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Italian Pages 354 Year 2013
Direttore: Carmine Ampolo Comitato editoriale: Paola Barocchi, Pier Marco Bertinetto, Luigi Blasucci, Lina Bolzoni, Glen W. Bowersock, Horst Bredekamp, Howard Burns, Giuseppe Cambiano, Ettore Casari, Enrico Castelnuovo, Claudio Cesa, Michele Ciliberto, Claudio Ciociola, Gian Biagio Conte, Marcello De Cecco, Francesco Del Punta, Maria Monica Donato, Massimo Ferretti, Carlo Ginzburg, Luca Giuliani, Anthony Grafton, Serge Gruzinski, Gabriele Lolli, Michele Loporcaro, Daniele Menozzi, Glenn W. Most, Giovanni Miccoli, Massimo Mugnai, Salvatore Nigro, Armando Petrucci, Paolo Prodi, Adriano Prosperi, Mario Rosa, Salvatore Settis, Alfredo Stussi, Alain Tallon, Roberto Vivarelli, Paul Zanker Segreteria scientifica di redazione: Anna Magnetto La quinta serie è pubblicata, con periodicità semestrale, in due fascicoli di circa 300 pagine ciascuno. Abbonamento: Annuale: Italia € 90,00 - Estero € 140,00 Fascicoli singoli: Italia € 45,00 - Estero € 70,00 Le vendite vengono effettuate previo pagamento anticipato. A distributori e librerie sarà praticato lo sconto del 15%. Per informazioni: [email protected]
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Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa Classe di Lettere e Filosofia
serie 5 2013, 5/2
Pubblicazione semestrale Autorizzazione del Tribunale di Pisa n. 7 del 1964 Direttore responsabile: Carmine Ampolo Periodico associato all’Unione Stampa Periodica Italiana ISSN 0392-095x In copertina: Gianfranco Contini nella giuria del Premio Lugano, febbraio 1943 (dettaglio scontornato) (© Fondazione Ezio Franceschini - Archivio Gianfranco Contini)
Indice
Il giovane Contini Premessa Claudio Ciociola
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Ricordi parigini Sergio Donadoni
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La lava sotto la crosta. Per una storia delle Rime del ’39 Claudio Ciociola
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Contini, Croce, «gli scartafacci» Michele Ciliberto
571
Contini nel mondo rosminiano Fulvio De Giorgi
599
Documenti di una esperienza politica Mauro Moretti
689
La lingua del giovane Contini Luca Serianni
753
English summaries
771
Autori
775
Indice dei nomi
779
Notizie degli allievi della Classe di Lettere e Filosofia
791
Premessa Claudio Ciociola
Il volume raccoglie gli atti della prima giornata (11 dicembre 2012) del convegno internazionale Gianfranco Contini (1912 – 2012), organizzato, sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, dalla Scuola Normale Superiore, dalla Fondazione Ezio FranceschiniArchivio Gianfranco Contini e dal Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux di Firenze (responsabili scientifici del Convegno: Claudio Ciociola, Lino Leonardi e Gloria Manghetti). Il Convegno si è svolto nella Sala Azzurra della Scuola Normale Superiore, nell’Altana e nella Sala Ferri di Palazzo Strozzi nei giorni 11-13 dicembre 2012. Di Contini, professore ordinario di Filologia romanza alla Scuola Normale dal 1975 al 1985 e professore emerito dal 1987, la giornata pisana – alla quale sono intervenuti in qualità di relatori Claudio Ciociola, Michele Ciliberto, Fulvio De Giorgi, Mauro Moretti, Luca Serianni, Massimo Ferretti – ha inteso approfondire alcuni aspetti riguardanti la precocissima formazione e il primo dispiegarsi dell’attività culturale, studiandone le componenti filologico-letterarie, filosofiche e teologiche, le intrinseche passioni per la politica e per la cultura artistica, le modalità espressive. Speciale gratitudine si deve all’egittologo Sergio Donadoni, normalista, per aver dettato, nei Ricordi parigini che inaugurano gli atti, un “diario” dei giorni trascorsi in compagnia di Contini – entrambi giovani borsisti del Ministero degli Affari Esteri – alla scoperta di Parigi. E di aver rievocato, in particolare, l’entusiasmo che li guidò, nel marzo del 1935, a girare un “documentario” amatoriale della città. Quel documentario, proiettato nel corso del Convegno, è qui rievocato attraverso alcuni fotogrammi (un breve estratto dei Ricordi, con dieci altri fotogrammi, è stato anticipato in Gianfranco Contini. Una biografia per immagini, a cura di Pietro Montorfani, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini, 2012, p. 36). Alcune lettere di/a Contini e altri documenti relativi alla carriera e
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Claudio Ciociola
all’insegnamento pisano dello studioso sono stati esposti, in occasione della giornata pisana del Convegno, nella Sala del Ballatoio del Palazzo della Carovana (Gianfranco Contini e la Scuola Normale. Un percorso espositivo, a cura di Claudio Ciociola, con la collaborazione di Barbara Allegranti, Elisa Guidi, Fiammetta Papi e Maddalena Taglioli): insieme a un regesto completo dei documenti continiani che si conservano presso la Biblioteca e l’Archivio della Scuola saranno editi in volume, in un’ideale appendice a questi atti.
Ricordi parigini Sergio Donadoni
Non saprei dire in quale giorno e in che occasione – ma comunque all’inizio del 1935 – ci siamo incontrati, Contini e io. Eravamo tutti e due venuti a Parigi, io dalla Normale, lui dal Ghislieri, tutti e due per continuare ciascuno il suo studio affidandoci a illustri maestri francesi. Fui immediatamente impressionato da quel «ragazzo intelligente», come subito lo presentai in una lettera a casa. Da allora ebbe inizio una abitudine agli incontri, che furono poco meno che quotidiani e che fecero germogliare e fiorire una festosa amicizia che accompagnava molto del nostro tempo libero, impiegandolo in comune. Io abitavo alla Cité Universitaire, alla Porte d’Orléans. Contini aveva, invece, una stanza in una casa privata, subito dietro la Sorbona, in cui – si diceva – aveva vissuto Verlaine (quanto Contini, in questo!). Ma anche se partivamo da basi distanti gli incontri erano facili sul luogo di lavoro, le aule delle Hautes Études alla Sorbona e il Collège de France. È così che spesso andavamo insieme a mangiare, ma – soprattutto – che potevamo pianificare l’impiego comune del tempo libero. «La Semaine à Paris» era l’autorevole nostra ascoltatissima guida a mostre, concerti, cinema (la Opera di tre soldi che così vedemmo nelle due edizioni gemelle che ne aveva dato Pabst – una con attori tedeschi, una con attori francesi – aveva, per Contini, raggiunto la perfezione), teatro (da Aristofane a Shakespeare al Vieux Colombier con Copeau), conferenze (ne ricordo una bellissima di Le Corbusier – mentre il fatto che non lo avessi tempestivamente avvisato di una di Unamuno corrucciò molto il mio amico), e la aerea leggerezza della danza di Serge Lifar, o la recita studentesca di Aucassin et Nicolette. Ma quel che arricchiva tutte queste esperienze, per me, era la conversazione di Contini. L’ho sentito parlare con Glauco Natoli, che veniva di tanto in tanto a vederci dalla Strasburgo dove era lettore; e l’ho visto con il gruppo di
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letterati che immaginavano con lui il piano per la imminente uscita di «Letteratura». Io, dal di fuori, restavo ad ascoltare, e mi stupivano la padronanza, la precisione, l’ampiezza di informazione con cui Contini si moveva nella produzione letteraria dei nostri tempi, e che io sommavo alle simili doti che gli conoscevo per la letteratura antica, a cominciare dal suo Bonvesin, ancora fresco nel suo interesse. Ma altra cosa era per me il chiacchierare con lui quei pomeriggi domenicali, seduti al Dupont, il caffé davanti alla Sorbona, o – ancora meglio – vagabondando per le vie della città, a tutti i suoi livelli, dal Montmartre al Marché aux puces (ci aveva visto, appoggiato a terra, un Utrillo, lo aveva indicato col piede «E di questo quanto volete?» «Seicentomila franchi»). Io in fondo mi tenevo alla città hausmanniana; Contini conosceva tutto, e sapeva vivere e comunicare bene il fascino della topografia minore, quella dei passages, del «Vico degli strami», dell’«appassito vicolo in discesa» fino al fascino dei semplici nomi: rue du Chat qui pêche. Il suo discorso si offriva come un attraente esercizio, forzandomi a cogliere le citazioni, le allusioni, i giochi etimologici che si inseguivano e si sommavano in una festosa, vivace, attraente, rutilante frequenza. C’era certo, anche, in questo un certo gusto per (direi quasi) mascherarsi dietro il suo linguaggio. Un po’ come quando in un ristorante ungherese che frequentavamo, si fingeva – e non so più perché – turco; o come quando, scegliendola fra molte altre, aveva comperato una maschera che aveva i tratti di Herriot. Se la era applicata al volto e dalla finestra della scuola privata Jeanne d’Arc sua dirimpettaia le ragazze ridevano entusiasmate. Ma certo quel che più ci incantava e ci univa era il flâner per la città, la Parigi che sempre più ci innamorava di sé. In questa luce va vista la ambiziosa decisione che prendemmo insieme, quando acquistai una piccola macchina da presa: girare un documentario nostro, della Parigi che era quella nostra, inedita, che ci affascinava. Decidemmo di cominciare dalla Villette, il porto sulla Senna. Di quell’inizio mi è restata una descrizione minuziosa, che elenca tutti i momenti della ripresa, e chi dei due abbia girato che cosa, e perché, e a quale scopo (cinematografico!) lo avesse scelto. Fu una densa mattinata; ma nella mia relazione c’è anche il pomeriggio
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che abbiamo poi passato nella banlieue. È una testimonianza di che cosa e con quali occhi vedessimo il mondo in cui agivamo: Finito di girare, tutti e due eccitati ci siamo messi a sedere in un caffè ad ammirare il passeggio bevendo un cappuccino… Poi ci siamo spinti in banlieue. È la prima volta da quando siamo a Parigi, e abbiamo avuto fortuna. Era giornata di fiera nel viale che è Pantin nel marciapiede a destra e Aubervilliers in quello a sinistra. Noi abbiamo optato per Pantin, e abbiamo goduto l’aria di paese della banlieue. Parigi sembra lontano chilometri e chilometri: le case piccole e provinciali, la gente vestita in modo strano. A mezzo chilometro più in là tutto è città, qui tutto è provincia. Gli uomini portano scarpe gialle stranamente aguzze, e casquettes piene di distinzione. Le donne hanno un’aria imbambolata e un maquillage inverosimile. E sui marciapiedi c’era un senso di fiera di paese. Statue in alabastro nero su zoccoli di alabastro bianco di elefanti e donne nude; quadri storici, come La signature de l’armistice con i nomi delle personalità nel riquadro; uno aveva un museo di calli, di ognuno dei quali urlava le generalità: «cor de cinq ans, extirpé… Cor de dix ans…» brandendo delle forbicine con le quali presentava il pezzo in discussione. C’erano grandi grappoli di scarpe gialle e di scarpe di cuoio come pirografato. Uno risuolava sur place le scarpe di gomma. E dappertutto un avviso in tutte le dimensioni: «Divorces rapides. S’adresser au numéro 72 du Boulevard. Consultation 5 francs». Quello c’è anche quando non c’è fiera. Per due franchi abbiamo comprato un grosso cake aux fruits e ci siamo nutriti, perché avevamo fame. Poi abbiamo visto una venditrice di barche e Contini è impazzito. L’ho convinto ad aspettare per prenderne una al ritorno, e la donna ha detto che gli uomini erano toujours comme ça: fanno delle promesse creando delle illusioni e non mantengono. Contavamo di darle una doppia soddisfazione al ritorno, mostrandoci di parola vera. Ma non abbiamo potuto: al suo posto c’era un uomo che non si è punto rallegrato di vederci. Ho fatto dono a Contini di un bastimento grande mezzo palmo, tutto irto di vele viola. Andando in su siamo arrivati fino alla chiesa di Pantin, e speravo di sentire un pezzetto di vespro in ambiente semirustico: ma era vuota. Solo sulla porta, su un battente c’era l’annuncio di un pellegrinaggio, sull’altro battente (non si sa se a supporto o in opposizione) la réclame di un grand drama policier: «Le train fantôme» circondata da fotografie con commento: «Va-t en! Va-t en! Ne me touche pas!». Si capisce com’è che la chiesa fosse vuota.
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Il ritorno è stato un trionfo per Contini, che incuriosiva tutti con la sua barchetta, finché alla porta di Parigi abbiamo incontrato una specie di roulette. Ho puntato una volta per me e una volta per Contini che non ha voluto giocare. In tutto cinquanta centesimi, e ho vinto una tavoletta di cioccolata. C’era una vera aria di allegria. Appena trovato un métro siamo tornati in città. La sera ero stato invitato a cena dai genitori Contini che partivano il giorno dopo.
Dovrei, forse, ora chiedervi scusa per la patina così vistosamente autobiografica che colora la mia memoria. Ma non avrei altrimenti saputo (potuto) ricollocare quel Contini del 1935 nella Parigi che vivevamo con quasi avida passione. Eravamo giovani insieme. Grazie.
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... girare un documentario nostro, della Parigi che era quella nostra, inedita, che ci affascinava ... (fotogrammi del documentario amatoriale girato, con cinepresa Pathé 16 mm, da Sergio Donadoni e Gianfranco Contini, borsisti a Parigi, nel marzo 1935)
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... Decidemmo di cominciare dalla Villette, il porto sulla Senna ...
467 Ricordi parigini
... Ma certo quel che più ci incantava e ci univa era il flâner per la città, per la Parigi che sempre più ci innamorava di sé ...
Rinvio con le seguenti sigle alle raccolte einaudiane degli scritti di Contini: AL = G. Contini, Altri esercizî (1942-1971), Torino 1972; EL = G. Contini, Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei. Nuova edizione aumentata di «Un anno di letteratura», Torino 1974; PEE = G. Contini, Postremi esercizî ed elzeviri, postfazione di C. Segre, nota ai testi di G. Breschi, Torino 1998; UEE = G. Contini, Ultimi esercizî ed elzeviri (1968-1987), Torino 1988; VAL = G. Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino 1970. Rinvio altresì con Bibl a L’opera di Gianfranco Contini. Bibliografia degli scritti, a cura di G. Breschi, Firenze 2000. Ringrazio Riccardo Contini per aver autorizzato la citazione o la pubblicazione di lettere inedite del padre e per i numerosi suggerimenti; Claudia Borgia (con Ginevra Avalle e Chiara Baffa) per la generosa assistenza nella consultazione dell’Archivio Contini presso la Fondazione Ezio Franceschini di Firenze. Ringrazio inoltre Lanfranco Binni e Raffaele Ruggiero per avermi consentito di esaminare e citare il carteggio Binni-Russo, in preparazione per loro cura; Silvia De Laude per avermi consentito di consultare e citare la trascrizione dell’inedita cartolina postale di Contini ad Alfredo Schiaffini del 25 febbraio 1938; Domenico De Martino per aver messo a mia disposizione una riproduzione digitale della cartolina di Contini ad Albert Henry del 9 aprile 1938; Luca D’Onghia per aver riscontrato per me i dati materiali degli originali delle lettere di Contini ad Antonio Baldini nella Biblioteca Comunale di Santarcangelo di Romagna; Carlo Ginzburg per avermi consentito di studiare le lettere del padre Leone a Contini; Paola Italia per avermi consentito di consultare e citare la trascrizione dell’inedita lettera di Contini a Gadda del 22 [giugno 1938]; Fiammetta e Ranieri Varese per avermi consentito di leggere e di studiare le lettere di Contini a Claudio Varese (e di Varese a Contini). Ringrazio infine Domenico Marchetta, mio cortesissimo intermediario presso il Presidente Ciampi a proposito dell’aneddoto narrato da Aurelio Roncaglia. Alcune pagine del saggio, in forma di abbozzo, furono lette in occasione del seminario A settant’anni dall’edizione Contini delle rime dantesche (1939): tradizione e attualità, tenutosi, per iniziativa di Lorenzo Dell’Oso, presso il Collegio Ghislieri di Pavia il 16 dicembre 2009 (con interventi di Giancarlo Breschi, Claudio Ciociola, Roberto Crespo, Cesare Segre). Il presente testo (al quale si aggiunge, in quella sede, l’edizione di due lettere di Leone Ginzburg a Contini e del breve carteggio di Contini con Antonio Baldini) appare anche in calce a Dante Alighieri, Rime, a cura di G. Contini, Ristampa anastatica dell’edizione del 1939, Con un saggio di C. Ciociola, Pisa 2014 (Forme, 6): ristampa promossa dalla Scuola Normale Superiore in occasione del centenario della nascita di Contini.
La lava sotto la crosta. Per una storia delle Rime del ’39 Claudio Ciociola «Quel commento lo scrissi in quattro mesi a ventisei anni, con piglio e avventatezza» (Gianfranco Contini ad Antonio Pizzuto, 19 settembre 1963)
«We need an eye which can see the past in its place with its definite differences from the present, and yet so lively that it shall be as present to us as the present» (Thomas Stearns Eliot, The Sacred Wood, 1920)
«senza un poco di magnetismo, o di poesia, non si dà neppure scienza» (Gianfranco Contini, Ricordo di Joseph Bédier, 1937)
1. Cruciale nella storia d’Europa, il biennio 1938-1939 risulta determinante anche nella vicenda biografica e intellettuale (se i due piani si possono discriminare) di Contini. Anno cerniera è il 1938: tra l’esordio della carriera accademica – intrapresa nell’ottobre, ventiseienne, a Friburgo (dopo un incarico pisano nel 1937-1938) – e l’esaurirsi dell’età giovanile. L’età degli studi liceali e universitari (dalla Domodossola rosminiana alla ghisleriana Pavia alla Torino di Santorre Debenedetti); della precocissima e consapevole militanza del contemporaneistalinguista-filologo (d’immediata autorevolezza, lasciava, come scrisse Gadda, tutti un po’ emballés)1; dell’insegnamento liceale a Perugia (la
1 In una lettera del 12 maggio 1934, da Firenze, a Silvio Guarnieri (pubblicata in Io, Gadda, ingegnere per forza, con una nota di L. Greco, «Mercurio – Supplemento settimanale di lettere arti e scienze di “La Repubblica”», a. II, n. 39, 10 novembre 1990, pp. 3-5, a p. 4), Gadda scrive: «Abbiamo conosciuto a Roma e qui Gianfranco Contini, critico e poliglotta e pozzo di scienza a 22 anni, e ne siamo tutti un po’ emballés. Si occupa di Bonvesin de la Riva, oltre che di Montale e Bonsanti, nonché Gadda» (vd. M.A. Grignani, Gianfranco Contini e Pietro Ciapessoni. Un alunno d’eccezione, un rettore lungimirante, in Su / per Gianfranco Contini, «Filologia e critica», 15, 1990, pp. 179-84, a p. 182). Ha segnalato il ricorrere dell’aggettivo in una cartolina di Contini a Henry (luglio 1936), in relazione a Paul Valéry («J’ai connu dernièrement Valéry,
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Claudio Ciociola
Perugia di Apponi e Capitini); del bagno entusiasta e indimenticabile nella Parigi di Bédier e di Roques, di De Pisis e di Valéry (con l’amicizia dei coetanei borsisti Donadoni e Henry). Il 1938, in particolare, aveva segnato, prima, il passaggio dal liceo classico di Perugia al comando presso il neoistituito Centro di studi di filologia italiana dell’Accademia della Crusca (la pratica era stata avviata nel 1937, auspici Pasquali Russo
pour lequel je suis tout à fait emballé»), D. De Martino, «Parigi, col suo zucchero…». Lettere di Gianfranco Contini ad Albert Henry. 1935-1945, in Due seminari di filologia. Testo e apparato nella filologia d’autore. Problemi di rappresentazione; Filologia e critica stilistica in Gianfranco Contini. 1933-1947, a cura di S. Albonico, Alessandria 1999, pp. 177-201, alle pp. 190-1 (e cfr. «Il paesaggio d’un presentista». Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Luigi Russo (1936-1961), a cura di D. De Martino, Firenze 2009 [Carte e carteggi. Gli archivi della Fondazione Ezio Franceschini, 14], p. XII e nota 12). Si può ulteriormente aggiungere, a riprova della circolarità amichevole, se non addirittura della ‘genitura’ continiana, dell’uso del termine, proprio del francese familiare per ‘entusiasmare, affascinare’ (Trésor de la langue française. Dictionnaire de la langue du XIXe et du XXe siècle, publié sous la direction de P. Imbs, 7, Paris 1979, p. 876), il luogo di una lettera di Contini del 1940, in cui si riferisce a Cecchi la reazione di Jean de Menasce (sul quale vd. oltre) alla lettura del saggio sul Beato Angelico: «il mio amico padre de Menasce (il quale, rimasto a Roma solo pochi giorni, non ebbe modo, e gliene dispiacque, di venirLa a cercare) è infinitamente emballé del Suo saggio sull’Angelico, che io gli ho prestato» (lettera 23, del 14 [aprile 1940]: L’onestà sperimentale. Carteggio di Emilio Cecchi e Gianfranco Contini, a cura di P. Leoncini, Milano 2000 [La collana dei casi, 46], p. 39); o ancora, molto più tardi, il resoconto a Montale degli effetti della ricezione del Diario del ’71: «Ne sono assolutamente emballé, tanto che mi sono svegliato di notte per abbozzare a me stesso un referto, e l’ho appuntato la mattina» (lettera XXXI, del 19 febbraio 1972: Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, a cura di D. Isella, Milano 1997 [La collana dei casi, 39], pp. 243-4, a p. 243). Un’osmosi simile – tra Gadda e Contini – potrà rilevarsi anche a proposito di «alcoolismo», «alcool» (in vece di ‘inebriante/anestetico’ intellettuale), per cui vd. oltre. Per quanto riguarda le reazioni ‘fiorentine’ al giovane Contini in quegli stessi anni si possono citare tre lettere di Montale a Irma Brandeis. Nella prima, del 29 dicembre 1934, Montale scrive: «Non voglio privarti però di una lettera del mio miglior critico – Gianfranco Contini – a proposito dei Mottetti. L’autore (24 anni) è un uomo geniale e per bene, anche se la lettera sia (eccezionalmente e non so perché) alquanto pornografica; e diventerà senza dubbio un grande critico, anzi forse lo è già» (all’epoca Contini non aveva di fatto ancora compiuto i 23 anni; la lettera di Contini alla quale si allude, forse non restituita a Montale dalla Brandeis, non è tra quelle note); nella seconda, del 22 gennaio 1935: «It is not easy to find another Gianfranco Contini; he is a sort of genius in his way. I’ll try to send you any more C.’s letters – but sometimes I don’t understand them, nor I do all your remarks about
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e Gentile, ma il definitivo avvio del comando risale ai primi giorni del 1938) e all’incarico di francese alla Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa (fortemente voluto da Russo); poco più tardi, nell’agosto, la vincita del concorso per l’insegnamento di Filologia romanza all’Università di Friburgo e il successivo inizio, dall’ottobre, dell’esperienza elvetica (destinata a protrarsi fino al 1952). Ai primi mesi, fiorentini, del 1938 risale anche la stesura rapidissima del commento alle Rime. Impressionante, del resto, è il coagulo e l’intreccio di eventi editoriali che segnano lo scorcio del 1939: il 14 ottobre, da Einaudi, escono le Occasioni2; il 25 ottobre, da Parenti (nella fiorentina «Collezione di Letteratura» diretta da Alessandro Bonsanti), gli Esercizî di lettura (con un dittico Su Eugenio Montale e il saggio gaddiano del 1934: in «Letteratura», dal 1938, usciva a puntate la Cognizione del dolore)3; il 4 dicembre, da Einaudi, le Rime di Dante, testa di serie della «Nuova Mottetti»;nella terza, del 12 settembre 1935: «Gianfranco Contini is a good fellow, full of life. He knows everything and his 200 books are the best in the world. The strange is that he is a son of the capostazione of domodossola. He speaks (Gianfranco) fluently catalano, portoghese, olandese, rumeno ecc. oltre a tutte le lingue europee, dialetti antichi franco italiani, vecchio e nuovo provenzale, etc. etc. Age: 23 years!» (E. Montale, Lettere a Clizia, a cura di R. Bettarini, G. Manghetti e F. Zabagli, con un saggio introduttivo di R. Bettarini, Milano 2006, lettera 57, pp. 118-9, a p. 118; lettera 60, pp. 124-6, a p. 125; lettera 174, pp. 174-5). 2 Il rilievo culturale della concomitante uscita di Occasioni ed Esercizî non sfuggì ai lettori più avvertiti. Notevolissima, per i termini in cui risulta espressa, è la reazione di Umberto Morra di Lavriano, in una lettera a Contini del 30 novembre 1939: «Questi primi mesi di guerra han visto uscire due libri che mi sono cari – il tuo e le Occasioni –; potrebbero anche essere gli ultimi segni visibili di una civiltà» (citata da M. Moretti, Documenti di una esperienza politica, in questi Atti, pp. 689-752, a p. 701). Cfr. anche il commento di un testimone degli anni postbellici: G. Ungarelli, Lettori di Contini, «Belfagor», 389, 65, 2010, pp. 521-46, alle pp. 526-7. 3 Il dittico Su Eugenio Montale è costituito dal saggio del 1933 sugli Ossi: Introduzione a E. Montale, «Rivista rosminiana», 27, 1, 1933, pp. 55-9: Bibl 33.03 (anche per successive riprese) > Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice di testi non contemporanei, Firenze 1939, pp. 65-74,sotto il titolo Introduzione agli «Ossi di seppia» (= EL, pp. 66-75), e da quello del 1938 sulle Occasioni: Eugenio Montale, «Letteratura», 2, 4 (ottobre 1938-XVI), pp. 103-17: Bibl 38.02 > Esercizî di lettura, pp. 75-99, sotto il titolo Dagli «Ossi» alle «Occasioni» (= EL, pp. 76-97) (anche: G. Contini, Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale, Torino 1974, pp. 3-16, 17-45). Il saggio gaddiano del 1934 è Carlo Emilio Gadda, o del «pastiche», «Solaria», 9, 1934, pp. 88-93: Bibl 34.02 > Esercizî di lettura, pp. 159-66, sotto il titolo Note private sul «Castello di Udine» (= EL, pp. 151-7,
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raccolta di classici italiani annotati» ispirata (anche se il suo nome, in forza delle leggi razziali promulgate l’anno prima, non vi appare) dal maestro torinese Santorre Debenedetti (a partire dal 1953 la collana sarà diretta, dopo un breve interregno di Muscetta, dallo stesso Contini)4. Nel tracciarne, efficacissimo e penetrante, il ritratto – «Protetto dal (legittimo) orgoglio interno contro ogni vanità esteriore, aveva fatto spontaneamente del riserbo il centro della propria eleganza» –, Contini leggeva nell’accettazione della direzione della «Raccolta» – propostagli, attraverso Leone Ginzburg, dal figlio esordiente «d’un illustre collega» – il cedimento massimo del maestro alla «mondanità». Che un’abbietta legislazione s’incaricò, a ogni buon conto, di rendere inoperante5. Gli Esercizî costituivano la prima sintesi ampiamente rappresentativa di un’attività militante da tempo consolidatasi (i tre saggi più antichi raccolti nel volume – su Cecchi, Tommaseo, Ungaretti – risalgono al 1932: al Contini ventenne, cioè, ‘filosofico’ e ‘teologico’ – tra neoidealismo e Rosmini – della «Rivista rosminiana»)6 e vivacemente sotto il titolo Primo approccio al «Castello di Udine») (anche: G. Contini, Quarant’anni d’amicizia. Scritti su Carlo Emilio Gadda (1934-1988), Torino 1989, pp. 3-10). 4 Sulla nascita e sui criteri ispiratori della collana (e sul ruolo determinante di Leone Ginzburg) vd. L. Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino 1999 (Nuova Cultura, 70), pp. 26-9 (per il ruolo di Muscetta, e l’affidamento definitivo della direzione a Contini, pp. 467-9, 716-21). Vd. anche D. Scarpa, Il nome invisibile. Leone Ginzburg e la casa editrice Einaudi, 1933-1944, in Amici e compagni. Con Norberto Bobbio nella Torino del fascismo e dell’antifascismo, a cura di G. Cottino e G. Cavaglià, Milano-Torino 2012, pp. 186-218. Sulle tre vite della collana vd. poi F. Trevisiol, La “Nuova raccolta di classici italiani annotati”: «ricostruire il valore del testo», in Libri e scrittori di via Biancamano. Casi editoriali in 75 anni di Einaudi, con illustrazioni e documenti, a cura di R. Cicala e V. La Mendola, presentazione di C. Carena, Milano 2009, pp. 471-516 (sulle Rime di Contini in partic. pp. 471-3). 5 «Penso che il massimo della sua mondanità sia consistito nell’accettare la direzione d’una collana di classici presso un editore destinato (ma allora non era facile prevederlo) a salire molto alto nella scala della celebrità (ben prima che cominciasse il mestiere di editore, egli me ne aveva parlato come del figlio d’un illustre collega che aveva avuto noie con le autorità sedenti); Leone Ginzburg, che alla casa Einaudi fungeva tra l’altro anche da sua cinghia di trasmissione, fu il suo unico tramite con l’intelligencija della Torino gobettiana e postgobettiana che (nonostante la cordialità dei suoi rapporti con Umberto Cosmo) avvenga di rintracciare» (G. Contini, Commemorazione, «Memorie della Accademia delle Scienze di Torino. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche», s. 5, 3, 1979, pp. 7-19: Bibl 79.02 (= UEE, pp. 319-34, sotto il titolo Santorre Debenedetti nel centenario della nascita, a p. 333). 6 Vd. l’illuminante disamina di F. De Giorgi, Contini nel mondo rosminiano, in questi Atti, pp. 599-688.
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impostasi, per acume e originalità, all’attenzione del pubblico più attento, e in specie ai protagonisti della letteratura contemporanea. Gli Esercizî veri e propri si chiudevano in un dittico di Due frammenti di critica della critica (genere, quello del profilo, nel quale Contini eccellerà, intensamente coltivandolo), dettati, rispettivamente, Per un comparatista (Ferdinando Neri) e Per un italianista (Luigi Russo)7: entrambi personalità di rilievo nella biografia culturale del Contini di quegli anni (Neri, che aveva frequentato a Torino, recensirà le Rime – edizione di «un giovine critico, di acutissimo ingegno e ben armato» – nella «Stampa» di Torino)8. Al dittico seguiva strategicamente un’Appendice su testi non contemporanei nella quale, oltre a Tre
Scriptor Rerum Francigenarum, «Rivista rosminiana», 27, 4, 1933, pp. 289-95: Bibl 33.04 (con ulteriori dettagli) > Esercizî di lettura, pp. 199-210, sotto il titolo Per un comparatista (= EL, pp. 188-98); Recensione a L. Russo, Ritratti e disegni storici. Da Machiavelli a Carducci, Bari 1937, «Letteratura», 1, 3, 1937, pp. 158-60: Bibl 37.16 > Esercizî di lettura, pp. 211-6, sotto il titolo Per un italianista (= EL, pp. 199-204). Per i rapporti Contini-Neri vd. da ultimo G. Lucchini, Contini e la scelta degli scritti desanctisiani, in Riuscire postcrociani senza essere anticrociani. Gianfranco Contini e gli studi letterari del secondo Novecento, Atti del convegno di studio, Napoli, 2-4 dicembre 2002, a cura di A.R. Pupino, Firenze 2004 (Carte e carteggi. Gli archivi della Fondazione Ezio Franceschini, 9), pp. 201-33, poi in Id., Studi su Gianfranco Contini: «fra laboratorio e letteratura». Dalla critica stilistica alla grammatica della poesia, Pisa 2013 (Biblioteca della modernità letteraria, 42), pp. 57-87, in partic. pp. 57-62 (a p. 57 nota 2 cita la recensione alle Rime). Per i rapporti Contini-Russo vd. l’introduzione e l’annotazione al carteggio: «Il paesaggio d’un presentista» e la lettura propostane da G. Lucchini, Un dialogo difficile: filologia e critica nel carteggio Contini-Russo, «Strumenti critici», 125, n.s. 26, 1, 2011, pp. 95-105, poi in Id., Studi su Gianfranco Contini, pp. 171-81. 8 F. Neri, Il libro delle Rime di Dante, «La Stampa», 6 gennaio 1940-XVIII, p. 3 (cfr. Bibliografia degli scritti di Ferdinando Neri, in F. Neri, Letteratura e leggende, Raccolta promossa dagli antichi allievi con un ritratto e la bibliografia degli scritti del maestro, Torino 1951, p. XXXVIII, n. 288): «Quel che sta in noi è d’intendere, di penetrare sempre meglio il senso ed il valore di quelle rime; mentre tutti gli studiosi hanno dovuto lamentare la povertà dei commenti che se ne sono avuti finora. E su questa via dobbiamo registrare un effettivo e notevole progresso nella recentissima edizione delle Rime a cura di Gianfranco Contini, un giovine critico, di acutissimo ingegno e ben armato, ben addestrato al suo còmpito. Il volume apre con i migliori auspici una Nuova raccolta di Classici italiani, presso l’editore Einaudi, di Torino. L’Introduzione è densa, vivace, animosa; le note misurate, e pronte: voglio dire che non evitano, com’è il vezzo dei chiosatori superficiali, il passo difficile, anzi l’affrontano, e ne tentano la speciale difficoltà e, non di rado, la vincono». 7
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frammenti romanzi, avevano luogo il capitale Come lavorava l’Ariosto (1937)9 e ancora la Vita macaronica del francese dannunziano (sempre del ’37, nel fascicolo inaugurale di «Letteratura»)10, destinata a riscuotere l’interesse e la maliziosa approvazione di Croce (al quale il saggio ariostesco aveva invece tutta l’aria di voler dispiacere). «Il presente volume – riassumeva Contini nella conclusiva Nota bibliografica – è la raccolta riveduta e pressoché compiuta degli scritti dell’autore in materia di critica letteraria fino al principio del 1939 (e perciò apparisce al suo sentimento come un libro postumo)»11. Il commento alle Rime di Dante gli si affiancava dunque come pendant sincrono sul versante propriamente ‘scientifico’, o ‘tecnico’. A pochissimi anni di distanza dalle Rime e dagli Esercizî Contini avrebbe proposto a don Giuseppe De Luca una raccolta di scritti tecnico-filologici che intenzionalmente doveva fare il paio con gli Esercizî: fin dal titolo, oscillante tra Frammenti di tecnica filologica e Frammenti di filologia (ma l’ipotesi di riprendere addirittura Esercizî non era esclusa)12. Il commento alle Rime – per organicità nonché per l’ovvia preponderanza di autore e testi investigati sugli altri, pur rilevanti e sorprendentemente maturi, frutti in precedenza conseguiti (si ricordi, a tacer d’altro, l’edizione di Bonvesin, che avrebbe visto la luce solo nel 1941, ma era pronta
9 G. Contini, Come lavorava l’Ariosto, «Meridiano di Roma», 2, 29, 18 luglio XV (= 1937), p. IV: Bibl 37.03 > Esercizî di lettura, pp. 247-57 (= EL, pp. 232-41). 10 G. Contini, Vita macaronica del francese dannunziano, «Letteratura», 1, 1, 1937, pp. 12-9: Bibl 37.13 > Esercizî di lettura, pp. 289-301 (= EL, pp. 274-85). 11 Esercizî di lettura, p. 303. La Nota non si legge in EL, ma la frase citata è significativamente richiamata nell’importante Avviso, pp. VII-VIII, a p. VIII, incorniciata in un essenziale contesto (sul quale ritorneremo): «Un’altra ambiguità e ancipitudine è infatti tra estraneità e appartenenza del prodotto al produttore: la lontananza (Bonsanti acutamente ha intitolati lontani i suoi più antichi racconti) può essere maggiore o minore, purché non sia vicinanza. Fin dalla princeps degli Esercizî, detti “la raccolta riveduta e pressoché compiuta degli scritti dell’autore in materia di critica letteraria fino al principio del 1939”, sùbito si aggiungeva in parentesi: “e perciò apparisce al suo sentimento come un libro postumo”. Perché dunque dedicare, non si dice tanta, ma qualche cura a figli trattati senza trasporto? precisamente per indurire la loro natura oggettuale, come di sassi da gettare dietro le spalle». 12 Vd. la Nota ai testi, in G. Contini, Frammenti di filologia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica (1932-1989), a cura di G. Breschi, 2, Firenze 2007 (Archivio romanzo, 11), pp. 1393-403, alle pp. 1393-7.
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da tempo) – si proponeva intanto quale risultato miliare sul versante ‘tecnico’. Anche nell’autoconsapevolezza dell’autore. L’eco del procedere in parallelo delle due imprese (riunione negli Esercizî dei saggi militanti – e non solo – da un lato, elaborazione del commento alle Rime dall’altro), da anticiparsi di un anno almeno rispetto all’esito a stampa, avrà trovato naturale sfogo nello scambio amichevole, riaffacciandosi nella conversazione epistolare13. Gadda, psicologicamente traumatizzato dall’abbandono di Firenze alla volta di Milano («la brusca interruzione della troppo bella vita fiorentina mi ha procurato, fra l’altro, uno choc nervoso non ancora vinto»), il 18 giugno 1938 scrive: «Bonsanti mi dice che farai un volume di saggi in “Letteratura” (collana di) e ciò mi ha fatto molto piacere. Il Dante è uscito? Se mi dirai qualcosa del tuo lavoro, te ne sarò gratissimo»14. Le lettere di Contini a Gadda del 1937-1939 mancano per ora all’appello (ma sono imminenti importanti novità)15; dal cenno gaddiano ricaviamo comunque un terminus rilevante, se a metà giugno del 1938 il corrispondente poteva chiedere a Contini se il Dante non fosse addirittura uscito16. Allusioni paradantesche, nella stessa lettera, risuonano del resto nel resoconto degli incitamenti che Gadda riceveva
13 Oreste Macrì, annotando significativamente (in relazione al tema Rime di Dante-Contini/Montale, sul quale ritorneremo) che il «testo commentato» delle Rime «comparve nel 1939 e fu di grande momento, giacché penetrò nel vivo della cosa poetica del tempo», testimonia anzi che «ben prima che fosse pubblicato fu noto agli amici delle Giubbe Rosse» (O. Macrì, Esegesi del terzo libro di Montale [1966-67], poi in Id., Realtà del simbolo. Poeti e critici del Novecento italiano, Firenze 1968, pp. 73-146, a p. 83 nota 11: anche in Id., La vita della parola. Studi montaliani, Firenze 1996, pp. 143-209; il luogo è segnalato da G. Lucchini, Postilla montaliana, in Id., Studi su Gianfranco Contini, pp. 143-69, a p. 165 nota 74). 14 Lettera 16 [seconda sezione], del 18 maggio (da correggere in giugno) 1938: G. Contini, C.E. Gadda, Carteggio 1934-1963, a cura di D. Isella, G. Contini, G. Ungarelli, con 62 lettere inedite, Milano 2009, pp. 114-5, a p. 114: la data autografa, «18 maggio», è emendata da Contini in «giugno» per ragioni interne (in apertura Gadda ringrazia per una cartolina del 30 maggio). 15 Ne dà notizia Paola Italia nel suo intervento Contini e Gadda, nella sezione fiorentina del Convegno del centenario (13 dicembre 2012), intitolata ai Dialoghi di Contini. 16 Che si tratti delle Rime chiarisce, in ogni caso, il commento alla lettera dello stesso Contini (p. 115).
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da Alessandro Bonsanti per generare («Raramente ho lavorato così intensamente per secernere prosa») i primi capitoli della Cognizione, destinati a «Letteratura»: «il dittatore Sandro (non quello di Bonagiunta da Lucca, ahimè!) m’ha pungolato a una tale sgobbatura, da non darmi in questi giorni altro fiato». E ancora: «per uno strano miracolo, ho lavorato molto più qui in condizioni di disagio busto arsizio, che a Firenze in cortesia». Nell’ancora inedita risposta da Firenze, del 22 giugno – notevolissima nel suo insieme (in chiusa leggiamo tra l’altro: «Sono stato in Romagna con Falqui: poco prima di lasciare Faenza abbiamo avuto il privilegio di vedere il Duce, punto d’arrivo della storia della Romagna») – Contini tracciava una sintesi dei lavori in preparazione, dalla quale si evince che le Rime erano ultimate, se non addirittura già consegnate: Figurati che dovrei fare una statistica dei novenari delle origini, per contare quanti sono gli ottonari; e non ce la sfango, per pure ragioni di noia. Non so quando vedrò le bozze delle Rime; e non so quando mi chiederanno Bonvesin per la stampa. In agosto metterò a punto la mia raccolta di saggi, ossiano ‘Esercizî di lettura sopra autori contemporanei, con un’appendice su testi non contemporanei’17.
In effetti, risulta che il contratto editoriale per le Rime era stato inviato a Contini addirittura il 2 luglio 193718. L’avvio, e la rapida conclusione, dei lavori dovranno comunque localizzarsi tra il principio e la metà del 1938. Ne è documento, tra l’altro, un’inedita cartolina postale di Contini a Michele Barbi, del 12 gennaio di quell’anno. Al maggiore dei dantisti, e dei filologi italiani, viventi scriveva infatti il ventiseienne
17 La trascrizione della lettera (l’originale è nell’Archivio Liberati di Verona) mi è stata generosamente girata da Paola Italia, che ringrazio di cuore. 18 Mangoni, Pensare i libri, p. 26 nota 80 (e cfr. la nota alla lettera VII di Contini a Montale, del 3 dicembre 1938: Eusebio e Trabucco, p. 37). L’esordio della lettera del 2 luglio 1937 (Archivio Einaudi in deposito presso l’Archivio di Stato di Torino, Corrispondenza autori e collaboratori italiani, cart. 57, fasc. 820, Contini), nella quale Giulio Einaudi ringrazia Contini per aver accettato l’invito di Debenedetti a curare «il Canzoniere di Dante, con una scelta delle rime di dubbia attribuzione», è citato da M. Villano, Gianfranco Contini nella «brigata dello Struzzo», in Libri e scrittori di via Biancamano, pp. 65-94, a p. 69. Nella stessa lettera il termine di consegna del manoscritto è fissato per il 1° marzo 1938.
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Contini: «Ella può misurare non dico il desiderio, ma la necessità che ho di vederLa dal fatto che ho accettato, forse imprudentemente, di fare un commento (non precisamente scolastico) delle Rime di Dante: per il quale i Suoi consigli mi sono indispensabili»19. Su tempi (e luoghi) di elaborazione dell’opera potranno rendersi necessari ulteriori accertamenti. Ci assicura comunque che l’Introduzione fosse già scritta nel giugno del 1938 un’importantissima lettera a Contini siglata, il 27 di quel mese, da Leone Ginzburg (nelle vesti di redattore della «Nuova raccolta»). «Per incarico del prof. Debenedetti», Ginzburg elenca una serie di «spunti singoli o interi ragionamenti» (e il riferimento è spesso ai modi dell’esposizione) «che vorremmo Lei riprendesse in esame, per espungere o riscrivere, secondo i casi»20.
Pisa, Scuola Normale Superiore, Archivio M. Barbi, Carteggio Barbi, Contini Gianfranco (b. 11, 277): cartolina postale da 30 cent., ms.; indirizzo: «Ch.mo Signor / prof. Michele Barbi / piazza D’Azeglio 15 / FIRENZE»; timbro in partenza, da Domodossola stazione, del «12 1 38 XVI» (fa parte di un gruppo di nove missive, sulle quali intendo ritornare in altra sede). Eccone il testo completo: 19
Domodossola, 12 gennaio [1938] Egregio e carissimo professore, avevo già deciso di tornare oggi a Firenze, ma una noiosa indisposizione (nevroticardiaca) m’induce a ritardare qualche altro giorno. Mi par certo che la settimana ventura potrò esser da Lei. Ella può misurare non dico il desiderio, ma la necessità che ho di vederLa dal fatto che ho accettato, forse imprudentemente, di fare un commento (non precisamente scolastico) delle Rime di Dante: per il quale i Suoi consigli mi sono indispensabili. Mi creda, con devoto ossequio, Suo Gianfranco Contini Scrivendo al cugino Piero Gadda Conti, da Firenze, il 24 gennaio 1938, Gadda tracciava questa sintesi delle attività di Contini: «C’è poi il Gianfranco Contini, che ha l’incarico di linguistica romanza a Pisa ed è affecté alla Crusca per pubblicare il Bonvesin della Riva, nostro concittadino: dico il Bonvesin della ripa di Porta Ticinese. Testo critico. Prepara anche un canzoniere di Dante» (P. Gadda Conti, Le confessioni di Carlo Emilio Gadda, Milano 1974, p. 47, e cfr. Contini, Gadda, Carteggio 19341963, nota alla lettera 21 [cartolina illustrata], del 17 novembre 1935, p. 48). 20 Firenze, Fondazione Ezio Franceschini, Archivio Contini, 13. Corrispondenza, 1155: C. Borgia, Inventario dell’Archivio di Gianfranco Contini, prefazione di L. Leonardi, Firenze 2012 (Carte e carteggi. Gli archivi della Fondazione Ezio Franceschini, 18), pp. 344-6 n. 1155, a p. 344; se ne ricava che la lettera, con altra, da attribuire allo
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Contini accreditò sempre un lavoro rapidissimo, consumato a Firenze in sostanza nei primi mesi del 1938 (si ricordi, d’altra parte, che nella seconda metà dell’anno avrebbe intrapreso l’avventura friburghese). Se dal tenore della cartolina a Barbi sembra potersi dedurre che ai primi di gennaio il lavoro doveva essere ancora avviato, l’impegno si fece ben presto assorbente. Contini, che da Firenze si recava per tre giorni a settimana a Pisa, dove aveva ottenuto un incarico presso la Facoltà di Lettere («Corro bestialmente in ferrovia lungo il Valdarno i primi tre giorni della settimana», scriveva il 1° marzo all’amico degli anni parigini Albert Henry)21, lo dichiara scrivendo da Domodossola allo stesso Henry il 9 aprile: «Mon Dante (commentaire des poésies lyriques) ne me laisse pas de trêve. J’en deviens malade»22. Già in una cartolina postale del 25 febbraio, del resto, aveva scritto ad Alfredo Schiaffini: «Io conto di rivederti almeno a Pisa qualche venerdì, e di darti qualche saggio del mio commento»23. Entro l’estate, almeno in una stesso Ginzburg, del 19 settembre 1939, per la quale vd. oltre, è stata rinvenuta nella copia dell’ed. 1946 delle Rime conservata nella biblioteca di Contini. L’Introduzione fu ristampata nel 1971 in VAL, pp. 319-34 (qui, a p. 334, la precisazione che il saggio è del 1938: ed è il testo più antico della raccolta); anche: G. Contini, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1976, pp. 3-20. Come si deduce da una lettera di Contini a Daniele Ponchiroli del 1° settembre 1970, la decisione d’introdurre in VAL l’Introduzione, in un primo tempo (forse per dimenticanza) non contemplata, risale alla fase della correzione delle bozze. Doveva inaugurare la terza sezione (Applicazioni linguistiche), di fatto ne sarà il secondo pezzo, dopo la Premessa a un’edizione di Arnaut Daniel: G. Lucchini, «Varianti e altra linguistica» di Gianfranco Contini, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, vol. 17 (Il secondo Novecento. Le opere dal 1962 ai giorni nostri), Torino 2007, pp. 339-68, poi in Id., Studi su Gianfranco Contini, pp. 89-112, a p. 91 e nota 7 (qui si cita la replica di Ponchiroli, che, a proposito della richiesta di aggiungere in bozze l’Introduzione, si chiede: «come mai ci è scappata?»). Per due traduzioni, una spagnola del 1957 e una inglese del 1965, dell’Introduzione vd. Bibl 39.01. 21 De Martino, «Parigi, col suo zucchero…», pp. 177-201, a p. 196. 22 Accademia della Crusca, Archivio Moderno, Fondo Henry-Contini, 5720. La data della cartolina si evince con sufficiente chiarezza dal confronto dei due timbri postali (nel testo «un samedi (je ne sais lequel)»), ed è confermata da circostanze esterne (il 9 aprile 1938 cadde di sabato, Contini doveva trovarsi a Domodossola per le vacanze pasquali – la Pasqua cadde in quell’anno il 17 – e la cartolina si conclude con gli auguri di rito). L’estratto che c’interessa è stato segnalato in De Martino, «Parigi, col suo zucchero…», p. 197 (ringrazio Domenico De Martino per aver messo a mia disposizione una riproduzione digitale della cartolina). 23 Ringrazio Silvia De Laude, che sta preparando l’edizione commentata del
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prima veste, il commento doveva essere concluso. Rispondendo, molti anni dopo, alla prima delle lettere indirizzategli da Antonio Pizzuto (il quale, settantenne, confessava che proprio la lettura delle Rime aveva determinato la sua ammirazione nei confronti del critico: «Le Sue note alle Rime, talune soffuse di maliziosa civetteria, condotte sempre da occhio moderno»)24, Contini – in un passo assai notevole anche per il contesto – si schermisce: «Quel commento lo scrissi in quattro mesi a ventisei anni, con piglio e avventatezza. Ora ho guadagnato in oculatezza e perso in mordente, e non so come giudicare il bilancio nella diacronia»25. D’altra parte, da una cartolina illustrata del 21 ottobre 1938 di Contini a Russo, nella quale si traccia un panorama delle pubblicazioni in cantiere, l’impresa del Dante risulta meno prossima a concludersi, se non altro sotto il profilo editoriale (e altrettanto vale per gli Esercizî e per il Bonvesin): «Fra qualche tempo, spero comincino a stamparmi (i Parenti) la raccolta di saggi. Poi, se quelle rose fioriranno, il Dante. Per Bonvesin si cercano sussidî a Milano. Insomma, mi si vuol costringere all’ineffabile!»26. Pochi giorni prima, il 14, aveva scritto a Capitini (alludendo verosimilmente al disappunto che il ritardo gli procurava in ragione degli impegni concorsuali): «Il mio Dante pare che uscirà; ma il ritardo è molto indelicato per me»27.
carteggio Contini-Schiaffini, di avermi fatto conoscere questo testo, autorizzandomi ad anticiparne un estratto. 24 Lettera 1, dell’11 settembre 1963 (G. Contini, A. Pizzuto, Coup de foudre. Lettere (1963-1976), a cura di G. Alvino, Firenze 2000, pp. 3-6, a p. 3). 25 Lettera 1, del 19 settembre 1963 (ibid., pp. 7-10, a p. 7). 26 Lettera 10 (cartolina illustrata), del 21 ottobre [1938]: «Il paesaggio d’un presentista», pp. 22-3, a p. 23. Già ai primi di maggio si era lamentato con l’antico professore pavese Ireneo Sanesi: «Concorro per neolatine a Bologna, ma purtroppo editori e riviste fanno a gara per privarmi del frutto utile del mio lavoro» (lettera 31 [cartolina postale], del 9 maggio [1938]: Gianfranco Contini e Ireneo Sanesi. Corrispondenza inedita, a cura di M. Sanesi, con una prefazione di D. Isella, Como 1998 [Biblioteca della Società Pavese di Storia Patria, N.S., 8], pp. 45-6, a p. 46). Nel 1939, del resto, scrivendo al Rettore del Ghislieri Pietro Ciapessoni, si dirà «vittima del capitalismo editoriale»: Grignani, Gianfranco Contini e Pietro Ciapessoni, p. 184. 27 Lettera 39 (biglietto postale), del [14 ottobre 1938]: Un’amicizia in atto. Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Aldo Capitini, a cura di A. Chemello e M. Moretti, Firenze 2012 (Carte e carteggi. Gli archivi della Fondazione Ezio Franceschini, 14), pp. 57-8, a p. 58.
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L’anno dopo, il 18 maggio, dolendosi del ritardo accumulatosi nella stampa delle Meraviglie d’Italia (usciranno nel luglio, sempre presso Parenti e nella serie di «Letteratura»), Gadda chiederà nuovamente notizie degli Esercizî, ma non delle Rime («Bonsanti mi fa disperare col libro “Le Meraviglie d’Italia”. - […] E il tuo quando esce? Quando è annunciato?»). Per parte sua, il 30 giugno Contini si lamenterà degli indugi di Einaudi con Ferdinando Neri (il quale doveva essersene informato): grazie di cuore, per i miei angelici perugini e per il “Dante”. Circa il quale, a Lei dirò francamente che l’editore, e specialmente la Redazione, con la loro diplomazia, dialettica ecc., hanno messo la mia pazienza a durissima prova. Ci sono cascato una volta, non ci cascherò una seconda. L’essenziale è che ho potuto avere le copie per il concorso, in tiratura provvisoria ma di bellissimo aspetto. Ora rivedo per l’ultima volta, con l’intenzione di fare un piccolo indice analitico; e tra poco, credo durante l’estate, il libro dovrebbe uscire28.
Al di là della deliziosa dichiarazione d’intenti («Ci sono cascato una volta, non ci cascherò una seconda») nei confronti di quello che diventerà l’editore di una vita, è notevole l’allusione a una pre-tiratura concorsuale29, destinata al concorso di Torino, nel quale per la seconda
28 Questa lettera (datata Domodossola, 30 giugno [1939]) fu conservata da Carlo Dionisotti, al quale, in quanto redattore del «Giornale storico», l’avrà girata lo stesso Neri, che era all’epoca direttore responsabile della rivista: nella seconda parte del testo, qui non riprodotta, Contini chiedeva infatti di aggiungere, nel «prossimo fascicolo», una postilla alla recensione, allora in stampa, all’ed. Marigo del De vulgari (Bibl 39.11). La missiva è stata rinvenuta tra le lettere di Contini a Dionisotti donate allaFondazione Ezio Franceschini di Firenze da Carlotta Dionisotti e si conserva, con altre lettere di Contini, nei fondi aggregati dell’Archivio (alla lettera è allegato questo appunto manoscritto: «Lettera di Contini a / Ferdinando Neri, conservata / in una busta ‘Archivio corrispondenza G[iornale] S[torico]’ di Carlo Dionisotti / sarà del 1939/1940 / A[nna] C[arlotta] D[ionisotti]»). Da una lettera della Einaudi, siglata da Leone Ginzburg il 19 settembre, si ricava che Contini scrisse all’editore, probabilmente anche per avere notizie della stampa, il 2 settembre; Ginzburg rispose: «I richiami alle armi rendono lentissimi i tipografi, e non c’è più verso di farli stare alle date; la tiratura delle Rime però procede, anche se lenta, senza intermissione» (Firenze, Fondazione Ezio Franceschini, Archivio Contini, 13. Corrispondenza, 1155: Borgia, Inventario dell’Archivio di Gianfranco Contini, pp. 344-6 n. 1155, a p. 344). 29 Un esemplare di questa rarità bibliografica, con rarissime correzioni a penna
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volta Contini non soltanto non sarà ternato, ma otterrà solo due voti per la terza terna30. Per la pubblicazione delle Rime si dovranno attendere ancora alcuni mesi. Nella dichiarazione di «Proprietà letteraria riservata» al controfrontespizio dell’ed. Parenti degli Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei, «Collezione di Letteratura. Saggi e memorie», si legge la data di stampa del «25-X-1939-XVII». La data del «finito di stampare» nel colophon della prima edizione delle Rime, p. [242], è, a poco più di un mese di distanza, il «4 Dicembre 1939-XVIII».
autografe poi attuate nella tiratura definitiva, è in mio possesso: è rivestita di una copertina in cartoncino leggero di color grigiastro (completamente diverso, dunque, dal salmone della serie), senza indicazioni di collana, e per il resto in tutto identica alla definitiva fino a pagina 231 (mancano – perché ancora in preparazione, come si evince anche dalla lettera al Neri – le pp. 233-9, contenenti l’Indice delle cose e dei nomi principali ricordati nel commento; mentre è presente l’Indice generale), e con una significativa e ovvia divergenza nella data, che in copertina e nel frontespizio compare nella forma «1939-XVII», e non «1939-XVIII» dell’edizione vera e propria (il giorno d’inizio dell’anno XVIII dell’era fascista cadeva il 29 ottobre 1939). 30 La commissione del concorso per la cattedra di Filologia romanza dell’Università di Torino (Università, si noti, del Neri) fu presieduta da Giulio Bertoni e composta da Gino Bottiglioni, Ramiro Ortiz, Salvatore Santangelo e Alfredo Schiaffini; si riunì dal 13 al 17 ottobre; gli atti furono approvati il 24 del mese, come risulta dal «Bollettino Ufficiale del Ministero dell’Educazione Nazionale», parte II, 9 maggio 1940, Anno XVIII, n. 19 (nel giudizio relativo a Contini si fa cenno all’«ultima edizione delle “Rime” di Dante»). Contini non fu ternato (ottenne un voto per il primo posto, contro i quattro di Francesco Ugolini; uno per il secondo, contro i tre di Silvio Pellegrini; due per il terzo, contro i tre di Francesco Piccolo), il che suscitò fra l’altro le ire di Luigi Russo (che il 1° novembre scrisse: «La terna è la terna più oscena che sia stata fatta in questi ultimi vent’anni. Escludere Contini, che potrebbe essere maestro a parecchi dei suoi commissari!»: «Il paesaggio d’un presentista», lettera 13, pp. 28-9). L’indignazione per l’esito del concorso fu anche del Neri, il quale così si espresse in una lettera del 18 ottobre 1939 (su carta intestata dell’Albergo S. Chiara di Roma): «Mio caro Contini, / Giungendo qui ho appreso con dolore e con sdegno la terna di Filol. romanza. La rivincita è sicura, il suo insegnam. di Friburgo sarà computato nella carriera: ma queste ragioni che mi oppongono non diminuiscono quel ch’è d’ingiusto nella sentenza. / Con l’antico e fiducioso affetto, il suo Neri / A Torino avevo telefonato alla Casa Einaudi, ma non ho potuto sapere quando escono queste Rime di Dante. / Sarò di ritorno, a Torino, per il 22 o 23.» (Firenze, Fondazione Ezio Franceschini, Archivio Contini, 13. Corrispondenza, 1727; per l’elenco completo delle lettere superstiti di Neri a Contini vd. Borgia, Inventario dell’Archivio di Gianfranco Contini, p. 420 n. 1727).
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Montale riceve il volumetto e ne ringrazia Contini (ci ritorneremo) il 21 dicembre. Il giorno stesso Contini scrive a Capitini: «Hai avuto le mie (mie e di Dante) Rime?», il giorno successivo Capitini conferma31. È da immaginare che intorno a quella data l’invio giungesse anche a Gadda32. Dopo aver rapidamente accennato agli Esercizî il 25 novembre («Degli “Esercizî di lettura” ti scriverò ancora»)33, a entrambi i volumi continiani Gadda si rivolge in un’ampia lettera spedita, da Milano, nel giorno di San Silvestro: «Stanotte sarò tutto un mortaretto, tutto uno sparo fra calici di pseudo-champagna, perché l’infante 1940 sia un po’ meno carogna del suo lurido antecessore»34. Grato del recente duplice invio («Ti ringrazio vivissimamente dei due doni, spiacente di aver gravato con doppia voracità sul tuo bilancio editoriale»), Gadda si sofferma, nell’ordine, sulle Rime, sulle Cinque poesie apparse il 15 novembre in «Prospettive» («Mi congratulo con Malaparte di aver accolto o meglio scovato simile primizia: ti sapevo, da tua confessione, intriso nel peccato: ora ne conosco le dimensioni: ma, se non ti spiace, parleremo a voce delle “Cinque” troppo sendo lungo il dirne; e qui non ci sta»)35, e sugli Esercizî, per concluderne: «Insomma l’anno si
Lettere 51, del 21 [dicembre 1939], e 52, del 22 dicembre 1939: Un’amicizia in atto, pp. 75, 76. 32 Curiosamente, si riferisce agli Esercizî e alle poesie continiane appena uscite in «Prospettive» (per cui vd. oltre), ma non alle Rime, Giorgio Pasquali, in una lettera del 24 dicembre: «Ho letto gli Esercizi dalla prima all’ultima parola, e cercherò in questi giorni di procurarmi le poesie» («Come il cane che ha perso il padrone». Corrispondenza Giorgio Pasquali - Gianfranco Contini (1935-1952), a cura di D. De Martino, «Strumenti critici», 76, n.s. 9, 3, 1994, pp. 387-439, a p. 395, e cfr. p. 424). 33 Lettera 27 [seconda sezione, cartolina postale], del 25 novembre 1939: Contini, Gadda, Carteggio 1934-1963, p. 122. L’«ancora» significherà, semplicemente, ‘in séguito’. La prima lettera di Montale in cui si accenna agli Esercizî è quella, già citata, del 24 novembre (precede cioè di un solo giorno questa di Gadda). 34 Lettera 28 [seconda sezione], del 31 dicembre 1939: ibid., pp. 122-4, alle pp. 1234 (avverto che la nuova edizione del carteggio legge «sarà» in luogo di «sarò», da me ricontrollato sull’originale; un luogo parallelo è nel biglietto indirizzato, nella stessa notte, alla famiglia Rodocanachi: «Nella notte dei mortaretti e dello pseudo-champagne si sprigionano dal mio animo sensi nostalgici e grati, e i migliori voti per l’anno ora infante. Auguro che questo infante non diventi un briccone, come troppi suoi simili» (C.E. Gadda, Lettere a una gentile signora, a cura di G. Marcenaro, Con un saggio di G. Pontiggia, Milano 1983 [La collana dei casi, 12], p. 114). 35 Cinque poesie di G. Contini, «Prospettive», 3, 9 (15 novembre 1939), pp. 8-9: Bibl 31
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chiude meravigliosamente per te, e ne gioisco con te». Agli Esercizî si limita, di fatto, ad accennare, anche se in modo assai significativo: «I tuoi “Esercizî” sono cosa veramente un po’ eccezionale: e bisognerà che si muovano i volenti e i nolenti». Allusione certo importante alle reazioni che le originali ‘letture’ di Contini generavano nel fronte di quelli che Gadda chiama i «nolenti». Ma l’osservazione rinvia a una promessa (che non avrà seguito) enunciata poco più in alto: «Ho veduto la simpatica “Scheda” di Vigorelli in “Corrente”. Mi ha fatto molto piacere. Io mi riprometto di parlare di te fra qualche tempo, ad animo pacato: non potrò fare della critica, me la caverò con una delle mie note-minestrone, in cui si sente (e nel caso tuo si sentirà in modo particolare) la “simpatia” d’un caloroso consenso». L’accenno alla Scheda per Contini di Giancarlo Vigorelli, apparsa in «Corrente» quello stesso 31 dicembre36, chiarisce che qui Gadda pensa piuttosto agli Esercizî – oggetto della Scheda – che non alle Rime (anche se progettava, di fatto, una «nota-minestrone»): Rime alle quali è però destinato un importante passo che immediatamente precede. “Simpatia” – non per
39.09; sono riedite e commentate in G. Contini, Poesie, a cura di P. Montorfani, Torino 2010, pp. 3-35. Nel catalogo Scartafacci di Contini. Catalogo della mostra, Firenze, Archivio Contemporaneo ‘A. Bonsanti’, 13 dicembre 2012-31 gennaio 2013, a cura di C. Borgia e F. Zabagli, Viatico per la mostra, di G. Breschi, Premessa di L. Leonardi e G. Manghetti, Firenze 2012, p. 43, è citata una lettera di Malaparte a Contini del 25 ottobre 1939 nella quale si legge: «Caro Contini, ricevo in questo momento le tue liriche, e ti ringrazio – anche perché mi piacciono moltissimo. Chi ti avrebbe sospettato poeta? Penso che saranno, per tutti, una rivelazione». 36 G. Vigorelli, Scheda per Contini, «Corrente», 2, 23 (31 dicembre 1939-XVIII), p. 2. Quasi cinquant’anni più tardi, riproducendo le sue dure prese di posizione contro la Letteratura dell’Italia unita (e il conseguente Otto-Novecento), Vigorelli, in una Nota 1988, scriverà tra l’altro: «La botta c’è stata, e resta. Non sono un pentito. Resta però inalterata la stima, l’ammirazione per ogni altro lavoro critico di Contini, già dagli anni lontani di Esercizî di lettura (1939): e ne avevo parlato, intimidito dalla sua sapienza filologica, quasi succube, in una noterella, Scheda per Contini, su “Corrente” (31 dicembre 1939). Qualche mese prima avevo ricevuto l’estratto della “Rivista rosminiana” su Manzoni e Racine – prima sua prova manzoniana –, e da allora, ma anche da prima, credo d’avere letto tutto quanto veniva pubblicando: che alto divertimento era stato su “Letteratura” del 1937 l’intervento, Vita macaronica del francese dannunziano, intorno a Le Dit du Sourd et du Muet; che ardente rivelazione, l’edizione da Einaudi, sempre del 1939, delle Rime di Dante» (Id., Carte d’identità. Il Novecento letterario in 21 ritratti indiscreti, Milano 1989, pp. 156-7, a p. 156).
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niente virgolettato – deve ovviamente intendersi, a norma dell’idioletto continiano, in accezione etimologica, e in voluto gioco con il «simpatica» (non virgolettato e forse non etimologico), attributo della Scheda di Vigorelli. Così siamo subito sull’avviso circa la necessità d’interpretare l’aggettivo «essenziale», a sua volta virgolettato (alluderà all’accezione giuridica?), che si legge nel passo dedicato alle Rime: Il tuo libro delle Rime di Dante mi è arrivato l’antivigilia della partenza, dono graditissimo: per veste e carta e stampa e contenuto ammirevole. Dopo essermi congratulato con te, bisogna che mi congratuli un po’ anche col tuo editore. – Ne sento dire un gran bene, del tuo libro: e da quel po’ che posso comprendere, mi pare che tu abbia veramente dato volo a uno stil novo dell’esègesi e del commento. Per me sarà un libro di lettura e di istruzione “essenziale”. Mi riserbo di dirti le mie impressioni quando avrò ultimato la lettura della Introduzione (che ho scorso ed è bellissima) e delle singole Note d’apertura. Leggerò forse, anzi quasi certamente, anche Dante. –37
La chiusa scherzosa (l’institutio liceale di Gadda ne faceva un eccellente conoscitore della Commedia, ma era naturale non contemplasse la lettura, se non sporadica, delle rime estranee alla Vita nova) suggella una microrecensione. E il proscenio, in effetti, è tutto per il curatore: pur non mancando un esplicito cenno di lode alla veste del volume, e, in conseguenza, all’editore. Dell’acume del ‘recensore’ sono spie notevoli, in particolare: la percezione dell’importanza, non soltanto dell’Introduzione («bellissima»), ma anche di quelli che, assumendo il nome tecnico di ‘cappelli’ (qui «singole Note d’apertura») – cifra continiana di questa edizione, non per nulla sistematicamente applicata più tardi ai Poeti del Duecento –, diventeranno il paradigma, si può dire, di ogni edizione commentata futura38; e la netta intuizione dell’originalità della proposta esegetica: «da quel po’ che posso comprendere, mi pare che tu abbia Contini, Gadda, Carteggio 1934-1963, p. 123. Che il commento fosse incorniciato da un’Introduzione e da una nota filologica era previsto dal programma editoriale impostato da Debenedetti e dai suoi collaboratori: vd. Mangoni, Pensare i libri, pp. 26-9. Nel quadro di un diverso progetto, in anni immediatamente successivi Contini avrebbe analogamente impostato l’antologia dedicata al Teatro religioso del Medioevo, che preparava per il «Pantheon» di Bompiani (per cui vd. C. Ciociola, Contini e il teatro religioso del Medioevo. Per la storia di 37 38
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veramente dato volo a uno stil novo dell’esègesi e del commento». Saremmo curiosi di sapere da chi, a Milano, Gadda sentisse «dire un gran bene» del libro appena uscito39. È certo che la sua dichiarazione: «Per me sarà un libro di lettura e di istruzione “essenziale”», non debba considerarsi di circostanza. Se necessario, ne è riprova una lettera, per altri versi commovente, assai più tarda (novembre 1962) e in qualche misura consuntiva di un’amicizia. Comunicando questa volta le impressioni di lettura provocate dai Poeti del Duecento, Gadda vi ribadisce il ruolo giocato dalle Rime («guida per me preziosa e rivelatrice») nel quadro complessivo del suo rapporto con Contini. I modi sono quelli, a volte cerimoniosi, che caratterizzano le lettere degli ultimi anni; ma tanto non basta a inficiare la sincerità sostanziale del contenuto, nel quale notevolissima, a definire una generazione di letterati, è la circolarità, e la non sconfessata comparazione (al di là dell’asserita sproporzione dei comparandi), dell’operare critico e di quello propriamente creativo. Illustre, caro Contini, frequentando “I poeti del Duecento”, specie nella parte storica e biografica e nella annotazione filologica, ho patito quasi per reiterate fulgurazioni la
un’antologia, in Gianfranco Contini vent’anni dopo. Il romanista, il contemporaneista, a cura di N. Merola, Pisa 2011 [Biblioteca della modernità letteraria, 25], pp. 108-22). 39 Bellissimo il libro appare subito a Capitini, che ne scrive a Contini nella lettera 54, del 4 gennaio [1940], segnalando qualche «erroruccio», a testimonianza di una lettura scrupolosa (il curatore ne terrà conto nell’edizione del 1946): «Il tuo libro delle Rime è bellissimo; te ne parlerò nei particolari a voce. Voglio ora solo avvisarti che c’è una svista e qualche erroruccio. La svista, a p. 75: Piccarda è nel cielo della Luna e non di Venere; gli errorucci: a p. 26, nota 12 sarà vuole l’accento grave; e a p. 135, verso il mezzo, corsivo: Con esse (e non asse), e poco dopo va E maiuscola. Volevo mostrarteli qui; ma, nel tuo ritardo, te ne scrivo, e ti avviso anzi che, avendo dovuto scrivere d’altro a Einaudi, gli ho segnalato le tre cose nel caso che egli voglia, prima di continuare a diffondere le copie, attaccarci un fogliettino, poiché nel resto il libro è correttissimo, e sotto ogni riguardo, bello» (Un’amicizia in atto, p. 78). E infatti il 29 dicembre Capitini aveva scritto alla Einaudi parlando di «quella cosa bellissima che è il volume continiano», «vivissimo e scientificissimo come è il nostro eccezionale amico» (in Mangoni, Pensare i libri, p. 29 nota 95; anche se l’iniziativa di segnalare direttamente all’editore gli ‘errorucci’ non piacque a Contini: vd. lettere 55 e 56, del 6 e del 19 gennaio 1940, in Un’amicizia in atto, pp. 79-81). Di edizione «fondamentale», che avrebbe segnato «una data nella storia delle interpretazioni dantesche», aveva parlato Russo in una lettera alla casa editrice dell’11 dicembre (Mangoni, Pensare i libri, p. 29 nota 95).
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conferma abbagliante del mio antico e sùbito giudizio circa i rapporti con te, voglio dire circa i miei obblighi, troppi e troppo leggermente accolti e accollàtimi verso di te. Da quando ti conobbi, a Roma, e da Firenze, dai primi tuoi Saggi, dalle Rime di Dante, guida per me preziosa e rivelatrice dei modi e degli strumenti di una indagine, e di una raggiunta conoscenza del testo. Il giudizio fu ed è il seguente: un abisso divide il tuo intelletto dalle mie “approssimazioni”, la tua opera, la tua posizione dai miei “giochi”. Il lungo strazio degli anni è la sola attenuante ch’io possa invocare di fronte a chi si facesse troppo acerbo giudice della mia leggerezza. Codesti “giochi” sono la mia novocaina, mon opium, mon alcool à moi40.
Lettera 68 [seconda sezione], del 7 novembre 1962: Contini, Gadda, Carteggio 1934-1963, pp. 186-8, a p. 186. Nel ricordo doveva giocare anche il rimpianto per gli anni, particolarmente felici, di Firenze; lo si evince dai modi di un ulteriore richiamo alle Rime in occasione del successivo invio, nel 1964, dei Rerum vulgarium nella NUE (Bibl 64.01): «Adempio dopo more festive e scioperistiche degli adempitori tecnici, id est servizî pubblici, al lieto compito di esprimerti la mia riconoscenza per il nuovo, nitidissimo tuo dono: che si accosta alle Rime di Dante, Einaudi 1939-XVIII (gli anni di Firenze!) e ai due superbi tomi Poeti del Duecento – Storia e Testi, da te pòrtimi a “La Campana”» (lettera 72 [seconda sezione], del 5 giugno 1964: Contini, Gadda, Carteggio 1934-1963, pp. 192-3, a p. 192). Per «la mia novocaina, mon opium, mon alcool à moi», cfr. la lettera 9, del 2 agosto 1959, di Gadda a Pietro Citati: «Scusi questo sfogo dal pozzo di solitudine e disperazione in cui mi trovo: c’est mon alcool à moi» (C.E. Gadda, Un gomitolo di concause. Lettere a Pietro Citati (1957-1969), a cura di G. Pinotti, Con un saggio di P. Citati, Milano 2013 [Piccola Biblioteca Adelphi, 649], pp. 25-9, alle pp. 28-9, e cfr. p. 128 nota 75, dove si rimanda alle Quattro domande di un’inchiesta del dicembre 1957, raccolta in C.E. Gadda, «Per favore, mi lasci nell’ombra». Interviste 1950-1972, a cura di C. Vela, Milano 20072 [Piccola Biblioteca Adelphi, 318], pp. 52-6, in cui Gadda si scusa, tra l’altro, di «qualche gioco di parole (c’est mon alcool à moi)», p. 53). È da confrontare una lettera del 7 settembre 1942 di Contini ad Alberto Apponi, citata in Moretti, Documenti di una esperienza politica, pp. 700-1: «da qualche tempo, fo decine di chilometri a piedi, sotto il sole a picco, sperando di ricevere la gran mazzata; per stancare la bestia, per ubbriacarmi. Come ho cercato di spiegare a qualche esterrefatto, quello lì è il mio alcoolismo»; a sua volta, il passo ricorre in termini pressoché identici in una lettera di Contini a Lallo Russo del 29 agosto [1942]: «Ieri, tanto per cambiare, ho fatto ventiquattro chilometri a piedi sotto il sole a picco. È il mio alcoolismo, questo, la mia ubriachezza» («Il paesaggio d’un presentista», lettera 26, p. 50, e cfr. p. XXVIII). Per l’analoga circolarità di emballé(s) vd. più sopra. Notevole, d’altra parte, l’adozione ‘postuma’, da parte di Gadda, di un termine tecnico dell’estetica crociana come «fulgurazioni», presente nell’Introduzione alle Rime, per cui vd. oltre. 40
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A fronte della fedeltà gaddiana alle Rime, suona un po’ d’occasione, anche se di certo non insincero, il riscontro montaliano, da ricercarsi, almeno per quanto è delle lettere, nella cartolina di ringraziamento (e d’augurio) prenatalizia, da Firenze, del 21 dicembre 1939: Caro Trabujo, grazie del meraviglioso Dante. Sei un pozzo di scienza!!! Don Peppino De Rob. lo comprerà. Era disposto… ad ammetterti, l’altro giorno. Buon Natale. Vieni presto. Mi manchi. Hai visto il Pancrazi (sulle Occasioni)? Che te n’è parso?41
Fatto sta che, in quel densissimo autunno, oltre agli Esercizî e alle Rime di Contini erano uscite le Occasioni (per la precisione, il 14 ottobre: Contini accusa ricevuta, con parole memorabili, il 25 del mese)42. E dunque tutte le lettere Contini-Montale-Contini finiscono per gravitare, in quello scorcio d’anno, sull’argomento. Ma è notevole che Montale – del trittico enucleato da Gadda: Esercizî, Cinque poesie e Rime – sembri soffermarsi, nella cartolina del 24 novembre, con maggiore interesse sulle Cinque poesie (anche a Montale, diversi anni addietro, Contini aveva confessato d’essere «intriso nel peccato», e qualcosa, nella memoria del mittente, sembra riaffiorare): Trabujo, è una bella sorpresa per me – ma non tanto se ricordo un vecchio pot à fleur – vedere le tue poesie in Prospettive. Finora mi son piaciute di + le prime 2, forse perché + chiare a una prima lettura. Ma avrò bisogno di qualche schiarimento, p. es. sul legno di perigliose schegge. Per ora diranno che son le poesie di un critico (ma che vuol dire? E Sainte Beuve?) ma molti si morderanno la coda. Ti rileggerò, ti rileggerò… Ne hai molte? - […] E ora
Lettera XI (cartolina postale), del 21 dicembre 1939: Eusebio e Trabucco, pp. 59-60. «Pozzo di scienza» poteva essere riferimento giocoso abituale degli amici ‘fiorentini’, risalente al momento della prima conoscenza (ricorderemo il Contini «critico e poliglotta e pozzo di scienza a 22 anni», nella lettera di Gadda a Guarnieri del 12 maggio 1934, cit. più sopra). Le lodi di Montale suonano «generiche» anche a Lucchini, Postilla montaliana, a p. 165 nota 74, che segnala i passi dell’Introduzione che Montale sottolineò nella sua copia delle Rime del ’39. 42 Lettera XII, del 25 dicembre [1939]: Eusebio e Trabucco, pp. 51-3. 41
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riprenderò pian pianino i tuoi Esercizi di Lettura, nella speme di far buona figura in quel paesaggio lunare43.
Concluderà: «E presto dovrò esser geloso della tua Musa? O rabbia!». All’importanza, per lui, del riscontro di Montale, Contini allude in una lettera a Capitini del 26 novembre (giorno successivo a quello di ricezione della lettera di Eusebio)44: «Ieri è stata una bella giornata, in grazia di questo tuo atto e di due altri d’amicizia (uno di Montale) che hanno invaso le mie ore». Anche a Capitini decide allora d’inviare le Poesie. Per consentire a lui d’affacciarsi nel suo «centro»: «T’ho mandato un numero di rivista dove si cela, su giallissima carta, una sorpresa per qualche amico, per i “numerati”. Quest’invio vuole, nel momento, essere responsivo: consentirti qualche altro sguardo nel mio centro»45. Che questo sia, di fatto, il significato profondo, dalla parte del soggetto, di quella epifania poetica risalta dalla replica, immediata (dello stesso 26), a Montale: Quei 5 pezzi, di cui per il momento m’interessa poco l’eventuale ‘valorepoesia’, sono un’allusione (che negl’inediti è quasi sempre più diretta) alla lava che risiede sotto la crosta Esercizî + filologia romanza + grado IX ecc. Uncinarli e allinearli alla luce è stato per me, in un frangente biografico, una forma d’‘azione’46.
L’allusione al «grado IX», com’è stato di recente chiarito, attiene agli sviluppi della carriera scolastica di Contini, e allude dunque, in generale, all’attività professionale ‘pratica’ o docente47. Notevolissimo il
Lettera X (cartolina postale), del 24 novembre 1939: Eusebio e Trabucco, pp. 56-8, a p. 56 (e cfr. la nota a p. 57). 44 Il timbro in arrivo della cartolina di Montale è del 25: ibid., p. 284. 45 Lettera 48, del 26 novembre [1939]: Un’amicizia in atto, p. 73. 46 Lettera XIV, del 26 novembre [1939]: Eusebio e Trabucco, cit., pp. 58-9, a p. 58. Per le reazioni di Montale e di Gadda alla pubblicazione delle Cinque poesie, e per la replica di Contini, vd. P. Montorfani, «La realtà è che lei mi ha stimolato l’estro». Per un ritratto di Contini poeta, in Contini, Poesie, pp. IX-XXIV, alle pp. XV-XVII. 47 «Il paesaggio d’un presentista», p. XI nota 6: «Il “grado IX” al quale Contini fa qui riferimento è quello relativo alla carriera di insegnante liceale (era stato appena promosso, il 16 settembre 1939) e rinvia ovviamente a tutto l’ambito dell’insegnamento, sia pure con una sottolineatura burocratica». Cfr., anche per una valorizzazione del tema 43
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riferimento, tra il filosofico e l’‘etico-politico’, all’«azione»48. Nel nostro passo, «azione» ha certo la stessa coloritura di un luogo dell’importante Nota in calce ai Frammenti di un bilancio Quarantadue: «Per noi, hic et nunc, il lavoro immaginato persiste comunque a vivere nei termini della presenza-azione»49. Nell’insieme, è un passo di autoanalisi, in quel distretto temporale, lucido e significativo, anche per la lettura offerta, da parte del soggetto, del convergente manifestarsi al pubblico (e in pubblico) di Esercizî e Rime (queste sintetizzate nell’etichetta «filologia romanza») e, insieme, delle Poesie. 2. La lava che soggiace e si raggruma è metafora, a un tempo, del ribollire pre-scientifico (poetico)50 – che in un imprecisato «frangente biografico» si era reso necessario rendere ‘attuale’ (attraverso il gesto, oggettivante e distanziante, del richiamo in luce) – e dell’altrettanto imprescindibile, e intrinsecamente congiunto, processo di razionalizzazione ‘scientifica’. «Un modo di pubblicare un libro è senza dubbio quello di staccarlo quando sia diventato un oggetto (ob-jectum, Gegen-stand), separato abbastanza dalla nostra presenza per potergli girare intorno come a cosa elaborata dal mondo esterno»: parole che introducono al Congedo del traduttore nella raccolta di versioni poetiche da Hoelderlin, pubblicata
‘lavico’, D. De Martino, «Travasi segreti e personali». Sguardi sulla corrispondenza di Gianfranco Contini, «Moderna», 13, 1, 2011, pp. 37-45, a p. 40. 48 Cfr. M. Ciliberto, Contini, Croce, gli «scartafacci», in questi Atti, pp. 571-97, a p. 575 (anche in «Giornale critico della filosofia italiana», s. 7, 9, a. 92, 2013, pp. 277-301, e quale premessa a G. Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce, con un saggio di M. Ciliberto, Pisa 2013 [Variazioni, 9], pp. 5-43). Vd. anche, per le interferenze con il tema razionalismo/irrazionalismo, P. Leoncini, L’onestà sperimentale, «istante privilegiato» di Contini critico, in Gianfranco Contini. Tra filologia ed ermeneutica, a cura di P. Gibellini, P. Leoncini, I. Crotti, L. Milone = «Humanitas», N.S., 56, 2001, 5-6, pp. 804-35, alle pp. 816-7. 49 G. Contini, Frammenti di un bilancio Quarantadue, «Letteratura», 7, 2 (maggioagosto 1943), pp. 26-46: Bibl 43.07 (= AE, pp. 189-221, a p. 219). 50 Alla consapevolezza dell’esistenza di ‘altro’, che la pratica poetica di Contini richiamerebbe in superficie, allude con finezza Blasucci: «quel che colpisce è il bisogno di quest’altro modo di esprimersi, che getta qualche luce sul suo modo più noto, quello del filologo e del critico, per cui è stato grande. Dietro la filologia di Contini c’è dunque la consapevolezza di altro» (L. Blasucci, Pensieri su Contini, in Arma virumque… Studi di poesia e storiografia in onore di Luca Canali, a cura di E. Lelli, Pisa-Roma 2002, pp. 359-67, a p. 359).
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da Parenti (nella stessa «Collezione di “Letteratura”» degli Esercizî, questa volta nella serie di Poesia) nel 1941. Due poesie erano state anticipate in «Letteratura» nel 193951. L’attività peculiare del tradurre poetico costituisce una forma d’ideale mediazione («Quegli anni furono sotto il segno del Sentimento del Tempo; e, applicando, d’una ricerca di poesia documentabile e flagrante in ogni possibile testo»). «Giova ripetere che questo libretto è un fatto del fievole traduttore, più che del grande da cui trasse il pretesto», ribadirà chiudendo la Postilla alla ristampa del 198752. Un recensore acutissimo tanto degli Esercizî quanto delle Poesie di Hoelderlin (lette insieme a Un anno di letteratura), Claudio Varese, annotava: «il lettore, pur sapendo quanto fedele sia Contini all’esigenza della oggettività, può sentire in queste pagine la storia di una persona umana che nella critica si cerca e si forma»53. L’atto del pubblicare insiste dunque nel punto di convergenza di alcune nervature del pensiero continiano: presenza/distanza (attualizzazione, oggettivazione) dell’oggetto critico, identità (sincronica)/varietà (diacronica) dell’io nel tempo. «Con ciò, lo spirito dello scrittore contemporaneo non nega affatto il principio d’identità: esita a riconoscerlo negli atti, nei residui esterni del proprio operare; e quando egli pubblica, è forte probabilità ch’egli non sia rimasto in luogo, non est hic, vada cercato altrove rispetto al suo passato-maschera»: così, ancora, nel Congedo dalle poesie di Hoelderlin del 194154. Ed è il motivo stesso per cui, suggellando nel ’39 gli Esercizî, aveva dichiarato che apparivano al suo autore «come un libro postumo». Onde la domanda, nella riedizione del 1974: «Perché dunque dedicare, non si dice tanta, ma qualche cura a figli trattati senza trasporto? precisamente per indurire la loro natura oggettuale, come di sassi da gettare dietro le spalle». L’impazienza e il
51 Alcune poesie di Hoelderlin, tradotte da G. Contini, Firenze 1941 (Collezione di «Letteratura». Poesia): Bibl 41.02; poi Torino 1982: Bibl 82.02, e 1987 (Collezione di poesia, 194): Bibl 87.01; qui i luoghi cit. del Congedo, p. 55. Il «finito di stampare» della prima edizione è del «9-11-1941-XX». 52 Ibid., p. 63. 53 C. Varese, Contini critico e traduttore, «Lettere d’oggi», 4, 5 (maggio 1942-XX), pp. 30-2, poi in Id., Cultura letteraria contemporanea, Pisa 1951, pp. 401-4, sotto il titolo Gianfranco Contini (II), a p. 401. Sul «tradurre come fare poesia» in àmbito ermetico vd. ad es. il capitoletto di S. Pautasso, Ermetismo, Milano 1996, pp. 19-22. 54 Alcune poesie di Hoelderlin, p. 55.
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disinteresse verso quanto può considerarsi pertinente all’io-passato («io non amo il passato») trovano il loro corollario nella proiezione verso lo sperimentare ulteriore: «si j’aime ce que je fais, je n’aime guère ce que j’ai fait», scriverà a Theophil Spoerri, recensore delle Rime, nel gennaio 194155. «Mi disgusta il còndito e m’interessa solo il condendo», scriverà a Russo, che lo aveva richiesto di un curriculum (redatto «con qualche repugnanza come sempre quando si tratti di agitare il passato»), nel settembre 194256. Ritorneremo su entrambe le lettere. ‘Allineare alla luce’ le Cinque poesie (‘uncinarle’)57, equivalendo a una forma di ‘azione’, ha un effetto ‘oggettivante’, ma costituisce anche un’‘allusione’ alla «lava che risiede sotto la crosta». Nella recensione agli Esercizî di Claudio Varese (apprezzatissima dal recensito, che mediò per la sua pubblicazione in «Letteratura»: era stata proposta, in un primo tempo, a «Primato» da Giuseppe Dessì), il recensore, dopo aver definito Contini «romantico nel più giusto senso della parola: romantico nella ricostruzione spirituale dell’oggetto, romantico nell’esigenza dell’unità T. Crivelli, Attorno a Trivium: Spoerri, Contini, Béguin, «Archivio Storico Ticinese», 116 (dicembre 1994), pp. 223-30, a p. 224. Dichiarerà «io non amo il passato» nella lettera a Carlo De Matteis del 1° agosto 1974: C. De Matteis, Contini e dintorni, Lucca 1994 (L’Unicorno, 12), pp. 77-8, a p. 78. 56 «Il paesaggio d’un presentista», p. 45. Cfr. del resto la citata lettera ad Alberto Apponi del 7 settembre 1942: «vorrei dopo rifarmi una verginità scrittoria e ispirativa, perché insomma vorrei aver da fare, innanzi a me, solo lavoro-futuro, non questo faticoso lavoro-passato» (Moretti, Documenti di una esperienza politica, cit., p. 700). Per una versione più ‘pacificata’, vd. l’Avviso premesso a VAL, p. VII, nel quale annovera, tra le ragioni della renitenza a raccogliere i propri scritti, «quella che mantiene una sicura plausibilità, cioè che il tempo dedicato a raccogliere le vecchie carte è sottratto al vergarne di nuove». Anche in anni molto più tardi, nel proporre alla Einaudi (nella persona di Ernesto Ferrero, il 15 settembre 1985) la quarta raccolta dei suoi scritti scriverà: «benché non abbia troppo l’abitudine di stare a voltarmi indietro, mi pare che avrei materiale per un quarto volume della serie aperta da Varianti; volume che mi piacerebbe intitolare Ultimi esercizî ed elzeviri» (Villano, Gianfranco Contini nella «brigata dello Struzzo», p. 82). La possibile implicazione gentiliana di questa separazione dal ‘passato’ (sassi da gettarsi dietro le spalle, oggettivazione del passato dello spirito) è rilevata da A. Roncaglia, Ricordo di Gianfranco Contini, in G. Contini, La critica degli scartafacci e altre pagine sparse, Con un ricordo di A. Roncaglia, Pisa 1992, pp. VII-XXXV, alle pp. XXVIII-XXIX: «una volta raggiunti i risultati, Contini era pronto a staccarsi dai “prodotti”, denunciandone (e qui c’è forse una punta di gentilianesimo) “la natura oggettuale, come di sassi da gettarsi dietro le spalle”». 57 Sul valore di ‘uncinare’ vd. De Martino, «Travasi segreti e personali», p. 42. 55
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che raccoglie e insieme permette gli elementi così vari e vivi della sua critica», annotava con perspicacia: L’intelligenza di Contini nulla rifiuta, ma su tutto comanda; è analitica nel suo svolgimento, ma sintetica nella fedeltà al suo fine e al suo indirizzo. Lo stile lucido della sua pagina è costruito di questa intelligenza che, offrendo tanta ricchezza di appunti, di osservazioni, di richiami, costringe e tende tutto quanto a un fine; questa lucidità è sinonimo di questa tensione. Prosa logica, ma non tanto che non abbia il fascino di certi movimenti improvvisi, che a me pare richiamino il Cecchi, autore carissimo al Contini, del quale appunto – forse per una nascosta congenialità – Contini ha messo in rilievo due aspetti: il gusto di uno scrupoloso e tecnico specialismo, e il senso di un’ansia segreta e sempre vigilata58.
La razionalità ‘tecnica’, ‘specialistica’ dell’operazione critica (riverberata, a giudizio di Varese, nello ‘stile lucido’ della pagina) è «sinonimo» di tensione unitaria, ma tradisce anche il «senso di un’ansia segreta». Due anni più tardi, nella recensione congiunta alle traduzioni poetiche da Hoelderlin e a Un anno di letteratura, Varese ritornerà sul tema e lo approfondirà, vedendone la connessione con il problema della partecipazione critica di Contini all’ermetismo: «Nella nostra cultura idealista, Contini porta l’ansia arcana di un mondo irrazionale, naturale, anzi subnaturale, e insieme il virile impegno di riscattarlo in una dialettica sempre più comprensiva»59. Subito prima una notevole citazione dalla C. Varese, Recensione, «Letteratura», 14, 4, 2 (aprile-giugno 1940-XVIII), pp. 138-9, poi in Id., Cultura letteraria contemporanea, pp. 397-9, sotto il titolo Gianfranco Contini (I), a p. 397. Sulle vicende della pubblicazione del testo, e sull’importante lettera di Contini a Varese, del 13 aprile 1940, che ‘recensisce’, per dir così, la recensione ancora inedita, ritornerò in altra sede: ringrazio Fiammetta e Ranieri Varese per avermi generosamente consentito di leggere e studiare il testo. In A Giuseppe Dessí. Lettere editoriali e altra corrispondenza, a cura di F. Nencioni, con un’appendice di lettere inedite, a cura di M. Graceffa, Firenze 2012, p. 342 nota 2 alla lettera XXI (di Giorgio Cabella a Dessì, del 14 febbraio 1940) si legge che la recensione di Varese a Contini sottoposta a «Primato» avrebbe riguardato le Rime, ma è una svista: Varese, purtroppo, non recensì mai le Rime, e invece preparò per «Primato» la recensione agli Esercizî. 59 Varese, Gianfranco Contini (II), p. 402. Nei ricordi di un contemporaneo di poco più giovane, Ungarelli, queste le reazioni promosse dalla lettura degli Esercizî (il motivo della lava sotto la crosta è qui alluso nel riferimento al «diffuso magma governato dall’inconscio»): «A volte era come se il critico vivesse nella perenne tentazione di 58
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risposta di Contini all’inchiesta sull’ermetismo promossa nel 1940 da «Primato», e riprodotta in Un anno di letteratura (è il periodo conclusivo dell’intervento continiano)60: nella Risposta a una inchiesta sull’«ermetismo», Contini, che ha vissuto questa esperienza, ne chiede il perenne superamento, e insieme il riconoscimento, come di ogni necessaria forma dell’irrazionale: «Riformare l’“ermetismo” in momento necessario dell’esperienza, come si vorrebbe qui proporre, è, però, certo possibile solo dal punto di vista della dialettica. Una comprensione dell’irrazionale che non escluda la nostalgia del giudizio filosofico (una forma, anch’esso, di decisione!) ci sembra una posizione che salvaguardi meglio la radicale libertà dell’anima umana»61.
Vien fatto di pensare alla radicale ipostasi continiana del campione del razionalismo critico, Croce, come trionfatore dell’irrazionale («Il Croce dell’Estetica come quello del Contributo, il Croce senza specificazioni temporali, anche se talvolta gli accada di sembrare troppo fiducioso della raggiunta sicurezza, è un trionfatore, e dunque tributario, delle Madri, dell’irrazionale. Per questa sua costituzione dialettica, egli è padre e
sollevare, di schiudere una specie di pesante tenda – debole difesa – che separava la sua intelligenza da quell’enorme, diffuso magma governato dall’inconscio. La sua vigile coscienza, diciamo pure etica, gli consentiva però di regolare, governare la partita. Contini sapeva bene che cosa rappresentasse quel mondo oscuro, quel mondo della notte, ne conosceva i pericoli, le tentazioni continue, ma sapeva anche d’istinto che proprio in quei territori pericolosi erano celati, si potevano trovare, semi di conoscenza, altrimenti impossibili, succhi segreti di riflessioni altrimenti imperseguibili» (Ungarelli, Lettori di Contini, p. 530). 60 Parliamo dell’ermetismo, «Primato», 1, 7 (1 giugno 1940-XVIII), p. 10: Bibl 40.13 > Un anno di letteratura, Firenze 1942-XX (Quaderni di Letteratura e d’Arte, raccolti da Giuseppe De Robertis, Quaderno 3), pp. 145-50, sotto il titolo Risposta a un’inchiesta sull’«ermetismo»: Bibl 42.01 (seconda ed. 1946) (= EL, pp. 383-6, a p. 359). Emendo l’interpunzione della citazione di Varese a norma del testo originale di Contini. In una lettera a Giuseppe Dessì del 12 luglio 1942 Varese lamentava: «mi vedo anch’io trucidato dal tipografo nella mia recensione a Contini» (lettera 138, del 12 luglio 1942: G. Dessì, C. Varese, Lettere 1931-1977, a cura di M. Stedile, Roma 2002 [Novecento live, 4], pp. 201-2, a p. 202). 61 Varese, Gianfranco Contini (II), p. 402. Sul luogo continiano sono rilevanti le osservazioni di G. Langella, Poesia come ontologia. Dai vociani agli ermetici, Roma 1997 (La cultura, 70), in partic. pp. 55-6 (e l’intero contesto).
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complice di un’epoca nel complesso da lui fastidita e castigata»)62. Ma è lo stesso Varese a richiamare subito prima una ricostruzione di poco antecedente, e passibile d’interpretazione ‘autobiografica’, della dinamica irrazionale/razionale (anche nella prospettiva della riduzione a unità) nel maestro Bédier (il Ricordo di Joseph Bédier, uscito in «Letteratura» nel 1939 – è la prolusione di Friburgo –, era stato a sua volta ripreso in Un anno di letteratura): Direi che Contini, pur sempre ispirato nel suo giudizio critico dalla casta musa della distinzione, abbia teso con un favore più continuo a una dialettica che giustificasse e raccogliesse nella sua ricca unità tutte le forme. Sentendo l’esigenza non psicologica ma personale di questa dialettica, pensava senza dubbio a se stesso quando scriveva, a proposito del Bédier: «Noi non amiamo chi ha la viltà di non resistere al puro irrazionale e si lascia voluttuosamente percorrere dalla corrente magnetica: tra l’altro, perché finirà a voler provocare la corrente, e diventerà un meccanico o un logicista dell’irrazionale. Ma senza un poco di magnetismo, o di poesia, non si dà neppure scienza: e i temperamenti che ci sono cari sono quelli dialettici che razionalizzano l’irrazionale in una continua vicenda periodica, con i valori mettono ordine nella vita»63.
62 G. Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce, «Approdo letterario», n.s. 12, 36 (ottobre-dicembre 1966), pp. 3-32: Bibl 66.05 (con ulteriori rimandi) (= AE, pp. 31-69, a p. 42). 63 Varese, Gianfranco Contini (II), p. 402. La citazione deriva da G. Contini, Ricordo di Joseph Bédier, «Letteratura», 9, 3, 1 (gennaio 1939-XVII), pp. 145-52: Bibl 39.08 > Un anno di letteratura, pp. 114-32 (= EL, pp. 358-71, alle pp. 359-60). Anche in questo caso ritocco la citazione di Varese a norma del testo continiano (tra l’altro, «logicista» in luogo di «logista»). È indispensabile però citare il fondamentale contesto che precede la citazione di Varese: «La volta che ci asserì di sentirsi “le vieux rationaliste que je suis”, era per confessare, viceversa, come non potesse non scorgere, nonostante tutto, nella struttura di alcuni lais un certo surrealismo di Marie de France. Quanto egli accentuava e caricava questa presunta alogicità, tanto bovarysticamente pareva che avvertisse la sua propria venatura d’irrazionale. “Rationaliste”, il punto sta tutto qui» (tra le minime varianti della seconda rispetto alla prima versione del testo, notevole l’attenuazione «nella struttura di alcuni lais un certo surrealismo di Marie de France», che succede a «nella struttura di certi lais un surrealismo di Marie de France»). Lo stesso collegamento tra i due luoghi continiani è operato da un altro recensore di Un anno di letteratura, W. Binni, «Primato», 3, 8 (15 aprile 1942-XX), p. 157: «E nell’inchiesta sull’Ermetismo, dove egli tende a fare di questi un momento necessario dell’esperienza, la conclusione
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Nel luogo famoso in cui più tardi (la stesura, ma non la pubblicazione, del saggio risale al 1951) dichiarerà che «il solo modo di essere crociani è di essere postcrociani», giungerà a individuare nell’esistenzialismo (non quello dei dilettanti) e nello strutturalismo i soli due «elementi della fortuna crociana» (nei quali, a suo dire, sarebbe «molta distanza dal crocianesimo, non dal Croce») «atti a garantirne la continuità d’efficacia». Il primo elemento è «la premessa dell’“angoscia” come impulso alla tacitazione razionale, col permanere di “avventure” culturali razionalmente non in tutto risolte: il Gentile aveva perfettamente ragione di rivendicare all’idealismo italiano i fermenti esistenzialistici»64. Recensendo Un anno di letteratura, Varese non esitò a fare esplicito appello, nel definire la dialettica irrazionale/razionale di Contini, all’attualismo gentiliano: Il passato, la natura, l’irrazionale, debbono definirsi nella dialettica del presente, dello spirito, del razionale. Motivi che per brevità di espressione
precisa una posizione complessa, ricca, ideologicamente più indirizzata che delimitata (donde le possibilità e i pericoli): “Una comprensione dell’irrazionale che non escluda la nostalgia del giudizio filosofico (una forma, anch’esso, di decisione!) ci sembra una posizione che salvaguardi meglio la radicale libertà dell’animo umano”. Non dunque una posizione mistica chè nel “Ricordo di I. Bédier”, parlando del razionalismo più apparente che reale del grande filologo, Contini ci rivela ancora di se stesso: “Noi non amiamo …”» (con citazione integrale del passo fino a «mettono ordine nella vita»; anche in questo caso sono intervenuto nelle citazioni a norma del testo continiano). Di recente, ha fatto reagire questo luogo del Ricordo con il passo della lettera montaliana del 26 novembre 1939, dalla quale siamo partiti, De Martino, «Travasi segreti e personali», p. 40. All’importanza del passo citato da Varese aveva richiamato anche C. De Matteis, La critica di Gianfranco Contini o della lettura ‘pointilliste’, «La cultura», 11, 2, 1973, pp. 209-40; 11, 3, 1973, pp. 339-72, poi in Id., Contini e dintorni, pp. 8-74, alle pp. 62-3. Più di recente, Ungarelli, Lettori di Contini, p. 530. 64 Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce, pp. 66-7. Sull’intransigente anti-esistenzialismo in specie dell’ultimo Croce vd. Ciliberto, Contini, Croce, gli «scartafacci», in partic. pp. 592-4. Già nel 1944 Contini, in un passo notevole dell’Introduction à l’étude de la littérature italienne contemporaine, «Lettres», 2, 4, 1944, pp. 11-47: Bibl 44.03 (con ulteriori rimandi) (= AE, pp. 235-65, a p. 239), aveva sostenuto: «Il est hors de doute que même l’instance existentialiste s’inscrit en Italie dans les cadres de la tradition idéaliste». Cfr. la lettura dell’importante contesto proposta da Moretti, Documenti di una esperienza politica, pp. 720-1.
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chiamerei attualistici, si fanno sentire e corrono in questo libro […] e non solo perché riferendosi alla poesia del Saba, designa le cose come passato dello spirito, «secondo suona una famosa definizione del Gentile»65.
Il riferimento è a un passo di «Tre composizioni», o la metrica di Saba (risalente al 1934), non ammesso dal censore fiorentino alla stampa negli Esercizî, ma poi incluso («evidentemente moderato il giudizio ufficiale sull’imperfetta arianità del poeta») – come «vecchio esercizio» – nella prima edizione di Un anno di letteratura66. La citazione continiana, in effetti notevole, allude a un luogo importante della Filosofia dell’arte (cap. II, Il problema empirico), uscita in prima edizione nel 1931. Vi si discute, in prospettiva ovviamente idealistica, di un motivo essenziale anche nella prospettiva (nel ’34 ancora pienamente rosminiana) di Contini: quello di natura/spirito (passato/presente). E se per natura s’intende quella realtà che ci si rappresenta come anteriore e perciò condizionante l’attività dello spirito, e per attività dello spirito s’intende non quella che si è manifestata già o si può manifestare, ma quella che in atto si manifesta, e che è la sola infatti che importi, anzi la sola che propriamente si conosca, è chiaro che tutto ciò che noi diciamo vita spirituale perché fu spirituale, ormai fa parte piuttosto della natura; e quando noi ci sforziamo di intenderne l’essenza, il significato e il valore spirituale, non possiamo più considerarla come un passato, dobbiamo farla rivivere e ricreare nel presente. La natura insomma è il passato dello spirito; e in questo senso può dirsi empirica la conoscenza della natura, o del passato in quanto tale67.
Non saprei se direttamente alla recensione di Varese (1942), o a un comune sentire manifestatosi in quella recensione, alludesse Luigi Russo nel suo di poco posteriore ritratto critico del giovane Contini Varese, Gianfranco Contini (II), p. 402. G. Contini, «Tre composizioni», o la metrica di Saba, «Rivista rosminiana», 28, 1, 1934, pp. 65-9: Bibl 34.06 > Un anno di letteratura, pp. 87-97 (= EL, pp. 25-33): nel luogo in questione Contini scrive che andrebbe richiamato «tutto in generale il tono con cui ogni “passato dello spirito” (secondo suona una famosa definizione del Gentile) è assunto nella prima parte del Canzoniere» (p. 27). La citazione a testo circa l’«imperfetta arianità» proviene dall’Avviso a EL, p. VII. 67 G. Gentile, La filosofia dell’arte, Milano 1931, p. 25. 65 66
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(nell’ultimo paragrafo, Critica ermetica, del terzo e ultimo volume de La critica letteraria contemporanea, uscito nel gennaio 1943). In quel ritratto Russo, individuando nel «presentismo» la cifra del modo critico di Contini, introduceva un prudente distinguo: Quanto al Contini aggiungerò che non soltanto il suo linguaggio, ma anche la sua maniera di critica è nuova: un tentativo di aggredire l’opera d’arte nella sua sensibile, cioè corporale, costituzione, formale e linguistica, senza indulgere a preistorie morali o psicologiche. Non c’è un sentimento, per la sua estetica, che si faccia arte, ma l’arte è lì dinanzi, immemore del suo interno sentire, e tutta diventata sensibilità di forme e di vocabolario. Il poetare, se è vero poetare, non presuppone nulla dietro di sé: una forma di ideale presentismo assoluto, che qualche interprete ha avvicinato, e non so decidere se con ragione, all’attualismo gentiliano68.
Quale che sia il giudizio circa l’ascendenza filosofica (o, meglio, filosofico-teologica) più appropriata di tale attitudine antipsicologistica, che isola la «presenza» del testo (riconducendolo, per successive e concentriche implicazioni, al reticolo del reale), è indubbio che la caratterizzazione di Russo colga nel segno (lo stesso Contini, scrivendogli nel marzo 1943, commenterà: «la definizione di presentismo mi lusinga talmente, oltre a cogliere la mia vera tendenza, che vorrei solo meritarla più integralmente; io, che mi sembro talora anche troppo psicologistico, cui sembra spesso psicologistico un Gargiulo»)69. Come dimostra lo studio di De Giorgi, le radici, piuttosto che gentiliane, di tale «attualismo» (meglio, sintesismo) dovranno riconoscersi nel Rosmini. Discutendo della «riforma della dialettica hegeliana» promossa da
68 L. Russo, La critica letteraria contemporanea, vol. iii, Dal Serra agli ermetici, Bari 1943 (Biblioteca di cultura moderna, 372), paragrafo conclusivo del cap. XIV. Critici letterari del Novecento (Parte seconda), prima dell’Epilogo provvisorio e dell’Appendice, pp. 241-57, a p. 246. A un lievito gentiliano nella genesi della ‘critica delle varianti’ (nel saggio ariostesco del 1937) accenna Roncaglia, Ricordo di Gianfranco Contini, pp. XV-XVI. 69 Lettera 34, del 18 marzo [19]43: «Il paesaggio d’un presentista», pp. 60-2, a p. 60 (con ampia annotazione); e cfr., sul presentismo, pp. XXXI-XXXIII (e già D. De Martino, Verso la concordanza degli scritti di Gianfranco Contini, in Gianfranco Contini. Tra filologia ed ermeneutica, pp. 747-56, alle pp. 748, 754). Notevoli però le considerazioni di De Giorgi, Contini nel mondo rosminiano, pp. 651-2.
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Croce, avrebbe scritto lo stesso Contini che la «linearità» di Hegel «è corretta mediante la circolarità di Vico depurata dell’idea di ricorso (“circolo solido”, avrebbe detto un filosofo caro al “teologizzante” Gentile, ma non al Croce, Rosmini)»70. La «presenza» implica, d’altra parte, il processo critico di «oggettivazione». E varrà la pena di confrontare un luogo del saggio su Serra e l’irrazionale (del 1948), in cui, come accade, e spesso accade in Contini, nelle fattezze del ritratto sembrano almeno in parte specchiarsi – rivelatore è l’affacciarsi del termine «auscultazione» – le fattezze del ritrattista (anche se evidente è la contemporanea presa di distanze): Ora, di questi e degli altri iati irrazionali la ragione è nel bisogno di totalità della critica di Serra, che sorge dal fatto stesso di proporsi il testo puro, vicinissimo; la sua irriducibile, inesauribile oggettività induce il critico a più e più tentativi di tangenza, fino a portarlo a un composito risultato provvisorio preso piuttosto di lontano, nel quale la componente essenziale, l’auscultazione dell’opera, finisce per diventare uno degli ingredienti; rinunciando (ma rinunciando per una sorta di necessità interna) a un sistema di lettura perfettamente chiuso, Serra apre la forma del suo «genere», e lo lascia in crisi. Frattanto, preso nelle reti del pensiero, l’oggetto svela implicazioni che vengono man mano coinvolgendo l’intera realtà71.
70 Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce, p. 47. Per la teoria rosminiana del «circolo solido» vd. ancora De Giorgi, Contini nel mondo rosminiano, pp. 639. Quanto alle origini rosminiane dell’antipsicologismo continiano cfr. anche G. Pozzi, Dittico per Contini, in Id., Alternatim, Milano 1996 (Il ramo d’oro, 29), pp. 527-74, a p. 573. Crociana la paternità dell’aggettivo «teologizzante» riferito a Gentile: «M. Croce, adversaire acharné de la métaphysique, gratifiait la pensée de son rival de l’épithète de “théologisante” (car l’idéaliste Croce est, d’après une spirituelle boutade de notre ami Montale, le plus grand des positivistes)» (Contini, Introduction à l’étude de la littérature, p. 238). 71 G. Contini, Serra e l’irrazionale, in Scritti in onore di Renato Serra, Milano 1948 (Collana di saggi critici, 4), pp. 81-113: Bibl 48.03 (con ulteriori rimandi) (= AE, pp. 77-100, a p. 93). Vd. anche F. Curi, Croce, Serra, Contini, in Riuscire postcrociani senza essere anticrociani, pp. 69-89, in partic. pp. 87-8: qui è citato un altro luogo rilevante, in prospettiva continiana (storia «passata», «cosa in sé», oggetto, azione), del saggio: «Su questo terreno della storia, che in quanto storia “passata” contiene una “cosa in sé” somigliantissima all’oggetto della critica (riduzione della storia sotto il concetto generale dell’arte, proprio come agli inizî della filosofia crociana!), ma in quanto storia
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L’attitudine del «presentista» comporta del resto una reinterpretazioneappropriazione dell’idea di «contemporaneità», non estranea al «teorema» crociano della contemporaneità di ogni storia (teorema da Contini in più d’un’occasione, e sempre en vedette, richiamato). Leggere l’oggi alla luce del passato, e viceversa, è una sorta di metaforizzazione obbligata, dotata di valore conoscitivo (come, sul piano della forma, dotato di valore gnoseologico è lo stile)72. Le ultime parole della Nota al testo delle Rime, e cioè – prima degli apparati di sussidio – le ultime parole del libro, sono di richiamo all’orbita del presente-presenza (significativamente individuato in termini di «poetiche»), e in questa chiave giustificano l’Introduzione: «L’introduzione vorrebbe orientare rapidamente il lettore sul modo di leggere prodotti tanto remoti dalle nostre poetiche»73. È un’attitudine che anticipa l’incipit famoso di Dante come personaggio-poeta della «Commedia» (la lettura è del 1957), nel quale, deducendo dal «teorema» crociano, si propone alla dantistica, per illuminare la funzione del personaggio che dice «io», l’adozione ‘anacronistica’ della «metafora» Proust: Ogni storia è storia contemporanea, suona un famoso teorema crociano. Se questa impostazione è corretta, non cadrà necessariamente nell’anacronismo ogni tentativo di richiamarsi all’attualità per illuminare eventi di culture sopite o remote. Anche al dantista, forse, non è illecito uno speditivo ricorso a codesto artificio. L’assunto generale, oggi, è di sottolineare
“futura” suscita il problema dell’azione, si compie il transito di Serra letterato fuori della letteratura» (AE, p. 98). 72 Di metaforizzazione critica, non soltanto sul piano formale (questo, si sa, è un tópos dell’interpretazione del linguaggio continiano), parla anche O. Macrì, Note sullo stile continiano, «Microprovincia», n.s., 35, 1997, pp. 9-18. Un significativo panorama di ‘metaforizzazioni’ di autori duecenteschi attraverso la comparazione con autori e movimenti novecenteschi (e viceversa) offre Roncaglia, Ricordo di Gianfranco Contini, pp. XXII-XXIII. 73 Su questo, come su altri punti cruciali dell’esperienza continiana negli anni Trenta, è fondamentale la lettura degli Esercizî proposta da R. Antonelli, in Letteratura italiana. Le Opere, 4, Il Novecento, 2. La ricerca letteraria, Torino 1996, pp. 339-406 (nel quadro di una «lettura» capillarmente interconnessa, si segnalano, tra l’altro, sulla «presenza», il § Antico e moderno, pp. 347-50, e, sull’«attualizzazione», il § «Non amo il passato»: l’«attualizzazione» e la «charitas», pp. 358-62). Per il richiamo della massima crociana nel contesto ‘proustiano’ vd. anche Lucchini, «Varianti e altra linguistica», p. 97; e cfr. Id., Contini e la scelta degli scritti desanctisiani, p. 87.
