Anima. Vita e morte dell'anima da Lascaux al transumanesimo 886833948X, 9788868339487

Secondo Michel Onfray, filosofo materialista letto in tutto il mondo, l'anima è, semplicemente, ciò che ha reso uma

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Table of contents :
L’autore
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Sommario
Introduzione. La magnifica desolazione
Parte prima. Costruire l’anima Sotto il segno del serpente
1. Anticorpi, non-corpi e controcorpi. Smaterializzare il corpo
2. Scheletro con anima. Sopraffare la materia
3. Il divenire riccio della pianta. Purificare la carne
4. Corpi di carta e vita testuale. Creare un anticorpo
5. Le lingue di fuoco dello Spirito Santo. Dannare la carne
6. Niente erezioni nel giardino dell’Eden. Sessualizzare il peccato
7. Il sangue, semente dei cristiani. Suppliziare i corpi
8. L’amore per la santa abiezione. Imitare il cadavere
9. L’arte di educare i corpi. Ingabbiare il desiderio
Parte seconda. Decostruire l’anima Sotto il segno del cane
1. Il luogo del filo dell’ascia. Deplatonizzare l’anima
2. I sofismi della volpe. Riabilitare l’animale
3. Lezioni dalle lezioni di anatomia. Cancellare l’anima
4. Una certa ghiandola assai piccola. Localizzare l’anima
5. Il cartesianesimo contro Descartes. Circoscrivere lo spirito
6. Pensare senza pensare che si pensa. Umanizzare l’animale
7. Il fiore degli atomi. Atomizzare l’anima
8. Come la fiamma di una candela. Meccanizzare l’anima
9. Il cuore della rana su un piatto riscaldato. Elettrizzare i corpi
Parte terza. Distruggere l’anima Sotto il segno della scimmia
1. Vita e morte dell’ostrica. Animalizzare l’uomo
2. Costruire l’emulo di un capriolo Rigenerare l’Homo sapiens
3. Genealogia dell’eugenetica repubblicana. Decapitare l’anima
4. Una ghiandola pineale postmoderna. Metapsicologizzare la psiche
5. Il tempo del Corpo senza Organi. Strutturalizzare l’essere
6. Un volto di sabbia cancellato dal mare. Uccidere l’uomo
Conclusione. Sotto il segno della medusa
Verso le chimere transumaniste. Digitalizzare l’anima
Epilogo. L’eterno silenzio degli spazi infiniti
Bibliografia
Note
Parte prima. Costruire l’anima
1. Anticorpi, non-corpi e controcorpi
2. Scheletro con anima
3. Il divenire riccio della pianta
5. Le lingue di fuoco dello Spirito Santo
6. Niente erezioni nel giardino dell’Eden
7. Il sangue, semente dei cristiani
8. L’amore per la santa abiezione
9. L’arte di educare i corpi
Parte seconda. Decostruire l’anima
1. Il luogo del filo dell’ascia
2. I sofismi della volpe
3. Lezioni dalle lezioni di anatomia
4. Una certa ghiandola assai piccola
5. Il cartesianesimo contro Descartes
6. Pensare senza pensare che si pensa
7. Il fiore degli atomi
8. Come la fiamma di una candela
9. Il cuore della rana su un piatto riscaldato
Parte terza. Distruggere l’anima
1. Vita e morte dell’ostrica
2. Costruire l’emulo di un capriolo
3. Genealogia dell’eugenetica repubblicana
4. Una ghiandola pineale postmoderna
5. Il tempo del Corpo senza Organi
6. Un volto di sabbia cancellato dal mare
Conclusione. Sotto il segno della medusa Verso le chimere transumaniste
Epilogo. L’eterno silenzio degli spazi infiniti
Indice
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Anima. Vita e morte dell'anima da Lascaux al transumanesimo
 886833948X, 9788868339487

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L’autore

Michel Onfray, filosofo francese fra i più popolari e controversi, autore di oltre ottanta libri fra cui il fortunato Trattato di ateologia (2005), decostruisce ormai da oltre trent’anni mitologie religiose, filosofiche, sociali e politiche. Ponte alle Grazie pubblica dal 2009 i suoi libri principali: fra questi ricordiamo il suo opus magnum contro Freud, Crepuscolo di un idolo (2011), Pensare l’islam (2016), Filosofia del viaggio (n. ed. 2017), Thoreau. Vivere una vita filosofica (2019). Cosmos (2015), Decadenza (2017) e Saggezza (2019) compongono la trilogia Breve enciclopedia del mondo. I più recenti titoli apparsi da Ponte alle Grazie sono: Teoria della dittatura (2020), Il coccodrillo di Aristotele (2020), I freudiani eretici (2020), Coscienze ribelli (2021), Le ragioni dell’arte (2022), Vivere secondo Lucrezio (2023).

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@ponteallegrazie

www.illibraio.it Titolo originale: Anima © 2023 Michel Onfray e Éditions Albin Michel – Parigi © 2023 Adriano Salani Editore – Milano ISBN 979-12-5582-013-0 Traduzione: Michele Zaffarano Redazione e impaginazione: Scribedit - Servizi per l’editoria Progetto grafico di copertina: ushadesign Ponte alle Grazie è un marchio di Adriano Salani Editore s.u.r.l. Gruppo editoriale Mauri Spagnol Prima edizione digitale: ottobre 2023 Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

Anima

Sommario

Introduzione La magnifica desolazione Rovesciare le prospettive: dalla Luna alla Terra. Nuovo paradigma ontologico e metafisico. Dalla mitologia alla cosmologia. Il grigio della Luna, il blu del mare, il nero del cosmo. Poetica dei multiversi. Il colore del nulla è il colore del tutto. Imperialismo lunare. La conquista della Luna, il nazismo, il bolscevismo e il capitalismo. Appuntamento mancato con la filosofia. Dall’universo finito ai pluriversi infiniti. Marcatura del territorio lunare. Conquistare, imporsi, profanare. La nuova civiltà. Smagnetizzazione della bussola cristiana. Desolazione ontologica. Monadi in movimento browniano. Né centro, né bordo, né finito, né infinito. Vortice quantico. Espulsione dal mondo terrestre. L’uomo smontato. Conquista della Luna e fine dell’uomo. Morte dell’uomo e nichilismo. Fine dell’umanesimo, avvento del transumanesimo. Inumanesimo. Ritorno dell’orda primitiva. Verso l’arte digitale. Parte prima COSTRUIRE L’ANIMA Sotto il segno del serpente 1. Anticorpi, non-corpi e controcorpi Smaterializzare il corpo I calendari lunari preistorici. Pensare con la testa alzata. La lezione delle stelle. Sottomissione della natura ai pluriversi. Variazioni climatologiche cosmiche. I cicli e l’eterno ritorno. L’anima: la vita che vuole la vita nella vita. Osservare il cosmo e obbedirgli. La sapienza del cielo. Non esiste preistoria. Il rumore sibilante del silenzio. Mangiare l’occhio di una foca. Le lezioni dei cirenaici. Radici egizie dell’episteme greca. Inventare l’anima per ottenere la vita dopo la morte. Il corpo, tomba dell’anima. Purificare l’anima dalla carne. I pitagorici, gli

orfici, i neoplatonici e la smaterializzazione del corpo. Anticorpi, non-corpi e controcorpi. 2. Scheletro con anima Sopraffare la materia La passione cristica di Platone. Praticare la filosofia significa salvarsi l’anima. Preferire la morte alla vita. Il platonismo come metodo per disincarnarsi. Scheletro con anima. Morire quaggiù per vivere lassù. Le anime sono in numero finito. Come sapere che abbiamo un’anima? Ricordo, reminiscenza ed esistenza dell’anima. Asini, lupi e api. Platone non era platonico. Socrate nemmeno… 3. Il divenire riccio della pianta Purificare la carne Vergognarsi di stare in un corpo… ma continuare a poppare dal seno fino a otto anni. La morte superiore alla vita con il corpo. Gli esercizi spirituali e la purificazione. Liberarsi del proprio corpo come di un vestito. Reincarnarsi in una pianta. Come può una pianta divenire un riccio? Fuggire il corpo quaggiù per guadagnare l’eternità lassù. Dall’anima bianca pagana all’anima nera cristiana. 4. Corpi di carta e vita testuale Creare un anticorpo Spirito devoto e spirito critico. Gesù, una finzione di carta. Il Nuovo Testamento, collage dell’Antico. Il neotestamentario, ventriloquio veterotestamentario. Gesù, anima senza corpo. Corpi di carta e vita testuale. Il genere allegorico. Il Verbo si è fatto carne, il corpo è quindi di carta. Gesù Cristo, costruzione storica. Corporeizzare un testo. Genealogia di un corpo ossimorico. Nutrimenti esclusivamente spirituali. Meraviglioso vs miracoloso. Delucidare la parabola attraverso la parabola. Contro il positivismo. Inesistenza della parola «anima» nei Vangeli. Imitare una finzione: un’etica inumana. Mettere l’uomo a nudo. 5. Le lingue di fuoco dello Spirito Santo Dannare la carne

San Paolo tradisce Gesù. Il paolinismo: timore e tremore. La civiltà giudaicocristiana, poco cristica e molto paoliniana. Evangelizzare a colpi di spada. Il criminale Saulo diventa san Paolo. Amore dell’odio di sé del tredicesimo apostolo. Di che scheggia nella carne si tratta? Una «carne molto malata». Che si deve imitare il feto abortito. «Morire [è] un guadagno». Il corpus paoliniano? Il corpo di Paolo. Antisemitismo, omofobia, misoginia, odio dell’intelligenza, cesaropapismo. Lo Spirito Santo salva il corpo. Il corpo mistico sostituisce il corpo terrestre. Svilire il corpo per elevare l’anima. Creare un Uomo Nuovo. Freccia del tempo e Parusia. Imitare la Passione di Cristo vuole dire creare l’Uomo Nuovo. Voler morire in vita. Il modello del corpo glorioso. Creare un’anima nera come l’inferno. 6. Niente erezioni nel giardino dell’Eden Sessualizzare il peccato Il peccato originale: preferire il sapere al credere. Paolo di Tarso e Seneca a Roma. Solidarietà tra stoicismo e cristianesimo. L’antico stoicismo ispira il giudaismo paoliniano. Dolorismo stoico e il perinde ac cadaver dei cristiani. La gamba rotta di Epitteto. Il dolore, prodotto della volontà. Il diavolo vive già in paradiso. Il senso del peccato originale: per sapere, Eva rifiuta di obbedire. Sant’Agostino sessualizza il peccato della prima donna. Come la nevrosi di Paolo diventa civiltà. Che l’anima muore quando Dio l’abbandona. Il peccato è il potere della carne sull’anima. I guai di Adamo cominciano con Eva. La carne diventa cattiva se si vive assecondandola. Impiego carnale della carne contro impiego spirituale. Vivere secondo l’uomo significa vivere secondo il diavolo. Adamo ingannato dall’«affetto coniugale». Niente erezioni nel giardino dell’Eden. 7. Il sangue, semente dei cristiani Suppliziare i corpi Le ferite della passiflora. Il pastore contro il martire crocifisso. Niente crocifissioni nelle catacombe. Il divenire imperiale del cristianesimo. Avvento della Croce. Invenzione imperiale del corpo di Cristo. La vera incarnazione attraverso l’arte. Credere per vedere, e poi vedere per credere. Le invenzioni di Costantino e della madre Elena. Rigatteria cristica. Eva e la colpa, Maria e la

redenzione, Elena e la finzione. Culto del corpo crocefisso contro ermeneutica del Verbo Incarnato. Nascita della tanatofilia cristiana. Bisogna imitare i martiri. Suppliziare il corpo purifica l’anima. Vita di sant’Ignazio secondo Iacopo da Varazze. Origene si castra. Patristica e retorica dei dervisci rotanti. Odiare la vita per amare meglio Dio. La morte quaggiù significa la vita lassù. Il dolore porta alla salvezza. Il sangue purifica l’anima. Il godimento nella sofferenza. 8. L’amore per la santa abiezione Imitare il cadavere Nell’attesa della Parusia. Eccellenza numerologica dei Padri della Chiesa. Età d’angoscia. Donne, dragoni, bambini neri, rettili, ecc. L’ascesi, antidoto al diavolo, l’altro nome della libido. La vita filosofica cristiana. Filosofie antiche e vita cristica. Monachesimo contro cristianesimo di Stato. Sant’Antonio e i mercanti del Tempio. Vite di asceti. La vita secondo il corpo, poi secondo il Logos, poi secondo lo Spirito. Il corpo mi uccide, io lo uccido. L’Uomo Nuovo: il monaco del deserto. Spossare la carne. Morire in vita. Raffinare e moltiplicare le sofferenze. Condurre la propria vita verso il niente. Ìpetri, stiliti, girovaghi, stazionari, muti, dendriti e altri atleti del deserto. 9. L’arte di educare i corpi Ingabbiare il desiderio I concili, una macchina per produrre ortodossia. Spingere il negativo per ottenere il positivo. L’orgia come preghiera. La sessualità è comunione, l’incesto, orazione. Spermatofagi e fetofagi. Pneuma e hyle. Il comunismo delle donne. Barbelognostici, carpocraziani, valentiniani, ecc. I concili e la formazione del cristianesimo di Stato. L’educazione dei corpi e la costruzione dell’uomo occidentale. Origine evangelica dei sinodi. Lo Spirito Santo scende sui concili. La libido perseguitata. Dal più serio al più futile: legiferare su tutto. Il matrimonio come macchina per ingabbiare il desiderio. La tabella di marcia del corpo occidentale. L’anima, un affare conciliare. Dicotomia contro tricotomia. Emanazione della legge sessuale occidentale. Concili e fiera della qualunque. Il concilio cadaverico. La pornocrazia papale. Parte seconda

DECOSTRUIRE L’ANIMA Sotto il segno del cane 1. Il luogo del filo dell’ascia Deplatonizzare l’anima La Scuola di Atene: l’indice di Platone, e il palmo rivolto a terra di Aristotele. L’anima secondo l’ordine delle ragioni. Fisica contro metafisica. Il principe degli animali. Scienza della natura ed esperienza. Potenza, atto, entelechia. Materia, potenza, forza. L’anima, principio vitale. Vegetativa, sensitiva, intellettiva. L’anima delle piante e degli insetti. Anima = forza + materia, quindi il vivente. L’anima è forma e atto del corpo. Averroè e l’introduzione della scolastica medievale. San Tommaso d’Aquino ingabbia Aristotele dentro le proprie cattedrali concettuali. Lo sperma piccolo degli obesi. Traducianesimo e creazionismo. Infusione immediata dell’anima o infusione mediata? L’aborto benedetto dalla Chiesa. Tentennamenti in Vaticano. 2. I sofismi della volpe Riabilitare l’animale La bestia biblicamente sottomessa all’uomo. Gli animali assenti dal paradiso. L’arca di Noè nei Saggi. Montaigne abbatte la scolastica. Contro i falsi filosofi, gente da biblioteca. Raccontarsi significa raccontare il mondo. Al di là della corporazione dei filosofi filosofeggianti. Interrogare il mondo e non i libri. Genio di Montaigne. Lezioni da un incidente di cavallo. Un vero finto paté di gatto. Su una cucitura stretta. Psicosomatismo. Fideismo, quindi immortalità dell’anima. All’anima si accede attraverso il corpo. Cugini delle bestie. Una differenza di grado e non di natura. Arringare a favore degli animali. Bruttezza dell’uomo nudo. 3. Lezioni dalle lezioni di anatomia Cancellare l’anima Disprezzo per i medici e la medicina. Elogio dei chirurghi e della loro disciplina. La lente dell’infinitamente grande. Il microscopio dell’infinitamente piccolo. Il bisturi di questa parte di mondo. Che cosa provoca nell’anima il fatto di aprire i

corpi. Nelle pieghe del cervello. Laicizzazione dell’anima. L’anima sfugge a Dio e al diavolo. Medico vs chirurgo. Il teatro della lezione di anatomia: dire, mostrare, toccare. Vesalio: dissezionare, osservare, maneggiare. L’odore del corpo reale. Vesalio e il De humani corporis fabrica. Il suo frontespizio, un discorso sul metodo. Il morto mostrato come vivo. Scristianizzare il corpo dell’uomo. L’utero, verità dell’essere. Uno stesso cervello per la scimmia, per il cane e per l’uomo. Il bisturi ignora le anime. Vesalio, circospetto per prudenza, cieco per precauzione, innocente per timore. 4. Una certa ghiandola assai piccola Localizzare l’anima Dissezionare il re. La prudenza di Ambroise Paré. Il momento in cui l’anima viene infusa. Aprire il cranio del buffone di corte. Sotto il bisturi, Paré vede Aristotele. «Io l’ho medicato, Dio l’ha guarito». Descartes pensa e disseziona. Il filosofo soffocato dai cartesianesimi. Pensare il mondo e scrivere per le donne. Un progetto enciclopedico. I capelli bianchi di Descartes. La scienza si preoccupa di farci vivere bene. Mettere da parte i libri e cominciare a osservarsi. Dissezioni e vivisezioni. Gli occhi di un uomo appena morto. Un decennio di vivisezioni. La ghiandola pineale, detta conarium. Sostanza estesa e sostanza pensante; corpo e anima. Io sono una cosa che pensa. La teoria dell’uomomacchina. Conta-ore, orologi, fontane, tubi, molle. La ghiandola pineale, unico organo che non conosce la simmetria. Estrema prudenza. Che cosa pensare di un luogo materiale che sia sede di un’anima immateriale? Morte della giovane figlia. La piccola bambola automa del filosofo. Il pensatore princeps del transumanesimo. 5. Il cartesianesimo contro Descartes Circoscrivere lo spirito Descartes, pensatore cattolico, quindi prudente. La querelle di Utrecht. Regius ricaccia Descartes dietro le sue linee trincerate. Regius, un cartesiano tra dualismo idealista e monismo materialista. L’atomismo, macchina da guerra contro il cristianesimo. Descartes prende spunto dai concili per pensare. Un’anima, non tre. Un’unione naturale e non accidentale di anima e corpo. La disputa con lo scolastico Voetius. Descartes strumentalizza Regius. Il cartesianesimo contro Descartes. La Philosophia naturalis di Regius scontro il

cogito. Fisica vs metafisica. Osservazione vs introspezione. 6. Pensare senza pensare che si pensa Umanizzare l’animale La cagna di Malebranche. La questione dell’anima delle bestie. Teoria degli animali-macchina. L’uomo pensa, l’animale non ha un’anima. Due cani copulano e si riproducono, due orologi no. Jean de La Fontaine, amico delle bestie. Gli animali hanno una ragione. Animale umanizzato e uomo angelicato. Comparsa degli atomisti. Un cane felice e un gesuita contro Descartes. La conoscenza virtuale. Un principio vitale interiore. I movimenti riflessi. Vitalismo gesuita vs meccanicismo cartesiano. Solo Dio può dare l’anima alla macchina. Le forme sostanziali sono materiali e corporee. 7. Il fiore degli atomi Atomizzare l’anima Ragioni politiche della cattiva reputazione degli epicurei. Incompatibilità dell’atomismo con le finzioni cristiane. Rimozione completa dell’opera di Epicuro da parte del cristianesimo. Riabilitazione da parte di Gassendi, canonico di Digne. Entrata del lupo atomista nell’ovile cristiano. Restituire a Epicuro la sua dignità. Epicureismo à la carte. Rifiuto della teoria dell’anima. «Una parvenza di empietà». Le maschere del libertino erudito. Motivi di disaccordo: la Provvidenza, il suicidio, il libero arbitrio. Gassendi vs Descartes. Un incredibile incontro di pugilato. Stroncatura delle Meditazioni metafisiche. Critica della teoria della ghiandola pineale: mancano i nervi che fanno da collegamento. Descartes, ultimo degli scolastici. Gassendi rende possibili i primi moderni. I simulacri dell’osso per un cane. La sostanza estesa e la sostanza pensante sono atomiche. L’uomo fa parte degli animali. Nascita del materialismo vitalista. 8. Come la fiamma di una candela Meccanizzare l’anima Il curato Meslier, primo ateo, comunista, materialista e anticlericale. Cartesiano di estrema sinistra? Discepolo di Montaigne più di Descartes. «Senza Dio» non significa «contro Dio». Il suo Testamento. Nascita dell’ateismo. Punto di svolta

della civiltà. Tutto è materia. Le leggi naturali. La vita, perpetuo fermento. Per un materialismo vitalista. Un cogito senza dubbi. Ontologia dell’essere. Contro i filosofi deicoli. Anima e corpo sono una sola materia. L’anima è estesa, corporea, atomica. La materia percepisce, sente, conosce. Una leggera esalazione, la fiamma di candela. Una materia sottile e mossa. Coincidenza di anima animale e anima umana. Contro la tesi dell’animale-macchina. Elogio delle bestie. Provare ripugnanza a uccidere i polli. Ribellarsi contro il massacro dei gatti. Osservare la natura. Celebrazione del contadino. 9. Il cuore della rana su un piatto riscaldato Elettrizzare i corpi I filosofi saccheggiano il Testamento di Meslier. Un best seller della letteratura clandestina. Il tradimento di Voltaire: un Meslier deista che smette di essere rivoluzionario. La Mettrie, lettore di Meslier. La Mettrie, radicale oltre gli illuministi. Tragico, elitista, cinico. Un medico filosofo contro i filosofi. Strategie libertine di dissimulazione. L’uomo-macchina. L’uomo ha «più cervello». Il corpo calloso, sede dell’anima. Quantità di materia e qualità dell’anima. Rifiuto del cane di Malebranche: insegnare a una scimmia a parlare. Il linguaggio dei sordomuti: avere le orecchie negli occhi. Dare un’anima attraverso l’educazione. Ineguaglianza delle anime. «Un grado di fermentazione». Parenchima e tela midollare. Abolizione della metafisica. Una macchina governata dalla fatalità. Devastare l’ontologia cristiana. «Una sola sostanza diversamente modificata». Il criminale, il prete e l’acaro. Inesistenza del libero arbitrio. Abolizione della colpa. Meno giudici, più medicine. L’anima innocente. Nascita dell’amoralismo. Obbedire alla propria natura. Invito a darsi riposo nel crimine. Sade, ultimo pensatore feudale. Un filosofo materialista. Un po’ di fluido elettrico. «Sguazzare nella sporcizia come dei maiali». Parte terza DISTRUGGERE L’ANIMA Sotto il segno della scimmia 1. Vita e morte dell’ostrica Animalizzare l’uomo

Finché dura Dio: la Bibbia. Quando Dio non c’è più. La statua di Condillac. Diderot vuole ridurre l’uomo a un’ostrica, ed educare l’ostrica come un uomo. L’Enciclopedia rimpiazza l’«anima» delle bestie con l’«istinto». Rigenerazione e Uomo Nuovo. Eugenetica ed educazione. Entrata in scena della scimmia. Il «satiro indiano». Copule tra la scimmia e l’uomo. Le scuderie umane di Maupertuis. Produrre nuove specie. Come si creano nuove razze di canarini. Eugenetica di Stato. I serragli dei principi. Elogio degli animali nuovi. Sperimentazione sull’uomo e modificazioni dell’anima. Le copule teratologiche dell’abate Sieyès. Scimmie antropomorfe come schiavi. Le chimere di Cornelius de Pauw, canonico. Il progressismo zoofilo di Restif de La Bretonne. Mirabeau progressista zoofilo, anche lui. Buffon salva l’uomo, e quindi l’anima. L’ottentotto, nuovo paradigma. 2. Costruire l’emulo di un capriolo Rigenerare l’Homo sapiens Rousseau, teorico della rigenerazione. Odio per la civiltà. Elogio dell’uomo naturale. Educazione e patto sociale. Sofismi e retorica. Il metodo: «escludere tutti i dati di fatto». Idealizzazione della Natura. Passato meraviglioso, presente terribile, futuro spaventoso. Essenzializzare l’uomo. Contro l’uomo che pecca, l’uomo naturalmente buono. Una visione irenica. Le virtù dell’uomo selvaggio. La finzione dello stato di natura. Postulato di un’anima immateriale. Perfettibilità dell’uomo, non dell’animale. Nuova finzione: l’uguaglianza degli uomini in natura. La proprietà, peccato originale. Pedagogo innovatore ma autoritario. Costruire un allievo docile e sottomesso. Un tutore fino alla morte. «Emulo di un capriolo, piuttosto che […] ballerino». La matrice dell’Uomo Nuovo. Diluire l’individuo nella comunità. Forzare a essere liberi. L’educazione e il contratto sociale rigenerano. Mobilitare la trascendenza per fondare l’immanenza. Rousseau postula sempre, ma non dimostra mai. La pena di morte per l’ateo sociale. Ghigliottina e fette di cervello. 3. Genealogia dell’eugenetica repubblicana Decapitare l’anima L’abate Grégoire e la rigenerazione: gli ebrei degenerati. Eliminare l’ebreo per realizzarlo. Antisemitismo dell’abate, panteonizzato nel 1989. Invenzione

dell’ebreo che si vergogna. Meno sono ebrei, più lo sono. L’ossessione del sangue. I provinciali degenerati. Lingua unica vs lingue regionali. Idioma feudale vs lingua della Repubblica. Filosofo emblematico dei Lumi. Amalgama politico giacobino. Abbozzo di una società totalitaria. Migliorare il destino della specie umana. Condorcet e l’eugenetica rivoluzionaria. Perfezionare la specie biologica. Accrescere l’intensità e la performatività dell’anima. Infinita perfettibilità dell’uomo. Puntare all’immortalità. Cabanis e il miglioramento della specie umana. Pesche, tulipani e uomini. Costruire cittadini saggi e buoni. «Rivedere e correggere l’opera della natura». Rousseau vuole cambiare la natura umana, Robespierre si mette al lavoro. Uomo Nuovo giacobino e transumanesimo. L’Incorruttibile, bigotto del deismo. Sotto gli auspici dell’Essere Supremo. La Rivoluzione francese, effetto della Provvidenza per «rigenerare». Contro atei, materialisti, epicurei ed enciclopedisti. Postulare Dio e l’immortalità dell’anima. «Formare dei cittadini». La legge decreta l’immortalità dell’anima. Il Terrore giacobino al servizio della rigenerazione individuale: Luigi XVII. Lento infanticidio e doppio regicidio. Soffocare l’anima per uccidere il corpo. L’assassinio del Vecchio Uomo. Uomo Nuovo tra cani, ostriche e scimmie. 4. Una ghiandola pineale postmoderna Metapsicologizzare la psiche Gli Idéologues, sequel dei giacobini. Kant, meno filosofo dei Lumi e più pensatore reazionario. Sapere aude, ma solo dentro di te. La Critica della ragion pura risponde alle spinte atee, deiste e materialiste del secolo dei Lumi. Postulare il noumenico, quindi Dio, il libero arbitrio e l’immortalità dell’anima. Anche Freud postula per salvare la psiche dal pericolo scientista. La metapsicologia è una parapsicologia. Una «sovrastruttura speculativa». La superstizione di Freud. Le prove della verità dell’occultismo. Un altro medico di Molière. Psicroforo vs psicoanalisi. Erranze terapeutiche e dottrinali. Teoria della seduzione. «Merdologia» freudiana. Invenzione del complesso di Edipo. Teologia negativa e inconscia. L’ipotesi è una prova. Allegoria e plasma germinale. Salvare l’anima con la psiche. Creare l’inconscio a seconda delle necessità. Immortalità del plasma germinale. Il biologico, una roccia su cui costruire il castello allegorico. Topiche, metafore e connessioni neuronali. Autonomia dell’allegorico. 5.

Il tempo del Corpo senza Organi Strutturalizzare l’essere Le oscure chimere di Deleuze. Stili e toni scolastici. Psittacismi e glossolalie. Una lingua (davvero) fascista. La metafora primeggia sul reale. Strutturalismo e religione della lingua. Il ritorno del platonismo. Il reale come produzione del linguaggio. Il simbolico è tutto, però non ne sappiamo nulla. Una nuova teologia medievale. La struttura: un’anima postmoderna? Affumicare con gli ossimori. Lo strutturalismo come scienza! Una «topologia trascendentale». Il Padre: un luogo all’interno di una struttura senza luogo. Rivendicare l’antiumanesimo. L’immaterialità fonda un nuovo materialismo. Abolizione del reale empirico e smaterializzazione del mondo. La doppia invisibilità delle strutture. Il regno del performativo. Il «Corpo senza Organi» (CsO), espressione di Artaud. Un corpo fatto di sangue e ossa. Versi parassiti e resti di escrementi. Fluidi ideali e potenze malefiche. Il nuovo paradigma dello schizofrenico. Il non-corpo dell’Uomo Nuovo. Il normale diventa patologico, e viceversa. 6. Un volto di sabbia cancellato dal mare Uccidere l’uomo Annunciare la morte dell’uomo per farsi una risata. Un esercizio da normaliani. Il nome del filosofo mascherato. Le parole e le cose rinnegato dall’ultimo Foucault. Celebrazione della patologia per scuotere la ragione occidentale. Dandismo teorico. Un’estetica datata. Vortice poetico, non verità storica. Paradossi vs evidenza. Nichilismo e formalismo. Foucault non cita mai Darwin. Cancellazione del reale e della Storia. L’Uomo, una «chimera empiricotrascendentale». Radicalità del platonismo di Foucault. Crede più all’archivio che racconta il mondo che non al mondo. Una nevrosi del testo. Le parole sono le cose. Vagabondaggi del nietzschianesimo francese. Morte di Dio, morte dell’uomo, avvento del superumano. Malintesi a proposito del superuomo. L’Uomo, semplice figura del sapere. Essere uomini solo grazie al lavoro, alla vita e alla lingua. E il disoccupato muto? Cercare l’uomo e trovare solo libri. Preferire le parole alle cose. Sono la biologia, l’economia e la filologia che fanno l’Uomo. La linguistica, l’etnologia e la psicoanalisi permettono alle scienze dell’Uomo di esistere. Autobiografia di un pezzo di notte. Annuncio di un pensiero futuro – Foucault ci rinuncia. Pura insensatezza vs ragione ragionevole e ragionante. Foucault sostiene di non-essere mai stato strutturalista… Le metastasi della French Theory. Cancellare l’uomo per costruire un Uomo

decostruito. La Luna è la Terra dei transumanisti. CONCLUSIONE Sotto il segno della medusa Verso le chimere transumaniste Digitalizzare l’anima Spostamento dello Spirito. A proposito della Tigre in California. L’Europa dai parapetti antichi. La velocità di un carro funebre in panne. Questo ha sostituito quest’altro. La reificazione, segno del XXI secolo. Comprare tutto, affittare tutto, vendere tutto. Liquidare le intersoggettività. Sequel dell’Uomo Nuovo: esseri senza volto. L’Uomo totale di Marx. Il divenire Homo sovieticus. L’uomo fascista come rilancio e risposta. Marinetti e Gazurmah. Figli incestuosi che mangiano meduse. Il fascismo, un progressismo. Quando il bacio della morte vivifica. Ectogenesi e razza di schiavi. Creolizzazione delle meduse. Progetti fascisti. Filosofia dell’idra d’acqua. L’uomo e i suoi polpi. Manipolazioni genetiche e «cartocci di puttane». L’anima come polpo segmentabile e riproducibile. L’identità grazie alla traccia digitale. Gertrude ed Elon Musk. L’intelligenza artificiale. Lo strato digitale terziario. Il divenire drosofila dell’uomo. Telepatia digitale. Curare le ferite del cervello. Dall’ostrica alla medusa passando per l’uomo. Una macchina da guerra fiammeggiante per la barbarie. Chi vuole fare l’angelo fa la bestia. Quale forza del bene possiamo usare contro questo progetto? Epilogo L’eterno silenzio degli spazi infiniti Dopo Neuralink, SpaceX. Far uscire l’uomo dal suo biotopo. Creare un biotopo extraterrestre. La Luna periferica. La morte programmata del Sole. Combustione della Terra. Cancellazione del vivente. Morte degli uomini. Lezioni di saggezza dalla geologia. Eliosfera e riscaldamento del pianeta. Il mito del capitalismo verde. Il pericolo degli asteroidi near-Earth. Pensare sulla lunga distanza. Fantascienza e filosofia. La vera Grande Sostituzione. L’ultima civiltà. È arrivato il tempo delle anime digitali. Download ed esoscheletri. Vita virtuale in ambiente ostile. Casta di eletti e matrice totale. Suicidarsi sulla Luna. Gli uomini acefali. Un mondo di morti viventi?

Alla memoria del mio caro vecchio maestro… «Caro Onfray, Lei che si dice tanto materialista, Lei che così tante cose sa dell’anima, di quello che in lei non guarisce mai… Che sia perché, diversamente da quel platonico del Suo vecchio Maestro, ha una diversa conoscenza delle anime e vede meglio i loro corpi… Questi corpi che Lei vorrebbe vedere appagati, però, qualche volta si ritrova a dipingerli come fa Matthias Grünewald con il suo Cristo sull’altare di Issenheim; o a scolpirli come fa Ligier Richier sul suo Sepolcro, a Saint-Mihiel. Ci tornerò su, un giorno di questi, perché il vero Onfray sta tutto qui, in questa distorsione». La vita non gli ha permesso di tornarci sopra; lo faccio io per lui.

Ligier Richier, Il sepolcro, ovvero la sepoltura di Saint-Mihiel, 1554-1564, chiesa di Saint-Étienne, Saint-Mihiel.

Introduzione

La magnifica desolazione

Sono passati alcuni milioni di anni, sette per la precisione, prima che l’uomo, o almeno due dei suoi rappresentanti, Neil Armstrong e Buzz Aldrin, potesse passare dal guardare la Luna dalla Terra al guardare invece la Terra dalla Luna, affondando i propri piedi nella grigia e fredda polvere del piccolo pianeta. Questo rovesciamento di prospettiva, ce lo ricordiamo tutti, è avvenuto molto precisamente lunedì 21 luglio 1969 – io avevo dieci anni. I due uomini passano ventuno ore e trentasette minuti sul suolo lunare, mentre il povero Michael Collins rimane a gestire gli affari correnti sul modulo di comando, tenendolo in orbita nell’attesa che i suoi due più fortunati colleghi tornino a bordo. Qualcuno si dovrà pure occupare del vascello spaziale che permetterà a tutti quanti di tornare sulla Terra… Armstrong e Aldrin scattano delle foto straordinarie, tra cui una famosa della Terra vista dalla Luna: in primo piano, il mare della Tranquillità, ovvero il luogo in cui la nave spaziale alluna – il neologismo è necessario per sottolineare la prodezza non solo tecnica, ma anche ontologico-metafisica nel senso letterale del termine, cioè oltre la fisica. La Luna sembra una specie di Terra morta e grigia, sfigurata dagli impatti dei meteoriti precipitati, che hanno colpito lo strato superiore di polvere creando dei crateri dai diametri tutti diversi. La superficie rovinata da questa grandine racconta la sua storia geologica e geomorfologica. Da notare che stiamo parlando della Luna usando termini che rimandano ancora alla dimensione terrestre – in effetti, per correttezza dovremmo dire: lunologica e lunomorfologica… Per la prima volta, insomma, non si guarda più questo astro come un oggetto mitologico e fantasmatico, ma come una realtà cosmologica. Questo primo piano sembra una foto in bianco e nero su cui sia stata montata un’altra foto a colori. Nel 1929, cioè cinquant’anni prima dello scatto, nel suo libro L’Amour la Poésie, Paul Éluard scrive che «la terra è blu come un’arancia». E la Terra è effettivamente blu, e pure rotonda come un’arancia. La parte inferiore è immersa nella notte creata dalla Luna che blocca la luce del Sole. Il blu della Terra, invece, è il mare, che ricopre il 71% del nostro pianeta.

Sulla foto, assieme al grigio della Luna e al blu della Terra, troviamo in realtà un terzo attore cromatico di cui tenere conto, ed è il nero del cosmo, il cui senso etimologico, ricordiamolo, è proprio quello di «ordine». Nel nostro universo, a sua volta collocato dentro un’incredibile abbondanza di pluriversi (multiversi infiniti, infinità dei multiversi), i pianeti si muovono e si dispongono a velocità impressionante, in mezzo a un silenzio che rimane impercettibile alle orecchie degli uomini, e che solo i poeti, i musicisti e i filosofi riescono a intercettare. Non aveva torto, Pitagora, quando duemila e cinquecento anni fa parlava di musica e di sfere, e nemmeno Gérard Grisey, musicista spettrale, quando componeva opere inserendo il suono delle pulsar (pensiamo a Le Noir de l’étoile, 1989-1990). Noi viviamo nel silenzio di un frastuono che non siamo nemmeno in grado di percepire. Questo nero profondo e pascaliano è il nero dei gorghi e degli abissi, il nero degli infiniti e delle vertigini, il nero dei vortici che inghiottono e della materia che ci rimane completamente sconosciuta. È un nero che sembra il colore del Nulla e potrebbe invece essere il colore di Tutto, un nero che porta come in eco la memoria di ogni cosa che è stata, la memoria del Big Bang, un nero da cui impariamo quale sia la natura del nostro universo, e come questo nostro universo si espanda, ma, sia detto en passant, in misura sempre inferiore. Questo nero è insomma il nero del nulla che è tutto, il nero del tutto che è nulla. È il colore di una delle ipotesi del Parmenide di Platone: il non-essere è… Questa foto famosa mostra però allo stesso tempo anche un mondo che è vivo: il carattere immutabile del blu degli oceani, del grigio della polvere lunare e del nero dello scrigno cosmico che contiene tutto quello che esiste e contemporaneamente tutto quello che non esiste, questo carattere immutabile viene con delicatezza animato dal movimento in apparenza immobile delle nuvole che avvolgono il pianeta. Sappiamo che la Terra gira su sé stessa attorno al Sole, e che la Luna è il suo satellite e non gira affatto, e alla contemplazione degli esseri umani offre sempre la stessa e identica faccia. I cumulonembi, i cirri, gli strati, i cirrostrati, gli altocumuli e le altre masse di vapore acqueo che circondano il pianeta Terra costituiscono una specie di respiro del cosmo, ed è proprio studiando questo ritmo che i climatologi arrivano a formalizzare i propri oracoli. In quest’oceano cosmico di nero e di blu, sopra questo scatto fotografico, ecco dunque la vita che si affaccia su lunghi filamenti bianchi, come su tante tracce spermatiche che esprimono la vitalità di questo pianeta precario e sublime. * La conquista della Luna da parte degli americani è stata naturalmente una

questione più politica che scientifica. La mitologia di quest’avventura mette soprattutto in mostra tutto quello che gli Stati Uniti devono ai ricercatori nazisti che avevano lavorato al programma nucleare e spaziale del Terzo Reich. E sono in effetti proprio gli ex scienziati del Terzo Reich, tra cui il più famoso è sicuramente il comandante nazista Wernher von Braun, che, nel dopoguerra, offrono agli Stati Uniti in guerra fredda con l’Unione Sovietica la possibilità di portare a compimento il progetto di conquista lunare annunciato da Kennedy nel 1962. Gli ingegneri che avevano concepito la V2, la famosa arma che avrebbe dovuto consentire a Hitler di vincere la Seconda guerra mondiale, avevano costruito non solo degli aerei a reazione stemmati con la croce uncinata, ma anche un vero e proprio progetto di bomba atomica, e per farlo avevano sfruttato e schiavizzato la manodopera ebraica nelle fabbriche sotterranee del campo di Dora. Si parla poco dell’operazione Paperclip, con cui lo stato maggiore americano è riuscito a salvare millecinquecento scienziati tedeschi che avevano sviluppato i progetti del Terzo Reich. Alcuni di questi avevano contribuito alla creazione dello Zyklon B, il famoso gas usato per la Soluzione finale, mentre altri a Dachau avevano torturato i prigionieri ebrei con l’acqua ghiacciata per testare la loro resistenza, e ora mettevano a punto le tute dei piloti da caccia statunitensi. Collaborando con gli Stati Uniti, gli scienziati tedeschi sfuggono alle condanne del Tribunale militare internazionale, e finiscono per rappresentare un bottino di guerra molto gradito agli americani, perché i nazisti erano anticomunisti esattamente come loro, e si potevano rivelare molto utili ai piani bellici contro l’URSS. Insomma, è stata una guerra fredda con conquista dello spazio interposta… Per amore di giustizia, dobbiamo però ricordare che anche l’URSS ha intercettato ex scienziati nazisti per inserirli nel proprio programma atomico – l’equivalente sovietico dell’operazione Paperclip era conosciuto con il nome di Dipartimento 7. Aggiungiamo a questo quadro che nemmeno la Francia si è troppo astenuta, perché a Vernon, nella regione dell’Eure, ha riciclato alcuni scienziati tedeschi per sfruttarli nelle gallerie del vento e mettere a punto i propri aerei da caccia, i propri missili e i propri elicotteri, e realizzare il programma Airbus… Gli Stati Uniti trasformano quello della conquista dello spazio in un terreno di gioco su cui portare avanti una guerra simbolica contro i sovietici. Ognuno cerca di imporre la propria supremazia tecnica sul mondo intero. I sovietici sembrano cominciare a prendere una certa distanza quando mettono in orbita lo Sputnik 1, il 4 ottobre del 1957. Per lo Zio Sam, sorpreso dal successo bolscevico, è un affronto su scala planetaria. A questo successo va

anche aggiunto il primo viaggio di un essere vivente nello spazio, la cagnolina Laika, nel corso dello stesso anno; la prima sonda lunare, Luna 1, nel 1959; il primo uomo nello spazio, Jurij Gagarin, il 12 aprile del 1961, seguito dalla prima donna, Valentina Tereškova, il 16 giugno del 1963; la prima passeggiata extraveicolare nel 1965; e il primo allunaggio, il 3 febbraio del 1966. Gli Stati Uniti non possono lasciare che questa serie di affronti rimanga impunita, e decidono quindi di mandare degli uomini sulla Luna. Quando si tratta di decidere il nome da dare ai moduli con cui viaggiare nello spazio, gli astronauti dell’equipaggio dell’Apollo 10 scelgono Charlie Brown e Snoopy, che sono due personaggi della serie di fumetti Peanuts, creati nel 1950 da Charles M. Schulz. Avrebbero potuto scegliere i nomi di Galileo, di Keplero o di Copernico, addirittura quelli di Leonardo da Vinci o di Albert Einstein, però questi nomi indicavano tutti un patrocinio europeo, ed erano quindi impensabili. È stato allora con gli eroi di un fumetto che gli americani hanno scelto di rappresentare la propria identità. Ognuno ha le caravelle di Colombo che si merita. * I filosofi non hanno pensato alla possibilità che gli uomini hanno di lasciare la Terra. Com’è loro abitudine, piuttosto che guardare il mondo, preferiscono muoversi in un retromondo, in un alter-mondo, in un aldilà del mondo. Nell’ambito del pensiero francese ai tempi di cui stiamo parlando, pur di uscire dall’esistenzialismo e sottrarsi all’egemonia di Sartre, i filosofi cominciano a esultare degli effetti retorici e sofistici prodotti dallo strutturalismo. E mettono in piedi una nuova scolastica che trasforma la Struttura (la maiuscola è d’obbligo) in una specie di Dio, presente dappertutto e allo stesso tempo invisibile da nessuna parte, indicibile e ineffabile e però contemporaneamente causa di tutto, compresa sé stessa. Il decennio filosofico successivo non riesce a ricavare alcun insegnamento da quell’evento ontologico di primaria importanza che è stato il primo passo sulla Luna. Pensiamo solo al L’anti-Edipo (1972) di Deleuze e Guattari, a Glas (1974) di Derrida, a Sorvegliare e punire (1975) di Foucault, a Mille piani (1980) sempre di Deleuze e Guattari: non troviamo nessuna speculazione sul fatto che alcuni uomini sono riusciti a lasciare la Terra per andare a camminare sulla Luna e tornare poi di nuovo indietro. Pensiamo solo che, ancora nel 1974, Sartre pubblica un libro come Ribellarsi è giusto, in cui esalta il maoismo e la Rivoluzione culturale, che aveva provocato qualcosa come venti milioni di morti. Ecco la cecità dei filosofi francesi del Novecento in tutta la loro superbia! Mi pare che vedere la Terra come un pianeta perduto all’interno di un

universo dalle dimensioni infinite non possa non produrre angosce, paure, timori, e addirittura tremori sul piano ontologico. Sappiamo che quella che Jurij Gagarin, cioè il primo uomo mandato nello spazio, al suo ritorno sulla Terra, dispensa è una lezione di metafisica marxista-leninista, di cui non possiamo non misurare tutta la povertà: «Sono stato in cielo e Dio non l’ho visto». Quanta miseria anche in questo materialismo volgare! Non è difficile immaginarci come questo genere di frase destinata a essere scolpita nel marmo della propaganda sia stata elaborata dalla matura riflessione degli esperti di comunicazione di Stato per essere imparata e recitata a memoria a scopi ideologici. La stessa cosa vale per Neil Armstrong (ce lo ricordiamo tutti) che assesta il proprio colpo dichiarando, in mezzo al gracchiare impolverato della trasmissione: «Un piccolo passo per l’uomo e un grande passo per l’umanità». Andando nello spazio, la preoccupazione dei sovietici è di verificare che il marxismo-leninismo si fonda su verità scientifiche ed empiriche; gli americani vogliono invece assicurarsi del carattere universale e imperialista della propria tecnica. La pubblicità americana crea e alimenta una dimensione mitologica: Armstrong scende dal modulo spaziale e salta dall’ultimo gradino della scaletta che si trova a un metro dal suolo – gli ingegneri della NASA avevano previsto che il LEM sarebbe affondato nella polvere del suolo, solo che il tranquillo allunaggio del comandante è riuscito a evitare l’inconveniente. Nove minuti più tardi, Aldrin posa a sua volta il piede sulla Luna ed esclama: «Bella vista». Anche questa frase ce la immaginiamo elaborata da linguisti esperti di comunicazione. Poi, dopo qualche momento di silenzio: «Magnifica desolazione». Di sicuro non sapeva fino a che punto aveva ragione… In effetti, che cosa fanno gli americani una volta che hanno portato a compimento una prodezza tecnica come quella? Qual è il primo gesto del primo uomo che cammina sul suolo lunare? Ancora prima di effettuare il primo passo, Aldrin consegna ad Armstrong attraverso il portellone di uscita dal modulo un sacco di spazzatura da trenta chili e Armstrong lo lancia sul pianeta. Il primo gesto del primo uomo che per la prima volta lascia il suo pianeta e per la prima volta mette i piedi su un altro pianeta del sistema solare consiste in una profanazione assolutamente in linea con la mentalità americana: tutta questa intelligenza per ritrovare il gesto primitivo del mammifero che marca il territorio con i propri detriti, i propri rifiuti e i propri sacchetti pieni di urina, escrementi e vomito! A inaugurare il contatto con il suolo lunare non è quindi un uomo, ma la sua spazzatura, assieme a quella dei due suoi compagni di viaggio. Anche Buzz Aldrin, che, nella storia della conquista dello spazio, sarà sempre ricordato come secondo, potrà comunque vantarsi di essere stato il primo

cosmonauta a ostentare in maniera consapevole la propria umana, umanissima volgarità. È lui stesso infatti a scrivere, nelle proprie memorie: «Armstrong può anche essere stato il primo uomo a camminare sulla Luna, io però sono stato il primo a farci pipì». Questo è stato il primo gesto di Aldrin: bagnare il proprio pannolino di urina, come un bambino tradito dal proprio sfintere… Avrebbe potuto comportarsi in questa maniera per necessità, lo si poteva anche capire, avrebbe potuto tenersi l’informazione per sé, un segreto, e invece no: quando, per la prima volta nella storia dell’uomo, un uomo arriva su un altro pianeta, è solo per sporcarlo con la propria materia fecale, la propria urina e la propria spazzatura, ci piscia sopra come un maschio alfa quando vuole marcare il territorio… E non si sono comportati così una volta soltanto. Al momento in cui sto scrivendo queste righe, duecento tonnellate di porcherie si trovano ammassate sul suolo lunare, abbandonate dai dodici uomini che, tra il 1969 e il 1972, data dell’ultimo passaggio di un essere umano, sono andati sulla Luna… Passando in rassegna questo mucchio di spazzatura umana, elenchiamo quello che troviamo, come se fosse uno degli inventari di Prévert: uno stemmino della missione Apollo 1; due medaglie commemorative dei sovietici Gagarin e Komarov; un disco di silicio con i messaggi di Eisenhower, Kennedy, Johnson e Nixon, assieme ai messaggi dei dirigenti di sessantatré paesi da tutto il mondo; la penosa lista delle vanità dei nomi dei membri del Congresso americano, delle quattro commissioni della Camera del Senato e dei dirigenti della NASA, passati e presenti; due palline da golf di Alan Shepard, il primo uomo ad aver volato nello spazio dopo Gagarin, e il quinto ad aver camminato sulla Luna; un ramo d’ulivo, ovviamente dorato, perché è a nome dell’umanità intera e della pace che gli americani piantano la loro bandiera – per inciso, ce ne sono cinque, di bandiere americane, sulla Luna, la prima ironicamente ributtata a terra dai movimenti d’aria emessi dal razzo di ritorno; alcune telecamere, e una macchina fotografica Hasselblad; un certo numero di strumenti di misurazione scientifica, vari telescopi e vari riflettori; un martello; una piuma di falco; un rover, cioè il modulo per spostarsi sul suolo lunare; dodici paia di stivali; alcuni tagliaunghie; un giavellotto; un fermacravatte (vai a capire come ci è finito); un’etichetta di Nuits-Saint-Georges, cuvée Terra-Luna 1969; ovviamente, una Bibbia; e poi un migliaio di altri oggetti di piccole dimensioni; ah, dimenticavo, in mezzo a tutto questo cumulo d’immondizia lunare troviamo persino le ceneri di un geologo della NASA che aveva espresso il desiderio di riposare in pace sulla Luna – in pace, ma sempre circondato da novantacinque sacchetti di urina e di vomito… Poco tempo fa, nel marzo del 2022, uno stadio di razzo abbandonato da anni è andato a ingrossare la discarica più lontana dalla Terra. A 384.400 chilometri

dagli Stati Uniti, questo paese che si appresta a prendere il posto dell’Europa nel ruolo di civiltà guida per il resto dell’umanità, ha trovato il modo di far sapere al mondo intero di cosa fosse capace: conquistare, imporsi e profanare. Tutte le nuove civiltà cominciano con la barbarie. È a questo punto che ci troviamo ora… * Una lettura politica e demitizzante della conquista dello spazio in generale, e del primo passo dell’uomo sulla Luna in particolare, non impedisce una lettura anche filosofica, addirittura ontologica o metafisica. Un po’ sul principio dell’astuzia della ragione, gli uomini credono di fare una cosa, cioè posare il piede sulla Luna, e in realtà non sanno che ne stanno compiendo un’altra, cioè mettere ontologicamente fuori asse il mondo e perderselo in un pluriverso privo di centro. Ecco la radice del nichilismo contemporaneo. Quando, dopo aver toccato il suolo lunare, il pisciatore cosmico Buzz Aldrin si bagna il pannolino e aggiunge: «Magnifica desolazione» all’ingenuo: «Bella vista», non sa che le sue parole oltrepassano probabilmente la sua stessa capacità di pensiero… Perché la conquista della Luna determina una terribile smagnetizzazione della bussola della civiltà giudaico-cristiana, e finisce per rappresentare una vera e propria magnifica desolazione ontologica. Dio è morto, gli universi sono infiniti e l’uomo si è ormai perso in mezzo a questa notte dell’essere. Una volta, nel suo libro Du monde clos à l’univers infini (1957) [Dal mondo chiuso all’universo infinito], Alexandre Koyré ha riflettuto sulla rivoluzione ontologica prodotta dal passaggio dal geocentrismo, in cui la Terra sta al centro di un mondo finito, all’eliocentrismo, in cui il Sole si trova al cuore di un universo aperto, un passaggio in seguito al quale l’uomo non si trova più in posizione centrale ma periferica. Una ferita narcisistica, avrebbe detto Freud. Con la prova empirica della Terra blu vista dalla Luna grigia in un cosmo nero, è un altro mondo che si apre al grande pubblico, del tutto all’oscuro delle più recenti scoperte in ambito astrofisico. Lontano dai dibattiti più specialistici sulla relatività ristretta e generale, sulla teoria delle stringhe e sulla meccanica quantistica, quello che, grazie a questa famosa fotografia, diventava conoscenza attraverso quello che veniva visto da miliardi di uomini era il fatto che ci troviamo ormai a essere delle monadi erranti, senza porte o finestre, come avrebbe scritto Leibniz, trasportati senza fine in un continuo movimento browniano, ai bordi del nulla, come affacciati su un buco nero che assorbe tutto, luce compresa… L’uomo è già passato una volta dal geocentrismo, che presupponeva un

mondo finito e un suo centro indubitabile, all’eliocentrismo, che scopriva un mondo infinito e il suo centro infuocato che bruciava ontologicamente l’umanità. Adesso è il momento di spostarsi un’altra volta, e di passare dall’eliocentrismo ai pluriversi che cancellano qualsiasi nozione non solo di centro, ma anche di finitezza, d’infinità e di confini. I materialisti dell’Antichità, gli epicurei in particolare, difendevano l’esistenza della pluralità dei mondi e contemporaneamente l’infinità del mondo stesso. Lucrezio, per esempio, si domandava che cosa dobbiamo pensare del giavellotto lanciato nell’universo quando arriva ai confini del finito. Come per l’atomo dedotto dalla danza dei granelli di polvere in un raggio di luce, la possibilità di molteplici universi, mondi e intermondi (questi ultimi sono i luoghi composti di materia sottile destinati agli dèi) è la diretta conseguenza della dinamica atomista. A causa del clinamen, cioè della tendenza naturale del mondo a deviare, gli atomi aggregati per costituire l’essere, e poi gli aggregati degli aggregati, e poi ancora gli aggregati degli aggregati degli aggregati, e così all’infinito, strutturano un tipo di ragionamento che obbliga ad ammettere l’infinità di mondi. Un’intelligenza finita, una ragione limitata, una coscienza ristretta non sono in grado di concepire l’infinito – ma nemmeno il chiliagono di Descartes. Solo l’immaginazione può farlo, e oltretutto in maniera vaga, ricorrendo a delle immagini. Prendiamo allora una spiaggia immensa, per esempio la duna di Pilat, nella Gironda, che, con i suoi quasi tre chilometri di lunghezza, i suoi oltre cento metri di altezza e gli oltre seicento di larghezza, in totale circa seicento milioni di metri cubi di sabbia, è la più alta d’Europa. Immaginiamoci che ogni granello di sabbia corrisponda a un universo delle dimensioni del nostro, di cui riusciamo a toccare i limiti solo dopo viaggi di milioni di anni-luce. Questo nostro universo si troverebbe così collocato accanto a un numero infinito di altri universi, ognuno retto da leggi fisiche proprie. Il nostro sistema solare corrisponde a uno dei granelli di sabbia di questa duna. La fisica quantistica sostiene che se si moltiplicasse l’immagine per ottenere tanti granelli di sabbia quanti ne esistono sul pianeta e ciascuno di questi granelli rappresentasse un universo, saremmo ancora molto lontani dalla realtà. Un pensiero così vertiginoso non può non seminare angoscia nell’animo e nel cuore degli uomini… Inebriato dal passaggio dal mondo chiuso all’universo infinito prima, e all’infinità dei mondi poi, l’uomo contemporaneo si trova in equilibrio precario, in imbarazzo, fuori asse, scombussolato, disorientato, scomposto, smembrato, sconcertato, spaesato, fuori strada, sconvolto, disorganizzato, in una parola: smontato – in altri termini, magnificamente desolato… Passare dal mondo finito

all’infinità dei mondi, attraverso il mondo infinito, è qualcosa di paragonabile a una serie ininterrotta di sismi ontologici, repliche di una stessa catastrofe. È una specie di tettonica delle placche ontologiche che divide gli uomini da quello che sono stati: all’inizio si trovano al centro del mondo, poi alla sua periferia, e in ultimo si scoprono persi nel bel mezzo dell’universo. La storia dell’uomo è, insomma, quella della sua espulsione dal centro del mondo terrestre. Nella sua ingenuità spirituale, da quel buon soldatino del materialismo sommario, addirittura per principianti, che era, quello che Jurij Gagarin avrebbe potuto vedere, affacciandosi il 12 aprile del 1961 all’oblò del suo Sputnik 1, non era tanto che Dio in cielo non ci stava, ma che non esisteva nemmeno il cielo allegorico; mossa ancora più intelligente sarebbe stata quella di prevedere che, da quell’esperienza spaziale, era solo la fine dell’uomo che derivava. Nietzsche lo aveva già proclamato nel 1882, nella Gaia scienza, che «Dio è morto». Non c’era nessun bisogno di andare nello spazio per rendersene conto. Quello che alla luce nera del cosmo diventava ora chiaro e visibile era che l’Uomo avrebbe presto seguito Dio nella tomba – il che è anche logico, visto che non è Dio che ha creato gli uomini, ma il contrario. Michel Foucault annuncia la morte dell’uomo nel 1966, nel suo libro Le parole e le cose. Tutto preso dai suoi riflessi condizionati strutturalisti, però, più che dissertare sulla morte concreta dell’uomo concreto, per lui si tratta di parlare in maniera un po’ contorta della morte di quella cosa che si è potuto chiamare «Uomo» solo dopo una serie di particolari processi discorsivi, distribuiti su una linea cronologico-temporale ben indicata dal filosofo, e delimitata da una data di nascita e da un’altra, appunto, di decesso. Quello che muore quel 21 luglio del 1969, alle ore 3, 56 minuti e 20 secondi, ora francese, non è una variazione platonica dell’Idea di uomo, per quanto incarnata unicamente nella storia delle idee, ma proprio la realtà dell’uomo: da quel momento, viviamo quest’agonia in un tempo direttamente ed evidentissimamente contaminato da essa. Ecco perché oggi il nichilismo appare come la verità di un tempo ormai privo di verità (il nostro). L’uomo muore davvero, e questa è l’unica Grande Sostituzione di cui dobbiamo avere paura. Il transumanesimo lavora a tutto quello che verrà dopo. Etimologicamente, sarà inumano. * Sulla mia scrivania, c’è il libro che mi è servito per stendere queste poche righe su quello che l’uomo ha inflitto alla Luna dal momento del suo primo passo fino all’ultimo transito del nostro predatore sul pianeta freddo. Dall’Apollo 11, nel luglio del 1969, all’Apollo 17, nel dicembre del 1972, i mucchi di spazzatura

lasciati dall’Homo sapiens sono andati ingrossandosi, come abbiamo visto. Esattamente come fa la scimmia, che orina e defeca per marcare il territorio, i dodici uomini che hanno calpestato il suolo lunare, tutti americani, hanno sporcato, insudiciato e insozzato con le loro tracce un luogo magico, mitico, spirituale e poetico. Urina, escrementi e vomito, come abbiamo appena letto. E poi naturalmente troviamo anche le tracce delle ruote del veicolo lunare, e il veicolo stesso, abbandonato come se fosse dallo sfasciacarrozze – un’automobile come prova del genio della scimmia evoluta… Oltre che dalle secrezioni corporee degli astronauti, il suolo lunare è stato infangato e inquinato dalle loro secrezioni mentali, spirituali e intellettuali. Lasciamo per un attimo da parte le ceneri del morto, la Bibbia, e le palline da golf, tutte cose che, in verità, ci raccontano molto di quello che occupa la psiche di un americano. Focalizziamoci invece sulla foto. C’è in effetti, abbandonata, anche una foto di famiglia dell’astronauta Charles Duke, che faceva parte della missione Apollo 16 nell’aprile del 1972. Ottantasettenne nato nel 1935 e ancora vivente al momento in cui sto scrivendo (solstizio d’estate del 2022), ex militare di carriera, è stato l’uomo più giovane a camminare sulla Luna. Per ironia della storia, quando ha posato il piede sul suolo lunare, è stato sull’altopiano… Descartes. È lì che ha lasciato una foto a colori della propria famiglia, avvolta in una confezione di plastica, su cui lui stesso è ritratto con la moglie e i due figli, incravattato al pari del bambino più grande. C’è anche un testo che accompagna questo scarto abbandonato: «Questa è la famiglia dell’astronauta Duke, venuto dal pianeta Terra, e atterrato sulla Luna il 20 aprile del 1972». Non sappiamo se abbia lasciato anche il numero di telefono o l’indirizzo postale. O la mail. Sulla Luna, ha anche cercato di battere il record di salto in alto, riuscendo a toccare l’altezza di «circa 0,81 m», come viene dottamente e senza ironia ricordato sull’enciclopedia-universale-multilingue-partecipativa, precisando persino il centimetro: è un exploit, di quelli che solo gli americani sono capaci di portare a termine. L’unica cosa che non aveva previsto era che, non essendo la forza di gravità la stessa della Terra, sarebbe tutto finito con un ruzzolone: infatti perde l’equilibrio, cade di schiena e danneggia il dispositivo di sopravvivenza. La pompa dell’ossigeno, per un attimo, si ferma… poi però riparte! La tuta si sarebbe potuta strappare, il dispositivo di sopravvivenza rompersi e la pompa non ripartire più; avrebbe così finito per infrangere un altro record yankee, quello del primo morto sulla Luna. Non è toccato a lui. Peccato. Tornato sulla Terra, Duke si dedica alla distribuzione della birra e alla vendita di case. È un cristiano evangelico, e crede alla rigenerazione. Probabilmente è per questo motivo che, nel 2012, l’Università di Clemson gli ha conferito la

laurea honoris causa in… filosofia. È anche successo che questo militare abbia scritto la prefazione del libro che sta ora appoggiato sulla mia scrivania. Qui afferma: «Da allora, mi sento ambasciatore di un mondo nuovo». E purtroppo ha ragione… Possiamo apprezzare, come capita a me, la lezione dei calendari lunari degli uomini preistorici. Si tratta di un altro atteggiamento nei confronti della Luna. Devo precisare che è quello che incontra le mie simpatie? Al Museo Nazionale dell’Aria e dello Spazio di Washington, vedere la capsula Apollo che ha riportato sulla Terra i primi uomini che hanno camminato sulla Luna mi ha emozionato. Ho avuto l’impressione di trovarmi in presenza del corrispettivo di una delle caravelle di Cristoforo Colombo, ai suoi tempi in viaggio per il Nuovo Mondo, ora invece in viaggio verso il mondo infinito che ci si apre davanti: quello dell’inevitabile esplorazione del sistema solare e di molte altre e più stupefacenti odissee interstellari. L’estinzione del Sole è una cosa già scritta, sono gli astrofisici a insegnarcelo, però gli uomini non moriranno bruciati dai suoi raggi sempre più incandescenti, perché si sposteranno prima per raggiungere gli esopianeti. Ovviamente. Ecco tornare l’orda primitiva di cui ci ha parlato Darwin nell’Origine dell’uomo quando spiegava l’evoluzione della nostra umanità: l’uomo è partito da pochi esemplari, a quanto pare disparati in natura, per arrivare a diffondersi a miliardi. Sono questi miliardi che s’invagineranno in un pugno di umanoidi, i quali avranno preliminarmente organizzato il corpo dell’uomo e la sua anima ormai digitale in modo da riuscire a sopravvivere in ambienti ancora più ostili rispetto a quello delle origini. Conosciamo la linea che porta dal Sahelanthropus all’Homo sapiens passando dall’Homo abilis, dall’Homo ergaster, dall’Homo erectus, dal neandertaliano e dal denisoviano. L’Homo sapiens sta passando il testimone a un Homo ancora senza nome. Sarà, con tutta evidenza, un Homo cyber. Questo libro, Anima, propone di fare la storia dell’Homo sapiens attraverso quella della sua anima.

Parte prima

COSTRUIRE L’ANIMA Sotto il segno del serpente Dove assistiamo alla morte del serpente egizio Apophis, ucciso con un coltello da un gatto. Dove scopriamo un serpente che simboleggia il male già presente in un paradiso in cui teoricamente il male non esiste ancora. Dove sorprendiamo l’anima di Plotino che scompare in forma di serpente sotto il letto. Dove vediamo san Paolo di notte, a Malta, accanto a un fuoco, morso da una vipera senza che il veleno lo uccida. Dove constatiamo che sant’Antonio e altri monaci del deserto riuscivano a mettere in fuga dei serpenti facendo il segno della croce. Dove impariamo grazie a sant’Agostino che il serpente sa benissimo come parlare alla prima donna. Dove incontriamo alcuni gnostici licenziosi, chiamati ofiti o perati, che al serpente dedicano un culto vero e proprio.

Capitolo primo

Anticorpi, non-corpi e controcorpi Smaterializzare il corpo

In una vetrina di un oscuro museo perso in mezzo alla campagna dell’Azerbaigian, troviamo esposti parecchi calendari lunari, teoricamente datati all’epoca preistorica, incisi su ossa animali. Questi calendari testimoniano l’intimo legame esistente tra l’astro lunare e l’uomo, un legame antico quanto la stessa umanità. Senza dover per forza condividere tutte quante le ipotesi dell’archeoastronomia, che in realtà tende a risolvere qualsiasi questione riguardante la preistoria basandosi sul cielo di oggi e ancora più fragilmente su costellazioni zodiacali che sono solo convenzioni tardive, trovo comunque seducenti un certo numero di ipotesi che partono dall’idea che il pensiero sia consustanziale all’uomo e non al linguaggio. Basta osservare come vive un bambino prima che cominci a parlare, nei suoi primi due o tre anni di vita: solo gli sciocchi, i lacaniani e gli altri strutturalisti possono arrivare a pensare che non siano, e che non pensino. Noi non siamo strutturati dal linguaggio ma dalla percezione, dalla sensazione e dall’emozione. Il linguaggio arriva dopo. Nelle persone mute non arriva mai, eppure non sono per questo meno uomini. Sento, quindi sono. Il fatto di pensare arriva solo in seguito, e, a quel punto, se uno è in grado di sentire, non ha nemmeno più bisogno di pensare… Il pensatore di Rodin è un pensatore di città. Pensa nudo e libero di fronte a sé stesso, però è come seduto su una sedia che si trasforma in roccia. Ha la mano rovesciata – un gesto che anatomicamente si produce di rado, perché è doloroso per il polso, impossibile da tenere a lungo e costringe a fare pensieri brevi – e il mento appoggiato sul dorso della mano destra. Dà l’impressione che stia per cadere da un momento all’altro dalla sedia, trasportato dal peso del proprio cervello o dei propri pensieri, una delle due. Guarda per terra, come se quello che sta cercando si trovasse lì. È seduto da parecchio tempo, ma non sembra aver trovato granché. È ovvio: che cosa vuoi trovare da pensare in quella posizione? In compenso, m’immagino il pensatore di campagna, o meglio il pensatore della natura originaria: ritto in piedi, con la testa rivolta in alto verso il cielo, lo sguardo girato verso la Via Lattea, e i piedi ben saldi, anzi radicati al suolo. Non

è nudo come un verme seduto sulla sua roccia, ma coperto dalle pelli degli animali che lui stesso e i suoi compagni hanno cacciato, lavorate e cucite dalle donne rimaste al focolare assieme ai bambini. Non guarda per terra, dove vedrà solo le sue stesse tracce, oppure l’erba e il terreno che ha calpestato, oppure ancora i resti dei pasti e i rifiuti degli animali già addomesticati; osserva invece il cielo, dove le cose che succedono sono sempre tantissime. La corsa del Sole nell’arco di una giornata, per esempio, o di un anno intero. Oppure i movimenti della Luna, e la sua forma, se è crescente o calante, se è luminosa o se è chiara, e poi le sue macchie, ancora tutte da spiegare. Il fatto di osservarla, sempre che non sia un’operazione saltuaria e avvenga invece costantemente e su lunghi periodi, gli permette di comprendere l’esistenza di un ordine, che poi si scopre anche essere l’etimologia dello stesso termine «cosmo». E la comprende perché ha constatato, perché ha visto (senza nessun bisogno di linguaggio) che le notti sono più lunghe in un certo periodo e più brevi in un altro; che sugli alberi prima crescono delle morbide gemme, dei fiori profumati e dei frutti saporiti, e poi questi stessi frutti marciscono e cadono a terra; e che più tardi anche le foglie cadono a terra, dopo aver cambiato colore ed essere passate da un verde vivo e tenero a uno più screziato, e successivamente a un altro ancora più bruno, per poi alla fine seccare. Conoscere i movimenti che la Luna e il Sole compiono nel cielo significa padroneggiare il tempo e, di conseguenza, controllare le condizioni della propria vita e della propria sopravvivenza. Questi calendari permettono a tutti gli effetti di sapere quando migreranno gli animali che ci sfameranno; quando i salmoni risaliranno la corrente; quando le renne si muoveranno per raggiungere altre terre; in che momento possiamo seminare, piantare o raccogliere; in che periodo possiamo ricavare roba da mangiare, o temere una carestia; quando possiamo andare a raccogliere le bacche e i frutti selvatici; quali sono i periodi di riproduzione, gestazione e nascita degli animali, e quindi quando potremo avere un po’ di latte e vari altri prodotti fermentati; in che stagione l’orso si risveglia, esce dalla tana e va a sua volta in giro a cercarsi da mangiare; quando sarà più facile cacciare determinate prede, e quando invece dovremo stare alla larga da certi altri predatori; in che momento dell’anno il fiume è in piena o in secca, e così via. La Luna e il Sole possono aiutarci a sapere tutte queste cose, e quindi possono aiutarci a sapere in senso assoluto. Questo sapere pagano ci permette di vivere in armonia con una natura essa stessa inclusa all’interno di un cosmo. Il concetto di natura è stato inventato da persone che hanno dimenticato l’esistenza del cosmo. Solo dei mentecatti si possono credere tanto sapienti per il semplice fatto che s’illudono di sapere come

invocarla, dimenticando invece che essa non vuole ma è a sua volta voluta da tutto ciò al cui interno si trova inserita, cioè le miriadi dei mondi plurali. Cieca, essa subisce la legge dei pluriversi. Il riscaldamento climatico è solo il lieve prurito egocentrico di una Terra antropomorfizzata, di un pianeta offeso che si vendica della cattiveria degli uomini. La Terra procede seguendo cicli cosmici che l’uomo, con tutto il suo camminare sulla Luna, dimostra di conoscere pochissimo. La loro alternanza è in realtà un fatto estremamente testimoniato: nel corso dei milioni di anni in cui l’uomo non esisteva ancora, i periodi di riscaldamento e quelli di raffreddamento si sono avvicendati senza sosta. Ci siamo davvero scordati delle glaciazioni? È invece proprio questo, probabilmente, il sapere dei primi uomini: la regolarità dell’eterno ritorno dell’identico, la verità del carattere ciclico delle cose, la concezione del tempo come circolo che rassicura, e non come freccia che inquieta. All’interno di questa visione monista delle cose, l’uomo non si trova nel mondo separato dal mondo, ma esterno al mondo, perché lui e il mondo costituiscono le parti di un identico tutto, esattamente come l’uro e il bisonte, come la renna e il salmone, come la quercia e la felce, tutti esseri sottomessi alla legge dell’eterno ritorno dell’identico. L’«Io» e il «Me» arrivano solo successivamente, introdotti dal dualismo che accompagna il monoteismo. All’epoca dei calendari lunari e solari incisi sulle corna delle renne, non esistono dèi, ma solo uno spirito che si diffonde per ogni dove, e da questo spirito diffuso derivano l’animismo e il totemismo, possibili chiavi per decifrare le pitture parietali. A quei tempi, non si dà un’anima immateriale in un corpo materiale: tutto è materia, e quindi anche lo spirito è, con ogni probabilità, materia. A meno di non provare a sostenere, e forse meglio, il contrario, e cioè che tutto è spirito, e che anche la materia è spirito. Una materia spirituale, o uno spirito materiale, però sempre sotto forma di respiro, che corrisponde a tutto quello che nella vita vuole la vita, e nella vita non si trova più quando la morte sopraggiunge. Di fronte al cadavere, non è difficile immaginarci lo stupore dell’uomo preistorico confrontato all’immobilità, lì dove fino a poco tempo prima la vita era tutta un flusso, tutta un dinamismo, tutta sguardo e parola, gesto e movimento. Il morto guardava, e ora non vede più; parlava, e ora nessun suono gli esce più dalla bocca; girava la testa e lo sguardo per osservare, e ora la sua testa è rigida, i suoi occhi spalancati, fissi e persi su un punto cieco; si muoveva ed era flessibile, e ora è rigido e statico; era caldo e la sua carne era malleabile, ora è freddo e ghiacciato come il gelo. Tutto quello che prima animava ora non c’è più, tutto quello che rendeva vivo se n’è andato via; però tutto quello che se n’è andato è comunque in qualche modo rimasto, e si trova lì, da qualche parte,

da qualche altra parte, nel respiro degli alberi, nel rumore che fa il torrente, nel crepitare del fuoco, nel canto degli uccelli, nei versi che gli animali fanno di notte. La morte non è morte, è vita che continua da qualche altra parte, e in maniera diversa. Come Spinoza nella sua Etica (V: 23), anche questi uomini avrebbero potuto dire: «Sentiamo e sperimentiamo che siamo eterni». Perché erano tutti già spinoziani prima ancora che Spinoza venisse al mondo. Esattamente come i lupi, le felci e i ciliegi, che nascono, vivono, crescono, decrescono, invecchiano, muoiono e scompaiono, anche il compagno o la compagna che abbiamo al nostro fianco davanti al focolare o nella caverna vive, cresce, decresce, muore e scompare. Finché un altro lupo, un’altra felce o un altro ciliegio non compaiono di nuovo, per nascere, vivere, e così via. Quindi basta guardare il cosmo e obbedirgli. Lo sciamano, il prete, il mago e l’anziano portano con sé la memoria di questo sapere. Annunciano il ritorno dell’orso e il passaggio degli uccelli, i salmoni che risalgono la corrente e il momento del parto dell’uro, e tutto s’inserisce in un movimento che è eterno. Questa sapienza si trova scritta nel cielo, da dove le stelle mandano i loro bagliori: alcune s’illuminano, altre si spengono, ma tutte si muovono all’interno della Via Lattea, e persistono e durano, veri e propri modelli ontologici ed esistenziali. La stella del pastore è il punto fisso attorno al quale gira l’universo. Saperlo ed esserne coscienti è qualcosa che appartiene alla saggezza. Non c’è né inferno né paradiso, si sta solo sulla Terra. E la Luna sta sempre dove deve stare. Non è ancora stata sporcata dai rifiuti degli uomini. Non sono uno di quelli che pensano che un popolo senza scrittura sia per questo stesso motivo fuori dalla storia, e appartenga a quella che chiamiamo pre-istoria. La preistoria non è quello che precede la storia, ma è la prima storia, quella di cui rimangono solo alcune tracce enigmatiche. Di questo, sono convinto. Occorre saper ascoltare per intendere il silenzio di quelle tracce, e questo silenzio racconta molto più di quanto racconterebbe qualsiasi frivolo cicaleccio. Il silenzio produce un rumore, una specie di fuga d’aria, un piccolo getto lineare. Per millenni, alcuni esseri umani sono riusciti a riconoscere il rumore di questo zampillo, attraverso un aldilà dei propri cinque sensi oggi perduto (e noi chiamiamo «istinto» quanto rimane di questa capacità). La materia era consustanziale all’anima, e l’anima era consustanziale alla materia. Una sola sostanza diversamente modificata: carne di pesce, quindi anima di pesce; scorza di acacia, quindi anima di acacia. Al polo nord, ho visto degli inuit che, dopo aver pescato un salmone, e dopo averlo tirato fuori dall’acqua e appoggiato sulla spiaggia di ciottoli, gli

chiedevano perdono per averlo strappato in quel modo al suo mondo, lo ringraziavano per l’offerta vitale della carne, e poi lo tagliavano e se lo mangiavano crudo. Li ho visti fare la stessa cosa con una foca, con il loro sciamano che si divorava l’occhio della foca tagliato in due. È la vita che compie il proprio ciclo: il salmone morto alimenta i vivi, e a loro volta, un giorno, i vivi moriranno e andranno ad alimentare il grande tutto. Noi stiamo all’interno di questo ciclo: questo ciclo è tutto, e noi non siamo niente. Comincio qui la storia dell’anima, per come la raccontano le tracce che ci rimangono. Canne spezzate e papiri aperti, che offrono la superficie su cui gli scribi tracciano con il calamo segni che attraverseranno quaranta secoli. La nostra civiltà giudaico-cristiana deriva in parte dalla civiltà greco-romana che, a sua volta, discende in parte dalla civiltà egizia, che, a sua volta… e così via. Permettetemi un inciso di natura biografica. Quando sono andato in Cirenaica sulle tracce di Aristippo di Cirene, l’inventore dell’edonismo filosofico, mi sono ritrovato sull’agorà dell’antica città libica a camminare in mezzo alle rovine, sorvegliato dagli sbirri della polizia politica di Gheddafi, che vedeva spie dappertutto. Il gestore del sito mi aveva aperto il suo ufficio con i vetri rotti, e mi aveva mostrato una biblioteca di libri ricoperti di polvere e sporcizia. Poi, dopo aver vagamente scambiato con me qualche battuta, senza una vera e propria lingua comune, aveva finito per accettare l’idea che in effetti potevo davvero aver fatto tutto quel viaggio verso un paese allora colpito dall’embargo e su cui non atterrava nessun aereo (ero in effetti passato dalla Tunisia e avevo raggiunto Cirene in macchina seguendo la costa mediterranea e facendomi centinaia di chilometri), con il solo scopo, bizzarro ai suoi occhi, di ricalcare con i miei passi quelli di Aristippo, di cui lui non sapeva nulla. La strada stava sul livello del mare, ed era un lungo nastro diritto; ogni due o trecento chilometri c’era un cartello che indicava un bivio, ovviamente in lingua araba… Poi, arrivando in Cirenaica, la strada cominciava a salire, perché, in effetti, la regione è un promontorio sulla costa, una specie di piccola montagna che esce dalla terra. Questa sporgenza geomorfologica accumula la pioggia prodotta dall’incontro del Mar Mediterraneo con la terra africana. E la pioggia spiegava perché la Cirenaica era diventata il granaio della Grecia e come le ricchezze così accumulate fossero riuscite a produrre la filosofia edonista e il suo fondatore… La geologia, mi pareva allora di aver capito, offre una geografia che a sua volta produce una storia, che a sua volta crea una filosofia, una metafisica, addirittura una spiritualità. Quest’uomo, che custodiva quel sito antico e sublime con lo stesso entusiasmo

che avrebbe avuto se si fosse trattato di uno sfasciacarrozze, ha pronunciato qualche frase che non ho ovviamente capito, mi ha fatto segno di seguirlo e mi ha portato davanti alle porte di un immenso hangar. Ha aperto l’edificio, che sembrava pronto a crollare da un momento all’altro. E lì, ho scoperto un enorme museo fatto di pezzi posati direttamente a terra: capolavori e pietre appena intagliate o ancora allo stato grezzo, statue complete e semplici frammenti di monumenti, volti di pietra che mi guardavano e gambe abbandonate; cumuli di sassi e corpi di marmo mutilati: tutto giaceva come perso dentro questo cafarnao smisurato. Ho camminato attraverso resti che avrebbero potuto riempire parecchi musei. C’era per esempio un’impressionante statua di Artemide, la dea della natura, con, infilate sopra il petto, le sacche magiche di cuoio d’Anatolia, ma anche, e soprattutto, cosa che turbava molto di più al primo approccio, una mummia dentro il suo sarcofago… La Cirenaica era per me la Grecia, al massimo la Grecia romanizzata. E il sarcofago rappresentava invece un altro mondo, un mondo assolutamente separato, quello dell’Egitto… Poi ho realizzato che da Djerba, dove l’aereo era atterrato, fino a Cirene, si passava attraverso i magnifici siti di Leptis Magna e di Apollonia, e si passava da Sirte e dal suo deserto, e, proseguendo il tracciato stradale che filava da ovest a est, si arrivava direttamente in Alto Egitto, ad Alessandria. E quando gli uomini circolano, assieme a loro viaggiano le loro idee. Se il grano, la lana, l’olio, il vino e il bestiame prendono le vie commerciali, anche i pensieri di quelli che trasportano questi prodotti tendono a diffondersi in mezzo a tutti quelli che incontrano. È così che il pensiero greco nasce, almeno in parte, a partire da quello che l’ha preceduto, cioè il pensiero egizio. Ed ecco perché non è privo di interesse leggere sotto la piuma di Diogene Laerzio che Pitagora di Samo «fu in Egitto»1 e che, secondo Isocrate, nel suo Busiride, «andato in Egitto e fattosi loro discepolo, portò in Grecia per primo lo studio di ogni genere di filosofia».2 O che, ancora in Egitto, Pitagora ricevette l’insegnamento dei sacerdoti, e che a Babilonia venne iniziato ai misteri barbari. Addirittura, secondo Porfirio, «egli apprese degli Egiziani, dai Caldei e dai Fenici i principi delle scienze dette matematiche: ché fin dai tempi antichi gli Egiziani si erano occupati di geometria, i Fenici della scienza relativa ai numeri e al calcolo, i Caldei dell’osservazione degli astri. Quanto poi al culto degli dèi e alle altre maniere di comportarsi nella vita, dicono che li ascoltò e li ricevette dai Magi».3 L’anima immateriale, immortale, per come la pensano Pitagora e, dopo di lui, Platone, e poi i cristiani, è in realtà un’idea nata in Egitto. È quello che sembra confermare Erodoto nelle sue Storie, quando parla dei costumi di questo popolo:

«Gli egiziani sono stati i primi a esporre questa teoria, che l’anima dell’uomo è immortale».4 A cosa assomigliava l’anima secondo gli egiziani incontrati dal filosofo di Samo? Nel corpus dei testi egizi, quantomeno in quelli che sono giunti fino a noi, parecchi passaggi potrebbero essere stati scritti dai primi cristiani: dagli gnostici o dagli esseni, dai sabbatiani o dagli ofiti, o dai valentiniani, e così via. Proprio come sarebbe difficile per gli archeologi che, dopo una guerra atomica, volessero ricostruire il cristianesimo partendo unicamente dal Vangelo di Giovanni, o da un’Annunciazione del Beato Angelico, o dalle rovine parigine di Notre-Dame, per cercare di capire cosa fosse la transustanziazione, cosa significasse mangiare il corpo di Cristo, e poi anche per afferrare il mistero della Santa Trinità, il Filioque, la resurrezione dei morti in forma di corpo glorioso il giorno del Giudizio universale; esattamente allo stesso modo è per noi difficile farci un’idea dell’episteme egiziana a proposito dell’anima partendo unicamente dai testi spesso poetici e lirici che ci rimangono. Ciò nonostante, non ci si trova completamente spaesati in un mondo in cui esiste un quaggiù con i suoi uomini e un lassù con i suoi dèi: un mondo spaziale e temporale di fronte all’universo atemporale e illimitato dell’intelligenza divina; un mondo in cui la morte permette il passaggio tra questi due mondi; in cui l’anima del defunto «assurge in cielo», come recita la formula usuale; in cui il traghettatore conduce il morto verso la propria vita eterna che si trova dall’altra parte del cielo, nella parte orientale, da dove rinascerà – proprio come per i cristiani; un mondo in cui si passa in cielo muovendosi da Occidente, e si compie tutto il percorso di purificazione che porta verso Levante; in cui si riesce a parlare delle quattro corna di un toro e dei quattro punti cardinali (è in uno degli Inni di salvezza) – e di cos’altro si tratta se non del tetramorfo cristiano? un mondo in cui la carne non muore e in cui la «vera giovinetta» assomiglia enormemente alla Vergine, priva com’è di un padre e di una madre che l’abbiano messa al mondo in maniera normale e naturale; in cui il morto che passa nell’altro mondo si trasforma in qualcosa di divino; in cui il corpo del morto che vive nell’aldilà possiede ossa di bronzo e membra d’oro, cioè si trova a essere costituito da materie preziose e inalterabili; un mondo in cui si insegna che «Vivrai come gli astri viventi nella loro stagione di vita», come sta scritto in uno dei Testi delle Piramidi, il Defunto imperituro; in cui, come nel Vangelo di Giovanni, il pensiero è anteriore alla materia – e di cosa stiamo parlando se non della preminenza del Logos e del Verbo su ogni altra elemento? un mondo in cui

ci sono due città che si fronteggiano, una Eliopoli terrestre e una Eliopoli celeste che funziona da specchio della prima, e che prefigurano la Città di Dio e la Città degli Uomini di sant’Agostino; un mondo in cui, come sta scritto in un altro scritto egiziano, la Teodicea ovvero l’origine del male, Dio dice: «Ho fatto gli uomini uguali, e non ho ordinato loro di commettere crimini, è la loro coscienza che ha distorto quanto ho detto», il che fa subito pensare al peccato originale, tanto più che, nel luogo in cui gli uomini scelgono il Male contro il Bene, ad accompagnare il creatore c’è sempre un serpente, che qui si chiama Apophis, ed esiste persino una preghiera per Ricacciare Apophis – e il Padre nostro non è forse un’invocazione a Dio perché ci liberi dal male e non ci sottoponga alla tentazione? un mondo in cui, come si afferma nel Defunto beato, un altro dei Testi delle Piramidi, il morto riposa, rinnovato, ringiovanito e tramutatosi in spirito, e si ricostruisce facendosi portare le membra staccate dal suo proprio corpo per vivere un’altra vita, questa volta eterna, in cui può sedersi, alzarsi, e scuotersi la polvere di dosso – ennesima variazione sul tema del corpo glorioso; un mondo in cui l’anima del morto appare davanti a Osiride, che la pesa, la giudica, e ne esamina le colpe commesse, e in cui l’anima colpevole si trova precipitata, un inferno di cui assai poco sappiamo, mentre le anime salvate si trasformano in altrettanti nuovi Osiride. Gli egizi hanno le loro parole per indicare l’anima (Ba), lo spirito (Akh), l’eternità (Neheh). Si sono costruiti tutta una mitologia in cui, per esempio, gli dèi possono nascere da rapporti incestuosi: Iside che si fa mettere incinta dal fratello, cioè il re Osiride; oppure Horus che sodomizza Seth, perché è un serpente; e poi tante altre storie e favole che hanno come unico scopo quello di tenere il popolo soggiogato al nocciolo duro di una religione, vale a dire l’impossibilità di accettare la morte. In presenza del cadavere di un essere caro, la reazione naturale consiste nell’inventarsi una vita per il morto dopo la sua scomparsa, in modo da riuscire a sopravvivere al suo decesso. È questa la finalità ultima di tutte le religioni: inventare una vita dopo la vita allo scopo di dare la morte alla morte. Ma parlare di religione egizia significa spesso dimenticare che si è sviluppata lungo un arco temporale di più di tremila anni e che, per forza di cose, ha assunto forme diverse nel corso dei secoli, e anche in relazione allo spazio, a seconda delle regioni in cui si è sviluppata. Per il resto, se Ba può essere tradotto con «anima», occorre comunque scristianizzare la parola per cercare di percepire la natura di una forza che non ha nulla a che vedere con la forma che le darà l’Occidente cristiano nel corso dei secoli successivi.

In quello che siamo soliti chiamare il Libro dei morti, altre volte indicato con il titolo di Libro per uscire nel giorno, scritto un millennio e mezzo prima di Cristo, ritroviamo parecchi elementi che, attraverso la Grecia, sono finiti ad alimentare la civiltà giudaico-cristiana. Troviamo per esempio un dio, Thot, autore del testo nel momento stesso in cui sta creando il mondo; si tratta di un dio che assomma in sé tutti gli attributi della triade divina: Ptah, Sokaris e Osiride; quest’ultimo, Osiride, è di origine divina, ma vive sulla Terra in un corpo mortale; viene poi ucciso, smembrato, e finisce per resuscitare dentro un altro corpo, accedendo all’immortalità, diventando giudice nella Sala delle due Verità, e partecipando all’operazione di pesatura dei cuori sulla bilancia. Questo per dire che chi vive un’esistenza conforme agli insegnamenti divini conosce l’immortalità nel paradiso indicato con il nome di Campi dei giunchi, o Campi della felicità – tutta una geografia assimilabile a quella edenica. Come non pensare alla coppia formata da Dio creatore del mondo e Gesù vivo in un corpo umano, che finisce a sua volta per morire e resuscitare in una specie di immortale corpo glorioso? Questo primo schema (la divinità trinitaria, la nascita divina, la morte violenta, la rinascita in un corpo che sfugge alla morte e l’accesso alla vita eterna) si rivela archetipale per la futura religione cristiana. E cosa pensare del percorso ontologico compiuto dal morto, che gli permette, nel caso di una vita retta, di guadagnare il proprio paradiso dopo un giudizio che possiamo tranquillamente assimilare all’operazione della pesatura? Nel Libro dei morti, il defunto ha «dato pane all’affamato, acqua all’assetato, vesti all’ignudo»;5 nel Vangelo di Matteo, Gesù si rivolge ai giusti con queste parole: «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero […] nudo e mi avete vestito» (Mt 25, 35-36). Questo stesso Libro dei morti offre un secondo schema, e cioè quello del corpo duale su cui l’Occidente andrà poi a costruire tutto il proprio edificio ontologico. Troviamo il Corpo Materiale, Khat, sottoposto al ciclo di generazione e corruzione, e che solo il processo di mummificazione può salvare; il Doppio, Ka, entità astratta che può contare sugli attributi dell’uomo cui rimane attaccato persino quando quest’ultimo è stato trasformato in mummia e si trova nella tomba, da dove può entrare e uscire a suo piacimento; l’Anima, Ba, legata alla Ka, che accompagna nella tomba e che può assumere una forma materiale o immateriale, a seconda; il Cuore, Ib, associato all’anima, fonte della vita animale ma anche del bene e del male nell’uomo; l’Ombra, Khaibit, anch’essa associata all’anima, che può andare e venire a proprio piacimento; lo Spirito, Kus, parte raggiante e translucida dell’anima umana che risiede nel suo Corpo Spirituale, il

Sahu; la Potenza, Sekhem, incarnazione della forza vitale dell’uomo. Sono, questi, gli elementi che animano il corpo materiale e il corpo spirituale, con il primo che deve sottoporsi ai trattamenti della mummificazione per permettere al secondo di sopravvivere. Facciamo notare che il Libro dei morti propone un terzo schema, destinato ad avere lo sviluppo biblico che sappiamo: quello del serpente che incarna il male. Il serpente ha un nome, Apophis, ed è nemico di Ra, il Sole. Quindi, da una parte abbiamo il serpente malefico, e dall’altra il Sole benefico. Da una parte, tenebre e negatività; e dall’altra, luce e positività. Apophis è il simbolo delle forze del male, della notte, del caos e dell’oscurità, che si oppongono a quelle del bene. Ogni giorno Apophis si attacca alla barca di Ra sull’oceano primordiale Nun per cercare di annientare l’ordine divino e mettere fine alla corsa del Sole. Ogni giorno, però, il gatto di Ra, personificazione della dea Bastet, lo uccide con un coltello. Ogni volta che sorge il Sole, quindi, è una vittoria di Ra su Apophis: la luce vince sempre sull’oscurità. In ultimo, la Supplica a Osiride ci offre un quarto schema che si rivelerà utile alla nostra civiltà, con una morale che anticipa la filosofia greco-romana, vale a dire platonica, aristotelica, cinica, stoica, epicurea, pirroniana, e che prefigura persino, sul terreno religioso, il monoteismo giudaico, quello della civiltà giudaico-cristiana e quello del cristianesimo, invitando tutti quanti a praticare il bene e ad allontanarsi dal male, e a fare tutto questo per ottenere la vita dopo la morte, e la felicità eterna in un corpo sottratto e salvato da ogni ciclo di generazione e corruzione grazie alla purificazione attraverso l’ascesi esistenziale. Voglio citare un po’ più per esteso questo testo per dimostrare come, un millennio e mezzo prima della nascita di Gesù, un’etica e una morale universali esistevano già in Egitto, un’etica e una morale che si ritroveranno nel cristianesimo romano. Giudichiamo direttamente dalle parole: Io sono venuto a te, ti ho portato la giustizia, ho respinto per te l’iniquità. // (Prima dichiarazione di innocenza) / Non ho commesso iniquità contro gli uomini, / non ho maltrattato le bestie, / non ho commesso iniquità nella Sede di Matt, / non ho (voluto) conoscere ciò che ancora non c’era, / non ho tollerato di vedere il male, / non ho cominciato nessuna giornata / chiedendo un donativo da quelli che dovevano lavorare per me, / il mio nome non è arrivato al Capitano della Barca, / non ho bestemmiato dio, / non ho impoverito un misero, / non ho fatto ciò che è tabù divino, / non ho danneggiato un servo presso il suo padrone, / non ho avvelenato, / non ho fatto piangere, / non ho ucciso, / non ho dato ordine di assassinio, / non ho causato pena a nessuno, / non ho diminuito le rendite alimentari nei templi, / non ho sciupato i pani degli dei, / non ho rubato le gallette dei glorificati, / non sono stato pederasta, / non ho compiuto atto impuro nel luogo santo del dio della mia città, / non ho aggiunto e non ho tolto allo staio, / non ho alterato la misura dell’arura, / non ho barato di una mezza arura, / non ho aggiunto al peso della bilancia, / non ho falsificato il peso, / non ho tolto il latte dalla bocca degli infanti, / non ho privato il bestiame minuto della sua erba, / non ho catturato gli uccelli dei boschetti degli dei, / non ho pescato i pesci dei loro stagni, / non ho fatto deviare l’acqua nella sua stagione, / non ho costruito una diga per (deviare) l’acqua

corrente, / non ho spinto un fuoco nel suo momento (di ardere), / non ho trascurato i giorni di offerta di pezzi di carne, / non ho arrestato il bestiame dei beni del dio, / non ho impedito dio nella sua uscita (processionale). / Io sono puro.6

Questa lunga preghiera, che mi si scuserà di aver citato senza moderazione, la voglio riassumere in un’unica frase che contiene tutta l’etica e tutta la morale del mondo: «non ho fatto piangere». Ci possiamo immaginare quanto Pitagora abbia potuto imparare da questi insegnamenti, i più antichi dei quali lo precedevano di duemila anni: una potenza dell’essere esiste, e questa potenza dell’essere ignora la morte e, una volta liberata dal ciclo dell’incarnazione, accede a uno statuto intelligibile in un universo in cui la vita continua, ma in cui il tempo viene sostituito dall’eternità, la morte dall’immortalità, la carne dall’anima e il quaggiù dal lassù. Per quello che ci insegnano i testi (non i suoi, che non ci sono giunti, ma i commenti redatti da altri), Pitagora pensava che l’anima fosse il doppio del corpo visibile e delle sue energie, e che si trovasse rinchiusa in quest’ultimo dopo la sua caduta dal cielo. La tematica del corpo come tomba dell’anima la ritroveremo in Platone, ma trova la sua origine proprio qui, in Pitagora. L’anima è immortale, sempre in movimento e d’origine sovraterrestre. Fintanto che l’uomo è vivo, l’anima si trova prigioniera nel corpo; quando muore, se ne separa, si purifica per un certo periodo nell’Ade e poi torna nel mondo superiore, dove volteggia in mezzo alle altre anime attorno alle persone vive: l’aria è satura di anime. Psiche significa anche «farfalla»; in altre parole l’aria è il respiro dell’anima. Tornata sulla Terra, l’anima deve trovare un corpo in cui reincarnarsi. Il luogo di questa reincarnazione dipende dalla vita precedentemente condotta dal morto. Scopo della vita filosofica è di preservare l’anima da qualsiasi contatto che la possa rendere impura. L’anima è eterna e immortale. E può uscire dalla maledizione del ciclo delle reincarnazioni diventando sufficientemente pura grazie agli esercizi spirituali della filosofia, che le insegnano a non aver più bisogno di cercarsi un posto in mezzo alla carne. Ritroviamo i princìpi induisti e buddhisti, cioè quelli dei famosi gimnosofisti dell’Antichità. Il filosofo neoplatonico del II secolo della nostra era, Massimo di Tiro, scrive in una delle sue Dissertazioni: «Pitagora di Samo per primo tra i Greci ebbe il coraggio di dire che a morire sarebbe stato il suo corpo, mentre l’anima, sollevandosi in volo, se ne sarebbe andata via immortale ed esente da vecchiaia; e anche che ella esisteva prima di giungere qui».7 Se ne ricorderà Plotino nelle

sue Enneadi, quando racconterà di questo metodo per purificare l’essere. Solo la vita filosofica condotta secondo i princìpi pitagorici, quelli che, nella Repubblica, Platone indica con l’espressione «modo di vita pitagorico»,8 assicura il percorso di quest’anima verso la propria salvezza. Solo i rituali, il regime alimentare, i vestiti, la vita comunitaria e la pratica della matematica e della musica, derivate entrambe dalla scienza delle cifre e dei numeri che dà conto dell’ordine delle cose, contribuiscono a questa purificazione e permettono di liberare l’anima dalla carne in cui si trova imprigionata. Oggi come oggi, è di buon gusto affermare che di Pitagora non si sa niente, che non ha scritto niente, che per lui il segreto stava tutto nella vita, e che noi lo conosciamo soltanto attraverso i suoi seguaci più tardi, tutti glossatori, se non addirittura glossatori di altri glossatori, e poi che è stato sfruttato per tutto, compreso il peggio, in particolare con l’occultismo. Probabilmente, sostenere l’impossibilità di affermare qualcosa di positivo sulla sua dottrina è eccessivo, però permette pur sempre di creare una nicchia in cui il ricercatore universitario che ha scoperto che non c’è niente da trovare riesce a trasformare in commercio tutto questo nichilismo. Evitando il luogo comune che paragona tutto quello che ci resta di Pitagora alle rovine di un tempio greco impossibile da ricostruire nella sua integrità iniziale, quella che posso intravedere a partire dagli orfici, filosofi che hanno probabilmente influenzato il pensatore di Samo, è una linea di forza che arriva dall’Oriente e alimenta la filosofia greca prima di andare, a sua volta, a inseminare la filosofia occidentale, e quindi europea. Quest’opera di fecondazione passa attraverso Platone, e non stupisce affatto vedere come la nostra civiltà, che da lì discende, abbia fatto di lui e Socrate una coppia assimilabile a quella che tiene assieme Dio e Gesù. Con Platone, l’Occidente cristiano si ritrova finalmente a disposizione una filosofia emblematica. Non sorprende che l’integralità delle trecento opere di Democrito sia scomparsa e che, al contrario, la quasi integralità dell’opera di Platone, quasi duemila pagine su carta India, sia sopravvissuta… È sempre alle Vite e dottrine dei più celebri filosofi che dobbiamo tornare. Diogene Laerzio ci insegna, in effetti, che la nascita di Platone è avvolta in un’atmosfera divina: «ad Atene circolava la storia che [il padre] Aristone avrebbe voluto fare violenza a Perittione, la quale era nell’età opportuna per l’unione nuziale, ma non vi riuscì. Dopo avere desistito dai tentativi di violenza,

vide l’apparizione di Apollo: e da quel momento egli la lasciò pura dal congiungimento fino al parto».9 Come descrivere meglio il fatto che anche la nascita di Platone, come quella di Gesù, è stata miracolosa? Aristone, come Giuseppe, viene messo da parte perché Perittione, come Maria l’immacolata, possa concepire senza l’ausilio di un genitore, ma solo grazie all’opera di Apollo, che assume a sé il ruolo spermatico dello Spirito Santo! Dopodiché, quale «presocratico» avrebbe osato rivendicare una genealogia più eccelsa? C’è anche un’altra storia che convalida la tesi della divinità della coppia Socrate/Platone. Continuiamo a leggere Diogene Laerzio: «Si racconta che Socrate abbia sognato di tenere sulle ginocchia un piccolo cigno, il quale mise subito le ali e si levò in volo cantando dolcemente, e che il giorno successivo si presentò a lui Platone e Socrate abbia dichiarato che il cigno era proprio lui».10 Platone, che, nella vera vita, e non nella mitologia, discende da una famiglia aristocratica, comincia la propria carriera come lottatore e attore teatrale. Solo un aneddoto? Non è detto. La verità è che Platone rimane lottatore e attore per tutta la propria carriera di filosofo e, quando scrive i suoi dialoghi, s’inventa dei personaggi facili da sconfiggere. Il sofista Gorgia o l’edonista Filebo, che, come sappiamo, danno entrambi il proprio nome a un dialogo, sono stati creati da Platone unicamente a questo scopo: fare da avversari su cui poter trionfare in scioltezza, senza ostacolare la figura di Socrate, che infatti li polverizza. Facciamo soltanto notare, en passant, che l’idea esposta da Deleuze in Che cos’è la filosofia?, secondo la quale un filosofo è un creatore di concetti e di personaggi concettuali, si rivela essere un’idea eminentemente platonica! È, in effetti, proprio Platone che per primo crea concetti e personaggi concettuali, destinati peraltro a una certa fama. Il che fa supporre a qualche altro studioso universitario che, in mezzo a tutto questo teatro, non si riesce mai a sapere dove si trovi davvero il pensiero del filosofo, e che un pensiero di Platone, o un platonismo, potrebbero persino non esistere. Siamo di fronte a un altro effetto del nichilismo epistemologico della nostra epoca – o del desiderio di attirare l’attenzione escogitando tesi paradossali, che andranno comunque a illuminare sulle intenzioni di chi le ha elaborate… Quella che Pitagora e i suoi ottengono è la smaterializzazione del corpo, che non è più visto come puro e semplice composto di atomi materiali, come continuano a pensare Leucippo e Democrito, e come più tardi faranno Epicuro, Lucrezio e tutti gli epicurei, ma un accidente in cui ritroviamo ciò che salva il corpo e ciò che funziona come anticorpo, come controcorpo, come non-corpo: un’anima increata, eterna e immortale, una materia immateriale, un’idea più vera della realtà, un’istanza più certa del tangibile, una finzione che si sostituisce alla realtà di un corpo concreto e palpabile.

