorum, Oxford 1911}, pp. 143-146; F. Gumuso:.W. Scimasacuza, Tetradrachmen und Didrachmen von Himera (427-408 v.Chr), in Miteilungen Bayerische Nun: smatische Gesellschaft XLVII, 1929, pp. 1-44; La monetazione arcaica di Himera fino al 472 a.C Ati Il Convegno del Centro Inernazionale di Studi Numismatici, Roma 1971 © Resoconti sufficientemente ampi, anche se preliminari, sono stati pubblicati dala scavatrice sia in Kokalos (XIV-XV, 1968-1969, p. 316 ss; XVIIEXIX, 1972-1973,p. 180 ες; XXVI-XXVIT, 1980-1981, p. 694 ss.) che in BA (1964, p. 149 ss; 1972, 5.211 ss) ein Cronache di Archeologia (IV, 1965, p. 9 ss; XVI, 1977, p.43 s.) v. anche EAA, Suppl. 1970, p. 39 ss. e Suppl 1971-1994,p. 882 s. © Appian. Bel. civ V, 454; 'dentificazione risale a G.V. Gert e P. Petacarn, in BA 1956, p. 331; P. Petacarm, in BA 1964,p. 153-62; Ea, in BA 1972,p. 215-218. ὁ Zenob. I, 116 (ParoemiogrGr. 1,390) * Gli stessi clementi hanno invece indotto N. Valenza Mele ad identificare a divinità con Hera: cfr. N. Varaxza Mate, Heraed Apollo nella colonizzazione euboica d'Occidente, in MEFRA LXXXIX, 2, 1977, pp. 493-524, partic. p. 504 s., un'idea che la stessa Valenza Mele ha ribadito nell'altro e più recente articolo Hera ed Apollo a Cuma e la manca sibilina, in RIA XIV-XV, 1991-1992, pp. 13-17. ” Cfr. P. Pinacarm, Sacell e nuovi materiali architettonici a Naxos, Monte San Mauro e Camarina, in Cronache di Archeologia XVI cit, pp. 48-50; M.C. Lexis, in EAA Suppl. 1971-1994, p. 883. 7! M. Gunoucas Una nuova dea a Naxos in Sicilia e gli antichi legami fra la Naxos sceliota e l'omonima isola dell Cicladi, in MEFRA XCVIL 1985, pp. 7-34. 7 ibid, 1s ® Hom. IL V, 333, 592 s. * La stessa M. Guanovcc, in MEFRA XCVII cit, p. 14 s, fig. 4, identifica con Eny® una testa di divinità elmata su un frammento di pinax di origine locrese, ma del tipo Francavilla (su quali v. U. Sco, Forme e tipi della coroplatica dell città greche della Sicilia antica e della Calabria Meridionale, in Atti del XXVI Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 1987), dove però appare forse più probabile un'identficazione con Atena, divinità poliadica di Locri, dato il contesto di indubbia matrice locrese della produzione, da collegare con iripopolamento di Naxos con Locresi dopoἡ trapianto del Nassi e dei Ca tanesi a Leontini ad opera di Ierone di Siracusa. 7 V.M, Toneu, L'immagine dell'ideologia augustea rell'agorà di Atene in Ostraka IV 1, 1995, p.24 s. 7 Breve discussione della questione iconografica n J. Fiewmzro, Venus armata, cit, pp. 58-60 ” CM. Ka, The Archaic Coinage of Himera, in Ati I Convegno del Centro Internazionale di Studi Numismatic, cit, pp. 3-14, partic, 10 s; per una sintesi recente dell'attività monetale della città, v. A. Tusa Ουτκονι, La monetazione di Himera: spetti e problemi, in Quaderno Imerese, 1972, pp. 111-122. "^ G. Vuaer, Rhégion et Zancle, Paris 1958, p. 86 ss; P. Gnumura, Grecs et Phéniciens en Sicile pendant ἴα période archaique, in RH LXXXIV, 1960, p. 272 ss E. Mana, Note sicot, in Kokelos XII, 1966, pp. 163-178;In» Fra Mozia Himera, in Mélanges d'archéologie et d'histîre offertsà A.Piganiol, Paris 1966, 11, pp. 699-706; A. Tusa Crows, Rinvenimenti e monetali Himera e nel suo territorio nel periodo arcaico. Loro significato, in Att Il Convegno del Centro Internazionale di Studi Numisma-ad tici, cit, pp. 69-83. 7 Cfr. A. Hows, Storia della Sicilia nell'antichità, 1, Torino 1890, p. 192. © Max Peano 1974, p. 267 ss, n. 4, tav. XLI, 6 a-b. Se ne veda la breve discussione, in connessione con la dubbia leggenda IATON, di C.M. Kany n Att 71 Convegno del Centro Internazionale di Studi Numismatii, ci 682

© W. Favra, in AbhMainz 6 cit, p. 433 ss. © Paus. ΠῚ, 12, LI: cr. M. Torgiui, inD. Musr-M. ToreLU, Pausania, Guida della Grecia, III. La Laconia, Milano 1991,p. 2058. κι Pind. OL XII, 1-2. ** V. da ultimo, M. Torey, in Ostraka IV cit. pp. 20:22. “ EA. Fatrw, The History of Sicily YI, Oxford 1891, p. 299 s; da ultimo W.S. Baxaezr, Pindar's Twelft Olympian and the Fall of the Deinomenidai, in JHS XCIII, 1973, pp. 23-25. Cfr. anche H.G. Gietow, Zeus Eleutherios. Ein Stück Revolutionsgeschichte im Bilde einer Dankleischen Münze, in Deutsche Jahrbücher für Numismatik II-IV, 1940-1941, pp. 103-114. © Ὁ. Winaxowrrz von Mogzueponr, Pindaros, Berlin 1922, p. 306. © Paus L 19,2. © Pind. fr 5 F. CongeLL, Il Foro Boario cit. ? V. sopra nota4, © ibid, p.55. Ὁ ibid, p.5 . ^! Si veda al riguardo la serrata analisi di I. Marx, Religion and Colonization in Ancient Greece, Leiden 1987, partic. pp. 160-186. 7 Paus. II 19, 11. % Cfr. K. Ζίξοιεν, in RE VIII, 1913, col. 1620. ? L'unica trattazione specifica del tipo, ma insufficiente sul piano storico e storico religioso, è quella di W. Scumsacusm, Die Pelopsmünzen von Himera aus Siziliens und ihre Deutung, in Frankfurter Münzzeitung, I, 1932, pp. 382-384. * Come vuole ancora una volta K. Ziecter, in RE VIII cit, col. 1620. ® Thuc VI, 5,1. 19 V. ad es. G. Mannour,IL VI e il V secolo a.C., in La Sicilia antica II " K.ScuxcivG in RE Suppl. VII cit, 854 (con bibl. prec.). πῶ Strab. VIIL 356. 10 Paus. II, 14,4. ^" Paus. IL 15,1. τὰ Strab. VIII, 380. 1 Schol. Pind. OL TII,41 7" Pind. OL UIT, 41. + Cfr. B.V. Heap, Historia Numorum, cit, p. 145. "0 M, Nussox, Geschichte der griechischen Religion, cit. p. 512. 7 Thuc. VI, 5.1. i Bonacisa 1982, p.59s.

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Gaetano TRiPODI AKRAGAS - L'UBICAZIONE DELLA PORTA DELL'EMPORIO

La carta archeologica di Agrigento individua tra i resti del Tempio di Zeus ad ovest, c quelli del Tempio di Ercole ad est, la grande porta dalla quale sarebbe entrato l'esercito di Levino nel 210 2.C.": Porta IV secondo la numerazione convenzionale data alle porte di Akragas o Porta Aurea sccondo la toponomastica moderna (fig. 1 Questa doveva essere la porta principale dell'antica Akragas, che collegava la città all'emporio, e che doveva condurre immediatamente al foro posto al centro della città? Grazie ai risultati di recenti scavi nell'area della necropoli paleocristiana sub divo sulla Collina dei Templi?, e grazie ad una ricognizione effettuata sul versante sud della Collina, ai piedi del costone roccioso sul quale sorgono il Tempio di Ercole ed il Tempio di Zeus, possono oggi essere messe in dubbio alcune considerazioni, sino ad ora date per certe, sulla reale ubicazione della quarta porta della cinta fortificata di Akragas Quella che attualmente è conosciuta come Porta IV (fig. 2) è il risultato di consistenti interventi che in parte risalgono all'età bizantina" e, inoltre, la zona è stata interessata più recentemente dai lavori per la costruzione della Strada Statale 115, quando il fondo fu ulteriormente approfondito rispetto a quello antico e furono effettuati consistenti tagli nella roccia”. Dell'antica porta di Akragas oggi non resta nessuna traccia, come non resta nessun segno degli apprestamenti difensivi, che pure in una zona così importante dal punto di vista strategico e dei trasporti dovevano essere particolarmente poderosi. E, d'altra parte, non molto spazio doveva rimanere per tali opere difensive in un'area stretta tra il Tempio di Zeus e il Tempio di Ercole. Sulla parete est della Porta Aurea, a circa 4 metri dall'attuale piano stradale, sono visibili, sezionate dai lavori di taglio della roccia, alcune tombe paleocristiane con la caratteristica sezione trapezoidale e con le lastre di copertura ancora in situ, tombe tipologicamente simili alle tante altre tuttora visibili nel vicino cimitero sub divo (fig. 3). Tali

Fig. 1. Agrigento, stralcio della Carta archeologica. Il sito individuato per l'ubicazione della Porta IV. 685

Fig. 2. Agrigento. Porta Aurea (IV) da nord.

Fig. 3. Agrigento. Le tombe paleocristiane di Porta Aurea αν)

tombe sono, probabilmente, le ultime propaggini della vasta area cimiteriale paleocristiana posta sulla Collina dei Templi e testimoniano l'estensione di tale cimitero che, secondo il Mercurelli*, si sviluppava anche a sud dell'ara del Tempio di Zeus, quindi interessando tutta l'area adiacente la porta ed occupando le strade che ad essa conducevano. Inoltre, sulla parete occidentale della curva che immette nella Porta Aurea, a circa un metro dall'attuale piano stradale, notevolmente più in basso rispetto al piano originario della Porta Aurea e molto vicino alla sede di tale Porta, è visibile il taglio (fig. 4) di una strada ricavata nella roccia, della larghezza di circa quattro metri. Tale taglio si trova sul prolungamento dell'attuale Strada Statale 115, che in questo tratto ricalca l'antica plateia. Quest’asse viario, con orientamento est-ovest (lo stesso orientamento delle plateiai dell'impianto urbanistico della città antica) in questo punto avrebbe dovuto incrociare l'ipotetica strada che si immetteva nella Porta Aurea. Da sud, cioè dal lato esterno della città, il sito della porta (fig. 5) presenta un notevole dislivello (circa cinque metri) tra la quota più alta (quella dove doveva correre la strada che immetteva nella città attraverso Porta Aurea) e la quota più bassa (quella sulla quale invece doveva correre la strada che proveniva dall'emporio). Tale forte dislivello non avrebbe potuto essere superato in uno spazio così breve (poche decine di metri), se non con notevoli opere necessarie a sostenere un piano stradale in forte pendenza e con un fondo poco resistente all'usura. Di tali strutture non esistono tracce, né esistono esempi simili in altre porte agrigentine’. È da notare ancora che poco a sud di Porta Aurea, sul lato occidentale della strada moderna è ben visibile, inserita nella parete di terra, una struttura costituita da grossi conci di calcarenite posti în piano, probabile elemento di una tomba monumentale (sul lato orientale della stessa strada sorge la Tomba di Terone)' che, per la quota del piano di posa e per la breve distanza dalla porta, non avrebbe potuto consentire la coesistenza di una grande strada in forte pendenza. 686

Fig. 4. Agrigento. Porta Aurea (IV). Il fondo della strada (plateia) sezionato dai lavori per la costruzione della. strada moderna.

Nell'ordinato e razionale schema urbanistico di Akragas, l'ubicazione di una strada tanto importante per il traffico urbano, posizionata in quel particolare punto della città, doveva porre non pochi problemi di carattere pratico ed urbanistico. Come si è detto la strada che attraversava Porta Aurea doveva collegare il porto con il foro, quindi quotidianamente doveva essere percorsa da un continuo flusso di genti e merci. Tale flusso, nei momenti di maggiore congestione, avrebbe facilmente invaso Tarea dell'altare del Tempio di Zeus, che si trova immediatamente a nord della porta. Dal punto di vista urbanistico, inoltre, la strada che doveva attraversare questa porta, per rispettare la maglia ortogonale del tracciato ippodameo, passando tra il Tempio di Zeus e il suo altare, avrebbe diviso in due parti l'area sacra (eventualità sicuramente inammissibile) per raggiungere nel modo più facile e diretto il foro al centro della città. Poche centinaia di metri ad est di Porta Aurea, nel giardino di Villa Aurea, sul ciglio della collina, sono visibili tracce nella roccia che fanno pensare a strutture riconducibili ad una porta di accesso alla città. Ci si riferisce alla presenza di piccole cavità praticate su una parete verticale di roccia apposita-

mente tagliata (fig. 6). Tali cavità sono presenti in altre porte agrigentine (Porta II? e Porta IX) e

sono state definite dallo Schubring “inserzioni quadrangolari... per collocarvi pinakes votivi”. Le nicchiette e la loro disposizione sulla parete di roccia inducono a cercare in questo punto un

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Fig. 5. Agrigento. Porta Aurea (IV) da sud. Da notare la forte differenza di quota tra. la strada attuale ed il costone roccioso sul quale doveva essere impostata la strada antica.

Fig. 6. Agrigento - Villa Aurea - Le “nicchiette” per l'inserimento di pinakes. 688

Fig. 7. Agrigento. Stralcio della carta archeologica. L'incrocio tra la plateia proveniente dalla necropoli paleocristiana sub divo e lo stenopos proveniente dal gymnasium (il prolungamento di questo stenopos fuori le mura della città conduce al santuario di Esculapio). 689

varco nelle mura da potere ricondurre alla presenza di una porta. In questo tratto di costone roccioso, per una larghezza di m 9 circa, in effetti è presente una lacuna nella roccia (ora occupata da magazzini di deposito), stretta tra la parete delle nicchiette ad ovest ed il banco di calcarenite sul quale sorge l'edificio di Villa Aurea ad est. Sul versante sud sono visibili massi distaccati dalla parete di roccia, risultato di antichi crolli riconducibili ai noti dissesti della Collina dei Templi. Nell'ordinato e preciso schema urbanistico di Akragas questo varco nella parete di roccia coincide con l'incrocio di una plateia con uno stenopos (fig. 7). Un tratto di questa plateia, quello proveniente da est, è stato scoperto durante gli scavi della necropoli sub divo, poco distante da Villa Aurea ". Tale strada serviva sia questo tratto di cimitero, sia gli ipogei minori all'interno del giardino di Villa Aurea, costeggiando anche quelli che si trovano sotto la villa". Lo stenopos proveniente da nord è quello che margina ad est l'area del gymnasium e, sécondo la ricostruzione dello schema urbanistico ", questa strada avrebbe un interasse, rispetto allo stenopos più vicino e conosciuto ‘ (quello ad ovest che delimita l'insula del gymnasium), di circa m. 44".

L'ideale prolungamento dello stenopos proveniente dal gymnasium al di fuori della cinta muraria conduce al santuario di Esculapio, nella Piana di San Gregorio, coincidendo, probabilmente con ingresso posto sul lato nord del complesso santuariale (fig. 7). Tale strada, dunque, avrebbe potuto collegare l'emporio * con il foro posto al centro della città” e non lontano dal Tempio di Ercole", rispettando cosi le testimonianze letterarie. L'ubicazione della porta della città in questo punto della cinta fortificata, abbastanza lontano da grandi edifici, presentava notevoli vantaggi sul piano difensivo potendo sfruttare una posizione dominante - quella su cui sorge la Villa Aurea che sembra ideale per la costruzione di poderose strutture di difesa — e rendendo questa porta, una delle più importanti della città, particolarmente munita. Anche il traffico ne avrebbe avuto giovamento, separato da quello che doveva confluire, poco più ad est, alle aree sacre del Tempio di Ercole e del Tempio di Zeus. In tal modo una unica via, in senso nord-sud, avrebbe introdotto nel cuore della città, proprio nel foro menzionato da Cicerone. La stessa denominazione di Villa Aurea, con la quale è stata individuata l'abitazione costruita in questo particolare luogo in epoca moderna, conserva il toponimo sviluppatosi in epoca bizantina per la porta dell'emporio?. Numerosi indizi, dunque confortano l'ipotesi della presenza in questo particolare punto di quella Porta della città antica varcata da Levino nel 210 a.C.

NOTE * Livio, XXVI 40,8,9,11 “. la porta che conduce al maree il foro al centro della città”. > Livo, cit. > V..supra, R.M. Boxacasa Canna, Nota di topografia cristiana agrigentina. A proposito dei c.d. “ipogei minori", p. 203 ss. * P. Guurro, Guida perl visitatore dell antichità di Agrigento, p. 36, Agrigento 1948. * È ben visibile dal c.d. Piazzale del Posto di Ristoro, immediatamente a nord del Tempio di Eracle e ad est di Porta Aurea, una parete verticale di calcarenite, tagliata in occasione dei lavori di sistemazione della Strada Statale e della strada dei Templi che, in buona parte, risulta tagliata nella roccia. Tali lavori furono effettuati sicuramente dopo l'anastilosi del Tempio di Ercole (1920-1924) come risulta da immagini fotografiche d'epoca. * C. MeacuneLL, Agrigento paleocristiana, p. 50, Roma 1948. ? Le altre porte dell'antica Akragas ancora visibili - Porta II, Porta V, Porta VI - o sono ricavate nella roccia o presentano possenti opere murarie in conci di tufo di notevoli dimensioni, e nella roccia sono ricavate le strade che le attraversano, dove ancora sono visibili i solchi lasciati dalle ruote dei carri. * Isito è quello della necropoli protoimperiale della Piana di san Gregorio. * AAW, I punici ad Agrigento. II Quartiere di Porta I, Palermo 1990. © G. 8ομύμαινο, Topografia storica di Agrigento, Torino 1887. ? v. infra R. M. Bonacasa Canna, cit. * Rispetto al tracciato della platea l'ingresso degli ipogei sotto Villa Aurea risulta più arretrato e con un orientamento diverso in quanto il banco di roccia è stato sicuramente manomesso durante i lavori di costruzione della Villa. Inoltre, i consi 690

stenti lavori in epoca bizantina, a cui si riferisce i Griffo parlando di Porta Aurea (v. nota 4), potrebbero essere stati quelli necessari per la realizzazione degli ipogei di Villa Aurea. * Non esistono sul terreno tracce vis bil di tale stenopos. μι G. Βιοκεντινι, Agrigento - Agord inferiore e ginnasio nei recenti scavi, in QuadMessina 7, (1993), 1995, p. 5 sgg. 5. L'interasse più frequente tra gli stenopoi è di circa m 37. "^ Il prolungamento di tale strada, superando il fiume immediatamente a sud del Santuario di Esculapio, raggiunge il 7? Anche il gymnasium poteva essere uno degli edifici del foro. L'area del gymnasium è distante poche centinaia di metri dal Tempio di Ercole. ? Οἴκεκονε, Verrine, 2,4,94 "il foro... non lontano dal Tempio di Ercole”. » C MeRcURELLI, Agrigento paleocristiana, ci.

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CATERINA TROMBI CONSIDERAZIONI SUI VASI INDIGENI CON APPLICAZIONI PLASTICHE DELLA SICILIA OCCIDENTALE (VII-V SEC. A.C.) PREMESSA* In questo breve contributo verranno presi in esame i vasi a decorazione dipinta e impressa carat-

terizzati da applicazioni plastiche a protome animale o umana. L'esame si basa essenzialmente su materiale già noto, proveniente da alcuni siti della Valle del Belice e dei monti circostanti? (Castello della Pietra, Castellaccio di Poggioreale, Entella, Mura Pregne, Segesta) e della Valle dell'Imera (Monte Saraceno, Naro, Polizzello e Sant'Angelo Muxaro) (Tav. I, 1); tuttavia, si tenterà un'analisi sistematica e organica, tenendo presente la realtà artigianale e culturale dell'isola. Alcuni di questi vasi - quelli provenienti da Polizzello? — negli anni 20 furono pubblicati da Ga-

brici*, tuttavia, solo molto più tardi (v. infra) ne furono studiate le caratteristiche tipologiche e deco. rative. Negli anni 50, infatti, una maggiore attenzione fu rivolta a manifestazioni analoghe della vicina Valle del Belice“. In un articolo del 1950* la Bovio Marconi mise in relazione le anse antropomorfe di Segesta con manifestazioni analoghe dell'Italia Meridionale. Secondo quella tesi le anse di Segesta offrivano un'ulteriore prova dell'origine peninsulare delle popolazioni stanziatesi, durante la Tarda Età del Bronzo in Sicilia, ad Ovest del Platani. Nel 1958 Bernabò Brea“ in una monografia sulla preistoria siciliana considerava le anse antropomorfe di Segesta come l'elemento distintivo della produzione elima rispetto a quella sicana. Virginia Fatta in un breve intervento del 19807, presentava le anse configurate di Segesta e Castellazzo di Poggioreale come una delle tante manifestazioni dello stile geometrico e, accennando ai vasi con applicazioni plastiche sul ventre di Polizzello, auspicava un'indagine al fine di verificare se tra le diverse manifestazioni (“elime”, “sicane”, "daunie", “ausonie”) esistesse un qualche nesso culturale o se si trattasse di espressioni tra loro indipendenti. Nel 1981 Dario Palermo in un articolo sui vasi indigeni di Polizzello*, centro indigeno della Sicilia centro occidentale, interpretava le applicazioni plastiche poste sul ventre di alcune anfore come stilizzazione della testa di un ariete (costolatura ad andamento sinuoso) o come stilizzazione di un volto umano (cordonature a semicerchio). Per quanto riguarda la tettonica dei vasi lo studioso trovava analogie con forme tardo micenee e protogeometriche. Lo stesso studioso in un lavoro del 19837 sulle applicazioni ornitomorfe di alcuni askoi siciliani pur ammettendo che «...in nessuno degli askoi egei si rintracciano», tutte insieme, «le caratteristiche degli esemplari siciliani» concludeva trovando nella tipologia degli askoi di Sant'Angelo Muxaro e Licodia Eubea un'ulteriore prova delle relazioni della Sicilia con il mondo greco di età geometrica. Giuseppe Castellana nel 1984 interpretava le cordonature plastiche dei vasi di Polizzello e Naro come stilizzazioni delle corna taurine e attribuiva ad esse (come già Giacomo Caputo, Aldina Tusa

Cutroni e Vincenzo La Rosa!) un significato religioso di ascendenza egea fatto proprio dalle genti

sicane e elime" in virtù del loro attaccamento alla terra e alla pastorizia in particolare. Sebastiano Tusa” nel volume sulla preistoria siciliana (1992) se da un lato vedeva nelle anse antropomorfe di Segesta e Castellazzo gli clementi distintivi della produzione "elima" rispetto a quella "sicana" dall'altra riprendeva la teoria della Bovio Marconi riportando le peculiarità elime alla penisola. In un articolo dello stesso anno“ lo studioso riconosceva nelle anse antropo-zoomorfe provenienti da Verderame, caratterizzate da globuletti plastici applicati e attribuibili alla fase protoelima (IX sec. a.C.), affinità con l'Ausonio II e con le facies maltesi di Borg in Nadur/Bahrija.

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Allo stato degli studi nulla hanno aggiunto gli articoli di Falsone" e di Antonella Di Noto *, che pure hanno contribuito a far conoscere la ceramica indigena di Entella. Francesca Spatafora" in un recente articolo, oltre a individuare analogie tra le anse antropozoomorfe siciliane e le anse dipinte dei vasi dauni, individua analoghe «soluzioni di rappresentazione del volto umano» in alcune lamine bronzee e su alcuni cinturoni di Terravecchia di Cuti e Sabucina. Alcune delle teorîe esposte sopra rientrano, come si è visto”, in una corrente di studi che individua nella ceramica indigena dell'isola -- dalla preistoria" all'epoca della colonizzazione? - tipi e motivi decorativi mutuati o comunque influenzati dalla produzione più o meno coeva di altre regioni del Mediterraneo, Pur ammettendo le suddette analogie, ritengo che, nello studio della ceramica indigena della Sicilia (che sia preistorica o di VILVI sec. a.C.), solo una classificazione sistematica del materiale indigeno ole di quello “d'importazione” possa fornire i dati preliminari necessari per valutare la portata dei rapporti tra Sicilia, Cipro, Creta e Grecia e l'entità di eventuali apporti esterni?! TiroLocia

Le applicazioni antropomorfe e zoomorfe sono documentate su almeno quattro forme vascolari? anfore, pissidi cilindriche, askoi e tazze attingitoio, Come ho già detto, manca per questo tipo di ceramica una classificazione tipologica; tuttavia l'ottimo stato di conservazione dei pezzi esaminati, unito alla quantità esigua di forme vascolari che sembra contraddistinguere tale classe, non rende certo problematica l'elaborazione di una "tipologia” a cui fare riferimento*. Le uniche eccezioni sono rappresentate dalle anse antropo-zoomorfe di Segesta c Castellazzo® e dagli askoi frammentari di Castello della Pietra, Monte Saraceno e Sant'Angelo Muxaro. Per le anse di Segesta e Castellazzo, non conservandosi alcun esemplare integro, l'attribuzione a due tipi diversi si fonda esclusivamente sulla configurazione dell'ansa; per i frammenti di askoi da Sant'Angelo Muxano, Castello della Pietra e Monte Saraceno si è posto l'accento sulle caratteristiche stilistiche e pertanto, l'attribuzione a due tipi rimane dubbia. Per quanto riguarda le anfore è stato possibile distinguere, sulla base del profilo del corpo, quattro tipi, tre dei quali a decorazione incisa e impressa, l'ultimo caratterizzato indifferentemente da decorazione dipinta o impressa. 1l primo tipo (Tipo I: n. cat. 2, Tav. IT), noto grazie ad un esemplare da Entella, è apode, ha il corpo globulare, il collo leggermente rastremato al centro e le anse, a cordone schiacciato, impostate sul ventre in senso leggermente obliquo; è confrontabile con i tipi Fatta ΑἹ e A2 privi, tuttavia, di applicazioni plastiche, ma la forma nel suo complesso, trova riscontro anche nella ceramica a decorazione dipinta come dimostra un esemplare di Monte Finestrelle di Ghibellina” Un secondo tipo (Tipo II: n. cat. 15, Tav. ID), documentato a Polizzello e Naro”, si distingue dal precedente per le anse tubolari, impostate in senso verticale e per la presenza del piede troncoconico. La bocca presenta il labbro leggermente espanso e arrotondato. Un terzo gruppo di anfore (Tipo III: nn. cat. 8 e 16-18, Tav. II), attestato a Mura Pregne, Naro e Polizzello è apode, ha il corpo ovoidale allungato, il collo alto, la bocca leggermente svasata e le anse impostate in senso verticale. Come si accennava, Dario Palermo fa discendere queste ultime anfore dalla ceramica tardo micenea, trovando analogie con i tipi Stubbings E, E; si tratta tuttavia di prodotti cronologicamente lontani e realizzati in uno stile e in una tecnica decorativa completamente diversi”. Le anfore Tipo III (nn. cat. 8 e 16-18, Tav. II) trovano confronti™, per il profilo del collo e per l'impostazione delle anse, con il tipo Fatta A3, ma soprattutto, per il profilo del corpo, con il tipo Fatta A4?!, di piccole dimensioni, caratterizzato da beccuccio laterale e destinato pertanto, ad un uso diverso da quello delle anfore oggetto di studio. L'ultimo gruppo (Tipo IV: nn. cat. 19-20, Tavv. I-III) caratterizzato indifferentemente da decora694

zione ad impressioni o dipinta, rientra nel tipo O3 della ceramica matt-painted"'; questi ultimi esemplari simili alle anfore Tipo III, si distinguono da quelle per il labbro a tesa e per le anse, a cordone schiacciato, impostate in senso orizzontale sul ventre. In particolare, l'anfora n. cat. 19, decorata ad impressioni, ha il collo tronco-conico, è apode e presenta il fondo concavo? l'anfora n. cat. 20, si differenzia dalla precedente perla presenza del peduccio tronco conico* e per la decorazione dipinta. Anfore simili sebbene prive di applicazioni plastiche sono documentate nei siti della Valle dell. mera ma anche in alcuni centri ad Est del Salso*. Le pissidi (nn. cat. 21 e 22, Tav. I, 2), allo stato attuale della ricerca, sono note attraverso pochi esemplari. Si tratta di vasetti compositi, costituiti da un vasetto cilindrico e da un coperchio, caratterizzato ai bordi, da due applicazioni plastiche ornitomorfe o a protome equina. L'esemplare a decorazione dipinta (Tipo I: n. cat. 22), corrisponde nella recente classificazione della ceramica matt-painted, al tipo M1”; il vasetto, cilindrico, è leggermente rastremato verso l'alto, il fondo è convesso e il coperchio assume una forma tronco-conica con presa a bottone. A Vassallaggi il profilo e le applicazioni plastiche del Tipo I sono documentate in recipienti del V sec. a.C, detti incensieri. La pisside in questione trova inoltre confronto in un esemplare d’ignota provenienza esposto nel Museo di Catania e reso noto da Vincenzo La Rosa”. Quest'ultima pisside sembra attestare, nell'area sud orientale dell'isola, l'esistenza di un'ulteriore variante? caratterizzata da un coperchio sagomato e da una rappresentazione delle protomi equine decisamente naturalistica*. La pisside a decorazione impressa (Tipo II: n. cat. 21), si distingue dal tipo precedente per il profilo delle pareti convesso e peril coperchio a semicalotta schiacciata. Al momento, il tipo è noto solo attraverso questo esemplare da Polizzello e non compare, pertanto, nella classificazione di Virginia Fatta. Vincenzo La Rosa ritiene giustamente che il tipo sviluppi una forma della Media Età del Bronzo, diffusasi in seguito anche nell'Italia Meridionale. Analogamente, Francesca Spatafora®, che ha di recente ricostruito lo sviluppo tipologico delle pissidi protostoriche siciliane, interpreta gli esemplari di Polizzello e Catania come le attestazioni più tarde (VII sec. a.C.) di una forma documentata a partire dalla Media Età del Bronzo soprattutto nell’area centro-orientale della Sicilia. Si tratta, quindi, di una forma locale di antica tradizione‘, le cui caratteristiche tipologiche si mantengono invariate a lungo, come dimostrano gli esemplari da Vassallaggi. Allo stato attuale della ricerca non sappiamo, tuttavia, nulla sulle botteghe che hanno prodotto per la prima volta il tipo con applicazioni plastiche; infatti il confronto proposto da Vincenzo La Rosa con un esemplare calabrese rinvenuto in una tomba della necropoli di Torre Galli**, attesta in Calabria la "forma" ma non i tipi documentati in Sicilia; nè va dimenticato che solo l'esemplare da Catania, per le caratteristiche dell'impasto sembra essere stato prodotto da una bottega etnea. Gli askoi, caratterizzati esclusivamente da una decorazione a incisioni e impressioni, sono scarsamente documentati, e inoltre lo stato frammentario di essi impedisce un'articolazione per tipi. L'esemplare da Sant'Angelo Muxaro (n. cat. 24, Tav. IIT), di cui non è noto il contesto, è rotto in

corrispondenza dell'applicazione plastica ma tipologicamente è molto simile ad un askos da Licodia Eubea integro ma privo di decorazione“. A

causa della frammentarietà, un pezzo da Castello della Pietra“ (n. cat. 1), non può essere attri-

buito al tipo di Sant'Angelo Muxaro; al contrario, un frammento da Monte Saraceno di Ravanusa” che restituisce esclusivamente l'applicazione zoomorfa (n. cat. 25, Tav. III) potrebbe appartenere allo stesso tipo di Castello della Pietra come fa credere il confronto stilistico (v. infra) fra le due protomi ornitomorfe. L'ipotesi dell'esistenza di due diversi tipi potrà, tuttavia, essere confermata solo grazie a ulteriori scoperte‘; al momento, si può infatti solo rilevare che l'esemplare di Sant'Angelo Muxaro è stilisti» camente diverso dai due pezzi di Castello della Pietra e Monte Saraceno di Ravanusa; tutti i reperti sono decorati, comunque, secondo uno stile genuinamente locale. 695

L'esemplare di Sant'Angelo Muxaro *- l'unico (n. cat. 24), il cui stato di conservazione consente * di esprimere qualche giudizio - si differenzia dai noti esemplari fenici e ciprioti per l'assenza del beccuccio aggiunto, dell'ansa a cestello e soprattutto per lo stile. Dario Palermo pur riconoscendo l'«ecletticità» dell'esemplare siciliano, che presenta elementi morfologici mai attestati - tutti insieme - negli askoi ciprioti di età geometrica, fa dipendere gli askoi siciliani dalla produzione di quell'area. Le anse plastiche (nn. cat. 6, 7, 10, 11, Tav. IIT), attribuibili a tazze attingitoio, sono costituite da “piastre” pseudo rettangolari o pseudo trapezoidali caratterizzate da decorazione incisa e/o impressa. Sulla base del grado di stilizzazione con cui è stata resa la protome e soprattutto sulla base dell'uso della decorazione incisa o impressa sono stati enucleati due tipi. Il primo tipo (nn. cat.7 e 14, Tav. III) ricorre alla decorazione incisa solo per indicare le pupille. Nel secondo gruppo (cfr. nn. cat. 9, 10 e 11, Tav. III) la decorazione incisa e impressa viene utilizzata non solo per rendere i tratti fisionomici (i cerchi concentrici indicano bocca e occhi), ma anche come elemento decorativo fine a se stesso come dimostra l'uso di motivi a reticolo, di angoli inscritti e fasci di linee incise. Queste anse, spesso messe a confronto con espressioni analoghe della ceramica matt-painted dell'Italia meridionale", sembrano presentare maggiori affinità tipologiche con quelle della facies protoelima (IX-VIII sec. a.C) * dalle quali potrebbero derivare. MOTIVI E SINTASSI DECORATIVA

I vasi oggetto di studio sono decorati secondo tre diverse "tecniche": incisione, impressione e pittura; si distinguono dunque dalla coeva produzione geometrica a decorazione incisa/impressa e dipinta esclusivamente per la presenza di applicazioni plastiche zoomorfe e antropomorfe. Quest'ultime a volte sono applicate sul ventre (anfore nn. cat. 2, 8, 15-20) o sul coperchio del re piente (pissidi nn. cat. 21 e 22), a volte fanno tutt'uno con qualche elemento funzionale del recipiente come nel caso delle anse di Segesta e Castellazzo e degli askoi di Sant'Angelo Muxaro e Castello della Pietra. Va precisato che nei vasi in questione la tecnica incisa è sempre associata a quella impressa. L'in-

cisione, l'impressione, oltre che ~ naturalmente - l'applicazione delle tipiche costolature, venivano effettuate a crudo. L'incisione veniva realizzata con una sorta di stecca acuminata o con punta rotonda; perla decorazione ad impressioni verosimilmente dovevano esistere punzoni fittili con singoli motivi impressi ma anche utensili più complessi come ad esempio “rotelle” caratterizzate da una sorta di punta ruotante che permetteva di imprimere in maniera continua e ripetuta un determinato motivo.