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un connotato del personaggio che dice «io» nella Divina Commedia. Ma enunciare il tema a questo modo è già usare o abusare, ad altri fini ermeneutici, d’una cellula linguistica nata nel tessuto della critica sui moderni. Marcel Proust, voglio dire, serve di metafora per un discorso non del tutto elementare su Dante74.
È, in effetti, l’intera Introduzione alle Rime (giudicata da Lucchini uno degli scritti «più tipici del Contini più vicino all’ermetismo») a insistere sulla necessità di un’appropriata caratterizzazione dello sperimentalismo lirico di Dante attraverso un confronto con le moderne «poetiche»75. Penso, in specie, al luogo cruciale in cui si oppone all’individualismo romantico (non quello ripetitivo dei minori, riscontrabile anche nei simbolisti e nei surrealisti minori) l’«intercambiabile» solidarietà stilistica degli stilnovisti, traendone non occasionali induzioni di ordine gnoseologico circa il principio d’identità e la «proprietà» letteraria (con risvolti, in prospettiva attribuzionistica, che precorrono l’ultimissimo Contini):
G. Contini, Dante come personaggio-poeta della «Commedia», «Approdo letterario», n.s., 4, 1 (gennaio-marzo 1958), pp. 19-46: Bibl 58.02 (con ulteriori rimandi) (= VAL, pp. 335-61, a p. 335; anche: Contini, Un’idea di Dante, pp. 33-62). Mi sembra importante confrontare questo luogo assai noto con un passo, di un anno precedente e quasi esplicativo dell’altro, tratto dalla rec. ai Dante Studies di Charles S. Singleton, apparsa in «Romance Philology», 9, 1956, pp. 463-7: Bibl 56.06 > Contini, Un’idea di Dante, pp. 217-24, sotto il titolo Un libro americano su Dante, a p. 218: «il filologo non dimette la prospettiva e, per dir così, la stereoscopia storica, dove il critico, in quanto tale, attira alla sua modernità, con perenne e costitutivo anacronismo. Data questa contemporaneità, si può anzi congetturare l’aiuto che a intendere le poetiche analogiche del medio evo possono fornire i successori del simbolismo, mettiamo, per restare nell’est americano, Pound ed Eliot: benché meglio si citerebbero grandi fatti della narrativa postromantica, da Melville a Kafka». 75 Per questo ritengo si possa attenuare l’impressione di Lucchini, il quale, nella sua preziosa disamina di Varianti, pur giudicando l’Introduzione «fondamentale» per l’interpretazione dantesca di Contini, ne scrive: «In questa prospettiva, l’Introduzione alle Rime di Dante (1938), il testo più antico e uno dei più tipici del Contini più vicino all’ermetismo, pur essendo fondamentale per la sua interpretazione della lirica dantesca, contraddistinta da uno strenuo sperimentalismo e pertanto irriducibile alla nozione unitaria di canzoniere, rischia di apparire meno importante di altri per cogliere l’essenziale del suo approccio critico a Dante, all’insegna della contemporaneità» (Lucchini, «Varianti e altra linguistica», p. 103). 74
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Nella pratica del fatto poetico, la tendenziale indifferenziazione dei rimatori, il loro disinteresse o rifiuto a sottolineare la distinzione delle individualità sono fatti un po’ ostici alla comprensione della mentalità occidentale dopo l’esaltazione soggettivistica recata dal grande romanticismo europeo. Poiché non si tratta di quella equiparabilità involontaria che renderebbe aspramente difficile l’attribuzione delle opere, se anonime, anche dei minori romantici, dell’accezione sentimentale o storico-nazionale, e più tardi dei simbolisti minori e oggi dei surrealisti minori; e non si tratta solo della poetica oggettiva dei periodi «classici» (l’esigenza dell’«Hic est» l’afferma, nell’antichità, Marziale, proprio un autore d’epigrammi...), ma di qualcosa di più risoluto, perché il classico crede da buon operaio a un canone di ars, lavorativo, e lo stilnovista crede a un’ispirazione assoluta, si tiene, secondo l’espressione dantesca, stretto con l’ali al dittatore, Amore. L’intercambiabilità frequente delle attribuzioni nei manoscritti, la circostanza che entro certi confini, in mancanza di sicure attestazioni documentarie, i dati stilistici non sarebbero sufficienti a una «perizia» distintiva circa alcune coppie d’autori, sono il pallido riflesso esterno d’un’intercambiabilità, prima ancora, teorica. Lo spartiacque fra Dante e Cino, per citare un caso tipico (e prescindendo dalle circostanze che resero possibile lo scambio, ma frattanto non avrebbero potuto agire così largamente fuori del medio evo), è tutt’altro che sicuro. Incertezza giuridica – è addirittura truistico sottolinearlo – che vale quanto inessenzialità della proprietà e dell’individuo76.
In altri termini, anche in questo precoce e instaurante modello di annotazione «scientifica», ciò che sembra contare, per il suo autore, è il ‘presentismo’ dell’operazione critica, la cui efficacia (‘pedagogica’) è funzione sì della storicizzazione contrastiva dei punti di vista: ma angolando da quello della contemporaneità (modernità). Era trascorso poco meno di un ventennio da quando Eliot – il «più illustre dei poeti inglesi d’oggi» – concludeva il saggio Euripides and Professor Murray (raccolto nel 1920 in The Sacred Wood) dichiarando: «We need an eye which can see the past in its place with its definite differences from the present, and yet so lively that it shall be as present to us as the present»77.
Rime, ed. 1939, pp. 13-4 (= VAL, p. 324). Nella ristampa in VAL, «stretto con l’ali al dittatore» è corretto, o meglio disambiguato, in «stretto con la sua penna al dittatore» («Io veggio ben come le vostre penne | di retro al dittator sen vanno strette», Pg XXXIV 58-59). 77 T.S. Eliot, The Sacred Wood. Essays on Poetry and Criticism, London 1920, pp. 76
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All’Eliot dantista (l’Eliot del Dante del 1929) Contini fa esplicito riferimento, com’è noto, nell’Introduzione (p. 15). Nel passo che immediatamente introduce a quello citato da Contini («non appena egli ha negato che il “romanzo” dantesco possa avere l’odierno significato di confessione»), Eliot si premura di avvertire il lettore di come la ‘ricetta’ dell’autobiografismo allegorico dantesco non sia correttamente interpretabile alla luce dei parametri, moderni, del lettore di Rousseau (così, poco dopo, metterà in guardia il lettore inglese della Vita nova dallo scambiarla per «a piece of Pre-Raphaelite tapestry»): It appears likely, to anyone who reads the Vita Nuova without prejudice, that it is a mixture of biography and allegory; but a mixture according to a recipe not available to the modern mind. When I say the ‘modern mind’, I mean the minds of those who have read or could have read such a document as Rousseau’s Confessions. The modern mind can understand the ‘confession’, that is the literal account of oneself, varying only in degree of sincerity and self-understanding, and it can understand ‘allegory’ in the abstract. Nowdays ‘confessions’, of an insignificant sort, pour from the press; everyone met son cœur à nu, or pretends to; ‘personalities’ succeed one another in interest. It is difficult to conceive of an age (of many ages) when human beings cared somewhat about the salvation of the ‘soul’, but not about each other as ‘personalities’78.
L’idea che «the past should be altered by the present as much as the present is directed by the past», in quanto il senso storico comporta la percezione «not only of the pastness of the past, but of its presence», e una sorta dunque di simultaneità assoluta, o attuale, era stata d’altra parte espressa sempre da Eliot, nel 1919, in un luogo notevolissimo del saggio Tradition and the Individual Talent, a sua volta raccolto, l’anno successivo, in The Sacred Wood: the historical sense involves a perception, not only of the pastness of the past, but of its presence; the historical sense compels a man to write not merely
64-70, a p. 70 (significativo, dal nostro punto di vista, anche il periodo immediatamente successivo: «This is the creative eye; and it is because Professor Murray has no creative instinct that he leaves Euripides quite dead»). 78 T.S. Eliot, Dante, London 1929 [The Poets on the Poets, 2], pp. 62-3, all’interno del cap. III: The «Vita Nuova», pp. 61-9.
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with his own generation in his bones, but with a feeling that the whole of the literature of Europe from Homer and within it the whole of the literature of his own country has a simultaneous existence and composes a simultaneous order. This historical sense, which is a sense of the timeless as well as of the temporal and of the timeless and of the temporal together, is what makes a writer traditional. And it is at the same time what makes a writer most acutely conscious of his place in time, of his contemporaneity79.
Il poeta, l’artista, e la sua opera, s’inscrivono in una rete di relazioni (di tipo, verrebbe fatto di dire, ‘strutturale’, anche se la parola non è in Eliot) che conferiscono loro significato. E l’apparizione di un’opera nuova determina, anche a ritroso, un riaggiustamento dei rapporti, e dei valori, di antico e nuovo: No poet, no artist of any art, has his complete meaning alone. His significance, his appreciation is the appreciation of his relation to the dead poets and artists. You cannot value him alone; you must set him, for contrast and comparison, among the dead. I mean this as a principle of æsthetic, not merely historical, criticism. The necessity that he shall conform, that he shall cohere, is not one-sided; what happens when a new work of art is created is something that happens simultaneously to all the works of art which preceded it. The existing monuments form an ideal order among themselves, which is modified by the introduction of the new (the really new) work of art among them. The existing order is complete before the new work arrives; for order to persist after the supervention of novelty, the whole existing order must be, if ever so slightly, altered; and so the relations, proportions, values of each work of art toward the whole are readjusted; and this is conformity between the old and the new. Whoever has approved this idea of order, of the form of European, of English literature, will not find it preposterous that the past should be altered by the present as much as the present is directed by the past80.
A distanza di molti anni dall’Introduzione alle Rime, in un luogo assiomaticamente riepilogativo – la voce Filologia compilata nel 1977 per l’Enciclopedia del Novecento –, Contini concluderà il paragrafo
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Id., The Sacred Wood, pp. 42-53, a p. 44. Ibid., pp. 44-5. Il passo è il diretto seguito di quello precedentemente citato.
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proemiale (La filologia nella storia della cultura) rivendicando, non senza un elegantemente mascherato accenno autobiografico («la quota di autobiografismo inevitabile nel critico, anzi costitutiva»)81, il «problematismo esistenziale» della filologia moderna (quanto valeva per la critica vale ora anche per la filologia), immersa nell’aporia dell’allontanamento dall’oggetto – «costruzione di un ‘passato’» – e della riproposizione della sua «presenza» (con richiamo, ancora una volta, al «teorema» crociano): La filologia come disciplina storica si rivela sempre più acutamente involta, non si dirà nell’aporia, ma nella contraddizione costitutiva di ogni disciplina storica. Per un lato essa è ricostruzione o costruzione di un ‘passato’ e sancisce, anzi introduce, una distanza fra l’osservatore e l’oggetto; per altro verso, conforme alla sentenza crociana che ogni storia sia storia contemporanea, essa ripropone o propone la ‘presenza’ dell’oggetto. La filologia moderna vive, non di necessità inconsciamente, questo problematismo esistenziale82.
«Definire nella storia è definire nella nostra storia»83. È stato notato che, nell’Introduzione alle Rime, l’esplicito richiamo a Eliot (un «lettore intelligente» di Dante) sembri fatto apposta per gettare il sasso nello stagno della dantistica italiana84. Dal «mondo umbratile dei dantisti» (così nell’Introduzione, scorporando da quel mondo, con ammirato risalto, il Parodi), dalla sua clausura autoreferenziale e liturgica, Contini – destinato a diventare in facto il massimo dei dantisti
Lettera di Gianfranco Contini a Carlo De Matteis, del 22 marzo 1974 (De Matteis, Contini e dintorni, pp. 75-7, a p. 75). Per il critico che «fa dell’autobiografia» cfr. anche Ciliberto, Contini, Croce, gli «scartafacci», in part. p. 582. 82 G. Contini, Filologia, in Enciclopedia del Novecento, 2, Roma 1977, pp. 954-72, a p. 955: Bibl 77.03, poi in Breviario di ecdotica, Milano-Napoli 1986 (rist. Torino 1990 e 1992), pp. 3-66, a p. 5. 83 Id., Preliminari sulla lingua del Petrarca, «Paragone», 2, 16, 1951, pp. 3-26: Bibl 51.01 (con ulteriori dettagli) (= VAL, pp. 169-92, a p. 170). Il maiuscolo è nell’originale. 84 Per il «sasso nello stagno» eliotiano, vd. C. Segre, Contini uno, due e tre, in Gianfranco Contini vent’anni dopo, pp. 7-17, a p. 10. Per il «lettore intelligente», vd. la nota ai vv. 9-10 del son. 74 (D. VIII), Nulla mi parve mai crudel più cosa («Un lettore intelligente, l’Eliot, scrive che Dante “deve più a Ovidio che a Virgilio”»: Rime, ed. 1939, p. 198). 81
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italiani novecenteschi, e il tutore ufficiale, per un lungo arco di tempo, degli studi danteschi in Italia – marcherà sempre una sorta d’ironico distacco: a sottolineare come il suo dantismo fosse, se non estraneo, programmaticamente esterno, o travalicante la dantistica85. Ma è altrettanto vero che è necessario restituire la citazione di Eliot al contesto, paramontaliano (tra «occasioni» e «correlativo oggettivo»), che sembra generarla (con richiamo, ancora una volta, alla necessità di astrarre, nel valutare la spersonalizzazione ‘rappresentativa’ propria della poetica stilnovistica, dalla «nostra formazione romantica di moderni, educati al culto estetico di reazioni soggettive»)86: Il luogo dell’Introduzione nel quale è ricordato il Parodi (Rime, ed. 1939, p. 10 = VAL, pp. 320-1) sarà cit. per esteso più oltre. Dei numerosi accenni, tra l’ironico e il riduttivo, rivolti alla dantistica tradizionale, si veda ad es., nella chiusa di Un’interpretazione di Dante (1965): «e, per dir tutto, lo stesso esoso dantismo lo lascia illeso» (VAL, pp. 369405, a p. 405: l’illeso è lo stesso Dante!); in Filologia ed esegesi dantesca (1965): «Invece che gli esercizî di enigmistica o le ricerche di “chiavi” proprie del dantismo tradizionale, le operazioni del dantismo moderno sono: verifiche puntuali […]» (VAL, pp. 407-32, a p. 410); nello stesso saggio: «Apro infatti una parentesi per confessare che tale opinione, la quale suscita il compatimento dei dantisti, mi sembra la più congrua alla situazione culturale» (ibid., p. 418); in Pretesto novecentesco sull’ottocentista Giovanni Faldella (1947): «il Dante in tensione soprattutto dell’ultimo Purgatorio e del Paradiso, tolto dal remoto altare su cui lo pose l’insipiente contenutismo dei dantisti iniziatici» (VAL, pp. 567-86, a p. 573). E si potrebbe continuare. 86 Il passo non è tra quelli sottolineati da Montale nella sua copia dell’ed. 1939: vd. Lucchini, Postilla montaliana, a p. 165, nota 74. Spunti importanti sul nesso MontaleContini-Dante nei tardi anni Trenta in Z.G. Barański, The Power of Influence: Aspects of Dante’s Presence in Twentieth-Century Italian Culture, «Strumenti critici», 20, n.s. 1, 3, 1986, pp. 343-76, in partic. alle pp. 359-68. Molto notevole è l’affermazione di Mengaldo secondo la quale, «se è vero che l’interpretazione continiana delle Rime dantesche risente della familiarità con la poesia, in particolare, di Montale, è anche vero all’inverso che l’uscita del commento di Contini all’opera dantesca (1939, stesso anno delle Occasioni!) ha contato qualcosa per il Montale di Finisterre e poi della Bufera» (P.V. Mengaldo, Preliminari al dopo Contini, «Paragone. Letteratura», 41, 1990, n.s. 19 [480], pp. 3-16, poi in Id., La tradizione del Novecento, Terza serie, Torino 1991 [Einaudi Paperbacks, 216], pp. 159-73, alle pp. 165-6). A «correlativi oggettivi» in proposito delle Occasioni Contini alluderà nel 1956 in Montale e «La bufera», «Letteratura», 24, n.s. 4, 1956, pp. 31-41: Bibl 56.03 (= AE, pp. 145-57, a p. 151; anche in Contini, Una lunga fedeltà, pp. 77-94): «Sono oggetti, molto simili […] ai “correlativi oggettivi” di Eliot, che sono “equivalenti” di stati d’animo» (soggiungendo: «L’affinità, largamente spontanea, a Pound ed Eliot è un po’ velata dall’appartenenza iniziale anche di questi maestri ai settori d’avanguardia»). Si segnalerà che la prima traduzione italiana di The Sacred 85
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E se si estende man mano il campo d’osservazione, si constata che l’intera esperienza dello stilnovista è spersonalizzata, si trasferisce in un ordine universale: persa qualsiasi memoria delle occasioni, cristallizza immediatamente. In un modo piuttosto elementare ed empirico (ma si parte proprio dalla terra classica dell’empirismo), questa verità è stata esposta come segue dal più illustre dei poeti inglesi d’oggi, non appena egli ha negato che il «romanzo» dantesco possa avere l’odierno significato di confessione: «È difficile concepire un’epoca, o più epoche, in cui degli esseri umani avevano qualche preoccupazione per la salute dell’‘anima’, ma non già l’uno per l’altro in quanto ‘personalità’. Ora, Dante, io credo, aveva esperienze che gli sembravano d’una certa importanza; non importanti perché capitate a lui e perché lui, Dante Alighieri, fosse una persona importante che teneva occupati gli uffici di ritagli giornalistici; ma importanti in sé; e perciò gli pareva che avessero certo valore filosofico e impersonale» [T. S. Eliot, Dante, p. 63]. È sempre utile tener presente la nostra formazione romantica di moderni, educati al culto estetico di reazioni soggettive che s’offrono ignude; per misurare quanto, al confronto, lo stilnovista le rappresentasse, figurativizzasse. Un sistema, per così dire, plastico di rapporti tra cose è il solo modo col quale, per lui, tollerino di ordinatamente esprimersi gli oggetti del suo sogno: quello che recentissimi, e un po’ eccentrici, lettori anglosassoni, partendo dalle premesse che si son lette, esprimono con la suggestiva formula del «correlativo oggettivo». Curandosi solo che la figurazione non sia irrelata e poco preoccupandosi del concreto soprasenso, tali estrosi interpreti saranno esegeticamente insufficienti; in pratica, tuttavia, un esercizio di traslitterazione della figurazione oggettiva stilnovistica negli schemi della rappresentazione soggettivistica di tipo «romantico» può servire, oggi, pedagogicamente a mostrare il significato di quell’incarnazione in termini plastici87.
Il «più illustre dei poeti inglesi d’oggi» finisce per mimetizzarsi e confondersi in una serie plurale di «recentissimi, e un po’ eccentrici, lettori anglosassoni» («tali estrosi interpreti», immediatamente dopo): ma che sempre di lui si tratti denuncia la «formula» (termine significativo Wood (contenente il saggio in cui si evoca il «correlativo oggettivo»), uscirà nel 1946, in una collana diretta da Alfonso Gatto, e il saggio introduttivo – datato «marzo 1945» – di Luciano Anceschi (autore anche della traduzione) è dedicato «a Eugenio Montale»: T.S. Eliot, Il bosco sacro. Saggi di Poesia e di Critica, con uno studio di L. Anceschi, Milano 1946 (Libri di cultura, 3), p. 13. 87 Rime, ed. 1939, pp. 14-5 (= VAL, pp. 325-6).
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se ricondotto al contesto originale) del «correlativo oggettivo», nata in ambito shakespeariano (nel saggio Hamlet and His Problems, del 1919, raccolto anch’esso in The Sacred Wood): The only way of expressing emotion in the form of art is by finding an “objective correlative”; in other words, a set of objects, a situation, a chain of events which shall be the formula of that particular emotion; such that when the external facts, which must terminate in sensory experience, are given, the emotion is immediately evoked88.
Soltanto nel ’42 il Dante di Eliot, con altri due saggi del medesimo ambito, apparirà in italiano per Guanda nella traduzione di Luigi Berti, traduttore, nello stesso anno, anche di una raccolta delle Poesie (nel Dante firma una prolissa e inconcludente Nota del traduttore)89. Nell’Introduzione alle Rime Contini cita dunque (e traduce) di prima mano. Il Dante era uscito nel ’29 come secondo numero della serie «The Poets on the Poets» di Faber & Faber, e sarà riproposto nel ’32 nei Selected Essays. 1917-193290. È verosimile che la curiosità continiana per
Eliot, The Sacred Wood, pp. 87-94, a p. 92. T.S. Eliot, Dante, a cura di L. Berti, Modena 1942 (Collana di cultura, 2); la Nota del traduttore alle pp. 13-28. Sulla traduzione vd. L. Caretti, T.S. Eliot in Italia. Saggio e bibliografia (1923-1965), Bari 1968 (Biblioteca di studi inglesi, 10), pp. 89-92 (nella bibliografia non si allude alla citazione di Contini). Ariosa e intelligente è la Prefazione a T.S. Eliot, Scritti su Dante, A cura di R. Sanesi, Milano 20093 (Tascabili Bompiani, 30), pp. VII-XVII. Scrive Ungarelli a proposito delle Rime, ed. 1946: «che felice sorpresa fu per noi ritrovare nella introduzione alle Rime di Dante, quella bella e un po’ provocatoria (chissà che meraviglia e che scandalo per i dantisti tradizionali!) tarsia tratta dal saggio Dante del “più illustre dei poeti inglesi d’oggi T.S. Eliot”, con dentro tutto quel gusto empirico proprio della tradizione anglosassone. Quel saggio eliotiano già si trovava nella nostra pur povera, anche se amatissima, raccolta di libri, magari allineata su un vecchio cassettone o in mucchietti per terra, nell’edizione Guanda del 1942 curata da Luigi Berti» (Ungarelli, Lettori di Contini, p. 527). 90 Così suona nell’originale il passo tradotto da Contini: «It is difficult to conceive of an age (of many ages) when human beings cared somewhat about the salvation of the ‘soul’, but not about each other as ‘personalities’. Now Dante, I believe, had experiences which seemed to him of some importance; not of importance because they had happened to him and because he, Dante Alighieri, was an important person who kept press-cutting bureaux busy; but important in themselves; and therefore they seemed to him to have some philosophical and impersonal value» (Eliot, Dante, p. 63). 88 89
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lo scritto sia stata stimolata dal saggio che nel 1937 Mario Praz aveva dedicato, in «Letteratura», a Eliot e Dante (via Pound)91. È certo, d’altra parte, che l’incontro con padre Pierre (al secolo Jean) de Menasce, il coltissimo teologo domenicano che a Friburgo intraprese la carriera accademica nello stesso anno di Contini, divenendone subito amico (fu lui, tra l’altro, a introdurlo a Benveniste), avrà inevitabilmente richiamato il tema del dantismo di Eliot92. Jean de Menasce – «jew convertito Dante è anche il titolo del saggio dantesco che conclude The Sacred Wood, pp. 144-55; saggio che esordisce – anche se per prenderne rispettosamente le distanze – nel nome di Valéry. 91 M. Praz, T.S. Eliot e Dante, «Letteratura», 3, 1, 3 (luglio 1937-XV), pp. 12-28. Il saggio, debitamente citato nella Bibliografia essenziale in calce alle Rime, ed. 1939, p. 228 (ma nella prima versione il riferimento doveva essere esplicitato nell’Introduzione, come si evince dalla cit. lettera di Leone Ginzburg del 27 giugno 1938), sarà raccolto in M. Praz, Machiavelli in Inghilterra e altri saggi, [Roma] 1942 (Nuova Biblioteca Italiana, 8), pp. 239-67; più tardi in Id., Machiavelli in Inghilterra e altri saggi sui rapporti letterari anglo-italiani, Firenze 1962, pp. 337-64. Che il testo avesse suscitato, in ambito ‘ermetico’, interesse è indirettamente confermato da una lettera in cui Carlo Bo scrive, il 29 ottobre [1940], a don Giuseppe De Luca: «Avrei a suo tempo da suggerirti un traduttore del Dante di Eliot. Che ne diresti? beninteso a cose finite, al tempo della pace» (C. Bo, G. De Luca, Carteggio. 1932-1961, a cura di M. Bruscia, Roma 1999, pp. 210-1 n. 209, a p. 211). Come si è visto, la prima traduzione italiana, del Berti, uscirà invece da Guanda nel 1942. 92 «Il mio “primo amico” degli anni friburghesi fu un teologo, il padre domenicano Pierre de Menasce. Era titolare di Missiologia, che Giorgio Pasquali, uno dei molti che gli portai come carne di ammirazione, traduceva burlescamente in “Storia comparata delle false e della vera religione”. Ci eravamo conosciuti alle rispettive prolusioni, e ben presto sotto Pierre rispuntò il mirabile letterato militante Jean de Menasce. Il senso della qualità non lo lasciò neanche nell’àmbito della pietà, e in primo luogo (era il ’38, inaugurazione della sua come della mia carriera) si strinse fraternamente con l’abbé Charles Journet, un professore ginevrino del Seminario, che a suo tempo Paolo VI avrebbe inopinatamente scoperto e fatto cardinale (ma non ostentò porpore, talché […] lo chiamavano “l’abbé Cardinal”)»: G. Contini, Il «doppio» scomparso, «Leggere», 1, 5, 1988, pp. 38-9: Bibl 88.05 (con ulteriori rimandi) (= PEE, pp. 177-80, a p. 178). Su Jean (p. Pierre) de Menasce vd. i riferimenti nell’ampia nota di Isella in Eusebio e Trabucco, pp. 54-5. Altri rimandi in G. Lucchini, Croce in Contini: alle origini della critica stilistica, in Due seminari di filologia, pp. 213-57, poi in Id., Studi su Gianfranco Contini, pp. 11-55, a p. 11, nota 2; e vd. ancora Jean de Menasce (1902-1973), Exposition du 9 juillet au 29 août 1998, Textes réunis par M. Dousse et J.-M. Roessli, Fribourg (Suisse) 1998 (in particolare: J.-M. Roessli, Jean de Menasce et T.S. Eliot, pp. 39-53, e R. Broggini, Jean de Menasce et Gianfranco Contini: une amitié fribourgeoise, pp.
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d’Egitto, domenicano, orientalista, barone ungherese, amico di Claudel, di Valéry, di Gide, di Eliot e di Curtius» (così in un ritratto di Contini a Montale che presto citeremo) –, traduttore in francese di molta poesia di Eliot, e in particolare di The Waste Land, nonché cugino di Georges Cattaui, a sua volta traduttore e studioso di Eliot nonché proustista, e in tal veste dedicatario dell’Introduzione alle «paperoles»93, aveva tradotto la terza delle Clark Lectures pronunciate da Eliot al Trinity College di Cambridge nei primi mesi del 1926 (tema generale: la poesia metafisica nel sec. XVII). La terza conferenza interpretava il misticismo di John Donne alla luce dell’esperienza medievale e in specie dantesca (Donne and the “Trecento”). Questo testo, tradotto in francese da de Menasce e leggermente scorciato, apparve nel marzo del 1927 nella collana/rivista dell’intellettualità cattolico-spiritualista parigina (Cocteau, Claudel, Jammes, Rivière, Du Bos, Mauriac…) «Le Roseau d’or», fondata e diretta da Jacques Maritain e edita da Plon dal 1925 al 193194. L’edizione originale del Dante recava una dedica a Charles Maurras (nelle sue vesti,
119-26). Del teologo domenicano Contini parlò anche nell’‘amicizia’ dedicata a Émile Benveniste, «Leggere», 1, 7, 1988, pp. 28-9: Bibl 88.06 (con ulteriori rimandi) (= PEE, pp. 181-4), e nell’eccezionale lettera-resoconto su Friburgo indirizzata a Capitini il 28 novembre 1938 (lettera 41: Un’amicizia in atto, pp. 59-66, alle pp. 62-3, qui precisando: «Si discorre insieme, non so, di Eliot (T.S., non George), di Benda, del suo amico Curtius e di altre cose anche più interessanti»). 93 G. Contini, Introduzione alle «paperoles», «Letteratura», 36, 9, 6 (novembredicembre 1947), pp. 122-49: Bibl 47.08 (= VAL, pp. 69-110). La dedica (non ripresa testualmente in VAL, ma ‘confermata’ nell’Avviso, p. VIII) suona, nella prima edizione in «Letteratura»: «à mon ami Georges Cattaui, / en souvenir de notre première rencontre si proustienne / et d’un long commerce “super flumina Babylonis”» (p. 122). La prima lettera di Contini a Cattaui, su elementi ‘proustiani’ in Bonsanti, è del 13 luglio 1936, da Parigi: sul personaggio, e la sua amicizia con Contini, vd. M. Danzi, Georges Cattaui e Gianfranco Contini: un’amicizia illustrata attraverso il carteggio inedito, «Strumenti critici», 98, n.s. 26, 1, 2002, pp. 119-58 (qui, alle pp. 146-7, la lettera del ’36). 94 T.S. Eliot (trad. par Jean de Menasce), Deux attitudes mystiques. Dante et Donne, «Le Roseau d’or. Œuvres et Chroniques», 14 (Troisième numéro de Chroniques, 1927), pp. 149-73. Il testo inglese è ora disponibile, e confrontabile con il francese (che ne costituisce una versione abbreviata), in T.S. Eliot, The Varieties of Metaphysical Poetry, The Clark Lectures at Trinity College, Cambridge, 1926, and The Turnbull Lectures at The Johns Hopkins University, 1933, edited and introduced by R. Schuchard, London 1993, pp. 93-117 (nell’Appendix I, pp. 309-18, è riprodotta e annotata la traduzione francese).
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s’intende, di ‘dantista’)95. Un altro adepto dell’Action française, Henri Massis, ebbe invece un ruolo nella pubblicazione della traduzione in francese della terza Clark Lecture96. Il ceto parigino dei ‘convertiti’, e degli intellettuali cattolici in generale, com’è noto, è culturalmente di grande interesse. La sua risonanza in Italia in quegli anni e negli anni immediatamente successivi (gli anni del Contini ‘parigino’) meriterebbe di essere approfondita. Notevole, in ogni caso, è l’episodio della ‘censura’ opposta da Bargellini, nel ’35, a una recensione a Frontières de la poésie et autres essais di Maritain commissionata a Bo per il «Frontespizio» e bloccata perché nel frattempo Maritain aveva firmato il Manifesto della sinistra cattolica francese contro l’imperialismo italiano in Etiopia («Il Maritain ha cretinissimamente firmato un idiotissimo manifesto contro l’Italia, in compagnia di Du Bos, Mauriac e Gide! Slombati masturbatori, impotenti angelici finocchi!», ne scrisse a Bo, il 28 ottobre 95 Eliot richiede l’autorizzazione in una lettera del 16 agosto 1929 («J’ai toujours eu le désir de vous dédier un volume, et j’ai choisi mon Dante pour deux raisons: mon admiration pour votre Conseil de Dante; et je juge mieux de choisir une œuvre purement littéraire»): The Letters of T.S. Eliot, vol. 4: 1928-1929, ed. by V. Eliot and J. Haffenden, London 2013, pp. 582-3, a p. 583. E cfr. M. Sutton, Le maurrassisme de T.S. Eliot et le legs de T.E. Hulme, in Charles Maurras et l’étranger, l’étranger et Charles Maurras, Etudes réunies par O. Dard et M. Grunewald, Berne 2009, pp. 321-38. 96 L’idea della traduzione sarà nata nel corso di uno dei numerosi soggiorni parigini di Eliot del ’26 (se ne può seguire l’itinerario attraverso le lettere: vd. il Biographical Commentary 1926-1927, in The Letters of T.S. Eliot, vol. 3: 1926-1927, ed. by V. Eliot and J. Haffenden, London 2012, pp. XV-XX). In particolare, il 25 ottobre 1926 Henri Massis scrive a Eliot di aver ricevuto la traduzione da de Menasce, e lo prega di segnalare celermente eventuali modifiche; nella risposta, del 1° novembre, Eliot si limita a osservare: «Je serais interessé de savoir à quelle époque paraîtra Le Roseau d’Or avec mon petit article» (ibid., pp. 290-1). Molto notevole è poi la lettera che Eliot invia a de Menasce il 2 novembre, ringraziandolo per le note di lettura sul testo integrale delle Clark Lectures, che stava rielaborando in vista della pubblicazione in volume (il volume non vide mai la luce), ed esprimendo piena approvazione per il lavoro di traduttore della III («I approve of the alterations which you have made and am very pleased indeed with your translation, for which I thank you. I wish I were equally certain that all of my ideas in that essay were just», ibid., pp. 297-8, a p. 298). In appendice alla traduzione cit. di Berti del Dante figurano anche, alle pp. 127-46, il saggio dantesco che conclude The Sacred Wood (Eliot, The Sacred Wood, pp. 159-71) e, alle pp. 147-76, quello su Dante e Donne, evidentemente tradotto in italiano dal francese (anche se a p. 147, nota 1 si parla di «settima» delle Clark Lectures e si rinvia al «Roseau d’Or» con un «si veda pure» e non come alla fonte della traduzione italiana).
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1935-XIII, Bargellini)97. Con la mediazione di Contini, la recensione fu accolta nella «Rivista rosminiana»98. Il saggio eponimo del libro di Maritain, Frontières de la poésie, aveva inaugurato, nel 1927, il numero del «Roseau d’or» contenente la traduzione di de Menasce del Dante et Donne eliotiano. Non sorprende che Contini si premurasse di riferire a Montale, nel biglietto del 19 novembre 1939, il giudizio a caldo sulle Occasioni del padre de Menasce (il prete friburghino, il domenicano, brother Pierre, il padre bianco, il p. Blanc, il prete del Buen Amor, come sarà ripetutamente e variatamente evocato nelle lettere di Montale degli anni successivi), del quale, in un rigo, tracciava un efficacissimo disegno biografico: Non resisto alla tentazione di farti conoscere il giudizio d’una delle persone più intelligenti che ho incontrate (di quelle che si contano sulle prime dita della prima mano: jew convertito d’Egitto, domenicano, orientalista, barone ungherese, amico di Claudel, di Valéry, di Gide, di Eliot e di Curtius) sulle Occasioni mio cadeau. «C’est éliotique, mais infiniment plus poétique qu’Eliot.» (Segue rimpianto che quell’italiano gli resti così trascendente. Aggiungi che possiede termini di riferimento esclusivamente europei. Non conosce l’Italia a sufficienza). Appendice sull’élan, la dote, la poesia ‘diretta’ ecc. (in confronto all’effort di E.)99.
A guerra finita, in una pagina di grande respiro anche politico (come spesso in Contini, e in specie nel giovane Contini), introducendo al pubblico francofono (Pour présenter Eugenio Montale, 1946) lo Choix
97 L. Bedeschi, Il tempo de ‘Il Frontespizio’. Carteggio Bargellini - Bo. 1930-1943, Milano 1989, pp. 194-5, a p. 194. 98 Vd. De Giorgi, Contini nel mondo rosminiano, pp. 666-7. 99 Lettera XIII, del 19 novembre 1939: Eusebio e Trabucco, pp. 53-6, a p. 54. Nella lettera a Montale del 25 ottobre aveva scritto: «la quarta parte del tuo libro è la cosa più europea che si sia scritta in Italia in questo secolo» (ibid., p. 52). Può essere interessante – nella rievocazione di Francesco Orlando – il giudizio, polare ma di fatto equivalente, espresso una quindicina d’anni più tardi da Tomasi di Lampedusa: «Resta il fatto che l’unico scrittore italiano contemporaneo di cui io lo abbia sentito parlare con elogio, a parte il proprio cugino, è Montale; ritenuto “poco meno importante di Eliot”» (F. Orlando, Ricordo di Lampedusa seguito da Da distanze diverse, Torino 1996, p. 38).
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de poèmes tradotti da d’Arco Silvio Avalle e da Simone Hotelier, il prefatore sottolineava il valore dell’apparire delle Occasioni «au seuil même de la guerre», e l’entusiasmo che una tal poesia, «qui passait pour “hermétique”», suscitò nei giovani: entusiasmo che nasceva dal rispondere del libro a domande diffuse (se non addirittura, dice Contini, alla Domanda); l’efficacia della risposta derivava, peraltro, dall’essere, essa stessa, irta d’interrogativi, di dubbi, in bilico tra disperazioni e arrischiate speranze. Nel far questo, Contini metteva a sua volta in rilievo le non trascurabili «affinités éliotiques» di Montale, sottolineategli a caldo dal padre de Menasce: On touche ici à l’incidence de l’histoire contemporaine dans l’univers de Montale et au caractère profondément actuel de son œuvre. La parution des Occasioni, fin 1939, au seuil même de la guerre, représente une date essentielle dans les annales de la poésie italienne de ce siècle. L’enthousiasme qui s’empara de la jeunesse intellectuelle à l’endroit de cette poésie qui passait pour «hermétique» tenait aussi à l’impossibilité d’autres sujets de passion délirante, d’autres sujets contenant la vérité: cela laisse espérer que la nouvelle Italie sera politique au nom d’intérêts extra-politiques, de même que les vrais succès littéraires ont des fondements autres que littéraires. Le livre de Montale répondait à quelque question fondamentale, peut-être même à la Question, des jeunes, bien que (ou sans doute parce que) cette réponse fût elle-même hérissée d’interrogations, de doutes, de désespoirs et d’espérances risquées. La position que Montale occupe en Italie depuis cette date est donc comparable à celle d’un T. S. Eliot dans les pays de langue anglaise (les affinités éliotiques de Montale ne sont d’ailleurs nullement négligeables) ou d’un García Lorca dans ceux de langue espagnole, voire d’un Éluard en France avant 1940. La complicité qui se noue entre lui et ses lecteurs n’est pas étrangère à ce qu’on nomme l’événement, mais se joue sur un plan plus intérieur où l’événement (événement subi et fatal) est lui-même assumé. On peut en conclure que les jeunes Italiens percevaient une exigence religieuse dans la désolation si nue de Montale, ce vide qui semble être sur le point de se remplir de Dieu100.
E. Montale, Choix de poèmes, traduit de l’italien par S.D. Avalle et S. Hotelier, Introduction de G. Contini, Genève 1946 (Poètes contemporains, 1), pp. 9-31: Bibl 46.09 (con ulteriori rimandi) (= AE, pp. 295-305, a p. 304; anche: Contini, Una lunga fedeltà, pp. 59-75). All’equiparazione della statura di Montale a quella di Eliot in questo luogo 100
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3. Della già citata replica di Contini a Montale incentrata sulle Cinque poesie merita rilievo, per l’apparirvi del termine «scientifico», anche il séguito. Nel post-scriptum della sua cartolina del 24 novembre 1939 Montale si era infatti scherzosamente ingelosito del saggio continiano sul lessico di Pea (fresco di stampa, nel fascicolo di ottobre di «Letteratura»)101: «L’ultima parte del tuo Pea m’è parsa eccellentissima; temo – con auto rabbia – di non aver suscitato in te un pezzo simile, e che tutta la colpa sia della mia laida musa, che non riesce a farsi amare quasi nemmeno da trabujo»102. Risponde Contini il 26: «Una notice concernant le post-scriptum. Una poesia come quella di Pea è talmente pacifica, corposa, oggettiva e, in qualche maniera, trascendente che può essere materia soltanto di ammirazione. Mentre quella di * (= Eusebio, mettiamo) riguarda talmente il presunto contemplatore, s’incarna talmente nella sua dialettica che gli resta ben altro da fare (cose più urgenti) che isolare l’ammirazione. Il problema non è più solo scientifico»103. Siamo lontani, s’intende, dal piano descrittivo dell’importante dichiarazione di originalità che suggella la Nota al testo (e cioè l’intero si riferisce R. Antonelli, Contini e la poesia italiana, in Gianfranco Contini vent’anni dopo, pp. 85-105, a p. 101. Mi sembra di estremo interesse che in termini in parte assai simili (ma che segnano anche la differenza), nel 1944 Contini avesse alluso alla «sete di tenebre e di amore» della gioventù italiana e della risposta (anche involontaria) che a questa sete prestava l’ermetismo (ma con risvolti – nel dualismo letteratura/vita – giudicati ‘umanistici’: per cui vd. Moretti, Documenti di una esperienza politica, p. 723): «La faveur indéniable et presque incroyable avec laquelle l’hermétisme fut reçu par la jeunesse italienne donne la preuve de son opportunité historique: il répondait, ne fût-ce que sommairement, à une question. La jeunesse italienne contenait un besoin de ténèbres et d’amour, et l’hermétisme paraissait désaltérer, même involontairement, cette soif, la flattant de sa vague sollicitation religieuse, d’ailleurs sans issue. Mais de même que cette sollicitation, se soustrayant soigneusement à toute opposition de Dieu et du diable, demeurait antérieure au choix de l’action, l’équation de littérature et de vie se faisait au profit du premier terme et se muait, elle aussi, en une sorte d’affirmation humaniste. Au nom du concept de révolution gnoséologique, c’est-à-dire de fondation d’une réalité nouvelle, que nous avons formulé plus haut, on ne saurait considérer une telle position comme pleinement contemporaine» (Contini, Introduction à l’étude de la littérature, p. 252). 101 G. Contini, Il lessico di Enrico Pea, «Letteratura», 12, 3, 4 (ottobre 1939-XVII), pp. 3-16: Bibl 39.06 (= VAL, pp. 259-79). 102 Eusebio e Trabucco, p. 57. 103 Ibid., p. 59. Cfr. anche l’interpretazione di questo passo di Ciliberto, Contini, Croce, gli «scartafacci», p. 583.
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volume) delle Rime: «Il nostro commento, essendo una prima prova sistematica d’annotazione scientifica, non ha potuto trarre molto profitto dagli esegeti precedenti» (p. 244). Serve però a richiamare, una volta di più e a proposito di un aggettivo chiave, all’urgenza di un’indagine sistematica del lessico ‘filosofico’ – in accezione più o meno circoscritta – di Contini. Sta di fatto che formula pressoché identica ricompare nel notevolissimo curriculum (vera e propria ‘autobiografia’ scientifica e intellettuale), rinvenuto tra le carte di Luigi Russo e pubblicato da Domenico De Martino, del settembre 1942104. In una lettera a Russo non datata, ma riferibile con ogni verosimiglianza a quel mese, o al più ai primi di ottobre, alla quale il curriculum doveva essere allegato (era stato preparato, sembra certo, in vista della ventilata chiamata a Pisa, per la quale si stavano adoperando Russo e Gentile)105, Contini scrive: grazie (le intenda nel modo più pregnante) del climax di fausti annunzî. Intanto, io avevo preparato, con qualche repugnanza come sempre quando si tratti di agitare il passato, questa specie di curriculum che Le unisco. Mi disgusta il còndito e m’interessa solo il condendo106.
Dopo le notizie biografiche, un primo corposo capoverso è destinato a descrivere gli studi filologici di àmbito settentrionale e bonvesiniano. Il secondo, che merita di esser letto integralmente, è quasi tutto consacrato alle Rime. Ne emerge la consapevolezza dell’originalità («una formula nuova») di quel «primo tentativo sistematico di esegesi scientifica», nella quale riceve attenzione non minore dell’interpretazione storicoletteraria l’«analisi tecnica» (e cioè «metrica e specialmente linguistica e stilistica»): Ma poiché in filologia italiana un’attività storico-linguistica resta marginale finché non raggiunga la Toscana e i massimi autori, un’altra sezione del lavoro
«Il paesaggio d’un presentista», pp. 47-9 (allegato alla lettera 25, del 26 [? 1942], pp. 45-7). 105 Ibid., pp. XXVIII-XXX, e vd. più oltre. Quanto alla datazione del documento, nella lettera di riferimento si accenna, come vedremo, a una Tastiera di Antonio Baldini apparsa a fine agosto 1942 (cfr. ibid., p. 46): d’altra parte, Russo aveva scritto a Gentile, il 12 ottobre, di aver potuto stendere la relazione relativa alla chiamata perché «munito di appunti» (cfr. ibid., p. XXIX). 106 Ibid., p. 45. Per il valore di quest’ultima dichiarazione vd. più sopra. 104
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del C. va raccolta attorno al commento alle Rime di Dante (Einaudi, 1939), del quale, esauritasi rapidamente la prima edizione, sta per uscire la seconda largamente riveduta e accresciuta. Questo commento, che sperimenta una formula nuova accolta favorevolmente dalla critica anche straniera (Spoerri, Rohlfs, ecc.), oltre a essere un primo tentativo sistematico di esegesi scientifica di quelle liriche, non assegna minore importanza all’analisi tecnica, metrica e specialmente linguistica e stilistica, che al corredo storico-letterario. Accanto a questo commento va ricordata soprattutto un’ampia recensione all’edizione Egidi di Guittone d’Arezzo, oltre a una dell’edizione Marigo del De vulgari (entrambe nel Giornale storico)107.
Quella «formula nuova» si sarà cementata nello scambio con l’ispiratore della collana, al quale spettava anche la decisione d’inaugurarla con le Rime108. È altrettanto certo, tuttavia, che l’«esecuzione» reca evidenti le stimmate del giovane esegeta. E, in questa luce, assai rilevante suona, anche per posizione, l’attacco del successivo capoverso del curriculum del ’42: «La conoscenza dell’italiano delle origini presuppone la conoscenza della cultura latino-medievale e franco-occitanica, e perciò il commento ricordato è preceduto idealmente da qualche contributo in ordine alla prima (edizione d’un inno per la morte di san Bonaventura) e da numerosi scritti d’argomento francese e specialmente provenzale».
107 «Il paesaggio d’un presentista», p. 48. Più sintetico ma assai notevole anche un più tardo curriculum, redatto negli ultimi mesi del 1951 in funzione del concorso a cattedra che riporterà Contini in Italia (ne darò notizia più circostanziata altrove): «Se nei primi anni la professione strettamente filologica e quella critica si esercitavano per lo più in sedi (almeno esternamente) separate, la loro più stretta unione appare evidente a partire dall’edizione delle Rime di Dante (1939, nuova edizione 1946), primo tentativo d’un commento scientifico di quel canzoniere, nel quale appunto vorrebbero fondersi i dati storico-linguistici e i dati propriamente critici. Nel campo della filologia toscana si accompagnano a questo commento principalmente alcune ampie recensioni (una dantesca, due boccaccesche, una guittoniana), dove si accentua l’interesse teorico per la critica testuale (già palese nella recensione alla Storia del Pasquali), o da ultimo un’edizione del Canzoniere petrarchesco». 108 «Fondatore di una nuova raccolta di classici, Debenedetti ne scelse come primo lemma le Rime di Dante, qualunque dovesse poi risultare il suo appagamento o inappagamento innanzi all’esecuzione (le direttive impartite erano: massimo di economicità nel dettato, soppressione dei superflui sinonimi nelle definizioni, sfoltimento del corredo esemplificativo)» (Contini, Santorre Debenedetti nel centenario della nascita, p. 329).
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A Contini appare chiaro che uno dei punti di forza, e di novità, del commento sia il sistematico ricorso a riscontri interlinguistici e interculturali con l’ambiente circostante e retrostante le Rime. Questo carattere non sfuggì ai più attenti tra i primi recensori, e segnatamente al Rohlfs, sintetico ma chiaroveggente nel suo brevissimo annuncio dell’edizione («In jeder Hinsicht ein sehr erfreulicher Beitrag zur Kenntnis der Danteschen Dichtung»): «Besonders willkommen auch die vielfachen Hinweise auf die fremden Einflüsse, die sich in Dantes Sprache erkennen lassen (Provenzalismen, Gallizismen, Sizialianismen, oberitalienische Elemente, umbrische Einflüsse)»109. Anche Francesco Maggini, collaboratore di Barbi nel parallelo progetto di edizione e commento delle Rime, benché – nel corpo di un’ampia recensione per il «Giornale storico» – insista in cautele e distinguo, non manca di concedere, in apertura: Il Contini è fra i nostri giovani studiosi di letteratura delle origini uno dei meglio preparati e dei più intelligenti (anche perché non perde di vista il resto della letteratura), e accingendosi a questo commento delle liriche di Dante aveva già buona informazione della materia e pratica dei testi antichi, sia dal rispetto linguistico che da quello più propriamente letterario. La sua competenza anche nel provenzale e nel francese era un elemento notevolissimo per la valutazione di certi modi espressivi di quella poesia dantesca; e i richiami così frequenti nel commento mostrano com’egli ha saputo servirsene non da puro glottologo, ma per sfumature di senso o per notare artifizi ritmici110.
Così l’allora quasi ottuagenario scolopio Luigi Pietrobono, direttore del «Giornale dantesco»111, pur elencando, con garbo, una serie di luoghi nei quali l’interpretazione proposta non incontrava il suo consenso, salutava nell’edizione continiana l’accuratezza dei ‘cappelli’, l’affidabilità del metodo esegetico e l’originalità del risultato: «Il commento, nella sua stringatezza, è condotto con severità di metodo, G. Rohlfs, rec., «Archiv für das Studium der neueren Sprachen», 95, 117, 1940, p. 139. 110 F. Maggini, rec., «Giornale storico della letteratura italiana», 116, 1940, pp. 40-5, a p. 40 (il «finito di stampare» del fascicolo è dell’8 luglio). 111 Vd. il profilo di D. Metelli, Luigi Pietrobono, custode dell’Arcadia, a cinquant’anni dalla morte, «Atti e Memorie dell’Arcadia», 1, 2012, pp. 251-64. 109
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con larga conoscenza della lingua del trecento, e non soltanto italiana, ma provenzale e francese, con penetrazione e gusto»; per concluderne: «Sicchè dobbiamo al Contini un lavoro, di cui d’oggi innanzi gli studiosi di Dante possono e debbono giovarsi: il primo lavoro serio di esegesi, che sia stato fatto sulle rime del nostro Poeta»112. L’abilità e programmatica consapevolezza ‘tecnica’ del commento sono del resto uno dei Leitmotive delle recensioni113: sia di quelle – e ne abbiamo citate – dalle quali trapelano più o meno velate riserve, sia di quelle in più aperta sintonia. Potrebbe anzi dirsi che l’apprezzamento dell’innovazione tecnica del commento finisce quasi per far velo al contributo di novità dell’Introduzione114. Si è rilevato, nell’Introduzione, il processo ‘attualizzante’ e il circolo istituito tra le poetiche del moderno (romanticismo, Eliot) e l’antico; ancora, l’interpretazione dell’esercizio strenuamente tecnico delle Rime nel suo valore sperimentale. Nel conseguente superamento del dantismo di osservanza, notevole è il risalto conferito a Ernesto Giacomo Parodi (anche altrove citato da Contini con deferenza inusuale): personalità spiccata e autonoma (uno degli editori, tra l’altro, del Fiore), romanista e studioso degli antichi dialetti attratto dall’esperienza dell’idealismo. Maestro, all’Istituto di Studi Superiori di Firenze, di uno studioso rilevante per il giovane Contini (e che rilevante restò per il resto della vita) come Alfredo Schiaffini – legava l’allievo al maestro «qualcosa che non si allontanava molto dal culto»115 –, il Parodi è citato nell’Introduzione quale precursore dell’idea portante e unificante di sperimentalismo: L. P[ietrobono], rec., «Giornale dantesco», 41, n.s. 11, 1940, pp. 211-3, a p. 211. Un concentrato, non senza elogi, di puntualizzazioni linguistiche è nell’annuncio di G. V[idossi], «Archivio glottologico italiano», 31, 1939, pp. 159-60. 114 Nessuno dei recensori segnala, d’altra parte, che uno dei punti di forza del volume è l’esemplare Nota al testo (Rime, ed. 1939, pp. 209-24): prima sintesi organica, di fatto insostituita fino all’ed. De Robertis, dei risultati raggiunti soprattutto dal Barbi («Allo stato attuale degli studî, noi non possiamo qui che riassumere – e anche un simile riassunto non ha precedenti organici – i dati di fatto principali relativi a una considerazione propedeutica della tradizione manoscritta delle rime dantesche», p. 210). 115 Alfredo Schiaffini. Discorso commemorativo pronunciato dal Linceo Gianfranco Contini nella Seduta ordinaria del 9 novembre 1972, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1973 (Celebrazioni Lincee, 69) (= UEE, pp. 369-82, sotto il titolo Memoria di Alfredo Schiaffini, alle pp. 369-70). 112 113
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In questo senso le Estravaganti dantesche hanno una linea unitaria, ma che è lo stesso procedere inquieto di Dante di saggio in saggio; e il canzoniere non è frammentario soltanto per il ricercatore di fulgurazioni e d’intuizioni pure, ma in quanto serie di tentativi, come, scandalizzando mezzo il mondo umbratile dei dantisti, riconobbe uno dei loro, uno specialista acerrimo, il Parodi116.
Luogo, come si vede, assai notevole perché Contini vi allude alle «fulgurazioni» e alle «intuizioni pure» dell’estetica (anzi, proprio dell’Estetica) di chi, «con e dopo il Parodi, fu per Schiaffini la principale auctoritas, il punto di partenza sicuro per ogni ulteriore applicazione mentale, il Croce»117. Che lo sfondo, nel Contini di questi anni (come del resto di anni anche assai più tardi), presupponga Croce, anche se per via di progressivi distinguo, è risaputo. Nel toccare la questione, per lui uggiosa, e comunque da far valere esclusivamente in chiave stilistica, delle cosiddette «donne» di Dante, vige addirittura l’equivalenza (rivelata dall’aggettivo «allotrio») «critica estetica» = critica crociana: «l’identificazione e distinzione, laboriosamente e discordemente operata, delle così dette donne amate da Dante, quando non miri a isolare chiaramente delle esperienze poetiche, com’è dichiarata allotria dalla critica estetica, è anche estranea alla stessa poetica dantesca»118. Il punto dello stile (e in conseguenza della tecnica, e della sperimentazione, che di per sé non consentono di ricostruire un percorso, e tanto meno una progressione rettilinea) è dunque cruciale: ne consegue che cruciale sia anche il concentrarsi del commento sulla puntuale chiarificazione Rime, ed. 1939, p. 10 (= VAL, pp. 320-1). Contini, Memoria di Alfredo Schiaffini, p. 371. Per l’influsso di Croce sull’idealismo di Parodi prima, poi di Schiaffini, vd. nella stessa Memoria: «Agisce qui un altro spunto, finora non esaminato, del diletto Parodi: il Parodi idealista, qual è descritto nel ricordato saggio schiaffiniano, prima ancora dell’incontro col Croce, il Parodi desanctisiano e nella specie forse schuchardtiano, che tuttavia dal riconoscersi nell’estetica crociana ricavò una fisionomia tipica di certa linguistica italiana (non scevra d’ibridismi, specialmente nel coniugare Croce con Gilliéron) nella prima metà del secolo. Il Croce di Schiaffini direi che fosse in prima istanza Croce letto attraverso Parodi. E più tardi, cioè a partire dall’imminente Tradizione e poesia, il Croce sostituisce presso Schiaffini il Parodi nell’ufficio di sede della certezza, che assicuri le spalle quando ci s’incammina per una strada che magari porti a paraggi diversi e lontani» (ibid., p. 376). 118 Rime, ed. 1939, p. 16 (= VAL, p. 327). E si citi ancora: «l’esposizione filosofica, la “prosa” della definizione idealistica» (Rime, ed. 1939, p. 18 = VAL pp. 329-30). 116 117
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degli elementi tecnici. Si noti come già nell’Introduzione si delineino puntualmente gli spunti della dialettica contrapposizione che sarà l’anima delle prossime letture del Canzoniere petrarchesco: quell’attuare lo stile non come una tensione assoluta, secondo il modulo che sarà dell’umanistico Petrarca e poi del platonico Rinascimento, bensì come una prova «locale»; quel senso non tanto d’un limite generale della forma quanto delle limitazioni particolari degli stili scolastici; quel suo degradare un’esperienza precedente, toglierle la sua finalità intrinseca, usufruirla come elemento dell’esperienza nuova119.
‘Disorganicità’ (non-organicità) stilistica, dunque, e semmai progressione nell’esperimento; non temporale, peraltro, per la comprovabile discrasia tra cronologia ideale e cronologia letterale120. Ne discende, ancora una volta, l’essenzialità euristica dell’elemento ‘tecnico’ (né si nega il rischio implicito del tecnicismo): «Essenzialmente, il “mezzo” tecnico non è che strumento dell’indagine di se stesso, e più esattamente è la stessa religiosa sete in atto; con che non si vuole escludere, in pratica, la caduta magari frequente nei pericoli dell’astratto tecnicismo»121. «In realtà, la tecnica è in lui una cosa dell’ordine sacrale, è la via del suo esercizio ascetico, indistinguibile dall’ansia di perfezione»122. La ‘petrosità’ dantesca, che specialmente calamita l’esegeta, è sintomo più evidente di questo «tormento» della dialettica: se non discontinuità, Rime, ed. 1939, p. 10 (= VAL, p. 320); e si veda l’esordio dell’Introduzione. «Su Tre donne parrebbe dunque concludersi, nel nostro veloce riassunto, il diagramma della poesia di Dante, ma torna a verificarsi il divario delle due cronologie, ideale e letterale, poiché un superstite avanzo di preoccupazione biografica ci fa notare come quella canzone si collochi nei primissimi tempi, anzi mesi, dell’esilio e le rime dell’esilio, ora che l’argomento astronomico ha sottratto loro le petrose, hanno aspetto di tutt’altro che organicità stilistica»: Rime, ed. 1939, pp. 20-1 (= VAL, p. 332). 121 Ibid., pp. 12-3 (= VAL, p. 323). Su questo e sul passo successivo, nell’indagare il significato della difficoltà dello stile di Contini, ha richiamato l’attenzione Mengaldo, Preliminari al dopo Contini, p. 170, acutamente concludendo: «quale miglior commento al suo stesso stile di queste righe (chiarissime, fra parentesi)?». 122 Rime, ed. 1939, p. 11 (= VAL, p. 322). Sull’importanza centrale dell’‘inquietudine’ tecnica di Dante nell’analisi continiana delle Rime vd. anche C. De Matteis, La critica stilistica italiana, «La Cultura», 20, 2, 1982, pp. 321-58, poi in Id., Contini e dintorni, pp. 128-77, alle pp. 165-6. 119 120
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«periodicità ritmata», che trova riscontro nell’incessante indagine metapoetica: sarà chiaro come una costante della personalità dantesca sia questo perpetuo sopraggiungere della riflessione tecnica accanto alla poesia, quest’associazione di concreto poetare e d’intelligenza stilistica. Ciò conferisce all’opera di Dante una singolare apparenza, non diciamo di discontinuità, ma di periodicità ritmata: non mai pace in lui, ma il tormento della dialettica123.
La scaturigine dell’esperienza petrosa è nell’emulazione dello scavo nel ‘difficile’ dei precedenti occitanici (e, fra tutti, di Arnaut): esperienza giocata sulla frammentarietà, e da rileggersi alla luce della sua assimilazione e reinterpretazione nella «sublime macedonia» stilistica della Commedia («frammento» – si ricordi il titolo stesso, Frammenti di filologia, da Contini escogitato in anni contigui per la propria raccolta di saggi tecnici destinata a una collana diretta da Schiaffini per le edizioni di don De Luca – è parola chiave nel suo lessico, sulla quale sarà necessario ritornare con agio in altra sede): Entro le Rime codesto provenzalismo autentico è rappresentato dall’esperienza delle petrose: l’esperienza che resterà, degradata, nella Commedia come verbalità del difficile, dell’ostacolo, come presa di possesso del reale non pacifico, secondo la descrizione che s’è fatta sopra. Questo ricorso interpretativo che si fa alla Commedia non è un mero artificio didattico, né riguarda lo scadimento a precedente e a materia che si suol far subire dagli autori alla propria poesia già raggiunta, ma spetta alla necessaria integrabilità di quelle liriche immobili, alla mancanza d’una piena autosufficienza. La legittima ammirazione corrente per questa serie suggestiva deve pur lasciar chiaro come, innanzi ai «frammenti» di poesia petrosa che s’articolano nella Commedia (per esempio, il cerchio dei traditori), l’ispirazione delle petrose appaia, essa, radicalmente «frammentaria»124.
È qui un precorrimento dell’interpretazione della Commedia come «enciclopedia degli stili», propria dell’evoluzione del dantismo continiano più maturo: e anche di questo radice è ancora
123 124
Ibid., p. 10 (= VAL, p. 320). Ibid., p. 19 (= VAL, p. 331).
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nell’Introduzione, laddove si legge che il poema «nella sua ricchezza vitale è anche una somma stilistica»125. Lo spunto è espressamente ripreso nel Dante come personaggio-poeta (1957): «Nel fuoco di Arnaut (fuoco che affina, come per corrente provenzalismo fa il fuoco d’amore) Dante brucia le rime petrose, cioè, se non proprio lo stile fine a se stesso e che inventa e materializza il proprio ostacolo, la carnalità dello stile, la lingua specializzata nell’espressività (com’era, ancor più specificata perché tinta nella sentina, quella della tenzone con Forese), prima di essere assunta e corretta nella sintesi ed enciclopedia degli stili: appunto la Commedia»126. Il pendant stilistico novecentesco della Commedia sarà Ulysses: «una summa moderna, dopo la Commedia la prima nuova summa della poliglottia»127.
Ibid., p. 10 (= VAL, p. 320). Limpida è la sintesi di Blasucci: «Un discorso frontale sul poema Contini lo intraprenderà più tardi; nel 1939 egli pubblica invece il commento einaudiano alle Rime, dove l’idea conduttrice è quella di un Dante instancabile sperimentatore di stili, fruiti poi funzionalmente nella compagine polifonica del poema. Il capitolo clou è quello dedicato alle “rime petrose”, ricondotte all’insegnamento di Arnaut Daniel, maestro del trobar clus, coi suoi esercizi di “mistica verbale” intesi a valorizzare al limite gli aspetti “energici ed evocativi” della parola. Queste pagine furono una rivelazione per molti, non solo dantisti. Il mezzo verbale acquistava un carattere denso, concreto, ontologico» (Blasucci, Pensieri su Contini, pp. 361-2). 126 Contini, Dante come personaggio-poeta, p. 356. 127 Laddove Finnegans Wake non intende essere «una summa stilistica come Ulysses» (G. Contini, Espressionismo letterario, in Enciclopedia del Novecento, 2, Roma 1977, pp. 780-801: Bibl 77.01 = UEE, pp. 41-105, rispettivamente alle pp. 83, 84). Di «enciclopedia di stili» Contini parlerà ancora nel 1968: «È razionale che la tendenza verso una summa democratica culmini in una Commedia, enciclopedia di stili che si denomina da quello inferiore» (Id., La poesia rusticale come caso di bilinguismo, in La poesia rusticana nel Rinascimento (Roma, 10-13 ottobre 1968), Roma 1969 [«Problemi attuali di scienza e di cultura», quaderno 129], pp. 43-55: Bibl 69.03 = UEE, pp. 5-21, a p. 14); formula strettamente collegata a quella che adotta, sempre in proposito di Dante, in Espressionismo letterario, p. 103: «nel suo stile ‘comico’ come enciclopedia di stili definita dalla variante inferiore». In proposito del Fiore, scriverà poi: «È una prima prova del “comico”, del comico integrale, beninteso non del comico che poi risulterà nella Commedia l’enciclopedia degli stili, bensì del comico allo stato puro» (Id., Un nodo della cultura medievale: «Roman de la Rose» - «Fiore» - «Divina Commedia», in Concetto, storia, miti e immagini del Medio Evo, a cura di V. Branca, Firenze 1973, pp. 509-42 [Civiltà europea e civiltà veneziana. Aspetti e problemi, 7]: Bibl 73.07 [con ulteriori dettagli] = Un’idea di Dante, pp. 245-83, a p. 272). Di «sublime macedonia», in significativa contrapposizione al Canzoniere petrarchesco, si parla già nella chiusa del 125
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La rilevanza della lettura continiana delle Rime anche in relazione all’interpretazione della Commedia è ben colta nelle due recensioni più avvedute e penetranti: quella di Francesco Squarcia, apparsa nel quarto fascicolo di «Primato» (15 aprile 1940)128, e quella, accolta con particolare favore da Contini, del collega zurighese (dantista fortemente attratto dalla critica stilistica) Theophil Spoerri. «Valendosi della sua conoscenza della lirica del Duecento – scrive Squarcia – il Contini ricerca i fili delle esperienze poetiche giovanili di Dante, e, grazie alla sua familiarità coi provenzali, ricava acute osservazioni sui motivi e sulla rima, ritrovando nell’esperienza dantesca della poesia occitanica parecchi elementi di quel processo stilistico che si prolungherà e completerà nella Commedia». Ne coglie anche l’istanza antipsicologistica (o antibiografica nel senso letterale): «Le ragioni […] di sintassi, di metrica, di lingua come varranno a suffragare l’attribuzione di una lirica o a convalidare la prova d’un’esperienza diretta dei provenzali, così non impediranno al gusto del Contini di accostare una poesia a un gruppo di consorelle o a un determinato momento della storia sentimentale del poeta, storia in cui tuttavia il commentatore si muove con una cautela e un riserbo che sanno perfino di partito preso». Così facendo, ritiene lo Squarcia, Contini ha enfatizzato la sperimentalità ‘locale’ dei testi, «schivando il pericolo di voler trovare a qualunque costo una storia poetica avviata e
saggio Sul metodo di Roberto Longhi (1949): «Sia ad esempio il fatto più segnalato delle nostre origini, ossia lo stacco dall’indice massimo di escursione espressiva nella summa linguistica, nella sublime macedonia della Commedia, all’indice zero di tensione nella selezione ombrosissima, nell’unitonia trascendentale del Canzoniere» («Belfagor», 4, 2, 1949, pp. 205-10: Bibl 49.08 = AE, pp. 101-10, alle pp. 109-10). 128 F. Squarcia, Le Rime di Dante, «Primato. Lettere e arti d’Italia», 1, 4 (15 aprile 1940 – XVIII), nella rubrica Letture d’oggi, p. 12. Francesco Squarcia (Berceto 1901 – Parma 1970), allievo del Convitto Nazionale «Maria Luigia» e poi della Scuola Normale Superiore (dal 1920 al 1923: vd. Elenco degli allievi dal 1813 al 1998, Pisa, Scuola Normale Superiore, 1999 [Quaderni della Direzione, 5], p. 481), fu per decenni professore e preside del Liceo del «Maria Luigia»: partecipe della vivace vita culturale della sua città, collaborò attivamente a numerose riviste letterarie locali e nazionali (vd. ad es. Officina parmigiana. La cultura letteraria a Parma nel ’900, Atti del convegno [Parma, 23-25 maggio 1991], a cura di P. Lagazzi, Parma 1994, p. 361 ad ind.). Per un elenco dei suoi numerosi interventi in «Primato» vd. V. Zagarrio, «Primato». Arte, cultura, cinema del fascismo attraverso una rivista esemplare, Roma 2007 (Politica e storia, 58), p. 260.
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rettilinea, la quale d’altra parte non potrebbe avere neanche il sussidio d’una cronologia sicura, anzi probabile». Ben consapevole del rilievo accordato dall’esegeta al ‘fattore tecnico’ («usufruendo di una preparazione linguistica e stilistica assai agguerrita, di una sensibilità quanto mai sveglia e sottile», «Non è per lui la Commedia “nella sua ricchezza vitale… anche una somma stilistica”?»), ne coglie la propensione ad affiancare «agli strumenti, ad esempio, della vecchia metrica, un’educazione modernissima». E chiude il suo scritto – preconizzando l’interesse che il «sottile volume» avrebbe suscitato – con un significativo ritratto del giovane commentatore, del quale emergono la militanza di contemporaneista e la partecipazione a un ambiente di «alta eleganza intellettuale»: L’incontro di questo studioso giovane, ma accorto e informato, con una materia così aspra e sottile aveva più d’un elemento per interessare anche fuori del campo degli specialisti. In realtà il commento è frutto d’un’elezione naturale e felice. Il Contini, che non rifiuta, si sa bene, contatti assai più nuovi e scottanti, era per temperamento e preparazione il più adatto, nella sua generazione, ad affrontare un tema come questo. Si può anzi affermare che l’acceso tecnicismo di cui si sostanzia buona parte della lirica dantesca lusinga le attitudini del commentatore. Non ci spingeremo a dire che la filologia del Contini abbia una sottile vena polemica, ma non ci sentiamo di negare a priori che il suo interesse per la lirica dantesca sia nato in un clima di alta eleganza intellettuale. Si è, ad ogni modo, facili profeti quando si afferma che questo sottile volume darà il via a un interesse più vivo e più giovane verso la poesia e la cultura che sono alle radici della maggiore lirica trecentesca.
In una lettera purtroppo non conservata, Emilio Cecchi aveva espresso un’importante valutazione dell’Introduzione alle Rime. Lo si ricava da una lettera di Contini del 9 ottobre 1941 (nella quale, tra l’altro, si accenna all’appena concluso Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, destinato a vedere la luce soltanto nel 1943). Nel post-scriptum scrive Contini: «Dell’introduzione al Dante s’è accorto in pubblico, nel senso da Lei indicato, e con tanto minore autorità, quasi soltanto un mio collega di Zurigo, Spoerri»129. L’Introduzione è, in effetti, al centro
129 Lettera 28, del 9 ottobre [1941]: L’onestà sperimentale, p. 45. Quanto al saggio petrarchesco, nella nota relativa (p. 141) Leoncini ritiene trattarsi delle Correzioni
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della recensione, da Contini giudicata la migliore, di Theophil Spoerri: «finissimo, affiliato più o meno ai gruppi di Oxford, dantista e marxista e patriota, un po’ confusionario ma squisito», secondo il ritrattino che ne avrebbe tracciato a Capitini qualche anno più tardi130 (a lui si dovrà l’introduzione simpatetica di Contini a Lukács)131. Nella sua recensione, Spoerri non solo apprezza il tecnicismo dell’esegeta (in gara con quello del poeta!), ma addita lucidamente la compenetrazione di analisi e interpretazione (l’edizione «ist gekennzeichnet durch eine vorbildliche Verbindung des Technischen mit dem Interpretatorischen»)132. Vede anzi chiaramente come il nesso tecnica-significato (poetico) siano strettissimi nello stesso Dante, e questo gli appare come uno dei nuclei vitali dell’interpretazione (e dell’Introduzione) di Contini: «Nirgends wie bei Dante geht uns der innere Zusammenhang auf zwischen formaler Technik und inhaltlicher Bedeutung. “La tecnica”, sagt Contini, “è in lui una cosa dell’ordine sacrale, è la via del suo esercizio ascetico, indistinguibile dall’ansia di perfezione”». E ancora (evocando uno dei punti ricorrenti e salienti dell’esegesi continiana, la carica – espansiva a ritroso – del vincolo autoimposto della rima), il commentatore «zeigt
grammaticali petrarchesche, «Lingua nostra», 4, 2, 1942, p. 32: Bibl 42.02, che tuttavia costituiscono, benché uscite a stampa l’anno prima, soltanto un’appendice del Saggio vero e proprio (Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, Firenze 1943 [Biblioteca del ‘Leonardo’, 28]: Bibl 43.01 = VAL, pp. 1-31; qui, a p. 31, l’autore precisa che il saggio reca il «finito di stampare» del luglio 1943, ma «era stato scritto due anni prima»; nell’edizione originale, in calce al testo, p. 59, la data «Settembre-ottobre 1941»). 130 Lettera 97, del 12 [maggio 1946]: Un’amicizia in atto, pp. 126-8, a p. 128. 131 G. Contini, Dove va la cultura europea? Relazione sulle cose di Ginevra, a cura di L. Baranelli, con un saggio di D. Giglioli, Macerata 2012, p. 22 e nota 22 («l’amico Theophil Spoerri, assiduo ed entusiasta frequentatore dell’unico esemplare del capolavoro di Lukács che figuri in una biblioteca pubblica svizzera»); cfr. anche p. 7. 132 T. Spoerri, rec., «Vox Romanica. Annales Helvetici explorandis linguis romanicis destinati», 5, 1940, pp. 311-2, a p. 311. Su Spoerri dantista vd. la voce di N. Mineo, in Enciclopedia dantesca, 5, Roma 1976, p. 397, con bibl.; sui rapporti tra Contini e Spoerri vd. O. Besomi, Introduzione alla giornata zurighese: come lavorava Contini, «Filologia e critica», 15, 1990 = Su / per Gianfranco Contini, pp. 185-90, e Crivelli, Attorno a Trivium; in generale, vd. P. Spoerri, Mein Vater und sein Jüngster. Theophil Spoerri in seiner Zeit, Stäfa 2002; cfr. anche Lucchini, Croce in Contini, p. 48 nota 99 (molto bella è la rievocazione del seminario, e della personalità di Spoerri, di C. Cases, Confessioni di un ottuagenario, Roma 2000 [Saggine, 45], pp. 81-3; vd. anche Intervista a Cesare Cases, a cura di L. Forte, Alessandria 2006, pp. 11, 14, 18, 42).
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ferner, wie die Inspiration am Widerstand des Reimes ansetzt, entbrennt und über den ganzen Vers ausstrahlt. […] Auf diese Weise werden die fernsten Dinge miteinander verknüpft, und die formale Betrachtung wird zum Schlüssel des innersten Sinnes»133. L’Introduzione, nota Spoerri, è il luogo in cui il punto di vista innovante introdotto da Contini si manifesta in una periodizzazione dell’evoluzione stilistica del poeta fondata sulla sperimentazione dello stile134. È esattamente il punto di vista qualche anno più tardi sintetizzato, in una molto calorosa benché succinta notizia dell’edizione, apparsa nel 1943 nella «Deutsche Literaturzeitung» (con espressa citazione dell’allusione alla Commedia come «somma stilistica»), dall’allievo viennese di MeyerLübke, nonché studioso dei dialetti romagnoli, Friedrich Schürr: «Die Einleitung stellt klar heraus, von welcher Bedeutung für die Fragen des Stils und der Verstechnik waren, die ihn von seiner frühesten Lyrik bis zur Komödie beschäftigten, “welche in ihrer Lebensfülle zugleich auch ein Kompendium der Stilistik” sei»135. A Spoerri, che avrebbe di lì a poco varato la rivista di stilistica «Trivium»136, e pubblicato di lì a qualche anno Die Aktualität Dantes (1945)137, in una lettera di ringraziamento dell’8 gennaio 1941 Contini,
Spoerri, rec. cit., p. 311. «Er gibt in seiner Einleitung eine Entwicklungsgeschichte des Danteschen Dichtens, indem er – von einer technischen Neuerung zur andern fortschreitend – die aufeinanderfolgenden Stilperioden unterscheidet und in formalen Fortschritt das Wachstum des Dichters und Menschen erkennen läßt» (ibid., p. 312). 135 F. Schürr, rec., «Deutsche Literaturzeitung», 64, 9/10 (28 febbraio 1943), coll. 165-77 (rassegna Romanische Literaturen dedicata a Dante), alle coll. 165-6. 136 Contini collaborò al primo numero, con l’importante Carlo Emilio Gadda traduttore espressionista (1942) («Trivium», 1, 1 [ottobre 1942], pp. 74-7: Bibl 43.06 = VAL, pp. 303-7; anche: Contini, Quarant’anni d’amicizia, pp. 55-60; è bene richiamare alla circostanza che il primo fascicolo, contenente l’intervento continiano, uscì – nel sessantesimo compleanno di Jakob Jud, nato nel 1882 – nell’ottobre ’42 e non nel ’43, come spesso si trova scritto). Sulla genesi del saggio vd. anche Ciociola, Contini e il teatro religioso del Medioevo, pp. 110-2. 137 Il 19 marzo 1946 gliene scriverà Contini: «Je l’ai lu avec le plus grand intérêt (ou plutôt Begeisterung), séduit par votre prodigieuse faculté d’‘actualisation’, me demandant toutefois de temps à autre (puis-je vous l’avouer?) si elle ne risque pas d’affleurer un certain anachronisme spirituel» (Besomi, Introduzione alla giornata zurighese, pp. 189-90). ‘Recensione’ notevole, tenuto conto di quanto si è detto a proposito di ‘attualizzazione’ e ‘anacronismo’ in Contini. 133 134
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preavvertito da Jakob Jud (condirettore di «Vox Romanica») del tenore simpatetico della recensione, manifestò con calore il proprio compiacimento: M. Jud m’avait déjà prévenu du caractère très indulgent de votre écrit, mais je n’osais m’attendre à une aussi vive bienveillance et à une compréhension tellement “centrale”, et tellement à l’unisson, de mes intentions méthodiques et exégétiques. Votre compte-rendu n’est pas seulement, et de bien loin, le meilleur qui ait été écrit sur ce livre, mais encore une chose excellente en ellemême. Cependant, il a pour moi une valeur toute particulière, car, si j’aime ce que je fais, je n’aime guère ce que j’ai fait; or, le déploiement d’intelligence et d’idées très précises qu’a déterminé chez vous mon édition, ressuscite un peu à mes yeux ce cadavre inélégant et me réintroduit à la “présence” de ces problèmes. J’ajouterai que le point essentiel sur lequel le Rezensent et l’auteur se découvrent des affinités, est justement celui que la plupart de mes collègues rejettent comme abracadabrant et “ermetico”. Cette haine de Delphes me paraît un peu bizarre, vu leur profession138.
Notevole, al di là dell’apprezzamento (che travalica certo quello dei convenevoli di maniera) e della valutazione ‘oggettiva’ della recensione, è il richiamo – attraverso il continiano tópos di modestia circa l’insofferenza nei confronti del «già fatto» (‘modestia’ che assume il carattere del referto autobiografico, e dunque anche in questo caso si ‘oggettivizza’) – alla ‘presenza’ dei problemi e alla resurrezione, attraverso lo spiegamento d’intelligenza suscitato in Spoerri dal libro, del «cadavre inélégant». Ma è soprattutto notevole che nella lettera a Spoerri si manifesti compiaciuto stupore per la «compréhension tellement “centrale”, et tellement à l’unisson» delle intenzioni di metodo e di esegesi. Il punto di maggiore convergenza si dichiara in quello che molti (anzi, «la plupart de mes collègues») respingono come «abracadabrant et “ermetico”»139. Inutile sottolineare l’interesse dell’uso dell’agg. «ermetico» (in italiano e virgolettato), a questa altezza: anche per la connotazione – d’implicito
Crivelli, Attorno a Trivium, p. 224. Nel Trésor de la langue française, 1, Paris 1971, pp. 185-6, il significato principale dell’agg. abracadabrant è: «Étrange et compliqué, jusqu’à l’inchoérence ou au délire» (il primo es., da Nerval, 1855, allude a uno «style a.»). 138 139
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riconoscimento della categoria dell’‘ermetismo critico’, e in qualche misura della sua applicazione, di fatto, al soggetto – che assume. Al commento, come era stato previsto dallo Squarcia, arrise un notevole e immediato successo, anche di vendite, tant’è che nel curriculum del settembre ’42 se ne dava per imminente l’uscita in seconda edizione, «largamente riveduta e accresciuta» (e infatti al francesista Glauco Natoli, che a fine agosto ’42 gli aveva richiesto copia delle Rime, Giaime Pintor, in quegli anni militare a Torino, dove collaborava con l’Einaudi, aveva risposto che le Rime erano esaurite)140. Nella lettera a Russo alla quale si accompagnava il curriculum del ’42 Contini aveva del resto scritto: «Io sono inondato da Einaudi, con le bozze delle seconde Rime»141. I
La lettera di Natoli è del 24 agosto 1942 («Mi interesserebbe avere le rime di Dante edite da Contini»), la risposta di Pintor del 10 settembre (entrambe le lettere sono citate per estratto da M.C. Calabri, Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, Torino 2007, p. 572 nota 217). Di Natoli Contini aveva recensito nel 1937 lo Stendhal (Bibl 37.14): ne rievocò l’amicizia, alimentatasi negli anni di Parigi, nell’Incontro con Glauco Natoli, «Antologia Vieusseux. Giornale di scienze, lettere e arti», fasc. 71, 1983, pp. 31-3 (= UEE, pp. 337-41, sotto il titolo Ricordo di Glauco Natoli). Con Pintor (per i rapporti di questi con l’Einaudi vd. Mangoni, Pensare i libri, p. 968 ad ind., e Calabri, Il costante piacere di vivere, passim) Contini ebbe uno scambio epistolare nel 1941, conseguente all’invito di Pintor (declinato) a collaborare al Teatro tedesco in preparazione per il «Pantheon» di Bompiani, e all’intento di evitare sovrapposizioni con il Teatro religioso che Contini doveva curare per la stessa collana (per il Teatro tedesco vd. Calabri, Il costante piacere di vivere, in partic. pp. 259-66; e cfr. Ciociola, Contini e il teatro religioso del Medioevo, in partic. p. 116; per gli scambi epistolari di Contini con Pintor vd. Calabri, Il costante piacere di vivere, pp. 260-1). 141 «Il paesaggio d’un presentista», p. 46. Già si parlava della seconda edizione (e del proposito di affidare a Contini anche la Vita nova) in una lettera di Leone Ginzburg a Santorre Debenedetti del 30 ottobre 1941, dal confino di Pizzoli: «Sono lieto delle notizie che mi dà sulla II edizione delle “Rime” e sui progetti danteschi (“Vita Nuova”, Commedia). Io sono un fautore di Contini, anche se lui una volta mi ha dato (pulitamente) dell’asino» (L. Ginzburg, Lettere dal confino. 1940-1943, a cura di L. Mangoni, Torino 2004 [Biblioteca Einaudi, 171], pp. 94-6, a p. 95; l’idea di proporre a Contini un commento della Commedia, da attribuirsi a Giulio Einaudi, si riaffaccerà più tardi; vd. la lettera, sempre a Debenedetti, del 4 maggio 1943, ibid., pp. 221-2, a p. 221: «L’editore era, a quanto pare, sempre fisso nella sua idea di avere un commento continiano della Commedia: l’ho fatto dissuadere, e le sue energie sono state convogliate su un altro progetto, quello di far commentare al Contini un altro classico antico»). In una lettera a Massimo Mila del 1° febbraio 1946 Contini chiederà: 140
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lavori erano incominciati da tempo. Nella citata lettera a Cecchi del 9 ottobre 1941 si legge: «Il libro s’è venduto molto: debbo già farne la seconda edizione. Se Lei mi esprimesse, su punti singoli e concreti, dubbî, obiezioni ecc., mi aiuterebbe moltissimo nella revisione, che sarà minuziosa»142. Ancor più esplicita è la dichiarazione, sempre a Cecchi, del 30 dicembre dell’anno seguente: «Presto uscirà la seconda edizione del mio Dante, con tanti ritocchi e aggiunte che, per la documentazione almeno, sarà quasi un nuovo libro»143. A bozze ormai in gran parte composte (e dalle quali si ripartirà nel dopoguerra), il precipitare degli eventi determinò tuttavia la sospensione dei lavori, che riprenderanno a guerra conclusa (la seconda edizione reca il «finito di stampare» del 15 maggio 1946). Anche la storia della seconda edizione meriterà forse di essere scritta, e gioveranno in maniera determinante, almeno per la fase conclusiva, le Lettere all’editore (coprono il decennio 1945-1954) pubblicate da Paolo Di Stefano144. Si potranno allora comparare le due edizioni, anche per verificare in qual conto Contini tenne le osservazioni «ma il libro non è già bell’e stampato dal ’43 fino alla p. 256?» (G. Contini, Lettere all’editore, a cura di P. Di Stefano, Torino 1990, pp. 13-4, a p. 13; la p. 256 è l’ultima del 16° fascicolo delle Rime; all’inizio dell’Errata corrige a p. 293 dell’ed. 1946 si legge infatti: «La stampa della presente seconda edizione restò interrotta al settembre 1943, dopo la tiratura del sedicesimo foglio, e fu ripresa solo due anni dopo. Questo ritardo consente almeno all’autore di segnalare alcune sviste di stampa e d’altro di parecchie delle quali deve l’indicazione al dott. Luciano Capra, e d’introdurre qualche aggiunta»). L’identificazione di Contini con «il commentatore delle Rime» è spontanea, nel diario del 1943, in Einaudi padre; alla data del 18 ottobre vi si legge: «A Friburgo scendiamo e si trova alla stazione Contini, il commentatore delle Rime di Dante» (L. Einaudi, Diario dell’esilio 1943-1944, a cura di P. Soddu, prefazione di A. Galante Garrone, Torino 1997 [Gli Struzzi, 493], p. 31). 142 L’onestà sperimentale, p. 45. 143 Lettera 34, del 30 [dicembre 1942]: ibid., pp. 51-3, alle pp. 52-3. 144 Ne offre una lettura A. Battistini, «Ho satollato tutte le Sue brame?». Le consulenze editoriali di Gianfranco Contini, in Belle le contrade della memoria. Studi su documenti e libri in onore di Maria Gioia Tavoni, a cura di F. Rossi, P. Tinti, Bologna 2009, pp. 13746. Dovranno valutarsi anche le recensioni dell’ed. 1946: di qualche interesse, ad es., in quanto si concentra – nel mutato clima del dopoguerra – sul valore storico dell’ed. 1939, quella del normalista (dal 1939 al 1943: Elenco degli allievi, p. 322), e in séguito noto giornalista, A. Livi, «Società», luglio-dicembre 1946, pp. 858-71 (ampiamente citata da Trevisiol, La “Nuova raccolta di classici italiani annotati”, p. 473; si riportino almeno queste righe: «in verità tutto il commento, dall’Introduzione fino all’ultima pagina, è come soggetto a una pressione interna, che è la sua stessa foltezza e pluralità di valori;
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puntuali dei primi recensori (elencati in forma ‘ragionata’ in calce alla Nota al testo, a p. 270)145: pur risultando evidente la continuità, strutturale e sostanziale, tra prima e seconda edizione (a sua volta destinata a essere riprodotta, salvi gli aggiornamenti bibliografici, fino ai giorni nostri)146. Già all’uscita della seconda edizione, il curatore pensava del resto a una
sì che talvolta se ne rimpiange la zona nascosta, tutta la materia che presuppone e a cui allude», pp. 863-4). 145 Rime, ed. 1946, p. 270: «Per questa seconda edizione, largamente riveduta e accresciuta delle rime dei corrispondenti, abbiamo tenuto conto, nei limiti del legittimo, anche di tutti i suggerimenti concreti fatti da amici lettori o da recensori. Se è naturale che l’autore sia sentimentalmente grato soprattutto ai critici che, dal Neri e dallo Schürr allo Spoerri e allo Squarcia, hanno voluto salutare una novità nella formula di commento, in questa sede egli si dichiara riconoscente a quegli altri che, eventualmente meno prossimi quanto a gusto, hanno collaborato con lui su uno o più o parecchi punti particolari» (segue la citazione bibliografica delle recensioni di Francesco Maggini, Francesco Pastonchi, Luigi Pietrobono, Gerhard Rohlfs, Giuseppe Vidossi). 146 A tale continuità opportunamente richiama M. Perugi nell’ultimo paragrafo dell’ampio saggio Un’idea delle rime di Dante, premesso alla prima ristampa postuma (saggio nel quale si ripercorrono criticamente e si approfondiscono i nuclei essenziali dell’interpretazione continiana delle Rime): Dante Alighieri, Rime, a cura di G. Contini, con un saggio di M. Perugi, Torino 1995, pp. VII-XLIII, alle pp. XLI-XLIII. Perugi sottolinea come il commento sia «rimasto sostanzialmente immutato fino ai giorni nostri, conservando intatta la propria carica innovatrice» e vada «citato fra gli esempi più cospicui, e più vittoriosi, dell’alto tasso di durabilità della produzione continiana» (pp. XLI, XLII), spiegandone la fortuna «anche con la distribuzione del materiale secondo una formula efficacissima, e di grande modernità, soprattutto all’epoca della pubblicazione» (p. XLII). Nel 1965, in occasione del centenario dantesco, il commento fu riproposto, secondo il testo del ’46, nella «Nuova Universale Einaudi», con una Postilla del curatore, pp. XXV-XXVI. Ricorrendo anche il trentennale della casa editrice, nello stesso 1965 fu tirata un’anastatica non venale, riservata agli azionisti, della seconda edizione: vd. M. Gatta, Einaudi. Sibi et amicorum. Storia portatile di una collana editoriale (1966-2011), a cura di O. Mainieri, prefazione di R. Cicala, Macerata 2012, pp. 26-7. Sono seguite numerose ristampe: deve considerarsi a parte quella in Dante Alighieri, Opere minori, t. 1, parte 1, Milano-Napoli 1984, pp. 249-552, con diverso ‘montaggio’ dei componenti e un Poscritto 1983, pp. 549-52; qui, a p. 549, si legge: «Personalmente il curatore, abituato ora a tutt’altra procedura lavorativa, ricorda con nostalgia i pochi alacri mesi del ’38 passati a stendere, per gran parte alla Nazionale di Firenze e all’Accademia della Crusca (allora a pianterreno di palazzo Riccardi), quel primo esperimento d’un’annotazione scientifica del più singolare fra i canzonieri italiani». Nella citata ristampa postuma si hanno un’Avvertenza e un Poscritto di Contini datati al 1987 (pp. LXXI, 319-23).
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terza, scrivendone a Massimo Mila il l° giugno 1946: «ho avuto (grazie) le 6 copie del secondo Dante; e ti pregherei vivamente, come avevo già scritto non so se a te o a Einaudi, di mandarmene una interfoliata da servire per la terza edizione, per cui ho già molto materiale»147. Al successo pieno delle Rime del 1939 fece ombra, almeno in alcuni dei «nolenti» evocati, a proposito degli Esercizî, da Gadda, il linguaggio critico in specie dell’Introduzione, tacciata di oscurità ed «ermetismo». A chi allude, Contini, quando si riferisce – scrivendo a Spoerri – ai colleghi avversi all’oracolarità, gli odiatori di Delfi? Ad esempio, si può supporre, al Maggini, il quale, recensendo le Rime nel «Giornale storico», dell’Introduzione aveva scritto: Son pagine certamente meditate, spesso acute e sempre attente all’arte e desiderose di coglierne il valore intimo; ma forse questo stesso desiderio di uscire dall’ordinario porta l’A. a un genere d’espressione che rende faticoso l’intendere; si direbbe che la moda dell’ermetismo stia entrando anche nella critica dantesca148.
Anche se con difetto di penetrazione (e con insidioso trapasso, per dir così, dalla forma del contenuto critico alla forma della sua espressione: trapasso che sarà anche di altri), toccava di fatto un punto nevralgico. Nell’oggetto e nel soggetto. In privato, si erano espressi sull’oscurità dell’Introduzione (che al Neri, direttore in quel periodo del «Giornale storico», era parsa invece, come si è visto, «densa, vivace, animosa»)149 alcuni collaboratori della casa editrice Einaudi: Arrigo Cajumi («a me sembra oscura e frenetica») e Carlo Muscetta (che aveva lodato «il pregio dell’erudizione e l’acutezza delle chiose», ma aveva deplorato «la filologica barbarie e disumanità di quel linguaggio critico»)150. Esplicito, nel suo elzeviro, il poeta Francesco Pastonchi, nel ’35 promosso «per chiara fama» (dal ministro dell’Educazione Nazionale, quadrumviro De Vecchi di Val Cismon) a succedere a Vittorio Cian nell’insegnamento di letteratura italiana dell’Università di Torino (dove Pastonchi, nato
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Contini, Lettere all’editore, pp. 15-6, a p. 15. Maggini, rec. cit., p. 40. Neri, Il libro delle Rime di Dante, p. 3. Mangoni, Pensare i libri, p. 29 nota 95.
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a Riva Ligure nel 1874, era stato allievo di Arturo Graf) e dal giugno del ’39 Accademico d’Italia151. Elzevirista del «Corriere della Sera», nella terza pagina del quotidiano milanese scrisse delle Rime il 13 gennaio 1940152. Celebre per le sue «roboanti e spettacolari dizioni dantesche»153, Pastonchi non poteva certo indulgere alla sensibilità continiana per il tecnicismo e l’occitanismo del Dante lirico: «La imitazione provenzale? dispersa, dileguata nell’impeto dantesco: e il tecnicismo (su cui calca il Contini) prende fiamma di poesia – come sfida all’espressione che sta per essere soggiogata interamente». L’annoso tema delle donne di Dante era del resto così da lui risolto (ed era buon intenditore): «Certo, a ripensare la sua maschiezza, saranno state parecchie: ma, da vero uomo, nella poesia taciute». A dispetto di ciò, l’Accademico poeta non lesina riconoscimenti all’acume dell’esegeta e al valore del commento. Si esprime con durezza, invece, sullo stile ‘involto’, da «compiaciuto filosofante», dell’Introduzione, citandone lo scioglilingua «figurativizzasse»154. E conclude con un paternalistico auspicio-pronostico (il giovane Contini «con gli anni perderà baldanza e si farà più semplice») destinato a non avverarsi. La conclusione dell’elzeviro è, in ogni caso, beneaugurante: Ma, per tornare al Contini, si vuol accennare alla novità della sua riedizione: che è nei proemi e nelle note, penetrate di una non comune conoscenza dell’antico provenzale, e francese, come della lingua e propriamente della Vd. F. Contorbia, C. Carena, M. Guglielminetti, Ricordo di Francesco Pastonchi (1874-1953), con un’antologia di testimonianze, una bibliografia, una sezione iconografica e una nota di B. Mazzi, Atti del Convegno (S. Maria Maggiore, 13 settembre 1997), Novara 1997 (Saggi e testi, 16). Su Pastonchi e l’Accademia d’Italia vd. in partic. il saggio di F. Contorbia, Immagini di Pastonchi nel Novecento, pp. 37-62, a p. 60 nota 70. 152 F. Pastonchi, Le “Rime” di Dante, «Corriere della Sera», 13 gennaio 1940, p. 3. 153 Sono parole di Dante Morando tratte dal ricordo del p. Giuseppe Bozzetti, Preposito Generale dell’Istituto della Carità, che ebbe un ruolo importante nella formazione ossolana di Contini: «leggendo la Divina Commedia, con la sua voce spesso aritmica sapeva tuttavia ricavarne inflessioni e toni efficacissimi, più aderenti al testo e sconosciuti alle roboanti e spettacolari dizioni dantesche del Pastonchi» (cit. in De Giorgi, Contini nel mondo rosminiano, p. 612 nota 44). 154 Sul verbo vd. L. Serianni, La lingua del giovane Contini, in questi Atti, pp. 75370, a p. 758 nota 14. 151
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grammatica dugentesca. Per cui molti intendimenti si aprono al lettore. E ancora si trova nel commento un bel conforto di interpretazioni ai passi ardui, e un acume e una sottigliezza, rattenute, che non cadono mai in preziosismi. Ma vorremmo da lui, e mi riferisco specialmente alla «Introduzione», una prosa meno involta, e rinunziasse a certe sospese frasi che fan temere celino più ostentazione che profondezza. Comprendo lo sforzo di intensità: ma, perchè lasciarsene condurre a vocaboli da compiaciuto filosofante e perfino a un «figurativizzasse», che pare uno scioglilingua? No, no; la lingua italiana è magnifica di chiarità anche nelle più strette sintesi. […] Il Contini è giovine, lo si sente, beato lui: con gli anni perderà baldanza e si farà più semplice. Intanto questa sua edizione dimostra, sì, un volere coraggioso, ma porta insieme un corredo di saggezza. Ed è un principio dal quale muovere a una più compiuta comprensione delle «Rime»: un avvio che non s’era avuto fino a oggi155.
155 Nel capoverso omesso nella citazione emerge la fedeltà dell’antico carducciano: «E nemmeno piacciono talune spavalderie: e che al verso “Deh, Violetta che in ombra d’amore” allunghi un colpetto al Carducci, notando: “Un mediocrissimo verso delle Barbare carducciane ha reso celebre questo verso nella lezione cattiva” (la lezione che dal Cinquecento portava “Deh, nuvoletta…”). Sarebbe stato più garbato, tralasciando il “mediocrissimo”, ricordare, prima del Carducci, il Tasso che anche lui, letto il verso nella lezione cattiva della “Giuntina”, lo imitava in un madrigale: “Deh nuvoletta in cui m’apparve Amore”». La barbara carducciana è Alla Regina d’Italia, vv. 18-20: «“O nuvola / che in ombra d’Amore trapassi, – / l’Alighieri cantava – sorridi!”». Della giusta osservazione di Pastonchi relativa al madrigale tassesco Contini terrà conto nella seconda edizione del commento. Vd. anche la voce di G. Auzzas, Deh, Violetta, che in ombra d’Amore, in Enciclopedia dantesca, 2, Roma 1970, p. 342. Per la circolazione dei motivi nelle recensioni è interessante notare come il Pietrobono riprenda quasi alla lettera Pastonchi sulla questione del rispetto da parte di Contini dell’ordinamento Barbi. Aveva scritto a caldo Pastonchi: «Il Contini ripete nel volume, con qualche minima rettifica esteriore, il testo del Barbi. Sul quale, aspettando le giustificazioni, già fin da ora certe riserve si potrebbero tuttavia avanzare non solo su reintegrazioni simili a quella della ballata “Per una ghirlandetta” che, malconcia sempre, n’è uscita ora stravolta; ma soprattutto sull’ordine delle “Rime”: per quanto il Barbi stesso, dopo averla detta “impresa disperata”, raccomandasse di non più turbare l’assetto da lui stabilito, assetto “che nell’interesse degli studi dovrebbe rimanere fisso e immutato”. Per l’“interesse degli studi” noi si pensa invece che nulla di quanto è induttivo debba rimanere “fisso e immutato”» (Pastonchi, Le «Rime» di Dante, p. 3). Ripeterà Pietrobono: «Nell’ordine delle rime il Contini segue fedelmente il Barbi, forse perchè rimanga come questi lo vuole, “nell’interesse degli studi… fisso e immutato”. Nell’interesse degli studi fisso e
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4. La lingua italiana, scrive il poeta e Accademico d’Italia Pastonchi, «è magnifica di chiarità». «Oscura» (e frenetica) era parsa l’Introduzione al collaboratore dell’Einaudi Arrigo Cajumi, liberale di sinistra. E questo – «oscura» – è l’aggettivo chiave. L’«oscurità» era l’attributo-senhal della poesia e della critica ermetica. Esplicitamente, Maggini aveva annotato: «si direbbe che la moda dell’ermetismo stia entrando anche nella critica dantesca». E lo stesso Contini, nella lettera a Spoerri del ’41, aveva registrato il punto di maggior convergenza tra recensore e recensito in «celui que la plupart de mes collègues rejettent comme abracadabrant et “ermetico”». L’oscurità, di fatto, è il tema clou dal quale muovono, e intorno al quale gravitano, molte delle risposte all’inchiesta sull’ermetismo promossa da «Primato» (cioè da Bottai) nel 19401941: inchiesta, si noti, interrotta per ordine superiore, a quanto pare di Mussolini in persona156. Non può non colpire che le prime parole del primo intervento, di Eugenio Montale, suonino così: «Non ho mai cercato di proposito l’oscurità e non mi sento perciò molto qualificato a parlarvi di un supposto ermetismo italiano; dato che esista da noi, ed io ne dubito assai, un gruppo di scrittori che abbiano una sistematica noncomunicazione quale obiettivo»; e che, subito dopo, lo stesso Montale liquidi la cosiddetta critica ermetica in questi termini: «Prescindiamo, se volete, dall’oscurità, pur notevole, di alcuni critici; si tratta, nella migliore delle ipotesi, di poeti in nuce, di collaboratori e partecipi a una poesia che nasce e nascerebbe fors’anche senza questa collaborazione»157. immutato mi sembra che dovrebbe rimanere soltanto il vero. Per questo riguardo ne viene che con il lavoro del Contini le cose sono rimaste al punto dov’erano; ma molto si è progredito nell’intelligenza delle singole rime» (P[ietrobono], rec. cit., p. 211). Di tutt’altro avviso lo Squarcia, che sembra rispondere proprio a Pastonchi: «Il Contini è un lettore e uno studioso troppo avveduto per non sentire che darebbe poco frutto il discutere o rovesciare (anche se la materia sembri consentirlo) la sistemazione delle Rime fino a oggi più persuasiva, che è quella del Barbi. E mal s’è apposto, ci sembra, chi ha voluto rimproverargli d’aver accettato, con poche e non rilevanti mutazioni, i frutti di una fatica di così seria e di così suadente autorità. Bene ha fatto dunque il Contini a ricusare di proposito e con piena intelligenza di risollevare quei dubbi o problemi più strettamente filologici che la più autorevole critica dantesca ha risolto o ha dichiarati insolubili» (Squarcia, Le Rime di Dante, p. 12). 156 Vd. in generale Zagarrio, «Primato», pp. 98-110 (per l’intervento censorio, vd. p. 110 e nota 110). 157 Parliamo dell’ermetismo, «Primato», 1, 7 (1° giugno 1940-XVIII), n. 1, pp. 7-8, poi in E. Montale, Il secondo mestiere. Arte, musica, società, a cura di G. Zampa, Milano
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Notevole è questa ostentata presa di distanze dalla critica ermetica; «nella migliore delle ipotesi», incarnata da «poeti in nuce». È utile confrontarla con le parole di Arnaldo Bocelli, uscite nel fascicolo del 1° luglio 1940: vi emergono con chiarezza la contrapposizione con l’idealismo (in crisi anche per la frattura Croce-Gentile: di Gentile Bocelli era stato allievo e con lui collaborerà all’Enciclopedia) sia in chiave filosofico-estetica, sia nella contrapposizione dei metodi (una «poetica sperimentale» incline agli «elementi tecnici»): La critica ermetica […] ripete le sue origini da quella crisi dell’idealismo che, latente da lungo tempo nella dottrina e negli indirizzi dei suoi maestri e seguaci, è divenuta sempre più profonda in questi anni sia per il sempre più deciso divergere del crocianesimo e del gentilianesimo, sia per l’urgere ansioso di nuove tendenze e di nuovi problemi. E come tale essa vuol reagire – in nome della molteplicità e fluidità della vita dello spirito e dell’arte – alla sicurezza definitoria, alla dogmatica discriminazione di poesia e non poesia, proprie della critica idealistica, massime crociana; vuol reagire all’estetica che l’informa, come del resto ad ogni estetica, in quanto sistema «chiuso» di pensiero; al suo storicismo che tutto giustifica e tutto prevede; alla sua dialettica, alle sue categorie, ai suoi gradi; e vuole invece instaurare nuovi modi, come d’indagine, così di linguaggio, fuori dalle formule correnti. Alle visioni d’insieme, agli «inquadramenti», agli svolgimenti e insomma alle ricostruzioni o ricreazioni del mondo dell’artista, propugnati da quell’estetica e da quella critica, contrappone una sorta di poetica empirica, sperimentale, che fa largo posto ai problemi particolari, ai singoli fatti o elementi tecnici, stilistici, espressivi, al valore formale della parola e della pagina158.
1996 (I Meridiani), pp. 1531-4, a p. 1531. Due anni e mezzo più tardi, nel capitolo dedicato alla critica ermetica, scriverà Luigi Russo: «La critica ermetica non è che una superfetazione della poetica inerente ai poeti orfici; quindi, nel migliore dei casi, non è critica, ma semplice collaborazione, e ancillare collaborazione, a una poetica» (Russo, La critica letteraria contemporanea, vol. iii, p. 250). 158 L’ermetismo e gli ermetici, «Primato», 1, 9 (1° luglio 1940-XVIII), n. 14, pp. 7-8, a p. 7. Il passo è messo in risalto da Zagarrio, «Primato», p. 103. Su Arnaldo Bocelli vd. la voce di R. Bertacchini, in Dizionario biografico degli Italiani, 34 (Primo supplemento. A-C), Roma 1988, pp. 461-3. A lui si deve la lucida voce Ermetismo nella Seconda appendice 1938-1948, A-H, dell’Enciclopedia Italiana (Roma 1948), pp. 870-1 (il passo che abbiamo citato è incorporato in questa voce; utile e meritevole di futuri approfondimenti la bibliografia cit., risalente agli anni più vivi del dibattito).
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A pochissime pagine dalla risposta di Montale all’inchiesta, nello stesso fascicolo, era stampato l’intervento di Contini, che secondo Zagarrio «non solo appare il più solido nell’impostazione teorica, ma anche il più sottile nell’abile gioco degli indiretti riferimenti politici»159. Anche Contini muove, nell’esordio, dall’oscurità (tanto imprescindibile doveva suonare l’equivalenza tra aggettivo e movimento): ma punta poi direttamente altrove. A questioni di sostanza, storiche (la linea di raccordo con i «vociani») e in ultima analisi filosofico-teologiche, per lui più rilevanti (i ‘limiti’ e i termini della poetica ermetica; i suoi antesignani o modelli d’oltralpe; l’evocazione di una realtà primigenia, pre-logica; il conseguente anti-idealismo; l’irrazionalismo pre-lirico e mistico; la teologia negativa applicata in termini di poetica negativa). Ma l’aneddoto mallarméano dal quale prende le mosse (attribuito al Thibaudet: il cui nome è esplicitamente richiamato in rivista, mentre è sostituito da una perifrasi nella ristampa in Un anno di letteratura) gli dà modo di parlare, per l’oscurità invocata dal poeta simbolista, di «zelo di verità» e «pudore», e di riconoscere, nel ribaltamento di attitudine nei confronti dell’oscurità, un lascito post-illuministico e borghese160: Frattanto, non si può dire che durante una tradizione secolare, e fino all’illuminismo, l’oscurità avesse mai costituito veramente predicato di condanna (addirittura, sotto forma o di erudizione alessandrina o di sapienza teologica, era stata semmai motivo di ammirazione), e l’aneddoto non si può spiegare prima che un’epoca borghese, sancito il diritto dell’accessibilità universale alla cultura, esigesse anche il diritto dell’accessibilità assoluta della cultura. Un leggero lievito polemico anima dunque le inevidenze dell’ultimo Ottocento e (assai meno) quelle del nostro secolo. Che farci? non esiste azione teatrale senza pensiero degli spettatori. Di recente, sono stati spettatori non richiesti a voler seppellire una zona della letteratura,
159 Zagarrio, «Primato», p. 104. Un’attenta lettura della risposta di Contini in G. Langella, Poesia come ontologia. Dai vociani agli ermetici, Roma 1997 (La cultura, 70), pp. 49-56. 160 Non trovo l’aneddoto, ripreso da numerosi esegeti anche di Contini (Mallarmé ritira il testo della commemorazione pronunciata alle esequie di Verlaine per aggiungervi «un peu d’obscurité») in A. Thibaudet, La poésie de Stéphane Mallarmé. Étude littéraire, Paris 1912 (più volte ristampato: della seconda ed. 1926 si ebbe una ristampa nel 1938). È invece rievocato da H. Mondor, L’amitié de Verlaine et Mallarmé, Paris 1939, p. 247 (e successivamente in Id., Vie de Mallarmé, Paris 1941, p. 722).
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specialmente critica, contemporanea sotto definizioni del genere di «ermetismo»: tali da predisporre senz’altro alla simpatia per il movimento, e da non potersi ripetere se non fra virgolette, come fa il promotore di questa inchiesta161.
Si pone qui, s’intende, il problema della posizione dello stesso Contini, e della sua esperienza critica, nei confronti dell’ermetismo. Percettibile in tutta la Risposta, e in particolare nelle parole appena lette, il punto di vista abbracciato: solidale e partecipe, ma non ab intra162. È del resto evidente come i postulati razionali (in sostanza, idealistici), comunque essenziali nel sistema continiano, mal si concilino con quelli dell’irrazionalismo ermetico, da lui stesso descritti: e come, del resto, quelli teologici (rosminiani), e più generalmente religiosi, lo inducano al tempo stesso a «simpatia» ma a introdurre distinguo (a prescindere dalle pur importanti questioni di periodizzazione dei rapporti di Contini con il movimento, che andrebbero più approfonditamente analizzate)163. Non è un caso, del resto, se la chiusa del suo intervento (quella che aveva colpito anche Claudio Varese e Walter Binni nelle loro recensioni a Un anno di letteratura) è propositiva, nella direzione di una «riforma» che instauri un rapporto dialettico tra irrazionale e giudizio filosofico, nella prospettiva dell’azione («Riformare l’“ermetismo” in momento
161 Contini, Risposta a un’inchiesta sull’«ermetismo», p. 383. Il luogo è citato anche da Serianni, La lingua del giovane Contini, p. 755. 162 Molto notevoli, per la loro provenienza, mi sembrano le considerazioni di Macrì, Note sullo stile continiano, pp. 15-8 (La partita con l’ermetismo). 163 Osservazioni pertinenti sulla ‘consanguineità’ di Contini con l’ermetismo in De Giorgi, Contini nel mondo rosminiano, pp. 648-9 (e cfr., anche per l’evoluzione cronologica dei rapporti, le pp. 662-3, 667). Lo definisce «compagno di strada degli ermetici» P.V. Mengaldo, Il linguaggio della poesia, in Dai solariani agli ermetici. Studi sulla letteratura italiana degli anni Venti e Trenta, a cura di F. Mattesini, Milano 1989 (Arti e scritture, 1), pp. 1-25, poi in Id., La tradizione del Novecento, pp. 131-57, a p. 135. La presa di posizione «postuma», nell’intervista a Ludovica Ripa di Meana, in fondo ribadisce il rapporto che si è descritto: «Certo, era una critica non facile da assorbire perché nasceva da un travaglio profondo, almeno nella mia giovinezza, da una auscultazione a cui mi dedicavo interamente. E questo poteva anche essere classificato come ermetismo, ma non ha niente a che fare con l’ermetismo ufficiale, che è una filiazione, in sostanza, del surrealismo e di Dadà» (G. Contini, L. Ripa di Meana, Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Milano 1989, p. 182); e cfr., ancora, De Giorgi, Contini nel mondo rosminiano, pp. 648-9.
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necessario dell’esperienza, come si vorrebbe qui proporre, è, però, certo possibile solo dal punto di vista della dialettica. Una comprensione dell’irrazionale che non escluda la nostalgia del giudizio filosofico (una forma, anch’esso, di decisione!) ci sembra una posizione che salvaguardi meglio la radicale libertà dell’anima umana»)164. Significativamente, proprio queste parole saranno riprese in una segnalazione di Un anno di letteratura apparsa anonima nella rubrica Notizie e spigolature della «Rivista rosminiana» del 1942, volta a ribadire l’autonomia di Contini da «certi ermetici deteriori»: Nel licenziarlo l’A. ricorda che il suo intento nel far la critica è di arrivare a una «razionalità della critica… cioè nient’altro che quello spirito di riduzione all’unità da cui nasce perfino l’eroismo sistematico dei filosofi». Interessante, anche perché qualche superficiale è arrivato a confondere il Contini con certi ermetici deteriori, è il giudizio ch’egli dà dell’ermetismo, proponendo ch’esso dovrebbe affermarsi come «un momento necessario dell’esperienza… Una comprensione dell’irrazionale che non escluda la nostalgia del giudizio filosofico ci sembra una posizione che salvaguardi meglio la radicale libertà dell’anima umana»165.