L’invenzione dell’anima immateriale è ciò che permette di costruire la finzione di una vita dopo la morte. Si tratta in effetti dell’anello di congiunzione che, nel mondo sensibile, permette di collegare quest’ultimo al mondo intelligibile. Sulla Terra, l’anima immateriale è un frammento celeste che permette di ritrovarsi legati a un retromondo. Quaggiù, significa promessa dell’aldilà. Salvare il corpo dalla morte promettendogli la compagnia degli dèi, o addirittura che diventerà a sua volta dio sotto forma di anima unita al principio dell’universo.

Capitolo secondo

Scheletro con anima Sopraffare la materia

Proprio come è esistito un Pitagora e un pitagorismo, è esistito anche un Platone e un platonismo, persino semplici da identificare. È il Platone e il platonismo in cui si sono immersi venti secoli di pensiero occidentale. Già da solo, il Fedone, sottotitolato Dell’anima, fornisce per esempio materiale concettuale per tutta la psiche europea. Giudichiamo noi stessi. Siamo nel 399 a.C. e Socrate, condannato a morte, beve la cicuta e muore. All’evento sono presenti alcuni amici e, paradossalmente, uno degli assenti è proprio Platone, non sappiamo per quali motivi. È malato, dice Echecrate nel corso del dialogo; altri pensano che invece stia facendo il suo famoso viaggio in Egitto. La scena fa pensare all’Ultima Cena dei Vangeli: c’è un uomo che sta per morire e confessa ai propri amici in lacrime che non bisogna temere la morte, perché praticare la filosofia significa occuparsi della purificazione dell’anima, vale a dire lavorare alla sua separazione dal corpo, e che morire significa semplicemente avere la consapevolezza di questa separazione. In un certo senso, per Platone, praticare la filosofia implica, da una parte, il fatto di morire al mondo mentre si è ancora in vita, allo scopo di nascere a questo stesso mondo dopo la morte; e, dall’altra, il prendere coscienza della felicità e della beatitudine dell’anima che si reincarna in senso etimologico, senza più bisogno di tornare a rivivere in corpi sempre nuovi per ottenere un grado di purificazione sempre più alto. Agli amici che ascoltano le sue parole come fossero tanti aforismi enunciati per l’eternità, Socrate insegna che occorre rimanere sereni, calmi, risoluti e determinati, quando, come lui, ci si è consacrati per tutta la vita a un genere di esercizio filosofico che consiste nel non concedere nulla al corpo, alla carne, ai desideri, alle passioni e alle pulsioni, in modo da riuscire a offrire tutto quanto all’anima. La filosofia non è un’attività da retori, da sofisti, o da professori, ma una saggezza esistenziale destinata alla pratica. È una saggezza di tipo soteriologico, cioè che permette di salvare la propria anima separandola dal

corpo in cui marcisce come un prigioniero nella sua cella. Nel testo c’è il famoso gioco di parole sull’omofonia tra la parola che indica il corpo e la parola che indica la tomba: «noi, attualmente, siamo morti e nostra tomba [sèma] è il corpo [sòma]».11 L’immagine si ritrova in realtà già negli orfici e nei pitagorici. E non solo l’immagine, anche la teoria, l’escatologia e il dualismo. A proposito di quello che succede dopo la morte, Socrate afferma: «io sono pieno di fede che per i morti qualche cosa ci sia, e, come anche si dice da tempo, assai migliore per i buoni che per i cattivi».12 «Qualche cosa», ecco la questione, il problema: che cosa? Proprio per sperimentare un giorno l’esistenza di questo «qualche cosa», Socrate elabora un metodo. Innanzitutto, la prima preoccupazione è l’esercizio esistenziale della negatività: rifiutare i piaceri del bere e del mangiare, non possedere nessun vestito stravagante, rinunciare ai godimenti dell’amore carnale, rifiutare il potere delle sensazioni, delle emozioni e delle percezioni sensibili, staccare l’anima dal corpo. È in base a tutto questo che Socrate può affermare «che noi uomini siamo una delle cose in possesso degli dèi»,13 cioè, in sostanza, che siamo un’anima. Da qui, la seconda preoccupazione, che è quella dell’esercizio esistenziale della positività: «liberare quanto più [si] può l’anima da ogni comunanza col corpo»,14 in altre parole, smaterializzarsi, angelizzarsi, etereizzarsi, insomma, disincarnarsi, in senso etimologico. Il corpo filosofico cui Socrate aspira è uno scheletro composto d’anima. Non stupisce che la morte non gli faccia paura: l’ideale verso cui la sua filosofia tende è quello di morire al mondo terrestre per poter rinascere nel retromondo. Socrate sostiene che l’anima, per riuscire a conoscere, deve staccarsi dal corpo. Ma se l’anima non è composta di materia o di atomi, come pensano gli abderitani, allora qual è la sostanza immateriale che può permetterle di conoscere? E in che modo? Se occorre sbarazzarsi di tutto quello che consente di conoscere in maniera empirica, cioè dei cinque sensi, delle sensazioni, delle emozioni, delle percezioni e del loro governo attraverso l’uso di una sana ragione resa materialmente possibile da un supporto fisiologico, cioè il cervello, allora com’è possibile conoscere? E grazie a che cosa? Per quanto riguarda il funzionamento dell’anima, Socrate afferma che «se mediante il corpo ella tenta qualche indagine, è chiaro che da quello è tratta in inganno»,15 e anche che «è nel puro ragionamento, se mai in qualche modo, che si rivela all’anima la verità».16 E poi ancora che «l’anima ragiona appunto con la sua migliore purezza quando non la conturba nessuna di cotali sensazioni, né vista né udito né dolore, e nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in sé stessa dicendo addio al corpo; e, nulla più partecipando del corpo né avendo

contatto con esso, intende con ogni suo sforzo alla verità».17 È questo che, per Socrate, potrebbe conoscere un’anima morta? Continua però a non dirci come un’anima sorda, o un’anima cieca, o un’anima impassibile, o un’anima ascetica, o un’anima apatica, o un’anima insensibile possa conoscere, e in che modo. Occorre un tipo di purificazione in grado di liberare dal corpo, come quando ci si lascia cadere i vestiti di dosso per mettere l’anima a nudo, per fare in modo che quest’anima possa trovarsi «tutta sola raccolta in sé stessa».18 Nonostante tutto, però, il problema persiste: come può arrivare un’anima a toccare questo stato d’integrale disincarnazione? Ovviamente, ragionando nei termini di una logica assolutamente empirica, vale a dire rispettando l’ordine delle cose dettato dal buon senso e dalla sana ragione, in pratica questa disincarnazione si ridurrebbe a una vera e propria disintegrazione… Socrate cerca quindi una ragione che possa fare a meno della persona stessa che ragiona; e di questo individuo ragionante vorrebbe anzi cancellare d’un tratto tutta la realtà concreta e tangibile, per sostenere quello che, secondo lui, è veramente il reale, vale a dire la finzione delle Idee pure e del mondo intelligibile. Giunti a questo punto, allora, come possiamo provare l’esistenza del mondo immateriale? Ma è ovvio, attraverso la constatazione empirica della reminiscenza. Come afferma Platone nella Repubblica (X, 611a), le anime, che sono immortali ed eterne, esistono in numero finito. Potremmo richiamarci alla scienza demografica e porre la questione: tra i duecentocinquantamila contemporanei di Socrate e gli otto miliardi di esseri umani che si contendono il pianeta oggi, qual è lo statuto ontologico delle anime dell’era atomica prima dell’era cristiana? Dato che non ci arriva dall’esperienza, che presuppone il corpo, l’idea dell’anima può venire solo da una conoscenza empirica. Socrate sembra insomma continuare a rimandare all’empirico per provare l’esistenza non empirica dell’anima. Non si impara mai niente, sostiene, ma ci si rimembra, e rimembrarsi significa sperimentare quanto si è già imparato nelle vite precedenti. Si tratta di un sapere che l’anima trova già presente dentro di sé. Interrogato da Menone nel dialogo omonimo, Socrate chiede a quest’ultimo di trovargli qualcuno perché possa provargli l’esistenza dell’anima – non si può dare dimostrazione più empirica! Scelto un servo che parla greco, Socrate comincia a parlargli, e parte con una dimostrazione matematica: un quadrato è costituito da quattro linee rette uguali tra loro e, se si taglia in due questo quadrato passando dal centro, si ottengono delle linee uguali. Il servo annuisce a ogni tappa della dimostrazione, il che permette di arguire l’ottima qualità degli studi matematici compiuti. Le quattro

pagine del dialogo che seguono (82b-84a) ci mostrano quanto Socrate fosse altrettanto dotato in geometria. Qui si vede come la vera intenzione di Platone, che ha mosso i suoi primi passi nel teatro e nella lotta, sia quella di vincere senza rischiare nulla, e di trionfare quindi senza gloria, mettendo in scena un Socrate onnisciente e un servo che sta lì solo per i bisogni della dimostrazione, con l’unico ruolo di dire sì a ogni asserzione socratica. Alza e abbassa di continuo la testa, come fa il cavallo, in maniera compulsiva… Permettetemi una confidenza personale: io, che non sono uno dei servi di casa Menone, ho mollato la dimostrazione di Socrate da subito. Certo, non ho mai brillato in matematica, però se Platone avesse ragione, mi sarei dovuto rimembrare anch’io senza difficoltà e mi sarei dovuto trovare conquistato da questa retorica, convinto della validità della teoria della reminiscenza e, di conseguenza, della verità dell’esistenza di almeno un’anima immateriale, cioè la mia, preesistente alla mia incarnazione. In realtà, Platone con me sembra aver fatto proprio un buco nell’acqua… Il Menone ci insegna in realtà che il servo, da Socrate, non ha imparato nulla, e che il suo interrogatorio gli ha semplicemente permesso di rimembrarsi delle cose che già sapeva, cose che, in una vita anteriore, aveva già imparato. Comunque stiano le cose, possiamo obiettare a Platone che proprio questo ragionamento implica che un giorno al servo è comunque sempre toccato imparare qualcosa, e che, in virtù delle reincarnazioni anteriori vissute dopo le sue svariate morti, la sua anima ha conservato il ricordo di quello che gli era stato a suo tempo concesso di sapere, comprendere e imparare. Oltretutto, il fatto che Socrate abbia bisogno di un servo in carne e ossa per provare l’esistenza dell’immaterialità dell’anima non può non vedersi come un paradosso… Perché è proprio grazie a quello che sarà stato ascoltato e visto dalle sue orecchie e dai suoi occhi che l’intelligenza dello schiavo, incarnata nel suo cervello, avrà potuto accedere a quello che Socrate presenta come una prova. È questa la teoria dell’anima che accompagna la dottrina della metempsicosi e della metensomatosi – tutte tesi che ritroviamo in Oriente, e che fanno subito pensare agli induisti e a quei gimnosofisti così spesso associati alla saggezza dell’Antichità. Morte significa separazione tra anima e corpo. Dopo il trapasso del defunto, l’anima viene pesata, come già succedeva presso gli egizi. A seconda del risultato di questo giudizio, l’anima viene reindirizzata a un corpo. Se si è impegnata attivamente nella separazione dal vecchio corpo, si ritrova salvata, altrimenti viene condannata a una serie di reincarnazioni svalorizzanti: asini per quanti hanno passato la vita a gozzovigliare e a bere, in mezzo alla lussuria e all’eccesso; lupi, falchi o nibbi per quanti hanno commesso ingiustizie, tirannie o

rapine; api, vespe o formiche per i temperamenti naturalmente giusti ma senza virtù pratiche (Fedone, 81e-82b). Il filosofo che ha passato la vita a maltrattare il proprio corpo e a preoccuparsi unicamente della propria anima sfugge invece al ciclo di incarnazioni perché la sua anima sarà riuscita a spogliarsi da qualsiasi obbligo nei confronti della materia. La vita filosofica permette di cancellare la carne in modo da poter realizzare l’avvento dell’anima purificata, senza alcun bisogno di corpi che si trasformino in altrettanti carceri. Se si è passata la vita in una tomba, allora, dopo la morte, l’anima ottiene la propria beatitudine unendosi al principio del mondo. Giova ricordarsi, o meglio rimembrarsi, che Platone, dopo aver consacrato tutta la propria opera a contrapporre il mondo sensibile al mondo intelligibile, fustigando il primo e celebrando il secondo; dopo aver diviso l’essere in due parti distinte, una detestabile, cioè il corpo, la carne e la materia, e l’altra da adorare, cioè l’anima; dopo aver gettato l’anatema sui desideri, sui piaceri, sulle passioni e sulle emozioni; dopo aver denunciato lo stallo prodotto dai godimenti carnali, è stato sorpreso dalla morte, come ci insegna Diogene Laerzio (tocca sempre tornare al nostro storico), nel corso di un banchetto di nozze (III, 3). Ovviamente, Tertulliano, uno dei primi filosofi cristiani, non può condividere quest’aneddoto così triviale e così poco… platonico! Per il pensatore che ha aperto la via filosofica del cristianesimo, Platone deve per forza morire in maniera più nobile: e quindi trapassa nel sonno. Questo senza contare quello che, sempre nelle Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Diogene Laerzio ci racconta nel capitolo intitolato Presunti amori di Platone (III, 29-33). Questo Savonarola della carne ha in verità conosciuto parecchi(e) amanti tra cui, giusto per citare alcun(e) il cui nome ha attraversato la storia: Astro, Dione, Alessi, Fedro, Archeanassa e Agatone. Anche Socrate, sfortunatamente platonizzato da Platone (evito di dire socratizzato), passa per essere un padre del pudore e un nemico dichiarato della carne, quando in verità ha collezionato lui stesso tutta una serie di giovanotti (Carmide, figlio di Glaucone; Eutidemo, figlio di Diocle; Fedro; Agatone; Alcibiade) che hanno finito per dare il titolo a parecchi dei dialoghi platonici, o per comparirci come interlocutori. Nel Simposio (VIII, 2), Senofonte afferma di non ricordarsi nessun periodo in cui Socrate fosse stato senza innamorati. La bellezza di Carmide lo infiammava e lo metteva fuori di sé; si esaltava per Alcibiade; sosteneva che quando vedeva Autolico passava dalle tenebre alla luce; e confessava che il solo contatto con la spalla nuda di Critobulo gli provocava una scossa elettrica (I, 9 e IV, 27).

Ecco perché, nel Fedone, Platone fa dire a Socrate che «l’anima di chi è vero filosofo […] perciò appunto si astiene, quanto più ella può, da piaceri e desideri e dolori» [corsivo mio].19 Magari vuole dire che né Socrate né Platone erano dei veri filosofi.

Capitolo terzo

Il divenire riccio della pianta Purificare la carne

Si tratta di un rimprovero che non si potrà fare a Plotino, il quale, da parte sua, sembra aver vissuto in coerenza con tutte le cose che insegnava. O almeno così pare, se vogliamo dar credito alla Vita di Plotino, scritta dal discepolo Porfirio, che infatti comincia la sua presentazione proprio affermando che «Plotino, il filosofo della nostra epoca, sembrava si vergognasse di essere in un corpo».20 Plotino è uno che nasconde la propria data di nascita per evitare di festeggiare il compleanno; che mantiene il silenzio sulle origini della propria famiglia, e non parla mai né del padre né della madre; che rimane attaccato al seno della nutrice fino all’età di otto anni, quando gli viene imposto di smettere; che detesta così tanto il proprio involucro carnale e corporeo da rifiutare qualsiasi ritratto o qualsiasi busto. Il suo corpo versa in cattivo stato, ha problemi digestivi, in particolare intestinali, però si rifiuta di farsi curare; il suo stomaco è parecchio malandato e la vista debole; vive in uno stato di perenne tensione nervosa ed è vegetariano, mangia pochissime cose; non si fa mai il bagno, ma si friziona; soffre di tonsillite e ha la gola infiammata; ha le gambe e i piedi coperti di ulcere; quando parla, fa un sacco di errori e, quando scrive, si prende gioco dell’ortografia; lascia Roma e si ritira in Campania per evitare che gli amici lo vengano a trovare e lo abbraccino per salutarlo, entrando in contatto con questo suo corpo che sembra essere un’unica e grandissima piaga, quasi stesse fermentando, dentro e fuori. Quando muore, a settant’anni, spiega all’amico Eustochio, l’unico a essergli rimasto accanto: «‘Io mi sforzo di ricondurre il divino ch’è in me al divino che è nell’universo’; e mentre un serpente passava sotto il letto sul quale egli giaceva, scomparendo poi dentro un buco della parete, Plotino rese lo spirito».21 Nell’ora della propria morte, quindi, Plotino non fa come Socrate, non si mette a dare lezioni di filosofia, una filosofia che, per anacronismo, potremmo chiamare stoica, ma continua a vivere da filosofo, e continua il proprio esercizio filosofico, la processione. È la quintessenza della sua vita filosofica. Ripartiamo dall’inizio. Ad Alessandria, Plotino si converte alla filosofia grazie

al proprio maestro Ammonio, di cui segue l’insegnamento per undici anni: «giunse a possedere la filosofia così bene che si propose di conoscere direttamente quella che si professa fra i Persiani e quella che viene onorata presso gli Indiani».22 Per realizzare questo programma, decide di mettersi al seguito dell’esercito di Gordiano, che stava allora progettando una campagna in Persia; sennonché l’imperatore viene sconfitto in Mesopotamia e il periplo di Plotino subisce una battuta d’arresto. All’età di quarantun anni, sbarca a Roma, e qui, senza ancora aver scritto nulla, si mette a insegnare il pensiero di Ammonio per un decennio. Solo più tardi comincia a redigere i propri trattati, che Porfirio raggrupperà in seguito sotto il titolo di Enneadi, cioè, etimologicamente, «gruppi di nove». Che tecnica utilizzava Plotino per arrivare alle sue unioni mistiche pagane? Ovviamente, il disprezzo del corpo. Fin dalla prima Enneade, Plotino afferma: «È necessario che [l’uomo], come tirato in senso opposto, verso il Bene, da un contropeso, diminuisca e indebolisca il suo corpo, così da mostrare che l’uomo vero è ben diverso dalle cose esteriori. […] non vorrà essere del tutto ignaro delle malattie né dei dolori, e se non li ha provati, vorrà esperimentarli».23 Il filosofo confessa di desiderare il dolore. Però, secondo lui, «dovrebbe avere questa dottrina che la morte è migliore della vita col corpo».24 La felicità si acquista con la diminuzione e l’indebolimento del corpo. Occorre realizzare l’atarassia mentale, perché «Non è possibile vivere felicemente in società col corpo»:25 bisogna saperlo «lascia[re] a terra, […] guarda[re] con disprezzo».26 Ma in cosa consiste la purificazione? «La purificazione consiste nell’isolare l’anima affinché non si unisca ad altro e non guardi ad altro e non abbia più opinioni estranee, siano queste, opinioni o passioni, come s’è detto, e non guardi quei fantasmi né produca con essi le passioni. Come non sarà purificazione se essa procede così dal basso verso l’altra parte, cioè verso l’alto?»27 Nel testo, Plotino si spinge lontano tanto quanto Platone, ma nella pratica della teoria va di sicuro oltre. Platone insegna la necessità dell’ascesi, ma, amante dei banchetti e dei giovanotti, non mette in pratica gli insegnamenti che va professando; al contrario, Plotino, con la sua dieta corporea e la sua tensione mistica, conduce una vera e propria vita filosofica radicale. Per Plotino, esistono tre ipostasi nel mondo intelligibile. Partiamo dalla terza, quella più vicina al mondo sensibile, quella che tocca il corpo e la materia. La terza ipostasi è l’anima. L’anima universale, in altre parole: l’anima senza il corpo. L’anima individuale che, pur partecipando dell’anima universale, si trova unita al corpo. L’anima individuale che esiste contemporaneamente all’anima dell’universo e all’anima divina. La seconda ipostasi, l’intelligenza, deriva dall’atto di conversione verso il

Bene, e permette di vedere le essenze multiple. È il luogo degli intelligibili. L’intelligenza si contempla, e facendo questo si rivela moltiplicata in sé stessa. Il suo atto, il pensiero, è il mondo universale, ed è l’insieme degli Intellegibili o Idee. La prima ipostasi, invece, è l’Uno-Bene, cioè il Bene che causa la visione dell’essenza. Può essere indicato solo negativamente, perché ogni asserzione positiva priverebbe della possibilità di affermare il contrario, e questo tipo di incompletezza non può mai convenire alla perfezione. Ma neppure, per le stesse ragioni, lo si può esprimere positivamente. La terza ipostasi è insomma uno sforzo di ascesi; la seconda, uno sforzo di astrazione; la prima è la purificazione totale che permette di produrre l’estasi. Gli esercizi spirituali che servono a lottare contro i desideri e contro i piaceri, contro la carne e contro la pancia, contro i desideri e contro le passioni, sono resi possibili da un volere che contraddice l’insegnamento platonico e neoplatonico: se, in effetti, il ciclo delle reincarnazioni si appoggia alla necessità, e se sono gli astri a determinare il percorso di una vita,28 come può la libertà avere un qualche ruolo? Plotino cita Platone, secondo il quale alcuni uomini, a causa di una vita assolutamente non all’altezza, si reincarnano addirittura in una pianta.29 In che modo, però, ci chiediamo, una pianta può possedere la volontà di condurre un’esistenza che gli permetta di purificarsi e di liberarsi dalla propria prigione materiale? E cosa dobbiamo pensare del povero cerbiatto che, a causa di una vita passata in balia del destino, della fatalità e della volontà degli dèi, sarà costretto, dopo il giorno del giudizio, a reincarnarsi in un albero? Di quale purificazione potrà mai essere capace l’ulivo per permettere all’anima che si trova imprigionata nel proprio tronco di compiere il percorso che riuscirà e staccarsi da quella sua tomba di scorza, per trasformarsi nel famoso riccio capace, a sua volta, un giorno, di diventare filosofo plotiniano? Plotino ha consacrato una quarantina d’anni della propria esistenza a praticare questa purificazione con terribili esercizi di ascesi fisica, e meditazione intellettuale e spirituale. Nella sua Vita di Plotino, Porfirio ci racconta che il suo maestro ha conosciuto solo quattro estasi,30 in pratica una ogni dieci anni… Plotino muore attorno alla seconda metà del III secolo della nostra era, e più precisamente nel 270. I cristiani stanno già conquistando intellettualmente e spiritualmente il mondo, e i testi che Plotino consacra agli gnostici sono a tutti gli effetti diretti contro i devoti di Cristo, allora ancora dispersi qua e là e divisi in sette gnostiche diverse, ma destinati a essere ben presto politicamente recuperati e raccolti dall’imperatore Costantino, che, nel 313, con l’editto di Milano, concede la libertà di culto.

Questa saggezza esistenziale neoplatonica riduce a essenza quello che, dagli egiziani prima, e dagli orfici e dai pitagorici poi, fino a Plotino e passando da Platone, contribuisce a definire la genealogia del corpo occidentale. Il corpo prodotto su questa linea è un corpo tagliuzzato, smembrato e mutilato: da una parte, c’è l’anima immateriale composta della stessa sostanza eterea degli dèi, una specie di anima bianca; dall’altra, la carne materiale, composta invece come quella degli animali. Qui, l’anima, che ci unisce al mondo intelligibile, che è quello vero; di là, il corpo, che ci blocca nel mondo sensibile, mondo di illusioni, mondo falso. L’anima funziona da tramite tra l’uomo e gli dèi, e permette di unirsi a loro e di vivere nel loro mondo, conoscendo la beatitudine della vita eterna. Il corpo, invece, riporta alla trivialità del reale, ed è corruttibile, sottoposto al fluire del tempo e destinato alla morte. La nostra materia ci uccide, ma la nostra anima ci salva. Da questo mondo, possiamo accedere al retromondo (che è quello che assicura di fatto che noi ci troviamo all’interno di una concezione religiosa delle cose) attraverso la fuga. E questa fuga è, a sua volta, resa possibile da un particolare uso del corpo e dell’anima: occorre disprezzare il primo e celebrare la seconda – è questo il senso della purificazione. Il disprezzo del corpo apre le porte di un cielo senza materia, popolato di sole anime eterne e immortali. A questo cielo possiamo accedere morendo su questa Terra e ottenendo la vita eterna nell’aldilà. L’anima bianca è uno strumento soteriologico. Permette di salvarsi grazie al suo impiego filosofico corretto. Essa è ciò che se ne fa: se la si usa male, porta alla dispersione; se è utilizzata bene, invece, cioè se è utilizzata contro la carne e contro il corpo, contro la materia e contro il reale, è in grado di aprire le porte del paradiso. Il cristianesimo mette assieme come in un collage tutte queste saggezze antiche e pagane. Conserva il dualismo che divide il corpo: da una parte l’anima e dall’altra la carne; deduce da questa divisione la separazione tra mondo intelligibile in alto, in cielo, e mondo sensibile in basso, sulla Terra; connota positivamente ciò che è celeste e negativamente ciò che è terrestre; oppone la magnifica città di Dio alla terribile città degli uomini; manda alla gogna desideri, passioni, pulsioni ed emozioni, in breve tutto quello che appartiene al mondo della carne, e porta invece alle stelle l’anima, lo spirito, il celeste, l’ineffabile, l’indicibile, quel «qualche cosa» di cui parlava Socrate. La sua originalità, in realtà, si trova nella metamorfosi dell’anima bianca dei platonici nell’anima nera dei cristiani.

Capitolo quarto

Corpi di carta e vita testuale Creare un anticorpo

I fedeli sono generalmente tutti critici nei confronti delle fedi altrui: le considerano come un insieme di finzioni e di illusioni, come mitologie da cui vanno fieri di non-essere stati abbindolati. Allo stesso tempo, però, i fedeli sono loro stessi devoti di quella particolare fede che condividono, e di conseguenza delle sue finzioni, delle sue illusioni e delle sue mitologie, tutte cose che gli altri invece continueranno a valutare con incredulità… Uno crede che il proprio Dio divida il mare in due per lasciar passare il suo popolo, poi però guarda con occhio sbalordito il proprio simile che gli spiega come il suo profeta abbia percorso la distanza tra Gerusalemme e la Mecca in cielo e su un cavallo, mentre un terzo arriva a sostenere che il suo Dio è nato da una vergine e si è fatto un uomo, per morire crocifisso e resuscitare il terzo giorno, prima di assurgere in cielo e sedere alla destra del padre – cerchiamo di apprezzare la precisione di questo atto di lateralizzazione, perché è il luogo in cui vive tuttora, mentre noi stiamo qui a parlare… Per quanto mi riguarda, sono del tutto privo di quella pulsione alla devozione che potrebbe spingermi a dirmi d’accordo con una o l’altra di queste tre belle storielle, e tendo invece a osservare le religioni della mia civiltà da filosofo, vale a dire come una serie di mitologie da cui si può trarre un certo piacere intellettuale, senza però doverne condividere per forza le credenze. Insomma, leggo la Bibbia come se fosse una prima versione della Divina Commedia. Per me, Gesù rimane una delle tante finzioni, quella su cui è stata costruita la civiltà giudaico-cristiana. E ho grandissimo rispetto per chi, cercando di far crollare la tesi mitista secondo cui Gesù non ha alcun fondamento storico, arriva a dedurre da una frase che non si tratta di una cosa seria. In realtà, quello che non è serio è il fatto di voler ignorare tutte queste cose, e di volerle cassare senza argomentazioni. Secondo la tesi mitista, la figura di Gesù è costruita partendo da un collage di

frammenti sparpagliati nell’Antico Testamento, che rappresenta sostanzialmente la chiave della sua biografia. Basta leggere la Bibbia e incrociare l’Antico con il Nuovo Testamento. Il lavoro è già quasi stato fatto tutto nell’apparato critico della traduzione di Émile Osty e di Joseph Trinquet, che rimanda la maggior parte dei versetti del Nuovo a questo o a quell’altro versetto dell’Antico. Non serve particolare intelligenza, basta rimboccarsi le maniche con pazienza. E questo è il risultato. Quando, sulla strada di Emmaus, Gesù riappare agli apostoli dopo la sua morte, le sue parole sono: «‘Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?’ E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24, 25-27). Ci sarebbe piaciuto ascoltarlo mentre annunciava il proprio futuro, un futuro che non aveva ancora vissuto: avremmo avuto la prova che il futuro rivelato nel Nuovo Testamento si trova già inscritto nel passato dell’Antico. Quello neotestamentario è un ventriloquio che trionfa partendo dal veterotestamentario – del resto, è questo l’asse portante della tesi mitista. In sostanza, ecco che cosa avrebbe potuto raccontare: nei Vangeli (Mt 2, 2), la sua nascita viene annunciata ai re Magi da una stella; e ricordiamo che la nascita del Messia è stata presentata come accompagnata da un astro anche nel libro dei Numeri: «una stella spunta da Giacobbe / e uno scettro sorge da Israele» (Nm 24, 17). Quando vogliamo sapere dove è nato Gesù, bisogna leggere il libro biblico di Michea (5, 1): «E tu, Betlemme di Èfrata, / così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, / da te uscirà per me / colui che deve essere il dominatore in Israele; / le sue origini sono dall’antichità, / dai giorni più remoti» – testo citato dal vangelo di Matteo (2, 4-6). Quando vogliamo invece sapere perché Gesù è proprio di Nazareth, il libro dei Giudici ci insegna che un uomo nascerà da una donna sterile e senza figli e che un angelo glielo annuncerà in questi termini: «il fanciullo sarà un nazireo di Dio fin dal seno materno; egli comincerà a salvare Israele dalle mani dei Filistei» (Gdc 13, 5). Matteo ricalca: «ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: ‘Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati’» (Mt 1, 20-21). In verità, nella religione ebraica, il nazireo indica un uomo consacrato a Dio, un uomo che obbedisce a certi voti, tra cui quello di rispettare le proibizioni bibliche. Nazireo viene in seguito sostituito da nazareno e, per omofonia, avvicinato al nome del villaggio di Nazareth. In

realtà, all’epoca in cui Gesù dovrebbe essere nato, di Nazareth non esiste ancora traccia… Se si dice che Gesù nasce tra l’asino e il bue – l’informazione si trova solo nel Vangelo di Luca (2, 7) –, è perché il dettaglio riecheggia la profezia di Isaia: Così parla il Signore: / «Ho allevato e fatto crescere figli, / ma essi si sono ribellati contro di me. / Il bue conosce il suo proprietario / e l’asino la greppia del suo padrone, / ma Israele non conosce, / il mio popolo non comprende». / Guai, gente peccatrice, / popolo carico d’iniquità! / Razza di scellerati, / figli corrotti! / Hanno abbandonato il Signore, / hanno disprezzato il Santo d’Israele, / si sono voltati indietro (Is 1, 2-4).

La presenza del bue e dell’agnello funziona da testimone: Gesù, da parte sua, salverà Israele portando a compimento la venuta del Messia atteso dagli ebrei. Quando Gesù rischia la morte nel corso del massacro degli innocenti, non fa nient’altro che subire il compimento della profezia rivelata nel libro di Geremia (31, 15). Sfugge allo sterminio perché la Sacra Famiglia si rifugia in Egitto, ed è per questo che Matteo può affermare che non fu massacrato «perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: / Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Mt 2, 15). È una citazione dal libro di Osea: «e dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (Os 11, 1). Quando Gesù comincia il proprio ministero, Luca ci racconta che ha trent’anni (Lc 3, 23). Nel secondo libro di Samuele, leggiamo: «Davide aveva trent’anni quando fu fatto re» (2Sam 5, 4). Gesù insegna perché le Scritture lo annunciano: «Lo spirito del Signore Dio è su di me, / perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; / mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, / a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, / a proclamare la libertà degli schiavi» dice Isaia (61, 1). Quando Gesù compie dei miracoli, e guarisce sordi, muti, ciechi, paralitici e idropici, o malati di emorragie varie o di dermatosi, quando resuscita addirittura i morti, sta compiendo quanto sta scritto nel libro di Isaia: «Allora si apriranno gli occhi dei ciechi / e si schiuderanno gli orecchi dei sordi. / Allora lo zoppo salterà come un cervo» (Is 35, 5-6). Quando Gesù viene tradito da Giuda, l’apostolo rinnegato si fa pagare trenta pezzi d’argento, come ci rivela Matteo; dopo aver consegnato Gesù, colto dai rimorsi, riporta i soldi ai sommi sacerdoti: «E presero trenta monete d’argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutato dai figli d’Israele» (Mt 27, 9). È quello il prezzo della transazione anche nel libro di Zaccaria (11, 12-13). Quando Simon Pietro vuole impedire l’arresto di Gesù, taglia l’orecchio destro di Malco, il servitore del sommo sacerdote. Gesù però lo ferma subito

dicendo: «credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli? Ma allora come si compirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?» (Mt 26, 53-54). Oppure: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?» (Gv 18, 11). Quando Pilato non vuole prendere partito tra i sommi sacerdoti ebrei, la folla e Gesù, sappiamo che «prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: ‘Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi’» (Mt 27, 24). È un rimando al libro dei Salmi: «Lavo nell’innocenza le mie mani» (Sal 6, 16 e 73, 13). Quando, nel Vangelo di Luca (23, 9), Gesù rimane in silenzio davanti alle domande di Erode, sta compiendo quanto scritto nel libro di Isaia: «Maltrattato, si lasciò umiliare / e non aprì la sua bocca; / era come agnello condotto al macello, / come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, / e non aprì la sua bocca» (Is 53, 7). Quando Gesù lascia che gli sputino addosso nei locali della pretura del governatore (Mt 27, 30), il rimando fa eco al libro di Isaia: «non ho sottratto la faccia / agli insulti e agli sputi» (Is 50, 6). Quando Gesù pronuncia le sue ultime parole: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 34), prova di essere, persino in una situazione tesa come quella, colto e capace di recuperare citazioni, nel caso particolare rimandando al libro dei Salmi, dove troviamo un versetto della preghiera per Le sofferenze e la gloria del giusto che suona testualmente: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Sal 22, 2). Quando Giovanni racconta che i soldati romani sono pronti a spezzare le gambe di Gesù sulla croce, però alla fine decidono di non farlo, scrive: «Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso. E un altro passo della Scrittura dice ancora: Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19, 36-37). Si tratta di altrettanti rimandi al libro dell’Esodo (12, 46) e a quello dei Numeri (9, 12), dove si parla dei sacrifici, ed è, appunto, un modo per associare il sacrificio dell’agnello pasquale previsto dalla legge ebraica a quello di Gesù. Il quale è in effetti definito: «l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo» (Gv 1, 29). E la sua morte coincide naturalmente proprio con la Pasqua. Quando, durante la crocifissione, i soldati romani inchiodano i piedi e le mani di Gesù sul legno della croce, tutto avviene facendo eco ai Salmi: «mi accerchia una banda di malfattori; / hanno scavato le mie mani e i miei piedi» (Sal 22, 17). Quando, nel corso del supplizio, Gesù viene umiliato sulla croce: le teste che si scuotono, gli scherni e i vari «Ha salvato altri e non può salvare sé stesso! È il

re d’Israele» (Mt 27, 42) sono quelli che già si trovano nel libro dei Salmi: «lo porti in salvo, se davvero lo ama» (Sal 22, 9). Quando gli trafiggono il costato con una lancia, le sue parole rimandano al Lutto per colui che è stato trafitto, nel libro di Zaccaria: «guarderanno a me, colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito» (Zacc 12, 10). Quando Gesù muore, «la terra tremò, le rocce si spezzarono» (Mt 27, 51), «il sole si era eclissato» (Lc 23, 45), «si fece buio su tutta la terra» (Mc 15, 33); leggiamo il libro di Amos: «In quel giorno / – oracolo del Signore Dio – / farò tramontare il sole a mezzogiorno / e oscurerò la terra in pieno giorno» (Am 8, 9). Oppure Isaia: «le stelle del cielo e le loro costellazioni / non daranno più la loro luce; / il sole si oscurerà al suo sorgere / e la luna non diffonderà la sua luce. / […] Allora farò tremare i cieli / e la terra si scuoterà dalle fondamenta / per lo sdegno del Signore degli eserciti, / nel giorno della sua ira ardente» (Is 13, 1013). O anche Gioele: «viene il giorno del Signore, / perché è vicino / […]. Davanti a lui la terra trema, / il cielo si scuote, / il sole, la luna si oscurano / e le stelle cessano di brillare» (Gioe 2, 1-10). Quando i soldati romani si dividono i vestiti di Gesù (Lc 23, 34), la cosa si ritrova anche nei Salmi: «si dividono le mie vesti, / sulla mia tunica gettano la sorte» (Sal 22, 19). Anche quando il corpo di Gesù viene deposto nella tomba di una persona ricca, come ci ricorda Matteo (27, 57-60), siamo di fronte a una citazione da Isaia: «con il ricco fu il suo tumulo» (Is 53, 9). Quando il terzo giorno Gesù resuscita, sale in cielo e si siede alla destra del Padre, come non pensare al passo del libro dei Salmi in cui si dice: «non abbandonerai la mia vita negli inferi, / né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. / Mi indicherai il sentiero della vita, / gioia piena alla tua presenza, / dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 16, 10-11). O a quell’altro passo, sempre dei Salmi: «Oracolo del Signore al mio signore: / ‘Siedi alla mia destra / finché io ponga i tuoi nemici / a sgabello dei tuoi piedi’» (Sal 110, 1). E per quanto riguarda la salita al Cielo, pensiamo al libro di Daniele: «Guardando ancora nelle visioni notturne, / ecco venire con le nubi del cielo / uno simile a un figlio d’uomo; / giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui» (Dan 7, 13). La vita di Gesù si rivela una vera e propria vita di carta: il suo corpo è fatto più di parole e verbo che di carne e ossa; il suo sangue non è liquido, ma è Logos; non è composto da scheletro, muscoli e nervi, ma da parabole, allegorie e simboli; non vive una vita corporea ma un’esistenza concettuale; non ha un’anima separata dal corpo, perché è un’anima senza corpo, uno spirito costituito unicamente di discorsi.

Questo corpo di carta richiama una vita testuale priva di reale vita. Basta leggere i Vangeli per capire che, per quanto prodotti del I secolo della nostra era, appartengono comunque al mito. Chi può davvero permettersi di credere che la lepre e la tartaruga di La Fontaine siano concretamente esistite, siano state concretamente dotate di parola, e si siano concretamente messe a parlare tra loro, con la tartaruga che, uscita vincitrice nella corsa, rilascia al mondo le sue famose dichiarazioni moraleggianti? Per chi scrive favole, la volpe e il corvo, il lupo e il cane, ma anche la quercia e il giunco parlano, ma è solo per convenzione poetica, per licenza letteraria: nella vita di tutti giorni, a nessuno verrebbe mai in mente di credere davvero che un giunco possa scambiare quattro parole con una quercia. La stessa cosa vale per la letteratura dei Vangeli, che occorre leggere come si legge l’Odissea di Omero (le sirene e i lotofagi non esistono), o come si legge la Vita di Apollonio di Tiana, in cui Filostrato ci racconta di quest’uomo che, pur essendo un semplice filosofo neopitagorico, resuscitava anche lui i morti; o ancora come si leggono le tragedie greche (il fegato di Prometeo non è mai stato divorato da un’aquila)… La realtà di tutte queste storie è solo allegorica: significano una cosa diversa da quella che sembrano apparentemente raccontare. Prendiamo il Vangelo di Luca: basta leggerlo per capire come funzionano le cose. Innanzitutto è nel testo stesso che troviamo tutte le chiavi destinate ad aprire le serrature delle parabole. La prima cosa che ci viene detta è che Gesù vive e muore per compiere quello che è stato annunciato nell’Antico Testamento. Gli ebrei stanno in effetti aspettando un Messia; e Gesù, che è ebreo, spiega loro che non c’è più bisogno di aspettarlo, perché la persona annunciata è in realtà proprio lui; quasi per caso, la sua vita si trova a provare esattamente che tutto quello che è stato predetto dalle pagine veterotestamentarie si sta compiendo a livello neotestamentario. Quello che è e quello che sarà è esattamente quello che è stato annunciato: la sua biografia non fa altro che dare corpo all’annuncio. Durante la presentazione al Tempio per la circoncisione, Simeone prende il bambino Gesù in braccio e dichiara che da lui «aspettava la consolazione d’Israele» (Lc 2, 25). L’arrivo di Gesù lo colma di gioia, perché annuncia la nascita della civiltà giudaicocristiana: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione» (Lc 2, 34). Rovina della Torah, e nascita del Nuovo Testamento: Gesù va a insegnare nelle sinagoghe la realtà di questo

compimento proprio il giorno dello shabbat (Lc 4, 31), come a dire che comincia subito trasgredendo da cristiano la tradizione giudaica che impedisce di svolgere qualsiasi attività in quel particolare giorno. Dall’Annunciazione alla Crocifissione, è questo il messaggio che trionfa. Ancora prima che Gesù venga al mondo, l’Angelo che annuncia la sua venuta spiega che tutto quello che sta avvenendo si compie «ricordandosi della sua [di Dio] misericordia, / come aveva detto ai nostri padri, / per Abramo e la sua discendenza, per sempre» (Lc 1, 54-55). Più tardi, in cammino verso il luogo della propria morte, è Gesù stesso che dice: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e si compirà tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell’uomo» (Lc 18, 31). Quest’uomo annunciato sulla carta e dalla carta, è in realtà anche lui un uomo di carta. Lo percepiamo chiaramente leggendo il Vangelo di Giovanni, il Vangelo più cerebrale, quello più concettuale e meno aneddotico, quello più intellettualmente esigente, e che infatti comincia affermando che: «il Verbo si fece carne / e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1, 14). C’è già tutto… Da qui, deriva la seconda cosa che dobbiamo tenere a mente, e cioè che Gesù è un personaggio concettuale che non ha altra carne se non quella che la civiltà cristiana gli ha cucito addosso nel corso dei primi dieci secoli della nostra era grazie all’opera dei suoi pensatori e dei suoi filosofi, in particolare dei Padri della Chiesa. A questi filosofi, aggiungiamo tutti i concili che hanno contribuito a costruire il corpo occidentale e, più in particolare, la sua anima, e poi però anche la scolastica successiva, e i vari artisti, architetti, pittori e scultori che hanno costruito una visibilità globale a livello di civiltà per questo personaggioconcetto. Se il Verbo si fa carne non è tanto grazie a una misteriosa Incarnazione teologica, che ha bisogno di tutte le categorie della metafisica aristotelica per apparire come credibile, quanto per mezzo di una corporeizzazione intellettuale, artistica, spirituale, filosofica, politica ed estetica: è questo il foglio di via della cosiddetta civiltà giudaico-cristiana. Perché l’ossimoro di questa carne, presentata come umana e divina allo stesso tempo, possa essere intellettualmente costruita, occorre che, in virtù della propria umanità, assomigli a quella di tutti gli altri esseri umani, e quindi preveda una nascita, un’infanzia, una vita e una morte, e poi la possibilità di bere e di mangiare, di dormire e di soffrire, di parlare agli amici e alle donne. Allo stesso tempo, però, c’è anche bisogno che non abbia niente di umano: la nascita deve essere miracolosa, l’infanzia straordinaria, i talenti precoci, la potenza

taumaturgica, l’alimentazione simbolica, e la sottomissione alla morte impossibile. È questa la sfida da raccogliere! Gesù dispone insomma di un corpo ossimorico. La sua stravagante biografia la conosciamo tutti: il momento della nascita mette in scena Maria, una vergine che dà alla luce un bambino, e Giuseppe, un padre che non è il vero genitore; il concepimento non avviene secondo vie naturali, come per qualsiasi altro uomo sul pianeta, ma per il tramite dello Spirito Santo – il testo di Luca precisa che, a Maria, l’angelo Gabriele dice che «la potenza dell’Altissimo [la] coprirà con la sua ombra» (Lc 1, 35), e che però il bambino sarà comunque «il frutto del [s]uo grembo» (Lc 1, 42); poi arriva Gabriele, accompagnato da «una moltitudine dell’esercito celeste» (Lc 2, 11-13), ad annunciare la nascita (Lc 2, 11-13); l’ottavo giorno, il bambino viene circonciso e chiamato Gesù (Yehoshua), che in ebraico significa «Dio salva»; a dodici anni scappa dai genitori, i quali si accorgono della sua assenza dopo una giornata di marcia; tre giorni più tardi, lo ritrovano che ascolta e interroga i dottori della Legge al Tempio di Gerusalemme; stupito dallo stupore del padre, Gesù dice: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2, 49). E qui l’evangelista precisa: «Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro» (Lc 2, 50). Quando ha ormai una trentina d’anni, Gesù si fa battezzare da Giovanni, e qui il cielo si aprì «e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: ‘Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento’» (Lc 3, 22) – uno potrebbe anche domandarsi perché Gesù, che è senza peccato, senta il bisogno di farsi battezzare, visto che il succo di tutta la cerimonia consiste precisamente nel cancellare i peccati; a un certo punto, prende e se ne va nel deserto, «per quaranta giorni, tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni, ma quando furono terminati, ebbe fame» (Lc 4, 2-3) – e qui vediamo una commistione tra il divino che ignora la fame e l’umano che scopre l’appetito; si mette allora a parlare con il diavolo e resiste alle sue tentazioni; compie tutta una quantità di guarigioni tramite imposizione delle mani o grazie alla pura e semplice potenza del proprio verbo (a volte, per guarire, gli basta toccare i lembi inferiori dei vestiti): la suocera di Simone, il lebbroso, il paralitico, i ciechi, l’uomo con la mano paralizzata, la donna che ha perdite di sangue da dodici anni, il servo del centurione, il muto, l’idropico, l’uomo con l’orecchio tagliato; Gesù poi resuscita i morti e placa gli elementi della natura, ferma il vento e la tempesta; provoca pesche miracolose e dal corpo di Maria di Magdala fa uscire sette demoni; la stessa cosa, la compie altrove: «Da molti uscivano anche demòni, gridando: ‘Tu sei il Figlio di Dio’» (Lc 4, 41); muore e poi, il terzo giorno, resuscita dopo aver spostato da solo l’enorme pietra che chiudeva la

tomba (ci si domanda il perché di tanto sforzo, quando avrebbe semplicemente potuto passare attraverso i muri); riappare ai propri discepoli e si rimette a mangiare con loro, anzi partecipa a parecchi dei loro pranzi, cibandosi di alimenti dal forte valore simbolico: pesce, vino e miele. Il pesce perché la parola greca che lo indica (ichthýs) è l’acronimo di Iesùs CHristòs THeù HYiòs Sotèr, vale a dire «Gesù Cristo, figlio di Dio salvatore»; il vino perché annuncia il sangue versato; il pane per via del processo di lievitazione, che corrisponde a quello che fa la Chiesa grazie alla parola di Dio; il pane e il vino annunciano il mistero dell’eucaristia e della comunione sotto le due specie, e al miele viene associata la parola di Dio nell’Antico Testamento, confrontiamo per esempio Ezechiele (3, 3) o i Salmi (19, 11; 119, 103); alla fine sale in cielo dove, al momento attuale, ancora sembra risiedere… In apertura del proprio Vangelo, Luca si preoccupa di segnalare che, per tutte le cose che racconta, ha incontrato i testimoni, e questo fatto dovrebbe convalidare dal punto di vista storico tutte le sue storie. Non sappiamo bene esattamente chi abbia incontrato, né che cosa gli abbiano raccontato. Quando Luca scrive il suo testo, tra l’80 e l’85 della nostra era, gli eventi che racconta sono ormai vecchi di mezzo secolo. Quindi, se Luca ha sentito dei testimoni diretti, al momento della crocifissione dovevano essere molto giovani e, quando l’evangelista li incontra, invece, avere certo più di cinquant’anni… Non si capisce bene perché Luca non fornisca le generalità di questi testimoni; magari è solo perché se li è inventati nel tentativo di far passare il proprio meraviglioso racconto come testo storico. Diciamocelo subito, il corpo di Gesù, chiamato a servire da modello per milioni di uomini all’interno della civiltà giudaico-cristiana, si rivela essere un controcorpo, un anticorpo: nessun essere umano può nascere davvero da una madre vergine e da un padre senza che quest’ultimo abbia avuto una relazione sessuale con la partoriente; a nessun angelo è permesso di scendere dal cielo, oltretutto accompagnato da legioni, per annunciare che Dio prenderà la forma di un’ombra per fecondare la sposa di Giuseppe; nessun bambino di dodici anni, di cui non si è mai nemmeno detto che abbia imparato qualche cosa a scuola o in sinagoga (dalla nascita fino a quest’episodio, raccontato unicamente da Luca, la sua biografia è inesistente), è in grado di tenere intellettualmente testa ai dottori della Legge, che hanno passato anni a studiare la Torah; nessuna voce venuta dal cielo può parlare una lingua comprensibile a qualcuno che si trova dentro il fiume Giordano e vede arrivarsi sopra la testa una colomba; nessun uomo può sopravvivere quaranta giorni nel deserto senza bere e senza mangiare; ancora di

più, nessun uomo riuscirebbe a sopravvivere trent’anni, sempre che questa sia l’età della sua morte, ingerendo solo simboli (mai un lokum, mai un agnello alla griglia, mai una tajine, mai un po’ di tè alla menta, mai niente da espellere); nessun diavolo può entrare in contatto con un essere umano sottoponendolo a prove terribili da cui quest’ultimo può uscire vincitore; nessun uomo è in grado di restituire la vista ai ciechi, la salute ai malati, la deambulazione ai paralitici, l’udito ai sordi o la vita ai morti semplicemente imponendo le mani o proferendo qualche parola; nessun uomo può morire, resuscitare e mettersi tranquillamente a cenare con gli amici prima di prendere la strada del cielo in senso ascensionale e andare a vivere per l’eternità a fianco del padre… A meno di non voler davvero credere che la vita partecipa del miracoloso (cioè intrusione divina del disordine poetico nella legge naturale) e non del meraviglioso (cioè una modalità lirica dell’espressione letteraria), questa storia non va presa alla lettera. Brulica di aneddoti da spiegare, di parabole da chiarire, e di significati da esplicitare. Come possiamo capire la parabola del cammello chiamato a passare per la cruna di un ago, o quella del grano di senape, o ancora quella del buon samaritano, o quella del figliol prodigo, o quella della porta stretta, o ancora quella della dracma perduta, e tante altre? A me pare che un’intelligenza normalmente costituita non potrà fare a meno di concludere che un’esegesi si rende necessaria. Solo chi crede insiste a prendere le cose alla lettera; per lui, la ragione non può più fare granché… Ed ecco la terza cosa da tenere a mente di questo vangelo: il testo deve essere interpretato, perché è enigmatico, e il suo senso è nascosto, e solo la relazione con Gesù, con gli apostoli o con i loro discendenti, cioè gli uomini di Chiesa, è in grado di disporre del senso. La relazione del maestro con il proprio discepolo, per come esiste nella filosofia antica, ritrova qui i suoi titoli di nobiltà: la parabola è una parola esoterica che diventa essoterica dopo essere stata spiegata dal maestro che domina il sapere, o da uno dei suoi discepoli iniziati. Se nessuno è in grado di resuscitare i morti, vale a dire di rendere la vita a chi l’ha persa, occorrerà per forza di cose che vita e morte significhino una cosa diversa rispetto a quella anatomica, e liberino tutto il loro significato sul piano allegorico. E Luca ci aiuta in effetti a leggere le cose in questo modo. Racconta per esempio la Parabola del seminatore (Lc 8, 5-8) che il contadino lancia i propri semi; una parte di questi semi finisce nel fossato e viene mangiata dagli uccelli; un’altra parte finisce sulla pietra e, in mancanza di terra e di

umidità, cresce per un po’ ma poi si secca; un’altra parte ancora cade in mezzo ai rovi, e questi rovi le impediscono di svilupparsi; un’ultima parte finisce su terra buona, al punto giusto e con la giusta umidità, e così riesce a produrre cento volte tanto… Lo spirito meschino non riuscirà a vedere più lontano di quello che racconta la storiella, e ne trarrà una specie di lezione agronomica… Ne tirerà fuori la morale del buon contadino che si preoccupa di guardare bene dove cadono i semi quando li distribuisce, in modo da non sprecarli! Punto a capo. Gesù però ci avverte: «Chi ha orecchi[e] per ascoltare, ascolti» (Lc 8, 8), il che significa, propriamente parlando, delucidare l’enigma di una parabola attraverso un’altra parabola! Perché, che cosa vuol dire avere delle orecchie in grado di ascoltare i due livelli della storia? I suoi interlocutori glielo chiedono e lui risponde: «A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo con parabole, affinché / vedendo non vedano / e ascoltando non comprendano» (Lc 8, 10). Poi, rompendo il mistero, aggiunge: Il significato della parabola è questo: il seme è la parola di Dio. I semi caduti lungo la strada sono coloro che l’hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la Parola dal loro cuore, perché non avvenga che, credendo, siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, ricevono la Parola con gioia, ma non hanno radici; credono per un certo tempo, ma nel tempo della prova vengono meno. Quello caduto in mezzo ai rovi sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano soffocare da preoccupazioni, ricchezze e piaceri della vita e non giungono a maturazione. Quello sul terreno buono sono coloro che, dopo aver ascoltato la Parola con cuore integro e buono, la custodiscono e producono frutto con perseveranza (Lc 8, 11-15).

Dove si vede che la pista agronomica è accolta solo dallo stupido che guarda il dito quando il saggio indica la Luna! Nella logica dell’allegoria, invece, questa cosa non è questa cosa ma un’altra cosa, e anche quello che crediamo è un’altra cosa, e a rivelarcela è il maestro, l’iniziato, il discepolo, che la trasmette a chi non la conosce. Mettiamo questa storia in relazione con un’altra storia. Entrando a Gerico, un cieco, seduto sul ciglio della strada, sta mendicando e chiede di poter vedere questo Gesù annunciato dal rumoreggiare della folla. Gesù si avvicina e gli dice: «‘Che cosa vuoi che io faccia per te?’ Egli rispose: ‘Signore, che io veda di nuovo!’ E Gesù gli disse: ‘Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato’. Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo glorificando Dio» (Lc 18, 41-43). Una lettura semplicemente oftalmologica finirebbe per sbattere subito contro il muro, esattamente come una lettura agronomica della parabola dei semi.

Qualsiasi lettura positivista di un testo allegorico si inoltra su una strada senza uscita. Il Nuovo Testamento è un catalogo di enigmi che l’iniziato deve decifrare. L’Ecclesia, la Chiesa, indica la comunità degli iniziati desiderosi di allargare le proprie possibilità. Perché, in fondo, la vocazione di questo sapere nascosto non è di rimanere tale, ma di diffondersi a più persone possibili. Il mendicante di Gerico riceve una parola che è la chiave dell’enigma: è la fede che salva e non gli ipotetici poteri taumaturgici di Gesù. Non è la mano imposta sul malato o appoggiata sulla piaga che cura, è la parola, il famoso Verbo di cui Giovanni ci dice che salva. Gesù è il Verbo che cura e guarisce attraverso il Verbo. In questo modo, la vita e la morte non devono essere intese come categorie anatomiche, fisiologiche, o medico-legali, ma come stati spirituali. La donna che soffre di emorragie, il cieco, il sordo, il paralitico non sono malati di emorragie nei termini del ginecologo, o ciechi nei termini dell’oftalmologo, o sordi nei termini dell’otorinolaringoiatra, o paralitici nei termini del neurologo, ma sono tutte queste cose perché sono malati nell’anima e nell’essere, nella psiche e nello spirito, nel cuore – che non è ovviamente quello del cardiologo… In altre parole, la lezione di Gesù che i Vangeli ci trasmettono non è quella di uno sciamano, di un guaritore, di un taumaturgo, o di uno stregone dotato di poteri sovrannaturali, ma quella di un uomo saggio, di un filosofo, o di un maestro di verità e di saggezza esistenziale. Non troviamo, in questi versetti di Luca, nessuna minaccia di inferno, di purgatorio o di paradiso, nessun ricatto di dannazione. Per quanto paradossale possa sembrare, la parola «anima» non appare mai nei Vangeli, ma nemmeno quella di «inferno» o di «paradiso». Nei Vangeli, si contrappongono i vivi ai defunti, e la vita alla morte, ma non si parla mai di salvare le anime o di condannare i corpi. E sono quelle le parole che entrano nella dialettica allegorica del Nuovo Testamento: la morte, che è vita senza Dio, e la vita, che è vita assieme a lui. La vita con Dio è la vita etica che Luca ci indica. Un esempio. La figlia di Giàiro, dodici anni, è morta. A quest’ultimo, Gesù dice: «Non temere, soltanto abbi fede e sarà salvata» (Lc 8, 50). Entra nella camera mortuaria con tre dei suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e i genitori della bambina che piangono e si battono il petto. «Gesù disse: ‘Non piangete. Non è morta, ma dorme’. Essi lo deridevano, sapendo bene che era morta; ma egli le prese la mano e disse ad alta voce: ‘Fanciulla, àlzati!’ La vita ritornò in lei e si alzò all’istante» (Lc 18, 52-55). A salvare, lo dice il testo, è l’atto di fede, non il gesto che fa Gesù. Nella parabola del figliol prodigo, il padre uccide il vitello grasso non per celebrare e onorare il figlio migliore, ma l’altro, il figlio peccatore. Il figlio

offeso domanda le ragioni di questa ingiustizia. E la risposta del padre è: «ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15, 32). Morto al mondo è chi non vive secondo i princìpi dettati da Dio; vivo per l’eternità chi, al contrario, regola la sua vita proprio su questi princìpi. La quarta cosa da tenere a mente di questo Vangelo è l’idea che vivere secondo le proprie passioni, secondo le proprie emozioni o secondo le proprie sensazioni significa condurre la vita di un cieco o di un paralitico, di un sordo o di un muto, se non addirittura quella di un morto. Abbiamo visto che, dal punto di vista anatomico, il corpo di Gesù si rivela essere un anticorpo: non ha un padre umano ed è concepito da una forza estranea, indifferente alla genetica; è accompagnato dagli angeli e non gli si conoscono passioni; non ha una donna, non pratica sesso e non si lascia andare a risate, anche se ogni tanto qualche lacrima gli scappa (due volte piange per compassione e una per paura); non ha desideri, non si ciba di alimenti terrestri e non si sa se e quanto espella; resiste alle tentazioni ed è superiormente dotato già all’età in cui i bambini di solito giocano a nascondino; muore, ma solo per tre giorni, dopodiché resuscita e si rimette a vivere una vita in cui sembra dimenticare che, in virtù della Parusia, il suo ritorno è sempre atteso sulla Terra, annunciato prima della morte di coloro che lo stanno ad ascoltare da due millenni… Davvero: imitare un simile uomo è una vera sfida! L’etica proposta da Gesù è, etimologicamente parlando, inumana, cioè davvero oltre ogni umanità. Esige, in effetti, un uomo che sia simile a un cadavere, un uomo insensibile ai colpi della sorte e distaccato da tutti i beni del mondo. Un uomo privo di amici, nel senso latino del termine, senza una moglie, senza figli, senza un padre e senza una madre degni di questo nome, insomma senza famiglia. A sentire il figlio di Giuseppe e Maria, l’ideale è un uomo nudo. Gesù propone delle incredibili prodezze etiche e morali: amare il proprio prossimo qualunque esso sia, e quindi amare anche i propri nemici, i propri avversari e tutti quelli che ci detestano e ci vogliono o ci fanno del male; tendere l’altra guancia a chi ci sta colpendo il viso; offrire ancora di più al ladro che ci sta derubando dei nostri beni; prestare senza pensare alla restituzione; essere buoni con i cattivi; non giudicare e non condannare; dimostrarsi misericordiosi; dare tutto quello che si ha; fare l’elemosina e invitare alla propria tavola poveri, storpi, zoppi e ciechi. A un ricco che gli stava chiedendo come potesse fare per ottenere la vita eterna, Gesù risponde: «Tu conosci i comandamenti: Non commettere adulterio,

non uccidere, non rubare, non testimoniare il falso, onora tuo padre e tua madre» (Lc 18, 20). Qui, peraltro, i dieci comandamenti si sono ridotti a cinque. Gesù aggiunge: «vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; e vieni! Seguimi» (Lc 18, 22). Non è difficile capire come possano esserci stati dei punti di contatto tra il cinismo greco e il cristianesimo dei primi tempi. Non sappiamo che cosa abbia poi deciso di fare il ricco… Imitare un uomo simile poteva rendere possibile una civiltà? Ovviamente no… Questo anticorpo angelico e virginale offriva un modello ideale per un cristianesimo radicale, quale fu vissuto dai primi cristiani, eremiti o cenobiti. Monaci atleti del deserto, come si disse, questi fedeli hanno condotto una vita secondo gli insegnamenti di Gesù: frugalità, ascesi, povertà, austerità e astinenza, fino all’eccesso – vivere tutta una vita in una tomba murata, oppure sopra una colonna alta venti metri, oppure nudi sopra dei mattoni in attesa che il sudore li sciolga, oppure ancora avvolti nudi dal miele per essere punti dalle zanzare e puniti per il semplice fatto di averne uccisa una. Il cristianesimo di questa specie poteva portare solo a una serie di vite individuali, non a una civiltà. È un altro Gesù quello che rende possibile la civiltà: è il Cristo, in altre parole il Gesù crocifisso, suppliziato e morto sulla croce e infine resuscitato, trasformato nel simbolo di questa nuova religione. Che uno strumento di tortura abbia potuto diventare il segno sotto cui riunificare tutti i devoti di questa religione ci insegna molto sul fatto di come essa sia riuscita a rovesciare sul corpo etereo di Gesù quello suppliziato e sanguinolento di Cristo. L’invito a imitare l’angelo, che presuppone la cancellazione del corpo, è accompagnato dall’invito a imitare allo stesso tempo il cadavere, mentre alle donne veniva offerta la possibilità di imitare una vergine madre… Come si sia passati dal Gesù vivo al Cristo sanguinolento, figura della morte, e poi al Gesù Cristo angelo mortificato e modello esistenziale per un migliaio di anni, è la storia del paolinismo…

Capitolo quinto

Le lingue di fuoco dello Spirito Santo Dannare la carne

Lo ripeto, se i Vangeli non si preoccupano assolutamente di anime da punire all’inferno o da ricompensare in paradiso, né di corpi divisi in due, con, da una parte, la carne da detestare e, dall’altra, l’anima da venerare, la stessa cosa non succede a san Paolo, che è colui che compie il passaggio dalla cancellazione dei corpi alla condanna della carne. Gesù e san Paolo insegnano cose radicalmente opposte! Di fronte alla peccatrice incontrata a casa del fariseo Simone che l’ha invitato a pranzo, Gesù lascia che lei lo profumi e versi lacrime ai suoi piedi, lacrime che poi lei stessa va ad asciugare con i suoi capelli. Gesù difende l’idea che non bisogna giudicare, e infatti non la giudica; anche Paolo dice che non si deve giudicare, però, invece, lui alla fine giudica. Non è alla peccatrice che Gesù impartisce una lezione, ma a Simone, che la sta giudicando. E non c’è dubbio che a san Paolo, che si comporta allo stesso modo di Simone, avrebbe ripetuto le parole che ha rivolto al suo ospite: «sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto amato» (Lc 7, 47). È altrettanto certo che, da parte sua, Paolo tornerebbe a sostenere quello che ha insegnato ai Filippesi: «dedicatevi alla vostra salvezza con rispetto e timore» (Fil 2,12). Rispetto e timore: eccoli, i pilastri del paolinismo! E sono l’esatto contrario di quello che andava insegnando Gesù, il quale praticava dolcezza e tenerezza, pietà e compassione, bontà e misericordia. Nel paradiso di Gesù, Paolo non troverebbe mai posto… La civiltà giudaico-cristiana è in sostanza meno cristica di quanto non sia paoliniana. Nell’arte cristiana, l’attributo principale di san Paolo è la spada, e non senza motivo. I suoi sostenitori spiegano che quella spada simboleggia il martirio per decapitazione. Ma, allora, perché san Pietro, crocifisso a testa in giù (pensava di non-essere degno di una crocifissione con la testa in alto come Gesù), è invece raffigurato con le chiavi del paradiso e non con lo strumento della propria morte? La verità è che Paolo è proprio l’uomo che ha evangelizzato con la spada in mano, e per convincersene basta leggere la letteratura paoliniana.

La storia di Paolo di Tarso la conosciamo, ce la raccontano gli Atti degli apostoli: all’inizio c’è Saulo, ebreo, che comincia perseguitando i cristiani. Confessa lui stesso: Molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con il potere avuto dai capi dei sacerdoti e, quando venivano messi a morte, anche io ho dato il mio voto. In tutte le sinagoghe cercavo spesso di costringerli con le torture a bestemmiare e, nel colmo del mio furore contro di loro, davo loro la caccia perfino nelle città straniere (At 26, 10-11; corsivo mio).

«Molti dei fedeli» significa che non c’è stato soltanto il martirio di Stefano (At 7, 54-60), a cui viene ridotto, nella maggior parte dei casi, il passato cristianofobo di Paolo. In quel caso, avrebbe partecipato semplicemente tenendo in mano i vestiti del primo martire della Chiesa, come viene spesso ricordato. Gli Atti ci raccontano però anche che «Saulo intanto cercava di distruggere la Chiesa» (At 8, 3). E la Chiesa, uno non la distrugge standosene semplicemente con in mano i vestiti di una persona che altri stanno lapidando… Poi, sulla strada per Damasco, dove contava di poter organizzare nuove spedizioni punitive di morte contro i cristiani, ha la rivelazione: l’iconografia cristiana ce lo rappresenta mentre cade da cavallo. Nel testo neotestamentario, in realtà, il destriero non viene affatto menzionato, però la descrizione è ugualmente precisa: c’è un bagliore che illumina il cielo e una voce che gli si rivolge, una voce che sentono persino i suoi compagni di viaggio, ed è quella di Gesù che gli chiede perché lo stia perseguitando. Saulo avrebbe potuto iniziare un dialogo ad alto tenore teologico con Cristo, che gli stava concedendo il privilegio di apparirgli e l’elemosina di una conversazione; Saulo avrebbe potuto cercare di convincerlo che lui, Cristo, era solo un impostore che pretendeva di essere il Messia annunciato dalle Scritture. Però il dibattito non c’è stato: Saulo si rialza da terra, come ci hanno raccontato (il che significa che è caduto da una posizione in piedi), e ha perduto la vista. Entra a Damasco tenendo la mano di uno dei suoi compagni. Resta tre giorni senza riuscire a vedere niente, senza mangiare e senza bere. Giusto il tempo che serve a Gesù per resuscitare: di giorni, non ne poteva certo fare di meno; giusto il tempo che l’ebreo Saulo si trasformi nel Paolo della civiltà giudaico-cristiana. L’opera di evangelizzazione che conduce nel corso dei suoi tre grandi viaggi nel bacino mediterraneo è considerevole: Giudea, Asia minore e Grecia; questa sua opera la paragona al «pugilato» (1Cor 9, 26).31 Da fanatico cristiano, si comporta con i pagani come l’ebreo che era stato si era comportato con i cristiani: Paolo è davvero l’uomo che, nella storia dell’arte, viene non senza ragione associato alla spada.

Lo vediamo anche presenziare a un autodafé di libri definiti di «magia», e che in realtà erano tutte opere di teologia pagana, e non, come precisano spesso gli apparati critici, di «scienze occulte»! «Ne fu calcolato il valore complessivo e si trovò che era di cinquantamila monete d’argento» (At 19, 19) – una fortuna, in effetti. Si trattava di libri preziosi delle religioni combattute da Paolo, cioè paganesimo e giudaismo. E niente impedisce che sulle braci siano finiti anche dei rotoli della Torah. La volontà di evangelizzare con la violenza e attraverso il combattimento fisico è straordinariamente persistente. Giudichiamo noi stessi: «Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria». E poi ancora, sulla scia: «tratto duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo avere predicato agli altri, io stesso venga squalificato» (1Cor 9, 26-27). Che cosa ci rappresenta questo pugile che pratica il pugilato anche contro sé stesso? Che cosa dobbiamo pensare di questo personaggio che mena colpi agli altri, ma non dimentica di infliggersene pure da solo? È lo stesso Paolo a fornire i dettagli autobiografici. Nelle sue Confessioni, sant’Agostino si ricorderà di questa particolare procedura apologetica. Leggiamo la seconda lettera ai Corinzi: Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità (2Cor 11, 24-27).

Non si possono meglio confessare i riflessi condizionati che ci portano a metterci in pericolo da soli. Che «il più piccolo tra gli apostoli» (1Cor 15, 9), come si definisce lui stesso, non ami la propria persona è il meno che si possa dire. Ai Corinzi, si presenta come un «aborto» (1Cor 15, 8), il che non sarebbe grave, se non si arrivasse a trasformare questo amore dell’odio di sé nel principio stesso del paolinismo, e nell’imperativo categorico della civiltà giudaico-cristiana, quasi ne fosse la matrice. Confessa di soffrire per il fatto che gli «è stata data alla [sua] carne una spina» (2Cor 12, 7), senza che si venga mai davvero a sapere di che cosa si tratti… Su questo argomento, è stato scritto di tutto, ma senza mai riuscire a trovare qualcosa di effettivamente convincente. C’è addirittura un libro che propone tutta una lista di possibilità:

Artrite, colica nefritica, tendinite, sciatica, gotta, tachicardia, angina pectoris, prurito, antrace, foruncoli, emorroidi, ragadi, eczema, lebbra, herpes zoster, rabbia, erisipola, gastralgia, colica, malattia della pietra, otite cronica, sinusite, tracheo-bronchite, ritenzione urinaria, uretrite, febbri maltesi, filariosi, paludismo, pilariosi, tigna, cefalea, cancrena, suppurazioni, ascessi, singhiozzo cronico (!), convulsioni, epilessia.32

Nel mio Trattato di ateologia, avevo anche proposto un’altra malattia, meno fisica, meno fisiologica, meno anatomo-patologica, e invece più psichica: un’omosessualità rimossa, oppure più semplicemente un’impotenza sessuale, o l’una come causa dell’altra. Una lettura probabilmente un po’ azzardata, tenendo soprattutto presente un’altra informazione che riguarda il corpo di Paolo e che ci viene fornita nella lettera ai Galati: «Sapete che durante una malattia del corpo vi annunciai il Vangelo la prima volta; quella che, nella mia carne, era per voi una prova, non l’avete disprezzata né respinta» (Gal 4, 13-14). Se questa malattia del corpo si presentava come capace di provocare disprezzo o repulsione da parte degli altri, significa che era visibile, e questo esclude tutta una serie di patologie che potremmo definire, in un certo senso, silenziose. Non riusciamo a immaginarci bene come una fistola anale, o delle emorroidi possano essere invocate a risolvere l’enigma allegorico di quella spina. Si tratta bene o male di parti anatomiche non utili all’opera di evangelizzazione. E nemmeno possono sembrare verosimili otiti, sinusiti o calcolosi, o problemi vari di ritenzione urinaria, o altre affezioni da cui i nostri interlocutori potrebbero rimanere colpiti soltanto se qualcuno gliele confessasse. Restano le malattie invasive della pelle, dermatosi giganti o cose del genere, che funzionano a cicli e che, nei momenti di remissione, possono anche lasciar credere di essere scomparse. Comunque stiano le cose riguardo a questa spina nella carne dell’aborto, la cosa davvero problematica è che quest’uomo, affrontando la questione dell’uso del proprio corpo, abbia potuto rivolgersi all’intera assemblea riunita dei cristiani con queste parole: «Diventate miei imitatori» (1Cor 11, 1); e: «morire [è] un guadagno» (Fil 1, 21). Imitare una persona che soffre di una patologia invalidante e preferire la morte alla vita è una specie di programma ontologico ed esistenziale che non dovrebbe mai portare alla costruzione di una civiltà, a meno di non voler fondare una civiltà di nevrotici… Il corpus paoliniano è il corpo di Paolo, e questo corpus fonda la civiltà giudaico-cristiana. Il paolinismo (non voglio dilungarmi sull’argomento)33 è composto da un insieme di tesi: l’opprimente antisemitismo nei confronti degli ebrei, i quali, non

avendo accettato il fatto che Gesù è il Messia annunciato dalle Scritture (At 3, 20; Rom 10, 21), vengono ritenuti responsabili della morte del Figlio di Dio fattosi uomo (At 3, 15) – Paolo descrive a lungo la capacità d’intrigo propria degli ebrei (At 25, 8-12); quella che oggi chiameremmo omofobia, e che è sostanzialmente persecuzione di quanti allora venivano definiti sodomiti (Rom 1, 27); la misoginia e il dominio maschile, conseguenze del peccato originale di Eva, e di fatto responsabili di una situazione in cui le donne si ritrovano a subire totalmente l’autorità degli uomini, senza poter per esempio insegnare, costrette a chiedere sempre quello che vogliono sapere, a mantenere il silenzio e a occuparsi unicamente della casa, del focolare e della famiglia, con l’unica possibilità di redenzione offerta dalla procreazione – «lei sarà salvata partorendo figli» (1Tm 2, 15); l’anti-intellettualismo, che presuppone la celebrazione dell’innocenza e dell’ignoranza e che si trova sempre accompagnato da un profondo disprezzo nei confronti della filosofia (1Col 1, 19-20 e 3, 18): «Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo» (Col 2, 8); il cesaropapismo, che, in virtù del principio secondo il quale «tutto il potere proviene da Dio» («Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio», Rom 13, 1) e, di conseguenza, qualsiasi atto di disobbedienza dal demonio, invita a obbedire ai potenti che esercitano il potere perché è Dio che li ha resi così come sono – che è anche la ragione per cui, assieme all’opera di evangelizzazione portata avanti a forza di fendenti e autodafé, a furia di colpi inferti e mosse da pugilato, il cristianesimo, nella sua forma paoliniana, riesce a trionfare con Costantino all’inizio del IV secolo, e a fondare una civiltà. Quello che vorrei invece qui precisare riguarda la condanna della carne da parte di quest’uomo che sembrava vedere la propria (carne) condannata, e che, nonostante tutto, si ostinava a proporsi come modello, invitando tutti quanti a prendere esempio da lui. La verità è che universalizzare la propria nevrosi non ha mai eliminato nessuna nevrosi, di certo non quella di chi crede di poterla cancellare grazie a sotterfugi come questo. Opprimere il mondo non dà nessun sollievo a chi decide di opprimere. Far impazzire il prossimo per farla finita con la propria pazzia porta soltanto a moltiplicarla. Come fa allora Paolo per condannare la carne? Innanzitutto, si mette a discutere con costanza dello Spirito Santo, il cui altro nome è Paracleto. Ovviamente, nel Nuovo Testamento, non esiste nessuna definizione soddisfacente di questa nozione, semplicemente lo Spirito Santo

esiste e produce degli effetti, tutto qui: assume la forma di una colomba al momento dell’Annunciazione; è responsabile dello stato interessante di Maria; sempre sotto forma di colomba, viene visto da Gesù scendere sopra di sé al momento del proprio battesimo; guida lo stesso Gesù nel deserto e ne fa più tardi il proprio prescelto; si occupa delle conversioni, ed è anche quella cosa che, in forma di lingue di fuoco, scende sulla testa degli apostoli il giorno della Pentecoste: «Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi. / Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (At 2, 3-6). In altre parole, lo Spirito Santo è l’opposto della torre di Babele, cioè di quella torre in cui gli uomini che parlavano tutti una stessa lingua furono puniti da Dio, che decise di far scendere sopra di loro la confusione linguistica per punirli di averlo sfidato e di voler raggiungere il cielo costruendo quella loro opera di pietra. È il Cristo immateriale che porta dunque a compimento quello che gli uomini, invischiati come sono nella materia, non riescono a ottenere: un luogo in cui tutti gli uomini si comprendono parlando la stessa lingua – solo che questo può avvenire unicamente in lui, attraverso di lui e in suo nome. Ecco annunciato il corpo mistico della Chiesa a sostituzione dei corpi terrestri. Scrive, in seguito, Paolo ai Corinzi: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi» (1Cor 6, 19). Esiste quindi del divino nell’uomo? È quello che, in effetti, occorre cercare e ottenere. Capiamo come Platone e il platonismo abbiano potuto accompagnare e assecondare simili iniziative. Paolo non fa altro che allargare la frattura tra corpo materiale e anima immateriale. L’odio della carne è in effetti una delle tematiche principali del paolinismo, il quale si propone di convalidare una vera e propria dinamica esistenziale: svilire il proprio corpo per elevare la propria anima! Maltrattare la carne significa celebrare lo spirito, e celebrare lo spirito significa maltrattare la carne. Sempre ai Corinzi: «siamo diventati come la spazzatura del mondo» (1Cor 4, 13). E ai Romani: Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato. Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il

bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? (Rom 7, 14-24).

Paolo gode della tensione tra potere e volere, tra volontà e compimento, tra volizione e azione. Nel corpo si trovano due forze antagoniste, che sono allo stesso tempo due istanze contraddittorie: l’intelligenza immateriale e le parti del corpo. Chi è che vuole, e che cosa vuole? E poi ancora: quando? E come? In che modo si articolano volontà della Legge attraverso l’intelligenza e corporeità peccaminosa che, nello stesso corpo, le resiste all’interno? Qual è l’«intimo» che abita questo «corpo di morte»? Lo Spirito Santo abita anche nella carne adamica. In che modo, allora, risolvere l’aporia? Vantando l’«uomo nuovo» creato da Cristo (l’espressione si trova nella lettera agli Efesini, 2, 15), san Paolo cancella il vecchio uomo, vale a dire l’ebreo e il pagano.34 Mina lo schema greco del tempo circolare fondato sull’eterno ritorno, per inaugurare l’idea della freccia in cui il passato si trova dietro di noi, il presente qui e ora nel punto in cui siamo, e il futuro di fronte. Per Paolo, il passato è il tempo della Torah, il tempo del Pentateuco, se vogliamo usare il nome con cui gli ebrei d’Alessandria la indicavano, nome che poi fu ripreso anche dai cristiani; ed è il tempo, ebraico, della Legge di Mosè e di Abramo, della colpa di Adamo e dell’annuncio del Messia venuto a salvare l’uomo dal peccato. Il presente è invece il tempo dei Vangeli, il tempo di Gesù, Figlio di Dio fatto Uomo, ed è anche il tempo della venuta del Messia annunciato dagli ebrei e incarnato, come dicono i cristiani, per riscattare i peccati del mondo attraverso la sua Passione, la sua morte e la sua Resurrezione. Il futuro è infine il tempo dell’uomo nuovo, ed è anche quello, giudaico e cristiano, della Parusia annunciata nel Vangelo di Giovanni. Precisiamo, a questo punto, che l’Occidente cristiano si fonda tutto su questa freccia che, proprio grazie alla promessa della Parusia e del Giorno del giudizio, produce lo schema progressista del secolo dei Lumi. Nell’iconografia occidentale, succede che, ai piedi della croce di Cristo morto sul Golgotha (che, secondo l’etimologia aramaica, non a caso, significa «luogo del cranio»), il pittore raffiguri… un cranio! È il cranio di Adamo, il primo uomo, quello dalla cui colpa Gesù redime attraverso la propria morte sulla croce. Il vecchio uomo è Adamo il peccatore e la sua discendenza; l’«uomo nuovo» è l’uomo cristiano.

Ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità (Ef 4, 20-24).

Stesso discorso ai Colossesi: Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria; a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando vivevate in questi vizi. Ora invece gettate via anche voi tutte queste cose: ira, animosità, cattiveria, insulti e discorsi osceni, che escono dalla vostra bocca. Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato. Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti (Col 3, 5-11).

E perché l’uomo nuovo possa finalmente apparire, il fedele deve puntare all’imitazione di Gesù Cristo. In altre parole, deve imitare Gesù, e volersi senza corpo, senza carne, senza passioni, senza pulsioni, senza desideri, senza voglie e senza piacere; deve tendere verso l’angelo e uccidere dentro di sé quello che gli resta di peccato. Se di sesso maschile, non deve nascere da genitori reali e concreti, ma farsi Figlio del Verbo e basta; per quanto riguarda la donna, invece, dovrà imitare la vergine Maria, concepire e mettere al mondo senza l’aiuto di un genitore, e per tutta la vita riservare l’uso del proprio corpo unicamente al marito, al quale obbedirà in tutto e per tutto. Per quanto riguarda il resto, quando quest’uomo nuovo imiterà Cristo, dovrà cercare la sofferenza e il dolore per il loro potere salvifico, dalla penitenza fino al martirio, per chi è più radicale. Quello che san Paolo promette all’uomo nuovo che ha ucciso il vecchio dentro di sé, è di rivestire un giorno, e per l’eternità, un «corpo glorioso». Ai Filippesi dice che Cristo «trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose» (Fil 3, 21). Che cosa possiamo pensare di questo corpo glorioso? Anche se qualcuno cerca di presentarle come storicamente accurate, le Scritture sono in realtà molto contraddittorie. Andando ad analizzare i singoli episodi della vita di Gesù sulla Terra dopo la sua resurrezione (un periodo di tempo che potrebbe fornirci preziose informazioni sulla natura di questo corpo glorioso), quelli che ritroviamo sono tutta una serie di racconti assolutamente divergenti tra loro. A proposito delle reazioni delle donne che scoprono la tomba vuota, a proposito della quantità di persone a cui Cristo appare, a proposito dei

luoghi delle sue apparizioni e delle parole che proferisce, a proposito del numero stesso di queste sue manifestazioni, a proposito della loro natura e a proposito della cronologia degli eventi, a proposito dell’Ascensione, ignorata da Matteo, solo spirituale per Luca, e fisica e corporea nel racconto degli Atti (1, 9), troviamo detto tutto e il contrario di tutto. Persino a proposito della natura del corpo resuscitato, le versioni discordano: è spirituale per Paolo (1Cor 15, 44), ed è invece carnale per gli evangelisti (Lc 24, 37)… E poi parlano della storicità di Gesù Cristo! La conclusione è che ci si guadagna sempre a leggere i testi di cui si parla quando si prendono in giro le tesi mitiste. Sarà quindi abbastanza complicato ricavare da un testo neotestamentario apparentemente chiaro la natura di questo corpo glorioso. Quello che sappiamo è che, quando comincia a evangelizzare gli ateniesi, Paolo insegna la resurrezione della carne. Incontra dei filosofi stoici ed epicurei che lo assediano di domande per cercare di capire a che cosa potrà mai assomigliare un corpo morto che resuscita in forma di corpo glorioso. E Paolo comincia con lo spiegare che ha visto in città un altare dedicato a un Dio sconosciuto – è un segno della tolleranza dei politeisti, che si dimostrano empatici e non insofferenti verso gli dèi degli altri. Sempre pensando alla boxe, al combattimento, al pugilato, sempre con la sua spada in mano, Paolo vuole fare crollare questa tolleranza pagana affermando che quel Dio sconosciuto è il suo Dio, è Cristo, e gli altri sono tutti idoli. Paolo insegna che Gesù Cristo, Figlio di Dio, resuscitato, giudicherà gli uomini. E fa così entrare nel mondo pagano un’ontologia nuova segnata dall’errore, dal senso di colpa e dal peccato. L’anima deve sopportare tutta questa oscura dinamica. Paolo pone la vita sopra una bilancia: un piatto pende verso la salvezza eterna, l’altro verso la condanna eterna; da una parte il paradiso, dall’altra l’inferno. In entrambi i casi, i corpi continuano a sussistere anche dopo la vita, anche nella morte, e questo per sempre, per l’eternità. Gli epicurei e gli stoici di Atene cominciano a prendere in giro il discorso di Paolo, che a loro sembra incomprensibile. E, in effetti, per un greco, questo genere di tesi lo è, incomprensibile. Mezzo secolo dopo la morte presunta di Gesù, ad Atene, la ragione ancora resiste a questa favola. Però quando, nel 313, con Costantino, l’impero diventa cristiano, e quando, per dieci secoli, una coorte di Padri della Chiesa mette l’intelligenza al servizio di quella che apparentemente è solo una sciocchezza filosofeggiante, ma che viene fatta passare per verità filosofica, non sono più i filosofi che si prendono gioco del paolinismo, è il cristianesimo che piega la filosofia. L’anima degli uomini nati da Adamo si rivela nera come l’inferno.

Capitolo sesto

Niente erezioni nel giardino dell’Eden Sessualizzare il peccato

Citando i Salmi (94, 11), Paolo spiega ai Corinzi: «Il Signore sa che i progetti dei sapienti sono vani» (1Cor 3,20). Il tredicesimo apostolo non nasconde il proprio disprezzo per la filosofia e, come abbiamo visto, gli epicurei e gli stoici ateniesi gli rendono pan per focaccia. Dio, comunque, ha più a che fare con la fede e la grazia che non con la ragione e l’intelligenza. Il peccato originale non è forse, per l’uomo, o meglio per la donna, quello di aver preferito il sapere all’obbedire, andando ad assaggiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male che Dio aveva proibito di consumare? Una cosa che ci stupisce è l’idea di una possibile corrispondenza tra san Paolo e Seneca. Tra il filosofo storico e l’evangelista si dice esserci stato uno scambio epistolare di quattordici lettere, otto scritte dall’autore delle Lettere a Lucilio, e sei da quello delle lettere del Nuovo Testamento. In realtà, il vero nocciolo di tutta la questione non è tanto lo scambio reale tra i due, quanto piuttosto l’esercizio di stile messo in piedi dall’apologetica cristiana. Il testo è in effetti un falso composto attorno al IV secolo della nostra era. Sant’Agostino certifica la sua validità in una lettera (153, 14), ma alcuni autori del Rinascimento, Lorenzo Valla e Leonello d’Este, provano filologicamente la sua natura contraffatta, probabilmente realizzata sotto i Valentiniani. In attesa del processo, Paolo si stabilisce per due anni a Roma, dove lo stesso Seneca già si trova. La situazione, ce la illustrano gli Atti degli apostoli (28, 30): l’evangelista è ai domiciliari e può ricevere visite, quindi potrebbe teoricamente accogliere anche il filosofo romano. L’incontro in realtà non è mai avvenuto, e parte di questa breve corrispondenza sembra attestarcelo esplicitamente, quando entrambi gli autori si mettono a deplorare il fatto di non essersi mai incontrati. La verità è che, se si abita nella stessa città, due anni sono un termine di tempo ampiamente sufficiente per riuscire a vedersi, e già solo questa possibilità basta a creare i presupposti di una finzione. Il testo circola parecchio nel corso dei secoli, lo provano il numero di manoscritti, più di trecento. Si apre con un Prologo di san Girolamo, secondo il

quale Seneca avrebbe voluto «essere tenuto presso i suoi nello stesso conto in cui è tenuto Paolo presso i Cristiani».35 Non si capisce molto bene come il ricco e potente precettore dell’imperatore Nerone, una persona che vive a corte di quest’ultimo, possa aspirare a «essere Paolo» senza mai riuscire a diventarlo! Tanto più che, in questi anni, Paolo è solo un ebreo sconosciuto che si è convertito al cristianesimo, e che il cristianesimo stesso esiste solo in forma dispersa e settaria. A questo, aggiungiamo che Paolo vive nell’attesa di essere processato dalle autorità romane. Non c’è bisogno di particolari studi filologici per convincersi della natura fittizia di tutta questa storia. Basta invocare il carattere inverosimile di una simile relazione apologetica, inventata da un anonimo solo dopo che Paolo si è trasformato in uno dei pilastri della Chiesa cattolica, apostolica e romana. È, del resto, proprio a partire dal IV secolo che si comincia a credere che la sua tomba si trovi proprio nella basilica di San Pietro a Roma. Per quanto inventato, che cosa ci può comunque insegnare questo epistolario? Che Seneca ha studiato le lettere di Paolo, ne ha discusso con altri cristiani e le ha trovate molto interessanti (Lettera I); che a Paolo questo fa piacere (Lettera II); che il filosofo s’immagina un incontro tra l’apostolo e l’imperatore Nerone (Lettera III); che Paolo approva questo progetto (Lettera IV); che il romano si preoccupa del silenzio dell’interlocutore, con il quale, sia detto en passant, si congratula per il percorso che lo ha portato dal giudaismo a quello che ancora non si chiama cristianesimo (Lettera V); che Paolo ha paura che le lettere vengano intercettate e finiscano per danneggiare il suo corrispondente (Lettera VI); che, secondo il filosofo, le idee paoliniane sono belle e buone, ma espresse male (Lettera VII); che Paolo disapprova il fatto che Seneca abbia voluto parlare a Nerone di tutte queste idee, e gli chiede di non riprovarci più (Lettera VIII); che il filosofo stoico si rende conto di aver commesso un errore e chiede scusa (Lettera IX); che Paolo si ritiene colpevole di non associare il nome del proprio interlocutore con le alte funzioni che svolge nel contesto dell’Impero – il discepolo di Gesù pensa al filosofo come a un «devotissimo maestro»36 (Lettera X); che l’autore del libro Sulla felicità racconta quant’è contento di vedere i loro due nomi associati nella storia (Lettera XI); che Paolo invita il proprio corrispondente a convertirsi alla fede in Gesù Cristo (Lettera XIV); che l’autore latino impartisce lezioni all’autore greco e lo invita a non usare troppe allegorie o troppe parabole – trova che l’inadeguatezza della forma ostacoli la verità di fondo del discorso e lo invita a scrivere nella lingua di Cicerone (Lettera XIII); che lo stesso si lamenta che si vogliano perseguitare i cristiani accusandoli degli incendi nella capitale dell’Impero, solo perché sono dei colpevoli ideali e di conseguenza delle vittime facili da punire (Lettera XII).

Niente di teologico, nessuna discussione sulla resurrezione della carne, per esempio. Quello che percepiamo nettamente è, invece, l’intenzionalità apologetica dell’anonimo autore di questo documento falso. Non riusciamo nemmeno per un secondo a immaginare che Seneca si sarebbe potuto convertire alla religione di Paolo! Il personaggio dell’epistolario invece non ha nessuna paura a compiere questo passo. Scrive a Paolo: «Confesso di aver letto con piacere le lettere che hai mandato ai Galati, ai Corinzi e agli Achei, e possiamo noi vivere insieme in quel timor di Dio che tu mostri presentando le tue lettere (?). Infatti, lo Spirito Santo che è in te e al di sopra dei più alti ingegni umani esprime con parole sublimi pensieri degni di venerazione» (Lettera VII).37 Sembrerebbe quasi a un passo dalla conversione… È probabilmente a proposito di questa affermazione che, qualche lettera dopo, Paolo gli risponde: «ti sono state rivelate cose che la divinità ha concesso di conoscere a pochi. Dunque, sono certo che io sto seminando un seme vigorosissimo in un terreno fertile, non una qualche sostanza che sembra corrompersi, ma la salda Parola di Dio, emanazione di Colui che cresce e rimane in eterno. Ciò che la tua saggezza ha conseguito, cioè la decisione di evitare le manifestazioni di culto dei pagani e degli Ebrei, non dovrà venire mai meno».38 E poi, in maniera inaspettata: «Tu ti farai il nuovo fautore di Gesù Cristo, mostrando con proclamazioni retoriche quella sapienza irreprensibile che hai ormai raggiunto e la farai penetrare nel sovrano temporale, nei membri della sua corte e nei suoi amici fidati» (Lettera XIV).39 Cioè Paolo non si tira indietro di fronte a niente, e chiede addirittura a Seneca di convertire Nerone con tutta la corte, moglie Poppea compresa. La verità è che lo stoicismo si rivela assai compatibile con il cristianesimo, al contrario dell’epicureismo che, con la sua teoria atomista in virtù della quale nulla esiste al di fuori degli atomi fluttuanti nel vuoto e raggruppati a costituire tutti i tipi di materia del reale, del mondo e dell’universo, impedisce la possibilità stessa dell’anima immateriale, dello Spirito Santo, della resurrezione della carne in forma di corpo glorioso, e dell’eucaristia. In compenso, per Seneca, la Provvidenza esiste; e Dio pure; l’anima è immateriale, e il cosmo manifesta un ordine divino; la bontà trionfa con l’esigenza morale di perdonare gli offesi; e la bontà è imitazione degli dèi; le passioni sono tutte cose detestabili, il corpo va disprezzato, e l’ascesi invece desiderata. Il filosofo romano invita a non bere più vino, ad astenersi dai piaceri carnali, a scegliere la castità, ad allontanarsi dal mondo e a rifiutare tentazioni come gli onori e le ricchezze, uccidendo dentro di sé le passioni dell’orgoglio, della vanità e dell’invidia. E promuove una vita filosofica in cui la materia venga sottomessa alla volontà – il che permette una lunga relazione amicale tra lo

stoicismo e il paolinismo… Chi, tra Paolo e Seneca, scrive: «verrà il giorno che ti staccherà a forza e ti trarrà fuori dalla convivenza con questo repellente e fetido ventre. Innalzati da qui, per quanto ti è possibile, già fin d’ora, e non curarti dei piaceri […] medita fin d’ora su qualcosa di più elevato e nobile»?40 Chi è che insegna: «ridesta in te ciò che langue, rafforza ciò che è rilassato, doma ciò che si ribella, perseguita per quanto puoi le tue passioni e quelle degli altri; e a quelli che vanno dicendo: ‘Fino a quando continuerai a ripetere sempre le stesse cose?’, rispondi: ‘Sono io che dovrei dire: Fino a quando commetterete sempre gli stessi errori’»?41 Chi è che scrive: «Perciò, se vorrai star bene, cura soprattutto la salute dell’anima, e poi quella del corpo […]. È, infatti, da stolto […] l’attività di esercitare i muscoli […]. Quindi, per quanto ti è possibile, dà stretto posto al corpo e lascia spazio all’anima»?42 O ancora: «concedete al corpo solo quanto basta perché goda di buona salute […]: il cibo plachi la fame e la bevanda spenga la sete, le vesti proteggano dal freddo»?43 E chi è che dice: «Con quale altro nome lo potresti chiamare, se non un Dio che dimora nel corpo umano?» 44 E chi è che afferma: «l’animo è, invece, per sua natura sacro, eterno ed esente da qualunque violenza»?45 O: «nessuno conosce Dio»46, o anche: «Ma se [l’anima] non è pura e santa, non può accogliere Dio»?47 È il tredicesimo apostolo o il filosofo stoico? In realtà, tutti questi pensieri sono di Seneca! E li troviamo nelle Lettere a Lucilio e nella Consolazione alla madre Elvia. Possiamo solo stupirci leggendo queste parole: «[Il suo spirito] si è soffermato brevemente in un luogo superiore, per purificarsi e scuotersi di dosso i difetti e tutte le patine che ineriscono alla vita mortale, poi si è innalzato nel più alto del cielo e colà si muove liberamente, tra le anime felici. Lo ha accolto una compagnia sacra, gli Scipioni ed i Catoni, e, tra coloro che hanno disprezzato la vita e si sono dati da sé la libertà, tuo padre, o Marcia».48 È un testo estratto dalla Consolazione a Marcia e fa ovviamente pensare al purgatorio dei cristiani! Oppure ricordiamoci di questa stupefacente frase delle Lettere a Lucilio: «Verrà nuovamente il giorno che ci riporterà alla luce».49 Oppure di questo ritratto dell’«uomo perfetto»: «Non poteva, perciò, non apparire grande colui che non pianse mai sui propri mali e non si lamentò mai del suo destino; si è reso noto a molti, ha brillato come una luce nelle tenebre e ha attirato su di sé la benevolenza di tutti con la sua calma e la sua dolcezza, con il suo animo ugualmente giusto nelle cose umane e in quelle divine. Egli aveva un’anima perfetta, che aveva raggiunto quel livello al di sopra del quale c’è solo l’intelligenza di Dio, una parte della quale è discesa anche in questo petto mortale».50 Come non pensare alla vita di Gesù, e a quella dell’«uomo nuovo» di san Paolo?