È importante ricordare che la decorazione ad incisioni e impressioni vanta una lunghissima tra-

dizione che dall'età Neolitica (facies di Stentinello) giunge fino al V sec. a.C. Il motivo inciso tipico di questa produzione è rappresentato dalla linea retta che serve a delimitare bande, zone metopali oppure per disegnare triangoli e angoli. Nei vasi studiati le linee incise singole o a coppie parallele, servono a delimitare bande orizzontali e verticali campite da serie di punzonature, da tremoli obliqui, verticali e orizzontali, sigma, o da serie di linee ondulate orizzontali. Alcuni di questi motivi? come la linea ondulata, le linee ondulate disposte in senso orizzontale o verticale, i riempitivi dei cosiddetti “denti di lupo” furono realizzati con una rotella semplice (cfr. nn. cat. 8 e 16-19, Tav. IT). Lo stesso tipo di strumento servi per realizzare le lince ondulate disposte ἃ meandro dell'esemplare n. cat. 17. Ad un punzone a rotella, più complesso, è forse dovuto il motivo a sigma ripetuto, motivo presen-

te in buona parte dei vasi oggetto di studio (cfr. nn. cat.15, 16 e 17), dove campisce bande verticali, orizzontali e sinuose. Semplici punzoni fittili sono serviti per rendere i cerchi concentrici (nn. cat. 2, 16, 17) e le rosette

(n. cat. 15, Tav. IT).

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Ad una rotella “dentata o dentellata" vanno invece attribuiti i motivi decorativi che caratterizzano il collo dell'uccello nell'askos di Castello della Pietra (n. cat. 1) e le impressioni che caratterizzano Yansa antropomorfa di Castellazzo di Poggioreale (n. cat. 6). I motivi decorativi sopramenzionati, singolarmente presi, sono documentati indifferentemente sia nei siti della cuspide occidentale dell'isola * che in quelli della Valle dell'Imera; vanno, tuttavia, messe in evidenza alcune eccezioni: le coppie di omega contrapposte, incise sul collo di un anfora di Polizzello e i disegni incisi sul corpo della stessa anfora (n. cat. 18, Tav. II), al momento, non sembrano attestati nell'area ad W del Platani, viceversa la soluzione decorativa (ovuli impressi, pendenti da una linea incisa orizzontale) sul collo della protome ornitomorfa di Castello della Pietra (n. cat. 1) al momento — si presenta come un unicum. Il motivo a reticolo, diffusissimo sulle anse antropomorfe di Segesta, nei siti ad E del Platani è documentato nella ceramica a decorazione dipinta, ma sembra assente nella ceramica a decorazione incisa e impressa. L'anfora a decorazione dipinta n. cat. 20 (Tav. III) e la pisside n. cat. 22 (Tav. I, 2), provenienti da Polizzello, sono decorati secondo lo stile geometrico dipinto. Per stendere il colore, il vasaio sembra aver utilizzato un pennello; la vernice è marrone, l'ingubbiatura è costituita da una patina sottile di argilla (nocciola o biancastra) che poteva essere applicata o con il pennello o - come nel caso dei nostri esemplari - per immersione. Gli esemplari in questione presentano ampie fasce orizzontali, gruppi di linee verticali, oblique e opposte, coppie di zig-zag, utilizzati come riempitivi (n. cat. 20), angoli inscritti e denti di lupo (n. cat. 22). Singolarmente presi questi motivi sono presenti nella ceramica matt-painted di Polizzello, Vassallaggi, Sabucina, Marianopoli, Monte Saraceno*, Monte Bubbonia, Butera, Morgantina, Calascibetta* Alcuni di essi, come ad esempio i cosiddetti denti di lupo, gli angoli inscritti e i motivi a zig-zag appaiono anche sui vasi coevi a decorazione incisa di Sant'Angelo Muxaro”, Polizzello®, Castello della Pietra Entella‘° e Montagna Cavalli. Sui vasi oggetto di studio sono attestati tre diversi tipi di applicazioni plastiche: sul ventre delle anfore appaiono spesso costolature ad archi di cerchio (cfr. nn. cat. 2, 8, 15 e 16) o a cordoni sinuosi (nn. cat. 17, 18 e 20) da cui pende indifferentemente un listello verticale; su altre forme come, ad esempio, gli askoi e le tazze attingitoio di Segesta un elemento funzionale (rispettivamente beccuccio o ansa) appare foggiato a guisa di protome umana o animale; infine, sulle pissidi vengono appli cate protomi equine più o meno stilizzate. In quasi tutti i vasi l'incisione e l'impressione vengono utilizzate per rendere alcuni elementi fisionomici come bocca e occhi. Le rappresentazioni plastiche risultano quindi fortemente stilizzate anche quando si ricorre alla rappresentazione a tutto tondo come attestano i due frammenti di askoi da Monte Saraceno e Castello della Pietra e le pissidi di Polizzello. CONSIDERAZIONI E PROBLEMI DI CRONOLOGIA

Nello studio di questi vasi un grosso problema è spesso rappresentato dall'assenza di informazioni sul contesto di rinvenimento. Fatta eccezione per gli askoi provenienti rispettivamente da Castello della Pietra e da Monte Saraceno di Ravanusa, per i pezzi rinvenuti durante gli scavi della Necropoli Est di Polizzello e per Yanfora di Entella, per il resto del materiale non possediamo punti cronologici fermi. L'anfora n. cat. 2 (Tipo I, Tav. ID), da Entella, a corpo globulare e anse oblique sul ventre, è stata rinvenuta con materiali inquadrabili tra l'ultimo quarto del VII sec. a.C. e il primo quarto del VI sec. 2.0.8 L'anfora n. cat. 20 (Tipo IV = 03c matt-painted; Tav. IM) e le pissidi (Tipo I e Tipo II: nn. cat. 21 e 22; Tav. I) appartenenti rispettivamente alla deposizione 7 e allo strato 3 della tomba 5 di Polizzello, sono state trovate in associazione con coppe di tipo protocorinzio e con una brocchetta di tipo colo697

niale a fasce e metope; nello strato 3, è stata rinvenuta inoltre, una scodella decorata sul bordo da un motivo (fascia ondulata a risparmio) attestato, nei centri della Valle dell'Imera, a partire dalla fine del VII sec. a.C.-inizi VI sec. a.C.*; pertanto, il contesto induce a datare le anfore a corpo ovoidale

allungato (Tipo IV) e le pissidi suddette (Tipo I e II) verso la metà-fine del VII sec. a.C. Anteriore di

qualche decennio potrebbe essere l'anfora n. cat. 19 (Tipo IV)“, proveniente dallo strato 4 della tomba 25 di Polizzello, privo di ceramica d'importazione. Alla metà del VII sec. a.C. potrebbero risalire le anfore a corpo globulare ed anse verticali (n. cat. 15: Tipo II), di cui non si conosce il contesto. Esse sono simili ad esemplari inediti della già ricordata deposizione 7 della tomba 5%, databile tra la seconda metà-fine del VII sec. a.C e gli inizi del VI sec. a.C. Va, tuttavia, segnalato che le anfore della deposizione 7 hanno il labbro a tesa e le anse oblique sul ventre, e potrebbero pertanto rappresentare un “tipo” più evoluto rispetto all'anfora n. cat. 15.

Altrettanto problematico risulta risalire alla cronologia delle anfore Tipo III (nn. cat. 8, 16-18;

tav. ID. Il profilo del corpo ricorda le anfore nn. cat. 19-20 (Tipo IV), caratterizzate tra l'altro da cordonature plastiche del tutto simili, ma diverse per il labbro a tesa e per il tipo di anse. Non è dunque da escludere che le anfore a corpo allungato e labbro a tesa (nn. cat. 19 e 20: Tipo IV) si siano sviluppate proprio dal Tipo III, a bocca circolare e anse verticali (nn. cat. 8-16-18), databile, pertanto, nel corso della prima metà del VII sec. a.C.; le anfore attribuibili al Tipo III, sono, infatti, assenti in contesti di seconda metà - fine VII sec. a.C. L'askos di Castello della Pietra (n. cat. 1) era associato con una brocchetta a decorazione geometrica dipinta (Tigano = Tipo B 11) datata da Gabriella Tigano tra la fine del VII sec. a.C. e l'inizio del VI sec. a.C. Analogamente l'esemplare da Monte Saraceno di Ravanusa (n. cat. 24; Tav. IIT) è stato rinvenuto in associazione con frammenti d'imitazione protocorinzia e tardo corinzia; pertanto, la cronologia non può essere innalzata oltre la metà del VII sec. a.C. II tipo di decorazione che caratterizza l'askos di Sant'Angelo Muxaro (n. cat. 24; Tav. III) trova confronti nella ceramica a decorazione impressa più antica” (= Fatta: Muxaro I). La decorazione, a fasci di linee incise verticali delimitanti una serie di angoli inscritti, è completamente assente a Polizzello sulla ceramica degli strati sicuramente databili nel corso del VII sec. a.C. ma anche a Monte Saraceno in contesti di seconda metà del VII sec. a.C o di VI sec. a.C. per cui da questa congettura potrebbe ricavarsi un innalzamento della cronologia agli inizi del VII sec. a.C. o, più probabilmente, all'VIII sec. a.C. Ancora più problematico risulta, infine, stabilire la cronologia delle anse antropomorfe e z00morfe* (nn. cat. 6-7 e 9-14, Tav. IIT); sebbene, infatti, esse siano state datate tra la fine dell VIII sec. a.C. c il VII sec. a.C.®, non possediamo dati stratigrafici certi. Va, tuttavia, notato che le suddette anse a Segesta sono assenti in un contesto datato nel corso della seconda metà del VII sec. a.C”. Da quanto si è detto appare evidente come tale classe ceramica sia stata prodotta (salvo qualche rara eccezione) tra la metà del VII sec. a.C e il VI sec. a.C.

CaraLoco 1. Frammento di askos

Da Castello della Pietra, abitato. Argilla beige. Ricomposto da più frammenti. Si conserva la parte foggiata a testa di uccello. Sul corpo del vaso s'intravede la decorazione incisa costituita da angoli inscritti rovesciati. In corrispondenza del collo punzonature; l'occhio è reso con il consueto motivo a cerchi concentrici. Bibl. E. TowaseLLO, Inedito askos, cit, pp. 6-9. Cfr. D. Paterno, Polizzello cit, tav. XXVII, nn. 1-7; per il tipo di decorazione v.V. FATTA, La ceramica geometrica, cit. p. 189, figg. 177-181; p. 191, figg. 190, 193, 191, 195; p. 193, figg. 201-204; A. Di Noro, La ceramica indigena, cit. p. 80, fig. 1 d (2,3) Fine VII sec. a.C. 698

2. Anfora globulare (Tav. 1)

Da Entella, Necropoli. Argilla arancio/rosato, a grana media, inclusi biancastri. H. 38,2 cm, @ collo 15 cm. Danneggiata in corrispondenza del bordo. Anfora Tipo I. Sul ventre si dispone una cordonatura resa con due semicerchi tangenti da cui pende un listello verticale piuttosto tozzo. Sul collo, tra due linee incise orizzontali, si dispongono serie di triangoli contrapposti riempiti da tremuli, all'interno della zona determinata dalla cordonatura plastica cerchi semplici, Sulle due applicazioni arcuate sono state incise brevi lince oblique, sulla spalla grossi denti di lupo reticolati con i vertici verso l'alto; sulla parte inferiore del corpo entro una zona metopale si alternano cerchi semplici e reticoli; questi riquadri si interrompono in corrispondenza delle anse. In prossimità del fondo si dispone una fascia caratterizzata da serie di denti di lupo reticolati, con i vertici rivolti verso l'alto. Bibl. A. Di Noro, La ceramica indigena, cit., p. 100, fig. 17; G. Fatsoxr-A. Dt Noro-M.J. BrcxrR, Due tombe, cit., pp. 182-184. Ctr. E.De Miro, Polizzello, cit, tav. XIV, fig. 4a; G. CastELLANA, Tre indagini, cit., tav. Ila; per il corpo globulare cfr. v.Farra, La ceramica geometrica, cit., p. 183, fig. 154 (A. 1b). Fine VILVI sec. a.C. 3. Frammento di anfora

Da Entella, US 301/302. Argilla beige molto scuro con inclusi lucenti (sabbia). Misure: 5,7 x 4,2 cm. Sî conserva un breve tratto di ventre, S'intravede una cordonatura caratterizzata da linee impresse oblique a forma di gocce; in basso si distinguono tremuli orizzontali. Bibl. A. Dt Noto, La ceramica indigena, cit., p. 100, fig. 16,69. Fine VILVI sec. a.C. 4. Frammento di anfora

Da Entella, US 302. Argilla grigiastra nel nucleo, beige in superficie, impasto a grana media, pochi inclusi lucenti. Misure: 3,5 x 3 cm. Si conserva un breve tratto di ventre. Il frammento è decorato in corrispondenza del listello da tremuli orizzontali, sulla parete da tremuli obliqui. Bibl: A. DI Noto, La ceramica indigena, cit., p.100, fig. 16,70. Cfr. per il motivo a tremuli cfr. L. Ganpotro-M. R. La Lown-Sr. Vassatto, Montagna dei Cavalli, cit, p. 133, fig. 174. V. Farta,La ceramica geometrica, cit., p. 205, figg, 274 - 275. 5. Frammento di anfora

Da Entella, US 1. Argilla grigia, a grana assai sottile. Misure: 8,6 x 5,6 cm. Il frammento è riferibile al ventre. S'intravede un breve tratto della cordonatura sinuosa e del listello verticale, ai cui lati un motivo a triangoli con vertici in alto è campito da tremuli; ai lati dell'estremità superiore del listello verticale rosette impresse. Bibl. A. Di Noro, La ceramica indigena, cit., p. 100, fig. 16,71. Cfr. E. De Mino, Polizzello, cit., tav. XVI, fig. 6a; G. CASTELLANA, Tre indagini, cit, av. I, ac, 6. Ansa a piastra soprelevata

Da Castellazzo di Poggioreale, sporadico. Argilla grigio rosato, impasto a tessitura fine, pochi inclusi, superficie lisciata grossolanamente. Misure: 4,1 x 4,4 cm. Sono rotte le estremità superiori. L'ansa, quadrangolare, presenta ai lati due sporgenze triangolari ad orecchiette (rotte), è foggiata a guisa di volto fortemente stilizzato: il naso è reso plasticamente, gli occhi mediante un motivo a cerchi concentrici. In corrispondenza delle orecchiette punzonature allungate e oblique, variamente disposte. Bibl. G. Fatsoe-A. LeonarD, Missione archeologica a Monte Castellazzo di Poggioreale, in SicArch XI, 37, 1978, pp. 38-53, in particolarep. 42, fig. 6. V. Fatta, Nota, cit., p. 961, fig. 9a; tav. CCLVI, fig. 1 Cir. L.Benvano Bri, La Sicilia, cit. fig. 42.G. K. GAUNsky, Aeneas, Sicily and Rome, Princeton, 1969, tav. 65. S. Tusa, op. cit., p. 654, fig. 66, h VII sec. a.C. 7. Ansa a piastra soprelevata Da Castellazzo di Poggioreale, area sacra, vano 4, strato di distruzione. Argilla grigia nel nucleo, rosata in superficie, inclusi neri e bianchi, leggera ingubbiatura rosa/avorio; superficie lisciata sommariamente. Misure: 6,4 x 8,2 cm. Si conserva l'estremità superiore dell'ansa. 699

L'ansa a piastra ha una forma a trapezio rovesciato. Gli occhi sono resi con semplici cerchi incisi, il naso con una bugna a sezione quadrangolare. Sull'estremità superiore sono dipinti brevi segmenti obliqui. Bibl. V. FATTA, Nota, cit., p. 961, fig.9. Cfr. S. Tusa, La Sicilia, cit.p. 654, fig. 66,1. VII sec. a.C. 8. Anfora ovoidale

Da Mura Pregne. Argilla depurata di colore rosa pallido. H. 26 cm. Ricomposta da vari frammenti, lacuna in corrispondenza della bocca, mancano le anse. Anfora Tipo III, decorata sul collo da motivo a denti di lupo campiti da tremoli. Sul ventre si dispone la consueta cordonatura plastica costituita da due applicazioni ad arco di cerchio e da un listello verticale. Ai lati di essa ritorna il motivo a serie di triangoli campiti da tremoli obliqui In prossimità del fondo si dispone un'altra serie di triangoli c più in basso una banda orizzontale campita da tremoli. Bibl. A. C. Di SreraNo, Mura Pregne. Ricerche su un insediamento nel territorio di Himera, in AA.VV., Secondo Quaderno Imerese, Roma.1982, tav. XLV, fig. 3; G. CasteLLANA, Tre indagini. cit. tav. III, b. Chr. G. CasteLLANA, Tre indagini, cit, tav. IIT, c; tav. I Peri triangoli campiti da serie di tremoliv. A. Di Noro, La ceramica indigena, cit., p.94, fig. 11,29 e 11,31. 9. Ansa a piastra soprelevata (Tav. III) Da Segesta. Argilla grigiastra. Misure: 4,2 x 3,2 cm. Rotte le due estremità superiori. L'ansa a piastra, è decorata in corrispondenza delle estremità superiori da linee incise oblique, sotto il naso - reso plasticamente - da un fascio orizzontale composto da quattro linee incise. Bibl. L. Βεκναβὸ Brea, La Sicilia, cit., p. 181, fig. 42c; V. La Rosa, Le popolazioni della Sicilia, cit., tav. 2, fig. 65e. Cfr. n. cat. 6. VII sec. a.C.

10. Ansa a piastra soprelevata (Tav. II) Da Segesta. Argilla rossiccia. Misure: 7 x 4 cm. Si conserva anche un brevissimo tratto della vasca. L'estremità superiore è di forma poligonale; in corrispondenza di questa s'intravedono triangoli inscritti, al centro dei quali si colloca un motivo a cerchi concentrici; il motivo a cerchi concentrici ritorna in corripondenza degli occhi e della bocca. Bibl. L. Brenand BREA, La Sicilia, cit., p. 181, fig. 42b; V. La Rosa, Le popolazioni della Sicilia, cit, tav. 2, fig. 65d. VII sec. a.C. 11. Ansa a piastra soprelevata (Tav. III)

Da Segesta. Argilla grigiastra. Misure: 5 x 4,8 cm. Danneggiata in corrispondenza dell'estremità superiore. Ansa dello stesso tipo della precedente ma a differenza della n. cat. 10, conserva le due appendici laterali che simboleggiavano le braccia. Bibl. L. Bernanò Brea, La Sicilia, cit., p. 181, fig. 42a Osservazioni: altri due frammenti simili sono pubblicati rispettivamente da V. LA Rosa, Le popolazioni della Sicilia, cit., tav. 2, fig. 65c e in Aa.Vv., L'Emergere delle etnie, cit, p. 229, fig. VITI. VIL sec. a.C. 12. Ansa a piastra soprelevata

Da Segesta. Argilla arancione. Misure: 2,2 x 4,8 cm. Si conserva l'estremità superiore. I frammento appartiene ad un'ansa dello stesso tipo della n. cat. 6; è decorato da linee incise e opposte separate da due bande verticali campite da trattini orizzontali. Bibl. V. La Rosa, Le popolazioni della Sicilia, cit., tav. 2, fig. 65a VII sec. a.C. 13. Ansa a piastra soprelevata Da Segesta. Argilla rossiccia. Misure: 4 x 4,8 cm. Danneggiata in corrispondenza dell'estremità superiore. 700

Molto simile alla n. cat. 11; linee incise a coppie delimitano un rettangolo campito da angoli inscritti; sopra questo s'intravede un motivo a denti di lupo, e in corrispondenza del bordo della vasca un motivoa reticolo. Bibl. V. La Rosa, Le popolazioni della Sicilia, cit., tav. 2, fig. 65b VII sec. a.C. 14. Ansaa piastra soprelevata (Tav. TII) Da Segesta. Argilla grigia. H. 12 cm. Si conserva intera. L'estremità superiore, a trapezio rovesciato, si confronta con il n. cat. 7, ma nel frammento in questione rimangono l'elemento rettangolare su cui s'innestava la testa e i due cornetti laterali, impostati in senso verticale. Bibl. V. La Rosa, Le popolazioni della Sicilia, cit, tav. 2, fig.66;S. Tus,La Sicilia, cit, p. 654, fig., 66, Au Vv. L'emergere delle etnie, cit., 232, v. V. 181. VII sec. a.C. 15. Anfora globulare (Tav. VI)

Da Mussomeli, sporadico. Argilla beige, ingubbiatura beige, vernice bruna. H. 19,5 cm; @ bocca 10,1 cm. Piccole scheggiature sul labbro, piccola lacuna sul ventre; l'ingubbiatura è in parte scrostata. Anfora Tipo II, decorata lungo il bordo da punzonature; sul collo, tra due linee incise, si dispongono alcune rosette a decorazione impressa; alla base del collo una banda orizzontale è caratterizzata da serie di sigma rovesciate; sulla spalla una banda verticale decorata da linee ondulate orizzontali “investe” un'ampia costolatura, bipartita al centro, e sottolineata da una fascia sinuosa campita da serie di sigma. I “riquadri” determinati dalla suddetta costolatura sono caratterizzati da una rosetta impressa; in prossimità del fondo una banda orizzontale delimitata da due linee incise appare decorata da una serie di tremoli. Bibl. G. CASTELLANA, Tre indagini, cit., tav. HI, a; D. Patenuo, Polizzello, cit, p. 132, fig. 9a Cfr. A.Dr Noto, La ceramica indigena, cit. figg. 16, 66 e 16,71 VIT sec. a.C. 16. Anfora ovoidale

Da Naro, sporadico. Argilla arancione, depurata. H. 27 cm, @ bocca 13 cm. Scheggiature sul corpo Anfora Tipo III, decorata sul collo da due bande delimitate da coppie di linee incise e campite da fasci di linee orizzontali ondulate. Sulla spalla si dispone una banda verticale delimitata da coppie incise verticali e campita da serie di sigma rovesciate. Ai lati della banda suddetta si dispongono tre cerchi semplici, incisi. Sul ventre la consueta costolatura resa con un andamento sinuoso è sottolineata da una banda decorata da serie di tremuli verticali. Nella parte in cui il ventre si presenta rastremato verso il basso è stato applicato un listello affusolato, all'apice del quale ritornano i soliti cerchi semplici. Una banda orizzontale caratterizzata da fitti tremuli spone ai lati del lstello. Bibl. G. CAsrELLANA, Tre indagini, cit., tav. ΠῚ, c. Cfr.v.n. cat. 17 VII sec. a.C. 17. Anfora ovoidale

Da Naro, sporadico. Impasto a grana grossa grigio/scuro; superficie lisciata e ingubbiatura marrone chiaro. Δ max. 11,5 cm, 6 10 cm. Manca la metà superiore. Anfora Tipo III simile alla precedente anche per la decorazione, si distingue dalla n. cat. 16, per la presenza di cerchi concentrici ai ati del listello verticale e per i quadrati inscritti che decorano la metà inferiore del vaso. Bibl. G. CASTELLANA, Tre indagini, cit, p.212, tav. I, figa. VIL sec. a.C. 18. Anfora ovoidale (Tav. II)

Da Mussomeli-Polizzello, sporadico. Argilla arancione in superficie, ingubbiatura biancastra. H. 23,5 cm (d bocca 9,5 cm.. Ansa integrata, lacuna sul labbro. Anfora Tipo III, sul collo tra due bande orizzontali campite da linee ondulate, coppie di omega contrapposte. La spalla è caratterizzata da due bande verticali delimitate da coppie di linee incise e campite da lunghi tremoli verticali; quest'ultimo motivo ritorna nella parte inferiore del corpo. Sul ventre si dispongono le consuete costolature dal cui centro scende un listello verticale che delimita 701

quattro riquadri: nei riquadri di una "faccia" sono rappresentati un cavaliere e un toro di profilo: sull'altra: una ruota divisa in quattro triangoli campiti da punzonature, e volatili di profilo, di cui uno retrospicente. Bibl. E. Ganrici, Polizzello, cit, p. 7, tav. I; G. CasteLLANA, Tre indagini, cit. p. 212, tav. I, figg. a-c. VII sec. a.C. 19. Anfora ovoidale (Tav. 11)

Da Polizzello, necropoli est, tb 25, strato 4. H. 25 cm. Un'ansa è danneggiata. Anfora Tipo IV, assimilabile al tipo O3a della ceramica matt-painted. La costolatura è costituita da due brevi cordonature a semicerchio; un gruppo di tre cerchi concentrici si dispone rispettivamente al centro della costolatura e proprio sotto dei due semicerchi. Il collo è decorato da un motivo a zig-zag. Il corpo del vaso appare diviso in due zone da linee incise: sulla spalla si dispongono triangoli campiti da linee incise oblique, sul ventre tra due coppie di linee incise triangoli campiti da serie di tremoli. Bibl. E. D Miro, Polizzello, cit., tav. XIV, fig. 4a; C. Tron, La ceramica indigena dipinta, cit., tav. LXXXIV. Cir. peril tipo D. Pauermo, Polizzello, cit, tav. XLV, fig.193; E. De Miro, Polizzello, cit., tav. XVI, fig. 4 b c. Metà/fine del VII sec. a.C. 20. Anfora ovoidale (Tav. TID) Da Polizzello, necropoli est, tb 5, deposizione 7. Argilla arancione; ingubbiatura giallino/biancastra. H. 29 cm. 11 collo si conserva per 1/4 e risulta ricomposto da vari frammenti. Anfora Tipo IV, assimilabile al tipo 03c della ceramica matt-painted. Il vaso, a decorazione dipinta, presenta sul ventre una cordonatura sinuosa dal centro della quale scende un breve listello verticale; le due applicazioni plastiche sono state dipinte. Il collo appare decorato da ampie fasce orizzontali; sulla spalla tra due bande orizzontali si dispone una zona metopale in cui si alternano gruppi di linee verticali e coppie di linee a zig-zag orizzontali. Il ventre è decorato da fasci di linee oblique e opposte e, al di sopra della citata costolatura da una coppia di zig-zag orizzontali. Bibl. E. DE Miro, Polizzello, cit., tav. XVI, fig. 6a; C. Trot, La ceramica indigena dipinta, cit., tav. LXXXIV. Chr. n. cat. 19 Metà/Fine VII sec. a. C. 21. Pisside cilindrica (Tav. I, 2)

Da Polizzello, necropoli est, tb 5, strato 3. Argilla arancione, rimangono tracce di ingubbiatura rossa in corrispondenza di una delle due applicazioni zoomorfe H. 13.7 cm (H. coperchio 5,2 cm). Ampia scheggiatura sul corpo. Il corpo, a profilo leggermente convesso, è decorato da fasce orizzontali campite da tremoli e delimitate da linee orizzontali incise; il coperchio, caratterizzato da due applicazioni zoomorfe a guisa di protomi equine, ha una forma amigdaloide, ed è decorato da un motivo a stella composto da triangoli disposti a raggiera. Bibl: F. Spatarora, Su alcune pissidi, cit., p. 77. Cr. Perle applicazioni sul coperchio: v. P.OrLANpint, Vassallaggi, cit. p. 85, fig. 30. Fine del VII sec. a.C. 22. Pisside cilindrica (Tav. 1,2) Da Polizzello, necropoli est, tb 5, strato 3. Argilla arancione, ingubbiatura giallino/biancastra. H. 10 cm, 0 base 8,3 cm, @ bocca 6,7 cm. Si conserva intera, lesione in corrispondenza di una delle applicazioni plastiche. Pisside cilindrica Tipo I corrispondente alla forma Mia della ceramica matt-painted, con coperchio conico, decorato da angoli inscritti dipinti; su due lati di esso s'impostano due applicazioni plastiche ornitomorfe (?). Il vasetto è decorato da cinque file di denti di lupo. Bibl. E. Dr Mino, Polizzello, cit., tav. XVI, fig. 5; C. Toms, La ceramica indigena dipinta, cit., tav. LXXXTI. Cfr. P.OrtanpinI, Vassallaggi, cit. p. 85, fig. 30; V. La Rosa, Le popolazioni della Sicilia, cit., 41-49. Fine del VII sec. a.C. 23. Anfora ovoidale

Da Nicosia (?), sporadico. Argilla rossiccia, numerose bolle di cottura; ingubbiatura biancastra. H. 23,7; 6 16,2 cm. Manca buona parte del collo e delle anse. Anfora dello stesso tipo delle nn. cat.8, 16-18. Il ventre su i due lati presenta una banda verticale delimitata da linee incise e campita da tremuli orizzontali; questo motivo 702

caratterizza anche la banda sinuosa che si estende al di sopra della consueta costolatura ad ampia onda. Ai lati dell'estremità superiore del listello verticale due rombi incisi; questi ritornano immediatamente sotto la costolatura sinuosa del ventre. Ai lati del listello verticale, sotto i rombi, due bande, delimitate da due coppie di linee incise, sono caratterizzate da serie di zig-zag. Bibl. G. CastELLANA, Tre indagini, cit., p. 212, tav. I, figg. b c. Osservazioni: credo che non possa trattarsi di un prodotto di un sito tra i Monti Erei e l'Appennino Siculo; la forma e la decorazione riportano alla Sicilia occidentale e in particolare all'area centro occidentale. VIIVI sec. a.C. 24 . Askos (Tav. TII)

Da Sant'Angelo Muxaro, sporadico. Argilla bruna nel nucleo, in superficie bruno/rossiccia. Misure: H. 11 cm, lungh. 14,5 cm. Manca la parte foggiata a protome di uccello. Laskos è decorato da fasci di fitte linee incise interrotte da una serie di angoli inscritti Bibl. D. PaLERMO, Askoi, cit, tav.. XXVII, pp.3-6 Confr. D. PaLeRMO, Askoi, cit, tav. XXVII, figg.1-2; E. Tomaset1o, Inedito askos, cit., p. 6, fig. 5b. VIII sec. a.C. 25. Frammento di askos (Tav. VI)