Sul piano più strettamente letterario, non può non colpire, in questo contesto, l’annessione dello stilnovismo (si ritorna a un tema chiave dell’Introduzione alle Rime) alle poetiche dell’Assoluto, vuoi nei termini della negazione dell’individuo, vuoi, paradossalmente, nel costituirsi di una societas letteraria (la montaliana «collaborazione»): Il mistico tratta nella tenebra la salute della propria anima, e ivi è solo; la sua ricerca dell’assoluto parrebbe remota da ogni collaborazione, e in effetti l’«ermetico» nega le individualità poetiche, anzi ogni momento di individuazione (per esempio il «tema»; o l’ispirazione, che è storica, e suppone una discontinuità nello «spiritus» che «intus alit»). In pratica, ogni poetica dell’Assoluto (stilnovismo, simbolismo, e anche «ermetismo») tende ad
Contini, Risposta a un’inchiesta sull’«ermetismo», p. 386. «Rivista rosminiana», 36, 1942, p. 110: cfr. De Giorgi, Contini nel mondo rosminiano, p. 675 e nota 299 (dove il passo è cit. per esteso); per il luogo continiano, anche Lucchini, Postilla montaliana, p. 152. 164 165
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affermarsi in una società letteraria, e in quest’altra apparente contraddizione è una seconda prova, direi biologica, di vitalità166.
Il motivo è ripreso, richiamando l’estrazione in genere cattolica degli ermetici, nell’importante caratterizzazione del «phénomène (plutôt qu’école) auquel on assigne couramment le nom d’“ermetismo”» che si legge nella già citata Introduction à l’étude de la littérature italienne contemporaine (1944): «Sa vérité, sa lumière est dans les ténèbres, et l’on peut même parler d’une via tenebrarum et d’une “nuit obscure” littéraire, car on rehausse l’absence de détermination, l’athématisme radical, et l’essai pur de vivre, aux traits parfois gidiens, triomphe sur le fond de cette absence»167. Qui come altrove nel saggio, parlando di ermetismo Contini riassume (e talora ritraduce) la risposta a «Primato». In particolare, sull’implicazione mistica della ricerca della realtà pre-logica (l’approdo a una forma di teologia negativa), aveva più diffusamente scritto, insistendo sui temi dell’irrazionalismo e della contrapposizione ai meccanismi logici della sistematica idealistica: Quanto a definire codesta realtà più vera: essenza primigenia, primi movimenti dell’anima, e cose simili, importa solo notare che ogni definizione sarà necessariamente negativa, in quanto affermi una mera anteriorità rispetto alle soprastrutture recate dagli schemi logici. Il misticismo che qui c’interessa non avrà abbastanza strali per la più ferrata scolastica moderna, quella dell’idealismo, che ha infallibili chiavi per ogni difficoltà. E in questa ribellione almeno è un indubbio ricorso dal primo al secondo anteguerra, dagli anni della «Voce» a questi di «Letteratura»: […]. La questione non sta più in un no opposto alla sola ragione, nel qual caso e vociani ed «ermetici» potrebbero pacificamente discendere dalla medesima «auroralità» crociana, ma, in assoluta assenza d’ogni elemento pratico, in una rivolta contro la liricità: preordinata chiarezza, già dogmatica, dei sentimenti. Vita nascente e poesia starebbero in una nudità religiosa priva di determinazioni, prima del sentimento. Ed è significativo che l’irrazionalismo degli «ermetici» intenda
Contini, Risposta a un’inchiesta sull’«ermetismo, p. 386; vd. anche G. Luti, La letteratura nel ventennio fascista. Cronache letterarie tra le due guerre: 1920-1940, Firenze 19722, p. 257 (e cfr. Antonelli, Esercizî di lettura, p. 342). 167 Contini, Introduction à l’étude de la littérature, p. 241 (dell’ermetismo si parla, in specie, alle pp. 240-1, 251-3). 166
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partire da premesse cattoliche. Sennonché si tratta per loro di trovare un asse spirituale che vada all’infinito dalle due parti, verso Dio o al rovescio, verso la santità o il peccato, circolarmente, senza opzione. E qui l’incontestabile legittimità iniziale dell’atteggiamento incontra un forte limite. È noto che la teologia imperniata sul modo di essere di Dio, per essere questo incomparabile con ogni altro modo di essere, conclude alla non-esistenza di Dio (teologia negativa). Con premesse affini, questa poetica negativa dovrebbe giungere a identici risultati: il silenzio portato sulla propria tenebra. […] Il luogo ideale degli «ermetici» è quella che i mistici chiamano via tenebrarum, ma, mentre questi vi permangono con spasimo e sudore di sangue, essi v’indugiano con qualche compiacenza. Ed è qui, se Dio vuole, la letterarietà della situazione, la sua stessa vitalità per uno storico futuro168.
Sembra notevole che proprio nel 1944 (la data è doppiamente significativa: sia per il generale contesto, sia per la concomitanza con l’uscita dell’Introduction continiana) fossero pubblicate nella «Critica» due noterelle di Croce intitolate Poesia mistica e poesia pura e Vita intellettuale-morale e poesia, nella prima delle quali si affermava l’«inferiorità» della poesia pura rispetto a quella dei mistici169, nella seconda si sferrava un attacco diretto all’astrattismo e all’ermetismo
168 Contini, Risposta a un’inchiesta sull’«ermetismo», pp. 384-5. Sul tema dell’antiidealismo cfr. anche quanto Contini scriverà nell’Introduction, rilevante per il contesto filosofico-religioso e ‘politico’ e le conseguenti limitazioni (con implicita presa di distanza) del punto di vista ermetico (siamo ormai nel 1944): «L’hermétisme, lui, a toujours protesté avec véhémence contre la scholastique de l’idéalisme. L’a-t-il fait au nom de la liberté radicale de l’esprit qui exige de n’être pas encore jugée, de ne devenir pas encore nécessaire? au nom, en somme, de l’action et de l’amour, qui fourniraient les seules objections valables et où en effet la philosophie moderne sera forcée de mener son chemin? Nous n’oserions l’affirmer, puisque ce sont les humeurs que l’on oppose normalement à l’histoire comme raison, c’est-à-dire non pas une option d’être, mais une inertie existentielle, voire même le dilettantisme du désespoir. Moins cette attitude sera religieuse, et moins radicalement elle s’opposera à l’idéalisme par rapport à la protestation de 1914» (Id., Introduction à l’étude de la littérature, p. 251). 169 Su questo punto vd. F. Finotti, Una «ferita non chiusa». Misticismo, filosofia, letteratura in Prezzolini e nel primo Novecento, Firenze [1992] (Biblioteca della Rivista di Storia e Letteratura Religiosa. Studi, 5), pp. 101-2 (rilevante, più in generale, per i rapporti dell’ermetismo con il vocianesimo).
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(coniugati, nell’offensiva, all’idolo polemico di sempre, la «malattia aristocratica» del decadentismo): Corre nella terminologia odierna dei promotori e definitori di quello che stimano poesia e arte nuova (la quale, secondo essi, non mai finora sarebbe apparsa al mondo per essere sempre stato scambiato per arte e poesia ciò che era letteratura), la parola «arte astratta», che ben designa l’inanità del loro chiedere e del loro fare, perché l’arte non è astratta ma concreta, e dalla rappresentazione degli affetti non può mai prescindere e astrarre, perché la poesia non consiste in altro che nel dare a quelli l’accento poetico, che li innalza a ritmi ideali. Corre altresì la parola «ermetismo», e l’arte non è mai oscurità, ma luce, e non è giochetto di oscuramento, perché è serietà. Corre il compiacimento per il decadentismo, quasi malattia aristocratica; ma l’arte non è malattia perché è sanità, non è decadenza perché è ragion di vita e di maggiore umanità170.
Manca uno studio di taglio lessicografico sulla diffusione, sulle accezioni e sulla datazione del termine «ermetismo» (che sta per l’orientamento ma può valere anche ‘parola o locuzione difficile’) e delle voci correlate («ermetico», «ermetista», «arcanismo», «arcanista»)171. Eppure aiuterebbe a orientarsi nella discussione sull’«ermetismo» (non a caso regolarmente virgolettato, o qualificato di «cosiddetto», in autori 170 B. Croce, Conversazioni filosofiche. XVI. Note di estetica, IV. Vita intellettualemorale e poesia, «La Critica», 42, 1944, pp. 184-204, alle pp. 195-200, poi in Id., Discorsi di varia filosofia, 2, Bari 1945, pp. 83-90, a p. 87. 171 I sostantivi «Arcanismo» e «Arcanista» sono registrati, senza esempi (non sono perciò databili), nel Grande dizionario della lingua italiana, fondato da S. Battaglia, 1, Torino 1961, p. 617 (glossati, rispettivamente, «Ermetismo» e «Poeta ermetico»): è plausibile che derivino dall’Appendice di Bruno Migliorini all’8a ed. del Dizionario moderno di Alfredo Panzini (Milano 1942), p. 767, dove ricorre «Arcanista»: «Scrittore oscuro, ermetico. Astr., arcanismo». Di «arcanismo» e «arcanista» sost. e agg. (su quest’ultimo si forma «ermetista») posso allegare esempi in uno scritto del 1933 di Giovanni Papini: «Spuntano da tutte le parti poeti arcanisti o antiquari, narratori narcisi o mezzani e, per sostenere il mercato, critici che bellamente innestano la cabala sulla camorra» (G. Papini, Lo scrittore come maestro, «Nuova Antologia», 365, s. 7, gennaio-febbraio 1933, pp. 30-41, a p. 31); «E anche nei romanzi non gialli affiora, spesso, la manìa esoterica ed ermetista: si ripensi a certe pagine di Virginia Woolf e di Hermann Hesse e, soprattutto, a Work in progress di Joyce. Si oscilla, sempre, tra il Sessualismo e l’Arcanismo» (ibid., p. 33).
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come Contini o Montale) nell’Italia dei secondi anni Trenta. Vi è un ermetismo generico, con richiamo espresso ai temi dell’iniziazione esoterica della tradizione simbolista francese (e in specie in Mallarmé): un equivalente, insomma, di «obscure», «obscurisme». È questo un tema ‘europeo’, che ha vasta eco nei primi decenni del Novecento, ben prima cioè che in Italia prenda forma la discussione sull’ermetismocorrente, e già direttamente s’intreccia, com’è ovvio, al motivo della poetica dell’oscurità172. Nel suo diario, alla data del 23 novembre 1925, l’abate Mugnier registra l’opinione di Jean Cocteau secondo la quale Valéry avrebbe «ouvert, dit-il, “l’hermétisme”»173. È indubbio che una storia della diffusione e delle accezioni del termine nella Francia di primo Novecento risulterebbe utile anche nella definizione del suo trasmigrare in Italia174. Che una discussione di taglio ‘ideologico’ sul tema dell’obscurisme fosse del resto ancora attuale nella cultura in lingua francese dei primissimi anni Quaranta dimostra un contributo, significativo proprio per la sua schematicità, di Roger Picard apparso in «The French Review» del 1942. Vi si legge tra l’altro: on sait que Mallarmé, pour qui tout poème était un mystère dont le lecteur doit chercher la clef, travaillait avec soin à rendre difficile son texte de premier jet, s’ingéniait à torturer l’habituelle syntaxe pour en adopter une de sa façon. Ainsi pensait-il exprimer l’impalpable et l’impondérable. Le
Nel volume classico di Thibaudet, La poésie de Stéphane Mallarmé, ad es., il cap. VI del libro I s’intitola Les sources de l’obscurité. Nel volume collettaneo Obscuritas. Retorica e poetica dell’oscuro, Atti del XXIX Convegno Interuniversitario di Bressanone (12-15 luglio 2001), a cura di G. Lachin e F. Zambon, Presentazione di F. Brugnolo, Trento 2004 (Labirinti, 71), più direttamente pertinente è il contributo di S. Hartung, Forme e funzioni dell’obscuritas nella lirica ottocentesca francese: Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé. Con uno sguardo all’ermetismo italiano, pp. 437-61 (con bibliografia). 173 Journal de l’abbé Mugnier (1879-1939), Texte établi par M. Billot, Préface de Gh. de Diesbach, Notes de J. d’Hendecourt, Paris 1985 (Le Temps retrouvé, 43), p. 461. Da noi non molti anni più tardi (al principio del 1933) sarà Papini a dire di Valéry che «faceva l’ermetico» (con interessante distinguo tra il poeta e il prosatore): «Oggi c’è Valery [sic], che fa l’ermetico in versi, ma poi, quando scrive in prosa – e scrive benissimo – aspira ad esser moralista, pensatore e perfino profeta» (Papini, Lo scrittore come maestro, p. 33). 174 Per la documentazione si può partire dalla voce hermétique nel portale lessicale del CNRTL (all’indirizzo [aprile 2014]). 172
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systhème, poussé à l’extrême par les surréalistes et par les dadaistes, – qui ont conduit l’obscurisme jusqu’aux ténèbres les plus épaisses, – se retrouve encore aujourd’hui dans les poèmes (mais non dans la prose) de Paul Valéry et dans les étranges productions de Léon-Paul Fargue, tous deux d’ailleurs survivants de l’Ecole symboliste, dont ils étaient, à la fin du XIXème siècle, les benjamins175.
Già nel 1936, nel volumetto che Francesco Flora dedicò a La poesia ermetica (uscito, si badi, nella «Biblioteca di cultura moderna» di Laterza), e che ha in realtà per oggetto principale Valéry (al quale è dedicato il secondo capitolo: Paul Valéry o la poesia difficile, ritessuto con scritti usciti tra il 1931 e il 1932) e Ungaretti (terzo e ultimo capitolo: L’analogista ermetico), nella chiusa del saggio di apertura – Poesia e poetica dell’ermetismo – si legge: La poesia analogica contemporanea è preceduta dalla poesia o anzi dal pensiero ermetico francese, quale sopra tutti si conchiuse nell’opera di Paul Valéry. La concentrata parola analogica dei moderni, sebbene libera dal travaglio delle tradizioni metriche al quale il Valéry sottopose i suoi versi, è figliuola diretta di quel principio che disperò del valore della parola, considerata approssimativa: e credette di renderla esatta, studiando di farla apparir faticosa e difficile176.
Esiste un’oscurità programmatica, in sé (scriveva Montale) criticabile. È credibile sia intenzionalmente perseguita – se non nell’alveo di una ben precisa poetica – da chi, sia esso poeta o, a maggior ragione, critico, si proponga di comunicare? È questo un tasto sul quale insistono protagonisti e simpatizzanti della scrittura bollata di «oscurità». La
175 R. Picard, “Obscurisme” et clarté dans la littérature française, «The French Review», 16, 2, 1942, pp. 107-14, a p. 108. 176 F. Flora, La poesia ermetica, Bari 1936 (Biblioteca di cultura moderna), p. 50. Il capitolo, nella seconda parte (chiusa compresa), corrisponde al saggio Nuova arte, l’analogia, in Id., Orfismo della parola, Rocca San Casciano 1953, pp. 382-94, che lo data al 1934 (ma in questa forma sembra non fosse pubblicato: cfr. la Bibliografia delle opere e degli scritti diversi di Francesco Flora, in calce a Studi di varia umanità in onore di Francesco Flora, Milano 1963, p. 1220). Per la datazione dei contributi su Valéry ripresi nel capitolo secondo vd. Bibliografia delle opere, pp. 1218-9 (e cfr. Flora, La poesia ermetica, p. 98, per la polemica che ne nacque, nel 1932, con Guido Piovene).
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difficoltà, insita nelle cose, postula di necessità strumenti interpretativi non affabili: la pregnanza espressiva reclama uno sforzo di attenzione, ma non perciò rappresenta un disvalore (semmai, elegante può essere l’intento di non «spiegare tutto», il «pudore»); così, reciprocamente, non definisce un valore a priori la trasparenza177. Sono, in proposito, emblematiche le riflessioni pubblicate nel 1934 da Giovanni Papini nel cattolico, ma sempre più filofascista, «Frontespizio»: rivista a lui vicinissima ma che, almeno fino al 1938, fu anche, tra alti e bassi, uno dei punti di riferimento essenziali del gruppo «ermetico»178. Papini esordisce constatando che «In questo modernissimo almanaccamento poetico c’è il disdegno del facile – che diventa, in molti, la superstizione del difficile» (tipica è l’intercambiabilità dei membri, e lo slittamento paraomonimico, nella serie difficile-oscuro-ermetico; parallelo all’equivalenza, sempre più generalizzata, di poesia contemporanea = poesia oscura = poesia ermetica)179; ma poi argomenta in termini che, fatto salvo il punto di vista, potrebbero essere gli stessi di un apologeta dell’ermetismo: Ma questo concetto, puramente pratico, della facilità e della difficoltà, non ha nulla a che vedere col valore essenziale della poesia, in qualunque modo s’intenda.
177 Notevoli i documenti raccolti da B. Stasi, Ermetismo, Firenze 2000 (Biblioteca, 24), pp. 120-5 (Apologia dell’oscurità, La verità e il pudore). Subito dopo la guerra, in sede scientifica (recensendo cioè l’ed. Branca dell’Amorosa visione, uscita nel 1944) Contini, certo memore della dialettica luce/ombra in voga qualche anno prima (con significativo richiamo al gusto e all’estetica), annoterà ironico che il glossatore «non lascia spiragli all’immaginazione del lettore e proietta fasci di luce anche su particolari che tollererebbero la penombra discreta del suggerimento ma non reggono a un’illuminazione così perentoria. Questione di gusto? Ma l’estetica è qui funzionalità, stretto rigore d’economia» (rec. in «Giornale storico della letteratura italiana», 123, 1946, pp. 69-99, poi in Contini, Frammenti di filologia romanza, cit., i, pp. 555-90, a p. 556; cfr. F. Gavazzeni, Le strategie per il commento ai testi di padre Pozzi, in Id., Studi di critica e filologia italiana tra Otto e Novecento, Verona 2006, pp. 547-60, a p. 550). 178 Su questo vd. De Giorgi, Contini nel mondo rosminiano, p. 666. 179 Flora, chiudendo il primo capitolo del suo studio, scriverà: «E dopo tutto questo discorso sarà chiaro che il titolo a maiori di questo libro, La poesia ermetica, non vuol essere una definizione; ma soltanto un sottile indice per segnare i tratti più caratteristici della poetica d’oggi, quale è stata disordinatamente attinta all’estremo romanticismo simbolista» (Flora, La poesia ermetica, p. 50).
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Una lirica sgorgata per grazia in pochi minuti d’inaspettata felicità creativa può essere, a dispetto d’ogni arzigogolatura critica, più bella assai d’un poema fabbricato parola per parola, verso per verso, per anni e anni, dalla pazienza industre di un intarsiatore di sillabe. Una poesia semplice, apprensibile, limpidissima, magari cantabile180, non vale meno, s’è davvero poesia, di un capodopera dell’ermetismo in punta di forchetta per l’agapi segrete degli adepti. Ci sono, insomma, poesie improvvisate che son belle; poesie improvvisate che sono brutte o sciocche; poesie distillate che non valgono mezzo guscio di noce; poesie distillate che son grandi e perfette; poesie chiare che non sanno di nulla; poesie chiare che sono un miracolo d’eterna freschezza; poesie oscure che son truffe e trucchi di ciarlatani ambiziosi; poesie oscurissime che, decifrate e comprese, ci aprono nuovi mondi d’intellettuale bellezza. Facile e difficile: misure scolastiche, dati esterni. Mai tenerne conto quando si parla sul serio di poesia181.
Un conto, d’altra parte, è l’oscurità della poesia (della poesia pura in specie), un conto l’oscurità della critica: e un conto, dunque, l’oscurità dei poeti ermetici, un conto l’oscurità della critica ermetica (categoria storiografica, quest’ultima, affermatasi verso la fine degli anni Trenta). L’inevitabilità del concrescere di una critica ermetica in ‘compartecipazione’ (quasi in simbiosi) con la poesia degli ermetici sarà sarcasticamente sferzata da Croce nel 1944, nella già ricordata noterella Poesia mistica e poesia pura:
Emendo il contabile della stampa. G. Papini, Ingenuità sulla poesia, «Il Frontespizio», 6, 6 (giugno 1934-XII), pp. 3-4, a p. 4. Indubbiamente diverso il tenore della “pillola” Chiarezza e profondità uscita nella stessa rivista nel 1938: «“Chi sa d’esser profondo si sforza d’esser chiaro; chi vuole sembrare profondo si sforza di esser oscuro”. Sono parole di Nietzsche, verissime, e dovrebbero esser tenute presenti da certi tenebrioni che confondono la complessità con l’arruffìo, la finezza spirituale col biribissaio verbale e la ricerca del problematico col gioco delle mandragole. Considerando, però, i vantaggi secolari e temporali che accompagnano l’arte del sembrar profondo, mi pento amaramente di aver sempre coltivato il vizio della limpidezza, che risparmia agli altri noia e fatica, ma facilmente procaccia ai chiari l’ingiusta taccia di superficiali» (G. Papini, Pillole di Minerva, «Il Frontespizio», (G. Papini, Pillole di Minerva. VII, «Il Frontespizio», 10, 1 [gennaio 1938-XVI], pp. 31-5, a p. 33). 180 181
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è affatto naturale che, dopo questa poesia che chiamano «ermetica», sia sorto il bisogno di una critica anch’essa ermetica, vuota d’immagini poetiche la prima, vuota di concetti critici e filosofici la seconda, ma adatta questa a quella, come (non sia detto per offesa) in quel disegnino di Holbein in margine all’Elogio della pazzia, che porta il motto: Asinus asinum fricat. Quanto poi ai nuovi concetti speculativi, che i mistici intelligenti recano in abbozzo o che preparano con le loro negazioni, è superfluo dire che i poeti puri ne sono affatto immuni; e la controprova è che, quando si provano a scrivere in prosa, dicono inezie e sciocchezze o sterili paradossi182.
È notevole che nello stesso 1944, inquadrando storicamente il movimento ermetico nella sua più volte citata Introduction, Contini sottolineasse che la censura dell’‘oscurità’, «très mallarméenne et peu cartésienne», della nuova letteratura prendesse di mira anche o soprattutto la prosa critica183. E ancora più notevole che – nel ribadire l’ascendenza surrealista, e in specie éluardiana, dell’ermetismo italiano – giungesse ad affermarne la pertinenza più alla critica che alla poesia (e interessa, anche per i richiami a Du Bos e soprattutto a Sainte-Beuve, il riconoscimento di un modo di far critica «par “approximation” infinie et inépuisable, s’opposant à la critique conceptuelle par exhaustion»): Leurs textes sacrés sont ceux des surréalistes, notamment d’Éluard; mais à cette influence vient se conjuguer celle d’une critique par “approximation” infinie et inépuisable, s’opposant à la critique conceptuelle par exhaustion: nous avons nommé Du Bos, et même un Sainte-Beuve interprété suivant le biais de la libre aventure. Bien que quelques «hermétiques» figurent aussi dans la liste des poètes (Luzi et surtout Gatto, de même Bigongiari et Parronchi), l’hermétisme au sens rigoureux se déploie dans les cadres apparents de la critique, s’exerçant sur tout «texte» possible et liquidant ce
B. Croce, Conversazioni filosofiche. XVI. Note di estetica, II. Poesia mistica e poesia pura, «La Critica», 42, 1944, pp. 184-204, alle pp. 195-200, poi in Id., Discorsi di varia filosofia, 2, pp. 69-75, alle pp. 74-5. 183 «Il va sans dire que cette désignation, au même titre que jadis les épithètes de gothique ou de baroque ou de décadent, contenait d’abord une nuance injurieuse et visait à écarter, d’une façon sommaire, l’obscurité très mallarméenne et peu cartésienne de la toute jeune littérature, même ou particulièrement dans la prose critique» (Contini, Introduction à l’étude de la littérature, p. 240). 182
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prétexte dans une sorte d’autobiographie idéale aux termes perpétuellement identiques184.
La pervasività del dibattito, tra persistenze e ripudio dell’idealismo storicistico, ricreazione mimetica e non logicamente definitoria della poesia (pura), ‘nuova’ sensibilità dei moderni, emerge in ogni àmbito: e il riferimento all’etichetta di «ermetismo» sobbolle anche laddove la categoria non venga riconosciuta, o esplicitamente rievocata. Si legga ad esempio un passo (conclusivo, e dunque in evidenza) della recensione di Walter Binni al primo volume della Storia della letteratura italiana del Flora (1940), in «Letteratura» del giugno 1941. Dopo aver affermato che la costante attenzione alla concretezza testuale, e in particolare l’individuazione di «spunti metafisici» nella poesia di Burchiello, riveli come «la polemica con i moderni che serpeggia a parole per il libro non vieta una consonanza almeno iniziale nella ricerca di poesia pura e di motivi cari alla nostra sensibilità», Binni prosegue: se ci è permessa una parentesi in questa nota, diremo anzi che il libro del Flora è una prova di più di come il linguaggio critico tenda sempre più anche nei più sorvegliati a farsi immediata equivalenza dei valori poetici, a risorgere da una specie di memoria sensibile che non vuol dare tanto formule e giudizi quanto rievocazioni che, ove l’intelligenza del critico è vigorosa, si riconoscono anche come giudizi ed esame. Anche se una educazione storica e teorica tiene salda la linea (il che non avviene in altri critici impressionistici) e se la precisione di una cultura esatta è ben diversa dall’arbitrio di altri critici misticheggianti, il linguaggio in tutti si fa più lirico, più appassionato a tradurre non in sola logica il senso della poesia studiata. Pur restando la polemica chiarezza-oscurità, è certo che in tutti è viva l’esigenza di un linguaggio più nuovo, lontano ormai dalla limpidezza intellettuale di quello crociano, pronto a risolvere vivamente ogni reazione della cultura, della sensibilità, dell’intelligenza nella determinazione della poesia storicizzata, cioè giudicata perché capita e rivissuta185.
Ibid., pp. 240-1. W. Binni, Sopra una storia della letteratura italiana, «Letteratura», 18, 5, 2 (aprilegiugno 1941-XIX), pp. 32-8, a p. 37. 184 185
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5. Tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta (se il 1939 era stato l’anno delle Occasioni, delle Rime e degli Esercizî, era stato anche l’anno degli Otto studi di Bo, delle Poesie di Gatto e di Altre poesie di Betocchi) il tema dell’oscurità, automaticamente tradotto in salsa ‘ermetica’, aveva finito con l’assumere connotati di proverbialità tali da ricorrere, con sfumatura affettuosamente scherzosa, nel lessico familiare dei carteggi (era frequente motivo di celia, ad esempio, tra i familiari e gli amici di Giaime Pintor)186, ovvero, con reconditi intenti di emarginazione politica, nelle canzonature sferzanti dei giornali satirici. L’Angolo dei poeti, rubrica fortunata del «Bertoldo» di Giovanni Mosca, meritò – in una nota apparsa nel periodico «Oggi» del 13 gennaio 1940 – una puntualizzazione dello stesso Pintor (traduttore appassionato di Rilke per Einaudi: e i nomi che cita sono quelli del ‘proto-ermetico’ Ungaretti, e degli ermetici Gatto e Luzi)187. Nella sua risposta all’inchiesta 186 Come documenta, a titolo d’esempio, questa lettera a Giaime della colta madre Dedè, da Cagliari, del 20 dicembre 1939: «abbiamo ammirato con i baffi di Verga anche le chiare verità da te espresse con moderna eleganza; abbiamo visto inoltre che il tuo nome è cresciuto di statura tipografica – esplicito riflesso della gloria; e, infine, di fronte ad alcuni ermetismi abbiamo serbato la consueta perplessità venata di modestia». Più esplicito, nella sua giunta, il padre Beppino: «Alla “perplessità venata di modestia” cui ha accennato la mamma a proposito dell’articolo sui Malavoglia non posso non aggiungere un senso di invida ammirazione per chi è capace di scrivere due colonne in modo che il lettore, alla fine, si dà un pugno in testa ed esclama: “Ma, insomma, che canchero ha voluto dire, che canchero pensa il critico dell’opera d’arte?”. Ma avrai certo ragione tu, se tutte le redazioni letterarie ti corrono dietro e ti disputano (accento nella 1a o nella 2a?)» (Da casa Pintor. Un’eccezionale normalità borghese: lettere familiari, 1908-1968, a cura di M. Pacini, Roma 2011 [La storia. Temi, 20], pp. 174-5). 187 «Ma dove altri si ferma a uno scherzo occasionale, Mosca ha coscienza di svolgere opera di cultura. E qui si possono ricordare due suoi saggi. Il primo è quella storia della scienza che si pubblica a puntate sul “Bertoldo” e che è una magnifica satira delle opere di divulgazione scientifica. E questo ci pare il Mosca migliore. L’altra rubrica, che pure ha molta fortuna, è quella dedicata alla poesia moderna, e per diverse ragioni è opportuno citarla. Sarà facile riconoscere anche lì il significato umoristico in uno spunto di parodia, nella ripresa cioè di un linguaggio accademico intessuto di citazioni e di richiami ad autorità. Sarebbe invece perfettamente assurdo accogliere l’opinione diffusa che la critica di Mosca rappresenti una sana reazione agli estremisti della poesia contemporanea. Una simile funzione potrebbe anche essere utile contro gli sfruttatori di una cifra, se esercitata da persona molto saggia e capace di discriminare. Ma una tale maturità critica manca naturalmente a Mosca il quale, splendidamente ignaro, condanna alle stesse facezie testi di poesia come quelli di Ungaretti, di Gatto, di Luzi,
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di «Primato» sull’università, dell’anno successivo, dopo aver scritto di Carlo Bo che «in altri tempi sarebbe stato tenuto in quarantena per almeno vent’anni» (e invece era già «professore d’università»: «Non lo hanno capito, ma lo hanno fatto professore d’università; quasi per fiducia. Pretendere ora che lo capiscano per forza mi pare un abuso»), Pintor commenterà: «Senza contare che non vedo l’utilità di essere così largamente capiti. Il giorno in cui Carlo Emilio Gadda fosse incluso nelle antologie scolastiche e la gente in treno leggesse Montale a noi resterebbe un mediocre compito di chiosatori e di cronisti»188. Non stupirà che la preziosa e concentratissima scrittura di Contini189, e il genere di poesia contemporanea da lui frequentata e discussa, gli propiziassero l’etichetta di ‘ermetico’: alla quale, del resto, lui stesso talora ironicamente alludeva. Così, nella lettera del 1941 a Spoerri, rilevando che il punto di vista centrale, nella sua interpretazione delle Rime, era respinto dalla maggioranza dei colleghi «comme abracadabrant et “ermetico”». O anche, in un’assai notevole lettera (dattilografata) a Giuseppe De Robertis, del 21 dicembre 1941 (accompagnava le seconde bozze corrette di Un anno di letteratura, d’imminente uscita nei «Quaderni di letteratura e d’arte» diretti dallo stesso De Robertis190), esordendo: «per una volta tanto, desideroso di chiarezza (e poi ci chiamano ermetici), uso, se non ti spiace, la macchina»191. Mol-
o addirittura di Rilke, e testi degli ultimi cretini. Una volta poi messa bene in chiaro l’assoluta nullità del suo metodo critico, non c’è niente di male che si diverta con la poesia»: G. Pintor, I ricordi di Mosca, poi, sotto il titolo Involuzione della satira, in Id., Il sangue d’Europa (1939-1943), A cura di V. Gerratana, Torino 1975 (NUE Nuova serie, 3; prima ed. nei «Saggi», 1950), pp. 40-2, alle pp. 41-2. Sull’episodio, e la polemica che ne nacque con Mosca, vd. Calabri, Il costante piacere di vivere, pp. 137-8. 188 Le Università e la cultura, «Primato», 2, 7 (1° aprile 1941-XIX), pp. 4-5, poi, sotto il medesimo titolo, in Pintor, Il sangue d’Europa (1939-1943), pp. 82-5, a p. 85. 189 Sulle difficoltà dell’Introduzione alle Rime era intervenuto esplicitamente Leone Ginzburg, segnalando – nella cit. lettera del 27 giugno 1938 – molti luoghi sui quali, a giudizio suo e del direttore della collana, era necessario intervenire (come si documenterà nell’edizione della lettera, Contini tenne conto di numerosi suggerimenti di sostanza: c’è da dubitare che intervenisse sull’elocuzione). 190 Il primo quaderno uscito era stato Il Sor Pietro, Cosimo Papareschi e Tuttaditutti di Antonio Baldini (il 5 agosto 1941 Contini s’era informato dell’uscita del volume: G. Contini, Lettera inedita a Giuseppe De Robertis, Con una nota di D. De Robertis, in Gianfranco Contini. Tra filologia ed ermeneutica, pp. 864-5). 191 È riprodotta fotograficamente nel catalogo Scartafacci di Contini, p. 50 n. 31. Cfr.
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to notevole (per l’allusione al carattere sperimentale ed espressivo del «saccheggio» delle lingue tecniche operato in favore del proprio «metaforeggiare»)192 è d’altra parte l’autoinclusione nel novero degli «scrittori preziosi» che immediatamente dopo, pressoché in concomitanza con l’uscita di Un anno di letteratura, affidava a questo passo del suo intervento nell’inchiesta su Lingua letteraria e lingua dell’uso: Ormai, l’eventuale legittimità d’ogni estetismo e preziosismo è assorbita nella latitudine della lingua letteraria come esperimento espressivo. Tant’è vero che l’estetismo di noi scrittori preziosi consiste essenzialmente in un saccheggio delle lingue tecniche a vantaggio del nostro metaforeggiare193.
È dichiarazione, mi sembra, di straordinario interesse, nella quale tuttavia, così come nelle prese di posizione espresse che si sono andate via via citando sul movimento degli ‘ermetici’, la questione dell’oscurità non trova cittadinanza (lasciando semmai campo a quella di una espressiva ‘preziosità’)194. Punto non irrilevante, qualora si ponga mente alla popolarità ‘quotidiana’ del tema – ai più vari livelli, come si è documentato – in quegli anni195.
anche, più oltre nella lettera: «Mi restano due punti da saturare (chiarezza, chiarezza contabile della macchina)». 192 Il tema dei tecnicismi nel linguaggio critico di Contini è diventato topico: per una sintesi vd. Serianni, La lingua del giovane Contini, pp. 762-6, con bibliografia. 193 G. Contini, «La Ruota», s. iii, 3, 1-2 (gennaio-febbraio 1942-XX), pp. 6-12, alle pp. 10-1: Bibl 42.04, poi in Lingua letteraria e lingua dell’uso. Un dibattito tra critici, linguisti e scrittori («La Ruota» 1941-1942), a cura di G. Polimeni, Firenze 2013, pp. 67-73, a p. 72. Il luogo è già stato valorizzato da Pozzi, Dittico per Contini, p. 536. In tema di ‘preziosità’, è interessante il giudizio di Leone Ginzburg in una lettera a Santorre Debenedetti del 31 marzo 1943: «Assai urgente mi sembra poi che il direttore affidi subito un altro testo importante al Contini, che lavora presto e (nonostante la preziosità e le esagerazioni) assai bene: opinione che mi riconfermava giorni fa Giulio – ed è degna di essere presa in considerazione, la assicuro» (Ginzburg, Lettere dal confino, pp. 205-7, a p. 205). 194 Alla ‘preziosità’ della dottrina, non dello stile continiano (per il quale introdurrà la categoria di «folenghismo»), alludeva nel Prologo del primo volume della sua Critica letteraria contemporanea Luigi Russo: «I tentativi di critica linguistica da parte di un giovane di molto ingegno e di preziosa dottrina, Gianfranco Contini, sono ancora il crepuscolo di una nuova esperienza» (La critica letteraria contemporanea, i [1942], p. 10). 195 In sede di storiografia critica, al tema dell’‘oscurità’ di Contini alludono – per negarla o affermarla – in molti: basti rinviare alla sintesi di Serianni, La lingua del
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Ma se è vero che lo stile diventa per l’autore specillo conoscitivo (a norma della definizione elaborata da Contini nel saggio michelangiolesco stampato nel ’37, ma risalente al 1935: «lo stile mi sembra essere, senz’altro, il modo che un autore ha di conoscere le cose. Ogni problema poetico è un problema di conoscenza. Ogni posizione stilistica, o addirittura direi grammaticale, è una posizione gnoseologica»)196, sarà lecito inferirne che lo stile del critico abbia medesima, o analoga, valenza197. Non è certo un caso se proprio con questa citazione dal saggio michelangiolesco si apre l’acuta recensione degli Esercizî che Leone Traverso – personalità prossima, per suo conto, all’ambiente dell’ermetismo fiorentino – pubblicò su «La Nazione» nel settembre del 1940198. Qui, formulando un’interessante caratterizzazione dello stile del «giovanissimo scrittore», «che con questo libro s’allinea tra i primi e più sicuri e originali critici contemporanei», Traverso respinge espressamente l’accusa («che qualcuno gli ha mosso») di oscurità: giovane Contini, pp. 754-6, con bibliografia e con alcuni riferimenti (per cui cfr. anche Segre, Contini uno, due e tre, p. 14) ad allusioni continiane degli anni giovanili (particolarmente significativa è quella di una lettera a Montale relativa all’oscurità di Gatto: «di certa oscurità non sarò io a discorrere, tanto più che a una seconda lettura riesce quasi tutto comprensibile», lettera iv, del 25 giugno [1934]: Eusebio e Trabucco, pp. 21-5, a p. 22). 196 G. Contini, Il senso delle cose nella poesia di Michelangelo, «Rivista rosminiana», 31, 1937, 4, pp. 286-302: Bibl 37.11 > Esercizî di lettura, ed. 1939, pp. 259-78 (= EL, pp. 242-58, a p. 243) (il luogo è stato scelto come epigrafe da Ciliberto, Contini, Croce, gli «scartafacci», cit.; e cfr. Antonelli, Esercizî di lettura, p. 341, e Ungarelli, Lettori di Contini, pp. 528-9). 197 Molto lucidamente riassumerà Mengaldo (giovandosi, tra l’altro, di due citazioni dall’Introduzione alle Rime): «lo stile di Contini, anche quando è più arduo per concentrazione, tecnicismo, velocità di trapassi, non lo è tanto per aristocrazia intellettuale, al limite snobismo, e per l’edonismo di cui oltre (anche se certo queste componenti ci sono). Lo è prima di tutto per affermare che un certo grado di tecnicismo è inseparabile dalla critica come lui la intende; e poi e specialmente perché quella difficoltà stilistica fa tutt’uno con la difficoltà stessa e si vorrebbe dire la drammaticità dell’approccio alla verità; che è sì “umana”, ma è anche ardua, e richiede la tensione massima delle proprie umane capacità» (Mengaldo, Preliminari al dopo Contini, pp. 169-70). 198 L. Traverso, Per Contini, «La Nazione», 8-9 settembre 1940-XVIII, p. 3. Con la stessa citazione si aprirà, due anni dopo, la recensione di Un anno di letteratura di A. Seroni, «Letteratura», 23, 6, 3 (luglio-dicembre 1942 – XX-XXI), pp. 87-8, poi, sotto il titolo Critica e letteratura in Gianfranco Contini, in Id., Ragioni critiche. Studi di letteratura contemporanea, Firenze 1944, pp. 313-8, a p. 313.
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Lo stesso gusto misurato che trattiene il Contini da illeciti procedimenti estensivi nello sfruttare le sue scoperte, sembra ispirargli quella sua nudità di linguaggio, quella precisione scarna, che comporta però di volta in volta una sua segreta ricchezza inventiva nella necessità di aderire a testi così diversi e assai sovente di un’ardua struttura. Ma, s’egli confida in lettori ugualmente preparati e ben disposti a seguirlo (ma come «confrères» naturalmente) nel suo difficile gioco d’esplorazione, è – non che altro – palese irriconoscenza l’accusa – che qualcuno gli ha mosso – di oscurità. Se una cultura vasta e minuta come la sua ha qualche volta di necessità a comparire (il titolo del libro è d’una modestia un po’ ironica), per non schiacciarci sotto una pedanteria pesante, si mostrerà di scorcio alleggerita in allusioni un po’ di gergo, ma insomma riconoscibili: come certe formule rituali in un’una società cortese199.
Due anni e mezzo più tardi, esprimendo a caldo le proprie reazioni al ritratto che Luigi Russo gli aveva dedicato nell’ultimo capitolo della Critica letteraria contemporanea, Contini prendeva le distanze dalla categoria di «folenghismo» che il critico aveva introdotto per qualificarne lo stile (si noti – nel tono caloroso di questo precocissimo, autorevole e per certi aspetti perspicace medaglione – il raccordo oggi proverbiale, ma all’epoca tutt’altro che scontato, a prescindere dalla sua appropriatezza, allo stile di Gadda)200. Scriveva Contini: 199 Traverso, Per Contini, p. 3. Walter Binni, per suo conto, concluderà la cit. rec. a Un anno di letteratura affermando di essersi proposto di «aiutare a meglio comprendere nella sua difficoltà non arbitraria questo lavoro critico a volte sconcertante per la quantità di riferimenti che presuppone, pieno sempre di deduzioni raccorciate, non interamente spiegate, che richiedono, ben diversamente dalla critica dei veri e propri ermetici, una ricostruzione dell’intelligenza. Ripetiamo: difficoltà, non arbitrio; gusto poetico, congeniale alle origini più profonde, barbariche della poesia e insieme estremo vigore dell’intelligenza nella costruzione critica» («Primato», 3, 8 [15 aprile 1942-XX], p. 157). 200 «Si tratta di un originale folenghismo (il richiamo al Folengo non sorprenda, non faccia pensare a forme caricaturali, perché nello stesso Folengo la caricatura tocca il contenuto ma non la forma singolarissima del suo linguaggio, che è atteggiato a quel modo seriissimamente, per superba saturazione e sublimazione di cultura), oggi abbastanza diffuso, sotto varie forme, nella prosa critica contemporanea. Foltitudine di cultura e di interessi quella del Contini, e che, solo nei suoi momenti peggiori, e per scarsa autodiscriminazione dallo stile dei compagni, diventa una forma di virtuosismo. In ogni modo, il linguaggio difficile non procede in lui da una forma di etica o di
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Un poco più perplesso mi lascia la definizione di folenghismo. Bada che perfino gli allievi di De Robertis (Seroni ecc.) hanno sospettato un influsso di Gadda (del ‘vero Gadda’) sul mio linguaggio critico. Credo che la mia grande, anzi immensa simpatia per il macaronismo in genere, per Gadda in ispecie; il mio stesso linguaggio privato abbiano potuto trarre in inganno. Se neppure la lingua scritta di Pasquali è folenghiana! Non mi sbottonerò sulle mie fonti (linguistiche); ma è sicuro che il mio gioco d’allusioni culturali è accuratamente separato dalla deformazione espressionistica. Uno dei miei recensori, Traverso, evidentemente ribattendo a Ferrata (Ferrata prima fase), ha sottolineato la buona educazione che è nel non spiegar troppo; avvicinandosi, certo senza saperlo, a un’acutissima pagina di Proust201.
religione, come vuole essere negli ermetici veri e propri e vedremo con quale dubbia serietà, ma dal desiderio linguistico di un più multanime e ricco e fantasioso vocabolario. Formalismo espressivo il suo, non intrigo della vita morale e imbroglio culturale di una disordinata e gracile intelligenza. È il linguaggio tipico dello “Schulmann”, carico di reminiscenze, e con diverso tono ed accento, io lo trovo nella prosa di un Antonio Tari o di un Vittorio Imbriani, o in quella, per citare scrittori più vicini a noi, di un De Lollis e di un Pasquali. Tale folenghismo culturale, trasceso in immaginazione artistica, è anche la caratteristica di qualche narratore contemporaneo, come quel Carlo Emilio Gadda (uno dei pochi scrittori veramente colti che io conosca), che sa convogliare e purificare in una immagine i riferimenti e le esperienze più bastarde della tecnica e della vita e delle lingue da lui particolarmente esperite o vissute: il che fa parlare e ammiccare con sorriso compatitorio, alla Bertoldo, sull’ermetismo di questi scrittori, quasi fosse troppo lontano nel tempo l’altro celebrato esempio della prosa di Carlo Dossi» (Russo, La critica letteraria contemporanea, iii, pp. 245-6). Si noti, a riprova della proverbialità del riferimento (e al di là della sua pertinenza in questo contesto), l’accenno al «Bertoldo», per cui vd. più sopra. 201 Lettera 34, del 18 marzo [19]43: «Il paesaggio d’un presentista», pp. 60-3, alle pp. 60-1. Nella cit. rec. a Un anno di letteratura di Seroni, Critica e letteratura in Gianfranco Contini, p. 315, si fa sì riferimento a un «possibile influsso di linguaggio gaddiano sulla terminologia critica di Contini», ma in un notevole contesto in cui si sostiene che la «ragione prima della critica continiana è essenzialmente filosofica», e che dunque sono «i testi dei filosofi che hanno offerto a Contini gran parte della sua terminologia». Alludendo alla recensione di Traverso, Contini sembra riferirsi in particolare al passo cit. a testo e al seguente: «se il metodo del Contini – essenzialmente filologico, ma applicato con un’aderenza e un’agilità rarissime specie ad autori contemporanei sembrerebbe limitarsi a una descrizione scientifica dei fenomeni di scrittura – i risultati, benché di solito tenuti con discrezione elegante in uno sfumato imperentorio, portano assai più in là di un semplice grafico di operazioni eseguite, al suggerimento di un giudizio». Sulla questione del ‘folenghismo’, e sulla reazione di Contini, vd. in partic.,
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La negazione dell’ascendenza gaddiana, naturalmente rilevante202, implica – nella ribadita simpatia per il macaronismo – l’affermazione, in positivo, di un’indipendenza formale dalla «deformazione» espressionistica («il mio gioco d’allusioni culturali è accuratamente separato dalla deformazione espressionistica»). Sembra cioè che la preoccupazione, ben giustificabile in una personalità critica impregnata di tensione ‘filosofica’ e ‘teologica’, e persuasa della virtù conoscitiva dello stile, sia di allontanare ogni sospetto, più che di giocosità, appunto di ‘deformazione’. Russo si era premurato di precisare che lo speciale «folenghismo» di Contini non aveva rapporti con il ‘caricaturale’ (nell’ambito di una non troppo persuasiva caratterizzazione dei modi e delle finalità dello stesso Folengo); ma aveva poi scritto – e il dissenso di Contini sembra scaturire proprio di qui –: «il linguaggio difficile
oltre all’annotazione ad loc., «Il paesaggio d’un presentista», pp. XXXII-XXXIII, e già De Martino, Verso la concordanza, pp. 748-9; e cfr. Lucchini, Un dialogo difficile, pp. 176-7. 202 Sarà curioso rilevare come a sua volta Gadda, senza forse troppo intendere la ‘metafora’ escogitata da Contini per illustrare il suo ‘caso’ (riduttivamente intesa quasi come agnizione di fonti), si sia premurato di scrollarsi di dosso l’etichetta di ‘macaronico’: «È stato Contini il primo a parlare di me come uno scrittore “macaronico”. Sarà vero, anche, questi umanisti irregolari della fine del Quattrocento e dei primi del Cinquecento li ho anche letti, qualcuno almeno. Ma solo più tardi, dopo che avevo già scritto il Pasticciaccio mi è stato regalato da Bertolucci questo volume…», intervista a Cesare Garboli (1967) raccolta sotto il titolo Felice chi è diverso in Gadda, «Per favore, mi lasci nell’ombra», pp. 128-39, alle pp. 135-6 (analogamente per il raffronto con Joyce o con gli scapigliati: cfr. G. Lucchini, Note sul Gadda di Contini, in Gianfranco Contini vent’anni dopo, pp. 157-70, poi, sotto il titolo Il Gadda di Contini, in Id., Studi su Gianfranco Contini, pp. 129-42, a p. 135). Per il motivo, divenuto topico, cfr. ad es. Cases: «Folengo era il nume di Contini come di Gadda. E anche mio, perché lo amavo moltissimo, come lo amava Primo Levi, che se lo portava sempre dietro» (Intervista a Cesare Cases, p. 47); ma soprattutto Varese: «Sin dal tempo del Castello di Udine, Gadda ha proceduto nel suo cammino, interpretato, commentato e approfondito da due critici di acuta intelligenza e di congeniale e sollecita attenzione, in un’attiva integrazione: cioè, da una parte, da Carlo Emilio Gadda medesimo, consapevole delle ragioni della sua arte, della sua tecnica e del suo linguaggio; dall’altra, da Gianfranco Contini, filologo di antica e modernissima dottrina, scrittore, in quanto critico, di una prosa estrosa intellettualmente composita, quasi un Gadda della critica, a riscontro di Gadda quasi un Contini della letteratura» (C. Varese, Carlo Emilio Gadda, in Id., Occasioni e valori della letteratura contemporanea, Rocca San Casciano 1967 [Saggi e monografie di letteratura], pp. 425-35, a p. 432).
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non procede in lui da una forma di etica o di religione, come vuole essere negli ermetici veri e propri e vedremo con quale dubbia serietà, ma dal desiderio linguistico di un più multanime e ricco e fantasioso vocabolario». I punti rilevanti sono, e tutti, in vario grado, inaccettabili per Contini: la genesi non ‘etico-religiosa’ del suo stile ‘difficile’ (come è invece negli «ermetici veri e propri») e il valore ‘esornativo’ di un lessico «fantasioso». Sono entrambi tentativi – generosi nelle intenzioni – di estrarre, vuoi ideologicamente vuoi stilisticamente, Contini da una ‘compagnia’ pericolosa: ma non colgono nel segno. Non è stato finora adeguatamente messo in rilievo che il ‘medaglione’, nelle intenzioni onorevole, che Russo dedica a quel «giovane di molto ingegno e di rara dottrina», da lui stimatissimo, è pur sempre incorporato in un capitolo intitolato alla Critica ermetica. Capitolo, fatta espressa eccezione per le pagine dedicate a Contini, di una virulenza polemica incontenibile. Vi si legge – e in questo caso, senza dubbio, lo stesso Contini potrebbe confessarsi reo – un’esilarante carrellata di titoli, fittizi e non, ascrivibili alla critica ermetica: Pure la curiosità di certo loro linguaggio critico ci diverte nelle nostre ore di vacanza, e non manchiamo di annotare nella memoria tenace. Ascolto di Mesirca, Resistenza di Borlenghi, Urgenza di Matacotta, Cauto omaggio a Carlo Bo, Scheda segreta su Alfonso Gatto, Codicillo su Fallacara, Processo di Moravia (e perché non anche Fedina di scrittori nuovi?), Inventario di una poetica, Logica geroglifica di Vigorelli, Condizione di Sinisgalli, Stato di Quasimodo, Posizione di Sandro Penna e via discorrendo203.
Ma subito dopo si trascende in una valutazione tutt’altra: nelle ore dell’impazienza (e le mie non sono rare), un linguaggio così ambiguo mi tradisce un non so che di sessualmente incerto negli esemplatori e propalatori di quelle formule. Linguaggio da frequentatori di carceri giudiziarie, e da benvoglienti, sia pure in senso metafisico, dei costumi alcibiadei. Nei più deboli fra questi inventori, e i meno noti e però quasi inediti, io sento per l’appunto una forma di androginismo mentale, in cui la proposizione o la formula tende ad avere insieme il valore di immagine
203 Russo, La critica letteraria contemporanea, iii, p. 248. L’«ironico repertorio» è cit. anche da Stasi, Ermetismo, p. 129.
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e di concetto, di slancio poetico e di chiarimento critico (sono gli attualisti inconsapevoli e materialistici dei nostri giorni, irrazionalisti allo stato magmatico e senza un principio ancora di speculazione liberatrice204.
Per quanto con manifesta stima intellettuale, da Russo Contini era dunque ascritto, a fine 1942, alla categoria dei «critici ermetici»205. Eppure, la distanza di un libro come gli Esercizî (e dell’immediatamente successivo Un anno di letteratura) dall’ambito della ‘critica ermetica’ appariva già chiara, nella mutata temperie postbellica, ai giovani lettori della seconda edizione, dei quali si è reso portavoce Ungarelli: «malgrado la nostra incompetenza o meglio impreparazione, ci eravamo subito accorti che questo suo libro non aveva nessuna parentela con la cosiddetta critica ermetica»206. Del resto, istruttivo è quanto scrive un
204 Russo, La critica letteraria contemporanea, iii, pp. 248-9. Il passo è citato e commentato da G. Da Pozzo, La prosa di Luigi Russo, Firenze 1975 (Biblioteca dell’«Archivum Romanicum», s. i – Storia – Letteratura - Paleografia, 121). 205 Come si è visto, il terzo vol. della Critica letteraria contemporanea esce all’inizio del 1943, ma la scrittura risale all’estate-autunno del 1942. Le fasi della compilazione e della stampa si seguono grazie al carteggio Russo-Binni, in preparazione a cura di Lanfranco Binni e Raffaele Ruggiero (ringrazio i curatori per avermi autorizzato a leggere e citare il lavoro). In una lettera del 6 novembre 1942 Russo comunica a Binni di aver licenziato il terzo vol. 206 Ungarelli, Lettori di Contini, p. 527. Potrà essere interessante mettere a confronto i giudizi ‘postumi’ di due critici importanti, testimoni diretti di quegli anni, Cesare Cases e Luigi Blasucci. Dichiara, molto significativamente, il primo: «Io ero ostile alla critica ermetica, anche se ciò non ha lasciato quasi traccia nella mia produzione, perché la critica ermetica nel dopoguerra stava esaurendosi. A me non piaceva e questo fu il motivo per cui non capii la grandezza di Contini, perché per me lui era un esempio di critico ermetico. E lo era nella sua incapacità di esprimersi in modo chiaro» (Intervista a Cesare Cases, pp. 46-7; anche secondo Cesare Angelini, in una lettera a Prezzolini del 1970, la Letteratura dell’Italia unita era «appesantita da “presentazioni” semiermetiche»: C. Angelini – G. Prezzolini, Carteggio. 1919-1976, a cura di M. Marchione e G. Mussini, prefazione di G. Prezzolini, Roma 1983, lettera 234, del 6 luglio 1970, pp. 208-9, a p. 208). Riflette invece Blasucci: «Con l’occhio del lettore postumo, si dovrà tuttavia distinguere tra i due tipi di allusività: quella di Contini era sostanzialmente dotta, non suggestiva: talché la stessa qualifica di “ermetica” suona ora come piuttosto impropria. Se ermetismo era, si trattava di quello intellettualistico del trobar clus, non di quello evocativo e iniziatico del simbolismo. Mutatis mutandis, l’equivoco “ermetico” si è consumato a suo tempo anche per la poesia di Montale, il cui innegabile obscurisme appare ora a tutti di tempra diversa dall’orfismo ermetizzante» (Blasucci, Pensieri
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normalista che nel 1937-1938 era stato tra i primi ‘allievi’ di Contini, del quale aveva seguito in Facoltà le lezioni di Lingua e letteratura francese: Aurelio Roncaglia. Esprimendo, a distanza, un giudizio estremamente convincente sullo stile (e sul presunto ‘ermetismo’) di Contini, a riprova della precoce consapevolezza, tra i giovani normalisti, del diverso peso specifico del linguaggio critico continiano a fronte di quello ermetico, Roncaglia rievoca una squisita formula di matricolaggio che si esercitava imponendo al malcapitato un esercizio di traduzione parallela di pagine continiane e di testi riconducibili alla ‘critica ermetica’. Esercizio dall’esito sintomatico: al quale, apprendiamo, potrebbero essere state sottoposte, in quel 1937-1938, matricole del rango del futuro Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, di Gianfranco Folena e di Scevola Mariotti (Roncaglia fu normalista dal 1935 al 1939)207. Scrive dunque Roncaglia:
su Contini, pp. 366-7). Su altro piano, è molto significativo che anche Nencioni, nella commemorazione lincea, abbia ritenuto necessario negare l’«ermetismo iniziatico» dello stile continiano: «Diciamo subito che il suo dettato non è – come facilmente si è sentenziato – arduo per ermetismo iniziatico o per sfoggio di impennate, ma per energia lessicale, per fulmineità connettiva, per frequenza di riferimenti espliciti e impliciti. Al lettore insomma è fatto carico di adeguarsi al ritmo mentale e alla cultura del critico; il quale anzitutto, come innovatore epistemologico, è creatore di nomenclatura» (G. Nencioni, Gianfranco Contini, «Rendiconti dell’Accademia dei Lincei», Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, s. ix, 1, 3, 1990, pp. 275-84, poi in Id., Saggi e memorie, Pisa [2000], pp. 419-28, a p. 425, citato anche da Serianni, La lingua del giovane Contini, pp. 755-6). Assegna Contini (piuttosto bizzarramente) a un «gruppo milanese» degli ermetici L. Anceschi, nella sua voce Ermetismo dell’Enciclopedia del Novecento, 2, pp. 741-51, alle pp. 748-9 (nella difficoltà della pagina continiana agisce «un gusto di prosatore raro non senza civetterie di erudito e coltivate preziosità»; avrebbe portato «nell’ermetismo uno spirito laico, un’accettazione della condizione ‘abbandonata’ dell’uomo, e, per quel che lo riguarda, un rifiuto di tutto ciò che si avvicini al territorio oscuro del misticismo e alle improprie esaltazioni dell’irrazionale»: osservazione del tutto condivisibile salvo, direi, nel presupposto). Ma vd. l’equilibrato e lucido giudizio di Aurelio Roncaglia nella commemorazione in Normale dell’anno successivo, più oltre citato. 207 Elenco degli allievi, pp. 191 (Ciampi), 259 (Folena), 345 (Mariotti), 447 (Roncaglia) (vd. anche C. Ciociola, La filologia di Folena, in Folena dieci anni dopo. Riflessioni e testimonianze, Atti del Convegno, Padova, 12-13 febbraio 2002, A cura di I. Paccagnella e G. Peron, Padova 2006, pp. 15-65, a p. 20 nota 15). Con squisita cortesia il Presidente Ciampi – pur non ricordando, per il tempo trascorso, se subì direttamente quella «goliardata» – mi conferma che gli studenti più anziani alimentavano, «terrorizzando» i più giovani, la «leggenda» della difficoltà dello stile continiano.
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Come definire questo stile? Cinquant’anni fa, avendo l’occhio a una (presunta assai più che reale) complicità consortile, era di moda trasferire dalla poesia alla prosa critica il cartellino di «ermetismo». Oggi dovrebb’essere chiaro che sotto la designazione d’epoca si confondono prodotti assai disparati. In alcuni domina un esibizionismo alquanto goffo e sostanzialmente gratuito; in Contini, le forme ellittiche e preziose risultano sempre funzionali. Ce n’eravamo bene accorti già noi normalisti e ne avevamo anche escogitato una divertente dimostrazione sperimentale. Una pagina d’un bonzo ermetizzante, che non nominerò, ed una pagina dello stesso Contini, scelta fra quelle di più ardua scrittura, venivano presentate a una matricola (magari il futuro Governatore della Banca d’Italia), assegnandole il còmpito di tradurle in lingua piana (o, come dicevamo, in «rustica Romana lingua») esplicitandone tutte le implicazioni. Il risultato era invariabile: la pagina continiana dava luogo a una parafrasi assai più ampia e densissima d’idee; l’altra si riduceva a poche frasette d’estrema banalità concettuale. Davvero «ermetismo» quello di Contini, o non piuttosto stile funzionale alla straordinaria fittezza di riferimenti e rapidità di pensiero? E poi, per quanto avvalorato dal richiamo a Montale (oggetto, per Contini, d’Una lunga fedeltà), il termine di «ermetismo», astratto da certe funzioni di copertura politica che aveva negli anni del fascismo, mal si addice a quello che ho conosciuto come uno degli uomini più avidi di comunicare con tutti, umanamente curioso di tutto208.
6. Il 24 agosto 1942 una lettrice attenta e colta, Adelaide Dore Pintor, scriveva al figlio Giaime di aver ultimato la lettura del Mulino del Po. Lo stesso giorno, Glauco Natoli scriveva a Giaime, chiedendogli copia delle Rime di Dante (ormai esaurite, abbiamo visto). Il giorno precedente, 23 agosto, era uscita nel «Corriere della Sera» una Tastiera di Antonio Baldini nella quale si parlava del Contini dantista (e il riferimento non poteva essere che alle Rime) e del Contini contemporaneista, e in specie del critico di Bacchelli. Dedè Pintor, tra ironie e riserve, concludeva che «tornare indietro di quasi un secolo è un po’ troppo anche per chi guarda agli ermetici con perplessità»: ho letto, o quasi letto, le duemila pagine del Mulino del Po. Impossibile chiarire la complessità dei sentimenti e del giudizio che un’opera siffatta
208
Roncaglia, Ricordo di Gianfranco Contini, pp. XXXIII-XXXIV.
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suggerisce. Ammirazione umiliata di fronte a una documentazione così spaventosa; ribellione di fronte a uno stile così volutamente faticoso che sembra rimproverare al Manzoni periodi troppo semplici e vocaboli troppo comuni; urto per le continue manifestazioni di falsa modestia da parte di un autore che dev’essere un pozzo di superbia e che certo sapeva di candidarsi all’Accademia e di diventare il paladino della tradizione e l’eroe delle tradizionali virtù di fede patria e famiglia; stanchezza immensa e tuttavia una certa vena d’interessamento per cui ho dovuto saltare parecchio ma non ho potuto abbandonare la folla dei personaggi e l’ingranarsi delle vicende. Graziosa assai una postilla trovata nel libro per opera di un anonimo lettore del Gabinetto Vieusseux: «… ma che plagiatore quel Manzoni!». Si potrebbe aggiungere che tornare indietro di quasi un secolo è un po’ troppo anche per chi guarda agli ermetici con perplessità e giudica che in non pochi dei moderni libri stranieri più diffusi si balbetta spesso e si conclude poco209.
La predilezione di Contini per Bacchelli, che certo può sorprendere, non aveva mancato di colpire, in quegli anni, un lettore acutissimo degli Esercizî, Claudio Varese. Ne scriveva, in una lettera riconducibile al giugno 1941, a Giuseppe Dessì in questi termini: «Anch’io non amo tanto il Bacchelli: anzi ne scrissi una fierissima stroncatura a Cantimori anche lui, come Croce, ma anche come Contini, ammiratissimo»210. Uno dei tramiti fu Gadda, al quale nel 1934 Bacchelli aveva ottenuto il Bagutta per il Castello di Udine: «almeno del primo Gadda – scrive Contini – fu caldo fautore l’altro rondista Bacchelli (del quale Gadda non ebbe pace finché non divenni amico anch’io)»211. Il 14 febbraio 1940 Contini parlò all’Istituto Italiano di Cultura di Losanna del Mulino (il 28 delle Meraviglie d’Italia)212. Da una lettera di Bacchelli ad Antonio Baldini, pubblicata da Giovanni Spadolini, si viene a sapere che nel luglio del 1940 fu l’autore del Mulino in persona a suggerire a Baldini, per l’articolo ‘manifesto’ da destinarsi al romanzo nella «Nuova Antologia», il nome di Contini (in alternativa a quello di Missiroli). Ed Da casa Pintor, pp. 183-4, a p. 184. Lettera 127, del [giugno 1941]: Dessì - Varese, Lettere 1931-1977, pp. 184-5, a p. 184. Su Contini critico di Bacchelli vd. Varese, Gianfranco Contini (II), pp. 403-4. 211 Contini-Gadda, Carteggio 1934-1963, p. 96. 212 Scartafacci di Contini, p. 44 n. 20 (riproduzione dell’invito inviato da Contini a Gadda). 209 210
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è notevole il coinvolgimento di Luigi Federzoni, all’epoca direttore della «Nuova Antologia» nonché presidente dell’Accademia d’Italia (della quale Baldini era entrato a far parte nel giugno del ’39). I termini della proposta sono rilevanti e meritano ampia citazione: vi si allude, tra l’altro, al recente commento alle Rime; alle «attinenze» di Contini «cogli “ermetici” (che ti sembreranno, e paiono anche a me, troppe)»; alla «molta autorità, benché giovanile» di cui il suo giudizio avrebbe goduto «fra gli intendenti». Bacchelli concludeva affermandosi convinto che, «messo alle prese con un argomento concreto e corposo, egli spoglierebbe certa involutezza e astrattezza, ch’è più della scuola che sua»: Per rispondere alla tua domanda, se ho altri nomi da proporti, vorrei che tu prendessi in considerazione Gianfranco Contini. Certo lo conosci per il suo commento alle Rime di Dante e per l’altra sua attività di critico e di filologo. (È il «comandato» alla cattedra di filologia romanza all’università di Friburgo). Non considerar tanto la sua scienza (che è molta), e le sue attinenze cogli «ermetici» (che ti sembreranno, e paiono anche a me, troppe). Da parte il suo gusto, ch’è fine assai, e l’ingegno vivo che egli ha, ti posso assicurare che il Contini, oltre a conoscer bene le cose mie, ha della terra e delle genti del «Mulino» una conoscenza (anche diretta) vivissima, concreta e simpatica. In merito a fare cotesto articolo, credo che gli sarebbe tanto più gradito, quanto meno se l’aspetta e credo che lo farebbe volentieri. Se poi tu lo sollecitassi a mettere anche in luce, come mi dici esser desiderio di Federzoni, il contenuto storico-sociale del «Mulino», conseguendosi questo da un ingegno, come il suo, d’impostazione rigorosamente filologica ed estetica, riuscirebbe tanto più persuasivo. Insomma, più ci penso, e più credo che sarebbe una buona idea, che avrebbe anche il pregio di una certa novità, e, in difetto di certa autorità, che il Contini non ha ancora, giornalistica il suo giudizio sarebbe per altro di molta autorità, benché giovanile, fra gli intendenti. Sottopongo dunque l’idea alla considerazione tua e di Federzoni. Alla peggio, quando mai l’articolo non riuscisse abbastanza intonato o esplicito al fine di mettere, come tu dici, il «Mulino» all’ordine del giorno, se non ti sembro indiscreto nel dirlo, a questo fine potrebbero provvedere due parole di «cappello» redazionale. Ma qui m’accorgo d’entrar nei fatti tuoi e della rivista, per cui ti chiedo scusa. Per altro, al Contini, pensaci. Credo di poter dire anche, che messo alle prese con un argomento concreto e corposo, egli spoglierebbe certa involutezza e astrattezza, ch’è più della scuola che sua. In caso, potresti raccomandargli
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con bel garbo di non far la teorica e la storia (il vizio della scuola è questo) del romanzo in sé e in generale. Ma non credo che vi sarebbe bisogno di questa raccomandazione213.
Baldini accettò la proposta. Il 10 agosto Contini gli scriveva: «Eccellenza, farò volentieri l’articolo sul Mulino del Po: per il 20 ottobre, tanto per fissare una data»214. Il saggio uscirà nella «Nuova Antologia» entro l’anno215. Mentre Russo, nell’estate del 1942, lavorava al secondo e al terzo volume della Critica letteraria contemporanea, Contini fu suo ospite, nella settimana di Ferragosto, a Vittoria Apuana216. In quell’occasione si sarà parlato di politica accademica, e probabilmente Russo avrà pregato Contini di approntare un curriculum (il curriculum al quale abbiamo fatto già cenno e che torneremo presto a citare). Intendeva servirsene per dar séguito al progetto di chiamata di Contini alla Facoltà di Lettere di Pisa a partire dall’anno accademico 1942-1943 (sull’insegnamento di Storia della lingua italiana). Grazie all’impegno di Russo (e all’appoggio, indiretto ma fattivo, di Gentile, che influì sul rettore dell’Università Carlo Alberto Biggini, futuro Ministro dell’Educazione nazionale dopo il «cambio della guardia» del 6 febbraio 1943 e poi nella Repubblica Sociale, e su Clemente Merlo) la chiamata sarà approvata all’unanimità dal Consiglio di Facoltà e dal Senato accademico il 12 ottobre. S’inseriva in una lungimirante manovra di Russo intesa a rafforzare il prestigio Lettera 19, del 31 luglio 1940: A. Baldini, Il sor Pietro, L’Antologia e la Nuova Antologia, Con una serie di lettere inedite di Bacchelli, Palazzeschi, Moretti e altri scrittori del Novecento, a cura e con introduzione di G. Spadolini, Firenze, Le Monnier, 1989 (Quaderni della Nuova Antologia, XXXVI), pp. 120-1. 214 Santarcangelo di Romagna, Biblioteca Comunale «Antonio Baldini», Fondo Baldini, Carteggi (Contini). 215 G. Contini, Il «Mulino del Po» e la carriera letteraria di Riccardo Bacchelli, «Nuova Antologia», 411, 1940, 1648, pp. 173-87: Bibl 40.08 > Un anno di letteratura, pp. 22-54 (= EL, pp. 302-24). 216 Lo si ricava da una lettera di Russo a Walter Binni, del 12 agosto 1942, in cui Russo scrive: «Qui c’è mio ospite Contini, e resterà fino al 17 o al 18» (dal già cit. carteggio in preparazione a cura di Lanfranco Binni e Raffaele Ruggiero). Da Vittoria è datata, il 16 agosto [1942], una lettera di Contini a Cecchi, in cui scrive tra l’altro «Qui ho visto un mucchio di gente con la quale s’è parlato di te. Una generale anfizionia letteraria s’è adunata su questa riviera» (lettera 31, del 16 agosto [1942]: L’onestà sperimentale, pp. 48-9, a p. 48). 213
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della Facoltà pisana, assicurandole tra l’altro l’insegnamento per incarico di professori autorevolissimi della Normale, quali Pasquali e Cantimori: Russo si avventurava a pronosticare l’approdo a Pisa, favorito dall’amicizia con Contini, di Roberto Longhi217. Ma la pratica, sul punto di essere ratificata anche a livello ministeriale (il 16 novembre è disposta la nomina), all’improvviso si arena per volontà del Ministro Bottai, il quale invoca (con nota del 21 novembre) il R.D.L. 25 febbraio 1939 n. 335, contenente «Nuove norme per la valutazione dello stato civile ai fini delle nomine e promozioni del personale dipendente dalle pubbliche amministrazioni», per dichiarare Contini non nominabile in quanto celibe218. A questa formalmente giustificabile motivazione alludono in molti nelle lettere di quei mesi, a partire dallo stesso Contini; che già il 19 novembre (la notizia si era evidentemente diffusa) informava Montale: «La mia nomina a Pisa (o a Milano) sembra ormai esclusa. Il pretesto amministrativo invocato è il mio non-coniugio. Ma non discorrerne perché anche troppi si sono occupati, quest’anno, delle mie faccende»219. A fine anno scriveva a Cecchi: «Il mio decreto di nomina a Pisa non fu potuto firmare, dice, per assenza di certificati matrimoniali (o, per surrogato, bellici); e sarà anche vero»220. Il 18 dicembre Giovanni Gentile, ancora speranzoso di risolvere la questione, scrisse a Russo citando giocosamente l’«ermetismo» di Contini: Del Contini, se ho ben capito quel che mi disse un giorno al telefono il Rettore Biggini, c’è ancora da sperare che presto, dentro l’anno, sposi la fidanzata che ha e che pare non abbia voluto affrettarsi a sposare ora subito per non aver l’aria di subordinare una cosa seria come un matrimonio all’interesse della cattedra. Ne sai nulla? Almeno in questa faccenda, potrebbe fare uno strappo al suo ermetismo!221
217 Russo ne riferì a Gentile il giorno stesso (lettera 198, del 12 ottobre 1942: Luigi Russo - Giovanni Gentile, 1913-1943, a cura di R. Pertici e A. Resta, Pisa 1997 [Carteggi di Luigi Russo, 1], pp. 323-4). 218 Vd. il commento alla cit. lettera 198 di Russo a Gentile (ibid. p. 323 nota 1). L’episodio è ricostruito in «Il paesaggio d’un presentista», pp. XXVIII-XXXI, e ora da De Giorgi, Contini nel mondo rosminiano, pp. 675-9, dal quale si apprende che nel corso della vacanza agostana in Versilia Contini aveva incontrato il rettore Biggini, del tutto favorevole alla chiamata. Cfr. anche Ungarelli, Pilules orientales continiane, pp. 107-8. 219 Lettera XVII, del 19 novembre [1942]: Eusebio e Trabucco, pp. 77-9, alle pp. 77-8. 220 Lettera 34, del 30 [dicembre 1942]: L’onestà sperimentale, pp. 51-3, a p. 53. 221 Lettera 200, del 18 dicembre 1942: Luigi Russo - Giovanni Gentile, 1913-1943, p. 326.
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Frattanto, il 23 agosto 1942 era apparsa nel «Corriere della Sera» una Tastiera di Antonio Baldini nella quale, prendendo a pretesto l’ampio e impegnativo saggio del 1940 su Bacchelli, pubblicato dallo stesso Baldini nella «Nuova Antologia» e riproposto all’inizio del 1942 – il «finito di stampare» è del 30 gennaio – in Un anno di letteratura), era espresso un giudizio esplicitamente limitativo, che puntava sull’oscurità del contemporaneista, opponendola alla (affermata) trasparenza del dantista222. Scriveva Baldini: Non dirò io giudice cattivo Gianfranco Contini. Ma resta per me un mistero il fatto che quando questo giovine filologo di così grande e riconosciuto valore entra a discorrere dei testi dei primi secoli della nostra letteratura riesce sempre lampante e istruttivo e quando invece entra a discorrere di scrittori contemporanei si fa un obbligo, e quasi diresti un vanto, di scriver faticoso e infruscato223. Scrive di Dante, che abita così alto e lontano, e capisco tutto; parla di Bacchelli, scrittore che sta qui di casa e che da trent’anni io frequento d’opera e di persona, e mi debbo chiedere più volte che cosa Contini gli ha voluto far dire. E non c’è dubbio che il critico tratti con la stessa serietà d’impegno quelle sestine e quei discordi, e queste fiabe e questi romanzi. Si legge negli Avvisi di Roma del 16 dicembre 1678: «Il signor cardinale Chigi si serve di due parrucche, una con la chierica e l’altra senza, e con la prima frequenta le funzioni d’obbligo e coll’altra le conversazioni dal tramonto del sole allo spuntar dell’aurora». Che ci sia scambio di parrucche? Che Dante sia per Contini funzione d’obbligo diurna e Bacchelli e gli altri scrittori d’oggi siano per lui tema di conversazione notturna?224 Di Baldini Contini aveva a suo tempo recensito, nell’«Italia letteraria», 9, 39 (24 settembre 1933), p. 6, gli Amici allo spiedo: Bibl 33.09 > Esercizî di lettura, ed. 1939, pp. 117-22 (= EL, pp. 112-7). Recensito «duramente», scrive Isella in Contini-Gadda, Carteggio 1934-1963, p. 14. In realtà, l’avverbio meglio si giustifica proprio leggendo la lettera 3, del 7 giugno [1934], di Contini a Gadda, alla quale Isella fa riferimento: ibid., pp. 28-30. 223 L’agg. infruscato, nel valore figurato di ‘difficile, oscuro’, a norma di GDLI è ricorrente in Bacchelli (Grande dizionario della lingua italiana, vii, 1972, p. 998, s.v.). 224 A. Baldini, Tastiera. 1-43. 1940-1947, Con prefazione di F. Gabrieli, [A cura di N. Vian], Roma [1977] (Quaderni dell’Accademia dell’Arcadia, 3), pp. 69-70. È necessario però leggere anche la partizione successiva della Tastiera (che evidentemente è il séguito di quanto precede): «Qualcuno dice: “Facilone, tu vorresti la pappa bell’e scodellata; tu vorresti l’atlantino con tutte le mappe ben distinte e colorite, e Bacchellia spiccante in vermiglio, col colore delle sue tipiche copertine garzantiane, Papinia tutta verde, 222
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La metafora, brillante e divertente, delle due parrucche pungeva nel vivo: perché puntava sagacemente a neutralizzare, scardinandolo (ammettendo cioè il filologo deterso a trattare di tecnica e di autori antichi, ma respingendo e isolando il contemporaneista «abracadabrant» e ‘notturno’), quello che nell’autoconsapevolezza del critico era l’elemento di forza del suo ‘esperimento’ gnoseologico: l’unità – individualmente (‘monograficamente’) applicata all’oggetto – del punto di vista, e la riduzione alla ‘presenza’225. In quella pendolarità (o bigamia, o poligamia, o «bifrontismo»), «da grande libertino della cultura» – dalla quale deriva, scrive Mengaldo, «un’illuminazione reciproca delle opere di un periodo attraverso quelle dell’altro» – si attuava, in chiave diacronica, «una verifica personalissima, cioè nel dritto ma anche nel rovescio, dell’assioma crociano essere tutta la storia storia contemporanea»;226 nella «dialettica di filologia e di presenza che Ungarettia tutta in lilla, Bontempellia in giallo e la repubblichetta di Sinisgallia color d’ocra come quella di Andorra. Ma invece le cose non vanno lisce come tu le pensi, e se lo smalto di quelle opere antiche non patisce oramai più alterazioni, il colore di queste opere ancora germoglianti è suscettibile di sempre nuovi arricchimenti, sfumature e variazioni: si dà qualche volta il caso d’una che a un certo momento stinga nell’altra: dimodoché il giudice loro contemporaneo deve procedere con quattro paia d’occhiali sul naso, attento anche alle sorprese, di rifrangenza che otto lenti comportano. Per tagliar troppo di netto, criticoni con tanto di mitria presero granchi madornali: Aristarco Scannabue non vide Goldoni e Benedetto da Pescassèroli non vide Pascoli. Lo scandaglio va calumato in acqua più e più volte con ogni circospezione. Le somme si tireranno domani”. (Non discuto: vada anche per quattro parrucche. Poco male, ma la fatica a leggervi io non la durerò)» (p. 70). 225 Il motivo del doppio registro stilistico continiano avrà una sua vitalità critica. Vd. ad es. quanto scrive Blasucci: «Queste considerazioni sullo stile debbono comunque fare i conti con i generi trattati da Contini e con la stessa sua diacronia. La scrittura dell’introduzione alle Rime dantesche e dei ‘cappelli’ premessi ai singoli testi, di nitida architettura e di sobria metaforicità, non è quella degli Esercizî di lettura, sintatticamente mossa, ammiccante e figuralmente farcita. La prima è la scrittura del filologo e dello storico, la seconda quella del saggista. I due ‘generi’ continueranno a persistere nella produzione del Contini maturo, con prevalenza quantitativa del secondo, ma senza le punte di ‘allusività’ toccate negli Esercizî. Qui Contini pagava storicamente il suo scotto alla scrittura critica dell’ermetismo: l’allusività personale si sommava a quella generazionale» (Blasucci, Pensieri su Contini, p. 366) 226 Mengaldo, Preliminari al dopo Contini, p. 165. E cfr. Roncaglia, Ricordo di Gianfranco Contini, p. XXI: «La “divaricazione” – termine mutuato da Cecchi, ma diventato sùbito e tipicamente continiano, come l’atteggiamento che definisce –
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fa la vita della cultura» (di cui aveva scritto Contini rispondendo, nel 1941, all’inchiesta di «Primato» sull’università)227. E l’illuminazione si acuiva attraverso la circolarità delle movenze stilistiche del critico e del filologo228. Ci si può interrogare sul motivo (se pur ve ne fosse uno) dell’uscita baldiniana alla fine dell’agosto 1942. L’occasione personale – la pubblicazione del saggio su Bacchelli (successiva di un anno all’uscita delle Rime) – risaliva, come sappiamo, addirittura a due anni e mezzo prima (fine 1940). La ristampa del saggio in Un anno di letteratura era, certo, più ravvicinata, ma risaliva pur sempre a fine gennaio 1942. Il motivo della puntura di fioretto sfugge. Resta la sensazione che la scelta dei tempi sia, forse, non casuale. Per Contini stavano maturando in quelle settimane sviluppi di carriera importanti: e, nelle allusioni all’‘ermetismo’, i risvolti politici, per quanto mimetizzati, sono spesso presenti229. non è giustapposizione arbitraria d’oggetti tra loro distanti ed irrelati. È tensione consapevolmente mirata all’integrazione di passato e presente, attualizzando il valore dei sedimenti storici e reciprocamente conferendo al gusto attuale, magari d’avanguardia, coscienza piena e corroborante della propria storicità»; subito prima aveva alluso alla «crociana contemporaneità della storia» (cfr. Leoncini, L’onestà sperimentale, «istante privilegiato», pp. 804-35, alle pp. 812-3). 227 Le Università e la cultura, «Primato», 2, 10 (15 maggio 1941-XIX), pp. 5-6: Bibl 41.07 > Un anno di letteratura, pp. 151-55, sotto il titolo Risposta a un’inchiesta sull’università (= EL, pp. 387-89, a p. 389). Cfr. Roncaglia, Ricordo di Gianfranco Contini, pp. XXI-XXII; Ungarelli, Lettori di Contini, p. 529. 228 Sempre per Mengaldo, quello di Contini è «uno stile antiaccademico ed eminentemente saggistico che volentieri egli trasferì anche a temi più “aridamente” filologici, quasi a marcare anche per questa via l’indissolubilità di critica e filologia e la natura né servile né meccanica di quest’ultima. Più volte Contini si è dichiarato convinto che non si dia critico importante che non sia anche equipollente scrittore» (Mengaldo, Preliminari al dopo Contini, p. 168). Sull’ultimo punto, si confronti Blasucci, per il quale «quel suo stile inventivo e metaforico» è «il suo vero modo di essere poeta» (Blasucci, Pensieri su Contini, p. 360). 229 Scrive Alexander Stille, riferendosi al padre Ugo (Misha Kamenetzki) e al di lui amico Giaime Pintor: «A mio padre e a Giaime non piacevano affatto gli scrittori osannati dal regime – D’Annunzio, Marinetti e Papini – con il loro nazionalismo esagerato, il linguaggio stravagante e la glorificazione della guerra. Amavano gli scrittori “ermetici”, come il poeta Eugenio Montale e il romanziere Elio Vittorini, le cui opere erano sempre antiretoriche e il cui stile a volte oscuro era denigrato dai fascisti in quanto sembrava celare una sorta di implicita critica alla cultura dominante» (A. Stille, La forza delle
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Con acume retrospettivo, di testimone diretto e tutt’altro che agnostico, nel 1966 Carlo Dionisotti concludeva (nell’ultima pagina di Geografia e storia) il memorabile riepilogo della Varia fortuna di Dante nel nome delle Rime del 1939, del senso e dei modi di quella riapparizione, sul limitare del baratro, di un Dante «isolato, diverso e in parte nuovo, nei tempi grossi»: Riapparve nel 1939, quando un editore torinese, Giulio Einaudi, noto per pubblicazioni di tutt’altro genere, e per aver raccolto intorno a sé il nerbo di un’opposizione politica giovanile, aggiuntasi a quella tradizionalmente schierata fra Napoli e Bari sotto la guida del Croce, pubblicò l’edizione delle Rime curata da Gianfranco Contini. In questa edizione, monda di ogni compromesso col passato, per la prima volta si ristabilì un punto d’incontro fra la più esperta filologia universitaria e la corrente ermetica che era in quel momento stesso all’avanguardia della letteratura militante in Italia. A distanza, e ripensando all’antefatto, l’incontro appare decisivo230.
cose. Un matrimonio di guerra e pace tra Europa e America, Milano 2013 [Saggi], p. 135). Quanto a Baldini, è molto notevole l’episodio narrato nella commemorazione In memoria di Augusto Campana, «Italia medioevale e umanistica», 36, 1993, pp. 1-46, alle pp. 15-6. 230 C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante, «Rivista storica italiana», 78, 1966, pp. 544-83, poi in Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, pp. 255-303, a p. 303. E cfr. A. Stussi, Ricordo di Carlo Dionisotti, «Intersezioni», 18, 1998, pp. 37988, poi in Id., Tra filologia e storia. Studi e testimonianze, Firenze 1999, pp. 279-91, a p. 288 (anche, sotto il titolo Carlo Dionisotti, in Id., Maestri e amici, a cura di C. Ciociola, V. Formentin, F. Franceschini, M. Tavoni, Bologna 2011, pp. 35-47). Alle Rime del ’39 si rifarà Dionisotti nell’ultima, bellissima lettera a Contini (da Londra, 18 gennaio 1989): «Caro Contini, siamo chiusi nel guscio di una lunga vita. Ed è grazia che possiamo ancora leggere scrivere e non curarci dei conti. Anche è grazia che abbiamo amici comuni, buoni amici di varia età fino alle ultime tue leve pisane, che andando a Domo passano per Romagnano, e mi assicurano che bene o male tutti, vicini e lontani, vecchi e giovani, ti abbiamo avuto maestro. Dalle rime di Dante: cinquant’anni netti» (Firenze, Fondazione Ezio Franceschini, Archivio Contini, 13. Corrispondenza, fascicolo 841: per l’elenco completo delle lettere di Dionisotti vd. Borgia, Inventario dell’Archivio di Gianfranco Contini, pp. 297-99 nn. 841-2; la trascrizione è estratta dall’edizione del carteggio Contini-Dionisotti, in preparazione: vd. intanto C. Ciociola, L’impazienza di più lunghi conversari. Dal carteggio di Carlo Dionisotti con Gianfranco Contini, in Il mondo e la storia. Studi in onore di Claudia Villa, Firenze in c.s.).
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Per Dionisotti l’ascrizione di Contini alla «corrente ermetica» (giudicata, in positivo, «avanguardia della letteratura militante in Italia»), e in ogni caso non alla critica ermetica, aveva ormai valore di giudizio storiografico. E il fulcro del giudizio risiede nella lucida lettura del carattere «decisivo» della saldatura. «Non si fa storia dell’antico senza esperienza del moderno» aveva del resto scritto nel Ricordo di don Giuseppe De Luca, apparso in «Italia medioevale e umanistica» nel 1961231. E qui aveva tracciato una rapida storia della filologia italiana tra le due guerre (Pasquali, Debenedetti, Barbi), richiamandone gli antefatti tardo-ottocenteschi e primo-novecenteschi (la tradizione fiorentina di Parodi, incarnata nel suo allievo Schiaffini: collaboratore di don De Luca agli esordi delle Edizioni di Storia e Letteratura, e autore, tra l’altro, della proposta di raccogliere gli studi filologici di Contini), e il significato che aveva assunto nel quadro più generale della crisi che si addensava sull’Italia e sul mondo. Anche in questo caso aveva sottolineato il valore epocale dell’apparizione, nel ’39, delle Rime di Dante, proprio per il loro valore di «saldatura, in chiave filologica e polemica, dei due disgiunti fronti della letteratura e della storia»232.
C. Dionisotti, Ricordo di don Giuseppe De Luca, «Italia medioevale e umanistica», 4, 1961, pp. 327-39, poi, sotto il titolo Il filologo e l’erudito, in Don Giuseppe De Luca. Ricordi e testimonianze, a cura di M. Picchi, Brescia 1963, pp. 143-67, a p. 157 (anche, in anast., Roma 1998; per le numerose ristampe del contributo vd. Carlo Dionisotti. Geografia e storia di uno studioso, a cura di E. Fumagalli, Roma 2001 [Uomini e dottrine, 34], Bibliografia, a cura di M. Ferrari, p. 166). 232 È un lungo e memorabile passo, che merita di essere rimeditato nel suo complesso: «Si spiega che in tali condizioni, al limite di frattura, poesia e prosa volgessero all’ermetismo, critica e storia alla filologia. Per la sua aderenza e subordinazione ai fatti, per la preziosità stessa del suo linguaggio scarno e preciso, la filologia era da poco tornata in Italia di moda. La via era segnata dalla Storia della tradizione di Pasquali (1934), dall’edizione dei frammenti autografi ariosteschi di Debenedetti (1937), dalla Nuova filologia di Barbi (1938). Nel 1939, in esatta coincidenza con lo scoppio della guerra, apparve l’edizione Contini delle Rime di Dante. Si ebbe così, al momento giusto, una prima essenziale saldatura, in chiave filologica e polemica, dei due disgiunti fronti della letteratura e della storia, una linea difensiva che poteva, e di fatto poté, reggere all’urto degli eventi. Ma era un fronte necessariamente ristretto, per una difesa a oltranza. La grandezza di Barbi, di Debenedetti, di Pasquali, non può far velo oggi al riconoscimento dei limiti storici di una filologia nata e cresciuta in tutt’altra stagione, fra Otto e Novecento, in pieno accordo con la situazione pacifica di allora o, al più, con le illusioni della prima guerra mondiale e del dopoguerra, nel quadro ancora di 231
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Nel meditato curriculum del 1942 l’interconnessione («congiunzione») tra attività ‘tecnica’ (filologica) e attività militante era stata consapevolmente rivendicata: Contemporaneamente alla sua attività di romanista e di italianista, il C. ha esercitato, ormai da una decina d’anni, anche un’estesa attività di critico militante, collaborando alle principali riviste letterarie italiane, da quelle d’avanguardia (L’Italia letteraria, Circoli, Solaria, Letteratura, Corrente, ecc.) a quelle ufficiali (Pan, Nuova Antologia). Il prodotto di quest’attività è per la maggior parte raccolto in due volumi di saggi, Esercizî di lettura sopra autori contemporanei, con un’appendice su testi non contemporanei (Parenti, 1939) e Un anno di letteratura (Le Monnier, 1942). Questi volumi contengono anche scritti su autori classici, Boiardo, Michelangelo, Manzoni, ecc. (oltre alla Chanson de Roland, a Marie de France ecc.); ma qui va specialmente notato che l’analisi linguistica vi figura spesso come strumento di critica (così nei saggi su Clemente Rèbora, Carlo Emilio Gadda, Bacchelli, e del resto in senso largo ovunque), qualche volta come strumento predominante o esclusivo (così nei saggi sulle correzioni dell’Ariosto e sul francese dannunziano). In quest’ambito di critica linguistica, che si svolge un po’ nella direzione del Vossler e dello Spitzer, benché indipendentemente da loro, è anche esternamente un ponte di congiunzione fra il C. filologo e il C. critico militante233.
Da questa consapevolezza – quella di «un tecnico dagli infiniti scrupoli» – discende, e in questa luce deve interpretarsi, l’irritata reazione una indiscussa preminenza europea e laica. La guerra che si annunciava, che già era in corso, era guerra religiosa e mondiale. […]. A questi precedenti non mi pare dubbio che in qualche modo si legasse anche l’impresa iniziata da Don Giuseppe De Luca nel 1942 con le sue Edizioni di Storia e Letteratura. Basti ricordare la ristampa, come primo volume della nuova collana, del fondamentale studio di Schiaffini sull’antica prosa d’arte italiana, e la parte direttiva che lo stesso Schiaffini ebbe, accanto a Don Giuseppe, nella fase iniziale dell’impresa. Era, con Schiaffini, la presenza della tradizione allora e tuttora più nobile nel campo della filologia italiana: la scuola fiorentina di Parodi» (Dionisotti, Ricordo di don Giuseppe De Luca, pp. 146-7). 233 Continua e conclude: «E da questo riguardo vanno ricordati due tentativi di esame critico su dati linguistici “puri”, l’uno su Boine (in Lingua nostra), l’altro su Pea (in Letteratura), com’è un tentativo di esame critico su dati filologici, oltre il citato saggio ariostesco, quello sulle correzioni di Petrarca imminente nel volume petrarchesco di Primato» («Il paesaggio d’un presentista», pp. 48-9 e cfr. la nota 24).
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alla Tastiera di Baldini. Scriveva Contini a Russo nella lettera dell’autunno 1942 che accompagnava il curriculum (lo spunto nasceva evidentemente da un accenno dello stesso Russo in una lettera purtroppo non conservata): Anche Bacchelli m’ha scritto per quella Tastiera, con benevolo sfottò del di lei autore. Mica male davvero l’idea delle due parrucche, ma io che c’entro (ha ragione Lei)? (io sono l’“applicazione”, la superfetazione; gli servo per “far bello”). Nego infatti maiorem: l’introduzione a Dante non è più corsiva del saggio su Bacchelli; là e qui e sempre, quando scrivo di fonetica o di ecdotica cose che evidentemente l’autore della Tastiera non ha lette, sono una sola cosa, un tecnico dagli infiniti scrupoli. Può darsi benissimo che la tecnica grammaticale sia leggera come piuma, al confronto della tecnica dei sentimenti e delle idee, ciò non riguarda me234.
Laddove l’intento di Baldini era stato di far risaltare, per contrasto, l’oscurità (‘ermetica’, anche se l’aggettivo è evitato) del contemporaneista, ovvero del critico di Bacchelli («faticoso» e «infruscato»), contrapposta alla dichiarata trasparenza dello studioso dei testi dei primi secoli, ovvero del dantista («lampante» e «istruttivo»), ciò che a Contini preme – quasi rivendicando, paradossalmente, pari oscurità alle due ‘scritture’, e suggerendo che il riconoscimento della chiarezza del filologo, o meglio dello studioso di autori antichi, implicasse quasi un’accusa, rigettata, di maggior «corsività» (maniera «corsiva», in un altro luogo continiano, è contrapposto proprio a maniera «oscura»)235 – è di rivendicare l’unicità del punto di vista, si tratti dell’Introduzione alle Rime di Dante o di Bacchelli o di fonetica o di ecdotica, e l’identica dedizione ‘etica’236.
234 «Il paesaggio d’un presentista», p. 46, e cfr. pp. XXVII-XXVIII, dov’è anche puntualmente analizzata la vicenda della Tastiera. L’evocata lettera di Bacchelli non è purtroppo tra quelle conservate (la prima delle quali risale al 30 aprile 1943: Borgia, Inventario dell’Archivio di Gianfranco Contini, p. 198 n. 157). 235 «Galvani non sarà l’ultimo a prendere (o a simulare di prendere) le parti di Giraut de Borneil, questo letterato di cuor secco (ove simile organo vada a ogni costo citato), equidistante fra la maniera corsiva e proprio l’oscura, pur di deprimere Arnaut» (G. Contini, Prefazione a Arnaut Daniel, Canzoni, Edizione critica a cura di G. Toja, Prefazione di G. Contini, Firenze 1961, pp. VI-XIV: Bibl 61.06 (= VAL, pp. 311-7, sotto il titolo Premessa a un’edizione di Arnaut Daniel, a p. 313). 236 A onor del vero, come si ricorderà, Baldini aveva scritto: «E non c’è dubbio che il
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L’eventuale maggior leggerezza della tecnica grammaticale nei confronti della «tecnica dei sentimenti e delle idee» (ma «l’introduzione a Dante non è più corsiva del saggio su Bacchelli») riguarderà semmai l’oggetto, non il soggetto. Il quale, là e qui e sempre, è una sola cosa: «un tecnico dagli infiniti scrupoli».
critico tratti con la stessa serietà d’impegno quelle sestine e quei discordi, e queste fiabe e questi romanzi».
Contini, Croce, gli «scartafacci» Michele Ciliberto
Ogni posizione stilistica, o addirittura direi grammaticale, è una posizione gnoseologica. (G. Contini, 1935)
«I filosofi vanno confrontati con i filosofi», ha scritto Momigliano in un bel saggio sul concetto di tempo nella storiografia antica, e in linea di principio ha ragione1. Perché mettere a confronto, allora, Benedetto Croce, un filosofo, e Gianfranco Contini, un filologo, sia pure di altissimo livello e di massima apertura a territori estranei al suo campo professionale? Una risposta è che in ogni specialista, e quindi anche nel filologo, sono presenti, implicite o esplicite, opzioni di ordine teorico; ma, in questo caso, sarebbe una risposta assai generica. Contini ebbe infatti – ed è questa una delle tesi che intendo sostenere – una problematica strettamente filosofica, evidente negli scritti pubblici, ma soprattutto nei carteggi privati, nei quali esibisce in modo più chiaro e netto il rovescio filosofico del suo lavoro filologico. Né, in effetti, si tratta di una eccezione, di un caso particolare: in Italia, la filosofia, ancora negli anni Trenta, è una disciplina dominante nella enciclopedia delle scienze. Lo era fin dal primo decennio del secolo, come testimoniano le esperienze di personalità di primo piano – da Papini a Boine, allo stesso Serra, autore di un saggio su Kant e ideatore, insieme a Carlini, di una collana di classici filosofici per l’editore Laterza, che non vide la luce. Era, certamente, un lungo effetto della riforma intellettuale e morale di Croce e di Gentile, che imposero alla cultura italiana il primato della filosofia e, con esso, la circolazione, e l’uso, di un lessico speciale, che
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A. Momigliano, La storiografia greca, Torino 1982, p. 73.
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si ritrova in campi assai distanti da quelli professionalmente filosofici. Sia pure attenuato, è un impulso che continua ad agire anche negli anni Trenta, ma in forme e modalità differenti – a cominciare dal rilievo assunto, a quella data, dalla problematica di tipo religioso. Non che prima fosse stata assente – basta pensare alla Esperienza religiosa di Giovanni Boine e alla rivista che la ospitò, «L’anima», diretta da Amendola e Papini, orientata in senso nettamente antiidealistico, come questi nomi fanno subito comprendere. Rispetto al primo decennio del secolo, negli anni Trenta però la situazione muta per il rilievo e l’importanza centrale assunta allora dalla problematica di tipo religioso: e questo, oltre che per motivi politici, per l’affermarsi, a livello europeo, delle correnti di tipo esistenzialistico che, specie nella ‘traduzione’ francese, ebbero notevole successo anche nel nostro paese, e che toccano, in effetti, anche Contini (che pure diffidava profondamente del «dilettantismo esistenzialistico»)2. Alla cultura francese il giovane Contini fu, come si sa, assai sensibile. Ma il suo rapporto con la religione, e l’esperienza religiosa, si costituisce, e procede in forme sostanzialmente autonome, nell’ambiente rosminiano che frequenta fin da ragazzo, incontrando una personalità di primo piano come quella di Padre Giuseppe Bozzetti. Fu proprio Bozzetti, il cui nome ricorre anche nelle lettere a Cecchi e Montale, ad affidare al giovane allievo la rubrica Scrittori moderni della «Rivista rosminiana», su cui Contini pubblicò alcuni dei suoi più importanti interventi sulla poesia contemporanea. Sono cose note, su cui non insisto; mi interessa sottolineare invece, come in una sorta di introduzione, alcuni punti di ordine generale. Sia gli interessi filosofici che l’esperienza religiosa di Contini hanno, fin dall’inizio, in comune una interrogazione permanente sull’uomo e sul suo destino, sulla base – ed è un punto centrale, mai venuto meno – di una persuasione originaria: «l’uomo non è, ma diventa»; è una «funzione», si potrebbe dire in termini strettamente filosofici, non una «sostanza»3. Quello che interessa in modo costante a Contini è infatti il movimento; non la stasi. Aveva perciò ragione quando sosteneva che
2 G. Contini, Dove va la cultura europea?, a cura di L. Baranelli, con un saggio di D. Giglioli, Macerata 2012, p. 32. 3 Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, a cura di R. Broggini, prefazione di S. Salvioni, Bellinzona 1981, p. 19.
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Contini, Croce, gli «scartafacci»
per lui l’incontro con Montaigne era stato «una cosa importante, e da segnare un’epoca, della mia vita», come scrisse a Cecchi il 26 giugno del 1934, quando aveva 22 anni4. Era vero: si potrebbero citare le parole che aprono il saggio di Montaigne sul «pentirsi», se si volessero delineare alcuni caratteri costitutivi della sua posizione: «non descrivo l’essere. Descrivo il passaggio»5. È questa persuasione, strettamente filosofica, che spinge Contini, nel suo lavoro di critico, a ricercare, e a valorizzare, il movimento – appunto: il «passaggio» – nei poeti che studia, a cominciare da Montale. Il valore spirituale, e il significato esistenziale, della ricerca filologica, il suo strutturale carattere ‘sperimentale’, scaturiscono da questa radice, nella quale si stringono in un nodo inestricabile filosofia, religione, etica, trovando il «punto dell’unione» nella centralità assegnata al «lavoro» come metodo, norma di vita, «forma di etica» (ma su questo punto, che è fondamentale, bisognerà tornare più avanti). Forse, anche alla luce della sua esperienza, si può azzardare una considerazione di ordine generale, che coinvolge altri studiosi della generazione nata intorno al primo decennio del secolo: Contini, Garin, Dal Pra, Abbagnano, lo stesso Luporini, sia pure in modi differenti, erano attratti da tematiche che avevano a che fare con l’esistenza, con la condizione umana, ed esprimevano questo loro atteggiamento in pagine in cui poteva risuonare con forza anche la nota religiosa. Erano tutti alla ricerca di una vita nella quale la «persuasione» predominasse sulla «retorica» (‘persuasi’: un lemma intensissimo, presente in Luporini e in Garin, ma anche in Contini. E sarebbe interessante, per quanto lo riguarda, capire quale fosse la sua conoscenza sia di Michelstaedter, sia dei «filosofi della libertà» di matrice francese, a cominciare da Bergson e Blondel). Essere ‘persuasi’, per tutti loro, significava non restare chiusi nel cerchio della contemplazione, aprirsi all’azione, alla praxis, variamente concepita, ma sempre al centro di una esperienza intellettuale ed esistenziale che esibisce elementi comuni, e che si riverbera anche nel modo in cui sono concepiti il ‘valore’ e il suo rapporto con l’esperienza storica dell’uomo (‘valore’: un lemma centrale per Contini, come vedremo, in ogni sfera dell’attività umana).
L’onestà sperimentale. Carteggio di Emilio Cecchi e Gianfranco Contini, a cura di P. Leoncini, Milano 2000, p. 11. 5 Michel de Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini, vol. 2, Milano 1970, p. 1067. 4
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A Cecchi, che per lui fu un incontro fondamentale come quello con Montaigne, il 6 agosto del 1936 Contini descrive una esperienza esistenziale decisiva: avevo in mano due fuscelli, che aggiungevano un velo di resina al velo di nicotina […] subito utilizzai uno dei fuscelli e mi chinai a scrivere nella sabbia: huomo. E c’è rimasto. Alle famose domande: ‘Che cosa cantavano le sirene?’ ecc., si può aggiungere l’altra: ‘Che cosa scrisse Cristo, quella famosa volta?’. Da secoli, un certo gruppetto si pretende depositario della risposta, e, da secoli, un indubitabile prestigio si annette al fatto che l’Autore tornò a confondere la terra. Che furberia, in questo scancellare. E noi, ingenui, che si produce sempre le pezze d’appoggio, si tira fuori le carte a ogni passata ecc. Noi (dico io) ci guardiam dentro a ogni momento, e ci troviamo squallidi, impopolati da mistero6.
È un testo notevole, che ha spinto alcuni critici a parlare di «spunti mistico-esoterici», di un «gesto pre-razionale, ai confini dell’inconscio»7. A me non pare un approccio condivisibile. Contini sente la presenza incombente e lo spessore del mistero; ma, allora e poi, il suo sforzo è quello di contribuire a limitarlo e circoscriverlo, utilizzando tutti i mezzi e le risorse disponibili, e senza la boria tipica di coloro che credono di comprendere ogni cosa. E, nel far questo, non precipita mai in un atteggiamento prerazionale, tantomeno irrazionalista; anzi, si definisce, in modo esplicito, «un quasi razionalista»8. Nella sua posizione la consapevolezza dell’esistenza del mistero che ci circonda si intreccia, in modo costante, a un’assidua tensione alla conoscenza, concepita come strada maestra per uscire dalla miseria della «condizione umana», ritrovando, nella loro autenticità, anche le tracce di ciò che è stato «scancellato» da chi pretende di avere in mano le chiavi della verità, senza capire quanto sia complessa la realtà. Volutamente
L’onestà sperimentale, pp. 32-3. È la tesi di Paolo Leoncini nella sua interessante introduzione al carteggio ContiniCecchi, Tra metodo e linguaggio: la «critica onesta e umana», in L’onestà sperimentale, p. XIII. 8 Si definisce, per la precisione, «quasi razionalista, che fa dell’autobiografia»: Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, a cura di D. Isella, Milano 1997, p. 46. 6 7
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ho usato l’espressione di Montaigne, ripresa nel 1933 da Malraux. Al fondo, ciò che in questi anni è al centro della sua ricerca – dura, severa, talvolta impietosa, senza alcuno sconto verso se stesso – è precisamente l’interrogazione intorno al significato del vivere dell’uomo, alla giustizia di Dio, alla terribile presenza della violenza nella storia, al valore della poesia come (possibile) chiave di accesso alla conoscenza e alla verità, e perfino alla salvezza – s’intende, anche qui, quelle possibili per l’uomo, specie in un tempo di crisi, come quello che Contini è consapevole di vivere. Se si resta in superficie – abbagliati da un lessico pubblico tanto elegante quanto supremamente dissimulatorio (a differenza dei carteggi privati, nei quali affiora, per contrasto, un linguaggio addirittura escrementizio)9 –, non si afferra il carattere drammatico di una ricerca su cui è lo stesso Contini a voler fare fino in fondo chiarezza, mettendo le carte in tavola, almeno con gli amici più vicini. A Montale, sorpreso per aver visto cinque sue poesie pubblicate su «Prospettive», risponde, nel 1939, in termini perentori, che gettano luce proprio su questo insopprimibile fondo drammatico, e anche sull’impulso all’azione al quale si faceva ora riferimento, come tratto specifico della sua generazione: «Quei 5 pezzi, di cui per il momento m’interessa poco l’eventuale ‘valore-poesia’, sono una allusione (che negl’inediti è quasi sempre più diretta) alla lava che risiede sotto la crosta Esercizi + filologia romanza + grado IX ecc. Uncinarli e allinearli alla luce è stato per me, in un frangente biografico, una forma d’‘azione’»10. Né è l’unico punto nel quale Contini allude a se stesso, al suo carattere, all’impulso all’azione. Anzi, per quanto possa apparire a prima vista (ma solo a prima vista) paradossale, la sua scrittura, e la sua critica, sono densi di riferimenti autobiografici, come del resto egli stesso confessa in modo esplicito: «Di meno arido c’è un fatto – scrive nel 1933 ancora a Montale, il quale lo aveva ringraziato per il saggio che gli aveva dedicato sulla «Rivista rosminiana» –: nel rintracciamento di quella ‘crisi teoretica’ c’è molta autobiografia. Se i critici e i lettori confessassero tutti i loro bovarysmi […]»11. Sullo stesso motivo del «bovarysmo di certe preferenze» insiste, ed è sintomatico, anche nel 1936: certo, sono battute di un giovane
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Cfr. ad esempio, Eusebio e Trabucco, pp. 43, 52. Ivi, p. 58. Ivi, p. 6.
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precocissimo12. Ma un decennio dopo, nel 1947, confermandone il carattere strutturale, riprende il motivo in un’altra lettera a Cecchi, specificando che cosa si debba intendere per ‘oggettività’: perché, puntualizza, «per ‘oggettivo’ che si sforzi d’essere un autore, i suoi rapporti coi propri manufatti mantengono sempre uno spaventoso margine di soggettivo e privato»13. Sono lemmi («soggettivo», «privato») importanti, perché confermano la piena consapevolezza che Contini aveva della dimensione anche autobiografica dei suoi esercizi critici. Ma il problema è più vasto, e investe un nodo di carattere strettamente filosofico, concernente il giudizio sulla importanza, e sulla incidenza, della dimensione ‘empirica’ nella concezione sia dell’uomo che della condizione umana – si tratti di se stesso oppure dell’autore che si studia. Certo, elementi di questo tipo risaltano anzitutto nelle scritture private, nelle quali il filtro dell’autocontrollo è più debole, e di questo va tenuto conto. Ma, come testimonia la sua predilezione per Montaigne e anche per Alain, lo sguardo, anche crudele, su se stesso risulta costante nella sua esperienza, ed è importante notarlo per l’incidenza che l’‘empiricità’ – nel senso forte, filosofico del termine – ha nella genesi dell’interesse, strettamente filologico, per le varianti. A differenza di quanto avviene in Croce, nel quale la voluta estraneità, anzi la vera e propria diffidenza per l’individuo ‘empirico’ si connette strettamente al giudizio negativo sugli «scartafacci». Non è una sorpresa; anzi conferma quello che si diceva sopra: è dalla radice della ‘empiricità’ che sorge il ‘movimento’ e possono scaturire le varianti. Qualche esempio: nel 1935, facendo riferimento direttamente a se stesso, e perfino al suo corpo, Contini usa parole che colpiscono per intensità, e anche per la drammaticità della propria situazione esistenziale: Quando ero più solo, non pensavo che me; ora il mio corpo mi è estremamente remoto, perduto […]. Risultato: rivocare in dubbio almeno una volta al giorno la pretesa di essere clever, o malin, o astucieux. Forse non immagini (nessuno immagina) quanto io sia insicuro. Sarà lo stile, perché io mi esprimo troppo male? Sarà la compressione dell’educazione? Il mondo
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L’onestà sperimentale, p. 37. Ivi, pp. 77-8.
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esterno ha l’aria di vedere in me della certezza, magari arrogante. Non mi tocco troppo per non sentire il suono del vuoto»
(battuta nella quale riecheggia con chiarezza un motivo di Montaigne, detestato invece da Croce per questo suo continuo ‘toccarsi’)14. Su questi stessi temi insiste anche in una lettera a Gadda degli stessi anni: Lavoro parecchio ‘di’ filologia romanza. Ma la mia fiducia ha ricorsi periodici, come una sinusoide; m’inquieto (e non solo, s’intende, in filologia romanza): sono poi davvero qualcuno, o meglio, qualche cosa? o non esisto, effettivamente? E ho una paura pazza dell’errore, intanto che continuo a perpetrarlo; sento un’umiliazione da peccato originale. Allora non dovrei fare più nulla; so di non meritare; e inizio, gratuitamente, una nuova apertura di credito […]; sebbene, fondamentalmente, l’individuo che ha meno stima di me sia proprio io stesso. Passo, ho l’impressione, per un mezzo lucifero. Eh, Cristo […]15.
Gli stessi motivi tornano in una lettera ad Henry del 18 novembre 1935: «Il n’y a pas de motif précis à mon infélicité, puisque le sentiment très général de ma nullité et de l’inutilité de la vie est de nature à exclure toute analyse et toute cause spécifique»16. Sono tutti testi che riconducono a quella centralità della riflessione sulla «condizione umana», sperimentata anche sul piano personale e svolta, in qualche caso, con toni di matrice esistenzialistica, che vanno sottolineati: ho imparato molto nel mese di aprile – scrive nel 1934 a Cecchi –, e una di quelle sere, che uno vorrebbe poter morire con un atto di volontà (e la
Eusebio e Trabucco, p. 30. G. Contini, C.E. Gadda, Carteggio 1934-1963, a cura di D. Isella, G. Contini, G. Ungarelli, con 62 lettere inedite, Milano 2009, p. 29. 16 Si tratta di una lettera ad Albert Henry citata da D. De Martino, «Parigi col suo zucchero…». Lettere di Gianfranco Contini ad Albert Henry 1935-1945, in Due seminari di filologia (Testo e apparato nella filologia d’autore: problemi di rappresentazione; Filologia e critica stilistica in Gianfranco Contini 1933-1947), a cura di S. Albonico, Alessandria 1999, p. 185. 14 15
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disperazione gli fa capire finalmente che val la pena di esistere e dell’esistere non essendoci un frutto migliore), io smisi di scriverle, come dovevo […]. Mi perdoni, insomma; e imputi tutto alla nevropatia: questi accessi, entusiasmi, velleità, bulimie, e poi cadute, e decadenze, vedo bene che sono un morbo […] di letteratura non faccio quasi più nulla. Intendo che neppur di mio, in proprio, non scrivo un rigo. C’è l’ignavia che mi guadagna, senza darmi pace; passo dei giorni a rodermi. Ma dovrei essere un po’ più felice. Senza un minimo d’‘ordine’, come dico io, la letteratura non alligna»17.