Non la finiremmo più di mettere in rapporto la filosofia stoica e il pensiero paoliniano, e non la finiremmo più di stupirci delle loro convergenze ontologiche, spirituali, etiche e morali. Non dobbiamo comunque dimenticare che, se Seneca è manifestamente un contemporaneo di Paolo, le prime fasi greche dello stoicismo, con Zenone di Cizio, Cleante di Asso e Crisippo di Soli, risalgono a parecchi secoli prima! Quindi, evitando di ragionare da essenzialisti e di voler piegare la realtà storica, possiamo affermare che il cristianesimo si forma nel I secolo della nostra era contando su una tradizione filosofica anteriore che comprende, tra le altre cose, anche lo stoicismo di Zenone, nato quattro secoli prima dell’inizio della nostra era. Non è quindi lo stoicismo romano che prepara il cristianesimo, o addirittura Seneca che sarebbe stato un cristiano suo malgrado, un cristiano mascherato o un cristiano ante litteram; ma è Paolo di Tarso che ha alimentato il proprio pensiero ebraico con una certa dose di filosofia pagana, che comprendeva anche lo stoicismo dei suoi anni, quindi la sua versione romana. Ciò che permette di avvicinare l’ebreo Paolo diventato cristiano al filosofo stoico romano Seneca è un identico odio nei confronti della carne. Entrambi credono che il corpo sia composto da uno spirito immateriale e da una carne materiale. Ed entrambi ritengono che sia necessario maltrattare il proprio corpo terrestre per riuscire a trattare bene la propria anima; che si possa elevare la propria parte divina svilendo la propria parte carnale. Morire in questo mondo per vivere in eterno nel retromondo: è questo l’imperativo categorico di tutti questi sostenitori dell’ideale ascetico. Tanto Paolo che Seneca bagnano nello stesso dolorismo. Ma, allora, che cosa può giustificare il fatto di prendersela con il proprio corpo quando questo stesso corpo è l’unico nostro bene? In nome di che cosa considerare il desiderio cattivo, i piaceri vili, la carne colpevole, il corpo degno di biasimo e il godimento qualcosa da detestare? Da nessuna parte negli scritti, nei fatti e nelle gesta di Gesù, troviamo un minimo cenno che vada in questo senso. Gesù non invita a maltrattare il proprio corpo, non ritiene che più lo si umilia e lo si svilisce, più lo si sporca, lo si abbassa e lo si disprezza, più si fa un favore alla propria anima, aumentando la velocità con cui viaggia verso il cielo. Gesù ci invita invece ad amare il nostro prossimo, soprattutto quando ci detesta, ci disprezza, ci odia e ci offende; ci chiede di perdonare i peccati, di rendere il bene per il male, di tendere l’altra guancia quando ci colpiscono; e vorrebbe che nessuno mai venisse giudicato. Al contrario di Paolo, non emana leggi contro la carne, contro le donne, contro la sessualità, contro il desiderio, o contro il

piacere. Non arriverò fino a fare di Gesù un edonista, però è vero che non si dimostra mai avversario del piacere. Da dove nasce allora quest’odio della carne che accompagna sempre il riflesso condizionato dell’amore dell’odio di sé, con la scusa che quest’animosità sarebbe amore di Dio? Abbiamo visto che, con quella sua spina nella carne, con quella sua malattia cronica, con quella sua patologia tanto palese, Paolo non solo non ama sé stesso, ma vorrebbe anche che tutti quanti gli assomigliassero, e che quindi nessuno amasse sé stesso… Non è senza motivo che lo stoicismo è stato considerato un pensiero molto solidale e vicino a quello di Paolo. Esiste, in effetti, nei discepoli del Portico, una teoria del dolore del tutto simile a quella presente nella riflessione di Paolo, una teoria che invita ogni persona a farsi simile a Cristo, che ha sofferto prima di morire sulla croce. Nella storia della filosofia, lo stoicismo ha lasciato il proprio nome identificato a una dottrina dell’impassibilità di fronte al dolore. La costruzione di questo topos, più che dalla lettura dei trattati stoici penna in mano, deriva da un aneddoto associato alla vita del filosofo Epitteto. Lo troviamo raccontato da Origene, nel suo Contra Celsum. Epitteto era schiavo in casa di Epafrodito, un liberto che era diventato segretario imperiale di Nerone. Non si sa per quale ragione Epafrodito si mette a torturare Epitteto torcendogli la gamba. Ma lasciamo parlare Celso, citato da Origene: «quando il padrone suo gli storceva la gamba, [Epitteto] diceva sorridendo, senza scomporsi: Guarda che la spezzi!; e quando quegli l’ebbe spezzata: Non te l’avevo detto – disse – che l’avresti spezzata?»51 Sappiamo, perché è lui stesso a raccontarcelo a più riprese nelle sue Diatribe, che Epitteto era zoppo. Non sappiamo se fosse in conseguenza di questa storia, o se questa storia sia stata scritta proprio tenendo presente la sua infermità! I romani, che non condividevano con i greci il gusto per le teorie filosofeggianti, ma che hanno sempre preferito gli aneddoti edificanti,52 possono benissimo essersi inventati questa storiella semplicemente per trasmettere una lezione di saggezza, e cioè che il saggio sopporta la sofferenza e il dolore senza lamentarsi, e che, anzi, proprio questa sopportazione è il segno e la prova della sua saggezza. Non posso fare a meno di mettere in relazione le parole del filosofo stoico, «sereno e radioso», con quelle di Gesù sulla croce che grida «a gran voce», come ci racconta l’evangelista, «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15, 34). Perché questo grido si rivela il punto cieco di tutto il cristianesimo, che fa stranamente silenzio attorno a questa confessione, uscita dalla bocca stessa di Gesù, il quale, nel corso della propria crocifissione, dubita di Dio, quindi di sé stesso… I casuisti rispondono che è proprio lì che mostra la sua umanità; l’ateo che è in me, invece, avrebbe preferito che in quella circostanza avesse mostrato

la propria divinità. In quel momento o mai più… Non vogliamo sostenere che Epitteto amasse il dolore, o che considerasse preziosa la sofferenza, però questo modo di trasformare il dolore da realtà oggettiva a decisione della propria volontà, a effetto della propria decisione, apre la strada all’idea che, nella sofferenza, esista un aspetto positivo, e con questo anche il fatto di permettere al saggio, e quindi anche al cristiano, di dimostrare di essere tale. Volontà, volere, volizione, scelta, decisione e risoluzione: ecco cosa permette all’anima di domare il corpo. La carne svilisce l’uomo, l’anima lo eleva. Il fondamento di questo corpo peccaminoso si trova nella lettura che i cristiani fanno di quello che siamo tutti quanti d’accordo di indicare con il termine di peccato originale. Crediamo di conoscere la storia raccontata nella Genesi, ma ci sbagliamo: nella maggior parte dei casi, troppe cose vengono raccontate per sentito dire, senza tornare alla lettera del testo. Il quale ci racconta delle cose ben precise. Ricordiamo che la Genesi è il primo libro della Torah degli ebrei, il Pentateuco dei cristiani. Vediamo allora quali sono queste cose, perché gli ebrei e i cristiani non ne danno la stessa lettura. I primi, attraverso la loro tradizione rabbinica, arrivano alla conclusione della necessità dell’ermeneutica, cosa che fonda tutto il genio della loro cultura e della loro civiltà; i secondi, attraverso i Padri della Chiesa in generale, e sant’Agostino in particolare, arrivano alla condanna della carne che determina tutta la nevrosi della civiltà e della cultura cristiane. Il testo, dunque. Lo sappiamo, questo primo libro è quello delle genealogie e delle fondazioni: la Terra, l’acqua, la vegetazione, il Sole, la Luna, gli astri, gli uccelli, i mostri marini, il bestiame, gli animali più piccoli, e infine l’uomo, creato a immagine di Dio, come ci viene spiegato, e poi, a partire dalla costola di Adamo, Eva, la prima donna. Questo paradiso delle origini è un paradiso terrestre. In effetti, la Genesi ci spiega che si trova geograficamente situato tra il Tigri e l’Eufrate e non, quindi, fuori dal mondo: è un luogo preciso in Oriente, là dove nasce il Sole, quindi là dove nasce la vita. Dio ci pianta tutto, compreso «l’albero della vita» e «l’albero della conoscenza del bene e del male» (Gen 2, 9). Facile immaginare che non si tratti tanto qui di orticultura, quanto di simboli! Quello che Dio offre è quindi la vita e la conoscenza. Poi aggiunge, perché Adamo intenda: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, nel giorno in cui tu ne mangerai, certamente dovrai morire» (Gen 2, 16-17). Come a dire che offre la conoscenza, ma

assolutamente non vuole che gli esseri umani cerchino e scoprano da soli cosa sia il bene e cosa sia il male. La morale non è qualcosa che spetta a loro, ma solo a Dio. È questo che ci viene detto nelle prime pagine del Libro dei primi tempi. La cosa strana è che, in questo Eden, cioè in questo luogo che, in tempi normali, dovrebbe essere un luogo di felicità e di beatitudine, Dio abbia comunque piazzato un serpente, quindi la tentazione, il diavolo. Possiamo ancora parlare di paradiso per qualificare un luogo in cui, di default, il male già si trova acquattato? Torniamo al testo: Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: ‘Non dovete mangiare di alcun albero del giardino’?» Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: ‘Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete’». Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3, 1-5).

La donna scorge l’albero e ne soppesa il frutto, che è «desiderabile per acquistare saggezza» (Gen 3, 6). Lo prende, ne mangia e ne passa un po’ anche ad Adamo. È a quel punto che si rendono conto della propria nudità e si costruiscono delle cinture con le foglie di fico – e non è vite… Dio sta passeggiando nel giardino; Adamo e la moglie sentono «il rumore dei [suoi] passi» (!), e si nascondono. Se fanno così è perché si sentono in colpa per avere disubbidito. Adamo nasconde la propria nudità, cioè la propria umanità. E Dio gli dice: «Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?» (Gen 3, 11). Ennesima occasione di stupirci: Dio sente il bisogno di fare domande quindi Dio non sa tutto. Adamo denuncia la compagna… Dio passa a chiedere. E lei scarica sul serpente, a cui Dio allora si rivolge: maledice l’animale, e condanna l’uomo a lavorare con il sudore della sua fronte una terra dura da coltivare, e annuncia la donna che partorirà nel dolore, che dovrà sottomettersi all’uomo e che l’inimicizia regnerà tra i sessi e tra gli esseri umani. È solo a questo punto che Adamo dà un nome alla compagna: Eva, «perché ella fu la madre di tutti i viventi» (Gen 3, 20). Dio fa delle «tuniche di pelli» al primo uomo e alla compagna, poi si dice: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre» (Gen 3, 22) – che è il progetto transumanista! Dio esclude Adamo ed Eva dal Paradiso. Poi, «Scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la

via all’albero della vita» (Gen 3, 24). Il testo non dice che assaggiare il frutto dell’albero della conoscenza sia un peccato, o che Adamo ed Eva siano colpevoli: l’espressione peccato originale non si trova scritta da nessuna parte. In ogni caso, nessuno dei due si è reso colpevole di un peccato carnale: non si tratta assolutamente di lussuria, di fornicazione o di stupro. Non c’è niente di sessuale in tutta quest’avventura, anzi, è tutto teologico, addirittura etico: gli uomini non creano la morale, perché è solo Dio che la decide. Voler sapere porta a scoprire la natura miserabile dell’uomo senza Dio. In queste pagine inaugurali, è solo invano che cercheremmo un corpo terrestre colpevole e un’anima immateriale, al contrario, pura, o una punizione del sesso, una condanna della carne. Del resto, Adamo ed Eva avranno dei figli, a cominciare da Caino e da Abele, i quali, a loro volta, metteranno al mondo una numerosa discendenza. La Genesi è una poetica dell’immanenza; sant’Agostino, invece, la trasforma in una tragedia della carne. Prima di diventare il santo che tutti conosciamo, Agostino è stato il prototipo del libertino: donne, alcol, feste, una compagna e un figlio fuori dal matrimonio. Il padre era pagano, e la madre cattolica. Quando si converte alla religione materna, non fa altro che dimostrare la famosa tesi secondo la quale i libertini stanchi si trasformano nei devoti più accesi. Nelle Confessioni, non smette di piangere. Afferma di essere un peccatore, un uomo vanitoso, orgoglioso e ladro (conosciamo tutti il famoso episodio del furto delle pere nel giardino del vicino); riconosce di essere anche irascibile, bugiardo, presupponente e pretenzioso, e poi fornicatore, licenzioso, e desideroso di collezionare le conquiste di una sera, insomma un dandy preoccupato dallo sguardo altrui. Confessa di aver amato la propria degradazione: «Ma allora io infelice amavo soffrire e cercavo pretesti di sofferenza».53 La sua conversione gli permette di trasformare la sofferenza nell’epicentro della sua visione del mondo. San Paolo non poteva non ispirarlo… La madre, Monica, continua a lamentarsi della «superba abiezione»54 del figlio, e prega per la sua conversione. Chiede persino l’aiuto di un vescovo per riportare il figlio sulla retta via: il vescovo ritiene però che il caso sia disperato e si rifiuta di aiutarlo (III, 21). Agostino parte allora per Roma. Qui c’è la descrizione di un’incredibile scena isterica da parte di Monica, che lo segue fino al porto, gli si avvinghia addosso in lacrime, lo strattona, e strilla perché vuole riportarselo a casa o partire assieme a lui. Agostino mente alla madre e scappa per raggiungere la capitale imperiale (V, 8). Lui che collezionava le donne assieme ai suoi compagni di bisboccia, lui che,

sempre con gli stessi compagni, aveva provato piacere a rubare per rubare, lui che scriveva «d’ogni parte intorno mi strepitava il calderone degli amori peccaminosi. Non amavo ancora, ma amavo l’amore»,55 lui che si divertiva ad assistere agli spettacoli dei combattimenti e alla morte dei gladiatori; ecco che ora trova materia per la propria redenzione, innanzitutto leggendo Cicerone, e poi scoprendo le Scritture. Le lacrime che scorrono sulle guance di Monica sono, questa volta, di gioia. Agostino si compiace di fare così contenta la propria madre grazie a quest’amore condiviso per uno stesso uomo, cioè Gesù, il Figlio di Dio fatto Uomo. Madre e figlio decidono allora di andare a vivere assieme, sotto lo stesso tetto… La città di Dio teorizza il percorso esistenziale di Agostino. Quando Agostino parla del corpo, dei desideri, dei piaceri e della carne, è ovviamente di sé che sta parlando: sulla carta, brucia tutto quello che una volta gli ha dato felicità. Il vescovo di Ippona dà la caccia all’ex libertino, e offre alla madre Monica l’occasione di versare tutte le sue lacrime, questa volta di gioia. Il figlio regala così alla madre estasi assolutamente nella decenza. Nell’analisi serrata che fa del peccato originale (è a lui che dobbiamo l’espressione), Agostino parte dal testo per arrivare al sesso. Parte dalla nozione di «cattiva volontà» all’origine del peccato originale e arriva a concupisce o libido, come traduce il gruppo di lavoro del mio vecchio insegnante Lucien Jerphagnon, per la Pléiade. Ma come può Agostino compiere questo slittamento di senso su cui tutto l’Occidente si costruisce, quando all’interno della Genesi non si parla assolutamente mai di sesso? In che modo, una nevrosi personale, che va a sommarsi a quella di san Paolo, può far nascere una civiltà inevitabilmente toccata da tutte queste patologie? Agostino comincia dissertando sull’anima e sul corpo, e distinguendoli, ovviamente sempre con l’idea paoliniana che il corpo è peccaminoso, e lo spirito, purché se ne faccia buon uso, è ciò che salva la carne. Anche l’anima può morire, per esempio quando si trova abbandonata da Dio. E Agostino non dice quando l’uomo l’abbandona contro Dio, ma quando Dio l’abbandona: «La morte dell’anima […] avviene quando Dio l’abbandona, così come la morte del corpo avviene quando l’abbandona l’anima».56 E l’anima abbandona il corpo quando Dio abbandona l’anima: «Si ha poi la morte del corpo e dell’anima, cioè dell’uomo intero, quando l’anima, abbandonata da Dio, abbandona a sua volta il corpo. In questo modo infatti l’anima non vive di Dio, né il corpo vive dell’anima».57 E qui ritroviamo addirittura le radici del giansenismo: Dio può anche decidere

di abbandonare un’anima! I gesuiti del Seicento ovviamente si opporranno a quest’idea, perché riterranno che una simile tesi elimina il libero arbitrio e la scelta individuale, la responsabilità e la colpevolezza, e quindi anche la punibilità dell’uomo, lasciando come aperte a Satana tutte le porte della Terra! Quando l’anima è rivolta a Dio, essa prende, custodisce e conserva il controllo sul corpo, che, da parte sua, è mosso dal desiderio, e ricerca il piacere. Agostino lega il peccato al corpo introducendo l’idea che la nudità si fa problematica solo dopo la colpa. Prima della colpa, non esiste nessun tipo di problema nel ritrovarsi nudi in paradiso; dopo, proprio la colpa costringe Adamo ed Eva a nascondersi, e poi a nascondere le «parti intime»58 con delle foglie di fico intrecciate a mo’ di cintura. Agostino crea quindi una carne cristiana della vergogna, là dove prima c’era solo disobbedienza alla legge giudaica – non assaggiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, ricordiamolo. Adamo ed Eva «Avvertirono dunque un nuovo impulso di ribellione nella propria carne, come una pena che si ritorce contro quella ribellione. Ormai l’anima, compiaciuta dell’uso perverso della propria libertà ed avendo ricusato la sottomissione a Dio, veniva privata dell’originaria sottomissione del corpo» [corsivo mio].59 Ci piacerebbe rispondere ad Agostino che quel suo «dunque» non va da sé, e avrebbe meritato lunghi sviluppi, perché, in effetti, con quella semplice parolina, fa prendere a quella che diventerà ben presto una civiltà una strana direzione! In altre parole, quando l’anima non controlla il corpo, è il corpo a controllare l’anima e a ucciderla. Il peccato consiste nella mancanza di controllo dell’anima sul corpo, della volizione sulla carne. L’anima deve rimanere sottomessa a Dio, scrive Agostino, ma anche, lo abbiamo appena visto, Dio può risolversi a perdere un’anima, e in questo processo la volontà dell’uomo non conta assolutamente nulla. Come si potrebbe rimproverare all’uomo quello che Dio ha potuto volere per lui, al suo posto? È dal movimento di disobbedienza del corpo nei confronti dell’anima, indotto dall’uomo e tuttavia voluto da Dio, che ha inizio il principio della fine: «Allora quindi la carne cominciò ad avere desideri contrari allo spirito; noi siamo nati in mezzo a questa lotta, traendovi l’origine della morte e portando delle nostre membra e della nostra natura corrotta il soprassalto e la vittoria della carne, a partire dalla prima prevaricazione».60 Dio ha creato l’uomo libero e puro, ma l’uomo ha scelto e deciso di disobbedire, cioè di essere impuro. Dio ha creato l’uomo libero; però che cosa significa la libertà se il suo libero uso deve essere punito? Creare un uomo libero perché si sottometta alla proibizione di fare libero uso della propria libertà è un’astuzia della ragione di chi vuole essere obbedito facendo credere che la servitù debba essere volontaria. Agostino può cercare di trasformare il peccato

originale in una storia della volizione libera, però preferisce spostare le cose sul piano sessuale. Potrebbe essere un filosofo, e invece si trasforma in un moralista. L’autore della Città di Dio lo afferma con chiarezza: quando Dio crea l’uomo, in giro ci sono solo lui e Adamo, tutto va bene. Quando arriva la donna, comincia il disordine. La donna nasce dall’uomo, dalla sua costola, come sappiamo, in un momento in cui il peccato non esiste ancora. Prima di Eva, Adamo vive in un corpo che sfugge alla degenerazione, alla vecchiaia, alla sofferenza, alla malattia e alla morte. Il suo corpo terrestre e materiale si alimenta dei frutti raccolti sugli alberi e si abbevera all’acqua delle sorgenti. Agostino spinge a interpretare simbolicamente il paradiso, «purché […] si creda alla verità di quella storia che si fonda sulla narrazione, assolutamente degna di fede, degli avvenimenti».61 Dio ha creato la carne, e la carne non è cattiva in sé: lo è se, e soltanto se, l’uomo vive unicamente assecondandola; in altre parole, sarà buona o cattiva a seconda del risultato di una certa dialettica, o di una certa dinamica: sarà decisa solo come risoluzione di una particolare tensione. La carne può e deve vivere secondo lo spirito, e per fare questo basta che l’uomo lo voglia. È dunque la volizione che, prima della carne, viene messa in gioco: il valore della carne dipende dall’uso che l’anima ne fa. C’è peccato quando si fa un uso carnale della carne, ma anche quando la volontà rifiuta di usarla in senso spirituale. Non è la carne che è colpevole, ma solo l’uso che ne fa lo spirito, che dovrebbe volere la sottomissione e la soggezione della carne… negandola! L’uso spirituale della carne è quello che ci salva. «Quando perciò l’uomo vive secondo l’uomo e non secondo Dio, assomiglia al diavolo».62 Satana si è servito del serpente. Leggiamo Agostino: [L’angelo orgoglioso] scelse un serpente, cioè un animale viscido e che si muove attorcigliandosi sinuosamente, come mezzo per parlare adatto al suo disegno, nel paradiso corporale, dove assieme al primo uomo e alla prima donna vivevano gli altri animali terrestri, docili e innocui. Avendolo sottomesso a sé con perfidia tutta spirituale, grazie alla sua presenza angelica ed alla superiorità della sua natura, servendosene come di un mezzo, rivolse alla donna parole ingannatrici; ovviamente si rivolse anzitutto alla parte più debole di quella coppia umana, per raggiungerla gradatamente nella sua pienezza, pensando che l’uomo sarebbe stato piuttosto incredulo e che avrebbe potuto essere ingannato non direttamente, ma attraverso l’errore dell’altra [corsivo mio].63

Adamo è stato preso in giro dai legami affettivi coniugali – in un certo senso, è una pasta d’uomo ma diventa vittima di un’arpia… A proposito della proibizione decretata da Dio di assaggiare i frutti dell’albero della conoscenza, Agostino scrive: «In quel precetto si raccomandava

l’obbedienza».64 Adamo ed Eva peccano d’orgoglio, di «superbia»,65 come viene detto con una bella parola. Perché, allora, convocare la donna, tutte le donne, e poi la «libido», se non per parassitare autobiograficamente la propria dottrina? Dio già prevede il peccato,66 e strumentalizza quindi un serpente che seduce una donna, che a sua volta convince Adamo a peccare, il quale poi trasmette il peccato a tutti gli esseri umani del pianeta. Però, nonostante il fatto che sia stato Dio a volete tutto quanto, è solo la donna a essere colpevole. Da qui gli sviluppi sulla libido. La parola latina ha abbastanza significati anche oggi. Per Agostino, quando si parla di passione [libido] senza aggiungere altro, quasi sempre viene in mente quella relativa all’eccitazione di parti intime del corpo. Questa passione non reclama per sé solamente il corpo tutto intero, interiore ed esteriore, ma turba tutto l’uomo, congiungendo e mescolando assieme la voglia della carne con il sentimento dell’anima e provocando quel piacere che è il più grande fra quelli del corpo; così, nel momento preciso in cui quella passione raggiunge il culmine, si annebbia quasi completamente tutta la forza vigile, per così dire, del pensiero. Ebbene, qual è quell’amico della sapienza e delle sante gioie, che viva la vita coniugale, ma che, secondo l’avvertimento dell’Apostolo, sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio; chi è che non preferirebbe, se fosse possibile, procreare figli senza questa passione? Così, in questa missione di procreazione, le membra create a tal fine, come tutte le altre che hanno funzioni specifiche, sarebbero sottomesse ad un cenno della volontà e non eccitate dal fuoco della passione. Del resto, neppure gli uomini che amano questi piaceri sono spinti alle unioni coniugali o ad impurità vergognose quando vogliono; talora quell’impulso è inopportuno e non desiderato; talvolta invece pianta in asso chi sta spasimando e così nell’anima si brucia dal desiderio mentre il corpo è gelido. In tal modo, cosa davvero sorprendente, la passione non soltanto non si pone al servizio della volontà di generare, ma neanche della passione più sfrenata; e mentre il più delle volte resiste completamente allo spirito che cerca di frenarla, qualche volta entra in contrasto con sé stessa e dopo aver turbato l’anima non arriva da sola a turbare anche il corpo.67

Eccoci al punto. Dal termine latino poma, che traduce il «frutto» ebraico nella Vulgata e che finirà per dare il nostro «pomo» (assente nella Genesi), si passa alle pudenda, come si diceva una volta per evitare di usare l’espressione «parti genitali». Ecco una singolare e inverosimile storiella filosofica che, da meditazione sulla relazione tra volizione umana e volizione divina (dibattito teologico quant’altri mai), scivola impercettibilmente alla relazione tra peccato originale ed erezione, attenta solo a sé stessa! Il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male è diventato un po’ alla volta un elemento fallico e turgido – o detumescente, a seconda… E Agostino a continuare la propria inchiesta sulla libido degli uomini: in paradiso, ci spiega tutto serio, «la passione [libido] non turbava ancora quelle membra contro la volontà, e la carne, in certo senso, non costituiva ancora un’accusa, nella sua disobbedienza, nei confronti della disobbedienza

dell’uomo».68 La vergogna del corpo nudo che segue il peccato originale testimonia che il peccato originale è proprio l’erezione, il palesarsi carnale della libido. La libido, essendo una pulsione dentro l’anima, costringe la carne a commettere il peccato, che non si trova quindi dentro di lei a priori. Il corpo è peccaminoso quando, dentro di sé, lo spirito vive secondo la carne. La volontà può negare il corpo, e lo spirito può domare la carne. Ecco perché, dopo Paolo e Agostino, e il loro status di santi, il martirio verrà presentato come la via regina per passare tutta la potenza all’anima, allo spirito e alla volontà, non lasciando nulla al corpo, alla carne, alla libido, solo la morte. A quel punto, toccherà semplicemente puntare allo stato di cadavere per realizzare l’Uomo Nuovo.

Capitolo settimo

Il sangue, semente dei cristiani Suppliziare i corpi

È lo spagnolo Nicolás Monardes, contemporaneo di Montaigne, a chiamare per primo la passiflora con questo nome, cioè il «fiore della Passione», perché ci vedeva riuniti tutti gli elementi che compongono la Passione di Cristo: i dieci petali e sepali, come i dodici fedeli apostoli, meno Pietro che ha dubitato e Giuda che ha tradito; i cinque stami colorati di rosso, come le cinque piaghe di Cristo, e cioè le mani e i piedi con i chiodi, la testa ferita dalla corona di spine, il costato destro trafitto dalla lancia, e la schiena lacerata dai colpi di frusta; il pistillo con i suoi tre stili, come i tre chiodi, due per le mani, e uno per i piedi sovrapposti; i settantadue filamenti che circondano la parte centrale, come le settantadue spine della corona; la cupola centrale del fiore, come il Santo Graal, il calice dell’Ultima Cena che ha contenuto il sangue di Cristo; la trentina di macchie tonde all’interno del fiore, come i denari del tradimento di Giuda; le foglie a punta, come la lancia del centurione che ha trafitto il fianco di Cristo; i colori bianco e blu, come il cielo e la purezza; le brattee, come la Trinità; l’ovario voluminoso, come la spugna intrisa di aceto; i viticci della pianta, come le corregge della frusta; altri proseguono, e ci vedono persino un martello, e una canna, come la colonna del supplizio… Da tutto questo si ricava che la passione di Cristo è una scena del crimine con tanto di indizi della tortura che vi è stata consumata. Come stigmate supplementare, possiamo aggiungere la ferita provocata sulla spalla dal trasporto della croce di legno per tutto il percorso del calvario, fino alla cima del Golgotha. Il corpo di Cristo suppliziato si trova macchiato di sangue, di linfa, di sudore e di lacrime. Prima di morire, che è una cosa, soffre, che è un’altra cosa. Nella storia dell’arte occidentale, la rappresentazione di Cristo sulla croce appare tardi. Per molto tempo, l’arte paleocristiana mette in scena solo pastori che si portano le pecore in spalla, nessun Cristo sulla croce. È il tema del Buon Pastore che alimenta il suo gregge, leggi: i fedeli, e che recupera le pecorelle smarrite, per finire in ultimo sacrificato anche lui come capro espiatorio, come l’agnello pasquale che ripara i peccati del mondo. Sopra alcuni sarcofagi,

destinati alle anime dei defunti, troviamo dei paesaggi paradisiaci. In queste opere, la spiritualità pagana si mescola al cattolicesimo in embrione e ancora disperso nello spazio dell’Impero. Il ricorso a paesaggi bucolici in cui il defunto vive affrancato dalle sofferenze terrestri fornisce un’immagine di serenità, calma e pace. Questo modo di rappresentare Cristo cita l’Ermete crioforo dei greci, la divinità che porta il capro. La visione paleocristiana non si preoccupa tanto di Cristo morto sulla croce per la salvezza del mondo, o della imitazione del cadavere di Gesù, quanto delle immagini del battesimo e della salvezza mediante immersione. Insomma, nelle catacombe di Roma, non troviamo nessuna crocifissione. È ovviamente nel IV secolo, con Costantino, che l’arte paleocristiana lascia posto all’arte cristiana propriamente detta, con grande sfoggio di supplizi e crocifissioni. A quest’altezza temporale, il cattolicesimo arcipelagico e disperso si trasforma in continentale e imperiale. E perché questo possa succedere, l’imperatore si dà da fare per creare, assieme alla madre Elena, una mitologia propriamente cristica. Entrambi s’impegnano a rendere visibile l’incarnazione di Cristo. Lui che disponeva di un anticorpo di parole, lui che proveniva dal Concetto, dal Logos e dal Verbo, lui che altro non era se non la realizzazione della promessa delle Scritture ebraiche, eccolo ora che, grazie alla cultura, può cominciare a disporre di una biografia dalle apparenze storiche. I racconti, le pitture, le sculture, i mosaici e gli edifici con tutte le loro decorazioni cominciano a costruire la vera e propria incarnazione di Gesù. Non sorprende quindi scoprire che la prima crocifissione conosciuta nel mondo dell’arte risalga all’inizio del V secolo. Prima del III secolo, c’è solo il graffito di Alessameno a raffigurare una crocifissione umana, e si tratta comunque verosimilmente di una caricatura pagana, lo si capisce da come il protagonista si ritrova munito di testa d’asino. Lo ricordiamo anche per mostrare in quale considerazione i non cristiani tenevano, in quel periodo storico, i fedeli di Cristo, assimilandoli a tanti asini – esattamente come aveva fatto Celso, nel II secolo, quando, nel suo Contro i cristiani, aveva stigmatizzato la stupidità dei primi discepoli di Cristo, descrivendoli come «storditi […] in balia […] dei loro pregiudizi, vuote ciance e null’altro».69 Nell’intento di dare un corpo e una carne a Cristo, Elena, la madre di Costantino, si organizza un viaggio a Gerusalemme. Gelasio di Cesarea raccoglie le testimonianze orali che riguardano questo viaggio dell’imperatrice in Terrasanta. In seguito, Rufino di Aquileia, Socrate di Costantinopoli, Sozomeno e Teodoreto di Cirro, continuatori, come Gelasio, della Storia ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, riprendono tutti questa serie d’informazioni, che oggi non esiteremmo a classificare come fake news…

Prima di Elena, per vedere, bisognava credere; dopo Elena, si vede solo quello che non può non portare a credere. La madre dell’imperatore sostiene, in effetti, di aver scoperto, dopo aver interrogato gli abitanti del luogo quattro secoli dopo la morte di Gesù, il punto esatto della crocifissione, indicatole da un segno celeste (Dio è il miglior aiuto in questi casi). Sul luogo segnalato dall’Altissimo, gli uomini hanno costruito, nel frattempo, un tempio in onore di Venere – tanto per sottolineare quanti bei ricordi abbia lasciato Cristo in quattrocento anni! Dal momento che tutto il materiale della Passione sembra essere rimasto in loco, Elena ha anche il grandissimo onore di scoprire la croce di Cristo e, già che ci siamo, anche quella dei due ladroni! Da questa specie di rigatteria cristica, salta poi fuori anche il titulus, vale a dire il pezzo di legno attaccato per ordine di Pilato in alto sulla croce, e sul quale si trova la scritta INRI, vale a dire Iesus Nazarenus Rex Iudæorum («Gesù Nazareno, re dei Giudei»). Mentre Elena sta giocando all’archeologa, si fa portare una moribonda sulla lettiga. Macario, il vescovo di Gerusalemme che l’accompagna, racconta che alla donna sono state fatte toccare le tre croci ed è rimasta insensibile a due di loro, mentre la terza l’ha rimessa in piedi: è il segno che era quella buona! È proprio grazie a questo modo tutto particolare di procedere con gli scavi e di praticare la medicina, che possiamo parlare della «vera croce», di cui dappertutto sul pianeta sembrano esistere dei frammenti. Non bastassero tutte queste cose, Elena ha anche scovato da qualche parte i tre chiodi della crocifissione – che finiranno incorporati nell’elmo e nel morso del cavallo di Costantino grazie all’opera del suo fabbro, e che oggi sono conservati nella chiesa di Saint-Siffrein a Carpentras! In seguito a questi ritrovamenti, Elena, destinata a diventare santa (è il meno che la Chiesa possa fare per qualcuno che ha reso tutti questi servizi), ordina la costruzione della chiesa della Natività a Betlemme (perché è riuscita a ritrovare anche il luogo della nascita di Gesù), e di un altro edificio sul Monte degli ulivi. Nell’orazione funebre sulla Morte di Teodosio, Ambrogio di Milano mette in bocca a Elena sul Golgotha queste parole: «Ecco il luogo del combattimento: dov’è la vittoria? Io cerco il vessillo della salvezza, ma non lo trovo. Io […] tra il fasto regale, e la croce del Signore tra la polvere? Io, in mezzo all’oro, e il trofeo di Cristo in mezzo alle rovine? Egli è tuttora nascosto, e nascosta è la palma della vita eterna? Come posso ritenermi redenta, se non si vede la redenzione?» 70

Segue un’invettiva contro il demonio, il serpente: O diavolo, hai voluto coprire di terra la spada che ti ha distrutto. […] Si asportino dunque le rovine, affinché venga alla luce la vita […]: si squarci la terra, affinché rifulga la salvezza. Che cosa hai ottenuto, o diavolo, nascondendo il legno, se non farti di nuovo sconfiggere? Ti vinse Maria, la quale partorì il trionfatore, e, senza offuscare la sua verginità, diede alla luce Colui che,

con la crocefissione, ti doveva sconfiggere e soggiogare con la sua morte. Sarai sconfitto anche oggi, e una donna sventerà le tue insidie. Colei portò il Signore nel suo seno perché era santa; io andrò in cerca della sua croce. Essa ci insegnò la realtà della sua nascita, io dimostrerò quella della sua risurrezione. Essa fece sì che Dio apparisse in mezzo agli uomini, io innalzerò dalle rovine il divino vessillo, a rimedio dei nostri peccati.71

Eva si è resa colpevole del peccato originale che ha provocato la cacciata dell’uomo dal paradiso; Maria ha invece redento questa colpa mettendo al mondo Gesù, che lava il peccato con la propria morte sulla Croce; Elena, femminista indemoniata, approfitta dell’ispirazione mistica per mettersi in terza posizione. Ecco formata una nuova Trinità che riunisce Eva, Maria ed Elena, in altre parole i tre tempi mistici della nuova storia proposta da Costantino: la Torah, i Vangeli e le lettere di Paolo. Inventando la Croce, sant’Elena fa pendere la dolcezza di Gesù verso la spada di Paolo, cui Costantino offre il proprio braccio. Il culto del corpo crocifisso rimpiazza ormai il «Verbo incarnato», per parlare come l’apostolo Giovanni. La croce, strumento di tortura caratteristico di quegli anni, diventa il simbolo della nuova religione. L’uomo nuovo di san Paolo ha quindi per proprio modello genealogico un cadavere suppliziato… Sull’orizzonte storico della civiltà giudaico-cristiana inizia a stagliarsi un’incredibile tanatofilia. Per spingere verso questa etica, l’arte comincerà a produrre una quantità astronomica di opere. A Bisanzio, i pittori rappresentano Cristo sulla croce in un modo tutto particolare: è il Christus patiens, il Cristo che soffre e che si è rassegnato. Più che la resurrezione, a essere mostrati sono gli effetti della morte sul corpo, come se si dovesse scegliere non tanto l’ottimismo della salvezza quanto la tragedia della crocifissione, che termina con le grida di Gesù che chiede al cielo perché Dio l’abbia abbandonato! Questo Gesù morto piega la testa sulla spalla destra perché la vita si sta esaurendo e non riesce più a sostenerla; il volto mostra una smorfia di dolore; gli occhi sono vuoti, cavi, estinti; il cranio sembra svuotato: è, nel vero senso della parola, la testa di un morto; la bocca ricasca; il sangue scorre dalle mani, dai piedi e dal fianco destro; il corpo è sfiancato e non si regge più in piedi, si appoggia al legno della croce e noi possiamo vedere i muscoli tesi, quasi rigidi, rattrappiti dalla morte. Tutto sembra ricadere verso terra, e non c’è niente che si arrampica verso il cielo. È un Cristo bloccato nel momento in cui pronuncia quelle sue famose parole di disperazione. Ecco quello che bisogna imitare: un cadavere della cui resurrezione nessuno può dirsi sicuro…

Come possiamo imitare questo cadavere? Lezione pratica. Dal punto di vista dello spirito, il martirio sembra essere il grado massimo della vita. Nella sua Apologia del cristianesimo, Tertulliano scrive rivolgendosi ai persecutori dei cristiani: «Noi diveniamo più numerosi tutte le volte che siamo falciati da voi: il sangue è semente di cristiani!»72 All’inizio del II secolo, sotto il regno di Traiano, il vescovo di Antiochia Ignazio, probabilmente discepolo di Paolo o di Pietro, viene arrestato e portato a Roma per subire il martirio, senza dubbio al Colosseo. Nel corso del viaggio, scrive delle lettere destinate ai propri discepoli Efesini, Magnesiaci, Tralliani, Filadelfiesi e Smirnesi. Per lui, i cristiani sono dei «cristofori», cioè dei portatori di Cristo. La loro dottrina è l’insegnamento di Cristo e prende il nome di «cristomazia», e la loro vita è «cristianesimo», una parola che non si è probabilmente inventato da solo, ma che sembra comunque essere uno dei primi a usare. Deplora il carattere arcipelagico delle sette cristiane e lavora alla loro unificazione. Secondo lui, la grande differenza con gli ebrei sta tutta nell’«incarnazione». Forte di questa convinzione, combatte il docetismo, cioè la teoria difesa da Serapione, altro vescovo di Antiochia, che sostiene che Gesù non ha avuto né un corpo fisico né una realtà materiale, e che quindi non è mai nato e non ha mai sofferto. La grande conseguenza di questa posizione è che la crocifissione è un’illusione, e che nemmeno l’eucaristia è più possibile, o anche solo pensabile. Nella sua lettera Ai romani, Ignazio racconta il proprio entusiasmo per il martirio: «Lasciate che sia pasto delle belve per mezzo delle quali mi è possibile raggiungere Dio. Sono frumento di Dio e macinato dai denti delle fiere per diventare pane puro di Cristo. Piuttosto accarezzate le fiere perché diventino la mia tomba e nulla lascino del mio corpo ed io morto non pesi su nessuno. Allora sarò veramente discepolo di Gesù Cristo, quando il mondo non vedrà il mio corpo. Pregate il Signore per me perché con quei mezzi sia vittima per Dio».73 E poi: «se soffro sarò affiancato in Gesù Cristo e risorgerò libero in lui».74 E anche: «Potessi gioire delle bestie per me preparate e m’auguro che mi si avventino subito. Le alletterò perché presto mi divorino e non succeda, come per alcuni, che intimorite non li toccarono. Se incerte non volessero, le costringerò». 75 E infine: «Nulla di visibile e di invisibile abbia invidia perché io raggiungo Gesù Cristo. Il fuoco, la croce, le belve, le lacerazioni, gli strappi, le slogature

delle ossa, le mutilazioni delle membra, il pestaggio di tutto il corpo, i malvagi tormenti del diavolo vengano su di me, perché voglio solo trovare Gesù Cristo». 76 Spiega ai propri discepoli: «Lasciate che io sia imitatore della passione del mio Dio».77 Ignazio di Antiochia sostiene di non avere nessuna predilezione per questo mondo e per i vani piaceri dell’esistenza, e di disprezzare la «materia» e la «vita umana», e riprende l’immagine di san Paolo, definendosi «aborto» egli stesso. La sua unica preoccupazione è lo «spirito». Nella sua lettera ai Filippesi, Paolo aveva scritto che «morire [è] un guadagno» (Fil 1, 21). Sappiamo che Ignazio è morto per la propria fede, anche se ignoriamo le circostanze, perché non è rimasto nessun documento a raccontarci quello che è successo. Nella sua Legenda aurea, best seller medievale del Duecento che serviva ai parroci per preparare i sermoni, Iacopo da Varazze non perde troppo tempo con la verità e preferisce muoversi direttamente in mezzo al meraviglioso. S’inventa delle storie edificanti, come quella dell’imperatore Traiano che chiede personalmente a Ignazio di abiurare la propria fede e mettere le proprie capacità al servizio della religione pagana, promettendogli un posto d’elezione nella gerarchia dello Stato romano. Ignazio, ovviamente, rifiuta e gli restituisce la gentilezza: perché non dovrebbe essere invece l’imperatore a convertirsi? Traiano, ovviamente, rifiuta, e l’affronto scatena il martirio: frustate sulle spalle, fianchi scorticati con uncini di ferro, ferite strofinate con pietre abrasive, e poi, come se non bastasse, Ignazio viene costretto a camminare sui carboni ardenti, a sopportare una nuova raffica di frustate sulla schiena, e a farsi ricoprire le piaghe con il sale. Alla fine, viene incatenato e attaccato a un palo e rinchiuso in una segreta senza bere e senza mangiare per tre giorni; dopodiché viene lasciato alle belve feroci in presenza di Traiano, del Senato e di una folla numerosissima. Ovviamente, in tutte queste cose non c’è niente di vero! Iacopo da Varazze mette in bocca a Ignazio delle frasi che ha ricavato dalla sua lettera Ai romani, in particolare la storia del frumento macinato dai denti degli animali. Traiano viene convinto dalla capacità di sopportazione del vescovo di Antiochia e dubita che un greco avrebbe mai potuto dimostrarsi tanto all’altezza. Ignazio che tocca il cuore dell’imperatore di Roma: ecco, a suo modo, un miracolo! Iacopo da Varazze precisa che Traiano «andò via pieno di stupore»78 e «ordinò che nessun cristiano fosse perseguitato e che fosse punito solo se fosse capitato sotto mano». 79 La Legenda aurea s’inventa il peplum… Ovviamente, per tutta la durata del martirio, Ignazio continua a invocare il nome di Gesù Cristo. Ai carnefici che gli chiedono conto, risponde: «Ho quel nome inciso nel mio cuore e perciò non posso smettere di invocarlo».80 Alcuni antesignani dell’Union rationaliste hanno voluto sgombrare, per così dire, ogni dubbio: «Dopo la sua morte quelli che gli avevano sentito dire questo, mossi

dalla curiosità di sapere se era vero, gli estrassero il cuore dal corpo e, dopo averlo tagliato a metà trovarono che in tutto il cuore era inciso il nome ‘Gesù Cristo’ in lettere d’oro. Così moltissimi credettero».81 Ci si può convertire con molto meno… Origene nasce in una famiglia cristiana alla fine dello stesso II secolo. In gioventù, assiste alle persecuzioni dei suoi correligionari, sotto l’imperatore Settimio Severo. Leonida d’Alessandria, il padre, muore martire attorno al 202 e qualcuno dice che Origene abbia assistito alla sua decapitazione. Anche il figlio vorrebbe morire da martire, ma la madre lo blocca in tempo nascondendogli i vestiti e impedendogli di uscire… A diciott’anni, il vescovo Demetrio lo incarica di formare i catecumeni, il che attesta quanto fossero fuori della norma le sue qualità intellettuali. Abbandona i libri profani e s’impone una vita di mortificazioni. Si mette a studiare filosofia e assiste probabilmente alle lezioni di Ammonio Sacca, il futuro maestro di Plotino. Pensa a come mettere assieme medio-platonismo e neoplatonismo. E scopre Filone di Alessandria. Passa per essere il padre dell’esegesi cristiana. E, in effetti, è proprio a lui che viene attribuita la creazione della scuola teologica di Alessandria, in cui gli studenti lavorano tutti quanti assieme a produrre una pletora di commenti sui testi biblici. E a lui si deve anche una voluminosa stroncatura del libro di Celso Contro i cristiani, un testo per noi scomparso. Possiamo capire che i cristiani giunti al potere non abbiano avuto alcuna intenzione di lasciar traccia di quest’opera di Celso, però, astuzia della storia, criticandolo, Origene lo ha talmente citato che la somma di queste sue citazioni corrisponde alla quasi totalità dell’opera. La stroncatura è quindi servita a salvare il testo che voleva affossare. Nel 250, le persecuzioni di Decio fanno parecchi martiri. Origene viene arrestato, messo in prigione, torturato, però sopravvive. Muore all’età di sessantanove anni, tra il 253 e il 254. Tre secoli dopo la sua morte, viene accusato di eresia. Il secondo concilio di Costantinopoli condanna le sue tesi nel 553. Sic transit gloria mundi. A preoccupare moltissimo quest’uomo è il passaggio dalla teoria alla pratica. L’iniziatore della critica testuale sembra però capire quello che legge solo a metà… Per esempio, quando medita sul Vangelo di Matteo, si sofferma su questa frase di Gesù: «vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca» (Mt 19, 12). Detto fatto, Origene mette da parte il lavoro esegetico fondato sul

neoplatonismo e si taglia i genitali. Nella sua Storia ecclesiastica, Eusebio di Cesarea ci racconta che Origene avrebbe spiegato a Demetrio, il vescovo di Alessandria, il significato di quest’azione e che quest’ultimo se ne sarebbe addirittura congratulato! Verso la fine della sua vita, lavorando a un Commento al Vangelo di Matteo, Origene critica una lettura letterale di questo passo (Mt 19,12), ritenendo che solo un idiota penserebbe a castrarsi dopo averlo letto. A Origene non gliela si fa! Ci stupisce solo che il papa dell’esegesi cattolica non abbia capito la dimensione allegorica e simbolica del testo che stava studiando. E insegnando! Origene ha scritto parecchio, duemila titoli, si dice. All’interno di quest’opera monumentale, c’è un’Esortazione al martirio che si rivela emblematica del pensiero della scrittura della patristica. E non ci stupisce il fatto che Celso sia stato salvato da Origene, visto il numero di citazioni da lui riportate! Le pagine di Origene che legittimano il martirio non sfuggono a questa regola: è quasi invano che cercheremmo una frase scritta interamente da lui, o in cui non fosse presente una qualche citazione di un passaggio del Vecchio o del Nuovo Testamento. Di fatto, una cosa non è vera perché la si dimostra secondo l’ordine della ragione, o perché si riflette con metodo, usando le regole classiche della filosofia. No. Una cosa è vera solo se un versetto della Bibbia l’attesta. Dopo Paolo, che si è scagliato contro la filosofia, il pensiero dei Padri della Chiesa sembra trasformarsi in una retorica da derviscio rotante in cui le idee spariscono, nascoste dal vortice di citazioni, e a tutto profitto del catechismo. Origene cita quindi abbondantemente le Scritture per dimostrare che chiunque uccida il proprio corpo salva l’anima; che ogni uomo che si spogli quaggiù della propria vita ritrova centuplicato, in una vita al di là, tutto quello che ha sacrificato; che Gesù non è venuto per portare la pace ma la discordia, e che occorre rinunciare alla serenità; che lo stesso Gesù ha invitato a seguirlo e a rinunciare a tutto per mettersi sulla retta via della cristianità, e che occorre sbarazzarsi di tutto senza preoccuparsi di niente. Origene scrive anche: «Odiate la vostra vita, in modo tale che con questo disprezzo la possediate per la vita eterna. Chi odia, dice infatti la Scrittura, la sua vita in questo mondo, la possiede nella vita eterna (Gv 12,26). Con la prospettiva della vita eterna abbiate dunque in odio questa vita, persuasi che lodevole e vantaggioso è l’odio da Gesù insegnato. E come dobbiamo odiare la vita onde possederla per l’eternità, così prova odio per la moglie, per i figli, i fratelli e le sorelle, tu che ne hai, perché il tuo odio torni a vantaggio di quelli odiati. Proprio in virtù di quest’odio sei diventato amico di Dio, ricevendo il potere di far loro del bene».82 Come Cristo, che, diciamolo in questo modo, si è bevuto il calice fino all’ultima goccia, così anche il cristiano dovrà essere pronto al martirio e

accettare con gioia, letizia e gratitudine il disprezzo, le calunnie, gli scherni, e anche i colpi e i maltrattamenti. Citando l’Antico Testamento, Origene ci spiega che quello che è stato dovrà essere di nuovo. Leggiamo: I sette fratelli di cui è scritto nel Libro dei Maccabei che Antioco torturò con frustate e nerbate, ma che perseverarono nella pietà, potranno ancora essere un ammirevole esempio di forte martirio […]. Che bisogno c’è di dire quali tormenti patirono, nel fuoco delle caldaie e delle padelle (2Mac 7, 3), ond’esservi torturati dopo aver sofferto ciascuno differenti supplizi? Quello che la Scrittura chiama il loro interprete, ebbe dapprima la lingua mozzata, poi gli fu strappata la pelle del capo e sopportò questo supplizio come altri soffrirono la circoncisione secondo la legge divina, pensando di adempiere anche in ciò la parola del patto con Dio. Antioco, non pago di questo, gli fece troncare le estremità delle mani e dei piedi, in presenza degli altri fratelli e della madre (2Mac 7, 3): volendo punire, con questo spettacolo, i fratelli e la madre; e pensando che avrebbero mutato i loro propositi per mezzo di tormenti considerati così crudeli. Non contento di ciò, Antioco, siccome il fanciullo era diventato nell’insieme del suo corpo inservibile a causa dei patimenti di prima, comandò che ancora boccheggiante fosse accostato al fuoco delle padelle e delle caldaie e lo arrostissero (2Mac 7, 5). Ma quando un vapore emanava dalle carni del nobilissimo atleta della pietà, abbrustolite dalle crudeltà del tiranno, gli altri si esortavano vicendevolmente con la madre a morire da forti (2Mac 7, 5) e si consolavano al pensiero che Dio vedeva tutto questo. Per sopportare bastava, infatti, a loro la persuasione dello sguardo di Dio presente a chi soffre.83

Origene ci parla del «lieve peso momentaneo della nostra tribolazione».84 Si tratta, qui, di una citazione da san Paolo ai Corinzi: «il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne» (2Cor 4, 17-18). In altre parole, soffrire il martirio e morire è solo un brutto momento da passare, ed è assolutamente a buon prezzo che paghiamo il fatto di poterci sbarazzare del nostro corpo peccaminoso, liberando l’anima che, a partire da quel momento, potrà viaggiare senza problemi verso la vita eterna e le eterne beatitudini del cielo! Origene ce lo spiega: «Le anime di coloro che furono decapitati a cagione della testimonianza resa a Gesù (Apoc 20, 4; 6, 9) non assistono invano all’altare del cielo, ma procurano a quelli che li pregano la remissione dei peccati».85 Da qualche altra parte, parla del battesimo con il sangue che imita la Passione di Cristo. La morte su questa Terra significa vita nell’aldilà. Non c’è quindi motivo di lamentarsi; al contrario, tutto ci spinge a rallegrarci e a stare in letizia. Da qui nasce la predilezione cristiana per lo stoicismo: Origene invita il martire a non svelare ai suoi carnefici che sta soffrendo, che sta dubitando, o che

sta esitando e che potrebbe peccare di apostasia e tornare al culto degli dèi del paganesimo o a quello di altre divinità – e qui pensiamo ovviamente al giudaismo originario. Non c’è alcun bisogno di esternare la propria emozione o il proprio eventuale scoraggiamento. Dobbiamo al contrario mostrare serenità, tranquillità, saggezza e determinazione. Mai come in questa occasione pensare il dolore come effetto della volontà ci può offrire l’aiuto della potenza del volere! La prima generazione di martiri produce una serie di testimonianze e di narrazioni in cui il lato meraviglioso occupa tanto spazio quanto quello della ragione. I testi raccolgono testimonianze dirette: ci raccontano gli interrogatori e ci restituiscono gli scambi tra i rappresentanti dell’ordine costituito romano e i prigionieri cristiani. Tutto si mescola: il vero, il verosimile e i sogni, presentati come assolutamente premonitori. E poi ci sono le narrazioni allegoriche, come il racconto del martirio di san Policarpo, che sembra scritto tenendo a fronte lo schema narrativo della Passione di Cristo: prima dell’arresto, Policarpo si ritira con un piccolo numero di discepoli a pregare su un terreno appena fuori città – proprio come Gesù nel giardino del Getsemani; viene tradito da alcune persone prezzolate – esattamente come Giuda, che si fa pagare trenta pezzi d’argento; il proconsole si chiama Erode – e ricorda ovviamente il re Erode Antipa; viene portato su un asino – proprio come Gesù quando entra a Gerusalemme; in compenso, però, si muove incontro alla morte non da disperato, come Gesù che chiede al padre perché lo abbia abbandonato, ma sorridendo, con gioia, felice di vivere questa passione che spalanca le porte della vita eterna alla sua anima finalmente salva. Nella logica del martirio, il dolore porta la salvezza: ce lo si augura, e viene desiderato, voluto, amato e tenuto per caro, perché il dolore conduce direttamente alla redenzione. La sofferenza del corpo su questa Terra redime il peccatore, la cui anima, salvata, accede alla felicità della vita eterna in paradiso. Il sangue della carne lustra l’anima. Collocare il corpo materiale al di sotto di tutto significa elevare l’anima al di sopra di tutto. Parecchi dei martiri sorridono, e sono radiosi, felici, colmi di gioia, e quando si trovano alle porte della morte hanno il volto illuminato dalla grazia, perché queste porte sono per loro anche quelle della vita eterna. Policarpo viene frustato con tale violenza che la carne, messa a nudo e lacerata, lascia intravedere le vene e le arterie; nonostante tutto, ringrazia Dio di avergli inviato questa prova che gli assicura «la vita eterna di anima e corpo nell’incorruttibilità dello Spirito Santo»;86 in seguito viene bruciato vivo. I suppliziati vengono distesi sopra un letto di conchiglie taglienti come lame di

rasoio. Carpo è appeso e dilaniato da uncini di ferro, poi inchiodato a un palo e bruciato vivo; però «sorrise».87 Papilo subisce lo stesso trattamento, cioè viene appeso e dilaniato, e la sua resistenza stanca addirittura tre carnefici, che si vedono obbligati ad avvicendarsi per riuscire a portare a termine il proprio compito; Papilo, però, «resse la furia dell’avversario da valoroso campione».88 Agatonice esce dalla folla e si denuncia; teniamo presente che autodenunciandosi come cristiana si condannava direttamente a morte: la donna quindi si spoglia e sale sul rogo «esultante».89 Anche Giustino, Caritone, Carito, Evelpisto, Ierace, Peone e Liberiano subiscono il martirio; Giustino dichiara: «È nei nostri voti d’essere salvati, una volta giustiziati».90 Blandina, appesa a una croce, viene prima torturata e dilaniata, poi abbandonata ai leoni, che la risparmiano, e infine legata con una rete e buttata sotto le zampe di un toro, che la calpesta parecchie volte, lasciandole «tutto il corpo brutalizzato e lacerato».91 Santo viene bruciato da lamelle di bronzo scaldate fino a diventare incandescenti: «La sua povera carne […] portava testimonianza di quel che le veniva inflitto: era tutt’una piaga, tutt’un coagulo, tutta aggrinzita e irriconoscibile nella sua forma umana».92 A Biblide, una donna che marcisce in una segreta oscura e sovrappopolata, vengono squartati i piedi con dei frantumatori di legno. Potino, vescovo novantenne di Lione, «rinvigorito dall’impeto dell’animo suo che ardentemente bramava il martirio»,93 si ritrova in mezzo a prigionieri di diritto comune, da cui i martiri cristiani si distinguono sempre perché i discepoli di Cristo «procedevano con allegrezza»94 ed «emanavano la soave fragranza di Cristo, sì che qualcuno poteva credere fossero materialmente cosparsi di un unguento profumato».95 Maturo e Attalo vengono frustati, costretti a sedersi su sedie di ferro roventi e infine abbandonati alle bestie feroci, mentre tutt’attorno si spande un odore di grasso bruciato.96 I corpi di tutti questi martiri vengono esposti alle intemperie per sei giorni, senza sepoltura, e alla fine bruciati; le loro ceneri sono disperse nel Rodano. La Lettera dalle chiese di Lione e Vienna entra nel dettaglio delle persecuzioni: i cristiani sono squartati sulla pubblica piazza, nei bagni e nei fori; la folla li aggredisce, li insulta, li colpisce e li butta a terra, poi li trascina, li spoglia e li lapida. Le autorità romane li interpellano, li imprigionano e li sottopongono a interrogatori in luoghi pubblici, di fronte a tutti; poi li condannano e li torturano, trovando modi sempre più raffinati di farli morire. Li si accusa di antropofagia e di incesto. Ma questo non serve a niente: i cristiani sono assolutamente persuasi che, abbracciando la morte qui e ora, avranno sicuramente diritto alla vita eterna. E proprio questa certezza è la fonte di quella beatitudine che li accompagna nel corso di tutto il loro martirio. Sembra che questa serenità, questa calma, questa tranquillità e questa

saggezza, che stupiscono anche i più agguerriti dei loro nemici, non li abbandoni mai; in effetti, i martiri cristiani stanno lottando contro il serpente tortuoso che si trova all’origine del peccato originale. E sanno come fare per riscattarsi: basta mortificare il corpo terrestre per liberare l’anima celeste che, proprio grazie a questa mortificazione effettuata in nome di Dio, se ne andrà in paradiso. Del resto l’etimologia di «martirio» rimanda proprio a «testimonianza». Nel Martirio di Policarpo, leggiamo anche che la dura strada del martirio non è consigliata a tutti, ma solo agli apostoli, a quelli cioè che vogliono insegnare la parola di Cristo. Galvanizzato dallo spettacolo del martirio di Germanico, che risponde alla richiesta di abiura rivoltagli dal proconsole cominciando «ad attirare contro sé la fiera»,97 un uomo frigio di nome Quinto spinge alcuni cristiani a scegliere questa strada che lui stesso non può percorrere. E Policarpo risponde: «È perciò, fratelli, che non lodiamo quanti si consegnano di propria iniziativa: non è questo che insegna il Vangelo».98 Policarpo si fonda, per questa risposta, su un versetto di Matteo che dice: «Quando sarete perseguitati in una città, fuggite in un’altra; in verità io vi dico: non avrete finito di percorrere le città d’Israele, prima che venga il Figlio dell’uomo» (Mt 10, 23). In altre parole, la Parusia è prossima, e non c’è quindi bisogno di affrettare i tempi della morte. Possiamo fare tante altre cose: possiamo diventare anacoreti o cenobiti, e lasciare il mondo per vivere nel deserto in compagnia di demoni e serpenti, in mezzo a temperature da forno e ascetismi vari.

Capitolo ottavo

L’amore per la santa abiezione Imitare il cadavere

Quando pensiamo al cristianesimo dei primi tempi, non dobbiamo dimenticarci che il suo sviluppo è tutto interno alla dimensione della Parusia: Gesù annuncia che, mentre ancora quelli che lo ascoltano sono in vita, lui tornerà e darà inizio al Giudizio universale, nel corso del quale i morti risorgeranno; è questa, del resto, la ragione per cui una volta i morti venivano sepolti con il volto girato verso Oriente, in direzione del sol levante, in modo che, in quel momento, avessero la possibilità di vedere Dio. Il calcolo è presto fatto. Attribuendo a Gesù un decorso di vita normale, e lasciando perdere l’evento in sé della resurrezione, sarebbe dovuto tornare prima degli anni Ottanta o Novanta di quel I secolo. Invece, siamo ancora qui ad aspettarlo… Questo dovrebbe fornire sufficiente materia di riflessione a ogni cristiano che si rivendichi come tale… I testi parlano chiaro: «come la folgore viene da oriente e brilla fino a occidente, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo» (Mt 24, 27). E anche: «il sole si oscurerà, / la luna non darà più la sua luce, / le stelle cadranno dal cielo / e le potenze dei cieli saranno sconvolte. / Allora comparirà in cielo il segno del Figlio dell’uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della Terra, e vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria. Egli manderà i suoi angeli, con una grande tromba, ed essi raduneranno i suoi eletti dai quattro venti, da un estremo all’altro dei cieli» (Mt 24, 29-31). Luca puntualizza: «Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (Lc 21, 28). Ammettiamolo, stiamo parlando di qualcosa che avrebbe dovuto suscitare un certo effetto! Invece, è passato tutto sotto silenzio, e continua a esserlo anche oggi. San Paolo parla ai Corinzi di questa «venuta» (1Cor 15, 23) attorno all’anno 55, quindi poco più di una ventina d’anni dopo la morte di Cristo… Ai Tessalonicesi scrive: «Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima

risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto» (1Ts 4, 16-17). Noi, che viviamo e che saremo ancora in vita: difficile essere più espliciti per spiegare che il ritorno di Cristo sulla Terra è imminente! Sono stati necessari tutti i talenti e tutta l’ingegnosità dei Padri della Chiesa per riuscire a giustificare il fatto che quello che doveva succedere con Paolo ancora in vita, e quindi entro il 67, non è successo né nel 167, né nel 267, né nel 367, né nel 467, né nel 567, e così via, e neppure nel 1967. Con l’aiuto dell’Antico Testamento, sant’Agostino mette a punto diversi sotterfugi numerologici per spiegare che un secolo non è un secolo ma, simbolicamente, è costituito da diversi secoli…99 E questo spiega come, ancora oggi, si possa aspettare una cosa che era stata annunciata come imminente già duemila anni fa. Ma non importa… Quello che importa è che i discepoli di Cristo ci abbiano creduto nel I secolo della nostra era, lasciandosi incontestabilmente travolgere da uno stato psichico di angoscia. Se, quando siamo vivi, siamo convinti che Cristo tornerà per giudicarci e per spedire la nostra anima all’inferno o in paradiso, è assolutamente verosimile che cominciamo a vivere la nostra vita quotidiana in mezzo all’inquietudine, al timore e allo spavento, ossessionati dall’idea di morire in uno stato di peccato tale da compromettere il raggiungimento della salvezza. La patristica trabocca di testi che parlano di demoni. Le tentazioni di sant’Antonio forniscono il modello di tutto questo universo satanico. Atanasio di Alessandria, nella lettera che racconta la vita del monaco del deserto, fa del demonio un essere «che odia il bene»,100 e gli fornisce molteplici forme: «di notte assumeva […] l’aspetto di una donna e ne imitava il comportamento in tutte le maniere»;101 oppure si mostrava come un drago che digrignava i denti,102 o come un «ragazzo nero»,103 oppure ancora «sotto forma di belve e di serpenti […] di leoni, di orsi, di leopardi, di tori, di serpenti, di vipere, di scorpioni e di lupi»;104 e poi strillava e strepitava come un animale,105 prendeva la forma di «corpi giganteschi ed eserciti di nemici»,106 oppure quella di un branco di iene che sembra riassumere tutti gli animali del deserto.107 A volte, questi demoni si mettono a ripetere in eco un testo delle Scritture che è stato appena letto.108 In ogni caso, Satana è colui che si dice «amico dell’impurità»,109 il seduttore, il tentatore, il serpente della Genesi. I demoni possono spaventare tutti ma non il credente, perché quest’ultimo sa che un semplice segno della croce è sufficiente a farli sparire. «Bisogna invece disprezzare i demoni e non averne alcun timore. Quanto più ci importunano, tanto più dobbiamo intensificare la nostra ascesi contro di loro. Una vita retta e la fede in Dio sono un’arma potente contro di loro. Essi temono il digiuno degli asceti, le veglie, le preghiere, la mitezza, la quiete, il disinteresse per il denaro e

per la vanagloria, l’umiltà, l’amore per i poveri, le opere di misericordia, la dolcezza e specialmente la fede nel Cristo».110 Antonio racconta di aver incontrato Satana. Gli è apparso come «un tale straordinariamente alto»111 che non capiva come mai gli anacoreti lo stessero insultando! È questo che confida al monaco del deserto, il quale, a sua volta, gli risponde che la sua potenza sarebbe stata annientata dalla venuta del Signore, una parola, quest’ultima, che lo mette immediatamente in fuga. Un’altra volta, il demone prende la forma di «una bestia simile a un uomo fino alle cosce e simile a un asino nelle gambe e nei piedi».112 In sua presenza, Antonio si fa il segno della croce ed esclama: «‘Sono servo di Cristo. Se sei stato inviato contro di me, eccomi.’ Ma la bestia se ne fuggì via con i suoi demoni con tanta furia che cadde e morì. La morte della bestia era la disfatta dei demoni».113 Tuttavia, da buon doppio negativo di Cristo, anche Satana prima muore e poi risorge… E continua senza sosta a tornare nella vita di Antonio, come in quella di tutti i monaci del deserto, e in quella degli uomini dacché sono uomini e finché lo rimangono. Questa età di angoscia si ritrova colma di demoni e di diavoli, ed è visitata da Satana in persona. Per resistere a tutto quello che quest’ultimo rappresenta (quindi: desideri, piaceri, tentazioni, godimenti, menzogne, vizi; in una parola: la carne che si rivolta contro lo spirito, e il corpo in guerra contro l’anima), la strada è una sola, ed è quella dell’ascesi e della lotta contro… i desideri, i piaceri, le tentazioni, i godimenti, le menzogne e i vizi. L’ascesi è quindi il vero antidoto al demonio. In quest’età d’angoscia consustanziale al dispiegarsi di una civiltà, tra la fine del paganesimo greco-romano e l’avvento dell’Impero giudaico-cristiano, i martiri testimoni della propria fede cattolica in un mondo pagano che li perseguita lasciano il posto agli anacoreti e ai cenobiti, interpreti di questa stessa fede, ma secondo altre strade. I primi vanno in battaglia passando dalle arene, dove muoiono sotto le zanne di animali feroci assolutamente reali; i secondi si organizzano per dare l’assalto ai demoni e a Satana, spegnendo il corpo per liberare l’anima e fare in modo che possa essere salvata il giorno, prossimo, del ritorno di Gesù Cristo sulla Terra. Al momento della Parusia, il corpo deve essere pronto per la vita eterna, e quindi deve essere il più morto possibile, in modo tale che l’anima possa a sua volta essere la più viva possibile. La vita di sant’Antonio serve da modello per parecchi anacoreti e cenobiti, ma anche, al di là di quanti offrono radicalmente la loro vita a Dio, ai cristiani cui l’eremita non propone teorie, dottrine o sottili analisi teologiche sulla natura dell’escatologia, ma l’occasione di mettere in pratica una vita cristiana.

Questa saggezza esistenziale prosegue quella dei filosofi dell’Antichità il cui obiettivo non era tanto di teorizzare il mondo, quanto di offrire la possibilità di condurre un’esistenza filosofica per guarirsi dal mondo così com’è e così come funziona. Ricordiamolo ancora una volta, il platonismo è utile al cristianesimo per via di parecchie delle teorie di Platone, alcune delle quali sono a loro volta derivate dal pitagorismo: il dualismo che divide l’anima dal corpo; l’opposizione tra mondo intelligibile e mondo sensibile; la verità del quaggiù sensibile determinata da un aldilà intelligibile; la radicalità antiedonista; la mediazione del sapere esoterico attraverso il sotterfugio di una figura mitica, quella di Socrate, condannato a morte per le sue idee; l’ontologia dell’essere; il doppio movimento di processioni ascendenti verso il Bene e verità discendenti verso gli uomini; e poi anche e soprattutto la sopravvivenza dell’anima dopo la morte, e il suo destino post mortem deciso dal modo in cui è stata impiegata quaggiù. Il neoplatonismo di Plotino affonda il chiodo mistico attraverso l’odio nei confronti del corpo reale e il lavoro quotidiano su di sé per riuscire a purificare la carne e creare una tensione in grado di condurre all’estasi. La Vita di Plotino, scritta da Porfirio, ce lo insegna: la filosofia è una saggezza esistenziale che riguarda il qui e ora e si trova in relazione con l’escatologia – cioè la salvezza eterna. Il buon uso della filosofia antica da parte dei primi cristiani si precisa con lo stoicismo e la sua teoria della sofferenza come occasione per mostrare la potenza della volontà del saggio: il dolore, sostengono gli stoici, sta tutto nel grado di accettazione con cui lo si accoglie, basta non volerlo perché il dolore in quanto tale non esista. Tale pensiero porta a un dolorismo che conferisce alla sofferenza fisica un ruolo soteriologico: più l’uomo sopporta la sofferenza (il motto degli stoici è, ricordiamolo, «sopporta e astieniti»), più mostra la propria saggezza. Stessa osservazione vale per la morte, presentata come una vera e propria salvezza, che permette al filosofo di sperimentare quanto abbia fatto bene a passare la propria vita ad addomesticarla – ricordiamoci del famoso «praticare la filosofia significa imparare a morire» di Cicerone. La sofferenza non è niente; il giusto impiego del dolore porta alla salvezza; e la morte è auspicabile, per il saggio, perché gli permette di sperimentare e di dimostrare la propria saggezza. Questi piccoli ruscelli filosofici dell’Antichità vanno tutti a confluire nel grande fiume della cristianità. L’aristotelismo non ha nessun rilievo in questi tempi di fede pura in cui non c’è alcuna necessità di dover dimostrare Dio con l’arte dei sillogismi, o con la retorica, o con la sofistica, o la dialettica. La Metafisica non è uno strumento utile per i contemporanei di Gesù, o per chi lo ha conosciuto o ha cercato di

raccogliere le sue tracce andando a trovare quelli che raccontavano di essergli passati accanto. È quando la fede comincia a vacillare che nasce l’esigenza di appoggiarsi a discorsi giustificativi: è durante il medioevo. È in quel momento che Aristotele prende servizio. Aristotele è uno dei grandi uomini, se non il vero e proprio grande uomo del pensiero scolastico – prima che, a girare la pagina di questo millenario pensiero magico, non arrivi Montaigne. A queste scuole filosofiche antiche, aggiungiamo l’apporto del cinismo, una scuola tanto criticata, tanto fraintesa, e anche tanto messa alla berlina. Nella maggior parte dei casi, la si riduce ad alcuni aneddoti: Diogene di Sinope che si masturba sulla pubblica piazza, o che vive in un barile (un’invenzione dei Galli), o che mangia polpi crudi e addirittura carne umana, o che morde la mano che gli offre il cibo, che urina per strada, che copula in pubblico, che prende in giro l’imperatore Alessandro, o che in pieno giorno se ne va in giro per la città con in mano una lanterna accesa spiegando che sta cercando un uomo. Diogene lo si vede anche mentre si porta in giro per strada un’acciuga attaccata a un filo, o difende la necessità di prendere come modello di vita gli animali, quindi i topi, le rane, i pesci e, soprattutto, i cani! Ma cosa farà di tanto diverso l’asceta copto Paolo di Tammah quando si deciderà a passare cinquantaquattro anni nel deserto e a vivere come un bufalo in mezzo ai bufali? In realtà, dietro tutte queste piccole storie create per provocare (cioè, etimologicamente, per far nascere qualche cosa…), esiste una filosofia consegnata dagli stessi cinici a scritti che, per quanto perduti o distrutti dal potere cristiano, sappiamo nascondevano una vera e propria saggezza fondata su alcune precise tesi: la cultura che distrugge la parte migliore dell’uomo, cioè quella legata alla natura; la saggezza che consiste nel ritrovare questa parte migliore attraverso un ritorno allo stato selvaggio, cioè l’arte di lasciar parlare dentro di sé non l’anima immateriale, ma ciò che dentro di noi, nella vita, vuole la vita. Da qui il materialismo vitalista ed edonista, terribile antidoto ai poteri, alle favole e alle mitologie. Come ricorda Diogene Laerzio nelle sue Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Antistene sosteneva che «la virtù è propria delle azioni e non necessita di moltissimi ragionamenti, né di insegnamenti».114 E poi Diogene di Sinope «Soleva dire […] che, senza esercizio, proprio nulla nella vita va come deve andare».115 E cosa dice di diverso Antonio quando cita Paolo che invita a vivere «non secondo la carne ma secondo lo spirito»?116 L’ascesi esistenziale come prova della vita filosofica costituisce la colonna vertebrale dell’impegno dei monaci del deserto. Solamente, per l’anacoreta, o per i cenobiti che vivono in comunità, questi «atleti del deserto», per riprendere la metafora di Nestorio, ritengono che il cristianesimo non sia un corpo dottrinale, una teologia complessa, una filosofia astrusa, o ancora meno un

discorso che permette di sedersi su un trono terrestre, ma una saggezza pratica che rende visibile la vita filosofica cristiana. Quando, nel IV secolo, Costantino comincia a rivestire Gesù d’oro e di broccato, a ricoprirlo di diamanti e a intagliare il suo corpo nel marmo o nel bronzo; quando decide di collocare la sua immagine all’interno di palazzi grandiosi in cui preti sontuosamente vestiti e imperlati celebrano l’eucaristia con servizi d’argento dorato, mentre tutto scompare in mezzo ai vapori di profumi costosi come l’incenso e la mirra; i monaci del deserto, invece, stanno ancora seppellendo Cristo sotto san Paolo, di cui però rifiutano la spada, preferendogli il Gesù povero e semplice, bisognoso e sobrio, l’asceta che tende a Dio. Ce lo vedo bene, sant’Antonio a Roma, brandire la frusta di Gesù per scacciare i mercanti dal Tempio! Nella sua Vita di Antonio, Atanasio, vescovo di Alessandria, scrive che «la vita di Antonio per dei monaci è sufficiente quale modello di vita ascetica».117 Poi spiega che cosa significa l’ascesi: porre attenzione a sé stessi, mantenere una «dura disciplina»,118 manifestare uno zelo pieno di tensione, vietarsi qualsiasi negligenza, vivere come se si dovesse morire da un momento all’altro, abituarsi all’austerità, sopportare gli sforzi, crearsi abitudini sane, puntare sempre più in alto e cose sempre migliori, rifiutare di lasciarsi andare. L’essenziale è vivere secondo lo spirito e in opposizione alla carne, castigare il proprio corpo e ridurlo in schiavitù, in quanto peccatore. Più si maltratta la carne, più si sublima l’anima; meglio si mortifica il corpo, meglio si magnifica lo spirito: tutto quello che viene strappato alla materia finisce per alimentare il Paracleto. Scrive Atanasio: «Diceva, infatti, che il cuore acquista la forza quando si indeboliscono i piaceri del corpo».119 La vita deve essere consacrata alla soppressione del corpo per ottenere la vita eterna – cioè quando, in maniera imminente, Cristo tornerà in tutta la sua maestà per la Parusia. Antonio vive recluso per vent’anni, senza mangiare, bere o dormire, rifiutandosi a qualsiasi piacere: «deposto il corpo corruttibile, ne riceveremo uno incorruttibile».120 E poi: «E così, figli miei, non scoraggiamoci e non pensiamo di dar prova di perseveranza o di fare grandi cose. Le sofferenze del tempo presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi [Rom 8, 18]. Non crediamo, guardando al mondo, di aver rinunciato a grandi cose: la Terra intera è piccolissima a confronto di tutto il cielo. Se anche fossimo padroni di tutta la Terra e vi avessimo rinunciato, neppur questo sarebbe degno del regno dei cieli».121 L’asceta trasforma il piombo della carne in oro spirituale, trasfigura la vita e sottopone a metamorfosi l’essere. Insomma, qui si realizza l’uomo nuovo,

l’ideale di Paolo. E quest’uomo nuovo può anche essere una donna! Gira una storia edificante: Atanasia, donna bella e felice, vive un’esistenza laica assieme al marito Andronico, e gli dà due bei bambini. A un certo momento, però, i bambini muoiono e i genitori decidono di rinunciare al mondo e di andarsene nel deserto dove, separati, conducono le loro pratiche ascetiche per più di un decennio. Atanasia si è tagliata i capelli e porta abiti maschili, cambia nome e diventa Atanasio. Vivono entrambi da reclusi nel deserto di Nitria. Un giorno, Andronico chiede ospitalità a un altro monaco, e questi gliela concede. Vivono assieme da asceti per un periodo di dodici anni. Al momento di morire, l’ospite, che aveva la pelle annerita come l’ebano dal Sole e il corpo scolpito dalle mortificazioni, confessa al proprio compagno di essere una donna e di chiamarsi Atanasia… Ma l’uomo nuovo può ovviamente essere anche… un uomo! Seguiamo questa storia siriana del V secolo a cui si continuano ad agglomerare diverse versioni fino al IX secolo. Iacopo da Varazze sviluppa il racconto, come al solito, senza documenti che ne comprovino la storicità. Nato nel IV secolo, Alessio proviene da una nobilissima famiglia di Roma. Il padre, il prefetto Eufemiano, «aveva al suo servizio tremila servi vestiti di cinture d’oro e abiti di seta»122 ed è un uomo generoso, accoglie ogni giorno poveri, stranieri, vedove e orfani, che è lui stesso a servire. Il suo pasto è frugale e lo consuma in compagnia di altri uomini pii. La moglie manifesta la stessa pietà cattolica. Alessio compie degli studi molto severi e viene fatto sposare con una giovane donna di buona famiglia, della casata dell’imperatore. La notte delle nozze, Alessio esorta la moglie a praticare la castità cristiana, e poi, senza dire niente a nessuno, parte per la Siria per andare a vedere la Sacra Sindone. Arrivato sul posto, distribuisce tutto quello che ha e vive assieme ai poveri. Il padre lo fa cercare dappertutto, e manda servi negli angoli più reconditi del mondo. Alcuni di loro lo raggiungono, ma non lo riconoscono, e gli fanno anzi l’elemosina. Ironicamente, Alessio li ringrazia dicendo: «Grazie, Signore, perché mi hai fatto ricevere l’elemosina dai miei servitori».123 Rientrati a casa del padrone, i servi rendono conto delle loro ricerche e del fatto che Alessio rimane introvabile. La madre e la moglie si affliggono ancora di più. Dopo diciassette anni di ascesi, un’immagine della Vergine parla al custode della chiesa davanti alla quale Alessio mendica, intimandogli di fare entrare quest’ultimo nel santuario. L’evento lo rende famoso, e, per ritrovare l’anonimato, Alessio decide d’imbarcarsi. I venti però non assecondano i suoi desideri e, anziché arrivare a Tarso, sbarca a Roma. Qui incrocia naturalmente il padre, accompagnato da parecchi servi; gli chiede ospitalità, la ottiene senza essere riconosciuto e rientra quindi nella casa paterna

con il servo che gli è stato messo a disposizione. Prega, veglia e digiuna. I domestici lo prendono in giro, gli versano acqua sporca sulla testa e lo insultano. «Per diciassette anni dunque rimase in casa del padre senza essere riconosciuto». 124 Ormai vicino alla morte, chiede un pezzetto di carta, su cui riassume la propria vita. La domenica seguente, durante la messa, una voce annuncia che occorre «Cerca[r]e l’uomo di Dio, perché preghi per Roma».125 Alessio viene ritrovato morto con il pezzetto di carta stretto nella mano, però ci vuole un po’ di tempo prima che tutti quanti, compresi due imperatori e il papa, capiscano di chi si tratta. Ed è solo il papa che riesce ad aprirgli la mano, scoprendo il biglietto e rivelando al popolo riunito l’identità del figlio di Eufemiano, il quale perde conoscenza e crolla a terra, poi torna in sé, si strappa le vesti, si strappa i capelli, si ferisce, si mutila e si getta sul corpo del figlio deplorando tutto quello che è successo. La madre e la moglie fanno la stessa cosa, ma intanto il corpo morto comincia a guarire i malati. La tomba che gli viene preparata è splendida, ed emana odori soavi. Le storie di Atanasia e di Alessio dimostrano come una vita d’ascesi permetta la morte dell’essere di prima a tutto profitto della nascita dell’essere di poi. È il senso, come ho detto, dell’insegnamento di Gesù, secondo Giovanni: esiste una vita mondana secondo la carne; l’incontro con il Verbo spezza questa vita favorendo una vita spirituale secondo lo spirito; ne consegue la rinascita di un essere nuovo talmente in rottura con quello precedente che nemmeno il marito riconosce più la moglie, nemmeno il padre e la madre riconoscono più il figlio trasformato, e nemmeno la moglie riconosce più il marito. Ecco una vita terrestre secondo il Corpo, una morte simbolica secondo il Logos, e una risurrezione secondo lo Spirito. L’anima vive nella materia e nel tempo; incontra il Paracleto; e rinasce nell’immateriale per l’eternità. Ecco il semplice messaggio originale di Gesù, ricoperto in seguito da così tante scorie patristiche, teologiche, scolastiche e filosofiche che non riusciamo più ad ascoltare queste parole dell’evangelista Giovanni Evangelista, che l’aveva in realtà annunciato: il Verbo si è fatto Carne. L’ascesi, che è, per i cinici, la «via breve per la virtù»,126 si rivela anche essere per i Padri del deserto l’arduo cammino che a quella conduce. San Doroteo risponde a Palladio di Galazia che gli domanda perché imponga tali mortificazioni al proprio corpo: «Mi uccide, e io uccido lui».127 Sta tutto qui, il progetto dei monaci del deserto: uccidere il corpo per liberare l’anima dalla prigione in cui si trova ingabbiata. Il progetto paoliniano sorge allora in tutta la sua superbia: a cosa assomiglia l’uomo nuovo proposto da san Paolo come modello? Agli Efesini, ha spiegato

come fare, l’abbiamo visto qualche pagina sopra. Ma la verità è che quest’uomo nuovo assomiglia a un uomo che rimane in vita. L’anacoreta e il cenobita praticano un suicidio lento che permette loro di sopravvivere a lungo e di far durare il supplizio spesso fino a età molto avanzata. Non è raro che questi individui che si alimentano di pane una volta all’anno, che si accontentano di un pizzico di sale e di un po’ d’acqua stantia, che dormono il meno possibile, arrivino a campare otto, nove o addirittura dieci decenni! Basandosi su queste cifre, l’agiografia vorrebbe farci capire che l’ascesi non solo conserva la salute, ma addirittura la favorisce! Eccolo, allora, il ritratto dell’uomo nuovo, non come ce l’ha descritto Paolo, ma come si è costruito e come è apparso nei deserti egiziani, palestinesi, siriani, cappadoci, armeni e persiani del IV secolo della nostra era. L’asceta annulla le proprie funzioni vitali – come quando si abbassano le luci di una stanza per stare con meno illuminazione possibile. Per vivere, bisogna mangiare, bere e dormire correttamente, in modo da evitare di guastare il proprio corpo, che, in caso contrario, comincerebbe a dimagrire, a mancare di sostanze essenziali come vitamine e sali minerali, a disidratarsi e a degenerare a livello neuronale. Portare il proprio corpo a questo stato di totale carenza, significa assicurarsi visioni, deliri e stravaganze – una preparazione fisica per stati ulteriori condivisa, per esempio, anche dalle culture sciamaniche. Non stupisce quindi che tutte queste carni spossate siano in grado di vedere demoni, sentire voci, parlare ad animali che rispondono, e discutere con Mosè, Davide o Gesù. Paolo di Tebe vive con cinque fichi al giorno e muore centenario; due volte all’anno, ad Antonio viene passata una pagnotta sopra il muro che lo divide dal mondo; Pacomio mangia solo pane, sale ed erbe cotte e ci mescola un po’ di cenere per trovare il giusto cattivo gusto; per sessant’anni, Macario, essendo venuto a sapere che un altro asceta si sgranocchiava una libbra di pane al giorno, rompe la sua pagnotta, la mette dentro una bottiglia e decide di ingerirne soltanto quello che le dita riescono a recuperare; Doroteo riduce la propria porzione a cento grammi al giorno; Paolo di Tarso vive per sessant’anni con quello che gli porta un corvo tutti i giorni (è quello che si intende con l’espressione francese essere riforniti dai corvi); Arsenio si accontenta di due prugne e un fico al giorno accompagnati da un pezzo di pane, ma, per consumarli, aspetta che i frutti siano belli marci; a sedici anni, Scenute mangia solo una volta alla settimana, la domenica, e soltanto legumi e bacche bollite; Sabino rifiuta il pane preferendo una farina mescolata con acqua rancida, in attesa che tutto quanto si sia putrefatto per fare bisboccia; Isidoro va matto per le briciole cadute a terra e per i resti nei piatti; Maria Egiziaca detiene il record: due pagnotte e mezza in diciassette anni – più anoressica di così, si muore. Altri, che chiamano i

pascolanti, brucano erba e mangiano radici per tutta la vita. Alcuni eremiti etiopi, troppo numerosi nel sacrificarsi a questa gastronomia vegana del deserto, vengono scacciati dai contadini perché le loro vacche non hanno più niente da mangiare e tornano alle loro grotte a morire di fame… Nel deserto, dove le temperature possono superare i cinquanta gradi al sole, non ci si può permettere di non bere. Il vino, ovviamente, viene bandito e l’acqua è l’unica bevanda consentita. A patto però che non sia né fresca né pura. Stantia e salmastra è la cosa migliore. Moltissimi, per esempio, sono quelli che vanno a stare nel deserto di Nitria, perché la fonte locale permette di raccogliere solo acqua dal cattivo gusto di catrame e il posto si rivela assolutamente ideale… Il sonno è un piacere, e per questo stesso motivo viene ridotto il più possibile. Di sicuro, non deve essere riparatore. Giovanni di Sardi sceglie di rimanere in piedi per tutta la vita e dorme con una corda attaccata sotto le ascelle. Nello stesso spirito, Tito si fa appendere per aria con delle funi, in modo che i piedi non tocchino mai il suolo, corrotto dal peccato originale. Antonio s’infligge regolarmente notti insonni, oppure dorme due o tre ore, non di più. Dormire significa sognare e, nei sogni, non si lavora più alla propria salvezza, perché le immagini più folli invadono lo spirito e i desideri più libidinosi occupano tutto lo spazio. Allora, Dio viene allontanato, ed è Satana a dettare legge. Pacomio s’impone una lunga serie di veglie. Non dorme allungato, perché sarebbe qualcosa di troppo voluttuoso, ma seduto, accovacciato, in piedi oppure addossato a un muro. Per quindici anni, riesce a prendere sonno in piedi, in mezzo alla sua cella, tra sofferenze che però lui benedice. Palemone, il suo maestro, gli ordina di camminare nel deserto senza fermarsi, e di portare pesi sulle spalle in modo da combattere la tentazione di dormire. Macario entra, un giorno, in un cimitero e si distende in una tomba. Trova un corpo ormai raggrinzito e lo usa come cuscino, addormentandosi. Arriva un demone e chiede al cadavere di alzarsi e di raggiungerlo; il cadavere declina l’invito, rispondendo che è impossibile, perché c’è qualcuno che gli sta sopra la pancia. «E chi è quest’uomo? chiede il demone. — Il grande Macario, risponde il cadavere. — Ma mi volete lasciare un po’ tranquillo? risponde a sua volta Macario perdendo la pazienza». A quel punto, Macario si fa il segno della croce, il demone fugge via e lui può finalmente riaddormentarsi. Simeone Stilita, invece, vive in cima a una colonna alta venti metri e risolve il problema non dormendo mai e pregando: non c’è tempo da perdere, la vita è troppo breve. L’asceta cerca di annullare le proprie relazioni con gli altri. Lui e Dio, da soli! In questa esistenza totalmente rivolta alla salvezza della propria anima e resa pura dall’estinzione della carne, non c’è posto per nessun altro. Per realizzare questa alterità alterata, basta non parlare. È, per esempio, la regola di

Pacomio che insegnava infatti: «Impara a tacere». Scenute proibisce ai propri monaci di usare aggettivi possessivi: in nessun caso dovranno dire: la «mia» camera, il «mio» letto, il «mio» piatto. Sant’Acepsima si rinchiude dentro una casettina di pietra, non vede nessuno, e ovviamente non parla con anima viva. Gli portano un piatto di lenticchie ogni settimana, facendogliela passare da un foro realizzato di sbieco in modo che non possa scorgere nessuno. Solo di notte, esce per raccogliere un po’ d’acqua alla fontana. Ovviamente, niente donne e niente sesso. Macario, obbligato dai genitori, si era dovuto sposare contro la sua volontà, ma aveva vissuto con la moglie un’unione «apotattica», ossia priva di contatti sessuali. Non c’è ovviamente bisogno di precisare che questi uomini non intendono assolutamente piegarsi agli automatismi riproduttivi: impossibile immaginarsi un monaco del deserto sposato e padre di famiglia… L’asceta cerca anche di annullare la propria sensibilità. L’abbiamo visto, non ci si deve mai abbandonare ad assaggiare o a sentire odori gradevoli: solo quelli dei defunti morti già in stato di perfezione sono da considerarsi uno spettacolo dolce e soave. Il profumo, quando non è diretta emanazione celeste o divina, rimane sempre una seduzione, un peccato. Stessa cosa con l’udito, gli unici suoni piacevoli sono quelli che provengono dal cielo. Non si assaggia, non si sente, non si ascolta e non si tocca. Che cosa rimane allora? Guardare, vedere? Nemmeno… Perché l’asceta si vieta qualsiasi spettacolo di bellezza. Sant’Elpidio, per esempio, viveva in Palestina di fronte a un paesaggio sublime, però non si girava mai dalla parte dell’Occidente, anche se l’entrata della caverna si trovava in cima alla montagna. E nemmeno guardava mai il Sole, o le stelle che spuntavano appena quello tramontava, e in vent’anni non ne aveva vista nemmeno una. Era assolutamente fuori questione il fatto di produrre qualche cosa di bello, perché avrebbe significato mostrare il proprio desiderio di misurarsi con il creatore. Quando Pacomio porta a termine il colonnato del suo monastero a Moncose, valuta la buona riuscita e si sente soddisfatto. Questo sentimento, però, è il sintomo di un peccato d’orgoglio, e il santo decide allora di punirsi ricostruendo la colonnata in modo da farla pendere e cancellare così l’equilibrio armonioso che aveva ottenuto. L’asceta si astiene anche dal ridere, e persino dal semplice sorridere, perché anche questo è appannaggio dei demoni. Un abbozzo di sorriso può far crollare anni di ascesi e di mortificazioni nel deserto. Ridere significa lasciarsi andare, rilassarsi, mostrare i denti come gli animali, perdere il contegno e la padronanza di sé, lasciare parlare la bestia che ci alberghiamo dentro. Il volto dell’anacoreta o del cenobita deve essere permanentemente impassibile. Quella di non muoversi era l’ossessione degli stazionari. Si trattava, come

indica il loro nome, di restare il più a lungo possibile in piedi, in preghiera con le braccia alzate a croce e la testa rivolta al cielo. San Marone, per esempio, decide di vivere dentro un albero con le pareti interne tappezzate di spine. In quella situazione, muoversi significava farsi lacerare dalle spine di legno. In monastero, la regola consiste nel praticare un esercizio da ‘stazionario’ da un rintocco di campane all’altro: il monaco addetto al forno viene sorpreso dal primo rintocco mentre sta mettendo legna nel fuoco, e aspetta il secondo rintocco per ritirare le mani, che saranno, a quel punto, ormai completamente ustionate. Al contrario, invece, muoversi continuamente era l’ossessione dei girovaghi, che infatti non si fermavano mai… Infine, l’asceta decide di annullare la propria dignità. Questi uomini e queste donne passano la loro vita sotto il sole incandescente del deserto però non si lavano mai. Alcuni rimangono nudi, altri si coprono con pelli di animali, di pecore o di cammelli, giusto per sudare ancora di più. Non si tagliano mai i capelli, o le unghie, in modo da potersi avvolgere completamente nella propria chioma, che non conosce il sapone. Atanasio dice di Antonio che «Non si lavava né il corpo né i piedi con l’acqua, l’immergeva nell’acqua solo se vi era necessità»,128 ossia, per esempio, quando doveva attraversare un fiume… Ovviamente, l’asceta non abita in una casa in cui si potrebbe lavare (anche se Gesù non ha mai esortato a puzzare, o a mangiare e a bere in maniera necessariamente sobria) e in cui potrebbe dormire per ristorare le proprie forze. No, l’asceta vive dentro degli alberi cavi (come i monaci dendriti), oppure dentro delle tombe, oppure in zone fluviali infestate dai coccodrilli che lo attaccano di continuo, oppure dentro gabbie in cui non può stare né in piedi né seduto, oppure ancora dentro delle grotte, o dentro delle capanne con le porte murate, oppure in deserti di salnitro con il Sole che taglia come una lama, oppure ancora in buche scavate nel terreno come tane, a volte direttamente dentro le tane, oppure immerso nel fango fino al petto, oppure ancora in capanne fatte di rami, oppure dentro delle cisterne, oppure (gli stiliti) in cima a delle colonne che possono, come nel caso di Simeone, raggiungere venticinque metri di altezza – Alipio, per esempio, ci ha passato ventinove anni della sua vita. Per l’asceta, qualsiasi occasione è buona per rinunciare alla propria dignità: mangiare cibi avariati, bere acqua sporca, o rovinare la propria bevanda fresca con un po’ d’acqua rancida; accettare, in monastero, che un monaco annunci la falsa notizia dell’agonia di un congiunto; innaffiare un bastone morto piantato nel deserto con un po’ d’acqua che si va a raccogliere lontano dal luogo dell’ascesi, ovviamente per farlo fiorire; fare e disfare continuamente lo stesso paniere o le stesse reti sotto il sole d’Egitto; lasciarsi seppellire dalla neve rimanendo immobili; far aspettare per due o tre anni alle porte del monastero un

discepolo che chiede di essere accolto; rompere un barattolo di miele nella sabbia e raccoglierlo con una conchiglia finché non ne rimanga più nemmeno un granello; mangiare sette olive al giorno, perché sei è peccato d’orgoglio e otto di golosità; andare a prendere l’acqua al pozzo più lontano e andarci a piccoli passi; vivere in fondo a un pozzo; restare per anni nudi su un mattone, in attesa che il sudore e le lacrime finiscano per scioglierlo; aiutare dei ladri sorpresi in casa a portare a termine il loro furto, passandogli il sandalo che si sono dimenticati; non rispondere quando si sente chiamare il proprio nome per evitare il peccato d’orgoglio; esporsi, in pieno sole, coperti di miele, in attesa che arrivino gli insetti a pungere e si sconti così la colpa di averne ucciso uno d’istinto solo perché ci ha inoculato il suo veleno; passare la propria vita a vagare nel deserto senza mai smettere di piangere sulle conseguenze del peccato originale; simulare la pazzia per passione di umiltà; crocifiggersi per una settimana in pieno sole; mangiare pane a quattro zampe direttamente per terra; lasciare che i vermi arrivino su una piaga e, quando cadono a terra, rimetterli nella carne. Va bene, basta… Ci siamo capiti. Questa è la logica dei monaci e delle monache che scelgono di vivere il proprio destino nel deserto. Per salvare la loro anima, decidono di morire continuando a restare in vita. Credono che bevendo acqua ristagnante e mangiando fichi marci, non lavandosi mai e dormendo in piedi, non rivolgendo più la parola a nessuno o rifiutandosi di guardare la bellezza della Via Lattea, considerando le donne come diavole che appartengono alla famiglia dei demoni, mangiando erba e dormendo nelle tane delle iene, smettendo di ridere e non tagliandosi più i capelli, la loro anima si trovi automaticamente purificata! Se si fosse trattato solo di scelte individuali e volontarie, sarebbe stato soltanto farsesco. Dopotutto, ognuno ha il diritto, come ha fatto san Sisoes, secondo il racconto di Palladio, di manifestare il proprio «amore per la santa abiezione»! Il fatto, però, è che il cristianesimo, una volta diventato religione ufficiale dell’Impero, non si è limitato a questo. E ha voluto estendere questa morte della parte vivente degli esseri umani alla totalità dell’umanità. Per farlo, si è forgiato una spada, quella di Paolo: e ci sono stati gli ukase dei concili. La sofferenza che alcuni si imponevano volontariamente per paura di non-essere pronti al momento del ritorno di Cristo sulla Terra è diventata, diciamo così, parola di vangelo per tutti. Preoccupandosi dell’anima, non si è mai arrivati a tanto nella tortura dei corpi. Ma è questo il prezzo che si paga quando si compiono cose divine, ossia cose inumane: camminare sull’acqua del Nilo o del Giordano; guarire i malati o resuscitare i morti (anche per errore, come nel caso di Bessarione, che aveva scambiato il corpo di un moribondo per un cadavere – non si sarebbe mai

permesso, altrimenti, di riportare un morto in vita, peccato di orgoglio); volare per aria con la sola forza della preghiera; inventarsi una lingua per parlare con gli angeli; passare la propria vita con un leone di cui ci si è presi cura una volta; discutere con Gesù passando da un argomento all’altro; oppure, come Scenute, fermare il corso del Sole; oppure ancora farsi mordere da un serpente, e però aspettare la fine della preghiera per ucciderlo dopo che ha inoculato il suo veleno. E soprattutto attirare, in pieno deserto, in una vera e propria foresta di stiliti con tanto di leader, folle incredibili, persone a migliaia, tutte ammaliate da queste orge di ascesi.