Da Monte Saracenodi Ravanusa, acropoli. Argilla grigiastra con inclusi bianchi, giallina in superficie. Misure: H. VM cm, lungh. 14,5 cm. Rimane la parte foggiata a guisa di testa di uccello. Il frammento è decorato da tremuli, ovuli tratteggiati, cerchi concentrici, linee incise parallele e orizzontali. Bibl. A. Siracusano, L'Acropoli, cit., tav. XXI, fig. 2. Seconda metà/fine del VII sec. a.C. CoNcLUsIoNr?*

L'esame sistematico del materiale finora pubblicato, considerata l'esiguità numerica, ma anche la mancanza di notizie relative ai contesti di alcuni pezzi, è ben lungi dal permettere di trarre conclusioni assolute, tuttavia, offre un contributo, seppur modesto, alla conoscenza della ceramica indigena prodotta in Sicilia tra il VII e il V sec. a.C. Come è noto, la letteratura archeologica, basandosi sulla testimonianza delle fonti antiche, ha attribuito i vasi sopra illustrati, di volta in volta, a botteghe «sicane» o «climes. Senza addentrarci nella questione assai dibattuta sull'origine e identità etnica delle popolazioni stanziatesi, secondo la tradizione storiografica, rispettivamente nella cuspide occidentale e nell'area centro occidentale della Sicilia, va comunque ricordato che negli ultimi anni, basandosi sulle analogie della produzione ceramica delle due aree, la leggittimità di una definizione come ceramica "elima" è stata - a volte — contestata”. L'analisi della ceramica caratterizzata da applicazioni plastiche ha invece, a mio parere, avvalorato alcune ipotesi di lavoro emerse in un recente studio sulla ceramica matt-painted della Sicilia”. La maggior parte della ceramica indigena "elima" (a decorazione dipinta, incisa e, con o senza applicazioni plastiche) resa nota, ricade in un arco cronologico inquadrabile tra la fine del VII sec. a.C. e l'inizio del V sec. a.C e presenta in linea generale analogie con la ceramica diffusa ad E del Platani. I frammenti nn. cat.3-5, rivelano ad esempio, tra la fine del VII e il corso del VI sec. a.C., la diffusione ad Ovest del Platani di tipi ampiamente attestati nei siti della Valle dell'Imera già a partire dalla metà del VII sec. a.C. Tuttavia, non va dimenticato che l'analisi della ceramica matt-painted, ha rilevato che le analogie riguardano soprattutto i motivi decorativi e che queste vanno messe in relazione con la contiguità geografica e con l'esistenza di vie naturali di comunicazione, come le vallate fluviali, che hanno sicuramente favorito scambi e relazioni tra gruppi etnici insediati in aree assai vicine. Tali rapporti, nel corso dei secoli e in particolare del VII sec. e del VI sec. a.C., avevano evidentemente attenuato e, interagendo con altri fattori (ad esempio colonizzazione greca e fenicia), fatto scomparire “diversità di origine etnica e culturale”. 703

Viceversa, la ceramica attribuibile alla facies protoelima (metà IX sec. a.C-metà VIII sec. a.C.) ele

tazze attingitoio con anse antropomorfe - oggetto di studio ~ che da quella “derivano”, non trovano confronti nella ceramica ad Est del Platani. Nè va dimenticato un dato acquisito di recente: l'analisi tipologica” della ceramica indigena rivela, nell'area ad Ovest del Platani la predilezione per alcune forme (ad esempio ciotole di grandi di mensioni), assenti ad Est del Platani (Valle dell'Imera), dove al contrario risultano assai diffuse altre forme come ad esempio le scodelle. L'uso di alcune forme a discapito di altre potrebbe quindi att buirsi al perpetuarsi di tradizioni artigianali e di usi più antichi, e di conseguenza, ad un retaggio culturale diverso da quello dell'area ad Est del Platani". Prima di concludere mi sembra inoltre significativo ricordare che i tipi esaminati non mostrano analogie stringenti con la produzione coeva dei coloni, nè rivelano - come si è dimostrato nel paragrafo relativo alla tipologia - un'imitazione pedissequa di modelli tardo geometrici o tardomicenei. L'esame sistematico della tettonica dei vasi, della tecnica e delle diverse soluzioni decorative rivela semmai l'opera di un artigianato che conserva e nello stesso tempo rinnova un'antica tradizione produttiva. Da questa breve analisi emerge infine come lo studio di questa ceramica non possa prescindere da quello dei vasi a decorazione geometrica dipinta e impressa. La ceramica, oggetto di studio, come si è detto si differenzia dalla coeva produzione a semplice decorazione geometrica dipinta o impressa, esclusivamente per la presenza delle più volte ricordate applicazioni antropomorie, per il resto, i motivi decorativi impressi o dipinti trovano puntuali confronti nelle produzioni contemporanee di ceramica matt painted e di ceramica geometrica a decorazione incisa. Ritengo pertanto che questi vasi vadano studiati nell'ambito dello stile geometrico, di cui rappresentano una delle tante e soprattutto ultime manifestazioni. Questa produzione rientra infatti, come è stato già osservato, in una sorta di Koinè ceramica che durante la media e tarda età del Ferro coinvolge varie zone del Mediterraneo e che in Sicilia trova varie soluzioni espressive, come dimostra la contemporanea produzione di ceramica geometrica dipinta, di ceramica a decorazione impressa e di ceramica a decorazione dipintae impressa caratterizzata da applicazioni antropomorfe o zoomorle. NOTE © Mi è gradito ringraziareil Prof. E. De Miro eil Prof. Francesco D'Andria per aver guidato i mici studi e il tema di ricerca affrontato nel presente contributo. Un grazie particolare va anche al Soprintendente dei BB.CC.AA. di Agrigento Dott.ssa G. Fiorentini perla disponibilità dimostratami nella mia attivitàdi ricerca; ringrazio, inoltre, la Dott.ssa C.A. Di Stefano (alloτὰ Soprintedente dei BB.CC.AA. di Palermo) e la Dott.ssa R. Panvini (Direttore della sezione archeologica della Sopritendenza dei BB.CC.AA. di Caltanissetta) Un sentito ringraziamento va, infine, all'Arch. G. Cavaleri, per aver eseguito i profili dei vasi nn. Cat. 21, 22, 15, 18, 19 e 20. (I profilo della pissiden. cat. 21 èdell'autrice) * Perla suddivisione della Sicilia in aree geomorfologicamente unitarie e coerenti e, sulle motivazioni di tale scelta metodologica cfr. C. Teowmt, La ceramica indigena dipinta dalla seconda metà del IX sec. a.C. al V sec. a.C., in Il Sistema Mediterraneo (Atti Convegno Messina 1996), Cosenza 1999, pp. 275-293, in particolare: pp. 277-278 e tav. LXXX e XC-XCII. Castello della Pietra, Castellaccio di Poggioreale, Entella, Mura Pregne e Segesta ricadono in un primo distretto convenzionalmente definito Valle del Belice e monti circostanti; con tale definizione s'intende pertanto l'area ad Ovest del Fiume Torto e del Platani. Monte Saraceno, Naro, Sant'Angelo Muxaro e Polizzello rientrano invece nella seconda unità (Valle dell'Imera), compresa tra il Platani c jl fiume Torto ad W e l'Imera Settentrionale e Meridionale ad Est. ? Il sito ricade nell'area convenzionalmente definita Valle dell'Imera (cfr. nota 1). Si tratta dell'area delimitata a NW dal Fiume Torto, a NE dall'Imera Settentrionale, a SW dal Platani e a SE dal Salso. ? E. Ganci, Polizzello, abitato preistorico presso Mussomeli, in AAPal XIV, 1925, pp. 3-11 * Definizione convenzionalmente usata per indicare l'area ad Ovest del Platani (cfr. nota 1), ? J. Bovio manconi, El problema de los Elimos, in Ampurias XII, 1950, pp. 79-96. * LL Benwasò para, La Sicilia prima dei Greci, Milano 1958, p. 181. 7 V. Fatta, Nota su alcune iconografie della ceramica indigena, in Kokalos XXVI-KXVII, pp. 43-48. * D. Pater, Polizello, in M. Frasca-D. Patenno (edd.), Contributi alla Conoscenza dell'età del Ferro in Sicilia, Monte Finocchito e Polizzello, Catania 1981, p. 131e n. 203, * D. PateRo, Askoi omitomorfi della Sicilia indigena, in CASA 22, 1983, p. 95. "© G. Castana, Tre indagini sulla cultura indigena in Sicilia, in Studi in onore di G. Maetzke, Roma 1984, pp. 221-227. 704

τι G. Caputo, La rappresentazione del toro e l'antico interesse a questo tema nella terra di Cocalo, in 1° Simposio internazionale di Protostoria italiana (Atti Convegno Orvieto 1967), Roma 1969, pp. 39-48; A. Tusa CUrRONI, Sopravvivenze di un motivo miceneo su monete sicilote, in 1° Congresso Internazionale di Micenologia (Atti Convegno Roma 1967), pp. 266-274; V. La Rosa, Un frammento fitle da Capodarso e il problema delle sopravvivenze micenee in Sicilia, in CASA 8, 1969, pp. 33-46. V. inf ne D. PALERMO, Materiali di tradizione cretesea Polizello, in Antichità cretesi. Studi in onore di Doro Levi Il, Catania 1974, pp. 208-212; E. DE Mino, Influenze cretesi nei santuari ctoni dell'area geloo-agrigentina, în ibid., pp. 202-207. In., Nuovi dati del problema relativo allellenizzaziove dei centr indigeni della Sicilia centro occidentale, in BdA LX, 1975, pp. 123-128. © G. Castetuana, Tre indagini, cit. pp. 217-218. © S. Tusa,La Sicilia nella preistoria, Palermo 1992, p. 651. " S, Tusa, La “problematica elima" e testimonianze archeologiche da Marsala, Paceco, Trapani e Buseto Palazzolo, in SicA 78-79, pp. 77-81. "5 Ὁ. FALSONE-C. A. Di Noro-M. J. Becken,Due tombe arcaiche da Entella, in G. Nexci (ed), Alla ricerca di Entella, Pisa 1993, pp. 157-194, 1995, pp. A, Di woro, La ceramica indigena a decorazione geometrica incisa e impressa, in G. Nexci (ed.) Entella I, 77-10. F. Satarora, Gli Elimi e l'tà del Ferro nella Sicilia occidentale, in R. Leroston (ed.), Early Societies in Sicily, pp. 156-165, in particolare p. 162. " Chr. nota 11. “5 In un recente articolo E. De Miro (cfr. E. Dr umo,La Media Età del Bronzo in Sicilia ed i rapporti con il mondo miceneo: la ceramilo studioso, per esempio, nuovi dai, in QuadMess 7, 1992, pp. 25-32) parla di «comunità indigene egeizzate». Secondo ca castellucciana (Primo Bronzo) sarebbe d'influenza mesoelladica e la penetrazione egea verso l'interno, della Media Età del Bronzo, creò «un sostrato che nella prima età del ferro fino all'età storica informerà la produzione dell'area sicana della Siciao. » Si è molto insistito sulla presenza di ceramica a decorazione geometrica greca in epoca anteriore alla fondazione delle prime colonie (ad es. nella Necropoli di Marcellino presso Villasmundo: cfr. G. Voza, Contatti precoloniali col mondo greco, in Poctiese Cararett (ed), Sikanie, Milano 1985, pp. 543-561), in maniera da sottolineare la dipendenza della produzione sici liana (matt-painted) da quella greca. ἫΝ Peri rinvenimenti di ceramica micenea in Sicilia e Magna Grecia cfr. W. TavLoun, Mycenean Pottery in Italy, Cambridge 1958; L. Vacnern (ed.), Magna Grecia e Mondo Miceneo (Atti Convegno Taranto 1982), Taranto 1982; per i rinvenimenti nell'agrigentino cfr. E. DE Miro, La Media Età del Bronzo, cit, p. 30; E. De Mmxo-D. DeorsorA, Gli empori micenei in Sicilia Thapsos e Cannatello, in A-Vv., Contatti e scambi ege nel territorio agrigentino nel Ile I millennio a. C. 1 Micenei ad Agrigento (Atti Convegno Agrigento 1993), Roma 1996, pp. 43.50; v. infine G. CasTe.tana, Primi dati sulle ceramiche egee provenienti dal santuario castellucciano di Monte Grande di Agrigento, in AaWv., Culture marinare nel Basso Tirreno nei secc. XVI-XV sec. a. C. (Atti Convegno Napoli) n c. s. Com'è noto mancano, tuttavia, studi propriamente tipologici sulla ceramica preistorica indigena e sulle importazioni micenee e cipriote. Per Eta del Ferro vanno invece ricordate le classificazioni tipologiche della ceramica di Sant'Angelo Muxaro (ctr. V. Far ta, La ceramica geometrica di Sant'Angelo Muxaro, Palermo 1983), di Sabucina (cfr. G. TicaNo,La ceramica indigenada Sabu. cina, in QuadMess 1, 1985-86, pp. 55-78), di Entella (cfr. A. Di voro, La ceramica indigena, cit., pp. 77-110; M. Garcia, La ceramica indigena a decorazione geometrica dipinta, in G. Nexci (ed.), Entella I, Pisa 1995, pp. 111-161) c infine della ceramica La ceramica indigena dipinta, cit. pp. 275-293), in cui viene,tra l'altro, sostenuta l'umatt-painted della Sicilia (cf. C. Trout, tilità di uniformare, nella classificazione della ceramica indigena o locale, la terminologia al fine di agevolare il confronto tra dei dati di scavo. Normalizzaziogruppi di studio. Su tale problematica cfr. M. P. Caccis-V. Mruissxo, Il sistema perla gestione Lecce-Bari 1997, 97-116. ne dei dati e vocabolari, in F. D'anpRI (ed.), Metodologie di catalogazione dei beni archeologici, dalla © Vanno infatti ricordate due "fruttiere" acrome inedite, esposte di recente nel Museo di Caltanissetta, provenienti “tip” diversi caratterizzati altomba 5 della Necropoli Est di Polizzello (deposizione 7). Esse documentano l'esistenza di due l'interno della vasca da applicazioni plastiche configurate a protome taurina. La “fruttiera” contraddistinta, in vetrina, con il il piede ha un dia n. 6, è caratterizzata da una vasca molto bassa con labbro a tesa; lo stelo, robusto, è rastremato verso l'alto, solo le corna tauri metro di poco superiore al diametro della bocca. All'interno della vasca l'applicazione zoomorfa riproduce all'esterne. La fruttiera contraddistinta con il n.7, presenta la vasca emisferica con labbro ingrossato leggermente angolato n; lo stelo è più sottile e il piede ha un diametro inferiore rispetto a quello della bocca; all'interno della vasca la protome taurina pur se fortemente stilizzata è rappresentata per intero. 5! Sull'importanza dell'elaborazione di glossari tipologici cfr. M. P. Caccux-V. Metissano, Il sistema per la gestione dei dati di scavo, cit, 97-116, in tipi, poiché i suddetti vasi riprendono molto ™ Pur avendo suddiviso le forme caratterizzate da applicazioni plastiche il tipo corspessola tipologia della ceramica dipintae impressa, nel caso della ceramica geometrica dipinta verrà richiamato rispondente isolato in un recente lavoro sulla ceramica matt-painted della Sicilia (cir. C. Tom, La ceramica indigena dipinta, plastiche, non cit tav. LXXXI-XCID). Va ricordato che i vasi a decorazione incisa e impressa caratterizzati da applicazionia quelli a decoracompaiono nello studio tipologico della Fata (eft. V. Farra, La ceramica geometrica, ci.) ma, analogamente zione dipinta sopra citati, sono da considerare come una sorta di “variante” dei tipi privi di applicazioni. ἀν Cfr. V. La rosa Le popolazioni della Sicilia: Sicani, Siculi e Elimi, in Pucutese CanareLLI (ed.) Italia Omnium Terrarum Parens, Milano 1989, pp. 3-101; V. FATTA, Nota, cit. p.961, figg. a; S. Tusa, La Sicilia, cit, p. 654, fig. 66. Virginia Fatta attribuisce le anse a “coppe” (cfr V. Fara, Nota, cit, p. 962) » V. Farra,La ceramica geometrica, cit, avv. 12-13. 705

? G. Mawano, Monte Finestrelle di Gibellina, in M Vv. (ed), I Quaderni di Sicilia Archeologica,p. 111 5 Centri della Valle dell'Imera. » Cfr. F. F. Srumincs, The Mycenaean Pottery f Attica, in ABSA, XLII, 1947,p. 44, fig.19. » Vedi D. Pane, Polizzell, cit.p. 131,n. 20. ἘΝ, Fata, La ceramica geometrica, cit, tav. 15, nn. 190-195 (tipo A3), 197-198 (tipo M). ? C. Teo, La ceramica indigena,cit tav. LXXXIV. © Si tratta in particolare della variante 03a (cfr. C. TRowst, La ceramica indigena, cit, tav. LXXXIV) 5 Si tratta della variante O3c (cfr. C. Troms, La ceramica indigena, ci. tav. LXXXIV), » Cfr. D. Patzrvo, Polizzello cit, tav. XLV, fig. 193; tav. XLVI, fig. 204; E. De nto, Polieello, centro della Sicania, in QuadMess3, 1988, tav. XIV, fg. 3. * Cf. D. AawsrtANU, Butera, Piano della Fiera, Consi e Fontana Calda, in MAL, XLIV, 1958, pp. 518-519, fig, 195b. Cl. C. Taowm, La ceramica indigena, ct, tav. LXXXIII 5 Cfr. P. Onsanoint, Vassallaggi. La necropoli meridionale, scavi 1961, in NSA, Suppl. XXV, 1971,p. 85. » Cfr V. La Ross, Una pisside sicula nel Museo Civico di Catania, in CASA X, 1971, pp. 41-45. “ Corrisponde al tipo Mib: cr. C. Troms, La ceramica indigena, ct. tav. LXXXI. ^? L'analisi dell'impasto, caratterizzato da abbondante tritume lavico, fa pensare ad una bottega di qualche centro alle pendici dell'Etna. © F. Spavarona, Su alcune 'pissidi* protostoriche del Museo archeologico di Palermo, in Quaderni del Museo Archeologico Regionale “Antonio Salinas", pp. 73-8. * Pissidi cilindriche - prive di applicazioni plastiche ~ sono documentate a Sant'Angelo Muxaro cfr. V. Farra, La ceramica geometrica, cit, p. 179, fig. 133; peri tipi più antichiv. ibid,pp. 52-53, * Negli esemplari siciliani le protomi equine sono applicate sui bordi del coperchio, nellesemplare calabrese al centro. © Cfr. D. Panzao, Askoi, cit, tav. XXVII, figg. 1-6. * Cfr. E. Towasetio, Inedito askos indigeno da Castello della Pietra, in Magna Grecia XII, 11-12, 6-9; In. L'antico centro abitato presso Castello della Petra, in Magna Grecia XII, 1-2, pp. 5-6. © Cfr. A. Smacusano, L'Acropoli, in Monte Saraceno di Ravanusa. Un ventennio di ricerche e studi, Messina 1996, pp. 33-40; v, in particolare tav. XXI, fig. 2. “ Rimane dubbia l'appartenenza ad un askos della testa di volatile proveniente da San Giovanni Gemini (cf. D. Guu, Recenti scavi sulla Montagnola di San Giovanni Gemini. Relazione preliminare, in c. s, tav. V, fig. 2), come anche la natura della protome nota da un frammento sporadicoda Monte Saraceno (Cir. A. Siracusano, L'Acropoli, cit. tav. XXX, fig. 2) “© Chr. D. PateRNO, Askoi, ct. p. 96. * Chr. P. Civtas, Manuel d'Archeologie punigue, I, Pari, 1970, tav. ΧΙ, fig.39 e tav. XII; GieRstaDT, The Cypro-archaic and Cypro classical Periods, Stockholm 1948, tav. VII, fig. 1 5. Cfr, D.Yereua, The matt-painted pottery ofsouthern Italy, Bavi-Lecce 1990, p. 258, p. 307. © Cfr AAVV, Lemergere delle etnie, in S. Tusa (ed.) Prima Sicilia (Catalogo Mostra Palermo 1997), Palermo 1997, vol. I pp. 236-237. © Chr. A. Di voro, La ceramica indigena, cit pp. 80-81 » Peri motivi decorativi diffusi nella Valle del Belicev. Di Noro, La ceramica indigena, cit. pp, 80 e 81; L. GanpoLFo-M. R. La 1ou-S. Vassatto, Montagna dei Cavalli, in C. A. Di Sterano-C, Greco-F. Srararora-S, Vassatto (edd), Di Terra in terra (Ca talogo Mostra Palermo 1991), Palermo 1991, p. 133; F. D'avczto, Esempi di ceramica incisa e dipinta della Sicilia, in Sic Arch., V, 18, 19-20, 1972, pp. 49.55. Per l'area sicana v. V. Faria, La ceramica geometrica, cit. taw. 24 e 25. * Cir. D. Pausamo, Polizzll,ci., tav. XLV, figg. 193, 206, XLVI, fi. 204;G. Ticano, Ceramica,ci, tav. LVITI, CL 1038; P. Ontaxpins, Vassallaggi, ci.p. 51, figg. 71, 72; p.71, fig. 105;p. 84, fi. 128; p.92, fig. 141;G. Fionexrint, La necropoli ndigena di età greca di Valle Oscura (Marianopoli), in QuadMess 1, 1985-1986, tav. XXVIII, fig. 10; tav. XXVI, fgg. 41 e 11. ® Cfr. D. Puncucci-M. C. Naro, Monte Bubbonia, Campagne di scavo, 1905, 1906 e 1955, Palermo 1992, fi..15ab; fig. 18; fig, 22, b. D. Apamesteawu, Butera, ct.p. 467,i. 168a;p.471, fig. 170; p. 479, fig. 176; p. 484, fg. 160a, 160c;p. 518, fig. 195; Βα Lercmron, The Protohistoric Settlement on the Cittadella, in M. BeLi-C. Moss (cdd), Morgantina Studies IV, Princeton-New Jersey 1993, tav. 39, Big, 221, 222; R. M. Arsavese-Procezus Calascibetta (Enna), La Necropoli di Cozzo 8. Giuseppe in Contrada Realmese, in NSA, XXXVI, 1985, p. 439, ig. 14,4, 14,6; p. 440, fig.15; p. 442, fig. 2; p. 455, fig. 30, CAS. Per la decorazione a gruppi di linee verticali o leggermente oblique cfr. R. M. ALaaxese-Procei, Calascibetta, ct. p. 481, Figg. 55,25 e 55,26; p. 482, fig. 57,31: p. 490, fig. D25; D. Paxcuccr-M. C. Naso, Monte Bubbonia, cit, fig. 24 c-g (con riempitivi vari tra cui il motivo a zig-zag); R. Lascatron, The Protokistoric Settlement, cit, tav. 98, fig. 247; D. ADAMESTEANU, Butera, ci, p. 287, fig. 46; p. 299, Big. 57; p. 302, fig. 59; p. 318, fg. 73; p. 359, fig. 103; p. 367, ig. 105;p. 388, Big. 124;p. 420, fg. 135;p. 424, fige. 139, 140; p. 440; fig. 154, p. 448, fig. 162; p. 462, fig. 166; per gli angoli inscrittiv. R. M. Atnanese ProceLit, Calascibetta, ct, fig. 34,13. © V. Fxrta, La ceramica geometrica, cit, p. 187, fig . 175, 176; p. 189, fgg. 177, 180, 181; pp. 191, 193 (angoli inscritti); p. 205, fig. 275. * Per il motivo a denti di lupo cfr. E. Dr Mmo, Polizzello it, tav. XV, fig. 1. Per gli angoli inscritti c. ibid, tav. XVI, fig. 4b; peri motivi a zig-zag cfr.G. CasreLiAna, Tre indagini, cit, tv. IL fig. c. © Cfr E. Toust1L0, Inedito askos cl, p. 6(in questo askos gli angoli inscritti si dispongono in senso verticale) © Chr A. DI Noto, La ceramica indigena, cit. p. 81. © Chr. Gaxpotro-M. R. La Lowa-S. Vassatto, Montagna dei Cavalli cit., p. 133, fig. 176 (angoli inscritti), fig. 180 (motivoa denti di lupo), fg. 178 (zig-2ag); a Monte Maranfusa, è attestata la decorazione ad angoli insiti ea zig-zag: cfr. F. Srutarona,A. Fests, Monte Maranfusa, cit.,p. 19, fgg. 18 e 19. 706

© G. Fatsonr-C. A. DI Noro-M. J, BrcxeR, Due tombe arcaiche, cit, pp. 157-194. © Il motivo è attestato ampiamente a Vassallaggi (cfr. D. Gut, La necropoli indigena di età greca di Vassallaggi S. Cataldo, TC e a volte in QuadMess 6, 1991, p. 35 © tav. XVIII, fig. 38; tav. XXI, fig. 2), ove si trova su recipienti associati con ceramica (v. tomba B 19) con lebythoi a fondo bianco databili entro il primo quarto del VI sec. a.C. A Monte Saraceno manca negli strati più antichi ma è presente in contesti di VI sec. a.C. e degli inizi del V sec. a.C. Questo motivo è presente invece su alcune rocche da Calascibetta datate nel corso della prima metà del VII sec. a.C. “ Anforan. cat. 20 = Tipo IV variante a, anfora n. cat. 19 = Tipo IV varianteb. ^ MS 332, MS 315,MS 320, MS 333. © A Sabucina il tipo è stato trovato in associazione con ceramica d'imitazione tardo protocorinzia: cfr. G. Ticaxo, Ceramica, cit, pp. 61-63 en. 89, τ Cfr. V. Firma, La ceramica geometrica, cit, p. 90 e p. 183, n. 143, Ὁ L. Βεηναβὸ Brea La Sicilia, cit, 181. © Y μάκοονι, El problema, cit, pp. 79-96. > Si tratta di uno strato di terreno misto a carbone trovato a contatto con la roccia e interpretato da V. Tusa e da J. La Geniere (cf. V. Tcsa-I. LA Gentrre, Saggio a Segesta: Grotta Vanella, in SicA XI, 1978, pp. 10-48) come facente parte della "prima caduta" dello scarico individuato alle perdici del Monte Barbaro e precipitato dall'alto. Va precisato che il presente articolo è stato consegnato nell'estate ‘96. In questi ultimi anni chi scrive ha completato la della Sicilia classificazione tipologica della ceramica indigena della Sicilia Occidentale (cfr. C. Taousi, La ceramica indigena Occidentale dalla metà del IX sec. a.C. al V sec. a.C. Tesi di Dottorato, XIII ciclo, Universita degli Studi di Messina, A.A. 1997-2000). Da questo studio e da alti recenti contributi emergono nuove strategie di ricerca: lo studio tipologico non può M.R. ALBANESE. prescindere, infatti, dallinterpretazione e dall'esame dei contesti: su tali problematiche si vedano pertanto: Procerz, Identità e confini etnico cultural: la Sicilia centro-orientale. Atti del XXXVII Convegno di studi sulla Magna Grecia (Taranto Ottobre 1997), Taranto 1999, pp. 327-359; Ea, Necropoli Società coloniali: pratiche funerarie ‘aristocratiche’a Sicolonial world of the racusa in età arcaica, in Damarato, Electa 1999, pp. 32-37; C. Moxeax, The archaeology of ethnicity in theGrecia (Taranto, Ottoeighth to sixth centuries BC: Approaches and prospects, Atti del XXXVII Convegno di studi sulla Magna bre 1997), Taranto 1999, 85-144; C. Trowmt,La ceramica indigena della Sicilia Occidentale, ct., pp. 668-683. Fr Aut, L'Età del Per le problematiche connesse alla classificazione della ceramica indigena v. MR. Atpanese Procetu Bronzo e del Ferro in Sicilia, in Atti del Congresso “Criteri di Nomenclatura e di terminologia inerente alla definizione delle forme le proposte di let. vascolari nel Neolitico/Eneolitico e del Bronzo-Ferro", Lido di Camaiore 1998, Firenze 1999, pp. 475-495. PerCeramica greca e sotura combinando analisi dei contesti ed elaborazione statistica dei dati, v. infineG. SeaeRARo, ev Νηυσι, cietà nel Salento arcaico, Lecce-Bari 1997. © Cfr. M. Garcia, La ceramica a decorazione geometrica dipinta, in G. Nenct (ed.), Entella I, pp. 111-161; A. Di Noto, La ceramica indigena, cit. pp. 77-110; F. Sratarona, Gli Elimi, cit, p. 164. 7 C. Trout, La ceramica indigena dipinta, cit, 289-293. ancora κι Chr. C. Towni, La ceramica indigena della Sicilia Occidentale, cit, pp. 673-683. Da tale studio emerge in maniera più evidente, la presenza, nei siti della Valle del Belice, di forme che trovano scarso riscontro ad Est del Platani, ma che trovano confronti nell'area centro orientale e orientale della Sicilia * Francesca Spatafora (cir. F. Seatarora, Gli Elimi, ci. p. 163) di recente, ha formulato l'ipotesi secondo cui nel corso del millennio genti provenienti dalla Penisola avrebbero raggiunto oltre che le coste orientali dell'isola, anche la Sicilia occidentale; tuttavia, per la studiosa la modesta ondata migratoria non avrebbe esercitato «effetti decisivi sulla cultura materiale» della Sicilia occidentale, contrariamente a quanto avveniva nell'area orientale.

707

TAV.I

1 Attestazioni di ceramica indigena con applicazioni plastiche nella Sicilia Occidentale (VII-VI sec. a.C.). 1. Castello della Pietra; 2. Castellaccio di Poggioreale; 3. Entella; 4. Mura Pregne; 5. Segesta; 6. Casteltermini; 7. Monte Saracenodi Ravanusa; 8. Naro; 9. Polizzello; 10. Sant'Angelo Muxaro.

Cat. 21: Tipo Il 708

(Scala 1:2)

TAV. II

Cat. 15: Anfora tipo IL

Cat. 2: Anfora tipo I

Cat. 18: Anfora tipo TIL

(Disegni: scala 1:2)

Cat, 19: Anfora tipo IV. 709

TAV. III

Cat. 20: Anfora tipo IV (scala 1:2).

Anse antropomorfe (fuori scala) 710

VINCENZO Tusa DALL'URBANISTICA ALLE TERRACOTTE: MOTIVI GRECI NELLE MANIFESTAZIONI CULTURALI PUNICHE

409 a.C., i Cartaginesi occupano e distruggono Selinunte, nel 406 cade Agrigento e i territori che circondano queste due città. Pochi anni dopo, a seguito di alcuni avvenimenti, guerre e accordi vari che non starò qui a raccontare, si manifesta una riscossa siceliota: Dionisio viene da Siracusa nella Sicilia Occidentale con una consistente forza militare, esercito e navi, e occupa e, distrugge anzitutto Mozia nel 397 a.C., “dopo aver conquistato e distrutto”, come ci dice Diodoro (XIV, 47-48) ‘tutte le città puniche ed elime della Sicilia Occidentale”. È un punto fermo questo per l'affermazione dell'elemento culturale greco-siceliota nella Sicilia Occidentale, consolidatosi sempre più nel IV e prima metà del III sec.a.C. con Timoleonte, Agatocle e fino al ritiro di Pirro, e che portò "alla completa assimilazione della cultura greca da parte degli indigeni e che riuscì quasi a vanificare le differenze etniche e culturali tra i due nuclei più consistenti, i Fenicio-Punici e gli Elimi con i Greci...". L'assimilazione culturale però non allontanò la presenza dei Punici dalla Sicilia Occidentale: anche dopo le altre guerre di Dionisio del 383 e del 368 il predominio politico sulla Sicilia Occidentale restò sostanzialmente ai Punici fino alla conquista romana alla metà del III sec.a.C.