Sono questi gli anni nei quali Contini si distacca, anzi si contrappone, in modo diretto e consapevole, al proprio tempo, all’epoca in cui vive. Un solo esempio: in una lettera del 1935 scrive: «L’indécision n’est pas sans quelques délices, dont je m’amuse follement. Ce n’est que la décision, croyez-moi, positive ou négative, qui fait le mal du monde. Je goute peu mon acte de décision libre, mais je goute infiniment l’instant (non pas la période illimitée) qui précède l’acte par lequel quelqu’un choisit pour moi […]. L’imperfection du présent contamine le passé […] Abstine, abstine. Ne choissisez pas»18. La lettera, si è detto, risale al 1935. Nello stesso anno, Cantimori su «Studi germanici» dedica un saggio a Carl Schmitt e alla centralità da lui assegnata alla ‘decisione’, citando in nota il saggio di Fiala – cioè Löwith – su Politischer Dezisionismus. In quegli stessi anni Benjamin discute di Schmitt, del concetto di sovranità, della decisione19. È difficile stabilire se Contini conoscesse i termini di questa discussione; certo Cantimori era in stretta relazione con Capitini e nella loro corrispondenza di questi anni di ciò si discute, confliggendo in modo aspro: di politica, di non violenza, di decisione. In ogni caso, Contini si muove su un’onda del tutto diversa, completamente estranea a queste posizioni, e si situa, esplicitamente, nello spazio della ‘indecisione’, con una scelta che è, al tempo stesso, etica e politica. Di tutto questo le lettere coeve sono una testimonianza precisa, e non possono essere considerate
L’onestà sperimentale, p. 8. Cfr. anche per questa lettera De Martino, «Parigi col suo zucchero…», p. 188. 19 Il saggio di Cantimori è ora raccolto in Politica e storia contemporanea. Scritti (1927-1942), a cura di L. Mangoni, Torino 1991, pp. 237-52. Per Benjamin cfr. Il dramma barocco tedesco, con introduzione di G. Schiavoni, nuova ed., Torino 1999, pp. 39 sgg. 17 18
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solamente il segno di un disagio giovanile. Certo, possono essere anche questo; ma esse esprimono un disagio storico, assai più vasto e generale, che si risolverà solo negli anni della Resistenza, quando Contini riuscirà a stabilire un rapporto positivo con il suo tempo, facendo scelte etiche ed etico-politiche assai nette, assumendosi in prima persona le proprie responsabilità, respingendo l’‘indecisione’, situandosi nello spazio della ‘decisione’. Ma, a differenza di quella schmittiana, la sua sarà una scelta dalle profonde radici religiose: come scrive proprio a Henry in una lettera del 1945 parlando di questa esperienza, «Enthousiasme délirant, air de liberté totale»20. Come altri esponenti della sua generazione, Contini non si limita però, neppure negli anni Trenta, alla ‘contemplazione’; si sforza, con tutte le energie, di uscire dalla «ignavia», di salire alla dimensione della responsabilità e della verità, congiungendo strettamente l’una all’altra. In questo senso avrebbe potuto condividere le parole scritte da Bonhoeffer, poco prima di morire: «Responsabilità e libertà sono concetti correlativi. La responsabilità presuppone oggettivamente – non cronologicamente – la libertà, così come la libertà non può sussistere senza responsabilità»21. Ma come in Bonhoeffer, anche per Contini libertà e responsabilità devono sfociare nella praxis, fino, nel suo caso, alla partecipazione in prima persona alla Resistenza. Per quanto importante – e profondamente radicata nella sua personalità –, l’esperienza politica diretta fu una breve parentesi nella vita; ma questo non significa che la sua ‘vocazione’ alla politica sia mai venuta meno. ‘Vocazione’: uso volutamente questo termine, perché di questo si trattava, di una ‘vocazione’ nel senso profondo della parola. Il luogo in cui Contini congiunse, nella sua vita, libertà, responsabilità, azione – il luogo della sua «politicità trascendentale» (per riprendere una espressione di Luigi Russo, che lo amò molto)22 fu, per quanto possa apparire paradossale, la poesia; il suo lavoro di critico
De Martino, «Parigi col suo zucchero…», p. 200. D. Bonhoeffer, Opere, vol. 6: Etica, a cura di A. Gallas, trad. it. di C. Danna, Brescia 1995, p. 247. 22 Per i rapporti con Russo è utile «Il paesaggio d’un presentista». Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Luigi Russo (1936-1961), a cura di D. De Martino, Firenze 2009. 20 21
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fu il campo nel quale si impose, e fruttificò, il suo «spirito ascetico» (un altro suo lemma)23. E su questo dobbiamo ora fermarci. Nel 1963 Eugenio Montale fu invitato a un «convegno commemorativo» di Benedetto Croce per parlare di estetica e critica. È un intervento interessante, di cui si sono perse un po’ le tracce, che vale perciò la pena di citare per esteso, a cominciare dalla conclusione veramente notevole, e molto utile in questo contesto: «Quel che oggi più ci sorprende in lui – dice Montale a proposito di Croce – è la sua difesa della libertà e responsabilità dell’uomo, da parte di un filosofo che aveva fatto dell’uomo l’antenna trasmittente dello Spirito, negando così la colpa del colpevole come il merito dell’artista […]»24. È da sottolineare, ovviamente, il riferimento, un po’ crudo, alla concezione dell’uomo come «antenna trasmittente dello Spirito», dalla quale evidentemente Montale si sente lontano, tenendo conto anche di quello che dice poco dopo, specificando che «forse il Croce che più ci ha aiutato nei più duri anni della nostra vita entrava in contraddizione con quei suoi primi principi». Qui interessa però fermarsi su quello che egli dice della concezione crociana dell’arte: la logica interna del sistema idealistico non permetteva alcuna concessione all’empiria […]. Perché per Croce […] l’atto intuitivo è puramente ideale e l’opera d’arte è già perfetta in esso. Il quadro dipinto, la poesia scritta sulla carta, la musica tradotta in note sono estrinsecazioni dell’opera ideale, appartengono alla comunicazione dell’opera, non alla sua creazione.
«Le conseguenze – prosegue Montale – furono quelle che tutti conosciamo»: la critica di Croce, nata da un principio di formalismo assoluto, non poteva scendere a compromessi con la forma intesa come materia e doveva quindi svolgersi nel senso dei contenuti, nel senso della loro armonia e congruenza a quello che in ogni poeta veniva identificato come il motivo conduttore, dominante. In un certo senso il sistema imponeva a Croce di diffidare dell’arte troppo lirica, troppo passionale, troppo compromessa nell’urto di una materia ribelle e sempre pronta a rinnovarsi.
L’onestà sperimentale, p. 47. E. Montale, L’estetica e la critica, in V. de Caprariis, E. Montale, L. Valiani, Benedetto Croce, con introduzione di V. Arangio Ruiz, Milano 1963, p. 22. 23 24
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Perciò autori come Ariosto e Verga «parevano nati apposta per lui, perché ogni loro pagina li contiene per intero […]. Si può certamente studiare il loro linguaggio, ma questo può essere il compito della critica stilistica che si esercita sull’arte comunicata, sull’oggetto, non sull’opera ideale. Ma il critico estetico non è tenuto a farlo»25. È un giudizio assai netto, dal quale risalta l’incommensurabile distanza di Montale da Croce, ribadita nel giudizio conclusivo, in cui è ripreso un motivo che gli sta evidentemente molto a cuore: Un’estetica, dunque, rigorosamente formale, ma con altrettanto rigore tenuta a conservare il carattere ideale della forma. Di qui la quasi assoluta mancanza nella critica di Croce di ogni rilievo d’ordine tecnico, di ogni analisi linguistica, di ogni compiacenza per il particolare, per il frammento che si possa isolare e godere di per se stesso. Così concepita, la poesia si risolve nell’armonia dei suoi contenuti, cioè di una purezza che deve intendersi come totale assorbimento della materia ideologica […] in quella contemplazione non giudicante, sospensiva, che è la fantasia poetica26.
Mi interessa sottolineare la convergenza di queste posizioni con una serie di osservazioni che Contini viene facendo, fin dagli anni Trenta, sulla poesia, e in filigrana su Croce, proprio discutendo della poesia di Montale con Montale. Lo fa contrapponendo al motivo della «contemplazione» quello del «lavoro», dal punto di vista sia del critico che del poeta. Con tutte le conseguenze che, naturalmente, ciò comporta sul terreno dell’esercizio critico, e degli strumenti di cui occorre servirsi per svolgere in modo adeguato il proprio lavoro, a cominciare da quelli propri della critica stilistica, espulsa, come sottolinea Montale, in linea di principio dallo spazio della critica crocianamente concepita. Fin dagli anni Trenta Contini aveva criticato quello che era per lui l’«effettivo antistoricismo crociano»27, e aveva individuato, con nettezza, una propria linea sia estetica che critica, contrapposta a quella di Croce. «Chi è pigramente rimasto all’idea della poesia come faccenda pacifica di contemplazione, crederà a una distinzione spaziale di poesia Ivi, pp. 42-3. Ivi, p. 44. 27 Eusebio e Trabucco, p. 15. Di «certo antistoricismo crociano» parla anche a Cecchi, in una lettera del 26 giugno del 1934: cfr. L’onestà sperimentale, p. 11. 25 26
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e non-poesia. Ma – e qui si entra nel centro della sua posizione – se la poesia è una faccenda di lavoro, la poesia non è più la Poesia, cioè un valore-limite, ma la storia dei nostri rapporti con la poesia. E il compito del critico è, precisamente, quello di rifare questa storia in termini logici» – lemma da sottolineare, quest’ultimo: ‘logici’, in opposizione, anche in questo caso, a Croce. Senza illudersi – e qui torniamo a un tema già toccato – di poter uscire dalla propria pelle: «il critico narra sue esperienze (pur cercando di oggettivarle in termini logici)», «fa dell’autobiografia»28. Nel sostenere questa posizione Contini non si limita però a una dichiarazione di principio: discorrendo con Montale, gli chiarisce la differenza tra la sua poesia e quella di Ungaretti proprio alla luce di questa concezione che, per i motivi sopra visti, investe sia l’uomo che il poeta. Quello che è terribile, in Ungaretti, – scrive – è la sua mancanza di filologia. […] Il che non mi pare vada inteso in un senso deteriore: la non-filologia d’Ungaretti è la sua forza, e un po’ la sua debolezza. Quello che resta estraneo a una ‘dote’, che è fatto da lui, mettiamo che sia raro, ma va irreparabilmente al fondo; e in questo senso (cioè nel senso tradizionale della formula) a Ungaretti più che a un altro potrebbe applicarsi il metodo ‘poesia e nonpoesia’; se questo non si fa, è perché prevale d’interesse un altro problema, scoprire le modalità di quella ‘immediatezza’ poetica. Poesia ‘impersonale’, in qualche modo […]29.
Ora, è precisamente questo che non soddisfa Contini, nel caso di Ungaretti: questa immediatezza, questa impersonalità, quando fa poesia. È la mancanza di «lavoro», che Contini chiama «mancanza di filologia», e che invece è presente in Montale, coinvolgendolo sia come poeta che come uomo. Né c’è alcun dubbio su a chi vadano le preferenze estetiche, ma anche etiche di Contini: «alla ‘sede’ io preferisco il ‘lavoro’ […]. Ho molta stima d’Ungaretti come Lei sa, ma chi può ‘aspettare’ qualcosa da lui? prende quel che viene. Mentre da un Montale si può attendere legittimamente: si deduce»30. Ma c’è un
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Ivi, pp. 43 e 46. Ivi, p. 15. Ivi, p. 17.
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altro elemento – assai importante per Contini – che scaturisce da questa concezione della poesia come lavoro: attraverso il lavoro di entrambi, si attua una comunicazione – un vero e proprio circolo – fra il poeta e il critico, che si trovano affratellati da una comune operosità sperimentale che coinvolge sia l’arte che la moralità. È tipico ciò che dice di Pea, differenziandolo anche in questo caso da Montale: Una poesia come quella di Pea è talmente pacifica, corposa, oggettiva e, in qualche maniera, trascendente che può essere materia soltanto di ammirazione. Mentre quella di *(= Eusebio, mettiamo) riguarda talmente il presunto contemplatore, s’incarna talmente nella sua dialettica che gli resta ben altro da fare […] che isolare l’ammirazione. Il problema non è più solo scientifico31.
Diventa, cioè, etico, personale, coinvolgendo direttamente il critico, che entra, in prima persona, nell’officina del poeta, collaborando, da un altro punto di vista, al suo lavoro. Nella prospettiva di Contini – e anche qui è netta la distanza da Croce – il critico, aduso a lavorare con strumenti logici, è una sorta di deuteragonista nel lavoro poetico. La sua funzione principale è quella di agire sulla leva del cambiamento, di individuare il passaggio da uno stato all’altro, di decifrare, e valorizzare, il movimento. Come fa Contini nel caso degli Ossi di seppia, sbalzandoli nel vivo di un lavoro poetico che, mentre si compie, è capace di proiettarsi oltre il limite, e di dare attraverso il movimento il senso compiuto di se stesso; un senso, a sua volta, sempre in movimento: «un’esperienza, sempre ‘didascalica’, sempre impagabile: da una parte gli Ossi comprensibili con i soli Ossi, dall’altra parte gli Ossi comprensibili col ‘secondo’ Montale (più quest’ultimo, si capisce)»32. La funzione del critico non è mai meramente contemplativa; anzi, egli deve stare sempre all’erta, farsi sorprendere, afferrare le nuove forme in cui il lavoro poetico, uscendo dalle dimensioni consuete, si realizza: quando Gianni Antonini gli invia la fotocopia del Diario del ’71, Contini ne resta «assolutamente
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Ivi, p. 59. Ivi, p. 46.
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emballé», tanto da svegliarsi per «abbozzare» a se stesso «un referto», appuntandolo per la mattina33. Si situa in questo sistema il valore propriamente ontologico delle varianti: se il poeta, come l’uomo, non è, ma diventa, è nel movimento che egli si svela, si fa conoscere. E le varianti, le correzioni – proprio perché sono al centro del movimento – si rivelano lo strumento essenziale per conoscere, in un colpo solo, il poeta e, con lui, l’uomo. Fondata su criteri e strumenti razionali, la filologia ha per Contini questo fondamento ontologico, ed è perciò un esercizio di carattere strettamente etico e conoscitivo, che il critico compie per entrare in relazione con la poesia, e comunicarla. In questo senso il critico è, warburghianamente, una guardia confinaria: entra in contatto con la poesia, ma per rilevarne la natura mondana, il carattere quotidiano, feriale, silenzioso, come silenzioso fu il lavoro dell’Ariosto. Anzi, quanto più la poesia è lavoro quotidiano, tanto più essa è autentica, apprezzabile, veramente umana. E qui torniamo al tema centrale del «lavoro»: questo è il punto effettivo di comunicazione – di fraternità, verrebbe da dire – tra tutti gli uomini, e anche, e in primo luogo, tra il critico e il suo poeta. In uno dei suoi saggi più belli e più conosciuti – e il titolo è sintomatico, alla luce di quanto si sta cercando di dire: Come lavorava l’Ariosto – Contini precisa con massima chiarezza quale è il significato che hanno per il critico i manoscritti corretti dagli autori, dopo aver detto che ci sono «essenzialmente» due modi di considerare un’opera di poesia: v’è un modo, per dir così, statico, che vi ragiona attorno come su un oggetto o risultato, e in definitiva riesce a una descrizione caratterizzante; e v’è un modo dinamico, che la vede quale opera umana o lavoro in fieri, e tende a rappresentarne drammaticamente la vita dialettica. Il primo stima l’opera poetica un ‘valore’; il secondo, una perenne approssimazione al ‘valore’; e potrebbe definirsi, rispetto a quel primo e assoluto, un modo, in senso altissimo, ‘pedagogico’34.
Ivi, p. 243. G. Contini, Come lavorava l’Ariosto, in Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei, Firenze 1947, p. 311. 33 34
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È un saggio del 1937, lo stesso periodo di molte delle lettere sopra citate, in cui ricorrono anche lemmi affini in contesti omogenei (per es. ‘didascalico’, ‘pedagogico’). E come nelle lettere a Montale o a Cecchi risuona anche qui una netta presa di distanza dall’estetica e dalla critica crociana. Quello che a Contini interessa, allora e poi, è la «forma come materia», per riprendere l’espressione usata da Montale discutendo e criticando la posizione di Croce. Forse è proprio con questa espressione che si potrebbe rappresentare, in termini «logici», la sua posizione: gli interessa la forma, ma non la sua risoluzione in formalismo o in un gioco estetizzante. La forma, anche quella poetica, si trasforma in valore solamente se è radicata nella «materia» attraverso il lavoro. È tramite il lavoro che la «materia» diventa forma e la poesia, come l’arte in generale, diventa un momento decisivo dell’esperienza umana. Perciò essa, come la critica, è strutturalmente e intimamente sperimentale. Se non lo fosse, non sarebbe arte e non avrebbe senso per l’uomo. In quanto umana, l’arte è esperimento in continuo movimento. È qui, in questo luogo preciso, che si costituisce il nesso – essenziale, per Contini – fra arte, critica, moralità. L’interesse per Montale, Gadda o per Pizzuto – anche nelle sue estreme volute – non è mai un puro esercizio stilistico o di tipo formalistico. È anche e sempre un’altra cosa, radicata nella materia, nel lavoro: è, appunto, «onestà sperimentale». In questo senso, Contini è davvero su un’onda antitetica rispetto a quella di Croce – un’onda diversa e, penso, più lunga. Anzi, se si pensa al quadro delineato nel 1963 da Montale, ne è un esatto rovesciamento: è interessato alla ‘empiria’; non crede che «l’atto intuitivo sia puramente ideale» e che l’opera d’arte sia «già perfetta in esso»; sa che il quadro dipinto, la poesia scritta sulla carta, la musica tradotta in note appartengono direttamente alla creazione dell’opera d’arte, non alla sua comunicazione… Ma si tratta – e va precisato – di una opzione di ordine generale: nel suo sistema (e uso volutamente questo termine) movimento, materia, lavoro, valore sono punti cardinali, strutturalmente connessi nell’esperienza dell’uomo, del soggetto – qualunque sia l’atto che egli compie. Dalla dimensione ‘empirica’, ‘materiale’ Contini è profondamente attratto; e ne rivendica l’importanza, esprimendo sulla vita individuale e collettiva giudizi ispirati a criteri di forte realismo, di concretezza, estranei a ogni ideologismo, che rigetta, oltre che per ragioni culturali, per motivi di ordine etico: per Contini ogni manufatto è lavoro. Lo stesso principio della carità, e della non violenza, che condivide con Capitini, non si
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risolve mai, in nessun campo, in un atteggiamento passivo, puramente contemplativo; vuole essere sempre, consapevolmente, atto, atto umano. Qualche esempio, in ambiti diversi: a proposito del Partito d’azione sostiene che non è riuscito a essere un partito perché gli è «mancata l’identificazione dello ‘strato’ sociale da muovere»; sulla crisi dell’antifascismo osserva che essa «si può ricondurre in gran parte al fatto che non possiede, a combattere fascismo e nazismo, la competente arma storiografica: un giudizio storico adeguato della loro natura» (e in questo contesto critica, con durezza, «le ultime miserabili scritture politiche di Croce»); sulla cultura scrive che essa deve essere «di persuasioni», e non di «nozioni», perché «cultura non è ammobiliamento lussuoso di menti, ma edificazione spirituale»; infine, parlando, in una pagina assai intensa, dell’«azione politica», sottolinea che in essa occorre cogliere la dimensione morale, anzi «religiosa». Perciò «la politica – insiste in una lettera a Cecchi dell’ottobre del 1947 – non può diventare contenuto di se stessa». Essa deve avere salde basi umane, morali – religiose –, ma senza mai scadere nell’ideologismo o nell’«astrattismo»: «i temi di pensiero politico più fecondi mi pare permangano là dove le istanze di libertà convivono con lo zelo e quasi l’ossessione della concretezza politica»35. Può darsi che mi sbagli, ma è possibile che proprio da questa impostazione sia scaturita una maggior vicinanza di Contini a posizioni come quelle di «Società» – della prima «Società», quella di Bilenchi e Luporini –, piuttosto che a quelle sostenute dal «Politecnico» di Vittorini (del quale apprezza, però, in modo aperto, la «vitalità», e non è per lui un riconoscimento da poco)36. È vicino ai fiorentini per la critica al primato, di matrice vociana, degli intellettuali; la consapevolezza del limite stretto in cui si muove l’azione umana; la coscienza del peso della storia, di cui non è possibile liberarsi con un atto di volontà; la distinzione tra «persuasione» e «retorica» e tra «moralità» e «moralismo», un pernio essenziale della sua posizione, allora e poi. «La moralità va opposta al moralismo», scrive il 28 febbraio del 1945, sottolineando che se fare «della cultura è il nostro mestiere», «morale consideriamo anzitutto far bene il proprio mestiere», sapendo
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L’onestà sperimentale, pp. 78-9; Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, pp. 18-9. Contini, Dove va la cultura europea?, p. 27.
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che «educarsi alla libertà della cultura è educarsi alla libertà dell’atto umano in generale»37. La distinzione tra «moralità» e «moralismo» è un motivo corrente nei primi anni del dopoguerra: in ambiente milanese, è Antonio Banfi a svolgerlo, fin dal 1944, con un saggio così intitolato pubblicato su «Studi filosofici»: «La moralità […], nella sua idea – scrive –, è appunto l’armonia, attivamente realizzantesi in un differenziato e ricco processo, tra l’ideale e pur concreta unità di persona, viva di tutte le sue molteplici energie, e l’ideale ma organica coesione di comunità»; mentre il moralismo è «astrattismo pedagogico» e compiacimento dell’«anima bella» che, chiusa nell’universo della «buona intenzione», considera «affatto secondaria ogni azione diretta a modificare la situazione di fatto»38. È possibile che Contini abbia avuto presenti queste affermazioni di Banfi, condividendole e facendole sue: era il contrario dell’«anima bella» ed era abituato ad assumersi le proprie responsabilità, fino a entrare, come rappresentante del Partito d’azione, nel governo provvisorio della Repubblica della Val d’Ossola, pagandone le conseguenze anche sul piano personale. Come dice Russo in una lettera a Gentile del 16 luglio del 1937, distinguendolo da Pasquali – al quale fu, peraltro, assai legato –, Contini aveva «spina dorsale»39. Ma, forse, proprio in questo nesso tra «cultura e vita morale» è individuabile, in generale, anche il momento di maggior vicinanza di Contini a Croce. Nettamente distante dalle sue concezioni estetiche, Contini è in sintonia con Croce nella critica del «moralismo» e dell’«astrattismo»; nella persuasione che ogni concezione del mondo, trasformandosi in principio di vita, diventa una fede religiosa; nella rivendicazione della concretezza della politica e dell’azione politica; nel rigetto della «legittimità» di una formula come «politica letteraria»; nel
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289.
Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, pp. 18-9. A. Banfi, Moralismo e moralità, in L’uomo copernicano, Milano 1965, pp. 285 e
39 Luigi Russo-Giovanni Gentile 1913-1943, a cura di R. Pertici e A. Resta, Pisa 1997, p. 274.
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«rifiutarsi di fare della politica (per usare una espressione della teologia morale) ‘fuori dal debito vaso’»40. Sono battute del marzo-aprile 1947, risalenti a una durissima polemica con G.B. Angioletti, nel corso della quale Contini fa due dichiarazioni importanti sul piano politico: prima dichiara che il suo «temperamento» è «sostanzialmente anarchico e libertario»; poi precisa che si tratta di un anarchismo «metaforico» e che «in politica» esso significa «proporsi un’azione liberale entro una società socialista»41. Quali siano le radici teoriche di queste affermazioni, è evidente: il socialismo di cui sta parlando è quello della tradizione di Carlo Rosselli, il «socialismo liberale», da cui sgorgano prima Giustizia e libertà e poi il Partito d’azione, il quale – scrive sempre nel 1947 – «continua a sembrarmi, pur fra i relitti di radicalismo, d’illuminismo e d’altra parte di storicismo che convogliava, quanto di meglio s’è fatto nel complesso in Italia»42. E qui, certo, la distanza da Croce appare nuovamente incolmabile; ma essa concerne, in primo luogo, il campo direttamente politico. Sul piano etico, come abbiamo visto, il discorso è diverso: qui si riscontra una sintonia, esprimibile, anche in questo caso, con le parole di Montale, quando spiega perché, oltre ogni dissenso, Croce sia stato un maestro di vita morale: Non ci troverà mai indifferenti la sua fede nell’uomo, la sua certezza che le forze della ragione non saranno mai definitivamente debellate. Più ancora che la sua estetica […] è il suo incitamento alla responsabilità morale, a ‘pagare di persona’, che oggi, al di là di ogni convinzione politica o religiosa, ci fa sentire la forza della sua presenza43.
Sul filo di questo ragionamento, si può, forse, individuare un altro terreno generale sul quale Croce e Contini, al fondo, convergono: appartengono entrambi alla cultura, e alla tradizione, dell’Umanesimo. E in questa convergenza c’è qualcosa di profondo, in cui confluiscono, e si intrecciano, motivi storiografici, politici e anche etici, direttamente connessi al problema della identità europea in un momento tragico
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Eusebio e Trabucco, pp. 169-70. Ibid. L’onestà sperimentale, p. 79. Montale, L’estetica e la critica, p. 56.
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della sua storia. Per Croce come per Contini l’Umanesimo è, continua a essere, il momento centrale della biografia, e della coscienza, dei «moderni»; ed è a questa luce che essi ne ripropongono significato storico e valore etico. In questo senso, è assai interessante la Relazione sulle cose di Ginevra. Dove va la cultura europea – effettivamente un moderno «conte philosophique», che Contini scrisse nel 1946 e che suscitò l’entusiasmo e l’ammirazione di Montale44. La vicinanza a Croce è evidente nel sottolineare l’importanza della storia sia come pensiero e come azione («una delle grandi invenzioni umanistiche ed europee»45, già da lui apprezzata, con l’eccezione della Noterella filologica, fin dal 1938, quando il libro era uscito)46, sia come elemento centrale della formazione scolastica. Ma la posizione di Contini ha elementi di notevole specificità e originalità, soprattutto per quanto concerne la concezione della vita spirituale, e il significato, e la funzione, del «valore» – problema centrale, da ogni punto di vista, perché il valore, concepito in forme severe, realistiche costituisce, in ultima analisi, la sorgente ultima della sua visione della poesia come della vita. È il valore che fonda l’unità della persona; anzi, la totalità del valore coincide con la totalità della persona. È per questo che nel Resoconto ginevrino, nonostante tutte le differenze, apprezza calorosamente Lukács, la lama della sua intelligenza: perché Lukács gli appare un uomo intero, integralmente impegnato nel sostenere la sua causa. «Uomo ‘ufficiale’», lo definisce Contini, che perciò lo preferisce nettamente a Jaspers, chiuso in un «moralismo astratto» che Lukács smaschera con spietatezza47. E se «il valore è totale», per questo è necessaria una «pedagogia della forma»: infatti, «chi si educa alla formalità pura, ad esempio in arte, si educherà per questo stesso alla formalità decisa dell’azione». Bisogna
Contini, Dove va la cultura europea? Per il giudizio di Montale cfr. Eusebio e Trabucco, p. 146 (dove è citato anche il giudizio di Giovanni Pozzi: «più che un resoconto di cronaca, un moderno ‘conte philosophique’», ivi, p. 148, nota). 45 Ivi, p. 40. 46 Il giudizio è in una lettera ad Albert Henry del 16 dicembre 1938. Cfr. De Martino, «Parigi col suo zucchero…», p. 198: «très beau livre, si l’on a soin d’omettre la ‘noterella filologica’ qui le clot». 47 Contini, Dove va la cultura europea?, pp. 23-4, 30-1. 44
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perciò «denunziare il vizio d’un’educazione vista unilateralmente attraverso il cristallo della parola», liquidando ogni forma di retorica, valorizzando nell’educazione l’aspetto «tecnico e stilistico» e insistendo, come si è visto, sulla «nozione di totalità», per una esigenza di carattere sia etico che conoscitivo48. Proprio perché è dinamico e si proietta, per realizzarsi, verso l’azione, il valore si trasforma in esperienza religiosa e, in quanto tale, muove – dandole senso – ogni sfera della vita, perché – e qui Contini è d’accordo con Croce (e anche con Gramsci) – «religione è il trasferimento totale d’una ‘teoria’ in verificazione pratica». «Vediamo nell’azione politica esclusivamente la funzione di un’attività morale, che solo il pudore potrebbe impedirci di chiamare religiosa», scrive nel 194549. E l’anno dopo ribadisce: «la Resistenza è stata molte cose […], ma è stata soprattutto impulso religioso». Il limite di Lukács sta proprio nel non aver capito che molte adesioni di giovani al comunismo «movevano essenzialmente da un impulso religioso; e proprio da istanze di carità e, in sua funzione […] soltanto, di giustizia, che cercavano di attuarsi concretamente in un’azione immediata e in un’organizzazione, preludio di una società desiderabile» (né è difficile individuare anche in queste battute un’eco di carattere strettamente autobiografico)50. Comunque, e questo chiarisce ulteriormente ciò che intende sostenere, «da un rispetto religioso, l’ateismo per assorbimento di Dio del marxista è di certo preferibile all’ateismo per assenza e ignoranza di Dio che colpisce il mondo liberale e democratico quando, e non è altra la sua decadenza, vi si sia estinto ogni effettivo culto della libertà e della democrazia»51. Ma quello che si dice della politica si può, anzi si deve dire anche della poesia, congiungendola al valore, a sua volta ‘totale’, di cui essa è espressione: Supponete […] che la poesia sia un futuro, un valore del dover essere che tende all’essere; sforzatevi di sorprenderla non a partire dalla sua nascita […], ma nel suo avvento fino alla sua nascita; e avrete tracciato i rapporti
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Ivi, pp. 40-1. Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, p. 18. Ivi, pp. 34 e 33. Ivi, p. 27.
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della poesia alla vita che la produce in una considerazione globale dei valori futuri che potreste anche chiamare critica religiosa52.
‘Religiosa’ perché essa sorprende la poesia nel farsi dinamicamente valore, trasformandosi da impulso o bisogno in realtà concreta, esistenziale, attraverso un severo lavoro che è, a sua volta, il luogo nel quale, e attraverso il quale, il valore viene alla vita, si svolge, si compie, diventando esperienza umana compiuta nella sua totalità: «infinità che si attua qui e ora». È una ripresa, e uno svolgimento, delle posizioni espresse a Montale e Cecchi negli anni Trenta. Né è facile individuare gli autori che Contini tiene sullo scrittoio e con i quali si confronta quando parla di questi argomenti. Ma, certo, un suo interlocutore importante fu Max Scheler che, in questi anni, cita in modo esplicito. E anche qui, penso, occorre riferirsi al circolo milanese di Banfi per comprendere quali testi Contini abbia letto di Scheler. Era stato infatti Banfi a mettere in circolazione, nel 1946, il saggio sul Risentimento quale elemento costitutivo delle morali, raccogliendolo nel volume Crisi dei valori, con un altro importante testo sull’Avvenire del capitalismo53. E, se non mi inganno, è il saggio sul Risentimento che Contini tiene presente nel Resoconto ginevrino e, in modo speciale, quelle pagine, veramente splendide, che Scheler dedica alla sostituzione dei valori cristiani a quelli antichi nella concezione dell’amore: non più un movimento dal basso verso l’alto, ma una discesa di Dio verso tutte le creature, riscattate una per una dalla loro condizione di miseria, di dolore, di infelicità. Che abbia avuto sotto gli occhi le riflessioni di Scheler sul risentimento è mostrato dalle osservazioni che, dopo averlo citato, fa sulla «meccanica di rivalsa dell’animo» e, con molta finezza, sulla necessità di una G. Contini, Introduction à l’etude de la littèrature italienne contemporaine, in Altri esercizi (1942-1971), Torino 1972, p. 236 (utilizzo la traduzione di D. Giglioli). L’insistenza sul motivo della «totalità» è continua in Dove va la cultura europea, che si conclude proprio su questo motivo (ivi, p. 41): «Occorre tuttavia insistere sulla nozione di totalità. Non direi affatto che la cultura europea tenda, in quanto cultura e non artigianato, alla specializzazione: tende semmai a un’universalizzazione d’interessi che solo impossibilità pratiche restringono, in molti settori, a una fase di problematicità o di mera istanza metodologica». 53 M. Scheler, Crisi dei valori, con una nota introduttiva di Antonio Banfi, Milano 1936. 52
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«educazione che trasferisca il distacco e la rinuncia dalla natura alla coscienza», senza la quale «nessuna apocalisse avrà effetti duraturi». Sono motivi importanti, che andrebbero analizzati uno per uno, anche sul piano lessicale. A me qui interessa rilevare la centralità in Contini della riflessione sul valore, colto nella sua dinamicità e operosità perché – e su questo è sempre intransigente – non è concepibile, tanto meno accettabile una fides sine operibus. Quando parla della necessità di una «pedagogia della forma», di questo, in ultima analisi, vuole parlare: di una «pedagogia del valore»54. Quando si apre la polemica sugli «scartafacci», Contini è una personalità ormai pienamente compiuta, matura, con orientamenti sia di vita che di studio nettamente definiti. Paradossalmente, era Croce, per quanto avesse ormai ottanta anni, a essere invece in una fase di profondo ripensamento di assi centrali del suo pensiero. Su un punto però restava fermo: nella critica dell’«individuo empirico», da lui ridotto, per tornare alle parole di Montale, a un’«antenna trasmittente dello Spirito»: lo stesso Contributo alla critica di me stesso si può definire una sorta di «autobiografia senza soggetto». Nel secondo dopoguerra c’è, piuttosto, un irrigidimento della sua posizione, che coinvolge, e spiega, anche la durezza delle battute sugli «scartafacci». Esse si situano, infatti, nel quadro della sua violentissima critica nei confronti della «moda esistenzialistica» e del suo successo tra molti intellettuali italiani – inaccettabile, a giudizio di Croce, sul piano teorico, e ingiustificabile su quello etico, anche per ciò che essa comportava proprio sul terreno, delicatissimo, della considerazione dell’«individuo empirico». Su questo punto, egli era, e restava, del tutto intransigente. Qualche esempio: Alla virile accettazione della vita personale come ‘missione’ nella vita del mondo, nella quale s’immerge e con la quale si unifica in essa dissolvendosi, si torna, da parte delle fiacche filosofie dei nostri giorni, a contrapporre l’inversa richiesta, del rilievo da dare alla ‘personalità’ come centro di riferimento del mondo. Si vuole, in altri termini, riaffermare una personalità distinta e distaccata dall’opera, che stia e persista di là dall’opera, cioè in disparte dalla sola vera e individua personalità […]. Che cosa potrebbe essere
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Contini, Dove va la cultura europea?, pp. 26 e 40.
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una personalità di questa fatta? Nient’altro che la penosa e peccaminosa vita dei loro autori, quella che fu la carne mortale dello spirito immortale […],
scrive sui «Quaderni della Critica». E così continua, precisando l’obiettivo della sua critica e delineando una genealogia della crisi filosofica in atto: Nella cerchia della filosofia recente è facile rintracciare la storia di questo personalismo deteriore, movendo dalla tristezza e dal travaglio morale e dalla impotenza speculativa del Kierkegaard, attraverso la meno nobile vicenda morale di uno Heidegger (il quale finì con l’offrire il suo gergo filosofico al nazismo), e di altri simili a lui, giù giù al miserabile e vacuo del cosiddetto esistenzialismo, che ha fatto molto parlare di sé anche in Italia ed è piaciuto ai poetucoli decadenti […]55.
In un’altra postilla dello stesso periodo, chiarendo ulteriormente il suo pensiero, stabilisce un rapporto diretto tra esistenzialismo e letteratura, specie francese, la quale è «diventata ormai così decadente, così angusta e così ottusa e cieca alla genuina verità dello spirito umano da aver smarrito le sue virtù tradizionali. Ed ecco – soggiunge – che, crescendo ancora la cecità, l’esistenzialismo vi ha trovato il terreno propizio»56. È con l’esistenzialismo, come si vede, che Croce se la prende, attaccando, su questa linea, la critica stilistica («non mi piace l’applicazione ai sani dei metodi che son fatti per i malati»)57; la poesia «pura ed ermetica»; «Mallarmé, Valéry e simili ingegni, privi del concetto serio di ciò che è proprio della poesia»58. Quel Valéry – inventore, con Mallarmé, della «critica estetica» –, proprio quel Valéry che invece riscuoteva stima e
B. Croce, La personalità, «Quaderni della Critica», 4, aprile 1946, pp. 110-1 (poi in Nuove pagine sparse, Serie prima: Vita-Pensiero-Letteratura, Napoli 1949, pp. 230-1). 56 Id., Esistenzialismo e letteratura, «Quaderni della Critica», 6, novembre 1946, pp. 104-5 (poi in Nuove pagine sparse, p. 222). 57 Id., Il perché della diffidenza verso la ‘critica stilistica’, ibid., p. 103 (poi, con il titolo Critica stilistica, in Nuove pagine sparse, pp. 219-20). 58 Id., Le poetiche dei poeti, «Quaderni della Critica», 9, novembre 1947, pp. 91-2 (poi in Nuove pagine sparse, p. 215). 55
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considerazione dal giovane Contini che, su suggerimento di Cecchi, lo incontra a Parigi, e lo apprezza fino al punto di volergli «perfino bene»59. La critica degli «scartafacci» – condotta in tono sprezzante sui «Quaderni della Critica» nel novembre del 1947 – si inserisce in questo contesto, che coinvolge in un generale giudizio distruttivo tutta la cultura «decadente». L’errore – scrive Croce – consiste nel voler rintracciare la genesi dell’opera d’arte, invece che sul piano ideale, «negli scartafacci e nelle brutte copie» – posizione «ben poco concludente», sia in linea di principio, sia «nel suo ambito, perché gli scrittori talvolta compiono il loro travaglio senza mettere penna in carta e lo perfezionano e lo limano mentalmente e tal’altra […], quando preferiscono di usare la penna, scrivono cose che nell’atto stesso dello scriverle sanno di non accettare e si riserbano di convertire nel diverso o nel contrario». E non solo: non è detto, in alcun modo, che le «correzioni che si fanno nel manoscritto siano sempre modificazioni o miglioramenti di una prima forma»; anzi, «spesso non sono altro che la prima e sola forma della quale con segni convenzionali sulla carta si era posta l’esigenza, invitando sé stessi a soffermarcisi dopo che sarebbe stata tracciata la linea generale della pagina o del componimento, la quale non si voleva smarrire o lasciare raffreddare». Insomma, puri espedienti di matrice mnemotecnica, senza alcun rapporto con la genesi dell’opera che è, e resta, solo ideale60. Ma il nerbo della polemica di Croce è nella parte finale della «noterella» e travalica nettamente la questione degli «scartafacci». Il fatto è che questo tipo di critica – con quella «sorta di genesi non genetica» che la caratterizza – è stata «adottata e protetta dai decadenti, incapaci di cogliere con la meditazione i rapporti della vita dello spirito e che considerano la poesia come qualcosa che si fabbrica raziocinando e calcolando» – come pensava Mallarmé, contro cui Croce, nello stesso numero dei «Quaderni della Critica», getta parole di fuoco61. Ai suoi occhi, i cultori degli «scartafacci» non sanno, sul piano estetico, quale sia la genesi effettiva dell’opera d’arte; come critici
L’onestà sperimentale, p. 33. B. Croce, Illusioni sulla genesi delle opere d’arte, documentata dagli scartafacci degli scrittori, «Quaderni della Critica», 9, novembre 1947, pp. 93-4 (poi in Nuove pagine sparse, pp. 190-1). 61 Croce, Le poetiche dei poeti. 59 60
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letterari si rivelano degli inconcludenti, fiduciosi come sono nelle virtù magiche delle correzioni; ma soprattutto – e questa è la cosa più grave, perché coinvolge direttamente la «sanità» della vita spirituale – sono degni esponenti di un’epoca di crisi, impregnata di decadentismo, come risulta lampante dal diffondersi della moda esistenzialistica in filosofia e dei modelli letterari francesi in letteratura, rappresentati da un personaggio come Valéry. Non è dunque la critica degli «scartafacci» il vero obiettivo della polemica alla quale Croce dedica, in effetti, poche righe; ma quello che, al suo livello, essa rappresenta, contribuendo a diffonderlo negli studi e nella cultura italiana. Prima di essere di merito scientifico, il giudizio crociano è di carattere etico: esercitare quel tipo di critica significa partecipare alla «malattia» del tempo, e diffonderla. E, per Croce, questo basta e avanza. Se si tiene conto di quanto si è cercato di dire sopra, appare in modo solare la parzialità, la limitatezza, il carattere strettamente ideologico del giudizio crociano, sia sul piano scientifico che su quello strettamente etico. Era un giudizio così generale da diventare generico. Contini, che sulle varianti lavorava fin dagli anni Trenta, non aveva nulla di ‘decadente’, nell’accezione che Croce dava a questo termine. Anzi, come si è visto, dal punto di vista degli orientamenti etici gli era assai più vicino di quanto egli potesse sospettare. Quel giudizio era ingiusto, da ogni punto di vista. Ma Contini era troppo intelligente per non capirne diritto e rovescio, e aveva troppa «spina dorsale» per non rispondere, come infatti fece un anno dopo, sulla «Rassegna d’Italia», distruggendo un intervento del «signor Nullo Minissi» sulla corrente critica «pedagogica», di cui era stato definito «il maggiore rappresentante»62. Sapeva però anche che i conti con Croce restavano ancora aperti, proprio perché conosceva la fatica che lui, e altri della sua generazione, avevano dovuto fare per distanziarsi, e liberarsi, da una presenza così forte e pervasiva. Li fece in occasione della pubblicazione, nella collana ricciardiana La letteratura italiana. Storia e testi, di una scelta di scritti crociani, dovuta allo stesso
62 Pubblicato originariamente sulla «Rassegna d’Italia», 3, 1948, pp. 1048-56, La critica degli scartafacci si può leggere ora in G. Contini, La critica degli scartafacci e altre pagine sparse, con un ricordo di A. Roncaglia, Pisa 1992, pp. 1-32.
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Croce, da cui era rimasto profondamente colpito per l’impressione di «novità» che essa aveva suscitato in lui. Fu in quella «situazione così traumatica» che Contini cercò di immaginarsi «quale sarebbe potuto risultare, in un’eventuale storia della cultura italiana contemporanea, il capitolo da dedicare a Croce». Si tratta, come dice in modo esplicito, di una «testimonianza», segnata sia da «ammirazione» che da «impazienza»; ma anche di una sorta di bilancio, oltre che culturale, autobiografico – si potrebbe aggiungere –, se si considera che, dopo averlo scritto, Contini chiuse il testo nel cassetto, pubblicandolo solo quindici anni dopo, sull’«Approdo letterario». L’aveva scritto per se stesso, per una esigenza di chiarimento personale63. Di questo lungo saggio – scattato d’improvviso e per un bisogno ‘privato’ – autorevoli studiosi di Croce hanno parlato come di un «libro», discutendolo a fondo; e certo si tratta di un contributo di straordinaria qualità. Ma accanto al suo obiettivo valore scientifico, colpiscono, ancora oggi, le ragioni che avevano spinto Contini a scriverlo, e che egli nel 1966 ricorda in una nota che accompagna il saggio: «Riuscire postcrociani senza essere anticrociani fu lo sforzo di quegli anni, che non è forse immeritevole di essere ricordato tra coetanei abbandonati a un anticrocianesimo rigorosamente postumo e juniores fruenti di alcuni risultati postcrociani quando ormai erano trapassati in moda, senza loro sudore»64. È il motivo del «lavoro» che riaffiora in questa pagina memorabile, affiancandosi a quello della storia e della tradizione, della responsabilità etica di chi fa cultura e della volontà, e della capacità, di saper essere in controtendenza, proseguendo nella propria ricerca e rigettando ogni pregiudizio ideologico – crociano o anticrociano che esso fosse. La cultura per Contini, è, sempre, esperienza ed esercizio della libertà, educazione alla libertà: «valore», in ogni campo. Sono i motivi costitutivi della sua personalità, messi a fuoco fin dagli anni tormentati e severi della giovinezza. Forse è vero e, certo, questa esperienza sembra
63 G. Contini, L’influenza culturale di Benedetto Croce, «L’approdo letterario», n.s., 36, 1966, pp. 3-32 (ristampato poi con il titolo La parte di Benedetto Croce nella cultura italiana, Torino 1972, pp. 3-57. 64 Ivi, p. 3.
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confermarlo: è nella giovinezza che germinano, e si determinano, i princìpi che reggono una vita. Ma se questo è vero, tanto più è opportuno sottolineare che la sua esperienza non fu una eccezione, un unicum e che essa, in modi e forme certo originali, si inserisce nel contesto di una generazione specifica – quella nata intorno al primo decennio del Novecento, formatasi durante il fascismo, alla ricerca negli anni Trenta di una propria strada, anche rispetto ai maestri riconosciuti, compreso Benedetto Croce. Una generazione, aperta alla dimensione della praxis concepita come principio di libertà, sensibile anche a tematiche di tipo religioso, attenta alle ‘nuove’ filosofie estranee al neo-idealismo in tutte le sue forme, caratterizzata da un sentimento drammatico della vita che, intrecciando ‘esistenza’ e ‘pensiero’, si esprime spesso in chiave fortemente autobiografica. Di questa generazione Contini è stato un protagonista e, come tutti i suoi esponenti principali, ha avuto, specie nella giovinezza, un rapporto importante con la ricerca, e la problematica, di tipo filosofico. Ignorarlo, o non tenerlo in debito conto, significherebbe disconoscere un carattere essenziale sia della sua esperienza umana e intellettuale che, per molti aspetti, di una generazione. A differenza di quanto pensasse Momigliano, in questo caso è possibile, anzi opportuno, spezzare i confini.
Contini nel mondo rosminiano Fulvio De Giorgi
Questo mio contributo si struttura in due parti e in una conclusione. Nella prima parte considererò i Rosminiani e Domodossola, nel primo Novecento e nei loro legami con Contini. Nella seconda articolerò una ricostruzione storico-diacronica del rosminianesimo continiano, nella sua essenziale evoluzione, fino alla fine del regime fascista. Nella conclusione cercherò di delineare sinteticamente una visione ‘postrema’ delle grandi strutture rosminiane, sedimentatesi in Contini e permanenti sul lungo periodo. 1. I Rosminiani, Domodossola e Contini 1.1. Gianfranco Contini considerava come uno dei «fatti più importanti» dell’Ottocento ossolano «l’installazione dei Padri Rosminiani»1. Certamente era così: attraverso l’amicizia milanese con Giacomo Mellerio, che aveva proprietà a Domodossola, Antonio Rosmini era giunto nella cittadina piemontese, al Calvario aveva scritto nel 1828 le Costituzioni dell’Istituto della Carità, dando così inizio alla sua opera fondativa; più tardi, nel 1837, a Domo, in un edificio messo a disposizione da Mellerio, aveva trovato la sua sede il Collegio, tenuto dai Padri Rosminiani, e poi intitolato, appunto, a Mellerio e a Rosmini. Per la presenza sia di tale Collegio sia della casa madre del Calvario, Domodossola era, dunque, uno dei luoghi fondamentali della topografia rosminiana: insieme a Rovereto, alla più vicina Stresa, e insieme ad
1 G. Contini, Ancora liberalsocialismo e azione ossolana, [1946], poi in Id., Domodossola entra nella storia e altre pagine ossolane e novaresi, Domodossola 1995, p. 19.
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altri luoghi più o meno significativi per l’esperienza rosminiana, come Roma, Milano, Torino, Padova, Trento, Novara. Nei primi decenni del Novecento, l’Istituto della Carità, cioè appunto la Congregazione religiosa maschile fondata da Rosmini, era una realtà piccola e soprattutto pativa ancora l’ostracismo che, in campo cattolico, dopo il cosiddetto decreto Post Obitum del 1887, gravava sul rosminianesimo come corrente di pensiero filosofico, ritenuta ancora, nella gran parte degli ambienti ecclesiastici, eterodossa, per una certa presunta inclinazione all’ontologismo, all’idealismo, se non addirittura al panteismo. In questo clima generalmente sospettoso e ostile, nel momento di maggiore sfortuna del rosminianesimo in Italia, vi era un piccolo gruppo di filosofi rosministi di stretta osservanza, come Lorenzo Michelangelo Billia o Giuseppe Morando o, anche, Carlo Caviglione e Giuseppe Chiovenda, che cercavano, con molta fatica, di difendere il difendibile. In questo ambito, prevalentemente laicale e comunque autonomo rispetto alla Congregazione religiosa, fu fondata la «Rivista Rosminiana», nel 1906, sotto la direzione di Morando2, nella prima serie, e di Caviglione nella seconda, chiusasi nel 1922, dopo un ultimo periodo di uscite più rade e difficili. Questi studiosi svolsero, dunque, un minuto lavoro di esegesi dei testi, quasi un’archeologia culturale del rosminianesimo, per ricollocare nei contesti filologici le proposizioni espunte e condannate dal decreto del 1887, per accertarne il senso originario, per approfondire (leggendo Rosmini con Rosmini) i punti oscuri. L’obiettivo di diradare ogni ombra di eresia spingeva peraltro questi rosministi ortodossi a una certa rigidità, così che, da una parte, evitavano ogni contatto con i novatori modernisti, come Fogazzaro o Gallarati Scotti, che non a caso venivano da essi spesso stigmatizzati, e, dall’altra, tenevano in scarso conto, pur conoscendola, la lettura che di Rosmini veniva dando certa filosofia laica, con autori come Varisco, come Carabellese3, come Capone Braga, il quale acutamente accostava
2 Cfr. A. Zambarbieri, Giuseppe Morando, la «Rivista Rosminiana» e il riformismo modernista, in La riforma della Chiesa nelle riviste religiose di inizio Novecento, a cura di M. Benedetti e D. Saresella, Milano 2010, pp. 149-75. 3 Su questi cfr. M.F. Sciacca, Antonio Rosmini nella storiografia italiana, in G. Bozzetti et al., Studi rosminiani, Milano 1940, pp. 177-89.
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Rosmini a Husserl e, soprattutto, polemizzavano con l’interpretazione in chiave idealista di Rosmini, avanzata da Gentile4. A fianco di questi filosofi rosministi5, ma con una posizione originale loro propria, stavano alcuni giovani religiosi rosminiani, anch’essi decisi nella difesa di Rosmini, non solo per le questioni squisitamente teoriche, ma anche per le loro implicazioni ostracizzanti sul piano ecclesiale. Così Padre Giuseppe Bozzetti – laureatosi in giurisprudenza nel 1900, in filosofia nel 1908 e in lettere a Roma nel 1909, il quale inoltre dal 1911 diveniva Rettore del Collegio Mellerio-Rosmini di Domodossola6 – nel 1917, quasi su mandato del Padre Generale Bernardino Balsari7, pubblicava uno studio sull’Ultima critica di Cfr. A. Morando, D. Morando, Giovanni Gentile e Giuseppe Morando, «Rivista Rosminiana», 42, 1948, pp. 78-80. 5 Per la sensibilità di questi ambienti nei confronti dei Rosministi cfr. G. Bozzetti, Lorenzo Michelangelo Billia, «Rivista rosminiana», 18, 2, 1924, pp. 143-5; Id., Giuseppe Morando, «Rivista Rosminiana», 39, 1945, pp. 7-10 (ma su Morando Bozzetti scrisse pure la relativa voce per l’Enciclopedia cattolica); Id., Giuseppe Chiovenda, «Rivista Rosminiana», 32, 1938, p. 45. 6 Il rettorato di Bozzetti giunse di fatto fino alla sua elezione a Preposito Generale dell’Istituto il 25 marzo 1935, ma con qualche periodo di alternanza di incarichi: 1911 Rettore del Collegio di Domodossola; 1919 Rettore e Maestro dei novizi al Sacro Monte Calvario di Domodossola; 1923 Rettore al Collegio di Domodossola e, al suo interno, Preside del Liceo; 1929 Preposito provinciale e Rettore del Collegio di Stresa; 1931 Rettore del Collegio di Domodossola; 1934 Rettore del Collegio di Stresa. Cfr. Notizie biografiche, in Ricordo di P. Giuseppe Bozzetti. Testimonianze. Onori funebri. Scritti inediti. Bibliografia, a cura di G. Pusineri, Domodossola 1957, p. 102; R. Bessero Belti, voce Bozzetti, Giuseppe, in Dizionario storico del movimento cattolico in Italia 1860-1980, a cura di F. Traniello e G. Campanini, vol. 3/1, Le figure rappresentative, Casale Monferrato 1984, pp. 122-3. Cfr. anche G. Bozzetti, Opere complete, a cura di M.F. Sciacca, Milano 1961. 7 Quasi come Prefazione, l’opera di Bozzetti recava una lettera inviatagli dal Padre Generale, nella quale si leggeva: «Voi sapete in che occasione, in che momento io vi esortai a questo lavoro; e parmi che giovi ricordarlo qui con serena schiettezza. Dal pulpito, nella Cattedrale di una delle prime città d’Italia, in una solenne occasione e davanti a uno scelto uditorio, si parlò di A. Rosmini come di un uomo invaghito delle sue idee e dottrine, invaghito di se medesimo, a quel modo – disse l’oratore – che Narcisso si invaghì delle fattezze del volto suo e perì miseramente nel fonte che gliele rispecchiava. A costui venne paragonato in quel discorso Antonio Rosmini e fu detto che egli pure, per invaghimento della sua propria dottrina, si perdé miseramente. Della quale dottrina l’oratore parlò in modo da farla apparire come un sogno o una illusione, quale appunto 4
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Ausonio Franchi (un’opera di quasi trent’anni prima, ma ancora nefastamente influente in ambiti ecclesiastici). A fronte delle confusioni di Franchi, Bozzetti spiegava con chiarezza la dottrina rosminiana della distinzione tra un atto dello spirito e l’avvertenza dell’atto (per esempio tra sentire e avvertire di sentire), dunque l’essere ideale come nozione innata dell’essere in universale, prima di tutte nell’ordine della cognizione immediata, implicita (ma anche la più astratta e quindi l’ultima nell’ordine della cognizione riflessa, esplicita)8. Ma soprattutto, rispetto alla contrapposizione, operata da Franchi, tra Rosmini e S. Tommaso, Bozzetti richiamava tutti gli studiosi (Ferrè, Gastaldi, Casara, Buroni, Moglia, Pedrotti, Paganini, Morando) che dal secondo Ottocento avevano mostrato l’accordo tra i due: non però per sostenere un’assoluta identità tra rosminianesimo e tomismo9. Egli mostrava l’attenzione di Rosmini a sviluppare la tradizione scolastica10, poteva nascere e radicarsi nella mente di un uomo invaghito sol di se stesso; e in quel che egli disse su tale dottrina si appoggiò sopra l’autorità di Ausonio Franchi, a cui diede lode di gran filosofo. Queste cose voi sapete che io le udii con le mie orecchie in quel giorno non dimenticabile. E chi le proferiva era persona costituita in altissima dignità; e mi è impossibile il pensare che egli, proferendole, non credesse di dire vero e di dire bene. Voi sapete, carissimo Don Bozzetti, qual fu l’animo mio nell’udir tali cose, in quelle circostanze; abbastanza ve lo mostrai quando vi ho esortato a scrivere questo libro che ora mi dedicaste» (G. Bozzetti, Rosmini nell’“Ultima Critica” di Ausonio Franchi. Studio Storico-critico, Firenze 1917 [la copertina, a differenza del frontespizio, porta la data: 1918], p. 1). Cfr. anche Id., Il P. Bernardino Balsari VI Preposito Generale dell’Istituto della Carità (1852-1935), Domodossola 1945. 8 Secondo Bozzetti: «l’elemento innato che Rosmini ammette e propugna, […] anziché un concetto, un termine di operazione della nostra mente, è una condizione, una causa oggettiva e formale di essa mente e precede di natura sua le operazioni della medesima. Quindi non rimarrebbe da dire: Il lume dell’intelletto agente, vale dire, l’essere ideale, è conosciuto per sé stesso» (Bozzetti, Rosmini nell’“Ultima Critica”, p. 163). 9 Osservava Bozzetti: «Ma se vi fu un eccesso da parte di alcuni rosminiani a voler identificare la dottrina dell’Angelico con quella del Roveretano, noi ci troviamo qui davanti all’eccesso opposto. Ausonio Franchi rimprovera a Rosmini e ai rosminiani di stiracchiare e magari guastare i testi di S. Tommaso per ridurli al proprio senso; e lui intanto travisa e altera la teoria rosminiana per farle dire il contrario appunto di S. Tommaso» (ibid., p. 140). 10 Scriveva: «Nelle opere di Antonio Rosmini una delle caratteristiche più notevoli della trattazione è quel continuo rifarsi alla tradizione filosofica cristiana, massime scolastica. Non v’ha dottrina di qualche momento che egli non cerchi confermare coll’insegnamento di quella e anche là dove egli è incontestabilmente originale pare che
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armonizzando S. Tommaso e il tomismo con la corrente francescana di S. Bonaventura e dello scotismo. In questo senso, storicamente, Rosmini appariva un precursore della rinascita neo-scolastica. Certo, la differenza con il neo-tomismo rimaneva grande, ma più per questioni di origine aristotelica e per il riferirsi dei neotomisti a Molina piuttosto che a S. Tommaso. Rosmini, per Bozzetti, alla interpretazione troppo aristotelica del Santo Dottore ne contrappone una che direi agostiniana o patristica; interpretazione che si potrà discutere ma non si potrà disprezzare […] là dove Rosmini si differenzia da S. Tommaso non si ha vera antitesi, ma si ha o lo sviluppo di dottrine rimaste solo come in cenno o in abbozzo nel Santo Dottore, oppure si ha un ritorno alla dottrina patristica, pura dai soverchianti influssi con cui trionfando nella Scuola l’Aristotelismo si rifece delle vivaci opposizioni prima in essa sofferte. Ma in questo secondo caso Rosmini ha per sé il suffragio di S. Anselmo, di S. Bonaventura, di Alessandro di Ales e di altri grandi Scolastici11.
Ma la riflessione di Bozzetti non era solo un’intelligente apologia del rosminianesimo, che prospettava pure un’originale ‘ermeneutica rosminiana’, essa forniva anche – sia pure indirettamente – una nuova chiave propositiva. Quando infatti parlava di S. Tommaso, egli affermava che il tomismo contemporaneo doveva rispondere ai nuovi problemi filosofici di oggi, sviluppando il pensiero del Dottore Angelico12. Implicitamente, dunque, si suggeriva un’analoga prospettiva, che si potrebbe definire neo-rosminiana: sviluppare la filosofia di Rosmini, in risposta ai problemi del pensiero a lui successivo fino al Novecento,
non ami di comparire, e che sia soltanto sollecito di mostrare l’addentellato portogli dal pensiero filosofico che lo precede, per costruire il nuovo in modo che combaci con l’antico e ne riesca sviluppo e compimento perfettamente armonico» (ibid., p. 137). 11 Ibid., pp. 174 e 176. 12 Scriveva Bozzetti: «Ma non è fuor di proposito la ricerca fatta da Rosmini, quando non trovando trattata direttamente ed espressamente da S. Tommaso la questione da lui posta, va investigando nell’Angelico quei passi onde si può ragionevolmente dedurre il criterio con cui l’avrebbe sciolta se gli si fosse presentata» (ibid., p. 148). E ancora: «Per essere utili ai nostri tempi lo studio di S. Tommaso non deve esser puramente storico, ma interpretativo, col quale si supplisce alle deficienze che sono in lui, e nel tempo stesso si continua a tessere la tela medesima ch’egli ha così mirabilmente ordito» (ibid., pp. 149-50).
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affrontando così questioni nuove, con teorizzazioni nuove, pur a partire dai fondamenti teorici del rosminianesimo. Era una sensibilità moderna non molto lontana da quella espressa da Fogazzaro13, anche se da lui, accusato di modernismo, indipendente14. Così, dunque, in anni in cui acquistava la ribalta l’Estetica di Benedetto Croce, l’attenzione di questo neo-rosminianesimo si doveva rivolgere ai problemi dell’estetica, dell’arte, del linguaggio, della letteratura sui quali la riflessione rosminiana, pur non assente, non era però così ampia ed esaustiva, e richiamava comunque anche i nomi di Manzoni, di Tommaseo, di Bonghi (oppure, in ambiti più specifici, del meno noto De Vit)15. Lo stesso Bozzetti pubblicava nel 1909 un volume sul rosminianesimo nel suo aspetto estetico e letterario, nel 1912 una Prefazione a un’edizione Utet (con le sue annotazioni) del Dialogo dell’Invenzione di Manzoni16, nel 1913 un più breve intervento sulla lingua e in particolare sull’origine della lingua italiana17.
In uno dei suoi caldi interventi in memoria di Rosmini, in seguito all’anno centenario della sua nascita (1897), Fogazzaro aveva affermato: «Per trarre dai principi fondamentali della filosofia rosminiana una vigorosa azione scientifica e letteraria occorrono dei giovani che posseggano due disposizioni essenziali: la modernità della cultura, il talento dello scrivere chiaro e colorito. Se gli aspiranti a continuare l’azione di Rosmini nelle vie della carità vi si preparano sul Calvario di Domodossola, in una silenziosa solitudine, è invece necessario che i continuatori suoi nelle vie del pensiero si preparino là dove la vita sociale e intellettuale della nazione è più intensa» (A. Fogazzaro, Per Antonio Rosmini, ora in Id., La figura di Antonio Rosmini. Discorsi del primo centenario, Roma 1998, p. 79). 14 È comunque da notare che erano abbonati alla «Rassegna Nazionale» (che, com’è noto, aveva un indirizzo di riformismo religioso e conciliatorista): Bernardino Balsari (fino al 1906); don P. Gariboldi, rettore del Collegio Rosmini di Stresa (190508); il Rettore del Collegio Rosmini di Domodossola (1905-08); il Rettore della Casa dei Rosminiani di Torino (1905-08). Cfr. O. Confessore, Conservatorismo politico e riformismo religioso. La «Rassegna Nazionale» dal 1898 al 1908, Bologna 1971, pp. 421, 429, 435. 15 Cfr. F. Bonali, Vincenzo De-Vit lessicografo, «Rivista Rosminiana», 34, 1940, pp. 146-51; M. Raoss, Vincenzo De-Vit lessicografo, «Rivista Rosminiana», 45, 1951, pp. 34-43, 125-36. 16 Tale edizione compare tra i libri posseduti da Contini. Com’è noto, è questa l’opera ‘filosofica’ più importante di Manzoni, in cui è ormai evidente la sua adesione al rosminianesimo. 17 G. Bozzetti, Antonio Rosmini nell’aspetto estetico e letterario, Roma 1909; Id., 13
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Si può dire che, progressivamente, l’impulso culturale più forte passò dai rosministi ortodossi d’inizio Novecento al neo-rosminianesimo collegato all’Istituto della Carità: il passaggio ideale di consegne avvenne nel 1923 e il ‘testimone’ fu costituito dalla «Rivista Rosminiana», come si vedrà più avanti. Bozzetti, che andava dunque sempre più proponendosi come la maggiore mente teoretica tra i religiosi Rosminiani della prima metà del Novecento, era allora, come si è già detto, a Domodossola. Certo l’ambiente domese e ossolano si era culturalmente molto arricchito con la presenza dei Rosminiani. Nella nota intervista a Ludovica Ripa di Meana, Contini ricordava il Collegio di Domodossola, del quale era stato allievo: È come tutte le altre scuole […]. Ma ci sono sempre le tracce di quello che fu l’uomo eccezionale che fondò l’Ordine, Rosmini. Era un personaggio indubbiamente di grandissima qualità, e nella mia formazione c’è certamente qualche cosa della filosofia, o meglio della teologia, o meglio ancora della teodicea di Rosmini, soprattutto dell’ascesi rosminiana18.
Prefazione ad A. Manzoni, Dialogo dell’Invenzione, Torino 1912; Id., Nozioni sulla lingua e in particolare sull’origine della lingua italiana, Domodossola 1913. 18 L. Ripa di Meana, G. Contini, Diligenza e voluttà, Milano 1989, p. 31. Ha ricordato Muratore: «Nel periodo in cui Contini frequentò il Collegio Rosmini, gli studenti annuali distribuiti fra ginnasio e liceo (c’era anche una scuola tecnica, che verrà chiusa nel 1923) erano circa 260, di cui 200 convittori (interni) e solo 60 esterni. Nel liceo poi, su una media di 50 convittori annuali, solo 12 erano esterni, vale a dire una media di 4 persone per ogni classe di circa 25 alunni» (U. Muratore, Contini alunno rosminiano, «Microprovincia», 35, 1997, pp. 134-5). Sul rosminianesimo continiano vi sono già stati, in vari lavori, riferimenti più o meno episodici. Gli studi più significativi sono quelli di Leoncini. Una tesi radicale è quella espressa in A. Poli, Fede sperimentale. La filologia di Gianfranco Contini, Antella 2010, in cui, attraverso raffronti sinottici di testi di Rosmini e di Contini, si vuole mostrare una certa derivazione da Rosmini di fondamentali passaggi dell’ecdotica continiana. Il tentativo è indubbiamente suggestivo ma non mi pare condivisibile: da una parte sottovaluta l’influenza profonda di altre lezioni intellettuali, tra le più alte della cultura europea, di fatto ridotte ad acquisizioni estrinseche; dall’altra sposta il valore del rosminianesimo continiano da una delle travature intime della sua personalità a una proiezione estrinseco-meccanica, quasi direi integralistica, molto lontana – a me pare – dallo spirito sia di Contini sia anche del Rosminianesimo al quale era stato introdotto.
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Ma il punto di vista, prevalentemente ossolano e in qualche modo dimesso, di Contini non deve ingannare. Il Collegio Mellerio-Rosmini di Domodossola, negli anni Venti in cui Contini vi fu allievo, non era semplicemente una delle tante scuole fondate e promosse dall’Istituto della Carità, come poteva essere, per esempio, il «Leone XIII» di Milano per i gesuiti. Era in realtà la più illustre tra tutte le non molte scuole dei Rosminiani19, fornita di un’ottima biblioteca20, che il giovane Contini ebbe il privilegio di frequentare. In stretti rapporti con il Collegio era ovviamente il Calvario: certo il Generale risiedeva a Roma, «la casa madre dell’Istituto rimane però quella del S. Monte Calvario di Domodossola, dov’è il Noviziato italiano, lo scolasticato comune alle due province d’Italia e d’Inghilterra, e un Aspirantato»21. Domodossola, dunque, considerando sia il Collegio sia il Calvario, si trovò allora a essere il luogo più vivo e importante, in assoluto, del rosminianesimo di quegli anni, nel suo complesso: dunque non una piccola realtà periferica, come si potrebbe pensare, ma il centro vitale e pulsante, sul piano culturale e direi anche spirituale, dell’intero movimento che si riconosceva erede del prete filosofo di Rovereto. Si trattava, certo, di un ‘piccolo mondo’, ma molto compatto, consapevolmente fiero e geloso della propria identità, attentissimo anzi – come tutte le realtà di minoranza, tanto più se in qualche modo emarginate – verso ogni, anche piccolo, accenno, superficialmente critico o storicamente infondato, che gettasse ombra sulla memoria di Rosmini. Vi era forse una qualche ipersensibilità, che potrebbe rimandare a una matrice ‘settaria’, in senso sociologico: per quel retropensiero, da vittime di una ingiusta persecuzione, che costituiva comunque una forza unitiva di quel mondo. Si veda, per esempio, nel 1922 (quando dunque Contini era già allievo del Collegio rosminiano),
19 Nel 1929, Bozzetti scriveva: «L’istruzione media è curata nel cospicuo Collegio di Domodossola, che è forse l’opera dell’Istituto più nota in Italia» (G. Bozzetti, Che cos’è l’Istituto della Carità, «Rivista Rosminiana», 23, 1929, p. 25). Cfr. G. Airaudo, L’opera educativa rosminiana in Italia da Rosmini ai nostri giorni, «Rivista Rosminiana», 55, 1961, pp. 258-88 (sul Collegio: pp. 262-8). 20 Cfr. R. Bessero Belti, La biblioteca del Collegio Rosmini, in AA.VV., Collegio Mellerio-Rosmini, Domodossola: 1837-1937: Ricordi e documenti, Milano 1938, pp. 2349. 21 Bozzetti, Che cos’è l’Istituto, p. 26.
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la ferma e coraggiosa difesa, a fronte di nuove accuse22, del libro Delle Cinque Piaghe della Santa Chiesa, operata da Bozzetti, vedendo nell’operetta un amore ardente come quello dantesco23, sostenendo che la condanna all’Indice era stata determinata da motivi di opportunità politica24 e lasciando intendere che poteva essere rivista (come era stato fatto per il libro del Croiset sul S. Cuore). Il rettore del Collegio domese concludeva dunque: Dio mi guardi da voler riaccendere delle polemiche intorno a Rosmini. Io non ho alcuna fede nelle polemiche; e ho evitato studiosamente in questo scritto ogni atteggiamento polemico. […] È vero che la Chiesa non ha bisogno di nessuno, neanche di Rosmini. Ma è dello spirito di carità che anima la Chiesa, è del suo spirito di ossequio all’azione benefica della Provvidenza il riconoscere con affetto materno i figli che le hanno dedicato tutto il loro ingegno, tutto il loro cuore, tutta la loro vita. Tra questi è certamente Rosmini, e non so perché la Chiesa Cattolica non debba compiacersi che uno dei più grandi genii filosofici del mondo le abbia prestato nel secolo XIX, un secolo di apostasie e confusione, il più profondo, consapevole e amoroso ossequio25.
La psicogenesi degli atteggiamenti di fondo, dunque, che animavano il ‘piccolo mondo’ rosminiano, non conduceva ad asprezze polemiche, chiusure al dialogo e all’aggiornamento, conservatorismi difensivi e archeologici, al contrario: la fedeltà a Rosmini si giocava proprio sull’apertura senza pregiudizi e onnilaterale, sul rispetto dell’altro e sulle
Le accuse erano di Giovanni Casati, direttore della «Rivista di letture», ed erano occasionate dalla pubblicazione della Vita di Fogazzaro scritta da Gallarati Scotti. Bozzetti – pur con parole di rispetto per Fogazzaro e per Gallarati Scotti – distingueva con nettezza le posizioni di Rosmini da quelle di certo modernismo filo-rosminiano, rifiutando tuttavia la tradizione intransigente e guardando a Capecelatro (da lui molto ammirato) e a Bonomelli. Bozzetti, con esplicita chiarezza, affermava inoltre: «Premetto che io non mi sarei, in ogni caso, aspettata dal Casati della simpatia per Rosmini. Il Casati appartiene evidentemente a quella parte del clero milanese che assorbì dall’educazione un concetto tutto sfavorevole del Roveretano» (G. Bozzetti, Per una giusta valutazione delle Cinque Piaghe di Rosmini. A proposito di uno scritto recente sui libri letterari all’Indice, Novara 1922, pp. 3-4). 23 Ibid., p. 21. 24 Ibid., pp. 15-7. 25 Ibid., pp. 23-4. 22
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capacità dialogiche, cioè insomma su un atteggiamento fondamentale e permanente che esprimeva una vera simpatia e un’attenzione autentica per la modernità: si trattava pertanto di un ‘piccolo mondo moderno’. Nelle celebrazioni per il centenario dell’Istituto di Carità, nel 1929, Bozzetti avrebbe scritto: «l’Istituto, secondo il principio posto dalla carità illimitata, deve di continuo rinnovare uno sforzo di adattamento alle circostanze in cui può venirsi a trovare»26. 1.2. Gian Franco27 Contini entrava nel ginnasio del Collegio MellerioRosmini nel 1921-22: dunque nel momento del collasso del sistema liberale italiano. Nel rettore Bozzetti si poteva allora registrare una simpatia ‘rosminiana’ per il Partito Popolare28. Ancora nel 1926, nella cerchia domese, si cercava di proporre una linea rosminianopersonalistica, che non citava mai il fascismo, ma discuteva Croce29. Tuttavia il progressivo consolidarsi del potere mussoliniano e il conseguente regime fascista dovevano in realtà portare a una nuova consacrazione nazionale della figura di Antonio Rosmini. E questo non poteva lasciare completamente indifferente lo stesso ambiente rosminiano domese. Intanto il giovane ginnasiale fu subito introdotto alla conoscenza della figura di Rosmini: alla fine della V Ginnasio, il 25 giugno 1926, ricevette il primo premio della «Scuola di Religione», diretta dal professore don Camillo Risso. Il premio consistette nella Piccola vita
Bozzetti, Che cos’è l’Istituto, pp. 22-3. E continuava: «Perché è vero che le varie chiamate a operare or questo or quell’altro bene nel mondo devono avere per corrispondente nell’Istituto un sufficiente numero di persone adatte allo scopo; ma è anche vero che ai membri dell’Istituto incombe il dovere di fare il possibile per adattarsi a tutto». 27 Gian Franco e non Gianfranco: come risulta negli elenchi degli alunni del Collegio. 28 Nel 1922 Bozzetti scriveva: «Io arrivo a dire senza timore d’esser chiamato temerario che l’attuale Partito Popolare non avrebbe difficoltà a riconoscere in Rosmini un precursore del suo programma» (Bozzetti, Per una giusta valutazione delle Cinque Piaghe, p. 18). Interessanti erano anche alcuni articoli apparsi in quell’anno nella «Rivista Rosminiana»: C. Gray, L’azione dei partiti politici e la crisi del diritto positivo, «Rivista Rosminiana», 16, 1922, pp. 16-36; G. Artana, A. Rosmini e la filosofia del diritto. Schizzo, ibid., pp. 65-74. 29 Cfr. G.B. Nicola, Per la costruzione di una scienza politica, «Rivista Rosminiana», 20, 1926, pp. 114-59. 26
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di Antonio Rosmini scritta da Giovanni Battista Pagani30. Ma tra i libri appartenuti a Contini e da lui annotati vi è pure l’edizione del 1929 del ritratto di Rosmini steso da Niccolò Tommaseo31. È molto probabile, inoltre, che Contini conoscesse presto l’ampio discorso sulla figura di Rosmini, tenuto da Fogazzaro nel primo centenario della nascita del Roveretano32. Si trattava di un testo molto noto e apprezzato negli ambienti rosminiani: a me pare che alcuni fondamentali tratti della visione continiana di Rosmini dipendano da questo scritto. Contini, allievo esterno (cioè non convittore) del ginnasio e del liceo, frequentò dunque il Collegio dal 1921 al 1929, trovandovi un ambiente a lui congeniale, come testimoniano, tra l’altro, le brillanti valutazioni scolastiche33. Tra i suoi condiscepoli, sia pure in anni diversi, vi furono 30 G.B. Pagani, Piccola vita di Antonio Rosmini, scritta da un sacerdote dell’Istituto della Carità, Casale 1897: è conservata tra i libri appartenuti a Contini (Fondazione Ezio Franceschini, Fondo Contini). 31 N. Tommaseo, Il ritratto di Antonio Rosmini, con introduzione e note di C. Curto, Torino 1929 (Fondazione Ezio Franceschini, Fondo Contini). 32 Una copia del volume Per Antonio Rosmini nel primo centenario della sua nascita: 24 marzo 1897, Milano 1897, che si apriva con il discorso di Fogazzaro, è presente tra i libri di Gianfranco Contini. Il 3 settembre 1964, Contini scriveva a Pizzuto: «Se ti dicessi che la miglior descrizione geologica del mio monte è di Fogazzaro, in un discorso su Rosmini?» (G. Contini, A. Pizzuto, Coup de foudre. Lettere 1963-1976, a cura di G. Alvino, Firenze 2000, p. 74). Gualberto Alvino, curatore dell’edizione di questa lettera, cita a questo proposito un brano che parla di Rovereto e che sicuramente non è quello a cui Contini si riferiva. Penso invece che si tratti proprio del discorso fogazzariano del 1897, La figura di Antonio Rosmini, in cui a proposito del Calvario di Domodossola si legge: «Intorno al poggio sorgono con maestà le Alpi Ossolane interrotte da vallate ascendenti a ponente e a levante come grandi vie aperte verso il cielo. […] Salendo col cuore pieno di quest’uomo santo e grande, fra le ombre dei castagni, quello sperone del monte S. Bernardo che chiamano il Calvario, contemplando gli sfondi delle vallate, i fianchi scoscesi dello Psola, le nevi sovrane del monte Giove, ascoltando il vento fra le rovine del castello di Mattarella, sospirai quella solitudine per pensare a scrivere in pace di lui» (A. Fogazzaro, La figura di Antonio Rosmini, Milano 1897, ora in Fogazzaro, La figura di Antonio Rosmini: discorsi, pp. 7-8). 33 Al termine del ginnasio inferiore (1924), otteneva: 8 in Italiano, 9 in Latino, 10 nelle altre materie. Quarta ginnasio (1924-25): tutti 9; 10 in Matematica e Francese (dispensato dall’Educazione fisica). Quinta ginnasio (1925-26): 9 in Italiano e poi tutti 10. Prima liceo (1926-27): 9 in Italiano, Latino e Greco; 10 nelle altre materie; sufficiente in Ginnastica. Seconda liceo (1927-28): 9 in Filosofia ed Economia politica e in Storia dell’arte; 10 nelle altre materie; buono in Ginnastica. L’11 luglio 1929, Contini
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Dante Morando34, convittore, figlio del già ricordato Giuseppe, più anziano di Contini (anni in Collegio: 1918-26) e, più giovane, Remo Bessero Belti (anni in Collegio: 1929-32)35. La condizione di esterno non fu d’ostacolo a una piena integrazione di Contini con docenti e compagni. Com’è noto nel 1927 egli, appena quindicenne, scrisse un articoletto sul «Bollettino dell’Associazione “Antonio Rosmini” e dei Collegi Rosminiani», raccontando, con toni allegri ma già originali36, di una gita del 12 ottobre della II Liceale in Valle Antrona e alla centrale di Rovesca «sotto la sagace guida dell’inarrivabile Prof. Zoppetti»: Luigi Zoppetti era il sacerdote professore di scienze naturali, che idealmente si ricollegava a quel ‘naturalismo rosminista’ già rappresentato dalla grande figura dell’abate Antonio Stoppani. In quegli anni furono al Collegio, con ruoli diversi, due Padri rosminiani destinati a essere Prepositi Generali dell’Istituto e cioè Bozzetti e Gaddo e altri tre che sarebbero stati Prepositi Provinciali e cioè Pusineri, Bassani37 e Biagioni38. Vi furono, ancora, Giovanni
conseguiva la maturità classica con tutti 9, con 10 in Storia dell’arte e con buono in Ginnastica. Cfr. S. Ragozza, Gianfranco Contini alunno del Collegio Rosmini, in AA.VV., Incontri con Gianfranco Contini, Domodossola 2010, pp. 14-6; Muratore, Contini, pp. 135-6; C. Carena, Ricordo scolastico di Gianfranco Contini, «Bollettino degli Ex Allievi dei Collegi Rosminiani di Domodossola», giugno-dicembre, 1990, pp. 11-6. 34 Cfr. E. Pignoloni, Dante Morando nel primo anniversario della morte, «Rivista Rosminiana», 54, 1960, pp. 1-32. 35 Cfr. AA.VV., Collegio Mellerio-Rosmini, p. 397. 36 Più che il riferimento a Papini sembrano interessanti alcuni toni tra un futurismo postumo e uno sguardo alla Sironi, quando si domandava: «Ma non c’è qualche poesia anche nei sifoni e nelle gallerie?» e quando osservava: «Fremiti di meraviglia e di ammirazione […] dinanzi alle poderose condutture, alle vorticose turbine, ai giganteschi trasformatori, al quadro di manovra fantasmagorico; e dinanzi (perché no) alla non sobria, ma neppur barocca eleganza» (G. Contini, Gita della II Liceale in Valle Antrona (12 ottobre 1927), «Bollettino dell’Associazione “Antonio Rosmini” e dei Collegi Rosminiani», 1927, poi in Contini, Domodossola entra nella storia, p. 35). 37 Francesco Bassani fu prefetto di camerata nel Collegio dal 1920 e il 1924. Vi ritornò poi come vice-rettore dal 1934 al 1937. 38 Umberto F. Biagioni studia al Collegio dal 1914 al 1921. Dal 1921 al 1925 vi svolge l’ufficio di censore. Ancora censore dal 1927 al 1929 e poi anche direttore spirituale (1929-30): in quel periodo si laurea in lettere a Torino. Dal 1930 al 1935 Vice-rettore, censore e insegnante. Interessante il giudizio che ne diede Mario Soldati rievocandone
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Battista Nicola, uno dei maggiori studiosi del pensiero politico di Rosmini39, e Guido Rossi, allora indagatore della gnoseologia rosminiana40 e futuro biografo del Roveretano: «Mons. Nicola veniva a Domodossola dall’Università Cattolica, dove aveva insegnato qualche anno le dottrine politiche. […]. Guido Rossi, ch’era già stato incaricato di storia della filosofia all’Università Cattolica di Milano, preparò a Domodossola la libera docenza»41. Altre figure significative di docenti furono Antognini, Zoppetti e soprattutto Viglino, per alcuni anni vivace direttore della «Rivista Rosminiana» come si vedrà ancora più avanti, figura «rivoluzionaria, almeno sotto alcuni punti di vista, e certo più scapigliata»42. Nel 1930 giunse, dopo un processo di conversione e di ascesi, Clemente Rebora, che entrava nell’Istituto della Carità e che tenne pure qualche insegnamento. Si trattava dunque di una scelta pleiade di personalità spiccate e quasi direi carismatiche e di studiosi di livello universitario43. Preside del liceo, dal 1923-24, fu Giuseppe Bozzetti, il quale era pure il titolare della cattedra liceale di Italiano, ma non potendo da preside attendere all’insegnamento, si fece supplire, dal 1922 al 1929, dal giovane ticinese Luigi Antognini. Si riservava, tuttavia, la prima ora del lunedì per la lettura e il commento della Divina Commedia: Certo leggeva e diceva in modo inconfondibile e suggestivo: sembrava apparissero chiari anche i concetti più astrusi, quelli che poi richiedevano
l’amicizia: «Padre rosminiano, laureando in letteratura latina, spregiudicato, spiritoso, modernissimo eppure, nel profondo, di idee gianseniste» (M. Soldati, La sposa americana, Milano 2007, p. 94). 39 Cfr. G.B. Nicola, Il sistema etico-giuridico di Antonio Rosmini, «Rivista di Filosofia Neo-scolastica», 16, 2-3, 1924, pp. 176-85. 40 Cfr. G. Rossi, Studi rosminiani, «Rivista di Filosofia Neo-scolastica», 15, 2-3, 1923, pp. 185-95; 15, 5, 1923, pp. 345-64; 15, 6, 1923, pp. 415-52. 41 D. Morando, Cento anni di filosofia nel Collegio Rosmini di Domodossola (18371937), in AA.VV., Collegio Mellerio-Rosmini, p. 212. 42 Ibid., p. 211. 43 Gli insegnanti di Contini al ginnasio furono: Giovanni Pusineri, Giovanni Gaddo, Pier Camillo Risso, Pietro Galli, Luigi Zoppetti. Al liceo: Guido Rossi, Giambattista Nicola (Storia e Filosofia), Risso (Latino e Greco), Galli (Matematica), Zoppetti (Scienze naturali), Bozzetti (Arte). Cfr. Ragozza, Gianfranco Contini, p. 13; Muratore, Contini, p. 135.
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lunghi commenti. La voce si piegava talora, in quasi tonalità di soprano, per meglio sottolineare espressioni dell’alta poesia, a inflessioni acute di dolcissimo suono44.
Appunto per lo studio dell’Italiano: L’Antognini e il Viglino curarono molto la lettura dei giovani liceali, consigliavano libri, diressero i metodi di scelta; fecero di tutto perché le camerate avessero bibliotechine arredate convenientemente; si adoprarono perché venissero concessi i prestiti della ricca ma misteriosissima biblioteca del Collegio45.
Professori di filosofia furono, invece, dal 1913-14 al 1920-21 Padre Giuseppe Bozzetti, nel 1921-22 Padre Giovanni Pusineri. Colle leggi di G. Gentile essendosi riunito l’insegnamento della filosofia con quello della storia e dell’economia politica, la cattedra fu tenuta nel 1922-23 e 1923-24 da Camillo Viglino, nel 1924-25 da G.B. Nicola, nel triennio dal 1925-26 al 1927-28 da Guido Rossi, nel 1928-29 fino al 1930-31 ancora da G.B. Nicola, e in seguito da Dante Morando46.
In qualche modo il ginnasio-liceo del Collegio realizzava al meglio l’ideale di alti e severi studi, ma anche di unitarietà ideale e filosofica, auspicato e promosso dalla Riforma Gentile: ma la filosofia centrale e onnipervasiva non era l’idealismo, bensì il rosminianesimo, che ispirava tutti i docenti, ma anche sacerdoti e religiosi che comunque partecipavano di quella che, per i giovani convittori, era quasi una ‘istituzione totale’ e che, per tutti, era una cittadella rosminiana di studi, in qualche modo unica, nell’armonica e organica sintesi di filosofia
44 L. Oldrini, Parola confortatrice ai giovani e agli adulti, in Ricordo di P. Giuseppe Bozzetti, p. 46. Cfr. anche G. Carini, Il nostro Professore d’italiano in Liceo, ibid., p. 44. E Morando ha aggiunto: «così come, leggendo la Divina Commedia, con la sua voce spesso aritmica sapeva tuttavia ricavarne inflessioni e toni efficacissimi, più aderenti al testo e sconosciuti alle roboanti e spettacolari dizioni dantesche del Pastonchi» (Morando, Padre Bozzetti un educatore filosofo, ibid., p. 21). 45 U. Biagioni, I professori d’italiano, in AA.VV., Collegio Mellerio-Rosmini, p. 195. 46 Morando, Cento anni di filosofia, p. 208.
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rosminiana, pedagogia rosminiana, ascesi rosminiana e spiritualità rosminiana. Questa cittadella ideale ebbe pure, in quegli anni, la sua rivista culturale e cioè la «Rivista Rosminiana», che sicuramente il liceale Contini leggeva (insieme alla «Fiera letteraria» che il padre gli acquistava dal giornalaio della stazione)47. Proprio dalle annate della Rivista, relative al periodo continiano del ginnasio-liceo, possiamo comprendere i caratteri e le specificità del rosminianesimo al quale il giovane e brillante allievo fu iniziato. Del resto quasi contemporaneamente all’ingresso di Contini nella scuola, giusto subito dopo, si ebbe l’importante passaggio di testimone, a cui ho già fatto cenno. Dalla sua nascita, nel 1906, la «Rivista Rosminiana» aveva avuto, come si è visto, due serie: la prima diretta da Giuseppe Morando e la seconda diretta da Carlo Caviglione, in cui il periodico si stampava a Torino. Si trattava, in entrambi i casi, dell’indirizzo rosminista di cui si è detto. Ma la fatica che ormai si faceva e la conseguente irregolarità nelle uscite della pubblicazione, portarono nel 1922 alla fine della seconda serie. Così nel 1923 si avviò una terza serie, stampata a Varallo e diretta da Damiano Avancini: si voleva superare il carattere unicamente teoretico-filosofico e trasformare il periodico in una rivista di cultura, aperta anche all’aspetto letterario e a quello storico48. Il primo numero del 1923 rappresentò l’«anello di congiunzione»49 tra la seconda e la terza serie: insomma il passaggio di testimone. La Rivista divenne così soprattutto espressione del mondo rosminiano domese: pur continuando a ospitare articoli di Caviglione (tra i quali, notevole, nel 1924, uno studio su Kant, che in realtà spaziava dall’«idealismo soggettivo assoluto», al quale riportava
Ragozza, Gianfranco Contini, p. 14. Secondo Avancini, la Rivista, nella sua nuova serie, «non si occuperà solamente di quanto riguarda i suoi [di Rosmini] sistemi e le sue dottrine gnoseologiche, ontologiche e deontologiche, ma ospiterà anche, in maggior copia che per il passato, articoli sulle produzioni letterarie e storiche di Antonio Rosmini, sulla sua vita e sulle sue doti personali, con riferimento particolare all’ambiente storico, nel quale egli svolse la sua meravigliosa attività» (D. Avancini, Introduzione, «Rivista Rosminiana», 17, 1923, p. 3). 49 Ibid., p. 4. 47
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Croce50, all’idealismo oggettivo hegeliano51 e alle derivazioni dal kantismo: immorali, amorali e morali, tra quest’ultime indicava la filosofia dell’azione)52, tuttavia le collaborazioni più importanti furono quelle di Antognini53, Pusineri54, Bozzetti55, Nicola56, ma anche Gaddo, Rossi e Marino. Dai diversi contributi di questi anni, molti dovuti, come si è visto, a
Secondo Caviglione: «L’idealismo soggettivo assoluto è un discendente naturale della filosofia kantiana, ed esso implica l’assoluta immanenza, esclude ogni trascendenza, compresa quella che, come nella filosofia kantiana, è in funzione dell’immanenza. […] l’uomo o, meglio, l’umanità o, meglio ancora, la storia, ecco la totalità dell’essere; nell’idealismo assoluto il soggetto umano è Dio, è Dio, sempre in fieri, e la filosofia e la religione sono la stessa cosa, ovvero la filosofia è religione delle religioni, il culmine dell’attività spirituale, e al tempo stesso l’essenza della storia» (C. Caviglione, Kant, «Rivista Rosminiana», 18, 1924, p. 16). Ciò portava Caviglione a parlare anche del «principio della soggettività dell’interpretazione storica, sostenuto (troppo radicalmente in conseguenza di troppa concessione fatta al soggettivismo critico kantiano) da B. Croce» (p. 19). 51 Scriveva: «Al soggetto che tutto crea, Hegel sostituisce l’Idea che tutto diviene e al fine prende coscienza di sé nella filosofia, nella sua filosofia, e alla filosofia della libertà creatrice sostituisce una filosofia della storica necessità. È un idealismo nuovo che viene da alcuni denominato oggettivo» (ibid., p. 17). 52 Caviglione osservava: «dal kantismo derivarono sistemi immorali, come quelli dello Schopenhauer e del Nietzsche […], se ne derivarono sistemi amorali, come certe forme di prammatismo ecc, altri ne trassero concezioni morali, come si vede nella filosofia dell’azione e nel dommatismo morale, non che nella filosofia del contingentismo in cui tuttavia non sono interamente eliminate le manchevolezze della filosofia kantiana, in quanto esse pure difettano di quell’unità oggettiva che sola garantisce la validità d’un sistema […]. Si comprende che io alludo al Blondel, al Laberthonnière, al Boutroux» (ibid., pp. 20-1). 53 Cfr. L. Antognini, L’impostazione rosminiana del problema gnoseologico, «Rivista Rosminiana», 17, 1923, pp. 6-11; Id., Sull’impostazione rosminiana del problema gnoseologico, «Rivista Rosminiana», 19, 1925, pp. 65-7. 54 Cfr. G. Pusineri, Per lo studio della formazione filosofica di Antonio Rosmini. La coscienza pura, «Rivista Rosminiana», 17, 1923, pp. 17-37; Id., Per lo studio della formazione filosofica di Antonio Rosmini. La determinazione della coscienza pura, «Rivista Rosminiana», 19, 1925, pp. 43-63. 55 Cfr. G. Bozzetti, La Vita di Antonio Rosmini. I. La giovinezza, «Rivista Rosminiana», 17, 1923, pp. 38-67. 56 Cfr. G.B. Nicola, Il Panegirico di Pio VII, «Rivista Rosminiana», 17, 1923, pp. 68132; Id., Pio IX, «Rivista Rosminiana», 22, 1928, pp. 133-62. 50
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docenti del Collegio, emergevano particolari sottolineature nella lettura del rosminianesimo o, forse meglio, di un indirizzo culturale rosminiano moderno. Chiarire tali sottolineature, che appunto si delineavano tra il 1923 e il 1929, significa mettere a fuoco i caratteri peculiari del rosminianesimo che anche il giovane Contini andava abbracciando. Un primo carattere era l’attenzione non solo alla filosofia, ma anche all’ascetica di Rosmini: «Poco e mal conosciuto – scriveva Nicola – è il Rosmini filosofo; meno ancora l’ascetismo del Rosmini e del suo Istituto»57. L’ascetica come pure la tradizione di pensiero filosofico portavano a un interesse per il francescanesimo: l’umiltà francescana58, dunque, ma anche la corrente agostiniano-bonaventuriana, nella quale si innestava il rosminianesimo59. Questo secondo carattere della Rivista – la continuità cioè col francescanesimo – aveva due importanti conseguenze: da una parte, l’attenzione alla «vita del mondo materiale»60 e cioè alle ardite e immaginifiche teorie rosminiane dei «princìpi
Id., La vocazione di Antonio Stoppani e lo spirito dell’Istituto della Carità, «Rivista Rosminiana», 19, 1925, p. 33. Cfr. anche Id., La Giustizia. Premessa ontologica, ibid., pp. 81-91. 58 Scriveva Bozzetti: «Rosmini ci dice che l’umiltà cristiana non sta solo in questo. Essa consiste anche in un senso della potenza del Cristo inabitante in noi, rinnovatrice e restauratrice, dominatrice di tutte le cose create, spirito e materia; una potenza immensa che dà le vertigini e insieme tien sollevato l’uomo in una lieta adorazione di ciò che Dio può operare nel nostro nulla. L’umiltà in questo secondo momento acquista un fascino senza pari. Diventa semplicità, candore, ottimismo, ingenuità diffusa» (G. Bozzetti, San Francesco d’Assisi, «Rivista Rosminiana», 20, 1926, p. 316). 59 Nel 1925 sulla rivista si leggeva: «A. Rosmini […] con una sintesi compiuta e sistematica […] riprende e definisce, nella scolastica moderna, la corrente platonicoagostiniana rappresentata nel M. E. da San Bonaventura. Invece la corrente più larga e, diremo così, ufficiale, segue un indirizzo piuttosto aristotelico» (G. Marino, La dottrina della conoscenza in San Bonaventura, «Rivista Rosminiana», 19, 1925, p. 194). E si aggiungeva: «nel suo [di Rosmini] sistema risulta più chiaramente affermato quello che pur è chiaro nella Dottor Serafico [S. Bonaventura]: l’immanenza del divino e la trascendenza di Dio» (ibid., p. 257; ma si veda l’intero saggio: pp. 183-94, 247-58). Cfr. anche G. Pusineri, Tre cappuccini precursori di Rosmini, ibid., pp. 206-8; G. Marino, La dottrina gnoseologica di S. Agostino, «Rivista Rosminiana», 20, 1926, pp. 23-34; P.M. Bini [pseudonimo del cappuccino Placido da Pavullo], Mons. Angelo Fiorini, «Rivista Rosminiana», 23, 1929, pp. 235-40. 60 Cfr. C. Gennari, La vita del mondo materiale in San Francesco e in Rosmini, «Rivista Rosminiana», 20, 1926, pp. 327-40. 57
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corporei» (con la conseguente angelologia)61; dall’altra l’interesse per gli studi che il francescano Emilio Chiocchetti andava compiendo, sulla filosofia62, su Rosmini, ma anche su Croce. P. Chiocchetti, che, nel primo Novecento, era stato con P. Gemelli tra i promotori di un indirizzo neo-scolastico nuovo, era membro dell’Associazione «Antonio Rosmini»63. Occorre allora soffermarsi sull’importante volume che Chiocchetti dedicò a Croce: si trattava di un’attenta e acuta disamina del crocianesimo, condotta con simpatia e consenso, da un punto di vista filosofico francescano-rosminiano (tante grandi opere di Rosmini erano infatti citate). Gli elementi costitutivi di tale impianto teoretico erano: il sintesismo rosminiano64; la «cognizione intuitiva» per intendere l’arte come cognizione dell’individuale (in una linea Occam-Leibniz-Rosmini)65; una teodicea come dottrina dell’assoluto Carlo Gennari scriveva: «Ma perché questo principio senziente, che ha la forza in sé di unificare, possa agire, occorre che esista un altro principio dal quale provengano la materia e le forme materiali, che il principio senziente riceve e si appropria vestendole di estensione e così unificandole. Quel principio è ciò che Rosmini chiama il Principio corporeo, principio immateriale e intelligente, spirito puro che pone il sentimento del corpo, la realtà corporea. […] Per cui è da ammettersi in ognuno di questi principi intelligenti, una individualità sua propria. […] Del resto, il pensiero dello sterminato numero di principi intelligenti (chiamati Angeli nella teologia cattolica) che il Rosmini opina custodire tutti gli atomi della materia e dell’universo, è pensiero che sorprende di stupore e direi quasi di sgomento ogni più ardita immaginazione. […] Qui ha luogo quella sentenza di Tommaso d’Aquino: “Tutta la creazione corporea è amministrata da Dio per mezzo di Angeli” e quel che l’Alighieri dice delle pure Intelligenze […] Ed ecco dove l’altezza del ragionamento del filosofo Roveretano si incontra colla grandezza del sentimento del Santo d’Assisi. Anche San Francesco intuì tutto un mondo di spiriti quasi annidati nel mondo materiale» (ibid., pp. 335-7, 339). 62 Cfr. L. Antognini, recensione a E. Chiocchetti, S. Tomaso, «Rivista Rosminiana», 21, 1927, pp. 142-6. 63 Cfr. L’“Associazione Antonio Rosmini” ed il Centenario dell’Istituto della Carità, «Rivista Rosminiana», 23, 1929, p. 80. 64 E. Chiocchetti, La filosofia di Benedetto Croce, Milano 19202, pp. 16-27. 65 Scriveva Chiocchetti: «Questa cognizione intuitiva, precedente il concetto e, perciò, anteriore a ogni specie di giudizio così tetico come sintetico, così esistenziale come essenziale; questa cognizione, quindi, dell’individuale, – attribuita dagli scolastici, in generale al senso o alla sfera delle attività animali, ed elevata già dal grande Guglielmo d’Occam nel campo delle facoltà spirituali – è nient’altro che l’attività artistica, la quale coincide col primo sorgere della vita spirituale conoscitiva, ed è, quindi, il presupposto di ogni ulteriore attività teoretica, o, per dir tutto, di tutta l’attività teoretica riflessiva» 61
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trascendente66. In sostanza Chiocchetti accettava, perfino con caldo entusiasmo, l’estetica crociana67 e anche la dottrina della dialettica dei distinti, oltre naturalmente la tesi dell’ateoreticità dell’errore (già presente in Rosmini); rifiutava invece il monismo e l’immanentismo assoluto68. Per Chiocchetti le critiche di Croce a Gentile erano giuste e da lui condivise69, ma non si reggevano se ci si manteneva in un orizzonte idealista: in questo, a suo avviso, aveva ragione Gentile nel sostenere la contraddizione, da un punto di vista idealistico assoluto, di Croce70, il cui sistema, allora, non andava inteso come idealistico bensì come spiritualistico realistico. In sostanza, la via di Chiocchetti era un crocianesimo rosminiano, fondato su un’oggettività realisticoidealistica del conoscere71. Chiocchetti, anche se in quel momento un po’ ai margini, faceva parte del gruppo filosofico milanese dell’Università Cattolica. In questo gruppo vi era anche Zamboni, il quale, con le ricerche di gnoseologia, recuperava l’etica rosminiana, ma ‘liberandola’ dalla sua Ideologia. (ibid., pp. 2-3, ma cfr. anche p. 217). E ancora: «Quindi: Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, purché si tenga conto dell’aggiunta del Leibniz: excipe nisi ipse intellectus, cioè dell’intelletto con le sue leggi, che entra in sintesi coi dati del senso spiritualizzati nell’intuizione. […] perciò il concetto deve essere ed è concreto, cioè individuale» (ibid., p. 49). 66 Ibid., pp. 50-1, 339. 67 Scriveva: «E non saremo certo noi a negare al Croce questo merito grandissimo, o a non confessare la fecondità delle dottrine estetiche che vanno sotto il suo nome e che saranno le dottrine dell’avvenire. A mano a mano che si procede nello studio dell’Estetica crociana, al lume di tutto il sistema crociano, una gran luce si fa dentro, sopra una moltitudine di problemi che a essa, più o meno direttamente, si annodano e da essa ricevono la soluzione. L’identità fra arte e linguaggio, l’eternità dell’arte, l’identità fra genio e gusto artistico e altri molti punti di dottrina, ricevono una dimostrazione sistematica perfetta. E non è vero, come crede il Croce, che la teoria sua della pura intuizione non sia conciliabile con le dottrine dualistiche, che ammettono una distinzione fra anima e corpo, fra mondo interno e mondo esterno» (ibid., pp. 216-8). 68 Ibid., pp. 242-3. 69 Ibid., pp. 326-9. 70 Concludeva infatti: «Tutte queste critiche [di Croce] all’idealismo attuale sono certamente giuste, purché non partano dal punto di vista dell’idealismo assoluto. Nel campo dell’idealismo ha ragione il Gentile e torto il Croce» (ibid., p. 329). 71 Ibid., p. 339.
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In dialogo con Zamboni, Bozzetti, sulla «Rivista Rosminiana», presentava allora quello che si può considerare l’asse teorico del neorosminianesimo: criticare Rosmini con Rosmini; superare il Rosmini dei Principii della scienza morale (rifiutato anche da Zamboni), ma per giungere con solida fondatezza al Rosmini della Teosofia72. Questa prospettiva apriva la Rivista alla cultura contemporanea, compresi gli aspetti estetici, letterari73 (si veda, per esempio, un articolo di Bozzetti su Michelstaedter)74 o letterario-filosofici75. Dal 1927 al 1929, oltre all’affacciarsi di nuovi collaboratori come Viglino76 e Dante Morando (che apriva la rivista alle tematiche pedagogiche)77, emerse un’attenzione gnoseologica al sentimento e al Con un’inflessione autobiografica, Bozzetti scriveva: «Infatti l’atteggiamento del Rosmini nei Principii della Scienza Morale, io lo sentii giudicare troppo intellettualistico da giovani studiosi di Rosmini; e fondavano il loro giudizio proprio sullo sviluppo del pensiero di lui, sulla teoria delle tre forme dell’essere: reale, ideale, morale. – Non si può ridurre, essi dicevano, la forma morale (l’essere come esigenza) alla forma ideale, mentre anzi sono, come forme, come categorie supreme, irriducibili l’una all’altra. E allora come mai Rosmini definisce la legge una nozione della mente, come mai egli sembra voler dedurre per raziocinio dall’essere ideale il principio supremo della morale? Non par necessario qui criticare il Rosmini dei Principii col Rosmini della Teosofia? – Sì, bisognava pur rispondere, sì, necessario e utile, perché così il suo pensiero viene integrato e, se del caso, corretto. In questo modo quei giovani stessi si sono risolta la questione; ma per risolverla non hanno sentito il bisogno di rinnegare i principii dell’ideologia rosminiana: tutt’altro» (G. Bozzetti, L’Etica di Rosmini e il prof. Zamboni, «Rivista Rosminiana», 20, 1926, pp. 68-9). 73 Cfr. Id., Il Papa e D’Annunzio, «Rivista Rosminiana», 22, 1928, pp. 65-7; M. Veronesi, La leggenda di San Giuliano, ibid., pp. 163-9; Id., Enrico Ibsen, ibid., pp. 248-58. 74 G. Bozzetti, Rosmini e Michelstaedter. A proposito di un libro di Gaetano Chiavacci, «Rivista Rosminiana», 19, 1925, pp. 132-8. 75 Cfr. L. Antognini, La tendenza letteraria del Gioberti, «Rivista Rosminiana», 19, 1925, pp. 268-75; Id., La tendenza filosofica del Gioberti, «Rivista Rosminiana», 20, 1926, pp. 35-49; G. Bozzetti, Tolstoi, «Rivista Rosminiana», 22, 1928, pp. 351-5. 76 Cfr. C. Viglino, Impressioni di Francia, «Rivista Rosminiana», 22, 1928, pp. 4464. 77 Interessante, in questo senso, era il tentativo di Morando di conciliare l’indirizzo rosminiano con l’attivismo pedagogico. Scriveva: «Il Rosmini, dunque, pur partendo da un punto di vista affatto differente da quello del Piaget, già vedeva tutto il pericolo e la innaturalezza dell’opinione comune che la scuola si debba fondare sull’impostazione autoritaria e cattedratica del maestro. Perciò gli sforzi della “scuola attiva” fondata sui 72
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sentire78, nonché un più marcato manzonismo79. Contemporaneamente comparvero riferimenti – in senso positivo – al fascismo80, sempre tuttavia molto sobri e svolti a livello culturale. In ogni caso e più in generale, il tono delle rivista parve allora un po’ appannarsi. 1.3. I legami umani, intellettuali e spirituali, stabiliti da Contini negli anni scolastici domesi, rimasero sempre molto solidi, anche se diversamente modulati. Egli fu soprattutto legato a Padre Bozzetti, rettore del Collegio, preside del Liceo, maestro dei novizi, dal 1929 Provinciale d’Italia e, infine, dal 1935 Preposito Generale dell’Istituto della Carità (e perciò residente prevalentemente a Roma, nella Casa di S. Giovanni a Porta latina, da lui fondata): non solo una figura, come si è visto, di notevole vigore filosofico e culturale, ma anche una personalità carismatica, rispettata, di grande autorevolezza e prestigio, ancorché rosminianamente umile, schiva, semplice, sobria, discreta, riservata, quasi distaccata, ma molto attenta e generosamente aperta, sul piano umano e spirituale, verso allievi ma anche, o soprattutto, exallievi81, particolarmente dotata per la guida spirituale degli intellettuali: due principi del lavoro a base dell’interesse personale e dell’educazione morale e logica a base della cooperazione, non possono che essere visti con simpatia, in quanto che essa si propone di indirizzare il fanciullo nel suo libero sviluppo anziché contrastarlo nelle sue inclinazioni e nella sua mentalità, vuole che il maestro divenga collaboratore paziente e compagno degli alunni anziché l’inabbordabile precettore, colui che dà quasi inavvertitamente gli insegnamenti, senza produrre sforzi eccessivi nei fanciulli anziché colui che dalla cattedra impone la verità» (D. Morando, Di una nuova teoria psicopedagogica, «Rivista Rosminiana», 22, 1928, pp. 259-73). 78 Cfr. C. Viglino, Il senso intende, o è inteso a sua volta?, «Rivista Rosminiana», 21, 1927, pp. 40-6; Sulla natura della conoscenza, [discussione tra C. Viglino e C. Mazzantini], «Rivista Rosminiana», 22, 1928, pp. 170-93; L. Antognini, Sul concetto rosminiano di “sentimento fondamentale”, ibid., pp. 239-47. Cfr. anche M. Chiesa, La psicologia nei sistemi filosofici, «Rivista Rosminiana», 23, 1929, pp. 165-91, 261-74, che discuteva Jaspers. 79 Cfr. G. B[ozzetti], L’influsso di Rosmini sui Promessi Sposi, «Rivista Rosminiana», 21, 1927, pp. 39-40; C. Viglino, La figura di Lucia nei Promessi Sposi, ibid., pp. 226-43. 80 Cfr. F. Aquilanti, Antonio Rosmini e la nuova Italia, «Rivista Rosminiana», 21, 1927, pp. 137-41. 81 Ha scritto Morando: «La “carità spirituale” di P. Bozzetti non si è trasfusa soltanto nelle molte anime di giovani allievi e dei religiosi che doveva avvicinare per ragioni d’ufficio, ma continuava a diffondersi anche tra i non più giovani ex-alunni. […]
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con una piena e totale adesione all’ascetica rosminiana, al principio di passività, alla docilità alla Provvidenza82. Di famiglia oriunda lombarda, come quella di Contini, Bozzetti spiccava per serietà, non severità, per pacatezza e per alta moralità: «A Lui si deve il “tono” particolare dato alla vita interna dell’Istituto, in rispondenza allo spirito del Fondatore e in conformità alle esigenze dei tempi», con un «profondo e delicato interessamento agli uomini – avvivato anche da una costante predilezione per le discipline psicologiche»83. Sul piano del rosminianesimo, egli fu un fautore di quello che ho indicato come neo-rosminianesimo84, ma fu anche un’attenta guida negli sviluppi della sempre presente e attuosa «questione rosminiana»: Al P. Bozzetti si deve, in gran parte almeno, anche quello che si potrebbe chiamare, con termine d’attualità, il “nuovo corso” nell’impostazione della questione rosminiana. La “via nuova” consiste nello sforzo di chiarificazione del pensiero di Rosmini, con una scrupolosa ricerca della verità storica e insieme una rigorosa correttezza che escluda ogni tentazione puramente polemica […] La funzione del “rosminianesimo” come simbolo di libertà del filosofare tra i cattolici era gelosamente sentita dal P. Bozzetti85.
L’insegnamento filosofico e morale del Bozzetti, più ancora che nella scuola intesa in senso meramente accademico, era affidato alla sua arte colloquiale. La conversazione con lui non era brillante come un gioco fiorito d’immagini (agli arabeschi verbali preferiva la chiarezza cristallina di un pensiero che si faceva persino elementare); non era elegante monologo di chi si compiace di stare in cattedra e pontificare; era un reciproco compenetrarsi di anime che si cercano e cercano insieme la luce» (Morando, Padre Bozzetti, pp. 26-7 e 31-2). 82 Cfr. M.F. Sciacca, Ricordo di P. Bozzetti, in Ricordo di P. Giuseppe Bozzetti, pp. 9-11. 83 R. Bessero Belti, Padre Bozzetti: Il segreto del fascino sulle anime, ibid., pp. 15 e 17. 84 Secondo Morando: «Il P. Bozzetti divenne dunque uno studioso, un esegeta del Rosmini, e anche un suo “seguace”. Non fu tuttavia un semplice “ripetitore”. Chi l’ha chiamato “Rosmini vivente” intendeva onorare in lui l’immagine rediviva di un Rosmini seguito nello spirito più che nella lettera, […] allo scopo di attingere dal Maestro lo spunto degli insegnamenti con cui affrontare sia le esigenze perenni del cuore e della vita umana sia i problemi più vivi del mondo contemporaneo […] una assimilazione critica di quel pensiero, accompagnata da una indipendenza di giudizio» (Morando, Padre Bozzetti, p. 29). 85 Ibid., pp. 30-1. Morando spiegava: «Del resto non sfuggiva alla delicata sensibilità
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Anche Contini, come altri che lo conobbero, vide in Bozzetti i segni della santità. Fin dal 1936, in una lettera a Cecchi, parlava di lui come «uno dei due santi che conosco, ma dei due il santo logico, razionale e dottore-della-Chiesa»86. Molti anni più tardi avrebbe affermato: «elementi di santità credo di averli trovati anche in un rosminiano, un Generale rosminiano, il padre Bozzetti»87. Più critico invece Contini appariva verso un’altra nota e tormentatamente mistica figura alla quale era stato introdotto dallo stesso Bozzetti: «Ho conosciuto uno che passava per santo, Clemente Rèbora: l’ho conosciuto abbastanza bene, ma non sono riuscito a vedere in che cosa consistesse la sua santità, perché mi pareva qualche cosa di estremamente privato, non riguardava il mio essere»88. Tra le figure con le quali Contini mantenne un buon rapporto, vi furono il ticinese Antognini (che egli, nel suo ‘periodo svizzero’,
del P. Bozzetti tutta l’importanza del dramma psicologico e anche la gravità della posta ch’era in gioco sullo sfondo della cosiddetta “questione rosminiana”. Si tratta, in realtà, di un conflitto in cui i veri attori sono, da un lato, coloro che, per ragioni di disciplina e uniformità esteriore, premono sugli organi ufficiali della Chiesa affinché imponga una “filosofia per decreto” (se pure non credono che questa filosofia bell’e fatta sia già completamente in atto), e, dall’altra, coloro che pur comprendendo l’esigenza che tutti i fedeli ammettano un comune patrimonio anche dal punto di vista razionale, ritengono tuttavia sconveniente compromettere la Chiesa in una legiferazione in materia strettamente razionale: in sostanza, la “questione rosminiana” […] è un episodio della lotta tra i negatori e i sostenitori di un vero e libero filosofare nel campo cattolico, con tutte le situazioni imbarazzanti e psicologicamente drammatiche in cui talvolta vengono a trovarsi coloro che non sanno e non possono (e non devono) rinunciare alla più larga libertà d’indagine e d’opinione sul terreno scientifico e filosofico». 86 La lettera è del 6 luglio 1936, cfr. L’onestà sperimentale. Carteggio di Emilio Cecchi e Gianfranco Contini, a cura di P. Leoncini, Milano 2000, p. 31. Secondo Leoncini, curatore dell’edizione di tale carteggio, il ‘secondo’ santo sarebbe stato il padre (p. 135). Personalmente non penso che qui ci fosse un’allusione così personale, mi pare più probabile che Contini si riferisse a Rebora: e l’avversativa «ma» («ma dei due…») tradirebbe anche una preferenza. 87 Ripa di Meana, Contini, Diligenza e voluttà, pp. 109-10. 88 Ibid.