Capitolo nono

L’arte di educare i corpi Ingabbiare il desiderio

San Giovanni Crisostomo racconta che questi anacoreti non dicono: «il tale è morto; ma è giunto alla sua perfezione».129 Prima di diventare una religione, il cristianesimo è innanzitutto un arcipelago di sette in cui troviamo tutto e il contrario di tutto. Nel suo monumentale Contro le eresie, Ireneo di Lione compila una vera e propria enciclopedia di quelle che lui chiama «eterodossie». Ma a fronte di chi e di che cosa si possono definire tali? Dov’è l’ortodossia in questo II secolo della nostra era? Chi è che stabilisce le regole, e in nome di quali prospettive? L’opera di Ireneo ha come sottotitolo Smascheramento e confutazione della falsa gnosi. La domanda rimane: chi è che stabilisce che la gnosi sia irricevibile? Il dubbio che ormai, nella basilica, qualcuno abbia già appiccato l’incendio viene quando si cominciano a sentire gli gnostici affermare che il mondo è cattivo perché è stato creato da un cattivo demiurgo, e che a questa creazione è seguita una deplorevole rovina nella dimensione del tempo e una non meno deprecabile caduta nel regno della materia; e che la società è tutta una bugia, tutta un inganno. E poi ne arrivano altri convinti che sia necessario attraversare tutto il negativo fino in fondo per far sorgere, dalla negazione della negatività, una qualche positività assimilabile alla redenzione. Cerchiamo di capire meglio i sottili movimenti di questa dialettica. Il mondo è cattivo? Va bene, allora proviamo ad assecondare fino in fondo tutta questa cattiveria: teoricamente dovrebbe venirne fuori solo del bene, solo qualcosa di buono. Mettiamo quindi in piedi il programma: rifiutare la famiglia, abolire il matrimonio, rinunciare alla procreazione, e poi disobbedire al potere costituito, sia esso pagano o cristiano. L’anima non è naturalmente immortale: lo diventa se e soltanto nella misura in cui riesce a costruirsi in quanto anima. E per farlo deve essere capace di non lasciarsi abbindolare da questo mondo, che è solo una finzione orchestrata da un falso Dio. Tutti ci portiamo dentro una scintilla di luce: sta a ognuno di noi trasformarla in un incendio. Diamo qualche dettaglio. Per Simon Mago e la compagna Elena, gnostici, si

deve poter copulare liberamente: la sessualità non deve essere monogama o imbrigliata dalla fedeltà, e deve soprattutto evitare di mettere al mondo dei figli che vadano, a loro volta, a formare delle famiglie. Simone sostiene i «rapporti sessuali promiscui […]: ‘Ogni terra è terra, e non c’è differenza dove uno semina, a condizione di seminare’».130 L’uomo può scoprire la propria parte divina sfinendosi nelle orge, e questa rivelazione lo può salvare dal mondo prodotto da un cattivo demiurgo. Ascoltiamo le parole del vescovo Epifanio di Salamina, santo: E gli sventurati si uniscono tra loro. Per quanto in realtà mi vergogni a riferire le loro turpitudini (secondo il santo Apostolo delle cose fatte da loro è vergognoso perfino parlare, Ef 5, 12), parimenti non mi vergogno di dire ciò che essi non si vergognano di fare, per suscitare in ogni modo errori in coloro che odono gli atti osceni da loro praticati senza ritegno. Effettivamente, dopo che si sono uniti in una passione adulterina, come se ciò non bastasse, innalzano la loro blasfemia al cielo: la donna e l’uomo raccolgono l’emissione del maschio nelle proprie mani e si alzano sollevando la testa al cielo; e con quell’impurità in mano naturalmente pregano, i cosiddetti stratiotici e gli gnostici, il Padre di tutto, come lo chiamano, offrendo di ciò che hanno in mano, e dicono: «Ti offriamo questo dono, il corpo di Cristo». E così lo mangiano, condividendo quella schifezza, e dicono: «Questo è il corpo di Cristo e questa è la Pasqua, per cui i nostri corpi soffrono e sono costretti a riconoscere la passione di Cristo». E allo stesso modo fanno con ciò che viene emesso dalla donna, quando lei si trova a essere nel periodo del flusso del sangue: parimenti prendono il suo impuro sangue mestruale raccolto da lei e lo mangiano insieme. E dicono: «Questo è il sangue di Cristo» […]. Ma pur unendosi tra loro, vietano la procreazione. Infatti la corruzione presso di loro è perseguita non per generare figli ma per godimento […]. Soddisfano il piacere ma raccolgono in sé stessi i semi della loro impurità, non depositandoli in vista della generazione, ma mangiando essi stessi quella schifezza.131

L’uomo nuovo vagheggiato da san Paolo diventa l’«uomo pneumatico». Nella sua opera Contro le eresie, Ireneo di Lione ci descrive il pensiero di Tolomeo, discepolo dello gnostico Valentino, e scrive: «Come infatti non è possibile per l’elemento terreno partecipare della salvezza, perché non è capace di accoglierla, così a sua volta l’elemento spirituale – cioè essi stessi, a quanto pretendono – non può accogliere corruzione, quali che siano le opere nelle quali si trova implicato».132 Ecco per quali motivi gli gnostici cosiddetti licenziosi mangiano cibo destinato alle divinità, assistono alle feste pagane e praticano una sessualità totalmente libera: la scusa è di dover assicurare carne alla carne e spirito allo spirito. Non si fanno mancare nulla, nemmeno l’incesto. I barbelognostici, per esempio, organizzano orge con tutti i propri seguaci. Se una delle loro donne rimane incinta, recuperano il feto con le dita, lo pestano in un mortaio, lo mescolano con varie erbe e ci tirano fuori dei pasticcini con cui fanno la comunione. I carpocrati, invece, aboliscono la proprietà privata e militano per il

comunismo delle persone e delle cose. Secondo il figlio di Carpocrate, Epifanio, morto a soli diciassette anni: «Dio ha ingenerato per la conservazione delle specie la concupiscenza, possente e più violenta nei maschi: non c’è né legge, né costume, né altro al mondo che la possa annullare. Essa è decreto di Dio […]. Onde il precetto espresso dal legislatore: ‘non desiderare’ va inteso come cosa ridicola; oltreché è ancor più ridicola l’aggiunta: ‘le cose del vicino’. Infatti colui che ha dato la concupiscenza come mezzo per conservare la generazione, comanda… che sia tolta, senza toglierla a nessun animale. Con il dire poi: ‘la donna del vicino’, vuole costringere ciò che è comune a diventare privato: cosa più ridicola ancora».133 Bel pensiero, però non si costruisce una civiltà su un programma comune di questo genere… Le sensibilità gnostiche si dimostrano molto diverse e le comunità numerose: carpocrati, valentiniani, nicolaiti, fibioniti, stratiotici, zacchei, barbelognostici, borboriani, coddiani, ofiti e perati. Questi ultimi, per esempio, adorano la costellazione del Serpente, perché è quella che brilla di più e, proprio per questo motivo, può essere assimilata a Gesù Cristo e al Verbo… Gli euchiti, invece, rifiutano il lavoro, vagano mendicando, e vivono da radicali indomiti, mettendo in comune le donne e i beni. Nel II secolo, cioè all’epoca in cui scrive Ireneo, assieme alle pratiche libertine degli gnostici licenziosi, i dibattiti più accesi sono quelli che vertono sulla consustanzialità del Padre e del Figlio, sulla negazione della divinità dello Spirito Santo, sulla natura di Maria madre di Dio e sull’Unità delle tre ipostasi. Assieme a molte altre, queste controversie pian piano spariscono quando, da setta, il cristianesimo si trasforma in religione vera e propria, ossia quando, da arcipelago di gruppuscoli perseguitati dal potere romano, il discepoli di Chrīstos prendono il controllo dell’Impero, e diventano a loro volta persecutori dei pagani. L’editto di Costantino, emanato a Milano nel 313, consente ai cristiani di professare liberamente la propria fede; nel 392, l’8 novembre per la precisione, l’imperatore Teodosio proclama il cristianesimo cattolico religione ufficiale dell’Impero, e vieta i culti pagani. È a quel punto che i cristiani si trasformano in fanatici e cominciano a incendiare templi, distruggere statue e bruciare biblioteche, a perseguitare, massacrare e torturare, e tutto il resto. La vulgata pompa il numero dei martiri cristiani, però su quelli pagani stende il proprio silenzio… I concili rappresentano un formidabile strumento in mano al potere teocratico cristiano che, con la scusa di regolare le sottigliezze dei punti di dottrina

teologica, arriva a fissare un’ideologia con cui educare i corpi, ingabbiare la libido e costruire l’uomo occidentale, che infatti comincia proprio a quel punto a morire sotto i nostri occhi. Jean Hermant è molto preciso e puntuale quando, nei quattro volumi della sua Histoire des conciles [Storia dei concili] (1695), consacra un capitolo agli gnostici seguaci di Carpocrate e agli adamiti, prendendosela con tutti questi cristiani edonisti, nemici dei cristiani paoliniani ormai al potere: La più pericolosa di tutte le eresie sorte nel II secolo fu quella di Carpocrate e dei suoi seguaci, che presero a chiamarsi gnostici perché pretendevano di avere, riguardo alle cose divine, delle conoscenze che il resto degli uomini non aveva. Per la Chiesa, produsse mali incresciosi; perché i Pagani, che conoscevano le sconcezze e le abominazioni di cui questi eretici venivano accusati pur continuando a gloriarsi del nome di Cristiani, sfruttavano l’occasione per calunniare in generale tutti quelli che facevano professione di Cristianesimo. Quest’ultimo veniva considerato una Setta di persone detestabili, da cui si sarebbe dovuto ripulire il mondo con ogni sorta di supplizio. Di modo che per la nostra Religione, per quanto Augusta fosse, provavano solo un sentimento d’orrore estremo. Sant’Epifanio, che conosceva tutti i segreti di questi abominevoli eretici grazie a certe donne perdute che avevano cercato di trascinarlo nelle loro nefandezze e sconcezze, e da cui si trovò garantito in forza d’una grazia tutta singolare, ce ne ha lasciato, per quanto a controcuore, un ritratto terribile. Seppelliamoli sotto il velo dell’eterno oblio, piuttosto che insozzare l’immaginazione dei lettori, esponendoli ai loro occhi.134

Scrive Vincenzo di Lérins in una Digressione sull’eresia di Fotino, Apollinare e Nestorio del suo Commonitorio, composto nel V secolo: «Affermo questo: la Chiesa cattolica con i decreti dei suoi concili – sempre e solo quando è stata provocata dalle innovazioni introdotte dagli eretici – non ha fatto altro che consegnare ai posteri, anche attraverso il chirografo della scrittura, quanto aveva ricevuto dai Padri per sola tradizione».135 Il concilio funziona quindi davvero come una macchina da guerra appositamente costruita per annientare l’eretico in nome di un’ortodossia prodotta per l’occasione. Questo strumento teologico nasce dando corpo ad alcuni particolari passi dei Vangeli. Innanzitutto, quello in cui Gesù dice: «Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18, 20). Poi, ci sono gli Atti degli apostoli, che mettono in scena, ad Antiochia, alcuni fedeli convenuti dalla Giudea, tra cui Paolo di Tarso e Barnaba di Cipro, a chiedersi se sia possibile salvarsi senza essere circoncisi – semplicemente un altro modo di porsi la domanda se ci si possa salvare senza più essere ebrei nel senso antico del termine, cioè avendo deciso di appartenere alla nuova civiltà giudaico-cristiana. Ne nasce una controversia, subito trasformatasi in discussione accesa. E «fu stabilito che Paolo e Barnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli

apostoli e dagli anziani per tale questione» (At 15,2). Una frase che viene subito dopo («Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare questo problema», At 15, 6) richiama proprio l’origine dei sinodi, altrimenti detti concili. Si tratta allora di «una grande discussione» (At 15, 7) al termine della quale la questione si trova definitivamente stabilita. Il problema non è tanto di avere o non avere il prepuzio, ma di astenersi da quattro cose, chiare e semplici: «dalla contaminazione con gli idoli, dalle unioni illegittime, dagli animali soffocati e dal sangue» (At 15, 20). Questo concilio, il cosiddetto concilio di Gerusalemme, è il primo di una lunga serie e pone le basi di quello che, nel corso di mille anni, diventerà il concetto occidentale di corpo. Insomma, il divieto della fornicazione si trasforma in uno dei pilastri della legge cristiana! Il primissimo concilio si svolge sotto il segno dello Spirito Santo: «È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie» (At 15, 28), come scrive Paolo nella lettera indirizzata a quanti si interrogano sulle cose da fare per ottenere la salvezza. Seguono le proibizioni su cui erano rimasti convenuti. Nel 252, san Cipriano scrive a papa Cornelio che l’assemblea del concilio è posta sotto il segno dello Spirito Santo. Atanasio, Agostino e persino Gregorio Magno convalidano questa tesi. La parola del concilio è quindi una parola evangelica, se così posso esprimermi, cioè nasce dalla stessa fonte. Quale corpo costruiscono i concili? E soprattutto, quale anima? Tra i due, che rapporto c’è? Dopo il martire, convinto che la salvezza della propria anima si ottenga con il sangue della propria morte, e dopo l’anacoreta e il cenobita, che se l’immaginano invece nella negazione di sé qui e ora, la coppia paoliniana corpo/anima abbozza un sapiente mix di morte al mondo e annullamento di sé. Si presuppone l’educazione della carne, l’ingabbiamento del desiderio e la persecuzione della libido. I concili legiferano su tutto, dai soggetti più seri (per esempio, risolvono le questioni aperte dal donatismo, dall’arianesimo, dall’anomeismo, dal modalismo, dal montanismo, dal monofisismo, dal monotelismo, e quelle riguardanti il Filioque e la Trinità), a quelli più futili, come il modo di portare i capelli. Per esempio, il concilio in Trullo, il sesto concilio ecumenico (691-692), stabilisce centodue canoni. Ecco il novantaseiesimo nella sua integralità: Che l’uomo non debba trasformare i propri capelli in una tentazione al peccato. Quelli che hanno accolto Cristo con il battesimo hanno promesso di imitare la sua vita nella loro stessa carne. Dunque, quelli che, per la rovina delle anime, si curano i capelli e se li acconciano in trecce ben

sistemate, e offrono così tentazione alle anime più deboli, quelli noi vogliamo guarire spiritualmente con pene canoniche appropriate, in modo da educarli e da insegnargli a vivere saggiamente lasciando da parte la frode e la vanità della materia: perché elevino continuamente il proprio spirito percorrendo una via imperitura e felice, e nel timore del Signore conducano una vita casta, e si avvicinino a Dio nei limiti del possibile mediante un’esistenza di purezza, e abbelliscano l’uomo dentro di loro piuttosto che quello fuori, con la virtù e con costumi onesti e irreprensibili: solo così non recheranno più traccia della sciatteria del nemico. Se qualcuno agisce contro il presente canone, che sia scomunicato.

Lo stesso concilio, decisamente attento a tutte le questioni riguardanti i capelli, stabilisce anche: «Che coloro che vogliono assumere il titolo di eremiti e portare i capelli lunghi non rimangano in città. Quelli che chiamiamo eremiti, e che, però, vestiti di nero e con i capelli lunghi, percorrono le città, e vivono nel mondo in mezzo agli uomini e alle donne e insultano così facendo la loro stessa professione di vita, a loro ordiniamo, se vogliono, di farsi rasare i capelli e di vestire l’abito degli altri monaci, entrando in un monastero e prendendo posto tra i fratelli; se non vogliono fare queste cose, che vengano espulsi dalle città, e vadano ad abitare nei deserti, da dove derivano a tutti gli effetti il loro nome» (canone 42). È comprensibile che per legiferare su questa materia si sia dovuti ricorrere all’aiuto dello Spirito Santo. In tono meno aneddotico, i concili offrono la loro soluzione per risolvere il problema del desiderio, vera chiave di volta del cristianesimo. Per Paolo di Tarso, il tabù più importante è quello della «fornicazione». Il tredicesimo apostolo propone un ideale fatto di castità, verginità e continenza, però sa lui per primo quanto questa esigenza possa essere ardua da realizzare. Ecco perché sostiene l’istituto del matrimonio, cioè un dispositivo di monogamia e di fedeltà che mescola sapientemente un certo gusto per il martirio e una certa predisposizione alla rinuncia di sé. Scrive Paolo: È cosa buona per l’uomo non toccare donna, ma, a motivo dei casi di immoralità, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie. Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate insieme, perché Satana non vi tenti mediante la vostra incontinenza. Questo lo dico per condiscendenza, non per comando. Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro. Ai non sposati e alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io; ma se non sanno dominarsi, si sposino: è meglio sposarsi che bruciare» (1Cor 7, 1-9).

Ci si dimentica spesso che Paolo, in questo suo diario di viaggio del corpo occidentale, precisa che: «Agli altri dico io, non il Signore» (1Cor 7, 12). E che:

«non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia» (1Cor 7, 25). In altre parole, di fronte al silenzio di Gesù, e in presenza di un vuoto dottrinale, Paolo impone la propria volontà come se si trattasse della parola di Dio. E si definisce degno di confidenza per via del suo rapporto con il Signore: questo basta. La verità è che se Gesù non si è mai espresso a proposito di tali questioni, è probabilmente perché riteneva che non fossero essenziali per ottenere la salvezza. Non fa più giurisprudenza l’episodio evangelico a casa del fariseo, quando Gesù in persona rimette i peccati della peccatrice perché ha «molto amato» (Lc 7, 47). Quello che ormai importa al cristianesimo ufficiale, al cristianesimo di Paolo, è l’odio del corpo, un odio che si muove addirittura in controtendenza a tutto quello che sosteneva Gesù. L’uomo senza moglie e senza sessualità che è Paolo lo afferma chiaramente: tutti quanti dovremmo essere come lui. Non conosciamo le ragioni del suo celibato e della sua asessualità, e non sappiamo che cosa fosse esattamente quella sua spina nella carne; però quello che vediamo è che, tra martirio e anacoresi, l’ossessione ascetica di Paolo finisce per alimentare la sua dottrina, cristallizzata in seguito dai concili. La questione dell’anima e della sua natura e la questione delle modalità che legano la carne allo spirito non rientrano tra i dibattiti discussi in nessuno dei concili prima del IX secolo, cioè prima dell’ottavo concilio ecumenico, che è il quarto concilio di Costantinopoli (869-870). È in occasione della decima sessione che viene decretato il canone 11: «Anatema su chiunque sostenga che nell’uomo esistono due anime». E qui, i vescovi stanno pensando in particolare a Fozio, patriarca di Costantinopoli che distingueva tra spirito, corpo e anima (tricotomia). Il concilio condanna questa tesi e sostiene invece la dicotomia: da una parte c’è l’anima e dall’altra c’è il corpo. Su questo argomento, non ci dovranno più essere discussioni. Il platonismo si porta a casa tutto il piatto dell’avventura cristiana. Ad Aristotele toccherà più tardi… In compenso, i concili che affrontano le questioni riguardanti il corpo abbondano: celibato, ubriachezza, sodomia, astinenza, verginità, zoofilia, aborto, pederastia, bigamia, cortigianeria, fidanzamento, gravidanza, trigamia, castrazione, prostituzione, matrimonio e matrimoni successivi, circoncisione; però anche, come abbiamo visto, i capelli, il cibo, l’alimentazione e tutti i piaceri che potremmo voler condividere (i giochi, gli spettacoli, il teatro e la deprecabile attività recitativa): tutto viene codificato, normato, legiferato e regolamentato. Il problema non sembra essere tanto la salvezza dell’anima quanto la persecuzione del corpo. Perché, ad esempio, il concilio di Elvira, nel 305, legifera sul matrimonio dei cristiani e sul celibato dei preti, proibisce il matrimonio con gli ebrei, arrivando a

proibire anche la condivisione della stessa tavola con questi ultimi, e, canone 54, scomunica le donne che hanno abortito, peraltro assieme agli attori? Perché quello di Arles nel 314 vieta ogni relazione di natura sessuale tra preti e donne? Perché il primo concilio di Nicea decreta, nel 325, sotto gli auspici dell’imperatore Costantino: «Se qualcuno, malato, ha subito dai medici un’operazione chirurgica, o è stato mutilato dai barbari, può far parte ancora del clero. Ma se qualcuno, pur essendo sano, si è castrato da sé, costui, appartenendo al clero, sia sospeso, e in seguito nessuno che si trovi in tali condizioni sia promosso allo stato ecclesiastico. È evidente, che quello che è stato detto riguarda coloro che deliberatamente compiono una cosa simile e osano mutilare se stessi ma se qualcuno, fosse stato castrato dai barbari o dai propri padroni, ma fosse degno sotto ogni aspetto, i canoni lo ammettono nel clero».136 Perché il concilio di Ancira, nel 314, legifera sulla zoofilia e diversifica in maniera sorprendente le pene a seconda che il colpevole sia o meno sposato, o sia sposato da più di vent’anni, o da più di cinquant’anni, con le pene più pesanti da comminare ai più anziani? Perché questo stesso concilio condanna i lebbrosi che hanno avuto rapporti sessuali con delle lebbrose? Stessa cosa per i lebbrosi che copulano con degli animali? Perché il concilio di Cartagine del 407 proibisce ai divorziati di risposarsi? Perché quello di Orange, nel 441, obbliga a fare penitenza chi è venuto meno al voto di continenza? Perché quello di Laodicea, attorno al 364, stabilisce che le donne non possano prendere il sacerdozio, che i chierici non possano entrare nelle taverne, che gli uomini non si debbano lavare assieme alle donne, che il pane azzimo non debba essere mangiato, e che ai cristiani non sia concesso di ballare durante i pranzi di matrimonio? Su quali parole di Gesù si fondano tutte queste proibizioni? San Paolo prende in giro i testi ebraici che legiferano su tutto, però, siamo seri, che cosa fanno i concili cristiani se non moltiplicare per duemila anni ogni tipo di divieto, ogni tipo di proibizione e ogni tipo di condanna? Il tutto con la minaccia della penitenza, del castigo, della punizione, della sanzione, della correzione e, a volte, addirittura, della condanna eterna della carne. I concili distruggono l’eterodossia, ossia il libero pensiero. E lo fanno in nome di un’ortodossia che viene di fatto costruita solo in corso d’opera. La battaglia contro quelli che passano per eretici o scismatici traccia una linea che diventa la linea della Chiesa: contro Ariano e gli ariani, contro Valentino e gli gnostici, contro Mani e i manichei, contro Montano e i montanisti, ecco che la Chiesa definisce la propria dottrina sulla Santa Trinità, sull’ideale ascetico, sull’origine del male, sulla necessità di un clero gerarchicamente organizzato, e così via.

Le questioni trattate nel corso di un concilio possono rivelarsi estremamente complesse. Per esempio, il nestorianesimo afferma la compresenza, in Gesù, di due ipostasi, una divina e l’altra umana, e viene condannato dal concilio di Efeso (430); il monofisismo gli risponde affermando che Cristo possiede invece una sola e unica natura, e viene attaccato dal concilio di Calcedonia (451); da non confondere con il monotelismo, dottrina secondo la quale Gesù compie le proprie azioni unicamente per volontà teandrica (ossia allo stesso tempo umana e divina), e opinione censurata dal concilio di Laterano (649)… L’idea che ci facciamo è che i vescovi che andavano ai concili fossero tutti bardati di diplomi in filosofia, in retorica o in teologia, e che solo con questi studi potessero permettersi di volare a tali altezze. Che avessero letto Platone e Plotino, Aristotele e Porfirio, e sempre con il calamo per gli appunti in mano. E invece no! Una ricerca sociologica sui vescovi di questi primi tempi del cristianesimo ci fa scoprire una corte dei miracoli in cui, accanto a gente semianalfabeta, troviamo tutta una schiera di bugiardi, ladri, prevaricatori e falsari! Ovviamente, troviamo anche delle cime intellettuali come sant’Agostino. Però basta leggere Gregorio Nazianzeno, che si improvvisa giornalista con i vescovi incrociati a Costantinopoli negli anni Ottanta del IV secolo: «Tra loro, alcuni sono figli di contabili dell’erario, e non hanno altra prospettiva che quella di frodare; altri sono venuti direttamente dal loro ufficio […]; altri hanno lasciato l’aratro e sono bruciati dal sole; altri hanno lasciato la zappa e il piccone che usavano ogni giorno; altri ancora, che hanno lasciato i remi o l’esercito, emanano puzza di sentina o sono pieni di cicatrici […] e altri hanno ancora sulla pelle il sudore per il lavoro fatto accanto al fuoco. Questa gentaccia da frusta o macina […] si gonfia e, prendendosi gioco del popolo con la persuasione o con la paura, punta in alto come certi scarabei che si dirigono verso il cielo volando […] e preferiscono sciocchezze, non sanno neppure quanti piedi e quante mani hanno».137 Alcuni non sanno nemmeno firmare con il proprio nome. Immaginiamoceli davanti alla questione del giorno: «Quando è incarnato, Cristo è uno quanto alle proprietà, ai nomi e alle operazioni?» Il risultato è che, su questioni tipo: «Lo Spirito-Pneuma è pari al Padre o al Figlio?», «Il soggetto ipostatico è la stessa cosa dell’essere sussistente o della persona?», o ancora: «Il venire all’essere del Figlio corrisponde al processo stesso della creazione?», o anche: «Dio, in quanto monade, contiene la diade o la triade?», le argomentazioni usate per dibattere non sono tanto citazioni recuperate dal Parmenide di Platone o dalle Categorie di Aristotele, quanto battutacce, insulti e spergiuri. A volte, addirittura si tratta di bustarelle – diciamo

borse piene di monete d’oro, sinecure o posti da occupare. Per strada, non è raro trovare manifestazioni e tafferugli che lasciano a terra pure qualche morto. Facendo tutti i conti del caso, si può anzi dire che ci siano più vittime collaterali nei concili che defunti martiri nelle arene – stiamo parlando di una cifra attorno alle venticinquemila vittime… Cascano le braccia a immaginare tutta questa gente prontissima ad attaccar briga, gente ignorante, semianalfabeta e alcolizzata, gente dedita alla compravendita di voti e sempre pronta a picchiare colleghi, tutta riunita a disquisire e a pontificare su questioni teologiche destinate a far prendere a un’intera civiltà una strada piuttosto che un’altra! Anche se va pure sottolineato che, per alcuni concili, i religiosi riuniti sono stati davvero pochi: sessantasei a Cartagine nel 253, trentuno nella stessa città nel 255, diciotto ad Ancira nel 314, venti a Neocesarea tra il 314 e il 320, cinquanta a Roma nel 353. Nonostante tutte le Bibbie messe sugli altari nelle varie sale dei concili perché lo Spirito Santo potesse arrivare e diffondere il proprio respiro sopra gli astanti, non è poi tanto sicuro che la cosa sia bastata! Chiudiamo con un concilio tutto particolare, un concilio soprannominato il «Sinodo del cadavere» (synodus horrenda)! Ha luogo a Roma nell’anno 896. Alcune dispute partigiane hanno portato all’elezione di papa Formoso, ma dopo la sua morte, il partito vinto si vendica sul suo cadavere, costringendo il nuovo papa, Stefano VI, a organizzare un processo postumo. La spoglia del defunto papa viene riesumata già in stato di decomposizione; in mezzo al tanfo, la spogliano e le rimettono gli abiti sacerdotali propri della funzione che aveva ricoperto in precedenza; la fanno sedere sul trono pontificale, e alcuni giudici cominciano a interrogarla. Ovviamente risponde, ma è solo per via del trucchetto del prete messo a leggere un foglio per rispettare i diritti della difesa. Molto stranamente, nonostante la difesa sia tagliata su misura dall’accusa, Formoso viene condannato! Lo rispogliano delle insegne pontificali con cui lo avevano vestito poco prima, gli tagliano il pollice, l’indice e il medio della mano destra, cioè le dita che usava per benedire, dichiarano non valida la sua elezione e annullati i suoi atti pontificali, e alla fine lo sistemano nella tomba di uno sconosciuto. La collera, però, è un piatto che si serve freddo, lo sappiamo, e a volte può essere seguito dal dessert: papa Stefano VI, in effetti, lo tira fuori dalla nuova tomba e fa gettare il cadavere nel Tevere – bella e interessante versione del principio dell’amore per il prossimo e del perdono delle offese subite offerta dal rappresentante di Cristo in Terra, teniamocela a mente. Sembra proprio che Gesù sia partito per fare un viaggio molto lontano…

Dal 904 al 963 si apre un nuovo periodo, quello della cosiddetta «pornocrazia papale», che vede dodici papi avvicendarsi uno dopo l’altro. Teodora mette sul trono il proprio amante, Giovanni X; papa Sergio III fa bella mostra di sé accanto alla propria giovane amante, Marozia, figlia di Teodora; più tardi, è proprio quest’ultima a tessere nell’ombra per fare eleggere altri due papi, Anastasio III e Lando; poi fa anche assassinare Giovanni X, amante della madre, e al suo posto sul trono sistema il figlio; Giovanni XII, figlio illegittimo di un bambino a sua volta abbandonato da Marozia, diventa il più giovane papa della storia, ha soltanto diciott’anni – è lui che, come si dice, ha portato la pornocrazia al suo più alto punto di incandescenza; la sorella di Marozia, Teodora II, intriga a sua volta perché il proprio figlio possa diventare sovrano pontefice – prenderà il nome di Giovanni XIII. Decisamente, Gesù è diventato irreperibile… Il secondo millennio cristiano sragiona: crede, però lo fa nel terrore e nel timore dell’inferno. La scolastica non può fare niente, solo produrre effetti debolissimi, certo più deboli di quelli che produce la Legenda aurea di Iacopo da Varazze, con tutte le sue storie edificanti. Per esempio, quella di san Dionigi. Il fatto di essere torturato, martirizzato, flagellato, incatenato e messo su una rete incandescente non gli fa passare la voglia di cantare; viene dato in pasto a belve lasciate appositamente a digiuno, però lui riesce a calmarle con un semplice segno della croce; viene quindi buttato in una fornace, ma per empatia le fiamme si spengono; viene crocifisso ma, ovviamente, sopravvive anche a questo. Alla fine, lo decapitano con un’ascia, lui e i suoi due compagni di sventura: «Subito dopo, però, il corpo di san Dionigi si alzò in piedi e, con un angelo che lo guidava e una luce divina che lo precedeva, portò il suo capo mozzato in braccio per due miglia, dal luogo che viene giustamente chiamato Monte dei Martiri fino a quello in cui ora riposa per sua scelta e per divina provvidenza».138

Parte seconda

DECOSTRUIRE L’ANIMA Sotto il segno del cane Dove si scopre che, per Aristotele, il cane ha un’anima. Dove si impara, grazie a Montaigne, che, quando un cane arrabbiato morde Socrate trasmette la rabbia anche al suo pensiero. Dove si scopre con Vesalio che il cervello di un cane rimanda a quello dell’uomo. Dove Descartes disquisisce sul cane che seppellisce i propri escrementi. Dove Regius toglie la materia al proprio cane per ottenerne la forma. Dove Fontenelle sorprende Malebranche che sta prendendo a calci la sua cagna incinta. Dove Arnauld, a Port-Royal, scopre i due cani che stanno facendo girare lo spiedo a casa del Signore di Liancourt. Dove Fontenelle spiega che due cani copulano, ma che due orologi non lo possono fare. Dove La Fontaine confessa di preferire il lupo al cane. Dove il gesuita Pardies dice tutto il bene possibile di un cane che muove la coda. Dove Gassendi lancia un osso e una pietra al cane di Descartes.

Capitolo primo

Il luogo del filo dell’ascia Deplatonizzare l’anima

La Scuola di Atene di Raffaello fa coesistere in uno stesso tempo e in uno stesso spazio estetico uomini che, nella vita reale, non sono stati affatto contemporanei. Per esempio, Pitagora, vissuto nel VI secolo prima di Gesù Cristo, sta passeggiando assieme a Boezio, autore di una Consolazione della filosofia risalente al VI secolo della nostra era, e da cui lo separano quindi dodici secoli. Diogene di Sinope si trascina la sua aringa in mezzo alle strade dell’Atene del IV secolo prima della nostra era, ma in questo affresco coabita con Plotino che insegna il suo neoplatonismo a Roma nel II secolo d.C. E poi ci sono pensatori dell’Antichità greca come Eraclito e Zenone che condividono lo stesso momento pittorico con personaggi contemporanei al pittore stesso, come Federico II di Mantova e il Sodoma. L’opera di Raffaello propone una specie di banchetto astorico del pensiero occidentale, il cui cuore pulsante si trova nella coppia Platone-Aristotele. Perché, filosoficamente parlando, è da loro che tutto deriva ed è su di loro che tutto converge. Collocati uno a fianco dell’altro, i due filosofi occupano il punto focale della composizione. Platone di Atene sta alla sinistra dell’osservatore, e Aristotele di Stagira alla sua destra. Il primo si tiene una copia del Timeo in mano e osserva l’altro, che a sua volta gli ricambia lo sguardo mettendo in mostra la propria Etica Nicomachea. Da notare, in ogni caso, che quelli che sfoggiano sono dei libri, cioè degli oggetti che ai tempi dei filosofi in questione ancora non esistevano, perché la tecnica era di scrivere con un calamo su rotoli di papiro… E, ovviamente, di chi si trova davvero rappresentato su quei volti non sappiamo nulla. Qualcuno ha sostenuto che la fisionomia di Platone potrebbe in realtà essere quella di Leonardo da Vinci. Di Epicuro e di Diogene di Sinope, invece, non possiamo dire assolutamente nulla, probabilmente il pittore si sarà ispirato a qualcuno dei suoi amici… La verità, però, è che, colpo di genio di Raffaello, i due filosofi vedono il proprio pensiero riassunto in un unico gesto. Per Platone, si tratta dell’indice rivolto verso il cielo, e per Aristotele della mano tesa con il palmo verso il basso.

E noi capiamo: per l’autore del Parmenide, la verità si trova nel cielo del mondo intelligibile, mentre per l’autore delle Ricerche sugli animali nel quaggiù sensibile. Raffaello sceglie, da una parte, il Timeo, cioè il dialogo platonico sull’origine dell’esistente, e, dall’altra, l’Etica Nicomachea, cioè la morale che il filosofo stagirita scrive per il figlio, e non la Metafisica. In questo modo, il pittore, più che un’opposizione, sta suggerendo una complementarità: non si tratta di scegliere tra il mondo intelligibile o il mondo sensibile, ma di poter pensare una cosmogonia platonica idealista assieme a un’etica aristotelica pragmatica, addirittura pratica. È la lettura neoplatonica del mondo, è lo spirito del Rinascimento, sostenuto da una morale della misura – il Grand Siècle si sta già annunciando. La cosmogonia e l’antropologia sono dalla parte di Platone, l’etica e la morale, da quella di Aristotele. Ciò non toglie che questo palmo teso verso il terreno e questo indice rivolto al cielo raccontino con molta semplicità una cosa sola: che Platone è un filosofo idealista per cui l’Idea primeggia sulla realtà sensibile e le fornisce un’esistenza per partecipazione; e che invece Aristotele è un filosofo dell’empirismo che, senza essere materialista nel senso pieno del termine, rende comunque possibile il materialismo in quanto tale. Il primo parla di Intellegibile e di Sensibile, il secondo di Atto e di Potenza. Leggere L’anima di Aristotele permette di aprirsi a un paesaggio filosofico interessante, proprio perché quel pensiero inaugura un percorso che, attraverso le polemiche sull’averroismo, emancipa l’intero Occidente dall’onnipotenza della tutela platonica… Non è un caso se, sull’affresco di Raffaello, troviamo raffigurato anche Ibn Rušd di Cordova, meglio conosciuto con il nome di Averroè, con il suo turbante e la sua aria ossequiosa. Nel suo trattato su L’anima, Aristotele comincia sostenendo che il proprio soggetto non è cosa facile da afferrare: «in ogni senso ed in ogni maniera è tra le cose più difficili ottenere una convinzione riguardo all’anima».1 Noi gli diamo volentieri ragione; e, in effetti, sulla questione, la lettura del suo libro confonde più di quanto non rassicuri. Come abbiamo visto, Platone si serve della reminiscenza e della capacità di uno schiavo di risolvere un problema di geometria senza aver mai studiato matematica per provare che l’anima esiste. Aristotele, invece, non ricorre a questo genere di semplificazione retorica e sofistica. A nulla serve evocare un cielo delle Idee in cui l’anima del servo avrebbe acquisito le proprie conoscenze matematiche prima di vagare di corpo in corpo fino a capitare in quello presente. Quello che vuole fare Aristotele è pensare il proprio soggetto rispettando l’ordine delle ragioni.

Aristotele mette in relazione l’anima, la verità e la «ricerca sulla natura»2 e ritiene che conoscere una sola di queste significhi conoscere tutte le altre. Però implica anche porre la propria ricerca non tanto sul terreno della metafisica, quanto su quello di una doppia disciplina: la fisica, per quanto riguarda la materia, e la dialettica, per quanto riguarda la forma.3 Non è affatto un caso che la sua analisi dell’anima non trovi posto all’interno della Metafisica, ma venga sviluppata in un trattato a sé. Non c’entra, insomma, niente con la metafisica, il cui nome, secondo la vulgata, nasce con Teofrasto, o addirittura con Andronico di Rodi, il quale, sembra, classificando i libri di Aristotele in rubriche (logica, etica, politica, storia degli animali, poetica, retorica, e così via), si sarebbe domandato dove sistemare quell’opera e l’avrebbe alla fine collocata dopo la fisica (in greco, etimologicamente: metá ta Physiká). Per lo Stagirita, quindi, l’anima non è una questione che si pone «dopo la fisica», ma una questione propriamente di fisica. Qualsiasi analisi, qualsiasi commento e qualsiasi riflessione che non tengano conto di questa precauzione metodologica di Aristotele all’inizio della propria analisi portano a una lettura del pensiero del filosofo falsata dal prisma di tutto quello che il medioevo cristiano ne ha fatto dopo. Dimenticare che il testo rimanda alla ricerca sulla natura per collocarne a tutti i costi l’intenzionalità nel cielo delle Idee platoniche o nella rigatteria scolastica medievale corrisponde, in pratica, a profanare tombe. Subito, fin dalle prime pagine di quella che si trasforma ben presto in un’analisi serrata dell’anima, Aristotele ci fornisce una chiave: «l’anima è come il principio degli animali».4 A partire da questa ammirevole certezza, segue una serie di considerazioni di metodo che fanno quasi girare la testa: dell’anima, si tratta di decifrarne la natura, la sostanza e le proprietà, le determinazioni, l’essenza, le parti e il genere. Bisogna domandarsi a quali categorie appartiene: oltre all’essenza e alla sostanza, alla quantità, alla qualità, alla relazione, al luogo, al momento, alla posizione, al possesso, all’azione e alla passione. Aristotele innaffia il terreno filosofico con una pioggia di domande: l’anima è una sostanza o è una cosa individuale? È un’entelechia (cioè l’essere stesso in quanto essere reale fonte di azione) o una potenza? La si può dividere o è senza parti? Le anime sono tutte della stessa specie? Sono diverse per specie o per genere? Già che ci si trova, Aristotele afferma anche che non esiste solo l’anima umana… E si domanda: ma gli animali hanno un’anima sola, unica per tutti, dal serpente alla giraffa, dalla medusa all’elefante? Leggiamo: «Si deve invece fare attenzione a che non sfugga se ci sia un’unica definizione di anima, com’è unica la definizione di animale, o se sia diversa per ciascun anima, com’è diversa la definizione di cavallo, cane, uomo e dio».5 L’animale viene prima o dopo la propria anima? Esiste una pluralità di anime o una pluralità di parti? Bisogna

esaminare l’anima intera o le sue parti? O le sue funzioni? E, pur rendendo giustizia a Platone, in un certo modo ne prende anche le distanze: «Sembra che non solo la conoscenza di che cos’è una cosa sia utile a cogliere le cause degli accidenti delle sostanze […], ma anche, viceversa, che gli accidenti contribuiscano in larga misura a conoscere che cos’è una cosa. Quando infatti siamo in grado di dar conto, in conformità all’esperienza, di tutti (o della maggior parte) gli accidenti, allora potremmo parlare anche dell’essenza nel modo più corretto».6 Certo, Platone ha ragione, però, «viceversa»: la verità si trova anche altrove. Ed è proprio attraverso una rivoluzione epistemologica di metodo, attraverso la considerazione «della maggior parte [de]gli accidenti», che si può arrivare alla vera conoscenza, la quale, proprio perché vera, non potrà mai fare a meno dell’«esperienza». Siamo, insomma, di fronte a un cambio radicale di paradigma, un cambio che non esclude le scienze, e che suggerisce, anzi, che il fatto di prendere in esame il reale e di considerare tutto ciò che è concreto, di preoccuparsi delle cose che sono presenti qui e ora e convalidate dall’esperienza, sia la base per una conoscenza capace di superare i limiti dell’idealismo platonico. È un vero e proprio discorso sul metodo quello che Aristotele offre iniziando la propria ricerca sulla definizione dell’anima. La quale viene cominciata procedendo negativamente, cioè mediante l’esposizione di tutto quello che l’anima non è. Spesso Aristotele, prima di presentare nuove teorie che superano quelle vecchie, tira un bilancio di quanto è stato elaborato prima di lui. E proprio il fatto che le sue opere siano state conservate rende possibile ricostruire, anche se volte solo a frammenti, il pensiero di autori le cui opere sono invece scomparse. Le sue citazioni, i suoi rimandi e i suoi riferimenti costituiscono una specie di enciclopedia di un sapere perduto che però siamo riusciti parzialmente a recuperare proprio grazie a questo modo di procedere. Cose a cui non crede Aristotele: a un’anima che muove sé stessa, come negli orfici; a un’anima intesa come armonia di proporzioni tra cose costituite da «polvere d’aria», come in Pitagora; a un’anima materiale composta di atomi, come in Democrito e in Leucippo; a un’anima intesa come «motore immoto» in relazione con le Idee e i Numeri, come in Platone; a un’anima assimilabile all’intelligenza, come in Anassagora; a un’anima costituita da elementi diversi, come in Empedocle; a un’anima intesa come numero che si muove da sola, come in Senocrate; a un’anima che è fatta d’aria e che è il più sottile di tutti i corpi, come in Diogene di Sinope; a un’anima intesa come principio incorporeo e

immobile all’interno di un flusso in continuo divenire, come in Eraclito; a un’anima immortale catturata all’interno di un eterno movimento circolare, come in Alcmeone; a un’anima-acqua il cui seme è umido, come in Ippone; a un’anima-sangue, come in Crizia… Qual è allora la definizione di Aristotele? Prima di darla, meglio chiarire un po’ il suo vocabolario. Perché, in effetti, termini come «ecceità», «sostanza», «accidente», «quantità», «qualità», «modalità», «quiddità», «in atto», «in potenza», «entelechia», e molti altri ancora, fanno ormai tutti parte del bagaglio filosofico classico e hanno fatto la fortuna di dieci secoli di pensiero scolastico, così come l’infelicità dei suoi lettori. Però, è vero, sono stati tutti inventati da Aristotele. Relativamente al discorso che stiamo seguendo qui, ci soffermeremo in particolare su «potenza», «atto» ed «entelechia». C’è un esempio che viene spesso usato per far capire più facilmente di che cosa si tratti: la quercia è in potenza nella ghianda, cioè è sul punto di realizzarsi come quercia; l’entelechia indica lo stato di perfezione di ciò che si trova realizzato come doveva esserlo. Il virtuale è ciò che è in potenza; il reale ciò che è in atto; l’entelechia è ciò che è pienamente realizzato. Per Aristotele, la sostanza è materia, figura e forma, la materia è potenza e la forza è entelechia: «Necessariamente dunque l’anima è sostanza nel senso che è forma di un corpo naturale che ha la vita in potenza».7 L’anima è quindi l’entelechia di un corpo che ha la vita in potenza: «essa è l’atto primo di un corpo naturale dotato di organi».8 L’anima rappresenta per il corpo quello che la forma del calco rappresenta per la cera. È la quiddità (l’essenza, la qualità essenziale) di un corpo di qualità determinata. Quella di Aristotele è quindi una definizione vitalista dell’anima: l’anima è forma e principio dinamico del corpo e mette in forma la materia e l’anima. Qui nasce il riferimento agli animali di cui possiamo sezionare i corpi e che però continuano a vivere nei loro pezzi separati.9 La verità è che non ci sono tante anime in un corpo, ma una sola. Quanto al resto, l’anima non si muove in maniera autonoma, il movimento non le appartiene. Il movimento è traslazione, alterazione, diminuzione, accrescimento, e tutto questo presuppone un luogo di consistenza. L’anima appartiene a un corpo che è, lui sì, in movimento. È soltanto in questo senso che si può parlare di movimento dell’anima. Però, quando c’è movimento, è l’anima che muove il corpo. L’anima non si muove da sola, ma muove ciò che la muove. Nel corpo, non esiste un posto specifico per l’anima, una sua ubicazione particolare, perché l’anima, nel corpo, sta dappertutto. Non proviene da un prima

senza materia, e non si muove in direzione di un dopo senza materia. Quando il corpo non c’è, non c’è nemmeno l’anima; quando il corpo non c’è più, nemmeno l’anima esiste più. Non si tratta di concepirla come compimento di un percorso di vite anteriori o come destinata a nuovi tragitti dopo la morte del corpo; non si tratta nemmeno di prendere in considerazione dei meriti che le farebbero guadagnare il paradiso o delle mancanze che la porterebbero direttamente all’inferno. Non si tratta nemmeno di immaginare che possa trovar posto nel corpo di un animale rozzo e volgare o in quello di uomo saggio a seconda di come si sia comportata nella vita terrena del corpo in cui si è trovata di volta in volta prigioniera. Qui vediamo chiaramente che l’indice di Platone puntato al cielo e il palmo di Aristotele rivolto a terra riassumono abbastanza bene il pensiero dell’uno e dell’altro. L’anima è un principio vitale che dispone di diverse facoltà: c’è un’anima vegetativa, cioè nutrizionale e comune, che permette a tutti gli esseri viventi, vegetali, animali ed umani, di nutrirsi e riprodursi; c’è un’anima sensitiva, specificamente associata agli animali, e che a questi ultimi conferisce desideri e mobilità; e poi c’è un’anima razionale, caratteristica peculiare dell’uomo, e che all’uomo permette di pensare. Questi tre gradi dell’anima non sono separati, e si trovano integrati al livello superiore dell’anima intellettiva. Gli esseri viventi possono avere una, due o anche tre di queste facoltà. Quindi anche le piante possiedono un’anima, allo stesso titolo degli insetti: «Come a proposito delle piante si nota che alcune continuano a vivere anche se vengono divise e se le loro parti vengono separate le une dalle altre (e ciò perché l’anima che si trova in esse è unica in atto in ciascuna pianta, ma molteplice in potenza), la stessa cosa vediamo che accade anche per altre specie di anima, ad esempio negli insetti, quando vengono sezionati. E infatti ciascun segmento ha la sensazione e il movimento locale, e se ha la sensazione possiede pure l’immaginazione e la tendenza, poiché dov’è la sensazione ci sono pure il dolore e il piacere, e dove si trovano questi necessariamente c’è anche il desiderio».10 L’anima non si trova quindi in un punto preciso del corpo, ma ovunque si dà corpo. Per rendere il proprio pensiero più comprensibile, Aristotele usa l’immagine della scure, in rapporto alla quale la lama rappresenta quello che l’anima rappresenta per il corpo: «Così se uno strumento, ad esempio una scure, fosse un corpo naturale, la sua essenza sarebbe di essere scure, e quest’essenza sarebbe la sua anima. Tolta questa essenza, la scure non esisterebbe più se non per omonimia».11 La lama di questo strumento è in effetti inseparabile dal suo materiale, è la sua anima, ma se il ferro scompare, anche l’anima della scure, la sua lama, immediatamente scompare. L’anima è quindi una sostanza fatta di forma e di materia, e la loro

associazione costituisce l’essere vivente. Non esistono, come in Platone, un corpo e un’anima separati, ma un corpo e un’anima legati in una vita che, quando scompare, fa scomparire lo stesso dispositivo, senza che, però, l’anima debba volarsene via – per esempio, verso un cielo delle idee. L’anima è forma del corpo, atto del corpo: «è esatta l’opinione di coloro i quali ritengono che l’anima non esista senza il corpo né sia un corpo. In realtà non s’identifica col corpo, ma è una proprietà del corpo».12 Qualcuno potrà sostenere che è proprio questa proprietà a spiegare quanto il filosofo esponeva nelle prime pagine del trattato,13 e cioè che è parecchio complicato ottenere una definizione precisa dell’anima… È proprio su questa difficoltà che parte del medioevo finirà per inciampare commentando il trattato di Aristotele. Pensiamo, in particolare, al caso di Averroè, che, nel suo grande commento al libro aristotelico su L’anima, riprende la questione dell’intellezione discussa alla fine del terzo libro. Averroè procede interrogando e facendo lunghe analisi per spiegare le differenze tra gli intelletti umani in potenza e suscettibili di ricevere la forma degli oggetti, e l’Intelletto sempre in atto che permette di realizzare in ciascuno il passaggio dalla potenza all’atto, un’operazione intellettuale senza la quale nessuna conoscenza è mai possibile. Ma se esiste un solo Intelletto agente, che cosa possiamo affermare allora dell’anima umana creata da Dio e, dopo il peccato originale, da lui riscattata? E ancora: in un mondo creato da Dio, com’è quello pensato dai cristiani e dai musulmani come Averroè, in che modo possiamo considerare un Intelletto agente che non assomiglia in niente al Dio creatore dei monoteisti? Sull’Intelletto agente, scrive Averroè: «Secondo la ragione, sono obbligato a concludere che ce ne sia solo uno (e che serva a tutti); secondo la fede, invece, è il contrario che sostengo con fermezza». A questo proposito, hanno parlato della teoria della doppia verità nell’Islam. E noi lo capiamo benissimo, è una questione che oggi appartiene ormai all’ambito del politicamente corretto: intriso dall’ideologia del momento, il dibattito tecnico e specialistico di teologia ha assunto un vero e proprio rilievo politico. Molto fortunatamente, qui stiamo parlando di altro. Quello che deduco è che la filosofia di Averroè si rivela essere un pensiero del commento. Proprio come la patristica può essere interamente ridotta al commento della Bibbia, la glossa infinita sui libri di Aristotele imprime una nuova direzione alla filosofia, che porterà alla scolastica. Averroè commenta Aristotele, poi viene a sua volta commentato da Tommaso d’Aquino, il quale a sua volta ancora verrà commentato da altri, e via di seguito…

La verità è che il vitalismo di Aristotele è interessante perché fa in qualche modo tornare il pensiero platonico con i piedi per terra. Il fatto di definire l’anima come potenza che informa la materia nei limiti di quest’ultima, limiti fisici, limiti anatomici e limiti biologici, rappresenta un’attraente alternativa filosofica al platonismo. L’unico problema è che il vocabolario dello stagirita appartiene sempre al genere delle glossolalie. E, quando, nel trattato su L’anima, analizza la nozione di acuto, di inodore, di insipido, di sapido, di silenzio, di invisibile, di aspro, di amaro, di astringente, di acido, di diafano e di bagnato, Aristotele si muove nella materia del mondo, manifestando un vero e proprio partito preso per le cose più di quanto non faccia quando disserta sulla quiddità e sulla quoddità, sull’atto e sulla potenza, sulla forma e sulla materia, sulla sostanza e sull’attributo, sul numero e sull’essenza, sull’accidente e sul genere, sull’entelechia e sull’idea, e su molte altre categorie ancora, impiegando un linguaggio che non fa altro che girare su sé stesso e trasformarsi in un fine in sé. Il problema con i maestri è l’uso che ne fanno i discepoli. I discepoli, o i loro commentatori, i loro glossatori, i loro analisti. Anche per quanto riguarda Aristotele, il peggio sono sempre gli aristotelici. Quelli che pensano a partire da Aristotele senza mai davvero pensare un po’ più in alto, senza mai andare oltre. Le promesse del suo metodo si bloccano, si fissano, si cristallizzano, si solidificano, si pietrificano nella scolastica, che è, come indica la sua radice etimologica, il pensiero della scuola, ossia di quel luogo dove, più che inventarsi un futuro, s’impara ciò che è vecchio. Che cosa aggiunge Tommaso d’Aquino al pensiero dell’anima di Aristotele quando lo ingabbia in dispositivi verbali, per non dire verbosi, che in qualche modo riecheggiano le grandi architetture delle cattedrali gotiche? L’autore della Somma Teologica definisce in effetti l’anima come un «atto della materia» che porta a tre specie d’anima, quella razionale, quella sensibile e quella vegetale, le quali conducono a cinque generi di potenza, quella vegetativa, quella sensitiva, quella appetitiva, quella locomotiva e quella intellettiva, da cui derivano diciotto potenze. Quella razionale, attraverso l’intellettiva, forma l’intelletto agente e l’intelletto possibile; quella sensibile, tra la razionale e la sensitiva, attraverso l’appetitiva porta alla volontà; poi ci sono quella combattiva e quella desiderativa. La potenza sensibile, attraverso la sensitiva, ne forma una interna e una esterna: quella interna comprende la cogitativa, la memorativa, l’immaginativa e il senso comune; quella esterna comprende la vista, l’udito, l’odorato, il gusto e il tatto. Quella sensibile, attraverso la locomotiva, equivale al dispositivo locomotore. Quella vegetale, attraverso la vegetativa, porta alla facoltà di procreazione, alla facoltà di crescita e alla facoltà nutritiva. Aggiungiamo a questo che tutto si separa tra organico (tutto quello che

appartiene all’anima razionale) e inorganico (tutto quello che appartiene alle altre due anime). L’esposizione del pensiero tomista procede per tagli sistematici: una domanda, seguita da alcuni articoli composti da obiezioni numerate, seguite a loro volta da una rubrica di argomenti «in contrario», poi da una risposta in cui, a furia di «perché», di «ma», di «ora», di «dunque», di «oppure», di «è così», il Dottore della Chiesa è in grado di provare, per esempio, che «gli uomini pingui sono scarsi di seme».14 San Tommaso affronta la questione del legame tra anima e corpo attraverso quella dell’insorgere o meno dell’anima nell’embrione. L’anima si trova già nel corpo? O interviene nella carne a un momento dato? E, se sì, qual è questo momento? Il dibattito agita alcuni Padri della Chiesa come san Girolamo nelle sue Lettere (CXXVI) e sant’Agostino ne L’anima e la sua origine (CLXVI): i due hanno un carteggio sull’argomento. La questione prende il nome di traducianesimo e la si deve, in quanto dottrina, a Tertulliano, per il quale l’anima dei bambini viene trasmessa a partire da quella dei genitori. Al contrario, i creazionisti come Tommaso d’Aquino, Alberto Magno, san Bonaventura e Calvino ritengono che l’anima dei bambini venga creata direttamente da Dio. Il medioevo si appropria della questione e i dibattiti infuriano tra chi sostiene l’animazione immediata, ossia fin dal momento della concezione (era anche la tesi di Gregorio di Nissa e di Basilio il Grande), e chi si schiera a favore dell’animazione ritardata, considerando che l’anima venga conferita da Dio solo quando il feto è abbastanza sviluppato da poter accogliere un’anima spirituale (è la tesi di Teodoreto di Cirro nel V secolo). L’arrivo in Occidente, nel XII e XIII secolo, dei testi del medico e filosofo Avicenna consente di affrontare l’argomento fondandosi non più su categorie metafisiche ma sulle osservazioni empiriche di chi studia sul campo il funzionamento del corpo umano. Sappiamo che Aristotele distingue tre anime: quella vegetativa, quella sensitiva e quella razionale. La medicina ci insegna che queste tre anime indicano più che altro tre stati dell’anima in uno stesso embrione, un embrione che evolve passando dal vegetativo al sensitivo fino al razionale. Sarà questa la tesi tomista: «nella generazione per primo il feto vive la vita della pianta, poi vive la vita dell’animale e finalmente la vita dell’uomo. Dopo quest’ultima forma non si riscontra negli esseri generabili e corruttibili una forma ulteriore e più nobile. Perciò l’ultimo fine di tutto il generare è l’anima umana, e a questa la materia tende come all’ultima sua forma».15 In effetti, per Tommaso, Dio conferisce l’anima all’essere e la passa al

bambino. L’anima intellettiva viene dunque creata da Dio e messa nell’embrione dopo che quest’ultimo ha passato la fase del tempo vegetativo, cioè del tempo sensitivo e motore, che corrisponde al momento in cui la madre sente il bambino che si muove in pancia, ossia a partire dai quaranta giorni. Aristotele, che condivideva questa teoria dinamica, evolutiva e vitalista, spiegava (Ricerche sugli animali, VII, 3) che il processo era più lento e lungo nelle bambine che nei bambini – quaranta giorni per i bambini e novanta per le bambine! Precisiamo anche che, per i cristiani, tale teoria (cioè che l’embrione non è un essere umano, ma un essere vivente che non appartiene alla specie animale) giustifica l’aborto, a patto che venga praticato prima di questa soglia temporale ontologica e fisiologica. Il medioevo, in fondo, non è stato così oscuro come lo si dipinge! La Chiesa fa sua la teoria tomista per sei secoli: l’embrione è quindi all’inizio un piccolo-uomo-pianta, poi si trasforma in un piccolo-uomo-animale, e poi diventa un piccolo-uomo-razionale. Lo schema ritorna in auge nel Settecento con l’anima dell’uomo-macchina, o meglio con l’anima-macchina dell’uomo-anche-lui-macchina, per poi essere abbandonato dalla Chiesa nel 1869 – probabilmente perché si è cominciato a pensare che, dentro questa logica postaristotelica, si annidava il positivismo e che, grazie a lui, il lupo materialista sarebbe entrato nell’ovile idealista e spiritualista! Occorre anche dire che, sull’argomento, la Chiesa ha ballato per un po’ il valzer dell’esitazione. Il 29 ottobre del 1588, sul monte Quirinale, papa Sisto V pubblica una Bolla intitolata Effraenatam (Senza ritegno). Il testo abolisce la tesi dell’animazione ritardata, che permetteva di abortire entro la quarantesima settimana, e quindi permetteva così vita debosciata e lussuria, stupro e fornicazione, prostituzione e libertinaggio, accettando la tesi opposta dell’animazione immediata: l’anima è consustanziale all’embrione, quindi sbarazzarsene significa attentare all’anima stessa – peccato mortale gravissimo! Sulla scia, il papa condanna qualsiasi velleità contraccettiva. Partigiano dell’animazione ritardata, il papa successivo, Gregorio XIV, abroga nel 1591 la bolla del predecessore e restaura la pena di scomunica soltanto quando l’interruzione volontaria di gravidanza ha luogo oltre il quarantesimo giorno. Il che significa non considerare più l’aborto come un omicidio. Ultimo voltafaccia nel 1869, quando papa Pio IX, con la bolla Apostolicae Sedis moderationi, riporta a validità la tesi dell’animazione immediata! Che è poi quella che ancora oggi trionfa nella Chiesa cattolica, apostolica e romana… Precisiamo che la bolla Effraenatam non è mai stata pubblicata per intero, ma solo amputata dei paragrafi otto, dieci e undici, visibili unicamente sull’originale, il quale, andate a capire per quali bizzarre ragioni, è consultabile

negli archivi del Vaticano solo dietro autorizzazione speciale. Ci piacerebbe essere dei topolini…

Capitolo secondo

I sofismi della volpe Riabilitare l’animale

La Genesi, ce lo ricordiamo, considera gli animali come esseri sottomessi all’uomo e destinati al suo servizio: lavorare, mangiare e vestirsi. È evidente che gli animali, un’anima, non ce l’hanno e che, nel regno di Dio, non c’è posto per i cammelli, per quanto possano essere capaci di passare per la cruna di un ago, e non c’è posto per i colombi, malgrado tutti i servizi resi dal Diluvio fino all’Annunciazione, e non c’è posto nemmeno per gli asini, per quanto si siano potuti portare Gesù in groppa al momento di entrare a Gerusalemme e lo abbiano potuto riscaldare nella greppia assieme al bue; ed è anche chiaro che nemmeno all’inferno riusciremo a trovare i galli che hanno accompagnato con il proprio canto il tre volte rinnegante san Pietro. La riabilitazione degli animali la dobbiamo a Montaigne, che, nella sua Apologia di Raymond Sebond, costruisce una specie di arca di Noè filosofica con la precisa intenzione di salvare la totalità degli animali, invitandoci a osservarli essere e vivere, e a ricavarne insegnamenti a proposito di noi stessi. Nessun dubbio che, attraverso una simile tesi, Montaigne si rifiuti di convalidare la vecchia opposizione tra corpo e anima, e intenda, al contrario, rivoluzionare l’edificio globale della filosofia, rompendo il maleficio che la riduceva ad arte e disciplina di commento dei testi antichi. Gli autori che la storiografia dominante ricorda con il termine di presocratici alimentano le grandi figure di Platone, Aristotele ed Epicuro, che saranno poi commentati da discepoli del calibro di Plotino, Teofrasto e Lucrezio, prima che, con l’avvento del mondo cristiano, la Bibbia non si trasformi nel libro di riferimento per dieci secoli di patristica e di scolastica. Il medioevo crolla sotto le figure sillogistiche che, a furia di premesse maggiori e di premesse minori, portano a conclusioni talvolta prive di senno, anche se prodotte secondo l’ordine delle ragioni logiche. È questo lo splendore della scienza universitaria. Con estrema disinvoltura, scrivendo i Saggi, Montaigne fa saltare mille anni di filosofia, e lo fa raccontandosi, o meglio raccontando l’ordine del mondo. Nelle università, dove si pretende di parlare in nome della scienza, a trionfare è

sempre il sillogismo. Montaigne invece carica il moschetto, spara e miete vittime. Scrive: «Il prosciutto fa bere, il bere disseta, dunque il prosciutto disseta».16 Confessa di preferire Democrito, che ride, a Eraclito, che piange. I motivi, li possiamo immaginare. Attacca l’insegnamento della dialettica perché ritiene che, nella vita, non serva a niente. Serve molto di più imparare a vivere seguendo le regole della saggezza pratica piuttosto che non compiacersi delle sottigliezze della retorica e della sofistica: «Cento scolari hanno preso la sifilide prima di essere arrivati alla lezione di Aristotele sulla temperanza».17 In un formidabile capitolo dedicato ai pedanti, il venticinquesimo del primo libro, Montaigne fa i conti con tutti quei falsi filosofi che sono in realtà soltanto dei bibliotecari. Critica il sapere libresco dei professori piegati sui loro vecchi scritti illeggibili, e confessa di preferire il sapere che si acquista osservando il funzionamento del mondo e il modo in cui vive la gente, o studiando come se ne vanno in giro gli animali, o come fluiscono le stelle dentro quella Via Lattea che è molto più ricca di insegnamenti di qualsiasi commento di commento di commento. Aristotele ha scritto un trattato sull’anima, che è stato commentato da Averroè, che a sua volta è stato commentato da san Tommaso d’Aquino, e che a sua volta arriveranno altri professori di filosofia dell’università a commentare ancora… E con questo? Montaigne preferisce trascurare i mucchi di carte e studiare il funzionamento dell’anima dentro la vita. Scrive: «non sono filosofo».18 Ed è proprio questa convinzione a spingere i parrucconi dell’università a non lasciarlo nemmeno entrare nei loro anfiteatri, dove l’arte del commento viene praticata in catena! D’altra parte, però, dandogli retta sul serio, faremmo solo torto alla sua ironia, perché quello che, in realtà, ci sta dicendo è che, se mai la filosofia si dovesse ridurre alla retorica, alla sofistica, al sillogismo, alla glossa e alla glossa della glossa, allora, in questo caso, e soltanto in questo caso, lui non sarebbe un filosofo. Scrive: «Un retore del tempo passato diceva che il suo mestiere era di far apparire e far giudicare grandi le cose piccole. È un calzolaio che sa fare scarpe grandi per un piede piccolo. A Sparta lo avrebbero fatto fustigare, in quanto professava un’arte ingannatrice e menzognera».19 In altre parole: truffare, camuffare e mentire. Dalla sua penna, esce anche un pensiero come questo: «E certo la filosofia non è che una poesia sofisticata. Da dove traggono tutte le loro citazioni quegli autori antichi, se non dai poeti? E i primi furono essi stessi poeti e la trattarono secondo la loro arte. Platone non è che un poeta scucito. Timone lo chiama, per disprezzo, gran fabbricatore di miracoli».20 Accidenti! Platone, «un poeta

scucito»? Sono affermazioni come questa che, nel Rinascimento, consentono di progredire e di lasciarsi finalmente i professionisti della filosofia alle spalle! E non è certo più tenero con Aristotele: «essermi logorato sui libri studiando Aristotele, sovrano della scienza moderna, o essermi intestato su qualche scienza, questo non l’ho mai fatto; e non c’è arte di cui saprei tratteggiare nemmeno i primi lineamenti».21 Altre volte, evoca lo Stagirita come il «dio della scienza scolastica».22 Oppure ancora, criticando l’arte del filosofo nell’imbrogliare le carte con il pretesto di semplificarle: Le scienze trattano le cose troppo finemente, in modo troppo artificiale e differente da quello comune e naturale. Il mio paggio fa l’amore e lo capisce. Leggetegli Leone Ebreo e Ficino: si parla di lui, dei suoi pensieri e delle sue azioni, eppure non ci capisce nulla. Io non riconosco in Aristotele la maggior parte dei miei moti abituali: sono stati coperti e rivestiti di altri panni ad uso della scuola. Dio faccia loro ragione! Se fossi del mestiere, renderei naturale l’arte quanto essi rendono artificiale la natura. Lasciamo da parte Bembo ed Equicola. Quando scrivo, faccio a meno della compagnia e del ricordo dei libri, per paura che ostacolino la mia forma. Anche perché, in verità, i buoni autori mi abbattono del tutto e mi spezzano il coraggio. Mi servo volentieri dell’astuzia di quel pittore che avendo miserabilmente dipinto dei galli, proibiva ai suoi garzoni di lasciar entrare in bottega un gallo vero.23

Montaigne non si preoccupa per niente dei galli dipinti, a lui interessano solo i galli veri! Possiamo quindi capire come né la «poesia sofisticata»24 di Platone, né la «scienza moderna»25 della scolastica aristotelica siano in grado di nutrire Montaigne sotto il profilo filosofico. Il quale infatti confessa di preferire le Vite parallele di Plutarco e le opere di Seneca. O, meglio ancora, quelle di filosofi veri che, di Platone e di Aristotele, ignorano tutto, persino il nome, perché per loro la filosofia non è l’arte di tagliare il capello in quattro o di commentare i commenti facendo i giocolieri con l’astruso vocabolario della scolastica, ma un’arte di vivere, una saggezza pratica, qualcosa che la gente semplice e modesta conosce molto bene. In un capitolo dedicato alla presunzione, Montaigne scrive: «La condizione meno disprezzabile della gente mi sembra quella che per semplicità occupa l’ultimo posto, e ci offre rapporti più equilibrati. I costumi e i discorsi dei contadini, li trovo in generale più conformi alla norma della vera filosofia di quanto siano quelli dei nostri filosofi».26 Da questa convinzione, nascono gli attacchi che Montaigne sferra contro il ricorso pedante e sistematico al greco e al latino: recrimina parecchio sulla forma dei dialoghi di Platone e relativizza in maniera assoluta lo stile di Cicerone, che sappiamo aveva imparato a conoscere fin dalla culla, molto prima del francese. E sempre da questa sua posizione, nasce anche il suo elogio del guascone: «Il linguaggio che mi piace, è un linguaggio semplice e spontaneo, tale sulla carta

quale sulle labbra. Un linguaggio succoso e nervoso, breve e serrato, non tanto delicato e leccato quanto veemente e brusco».27 Quello che vorrebbe è un linguaggio «Non pedantesco, non fratesco, non avvocatesco, ma piuttosto soldatesco».28 Sono, questi, i motivi per cui rifiuta il vocabolario della corporazione dei filosofi che filosofeggiano. Anche se conosce tutta la terminologia tecnica della scolastica, non la usa mai. Aggrava il proprio caso scrivendo che «nel linguaggio, la ricerca di frasi nuove e di parole poco conosciute deriva da un’ambizione puerile e pedantesca. Potessi io non servirmi che di quelle che si usano al mercato a Parigi!»29 C’è di che morire soffocati al Collège de France, istituito cinquant’anni prima da Francesco I… Montaigne ritiene anche che la filosofia non sia destinata soltanto a persone adulte che sfoggiano parrucconi e consumano il culo dei pantaloni sui banchi degli anfiteatri universitari, ma che anche i bambini non dovrebbero sentirsene respinti: «È molto strano che al nostro tempo le cose siano giunte al punto che la filosofia è, anche per le persone d’ingegno, un nome vano e fantastico, che non serve a nulla e non ha alcun pregio, sia in teoria sia in pratica. Credo che ne siano causa quei cavilli che hanno invaso i suoi accessi. Si ha gran torto a descriverla inaccessibile ai fanciulli, e con un viso arcigno, accigliato e terribile. Chi me l’ha camuffata sotto questa maschera, esangue e ripugnante? Non c’è nulla di più gaio, di più vivace, di più giocondo e, direi quasi, burlone».30 Non è difficile capire come, alla Sorbona, dove da sempre le belle pettinature sono tenute in gran valore, un simile discorso possa essere percepito come sovversivo e rivoluzionario. Strappare la filosofia alle tristi figure che, negli anfiteatri, parlano in latino chiosando san Tommaso d’Aquino a suon di sillogismi, affondi retorici e trucchetti da sofistica, è in effetti un vero e proprio sacrilegio! Peggio: preferire a questa gentaglia i poveri, i semplici, i contadini, i giardinieri, i bambini, i paggetti, e tutta la fauna che gravita attorno ai mercati di Parigi, è un’offesa imperdonabile per i dotti dell’università! Montaigne non cerca la verità nei libri che raccontano il mondo, o nella Bibbia, o in Platone, o in Aristotele, ma nel mondo stesso. Per la filosofia, si tratta di una vera e propria rivoluzione epistemologica. Il suo invito è a lasciar perdere le biblioteche e a guardare direttamente il mondo per pensarlo davvero. Su un tono scherzoso, scrive: «Conosco uno che quando gli domando che cosa sa, mi chiede un libro per mostrarmelo; e non oserebbe dirmi che ha il deretano rognoso, senza andare immediatamente a studiar sul suo lessico che cos’è rognoso e che cos’è deretano».31

Ecco per quale motivo Montaigne parla di sé e racconta la propria vita privata. Non per esibizionismo, non per narcisismo, non per egotismo o amore smisurato per la propria persona, ma perché il libro deve cedere il posto all’esame del mondo: per riuscire a pensare l’uomo in tutta indipendenza dal cristianesimo, non c’è miglior soggetto da cui partire se non la propria persona. Montaigne si osserva, ed è l’«uomo» che vede: un uomo nudo, un uomo finalmente libero dai testi, dai libri, dai commenti, dalle parole, dai verbi, dalle biblioteche e dalle chiose che da secoli ne nascondono la verità. È l’Uomo vitruviano di Leonardo, nudo, appunto, e senza Dio: non contro Dio, ma semplicemente indipendente da lui, disinteressato. Da qui anche le sue considerazioni sull’educazione ricevuta durante l’infanzia, sulle qualità del padre, sulla sua propria svogliatezza, sulle sue letture, sulla sua bassa statura, sul suo amico perduto, Étienne de La Boétie, sulla moglie, sul fatto di dimenticare quanti figli gli sono morti, sui suoi gusti alimentari (ostriche, chiaretto e carni con la salsa), su come i suoi baffi gli conservano il ricordo di tutto quello che mangia, sulla sua mancanza di grazia in ogni cosa che fa, sui buchi della sua memoria, sull’incapacità di rispondere a tono, sul suo amore per i viaggi a cavallo, sul suo incarico di sindaco di Bordeaux, sul mal di pietra, sulla piccolezza del proprio sesso, sui suoi problemi libidinali, sugli effetti della vecchiaia sulla memoria e in generale sul corpo, sulla sua tarda e misteriosa amicizia per la propria «figlia spirituale»,32 Marie de Gournay, sul suo progredire verso la morte, e su tantissimi altri argomenti. Montaigne ci offre anche dettagli sul suo rapporto con la religione. Crede in Dio, dice le sue preghiere tutte le sere e assiste alla messa, anche rintanato a letto al piano superiore della sua famosa torre, da cui è ancora possibile vedere il buco che gli permetteva di ascoltare le funzioni; fa un pellegrinaggio alla Basilica della Santa Chiesa di Loreto, incontra papa Gregorio XIII, manifesta in maniera inequivocabile il proprio cattolicesimo e rifiuta la Riforma; addirittura, quando si rende conto di essere arrivato alla fine, chiede, e ottiene, l’estrema unzione. Parte per il Vaticano per sottoporre i propri Saggi al papa, che lo invita a correggere alcune pagine, cosa che il filosofo si rifiuterà di fare. Questo è tutto il suo rapporto con la religione cattolica. Montaigne crede al Dio dei cattolici perché è francese, e confessa che, se fosse nato in Germania, sarebbe stato protestante; rispetta il sommo pontefice, ma pone la verità al di sopra di tutto, papa compreso. Scrive: «Presento le fantasie umane e mie semplicemente come umane fantasie, e considerate per sé stesse […]. Materia di opinione, non materia di fede […]. In maniera laica, non clericale, ma sempre molto religiosa». 33 Di fatto, Montaigne è fideista: crede nel Dio del proprio paese, ma non può condividere l’antiedonismo e il dolorismo del cristianesimo, e neanche il suo

fasto e la sua idea di decoro. Montaigne è un uomo che rifiuta i sofismi della filosofia e il gergo della scolastica, un uomo che rinuncia non solo alla loro retorica, alla loro dialettica e alle loro pretese scientifiche, ma anche ai suoi rappresentanti ufficiali, ai commenti, ai commenti dei commenti e alla predilezione per il greco e per il latino; è un uomo che preferisce il francese semplice della gente semplice, addirittura il dialetto guascone, un uomo che preferisce il modo di parlare di quelli che lavorano al mercato e che si fida della gente che lavora la terra; un uomo che ha scelto di ridere del mondo piuttosto che piangere a causa sua; un uomo che rivoluziona la filosofia facendo crollare tutto il sistema dei sillogismi con una fetta di prosciutto e un bicchiere di chiaretto. Un po’ di affettati e un bicchiere di vino locale: eccole, le armi di distruzione di massa con cui muove battaglia a mille anni di filosofia. È probabilmente per questo motivo che non affronta la questione dell’anima discettando su san Tommaso che scriveva contro Averroè che scriveva contro Aristotele sulla questione dell’Intelletto agente! Quando interroga l’immaginazione, Montaigne racconta aneddoti che insegnano qualcosa sul modo in cui l’anima si lega al corpo. Una prima storiella. Montaigne è a cavallo in una foresta quando uno di quelli che lo accompagnava (confessa di averne un centinaio al suo servizio) gli finisce addosso come un forsennato, lo urta e lo fa cadere lontano dal cavallo, rovesciando a terra pure quest’ultimo. La cintura si strappa e la spada finisce lontano: Montaigne ha il volto tutto graffiato e perde i sensi. Lo riportano a casa, ma, per strada, torna in sé e rimette parecchio sangue, e poi ancora, e poi ancora. Per due ore, lo credono morto. Torna cosciente, ma resta totalmente in preda alla confusione: «Quanto alle funzioni dell’anima, rinascevano progressivamente con quelle del corpo».34 S’immagina di aver preso un colpo di archibugio in testa e si sente come sul punto di morire: «Era un’idea che galleggiava soltanto alla superficie della mia anima, tenue e debole come tutto il resto».35 Gli sembra di scivolare nella morte, dolcemente e piacevolmente, senza soffrire, addirittura con una certa leggerezza, come quando uno si sta addormentando. Si muove, ma solo in maniera disordinata. Avanza strane richieste, come quella di far portare un cavallo alla moglie. E si fa domande su cosa lo spinga ad avanzare questo genere di richieste. Sperimenta uno stato di languore e un’estrema spossatezza, però non soffre. Si mette disteso e percepisce una dolcezza infinita. Dopo due o tre ore, torna definitivamente in sé e comincia invece un martirio che dura tre giorni di fila. È a quel punto che pensa di morire. E comincia a capire che il vero

problema non è tanto la morte, perché morire significa semplicemente scivolare verso il nulla senza soffrire. Nella maggior parte dei casi, la cosa di cui si ha più paura è proprio il fatto in quanto tale di dover morire. La morte è solo il momento in cui il legame tra anima e corpo si scioglie, ed è un momento che passa con dolcezza. Scopre così in prima persona quelli che oggi chiameremmo i meccanismi psicosomatici che legano strettamente il corpo all’anima. Scrive: «la minima puntura di spillo e la minima passione dell’anima è sufficiente a toglierci il piacere della sovranità del mondo».36 Una seconda storiella conferma questa logica dello psicosomatico, e viene raccontata con la precisa intenzione di mostrare come funziona quel particolare legame tra anima e corpo. Un gentiluomo informa alcuni suoi ospiti che qualche giorno prima ha fatto mangiare loro un pasticcio confezionato con carne di gatto: «del che una damigella della compagnia ebbe tale orrore che fu colta da un grande travaglio di stomaco e febbre e fu impossibile salvarla. Le bestie stesse si vedono come noi soggette alla forza dell’immaginazione. Testimoni i cani, che si lasciano morire di dolore per la perdita dei loro padroni. Li vediamo anche guaire e dimenarsi in sogno, e i cavalli nitrire e agitarsi».37 Ovviamente, il pasticcio non era assolutamente fatto con la carne di gatto… Quindi, tra anima e corpo, esiste un legame tale che può essere addirittura spezzato anche solo dall’immaginazione, da alcune suggestioni. Spiegando questi fenomeni, Montaigne scrive: «tutto questo può attribuirsi alla stretta congiunzione dello spirito e del corpo, che si comunicano reciprocamente le loro condizioni».38 Il nostro filosofo non si preoccupa in effetti di comprendere le modalità di questo rapporto strettissimo, semplicemente constata che esiste e ne mostra il funzionamento: lo vede, lo studia e lo racconta. È qualcosa che ai filosofi di professione di certo non piace, loro che preferirebbero di gran lunga leggere un trattato di Montaigne intitolato Del rapporto strettissimo in cui l’autore si mettesse a commentare, penna in mano, il trattato su L’anima di Aristotele! Quello che Montaigne constata è il fatto che le irregolarità dell’anima a volte creano un genio e a volte un pazzo, a volte un grande poeta e a volte un infame brigante; oppure possono portare all’estasi di un grande mistico o alle smanie di un tagliaborse. Ma perché «l’agitazione dell’anima turba la […] forza fisica, la fiacca e la stanca»?39 Per effetto delle passioni in generale e dell’immaginazione in particolare. È proprio quest’ultima, in effetti, a trasformare un succulento pasticcio di maiale in un disgustoso pasticcio di gatto – disgustoso e soprattutto mortale: come a dire che non è la materia in quanto tale a essere tossica, ma solo l’idea che noi ce ne facciamo.

Nell’Apologia di Raymond Sebond, scritta per il padre che gli ha chiesto un riassunto del pensiero di questo teologo, Montaigne cerca di spiegare come la questione dell’anima venisse affrontata dagli egizi e dai caldei, e poi dai filosofi e dai medici dell’Antichità, da Stratone di Lampsaco, che la colloca tra le due sopracciglia, e ovviamente da Aristotele, a cui non perde l’occasione di dare un buffetto filosofico: «Non dimentichiamo Aristotele: ciò che per sua natura fa muovere il corpo, che egli chiama entelecheia; con un’idea sciocca quant’altre mai, poiché non parla né dell’essenza, né dell’origine, né della natura dell’anima, ma ne nota soltanto l’effetto».40 Da questa lista di teorie tutte diverse, spesso addirittura contraddittorie tra loro, Montaigne trae solo motivi di scetticismo: se esistono tante definizioni o riconoscimenti dell’anima quanti sono i filosofi e i medici, allora forse la cosa migliore è proprio evitare di aggiungere un altro mattone a questo ridicolo edificio. E ci racconta di come il morso di un cane malato può arrivare a infettare l’anima della persona morsa: si vedeva la saliva di un vile mastino, colata sulla mano di Socrate, sconvolgere tutta la sua saggezza, e tutti i suoi grandi e tanto ordinati pensieri annientarli in modo che non rimanesse alcuna traccia della sua conoscenza precedente […]. E questo veleno non trovar maggior resistenza in quest’anima che in quella di un bambino di quattro anni; veleno capace di far diventare tutta la filosofia, se fosse incarnata, furiosa e insensata: tanto che Catone, che si metteva sotto i piedi perfino la morte e la fortuna, non avrebbe potuto sopportare la vista d’uno specchio o dell’acqua, oppresso da spavento e da terrore, quando fosse stato colto, per il contagio d’un cane arrabbiato, dalla malattia che i medici chiamano idrofobia.41

Sulla questione della mortalità o dell’immortalità dell’anima, Montaigne stila una lista di tutto quello che è stato pensato. Di Aristotele, dice che, in effetti, non si conosce il suo punto di vista: «Egli si è celato sotto il velame di parole e significati difficili e non intelligibili, e ha lasciato ai suoi seguaci da discutere tanto sul suo giudizio quanto sulla materia».42 E qui è a tutto il dibattito dell’averroismo che, sotto traccia, Montaigne rimanda. Che cosa ne pensa, lui? Quello che pensa lui è che la molteplicità delle opinioni filosofiche e il carattere contraddittorio delle loro conclusioni farebbe piuttosto propendere per la necessità della sospensione del giudizio filosofico. La ragione non sembra essere in grado di risolvere il problema senza l’aiuto di Dio: «Tutto quello che intraprendiamo senza il suo aiuto, tutto quello che vediamo senza la lampada della sua grazia, non è che vanità e follia».43 La favola di Babele ce lo racconta in maniera esemplare: quando gli uomini vogliono ottenere lo stesso sapere di Dio (è in effetti questo il senso del peccato

originale), l’unica cosa che ottengono è la confusione. Già questo basterebbe per non trasformare l’Apologia di Raymond Sebond in un momento di scetticismo pirroniano nel pensiero di Montaigne, perché dimostrerebbe, al contrario, che, dall’inizio alla fine della propria vita, quindi dall’inizio fino al completamento dei Saggi, Montaigne si è sempre mantenuto fedele alle scelte del proprio fideismo. L’anima è immortale, e la prova sta nel fatto che è Dio stesso a dirlo! Era veramente molto giusto che fossimo debitori a Dio soltanto, e al beneficio della sua grazia, della verità di una così nobile credenza, poiché dalla sua sola liberalità riceviamo il frutto dell’immortalità, che consiste nel godimento della beatitudine eterna. Confessiamo sinceramente che Dio solo ce lo ha detto, e la fede: poiché non è lezione della natura né della nostra ragione. E chi riconsidererà il suo essere e le sue forze, e dentro e fuori, senza questo privilegio divino; chi guarderà l’uomo senza lusinghe, non vi vedrà efficacia né facoltà che sappia d’altro se non di morte e di terra [corsivo mio].44

Non andiamo oltre… O invece magari sì! Montaigne crede all’immortalità dell’anima, e i cristiani ne trarranno sicuramente motivo di giubilo. Però, a differenza di questi ultimi, il nostro filosofo non riesce a condividere le favole della vita dopo la morte. Rifiuta l’idea dell’Eden di Maometto come «paradiso pavesato di tappeti, ornato d’oro e di gemme, popolato di ragazze di rara bellezza, di vini e di vivande squisite».45 E aggiunge: «vedo bene che sono burloni i quali secondano la nostra stoltezza per lusingarci e attrarci con queste credenze e speranze, confacenti al nostro desiderio mortale. Eppure alcuni dei nostri sono caduti in un errore simile, ripromettendosi dopo la resurrezione una vita terrestre e temporale, accompagnata da ogni sorta di piaceri e agi mondani».46 Il fatto è che non esiste nessuna ragione che possa convincerlo a concepire una vita dopo la morte, o anche solo a immaginarla. Il paradiso è una caramella ontologica. Montaigne non ne ha bisogno perché preferisce il salato: «Quello che una volta ha cessato di essere, non è più».47 Un’ultima parola. Con Montaigne, si accede all’anima attraverso il corpo, invertendo così la tradizionale prospettiva dei due o tre millenni precedenti. Per questa tradizione, prima c’è l’anima, e solo in seguito arriva il corpo. E l’anima è ovviamente eterna e immortale, e vive parecchie vite prima di tornare al proprio luogo di origine, che è il Logos, il Cielo delle Idee, il Verbo, il Pleroma, in altre parole, un mondo che non esiste o che, se esiste, esiste solo in quanto finzione, favola, mito, allegoria o metafora. Nella riflessione del nostro autore, invece, è il corpo a dover disciplinare

l’anima: Il corpo ha grande importanza nella nostra esistenza, vi tiene un gran posto: così la sua struttura e la sua costituzione sono giustamente tenute in gran conto. Quelli che vogliono dividere le nostre due parti principali e separarle l’una dall’altra, hanno torto. Al contrario, bisogna riaccoppiarle e ricongiungerle. Bisogna ordinare all’anima non di isolarsi, di coltivarsi in disparte, di disprezzare e abbandonare il corpo (del resto non potrebbe farlo se non per un’artificiosa impostura), ma di tenerglisi stretta, di abbracciarlo, vezzeggiarlo, assisterlo, controllarlo, consigliarlo, raddrizzarlo e correggerlo quando si fuorvia. Sposarlo insomma, e fargli da marito: affinché le loro azioni non appaiano diverse e contrastanti, ma concordi e uniformi.48

E, a questo punto, Montaigne si mette a esporre le teorie aristoteliche e cristiane sulla salvezza, per approdare alla presentazione della propria etica edonista e della propria morale eudemonista: in pratica, la propria arte di vivere – ma qui si cambia decisamente argomento49… Montaigne rivoluziona la filosofia voltando le spalle ai libri e preferendo l’«esperienza del mondo»50 alla «filosofia ostentatrice e chiacchierona»51 e alle «scuole di parlantina».52 Lo fa togliendo qualsiasi credito agli specialisti, ai professionisti della disciplina e a tutti quegli universitari che credono di stare dalla parte della scienza, mentre tutto quello che fanno è camminare mascherati dai cappelli di moda in quel momento. Lo fa credendo in Dio, ma in maniera discreta, tenendolo da parte per riuscire a pensare da «laico», è questa la parola che usa. Lo fa lasciando che i propri inediti pensieri aprano un incredibile spazio di libertà al pensiero europeo. E lo fa soprattutto pensando in maniera originale l’uomo a partire dall’animale. Il pensiero di Montaigne è un pensiero radicalmente nuovo, un pensiero che rompe con il medioevo, inaugura la modernità e fa scivolare la civiltà dell’Occidente giudaico-cristiano verso un’altra fase. Prima di Montaigne, l’animale si trova, in natura, al di sotto dell’uomo: è fatto per servirlo e per essergli utile. Con Montaigne, invece, l’animale si trasforma in un compagno: c’è una «parentela fra noi e le bestie».53 San Tommaso d’Aquino colloca l’uomo tra l’angelo, che si trova sopra di lui e rappresenta il modello verso cui tendere, e la bestia, che si trova sotto di lui ed è la posizione da cui si deve allontanare. Sappiamo che Pascal considerava che «chi vuol fare l’angelo fa la bestia»54 – è un’idea di Port-Royal, come molte altre che spesso all’autore dei Pensieri capita di rielaborare. Montaigne però avrebbe trovato questo ragionamento sciocco: l’uomo non deve fare la bestia perché l’uomo è cugino della bestia. L’uomo è una specie di bestia, una variazione sul

tema della bestia. Tre secoli prima di Darwin, troviamo in queste pagine una vera e propria rivoluzione ontologica. Se, come pensa Montaigne, tra l’uomo e l’animale «C’è qualche differenza, ci sono ordini e gradi; ma sotto la forma di una stessa natura»;55 se «c’è più differenza fra un uomo e un altro uomo, che non fra un animale e un uomo»;56 o ancora se gli animali rappresentano per gli uomini i «suoi fratelli e compagni»;57 allora dobbiamo per forza voltare le spalle a quello che la Genesi ci insegna da più di tremila anni! In realtà, bisognerà aspettare L’origine delle specie (1859), e soprattutto L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1871) di Darwin perché questo pensiero del nostro filosofo possa trasformarsi in una verità scientifica – una verità scientifica che, come vedremo, continuiamo comunque ad avere difficoltà a digerire. Il passo dell’Apologia di Raymond Sebond sugli animali è una perla filosofica, l’asse su cui tutto il pensiero occidentale comincia a vacillare. Montaigne rimette l’uomo al suo posto, o, per meglio dire, ce lo mette per la prima volta (era ora!); e questo posto non è esattamente il centro del mondo. La definizione dell’anima si trova considerabilmente modificata: cambiano la sua descrizione, la sua essenza, la sua natura, le sue proprietà, i suoi meccanismi, e via di seguito. A partire dalle considerazioni sulle talpe e sulle «arondelles» (antico nome delle rondini), come le trascrive graficamente, a partire dagli uccelli migratori e dai pesci pilota che nuotano sulla scia dei cetacei, a partire dall’alcione o dalla remora, Montaigne taglia il mondo filosofico in due. E cosa ci racconta su questo argomento? Che le bestie non sono bestie; che gli uomini si sbagliano e, sul loro conto, raccontano un sacco di falsità; che tra noi e le bestie c’è un malinteso; che sottostimiamo le possibilità dei loro sensi; che tra di loro comunicano molto meglio di quanto non riusciamo a fare noi con loro; che con noi condividono un linguaggio non verbale, quello del corpo; che hanno a loro disposizione un linguaggio e che quindi avere un linguaggio non è più la cosa che caratterizza solo l’uomo. Ci racconta che a volte hanno organizzazioni sociali impressionanti; basti pensare alle «mosche da miele», cioè alle api; o alle rondini, che tante prove ci danno della loro grande memoria, della loro capacità di giudizio e della loro capacità di previsione, o di quanto sappiano riconoscere i venti e valutare la consistenza dei materiali che usano per costruire e orientare i propri nidi; o ai ragni, che pensano, soppesano e prendono decisioni sul fatto di tessere la propria tela in un modo piuttosto che in un altro. Gli animali manifestano un’evidente superiorità su di noi in parecchi ambiti; nascono con tutto quello che serve a proteggerli: gusci, peli, lane, cuoio, piume, scaglie, zanne, denti, artigli, corna; sanno volare, nuotare, correre e scappare di fronte al pericolo fin dalla nascita, mentre l’uomo deve imparare tutto quanto per riuscire

a vivere e a sopravvivere; certo, l’uomo è capace di usare il proprio pensiero, però spesso lo usa causando a sé stesso grandi sventure e accrescendo la propria sofferenza, le proprie paure e le proprie angosce; la volpe si muove sul fiume gelato ascoltando il rumore dell’acqua sotto lo strato di ghiaccio, e da questo rumore deduce se può procedere senza rischi («è un’argomentazione e una conclusione tratta dal buon senso naturale»);58 al contrario degli esseri umani, gli animali non schiavizzano mai uno di loro; noi manifestiamo ingegnosità nella caccia, ma anche i nostri cugini a quattro zampe lo fanno; gli esseri umani non hanno bisogno di farsi attaccare dai coccodrilli, dagli elefanti o dalle balene per essere sconfitti: basta una colonia di pulci a far crollare la dittatura di Silla; la tartaruga, quando ha mangiato una vipera, cerca subito un po’ di origano per purgarsi, e le cicogne si fanno dei clisteri con l’acqua di mare per recuperare la salute. Montaigne cita parecchi altri esempi a testimonianza di quanto gli animali sappiano prendersi cura di sé stessi: grazie al proprio fiuto, il cane riesce a ritrovare la strada in maniera molto più sicura di quanto non faccia il suo padrone; i merli, i corvi, le gazze e i pappagalli imparano la lingua degli uomini; alcuni cani si sostituiscono agli occhi dei ciechi e gli permettono di spostarsi senza troppe difficoltà; altri cani sono invece addestrati a ballare in modo da far guadagnare qualche soldo ai loro padroni; altri ancora recitano parti nelle opere teatrali; nei circhi, gli elefanti imparano a muoversi all’interno di determinate coreografie; i buoi sono talmente abituati a far girare una ruota cento volte al giorno che non fanno mai un giro in più; gli animali potrebbero dare lezione agli uomini: di canto, di tessitura, di farmacia; un cane, consapevole del fatto che non riuscirà mai a raggiungere l’olio in fondo a un barattolo, lo riempie di sassi per poterlo leccare; le murene e le anguille riconoscono la voce di chi gli dà da mangiare; gli elefanti salutano il Sole con la loro proboscide, poi meditano e si mettono in contemplazione; le formiche si preoccupano dei propri morti; un branco di remore può fermare una nave da guerra attaccandosi alla carena; il camaleonte cambia colore come l’uomo che arrossisce o diventa giallo a seconda delle passioni che lo divorano; gli animali migratori dispongono di una «facoltà divinatrice»;59 i cani si suicidano per accompagnare la morte del proprio padrone; i cavalli danno prova di empatia e di simpatia tra loro; girano aneddoti su storie d’amore tra umani e animali: per esempio quella dell’elefante del grammatico Aristofane che si era innamorato di una venditrice di fiori, e la seguiva dappertutto, le offriva la frutta prendendola con la proboscide sui banchi del mercato e «le metteva talvolta la proboscide in seno passandola sotto il colletto e le tastava le poppe»;60 stessa cosa per le «bertucce prese da amor furioso per le donne».61 Gli animali conoscono l’omosessualità e l’incesto; le formiche raccolgono provviste per quando farà più freddo; i cani sono

estremamente fedeli e non sanno cosa sia l’ingratitudine; gli animali sono anche solidali tra loro: uno di loro si trova in difficoltà, e tutti accorrono per salvarlo; ad accompagnare i grandi animali ci sono sempre altri animali più piccoli che tornano utili: per esempio, il pesce pilota con le balene; oppure gli scriccioli con i coccodrilli, da cui sono inseparabili e di cui puliscono i denti; oppure ancora le madreperle che collaborano con i pinotteri; i tonni sanno riconoscere i solstizi e gli equinozi, e i loro branchi sono organizzati con matematica e geometrica precisione. Le bestie sono magnanime, riconoscono le proprie colpe, e mostrano sentimenti di pentimento e di clemenza; l’alcione è monogamo e passa tutta la vita ad assistere fedelmente la propria compagna. Gli animali sognano; per esempio, il levriero si agita durante il sonno perché, sicuramente, sogna una «lepre senza pelo e senz’ossa».62 Non è questa un’idea platonica? La levrierità? Perdonatemi, la battuta è mia… E fermiamoci qui: di testimonianze che provano «questa somiglianza e corrispondenza fra noi e le bestie», ce ne sono anche troppe.63 Aggiunge semplicemente Montaigne che, una volta nudo, l’uomo non è proprio un bello spettacolo, e fa quindi bene a nascondere tutto quanto sotto i vestiti; non mi pare che da qualche altra parte abbia mai parlato della bruttezza di un animale qualunque. Con i Saggi di Montaigne, la trascendenza smette di condurre le danze del pensiero occidentale.

Capitolo terzo

Lezioni dalle lezioni di anatomia Cancellare l’anima

Della medicina, Montaigne scrive peste e corna. Il filosofo ricorda come lui e il padre soffrissero del mal della pietra, e come i calcoli alla vescica gli avessero provocato moltissime sofferenze. L’incapacità dimostrata dalla corporazione medica nel curare «questa […] infusione e infiltrazione fatale»64 che aveva toccato lui, il padre, e parecchi altri membri della sua famiglia, colpita da «questa caratteristica del mal della pietra»65 da almeno due secoli, ha prodotto, come scrive, l’«odio e [il] disprezzo per la loro dottrina».66 E aggiunge: «Quest’antipatia che ho per la loro arte è in me ereditaria».67 Il filosofo fa della salute il bene senza il quale nessun altro bene è possibile; la salute è il più prezioso dei tesori. Da qui l’importanza dei medici. Platone viene colpito da un attacco di epilessia o da un colpo apoplettico e, di colpo, non c’è più nessuno che sia in grado di elaborare le ipotesi del Parmenide! Al contrario delle rondini e dei lucci, noi abbiamo perduto il contatto reale con la natura. E l’artificio non è sempre meglio rispetto alla natura. Capita, anzi, che, per esempio, la prescrizione di alcuni regimi alimentari acceleri il peggioramento definitivo delle condizioni delle persone a cui avrebbero dovuto allungare la vita. La verità è che «I medici non si accontentano di avere il governo della malattia, rendono malata la salute, per impedire che uno possa mai sfuggire alla loro autorità».68 Trasformano quella che qui e ora è buona salute in inarrestabile malattia. Montaigne fa della sofferenza l’occasione per esercitare il proprio stoico pragmatismo. Sostiene di non aver mai perso un’occasione per verificare la validità della formula dei filosofi del Portico: «Sopporta e astieniti», e di non aver mai avuto bisogno dei medici. E nota come, dal punto di vista sociologico, all’interno di questa categoria professionale, non si trovino molti centenari o molta gente in forma olimpionica. I popoli che ignorano i medici e la medicina sono sicuramente quelli più vigorosi e sani, quelli più resistenti e felici. Montaigne, quindi, non ama né le medicine né le purghe. E considera che «tutto quello che si rivela salutare alla nostra vita si può chiamare medicina».69 Esprimendo il concetto in altri termini: l’edonismo e l’eudemonismo valgono più

di qualsiasi clistere o presa di sangue! Ascoltiamo quest’altro magnifico invito: «Fate ordinare una purga al vostro cervello».70 Per riparare i disordini, la natura si organizza molto meglio di qualsiasi medico. Tanto più che i discepoli di Esculapio non sono nemmeno in grado di spiegare da dove arrivano le malattie e vessano i malati ritenendoli responsabili dei loro stessi mali. La malattia? È colpa dei malati. La guarigione? Merito dei medici. Testa, vince il medico; croce, perde il malato. Quelli che praticano questa sedicente arte usano un vocabolario astruso. Per esempio, prescrivono «di prendere una figlia della terra, che cammina nell’erba, porta con sé la propria casa, non ha sangue»,71 semplicemente per indicare la bava di lumaca. E, se ottengono qualche risultato, è solo perché il paziente è pienamente convinto di tutte le loro stramberie e condivide tutte le loro scempiaggini. Se il medico, con fare pedante e perentorio, decide di infliggere la secrezione delle lumache a dei babbei che sono convinti della sua assoluta efficacia, allora di sicuro gli effetti non tarderanno ad arrivare! In pieno Cinquecento, insomma, Montaigne scopre i principi della psicosomatica. Stesso atteggiamento nei confronti di quest’altra ricetta, che non ottiene il consenso del filosofo: «Il piede sinistro d’una tartaruga, l’urina d’una lucertola, lo sterco d’un elefante, il fegato d’una talpa, un po’ di sangue tratto da sotto l’ala destra d’un piccione bianco; e per noialtri affetti da mal della pietra (tanto sprezzantemente abusano della nostra miseria), cacherelli di topo polverizzati, e altre simili stranezze che hanno piuttosto l’aspetto d’un incantesimo magico che di solida scienza. Tralascio il numero dispari delle loro pillole, la designazione di certi giorni e feste dell’anno, la distinzione delle ore per cogliere le erbe dei loro ingredienti, e quella grinta arcigna e austera del loro atteggiamento e contegno». 72 La medicina è l’attività di ciarlatani che ricorrono a ricette degne della stregoneria e però vogliono comunque continuare a essere considerati uomini di scienza. Naturalmente, a coprire tutte queste imposture c’è sempre, come al solito, l’università. Montaigne si diverte a elencare le differenti diagnosi e i diversi trattamenti affibbiati a una stessa malattia. Esistono tante eziologie, tante posologie e tanti trattamenti sanitari quanti sono i medici! Questo, per dire il carattere scientifico della loro attività. E magari tutte queste stravaganze fossero inoffensive! La verità è che invece causano proprio le malattie che avrebbero dovuto curare. E qui il filosofo continua il proprio processo alla medicina, e soprattutto ai medici. Al proprio disprezzo nei confronti dei medici di bassa lega, accompagna un elogio dei chirurghi. Un tizio si è visto diagnosticare il male della pietra da parte di alcuni medici, ma un’operazione condotta da un barbiere ha rivelato che non si trattava assolutamente di questo: «È per questo che la chirurgia mi sembra

molto più sicura, in quanto vede e tocca quello che fa; c’è meno da congetturare e da indovinare, mentre i medici non hanno alcuno speculum matricis che scopra loro il nostro cervello, il nostro polmone e il nostro fegato».73 Montaigne continua le proprie riflessioni sulle cure termali, sui regimi alimentari, sulle diete in generale, sui bagni quotidiani, sulle prese di sangue… Ricordiamocela, però, quest’idea geniale, come spesso quelle sue, che abbiamo più da imparare dai chirurghi che non dai medici. Abbiamo riflettuto molto sul fatto che passare dal geocentrismo di Tolomeo all’eliocentrismo di Copernico ha demolito una visione del mondo a profitto di un’altra. E su questo sono ovviamente d’accordo. È una vertigine astronomica non priva di conseguenze epistemologiche, etiche, teologiche, spirituali, filosofiche, e via dicendo. Non è la stessa cosa trovarsi in un mondo al centro di tutto oppure in un universo in cui il centro non sta da nessuna parte e la circonferenza dappertutto. Tocca trovare un altro posto per Dio, e un altro posto pure per l’uomo. Si è molto discusso dell’accesso all’infinitamente piccolo reso possibile, nel Seicento, dall’invenzione del microscopio, e del contemporaneo accesso all’infinitamente grande permesso dalla lente astronomica. L’aldilà del mondo presenta altrettanto interesse del quaggiù terreno, peraltro nettamente più accessibile. La scoperta della pluralità dei mondi va di pari passo con quella della composizione atomica del mondo. È in questo periodo che Paracelso elabora un pensiero del microcosmo e del macrocosmo come il diritto e il rovescio di una stessa medaglia. Il Rinascimento riscopre la potenza mai sfruttata della filosofia abderitana, materialista, atomista ed epicurea. Democrito ha l’intuizione dell’atomo osservando delle particelle di polvere che si muovono come in una danza in un raggio di luce. Se però tutto è atomi che cadono nel vuoto, che cosa possiamo pensare di Dio, e del suo rappresentante sulla Terra, cioè l’anima? Quello che Montaigne fa con l’anima dell’uomo, partendo dall’analisi della propria e costruendo la ricerca come un romanzo dell’Io, Vesalio lo realizza con il corpo. In fondo, i Saggi sono una lezione di anatomia dell’anima che non prevede alcun ricorso a Dio. Il filosofo si piazza davanti a uno specchio, racconta quello che vede di sé e, dalla propria singolarità, deduce l’universale. Questo speculum matricis, di cui Montaigne rimpiange che non esistano equivalenti per gli altri organi, dispone comunque almeno di un analogo nel suo genere, cioè il bisturi. Non abbiamo mai davvero valutato tutte le conseguenze prodotte nell’anima dal fatto di aprire i corpi.