In questo periodo le manifestazioni culturali della Sicilia Occidentale, in special modo quelle puniche, presentano, ovviamente, consistenti clementi che si rifanno alla cultura greca: gli stessi elementi non sono assenti nemmeno in epoche precedenti, come spero di poter dimostrare. Sono convinto di non dire cose nuove, ritengo però che sia opportuno puntualizzare, in alcune manifestazioni culturali non greche di Sicilia, la componente, spesso preponderante, della cultura greca; ritengo inoltre che questo sia utile per la conoscenza dell'elemento umano, e quindi della società, che sta dietro a queste manifestazioni, conoscenza che, a mio giudizio, costituisce il fine ultimo dei nostri lavori e dei nostri studi. Iniziamo il nostro excursus trattando di due monumenti molto noti non solo nel nostro ambiente ma anche in una cerchia più vasta: sono i due sarcofagi antropoidi (figg. 1 e 2) rinvenuti in località “Cannita”, a poca distanza da Palermo, verso Est. Era questo un centro abitato fin dall'epoca paleolitica come dimostrano alcuni resti archeologici rinvenuti in una grotta preistorica. Fin dall'epoca storica, dall VIII sec. a.C., il sito fu frequentato dai Fenicio-Punici che allora, com'è noto, si stanziarono nella Sicilia Occidentale dopo l'occupazione dell'Orientale da parte dei Greci. La "Cannita" era un luogo propizio per loro: una piccola e bassa collina si erge su una non vasta pianura, un pò ondulata, lambita da un fiume allora navigabile, l'Eleuterio, raggiungibile quindi facilmente da quel popolo che, com'è noto, prediligeva la via d'acqua.. Qui furono scoperti i due sarcofagi antropoidi* di cui ci occupiamo. Il primo, che fu scoperto il 20 Settembre 1695, ha il coperchio, sagomato che riproduce una figura femminile inguainata in un abito senza pieghe che le lascia scoperte la testa, due ciocche

di capelli che le scendono sul petto, e i piedi nudi. Il secondo reca sul coperchio, sagomata, una figura femminile coperta da una veste con molte pieghe: fu scoperto il 23 Luglio 1725. Ecco la descrizione della scoperta che, del primo, ci ha lasciato Francesco Di Giovanni*: “Il primo fu scoverto a caso da alcuni che lavoravano a cavar pietre, ed era collocato in un sotterraneo di forma quadrata tutto intagliato nel sasso. Le memorie del tempo dicono che una pietra quadrangolare chiudea la porta di questo ipogeo, in cui scendevasi per una scala intagliata a scarpello. Il sarcofago stava in fondo alla camera sepolcrale rimpetto la porta: fu aperto, ed oltre un cadavere intero, si disse esservisi trovati entro vasi e medaglie, che caduti in mano di persone rapaci e di bassa lega, gli eruditi di quel tempo non poteron vedere, non che studiare. Altre due arche di argilla, di cui signora la forma, erano appoggiate ai lati della stanza, ma di questi nè cadaveri nè altri oggetti si rinvenne. Sul coperchio del sarcofago marmoreo è scolpita a mezzo rilievo una giovane donna con una benda al capo, una dop711

cm Fig. 1. Palermo, Museo archeologico Regionale, sarcofago antropoide, dalla “Cannita”.

Fig. 2. Palermo, Museo archeologico Regionale, sarcofago antropoide, dalla “Cannita”.

pia lista di capelli sul petto, con le braccia allungate e strette al fianchi, coi piedi ignudi, sotto i quali

sorge una specie di mensola come per sostegno della persona se fosse levata in sù i piedi”. Dell’altro sarcofago lo stesso Di Giovanni si limita a dire che fu scoperto in un altro simile ipogeo e che conte-

neva "idoletti di avorio”. Dice inoltre che il sarcofago era dipinto e che "al momento che fu trovato la pittura non sol potè chiaramente vedersi, ma anche delinearsi, ma che oggi è interamente dileguata”; al momento della scoperta però “le vesti e le mani di coloro che accostaronsi al sarcofago rimasero tinte di colori ancora cosi vivi e freschi come se allora vi fossero stati distesi”. Rimase però, dice il Di Giovanni, una descrizione del dipinto fatta da chi ebbe modo di vederla, che egli riporta in questo scritto ma che qui non ritengo di riportare anche perché abbastanza lunga e non di prima mano: lo stesso dicasi per altri particolari. Tl rendimento delle due figure del coperchio è molto diverso: mentre quella raffigurata sul primo presenta, nel complesso, una stretta somiglianza con i molti sarcofagi simili di Beyrouth e di altre località puniche del Mediterraneo (una raffigurazione che direi riassuntiva pur non essendo assente qualche elemento di cultura greca e che viene datata al V sec.a.C.: ad es. le ciocche di capelli che scendono sul petto e la capigliatura sulla fronte), l'altra invece, in tutti i suoi particolari, è simile ad una statua femminile greca che io porrei intorno alla metà del VI sec.a.C., o anche alla fine dello stesso secolo: i capelli, ravviati sulla fronte in senso ondulatorio, coprono le orecchie e, in piccole ciocche, le scendono sul petto. Un apoptygma la copre quasi interamente dalle spalle fino ai piedi 72

che in parte restano scoperti: restano pure scoperte le braccia. Con la mano sinistra tiene un alabastron. Si notano bene i seni che nella prima statua sono forati forse perché il coperchio fu adoperato come fontana. ‘Abbiamo detto del contesto culturale nel quale s'immette il primo dei due sarcofagi, nell'ambiente sidonio cioè. L'altro invece è più propriamente greco, e di esempi se ne potrebbero addurre molti: si pensi, per riferirci ad un esemplare molto noto, e direi paradigmatico, alla dea del melograno di Berlino che, nello schema generale, è molto simile alla nostra: e così per vari altri dello stesso periodo cronologico, all'incirca. Per quanto attiene al luogo della lavorazione io non ritengo che siano stati importati, pur non escludendolo del tutto: nel periodo cui appartengono questi due sarcofagi si produceva scultura, e in misura considerevole, in questa parte della Sicilia, a Selinunte in particolar modo. C'era poco marmo, questo è certo, ma s'importava, sia pure in non grande quantità, e si usava, com'è noto (purtroppo non è stata mai fatta una analisi geologica sul marmo dei due sarcofagi!), e la lavorazione poteva avvenire qui*. Restiamo nell'ambito della statuaria ed accenniamo alla già nota e famosa statua del c.d. "Giovane di Mozia” (fig. 3). Ritengo di non ignorare quanto è stato scritto su questa statua che ho avuto la ‘buona sorte di trovare nel corso di una campagna di scavi promossa dalla Cattedra di Antichità Pu-

niche presso l'Università di Palermo’. Si sono fatte varie ipotesi su questa statua, sia cronologiche

che relative alla sua destinazione ed alla sua interpretazione, al nome dell'artista ed alla sua collocazione: io però resto fermo, all'ipotesi da me formulata nella mia prima pubblicazione della statua stessa’, e ribadita e documentata in altre occasioni”. A mio giudizio si tratta di una statua commissionata e voluta da un moziese cui non doveva essere ignota la scultura greca, che avrà anche vista a Selinunte oltre che nelle varie località che toccava per i suoi commerci, e cui certamente non doveva mancare il denaro per pagare il migliore e più rinomato artista dell'epoca. A lui, di cui non conosciamo il nome’, ordinò di coprirla con la ricca veste che indossa, tipica del mondo fenicio-punico, e di apporre quella fascia che le cinge il petto, attributi questi che rileviamo in altre testimonianze fenicio-puniche sia appartenenti all'epoca della statua, databile attorno alla metà del V sec.a.C., che in varie altre epoche, come credo di aver dimostrato in qualcuno dei miei scritt al riguardo: Restiamo nella statuaria e occupiamoci della statua c.d. di Zeus, il monumento archeologico più noto rinvenuto a Solunto (fig. 4). Di questa provenienza siamo certi, abbiamo varie testimonianze fin dal secolo scorso, sappiamo anche, con una certa esattezza, dove fu rinvenuto, nel 1825, essendo segnato in una pianta della città antica di Solunto redatta da Fr. Saverio Cavallari nel 1875: proprio nei pressi è stato messo in luce, in scavi recenti, un edificio sacro ", con due ambienti destinati a contenere due statue di divinità una delle quali era, con ogni probabilità, la statua del c.d. Zeus: le misure della base combaciano perfettamente con uno dei posti dove, appunto, sarebbe stata posta la statua del dio. “Nel sito segnato nella carta, tav. I -ci dice Fr. Saverio Cavallari" - si rinvennero vari pezzi di una statua colossale di Giove scolpiti nel tufo calcare e due bellissimi candelabri figurati....”.

Della statua si occupa specificatamente, e a lungo, Silvio Ferri in un magistrale studio su Solun-

to. Questo mi esime dal descrivere la statua nei suoi particolari, ritengo utile e opportuno, piuttosto, occuparmi di un particolare aspetto della statua stessa anche per chiarire il motivo di quel “c.d.” che ho premesso al nome della divinità, Zeus, cui sarebbe stata dedicata la statua. Il progresso, sensibilmente veloce, delle ricerche e degli studi fenicio-punici nel nostro Paese, ed anche in tutto il Mediterraneo, ci ha aperto degli orizzonti e ci ha permesso di formulare delle consi derazioni che certo quando Silvio Ferri, alla cui memoria mi è grato rivolgere un grato e memore pensiero, scriveva, non era possibile formulare dato lo stato degli studi di Antichistica di allora. E così a me, che mi sono particolarmente occupato, in un primo tempo, delle Antichità di Solunto, è venuta in mente l'ipotesi che la statua comunemente attribuita a Zeus debba essere invece attribuita ad una divinità del pantheon punico, divinità che potrebbe essere quella di Baal Hammon. Diciamo anzitutto della statua. Come si è detto essa è stata rinvenuta in pezzi e restaurata, dopo alcuni anni, dal noto scultore palermitano, il Villareale il quale, secondo la concezione del restauro nell’800, rifece la statua “quasi nuova" falsandone quindi i vari particolari tra cui, particolarmente, il 713

Fig. 3. Mozia, Museo Whitaker, il Giovane di Mozia.

Fig. 4. Palermo, Museo Archeologico Regionale,la statua del c.d. Zeus, da Solunto.

braccio destro: secondo S. Ferri egli si sarebbe "lasciato guidare -a detrimento della verità - dalle idee preconcette di dotti locali”. Il Ferri fa, anche per il restauro, una analisi accurata e minuta dei vari particolari del restauro stesso pervenendo ad una conclusione per la quale è stata“riprodotta una nuova e strana personalità divina che, negletti l'Olimpo troppo etereo e l'Ade troppo oscuro ed evanescente, si compiace piuttosto immergersi în una forma terrestre di marcata ed esasperata umanità”. Nel corso dell'esame minuto delle varie parti della statua il Ferri nota vari segni, purtroppo appena accennati e in gran parte scomparsi, che inducono ad ipotizzare la presenza di qualche animale presso il trono, cosa che sarebbe normale sia che fosse raffigurato Zeus che Baal-Hammon: così, sotto la mano destra, si nota una "scalpellatura. ..di un oggetto o di un animale o d'altro”; ammette inoltre la “coesistenza di trono e attributi animali”; inoltre ancora “nella coscia del dio v'è una forte rottura e interruzione di pieghe, dovuta allo strappamento di un qualche corpo estraneo che vi aderiva profondamente... la zona presenta alcune stranissime escrescenze nelle quali non è escluso si possa ravvisare il vestigio di una zampa di cane accovacciato” . Quali elementi abbiamo per ipotizzare che la c.d. statua di Zeus di Solunto possa identificarsi con Baal-Hammon o con qualche altra divinità del pantheon punico? Stabiliamo anzitutto la data della statua: secondo la tesi più accreditata è copia di un originale greco del IV sec. a.C. eseguita in epoca romana, III sec. a.C. Ed allora, si giustificava in quel periodo, a Solunto, una statua di tipo greco per raffigurare una divinità punica? Lasciamo per il momento l'interrogativo e vediamo come stanno le cose a questo riguardo. È noto come Tucidide (VI,2) menzioni Solunto come una delle tre

città puniche della Sicilia Occidentale, città che si sarebbero costituite nel VII sec. a.C.; della Solunto di questo periodo solo recentemente si comincia ad avere qualche notizia, ma era in un altro posto, molto probabilmente nella pianura ai piedi del monte Catalfano, i1 monte cioè su cui sorge la 714

Solunto di cui parliamo: questa fu fondata intorno alla metà del IV sec. a.C. a seguito dell'impresa. militare di Dionisio in questa parte della Sicilia. Visse nell'orbita punica come tutto il resto della Sicilia Occidentale, fino alla conquista romana avvenuta, com'é noto, alla metà del III sec.a.C.: la sua fine si data alla fine del II sec.d.C. In questo periodo, nella nuova Solunto, erano presenti i culti punici? Ritengo di poter dare una risposta affermativa a questo interrogativo come fa fede anche la documentazione di altri centri esistenti nell'orbita punica. E a Solunto? Scrivevo nell'ormai lontano 1965 una mia opinione che ritengo di poter confermare ancora oggi". ...possiamo senz'altro affermare che a Solunto, pur in mezzo alle preva- Fig. 5. Solunto, l'altare con tre betili lenti manifestazioni ellenistico-romane, affiorano chiaramente segni punici che denotano l'esistenza, fino in piena epoca imperiale romana, dell'ethnos punico: si tratta di segni, spesso tenui, che non sfuggono pero all'attenta osservazione dello studioso e che riguardano principalmente quelle manifestazioni che maggiormente avevano attinenza con lo spirito della popolazione e particolarmente con il sentimento religioso. Troviamo così luoghi per il culto che, fino in epoca romana, si mantengono nella tradizione orientale: tra questi edifici possiamo citare un altare all'aperto con tre betili (fig. 5) dove, tra l'altro, in una piccola vasca di raccolta, sono state trovate ossa combuste di piccoli animali, volatili e roditori, com'è nella tradizione punica '*. Sono stati trovati inoltre vari oggetti mobili che recano chiaramente segni punici: così due

Fig. 6. Solunto, Antiquarium, a Arula thimiatherio, da Solunto.

Fig. 7. Solunto, Antiquarium, a Arula thimiatherio, da Solunto. 715

saran

i

ROVINE DI SOLUNTO

Miei ai denm

Fig. 8. La pianta topografica di Solunto.

Fig. 9. Solunto, particolare del sistema stradale, la via Ippodamo da Mileto. 716

Fig. 11. Solunto, l'edificio sacro con due ambienti a volta: particolare. ΤΙ]

arulae thymiateria (fig. 6 e 7) decorate con motivi unici tra cui il noto simbolo di Tanit, teste di terracotta che recano sul diadema il segno della falce lunare, lucerne di tipo punico tardo, etc.” Circa la possibilità di identificare la statua del c.d. Zeus di Solunto con Baal-Hammon non mi

nascondo le difficoltà: so bene che Baal-Hammon

s'identificava con Saturno, non escluderei però lidentificazione

con

Zeus

anche

tenendo

conto

dei particolari riscontrati nella struttura della statua, particolari che non furono tenuti in considerazione dal restauratore o che non furono nemmeno rinvenuti o notati all'atto del rinvenimento, ma che forse ci avrebbero dato la prova dell'esistenza di animali ai lati del trono come spesso avviene nei troni di Baal-Hammon.

Per concludere su questo argomento presento una nota che, dico subito, non è affatto risolutiva ai fini dell'identificazione Zeus-Baal-Hammon, ma che può essere utile per testimoniare la diffusione del culto di Baal-Hammon presso i Romani. In una località della Tunisia, nella regione di Pont du Fahs, è stata scoperta, nel 1949, una stele in calcare recante una iscrizione latina dedicata ad una divinità punica, Baal-Hammon (esattamente “Balamoni”) angusto sacrum, da parte di un miles Fig. 12. Terracotta figurata, da Solunto, con segno cohortis urbanae di nome Marcius Mansuetus: è la punico sul diadema - Palermo, Museo Archeologico prima volta, annota lo studioso che la pubblica ", Regionale. di una dedica di epoca romana a Baal-Hammon la qual cosa conferma la conoscenza che si aveva del dio, in Africa, da parte dei Romani. Accenniamo ora all'Urbanistica (figg. 8 e 9). L'aspetto urbanistico è quello che maggiormente caratterizza Solunto e ne fa una delle più note e più esemplari tra le città ellenistiche che hanno i nomi di Priene, Mileto, Pireo e altre ancora, sorte dopo la “rivoluzione” ippodamea. Tenendo conto del"origine fenicia della città -dice giustamente Silvio Ferri - si comprende il disorientamento dei dotti scavatori del secolo scorso quando, convinti di svelare un lato almeno del complicatissimo problema fenicio dell'isola, (oltre a molte altre manifestazioni) trovarono nella città un reticolato stradale regolarissimo di ascisse e ordinate.

...". La Solunto indicata da Tucidide, com'è noto, non è questa di

cui parliamo, quella si trovava nella vicina pianura sottostante come scavi e studi recenti stanno

velando. La città sul monte Catalfano è stata costruita ex novo intorno alla metà del IV sec.a.C., "secondo un piano urbanistico assolutamente unitario, in uno spazio di tempo tanto breve da non indurre a notevoli variazioni rispetto al piano originario”. Abbiamo un terminus post quem circa la data finale della costruzione della città: è il 307 a.C., anno in cui fu scelta come luogo di dimora e di riposo dei soldati di Agatocle reduci dalla campagna d'Africa (Diod., XX, 64, 4). Fin dalla metà del V sec.a.C. erano già state costruite città simili secondo gli schemi dell'Urbanistica ippodamea, Mileto, Priene, Pireo, Delo, Pergamo, e Thurii: quest'ultima sarebbe stata la prima città costruita secondo lo schema ippodameo (Diod., XII, 6-7). Si tratterebbe quindi di una città greco-ellenistica, l'elemento

punico però è presente non solo in oggetti vari (stele di pietra, testine di terracotta con simboli punici, etc...), ma sopratutto negli edifici religiosi, in quello cioè che è più vicino allo spirito degli abitanti, la religione. Se ne conoscono finora tre: uno sul punto più alto della città (come non ricordare i “luoghi alti” della Bibbia?), consistente in un gruppo di ambienti che ricorda quasi un labirinto e 718

che ha, nell'ultimo vano, una nicchia dove, verosimilmente, era posto il simbolo della divinità (fig. 10). In un altro punto, a ridosso della collina, era un ambiente bipartito, con volta a crociera e a botte, dove erano poste due divinità, una maschile e l'altra femminile: quella maschile era quella del c.d. Zeus di cui si è già detto (fig. 11)”. Infine, in un punto della strada principale dove ha inizio il quartiere degli edifici pubblici, è l'ara con i tre betili, simbolo questo della religione fenicio-punica, e di cui si è detto (fig. 5). Altre testimonianze si potrebbero addurre per documentare la presenza culturale greca nel mondo punico (si pensi, ad es., ad una terracotta figurata tipicamente greca rinvenuta, insieme ad altre non greche, nel tophet di Mozia', ritengo pero che gli esempi che qui ho riportato siano sufficienti per una valida esemplificazione dell'argomento trattato. Mi piace però, a mò di conclusione, presentare una testa femminile di terracotta, con i capelli a ciocche ondulate e divisi sulla fronte, di tipo chiaramente greco-ellenistico rivenuta a Solunto (fig. 12), i capelli sono trattenuti sulla testa da un diadema con un simbolo punico'*: mi piace considerare questa testa come il simbolo dell'incontro, in terra di Sicilia, delle due culture, la fenicio-punica e la greca, quelle due culture cioè che hanno prodotto, in gran parte, la “nostra cultura”. NOTE C. Cro, Topografia, Storia e Archeologia di Pizzo Cannita, in AAPal 1952-53, I, p. 265 ss. ? B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia antica, II, 1938, pp. 116-118 ? F.Di Giovanst, Su due antichi sarcofagi, in Bollettino della Commissione di Antichità di Sicilia 1, 1864, p. 1 ss. * Per altri particolari su questi due sarcofagi v. l'ampio studio di I. Ταμαύμειιο, Pagine di Archeologia Siciliana, Palermo 1997, p. 57 ss. p. 69 ss. 7 G. Fusong, La scoperta, lo scavo e contesto archeologico, in La statua marmorea di Mozia, Roma 1988, p. 9 ss. © V. Tusa, La statua di Mozia, in PP XXXVII, 1983, p. 445 ss. τ V. Toss, IH Giovane di Mozia, in La statua marmorea, cit, p. 53, s. * Sia pensato, da parte di qualche studioso, di attribuire a Pitagora la statua di Mozia: io ritengo che sia opportuno porre il problema ma che lo sia altrettanto non fare alcun nome fino a quando non si sia in possesso di qualche indizio che possa costituire un dato sicuro. V., ἃ tal proposito, qualche intervento in La statua marmorea, cit. V. inoltre G. Gann, Pensieri sul Giovane di Mozia in SicArch XXI, 66-68, p. 11 ss. C.O. Pavese, L'Auriga di Mozia, Roma 1996; A.M. Parcorz-Lowsapo, La statua marmorea di Mozia, in SicArch, XXII, 71, p. 86 ss. P. Μοκενο, Il Melgart di Mozia: dal dio di Tiro all'Eracle di Lisippo: I Fenici: eri oggi domani, Roma 1995, pp. 545.552. * V Tusa, La statua di Mozia, in SicArch XXI, 66-68, p. 15 ss. I fatto che questa statua sia stata esposta a Palazzo Grassi a Venezia sia nella mostra sui Fenici che in quella su I Greci in Occidente, sta a dimostrare, a mio modesto giudizio, la validità dell'ipotesi che, a suo tempo formulai, e che confermo ancora. # V, Tusa, Edificio sacro a Solunto, in Palladio XVII, 1967, p. 155 ss. e Belle Ari i Sicilia, n. 18, Agosto 1875, p.1 ss. ? Fa, Saverio CvaLLARt, Solunto in Bulletino della Commissione di Antichità Ὁ S, Frau, Il problema archeologico di Solunto, in Le Arti, anno IV, 4, 1942, p. 250 ss. © Qui si danno solo alcuni accenni nel caso in cui si volesse ritornare sull'argomento al fine di pervenire ad una possibile identificazione della divinità: in tal caso è necessario procedere all'osservazione minuta della statua tenendo presente, sopratutto l'articolo di Silvio Ferri. V. Tusa, La questione di Solunto e la dea femminile seduta, in Karthago XII, 1965, p. 3 ss. © M. FaMA, L'area sacra con altare a tre betili da Solunto, in SicArch 42, 1980, p. 9 ss. % J, Fearon, Dedicace latine a Baal-Hammon, in Cahierde Byrsa, Paris 1953, Il, p. 113 ss. 7 V.nota 10. 7? V Tusa, Fenicie i Cartaginesi, in Sikanie, Milano 1986, pp. 592-593, figg. 626-629. ? V.Tusa, I Fenici e i Cartaginesi, cit. pp. 610-611, fig. 669.

719

R. J. A. Witson FROM PALMA DI MONTECHIARO TO THE ISLE OF MAN: THE USE OF THE TRISKELES IN ANTIQUITY AND AFTER

In the early 1960s a dinos was discovered at Castellazzo di Palma di Montechiaro, a site overlooking the sea between Palma and Torre di Gaffe in the province of Agrigento (PI. 1.1). The painted decoration on the exterior of the dinos consists of standard, simplified sub-geometric decoration (solid and open lozenges, and rays round the base), which, together with the associated material found with it, helps to place the vessel either towards the close of the seventh century BC, or else very early in the sixth' That it was not an imported piece but the product of a local potter is suggested not only by the fabric (a reddish clay) but also by the figural decoration on the exterior of the dinos' base: three legs facing clockwise (i.e. to the left) are depicted, attached to a circular plain disc at the centre? This is the first recorded instance anywhere of the use of the triskeles* and there can be little doubt that already at this early period it was intended to symbolize the island of Sicily. It is wholly appropriate that the discovery was made, and the subsequent publication written, by the honorand of this Festschrift, Ernesto De Miro, for few have done more than he in the past half-century to advance our knowledge of Sicilian archaeology. The number of new sites which he has opened up and put on the Sicilian archaeological map for the first time, starting with Heraclea Minoa in 1950, has been astonishing: of him it can truly be said si monumentum requiris, circumspice. This excursus, on the history and significance of the triskeles in Sicily and beyond’, comes as a small token of my respect and affection for a Sicilian friend and colleague who has done so much to make my own work in Sicily over the past quarter century such an enjoyable, memorable and stimulating experience. Shortly after the discovery of the Palma di Montechiaro dinos, excavations in 1964 in the archaic levels of the sanctuary of Demeter at Bitalemi, immediately east of the acropolis at Gela, discovered a second example of a pot decorated with the triskeles, in this instance on the inside of the vessel: the symbol is painted in brown on the yellowish clay, and is outlined with an incised line to make it stand out more clearly (PI. 1.2)". This is a more perfunctory rendering than the Palma di Montechiaro example, and there is no central disc marking the junction of the legs. The date is approximately contemporary with, or a litle later than, the Palma di Montechiaro dinos; the associated pottery is of c. 625-550 BC. After these two early occurrences, there appears at present to have been a hiatus in the use of the triskeles in Sicily for more than two centuries, a hiatus which future discoveries in the island may help to remove. We will return later to consider the significance of the emblem and the reason why Sicilians thought it appropriate to invent it or adapt it to their own use around the end of the seventh century BC; but before we do so, our focus must shift eastwards, to Athens. THE ZRISKELESAT ATHENS IN THE SIXTH CENTURY BC

On the earliest coins which can with confidence be ascribed to Athens, the so-called Wappenmünzen or ‘heraldic coins’, the triskeles appears as one of the types (PI. L4), principally on didrachms; other types include the amphora, the horse, the owl, the beetle and the wheel. They bear no legend, and the reason for the choice of type is sometimes explained by the suggestion that cach device was the personal badge of those who were issuing the coins and controlling the mint. Seltman dated the earliest triskeles series to c. 595 BC*, but modern orthodoxy associates the first Athenian coinage with the Peisitratid tyrants, either just before the middle of the sixth century when Peisitratus first became tyrant, or just after the middle when he had driven out his enemies and estab721

lished sole control. The Wappenmiinzen predate the introduction of the first owl coinage, which occurred eitherc. 525 or else, more probably, after the expulsion of Hippias in 510. The triskeles issues are therefore most likely to have been struck between about 560 and 510 BC”. The Wappenmiinzen issues with obverse triskeles depict the emblem with legs moving to the right, except on one issue where they move to the left; the later specimens, in both silver and electrum, have a letter phi between one pair of legs", There is a simple plain circular or triangular disc at the centre where the three legs join. There are no wings on the ankles. All show the triskeles within a circular frame, which is taken to represent the outer edge of a shield; and herein lies a clue as to why the triskeles was one of the symbols adopted on these early Athenian coins. An Athenian text of rather later date, Aristophanes’ Lysistrata, may be of relevance here. Modern texts of the Lysistrata read the word leukopodes, ‘white legs’ in line 664, although this is a modern emendation, partly on metrical grounds, of lukopodes, ‘wolf feet’, which is what appears in all the Aristophanic manuscripts. The Scholia give two possible explanations for this term: that the spearbearers of the tyrants were so called because they had wolf-skins on their feet to protect them (so Aristotle, fragment 394); or that ‘wolf-feet’ may indicate that they had this image as their shield badge. The Scholia conclude that ‘Aristophanes was here speaking of those known as the Alcmaeonidae; for they, when they were fighting the tyrant Hippias and the Peisistratidae [in 513 BC], fortified Leipsydrion'*, Hesychius®, in his entry on lukopodes, confirms that the word ‘means the Alcmaeonidae because they had white feet’, a statement which does not in itself make sense: rather it strongly suggests that his entries on lukopodes and leukopodes have become inextricably corrupted in the process of manuscript transmission, and that Aristophanes originally wrote leukopodes. If that hypothesis is accepted as being the most likely explanation for the confusion, then leukopodes, too, is a word which needs explaining. Henderson, for example, in his commentary on the play, wrote that ‘the si

nificance is obscure... white feet is perhaps an honorific way of referring to footsoldiers', like bare, dusty or nimble-footed, ‘designating the manly enduring of hardship ''; while Sommerstein has suggested, on the basis of Hesychius’ comment, that the wealthy anti-Peisistratid nobles were nicknamed ‘whitefeet’ because their feet were always ‘opulently shod and have never become dirty or sun-tanned’®, Alternatively, however, the Scholiast's second explanation for lukopodes may be relevant here: the white legs may refer to a shield emblem or badge, and so be a possible explanation for the Alemaeonids’ nickname. Certainly the use of just such a shield device is indicated by its appearance on Attic black-figure vases in the sixth century BC, and to these we must now turn. The three-legged symbol occurs as a shield device on a number of Attic black figure vases in the second half of the sixth century BC, especially on amphorae. Chase in his study of Greek shield devices lists a dozen examples, to which can be added a handful more". They follow no consistent pattern: a wide range of divinities and heroes is shown carrying shields with this device, including Athena, Ares, Hector, an Amazon, a giant, and attendants of Heracles and Ajax. In all cases the device consists on a simple depiction of three white legs in silhouette without any circle or other distinguishing feature at the centre. Examples include an amphora of the Leagros group in the British Museum (Pl. 1.3), where Ares holds the shield with the triskeles, and a Panathenaic neck amphora from Nola now in Naples, where Athena holds the shield with this emblem. Whether these shield devices were chosen at random by the painters, or whether they display possible Alcmaeonid sympathies on the part of either customer or artist, is open to speculation; the latter hypothesis seems on the whole unlikely and is in any case unprovable. On a single example alone of an Attic black figure vase, Athena holds a shield on which appear both the triskeles and a gorgoneion '*. This is the earliest direct association between the two symbols, but they do not become combined into one, as we shall see, before the late fourth century BC. There can be little doubt that the function of the triple legs on the shield was to serve as an apotropaic symbol, to protect the bearer and to strike fear into the enemy. Just such an effect is explicitly stated by a poem in the Greek Anthology, written by the third-century-BC epigrammatist Dioscorides". Translated, it reads as follows: 722

“It was not without reason that the son of Polyttas, the impetuous Cretan, Hyllos, has had his shield emblazoned with this emblem: the Gorgon who changes you to stone, and the triple bent legs [literally knees]. This is what it seems to say to his enemies: You who brandish your spear against my shield, do not look at me, or else flee on triple legs from this speedy man’.

The mention of the gorgoneion and the triple legs together probably indicates that the shield device by then had the Medusa head placed at its centre, as had become the norm for the triskeles from the early third century BC. The word order employed by the poet implies that the triple legs were intended to make the opponent flee as fast as possible from the bearer of the shield, although one might have thought that normally the function of the triple legs was to warn an opponent of the astonishing speed of the shield-bearer. The poem also, incidentally, demonstrates the continuing efficacy of the friskeles as an apotropaic shield device long after its first appearance in the sixth century BC.

"THE USE OF THE TRISKELES IN ASIA MINOR AND THE SIGNIFICANCE OF THE SYMBOL.

It was not, however, only Athens which used the triskeles as one of its obverse or reverse types, although no other city employed it as early as Athens did. Soon after 500 BC it appeared on the coinage of Aspendos in Pamphylia (PI. 1.5), and it continued to feature on that city's coinage in one form or other down into the early third century BC. The fifth-century types have the triskeles occupying the whole of the reverse side, generally with legs to left (i.e. clockwise) and usually alone; occasionally the triskeles is superimposed on other figures, including a lion (PI. 1.6) and an eagle”. There is normally no distinguishing feature at the centre of the emblem where the legs join, although one is sue has a small circle at the centre with a St Andrews cross, giving it the appearance of the spokes of a wheel? Towards the end of the fifth century a new stater type appears, in which the triskeles is now reduced to being only a symbol in the field. The triskeles nevertheless remained the principal identifying badge of this wealthy city, and when Aspendos needed to countermark the coins of other Asia Minor cities, a practice common in the fourth century BC, it was the triskeles which was chosen to indicate that the countermarking mint was that of Aspendos®. Other cities in southern Asia Minor also adopted the triskeles on their coinage: at Side, for example, in the fourth century BC, where the emblem was later (as at Aspendos) reduced to a miniature version in the field"; at Selge, on bronzes of second and first century BC date; at Adada (also first century BC); and also at Prostanna*. The triskeles is likewise found on other monuments in this region: one example is that carved in relief on the short side of a stone sarcophagus at Adada, probably of mid-imperial date, where once again the triskeles appears as a shield device, surrounded by a wreath and lying on top of a sword. It may be asked why the triskeles apparently enjoyed popularity in southern Asia Minor, an area geographically remote from Sicily, and where the adoption of the triskeles was completely independent of its association with Sicily. The answer surely lies in the adoption of a related symbol on the coins of Lycia from c. 500 BC, where the normal reverse type for two centuries remained what has become known as ‘the Lycian symbol’ — a central ring from which spring three equally spaced hooked lines, the hooks all turning in the same direction (PI. 1.7)”. Although this together with similar symbols is frequently referred to in modern literature as a triskeles, it is a misnomer which should be avoided, since the hooked lines are not legs. Although occasionally one of the ‘hooks’ ends in the head of a snake or a griffin (9), and on other issues all three end in cockerels' or ducks’ heads, the Lycian coins never (with one late exception) adopted the three-legged symbol which constitutes the triskeles proper? Other variations of the ‘Lycian symbol’ include four-hooked versions, even sometimes two-hooked ones; occasionally the hole in the centre of the ring is enlarged to contain an cowl (PI. 1.8); another variation has the three-hooked symbol placed on a circular disc (a shield device again?), superimposed on a four-hooked variety emerging from the edges of the ‘shield’. We do not know for certain why the Lycian coinage adopted this particular motif when it did 723

Fig. 1. Distribution map of mints which issued coins with the device of the triskeles in antiquity (all periods). Coins of doubtful ascription, and examples of pseudo triskeles are omitted, as is the African mint of unknown location which struck the Clodius Macer denarius (PI. III.14).

soon after 500 BC, but there is general agreement that the hooked lines are intended to suggest movement, and that it, together with the overall circular nature of the motif, is designed to symbolise the motion of the sun as it moves through the heavens”. That the Lycian symbol was indeed intended to be a sun symbol is strongly supported by the fact that Lycian issues from the late fourth century BC onwards adopt the radiate head of the sun-god Helios as the constant type; but even after this, the simple three-hooked symbol continued to appear on coins and other monuments of the region? If that is right, the triskeles can be seen as an anthropomorphised version of the same symbol, the version adopted by cities like Aspendos in neighbouring parts of Asia Minor. This refinement might easily have taken place independently in different parts of the Greek world: there is no need to suspect at Aspendos, for example, direct influence from either Athens or Sicily, and the same is true of other cities in the Greek world outside of Asia Minor which occasionally chose to put the triskeles on their coinage in the later sixth or fifth century BC, such as Aegina, Phlius, Derrones, Melos and Hierapytna (Crete)". The popularity of the motif is shown by the distribution map (Fig. 1), which indicates the location of mints of all periods which used the triskeles at some stage on their coinage, whether as the main motif or as a secondary device in the field. It seems likely, therefore, that the Sicilian triskeles was likewise viewed originally as a symbol of the sun, and on present evidence, as we have seen, it was the Sicilians who first anthropomorphised the symbol by turning the ‘hooks’ into legs, thereby greatly increasing its attractiveness. But there was probably another reason why it caught on in Sicily — the triangular shape of the island, with its promontories at the north-east, south-east and (less well defined) the western extremity of the island. Of the three principal Greek names for Sicily, Trinakria, Sikania and Sikelia, the first (in the form Thrinakie) is the oldest (Sicily is referred to thus, for example, in Homer), and it takes its name from the three promontories. Trinacria was in fact to remain a common name for the island 724

(especially in the Latin poets) down into Roman times. Any emblem,

therefore, which could be said to encapsulate this essential feature of the island stood a good chance of being adopted as the island's symbol, and that is what happened in Sicily apparently as early as the late seventh century BC.