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avrebbe ricordato come uno dei suoi professori)89, Gaddo90, Zoppetti91, tra i docenti; Morando92 e, in modo più formale, Bessero Belti (che sarebbe divenuto un religioso Rosminiano)93, tra i condiscepoli; Tito 89 Romano Broggini, allora suo giovane allievo, ha testimoniato: «Quando, nell’ottobre del 1944, iniziai la regolare frequenza al seminario di filologia romanza a Friburgo (che terminerà coll’assistentato del 1951) lo stesso Contini, incontrandomi in corridoio, mi ricordò il suo docente di lettere a Domo, Luigi Antognini, e mi disse della sua riconoscente amicizia» (R. Broggini, Presentazione, in Contini, Domodossola entra nella storia, p. X). Si veda anche L. Antognini, Scrittori della Svizzera italiana, «Rivista Rosminiana», 37, 1943, pp. 118-23: testimonianza di un rapporto che Antognini ancora manteneva con gli ambienti rosminiani italiani. 90 Si conservano due lettere di Gaddo a Contini, degli anni 1962 e 1964 (Fondazione Franceschini, Fondo Contini, 13. Corrispondenza, 1060), prevalentemente sul codice dei Disciplinati. Gaddo chiama Contini «Carissimo Amico» e gli dà del «tu». Nella lettera del 29 novembre 1962, Gaddo, tra l’altro, scrive: «Ti sono grato per la memoria “Pio XI” Per le cose nostre è veramente interessante; conferma lo spirito di quel grande. Servirà, anche questo, per la nostra piccola storia». 91 Il 10 giugno 1962 Zoppetti scriveva a Contini: «quanto è ossolanamente amabile il tuo affettuoso telegramma!» (Fondazione Franceschini, Fondo Contini, 13. Corrispondenza, 2548). Per una testimonianza dell’affetto di Zoppetti per Contini cfr. F. Mella Calcaterra, Calcaterra-Contini: storia di una lunga amicizia, «Microprovincia», 35, 1997, p. 217. 92 Sono conservati un biglietto d’auguri pasquali e due lettere di Dante Morando a Contini (Fondazione Franceschini, Fondo Contini, 13. Corrispondenza, 1671). La prima lettera, su carta intestata della «Rivista Rosminiana-Domodossola», era datata: Craveggio, 14 luglio 1950. Morando faceva le sue condoglianze per la morte del padre di Contini: «non potremo mai dimenticare la bontà e la cordiale simpatia con cui il tuo caro Papà ci accoglieva». Nella seconda lettera, del 29 ottobre 1951, Morando: «Caro Amico, ieri siamo stati ancora a trovare tua Mamma e abbiamo passato con lei un bel pomeriggio. Sta sempre bene in salute, e ci sembra anche sollevata di spirito: venerdì partirà per Friburgo. Approfitto della tua offerta d’aiutarmi nelle mie ricerche americane». Gli chiedeva dunque di procurargli una copia di un articolo di Karl Barth del 1939 e un saggio di J.F. Breno, della Columbia University Press, sull’etica di Rosmini. Concludeva poi: «io presto riprenderò l’up and down Domo-Pavia. Tanti saluti dal prof. Buzzati Traverso, che non conosco, ma a cui m’unisce la tua amicizia e la comune provenienza pavese. […] un cordiale ricordo da parte di mia Mamma e di mia Sorella». 93 Le lettere di padre Bessero Belti a Contini sono tarde e mancano di intimità amicale (il Rosminiano si rivolge sempre al Professore dando del «lei»): due lettere sono del 1962 (in relazione alla commemorazione di Rebora), due del 1985 (in cui si ringrazia per la generosa offerta inviata da Contini al bollettino di spiritualità rosminiana «Charitas», diretto appunto da Bessero Belti). Vi è infine una lettera di auguri del 30 dicembre
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Chiovenda94, antifascista95, tra gli uomini di cultura che ruotavano attorno alle Case rosminiane domesi e alla «Rivista Rosminiana» (sulla quale scrisse96 anche di argomenti danteschi e manzoniani)97. Quasi a 1984, che termina con un caldo saluto: «La ricorderò tanto più intensamente al Signore, dal quale Le prego ogni bene, nella pienezza delle Sue grazie, per l’anno nuovo, con l’augurio di un pronto e perfetto ristabilimento. E la benedico di cuore coi Suoi cari» (Fondazione Franceschini, Fondo Contini, 13. Corrispondenza, 277). Cfr. anche R. Bessero Belti, Ricordando G. Contini, «Charitas», aprile, 1990, pp. 113-6. 94 Nel 1974, ricordando la dissertazione dottorale (sostenuta a Francoforte nel 1929) di Lucia Chiovenda, Contini annotava «figlia d’un compianto amico» (G. Contini, Petrarca e le arti figurative, in Francesco Petrarca. Citizen of the World, Proceedings of the World Petrarch Congress, Washington, D.C., april 6-13 1974, ed. by A.S. Bernardo, Padova-Albany 1980, pp. 115-31, ora in Id., Frammenti di filologia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica (1932-1989), a cura di G. Breschi, vol. 1, Firenze 2007, p. 520). Cfr. anche P. Bologna, Il Contini domese, in AA.VV., Incontri con Gianfranco Contini, p. 18. 95 Un’interessante cartolina postale di Tito Chiovenda a Contini (Fondazione Franceschini, Fondo Contini, 13. Corrispondenza, 608), inviata da Ginevra il 3 novembre 1944, dunque subito dopo la caduta della Repubblica partigiana dell’Ossola, faceva riferimento all’avvento della dittatura fascista nel 1925: «[sono] pronto anche (cosa però in cui spero meno) a riprendere il mio vecchio posto di combattimento dove certamente, non per mio merito ma a causa delle circostanze in cui l’ho lasciato nel 1925 e di quelle attuali che esigono proprio uomini di fede sicura e antica, potrei fare qualcosa di buono». Come ricordava il Necrologio apparso sulla «Rivista Rosminiana», egli aveva «compiuto gli studi liceali al “Torquato Tasso” di Roma, ove ebbe la ventura d’essere compagno di scuola del regnante Pontefice Pio XII. Fu Console d’Italia a Briga, Innsbruck, Lugano e Francoforte, facendo ovunque apprezzare soprattutto la cultura e la civiltà italiana, con Conferenze dedicate particolarmente a Dante e a Manzoni. Ma, liberale del vecchio stampo (cioè nel senso migliore della parola), la sua carriera diplomatica fu bruscamente troncata nel 1924 per la mancata adesione al fascismo. Collocato in pensione (a 47 anni) col grado di Ministro Plenipotenziario, esercitò l’avvocatura, continuando in silenzio le letture e gli studi prediletti. Del suo gusto letterario e critico fanno testimonianza gli scritti che a quando a quando egli inviò alla Rivista Rosminiana in quest’ultimo venticinquennio» (Necrologio. Tito Chiovenda, «Rivista Rosminiana», 43, 1949, p. 160). 96 Cfr. T. Chiovenda, A proposito del “piacere di ballare”, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 63-76; Id., La lezione, opera d’arte e strumento didattico, ibid., pp. 290-4; Id., Il Requiem di Verdi, «Rivista Rosminiana», 31, 1937, pp. 140-51. 97 Cfr. Id., La “reverenza delle somme chiavi”, «Rivista Rosminiana», 26, 1932, pp. 295-306; Id., Ancora di Dante e Rosmini, «Rivista Rosminiana», 28, 1934, pp. 272-8; Id., A proposito di una reminiscenza manzoniana nel Rosmini, «Rivista Rosminiana»,
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epigrafe di questi rapporti, più tardi, nel 1963, pubblicando il più antico testo volgare scritto nell’Ossola, cioè gli statuti volgari quattrocenteschi dei Disciplinati di Domodossola – edizione dedicata «all’amica memoria di Dante Morando» – Contini si diceva grato «alla benevolenza del padre rosminiano Giovanni Angelo Gaddo: una benevolenza nata fra i banchi della scuola, dove lo ebbi insegnante, e continuatami anche ora che egli è Preposito Generale dell’Istituto della Carità»98. Contini lasciò il Collegio Mellerio-Rosmini nel 1929 per Pavia, dove frequentò l’Università fino alla laurea nel 1933. Nel 1934 ebbe una borsa di studio per seguire il magistero di Santorre Debenedetti a Torino. Poi dal novembre del 1934 fu docente al liceo classico di Perugia, dove rimase per due anni, durante i quali però fu spesso a Parigi per congedi di studio. In ogni caso, in tali anni i suoi rapporti con i Rosminiani di Domodossola, con il Collegio e soprattutto con Bozzetti rimasero strettissimi. Certamente Contini partecipò alle celebrazioni per il centenario dell’Istituto di Carità, nel 1928-2999. Fu membro dell’Associazione «Antonio Rosmini» (che raccoglieva anche gli ex-allievi dei Collegi rosminiani), frequentando incontri e iniziative da essa promossi: in particolare le riunioni annuali che si tenevano a settembre. In uno di questi raduni, «Contini, a riguardo della riduzione del “Bollettino”, raccomanda vivamente di non sopprimere, né ridurre la cronaca di Stresa, che è la parte più poetica del fascicolo»100. Probabilmente
33, 1939, pp. 187-95; Id., Per Dante e pei suoi sottintesi, «Rivista Rosminiana», 34, 1940, pp. 217-21. 98 G. Contini, Gli Statuti volgari quattrocenteschi dei Disciplinati di Domodossola, Roma 1963, ora in Contini, Frammenti di filologia romanza, p. 1247: proprio nella curia generalizia romana, presso S. Giovanni a Porta Latina, era stato liberalmente concesso» a Contini di studiare il «modesto fascicoletto cartaceo» del quale riproduceva il contenuto. Altre informazioni particolari erano pure comunicate a Contini dal P. Gaddo, in ordine a quello stesso lavoro (ibid., p. 1253). In una lettera del 9 ottobre 1963 ad Antonio Pizzuto, Contini scriveva: «Porta Latina mi è fresca perché, cfr. Domodossola, frequento i Rosminiani di San Giovanni» (Contini, Pizzuto, Coup de foudre, p. 13). 99 Sulle quali e sul ruolo svoltovi da Bozzetti cfr. L.L., Le conferenze Milanesi, in Ricordo di P. Giuseppe Bozzetti, pp. 55-6. Ma cfr. anche L’“Associazione Antonio Rosmini”, pp. 78-82. 100 Bollettino, «Bollettino dell’Associazione “Antonio Rosmini” e dei Collegi rosminiani», 43, 1934, p. 165.
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all’incontro del settembre 1933 (che precedette il Pellegrinaggio a Roma, di cui si parlerà più avanti) si deve la foto collettiva sulla scalinata del Collegio, con in primo piano il Padre Bozzetti e che ritrae Contini nel gruppo101. Sicuramente dell’estate 1934 è invece la foto relativa alla passeggiata a Passo S. Giacomo (in Val Formazza), che vede Contini in primo piano102. Nel raduno di quell’anno, «il ciclo di conferenze di Bozzetti era stato interessante: ogni tanto Ciarabalà e Contini intralciavano il discorso»103. La notazione fa pensare a una sintonia piena e serena che giungeva a punte di libertà allegra e goliardica. In quel periodo Contini tenne una supplenza di Italiano nella seconda ginnasiale del Collegio. Gli successe nell’insegnamento Clemente Rebora104, che si dolse perché Contini aveva fatto studiare agli studenti una sua poesia (ma del periodo che ora in qualche modo egli ripudiava). Tra i due ci fu in realtà un chiarimento molto cortese (e molto umile da parte di Rebora)105, ma in Contini rimase sempre la convinzione che il Rebora migliore, come poeta, fosse quello precedente alla conversione e alla scelta di vita religiosa. Ciò emergeva, indirettamente, anche da
101 Pubblicata in Ricordo di P. Giuseppe Bozzetti, p. 20: la generica didascalia sottostante può far erroneamente pensare al 1922. 102 «Bollettino dell’Associazione “Antonio Rosmini” e dei Collegi rosminiani», 43, 1934, p. 170. 103 Joram, Un po’ di cronaca (Lettera aperta al Consocio Avv. Franco Wiget), ibid., p. 169. 104 Per una testimonianza, ancorché indiretta, di queste supplenze di Rebora nel Ginnasio del Collegio e dei suoi rapporti ingenui e semplici con i più smaliziati allievi si veda il ricordo di Ermanno Manni, in C. Giovannini, Testimonianze inedite sulla vita di Clemente Rebora, «Microprovincia», 38, 2000, p. 212. 105 Il 7 dicembre 1933, Contini scriveva a Fausto Ardigò: «A me, in II Ginnasio B, è succeduto Rebora. Ora io, come ricordi, (lontano le mille miglia dalla rapidità delle cose future) avevo fatto studiare ai ragazzi la poesia del grillo. Mi è giunta l’eco di un suo dispiacere. E ho creduto doveroso dirgli che mi rincresceva, com’era vero. Alla fin fine, la ‘roba’ d’un autore non è mica dominio pubblico. Lui, però, ha rifiutato le scuse dietro un aggere di ‘caro’. “Non badi alle mie stranezze, caro. Sono le stramberie della mia vita religiosa, caro”. Dico che a vederlo in quel mezzo, o medio, non so più come si dicesse una volta, è una pietà. E lasciamo stare che i pusilli lo malmenano [i ‘poverini’]. Tra l’altro, il sito è di quelli dov’è costume, presso la persona seria e presso la buggerona, nelle più varie circostanze “star male tutto il giorno”» (la fotoriproduzione dell’originale di questa lettera è pubblicata in «Microprovincia», 38, 2000, p. 54).
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un successivo intervento critico, che tuttavia terminava con un’onesta nota: Possiamo parlare di Clemente Rèbora come d’un morto, da quando s’è convertito (un po’ più impegnativamente d’altri suoi coetanei, d’Italia e di fuori) al cattolicesimo, è entrato nel rosminiano Istituto della Carità e (settembre 1936) ha preso gli ordini: la conversione ha infatti rappresentato per lui la distruzione del suo passato, e a maggior ragione del suo passato letterario, dove l’orgoglio dell’io gettava nascostamente il suo “pari” (abbiamo documentato, fin dai Frammenti, il suo odio per l’io), non meno che del suo passato religioso, troppo a suo gusto deistico e ignaro del diavolo; sì che tutto quello che si dice qui, o s’è detto da altri, di lui rappresenta una sorta di sopraffazione nei riguardi della sua persona privata106.
Nel periodo universitario pavese, quando Contini conobbe Cesare Angelini e mentre la sua pratica religiosa era sempre salda107, egli fu introdotto alla biblioteca rosminiana del Calvario, ricca di edizioni rare e di manoscritti. Ricordando il Calvario di Domodossola, Contini infatti avrebbe affermato: c’è l’ottima biblioteca dei Padri Rosminiani, della quale per la benevolenza dei Padri potei fruire. Quando uscii dal liceo, il Padre Generale, un uomo di grande venerabilità – io considero uno dei miei principali benefattori il padre Giuseppe Bozzetti – mi consentì la consultazione di questa biblioteca, che è in parte eccellente. […] E io ho frequentato molto, per benevolenza del padre Bozzetti, la casa madre sul Calvario, dov’era una volta la biblioteca di Rosmini, che ora è a Stresa»108.
Fu proprio da tale frequentazione che si consolidò in Contini la vocazione umanistica:
106 G. Contini, Due poeti degli anni vociani, I. - Clemente Rèbora, [1937], in Id., Esercizî di lettura sopra autori contemporanei: con un’appendice su testi non contemporanei, Firenze 1947, p. 15. 107 Ha raccontato Carlo Bo: «Don Cesare Angelini mi raccontò che una volta Contini lo stupì nel servirgli la messa per umiltà così diretta e soddisfatta della sua assistenza» (C. Bo, L’amico Gianfranco Contini, «Microprovincia», 35, 1997, p. 7). 108 Ripa di Meana, Contini, Diligenza e voluttà, pp. 30-1.
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E siccome il padre Bozzetti […] mi aveva aperto le porte della biblioteca Rosminiana, lì trovavo cose umanistiche, e quindi l’incoraggiamento era tutto in una direzione […], tra quelle migliaia di volumi, veramente riuniti in modo insieme acuto e avventuroso, trovai pascolo per la scelta umanistica109.
Nel 1934, dunque, Contini studiava nella Biblioteca del Calvario di Domodossola il «codicetto romagnolo», preparandone l’edizione, che, finita fin dallo stesso 1934, apparve poi solo nel 1938 sull’«Archivum Romanicum» di Bertoni110. Nell’articolo del 1938, riferendosi e riferendosi a studi di Sabbadini, Contini ricordava i «manoscritti che il rosminiano Istituto della Carità conserva al Calvario di Domodossola» e citava sia la biografia rosminiana del Pagani, allora la più valida, sia l’Epistolario completo del «grande filosofo»111, ricordandone un lavoro filologico di emendazione del trecentesco Volgarizzamento della Vita di S. Girolamo. Nella stessa biblioteca, Contini individuava un manoscritto appartenuto a Rosmini, contenente un pianto latino sulla morte di S. Bonaventura: lo pubblicava nel 1937 sulla «Rivista Rosminiana», attribuendolo a un francescano e osservando, tra l’altro: «non sarà inutile ricordare che dall’ordine francescano escono, nello stesso secolo, due dei più belli inni della Chiesa, lo Stabat, forse di Jacopone, e il Dies irae». Certo il testo scoperto al Calvario non era al livello artistico di «questi Ibid., pp. 127-8. La «Rivista Rosminiana» ne dava notizia, con una breve scheda, nel 1939: «Gianfranco Contini in un art. estratto dall’Archivum romanicum diretto da G. Bertoni, vol. XXII, n. 2-3, 1938, edit. Leo Olschki, Firenze (Un manoscritto ferrarese quattrocentesco di scritture popolareggianti, pp. 281-319), illustra il codice N. 2 che il rosminiano Istituto della Carità conserva al Monte Calvario sopra Domodossola. È uno di quei codici che il Rosmini acquistò colla biblioteca Venier nel genn. 1818 per poco più di ottocento fiorini da un libraio di Padova. La loro esistenza era già nota agli studiosi. Ora il Contini dà ampia notizia di uno di essi che gli sembra particolarmente interessante sia per la parte del contenuto e sia “per le notevoli tracce che nei suoi testi rimangono di volgare illustre romagnolo”. L’A. descrive il manoscritto, intercalando alla descrizione i sonetti inediti, riproduce i componimenti poetici che hanno maggiori tracce dialettali, e infine ne descrive con scrupolosa cura e con il necessario apparato critico i caratteri linguistici più importanti. Il lavoro rivela una rara competenza in materia» (Cronaca e spigolature, «Rivista Rosminiana», 33, 1939, p. 157). 111 G. Contini, Un manoscritto ferrarese quattrocentesco di scritture popolareggianti, «Archivum Romanicum», 22, 1938, pp. 281-319 ora in Id., Frammenti di filologia romanza, p. 595. 109 110
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capilavori», tuttavia Contini, in un lavoro di taglio preminentemente filologico, non mancava di annotazioni critico-estetiche, come quando connotava la sesta strofe come «manzonianamente casta e ardita»112. In questo tratto c’era una cifra profonda della consonanza del giovane Contini con l’ambiente rosminiano del tempo, così partecipe del culto del Manzoni. E un filomanzonismo era già presente nella famiglia Contini: «I miei mi provvidero del Manzoni – non soltanto del romanzo, ma anche delle tragedie, delle poesie – e io ci tornai spesso su. Non so, in fondo, la vera ragione del mio manzonismo, radicalmente, mi pare che fosse il colombardismo, ecco: il coregionalismo»113. C’è un episodio che, a mio avviso, bene esprime il carattere e la profondità, che definirei identitaria, del legame del giovane Contini con il Collegio domese e quasi direi con Rosmini stesso. Si tratta di un episodio di cui non abbiamo documentazioni scritte, ma una tradizione orale intra-familiare: questo carattere se, indubbiamente, reca un alone di imprecisione storica, tipico delle ‘leggende di famiglia’, per lo stesso motivo gli conferisce un timbro di rilevanza in un senso autobiografico allargato: quello per cui l’indimenticabile, forte impressione di un evento diviene canone del lessico familiare114. L’episodio si riferisce a un’udienza papale concessa da Pio XI a un gruppo ‘rosminiano’ del quale faceva parte Contini. Lo collocherei, dunque, senza dubbio, nel memorabile Pellegrinaggio rosminiano a Roma, per l’Anno santo della Redenzione, dal 16 al 19 ottobre 1933. In un volume sul Collegio, di qualche anno dopo, così lo si rievocava: Martedì 18 alle 13 tutti in piazza S. Pietro per l’udienza del Santo Padre. […] Arriva il P. Generale Rev.mo Bernardino Balsari […]. L’imponente numero di oltre 600 pellegrini rosminiani si assiepa al portone di bronzo, sfila su per la “scala regia”, entra nella sala regia e ducale. […] Appare la bianca visione del Padre comune […]. Pio XI parla per ben 26 minuti ai dilettissimi figli tanto più cari quanto più da lontano venuti, dai confini proprio d’Italia, venuti a Lui sotto la più alta insegna che possa immaginarsi, che è quella
Id., Un pianto latino sulla morte di San Bonaventura, s.l. 1937, ora in Id., Frammenti di filologia romanza, p. 125. 113 Ripa di Meana, Contini, Diligenza e voluttà, p. 129. 114 Devo questa notizia a Riccardo Contini, la cui amicizia risale agli anni del nostro condiscepolato alla Scuola Normale di Pisa. 112
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della Carità; giovani vite, intorno al vecchio padre, educate da Religiosi e Religiose esemplari, sotto la cui guida si preparano alla grande vita cristiana, della quale trovano sì preclare esempio nei loro collegi. Esorta a una abbondanza di vita spirituale e morale completa, custodendola anche usciti dagli Istituti rosminiani, dando esempio di fedeltà come coloro che in questa grande opera di mente e di cuore, di scienze e di virtù li avevano preceduti115.
Nell’incontro con Pio XI, personalità forte e autoritaria che non ammetteva repliche, il papa appunto salutò i giovani appellandoli come allievi del Collegio «Mellerio»: in un lombardo e ambrosiano come Ratti il riferimento a Mellerio e l’omissione di Rosmini non poteva essere casuale. Allora Gianfranco Contini precisò: «Mellerio-Rosmini», meritandosi la risentita censura di Pio XI. All’uscita dall’udienza, i compagni, che si possono immaginare quanto meno sorpresi, chiesero a Contini perché avesse fatto arrabbiare il papa, ma il Padre Rosminiano, che li accompagnava e che doveva essere una delle figure principali dell’Istituto (Balsari o Bozzetti), tagliò corto: «Ha fatto benissimo!». Non è improbabile che l’episodio abbia avuto un piccolo seguito. Non fu infatti forse un caso che l’articolo di cronaca dell’evento fosse apparso sull’«Osservatore Romano» il 21 ottobre, ben tre giorni dopo l’udienza, e che, in modo stupefacente ma emblematicamente eloquente, non citasse mai il nome di Rosmini116. La «Rivista Rosminiana» riportò integralmente l’articolo del giornale vaticano. Non meno significative – quasi chiave per decodificare umori, sottintesi e allusive omissioni – erano tuttavia le righe di commento che vi appose: Per conto nostro aggiungiamo che l’udienza durò circa mezz’ora. Essa è valsa a rendere più saldi i vincoli che ci legano alla Santa Sede, alla quale siamo stati sempre attaccati con quell’amore ardente che il Rosmini ci insegna. E infatti è da Roma, dalla parola infallibile del Papa, che noi attendiamo, quando la Provvidenza lo crederà opportuno, la riabilitazione di quel santo che già veneriamo nel sacrario del nostro cuore. Ma fino a quando, o Signore?117.
G. Airaudo, Feste - Commemorazioni - Teatro - Sport, in AA.VV., Collegio Mellerio-Rosmini, p. 142. 116 L’udienza pontificia dei Collegi rosminiani, «L’Osservatore Romano», 21 ottobre 1933 (l’udienza ebbe luogo il 18). 117 Notizie rosminiane. 1. Dal Papa, «Rivista Rosminiana», 27, 1933, p. 297. Cfr. 115
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Se questo episodio segnala le persistenti diffidenze anti-rosminiane del mondo ecclesiastico italiano, non bisogna dimenticare che, nel clima successivo alla Conciliazione e negli sforzi fascisti di tenere insieme nazionalcattolicesimo, filo-risorgimentismo, neoidealismo gentiliano, la figura di Rosmini conosceva un obiettivo, grande rilancio. Appunto nei primi anni Trenta fu promossa l’iniziativa dell’Edizione nazionale delle opere edite e inedite di Antonio Rosmini, sotto la direzione di Enrico Castelli (che era anche il curatore del primo volume pubblicato, nel 1934) e con la collaborazione di Bozzetti e di altri rosminiani. Del resto la «Rivista Rosminiana» dedicava attenzione, sia pure critica (per la disattenzione verso la «santità») ma non completamente ostile, alla Storia d’Europa di Croce e alla sua «religione della libertà»118. Ma proprio per tutti questi motivi, nel contesto apertosi con i Patti Lateranensi, diventava decisivo per il mondo rosminiano fare seriamente i conti con l’idealismo egemone: con Croce e con Gentile. 2. L’evoluzione del rosminianesimo continiano L’evoluzione storico-diacronica del ‘rosminianesimo’ continiano delinea, si potrebbe dire, una parabola complessivamente discendente, dove cioè il riferimento a Rosmini diviene gradualmente meno evidente, sviluppando, peraltro, via via modi diversi di ricezione del rosminianesimo stesso: e tuttavia ciascuno di questi modi viene in qualche modo ricompreso, ma anche superato, nel momento successivo, con un approfondimento interiore, che assume pure le mosse di un progressivo, maggiore riserbo, senza però che questo rappresenti una presa di congedo o una volontà di occultamento. La mia analisi si limiterà al periodo fascista, anche perché il trasferimento di Contini in Svizzera segnò, effettivamente, una svolta periodizzante della sua vita: la fine della ‘giovinezza’, si potrebbe dire.
anche: I Redattori, Il Papa della Conciliazione, «Rivista Rosminiana», 33, 1939, pp. 836. Altre osservazioni in B. Chiarelli, Perché Rosmini non è stato ancora canonizzato, «Rivista Rosminiana», 28, 1934, pp. 217-23. 118 Cfr. P.B., recensione a B. Croce, Storia d’Europa, «Rivista Rosminiana», 26, 1932, p. 225; G. Bozzetti, La “religione della libertà”, ibid., pp. 289-92.
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2.1. Si è già detto dell’iniziale contatto del giovanissimo Contini con il mondo rosminiano. In quel periodo si ebbe la progressiva acquisizione, da parte di Contini, di un rosminianesimo preminentemente gnoseologico, con una fondamentale proiezione sull’atteggiamento estetico. Se l’alunnato continiano nel Collegio fu per lo più caratterizzato, come si è visto, da una sua seria e approfondita formazione in senso rosminiano, compresa un’iniziazione, per così dire, alla ascetica e alla spiritualità di Rosmini, il periodo successivo, gli anni Trenta, vide un suo progressivo ma sicuro inserimento nel contesto intellettuale nazionale dei Rosminiani e nella relativa proposta culturale, incarnata dal nuovo indirizzo della «Rivista Rosminiana». Contini diveniva insomma, sia pure senza sovraesposizioni e con un ambito tematicamente definito119, una delle voci giovani del rosminianesimo italiano del tempo. Snodo decisivo fu, come si è accennato, la nuova serie della rivista, avviata nel 1930 sotto la direzione di Viglino, che, nello stesso anno, si sposava e che andava volgendo i suoi sentimenti nazionalitari verso un’intonazione filofascista, sia pure non esibita ma, in qualche modo, di sfondo. La «Rivista Rosminiana», in questa nuova serie, si caratterizzò soprattutto per la promozione di discussioni a più voci, su grandi temi filosofici, aperte anche a pensatori non rosminiani (come Augusto Baroni, Giuseppe Zamboni, Carlo Mazzantini)120 o addirittura ostili a Rosmini (come un Olindo Corsini o un Giulio Cantagalli)121: era, in effetti, una manifestazione di sicurezza dei propri mezzi e delle proprie ragioni. Contestualmente Viglino, probabilmente d’accordo con Bozzetti, lasciava cadere la difesa delle XL Proposizioni (condannate dal decreto Post Obitum), difesa che era stata la bandiera dei rosministi di primo Novecento, per attestarsi su una posizione che affermava comunque la santità di Rosmini, sulla base della sua buona fede, anche accettando l’erroneità di quelle
Cfr. R. Cicala, Contini e i primi esercizî di lettura sulla «Rivista Rosminiana», «Microprovincia», 35, 1997, pp. 142-50. 120 Si noti la presenza di voci vicine alla FUCI di mons. Montini. 121 Si veda la discussione di Olindo Corsini con Bozzetti e con Viglino: Rosmini non è filosofo cattolico?, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 123-32. 119
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affermazioni122. Ben presto coloro che erano stati protagonisti del primo rosminismo manifestarono un certo infastidito dissenso: così, per esempio, Caviglione123, che non lesinò le sue aperte critiche124. Ciò tuttavia offrì lo spunto a Viglino per una riconsiderazione critica della storia della rivista e per una puntualizzazione sull’opportunità e necessità del nuovo indirizzo impressole con la sua direzione: Questa nostra Rivista ha avuto una vita difficile. Pressoché morta nel 1923, perché da anni non usciva quasi più, per le ragioni dette dal Caviglione che la dirigeva, parve rifiorire con la successiva Direzione. Poi la Rivista tornò (non intendo farne colpa a nessuno) a uscire irregolarmente e gli abbonati a non pagare. Nel 1929, l’anno precedente a quello in cui l’assunsi io, gli abbonati paganti entro il 31dicembre furono 99, e non più di una decina si aggiunse dopo: il deficit superava le cinquemila lire. Nel primo anno di direzione-amministrazione riuscii a ridurlo a meno di settecento e gli abbonati paganti riaffluirono, cosicché spero di assicurar presto il pareggio. […] La ragione principale di questo rapido rifiorire credo sia l’aver mutato l’indirizzo della Rivista da rosminiano-apologetico in rosminiano-critico.
C. Viglino, Le quaranta proposizioni condannate e la causa di beatificazione di Rosmini, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 68-70. In un altro intervento Viglino affermava: «Però è filosofo cattolico anche Rosmini purgato delle XL Proposizioni […] La filosofia rosminiana è la più ricca di verità pericolose, perché Rosmini non si ferma come S. Tommaso alle verità che non fanno strabiliare, ma va avanti con un coraggio da leone finché non ha toccato il fondo delle cose. […] la gnoseologia rosminiana, secondo la quale il senso, da solo, non fa conoscere niente, conduce facilmente, per chi non aguzzi l’ingegno, a un mucchio di cantonate. […] Un giorno le due filosofie saranno paragonate l’una al sistema tolemaico e l’altra al copernicano, il primo dei quali andava subito d’accordo col risultato dei sensi e con la Bibbia, e l’altro faceva perdere la testa. Quando le teste si sono rafforzate, l’uno è subentrato all’altro senza rumore, Rosmini succederà a San Tommaso nel corso dei secoli, senza che nessuna condanna sia ritirata e che nessuno se ne accorga. Ma nel corso dei secoli» (conclusione della discussione: Rosmini non è filosofo cattolico?, p. 131). 123 Sul quale cfr. D. Galli, Carlo Caviglione studioso rosminiano, «Rivista Rosminiana», 77, 2, 1983, pp. 161-77. 124 C. Caviglione, Echi e commenti, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 13840. Anche Dante Morando, difendendo le posizioni del padre, si schierava in difesa della necessità di rivendicare l’ortodossia delle XL Proposizioni: D. Morando, Echi e commenti. Commenti a «Tre lettere sulla questione rosminiana», ibid., pp. 231-5. 122
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Per difendere Rosmini dalla persecuzione che gli si era accanita contro, i rosminiani avevano, senza accorgersene, assunto un tono apologetico che in filosofia non va. In filosofia non ci sono sistemi da sostenere o da combattere. Ci sono problemi da risolvere. […] Ciò obbliga i rosminiani a non accontentarsi di capire Rosmini loro, ma a trovar la maniera di farlo capire agli altri. La Rivista Rosminiana era diventata una spiegazione di Rosmini fra soli rosminiani, che la capivano già […] Contro questo pericolo, che è il più grave in filosofia, io ho cercato di reagire chiamando dei non rosminiani a discutere su Rosmini125.
La nuova proposta culturale rosminiano-critica si presentava, per molti aspetti, in continuità con il precedente neo-rosminianesimo: Bozzetti era sempre una delle firme più autorevoli e più assidue; in dialogo con Zoppetti, che esprimeva il punto di vista scientifico sulla materia, egli riprendeva, con qualche cautela, la teoria rosminiana dei «princìpi corporei»126; ripetute erano le messe in guardia circa la
C. Viglino, Echi e commenti, ibid., pp. 140-1. Scriveva Bozzetti: «Queste Energie misteriose, questi principii corporei, di cui possiamo arguire taluni caratteri, ma non possiamo percepirli, coglierli nella loro realtà sostanziale con un nostro atto di esperienza, ci appaiono essi e non noi gli alti Dominatori della Materia e, attraverso la Materia, di tutta la nostra vita sensibile (non però dell’intelligenza e della volontà libera); e davanti al loro potere sparisce ogni tentazione di orgoglio» (G. Bozzetti, Che cos’è la materia?, «Rivista Rosminiana», 24, 1930, p. 20). Ma cfr. anche C. Gray, Rosmini la realtà pura e i principii corporei, «Rivista Rosminiana», 31, 1937, pp. 22-30, 124-30 e «Rivista Rosminiana», 32, 1938, pp. 20-9, 260-8. Il contributo di Gray vedeva un rapporto, su questo tema, tra Leibniz e Rosmini (ma segnalava anche analogie con Boutroux e Blondel): «Nessun dubbio che la dottrina del Rosmini sulla natura del reale finito e sul rapporto coll’infinito ha punti di contatto con le dottrine precedenti e segnatamente – per non risalire troppo oltre – con quella del Leibniz, ma non mancano gli aspetti originali. [...] In altre parole le monadi rosminiane – se così vogliamo chiamare i principi corporei – hanno finestre, e precisamente una aperta verso la realtà pura trascendente, indistinta, anteriore e comune a tutti i principi, e in questa solo è concepibile un’azione stimolante tra loro; l’altra è aperta verso il reale individuato, e nell’ambito di questo ciascun principio agisce in modo autonomo; l’azione è sempre tra i principi, nella realtà pura è il tramite e insieme il principio della loro spontaneità» (ibid., pp. 20, 22). 125
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confusione dell’idea dell’essere con l’idea dell’ente127; Morando trattava i temi pedagogici128; Pusineri non dimenticava l’ascetica129. Tuttavia il contesto complessivo in cui tale proposta doveva inserirsi non era privo di difficoltà. Il dibattito nazionale rischiava di essere egemonizzato dallo scontro tra gentiliani e neo-tomisti milanesi, come si era visto al Congresso di Filosofia del 1929. La filosofia di Rosmini poteva risultarne oscurata sia per le persistenti critiche della sponda neo-tomista130 (che vedevano sempre in Rosmini inaccettabili elementi di kantismo), con la quale bisognava fare i conti131, sia per il rischio di apparire troppo schiacciati sul filo-rosminianesimo gentiliano e, in particolare, mentre si notava una certa crisi o disarticolazione della scuola di Gentile132, sulla destra attualista o post-attualista. Per quanto riguarda la prima sponda si mostrò più attenzione, rafforzando la continuità bonaventuriano-rosminiana, soprattutto
127 Cfr. C. Viglino, Confusione dell’idea dell’essere con l’idea dell’ente, «Rivista Rosminiana», 24, 1930, pp. 21-6; P. Cheula, A proposito di idealismo. I. Le «considerazioni sull’idealismo assoluto» del Papafava, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 1-3; G. Bozzetti, La «realtà assoluta», ibid., pp. 3-6. 128 D. Morando, Due scritti pedagogici contro l’idealismo, «Rivista Rosminiana», 26, 1932, pp. 16-26. Morando affermava: «Ora l’idealismo, pur giungendo a conseguenze estreme inaccettabili, pone delle “esigenze” che sono vivamente sentite dallo spirito umano: così è dell’immanenza, della unità tra la realtà materiale e quella spirituale, della conoscibilità assoluta, e così è anche dell’autodidattica» (p. 20). 129 G. Pusineri, La “santa indifferenza” secondo Antonio Rosmini, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 119-22. 130 Cfr. M. Mangiagalli, La “Rivista di Filosofia neo-scolastica” (1909-1959), II, Milano 1991, pp. 117-33. 131 Cfr. B. Chiarelli, Contraddizioni gnoseologiche di S. Tommaso conciliate da Rosmini, «Rivista Rosminiana», 24, 1930, pp. 307-9; D. Morando, Sul “De Magistro” di San Tommaso, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 81-9 (esponeva la dottrina del lumen, in una continuità Agostino, Bonaventura, Tommaso, Rosmini). Si vedano pure le discussioni, a più voci: Rosmini e Kant, «Rivista Rosminiana», 26, 1932, pp. 1-11 e 247-56 (con interventi di M. Chiesa, R. Miceli, G. Bozzetti); Rosmini e san Tommaso possono andare d’accordo?, ibid., pp. 50-6; Concordanze e divergenze fra gnoseologia neoscolastica e rosminiana, ibid., pp. 81-94 (con interventi di A. Bestetti, M. Chiesa, G. Marino); Scienza e filosofia secondo P. Gemelli, ibid., pp. 95-107 (con interventi di G. Cantagalli e D. Morando). 132 Cfr. L’attualità di Rosmini nella crisi dell’idealismo, «Rivista Rosminiana», 28, 1934, pp. 161-210 (con interventi di E. Troilo e D. Morando).
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in chiave gnoseologica133, e interessandosi a Zamboni134, che, contemporaneamente, veniva estromesso dalla scuola milanese e dall’Università Cattolica. Per quanto riguarda la sponda opposta, un serio e approfondito confronto con Croce e Gentile non era più eludibile e diede perciò corpo, come si vedrà, a importanti discussioni. Il senso complessivo di tali dibattiti e, dunque, la posizione che, in quel momento, il rosminianesimo italiano assumeva possono essere sintetizzati – parafrasando successive formule continiane – nella concomitanza di due urgenze: essere post-crociani senza essere anticrociani e, insieme, essere anti-gentiliani senza essere post-gentiliani. In altri termini, quasi per naturale sviluppo, la posizione da assumere nei confronti di Croce sembrava poter essere analoga a quella assunta da Rosmini nei confronti di Kant (non anti-kantiana, cioè, ma postkantiana, in particolare riducendo le categorie kantiane a una sola) e, così pure, la posizione da assumere nei confronti di Gentile sembrava poter essere analoga a quella assunta da Rosmini nei confronti di Hegel (non post-hegeliana, anche perché a lui contemporanea, ma antihegeliana, opponendo alla dialettica il sintesismo). Un ambito importante, in questo contesto di confronto, era rappresentato dall’estetica. Già nel 1930 compariva, sulla rivista, un chiaro consenso al ‘rosminianesimo crociano’ di Chiocchetti, da parte
Cfr. M. Chiesa, La gnoseologia agostiniana nella valutazione moderna, «Rivista Rosminiana», 24, 1930, pp. 296-306; G. Bozzetti, Riassumendo le nostre discussioni gnoseologiche, ibid., pp. 311-4; G. Bonafede, Introduzione allo studio di S. Bonaventura, «Rivista Rosminiana», 28, 1934, pp. 8-10. Morando esprimeva con sintesi efficace la convinzione dei rosminiani: «tutti sanno che tra rosminiani e neo-tomisti un terreno comune d’intesa sarà possibile solo quando i neoscolastici si convinceranno che il pensiero di S. Tommaso non è in contrasto col pensiero di S. Agostino e di S. Bonaventura» (D. Morando, Note e commenti alla filosofia contemporanea, «Rivista Rosminiana», 27, 1933, p. 115). 134 Già nel 1930 ci fu sulla rivista una discussione tra Zamboni e Bozzetti. Ma cfr. Opinioni diverse sul “sistema di gnoseologia e di morale” di Zamboni, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 25-34: con interventi di G. Cantagalli (Dualismo irreparabile, pp. 25-9) e di G. Bozzetti (Astrazione, analisi, trasparenza, pp. 29-34); B. Chiarelli, Giuseppe Zamboni e il ritorno all’Etica del Rosmini, «Rivista Rosminiana», 31, 1937, pp. 176-85. A proposito di quest’ultimo intervento, si deve ricordare che Benigno Chiarelli era lo pseudonimo di mons. Luigi Cornaggia Medici: cfr. G. Pusineri, Mons. Luigi Cornaggia-Medici (1870-1944), «Rivista Rosminiana», 38, 1944, pp. 65-7. 133
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di Mario Chiesa135. Ma il dibattito si accendeva soprattutto nel 1931, quando Gentile pubblicava la sua Filosofia dell’arte, che, battendo sul sentimento, si presentava come alternativa all’estetica crociana, con qualche – in realtà estrinseca e superficiale – analogia con Rosmini136. In quell’anno si ebbero dunque quattro importanti discussioni sulla «Rivista Rosminiana»: Sulla filosofia di Benedetto Croce (con interventi di Chiesa, Siro Contri e Pietro Cheula); Croce, Gentile e la filosofia dell’arte (con interventi di Chiesa, Bozzetti, Riccardo Miceli e Mazzantini); Che cosa è l’arte? (con interventi di Viglino, Bozzetti, Gaddo e Miceli); Sulla “Logica” di Rosmini (con interventi di Miceli e Bozzetti). Le prime due discussioni riguardavano – da un punto di vista rosminiano – crocianesimo e attualismo, soprattutto in relazione all’estetica; le seconde sviluppavano il rosminianesimo stesso. Se Siro Contri, vicino alle posizioni di Zamboni, simpatizzava per Croce137, Cheula lo criticava per queste aperture138. Ma la discussione
A proposito del pensiero crociano, Chiesa annotava: «Rimandiamo per questo all’opera fondamentale di Emilio Chiocchetti, della quale, a quanto ci consta, i rosminiani non si sono ancora occupati di proposito, (e ne varrebbe la pena), ma della quale possiamo condividere appieno, per quanto riguarda la critica del pensatore abruzzese, le posizioni più significative e fondamentali. Respingendo il monismo spiritualistico crociano, con tutte le sue conseguenze, noi non siamo restii ad accettarne la teoria estetica colle dovute correzioni oggettivistiche, in modo da conciliarla così appieno col pensiero filosofico tradizionale; ne condividiamo la teoria degli pseudoconcetti; accettiamo nel senso della nostra idea specifico-piena imperfetta e del sintesismo ontologico le sue teorie dell’universale concreto e dell’organicità del reale; ammettiamo l’identificazione della storia della filosofia con la filosofia, non però della storia in genere colla filosofia in ispecie. Ma altre cose infinite vi sarebbero da dire» (M. Chiesa, recensione a S. Caramella, Problemi e sistemi della filosofia, «Rivista Rosminiana», 24, 1930, p. 147). 136 Cfr. Il “sentimento fondamentale” in Rosmini e in Gentile, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 102-10: venivano affiancati e messi perciò a confronto brani rosminiani (dal Nuovo saggio e dalla Psicologia) e brani gentiliani (dalla Filosofia dell’arte). 137 Contri affermava: «Leggendo il Croce io provo a volta a volta queste due specie di impressioni: l’una di simpatia e di ammirazione larga per l’ampiezza, la serenità, la proprietà di certe pagine; l’altra di disagio e un po’ di stizza per certe radicali e indubbiamente inconsapevoli sofisticazioni della realtà delle cose, per difetto d’analisi dei loro elementi costitutivi» (S. Contri, Risposta al critico, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, p. 98). 138 P. Cheula, A proposito della critica di Siro Contri a B. Croce, ibid., pp. 95-8. E 135
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in chiave propriamente rosminiana era quella tra Chiesa e Bozzetti. Chiesa, dunque, ribadiva la sua adesione alla interpretazione di Chiocchetti, operata soprattutto dal punto di vista della Teosofia139, affermava che la razionalità sintetizza con la realtà140, accettava, insomma, incondizionatamente l’estetica crociana: noi perciò, d’accordo in questo col p. Chiocchetti, possiamo ben far nostra l’estetica crociana, in quanto essa è nuova ed è vera, come pure la dottrina degli pseudoconcetti e dell’ateoreticità dell’errore, che, del resto, è già chiarissima in Rosmini; ma rigettiamo come lui con tutte le nostre forze quell’immanentismo idealista, che della filosofia di Benedetto Croce costituisce veramente il nucleo centrale141.
E tale ultimo rifiuto era condotto soprattutto in riferimento al alla risposta di Contri, Cheula replicava ulteriormente: «Le buone intenzioni poi, le cortesie e le simpatie che si manifestano per un autore come il Croce, se non vengono rigorosamente giustificate, non so quanto possano servire, almeno in filosofia, anzi possono purtroppo sembrare poco leali e poco sincere» (P. Cheula, Replica al critico, ibid., p. 101). 139 Scriveva Chiesa: «Il P. Emilio Chiocchetti nel suo bel libro La filosofia di Benedetto Croce (Milano, Vita e Pensiero, III ediz.) accenna a due punti di contatto fra il pensiero del filosofo abruzzese e quello del Roveretano. Egli trova cioè un riscontro fra l’universale concreto del primo e l’idea specifica piena del secondo, fra l’organicità del reale dell’A. della Filosofia dello Spirito e la legge del sintesismo dello scrittore della Teosofia […] Contatto e riscontro dunque sì, ma con un caveat fondamentale. Ché lo spiritualismo rosminiano, è non solo trascendente, ma altresì unità-distinzione di essere e di modi, non si copre assolutamente coll’idealismo crociano, non solo immanente, ma altresì unità indistinta di realtà e d’idea. L’universale rosminiano è determinazione di essere ideale, l’universale crociano è realizzazione d’essere reale» (M. Chiesa, Rosmini e Croce, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 90, 92). 140 Osservava infatti: «Noi affermiamo la razionalità del reale (non però la realtà del razionale). La vera realtà è individuale; individuale che è però in sintesi necessaria coll’universale. La razionalità del reale, da noi affermata, non si converte punto colla realtà del razionale, di marca hegeliana. Non si confonde quindi con la realtà, ma sintetizza con essa, trascendendola, come quella, che altro non è se non determinazione particolare dell’essere ideale (essenza), che rende ente (entifica) il finito reale (l’altro dall’essere), in forza della creazione da parte di Dio, e lo conserva, perché da Dio perpetuamente somministrata allo stesso reale. L’uomo la conquista col proprio sapere, perennemente» (ibid., p. 94). 141 Ibid., p. 125.
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concetto e al valore della «persona»142. Ma, in ogni caso, per Chiesa, se dal punto di vista idealistico aveva ragione Gentile, dal punto di vista scolastico-rosminiano aveva ragione Croce: possiamo fare sostanzialmente nostra l’estetica crociana, senza aderire punto alla Filosofia dello spirito en bloc, mentre non potremmo far nostra l’estetica gentiliana […] Ché la prima si può benissimo conciliare colla nostra concezione oggettivistica e dualistica, mutatis mutandis; la seconda, no, a nessun patto143.
Bozzetti era d’accordo con Chiesa (e con Chiocchetti) nel ritenere che le critiche di Croce all’attualismo, accusato di misticismo, cogliessero nel segno e conveniva pure che Croce non era però logico nelle sue critiche, perché Gentile era più conseguente in senso hegeliano. Bozzetti era comunque preoccupato di chiarire che il misticismo di Gentile – la sua evidente, calda ‘religiosità’ – non aveva nulla a che fare con la mistica cristiana. E per quanto riguardava l’interpretazione di Croce, appariva più vicino alle vecchie notazioni di Caviglione che non a Chiocchetti e a Chiesa: la sostanza è sempre idealismo e cioè soggettivismo. Perciò io non ho la propensione alla teoria crociana dell’Estetica che il mio amico Chiesa non nasconde. Quello che essa ha di buono (e non occorre qui menzionarlo) non basta a correggere il suo difetto originale e radicale, che è il sensismo144.
In ogni caso da queste discussioni a più voci emergeva, in forma plurale, quella linea che prima indicavo: essere post-crociani senza essere anti-crociani ed essere anti-gentiliani senza essere post-gentiliani. Chiesa commentava: «Ma [Chiocchetti] ha nello stesso tempo buon gioco a mostrare, che la filosofia dello Spirito si riduce a essere un’infinita attività impersonale, per noi assolutamente inconcepibile. “Il concetto di persona, il valore della persona: ecco quello che manca, soprattutto, nella dottrina del Croce, e rende vano e senza significato il divenire della Realtà attraverso le forme”» (ibid., p. 93). 143 M. Chiesa, Croce, Gentile e la filosofia dell’arte, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, p. 163. Chiesa continuò a seguire la produzione di Chiocchetti, cfr. Id., La filosofia di G.B. Vico secondo P. Chiocchetti, «Rivista Rosminiana», 29, 1935, pp. 138-43. 144 G. Bozzetti, Croce, Gentile e la filosofia dell’arte, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, p. 167. 142
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Ma molto significative ed emblematiche del contesto teorico e problematico, in cui anche i contributi di Contini, come presto vedremo, venivano a inserirsi, erano le altre due discussioni. Quella sulla Logica di Rosmini portava, sostanzialmente, al centro dell’attenzione una delle ultime opere del Roveretano (scritta tra il 1850 e il 1851)145, collegata – da una parte – alla Psicologia e – dall’altra – alla Teosofia, completando, per così dire, una triade di riferimenti teorici, essenziali per confrontarsi con l’idealismo. In quell’opera – che affrontava la teoria delle probabilità, la dottrina degli assensi, la discussione delle tre forme di pensiero146 – la riflessione rosminiana sul sintesismo si arricchiva del concetto di «circolo solido»147, che, secondo Rosmini, si potrebbe incontrare dappertutto, entrando dappertutto il sintesismo stesso148. 145 Sulla “Logica” di Rosmini, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 248-56: con interventi di R. Miceli (Natura e limiti della «Logica» rosminiana, pp. 248-53) e di G. Bozzetti (La «vitalità» della logica di Rosmini, pp. 253-6). 146 Rosmini distingueva il pensiero ordinario e comune (per il quale valeva la logica aristotelica), il pensiero critico o dialettico (che corrispondeva alla forma kantiana) e il pensiero assoluto, che implicava o l’identificazione assoluta di Essere e Pensiero (Hegel) o il sintesismo delle tre forme dell’essere (Rosmini). 147 Il circolo solido era la risposta rosminiana al circolo chiuso e vizioso della dialettica hegeliana. Rosmini scriveva: «Questo modo interiore di ragionare e d’argomentare si fonda sul sintesismo della natura, che è una delle principali leggi dell’ordine intimo dell’essere. L’intuizione e la percezione sono i due primitivi fonti dell’umano conoscere, e l’una e l’altra presenta all’intendimento un tutto. L’intuizione ha per termine l’oggetto ossia l’essere, nel quale si contengono virtualmente tutte le cose, dal che procede che “la mente non può conoscere niuna cosa particolare se non mediante la cognizione virtuale del tutto”. La percezione prima e fondamentale ha per termine il sentimento dello spazio e del proprio corpo, e in questi termini si contengono virtualmente tutti i particolari sensibili che possono essere dall’uomo attualmente percepiti, onde procede che “l’uomo non può percepire niuna cosa particolare se non mediante la percezione virtuale del tutto (naturale)”. Il movimento dunque che fa la mente umana si riduce finalmente a questa formula: “passare alla cognizione attuale del particolare mediante la notizia virtuale del tutto; e ritornare dall’attuale cognizione del particolare alla notizia attuale, cioè con qualche grado d’attualità, del tutto medesimo”. Questo movimento si chiama circolo solido» (A. Rosmini, Logica e scritti inediti vari, a cura di E. Troilo, vol. 1, Milano 1942, pp. 280-1, note 701-2). 148 Rosmini osservava infatti: «Il sintesismo è da per tutto (Psicol., nn. 34-44; 1337-9) e perciò dapertutto incontrarsi questo circolo. Il primo e originario sintesismo è quello delle tre forme dell’essere, quindi 1° l’impossibilità di parlare dell’essere reale senza supporre l’essere ideale, come forma e mezzo di conoscere; 2° l’impossibilità di parlare
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Era tuttavia l’altra discussione, quella sulla natura dell’arte149, che impegnava direttamente l’identità stessa della rivista, nonché il senso e l’orientamento che si volevano dare alla nuova serie. Più o meno contemporaneamente, peraltro, Montano, Capasso, Burzio e Angioletti discutevano su «Italia letteraria» della moralità nell’arte, mentre comparivano due antologie di scrittori cattolici150 e sulla gemelliana «Vita e Pensiero» si interveniva su problemi d’arte e di letteratura151. Viglino, dunque, il nuovo direttore della «Rivista Rosminiana», partendo dal punto di vista del «senso comune», considerava l’arte come l’espressione efficace di un sentimento soggettivo del mondo oggettivo: l’essenza dell’arte, cioè, stava nell’espressione delle impressioni suscitate, direttamente o indirettamente, dall’immagine esterna, dunque con un minimo necessario di riproduzione. Viglino diceva di convenire con Croce sulla coincidenza di espressione e impressione, almeno in letteratura, e affermava che il pregiudizio teorico deforma l’arte pratica152. Bozzetti (che era fratello di un pittore), esprimendo un gusto personale ostile al «realismo positivistico» ma anche lontano e perplesso rispetto ai «novecentisti»153, portava l’attenzione sul rapporto
dell’essere ideale oggetto, senza supporre il reale attualmente conosciuto. Circa l’essere morale si può dire lo stesso, come si vedrà nella Teosofia. C’è del pari un sintesismo tra Dio e la natura, supposta esistente la natura» (ibid., p. 284, nota 705). 149 Tale discussione (originariamente apparsa in «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 200-11) fu pure pubblicata autonomamente in estratto: C. Viglino, G. Bozzetti, G.A. Gaddo, R. Miceli, Che cosa è l’arte?, Reggio Emilia 1931: appariva come n. 6 della Collana «Bibliotechina della Rivista Rosminiana». Le citazioni che seguono sono tratte da questo opuscolo. 150 Cfr. Antologia degli scrittori cattolici, a cura di A. Hermet, N. Lisi, Firenze 1930; La nuova poesia religiosa italiana, a cura di G. Novelli, Palermo 1931. 151 Cfr. L. Berra, Problemi d’arte e di vita nella letteratura cattolica, «Vita e Pensiero», 17, 6, 1931, pp. 327-38. 152 Viglino, Bozzetti, Gaddo, Miceli, Che cosa è l’arte?, pp. 3-6. 153 Le preferenze, in assoluto, di Bozzetti andavano a Dante e a Manzoni, ma egli giungeva fino ad apprezzare Carducci, Pascoli, Fogazzaro, non oltre (in questo c’era una certa sintonia con il gusto crociano): «I novecentisti con tutte le loro audacie e le loro stranezze, con tutto il loro tormentarsi nella ricerca di una tecnica nuova, non hanno fatto un passo sopra lo spregiato riproduzionismo del precedente fin de siècle, perché continuano nella falsa strada di questo, che era in sostanza il concepire non poeticamente» (ibid., p. 7).
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tra concezione ed esecuzione, in cui la considerazione delle varianti aveva un valore rivelativo: L’artista deve dunque operare una selezione nel suo spirito stesso nel periodo dell’esecuzione dell’opera d’arte. Dopo che essa è concepita, non tutto quello che egli sente dentro di sé, sia pure in modo vitale, è opportuno a essa, non tutto armonizza con essa. Non può lui dominarla così esclusivamente da non riconoscere che anch’essa domina lui e gl’impone un’elaborazione più o meno complessa, secondo i casi. Gli Sposi Promessi confrontati coi Promessi Sposi ne sono una delle più splendide prove. Per la stessa ragione ogni opera d’arte in un individuo richiede una tecnica propria. Sarà la tecnica personale che ogni artista si fa secondo il suo temperamento, ma dovrà a sua volta modificarsi diversamente secondo le esigenze della nuova concezione. È quel che si vede nelle variazioni della tecnica dantesca in ciascuna delle tre Cantiche154.
Bozzetti parlava infine di «una realtà superiore e profonda» presente nell’opera poetica e data dalla relazione dell’umanità individuale del poeta con l’umanità universale di cui pure egli partecipa. Gaddo, che negli anni immediatamente successivi – 1933-34 – avrebbe pubblicato una serie di articoli cercando di sviluppare un’estetica rosminiana155, affermava qui sinteticamente una concezione etico-spirituale dell’arte: come «vita solo soprannaturale, cioè conato verso l’essenza assoluta della bellezza», verso il possesso del divino, verso il trascendente, come «sforzo umano per ridursi o completarsi nel divino»: sforzo sempre impotente, sempre in desiderio. Dunque l’arte come confessione di povertà e di scontento, che perciò si converte nel bene: «Ma in questo modo io riduco il concetto dell’arte a quello del bello morale? Sì, anche se ciò puzzi di stantio. Già Rosmini lo ha inteso così, e trovò
Ibid. G.A. Gaddo, Per una teoria estetica rosminiana, «Rivista Rosminiana», 27, 1933, pp. 33-7; Id., Per una teoria estetica rosminiana. Il critico d’arte secondo Rosmini, ibid., pp. 124-8; Id., Per una teoria estetica rosminiana. Un libro dimenticato, ibid., pp. 26973; Id., Per una teoria estetica rosminiana. IV. Giudizi sulle teorie estetiche rosminiane, «Rivista Rosminiana», 28, 1934, pp. 1-18; Id., Per una teoria estetica rosminiana. V. L’esecuzione artistica e l’artista, ibid., pp. 258-63. 154 155
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che il Manzoni gli consentiva»156. L’intervento più ampio del dibattito, quello di Riccardo Miceli, spostava l’attenzione sul tema della critica (nello stesso anno, sulla rivista, Bozzetti scriveva circa la «umiltà del critico»)157, prospettando un ideale di conciliazione e fusione di critica storica e critica interna estetica dell’opera d’arte. Con un atteggiamento in esplicito dissenso con Croce158, Miceli tuttavia proponeva un indirizzo non proprio anti-crociano (se si tiene conto della dialettica dei distinti), se mai post-crociano, quello cioè dell’arte non come intuizione ma come concetto e come conoscenza intellettuale: non vi è atto nel nostro essere che, lato sensu, non sia conoscenza; e questa mi sembra una verità assodata oramai nella filosofia moderna, dopo l’impostazione kantiana del problema gnoseologico, non importa poi con quante differenze e quante sfumature diverse. So bene che nella Scolastica sarebbe un’altra cosa: ma è appunto perciò che la Scolastica non ebbe una vera e propria gnoseologia, e quella che si foggiò a suo modo fu piuttosto una psicologia, che una teoria del conoscere. [...] sopra questo punto consente anche Rosmini, la cui famosa proposizione “l’uomo non può pensare a niente senza l’idea dell’essere”, presuppone proprio quello che ho detto, ossia che non si possa dare atto qualsiasi che, lato sensu, non sia conoscenza159.
E senza negare che l’arte «si svolge negli infiniti gradi propri della sensibilità»160, dopo un’interessante annotazione sulla lingua omerica161, Miceli concludeva:
Viglino, Bozzetti, Gaddo, Miceli, Che cosa è l’arte?, p. 9. G. Bozzetti, L’umiltà del critico, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 295-7. 158 Scriveva infatti: «Ho detto poesia, bello, arte, usando queste espressioni quali sinonimi, al modo stesso del Croce, che le riduce anzi all’altra per lui più comprensiva, di “lirica”. Ma veramente io non credo che le cose stiano in questi termini, perché non ammetto, con il Croce, che l’arte sia espressione d’una impressione, oppure intuizione, ecc., epperò m’immagino che ci siano tanti gradi diversi di arte, che è genere, e che dall’arte stessa si diparta il bello che ne è il termine, come dire l’oggetto» (Viglino, Bozzetti, Gaddo, Miceli, Che cosa è l’arte?, p. 10). 159 Ibid. 160 Ibid., p. 11. 161 Scriveva: «Per Omero la discussione comincia, com’è noto, fin dalla lingua, perché mentre gli antichi come Dione Crisostomo pensavano che la mescolanza dei vari dialetti ellenici di cui risulta il c.d. dialetto omerico dipendesse dal fatto che il poeta aveva “molto viaggiato”, noi crediamo invece “che in realtà aveva molto viaggiato 156 157
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L’opera d’arte è essenzialmente opera di pensiero (concetto); essa è una costruzione, vien messa su con lungo studio e lunga fatica e richiede, nell’artista stesso, capacità di critica e di valutazione. Il De Sanctis che non ha voluto riconoscerlo, s’è trovato poi nella strana necessità di offrirci un “Dante a pezzi”162.
Qualche tempo dopo, anche tenendo conto di questo dibattito ‘rosminiano’163, Francesco Olgiati avrebbe ripreso, da un orizzonte neotomista, questi temi di estetica, sulla «Rivista di Filosofia Neoscolastica»164 e su «Vita e Pensiero»165. 2.2. La proposta culturale forte, che la nuova serie della «Rivista Rosminiana» avviata nel 1930 voleva realizzare, vedeva dunque un rinnovato interesse per la letteratura: sia continuando l’attenzione al mondo letterario che era stato in relazione con Rosmini e dunque, prima di tutti, a Manzoni166 sia aprendo un fronte nuovo, quello della rubrica Scrittori moderni. Contini si trovò ad avere un ruolo su entrambi questi piani culturali: negli interventi su Tommaseo, per quanto riguarda il primo ambito; ma soprattutto con i vari saggi di ‘critica militante’ nella nuova rubrica. Scrittori moderni fu infatti avviata con un suo intervento su Marino Moretti167 e con un altro di Viglino su Guido da Verona. Ma dopo questa prima prova, forse un po’ scolastica, ancorché non priva di originalità e che fu notata e discussa dall’«Italia Letteraria»168, Contini si impose come il critico letterario della rivista. Fu il momento della sua maggiore partecipazione al rosminianesimo: forse è collocabile in la poesia epica”. Dove se ne va, in tal caso, la personalità dell’opera d’arte? E come è possibile separare allora la critica estetica dalla critica storica?» (ibid., p. 13). 162 Ibid. 163 Il ricordato volumetto, che era un estratto della rivista (Viglino, Bozzetti, Gaddo, Miceli, Che cosa è l’arte?), è presente nel fondo dei libri di Olgiati (presso l’Università Cattolica di Brescia). 164 Con vari articoli tra il 1933 e il 1934. 165 Cfr. F. Olgiati, Che cosa è l’arte, «Vita e Pensiero», 20, 6, 1934, pp. 352-9. 166 Cfr. G. Bozzetti, L’“Ermengarda” di Manzoni, «Rivista Rosminiana», 24, 1930, pp. 261-5. 167 G. Contini, Marino Moretti in “Tempo felice”, «Rivista Rosminiana», 24, 1930, pp. 103-8. 168 Cfr. Le altre riviste e la nostra, ibid., p. 272.
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questo periodo quel suo prendere in considerazione l’ipotesi di entrare nella vita religiosa, nell’Istituto della Carità, di cui abbiamo notizia indiretta169. Il primo articolo, su Moretti, mostrava già un gusto ben definito, soprattutto con alcune pregnanti connotazioni sintetiche: «pseudoromanticismo filisteo di De Amicis», «sonante prosa di Carducci», «pose dannunziane». Moretti, secondo Contini, «coglie ciò che vi è di tipicamente esagerato (ch’è poi il germe del ridicolo) in d’Annunzio assai meglio di qualunque parodista: del Folgore, ad esempio, che, per rifargli il verso, va a prendere proprio la “Pioggia nel pineto”, ch’è un capolavoro»170. Il modesto Moretti viene dunque valorizzato nel senso di una ferialità anti-dannunziana, arieggiante a certa fissità da metafisica dechirichiana, senza grandi profondità: Non andremo a scoprire in Moretti complicazioni alla Proust; pure egli vive, e confessandosi lo confessa, una vita metafisica. Ridottosi a una visione monodimensionale, prova ancora il gusto della durata, ma il tempo come tempo gli si riduce in ischemi [...] e gli sfuma in “tempo immutabile”, in eternità171.
Furono tuttavia i tre interventi del 1932 – su Emilio Cecchi172, su Thomas Mann173 e, soprattutto, su Giuseppe Ungaretti174 – a dare la misura del salto qualitativo che la rivista compiva e a segnare chiaramente una linea quasi direi ‘filosofica’ nella critica letteraria. Contini operava, si direbbe, una serie di comparazioni, sintetizzate in un ‘circolo solido’: non solo comparazioni più lontane, tra i diversi autori considerati, ma anche comparazioni più intime, tra il singolo autore e la dimensione autobiografica del critico, a loro volta declinate sulle comparazioni tra livelli diversi di profondità conoscitiva, e infine
Ha scritto U. Muratore: «Il suo amico Oreste Macrì, infatti, mi confidò un giorno (eravamo alla Sacra di San Michele), che sia lui sia Contini per un certo tempo nutrirono il desiderio di farsi religiosi rosminiani» (Muratore, Contini, p. 137). 170 Contini, Marino Moretti, p. 107. 171 Ibid., p. 108. 172 G. Contini, Scrittori moderni. Emilio Cecchi o della natura, «Rivista Rosminiana», 26, 1932, pp. 143-50. 173 Id., Scrittori moderni. II. Thomas Mann e le «affinità elettive», ibid., pp. 222-5. 174 Id., Scrittori moderni. I. Ungaretti, o dell’allegria, ibid., pp. 309-15. 169
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comparazioni ‘ellittiche’ (o appena abbozzate) con le forme di letteratura sgradite e rifiutate. Così nel saggio su Cecchi si evocava la ‘natura’ per rifuggire dall’esotismo irrazionale e dal magismo misticheggiante. La natura non era cioè intesa in senso naturalistico, ma come realtà comune e come «religiosità latente della vita comune»175 (latens Deitas, si potrebbe dire). Contini osservava: «Una legione di scrittori ambigui fra strapaese e stracittà, da Aniante al povero Dino Garrone, ci distillarono in questi anni a buon mercato surrealtà, provinciali o esotiche, ricche più o meno di cultura»176. Migliore e più colta, allora, la proposta della «religiosità di Cecchi: una “religio” demoniaca, geniale; talora un po’ ironica, come quel suo Iddio che verso sera ronza “in incognito a ritemprarsi nelle fucine dei bestemmiatori”. Portandolo su un piano di paganesimo originario, di “superstitio”, essa gl’insegna la reverenza alle forme inferiori della vita, gremite di mistero»177; «In Cecchi la magia è assolutamente “praerogativa”»178; «Resta sempre il fatto che s’è identificata una tendenza alla risoluzione nel sogno, in un quieto incanto, piuttosto che in un’aspra e quotidiana magia. [...] La discrezione è esplicita; e non manca forse il suo perché: “Gli abusi imbecilli del satanismo letterario distolgono dall’adoprare epiteti più carichi”»179. Comparazione a tre livelli è il saggio su Thomas Mann: cioè comparazione tra Goethe, la critica di Mann e la critica di Contini. Mann, per carenza di coscienza riflessiva, appiattiva, secondo Contini, l’apparente monodimensionalità estrinseca di Goethe180. Ne risultava una semplificazione nella dialettica paganesimo-cristianesimo e nell’identificazione tra cristianesimo e germanesimo. In un momento 175 Cito dalla riedizione in volume: G. Contini, Emilio Cecchi, o della natura (dal Kipling a Messico), in Contini, Esercizî di lettura, p. 125. 176 Ibid., pp. 131-2. 177 Ibid., p. 126. 178 Ibid., p. 132: l’esegesi (in un contesto rosminiano) del termine e del concetto di «praerogativa» porterebbe, forse, a risultati interessanti. 179 Ibid., pp. 134, 136. 180 Scriveva Contini: «Il pensarci su è abolito, abbiamo il diritto di esplorare il tormento; l’umanità goethiana resta così astratta, esteticamente deformata (“Magerkeit der Gestalt”), a una dimensione, sopra uno sfondo tanto minuzioso ed esatto. E qui, ancora una volta, si palesa la necessità dell’analisi. Non altro significato libera, infatti, quello stile goethiano che sembra tutto disteso sopra una superficie» (G. Contini, Thomas Mann e le Affinità elettive, in Id., Esercizî di lettura, p. 353).
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storico cruciale, alla vigilia dell’affermazione del nazismo in Germania, mentre appunto si discuteva sui rapporti tra romanesimo (non citato da Contini), germanesimo e cristianesimo, si profilava una nuova sconfitta di quel liberalismo, di cui Mann era esponente di rilievo. Contini, quasi individuando l’intrinseca debolezza di tale liberalismo (e forse alludendo al protestantesimo liberale), rifiutava ciò che appariva un semplicismo analitico, il quale proponeva contraddittoriamente in modo edonistico, cioè anti-ascetico, una riduzione netta e totale del cristianesimo a ‘rinuncia’, dunque ad ascetismo rigoristico: Le pagine che Mann ha dedicate a questo “Entsagen” sono indubbiamente assai piacevoli; ma, appunto, la gradevolezza d’una tal prosa, l’intelligenza facile, la possibilità ch’essa offre a una lettura edonistica di deduzioni, mettono già in sospetto contro la consistenza d’una simile mentalità in sede di contenuto critico. [...] Un po’ meno delizioso, ridotto a nudo schema dal nostro riassunto, apparirà forse il discorso di Mann. Quell’identificazione, in particolare, di germanità e cristianesimo. E qui non è fuori luogo rilevare gli abusi che si commettono giornalmente nel maneggiare termini storici ben precisi e delicati. Cristianesimo, fra questi termini, patisce naturalmente di un tale strazio nel modo più singolare. [...] Cristianesimo, paganesimo; come altre volte, alla leggera, si dice manicheismo, giansenismo: queste definizioni girano, direbbe Socrate, quasi statue di Dedalo. E in Mann si ha chiaramente la riduzione semplicistica del cristianesimo al principio della rinuncia181.
E con una doppia comparazione si apriva pure il saggio su Ungaretti: con Leopardi (un autore in molti modi presente in queste comparazioni plurime dei primi scritti critici continiani) e, singolarmente, con Rebora, valorizzato come poeta ma a discapito, si direbbe, della disposizione etica, intesa come sterile182 (si riferiva, ovviamente, al Rebora
Ibid., pp. 351-2. Scriveva infatti: «Ma è dubbio che tal legittimazione della poesia come soggettivo impulso fosse valida, e non, piuttosto, sopraggiunta dall’esterno. La base lirica di Rèbora, come disposizione etica, era terribilmente ferma, una critica verticale; si giustificava, tra l’altro, con un sistema di formule (“storia”, “verità”, “tempo”), che costituivano una “consolazione” in ultima analisi sterile, benché accertata in fatto; concretamente, ogni tema si trovava da sé un suo buono e ricco sviluppo, ma infecondo alla fine, in una linea 181 182
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vociano). E frutto di una comparazione era pure l’individuazione di «un avvertimento instante della corporeità, che quasi ci tenterebbe di chiamare rosminiano»183. Contini non valorizzava l’Ungaretti esplicitamente ‘religioso’184, cioè i ‘contenuti’ religiosi, quanto piuttosto la sua forma assoluta, semplice nome, atomo di espressività e dunque non-poesia, ma in realtà nominalismo poetico puro, per cui «non resta che affidarsi alla voce di quest’uomo necessariamente poeta; serenamente ascoltarla»185. Ascolto e Parola: non una poesia a contenuto religioso, ma poesia che, in quanto tale, è religiosa, perché salvifica. Sfuggendo a indebiti e apologetici annessionismi cattolici e a forzature interpretative devote, in realtà filistee, Contini ritrovava nelle poesie di Ungaretti un vertice (soteriologico) assoluto, oltre Croce o, meglio, in un crocianesimo purificato e avvalorato da Rosmini: Anche Ungaretti ha qualche sua formula riferibile a un sistema di critica della vita [...]. Ma la “consolazione” specifica di Ungaretti sta nel puntare tutt’i significati, tutte le possibilità liriche sopra una parola; la quale resta ricca e carica abbastanza perché in essa s’esaurisca il “motivo” o “situazione” poetica, e s’annulli qualsiasi necessità di ricorso a un’enunciazione logica o storica. [...] Se poi la memoria torna a quella ch’era la risoluzione di Malinconia [...] non si può indicare miglior documento circa l’unicità del valore “salutifero” ritrovato nella poesia: circa la soluzione definitoria, “nominale”. È riscoperto, insomma, il nome come fatto religioso; né altro abbiamo inteso significare, adducendo la “parola”. Sulla portata religiosa della poesia ebbe a insistere, anche in teoria, lo stesso Ungaretti, acutamente discorrendo, in un’intervista, della scoperta che il Leopardi fece del tempo, e della “resistenza al tempo”. Senonché, se è questo un fenomeno d’ordine generale (ognuno conosce, al limite, l’interpretazione cattolica, e con quanta esagerazione letterale, che il Rivière diede delle rimbaudiane Illuminations), Ungaretti si differenzia
logica aderentissima, e così folta di giudizî da interrompere di continuo la disposizione al canto» (G. Contini, Ungaretti, o dell’allegria, in Id., Esercizî di lettura, p. 45). 183 Ibid., p. 52. 184 Scriveva: «Si può dire poi fin d’ora che meno felice riuscì Ungaretti dove, in ispecie riflettendo sopra se stesso, si fece troppo esplicito; dove, per esempio, troppo esplicitamente intese narrare esperienze religiose» (ibid., p. 54). 185 Ibid.
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perentoriamente, in quanto la sua poesia verte sulla “parola”, e non muove dal discorso in quanto logicamente organizzato [...]. Di qui lo scomporsi della frase nei suoi termini infimi pressoché equivalenti; l’esigenza di solitudine che essi vengono assumendo; alla quale più che alle pause, accennano i versi “scandalosamente” brevi [...]. Risulta dunque che in Ungaretti le relazioni fra “poesia” e “nonpoesia” s’impostano in un modo ben singolare. In un poeta che respinge pregiudizialmente ogni affermazione non suscettibile di lirica ripresa, si giungerebbe al risultato di scoprire una non-poesia abbondantissima; se l’intero discorso non fosse rivissuto a imitazione di questa “parola” centrale186.
E sobriamente religiosa era la conclusione del saggio continiano (in cui peraltro si mostrava, di passaggio, con una citazione, la consonanza con Gargiulo), non sui registri enfatici della proclamazione di fede o del magistero, ma su quelli ascetici, umili e personali della consolazione: Quante cose abbia imparato il lettore onesto da questa poesia: per dir tutto, il significato genuino di parola [...]. Ma non esiste, è chiaro, un “insegnamento” specifico di Ungaretti. Il rapporto ch’egli ha posto tra il fatto e la parola, resta fuori dell’àmbito d’un’espressa giustificazione. Il lettore si accontenta di sapere che è stato “consolato”. [...]. Perciò la pagina del critico più secco, quando parla di Giuseppe Ungaretti, si configura naturalmente come un’azione di grazie187.
Contini riusciva dunque, con questi impegnativi interventi, a dare una precisa fisionomia alla critica letteraria della «Rivista Rosminiana»: insieme originale – nel coevo panorama delle riviste cattoliche – e pure omogenea, in modo avvertibile ma senza rigidità di scuola, al rosminianesimo nuovo che doveva caratterizzare il periodico. Si trattava di una fisionomia in qualche modo ‘consanguinea’ all’ermetismo italiano, anche se sia Contini sia la Rivista non intendevano presentarla come tale. Lo stesso Contini avrebbe più tardi osservato: «era una critica non facile da assorbire perché nasceva da un travaglio profondo […], da una auscultazione a cui mi dedicavo interamente. E questo poteva anche essere classificato come ermetismo,
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Ibid., pp. 46, 49-51. Ibid., p. 58.
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ma non ha niente a che fare con l’ermetismo ufficiale, che è una filiazione, in sostanza, del surrealismo e di Dadà»188. L’auscultazione dei poeti da parte del critico cercava, in realtà, di realizzare quella facoltà che Rosmini, nella Teosofia, definiva «inoggettivazione soggettiva». In ogni caso, in questi anni, sul piano delle preferenze: «Feci proprio la “malattia ungarettiana”, questo non c’è dubbio. […] Dell’Ungaretti, più che del primissimo tempo, del secondo tempo»189.
Come ha notato giustamente Macrì:
Trattavasi in definitiva della vecchia questione delle fonti nella scuola storica, ilarizzata dagli idealisti crociani, ripresa con metodo comparatistico dalla nuova critica postcrociana dei mezzi espressivi (ancora ben vivo il Croce) tra “La Voce” e “La Ronda”, in contrasto o eretica dello stesso Croce, di cui crollavano i divieti d’ogni comparatismo in grazia del mito critico del monografismo estetico integrale d’identità intuizione-espressione, restando intatto quello anche crociano del lirismo onnigenere. Rammento qualche nome: Gargiulo, Cecchi, Solmi, De Robertis, Cardarelli, Longhi, e il più giovane, precocissimo, Contini190.
Certo Contini era – anche, ma non solo, per motivi anagraficogenerazionali – più lontano dal polo «La Voce» (e da ogni vocianesimo postumo) e più vicino al polo «La Ronda». Questo ‘polo’ richiamava pure la «repubblica delle lettere» e il disimpegno dei letterati: nel segno di un raccoglimento interiore ma soprattutto di un’indisponibilità alla mobilitazione politica fascista, all’entrismo (anche non necessariamente propagandistico) nelle fila culturali del Regime, a una simoniaca connivenza. Era l’esito non afascista ma apolitico (e perciò implicitamente antifascista) che sarebbe stato evidente con «Solaria», in un’eredità ideale dalle «riviste dell’Aventino»191 e dalla loro intransigenza morale (si pensi al gobettiano «Baretti», aperto a Cecchi, Gargiulo, Montale, Alberti, Debenedetti). Il rigore letterario, poetico,
Ripa di Meana, Contini, Diligenza e voluttà, p. 182. Ibid., p. 128. 190 O. Macrì, Note sullo stile continiano, «Microprovincia», 35, 1997, p. 9. 191 Cfr. G. Langella, Il secolo delle riviste. Lo statuto letterario dal «Baretti» a «Primato», Milano 1982, pp. 41-137. 188 189
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critico era, dunque, esponente etico e sintomo di non allineamento e di obiezione di coscienza: la commistione (oltre Croce) dell’estetica con l’etica salvava (con Croce) dalla sua contaminazione con la politica. La critica letteraria della «Rivista Rosminiana», con il sorvegliatissimo Contini, si collocava su quella stessa lunghezza d’onda e si caratterizzava, dunque, per un rifiuto del barocchismo retorico, novecentistico o neoconcettistico (Pirandello, Bontempelli), degli irrazionalismi e messianismi di ogni tipo, del frantumarsi impressionistico del Carducci barbarico (Campana) e ovviamente di movenze da strapaese, da cattolicesimo reazionario e ‘salvatico’, da pseudomisticismo, da papinismo e frontespizismo. L’aspetto gnoseologico dell’estetica, recettivo-espressivo, reggeva una sperimentalità possibile di metodi diversi, che, come esercizio della pratica, assumeva in sé la dimensione ascetica (il rosminiano «principio di passività») e quella etica o etico-religiosa. Dopo un colloquio con Emilio Cecchi, che si era soffermato sulla sua vita e sulle sue nuove occupazioni, Contini gli scriveva: perdoni se fui un po’ troppo passivo: o, come dice il mio sottile distinguitore Rosmini, “recettivo”. […] C’era in Lei, nell’elencare quelle rappresentazioni, una moralità essenziale: una fedeltà religiosa a quella nuova conoscenza (quasi ascetica nuova), un’onestà sperimentale (un rispetto a quel sé più segreto). L’“arabesco” veniva dopo. Si partiva da una rete di nozioni che impegnavano la vita; quanto dire: da un esercizio della pratica; e il numero, lo stile movevano, a mio vedere, inizialmente di lì192.
E appunto «sperimentale» appariva a Contini la stessa materia poetica di Hölderlin193. Era uno stile critico razionale ma non razionalistico; terso e pulito, senza torbidità, eppure difficile e impegnativo; nitido e illuminato ma non illuministico: uno stile anche ermetico, ma di un ermetismo esercitato come metafora e come metafora etica e religiosa, attento all’espressività più che all’espressione (essendo, crocianamente, tutto espressione). Era peraltro uno stile lontano certo dalla prosa di Rosmini e anche dei vari Bozzetti, Chiocchetti, Morando, eppure in qualche modo rosminiano:
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L’onestà sperimentale, p. 4. Ibid., p. 5.
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le sue fibre costitutive erano ascesi e gnoseologia: ascesi rosminiana e gnoseologia rosminiana. Si è parlato di «metaforismo critico»194; forse, più propriamente, si potrebbe parlare di circolo solido del sintesismo: intuizione-conoscenza-espressione. Ciò dava alle analisi continiane un sapore di fondamento razionale saldo, alterno-interno al crocianesimo, che altri critici suoi contemporanei, pur mossi da analoghe esigenze rispetto alla lezione di Croce, non sembravano avere195. In questo modo, la «Rivista Rosminiana», per la sua pagina letteraria, si accostava a «La Ronda» e, soprattutto, a «Solaria». Il clima era lo stesso, anche se il particolare paesaggio poteva differire. Era cioè il clima di una «liricità lontana e un po’ desolata»: «pallori, climi candidi», con «un’ampia quiete e chiarezza; quelle non più della logica, ma della rappresentazione»: «Qui stesso l’analisi conduce a intuire, più che a narrare, un sovrumano silenzio. Negli interstizî medesimi della pratica nascono suggestioni arcane: il timbro del discorso si trasogna»196; «Gli avvenimenti, in questo clima, giacciono come cose; ogni tanto vi si ridestano; ma le cose son private di tutto il mondo reale, e così dai fatti è estratta tutta la storicità»197. E «sotto quest’abbondanza frugale, e per dir così senz’epiteti, sta un senso ignudo e spoglio del puro esistente»198. Nel 1943 Luigi Russo avrebbe caratterizzato, con acutezza, la critica continiana come «una forma di ideale presentismo assoluto, che qualche interprete ha avvicinato, e non so decidere se con ragione, all’attualismo
Macrì, Note, p. 9. È stato giustamente notato: «I grandi saggisti della prima metà del secolo sono fioriti tentando linee di fuga dal e di ampliamento del cono d’ombra proiettato dalla filosofia crociana. Si pensi a Mario Praz, Giovanni Macchia, Vittore Branca, Giacomo Debenedetti, gli ermetici fiorentini Bo, Luzi, Macrì, Bigongiari (per citare solo quelli non dichiaratamente crociani). Tutti, forse a eccezione di Debenedetti [...], eludono in qualche modo il problema dell’unità della conoscenza, (estetica e filosofica) ripiegando su un saggismo eruditissimo ed estroso [...]. Anche Contini si muove dentro l’incantamento crociano e il ripudio di ogni forma di irrazionalismo» (T. Salari, Divagazioni continiane, «Microprovincia», 35, 1997, p. 175). 196 Sono parole usate da Contini nel suo saggio su Cecchi: Contini, Emilio Cecchi, pp. 135-7. 197 Contini, Ungaretti, pp. 52-3. 198 G. Contini, Comisso romanziere (Storia di un patrimonio), [1934], in Id., Esercizî di lettura, p. 194. 194 195
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gentiliano»199. Russo, ignorando il rosminianesimo, era indeciso su ciò che gli sembrava analogo a Gentile (ma avvertiva, chiaramente, qualche difficoltà a rubricare tout court Contini come gentiliano). In una lettera a Russo, in cui riprendeva il suo giudizio, Contini, che pure in quel momento (cioè nel 1942-43) era legato a Gentile da sentimenti di devota riconoscenza, mentre accoglieva, quasi come ovvia, la qualifica di post-crociano (avanzata da Giacomo Debenedetti), sorvolava invece sull’eventuale attualismo, con un’allusione un po’ criptica: «la definizione di presentismo mi lusinga talmente, oltre a cogliere la mia vera tendenza, che vorrei solo meritarla più integralmente»200. L’altro ambito dell’interesse letterario e storico-letterario della «Rivista Rosminiana» era, come si è detto, quello manzoniano, cioè, più propriamente, dei letterati che furono vicini a Rosmini. In questo contesto, Contini pubblicò un acuto articolo su Niccolò Tommaseo, autore da lui molto studiato, considerato «grande scrittore», con il gusto «del particolare»201. Affrontando la dibattuta questione della «malignità» del dalmata, Contini riconosceva che non vi era in lui ingenuità e mitezza candida e irragionata, ma riportava tali aspetti torbidi a uno «zelo della verità» che Tommaseo, con tutti i suoi difetti, esercitava innanzi tutto verso se stesso: [...] è noto come Rosmini notasse in lui giovane le improvvise alternanze di smodate tristezze e allegrie. [...] il grottesco, così riprovevolmente usato [da Tommaseo] nei rispetti di Leopardi, è una necessità, e necessità non allegra, dell’animo torbido, e non di rado funebre, di Tommaseo. E spesso le prime frecciate sono per se stesso. [...] Ed è credibile che la prima radice dell’odio tommaseano contro Leopardi stia in interessi trascendenti: [...] un eccesso dunque, e quanto biasimevole, di zelo. [...] Non manca la carità nell’impetuoso Tommaseo: non manca una benevolenza di fondo, spesso una soavità di ritmo, su cui poi incidono i terribili risultati di una osservazione implacabile. [...]
L. Russo, La critica letteraria contemporanea, 3, Dal Serra agli ermetici, Bari 1943, p. 246. 200 «Il paesaggio d’un presentista». Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Luigi Russo (1936-1961), a cura di D. De Martino, Firenze 2009, p. 60. 201 G. Contini, Tommaseo e la “malignità”, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 304-5. 199
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[...] Uno zelo anche cavilloso è sempre un utile antidoto alle umanità irragionate; e lo zelo tommaseano di verità trova continui riscontri in quella zona “guelfa” dove si riassume gran parte dell’intelligenza italiana del primo Ottocento. Si conosce la violenza di Rosmini contro i paladini dell’errore; e l’acerrimo rigore del Manzoni storico. Si nominano due “zelanti con carità”. C’è solo da meravigliarsi che non abbiano ancora scoperto il giansenismo del severo Tommaseo.202
Rilevanti in questo saggio continiano sono sia la considerazione del Tommaseo in relazione a Rosmini e a Manzoni sia l’accenno finale al giansenismo. Questo accenno infatti, inteso in senso positivo, portava a comprendere la cifra comune di quel mondo «zelante»: l’agostinismo rigorista. D’altra parte però, inteso in senso negativo, accennava polemicamente al rischio che quell’agostinismo – comunque ‘ortodosso’ – fosse scambiato con il più ‘eterodosso’ giansenismo. L’allusione evidente era al contemporaneo dibattito sul “giansenismo” del Manzoni, aperto dal volume laterziano di Francesco Ruffini203. Su tale volume si erano già tempestivamente espressi, in modo critico, Bozzetti sulla «Rivista Rosminiana»204 e, su «La Nuova Italia»205, il fiorentino marchese Piero Fossi206, intellettuale di ascendenza cattolicoliberale, collaboratore delle riviste di De Lollis e di Codignola, studioso di Manzoni e di Croce207. Adolfo Omodeo aveva controbattuto alle critiche di Fossi, aderendo alle tesi di Ruffini. Sulla «Rivista Rosminiana», proprio nella pagina che seguiva all’articolo di Contini su Tommaseo,
Ibid., pp. 306-7. F. Ruffini, La vita religiosa di Alessandro Manzoni, 2 voll., Bari 1931. 204 G. Bozzetti, Intorno a Manzoni, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 253-6. Cfr. anche A. Custodero, Ancora sulla vita religiosa di Manzoni, «Rivista Rosminiana», 26, 1932, pp. 129-39. 205 P. Fossi, Manzoni e il Giansenismo, «La Nuova Italia», 5/9, 20 maggio-20 settembre 1931. 206 Sul Fossi (1898-1975) si veda l’essenziale profilo di C. Ceccuti, premesso alla ristampa: P. Fossi, La lotta per la libertà, Firenze 1980, pp. 3-26. 207 Cfr. P. Fossi, Il problema dell’unità dello spirito nella filosofia di Benedetto Croce, «Civiltà moderna», 3, 1929, (31 pp. in estratto); Id., B. Croce e le “Osservazioni sulla morale cattolica”, «La cultura», 9, 1/5, 1930, pp. 367-73. 202 203
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Fossi rispondeva a Omodeo208, ricevendo il consenso del direttore Viglino209. L’anno dopo, Contini interveniva ancora su Tommaseo210, in particolare sul romanzo Fede e Bellezza, del quale negava ogni carattere naturalistico o realistico, faceva notare «l’intima refrattarietà di Tommaseo a qualsiasi senso dell’esotismo e dell’avventura»211, parlava di un autobiografismo ma giocato sull’evasività come fuga dalla pratica: «L’opera di Tommaseo è tutta un immenso diario, in cui la materia vitale è accostata volta a volta da varie parti; nulla gli ripugna quanto il diario intimo, almeno in un’accezione psicologistica, protestantica (Amiel); è un diario invece tutto risolto in notazioni esterne»212. Qui forse Contini cercava di ribaltare, in positivo, il giudizio espresso in termini esteticamente severi dal Croce213, ma il cuore problematico era comunque altro. Stava, direi, nel salvare l’eticità di Tommaseo, sottraendolo a letture confessionali o del moralismo che lo squalificava o di certo ‘modernismo’ che lo recuperava immiserendolo e perciò negandolo: Bisogna anche intendersi sul significato morale d’un’opera tenuta solitamente così ambigua. Già il Croce ebbe a ridurre nei suoi giusti termini il così detto dissidio interno, sensuale, di Tommaseo. E crediamo che il suo libro sia di pochissimo rilievo per la storia del moderno “romanzo cattolico”, con le
208 Id., Ancora sul giansenismo del Manzoni. I. Postilla manzoniana, «Rivista Rosminiana», 25, 1931, pp. 308-12. 209 Il Direttore, Ancora sul giansenismo del Manzoni. II. Osservazioni, ibid., pp. 313-8. 210 G. Contini, “Fede e Bellezza” di Tommaseo ristampato, «Rivista Rosminiana», 26, 1932, pp. 63-7. 211 Id., Per il romanzo di Tommaseo, in Id., Esercizî di lettura, p. 357. 212 Ibid., p. 360. 213 Contini osservava: «Il Croce ha parlato, nel suo saggio, di poeticità esteriore, di lavorazione periferica: della quale idea si compiacque tanto da ritornarvi sopra, a proposito della scrittura dei filosofi, in una nota dei Nuovi Saggi di Estetica. In generale, nel saggio del Croce: sembra a noi che sulle constatazioni scrupolose (descrittive, diremmo) circa lo stile tommaseano sopraggiunga un po’ troppo rapidamente l’esigenza valutativa. Certo, quella di Tommaseo non è prosa pratica, o vera prosa; ma desiderare davanti a Tommaseo una lirica della pratica è pensare appunto a ciò ch’egli non può dare» (ibid., p. 362).
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antinomie a esso proprie, incerto cioè fra la rappresentazione artisticamente viva, ma perciò positiva, del peccato, e quella virtuosa sì, edificante, ma clorotica e debole. […] Si veda come si unifica in sede lirica quel dissidio per molta parte presunto, e in ogni modo laterale all’ispirazione; come vuol comporlo la calma intenzione del titolo; e si pensi all’“ideale bellezza” di Siena. La sensibilità è la necessaria condizione del rispetto di Tommaseo: spietato coi superficiali, con chi è stretto alle apparenze […]. Se esistono, secondo l’idea romantica, sentimenti naturalmente poetici, di questi è certo il modo, incerto fra il rimpianto e il dolore, il desiderio e la pietà, con cui Tommaseo pensa alle donne. Ognuna, uno scorcio di corpo; ma non mai assenza d’un’anima. Non fosse che Tommaseo, non propriamente “pagano e carnale” (così di sua roba “foscolesca”), quello che coglie è soprattutto il conformarsi nell’individuo della dignità umana […], di qui l’invocazione generale alle donne […] nella quale è forse da riconoscere, alla cadenza, l’insegnamento del manzoniano Addio; ma che bizzarro innesto214.
Contini cioè estirpava da Tommaseo ogni residuo foscoliano (e ricordiamo la sua «antica antipatia di base» per Foscolo215: in questo egli era più rosminiano di Bozzetti)216 e, invece, lo innestava in Manzoni o, che è lo stesso, vi innestava Manzoni: che era poi la lettura più rosminiana possibile dello stesso Tommaseo. E, a proposito di interessi manzoniani, poco tempo dopo, nel 1933, Piero Fossi – che in quell’anno scrisse ancora sulla «Rivista Rosminiana»217 – pubblicava con Laterza la sua più importante monografia manzoniana218. Ma, sempre nel 1933, apparvero sulla rivista dei Rosminiani anche due scritti di Contini219. Se in uno vi era un rivelativo accenno alla relazione tra riforma filosofica e conseguente trapasso nella critica del testo220,
Ibid., pp. 365-6. Ripa di Meana, Contini, Diligenza e voluttà, p. 61. 216 Cfr. G. Bozzetti, Foscolo, «Rivista Rosminiana», 21, 1927, pp. 221-5. 217 P. Fossi, Rosmini e i Gesuiti in un libro su Manzoni, «Rivista Rosminiana», 27, 1933, pp. 224-9. 218 Cfr. Id., La conversione di Alessandro Manzoni, Bari 1933. 219 G. Contini, Introduzione a Montale, «Rivista Rosminiana», 27, 1933, pp. 55-9; Id., «Scriptor Rerum Francigenarum», ibid., pp. 289-95. 220 Parlando della filologia positivistica, Contini scriveva: «Superfluo è, infatti, rilevare come questa fase filologica corrisponda (anche geograficamente…) al passaggio 214 215
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fu tuttavia di particolare rilievo l’importante Introduzione a Montale. La cifra fondamentale – grande equilibrio di fuoriuscita rosminiana (ma post-crociana, non anti-crociana) dal crocianesimo – era data dal ritrovare in Montale una «crisi teoretica in atto» (non una crisi teorica, si badi, ma una crisi teoretica): Si ha innanzi una fase “descrittiva”; un folto, un ingorgo d’oggetti [...]. La rarità dei ritorni, la difficoltà del rivivere la storia, l’angoscia dell’avvertire insuperabile quella distanza (un Proust, dunque, alla rovescia) inibiranno a Montale qualsiasi possibilità di chiaroscuro. L’“amore” alle cose [...] si sostituisce con un’aspra affermazione di possesso: insistendo sulla presenza, sull’essenza degli oggetti. [...] Il sottinteso dell’intera poesia di Montale è una lotta drammatica del poeta con l’oggetto: per trovare, quasi, una giustificazione al vedere. Ma non sempre essa sbocca in una violenta dichiarazione delle cose: essa assume, prima di toccare questa fase “assertiva”, a cui tende sempre, una fase, lo si accennava, “descrittiva”. Già, il nominare e nominare le cose, un vero delirio di nominare; quel’impressione di gremito che non nasce tanto dai luoghi singolari quanto da intero il libro, corrispondono a una velleità di esercitare la conoscenza del mondo; a una presa di possesso dolorante, perciò ancora virtuale. I pericoli di questa poesia si specificano quindi in un “descrittivo” ingiustificato (designazioni superflue, di cose “non amate”), per un verso; e, per l’altro, in “interpretazioni” ingiustificate (ricerca del significato esplicito d’un oggetto linguisticamente infecondo). Pericoli? Ma li diremmo piuttosto: errori. E poi: quella parte della poesia di Montale che costituisce uno sfondo ancor disorganico, un impasto per così dire, prosastico, è prosastica, semmai, perché vi nascono, e non si decidono, troppi ritmi; perché vi abitano troppe cose. La sua stessa negatività ha un valore: non serve solo per risalto di quella “zona determinatissima” di genuina, e talora alta, lirica, ma se ne esprime un senso complessivo, di poesia in fieri. Non è né oratoria né sillogistica. È lo stesso tormento, la stessa
dall’idealismo dei grandi romantici (Vico, Hegel) al materialismo dialettico. È allora che la filologia si fa genealogia: nella critica del testo (codici originali e apografi), nella storia comparata, nella linguistica (lingua-madre e lingue-figlie). Che ogni trapasso successivo muova da una “riforma” filosofica, è pure evidente; chi volesse “derivare”, può divertirsi a scrivere la storia dei rapporti della neolinguistica col pensiero crociano; anche il fallimento di talune reazioni è dovuto a insufficienza speculativa» (G. Contini, Due frammenti di critica della critica, I. – Per un comparativista, in Id., Esercizî di lettura, p. 253).
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crisi teoretica in atto. Insomma: la non-poesia di Montale ha una faccia ben più positiva, significante, che non abbia la non-poesia d’un Leopardi221.
Piero Fossi, lettore e collaboratore, come si è visto, della «Rivista Rosminiana», fece conoscere a Montale l’articolo di Contini che lo riguardava. Montale ne rimase colpito e, nel giugno 1933, scrisse al giovane critico: «Raramente l’opera mia è stata esaminata con tanta intelligenza e tanto amore»222. Accennava poi, sobriamente, ad accenti nuovi che caratterizzavano la sua ultima produzione poetica. Più o meno contemporaneamente, Contini conosceva personalmente a Domodossola il marchese Fossi e lo ringraziava, peraltro, per questa sua opera di mediazione. Rispondendo dunque alla lettera di Montale, Contini insisteva sulla «crisi teoretica» rivelandone la portata autobiografica: Se il mio articolo non Le è spiaciuto, sono lietissimo; benché, a dirla con tutta franchezza, a me paia tremendamente arido e scolastico. Di meno arido c’è un fatto: nel rintracciamento di quella “crisi teoretica” c’è molta autobiografia. Se i critici e i lettori confessassero tutti i loro bovarysmi… ed è certo che quella “crisi” è tutt’altro che irresolubile: un “risorgimento”, come quello di cui Lei mi accenna, mi pare naturale, se non necessario223.
Il contatto epistolare portava a registrare una significativa sintonia tra i due interlocutori. Montale infatti rispondeva subito: Se passerò da Domodossola non mancherò di avvisarla. Lei ispezionerà il treno agitando un tomo… rosminiano in segno di riconoscimento. Sono passato di costì molte volte, andando in Svizzera. […] Mi ha parlato di Lei, molto simpaticamente, il Fossi, e ciò accresce il mio desiderio d’incontrarLa224.
In realtà il primo incontro avvenne a Firenze, nel marzo 1934. Ma nello stesso anno, in agosto, Montale ricambiò la visita, recandosi a
G. Contini, Introduzione a Ossi di seppia, ibid., pp. 82-3. Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, a cura di D. Isella, Milano 1997, p. 3. 223 Ibid., p. 6. 224 Ibid., p. 10. 221 222
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Domodossola, accompagnato dalla sua compagna Drusilla Tanzi, detta tra gli amici «la Mosca», che dopo qualche giorno si recò a Basilea. Contini presentò Montale a Padre Bozzetti e ottenne da lui che Montale stesso e la sua compagna, che già conosceva Piero Rebora, incontrassero al Calvario Clemente Rebora225. Da allora l’amicizia divenne sempre più forte e intima. Lo stesso Bozzetti, sia pure da lontano, ne fu partecipe. L’accenno continiano, nell’articolo su Montale, a una «crisi teoretica» anche sua è, certo, interessante: in questa chiave si può forse leggere l’avvio di collaborazioni, dal 1933, con altre riviste letterarie, come «Espero»226 di Garibaldi e Capasso e, soprattutto, «L’Italia letteraria» (nome assunto, dal 1929 al 1936, da «La Fiera letteraria» che, come si è visto, Contini già leggeva) di Angioletti, e poi, dal 1934, anche «Circoli»227, la rivista ligure fondata da Adriano Grande, ormai in orbita solariana. E tuttavia non si può dimenticare che proprio nel 1933-34 la collaborazione di Contini alla «Rivista Rosminiana» toccò il suo apice. Oltre al saggio montaliano si segnalavano, nel 1934, gli interventi su Saba e su Bonsanti228 e poi su Comisso229, in cui era sempre presente una qualche sporgenza gnoseologica230. Ma significativa era pure Ripa di Meana, Contini, Diligenza e voluttà, p. 34. Si pubblicò solo nel 1932-33, Contini vi pubblicò un intervento su Angioletti. 227 Su «Circoli» Contini scrisse pure nel 1935, 1937, 1939. 228 G. Contini, Scrittori moderni, «Rivista Rosminiana», 28, 1934, pp. 65-74: I. Tre composizioni, o la metrica di Saba (pp. 65-9); II. Bonsanti, o dell’attività pura (pp. 69-74). 229 Id., Scrittori moderni. I. Comisso 1933, ibid., pp. 227-9. Come già per altri autori (Moretti, Goethe-Mann) Contini era attratto da quella che gli appariva monodimensionalità: «Lo stile di Comisso importa invero una trascrizione dei fatti, una riduzione della materia sopra un’unica superficie senz’altre dimensioni, sì che il “fisico” e il “morale” affiorano insieme e confluiscono, prima d’una coscienza distintiva; non è tanto il trionfo dei sensi quanto d’un generale senso vitale, eccitato a ogni impressione» (ora in Contini, Esercizî di lettura, p. 188). 230 Nel saggio su Saba, forse volutamente ‘coperto’ e un po’ criptico, Contini osservava: «Egli riconosce le cose, ma alla distanza necessaria per goderle. I suoi giudizî esistenziali (per esempio, visivi) sono eudemonologicamente già ultimi e, parrebbe, beati. […] Il mondo di Saba si definisce per entità […] è un mondo fenomenologico» (G. Contini, Tre composizioni, o la metrica di Saba, in Id., Un anno di letteratura, Firenze 19462, p. 91). E concludeva: «Sono questi i luoghi dove Saba ha vinto un pari dei più difficili; superato, anzi, un assunto (almeno, a un bergsonismo estetico) poco meno che contraddittorio» (ibid., p. 97). A proposito della novellistica di Bonsanti affermava: «Riflessione (cioè natura “criticata”) e intuizione (cioè natura “preesistente”) 225 226
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una recensione a due libri ‘mistici’ pubblicati dall’editrice cattolica Morcelliana di Brescia: Aforismi e Poesie di S. Giovanni della Croce, della cui importanza Contini era ben avvertito, ma di cui egli non mancava di censurare, con un sintetico e tuttavia chiaro riferimento, la versione datane da don Giuseppe De Luca e la prefazione dello stesso231; l’altro testo era una Via alla Mistica del frate Francesco da Osuna, opera molto meno significativa, la cui pubblicazione tradiva, secondo Contini, un intento devozionistico più che culturale232. Era un modo sottile e indiretto per manifestare insoddisfazione circa il modo apologetico o semi-apologetico di promuovere la cultura cattolica, così come gli appariva dalla linea editoriale di questa collana della Morcelliana (Per verbum ad Verbum)233, cioè dalla prospettiva della «pietà» e della «mistica», sostenuta da De Luca e contigua al «Frontespizio» e a certo cattolicesimo papinianamente filo-fascista. Intanto, dal novembre del 1934, Contini era docente al liceo classico di Perugia, dove rimase per due anni, durante i quali però fu spesso a Parigi per congedi di studio. In questo periodo conobbe Aldo Capitini, a Perugia, ma stabilì pure importanti rapporti con Giorgio Pasquali e, ancorché meno intensi e partecipi, con Giulio Bertoni (anche attraverso costituiscono invero il doppio ritmo della sua novellistica […]. Tutto quel che s’è detto sarebbe poco meno che inutile, se non servisse a far riconoscere la natura “filosofica” della bellezza di Bonsanti» (G. Contini, Alessandro Bonsanti, o dell’attività pura. I. – Annuncio dei Capricci, in Id., Esercizî di lettura, pp. 214, 218). Sulla «scrittura» di Comisso affermava: «Rimane un puro schema, un mero modulo di conoscenza, pressoché anonimo e impersonale» (Contini, Comisso romanziere, p. 190). 231 Scriveva Contini: «Naturalmente alla “Morcelliana” va data molta lode per l’edizione d’un libro così interessante. Rincresce non poterne proprio concedere altrettanta alla prefazione e, soprattutto, alla versione» (G. Contini, recensione a S. Giovanni della Croce, Aforismi e Poesie e a Frate Francesco da Osuna, Via alla Mistica, «Rivista Rosminiana», 28, 1934, p. 160). 232 Scriveva: «Un autor mistico, in quanto tale, non si giustifica che per l’intensità delle descritte esperienze di quell’ordine che gli è proprio, gli sia consentita più o meno un’espressione diretta; oppure per il tentativo speculativamente serio di teorizzare, in universale, certi processi. Non è questo il caso per l’itinerarium del francescano Osuna. Comunque certe opere stiano nel “testo”, non si riesce a eliminare il sospetto che una loro versione debba rientrare in una sfera di pietismo» (ibid.). 233 Cfr. D. Gabusi, Collane Morcelliana, in Editrice Morcelliana. Catalogo storico 1925-2005, a cura di D. Gabusi, Brescia 2006, p. 351; M. Marcocchi, La nascita della casa editrice Morcelliana, ibid., p. 29.
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la mediazione dell’amico Carlo Calcaterra)234. Nel 1937 si recava pure settimanalmente a Pisa per un incarico di Letteratura francese alla Facoltà di Lettere, avendo amichevoli frequentazioni con Luigi Russo. Subito dopo, venne «comandato alla Crusca» a Firenze. In questo periodo i contatti con la «Rivista Rosminiana» andarono allentandosi, ma – in qualche modo – erano sempre riconosciuti come significativi, da entrambe le parti. Una certa soluzione di continuità si ebbe solo dall’agosto 1938, quando il giovane studioso fu chiamato alla cattedra di Filologia romanza di Friburgo235. 2.3. Il 1935 segnava già, tuttavia, una qualche discontinuità sia per la «Rivista Rosminiana» sia per Contini. In quell’anno, Bozzetti era eletto Preposito Generale dell’Istituto della Carità236 e perciò si spostava a Roma. Contini mantenne tuttavia con lui un rapporto molto stretto: tra il dicembre 1935 e il gennaio 1936 gli scriveva tre lettere237, che dimostravano grande affetto e sincera gratitudine, chiedendogli un interessamento per il concorso in diplomazia di Andrea Marangoni, figlio dello storico dell’arte Matteo Marangoni e di Drusilla Tanzi, «la Mosca» amica di Montale. Non sono conservate le lettere di risposta di Bozzetti, ma il Padre accolse la richiesta. Poco dopo l’elezione di Bozzetti a Generale, sempre nel 1935, moriva il direttore della «Rivista Rosminiana» Camillo Viglino238. Il 16 gennaio 1936 da Domodossola, Contini scriveva a Bozzetti: «Ier l’altro è stato
234 Cfr. F. Mella Calcaterra, Calcaterra-Contini: storia di una lunga amicizia, «Microprovincia», 35, 1997, pp. 215-22. 235 Così lo stesso Contini avrebbe riassunti i passaggi-chiave della sua biografia di quel periodo: «Il ginnasio e il liceo presso i Rosminiani a Domodossola, Lettere a Pavia quattro anni, poi un anno di perfezionamento a Torino, poi alcuni anni di perfezionamento a Parigi; nello stesso tempo vincevo la cattedra di liceo a Perugia, e quindi facevo un po’ il pendolo tra Perugia e Parigi fino al ’38, anno in cui venni trasferito, come comandato, all’Accademia della Crusca, e passai dunque a Firenze, da Perugia, andando tutte le settimane a Pisa perché gestivo l’incarico di letteratura francese alla facoltà di Lettere. Poi, nell’ottobre del ’38, fui nominato professore a Friburgo, Svizzera, dove stetti fino al ’52-’53» (Ripa di Meana, Contini, Diligenza e voluttà, p. 125). 236 Cfr. C. Viglino, L’antico e il nuovo Preposito Generale dei Rosminiani, «Rivista Rosminiana», 29, 1935, pp. 68-70. 237 ASIC, A.G. 101, nn. 89, 87, 88. 238 Cfr. Camillo Viglino Direttore di questa Rivista ha lasciato la terra!, «Rivista
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qui a Domo l’avv. Ghiglione, che cercava di Lei. Ha potuto vedere solo don Gaddo. Credo che Le scriverà per chiederle l’autorizzazione ad assumere lui la Rivista Rosminiana; lasciando naturalmente ad altri, che Lei designerebbe, di sorvegliare la parte filosofica della rivista»239. In effetti la direzione del periodico venne assunta da Giulio Cesare Ghiglione, che peraltro la mantenne solo per un anno. Contini, del resto, era ormai pendolare tra Perugia e Parigi (e Domodossola) ed era sempre più preso dai preminenti interessi per la filologia romanza. Dopo aver ottenuto il passaporto si recava, per un breve soggiorno, a Parigi nel dicembre 1935 e ne scriveva a Bozzetti. Forse in qualche modo voleva spiegare, se non proprio giustificare, questa sua scelta esterna ed estera al Padre rosminiano. Il 30 gennaio 1936 gli scriveva infatti da Domodossola: «Non posso dirLe se sarò qui tra l’11 e il 20. Temo. […] D’altra parte il Collegio nonostante qualche acquisto del buon Antognini, non è attrezzatissimo per la filologia romanza… E i miei proprî manuali sono, per lo più, “ferri del mestiere”, cioè forma senza contenuto»240. Qualche mese dopo, il 22 ottobre, scrivendogli da Perugia – e chiedendogli un interessamento presso il ministro per sapere se per la cattedra di italiano e latino al liceo Dante di Firenze, la cui vacanza gli era stata segnalata da Luigi Russo, esistevano già candidature ‘forti’ – diceva di sé: «delle mie faccende pratiche non mi sento più sicuro, nel senso che non me n’interesso più in modo da formulare altrettante idee chiare e distinte». Ed era quasi un’allusione al rosminiano ‘principio di passività’, che doveva suonare gradito al Padre Rosminiano. Gli accenti, tuttavia, non erano propriamente ascetici e, nella chiusa della lettera, Contini aggiungeva: «Non mi sento d’impegnarmici. E la secchezza di questa lettera, come di quelle che ho scritto in questi giorni alle persone cui voglio bene, non lascerà dubbî, credo, ai destinatarî sulla psicologia dell’“interessato”. Non, in particolare, sul devoto affetto (molto bisognoso del Suo aiuto)»241. In ogni caso, Contini diradava, come si è accennato, le collaborazioni alla «Rivista Rosminiana»: soprattutto non la eleggeva più come sede nella
Rosminiana», 29, 1935, p. 241; G. Bozzetti, Camillo Viglino, «Rivista Rosminiana», 30, 1936, pp. 4-22. 239 ASIC, A.G., 101, n. 87. 240 ASIC, A.G., 101, n. 88. 241 ASIC, A.G., 101, n. 100.