Il bisturi non uccide l’anima, piuttosto ne precisa i contorni e questi, un po’ alla volta, si fanno materiali. La si cerca nelle pieghe del corpo e in quelle del cervello, si crede di scoprirla in una ghiandola e la si insegue con un rasoio; l’anima si presenta dappertutto ma senza essere mai veramente visibile da nessuna parte; si laicizza e sfugge a Dio, agli dèi, e quindi anche al diavolo. Facciamo finta di non occuparcene, ma è solo perché è invisibile e perché ce la immaginiamo diversa da come ce la raccontano da tanto tempo. Vogliamo dire immateriale? Certo, perché no? Niente ci impedisce di pensarla così. Però, un chirurgo non opera mai l’immateriale. Montaigne lo dice, lo pensa e lo scrive: il chirurgo «vede e tocca».74 In realtà, dell’anima, che cosa c’è da vedere e da toccare? Solo la teoria di Epicuro permette di risolvere questo enigma ricorrendo all’atomo. Però, il momento non è ancora giunto, e il Cinquecento lo prepara e basta. In effetti, Montaigne ritiene che gli Atomi di Epicuro siano delle costruzioni intellettuali allo stesso titolo delle Idee di Platone e dei Numeri di Pitagora. Quindi, niente di reale. Il medico ha una reputazione diversa rispetto a quella del chirurgo: il primo parla latino, passa per essere un intellettuale che legge i grandi testi della medicina antica e proviene da una famiglia bella e buona; il secondo, invece, parla francese (per esempio, Ambroise Paré, il latino, non lo conosce nemmeno), proviene dalle classi popolari e si indirizza da subito al lavoro manuale: incide ascessi, amputa, cauterizza con ferri incandescenti oppure con olio bollente, riallaccia vasi, riduce ernie, opera calcoli alla vescica, trapana, ripulisce fistole anali, toglie cristallini, strappa e reimpianta denti, e poi, con gli stessi strumenti, taglia anche barba e capelli. Il chirurgo viene insomma assimilato al barbiere! Il primo, cioè il medico, rientra nell’ambito delle arti liberali, il secondo di quelle meccaniche. Il medico prescrive prese di sangue e clisteri; il chirurgo addormenta il paziente con l’oppio e spesso lo perde per le conseguenze delle infezioni e delle cancrene. Il primo fa scorrere il sangue, il secondo il pus. Prima di Vesalio, la lezione di anatomia è qualcosa che appartiene più al mondo del teatro che non a quello della scienza. Si fa finta di conoscere quello che in realtà si ignora e si «spettacolarizza» l’apertura dei corpi secondo rituali apparentabili all’arte della messa in scena. Il magister, o lector, se ne sta sotto il baldacchino della cattedra professorale a leggere un trattato di anatomia di Galeno che descrive gli organi, mentre un altro personaggio, il sector, in pratica l’assistente, procede con la dissezione vera e propria. Nel frattempo, un ultimo attore, l’ostensor, o demostrator, mostra al pubblico con il dito o con una bacchetta l’organo in questione. Attraverso questa tripartizione delle funzioni,

c’è un maestro che parla, qualcun altro che mostra e qualcun altro ancora che tocca. Dire, mostrare e toccare: distinguere tra queste funzioni permette di continuare a considerare il libro come la verità, delegando qualcun altro all’ostensione di quanto c’è da vedere e di quanto è stato detto, e lasciando che un’ultima persona si sobbarchi il contatto diretto con la materia, una materia detestabilissima proprio perché materia di cadavere. Vesalio si ribella a questo modo di procedere. E mette in piedi una rivoluzione metodologica. È convinto che Galeno non sia onnisciente e che, descrivendo come sono assemblate alcune parti del corpo e come vengono usate, abbia accumulato parecchi errori, più di duecento, scrive; e sostiene, inoltre, che, se è riuscito a farlo, è solo perché la sua pratica di dissezione anatomica era basata sull’esperienza con le scimmie, non su quella diretta con gli esseri umani. All’epoca, affermare cose simili era un’eresia. In opposizione alle chiose di tipo universitario, Vesalio propone chiaramente «la dissezione accurata e l’osservazione diretta delle cose». In altre parole, secondo lui, il reale non si trova più nei libri che raccontano il mondo ma direttamente nel mondo. La natura e il funzionamento di un organo hanno poco a che vedere con le letture commentate dei testi che parlano dell’argomento e che sono stati scritti millequattrocento anni prima; piuttosto, si deve passare all’esame e all’analisi di tutto quello che può essere visto e toccato, per utilizzare la formula di Montaigne. La memoria e gli psittacismi devono lasciare il posto all’analisi e all’intelligenza. Vesalio non intende più segare cani, tagliuzzare gatti e dissezionare scimmie. Sono i cadaveri dei propri simili che vuole aprire. Ecco perché va nei cimiteri o ai piedi dei patiboli su cui gli impiccati si stanno già decomponendo all’aria aperta, lanciando ogni tanto dei pezzetti di carne ai cani che arrivano a disputarseli e a divorarseli. La polizia controlla la situazione e non vuole che i morti vengano tirati giù dal patibolo di Montfaucon. I profanatori rischiano di essere perseguiti dalla giustizia e cacciati dalle facoltà. Quando, nonostante tutto, si riesce a sottrarre un cadavere, la dissezione viene eseguita su un arco di parecchi giorni, in una cantina, meglio se d’inverno, per evitare la decomposizione accelerata delle stagioni canicolari. Si comincia incidendo il ventre ed estraendo le interiora, che è la parte che si corrompe prima. Il corpo viene innaffiato di aceto per combattere l’insopportabile fetore. Vesalio manipola, osserva e disegna. Non c’è più nessun bisogno di andare a chiedere a Galeno che cosa ne pensa, o di domandare ai professori universitari la loro opinione su quello che pensava Galeno, che è poi la stessa cosa che pensa lui; ormai ci si deve concentrare su quello che c’è da vedere. È un sapere che puzza di carogna e di marcio, di aceto e di escrementi; è ancora lontano l’odore

del trattato. Per il momento, l’anima si rivela incolore, inodore e insapore, e non ha ancora diritto di cittadinanza: sfugge alla lama del rasoio e a quella della scure di Aristotele. Vesalio si ribella che è ancora studente. Ai suoi professori, spiega che bisogna passare direttamente alla vivisezione e che bisogna buttare a mare tutto quel loro circo teatrale. Uno che legge Galeno, un altro che stacca la milza e la tira fuori dalla pancia, e l’ultimo che la mostra al pubblico con una bacchettina: è tutto inutile, tutto privo di efficacia. Se non si manipola, se non si osserva nulla, se si continua a voler restare nell’atmosfera ovattata della lettura tenuta dal professore con tanto di berretto, non impariamo nulla. E se non impariamo nulla, quando andiamo a operare, il paziente che vorremmo curare, finisce che lo mandiamo ad patres. Lo studente Vesalio chiede di prendere le cose in mano: vuole essere lui stesso a manipolare, e a far vedere, quindi a far conoscere. Inoltra la richiesta, ma, naturalmente, il decano della facoltà non è d’accordo. Il prosector Jean Gonthier d’Andernach, però, crede nel proprio allievo e riesce a convincere le autorità. Vesalio tiene così la sua lezione di anatomia in pubblico. La storia non ha conservato la data esatta, però, sapendo che è nato nel 1514, e sapendo che i suoi studi li ha compiuti attorno ai vent’anni, diciamo che siamo negli anni Trenta del Cinquecento. Sono gli anni in cui Descartes scrive le sue Regole per la guida dell’intelligenza. In quest’occasione, è Vesalio a condurre le operazioni: lui stesso ad aprire il corpo, lui stesso a mostrare gli organi, lui stesso a esaminarli e a commentarli. Certo, ha letto Galeno e tutti gli altri, però, tra sé e il reale, non mette più nessuna biblioteca. Sta di fatto che conquista il pubblico e, quindi, lo si lascia continuare. Vesalio critica la medicina libresca e mette in causa la maniera in cui i testi del corpus medico vengono composti partendo dalla tradizione medievale araba; denuncia il ruolo di Paolo di Egina, l’autore che, nel VII secolo, aveva riunito vari testi di Galeno compilati nel corso del tempo nei sette libri del suo Trattato di medicina; e punta il dito sul ruolo nefasto svolto dall’autorità medievale di Avicenna nella propagazione di tutto questo materiale didattico scorretto. Parallelamente, mentre lavora alle edizioni critiche dei testi della medicina antica e medievale, continua a dissezionare corpi all’università di Padova, dove viene nominato professore. Dietro richiesta degli studenti di Bologna, il 15 gennaio del 1540, Andrea Vesalio si misura con il proprio rivale Matteo Corti. Ognuno deve praticare delle dissezioni; e, come in un duello, saranno gli studenti a fare da arbitri. Lo scontro si svolge, appunto, a Bologna, nella chiesa di San Francesco. Attorno alla tavola su cui Vesalio opera, vengono sistemate quattro file di gradini. A sua

disposizione ha una scimmia, sei cani, alcuni animali più piccoli e tre cadaveri umani. Con tutto questo materiale sotto mano, si mette a illustrare le differenze più notevoli tra la scimmia e l’uomo. E anche a spiegare come Galeno non abbia probabilmente lavorato su esseri umani, ma si sia probabilmente accontentato di bertucce. Vesalio chiama Corti direttamente in causa di fronte ai suoi studenti. Descrive l’inserzione di un muscolo addominale e interroga il proprio avversario, il quale risponde ricorrendo all’autorità di Galeno. Vesalio l’umilia con una lezione che fa crollare tanto Galeno che Corti, obbligando quest’ultimo ad abbandonare la chiesa, seguìto dalla propria combriccola. Applausi degli studenti, strepiti e grida di giubilo nella casa di Dio trasformata in una sala operatoria per cadaveri. Gli studenti, per ringraziarlo, vanno al cimitero a recuperare il corpo di un prete appena inumato, approfittandone per mettere assieme un carico d’ossa: quelle di un neonato, quelle di un novantenne e quelle di un uomo nel fiore degli anni. Vesalio usa questo cumulo d’ossa per fare delle comparazioni, e porre le basi di una pratica allora ancora sconosciuta: l’osteologia comparata. Mette uno accanto all’altro lo scheletro del prete e quello di una scimmia – non so se Darwin fosse a conoscenza di questo episodio, sembra davvero una battuta… Nel 1543, cioè nello stesso anno in cui Copernico firma il suo De revolutionibus orbium coelestium, Vesalio pubblica il De humani corporis fabrica. Già il frontespizio è una dichiarazione filosofica, il discorso sul metodo di Vesalio. La scena si svolge in un anfiteatro circolare di cui scorgiamo sette colonne corinzie. Dobbiamo vedere un riferimento alle sette colonne della casa della saggezza ricordate nel libro dei Proverbi (9, 1), e corrispondenti, a loro volta, alle sette qualità della saggezza celeste («pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera», Giac 3, 17), riportate in questo caso a un soggetto tutto terreno? A inquadrare il nome dell’autore e il titolo del libro, sotto lo scudo con tre donnole che rappresenta lo stemma di Vesalio, c’è un cartiglio barocco fiancheggiato da alcune decorazioni grottesche. Sono presenti parecchie persone, più di una sessantina. I volti, ai tempi, dovevano essere sicuramente conosciuti. L’incisore propone una specie di Scuola di Atene della materia medica. In mezzo al brulicare di tutti questi esseri viventi, ecco il cadavere di una donna con il ventre aperto. Vesalio ne indica con l’indice le interiora e più precisamente l’utero. Giusto dietro il corpo della donna, che giace distesa come una specie di Eva squartata, c’è uno scheletro che guarda verso il cielo e tiene in mano un bastone. Sembra invocare il cielo, come faceva Platone nel quadro di Raffaello, mentre Vesalio, come Aristotele, indica

qualcosa che appartiene al qui e ora, ossia gli organi genitali della donna, ossia ancora ciò che rende possibile la generazione, e che la morte, un giorno, arriverà sempre e comunque a cancellare. Tutto quello che nasce in quel ventre è destinato a essere contenuto dentro lo scheletro, il quale, quasi implorando, sembra ora osservare il cielo sgombro, o, meglio, svuotato. Alla domanda «Da dove viene l’uomo?» o «Che cosa possiamo dire della fabbrica dell’uomo?», Vesalio risponde indicando con il dito l’utero di una donna. Questo gesto, che non ricorda tanto l’indice di Platone teso verso il cielo quanto il palmo della mano di Aristotele girato verso terra, scongiura probabilmente nel modo migliore possibile e in silenzio la trascendenza, a tutto profitto dell’immanenza. Qui e ora, ecco che l’anatomia sostituisce la teologia. Su questo frontespizio, gli storici della medicina riescono a identificare alcuni anatomisti dell’epoca. Sono presenti detrattori di Galeno come Colombo, Falloppio (il medico che ha dato il nome alle famose trombe), Rondelet e Ingrassia, e ci sono suoi sostenitori come Paracelso, Sylvius e l’ex insegnante di Vesalio, Gonthier d’Andernach. Da qualche parte troviamo anche Avicenna e alRāzī, accanto a editori come Aldo Manuzio e Johannes Oporinus, cui si deve la pubblicazione del libro stesso. Aggiungiamo, in questa piccola folla, anche Tiziano e il sindaco di Padova. La scena si compone, a sua volta, di altre scene. Dei due uomini che occupano gli angoli inferiori dell’opera, quello a sinistra ha una scimmia sulla spalla e quello a destra tiene fermo un cane per il collo, e sono probabilmente i prosectores che stanno prendendo gli animali per la vivisezione. Ai piedi della tavola, altri due uomini stanno preparando gli strumenti chirurgici: uno affila il bisturi, e l’altro gli sta parlando. A sinistra, nella parte centrale dell’incisione, ci sono un biondino che legge un libro e un monaco avvolto dal saio nero; immaginiamo che questo sia il gruppo dei difensori di Galeno, perché, ovviamente, non stanno guardando quello che Vesalio sta mostrando, cioè l’utero della donna (cioè ancora il luogo immanente della fabbrica dell’uomo che cancella ogni genealogia trascendente), ma stanno leggendo i libri attraverso la cui lente osservano il mondo. Nelle quasi settecento pagine che formano questo grosso volume e nelle duecentosettantasette tavole silografiche incise probabilmente dall’allievo di Tiziano Jan Stephan van Calcar che lo accompagnano, il morto viene mostrato come se fosse vivo. Il morto si ritrova come vestito dallo scheletro e viene rappresentato appoggiato sopra un piedistallo, come si usava in Antichità, in mezzo a un paesaggio di rovine romane, insomma uno scenario classico. Una volta è appeso davanti a un muro, un’altra volta se ne sta davanti al proprio sarcofago, un’altra volta ancora è in meditazione a cospetto di… un cranio,

mentre, nel frattempo, un altro gli sta di fronte apparentemente in lacrime per il dolore; c’è una serie di écorchés: uno con tutti i muscoli, un altro con tutti i nervi, un altro ancora con tutti i vasi sanguigni e le vene, un altro ancora che si porta dietro la sua pelle flaccida e cadente. In questo libro importantissimo per l’Occidente, Vesalio ci parla del corpo umano: ossa, cartilagini, articolazioni, vertebre, denti, mandibole, sterni, clavicole, muscoli, sistema circolatorio, vene, aorte, arterie, unghie, cartilagini del volto, midollo spinale, organi digestivi, organi addominali, organi genitali, organi intratoracici, cervelli, «corpi pineali», organi sensoriali, cuori e movimenti cardiaci. Non una parola sull’anima o su qualche cosa che le si avvicina… Vesalio laicizza con innocenza il corpo degli uomini, lo scristianizza senza alzare troppo la voce, e lo materializza abbozzandone le forme. Nel sesto capitolo, Vesalio parla della vivisezione: «Non è difficile prendere una tavola qualunque, su cui siano stati realizzati dei buchi in modo da poter tenere legati gli arti, oppure, se non ci sono buchi, mettere rapidamente sotto la tavola due bastoni e attaccarceli. Per il resto, bisogna soprattutto tener conto della mascella superiore e stare attenti che sia saldamente fissata sulla tavola, cosa che riuscirete a fare fissando una piccola catena o una solida corda sulla parte anteriore dei canini e attaccando l’altro capo a un anello qualsiasi sulla tavola, o a un piccolo buco o altrove, come giudicherete più comodo, in maniera che il collo sia tirato indietro e la testa tenuta immobile». Preferiva aprire delle femmine di maiale piuttosto che dei cani, perché questi ultimi urlavano più di tutti gli altri animali. In questa boccata d’aria per la vivisezione, scrive: «Nell’esame del cervello e delle sue parti, non c’è veramente nulla da vedere per il tramite della vivisezione, dal momento che qui, lo vogliamo o no, per rispetto nei confronti dei teologi del nostro paese, noi dobbiamo rifiutare agli animali privi di ragione la memoria, il ragionamento e la riflessione, anche se la struttura del loro cervello è la stessa di quella dell’uomo» [corsivi miei]. E poi: «Ma come il cervello compia la propria funzione nel campo dell’immaginazione, del ragionamento, del pensiero e della memoria (o in qualunque maniera desideriate suddividere o nominare i poteri dell’anima sovrana in funzione di questa o quell’altra dottrina), io non lo posso comprendere in maniera per me soddisfacente» (VII). In altre parole, per rispetto nei confronti dei teologi del proprio paese, Vesalio preferisce non dire niente. Prudenza ammirevole. Però è fin troppo facile capire che se fosse stato d’accordo con le favole cristiane dell’anima immateriale, eterna e immortale, non avrebbe certo mancato di farcelo sapere. Il credente Ambroise Paré, per esempio, consacra un lungo passaggio della propria opera proprio a discutere

dell’anima e ad associarla a Dio.

Capitolo quarto

Una certa ghiandola assai piccola Localizzare l’anima

Con la stessa prudenza, Vesalio affronta il problema dell’uomo come creatura da attribuire a Dio, al Creatore o… alla Natura! L’utero inciso della donna tiene il posto di Dio nella genealogia dell’uomo. Meno prudente, o, diciamo, più imprudente, Vesalio poteva concludere, rischiando di urtare i teologi del suo paese, che l’anima non era suscettibile di essere mostrata o vista. Ai suoi studenti, era solito raccomandare: «Toccate voi stessi, con le vostre mani, e abbiate fiducia in loro» [corsivo mio]. Chi avrebbe mai potuto immaginare che un giorno l’anima la si sarebbe potuta toccare con mano? In questo momento, nessuno. Dobbiamo a Pierre Dionis, chirurgo di Luigi XIV che insegna la propria arte ai Giardini del Re, la descrizione di una lezione di anatomia e tutta una serie di dettagli sull’apertura di un cranio. Per uno che fa il filosofo, si tratta di una specie di visita guidata alla sua azienda privata. Leggiamo in extenso come se stessimo assistendo a tutta la scena: L’operatore sceglierà la lama a forma di coltello oppure quella a forma di bisturi, e praticherà un’incisione longitudinale sulla testa partendo dalla radice del naso e arrivando alla nuca del collo; una seconda incisione trasversale verrà effettuata da un orecchio all’altro, in modo da tagliare il cuoio capelluto e il pericranio, perché è necessario che la lama dello strumento risalga fino al cranio e formi con le due incisioni una croce sulla sommità del capo. In seguito l’operatore solleverà le quattro parti ottenute e le staccherà dal cranio, e queste, ricadendo verso il basso, lasceranno il suddetto cranio scoperto. A questo punto, appoggerà la sega sull’osso frontale in una zona molto vicina all’arcata sopracciliare e comincerà a tagliarlo, facendo tener ferma la testa da un inserviente perché non si muova. Nel corso dell’intervento, l’operatore sposterà un po’ alla volta la sega prima verso uno dei lobi temporali e successivamente verso l’altro. Terminato il taglio, si farà rigirare il corpo per compiere la stessa operazione sull’osso occipitale.

Dionis continua: Una volta tagliata l’intera circonferenza del cranio, si prenderà lo strumento elevatore e s’infilerà uno dei suoi capi nel solco aperto dalla sega, allo scopo di staccare eventuali escrescenze ossee che la sega non sarà riuscita a eliminare del tutto. Se non ci si riesce con l’elevatore, se ne verrà a

capo con l’altro strumento a forma di punta, che ha più forza. Trattasi di strumento realizzato appositamente per questo scopo, perché permette di inserire la parte piatta nell’apertura creata dalla sega e, sforzando con la mano a destra e a sinistra, di staccare quello che prima non si riusciva a staccare. Il successo dell’operazione è accompagnato dal rumore che fa l’osso quando si spezza. A questo punto, si fa scivolare lo strumento a forma di grande spatola con il manico tra il cranio e la duramadre, e si procede a separare i filamenti che lo tengono attaccato ai punti di sutura.

E alla fine: Una volta tolto il cranio, lo si sistema a fianco della testa per metterci dentro i pezzi di cervello mano a mano che li si taglia. […] Esaminata per bene la parete interna, si rimette tutta la materia al suo posto e, dopo averla richiusa nel cranio, si prendono ago e filo e si ricuciono i quattro angoli del cuoio capelluto che erano stati sollevati, per ricoprire la calotta cranica e risistemare tutto nel suo luogo ordinario.75

S’incide, si taglia, si trancia, si scarta, si sega e si fende l’osso che rimane attaccato e scricchiola; poi si comincia a rompere e a separare, e si estrae la calotta cranica, si seziona la materia cerebrale in parti, la si osserva, si rimettono dentro al loro posto i pezzi, si ricuce e si ottiene un’exploded view della testa, «vista» e «toccata», sempre per rimanere alle parole di Montaigne. Dionis non parla degli odori, perché la materia grigia non emana nessun odore: se qualche volta puzza, è solo a causa delle sue secrezioni mentali e intellettuali. E cosa si vede? Ambroise Paré vede le opere complete di Aristotele e i commenti che si sono aggiunti nel corso dei secoli! In effetti, quando parla dell’anima, Paré non è come Vesalio, ossia circospetto per prudenza, cieco per precauzione e innocente per timore. Vede chiaramente con il proprio bisturi che «l’anima è uno spirito divino, invisibile e immortale che si diffonde in tutte le parti del corpo, uno spirito infuso, senza nessuna qualità procreatice genitale, dalla potenza di Dio Creatore quando le membra del bambino sono già formate nell’utero materno: quindi al quarantesimo giorno per il maschio e al cinquantesimo per la femmina, a volte prima e a volte dopo». E così i teologi non vanno a fare le pulci alle idee di Ambroise. Precisa, il nostro: «Tuttavia, nel momento in cui l’anima viene infusa, non può produrre o espletare le proprie funzioni e operazioni perché gli organi o strumenti non sono ancora in grado di servirle. Con il tempo, man mano che questi organi si perfezionano e man mano che il corpo si sviluppa, anche l’anima comincia a manifestarsi. Capita, però, che a volte gli organi possano essere malformati fin dall’inizio, come, per esempio, quando la testa si presenta a punta; è il caso di Triboulet e di Tenin che erano naturalmente pazzi perché i ventricoli del cervello e gli altri organi si trovavano così compressi che l’anima

non poteva muoversi». L’anima e il corpo intrattengono tra loro un rapporto intimo nello spazio e nel tempo. Se un organo si ritrova compresso nello spazio, l’anima che vi alloggia non potrà esercitare le proprie funzioni nel tempo. Il cranio appuntito di Triboulet, di professione giullare di corte, spiega la sregolatezza della sua anima. Se qualcuno mangia male, beve troppo, soffre di febbre o patisce qualche azione brutale da parte dell’ostetrica, della madre o della nutrice, eccolo pronto a trasformarsi in Triboulet. Ovviamente, a distribuire i talenti, oltre all’ostetrica, alla madre e alla nutrice, Ambroise Paré convoca l’Altissimo. Dio produce dei Triboulet quando vuole, come vuole e se vuole. E non ha bisogno di dare dei colpi veri e propri alla testa. È lui a creare il contadino o l’uomo di fatica, il signore o il manovale, l’individuo raffinato o il personaggio volgare. Cercare di sapere quello che vuole Dio significa cacciarsi nei guai. Il chirurgo ha letto la Genesi, e sa che voler sapere significa peccare, e peccare porta all’inferno. Si accontenta quindi di osservare e di raccontare quello che vede, sostiene. Solo che quello che vede è soprattutto quello che gli hanno detto di vedere: «L’anima fornisce al corpo vita e movimento quando è a lui unita; diventa il ricettacolo dell’illuminazione divina, perché, grazie alla sua presenza, il corpo viene creato dalla potenza di Dio, che non è corporale, e non muore; l’anima è uno spirito invisibile, diffuso in tutte le parti del corpo, e, in ciascuna di queste sue parti, si trova intera. Quest’anima infinita non può essere un corpo. Proprio come in lei si trovano luoghi diversi senza che occupino alcuno spazio, allo stesso modo, senza cambiare dislocazione, lei stessa si trova in mille posti diversi, e non nella successione temporale o degli intervalli, ma spesso nello stesso momento». A seconda che serva a questo o a quel proposito, l’anima viene chiamata ragione, spirito, pensiero, coraggio nell’azione, sensibilità… Permette di sentire, di muoversi, di vivere, di volere e di intendere. Quando disserta sull’anima vegetativa, sull’anima sensitiva, sull’anima razionale e intellettuale, Ambroise Paré si smarca da Aristotele, ma continua comunque a rientrare nel numero di quelle autorità che Vesalio intende superare. I suoi ragionamenti sul senso comune, sull’immaginazione, sulla ragione e sulla memoria non hanno nulla a che vedere con le osservazioni di un chirurgo, solo con le sue letture. Nella sua analisi, Ambroise Paré, che ha visto tanti corpi squartati sui campi di battaglia e tanti uomini morire per il sangue perso a causa delle ferite provocate dalle armi, richiama il legame tra anima e corpo, la loro «unione». La vita è l’instaurazione di questo legame e la morte, il suo scioglimento; Dio è padrone di questa operazione di unione, e il chirurgo fa solo quello che può. Ambroise Paré è famoso per aver detto, a proposito di un malato che aveva

salvato: «Io l’ho curato, ma Dio l’ha guarito». Più di qualsiasi altra persona, il chirurgo deve poter porre la domanda sulla modalità di questo legame che unisce l’anima al corpo: quando e in che modo si dà unione e poi scioglimento nel corpo? Per prudenza, Andrea Vesalio evita il problema; Ambroise Paré, invece, lo risolve cristianamente. Occorrerà uscire dalle facoltà di medicina per affrontare la questione con gli strumenti concettuali e materiali del chirurgo e del filosofo, e convocare René Descartes, il quale viviseziona e pensa allo stesso tempo. Descartes soffre per il fatto di essere schiacciato dalla sua stessa reputazione. Esiste il Descartes degli esami di maturità, ridotto al Discorso sul metodo, un testo di cui ci si dimentica sempre in che condizioni è stato scritto e il cui ruolo viene sempre limitato a quello di manifesto prerivoluzionario che inventa la ragione laica e traghetta direttamente al 1789. Così facendo, però, si confonde Descartes con i cartesianesimi, che sono stati numerosi e, ovviamente, contraddittori. Basti pensare alla radicalità materialista di Regius, all’occasionalismo dell’oratoriano Malebranche, al panteismo del marrano Spinoza, all’ateismo antispecista dell’abate Meslier, e via di seguito. Descartes non è solo l’epistemologo della ragione moderna, ma è anche un filosofo esistenziale che pensa per vivere, cioè per vivere bene e per vivere meglio. Vorrebbe poter svolgere il proprio lavoro non contro Dio, ma senza di lui, dopo aver stabilito con chiarezza e una volta per tutte che occorre sempre e comunque obbedire «alla religione del proprio re e della propria balia» – cioè, chiaramente, al cattolicesimo romano. Fornisce prove dell’esistenza di Dio, legge gli atti dei concili per conoscere i dogmi della Chiesa e non infrangerli, e cerca di mantenere assieme la dottrina della transustanziazione e la propria filosofia. Il suo Discorso sul metodo è, di fatto, l’esposizione del metodo da lui stesso impiegato, e non gli sarebbe mai venuto in mente di pensare che sarebbe potuto diventare il metodo impiegato da tutti gli altri, addirittura a livello nazionale! È un semplice testo introduttivo ai suoi altri libri della Diottrica, delle Meteore e della Geometria, tutte opere scientifiche. All’epoca, il Discorso non è niente di più. Descartes scrive in francese come Montaigne. Questo suo carattere di emulazione nei confronti dell’autore dei Saggi viene fin troppo spesso trascurato. Il suo progetto è di essere letto da tutti quanti, non solo dagli intellettuali che giurano in latino. Quindi non esclusivamente all’indirizzo dei dottori della Sorbona, ma, come scrive il 22 febbraio del 1638 a padre Antoine

Vatier, perché «anche le donne potessero intendere qualcosa»76 del suo pensiero. La sua intenzione non è di bruciare Aristotele e di rinnegare la scolastica; semplicemente vuole mostrare come si possa pensare il mondo senza dover per forza ricorrere alla loro autorità. È il mondo, l’oggetto che Descartes si mette in testa di pensare. Leggendo la sua corrispondenza, che è il cantiere in cui il suo pensiero, giorno dopo giorno, lettera dopo lettera, si forma, vediamo che a preoccuparlo non è il cogito, che fa tanto (o faceva tanto…) soffrire gli studenti all’ultimo anno di liceo, ma una intera folla di soggetti. Come impedire ai camini di fumare? Perché, una volta che il pesce è cotto, possiamo toccare il fondo del paiolo senza scottarci? Dopo la transustanziazione, il peso dell’ostia cambia? Per quale ragione la neve è tanto chiara di notte? Come ci spieghiamo la corona che circonda la fiamma di una candela? Che cosa possiamo dire delle macchie solari? Cosa possiamo dire del suono che fa la pallottola di un moschetto? E della forma dei cristalli di neve? E della vita delle piante in giardino? E come galleggia una fetta di pane sull’acqua? Cosa possiamo pensare dei flussi marini? E della luminosità delle stelle? E della velocità con cui si ghiaccia l’acqua salata? Come si propaga l’eco? Come possiamo spiegare la forza d’attrazione degli astri? Come possiamo spiegare la luminescenza delle lucciole? E i colori dell’arcobaleno? E cosa possiamo dire della relazione tra caldo e luce? Che cosa succede quando l’acqua viene filtrata attraverso un pezzo di stoffa? Il pensatore si adopera alla sperimentazione. E si domanda, per esempio, come si possa spiegare la «fecondità d’un chicco di grano, dopo che è stato immerso nel sangue o nel letame».77 Pesa l’aria… E fa la stessa cosa con il midollo del sambuco, constatando che è quattro o cinque volte meno pesante dell’oro. Batte colpi su dei pezzi di legno di sambuco e su dei pezzi di legno di abete per scoprire se conducono il suono meglio del rame… Descartes trionfa da vero e proprio uomo della libido sciendi: i meccanismi della ragione gli interessano tanto quanto quelli delle maree… A padre Marin Mersenne, che è stato suo compagno di studi al collegio di La Flèche, scrive: «a proposito di qualsiasi cosa che riguardi la natura, ma principalmente di ciò che è universale e che tutti possono sperimentare: di ciò soltanto ho iniziato a trattare. Infatti, per quanto riguarda le esperienze particolari che si basano sulla testimonianza di qualcuno, non la farei mai finita e sono deciso a non parlarne affatto».78 E qual è il suo soggetto? L’universale che ognuno di noi può sperimentare. E l’universale che esprime in primo luogo è la vecchiaia. Non l’idea platonica della vecchiaia, non la categoria aristotelica della vecchiaia, e neppure il discorso ciceroniano sulla vecchiaia. La vecchiaia non è un soggetto di disputa filosofica, ma una preoccupazione pratica, esistenziale. In Descartes questa preoccupazione

si manifesta in maniera assolutamente particolare. Lo riporta anche il suo primo biografo, padre Adrien Baillet, nella sua Vita di monsieur Descartes (1691), raccontando della comparsa di alcuni capelli bianchi sulle tempie del filosofo, all’età di quarantatré anni! A Costantin Huygens, Descartes scrive: «I peli bianchi che si affrettano a spuntarmi mi avvertono che non devo più occuparmi di altro che dei modi per ritardarli. È ciò di cui mi occupo ora, e cerco di supplire con l’ingegnosità il difetto delle esperienze che mi mancano, per la qual cosa ho tanto bisogno di tutto il mio tempo che ho preso la decisione di impiegarlo tutto, e ho perfino relegato il mio Mondo ben lontano da qui, per non avere la tentazione di finire di metterlo in bella copia».79 Descartes ha avuto una figlia da una domestica di casa, ma Francine muore a cinque anni, dopo che la madre se n’era già andata tredici mesi dopo la sua nascita. Da bambino, Descartes era gracile e magrolino, ed essendo di salute malferma, ottiene dalle autorità del collegio gesuita di poter restare a letto sotto le coperte per tutta la mattina, un’abitudine che conserverà per il resto della sua vita – lavora quindi sdraiato e certi giorni può arrivare a passare a letto anche dodici ore di fila. Porta una parrucca per ragioni di salute e, alla carne, confessa di preferire la verdura. È questo insomma l’uomo che decide di occuparsi della «scienza del vivere bene», come scrive Baillet. Descartes lo sa, lo ha vissuto in prima persona, lo vive in prima persona e lo pensa: la salute è il più grande dei tesori, e lui, a questo progetto, intende consacrarsi. A Mersenne, che gli racconta della patologia dermatologica che lo affligge, una erisipela, Descartes scrive il 15 gennaio del 1630 spiegando in cosa consista il proprio oggetto principale di studio: «una medicina che sia fondata su dimostrazioni infallibili, cosa che sto cercando attualmente».80 Sette anni più tardi, nelle ultime righe del Discorso, troppo spesso dimenticate, scrive: «non voglio parlare qui in modo particolare dei progressi che spero di fare in futuro nelle scienze, né impegnarmi verso il pubblico con alcuna promessa che non sono sicuro di poter soddisfare: ma dirò solo che ho stabilito di impiegare il tempo che mi resta da vivere solo a tentare di acquisire una conoscenza della natura che sia tale da poterne trarre delle regole per la medicina più sicure di quelle avute sinora; e che la mia inclinazione mi allontana talmente da ogni altro proposito, principalmente da quelli che riuscirebbero utili ad alcuni solo nuocendo ad altri, che, se qualche circostanza mi costringesse ad impegnarmi in essi, non credo riuscirei a venirne a capo».81 Siamo nel 1637, e Descartes morirà nel 1650: gli restano quindi tredici anni per portare a termine il proprio progetto. Come arrivare a queste «regole per la medicina»? Ovviamente, attraverso l’osservazione. Il Discorso sul metodo spiega come Descartes sia giunto a delle

prime verità che non abbiano niente a che fare con la fede e con la religione e c’entrino invece unicamente con la ragione e con la filosofia. Dubbio metodico, quindi, e successivo scioglimento di questo stesso dubbio grazie alla constatazione che non si può dubitare di tutto, in particolare del fatto che si dubiti (una cosa che, per parte mia, mi lascia assolutamente nel dubbio, ma questa è un’altra storia…). Eccola, la prima certezza ottenuta: si pensa; e la seconda, che ne discende direttamente: si è. Riconosciamo qui tutti quanti il famoso cogito ergo sum, «penso, dunque sono». Si tratta di uno sguardo su di sé, di uno sguardo dentro di sé, di un’operazione introspettiva che mette fuori gioco tutto il sapere libresco. Non c’è più bisogno della Bibbia o della Città di Dio di Agostino, non c’è più bisogno del libro delle Categorie di Aristotele o della Somma Teologica di Tommaso d’Aquino per sapere che cosa pensare del mondo, delle cose, del reale e dell’uomo: una ragione ben guidata all’interno dei meandri più profondi dell’essere riesce a far venire a galla questa prima verità, e cioè che l’uomo è perché pensa. Siamo alla fondazione dell’ontologia cartesiana. Ma per fondare la medicina cartesiana, invece, come fare? Semplicemente, osservando non più delle anime che pensano, come nella tradizione ontologica precedente, ma dei corpi che vivono, che sono infatti quelli descritti nel trattato su L’uomo. E per osservare bene, che cosa c’è di meglio se non aprire corpi? Nella sua biografia, Baillet racconta che Descartes viviseziona animali morti ma anche animali vivi. Il filosofo lo spiega a Mersenne: ha vivisezionato la testa di un montone,82 l’occhio di un bue,83 alcuni giovani vitelli,84 delle rane,85 delle mucche e dei polli.86 Al corrispondente, scrive: «una volta, infatti, ho fatto uccidere una vacca, della quale sapevo che aveva concepito poco tempo prima, proprio per vederne il frutto. Ed essendo venuto a conoscenza, in seguito, che i macellai di questo paese spesso ne uccidono di gravide, sono riuscito a farmi consegnare più di una dozzina di ventri nei quali c’erano dei vitellini, alcuni grandi come sorci, altri come ratti, altri come cagnolini, nei quali ho potuto osservare molte più cose che nei pulcini, dato che gli organi sono più grandi e più visibili».87 Viviseziona non solo pesci e conigli vivi, ma anche cani, e lo scopo è di esaminare come funziona la circolazione cardiaca.88 A proposito della vivisezione di un cane di cui voleva osservare il mesentere, Descartes scrive a padre Mersenne: «ho osservato che le budella dei cani aperti da vivi hanno un movimento regolato quasi come quello della respirazione».89 Nel quinto discorso della Diottrica, Descartes analizza la questione della formazione delle immagini sul fondo dell’occhio. Rimanda alle osservazioni fatte sull’«occhio di un uomo morto da poco, o, in mancanza, quello di un bue o

di qualche altro grosso animale»90 – seguono i dettagli pratici dell’esame autoptico. Un’altra volta, il filosofo racconta di una lezione di anatomia tenutasi a Leida tre anni prima, cioè nel 1637, l’anno stesso della pubblicazione del Discorso, in cui si era messo a cercare la ghiandola pineale, ossia il luogo deputato al legame tra anima e corpo nel cervello. Descartes lavora quindi su corpi umani, e non si accontenta di leggere Vesalio, cosa attestata da una lettera a Mersenne (Lettera 65). Sulle vivisezioni, Descartes scrive a Mersenne il 20 febbraio del 1639 che si tratta di «un esercizio in cui, da undici anni, [si è] cimentato spesso»;91 e aggiunge: «credo non vi sia medico che vi abbia guardato così da vicino come me».92 Poi scrive anche queste parole, non prive di un certo interesse per la questione dell’anima: «Ma non vi ho trovato nessuna cosa di cui non pensi di poter spiegare in dettaglio la formazione per mezzo delle cause naturali, allo stesso modo in cui ho spiegato quella di un grano di sale o quella di una piccola stella di neve nelle mie Meteore. E se mi accingessi a ricominciare il mio Mondo, dove ho supposto il corpo di un animale tutto formato e mi sono accontentato di mostrarne le funzioni, indicherei anche le cause della sua formazione e della sua nascita. Ma, pur sapendo questo, non so ancora abbastanza da poter guarire anche solamente una febbre. Penso, infatti, di conoscere l’animale in generale, che non vi è affatto soggetto, e non ancora l’uomo in particolare, che vi è soggetto».93 Quello che vuole dire è che più di un decennio di vivisezioni su animali morti e vivi non gli ha consentito di dedurre l’uomo dall’animale, e ancora meno di arrivare a delle certezze dal punto di vista medico e farmaceutico. Come per dire che aprire corpi non basta a svelare il mistero, il funzionamento e le anomalie del vivente. Nonostante questo, però, il bisturi può raccontare molto sul corpo dell’uomo, e può permetterci di ricavare qualche informazione anche sull’anima. In occasione della dissezione del cadavere di una donna a Leida, Descartes mette in relazione la ghiandola pineale, detta anche conarium, con la fisiologia del cervello: Non troverei strano che dissezionando i letargici si trovasse che la ghiandola conarium è corrotta, giacché essa si corrompe con la stessa grandissima velocità in tutti gli altri. Tre anni fa, a Leida, volendola vedere in una donna che veniva dissezionata, nonostante la cercassi molto accuratamente e sapessi molto bene dove dovesse essere, abituato com’ero a trovarla negli animali appena uccisi senza nessuna difficoltà, mi è stato tuttavia impossibile riconoscerla. Un vecchio professore che eseguiva la dissezione, di nome Valcher, mi confessava che non aveva mai potuto vederla in un corpo umano. Ciò credo dipenda dal fatto che comunemente impiegano qualche giorno a vedere gli intestini e le altre parti, prima di aprire la testa.94

E qui supponiamo che il filosofo, che sembra essersi dato spesso da fare per

cercare la ghiandola pineale tra le pieghe del cervello, sia costretto a constatare la difficoltà di reperirla a causa del tempo che intercorre tra il momento della morte e quello dell’operazione di analisi autoptica. Questa ghiandola sarebbe quindi particolarmente corruttibile per ragioni d’ordine fisiologico. Descartes si rende in effetti conto che la ghiandola pineale, altrimenti detta epifisi, è irrigata soltanto da piccole arterie ed è fragile, altamente deteriorabile. In questa ghiandola, Descartes colloca ciò che sembra necessario alla memoria, «specialmente negli animali bruti, e in coloro che hanno la mente rozza».95 E continua: Quanto agli altri, mi sembra, infatti, che non avrebbero la facilità che hanno a immaginare un’infinità di cose che non hanno mai visto, se la loro anima non fosse unita a qualche parte del cervello più adatta a ricevere ogni tipo di nuove impressioni e, conseguentemente, molto inadatta a conservarle. Ora, non c’è che questa sola ghiandola cui l’anima possa essere così unita; perché non v’è che essa solamente, in tutta la testa, a non-essere doppia. Credo, però, che sia tutto il resto del cervello a servire di più alla memoria, principalmente le sue parti interne, così come a ciò possono servire tutti i nervi e i muscoli; di modo che, per esempio, un suonatore di liuto ha una parte della sua memoria nelle mani; infatti, la facilità nel piegare e nel disporre le dita in maniere diverse, che ha acquisito per abitudine, aiuta a fargli ricordare i passaggi per la cui esecuzione deve disporle in un certo modo.96

Per Descartes ci sono quindi due tipi di memoria: una che dipende dal corpo, e un’altra, intellettuale, che dipende solo dall’anima. Il filosofo oppone una sostanza estesa a una sostanza pensante. Dalla parte della sostanza estesa c’è il corpo divisibile, corruttibile e mortale, e la materia comune all’uomo e all’animale; dalla parte della sostanza pensante c’è invece l’anima indivisibile, incorruttibile e immortale, e comune solo a Dio e agli esseri umani. «Che cosa sono io, allora?» si chiede nella seconda delle Meditazioni. Risposta: «una cosa pensante».97 Fin dalle prime righe del trattato su L’uomo, Descartes scrive: «Suppongo che il corpo non sia altra cosa se non una statua o una macchina di terra, che Dio forma di proposito per renderla quanto più possibile simile a noi, di modo che non solo le dia all’esterno il colore e la figura delle nostre membra, ma anche che ponga all’interno tutti i pezzi che sono richiesti per far sì che cammini, mangi, respiri e, infine, imiti tutte le nostre funzioni che si immagina possano procedere dalla materia e dipendere dalla sola disposizione degli organi».98 Sono righe, queste, che costituiscono quasi l’origine filologica della teoria dell’uomomacchina, che così tanto affascina i sostenitori contemporanei del transumanesimo. Aggiunge il nostro filosofo: «Vediamo orologi, fontane artificiali, mulini e altre macchine simili che, pur essendo fatte da uomini, non per questo non hanno

la forza di muoversi da sé stesse in molti diversi modi; e mi sembra che non saprei immaginare tante specie di movimenti in questa che suppongo essere fatta dalle mani di Dio, né attribuirle tanti artifici, che voi non abbiate motivo di pensare che ne possa avere ancora di più».99 Descartes comincia allora a descrivere il corpo umano come se si trattasse di una macchina: una macchina per mangiare, una macchina per digerire, una macchina per respirare, una macchina per sentire, una macchina per gustare, una macchina per toccare, una macchina per vedere, una macchina per desiderare, ma anche una macchina per pensare, per memorizzare, per giudicare e per produrre delle idee. A un certo punto, ricorre alla metafora della fontana: gli spiriti animali circolano nei nervi e i muscoli li azionano come fa l’acqua che passa nei tubi e aziona le molle e i meccanismi della fontana; in altri passi, paragona la macchina del corpo a un organo. Ci sarebbe piaciuto leggere quello che Descartes aveva da dire sulla questione, annunciata fin dalle prime righe, dell’anima e del corpo, e soprattutto, sulle modalità del loro legame. Il trattato è però rimasto incompiuto. A noi, quindi, sono rimaste solo la statua di terra, la fontana idraulica, le macchine intese come macchine di macchine, gli organi, i tubi e le molle: un’immagine del corpo nata da tutte le ore passate dal filosofo a compiere le proprie ricerche autoptiche. Il corpo aperto ci fornisce informazioni sulla sostanza estesa, su questo siamo d’accordo. Che cosa dire però della sostanza pensante? Apriamo le Passioni dell’anima per scoprire cosa pensa Descartes delle modalità con cui corpo e anima sono legati tra loro: Benché l’anima sia unita a tutto il corpo, c’è nondimeno in esso una qualche parte nella quale esercita le sue funzioni più particolarmente che in tutte le altre. E si crede in genere che questa parte sia il cervello, o forse il cuore: il cervello in quanto è a esso che si riferiscono gli organi di senso, e il cuore in quanto è come se in esso si sentissero le passioni. Ma, esaminando accuratamente la cosa, mi sembra di aver riconosciuto con evidenza che la parte del corpo nella quale l’anima esercita immediatamente le sue funzioni non è affatto il cuore, e neppure l’intero cervello, ma solamente la sua parte più interna, che è una certa ghiandola assai piccola, situata nel mezzo della sostanza cerebrale e sospesa al di sopra del condotto attraverso il quale gli spiriti delle cavità anteriori entrano in comunicazione con quelli della cavità posteriore, in modo tale che i più piccoli movimenti che avvengono in essa possono cambiare molto il corso di questi spiriti, e reciprocamente i più piccoli cambiamenti che accadono nel corso degli spiriti possono fare molto per cambiare i movimenti di tale ghiandola [corsivo mio].100

L’analisi di questa «certa ghiandola assai piccola»,101 presentata come «la sede principale dell’anima»,102 apre una nuova era nella filosofia occidentale: è il demonio materialista che entra nel castello idealista passando dal camino! Descartes lo dichiara con chiarezza: «l’anima non può avere in tutto il corpo

altro luogo al di fuori di questa ghiandola dove esercitare immediatamente le sue funzioni» [corsivo mio].103 Il filosofo crede di poter portare le prove di quello che sostiene presentando le osservazioni accumulate nel corso delle proprie vivisezioni: quando si taglia un cervello, ma anche quando si osserva un corpo nella sua interezza, si vede che la simmetria detta legge dappertutto, tranne che in quest’unico luogo. Due emisferi dell’encefalo, due occhi, due orecchie, due narici, due gambe, due mani, e così via: però una sola ghiandola pineale. Se i due occhi che permettono la percezione danno un’unica immagine, è grazie alla ghiandola pineale che mette in ordine i dati che le giungono. Quello che i due organi fanno pervenire al cervello diventa una sola percezione grazie alla mediazione di questa famosa ghiandola, il luogo dell’anima. Ecco perché Descartes può scrivere: Concepiamo dunque qui che l’anima ha la sua sede principale nella piccola ghiandola posta nel mezzo del cervello, da dove essa si irradia in tutto il resto del corpo per il tramite degli spiriti, dei nervi e dello stesso sangue il quale, partecipando alle impressioni degli spiriti, li può portare attraverso le arterie verso tutte le membra. Ricordandoci poi di quello che è stato detto sopra a proposito della macchina del nostro corpo, e cioè che i piccoli filamenti dei nervi sono distribuiti in tutte le parti del corpo in maniera tale che, in occasione dei diversi movimenti che vi sono suscitati dagli oggetti sensibili, aprono diversamente i pori del cervello, cosa che fa sì che gli spiriti animali contenuti nelle sue cavità entrino diversamente nei muscoli, e in questo modo possono muovere le membra in tutte le diverse maniere in cui è possibile che siano mosse, e ricordandoci anche che tutte le altre cause che possono muovere diversamente gli spiriti bastano a condurli nei diversi muscoli, aggiungiamo qui che la piccola ghiandola che è la principale sede dell’anima è sospesa tra le cavità che contengono questi spiriti in modo tale che può essere mossa da essi in tanti modi diversi quante sono le differenze sensibili tra gli oggetti. Essa tuttavia può anche essere mossa diversamente dall’anima, la quale ha una natura tale che può ricevere in sé stessa tante diverse impressioni, cioè essa ha tante percezioni diverse quanti movimenti diversi si verificano in tale ghiandola. Come anche, reciprocamente, la macchina del corpo è composta in maniera tale che, per il solo fatto che questa ghiandola è mossa in modi diversi dall’anima, o da qualsiasi altra causa vi possa essere, essa spinge gli spiriti che la circondano verso i pori del cervello che li conducono attraverso i nervi nei muscoli, e per mezzo di ciò essa fa loro muovere le membra [corsivo mio].104

Dove si scopre che la macchina del corpo è un misto di materia ed energia, di slanci vitali e dispositivi organici, di sostanza estesa e sostanza pensante, il tutto legato principalmente, come tiene a sottolineare lo stesso filosofo, all’interno, e attraverso, la ghiandola pineale. Uno spirito vivo e curioso, attento e malizioso si fermerebbe probabilmente a interrogare questo principale e a chiedere a quale accessorio si voglia rimandare! Se la ghiandola pineale è la sede principale dell’anima, quali sono le sedi secondarie? Qui sede «principale» dell’anima, là «unico» luogo dell’anima, e tutto in uno

stesso testo, cioè le Passioni dell’anima. Decisamente, la ghiandola pineale sembra creare più problemi di quanti non ne risolva! È comprensibile che un uomo che crede in Dio e si preoccupa di fornire prove della sua esistenza; un uomo che conduce una vita solitaria fuori dalla Francia e lontana da Parigi, lontana da tutto, in modo da evitare persecuzioni e condanne dalla Chiesa come era successo a Galileo ai suoi tempi; un uomo che non dava mai il proprio indirizzo e che cambiava casa spesso e con regolarità; un uomo che ha scelto come proprio motto l’espressione: Larvatus prodeo, «avanzo mascherato»;105 un uomo che legge i documenti dei concili per evitare di pensare infrangendo i capisaldi del cattolicesimo e che infarcisce le proprie lettere di segnali di sottomissione all’ordine costituito, Sorbona e gesuiti compresi; un uomo che fa tutte queste cose pur cercando di non mollare mai la preda sul piano filosofico; un uomo che pubblica anonimamente e che prende in considerazione il fatto di farsi pubblicare solo dopo la morte; è comprensibile, insomma, che un uomo del genere si possa voler muovere con estrema prudenza: affermare che l’anima immateriale si trovi in un luogo materiale, oltre al fatto di essere una contraddizione, significa aprire la porta a un monismo di stampo abderitano, atomista, materialista ed epicureo, e porterebbe sicuramente a passare qualche guaio con il Vaticano! L’anima immateriale, se è davvero immateriale, non può trovarsi in un luogo materiale, non può essere localizzabile, non la si può staccare dal corpo con un bisturi. Ma allora, a cosa potrebbe assomigliare l’anima immateriale, vista dal punto di vista della lama del chirurgo intento alla vivisezione? La questione alimenta parecchie polemiche su Descartes e sul cartesianesimo. Si tratta, in effetti, di una posta in gioco della massima importanza, non tanto per la storia della filosofia in generale, idealista e spiritualista, quanto per la religione cattolica, che ha bisogno di un’anima immateriale totalmente indipendente dalla materia, opposta addirittura alla materia, per giustificare il proprio dispositivo di punizione e ricompensa delle anime dopo la morte, in occasione del Giudizio universale. Ai suoi tempi, Descartes ha parecchi nemici: si scrive molto contro di lui, e si pubblicano tutta una quantità di libri che lo trattano male quando lui è ancora in vita. L’attacco ad hominem fa parte dei sistemi usati da quel tipo di persone. Viene ricordata la storia d’amore con la domestica, Helena, da cui ha avuto una bambina, Francine, e ci si scandalizza che abbiano vissuto tutti e tre assieme finché anche la bambina non è morta, probabilmente a causa della scarlattina, all’età di cinque anni, il 7 settembre del 1640. Descartes soffre molto per questa

scomparsa. È stato facile utilizzare questa parte della sua vita privata per presentarlo come un libertino, tanto più che anche la sua gioventù andava in quel senso. Il suo biografo, Adrien Baillet, di professione parroco, sostiene la tesi della debolezza della carne redenta dalla morte della bambina… E oltretutto, incredibili dicerie corrono sul fatto che Descartes fosse talmente ossessionato dalla vivisezione che avrebbe approfittato persino della morte di Francine per sottoporla al lavoro del bisturi – una cosa che, per raddoppiamento dell’infamia, il nonno del filosofo, Pierre Descartes, avrebbe lui stesso praticato a suo tempo su suo padre! Attorno a questo lutto, si crea una leggenda: Descartes si sarebbe costruito una piccola bambola meccanica che gli ricordava l’esistenza della figlia perduta. Alcuni trasformano addirittura questo automa in un oggetto sessuale. Nel 1699, nei suoi Mélanges d’histoire et de littérature, Bonaventure d’Argonne sostiene che questo automa è un’invenzione dei detrattori del filosofo. E perché il giocattolo non è mai stato ritrovato? Perché, alcuni hanno sostenuto, il capitano di una nave che attraversava il mare d’Olanda, incuriosito dalle dicerie a proposito del baule in cui si trovava l’automa, l’avrebbe aperto e, spaventato dall’aspetto diabolico di quello che aveva davanti, l’avrebbe buttato a mare! Anche padre Poisson, oratoriano, evitando la polemica e l’attacco personale, afferma che Descartes si sarebbe costruito da solo degli automi: «Volendo verificare per esperienza quello che pensava dell’anima delle bestie, si era inventato una piccola macchina a forma di uomo che ballava sulla corda e che, con cento piccoli gesti, imitava con relativa naturalezza tutte le mosse che fanno le persone che volteggiano in aria. Concepisce anche una colomba capace di volare. Però, sicuramente, la più ingegnosa delle sue macchine rimane una pernice artificiale che uno spaniel fa alzare in volo. Non so se si sia poi dato la pena di investire soldi per realizzare il disegno, che ho visto, però la descrizione che fa di questo piccolo automa non sembra così complicata da escluderlo».106 Non sappiamo se Descartes abbia voluto costruire questi automi con le proprie mani… Di sicuro, dimostra di esserne grandemente affascinato. Abbiamo già visto come abbia tirato in ballo la «statua o […] macchina di terra»,107 o come abbia più volte paragonato il funzionamento del corpo umano a quello di un organo, o di un orologio, o di un meccanismo idraulico. In una lettera a Mersenne, scrive: «Si può certo fare una macchina che si sostiene in aria come un uccello, metafisicamente parlando; infatti gli stessi uccelli, almeno secondo me, sono macchine simili; ma non fisicamente o moralmente parlando, poiché servirebbero dei congegni così sottili e insieme così forti che non potrebbero essere fabbricati da uomini».108 Ricordiamo anche quello che sostiene nella seconda Meditazione: «Se non

fosse che ho appena volto lo sguardo, dalla finestra, su degli uomini che camminano per strada, ed anche essi dico di vederli, come abitualmente dico di vedere la cera. Che cosa vedo, però, oltre i cappelli e i vestiti sotto cui potrebbero nascondersi automi? Eppure, giudico che sono uomini. E così quel che ritenevo di vedere con gli occhi lo comprendo con la sola facoltà di giudicare, la quale è nella mia mente».109 Il che non gli impedisce di proseguire nella stessa direzione. Questa predilezione sembra molto antica, se già, come ci informa Baillet, in un testo giovanile intitolato Spiegazione dei congegni, il nostro autore si trova a dissertare sull’anima delle bestie e sugli automi.

Capitolo quinto

Il cartesianesimo contro Descartes Circoscrivere lo spirito

Descartes apre la porta a una rivoluzione antropologica. Anche se lo fa senza immaginarselo, rende comunque possibile una rivoluzione ontologica e filosofica. Lui che, nel Discorso sul metodo, ci invita a «renderci in tal modo come signori e possessori della natura»110 non poteva immaginarsi che la sua ipotesi di ghiandola pineale apriva l’orizzonte del postumano e del transumanesimo e perimetrava il dominio più che millenario del pensiero cristiano. La prudenza di Descartes è rimasta leggendaria. Ma era davvero fondata? O non era forse eccessiva e un po’ patologica? Difficile rispondere in maniera netta, visto come si sono ingarbugliate le diverse vicende. Vale forse la pena di ricordare che, per le loro idee, Giordano Bruno sale sul rogo a Campo de’ Fiori, a Roma, nell’anno 1600, Vanini si fa strappare la lingua, strangolare e bruciare a Tolosa nel 1619, e Galileo viene condannato dall’Inquisizione e assegnato a soggiorno coatto nel 1633. C’è di che temperare gli ardori più accesi. Nella sua corrispondenza con Mersenne, Descartes torna molte volte sulla condanna di Galileo. Ed è tenendo conto dei guai passati dall’autore del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo che decide di rinunciare alla pubblicazione dei propri lavori scientifici. Riflettendo sulle sfortune dell’astronomo italiano, scrive: «mi sono quasi deciso a bruciare tutte le mie carte o, almeno, a non lasciarle vedere a nessuno».111 E continua: «per niente al mondo, vorrei che da me uscisse un discorso in cui si trovasse la minima parola che fosse disapprovata dalla Chiesa, preferisco allora sopprimere il mio trattato piuttosto che farlo uscire storpiato».112 Insomma, coraggioso, ma non temerario. Nelle lettere che scrive a Henricus Regius, Descartes non fa altro che invitare il proprio interlocutore alla prudenza: bisogna tenersi buoni gli uomini che gestiscono il potere, la Sorbona, i teologi, i cristiani, il Vaticano. Per come la vede, si dovrebbero persino evitare gli screzi con le autorità della città di Utrecht. Ovviamente, non al prezzo di affermare il contrario di quello che uno pensa, ma semplicemente formulando le cose con sufficiente circospezione e

precauzione da fare in modo che gli uomini che gestiscono il potere non ci trovino niente da ridire. Se Descartes rappresenta la Francia, come si è parecchio sostenuto da Victor Cousin in poi, va anche sottolineato come spessissimo sia stato anche l’uomo dell’inerzia, cosa che non va mai disgiunta da una certa dose di codardia. Al contrario, per esempio, di Montaigne che, un secolo prima, nel bel mezzo delle guerre di religione, non si lascia mai andare a ipocrisie di questo genere. Affrontiamo ora il dibattito che normalmente viene ricordato come querelle di Utrecht. Henricus Regius è un medico olandese nato e morto a Utrecht – lo conosciamo anche sotto il nome francesizzato di Henri Le Roy. È medico, ma insegna anche medicina e botanica all’università della sua città. Corrisponde con Descartes e comincia la propria carriera da alleato del filosofo; la prosegue però da avversario, e la termina da vero e proprio nemico. Duella in effetti contro di lui su questioni riguardanti la natura sostanziale dell’anima, le idee innate e il legame accidentale dell’anima con il corpo. Nella Sacra famiglia, Marx ed Engels scrivono che è questo sconosciuto pensatore a fondare la filosofia materialista francese. E questo già ci permette di capire come sia potuto accadere che la tradizione filosofica riuscisse a trascurare un uomo comunque importante per la storia della filosofia francese, una specie di anello mancante tra la filosofia cartesiana, idealista e compatibile con il cristianesimo, e la filosofia materialista, i cui assunti atomisti si rivelano inconciliabili con gli insegnamenti della Chiesa cattolica. E, in effetti, che cosa possiamo pensare della possibilità di un qualche rapporto tra anima immateriale, quindi suscettibile di castigo o di salvezza, e dottrina atomista, secondo la quale esistono solo atomi? Che cosa possiamo pensare dell’eucaristia se, nel pane dell’ostia e nel vino del calice, finiamo per ritrovarci solo particelle atomiche? Che cosa dobbiamo pensare della Parusia e del Giudizio universale, che vedono come protagonisti corpi gloriosi, ossia smaterializzati per principio? Che cosa dobbiamo pensare del paradiso e dell’inferno, governati da leggi che sfuggono alla filosofia abderitana? All’epoca di Descartes, dissertare sulla natura dell’anima e sull’anima degli animali, sulle modalità di unione tra anima e corpo, sul carattere sostanziale dell’anima o accidentale dell’unione, e farlo giostrandosi con il vocabolario della scolastica zavorrato da (mettiamola così) mille anni di onesti e leali servigi, significa parlare di qualcosa di più della schiuma delle cose: significa voler orientare in maniera diversa la lama di fondo dell’ontologia dominante, significa voler deviare il flusso idealista e spiritualista, significa voler cambiare il corso

del fiume cristiano. La verità, però, è che il Vaticano veglia sulla continuità dell’Azienda. Regius, olandese di formazione e protestante, insegna il pensiero del cattolico Descartes; i Paesi Bassi sono calvinisti, e il pastore Gisbertus Voetius attacca Regius, Descartes e il cartesianesimo. Quello che viene detto, raccontato, riportato e pubblicato fa nascere una polemica meglio conosciuta come la querelle di Utrecht. Adrien Baillet, nella sua biografia del filosofo francese, ci descrive Descartes come un ottimo spadaccino, addirittura autore in gioventù di un Trattato di scherma, perfettamente in grado insomma di sguainare la spada quando, su una nave, due malviventi si mettono d’accordo in olandese, lingua che Descartes conosce, per spogliarlo dei suoi beni e buttarlo a mare. Ecco, nonostante tutto, ciò che il nostro filosofo più di ogni altra cosa ama è il non farsi notare, e per riuscire nell’intento è pronto a qualsiasi sacrificio, persino a trattenere il proprio pensiero per paura che possa essere male accolto. Preferisce la tranquillità del proprio essere vivo all’audacia di un pensiero che gli sopravvivrebbe di sicuro ma gli costerebbe la morte. Così, non potendo sondare il cuore e il fegato dell’autore del Discorso sul metodo, non sappiamo fin dove sarebbe stato pronto a pensare. Quello che invece sappiamo è che Regius si spinge oltre. La corrispondenza tra Descartes e Regius ci mostra l’evoluzione della loro relazione. All’inizio, lavorano a stretto contatto sulla correzione dei manoscritti (punti, virgole, errori d’ortografia), sugli aggiustamenti delle formule e sulle ricerche sperimentali. Per esempio, durante uno scambio a proposito della circolazione sanguigna, e più in particolare su quello che distingue le vene lattee da quelle mesenteriche, Descartes scrive a Regius: «Alla prima occasione le cercheremo insieme in un cane vivo».113 Ma già all’inizio di questi loro scambi, Descartes si rende conto di dover frenare il proprio pupillo: «Tutta la nostra controversia sull’anima triplice è più sui nomi che sulle cose. Ma innanzitutto, poiché ad un cattolico romano non è lecito affermare che l’anima nell’uomo è triplice e poiché temo si imputi a me quel che ponete nelle vostre tesi, preferirei vi asteneste da questo modo di parlare» [corsivi miei].114 È chiaro che qui non si tratta solo di una questione di nomi, che non sono tanto la forma o la formulazione a essere messe in discussione, ma proprio i fondamenti stessi. Descartes si legge scrupolosamente e si studia per bene gli atti dei concili, per capire quello che può e quello che non può dire, quello che è autorizzato a pensare e quello che invece non è autorizzato a pensare. Regius, invece, non si fa di questi problemi: è protestante, e non si

sente tenuto a chiedere ai papisti quello che pensano loro per sapere quello che lui può a sua volta pensare. Regius pubblica le proprie tesi e ci mette anche il nome di Descartes. Reazione del filosofo: Di certo non posso lamentarmi della benevolenza vostra […] perché avete voluto premettere il mio nome alle vostre Tesi; ma neppure so come debba ringraziarvi. Vedo soltanto che mi si impone una nuova fatica, giacché si crederà che le mie opinioni non differiscano dalle vostre e soprattutto che in futuro non potrò sottrarmi con scuse al dovere di difendere con tutte le forze quel che avete asserito; perciò dovrò esaminare ancor più diligentemente quel che mi avete inviato da leggere, affinché non mi sfugga qualcosa che non condivido [corsivo mio].115

E riprende la questione dell’anima tripla: «questa proposizione nella mia religione è un’eresia».116 Descartes difende la posizione dell’anima una e unica: «Nell’uomo vi è un’unica anima, quella razionale».117 Descartes afferma che la sede delle passioni si trova nel cuore, mentre Regius la colloca nel cervello: «sono tra coloro che negano che l’uomo intenda con il corpo».118 L’olandese è convinto del contrario e sostiene che il corpo e l’anima si trovano legati accidentalmente. Descartes controbatte che la loro unione è naturale, che la natura del corpo è proprio quella di essere legata all’anima e che il corpo umano non si può dire tale senza l’anima. Gli scambi ci mostrano come, in effetti, Descartes si muova all’interno di un idealismo pienamente dualista e spiritualista: per conoscere le cose immateriali, il corpo non serve a nulla, serve solo l’immaterialità stessa dell’anima. Regius, invece, non crede assolutamente di poter fare a meno del corpo per conoscere qualsiasi cosa, anima compresa. Descartes guarda indietro, Regius in avanti. I toni si alzano in una lettera datata fine gennaio del 1642. Descartes riceve un ospite che gli racconta tutta la storia dell’affare di Utrecht. E a Regius scrive quanto quelle cose gli diano fastidio: «vi dovete astenere per qualche tempo da dispute pubbliche e […] dovete prestare la massima attenzione a non irritare nessuno contro di voi pronunciando parole troppo dure. Vorrei anche e soprattutto che non proponeste nessuna nuova opinione ma che, mantenute solo nominalmente le vecchie, vi apportaste solo nuove ragioni: nessuno potrebbe biasimarvi per questo; e coloro che le capissero correttamente, automaticamente concluderebbero quel che volete sia inteso».119 Descartes suggerisce la prudenza intellettuale: Così, ad esempio, quale necessità avete di respingere apertamente le forme sostanziali e le qualità reali? Non ricordate forse che io nelle Meteore […] ho dichiarato nel modo più esplicito che esse in nessun modo erano respinte o negate, ma solo non richieste per spiegare le mie ragioni? Se aveste seguìto la medesima via, nessuno dei vostri allievi le avrebbe accettate, essendosi resi

conto che sono inutili, e non sareste incorso in tanta invidia da parte dei vostri colleghi. Ma quel che è fatto non può esser disfatto. Ora si deve aver cura di difendere, il più pacatamente possibile, tutto quel che avete proposto di vero e, se vi è sfuggito qualcosa di meno vero o anche solo qualcosa detto in maniera meno appropriata, di correggerlo senza nessuna ostinazione, stimando che non vi è nulla di più lodevole, in un filosofo, che la spontanea confessione dei propri errori. 120

Descartes rimprovera a Regius di sostenere che «l’uomo è un essere per accidente», un’affermazione incomprensibile per chi non disponga di conoscenze scolastiche adeguate. E si mette, allora, a correggere davvero le bozze al proprio discepolo: È molto meglio […] riconoscere apertamente di non aver inteso correttamente questo termine della scuola, piuttosto che dissimulare malamente; sicché, per quanto abbiate di fatto la stessa opinione degli altri, ve ne siete allontanato solo nelle parole. Ovunque se ne presenti l’occasione, sia in privato sia in pubblico, dovete dichiarare di credere che l’uomo è un vero ente per sé e non per accidente, e che la mente è unita al corpo realmente e sostanzialmente: non per situazione o disposizione, come affermate nel vostro ultimo scritto (questo è daccapo soggetto a biasimo e, a mio giudizio, non vero), bensì per vera unione, quale comunemente tutti riconoscono, benché nessuno spieghi quale essa sia e, quindi, non siate neppure voi tenuto a farlo. Potete tuttavia spiegarla, come ho fatto io nella Metafisica, in questo modo: percepiamo che la sensazione del dolore, e tutte le altre, non sono puri pensieri della mente distinta dal corpo, bensì confuse percezioni di essa che al corpo è realmente unita.121

Descartes accusa il proprio interlocutore di essere confuso, poco preciso e radicale. Lo invita a rispondere all’appendice ai Corollari teologico-filosofici che Voetius gli ha consacrato, anche perché crede che, di rimando, colpisca anche lui. Il filosofo si augura che il proprio allievo voglia esporsi, sostenere i colpi e deviare in questo modo le frecce ormai scagliate che, altrimenti, finiranno per colpire lui. L’Appendice si presenta sotto forma di relazione in nove tesi. Innanzitutto, l’occasione è ghiotta per mettere in piedi un festival delle categorie scolastiche: cause prime e cause seconde, sostanza e attributo, forma informante e forma assistente, essenza, eidos, entelechia – non ci viene risparmiato nulla. Il processo contro i cartesiani sembra qui trasformarsi in una specie di battaglia degli Antichi contro i Moderni, combattuta tra chi chiede ai libri, e più in particolare alle Scritture e ai testi dei Padri della Chiesa, di raccontare il mondo e chi si richiama invece all’esperienza per cercare di afferrarne la natura. La questione di Voetius è la seguente: i propositi dei moderni sono compatibili con quello che insegnano le Scritture? Perché, e qui apprezziamo il rigore epistemologico della dimostrazione, «il vero si accorda al vero»!122 Per Voetius, le forme sostanziali attualizzano il corpo umano e formano

assieme a lui un unico composto; per Regius, invece, e dietro Regius dobbiamo leggere Descartes, l’uomo è composto da una sostanza estesa, il corpo, e da una sostanza pensante, l’anima, e queste due sostanze sono collegate tra loro dalla ghiandola pineale, la cui funzione intermediaria è comprovata dal fatto di essere l’unico organo non duplice del cervello – un bell’ostacolo epistemologico per la conoscenza scientifica, detto per inciso… Comunque, Voetius scrive: «L’uomo costituisce un’unica specie di sostanza e di animale, essendo creato a partire da un’anima e da un corpo, in modo da formare una sola essenza o natura» (Settima Tesi).123 Seguono citazioni dalla Genesi e dalla prima lettera ai Corinzi. Per l’autore del Discorso sul metodo, l’uomo è «uno» per accidente, mentre per Voetius lo è per essenza, per natura, per creazione e quindi per definizione – è questa la punta di diamante della sua Ottava Tesi. Eccola, la posta in gioco! Ed è una posta in gioco importantissima, perché è tutto il seguito dell’avventura filosofica occidentale che ci si sta giocando qui. Voetius può certo scrivere che, se si cancella l’essenza del cane, la materia di cui è composto non smette per questo motivo di essere, perché è la sua forma a costituire il suo essere, e la sua forma non può né nascere né perire, e senza di essa diventerebbe un non-essere (Terza Tesi). Descartes sta, però, già su un altro pianeta, e la sua preoccupazione non riguarda nemmeno più l’essenza o l’essere del cane, quanto il modo per portarlo su una tavola di legno e condurre a buon fine la vivisezione, che è l’unica cosa che gli può parlare dell’essere del cane. Lottare contro le forme sostanziali significa aprire la porta alla materia delle cose e del mondo, cioè al carattere tangibile del reale. E significa inoltrarsi su una strada in cui l’anima finisce anche lei per diventare materiale: in fondo a questo percorso, la sostanza pensante diventa una sola e unica sostanza estesa, e la ghiandola pineale si trasforma semplicemente nell’epifisi. Regius ci mette poco a passare il Rubicone, e se lo fa è ovviamente contro lo stesso Descartes, che continua a lavorare sotto lo sguardo non del Dio dei filosofi, ma del Dio di Abramo e di Giacobbe. Può benissimo continuare a rovistare nel ventre di una scrofa gravida, ma continuerà a non trovarci niente che possa dispiacere al Dio del suo re e della sua nutrice. È probabile che, se, per caso, il suo bisturi scoprisse un giorno un qualche organo incompatibile con la serie delle finzioni cattoliche, di sicuro non direbbe nulla della scoperta, per la propria tranquillità. Non si sbaglia, Voetius, quando scrive: «Se i giovani, con tutta la loro imprudenza, si ostineranno a voler sbagliare strada e seguire questo cattivo e vizioso pifferaio nel sovvertire e deridere tutta la filosofia sana e modesta, il risultato sarà certamente che finiranno come animali o come atei» (Quarta Tesi) 124. Dietro questi «giovani» che si sbagliano di strada ci sono naturalmente proprio gli studenti di Regius, e, menzionando il «cattivo e vizioso pifferaio», si

allude con ogni evidenza a Regius stesso, senza peraltro cancellare il sospetto che l’epiteto possa riferirsi anche a Descartes; infine, «la filosofia sana e modesta» qui citata non può essere altro che la scolastica medievale – la quale, in questa occasione, sembra comunque perdere un pochino della sua tradizionale stabilità, dopo mille anni di servizio… Nella sua perorazione, Voetius scrive: Ecco, a mo’ di supplemento, alcune note sull’invenzione, sulla costituzione e sull’accrescimento delle scienze. a) Il fatto di non voler beneficiare delle cose già inventate e costituite, e, al loro posto, di volerle inventare di nuovo o di cercarne delle altre, porta solo a moltiplicare gli esseri senza necessità e a fare ingiuria al proprio intelletto e alla scienza. Perché l’arte è lunga, la vita breve e l’esperienza ingannevole. b) Nei corsi all’Accademia, gli studenti non si occupano dell’osservazione e delle esperienze, ma sono affascinati soprattutto dalle novità. Come Aristotele, preferirei uno studente istruito ma che non ha fatto mai esperienza a uno studente che tale esperienza l’ha fatta, ma non sia istruito. Invero, se l’esperienza potesse essere aggiunta come supplemento alla dottrina, che è la cosa principale (come succede da noi), giudicherei questa Accademia come un luogo dove si riunisce tutto ciò che è meglio. Ingannevole e inutile è quel metodo che, volendo inventare e costituire le scienze, porta, al contrario, a disimparare, dimenticare, ricusare e, per così dire, sconfessare tutti i dogmi che da tanti secoli sono stati esaminati e comprovati dal coro universale degli scienziati attraverso esperienze nuove e ripetute e scambi acutissimi di argomentazioni. E tutto nella speranza di trovare da soli (o nella speranza che altri troveranno) una filosofia nuova e migliore (Nona Tesi).125

In cauda venenum. Descartes invita Regius a rispondere pubblicamente per evitare di passare per sconfitto in questa disputa. Gli consiglia però di essere moderato e modesto: non bisogna correre il rischio di ferire chi l’ha ferito. Allo stesso tempo, però, lo sprona a essere saldo e definitivo sul piano della teoria e a scegliere argomentazioni a cui nessuno potrà controbattere. E, siccome chi fa da sé fa per tre, annuncia: «Presento qui immediatamente il contenuto della risposta, quale io redigerei se fossi al vostro posto; scriverò in parte in francese ed in parte in latino, a seconda di come più in fretta mi verranno le parole. Forse se scrivessi soltanto in latino, voi non vi preoccupereste di cambiare le mie parole e sarebbe attribuito a voi uno stile troppo incolto».126 Questo «più o meno» viene argomentato su quasi una decina di pagine… Il testo scritto da Descartes si rivela essere un modello di servilismo, piaggeria e ipocrisia, e trasuda prudenza e circonlocuzioni da ogni poro. In pratica, bisogna difendere le forme sostanziali, e però, allo stesso tempo, sostenere che le si rispetta senza che di esse ci sia un vero e proprio bisogno, e sapendo che persino le Scritture le ignorano. Regius fa notare che rispondere all’attacco gli

costerebbe il posto all’università; Descartes si dice consapevole di questa obiezione: Regius deve in effetti la propria cattedra a Voetius e si trova quindi nell’obbligo di insegnare quello che vuole il suo padrone – è una maniera neanche troppo dissimulata di sbarazzarsi del proprio imbarazzante discepolo per trasformarlo in un turiferario della persona stessa che lo attacca. Più tardi, nel luglio del 1645, Descartes gli scrive a proposito dei suoi Fundamenta physices (Fondamenti della fisica): Ma giunto al capitolo sull’uomo, vi ho trovato quel che pensate della mente umana e di Dio, e non solo sono stato confermato nel primo convincimento, ma sono rammaricato di aver trasecolato, sia perché sembrate credere tali cose, sia perché non potete astenervi dallo scriverle e dall’insegnarle, benché non possano procurarvi nessuna lode bensì sommi pericoli e vituperio. […] Se questi scritti cadono nelle mani dei malevoli (come facilmente avverrà, atteso che sono posseduti da alcuni vostri discepoli), in base ad essi costoro potranno provare, e persino, me giudice, dimostrare che fate il paio con Voetius, ecc. Inoltre, per non patire le conseguenze, sarò costretto a dichiarare dappertutto di dissentire da voi quant’altri mai sulle cose metafisiche, ed anche a testimoniarlo in pubblico per qualche scritto edito.127

La cosa verrà fatta due anni più tardi, nella prefazione alla traduzione francese dei propri Principi della filosofia. In quelle righe, in pratica, Descartes abbandona Regius a sé stesso, arrivando a sostenere che se mai era stato un suo allievo, ora non lo è di certo più. Regius è colpevole, horresco referens, di non aver fondato la propria fisica su principi metafisici, in altre parole, di non avere lasciato nessun appiglio ai poteri costituiti – «sono obbligato a sconfessarlo interamente»…128 Insomma, il cartesianesimo è una filosofia rivoluzionaria, ma indipendentemente dalla volontà di Descartes! È così che, basando l’eucaristia su principi di metafisica che fondano la sua stessa fisica, a furia di superficie del pane e di superficie dell’aria, a furia di aria che circonda il pane, di pane che non si modifica e di superficie media tra il pane e l’aria, a furia di corpi che durano, di corpi che cambiano, di corpi tagliati e di corpi integri, a furia di «corp[i] di Gesù Cristo che si metto[no] al posto del pane e che occupa[no] lo spazio dell’aria che circonda il pane», a furia di particelle di pane e di vino che vengono digerite nello stomaco e poi passano nelle vene, il filosofo arriva a elaborare una specie di transustanziazione naturale; non senza aggiungere un pizzico di concilio di Trento e una citazione dei propri lavori; insomma, grande impegno a «evitare le calunnie degli eretici». Al gesuita padre Mesland vuole spiegare per bene quanto si trovi in accordo con la teoria cattolica della transustanziazione, ma stando anche bene attento ad aggiungere: «Ma ciò a condizione che, se lo doveste comunicare ad altri, lo facciate, se non vi dispiace, senza attribuirmene la paternità, e che anzi non lo comunicherete a nessuno se

riterrete che non sia del tutto conforme a quel che è stato stabilito dalla Chiesa». 129 In queste righe, c’è tutto Descartes. Aggiunge: «Ora, questa transustanziazione avviene non miracolosamente»130 – ma di certo non senza un miracolo di sofistica e retorica… Il potenziale rivoluzionario del cartesianesimo non viene da Descartes, ma da chi, come Regius, si spinge oltre i pudori teorici e i timori patologici. Per rendersene conto, basta leggere la Philosophia naturalis di Regius, un’opera che, già dal 1687 (Descartes è morto da ormai trentasette anni) abbandona la carcassa della scolastica in cui Descartes si trova ancora costretto. La Philosophia naturalis enuclea un certo numero di tesi, tra cui questa: «I sensi, non il cogito ergo sum, sono i principi di ogni conoscenza». Il che significa propriamente riportare i fondamenti dell’edificio cartesiano sulla Terra, preferendo una filiazione dal contemporaneo Francis Bacon che fonda quello che in seguito diventerà il sensualismo filosofico. La verità non è una questione che riguarda la metafisica o l’ontologia, ma la fisica e la sperimentazione. Descartes continuava a voler tenere assieme due mondi, quello antico che si fondava su Dio e quello moderno costruito sul soggetto; i suoi discepoli abbandonano il mondo vecchio e scelgono risolutamente quello moderno. Tra le altre tesi di Regius, troviamo: che l’estensione e il pensiero non sono cose opposte; che lo spirito può essere una modalità del corpo; che lo spirito non può essere concepito come necessariamente e realmente distinto dal corpo; che lo spirito dell’uomo è una sostanza; che l’anima ha bisogno degli organi del corpo per tutto il tempo in cui si trova unita a quest’ultimo; che l’anima si trova nel cervello e se ne serve; che, appena nati, l’anima è come un pezzo di cera pronta da modellare; che le idee innate non esistono perché sono tutte formate dall’osservazione; che il pensiero procede dalle sensazioni, le quali costituiscono il principio di ogni conoscenza; che questa conoscenza ha bisogno di un cervello in cui possano essere memorizzate un certo numero di cose necessarie al pensiero stesso; che non esiste alcuna idea di Dio che Dio ci abbia instillato dentro, perché le idee in quanto tali ci arrivano per il tramite dell’osservazione. Siamo costretti a prendere atto che la scolastica non è più tanto necessaria, che la prudenza non è più tanto d’obbligo e che i compromessi filosofici non hanno o non hanno più alcun motivo di esistere.

Capitolo sesto

Pensare senza pensare che si pensa Umanizzare l’animale

C’è una frase della Philosophia naturalis che apre un nuovo mondo nella storia delle idee: «L’animale, o è un bestia o è un uomo». Se gli animali hanno un’anima, significa che non c’è più niente che li distingue davvero dagli uomini. Un animale-macchina ha ormai soltanto bisogno di un’anima per essere un uomo. L’automa pone domande tanto all’animale che all’uomo. In Regius, «l’uomo è un animale composto da un corpo e da un’anima», e non più, come in Descartes, un «essere che pensa». Quando anche l’anima sarà diventata corporea, allora non ci sarà davvero più niente a tenere separato l’uomo dalla scimmia. In virtù del principio che un aneddoto rivela spesso l’essenziale, facciamo anche noi un bel fischio alla cagna di padre Nicolas de Malebranche, oratoriano, venerabile autore de La ricerca della verità: ci porteremo a casa una lezione di filosofia, come ai bei tempi di Diogene il cinico. La lezione ci arriva tramite Trublet, che, nelle sue Mémoires pour servir à l’histoire de la vie et des ouvrages de M. de Fontenelle [Memorie per la storia della vita e delle opere del signore di Fontenelle], pubblicate nel 1759, ci riporta questa storiella: Il signore di Fontenelle raccontava che, essendo un giorno andato […] a trovare [Malebranche] dai padri oratoriani che stavano in rue Saint-Honoré, a un certo punto, una grossa cagna che viveva in quella casa e che era gravida, entrò nella stanza dove stava passeggiando, e venne ad accarezzare padre Malebranche, facendo tutta una serie di moine ai suoi piedi. Dopo alcuni movimenti inutili per cacciarla, il filosofo finì per darle una pedata, facendo strillare lei per il dolore, e il signore di Fontenelle per la compassione. «Eh, ma come! gli risponde freddo padre Malebranche, non lo sa che non sente niente?» «Questo racconto, dissi io al signor di Fontenelle la prima volta che glielo sentii narrare, dipinge in maniera assai precisa padre Malebranche e il suo intrepido cartesianesimo; ma, aggiunsi io come per una battuta, dipinge allo stesso tempo anche lei, e prova la sua naturale tendenza alla bontà. È per me fonte di edificazione vedere la pena che avete provato per la pedata inflitta a quella povera cagna: e come da quel grido di dolore lei abbia ragionevolmente concluso che quell’animale sentiva, allo stesso modo io concludo dal suo grido di compassione che anche lei sente. Si dica quel che si vuole: le bestie hanno un’anima, e anche lei ha un’anima. I fatti lo dimostrano». Al signore di Fontenelle piacque moltissimo questa battuta e ne rise parecchio.131

Ma una risata è tutto quello che ne possiamo tirare fuori? La questione dell’anima degli animali è stata centrale nel Seicento, il secolo di Descartes; e torna ad esserlo oggi per via delle domande che pone all’uomo sulla propria natura, in tempi in cui la sua stessa definizione tende a vacillare. L’animale offre uno specchio in cui gli uomini possono vedere riflesso il proprio volto e interrogare i propri tratti, cercando di rispondere alla domanda: «Che specie di animale sono io?», oppure: «Che genere di uomo è l’animale?», e allargando a: «Che cos’è l’uomo?», e: «Che genere di animale è?» Ricordiamoci di come, nella seconda delle sue Meditazioni, Descartes si domanda se gli uomini che vede per strada non siano delle macchine, dei congegni su cui sarebbero stati semplicemente messi dei cappelli! Ora possiamo cercare di immaginarci come, di fronte agli automi, il filosofo possa rovesciare il proprio dubbio, o quantomeno prolungarlo, e chiedersi se, dentro tutte queste macchine con i vari ingranaggi bene in vista, non esista qualcosa che possa essere definito anima! Nel ragionamento di quella Meditazione, il problema viene risolto: «Ma che cosa sono, allora? Una cosa pensante. Ma che cosa è ciò? È una cosa che dubita, intende, afferma, nega, vuole, non vuole, immagina, inoltre, e sente».132 Qualcuno pronto a questionare (e di questi non ne sono mancati e certo non ne mancheranno mai), potrebbe ribattere che anche gli animali sono capaci di pensare, dubitare, concepire, affermare, negare, volere e non volere, immaginare e sentire! Una cosa che, almeno al momento, gli automi non sanno fare… Tesi già sostenuta da Montaigne, ricordiamoci l’Apologia di Raymond Sebond. Per Descartes, l’uomo è composto da un’anima e da un corpo, separati ma uniti nella e dalla ghiandola pineale, e ha a propria disposizione il linguaggio, la ragione, l’intelletto e la libertà. L’animale, invece, è un corpo senz’anima, una sostanza estesa priva di sostanza pensante, senza pensieri, che reagisce solo istintivamente e dietro stimoli, totalmente determinata. In ultimo, l’automa è un puro meccanismo privo dell’elemento vivente. L’uomo è più vicino a Dio degli animali, però gli automi sono per principio esclusi da questa competizione ontologica. In una lettera a William Cavendish, marchese di Newcastle, Descartes assimila gli animali a delle macchine: Agiscono naturalmente o meccanicamente, come un orologio, il quale indica l’ora molto meglio di quanto non ce lo insegni il nostro giudizio. E forse quando le rondini arrivano in primavera agiscono come un orologio. Tutto quello che fanno le api è della stessa natura, così anche l’ordine che le gru tengono in volo, e quello che osservano le scimmie quando si battono, se è poi vero che

ne osservano uno; e infine l’istinto di seppellire i loro morti non è più strano di quello dei cani e dei gatti, che grattano la terra per seppellire i loro escrementi, benché non li seppelliscano quasi mai: il che mostra che lo fanno solo per istinto, senza pensarci.133

Chi potrebbe allora formalizzarsi per un calcio dato a una pendola quando suona per darci l’ora? Quindi, se Malebranche si può permettere di riempire di lividi i fianchi della sua cagna incinta, è perché la letteratura di Descartes lo autorizza a farlo! E non può essere considerato moralmente responsabile per il fatto di maltrattare gli animali, non più di quanto lo sarebbe se distruggesse a scarpate un negozio di orologi della Franca Contea! Gli attacchi contro Descartes vanno quindi a tutto vantaggio degli animali. Montaigne, che, un secolo prima, si era spinto molto oltre Descartes, trova post mortem in questa querelle sull’anima degli animali alcuni inaspettati discepoli. Per esempio, nel salotto del duca di Liancourt, a rue de Seine, le discussioni sull’argomento sono vivaci. La filosofia e la teologia sono all’ordine del giorno, e si discute di Bacon, di Descartes e di Gassendi. Si battaglia attorno agli averroisti, ai libertini e ai materialisti. Si racconta che il padrone di casa, giansenista, riceva a volte addirittura La Fontaine e Bossuet. E Clerselier, l’editore nonché traduttore di Descartes. Di questo libertino passato al campo dei devoti, gira una storiella edificante sull’argomento che qui ci preoccupa. Arnauld, il grande personaggio di Port-Royal, «si era convinto del sistema di Descartes sugli animali, e sosteneva che essi fossero solo degli orologi e che, quando si lamentavano, erano solo una rotella dell’ingranaggio che faceva un po’ di rumore. Il signore di Liancourt, gli diceva: ‘Guardi, là ci sono due cani che girano lo spiedo, alternandosi nei giorni. Una volta, uno dei due si è trovato indisposto e quando lo vanno a prendere si nasconde. Cercano allora l’altro per fargli girare la ruota al suo posto. Il compagno si mette allora a fare un sacco di versi e a muovere la coda perché lo seguissero: e se ne va a stanare l’altro che se ne sta nascosto in granaio, e lo rimprovera. Secondo lei, sono degli orologi, questi?’ Il signor Arnauld trovò l’aneddoto molto divertente e non poté fare altro che riderne».134 Il che, trattandosi dell’austero autore della Logica di Port-Royal, era già di per sé un’impresa… Il normanno Fontenelle, che era presente alla famosa scena della pedata data dall’oratoriano Malebranche, quando se ne ricorda, in una lettera inviata al signor C., cartesiano, e ripresa nelle sue Lettere galanti, la racconta anche lui in toni ironici: «Dite voi, che le bestie sono macchine né più, né meno come gli

orologi? Ma mettete una macchina d’un cane, ed una d’una cagna l’una appresso l’altra, e ne potrà risultare una terza piccola macchinetta: all’incontro due orologi staranno l’uno appresso l’altro tutta la lor vita senza produr giammai un terzo orologio. Ora noi, la signora di B… ed io, troviamo che tutte le cose, le quali essendo due, hanno virtù di farsi tre, sono assai più nobili della pura macchina». 135

I cani che girano lo spiedo per arrostire la carne e gli orologi che vivono uno accanto all’altro senza procreare avrebbero potuto forse suggerire qualche idea a Jean de La Fontaine, il quale, comunque, di sue ne aveva già abbastanza. Anche lui, sovrintendente non zelantissimo alle acque e alle foreste, quando è in abiti civili, prende parte alla querelle e, ovviamente, si schiera contro il filosofo degli animali-macchine. Come avrebbe potuto essere altrimenti? Nel Sermone alla signora de La Sablière che apre il decimo libro della sua seconda raccolta di Favole, il poeta scrive: Non vi spiaccia se anch’io, dietro l’esempio, vado meschiando alle innocenti fiabe un rigo di sottil filosofia oggi di moda, molto ardita e piena di una nuova attrattiva. O forse un suono ne venne al vostro orecchio? È la profonda dottrina che a una macchina riduce la vita umana e che d’arbitrio sfronda e di giudizio gli uomini, e non lascia che un corpo vuoto senza affetto e cuore. Tal sen vive e con passo egual, ma cieco, e senza scopo l’oriol cammina, di ruota in ruota, fin che squilla l’ora come vuole il congegno. A ciò la Scienza lo spirito del mondo oggi riduce. E come l’oriol, dicono i saggi, l’animal si commuove e va diritto ove lo spinge l’impression del senso, non per libero arbitrio, ohibò, ma tratto dalla necessità dura e impassibile, che senza voglia pei diversi stati dell’amor lo trascina e dell’affanno, della tristezza, del piacer, dei forti dolori e per le varie altre vicende, che affetti chiama la volgar sentenza. Ma voi, gentil, fra l’oriolo e il vostro cuore assai ben distinguere sapete, e non vi allaccia dei moderni sofi la facile dottrina. A noi maestro è il divino Cartesio, a cui gli antichi siccome a Nume avrian sacrata un’ara; Cartesio, che fra gli uomini e i celesti

siede nel mezzo, come stanno in mezzo tra gli uomini e gli allocchi altri sublimi e grossi ingegni. A voi così ragiona quest’alto mio maestro e mio autore…136

Eccellente riassunto della filosofia di René Descartes, eccellente e ironico: Descartes, descritto come a metà tra un’ostrica e un uomo, con relativa simpatia… Poi però si passa alla critica. Ai ragionamenti del filosofo, il favolista oppone il comportamento di un cervo che, inseguito e messo alle strette, realizza la situazione di pericolo per la propria vita e s’inventa uno stratagemma riuscendo a sfuggire alla morte: se proprio non possiamo chiamare questo sforzo una vera e propria pratica della filosofia, di sicuro potrà essere paragonato all’atto del pensare. La Fontaine aggiunge poi l’esempio di una pernice che, vedendo i piccoli in pericolo a causa di un cacciatore, riesce in qualche modo a distogliere l’attenzione di quest’ultimo; messi al sicuro gli uccellini, vola sotto il naso dell’uomo e lo umilia. Un altro esempio è quello dei castori che, nel Grande Nord dove gli uomini vivono ancora in maniera primitiva (come recenti racconti di viaggio testimoniano), rivelano un talento da impareggiabili ingegneri costruendo ponti che gli consentono di passare i torrenti in tutta scioltezza. E infine, cita quegli animali che, come gli fece sapere il re di Polonia (sorridiamo su questa punta ironica aggiunta a convalida della veridicità di tutta la storia: «un re non mente mai»), si fanno la guerra alla frontiera con una maestria da far impallidire gli uomini! È qual è la lezione di questa favola? Si tratta di una lezione propriamente filosofica: gli uomini hanno un’anima, gli animali non ce l’hanno, però in compenso dispongono di un istinto che, a sua volta, presuppone una memoria materiale, «la memoria [che] al corpo si collega»,137 come scrive La Fontaine. L’uomo dispone di una «Volontà».138 Un agente («lo Spirito che regge»)139 lo guida: «un poter dal corpo mio distinto»,140 un «comando arbitro e duce»141 che guida la macchina. Dio pilota tutto quanto, però non sappiamo come! La «fiaba» di cui parla il Sermone che apre il decimo libro delle Favole è intitolata I due Topi, la Volpe e l’Uovo. Si tratta ancora una volta di un esempio d’intelligenza animale e illustra la tesi indicata nella dedica: due topi trovano un uovo per la loro cena, solo che a quest’uovo sembra puntare anche una volpe. Allora «Che fanno i Topi?»142 Uno si mette sulla schiena e si carica l’uovo sulla pancia, l’altro lo tira per la coda fino a portare il cibo fuori dalla portata della volpe. «Or voi ditemi adesso / che queste bestie spirito non hanno».143 Per La Fontaine, i topi dimostrano di possedere le stesse capacità di un bambino,

un’idea propriamente rivoluzionaria perché inserisce il neonato su un percorso che dall’animale porta all’uomo. E questa dinamica è quella che, nell’Ottocento, sarà propria di gente del calibro di Ernst Haeckel, che penserà di ricapitolare tutta la filogenesi nell’ontogenesi. Gli animali possiedono una ragione che, pur non essendo la nostra, sembra essere qualcosa di più di una «cieca molla». Con un solo verso («non vediam che pensano e non sanno pur di pensar?»)144 La Fontaine, che non ha mai nascosto di preferire il lupo al cane, regola i conti con Descartes, il filosofo del cogito, il filosofo per cui solo l’uomo pensa e sa di pensare: la verità è che possiamo, dice il favolista, pensare senza sapere di pensare che stiamo pensando. La favola dei due topi, la cui trama riprende quella delle marmotte della Storia naturale di Plinio, ne dà la prova e la dimostrazione. E, sotto il segno del condizionale, La Fontaine ricorre anche lui alla creazione di un automa: Per me, distillerei qualche sottile sostanza, assai difficile, Signora, a concepirsi dalla mente umana, un’essenza di mònadi, un estratto di luce pura, un non so che più vivo, più rapido del foco. Se dal tronco nasce la fiamma, e non potrìa la fiamma chiarificata ancor dare un’idea dell’anima immortal? E non si vede splender l’or tra le viscere del piombo? Con questa essenza io renderei la bestia atta molto a sentir e un poco ancora a giudicar, ma non di più, né sempre questo giudizio in lei, come dimostra la più dotta bertuccia, è a fil di piombo. All’Uomo, all’Uomo solo io la potente forza darei che da ragion deriva, due volte assai preziosa ove la guardi sotto duplice aspetto. Èvvi nell’Uomo un’anima comune a tutti quanti sian pazzi o savi, sian fanciulli o vecchi, tutti animali graziosi e benigni che con tal nome son ospiti in terra. Ed èvvi una seconda anima santa nata a crear l’angelica farfalla, un divino tesor che Dio dispensa con parsimonia e che ci porta in cielo tra le sfere rotanti. Entra e si snoda senz’angustie quest’anima nei corpi, e per quanto principio abbia nel tempo, eterna vive, e non mi sembra assurdo. Fin che questa del ciel candida figlia

danza nel corpo tenerello, è lume che poco spande di sua luce intorno; ma quando è la ragion forte al giudizio, entra questo divin raggio di mente per l’universo e la materia penetra, che sempre involgerà l’altra più rude anima sensual serva a natura.145