THE USE OF THE TRIPLE 'HOOKED' DEVICE OR TRIPLE SPIRAL IN Iron AGE EUROPE

The use of triple designs, especially spirals, is a commonplace in the art of Iron Age Europe, but in fact they occur occasionally much Fig. 2. Gaulish coinage of the earlier too, in megalithic art for example (as in the passage grave at “A croix’ series, with pseudo-triNewgrange in the Boyne Valley, Ireland), or in the decorative reper- skeles in one of the quadrants. toire of the late Bronze Age Mediterranean, such as the bone discs from Pylos decorated with a simple triple-spiral design? But it was only in the Iron Age, with its especial emphasis on the importance of triplism", and the development of a vigorous and lively artistic tradition in the La Tene style from the second half of the fifth century BC onwards, that the use of curvilinear S- or J-decoration in a symmetrical triple arrangement became commonplace. This is once again erroneously described in modern literature as the triskeles or the triquetra, inappropriately because the Iron Age versions of it never anthropomorphised the symbol by substituting legs (with one exception, the coinage of Iliberris discussed below); for want of a more convenient label, I refer to it here as a 'pseudo-triskeles'. Particularly striking is its use in flowing, continuous decorative schemes, as on the gold discs from Schwarzenbach near Birkenfeld in Germany”, or on the Amfreville helmet from France of the mid-fourth century BC*; but more obviously closer in spirit to the triskeles proper are examples of the motif on its own. Examples are too numerous to give here: they range from small-scale instances, like the terminal of the Clevedon torc from Somerset, England (PI. II.1)**, or the horse pendents with a central openwork pseudotriskeles (such as examples from Stradonice in Bohemia, Czech Republic, and from Basel in Switzerland)”, to much larger items like the centrepiece of the silver phalera from Manerbio sul Mela, near Brescia, Italy®, or the elaborate centrepiece of the crescentic plaque from Llyn Cerrig Bach, Anglesey, Wales (PI. 11.2). Both of these last two examples date to the first century BC. It is also used on Tron Age coinage from the third century BC, at first in the middle Danube region of Hungary, where the type with the horseman, based on Macedonian tetradrachms of Philip II, has the symbol under the belly of the horse; and later in Gaul, where the late third or early second century BC issues imitating gold staters of Philip II, especially those minted in the Massif Central area of central France, replace the AP monogram of the original with a pseudo-triskeles (PI. II.4) *. The device also appears on the ‘à croix’ coinage, found largely in Aquitaine and minted between the mid second century BC (or earlier) and the mid-first century BC, which was modelled on the coins of Rhode, the Greek colony (modern Rosas) in north-east Spain: a pseudo-riskeles is among the motifs used to fill one of the quadrants formed by the central cross on the reverse of these issues (Fig. 2)". The motif occurs likewise on coinage of the Sequani and the Leuci in the second century BC, and occasionally on firstcentury-BC issues as well. Analogous, too, is the ‘whorl’ motif below the horse, present on silver coins struck in the Poitou region of Gaul, which imitate late third and early second century BC silver issues of Emporion ^. In view of the fact that the pseudo-triskeles does not appear in Iron Age art before the later fifth century BC, and is at its most common from the third to the first centuries BC, there is a strong possibility that the motif ultimately represents a borrowing from classical lands, and was then freely adapted within the conventions of La Tène art. We know that Celtic mercenaries, probably Senones, were recruited by Dionysius I of Syracuse and sent by him as part of an expeditionary force to Greece in 369/8 BC; and later during the fourth century BC, and especially after the Danubian ex725

pansion and the spread of Galatians into Asia Minor in the early third century BC, the points of contact between the Celtic world and the Greeks of the Mediterranean became both numerous and frequent *. Alternatively, the device may have been a spontaneous creation of La Téne artists experimenting with a wide range of new curvilinear ornament, Be that as it may, the significance and meaning of the symbol in Iron Age society was no doubt very similar to that postulated above for the Greek world. Like the swastika, another symbol whose very design suggests ‘movement’, it may well have started life as a solar symbol; and also like the swastika it later took on apotropaic, indeed magical, importance as a protection against evil, its popularity and efficacy enhanced by its essential triplism ". As such the pseudo-triskeles can be found as a good-luck symbol on items like weapons and horse pendents as late as the sixth or seventh centuries AD (such as an example in the Nottingham University Museum from the Anglo-Saxon cemetery at Broughton Lodge, Nottinghamshire, of the late fifth or sixth century: Pl. Π.3), and it took on a new lease of life in a purely ornamental capacity in manuscripts such as the Book of Durrow and in metalwork during the sixth, seventh and eighth centuries AD*. "THE TRISKELESIN NORTH AFRICA

Fig. 3. AinBarchouche, neo-Pu. —— One other area of the ancient world which has also produced nic stele (Musée du Bardo), examples of the use of the triskeles is north Africa, although it is attested there on only a handful of examples: all, however, are genuine triskeloi rather than the pseudo-examples of Iron Age art which we have just been considering. All of them occur on neo-Punic stelai dating from the second century BC to the second or third century AD, erected in honour of Baal/Saturn and/or his consort Tanit/Caclestis. One from Mididi in western Tunisia (Pl. II.5) shows the offerand holding upright an object of uncertain interpretation (a torch? a staff?), below a boldly depicted triskeles with legs moving anti-clockwise; above it are a horizontal bar, with three holes in it, and a crescent moon. The centre of the triskeles is damaged, but there is every reason to think that a face (based on a Medusa head) was depicted here. The inscription, in neo-Punic characters, probably of the first century AD, records a dedication to Baal Hammon by Baalshama son of Tmngm ?. Two further stelai with triskeloi, said to be not earlier than the second century BC, are so far unpublished, and details are therefore not available: they stand in the garden of the Gouvernat at Siliana?. A fourth example, now in the Bardo Museum in Tunis, comes from Ain-Barchouche near Althiburus (Fig. 3), and belongs to the series of ex-votos of imperial date with a complex iconography which have come from various places in central Tunisia; the so-called Ghorfa series is the best known‘. They are hard to date precisely but probably belong to the secondithird centuries AD. The example from Ain-Barchouche is fragmentary (only the upper half survives): above the niche with the dedicant (part of his/her head is preserved) is a pinecone or pineapple flanked by peacocks; above these are human heads set on the backs of animals, usually taken to be horses (although they seem to have horns: are they not rather bulls?); higher up are birds flanking a tree (a ‘tree of life’?); and finally, at the top of the stele, are depicted a figure riding a dolphin on the left, and a triskeles (as incorrectly published it is a diskeles, as it has only two legs) on the right, the latter with a crude human head at its centre. Much more fragmentary is an example from north-west Tunisia (there is doubt as to whether it was found at Le Kef or Beja: Pl. M.1). Of this only a standing sacrificial bull survives (probably to be offered to BaalSaturn), together with a triskeles above it (with central face, and clockwise legs)®. The final example, 726

also fragmentary, comes from near Gaafour in the environs of Dougga, and shows a more Romanized iconography (Fig. 4): heads of Sol, Jupiter and Luna labelled in Latin appear along the top, and the figure of the triskeles in a pediment below, with human face and corn-like braids in her hair (and unusually fat thighs)*. The inscription in the band below the triskeles is not fully preserved, but includes the Latin word Fortuna. Of the figures in the main field below, the two which flanked the central figure, who wear close-fitting skull caps and one of whom holds a staff with a cross-shaped star, must represent the Dioscuri. The reason for the occurrence of the triskeles on these six stelai is open to debate. Given the geographical proximity of Sicily to Africa, it is tempting to suggest that the dedicants in each case had some link with the island which they wanted to commemorate iconographically. It is also true to say that the version of the triskeles used in north Africa, with its prominent central

face, is the one which ultimately derives from Sy-

Fig. 4. Gaafour, near Dougga, neo-Punic st

56e de Sousse)

racuse in the third century BC (see below), and which is in common use in late hellenistic and early imperial Sicily. But is the ‘Sicilian connection’ in fact the reason for the adoption of the triskeles in each case? It is in fact perfectly possible that its presence in north Africa may be explicable purely in terms of the sun symbolism of the triskeles, and its efficacy as a good luck charm. In the case of the Mididi stele, for example, one possible explanation for the triskeles is that it symbolises the sun, forming a pair with the crescent moon above; and a similar interpretation is possible on the triskeles above the sacrificial bull, Saturn's creafragmentary example from Le Kef/Beja, where the (Baal was above all a sky-god, and by exgeneral in sky the and/or sun the for stand ture, might well tension lord of the universe and of all that is in it). In the case of the Gaafour stele, on the other hand, the rriskeles cannot be meant as a sun symbol, since Sol is already depicted; here its presence may be explicable purely in terms of its apotropaic value, an explanation which gains support from the reference to Fortuna in the line below. Its presence on the stele from Ain-Barchouche, however, is harder to explain. The significance of the figure at top left riding a dolphin now escapes us, but such ex-votos were usually crowned by the crescent moon and/or a sun symbol. Could the trio of representations here, the tree of life, the dolphin and the triskeles, be signifying respectively earth, water and air (or Earth, Ocean and Heaven), the triskeles being chosen once again as symbolising the sum, and, by extension, the whole sky? THE TRISKELESAS SYMBOL OF SICILY: HELLENISTIC AND ROMAN COINAGE

We have strayed rather far from Sicily in pursuit of the rriskeles and its non-anthropomorphised cousins, and it is time now to return to the island and document the use of the symbol in Sicily from the time when it reappears in the fourth century BC, after an apparent absence of well over two cen-

turies, down into the Roman period. The triskeles first re-appears in the west soon after the middle of the fourth century BC, but it is uncertain at present whether its introduction on coinage should be ascribed to Timoleon or to the RIT

period immediately after his death. Two issues at Syracuse at this time feature a bearded head of Zeus Eleutherios on the obverse, one facing righi and short-haired, the second and later version facing left and long-haired. A triskeles, still without the addition of the winged feet, appears as one of the emblems on the reverse of the second series with the legend EYPAKOZIQN; it is known only in eight specimens (Pl. II1.2)*. Interestingly, because of the solar associations of both symbols, the same Zeus Eleutherios obverse die is found in association with a swastika on the reverse of another issue". There has been much discussion about the precise date of the later of the two Zeus Eleutherios series (the first is usually accepted as Timoleontic): some scholars place it in the Timoleontic period (344-336 BC), others to the period of the ‘third democracy but after Timoleon's death (336-317BC)*. The precise date, therefore, of the first appearance of the triskeles on the Sicilian coinage unfortunately remains uncertain, but it must have occurred either a little before or a little after 336BC. A related but probably slightly later issue has a head of Apollo (rather than Zeus) on the obverse, and the triskeles again on the reverse: interestingly this version of the triskeles has winged feet, and this is probably the earliest issue ever to feature them. Unfortunately the chronology is once again unsure: Calciati is uncertain whether to place it in the period 336/317 BC or early in Agathocles’ reign®. Significantly, however, this particular coin still features a plain circular disc at the centre of the triskeles rather than a gorgoneion; the latter is certainly an introduction of Agathocles’ reign. Certainly the numismatic employment of the triskeles on a significant, systematic and persistent scale is a characteristic of the reign of Agathocles (317-289 BC), who adopted it as his personal emblem; it was no doubt chosen to symbolize Agathocles’ ambitions of pan-Sicilian mastery®. It was now for the first time, on silver and bronze coins minted between 317 and 310 BC, that the three legs were combined with the head of Medusa at the centre, an addition which reinforces the apotropaic power of the motif: as is well known, the Medusa head was widely used in Graeco-Roman iconography as a magical charm to ward off evil, because of its mythical ability to turn those that looked on the image to stone (Pl. III.3). These coins also mark the regular appearance of wings on the heels to symbolise speed, a feature which becomes the norm on the larger and mature examples of the emblem from now on: it too may represent another borrowing from Medusa iconography, although other mythological figures with a reputation for speedy movement (whether in the air or on the ground), such as Hermes and Perseus, also sport winged sandals or wings attached to the ankles. As to whether the triskeles also appeared on the shields of the soldiers in Agathocles’ army we have no information, but it would not be surprising if it did: we have already seen that the poem of Dioscorides a century later demonstrates the apparent use of the triskeles (combined with the Medusa) as a shield device at that time, and gorgoneia are known to have decorated protective leg greaves (covering the vulnerable knee) on south Italian bronze armour?', In 310/09, when a fresh silver coinage was minted to commemorate Agathocles' victory over the Carthaginians, the reverse type chosen for the tetradrachms was a standing Nike in front of a trophy, accompanied also by the triskeles, which is placed either alongside her, underneath her wing, or else on the opposite side of the composition, behind the trophy (PI. III.4). Obviously when the device appears in miniature and in a secondary role, as here, the scale of the depiction of the triskeles precluded the showing of details such as the Medusa head at the centre of the emblem®. It was also during Agathocles’ reign (rather than earlier) that the triskeles alone in the sky replaces the customary Nike above the galloping four-horse chariot (PI. 1I1.5)*®. Other Agathoclean issues likewise place the triskeles in a subsidiary role to the main emblem in the field, such as above the winged horse Pegasus on the stater depicting a head of Athena on the obverse (PI. III.6), or below a biga on the gold decadrachm with an obverse head of Apollo (PI. IIL.7)*. The influence of Agathocles has been claimed on the evidence of the use of the triskeles on contemporary coinage elsewhere. At Metapontum in south Italy, for example, the type showing a bearded man wearing a helmet, possibly the city's founder Leucippus, was revived c. 300 BC with a trisΚεῖος alongside. At Terina, which throughout the fourth century had used a female head for the obverse closely modelled on the Arethusa of Syracusan coinage, now introduced, in its late-fourth728

century issues, a tiny triskeles inserted behind the head. This has been claimed as acknowledgement of Agathoclean supremacy, and of his installation c. 296 of a garrison at nearby Hipponion*. Not all the coinage of this period, however, which bears the triskeles can be associated with Agathoclean influence, or even more generally with Sicily: it appears too widely on third-century coinage in places beyond the political domination of Syracuse (for examFig. 5. Celtiberian coinage of Tliberris. ple, Eleia [Velia], Metapontum, Paestum, Suessa [Sessa Aurunca] and possibly Naples) for that to be so“. The triskeles on such issues appears to have been one of a number of stock devices, used apparently randomly on coinage, the precise significance of which in many cases eludes us. It seems likely that the symbol was by the third century BC taking on a general apotropaic significance, rather than being intended as a specific allusion to Sicily. At some later stage, certainly after the incorporation of Sicily as Rome's first province in 241 BC, one further addition was made to the triskeles image: to the central Medusa head with its three wingod feet were added ears of barley, usually three in number, one between each pair of legs. This was a clear allusion to the agricultural yields of Sicily and its importance as a grain supplier for Rome. The date of this introduction cannot be precisely fixed: the barley ears are believed to appear for the first time on the bronze coinage of Palermo with a head of Athena on the obverse (and with ethnic in Greek), minted at some stage between 241 BC and 36 BC; they probably belong closer to the end of that period than the beginning”. But the earliest closely datable issue showing the triskeles with corn ears is that struck for the consuls of 49 BC, L. Cornelius Lentulus Crus and C. Claudius Marcellus, who fled from Rome at the approach of Caesar (PI. III.8). They chose the emblem of Sicily to indicate their alleged political control of the island and its grain supplies, and also because Claudius Marcellus was a descendant of the Marcellus who captured Syracuse and other cities in Hieron's kingdom in 213/211 BC. It is in fact quite possible that this was the first issue ever to use the barley ears, and that the city coins of Palermo which also display the barley ears were an imitation of the Rome issue of 49 BC, and so belong to the years between then and 36 BC rather than earlier; but this is not certain. It is also possible that the only example of Celtic coinage to use the fully anthropomorphised version of the triskeles, the Celtiberian issues of Ilturir/Iliberris in southern Baetica (Fig. 5), also imitated the denarius of 49 BC; if so, they too must have been minted between that year and the cessation of Celtiberian coinage a few years later, on Augustus' reorganisation of the Spanish provinces*, From now on the three barley cars became a standard part of the iconography of the triskeles image, along with the winged heels and the central gorgoneion. It is, for example, this version of the emblem which appears on the city coinages of Sicily struck during Augustus’ reign at Palermo (Pl. III), laitas and Agrigento (PI. 111.10 may be from the last mint)”. The same is true also of the coinage of the African pretender Clodius Macer, issued from an African mint in AD 68 (PL 111.14), and of imperial issues during later emperors’ reigns, such as those minted by Hadrian (PI. IV.2) and Antoninus Pius”, The gold coin issued by L. Aquillius Florus in 14 BC, on the other hand, shows the triskeles with the winged feet and a splendid Medusa head at the centre, but without the corn ears (PL. 1.11). The reason for the choice of emblem in this case was that Aquillius Florus was a descendent. of the M' Aquillius who had brought the Second Sicilian Slave War to a successful conclusion in 100/99 BC." In addition to these coins on which one whole die is occupied by the image of the triskeles, the symbol continues to be used in the field or as an attribute on other coins wherevera Sicilian allusion. was called for. In these miniature versions of the triskeles, of course, the Medusa head at the centre and the barley ears are not normally attempted. Examples in Roman coinage include the issues of 729

100

Fig. 6. Pompeii,

pica

fresco

"

(lost), Sicilia (right), with.

BC

of P.

Cornelius

Lentulus

Marcellinus,

where a triskeles in front of a ship's prow alludes to the conquest of Hieron's former kingdom in 211 BC by his ancestor M. Claudius Marcellus; a denarius of 50 BC featuring a portrait of the same ancestor with a triskeles behind him; and a denarius coined in Sicily in 47 BC by Julius Caesar and A. Allienus, where the reverse type shows the figure of Trinakros, eponymous king of Sicily, with foot on a prow and holding a tri skeles (Pl. 111.12)”. An aureus of 29/27 BC from an uncertain Italian mint, possibly Brindisi, depicts a bust of Diana on the obverse, and a temple on the reverse in which a trophy mounted on a ship's prow is shown (PI. II1.13)”*. The Sicilian

location of the temple is indicated by a triskeles

in the pediment, and the allusion must be to the Temple of Diana on the north coast of Sicily on the bay of Naulochus, where spoils were deposited by the victorious Octavian after the engagement off Naulochus with Sextus Pompey's forces in 36 BC. Here of course the use of the triskeles is convenient numismatic shorthand for indicating the location of the temple: it is most improbable that the triskeles would have actually appeared on the facade of the temple itself. Examples of the criskeles employed in other secondary roles can also be seen on the Sicilian city coinage, on some Augustan issues of Palermo, for example, and on two issues from an uncertain mint”, THE TRISKELESAS ATTRIBUTE OF THE PERSONIFICATION OF SICILY, SIKELIASiCILIA

The first attempt at depicting a personification of the island of Sicily did not occur until about 340 BC under Timoleon, when a female head on the Symmachikon coinage is specifically labelled as Sikelia. She has, however, no distinguishing attributes, nor are there any on the first Roman depiction of Sicilia, on a coin of71 BC: here an abject, drooping female figure, is about to be raised to her feet by the conquering Roman general'*. In both cases identification of the female figure as the personification of the island is made possible by the legend alone. The carliest datable representation of Sicilia with the specific attribute of the triskeles behind her head is on a now lost fresco from Pompeii, which must of course be earlier than AD 79 (Fig. 6): here the bust of the personification wears a mural crown from which corn ears fall, and there are more corn ears in her hair”. Only two legs hang down from either side of her head, but the triskeles is clearly intended, with the third leg perhaps envisaged as being invisible behind the head (unless the artist did not understand his model). A two-pronged instrument (? a hayfork) passes diagonally behind her. The use of the mural crown is otherwise unparalleled in the iconography of Sicilia, but it is likely also to have occurred in the personification of Sicily on the third-century-AD mosaic pavement from Belkis-Seleukia, where all ten of the surviving personifications of provinces wear mural crowns: Sicilia may well have featured in one of the estimated fourteen further roundels on this mosaic which have been lost ”. The few other certain representations of Sicilia during the Empire all have the identifying attribute of the triskeles behind the head, with all three legs showing, usually but not always facing in the same direction; she is normally shown with long hair. A female bust of Sicilia, from the Terme della Trinacria at Ostia (PI. IV.1), is a good example: probably of Hadrianic date, she appears with mournful expression, with hair descending onto her shoulders and down the nape of her neck, and the triskeles behind her head”. The Hadrianic period also saw the introduction of new versions of the Sicilia iconography: a Rome sestertius of AD 126 or 127 depicts Hadrian in travelling dress raising his right hand to greet Sicilia, identified as usual by the triskeles behind her head (PI. IV.3): she stands 730

on the right holding ἃ sacrificial patera in her right hand outstretched over the centrally-placed altar, and with com ears in her left hand ®. The legend indicates that the coin belongs to the adventus series, commemorating Hadrian's visits to the provinces. Towards the end of his reign he visited Sicily again, a visit marked by a restitutor issue, showing Hadrian in a toga helping a kneeling Sicilia to rise; again she has triskeles behind her head and corn ears in her (right) hand (PI. IV.4)*. Early in Antoninus Pius’ reign, in 139, another sestertius (as well as a dupondius) shows a further full-length version of Sicilia, this time standing in traditional Greek dress of chiton and himation (appropriate in a province which never wholly shrugged off its Greek roots during the long centuries of Roman rule), holding a diadem in her right hand and an object of uncertain interpretation in her left; once more a triskeles is set behind her head to remove any doubt about the identification (PI. IV.5)®. Only two other certain? representations of Sicilia with the rriskeles are known to me. One is on a recently-published mosaic of the second half of the second century AD from El Djem in Tunisia, where a unique iconography for Sicilia is adopted**. The pavement features seven personifications in hexagons enclosed within ἃ guilloche border. Roma is at the centre, and in the surrounding six panels busts alternate with full-length standing figures. The busts show Asia (2), Africa (with clephant head-dress) and Egypt (with Isis’ sistrum); the standing figures show Spain (with olive branch), an unknown province, and Sicily. Sicilia is depicted, exceptionally, in the guise of Diana the huntress: she is dressed in a short chiton which leaves her right shoulder and breast bare; her hair has a central parting, and is gathered into a bun at the back above her neck; she has a red mantle draped over her left arm; she carries a spear in her left hand and a stag's head in her right; and she wears hunting boots on her feet, Were it not for the triskeles behind her head, there would have been nothing in the iconography, by comparison with other representations of Sicilia, to suggest that this was indeed a personification of our province: for the iconography is unique, an African mosaicist’s (or his patron's) interpretation of Sicily which viewed the island as good hunting country. More conventional is a cylindrical marble base now in the Vatican, on which a short-haired Sicilia, wearing a tunic pinned on her shoulders, is depicted alongside a seated Roma and a standing Annona; the latter is shown holding a distribution tessera in her right hand and a rudder in the left*. Once again Sicilia is identified by the triskeles emerging from her hair, but unusually two legs face in a clockwise direction, the third anticlockwise. If this base has been correctly ascribed to the fourth century AD, itis the latest representation of Sicilia known to us. THE SICILIAN USE OF THE TRISKELES IN OTHER MEDIA

While representations of the personification of the province are few in total number, the employthe Empire. So far, we have scen examples of its use only on coins; but it occurs in a number of other media too - on pottery, loomweights, bricks, amphorae, terracotta and lead seals, gemstones, sculpture and mosaics ~ and to these we will now turn. Occurrences of the rriskeles on pottery in the hellenistic period are surprisingly rare, especially in view of the existence of a flourishing hellenistic pottery industry in the island at Syracuse and elsewhere. Few have been fully published, but there is also an unpublished example of a triskeles on a red ware in the Vibo Valentia museum in Calabria, each leg forming an indentation in the clay in a triangular arrangement. Its date and context are unknown, but it may come from a Sicilian potter's workshop of mid/late hellenistic date. I know of no published examples of black glaze pottery with a triskeles stamp from Sicily itself, but examples elsewhere include a vessel from the necropolis at Smirat in eastern Tunisia (Fig. 7), and another is noted from a third/second century BC necropolis at Thapsus nearby”. A chance visit by myself to the oppidum of Ensérune near Nimes in the south of France has revealed a further unpublished example in a museum showcase there: I am most grateful to the Museum Director, M. Christian Olive, for permission to publish it here ®. The fragment is the base of a bowl (Lamboglia form 27) covered with a bright black gloss of excellent quality, on the in-

ment of the device of the triskeles on its own to symbolise Sicily is not uncommon, especially during

731

side bottom of which were stamped (probably) four small circular stamps, each 8.5 mm in diameter; three survive (Fig. 8; PI. IV.6). The tris keles here consists of three legs in clockwise direction, with the hint of a wing at each ankle (the line deviates slightly in acknowledgement of it, but the wing is not shown as such). At the centre is a plain circular disk rather than a gorgoneion, not surprising in view of the tiny scale. Between mu each pair of legs, next to the edge of the circular stamp, is a u-shaped filTei des seen en be ling ornament of purely decorative significance. The fabric, very hard and pottery beige orange in colour, with minute particles of gold-coloured mica, indicates that this fragment belongs to Campana A pottery, and the presence of the no doubt symmetrically-set stamps indicates that it should be placed within the atelier of the "petites estampilles’, working in Rome (according to Morel) in the first half of the third century BC (c. 305/265 BC)®. It is tempting to think that it was a Sicilian potter who chose to advertise his native land by introducing the triskeles into the repertoire of the Rome atelier where he worked, responsible for turning out vessels with this style of decoration; but the triskeles is only one of a wide range of motifs used for the stamps of the ‘petites estampilles’ production series, and it might have been adopted as much for its general apotropaic associations than for any specific Sicilian connection. Another item on which the triskeles appears is on two faces of a loomweight, so far unpublished, which was looted during clandestine excavations, probably from the necropolis at Entella, and subsequently recovered by the police”. In the absence of a clear description or context, its precise date must remain unknown; the motif does not recur on the loomweights from Entella which have come from systematic excavations at the site, and which have recently been published in exemplary detail". In view of Entella demise in the early Empire this object too is likely to be of hellenistic (or earlier) date Other ceramic material to include the triskeles among its stamps were bricks, as on one from Lipari in the Aeolian islands, and on others from near Licata recorded in the eighteenth century (Fig, 9)%, An amphora handle in the Erice museum of uncertain (hellenistic?) date, probably from Erice or its environs, also carries a stamped rriskeles, intended as a clear indication of Sicilian manufacture for both amphora and contents (wine? olive oil2). There are comparable examples of amphora stamps, unpublished, in the Syracuse museum. The remarkable cache of 600 terracotta archive seals from Selinunte, found buried on the lowest step on the south side of Temple C in 1876 and 1882/3, also includes the rriskeles (with winged ankles and small, indistinct central head) among the 438 types employed (it occurs twice); some of these seals were found to have been burnt, and this fact, together with the location of the find-spot, probably indicates that they were destroyed during the sack of Selinus in the mid-third century BC.*. ‘The presence of the wings at the ankles indicates that the seal is unlikely to have been made carlier than the penultimate decade of the fourth xa century BC, when wings first appear, as we have seen, on coin representations of the rriskeles. The triskeles with central head also appears on lead seals of Roman date, to indicate clearly the Sicilian provenance of the goods to which they were fastened *, To the more private sphere belongs the choice of the triskeles on gemstones. The finest example, illustrated here, was formerlyinthelo|g 5 rides Collection in London (Pl. 1V.7): it shows a === _M particularly clear and striking depiction of the Medusa head in the centre, with snakes tied ac- — Fig. S. Ensérune, base of BG Campana ware, with ross her forehead; the barley ears are prominen- drawing of stamp (magnifiedx 4). 732

tly visible, and the three legs are also present, one of them going in the opposite direction to the others -- an arrangement ‘which a Sicilian would probably regarded as a poor joke’, in the view of the cornelian's publisher, Sir John Boardman**. A number of other gemstones showing the triskeles are also known. Also in the private sphere belongs a brooch from the Saalburg on the limes in Germany, presumably of the second or third century AD, with an interesting variant of the triskeles: three snakes! heads are arranged in a curvilinear pattern meeting at the centre”, This, however, might have been an independent creation unrelated to the influence of the triskeles proper. The only example in sculpture of the triskeles depicted on its own

occurs on a pedestal base once in Malta, recorded by the Frenchman _ Fig:9. Licata, brick stamp.