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quale fare uscire i suoi contributi di critica militante; la collaborazione continuò unicamente su registri storico-letterari. Nel 1935 la sua firma sembrerebbe, addirittura, non comparire sul periodico. In realtà egli vi pubblicò una sintetica scheda (che non appare nelle bibliografie continiane). Vi recensiva l’edizione critica dei rimatori bolognesi del XIII secolo, a cura di Guido Zaccagnini, richiamando l’attenzione sul problema della lingua: I rimatori bolognesi del ’200 sono uomini di capacità e di gusto molto disparati, e quasi può dirsi che appartengano a civiltà poetiche diverse [...]. Il criterio geografico di raccolta, in questo come in casi consimili, ha pertanto un mero significato linguistico. Si tratta di stabilire se e quanto il linguaggio adoperato abbia reagito al contatto col substrato del dialetto originario242.
I fronti di distanziamento, ma non direi di fuoriuscita, dalla «Rivista Rosminiana» mi appaiono principalmente due: da una parte, il congedo dall’ungarettismo e, in forma più mediata, dall’ermetismo, con l’aprirsi dell’attenzione verso Gadda e verso la scoperta dell’espressionismo o, meglio, verso una sua personale visione di espressionismo; dall’altra, attraverso l’amicizia con Capitini, un interesse di tipo nuovo per l’idealismo, in particolare per l’attualismo «di sinistra», che guardava con rispetto a Croce. E proprio Croce Contini incontrava personalmente nel 1937. Sul primo fronte fu certo significativo l’approdo di Contini, nel 1934, probabilmente anche con la mediazione di Montale, a «Solaria» (proprio nel momento in cui la rivista, prendendo come modello «Esprit»243, accentuava il suo carattere di fronda rispetto al conformismo fascista e subiva così un sequestro): con gli interessanti interventi su Gadda e, con tono che sembrerebbe programmatico, su Cardarelli244. Proprio il carattere quasi neo-rondista di quest’ultimo intervento ci fa capire perché Contini accompagni poi la ‘diaspora’ dei
G.C[ontini], recensione a I rimatori bolognesi del secolo XIII, edizione critica a cura di Guido Zaccagnini, Milano 1933, «Rivista Rosminiana», 29, 1935, p. 202. 243 Cfr. A. Bonsanti, Vent’anni di «Letteratura», «Il Mondo», 10, 1, 1958, pp. 9-10. 244 G. Contini, Carlo Emilio Gadda, o del “pastiche”, «Solaria», 9, 1, 1934, pp. 69-74; Id., La verità sul caso Cardarelli, «Solaria», 9, 3, 1934, pp. 63-70. 242
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solariani che seguirono Bonsanti e diedero vita a «Letteratura»245 (non dunque la diversa via, più ideologicamente impegnata, di «La Riforma Letteraria» di Carocci e Noventa). Su tale rivista egli scrisse dal primo numero, nel 1937, pubblicando la famosa stroncatura del francese ‘macaronico’ dannunziano, che – com’è noto – piacque a Croce (e un po’ meno a Bargellini)246. Ma non è un caso che la polemica con Croce, che Ferrata avrebbe di lì a poco sviluppato sulla rivista247, rimarcando l’impossibilità crociana di aderire ai testi, avrebbe utilizzato più d’uno spunto di ascendenza continiana. E ancora dopo, sulla stessa rivista, Fossi e Capitini avrebbero ripreso, su basi non certo crociane, questioni di teoria della critica248. Sul secondo fronte, il rapporto con Capitini ebbe una decisiva influenza. Forse i versi continiani del 1936, Trasfigurazione di un liceo («un galoppar di zoccoli per le aule/ si sfrenava [...]/ Squittiva Kant: indarno [...]/ tutto un liceo trasportato nel ferro/ battuto sogguardava: un riso»)249, metaforizzavano una esistenziale trasfigurazione del suo rosminianesimo ‘liceale’ domese nel proprio magistero al liceo di Perugia, cioè in un più maturo sentimento. L’attualismo religioso di Capitini certamente vi giocò un ruolo profondo250: non si trattava più di essere anti-gentiliani senza poter essere post-gentiliani. Vi era ora una lettura gentiliana ‘altra’ che, come l’attualismo «di sinistra», appariva più crocianamente concreta: e tuttavia da una parte, a differenza del
245 Sempre utile G. Ferrata, «Solaria», «Letteratura» e «Campo di Marte», in AA.VV., L’Otto-Novecento, Firenze 1957. 246 Il 25 gennaio 1937, Bargellini, riferendosi al primo numero di «Letteratura», scriveva a Bo: «Han fatto una brutta imitazione di “Measures”! […] Anche a Roma ci ridono sopra. […] Per il contenuto sento dire che vale soltanto il tuo articolo e il corsivo di Bonsanti e, in parte, lo studio del Contini» (L. Bedeschi, Il tempo de ‘Il Frontespizio’. Carteggio Bargellini-Bo: 1930-1943, Milano 1989, p. 209). 247 G. Ferrata, Benedetto Croce, «Letteratura», 5, gennaio 1938, pp. 127-35; 6, aprile 1938, pp. 119-37; 7, luglio 1938, pp. 119-42. 248 Cfr. P. Fossi, Giudizio critico e interpretazione artistica, «Letteratura», 12, ottobre 1939, pp. 27-36; A. Capitini, Classicità e spirito moderno, «Letteratura», 16, ottobredicembre 1940, pp. 160-4. Ma cfr. anche P. Fossi, Rosmini e Manzoni, «Letteratura», 22, aprile-giugno 1942, pp. 15-29. 249 G. Contini, Trasfigurazione di un liceo, ora in «Microprovincia», 35, 1997, p. 249. 250 Cfr. Un’amicizia in atto. Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Aldo Capitini, a cura di A. Chemello, M. Moretti, Firenze 2012 (con importante saggio introduttivo).
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laicismo di Spirito e di Calogero, manteneva la tensione religiosa del gentilianesimo ma la sviluppava in una «religione aperta», dall’altra mostrava un evidente approccio personalistico. Tematiche quali «il peccato come problema di umiltà» o «al centro dell’agire sono persone»251 potevano avere echi e assonanze rosminiane. Ma accanto a una recezione rosminiana aperta del gentilianesimo capitiniano era il rosminianesimo continiano che si sviluppava, essendo assunto come modello esemplare di una religione aperta. In altri termini, Contini non aderiva alla religione aperta di Capitini, ma il suo rosminianesimo era progressivamente ripensato e vissuto da lui come una religione aperta: non un’immanentizzazione in senso crociano, ma una sorta, per così dire, di metaforizzazione dei vincoli confessionali. È peraltro significativo che, nel 1935, nella conferenza tenuta a Strasburgo su Michelangelo, Contini posizioni ancora il suo approccio critico sul piano dell’oggettività, cioè del rosminiano «essere ideale» (richiamando peraltro in positivo la lettura sullo «sforzo» di Michelangelo data da Giovanni Amendola): Ora, io credo proprio che il gusto sia qualcosa d’oggettivo; mentre, per esempio, penso che in linea di principio lo scopo della filologia non sia di giungere a ricostruire naturalisticamente la lezione originale d’un testo, ma che si debba riconoscere in essa un’operazione strettamente teorica, penso altresì, nella sede opposta, che la poesia sia oggetto necessario di constatazione, e che a queste identificazioni basti invitare. Sto con chi crede che il gusto sia oggettivo, e perciò si espone volentieri perfino al rischio di sembrarne il sacerdote infallibile, affidato alle sue qualità mistiche. Ma si scarica sempre, delle sue responsabilità, sopra oggetti252.
Nello stesso 1935, Contini scriveva su «Circoli» un articolo molto critico verso Papini e Giuliotti253. Nel 1936, il giovane filologo era spesso a Parigi (dove in luglio ebbe
Poi confluite in A. Capitini, Note di etica e di religione, «Rivista di Filosofia», 30, 1939, pp. 324-32. 252 G. Contini, Una lettura su Michelangelo, in Id., Esercizî di lettura, p. 324. 253 Id., Appunti per una descrizione dell’uomo cattedrale, «Circoli», 5, 2, 1935, pp. 208-14. «Antipatica tirata contro Papini e Giuliotti» la definiva Bargellini scrivendo a Bo il 25 aprile 1935 (Bedeschi, Il tempo de ‘Il Frontespizio’, p. 187). 251
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la visita sia di Andrea Marangoni sia del Padre Bozzetti: «è arrivato qui, improvvisamente, – scriveva a Cecchi – il giovane Andrea Marangoni; poi, tra stasera e domani, devo scarrozzare il generale dei Rosminiani»)254, ma anche a Perugia. E proprio dal capoluogo umbro, il 15 dicembre 1936, scriveva al Padre Bozzetti con accenti che mostravano il suo personale interessamento per il rosminianesimo e per la sua immagine pubblica, sul piano del dibattito culturale nazionale. Dal 23 al 26 novembre, infatti, vi era stato a Roma il II Congresso tomistico internazionale. Contini, dunque, informava il Generale rosminiano: nel primo numero, ora uscito, di Meridiano di Roma (settimanale che succede all’Italia letteraria) vedo un articolo di Siro Contri sul congresso tomistico, nel quale è detto che non era rappresentata la corrente rosminiana (su cui si promette un articolo successivo, forse nel numero che sta per uscire). Non so se valga la pena di mandare una rettifica: comunque Le segnalo la cosa. Lei potrebbe semmai mettersi in relazione con uno dei direttori, che è amico mio e di don Biagioni, e so che vorrebbe conoscerla: il dr. Giacomo Debenedetti255.
Nel 1936, tuttavia, si ebbe pure un significativo passaggio che voleva forse quasi configurarsi come una ‘dissolvenza incrociata’. Da una parte Contini pubblicò sulla «Rivista Rosminiana» (oltre a interventi di poco conto: una traduzione dal tedesco di un commento ai primi cinque volumi dell’Edizione Nazionale delle opere di Rosmini256, due recensioni)257
L’onestà sperimentale, p. 31. ASIC, A.G., 101, n. 99. Come è stato osservato, Debenedetti «Fu amico di cattolici, scrittori e sacerdoti: il liberale Angelini e lo scomunicato Buonaiuti. Nella memoria di famiglia restano tra i suoi interlocutori, il parroco di Cantalena (durante l’esilio cortonese) e un don Biagioni frequentatore della casa romana» (P. Frandini, Il teatro della memoria. Giacomo Debenedetti dalle opere e i documenti, Lecce 2001, p. 293). 256 G. Schwaiger, Un commento tedesco ai primi cinque volumi dell’Edizione Nazionale (Dalla Deutsche Literaturzeitung del 10 maggio 1936, col. 784-91), «Rivista Rosminiana», 30, 1936, pp. 171-5. 257 G. C[ontini], recensione a Edoardo Firpo, Fiore in to gotto (introduzione di Eugenio Montale), Genova 1935, «Rivista Rosminiana», 30, 1936, pp. 175-6; Id., recensione a Ernest Hoepffner, Les Lais de Marie de France, Paris 1935, ibid., pp. 177-8. Nella seconda colpiscono alcune notazioni di carattere ‘sociologico’ inconsuete sotto la penna di Contini: «spiriti borghesi», «fondamentale borghesismo», la «borghese 254 255
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un emblematico articolo su Claudel258. Dall’altra, nello stesso anno, compariva sulla rivista un saggio di Carlo Bo su Maritain259: il tema potrebbe far pensare a un certo avvicinamento con gli ambienti montiniani, che in effetti, in qualche misura, da quegli anni si ebbe260 (soprattutto per la mediazione di Bozzetti); l’autore, invece, apparteneva a un ambito letterario vicino a Contini. Contini, dunque, offrì la sponda della «Rivista Rosminiana» a Bo, che, in qualche modo, cercava un approdo per realizzare la fuoriuscita dal «Frontespizio». I disagi del gruppo cattolico degli ermetici, gli «arcanisti» ospitati con qualche borbottio nella rivista fiorentina di Bargellini261, erano emersi fin dalla polemica di Papini, nel 1934262, circa la loro oscurità. Ma proprio l’articolo su Maritain costituì un caso emblematico263. Il filosofo neotomista francese non spiaceva a Bargellini e ai frontespiziani: Bo, che lo aveva conosciuto a Parigi, ne stava traducendo un’opera264. Pertanto, all’uscita di un nuovo libro di Maritain (Frontières de la poésie), nel 1935, Bargellini chiese a Bo di parlarne sul «Frontespizio»265 (e per questo ebbe i ringraziamenti di Maritain)266. L’articolo fu consegnato da Bo in settembre. Ma intanto si seppe che Maritain aveva firmato il Manifesto della sinistra cattolica
insistenza e mania dell’abate» (G. Contini, Su Marie de France, in Id., Esercizî di lettura, pp. 280-2). 258 G. Contini, Le Conversations di Claudel, «Rivista Rosminiana», 30, 1936, pp. 247-51. 259 C. Bo, Nota su Maritain, ibid., pp. 239-46. 260 Comparve, tra l’altro, la firma di don Primo Mazzolari: P. Mazzolari, recensione a G. Astori, Corrispondenza inedita tra Mons. Geremia Bonomelli e Tancredi Canonico, Brescia 1937, «Rivista Rosminiana», 32, 1938, pp. 150-3. 261 Cfr. C. Bo, Non fu del tutto inutile il lavoro di un ventennio, «L’Europeo», 22, 21, 1966, p. 84. 262 G. Papini, Ingenuità sulla poesia, «Il Frontespizio», 6, 6, 1934, pp. 3-4. 263 Cfr. più in generale G. Langella, Da Firenze all’Europa. Studi sul Novecento letterario, Milano 1989. 264 Cfr. J. Maritain, San Tommaso d’Aquino, Siena 1936. 265 Bedeschi, Il tempo de ‘Il Frontespizio’, pp. 190-1: Bargellini glielo propose il 24 agosto e Bo accettò il 26 agosto. 266 Ibid., p. 193.
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francese contro l’imperialismo italiano in Etiopia267. Il 28 ottobre 1935 Bargellini scrisse allora a Bo: Non ti meravigliare se ancora non è uscito sul “Frontespizio” il tuo articolo su Maritain. Il Maritain ha cretinissimamente firmato un idiotissimo manifesto contro l’Italia, in compagnia di Du Bos, Mauriac e Gide! Slombati masturbatori, impotenti angelici finocchi! Queste parole – lo so – saran per te dolorose, ma tu sai che non ho mai avuto simpatia per codesta gente, escluso forse Maritain che mi è caduto di mano quando ho visto che fa fare la poetessa a sua moglie: certo, perché non le ha saputo far fare figlioli (scusandomi di tutte queste effe che sembrano una locomotiva sfiatata). Insomma bisogna che l’articolo faccia un po’ di quarantena prima di apparire268.
Bo gli rispose due giorni dopo: «lo pensavo. Fa come credi meglio. Ma hai letto il Manifesto? io sì, e contro l’Italia non c’è una parola. […] Del mio articolo non m’importa nulla. Se non vuoi pubblicarlo, rimandalo. Lo darò a qualchedun altro»269. In novembre «Il Frontespizio» per la penna di Guido Manacorda polemizzava contro i francesi. L’articolo giungeva, dunque, alla «Rivista Rosminiana» con questo segreto antefatto antifascista che Contini probabilmente conosceva. Del resto, egli, proprio mentre personalmente si staccava dall’ermetismo, dovette pensare che tale riferimento, in un più generale senso criticoreligioso, si adattasse ancora bene alla «Rivista Rosminiana». Contini dunque propiziò la collaborazione al periodico di figure come Carlo Bo e Oreste Macrì270 e, probabilmente, pure di Giovanni Macchia271. In 267 Cfr. Les intellectuells français et la guerre d’Ethiopie. Trois manifestes, «Vie Intellectuelle», 1935, pp. 259-65. 268 Bedeschi, Il tempo de ‘Il Frontespizio’, p. 194. 269 Ibid., p. 196. 270 C. Bo, De la foi (1834). (A proposito del pensiero religioso di Sainte-Beuve), «Rivista Rosminiana», 31, 1937, pp. 216-27; O. Macrì, Commento ad Alfonso Gatto, «Rivista Rosminiana», 32, 1938, pp. 195-205. Ricordava Bo: «Mi invitò a collaborare alla Rivista rosminiana, aveva studiato a Domodossola ed era rimasto amico di quei monaci» (Bo, L’amico Gianfranco Contini, p. 7). E Macrì: «Contini raccomandò un mio studio su Alfonso Gatto alla “Rivista Rosminiana”, dell’ordine che gli era affettivamente molto caro» (Macrì, Note, p. 18). 271 G. Macchia, Quattro poetesse del cinquecento, «Rivista Rosminiana», 31, 1937, pp. 152-7.
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qualche modo passava a loro il compito di mantenere il tono culturalletterario della rivista, che egli stesso aveva impresso, ma dal quale si stava allontanando. Ecco perché ho parlato di una possibile ‘dissolvenza incrociata’: che però non si realizzò. Quello di Bo e di Macrì non fu infatti un approdo organico e duraturo. In realtà essi cercarono un’altra soluzione: dopo l’intervento-manifesto di Bo, Letteratura come vita, nel 1938272, in polemica con Betocchi273, gli ermetici cattolici, che fino ad allora erano stati compagni di strada del «Frontespizio», compirono il passaggio a «Campo di Marte» (che si pubblicò dall’agosto 1938 all’agosto 1939). Nel 1936, come si è detto, giusto a stretto giro di pagina, usciva sulla «Rivista Rosminiana» l’articolo di Contini su Claudel, dopo quello di Bo su Maritain. Nel suo intervento, Contini cercava di superare «l’impressione sgradevole che, a prima vista e innanzi a tanto ingombro, uno può provare», ancor più perché il francese non tentava «di scendere per la via matematica dei corollarî, stretta e piena di rinunzie, e di assumere pian piano le fila in un tessuto rigoroso quanto esclusivo»274. Ma, insomma, questo sforzo in positivo di Contini gli riusciva solo in parte e unicamente su un piano estrinseco e descrittivo275. Si poteva forse solidarizzare con lo snobismo di C. Bo, Letteratura come vita, «Il Frontespizio», 10, 9, 1938, pp. 547-60. C. Betocchi, Della letteratura e della vita, «Il Frontespizio», 10, 8, 1938, pp. 471-5. 274 Contini, Le Conversations di Claudel, p. 239. 275 Scriveva Contini: «Claudel mostra, insomma, in atto l’organizzazione del Paradiso: e che il contenuto del suo libro sia intessuto di tutt’i problemi della convivenza e indirizzi la società umana verso una Chiesa nel medesimo piano di natura, importa meno; o vuol dire che la tecnica, e lo stile, accusa e libera ad usura tutta la psicologia» (ibid., p. 238). E ancora: «Claudel prende il suo argomento dove l’uomo contemporaneo, figlio della così detta civiltà meccanica, si propone il problema della convivenza, e l’accompagna fino a quando, minuziosamente conosciuta la terra (con l’automobile e l’aeroplano), l’abilita a fare la volontà di Dio e attua una “Église catholique coextensive avec la planète”. La chiave del suo metodo è la metafora. Ancora come in una Francia anteguerra, un poco al modo dei mystères di Péguy, le cose mondane valgono insieme quali oggetti e quali creature di Dio, e la gamma di sensazioni che provocano non si distingue dal loro soprasenso; è il metodo che offre dopo il medio evo le prime nuove possibilità all’anagogia cattolica: quel quarto senso delle scritture che, come insegna Dante nel Convivio, spetta ai Novissimi e alle “superne cose de l’etternal gloria”. Dove l’allegorista medievale spaccava in due l’universo, faceva del pianeta un “doppio” pedagogico di 272 273
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Claudel in quanto ‘turistico’ e ‘geografico’. Ma il suo tentativo di una cristianizzazione ideale perfettamente complanare a tutta la realtà richiedeva una metaforizzazione di secondo grado, più totalizzante di ogni metaforizzazione critica continiana, un’allegoria-spettacolo. Ma era, allora, una metaforizzazione «a sostrato ignoto», che infine distruggeva il traslato, cioè la sua stessa contrastata verità, per chiudersi soddisfatta in pace nel cerchio magico di una vitalità monodimensionale e superficiale (e perciò falsa): un’allegoria reificata e incoerente, quasi un’impossibile escatologia terrestrizzata. Nonostante tutta la buona volontà il bilancio era perciò in negativo: A qualcuno codesto edonismo razionale, codesto sensualismo teologico potrà spiacere come estetizzante; ma è un fenomeno di gusto resistente, e da contarci, storico […] Lanciando ponti dalla geografia alla teologia, Claudel estende la religiosità dalla natura ai visitatori della natura: negando una differenza sostanziale fra i pellegrini e gli alpinisti, fra le abluzioni purificatorie e i bagni di mare. Per farsi creazione evidente, lode del Demiurgo, la Terra non ha da essere traslata in un mondo metafisico, ma semplicemente: apparecchiata con autostrade, con punti geodetici, belvedere: vista snodarsi nelle grandi velocità, appiattirsi, farsi cromatica dalle alte quote. La Terra è uno strumento che reagisce, risuona più e meno della Divinità […]. Il fatto è che il cristianesimo come pratica aspra è il sottinteso tradizionale e ovvio, e che, assetato di sintesi vitali, Claudel s’è divorata anche questa contraddizione. Ecco ancora l’ultimo contrasto che si compone in pace276.
Contini manteneva, nella propria visione cristiana, l’ascetica, nella sua asprezza, cioè nella sua autenticità di combattimento spirituale interiore: un senso rosminiano, rigoroso, severo e austero, senza estetismi frivoli. La nuova «anagogia cattolica» in terra di Francia, nel tragitto da Péguy a Claudel, s’era dunque persa in una superficialità ambigua e, in realtà, insieme confessionale e blasfema: né Rosmini né Capitini. È da ricordare che, nel 1937, «Il Frontespizio» attaccava ancora
convenzioni cifrate, nel poeta moderno il mondo non fa se non esprimersi, porta il suo significato come un’offerta a Dio» (ibid., pp. 240-1). 276 Ibid., pp. 242, 244-5.
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Maritain, ora per le sue posizioni sulla guerra di Spagna277. Inoltre si schierava contro i repubblicani spagnoli attraverso una pagina di quel Claudel278 che pure Bargellini non aveva mai apprezzato (definendolo un «gorilla cattolico»)279. E non è un caso se, nello stesso anno, sul primo numero di «Letteratura», assieme, come si è visto, alla firma di Contini, appariva quella di Bo, che meditava appunto su Claudel280, distanziando la propria posizione di fede, travagliata se non dubbiosa, agostinianamente inquieta e pascalianamente contrastata, da quella monumentale e trionfale del convertito francese. Sempre nel 1937, come si è già accennato, Luigi Russo si adoperava con successo, rivolgendosi a Gentile, affinché Contini ottenesse l’insegnamento di «Lingua e letteratura francese» all’Università di Pisa. A proposito di Contini, il 16 luglio 1937, Russo scriveva a Gentile: Egli capita spesso a Firenze e io ci discorro con vero piacere. È un po’ un tipo di ingegno alla Pasquali, dottissimo, ma con spina dorsale che il nostro amico Pasquali purtroppo non ha. Ed è sicuramente giovane di largo avvenire. […] Egli, se Lei desidera conoscerlo, sarebbe disposto a fare una corsa a Forte dei Marmi281.
E il 27 luglio, Contini scriveva la sua prima lettera a Gentile rilanciando la proposta di visita: «Se per caso venissi un giorno a Forte dei Marmi, potrei aver l’onore di essere ricevuto da lei?»282.
Boccamara, Giacomo Maritain «va sauver» la Spagna, «Il Frontespizio», 9, 6, 1937, p. 466. Qualche tempo prima era uscito un non negativo ma esile e incolore ritrattino: C. Pavolini, Ritrattino di Maritain, «Il Frontespizio», 9, 2, 1937, p. 128. Anche don Giuseppe De Luca non aveva in simpatia Maritain: si veda l’accenno nella lettera a Bo del 23 agosto 1939: C. Bo, G. De Luca, Carteggio 1932-1961, a cura di M. Bruscia, Roma 1999, p. 193. Per motivi opposti anche Curzio Malaparte, nel 1940, su «Prospettive», criticava l’influenza maritainiana su Bo e sui suoi amici. 278 P. Claudel, Ai martiri spagnuoli, «Il Frontespizio», 9, 9, 1937, pp. 689-93. Cfr. anche R. Roncuzzi, Lettera dal fronte, ibid., pp. 694-6. 279 Cfr. Bedeschi, Il tempo de ‘Il Frontespizio’, pp. 146, 154, 157, 203-4, 212. 280 C. Bo, Meditazione su Claudel, «Letteratura», 1, 1, 1937, pp. 112-28. 281 Luigi Russo e Giovanni Gentile 1913-1914, a cura di R. Pertici, A. Resta, Pisa 1997, p. 274. 282 Fondazione Giovanni Gentile (Roma), Fondo Giovanni Gentile, serie 1: Corrispondenza, sottoserie 2: Lettere inviate a Giovanni Gentile, Corrispondenti: C, 277
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Vi era, insomma, almeno sul piano delle relazioni personali, un avvicinamento di Contini ai gentiliani di sinistra (nel 1938 egli avrebbe cominciato a collaborare a «La Nuova Italia» di Codignola). Nel 1938 era stato annesso all’Accademia della Crusca un Centro di studi di filologia italiana, presieduto da Luigi Foscolo Benedetto: Gentile, dunque, con la collaborazione di Barbi, vi chiamò, come comandato, Contini, insieme a Vittore Branca. Il rosminianesimo, del resto, non mancava ormai di consacrazioni ufficiali, almeno nell’ambito filosofico nazionale. Al Congresso nazionale di filosofia di Napoli, del 1937, Bozzetti tenne una comunicazione sull’arte vista in senso rosminiano283: Gentile cominciò a intensificare i rapporti con lui284. Nel 1937 Dante Morando assumeva la direzione della «Rivista Rosminiana» e si presentava ai lettori: Chi ci segue da vicino sa che il nostro periodico è sorto collo scopo di diffondere, con cattolica lealtà, i profondi veri dello spiritualismo cristiano nel campo della filosofia, della scienza e delle lettere, inserendosi in quella corrente culturale che in filosofia si riallaccia al nome di Antonio Rosmini e in letteratura ha il proprio magnifico rappresentante in Alessandro Manzoni285.
b. 35, n. 1560: lettera di Contini datata Domodossola 27 luglio [1937]. Per le vicende legate al comando a Firenze si vedano pure le due lettere di Contini a Gentile, del 3 settembre e del 25 novembre (senza anno). 283 Tale comunicazione fu ulteriormente sviluppata e poi pubblicata: Cfr. G. Bozzetti, L’opera d’arte e le tre forme dell’essere, «Rivista Rosminiana», 32, 1938, pp. 3-19. 284 È emblematico il caldo e umanissimo necrologio che la «Rivista Rosminiana» pubblicò per la morte di Gentile: «La guerra fratricida ha fatto un’illustre vittima il 15 aprile in Firenze nella persona del filosofo Giovanni Gentile. […] In questi ultimi tempi il Gentile fu in visita alla Casa Rosminiana di Stresa, interessandosi vivamente ai cimeli di colui ch’egli considerava ormai “uno dei suoi Santi, uno dei suoi pochi Santi”; favorì la promozione d’ufficio alla cattedra universitaria del P. Giuseppe Bozzetti, generale dei Rosminiani; ospite nella Casa rosminiana di S. Giovanni a Porta Latina in Roma, sempre più da vicino si abbeverava alla fonte scaturita tra le rocce e i monti di Rovereto. […] Auguriamoci che la sincerità delle sue affermazioni, se non la loro esattezza, trovi in Quei che volentier perdona un giusto estimatore. E auguriamoci, in più, che la sua mente susciti sempre fra gli italiani l’orrore verso il fratricidio, la guerra civile, l’anarchia» (Giovanni Gentile, «Rivista Rosminiana», 38, 1944, pp. 158-9). 285 Il Direttore, Ai lettori, «Rivista Rosminiana», 31, 1937, p. 3.
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Le parole erano di continuità, ma il tono appariva un po’ stancamente tradizionale, forse pure ripetitivo, senza slanci sperimentali e non esente da cadute apologetiche. Tra l’altro la rivista volle – o forse dovette – fare i conti con il razzismo, introdotto in Italia: ma lo fece in modo piuttosto maldestro, se non ambiguo286, affidandosi soprattutto a un patologo medico che cercava di abbozzare una sorta di «eugenetica spiritualistica» (cioè non fisico-biologica)287. E l’approccio spiritualistico portava l’attenzione su Gentile, sia vedendolo come ultimo, estremo e irreversibile esito dell’immanenza idealistica (parallelamente, si direbbe, ad analoghe letture da parte di Gustavo Bontadini) sia valorizzandone gli «aspetti profondamente umani»288. Mentre una certa freddezza si aveva per Croce (perfino quando non poté non dirsi cristiano)289. Contini manteneva i contatti con la rivista, ma, potremmo dire, sempre più si defilava. In quell’anno vi pubblicava, come si è visto, un testo francescano, ritrovato nella biblioteca del Calvario290, e un più impegnativo intervento su Michelangelo291, che era però il testo della già ricordata conferenza, tenuta due anni prima a Strasburgo. Piuttosto un rosminianesimo sui generis e, soprattutto, un rosminianesimo extra moenia poteva essere l’articolo su Rebora, apparso su «Letteratura» nel 1937: era, naturalmente, il Rebora vociano, il poeta che rappresentava, per Contini, l’aspetto positivo del vocianesimo (a differenza di Campana). Vi era una valutazione con nuovo accento della tradizione illuministica lombarda, ma di un illuminismo che sentiva l’esigenza
Cfr. Rosmini e il razzismo, «Rivista Rosminiana», 33, 1939, pp. 285-6: si rifà a un articolo di Paolo Barale. Non proprio felice e pressoché fuori tempo appare anche C. Gray, Attualità rosminiane nel pensiero di Benito Mussolini, «Rivista Rosminiana», 37, 1943, pp. 32-6 (nello steso numero, alle pp. 9-11, usciva anche l’articolo continiano Una pagina rosminiana di Giovanni Faldella). 287 Cfr. C. Gennari, Eredità spirituale, «Rivista Rosminiana», 32, 1938, pp. 104-14; Id., Le Razze in rapporto all’Eredità, «Rivista Rosminiana», 34, 1940, pp. 68-79. 288 Cfr. L. Bazzani, Sull’attualismo gentiliano, «Rivista Rosminiana», 32, 1938, pp. 124-35. 289 Cfr. G. Pusineri, Da B. Croce ad A. Rosmini: Chi propriamente può e deve dirsi cristiano e perché, «Rivista Rosminiana», 37, 1943, pp. 74-84. 290 Contini, Un pianto latino, pp. 58-61. 291 G. Contini, Il senso delle cose nella poesia di Michelangelo, «Rivista Rosminiana», 31, 1937, pp. 286-302. 286
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religiosa e aveva letto Croce292. L’etica reboriana era ancora storicistica – l’idea non si distingueva dal lavoro – ma di uno storicismo interpretato con sentimento di intuizionista293. E la conclusione dell’articolo mostrava un Rebora continiano: cioè il primo Rebora, il Rebora prerosminiano, valorizzato rosminianamente, quasi – si direbbe – come un anti-Claudel: Esiste una crisi della poesia di Rèbora, ma è quella stessa generale della poesia religiosa. Quando si legge in lui, come in Parini, una voce della morale del suo tempo, occorre però sgombrare tutta l’irreligiosità che è caratteristica di Parini e ne fa appieno un illuminista. Allorché lo spirito religioso ha scelto una sua immagine e quella antagonistica, è estremamente tipico il processo di successiva distinzione e identificazione, in un affanno quasi tautologico […]. Anche il famoso “realismo” del poeta religioso, che è la tendenza a caricare di soprasenso tutti i particolari coerenti all’immagine, e obbedisce a una specie di didascalica fatta per se stesso, non a convinzione di altri spettatori (esattamente l’inverso dell’allegoria, il cui vizio è appunto denunciato dall’incoerenza flagrante), anche quel barocco realismo (facciamo un nome, indichiamo un livello: Juan de la Cruz) apparisce nella trottola dei Canti anonimi […]294.
Nel 1938 il trasferimento a Friburgo e le esperienze intellettuali 292 Scriveva Contini: «I Frammenti lirici sono il riflesso letterario esplicito d’una condizione morale diffusa, e in ciò hanno per definizione qualcosa d’illuministico: per trovare un termine di paragone abbastanza preciso, occorrerà, più in su dello stesso romanticismo germanico, pensare appunto al lombardo Parini e a certa poesia del settecento. Tracce d’un illuminismo perfino positivistico (sì che si giungerà a pensare alla tradizione radicale milanese dei Gaetano Negri, e si ricorda che Rèbora giovine s’occupò di Romagnosi) si riescono a scovare nei suoi versi […] Senonché, in modi più larghi […], l’illuminismo vociano proveniva da gente che aveva letto Croce e Bergson (e magari Sorel), che era abbonata insieme alla Critica e ai Cahiers de la quinzaine, che sentiva l’esistenza religiosa attraverso Kant e la teologia protestante» (Contini, Due poeti degli anni vociani, I. - Clemente Rèbora, pp. 1-2). 293 Ibid., pp. 2-3. 294 Ibid., p. 13. E ripubblicando il testo in Esercizî di lettura, Contini annotava: «Conosciamo qualche poesia recente, scritta per obbedienza, come un salmo per un’ordinazione a sacerdote (“Il sacerdote è come una campana…”), pubblicata, se si può dire, in The Calvarian, una rivistina poligrafata degli scolastici inglesi dell’Istituto della Carità» (ibid., p. 17).
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che Contini cominciava ad avere nel contesto universitario elvetico portarono a una vera cesura. In quell’anno non vi fu alcun articolo per la «Rivista Rosminiana», la quale peraltro nel 1939 annunciava, con un certo orgoglio: «Il Contini, che è nostro fedele collaboratore, da quest’anno tiene il corso di filologia all’Università svizzera di Friburgo»295. E tuttavia la Rivista, seguendone e segnalandone la produzione, rafforzava, quasi si direbbe, l’effetto di straniamento: forniva cioè un surrogato, un continismo di seconda mano296. In realtà, attraverso l’amicizia con De Menasce e Journet, Contini entrava in contatto con un tomismo nuovo e aperto: un tomismo di respiro veramente europeo, potremmo aggiungere, ben diverso da quello con cui si era confrontato il rosminianesimo italiano. Nel contempo non sono da trascurare i rapporti, che pur da lontano, egli manteneva con Gentile297 e con gli ambienti gentiliani ‘di sinistra’. Quando Contini andò a Friburgo, Luigi Russo scriveva allarmato, il 24 maggio 1938, a Gentile: Dalle solite voci di accademici, sento che il Branca lavora per avere al Centro di studi filologici il Billanovich, un giovane di Padova, certamente più valente del Branca, ma fucino anche lui. Gli amici sono preoccupati che l’Accademia della Crusca diventi una cittadella del Vaticano. Ormai c’è la consegna tra i
Cronaca e spigolature, «Rivista Rosminiana», 33, 1939, p. 157. Così ancora nelle Notizie e spigolature del 1941: «Passo postremo. “La critica ha passo postremo”: con questa frase sintetica ed efficace Gianfranco Contini inizia sulla Nuova Antologia (16 nov. 1940) uno studio intelligente su “Il mulino del Po” e la carriera letteraria di Riccardo Bacchelli. Ci si scuserà pertanto se, con passo davvero postremo, diamo soltanto ora notizia di quanto il Bacchelli scrisse su Rosmini in un suo romanzo molto ardito, pubblicato fin dal 1930 (Una passione coniugale, Casa Editr. Ceschina, Milano)» («Rivista Rosminiana», 35, 1941, p. 61). 297 In una lettera a Daniele Ponchiroli, nel 1971, Contini ricordava: «Una volta Gentile mi scrisse, citando Cicerone, che tanto la carta non arrossisce» (cit. in C. Carena, Il professor Contini a San Quirico, in AA.VV., Incontri con Gianfranco Contini, p. 66). Si tratta di un piccolo riferimento, ma testimonia di un rapporto rimasto fortemente impresso in Contini. Tra le carte di Contini si conserva una lettera a lui di Gentile (del 6 febbraio 1940) in cui si chiedevano fotoriproduzioni di pagine di codici: Fondazione Franceschini, Fondo Contini, 13. Corrispondenza, 1113. 295
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giovani: essere filologi (cioè evasivi) e cattolici. – Io avrei da proporLe Walter Binni, che può prendere il posto di Contini che va a Friburgo298.
Russo, dunque, considerava Contini in modo diverso e autonomo rispetto ai ‘fucini’ (visti come più organicamente legati alla Chiesa cattolica). Nel 1942, peraltro, Contini – nel tentativo di tornare in Italia – si mise in contatto con l’Università di Milano (attraverso Castiglioni e Monteverdi) ma, prima ancora, con Pisa e con Russo e Gentile. In quell’anno egli raccolse – con l’editore Le Monnier, vicino a Gentile – suoi scritti di critica (compreso un articolo uscito sulla «Rivista Rosminiana»)299. Il tentativo di portare Contini a Pisa avvenne, dunque, sotto la regia di Gentile, ma in un momento – il 1942 – in cui erano chiaramente emersi sospetti e accuse di antifascismo verso Calogero, ma anche verso lo stesso Russo: la sinistra gentiliana (e, indirettamente, Gentile) era, dunque, in qualche modo, sotto schiaffo, sia da parte di Bottai sia da parte della destra gentiliana (Carlini). Da Pisa, comunque, ci si mosse da giugno. Il 15 giugno Contini scriveva un breve ma commosso e grato biglietto a Gentile e alla sua «sempre vigile simpatia»300. Gentile interessò Carlo Alberto Biggini, rettore dell’Università di Pisa, e lo Luigi Russo e Giovanni Gentile, p. 278. La quale ne dava notizia nella rubrica Notizie e spigolature: «Un anno di letteratura. – Il nostro collaboratore letterario Gianfranco Contini, professore di filologia all’Università di Friburgo, continua a far gemere i torchi. Dopo gli “Esercizi di lettura” pubblicati a Firenze, e le eruditissime “Rime di Dante” (nella collezione di Einaudi), ecco ora “Un anno di letteratura” (Le Monnier, Firenze, 1942). Il volume raccoglie saggi diversi su “Cecchi e il libro segreto”, “Le Corbusier e la felicità”, “Manzoni contro Racine”, “Di Gargiulo su Montale”, etc. etc. Nel licenziarlo l’A. ricorda che il suo intento nel far la critica è di arrivare a una “razionalità della critica… cioè nient’altro che quello spirito di riduzione all’unità da cui nasce perfino l’eroismo sistematico dei filosofi”. Interessante, anche perché qualche superficiale è arrivato a confondere il Contini con certi ermetici deteriori, è il giudizio ch’egli dà dell’ermetismo, proponendo ch’esso dovrebbe affermarsi come “un momento necessario dell’esperienza… Una comprensione dell’irrazionale che non escluda la nostalgia del giudizio filosofico ci sembra una posizione che salvaguardi meglio la radicale libertà dell’anima umana”. Il saggio su Manzoni e Racine apparve già sulla nostra Rivista nel 1939 (fasc. II)» («Rivista Rosminiana», 36, 1942, p. 110). 300 Fondazione Giovanni Gentile (Roma), Fondo Giovanni Gentile, serie 1: 298 299
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stesso ministro Bottai, che diede una risposta vagamente favorevole. Il 21 agosto, dopo aver incontrato Biggini a Viareggio, Contini scrisse a Gentile per ringraziarlo e per comunicargli che il Rettore era rimasto «impressionato» dall’eventualità milanese e si riprometteva di parlare con Bottai, anche insieme a Gentile, per concretizzare la chiamata a Pisa, superando problemi amministrativi, legati alla disponibilità di cattedre301. In effetti, rispondendo a una lettera di Gentile, il 31 agosto, Biggini scriveva: «Per Contini bisogna assolutamente superare gli ostacoli: per l’avvenire della nostra Università e per il lustro che ne deriverebbe alla facoltà di Lettere»302. E informava di non essere riuscito a parlare al ministero né con Bottai né con Giuseppe Giustini, direttore generale dell’ordine universitario. Il 27 agosto, Contini scriveva dunque a Cecchi: Gentile e il Rettore di Pisa chiederanno a Bottai di darmi una cattedra di storia della lingua, lì a Pisa: eccellente soluzione, che mi consentirebbe di rientrare stabilmente nel triangolo Toscana-Umbria-Lazio, con una clientela probabilmente simpatica. […] Sembra che il Ministro abbia detto di sì a un primo accenno fattogli in giugno, ma non si sa se l’incarnazione amministrativa, finanziaria ecc. del progetto sia facile303.
Gli aspetti amministrativi dovettero trovare una soluzione tra la fine di settembre e i primi di ottobre304. E tuttavia, questo progetto GentileRusso parve bloccarsi per una diversa visione di Clemente Merlo (e forse
Corrispondenza, sottoserie 2: Lettere inviate a Giovanni Gentile, Corrispondenti: C, b. 35, n. 1560: biglietto di Contini datato Domodossola, 15 giugno [1942]. 301 Fondazione Giovanni Gentile (Roma), Fondo Giovanni Gentile, serie 1: Corrispondenza, sottoserie 2: Lettere inviate a Giovanni Gentile, Corrispondenti: C, b. 35, n. 1560: lettera di Contini datata Domodossola, 21 agosto [1942]. 302 Fondazione Giovanni Gentile (Roma), Fondo Giovanni Gentile, serie 1: Corrispondenza, sottoserie 2: Lettere inviate a Giovanni Gentile, Corrispondenti: B, b. 15, n. 668: lettera di Biggini datata Pisa 31 agosto 1942-XX. 303 L’onestà sperimentale, p. 50. 304 Il 25 settembre Biggini scriveva a Gentile proponendo una visita congiunta dei due a Bottai per risolvere il problema della disponibilità della cattedra (Fondazione Giovanni Gentile (Roma), Fondo Giovanni Gentile, serie 1: Corrispondenza, sottoserie 2: Lettere inviate a Giovanni Gentile, Corrispondenti: B, b. 15, n. 668: lettera di Biggini datata Pisa 25 settembre 1942-XX).
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per una certa resistenza di Carlini), superata tuttavia con un intervento gentiliano deciso305. La proposta dell’istituzione di una cattedra di «Storia della lingua» e della chiamata di Contini a ricoprirla fu così, finalmente, deliberata dalla Facoltà di Lettere pisana il 12 ottobre. Il Senato accademico approvò, poi, lo stesso giorno, tale chiamata: Russo lo comunicò subito a Gentile306. Il 14 ottobre, contrariamente alle previsioni e nulla sapendo di Pisa, anche Milano deliberò la chiamata di Contini, il quale ne scrisse subito a Gentile, chiarendo che i milanesi sapevano comunque della sua preferenza per Pisa (ma notando che ora il ministro poteva anche considerare se amministrativamente fosse più semplice la via di Milano). Contini concludeva: «il Vostro intervento sarebbe dirimente»307. Il 24 ottobre Gentile gli rispondeva, da Roma: «Ho avvertito Giustini e potete star sicuri che non si farà confusione. È avviata la pratica per Pisa, dove spero vedervi presto»308. Quando tutto sembrava essersi messo per il meglio, si ebbe invece il colpo. Il decreto di nomina a Pisa fu sottoposto dal Rettore alla firma del Ministro Bottai il 23 ottobre. Ma Bottai non firmò perché Contini era
Il 9 ottobre 1942, Russo scriveva a Gentile: «Più preoccupante invece è la situazione a Pisa. Tutti i nostri progetti pare sfumino: per Contini, Merlo vorrebbe che passasse a Glottologia romanza, e che attendesse un concorso per quella materia» (Luigi Russo e Giovanni Gentile, p. 319). Gentile gli rispose l’11, da Roma: «Ho scritto subito a Merlo e a Mancini nella forma più efficace e persuasiva che ho potuto. E son risoluto a far usare la forza se la ragione non vale a vincere le miserie personali di cotesta disgraziata Facoltà. Ogni volta che s’è potuto fare del bene a essa, s’è dovuto ricorrere ad atti di forza […] Se Biggini è qui, gliene parlerò. – E bisognerà buttare a mare […] Carlini» (ibid., p. 321). 306 Gli scrisse, lo stesso giorno: «La proposta Contini è stata felicemente varata. Il consesso non era preparato, perché Carlini se n’era scordato (dice lui), e questo ha costituito un vantaggio per me proponente. Ma è vero che il Merlo si è unito a me, subito, con parole cordialissime, ed egli si è lasciato disarmare affettuosamente per la faccenda della glottologia romanza, che egli avrebbe voluto attribuire a Contini. Cosicché la proposta è stata votata all’unanimità; e io sono stato incaricato di stendere la relazione: ciò che ho fatto subito, perché ero munito d’appunti. – Oggi alle ore 17 proposte e relazioni sono state sanzionate dal Senato accademico» (ibid., p. 323). 307 Fondazione Giovanni Gentile (Roma), Fondo Giovanni Gentile, serie 1: Corrispondenza, sottoserie 2: Lettere inviate a Giovanni Gentile, Corrispondenti: C, b. 35, n. 1560: lettera di Contini datata Domodossola, 16 ottobre 1942-XX. 308 Fondazione Franceschini, Fondo Contini, 13. Corrispondenza, 1113: cartolina postale dell’Enciclopedia italiana datata Roma 24. X. 42 XX. 305
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celibe: ostavano dunque le disposizioni circa lo stato civile dei dipendenti della Pubblica Amministrazione previste dal Regio Decreto Legge 25 febbraio 1939. Il 13 novembre, informato da Schiaffini, Contini scrisse, da Friburgo, a Gentile, adombrando che si trattasse di «un pretesto agitato dietro pressione di qualche benevolo» («da qualche allarmato collega, filosofo o letterato che sia») e suggerendo qualche possibile scappatoia. E concludeva: «Permettetemi di dirvi, comunque, che a me importa assai più di qualunque risultato nell’ordine pratico il fatto del vostro intervento e della vostra iniziativa»309. Il 19 novembre, Contini informava Montale: «La mia nomina a Pisa (o a Milano) sembra ormai esclusa. Il pretesto amministrativo invocato è il mio non-coniugio»310. E il 23 novembre egli scriveva, da Domodossola, ancora a Gentile, poche righe di fervida e grata devozione: «non mi resta dunque che ripeterVi che Voi siete una delle persone alle quali più mi onoro di dovere gratitudine». E aggiungeva: «Quest’ultima faccenda ha aumentato di molto il mio debito, e ne sono lieto: più lieto, in certo modo, che se l’esito pratico fosse stato perfetto: così esula ogni possibilità di considerazione “economica”». E si congedava «Fedelmente vostro»311. Il 30 dicembre, Contini aggiornava Cecchi: «Il mio decreto di nomina a Pisa non fu potuto firmare, dice, per assenza di certificati matrimoniali (o, per surrogato, bellici); e sarà anche vero»312. Ma, per la verità, Gentile e Russo non desistevano. Il 18 dicembre, infatti, Gentile scriveva a Russo: Del Contini, se ho ben capito quel che mi disse un giorno al telefono il Rettore Biggini, c’è ancora da sperare che presto, dentro l’anno, sposi la fidanzata che ha e che pare non abbia voluto affrettarsi a sposare ora subito per non aver l’aria di subordinare una cosa seria come un matrimonio all’interesse della
Fondazione Giovanni Gentile (Roma), Fondo Giovanni Gentile, serie 1: Corrispondenza, sottoserie 2: Lettere inviate a Giovanni Gentile, Corrispondenti: C, b. 35, n. 1560: lettera di Contini datata Friburgo 13 novembre [1942]. 310 Eusebio e Trabucco, p. 77. 311 Fondazione Giovanni Gentile (Roma), Fondo Giovanni Gentile, serie 1: Corrispondenza, sottoserie 2: Lettere inviate a Giovanni Gentile, Corrispondenti: C, b. 35, n. 1560: lettera di Contini datata Domodossola 23 novembre [1942]. 312 L’onestà sperimentale, p. 53. 309
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cattedra. Ne sai nulla? Almeno in questa faccenda, potrebbe fare uno strappo al suo ermetismo!313.
Ancora il 20 maggio 1943, Russo chiudeva in modo mesto, ma ‘memore’, una sua lettera a Gentile: «E il povero Contini?»314. Nel 1942, tra giugno e novembre, emergeva e sfumava, dunque, un tentativo di Contini di rientrare in Italia, sotto gli auspici sì di Luigi Russo, ma anche di Gentile e di Biggini (di lì a poco successore di Bottai al Ministero dell’Educazione nazionale e, successivamente, chiamato a reggere lo stesso dicastero durante la Repubblica Sociale Italiana). Fu, si direbbe, una fortuna per Contini non dover contrarre debiti accademici così impegnativi e pesanti (da dover saldare magari in periodo repubblichino). Lo intuiva egli stesso, forse confusamente e istintivamente, quando, nel novembre 1942, scriveva a Montale: «A me, peraltro, hic et nunc (qualche tempo fa sarebbe stato diverso), la notiziola contingente non ha dato il minimo fastidio, posto che la mia attenzione è richiamata da altri scacchieri» 315. E fu una fortuna che il suo rosminianesimo potesse decantarsi da una parte, sul piano degli sviluppi teorici e degli innesti culturali, nel contesto svizzero-europeo e, dall’altra, sul piano etico-politico, nell’antifascismo militante, culminante nella Repubblica dell’Ossola e in una certa ritrascrizione azionista del personalismo politico rosminiano. A epigrafe di questo percorso mi piace, tuttavia, porre un episodio del 1939, l’anno di avvio della seconda guerra mondiale: Contini ripubblicò, in Italia, su «Corrente» il suo primo saggio montaliano, che – come si è visto – era uscito sulla «Rivista Rosminiana». La rivista milanese «Corrente», che sarebbe stata chiusa dal fascismo nel 1940, rappresentò, com’è noto, un contesto neo-militante nell’ambito artistico e letterario italiano. Partendo, come tante altre rivistine, da un impianto giovanile di fascismo innovativo, evolse rapidamente in una forma di liberalismo che quasi si direbbe neogobettiano316. La partecipazione di Contini non fu, per lui, priva di
Luigi Russo e Giovanni Gentile, p. 326. Ibid., p. 330. 315 Eusebio e Trabucco, p. 78. 316 Cfr. Langella, Il secolo delle riviste, pp. 202-6. Si vedano pure i vari interventi in Il movimento milanese «Corrente di vita giovanile», «L’Approdo Letterario», 14, 43, 313 314
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significato e puramente occasionale (come sarebbe stata quella, di poco successiva, a «Primato», nella quale – peraltro – rese evidente il suo superamento dell’ermetismo): significò il passaggio indolore e coerente da un’attenzione all’attualismo di sinistra a un interesse per la scuola fenomenologica milanese di Banfi, che era stato, tra l’altro, vicino a Rebora. Su «Corrente» scrissero lo stesso Banfi e anche i suoi allievi, come Paci, come Bertin317 e come Giulio Preti che, con un impegnativo articolo, aveva gettato un ponte verso la sinistra dell’attualismo e, in particolare, verso Calogero318, sottolineando la necessità di una funzione di chiarificazione: In questi anni, gli anni che stiamo attraversando, tale funzione è particolarmente preziosa. Noi non manchiamo di fedi o di dogmi, ma ne abbiamo troppi, in tutti i campi: la lotta dei dogmi si è fatta strenua e implacabile, coinvolge tutto e tutti. […] [Vi è un] eccesso di dottrine esoteriche che dominano indiscusse i singoli circoli culturali […] Il fatto in quanto sottoposto a regole è proprio il mondo dell’azione: perciò la Logica e la Gnoseologia costituiscono in realtà una filosofia della pratica, l’unica possibile. Attivismo, dunque? Sì, ma non orgiastica celebrazione dell’ebbrezza dell’azione, bensì celebrazione dell’azione che, in concreta unione col pensiero, realizza i suoi fini. […] Da un lato c’è l’ideale pratico di chi si abbandona all’ebbrezza dell’azione, e nel suo tumulto oblìa la storia, la scambia coi miti del suo desiderio, o addirittura la deforma consapevolmente in vista dei suoi fini. Dall’altro c’è il superiore ideale etico di chi possiede e difende e promuove il gusto e il rispetto della verità; di chi combatte l’incultura e la disattenzione
1968. Ma cfr. anche S. Crespi, L’esperienza del periodico milanese «Corrente», «OttoNovecento», 1, 2, 1977, pp. 23-39; G. Desideri, «Corrente» nell’ermetismo e contro, «La Rassegna della Letteratura Italiana», 82, 1-2, 1978, pp. 183-90. 317 Cfr. E. Paci, L’idealismo di Antonio Banfi, «Corrente», 1, 12, 1938, p. 2; Id., Esistenzialismo gnoseologico, «Corrente», 3, 2, 1940, p. 5 (su Galvano Della Volpe); G.M. Bertin, La fenomenologia di Antonio Banfi, «Corrente», 3, 9, 1940, p. 7. 318 Scriveva Preti: «La “sinistra” è caratterizzabile con più precisione come un trapasso dalla metafisica gentiliana a un quasi-positivismo, che si innesta sullo sfondo della metodologia attualistica […] [vuole] reagire al “narcissismo”, o autobiografismo, tanto tipico nel Gentile e nei gentiliani ortodossi» (G. Preti, La “sinistra” dell’attualismo e i compiti della filosofia contemporanea, «Corrente», 2, 21, 1939, p. 5).
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e il vagheggiamento della spontaneità ignorante; di chi, pure affrancato da ogni fede teologica in una trascendente dignità del vero, odia le sue deformazioni, ben sapendo che l’opera dell’uomo sarà tanto più duratura e feconda quanto meglio egli avrà compreso la sua situazione storica, quanto meno avrà bisogno di essere ingannato circa di essa. Questo ideale di vita è superiore all’altro: ma quale principio logico e gnoseologico stabilisce tale superiorità? “La sua giustificazione non è nella filosofia dell’agire: nella consapevolezza pratica e nella fede morale” [Calogero]319.
In questo contesto culturale, oltre a un suo intervento di critica della critica, che parlava di Gargiulo per risalire a Croce320, Contini ripubblicava, come si è detto, il suo primo articolo montaliano. Le righe che vi premetteva giustificavano la riedizione nel nome di un’immutata sua coerenza critica (a fronte di un mutamento di Montale) e, comunque, di una continuità di apprezzamento per il poeta321. Ma proprio questo risultava nuovo: che egli cioè potesse espiantare dal contesto rosminiano e trapiantare in un corpo fenomenologico322, senza riceverne crisi di rigetto, un cuore critico pulsante, cioè sempre vivo nei suoi medesimi Ibid. Scriveva Contini: «Che cos’è dunque la crisi del Gargiulo innanzi al nuovo Montale? È la crisi d’un’altra cultura innanzi a una sensibilità che non ama l’eloquenza intorno al suo proprio limite (assenza di sentimento = oscurità), ma può far tremare il linguaggio in un desiderio superstite dell’antico discorso (volubilità). Come in quella del suo grande maestro, anche nella critica di Gargiulo l’intelligenza pura dura più a lungo del gusto: dura più a lungo nella biologia del suo inventore oltre che nella fecondità tutt’altro che esausta dei suoi insegnamenti» (G. Contini, Di Gargiulo su Montale, «Corrente», 3, 8, 1940, p. 2). Cfr. anche G. Vigorelli, Scheda per Contini, «Corrente», 2, 23, 1939, p. 2. 321 Tra parentesi quadre, Contini precisava: «Un mio recente scritto su Montale è sembrato ad alcuni lettori che, dialettizando gli Ossi di seppia nel rapporto col “secondo Montale”, svalutasse quel libro. La ristampa di queste vecchie pagine (1932-33) mostrerà, non tanto che io non potevo ripetermi, quanto che l’“oggetto” da allora a oggi è cambiato; è stata cambiata la sua comprensibilità dalle liriche più recenti. Ripeterei press’a poco le stesse cose, se Montale avesse taciuto, se cioè non mi avesse mutato» (G. Contini, Gli ossi di seppia spiegati con gli ossi di seppia, «Corrente», 2, 11, 1939, p. 5bis). 322 L’articolo di Contini usciva in un numero di «Corrente» interamente dedicato a Testimonianza alla Poesia. Si apriva significativamente proprio con un testo di Banfi: A. 319 320
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battiti. La lezione di Rosmini, assorbita e fatta propria da Contini, rimaneva dunque sempre la stessa e, anzi, in qualche modo riceveva un’indiretta conferma di autenticità. Del resto, nel nuovo contesto essa poteva acquisire assonanze e riverberi nuovi: quasi richiamando, per esempio, quelle analogie che nel primo Novecento, Capone Braga aveva intravisto tra Rosmini e Husserl. Il rosminianesimo di Contini sfociava così nel mare aperto: non però per disperdersi in esso, ma per diventarne una corrente profonda, con le sue influenze sui movimenti e perfino sulle temperature culturali e sui climi. 3. Visione postrema conclusiva: le grandi strutture rosminiane Alcune tra le ultime riflessioni continiane (in particolare quelle dell’intervista a Ripa di Meana) consentono di vedere meglio le ‘lunghe durate’: quelle cioè che, in qualche modo, potremmo considerare come grandi strutture rosminiane sempre presenti nella biografia di Contini. Innanzi tutto è da segnalare quello che appare un progetto giovanile, rimasto irrealizzato. Nel 1989, infatti, Contini affermava con qualche rimpianto: il grande desiderio della mia vita sarebbe stato di scrivere un libro su Manzoni in cui si potesse passeggiare come si passeggia nel Port-Royal di Sainte-Beuve. Questo sarebbe stato il mio ideale! E purtroppo non l’ho mai eseguito. [...] Perché Manzoni è per un verso, più complicato, ma per l’altro verso meno attraente dei personaggi rappresentati da Sainte-Beuve. Probabilmente, il merito è tutto di Sainte-Beuve. È Sainte-Beuve che fa la grandezza di Arnauld, di Nicole, non parliamo di Racine e di Pascal323.
È vero: non apparirebbe qui un riferimento esplicito a Rosmini. Ma Manzoni, visto in questa chiave ampia di contesto, richiama proprio il mondo rosminiano: Port-Royal del rosminianesimo (cioè di Rosmini, Manzoni, Tommaseo, D’Azeglio, Bonghi) era Domodossola o, meglio,
Banfi, Poesia, «Corrente», 2, 11, 1939, p. 1. In seconda pagina vi comparivano articoli di Macrì (Difesa della poesia) e di Bo (Nozione nella poesia). 323 Ripa di Meana, Contini, Diligenza e voluttà, p. 129.
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«Domo-con-Calvario»324 o, meglio ancora, anche con Stresa. Gli studi giovanili continiani, che si sono visti, sul Tommaseo si inserivano forse in questo progetto. Così forse anche il saggio su Manzoni come antiRacine che Contini pubblicò sulla «Rivista Rosminiana» nel 1939325. Interessante è una puntualizzazione sulla bibliografia tommaseana che egli segnalava nel 1943 alla stessa rivista (mostrando di seguire sempre quanto si pubblicava sullo scrittore dalmata)326. Ma è pure da ricordare che il saggio su Sainte-Beuve di Alfredo Puerari fu pubblicato in quegli anni, sulla «Rivista Rosminiana»327, attraverso la mediazione di Contini328. Si può congetturare che tra le carte andate perdute, in seguito alla devastazione punitiva attuata dai fascisti nella casa di Contini, dopo la caduta della Repubblica dell’Ossola, vi dovessero essere materiali preparatori per tale lavoro. L’interesse continiano per Tommaseo (associato a Rosmini) continuò ancora nei primi anni del secondo dopoguerra. E a proposito del Piemonte nord-orientale, nel 1953 Contini scriveva:
Come Contini si diceva con Montale: cfr. ibid., p. 34. G. Contini, Manzoni contro Racine, «Rivista Rosminiana», 33, 1939, pp. 129-35. 326 Apparve nella rubrica Notizie e spigolature: «Non inedito del Tommaseo. – Nel fasc. II 1942 della nostra Rivista (p. 81) si riportava l’ode latina che il Tommaseo scrisse per il Rosmini in occasione della sua ordinazione sacerdotale (Antonio Rosmini – Sacerdotium ascendenti – Nicolaus Tommaseius – Quam ipse nescit – Felicitatem). Siccome dal contesto l’ode sembra risultare inedita, il prof. Gianfranco Contini ci ricorda ch’essa era già ben nota. Le tre ultime strofi furono pubblicate dallo stesso Tommaseo nel 1838, nel libro secondo delle Memorie poetiche (p. 100 della ristampa Salvadori): vi sono però varianti rispetto al testo della “Riv. Rosminiana”, a parte Vati per grati ch’è errore nel Salvadori. Le prime due strofi furono pubblicate dal Salvadori (dunque nel 1917, p. 134) con una parafrasi-traduzione dell’intera ode. E, come se ciò non bastasse, riproduce le tre ultime strofi anche C. Curto, in appendice alla sua ediz. del tommaseano Ritratto di Rosmini, Padova, 1942, pp. 176-177» («Rivista Rosminiana», 37, 1943, pp. 67-8). 327 A. Puerari, Giovinezza poetica di Sainte-Beuve, «Rivista Rosminiana», 35, 1941, pp. 90-7, 144-57. 328 Nel 1940 Contini aveva scritto a Puerari: «Sono a tua disposizione, se vuoi, per piazzare il Sainte-Beuve alla Rosminiana»: Fondazione Franceschini, Fondo Contini, 13. Corrispondenza, Raccolta di lettere di Contini a vari destinatari – Alfredo Puerari: cartolina postale di Contini, datata «Domo Pasqua ’40». 324 325
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il passaggio di Rosmini a Domodossola e soprattutto a Stresa, le villeggiature di Manzoni e magari di D’Azeglio sul Lago Maggiore […] furono fatti di ben altra portata per la storia dello spirito che i modesti prodotti degli indigeni. E Rosmini ritiene importanza, di riflesso, per la stessa cultura locale, se i periodici più seri delle alte valli, da Oscella alla Rivista Rosminiana […] sono segnati tutti da quell’impronta329.
In quel contesto poteva ben distendersi la vicenda manzoniana nella sua evoluzione: Manzoni infatti, secondo Contini, «ci mise del tempo a rosminianizzarsi»330. Ciò avrebbe consentito una ricostruzione storica dal passo non corto: appunto «un libro su Manzoni in cui si potesse passeggiare». Rosmini avrebbe potuto offrire, a ben pensarci, proprio la chiave più difficile per tale intrapresa: quella linguistico-lessicale, per potenziare – aggrumandola – la scrittura. Contini infatti pensava (e in questo, come già si è accennato, condivideva giudizi fogazzariani): E ci sono dei casi in cui, diciamo, la potenza scrittoria si aggruma. Credo […] di aver deplorato che Rosmini non fosse un grande scrittore; però è un grande inventore di concetti e quindi un grande inventore di termini, un grande inventore lessicale. Dunque alcune doti eminenti dello scrittore le possiede, anche se la sua pagina non è una bella pagina331.
Il livello a cui poteva porsi l’asticella era, dunque, quello di una rosminiana immaginazione teosofica, come per il «principio corporeo», sul quale – come si è visto – Rosmini aveva teorizzato. E proprio a proposito della grande e incompiuta opera della maturità del Roveretano, la Teosofia appunto, Contini osservava: È lo studio della struttura divina fatto con mezzi umani a partire dai dati rivelati. Il suo è un libro di una fantasia e immaginazione fuori del comune. Purtroppo, Rosmini ammirava troppo Cesari per essere un grande scrittore,
G. Contini, recensione a Novara e il suo territorio, [1953], poi in Id., Domodossola entra nella storia, p. 63. 330 Così scriveva in una lettera a Pizzuto del 3 febbraio 1964: Contini, Pizzuto, Coup de foudre, p. 34. 331 Ripa di Meana, Contini, Diligenza e voluttà, p. 194. 329
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ma è un inventore di termini straordinario e di concetti straordinari. Per esempio, nella Teosofia, parla del “principio corporeo”. Cioè, secondo Rosmini, niente può agire che non sia mosso dallo spirito; quindi ogni oggetto deve essere fornito di un principio corporeo e, come ipotesi di lavoro, Rosmini avanza che il principio corporeo sia l’angelo. Gli angeli sarebbero i princìpi corporei che muoverebbero l’universo. Mi pare che sia una dottrina piuttosto ardita e comunque estremamente attraente. […] Io frequentai molto la biblioteca del Calvario – l’edificio era bellissimo: è stato costruito secondo lo stile di un Generale di grandissimo gusto, il padre Lanzoni –, e allora, lì, mi pareva di vedere i princìpi corporei, gli angeli. Una volta credetti proprio di avere la visita di un angelo, passeggiando su questo Calvario. Naturalmente pensavo a quel tanto di teosofia rosminiana che mi era stata insegnata dai Padri. E ricordo di averlo detto a Pasolini, pensando appunto che potesse capirlo. […] Attorno a San Quirico feci passeggiare Pasolini e lo istruii un po’, come si vede dalle sue lettere, […] di angelologia rosminiana332.
Ma se questo era il progetto (rosminiano) rimasto incompiuto, l’ideale di una vita, due mi sembrano, in realtà, le vere strutture portanti rosminiane, sottese e attuose in tutta la biografia continiana. La prima è quella che potrebbe dirsi il canone filosofico (gnoseologico) implicito e che indicherei nella linea: Ockam-Leibniz-RosminiHusserl. Intanto si segnala come gnoseologia fenomenologica, oltre ogni psicologismo positivistico riduzionista e oltre ogni idealismo monistico: «L’operazione psicologica è diretta, ne occorre un’altra per rendersene conto, e così di seguito. Ci sono al riguardo pagine definitive di Rosmini»333. L’essere ideale è sempre positivo e perfino quando Contini accenna al necessario «grano di follia» lo ricollega all’ordine razionale: La follia, semmai, si esplica in ordine: nell’ambito dell’ordine. […]. Il disordine è qualche cosa che non arriva a essere promosso: qualche cosa di cui ci dovremmo occupare, che ci dovrebbe condizionare, e che teniamo ai
Ibid., pp. 31-2, 34. Sul Lanzoni cfr. G. Bozzetti, Don Luigi Lanzoni. In memoriam, «Rivista Rosminiana», 20, 1926, pp. 63-6. 333 Ripa di Meana, Contini, Diligenza e voluttà, p. 104. 332
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margini. […] Il grano di follia appartiene all’ordine […]! Altrimenti non sarebbe una cosa positiva334.
Ma questo vale anche per l’essere reale, nell’ordine corporale, che è sempre positivo e pieno. Il dolore fisico è negatività: «E questo mi ricorda il solito (solito per me) Rosmini, secondo cui sta male chi non sente tutto ciò che dovrebbe sentire»335. Dunque, osserva Contini, «c’è un duplice movimento: un movimento intuitivo e razionale, e un movimento logico di controllo»336. Se si volesse tradurre in termini rosminiani, si potrebbe dire essere ideale e essere reale. Ma non manca l’essere morale, nel sintesismo rosminiano-continiano: Il cilicio deve essere esercitato sull’arbitrio! Questa oggettività mi pare che sia la sola moralità che si richieda a uno studioso in qualsiasi campo. […] La moralità, per uno studioso, è tutta lì: è il sapersi castigare quando si corre troppo e, nello stesso tempo, il non rifiutarsi all’illuminazione, e al controllo dell’illuminazione, quando essa prepotentemente si presenta337.
Del resto, anche sul piano dell’essere morale, il bene è sempre positivo e pieno. Contini non trova alcuna positività nel «vizio» e non trova nulla da diffidare nella «virtù»338. La seconda struttura è la fede nella Provvidenza, in un Dio-Provvidenza, che, direi, sintetizza la teodicea di Rosmini e il rosminiano «principio di passività». Qui si co-implicano, in una costellazione esistenziale, fede religiosa, realtà escatologica, trascendenza, ma in una forma radicalmente a-dogmatica, una forma meta-probabilistica (e il riferimento, consueto in Contini, all’ascetica rosminiana riconduce a Pascal). Contini rimanda a «una rete, una maglia di coincidenze che non posso chiamare alea; però, insomma, è l’alea nel senso supremo del termine, un’alea con l’A maiuscola»339. Sollecitato a parlare delle singolari prove della sua funzione che la Provvidenza gli ha dato, Contini risponde:
334 335 336 337 338 339
Ibid., p. 194. Ibid., p. 117. Ibid., p. 232. Ibid., p. 231. Ibid., p. 50. Ibid., p. 93.
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La Provvidenza è venuta emergendo dal nostro discorso. Le basti dire che i tre amici che erano insieme a Friburgo nel ’43, cioè il p. de Menasce, Emile Benveniste e io siamo stati colpiti dalla stessa malattia, in forma più o meno grave… e tutto questo io l’ho saputo […], per quel che riguarda Benveniste, dal grande studioso dell’afasia, Jakobson, i cui studi mi erano stati rivelati da Benveniste stesso. Questi tratti provvidenziali sono estremamente abbondanti, anche in negativo340.
Certo, il principio di passività può essere applicato o, rosminianamente, come positiva accoglienza della Provvidenza o, ed era il caso più frequente in Contini, come risposta negativa e indifferente: pur non negando, tuttavia, l’interpellazione provvidente: «Quando l’ultimo anno bisestile mi ruppi la gamba, vidi che quello sarebbe stato un segno per diventare santo; bisognava però applicarsi, e prevedevo che non mi sarei applicato… Ma quella era una Provvidenza, sia pure rifiutata»341; «Certo, è una parola sublime quella che dice: “è l’eletto del Signore colui che soffre”. In questo senso qualche volta mi sento un eletto… se accettassi. Non accetto di essere l’eletto del Signore, ma Lui mi dà molte occasioni»342. Contini, sensibile alle epifanie della Provvidenza, rifiuta però le ontologizzazioni di tali epifanie che portano a false sacralizzazioni. Forse per questo egli comprende e cerca l’amicizia di uomini asciuttamente areligiosi come Roberto Longhi: «la trascendenza gli era del tutto sconosciuta. […] era assolutamente sprovvisto del senso del sacro. […] forse per evitare queste superfetazioni di falso sacro, lui se lo inibiva completamente»343. Non vi è dunque, nella visione, pur essa laica, di Contini, né il «non possiamo non dirci cristiani» dell’idealismo di Croce né il «sono ateo per grazia di Dio» del surrealismo di Buñuel: o, meglio, i due atteggiamenti sono sussunti (e metabolizzati) in uno spiritualismo morale, che si fonda su un provvidenzialismo rosminiano de-teologizzato, cioè oltre ogni teologia ontologizzata e ontologizzante: in cui comunque la prima
340 341 342 343
Ibid., p. 114. Ibid., p. 115. Ibid., p. 117. Ibid., pp. 102-3.
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mossa rimane prerogativa di Dio: «Non so cosa significhi esattamente la fede in Dio, ma certamente è una promozione, è una visitazione»344.
E così si può concludere:
ci si può certo immaginare mossi universalmente con tutto il cosmo dalla Provvidenza. Ma sono i modi in cui la Provvidenza si rivela, sono le epifanie della Provvidenza che mi importano, e io ho avuto queste epifanie. Ma debbo dire che sono stato un poco sensibilizzato a riconoscerle dalla dottrina rosminiana, perché quello che importa, secondo me, di Rosmini, quello che importa al nostro interno, è soprattutto l’ascesi e quello che lui chiama il “principio di passività”. Cioè l’abdicare in Dio. Le rappresentazioni non prevedute e non rifiutabili sono un segno della Provvidenza. E veramente questa idea, che a me parve sempre molto attraente l’ho vista verificarsi in modo flagrante. […] Io ho parlato ora di Dio, di Signore, che sono termini che non amo usare, perché sono termini ontologici, mentre Dio è per me… un prodotto di natura morale. Io penso alla Provvidenza, non penso a Dio. Penso a una rete, penso alla combinazione matematica, se così posso dire, non a un ente estraibile e estrapolabile dalla mia entità, certamente no. […] Ecco, l’oggetto del mio interesse non è l’oggetto della teologia ma il contenuto della teodicea. […] La teodicea è la scienza dei rapporti provvidenziali istituiti da Dio nel complesso del cosmo. E la prima teodicea è quella di Leibniz345;
e l’ultima (per Contini) quella di Antonio Rosmini.
344 345
Ibid., p. 228. Ibid., pp. 114-5 e 117-8.
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È morto in guerra, in Russia, presumibilmente a Stalingrado, un ragazzo tedesco molto simpatico, figlio d’un mio collega (20 anni). Aprendo la casella postale, il padre ha trovato le sue lettere respinte al mittente con un’annotazione a matita di mano d’un furiere, “destinatario caduto sul campo dell’onore”. L’avevo conosciuto pochissimo (nel tempo), ma tanto da volergli bene e da capire che, ad avere un momento di più, sarei stato ricambiato; non sono sicuro che non lo fossi già. Ora vorrei porre al padre de Menasce il sottile quesito teologico se nella vita eterna si potranno amare particolarmente alcune individuali anime, si potrà far domande e avere risposte, sviluppare storicamente i propri rapporti con loro.
Lettera di morte, questa a Montale del novembre 1942 da Domodossola, che si apriva nel ricordo della madre del poeta, appena scomparsa, e che nell’esordio, e verso la chiusa, accennava con chiarezza al crescente peso materiale del conflitto, ipotizzando la distruzione di luoghi genovesi, e adducendo la propria diretta percezione: Stanotte si sentiva di qui, non so poi dove, il cannoneggiamento dell’antiaerea, sul cui fondo si staccavano ogni tanto esplosioni considerevoli1.
Lettera importante, poi, e per diversi motivi. Il primo, assai evidente, Cfr. G. Contini a E. Montale, 19 novembre 1942, in Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, a cura di D. Isella, Milano 1997, pp. 77-8. Sull’esperienza dei bombardamenti cfr. anche G. Contini ad A. Capitini, 23 agosto 1943, in Un’amicizia in atto. Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Aldo Capitini (19351967), a cura di A. Chemello e M. Moretti, Firenze 2012 (d’ora in avanti abbreviato in Contini-Capitini), pp. 102-3. Interessanti considerazioni sugli esiti della guerra aerea in Italia in L. Paggi, Il «popolo dei morti». La repubblica italiana nata dalla guerra (19401946), Bologna 2009, pp. 83-143. 1
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è l’essere documento fra i molti – ma, mi sembra, significativo anche per l’oggetto diretto della riflessione – della fortissima tensione etica e spirituale che avrebbe segnato, in quegli anni, la vicenda politica continiana. Il secondo rinvia a una ineludibile questione di periodizzazione, che qui si pone in margine a una fase particolare dei tormentati esordi universitari di Contini: La mia nomina a Pisa (o a Milano) sembra ormai esclusa. Il pretesto amministrativo invocato è il mio non-coniugio. Ma non discorrerne perché anche troppi si sono occupati, quest’anno, delle mie faccende. A me peraltro, hic et nunc (qualche tempo fa sarebbe stato diverso), la notiziola contingente non ha dato il minimo fastidio, posto che la mia attenzione è richiamata da altri scacchieri2.
La scansione accademica dei tempi sembra rinviare, ormai, anche a questioni di altra natura; così come, forse, non va ricondotta al solo fastidio burocratico la dichiarazione che accompagnava, nello stesso contesto, l’invio a Luigi Russo di un personale curriculum scientifico: «Mi disgusta il còndito e m’interessa solo il condendo»3. È il corso della guerra a segnare uno degli estremi della fase più intensa e ricca dell’esperienza politica di Contini, come è del resto attestato da vicende personali già largamente illustrate4. Eusebio e Trabucco, p. 77. Cfr. G. Contini a L. Russo, 26 [1942], in «Il paesaggio d’un presentista». Corrispondenza tra Gianfranco Contini e Luigi Russo (1936-1961), a cura di D. De Martino, Firenze 2009, p. 45. 4 Sugli scritti e sulla vicenda politica di Contini cfr. almeno C. De Matteis, Contini e dintorni, Lucca 1994, pp. 91-109 – che segue le vicende dell’Ossola, e rende brevemente conto degli scritti di Contini del 1944-45; P. Leoncini, Contini ossolano e ticinese da Rosmini a Capitini, «Microprovincia», 9, 35, 1997, pp. 79-133 – forse troppo orientato alla costruzione di una coerente trama di pensiero fra i due riferimenti ideali prescelti, e con qualche imprecisione; AA.VV., Dedicato a Contini. Atti dell’incontro “Gianfranco Contini e la Giunta provvisoria di Governo dell’Ossola (settembre-ottobre 1944)”, (Estratto da Almanacco Storico Ossolano 2001), Domodossola 2000; O. Besomi, Contini e il Ticino, in Riuscire postcrociani senza essere anticrociani. Gianfranco Contini e gli studi letterari del secondo Novecento, a cura di A.R. Pupino, Firenze 2004, pp. 25-32; G. Ungarelli, Lettori di Contini, «Belfagor», 65, 2010, pp. 521-46, in particolare pp. 53146; F. Contorbia, Una scheda per Contini politico, in Incontri con Gianfranco Contini, Atti degli incontri del 18 marzo 2010 (a cura del Kiwanis Club Domodossola) e del 23 2 3
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Come provvisorio, labile termine ad quem si potrebbe citare una interessante lettera a Ignazio Silone del 16 gennaio 1950: Caro Silone, Codignola deve averle parlato del mio desiderio d’iscrizione al P.S.U., manifestatogli nei giorni stessi del congresso di Firenze sulla base delle informazioni di stampa. Ignoravo l’esistenza d’un manifesto degli “intellettuali”; e mi pare probabilissima a priori la mia adesione; ma desidererei, perché essa possa farsi attuale, che Lei me ne mandasse il testo. Purtroppo i soliti fatti accademici mi obbligano all’esilio in una Università straniera, e perciò non sono al corrente, o con ritardo. Lei mi chiede nomi d’amici ai quali codesto aspetto dell’attività del P.S.U. possa interessare. Non le cito nessun “intellettuale” propriamente detto, poiché quelli politicamente rispettabili Lei li conosce meglio di me. Ma eccole qualche recapito di persone per bene, affini al nostro ordine d’idee e per la maggior parte già iscritti al P.d.A5.
Segue, nella lettera, un elenco di quindici nominativi, accompagnati dalle loro qualifiche professionali, così come definite da Contini. Amici – come Armando Mastrangelo, chimico, Sandro Sinigaglia, piccolo industriale –, studiosi già affermati, o più giovani incaricati universitari e insegnanti medi – Giovanni Macchia, Aurelio Roncaglia, Silvio d’Arco Avalle, Dante Isella, Renzo Federici, Sergio Antonielli, Ignazio Baldelli –, storici dell’arte e funzionari di museo – Claudio Savonuzzi, di aprile 2010 (a cura della Città di Domodossola), Domodossola 2011, pp. 31-7 – messa a punto relativa a una datazione erronea di un breve manifesto politico continiano e convincente proiezione di alcuni motivi del Contini politico sul saggio dedicato a Serra; P. Bologna, Il Contini domese, ibid., pp. 18-22. Cfr. poi anche alcune pagine di A. Del Boca, Un testimone scomodo, Domodossola 2000, pp. 104-18; M. Moretti, «Noi siamo la minoranza in regresso». Spunti politici dal carteggio Capitini-Contini, in Contini-Capitini, pp. XLI-LXXI; A. Di Benedetto, Cultura e azione: variazioni su Contini, «Giornale storico della letteratura italiana», 130, 2013, pp. 161-72. Importante la riedizione di G. Contini, Dove va la cultura europea? Relazione sulle cose di Ginevra, [1946], a cura di L. Baranelli, con un saggio di D. Giglioli, Macerata 2012. Contini viene appena menzionato, una sola volta, nel recente studio d’insieme di F. Attal, Histoire des intellectuels italiens au XXe siècle. Prophètes, philosophes et experts, Paris 2013. 5 G. Contini a I. Silone, 16 gennaio 1950, in Fondazione di Studi storici Filippo Turati, Firenze, Carteggio Silone, corrispondenza generale, busta 2. Per gli accenni nel testo cfr. almeno il saggio introduttivo di B. Falcetto in I. Silone, Romanzi e saggi, vol. 1, Milano 1998, pp. XXIX-CV, in particolare pp. XCII-XCVIII.
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Ferrara, figlio, specificava Contini, dell’ingegnere Girolamo Savonuzzi, «vittima dell’eccidio del ’43», Alfredo Puerari, Licisco Magagnato – e quest’ultima menzione appare significativa: fra i maggiori esponenti del gruppo azionista vicentino durante la Resistenza, poi dirigente del partito, vicino, nel congresso del febbraio 1946, a differenza di Contini, alle posizioni di Ugo La Malfa, scrittore mazziniano, protagonista delle vicende resistenziali poi narrate da Luigi Meneghello. La conclusione attesta la relativa coesione di questa composita rete: «A tutti può citare la mia presentazione; qualcuno sarà magari già iscritto. Con tanti augurî, e con la maggior cordialità». Anche questo documento invita ad alcuni commenti. Unica testimonianza diretta disponibile, al momento, di un rapporto che dovette essere più intenso – e certo non alimentato da corrispondenze sul piano critico e letterario6 –, la lettera evidenzia un approdo più moderato, sul piano delle scelte direttamente politiche, legate cioè a un riferimento a partiti e movimenti, rispetto alle posizioni assunte in anni precedenti; e a questo svolgimento si accennerà brevemente in conclusione. Approdo, peraltro, incerto e fragile, come i precedenti, in fondo, di Contini. Appena nato, nel dicembre 1949, il P.S.U. avrebbe poi avuto una breve vita autonoma, fino al maggio del 1951; successivamente, dopo la fusione con il P.S.L.I., avrebbe dato vita al P.S.D.I. – e verso i saragattiani Contini aveva manifestato, nel recente passato, attenzione, e molti dubbi7. Quanto a Silone, era appena apparso il saggio Uscita di sicurezza, ed egli sarebbe in breve divenuto una delle figure di punta, in Italia, dell’azione del Congress for Cultural Freedom, fondato pochi mesi dopo, e, letterariamente, allora sulla soglia della composizione e della pubblicazione del romanzo Una manciata di more: interlocutore politico, dunque, connotato in modo assai netto8. Colpisce, poi, da parte di Contini, l’impiego freddo, virgolettato, e non Cfr. G. Contini, L. Ripa di Meana, Diligenza e voluttà. Ludovica Ripa di Meana interroga Gianfranco Contini, Milano 1989, p. 133: «Silone, che era un galantuomo straordinario, era purtroppo uno scrittore inesistente». Vari accenni a Silone sono presenti nella corrispondenza di Contini con Capitini. 7 Cfr., ad esempio, G. Contini ad A. Capitini, 30 gennaio 1947, in Contini-Capitini, pp. 157-8; ed anche G. Contini ad A. Apponi, 10 febbraio 1948, in Fondazione Ezio Franceschini, Firenze, Archivio Gianfranco Contini (d’ora in avanti abbreviato in FEF, AC), lettere di Contini, fascicolo Apponi. Una fondamentale, accuratissima descrizione del fondo in C. Borgia, Inventario dell’archivio di Gianfranco Contini, Firenze 2012. 8 Cfr. almeno S.G. Pugliese, Bitter Spring: A Life of Ignazio Silone, New York 2009. 6
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privo di una punta di ironia, del termine intellettuali, sostituito, nelle designazioni continiane, da una locuzione che copre spazio semantico diverso, quella di persone per bene. Può essere qui citato un episodio minimo, ma non privo di rilevanza politica, in anticipo rispetto alla trama cronologica della ricostruzione successiva; episodio utile a una parziale illustrazione di contesto rispetto alla questione degli intellettuali nella sua postbellica versione italiana. Pochi giorni prima delle elezioni politiche del 18 aprile 1948 Aldo Capitini scriveva a Contini per avvertirlo del fatto che nel corso del congresso fiorentino dell’«Alleanza della cultura» – in realtà Alleanza per la difesa della cultura, nata nel febbraio 1948 a sostegno della politica frontista –, che aveva avuto luogo all’inizio di aprile, era stato reso noto un «telegramma tuo di adesione da Londra. Non sapendo quale sia il tuo atteggiamento, mi venne il dubbio che si trattasse di Lulli, e domandai a Roberto Battaglia; ma lui credeva che fossi tu»9. Il Lulli in questione era il giornalista e americanista Gianfranco Corsini; di Roberto Battaglia, militante e poi storico della Resistenza, non occorre dire qui distesamente. Ma il dubbio di Capitini sulle reali posizioni di Contini era fondato: il giorno dopo le elezioni Contini riferiva a Capitini di essersi rivolto a Battaglia, «e se la smentita non verrà da lui la darò io»10. Lo stesso Battaglia si fece carico, con un lieve ritardo del quale si scusava – e in una situazione, passato il voto, di minore urgenza – dell’equivoco: Le assicuro che è stato preso atto della Sua rettifica per gli atti del Convegno; più difficile mi riesce ora di segnalare la stessa rettifica alla stampa quotidiana non risultandomi il giornale sul quale eventualmente è apparso il Suo nome. Le sarò grato pertanto d’una più precisa indicazione e Le chiedo scusa per il peccato veniale che ha commesso l’Alleanza confondendola con il Suo quasi omonimo nel corso del Congresso di Firenze11.
Questa periodizzazione, molto sommaria, lascia delle zone scoperte, e pone ovviamente una serie di problemi, i più significativi dei quali sono, penso, riferibili alla fase genetica di quell’atteggiamento politico che si sarebbe poi pienamente manifestato e articolato negli anni conclusivi
Cfr. A. Capitini a G. Contini, 11 aprile 1948, in Contini-Capitini, p. 199. Cfr. G. Contini ad A. Capitini, ibid., p. 200. 11 R. Battaglia a G. Contini, 7 maggio 1948, in FEF, AC, fascicolo Battaglia. 9
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del conflitto, e nel primo periodo postbellico. E credo sia necessaria una precisazione di ordine generale, in riferimento all’oggetto di questa messa a punto. Quelle che si affrontano qui sono, in sostanza, questioni biografiche, se la determinazione si intende in senso abbastanza largo, e nella sua effettiva densità. Per questa via possono essere ulteriormente documentati passaggi significativi di una vicenda personale sullo sfondo di un rilevantissimo, decisivo contesto storico, in una prospettiva di integrazione, di arricchimento del campo e degli intrecci testuali – biblioteca materiale e ideale, quella politica di Contini, con scaffali almeno in parte ancora da arredare –, oltre che di una approfondita inchiesta all’interno di una dimensione etica, prima ancora che direttamente politica. Ne può anche derivare una collocazione più precisa dell’esperienza di Contini all’interno della mossa, variabile, ambigua geografia politica degli uomini di lettere e di cultura italiani fra guerra e dopoguerra; oltre alla valorizzazione, già più che avviata in sede storiografica, di un genere di scrittura peculiare e ben delimitato, che certo comprende alcuni testi di indubbio risalto – primo fra tutti, direi, la Relazione sulle cose di Ginevra –, ma non tali, nel loro insieme, da scalfire una gerarchia di rilevanze altrimenti basata e consolidata. Di certo le decisioni e le azioni di quegli anni – l’Ossola, anzitutto – rappresentarono per Contini un saldissimo ancoraggio morale ed emotivo. Basterà riprendere in mano a questo proposito – e come primo esempio – un contributo tardo, del 1969, nel quale Contini sottolineava l’importanza di un apporto documentario nuovo, che avrebbe potuto illuminare la storia di un «movimento», e del «suo episodio centrale di governo civile» nella prospettiva di una storiografia «di folla»: come si credevano fatti, come vedevano se stessi e i loro eventi gli attori «di base» di questa esaltante rappresentazione, nella loro maggioranza montanari, operai, donne di campagna12?
Da queste fragili, deperibili testimonianze, da un «patrimonio orale» a rischio di scomparsa anche per non essersi «depositato in un “leggendario” collettivo»13, Contini traeva spunto per ricordare, lui ben
Cfr. G. Contini, Un saluto a questo libro, [1969], in Id., Domodossola entra nella storia e altre pagine ossolane e novaresi, Domodossola 1995, pp. 29-32, a p. 29. 13 Ibid., p. 30. 12
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più degli intervistati, «le speranze frustrate, come sempre accade, dalla realizzazione e istituzionalizzazione», e per far emergere, come senso generale di quella scelta attiva, non da tutti consapevolmente elaborato e presentato, il fatto di «aver vissuto lì […] la grande occasione, l’eccezione che una volta, ma irrevocabilmente, a tutti è concesso di cogliere»14: Un’ultima parola può consentire una riflessione conclusiva. Più di un intervistato asserisce, ed eventualmente insiste, di non aver mai voluto «far politica». «Far politica» vorrebbe evidentemente significare agire in un quadro tecnicamente partitico, attenendosi nel giudizio e nella prassi a un esclusivo «patriottismo» di fazione. Qualora l’intenzione di quei parlanti fosse stato un eccesso di modestia, non bisognerebbe mancare di rassicurarli. Qualunque sia stata l’ideologia inerente ai promotori o agli organizzatori, la Resistenza ossolana è stata un movimento di popolo, sia nei momenti rischiosi della clandestinità, sia in quello palese della collaborazione al Governo provvisorio. La misura della partecipazione pubblica, in cui ognuno ebbe qualcosa da pagare o da perdere (e poi da non reclamare), fu un fatto civile di rara e non abbastanza sottolineata rilevanza. Insidiato nella sfera della sua più legittima indipendenza, il montanaro reagisce, con la violenza ove occorra, all’altrui violenza e sopraffazione […]. Nella solidarietà e anzi identità di volontà che ne nasce, non sarebbe forse un atteggiamento politico, anzi il più fondamentale possibile, quello appunto di chi “non fa politica”? La politica finalmente è un affare troppo serio perché debbano riservarselo, come accade nei momenti dell’amministrazione ordinaria, i politici di professione15.
L’opera di quelle settimane e le pubbliche prese di posizione successive consentirono a Contini – a differenza di quanto avvenne a tanti altri – non solo di non dover ritoccare la propria biografia politica, ma di volgersi all’indietro con un certo understatement. In una celebre intervista – che resta a mio avviso documento pregevole – si sarebbe trovato a rispondere semplicemente no a una domanda sul suo impegno diretto come combattente, ricordando poi il suo incarico di segretario
14 Ibid., p. 31; frasi, queste, che in qualche modo riecheggiano la conclusione del noto saggio del 1948 su Renato Serra, cfr. G. Contini, Serra e l’irrazionale, [1948], in Id., Altri esercizî. (1942-1971), Torino 1972, pp. 77-100, a p. 100. 15 Cfr. Contini, Un saluto a questo libro, pp. 31-2.
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del C.L.N. ossolano, e riandando semmai alla dimensione collettiva di quel breve, intensissimo passaggio storico: Esaltante. Assolutamente esaltante. E la cosa più straordinaria è che la popolazione seguiva con pari entusiasmo – popolazione che solitamente si ritiene sonnolenta e poco interessata alla cosa pubblica –: era veramente entusiasta. E quando la val d’Ossola fu rioccupata, la gran parte della popolazione si rifugiò in Svizzera, e i fascisti trovarono la città deserta16.
Gli studi, accumulatisi negli ultimi anni, dedicati alla cultura italiana nel tornante della guerra, e condotti evocando retrospettive redenzioni, rifugi in collina, spettacolo di naufragi17 – in più di una pagina contrassegnati da un moralismo poco produttivo sul piano critico –, non sembrano insomma sfondo pertinente dell’esperienza continiana. Solo una sistematica ricognizione documentaria, nella prospettiva, lo si accennava, di un largo resoconto biografico consentirebbe di tracciare un profilo adeguato della preistoria politica di Contini. Più di un elemento lo ritroviamo, in questo volume, nel contributo di Fulvio De Giorgi; e alcuni altri dati possono essere già allineati. Era facile essere antifascisti […] Ricordo con piacere quella specie di situazione di semi-congiurati che univa un gruppo di amici. Io ho conosciuto
Contini, Ripa di Meana, Diligenza e voluttà, p. 83. E quanto alla scarsa enfasi posta da Contini sulla propria partecipazione al movimento resistenziale, cfr. G. Contini ad A. Henry, 18 luglio 1945, edita da D. De Martino, «Parigi, col suo zucchero…». Lettere di Gianfranco Contini ad Albert Henry 1935-1945, in Due seminari di filologia (Testo e apparato nella filologia d’autore: problemi di rappresentazione; Filologia e critica stilistica in Gianfranco Contini 1933-1947), a cura di S. Albonico, Alessandria 1999, pp. 177-201, a p. 200: «Tu peux bien te douter que nos amis italiens ont fait de la Résistance. J’ai été, faiblement, du nombre […]. J’ai fait un tout petit peu de littérature et de journalisme éthico-politique». 17 Penso, fra l’altro, a R. Liucci, La tentazione della “casa in collina”. Il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana (1943-1945), Milano 1999 – dove il Contini citato come Gianfranco è in realtà uno studioso contemporaneo, esperto di storia orale; M. Serri, I redenti: gli intellettuali che vissero due volte, 1938-1948, Milano 2005; R. Liucci, Spettatori di un naufragio. Gli intellettuali italiani nella seconda guerra mondiale, Torino 2011. 16
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antifascisti importanti, e l’esperienza più decisiva è quella che feci con Aldo Capitini, che stava a Perugia e che era nel momento del suo fulgore18.
Agevolezza culturale e mentale forse, ché la pratica imponeva comunque ritegno e prudenza; del resto non si deve dimenticare che, negli anni del sodalizio con Contini, Capitini, pure oggetto di stretta sorveglianza da parte della polizia, non veniva ritenuto particolarmente pericoloso. Il questore di Perugia, concludendo un suo rapporto il 6 dicembre 1936, dichiarava che «Il Capitini pur conservando idee antifasciste non ha dato qui finora luogo a speciali rilievi per la condotta politica»19; e ancora il 5 febbraio 1942, sempre dalla questura di Perugia, si osservava, a proposito di Capitini: È ritenuto un misantropo ed ha contatti esclusivamente con pochi alunni di scuole secondarie a cui insegna per campare la vita. Aggiungo che la sua corrispondenza, per qualche anno, è stata sottoposta a revisione, ma non si è riscontrato nulla che possa avere attinenza con una qualsiasi attività politica20.
La nota sulla corrispondenza andrà tenuta ben presente, anche per comprendere tono e andamento dello scambio epistolare fra Contini e Capitini. Per quel che poteva riguardare, in senso lato, la politica, solo frammenti minimi, battute appena accennate, indizi di per sé labilissimi, si trattasse, da parte di Contini, di ironizzare bonariamente sui versi dei suoi allievi che gli giungevano da Perugia – «anacreontiche, dove Di Lei, del Quale privi [2-, come se fossi Dio o Hitler] fa rima con Pianti versiamo a rivi»21 – o sull’anniversario dei Patti Lateranensi, o di alludere, ma qui lo spunto è di maggior peso, all’inizio della guerra civile spagnola22. Da Friburgo, poi, Contini avrebbe inveito, in chiave antimoderata, contro
Cfr. Contini, Ripa di Meana, Diligenza e voluttà, p. 81. Cfr. Uno schedato politico. Aldo Capitini, a cura di C. Cutini, Perugia 1988, p. 34. 20 Ibid., p. 72. 21 Cfr. G. Contini ad A. Capitini, 13 marzo 1936, in Contini-Capitini, p. 9. 22 Cfr., rispettivamente, G. Contini ad A. Capitini, 5 febbraio 1938, in ContiniCapitini, p. 41; e G. Contini ad A. Capitini, 2 agosto 1936, ibid., p. 16. 18 19
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le feci che il citato ottocento depositò verso la sua fine, specie all’ombra della Madonnina e della “Perseveranza”, e che il mio collega Paolo Arcari fa riesumare nelle tesi dei suoi allievi ticinesi (“Gaetano Negri e le sue idee letterarie”, “Giovanni Rizzi e il suo grido contro Stecchetti”), le quali io correlatore regolarmente malmeno23;
e di Arcari, in margine alle vicende che condussero all’estromissione di Capitini dall’Università per Stranieri di Perugia, Contini avrebbe poi scritto, nel novembre 1946, ad Alberto Apponi: «mio collega a Friburgo, fascista eterno, ultradestro e monarchico anche ai miei danni nel periodo dell’internamento»24. Nella stessa lettera del 1938 sulle tesi assegnate da Arcari, poi, Contini aveva informato Capitini della rimozione politica di Montale «dal Vieusseux, anzi, come dice lui, dal W.C. Vieusseux»25. Quanto a Capitini, al di là di accenni su alcuni atteggiamenti che si manifestavano in ambienti cattolici – «ti dirò che un amico cattolicissimo e furibondo perché leggo troppi libri editi da Laterza, mi accusava di spiare dall’alto della mia casa … Calcutta: per lui Königsberg, Tubinga, Pisa, Perugia, Bari e Calcutta sono sulla stessa
Cfr. G. Contini ad A. Capitini, 28 novembre 1938, ibid., p. 61. Su Arcari e Contini a Friburgo, con indicazioni precise anche sulle tesi seguite, cfr. R. Feitknecht, G. Pozzi, Italiano e Italiani a Friburgo. Un episodio di storia letteraria all’estero, Fribourg 1991, in particolare pp. 61-3, sullo scarto Arcari-Contini, e pp. 111-2, sulle tesi seguite da Arcari. E cfr. poi G. Billanovich, C. Dionisotti, D. Isella, G. Pozzi, Maestri italiani a Friburgo (da Arcari a Contini e dopo), Locarno 1998. 24 Cfr. G. Contini ad A. Apponi, 1 novembre 1946, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Apponi. Su Alberto Apponi, magistrato, antifascista, amico e importante corrispondente di Contini, cfr. G. Contini, Ricordo di Alberto Apponi – edito in «La Rivista dei libri», 1, 8, 1998, pp. 45-6, con una premessa di C. Ciociola –, ora in Id., Postremi esercizî ed elzeviri, postfazione di C. Segre, Torino 1998, pp. 197-202; inoltre, Alberto Apponi il politico, il magistrato. Scritti e documenti, a cura di R. Rossi e M. Volpi, note critiche di A. Bitti, Foligno-Perugia 1999 – dove si pubblicano, alle pp. 1168 e 121-2, due lettere di Apponi a Contini. Per l’accenno all’internamento, e più in generale sugli italiani in Svizzera durante la guerra, cfr. almeno E. Signori, La Svizzera e i fuorusciti italiani. Aspetti e problemi dell’emigrazione politica 1943-1945, Milano 1983, e R. Broggini, Terra d’asilo. I rifugiati italiani in Svizzera 1943-1945, Bologna 1993; sulla situazione specifica di Friburgo alcune note in Feitknecht, Pozzi, Italiano e Italiani, pp. 89-91, 209-30. 25 Cfr. G. Contini ad A. Capitini, 28 novembre 1938, in Contini-Capitini, p. 65. 23
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linea; e il male è che non soltanto lui pensa così, e senza scherzare»26 –, andrà segnalata, nella corrispondenza con Contini, la scelta di affidarsi a immagini politicamente allusive nell’invio di cartoline illustrate. Così, nel dicembre 1939, Contini riceveva un breve messaggio dietro l’immagine del corteo perugino dell’ottobre 1910 per l’inaugurazione di una lapide a Francesco Ferrer – «di lì passò questo corteo», nelle vicinanze di un alloggio perugino di Contini27 – e il messaggio era trasparente, per le sue implicazioni libertarie e anticlericali. Due anni più tardi, era la volta della foto di una gita della società operaia «Giuseppe Garibaldi» di Deruta nel 1909, per accusare ricevuta, ringraziando, della traduzione delle liriche di Hölderlin28. Del suo rapporto con Capitini Contini avrebbe, molto più tardi, scritto: Se io non avevo certo bisogno di essere convertito all’opposizione, era la prima volta che conoscevo una “societas” organica, fondata non meno su una morale sistematica che su vincoli di strettissima amicizia. Fu, mi par certo, il momento aureo di Capitini, uno di quei temperamenti risorgimentali più atti a elaborare la resistenza alla tirannia che ad amministrare il grigio quotidiano29.
E non occorre sollecitare troppo il testo per rinvenire, ad esempio, in una lettera di Capitini a Contini dell’11 dicembre 1941 delle suggestioni chiaramente decifrabili dall’interlocutore: «Nell’animo sono sempre, come individuo, sensibile e patiens; come strutture, sicurissimo, limpido e puro. Ho molto raccolto»30. Altre tracce possono essere rinvenute al di fuori di questo colloquio personale, più volte presentato da Contini come fondamentale nel proprio svolgimento intimo ed etico: elemento essenzialissimo di me stesso […]. Altri incontri poterono essere anche più affascinanti nel rispetto intellettuale o nel rispetto sentimentale,
Cfr. A. Capitini a G. Contini, 20 marzo 1936, ibid., p. 11. Cfr. A. Capitini a G. Contini, 1 dicembre 1939, ibid., p. 74. 28 Cfr. A. Capitini a G. Contini, 5 dicembre 1941, ibid., pp. 96-7. 29 Cfr. G. Contini, Capitini alla Normale, [1985], in Id., Postremi esercizî, pp. 165-8, a p. 167. 30 Cfr. A. Capitini a G. Contini, 11 dicembre 1941, in Contini-Capitini, p. 98. 26 27
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e perciò più folgoranti e separabili: nessuno incise e ritagliò in me, come l’“ottimo artista” scheggiando via il “soverchio” del marmo dal suo “concetto”, una struttura d’inchieste morali; nessuno spirò altrettanto il soffio della carità, l’alone d’una santità laica, la presenza e, per usare sue formule, la vicinanza e apertura infinita d’un’amicizia31.
Il carteggio con un dichiarato antifascista come Alberto Apponi, che nella sua sezione iniziale è ovviamente segnato dalle identiche doverose cautele adottate con Capitini, è di per se stesso un indizio rilevante; e, pensando ai brani epistolari citati in apertura, varrà la pena riprendere una lettera del settembre 1942, nella quale Contini, in margine a uno scambio di informazioni su questioni proprietarie, annotava: ho potuto constatare di non avere il 50% della cultura media necessaria di cose giuridiche; e non me ne sento la forma mentis: forse perché amo tanto la giustizia. (Dilexi justitiam, Dio ne scampi dal propterea)32.
Non era in gioco solo la preoccupazione per un destino simile a quello di Ildebrando; stava prendendo forma un peculiare atteggiamento, scientifico e psicologico, che può anche essere visto come precondizione delle successive scelte politiche. Contini scriveva ad Apponi di essere impegnato a smaltire il lavoro arretrato, perché vorrei dopo rifarmi una verginità scrittoria e ispirativa, perché insomma vorrei aver da fare, innanzi a me, solo lavoro-futuro, non questo faticoso lavoropassato. Ma soprattutto per scaricarmi e trovare un derivativo, per tessere un velo intorno alla mia immaginazione e non ascoltare troppo la noia non dico del vivere, che è adorabile cosa certamente, ma del mio vivere, di questo mio vivere. Allo stesso modo, da qualche tempo, fo decine di chilometri a piedi, sotto il sole a picco, sperando di ricevere la gran mazzata; per stancare la bestia, per ubbriacarmi. Come ho cercato di spiegare a qualche esterrefatto, quello lì è
31 Cfr. G. Contini, Aldo Capitini, [1945], in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, a cura di R. Broggini, seconda edizione accresciuta di nuovi testi, Bellinzona 1986, pp. 70-81, a p. 70. 32 Cfr. G. Contini ad A. Apponi, 7 settembre 1942, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Apponi. La frase Dilexi iustitiam et odivi iniquitatem propterea morior in exilio, di origine biblica, è attribuita a Gregorio VII morente.
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il mio alcoolismo. O anche questo podismo en plein air farebbe parte, ditemi, per voi vegetariani, della categoria degli eccitanti (ovvero, che fa poi lo stesso, deprimenti?). Insomma per me le cose non vanno bene, o piuttosto sono sul punto che potrebbero andar bene e non vanno, o non ancora. Quest’anno ho visto ridursi l’ampiezza delle mie reazioni sentimentali, piacere-dolore (così ho visto che il dolore positivo è ancora una forza, rispetto al negativo), e avviarsi la possibilità di quello che direi un cinismo cardiaco, fisiologico. Vecchiaia, no? Eppure non è mica detto, non è detto davvero. Sono disposto ancora a mezzo secolo di gioventù, ma il non-Io deve offrirmi le occasioni di amore33.
Accenni ‘dialettici’ si rinvengono anche nelle lettere di Apponi34; del resto, l’‘esterno’ non avrebbe certo mancato, allora, di fornire sollecitazioni intense. Qualche altro tassello significativo, per interlocutori e date, può poi essere segnalato. Il 29 marzo del 1939 partiva da Cortona una cartolina di saluti indirizzata a Contini e firmata da Umberto Morra di Lavriano, Renato Guttuso ed Eusebio35; alcuni mesi dopo, alla fine di novembre, Morra scriveva a Contini di aver letto tutto il libro – e si tratta degli Esercizî di lettura, e non dell’edizione delle Rime dantesche, non ancora apparsa36 –, manifestando apertamente il suo grande apprezzamento intellettuale: «Questi primi mesi di guerra han visto uscire due libri che mi sono cari – il tuo e le Occasioni –; potrebbero anche essere gli ultimi segni visibili di una civiltà»37. È inoltre conservato un documento singolare, del quale occorre almeno far menzione. Fra le lettere inviate da Contini ad Apponi si trova, legato a una busta spedita dalla stazione ferroviaria di Domodossola al dottor Ibid. Cfr. A. Apponi a G. Contini, 22 gennaio 1943, in FEF, AC, fascicolo Apponi: «la dialettica è legge del consorzio umano, ed è la vita dello spirito in assoluto, ossia la storia: e il collettivismo e l’individualismo sono due astratti tragici». 35 Cfr. U. Morra di Lavriano a G. Contini, 29 marzo 1939, in FEF, AC, fascicolo Morra di Lavriano. 36 Cfr., sul punto, C. Ciociola, La lava sotto la crosta. Per una storia delle “Rime” del ’39, in questi Atti, p. 481. 37 Cfr. U. Morra di Lavriano a G. Contini, 30 novembre 1939, in FEF, AC, fascicolo Morra di Lavriano. Su Morra cfr. almeno R. Pertici, Un liberale del nostro tempo: Umberto Morra di Lavriano, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia», s. 3, 14, 1, 1984, pp. 211-305; A. Bellando, Umberto Morra di Lavriano, Firenze 1990. 33 34
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Alberto Apponi, con timbro postale del 17 luglio 1940, un breve testo in latino sulla scomparsa di Claudio Baglietto, avvenuta a Basilea alla fine di giugno, con integrazioni non di mano di Contini; altra tessera, forse, del mosaico capitiniano38. Questo, senza dire di varie relazioni personali pertinenti rispetto al profilo che si prova a schizzare, e attestate già dalla seconda metà degli anni Trenta, come quella con Carlo Ludovico Ragghianti39. Almeno alcune maglie di una rete probabilmente più ampia, e da ricostruire con cura, sono dunque visibili, e consentono di qualificare un orientamento. Anche altri aspetti della questione, poi, andranno quanto meno menzionati. Nell’aprile del 1936 Contini scriveva, divertito, a Cecchi degli spostamenti del traduttore francese Jean Chuzeville: Sembra stia per andare davvero in Portogallo, ciò che mi fa augurar male della salute di Oliveira Salazar. Arrivò a Pietroburgo il giorno dei funerali di Cecov e vide i moti del ’05. Era in Italia durante l’occupazione delle fabbriche. Passò a Costantinopoli, e Kemal prese il potere. Reduce dalla Siria, e diretto a Bruges, nel ’34 si fermò un giorno a Parigi e scese in piazza: rischiò la pelle, ma ci fu il 6 febbraio. L’ultima che combinò fu l’anno scorso ad Atene, un pomeriggio che scriveva a Lei: il crepitio delle mitragliatrici segnalò il colpo del defunto Venizelos e per quella sera non si trattò più d’imbucare […]. Credo che, rue de Beaune almeno, la sua autorità non sia molto grande; né le sue opinioni monarchiche, filofasciste e seminarili son destinate ad accrescerla40.
La lunga permanenza al potere del dittatore portoghese di fatto incrina una fama di menagramo politico che Contini tendeva invece ad accreditare ironicamente; la lettera, comunque, fornisce indicazioni assai serie. Che Contini parlasse con evidente distacco critico delle posizioni 38 La lettera, senza indicazioni di mittente, è in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Apponi. Sul caso Baglietto cfr. P. Simoncelli, La Normale di Pisa. Tensioni e consenso (1928-1938). Appendice 1944-1949, Milano 1998, pp. 56-98, 120-34. 39 Le lettere di C.L. Ragghianti – la prima risalente al 1936 – a G. Contini in FEF, AC, fascicolo Ragghianti. E sul giovane Ragghianti cfr. R. Pertici, Le scelte di Carlo Ludovico Ragghianti, «Rivista storica italiana», 123, 2011, pp. 150-75. 40 Cfr G. Contini a E. Cecchi, 7 aprile 1936, in L’onestà sperimentale. Carteggio di Emilio Cecchi e Gianfranco Contini, a cura di P. Leoncini, Milano 2000, p. 27. L’accenno stradale era riferito alla sede della casa editrice Gallimard.