Insomma, lo scrittore di favole mette in piedi, attraverso questa finzione, una storia demiurgica da cui esce un animale umanizzato e un uomo angelizzato, se mi si passa il neologismo. Opera una specie di traslazione della relazione animali-uomini su un altro paradigma, ontologicamente innovatore, quello degli uomini-angeli. L’anima è qui «quintessenza di atomi», in altre parole, chiaramente, materia. Non c’è niente di male a percepire l’influenza di Pierre Gassendi, che, con opere come Vita e costumi di Epicuro e il Traité de la philosophie d’Épicure [Trattato della filosofia di Epicuro] (1658), contribuisce a riabilitare Epicuro e l’epicureismo in pieno Grand Siècle, quando ad andare per la maggiore e a spartirsi il mercato delle idee cristiane ci sono giansenisti, gesuiti, quietisti e altri mistici sulla scorta di Pascal. Su Gassendi, torneremo, perché si trova filosoficamente al punto di svolta tra l’idealismo cristiano (è pur sempre un canonico di Digne) e il materialismo francese del secolo dei Lumi. Continuando a non preoccuparsi delle cagne incinte prese a ciabattate dai parroci, o dei cani che discorrono amabilmente vicino a delle specie di barbecue, o dei topi che snobbano le volpi, o dei cervi e delle pernici che si fanno beffe dei cacciatori, o dei castori che dimostrano tutto il loro valore come architetti, o di vari altri animali che battagliano come persone umane, il rischio è di costruire un’opera filosofica poco divertente, o almeno di farlo in maniera poco divertente. Per esempio, il padre gesuita Ignace Gaston Pardies, con il suo trattato intitolato Dell’anima delle bestie, e sue funzioni (1672), difende, nell’ambito della scolastica, l’idea che gli animali abbiano una «cognizione sensibile» e siano invece privi di «cognizione spirituale».146 Possiedono «un’anima materiale, capace di cognizione, e sentimento»147 che si trova a metà tra la materia pura e il pensiero, in altre parole tra la sostanza estesa e la sostanza pensante. Pardies rifiuta l’idea che gli animali siano solo delle macchine, o degli orologi, per riprendere il famoso paragone di Descartes. Contro i cartesiani, dopo averne esposto gli assunti, scrive:

Qualsivoglia inquietudine, che osserviamo in un Cane, che ha perduto il Padrone, e qualunque allegrezza, ch’egli faccia apparire, dopo averlo trovato, egli non di meno non ha né contento, né dispiacere, e non conosce pure il suo padrone, ha gli occhi, e non lo vede, obbedisce la sua voce, e non la ode, di modo che al veder tutti questi suoi moti, queste sue andate, e venute sì inquiete, i salti, le carezze, con cui pare, che spiegar voglia la sua allegrezza, non perciò potiamo loro attribuire maggior passione, o sentimento di quello facciamo a un ago calamitato, quando pare, che con ansietà ei vada cercando il suo polo, e trovi il suo contento in esso. Di più dicono, che quando un Cane è ferito, ei non sente dolore, e per quanto miserabili gridi egli faccia, non sono questi, che un rumore fatto naturalmente dalla macchina del suo corpo, che non dà argomento di senso, o dolore, più di quello faccia il rumore d’un Tamburo, o d’una Carretta mal unta, onde male a proposito sono accusati di crudeltà quei, che amazzano le Bestie. Ma per vero dire, egli è bensì un gran danno a guastar macchine sì meravigliose; ma finalmente non v’è in ciò fare maggior crudeltà di quella fusse a stracciare una pittura di Raffaele, o a mandare in pezzi spietatamente qualche altro bel lavoro, o anticaglia. Così quando dopo haver battuta una Bestia, ella si rivolta, e ci morde, onde noi pensiamo, che ella faccia per colera, o per vendetta ciò, come erano que’ buoni Popoli di Gnido, che volendo forare il loro istmo, e mettendosi già co’ picconi all’opera per rompere a gran colpi il masso, o sia la rupe, che separava i due mari, si fermarono ben tosto, vedendo che i rottami del sasso gli saltavano al viso, e fermamente credendo, che dispiacesse a quel monte la loro risoluzione, onde cercasse di cavar loro gli occhi per vendetta, ricorsero all’Oracolo per sapere il modo d’haver la pace da quella pietra, la quale certamente nulla contra di loro machinava [corsivo mio].148

Un effetto da pensiero magico, diremmo oggi… Ci stupiamo del fatto che qualcuno come Descartes, qualcuno cioè che riteneva che «Il buon senso è al mondo la cosa meglio distribuita»,149 tenesse in così bassa considerazione tutta la questione dell’anima degli animali. Almeno Pardies, pur essendo un membro della compagnia di Gesù, e pur essendo allo stesso tempo anche un aristotelico, sembra riuscire ad attivare il buon senso e pensare il reale per come si presenta, senza dissertare su categorie o su concetti, solo su quello che vede: un cane è triste perché il suo padrone è lontano, poi lo ritrova e si rasserena in letizia. In cose di questo genere, un cane che scalpita ottiene più effetto di qualsiasi dimostrazione filosofeggiante. In compenso, Pardies è contento di vedere come altri filosofi riconoscano agli animali, alle piante e anche alle pietre un’attività propria. Perché, a noi uomini, capita di fare cose senza pensarci, per esempio quando digeriamo quello che mangiamo, oppure quando respiriamo, oppure ancora quando il sangue circola nel nostro corpo. Stessa cosa con i riflessi, quando tiriamo via la mano da una piastra che scotta, o quando chiudiamo gli occhi davanti a un oggetto che minaccia di entrarci dentro, o quando compiamo un movimento del corpo per compensare il disequilibrio. Sono tutti comportamenti che non hanno niente a che fare con la conoscenza o con la volontà. Perché allora dovrebbe essere necessario, o dovremmo semplicemente volere, che gli animali siano mossi dalla

conoscenza e dalla volontà? Del resto, basta pensare al fatto che parliamo. Per riuscire a parlare, dobbiamo controllare tutta una serie di movimenti fisiologici da fare con la lingua, con i denti, con il palato e con la bocca, e questi movimenti non richiedono nessun tipo di conoscenza o di volontà da parte nostra. Facciamo fatica a immaginarci un oratore che stia attento alla posizione della lingua nella propria bocca ogni volta che pronuncia una sillaba e che contemporaneamente pensi anche a quello che sta dicendo! Il gesuita si congratula per tutto l’insieme di cose che permette al suonatore di liuto di eseguire un brano in maniera corretta: l’incredibile numero di movimenti precisi che fa con le dita, con le mani e con il polso al momento opportuno e secondo una successione logica appropriata, è ciò che consente di arrivare a concatenare gli accordi. La stessa cosa vale per l’usignolo, di cui in primavera apprezziamo tutti il canto. La verità è che entrambi suonano senza pensare a quello che stanno suonando. Il concertista non riuscirebbe di sicuro a tenere un concerto continuando a pensare che sta tenendo un concerto, gli verrebbe male, sarebbe turbato da tutti questi pensieri parassiti. È, a questo punto, che Pardies tira in ballo la «cognizione virtuale»150 (un’espressione sconcertante per la sua attualità, soprattutto se a parlarne è un autore del Grand Siècle), ottenuta grazie a tutto il tempo passato a imparare la musica. Ovviamente, questa virtualità appartiene al vocabolario della scolastica aristotelica, e vuole semplicemente indicare il fatto che la conoscenza è in potenza prima di essere in atto. Nel musicista, la conoscenza virtuale nasce dalla lunga esperienza, dalla ripetizione della pratica, e dalla persistenza nell’apprendimento. Nulla vieta che lo stesso Dio possa essere comunque ritenuto responsabile anche delle «habituazioni infuse»;151 sembra una cosa assolutamente possibile per chi è in grado di far parlare agli apostoli delle lingue che non conoscono. A un Dio capace di tanto, non dovrebbe essere impraticabile la possibilità d’infondere un’anima anche agli animali. Quelle cose che gli ingegneri dell’Antichità realizzavano, per esempio la «Colomba artificiale, che volava per l’aria»,152 o la statua che cantava al sorgere del Sole, o l’automa del satiro che suona il flauto a una ninfa che ascolta con l’orecchio teso, o ancora quei piccoli uccelli che se ne stanno tranquilli finché non appare l’automa del granduca e li fa strepitare, Dio, ovviamente, saprebbe benissimo come ricrearle. Ma, tra la ricostruzione meccanica di un animale e l’animale vero e proprio, c’è una differenza fondamentale. Il presupposto è sicuramente che Dio ha tutte le capacità e tutte le possibilità di creare e riprodurre in maniera perfetta un cane, giusto per fare un esempio: pelle, pelo, ossa, carne, muscoli, sangue, vene, arterie, cuore, circolazione, spirito e calore. Fino a qui, però, nessun bisogno di anima o di altre

conoscenze ulteriori perché le varie funzioni della respirazione, della digestione, e della circolazione sanguigna possano espletarsi. Dio è assolutamente in grado di costruire una macchina in ogni punto simile all’animale che vuole copiare. La macchina da lui costruita, però, dovrà essere animata da un «principio vitale, & interiore»153 senza il quale i tubi e i mantici a nulla servono! Quando tagliamo in due alcuni animali, certi rettili o certi insetti per esempio, vediamo che le due metà continuano a esistere separatamente. Pardies confessa di aver lui stesso praticato questo genere di esperimenti di vivisezione – «né senza dilettazione», 154 confessa. E sono proprio questi esperimenti che lo portano a concludere che il vitalismo riguarda non solo gli uomini ma anche gli animali. Riflettiamo. Che cosa dobbiamo pensare dell’anima in un animale tagliato in due? Si trova in uno dei due pezzi? In entrambi? Di sicuro, non possiamo dire che non si trova da nessuna parte, perché il movimento testimonia del contrario, e anima in maniera simile i diversi tronconi. Si trova quindi da qualche altra parte, altrove rispetto a ciascuna delle parti tagliate, perché quello che muove queste parti è un riflesso e, come tale, non presuppone nessuna conoscenza, nessun sentimento, nessuna percezione. La stessa cosa, scrive il gesuita, succede negli uomini. Per esempio, è stata vista la testa tagliata dal corpo di un individuo, che girava lo sguardo, muoveva le labbra e mordeva la terra dov’era caduta, mostrando collera, dolore o rabbia. E in tutto questo tempo, il cuore continuava a battere. Pardies avalla queste storie, ma non quella del viaggiatore che racconta di aver visto in India un ragazzo che veniva sacrificato e che ha continuato a parlare anche con il petto aperto e il cuore strappato: «ciò che mi sembra un po’ difficile»,155 tiene a precisare… Eh no, non gliela si fa. Contro i libertini che, dopo aver lavorato a rendere sostanziale l’anima, si occupano ora della sua materializzazione, Pardies combatte il principio dell’«anima materiale».156 Anticipa le argomentazioni dei libertini e immagina che cosa potrebbe rispondergli: Se voi ammetterete una volta, che le Bestie senz’alcun’Anima spirituale siano capaci di pensare, d’operare per un fine, di ricordarsi il passato, di prevedere il futuro, di profittar dell’esperienza per la riflessione particolare, che elle vi fanno, perché non direte voi, che gli huomini sono capaci di esercitar le loro funzioni senz’alcun’Anima spirituale? Le operazioni degli huomini non sono già altro, che quelle stesse, che voi attribuite alle Bestie, o se pure v’è differenza, non è questa, che del più, e del meno, onde al più più voi potrete dire, che l’Anima dell’huomo è più perfetta di quella delle Bestie, perché egli si risovvien meglio del passato, pensa con più riflessione, prevede con più sicurezza; ma finalmente non potrete mai dire, che l’Anima loro non sia sempre materiale. 157

Notiamo come questo eminente membro della Compagnia di Gesù riesca a insinuarsi a meraviglia nel cervello e nell’anima di un libertino! È da cose come questa che si riconosce un perfetto gesuita. Che cosa risponde, dunque, al libertino che non gli sta domandando niente, se non per puro esercizio retorico? «Che le Bestie habbiano de’ veri pensieri, e sentimenti, come noi»158 e che Aristotele, che a questo punto comincia a essere citato abbondantemente, ci permette di risolvere il problema: al contrario degli animali, che dispongono solo di una cognizione sensibile e non di una cognizione spirituale, dato che manca loro l’anima spirituale conferita da Dio, l’uomo dispone proprio di questa cognizione intellettuale. Diciamolo in altri termini: solo l’uomo pensa Dio perché ha in sé qualcosa che gli permette di pensarlo; questa cosa che, nella sua parte più intima, gli permette di pensare a Dio gli viene in realtà proprio da Dio, ed è ciò che lo costituisce come uomo, e lo separa dall’animale. Il vitalismo del gesuita si oppone al meccanicismo di Descartes. La verità è che la finzione dell’animale-macchina cancella proprio ciò che non può ridursi a pura concatenazione di dispositivi macchinali. La somma dei pezzi che costituiscono un orologio non vale nulla senza la concatenazione messa in atto dal volere dell’orologiaio. Esiste nell’uomo, ma anche nell’animale e nelle piante, un «principio vitale»,159 per riprendere l’espressione di Pardies, che anima il tutto dell’essere e non potrebbe procedere dagli uomini, che sono incapaci di produrlo. Solo Dio è in grado di infondere un’anima alla macchina. Dio è colui che dà vita alla materia vivente della macchina. L’anima è l’anima della macchina, e senza Dio, o meglio, in termini aristotelici, senza la causa incausata, senza il primo motore immobile, nessun’anima è possibile. Questo «principio vitale», Pardies lo individua e lo delimita con prudenza grazie al vocabolario della propria professione. Se il totale vale più della somma delle sue parti, e se la somma degli organi di un essere non basta a costituire la materia vivente e la vitalità di quest’essere, che cos’è allora che infonde il proprio movimento al tutto? Risposta: «bisogna dir dunque, che oltre tutto questo vi sia un altro principio, che noi chiamiamo forma, e già che queste operazioni non superano la potenza corporale, non fa di mestieri dir, che questa forma sia un puro spirito, ma ch’ella può essere una forma materiale».160 E altrove: «per la stessa evidenza siamo sforzati a riconoscere altre cose, da noi chiamate Forme sostanziali, le quali non essendo né corpi, né modi, o accidenti de i corpi, siano nulladimeno qualche cosa di corporeo».161 Sì, abbiamo letto bene… Il gesuita non si lascia menare per il naso, ed è ovviamente ben consapevole della posta religiosa in gioco in tutto questo tentativo di risolvere il

problema. Non si deve dare una definizione dell’anima che permetta ai propri avversari di eliminarla semplicemente e definitivamente, perché questo significherebbe togliere tutta l’impalcatura ontologica del dispositivo cristiano della salvezza e della dannazione: «Dubitano alcuni, che quest’opinione, che nega le Anime ne gli Animali sia pericolosa, e favorisca l’empietà de’ cervelli troppo licenziosi, che negano l’immortalità dell’Anima nostra, perché dicon’eglino, se una volta si ammette, che tutte le operazioni delle Bestie possano farsi senz’Anima, e per la sola machina del corpo, arriveremo ben presto a far l’ultimo passo, e dire, che tutte le operazioni de gli huomini ponno farsi per una simile disposizione della machina del loro corpo».162 Padre Pardies non poteva sperare di dire meglio. Il passo fu compiuto probabilmente più in fretta di quanto non ci si sarebbe immaginato. E ad animare questa falcata filosofica che apre a un nuovo mondo è Pierre Gassendi. Per lui, la questione dell’anima degli animali non si risolve né con gli antichi, cioè con Aristotele in particolare, né con i moderni, Descartes ovviamente, ma nemmeno con Epicuro, un antico che si rivela eminentemente moderno. Non sono le forme sostanziali, non è la ghiandola pineale, ma sono gli atomi sottili, il «fiore degli atomi», ciò che permetterà di uscire da questa problematica che attraversa tutto il Seicento. I Lumi li comincia ad accendere un prete.

Capitolo settimo

Il fiore degli atomi Atomizzare l’anima

Se vogliamo dare credito a Diogene Laerzio e alle Vite e dottrine dei più celebri filosofi (X, 26), l’opera completa di Epicuro era costituita da più di trecento titoli. A noi, in verità, rimangono solo tre lettere, oltretutto sintetiche, destinate ad alcuni discepoli: una a Pitocle sull’astronomia, un’altra a Erodoto sulla fisica e la natura, e l’ultima a Meneceo sull’etica e la morale. Il pensiero di Epicuro, per come lo conosciamo, ha dunque come base testuale una manciata scarsa di foglietti, a fronte delle duemila pagine delle opere di Platone. Gli epicurei subiscono gli strali dei filosofi romani che, per ragioni di bassa politica politicante (Cesare era epicureo), s’inventano questa contrapposizione tra la scuola del Giardino e la scuola degli stoici, cioè il Portico; e tutto solo perché Epicuro considerava il piacere come il sommo bene. Cicerone, per esempio, assieme ad altri, una volta diventato nemico di Cesare, arriva a paragonare gli epicurei a dei maiali. Anche se personalmente si era limitato ad assimilare questo famoso piacere all’assenza di turbamenti e ad auspicare una sobrietà relativamente radicale (cose del tipo: spegnere la sete con un po’ d’acqua e smorzare la fame con un pezzo di pane, cose a suo avviso largamente sufficienti per raggiungere la felicità), contro Epicuro alcuni imbecilli hanno montato una congiura durata per più di un millennio, una congiura costruita sulla base di calunnie e di attacchi ad hominem, con l’unico scopo di macchiare la sua memoria e rendere impraticabile il suo pensiero. Abbiamo visto come i Padri della Chiesa abbiano attaccato con violenza l’uomo Epicuro, la sua opera e la sua dottrina, solo perché quel pensiero radicalmente materialista ostacolava le loro costruzioni finzionali: se esistono solo atomi che cadono nel vuoto e che, in virtù di una particolare declinazione denominata clinamen, si aggregano e fanno aggregare gli aggregati già aggregati fino a formare la materia del mondo e costituire la totalità di ciò che esiste, allora tutto è atomico. E se tutto è atomico, allora, che cosa possiamo davvero pensare del Dio dei monoteisti, creatore del mondo, onnipresente, onnipotente e onnisciente? Che

cosa possiamo davvero pensare del concepimento di Gesù senza genitori e da una madre vergine? O dell’anima eterna, immortale e immateriale? O della morte e della risurrezione che, tre giorni più tardi, permette al fortunato beneficiario di incassare la grossa vincita della vita eterna? E del mistero dell’eucaristia, a dar retta al quale, tutte le volte che un prete celebra messa, il corpo e il sangue di Cristo finiscono per ritrovarsi nell’ostia fatta di farina e nel calice di vino bianco? E della resurrezione della carne in forma di corpo glorioso? Tutte queste storie diventano ovviamente impossibili nel momento stesso in cui il reale si rivela essere esclusivamente costituito di atomi. Lanciamo quindi l’ipotesi che se le opere di Epicuro sono quasi tutte scomparse, è sicuramente perché i supporti vegetali su cui erano state vergate si sono dissolti con il tempo, ma anche perché la loro riproduzione su pergamena non è stata assicurata dai monaci copisti che consideravano come loro compito prioritario quello di non conservare le idee avverse all’ideologia dominante. Le tre lettere di Epicuro si sono salvate solo perché si trovavano inserite all’interno del libro di Diogene Laerzio, che bisognava comunque prima aver letto per poterle trovare! E lo sappiamo: da che mondo è mondo, i veri lettori, quelli mossi dal bisogno e dalla determinazione, quelli coscienziosi e pronti alla fatica, sono sempre stati una specie rara… È a Gassendi che dobbiamo l’encomiabile lavoro della riabilitazione di Epicuro e della sua opera. Il canonico di Digne fa entrare la lente atomica nell’ovile cristiano. Vie et mœurs d’Épicure [Vita e costumi di Epicuro] viene pubblicato nel 1647, e nel 1658, nell’edizione postuma delle sue opere, appare anche un Traité de la philosophie d’Épicure [Trattato sulla filosofia di Epicuro]. Si tratta di due opere in cui l’autore, per quanto cristiano, riabilita Epicuro in un momento storico in cui la parte del leone la fanno l’aristotelismo, lo stoicismo, il neoplatonismo, addirittura il pirronismo, ma di sicuro non l’epicureismo. Traduce anche il decimo libro delle Vite di Diogene Laerzio, cioè quello interamente dedicato a Epicuro, in cui si trovano le tre lettere sfuggite alla distruzione del tempo. Comunque, già nel 1624, in un testo giovanile scritto a trentun’anni e intitolato Dissertations en forme de paradoxes contre les aristotéliciens [Dissertazioni in forma di paradosso contro gli aristotelici], Gassendi attacca la filosofia scolastica in nome dell’epicureismo e annuncia una «filosofia morale» a venire in un ipotetico settimo libro che avrebbe dovuto avere come programma: «Il Sommo Bene si trova nella Voluttà: come la ricompensa delle Virtù e delle azioni umane deriva da questo principio». Il libro non viene portato a termine e

l’annuncio rimane così lettera morta. È chiaro che il canonico Gassendi non può accogliere tutto quello che ritrova nel filosofo materialista, perché, facendolo, metterebbe in pericolo buona parte delle idee su cui la sua stessa professione si fonda. Fin dalla dedica a François Luillier, un «libertino erudito» presentato come il suo migliore amico, il filosofo avverte che il proprio proposito sarà di riabilitare l’epicureismo «a condizione che se ne cancellino un piccolo numero di errori».163 Per reintegrare la persona e l’uomo nella loro dignità, Gassendi s’impegna a smontare le favole messe in circolazione su Epicuro al solo fine di macchiarne la reputazione. Lontano dall’immagine sulfurea del personaggio rozzo, ingordo, volgare, opportunista, ipocrita, calcolatore, effeminato, depravato, pederasta, pigro, tirchio, alcolizzato, simulatore, plagiatore, maldicente, ambizioso e vanitoso, cose che sono già tante per una sola persona, Gassendi traccia al contrario il ritratto di un Epicuro onesto, sobrio, frugale, casto, corretto, innocente, puro, morigerato, capace di manifestare intelligenza, senno, perspicacia, tolleranza e indulgenza. Il canonico studia la biografia del filosofo: genitori, contesto della nascita, infanzia, formazione, Giardino, salute, testamento, morte e discepoli. E in tutto questo materiale vede solo elementi per disegnare un bel ritratto. Gassendi analizza i motivi per cui si è andata costruendo la cattiva reputazione di Epicuro. E punta il dito contro gli stoici, che rivendicano il monopolio della saggezza. Zenone, Cleante e Crisippo lo calunniano, Diotimo lo stoico scrive un falso documento di cinquanta lettere licenziose. Persino Plutarco si dà alla contraffazione. Epitteto rincara la dose delle maldicenze e Cleomene scrive un discorso perfido e oltraggioso. Cicerone si butta sulla demagogia e Galeno è geloso del medico Asclepiade solo perché è un discepolo di Epicuro. La macchina per la distruzione funziona a pieno regime. Epicuro spera, con la sua filosofia, di consegnare degli esercizi spirituali di saggezza pratica al proprio ipotetico discepolo che potrà così «viv[ere] come un dio fra gli uomini»?164 Eccolo dunque accusato di scambiarsi per un dio e di organizzare, nel Giardino, il proprio culto. Per Gassendi, la controversia riguarda alcune questioni molto semplici: Epicuro non crede né alla Provvidenza né all’immortalità dell’anima, ed è, questo, un segnale di «apparenza di empietà»165 (sono io che sottolineo la scelta del termine «apparenza», con cui misuriamo tutta la potenza della sottigliezza). Dovendo scegliere tra fede cattolica ed epicureismo, evidentemente il canonico opta per la propria religione. Nel dibattito che oppone Ragione, Verità, Correttezza, Giustizia e Fede, è la fede a farla da padrone. Ma solo in caso di dissidio. Gassendi restituisce a Epicuro tutta la sua onorabilità e all’epicureismo tutta la

sua verità. Ovviamente, siamo d’accordo sul fatto che il filosofo greco non è stato toccato dalla grazia di Dio, del resto come avrebbe potuto, tre secoli prima dell’apparizione del famoso Gesù nel deserto mediorientale? Gassendi smussa gli angoli aggiungendo che, se Dio non gli ha accordato la grazia, la sua retta ragione lo ha comunque portato a una pietà naturale. Epicuro critica il paganesimo, le superstizioni, i sacrifici, i culti, i rituali per preparare, in un certo senso, la strada al «culto della vera divinità». Dobbiamo allora pensare che, solo per il fatto di annunciare l’avvento del cristianesimo, questo filosofo precristiano che non si è potuto fare discepolo di Cristo unicamente per delle ragioni di natura cronologica possa essere perdonato? In realtà, «essendo un uomo e in mancanza della stessa illuminazione di cui possiamo godere noi oggi, non è riuscito nel proprio intento».166 A Gassendi, rispondiamo semplicemente che un contemporaneo di Alessandro Magno e dei Diadochi deve aver sicuramente incontrato qualche difficoltà a immaginarsi di poter insegnare il pensiero di un dio che sarebbe apparso solo tre secoli più tardi! Sappiamo tutti quanti che Dio è onnipotente: è del resto proprio da questo fatto che lo riconosciamo. Però, mettere le cose in modo che gli uomini possano credere a qualcosa che non è ancora stato inventato si rivela una mossa molto superficiale dal punto di vista intellettuale, anche se non priva di una sua dose di prudenza, utilissima soprattutto in un secolo in cui i roghi venivano accesi con estrema facilità in onore dei filosofi più audaci. La cosa dovrebbe essere un ossimoro, ma ahimè non lo è così spesso. Aggiungiamo che l’intento di Epicuro non potrà ovviamente mai essere lo stesso di un pensatore cristiano, e che quindi, già solo per questo motivo, si può dire non avrà mai successo! Epicuro insegna che gli dèi esistono e sono composti, come tutto il resto, di atomi, atomi che però, nel loro caso, sono sottili, cioè di una natura specifica più fine, più eterea, più… immateriale. Gassendi se ne ricorderà quando si tratterà di affrontare la questione dell’anima. Questi dèi, che sono diversi e molteplici (Epicuro è a tutti gli effetti un politeista), vivono impassibili, inaccessibili e senza alcun tipo di preoccupazione materiale nei loro intermondi, ossia negli intervalli tra gli universi, perché sì, gli epicurei credono alla pluralità dei mondi. La natura sottile dei loro corpi fornisce il modello dell’atarassia, dell’assenza di turbamenti a cui punta la filosofia del Giardino. Essere simili a un dio fra gli uomini significa vivere nella serenità esistenziale che solo gli dèi sperimentano, una serenità che corrisponde al puro piacere di esistere. Nel suo Traité de la philosophie d’Épicure [Trattato sulla filosofia di Epicuro] (1658), Gassendi lascia la parola al filosofo greco. E non è un modo di dire, perché il canonico di Digne, scrive proprio che «è Epicuro che parla». Segue una

lunga arringa di una generosità e di un’onestà senza pari nella storia della filosofia. In quest’arringa, troviamo l’esposizione classica del pensiero epicureo, quindi non ci dilungheremo. Facciamo solo notare che la vita epicurea, una vita fatta di saggezza, temperanza, sobrietà, austerità, rigore, frugalità e amicizia, ricorda da molto vicino quelle che i monaci praticano nei loro monasteri! Gassendi espone la filosofia di Epicuro come se a parlare fosse quest’ultimo. Ogni tanto, però, non resiste a manifestare il proprio dissenso. La prima volta è quando Epicuro sostiene di rifiutare l’esistenza della Provvidenza, e il canonico non può evidentemente dirsi d’accordo. La seconda volta è quando Epicuro giustifica il suicidio di qualcuno che preferisce morire piuttosto che vivere in mezzo a troppo dolore, e anche qui l’uomo di religione non può fare altro che opporsi. La terza volta è sulla questione dell’articolazione tra libero arbitrio e necessità, quando Gassendi descrive il clinamen e spiega che occorre «suggerire come la fortuna possa intervenire nelle cose umane senza che in noi il libero arbitrio scompaia del tutto». Tutto sommato, si tratta di poca roba… In fine, facendo quasi il ventriloquo di Epicuro, Gassendi afferma che possedere dei beni immateriali significa essere di per sé stessi immortali. Quali siano questi beni immateriali, è presto detto: tranquillità dell’anima, serenità del saggio, atarassia del filosofo, puro piacere dell’esistere, vita filosofica collegata con la vita felice degli dèi. Il che, diciamolo sottovoce, ricorda la soluzione esistenziale suggerita dai materialisti! Insomma, Gassendi ed Epicuro, una combinazione che funziona. Il canonico si mostra molto più severo con René Descartes che non con Epicuro. Nel 1644, pubblica, in effetti, le Recherches métaphysiques ou doutes et instances contre la métaphysique de René Descartes et ses réponses [Ricerche metafisiche, ovvero dubbi e istanze contro la metafisica di René Descartes e sue risposte], un testo che, con la sua analisi densa e serrata, costituisce un’incredibile stroncatura dell’autore del Discorso sul metodo. I loro scambi sono in effetti violenti. Gassendi tratta Descartes come un «dittatore»167 e picchia duro sulle sue tesi più importanti, il che non contribuisce certo a creare un clima di distensione e di elegante cortesia. Rifiuta l’idea che i sensi ingannino, perché questo presupporrebbe che le sensazioni stesse siano false; critica il metodo e dubita persino del dubbio metodico: sa bene che è impossibile liberarsi dei propri pregiudizi semplicemente decidendo di sbarazzarsene; attacca il cogito, facendo ironicamente notare che, sulla stessa stregua, si possa tranquillamente arrivare a sostenere che: «Passeggio, dunque sono»; fustiga l’ipotesi di Dio ingannatore, quindi del «genio maligno»168 e

respinge non solo le idee innate ma anche l’opposizione tra sostanza estesa e sostanza pensante; mette in questione la natura del legame tra anima e corpo e si lamenta del ruolo magico attribuito alla ghiandola pineale. Insomma, bombardamento a tappeto delle posizioni cartesiane… Ecco come risponde Gassendi a una delle obiezioni che Descartes indirizzava alle sue ricuse: Qui senza dubbio Lei parla da Maestro, o piuttosto da Dittatore, quando fissa con tanto rigore quello che conviene fare, standosene peraltro tranquillo sulle alture o, ancora meglio, dentro la cittadella della Filosofia. La verità è che io invece chiedo sempre delle ragioni, e che capisco anche come questo possa crearLe qualche imbarazzo; solo, penso anche di essere assolutamente nel mio diritto di farlo, tanto più che Lei si vanta di poter dimostrare, vale a dire di poter provare con ragioni estremamente approfondite, quanto va sostenendo; e che, d’altra parte, io continuo a non vedere alcuna ragione rispondente a queste caratteristiche. Lei sembra comportarsi come un giudice a Scuola; sopporti allora che anche le persone che Lei vuole istruire si comportino come un pubblico provvisto di spirito libero. In caso contrario, cioè se si comportassero come gli animali di un gregge, e credessero a Lei solo perché è Lei che lo dice, Lei stesso correrebbe il rischio di essere scambiato per una guida non di uomini, ma di greggi. E di ripetere, oh carne, oh carne; e, adombrandosi ancora, e sempre di più, di dire tutto quello che Le possa venire in mente di dire, finché il Suo stesso cuore non smetta di gonfiarsi; e così finalmente potremmo sapere qual è il sentimento nascosto che esso conteneva.169

Un professore dell’École normale riassumerebbe tutto lo scambio spiegando che Gassendi sta rimproverando a Descartes di essere assertorico anziché apodittico! Le formule di cortesia che aprono e chiudono questo dialogo tra sordi lasciano intuire il contorno di un albero che, a sua volta, sta nascondendo una foresta di insulti: Capisco bene quale sia la causa di questa Sua durezza, e che cosa L’abbia fin dall’inizio spinta a credere che fosse meglio trattarmi come una persona di carne. Visto che La stavo trattando come Anima e come Spirito fin dal cominciamento del libro, Lei ha pensato bene che fosse cosa degna del Suo essere spirito, e della Sua finezza, chiamarmi invece a sua volta di carne. Prenderò la cosa senza offendermi, e farò anzi proprio finta che sia divertente, essendo già mia abitudine rimproverarmi molte più cose di quelle che qualsiasi altra persona potrebbe fare; però mi sia permesso aggiungere che, chiamandoLa anima o spirito, non ho mai in nessun modo inteso fare della Prosopopea o della finzione; nulla ho detto che fosse ironico o affettato; la qual cosa Le avrebbe sicuramente dato il diritto, al di là delle leggi della buona creanza e dell’amicizia, di lamentarsi, dando libero corso alle Sue invettive.170

E Gassendi prosegue il proprio discorso senza porsi alcun limite, come verbigerando in totale solitudine, libero dalla preoccupazione che Descartes leggesse veramente. Ci si potrebbe stupire del fatto che, nella storia della filosofia occidentale,

questo libro di Gassendi non l’abbia avuta vinta sulle Meditazioni di filosofia prima, che escono dissanguate da questa lezione di anatomia condotta dal compagno di strada di Epicuro! Perché, diciamola tutta, Descartes non è così filosoficamente rivoluzionario come si dice. Certo, sembra esserlo in Francia per via del metodo formulato nella maniera che sappiamo; ma non lo è assolutamente se pensiamo alla sua filosofia dualista, alla sua ontologia idealista o alla sua metafisica spiritualista, per non parlare dell’agio con cui si muove nel giardino delle categorie scolastiche, tutte cose perfettamente compatibili con la civiltà giudaico-cristiana, cosa che non è assolutamente il caso dell’epicureismo. Precisiamo che questo suo metodo colpisce più facilmente un francese di un anglosassone, perché quest’ultimo potrebbe non ignorare che, con il Novum Organum (1620) di Francis Bacon, l’essenziale di quanto andava annunciando Descartes, cioè la laicizzazione del metodo e la sua stretta dipendenza dall’osservazione, viene esposto diciassette anni prima del Discorso sul metodo del filosofo turingio. Ma questa è un’altra storia… Gassendi scrive molto per, l’abbiamo visto con Epicuro, e anche molto contro, in particolare contro Aristotele e la scolastica, o contro Descartes e il cartesianesimo. Non è sempre facile però scoprire quello che pensa su alcuni soggetti sensibili. Sull’anima degli animali, è abbastanza chiaro; sulla natura dell’anima invece il discorso si fa un po’ più complicato, perché politicamente più pericoloso. Descartes rivendica il fatto di portare la maschera, ce lo ricordiamo il suo motto: Larvatus prodeo. Nelle sue lettere, mostra tutta la sua vigliaccheria: ha paura del re, ha paura dei professorucoli della Sorbona e ha paura del Vaticano, tutte cose che, ieri come oggi, fanno il mondo. Gassendi non lo dice, però anche lui scrive sotto lo sguardo dell’Inquisizione e sotto la minaccia dell’Indice. Gassendi, lo sappiamo perché lo ripete ad nauseam nella sua corrispondenza con Descartes, non è soddisfatto dall’opposizione classica tra «sostanza estesa», che, come indica il nome, presuppone l’estensione nello spazio, e «sostanza pensante», che, anche in questo caso il nome non nasconde nulla, presenta come caratteristica specifica quella di pensare. Se pensare è un atto che compete a una sostanza non estesa, che cosa possiamo allora dire della maniera in cui si producono i pensieri, le idee e i giudizi? E del legame tra una cosa che non ha estensione e una cosa che invece è solo estensione? E del legame tra una cosa che pensa e una cosa che non pensa? La ghiandola pineale, per esempio, è una cosa che non soddisfa Gassendi. Da anatomista (pure lui), constata che mancano i nervi capaci di assicurare i collegamenti necessari. E l’unica cosa che possiamo dire di questi nervi è che si dovrebbero invece poter localizzare a occhio nudo nella zona isolata dal bisturi dell’anatomista. Magari dunque è il caso di

cominciare a considerare Descartes non tanto come il primo dei moderni quanto come l’ultimo degli scolastici, e Gassendi, con il suo attivo scetticismo, non come il primo dei moderni ma come colui che rende possibili i moderni. Il primo di questi moderni potrebbe essere, per esempio, un altro membro del clero, e cioè il curato Jean Meslier. Se vogliamo sapere che cosa pensa Gassendi, dobbiamo spesso indurlo, o dedurlo, ed è questa probabilmente una delle ragioni per cui Descartes ha avuto la meglio su di lui nell’evoluzione della storia delle idee. A volte si esprime su un soggetto parlando d’altro, altre volte occorre capire quello che sta dicendo da come viene sottinteso nelle pieghe delle parole. Un esempio sta in queste righe in cui Gassendi risponde a Descartes in merito alla sua teoria degli animali-macchine assimilati a orologi: «Un osso fa passare nell’occhio di un cane una specie a quello analoga, e questa specie, aprendosi un cammino fino al cervello, aderisce all’anima come per mezzo di artigli minuscoli; in seguito, l’anima stessa e tutto il corpo che le è attaccato vengono attirati verso l’osso da alcune specie di catene sottilissime. Anche il sasso che gli lanciamo contro fa partire delle specie a quello analoghe, e queste, come una leva, vanno a esercitare sull’anima una spinta, costringendo il corpo a muoversi, ossia a fuggire. Non è forse esatto dire che tutto questo succede anche nell’uomo? C’è un’altra strada con cui Lei immagina possano compiersi queste operazioni? In tal caso, se ce la volesse insegnare, Le saremmo profondamente grati».171 In questo passaggio, vediamo riassunta tutta la tecnica libertina della dissimulazione. Il nome di Epicuro non compare mai, però tra le righe troviamo tutta la dottrina epicurea. Per capire, dobbiamo evidentemente già conoscere il pensiero del filosofo greco. Quindi, Gassendi, sotto traccia, si sta rivolgendo a chi queste cose già le conosce, come sottintendendole. Perché, ammettiamolo, parlare di una «specie analoga all’osso» che passa attraverso l’occhio per arrivare al cervello del cane significa citare in maniera quasi esplicita la teoria epicurea dei simulacri, termine che viene semplicemente e prudentemente evitato per evitare di allertare l’attenzione del lettore medio. Anche gli «artigli minuscoli» rimandano alla dottrina del Giardino, è chiaro che si sta parlando degli atomi, che possono avere forme diverse: uncinate per esprimere l’affinità o lisce per spiegare il rifiuto. L’anima di cui qui si sta disquisendo sembra insomma possedere la stessa natura del simulacro, ossia sembra essere anche lei materiale, costituita da atomi e legata al resto del corpo grazie a delle «catene sottilissime», a loro volta formate da atomi. Non c’è, come nei cartesiani, alcuna separazione tra sostanza estesa e sostanza pensante, che sono concepite come due sostanze eterogenee: si tratta invece di diverse modalità di un’unica sostanza

materiale, tenuta assieme dagli atomi. Passando dall’osso che viene offerto al sasso che viene lanciato, Gassendi segue passo passo la metafora epicurea: come potrebbero mai funzionare da leva i simulacri del sasso che raggiungono il cervello del cane, e come potrebbero mai esercitare una spinta sull’anima, se quest’anima non appartenesse lei stessa alla sostanza estesa, e quindi alla materia? In effetti, verrebbe logico considerare che applicare una spinta a una sostanza pensante non abbia alcun senso. Sono quindi le dinamiche basate sugli atomi e i flussi materiali spiegati dalla fisica che permettono a Gassendi di spiegare perché il cane scappi quando vede, o anche solo intravede, il sasso che gli stiamo lanciando contro. Giunto a questo punto, ecco il canonico concludere, in forma interrogativa, altra strategia libertina: ma non potrebbe valere la stessa cosa per gli uomini? Noi, però, intuiamo benissimo che sta facendo finta di porre domande a Descartes per ottenere una qualche risposta, e che tutte queste cose non rappresentano alcun dubbio. In ogni caso, l’ironia con cui questo passaggio si conclude non convince Descartes a uscire dalla propria tana, e il filosofo se ne continua a restare chiuso nel proprio nascondiglio e a rispondere solo in maniera trasversale. Diciamo che, quantomeno, si prende la briga di rispondere. Scrive Gassendi: «Questi Suoi qui sono solo dei mormorii, e a questi mormorii, non più che ai precedenti, serve nemmeno rispondere».172 Descartes, come dappertutto in questo scambio, tratta Gassendi sempre dall’alto. Chiede una discussione pubblica sulle sue Meditazioni, però quando gli vengono sottoposte delle argomentazioni vere e proprie, risponde con tracotanza: Gassendi non è un filosofo, non ci capisce niente, deforma tutto quello che il suo interlocutore dice, gli presta delle idee che non sono le sue, con lui non si può avere uno scambio degno di questo nome, e così via. Ci sarebbe invece piaciuto avere, come risposta a questa obiezione, un ragionamento filato di Descartes sul cane, sull’osso e sul sasso; ci avrebbe permesso di sapere quello che pensava dei simulacri, degli atomi e dei loro artigli, delle immagini, dell’azione materiale delle particelle su un’anima materiale, della possibilità di applicare una spinta a una sostanza priva di estensione, della reazione appropriata del cane che, comprendendo come il sasso lanciato possa ferirlo, manifesta una memoria del tempo passato (si ricorda del dolore provocatogli una volta da un sasso), una comprensione del tempo presente (il proiettile effettua un percorso al termine del quale si trova il corpo del cane stesso, che mantiene la memoria della sofferenza) e una capacità di futurizione (il passato del sasso messo in relazione con il suo presente produce un futuro che il cane è capace di prevedere, visto com’è in grado di scappare). Certo, questo cane che pensa non pensa che sta pensando: questo è un talento

che, secondo Descartes, definisce solo l’uomo. Però, non possiamo davvero rimproverare a un animale il fatto che stia pensando come un animale. Sarebbe come affermare che l’uomo che non riesce a ritrovare la strada usando unicamente il proprio olfatto testimonia dell’assenza di intelligenza umana! Del resto, lo stesso Gassendi lo scrive in maniera esplicita: «L’uomo, anche se è il più perfetto degli animali, non si trova però escluso dal novero di questi».173 Ecco una linea netta di demarcazione tra l’idealismo cartesiano, il suo spiritualismo dualista, e l’epicureismo gassendiano, che rappresenta una fase del materialismo cristiano verso la conquista della nozione di anima materiale autonoma. Perché, per Gassendi, il clinamen, ossia questa tendenza alla declinazione che sta all’origine dell’aggregarsi degli atomi, atomi che prima cadevano paralleli nel vuoto senza mai incontrarsi, e quindi senza che mai si desse la possibilità di formare un mondo; ecco, per Gassendi, questa tendenza alla declinazione non è assolutamente pensabile: il clinamen rischierebbe di prendere il posto ontologico, quindi teologico, del Dio creatore del mondo. Il Dio di Gassendi crea invece il mondo materiale a partire dagli atomi già mobili e pesanti da lui creati proprio al fine di produrre materia immediatamente attiva. Esistono delle correnti di materia sottile che procedono, dixit Gassendi, dal «fiore della materia»174 e che muovono i corpi come fossero anime vegetative. Il suo materialismo non è meccanicista: diciamo che è deista, e questo, probabilmente suo malgrado, si rivela essere un passo in avanti in direzione del materialismo meccanicista. Un materialismo, osiamola dire, questa parola: vitalista.

Capitolo ottavo

Come la fiamma di una candela Meccanizzare l’anima

La vera e propria rivoluzione filosofica non è quella portata avanti da Descartes, ma quella progettata da un filosofo che viene troppo spesso presentato come cartesiano, ossia Jean Meslier, parroco di Étrépigny, un piccolo comune delle Ardenne. Può sembrare una cosa strana quella di trasformare questo nemico di Descartes in un suo discepolo, come se bisognasse sempre e comunque prendere come punto di riferimento l’autore del Discorso sul metodo, come si faceva una volta con l’autore del Parmenide, per classificare, ordinare, sistemare, incasellare e, diciamola tutta, neutralizzare. La verità è che mentre René Descartes dimostra di essere deista, monarchico, dualista, spiritualista, cattolico e, nei fatti, conservatore, Jean Meslier scrive un memoriale che sarà ritrovato alla morte, nel 1729, e di cui Voltaire farà pubblicare alcuni passi nel 1762 con il titolo di Extrait des sentiments de Jean Meslier [Estratto dei sentimenti di Jean Meslier],175 in cui si proclama ateo, comunista, monista, materialista, anticlericale e rivoluzionario radicale. Meslier rifiuta il Dio di Descartes, rifiuta il cogito e le idee innate, rifiuta l’opposizione tra sostanza estesa e sostanza pensante, rifiuta la finzione della ghiandola pineale e il Dio ingannatore mascherato da genio maligno, rifiuta la teoria degli animali come macchine, e rifiuta soprattutto la prudenza politica e il conservatorismo religioso: come può essere dunque cartesiano? «Cartesiano di estrema sinistra», ha suggerito qualcuno in qualche colloquio universitario. Per quello che mi riguarda, in queste strane etichette vedo semplicemente l’incapacità di riconoscere in lui, all’interno della storia della filosofia dominata da posizioni idealiste, il primo filosofo materialista ateo degno di questo nome. Alla fine, comunque, è sempre Montaigne che rende possibile questa rivoluzione, molto più di Descartes. L’autore dei Saggi ha posizioni autenticamente radicali su parecchi argomenti fondamentali: Montaigne descrive l’uomo nudo, come esce dalle mani della natura, e, seguendo questa intuizione, inaugura il relativismo culturale celebrando, per esempio, usi e costumi di popoli cannibali; s’inventa un corpo pagano finalmente sgombro dalla presenza di Dio;

promuove una pedagogia non autoritaria ispirata all’educazione ricevuta dal padre; pone le basi di un femminismo universalista e spiega come la disuguaglianza tra gli uomini e le donne non abbia ragioni naturali ma culturali; affronta il pensiero partendo da basi ontologiche antispeciste; crea ex nihilo un metodo fondato sull’osservazione del mondo reale; propone, senza darlo troppo a intendere, un’etica della sobrietà felice; libera il pensiero dalla tutela della teologia e, così facendo, inventa la religione della razionalità e il suo corollario, la laicità; inizia a costruire il soggetto moderno; e tutto senza parlare del supplemento d’anima sublime, cioè del fatto che rende possibile l’amicizia liberandola finalmente da qualsiasi intermediazione divina. Montaigne, però, avanza senza Dio e senza la religione cristiana, non contro Dio e contro la religione cristiana, come fa invece Meslier. Il primo si comporta come se la Bibbia, i Padri della Chiesa e la scolastica non esistessero, e sembra quasi passare fischiettando davanti ai Vangeli, alle opere complete di sant’Agostino e alla Somma Teologica di Tommaso d’Aquino. Al contrario, il secondo fa a pezzi i libri del Nuovo Testamento, attacca con il coltello in mano la letteratura religiosa, e demolisce la filosofia cristiana, l’idealismo spiritualista di Descartes, il quietismo di Fénelon e l’occasionalismo di Malebranche, combattendo con estrema fermezza. Meslier scrive il voluminoso testo del suo Testamento in tutto segreto, e fa in modo che sia reso noto solo dopo la sua morte. I suoi parrocchiani dovranno sapere quello che pensava davvero: non crede né a Dio né al demonio, ed è diventato prete solo per compiacere i suoi; ha sempre detestato il fatto di dire messa e amministrare sacramenti; non ha mai amato le persone potenti, i re e i nobili e ha sempre preferito gli ultimi e i dimenticati, i contadini; ritiene che la religione cattolica sia tutta un’impostura creata per permettere ai potenti di imporre il proprio giogo sui miseri, già deprivati di tutto, ovviamente con l’attiva complicità del clero; afferma che Gesù era un «uomo da nulla, vile e spregevole»,176 che san Paolo era un «grande mirmillantatore»,177 che i cosiddetti testi sacri devono essere letti come fossero delle opere pagane, per scoprire tutte le loro contraddizioni e quindi tutta la loro inutilità; per lui, i Vangeli sono falsi, e la loro selezione e compilazione è responsabilità dei concili, quindi degli uomini, non di Dio; non esiste nessun’anima immateriale, e quindi non esiste nessuna punizione e nessuna ricompensa dopo la morte; non esiste alcuna ragione di soffrire qui e ora per guadagnare una vita felice nell’aldilà, perché, dopo la morte, non c’è niente, solo la decomposizione della materia di cui siamo fatti; si prende gioco di quello che penseranno di lui dopo la sua morte e arriva persino ad affermare che, per quello che gli interessa, lo potranno anche bruciare, grigliare e mangiare, se vogliono. La sua unica

preoccupazione è che i suoi genitori non debbano soffrire dell’odio che potrebbe nascere con la pubblicazione del Testamento. Meslier è particolarmente feroce con la religione, ma sposta anche il campo di battaglia sul terreno politico: attacca re e potenti, nobili e latifondisti, tutta gente che, a braccetto con il papa, i vescovi, i preti, i parroci, i canonici, i monaci e le «monachesse», sfrutta la religione per affamare i poveri e consolidare il proprio potere su di loro. Accusa anche gli scagnozzi del potere costituito: notai, sergenti, procuratori, avvocati, cancellieri, controllori, giudici, intendenti di polizia, riscossori statali, esattori e altra «gente d’ingiustizia».178 È a Jean Meslier che dobbiamo una formula che avrebbe fatto fortuna nel maggio del Sessantotto. Leggiamo: A questo proposito, mi ricordo di un augurio espresso una volta da un uomo che non aveva né scienza né studi alle spalle, ma che, in tutta evidenza, non mancava di buon senso per giudicare in maniera sana tutti i detestabili abusi e tutte le deprecabili tirannie che sto condannando qui; e questo suo augurio, assieme alla maniera con cui esprimeva il proprio pensiero, dimostravano che vedeva abbastanza lontano, e che era in grado di sviscerare tutto il detestabile mistero d’iniquità di cui ho appena parlato, perché ne conosceva molto bene autori e fautori. Si augurava, insomma, che tutti i grandi della Terra, e tutti i nobili, fossero impiccati e strangolati con le interiora dei preti. L’espressione è sconcertante e non manca certo di rudezza e grossolanità, però dobbiamo riconoscere la sua onestà e spontaneità; ed è formulata in maniera concisa, ma comunque espressiva e riesce a comunicare in poche parole tutto quello che quella gentaglia merita.179

Il concetto, sui muri del Quartiere latino, è diventato: «L’umanità sarà felice soltanto il giorno in cui l’ultimo capitalista sarà impiccato con le budella dell’ultimo burocrate» – un’altra versione varia con l’«ultimo estremista»… Questa negatività si accompagna sempre a una positività: se Meslier attacca la religione, è solo per restituire alla filosofia la sua potenza. Vuole insegnare «i soli lumi della ragione umana»,180 in modo da lavorare all’abolizione, sul terreno spirituale, della religione cattolica, del potere del clero e dei re, del regno delle fiabe, dei miti, delle allegorie e delle altre storielle per bambini che sono le religioni, e, sul terreno politico, dell’ingiustizia, della miseria, della povertà, dello sfruttamento e della proprietà, che avrebbe dovuto essere sostituita da un comunalismo rurale, cioè da una forma di comunismo di prima della rivoluzione industriale, che non escludeva però un certo internazionalismo degli interessi comuni e del bene pubblico. Meslier punta alla felicità di tutti, in opposizione al godimento di pochi che confiscano tutto. Scrive: «La ragione naturale è l’unica strada che mi sono sempre proposto di seguire nel mio pensiero».181 E noi gli crediamo. Ecco il metodo con cui questo anticartesiano radicale avanza proposte che sono rivoluzionarie anche sul terreno ontologico. Per esempio: «Dio non esiste»,182 un’idea che trascina tutte

le altre. La formula viene ripetuta negli stessi identici termini una seconda volta a mille pagine di distanza.183 Il Testamento viene scoperto alla morte di Meslier, vale a dire nel 1729. Ed è lui stesso a confessare di scrivere «nella fretta e nella precipitazione»,184 senza che si capisca davvero a cosa si riferisca. Una malattia? Desiderio di suicidio? Quale altra urgenza può esserci per un ateo se non la prossimità della morte? Qualunque sia questa contingenza, possiamo presumibilmente immaginarci che il testo sia stato redatto verso la fine del primo quarto del Settecento. E, a quest’altezza cronologica, chi altri ha il coraggio di dichiarare in maniera così chiara e netta che «Dio non esiste»? Nessuno, ovviamente… Per più di mille anni, la Chiesa accusa di ateismo chiunque non crede al suo Dio! I politeisti Epicuro e Lucrezio, Montaigne il fideista, Descartes il teista, Spinoza il panteista, Bayle il protestante, Voltaire e Rousseau i deisti: tutti vengono accusati di ateismo, e quindi messi all’Indice o condannati al rogo dal Vaticano. Eppure nessuno di loro nega l’esistenza di Dio. La verità è che l’ateo autentico non si accontenta di dire che «gli dèi sono molti; bisogna credere al Dio del proprio paese, nelle forme che prende nella regione in cui si abita; il Dio di Abramo può essere in questo modo assimilato al Dio dei filosofi, al Grande Tutto, o ancora al Dio riformato di Lutero e di Calvino, se non addirittura al Grande Orologiaio»; l’autentico ateo afferma in maniera chiara che: «Dio non esiste». E, fino a prova contraria, non sembra che ce ne sia stato nemmeno uno, prima dell’abate Meslier. Nella storia delle idee, del pensiero, della filosofia e dell’umanità, l’ateismo autentico costituisce un preciso spartiacque, soprattutto in una civiltà come quella giudaico-cristiana. Il Dio monoteista della Bibbia garantisce l’esistenza dell’edificio della civiltà. L’uomo creato da Dio a propria immagine, quindi l’uomo inteso come finalità ultima, come sommità e coronamento della creazione; l’anima immateriale suscettibile di ricompensa o di punizione e, di conseguenza, l’assenza di anima negli animali; il corpo peccaminoso; ecco, tutte queste cose si tengono assieme solo perché Dio le giustifica ontologicamente. Se Dio non esiste, su cosa si potrà mai fondare il reale? Sulla materia, ovviamente, solo sulla materia. Ecco perché l’ontologia del curato Jean Meslier costituisce un punto di rottura per la nostra civiltà. Dunque, Dio non esiste perché è tutto materia, e il mondo non è stato creato. Contro il creazionismo cristiano, Meslier propone una lettura totalmente materialista del mondo: la materia non è affatto creata e voluta da una causa

esterna a sé stessa e preesistente (in altre parole: Dio), ma è eterna e causa di sé, e rende possibili i movimenti del mondo; è divisibile e basta una semplice osservazione per riscontrare che si muove. Partendo da questa semplice posizione, tutto quello che esiste in natura può essere spiegato in maniera naturale e fisica attraverso il materialismo. «Solo l’idea di una materia universale che si muove in diverse direzioni, e che attraverso le diverse configurazioni delle sue parti può modificarsi ogni giorno, in mille e mille maniere differenti, solo questa idea ci permette di vedere con chiarezza che tutto quello che esiste in natura può realizzarsi attraverso le leggi naturali del movimento, unicamente configurando, combinando e modificando parti della materia».185 Meslier confessa di non poter dire che cosa muove la materia dentro la materia, però osserva il movimento al suo epicentro: «La nostra ignoranza sulla natura delle cose non impedisce affatto che queste cose ci siano».186 Per esempio, non sappiamo come facciamo a vedere e non conosciamo i meccanismi con cui l’occhio funziona, però non abbiamo dubbi sul fatto che noi vediamo proprio grazie all’occhio. Esattamente allo stesso modo, noi ignoriamo i meccanismi decisionali della volontà che presiedono a questo o a quell’altro gesto, piuttosto che a un altro gesto ancora; però notiamo senza alcuna difficoltà che, dentro di noi, la volontà vuole quello che noi vogliamo. Meglio allora confessare di non sapere perché le cose sono come sono quando è oltremodo evidente che sono come sono, piuttosto che inventarsi delle causalità magiche come quelle del Dio primo, motore immobile di ogni movimento. Precisiamo, già che siamo a questo punto, che, nel momento stesso in cui confessa di non sapere che cosa muova la materia, Meslier avanza comunque un’ipotesi, un’ipotesi che sfortunatamente decide di non approfondire… «Dobbiamo necessariamente dire la stessa cosa della vita corporea, ossia della vita degli uomini, delle bestie o delle piante: la loro vita è solo una specie di modificazione e fermentazione continua del loro essere, cioè della materia di cui sono composti, e tutte le conoscenze, tutti i pensieri e tutte le sensazioni che possono avere non sono altro che nuovi modi, particolari e passeggeri, in cui questa modificazione e questa fermentazione continua che costituisce la loro vita si manifesta».187 Meslier avanza dinamicamente in direzione di un materialismo di marca vitalista, senza tuttavia arrivare a incarnare il materialismo meccanicista di stretta osservanza. Sulla questione del vitalismo, ci tornerò… Un po’ come Diogene quando, volendo contrastare i ragionamenti idealisti di

Platone, decide di provare il movimento mettendosi a camminare, anche Meslier contrappone il proprio cogito materialista al cogito cartesiano ottenuto attraverso il dubbio metodico: Seguiamo le luci più intense della ragione, e queste ci mostrano con evidenza l’esistenza dell’essere, perché è chiaro ed evidente, perlomeno a noi, che l’essere è; e che noi non saremmo, e che non potremmo nemmeno avere il pensiero di essere, se l’essere non fosse affatto. In realtà, noi sappiamo e sentiamo con grande certezza che noi siamo, e che pensiamo, e di questo non possiamo assolutamente dubitare; quindi è certo ed evidente che l’essere è. Se l’essere non fosse, di sicuro non saremmo nemmeno noi, e se noi non fossimo, non potremmo nemmeno pensare; non c’è niente di più chiaro e di più evidente di questo.188

Questa ontologia dell’essere si rivela un’ontologia materialista radicale: in un mondo di materia satura di essere, o in un mondo di essere saturo di materia (è la stessa cosa, perché l’essere è la materia e la materia è l’essere), l’uomo, nella sua integralità, non potrebbe essere una cosa diversa da questa materia che rappresenta la totalità dell’essere. Contro Descartes che definisce l’uomo come l’essere che pensa di pensare grazie alla propria sostanza pensante presuntivamente indipendente dalla propria sostanza estesa, Meslier afferma che chi pensa non può dubitare del fatto che pensa se non negando ciò stesso che gli permette di pensare, ossia il suo essere materiale. I cartesiani, scrive Meslier, sono dei «filosofi deicoli».189 Non si può dire che il nostro sia uno che la manda a dire… Dio non esiste perché esiste solo la materia, oppure esiste solo la materia quindi Dio non esiste. La conseguenza di questo ragionamento è che il problema dell’anima e del suo legame con il corpo si trova risolto in partenza. Per Meslier il corpo e l’anima sono costituiti da un’unica e sola materia: Per quanto riguarda la pretesa spiritualità dell’anima, se davvero quest’anima fosse spirituale come i nostri cristicoli la intendono, non avrebbe né corpo, né parti, né materia, né forma, né figura, né estensione alcuna, e di conseguenza non sarebbe niente di reale e di sostanziale, perché, come ho già detto qualche riga sopra, ciò che non ha né corpo, né materia, né forma, né figura, né estensione non è né reale né sostanziale. La verità invece è che l’anima è qualcosa di reale e di sostanziale, dato che anima il corpo e gli infonde forza e movimento. E noi non vogliamo certo sostenere che un niente o un nulla possa animare un corpo, e infondergli forza e movimento; quindi, ecco, l’anima è qualcosa di reale e di sostanziale, e di conseguenza occorre necessariamente che sia corporea e materiale, e che abbia estensione, dato che niente di reale e di sostanziale può esistere senza corpo e senza estensione. La prova evidente di tutto questo sta nel fatto che è impossibile formarsi un’idea qualsiasi di un essere o di una sostanza che sia senza corpo e senza forma, senza figura e senza alcuna estensione.190

Un’anima materiale, estesa, corporea e atomica: alla fine ci siamo arrivati! La materia può quindi percepire, sentire, conoscere, amare, odiare, desiderare e subire le passioni dell’anima. Tutte queste operazioni si riducono a modificazioni della materia. I cartesiani affermano che l’anima è immortale, mentre, al contrario, Meslier ritiene che, in quanto anima, si muova con il corpo: «Essa si dissolve e si dissipa nell’aria in un istante, come un vapore sottile, o come un’esalazione leggera simile alla fiamma di una candela, quando la spegniamo di colpo, o si spegne insensibilmente da sola, quando viene a mancare la materia combustibile che l’alimenta».191 Meslier, a questo punto, cita… Montaigne! Noi siamo fatti, dice, per quanto riguarda l’anima, di una «materia sottile e agitata che ci dà la vita»,192 e, per quanto riguarda il corpo, di una «materia grossolana e pesante».193 Si tratta però sempre e comunque di un’unica materia diversamente modificata. Di conseguenza, «la nostra anima è materiale e mortale come il nostro corpo».194 Ricapitoliamo: Dio non esiste ed esiste solo la materia; per questo motivo, la nostra anima è materiale; come il nostro corpo, anche quest’anima è mortale e deperibile. Non esiste alcuna obiezione possibile al fatto che questa legge che riguarda gli esseri umani valga anche per gli animali. Sempre in opposizione con Descartes (cosa decisiva per definire un cartesiano, anche se di estrema sinistra), il parroco Meslier attacca la teoria dell’animale-macchina e diventa il primo filosofo a difendere l’idea di un’anima animale ontologicamente simile a quella degli uomini. In una lunga tirata contro i sacrifici animali teoricamente commissionati da Dio, in cui cita con abbondanza i testi sacri che li supportano, il filosofo prende le difese degli animali e sistematizza tutto il problema della loro anima: È una crudeltà e una barbarie ucciderli, ammazzarli e sgozzarli come facciamo, questi animali che non fanno alcun male e che sono sensibili al male e al dolore tanto quanto noi, nonostante tutto quello che ne dicono in maniera vana, falsa e ridicola i nostri nuovi cartesiani, che li considerano delle pure macchine senz’anima e senza sentimento, e che, per questa ragione, basandosi su un illusorio ragionamento quanto alla natura del pensiero, di cui pretendono che le cose materiali non siano capaci, li credono completamente privi di qualsiasi tipo di conoscenza, e di qualsiasi tipo di sentimento, piacere o dolore. Opinione ridicola, massima perniciosa e dottrina detestabile, dal momento che tende manifestamente a soffocare nel cuore degli uomini qualsiasi sentimento di bontà, dolcezza e umanità che in quanto uomini potremmo provare nei confronti di questi poveri animali, e che dà loro modo e luogo di trasformare tutto quanto in un gioco, godendo del piacere di tormentarli e tirannizzarli senza pietà, con la scusa che non provano alcun sentimento del male che gli si infligge, non più di quanto proverebbero se fossero tante macchine buttate nel fuoco o ridotte in mille pezzi. È invece qualcosa di manifestamente crudele e detestabile nei confronti di questi poveri animali, i quali, essendo vivi e mortali come noi, ed essendo fatti come noi di carne, sangue e ossa, e avendo, come noi, tutti gli organi atti alla vita e ai sentimenti, cioè gli occhi per vedere, le orecchie per sentire, le narici per annusare e distinguere gli odori, la lingua e il palato in

bocca per differenziare i gusti delle carni e del cibo, se va bene o se non va bene, e i piedi per camminare; e vedendo anche in loro tutti i segni e gli effetti delle passioni che noi stessi sentiamo, dobbiamo senza dubbio credere che siano anch’essi sensibili proprio come noi al bene e al male, ossia al piacere e al dolore; sono i nostri domestici e i nostri fedeli compagni di vita e di lavoro, e per questo motivo dobbiamo trattarli con dolcezza. Benedette siano le nazioni che li trattano con favore e benevolenza, e che compatiscono le loro miserie e i loro dolori. E maledette siano invece le nazioni che li trattano con crudeltà, e che li tirannizzano, e che amano spandere il loro sangue e sono avide di mangiare la loro carne [corsivi miei].195

Un testo incredibile, anche in considerazione del fatto che è stato scritto all’inizio del Settecento, un testo che, con l’insistita ripetizione della formula «come noi», con la preferenza accordata alla parola «piedi» anziché «zampe», con l’idea che, accanto agli animali da fatica, esistano anche degli animali da compagnia, dà, a questi animali, che all’epoca venivano anche definiti «bruti» (così scrive per esempio Descartes),196 una dignità pari a quella degli uomini! Meslier prosegue la propria analisi nella stessa maniera del resto di questo Testamento, e, come un pittore barocco, o manierista, ripete, riprende, replica, ricomincia e ostinatamente insiste a sviluppare sempre la stessa analisi, a volte con le stesse parole, gli stessi periodi, la stessa concatenazione di frasi, e ovviamente le stesse idee. In una di queste pagine che rallentano la progressione del testo, ma che testimoniano allo stesso tempo della passione con cui dice e ridice le cose, Meslier confessa: Non ho mai fatto nulla con così tanta repulsione come quando in alcune occasioni mi vedevo costretto a tagliare o a far tagliare la gola a qualche pollo o a qualche piccione, o dovevo fare ammazzare qualche maiale. Protesto di non averlo mai fatto se non con moltissima ripugnanza ed estrema avversione, e se fossi stato un po’ più superstizioso, o incline alla bigotteria religiosa, mi sarei senza dubbio schierato dalla parte di quelli che professano la religione di non uccidere mai bestie innocenti, o non mangiare mai la loro carne. Detesto anche soltanto vedere le macellerie e i macellai. 197

Ecco un ragionamento che basterebbe a far smettere di parlare di Meslier come di un cartesiano, per quanto associabile a complementi come «di estrema sinistra» – ricordiamoci che Descartes pratica la vivisezione sui cani senza particolari stati d’animo, tagliandogli il torace per rovistare in mezzo agli organi ed esaminare il funzionamento del cuore. L’autore del trattato su L’uomo è in effetti solo una sostanza pensante, e Gassendi non ha torto a soprannominarlo «Spirito»; invano cercheremmo in lui la compassione, la dolcezza, l’affetto e la tenerezza che Meslier vorrebbe fosse riservata agli animali. E Meslier incrocia il proprio ferro molte volte anche con Malebranche, di cui ci ricordiamo la facilità con cui, Fontenelle testimone, prende a pedate la propria cagna gravida,

giustificandosi con il fatto che non sente niente. Un’altra volta, Meslier rimette in circolo i propri argomenti per spiegare come la teoria cartesiana dell’animale-macchina giustifichi i trattamenti crudeli inflitti agli animali durante alcune feste, in cui, sulla pubblica piazza, vengono, per esempio, torturati e massacrati dei gatti. Strapazza «questi stupidi, questi bruti dissennati che non solo nei loro divertimenti privati, ma anche nei festeggiamenti pubblici, arrivano a legare e attaccare dei gatti vivi in cima a dei pali cui appiccano fuoco per bruciarli vivi e avere il piacere di vederne tutti i movimenti violenti, e sentire le spaventose grida che questi poveri e disgraziati animali sono costretti a lanciare per la durezza e la violenza dei tormenti, il che è di sicuro un brutale, crudele e detestabile piacere, e una folle e deprecabile gioia».198 E prosegue: «Se esistesse un tribunale che si occupasse di punire simili crudeltà, per rendere giustizia a queste povere bestie denuncerei subito la dottrina dei nostri cartesiani, così perversa, detestabile e piena di pregiudizi, e ne perseguirei volentieri la condanna, fino a che non venisse bandita interamente dallo spirito e dall’educazione degli uomini, e fino a che gli stessi cartesiani che ora la sostengono non venissero condannati a fare onorevole ammenda e a condannare essi stessi la loro propria dottrina».199 Ecco quello che si dice un cartesiano ribelle! In altri passaggi, Meslier confuta i ragionamenti che portano Descartes a sostenere che gli animali non pensano perché pensare significa innanzitutto pensare di pensare, sapere di sapere. In verità, gli animali non pensano di pensare, però pensano comunque. Abbiamo per forza bisogno di vedere i nostri occhi per vedere? Certo, l’animale non pensa sapendo di pensare, e non conosce le modalità con cui sta pensando, però nonostante tutte le categorie di estensione e di movimento, di profondità e di forma, di figura e di materia che Descartes mette in campo per cercare di provare che gli animali sono macchine esattamente come macchine sono gli orologi, tutto quanto si rivela contrario all’evidenza! Meslier si richiama, per esempio, al buon senso e all’osservazione della vita nei cortili, dove tutto sembra indicare chiaramente ai cartesiani quanto si stanno sbagliando! Non c’è bisogno di legare i cani sulle tavole e aprirgli la pancia per sapere come funzionano: basta osservare come si comportano quando sono vivi accanto ai polli e ai maiali. «I nostri cartesiani»,200 come scrive spesso e senza mai una nota di ironia, ricaverebbero delle lezioni utili e imparerebbero a non sostenere tante fesserie: Andate un po’ a raccontare ai contadini che il loro bestiame non ha vita e non ha sentimento, che le loro vacche e i loro cavalli, le loro pecore e i loro montoni sono solo congegni ciechi e insensibili al bene come al male, e camminano solo in virtù del movimento degli ingranaggi,

come tante macchine, come tante marionette, senza vedere e senza sapere dove stanno andando. Vi prenderanno sicuramente in giro. Andate a raccontare a questi contadini, o ad altra gente simile, che i loro cani non hanno vita né sentimento, che non riconoscono i loro padroni, che li seguono senza vederli, che gli si strusciano addosso senza amarli, che inseguono lepri e cervi e li raggiungono correndo senza vederli e senza sentirli. Andate a raccontargli che bevono e mangiano senza provare piacere, senza neanche avere fame, sete o appetito. Raccontategli che strillano senza provare dolore quando vengono picchiati, e che fuggono davanti ai lupi senza provare nessun timore. Vedrete come si metteranno a ridere di voi! E se si mettono a ridere di voi è perché sono lontanissimi dal credere e dal farsi persuasi che le bestie viventi come quelle di cui vi ho appena parlato siano senz’anima e senza vita, senza conoscenza e senza sentimento, tanto da non riuscire a evitare di guardare tutti quelli che venissero a raccontare seri che gli animali sono tutti privi di vita, conoscenza e sentimento, come gente assolutamente ridicola.201

Capitolo nono

Il cuore della rana su un piatto riscaldato Elettrizzare i corpi

Accidenti! Richiamarsi al buon senso, alla ragione, all’osservazione, all’esperienza e alla realtà; chiedere ai pensatori di uscire dalle biblioteche e dagli scriptorium e invocare il sapere dei contadini contro l’autorità dei parrucconi; preferire le lezioni del cortile, della stalla, della scuderia e del porcile ai discorsi insensati degli anfiteatri delle università; tutte queste cose non potevano non urtare i filosofi di scuola! Meslier alla corte dei grandi? La corporazione filosofeggiante ha vegliato, veglia e veglierà che questo non si debba mai verificare… Il Testamento dell’abate Meslier non è certo stato redatto per fare un favore alla corporazione dei filosofi filosofeggianti che hanno sempre trattato male questo fuorilegge della tribù! Abbondantemente saccheggiato ma raramente ricordato, e anche in questo caso sempre male o in maniera distorta, Meslier allarga la propria sfera d’influenza su tutto il pensiero materialista del Settecento, e oltre. Torna, per esempio, utile persino ai deisti, nella cui schiera non era di certo da annoverare – in questo caso, è Voltaire a comportarsi da grande profanatore dell’anima materiale dell’abate Meslier. Il filosofo ardennese appronta tre copie del proprio lunghissimo memoriale, forse addirittura quattro, preoccupandosi di tenerle separate in luoghi diversi. Una volta morto, e una volta caduta nelle mani del nemico, una sola copia del testo sarebbe risultata troppo semplice da distruggere, magari buttata dentro il fuoco di un camino. E lo sappiamo, agli atei autentici, i nemici non mancano mai. Già verso il 1732, ossia a soli tre anni di distanza dalla morte del parroco, a Parigi circolano più di un centinaio di copie, vendute sottobanco a prezzi d’oro… Tutti quelli che nella capitale vogliono farsi passare per pensatori devono leggere l’opera, e parecchie riproduzioni girano anche in provincia. Nel 1762, Voltaire pubblica un testo che influirà parecchio, anche se negativamente, sulla fortuna dello stesso Meslier, di cui tesse un falso ritratto:

Extraits des sentiments de Jean Meslier [Estratto dei sentimenti di Jean Meslier]. In effetti, Voltaire, monarchico deista e amico dei potenti, non può certo amare quest’uomo che difende il materialismo, l’ateismo, gli strati più bassi della popolazione, i contadini, la rivoluzione, il tirannicidio, il comunismo e l’internazionalismo! Quindi, ecco che tutto quello che nell’opera di Meslier lo imbarazza scompare, e tutto quello che invece può servire ad alimentare la sua propria battaglia anticlericale viene evidentemente portato in primo piano. E, come se questa macelleria non bastasse, dopo aver censurato il Meslier ateo e rivoluzionario, Voltaire aggiunge dei passaggi di natura deista scritti di propria mano, allo scopo di meglio arruolare il parroco di Étrépigny sotto le proprie bandiere! E fa poi circolare questi suoi misfatti a tappe forzate. Quello che però è sicuro è che non si tratta di un’opera di Meslier. È un’opera di Voltaire, lo stesso Voltaire che scrive che «se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo», lo stesso Voltaire che pensa che la plebaglia abbia bisogno della religione perché il mondo possa continuare a girare attorno alla monarchia e al suo sistema feudale, sistema che infatti non viene mai messo in discussione. Per esempio, ecco cosa scrive a Sua Altezza il Monsignore Principe di ***: Dovremmo riflettere sulle bizzarrie spirituali di questo malinconico prete che voleva liberare i propri parrocchiani dal giogo di una religione che lui stesso aveva predicato per vent’anni. Perché scrivere questo testamento per contadinotti che non sanno leggere? E, anche potessero farlo, perché togliere loro un giogo salutare, un timore necessario che da solo può prevenire i crimini più segreti? La fiducia nel sistema delle pene e delle ricompense dopo la morte è un freno di cui il popolo ha bisogno. Una religione ben emendata può essere il primo legante di una società.202

Se ne ricorderà Robespierre, quando s’immaginerà il culto dell’Essere Supremo… Ed è sempre a Voltaire che dobbiamo alcune tesi molto singolari sulla religione. Ecco, per esempio, cosa scrive all’amico enciclopedista d’Amilaville: «È una cosa molto opportuna che il popolo venga guidato e non istruito: non è degno di esserlo».203 Oppure, qualche giorno più tardi, sempre allo stesso destinatario: «Mi pare essenziale che esistano dei miserabili ignoranti. Quando la plebaglia si picca di ragionare, tutto è perduto».204 Stiamo parlando dello stesso Voltaire che si fa sistemare in casa un cappellano e che si fa costruire una chiesa, preoccupandosi di chiedere a papa Benedetto XIV alcune reliquie per l’altare della propria cappella privata. I filosofi del Settecento leggono quindi tutti Voltaire anziché Meslier: d’Alembert, Diderot, d’Holbach, Rousseau, Mably, Morelly, Maréchal, Helvétius, Condillac, solo per citare i più conosciuti. È soltanto dal 1864, grazie all’opera di Rudolf Charles (vero nome: Rudolf Charles d’Ablaing Van Giessenburg), massone ateo olandese, che possiamo leggere un’edizione

completa del Testamento di Meslier, ripulita da tutti gli imbrogli e da tutte le bugie di Voltaire. Intanto, tra la morte del parroco e la pubblicazione in tre volumi ad Amsterdam della sua opera completa di più di tremila pagine, c’è stato il tempo di fare la Rivoluzione francese… Per quello che qui ci riguarda, ossia per quello che riguarda l’odissea occidentale dell’anima, il punto essenziale è capire se e come Julien Offroy de la Mettrie conoscesse il testo di Meslier. La Mettrie è un contemporaneo di Meslier, anche se ha vent’anni quando quest’ultimo muore e cinquantatré quando esce la falsa edizione di Voltaire. L’autore de L’uomo macchina muore nel 1751 e ha probabilmente sentito parlare di quell’opera nei salotti che frequenta e in cui è molto d’attualità. Comunque stiano le cose, esiste una copia intera del Testamento alla corte di Federico di Prussia, dove La Mettrie vive tra il 1747 e il 1751, anno in cui muore, ma anche in cui viene pubblicata la sua Arte di godere – un trapasso filosofico e coerente per questo edonista, se è vero, come si dice, che sia stato dovuto a un’indigestione di pasticcio di fagiano. Sappiamo che La Mettrie conosce Meslier, perché ne L’Ouvrage de Pénélope, ou Machiavel en médecine [L’opera di Penelope, ovvero Machiavelli in medicina], pubblicato nel 1748, scrive: «Spinoza non dice mai quello che pensa: lo si scopre dalle sue carte dopo la morte, come è successo anche per quel parroco della Champagne, di cui parecchia gente già conosce la storia, uomo della più grande virtù, in casa del quale sono state trovate tre copie della sua professione di fede atea».205 La Mettrie passa spesso per ateo, anche se in realtà non lo è affatto, e deista sarebbe la definizione più corretta.206 Si rivela invece radicalmente materialista, capace di spingere il sistema epicureo fino alle sue estreme conseguenze. Lo si cita poco, o non lo si cita per niente, non perché sia ateo, ma a causa del suo edonismo, così profondamente rivendicato: scrive L’arte di godere (1751), come ho già segnalato, ma anche L’École de la volupté [La scuola della voluttà] (1746), l’Antiseneca ossia Discorso sulla felicità (1748), dove afferma che «lo stoico non ha maggior sensibilità di un lebbroso»,207 e una Vénus métaphysique ou De l’origine de l’âme humaine [Venere metafisica, ovvero Dell’origine dell’anima umana] (1752). Tutte opere che non possono incontrare il favore dei signori Lumi, i quali, certo, criticano il cristianesimo, però continuano a difendere un ideale ascetico severo e austero. Aggiungiamo a queste considerazioni il fatto che, con il suo determinismo radicale, La Mettrie non condivide affatto l’ottimismo di questi stessi Lumi. Non crede, per esempio, che un cambiamento della società possa indurre una metamorfosi dell’uomo. Da medico e da autore di due libri sulle malattie veneree, non pensa di poter sperare niente da quest’uomo nuovo che si profila

nel corso del Settecento. Nel suo Discorso sulla felicità, scrive chiaramente: «In generale gli uomini sono nati cattivi; senza l’educazione, i buoni sarebbero pochi».208 Ci muoviamo qui agli antipodi del discorso ingenuo, irenista, e tossico, di Rousseau! Nel Discours préliminaire [Discorso preliminare], si rivolge a una élite, a un’aristocrazia del pensiero, senza manifestare alcuna preoccupazione per la povera gente o per i miseri. Al popolo e al contenimento delle sue furie, riserva la severità delle leggi civili e religiose. A proposito di questo popolo, afferma: «Sappiamo quanto sia difficile far muovere un animale che non vuole lasciarsi condurre; applaudiamo dunque alle vostre leggi, alla vostra morale e persino alla vostra religione, quasi quanto alle vostre forche e ai vostri patiboli».209 La Mettrie è molto pesante nei confronti dei filosofi illuministi che vogliono educare le folle e le masse; è convinto che «Il popolo non vive con i filosofi e non legge i libri di filosofia. Se per caso gliene capita uno tra le mani, o non ci capisce niente, o, se riesce a tirarci fuori qualche pensiero, non crede a una sola parola; tratta senza mezzi termini i filosofi, e i poeti, come fossero tanti pazzi, e li trova degni dei manicomi».210 La Mettrie prosegue il proprio attacco con un entusiasmo molto sentito! Come avrebbe mai potuto ottenere il consenso e il sostegno della casta dei filosofi filosofeggianti? La sua opera è molteplice e, come tutte le opere ad alto contenuto ideologico anticristiano, è scritta secondo le logiche libertine della dissimulazione. Per esempio, ci si rifiuta di assumere la responsabilità di un testo a proprio nome e la pubblicazione esce anonima e viene stampata all’estero; poi, vengono preparati una serie di controtesti che difendono una serie di controtesi con cui l’accusato stesso attacca le tesi del libro, facendo finta che non siano sue. Ce ne sono tantissime, di strategie! Nel suo Abrégé des systèmes [Riassunto dei sistemi], La Mettrie punta l’indice contro la dissimulazione di Descartes e di Spinoza, però resta difficile distinguere anche in lui tutto quello che ne deriva. L’uomo macchina (1747) è l’opera con cui La Mettrie viene ricordato nella storia delle idee. Che cosa ci racconta questo libro pubblicato a quasi vent’anni dalla morte di Jean Meslier? Questo libro ci mostra come in filosofia esistano due correnti: quella più antica del materialismo e quella successiva dello spiritualismo. I materialisti sperimentano e osservano (e qui La Mettrie predica per la propria parrocchia, tessendo le lodi dei medici filosofi), mentre gli altri raccolgono le informazioni prendendole dalle Scritture e si accontentano di metafisica o di teologia. Il medico La Mettrie afferma che qualsiasi malfunzionamento del corpo

(febbre, malattia, fatica, ubriachezza, colpo apoplettico, sincope, oppio, sonno, caffè, fame, sazietà, gravidanza, continenza, vecchiaia…) produce effetti sull’anima: «I diversi stati dell’anima sono sempre correlati a quelli del corpo. Per meglio dimostrare tutta questa dipendenza, e queste cause, serviamoci qui dell’anatomia comparata e apriamo le interiora dell’uomo e quelle degli animali. È il mezzo per conoscere la natura umana, se non si è già illuminati da un giusto parallelismo della struttura degli uni e degli altri».211 Quindi, in sostanza, aprendo il corpo si scoprono i meccanismi dell’anima. Il corpo, e più in particolare il cervello, è, con poche differenze, lo stesso nell’uomo e in certi animali: «L’uomo, di tutti gli animali, è quello che ha più cervello, e che ha il cervello più labirintico, in ragione della propria massa corporea: seguono la scimmia, il castoro, l’elefante, il cane, la volpe, il gatto, e così via. Questi sono gli animali che maggiormente assomigliano all’uomo».212 La Mettrie parla del «corpo calloso» come della sede dell’anima e mette in relazione la quantità di materia con la qualità dell’anima: più c’è materia grigia e materia che connette i due emisferi del cervello, più è presente l’uomo e l’umano; meno ce n’è, come «nei pesci [che] hanno la testa grossa, ma […] vuota di sensazioni, come quella di parecchi uomini»,213 meno troviamo l’umano. I pesci sono privi di corpo calloso e hanno poco cervello, mentre gli insetti ne sono sostanzialmente privi. La Mettrie fornisce quindi una gerarchia della molteplicità del vivente, mettendo in cima l’uomo, alla base gli insetti, e in seconda posizione la scimmia. La Mettrie rifiuta la logica del dualismo giudaico-cristiano, soprattutto quella di Descartes, che separa gli uomini dagli animali concedendo l’anima ai primi ma non ai secondi; e difende invece l’esistenza di un’anima materiale e corporea collocata nel cervello, e più in particolare nel corpo calloso. Ne L’uomo pianta, scrive: «un niente di più o di meno nel cervello, dov’è l’anima di tutti gli uomini eccettuati i leibniziani, potrebbe immediatamente precipitarci in fondo: non disprezziamo quindi esseri che hanno la nostra stessa origine. In verità non sono che al secondo posto, ma la loro posizione è più stabile e più ferma».214 Tirando fuori l’idea di insegnare a una scimmia a parlare, il filosofo ci sta in pratica proponendo qualcosa d’incredibile, qualcosa che lo trasporta direttamente nella più attuale modernità. Ce la immaginiamo, la confusione ontologica che un’idea come questa può aver prodotto all’interno del microcosmo giudaico-cristiano! Se la scimmia parla, cosa ormai può più distinguerla dall’uomo? È il suo modo tutto ironico di rispondere al Descartes che, con la sua idea degli animali-macchina, sosteneva che solo l’uomo poteva pensare e parlare. La scimmia di La Mettrie scongiura insomma la cagna cartesiana di Malebranche.

«Questo animale ci somiglia tanto, che i naturalisti l’hanno chiamato uomo selvatico o uomo dei boschi».215 Per il suo esperimento, sceglie una scimmia non troppo giovane e non troppo vecchia, con un’andatura sciolta e vivace, e la porta in una scuola per sordomuti, quella di Amman, dove si insegna il linguaggio dei segni, linguaggio attraverso il quale si pensa sia possibile farla parlare. Johann Conrad Amman aveva pubblicato nel 1692 un’opera intitolata Surdus loquens seu Methodus qua, qui surdus natus est, loqui discere possit [La dissertazione sulla loquela]. Le Quatre lettres sur l’éducation des sourds [Quattro lettere sull’educazione dei sordi] dell’abate de L’Épée saranno pubblicate nel 1774 e il suo Institution des sourds et muets par la voie des signes méthodiques [Educazione dei sordi e dei muti attraverso il metodo dei segni] nel 1776, quindi solo dopo la morte di La Mettrie, il quale infatti consacra parecchie pagine del suo Traité de l’âme [Trattato sull’anima]216 proprio al metodo di Amman. Il filosofo parte dal principio che tale metodo permette ai sordomuti di vedere i segni: di avere le orecchie negli occhi, per riprendere la sua immagine. Anche la scimmia vede e intende, e capisce quello che vede e intende. Per questo motivo, il metodo potrebbe funzionare, e forse ancora meglio che con i bambini sordi e muti. La Mettrie esalta il genio di Amman, che «ha liberato gli uomini dall’istinto cui sembravano condannati, ha dato loro delle idee, dell’intelligenza, insomma, un’anima, che non avrebbero mai avuto».217 Vediamo qui che, per La Mettrie, l’anima è materiale, mortale, sostanziale, localizzata (nel corpo calloso del cervello, come abbiamo visto) e, notizia incredibile, suscettibile di essere acquisita! Perché «dare un’anima» per mezzo di un metodo d’insegnamento della parola a chi, altrimenti, ne sarebbe sfornito rappresenta una rivoluzione ontologica. La Mettrie inaugura l’era postcristiana in fatto di anima – un’era in cui ci troviamo ancora oggi e in cui il transumanesimo inscrive il proprio orizzonte. Proiettandosi al momento in cui il lavoro di acquisizione sarà terminato e la sua scimmia avrà cominciato a parlare, La Mettrie è portato a concludere: «Allora non sarebbe più né un uomo selvaggio né un uomo mancato: sarebbe un uomo perfetto, un piccolo uomo di campagna, con altrettanta stoffa e muscoli che noi per pensare a trar profitto dalla sua educazione» [corsivo mio].218 E prosegue: «dagli animali all’uomo non c’è un passaggio brusco: i veri filosofi ne converranno. Che cos’era l’uomo prima dell’invenzione delle parole e della conoscenza delle lingue? Un animale della sua specie, che aveva molto meno istinto naturale degli altri, di cui allora non si credeva re, e che si distingueva dalla scimmia e dagli altri animali soltanto come se ne distingue la scimmia stessa, voglio dire per una fisionomia che prometteva un maggiore discernimento».219

L’anima è dunque materiale, cerebrale nel caso specifico, e si definisce attraverso tutti gli engrammi che accoglie. È costituita dagli atomi del corpo calloso, che è il luogo dove si trovano le informazioni acquisite tramite l’educazione e l’esperienza. E siamo ovviamente d’accordo sul fatto che, se esiste un’uguaglianza formale, sostanziale e naturale (perché tutti quanti possiedono un corpo calloso), esiste anche un’ineguaglianza qualitativa, che dipende da quello che si trova dentro l’anima stessa e dalla casualità degli incontri e delle esperienze avute. Da qui l’affermazione della disuguaglianza ontologica tra gli uomini, che colloca La Mettrie nel campo dei pensatori inaccessibili all’ottimismo dei Lumi. Certo, un’educazione simile dovrebbe produrre anime uguali, ma immaginare che una finzione come questa possa solo essere possibile significa semplicemente sognare. Ciò non toglie che, però, parte dei protagonisti della Rivoluzione francese proprio a questo aspira, a costruire un Uomo Rigenerato… Come spiegare allora il fatto che, da una parte, esistono gli uomini e, dall’altra, gli animali, se è vero che «la natura ha usato una sola e medesima pasta, di cui ha variato soltanto i lieviti»?220 L’immagine del lievito è interessante, perché introduce l’idea di una dinamica, di un’attività della materia. Quello che separa La Mettrie, autore de L’uomo macchina, dalla piccola scimmia che balla su un ponte, «non è […] altro che un grado di fermentazione». 221

In un altro passaggio, il filosofo rimanda ancora una volta alla fisiologia: «Se ora mi si domanda quale sia la sede di questa forza innata nei nostri corpi, rispondo che essa evidentissimamente risiede in ciò che gli Antichi hanno chiamato il parenchyma, cioè nella sostanza propria delle parti, prescindendo dalle vene, dalle arterie, dai nervi, insomma dall’organizzazione di tutto il corpo; e che di conseguenza ogni parte contiene in sé delle molle più o meno vivaci, secondo il bisogno che ne hanno le parti stesse».222 «Cervello», «corpo calloso», «parenchyma», altrove «tessuto midollare»,223 o anche «forza innata nei nostri corpi»,224 «principio eccitante e impetuoso»225 nell’encefalo: La Mettrie cancella la metafisica del teologo cristiano in nome della fisica del medico materialista. Sa che tutto discende dall’organizzazione della materia, anche se alla fine ammette di essere incapace di dirne di più: «Mi si conceda soltanto che la materia organizzata è dotata di un principio motore, il quale solo la differenzia dalla materia non organizzata (si può negare qualcosa all’osservazione più incontestabile?) e che negli animali tutto dipende dalla diversità di questa organizzazione».226 E, come abbiamo visto, mette questo principio motore in relazione con il «grado di fermentazione»; da qui l’accenno ai «lieviti».

Ricordiamoci di come, posto di fronte allo stesso arduo compito di rispondere a domande come: «In che modo si trova organizzata la materia?», «In che modo si passa dalla materia all’idea?», o: «Quali sono i processi che fanno sì che la materia pensi?», anche Jean Meslier, nel suo Testamento, invoca «una specie di modificazione, e di fermentazione continua»227 per spiegare ciò che, nella vita, vuole la vita come essa si manifesta. Precisiamo che, a queste domande su cui inciampano Meslier e La Mettrie, non siamo riusciti a dare una risposta nemmeno oggi, nonostante tutta l’ingegneria contemporanea delle risonanze mediche! «Incomprensibili meraviglie della natura»,228 si accontenta di scrivere La Mettrie, e oggi non potremmo fare o dire di meglio! La fisica lamettriana impedisce dunque qualsiasi possibilità di metafisica e spinge verso un’etica radicalmente postcristiana. Scrivendo che «L’uomo è un macchina governata da un fatalismo assoluto»,229 l’autore de L’uomo macchina non si pone tanto all’origine di una tesi meccanicista (abbiamo visto che l’ipotesi della fermentazione impedisce questo tipo di lettura), quanto alla base di una tesi fatalista, che comunque manda anch’essa in frantumi l’ontologia cristiana. Perché dire, da una parte, che non esiste altro che materia, visto che l’anima è materiale e dunque mortale, e, dall’altra, che il libero arbitrio non esiste e che a dettare legge è il puro determinismo significa distruggere l’edificio cristiano. Scrivere che «in tutto l’universo c’è una sola sostanza diversamente modificata»,230 oltre al fatto di essere una tesi apertamente spinoziana, significa anche affermare che il corpo e l’anima, la scimmia e l’uomo, il criminale e il prete, l’acaro e il Sole costituiscono tutti delle semplici variazioni di un solo e identico tema, quello della materia. Non più di quanto l’acaro sia responsabile di essere acaro piuttosto che Sole, o di quanto il Sole lo sia di essere astro piuttosto che insetto, anche l’assassino non ha scelto di commettere il proprio crimine o il santo di condurre la propria vita virtuosa. Si tratta semplicemente di un’organizzazione diversa della materia di cui sono costituiti, senza che si sappia troppo bene che cosa sia che decide, e non chi. L’uomo macchina è un inno al fatalismo che cancella la responsabilità e quindi il senso di colpa. Se l’anima è materiale allo stesso titolo della vescica, e se la materia che la costituisce nel cervello è simile a quella che compone la prostata, allora punire un criminale (come, per esempio, quella fille sauvage di Châlons-en-Champagne che si è mangiata la sorella) o punire una persona per la sua incontinenza urinaria si rivelano imprese parimenti sciocche. Penso lo stesso di tutti coloro che commettono dei delitti, anche involontari, oppure dovuti al temperamento: di Gastone di Orléans che non poteva trattenersi dal rubare; di una certa donna che durante la gravidanza andava soggetta allo stesso vizio, che poi i suoi figli ereditarono; di quella

che, nello stesso stato, mangiò suo marito; di quell’altra che ammazzava i bambini, ne salava le carni, e ne mangiava tutti i giorni un po’ come prosciutto; di quella figlia di un ladro antropofago, che lo divenne a dodici anni, sebbene, avendo perduto padre e madre quando aveva un anno, fosse stata allevata da persone per bene; per non parlare di altri esempi di cui sono pieni i libri dei nostri osservatori, e che provano tutti l’esistenza di mille vizi e virtù ereditari, che passano dai genitori ai figli, come altri che passano dalla balia a coloro che essa allatta. Dico dunque e sostengo che la maggior parte di quei disgraziati non sentono immediatamente l’enormità della loro azione. Per esempio, la bulimia, o fame canina, può spegnere ogni sentimento: è una mania di stomaco che occorre soddisfare. Ma una volta ritornate in sé e come disinebbriate, quali rimorsi per quelle donne che si ricordano l’assassinio commesso contro ciò che avevano di più caro! Quale punizione per un male involontario, al quale non hanno potuto resistere, del quale non hanno avuto coscienza alcuna.231

Conclude il filosofo sostenendo che i giudici mancano di saggezza quando condannano a morte persone già vittime della conformazione particolare della loro materia corporea, prima ancora di essere colpevoli di qualsiasi altra cosa. E che a dirimere questo genere di affari dovrebbero essere i medici più che i magistrati. La fine dell’anima immateriale, immortale, responsabile e quindi punibile apre la strada, moderna, a un’anima materiale, mortale e innocente. Con il suo Dio e il suo demonio, ma soprattutto con la sua anima immateriale ed eterna, la morale cristiana sfruttava la minaccia dell’inferno e la promessa del paradiso per costruire l’ordine sociale e ottenere la sottomissione ai poteri costituiti – Meslier ha già analizzato tutto questo alla perfezione. Senza Dio e senza demonio, con un’anima collocata nel corpo calloso di un cervello e sottoposta a generazione e corruzione, ecco che riappare l’amoralità. La Chiesa la chiama immoralità, ma è solo perché regola il giudizio sulla propria, di morale, e quest’anomia produce crepe nell’edificio della civiltà. Ne L’uomo macchina, La Mettrie spinge tutti a obbedire alla propria natura, dal momento che non si può fare altro! «Il corpo umano è una macchina che monta da sé le sue molle, immagine vivente del moto perpetuo».232 Che il delinquente conduca la propria vita di dissolutezza, che il libertino passi la propria tra stupri e fornicazioni, che il santo viva la propria esistenza in mezzo alla preghiera e alla contemplazione, è sempre al di là del bene e del male che si gioca tutto: «Non mi si dica che invito al delitto, perché io invito soltanto alla tranquillità nel delitto».233 C’è stato un filosofo che ha preso La Mettrie alla lettera e non si è accontentato di questa «tranquillità nel delitto», un filosofo che si aspettava qualcosa di più e qualcosa di meglio, e che si aspettava il godimento nel crimine. Ma cosa dico?