Jean Houel in the eighteenth century in the fourth volume of his magnificent Voyage Pittoresque dans les Isles de Sicile, de Lipari et de Malte; it may now be lost (Pl. V.1)**, Houel and later Holm certainly took the relief as ancient (presumably Roman), and they may be right, although the iconography of the figure on each side of the base, a man carrying a large fish, is very odd; the relationship of this scene with the triskeles, if any, is unclear. The main side of the base shows the bust of a woman (Houel calls it a man) with three legs emerging from the head; there are no barley ears. This head, which does not have any of the attributes of Medusa, is larger than the. normal gorgoneion; perhaps, therefore, it is better interpreted as a personification of Sicilia herself rather than as the triskeles as such. Houel notes that a previous antiquarian, Abela, recorded the monument as serving as a statue base for Proserpina, a honoured goddess (like her mother) in the cornrich province of Sicily, to which Malta administratively belonged in Roman times. Let us close this section on the use of the triskeles emblem by itself with four mosaic examples. The first is a black and white pavement from the Terme Distrutte at Ostia, where a mosaic of c. AD 40/50 uses a rather crude representation of the rriskeles, with central face (not specifically a Medusa) and the three legs with winged boots, one of which is shown clockwise, two anticlockwise; there are no corn ears (Pl. V.2)”. This shorthand reference to Sicily occurs on a floor designed to record the principal food suppliers of the Roman world: the other panels in this group of four depict a personification of Spain (with olive wreath) and two winds, the latter represented by male bearded busts with wings in their hair. A balancing quartet of panels showed Africa, Egypt and two further winds. Also somewhat perfunctory is the black and white mosaic in a cubicle of the baths at Tindari on the north coast of Sicily, part of a set of poorly executed mosaics signed by the Sicilian mosaicist Neikias, slave of Dionysios (Pl. V.3)"™. The central head has untidy hair probably intended to represent snakes; the legs are shown clockwise but without wings at the ankles; and unusually all three corn ears are grouped below the head, rather than being spaced equally between cach pair of legs. The date of the mosaic is probably late in the second or early in the third century AD. The third example, also in Sicily, is much more skilfully drawn, but very badly damaged. In the large and luxurious town house excavated on Capo Boco at Marsala just before the last war, but never published, one of the mosaics depicted a head of Medusa with the three legs at the centre, and four full-length seasons at the corners (PI. V.4)'0!, The mosaic is probably approximately contemporary (but of much more delicate quality) with the Tindari one, i.e. shortly before or shortly after AD 200. Only the left-hand side of the head with a single protruding leg is clearly visible, but part of a second leg just survives before the break which has removed the top of the head, as does also an ear of corn, standing up from the head between the two legs. Our final example is a very recent discovery of great interest in Tunisia, a pavement of 25 square metres reported in 1996 as being found in south-west Tunisia, at Haidra. It features a map of the Mediterranean in which eleven islands are depicted with Latin inscriptions, ‘the whole being decorated with decorative motifs and animals’. It is not at present absolutely clear that a triskeles was used to indicate Sicily, but it may well have been: a fuller prelimimary account of this intriguing discovery, together with illustrations, is eagerly awaited. 733

POST-ANTIQUE USES OF THE TRISKELES

The popularity of the triskeles as the symbol of Sicily seems to have declined in the early medieval period, although, as we shall see, it seems unlikely that it was ever completely forgotten. The city of Palermo, for example, never used it in its coat of arms, preferring instead the gold eagle on a red field, or a figure holding a snake". Frederick II adopted the eagle as his emblem, and from the fourteenth century onwards Sicily was represented by the arms of Aragon, the pali of Aragon being quartered in the cross of St Andrew with the Swabian cagle. The Bourbons by contrast used their traditional emblem, the lily. Only in the nineteenth century did the triskeles come back into fashion as the official emblem of Sicily, when Napoleon put it on the arms of the Kingdom of the Two Sicilies, ruled from Naples, Some unusual post-antique occurrences of the triskeles, however, remain to be discussed, one of which is well-known, the others not. Let us take the latter first. At Heiligenkreuz bei Baden in Austria, south-west of Vienna, a fine Cistercian complex with church and ancillary buildings was erected between 1187 and 1295. Of these buildings the Fountain House belongs to the last phase, which post-dates the building of the cloister in 1240; it was almost certainly constructed during the 1280s"5, Around the interior of the octagonal Fountain House, at socle level below the great windows, appears a continuous blind arcading, each side of the octagon being decorated with a triplet of pointed arches, each of which in turn frame a simple double ‘window’ decorated with tracery. In one of the blind arcades, in the apex of the left-hand pointed arch, is carved a triskeles in relief: it consists of three, joining, unclothed legs, without winged feet, and lacking also a head or disc at the centre (PI. V.5). The triskeles is matched, in the pointed arch to the right (the apex of the central one is empty), with the carving of a male head sporting long, flowing, curly locks "5, Other approximately contemporary examples of the same date showing clear influence of the triskeles design include a carving on a choir stall at Maggenau, also Cistercian, depicting four men with a single central head and bent legs in triskeles fashion tied to a wheel; and three lightly-engraved sketches on the outside of a church wall at Ulrichskirchen next to a running lion”. In the thirteenth century the occurrence of the triskeles in Austria can only be interpreted as a reference to Sicily, and the allusion is certainly due to the activities of the Hohenstaufen King, Frederick II, who took control of Sicily in 1198 and ruled it until his death in 1250, and whose interest in this part of Austria was demonstrated by a number of strategic marriages between members of his family and various Austrian Dukes. Frederick Il also presented to Heiligenkreuz the Crown of Thorns given to him in 1248 by Ludwig IX, King of France. Across the modern political border, the city of Füssen im Allgau in the German Alps also adopted a triskeles as its emblem from the thirteenth century onwards. This was in part intended as a pun on the name of the place (Fu = foot), but it also reflects the Sicilian interests of the Hohenstaufen Henry IL into whose possession the city had fallen in 1191, But this triskeles differs from all the other examples so far considered in being not bare but clothed in leg-armour, analogous to the version later adopted by another island, the Isle of Man. The Isle of Man is part of the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland, but still retains its independence in certain matters, especially fiscal, and still possesses the trappings of independence in its parliament, the Tynwald, and in other ancient ceremonies. The date when the official crest of the Three Legs was adopted by Man is not absolutely certain, but it seems probable that it occurred in 1266 when Man came under the control of Alexander III, King of Scotland". This is suggested above all by the frequent and repeated occurrence of the Three Legs very soon afterwards in heraldic devices associated with Man: they include Walford's Roll, Herald's Roll, Camden Roll and Segar's Roll, all of which were compiled between about 1270 and 1280", Later it turns up also on seals in Scandinavia, the by-product of Manx emigration to Scandinavia before the end of the thirteenth century", By contrast the seals of the Norse kings (the last of whom, Magnus, died in 1265) bore the non-heraldic devices of a ship in full sail and of a lion", Nevertheless, some scholars have suggested that the use of the Three Legs may have been introduced towards the end of the 734

Norse period, a little before 1266. Sir Anthony Wagner, for example, wrote: 'it would seem possible,

though this can only be conjecture, that a pre-existing device of three legs was given heraldic shape either by King Harald of Man when he visited the court of Henry ΠῚ in 1246, or by Magnus King of Man when he did the same thing in 1256." Yet there is no hint of this in the surviving manuscripts of heraldic devices, and it would seem more plausible to see 1266 as marking a fresh start and a decisive break with the past, on the occasion of the Isle of Man's transfer to Alexander III of Scotland. The available evidence is consistent with a date for the introduction of the Legs of Man after, rather than before, 1266. A Norse origin for the Three Legs has also been claimed through the alleged use of the triskeles on the Hiberno-Norse coinage of the Kings of Northumbria in the tenth century". The device in question appears on the coins of Sihtric (AD 921-6/7), Regnald (AD 943/4) and Anlaf (AD 941-4 and 949.52), but is a compact knot-like trefoil decorated with dots: there are no legs, and it does not remotely resemble either the Three Legs emblem, as it appears suddenly in Man in the third quarter of the thirteenth century, or even what I have called above the 'pseudo-triskeles' used in Iron Age Europe. Even if one does accept the tenth-century numismatic device as providing an inspiration for the Three Legs of Man, there is a gap of three centuries to explain before it became adopted by the Isle of Man, by which time the Hiberno-Norse coins were out of circulation and long forgotten. Some of the earliest examples of the heraldic use of the Legs of Man survive only in seventeenthcentury copies, but the original of Herald's Roll (c. 1270/80) is still extant: it shows a rather awkward junction of the three legs, suggesting a lack of familiarity with the emblem at that stage '*. The legs also go anti-clockwise, rather than in the clockwise direction on the ‘standard’ version of the Three Legs. This Roll and other early examples show the legs covered with chain mail, as is usual in early heraldic devices; they do not, however, show spurs. Another probably early example of the Three Legs symbol appears on the Manx Sword of State, a ceremonial sword still used in the Tynwald, and which is traditionally dated to the middle years of the thirteenth century". The emblem occurs twice on the Sword: in a circular frame on the pommel, and squeezed somewhat awkwardly into a triangular field on the eschutcheon, the point of junction between the blade and the guard; I show a detail of the former in PI. V.6. Although the surface features are now considerably worn by handling, the version of the triskeles used for both shows the three legs apparently bare, facing clockwise, and with what I take to be a large flower (rather than a spur) emerging from each ankle. At the join of the three legs in the centre is a three-petalled flower. If correctly interpreted, the bare legs, the flower-like projections from the ankles (could they be a misunderstanding of wings, if the Sicilian version of the symbol was ultimately the model?), and the central flower all suggest an carly date for the Sword of State: it is not impossible that it was made for Alexander III in or soon after 1266. Interestingly, the legs are also bare, and there are also what I take to be flowers at the ankles in another early example of the Legs of Man, that shown on the vestments of the recumbent stone figure, the so-called ‘Prince's Tomb’, at Beverley Minster in Yorkshire; the monument is believed to be that of Edward I's chaplain, de Grimsby, who died in c. 1310". There is no flower at the centre of the emblem but a triangular void, a feature which also incidentally appears in the fourteenth-century Pillar Cross in the churchyard at Kirk Maughold (Isle of Man) "*. The spurs are prominently visible on the Pillar Cross, as is the armour plating of the legs, and it is clear from heraldic examples of the fourteenth century that by then the spurs have become a regular part of the emblem, along with the armour protecting the legs; a discreet triangle usually marks the junction at the centre between the three legs", Later still, a Latin legend was also added, QUOCUNQUE IECERIS STABIT, ‘whichever way you throw it will stand’, This had already appeared by the time of the earliest known Manx coinage, of 1662; the issue shown here (Fig. 10) dates to a little later, being minted in 1733. This armoured version of the triskeles has remained the symbol of Man to this day ™. If we reject as unlikely the idea that the origin of the Man triskeles lies in the Hiberno-Norse coins of the tenth century (see above), the reason for the adoption of the emblem and its immediate and widespread use in Man soon after 1266 needs to be explained. Man like Sicily is an island, and with the eye of faith it could be said to be sub-triangular in shape (though markedly less so than in the 735

case of Sicily); primitive medieval cartography, indeed, may have made the island appear more triangular than it really is. More significantly, a possible Sicilian link is provided by Alexander III's nephew by marriage, Edmund of Lancaster, son of King Henry III. A papal Legate, determined to assert the feudal rights of the papacy over the island of Sicily in the unsettled period after Frederick IÎs death, had formally invested the Sicilian kingdom in him in 1254 when he was only eight years old: for ten years thereafter Edmund styled himself ‘King of Sicily by grace of God’, Inevitably, in view of the age of Edmund, it is to the English King, Henry III, that we must ascribe this bizarre notion of aspiring to the Sicilian kingdom: both father and son even appeared in

Fig. 10. Manx coin of 1733, — the Westminster Parliament wearing Apulian dress, as a mark of their

showing triple legs.

pro-Italian sympathies. Although it is true that there is no evidence

that the triskeles was still used as the symbol of Sicily in the thirteenth century, its presence in Germany and Austria at that time (see above) indicates that the symbol's connection with Sicily was not forgotten, and monuments may have been still visible then in Sicily as a reminder of the rriskeles' ancient role as the symbol of the island. It may conceivably, therefore, have been through Henry III that his brother-in-law Alexander III of Scotland and Man first became aware of the triskeles emblem as a symbol of Sicily, and, twelve years after his nephew had assumed the title of ‘King of Sicily’, decided to adopt it for the Isle of Man when he gained conshowing triple legs. The use of the triskeles continues, therefore, as a familiar emblem both in the Isle of Man and in Sicily: in the latter, crudely-made clay Fig. 11. Emblem of the — versions are on sale as cheap tourist trinkets all over the island. But we McDonald Institute for Ar- — willclose with a more recent adoption of the triskeles symbol, and from chaeological Research, a somewhat unexpected source. The McDonald Institute for Archacological Research in the University of Cambridge (England), founded in 1990, has a letterhead proudly emblazoned with a version of the triskeles, equipped with winged feet, but with a plain disc rather than a Medusa head at the centre; the legs are shown anti-clockwise (Fig. 11). The same badge is used on the front cover of the Institute's organ, the Cambridge Archaeological Journal, the first issue of which appeared in 1991. The reason for the adoption of the triskeles is nowhere explained in print, but I understand ™ that it was chosen partly because of Dr McDonald's interest in coinage and metrology (and the triskeles, as we have seen, often appears on ancient coins), and also because he lived on the Isle of Man towards the end of his life. Even though the version adopted at Cambridge is in fact closer to the Sicilian triskeles than to the Manx one, the reasons for its adoption provide vivid evidence of the continuing potency and attraction of the triskeles symbol at the beginning of the twenty-first century, some 2,600 years after its first appearance on the dins from Palma di Montechiaro. ACKNOWLEDGEMENTS

Many friends and colleagues have kindly helped me in various ways during the preparation of this article. Dr Gioacchino Falsone kindly faxed me a copy of Holm 1871 (see note 3), and drew my attention to Trevelyan 1995 and to an unpublished loomweight with triskeles from Entella. Professor Alan Sommerstein kindly put me right on Aristophanes, and Andrew Wilson with his usual generosity and thoroughness drew my attention to Hauser-Seutter 1982 (see note 104), without which this article would have been the poorer; the same goes also for Dr Keith Rutter, who first drew my attention to Burnett 1977(see note 66) and kindly sent me a photocopy of the relevant pages. I am partic736

ularly grateful to him, to Dr Andrew Burnett, to Douglas Saville of Messrs. Spink and Son, and to Frau Dr Hauser-Seutter for their kind and generous help with the photographs; other photographic debts are acknowledged in the Illustration Credits. Madame Genevieve Galliano of the Musée des Beaux Arts, Lyon, kindly searched for the original, apparently now lost, of the sculpture illustrated in Cook 1914 (see note 19), fig. 246. Dr Chris Scarre of the McDonald Institute in Cambridge explained why the rriskeles was adopted by that Institute as its distinctive badge. Mr T. V. C. Young of Peel kindly gave me the benefit of his own researches into the Three Legs of Man, although he will probably not agree with my conclusions. All remaining errors of fact and interpretation are of course my own. I am especially grateful to M. Christian Olive of the Musée de l'Oppidum d'Ensérune for his generosity in allowing me to publish here a fragmentary black glaze bowl with a triple occurrence of the rriskeles stamp, and for supplying me with a full documentary, graphic and photographic record of it. BIBLIOGRAPHICAL. ABBREVIATIONS NOT CITED IN THE NOTES IN FULL

E.A. FreemanA history of Sicily I. Oxford: Clarendon Press 1891. M. Jarta, Le rappresentanze figurate delle province romane. Rome: Ermanno Loescher and Co 1908. ΗΒ. MarnincLY, Coins of the Roman Empire in the British Museum. London: British Museum 1923. A. Gatun, Sicilia. A) Personificazione, in Enciclopedia dell'Arte antica VII. Rome: Istituto dell'Enciclopedia Italiana 1966. NOTE * E. De Miro, La fondazione di Agrigento e l'llenizzazione del territorio fra il Salso e il Platani, in Kokalos 8, 1962, pp. 132for the dating, ibid. 129 and P. Ontani, La raffigurazione della triskeles su vasi arcaici di fabbrica gelese, in CASA 3, 1964, 13. ? Careful re-examination of the dinos in May 1997 confirmed that it is unlikely that there was ever a face at the centre of the composition, even though a curved darker painted line gives at frst sight the impression of a mouth. The addition of a face (usually a Medusa head) to the previously plain central disc is in any case not attested in riskeles symbolism anywhere before the late fourth century BC (see below). ? This is the correct form, rather than that frequently used in English-language publications, rriskele, which does not exist. See H.G. Liopeti. andR. Scorr, Greek-English Lexicon (9th. ed. 1940), p. 1822, sv. triskeles, ‘three-legged’. The form triskelis, also wrongly used to refer to our symbol, means specifically a ‘three legged fork (ibid.). Also erroneously applied to our symbol (e.g. A. Hou, La triguetra nei monumenti dell'antichità, in Rivista sicula di scienze, letteratura ed arti 6, 1871, pp. 473-99) is the word triguetra, the feminine form (se. insula) of triguerrus, ‘three-cornered, triangular (cfr. Oxford Latin Dictionary, p. 1977). This is often used by the Latin poets to refer to Sicily, and alludes to its triangular shape, not the three-legged symbol. * Strangely, mine is, as far as Lam aware, the first attempt to look at the overall use of the triskeles since the study of Holm more than 125 years ago: A. Horat La triguetra, ct. I am here taking up the challenge posed by Ox.aNpini (P. ORLANDINI, La raffigurazione della triskeles, cit, pp. 14-15), who in publishing the Bitalemi riskeles wrote: naturalmente un problema del genere richiederebbe un lungo studio particolare che dovrebbe avere, come punto di partenza, un aggiornato catalogo di tutte le raffigurazioni della triskeles nella loro distribuzione grafica e cronologica. * P. Ontani, La raffigurazione della triskeles, cit; Ip. Lo scavo del thesmophorion di Bitalemi e il culto delle divinità ctonie a Gela, in Kokalos 12, 1966, pp. 8-35, at p. 26 with Tav. XXIV.2; for a colour photograph of the vessel, R. Paxwna, Gelas. Storia e archeologia dell'antica Gela, Turin: Società editrice internazionale 1996, Tav. 8. © CT. εῖτμαν, Athens, its history and coinage before the Persian Invasion, Cambridge: Cambridge University Press 1924, pp. 20-2. ? C.M. Kraay, Archaic and classical Greek coins, London: Methuen 1976, pp. 56-61 * CT. Secriuas, Athens, cit, p. 153, catalogue no. 14, with PLI, AS; p. 194, catalogue nos. 312-314, and PI. XIV, A205-207. + Xr Ds. 664; J, Hawcanb, Scholia in Aristophanem II 4: Scholia in Aristophanis Lysistratam, Groningen: Egbert Forsten 1996, p. 35. Lowe this latter reference to the kindness of Professor Alan Sommerstein. # Hesychiuss.v. Λυκόποδη (sic). 1 J, HENDERSON (ed.), Aristophanes Lysistrata, Oxford: Clarendon Press 1987, p. 159. 1 AH, SowuznsrEnx (ed.), Comedies of Aristophanes Vol. 7: Lysistrata, Warminster: Aris and Phillips 1990, p. 191. ? GH, Cuase, The shield devices of the Greeks, in HSPh 13, 1902, p. 126 (his Category CCLVII). Much more numerous are shield devices with only a single (bent) leg: ibid. p. 112, Category CLXV. ™ CT. Seca, Athens, cit, p. 22, n. 1 adds four more. ? CVA Great Britain IV: British Museum 3: amphora B158, with pl. 27.2a, from Vulci; CVA Italia XX: Museo Nazionale di 737

Napoli 1, pl. 44, Another good example is J. D. Beaziev and F. Mact, La raccolta Benedetto Guglielmi nel museo gregoriano etrusco. 1, Vatican City: Tipografia ἀεὶ Senato 1939, Tav. 7, o. 21 (an Amazon holds the shield with rriskele). WB, Gennaro, Auslesene Griechische Vasenbilder I: Heroenbilder, Berlin: G. Reimer 1843, p. 173 and pl. CXLL3. ? Anth. Pal. 6.126; ASF. Gow and D.L. Pace (eds), The Greek anthology: hellenisic epigrams. 2 volumes, Cambridge: Cambridge University Press 1965, I p. 85 (Dioscorides XV); IL p. 245 (commentary). ! So ibid, p. 245. + GE. Hi, Catalogue of the Greek coins of Lycia, Pamphylia and Pisidia, London: British Museum 1897, p. 94, no. 9 ion); E. Banzzos, Trait des monnaies grecques εἰ romaines. Deuxiome parte. Description historique. Tome premier, Paris: Er nest Léroux 1907, p. 530, no. 868 (eagle). See too A.B. Cook, Zeus, a study in ancient religion. Volume I: Zeus, god of the bright sky, Cambridge: Cambridge University Press 1914, p. 305, figs. 236-7. > E. Banzton, Catalogue des monnaies greoquesde la Bibliothèque nationale. Les Perses achéménides, les satrapes εἰ es dymastes tribulaires de leur empire, Cypre et Phénicie, Paris: C. Rollin and Feuardent 1893, ILL, p. 525 with pl. 23.12; p. 527 with pl. 23.16; fr. also A.B. CooK, Zeus, cit, p. 305, fig. 235; C.T. Seu, Athens, it, p.33, fig. 25. ? CM. Kaaay, Archaic and classical, it, p. 277. ? Ibid, p. 286. ? GF. Hu, Catalogue ofthe Greek coins of Lycia, cit., p. 263 with pl. XL.12 (Selge); p. 171 with pl. 300€ 2 (Adada); In. Catalogue of the Greek coins of Lycaonia, Isauria and Cilicia, London: British Museum 1900, p. 124 (Olbia). » The triskeles was also carved on one corner of afortress at Karygelleis: J.T. Bent, A journey în Cilicia Trachea, in JHS 12, 1891, pp. 206-24, at p. 209. For a list of other monuments with the criskeles in this region (at Corycus in Cilicia, Oryma in Pamphylia, and Sivri-Kalessi, see P. Parupenu and P. RonaueLL, Studii [sic e ricerche archeologiche nell Anatolia meridionale, in MAL XXIII, col. 165. 5. Ibid. p.165 with fg. 38 onp. 164. » Itis, however, worth noting that the first century BC coins of Selge (sce note 23) have wings at the ankles, an introduction (as we shall see) of Agathocles at Syracuse in the late fourth century BC. The Seige coin imitates, ultimately, the Syracusan model, as does the issue of Velia in south Italy, which also has winged ankles: G.F. Poots (ed.) A catalogue ofGreek coins in the British Museum. laly, London: Trustees of the British Museum 1873, p. 315, nos. 103-4 ? GF. Hi, Catalogue ofthe Greek coins ofLycia, cit, pp. xxvii ® The exception is E. Basetow, Catalogue des monnaies grecques, cit, no. 548 with pl. XV, fig. 20, a semi-obol ofc. 360 BC or later. Cfr also G.F. Hu, Catalogue of the Greek coins of Lycia, cit. pl. XLIV.5 (duckswans no specimen in the British Museum); E. Βαμπιον, Traité des monnaies, cit, p. 498, no. 822 (chickens). 7 Ibid. cols, 501-4, nos. 835-6 with fig. on col. 503-4 and with pl. XXII, fig. 17. » GF. Hin, Catalogue of the Greek coins of Lycia, cit, p. xxvii; E. BangLON, Catalogue des monnaies grecques, cit, pp. xcxci (symbol of the sun and of Apollo Lykios, as originally suggested by L. Mu.ikR, Det saakaldate Hagekors's Anuendelse og Retydning, 1877). ? For example, accompanying an inscription to Zeus Olbios at Olba in Cilicia (EL. Hicxs, Inscriptions from western Cili cia, in JHS 12, 1891, pp. 225-73, p. 226) and on the coins of Olba issued by the Teucrid high priest and toparch, Ajax, in the second decade AD (c. AD 10/12-14/16): A. Burxerr, M. Auavpm and P.P. Rurouts, Roman Provincial Coinage Volume I: from. the death of Caesar to the death of Vitellius (44 BC - AD 69), London: British Museum Press and Paris: Bibliothèque Nationale. 1992, nos. 3725-6 and 3732. For Helios radiant on fourth-century-BC issues: E. Basston, Traité des monnaies, cit, col. 482; A.B. Cook, Zeus, cit, p. 301. * Cfr. B.V. Heap, Historia Nummorum. A manual of Greek numismatics, Oxford: Clarendon Press 1911, pp. 202, 397, 408, 468, 541, 892; A.B. Cook, Zeus, it, pp. 300-310 with references; and other sources cited in the notes elsewhere in this article. ‘ Homer,Od. XI.107; XIL127 and 135, ^ New Grange: MJ. O'Keiy, Newgrange: archaeology art and legend, London: Thames and Hudson 1982, pp. 146-7 with pl. 14 and fig. 47 on p. 177; A. Meran, Celtic design: spiral pattems, London: Thames and Hudson 1993, pp. 24-54. Tiryns: KMoxen, Alt-Pylos II. Die Funde aus den Kuppelgribern von Kakovatos, in MDAI(A) 34, 1909, p. 283, Abb. 5. * Sce note 47 below. % R. Mucaw and V., Cli art: from the beginnings to the Book of Kell, London: Thames and Hudson 1989, fig. 51. 7 A. Metu, Celtic design, cit, p. 89; S. Moscam, O.H. Frey, V. Kruta, B. RarreRY Arp M. S2and, The Celis, Milan: Bompiani 1991, p. 201 ? Eg LM Sreap, Celtic Art in Britain before the Roman conquest, London: British Museum Publications 1985, p. 32. » S, Moscan, O.H. Fay, V. Kxurs, B. Rarrery AND M. SzaB6, The Celts. cit, p. 787, no. 541; the Basel example is in the Historisches Museum, Basel (personal observation). © R. Mecaw and V, Celtic art, i fig. 265 “Ὁ. Fox, A find of the early Iron Age from Llyn Cerrig Bach, Anglesey. Interim Report, Cardiff National Museum of Wales 1945, pp. 35-8; In, Triskeles, palmettes and horse-brooches, in Proceedings of the Prehistoric Society 18, 1952, pp. 47-54, pp. 47-6; R. Mroaw and V., Celtic ar, it, fig. 38. For other examples, cfr. ibid. figs. 397 (Moel Hiraddug, Clwyd) and 400 (Lambay Island, Co. Dublin) ^* Danube (Hungary, Lake Balaton region): D.F. ALLEN, The coins of the ancient Celts, Edinburgh: Edinburgh University Press 1980, p. 50 with pl. 5, no. 42; Io, Catalogue of the Celtic coins in the British Museum. Volume 1. Silver coins of the Celis ‘and Balkan peoples (edited by John Kent and Melinda Mays), London: British Museum Publications for the Trustees of the British Museum 1987, p. 57, nos. 118-23 with pl. VI; cfr. ns. S119-S124, pl. XXIIL Central Gaul: In. The coins, cit, pp. 70-1 withpl. 13, no. 166. 738

© 1. DECKELETTE, Manuel d'archéologie prékstorique, celtique et gllo-romaine 11.3, Paris Picard 1914, pp. 1564-5. For a general discussion of the ἃ croix’ coinage, cr. D.F. ALLEN, The coins cit, pp. 54-7 and Ip. Catalogue of the Celtic coins in the British Museum. Volume 2. SilverLondon: coins British of North Museum Tab, South and Central Switzerland and South John Kent and Melinda Mays), Publications for theFrance, Trustees of the British MuseumGermany 1990, (edited pp. 29-32by ** Sequani and Leuci: DF. ALLE, The coins, ct. p. 76. Poitou region: In, Catalogue of the Celtic coins in the British Musewn Volume2, cit, p.56, nos, 1458, with pl V. ‘© J, Décurterre, Manuel d'archéologie prékistorique, celtique εἰ gallo-romaine III, Paris: Picard 1927, pp. 1025-6, where the Greek origin of the pseudo triskels in La Tene arts taken ascertain. ΩΝ. Καῦτα, The Greek and Celtic worlds: a meeting of two cultures, in G. Puouisst Causam (ed), The Western Greeks: classical civilisation in the western Mediterranean, London: Thames and Hudson, 1996, pp. 585-90. * On the importance and significance of triplism in Iron Age representations, MJ. Green, Symbol and image in Celi re ligious art. London: Routledge 1989, pp. 169-205, and in brief Ip. Dictionary ofCeltic myth and legend. London: Thames and Hudson 1992, pp. 214-6, On the solar symbolism of the pseudo-riskeles, J. DECHELETTE, Manuel d'archéologie préhisorique, celtique et galoromaine IL, Paris: Picard 1910, p. 453; ΝΕ, Gram, Sungods of ancient Europe, London: Batsford 1991, pp. 48.9; on the solar wheel in general, Io, Symbol and image, cit. pp. 1647 ἐν Weapons: J. DécustEtTE, Manuel d'archéologie préhistorique, celtique et gallo-romaine IV, 2nd. edition, Paris: Picard 1927, p. 818 with ig. 3; for examples of pscudo-tristeles on 6th-8th century metalwork in Ireland, efr. R. Mecaw and V. Celtic an, cit, figs. 416, 418 and 423.4. Broughton Lodge: A.G. Kixstev, Broughton Lodge. Excavations on the Romano British sttlement and Anglo-Saxon cemetery at Broughton Lodge, Willoughby-on-{he-Wolds, Nottinghamshire, 1964-8. Excavations by M. J. Dean (Nottingham Archacological Monographs 4), Nottingham: Department of Classical and Archaeological Studies 1993, p. 29 (0/1) with ig 36. © ΜΗ. Fastan, Nouvelles sts ἃ épigraphes neopuniques de Mididi, in Semitica 36, 1986, pp. 25-42. ? Dn, Presence dela Scie en Afrique puniue, in Kokalos 39-40, 1993-94, pp. 211-20, at p. 220. ? F Du Coupray La Biaxcitbne and P. GauexteR, Catalogue du Musée Alaoui, Paris 1897, p. 64, no. C777; C.G. Picano, Cataloguedu Musée Alaoui, Nouvelle Série (Collections Puniques). Tome I, Tris 1956, p. 253, no. Cb 939 with pl. XCVIII SA. Hots, La triqueta it, p. 487; AB. Cook, Zeus, ci. p.308, fig. 246, once in Lyon. I have been unable to find a more recent publication of this piece, which is now apparently lost Iam grateful to Madame Geneviéve Galliano, Conservateur du Départment des Antiquités, Musée des Beaux Arts, Lyon, for her exhaustive but vain efforts to trace this sculpture. *'L, Canton, Les stles de Sidi Bou Rowis, in Bulletin de la société archéologique de Sousse 3,1905, pp. 201-11 Chr. MH. Pastan, Presence de la Sicile, cit, p. 211-20, at p.220: mais estce que l'Afrique doit son tiskèle à une influence sicilienne? Voilà un sujet pour un enquete difficile t tres passionante. 5 silver fraction of the Caulonia mint in the fifth century BC (c. 500/480 BC) was in fact the ἤτοι coin in the West to feature the fiskeles, long before Syracuse adopted it: G.F. PooL£ (ed), A catalogue of Greek coins in the British Museum. Italy cit, p.336,o. 16 with figure 5 R. Catan Corpus Nummorum Siculorum: la monetazionedi bronzo II, Milan: Edizioni G. M. 1986, pp. 191-2, no. 82; N° Bazrensrem, Sylloge Nummorum Graecorum. The Royal Collections of Coins and medals, Danish National Museum. Sicily, Copenhagen: Einar Munksgaard 1942, pl. 16, no. 732. 5 R. Circum, Corpus Nummorum Siculorum: la monetazione di bronzo I cit, p. 192, no. 83. » Cir, NK Rorres, Greek coinages of southern Italy and Sici London: Spink 1997, pp. 167-71. » R Caucum, Corpus Nummorum Siculorum: la monetazione di bronzo I, cit, p. 249, no. 121. La monetazioὉ L Pater, P. Giuro and L. Vox Marr, Ancient Sicily, London: Longmans 1960, pl. 202 silver E. Gasuct ne del bronzo nella Sicilia antica, Palermo: Reale Accademia di scienze lettre cd arti di Palermo 1927, p. 79 with Tav. V.3 (bronze). I. Kxuuskorr, Gorgo, Gorgones, in 1-- Kw (ed), LIMC IV.1, Munich and Zürich: Artemis Verlag, 1988, p. 29, no 152 with references. Ibid, p. 326 points out that no examples of shield devices with gorgoneia are actually known; butK. Scuauexmuno, Helios. 1955, pp. 32-40 suggests otherwise: and Archdologisel-mythologische Studien über den antiken Sonnengott, Berlin: Gebr. Mann the second halfof the sixth century BC cf. Kaacsrorr, Gorgo, Gorgones, cit, p.300 no. 158 for ἃ bronze shield device from distances. The wings are not from Olympia, with central gorgoneion from which three curving wings emerge at symmetrical well in the same fashion as the ciskels,and the circular shape of the shield clearly accommodates legs, but they are arranged as apotropaic devices on greaves,cr. RJA, Witson, The Western Greks, in J. BoanDSuch an arrangement, For gorgon' heads ata (ed), The Cambridge Ancient History, Plates to Volume IV. Persia, Greece and the Western Mediterranean c. 525 to 479 BC, New edition, Cambridge: Cambridge University Press 1988, p. 197, no. 263 (Ruvo), with references; and fora similar decorationE. A. Borm, S. Dr Cano,A Frarrs, E. Greco, on a horses breastplate, also from Ruvo (fourth century BC), cr: G. Anorzassi, Italy, Naples Electa 1996, p. 47. in Southern Lrtanzi, and G. Tocco, The Western Greeks: guide to the exhibitions and L. Vox Marr, AnThere was a variety of different dies: some showing the Victory facing let (as L. Pax,Sicily,P. Grurro London: Routledge 1991, p. cient Sicily, it, pl. 206), others facing right (RR. Hottower, The archaeology of ancient 138, fig. 185, with riskeles behind trophy. Ὁ B.V. Hrap, Historia Nummorum, cit, p. 181; G.F. Poous (ed), A catalogue of Greek coins in the British Museum. Sicily, BC); fr. p. 192 no. 346 for the Nike flying above the cha London: Trustees of the British Museum 1876, pp. 191-99 (317-289 than a wreath, Triskeles alone above chariot: NK. RUTTER, Greek coinages, cit, p. 174 ig. 197. the riskeles rather riot holding 4 Well illustrated in bid. p. 173, figs. 194-5. and classical, cit, p. 195 (Metapontum); p. 198 (Terina) © CM. Kraay, Archaic ^^ A, Burnett, The coinages of Rome and Magna Graeci in the late fourth and third centuries B.C., in SNR 56, 1977, pp. 739