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di Chuzeville non pare dubbio; bisognerà poi sottolineare l’accenno alla giornata parigina del 6 febbraio 1934 – la grande manifestazione antiparlamentare della destra in seguito all’affaire Stavisky, che avrebbe poi determinato un complessivo riassetto del quadro politico della terza repubblica, fino alla vittoria del Fronte popolare nelle elezioni del maggio 1936 –; e, più in generale, il vivo interesse nutrito da Contini per la sfera della politica internazionale, cosa del resto tutt’altro che sorprendente, date le inclinazioni e le pratiche dell’opinione colta del tempo. Tracce non irrilevanti di questo interesse si ritrovano in alcuni scritti apparsi negli ultimi mesi del conflitto; e non va sottovalutato l’emergere, dalle pagine continiane, di letture solo all’apparenza stravaganti, e probabilmente ispiratrici. Penso, ad esempio, ai Préliminaires de la guerre à l’Est, opera dell’ex ministro degli Esteri e diplomatico rumeno Grigore Gafencu, apparsa in Svizzera nel 1944 e positivamente menzionata nel delicatissimo contesto programmatico e politico degli interventi di Contini nel giornale della giunta ossolana41; Cfr. G. Contini, Domodossola entra nella storia, [1944], poi in Contini, Domodossola entra nella storia, pp. 5-8, a p. 5; e G. Gafenco, Preliminari della guerra all’Est. Dall’accordo di Mosca (21 agosto 1939) alle ostilità in Russia (22 giugno 1941), Milano 1946, interessante in particolare per alcune considerazioni generali sul riassetto europeo, momento di una riflessione corale, e diversamente articolata, alla quale anche Contini avrebbe preso parte. Il diplomatico rumeno forniva qualche indicazione sui due poli, atlantico e sovietico, che avrebbero segnato il nuovo ordine postbellico; e, specificava, «La realtà sovietica, con la sua “massa” imponente, attiva e prolifica, dominerà i confini orientali dell’Europa. Questo sarà un cambiamento importante in rapporto alla situazione del 1918. L’altro cambiamento si avvia a realizzarsi in Occidente, dove la penetrazione tra la potenza dell’Impero Britannico e quella degli Stati Uniti acquista, ogni giorno più, significato e importanza. I Paesi continentali, i forti come i deboli, non potranno più concepire la grandezza politica altro che nell’unione. L’Europa diverrà il loro sostegno e la loro garanzia, la suprema giustificazione della loro libera esistenza. Anche la Germania sarà obbligata ad integrarsi in codesta Europa» (ibid., p. 18). Non è possibile, qui, dar conto della ricca bibliografia relativa alle discussioni sull’Europa nel corso del XX secolo. Per alcuni spunti cfr., ad esempio, M. Burgess, Federate or Perish: The Continuity and Persistence of the Federal Idea in Europe, 1917-1957, in Europe in Crisis: Intellectuals and the European Idea 1917-1957, ed. by M. Hewitson and M. D’Auria, New York-Oxford 2012, pp. 305-21. Sull’adesione di Contini al Movimento federalista europeo si è soffermata A. Braga, Il sogno europeo. Un carteggio inedito del periodo svizzero, nel corso del convegno Gianfranco Contini (1912-2012) fra impegno politico, Resistenza e rinnovamento della cultura europea, Verbania Fondotoce, 20 ottobre 2012. 41
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oppure alla menzione di Curzon: The Last Phase 1919-1925, di Harold Nicolson, importante storico della diplomazia britannica, apparso nel 1934, e che Contini presentava come «una descrizione e un’analisi dell’incredibile fallimento della politica inglese nell’immediato dopoguerra»42. Bisognerebbe fare i conti approfonditamente con l’esperienza internazionale di Contini, dalla Parigi di metà anni Trenta – che non è solo quella della Sorbona e di Bédier o di Valéry, interlocutore tutt’altro che impolitico, fra l’altro43, ma anche quella del Fronte popolare – alla Svizzera fra immediato anteguerra e primi anni di guerra, per seguire lo svolgimento di visioni e convinzioni politiche – con la dovuta attenzione al lessico: come avrebbe affermato Contini nel 1988, da «segnalare l’abuso recentissimo di cultura nel significato, press’a poco, di orientamento politico […], così sconcio da minacciare l’uso di questa amata parola solo con rossore»44 – che poi si sarebbero manifestate pienamente nel corso degli anni Quaranta, fra guerra e dopoguerra. E penso che all’interno di questo svolgimento la vicenda spagnola possa aver giocato un ruolo molto importante nell’orientare la sensibilità e le scelte politiche di Contini, anche per le sue implicazioni religiose. Va tenuta ben presente, in questo senso, la bella pagina del marzo 1945 nella quale, presentando uno scritto risalente al 1930 del canonico catalano Carles Cardó – catalanista, legato alle correnti del cristianesimo sociale, in esilio in Italia nel 1936, dal 1939 a Friburgo –, Contini ne sottolineava la piena pertinenza rispetto al mondo cattolico del 1945. E la presentazione del saggio offre spunti non trascurabili riguardo all’opinione dello stesso Contini: Il punto di vista del Cardó è tanto più oggettivo, sebbene giustamente appassionato, in quanto il suo libro è venato semmai da un eccesso di riserva nei riguardi delle izquierdas; cosa che si può forse spiegare pensando a certi toni positivistici e fin-di-secolo nelle sinistre spagnole di quegli anni. A noi
42 Cfr. G. Contini, Sulla nozione di Europa. II. Sforza, [1945], in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, pp. 52-9, a p. 55. 43 Cfr. G. Contini a E. Cecchi, 6 luglio 1936, in L’onestà sperimentale, p. 31, dove Contini riassumeva i temi toccati nel colloquio con Valéry: «Indi estetica, storia, mondo moderno, S[ocietà]. d[elle]. N[azioni]. Oltre Lei, tre italiani furon nominati sopra tutto: nell’ordine: Ojetti, Timpanaro e Mussolini». 44 Cfr. Contini, Ripa di Meana, Diligenza e voluttà, p. 177.
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preme anche dar la prova, in questo modo, che solo per abuso prevaricante il falangismo ha potuto pretendere di identificarsi col cattolicesimo spagnolo45.
La nota, breve ma piuttosto densa – da segnalare il richiamo ad altre coeve letture di Contini, come il periodico francese «Temps présent», di area maritainiana – proseguiva rilevando la specifica posizione del clero catalano, concludendo tuttavia, più in generale: Resta un fatto, però, che l’arcivescovo di Tarragona (e dunque, secondo la più autorizzata interpretazione, primate di Spagna), cardinale Vidal i Barraquer, lo si è visto morire l’altr’anno in Svizzera, nell’angolo d’esilio cui lo costringeva la persecuzione del vigente cattolicissimo regime iberico. E questo ci preme asserire: che il problema della libertà spagnola, in ispecie il problema della libertà catalana, sono questioni che interessano ogni europeo. Non per nulla la guerra di Spagna è stata la grande guerra civile di tutta l’Europa, e sulla meseta e tra le sierras è stata rappresentata la prova generale dell’asservimento del continente46.
Pur tenendo presente, a quell’altezza cronologica, la facile suggestione della coerenza retrospettiva, si tratta, mi sembra, di considerazioni che si inseriscono senza troppe frizioni nel quadro indiziario in precedenza abbozzato. Disagio politico ed etico nei confronti della realtà italiana degli anni Trenta, dunque; ricerca ed esperimento di una diversa struttura morale, altrimenti connotata, fra tradizione rosminiana e appartenenza al circolo di Capitini. Ma attorno a un giovane insegnante si addensavano, allora, documenti di altra natura, che rinviano a quello che con un po’ di approssimazione si potrebbe definire fascismo burocratico. Cfr. G. Contini, Premessa a «Ordre», [1945], in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, pp. 62-3, a p. 62. 46 Ibid., p. 63. E si tenga presente il ricordo di un importante esponente catalano del mondo cattolico novecentesco, anch’egli emigrato in Svizzera: «ben presto il professor Gianfranco Contini, che era allora ordinario di filologia romanza a Friburgo, mi disse, poiché conosceva bene il mondo universitario: “A diritto non ti vorranno mai come ordinario, hai studiato lettere: vieni con noi, per il momento ti nominiamo lettore di spagnolo”» (cfr. R. Sugranyes de Franch, Dalla guerra di Spagna al Concilio. Memorie di un protagonista del XX secolo, intervista a cura di P. Hilari Raguer, Soveria Mannelli 2003, p. 86). 45
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Giunto a Perugia, Contini dovette subito fare i conti con una certa preoccupazione da parte del preside del liceo «Mariotti», che il 5 novembre 1934 si rivolgeva al ministero dell’Educazione nazionale a proposito del congedo per studio all’estero del nuovo docente: Riconosco giusta l’aspirazione del prof. Contini (che mi ha fatto subito l’impressione di un bravo giovane) a un perfezionamento; ma ho la convinzione che anche la Scuola e le famiglie abbiano i loro diritti; e che questi diritti non siano riconosciuti se per due anni la cattedra principale del Liceo è ricoperta sulla carta da chi effettivamente non c’è. Infatti l’anno scorso la cattedra cui è stato destinato oggi il Prof. Contini era sulla carta ricoperta dal Prof. Umberto Bosco che nessuno ha mai visto a Perugia; ottenuta la rimozione di quest’ultimo, neanche a farlo apposta, si sta per riprodurre la stessa identica situazione col Prof. Contini! Io ho chiesto e chiedo rispettosamente che gli si neghi la chiesta aspettativa e subordinatamente che lo si trasferisca sulla carta altrove e qui si mandi finalmente e stabilmente un Professore di ruolo47.
Nonostante l’esordio problematico i rapporti poi si stabilizzarono; ancora al momento della scomparsa, nel 1949, del preside, don Pietro Pizzoni, Capitini avrebbe spedito a Contini un ritaglio di giornale, dal «Nuovo Corriere», dedicato a quella morte improvvisa48. Pizzoni, del resto, fu figura sulla quale converrebbe soffermarsi: vicino prima al movimento di Romolo Murri, poi a mons. Umberto Fracassini e agli ambienti modernisti perugini, più tardi passato su posizioni filonazionaliste, ebbe certamente un ruolo non trascurabile nella vita perugina di quegli anni49. Nei moduli riservati contenenti il profilo dei La lettera è conservata nel fascicolo personale di G. Contini presso l’Archivio storico della Scuola Normale Superiore di Pisa, archivio di deposito. Il fascicolo, che consta di due cartelle, contiene documentazione biografica di un certo interesse. I documenti ricordati nelle pagine seguenti senza uno specifico rinvio in nota si intendono tratti dal fascicolo personale. 48 Cfr. A. Capitini a G. Contini, 15 luglio 1949, in Contini-Capitini, p. 230. 49 Cfr. almeno M. Casella, La crisi modernista a Perugia: clero e seminario al tempo di Pio X, Napoli 1998; Il murrismo come rinnovamento culturale e religioso, a cura di L. Bedeschi, «Fonti e documenti», 18-9, 1989-90, pp. 7-309, alle pp. 42-5, e Sei documenti segreti sulla polemica modernista, a cura di E. Ciocca, «Fonti e documenti», 20-1, 199192, pp. 129-273, alle pp. 246-59. 47
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docenti di ruolo, per l’anno scolastico 1936-37, il preside annotava al punto A («Fatti che valgano a delineare la personalità del professore») i buoni rapporti di Contini con i colleghi, e la stima manifestata dagli alunni, aggiungendo, al punto B («Con quale consapevolezza ed efficacia informi il suo insegnamento allo spirito e alle direttive del Governo Fascista?») che Contini «Agisce da fascista nella scuola (dove entra volentieri in argomento sulle idealità e realizzazioni del Regime) e fuori»; al punto C («Con quale atteggiamento e azione partecipi alle manifestazioni della vita nazionale») don Pizzoni scriveva: «Con atteggiamento franco e deciso di fascista». E tuttavia, accanto alla grande efficacia didattica e allo spiccato senso del dovere del giovane insegnante si faceva anche notare – con qualche elemento di tensione rispetto alle osservazioni precedenti – che Contini «È lo studioso che si occupa solo dei suoi libri e della scuola». Un profilo più esteso era contenuto nella relazione stesa dallo stesso don Pizzoni, datata 24 aprile 1937, per la promozione a professore ordinario nella scuola secondaria dello stesso Contini: È un giovane intelligente, colto, pieno di risorse che gli accattivano le simpatie dei colleghi e l’affetto non che la stima degli alunni. È iscritto al P.N.F. dal 1928 (provenendo dai fasci giovanili); all’A.F.S. dal 1936; agisce da fascista fuori e a Scuola dove sa cogliere le occasioni opportune per illustrare le idealità e le realizzazioni del Regime. Possiede una ottima cultura così generale che speciale, specialmente in italiano; cultura che alimenta con uno studio assiduo frutto del quale sono anche alcune pubblicazioni. L’accuratezza della preparazione; la genialità della esposizione; le risorse di cui dispone rendono il suo insegnamento non solo interessante ma efficace. E se come tutti coloro che incominciano dovrà perfezionarsi e soprattutto sfrondare ed in qualche punto divenire più pratico e meno esigente, è indubbio che si è incamminato bene. Corregge i compiti con cura e collo svolgimento dei programmi è a posto. Mantiene ottimamente la disciplina. Lo stato di salute è buono50.
Che l’attenzione per le qualità intellettuali e pedagogiche dell’insegnante fosse prevalente, in un documento di questa natura, rispetto a quella per il suo profilo politico, è ben comprensibile; notizie diverse sulla data di
50 Il documento è già stato edito in margine alla lettera di A. Capitini a G. Contini, 15 luglio 1936, in Contini-Capitini, pp. 14-5.
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iscrizione al partito si rinvengono in altri documenti personali. C’è campo largo, di fronte a testi come quelli appena citati, per supposizioni e letture a chiave di diverso segno. Sembrerebbe difficile che nella Perugia di metà anni Trenta un personaggio con il passato e la posizione di don Pizzoni non avesse alcuna informazione sui movimenti e sulle amicizie del suo docente; e non è forse nemmeno decisivo optare per una interpretazione prevalente delle motivazioni di quel ritratto politico così rassicurante – volesse il preside, cioè, semplicemente non agitare questioni attorno alla sua scuola, si sentisse tranquillizzato dalla indubbia prudenza di Contini, o condividesse con le autorità di polizia, come si è visto, una valutazione di scarsa pericolosità dei ristretti circoli che facevano capo alla stanzetta nella torre campanaria di Perugia, quella che si manifestava era, tutto sommato, la natura capillare e oppressiva, ma non necessariamente aggressiva, del controllo in determinati contesti. Poi, volendo, si potrebbe anche vedere nella registrata disponibilità di Contini a entrare «in argomento sulle idealità e realizzazioni» fasciste, nel colloquio con gli studenti, l’applicazione di un codice di comportamento in senso lato capitiniano, il confronto come potenziale avvio di una presa di coscienza; ma per questa via si può anche correre il rischio di sovraccaricare di significati formule poco più che stereotipe. In ogni caso, il passaggio a Friburgo non chiuse affatto questo tipo di partita; anzi, per alcuni versi, lo complicò. Sulla finale decisione di Contini, anzitutto, pesò certamente un duro intervento telegrafico di Bottai: Risulterebbe che dopo essersi inpegnato [sic] accettare uffizio in caso vittoria concorso cattedra filologia romanza Università Friburgo Svizzera intendereste ora rifiutare cattedra stessa alt Poiché tale rifiuto arrecherebbe serio pregiudizio interessi culturali nostro paese et costituirebbe gravissima inosservanza vostri doveri studioso italiano vogliate assicurarmi telegraficamente vostra accettazione alt Avverto che sarebbero altrimenti adottati severi provvedimenti vostro carico alt = Bottai Ministro Educazione Nazionale.
Nel marzo 1947 Contini inviava ad Apponi copia di questo telegramma, ricevuto il 21 luglio 1938, nel quadro di quei tentativi di revisione della propria posizione accademica, rimasti senza esito, che molto lo occuparono nell’immediato dopoguerra51; l’approdo elvetico era stato
51 Cfr. G. Contini ad A. Apponi, 20 marzo 1947, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Apponi.
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comunque ritenuto politicamente significativo, mentre proseguivano le normali annotazioni sullo stato di servizio. Nell’anno scolastico 1938-39 venivano segnalati il successo dei corsi tenuti da Contini e la larga stima goduta dal docente, mentre ai punti B e C, in precedenza specificati, e più direttamente politici, si accreditavano a Contini «consapevolezza» e «molto entusiasmo»; più estesamente nella scheda per il 1939-40: è fedele a tutti i principii del Fascismo e fa propaganda attiva tra gli stranieri, anche come presidente della “Dante” di Friburgo.
Il 12 gennaio 1940 Attilio Tamaro – irredentista, nazionalista, poi diplomatico italiano, dal 1935 al 1943 ministro d’Italia a Berna – inviava al ministero degli Affari esteri la relazione per la promozione a ordinario di Contini: Il Prof. GIANFRANCO CONTINI è un giovane di non comune, anzi di raro valore. Preparatissimo scientificamente e dotto in grado superlativo e originale nella sua materia, ha in più una vasta cultura umanistica. Le sue lezioni all’Università di Friburgo sono altamente stimate, e tanto il Capo dell’Istruzione Pubblica di quel Cantone quanto il Rettore si sono, parlando con me, dichiarati contentissimi di lui. Ha conquistato larghe simpatie in quell’ambiente universitario, dove si ritengono i suoi corsi per nulla inferiori a quelli dei suoi illustri predecessori Monteverde [sic] e Migliorini. Secondo me, è un eruditissimo professore, capace di tenere una cattedra più importante; e che certamente si farà un nome chiarissimo nel campo della filologia romanza. Sono contento della sua attività come fascista, perché è sempre pronto quando gli si domandi qualche cosa per la colonia. Come presidente della Dante Alighieri ha già organizzato importanti conferenze, ottenendo l’intervento delle autorità pubbliche e universitarie.
Anche in questo caso l’accento era posto sul professore; e la precisa localizzazione del contributo, della presenza ‘politica’ – che invita fra l’altro a qualche approfondimento in ambito non solo scientifico e accademico, ma rivolto ai rapporti di Contini con la comunità italiana e alla gestione del suo ruolo pubblico a Friburgo52 – può lasciar supporre
52 Un primo tentativo di raccogliere informazioni documentarie presso la sede della «Dante Alighieri» di Friburgo non ha prodotto risultati. E non vanno in questa
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un impegno, da parte di Contini, che, se svolto con misura, non avrebbe dovuto comportare massicce dosi di nicodemismo. I moduli del ministero degli Affari esteri fornivano ulteriori, e non difformi informazioni. Nel 1940-41 la personalità del professore veniva così delineata: come uomo=vita esemplare come cittadino=devotissimo alla Patria e al Regime come educatore=altamente stimato dalle Autorità accademiche, amato dai suoi allievi, fautore intelligentissimo ed attivissimo di propaganda italiana negli ambienti stranieri.
Nulla da aggiungere nella sezione informazioni riservate per il 1942-43. Più tardi, e in diversi formulari, la parola sarebbe passata direttamente a Contini. Nella Scheda personale predisposta dall’alto commissariato per l’epurazione, e compilata a mano da Contini, si legge dell’iscrizione al partito, all’interno del quale Contini non aveva ricoperto alcuna carica, sono riportate sintetiche informazioni sulla carriera – non prive di una punta di polemica ironia: «vincitore della cattedra di filologia romanza all’Università di Friburgo [in concorso naturalmente svizzero], e perciò messo dal Ministero italiano dell’E. N. a disposizione di quello degli Esteri, 1938» –, si specifica che alla data dell’8 settembre 1943 lo scrivente, comandato a Friburgo, aveva «continuato a prestare servizio alle dipendenze della Legazione d’Italia in Berna, fedele al governo legittimo». Alla voce Attività politica e militare Contini, sobriamente, dichiarava: «Ho svolto attività politica antifascista (segretario del CLN di Zona durante la liberazione dell’Ossola, sett.-ott. 1944)». Occorrerà poi dire di altri due capitoli di questa vicenda. Il primo è quello della smentita redatta da Contini, e apparsa nel 1939 in «La difesa della razza», relativa alle proprie presunte origini ebraiche. Il primo giugno 1938 Contini aveva scritto a Capitini: «Tornando, ho trovato una lettera in cui Migliorini mi chiede se il mio cognome non è ebreo… Gli rispondo in modo da lasciare il segno. Del resto mi par di capire che si tratta di una “voce”»53. Pagina difficile, questa della smentita,
direzione le pagine – che pure ritengo assai significative, anche per il Contini ‘politico’ – di G. Pozzi, Dittico per Contini, in Id., Alternatim, Milano 1996, pp. 526-74. 53 Cfr. G. Contini ad A. Capitini, 1 giugno 1938, in Contini-Capitini, p. 46; e L’opera di Gianfranco Contini. Bibliografia degli scritti, a cura di G. Breschi, Firenze 2000, p. 20.
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e grigia, se si vuole; oltre ai dati generali di contesto sarà comunque bene non dimenticare anche la violenza e il cinismo (non solo fascisti) dell’accademia italiana. Né sarà inopportuno ricordare, a vent’anni di distanza, la chiusa del saggio su I più antichi esempî di «razza», nel quale Contini aveva contestato la derivazione da ratio proposta da Leo Spitzer, per suggerire quella dall’a. fr. haraz, allevamento di cavalli: Un attonimento retrospettivo merita piuttosto tanto sciupìo di platonismo, neoplatonismo, patristica, scolastica, idealismo vòlto a suffragare la nobile derivazione. Per l’appoggio terminologico di tanta abiezione, ferocia e soprattutto stupidità, quanto è più ricreativo avergli scovata una nascita zoologica, veterinaria, equina54!
Il secondo è quello dei rapporti con Giovanni Gentile. Poiché, più avanti, ricorrerà anche il nome di Benedetto Croce, devo precisare subito che non intendo in alcun modo affrontare la questione – rilevante, complessa, e già variamente trattata – della posizione di Contini, sincrona e, per così dire, postuma, rispetto agli indirizzi e ai maestri del neo-idealismo italiano55. Per quanto sia operazione rozza e discutibile – al limite, in effetti, dell’impraticabilità critica – vorrei limitarmi a dei diretti, estrinseci cenni politici. Fulvio De Giorgi illustra, qui, le più immediate implicazioni accademiche della relazione personale di Contini con Gentile – in margine alla domanda di trasferimento da Perugia presentata da Contini il 15 aprile 1937, contenuta nel suo fascicolo personale, e nella quale venivano indicate come possibili sedi future Firenze, Pisa, Prato, una nota a matita specificava: «Il sen. Gentile lo raccomanda per sede vicinissima a Pisa. Potrebbe essere Viareggio» –; quella relazione che avrebbe portato Cfr. G. Contini, I più antichi esempî di «razza» (1959), in Frammenti di filologia romanza. Scritti di ecdotica e linguistica (1932-1989), a cura di G. Breschi, vol. 2, Firenze 2007, pp. 1319-26, a p. 1326; e anche Scartafacci di Contini. Catalogo della mostra, a cura di C. Borgia e F. Zabagli, Firenze 2012, p. 83. 55 Cfr., fra l’altro, F. Finotti, La storia finita. Filologia e critica degli «scartafacci», «Lettere italiane», 46, 1994, pp. 3-43; M. Capati, Saggio preliminare su Gianfranco Contini, in Id., Cantimori, Contini, Garin. Crisi di una cultura idealistica, Bologna 1997, pp. 39-71; vari saggi raccolti in Riuscire postcrociani senza essere anticrociani; G. Lucchini, Studi su Gianfranco Contini: «fra laboratorio e letteratura». Dalla critica stilistica alla grammatica della poesia, Pisa 2013. 54
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Contini a scrivere, allo stesso Gentile e a Luigi Russo, di tenersi «onorato di dovere gratitudine»56 al filosofo. Naturalmente il discorso non può esaurirsi su questo terreno. Pur evitando di proposito, si è detto, la dimensione dell’incidenza culturale – ma, per citare come esempio di valutazione un solo frammento privato, può essere menzionata la lettera a Capitini del gennaio 1942 nella quale Contini, discutendo della Composizione capitiniana poi pubblicata l’anno successivo con il titolo Atti della presenza aperta, osservava fra l’altro: «Storicamente, ha molto d’un’opera vociana, ma con una differenza essenziale (nell’ordine solo morale, tuttavia), che non è sperimentale ma ascetica. C’è passato sopra Gentile»57 –, bisognerà almeno fare i conti, sul piano politico, con il giudizio sulla morte di Gentile. Il motivo della ‘gratitudine’ richiama immediatamente un importante scambio di lettere aperte avvenuto nel marzo-aprile 1947 fra Contini e Giovanni Battista Angioletti. I testi, parzialmente recuperati in margine al carteggio Contini-Montale, sono noti58, ma meritano un supplemento di attenzione. All’origine della discussione con Angioletti, una questione che si è già toccata – dicendo della lettera a Silone, o della smentita di Battaglia –, e che in effetti traversa l’intera esperienza politica di Contini, costituendone uno dei motivi di fondo. Per renderla nella sua chiarezza e immediatezza, nulla di meglio che dare la parola allo stesso Contini, a proposito di Giuseppe Mazzini: Il s’oppose à la formule de l’art pour l’art, et c’est là peut-être le point où il nous paraît le moins actuel, car nous savons bien aujourd’hui que la défense de la liberté de l’art, telle que la menèrent gauchement et à la façon des hors la loi les premiers romantiques, d’une manière adéquate Poe, Baudelaire et nos autres patriarches, est aussi un mode de la lutte contre la tyrannie, la sauvegarde de l’indépendance d’une valeur humaine, exemplaire pour
56 Cfr. G. Contini a L. Russo, 23 novembre 1942, in «Il paesaggio d’un presentista», p. 54. 57 Cfr. G. Contini ad A. Capitini, 24 gennaio 1942, in Contini-Capitini, p. 100. 58 Cfr. Eusebio e Trabucco, pp. 168-71 (ripresa, peraltro, in sostanza decontestualizzata). Su Angioletti, con vari accenni e alcuni documenti continiani – ma senza un esame approfondito di questo episodio e di altri ai quali si farà cenno più avanti – cfr. L. Saltini, Il viaggiatore della parola. G. B. Angioletti (1896-1961), Lugano 2007.
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l’homme tout entier, contre les empiètements de l’extérieur. Si cette formule cache un dilettantisme facile et la peur des compromissions, ou bien le culte très dangereux de l’esthétisme, ce sont là des attitudes extra-artistiques59.
Il brano è notevole, nelle sue clausole e specificazioni, anche per le coeve applicazioni storiografiche di Contini alla letteratura italiana contemporanea; molto netto il segno di una scelta che è documentata, lo si vedrà, da altre testimonianze di singolare efficacia, e che conduceva in direzione opposta rispetto a quella di strumentali contaminazioni. Schivando termini e locuzioni così logori da far quasi tenerezza, in riferimento agli usi e agli abusi nel contesto italiano – gli ‘intellettuali’, l’‘impegno dei letterati’ –, non è inutile rammentare una constatazione del Contini più tardo, in margine al racconto della sua tarda consuetudine televisiva: Io son sempre stato grande amatore di Charlot. Le ultime cose di Charlot che ho visto sul piccolo schermo, mah, mi sono state delusive. Forse avrei dovuto vederle in sala […]. E poi vorrei dire che c’è anche l’eteronomia della rappresentazione: cioè, Charlot mira a qualche cosa che è al di fuori dello spettacolo. Il suo spettacolo è quasi sempre politico e, spesso, è grossolanamente politico, e questo incide sulla bellezza, sull’oggettività60.
Per tornare ad Angioletti e Contini, il pretesto del confronto era modesto, poco più che occasionale. All’inizio del 1947 Angioletti, allora direttore della «Fiera Letteraria», aveva costituito, accanto alla rivista, una associazione, indicando pubblicamente fra gli aderenti anche Contini61. Questi, in una lettera aperta apparsa nella «Fiera», smentiva Cfr. G. Contini, Giuseppe Mazzini, [1944], in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, pp. 128-36, alle pp. 129-30. 60 Cfr. Contini, Ripa di Meana, Diligenza e voluttà, p. 67. 61 In privato Angioletti prese subito atto del malinteso, ma anche della portata più generale della replica di Contini: «ho ricevuto la tua cartolina e la lettera da pubblicare. Mi dispiace per l’equivoco: chissà come mai, leggendo una tua lettera precedente, avevo creduto di scorgervi un’adesione […]. Comunque, pubblico la lettera. Ma poiché il contenuto di essa può ingenerare altri equivoci per i lettori, ho creduto opportuno di commentarla. Spero che non te ne adonterai. È anzi bene, mi pare, che ognuno di noi chiarisca le proprie posizioni. Io – e sarò caparbio – rimango sempre più radicato a quelle che tu conosci; ma oso sperare che questo non ti impedisca di collaborare a un 59
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la notizia, aggiungendo un commento che andava ben al di là della circostanza: Quanto al merito, ti dirò che vivo nella libertà dell’arte, e ne sono talmente geloso, che stimo rischioso perfino riunirmi a operare per la libertà dell’arte: com’è, salvo errore, negli scopi dell’Associazione. È, beninteso, un’opinione personale, che potrai mettere a carico del mio temperamento sostanzialmente anarchico e libertario. (Paul Valéry mi disse una volta: “Je suis un anarchiste d’ordre”)62.
La replica di Angioletti era dura, un vero e proprio richiamo all’ordine, nettamente orientato. Al di là dell’equivoco sull’adesione all’associazione, Angioletti addebitava a Contini un atteggiamento diffuso, sintomo di un disagio profondo che circolava fra gli uomini di cultura. Poche settimane prima, sempre nella «Fiera Letteraria», Angioletti aveva pubblicato un lungo articolo, Invito agli intellettuali d’Europa, nel quale si leggeva fra l’altro: può darsi che oggi gli intellettuali scontino per primi l’accettazione passiva di un irremissibile dolore, di un timor panico che può portare al delitto più facile e più tenebroso: la soppressione morale della persona. Tant’è vero che si ha persino paura, oggi, di pronunciare la parola «individuo». Nobile è il sogno di redimere la società, di soccorrere le moltitudini; ma sogno rimane, se non si comincia col redimere i singoli, se non si restituisce all’individuo la propria dignità63.
Nel dichiarato ‘anarchismo’ di Contini, Angioletti scriveva di vedere una via di fuga incongrua rispetto ai tratti costitutivi della persona: proprio tu, lo sai benissimo, sei fra quelli che credono con fermezza all’impegno morale, alla serietà, anzi religiosità della vita, e quindi all’obbligo
giornale che – dopo tutto – è rimasto il solo a combattere contro l’ignavia del pubblico» (cfr. G.B. Angioletti a G. Contini, in FEF, AC, fascicolo Angioletti). 62 Cfr. G. Contini, G.B. Angioletti, Dell’anarchismo come riserva mentale, «Fiera Letteraria», 2, 11, 13 marzo 1947, in prima pagina. 63 Cfr. G.B. Angioletti, Invito agli intellettuali d’Europa, «Fiera Letteraria», 2, 1, 2 gennaio 1947, p. 1.
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di prendere ciascuno le proprie responsabilità. Il tuo «giansenismo» è di quelli che incutono rispetto; e la tua cultura, che io scherzosamente definisco sterminata, è stata sempre messa da te al servizio di un ingegno e di una coscienza privi di timore. Ebbene, sembra a me che, oggi, la posizione dell’anarchismo, quale tu lo vagheggi, permetta invece di sfuggire con eleganza a quelle responsabilità; sia cioè una posizione di comodo, una specie nuovissima di “riserva mentale” a uso esclusivo dei laici. Posizione, lo concedo, che può rivelarsi utilissima a chi si arrenda davanti a certo terrorismo intellettuale dal quale tu non ti lasci intimidire; quel terrorismo che adopera le armi della seduzione e magari dell’amicizia per avviare la cultura in senso unico64.
Trasparenti, direi, le implicazioni anticomuniste dell’argomentare di Angioletti, sostenuto da citazioni di frammenti diaristici di Gide, e dalla convinzione dell’assoluta insufficienza, in quel momento, del «sentirsi nella libertà […]. Oggi si tratta proprio di operare per la libertà»65, insisteva Angioletti, a differenza di quel che avevano fatto molti intellettuali negli anni Trenta, con alcune grandi eccezioni come quella rappresentata da Benedetto Croce. E, in conclusione, Angioletti introduceva l’accenno a Gentile: io preferisco, se una guerra accetto, combatterla in prima linea (Ascrivi, caro Contini, anche questa “battuta” a quel donchisciottismo che mi rimproverasti quando, dopo la morte di Giovanni Gentile, io credetti doveroso ricordare in un giornale svizzero che quell’uomo ucciso fu un grande filosofo)66.
Nel «Corriere del Ticino» del 22 aprile 1944 Angioletti aveva pubblicato un breve scritto, Giovanni Gentile e l’arte, nel quale il pensiero gentiliano era presentato sotto il segno dell’unificazione «delle attività dello spirito», e venivano sottolineate le profonde differenze esistenti fra l’estetica di Croce e quella di Gentile – «egli insistette nella definizione di poesia come superiore vita etica o totalità spirituale; e ogni qual volta ebbe a giudicare l’opera di un poeta, mise in luce la poesia non come espressione isolabile di bellezza, ma come azione morale in cui
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Cfr. Contini, Angioletti, Dell’anarchismo. Ibid. Ibid.
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la bellezza assumeva la missione suprema di educare» –. Impensabile per Gentile, proseguiva Angioletti, uno Stato agnostico di fronte all’arte, anche se questa posizione non si traduceva necessariamente in favore di un’«arte di Stato»; così com’era difficilmente concepibile, date le premesse generali di pensiero, una scissione fra elaborazione intellettuale e coinvolgimento personale: La vita di Giovanni Gentile, tragicamente in questi giorni troncata, fu spesa anche per l’attuazione di quelle idee. Non giudicheremo noi, in tempi non sereni, se per il bene della cultura europea sarebbe stato preferibile un distacco dall’azione pratica quotidiana; ma dovremo pure ammettere che per questo filosofo, come per Croce, l’azione era un imperativo al quale lo portava la sua stessa teoria; e se vi fu errore di giudizio o di scelta, esso fu forse l’errore fatale di molti pensatori, i quali ritengono di poter adattare la statura umana – così varia, così ingannevole – alle proprie profonde e quasi ineffabili astrazioni67.
Pur dichiarando la propria preferenza per le «formulazioni estetiche del suo grande avversario», Angioletti metteva in risalto l’importanza, e l’efficacia educativa dell’opera culturale di Gentile, il suo continuo lavoro, la personale «generosità»: Noi dobbiamo oggi soffrire, e molto ancora soffriremo, è certo; e quanti di noi credono giusto odiare, per quelle sofferenze! Ma non commettiamo l’ingiustizia, noi che amiamo la vita dello spirito, di restare indifferenti o impietosi di fronte alla scomparsa di chi lo spirito onorò come rivelazione divina68.
Contini doveva ricordare bene quest’articolo. E, nel 1947, la pubblica presa di posizione di Angioletti – che almeno in parte spostava il piano del confronto, come Contini prontamente registrava69 – era tale da
Cfr. G.B. Angioletti, Giovanni Gentile e l’arte, «Corriere del Ticino», 54, 94, 22 aprile 1944, p. 3. 68 Ibid. 69 Cfr. Contini precisa, «Fiera Letteraria», 2, 14, 3 aprile 1947, nella rubrica «Protocollo privato»; e anche G. Contini a G.B. Angioletti, 19 marzo 1947, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Angioletti, dove Contini dichiarava la sua volontà di chiudere la 67
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richiedere, nel suo complesso, una messa a punto non reticente. In privato, sollecitato dallo stesso Angioletti, Contini aveva risposto, nel gennaio, all’Invito agli intellettuali: Nel merito del tuo appello mi è meno facile entrare. La ragione fondamentale è questa: io non sono né pessimista né sfiduciato, ma il mio ottimismo e la mia fiducia sono alquanto diversi dai tuoi. Se i tuoi otterranno un risultato pratico, soltanto la mia soddisfazione sarà pari al mio stupore. Vorrà dire che questo mondo 1947 sarà tanto meno difficile di come io me l’immagino. In ogni modo, il mio punto di vista è esposto adeguatamente nel mio servizio ginevrino, ma riguardo al tuo scritto lo posso articolare nel modo seguente: 1) uomo-massa e uomo-individuo sono specificazioni correlative, e nella loro dogmaticità egualmente odiose, rispetto all’(idealmente anteriore) uomo-persona; 2) il richiamo alla libertà (quale e di chi?) è forse più equivoco d’un richiamo all’umanità; 3) repellere l’azione e la politicità sono già azione e politica, sono già un impegno, poiché l’apoliticità si può vivere, ma nella predicazione si autodistrugge; 4) di conseguenza, all’azione strettamente politica si può opporre solo un altro tipo d’azione – religiosa –, non comunque un’azione “umanistica”, che sociologicamente non può avere valore universale, ma anzi si presta a diventare soprastruttura d’interessi particolari. Quasi perfetto, invece, il nostro accordo sulla collaborazione internazionale (nessun primato, o magari federazione di differenziati primati); sul suo carattere europeo, anche politicamente, io mi espressi a suo tempo chiaramente70.
Nella «Fiera Letteraria» del 3 aprile 1947, poi, veniva pubblicata una sua lunga lettera, Contini precisa, redatta in tono qua e là ironico, ma testo in realtà piuttosto denso, e utile, come quello appena citato, a cogliere alcuni tratti di fondo della ‘politica’ continiana. Affettuoso, tutto sommato, era il gioco sullo scarto generazionale – Angioletti era nato nel 1896 – che legava in qualche misura Angioletti ai tradizionali ambienti dell’anarchismo milanese, mentre ad altro Contini aveva
polemica e non escludeva la prospettiva di una futura collaborazione, mostrandosi spiacente dell’insistenza su fatti relativi alla sua persona, «la quale nell’uomo di cultura non si dovrebbe mai far vedere. Si dovrebbe vedere solo il prodotto, mai il produttore». 70 Cfr. G. Contini a G.B. Angioletti, 8 gennaio 1947, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Angioletti.
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voluto riferirsi definendosi anarchico. Ma sui punti sostanziali Contini si esprimeva con grande durezza e chiarezza: la tua postilla finisce per prendersela con la riserva mentale e l’elusione di responsabilità, atteggiamenti che (salvo tua e mia ottimistica illusione) non sembrano i più propri a definirmi […]. Ma i nostri lettori, ai quali per la maggior parte la minore età vietò (come a me) di prendere una cotta per l’Unico e di, come tu dici, «mettere fuoco alle polveri», avranno inteso che il mio metaforico anarchismo significa: in politica, proporsi un’azione liberale entro una società socialista; in politica letteraria, negare ogni legittimità a questa formula, e cioè rifiutarsi di fare della politica (per usare un’espressione della teologia morale) “fuori del debito vaso”. Debbo pertanto correggere il tuo invito a una politica letteraria, che per avventura potrebbe portare a una politica tout court opposta alla mia, in un invito alla politica (opportuno per i letterati non più che per gli altri cittadini) nella sua più competente sede. Altro che riserva mentale71!
Il ricorso, volutamente forte, al lessico dell’interdetto sessuale per respingere un appello alla mobilitazione giudicato improprio nei suoi termini, e nell’individuazione dei destinatari, segna l’intervento di Contini, che va letto, in serie, in stretta relazione con altri personali documenti coevi che ci restituiscono umori e impressioni sull’Italia politica e civile del primo periodo postbellico. Poi, Gentile: Di un punto di fatto, peraltro, che essi non possono non ignorare, ritengo che i nostri lettori debbano essere informati, perché la tua allusione è totalmente inesatta e tale da indurli ad antipatiche interpretazioni. Quando, nella primavera del ’44, tu pubblicasti sul Corriere del Ticino quel necrologio elogiastico di Gentile che ti fece accusare dai politici del più nero sabotaggio, fummo in tre o quattro, compresi alcuni comunisti e socialisti, a prendere le tue difese. Io dicevo a quei politici (molti dei quali erano pur stati commossi da quel tragicissimo episodio): Angioletti è un temperamento romantico e donchisciottesco (dopo Unamuno e Casella, don Chisciotte mi pare che sia un eroe positivo); dovendo gratitudine all’ucciso e sapendo che non si poteva farne un elogio indiscriminato senza incorrere nell’impopolarità, ha calcolato, forse nel subconscio, che questa sarebbe stata una giusta
71
Cfr. Contini precisa.
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ricompensa al suo debito di riconoscenza; quello scritto è un fatto personale, non politico. I politici opponevano che in situazioni-limite, come quella, tutto diventa, magari preterintenzionalmente, politico. Poiché io ti riferii, e anche altri, e la mia linea defensionale di causidico, e l’obiezione, inducesti evidentemente che io ti “rimproverassi” un atteggiamento unicamente e unilateralmente affettivo. Credo peraltro di aver mostrato in fatto (vedi il mio articolo di Lettres) che si potesse scrivere di Gentile, in questi stessi mesi, senza prestare a nessun equivoco72.
Angioletti, di seguito, negava di aver contratto debiti con Gentile, di natura personale o scientifica; e anche in forma privata la discussione si chiuse a quel punto. Gratitudine, invece, Contini aveva ammesso di doverne, a Gentile; e la ricomposizione retrospettiva della vicenda merita alcuni commenti. Una constatazione, anzitutto: nella prosa di Contini i superlativi, mi pare, non abbondano; scrivendo, pubblicamente, di tragicissimo episodio73 Contini intendeva connotare la propria posizione, certo non coincidente in tutto con quella dei «politici» censori di Angioletti. Non coincidente, però, neppure con l’atteggiamento «elogiastico» di Angioletti – la cronologia conta, e la morte di Gentile precede di vari mesi l’esperimento dell’Ossola, né è da escludere che la riflessione su quanto era accaduto a Firenze, e sul quadro generale che anche eventi come quello venivano delineando, possa aver contribuito, assieme a molte altre sollecitazioni, a orientare decisioni e scelte di Contini. Interessante, poi, e da raccogliere, anche in rapporto a quel che Angioletti aveva sostenuto nel suo articolo su Gentile, è la segnalazione, da parte di Contini, del peso attribuito ai brevi ma densi passaggi gentiliani nell’esame delle tendenze della letteratura italiana contemporanea proposto, nel 1944, ai ‘lettori forestieri’. Gentile vi era chiamato in causa, né avrebbe potuto essere altrimenti, in rapporto a Croce, nel quadro della polarità prospettata da Contini fra «deux conceptions de la vie: l’une que nous dénommerons distinctive, l’autre unitaire»74. Concezioni della vita e della critica, anche se Contini,
Ibid. Altro superlativo da non trascurare quello riferito alla «fine atrocissima di Pasolini» nel Poscritto 1983 alla Avvertenza in G. Contini, Letteratura dell’Italia unita 1861-1968, che cito dall’edizione Sansoni-RCS, Firenze-Milano 1994, p. VII. 74 Cfr. G. Contini, Introduction à l’étude de la littérature italienne contemporaine, 72 73
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nel registrarne l’irriducibilità, ne prospettava, o meglio ne auspicava, il superamento, dans une rapidité extrême de dialectisation d’irrationnel et de rationnel, profondeur de vie et profondeur de prise de conscience se dévorant l’une l’autre: les dépasser non pas dans l’ordre de la pensée, ce qui est effort constant depuis un siècle et demi, mais dans celui d’une ascèse quotidienne, pour laquelle la compréhensibilité du monde n’appartiendrait pas à l’être, clef universelle, mais relèverait du devoir-être75.
Molto più efficace e produttivo di conseguenze sul piano storiografico e della critica letteraria, secondo Contini, il ‘distintivo’ Croce, mentre la gentiliana Filosofia dell’arte aveva avuto un impatto molto meno significativo rispetto al Sistema di logica o al Sommario di pedagogia; né Contini si riconosceva nel De Sanctis di Gentile, storico della letteratura «aux directives éthiques», e ben poco somigliante a quello poi presentato in un profilo antologico nel 194976. E tuttavia, nel campo ‘unitario’ e segnato da inclinazioni mistiche, la posizione di Gentile rimaneva particolare, per ragioni sia storiche che teoretiche: Le critique le plus acerbe de l’historicisme aura été le frère ennemi de M. Croce, Giovanni Gentile, lequel, altéré de rigueur moniste, se refusa, en dépit de quelques traces d’une tripartition amenée par l’opposition de subjectivité et d’objectivité, à segmenter l’unité de l’acte pur. Les injures métaphysiquement pittoresques n’ayant pas fait défaut dans la polémique de plus en plus passionnée qui sépare les deux grands penseurs, longtemps liés par une collaboration intime dont l’empreinte a marqué la culture italienne […]. Seulement, il serait difficile de faire de Gentile un irrationaliste, puisque sa catégorie unique est celle de la pensée, à laquelle l’art même doit être réduit77.
[1944], in Id., Altri esercizî, pp. 235-65, a p. 237. 75 Ibid., p. 241. 76 Ibid., p. 240; e cfr. G. Contini, Introduzione a F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, [1949], a cura di G. Contini, Torino 1968, pp. 11-42. Sull’antologia desanctisiana cfr. G. Lucchini, Contini e la scelta degli scritti desanctisiani, ora in Id., Studi su Gianfranco Contini, pp. 57-87. 77 Cfr. Contini, Introduction à l’étude, p. 238.
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Né si trattava solo di definire, retrospettivamente, la rilevanza di un ruolo, o i caratteri generali di un pensiero; di questo si potevano indicare anche esiti, magari eterodossi. E l’asprezza dei tempi non impediva a Contini di segnalarne uno che dal suo punto di vista era certamente molto qualificante. Se le attualissime parole dell’esistenzialismo, scriveva Contini, erano l’angoscia, la disperazione, il senso della morte, il en est une plus importante, celle de l’amour. Aucune voix ne l’a proclamée avec autant d’ardeur que celle de M. Aldo Capitini, l’une des personnalités religieuses les plus fortes de cette époque, sorte de Journet ou de Barth hors des églises (également comme attitude politique de non-collaboration), dans sa théorie de l’unité-amour et de Dieu comme ouverture infinie vers les Autres, d’où découlent les impératifs de la non-violence et du non-mensonge. Or M. Capitini, disciple plutôt de l’actualisme que de l’historicisme, comme d’ailleurs plusieurs courageux théoriciens de la résistance […] suggère comme but instant de la philosophie italienne celui de greffer la fondation de la transcendance de la personne, terme de l’amour, sur l’exigence immanentiste et transcendentaliste de la lignée de Kant78.
Mettendo in evidenza, in quel momento, gli antecedenti in senso lato gentiliani del pensiero di Capitini, fondamentale punto di riferimento, allora, del proprio antifascismo, Contini sfiorava una questione più ampia di quella relativa alla sola biografia intellettuale di Capitini. Del resto, la panoramica letteraria era disseminata di spunti riconducibili alla sfera della particolare riflessione politica continiana. Sulla natura di questa ‘politicità’ occorre, come è ovvio, intendersi. Il 2 gennaio 1946
78 Ibid., p. 239. E per analoga valutazione di certi esiti del pensiero gentiliano, con menzione, oltre che di Capitini, di Calogero e Spirito, cfr. G. Contini, «Nolo purgari», «Il Mondo», 2, 25, 1946, pp. 2 e 11. Su Contini e Gentile, con riferimento a questo saggio, non sempre convincente mi sembra Capati, Saggio preliminare, pp. 53-9. Per Contini e Barth cfr. almeno G. Contini, Noi e i tedeschi, [1945], in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, pp. 95-7, testo notevole sia per le sue implicazioni etiche, sia per l’asserita prossimità della denuncia barthiana dei crimini nazisti all’interesse dei «lettori italiani: quanto più è religioso che l’uomo accetti le responsabilità delle proprie colpe (purché non gli siano rimproverate da bocche ipocrite), piuttosto che affannarsi in ogni istante a proclamare la sua totale innocenza; quanto più, d’altra parte, l’Italia stessa si trova al fondo del disastro, costretta a partire da zero» (ibid., p. 95).
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Emilio Cecchi riferiva a Contini di un colloquio avuto con De Robertis a Firenze a proposito di quell’articolo; e mi pare che ne abbia riportata un’impressione analoga a quella che ne avevo riportata io. Anch’io la ritengo più forte nelle prime parti che nell’ultima, dove è diventato un po’ troppo un elenco di nomi e di promesse, che tutti naturalmente ci auguriamo di vedere realizzate in pieno. Forse anche è diventato un po’ politico; che non c’è niente di male se il criterio “politico” va di pari passo col criterio “realizzazione”, che in critica è poi il solo che conta: insomma è un panorama metà realistico metà … profetico79.
Contini, che aveva lavorato alla stesura di un secondo, analogo saggio, allora non pubblicato – documento fondamentale, più di altri interventi espressamente politici, per la ricostruzione degli orientamenti, e del quadro di riferimenti dello stesso Contini80 –, rispondeva precisando, piuttosto seccamente: Non ti vorrei tediare con quel famoso (nel senso latino classico) articolo di Lettres, del quale s’è già parlato troppo più che non chiedessero i suoi meriti; ma mi puoi spiegare, anzi dimostrare, l’asserita ‘politicità’ di quelle pagine? Politicità esterna si può dire che non ce ne sia: posso proprio vantare, lì, una discrezione non inferiore alla mia passione politica. Male impiegata, tuttavia, se si può credere che quei giudizî letterarî (come tali, discutibilissimi) sono dolorosamente, ipocritamente mossi da ragioni extraletterarie. Poiché spero bene che non vorrai attribuire al mio canone di ‘rivoluzione’ altro valore che metafisico, anzi gnoseologico. Insomma, rassicurami (o inquietami del tutto)81.
Quanto alla ‘politicità esterna’ la rivendicazione di Contini appare del tutto fondata, certo non incrinata da battute come quella sul «camarade» Vittorini82; ma è difficile non assegnare al repertorio dei temi politici, ad esempio, l’iniziale spunto sulla separatezza delle recenti manifestazioni della vita letteraria italiana, immune dall’addebito
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Cfr. E. Cecchi a G. Contini, 2 gennaio 1946, in L’onestà sperimentale, p. 59. Cfr. G. Contini, Lettre d’Italie (1945), [1971], in Id., Altri esercizî, pp. 267-93. Cfr. G. Contini a E. Cecchi, 13 gennaio 1946, in L’onestà sperimentale, p. 61. Cfr. Contini, Introduction à l’étude, p. 258.
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de s’être conçue en objet de propagande. Parmi les formes de la vie publique, en voilà une au moins – et il serait aisé d’y faire rentrer tous les aspects authentiques de l’expression artistique – qui aura choisi l’existence plutôt que le caractère ostentatoire de la prédication. Qui dit existence, dit concentration, introversion, humilité83.
Si pensi poi al ricorrere, specie in margine ai riferimenti a Croce, della critica al paradigma ‘umanistico’, con la conclusiva dichiarazione relativa alla «fin de l’individu humaniste»84, che rinvia al marcato anti-individualismo di tante pagine politiche85; all’emergere di alcuni non trascurabili accenti antiborghesi86; oppure a un accenno, non privo di riserve, all’ermetismo – «La jeunesse italienne contenait un besoin de ténèbres et d’amour, et l’hermétisme paraissait désaltérer, même involontairement, cette soif, la flattant de sa vague sollicitation religieuse, d’ailleurs sans issue»87 –, illustrato da un accostamento di poco successivo, contenuto in altro testo, a proposito degli indirizzi del partito d’azione: menacé d’une interprétation radicale-socialiste, il lui faudrait d’abord la repousser décidément pour assumer l’héritage de “la Révolution libérale” et du “libéral-socialisme” (ce courant a son excellent organe dans la revue “Liberalsocialismo”). On en est toujours à la nécessité d’un mouvement minoritaire, hérétique, presque clandestin, qui soit plus et moins qu’un parti, à l’opportunité d’un “hermétisme” politique88.
E la stessa conclusione di questo saggio del 1944, con il primato assegnato alla prospettiva di una «civilisation d’amour» rispetto Ibid., p. 235. Ibid., p. 257. 85 Fra i molti esempi possibili, basterà qui rinviare a G. Contini, Prologo, [1945], in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, pp. 17-21, pp. 17-8: «Abbiamo delle idee comuni molto determinate, e ci moviamo tutti nell’ambito d’una duplice esigenza: da un lato, dell’istanza liberale, in quanto promuova l’uomo a centro d’iniziativa e lo porti dal piano dell’individuo su quello della persona (nulla odiamo quanto il liberalismo dell’individuo); d’altro lato, dell’istanza sociale, in quanto tenda a tradurre radicalmente la solidarietà umana in istituti concreti che sottraggano gli altri alla parte di strumenti». 86 Cfr. Contini, Introduction à l’étude, pp. 260, 265. 87 Ibid., p. 252. 88 Cfr. Contini, Lettre d’Italie, p. 271. 83 84
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alla conquista della libertà, trova più di un riscontro nei coevi scritti politici89. In questo contesto estremamente sintetico, conviene ripeterlo, i conti con Gentile erano dunque stati fatti in maniera non liquidatoria. Sul piano storiografico, poi, il dossier gentiliano sarebbe rimasto aperto a lungo. Il 20 luglio 1968, a proposito dell’antologia curata da Contini della Letteratura dell’Italia unita, Riccardo Bacchelli scriveva a Contini: Non voglio chiudere senza dirti che il tuo libro, per esempio in quel che dici di Gentile è anche atto di giustizia e di equanimità (ossia verità) criticostorica90.
Il breve profilo di Gentile che precedeva la ripresa di un discorso del febbraio 1918 su La profezia di Dante presenta in effetti, considerando anche il momento della stesura, vari aspetti meritevoli di segnalazione. Immediatamente richiamata la morte di Gentile «per la sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana», Contini qualificava Gentile, con Croce, come «il più importante filosofo italiano del secolo, come lui promotore di grandi imprese culturali, quanto lui inserito nella vita politica militante». Contini proseguiva poi accennando alla progressiva divaricazione dei percorsi di pensiero dei due antichi sodali – «Nell’attualismo o idealismo attuale la realtà è in quanto si fa, processo della soggettività che insieme pensa e vuole. La distinzione crociana, Cfr. Contini, Introduction à l’étude, p. 265; e anche, ad esempio, G. Contini, Inscindibilità, [1945], in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, pp. 89-94, a p. 93, dove Contini, riecheggiando formule capitiniane, osservava: «Quanto abbiamo esposto si può anche riassumere in una formula come la seguente: inattualità, anzi impossibilità fisica dell’egoismo; inseparabilità delle sorti dell’individuo dalle sorti della società, di quello che ormai ben alla lettera è diventato il suo “prossimo”. Ma non si vorrebbe concludere troppo frettolosamente senza sottolineare che la società, rete di punti umani, può essere intesa in due sensi ben distinti non certo come somma di individui, che sarebbe un terzo senso, da respingere idealmente e precisamente respinto dai fatti, o come massa globale, imposta, obbligatoria, oppure come forma di solidarietà nata dalla rottura spontanea della propria indipendenza e da una sorta di identificazione con gli altri. Questa seconda concezione è quella dell’amore, che certo può essere, con qualche pensatore, considerato, e ivi sarebbe il suo valore, come un “di più”, una cosa non necessaria. Si badi però che sulla soglia di quest’aggiunta non necessaria (in questo potrebbe consistere il nostro marxismo) conduce la necessità storica; posto che chi non s’aprirà agli altri li subirà come una costrizione di massa». 90 Cfr. R. Bacchelli a G. Contini, 20 luglio 1968, in Scartafacci di Contini, p. 96. 89
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quella che il Croce definiva “unità nella distinzione”, trascenderebbe l’atto; al pensiero si opporrebbe la natura»91 –, e collegando, in fondo, aspetti importanti dell’elaborazione intellettuale gentiliana alle sue principali scelte politiche: Il concetto di Stato etico, «in interiore homine», nel quale l’individuo si attuerebbe socialmente diventando individuo concreto, anima l’interpretazione che il Gentile conferì al nostro Risorgimento come superamento dell’individualismo rinascimentale; e contribuirà a spiegare la sua adesione al fascismo, la quale dopo il 1924 lo collocò in definitiva antitesi anche politica al Croce. Il Gentile per la verità partecipò efficacemente all’azione politica solo come ministro dell’Istruzione nel primo governo Mussolini, per un anno e mezzo92.
Da quest’ultima constatazione Contini faceva derivare due diversi ordini di considerazioni. Il primo riguardava la politica scolastica di Gentile, la riforma, che certamente si inseriva nel solco di precedenti elaborazioni, e che, considerata naturalmente nella sua organicità originaria, prima dei deformanti ritocchi inflittile dai successori, è un capolavoro forse senza uguali nella storia delle istituzioni didattiche, ispirato a uno spirito profondamente liberale. La prevalenza della formazione diretta sui testi rispetto all’informazione attinta dai manuali; l’interrogazione come collaborazione e colloquio anziché come finale controllo; la libertà dell’insegnamento, assimilati il pubblico e il privato alla verifica finale dell’esame di Stato, sono […] i cardini di questa grandiosa riforma, certo piuttosto umanistica che tecnologica e volta in prevalenza alla selezione della classe dirigente: ciò che corrispondeva al momento storico93.
Qui la valutazione storica va considerata anche nel suo scarto rispetto alla pregressa esperienza politica. Nello scorrere le proposte della
Cfr. G. Contini, Giovanni Gentile, in Id., Letteratura dell’Italia unita, pp. 485-7, a p. 485. Scontato sottolineare l’interesse di altri profili biografici per una più compiuta indagine sul Contini politico, e sulla sua visione della recente storia italiana. 92 Ibid., p. 486. 93 Ibid. 91
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Commissione didattica consultiva della giunta ossolana, della quale Contini aveva fatto parte, si notano subito delle divergenze, in fondo ovvie, rispetto all’architettura gentiliana. Senza volersi ora soffermare in una distesa analisi tecnica, basterà pensare, ad esempio, al tendenziale ‘unicismo’ – anche se diversamente concepito rispetto a quello della Carta di Bottai – della scuola media, oppure alla franca rivalutazione dell’«importanza formativa, rispondente alle condizioni odierne della civiltà», delle discipline scientifiche94. Ma anche in quel caso l’obiettivo polemico pare essere soprattutto la scuola pienamente fascistizzata della seconda metà degli anni Trenta ben più di quella immaginata da Gentile, come sembrano mostrare vari indizi, dalle indicazioni relative alla trattazione della storia del Risorgimento italiano alla revisione dell’impostazione paramilitare dell’educazione fisica e, più in generale, un impianto distante dalla retorica ‘lavoristica’ bottaiana. E del resto già nel 1945 Contini si era espresso in termini non troppo diversi da quelli poi usati nella scheda gentiliana, domandandosi se non ci fosse, «in Italia, troppa paura di nominare la riforma Gentile, per quanto liberale, aiutata da Croce, identica a quella che stavano elaborando i ministri precedenti, e infatti sùbito sabotata dal regime»95. Il ritorno su Gentile a quasi venticinque anni dalla morte era però segnato in modo ancora più marcato dallo svolgimento dell’osservazione relativa alla breve durata della sua reale incidenza politica: Il successivo pronto annullamento dell’autorità politica del Gentile, tollerato nell’àmbito delle imprese culturali (basti ricordare l’Enciclopedia Italiana), e il suo riapparire in scena come fiancheggiatore solo nei momenti di crisi (manifesto degli intellettuali fascisti, 1925; discorso in Campidoglio per la sconfitta, 1943; rinnovata adesione a Mussolini, causa della sua tragica fine) sono significativi così della psicologia del Gentile come della diffidenza verso di lui da parte del regime, che, nella sua convergenza di revisionismo
Cfr. da ultimo F.O. Zorini, Scuola e cultura nella repubblica partigiana dell’Ossola, in Istituto Campano per la Storia della Resistenza, dell’Antifascismo e dell’Età Contemporanea «Vera Lombardi», La ‘Repubblica’ prima della Repubblica. Val d’Ossola 1944: democrazia repubblicana alla prova, Napoli 2011 (= «Resistenza/Resistoria», bollettino annuale, 2011), pp. 41-56; la citazione a p. 47. 95 Cfr. G. Contini, Saluto a «Esprit», [1945], in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, pp. 64-9, a p. 67. 94
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socialista, idealismo pragmatico (giustificazione del fatto compiuto) e nazionalismo, preferì di solito assumere a “precursori” culturali Georges Sorel, lo storico (e narratore) romagnolo Alfredo Oriani (1852-1909), magari Nietzsche e D’Annunzio96.
Diverse, dunque, per Contini, rispetto all’idealismo attualistico gentiliano, le correnti prevalenti nella costituzione dell’ideologia fascista; e su un altro punto qualificante si poteva poi distinguere la posizione di Gentile rispetto alle scelte mussoliniane: Che l’ex-ministro potesse celebrare ancora per il 20 settembre del 1928, essendo imminente la conclusione dei patti Lateranensi, la saggezza della separazione di Stato e Chiesa sancita dalla legge delle guarentigie, addita nel Gentile un protrarsi dello spirito liberale ormai anacronistico rispetto al fascismo e alla piega assunta dalla storia d’Italia97.
Quest’ultima notazione echeggiava preoccupazioni che erano state assai vive nel Contini postbellico98, così come il tentativo di caratterizzare storicamente, in modo di necessità schematicissimo, la natura e gli indirizzi del fascismo. Del resto, impostando nei termini di una contrastata quanto profonda adesione l’analisi del rapporto di Gentile con il regime – sul piano, quindi, di una complessità irriducibile a sommarie liquidazioni come a postume assoluzioni –, Contini rimaneva tutto sommato aderente a quanto, fra il 1944 e il 1947, si era trovato a scrivere su un personaggio che era stato anche suo benevolo interlocutore accademico. All’uscita dalla guerra Angioletti si era trovato a mettere in guardia Contini da un punto di vista diverso rispetto a quello assunto nella polemica giornalistica del 1947. A un Contini che manifestava disagio e stanchezza, Angioletti aveva scritto:
Cfr. Contini, Giovanni Gentile, p. 486. Ibid., p. 487. 98 Cfr. G. Contini ad A. Apponi, 9 agosto 1948, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Apponi, dove Contini, dopo l’esito delle elezioni dell’aprile, parlava di «tridentinizzazione dell’Italia». 96 97
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Io vorrei parlarti a lungo, con tutta franchezza, anche a costo di cagionare in te qualche irritazione. Ma bisognerebbe vedersi; e mi limiterò a dirti che – secondo me – tu dovresti rimetterti interamente ai tuoi studi. Credi a me, un “politico” di meno nell’Italia non reca danno; un Contini di meno le recherebbe un danno gravissimo. Tu sei dotato di un ingegno così singolare, di una sensibilità così acuta, di una cultura così sorprendente – direi unica per la tua età – che il tuo compito, il tuo dovere, è di operare per le lettere del nostro Paese. Il tuo problema morale è uno solo: lavorare per lo spirito, per la poesia, per l’arte. Hai dato alla causa quel che dovevi dare, e soltanto qualche uggioso fanatico potrebbe trovare che devi dare di più. Noi tutti possiamo, chi più chi meno, giovare a un risorgere civile dell’Italia, ma ognuno secondo la propria verità. La tua verità è l’intelligenza, è la cultura, e la tua giovinezza eccezionale ti ha indicato chiaramente la strada che – all’avanguardia – puoi percorrere. In Italia si parlerà, si parlerà (e si sta parlando!), sarà (ed è già) un diluvio di parole: parole d’acqua, dunque, che presto saranno assorbite da un terreno troppo assetato. Tu, come pochissimi altri, devi scrivere: parole che si incidano nella testa di chi sa capire, che lascino una traccia. Scrivi, chiuditi nel tuo mondo, soffri, disperati magari, sii il martire di una splendida inutilità, di un pauroso individualismo […]. Tu farai grandi cose; ma dovrai lasciare da parte le tentazioni dell’attualità99.
Angioletti, in Svizzera, aveva avuto notizia dell’azione politica di Contini, e contatto diretto con i suoi scritti; ma qualche ulteriore verifica sulla nozione coeva del Contini «duce di Domo»100 contribuirebbe a definire con maggior precisione un ambito di riferimento. La replica di Contini è da associare alle sue più limpide pagine politiche, anche per la capacità di mettere in luce principi, nessi e implicazioni. Tutt’altro che irritanti, scriveva, le considerazioni del corrispondente, anche perché il tuo ordine di pensieri si trova a coincidere in questo punto col mio. Che ti fa pensare che, dopo rientrato in possesso dei miei libri e d’una casa, non avrei ripreso in pieno il mio solito lavoro, che non è mai stato interrotto se non accidentalmente? Non ho mica nessuna intenzione di ‘fare della politica’. Quello che ho fatto finora era comandato dallo stato di emergenza, era, se preferisci, la mia forma di mobilitazione. Credo di
99 100
Cfr. G.B. Angioletti a G. Contini, 31 maggio 1945, in FEF, AC, fascicolo Angioletti. Cfr. E. Montale a G. Contini, 29 maggio 1945, in Eusebio e Trabucco, p. 95.
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non avere oltrepassato i limiti della necessità, non dico della necessità fisica, perché tutto fu fatto in piena libertà di scelta, ma di quella tal necessità morale che si chiama dovere. Certo insufficiente e come gesto e come esempio, corrispondeva però a un’intenzione la cui umanità non è inferiore e non è opposta a quella degli Esercizî o del Bonvesin, tanto per dire. E questa intenzione era storica, cioè rispondente a certe circostanze. Codeste circostanze sento che sono cessate. Non è detto che non ne risorgano di analoghe. Fatto sta che io, ora, mi riservo, come un partito che non volesse assumere la responsabilità governativa di un’eredità disastrosa; preferendo, visto che il proprio intervento sarebbe, ora, nullo, che si brucino gli altri. Ma questa è politica. È politico il determinare se e quando si debba fare direttamente ed esplicitamente politica. In quest’accezione rimango sempre politico. L’attualità, mi spiace, m’interessa sempre; non quella della cronaca, però, ma quella delle anime. A questa, se permetti, rimango attaccato; pur sapendo che nei suoi momenti di grande ebullizione ed escursione tutta la cronaca si fa annettere dall’anima – come appunto accadde fra il ’43 e il ’45, e come, se avessi avuto età sufficiente, sarebbe accaduto vent’anni prima. Capisco che cosa vuoi dire quando mi esorti all’azione inutile, ma non userei la stessa parola. Ho cominciato a lavorare in piena solitudine, e senza pensare a nessuno di fuori, e mi sono accorto con molto stupore che questo lavoro investiva in parallelo interessi altrui. Spontaneamente, la mia letteratura è stata molto più “sociale” o “politica” della mia politica. Ma dopo una tale constatazione l’ipotesi iniziale di solitudine è difficilmente ripristinabile; benché ci si ricada al limite nella rinnovazione della spontaneità, che non è difficile a chi ama il lavoro onesto. Una sola cosa mi dispiacerà un poco: che tu leggerai questa lettera con meraviglia. Ma non è tutta racchiusa nel mio pezzo di ‘Belle Lettere’? I giorni scorsi ho letto Gide e Du Bos invece di Marx e Trotzkij; ma che significa? Non ci sta tutto dentro un uomo101?
Il motivo dell’‘emergenza’, della particolare situazione nella quale erano state assunte determinate decisioni, ricorre in altri documenti continiani – ad esempio nell’importante lettera del capodanno 1946 a Capitini, nella quale Contini avrebbe ricordato: «Io mi trovai a optare formalmente, per la non so dir quanto discutibile formula del CLN, al momento dell’insurrezione dell’Ossola, abbastanza urgente,
101 Cfr. G. Contini a G.B. Angioletti, 25 [giugno 1945], in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Angioletti.
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e da allora non ho smesso, come avrai visto di interpretare in senso attivo, pragmatico»102 –; qui, però, legato alla rivendicazione forte della completa autonomia dell’azione, di una partecipazione concreta non indotta soltanto da vincolanti condizioni esterne. Ben più significativa, perché di portata generale, l’asserita circolarità fra il ‘lavorare’ critico e la ‘mobilitazione’ politica, nel segno di una integrale umanità dell’opera che era anche condizione della sua efficacia in rapporto agli «interessi altrui». Torna in mente, fra l’altro, una pagina di Gian Carlo Pozzi nella quale vengono evocate le impressioni di lettura del saggio, apparso nel 1935, che chiudeva la raccolta del 1942 Un anno di letteratura: in polemica con la teleologia naturalistica dell’architetto Le Corbusier, che si fa teorico di una felicità collettiva programmata e modellata urbanisticamente, Contini respinge quella che chiama felicità d’alveare, rivendica la libertà dell’anima apponendo all’ultima riga un motto che si stacca dal testo come una controfirma alla sua presa di posizione: “À nous la liberté”. Era il titolo non specificato di un film satirico e anarcoide del 1932 di René Clair, il regista di “Sous les toits de Paris” e di “Quatorze juillet”, che Contini facilmente vide a Parigi, dove passò lunghi periodi di studio. Ma per me a quel punto il motto esprimeva ciò che la fabula insegna, era una formula che si offriva alla mente, consona allo stato d’animo maturato103.
Terreno suggestivo e scivoloso, questo, che per essere percorso comporterebbe deviazioni dall’esito incerto. Più definito il senso dell’indicazione di lettura che in questa come in altre carte private Contini forniva di un suo intervento pubblico, qui il breve saggio La letteratura, la libertà, apparso all’inizio del 1945. Da collegare direttamente al profilo della recente letteratura italiana edito l’anno prima, l’articolo apriva una nuova, effimera pubblicazione letteraria ticinese, che si esaurì nei tre numeri composti fra 1945 e 1946. Contini si interrogava, in effetti, sui caratteri di una possibile rivista letteraria italiana, dal problematico profilo, mentre era agevolmente ipotizzabile – e sul punto Contini, in quegli anni, sarebbe tornato più volte – una «rivista di cultura morale» all’interno della quale lo spazio letterario
Cfr. G. Contini ad A. Capitini, 1 gennaio 1946, in Contini-Capitini, p. 114. Cfr. G.C. Pozzi, Preistoria e storia di un incontro nella Repubblica dell’Ossola, in AA.VV., Dedicato a Contini, pp. 9-32, a p. 13. 102 103
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sarebbe stato garantito solo «in quanto (e nei limiti in cui) la libertà e d’altra parte l’umanità della ricerca letteraria siano un essenziale problema morale»104. Per esserlo, fra le macerie prodotte dalla guerra, l’operazione letteraria avrebbe dovuto scansare distinti pericoli, ben visibili, anzitutto, nella Francia del Fronte popolare e poi della sconfitta, e nell’Italia fascista: Nessun dubbio che la letteratura francese fosse, quando cadde inatteso su lei il disastro, l’aristocraticissima, la squisita punta di un’estenuazione borghese […]; ed ecco i preziosi, dico gli eccellenti fra i lirici, da Jouve a Emmanuel, da Supervielle a Eluard e Aragon, smottare con mossa improvvisa nella regione della poesia civile. La sostanza della politica interna oggi non è affatto remota, da Francia a Italia; ma a non avvilupparsi nel «fatto» aveva assuefatta l’intellighenzia italiana una lunga durata di resistenza passiva e di riserbo, tradottasi poi in un’astensione insomma totale dei migliori, al momento del supremo discrimine […]. Ma ecco una diagnosi più circostanziata dell’equivoco: quei poeti lavoravano nel quadro d’una tecnica gnoseologica (poniamo, il surrealismo) o d’una mistica profana (poniamo, il freudismo); e li trasferirono pari pari alla attualità, onde le facilità euristiche dell’assenza, della tenebra, del martirio trasportate alla patria105.
Di fronte a questo corto circuito si imponeva una drastica opera di ridefinizione di termini e confini, un ripensamento degli «eccessi intellettualistici delle poetiche», senza dimenticare, d’altra parte, che le maggiori insidie a una pratica autonomamente umana della letteratura avevano una diversa, e ben individuata provenienza: Né la poesia sostituisce il pensiero, nell’ordine dell’esaustione conoscitiva; né, d’altro lato, l’azione. In tal senso virtù costitutiva del letterato è l’umiltà; solo la spontaneità può essere rivoluzionaria. E perciò questo non vorrei vedere, da parte nostra: che la letteratura esorbitasse dai giusti confini, compromettendo a un tempo la sua vera indole; o pretendesse alla rivoluzione attraverso poetiche spossate e lussuose (come le surrealistiche), verbi anacronistici, che (ripeto) sono essa stessa la borghesia nella sua
Cfr. G. Contini, La letteratura, la libertà, [1945], in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, pp. 168-76, a p. 168. 105 Ibid., pp. 170-1. 104
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crisi. Queste modeste precauzioni contro le inerzie del costume letterario sono simmetriche, tuttavia, di ben altre cautele verso il lato opposto. Più diminuisce l’indulgenza verso l’autonomia infeconda, e più urge tenere mobilitata la copertura contro la minaccia dell’eteronomia. Non solo l’arte non è posta a servizio, ma di più i termini in cui il mondo moderno imposta le sue ricerche espressive, non altre evidentemente dal suo itinerario interiore, sono profondamente soggettivi106.
All’interno di questa «stretta intercapedine»107 va collocata e pensata, in alcuni suoi aspetti sostanziali – sottratti, almeno in parte, al tempo breve, scandito dalla cronaca – l’esperienza politica del Contini uomo di cultura. Esperienza animata anche dalla rivendicazione del silenzio come condizione e luogo di maturazione di contenuti, separazione necessaria da una quotidianità logorante della parola, chiara nel saggio del 1945 – «Ci riserviamo il diritto di predicare, di urlare il silenzio […]. Tempus loquendi, et tempus tacendi (rovesciato l’ordine dell’Ecclesiaste)»108 – e ancora più netta in una successiva lettera a Capitini nella quale, denunciando lo «sciocco panpoliticismo» dell’immediato dopoguerra, Contini affermava che solo nel silenzio (da me chiamato, magari abusivamente, torre d’avorio – ma c’era anche reazione contro le sconce e ciniche contaminazioni letterariopolitiche) si elaborano i valori umani che un giorno si potranno mettere in circolazione. Tempus loquendi e tempus tacendi, anche nella più stretta tattica pubblica dell’uomo morale. Da allora, del resto, sono immanente al mio lavoro, da cui uscì un giorno (magari superandolo, bruciandolo), e da cui potrà riuscire domani, una qualche circolazione sociale (come si dice: circolazione monetaria). Ma attenzione all’inflazione. Se si vuol salvaguardare l’autenticità dei valori (e anche ammesse le giustificazioni d’una politica, in certo modo gesuitica, del come se), mi pare bisogni rispettare (fosse pure una mia debolezza fisiologica) il fatto della periodicità nella produzione dell’amore […]. Non pretendere troppo (disperdendo la propria genuina produttività) di salvare irremissibilmente e continuamente le anime109.
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Ibid., pp. 171-2. Ibid., p. 175. Ibid., pp. 175-6. Cfr. G. Contini ad A. Capitini, 1 gennaio 1946, in Contini-Capitini, pp. 114-5.
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Si ritenga, da questo testo, l’affermazione della priorità, non piattamente cronologica, del «lavoro» su una prassi vista nei suoi esiti di «circolazione sociale», e quindi di una diretta interferenza fra l’opera, e le specifiche scelte compiute in quegli anni; affermazione già presente, e ribadita in varie altre pagine: Solo da un simile tirocinio di solitudine, da ragioni generali e non da ragioni tecniche, emerge l’umanità dell’azione: per noioso che sia ripeterla e indurirla in luogo comune, la verità non cessa d’essere tale, e non perde la sua verità la tesi che l’uomo d’oggi più sia politico, più è extrapolitico110.
La cronistoria del Contini resistenziale e l’analisi degli scritti più direttamente connessi a quelle vicende sono in larga parte agli atti, anche se l’accuratezza del riordinamento documentario del lascito e la disponibilità di qualche nuova fonte renderebbero apprezzabile una messa a punto. Non vorrei però, qui, insistere troppo su dati esterni e prese di posizione già ben noti. Si potrà semmai richiamare un’esigenza di cautela: nel leggere articoli e lettere politiche di Contini si deve sempre tener conto dello sfondo mutevolissimo, oltre che drammatico, al quale quelle parole facevano riferimento, e quindi del peso delle contingenze, dei cambiamenti di quadro e di prospettiva sollecitati da una densa successione di eventi. Occorre, cioè, evitare di attribuire portata generale a valutazioni magari episodiche; e anche scansare la tentazione di un uso aforistico, che pure qua e là sarebbe suggestivo, di testi che vanno saldamente mantenuti nella serie storica alla quale appartengono. Nella «ebullizione» del breve periodo 1943-45, come aveva scritto Contini, «tutta la cronaca si fa annettere dall’anima», in una effettiva fusione di pensiero e azione. E se, come risulta da alcune testimonianze, la recensione delle Note autobiografiche di Mazzini edite da Menghini è il frutto di una conferenza della primavera del 1944, precedente, quindi, l’impegno nell’Ossola, questa impronta originaria andrà tenuta nel debito conto, anche se con tutta la prudenza imposta dai tempi e dai modi della rielaborazione. Si è già detto di un rifiuto: ormai inaccettabile, a parere di Contini, la negativa opinione mazziniana nei confronti dell’autonomia dell’arte. Il pensiero di Mazzini era stato, ed era allora, oggetto delle più disparate appropriazioni e torsioni, anche a
110
Cfr. Contini, La letteratura, la libertà, p. 174.
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causa delle sue tensioni interne111; per Contini riferirsi a quella eredità significava essenzialmente rivendicare la distanza dal liberalismo cavouriano – Contini insisteva sul carattere fondamentalmente religioso dell’«élan» mazziniano, come sul motivo dell’antiutilitarismo –, e l’attualità morale che la rendeva più moderna di quella del Marx politico112. Inoltre Contini valorizzava in Mazzini una visione dell’azione come sforzo collettivo e strutturato – «cet accent marqué sur la nécessité de l’organisation et du parti le sépare à jamais des moralistes et en fait un authentique révolutionnaire» –, radicalmente diversa «du goût nietzschéen et dannunzien de l’action pour l’action»113. Rimanevano dei nodi problematici: contro la lettura nazionalistica della tradizione mazziniana Contini ne sottolineava la dimensione e l’ambito europeo, dal proprio punto di vista del «fédéralisme sur le plan international»114. Ma era soprattutto in riferimento alla storia e all’assetto dell’Italia unita – argomento, questo, non tematizzato in modo esplicito, ma tutt’altro che irrilevante all’interno del questionario politico continiano – che il ricorso a Mazzini poteva rivelarsi problematico per un dichiarato sostenitore di una prospettiva autonomistica e federalista qual era, espressamente, Contini. Certo, Contini era anche un convinto repubblicano, come appare da vari testi del 1944-46. Questa sua posizione si era con ogni probabilità consolidata di fronte allo spettacolo della viltà monarchica nella crisi dell’8 settembre, duramente presentata, ma con realismo, ad esempio, in uno scritto di Corrado Alvaro allora lodato, in più di una circostanza, da Contini115:
111 Basterà qui rinviare, nella ricchissima letteratura mazziniana, a R. Pertici, Il Mazzini di Giovanni Gentile, [1999], in Id., Storici italiani del Novecento, Pisa-Roma 1999 (= «Storiografia», 3, 1999), pp. 105-58; S. Levis Sullam, L’apostolo a brandelli. L’eredità di Mazzini tra Risorgimento e fascismo, Roma-Bari 2010; G. Belardelli, Mazzini, Bologna 2010; Mazzini e il Novecento, a cura di A. Bocchi e D. Menozzi, Pisa 2010. 112 Cfr. Contini, Giuseppe Mazzini, pp. 128-9; poi, sul punto, e con riferimento anche alle diverse posizioni di Croce, alcune osservazioni di G. Lucchini, Politica e letteratura nel carteggio Contini-Capitini, in Id., Studi su Gianfranco Contini, pp. 18399, alle pp. 192-4. Sul Mazzini di Contini cfr. anche Moretti, «Noi siamo la minoranza in regresso», pp. LI-LVI. 113 Cfr. Contini, Giuseppe Mazzini, pp. 130-1. 114 Ibid., p. 133. 115 Cfr. Contini, Lettre d’Italie, p. 273: «est un pamphlet violent et véridique,
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Difatti, quando il Re e il suo primo ministro disertarono, corsero anch’essi ad abbracciare le ginocchia del vincitore, convinti che esso li avrebbe salvati contro la stessa Italia. Un esempio che fosse venuto dall’alto, dai poteri supremi, avrebbe stampato, forse, la sua legge nell’animo del popolo. Essi abbandonarono il popolo italiano e l’esercito alle vendette dell’alleato tradito […]. Per salvarsi, coloro disertarono, ed era una soluzione che nessun italiano, per quanto scaltrito e cinico, aveva mai potuto prevedere. Per una inversione da decaduti, coloro fidavano nel popolo, attribuendogli quello che ad essi attribuiva il popolo e che fa la ragione unica di sopravvivenza delle monarchie: cavalleria e senso dell’onore. Avessero data una vittima. Nessuna116.
Non troppo diversamente, in fondo, Contini, che formulava, come Alvaro, un pesante giudizio sui gruppi dirigenti tradizionali, quelli della «borghesia burocratica e terriera e religiosa» complice della monarchia nel tradimento e nell’abbandono del popolo, della «povera gente»117: Nonostante il carattere reazionario della dittatura militare durante il primo intervallo Badoglio, l’iniziativa di una decisa azione di guerra avrebbe polarizzato, l’8 settembre, tutta l’Italia attorno alla monarchia […]. La
d’une ardeur sombre et étouffée […], contre la bourgeoisie dirigeante, la monarchie, la politique alliée: la fureur de M. Alvaro devant l’impossibilité d’une rénovation radicale, unilatérale en apparence en tant qu’elle reflète le point de vue d’un homme du Midi, a quelque chose d’amèrement prophétique si l’on songe à la date de la parution, février 1945, plusieurs mois avant que l’insurrection du Nord ne fût résorbée par les politiciens»; e il giudizio sembra in qualche modo avvalorare la formula impiegata, anche se in via dubitativa, da Mario Isnenghi nel ripresentare il testo di Alvaro, un «azionista nel Mezzogiorno?» (cfr. M. Isnenghi, Nella grande catastrofe, in C. Alvaro, L’Italia rinunzia? 1944: il Meridione e il Paese di fronte alla grande catastrofe, Roma 2011, pp. V-IX, a p. IX. Non del tutto convincente, su Alvaro, la trattazione di Liucci, Spettatori di un naufragio, pp. 88-92). Contini sarebbe tornato su Alvaro poco dopo, nel suo carteggio con Angioletti a proposito degli orientamenti, e del comitato della «Fiera Letteraria»: «non potrei vedere se non col massimo favore l’inclusione di Alvaro, non per ragioni letterarie (c’erano già nomi abbastanza illustri), ma, scusa, extraletterarie, per la posizione a me simpaticissima assunta con L’Italia rinunzia?» – G. Contini a G.B. Angioletti, 10 [febbraio 1946?], in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Angioletti –. Ben diversi, tuttavia, negli anni successivi, i percorsi politici di Contini e di Alvaro. 116 Cfr. Alvaro, L’Italia rinunzia?, p. 31. 117 Ibid., p. 35.
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monarchia di Bari-Brindisi si rivelava la monarchia dei latifondisti, dei funzionarî, d’una casta la cui consistenza pareva fin’allora risparmiata all’Italia: la militare118.
Il repubblicanesimo mazziniano avrebbe costituito, nella fase finale del conflitto, anche un elemento di frizione con alcuni collaboratori delle iniziative giornalistiche svizzere di Contini; basterà qui citare – ma lo spunto meriterebbe adeguati approfondimenti, ed è del resto ulteriormente documentato – una lettera di Ettore Passerin d’Entrèves: come ha ormai capito, ho una paura terribile delle astrazioni, essendo già abbastanza astratto, purtroppo, per natura e per professione. A proposito di professione, sa che un mio collega, studioso soprattutto di storia politica moderna, mi sosteneva un paio d’anni fa che in It., data la tradizione unitaria mazziniana, non avrebbe potuto nascere una fede repubblicana federalista? Vede come ognuno legge la storia a modo suo: naturalmente io non gli credevo (noti che come studioso è fra i bravi) ma voglio farle notare che non basta, in fondo, richiamarsi a Mazzini. Il suo insegnamento mi par vivo ora contro i particolarismi nazionali, per suscitare una coscienza europea unitaria: naturalmente senza strappar le preziose radici dei minori patriottismi. Ancora, diffido di Mazzini perché c’è in lui una punta di fanatismo freddo (lo dicono i suoi migliori amici; le ricorderei certe lettere di Enrico Mayer, un gran democratico); un po’ di panteismo politico (sa bene come lo definiva Marx: pontefice dell’idea). Altri si tiene troppo all’opportunità: lui disprezza la realtà e spesso anche i suoi avversarii non disonesti […]. Se crede che non conosca i monarchici, si sbaglia: ci litigo dopo due minuti. Ma io difendevo gente sana, gente del popolo, non interessati propagandisti. Se questo sia ingenuo, è da verificare: può darsi benissimo. Badi però che il principio resta: uno dei pericoli gravi è la politica di equilibrio, e perciò rifiutiamo la vecchia
Cfr. G. Contini, Sulle preferenze istituzionali, [1945], in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, pp. 35-41, alle pp. 38-9. Si dovrà almeno accennare al carattere più ‘sociale’ che strettamente istituzionale del repubblicanesimo di Contini: cfr. ibid., p. 37: «non sapremmo che farci d’una “qualunque” repubblica: in particolare, d’una repubblica calcata entro schemi napoleonici, burocratica, accentratrice, prefettizia, affiliabile alle oligarchie borghesi, d’una repubblica come la Troisième République che nasce reazionaria con Mac Mahon e Thiers e reazionaria muore sotto il signor Albert Lebrun». 118
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monarchia. Ma se abbiamo una nuova fede – unità solidale, autogoverno – difendiamo anche la libertà di fede in politica119.
Nei giorni in cui questa lettera veniva spedita, Contini era tornato a prendere posizione su Mazzini, in una conferenza il cui testo ci è indirettamente noto attraverso un resoconto giornalistico – ed è, quindi, da maneggiare con cautela120 –. Due appaiono i punti centrali dell’esposizione continiana: la sottolineatura della visione «idéaliste et généreuse» della nazionalità propria di Mazzini, contrapposta, anche in nome di un’Europa di nazioni federate, e della religione dell’umanità, a un nazionalismo angusto e conflittuale, e l’insistenza sul contenuto democratico del messaggio mazziniano, centrato su un disegno di elevazione anche materiale delle classi popolari, vero elemento rigeneratore nel mondo nuovo. E tuttavia, così nella cronaca, secondo Contini, Mazzini se distingue non moins nettement de Marx, auquel il reproche, au fond, son matérialisme historique et dont le sépare son procédé non dialectique: il oppose des idéaux à des intérêts, non pas un ordre d’intérêt à un autre ordre d’intérêts qui s’en dégage nécessairement. Mazzini est un esprit religieux. Non point qu’il adhère au dogme chrétien – son Dieu, un perpétuel devenir, s’identifie avec l’humanité – mais il a foi dans l’avenir de la démocratie qui puise son dynamisme dans les forces inépuisables de la vie.
Alla spinta ideale si aggiungeva, in Mazzini, un coerente intento pedagogico e costruttivo: il a le sens de l’organisation, le génie créateur d’un fondateur de parti, animé d’une foi positive dans son idéal […]. Son opposition à la monarchie provient de ce qu’il lui reproche d’édifier la nouvelle Italie par le haut, en s’appuyant sur les classes dirigeantes, tandis qu’il veut, lui, la reconstruire sur une base populaire en faisant appel à ce puissant instinct de la vie qui anime le peuple à travers les siècles.
119 Cfr. E. Passerin d’Entrèves a G. Contini, 13 marzo 1945, in FEF, AC, fascicolo Passerin d’Entrèves. 120 Cfr. H.C., L’actualité de Mazzini, «L’Indépendant», 38, 26, 3 marzo 1945 – una copia dell’articolo in FEF, AC, conferenze, n. 26. Le successive citazioni nel testo prive di rinvio in nota si intendono tratte da questo articolo.
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Alcuni mesi prima, in margine alle note autobiografiche mazziniane, Contini si era limitato a un accenno piuttosto sfuggente alle implicazioni dell’unitarismo mazziniano: le critiche che Proudhon aveva riservato all’ordinamento del paese erano forse in generale fondate, ma questo lo si poteva affermare dopo «que l’on a joui de tous les bienfaits de l’unité»121. Nella primavera del 1945, e non solo nella conferenza mazziniana – molto significativo, da questo punto di vista, l’articolo del 14 marzo 1945 Sulle preferenze istituzionali –, il quadro si faceva più complesso, sia dal punto di vista della valutazione storica che da quello più specificamente politico. Da una parte si riconosceva all’unitarismo mazziniano il merito di aver intralciato il federalismo moderato e guelfo di Gioberti, il progetto della «federazione di sovrani»122; dall’altra si abbozzava una lettura del pensiero mazziniano nella quale il principio associativo, centrale nella riflessione di Mazzini, veniva presentato, con un marcato slittamento semantico, in chiave ‘federativa’: Mazzini, si riportava nel resoconto della conferenza, n’en est pas moins un fédéraliste sur le plan national comme dans l’ordre international. Car le fédéralisme est pour lui le principe cohésif qui unit toutes les forces constructives de la commune ou de la région jusqu’à l’État. Il se différencie ainsi profondément d’un Cavour, monarchiste, libéral, réaliste, unitaire et empirique, comme aussi d’un Giolitti, animateur d’une monarchie socialisante et centralisée.
Sul rilievo delle osservazioni riservate da Contini all’esperienza giolittiana, nell’ambito di una visione assai critica della storia italiana recente, proiettata sull’avvento del fascismo, ho già avuto modo di richiamare l’attenzione123; osservazioni polemiche, del resto, volte a combattere apertamente l’ipotesi, appunto, di un possibile recupero neoconservatore dell’istituto monarchico valendosi di quelle lontane, e controverse, memorie riformiste:
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Cfr. Contini, Giuseppe Mazzini, p. 134. Cfr. Id., Sulle preferenze istituzionali, p. 37. Cfr. Moretti, «Noi siamo la minoranza in regresso», pp. LV-LVI.
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Ma se le esigenze veramente attuali sono quelle dell’autogoverno, della democrazia economica e perciò politica, delle autonomie di fabbrica, azienda, comune e regione in una struttura eminentemente federativa e decentrata, per che parola si può ancora ricorrere alla monarchia, sinonimo di accentramento, statalismo, caste oligarchiche? Non si tratta neppure, a priori, di «combattere» la monarchia: bensì di ignorarla, eluderla. Si tratta di lavorare per l’autogoverno, sola cosa che importi, dai consigli di fabbrica ai Comitati locali di Liberazione; ma automaticamente un tal lavoro è nonmonarchico. La Giunta Provvisoria dell’Ossola, che per molti aspetti poté mantenere un valore esemplare, non si imbarazzò troppo di scudi, berretti frigi, sigle e formule124.
In questo senso, privilegiando il popolarismo e il democraticismo di Mazzini, sostanza di quel repubblicanesimo, rispetto al programma e all’ideale unitario, Contini aveva potuto valorizzare, incontrando il consenso dei presenti, l’eredità mazziniana in un senso direttamente politico: Les applaudissements généreux qui saluèrent le conférencier et la discussion animée qui suivit ce captivant exposé montrèrent que l’auditoire avait apprécié comme il se devait l’actualité de la pensée mazinienne pour la reconstruction de l’Italie. Menée à sa perte par un régime oppressif et démoralisateur, elle entend aujourd’hui reprendre la place à laquelle lui donne droit son génie dans la grande famille des peuples libres. Elle veut reconstruire un État national, dégagé d’un nationalisme dictatorial, en faisant appel à toutes les forces vitales de son peuple intelligent et laborieux et assurer la renaissance de l’État en vivifiant à nouveau tous les éléments constitutifs de la société, en recréant l’unité dans la diversité et dans la liberté.
Nel vivo dell’esperimento ossolano Contini aveva scritto poche pagine, ben note, nelle quali, dichiaratamente, la presentazione e l’esame divenivano programma, con asimmetrica riproposizione di un celebre motto mazziniano: i fatti dell’Ossola […] si svolgono ancora, e poiché di alcuni aspetti si potrà discorrere solo più tardi, domani giudicheremo un po’diversamente. Oggi
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Cfr. Contini, Sulle preferenze istituzionali, p. 39.
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portare un’interpretazione significa, con spirito più d’azione che di pensiero, cercare di far evolvere i fatti secondo questa interpretazione. Intendiamo dire delle verità, ma vogliamo che il futuro confermi queste verità125.
E i fatti in questione erano in sostanza, per Contini, la manifestazione, nell’azione popolare, di una volontà collettiva che rifondava la legalità attraverso un movimento rivoluzionario e dal basso. In questo senso, portato essenziale di quella vicenda erano, da un lato, la rivendicazione dell’autogoverno, del ruolo dei poteri locali – o, come avrebbe osservato poco più tardi, del «federalismo nella “struttura fina” della società»126 –, e dall’altro la conferma, nell’esperienza, di una visione distante da quella del tradizionale individualismo liberale – riaffermata, ad esempio, nelle pagine mazziniane –, per la quale, appunto, «con una somma di volontà individuali non si fabbrica una volontà collettiva», anche se quest’ultima non avrebbe potuto essere interpretata nel senso restrittivo e vincolante di una necessaria «uniformità»127. Rispetto ai trascorsi capitiniani di Contini l’aggiunta forse più significativa indotta dal contatto, per quanto mediato, con la lotta partigiana, era il ripensamento del principio della non-violenza. Pur sottolineando con forza la radicale diversità di metodo, rispetto alle pratiche nazifasciste, della guerra partigiana, e mettendo in evidenza le potenzialità di disseminazione e di contagio del valore della non-violenza, Contini specificava: S’intende che se questa fosse o potesse essere presa per una manifestazione di debolezza, sarebbe peggio che un errore: perciò l’odio della violenza (della violenza per se stessa) può essere esercitato solo da chi possiede la forza, cioè, in tempo di guerra, da uomini recisamente disposti, dove occorra, al doppio sacrificio, ugualmente duro, di perdere e di far perdere la vita. Chi ha quest’idea della forza, da opporre alla violenza della cattiva causa, sa che la storia può servirsi di lui per espellere coloro che essa ha condannati128.
Cfr. Id., Domodossola entra nella storia, p. 5. Cfr. Id., Prologo, p. 21. 127 Cfr. Id., Domodossola entra nella storia, p. 8. 128 Ibid., p. 7. Presa di posizione notevole, questa, che rinvia alle questioni largamente discusse da C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, [1991], Torino 2001, il quale, tuttavia, non prende mai in considerazione gli scritti resistenziali di Contini. Su queste tematiche, nel quadro di un confronto che è qui 125 126
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La rapida caduta della repubblica avrebbe sollecitato, oltre a un ulteriore svolgimento di considerazioni e posizioni politiche già piuttosto definite – con aperture tutt’altro che prive di interesse anche verso la dimensione internazionale, ambito questo, lo si è accennato, non estraneo alle cure di Contini –, l’individuazione di strumenti, ora necessariamente diversi, per la prosecuzione di un’azione legata a una netta scelta di campo. Un lungo saggio politico inedito dell’ottobre 1944, nel quale sono accennati e anticipati tutti i temi principali della sua futura opera giornalistica ticinese, era introdotto da Contini con una sorta di preambolo programmatico: Proposta di un gruppo di cultura, libero e non gerarchico, fra gli esuli italiani, rivolta, ora per ragioni contingenti, soprattutto a giovani e a intellettuali ma senza intenzioni necessariamente minoritarie. Il gruppo s’imposta su una tendenza generale di sinistra e di fronte popolare, e perciò conta sugli aderenti o simpatizzanti coi partiti di sinistra, ma soprattutto fa appello alla maggioranza extrapolitica, in quanto fuori dai quadri dei partiti, riservandosi dopo l’esilio una soluzione o assolutamente autonoma o autonoma entro a un partito esistente. Si basa su un minimo di programma che identifichi l’esigenza socialista e l’esigenza liberale, ritrovandone l’unità in un’istanza etico-religiosa, perciò educativa. Propone più concrete prese di posizione antinazionalistiche, federalistiche, democratiche e addita il significato esclusivo della questione istituzionale nella sua risoluzione in questione sociale. Impegna gli aderenti all’autoformazione culturale; all’esercizio del commercio umano in senso religioso-politico; soprattutto a prepararsi a instaurare, immediatamente dopo il ritorno, lo spirito dell’autogoverno nelle proprie circoscrizioni amministrative e nei proprî ambiti professionali129.
Contini si sarebbe in sostanza mosso, negli anni seguenti, all’interno delle coordinate qui sommariamente definite, con le messe a punto rese necessarie dal modificarsi dell’immediato quadro di riferimento politico. Ma le voci principali di un possibile inventario tematico vi
impossibile seguire, cfr. almeno alcuni dei saggi raccolti in R. Vivarelli, Fascismo e storia d’Italia, Bologna 2008. 129 L’articolo-manifesto, conservato in FEF, AC, è segnalato in Scartafacci di Contini, p. 56. Le seguenti citazioni nel testo prive di rinvio in nota si intendono tratte da questo scritto.
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si rinvengono in sostanza tutte. Non dubbia, ad esempio, l’assoluta rilevanza della prospettiva pedagogica, di un discorso indirizzato a interlocutori privilegiati, che nell’accostamento da lui stesso proposto non erano certo gli «intellettuali» – «se è infatti ammissibile la categoria di “generazione dirigente”, va risolutamente rifiutata quella di “classe dirigente”, d’una classe nutrita in lussuosi vivai umanistici a perseguire una cultura riservata» –, ma semmai i giovani, spunto, questo, poi ripreso in pagine note130, in direzione di una formazione intesa come preparazione a una «inevitabile» azione politica. Chiara, poi, la collocazione nell’area politica della sinistra, ma con il corollario di una irriducibilità di fondo alla stretta sfera partitica, che contribuisce a dar conto anche della fedeltà di Contini, in conclusione rassegnata, a un partito sui generis come quello d’azione: nel tardo ricordo, non incoerente, però, rispetto alla documentazione coeva, Contini affermava che di quel partito «si poteva dire, come Voltaire diceva dei protestanti: “sa Bible à la main, chaque protestant est pape”. Ogni membro del Partito d’Azione – ogni “pazzista”, per usare la parola di Montale che ne faceva parte – aveva una sua visione del mondo»131. Per qualificare quest’area Contini faceva ricorso, come avrebbe fatto anche nell’immediato dopoguerra, alla formula del ‘fronte popolare’, aperto a movimenti non rappresentati nel C.L.N., come quello dei cristiano-sociali; ma andrà sottolineata la coloritura, per così dire, anni Trenta della locuzione nell’impiego fattone da Contini, molto Cfr. G. Contini, Sul cosiddetto problema dei giovani, [1945], in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, pp. 22-8, e Id., I giovani e la politica, [1945], ibid., pp. 29-34. 131 Cfr. Contini, Ripa di Meana, Diligenza e voluttà, p. 82. Per la storia politica del partito d’azione cfr. G. De Luna, Storia del Partito d’Azione, [1982], Torino 2006; ma per un efficace inquadramento delle posizioni di Contini mi sembra molto utile anche l’analisi proposta in P.G. Zunino, La Repubblica e il suo passato. Il fascismo dopo il fascismo, il comunismo, la democrazia: le origini dell’Italia contemporanea, Bologna 2003, pp. 459-508 (Le alcinesche seduzioni dell’azionismo), p. 460: «Da qualche non trascurabile punto di vista, l’azionismo ripeté la parabola storica del mazzinianesimo: ricchi di eccezionali suggestioni etiche, espressione di valori oltremodo significativi, dotati di incomparabile lucidità nel discernere vari elementi della realtà, il mazzinianesimo e l’azionismo di un secolo più tardi puramente e semplicemente non trovarono un punto di congiunzione con l’effettivo corso della storia». Sulla posizione specifica di Contini all’interno della nebulosa azionistica si potrebbero proporre varie precisazioni, e più di un accostamento; ma si trattava, qui, anzitutto di abbozzare un profilo generale. 130
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più freddo, come è noto, verso l’alleanza elettorale delle sinistre nel 1948132. Complesso, dunque, già in queste pagine – come poi nella breve stagione politica di Contini, fra 1945 e 1948 – il rapporto con la formapartito133. Convinto, e lo aveva affermato anche a proposito di Mazzini, della necessità dell’organizzazione, Contini esprimeva però l’auspicio, questa l’espressione, di un partito meno partito; come avrebbe scritto a Capitini nell’ottobre 1946, «Siamo tutti d’accordo che ci voglia qualcosa di MENO, ossia di PIÙ, di un partito, e un giornale potrebb’esserne l’organo»134. Attorno a questo snodo può essere ricomposta una quota significativa della documentazione politica continiana del periodo fra guerra e dopoguerra. Penso agli interrogativi riguardanti la collocazione politica del gruppo, fra l’ipotesi dell’ingresso in un partito esistente per condizionarne l’azione, e quella di una presenza autonoma – nel 1944 Contini affermava che «un partito che voglia porsi assolutamente come minoranza è inconcepibile, per non dire che è immorale» –, interrogativi che si ritrovano, al fondo, tanto nel colloquio con Capitini che in quello con Apponi, e che furono naturalmente condizionati, negli atteggiamenti poi di volta in volta adottati, dalle successive configurazioni del quadro politico generale. Penso inoltre alla questione, oggetto di molte cure e ricorrente discussione, del «giornale», alternativamente concepito come quotidiano e strumento di un soggetto politico – e Contini avrebbe provato anche a definire forme di partecipazione e di finanziamento135 –,
132 133
LXI.
Cfr. Moretti, «Noi siamo la minoranza in regresso», pp. LXVII-LXIX. Sull’impiego, precoce, da parte di Contini, del termine «partitocrazia», ibid., p.
G. Contini ad A. Capitini, 18 ottobre 1946, in Contini-Capitini, p. 139. Cfr. G. Contini ad A. Apponi, 7 luglio 1946, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Apponi: «Vorrei scriverti lungamente sulla faccenda del PdA. Anch’io ritengo che sia finito, ma non vedo nessuna formazione politica che possa assumerne l’eredità, in quanto questa consista in un’insistenza sulla riforma della struttura statale (la vera rivoluzione italiana!) e in iniziative di democrazia diretta, così economica come amministrativa. E mi chiedo se non potrebbe trasformarsi in una federazione di movimenti locali con iniziative di quest’ordine, esercitando un’attiva opposizione contro la dittatura dei comitati di partito, la loro burocrazia e centralizzazione, le loro liste bloccate ecc. Naturalmente, occorrerebbe la stampa, cioè un quotidiano per il Centro-Sud E UNO PER IL NORD, più settimanali che potrebbero anche essere solo regionali (provinciali dove ce ne fosse la possibilità): la sola possibilità concreta è quella di cooperative editoriali che garantiscano il funzionamento per un certo tempo anche 134 135
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oppure, con accenti almeno in parte diversi, come periodico, luogo di confronto e di elaborazione di un disegno più articolato e generale: Per esempio, che oggi non ci sia un giornale di cultura morale in senso rigoroso, gestito da una cooperativa per garantirgli autonomia ed efficienza, cf. Voce, Cahiers de la Quinzaine – e ne ho parlato con te, con Alberto, con molti altri, invano –, mi pare gravissimo136.
Gli strumenti, del resto, contavano meno del messaggio; e nell’ottobre 1944 Contini si impegnava a definire, al di fuori delle dottrine e delle strutture dei rispettivi partiti di riferimento, i contorni di un programma minimo capace di contemperare le esigenze socialista e liberale. La prima, A definirla rigorosamente, è l’esigenza che nessun essere umano, a più forte ragione nessun gruppo, possa essere adoperato come strumento a ottenere un vantaggio economico di privilegio, cioè usato come merce […]. Come l’esigenza socialista non è legata necessariamente all’ortodossia delle Internazionali, così, e molto più, l’esigenza liberale è svincolata dal partito liberale e dal rispetto del liberismo economico. E anche sarebbe angusto interpretarla nel senso delle tradizionali libertà democratiche, di opinione, di stampa, di associazione ecc. L’esigenza liberale tende infatti alla radicale libertà dell’uomo, la quale oltrepassa e (nell’accezione tecnica) supera la libertà dell’individuo. Affermare la libertà dell’io, com’è stato fatto dagli autentici pensatori, non dagli esteti, del romanticismo, è affermare la libertà dell’uomo in me; e solo una mente triviale può interpretare l’affermazione dell’io (puro o trascendentale) fatta dall’idealismo come solipsismo: una mente digiuna di qualunque rigo di Fichte. Pertanto attuare la libertà è soprattutto attuare la libertà degli altri; e l’esigenza liberale appare come
passivo e allontanino il pericolo del capitalismo e privato e di Stato. Azioni di L. 1000, che molti galantuomini anche non ricchi potrebbero sottoscrivere, considerandole (economicamente) a fondo perduto. L’avevo scritto a Calogero per Liberalsocialismo, ma non mi ha risposto neppure. Con questo metodo, comunque, si potrebbe fondare un settimanale o quindicinale di CULTURA MORALE, superpartito […]. Aborro dai partiti di massa, in quanto se ne possa dare non una definizione politica (come avviene per i dirigenti del PCI, molto stimabili: io conosco bene Terracini), bensì elettorale: partiti tanto confusi che molta gente possa dargli il voto». 136 Cfr. G. Contini ad A. Capitini, 18 ottobre 1946, in Contini-Capitini, p. 138.
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il volto positivo dell’esigenza socialista, negativa in quanto distruzione dell’apparecchio che usufruisce l’altro uomo quale strumento137.
Non sorprenderà, in questo contesto, il ricorso all’alternativa MarxMazzini, collegato il primo alla dimensione della necessità, il secondo a quella dell’associazione, del dovere, dell’educazione. Così, speculativamente, il problema della libertà appare come il problema della persona e, se dobbiamo definire il termine che pone la persona, come il problema dell’amore. In un senso extraconfessionale, si parli addirittura di carità.
Dunque, proseguiva Contini, il passaggio dall’individuo alla persona «suppone che l’uomo sia affrancato dall’ingiustizia di classe, legalizzata in una forma di Stato, ma addirittura che lo Stato sia Stato il meno possibile, e che una casta di funzionarî, detentrice della verità e della forza, non sostituisca la classe sociale nel possesso del privilegio». Evidenti i nessi fra questi assunti di principio e il federalismo di Contini, con il corollario delle polemiche anticentralistiche e antiburocratiche alimentate anche da una visione critica delle modalità e dei risultati del processo di edificazione dello Stato nazionale. Bisognerà però almeno ricordare, da una parte, che il federalismo, o autonomismo, di Contini, poco istituzionalizzato e distante in questo dal modello cantonale, non si spingeva fino a prospettare una completa rinuncia alla sfera nazionale: ai corpi locali autonomi non avrebbero dovuto essere «affidati in monopolio servizî culturali di valore universale come l’istruzione». D’altra parte, poi, non credo sia una forzatura vedere in quella
137 Rispetto alla tradizione, pur intesa nel suo senso più ampio, del ‘liberalsocialismo’ – quello di Rosselli, a differenza dei molti citati, è nome che non spicca –, mi sembra che il pensiero e il lessico di Contini conservino un margine di specificità, da attribuire al suo particolare percorso spirituale, al sodalizio con Capitini, al dialogo con altri settori dell’antifascismo (da questo punto di vista, ad esempio, alcune lettere di Ettore Passerin d’Entrèves, che meriterebbero adeguato commento, mi paiono significative; interessante, su questi ambienti, D. Scarpa, Cultura e azione. Prima lettura del carteggio Contini-Alberti, «Moderna», 13, 1, 2011, pp. 67-80). Certo, poi, l’amicizia con Einaudi non faceva di Contini un liberista. E cfr. poi Contini, La letteratura, la libertà, p. 174, sulla «libertà trascendentale che il politico ama» e che «diviene in concreto la libertà degli altri».
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immagine di Stato ‘castale’ il riflesso di un’attenzione partecipe, ma in fondo non consenziente, di Contini – lettore di Trotzkij – nei confronti dell’esperienza del comunismo sovietico. Venivano inoltre affrontati, in questo scritto programmatico, temi che sarebbero poi stati partitamente ripresi da Contini nei suoi articoli svizzeri: l’antinazionalismo e il declino storico dello Stato nazionale, e anche dell’eurocentrismo, una nuova politica europea basata su una scelta federale e su cessioni di sovranità – ma sulla questione delle frontiere italiane, specie di quelle orientali, qui come in altri testi, le opinioni e le aspettative di Contini erano decisamente troppo ottimistiche138 –, la distanza da forme di unanimismo forzato – e sul modello del C.L.N., anche questo è documentato, Contini avrebbe espresso qualche dubbio139 –, la necessità di una rifondazione dell’agire politico collettivo. Su due punti mi sembra però opportuno insistere. Il primo rinvia al riconoscimento della violenza nella lotta partigiana, al quale si è fatto cenno poco sopra, e ne svolge in modo tutto sommato coerente le premesse: «È inutile nascondersi che il passaggio alla legalità democratica è oggi in Italia una vera fondazione, dunque per definizione rivoluzionaria, che implica procedimenti in qualche modo dittatorî»; affermazione, comunque, della quale Contini attenuava in qualche misura la portata sottolineando la transitorietà di quelle pratiche. Il secondo riguarda la posizione dell’Italia tra futuro e passato, la sua proiezione in un nuovo contesto internazionale e il ripensamento della sua storia recente: un paese come l’Italia, recato alla distruzione fisica totale, non sospetto di voler mai più aspirare a concorrenze imperialistiche, un paese escluso dai primi piani delle grandi decisioni pubbliche, è il più adatto a predicare oggettivamente i valori sopranazionali e a intervenire per attuarli. Qui rispunta quella che il Risorgimento chiamò la missione dell’Italia, qui anche – non occorre esitazione nel riproporre un tale vocabolo – quello che esso chiamò il primato dell’Italia […]. Un disastro così integrale com’è quello dell’Italia d’oggi non si può accogliere idealmente senza rifare il processo alla formazione statale dell’Italia moderna in vista di scoprirne i fondamentali errori. Il metodo spicciativo con cui si eliminarono, riducendoli a flatus
Cfr., in particolare, G. Contini, Sulla nozione di Europa. I. Jugoslavia, [1945], in Pagine ticinesi di Gianfranco Contini, pp. 42-51. 139 Cfr. Moretti, «Noi siamo la minoranza in regresso», pp. XLIX-L. 138
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vocis e ad aneddoti, i presunti vinti della storia, non è forse stato applicato mai in modo così semplicistico e totale (per quanto spesso involontario) come nei riguardi dei Mazzini, dei Pisacane, dei Cattaneo, dei Ferrari, dei Tommaseo, dei Gioberti. La storia costringe oggi gli italiani a correggere il Risorgimento, eliminandone i fattori autoritarî e nazionalistici, ma altresì un severo e imparziale studio del Risorgimento avrebbe enorme valore curativo e profilattico per il presente.
Il peso della delusione, a conflitto concluso, fu direttamente proporzionale al radicalismo delle prospettive e delle aspettative – e non si tratta, del resto, di un percorso solo individuale. Le testimonianze, in specie private, sono varie e sparse140; e ci si può limitare a richiamare alcuni brani. Il 22 dicembre 1945, scrivendo ad Angioletti, in margine ad alcune private difficoltà di quest’ultimo, Contini commentava: «E pietra mortale, pietra colpo-di-grazia ai piedi di quest’anno 45, che sprofonda per tutti con un gran tanfo di vittoria e di vergogna»141. E pochi mesi prima, a Gianfranco Corsini: La faccenda dell’Ossola, in settembre-ottobre, fu una cosa molto umana e importante. Abbiamo vissuto nell’ossigeno della libertà – esperienza che è certo mancata a tutti gli altri italiani. Unanimità, entusiasmo collettivo, esaltazione. Sono tornato al momento della seconda liberazione, per alcuni giorni, e ho visto la differenza di potenziale, la sfiducia, l’atonia, il psichismo amorfo e meschino, l’arrivismo dei botoli. Inutile dire che i migliori hanno totalizzato calci nel sedere […]. Eppure l’Italia era tutta lì, in quei mesi, e forse NON SI PUÒ RITROVARLA ALTROVE142.
Sulla base di questo stato d’animo e di queste esperienze Contini avrebbe redatto un bilancio politico-letterario di notevole rilievo, ancora una volta indirizzato al pubblico straniero, ma destinato a rimanere a lungo inedito. Lo spettacolo delle contorsioni intellettuali
Utile, più in generale, il repertorio proposto da A. Vezzoni, L’epistolario edito di Gianfranco Contini. Lettere sparse e frammenti, «Moderna», 13, 1, 2011, pp. 81-124. 141 Cfr. G. Contini a G.B. Angioletti, 22 dicembre 1945, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Angioletti. 142 Cfr. G. Contini a G. Corsini, 21 giugno 1945, in Ungarelli, Lettori di Contini, p. 540. 140
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e personali nella transizione al nuovo ordine dovette colpirlo, così come la «synchronisation improvisée à l’actualité politique»143 di critici e letterati. Nel gennaio 1945 Angioletti gli aveva riferito di prese di posizione radiofoniche di personaggi come Alfredo Gargiulo sull’arte sociale – «Te lo immagini il vecchio don Alfredo nelle vesti fiammanti del letterato “sociale”?»144 –; e l’immediata replica di Contini era stata molto secca: La faccenda, che mi racconti, dei “sociali” è molto penosa, ma non mi sorprende. Cioè sì, mi sorprende per parte del vecchio Gargiulo, che mi pareva l’incarnazione della serietà. Il nostro atteggiamento è netto […]. Se il letterato, lui, personalmente, ha una crisi, si esponga: si arruoli o faccia qualcosa di simile, le occasioni rischiose o perfino le utili non mancano; ma non trasporti i suoi fatti privati in mezzo ai valori assoluti. Che poi un narratore o in genere un inventore si fabbrichi un mito, va bene. Ma i pseudo critici, ma coloro che per restare nella letteratura fanno continuamente dei ricami sulla letteratura – no, no, questo è parassitismo al margine145.