Non solo se lo aspettava, ma addirittura lo sperava, lo desiderava, lo voleva, trasformandolo, da uomo forsennato che era, nella ragione d’essere di tutta la sua vita e di tutta la sua opera. Quest’uomo è il marchese de Sade. Parlando dell’opera, esistono due marchesi, che sono poi in verità uno solo: il primo scrive le pagine pornografiche, con tutte le combinazioni sessuali possibili (stupri, sevizie e torture comprese, e poi le pratiche di necrofilia, zoofilia, pedofilia, coprofilia, scatologia e incesto, e poi ancora gli omicidi, e tutti gli altri crimini amati dai libertini); il secondo, invece, infarcisce (tramite un procedimento visibilissimo perché realizzato in maniera molto grossolana, soprattutto nella Filosofia nel boudoir) delle lezioni di filosofia tra due scariche, tre orge, dieci orgasmi e trenta eiaculazioni – e parlo ovviamente delle performance di una sola mezza giornata… Queste lezioni di filosofia, l’eroe sadiano, maestro libertino per eccellenza, le impartisce in piena azione, cioè mentre con una mano stringe un grande membro virile e con l’altra rovista l’ano di un vescovo, mentre sodomizza una capra e si fa lui stesso socratizzare da una donna dotata di strap-on (il quadro l’ho ricostruito io); mentre fa tutte queste cose, trova il tempo di sciorinare senza perdere l’erezione pagine intere dei filosofi materialisti a giustificazione delle proprie pratiche: Helvétius, d’Holbach, Diderot e La Mettrie vengono tutti convocati, senza virgolette, nelle opere complete del marchese, ultimo pensatore feudale e non primo dei moderni, femminista, libertario, solare e alfiere del sesso liberato e del genere umano, come pretende invece certa vulgata molto diffusa dalle parti di Saint-Germain-des-Prés, rimasta a rimasticare senza sosta gli elementi linguistici raccolti da Apollinaire in un’antologia compilata su commissione nel 1909! E poi, cos’altro? Ricordiamoci di come Pasolini abbia molto opportunamente accostato Le 120 giornate di Sodoma ai campi di morte nazisti… Qui però entriamo in un altro discorso… Si passa spesso sotto silenzio il Sade filosofo, o quantomeno l’autore che crea i suoi collage filosofici raccogliendo materiali dalla coeva letteratura anticristiana, atea e materialista, clandestina e non clandestina, per giustificare la propria vita di delinquente sessuale patentato.234 Non facciamo molta fatica a immaginare quanto il nuovo paradigma formulato da La Mettrie nel suo testo su L’uomo macchina, cioè quello di un mondo senza Dio e governato dal fatalismo della materia, che esclude qualsiasi responsabilità e quindi qualsiasi colpevolezza, un mondo de facto senz’anima, convenisse benissimo a un uomo come Sade, che una certa fermentazione della materia, per utilizzare le formule di Meslier e di La Mettrie, faceva di lui quello che era. Ecco una creatura che, se non si apparteneva alla nobiltà o al clero, era meglio non incontrare nel corso della propria esistenza. Credo del libertino Sade:

«Che m’importa del crimine […] purché mi dia diletto».235 È l’imperativo categorico di un uomo feudale. Quello che voglio prendere in considerazione in quest’ultima opera del marchese è qualcosa che sembra appartenerle profondamente sul terreno delle idee, e cioè l’introduzione dell’elettricità nel pensiero materialista. In questo romanzo dove si catalogano tutte le possibili perversioni, Sade ci parla in effetti del «fluido elettrico che circola nelle cavità dei nostri nervi».236 Di che si tratta? In Juliette ovvero le prosperità del vizio, la strega Durand, uno dei personaggi di Sade, si esprime in questi termini: L’anima dell’uomo […] non è altro che una parte di quel fluido etereo, di quella materia infinitamente sottile la cui origine è nel sole. Tale anima, che ritengo essere l’anima collettiva del mondo, è il fuoco più puro che arda nell’universo, non brucia per sé stesso ma, introducendosi nella cavità dei nostri nervi, dove risiede, imprime tale movimento al meccanismo animale da renderlo capace di tutti i sentimenti e di tutte le reazioni chimiche. È in sostanza uno degli effetti dell’energia, che conosciamo ancora troppo poco, ma di certo non è un’altra cosa.237

Non stupisce che Sade faccia formulare questa teoria radicalmente anticristiana, pagana e, in un certo senso, panteista e spinoziana, come si sarebbe detto all’epoca, da una strega. Questo testo, seguendo il principio operativo del saccheggio delle opere libertine messo in pratica anche dal marchese, si fonda sul Trattato dei tre impostori, un’opera anonima il cui quinto capitolo sull’anima riprende i Discours anatomiques [Discorsi anatomici] di Guillaume Lamy, che, a loro volta, mescolano un po’ di teoria stoica del fuoco dinamico come anima del mondo nella materia (il famoso pneuma), uno spruzzo di teoria dell’anima ignea di Telesio e un trattato di teoria cosmologica copernicana. Sade spiega tutto per mezzo della materia e, più in particolare, tirando in ballo il fatalismo degli atomi portatori di elettricità. Al di là del bene e del male, i flussi animano la materia per produrre a volte un carnefice e a volte una vittima. C’è un personaggio di Juliette che proclama: «il celebre La Mettrie aveva ragione, quando diceva che bisogna avvoltolarsi nella sporcizia, come i porci e che si deve trovare, come loro, il piacere negli estremi livelli della corruzione». 238

Nessuno sceglie mai niente: è la costituzione atomica, nervosa ed elettrica, peculiare a ciascun essere a fare di quest’essere un uomo feroce come una tigre o dolce come un agnellino. A seconda dello spessore degli organi, della velocità di trasmissione delle informazioni nervose, della quantità di fluidi in gioco e del vortice delle particelle, uno si ritrova a divorare il proprio prossimo, mentre un altro a lavargli i piedi. Di modo che «la sollecitazione provocata nel fluido

elettrico dai rapporti degli oggetti esterni, operazione i cui effetti definiamo passioni, stabilisce la tendenza al bene o al male».239 Sade parla di «fluido elettrico», di «globuli elettrizzati», di «fluido nervino», di «atomi elettrici», e dà così ragione a La Mettrie che, ne Les Animaux plus que machines [Gli animali più che macchine], s’interroga sull’ agente dei corpi animati, quell’Archè a cui il sentimento deve la propria esistenza, come il pensiero la deve al sentimento, e intendo il movimento. Di sicuro, l’uno senza l’altro non avrebbe potuto produrre un effetto così grande, soprattutto quello del parenchyma, che è il più debole di tutti. E, in effetti, che cos’è questa contrazione spontanea, senza i soccorsi vitali? E questi, a loro volta, riuscirebbero a spostare in maniera così potente simili macchine, se non le trovassero sempre pronte a essere messe in movimento da questa forza motrice, da questo meccanismo innato, così universalmente diffuso e dappertutto, che diventa persino difficile dire dove non sia presente e anche dove non si manifesti con effetti sensibili, anche dopo la morte, anche in parti staccate del corpo, tagliate a pezzi. Il fuoco che fa durare più a lungo la contrazione del cuore della rana, sistemato sopra un piatto riscaldato sarebbe il principio motore di cui stiamo parlando? L’elettricità non renderebbe più plausibile questa nuova congettura?240

Il piacere, il godimento, l’orgasmo, la voluttà, allo stesso titolo della generosità, dell’amore per il prossimo, della bontà e dell’altruismo sono quindi, in La Mettrie come in Sade, suo discepolo, solo una questione di atomi, e nient’affatto di morale. Tutti quelli che si mettono a giudicare sbagliano: né il vizio né la virtù sono volontari. Sono piuttosto loro a decidere: il vizio s’impadronisce di questa persona, e la virtù prende quell’altra. Il sadismo definisce un giansenismo della carne. Anche l’anima atomica.

Parte terza

DISTRUGGERE L’ANIMA Sotto il segno della scimmia Dove La Mettrie si mette in testa d’insegnare a una scimmia a parlare con il linguaggio dei segni inventato da poco. Dove, nella sua demonologia, Jean Bodin trasforma la scimmia nella figura lubrica per eccellenza. Dove il naturalista Buffon distingue la scimmia dall’uomo facendo leva sull’anima immateriale e invisibile. Dove il marchese de Sade trasforma la scimmia in un partner sessuale ideale perché non parla né durante l’orgia né dopo. Dove l’accademico Maupertuis sostiene che la scimmia si riproduce senza difficoltà con i neri. Dove Restif de La Bretonne ci insegna che la scimmia preferisce le donne che hanno odori forti alle femmine della propria specie. Dove l’abate Sieyès ipotizza l’incrocio tra scimmie e uomini per produrre una razza di domestici efficienti. Dove Rousseau organizza in ordine gerarchico l’uomo selvaggio, l’uomo naturale, la scimmia e l’uomo. Dove Darwin ci insegna che Dio ha creato l’uomo a propria immagine, ma discende comunque da una scimmia.

Capitolo primo

Vita e morte dell’ostrica Animalizzare l’uomo

Finché c’è Dio, sembra facile regolare il problema dei rapporti tra uomini e animali, e quindi anche rispondere alla domanda sulla natura dell’anima. Basta richiamarsi alla Genesi, dove, in effetti, ci viene insegnato, ce lo ricordiamo bene, che Dio crea il mondo seguendo un ordine ben preciso: prima la luce, il giorno, la notte, il cielo, la Terra e il mare, i vegetali, le stelle, il Sole, la Luna, e poi gli esseri viventi, partendo dagli animali marini e dagli uccelli, per poi arrivare agli abitanti della terraferma, ai capi di bestiame, agli animali più piccoli e, subito dopo, all’uomo, perfezionando in ultimo la propria creazione con… la donna! Il creatore, lettore ante litteram del Discorso sul metodo, insegna alla propria creatura come addomesticare e padroneggiare gli animali per nutrirsi, lavorare e vestirsi. Dio crea l’animale erbivoro (Gen 1, 30); ma poi anche il leone? E crea l’uomo carnivoro; e allora il vegano? La storia, la conosciamo. In verità, il re della giungla e il piccolo marchese del bulgur mettono in crisi la verità di questo racconto mitologico. E cosa succede quando Dio non c’è più? Quando, a partire dal Rinascimento, comincia a perdere colpi? Quando si rammollisce e s’indebolisce sotto gli assalti non tanto di Descartes quanto dei cartesiani? Quando addirittura vacilla e poi crolla sotto il peso degli atomi dei materialisti e degli altri sensualisti, utilitaristi ed empiristi, e si frantuma in mille pezzi? Oppure quando, a Lisbona, dopo il disastro marino che segue il terremoto in cui muoiono annegati moltissimi innocenti, viene mandato dai filosofi deisti a vivere la sua vita altrove, lontano dagli uomini, dalle cose e dal mondo? E cosa succede all’anima immortale, eterna e immateriale, quando alcuni di quei filosofi che chiamano Lumi cominciano a definirla invece mortale, temporale e materiale? E quando questi stessi filosofi si mettono a far circolare voci sulla breve distanza che separa la scimmia dall’uomo, una distanza non così grande, e più sottile del soffio dell’anima? Nell’articolo alla voce «Innato» dell’Enciclopedia, Diderot lega la conoscenza ai sensi. Innata è la facoltà di conoscere e quindi, in quanto tale, lo è fin dalla

nascita – da dimostrare comunque anche questo… I sensi rendono possibile l’atto dell’astrazione e il sensibile permette di passare all’azione dell’intelletto. Seguiamo la dimostrazione: «Togliete i nasi, e toglierete contemporaneamente anche tutte le idee che appartengono all’odorato; stessa cosa vale per il gusto, l’udito e il tatto. La verità è che, una volta eliminate tutte queste idee e tutti questi sensi, non rimane nessuna nozione astratta; perché è attraverso il sensibile che noi siamo portati all’astratto». Riconosciamo qui la teoria della statua popolarizzata da Condillac nel suo Trattato delle sensazioni (1754), un’idea che gli era stata passata a sua volta da… Diderot in persona, basta leggere la sua Lettera sui ciechi. La dimostrazione continua: «E dopo aver avanzato per via di eliminazione, seguiamo il metodo opposto. Supponiamo una massa informe ma sensibile; questa massa avrà tutte le idee che possiamo ottenere dal tatto. Perfezioniamo poi la sua organizzazione e sviluppiamola: ecco che avremo aperto la porta alle sensazioni e alle conoscenze. È attraverso questi procedimenti che possiamo ridurre l’uomo alla condizione dell’ostrica, o elevare l’ostrica alla condizione dell’uomo». È assolutamente evidente che questa «massa informe ma sensibile» è qualcosa che sta sotto il livello dell’animale, perché, per esempio, il cane o la scimmia non possono essere definiti «masse informi», dato che sono, e su questo anche Descartes sarebbe d’accordo (è del resto proprio il senso dell’ipotesi dei suoi animali-macchine), delle forme eminentemente organizzate, semplicemente prive di anima. Per le necessità della propria dimostrazione, e non senza sacrificarsi alle delizie dell’ironia, Diderot chiama in causa il vivente ben al di là della cagna presa a ciabattate da Malebranche e della scimmia di La Mettrie, minacciata di essere messa in internato assieme ai sordomuti per imparare a parlare, e riesce a far entrare nella storia della filosofia persino l’ostrica… Nell’articolo dedicato alla voce «Anima» nelle Questioni sull’Enciclopedia, tra scetticismo e professione di fede deista, Voltaire, che mette l’«Essere supremo» nella cabina di pilotaggio dell’anima, risponde al testo redatto dall’abate Yvon sullo stesso argomento per l’Enciclopedia. Per risolvere la questione dell’anima degli animali, l’abate rimandava, cosa nient’affatto sciocca, all’istinto. Voltaire, invece, non crede che gli animali siano privi di anima, ma non per questo motivo è portato a credere che, per esempio, le rane, gli insetti o le pulci ne abbiano una! Scrive: «Prima del bizzarro sistema che considera gli animali come mere macchine prive di qualunque sensazione, gli uomini non avevano mai attribuito alle bestie un’anima immateriale; e nessuno era mai stato tanto temerario da dire che un’ostrica possiede un’anima spirituale».1 Con Diderot, quindi, oltrepassiamo una soglia. Torniamo alle sue considerazioni.

Dal mollusco fino all’uomo, quello che constatiamo è solo l’intervento di un non so che, di un nonnulla: ci vuole poco, si comincia con un bivalve e si finisce con un filosofo. Per passare dall’uno all’altro, basta perfezionare l’organizzazione della materia sensibile. E come? Attraverso l’educazione, per quanto riguarda l’individuo – grazie Helvétius; attraverso l’eugenismo, per quanto riguarda la specie – grazie Maupertuis; attraverso la politica, in tutte e due i casi – grazie Rousseau. L’insieme di questo dispositivo di rieducazione, i rivoluzionari francesi, e più in particolare i giacobini, lo chiamano «rigenerazione» – grazie abate Grégoire. L’ideologia dell’Uomo Nuovo, un prestito che i rivoluzionari hanno mutuato da san Paolo, permette di affrontare il problema della produzione artificiale dell’uomo; la questione, ormai non possiamo più fare finta di niente, si trova tuttora al cuore del transumanesimo. Per portare a compimento questo progetto di rigenerazione, la scimmia rappresenta la chiave di volta dell’avvenire dell’uomo. Alcuni autori dell’Antichità raccontano di rapporti sessuali tra uomini e animali. Per esempio Eliano, Plinio e Pausania. Quando gli europei scoprono il resto del mondo, i loro resoconti di viaggio trasportano i lettori in America, in Oceania, in Africa e in Asia, e descrivono nascite apparentemente sostenibili, frutto di relazioni sessuali tra oranghi e donne; Montaigne ricorda i rapporti amorosi tra una donna e un elefante e tra alcune scimmie e alcune donne; ci si mettono anche gli autori devozionali, ma non più per segnalare dei fatti curiosi, o per spiegare come gli uomini non siano poi così distanti dagli animali, ma per insegnare, al contrario, che in questo genere di accoppiamenti si trova proprio il diavolo; i demonologhi come Jean Bodin nella sua Demonomania de gli stregoni (1580) si mettono a ripetere questo ritornello e spiegano fin nei dettagli come il maligno assuma la forma che vuole, quindi anche quella degli animali, allo scopo d’indurre gli uomini al peccato. In quest’ordine di idee, la scimmia è per eccellenza la figura della tentazione: sembra l’animale più vicino agli uomini, ma, in realtà, nella prospettiva cattolica, è quello più lontano. La scimmia funziona da tempo come figura di carta: noi non l’abbiamo vista, ma abbiamo letto le sue scappatelle in parecchi autori: naturalisti, storici, viaggiatori, demonologhi, teologi e filosofi. Nel Seicento, la scimmia sbarca in Europa in carne ed ossa, ancora senz’anima. All’Aia, nel 1630, un esemplare viene dissezionato da Nicolas Tulp, il famoso anatomista dipinto da Rembrandt nella Lezione di anatomia, che l’aveva soprannominato il «Satiro indiano». Nelle sue Observationes medicae [Osservazioni mediche] (1641), Tulp, collega di Vesalio, scrive dei maschi delle

scimmie che hanno «così tanta audacia e potenza nei muscoli da attaccare non solo uomini armati ma anche donne e bambine. E che il desiderio che provano nei confronti di queste ultime si rivela tanto forte da spingerli a rapirle e a violentarle. Sono talmente portati agli incontri d’amore (anche tra loro, come lo erano i satiri libidinosi degli Antichi) che sembrano continuamente carichi di desiderio e pronti a praticare ogni sconcezza; al punto che le donne indiane, più ancora che per i serpenti e i cani, evitano di passare per i boschi e le foreste perché abitate da questi impudichi animali».2 Descartes conosce il barbierechirurgo Tulp: di più, sulle loro relazioni, non è dato sapere. Anche La Mettrie cita questa storia nel suo Traité de l’âme [Trattato sull’anima].3 Per il momento, vale a dire in questo inizio Seicento, la scimmia di carta si trova immersa nel suo stesso sangue, versato nel corso di una specie di battesimo della modernità anatomica. Quindi della modernità tout court. Il sesso praticato dagli uomini con le scimmie provoca due generi di reazione, a seconda che si tratti di un esemplare maschio o di un esemplare femmina. Il maschio viene associato alla potenza, alla lubricità e alla selvatichezza del sesso primitivo: offre un modello ai libertini come Sade, e si rivela proprio per questo motivo il partner ideale per le orge, cioè disponibile, efficiente, sterile, amorale e immorale, rispettoso del proprio ruolo. Tra tacchini decapitati, capre, montoni, cani, cigni, cavalli, tori, mucche e serpenti addomesticati, tocca proprio al maschio della scimmia interpretare una bella parte ne Le 120 giornate di Sodoma. La femmina, invece, viene descritta come una madre dolce e tenera verso i figli. Entrambi comunque, maschio e femmina, giocano una parte armonica, come l’uomo nomade che parte per la caccia, uccide le prede e torna a scaricare il proprio surplus, e la donna sedentaria che rimane invece al focolare a occuparsi dei piccoli. Maupertuis, che, fin dal 1749, con il suo Saggio di filosofia morale, propone un’etica utilitarista in grado di contrastare la morale deontologica cristiana, si addentra ancora di più nel postcristianesimo, tessendo, nella Venere fisica (1745), le lodi dei princìpi dell’eugenetica. Parla di Federico II di Prussia, alla cui corte berlinese vive per parecchi anni: «Un Re del Settentrione venne a capo di rendere poderosa e polita la sua nazione. Avea egli un gusto eccessivo per gli uomini d’alta statura e di bell’aspetto: chiamavali nel suo regno da tutt’i paesi; la fortuna rendeva felici tutti quelli ch’erano stati dalla natura formati d’eccedente grandezza. Ammirati al dì d’oggi un singolar esempio della possanza de’ Re. Questa nazione si distingue per le taglie più vantaggiose, e per le figure più regolari; come distinguerebbe una foresta fra tutte le piante che la circondano, se

l’occhio attento del padrone s’applicasse a coltivarvi degli arbori diritti e ben cerniti».4 Ma questa selezione degli uomini ha un valore semplicemente introduttivo rispetto ad altre selezioni ben più audaci. L’autore, in effetti, prosegue con un’arringa in difesa di qualcosa che assomiglia a una stazione di monta umana, in cui si possono condurre esperienze di incroci tra razze umane, ma anche, e la cosa viene detta tra mille precauzioni di linguaggio, tra uomini e animali. Il terzo capitolo del libro s’intitola in maniera molto eloquente: Produzioni di nuove spezie. Il filosofo, che ovviamente ignora le logiche del recessivo e del dominante scoperte da Mendel un secolo più tardi, discorre delle diverse carnagioni che possono avere i bambini con genitori di colore. Laddove alcuni si limitano a creare «razze di cani, di colombi, di canarini, che non erano avanti in natura»,5 Maupertuis si spinge fino a pensare a quello che potrebbe succedere tra uomini e animali: «Perché quest’arte si ristring’ella a’ soli animali? perché que’ Sultani smagriti in serragli che non rinchiudono che donne di tutte le spezie conosciute, non fanno nascere nuove spezie? Se io fossi ridotto come loro all’unico piacere, che dar possono il sembiante e le fattezze, ricorrerei incontanente a queste varietà. Ma per quanto belle fosser le donne, che nascesser da loro, eglino non conoscerebbero giammai che la più picciola parte de’ piaceri d’amore, e ignorerebbero quelli che possono far gustare lo spirito e il cuore».6 In un passaggio della Lettera sul progresso delle scienze (1752), l’autore descrive alcune spaventose prospettive politiche per l’eugenetica: Una tale fatica non sarebbe interamente di quelle, che non potessero essere intraprese senza la protezione, e senza i benefizj di un Sovrano, poiché molte di queste esperienze non sarebbero superiori alla possibilità di un semplice particolare, e noi abbiamo alcune opere, le quali ce l’hanno fatto vedere. Pure vi sono alcune di tali esperienze, le quali richiederebbero spese grandi, e forse tutte avrebbero bisogno di una tal direzione, che non lasciasse i Fisici in un certo vuoto, che è l’ostacolo maggiore alle scoperte. I serragli delle fiere dei Principi, nei quali si trovano Animali di molte spezie, sarebbero per questo genere di scienza fondi, dai quali potrebbonsi facilmente ritrarre non piccioli vantaggi. Basterebbe darne la direzione ad esperti Naturalisti, e loro perscrivere l’esperienza.7

Proseguiamo: Si potrebbe provare in questi serragli ciò, che si racconta delle truppe dei differenti Animali, i quali raccolti, a cagion della sete, sulle rive de’ fiumi dell’Africa, si dice vi facciano quelle bizzarre unioni, da cui provengono frequentemente dei mostri. Non vi sarebbe nulla di più curioso, che tali esperienze: Pure la negligenza, riguardo a questo, ella è così grande, che siamo ancora dubbiosi se il toro si sia mai congiunto con un’Asina, malgrado tuttociò, che si dice dei Giumenti. Le premure di un Naturalista industrioso, e illuminato farebbero scappar fuori non poche curiosità in questo genere, togliendo coll’educazione, coll’uso, e col bisogno fra gli Animali la repugnanza, che le differenti spezie hanno per ordinario l’una per l’altra. Potrebbe

darsi, che si arrivasse a render possibili delle generazioni forzate, le quali facessero veder maraviglie. Si potrebbe sul bel principio tentare sopra una medesima spezie queste unioni artifiziali, e forse al primo passo si renderebbe in qualche maniera la fecondità a degli Individui, i quali per ordinario sembrano sterili. Nè sarebbe vietato protraere ancor più lontano l’esperienze, e fino sulle spezie, le quali sono per loro natura meno inclinate ad unirsi. Forse da ciò si vedrebbero nascer de’ mostri, dei nuovi Animali, ed anche forse delle nuove intere spezie non per anche dalla Natura prodotte.8

Maupertuis consacra un capitolo anche alle Esperienze metafisiche.9 Si chiede come si possano modificare gli stati di coscienza attraverso l’oppio o altre sostanze, in modo, se possibile, di pilotare volontariamente i propri sogni. Alla fine, si pone la questione se «Non vi sarebbero forse altre guise di modificar l’Anima nostra».10 E risponde chiamando in causa il cervello, i nervi e le ferite dell’encefalo che, a suo avviso, i medici non hanno abbastanza studiato. Il filosofo trova un buon mezzo per «modificar l’Anima»: «Si avrebbero molti più mezzi per avanzare l’esperienze, servendosi di quegli Uomini condannati a una morte dolorosa, e certa, per i quali sarebbero esse una spezie di grazia»!11 Mescolare razze e colori, mescolare specie e talenti, sperimentare harem e stazioni di monta, educare animali come fossero esseri umani, e, nei casi più spregiudicati, in quelli più audaci, mescolare tra loro specie eterogenee che la natura stessa si rifiuta di unire. In altre parole, impossibile non intuirlo: mescolare uomini e animali. Maupertuis incarna un aspetto normalmente nascosto dei Lumi, e, tra odio nei confronti del popolino, odio nei confronti dei selvaggi, odio nei confronti delle donne e odio nei confronti degli ebrei (con Voltaire si spuntano tutte quante queste caselle), il nostro filosofo reclama con ardore un Uomo Nuovo, un uomo rigenerato, come viene esplicitato senza tante remore dagli storiografi della Rivoluzione francese. Il che, anche se lo si sottolinea sempre poco, presuppone comunque a monte… un uomo degenerato! Il famoso abate Sieyès, che nel suo libro Che cosa è il Terzo Stato? (1789) si lamenta che quest’ultimo non sia niente e si augura che possa diventare tutto, è la stessa persona cui si deve quest’altra bella idea, concepita nello spirito di Maupertuis: Non sarebbe forse cosa desiderabile, soprattutto nei paesi molto caldi e molto freddi, che ci fosse una specie intermedia tra gli uomini e gli animali, una specie capace di servire l’uomo per i suoi bisogni di consumo e di produzione? Abbiamo degli oranghi piccoli e grandi, cioè i pongo, i jocko e i pitechi, tre specie di scimmia che lavorano già benissimo assieme alle nostre e assieme ai neri, e che sono specie prontissime a essere addomesticate e ammansite. L’incrocio tra queste razze potrebbe fornirci: 1o una razza forte (dai sei agli otto piedi di altezza), da destinare alle opere di fatica, sia in campagna che in città, e sarebbero i pongo; 2o una razza intermedia (dai tre

ai quattro piedi di altezza), destinata a tutte le faccende domestiche, i jocko; 3o una specie più piccola (dai dodici ai quindici pollici), per i piccoli lavori domestici e il divertimento; 4o i neri, che dovrebbero controllare, vestire e rispondere di tutte le azioni degli altri. Potremo così avere dei bianchi a ricoprire il ruolo di cittadini e di responsabili della produzione, i neri come strumenti ausiliari da destinare alle varie fatiche, e le nuove razze di scimmie antropomorfe come schiavi. 12

Un altro cattolico, il canonico Cornelius de Pauw, autore di alcune Recherches philosophiques sur les Américains, ou mémoires intéressants pour servir à l’histoire de l’espèce humaine [Ricerche filosofiche sugli americani, ovvero Memorie utili alla redazione di una storia della specie umana] (1770), nonché redattore di articoli finiti sul Supplemento all’Enciclopedia, avanza qualche ipotesi sulla stessa lunghezza d’onda. L’Assemblea legislativa nazionale proclama questo fuoriuscito olandese cittadino francese il 26 agosto del 1792. Che sia per le sue ipotesi eugeniste? Il novello cittadino francese, riguardo la sperimentazione sessuale tra esseri umani e animali, scrive: «Alcuni moralisti, ostentando eccessiva severità, hanno condannato per principio qualsiasi tentativo di seguire questa strada, dichiarandola criminale o lesiva nei confronti delle leggi che ciascun genere deve rispettare in quanto limiti fissati dalla Provvidenza. Abbiamo risposto loro che la nostra mancanza d’informazioni a proposito dell’orango può scusare i mezzi che usiamo per indagarne il carattere generico, e che fintanto ci porremo riguardo a questo stesso carattere generico dei ragionevoli dubbi, non violeremo nessuna convenzione naturale, dato che solo l’esperienza ci insegnerà dove si trova la soglia che marca la separazione tra la sua razza e la nostra».13 In altre parole, niente può ostacolare il corso di questi esperimenti sulla copula tra scimmie ed esseri umani, perché solo il risultato di questi accoppiamenti ci dirà se sarà stata una cosa buona o cattiva portarli a termine… Restif de La Bretonne ritiene che la fornicazione tra uomini e scimmie testimoni a favore di una tendenza che mi piace qui definire come «progressista», ma dalla parte della scimmia! Ecco, in effetti, cosa leggiamo nel Monsieur Nicolas, ou Le Cœur humain dévoilé [Il signor Nicolas, ovvero Il cuore umano svelato] (1796): «La cosa che segna la grande prossimità della specie delle scimmie con la nostra è il desiderio di coito con la donna, un desiderio innato e così potente che la scimmia, in questo differente da tutti gli altri animali, alle femmine della sua stessa specie preferisce le donne, soprattutto quelle che hanno un odore un po’ forte. È quindi un desiderio di perfezionamento, un desiderio senza dubbio cieco e perfettamente istintivo, che la Natura ha instillato nella scimmia e la spinge a migliorarsi» [corsivo mio].14 Dove vediamo che il progressismo ha più di una freccia al proprio arco quando

si tratta di farsi il furiere del nichilismo! A questo proposito, sempre nella stessa opera, Restif de La Bretonne, riporta alcuni singolari aneddoti su Federico II, probabilmente raccolti se non da Maupertuis stesso, almeno da quelli che raccontavano le cose che lui aveva detto: «Sappiamo che il re di Prussia Federico II ha cercato con vari esperimenti di accoppiare l’uomo con tutti gli animali; episodi di cui lui stesso, nei suoi ultimi giorni, e poi il suo successore, hanno cercato di far sparire ogni traccia».15 Avrebbe avuto successo con il maiale, però «la scimmia maschio non ha prodotto nulla con la donna umana, e le scimmie femmine, con gli uomini, hanno prodotto solo aborti».16 Ovviamente, niente di questo è vero. Mirabeau è stato uno strano personaggio, e non solo durante la Rivoluzione francese. Militare disertore, giocatore indebitato, famoso per la bruttezza, con i piedi storti e i denti enormi, con la testa sproporzionata e il volto rovinato dal vaiolo, Mirabeau è un libertino che conosce Sade e con quest’ultimo ha addirittura una lite nel torrione del castello di Vincennes, dove è tenuto prigioniero per aver sedotto e rapito una donna sposata. Diventa deputato rivoluzionario, ma è molto probabilmente un agente che fa il doppio gioco al soldo della corte. Pantheonizzato nel 1791, nel 1794 viene riconosciuto colpevole di tradimento e buttato nella fossa comune. A lui dobbiamo un certo numero di libri pornografici, nei quali troviamo tratteggiata la sua visione del mondo. Anche il qui citato conte Mirabeau parteggia per la produttività dell’incrocio tra uomini e animali. Nel suo famoso Erotika biblion (1770), scrive: Sarebbe quindi curioso, interessante e utile poter determinare il minore o il maggior grado di ragionevolezza di un essere umano, a tal punto corrotto da voler copulare con una bestia. È forse l’unico modo d’investigare la natura che possa strappargli almeno in parte il suo segreto; ma per esserne capaci occorrerebbe in primo luogo saperne valutare gli effetti, adoperarsi a un’educazione adeguata, analizzare sotto ogni possibile punto di vista l’origine di quello stesso fenomeno. Potremmo certo trarre da questi tentativi un’utilità per il progredire delle umane conoscenze decisamente superiore all’utilità che possiamo invece ricavare, per esempio, insegnando ai sordomuti a parlare o insegnando la matematica a un cieco… Infatti, mentre questi ultimi si presentano alla nostra osservazione come partecipi di un’identica natura, anche se in origine resa imperfetta dall’assenza dell’uno o dell’altro senso, ma poi perfezionata dall’educazione, i frutti di una copula bestiale ci offrirebbero invece, per così dire, l’esempio di un’altra natura, per quanto innestata sulla prima, e ci aiuterebbero in tal modo a rispondere almeno in parte agli innumerevoli interrogativi in cui, da sempre, sembra dibattersi il raziocinio dell’uomo [corsivo mio].17

Esattamente come il marchese de Sade, che infarcisce le proprie finzioni

pornografiche con riflessioni filosofiche, anche Mirabeau, nei suoi ragionamenti didattici, sostiene che la produzione sperimentale di chimere attraverso incroci tra bruti, come si indicavano allora gli animali (che però tanto bestie non erano), ed esseri umani, anche depravati, permetterebbe di avanzare sul piano della conoscenza. Se l’uomo non ha più anima dell’animale, se la sua anima non è né eterna, né immortale, né immateriale, né divina, ma, al contrario, precaria, materiale, mortale e terrestre, allora non ci può essere alcun male nel voler unire queste due materie, per esempio la scimmia e la donna; in fondo, si tratta soltanto di organizzazioni diverse di atomi che sono sempre gli stessi, percorsi dallo stesso flusso elettrico, e riconosciuti nella stessa e identica maniera, cioè attraverso le percezioni e le sensazioni organizzate da un cervello verso cui confluiscono le informazioni prodotte dai sensi per il tramite dei filamenti nervosi, quindi i nervi. Buffon vede bene che l’unica maniera per impedire che l’uomo anneghi definitivamente in questo oceano di animali animati, in cui l’ostrica vale tanto quanto il papa e, nonostante qualche sottile variazione materiale, ogni cosa ha lo stesso peso, è quella di salvare l’anima. Lui, il naturalista cui dobbiamo la monumentale Storia naturale, generale, e particolare (quindici tomi apparsi tra il 1749 e il 1767), scrive dell’orango che è «un animale […] singolarissimo; e l’uomo non può vederlo senza rientrare in sé stesso, senza riconoscersi, e senza convincersi che il suo corpo non è la parte più essenziale della sua natura».18 In altre parole, a prima vista, sotto il profilo dell’anatomia, della fisiologia e della scienza naturale, la scimmia e l’uomo sembrano davvero una sola e identica cosa; però, questo approccio è fin troppo legato alle apparenze. La differenza si gioca invece tutta con l’anima, che Buffon descrive in filigrana come quella cosa che, nell’uomo, non appartiene al visibile. Certo, Buffon scrive per rispondere a Rousseau che, nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini, pone la questione dell’accoppiamento della scimmia con l’uomo per stabilire cosa li unisca e cosa li separi. La questione della differenza tra l’uomo e la scimmia può essere risolta solo partendo dall’osservazione dell’uomo selvaggio, identificato, nel caso specifico, in quegli ottentotti dell’Africa del Sud che erano stati scoperti dai marinai olandesi nel corso del Seicento e che, all’epoca di Rousseau, si trasformano a tutti gli effetti in un nuovo paradigma filosofico. Capelli crespi, barbuti, pelosi, labbra tumide, fronti basse, occhi affossati, nasi piatti, sguardi ebeti e spaventati, pelle dura e abbronzata, unghie lunghe, spesse e ritorte, seni lunghi e penduli per le donne, pance affondate fino alle ginocchia, bambini sporchi che strisciano per terra; gli ottentotti sono tutti sudici e

puzzolenti: eccolo, il ritratto del selvaggio. Non facciamo fatica a immaginarci tutto quello che li separa dall’accademico, dall’intendente dei Giardini del re, dal profumato, incipriato e imparruccato Georges-Louis Leclerc, conte di Buffon, evidentemente ben dotato, invece, quanto a sé, di un’anima immateriale e immortale! Il naturalista stabilisce una gerarchia che va dalla scimmia all’uomo, passando dal selvaggio ottentotto e dall’uomo allo stato di natura. Risultato, dal basso verso l’alto: la scimmia, come quello scimpanzé dissezionato da Edward Tyson a Londra nel 1698; l’uomo naturale, come quello descritto da Rousseau nel suo Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini; l’ottentotto, come quelli scoperti dai viaggiatori e dai marinai olandesi del Grand Siècle; e l’uomo, il cui prototipo è, ovviamente, lo stesso conte di Buffon, il quale appunto scrive: «Vi ha maggior distanza dall’uomo nello stato di Natura pura all’Ottentotto, che dall’Ottentotto a noi».19 Sulla questione del mescolamento delle specie, Buffon racconta di «miscugli forzati o volontarj delle donne nere colle scimie, la cui produzione è rientrata nell’una e nell’altra specie; e vedete, supposto ch’esse non siano la medesima specie, quanto sia difficile l’afferrare l’intervallo che le separa».20 E il naturalista non dubita affatto di queste informazioni. È, naturalmente, all’interno di questo intervallo ultrasottile che si colloca l’anima: Io confesso che, se non si dovesse giudicare che dalla forma, la specie della scimia potrebbe esser presa per una varietà nella specie umana. Il Creatore non ha voluto fare pel corpo dell’uomo un modello assolutamente diverso da quello dell’animale: ha compresa la sua forma, come quella di tutti gli animali, in un piano generale, ma nel tempo stesso gli ha data a parte una forma materiale simile a quella della scimia, e ha penetrato questo corpo animale col suo divin soffio: s’egli avesse compartito lo stesso favore, non dico alla scimia, ma alla specie più vile e all’animale, che ci sembra il peggio organizzato, siffatta specie sarebbe ben tosto divenuta la rivale dell’uomo; vivificata dallo spirito ella avrebbe pensato e parlato, e avrebbe il primato sulle altre. Sebbene adunque vi sia molta rassomiglianza tra l’Ottentotto e la scimia, non di meno l’intervallo, che li separa, è immenso, poiché interiormente egli è dottato del pensiero, e esteriormente della parola. Chi potrà mai dire in che cosa l’organizzazione di un fatuo sia diversa da quella d’un altr’uomo? Il difetto è certamente negli organi materiali, poiché il fatuo ha la sua anima com’un altro. Ora poiché da uomo a uomo, ove il tutto è interamente conforme e perfettamente simile, una differenza sì piccola, che non si può neppure afferrarla, basta per distruggere il pensiero o impedire che esso nasca, dee recar maraviglia ch’esso non sia giammai nato nelle scimie, che non ne hanno nemmeno i principi? L’anima in generale ha la sua funzione propria e indipendente dalla materia: ma siccome è piaciuto al suo divino Autore d’unirla al corpo, così l’esercizio de’ suoi atti particolari dipende dalla costituzione degli organi materiali: e questa dipendenza è provata non solamente dall’esempio del fatuo, ma anche dimostrata da quelli dell’ammalato in delirio, dell’uomo sano che dorme, del fanciullo appena nato, che non pensa ancora, e del vecchio decrepito che non pensa più. Sembra altresì che l’effetto principale dell’educazione sia meno d’instruir l’anima o di perfezionar le sue operazioni spirituali, che di modificar gli organi materiali e di procurar loro lo Stato più acconcio all’esercizio del principio pensante.21

Buffon tiene a precisare che, al contrario degli animali, gli uomini sono capaci di riflettere, pensare, parlare, comunicare, perfezionarsi e inventare. L’anima separa l’uomo dall’animale, e niente li potrà mai riunire, perché l’uno condivide sé stesso con Dio e l’altro no. Questo non impedisce al naturalista, come scrive il perfido Mirabeau, il sopra menzionato Honoré-Gabriel Riqueti de Mirabeau, anche lui conte per stato di nascita, di fare esperimenti sulla commistione di specie e di razze: «Ma quest’uomo ingegnoso non ha invece voluto esporre i frutti delle sue esperienze circa gli accoppiamenti degli uomini con gli animali; i suoi risultati andrebbero invece divulgati, non solo per poter poi seguire meglio i suoi orientamenti, ma anche per evitare che, avendo già dovuto rinunciare a un così bel talento, non ci si trovi adesso a dover fare a meno anche della testimonianza delle sue idee».22 Si tratta naturalmente di pure calunnie, di semplici maldicenze, di cattiverie gratuite, di snobberie intellettuali e di mancanza di onestà, come ne ritroviamo anche in parecchi degli attori della Rivoluzione francese, in particolare in quei giacobini che non facevano altro che parlare di «rigenerazione» e di uomini nuovi. Probabilmente, grazie a un minimo d’introspezione, gli era venuta l’idea di risolvere una volta per tutte il problema del numero eccessivo di uomini degenerati nella loro epoca.

Capitolo secondo

Costruire l’emulo di un capriolo Rigenerare l’Homo sapiens

Il termine «rigenerazione» pervade tutta l’ideologia rivoluzionaria dal 1789 al 1793, però non si trova in Rousseau, anche se la nozione rappresenta il nucleo centrale della sua opera. Il filosofo teorizza tre momenti filosofici che saranno chiamati a fondare l’impresa giacobina: la degenerazione dell’uomo a causa della civiltà – è la tesi del suo Discorso sulle scienze e sulle arti (1750); l’eccellenza dell’uomo naturale – idea cardine del suo Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini (1755); la rigenerazione ottenuta attraverso l’educazione dei bambini – vedere l’Emilio (1762); e poi c’è il patto sociale – idea al cuore Del contratto sociale (1762). Si tratta di un trittico: Abbasso la civiltà, Viva l’uomo naturale e Viva la città rigenerata e gli uomini rigenerati! Abbasso la civiltà: il Discorso sulle scienze e sulle arti risponde al quesito proposto in un concorso dell’Accademia di Digione ed è quindi un esercizio retorico, se non addirittura sofistico: Rousseau cerca di ottenere i favori della giuria per portarsi a casa i soldi del premio, una medaglia d’oro del valore di trecento lire francesi dell’epoca! Impossibile quindi stabilire quanto fosse effettivamente sincero in questa prova scritta per conquistare la fiducia di un cenacolo di provincia. La tesi del candidato è questa: «La depravazione è reale; e le nostre anime si sono corrotte a misura che le nostre scienze e le nostre arti sono progredite verso la perfezione».23 Depravazione, corruzione: già ci siamo; il passo successivo è la rigenerazione. Il filosofo Rousseau scrive dei libri, però ne legge parecchi altri, e poi compone opere, elabora nuovi metodi di annotazione musicale, si fa mantenere da ricche nobildonne, dichiara guerra ai soldi, agli effeminati e ai rammolliti, alla cultura del commercio, alla corruzione dei costumi, al lusso, ai lavori intellettuali, alla cultura, alla metafisica, alla stampa, ai libri stessi, alla musica, alle belle arti, all’opera, all’educazione, alla filosofia, alle lettere e agli

scrittori… A questi attacchi, però, fa sempre accompagnare un certo numero di elogi: alla disciplina militare, alla povertà, allo spirito di conquista, all’esercito, ai soldati, ai guerrieri, alla virtù, alla rustichezza, all’agricoltura, al buon senso, alla fede, alla religione e alle leggi. Al filosofo preferisce l’uomo che fatica, senza tuttavia mai impedirsi di celebrare il filosofo come consigliere del principe. Modesto, come sempre, Rousseau dichiara di non scrivere per il proprio tempo ma per l’eternità! In una lettera all’abate Raynal, annota: «Ho assegnato il primo grado di decadenza dei costumi al momento iniziale della cultura delle Lettere in ogni paese del mondo, e ho trovato che il progresso di queste due cose va sempre di pari passo».24 Viva l’uomo naturale: anche il Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza risponde a un quesito posto dall’Accademia di Digione. Rousseau non può saperlo, però questa sua risposta finirà, ahimè, per fondare l’antropologia moderna; né può ovviamente sapere che nel 1789 queste sue stesse «ipotesi» si trasformeranno in altrettante verità politiche che i giacobini vorranno imporre a suon di ghigliottinate. Rousseau non può nemmeno immaginarsi che il suo metodo, che in realtà è tutto tranne che un metodo, s’imporrà in Occidente, fino ai giorni nostri, nella testa degli intellettuali, dei filosofi, dei sociologi e di tutte le altre persone che lavorano con le idee. Scrive: «Cominciamo dunque dall’escludere tutti i dati di fatto, perché essi non concernono punto la questione».25 È da Platone, cioè da duemila e cinquecento anni, che i filosofi più influenti cominciano con l’«escludere tutti i dati di fatto» solo per meglio piazzare sul mercato le proprie idee riguardo allo spirito, presentandole come altrettante verità! Al posto dei fatti, Rousseau rivendica dei «ragionamenti ipotetici e condizionali», o anche delle «congetture» [corsivi miei].26 Il filosofo ginevrino, sempre modestissimo (è un basso continuo nelle sue pagine), s’immagina di essere al Liceo di Atene, alla Scuola di Aristotele, con Senocrate e Platone chiamati a giudicare i suoi ragionamenti «e il genere umano ad ascolta[re]».27 Per il momento, però, è a un gruppetto di borghesi di Digione che si limita a parlare, ed è a loro che tende il piattino per portarsi a casa il premio. Mette quindi da parte i libri, le biblioteche e le idee che già esistono, e cerca di far credere che sta interrogando la «natura, che non mente mai».28 È vero, la natura non mente mai, ma è soprattutto perché lui non le lascia mai la possibilità di difendersi da tutte le affermazioni pseudo-filosofiche che le rivolge. Se la natura non mente, Rousseau, invece, pretende di parlare in suo nome e può mentire, lui, eccome… E capita spesso…

Rousseau esalta la natura e si lamenta sempre che l’uomo si riduce a pagare il prezzo della depravazione – «depravare» è un termine suo. L’uomo può sperare di «retrocedere»,29 perché il suo passato è meraviglioso, il suo presente terribile e il suo futuro spaventoso. Ecco posto il nuovo schema ontologico dei Lumi, una finzione che, nei fatti, produrrà il 1789 e poi il 1793. Per lui, è da escludere che si possa pensare l’uomo sotto il profilo storico, cioè in evoluzione e in mezzo ai cambiamenti, nella realtà delle cose. Da vero platonico qual è, Rousseau pensa questa realtà in generale e l’uomo in particolare, attribuendo loro un’essenza che lui stesso si era preventivamente creato. Contro ogni evidenza, il suo uomo naturale viene posto come naturalmente buono, esattamente agli antipodi del peccaminoso uomo dei cristiani! Ecco come comincia l’esposizione della sua visione dell’uomo: «Lo veggo saziarsi sotto una quercia, dissetarsi al primo ruscello, trovar il suo giaciglio ai piedi dello stesso albero che gli ha fornito il suo pasto; ed ecco i suoi bisogni soddisfatti» [corsivo mio].30 Nessuno riuscirebbe a esprimersi meglio, e nessuno ci è in effetti riuscito fin dai tempi della favola del giardino dell’Eden… Il filosofo prosegue il proprio romanzo lirico e bucolico: la natura è generosa e provvede a nutrire l’uomo che vive in armonia con i suoi compagni animali, dominati grazie alla propria superiore sagacità; robusto, abituato ai rigori del freddo, l’uomo è forte e la sua costituzione praticamente intaccabile; anche i suoi figli sono degli esemplari magnifici, perché se non sono all’altezza, la natura si occupa subito di eliminarli; agile, differente dagli uomini dei suoi tempi che si rivelano tutti deboli e maldestri, l’«uomo selvaggio»31 si trova provvisto di tutte le virtù ed è l’antitesi dell’uomo depravato contemporaneo del filosofo. Rousseau parla di «stato di natura»,32 non senza aver scritto, qualche pagina prima, che «bisogna negare che, anche prima del diluvio, gli uomini si sian trovati mai nel puro stato di natura».33 Nel giro di poche righe, ecco dispiegata tutta la coerenza del filosofo: lo stato di natura non esiste, però lui può raccontare che cosa sia questo stato di natura – con il termine «natura» che passa tra l’altro dalla minuscola alla maiuscola (nell’originale). Eccolo insomma intento a trasformare la sua ipotesi in certezza. Prestidigitazione epistemologica! Allo stato di natura, l’uomo non conosce le malattie, che sono invece dei prodotti perversi e nocivi della civiltà. In natura, non vede nessun animale malato, nessuno che abbia bisogno del medico o del chirurgo: è quindi nello stato di cultura che le ritroviamo, tutte queste malattie e infermità. Nello spirito di Montaigne, Rousseau afferma che è spesso il medico stesso a provocare la malattia o la morte, con i suoi farmaci, le sue incisioni, i suoi digiuni e i suoi avvelenamenti.

Il filosofo celebra la condizione selvaggia contro quella civilizzata, indicata con il termine «domestica»: «nel passaggio dalla condizione selvaggia alla domestica, la differenza fra uomo e uomo deve essere più grande ancora che quella fra bestia e bestia».34 Non si potrebbe spiegare meglio quale corrispondenza ci sia tra la condizione selvaggia e quella civilizzata! L’uomo, semplicemente nudo, prende le pelli degli animali e si prepara dei vestiti. Sull’argomento, Rousseau scrive: «A meno che si supponga quei concorsi singolari e fortuiti di circostanze, di cui parlerò in seguito, che avrebbero potuto benissimo non presentarsi mai, è chiaro, come che sia, che il primo che si fece abiti e una casa diede con ciò a sé stesso cose poco necessarie, poiché ne aveva fatto a meno sino allora, e non si vede perché non avrebbe potuto sopportare, uomo fatto, un genere di vita che sopportava sin dalla infanzia» [corsivi miei]35. Poi passa a parlare della proprietà, di come sia stata inventata dal primo uomo che si è allontanato dallo stato di natura. In pratica (è uno dei miracoli del metodo rousseauiano!), la sua ipotesi si trasforma in realtà, una realtà che diventa tanto più reale quanto più avrebbe potuto anche benissimo essere diversa! Ci sembra di sognare… Alle ipotesi, Rousseau aggiunge altre ipotesi, al preciso scopo di consolidare la propria finzione e conferirle uno statuto di oggettività. E per convalidare tutte queste invenzioni pensa bene di ricorrere ad alcuni resoconti di viaggio, di cui, solo qualche pagina prima, aveva decretato la mancanza di autorevolezza. Rousseau distingue la macchina-uomo dalla macchina-animale grazie alla coscienza, di cui solo l’uomo è provvisto. Non stiamo parlando dell’intelletto o del giudizio, ma dell’«agente libero».36 E aggiunge: «nella coscienza di questa libertà, sopra tutto, si mostra la spiritualità della sua anima».37 Il fatto che l’uomo disponga, al contrario dell’animale, di un libero arbitrio non basta a dimostrare il carattere spirituale dell’anima! Si tratta di un postulato… Il piccione che muore di fame davanti a un mucchio di carne, o il gatto che fa la stessa fine pur avendo di fronte un po’ di frutta, testimoniano di quanto l’animale sia soggetto alla natura; l’uomo invece, che a questa natura comanda, per non morire, è capace di cambiare il proprio regime alimentare. Niente però permette di dedurre o di concludere da queste cose che l’anima è spirituale, e non materiale. A spiegare tutto, basta un cervello, non c’è bisogno di un’anima, a meno che a quello non la vogliamo ridurre. Rousseau ritiene quindi che l’uomo, al contrario dell’animale, sia un essere perfettibile. Ed è proprio questa perfettibilità a costituire il nocciolo ontologico della funesta impresa della rigenerazione. Perché l’uomo naturale finisce per trasformarsi in un uomo degenerato, e produce la civiltà, di cui Rousseau non sta a specificare se sia o meno giudaico-cristiana, e che invece qui definirei civiltà

della tecnica; il filosofo non attacca né il cristianesimo né la cristianità, ma il progresso e, per quanto la parola ancora non esista (al contrario della cosa, vecchia come il mondo), il «progressismo», cioè la religione, la fede e la fiducia nel progresso. Il profeta di questa nuova confessione è il Condorcet autore del Saggio di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, un testo a cui il filosofo stava lavorando quando, perseguitato dal progresso, si suicida per sfuggire alla ghigliottina dei giacobini progressisti. L’opera verrà pubblicata solo postuma nel 1795. Il filosofo ginevrino non crede al progresso tecnico, ma alla regressione etica che rappresenta l’intima essenza di questo progresso: il passaggio da uomo naturale a uomo civilizzato è un passaggio di decadenza e di degenerazione. Allo stato di natura, afferma, la disuguaglianza non esiste, perché gli uomini sono naturalmente uguali, e quindi, come disuguaglianza, è un puro prodotto della società. A questo nuovo postulato si accompagna una pseudo-dimostrazione, tutta nello spirito di Rousseau: ed è una nuova finzione. La frase è rimasta famosa: «Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società civile».38 Ci stupisce che, allo stato di natura, dove tutti sono uguali, alcuni sembrano in realtà esserlo più di altri: chi recinta un terreno e chi è così stupido da lasciarglielo fare non sono uguali, diciamo così, sul piano della presenza del sale in zucca! Uno dei due, cioè quello che possiede, domina l’altro, che è invece posseduto. Questa distinzione mostra bene come, in natura, esistano persone furbe, smaliziate e sveglie, persone che sono intelligenti, scaltre, astute e abili, capaci, prima di arrivare all’estremo della recinzione, di creare dei beni che ritengono in seguito necessari di recinzione! Nel caso specifico, delle case! Prima della proprietà, quindi, c’è già… la proprietà, come annota lo stesso Rousseau, senza vederci nessuna contraddizione. Questo «primo» uomo diventa il capro espiatorio da sacrificare per rigenerare la società: è l’Adamo socialista, o comunista. Rousseau scrive in effetti: «Guardatevi dall’ascoltare questo impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti, e che la terra non è di nessuno».39 Definire questo «primo» uomo come «impostore» appicca un incendio che finisce per illuminare tutto il Terrore. Il primo proprietario, un «impostore» (la parola è volutamente forte), viene dichiarato nemico dell’uomo naturale: ecco il tema della guerra iniziata da Rousseau grazie a un semplice esercizio di retorica. Non ne siamo ancora usciti… E allora, viva la società rigenerata! Se diamo ascolto a quello che ci dice

Rousseau, possiamo rigenerare la società in due modi: in primo luogo, attraverso l’educazione dell’uomo in quanto individuo, in secondo luogo istruendolo come cittadino. Usciti nello stesso anno, il 1762, Emilio e Del contratto sociale forniscono i due fogli di via per quest’impresa ontologica e politica. Nell’Emilio, Rousseau propone una pedagogia innovatrice: il bambino va considerato come entità autonoma; pannolini, pappette e punizioni sono da bandire e invece allattare, insegnare con gli esempi e accettare le crisi e i pianti sono tutte cose buone, perché naturali; balie, precettori, collegi e pensionati sono esclusi; più della memoria, nel bambino occorre sollecitare la riflessione, e anche l’igiene deve diventare una preoccupazione prioritaria; si sosterranno le diete vegetariane e i vestiti dovranno essere larghi e comodi; meglio scegliere di stare in campagna piuttosto che in città, perché quest’ultima è fonte di patologie; la culla deve essere grande e imbottita; l’educazione comincia molto prima che il bambino cominci a parlare, e determina l’adulto in maniera totale: un nonnulla capitato nella prima gioventù può causare un trauma irreparabile; l’abitudine uccide l’immaginazione e il bambino non va forzato, deve imparare da solo a controllare la parola, a leggere e a camminare; gli si dovranno insegnare le cose senza ricorrere a metodi coercitivi, ed evitando di annoiarlo; il corpo conta tanto quanto lo spirito, perché sono entrambi da educare, al pari dei sensi; tutto questo riguarda le bambine e i bambini allo stesso titolo. Oggi diamo queste cose per scontate e normali, ma ai suoi tempi erano assolutamente rivoluzionarie. E Rousseau sapeva benissimo come comportarsi con i bambini, visto che lui stesso ne aveva abbandonati cinque… Quello che si dice meno è come Rousseau proponga nello stesso momento una pedagogia falsamente libertaria, una pedagogia, in realtà, assolutamente autoritaria, intenzionalmente rivolta a sottomettere in maniera drastica l’allievo al maestro, esattamente come succede al cittadino nei confronti della collettività… Tra le altre cose, Rousseau vuole: trasporre l’io in un’unità comune; insegnare la resistenza, la rudezza, la capacità di sopportare il freddo e le cose ripugnanti, la sofferenza, la mancanza di sonno e le vicissitudini della vita; guidare, più che istruire; sottomettere interamente l’allievo al precettore, onnipresente, onnipotente e onnisciente («egli è necessariamente alla vostra mercé»);40 perché si parte dal presupposto che l’indipendenza sia una cosa cattiva: occorre quindi che l’allievo «creda sempre di essere il padrone. Non vi è soggezione tanto perfetta quanto quella che conserva l’apparenza della libertà»; 41 o ancora: «non deve volere che ciò che voi volete ch’egli faccia»;42 le lezioni vanno date senza che l’allievo abbia l’impressione di riceverne; bisogna usare la forza, l’astuzia, gli stratagemmi, il fascino, le lusinghe, la costrizione e l’inganno, tutto torna utile per circuire Emilio; soffocare la sua libido, ritardare

le sue passioni, regolamentare i suoi affetti, prolungare la sua innocenza, dirigere i movimenti della sua anima, reprimere l’attività dei suoi sensi e scegliere i suoi piaceri; coltivare la sua ignoranza e sopprimere i desideri attraverso il lavoro, lo sforzo fisico, oppure la caccia, che abitua alla vista del sangue e della crudeltà; scegliergli la compagna migliore e fargliela sposare; renderlo docile; non lasciarlo mai da solo e, per esempio, dormire nella sua stessa stanza («Non lo lasciate solo né giorno né notte»);43 formargli un gusto sano e sicuro; quando Emilio compie venticinque anni, il precettore si separa da lui, però il giovanotto continua a conservare ugualmente un tutore fino alla propria morte. E, in fine: «Ne farei l’emulo di un capriolo, piuttosto che un ballerino dell’Opéra».44 Non si potrebbe esprimere meglio come Rousseau cerchi di insegnare al proprio discepolo… a diventare un animale! Il Saint-Just dei Frammenti sulle Istituzioni repubblicane ha fatto tutti i suoi compiti su Rousseau. Ed entrambi amavano Sparta più di Atene. L’esercizio teorico partito escludendo tutti i dati di fatto permette al filosofo di produrre un Emilio perfetto, l’impeccabile matrice di quell’Uomo Nuovo che i giacobini si riprometteranno di creare attraverso l’opera di rigenerazione del 1793. Emilio non ha genitori e parla un francese puro; è capace di sopportare forti dolori e nuota alla perfezione; è sempre contento ed è buono perché ignora il male; non mente mai e sa perfettamente leggere e scrivere; eccelle addirittura in geometria, finendo per insegnarla al suo stesso educatore (qui c’è una reminiscenza platonica); si mostra sempre padrone di sé e non è affatto un «fabbricante di libri»;45 conduce una vita semplice e rustica; è rispettato dalle donne anche se queste ultime sanno che è una persona rude; mostra animo e sensibilità e ispira considerazione e fiducia, insomma è amato; è senza pregiudizi, nemico giurato della vanità e dei poteri fittizi, ed è una persona saggia in un mondo di pazzi; è dotato di buon senso, detesta la violenza e parla solo quando parlare serve a qualcosa; prova sentimenti sublimi e riconosce l’unica autorità della ragione; è «l’uomo della natura»46 e, contrariamente ai giovani della sua età, che pensano solo a divertirsi, Emilio è intelligente e puro (quest’ultima cosa viene ripetuta regolarmente); non ha in grande stima gli uomini, però allo stesso tempo non li disprezza, ed «è troppo istruito per essere ciarliero»;47 non prende mai seriamente quello che pensano di lui e pratica in maniera volontaria l’umiltà; è modesto e vuole piacere alle donne e a tutti gli altri; ama leggere gli autori Antichi e considera preziosi i veri beni, quindi frugalità, semplicità, generosità, disinteresse, disprezzo del lusso e delle ricchezze; nelle questioni di agricoltura, si dimostra più avanti degli stessi agricoltori; sa tutto e può fare tutto: potrebbe esercitare la professione di medico, o di giurista, oppure quella dell’imprenditore o del muratore; è il futuro «Uomo

Totale» di cui parla Marx nei Manoscritti del 1844; è il più veloce a correre e trionfa come «migliore operaio del paese»;48 ha una compagna perfetta, Sofia, di cui Rousseau abbozza il ritratto: a parte il fatto di cucinare, cucire, lavare i piatti e i vestiti, Sofia è una ragazza pulita, meticolosa e anche lei pura, allegra, modesta, riservata e religiosa, e si dimostra casta, virtuosa e onesta… Alla fine, ciliegina politica sulla torta dell’etica, ci viene fatto sapere che Emilio ha tutte le carte in regola per governare gli altri perché «primeggerà ovunque e diventerà dappertutto il [loro] capo […]; essi sentiranno sempre la sua superiorità su di loro; senza voler comandare egli sarà il padrone; senza credere di obbedire, essi obbediranno».49 La formattazione radicale dell’essere individuale prescritta nell’Emilio si accompagna alla formattazione del cittadino esposta nel Contratto sociale. Già nell’Emilio, si trovano considerazioni di ordine politico, soprattutto l’idea che il destino dell’uomo costruito dalla pedagogia rousseauiana trovi la sua più vera vocazione nel fondersi, nel diluirsi e nello scomparire in un corpo politico che prende il passo sul corpo individuale: «In una legislazione perfetta la volontà particolare e individuale deve essere quasi nulla; la volontà di corpo, che è propria del governo, molto subordinata; e perciò la volontà generale e sovrana è la regola di tutte le altre».50 La volontà generale non è, insomma, la somma delle volontà particolari, ma la volontà di tutti nella misura in cui si manifesta non secondo il capriccio individuale ma tenendo come punto fermo finale la realizzazione dell’interesse generale e del bene comune. Aggiunge Rousseau: «chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò non significa altro, se non che lo si costringerà ad esser libero».51 Questa frase da sola giustifica e legittima varie cose; per esempio, la legge sui sospetti che condanna chiunque venga segnalato come non ottemperante allo zelo giacobino, e l’istituzione del Tribunale rivoluzionario, che priva questi stessi sospetti di qualsiasi diritto alla difesa; oppure il regime fondato sulla ghigliottina, che, dixit Robespierre, materializza il progetto rousseauiano del governo attraverso la virtù; oppure ancora il genocidio del popolo della Vandea. Paradossalmente, è proprio qui che l’anima entra in scena. Nel capitolo Del contratto sociale consacrato alla «Religione civile»,52 Rousseau non si fa alcuno scrupolo di ricorrere alla trascendenza per fondare la propria politica immanente. Ricapitoliamo: allo stato di natura, l’uomo conosce una felicità di tipo virgiliano; allo stato di cultura, segnato dall’avvento della nozione di proprietà,

conosce la disuguaglianza, la civiltà e la sofferenza; allo stato politico, per il tramite del contratto sociale, riscopre la propria felicità perduta attraverso l’istituto della legge, che gli assicura il ripristino dell’uguaglianza. Questo patto sociale, però, sembra essere più una finzione politica che non una realtà concreta, più un’ipotesi di lavoro che non una verità sociologica o politica. Ecco perché il filosofo invoca Dio e la religione per ottenere dagli uomini quello che l’immanenza non riesce a ottenere da sola. La Professione di fede del vicario savoiardo costituisce una specie di libro all’interno del libro, ed è consacrata all’educazione religiosa di Emilio. Questo nostro vicario si richiama al sentimento e alla ragione, e riconosce l’esistenza di un motore che mette in movimento tutto l’universo; non si tratta però del Dio cristiano creatore del mondo, quanto, più verosimilmente, del Dio aristotelico, agente primo immobile e causa prima incausata; il ricorso alla metafora dell’orologio e dell’orologiaio rimette oltretutto in circolo il luogo comune dei deisti; contro il materialismo, che riduce tutto quanto alla materia, il vicario rousseauiano raccomanda di usare il buon senso, il pensiero, la riflessione, l’intelligenza e la libertà, tutte facoltà che distinguono l’uomo dall’animale e provano l’esistenza nell’uomo di qualcosa di più rispetto alla materia, qualcosa che va al di là. In effetti, secondo Rousseau, l’uomo è «animato da una sostanza immateriale»:53 e quest’anima, ovviamente, noi possiamo conoscerla attraverso l’intuizione, e sempre attraverso l’intuizione noi possiamo sapere che sopravvive alla nostra morte e al deperire della materia. Il che porta al seguente ragionamento: «Se l’anima è immateriale, essa può sopravvivere al corpo; e se gli sopravvive, la Provvidenza è giustificata».54 Il problema è che, però, Rousseau sta partendo da una supposizione, non da una verità dimostrata! La ripetizione dei «se» dimostra che Rousseau manca di prove concrete e si vede costretto ad avanzare ipotesi. La Chiesa non è così stupida, e capisce bene cosa si stia tramando dietro tutti questi discorsi; ecco perché mette l’Emilio all’Indice… Rousseau attacca la religione cristiana non perché è una religione, ma perché è cristiana; perché essa, vendendo il suo retromondo e il suo aldilà, si adatta alle miserie del mondo quaggiù e collabora con chi mantiene l’ingiustizia sociale e, in virtù della giurisprudenza paoliniana secondo cui tutto il potere proviene da Dio, celebra la sottomissione ai poteri costituiti come mezzo per guadagnare la salvezza. Quella che occorre è, invece, una religione civica, una religione patriottica: Vi è dunque una professione di fede puramente civile, della quale spetta al sovrano fissar gli articoli, non precisamente come dogmi di religione, ma come sentimenti di socievolezza, senza i quali è impossibile essere buon cittadino o suddito fedele. Senza poter obbligare nessuno a

crederli, può bandire dallo Stato chiunque non li creda; può esiliarlo, non in quanto empio, ma in quanto insocievole e incapace di amare sinceramente le leggi, la giustizia, e d’immolare, in caso di bisogno, la sua vita al suo dovere. Che se qualcuno, dopo aver riconosciuto pubblicamente questi stessi dogmi, si conduca come se non vi credesse, sia punito con la morte; egli ha commesso il maggiore dei delitti, ha mentito dinanzi alle leggi.55

Capiamo allora che cosa intende Jean-Jacques Rousseau quando scrive di «costringer[e qualcuno] ad esser libero». Un decennio più tardi, il dottor Guillotin inventa il modo di esaudire il desiderio del filosofo scomparso nel 1778, e Robespierre e i giacobini porteranno avanti la politica dell’Uomo Nuovo piazzando una ghigliottina su moltissime delle piazze pubbliche. Se ne ricorderanno poi i bolscevichi, e poi anche i fascisti, metastasi di quelli. L’anima prende ormai la forma che gli dà il Rasoio nazionale, cioè quella di un cervello sanguinante spiccato dal resto del corpo.

Capitolo terzo

Genealogia dell’eugenetica repubblicana Decapitare l’anima

L’abate Grégoire inaugura la nozione di «rigenerazione» e ne spiega il funzionamento nel suo Essai sur la régénération physique, morale et politique des Juifs [Saggio sulla rigenerazione fisica, morale e politica degli ebrei] scritto nel 1788 e pubblicato nel 1789. L’opera è famosa per dei motivi un po’ strani, perché l’autore, pur esponendo tutta una serie di tematiche antisemite, riesce a sfuggire alle accuse di antisemitismo trasponendo i sedicenti vizi degli ebrei sul piano culturale, cioè su un piano artificiale e non essenziale, e considerandoli, per questo stesso motivo, salvabili dalla degenerazione attraverso la rigenerazione della figura del cittadino. Detto in altre parole, gli ebrei sono degenerati, ma se smettono di essere ebrei, se diventano dei cittadini francesi, se rinnegano i propri riti, i propri costumi e le proprie tradizioni, allora, in quel caso, possono rigenerarsi. Asociali in quanto ebrei, riusciranno a socializzare dimenticando di essere quello che sono, o almeno dimenticando di essere stati quello che sono stati… Questa rieducazione degli ebrei che punta a trasformare il loro giudaismo in qualcosa di accettabile, questa idea che un buon ebreo è un ebreo prima cristianizzato e poi convertito alle idee giacobine della religione di Stato dei preti bestemmiatori sono tutte tesi che mi sono sempre sembrate indifendibili. L’abate Grégoire ritiene che l’apporto degli ebrei alla cultura europea sia assolutamente trascurabile; che la crescita rapida della loro popolazione sia pericolosa; che la loro fede li obblighi a credere a tutte le sciocchezze dei rabbini; che la loro pratica dell’usura si riveli perniciosa per i contadini; che tutte le critiche che sono loro rivolte sull’argomento siano fondate; che abbiano fatto malissimo a non accogliere il messaggio cristiano del compimento dell’ebraismo nel cristianesimo; che il Talmud brulichi di stupidate; che il rabbinismo nasca dal delirio. Con degli amici così, non c’è nemmeno bisogno di nemici! L’abate Grégoire s’inventa l’ebreo pieno di vergogna, esattamente come, da lì a

cent’anni, Lessing s’inventerà l’ebreo che odia sé stesso. Per quest’abate pantheonizzato nel 1989 da un presidente della Repubblica decorato dall’Ordine della Francisca, la rigenerazione passa attraverso la conversione: «Concedendo agli ebrei tutta la libertà di cui hanno bisogno, avremo fatto un grande passo in avanti verso la loro riforma e, se mi è consentito dirlo, verso la loro conversione».56 E poi: «A furia di incoraggiarli, gli ebrei si adatteranno insensibilmente al nostro modo di pensare e di agire, alle nostre leggi, ai nostri usi e ai nostri costumi».57 Meno saranno loro stessi, e più saranno noi, e più ancora saranno rigenerati! L’abate Grégoire ritiene che gli ebrei siano sessualmente degenerati e debbano correggersi sul piano fisico: i ragazzi sono troppo precoci e le ragazze troppo soggette a ninfomania, fintanto che rimangono nubili. Dai discorsi fatti con Johann Caspar Lavater, l’inventore della fisiognomica, riprende l’idea che gli ebrei abbiano «il volto pallido, il naso aquilino, gli occhi affossati, il mento prominente e i muscoli costrittori della bocca alquanto pronunciati».58 Rilancia il luogo comune antisemita del loro cattivo odore e ritiene che i loro tratti fisici esprimano altrettanti tratti psichici negativi. Per rigenerare la razza ebraica, l’abate propone di eliminare tutte le leggi kasher che costringono a lavare la carne da qualsiasi traccia di sangue per renderla adatta alla consumazione. Privarsi del sangue significa rinunciare alle forze che offre. Parlando di sangue, l’abate Grégoire invita anche a combattere i matrimoni tra consanguinei, e promuove invece i matrimoni misti con i cristiani, cosa che presenta tra l’altro l’indubbio vantaggio di accelerare le conversioni. Il fatto che questo Essai sur la régénération physique, morale et politique des Juifs passi per essere uno scritto progressista e filosemita è qualcosa che continua a stupire, perché è al prezzo della scomparsa di sé stessi, al prezzo dell’abbandono di tutto quello che sono, ed è, invece, a tutto profitto di un’altra modalità di essere, anche sotto il profilo fisico, insomma a tutto profitto di un’altra identità che gli ebrei possono non essere più degenerati. Ed è ovvio, ma meglio precisarlo ancora: l’idea della rigenerazione presuppone implicitamente che a monte ci sia un processo degenerativo. E, degenerati, lo sono anche gli abitanti delle province, con le loro lingue regionali che l’abate Grégoire intende combattere per imporre il francese, che ha il vantaggio di essere una lingua unica e facilitare la rigenerazione, vale a dire l’ideologizzazione, la politicizzazione e l’indottrinamento dei cittadini. Assecondando sempre lo stesso spirito di sradicamento, redige il Rapport sur la nécessité et les moyens d’anéantir le patois et d’universaliser l’usage de la

langue française [Rapporto sulla necessità e i mezzi per annientare il dialetto e universalizzare l’uso della lingua francese], detto Rapporto Grégoire, ed esposto alla Convenzione il 4 giugno del 1794. Si parla della necessità di «annientare» (il termine viene scelto appositamente forte) trenta lingue, definite «dialetti» dall’abate: Il basso bretone, il normanno, il piccardo, il rouchi o vallone, il fiammingo, lo champenois, il metzino, il lorenese, il franc-comtois, il borgognone, il bressano, il lionese, il delfinese, l’alverniate, il pittavino, il limosino, il piccardo, il provenzale, il linguadociano, il velayen, il catalano, il bearnese, il basco, il rouergat e il guascone; quest’ultimo da solo è parlato su una superficie che si estende per sessanta leghe in ogni direzione. Nel numero dei dialetti, dobbiamo inserire anche l’italiano della Corsica e delle Alpi marittime e il tedesco parlato nell’Alto e Basso Reno, perché sono due idiomi molto degenerati. Infine, i neri delle nostre colonie, che voi avete trasformato in uomini, hanno una specie di idioma povero come quello degli ottentotti, un idioma che, come la lingua franca, conosce solo i verbi all’infinito.59

Degenerati, quindi, i piccardi e i bretoni, i bearnesi e i guasconi, i neri e gli ottentotti. I dialetti, in altre parole le lingue regionali, rappresentano un idioma di natura feudale, mentre il francese insegnato dai maestri in tutte le scuole di Francia è unico e rappresenta la vera e propria lingua della Repubblica. Da un lato, il dialetto limitato e rozzo, dall’altro la lingua colta e universale della nazione. «L’idioma è un ostacolo alla propagazione dei Lumi».60 In effetti, si tratta davvero di opporre alle molteplici e diversificate lingue del popolo la lingua unica, centralizzata e parigina dei giacobini: «[I dialetti] impediscono l’amalgama politico e fanno di un solo popolo trenta popoli».61 L’abate Grégoire vende i propri miracoli cristiani perché li ritiene degni dei Lumi, e fustiga invece le credenze popolari: è ovvio che non ama il popolo, che lo ritiene degenerato e che pensa che debba essere rigenerato. Sta in questo proposito, tutto il progetto giacobino. Per portare a compimento questo progetto, l’abate Grégoire conta sullo zelo dei maestri di scuola, sulla pubblicazione di dispense in francese con cui inondare le campagne, sull’aiuto dei giornali, sulla diffusione di poesie e di canzoni edificanti e sul cambiamento della segnaletica: si sta già abbozzando una società totalitaria, capace di indottrinare con ogni mezzo, e con gli insegnanti e i giornalisti a guidare la milizia. Grégoire s’immagina addirittura di accordare la possibilità di sposarsi solo a chi sa leggere, scrivere e parlare in francese. E dichiara guerra agli accenti regionali, invitando a riformare l’ortografia, a scrivere un dizionario, a realizzare una «nuova grammatica»62 e a prendere in prestito le parole delle lingue straniere – più dall’inglese commerciale che non dall’occitano dei poeti, ovviamente… L’abate Grégoire

conclude il proprio discorso celebrando la «rivoluzione che deve migliorare le sorti della specie umana».63 Anche Condorcet condivide questo progetto di miglioramento delle sorti della specie umana, e non si tira indietro di fronte all’invenzione dell’eugenetica rivoluzionaria. Scrive, in effetti, nei ragionamenti ultimi del suo fulminante Saggio di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, che occorre puntare al perfezionamento biologico della specie. In questa «decima epoca»,64 dove si esaminano i «progressi futuri dello spirito umano»,65 Condorcet pretende di appoggiarsi su regole scientifiche per spiegare che quello che succederà non può non succedere. S’inventa la predizione progressista. Tra le sue previsioni, c’è ovviamente «il perfezionamento reale dell’uomo».66 Se esiste un grande antenato del transumanesimo, è proprio in Condorcet che lo troviamo, cioè in un autore capace di scrivere che «il perfezionamento reale delle facoltà intellettuali, morali e fisiche»67 può derivare dall’invenzione «degli strumenti che aumentano l’intensità e guidano l’impiego di queste facoltà, o anche di quello dell’organizzazione naturale dell’uomo».68 Un’anima con l’intensità e le performance aumentate da strumenti inediti? Ecco, ci siamo… Condorcet parte dal principio che «la natura non ha posto alcun termine alle nostre speranze».69 È il motivo per cui, quando ci aggiungiamo la cultura, sorridiamo un po’, e otteniamo performance incredibili: considerato il perfezionamento degli «strumenti», dell’«industria» e delle «macchine», il filosofo arriva a concludere la «perfettibilità […] indefinita»70 dell’uomo. A proposito di quello che siamo ormai tutti quanti d’accordo nel considerare come il transumanesimo, Condorcet elabora questa ipotesi: «Sarebbe assurdo, ora, supporre che questo perfezionamento della specie umana deve essere considerato suscettibile di un progresso indefinito, che deve giungere un tempo in cui la morte potrà essere solamente l’effetto o di casi straordinari o della distruzione sempre più lenta delle forze vitali, e che infine la stessa durata dell’intervallo medio tra la nascita e questa distruzione non ha alcun termine assegnabile?» 71 La ricerca dell’immortalità attraverso la tecnologia, così cara a Elon Musk e compagnia, trova qui un chiaro precedente. Comunque, nelle ultime righe del suo Saggio, Condorcet propone il perfezionamento biologico della specie: «le facoltà fisiche, la forza, l’abilità, l’acutezza dei sensi, non sono forse tra quelle qualità il cui perfezionamento individuale può trasmettersi da un uomo all’altro? L’osservazione delle diverse specie di animali domestici deve convincerci di ciò, e potremmo avvalorarlo con osservazioni dirette compiute sulla specie umana».72 Il filosofo aggiunge che

anche le facoltà intellettuali e morali possono ricevere un simile trattamento. Intelligenza, potenza di pensiero, energia dell’anima o sensibilità morale si trovano così a poter essere prodotte dall’uomo grazie al perfezionamento delle tecniche, degli strumenti e delle macchine. Ci pare che anche Cabanis, medico e filosofo, sviluppi le idee dell’amico Condorcet, incontrato spesso nel salotto di Madame Helvétius. Per esempio, nei suoi Rapporti del fisico e del morale dell’uomo, scrive: Dopo di esserci occupati curiosamente dei mezzi onde rendere più belle e migliori le razze degli animali, e delle piante utili e piacevoli; dopo di avere rimaneggiate cento volte quelle dei cavalli, e dei cani; dopo di avere traspiantati nei stati, coltivati in tutte le maniere i frutti, ed i fiori, quanto non è vergognoso di trascurare totalmente la razza dell’uomo! Come se essa ci toccasse men da vicino! Come se fosse più essenziale di avere buoi grandi e forti, che uomini vigorosi e sani; persiche molto odorose, e tulipani molto colorati, che cittadini sani e bravi! È tempo, a questo riguardo come per molti altri, di seguire un sistema di veduta, più degno di un’epoca di rigenerazione: è tempo di osare di fare su di noi stessi ciò che noi abbiam fatto sì felicemente sopra vari de’ nostri compagni di esistenza, di usare di rivedere e correggere l’opera della natura. 73

Cabanis aiuta Condorcet a sfuggire alla furia dei giacobini terroristi del 1793, e gli avrebbe addirittura procurato il veleno con cui ha messo fine ai suoi giorni. Il progresso aveva ancora dei progressi da fare per essere veramente progresso… In attesa dell’ora della rigenerazione per mezzo della scienza (e già c’è il nazismo in fila), Robespierre tallona Rousseau su tutta questa storia della rigenerazione attraverso l’educazione e la politica, questa volta però sul terreno concreto della politica. Conosciamo la predilezione del giacobino per l’autore Del contratto sociale, che, nel capitolo intitolato Del legislatore, scriveva: Colui che sa intraprendere l’istituzione di un popolo, deve sentirsi in grado di cambiare, per così dire, la natura umana, di trasformare ogni individuo, che per sé stesso è un tutto perfetto e solitario, in parte di un tutto più grande, dal quale quest’individuo riceva, in certo qual modo, la sua vita e il suo essere; d’alterare la costituzione dell’uomo per rafforzarla; di sostituire un’esistenza parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che abbiamo ricevuta tutti dalla natura. Bisogna, in una parola, che egli tolga all’uomo forze che gli son proprie, per dargliene altre che gli siano estranee, delle quali non possa far uso senza il soccorso altrui. Più tali forze naturali sono morte e annientate, più quelle acquisite sono grandi e durevoli, e più anche l’istituzione è solida e perfetta: di modo che, se ogni cittadino non è nulla, non può nulla se non per mezzo di tutti gli altri, e se la forza acquisita dal tutto sia uguale o superiore alla somma delle forze naturali di tutti gli individui, si può dire che la legislazione ha toccato il più alto grado di perfezione che possa raggiungere.74

È esattamente quello che pensano Maximilien Robespierre e i giacobini. Il filosofo e il politico vogliono un Uomo Nuovo, e quest’uomo nuovo sarà quello dei giacobini; ma sarà anche quello dei fascisti e dei bolscevichi; e oggi quello dei transumanisti. Qual è l’anima di questo Uomo Nuovo? L’aneddoto, lo conosciamo. Robespierre sostiene di aver incontrato Rousseau quand’era giovane. In effetti, al momento della morte del filosofo, ha vent’anni. Non sappiamo però che cosa sia successo davvero. Un incontro sui testi? Un incontro fisico a Parigi o a Ermenonville? Un incontro con una figura lontana che il giovane avvocato non ha il coraggio di avvicinare? Un incontro vero e proprio durato qualche minuto e una conversazione informale del tipo: «Mi piacciono molto le sue cose»? Un incontro vero, ma magari più lungo? È Robespierre a creare il mito, non aspettiamoci che ci fornisca anche le chiavi per decifrarlo… Il piccolo avvocato appartenente alla nobiltà di toga, sceso a Parigi e habitué dei salotti del quartiere attorno a rue Arras, dove partecipa ai premi letterari locali, si è trasformato in Maximilien Robespierre. La particola nobiliare è ovviamente scomparsa, anche se il suo proprietario ha mantenuto la parrucca incipriata degli aristocratici, che manda peraltro in massa sotto il rasoio nazionale solo per il fatto… di essere aristocratici! Da buon allievo di Rousseau, Robespierre crede in Dio: è deista e condivide l’idea di un’anima immortale. Detesta l’ateismo, un vizio a suo avviso aristocratico che favorisce il libertinaggio; detesta Hébert, il grande scristianizzatore di fronte a Dio, che non esiste, e detesta anche quei miscredenti dei suoi seguaci, che manda tutti alla ghigliottina – una ventina, sul carretto del 24 marzo del 1794. Insomma, il suo intento è diventare il braccio armato del catechismo della Professione di fede del vicario savoiardo. Non dimentichiamoci che, nel preambolo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, possiamo leggere questa frase: «l’Assemblea Nazionale riconosce e dichiara, in presenza e sotto gli auspici dell’Essere Supremo, i seguenti diritti dell’uomo e del cittadino».75 In presenza e sotto gli auspici, dunque. Quest’ultimo termine, recuperato dalla religione antica, rimanda al favore degli dèi, di cui si interpretano i presagi attraverso l’esame del

volo degli uccelli e delle loro interiora. Certo, non c’era niente di più immanente! Eccoli, nonostante tutto, quelli che chiamano i Lumi… Il 21 novembre del 1793, in un discorso tenuto davanti alla Società popolare dei giacobini, Robespierre discute di questo famoso Essere Supremo e cita senza nominarlo Voltaire: «Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo». Ritiene, in effetti, che l’ateismo sia una postura da aristocratico libertino, e che occorra smarcarsi da questi degenerati dal sangue impuro. Difende invece la Provvidenza; solo che, proprio come Rousseau, è capace di avanzare unicamente a forza di postulati: parte rivendicando il sentimento, da completare con la ragione, e, come per una felice coincidenza, finisce a scoprire Dio! Abracadabra… Certo, sostiene che: «La Convenzione non fa libri, non è un autore di sistemi metafisici». Ciò non toglie che questa stessa Convenzione difende una metafisica deista e riprende tutto quello che troviamo in Kant sotto forma di postulati: libero arbitrio, esistenza di Dio, immortalità dell’anima. In altre parole, il treppiedi ontologico, teologico e metafisico della cristianità. Nel discorso del 5 febbraio del 1794, Sui princìpi di morale politica che devono guidare la Convenzione nazionale nell’amministrazione interna della Repubblica, Robespierre propone paradossalmente la stessa lettura della Rivoluzione francese del pensatore controrivoluzionario Joseph de Maistre. Per entrambi, questa rivoluzione è uno strumento della Provvidenza inteso a rigenerare l’uomo corrotto; la sola differenza è che ciò che secondo il controrivoluzionario è vizio, per il rivoluzionario si trasforma in virtù. Robespierre continua però a dirsi contrario alla superstizione cattolica, al fanatismo del cattolicesimo monarchico e al «filosofismo», termine con cui indica il materialismo ateo. Il 7 maggio del 1794, il discorso intitolato Sui rapporti delle idee religiose e morali con i princìpi repubblicani e sulle feste nazionali permette a Robespierre di creare, né più né meno, una nuova religione: il culto dell’Essere Supremo e della Ragione. Attacca l’epicureismo e tesse le lodi dell’immortalità dell’anima. Contro Danton proclama: E chi dunque ti ha dato la missione di annunciare al popolo che la divinità non esiste, o tu, che ti appassioni per questa dottrina arida e che non ti appassioni mai per la patria? Che vantaggio trovi nel persuadere l’uomo che una forza cieca presiede ai suoi destini e colpisce a caso il crimine e la virtù; che la sua anima non è che è un soffio leggero che si spegne alla porta della tomba? Gli ispirerà forse più rispetto per i suoi simili e per sé stesso, più devozione per la patria, più audacia nello sfidare il tiranno, più disprezzo per la morte o per la voluttà? Voi che rimpiangete un amico virtuoso, non preferite forse pensare che la parte migliore di lui sia sfuggita al trapasso? Voi, che piangete sulla bara di un figlio o di una sposa, siete forse consolata da colui che vi dice che di loro non resta più che vile polvere? Infelici che spirate sotto i colpi di un assassino, il vostro ultimo sospiro è un appello alla giustizia eterna! L’innocenza sul patibolo fa impallidire il tiranno sul suo carro di trionfo: avrebbe essa forse questo ascendente se la tomba uguagliasse l’oppressore e

l’oppresso? Disgraziato sofista! Con quale diritto vieni tu a strappare all’innocente lo scettro della ragione per rimetterlo nelle mani del crimine, a gettare un velo funebre sulla natura, ad esasperare la sfortuna, a rallegrare il vizio, a rattristare la virtù, a degradare l’umanità? Più un uomo è dotato di sensibilità e di ingegno, più si lega alle idee che ingrandiscono il suo essere ed innalzano il suo cuore; e la dottrina degli uomini di questa tempra diviene quella dell’universo. E come! Quelle idee non sarebbero forse verità? Anche se ciò fosse, io non arrivo tuttavia a comprendere come la natura avrebbe potuto suggerire all’uomo finzioni più utili di qualsiasi realtà; e se l’esistenza di Dio e se l’immortalità dell’anima fossero anche solo dei sogni, tuttavia essi sarebbero ancora la più bella di tutte le concezioni dello spirito umano.76

E prosegue: L’idea dell’Essere supremo e dell’immortalità dell’anima è un richiamo continuo alla giustizia; essa è dunque sociale e repubblicana. [Applausi] La natura ha messo nell’uomo il sentimento del piacere e del dolore, che lo costringe a fuggire gli oggetti fisici che gli sono nocivi, ed a cercare quelli che gli sono convenienti. Il capolavoro della società sarebbe di creare in lui, riguardo alle cose morali, un istinto rapido, che, senza il soccorso tardivo del ragionamento, lo portasse a fare il bene e ad evitare il male; poiché la ragione individuale di ciascun uomo, sviato dalle sue passioni, spesso non è che un sofista il quale difende la loro causa, e l’autorità dell’uomo. Ora, ciò che produce o sostituisce questo istinto prezioso, ciò che supplisce all’insufficienza dell’autorità umana, è il sentimento religioso che imprime nelle anime l’idea della sanzione data ai precetti della morale da una potenza superiore all’uomo. Per questa ragione non ricordo che sia mai venuto in mente a nessun legislatore di nazionalizzare l’ateismo.77

Attacca anche gli enciclopedisti, opponendo loro senza nominarlo Rousseau: Tra quelli che, nel tempo di cui parlo, si segnalarono nella carriera delle lettere e della filosofia, un uomo si dimostrò degno, per l’elevatezza della sua anima e per la grandezza del suo carattere, del ministero di precettore del genere umano. Attaccò la tirannia con tutta franchezza; parlò con entusiasmo della divinità; la sua eloquenza virile ed onesta dipinse con tratti infuocati il fascino della virtù, e difese quei dogmi consolatori che la ragione dà come appoggio al cuore umano. La purezza della sua dottrina, attenta al profondo della natura e all’odio profondo verso il vizio, e il suo disprezzo invincibile verso i sofisti intriganti che usurpano il nome di filosofi, gli attirarono l’odio e la persecuzione dei suoi rivali e dei suoi falsi amici. Ah, se egli fosse stato testimone di questa rivoluzione di cui egli fu il precursore, e che l’ha portato al Pantheon, chi potrebbe mai dubitare che la sua anima generosa avrebbe abbracciato con trasporto la causa della giustizia e dell’uguaglianza? Ma che cosa hanno fatto per essa i suoi dissoluti avversari? Essi hanno combattuto la rivoluzione, da quando hanno temuto che essa potesse elevare il popolo al di sopra di tutte le vanità particolari.78

Robespierre propone la «religione universale della Natura»,79 in cui tutto quello che costituiva l’essenza della religione cristiana, la sua superstizione e, osa dirlo, il suo ateismo complice dei re e della miseria, scompare a profitto della natura, della virtù, e di un Essere Supremo completamente liberato dagli orpelli antropomorfi. Afferma: «Non si tratta più di formare dei ‘signori’, ma dei

cittadini»,80 attraverso le istituzioni, il governo, l’educazione pubblica e le «feste nazionali»,81 che permettono agli uomini di ritrovarsi e quindi sperimentare la fraternità. «Un sistema [di feste nazionali] ben impostato, costituirebbe al tempo stesso il più dolce legame di fraternità ed il mezzo più potente per una rigenerazione» [corsivo mio].82 Nel corso di queste feste, vengono celebrate le leggi, ma anche la fraternità, l’uguaglianza, la libertà, la costituzione e la patria, senza dimenticarsi il cemento basilare, bestiale, brutale, efficace, primitivo e frenetico dell’odio nei confronti della «memoria dei tiranni e dei traditori»,83 ai quali è riservata l’«esecrazione»84 – ricordiamoci anche che Robespierre conosceva il suo catechismo a memoria e non ignorava che il termine esecrazione avesse anche un senso ecclesiastico; come dice Littré: «Quando un luogo santo viene contaminato da qualche incidente, si dice che c’è esecrazione, vale a dire perdita della consacrazione; occorre dunque consacrarlo di nuovo». In altre parole: rigenerare ciò che è degenerato. Robespierre esalta i bambini che si sacrificano per la patria, esalta le madri di famiglia e le donne francesi che offrono la loro prole all’indottrinamento, ed esalta i padri che le educano in ottemperanza a questo spirito. Ed esalta ovviamente l’amore e il rispetto della terra, così, alla cieca… Sembra quasi un discorso del maresciallo Pétain… Contro la «depravazione», che è ovviamente qualcosa di controrivoluzionario, Robespierre celebra la divinità, l’immortalità dell’anima e la morale, che sono invece assolutamente rivoluzionarie! E poi decreta, fin dall’«articolo primo»: «Il popolo Francese riconosce l’esistenza dell’Essere Supremo e l’immortalità dell’anima».85 Ma si è mai visto un testo di legge che dispone che l’immortalità dell’anima debba essere riconosciuta dal popolo francese? Che cosa significa «riconoscere» qualcosa la cui esistenza non è stata provata, né da Rousseau, né da Robespierre, né da nessun altro, con lo stesso Kant che si deve accontentare di postulati, dopo aver invano cercato, nelle seicento pagine della Critica della ragion pura, di trasformare la propria metafisica in una scienza? L’articolo due è della stessa pasta: «[Il popolo Francese] riconosce che il culto degno dell’Essere Supremo è la pratica dei doveri dell’uomo».86 Segue una litania del catechismo appiccicoso di tutte queste persone animate e mosse dal rancore: detestare la cattiva fede, odiare la tirannia, punire i tiranni e i traditori, soccorrere gli sfortunati, rispettare i deboli, difendere gli oppressi, praticare il bene, non essere ingiusti verso nessuno. Manca solo: mandare alla ghigliottina chiunque prenda in giro tutti questi sproloqui! Perché è così, quasi ventimila teste vengono tagliate in tutto il paese per portare a termine questo progetto di fraternità rivoluzionaria, senza parlare dei duecentomila vandeani, donne e bambini compresi, torturati, massacrati, condannati a morte e sterminati secondo

un piano preparato dai giacobini. Rigenerazione oblige… Il Terrore non ha niente a che fare con le controverità divulgate dalla storiografia marxista sulla Rivoluzione francese, che continua comunque a fare la parte del leone anche al momento in cui sto scrivendo. Il bagno di sangue non è l’inevitabile risposta alla Vandea che minaccia il potere giacobino a Parigi o al pericolo di guerra delle monarchie coalizzate, ma il mezzo con cui i giacobini cercano di realizzare il proprio progetto di Uomo Nuovo. Del resto, in che modo tagliare teste in così grandi quantità per tutto il paese avrebbe mai potuto fermare la ribellione della Vandea o bloccare gli eserciti dei realisti europei? Il Terrore impoverisce la nazione, dissangua il paese, devitalizza la Francia, mutila il popolo, insanguina la storia e affossa l’umanità. E oltretutto continua a rimanere senza effetti positivi sul fronte interno, cioè in Vandea, ma anche su quello esterno, cioè alle frontiere. Questa rigenerazione organizzata dal Terrore, l’abate Grégoire la vuole, e assieme a lui, la vogliono anche Robespierre, Marat, Saint-Just, Babeuf, RabautSaint-Étienne, Billaud-Varenne, Le Peltier de Saint-Fargeau, Barère e Pétion de Villeneuve, insomma i giacobini. Il deputato robespierrista Barère, relatore per il Comitato di salute pubblica, organismo a cui dobbiamo l’istituzione del Terrore all’ordine del giorno e l’inizio della politica di profanazione delle tombe reali, afferma: «Il Comitato si occupa di un vasto piano di rigenerazione, il cui risultato deve essere quello di bandire dalla Repubblica tanto l’immoralità che i pregiudizi, tanto la superstizione che l’ateismo».87 Questo significava obbedire a Robespierre, il quale, nel suo discorso del 29 luglio del 1793 ai giacobini, aveva avvallato l’idea della creazione di «una razza rinnovata, forte, laboriosa, regolata, disciplinata e che una barriera impenetrabile avrà separato dal contatto impuro dei pregiudizi della nostra epoca invecchiata».88 Per parecchi anni, i giacobini hanno a propria disposizione tutto il territorio nazionale per realizzare il loro Uomo Nuovo, ma riescono solo ad aggravare la parte peggiore del Vecchio: la cattiveria, la bassezza, la selvatichezza, la stupidità, l’odio e le passioni tristi. L’uomo dei Lumi: un meccanismo senza libero arbitrio, e quindi non responsabile, non colpevole, non punibile, parente stretto della scimmia e portatore di un’anima materiale, mosso dall’interesse personale al di là del bene e del male, pezzo di cera vergine da formare, e quindi da rigenerare, frutto partorito da un mostro. È questo, l’Uomo Nuovo dei giacobini.

Cambiando misura e passando dalla Francia come terreno di sperimentazione dei fanatici giacobini alla produzione di un solo esemplare di questo Uomo Nuovo da parte degli stessi, un punto di riferimento ce l’abbiamo, perché quest’Emilio nelle mani di un precettore rousseauiano è esistito davvero, e si chiamava Luigi Carlo di Francia, meglio conosciuto sotto il nome di Luigi XVII, secondogenito maschio ed erede del re Luigi XVI, decapitato il 21 gennaio del 1793 all’età di 38 anni, e della regina Maria Antonietta. Cominciamo dunque dal non escludere tutti i dati di fatto. Per creare il proprio uomo rigenerato, Rousseau non voleva forse un bambino senza genitori? Un bambino abituato al freddo e al rigore, allo sforzo e alle cose ripugnanti, alla rassegnazione e alla mancanza di sonno? Un bambino in balìa del proprio maestro, che non lo molla di un centimetro, al punto da dormire nella stessa stanza? Non voleva, forse, il filosofo, che il precettore coltivasse l’ignoranza del proprio allievo, e che questo fosse docile, in suo potere? Che fosse più animale che uomo? Del resto, non era Rousseau che parlava di un capriolo come modello? Il suo amico Robespierre lo ascolta e realizza i suoi desideri ben oltre ogni limite di ragionevolezza. Il figlio del re viene strappato con violenza ai propri genitori, che finiscono sulla ghigliottina, e separato anche dalla sorella, imprigionata come lui al Tempio; il Comitato di salute pubblica gli assegna come carceriere un calzolaio, Antoine Simon, membro dei Cordiglieri, assieme alla moglie, di professione domestica, e tutti quanti vivono nella stessa cella con l’incarico di educarlo. In verità, lo maltrattano, lo umiliano e lo disprezzano – del resto, non lo si deve abituare alla rassegnazione? Viene fatto vivere in mezzo alla sporcizia, ai topi, alle zecche, ai ragni e ai vermi; gli tagliano i capelli, e poi se ne dimenticano, e i capelli gli ricrescono come i peli degli animali, assieme alle unghie – tanto si deve evitare che sia portato a curarsi il corpo come fanno gli esseri urbani e civilizzati. Non deve forse prendere esempio dal capriolo, che di certo non va dal parrucchiere, non va dal pedicure, e non si fa incipriare la parrucca? Simon lo sveglia di notte e lo fa venire dove sta dormendo per prenderlo a pedate, e poi lo rimanda a letto; non bisogna forse educarlo a dormire poco? Il giacobino gli regala uno scacciapensieri, strumento musicale popolare della Savoia, con l’idea di fargli passare la voglia di suonare il clavicembalo; non bisogna forse preferire i divertimenti del topo di campagna a quelli del topo di città? «Io sono il tuo maestro, dice il giacobino Simon, e non ti devo lasciare marcire nella tua ignoranza. Ti devi abituare al progresso e alle idee nuove»… Non sembra una lezione del precettore di Emilio?

La regina fa mandare al figlio libri, quaderni e giochi, però i giacobini li intercettano tutti. Al figlio di Luigi XVI Simon impone il lutto di Marat; gli tolgono i vestiti e lo addobbano come un sanculotto, con tanto di berretto frigio. Viene sfruttato come domestico per gli stessi carcerieri, pulisce e passa la cera alle scarpe della moglie di Simon, e le porta anche lo scaldino quando si sveglia. Lo costringono a bere vino e acquavite fino a ubriacarsi, e poi gli fanno cantare delle canzoni rivoluzionarie scurrili e inneggianti al regicidio. Lo svegliano in piena notte per obbligarlo a gridare «Viva la Repubblica!» e lo tirano per i capelli, lo insultano, lo picchiano, lo umiliano, lo prendono a schiaffi e a pedate; insomma, lo martirizzano. Un giorno, Simon lo colpisce addirittura in testa con gli alari del camino. Dopo averlo fatto ubriacare, viene costretto a confessare che partecipava con la madre e con la zia a delle orge incestuose, e che la madre addirittura lo masturbava (al processo contro Maria Antonietta, questi deliri furono presi seriamente in considerazione). Una notte, il carceriere lo sorprende a pregare in ginocchio ai piedi del letto e gli rovescia in testa il contenuto ghiacciato di una brocca. E così via… Quando Simon deve lasciare il posto perché la legge gli impedisce di cumulare l’impiego pubblico con la nuova carica di eletto municipale, il piccolo Capeto eredita dei carnefici ancora più perversi. Lo murano nella sua cella e non gli rivolgono più la parola, gli passano da mangiare attraverso le sbarre, lo privano del riscaldamento e della luce, gli lasciano le lenzuola umide e le coperte marce, lo fanno dormire tutto vestito senza mai cambiargli o lavargli i vestiti, o i brandelli che ne rimangono, e lo costringono a vivere in mezzo alla sporcizia più ripugnante. Per sei mesi, sperimenta quella stessa privazione sensoriale che imperverserà nelle celle dei paesi totalitari nel corso del Novecento. Non riesce più a rimanere in piedi ma neanche seduto, ed è consumato dalla scabbia e dalla tubercolosi. I giacobini capiscono che uccidere il corpo è facile e che bisogna invece raffinare le tecniche puntando a soffocare l’anima per arrivare solo in seguito alla morte del corpo. Arriva Termidoro e Robespierre finisce per assaporare in prima persona quel rasoio nazionale a cui aveva destinato migliaia di vittime. Ovviamente è sempre in nome della virtù, della libertà, dell’uguaglianza e, soprattutto, della fraternità che ha sfruttato quel patibolo in maniera tanto ipnotica. Sul carretto che porta questo malato mentale alla morte, si trova anche Antoine Simon, la prima guardia di Luigi XVII. La morte di Robespierre frutterà al piccolo re dei nuovi carcerieri: non avranno certo la ferocia dei giacobini, ma il male è ormai già compiuto. Durante i suoi anni di prigionia, il bambino rifiuta tutto e non proferisce parola; quando lo fa, è solo per proclamare aforismi ben cesellati, che dimostrano la sua incredibile qualità umana e la sua grandezza d’animo,

impensabili per un bambino della sua età – ricordiamoci che ha otto anni quando entra in prigione e dieci anni e due mesi quando muore. Simon gli aveva chiesto che cosa avrebbe fatto se i vandeani fossero arrivati a Parigi per salvarlo e lui aveva risposto: «Vi perdonerei». Al che il giacobino risponde giurando che, se questo fosse mai successo, lo avrebbe strozzato lui stesso. Quest’aneddoto è la perfetta illustrazione della rottura tra i due mondi, quello del Vecchio Uomo e quello dell’Uomo Nuovo, e delle direzioni opposte che ormai hanno preso. Quando il bambino diventato re con la morte del padre muore a sua volta l’8 giugno del 1795, è sicuramente un bambino che passa a miglior vita, ma è anche e soprattutto l’Uomo, con la maiuscola, che entra nella tomba. I giacobini volevano uccidere il Vecchio Uomo e realizzare l’Uomo Nuovo: sono invece riusciti soltanto a uccidere l’uomo tout court. L’Uomo Nuovo non ha un’anima: è un cane secondo Descartes, un’ostrica secondo Diderot, un orango per La Mettrie, un pezzo di carne da decapitare per i giacobini. L’anima torturata di Luigi XVII è stata quella dell’ultimo uomo.