119-20, A. How,La triguetr, cit. p. 488 mentions a bronze disc in the Biscari collection at Catania with a riskeles, presumably the aes grave of uncertain mint with a trident on the obverse side: G. Liazgma, 1 museo Biscari, Rome 1930,p. 143 no. 598 with Tav, LXV (although its authenticity has been questioned). A comparable aes is G.T. Poorz (ed), A catalogue of Greek coins in the British Museum. Italy, iz, p. ST no. 17 (where the obverse die shows a tad). © R. Ciucum, Corpus Nummorum Siculorum: la monetazionedi bronzo I, Milan: EdizioniG. M. 1983, p.333,o. 15. Cf also p. 35, nos, 29:30, with obverse heads of Ceres and Hercules respectively and with Greek ethnics, but both are specimens claimed to have been seen by Torremuzza and do not survive. ‘© ΜΗ. Cruwroro, Roman Republican coinage, Cambridge: Cambridge University Press 1974, no. 445. It has also been suggested (C.T. SELINUX, Athens, it, p.21, note 8) hat the triskees wasan appropriate symbol forL. Cornelius Lentulus Crus (Leg), but that is surely fortuitous: it was the Sicilian ancestor of his colleague Marcellus which provided the real reason for choosing the triskeles. * F. Atvnzz Burcos, Catalogo generalde la moneda hispanica desde sus orígenes hasta el silo V, Madrid: Jesus Vic 1975, p. 121 nos, 918 (a dupondius with legend in Latin, FLORENTIA) and 919.920 (an as with neo-Punic legend referring to Hispania Superior, Le Ulterior) fr also ΓΜ. Navascues, Las monedas lispanícas del Museo Arquelslogico Nacional de Madrid. Volume 1, Madrid 1969, nos. 594 and 598 for the last two. A.B. Cook, Zeus, ci. p. 309 suggests that the coins provide evidence for the Punic cult of Baal in this region introduced by the Carthaginians, so interpreting the stel here predominantlyas a sun symbol; but the use of the riskeles in Punic north Africa was, as we have seen, limited. 7 A. Βύκνεττ, M. Auson and PP. rots, Roman Provincial Coinage, cit, nos. 641, 646 and 659;R. Caen, Corpus Nummonum Siculorum: la monetazionedi bronzo I, cit, p. 34, no. 20; pp. 384-8, no. 7; and p. 229, no. 155; R. Magma, Monetazione provinciale romana T: Sicilia. Le emission tardo repubblicane di Aratinus ele serie con ritratto di Octaviaus Augustus e di Tiberius (36 a.C-37 d.C. (Glaux 5], Milan: Edizioni Ennerre 1991, nos. 240307 (Palermo, unnecessarily ascribed to Tibe us reign, c. AD 229). 7 Clodius Macer: CHL. Suruentano, The Roman Imperial Coinage, volume I. 2nd. edition, London: Spink, p. 195: Macer revolted from Nero in 68 and cut off the African com supply from Rome, but his control of the Sicilian corn supply implied by this coin was probably more wishful thinking in his bid for power than representing reality, Hadrian: H.B, Marricty and EA. Sextus, Roman Imperial Coinage II, London: Spink 1926, p. 450. ? ΘΗΝ. Sumientano, The Roman Imperial Coinage, cit, no. 310. 7 M.HL Crawroro, Roman Republican coinage, cit, nos. 329, 439 and 457; RIA, Wnsos, Trinakros, in L. Ku. (ed), IMC VILL, Munich and Zurich: Artemis Verlag 1997, 55, % HA, Gruner, Coins ofthe Roman Republic in the British Museum. Volume II, London: Trustees of the British Museum. 1910, p.15, no. 4355 (aureus); RIA. Witson, Sicily under the Roman Empire. The archaeology of a Roman province 36 BC- AD 535, Warminster: Aris and Phillips 1990, p. 290, fig. 249 ΠΑ, Βύμνεττ,M. AmaxRy and P.P. RIPOLLES, Roman Provincial Coinage, cit, no. 644. 7 This section summarises briefly RA. Wilson, Siklia, n L. Kun. (ed), LIMC VILI, Munich and Zürich: Artemis Verlag, 1994, 759-61, o which the reader is referred for fuller discussion. Sikelia on a coin ofc. 340 (perhaps from the Halaisa mino: E. Ganci La monetazione, cit, p. 196, no. 1, pl IILIB; R. Cancun, Corpus Nummorum Siculorum:la monetazione di bronzoI, ct. pp. 437-51. Denarius of 71 BC: M.H. Grawroro, Roman Republican coinage, ct, no. 401/1; M.C. Torre,The Hadrianic School, Cambridge 1934, Cambridge University Press, pl. XVILI8; JA. Osrzowst, Les personifications des provin‘es dans l'art romain, Warsaw: Comer 1990, p. 200, no. 1. This coin type was revived on a denarius of 14 BC naming the resvir monetalis L. Aquilius Florus, a descendent of Manlius Aqullius named on the denarius of 71 BC: CHV. Suraataub, The Roman Imperial Coinage, ci, no. 310; J.M.C. Tovwaee, The Hadrianic School, cit, pl. XVIL.19; JA. Osrnowsia,Les personifications, cit. p. 200, no. 3; bere PL ILLI. δ Ibid, p.201, no. δ: RIA. Wisox, Skli, cit, for other references δι Κα PARLASCA, Zum Provinzenmosaik von Belkis-Seleukia am Euphrat, in Mosaique: recueil d'iommages ἃ Henri Stern, Paris, 1983, pp. 287.95 7 Ὁ. Bc, Scavi di Osta IV, Rome: Istituto Poligrafico dello Stato, 1961, no. 275 with pl. CXXXIV. ‘© HB. Marnicyand E.A. Sypentiau, Roman Imperial Coinage II, it. p. 456, no. 906. * Ibid, p.467, nos, 965-6. ? ἨΒ. Ματπινοιν and E.A. Svoruuw, Roman Imperial Coinage I, London: Spink 1930, pp. 106-7, nos. 89 and 595; ot ber references in RIA. Wicson, Sikelia ct, p.759, no. 5. The item being held in her left hand s quite uncertain. A poppy and a distribution tessera for the anmona have been suggested (but the latter is normally shown as a rectangular object, whereas the item here in Sicilia" left hand is certainly rounded); others have suggested corn ears, which I have previously followed. without minutely examining the coin (R.A. Wusos, Silla, cit, pp. 759 and 761 for references and discussion); but none of these interpretations seems likely. The object most resembles a small carrying purse, but if so this is unique in the iconography of Sicilia 5 Tdo not count as certain the relief panel from the Aphrodisias Sebasteion, wearing peplos and himation and grasping a small baton-like object which R.R.R. Surm, Simulacra gentium: the ene from the Sebasteion at Aphrodisias, JRS 78, 1988, pp. 50-77, at 64, has tentatively identified as Sikelia because it was found closest to the inscribed base bearing that inscri ption; but there are no iconographical clues to support the identification, and the figure could equally represent Krete or Kj pros which are also known to have been represented inthis part ofthe building. ‘JJ, AILLAGOK (ed), Carthage: histoire, sa trace et son écho, Paris: Éditions de la Villede Paris, 1995, pp. 264-7 with fig. M. BLANctiaRD-LEMEE, H. ENNAIER andL. lin, Mosaics of Roman Africa: floor mosaics from Tunisia, London: British Museum Press 1996, pp. 24-34 with figs. 6-10; A. Daoutami (ed), Vie et artisanatà Thysdrus/El Djem, ville d'Africa, II - ΠΕ sible, (Ex. 740

position au Musée Archéologique de Nice-Cimiez), Nice: Éditions du Comité des traveaux historiques et scientifiques 1996, p. 15, fig. 2. This discovery came too late for RA. Wnsov, Sikelia,cit TA. cron Ls personification, it, p 201, no. 7; RAIA. Won, Sika, ct no. with ful ibiography. © Personal observation. © EG. Goserr and P. Costas, Smirat, in Revue Tunisienne 1941, pp. 83-121, p. 103, fig. 4. ? Tam most indebted to him for confirming that the piece is unpublished, for permission to publish it here, and for generously sending me a drawing, rubbing and photograph. Inv. no. S 656, without provenance within Ensérune; diameter at base 75cm. © JP. Morn, L'atelier des petites estampills, in MEFRA 81, 1969, pp. 59-117; In. Céramique campanienne: les formes, Bibliothéque des Écoles frangaises d'Athénes et de Rome 244, Rome: École francaise de Rome 1981, p. 48, with references. © G. Fuusone, Elima e Monte Castellazzo di Poggioreale in G. Nexct,V. Tusa and S. Tusa (eds), Gli Elimi e l'area elima fino alrinizio della prima guerra punica (= Archivio Storico Siciliano‘XIV-XV), Palermo: Società siciliana per la storia patria 1988-89, p. 311 with n. 38 5: G. Nant (ed), Entella I, Pisa: Scuola normale superioredi Pisa 1995, pp. 163-8. © M. Cavauirr and A. BRUGNONE, bolli di tegole della necropolidi Lipari, in Kokalos 32, 1986, p. 272, no. 192; .P. D'OnviL18, Sicula, Amsterdam 1764, pl I ?! AM. Bist, Numero speciale dedicato al Museo Cordice di Erice, in Sicilia Archeologica II, 8 (dicembre 1969), Trapani 1969, p. 43, no. 192. If this is tho same as the example now on display, the emblem is strictly a pseudo triskeles, as the Tees’ have become simple hooks. Syracuse museum: personal observation. "A, Sumus, Selinunte, in MAL 11, 1883, p. 485 with PL XL no. CCCLI. ? B. Pace, Arte e Civiltà della Sicilia antica. Volume Primo. 2nd edition, Milan, Rome, Naples and Città di Castello: Società editrice Dante Alghieri 1958, p. 419, fig. 175. There are others, unpublished, in Syracuse museum: A. Hotm, La triquetra, cit, p.488. ΠῚ. Bono, Engraved gems: the fonides Collection, London: Thames and Hudson 1968, p. 97, no. 42, » F. Pere, Decorative patterns of the ancient world, London: British School of Archaeology in Egypt and Bernard Quariteh 1930, pl. VIL P3; A. Vow Conausen and L. Jacont, The Roman castellum Saalburg, Translated by F. C. Fischer. Homburg. von der Hohe, 1882, p. 30. 9 1. Hourt, Voyage pittoresque dans les isles de Sicile de Lipari et de Malte. Tome IV, Paris 1787, p. 94 with pl. CCLVI; J. De ‘Wine, Monumenti de l'ile de Malt, in Bulletino dell'Istituto di correspondenza archeologica per l'anno 1842, 1842, p. 43; A. Hou,La triquetra, cit. p. 487. De Witte reports the altaas having been transferred to the Bibliothèque Mazarine (now the Bibliotheque Nationale) in Paris; I have not been able to check i it is sil there. The fish the man is carrying on each of the side reliefs is described by De Witteas tunny; since such iconography is unparalleled in a classical context, and in view of the prominence of tunny fishing in medieval and later Sicilian folklore, is this relief a neo-classical sculpture? Ὁ. Becarm, Scavi di Ostia IV, cit, no. 68 with pl. CXXII. ?» D, Von BoEseLaNceR, Antike Mosaiken in Sizilien, Rome: Giorgio Bretschneider 1983, pp. 115 RIA, Wusos, Sicily under the Roman Empire, cit. p. 2, fig. 2 *» D. Von BosseLaxcex, Antike Mosaiken, it, p. 146 refers to t; the photograph presented here is hitherto unpublished. τα Archéologia 322 (April 1996), p. 9. 10 D. SLADEN, Sicily the new winter resort 2nd. edition, London: Methuen 1908, p. 303. 7 S, Hausea-Seurtzx, Ein Triskeles und cin Lockenkopfchen im Brunnenhaus von Heiligenkreuz, Pro Arte Antigua Festschrift far Hedwig Kenner 1 (Sonderschrifien herausgegeben vom Osterreichischen Archaologischen Institut in Wien XVIM) Vienna and Berlin: Verlag A. F. Koska, 1982, pp. 150-69 *5 Ibid. pp. 156-7. τὸ Ibid ?" Ibid. pp. 152-3. This is believed to be the ‘of King Ottokar IL © Ibid, p. 152. ?» RH. Κιννιο, A history ofthe Isle of Man, 2nd edition, Liverpool: University Press of Liverpool 1950, p. 82. τ A. Wicsen, Catalogue of the English Mediaeval Rolls of Arms, Oxford: Oxford University Press 1950, pp. 7-19; In. The origin of the Arms of Man, in Journal of the Manx Museum vi. 76, 1959-60, pp. 77-8. "i G-V.C. Youne, Irish royal ancestors of the Skunckes, Skankes and Barfods and of the other descendants of Ol the Black including the Macleods, Peel: Mansk-Svenska Publishing Co. Ltd. 1983 and n.d., which trace the use of the Three Legs in ‘Scandinavia in admirable detail, with illustrations e.g. o the seal of Sir Hallstein Torliesson (1303) and of Nils Hallsteinsson. (1345)7? BRS, Mecaw, The Ship Seals of the Kings of Man, in Journal of the Marx Museum vi. 76, 1959-60, pp. 78-80. so A, Wacnx, The origin of the Arms of Man, cit, p. 78; chr also R.H. Kiwwic, A history, cit, p. 82. si A, Wacwen, The origin of the Arms of Man, cit, p. 77, followed by G.V.C. Youso, The Three Legs go to Scandinavia, Peel: Mansk-Svenska PublishingCo. Ltd. 1983, p. 1. The coins are C.F. Kat, Catalogue ofthe English Coins in the British Museum. ‘Anglo-Saxon Series. Volume 1, London: Trustees of the British Museum 1887, p. 231, no. 1079 with pl. XXVIII.3 (Sihtric); p. 232, no. 1081 with pl. XXVIIL' (Regnald); and p. 234, nos. 1088-91 with pl. XXXIX.1 (Anlaf). 38 A. Wacwen, Catalogue of the English Mediaeval Rolls of Arms, cit., pp. 9.14; 1959-60, pl. 240H; cfr. also pl. 2401, Lord ‘Marshall's Roll (compiled between 1272 and 1307) showing three legs superimposed rather than joining. ἐμ ΒΗ. Κιννιο, A history οἷς, fig. 34; A. WaoNeR, The origin ofthe Arms of Man, cit, pl. 239C-D. The pommel's diameter is one and three-eighths inches. Its there suggested, because of the central flower, that the Sword maybe as late as the fif741

teenth century, but the flower is at no stage a normal feature of the Three Legs. More significant are the attachments at the ankles: if these are really worn representations of spurs (so BRS. Mraaw, The Ship Seals, ci. in his notes on pl. 239), then the Sword is unlikely to be earlier than the fourteenth century when spurs were first added to the Three Legs (see below). 1 A. Wao, The origin of the Arms of Mar cit. p.80, with BRS. Μερανύς note on pl. 239A. ?* A. Wace, The origin of the Arms of Man, cit, pl. 2398. 1 Eg. Ibid., pl. 2401, c. 1371-88 (the arms of George, 10th Earl of Dunbar and March, to whose grandfather Man was given by Robert the Bruce). ὃν Cfr. R. TREvELYAN, II legame delle due isole della Trinacria: la Sicilia e l'isola di Man, in R. Lexi and P. Snvestao (eds.), I Whitaker di villa Malfitano (Seminario di studi: Palermo, 16-18 marzo 1995), Fondazione Giuseppe Whitaker and Regione Siciliana, Palermo 1995, on the (fortuitous) links between Man and Sicily, largely in the context of the Marsalan wine trade, ‘one of whose leading lights, John Woodhouse, was married to a Manx woman. ἀν D. Mack Suri, A history οἱ Sicily: medieval Sicily, London: Chatto and Windus 1968, p. 6. 7? Lam grateful to Dr Chris Scarre, Deputy Director of the Institute, for correspondence on this matter. ADDITIONAL NOTE

In the five years which have elapsed between my writing this article and receiving the proofs, I have continued to work on the problem of the triskeles. The number of neo-Punic stela in Tunisia with the triskeles known to me has now risen to 8: to be added to those discussed on pp. 698-9 above are one in the Louvre (MNB 898: A. Cacan de Bissy and J. Pettit (eds), De Carthage à Kairouan: 2000 ans d'art et histoire en Tunisie, Paris: Ministère des Relations Extérieures 1982, p. 108, 154), and ‘one in the British Museum (WA 125180: A.M. Bisi, A proposito di alcune stele del tipo della Ghorfa al British Museum, in Antiquités Africaines 12, 1978, pp. 2-88, at pp. 43-4, 22). The published drawing of the diskeles from Ain Barchouche (p. 698; here Figure 3) has been shown by Dr Jennifer Moore to be incorrect (itis a conventionaltriskeles): I am most grateful to her for this information. The mosaic with depiction of Mediterranean islands from Haidra mentioned on p. 705 proved not to have a depiction of the trskeles: Sicily is shown by reference to the sanctuary on Mount Eryx. But Lleave the last word, appropriately in this context, for ἃ discovery of Professor De Miro, which in my view greatly strengthens the interpretation of the triskeles as a sun symbol: an indigenous painted oenochoe from the eastern necropolis at Polizzello (unpublished in detail, but part of the decoration can be seen in E. De Miro, Polizcello, centro della Sicania, in QuadMess 3, 1988, Tav. XVI.1, third vessel from the lef), of c. 600 BC, shows a swastika (a well-known sun symbol) with fer, clearly to indicate movement. It is now displayed in Caltanissetta museum. It may well have been from such beginnings that the symbol ofthe triskeles was born, ILLUSTRATION CREDITS

Fig. 1: map drawn by David Taylor; Fig. 2: after Déchelette 1914, p. 1566, fig. 726.4; Fig. 3: after Du Coudray La Blanchére and Gauckler 1897, pl. XXI; Fig. 4: after Carton 1905, p. 202; Fig. 5: after Cook 1914, p. 310; Fig. 6: after Jatta 1908, p. 42, no. 1, fig. 11; Fig. 7: after Gobert and Cintas 1941, p. 103, fig. 4; Fig. 8: drawing by David Taylor, after unpublished sketch supplied by M. Christian Olive, Ensérune; Fig. 9: after D'Orville 1764, pl. I; Fig. 10: after Kinvig 1950, p. 93, fig. 37; Fig. 11: from McDonald Institute for Archaeological Research, Cambridge, headed notepaper. The photographic plates are reproduced by kind permission of: Agrigento, Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali: PI. 1.1-2; Buochs, Switzerland, Leonard von Matt: PI. ΠΙ.3-4; Cardiff, National Museum of Wales: Pl. IL2; Douglas, Isle of Man: Manx National Heritage Centre: PI. V.6; Ensérune,M. Christian Olive: PI. IV.6; Glasgow, Hunterian Museum: PI. IILS and 7; Leipzig, Prof. H.-U. Cain: PI. 1I1.13-14, PI. IV.2-4 (from casts); London, Trustees of the British Museum: PI. 1.3-8, PI. II. 1 and 4; PI. IIL2, 6, 8-12; Nottingham, University Museum: PI. I1.3 (by courtesy of the Director); Nottingham, R. J. A. Wilson: PI. V.3-4; Ostia, Soprintendenza Beni Culturali e Ambientali: PI. IV.1, V.2; Oxford, Professor Sir John Boardman: PI. IV.7; Oxford, Bodleian Library, Universityof Oxford: PI. V.1 (after Houel 1787, pl. CCLVI: RHL. Scic. 56); Tunis, Professor M. Fantar (Institut Nationale d'Archéologie et d'Art): Pl. ILS; Vienna, Frau Dr Hauser-Seutter: PI. V.5

742

TAV.I

1. Castellazzo, near Palma di Montechiaro, dinos; 2. Bitalemi, near Gela, base of bowl; 3. London, British Museum, Attic black-figure amphora B158, Heracles versus Kyknos; 4. Athens, silver Wappenmiinze with triskeles (BM Athens 1964-2-13-3); 5. Aspendus silver coin, triskeles symbol (BMC Aspendus 8); 6. Aspendus silver coin, triskeles symbol with lion (BMC Aspendus 9); 7. Lycian silver coin, three-hooks symbol (BMC Lycia 53); 8. Lycian silver coin, four hooks symbol and central owl (BMC Lycia 105). 743

TAV. II

1. Clevedon tore, Somerset (British Museum); 2. Llyn Cerrig Bach, Anglesey, detail of decoration on crescentshaped plaque (Cardiff, National Museum of Wales); 3. Broughton Lodge, Nottinghamshire, Anglo-Saxon mount with pseudo-rriskeles design, copper alloy (University Museum, Nottingham); 4. Celtic coinage of the middle Danube region, horseman with pseudo-triskeles below (BMC Celtic 1, 119); 5. Mididdi, neo-Punic stele (Musée du Bardo).

744

TAV. III

D

1. Stele from Beja (or Le Kef), once in Musée des Beaux Arts, Lyon; 2. Syracuse, Zeus Eleutherios bronze issue, reverse: triskeles (BM Syracuse 1927-3-2-7); 3. Syracuse, Agathoclean silver coin featuring triskeles; 4. Syracuse, Agathoclean silver coin with Nike standing by trophy with rriskeles; 5. Syracuse, Agathoclean silver coin with triskeles above chariot (Hunterian Museum, University of Glasgow); 6. Syracuse, silver coin depicting Pegasus with triskeles above (BM); 7. Syracuse, gold decadrachm showing biga with triskeles below (Hunterian Museum, University of Glasgow); 8. Denarius of 49 BC, reverse: triskeles (BMCRR Sicily 1); 9. Palermo, municipal issue, bronze, Augustan: obverse head of Augustus (legend: PANORMITAN); reverse triskeles; 10. Sicilian city (Agrigento?), municipal issue, bronze, Augustan: obverse triskeles, naming SEPT(imius?) and BALB(us) as duoviri; reverse legend: L SEIO PROCOS D(ecreto) D(ecurionum); 11. Aureus of L. Aquillius Florus, 14 BC, reverse (BMCAugustus 35); 12. Denarius, reverse: Trinacrus holding the triskeles. Legend: A ALLIENVS PROCOS (BMCRR Sicily 5); 13. Aureus, reverse depicting temple of Diana with triskeles, c. 29/27 BC; IMP CAESAR on architrave; 14. Denarius of Clodius Macer, African mint, AD 68, reverse depicting triskeles; legend: SICILIA.

745

TAV.IV

1. Ostia, Terme della Trinacria, detail of Sicilia; 2. Hadrianic aes issue with Medusa head and triskeles; legend: SICILIA; 3. Sestertius of AD 126/7, adventus series, reverse: Sicilia with Hadrian; legend: ADVENTVI AVG(usti) SICILIAE; S(enatus) C(onsultum); 4. Sestertius of AD 134/5, restitutor series, reverse: Sicilia with Hadrian; legend: RESTITVTORI SICILIAE; S(enatus) C(onsultum); 5. Antoninus Pius, brass coin, reverse: Sicilia; legend SICILIA; S(enatus) C(onsultum) (BMC Antoninus Pius 1198); 6. Ensérune,

Campana A pottery, triskeles stamps; 7. Roman cornelian, Medusa head with triskeles (formerly in the Ionides collection).

746

1. Malta, sculptured base with figure of Sicilia as recorded by Jean Houel (1787); 2. Ostia, Terme Distrutte, mosaic with the symbol of Sicily; 3. Tindari, the triskeles symbol on a black and white mosaic in the baths; 4. Marsala, the rriskeles symbol on ἃ mosaic of the Seasons; 5. Heiligenkreuz, sculptural detail in the Fountain House, triskeles; 6. Isle of Man, pommel of the Manx Sword of State. 747

Fausto Ζενι MINIMA AGRIGENTINA *

Non so se costituisca un sufficiente criterio di verità il fatto singolare che tre studiosi di valore,

ma diversi per formazione e interessi, siano giunti, più o meno contemporaneamente e in modo del tutto indipendente, a formulare la stessa soluzione di un problema; comunque la circostanza colpi-

sce e offre materia di riflessione. Mi riferisco alla “identificazione” del cosiddetto “giovane di Mogiunti a riconoscere l'auriga Nicomaco che, tra il 476 e il 474 circa, gareggiando con la quadriga in nome dei tiranni di Agrigento, conseguì prestigiose vittorie nei maggiori agoni panellenici: il suo nome, e il ricordo della sua celebrità, restano affidati ai versi 19-29 della II Istmica di Pindaro. Ma forse altrettanto credito potrebbe riscuotere l'ipotesi (pure già considerata negli studi, soprattutto da M. Bell) di una identificazione della statua moziese con Trasibulo, il giovane Emmenide che, nel 490, conseguì a Delfi la vittoria con la quadriga in nome di suo padre Xenokrates; anche se Pindaro, che canta quella vittoria nella VI Pitica, non dichiara apertis verbis che egli partecipò direttamente alla gara, certune espressioni inequivocabilmente alludono alla gloria apportata al nome paterno dall'impegno del giovane (vv. 15-19: "la vittoria col carro, gloriosa nei discorsi degli uomini, comune a tuo padre e alla tua stirpe”; 26-27: “non privare mai di questo onore i genitori finché vivono"; anche vv. 45-46°), e del resto il contenuto mitico dell'ode si appunta nei versi centrali sull'esempio di Antiloco, famoso auriga, che sublimò la sua pietà filiale perdendo la vita per salvare quella del vecchio padre Nestore: i moderni concordemente ne hanno arguito (e la interpretazione è confortata dagli antichi scolii) che Trasibulo personalmente conducesse la quadriga paterna. In quegli stessi giochi pitici riportò la vittoria un altro agrigentino, l'auleta Mida, per il quale Pindaro compose la XII Pitica; il “tesoro d' inni” del poeta di Tebe raggiungeva un conterraneo e probabile amico di Trasibulo, legato anch'egli, così si è supposto, alla potente famiglia degli Emmenidi: in Trasibulo stesso il poeta cantava non solo il cultore di Poseidon scuotitore della terra e inventore degli agoni equestri, ma colui che altresì coglieva "il sapere nei recessi delle Muse" (Pyth. VI, 49-51), e del favore goduto in Agrigento dalla musica e dal canto possiamo giudicare anche da un monumento votivo come il coro di fanciulli agrigentini realizzato in bronzo ad Olimpia da Calamide. Malcolm Bell ha poeticamente immaginato che quell'inusitato kalathos o vaso cantaroide trovato ad Agrigento (e che egli suppone imiti la forma di un “vaso da miele” di foggia locale) decorato con le figure dei due grandi poeti di Lesbo, Alceo e Saffo*, sia stato commissionato ad Atene dallo stesso Pindaro presso l'atelier zia”, in cui per primo Fulvio Canciani!, e poco dopo Malcolm Bell III? e Carlo Odo Pavese?, sono

del pittore di Brygos e inviato ad Agrigento come dono per il dolce amico Trasibulo (“la sua indole dolce persino nei conviti con gli amici sorpassa il lavoro trapunto delle api", suonano i versi di chiu-

sura della VI Pitica) in ricordo forse del “campo di Afrodite dalle nere pupille” solcato insieme a Delfi. A Trasibulo Pindaro indirizzerà altresì un carme amoroso di convito, di cui si conserva un frammento, particolarmente interessante anche per la menzione delle “coppe di Atene”, su cui ritorneremo brevemente più avanti (v. alla n. 15). Come si ricorderà, una delle obiezioni sollevate alla identificazione della statua moziese con un auriga, risiedeva proprio nel fatto che “un auriga non era altro che un vetturino"*, e che ad un personaggio di tale inferiore condizione non potrebbe attagliarsi “il senso di sdegnosa presunzione”, "l'imperioso ritmo”, “die Ausspruchvolle Ruhepose des Siegers”? che caratterizza questa “inquieta, sdegnosa creatura... in posa che suonerebbe /iybris in un mortale”*; ma, se raffigurasse Trasibulo, la sua appartenenza agli Emmenidi, "occhio di Sicilia" (Pindaro OL II, 8) ben spiegherebbe la rilevanza data all'auriga e l'importanza del monumento, considerando anche che quella del 490 era stata la prima vittoria panellenica della potente famiglia”, celebrata, oltre che da Pindaro, anche da Simonide. Naturalmente tale possibilità non è sfuggita agli studiosi che 749

abbiamo citato; forse la preferenza accordata a Nicomaco invece che a Trasibulo è dovuta alle difficoltà cronologiche che diversamente ne scaturirebbero, perché la statua di Mozia, certamente posteriore al 490, invece ben può collocarsi stilisticamente alla metà degli anni 70, quando Nicomaco colse le sue vittorie. Si potrebbe però agevolmente superare tale discrasia pensando ad un donario eseguito più tardi, per esempio eretto nel recinto del gigantesco Olympieion innalzato da Terone dopo la vittoria di Imera del 480, e che certamente avrà accolto e custodito, oltre ai trofei di guerra, anche i monumenti delle vittorie nelle gare panelleniche che illuminavano la gloria della dinastia e soprattutto confermavano quel permanente favore degli dei, nelle guerre combattute contro il barbaro così come negli agoni, che, connotandola come giusta perché conforme al volere dei superi, legittimava la tirannia dei signori di Agrigento; l'uso di duplicare le immagini dei vincitori, sia sul luogo dell’ agone che in patria, è ben documentato’. D'altro canto, vari studiosi hanno ravvisato nel particolare taglio dei capelli del giovane di Mozia un segno di consapevole arcaismo, perché tutti i confronti indicati al riguardo, dall'Aristodico alla bella testa del Ceramico, comunque anteriore a quell'anno 479 in cui il muro di Temistocle venne a tagliare l'area cemeteriale, riportano al più tardi al primo ventennio del V secolo: il dato dunque si attaglierebbe meglio a Trasibulo, vincitore nel 490, che a Nicomaco. Ma converrà lasciare aperta la questione, perché altre ragioni, altrettanto valide, invitano a previlegiare la soluzione alternativa; in effetti, il Javoro di M. Bell va oltre gli altri due studi citati per il forte risalto dato ad un argomento altrimenti rimasto in ombra, cioè l'origine ateniese dell'auriga Nicomaco che risulta esplicitamente dagli scolii a Pindaro; e all'Attica riportano, come abbiamo visto, tutti i confronti per la acconciatura della statua moziese. Su questo elemento ritengo si debba insistere anche più di quanto non si sia fatto finora; la resa della calotta cranica come una superficie quasi geometrica, appena vibrata da una leggera picchiettatura in superficie, è stata generalmente interpretata nel senso che un copricapo di materiale diverso (in bronzo) doveva celare la strana “nudita” del capo: dunque un tratto di realismo ", dove al tempo stesso il contrasto fra marmo e metallo conferiva risalto, anche coloristico, al triplice ordine di riccioli a lumachella che incorniciano la fronte. La spiegazione è certamente giusta, ma non ancora sufficiente; più che ad una moda, occorre pensare ad un preciso significato del taglio dei capelli che, recidendo la chioma dal capo e quindi rendendolo adatto a indossare l'elmo oplitico, doveva esplicitare il compimento di un rito di passaggio dall' efebia all'età adulta ; altrove in Grecia, in riti di iniziazione di significato analogo, i capelli lunghi possono significare la temporanea vita allo stato di natura che i giovani conducono prima di rientrare, ormai adulti, nella società civile, ed acquisire il loro pieno status di cittadini che combattono per la propria patria : a parte l'auriga, i kouroi noti sono funerari " e la statua sulla tomba costituisce per sé un segno della appartenenza del defunto alla aristocrazia ateniese, come è certamente il caso dell'Aristodico e come U. Knigge' ha giustamente sottolineato per la testa del Ceramico; si deve dunque desumere che siamo in presenza di forme di ritualità che la nobiltà di Atene riconosceva come proprie. Questo mi sembra un forte argomento atticizzante, che può recare supporto all'ipotesi non solo di una origine ateniese del personaggio effigiato nella statua, ma soprattutto della sua appartenenza ai milieux aristocratici di quella città: Nicomaco doveva esser ben altro che un semplice vetturino, e sarebbe legittimo pensare che la partecipazione dei tiranni agrigentini ad una gara che, come le Panatenee, non era compresa nella periodos degli agoni panellenici, fosse stata in qualche modo ispirata o sollecitata proprio dall' auriga che, nel 476, aveva dato a Terone la vittoria più ambita, quella ad Olimpia con la quadriga, e che desiderava conseguirne una parimenti significativa nella propria città. Diciamo che abbiamo segni importanti di un precoce “atticismo” culturale degli Emmenidi, che si coglie, ad esempio, a livello delle importazioni di ceramica attica '* Sulla data precisa delle altre vittorie di Nicomaco esistono leggere divergenze fra gli studiosi, ma la forchetta cronologica è comunque limitatissima, perché Terone mori nel 472 e la tirannia degli Emmenidi fu rovesciata quasi subito; non entreremo dunque in questioni che qui interessano solo marginalmente e che sostanzialmente non inficiano la cronologia della statua. Ma è importante, invece, sottolineare come, dopo tante diverse opinioni espresse in passato, sembri ora profilarsi una linea di indirizzo nell'individuare l'ambiente artistico cui pertiene la scultura moziese. Chi scorre la scheda relativa al “giovane di Mozia” nel volume Lo stile Severo in Sicilia, che accompagnava la bella 750

mostra palermitana del 1990, coordinata da N. Bonacasa e da N. Allegro *, troverà che lo stuolo dei diversi studiosi che se ne erano interessati, già allora denso e variegato, limitava però il proprio orizzonte di ricerca allo