Così, polemicamente, Contini rivendicava a merito della produzione letteraria italiana successiva al 1922 l’essere rimasta di alto livello e «à peu près indemne de toute compromission»146, proponendo d’altro lato, e magari pensando proprio agli improvvisati critici ‘sociali’, una constatazione spietata: Il serait plus qu’indécent de “dresser un bilan” des sacrifices des intellectuels: de ceux qui périrent dans l’accomplissement d’une mission, que massacrèrent les bourreaux, que l’ennemi fusilla. Après l’involution de la situation vers une politique de métier (et verbale), ces nobles victimes nous apparaissent solitaires en face de leur salut à arracher: seules de la solitude tragique et inévitable de la condition humaine, que des clercs ne devraient jamais oublier147.
Cfr. Contini, Lettre d’Italie, p. 270. Cfr. G.B. Angioletti a G. Contini, 23 gennaio 1945, in FEF, AC, fascicolo Angioletti. 145 Cfr. G. Contini a G.B. Angioletti, 24 gennaio [1945], in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Angioletti. 146 Cfr. Contini, Lettre d’Italie, p. 270. 147 Ibid., pp. 271-2. Non è da escludere, nel brano – preceduto dalla constatazione 143 144
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Per il resto, in un contesto culturale e politico mosso in apparenza, ma in realtà in via di rapida stabilizzazione – «(la situation politique ellemême est en substance conservatrice!)»148 – Contini metteva in risalto soprattutto l’addomesticamento della spinta resistenziale: La nature particulière de l’histoire italienne récente a appris l’habitude de la discrétion à l’endroit de ce qui n’est qu’événement. On sait d’ailleurs que l’élan vers une action dictée par des exigences métapolitiques, cet élan qui fut pour une grande part à la base du maquis, ne s’est pas transposé sur le plan politique, en d’autres termes que la Résistance ne s’est pas transformée en Révolution. Cette spécialisation, cette technicisation, cette reduction en sens professionnel de la vie politique fait en sorte que le jeu des partis, maigre et tactique survivant de la politique, qui eût dû être unitaire et révolutionnaire, des Comités de Libération, est loin de satisfaire […] des instances spirituelles149.
Da simili premesse si deduce agevolmente il successivo disagio, e il rapido declino della disponibilità alla politica di Contini, del resto ben comprensibile anche sulla base della radicata avversione, che si è cercato di documentare, alla politica degli intellettuali. Una cronistoria di questo declino non sarebbe inutile, ed è almeno parzialmente disponibile, essendo già agli atti il carteggio con Capitini. Molti altri spunti sono contenuti nel dialogo con Apponi, che offre notevoli squarci di cronaca riferiti a un tessuto politico vissuto e fragile, e testimonianza di lacerazioni e polemiche centrate attorno alla figura e all’azione di Capitini – «Tu mi parli di ingenuità e di cocciutaggine. Ma che ingenuità! È egoismo portato sul piano del dogmatismo; si può dire: egometrismo? (Chi prende la propria misura per misurare il mondo,
del fatto che, in Italia, la funzione politica in senso stretto degli intellettuali era stata relativamente trascurabile – un accenno alla morte di Giaime Pintor, con il quale Contini era stato in contatto per motivi editoriali: cfr. M.C. Calabri, Il costante piacere di vivere. Vita di Giaime Pintor, Torino 2007, pp. 260-1. 148 Cfr. Contini, Lettre d’Italie, p. 267. 149 Ibid., p. 271. E per la caratterizzazione continiana, in questo senso, della Resistenza cfr. anche Contini, Saluto a «Esprit», pp. 64-5: «la Resistenza, ridotta al suo porro unum et necessarium, alla resistenza al nemico occupante e ai suoi collaboratori locali, non è sufficiente: le mancherebbe ancora un deciso piano politico».
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e bene è ciò che fa comodo, male ciò che scomoda)»150 –. Emergono, inoltre, le oscillazioni politiche e tattiche, gli equivoci e le illusioni legati alla breve storia azionista, e le maglie di una rete di relazioni personali allora instaurate o riprese – Contini scriveva ad Apponi degli «ottimi rapporti con Marchesi, per via della faccenda dell’Ossola a cui si partecipò insieme»151, e, in altra lettera, di contatti editoriali per eventuali traduzioni in francese di Valiani, Venturi, Garosci152 –. Sullo sfondo, il consolidarsi di una polarizzazione soffocante – «Il blocco rosso nero trionferà anche in Italia, ed anche in Italia avrà la sorte di rendere impossibile ogni sviluppo democratico»153 –, e il ruvido confronto con la tradizione e la politica del partito comunista. Anticipando ad Angioletti l’invio del resoconto sulle Rencontres Internationales di Ginevra, Contini rilevava che, com’era inevitabile (cultura della cultura è politica della cultura!), l’atmosfera è stata politica, di conseguenza lo scritto è politico: esso constata la superiorità dei marxisti presenti sugli altri, ne ricerca le ragioni, deplora l’assenza della ‘terza’ voce italiana, e insomma è fatto da un punto di vista liberalsocialista, più rispettoso del marxismo che del democratismo inerte154.
E ad Apponi, alcune settimane più tardi, presentava quella corrispondenza come «pervasa di spirito azionistico»155. Da questo punto di vista, giudizio centrale nel testo è verosimilmente quello riguardante Lukács, con la prospettiva di un superamento di quelle posizioni, e la deplorazione dell’ipotesi che, invece, si potesse pensare di non affrontarle «magari drappeggiandosi nell’ostentazione di questo Cfr. A. Apponi a G. Contini, 14 giugno 1946, in FEF, AC, fascicolo Apponi. Cfr. G. Contini ad A. Apponi, 20 marzo 1947, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Apponi. Proseguiva Contini: «Se il PdA si dissolverà in PSLI, io ridiventerò indipendente di sinistra. I temi del PdA permangono validi e non sono ereditati da alcuno». 152 Cfr. G. Contini ad A. Apponi, 9 ottobre 1946, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Apponi. 153 Cfr. A. Apponi a G. Contini, 13 marzo 1946, in FEF, AC, fascicolo Apponi. 154 Cfr. G. Contini a G.B. Angioletti, 28 settembre 1946, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Angioletti. 155 Cfr. G. Contini ad A. Apponi, 1 novembre 1946, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Apponi. 150 151
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arresto»156. Ma rispetto ai dibattiti ginevrini la politica quotidiana imponeva, in Italia, altre priorità, come il «trauma»157 dell’appoggio comunista all’articolo 7 della nuova costituzione, che Contini inseriva nella serie comprendente i drammi del 1939 e la svolta di Salerno, in una lettera per più versi fondamentale nella sua biografia politica; oppure, poco più tardi, la necessità di schierarsi di fronte alle elezioni, con la contrastata intenzione, da parte di Contini, di appoggiare, ma senza grande convinzione, quasi come male minore, l’alleanza frontista158. L’Italia che veniva ricomponendosi in quella forma sollecitava poi altre riflessioni. Con le opere di De Sanctis fra mano per comporne la scelta, Contini spostava l’attenzione dal linguaggio del critico ad alcune implicazioni del disegno storico; e la chiusa della Storia lo induceva a pensare «quanto erano ingenue le scuole a prospettare l’inizio d’un novus ordo in Italia dal secolo scorso per via dell’unità nazionale. Che solidarietà, invece, col cinque, col seicento!»159. Di nuovo, dunque, il problema della storia italiana, in particolare nello snodo tra costruzione e crisi dello Stato liberale: e su questo terreno era inevitabile misurarsi con Croce. Per vari, sparsi accenni emerge dai documenti continiani una crescente insofferenza politica nei confronti di Croce160, assieme a una trama di rinvii, già visibile negli scritti svizzeri. Basterà, come
Cfr. Contini, Dove va la cultura europea?, p. 27. Cfr. G. Contini ad A. Capitini, 26 marzo 1947, in Contini-Capitini, p. 163. 158 Cfr. G. Contini ad A. Capitini, 29 dicembre 1947, ibid., p. 186. Il proposito venne ribadito da Contini anche scrivendo ad Apponi; ma poi subentrarono dubbi e amarezza per la mancata candidatura di Ettore Tibaldi, suo amico personale, e guida del 1944 ossolano, nelle liste socialiste. Una eventuale rinuncia al voto per questi motivi non modificherebbe comunque in modo sostanziale il senso di una scelta. Alcune considerazioni e alcuni documenti familiari sul rapporto Contini-Tibaldi in G. Perona, Note e documenti in margine al carteggio tra Gianfranco Contini ed Emilio Cecchi, in Per le vie del mondo, a cura di P. De Gennaro, Torino 2009, pp. 320-33. 159 Cfr. G. Contini ad A. Apponi, 14 dicembre 1947, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Apponi; e cfr. anche G. Contini a E. Cecchi, 18 settembre 1948, in L’onestà sperimentale, p. 86: «quasi che la storia d’Italia non fosse “continuata da quella del Guicciardini”, e il Risorgimento fosse valso a interromperne il corso positivamente, e il fascismo che dirò storico – per distinguerlo dall’eterno e permanente – negativamente sorgendo ex nihilo». 160 Cfr., ad esempio, G. Contini ad A. Apponi, 20 marzo 1948, in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Apponi. 156 157
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provvisoria conclusione, citare un singolo episodio. In una lettera databile alla fine del 1946, Contini scriveva ad Apponi: È preoccupante che Croce creda di poter fare la storia del fascismo nei termini infantili e imbecilli di Pensiero politico e politica attuale, pp. 42 sgg. Libercolo sciocco e vanitoso161.
L’indicazione sul testo è molto precisa: si tratta della recensione che nel maggio del 1945 Croce aveva dedicato a Marcia su Roma e dintorni di Emilio Lussu. Croce vi notava che «la fede il plauso e l’entusiasmo vennero al fascismo non da questa o quella singola classe, ma da uomini di tutte le classi e di tutti gli ordini sociali»162; e se era necessario far riferimento, più addietro nel tempo, alla crisi spirituale di fine Ottocento, per comprendere la genesi del fascismo, occorreva anche evitare, nel presente, che si riproponessero «l’irriflessione che vuole scacciare la riflessione, la tentata sopraffazione dei molti sui pochi, degli armati sugli inermi, degli incapaci sostituiti ai capaci […] perché i motivi di questi mali il genere umano li ha perpetuamente in sé stesso»163. Su un punto dell’argomentazione crociana Contini poteva forse essere d’accordo: la sottolineatura del ruolo della monarchia. Ma il corto circuito polemico che segnava le pagine crociane non poteva convincerlo, così come l’enfasi posta sul breve periodo della crisi successiva alla Grande guerra, che di fatto eludeva alcuni interrogativi continiani. E per Contini la crisi dell’antifascismo si può ricondurre in gran parte al fatto che non possiede, a combattere fascismo e nazismo, la competente arma storiografica: un giudizio storico adeguato della loro natura. Vedere le ultime miserabili scritture politiche di Croce164.
Cfr. G. Contini ad A. Apponi, 15 [? 1946], in FEF, AC, lettere di Contini, fascicolo Apponi. 162 Cfr. B. Croce, «Marcia su Roma e dintorni», [1945], ora in Id., Scritti e discorsi politici (1943-1947), a cura di A. Carella, vol. 2, Napoli 1993, pp. 166-70, a p. 167. 163 Ibid., p. 170. 164 Cfr. G. Contini a E. Cecchi, 12 ottobre 1947, in L’onestà sperimentale, p. 78; più estesamente, su questi punti, Moretti, «Noi siamo la minoranza in regresso», pp. LVLVIII. 161
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Nella biografia culturale di Contini sembra non trovare spazio una fase propriamente giovanile, quasi che il filologo domese fosse nato come Minerva dal cervello di Giove già armato di tutto punto. Armato di scienza, in primo luogo; ma sùbito in grado di orientarsi anche nelle amicizie intellettuali – quelle che più lentamente si accendono e si stratificano quando si hanno vent’anni – dal momento che le corrispondenze con Montale, massimo poeta italiano del Novecento, e con Gadda, forse il massimo prosatore, datano entrambe al 1934; infine, riconosciuto presto nel suo valore scientifico, se la cattedra di Friburgo lo accoglie appena ventiseienne nel 19381. Una precocità che è stata additata dai critici anche quanto al profilo stilistico. Nel saggio di Paola Sgrilli, a lungo l’unico contributo espressamente dedicato alla lingua di Contini e a tutt’oggi quello più significativo2, le raccolte giovanili EL e AL sono citate di conserva con Opere citate mediante sigle: AL = G. Contini, Un anno di letteratura, Firenze 1942; CG = G. Contini, C.E. Gadda, Carteggio 1934-1963, a cura di D. Isella, G. Contini, G. Ungarelli, Milano 2009; EL = Esercizi di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice di testi non contemporanei, Firenze 1939; MC = Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, a cura di D. Isella, Milano 1997. Faccio riferimento alle edizioni uscite nell’arco di tempo di cui mi occupo, senza dar conto delle successive ristampe (per un sondaggio in merito si veda oltre); per le indicazioni bibliografiche ad esse relative rimando all’eccellente regesto L’opera di Gianfranco Contini: bibliografia degli scritti, a cura di G. Breschi, Tavarnuzze 2000. Nel 1969 Giorgio Petrocchi, con la consapevolezza dell’autorevole ed esperto uomo d’università, scriverà che Contini «risolve in pochi anni le stazioni – per altri ben altrimenti faticose – del curriculum accademico» (G. Petrocchi, Gianfranco Contini, in I critici, a cura di G. Grana, vol. 5, Milano 1970, p. 3807). 2 P. Sgrilli, Influsso delle lingue speciali sul lessico della critica letteraria, nel volume collettivo Italiano d’oggi. Lingua non letteraria e lingue speciali, Trieste 1974, pp. 357-80; si vedano anche G. Nencioni, Gianfranco Contini [1990], in Id., Saggi e memorie, Pisa 1
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quelle più mature per documentare i caratteristici prelievi dai linguaggi settoriali; qualche anno dopo, Maria Antonietta Grignani ha parlato di «inconfondibile magnetismo stilistico»3 per gli articoli dei primi anni Trenta apparsi nella «Rivista Rosminiana» e poi in gran parte confluiti in EL. In questo mio intervento mi propongo di verificare la fondatezza di questo assunto, attraverso una ricognizione del primo decennio di scritture continiane, dal 1930 fino al 1942 di AL. È un decennio segnato da un interesse dominante per la contemporaneità: non si danno eccezioni negli anni 1930-34; per l’intero decennio, a parte l’incursione medievale di Bonvesin, si contano numerati saggi di argomento filologico e linguistico, oltre a un significativo mannello di lettere a Gadda e a Montale. Quanto agli anni successivi, è forse da temperare la valutazione di Cesare Segre, secondo il quale «i titoli di argomento contemporaneistico [continuano] ad essere la maggioranza, almeno sino a dopo il 1960»4. Già pienamente consolidato appare il tema (o il mito) della famosa oscurità stilistica di Contini, avvertito da altri o dichiarato con autoironia dallo stesso studioso. L’affiorare più antico del tema si legge in una lettera di Gadda (la prima, del 21 maggio 1934): Vorrei che l’acutezza, la verità e la novità del suo esame critico fossero più distesamente accessibili al lettore medio, p.e. a me; che lei non ungarettizzasse il suo monologo critico fino a renderlo troppo arduo5. 1990, pp. 419-28, in part. pp. 422-3; P.V. Mengaldo, Il Novecento (Storia della lingua italiana), a cura di F. Bruni, Bologna 1994, pp. 190-3 e 368-70; O. Macrì, Note sullo stile continiano, «Microprovincia», 35, 1997, pp. 9-18; G. Alvino, Critica grammaticale e critica estetica, in Gianfranco Contini tra filologia ed ermeneutica, numero unico di «Humanitas», 5-6, 2001, pp. 716-33. Una menzione particolare, perché il saggio gravita proprio sugli anni Trenta, anni in cui Contini «ha vissuto da vicino, con occhio critico, l’esperienza di alcuni nostri scrittori attivi tra il momento di “Solaria” e quello di “Letteratura”», va fatta per G. Da Pozzo, Appunti sul linguaggio critico di Gianfranco Contini, «Belfagor», 21, 1966, pp. 639-61 (la citazione da p. 642). 3 M.A. Grignani, Introduzione alla giornata pavese: Gianfranco Contini e Pietro Ciapessoni. Un alunno d’eccezione, un rettore lungimirante, «Filologia e critica», 15, 1990 [= Su / per Gianfranco Contini], pp. 179-84, a p. 182. 4 C. Segre, Contini uno, due e tre, in Gianfranco Contini vent’anni dopo. Il romanista, il contemporaneista, a cura di N. Merola, Pisa 2011, pp. 7-17, a p. 10. 5 Cfr. CG, p. 99. Questa testimonianza, e un’altra che citeremo tra poco, sono valorizzate anche da Segre, Contini uno, due e tre, p. 14.
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Contini sul momento non raccoglie, ma fa riferimento al proprio modo di scrivere in una cartolina postale del successivo 29 luglio: Grazie della Sua lettera; e della intrepidità con la quale ha affrontato la lettura della mia prosa, impresa abbastanza acerba, pare, secondo un giudizio plebiscitario (CG, p. 34).
E riprende il discorso, in forma più distesa ma mantenendo lo stesso abito di raffinato understatement, in un’altra cartolina postale del 1940. Qui, dopo avere espresso la propria ammirazione per la «salute stilistica» del corrispondente (una salute «di ferro»), scrive: la mia grigia sintassi giornaliera, animata solo da qualche folata di entusiasmo grammaticale (a scopo edonistico mi studio una nuova lingua), ritornerà al confronto alle sue naturali cadenze di codice civile, per dirti che io ti raggiungerò probabilmente, ma alquanto più tardi [...] (CG, p. 64).
Precoce (1934) è anche un riferimento indiretto che si legge in una delle prime lettere a Montale, quella che segna il passaggio al tu, discorrendo di Alfonso Gatto: di certa oscurità non sarò io a discorrere, tanto più che a una seconda lettura riesce quasi tutto comprensibile (MC, p. 22).
Si aggiunga, infine, nel 1940, la risposta a un’inchiesta sull’«Ermetismo», in cui Contini prende aristocraticamente le distanze dall’idea che l’oscurità sia, sempre e comunque, un dato negativo, da cui rifuggire: non si può dire che durante una tradizione secolare, e fino all’illuminismo, l’oscurità avesse mai costituito veramente predicato di condanna [...] prima che un’epoca borghese, sancito il diritto all’accessibilità universale alla cultura, esigesse anche il diritto all’accessibilità assoluta della cultura (AL, p. 145).
Ma in che consiste la famigerata «oscurità» espressiva di Contini? Ne ha dato una definizione acuta, illuminandone i presupposti e di fatto negandola, Giovanni Nencioni:
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il suo dettato non è – come facilmente si è sentenziato – arduo per ermetismo iniziatico o per sfoggio di impennate, ma per energia lessicale, per fulmineità connettiva, per frequenza di riferimenti espliciti e impliciti. Al lettore è fatto carico di adeguarsi al ritmo mentale e alla cultura del critico; il quale anzitutto, come innovatore epistemologico, è creatore di nomenclatura6.
La diagnosi di Nencioni si attaglia perfettamente al Contini maturo; ma conviene solo in parte, come cercherò di argomentare, al Contini degli anni Trenta, se non per il terzo assioma, la «frequenza dei riferimenti espliciti e impliciti». Fuori anche da quest’area resta in ogni caso il primo saggio registrato dalla bibliografia allestita da Breschi, ove si prescinda da un resoconto scolastico7: un articolo del 1930, dedicato a Moretti8. Le risorse espressive messe in campo dall’autore diciottenne sono quelle di un buon liceale, che introduce richiami intertestuali attraverso fruste interrogative retoriche («Chi non ricorda Carlino dell’“Ottuagenario” spaziante con lo sguardo sui dorati estuari, da Portogruaro?»), sente il bisogno di citare tra virgolette riconoscibilissime citazioni («L’amore poi ch’egli porta al “natio borgo selvaggio”»), scomoda un inflazionato Tucidide per formulare un apprezzamento all’autore recensito («Ci sono pagine limpide, bellissime, e direi perfette – ktêma es aei – come la fantasia sulla professione di farmacista ecc.»), ricorre a un riguardo verbale per acclimare un figurante attinto dall’orizzonte contemporaneo («è come, mi si passi il paragone, una di quelle macchine fotografiche delicatissime, che per un nonnulla fanno fotografie sfocate»). Insomma: nulla che lasci presagire la grandezza imminente. Un po’ come, per restare nell’àmbito di prove letterarie di diciottenni destinati alla fama, sarebbe difficile presagire la futura statura di Manzoni dal Panegirico a Trimalcione o quella di Leopardi dall’Inno a Nettuno. Ma sono ingenuità che si dissolvono presto e non compaiono nei saggi degli anni successivi poi raccolti in EL: un’opera destinata a fare scuola e fondata su un’immagine ben continiana: «Lo stesso titolo dei
Nencioni, Gianfranco Contini, p. 425. Cfr. L’opera di Gianfranco Contini. Il resoconto (1927) si riferisce a una Gita della II liceale in Valle Antrona. 8 G. Contini, Marino Moretti in “Tempo felice”, «Rivista Rosminiana», 1, 1930, pp. 103-8. 6 7
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suoi libri, Esercizî, è metafora sportiva di rischiose prove muscolari»9. Abbracciando EL e AL, possiamo riunire in tre gruppi alcuni stilemi degni di nota, valutandone il diverso impatto caratterizzante sul quadro d’insieme. 1. Mancano quasi del tutto quei modi nettamente colloquiali e quelle «mosse gesticolatorie e pseudodialogiche» del genere di «non agnostico, ah no, ma prudente» segnalati per la loro tipicità da Nencioni10. D’altra parte, erano del tutto abituali nella prosa saggistica, già ottocentesca, le formule di tipo latamente fatico adoperate per simulare il registro colloquiale di un dialogo reale, mettere a punto il discorso o introdurre un’esemplificazione11: «diremo: la sua “fede”» EL, p. 22; «Diciamo di più» EL, p. 23; «Ma sentiamo quest’altra» EL, p. 40; «i termini più letterari: “pomario”, mettiamo, o “reliquiario”» EL, p. 67; «quel “contenuto amorfo”, poniamo, di Fine dell’infanzia» EL, p. 70; «le liriche posteriori agli Ossi, o diciamo alla Casa dei doganieri» EL, p. 77; «[di quel metaforizzare perpetuo] si possono trovare singolari anticipi, mettiamo nel Tommaseo di Fede e bellezza» EL, p. 88; «Carducci, poniamo, è nel Pascoli interpretato come un omerida» EL, p. 101, etc.; «opta, diciamo, per Tolstoj» AL, p. 29 etc. Semmai andrà segnalato un modulo parallelo, non certo inedito ma destinato ad affermarsi preferenzialmente nel Contini maturo: quello strutturato su un verbo impersonale o sul si passivante, insomma con occultamento del soggetto personale12. Lo esemplificheremo con maggiore larghezza: «quella che si vorrebbe chiamare la monade lirica» EL, p. 44, «nei versi “lunghi” più recenti,
Macrì, Note, p. 10. Per l’importanza di EL nella storia della critica cfr. C. De Matteis, Contini e dintorni, Lucca 1994, p. 13 sgg. Un’ordinata ricognizione dei contenuti è in R. Cicala, Contini e i primi esercizî di lettura sulla “Rivista Rosminiana”, «Microprovincia», 35, 1997, pp. 142-50. 10 Cfr. Nencioni, Gianfranco Contini, p. 426. L’esempio citato senza rinvii da Nencioni è propriamente «Non agnostico in materia, ah no, ma prudente» e si legge in G. Contini, Varianti e altra linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino 1970, p. 169. 11 Corsivi miei. 12 Ne colgo tre attestazioni, per esempio, nel breve saggio G. Contini, Un paragrafo sconosciuto della storia dell’italiano letterario dell’Ottocento [1950], in Id., Varianti e altra linguistica, pp. 207-17 (corsivi miei): «e la si chiami magari sintassi interiore» (p. 214), «del poliglottismo, ben s’intenda, della tradizione comica cinquecentesca» (p. 214), «un dato al quale [...] si vorrebbero trovare precedenti letterari» (pp. 215-6). 9
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si supponga» EL, p. 45, «Non già, ci s’intenda, che in quella specie d’equivoco non abbia avuto il poeta stesso la sua parte di responsabilità» EL, p. 65, «Né si vuole insistere attorno alla volgarità di risolvere questo scrittore, senza più, nell’umorismo» EL, p. 117, «e s’annetta la debita significazione al fatto che il Dubliner tende a fuggire dalla risoluzione strettamente narrativa in cui etc.» EL, p. 159, «Ora si dia all’Album lo stesso sguardo veloce» AL, p. 9, «Si vuol dire, insomma, che la maggiore stabilità “quantitativa” gli era garantita nel giro del sonetto e delle forme che, molto latamente, si possono chiamare “leopardiane”» AL, p. 93 etc. 2. Si registra già, sia pure sobriamente, una certa sprezzatura anticlassicistica (o se si vuole: antipuristica) che porta Contini a usare forme che non si trovano, o potrebbero non trovarsi, nei vocabolari. La loro riconoscibilità è quella tipica dei neologismi o occasionalismi derivativi: formazioni in -izzare come lombardizzare («Rebora lombardizza anche letteralmente» EL 12)13, con relativi deverbali in -izzabile («un sentimento aritmeticizzabile» AL, p. 62)14, in -ismo come illustrazionismo («quell’innocuo illustrazionismo parrocchiano», in riferimento alla Deledda, EL, p. 185); astratti in -ità come roridità («una roridità di memoria in Valmorbia» EL, p. 72); aggettivi deverbali in -ivo come assorbitivo («un processo assorbitivo» EL, p. 7915, concentrativo («L’autocritica, e sia pure la semplice storia del proprio stile, è un momento essenziale in Gadda; e vive, quasi un Doppelgänger, accanto al fatto concentrativo» EL, pp. 161-2), e rifacitivo («la velleità rifacitiva» EL, p. 160); aggettivi negativi di gusto latineggiante, ma perlopiù di coniazione autonoma, con in-: imperentoria EL, p. 52, indispersa EL, p. 54, irriposato AL, p. 18, inassorbito («storia [...] inassorbita e inerte» AL, p. 92), fino al verbo inesistere usato in concomitanza col suo antonimo («La gravidanza di Elisa, per esempio, come puro dato esiste volta a volta e inesiste» EL, p. 188). Più direttamente al latino 13 E sinfonizzare («per orchestrare appunto e sinfonizzare una materia sparsa» EL, p. 132), peraltro captato al lessico musicale: con prontezza, se la prima attestazione registrata nel Grande dizionario della lingua italiana di Tullio De Mauro, Torino 1999 (= GRADIT), è del 1912. 14 Si aggiunga, dall’Introduzione all’edizione delle Rime di Dante, Torino 1939, p. 15, figurativizzare («per misurare quanto, al confronto, lo stilnovista [...] figurativizzasse»). L’attestazione retrodata la prima attestazione del GRADIT (1988). Cfr. anche, in questi Atti, C. Ciociola, La lava sotto la crosta. Per una storia delle “Rime” del ’39, p. 531. 15 Di qualche uso nel lessico medico: cfr. GRADIT.
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si richiamano gli aggettivi modellati sul gerundivo, come l’ironico constituendo («al servizio della constituenda compagnia allievi ufficiali» EL, p. 179), pudendo («dei sentimenti pudendi per eccellenza, la fame, la carità, l’amor semplice» AL, p. 38), giudicando («nell’ipotesi che Ghiberti fosse giudicando secondo categorie pittoriche» AL, p. 57). Alla formazione delle parole pertengono anche le coppie di elementi giustapposti, in generale separati da lineetta, che talvolta arieggiano modi poetici di gusto futurista o specificamente boiniano16; tra i fatti che stiamo inventariando, si tratta di quello più tipicamente legato a questa stagione continiana, fortemente incentrata sulla letteratura contemporanea. Esempi: «per un triviale-patetico sbaglio» EL, p. 27, «la fase magico-balbettata della poesia di Campana» EL, p. 27, «ecco una situazione-parola, di languore» EL, p. 53, «quella parola-sentimento centrale» EL, p. 53, «questa parola fresco-riconiata» EL, p. 70, «puri temi d’immobilità-indifferenza» EL, p. 81, «dell’adoratoripudiato Racine» AL, p. 11317. Notevole il composto ironico similpoesia («la similpoesia delle Occasioni» secondo Gargiulo, AL, p. 59), che crea un occasionalismo con un confisso all’epoca ancora estremamente raro e destinato a discreta fortuna, anche in senso proprio (similpelle, similvernice), solo nei decenni successivi. 3. Senza essere abitualmente impervio o insolito, il lessico è mediamente sostenuto e attinge alle risorse della tradizione letteraria, rinnovando forme rare come effabile, d’uso comune solo nell’antonimo ineff- («la sua durata nacque il più possibile incognita, si consumò prima di farsi effabile» EL, p. 46)18, o scegliendo una variante fonetica latineggiante («l’adequazione del coraggio e del frammento di Cecchi» AL 11); sinonimi non consumati dall’uso e dalla conseguente perdita di carica espressiva come locupletazione («locupletazione sensuale»
16 Sull’uso del modulo nella poesia primonovecentesca cfr. Mengaldo, Il Novecento, p. 216. 17 Riformulazione del più corrente odiosamato, già alfieriano (cfr. GDLI = Grande dizionario della lingua italiana fondato da Salvatore Battaglia, Torino 1961-2002). 18 A effabile si può accostare effato, ricorrente, se non ho visto male, solo o soprattutto in anni più tardi; per esempio, da Contini, Varianti e altra linguistica, pp. 178 («l’ambiente della scolastica obbligava a effati meno colloidali»), 190 («verificheremo che questo effato ineffabile è pur passibile d’una qualche misura esterna»), 208 («il suo grandioso effato»), etc.
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EL, p. 55)19, estruzione («le temibili estruzioni dei palazzi di giustizia, nei Giudici» EL, p. 137)20; verbi correntemente cristallizzatisi in alcune forme, tipicamente il participio presente con valore aggettivale, come repellere («Charles Péguy [...] lo repelle come associatore sadico di voluttà e crudeltà» AL, p. 102) o vigere («rileveremo anzitutto come il valore formale, nella sua purezza, viga in toto» EL, p. 145, «la descrizione vige in un’impostazione strettamente narrativa» EL, p. 147); verbi rinnovati nella valenza, come discorrere adoperato transitivamente per ‘percorrere’ secondo l’esempio latino («sentimenti concreti discorsi nella loro articolazione dialettica» EL, p. 75) o nella semantica come accusare per ‘rivelare, mostrare con evidenza’ (tipicamente al passivo o come participio passato aggettivale: «il divario è puntualmente accusato dal ritmo» EL, p. 86). Un controllo campionario con la ristampa del 1947 di EL (Firenze, Le Monnier) conferma l’auto-giudizio dello stesso Contini, che parla di «tenui correzioni e aggiornamenti» da lui praticati nelle ristampe dei suoi saggi21. Ecco comunque un campione sistematico, ottenuto confrontando Comisso 1933 (Storia di un patrimonio) (EL, pp. 1538) con l’omologo Comisso romanziere (Storia di un patrimonio) dell’edizione 1947, pp. 187-9422: 1. alcuni casi → taluni c.; 2. ci giungon talvolta → ci giungono; 3. La relativa immunità per molti secoli dall’influsso culterano → La r. i. per m. s. (fuori
Il termine potrebbe essere rubricato anche come prelievo settoriale (di ingiusta locupletazione si parla nel diritto civile), ma credo che dipenda piuttosto dal suo fascino latineggiante; lo stesso che, nel 1936 (tre anni dopo l’esempio continiano, risalente a un articolo apparso per la prima volta nel 1933), sarà stato alla base del crociano «locupletazione della poesia» (cfr. GDLI; la forma è registrata anche in D. Colussi, Tra grammatica e logica. Saggio sulla lingua di Benedetto Croce, Pisa-Roma 2007, p. 267). 20 Estruzione è tra i vocaboli che Sgrilli riconosce come condivisi tra Contini e Gadda (Sgrilli, Influsso delle lingue speciali, p. 367); andrà precisato che gli esempi dello scrittore milanese sono tutti successivi. 21 Si veda l’Avviso all’edizione Einaudi 1974 degli Esercizî di lettura [...] aumentata di «Un anno di letteratura», p. VIII. 22 Non tengo conto della primissima stesura dell’articolo in «Rivista rosminiana» del 1934. Data la brevità del saggio, non indico le pagine; introduco la numerazione progressiva per favorire i richiami. 19
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d’uno strato leggerissimo di umanisti) da un profondo influsso letterario; 4. applicare al Comisso ultimo → applicare a Comisso; 5. l’inconfrontabile superiorità → l’incomparabile s.; 6. già Porto dell’amore → un tempo Porto dell’Amore; 7. ai figliuoli d’un figlio → ai figli d’un figlio; 8. propaganda socialistica → p. socialista; 9. con le modalità dell’epos borghese va certo sistemarsi o irrigidirsi del contenuto → alle modalità dell’e. b. si conforma certa sistemazione e irrigidimento del c.; 10. il segno → la traccia; 11. si ricordino i finali → si r., per dir solo di classici, i f.; 12. betteleniana → betteloniana; 13. al senso «misto» del terroir e del danaro → al s. «m.» della terra e del d.; 14. Formula comissiana [in nota] → F. ben c.; 15. profession de foi → «p. de f.»; 16. il Waterloo della Chartreuse → mettete accanto al W. della Ch.; 17. era in risalto → risaltava; 18. Tutta una nota → Un’intera n.; 19. bel ha veramente Comisso → bel è stampato veramente; 20. li sottende → li sottintende; 21. elementi di rèpere → e. di riferimento; 22. in fondo → in definitiva; 23. si supponga → ad esempio; 24. La Storia di un patrimonio → A volerla giudicare positivamente, S. di un p. Un certo numero di interventi figurano anche nel passaggio dall’edizione 1947 all’edizione 1974; ne do conto, continuando la numerazione: 25. [nota 1] mediocri e per dir così inesistenti romanzi → m. e p. d. c. inconsistenti «r.»; 26 [aggiunta alla nota 1] Né sarà certo la commovente Dichiarazione che aprirà Capriccio e illusione (Romanzo), col suo rinnegamento del «dannunzianesimo» e l’auspicio di un’arte sentimentale, a velar la cognizione, fosse pure contro lo stesso autore, del più vero Comisso; 27. l’affanno di una voce → l’ansito d’u. v.; 28. sì che il «fisico» → talché il «fisico»; 29. cinematografo anche qui → cinema a. q.; 30. «profession de foi» → profession de foi; 31. nei suoi componenti anatomici → nelle sue c. anatomiche; 32. il bel racconto, cioè il racconto → il r. valido, cioè quello.
Nulla di clamoroso, in effetti; ma qualcosa si può comunque notare. A parte l’eliminazione di un banale refuso (12), alcune sono varianti di contenuto: si tratti di introdurre una precisazione (26), attenuare un’asserzione (3, 11, 24, 25) o, viceversa, generalizzare un assunto (4) o di attribuire alla stampa un uso discutibile precedentemente ascritto all’autore (19). Tra le varianti stilistiche, diverse tendono ad abbassare il testo di un’ottava, intervenendo su un riferimento ricercato (3 e anche 21, su cui ritorneremo), preferendo la formula usuale ad esempio al modulo impersonale al quale s’è già accennato (23), traducendo un forestierismo puramente connotativo (13) o semplicemente optando per il sinonimo più corrente (5, 20). Di diverso segno 28. Notiamo
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ancora l’aggiornamento di 823 e 29 e l’abbandono di due movenze toscaneggianti, ben diffuse del resto nella coeva prosa saggistica in generale: l’apocope di 2 e la scelta lessicale di 7. In 30 si ripristina la scelta paragrafematica originaria (cfr. n° 15). Fin qui abbiamo visto fatti che, ben compatibili con lo stile del Contini maturo, non sono però sufficienti a delinearne l’individualità. Il tratto che tutti i critici, giustamente, hanno menzionato come caratterizzante è il sistema metaforico e in particolare la disposizione a prelevare elementi dai linguaggi settoriali. Ciò – ha osservato Sgrilli – «non risponde semplicemente al desiderio di assicurare certezza al proprio lavoro di “letterato” esemplandone i metodi sul modello scientifico fino a prelevarne in parte la terminologia», ma, attraverso il suo «travalicare in letteratura» impone una lettura complessa del testo critico, «centrata sullo scarto tra l’attesa della domanda (il codice istituzionalizzato del discorso critico) e la realtà della risposta su un doppio registro, referenziale e metaforico»24. In proposito può essere interessante un giudizio di Contini sul lessico critico di Luigi Russo (l’articolo risale al 1937), che sembra rappresentare un caso di rispecchiamento, sia per l’assunto di partenza («la sua critica – osserva Contini – si pone espressamente come letteratura»), sia per l’esemplificazione, attraverso termini come ctonio, autoctono, primigenio, la semantica di magnanimo «detto di ipocrisia», liberale «detto di sintassi e stile», nostalgia «di motivi», l’uso transitivo di germinare25.
Le antenne sensibili di Bruno Migliorini già nel 1941 registravano la decadenza di -istico in forme del genere: per parecchi vocaboli in -ista, specie nel lessico politico, «si potrebbe documentare che mentre erano neologismi freschi la forma in -istico era frequente; man mano che essi si divulgano, quella in -ista guadagna terreno. [...] L’on. Gianturco, in una discussione parlamentare del 1897, usava indifferentemente idee socialiste e idee socialistiche; oggi si direbbe solo socialiste» (B. Migliorini, Il suffisso -istico, in Id., La lingua italiana del Novecento, a cura di M.L. Fanfani, Firenze 1990, pp. 165-86, a p. 180). 24 Sgrilli, Influsso delle lingue speciali, pp. 357-8. 25 Cfr. EL, pp. 214-5. A conferma di questa sorta di affinità elettiva, si può citare l’uso estensivo di magnanimità che di lì a poco Contini avrebbe fatto nell’Introduzione alla sua edizione delle Rime di Dante (Torino 1939), parlando di «magnanimità lessicale della Commedia», p. 12. Quanto al Russo, della sua «incontenibile necessità di metaforizzare» tocca L. Baldacci, Lo stile metaforico di Luigi Russo, in Id., Le idee 23
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Due precisazioni, in limine: i prelievi non si limitano certo alle scienze dure o a quelle fondate su una teoria rigorosamente codificata, come il diritto o anche la filosofia. L’arte e la musica esercitano un’attrazione particolare proprio sul Contini contemporaneista, sensibile ai valori estetici della poesia; inoltre, non è raro che i serbatoi terminologici comunichino tra loro (tra gli esempi che citeremo: biologia e contabilità con metameria e segnato in attivo; aritmetica e diritto processuale: addendi e indizio). Ecco alcune immagini che appartengono ai vari àmbiti. Dalla storia dell’arte: «nel momento in cui la fantasia di Campana tocca la regione emiliana dai contorni netti e dalle tinte sicuramente campite» EL, p. 21, «l’accaduto che trova alfine una ragion sufficiente a se stesso cifrandosi in poesia» EL, p. 3026, «negli ambulacri degli interessi di gruppo» AL, p. 55 (il riferimento è ai critici letterari). Qui verosimilmente vanno anche in quanto tecnicismi della scultura, come mi suggerisce Massimo Ferretti, due esempi che astrattamente, sarebbero attribuibili alla semeiotica: «gli fornisce elementi di rèpere che lo definiscono spazialmente» EL, p. 158 e «Per farsi creazione evidente, lode del Demiurgo, la Terra non ha da essere traslata in un mondo metafisico, ma semplicemente: apparecchiata con autostrade, con punti di rèpere, belvederi» EL, p. 19727. Musica: «Nessun elemento vero di salvezza (e cioè nessun tema privilegiato) in un’aria esemplificativa come la seguente [segue una citazione montaliana]» EL, p. 81, «Neppure la frase “altro cespo riverdica, e voi siete” allude, come preludio, a una vera resurrezione della donna», con frase nella sua accezione musicale, di conserva con preludio, EL, p. 82, «Avviati sopra un minuto contrappunto di obiezioni, questi dialoghi proseguono infatti come una fuga a più voci alterne e complementari, e la conclusione è un coro di lodi a Dio» EL, pp. 191-92, «un’altra suite che per la sua analogia tocca subito la memoria» AL, p. 7, «Fino l’orecchiabile “Invecchiare! morire! e poi?”
correnti, Firenze 1968, pp. 98-117, a p. 108; ma su questo si veda soprattutto G. Da Pozzo, La prosa di Luigi Russo, Firenze 1975, pp. 13-24. 26 Più che il filosofico ragion sufficiente, mi sembra notevole cifrandosi, cioè direi ‘risolvendosi in un ricamo’ (arti minori, dunque). 27 Da notare che entrambe le occorrenze cadono nella ristampa del 1947, a favore di «elementi di riferimento» (vedi sopra) e di «punti geodetici» (EL [1947], p. 245).
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funziona germinalmente da Leitmotiv annunciatore dell’altrettanto celebre notte» AL, p. 111. Altri settori. Scienze: «[in Cardarelli] il poco segnato in attivo, sempre le solite cose, apparisce casuale, una metameria di segmenti» EL, p. 30, «Sentimento del tempo ci dà quasi la metageometria ungarettiana» (con un neologismo continiano, che si rifà all’àmbito originario solo per indicarne il superamento) EL, p. 53, «Da qui, ecco accelerarsi l’accumulazione degli addendi provocati dall’indizio» EL, p. 95, «Anche l’avventura ha le sue ascisse e le sue ordinate; il dilettantismo, scalari e vettori...» EL, p. 158. Medicina: «tanto vale rivelare come il Dossi [...] si mettesse all’impresa con un cautissimo dosaggio» EL, p. 159 e «dove non indulga a dosi superflue d’umore» EL, p. 162, «Pur mascherandosi dietro il referto» EL, p. 200. Diritto e burocrazia: «gli elementi fantastici sono usucapiti in altra funzione» EL, p. 18, «un esempio tutt’altro che poziore com’è questo inizio [...]» EL, p. 3428, «un fatto “casuale” che deporrà se mai a carico d’una cultura pratica, nemmeno d’una cultura poetica» EL, p. 69, «l’ammirazione fiduciaria per le cose non tangibili» EL, p. 7929, «Breve allegato al canzoniere del Boiardo» EL, p. 22 e «il viluppo oitanico che il legato dannunziano gli getta nelle braccia» EL, p. 290, «con la solita suspicione di precisione realistica e di cronaca» AL, p. 63. Economia e contabilità: «Ecco dichiarata, dunque, la partita doppia che costituisce il Racconto militare» EL, p. 178, «Quei pennuti [si riferisce a un’evocazione di Bonsanti, che associa le reclute a uccelli in gabbia] [...] sono, come tutte le immagini di Bonsanti, moneta a doppio valore, a duplice quotazione» EL, p. 184. Filosofia: «uno sforzo di trascorrere dalla monade espressiva a una sintassi» EL, p. 31, «l’Allegria [è] sciolta in monadi» EL, p. 53, e «alla riscoperta della parola come monade interna» EL, p. 60, «l’ipostasi di un “primo” e di un “secondo” Ungaretti» EL, p. 51. Un momento importante nell’itinerario stilistico continiano è rappresentato da un saggio ospitato nella prima annata di «Lingua Nostra» (1, [1939], pp. 82-8): Alcuni fatti della lingua di Giovanni Boine. Si tratta, com’è noto, di un saggio di rilievo innanzitutto nel merito: Alvino lo ha definito «la prima, autentica ricognizione a
28 Su poziore come tecnicismo giuridico cfr. P. Fiorelli, Intorno alle parole del diritto, Milano 2008, pp. 57 e 106. 29 Fiduciario con tratto semantico [-umano] è caratteristico dell’àmbito giuridicoeconomico: si veda l’esemplificazione di GDLI.
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largo raggio della lingua d’un autore di cui si abbia memoria non solo in Italia»30. Tralasciando fenomeni già incontrati in EL e AL, come la giustapposizione (e l’uso estensivo del tecnicismo filosofico: «in manifestazioni-monade»), si possono citare alcune soluzioni di forte carica innovativa: l’analisi, materiata di fatti, non si lascia irretire entro la griglia codificata degli spogli linguistici (vocalismo, consonantismo…), ma è fondata sulla selezione degli elementi, dei pochi elementi, degni di un esame ravvicinato; nello stesso tempo la lingua usata non è quella di un’asettica perizia tecnica, a cui si chiede di rispondere a domande prevedibili e di farlo secondo uno stile espositivo consolidato, ma si fonda su un forte investimento espressivo, come avverrebbe in un saggio di critica militante. Di qui la concentrata efficacia per la quale una mera indicazione descrittiva – la «frequenza di proposizioni interrogative entro parentesi» – diventa una «continua inchiesta parentetica»; la riformulazione in chiave espressiva di nozioni tecniche dell’analisi linguistica, radice suffisso epiteto: «il nudo aspetto dell’azione, castamente concentrato sulla radice verbale, sopra il commento curioso ed epitetante dei suffissi»; la capacità di individuare i tratti stilisticamente rilevanti in un insieme formalmente omogeneo, emarginando espressamente quelli prevedibili: «Va naturalmente escluso il tipo triviale [di «fusione degli epiteti»] che rappresenta una fusione di pseudocontrasti», come in tragico-giocosa31. Di questo pimento espressivo non si coglie nulla, com’è naturale, nei coevi saggi sulla lingua non letteraria o strettamente filologici. Si può notare, semmai, che non c’è nessun compiacimento tecnicistico32 e che si tende all’adibizione di termini di tradizione retorica. Del tutto normale, per quegli anni, parlare di anacoluto, sussumendo in questo termine le varie peculiarità e apparenti irregolarità della lingua antica («una raccolta di 63 leggende mariane che la sintassi zeppa d’anacoluti indica di carattere estremamente popolare»)33; ma si noti anche un
Alvino, Critica grammaticale e critica estetica, p. 725. Gli esempi citati si leggono in Contini, Alcuni fatti, pp. 84-6. 32 Ciò che vale anche per l’articolo boiniano, in cui i fenomeni linguistici, più che etichettati, vengono affidati all’icastica didascalicità di un esempio: «l’omissione del che nel tipo [...], l’anacoluto del tipo [...], il pronome nel tipo [...]»: Ibid., p. 83. 33 G. Contini, Un manoscritto quattrocentesco di scritture popolari, «Archivum Romanicum», 22, 1938, pp. 281-319, a p. 284. 30 31
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termine come sillessi, che costituisce in fondo un’analoga rinuncia a una descrizione analitica delle strutture sintattiche, che in effetti non vengono censite: «La sillessi è continua, specie in M»34. Altra terminologia linguistica è oggi di uso non generale ma tutt’altro che obsoleta, come per oscuramento ‘innalzamento, chiusura’: «tendenza all’oscuramento di e protonica»35. Interessante anche osservare come, nella secca introduzione a un’edizione memorabile36 – che l’importanza dell’autore nella storia della cultura milanese medievale avrebbe comunque giustificato – non si rinunci, di passata, a un giudizio di valore, espresso con una sensibilità da critico militante: «il terzo e il quinto genere [cioè il “volgare espositivo” e il “volgare didascalico”] sono, inutile nasconderlo, privi d’aria»37. Lo scenario cambia radicalmente passando alla prosa epistolare (e che epistole, dal momento che i corrispondenti sono Gadda e Montale!), pur facendo la tara sull’incremento del «gradiente di espressività» insito in una lettera amicale rispetto ad altre tipologie testuali38. Qui, appena si accorciano le distanze, Contini dà vita alla sua più tipica e inconfondibile vena di esuberanza creativa: la stessa che, molti anni dopo, avrebbe additato – ma questa volta senza suscitare molti proseliti – nella prosa di Antonio Pizzuto. E, proprio come si può
Ibid., p. 317. Ibid., p. 318. Riscontri, significativi perché riferiti alla dialettologia settentrionale antica: M. Corti, Emiliano e veneto nel “Fiore di virtù”, [1960], in Ead., Storia della lingua e storia dei testi, Milano-Napoli 1989, pp. 177-216, a p. 186 («Oscuramento di o protonica in vicinanza di labiale»); P. Tomasoni, Per una storia dell’antico trevisano, «Studi di grammatica italiana», 3, 1973, pp. 155-206, a p. 175 («Presente in serie massicce l’oscuramento di o protonica e semiprotonica davanti a l»); T. Matarrese, “L’Inamoramento de Orlando” tra ibridismo, oscillazioni e alternanze funzionali, «Lingua e Stile», 39, 2004, pp. 3-43, a p. 15 nota 26 («la i si è prodotta per effetto dell’oscuramento di e protonica»). 36 G. Contini, Cinque volgari di Bonvesin da la Riva, Modena 1937. 37 Ibid., p. VI. 38 Cfr. G. Antonelli, Tipologia linguistica del genere epistolare nel primo Ottocento, Roma 2003, p. 63. Sull’importanza della prosa epistolare continiana, «da affiancare, con paritaria dignità, agli altri generi praticati da Contini», si veda D. De Martino, «Travagli segreti e personali». Sguardi sulla corrispondenza di Gianfranco Contini, «Moderna», 13, 2011, pp. 37-45 (la citazione a p. 37). 34 35
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rilevare nell’epistolario Contini-Pizzuto39, la creatività linguistica del corrispondente stimola Contini, che dà una sorta di concentrato di continità stilistica, quasi (verrebbe da dire) si volesse fornire, con generosa sprezzatura, abbondante esemplificazione ai futuri esegeti. Caratteristico il plurilinguismo, che potremmo distinguere in primario, quando si accostano semplicemente, con intento ludico, parole di lingue diverse, magari lasciandosi condizionare dall’orizzonte culturale del destinatario (di qui la scelta preferenziale del francese per Gadda e dell’inglese per Montale); e secondario, più raffinato, quando la parola di una lingua diversa, moderna o antica (o dialettale), fa risonare armoniche connotative. Esempi del primo tipo40: «Carissimo, / una volta che hai tempo e envie, dimmi che te ne sembra della mia risposta a Gargiulo. / Ti scongiuro di tacitare i rimorsi, del tutto mal placés [...]. Insomma, quaeso, n’en parlons plus», «Io secchio (o, come dicevano a Perugia, pioco) a tutto spiano nell’ordine della lettura/ricerca piuttosto che in quello della demiurgia filosofica», «Carissimo, / la tua lettera mi flattò molto, ma non sapevo dove ringraziarti»41; «sei stato clever anche tu», «mi butto con buon volere nel tutoiement, che è una cosa grave, e da trattarsi per intervalli, atti e scene di dramma, Schauspiel, come nel caso presente», «dell’attuale renouveau di ARSENIAN STUDIES», «(Come dicono le materfamilias ai figliuoli: credi che non capisca?)»42. Per il secondo tipo: «Anche domani riprendo mon chemin. Non sarà detto che lo faccia senza prima ringraziarti delle plurime curialitates milanesi», dove il latino allude allo scrittore milanese per antonomasia, Bonvesin da la Riva; «sulla soglia della paradorica (con bandiera), esotico-palmata, lugubre Cassa di Risparmio», con paradorico tratto verosimilmente43 dallo spagn. parador44 in riferimento straniante
39 Cfr. G. Contini, A. Pizzuto, Coup de foudre. Lettere (1963-1976), a cura di G. Alvino, Firenze 2000. 40 Indico l’accapo con una sbarretta. 41 Cfr. CG, pp. 62-3, 67 (lettere del 1940). 42 Tutti esempi da una stessa lettera a Montale, chiamato Arsenio dal personaggio della poesia omonima: cfr. MC, pp. 21-2. 43 L’altra possibilità è che si tratti di un para-dorico, di un ‘finto dorico’ (ma bisognerebbe vedere l’edificio). 44 Con la consueta capacità di cogliere parole e immagini dalla realtà circostante: la
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all’architettura dell’edificio domese raffigurato in una cartolina inviata all’amico45. Ma è tempo di porre sull’altro piatto della bilancia l’istituto che, a mio giudizio, segna nettamente lo stacco tra il Contini giovane e il Contini maturo. È un particolare; ed è un particolare che oltretutto riguarda lo strato più superficiale di una compagine linguistica, il sistema paragrafematico: mi riferisco all’uso delle virgolette metalinguistiche, adoperate non, obiettivamente, per riportare una parola altrui ma, soggettivamente, per marcare le distanze rispetto a un uso idiosincratico, metaforico o estensivo o, in generale, per avvertire didascalicamente il lettore che una parola viene adoperata in un senso diverso da quello corrente46. Alcuni esempi da EL: «L’attività aggettivante, e intendiamo quella che “epiteta” o, senz’altro, pone un oggetto per via “descrittiva”» p. 54; «questa “zona” della poesia montaliana» p. 66; «nel dominio di quella pecca “interpretativa” di cui avremo a discorrere» ivi; «il discorso di Montale è un discorso di tono e timbro “famigliare”» ivi; «Che nel “modularsi” dei ritmi montaliani s’introducano volta per volta echi o richiami della letteratura, è un fatto “casuale”» p. 69; «occorrerà che si narri la “preistoria” di Angioletti» p. 148; «questa luna e questo sorger di sole che “reagiscono” al leone inserito nella più civile campagna» p. 14947. Da AL: «l’apparente negligenza della separazione descrittiva del problema, per fermarsi alla quale occorre una certa “anteriorità” d’interessi» p. 56; «una certa “inattualità” storica di Saba» p. 9148; «Si vuol dire, insomma, che la maggiore stabilità “quantitativa” gli era garantita nel giro del sonetto e delle forme che, molto latamente, si possono chiamare “leopardiane”» p. 9349. catena alberghiera dei paradores, promossa dallo Stato spagnolo, era stata avviata solo pochi anni prima. 45 Cfr. CG, pp. 62-3. 46 Si tratta naturalmente di una tendenza, con oscillazioni e controesempi. Indicherò le virgolette sempre come alte “ ”, indipendentemente da quel che si trova nell’edizione consultata. Si osservi che le virgolette vengono mantenute – nei saggi ripubblicati, per i quali è possibile il confronto – anche nella ristampa einaudiana del 1974. 47 Ma la metafora era stata anticipata poco prima («Un fatto arbitrario, ecco il reagente [...]»: questa volta senza virgolette). 48 E si noti la doppia attenuazione del sostantivo: non solo le virgolette, ma anche il determinante una certa. 49 Anche qui si noti la prudenza con la quale un accostamento che oggi sarebbe
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Né mancano, in assenza di virgolette, formule attenuative per introdurre una metafora scientifica, quasi paletti che delimitano ancora un territorio destinato in anni successivi ad essere percorso senza nessuna esitazione: «Nel racconto conclusivo [si parla di Bonsanti, I capricci dell’Adriana] si verifica come a dire la forma euclidea più perfetta: una purezza geometrica, circolare» (EL, p. 176). Se chiamiamo a testimoniare due saggi indubitabilmente appartenenti alla maturità, i celebri Esercizio d’interpretazione sopra un sonetto di Dante [1947] e Preliminari sulla lingua del Petrarca [1951]50, possiamo verificare che le virgolette metalinguistiche si rarefanno e, in particolare, non figurano in casi in cui qualche anno prima probabilmente sarebbero state usate: «Tradurre non significa infatti altro che determinare il nuovo rapporto dei sinonimi e affini nella cultura rappresentata dalla nostra lingua, la nuova ripartizione, per dir così, in parole della realtà che si considera oggettiva e costante» p. 16251; «fatti grammaticali, apparentemente minimi, ma che servono a situare l’italiano antico» p. 16252; «In opposizione al teocentrismo necessario a Dante, non oserei da ultimo inferir nulla circa una laicità, fosse pure meramente metaforica, di Petrarca» p. 17553; «Che cos’è, topograficamente, la lingua di Petrarca?» ivi54. È un particolare, si diceva; e non può essere sovrastimato. Ma forse anch’esso può servirci, insieme ad altro (il sobrio dosaggio di risorse espressive che saranno largamente e tipicamente adibite negli scritti
canonico, quello tra Saba e Leopardi, viene sfumato anche verbalmente con l’inciso molto latamente. 50 Entrambi ripubblicati in Contini, Varianti e altra linguistica, pp. 161-8 e 171-92. 51 Senza virgolette oggettiva, un termine che mantiene sempre un certo margine d’ambiguità, al di fuori dell’àmbito strettamente filosofico (anche se figura l’inciso metalinguistico per dir così, riferito all’intera affermazione). 52 Senza virgolette situare, mentre le avevano ricevute, pochi anni prima, analoghe metafore come “zona” cit. e “localizzare” («A “localizzare” Boine, allora, servono i tre fatti seguenti»: Contini, Alcuni fatti, p. 85). 53 Senza virgolette laicità nell’accezione estensiva (oggi divenuta comunissima) di ‘sistema di valori che, anche non negando espressamente l’esistenza del divino, ne prescinde nell’esperienza di vita o (come qui) non lo pone al centro del proprio sistema poetico-espressivo’. 54 Senza virgolette l’avverbio, che rientra nello stesso àmbito metaforico dei vari “zona” e “localizzare”, cit. nella nota 52.
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successivi), per storicizzare il percorso stilistico di Contini sicché il fascio di luce della piena maturità non si proietti necessariamente tutto intero, senza residui d’ombra, sulla fase giovanile.
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Sergio Donadoni, Ricordi parigini In 1935, both in France on a scholarship of the Minister for Foreign Affairs, Sergio Donadoni (1914) and Gianfranco Contini (1912) met in Paris and became friends. Fascinated by the city and by the vibrancy of its resources, they decided to make an amateur documentary, part of which was set at Port de La Villette. Recalling the excitement of that discovery and the traits of their friendship, Donadoni paints a portrait of “his” young Contini.
Claudio Ciociola, La lava sotto la crosta. Per una storia delle Rime del ’39 The commentary on Dante’s Rime, published by Einaudi in December 1939, is a milestone in young Contini’s career. A bridge, as Carlo Dionisotti wrote, between «la più esperta filologia universitaria» (the most expert university philology) and the militant vanguard, it marked a turning point in the tradition of Dante’s philology with its systematic focus on linguistic analysis and the exploration of the author’s stylistic culture in its Gallic-Italic roots, as well as in its classic, Sicilian and more specifically Stilnovist roots, standing out as a model of a new exegesis for the Italian philological tradition. Through largely epistolary documents (between the main players: Gadda, Montale, Capitini, as well as Barbi and Russo, Bacchelli and Baldini), this essay describes the stages in the development of the commentary and the stir it immediately caused in the circle of friends and colleagues – Italian and foreign – and Dante scholars: who say they are impressed with the learning and insight of the commentary and sometimes perplexed about the daring text of the Foreword. On the background of all this, the literary controversies, not entirely disjoined from some broadly ideological arguments, of an Italy on the verge of war.
772 English summaries
Michele Ciliberto, Contini, Croce, gli «scartafacci» In the works of Gianfranco Contini, and in those of other scholars of his generation (Garin, Dal Pra, Abbagnano, Luperini, etc.), a purely philosophical question, focused on issues such as the existence and the human condition, arises. Philology, intended as ‘work’, found in Contini an ontological fundament, and it was an ethical and cognitive exercise at the crossroads between art, critique and morality. Despite the famous struggle started in 1947 on the waste papers (‘scartafacci’), in a tragic moment of the european history, Croce and Contini fundamentally agreed on this ground, and in particular on the historical and ethical meaning of the Humanism, and on its importance as exercise of freedom and as a central period of the biography and of the conscience of the ‘moderns’.
Fulvio De Giorgi, Contini nel mondo rosminiano This paper looks into Gianfranco Contini’s personal involvement in Rosmini’s world, or ‘mondo rosminiano’, and ‘Rosminianism’, with a focus on the time of his academic studies and his youth. The first part concerns ‘Rosminians’ and Domodossola in the early twentieth century and in their relations with Contini. The second part leads to a diachronic historical reenactment of Contini’s ‘Rosminianism’ in its basic evolution until the end of the Fascist regime. The conclusion briefly outlines a ‘postremus’ view of Rosmini’s big structures that settled in Contini and lasted for a long time.
Mauro Moretti, Documenti di una esperienza politica Gianfranco Contini’s brief but intensive ‘political’ experience in the Forties is described herein through a number of documents (letters, unpublished or poorly-known writings, official papers about the first years of his career) which give a glimpse of several aspects of his reflections about the history of Italy and the position of the men of culture, amidst Fascism, war and postwar period, as well as what he actually did, especially as a journalist. So, some moments in Contini’s journey may be followed here, amidst the expectations of a dramatic ethical and social change, and his disappointments at the behaviour of the mass parties after the Liberation.
773 English summaries
Luca Serianni, La lingua del giovane Contini This article explores Gianfranco Contini’s style in the works he wrote between 1930 and 1942. Such writings show features that would become his signature style in his mature age, especially his metaphorical lexicon. But overall the prose he used in his early essays does not seem to be too experimental and contrasts with the clever inventiveness of the letters he wrote to Montale and Gadda in the same years.
Autori
Sergio Donadoni Egittologo, figlio dell’italianista Eugenio, è nato a Palermo nel 1914. Ha studiato alla Scuola Normale e si è laureato all’Università di Pisa, con Evaristo Breccia, nel 1935. Ha perfezionato la sua formazione egittologica a Parigi (1934-36) e a Copenaghen (1948). Ha insegnato nelle Università di Milano, Pisa, Roma. Ha diretto scavi in Egitto (Antinoe, Qurna), in Nubia (Ikhmindi, Sabagura, Tamit) e in Sudan (Sonqi Tino, Gebel Barkal). È professore emerito dell’Università di Roma “La Sapienza”. Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, dell’Accademia delle Scienze di Torino, della Pontificia Accademia Romana di Archeologia, corrispondente dell’Académie des Inscriptions et Belles Lettres e dell’Institut d’Egypte. Premio Feltrinelli per l’Archeologia 1975. Tra le sue numerosissime opere, che spaziano in ogni ambito dell’egittologia, si ricorderanno soltanto La civiltà egiziana (1940), L’arte egizia (1955), Storia della letteratura egiziana antica (1957), L’uomo egiziano (1990), L’Egitto dal mito all’egittologia (1990). Nel 1935, borsista del Ministero degli Affari Esteri a Parigi, ha conosciuto e ha stretto amicizia con Gianfranco Contini, che vi era a sua volta borsista.
Claudio Ciociola Professore ordinario di Filologia italiana. Allievo, perfezionando e ricercatore presso la Scuola negli anni 1974-1988, ne è stato Vice-Direttore dal 2010 al 2012. Ha conseguito il DEA in Civilisation médiévale all’Université de Poitiers. Frances A. Yates Fellow del Warburg Institute di Londra nel 1988, ha insegnato Filologia italiana, Storia della lingua italiana e Stilistica e metrica italiana presso le Università di Cassino e per Stranieri di Siena dal 1988 al 2006. La sua attività di ricerca abbraccia diversi ambiti: l’analisi della tradizione testuale di antichi testi italiani; lo studio di autori-copisti del Quattrocento fiorentino; il tema del “visibile parlare” nella tradizione volgare del Tre-Quattrocento; la cultura milanese di primo Ottocento; la storia della filologia novecentesca.
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Ha ideato il convegno “Visibile parlare” (Napoli, ESI, 1997); ha organizzato il convegno “Storia della lingua e filologia” (Firenze, Cesati, 2010). Per la Salerno ha coordinato l’Appendice I alla Storia della Letteratura italiana (2001), che illustra, per la prima volta in forma sistematica, la tradizione filologica dei testi letterari italiani. È stato allievo di Gianfranco Contini alla Scuola Normale negli anni dal 1975 al 1985.
Michele Ciliberto Professore ordinario di Storia della filosofia moderna e contemporanea. Si è formato nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze, alla scuola di Eugenio Garin, sotto la cui guida si è laureato con una tesi sulla fortuna di Machiavelli. Borsista presso il Lessico Intellettuale Europeo, ha in seguito insegnato a vario titolo presso le Università di Firenze, Trieste e Pisa. Socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, è presidente dell’Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento e di IRIS – Associazione di Biblioteche StoricoArtistiche e Umanistiche di Firenze. È stato Presidente dei Comitati Nazionali per le Celebrazioni di Giordano Bruno, Marsilio Ficino, Benedetto Varchi, Giovanni Della Casa e Lodovico Castelvetro. Fa parte, tra l’altro, del Comitato direttivo del Dizionario Biografico degli Italiani e del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana; dell’Advisory Committee della “Tatti Renaissance Library” dell’Harvard University e del Comitato dei Garanti della Fondazione Gramsci. Dirige la rivista «Rinascimento», e fa parte del Comitato Scientifico della «Rivista di storia della filosofia», del «Giornale critico della filosofia italiana», degli «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere», di «Dianoia», di «Philosophia» e di «Studi storici».
Fulvio De Giorgi Professore ordinario di Storia dell’educazione presso l’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia. È con-direttore degli «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche» (La Scuola) ed è membro, dalla fondazione, della redazione della rivista «Contemporanea» (Il Mulino). È nel Comitato di Redazione delle Editrici Morcelliana e La Scuola, nel Comitato Scientifico della Fondazione Micheletti (Brescia) e del Centro Studi Gallarati Scotti (Milano). Principali pubblicazioni: La scienza del cuore. Spiritualità e cultura religiosa in Antonio Rosmini, Bologna, Il Mulino, 1995; Rosmini e il suo tempo. L’educazione dell’uomo moderno tra riforma della filosofia e rinnovamento della Chiesa (1797-1833), Brescia, Morcelliana, 2003; Il Medioevo
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dei modernisti. Modelli di comportamento e pedagogia della libertà, Brescia, La Scuola, 2009; Millenarismo educatore. Mito gioachimita e pedagogia civile in Italia dal Risorgimento al fascismo, Roma, Viella, 2010; Mons. Montini. Chiesa cattolica e scontri di civiltà nella prima metà del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2012.
Mauro Moretti Professore straordinario di Storia contemporanea presso l’Università per Stranieri di Siena, è stato allievo, perfezionando e ricercatore della Scuola Normale Superiore negli anni 1974-2002. La sua attività di ricerca si è concentrata sulla storia intellettuale e civile dell’Italia unita, sulla storia della storiografia europea fra Otto e Novecento, sulla storia della scuola e del sistema universitario italiano. Nel 2012 ha curato, con A. Chemello, l’edizione del carteggio fra Gianfranco Contini ed Aldo Capitini.
Luca Serianni Professore ordinario di Storia della lingua italiana nell’Università di Roma “La Sapienza”. Socio nazionale delle accademie dei Lincei e della Crusca, è direttore degli «Studi linguistici italiani» e degli «Studi di lessicografia italiana» e membro del comitato scientifico della «Zeitschrift für romanische Philologie». Si è occupato di vari aspetti dell’italiano letterario (La lingua poetica italiana, Carocci 2009; Italiano in prosa, Cesati 2012) e non letterario (Un treno di sintomi. I medici e le parole, Garzanti 2005); di grammatica (Grammatica italiana, UTET 1988; Prima lezione di grammatica, Laterza 20129); di didattica dell’italiano (Italiani scritti, Il Mulino nuova ediz. 2012; Leggere, scrivere, argomentare. Prove ragionate di scrittura, Laterza 2013).
Indice dei nomi
Abbagnano Nicola, 573 Agostino (Aurelio Agostino d’Ippona), santo, 634-635 Airaudo Giuseppe, 606, 629 Alain (Émile-Auguste Chartier), 576 Alberti Guglielmo, 649 Albonico Simone, 470, 577, 696 Alessandro di Ales, 603 Alighieri Dante, 468, 471, 473-477, 481-484, 486, 500-501, 504-507, 510, 515-522, 524-525, 527-529, 531-532, 557, 559, 562, 565-566, 568-569, 616, 623, 640, 643, 668, 675, 758, 762, 769 Alvaro Corrado, 734-735 Alvino Gualberto, 479, 609, 754, 764765, 767 Amendola Giovanni, 572, 664 Amiel Henri-Frédéric, 654 Anceschi Luciano, 506, 556 Angelico, vd. Tommaso d’Aquino Angelini Cesare, 555, 626, 665 Angioletti Giovanni Battista, 588, 640, 658, 712-719, 727-729, 735, 747-748, 750, 768 Aniante Antonio (Antonio Rapisarda), 645 Anselmo d’Aosta, santo, 603 Antognini Luigi, 611-612, 614, 616, 618-619, 621-622, 661 Antonelli Giuseppe, 766 Antonelli Roberto, 499, 513, 538, 550, Antonielli Sergio, 691 Antonini Gianni, 583
Apponi Alberto, 470, 486, 491, 692, 698, 700-702, 708, 727, 743, 749-752 Aquilanti Francesco, 619 Aragon Louis, 731 Arangio Ruiz Vincenzo, 580 Arcari Paolo, 698 Ardigò Fausto, 625 Ariosto Ludovico, 567, 581, 584 Aristarco Scannabue, vd. Baretti Giuseppe Aristofane, 461 Arnauld Antoine, 682 Arnaut Daniel, 520-521, 568 Artana Giulio, 608 Asor Rosa Alberto, 478 Astori Guido, 666 Auzzas Ginetta, 532 Avalle d’Arco Silvio, 512, 691 Avalle Ginevra, 468 Avancini Damiano, 613 Bacchelli Riccardo, 557-560, 562, 564, 567-569, 674, 724 Badoglio Pietro, 735 Baffa Chiara, 468 Baglietto Claudio, 702 Baldacci Luigi, 762 Baldelli Ignazio, 691 Baldini Antonio, 468, 514, 548, 557560, 562, 565, 568 Balsari Bernardino, 601, 604, 628-629 Banfi Antonio, 587, 591, 680-682 Barale Paolo, 672 Baranelli Luca, 524, 572, 691
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Barański Zigmunt Guido, 505 Barbi Michele, 476-478, 516-517, 532-533, 566, 671 Baretti Giuseppe (Aristarco Scannabue), 563 Bargellini Piero, 510-511, 663-664, 666-667, 670 Baroni Augusto, 631 Barth Karl, 622, 721 Bassani Francesco, 610 Battaglia Roberto, 693, 712 Battaglia Salvatore, 540, 759 Battistini Andrea, 528 Bazzani Ladislao, 672 Baudelaire Charles Pierre, 712 Beato Angelico (Guido di Pietro), 470 Bedeschi Lorenzo, 511, 663-664, 666667, 670, 706 Bédier Joseph, 470, 494, 704 Belardelli Giovanni, 734 Bellando Alfonso, 701 Benda Julien, 509 Benedetti Marina, 600 Benedetto da Pescassèroli, vd. Croce Benedetto Benedetto Luigi Foscolo, 671 Benjamin Walter, 578 Benveniste Émile, 508, 687 Bergson Henri-Louis, 573, 673 Bernardo Aldo Sisto, 623 Berra Luciano, 640 Bertacchini Renato, 534 Berti Luigi, 507-508, 510 Bertin Giovanni Maria, 680 Bertolucci Attilio, 553 Bertoni Giulio, 481, 627, 659 Besomi Ottavio, 524-525, 690 Bessero Belti Remo, 601, 606, 610, 620, 622-623 Bestetti Anna, 634 Betocchi Carlo, 547, 668 Bettarini Rosanna, 471 Biagioni Umberto F., padre, 610, 612, 665 Biggini Carlo Alberto, 560-561, 675679
Indice dei nomi
Bigongiari Piero, 545, 651 Bilenchi Romano, 586 Billanovich Giuseppe, 674, 698 Billia Lorenzo Michelangelo, 600 Billot Marcel, 541 Bini P.M., vd. Placido da Pavullo Binni Lanfranco, 468, 555, 560 Binni Walter, 468, 494, 536, 546, 551, 555, 560, 675 Bitti Angelo, 698 Blasucci Luigi, 489, 521, 555, 563-564 Blondel Maurice, 573, 614, 633 Bo Carlo, 508, 510, 547, 548, 626, 651, 663-664, 666-668, 670, 682 Bocchi Andrea, 734 Bocelli Arnaldo, 534 Boiardo Matteo Maria, 567, 764 Boine Giovanni, 567, 571-572, 769 Bologna Paolo, 623, 691 Bonafede Giulio, 635 Bonagiunta da Lucca (Bonagiunta Orbicciani), 476 Bonali Francesco, 604 Bonaventura da Bagnoregio (Giovanni Fidanza), santo, 515, 603, 615, 627, 634-635 Bonghi Ruggiero, 604, 682 Bonhoeffer Dietrich, 579 Bonomelli Geremia, vescovo, 607 Bonsanti Alessandro, 469, 471, 474476, 480, 483, 509, 658-659, 662663, 764, 769 Bontadini Gustavo, 672 Bontempelli Massimo, 650 Bonvesin da la (de la, della) Riva, 462, 469, 474, 476-477, 479, 729, 754, 767 Borgia Claudia, 468, 477, 480-481, 483, 565, 568, 692, 711 Bosco Umberto, 706 Bottai Giuseppe, 533, 561, 675-677, 679, 708, 726 Bottiglioni Gino, 481 Boutroux Émile, 614, 633 Bozzetti Giuseppe, padre, 531, 572, 600-608, 610-612, 614-615, 618-
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621, 624-627, 629-631, 633-643, 650, 653, 655, 658, 660-661, 665666, 671, 685 Branca Vittore, 521, 543, 651, 671, 674 Brandeis Irma, 470 Breschi Giancarlo, 468, 474, 483, 623, 710-711, 753, 756 Broggini Renata, 572, 698, 700 Broggini Romano, 508, 622 Brugnolo Furio, 541 Bruni Francesco, 754 Bruno John Favata (citato come Breno), 622 Bruscia Marta, 508, 670 Buñuel Luis, 687 Buonaiuti Ernesto, 665 Buonarroti Michelangelo, 567, 664, 672 Burchiello (Domenico di Giovanni), 546 Burgess Michael, 703 Buroni Giuseppe, 602 Burzio Filippo, 640 Buzzati Traverso Adriano, 622 Cabella Giorgio, 492 Cajumi Arrigo, 530, 533 Calabri Maria Cecilia, 527, 548, 749 Calcaterra Carlo, 660 Calogero Guido, 664, 675, 680-681, 721, 744 Campana Dino, 650, 672, 759, 763 Campanini Giorgio, 601 Cantagalli Giulio, 631, 634-635 Cantimori Delio, 558, 561, 578 Capasso Aldo, 640, 658 Capati Massimiliano, 711, 721 Capecelatro Alfonso, cardinale, 607 Capitini Aldo, 470, 479, 482, 485, 488, 509, 524, 578, 585, 659, 662-664, 669, 689, 692-693, 697-700, 705707, 710, 712, 721, 729-730, 732, 743-745, 749, 751 Capone Braga Gaetano, 600, 682 Capra Luciano, 528
Indice dei nomi
Caprariis Vittorio de, 580 Carabellese Pantaleo, 600 Caramella Santino, 636 Cardarelli Vincenzo (Nazareno Cardarelli), 649, 662, 764 Cardó Carles, 704 Carducci Giosuè, 532, 640, 644, 650, 757 Carella Angela, 752 Carena Carlo, 472, 531, 610, 674 Caretti Laura, 507 Carini Giuseppe, 612 Carlini Armando, 571, 675, 677 Carocci Alberto, 663 Casara Sebastiano, padre, 602 Casati Giovanni, 607 Casella Mario (filologo), 718 Casella Mario (storico), 706 Cases Cesare, 524, 553, 555 Castelli Enrico, 630 Castiglioni Luigi, 675 Cattaneo Carlo, 747 Cattaui Georges, 509 Caviglione Carlo, 600, 613-614, 632, 638 Cavour Camillo Benso conte di, 738 Cecchi Emilio, 470, 472, 492, 523, 528, 560-561, 563, 572-574, 576577, 581, 585-586, 591, 594, 621, 644-645, 649-651, 665, 676, 678, 702, 704, 722, 751-752, 759 Ceccuti Cosimo, 653 Čechov Anton Pavlovič, 702 Cesari Antonio, 684 Chemello Adriana, 479, 663, 689 Cheula Pietro, 634, 636-637 Chiarelli Benigno, vd. Cornaggia Medici Luigi Chiesa Mario, 619, 634-638 Chigi Flavio, cardinale, 562 Chiocchetti Emilio, padre, 616-617, 635-638, 650 Chiovenda Giuseppe, 600 Chiovenda Lucia, 623 Chiovenda Tito, 622-623 Chuzeville Jean, 702-703
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Ciampi Carlo Azeglio, 468, 556 Cian Vittorio, 530 Ciarabalà Bernardino Mario, 625 Ciapessoni Pietro, 479 Cicala Roberto, 472, 529, 631, 757 Cicerone Marco Tullio, 674 Ciliberto Michele, 459, 489, 495, 504, 513, 550, Cino da Pistoia, 501 Ciociola Claudio, 459-460, 468, 484, 525, 527, 556, 565, 698, 701, 758 Citati Pietro, 486 Clair René (René Chomette), 730 Claudel Paul, 509, 511, 666, 668-670, 673 Cocteau Jean, 509, 541 Codignola Ernesto, 653, 671 Codignola Tristano, 691 Colussi Davide, 760 Comisso Giovanni, 658-659, 761 Confessore Ornella, 604 Contini Gianfranco, 459, 461-464, 468-500, 502-505, 507-525, 527533, 535-539, 541, 543, 545, 548566, 568, 571-579, 581-592, 594597, 599, 604-606, 608-611, 613, 615, 619-631, 633, 639, 643-679, 681-760, 762-763, 765-770 Contini Riccardo, 468, 628 Contorbia Franco, 531, 690 Contri Siro, 636-637, 665 Copeau Jacques, 461 Cornaggia Medici Luigi (Benigno Chiarelli), 630, 634-635 Corsini Gianfranco (Lulli), 693, 747 Corsini Olindo, 631 Corti Maria, 766 Cosmo Umberto, 472 Crespi Stefano, 680 Crespo Roberto, 468 Crivelli Tatiana, 491, 524, 526 Croce Benedetto, 474, 493, 495, 498, 518, 534, 539-540, 544-545, 558, 565, 571, 576-577, 580-583, 585590, 592-597, 604, 608, 614, 616617, 630, 635-638, 640, 642, 647,
Indice dei nomi
649-651, 653-654, 662-663, 672673, 681, 687, 711, 715-716, 719720, 723-726, 734, 751-752 Croiset Giovanni, 607 Crotti Ilaria, 489 Cruz Juan de la (Giovanni della Croce), santo, 659, 673 Curi Fausto, 498 Curtius Ernst Robert, 509, 511 Curto Carlo, 609, 683 Custodero Angelo, 653 Cutini Clara, 697 D’Annunzio Gabriele, 564, 644, 727 D’Auria Matthew, 703 D’Azeglio Massimo, 682, 684 D’Onghia Luca, 468 Da Pozzo Giovanni, 555, 754, 763 Dal Pra Mario, 573 Danna Carlo, 579 Danzi Massimo, 509 Dard Olivier, 510 De Amicis Edmondo, 644 De Gennaro Piero, 751 De Giorgi Fulvio, 459, 472, 497-498, 511, 531, 536-537, 543, 561, 696, 711 De Laude Silvia, 468, 478 De Lollis Cesare, 552, 653 De Luca Giuseppe, 474, 508, 520, 566-567, 659, 670 De Luna Giovanni, 742 De Martino Domenico, 468, 470, 478, 482, 489, 491, 495, 497, 514, 553, 577-579, 589, 652, 690, 696, 766 De Matteis Carlo, 491, 495, 504, 519, 690, 757 De Mauro Tullio, 758 De Pisis Filippo (Luigi Filippo Tibertelli de Pisis), 470 De Robertis Domenico, 517, 548 De Robertis Giuseppe (Don Peppino), 487, 493, 548, 552, 649, 722 De Sanctis Francesco, 643, 720, 751 De Vecchi Cesare Maria, conte di Val Cismon, 530
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De Vit Vincenzo, 604 Debenedetti Giacomo, 649, 651-652, 665 Debenedetti Santorre, 469, 472, 476477, 484, 515, 527, 549, 566, 624 Del Boca Angelo, 691 Deledda Grazia, 758 Dell’Oso Lorenzo, 468 Della Volpe Galvano, 680 Desideri Giovannella, 680 Dessì Giuseppe, 491-493, 558 Di Stefano Paolo, 528 Diesbach Ghislain de, 541 Dione Crisostomo, 642 Dionisotti Anna Carlotta, 480 Dionisotti Carlo, 480, 565-567, 698 Donadoni Sergio, 459, 470 Donati Forese, 521 Donati Piccarda, 485 Donne John, 509-510 Dore Pintor Adelaide (Dedè), 547, 557 Dossi Carlo (Alberto Carlo Pisani Dossi), 552, 764 Dousse Michel, 508 Du Bos Jean-Baptiste, 509-510, 545, 667, 729 Egidi Francesco, 515 Einaudi Giulio, 476, 485, 527, 530, 565 Einaudi Luigi, 528, 745 Eliot George (Mary Ann Evans), 509 Eliot Thomas Stearns, 469, 500-512, 517 Eliot Valerie, 510 Éluard Paul (Eugène Grindel), 512, 545, 731 Emmanuel Pierre (Noël Mathieu), 731 Euripide, 502 Falcetto Bruno, 691 Falqui Enrico, 476 Fanfani Massimo Luca, 762 Fargue Léon-Paul, 542
Indice dei nomi
Federici Renzo, 691 Federzoni Luigi, 558-559 Feitknecht Regula, 698 Ferrari Giuseppe, 747 Ferrari Mirella, 566 Ferrata Giansiro, 552, 663 Ferrè Pietro Maria, vescovo, 602 Ferrer Francesco, 699 Ferrero Ernesto, 491 Ferretti Massimo, 459, 763 Fiala Hugo, vd. Löwith Karl Finotti Fabio, 539, 711 Fiorelli Piero, 764 Firpo Edoardo, 665 Flora Francesco, 542-543, 546 Fogazzaro Antonio, 600, 604, 607, 609, 640 Folena Gianfranco, 556 Folengo Teofilo (Gerolamo), 551, 553 Folgore Luciano (Omero Vecchi), 644 Formentin Vittorio, 565 Forte Luigi, 524 Fossi Piero, 653-655, 657, 663 Fracassini Umberto, monsignore, 706 Franceschini Fabrizio, 565 Francesco d’Assisi (Francesco Giovanni di Pietro Bernardone), santo, 616 Francisco de Osuna, frate, 659 Franchi Ausonio, 602 Frandini Paola, 665 Fumagalli Edoardo, 566 Gabrieli Francesco, 562 Gabusi Daria, 659 Gadda Carlo Emilio, 468-470, 475, 477, 480, 482-488, 530, 548, 551553, 558, 562, 567, 577, 585, 662, 753-754, 758, 760, 766-767 Gadda Conti Piero, 477 Gaddo Giovanni Angelo, 610-611, 614, 622, 624, 636, 640-643, 661 Gafencu Grigore, 703 Galante Garrone Alessandro, 528 Gallarati Scotti Tommaso, 600, 607 Gallas Alberto, 579
784
Galli Dario, 632 Galli Pietro, 611 Galvani Giovanni, 568 Garavini Fausta, 573 Garboli Cesare, 553 García Lorca Federico, 512 Gargiulo Alfredo, 497, 648-649, 681, 748, 759, 767 Garibaldi Ferdinando, 658 Gariboldi P., padre, 604 Garin Eugenio, 573 Garosci Aldo, 750 Garrone Dino, 645 Gastaldi Lorenzo, arcivescovo, 602 Gatta Massimo, 529 Gatto Alfonso, 506, 545, 547, 550, 667, 755 Gavazzeni Franco, 543 Gemelli Agostino, padre, 616 Gennari Carlo, 615-616, 672 Gentile Giovanni, 471, 495-496, 498, 514, 534, 560-561, 571, 587, 601, 612, 617, 630, 634-636, 638, 652, 670-672, 674-680, 711-712, 715716, 718-721, 724-727 Gerratana Valentino, 548 Ghiberti Lorenzo, 759 Ghiglione Giulio Cesare, 661 Gianturco Emanuele, 762 Gibellini Pietro, 489 Gide André, 509-511, 667, 715, 729 Giglioli Daniele, 524, 572, 591, 691 Gilliéron Jules-Louis, 518 Ginzburg Carlo, 468 Ginzburg Leone, 468, 472, 477-478, 480, 508, 527, 548-549 Gioberti Vincenzo, 738, 747 Giolitti Giovanni, 738 Giovanni della Croce, vd. Cruz Juan de la Giovannini Carmelo, 625 Giraut de Borneil, 568 Giuliotti Domenico, 664 Giustini Giuseppe, 676-677 Goethe Johann Wolfgang von, 645, 658
Indice dei nomi
Goldoni Carlo, 563 Graceffa Monica, 492 Graf Arturo, 531 Gramsci Antonio, 590 Grana Gianni, 753 Grande Adriano, 658 Gray Carlo, 608, 633, 672 Greco Lorenzo, 469 Gregorio VII (Ildebrando Aldobrandeschi di Sovana), papa, 700 Grignani Maria Antonietta, 469, 479, 754 Grunewald Michel, 510 Guarnieri Silvio, 469, 487 Guglielminetti Marziano, 531 Guicciardini Francesco, 751 Guido da Verona (Guido Verona), 643 Guittone d’Arezzo, 515 Guttuso Renato, 701 Haffenden John, 510 Hartung Stefan, 541 Hegel Georg Wilhelm Friedrich, 498, 614, 635, 639, 656 Heidegger Martin, 593 Hendecourt Jean de, 541 Henry Albert, 468-470, 478, 577, 579, 589, 696 Hermet Augusto, 640 Herriot Édouard, 462 Hesse Hermann, 540 Hewitson Mark, 703 Hilari Raguer P., 705 Hitler Adolf, 697 Hoepffner Ernest, 665 Holbein Hans, 545 Hoelderlin/Hölderlin Johann Christian Friedrich, 489-490, 492, 650, 699 Hotelier Simone, 512 Husserl Edmund Gustav Albrecht, 601, 682, 685 Ildebrando, vd. Gregorio VII Imbs Paul, 470
785
Imbriani Vittorio, 552 Isella Dante, 470, 475, 479, 508, 562, 574, 577, 657, 689, 691, 698, 753 Isnenghi Mario, 735 Italia Paola, 468, 475-476 Jacopone da Todi (Jacopo De Benedictis), 627 Jakobson Roman, 687 Jammes Francis, 509 Jaspers Karl Theodor, 589, 619 Journet Charles, cardinale, 508, 674, 721 Jouve Pierre Jean, 731 Joyce James, 540, 553 Jud Jakob, 525-526 Kafka Franz, 500 Kant Immanuel, 571, 613-614, 635, 663, 673, 721 Kemal Mustafa, 702 Kierkegaard Søren Aabye, 593 La Malfa Ugo, 692 La Mendola Velania, 472 Laberthonnière Lucien, 614 Lachin Giosuè, 541 Lagazzi Paolo, 522 Langella Giuseppe, 493, 535, 649, 666, 679 Lanzoni Luigi, 685 Le Corbusier (Charles-Édouard Jeanneret), 461, 730 Lebrun Albert François, 736 Leibniz Gottfried Wilhelm von, 616617, 633, 685, 688 Lelli Emanuele, 489 Leonardi Lino, 459, 477, 483 Leoncini Paolo, 470, 489, 523, 564, 573-574, 605, 621, 690, 702 Leopardi Giacomo, 646-647, 652, 657, 756, 769 Levi Primo, 553 Levis Sullam Simon, 734 Lifar Serge (Sergej Mihailovič Lifarienko), 461 Lisi Nicola, 640
Indice dei nomi
Liucci Raffaele, 696, 735 Livi Augusto, 528 Longhi Roberto, 561, 649, 687 Löwith Karl (Ugo Fiala), 578 Lucchini Guido, 473, 475, 478, 487, 499-500, 505, 508, 524, 537, 553, 711, 720, 734 Lukács György, 524, 589-590, 750 Lulli, vd. Corsini Gianfranco Luporini Cesare, 573, 586 Lussu Emilio, 752 Luti Giorgio, 538 Luzi Mario, 545, 547, 651 Mac Mahon Marie Edmé Patrice Maurice de, duca di Magenta, 736 Macchia Giovanni, 651, 667, 691 Machiavelli Niccolò, 473 Macrì Oreste, 475, 499, 536, 644, 649, 651, 667-668, 682, 754, 757 Magagnato Licisto, 692 Maggini Francesco, 516, 529-530, 533 Mainieri Olga, 529 Malaparte Curzio (Kurt Erich Suckert), 482-483, 670 Mallarmé Stéphane Étienne, 535, 541, 593-594 Malraux André, 575 Manacorda Guido, 667 Mancini Augusto, 677 Manghetti Gloria, 459, 471, 483 Mangiagalli Maurizio, 634 Mangoni Luisa, 472, 476, 484-485, 527, 530, 578 Mann Thomas, 644-646, 658 Manni Ermanno, 625 Manzoni Alessandro, 558, 567, 604605, 623, 628, 640, 642-643, 653, 655, 671, 675, 682, 683-684, 756 Marangoni Andrea, 660, 665 Marangoni Matteo, 660 Marcenaro Giuseppe, 482 Marchesi Concetto, 750 Marchione Margherita, 555 Marcocchi Massimo, 659 Marie de France, 494, 567
786
Marigo Aristide, 480, 515 Marinetti Filippo Tommaso, 564 Marino Giuseppe, 614-615, 634 Mariotti Scevola, 556 Maritain Jacques, 509-511, 666-668, 670 Marx Karl, 729, 734, 736-737, 745 Marziale Marco Valerio, 501 Massis Henri, 510 Mastrangelo Armando, 691 Matarrese Tina, 766 Mattesini Francesco, 536 Mauriac François Charles, 509-510, 667 Maurras Charles, 509 Mayer Enrico, 736 Mazzantini Carlo, 619, 631, 636 Mazzi Benito, 531 Mazzini Giuseppe, 712, 733-734, 736739, 743, 745, 747 Mazzolari Primo, 666 Mella Calcaterra Franca, 622, 660 Mellerio Giacomo, 599, 629 Melville Herman, 500 Menasce Pierre (al secolo Jean) de, 470, 508-512, 674, 687, 689 Meneghello Luigi, 692 Mengaldo Pier Vincenzo, 505, 519, 536, 550, 563-564, 754, 759 Menghini Mario, 733 Menozzi Daniele, 734 Merlo Clemente, 560, 676-677 Merola Nicola, 485, 754 Metelli Daniele, 516 Meyer-Lübke Wilhelm, 525 Miceli Riccardo, 634, 636, 639-640, 642-643 Michelstaedter Carlo, 573, 618 Migliorini Bruno, 540, 709-710, 762 Mila Massimo, 527, 530 Milone Luigi, 489 Mineo Nicolò, 524 Minissi Nullo, 595 Missiroli Mario, 558 Moglia Agostino, 602 Molina Luis de, 603
Indice dei nomi
Momigliano Arnaldo, 571, 597 Mondor Henri, 535 Montaigne Michel Eyquem de, 573577 Montale Eugenio, 469-471, 475-476, 482, 487-488, 498, 505-506, 509, 511-513, 533, 535, 541-542, 548, 550, 555, 557, 561, 564, 572-573, 575, 580-583, 585, 588, 589, 591592, 649, 656-658, 660, 662, 665, 675, 678-679, 681, 683, 689, 698, 712, 728, 742, 753-755, 766-768 Montano Lorenzo (Danilo Lebrecht), 640 Monteverde, vd. Monteverdi Angelo Monteverdi Angelo, 675, 709 Montini Giovanni Battista, mons.: vd. Paolo VI, papa, 631 Montorfani Pietro, 459, 483, 488 Morando Antonio, 601 Morando Dante, 531, 601, 611-612, 618-620, 622, 624, 632, 634-635, 650, 671 Morando Giuseppe, 600-601, 613 Moretti Marino, 560, 643-644, 658, 756 Moretti Mauro, 459, 471, 479, 486, 491, 495, 513, 663, 689, 691, 734, 738, 743, 746, 752 Morra di Lavriano Umberto, 471, 701 Mosca: vd. Tanzi Drusilla Mosca Giovanni, 547-548 Mugnier Arthur, abate, 541 Muratore Umberto, 605, 610-611, 644 Murray Gilbert, 502 Murri Romolo, 706 Muscetta Carlo, 472, 530 Mussini Gianni, 555 Mussolini Benito, 533, 704, 725-726 Natoli Glauco, 461, 527, 557 Negri Gaetano, 673 Nencioni Francesca, 492 Nencioni Giovanni, 556, 753, 755-757 Neri Ferdinando, 473, 480-481, 529530
787
Nerval Gérard de (Gérard Labrunie), 526 Nicola Giovanni Battista, 608, 611612, 614-615 Nicole Pierre, 682 Nicolson Harold, 704 Nietzsche Friedrich Wilhelm, 544, 614, 727 Novelli Gino (Gaetano Ciulla), 640 Noventa Giacomo, 663 Occam/Ockam Guglielmo di, 616, 685 Ojetti Ugo, 704 Oldrini Lino, 612 Olgiati Francesco, 643 Oliveira Salazar António de, 702 Omero/Homer, 642, 503 Omodeo Adolfo, 653-654 Oriani Alfredo, 727 Orlando Francesco, 511 Ortiz Ramiro, 481 Ovidio (Publio Ovidio Nasone), 504 Pabst Georg Wilhelm, 461 Paccagnella Ivano, 556 Paci Enzo, 680 Pacini Monica, 547 Pagani Giovanni Battista, 609, 627 Paganini Carlo Pagano, 602 Paggi Leonardo, 689 Palazzeschi Aldo (Aldo Giurlani), 560 Pancrazi Pietro, 487 Panzini Alfredo, 540 Paolo VI (Giovanni Battista Montini), papa, 508 Papi Fiammetta, 460 Papini Giovanni, 540-541, 543-544, 564, 571-572, 610, 664, 666 Parini Giuseppe, 673 Parodi Ernesto Giacomo, 504-505, 517-518, 566-567 Parronchi Alessandro, 545 Pascal Blaise, 682, 686 Pascoli Giovanni, 563, 640, 757 Pasolini Pier Paolo, 685, 719
Indice dei nomi
Pasquali Giorgio, 470, 482, 508, 515, 552, 561, 566, 587, 659-670 Passerin d’Entrèves Ettore, 736-737, 745 Pastonchi Francesco, 529-533, 612 Pautasso Sergio, 490 Pavolini Corrado, 670 Pavone Claudio, 740 Pea Enrico, 513, 567, 583 Pedrotti Marco Antonio, 602 Péguy Charles, 668-669, 760 Pellegrini Silvio, 481 Peron Gianfelice, 556 Perona Gianni, 751 Pertici Roberto, 561, 587, 670, 701702, 734 Perugi Maurizio, 529 Petrarca Francesco, 519, 567, 769 Petrocchi Giorgio, 753 Piaget Jean, 618 Picard Roger, 541-542 Piccarda, vd. Donati Piccarda Picchi Mario, 566 Piccolo Francesco, 481 Pietrobono Luigi, 516, 529, 532 Pignoloni Emilio, 610 Pinotti Giorgio, 486 Pintor Giaime, 527, 547-548, 564, 749 Pintor Giuseppe (Beppino), 547 Pio XI (Ambrogio Damiano Achille Ratti), papa, 622, 628-629 Pio XII (Eugenio Maria Giuseppe Pacelli), papa, 623 Piovene Guido, 542 Pirandello Luigi, 650 Pisacane Carlo, 747 Pizzoni Pietro, 706-708 Pizzuto Antonio, 469, 479, 585, 609, 624, 684, 766-767 Placido da Pavullo (Paolo Piombini), frate, 615 Poe Edgar Allan, 712 Poli Andrea, 605 Polimeni Giuseppe, 549 Ponchiroli Daniele, 478, 674 Pontiggia Giuseppe, 482
788
Pound Ezra Weston Loomis, 500, 505, 508 Pozzi Gian Carlo, 730 Pozzi Giovanni, padre, 498, 549, 589, 698, 710 Praz Mario, 508, 651 Preti Giulio, 680 Prezzolini Giuseppe, 555 Proudhon Pierre-Joseph, 738 Proust Marcel, 499-500, 552, 644, 656 Puerari Alfredo, 683, 692 Pugliese Stanislao G., 692 Pupino Angelo Raffaele, 473, 690 Pusineri Giovanni, 601, 610-612, 614615, 634-635, 672 Racine Jean, 675, 682-683, 759 Ragghianti Carlo Ludovico, 702 Ragozza Silvano, 610-611, 613 Raoss Mariano, 604 Ratti, vd. Pio XI Rebora Clemente Maria, 567, 611, 621-622, 625-626, 646, 658, 672673, 680, 758 Rebora Piero, 658 Resta Antonio, 561, 587, 670 Rilke Rainer Maria, 547-548 Ripa di Meana Ludovica, 536, 605, 621, 626, 628, 649, 655, 658, 660, 682, 684-685, 692, 696-697, 704, 713, 742 Risso Pier Camillo, 608, 611 Rivière Jacques, 509, 647 Rizzi Giovanni, 698 Rodocanachi, famiglia, 482 Roessli Jean-Michel, 508 Rohlfs Gerhard, 515-516, 529 Romagnosi Gian Domenico, 673 Roncaglia Aurelio, 468, 491, 497, 499, 556-557, 563-564, 595, 691 Roncuzzi Renato, 670 Roques Mario, 470 Rosmini Antonio, 472, 497-498, 599, 600-609, 611, 613, 615-618, 620, 622, 626-637, 639, 641-643, 647, 649-650, 652-653, 665, 669, 671,
Indice dei nomi
674, 682-686, 688 Rosselli Carlo, 588, 745 Rossi Federica, 528 Rossi Guido, 611-612, 614 Rossi Raffaele, 698 Rousseau Jean-Jacques, 502 Ruffini Francesco, 653 Ruggiero Raffaele, 468, 555, 560 Russo Carlo Ferdinando (Lallo), 486 Russo Luigi, 468, 470-471, 473, 479, 481, 485, 491, 496-497, 514, 527, 534, 549, 551-555, 560-561, 568, 579, 587, 651-652, 660-661, 670, 674-679, 690, 712, 762 Saba Umberto (Umberto Poli), 496, 658, 768, 769 Sabbadini Remigio, 627 Sainte-Beuve Charles Augustin de, 487, 545, 682-683 Salari Tiziano, 651 Saltini Luca, 712 Salvadori Giulio, 683 Salvioni Sergio, 572 Sanesi Ireneo, 479 Sanesi Manlio, 479 Sanesi Roberto, 507 Santangelo Salvatore, 481 Saresella Daniela, 600 Savonuzzi Claudio, 691 Savonuzzi Girolamo, 692 Scannabue Aristarco (Giuseppe Baretti), 563 Scarpa Domenico, 745 Scheler Max, 591 Schiaffini Alfredo, 468, 478-479, 481, 517-518, 520, 566-567, 678 Schiavoni Giulio, 578 Schmitt Carl, 578 Schopenhauer Arthur, 614 Schuchard Ronald W., 509 Schürr Friedrich, 525, 529 Schwaiger G., 665 Sciacca Michele Federico, 600-601, 620 Segre Cesare, 468, 504, 550, 698, 754
789
Serianni Luca, 459, 531, 536, 549, 556 Seroni Adriano, 550, 552 Serra Renato, 498-499, 571, 691, 695 Serri Mirella, 696 Sgrilli Paola, 753, 760, 762 Shakespeare William, 461 Signori Elisa, 698 Silone Ignazio (Secondo Tranquilli), 691-692, 712 Simoncelli Paolo, 702 Singleton Charles Southward, 500 Sinigaglia Sandro, 691 Sironi Mario, 610 Socrate, 646 Soddu Paolo, 528 Soldati Mario, 610-611 Solmi Sergio, 649 Sorel Georges, 673, 727 Spadolini Giovanni, 558, 560 Spirito Ugo, 664, 721 Spitzer Leo, 567, 711 Spoerri Pierre, 524 Spoerri Theophil, 491 515, 522-526, 529-530, 533, 548 Squarcia Francesco, 522, 527, 529, 533 Stasi Beatrice, 543, 554 Stavisky Alexandre, 703 Stecchetti Lorenzo (Olindo Guerrini), 698 Stedile Marzia, 493 Stille Alexander, 564 Stille Ugo (Misha Kamenetzki), 564 Stoppani Antonio, 610 Stussi Alfredo, 565 Sugranyes de Franch Ramon, 705 Supervielle Jules, 731 Sutton Michael, 510 Taglioli Maddalena 460 Tamaro Attilio, 709 Tanzi Drusilla (Mosca), 658, 660 Tari Antonio, 552 Tasso Torquato, 532 Tavoni Mirko, 565 Terracini Umberto Elia, 744
Indice dei nomi
Thibaudet Albert, 535, 541 Thiers Marie Joseph Louis Adolphe, 736 Tibaldi Ettore, 751 Timpanaro Sebastiano, 704 Tinti Paolo, 528 Toja Gianluigi, 568 Tolstoj Lev Nicolaevič, 757 Tomasi di Lampedusa Giuseppe, 511 Tomasoni Piera, 766 Tommaseo Niccolò, 472, 604, 609, 643, 652-655, 682-683, 747, 757 Tommaso d’Aquino (dottore Angelico), santo, 602-603, 616, 632, 634635 Traniello Francesco, 601 Traverso Leone, 550-552 Trevisiol Fabio, 472, 528 Troilo Erminio, 634, 639 Trotzkij Lev Davydovič (Lejba Bronštein), 729, 746 Tucidide, 756 Ugolini Francesco, 481 Ungarelli Giulio, 471, 475, 492-493, 495, 507, 550, 555, 561, 564, 577, 690, 747, 753 Ungaretti Giuseppe, 472, 542, 547, 582, 644, 646-649, 764 Unamuno Miguel de, 461, 718 Utrillo Maurice (Maurice Valadon), 462 Valéry Paul, 469-470, 508-509, 511, 541-542, 593, 595, 704, 714 Valiani Leo (Leo Weiczen), 580, 750 Varese Claudio, 468, 490-496, 536, 553, 558 Varese Fiammetta, 468, 492 Varese Ranieri, 468, 492 Varisco Bernardino, 600 Vela Claudio, 486 Venizelos Eleftherios, 702 Venturi Franco, 750 Verga Giovanni, 547, 581 Verlaine Paul Marie, 461, 535
790
Veronesi Mario, 618 Vezzoni Alessia, 747 Vian Nello, 562 Vico Giambattista, 498, 656 Vidal i Barraquer Francesc, cardinale, 705 Vidossi Giuseppe, 517, 529 Viglino Camillo, 611-612, 618-619, 631-634, 636, 640, 642-643, 654, 660 Vigorelli Giancarlo, 483-484, 554, 681 Villano Maria, 476, 491 Virgilio (Publio Virgilio Marone), 504 Vittorini Elio, 564, 586, 722 Volpi Mauro, 698 Voltaire (François-Marie Arouet), 742 Vossler Karl, 567
Indice dei nomi
Wiget Franco, 625 Woolf Virginia, 540 Zabagli Franco, 471, 483, 711 Zaccagnini Guido, 662 Zagarrio Vito, 522, 533-535 Zambarbieri Annibale, 600 Zambon Francesco, 541 Zamboni Giuseppe, 617-618, 631, 635-636 Zampa Giorgio, 533 Zoppetti Luigi, 610-611, 622, 633 Zorini Francesco Omodeo, 726 Zunino Pier Giorgio, 742
Notizie degli allievi della Classe di Lettere e Filosofia
In questa sezione si pubblica una breve nota sulla vita interna della Scuola Normale1. Dato l’elevato numero di iniziative scientifiche e istituzionali che vi si svolgono ogni anno, debitamente segnalate sul sito web della Scuola Normale (http://www.sns.it), la presente sezione si limita a dare una sintetica informazione sugli allievi della Classe di Lettere e Filosofia in entrata e in uscita e sulle tesi di diploma di perfezionamento discusse nel corrente anno solare. Nuovi allievi del corso ordinario Primo anno Anselmo Gaia Antonini Claudia Baroni Luca Benati Edoardo Berardi Carlo Borsano Leon Battista Busti Francesco Calzetta Luca Ciccarelli Matteo Curzi Nicola De Stradis Susanna Di Riccio Agnese Fazzi Viola Grieco Giuseppe Maiolani Michele
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Notizie raccolte con la collaborazione di Mario Landucci e Ambra Vettori.
792 Notizie degli allievi della Classe di Lettere e Filosofia
Pezzuolo Paolo Pinato Laura Redaelli Greta Maria Alessia Reggiani Marcello Regini Irene Rodda Martina Astrid Rosolia Giorgio Salina Jonathan Scarfone Gloria Signori Marco Terenghi Silvia Zipoli Luca Quarto anno Barbagli Nicola Lionetti Ruggiero Modini Francesca Morelli Ettore Omes Marco Tesi di diploma di corso ordinario Discipline filologiche, linguistiche, storiche classiche Agnosini Matteo Il Piritoo di Euripide o Crizia e i frammenti di tragedie ambientate nell’Ade Amendola Davide P. Berol. inv. 13045, A I-III: saggio di edizione, traduzione e commento Ballestrazzi Chiara Archeologia a Modena dall’Ottocento a oggi. Dal museo civico ai parchi archeologici della Terramara di Montale e Novi Ark
793 Notizie degli allievi della Classe di Lettere e Filosofia
Mancini Alessio Un commento umanistico a Lucano: sugli scolii del codice Vat. Lat. 3284 Mari Tommaso La tradizione manoscritta del “De Barbarismis et Metaplasmis” del Grammatico Consenzio Pittà Antonino Osservazioni sulla tradizione manoscritta di Nonio Marcello Romani Mistretta Marco Lucrezio e Orazio di fronte al tema della morte Discipline filologiche e linguistiche moderne Lovascio Martina Strand e Zavattini: storia di “Un Paese” Vatteroni Selene La tenzone sui cinque sensi tra ser Ventura Monachi e ser Gaudio Discipline filosofiche Damiani Vincenzo La terminologia indicante le forme del testo compendiario nella scuola di Epicuro: studio semantico/lessicale Della Grotta Federica Determinismo e libero arbitrio: l’argomento compatibilista di David Lewis Mantovani Mattia Una teoria della misura per il metro campione di Parigi
794 Notizie degli allievi della Classe di Lettere e Filosofia
Discipline storiche Caberlin Francesco Il concetto di esperimento sociale applicato alle scienze storiche Leone Alice Che cosa hanno fatto gli Inglesi in Cirenaica Sandoni Luca Les principes de 89 et la doctrine catholique di Léon-Nicolas Godard: alle origini di un tentativo di conciliazione tra Chiesa e libertà moderne Discipline storico-artistiche e archeologiche Cassa Tiziano Commento di 30 lettere del carteggio Belli-Feroldi Nuovi allievi del corso di perfezionamento Discipline filologiche, linguistiche, storiche classiche Agnosini Matteo Amendola Davide Comentale Nicola Mancini Alessio Pittà Antonino Starnone Viola Discipline filologiche e linguistiche moderne Di Paola Simona Ezenwafor Chikelu Ihunanya Fantini Enrico Giancane Francesco Ingallinella Laura Lazzarini Andrea Vatteroni Selene
795 Notizie degli allievi della Classe di Lettere e Filosofia
Discipline filosofiche Amidei Jacopo Brotto Luisa Ciola Graziana Silvia Damiani Vincenzo Marrano Rossella Discipline storiche Baranova Aleksandra Cuccurullo Lidia Leone Alice Lodone Michele Sandoni Luca Tacchi Francesco Vezzosi Gloria Discipline storico-artistiche e archeologiche Ballestrazzi Chiara Diana Alessandro Giorgi Daniele Gulli Claudio Guzzetti Francesco Marchenko Alena Persano Paolo Volpe Delia Tesi di perfezionamento Discipline filologiche, linguistiche, storiche classiche Grilli Alessandro Ricerca sulla fortuna del mito di Venere e Adone
796 Notizie degli allievi della Classe di Lettere e Filosofia
Miano Daniele The Cult of Virtutes in Archaic and Mid-Republican Rome Staderini Francesco Lucrezio e la storia della civiltà. Commento a De Rerum Natura 5, 1105-1457 Discipline filologiche e linguistiche moderne Chen Qi Physiognomy of Rules in Italian and Chinese History and Biography Cimmieri Valeria Femme et pouvoir dans la tragédie italienne des XVIe et XVIIe siècles. Etude d’un corpus emblématique de rôles-titres féminins Ciucci Luca Inflectional Morphology in the Zamucoan Languages Ghio Marta Virginia A Cognitive and Pragmatic Approach to Meaning. Behavioural and Neural Correlates of Concept Processing Gizzi Chiara Piero della Francesca. De prospectiva pingendi: edizione critica della redazione volgare Pesini Luca Tra coordinazione e subordinazione. La paraipotassi in italiano antico Discipline filosofiche Magrì Elisa Ontologia e sapere in Hegel Oskian Giulia Pensiero giuridico e teoria democratica Un’interpretazione di Démocratie en Amerique
in
Tocqueville.
797 Notizie degli allievi della Classe di Lettere e Filosofia
Sabino Cristiano La cultura filosofica al tempo della crisi. Letture critiche di un tentativo di riforma intellettuale in Italia; 1907-1917 Discipline storiche Baragli Matteo Dal popolarismo al clerico-fascismo. Cattolicesimo e nazione nell’itinerario di Filippo Crispolti (1919-1929) Gaune Corradi Rafael I gesuiti tra Marte e le Costituzioni. Adattare, salvare, disciplinare: la scrittura e la circolazione politica-religiosa della Compagnia di Gesù nelle altre Fiandre (1568-1626) Lesti Sante In hoc signo vinces. Pratiche di consacrazione al Sacro Cuore in Italia e in Francia durante la Grande Guerra (1914-1919) Long Micol Autobiografia ed epistolografia tra XI e XIII secolo: per un’analisi delle testimonianze sulla scrittura di propria mano Pettorru Maria Giovanna Una periferia tra due centri: la Sardegna vista attraverso le fonti gesuitiche del Cinquecento Xie Mingguang Comparison and Comprehension: Nicolas Trigault (1577-1628) SJ. and the Story of the Xi Ru Er Mu Zi in Late Ming China Discipline storico-artistiche e archeologiche Castiglione Marianna Diiunxit Pompeianos a colonis. Dinamiche sociali e scelte monumentali nella necropoli di Porta Nocera a Pompei
798 Notizie degli allievi della Classe di Lettere e Filosofia
Iafrate Allegra The Wandering Throne of Salomon: Precious Objects and Legends of Kingship in the Medieval Mediterranean Pilutti Namer Myriam Spolia, conservazione, restauro. Venezia come educazione
Finito di stampare nel mese di maggio 2014 presso le Industrie Grafiche della Pacini Editore S.p.A. Via A. Gherardesca • 56121 Ospedaletto • Pisa Telefono 050 313011 • Telefax 050 3130300 Internet: http://www.pacinieditore.it