“ambiente artistico magnogreco" o “più specificatamente siceliota”

- e-questo

lasciando da parte l'opinione extravagante di una pertinenza alla "Mischkultur punico-greca" di Mozia stessa. In questa prospettiva, era inevitabile che, prima o poi, salisse alla ribalta anche il grande nome di Pitagora di Reggio, e non va sottovalutato il fatto che a pronunziarlo sia stato un conoscitore della statura di J. Frel‘’; è vero che, come ha scritto A. Di Vita, Pitagora resta una “pericolosa mina vagante dell'attribuzionismo archeologico” cui si è potuto attribuire praticamente di tutto, ma in realtà, specialmente negli studi recenti, si è dato a quel nome quasi un valore di simbolo, quando si intendeva sottolineare il livello artistico di un’ opera d'arte greca d' occidente— e, almeno quanto a questo, la qualità del “giovane di Mozia" è fuori discussione. In altri casi, invece, il nome di Pitagora è assurto a simbolo della continuità di una tradizione d'arte presso la grecità d'Occidente: è piuttosto in tale accezione che lo si è evocato a proposito del “Guerriero di Agrigento”. Lo studio e il restauro del bel torso agrigentino vanno annoverati, come è noto, tra i maggiori meriti scienti di Ernesto De Miro. Trovato nell'Olympieion, negli scavi Ricci del 1940, il torso era sostanzialmente sfuggito alla letteratura scientifica fino alla dissertazione di

Ursula Knigge, la cui indagine muoveva proprio da una riconsiderazione della scultura agrigentina: avendo riconosciuto doversi trattare di un guerriero soccombente, pur se ancora impegnato in

un estremo tentativo di difesa, la Knigge, che pensava ad un donario (dunque senza rapporti con la Gigantomachia che, secondo Diodoro XIII, 82, 1-4, ornava la "stoà" orientale dell'Olympieion di Terone?) vi riconosceva ugualmente un gigante, suggerendo di restituire il gruppo di Atena e Encelado. Subito dopo, W. Fuchs? indicava un possibile accostamento fra il torso in esame e una testa elmata trovata in diverso contesto (una cisterna a nord del Tempio detto di Ercole, il cui riempimento, secondo De Miro, conteneva cocci non posteriori alla metà del V sec. a.C.) ma identica per marmo, dimensioni, lavorazione, che pensava di attribuire alla Atena del gruppo con Encelado ipotizzato dalla Knigge. Ma si deve al De Miro la restituzione che tuttora tiene il campo”. I dati di scavo, infatti, escluderebbero ogni rapporto con l'Olympieion, non solo, ma, dal momento che il torso proveniva dai suoi livelli di fondazione, la scultura doveva esser stata eliminata e distrutta prima che, all'indomani della battaglia di Imera, sorgesse la gigantesca fabbrica di Terone; lo stile, d'altro canto, escluderebbe una datazione anteriore al tempo degli Emmenidi?. Poiché il grosso incavo che esiste sulla schiena del guerriero fa pensare ad una sbarra di fissaggio ad una parete, De Miro, abbandonando l'idea del donario immaginato dalla Knigge, conclude invece per una decorazione frontonale; qualche altro frammento scultoreo forse pertinente, ma sempre in giacitura secondaria, proviene dalle vicinanze del Tempio detto di Ercole, che, nella sequenza temporale della Valle dei Templi, precede immediatamente l'Olympicion. Se dunque è esclusa un'appartenenza a quest'ultimo, anche per le dimensioni troppo ridotte della figura, una relazione con il Tempio di Ercole appare invece del tutto plausibile; nel caduto si riconoscerebbe allora un gigante, ma non Encelado atterrato da Atena, bensì Cicno abbattuto da Ercole, secondo un'iconografia ben attestata nella ceramografia attica contemporanea, specie dal noto vaso vulcente del Pittore di Kleophrades: la posizione del gigante risulterebbe non troppo dissimile da quella proposta dalla Knigge, soprattutto nella impostazione del busto e delle gambe, mentre varierebbe la postura del braccio alzato. Infine, riproponendo senza esitazione l'accostamento appena accennato dal Fuchs fra testa elmata e torso virile, De Miro ne ha presentato una versione originale, impostata sulla appartenenza di testa e torso non a due diversi personaggi, ma alla stessa figura dello sconfitto gigante Cicno, che i due frammenti, pur non congiungenti fra loro, ricomporrebbero in gran parte. Recentemente nel Museo dei Gessi (ora Museo dell'Arte Classica) dell'Università di Roma, sulla base dei calchi degli elementi superstiti, è stata tentata una ricomposizione in gesso della figura per opera di M. Barbanera*. Si può ben comprendere che la speranza di ricostituire în qualche sua parte la decorazione scultorea di un frontone siceliota contemporaneo di quelli di Egina o del Tesoro degli Ateniesi abbia sollecitato l'impresa, che non è un caso fosse stata concepita da uno studioso di larghissima esperienza e particolarmente a suo agio con la plastica greca come era Sandro Stucchi 751

che, sfortunatamente, non poté poi avviare a concretezza la realizzazione di quel progetto. La Knigge e il De Miro, infatti, restituivano il guerriero agrigentino come un giovane combattente in atto di cadere, ma che, a giudicare dalla muscolatura tesa e vibrante, le forze non hanno ancora abbandonato del tutto; la recente ricostruzione nel gesso, di cui si diceva, lo mostra invece semigirato su un fianco, le gambe appaiate e allungate in una posa da ginnasta in “uscita” da un esercizio al cavallo, mentre, facendosi puntello dello scudo e volgendosi all'esterno, guarda dritto in faccia lo spettatore, apprestandosi, così pare, a vibrargli un energico fendente con la spada. L’ implausibilita (per non dire altro) di tali soluzioni è manifesta alla prima occhiata: leggi dell'anatomia e convenzioni iconografiche vogliono che i caduti tentino di risollevarsi piegando la gamba al ginocchio e facendo forza sulla pianta del piede, così come vediamo in tanti monumenti contemporanei; coloro che guardano fuori del quadro, il viso rivolto allo spettatore, sono (diversamente dal guerriero agrigentino) combattenti feriti a morte e quindi definitivamente fuori dalla mischia, senza più avversari che li fronteggino. Occorrerà dunque, dopo questo tentativo poco felice, ritornare al punto di partenza, cioè alla ricostruzione di Ernesto De Miro che, dopo quasi trenta anni, risulta pur sempre la più coerente e affidabile. Questo non significa, naturalmente, che l'indagine debba considerarsi conclusa; un punto dirimente è la pertinenza o meno della testa al torso, che condiziona l'iconografia e l'interpretazione del gruppo scultoreo: mi domando se analisi petrografiche o indagini archeometriche di altra natura possano arrivare a confermare senza più dubbi la appartenenza dei due frammenti maggiori al medesimo blocco di marmo e, in ogni caso, è necessario acclarare se il marmo è lo stesso anche in quei pezzi sporadici (un frammento di figura femminile panneggiata, due mani maschili, una delle quali impugna uno scudo) la cui pertinenza, un tempo data come sicura, viene ora drasticamente revocata in dubbio*, condizionando così l'interpretazione dell'insieme. Tornando al Guerriero, Luca Giuliani ha ben sottolineato l'impressione di una tradizione unitaria che, senza reali fratture, dall'Efcbo di Agrigento attraverso il “Guerriero”, giunge alle metope del tempio E di Selinunte. In passato, gli studi sulle metope hanno insistito sulla differenza di esecuzione tra le parti eseguite in marmo e quelle in calcare, riconoscendo l'intervento di maestranze esterne là dove la qualità sembrava migliore; superando questa impostazione, direi langlotziana, E. Paribeni ha fortemente sottolineato l'unità dell'aélier al lavoro nello Heraion selinuntino, mentre la edizione di tutti i frammenti, merito di Vincenzo Tusa, ha reso possibili revisioni e nuove

interpretazioni”.

Da ultimo

Clemente Marconi, nel suo libro sulle sculture dello Heraion selinuntino ha istituito un convincente confronto proprio tra i volti femminili in marmo delle metope e quelli del piccolo rilievo, forse metopale, con Eos e Kephalos, in calcare e perciò indiscutibilmente locale: la pertinenza allo stesso atelier appare sicura*. Ma nei forse due decenni che separano l'Efebo e il Guerriero di Agrigento dall' Heraion selinuntino, l'esperienza figurativa siceliota perde lo splendore un po' atonico delle forme ancora tardoarcaiche, acquisendo invece, nelle metope, una concentrazione espressiva dei volti che presuppone le esperienze dello stile severo iniziale, e una unità compositiva, in cui si è positivamente ravvisata una influenza della grande pittura contemporanea, ma senza dismettere, soprattutto nei panneggi, compiaciuti disegni di pepli sottili e chitonischi a piegoline che allentano il senso della corporeità delle figure. È difficile immaginare qualcosa di più lontano dall'auriga di Mozia, tutto giocato invece su un virtuosismo di segno opposto, inteso a evidenziare prepotentemente, al disotto del tessuto finissimo, i volumi muscolari e la immanente potenza della figura”. L'adusato confronto tra l'Armodio del gruppo dei Tirannicidi e l'Ercole della metopa con l'Amazzone non va oltre la somiglianza nella decorativa disposizione dei riccioli sul capo tondeggiante, mentre il confronto, assai più valido, con l'auriga di Mozia, scaturisce da una analogia sostanziale che direi risiedere nella im palcatura ossea del volto. Quel che se ne deve concludere è che il “giovane di Mozia" rappresenta un’ esperienza che non si inquadra nel solco di una tradizione siceliota, anzi se ne distacca così nettamente da postulare uno scultore esterno, un artista di prestigio venuto da altrove al servizio dei tiranni e che, nei confronti dell'ambiente artistico locale, ha certamente esercitato avvertibili influssi, ma senza produrre alcuna cesura rivoluzionaria. Dunque, se vogliamo individuare lo scultore della statua di Mozia, dobbiamo rivolgerci fuori dell'isola. Un conoscitore della plastica greca

752

come

Canciani ha sottolineato la forte impronta

attica

dell'opera, ma già prima, come abbiam detto, le affinità nel volto tra il giovane moziese, l'Armodio di Kritios e Nesiotes e anche la testa del Ceramico non erano sfuggite a qualche archeologo sensibile. Tuttavia Malcolm Bell è andato molto al dilà di questa pur importante constatazione; e volgendosi alla costruzione di un convincente "paradigma indiziario”, ha formulato anche un nome per lo scultore, fra i maggiori del tempo suo: quello di Calamide, bronzista, ma anche marmorario, scultore di cavalli scelto da Ierone per i due cavalieri che dovevano rappresentare le vittorie conseguite con il celete nel 476 e nel 472 a Olimpia, poi sistemati ai fianchi della quadriga commissionata dal tiranno siracusano a Onatas per la vittoria olimpica nel 468; Calamide che, non sappiamo se al tempo degli Emmenidi o peril regime democratico che seguì la caduta di Trasideo, per gli Agrigentini aveva ese-

guito in bronzo ad Olimpia il celebre coro di fanciulli; Calamide intimo di Pindaro, che quando era a Cirene e scriveva la V Pitica per la vittoria a Delfi di Arkesilas, nel 462, commissionò proprio a lui la statua di Zeus Ammon dedicata a Tebe, e cui non è impossibile risalga anche il ritratto del poeta tebano, che le scoperte di Afrodisia consentono ormai di identificare nel cosiddetto “Pausania”. Ma Calamide, scultore di cavalli, era probabilmente un coetaneo dell’ auriga Nicomaco, e doveva frequentare gli stessi ambienti aristocratici e parimenti coltivare gli ideali agonistici della gioventù nobile di Atene; non a caso egli sarà incaricato di eseguire per Callia, dovizioso periodonikos, la Sosandra all'ingresso dell'acropoli, una statua anch' essa legata al mondo delle vittorie atletiche. A mio parere, la ricostruzione di M. Bell è destinata certamente ad ampie discussioni, ma, per congetturale che sia, anche a riscuotere consenso, perché giustamente individua nella statua di Mozia un caposaldo per la conoscenza della plastica greca del V secolo a.C. L'impronta attica dell’ opera sembra fuori discussione; forse al suo carattere di opera giovanile di uno scultore che ancora non ha completamente raggiunto una sua cifra e una propria misura stilistica si deve una certa oscillazione nei rife menti, dalle già rilevate consonanze con i Tirannicidi, fino alla affinità, questa sì, sostanziale, che la complessione del corpo mostra con l'Apollo dell'Omphalos; se quest’ ultimo è opera di Calamide, come è antica congettura, l'ineludibile confronto col giovane di Mozia costituirebbe un buon argomento a favore. L' unicità dell’ opera (che, come abbiamo visto, nonostante le assonanze riscontrate e le molte citazioni proposte, in realtà non trova confronti plausibili in quanto è noto della plastica dell'isola), conferma a mio avviso doversi trattare di un maestro solo temporaneamente attivo sulla scena siceliota: altrimenti la permanente presenza in Sicilia di uno scultore di così intensa forza creativa, e cui venivano affidate commesse importanti come erano le statue di vittorie agonali con la quadriga, avrebbe lasciato maggior impronta nella storia della plastica greca d'occidente. L'autoaffermazione dei tiranni sicelioti passava per la via del lusso e quindi della varietà delle scelte: potere e ricchezza si dispiegavano nell'aver a disposizione i poeti più affermati, i letterati di maggior prestigio, i bronzisti famosi senza distinzione di scuola ed origine, e le cui opere, destinate alla “politica estera” dei tiranni e alle celebrazioni panelleniche piuttosto che ad un pubblico locale, non erano pensate per dar vita a botteghe che ne raccogliessero gli insegnamenti e li perpetuassero in loco. Diverso invece il caso dei marmorari che realizzano le sculture per i templi eretti prima e dopo le tirannidi, pertinenti alla tradizione di atéliers impiantatisi stabilmente nell'isola a costituire il fondamento della più duratura tradizione della plastica in pietra della Sicilia, quella legata alla decorazione templare, dove l'illustrazione del mito costituisce paradigma e monito per la vita della collettività. Anche qui, tuttavia, sembra chiaramente avvertibile (ma non senza qualche attardamento di sapore tardoarcaico) un'influenza di Atene, in quanto metropoli cosmopolita, anzi vero crogiolo di fusione aperto a esperienze e partecipazioni di ogni provenienza: opere come il “Guerriero” di Agrigento sembrerebbero lavori di scultori non attici di formazione, ma che ai moduli attici si rifanno riconoscendo in Atene un punto di riferimento imprescindibile; in questo senso si potrebbero trovare confronti, ovviamente non puntuali, anche sull'Acropoli, tra le più tarde sculture della colmata persiana, spesso, a loro volta, di non facile inquadramento stilistico. Il forte senso di autocoscienza che accompagna la Atene uscita dall'esperienza esaltante delle vittorie persiane, poteva trovare punti di incontro con lo splendido autorappresentarsi dei tiranni, “occhio di Sicilia”; ma, nei fatti, lo stile severo, in quanto austera e orgogliosa espressione di consapevolezza della polis avviata alla difficile conquista della democrazia, non trovava veri paralleli nell'esperienza culturale delle 753

grandi città siceliote, dove monumenti prestigiosi, come lo "sdegnoso" Giovane di Mozia, rappresentavano invece l'esaltazione di uno stile di vita aristocratico” altrove ormai desueto, e comunque caduco perché legato ai regimi tirannici di cui costituiva l'espressione. NOTE * ILritardo con cui esce il presente scritto richiederebbe una totale revisione dell'argomento, che venne trattato in stretta relazione con pubblicazioni allora recenti. La bibliografía, che non ha pretesa di completezza, giunge fino al 1996. * F. Cancixi, Ipotesi sulla statua di Mozia, in H. FRoxinc, T. Hortscna, H. Miztsci (a cura di), Kotinos, Festschrift fuer Erika Simon, Mainz 1992, pp. 172-74. * M. Bei IILThe Motya Charioteer and Pindar's Isthmian 2, in MAAR 40, 1995, pp. 1-42. ? CO. Pavese, L'auriga di Mozia, Roma 1996: un lavoro importante cui nuoce la pessima qualità delle illustrazioni. * Le traduzioni qui riportate sono di B. Gentili, dalla magnifica edizione delle Pitiche curata da B. Gexmii con P.A. Brasaro, E. Cincano e P. Guana, Fond. L. Valla, Verona 1995. * Muenchen, Antikensammlung: si veda il catalogo della mostra Veder Greco - Le necropoli di Agrigento, Roma 1988, pp. 120-121 HP. Ister, in N. Boxacasa e A. Borrrrra (a cura di), La statua marmorea di Mozia, Atti Giorn. studio Marsala 1/6/86, Roma 1988, Discussione, pp. 139-40. 7 Rispettivamente G. Dowras, Un'opera siceliota, 'auriga di Mozia, ivi 61-68, spec. p. 68; A. GIULIANO, Arte Greca IL Milano 1987, p. 670; N. Bove, Die Statue von Mozia: Hamilkarals Hero, in AK 36, 1993, pp. 103-110, spec. 103. * Così E. Parmena, Di alcuni chiarimenti e di un quiz non risolto, in NAC 15, 1986, pp. 43-59 spec. 48-49: il Paribeni considera la statua di Mozia una "sorta di corollario ai bellissimi eroi di Locri”. Diversamente P.G. Guzzo, Ipotesi di lettura di una statua di Mozia, in Prospettiva 50, 1987, pp. 36-41, spec. 40; e Booz, ar. cit. Cfr. A. Di Vita, La statua di Mozia, in La statua marmorea di Mozia, cit, pp. 39-52. * Invece C. Vatu, Le quadrige di Théron d'Agrigente, in L'incidenza dell'antico. Studi in memoria di Ettore Lepore, 2 (a cura di L. Breou Punci Doris) Napoli 1996, pp. 181-192, avrebbe letto, su di un blocco adespoto di Delfi, rest dell'iscrizione di Terone relativa alla vittoria pitica con la quadriga (e di altre due iscrizioni che, sulla stessa pietra, l'avrebbero preceduta e seguita, concernenti rispettivamente il faraone Bocchoris c Alessandro Magno) nonché la lista delle vittorie di Terone, da cui risulterebbe una serie impressionante di molteplici successi in ciascuna delle quattro sedi delle gare panelleniche, e da cui si evincerebbe una interpretazione diversa da quella tradizionalmente accettata della 3 antistrofe della 2 Olimpica di Pindaro. Ma sull'attendibilità o meno delle letture di Vatin esiste ormai tutta una letteratura. τ Si veda al riguardo Tesauriente rassegna di C.O. Pavese, L'auriga cit. p. 45 ss; precedentemente J. Fat, L'auriga di Mozia: un'opera di Pitagora di Reggio, in PP 40, 1985, p. 67. ?' Così U. Kxiocx, Ein Juenglingskopf vom Heiligen Tor in Athen, in MDAI(A) 98, 1983, pp. 45-56, che riprende l'opinione della Richter di una lavorazione destinata a sparire alla vista perché occultata da un casco o un elmo. * Si veda ora al riguardo l'ampio saggio di ΤῊ. Scuerer, Gepickt und versteckt. Zur Bedeutung und Funktion aufgerauhter Oberfiaechen in der spaetarchaischen und Fruehklassischen Plastik, in JDAI 111, 1996, pp. 25-74, spec. 35 ss: che peraltro, dopo aver lungamente analizzato gli elementi formali, e accennato a nur partielle sichtbare Polsterklappen coperte da caschi di bronzo, ricorda brevemente anche che gli efebi, compiuti i 18 anni, nel 3 giorno delle Apaturie subivano il koureion, cioè il glio dei capelli. È proprio qui, senza dubbio, che va cercata la chiave di interpretazione della curiosa acconciatura: si riporti» no alla mente, ad esempio, lt tradizioni calcidesi arcaiche su kourà kouretes, e la storia di Aristodemo futuro tiranno di Cuma, che, come tosato (koures) guida e inizia alla guerra i ragazzi ancora chiomati (choronistai), secondo una ritualità precisa chela propaganda ostileal tiranno presenterà come un tentativo di effeminarei aides dell'aristocrazia cumana: cfr. A. MELE, I caratteri della società eretriese arcaica, in Contribution à l'etude de la societ et de la colonisation eubéennes, Cah. Centre J. Bérard, Napoli 1975, pp. 15 ss.; I». Aristodemo, Cuma e il Lazio, in Etruria e Lazio arcaico. Atti Incontro di Studio CNR Roma 1985, Roma1987, pp. 155-177, spec. pp. 156-60; peri riti di iniziazione a Sparta e presso popolazioni italiche che si rifacevano αἱ modello spartano, cfr. In. Rites d'initiation des jeunes et processus de libération: le cas des Brett, in J. AXNEQUIN e M. Gaxno-Hony (a cura di), Religion et anthropologie de l'sclavage et des formes de dependence, Actes XX coll. GIREA, Besancon Nov. 1993, Paris 1994, pp, 37-58, spec. p. 47 ss. © ΤῊ. ScuaBrer, Gepick und versteckî, ct. p. 39, s chiede se anche l'auriga di Mozia possa entrare nel novero delle sculture funerarie. ™ Ὁ, Knico Bin Juenglingskopf, cit. * Particolarmente importanti nel contesto risultano le ricerche sulle importazioni in Sicilia di ceramiche attiche a figure rosse, intraprese da F. Giunice, Vasi e frammenti “Beazley”da Locri Epizefiri, Studi e materiali di Archeologia Greca 3, 1, Cate nia 1989, spec. pp. 47-91; il saggio documentatissimo di F. Grupice ET aut, vasi attici della prima metà del V secolo a.C. in Sici lia: il quadro di riferimento, in Lo stile severo in Grecia e in Occidente, cit, pp. 115-201; e gli studi apparsi negli Atti del Conv. Int.le sulla ceramica greca, Catania-Camerina 1990 (= Cronache di Archeologia 29, 1990 (ma 1996) voll. LI) Addendum: Abbiamo ricordato sopra il frammento dell'encornio (Pind. framm. 124 Snell) indirizzato da Pindaro "A Trasibulo d'Agrigento”: il poeta invia al giovane un carro di canzoni d'amore per dopopranzo, e un dolce pungolo per il frutto di Dioniso e le coppe di Atene (κυλίκεσσιν ᾿Αθαναίαισι κένερον). 754

A questo proposito, si è discusso se Pindaro alludesse a ceramiche o a coppe di metallo prezioso, un interpretazione, questultima, su cui ha insistito particolarmente il Vickers (M. Viceas-D. Gut, Artful Crafts, Oxford 1994, p. 68, n. 127; To. in Cronache di Archeologia, 29, 1990 (1996) pp. 181-89, spec. 188; cfr. BELL, art. cit, p. 29), ma è comunque opinione diffusa che, di ceramica o d'argento che fossero, il passo di Pindaro rappresenti una importante attestazione delle esportazioni attiche nella Agrigento degli Emmenidi. Questa interpretazione, tuttavia, mi lascia alquanto perplesso. Infatti il carme in questione, indirizzato "a Trasibulo d'Agrigento”, va posto in parallelo con la citataVI Pitica che, pur dedicata al padre, vincitore della gara (^A Senocrate d'Agrigento vincitore con il carro"), si rivolge direttamente a Trasibulo; si ritiene dunque che la composizione sia stata cantata in presenza del giovane verosimilmente a Delfi, subito dopo la vittoria. Ma anche l'encomio è contemporaneo: il “carro” di canzoni, e il “pungolo” al vino ealle coppe sono una metafora trasparente, che traduce in un'atmosfera di eros e di simposio la recente gloria della vittoria sul carro (e sarebbe bastato far maggior affidamento su questo frammento per superare ogni dubbio circa il ruolo di Trasibulo come auriga della quadriga paterna), mentre d'altra parte riecheg gia il “campo solcato di Afrodite” e e lodi per l'indole dolcissima del giovane e per la sua propensione alle Muse della VI Pit in ogni caso il contesto è sempre lo stesso, quello dell'incontro tra il poeta ed il giovane in occasione della sua vittoria del 490, e le due composizioni rispecchiano le stesse circostanze. Ma anche se si volesse ammettere che lo scenario non fosse esattamente il medesimo per ambedue i carmi, in ogni caso non può trattarsi della Sicilia, dove Pindaro si recherà parecchi e alle suc imanni più tardi: perciò la allusione alle “coppedi Atene”, comunque vada interpretata, non può riferirsi all'isola portazioni "© Scheda di A. S(PANo’) G(uunirLLARO), p. 232 s; nello stesso volume, un efficace quadro su La scultura in pietra (pp.107116) si deve ad E. De Miro. Della ϑρανὸ Guasoustano si veda utilmente la rassegna critica La statua marmorea di Mozia: un aggiomamento della questione, in Sicilia Archeologica 23 (n. 72), 1990, pp. 19-37; integrazioni ulteriori inA. Di Vita, I bronzi di Riace, la statua di Mozia, Pitagora: un aggiornamento, in N. Boxacass (a cura di), Lo stile severo in Grecia e in Occidente, aspetti e problemi, Roma 1995, pp. 73-78 (nello stesso volume si veda alle pp. 1-22! importante saggio di D. Musm1, Tirannide e democrazia nella Sicilia della prima metà del V secolo a.C., sulla storia dell'isola nel periodo in questione). Non si intende, in questa sede, discutere quella che direi la interpretatio punica della statua di Mozia espressa per primo dallo scavatore, il Falsone, (del quale va apprezzata la grande cura nello scavo e nella documentazione: G. FaLsonz, La scoperta lo scavo il contesto archeologico, in La statua marmorea di Mozia, cit., pp. 9-28), poi ripresa in varie forme da vari altri studiosi; a parere di chi scrive si tratta senza dubbio della immagine di un auriga greco, probabilmente trasportata a Mozia dai Cartaginesi come preda bellica, e la controversia non ha luogo di esistere. Tuttavia non escluderei che il trasferimento a Mozia della statua, e, al momento della conquista di Dionisio I, la sua distruzione, si debbano anche alle assonanze con il costume punico, che avrebbero resa possibile una lettura dell'opera appunto secondo un'ottica punica. τ J, Feet, Liauriga di Mozia, cit. 64-68. A. Di Vita, La statua di Mozia, in La statua marmorea di Mozia, cit, pp. 39-52; la frase riportata è ἃ p. 43; l'elenco di tutte Je opere via via attribuite a Pitagora, tratto dal noto lavoro di S. Lco, Pitagora di Reggio, in CASA 6, 1967, pp. 7-77, alle pp. 746. 5 U. Kiicae, Bewegte Figuren der Grossplastik im Strengen Stil, Muenchen 1965; il torso tuttavia era già presentato e illustrato da P. Gurrro, Guida al Museo di Agrigento, Agrigento 1955. 9 AJ. De Waete, Ifrontoni dell'Olympieion agrigentino, in APARCHAI. Nuove ricerche e studi sulla Magna Grecia e la Sici lia antica in onore di P.E Arias, I, Pisa 1982, pp. 270-78, riesamina (ed emenda) il passo di Diodoro, pronunziandosi per una destinazione frontonale della statua, legata all Olympieion. 21 W. Focus, Archaeol, Forschungen und Funde în Sizilien 1955 bis 1964, in AA 1964, col. 657-749, spec. 717 ss. (con datazione al 470 ca.) © E. De Mino, Il "guerriero"di Agrigento e la scultura di tile severo in Sicilia, in CASA, VII, 1968, pp. 143-156, tavv. XXXIxu. 5. Più volte si è riaffacciato nella letteratura il problema del contrasto tra i dati di scavo, che postulerebbero una datazione anteriore alla costruzione dell'Olympieion di Terone, e lo stile, che riconduce all'età severa. A.J. De Warts, frontoni, ct. nel contempo possibile la apha proposto una interpretazione dei dati archeologici che risolverebbe il problema, rendendo Olympieion sapartenenza, da lui sostenuta, della scultura alla ornamentazione del tempio di Terone: cioè alcuni pilastri dell ebbero stati svuotati per ricavame delle cisterne, quando i Romani, nel 255 a.C., durante la prima guerra punica, trasformaono l'edificio in un fortilizio, c il torso proverrebbe dalla colmatura di tali bacini e non dagli strati pertinenti alle fondazioni Roma 1995, pp. del tempio. Tale argomentazione è stata ripresa punto per punto da M. BananenA, Il guerriero di Agrigento, 23-24. Ma, a prescindere dalla legittimità di tramutare i dati di scavo, resta comunque da considerare il fatto che anchela testa è stata rinvenuta in un riempimento che, a detta del De Miro, conteneva solo materiali della prima metà del V sec. a.C. » Ibid. Mainz 1979, p. » M. Beut Ill; The Motya Charioteer cit, p. 14, n. 77, e L. Gttuawt, Die Archaischen Metopen von Selinunt, inoltre l'unità di evidenzia Giuliani gruppo: stesso dello figure diverse due a piuttosto pertinenti pezzi due i ritengono 76 ss. scuola con le metope del tempio E di Selinunte, posteriori i circa un ventennio. selinuntina si Indipendentemente dal Guerriero agrigentino, sulla rappresentazione del dolore e dell'agonia nella Loscultura veda da ultimo C. Maxcont, Arte dell'età di Polignoto. Le metope dell'Heraion (tempio E) di Selinunte, in stile severo în Grecia e in Occidente, ci, pp. 81-105, spec. p. 103 = M. Bansantaa, Il guerriero, cit, p. 27. E. De Mino, Il ‘guerriero’, cit. p. 146 li attribuiva invece a figure del medesimo gruppo. 77 TL saggio diE. Panem, Profilo storico-critico delle sculture selinuntine, è alle pp. 26-31 del volume di V. Tusa, La scultura in pietra di Selinunte, Palermo 1983. Tra gli studi sviluppati a seguito di quest'opera basilare vanno citati in primo luogo 755

quelli di E. Oersav, The Sculptural Program at Temple E of Seinus, in Praktikà ou XII. .synedriou Masikes Archaiologias Ahi ia 1983, II, Atene 1988, pp. 200-208; Io, Riflssioni sulle metopedi Selinunte, in PP 42 1987 pp. 123-153; In. Selinunte, i Lo stil severo in Sicilia, cit, pp. 176-231 X C Mancosa, Selinunte. Le metope dell Heraion, Modena 1994: un libro che una recensione ha definito "molto giovane”) (M. Hoey Metexs, instala,4, 1995, p. 385) e della giovinezza ha infatti tuta intelligenza creativa. 7? C. MancoNI, Arte dell età di Polignoto cit. pp. 81-105 (un particolare "pollgnoteo* sono i denti minuziosamente annotati nella bocca dischiusa della Amazzone assalta da Erace). Per le impostazioni di ceramica attica in Sella, cfr. special mente gli studi di F. Giunce, itai nel e n . precedenti. > Come ha scritto Enrico Paribeni (E. Patisen, Di alcuni chiarimenti, cit. p. 49) “un giovane dio così cospicuamente viri Je indossa un'assurda veste di velo e di spuma”. 5 Sopratutto E. La Rocca, I giovane di M. come auriga, una testimonianzaa favore, in PP 40, 1985, 452-46, che propone anche il confronto con la testa del Ceramico. G. Rizza, Le arti figurative dalle origini al V sec a.C, in Sikante, MilanoI985, p. 227 5, aveva avvicinato il Giovane di Mozia allEfebo di Kritios. Conservano piena validità i confronti proposti da L. Gut, Die Archaischen Metopen, ct, pp. 73-80, che richiama per il Guerriero di Agrigento il gruppo di torsi “ionico-insulari, di Delo-Cirene, cui gli giustamente avvicina il frammento di torso dell'Acropoli forse pertinente al corpo dell Efebo Biondo, a sua volta di non immediato inquadramento (si prescinde, in questa sede, dal problema della pertinenza o meno alla Colmata Persiana, e quindi della cronologia, del'febo di Kritios e dell'Efebo Biondo). Cf. B. Sisuoxbo Βιροναυ, Lo st severo. Lo stato della questione, i Lo stile severo in Greciae in Occidente, cit, pp. 35-46, che ravvisa risonanze attiche nel tempio E di Selinunte e nell'efebo di Mozia, che sarebbe perciò connesso con atelier sel muntini; da ultimo C. Roue,La Sculpture grecque I, Paris 1994, p. 235 5, 5. Si veda soprattutto CO. Pavese, L'auriga, cit, passim; anche S. Nicosia, Cavall tiranni, in AKNV., Lo stile severo in Sicili. Dall'apogeo della tiani della prima democrazia (cat. Mostra), Palermo 1990, pp. 55-61

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