Capitolo quarto

Una ghiandola pineale postmoderna Metapsicologizzare la psiche

I Lumi sono stati deisti, materialisti, edonisti, empiristi e sensualisti. E la Rivoluzione francese è stata più il frutto del materialismo che non dell’idealismo e dello spiritualismo, più verosimilmente compagni di strada del cristianesimo, allora vilipeso. Il pensiero che segue Termidoro, cioè quello degli Idéologues, i vari Cabanis, Volney e Destutt de Tracy, solo per citare alcuni dei nomi, continua la particolare strada filosofica materialista aperta dai Lumi. E parliamo infatti di anti-Lumi, proprio per indicare quanto si oppongano a quel razionalismo freddo che abbiamo visto essere servito ai giacobini per costruire la propria ideologia in generale e quella dell’Uomo Nuovo in particolare. Kant, che si entusiasma per la Rivoluzione francese ai suoi inizi, ma che ha poi ben presente tutte le funeste vicende che conducono al Terrore del 1793, contrariamente a quanti leggono Che cos’è l’Illuminismo? in maniera un po’ rapida e pregiudiziale, non è un filosofo guerrafondaio e non vuole inaugurare nessuna nuova era. È anzi un pensatore reazionario, un filosofo che restaura Dio e l’immortalità dell’anima in un momento in cui queste figure si trovano a mal partito. Perché proprio in Che cos’è l’Illuminismo? Kant invita a fare un uso libero e audace della propria ragione (il famoso «Sapere aude»), ma solo relativamente alla propria persona, nell’ambito del proprio cuore, all’interno del registro dell’intimità, escludendo formalmente che si debba davvero trasformare il sapere in potere, la teoria in pratica e il pensiero in azione. La Critica della ragion pura esce nel 1781. L’uomo macchina di La Mettrie nel 1747, Dello spirito e L’uomo di Helvétius rispettivamente nel 1758 e nel 1773, l’Extrait des sentiments de Jean Meslier [Estratto dei sentimenti di Jean Meslier] viene pubblicato da Voltaire nel 1762, e Il buon senso, ovvero Idee naturali contrapposte alle idee soprannaturali del barone d’Holbach nel 1772. Sappiamo che le copie del Testamento dell’abate Meslier circolavano sottobanco e si vedevano a caro prezzo già dal 1729. È insomma a tutto questo secolo di materialismo che va a rispondere la Critica della ragion pura. Che è un’opera che separa il fenomenico, oggetto dei sensi e quindi

dell’esperienza possibile, dal noumenico, oggetto al di là di qualsiasi esperienza. Di conseguenza, la ragione non può conoscere se non ciò che si trova accessibile attraverso l’esperienza, secondo delle modalità che Kant s’impegna a definire in dettaglio e ad nauseam. Se l’intelligibile si rivela essere etimologicamente l’inconoscibile, che cosa possiamo dire allora di Dio e dell’anima? La teoria del noumeno restringe le pretese della sensibilità e trasforma Dio e l’anima in altrettanti oggetti impossibili da conoscere. Quindi, se ci vogliamo porre l’obiettivo di salvarli dal pericolo materialista, come possiamo fare? Ma è ovvio: affermandoli comunque, costi quel che costi… È questo il senso dei tre postulati della ragion pura esposti nella seconda parte della Critica, intitolata Dialettica trascendentale: la libertà, postulato cosmologico; l’immortalità dell’anima, postulato psicologico; l’esistenza di Dio, postulato teologico. Kant li ammette a titolo di ipotesi perché si trova nell’impossibilità di dimostrarli. Occorre però che l’anima esista per forza, perché solo così l’uomo può voler progredire verso la santità, la cui morale, esposta nella Metafisica dei costumi, viene declinata in versione laica. Un libro grosso come questo e così denso, che partorisce solo tre postulati… Un bottino tutto sommato un po’ magro… L’anima è veramente appesa a un filo, però per chi ha la fede questo filo è un cavo d’acciaio. Anche Freud, pur continuando ovviamente a definirsi scienziato, vuole salvare l’anima dal pericolo scientista e decide così di percorrere la stessa strada epistemologica: quella del postulato. In effetti, il suo inconscio non viene mai provato, ma solo presentato dappertutto come tale, cioè, appunto, come postulato. La psicoanalisi costituisce quella che Freud definisce una «metapsicologia», ma che in realtà è semplicemente una parapsicologia – ed etimologicamente si tratta assolutamente della stessa cosa! Chiariamo. Cosa significa «metapsicologia»? Il Dictionnaire historique de la langue française [Dizionario storico della lingua francese] di Alain Rey fa nascere la parola nel 1896 e gli attribuisce appunto Freud come autore. È composta dal prefisso polisemico «meta», che va inteso nel senso della successione, o della trascendenza, e da «psicologia», un termine di cui nella stessa opera si spiega come già le prime occorrenze alla fine del Cinquecento indicassero il significato di «scienza dell’apparizione degli spiriti». Il termine «psicologia» ha oggigiorno il senso di «conoscenza dell’animo umano, dello spirito, considerato come parte della metafisica». Si tratta in sostanza di una parola e di un’attività che appartengono appunto al campo della metafisica, e non certo a quello della scienza. Il positivismo ottocentesco vuole dare a tutte le

attività dello spirito una dimensione scientifica, però, nella metapsicologia freudiana, non esiste niente che ricordi la sperimentazione, niente che si fondi sulla presenza di esperienze capaci di produrre risultati ripetibili, e ripetuti, utili a creare un corpus di leggi scientifiche. E cosa significa invece «parapsicologia»? Ce lo spiega lo stesso dizionario: «Studio dei fenomeni parapsichici, metapsichici». La virgola è stata scelta con cognizione di causa, perché il lessicografo preferisce non dire «o». La voce stabilisce insomma l’equivalenza tra la metapsicologia del metapsichico e la parapsicologia del parapsichico. Prendiamone atto. È in una lettera a Fliess del 13 febbraio del 1896 che Freud usa il termine «metapsicologia» per la prima volta. Vi ricorrerà poi anche in alcune lettere a Carl Gustav Jung e a Karl Abraham. Viene finalmente portato alla luce del giorno nel 1915, in un capitolo della Metapsicologia intitolato L’inconscio. Freud ritiene che la metapsicologia rappresenti il compimento dei suoi lavori di psicoanalisi. Nella sua Autobiografia del 1925, descrive la metapsicologia come la «sovrastruttura speculativa della psicoanalisi»89 «che però non implica un riferimento all’anatomia cerebrale vera e propria».90 Nella Psicopatologia della vita quotidiana, parla di «una realtà sovrasensibile»91 – e qui avrebbe potuto scrivere: noumenica. Dal concetto, insomma, non salta mai fuori nulla di sperimentale, sembra trattarsi solo di una variazione sul tema del postulato… La metapsicologia trionfa nella sua qualità di teoria della psicoanalisi; in quanto tale, è una branca della parapsicologia. Freud era anche superstizioso, e lo testimoniano diversi episodi della sua vita. Sulle lettere, mette crocette per scongiurare la cattiva sorte; crede alla numerologia e la usa nel proprio sistema per fare esercizi incredibili, e dimostrare che se, in matematica, 2 + 2 = 4, il risultato diventa diverso se si rispettano i princìpi della metapsicologia – del tipo: invidia del pene + timore della castrazione; in una lettera dell’8 maggio del 1932 allo psicoanalista italiano Edoardo Weiss, scrive che con la figlia Anna, psicoanalista come loro, sta sperimentando la telepatia; e crede ai sogni premonitori. Sull’occultismo, scrive, sempre a Weiss, il 24 aprile del 1932: «Mi dichiaro disposto a credere che dietro ai cosiddetti fenomeni occulti ci sia qualcosa di nuovo e di molto importante: la trasmissione del pensiero, cioè il passaggio di processi psichici attraverso lo spazio ad altre persone. Ne ho delle prove tratte da osservazioni fatte alla luce del giorno, e penso di esprimere pubblicamente le mie opinioni in proposito. Sarebbe invece controindicato per la Sua posizione di pioniere della psicoanalisi in Italia che Lei si proclamasse contemporaneamente

sostenitore dell’occultismo»92 – così leggiamo nella biografia che Ernest Jones consacra a Freud. Sappiamo che teorizza la possibilità che l’inconscio del terapeuta e del paziente comunichino tra loro… anche quando lo psicoanalista sta sonnecchiando! Freud stesso confessa che, a volte, durante le sedute, gli capita di dormicchiare… Sempre allo psicoanalista italiano, l’8 maggio del 1932: «Desidero dissipare un malinteso. Che uno psicoanalista rinunci a partecipare pubblicamente a ricerche di occultismo è una misura di ordine puramente pratico, solo temporanea, che non vuole esprimere alcun principio. Ripudiare sdegnosamente tali studi senza averne fatto esperienza, significa imitare il pietoso esempio dei nostri avversari».93 Da quel momento, solo finte e astuzie, solo cinismo e opportunismo: gli psicoanalisti non confesseranno mai la propria predilezione per l’occultismo, però in realtà lo apprezzano e lo condividono – psicoanalisti e occultisti commerciano in effetti assieme con una stessa «realtà sovrasensibile»! Lo confermano scritti come Psicoanalisi e telepatia (1921) e Sogno e telepatia (1922). Prima di diventare il Freud che conosciamo, l’autore dell’Introduzione alla psicoanalisi s’impegna in vari tentativi… Comincia lavorando sulla sessualità delle anguille, poi passa a studiare il potere anestetizzante della cocaina in ambito oftalmologico, non senza provare la sostanza, oltre che sugli occhi, direttamente su sé stesso, a volte ben oltre ogni ragionevolezza. Apre uno studio in cui si propone di curare con l’acqua, con l’elettricità, con l’imposizione delle mani, con la pressione sul volto, con l’ipnosi, però né la balneoterapia, né l’elettroterapia, né il magnetismo gli permettono di guadagnare quello che gli serve. Sembra il medico di Molière, e arriva persino a vantare i benefici del messaggio all’utero praticato a una paziente distesa sul divano per curare l’isteria… Per, presumibilmente, curare quella che è solo una banale pratica sessuale, cioè la masturbazione, Freud preconizza l’impiego dello psicroforo, una sonda uretrale che permette di far passare direttamente dentro la vescica acqua ghiacciata (lettera del 9 aprile del 1910 a Ludwig Binswanger). Questa delirante ricetta stupisce ancora di più se pensiamo che in questo stesso periodo Freud sta vantando l’efficacia della psicoanalisi per curare e guarire: Il metodo psicoanalitico freudiano risale al 1904, Psicoterapia al 1905, Le prospettive future della terapia psicoanalitica e Psicoanalisi «selvaggia» sono pubblicate nel 1910. L’anno in cui consiglia questo stravagante tipo di cura è lo stesso anno in cui pubblica le Cinque conferenze sulla psicoanalisi…

Questa confusione riguarda anche la teoria. Freud comincia la propria vita di teorico da materialista e manda all’amico Fliess il manoscritto del Progetto di una psicologia, dove lo si vede percorrere una strada fisiologica, biologica, anatomica e istologica, con l’evidente intenzione di mettere in piedi un sistema psicologico sul quale persino l’Ideologo Cabanis, autore dei Rapporti tra il fisico e il morale dell’uomo (1802), non avrebbe avuto praticamente niente da ridire. In effetti, Freud comincia con queste parole: «L’intenzione di questo progetto è di dare una psicologia che sia una scienza naturale, ossia di rappresentare i processi psichici come stati quantitativamente determinati di particelle materiali identificabili, al fine di renderli chiari e incontestabili».94 Quella che propone è un’analisi materialista della psiche che chiama in causa i «neuroni come […] particelle materiali»,95 l’eccitamento e l’inerzia neuronale, i neuroni motori e i neuroni sensitivi, i movimenti riflessi, e poi «il sistema nervoso (come erede dell’eccitabilità generale del protoplasma) alla superficie esterna irritabile di un organismo, la quale si alterna a strati considerevoli di superficie non irritabile»; 96 e poi ancora gli stimoli, l’istologia, i cilindrassi, la memoria del tessuto nervoso, le cellule permeabili e le cellule impermeabili, il movimento ondulatorio, il processo della facilitazione neuronale, la sostanza grigia spinale, la sostanza grigia cerebrale, il cervello primario, i gangli simpatici, la conduzione intratissutale e le terminazioni nervose. A un certo punto, si parla anche di una «corrente, che si dirig[e] dalle ramificazioni cellulari o prolungamenti (dendriti) verso il cilindrasse. Ogni singolo neurone costituisce così un modello del sistema nervoso nel suo insieme, con la sua dicotomia strutturale, essendo il cilindrasse l’organo di scarica».97 Ma è la prosa di un appassionato di occultismo o quella di un aspirante parapsicologo? Siamo nel 1895 e Freud abbandona questa teoria per accoglierne un’altra, e a questa altre ne seguiranno ancora. S’inventa la teoria della seduzione. In una lettera a Fliess datata 8 febbraio del 1897, dopo avergli raccontato il sogno incestuoso che ha fatto qualche giorno prima, vorrebbe dargli a intendere che il proprio padre, morto da appena sedici settimane, abbia violentato uno dei figli. La cosa è naturalmente falsa, però Freud ne approfitta per arrivare alla conclusione che tutti i padri abusano dei figli, finendo per scoprire l’eziologia traumatica delle nevrosi! Sostiene di appoggiarsi su diciotto casi, nessuno dei quali è però mai veramente esistito. E afferma che il metodo di cura da lui usato a studio si basa su questa teoria, quando in realtà non fa altro che costringere i pazienti a ricordarsi di traumi che non hanno mai vissuto. A Vienna sorgono proteste generalizzate e Freud passa dei guai; lo studio si svuota e decide di rinunciare alla teoria, senza però abbandonare l’idea che le nevrosi nascano da un trauma sessuale infantile di natura fantasmatica. Il 29 dicembre, spiega a

Fliess questa sua «merdologia» – è il termine che usa per parlare del proprio lavoro. Ogni tanto anche Freud ha dei momenti di lucidità. Alla fine del 1897, s’inventa il complesso di Non-essere. Il 3 ottobre scrive a Fliess: «più tardi (tra i due e i due anni e mezzo di età) si risvegliò in me la libido verso matrem [sic]; l’occasione deve essere stata un viaggio che feci con lei da Lipsia a Vienna, durante il quale dormimmo assieme e in cui io ebbi certamente l’opportunità di vederla nudam [sic]».98 Quella che nella versione epistolare era solo una probabilità si trasforma ora, nell’opera, grazie alle capacità performative freudiane, in una verità universale: quello che ha vissuto lui, lo hanno vissuto tutti in virtù di questa affermazione gratuita: «Mi è nata solo una idea di valore generale»99 (12 ottobre 1897). L’ipotesi di Freud diventa verità fin dalla prima biografia di Freud, quella di Ernest Jones, perché è proprio in quell’opera che si forma il modello di tutte quelle che seguiranno. Jones scrive in effetti, nel 1957, nella sua Vita e opere di Freud: «Durante il viaggio da Lipsia a Vienna […] Freud ebbe occasione di vedere sua madre nuda» [corsivo mio].100 L’ipotesi è quindi già diventata una verità scientifica e il desiderio solipsista di Freud, una realtà universale… C’è la prima topica, nell’Interpretazione dei sogni, uscita nel 1900, e la seconda topica, nel 1920, in Al di là del principio di piacere. Nel 1938, però, poco tempo prima di morire, quando non ha più niente da provare e il suo nome si trova già scritto sul libro della storia, ecco quello dichiara nel suo Compendio di psicoanalisi, redatto nel 1938 e pubblicato incompiuto nel 1940: «può darsi che in futuro qualcuno ci insegnerà come influenzare direttamente, con speciali sostanze chimiche, le quantità energetiche e la loro ripartizione nell’apparato psichico. E forse verranno alla luce altre potenzialità della terapia che adesso non possiamo neppure sospettare».101 Freud consacra un capitolo della Metapsicologia alla questione dell’inconscio. Che cosa ci insegna questo capitolo? Ispirato per principio alla teologia negativa, quello che ci insegna è che l’inconscio non è visibile per la semplicissima ragione che coincide con una parte dell’invisibile del rimosso. Riusciamo a renderlo visibile solo attraverso la psicoanalisi, perché quest’ultima riesce a far tornare alla superficie del conscio quello che la censura che rimuove il trauma ci ha seppellito. L’inconscio è quindi come il vento: non lo si vede mai, però deduciamo che è presente dal fatto che le foglie si muovono. Non sappiamo mai con certezza di cosa si tratti, perché lo possiamo conoscere solo quando è diventato cosciente, cioè quando si è modificato con il lavoro di rivelazione (nel senso fotografico del termine, ma probabilmente anche nel senso religioso) permesso dal passaggio sul divano. Scrive Freud: «Il diritto di ammettere l’esistenza di una psiche inconscia e di

lavorare scientificamente a questa ipotesi ci viene contestato da più parti».102 Si tratta quindi di una ipotesi, e la cosa viene specificata fin da subito: un castello allegorico fondato sulla roccia di un «plasma germinale»103 somatico! Per rispondere a chi gli nega il diritto di formulare questa ipotesi, a chi gli nega cioè la possibilità di postulare seguendo le regole della giurisprudenza kantiana, confessa: «a nostra volta possiamo replicare che l’ipotesi è necessaria e legittima, e che abbiamo parecchie prove dell’esistenza dell’inconscio».104 Non sembra il modo di parlare di un teologo che sta discorrendo dell’anima affermando che è invisibile ma allo stesso tempo presente, perché necessaria a riempire un vuoto che, altrimenti, avrebbe delle vertiginose conseguenze ontologiche? Se l’inconscio non esistesse, parecchie cose rimarrebbero prive di una spiegazione, scrive Freud: per questo motivo deve per forza esistere! Riconosciamo, in questo modo di procedere, il modo kantiano per accreditare Dio, l’anima e la libertà di un’esistenza, perché, senza questi postulati, un certo numero di cose non potrebbero nemmeno esistere – il senso del mondo, la speranza edificante e la responsabilità che va di pari passo con la punizione e la ricompensa. «Guadagnare in significato e in connessione è una ragione perfettamente legittima per andare al di là dell’esperienza immediata»,105 scrive Freud: la metapsicologia non ha nulla a che fare con la psicologia, l’unica cosa che importa è ciò che sta al di là, e questo per quanto riguarda le aperture significanti permesse. Freud rimpiange spesso di non aver scelto la strada della filosofia: con la metapsicologia, ci entra in realtà da kantiano desideroso di salvare l’anima. Altrimenti, per quale motivo, nell’insieme generale del testo inaugurale della metapsicologia, ricorrere a un registro semantico che prevede espressioni come: «stati latenti»,106 «vita psichica»,107 «attività psichica inconscia»,108 «processi psichici latenti»,109 «vita psichica inconscia»,110 «atti psichici»,111 «sistemi psichici»,112 e così via. È quindi chiaramente sotto il segno della Critica della ragion pura che Freud colloca la propria metapsicologia: «Come Kant ci ha messo in guardia contro il duplice errore di trascurare il condizionamento soggettivo della nostra percezione e di identificare quest’ultima con il suo oggetto inconoscibile, così la psicoanalisi ci avverte che non è lecito porre la percezione della coscienza al posto del processo psichico inconscio che ne è l’oggetto. Allo stesso modo della realtà fisica, anche la realtà psichica non è necessariamente tale quale ci appare». 113 Lo psichico corrisponde quindi esattamente a quello che si pensa debba essere, e già pensarlo significa postularlo come si desidera che sia, cioè esattamente nel modo in cui se ne ha bisogno. Freud vuole l’inconscio di cui ha bisogno e lo crea conseguentemente a propria immagine. È la cosa più semplice

per qualcuno di così modesto. A prova di questo ritorno dello psichico, e quindi dell’anima, Freud scrive: «La ricerca ha provato in modo incontestabile che l’attività psichica è legata al funzionamento del cervello più che ad ogni altro organo. Un tratto più avanti (non sappiamo quanto) porta la scoperta dell’importanza disuguale delle diverse aree del cervello e del loro particolare rapporto con determinate parti del corpo e attività mentali. Ma tutti i tentativi di scoprire, su questa base, una localizzazione dei processi psichici, tutti gli sforzi intesi a stabilire che le rappresentazioni sono accumulate in cellule nervose e gli eccitamenti viaggiano lungo le fibre nervose sono completamente falliti».114 Non troveremo niente nella corteccia cerebrale o nelle zone sottocorticali dove poter collocare l’inconscio. Diciamola in altri termini: non riusciremo mai a trovare la ghiandola pineale postmoderna! «Per il momento la nostra topica psichica non è niente da spartire con l’anatomia; non si riferisce a località anatomiche, bensì a regioni dell’apparato psichico, a prescindere dalle parti dell’organismo in cui dette regioni possano esser situate». 115 E Freud aggiunge, non senza un certo compiacimento: «Da questo punto di vista il nostro lavoro è dunque libero, e può procedere secondo i propri bisogni. Sarà anche opportuno rammentare che per il momento le nostre ipotesi non pretendono di possedere altro valore che quello di rappresentazioni illustrative» [corsivo mio].116 Peccato non essere stato letto e meditato dai grandi guru della corporazione del Divano! Nel labirinto freudiano, esiste un filo d’Arianna, e questo filo è il plasma germinale. Freud raccoglie questa nozione dal biologo August Weismann. L’espressione continua a riapparire un po’ dappertutto nella sua opera, dove però la cosa si trova come rimossa. Esisterebbero delle cellule germinali, che trasmettono le informazioni ereditarie, e delle cellule somatiche, che assicurano invece le funzioni vitali. A favore o contro le prime, la formazione, l’apprendimento non possono cambiare nulla. Nella Metapsicologia, Freud scrive: «l’individuo è l’appendice provvisoria e transeunte del pressoché immortale plasma germinale che gli è stato affidato dalla generazione».117 Il viennese riprende la tesi di Schopenhauer secondo la quale ciascuno di noi esiste allo stesso tempo come individuo mortale separato e come anello della catena della specie immortale. Le pulsioni di autoconservazione assicurano la sopravvivenza e la permanenza dell’individuo, mentre le pulsioni sessuali, quelle del frammento della specie che questo stesso individuo rappresenta. Il plasma germinale mortale scompare con la nostra morte, mentre il plasma germinale immortale viene sfruttato ai fini della riproduzione della specie e dura in eterno.

Ne L’Io e l’Es, scrive: «L’espulsione della materia sessuale, nell’atto sessuale, corrisponde in certo modo alla separazione del plasma germinale dal soma».118 Certo, esistono l’inconscio, le pulsioni, la libido, gli istinti e tutti gli altri elementi dell’apparato psichico, cioè il conscio, il preconscio, l’inconscio, l’Es, l’Io e il Super-io. Però, in ultima analisi, quello che esiste è solo il plasma germinale, come si evince dalle ultime righe dell’ultima pagina dell’Analisi terminabile e interminabile: «per il campo psichico, quello biologico svolge veramente la funzione di una roccia basilare sottostante».119 In altre parole, dobbiamo rappresentarci l’inconscio come una metafora che sta appoggiata sopra un blocco biologico somatico. In fine, nel suo Compendio di psicoanalisi, Freud confessa: «di ciò che chiamiamo la nostra psiche (o vita psichica) ci sono note due cose: innanzitutto l’organo fisico e il suo scenario, il cervello (o sistema nervoso) e, in secondo luogo, i nostri atti di coscienza che sono dati immediatamente».120 Freud ha dunque passato la propria vita a discutere di allegorie per riuscire ad afferrare una materialità misteriosa, che, per quello che mi riguarda, definirei vitalista; e tutto attraverso delle topiche che lui stesso definisce legate a determinate connessioni neuronali nell’encefalo.121 Su questa tensione freudiana tra topica e materia, e tra allegoria e plasma, lo strutturalismo decide di tagliare la testa al toro e di mettere da parte tutto ciò che è somatico: annunciandone la caducità e l’obsolescenza, e permettendo all’allegoria di essere più vera del plasma germinale. Anzi, non più vera, ma l’unica vera! La cancellazione totale della materia a tutto profitto della topica, trionfante sotto forma di struttura, rappresenta un po’ il ritorno del rimosso dell’anima. Cosa pensare allora di un’anima ridotta al solo statuto di significato? È arrivato il tempo dei corpi senza organo. Ed è anche il tempo degli assassini.

Capitolo quinto

Il tempo del Corpo senza Organi Strutturalizzare l’essere

Dietro domanda del suo amico François Châtelet, che cura una Storia della filosofia in otto volumi, Gilles Deleuze scrive un testo intitolato Da che cosa si riconosce lo strutturalismo? In realtà, non è così scontato che, una volta terminata la lettura, si riesca davvero a rispondere alla domanda. In compenso, scopriamo uno stile e un tono che non possono non ricordare la scolastica del più oscuro medioevo. Il 26 febbraio del 1966, Gilles Deleuze scrive a Clément Rosset, un maestro della scrittura elegante e divertente in filosofia: «Inseguo oscuri sogni sulla necessità di un nuovo stile o di una nuova forma in filosofia». Siamo tutti d’accordo che, ahimè, Deleuze ha bruciato le tappe, e raggiunto e prodotto questo nuovo stile in filosofia: nata dal gergo sartriano, a sua volta figlio naturale del gergo heideggeriano, quella di Deleuze è una lingua che rinuncia a comunicare perché obbliga allo psittacismo e alla glossolalia. Non è comunque a questa lingua che pensa Roland Barthes quando, nel 1977, nella sua lezione inaugurale al Collège de France proclama: «Ma la lingua, come performance di ogni linguaggio, non è né reazionaria, né progressista: è semplicemente fascista, perché il fascismo non è impedire di dire, è obbligare a dire».122 Teniamo a sottolineare che si tratta dello stesso autore che, in un libro intitolato Sade, Fourier, Loyola (1971), ci descrive il marchese de Sade, uno che non ha mai smesso di tessere le lodi del piacere nel crimine, del godimento nell’omicidio, della gioia nella tortura e dell’estasi nella violenza, e questo non solo nella propria opera ma anche nella propria vita, ci descrive insomma quest’uomo come un perfetto ambasciatore del «principio di delicatezza»!123 Sì, abbiamo letto bene… La lingua di Deleuze costringe a diventare deleuziani, cioè a destreggiarsi con una manciata di concetti. È lui, in effetti, ad affermare che la copiosa creazione di concetti è ciò che contraddistingue la figura del filosofo. Seguendo questo ragionamento, quindi, qualsiasi psicopatico minimamente afflitto da problemi di glossolalia potrebbe trasformarsi in un principe della filosofia!

Deleuze non dimentica di essere un professore agrégé, e va a prendere in prestito dal vocabolario della scolastica buona parte del proprio arsenale concettuale, al quale mescola qualche invenzione nell’aria dei tempi. Questo suo testo breve è ampiamente farcito di specie, di parti, di figure, di modi, di attualizzazioni, di virtuali, di accidenti, di qualità, di singolari, ma anche di differenzianti, di differenziazioni, di produzioni, di rapporti, di seriali e, ovviamente, diamo a Cesare quel che è di Cesare: di strutture. All’origine dello strutturalismo, troviamo la linguistica di Ferdinand de Saussure. E non è difficile capire quale possa essere stata l’utilità dell’autore del Corso di linguistica generale per chi, sulla scia di Freud, si è abituato ad accordare più importanza all’allegoria, alla metafora, all’immagine e al simbolico piuttosto che non al reale, la cui natura viene anzi spesso messa in causa. Che Sade abbia potuto essere un mostro nel corso della propria esistenza, che abbia potuto drogare, violentare e torturare in più occasioni, che si siano potute ritrovare delle ossa umane sepolte nel suo giardino, ecco, tutte queste cose non contano nulla, perché tutte queste cose appartengono semplicemente al reale, e la verità vera è che Sade è autore di un’opera di architettura letteraria, un monumento di segni sadici, un monumento che lo rende appunto grande! L’uomo che, in vita, ricava piacere dall’infliggere il male finisce per essere considerato un gentiluomo del principio di delicatezza: e Saint-Germain-de-Prés lo consacra grande sacerdote della religione testuale. In maniera simile, il fatto che Freud abbia potuto mettere da parte con un colpo di mano il plasma germinale, l’anatomia neuronale e il corpo concreto, a tutto profitto delle varie topiche della psiche, che, in fondo, altro non sono che metafore spaziali di un’astrazione la cui esistenza al di là dei segni rimane comunque e sempre da provare, rivela un modus operandi che si ritrova con estrema facilità nel mondo degli strutturalisti. Tutto il lavoro di Lacan, per esempio, si sforza precisamente di mettere da parte il reale in modo da conferire pieni poteri al linguaggio, un linguaggio che arriva in questo modo a strutturare persino l’inconscio. Il mondo esiste solo attraverso la lingua che lo dice. Anzi, il mondo coincide con il suo dire. Platone avrebbe adorato… E così, nello strutturalismo, troviamo una lunga serie di significati, di segni, di fonemi e di morfemi, troviamo la lingua, il linguaggio e la parola, troviamo le differenze e i valori, troviamo la semiologia, la semiotica e la semantica! Il reale si trasforma sempre di più in un effetto di linguaggio. A questo aggiungiamo l’inconscio, che resta da dire, ma che continua comunque ad esistere prima del dire, anche se è proprio grazie al dire che recupera visibilità.

Deleuze risponde alla domanda «Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?» esponendo sei criteri. «Primo criterio: il simbolico».124 Deleuze apre subito, senza batter ciglio: «Non sappiamo ancora completamente in che cosa consista quest’elemento simbolico»!125 È il primo criterio, quello fondamentale, però non sappiamo ancora quale sia! Continuiamo a leggere e sforziamoci di apprezzare il rigore del ragionamento: non sappiamo cos’è la struttura, però sappiamo che cosa non è, e questo, secondo la buona e vecchia logica, dovrebbe comunque permettere di arrivare a una definizione positiva! Dunque: la struttura non è una forma sensibile, non è una figura dell’immaginazione, non è un’essenza intelligibile, non è un’idea platonica e non è qualcosa di reale; non è nemmeno qualcosa di dicibile o d’indicibile, qualcosa di attuale, di fittizio, di possibile o di visibile, qualcosa che appartiene all’essere o al non-essere. Tutto questo fa pensare ai giochi di prestigio della teologia negativa: di Dio non si può dire niente, perché qualsiasi affermazione positiva a suo riguardo verrebbe a negare l’affermazione negativa corrispondente, e questo, sottraendogli una qualità, per quanto negativa possa essere, finirebbe per intaccare la sua perfezione – e un Dio imperfetto non può essere Dio. Dell’anima, anche i teologi del medioevo potrebbero arrivare a dire, per come la concepiscono, che la sua struttura non è una forma sensibile, non è una figura dell’immaginazione, non è un’essenza intelligibile, non è un’idea platonica e non è qualcosa di reale; che non è nemmeno qualcosa di dicibile o d’indicibile, qualcosa di attuale, di fittizio, di possibile o di visibile, qualcosa che appartiene all’essere o al non-essere. Ecco, la struttura degli strutturalisti assomiglia stranamente all’anima vista da uno scolastico! Comunque stiano le cose, che sia dicibile o indicibile, che appartenga all’essere o al non-essere, quello che è sicuro è che ci troviamo di fronte a una vera e propria performance ontologica. In seguito, Deleuze entra direttamente nel paradosso e produce ossimori a profusione. Per esempio: la struttura si trova in «uno spazio inesteso»126 – nuova performance ontologica! In pieno Novecento, parlare di uno spazio, cioè di qualcosa che per definizione dovrebbe essere considerato esteso, e caratterizzarlo invece con la qualità dell’inestensione, è un bell’esempio di cosa si produceva in quel momento alla Sorbona! Ci si chiede come abbia fatto Deleuze a fallire il concorso d’entrata all’École normale supériore: i numeri per brillare, ce li aveva tutti! Ma continuiamo. Eccolo a un certo punto che ci spiega come questo gioco di prestigio derivi da una «topologia trascendentale».127 Quest’ossimoro lo possiamo capire soltanto se abbiamo letto Kant, perché è sulle pagine di questo filosofo che scopriamo come il trascendentale che qualifica la

condizione di possibilità possa anche qualificare un luogo, una topica. Traduciamo in lingua quotidiana, partendo da lontano: la struttura è un luogo che è e che interroga la possibilità di un luogo da essere; ma come potrebbe mai, il luogo che è, funzionare da luogo che si domanda anche come potrebbe essere? Questo luogo non ha un luogo, proprio come la superficie non ha estensione. Da tutto questo non-essere, però, non possiamo dedurre l’essere del non-essere – questo rimane qualcosa di indicibile, ci avverte Gilles. «Secondo criterio: locale o di posizione»,128 magister dixit… Il dotto Deleuze ci ricorda l’«ambizione scientifica dello strutturalismo».129 Con quello che abbiamo appena letto, e con quello che stiamo per leggere, fa bene a mettere in chiaro le pretese di questa nuova scuola! L’anima, l’inconscio e la struttura sono entità che sembrano condividere strane parentele: sono invisibili, e però anche onnipotenti e onnipresenti; sono inafferrabili, però non si trovano da nessuna parte e stanno dappertutto allo stesso tempo; sono inconoscibili, però sono anche causa di tutto ciò che è; sono immateriali, però anche topiche, in maniera simbolica; trascendentali, però anche inscritte in una logica immanente; sono inestese, però anche presenti nel reale più concreto! Senza luogo, senza estensione e appartenenti a una «topologia trascendentale».130 L’ossimoro, lo abbiamo visto, è già stato portato in tavola. Il reale non ha più alcuna ragion d’essere, Deleuze ci fa entrare in un mondo di pure idee, in un mondo di idee pure. È solo per questo motivo che può scrivere senza vederci alcuna apparente difficoltà: «Padre, madre ecc. sono dapprima luoghi in una struttura».131 Qui scopriamo che possiamo stare «dentro» qualcosa che non ha estensione e che non si trova in nessuno spazio. In questa fase dell’analisi, stiamo ancora ignorando che cosa sia la struttura, però il filosofo ci spiega che possiamo comunque dire che cosa ci sia dentro questo qualcosa che continua a rimanere indicibile. Aggiungiamo che, se qualcuno crede di sapere cosa sia un padre, ormai è chiaro che si sta sbagliando, perché il padre è un luogo dentro una struttura senza luogo. In caso non avessimo ancora capito, Deleuze tira fuori un altro esempio, quello del fallo. È ovvio che dobbiamo tutti quanti liberarci dei nostri pregiudizi, perché chiunque crede di sapere cosa sia il fallo in realtà è il primo a ignorarlo: «Questo fallo non è […] né l’organo reale né la serie delle immagini associate o associabili: è il fallo simbolico».132 Volendo chiarire ulteriormente, diremo che il fallo è un luogo dentro una struttura. Tutti quelli che stupidamente credevano di avere un padre e un fallo saranno costretti a ricredersi, perché in loro c’era, senza che fosse in nessun modo soggetto alla categoria dell’estensione, un padre indicibile e un

fallo ancora meno dicibile – ma sul quale naturalmente non ci si asterrà di discutere e di glossare a lungo… A chi pensa di essere in grado di rimproverare a Deleuze e ai suoi, convertiti a questa nuova religione filosofeggiante, di virare verso la teologia negativa, se non addirittura verso la teologia tout court, il nostro filosofo cerca di fornire rassicurazioni: «lo strutturalismo non è separabile da un nuovo materialismo, da un nuovo ateismo, da un nuovo antiumanesimo».133 Per l’antiumanesimo, è sicuro. Per il resto, resta tutto da dimostrare… E ovviamente non lo sarà mai… In effetti, è difficile che l’immaterialità della struttura possa fondare un nuovo materialismo. Di che materia è fatta un’entità svuotata da ogni materialità al punto di diventare «immateria» (mi si permetta questo neologismo), cioè una categoria impossibile? Ma pure se materia o immateria ci fosse, tutto resterebbe comunque indicibile… E in questo non c’è materia per atei, solo di che alimentare un nuovo dio. Quanto all’inumanesimo, è qualcosa di fondato: quando la struttura, che non è niente, viene presentata come fosse tutto, non c’è più posto per l’uomo old school. Michel Foucault lo ha del resto già assassinato qualche tempo prima. Deleuze si dice d’accordo con questa morte dell’uomo e offre anzi una collocazione dialettica a questo trapasso, che avviene «in favore, speriamo, di qualche cosa a venire, che però non può venire se non nella struttura e attraverso il suo mutamento».134 Puntando alla speranza, all’avvenire, o a qualche cosa, il teologo continua la propria questua intellettuale, ma sempre, naturalmente, dentro una struttura. Quale struttura? In verità, ve lo sto dicendo: fitto mistero… «Terzo criterio: il differenziale e il singolare».135 Deleuze disquisisce sul fonema, la più piccola unità linguistica, quella che permette, ad esempio, di distinguere tra biliardo e miliardo: «È chiaro che il fonema si incarna in lettere, sillabe e suoni senza però ridursi a essi».136 Che rapporto c’è con la struttura, mi chiederete voi? Nessuno, per il momento… In virtù di uno slittamento nella dimostrazione, il filosofo comincia a parlare di relazioni di ogni genere, senza che ci sia nessun legame apparente con il fonema, per esempio le relazioni familiari. Deleuze afferma che Lévi-Strauss «non considera solo padri reali in una società, né le immagini di padre che hanno corso nei miti di tale società. Egli pretende di scoprire veri fonemi di parentela, ossia parentemi, unità di posizione che non esistono indipendentemente dai rapporti differenziali in cui entrano e in cui si determinano reciprocamente».137 Non abbiamo quindi solo un padre reale e concreto, il nostro genitore per esempio, ma anche un fonema di parentela, un parentema. Parente-tema, avrebbe sottolineato Lacan. O parte in tema.

Cerchiamo di vederci un po’ più chiaro. Quelli che esistono non sono soltanto dei parenti identificabili, un padre e un figlio in carne e ossa, per esempio, ma soprattutto relazioni tra istanze. Può forse stupire il fatto di parlare di relazioni mettendo da parte gli elementi che si trovano legati e congiunti! Il proletario appare praticamente attaccato alla sua macchina, però poco contano il proletario e la macchina, quelle che contano sono le relazioni tra il salariato sfruttato e il padrone capitalista. Che importano l’operaio e il caporeparto, due entità che esistono appena, perché l’unica cosa che conta è la loro relazione strutturale. «I rapporti di produzione vi sono determinati come rapporti differenziali che si stabiliscono non fra uomini reali o individui concreti bensì tra oggetti e agenti che hanno dapprima un valore simbolico».138 Il marxismo di Althusser volta le spalle al proletariato concreto e reale, cioè quello che soffre, per preoccuparsi delle strutture invisibili in cui i lavoratori si trovano catturati (produzione, salariato, sfruttamento e alienazione), ma solo in qualità di modalità concettuali, mai come relazioni esistenziali. L’abolizione del reale empirico si compie a tutto profitto della struttura trascendentale. Non si potrebbe smaterializzare meglio il mondo! In una relazione sessuale, per esempio, non ci sono dei corpi che si mettono in gioco, ma solo una relazione strutturale. È questo il senso dell’antiumanesimo strutturalista: l’uomo viene messo da parte a profitto del mondo delle strutture in cui si muove. In quest’ordine di idee, Barthes e Foucault annunciano la morte dell’autore, perché l’unica cosa che importa è la relazione tra il lettore e quegli insiemi di segni che sono i testi – prodotti poi da chi, gli si potrebbe chiedere? A pensarci bene, l’affermazione che l’autore è morto non ha mai portato nessuno di questi istrioni del pensiero a rinunciare ai propri diritti… d’autore! Perché, in linea teorica, se non c’è autore, non ci dovrebbero nemmeno essere i diritti d’autore. Sarebbe stato consequenziale, coerente e avrebbe portato la prova irrefutabile che questi dervisci rotanti credevano a quello che insegnavano: l’autore è solo un fonema! Ma se parlo di coerenza, è solo perché sto già sognando… «Quarto criterio: il differenziante (différenciant), la differenziazione (différenciation)».139 Citiamo: «Le strutture sono necessariamente inconsce, in virtù degli elementi, dei rapporti e dei punti che le compongono».140 Convocando in questo modo l’inconscio freudiano, tutto diventa possibile! Non facciamo altro che aggiungere indicibile a indicibile, ineffabile a ineffabile, invisibile a invisibile, incomunicabile a incomunicabile, indescrivibile a indescrivibile; e questo, il dubbio viene, non facilita il compito di dire, di vedere,

di comunicare e di descrivere la struttura! Al posto della luce, stiamo facendo un passo di più dentro le tenebre. Deleuze scrive: «Della struttura si dirà: reale senza essere attuale, ideale senza essere astratta»141 – i corsivi sono suoi. Sembra di ascoltare un monaco benedettino in pieno XII secolo! «Reale», «attuale», «ideale», «astratto»: l’armamentario del perfetto scolastico. Aggiungiamo un certo e sicuro talento per i sofismi e la retorica, che permettono, sulla carta, di parlare del reale escludendo la sua attualità, quindi come fosse un’idea, e di parlare dell’ideale senza astrazione, quindi come fosse un’idea senza idea. È una vera e propria prodezza d’anfiteatro, anche se non è in grado di far avanzare di un solo centimetro il carro della filosofia! A meno di non voler credere che il principio del suo movimento non sia, appunto, l’immobilità. E siamo davvero a un passo da questo… Proseguiamo: le strutture «s’incarnano»142 nelle «forme» e, in questo modo, si differenziano. Per differenziarsi, devono allora «attualizzarsi». Stiamo proprio navigando nelle acque della scolastica… Dato che le strutture sono inconsce, la loro esistenza diventa visibile solo attraverso le loro stesse produzioni. In questo modo, si assicurano una doppia invisibilità. In caso stessimo ancora sperando di avanzare verso la conoscenza della struttura, non illudiamoci: si tratta di un ennesimo passo verso l’intelligibilità. Chi non pensa a Dio in tutte queste furberie da teologia negativa? O all’anima?… «Quinto criterio: seriale».143 Deleuze dimostra molto poco: è affermativo e performativo. Magister dixit, quindi è vero. Occupa la posizione del maestro dell’arte sofistica, di cui bisogna bere ogni parola e assaporare il pensiero. È un oracolo. Mai l’idea di una lingua fascista, nel senso di Barthes, è stata tanto attuale! Perché, in effetti, è proprio del gergo filosofeggiante contemporaneo di cui parla Barthes che si tratta! Scrive Deleuze: «ogni struttura è seriale, multiseriale, e non funzionerebbe in assenza di questa condizione»;144 o anche: «gli elementi simbolici che abbiamo definito in precedenza, presi nei loro rapporti differenziali, si organizzano necessariamente in serie» [corsivi miei].145 Se lo dice lui. Quindi, da una parte «seriale», poi, come se questo non bastasse, anche «multi-seriale»! E «necessariamente»! Ma dove sono le prove? Niente, da nessuna parte… Anche se a questo stadio avanzato dell’analisi continuiamo ancora a ignorare che cosa sia la struttura, l’autore si sente autorizzato a dilungarsi sulla spiegazione del suo funzionamento! La necessità che qui viene richiamata segnala il punto d’incandescenza del performativo. Allo stesso modo in cui Dio,

l’anima e il libero arbitrio erano necessari per Kant, allo stesso modo in cui l’inconscio e le topiche erano necessarie per Freud, anche la natura seriale e multi-seriale della struttura si rivela qualcosa di necessario per Deleuze. All’interno delle serie, gli spostamenti si compiono seguendo il principio della metafora o della metonimia. Siamo in piena religione del linguaggio, e la smaterializzazione e la derealizzazione stanno toccando il loro culmine. Deleuze s’inventa un mondo di parole e ce lo presenta come se fosse più vero del mondo reale e concreto. Questo reale, lo cancella e lo sostituisce con il virtuale. Non si può essere più platonici di così. In fondo, l’ontologia di Gilles Deleuze si rivela semplice: l’essere non è, perché solo il non-essere è. Deleuze fonda un nichilismo e lo piazza al cuore della realtà. Il suo essere è il nulla, e la struttura è il suo profeta. «Sesto criterio: la casella vuota».146 Per chi, come Deleuze, non ha mai nascosto la propria predilezione per i matti e gli schizofrenici, la casella vuota si rivela un insieme pieno della massima importanza! Nella confusione di name dropping, in cui, facciamoci pure qualche risata, Sollers sta a fianco di Shakespeare e Jacques-Alain Miller accanto a Mallarmé, Deleuze mette a punto un fuoco d’artificio il cui colpo finale è un petardo umido. Ed è questo: «È bene, infine, che la domanda ‘da che cosa si riconosce lo strutturalismo?’ conduca alla posizione di qualche cosa che non sia riconoscibile o identificabile».147 Ecco, la cosa è detta. Dobbiamo ridere o piangere? Provare invidia o pietà? Non ho il coraggio di dirlo… C’è un ulteriore sviluppo, presentato sotto il titolo di «Ultimi criteri: dal soggetto alla pratica».148 Ma a cosa serve spingersi oltre quando sappiamo che non sapremo mai niente di più o di meglio… Dopo aver letto questo testo, non dovremmo più ignorare che cosa sia lo strutturalismo! La verità invece è un’altra. Mettiamola in questi termini: il lettore un po’ ingenuo che consulta la Storia della filosofia curata da François Châtelet perché vuole sapere che cosa sia lo strutturalismo, cioè la filosofia di moda in quel particolare momento, lungi dall’aumentare il proprio sapere, trova la propria confusione parecchio ingigantita! Ma questo «qualche cosa» (l’espressione è di Deleuze, di norma più ispirato, soprattutto quando si tratta di coniare neologismi) che viene presentato come invisibile, impercettibile, indicibile, ineffabile, inesprimibile, incomunicabile, indescrivibile, ma onnipotente, non sembra forse il Dio di Dionigi Areopagita, il pensatore

neoplatonico simbolo della teologia negativa detta anche apofatica? Per esempio: «Diciamo, dunque, che la Causa di tutte le cose e che sta al di sopra di tutte le cose non è né senza sostanza né senza vita né senza ragione né senza intelligenza; tuttavia, non è né un corpo né una figura né una forma, e non ha quantità o qualità o peso; non è in un luogo; non vede, non ha un tatto sensibile, non sente né cade sotto la sensibilità; non conosce disordine e perturbazione per essere agitata dalle passioni materiali».149 Chi è l’autore di questo passaggio? Dionigi Areopagita o Deleuze? In verità, il brano è tratto dalla Teologia mistica del primo. E siamo d’accordo sul fatto che ci si può sbagliare. Passiamo agli esercizi, che ci permettono di arrivare alla questione dell’anima ed esaminiamo in particolare quello che, in Deleuze e Guattari, viene indicato con l’espressione di «Corpo senza Organi», abbreviato in «CsO» – uno dei culmini nell’arte della teologia apofatica pagana di Deleuze! Possiamo scegliere la soluzione più facile e richiamare un’opera intitolata Le Vocabulaire de Deleuze [Il vocabolario di Deleuze], curata da due eminenti professori di filosofia all’università, Robert Sasso e Arnaud Villani. Ecco la definizione: «Limite di deterritorializzazione del corpo schizofrenico, concepito per contrastare il corpo in frammenti e i cattivi oggetti parziali, funziona più generalmente come superficie virtuale e liscia, indissociabile dai flussi che la percorrono e vi si intersecano». Seguono cinque pagine dello stesso tenore… In queste pagine, constatiamo che quello di lingua fascista descritto da Roland Barthes, cioè di una lingua che obbliga a dire nel registro della glossolalia e senza possibilità di emancipazione, si rivela un concetto adattissimo a caratterizzare la fioritura dei linguaggi autistici nei filosofi del Novecento, che infatti gareggiano nel creare neologismi, convinti come sono che più ne creano, più profondo diventi il loro pensiero. La prosa di Lacan, per esempio, ha ispirato un’opera intitolata 789 néologismes de Jacques Lacan [789 neologismi di Jacques Lacan], redatta da un collettivo che riunisce gli allievi fanatici dell’École lacanienne de psychanalyse che hanno curato il dizionario dell’autismo lacaniano. In Che cos’è la filosofia?, Gilles Deleuze scrive che un filosofo è una persona che crea concetti. Esaminiamolo, allora, questo Corpo senza Organi, o CsO. Deleuze lo recupera da Artaud, il quale scrive: «Senza bocca Senza lingua Senza denti Senza laringe Senza esofago Senza stomaco Senza ventre Senza ano. Io ricostruirò l’uomo che sono»150 – come si vede, anche senza punteggiatura, nonostante le maiuscole… Deleuze cita le parole del poeta in Logica del senso e aggiunge in nota, ma il diavolo è sempre nei dettagli: «(Il corpo senza organi è

fatto soltanto di ossa e di sangue)».151 Immaginiamoci il risultato a livello anatomico! Sul corpo senza organi, Deleuze prosegue: «Non si è dunque mai sicuri che i fluidi ideali di un organismo senza parti non trasportino vermi parassiti, frammenti di organi e di alimenti solidi, resti di escrementi; e si è persino sicuri che le potenze malefiche si servano effettivamente dei fluidi e delle insufflazioni per far passare nel corpo i pezzi della passione».152 Che cosa possiamo dire di questi «fluidi ideali»? Nuova variazione sul tema della teologia apofatica, perché questo ossimoro non può in effetti bastare a risolvere la tensione, se non addirittura la contraddizione esistente tra la nozione di fluido, che presuppone lo scorrere nel tempo e nello spazio, e quella di ideale, che invece non si sposta né nel tempo né nello spazio. E cosa possiamo invece dire di questi «vermi parassiti», o di questi «resti di escrementi» che si muovono all’interno di un «organismo senza parti» in cui continuano comunque a galleggiare dei frammenti di organo e soprattutto i «fluidi ideali»? E, ancora più strano, che cosa possiamo pensare di queste strane «potenze malefiche» all’opera in questo corpo fatto unicamente di ossa e di sangue, come viene precisato dallo stesso filosofo, un corpo in cui troviamo delle rimanenze di materia fecale (perché poi soltanto dei resti? dove sta tutta la merda scomparsa da cui si è staccata quella che galleggia?) e dei vermi (tipo tenie, i cosiddetti vermi solitari)? Fluidi ideali, ossa e sangue, vermi parassiti, rimanenze di escrementi e potenze malefiche: insomma, quello che costituisce un CsO sembra essere molto lontano dalla definizione che gli universitari lessicografi del filosofo ne ricavano! Uno strano corpo senza organi che sa d’infetto e che macchia come sangue sul tavolo del macellaio. Quindi, perché Gilles Deleuze ci invita a fare di questo corpo malato, di questo corpo da schizofrenico, il paradigma stesso del corpo, il modello per l’Uomo Nuovo che ha in mente come risultato finale? In effetti, se già ne L’antiEdipo (1972), consacra un lungo capitolo al CsO, in Mille piani (1980), secondo volume di Capitalismo e schizofrenia, non è nemmeno più della semplice topografia del CsO che discute, ma direttamente della sua prescrittibilità. Perché altrimenti scegliere d’intitolare un capitolo: Come farsi un Corpo senza Organi? L’anti-Edipo riprende la descrizione gore del CsO: «Sotto gli organi sente larve e vermi ripugnanti, e l’azione di un Dio che lo sconcia o lo strangola organizzandolo».153 In Mille piani, Deleuze uccide l’uomo, concepito e pensato dalla ragione occidentale, a tutto profitto dei nuovi modelli. Propone dei paradigmi che più tardi verranno definiti come sessantottini: per esempio, cerca

di produrre il proprio Uomo Nuovo celebrando il corpo paranoico, il corpo ipocondriaco, il corpo schizofrenico e il corpo drogato («schizo sperimentale»154 ) – insomma, il corpo masochista. Si tratta di farla finita con il corpo normale, come aveva fatto anche Georges Canguilhem, professore agrégé di filosofia e medico, sempre in maniera performativa, quando aveva decretato la morte del normale e del patologico in un’opera falsamente scientifica e invece davvero funesta intitolata Il normale e il patologico (1966). Scrive Deleuze: «Il CsO è quel che resta quando si è tolto tutto».155 Non è vero. Quando si toglie tutto, non resta niente, ed è una cosa diversa dal dire che resta il niente. E su questo niente, Deleuze e i decostruzionisti francesi a seguito hanno fondato la loro chiesa. Foucault per primo.

Capitolo sesto

Un volto di sabbia cancellato dal mare Uccidere l’uomo

Quando, nel 1966, scrivendo Le parole e le cose, Michel Foucault annuncia la «morte dell’uomo», lo fa ovviamente in termini scherzosi, per ridere come se ne ride all’École cosiddetta Normale e sedicentemente Supérieure, ricordando la battuta di Paul Nizan, che sapeva di cosa stava parlando, in quanto lui stesso era uscito da lì… Per riderne come avrebbero potuto riderne da Democrito a Bataille, passando per Nietzsche, rivendicando il rispetto dovuto ai grandi antenati, ma ridendone comunque. All’ENS piace molto la sovversione, a patto però che rimanga istituzionale. E Foucault era un normaliano e non ha mai smesso di essere un sovversivo istituzionale. Questo, giusto per far capire la profondità e la qualità della sua operazione sovversiva. In un mondo in cui si preferisce brillare senza leggere piuttosto che essere profondi, e anche cattivi, ma solo dopo aver letto, si tende a risparmiare sullo sforzo e sull’umiltà, due virtù che, pur essendo ormai passate di moda, rimangono comunque e sempre necessarie per la lettura. In questo mondo, la reputazione di un libro si costruisce, nella maggior parte dei casi, sommando i malintesi accumulati sul titolo e sul nome dell’autore. Consapevole di quanto queste strade senza uscita siano consustanziali alla «società dello spettacolo», il 6 aprile del 1980 Foucault fa uscire su «Le Monde» un’intervista con Christian Delacampagne. L’intervista viene pubblicata anonima proprio perché la volontà è deliberatamente quella di far leggere quello che c’è scritto, senza dover ricorrere all’idea pregiudiziale che si ha dell’autore. Per tutto l’arco temporale della lettura di questo testo, l’autore è quindi semplicemente un «filosofo mascherato», qualcuno che può essere assaporato e apprezzato alla cieca e liberamente, lontano dai pregiudizi del piccolo giro che ruota attorno a Saint-Germain-des-Prés, un giro che, in quell’epoca ormai trascorsa, detta legge a Parigi, quindi a tutta la Francia, quindi a tutto il pianeta… Al fischio pavloviano suggerito da Le parole e le cose, il cane parigino comincia a salivare: «morte dell’uomo»! Non che, oltre a questo, ci si possa

trovare molto altro, giusto una serie di concetti facili, da usare come fa il giocoliere con le sue palle, solo che qui vengono abbandonati in mano a gente imbevuta di cultura filosofeggiante: episteme, archeologia, dispositivi, archivi, regimi di verità, eterotopia… Ai tempi, per sembrare profondi, bastava inanellare lunghi discorsi infarcendoli con tutto questo vocabolario astruso. L’intimidazione ha contribuito parecchio alla reputazione di questi creatori di glossolalie. Il libro evento di Michel Foucault, Le parole e le cose, è un mattone di quattrocento pagine. Più di mezzo secolo dopo la sua pubblicazione, questo testo tanto denso manifesta tutta la sua prossimità formale e intellettuale con gli artisti e le opere dell’epoca: con i manifesti strappati di Raymond Hains, con le Nanas di Niki de Saint Phalle, con le macchine penzolanti di Jean Tinguely, con le compressioni di César, con le accumulazioni di Arman, con i pasti in rilievo di Spoerri… Tutto sembra datato… Del resto, sarà lo stesso Michel Foucault a notare quanto l’insieme fosse complessivamente vintage e a valutare con il senno di poi questa sua opera emblematica dello strutturalismo, arrivando a sostenere senza alcun ritegno di non essere mai stato strutturalista, e impegnandosi subito a mettere in piedi un altro cantiere destinato a contraddire quello con cui aveva formulato la morte dell’uomo – e studiare la formazione del soggetto greco-romano all’origine del soggetto moderno, cioè appunto del sopracitato… uomo. Qualche parola su Le parole e le cose. Foucault non scrive da filosofo ma da letterato e, più che richiamarsi a Descartes o a Kant, pietre miliari della razionalità moderna, è a Hölderlin, a Sade, a Nietzsche, ad Artaud, a Bataille, a Roussel e a Genet che si rivolge, cioè a scrittori che, come lui, hanno avuto qualcosa a che fare con la mancanza di ragione, con la follia e con la trasgressione. Foucault ritiene che la psicosi, la paranoia e la schizofrenia siano dei contromodelli positivi in grado di scuotere la razionalità occidentale. Quando, in questo libro, Foucault afferma l’impossibilità del cogito, sottolineando come l’abisso che separa l’«io penso» dall’«io sono» impedisca ovviamente qualsiasi rapporto di causalità tra loro, lo fa in nome di una falla, di un’incrinatura, di una frattura, di una crepa nell’essere, vale a dire in nome di ciò di cui si occupa la psicoanalisi, in onore della quale infatti intreccia corone di alloro. Questa frattura ossessiona il filosofo, che le gira continuamente attorno quasi fosse il bordo di un precipizio ontologico che minaccia di inghiottirlo e che, per questo stesso motivo, contemporaneamente lo affascina. Quando parla dell’uomo, è in effetti di sé stesso che sta parlando…

Sotto il discorso del filosofo, sorprendiamo lo scrittore: la sua scrittura è quella di un esteta, se non addirittura di un dandy, capace di imporre un proprio ritmo. Si preoccupa degli effetti di linguaggio e di stile e cerca di conquistare il lettore sfruttando il vortice poetico che riesce a creare, non grazie alle dimostrazioni analitiche o alle verità storiche dispiegate. Foucault continua a operare digressioni e a passare da un oggetto filosofico all’altro, proprio come farebbe lo spettatore di una camera delle meraviglie barocca o manierista. È così che Foucault scrive, senza paura di farsi facilmente sconfessare: Nessuna filosofia, nessuna opzione politica o morale, nessuna scienza empirica quale che fosse, nessuna osservazione del corpo umano, nessun’analisi della sensazione, dell’immaginazione o delle passioni trovò mai, nel XVII e nel XVIII secolo, alcunché di simile all’uomo; l’uomo infatti non esisteva proprio come non esistevano la vita, il linguaggio e il lavoro; e le scienze umane non comparvero quando, per effetto di qualche razionalismo urgente, di qualche problema scientifico non risolto, di qualche interesse pratico, fu deciso di far passare l’uomo (volente, nolente, e con maggiore o minore successo) dalla parte degli oggetti scientifici, nel numero dei quali non è forse ancor dimostrato che lo si possa interamente situare; esse comparvero il giorno in cui l’uomo si costituì nella cultura occidentale come ciò che occorre pensare e, insieme, come ciò che vi è da sapere.156

Ma di cos’altro ci si sta occupando, se non dell’uomo, quando, nel Seicento, giusto per limitarci ai classici francesi, Descartes pubblica le Passioni dell’anima (1649)? O quando scrive il trattato su L’uomo (uscito postumo nel 1662)? O quando Racine e Corneille mettono in scena le loro tragedie? O La Fontaine pubblica le sue Favole (1668-1694)? O La Rochefoucauld le sue Sentenze e massime morali (1665)? O La Bruyère i suoi Caratteri (1688)? Non c’è davvero niente che riguardi l’uomo? Niente sulla sensazione? O sull’immaginazione? O sulle passioni? E che dire, nel secolo successivo, del progetto dell’Enciclopedia (1751-1772) di Diderot e di d’Alembert? E delle opere che l’accompagnano: Dello spirito (1758) e L’uomo (1773) di Helvétius? L’uomo macchina (1747) e L’uomo pianta (1748) di La Mettrie? Il Trattato delle sensazioni (1754) di Condillac? Il buon senso (1772) e il Sistema della natura (1770) del barone d’Holbach? Senza dimenticarci dello stesso Diderot, della sua Lettera sui ciechi a uso di coloro che vedono (1749) e dei suoi Elementi di fisiologia (redatti tra il 1773 e il 1774, ma pubblicati per la prima volta solo nel 1875)? Ne Le parole e le cose, un libro che, ricordiamolo, s’interroga sulla comparsa dell’uomo a cavallo tra Settecento e Ottocento, non troviamo menzionata da nessuna parte L’origine delle specie (1859) di Darwin, né ancor meno troviamo

una minima analisi de L’origine dell’uomo e la selezione sessuale (1871), che invece proprio alla domanda: «Che cos’è l’uomo?» risponde in maniera scientifica, cioè tenendosi lontano da tutte le sciocchezze scolastiche dello strutturalismo. Misuriamo quanto fosse audace questo filosofo che insegnava all’università e allo stesso tempo scriveva che, nel secolo di Descartes e in quello di Voltaire, l’uomo non esisteva, la vita non esisteva, il linguaggio non esisteva e nemmeno il lavoro esisteva! La conseguenza è che, giusto per sceglierne uno su tutti, nemmeno Descartes esisteva, o era vivo, o parlava, o lavorava – ossia, detto in altre parole, il Discorso sul metodo non è mai stato scritto. Tutti questi giochini di prestigio dovevano per forza portare all’elaborazione del concetto di morte dell’autore, finalmente proclamata alla Société française de philosophie il 22 febbraio del 1969! Questo genere di assurdità può passare per pensiero profondo solo in mezzo ai prestigiatori formati alla scuola circense della rue d’Ulm e ai dilettanti buggerati dal gioco delle tre carte della filosofia filosofeggiante. Se Foucault riesce a brillare grazie a simili controverità, è perché non vive nella storia e di quest’ultima non si preoccupa assolutamente – cosa che Sartre gli rimprovera a ragione. Di fronte a tanta disinvoltura, finta o, cosa ancora più grave, rivendicata, possiamo solo pensare alle disavventure di Talete che, guardando le stelle, non vede il pozzo che si trova davanti e ci cade dentro, provocando le risate della serva trace… Questa storiella ci racconta che, da che mondo è mondo, ci sono sempre stati dei filosofi che si disconnettono dal mondo con la scusa di doverlo pensare meglio e che ritengono più vere le illusioni celesti delle realtà terrestri. Avremo ovviamente riconosciuto il vecchio tropismo platonico che funziona come passaporto per ogni filosofia ufficiale: che nessuno oltrepassi i propilei dell’Accademia se non è platonico! Quando Diogene il cinico circola per le strade di Atene alla ricerca di un uomo, non è una persona qualsiasi quella che sta cercando, ma un esemplare del famoso «bipede senza piume e con le unghie piatte» di Platone, esemplare che sa benissimo, ironicamente, che non riuscirà mai a trovare e che corrisponde alla famosa Idea di uomo secondo Platone. Perché, se dobbiamo credere all’autore del Timeo, l’uomo concreto, reale, sensibile, tangibile ed empirico possiede verità solo nella misura in cui partecipa all’Idea di uomo, un’idea che è più vera dell’uomo stesso e di tutti gli esseri umani. Foucault dichiara di aver scoperto l’uomo di Platone nel momento stesso in cui sta morendo. È una chimera «empirico-trascendentale», scrive, di cui lui stesso si lancia a fornire la data di nascita e quella della probabile morte, non

senza esitare per un attimo: la piazza, una prima volta, tra la metà del Seicento e l’inizio dell’Ottocento, un’altra tra il Rinascimento e i nostri giorni, una terza volta tra la fine del Rinascimento e il periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, un’altra volta ancora la individua già operativa dal Cinquecento, ma poi riesce anche a sostenere che «i punti estremi sono gli anni 1775 e 1825»…157 Foucault si rivela filosoficamente reazionario nel senso etimologico del termine: in un contesto intellettuale dominato dal marxismo sartriano, Foucault restaura la vecchia figura platonica dell’uomo, indifferente a qualsiasi dimensione storica. Che l’uomo possa essere nato milioni di anni fa direttamente dalla scimmia, se posso esprimermi in questi termini, non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello e questa versione dei fatti non si trova affatto tra le stelle contemplate da questo Talete del Novecento… Come parecchi filosofi in generale, e come tutti gli strutturalisti in particolare, anche Foucault non crede alla verità del mondo, ma solo a quella degli archivi che dicono il mondo. Per lui, esiste solo quello che si trova attestato da un testo. Una pagina di Borges come quella lungamente analizzata in apertura del libro diventa più vera di qualsiasi realtà che manchi di questo statuto di archivio, esattamente come la vita di un semplice uomo. Non è quindi un’archeologia quella che Foucault realizza, contrariamente a quanto da lui annunciato, ma una genealogia. E più in particolare una genealogia nietzschiana, praticata da un topo di biblioteca che non alza mai il naso dal librone appoggiato sul leggio. Se il testo lo dice, allora il reale esiste; se il testo non dice niente, allora il reale non esiste. Foucault non affronta mai l’uomo nella sua realtà concreta e tangibile, cioè quella anatomica, fisiologica e corporea, ma solo la sua epifania su carta stampata. «Uomo» è qui il significante di un significato di carta. Il filosofo gode unicamente delle relazioni testuali. Per lui, le parole sono le cose e le cose non hanno altra realtà se non quella semantica. La genealogia del genealogista è nietzschiana e l’influenza nietzschiana, in Le parole e le cose, si sente. Nei mesi successivi alla pubblicazione di quest’opera nel 1966, Foucault e Deleuze sono chiamati a lavorare alla curatela dell’edizione Gallimard delle opere complete di Nietzsche. In questa edizione, ritroviamo i testi compiutamente stabiliti e approvati dal filosofo tedesco prima della pubblicazione in volume, ma anche tutta una serie di frammenti postumi, falsamente presentati come definitivi, in verità solo note di lettura, citazioni da altri autori il cui nome è andato perduto, tentativi di pensieri, come quando si testa un’idea prima di lasciarla perdere o, al contrario, di accoglierla per svilupparla ulteriormente; e poi formule, intuizioni, idee vaghe o vaghe idee. Il

nietzschianesimo francese ha divagato parecchio in quegli anni, fornendo a questi testi destoricizzati uno statuto di completezza, e correndo il rischio di presentare il pensiero di Nietzsche come contraddittorio! Sono ovviamente i limiti dell’approccio platonico al testo. La tematica della morte dell’uomo affrontata da Foucault trova chiaramente la propria origine nell’opera di Nietzsche, il quale, nei passaggi in cui si parla della morte di Dio, annuncia anche quella dell’uomo. In Così parlò Zarathustra, però, è l’uomo definito dalla civiltà giudaico-cristiana a essere chiamato a morire dopo l’avvento del sovrumano. Il superuomo è stato poi deturpato dai recuperi fascisti e nazisti, quelli che la sorella, antisemita, ha preparato per Mussolini e Hitler. In seguito, un altro tradimento: il superuomo è stato offuscato anche dall’assimilazione a una figura di uomo onnipotente concepito secondo le categorie americane dell’eroe da fumetti – una specie di Superman, che infatti viene chiamato con una pura e semplice traduzione dell’Übermensch nietzschiano… La verità è che Nietzsche si colloca su un terreno ontologico e morale, e nient’affatto su uno politico, sociologico o ideologico. Il superuomo è colui che conosce la natura tragica del reale perché è consapevole dell’eterno ritorno dell’identico, e questo in maniera infinita; di fronte a tale consapevolezza, non si ribella ma, al contrario, secondo il principio dell’amor fati, ama e vuole tutto quello che gli succede: la sua vita è ripetizione dello stesso all’infinito; solo in questo desiderio di ciò che è, l’uomo supera la propria condizione e può raggiungere quella di superuomo. La morte dell’uomo a tutto vantaggio del superuomo è sempre e solo il consenso che l’uomo stesso dà al proprio destino. Se ci si accontenta di leggere i testi pubblicati dallo stesso Nietzsche, le cose sono chiare. Si complicano solo quando aggiungiamo al suo corpus quei frammenti dubbi, falsi, incerti, problematici e discutibili di cui sopra. Sull’eterno ritorno, se ci si limita ai libri pubblicati da Nietzsche, risulta evidente che l’idea del filosofo sia quella dell’eterno ritorno dell’identico, e non, come afferma Deleuze nel suo libro Nietzsche e la filosofia (1962), appoggiandosi sui testi messi assieme di sana pianta dalla sorella di Nietzsche, l’eterno ritorno di ciò che noi vorremmo che succedesse – perché non c’è libera volontà in Nietzsche … Quando Foucault lega la sorte dell’uomo a quella di Dio, destinandole entrambe a una stessa morte, sta facendo un esercizio di stile filosofeggiante su un punto di storia della filosofia; semplicemente, non sa che farsene dell’uomo reale concreto, quello che, trentatremila anni fa, incideva sulle corna dei cervi o su altre ossa i suoi calendari lunari dopo aver guardato il cielo non per trovarci delle idee, ma per comprendere le ragioni del cosmo, nel senso etimologico del termine, cioè le ragioni dell’ordine dell’universo.

Questo interrogare il cielo da parte dei primi uomini segna per me, lo abbiamo visto, la loro data di nascita, una data che deriva dalla Luna come astro e non come forma nel cielo delle Idee. Le parole e le cose lo afferma con chiarezza: l’uomo è una «strana figura del sapere».158 Per Foucault, si tratta solo di questo… Non esiste carne, non esistono nervi, non esistono muscoli o sangue, non esiste lingua e non esistono ossa, non esistono cervello e pelle, non esistono peli, non esistono unghie e non esistono capelli. Non esiste nessuna di queste quintessenze di materie che per Platone sono degradate: nessuna di queste materie va a costituire il corpo di un uomo, vale a dire dunque l’uomo stesso. Per Foucault, l’uomo (con la minuscola, mai con la maiuscola) viene costituito da una triade, prima della quale non esiste, e questa triade è composta dall’economia, dalla biologia e dalla filologia. L’uomo nasce quindi con il lavoro, con la vita e con la lingua. Dobbiamo dedurne che un disoccupato, un uomo senza lavoro, un uomo privo di vita, un muto o un uomo che non parla non siano più uomini quando sono morti? E che cosa dobbiamo pensare del lavoratore muto e che, proprio per questa sua disabilità, testimonia doppiamente della propria disumanità? O, peggio ancora, quando questo personaggio mutilato passa dalla vita alla morte… Il lavoro non ha niente a che fare con il lavoratore alienato, sottomesso al capitalismo e schiavo di un padrone, di un caporeparto o di un capo-officina; non ha alcuna relazione con il salario, con lo sfruttamento, con la busta paga, con le condizioni miserabili o con l’iscrizione nella produzione delle ricchezze, come descritto da Marx nel Capitale. No. Il lavoro è ciò che rende possibile un discorso di Cantillon, un’analisi di Quesnay, un capitolo di Condillac, un libro di Lemercier de la Rivière, un volume di Adam Smith, un in folio di Ricardo. Nient’altro. Foucault ha il gusto degli autori sconosciuti, ai quali conferisce un’importanza capitale, mentre in realtà, ai loro tempi, sono stati dei semplici glossatori: hanno prodotto un testo celeste che Foucault separa dal suo contesto terrestre. Lo strutturalista crede che l’universo si sia interamente rifugiato sugli scaffali di una biblioteca stracolma di volumi antichi. Un mondo di morti e di polvere, di pelle e di carta, di rilegature e di colla secca. Le analisi sono interminabili e costantemente sottoposte a mise-en-abyme quasi osservandosi nell’atto stesso di analizzarsi; e, come quadri in un museo, vediamo susseguirsi una dopo l’altra le considerazioni di Bonnet sulla palingenesi, quelle di Tournefort sulla storia naturale, quelle di Beauzée sulla

grammatica generale, quelle di Véron de Forbonnais sull’economia, quelle di Davanzati o di Scipion de Gramont sulla ricchezza, o quelle di Dutot sul commercio… Ed ecco perché vostra figlia è muta, avrebbe detto Molière… Questo libro cerca l’uomo, ma alla fine trova soltanto i libri, e gli uomini li mette da parte. Lo strutturalismo elimina la storia, la cancella e la abolisce: la verità del proletariato non si trova più nelle fabbriche, ma in Leggere il Capitale (1965) di Althusser, che interroga le cesure epistemologiche tra il giovane Marx e quello del Capitale; la verità della psiche non si trova più nelle sofferenze patite da un paziente, ma negli Scritti (1966) di Lacan, che offre al gioco di parole un ruolo teorico di fondamentale importanza; la verità della lingua non si trova nella parola di un bambino che comincia a esprimersi, ma nella differenza tra semiotica e semantica esposta nei Problemi di linguistica generale (1966) di Benveniste; la verità dell’inconscio non si trova in una lunga memoria filogenetica, ma nei meccanismi della macchina desiderante smontata da Deleuze e Guattari ne L’anti-Edipo (1972); la verità dell’antropologia o dell’etnologia non si nasconde nella vita quotidiana di una tribù, ma nella teoria generale dello scambio esposta con parecchi schemi nell’Antropologia strutturale (1958) di Lévi-Strauss; a questo punto, nemmeno la verità dell’uomo si trova più nella cristallizzazione di una biografia, ma ne Le parole e le cose (1966) di Foucault… Nella dialettica tra parole e cose, Foucault ha evidentissimamente scelto le parole a scapito delle cose. In fondo, non c’è niente di così originale: è il destino di tutta la filosofia idealista. L’uomo è, prima di ogni altra cosa, una realtà semantica, e in questo senso può apparire anche molto tempo dopo aver già lasciato una prima traccia nella storia dell’umanità. L’Homo sapiens che, nel periodo Aurignaziano, incide un osso per realizzare un calendario lunare non è un uomo, perché non ha coscienza di esserlo. Giudicando con questo metro, però, nemmeno parecchi degli esseri umani della nostra epoca lo sono… Scrive Foucault: Quando la storia naturale diviene biologia, quando l’analisi delle ricchezze diviene economia, quando soprattutto la riflessione sul linguaggio si fa filologia e viene meno il discorso classico in cui l’essere e la rappresentazione trovavano il proprio luogo comune, allora, nel movimento profondo d’una tale mutazione archeologica, l’uomo appare con la sua posizione ambigua di oggetto nei riguardi di un sapere e di soggetto che conosce: sovrano sottomesso, spettatore guardato, sorge là, nel posto del re, assegnatogli anticipatamente dalle Meninas, ma dal quale a lungo la sua presenza reale fu esclusa. 159

Foucault pensa a partire da sé stesso. Nietzsche ha già detto tutto quello che c’era da sapere sulla genealogia autobiografica di ogni pensiero – quello di

Foucault compreso, il quale comunque non ignorava il ragionamento, avendo letto la prefazione della Gaia scienza… Ecco perché il registro del filosofo si fa così cupo: sotto la sua penna appaiono espressioni come «panorama d’ombra» e «parte di notte», «zona oscura» e «regione abissale», «fortezza singolarmente sprangata» e «macchia cieca»… Questa parte maledetta rappresenta il punto di origine del suo pensiero. È parecchio evidente che la ragione occidentale gli stia ormai fin troppo stretta e che il «mormorio indefinito» dell’inconscio lo attiri più potentemente di qualsiasi altra cosa. Questo spiega perché, sulla scia della morte di Dio e della consustanziale morte dell’uomo, Foucault annunci, tematica quanto mai hegeliana, la morte della filosofia e l’avvento di un «pensiero futuro».160 Descartes e Kant lasciano il posto a Freud e a Lacan, i quali non si preoccupano più della ragione ragionevole e ragionante, ma solo della pura sragione. Le 120 giornate di Sodoma ed Eliogabalo o l’anarchico incoronato di Artaud, o ancora La parte maledetta di Bataille piuttosto che il Discorso sul metodo o la Critica della ragion pura. Foucault è affascinato dalla finitezza, dalla morte, dalla follia, dalla psicosi, dalla schizofrenia, dal desiderio, tutte cose assenti dalla filosofia classica. La triade biologia-economia-filologia, che rendeva possibile l’avvento dell’uomo nella storia delle idee, lascia ora il posto a una seconda topica che abolisce la prima: linguistica-etnologia-psicoanalisi, tutte scienze umane che non parlano dell’uomo. La storia della filosofia viene tagliata in due: la ragione classica, da una parte, e il pensiero strutturalista, dall’altra, con quest’ultimo sempre alla ricerca delle invarianti formali di ogni realtà, visibili da nessuna parte ma presenti dappertutto. Quello che Foucault propone con Le parole e le cose non è tanto una nuova filosofia quanto una variazione sulla scolastica più antica. Reazionario quando restaura il primato platonico dell’Idea sulla realtà, della parola sulla cosa, diventa ancora più reazionario quando ristabilisce le categorie della scolastica medievale. Quando propone, per esempio, «una seconda critica della ragion-pura a partire da nuove forme all’a priori matematico»,161 allo scopo di fondare scientificamente la psicoanalisi, chiamata a cancellare la filosofia occidentale dalla cartina. Una scienza fondata su un a priori formale e direttamente dipendente da categorie trascendentali è, però, qualcosa di più vicino a una teologia, per quanto senza Dio possa essere, che non a una filosofia. L’ultima pagina de Le parole e le cose ha parecchio contribuito a stabilire la reputazione di Foucault: «L’uomo è un’invenzione di cui l’archeologia del

nostro pensiero mostra agevolmente la data recente. E forse la fine prossima».162 Foucault descrive l’uomo che scompare, come un volto di sabbia disegnato sulla sabbia e cancellato dal mare… Lo strutturalismo, attraverso il suo antiumanesimo, si proponeva di portare a termine questo compito, ma ha vissuto giusto il tempo che dura una moda a Parigi. Gli attori di questa corrente filosofica sono in effetti tutti quanti arrivati alla conclusione di essersi messi su una strada senza uscita, tagliata all’interno della giungla delle parole. Foucault finisce per scrivere di non essere mai stato strutturalista, il che gli permette, tra l’altro, di non dover spiegare perché non lo è più; Lacan non ne ha avuto il tempo, perché è morto prima che gli fosse richiesto; Althusser nemmeno, perché ha concluso i propri giorni scrivendo le memorie de L’avvenire dura a lungo (non gliela si manda a dire), dopo aver strangolato la moglie; Barthes sognava di scrivere un romanzo proustiano e gongolava in segreto leggendo le Memorie d’oltretomba; Deleuze è diventato bergsoniano per analizzare il cinema; in Razza e cultura (1971), Claude LéviStrauss legittimava l’autodifesa di tutte le civiltà minacciate dai flussi migratori; e l’ultimo Foucault chiedeva ai greci e ai romani consigli per costruire una morale postcristiana… Però, tutto quello che gli strutturalisti bruciavano una volta adorato, cioè il corpus intellettuale accumulato nei loro scritti di quegli anni, si trasformava in nettare e in ambrosia per gli intellettuali americani, che riciclavano quanto, in Francia, veniva scartato dagli stessi autori. Quella che si sarebbe poi chiamata la French Theory (la «teoria francese») riprendeva la fiaccola dell’antiumanesimo strutturalista e più in particolare del suo platonismo: questi nuovi strutturalisti credono che le parole siano più importanti delle cose, che i libri che ci raccontano il reale siano più veri del reale stesso, e che le biblioteche e gli anfiteatri dove vengono vivisezionati i libri siano più utili del mondo stesso. Per questi autori, l’uomo è una costruzione sociale, un archivio, un palinsesto, qualcosa che si può, anzi che si deve cancellare, per arrivare a scrivere una nuova pagina della storia. È un progetto, e noi possiamo cambiare progetto quando vogliamo, come vogliamo, e se vogliamo. Non ci sono più né uomini né donne, né maschi né femmine, solo delle volontà libere che scelgono o non scelgono il proprio genere, o che scelgono qualsiasi altra cosa. Questo tipo di nichilismo lavora al progetto che Foucault annunciava alla fine del suo libro del 1966: alimenta una nuova episteme capace di uccidere l’uomo per poterlo rimpiazzare con il postumano. L’umanesimo di ieri sta crollando a pezzi e il transumanesimo di domani sta già aspettando fuori il proprio turno. Il futuro è dell’uomo decostruito e la Luna sarà la sua Terra.

Conclusione

SOTTO IL SEGNO DELLA MEDUSA

Verso le chimere transumaniste Digitalizzare l’anima

L’affondamento dell’Europa giudaico-cristiana va di pari passo con la scomparsa di una filosofia degna di questo nome – e naturalmente in questa constatazione includo anche la mia… Il tempo del dominio del vecchio continente sul resto del mondo è passato. Lo spirito ha compiuto il viaggio dall’Eden, tra il Tigri e l’Eufrate, fino alla costa ovest degli Stati Uniti, fino in California, per essere più precisi, passando per l’Europa, che ha fatto ormai il suo tempo. La Storia si scrive ormai nella parte occidentale dell’America, che vede «l’Europa dai parapetti antichi», per chiamarla con le parole di Rimbaud, allontanarsi sempre di più, alla velocità di un carro funebre che ha perso il controllo. Le cattedrali, che davano un seguito all’allineamento dei megaliti, alle proporzioni perfette delle piramidi e al verbo delle agorà, sono sostituite dai centri commerciali, immersi giorno e notte nella luce elettrica; l’odore della carta dei libri è sostituito dalla materia liscia degli schermi, il baluginare del reale dalle bugie del virtuale, la potenza dell’intelligenza dal potere dei soldi, la cultura raffinata dal divertimento sfibrato, la tenuta dello scritto dalla logorrea dell’oralità, l’eccellenza del ragionamento dal prurito dell’impulsività, lo spettacolo della politica dalla politica spettacolare. La reificazione, marchio del XXI secolo, sta già avanzando e, con la scusa del progresso, fa già in modo che tutto possa venire affittato, comprato o venduto: ovociti di donne povere, uteri di madri surrogate proletarie, figli di coppie di genere fluido, bambini programmati come bambolotti, bambolotti sessuali programmati come bambini, relazioni libidinali (ma questa è storia vecchia quanto il mondo) e relazioni affettive (qui invece è tutto nuovo come il neomondo). E ancora: intersoggettività a buon mercato per coppie e famiglie in attesa, corsi scontati per imparare a sedurre in poche sedute di speed dating (una specie di eiaculazione oratoria in tempi ridotti), traffico di vedovi e di vedove, di divorziati e di celibi, sempre e tutto per arrivare a scongiurare la solitudine ormai dilagante; e poi montagne di solidarietà digitale, tanto più viva quanto più praticata con persone senza volto, robot, macchine, bambole di silicone, e così

via. L’Uomo Nuovo prosegue la sua strada: oggi è decostruito, vale a dire ecoresponsabile, ecofemminista, ecopolitico, ecocittadino, ecodurevole, ma soprattutto: prodotto di mercato. L’Uomo Nuovo che il 1793 ha cercato di fondare porta direttamente all’«Uomo Totale» di Karl Marx, il quale, nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, da bravo discepolo di Rousseau, prospetta la figura teorica di un uomo che recupera la propria natura buona di prima dell’avvento del capitalismo, che lo ha invece alienato, disfatto, e infine separato dalla propria sostanza. Il comunismo libera l’uomo dalle miserie della proprietà privata (grazie al Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza fra gli uomini) e della divisione del lavoro (grazie al Discorso sulle scienze e sulle arti), e permette a tutti quanti di realizzare la globalità delle proprie potenzialità (grazie all’Emilio). Con l’aiuto di Hegel e di Feuerbach, Marx critica il capitalismo, la religione e la filosofia che producono quest’uomo sfruttato e alienato dal capitale, dal lavoro e dal salariato, dallo Stato, dal Diritto, dai Soldi, ma anche da Dio, dai preti, dall’ideale ascetico, dalla sottomissione ai potenti, dalle ipotesi di un retromondo felice, e infine dallo spiritualismo, dall’idealismo, dalla speculazione, dalla teoria e dalla teoretica. L’uomo è diventato un’astrazione pura, una pura astrazione. Marx vuole sostituirlo con questo Uomo Totale che, attraverso l’abolizione della proprietà privata, il superamento della religione e l’instaurazione del comunismo, può smettere di vivere circondato da ogni parte dall’alienazione e infine cominciare a vivere riconciliato con sé stesso e la propria essenza. Scrivono Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca: Invece, nella società comunista, nella quale ognuno non ha un ambito di attività esclusivo, bensì può progredire in qualsivoglia settore secondo il suo capriccio, la società amministra la produzione generale e, proprio in questa maniera, mi dà la possibilità di fare oggi questa determinata cosa, domani quell’altra, di andare a caccia di mattina, di pescare di pomeriggio, di allevare il bestiame di sera, di fare il critico dopo pranzo, così come ho voglia di fare; senza che io divenga né un cacciatore, né un pescatore, né un pastore, né un critico.163

Sappiamo che cosa è diventato il teorico Uomo Totale con la pratica del marxismo-leninismo. Lungi dall’aver prodotto l’Uomo Nuovo giacobino, il regime comunista di Marx e di Lenin ha generato quell’Homo sovieticus di cui lo scrittore Aleksandr Zinov’ev ci ha ben tratteggiato i contorni, cioè un uomo colpito da un oblomovismo costituito in pari misura da fannullaggine e fatalismo, un uomo che si barcamena tra piccoli furti e grandi accomodamenti, un uomo della fuga e delle vigliaccherie, un uomo della denuncia e dell’assoggettamento, in una parola: l’uomo della servitù volontaria. Si doveva

liberare e si è dimostrato invece sottomesso; doveva essere totale e si è rivelato parziale; forte e si è rivelato debole; grande e si è rivelato piccolo; esemplare e si è rivelato mediocre; doveva cacciare la mattina, pescare il pomeriggio, occuparsi delle bestie la sera e darsi alla critica letteraria dopo cena, e invece è diventato l’uomo che fa le code ai supermercati per comprarsi prodotti scadenti, l’uomo che mangia i cetriolini sottaceto e beve vodka, l’uomo che guarda la televisione di propaganda e legge i giornali che lo indottrinano. È in reazione a quest’uomo giacobino dei marxisti che il fascismo mussoliniano, e poi il nazismo, lanciano il loro proprio Uomo Nuovo.164 Nel 1909, Filippo Tommaso Marinetti scrive, in francese, un romanzo intitolato Mafarka le futuriste. Roman africain [Mafarka il futurista]. Il protagonista, Mafarka, vittorioso in epiche battaglie contro degli africani di cartapesta, rinuncia al potere per consacrarsi alla costruzione del proprio figlio Gazurmah, una specie di robot alato semidivino. Mafarka offre alla madre questa creatura che si trasforma, subito, in una specie di prodotto incestuoso, pensato per sostituire l’altro suo figlio morto in guerra. Questo Uomo Nuovo ha la particolarità di essere immortale. Mafarka vuole naturalmente procreare un Uomo Nuovo «senza il concorso e la puzzolente complicità della matrice della donna».165 Il fatto che un figlio voglia offrire un bambino alla propria madre e cerchi di costruirsi un nuovo fratello immortale ricorrendo all’ectogenesi è un perfetto esempio di una situazione che potremmo definire come propria degli albori del transumanesimo. Mafarka dice: «ho trovato una mistura che trasforma le fibre vegetali in carne viva e in muscoli robusti».166 Questa sostanza è l’anima futurista. L’Uomo Nuovo è intagliato nel legno di una quercia giovane e possiede ali confezionate con una tela indistruttibile, intessuta di fibre di palma e capace di assumere sfumature di rosso, o dorate, o color ruggine, o color sangue, a seconda della luce che riceve; i suoi pettorali sono come degli scudi di cuoio di ippopotamo; i suoi fianchi sono di ferro e non dimentichiamoci il suo «membro formidabile e bronzato, che saprà sfondare il pube umido e ardente delle vergini».167 Un uomo del genere corrisponde perfettamente agli auspici di Mafarka: «non sudditi, vorrei, ma schiavi».168 Contro la «razza di cani e di schiavi bastonati».169 Il desiderio di Marinetti è di produrre questa specie di uomo rigenerato… L’Uomo Nuovo rinuncia all’amore, ai sentimenti e alle emozioni; detesta il passato e celebra il futuro; è pronto a mettere in gioco la propria vita per un’idea, perché un’idea non vale niente se non viene santificata dalla morte; la guerra è per lui igiene della vita, e l’eroismo, ebrezza; è completamente intriso di volontà

(e) di potenza, di energia e di velocità, di forza e di crudeltà. «La nostra volontà deve uscire da noi, per impossessarsi della materia e modificarla a nostro capriccio. Così noi possiamo plasmare tutto ciò che ci circonda e rinnovare senza fine la faccia del mondo… Presto, se pregherete la vostra volontà, farete figli, anche voi, senza ricorrere alla vulva della donna» [corsivo mio].170 E poi ancora: «È così, che io trasfonderò la mia volontà nel corpo nuovo di mio figlio! Egli sarà forte di tutta la sua bellezza, che non fu mai torturata dallo spettacolo della morte!… Gli trasmetterò la mia anima in un bacio; abiterò nel suo cuore, nei suoi polmoni e dietro ai vetri dei suoi occhi».171 Mafarka crea dunque Gazurmah e lo presenta alla mummia della madre, che dà vita a una litania oscena e proclama: «Sono sua madre e sua amante… È mio figlio, come tuo!… Mafarka! Mafarka! parlami del nostro figliuolo».172 Mafarka risponde: «Oh! la gioia di averti generato così, bello e puro di tutti i difetti che provengono dalla vulva malefica e predispongono alla decrepitezza e alla morte!… Sì! tu sei immortale, figlio mio, eroe senza sonno».173 La mummia della madre di Mafarka gli parla e lo invita a baciare la creatura sulla bocca per infondergli l’anima e la vita. In ricordo della madre morta, Mafarka bacia il figlio sulla bocca con «un bacio torturante e soave in cui si eternizzava una tenerezza senza limiti».174 A questo punto, però, Gazurmah decide di uccidere il proprio padre Mafarka e di spiccare il volo verso il Sole, per sfidarlo. Allegoria del transumanesimo: il bacio incestuoso è quello che dà vita all’Uomo Nuovo del XXI secolo… Odio dell’uomo di prima, culto dell’uomo a venire, aspirazione alla rigenerazione, anima insufflata in un corpo immortale, pietra filosofale del nuovo millennio, creazione di una razza di schiavi per ectogenesi, abolizione della famiglia e genealogia di una razza nuova attraverso l’incesto, culto della morte: insomma, c’è tutto quello che serve… Gazurmah non ha bisogno di dormire e possiede degli organi di presa che si muovono «automaticamente, come le mani delle scimmie bradipe e le zampe dei chiròtteri, che tanto più s’aggrappano al ramo quanto più il sonno li prende…»; 175 si nutre di serpenti «perché questi contengono i fermenti di una vita lunghissima»176 (qui ovviamente pensiamo subito al serpente del giardino dell’Eden) e «d’idre acquatiche, perché la loro carne ha uno stupefacente potere d’autoriproduzione».177 Ecco, rimane solo da sottolineare che l’idra d’acqua è l’animale emblematico della civiltà a venire: la medusa. È Édouard Glissant, poeta e pensatore dell’esperienza creola, a trasformare la medusa in un modello di civiltà. Un aneddoto ci spiega il progetto di società di

Glissant, che aspira evidentemente a creolizzare il mondo intero. Un’estate, il poeta è in vacanza in Italia, sta nuotando nel mar Mediterraneo e viene colpito da «una medusa velenosa». A fatti compiuti, un bambino gli fa alcune domande, e il suo biografo François Noudelmann ci spiega che Glissant si mette a «spiega[re] la geografia delle meduse, questi esseri che nuotano passando dalla superficie all’abisso, senza patria, privi di qualsiasi legame o di qualsiasi relazione di parentela, e che si muovono in mezzo alle correnti di tutti mari, senza avere un’origine identificabile. Le meduse annunciano un altro mondo, un mondo in cui il centro e la periferia scompaiono e lasciano il posto a movimenti di circolazione più labili». La creolizzazione è un miscuglio di civiltà considerate come tutte uguali e sullo stesso piano. Il poeta martinicano ci dice che questo miscuglio potrebbe formarsi senza violenza, ma che nella storia non si è mai dato un movimento di creolizzazione senza violenza. Per il momento, la creolizzazione del mondo produce una società di meduse, cioè di esseri apolidi che vagano nuotando privi di legami e privi di relazioni familiari, in un mondo svuotato di senso. Le connessioni tra questi animali velenosi, alcuni dei quali possono risultare addirittura mortali, si compiono attraverso fili tossici, filamenti avvelenati, tentacoli nocivi. In questo universo, è la violenza a dettar legge: il più velenoso uccide il più inoffensivo. È il progetto fascista per eccellenza. In questa giungla di bestie primitive in cui domina l’invaginazione, la scimmia si è evoluta fino all’uomo, ma ora regredisce fino alla medusa, cioè fino allo stadio di un animale che, nonostante tutto, grazie all’Enciclopedia, grazie ai vari Diderot, Maupertuis, Rousseau, Voltaire e La Mettrie, e grazie persino ad Aristotele, può vantare delle incontestabili lettere di nobiltà filosofica! Ce lo insegna l’Enciclopedia che il polpo d’acqua dolce, altrimenti chiamato idra, lo si può tagliare, affettare, decapitare, rivoltare, affamare, alimentare con la sua stessa carne o con la carne di un altro, ma subisce tutto senza mai esserne veramente toccato. Nei suoi Elementi di fisiologia, Diderot constata che l’idra può ricostruirsi partendo da uno solo dei suoi pezzi tagliati nella carne viva, ed è per questo motivo che il filosofo francese è indotto a parlare di nisus formativus per qualificare quella forza vitale e quella plasticità del vivente che permette alle cellule e ai tessuti di rigenerarsi. In un certo modo, il nisus, oggetto di ricerca da parte dei vitalisti, è il nome di ciò che, nella vita, vuole, costituisce e fa durare la vita stessa. Le idee di divisione cellulare, ma soprattutto di clonazione, le ritroviamo già tutte qui, in germe. Nel Sogno di D’Alembert, facendo parlare mademoiselle de Lespinasse,

Diderot mette in scena una storiella fittizia, che oggi si sta quasi per trasformare in realtà: «L’uomo che si scompone in un’infinità di uomini atomici, che si possono racchiudere tra fogli di carta come uova d’insetti che filano i loro bozzoli, restano un po’ di tempo allo stato di crisalidi, rompono i bozzoli e volano via in farfalle, una società di uomini formata, un’intera provincia popolata con le vestigie di uno solo; tutto questo è veramente piacevole da immaginare».178 E continua: «Se da qualche parte l’uomo si scompone in un’infinità di uomini animaluncoli, si deve provar meno ripugnanza a morire; si rimedia così facilmente alla perdita di un uomo, che questa deve causare ben pochi rimpianti».179 L’unica differenza è che oggi queste «uova» non vengono conservate tra fogli di carta, ma immerse nell’azoto liquido a quasi -200 °C di temperatura, e la possibilità della loro duplicazione si rivela quasi consolatoria di fronte alla finitezza dell’essere. Il sogno continua con la stessa mademoiselle che s’immagina una «stanza calda tappezzata di piccoli cartocci; e su ciascuno di questi cartocci un’etichetta: guerrieri, magistrati, filosofi, poeti, cartocci di cortigiani, cartocci di puttane, cartocci di re».180 Adoro quei «cartocci di puttane»… Quindi: «uomini polpo»? Va bene, ci siamo… Questo progetto fittizio è diventato realtà sotto molti aspetti. Basti pensare alla clonazione delle cellule staminali o alla clonazione dei nuclei di DNA, ma anche alle diverse manipolazioni auspicate dal transumanesimo. L’anima come polpo divisibile e riproducibile in maniera identica: è questo il sogno di Elon Musk, che definisce l’anima come la traccia digitale lasciata da un essere umano e riducibile a dati scaricabili e trasferibili, prima su una specie di chiave USB e poi direttamente nella materia cerebrale di un altro essere umano, nel suo encefalo. È questo il senso del suo progetto: installare sull’essere umano microchip con tanto di dati digitali che andranno a costituire la sua identità. Musk, insomma, porta a compimento il tempo della scimmia inaugurato dalle lezioni di anatomia di Vesalio e inaugura il tempo della medusa. Una scimmia chiamata Pager è stata «programmata» dalla società di Elon Musk, la Neuralink, con base a San Francisco, per giocare al videogioco Pong solo con il pensiero, utilizzando cioè soltanto i poteri del proprio cervello, aumentato dalle informazioni impiantate nel suo stesso tessuto cerebrale. Tre maiali, di cui uno femmina, Gertrude, sono stati impiegati per preparare la tecnologia d’interfaccia tra il cervello e la macchina che permette al mammifero di comunicare attraverso una specie di telepatia fondata sugli impulsi neuronali. Dopo il maiale e dopo la scimmia, lo scopo è evidentemente di poter equipaggiare il cervello dell’uomo in

modo che possa essere collegato a un computer allo scopo di aumentare l’intelligenza naturale grazie all’intelligenza artificiale (AI). Nel suo laboratorio, OpenAI, Elon Musk cerca di produrre delle intelligenze artificiali che siano superiori alle intelligenze naturali, puntando sul fatto che, naturalmente, le prime soppianteranno le seconde. Musk parte dal principio che gli esseri umani dispongono già di uno «strato digitale terziario», grazie ai loro telefonini, ai loro computer, alle loro applicazioni e ai loro dati, e che occorre semplicemente connetterlo alla corteccia, cioè a quella parte del cervello che si occupa della memoria, dell’attenzione, della percezione, del pensiero, dell’intelligenza, del linguaggio e della coscienza. Musk punta all’avvento di una telepatia tra l’uomo e la macchina. E precisa: «Con un’interfaccia neuronale diretta, possiamo migliorare il collegamento che passa tra la corteccia cerebrale e lo strato digitale terziario, di parecchie unità di misura. Direi probabilmente almeno mille, forse diecimila, forse anche di più». Tutto sta nel valore che diamo a questo «più»… Riassumiamo il progetto transumanista: materia della corteccia cerebrale + dati digitali su Twitter = identità di un essere. Il microchip può ovviamente arricchire, ma può anche essere destinato a un impoverimento programmato. Gli scienziati sanno oggi come fornire a delle mosche dei ricordi di cose che non hanno vissuto. Però, a furia di introdurre acido piruvico nei mitocondri dei neuroni dei corpi peduncolati, a furia di alimentare cellule gliali, a furia di mettere in evidenza l’azione neuronale con elementi fluorescenti, possiamo finire anche con il cancellare ricordi di cose realmente vissute dalle drosofile. Le loro ricerche puntano ovviamente a combattere l’Alzheimer o il Parkinson… Neuralink si impegna a far diventare realtà qualcosa che per il momento sembra appartenere soltanto al regno della fantascienza: stiamo parlando del Neural Lace, che permetterebbe di collegare il cervello umano a dei computer in maniera del tutto indipendente da qualsiasi tipo di connessione, una specie di Bluetooth neuronale. L’intelligenza naturale verrebbe allora sostituita dall’intelligenza artificiale, la memoria diventerebbe infinita e le capacità cognitive si rivelerebbero del tutto inedite. «Le persone potrebbero usare la telepatia e in una certa misura potrebbero diventare capaci di conversare tra di loro non soltanto senza parlare, ma anche addirittura senza usare le parole. E diventerebbe possibile accedere ai pensieri degli altri a livello direttamente concettuale. Non soltanto si potrebbero comunicare da un cervello all’altro i pensieri, ma anche le esperienze sensoriali». Aggiunge Musk: «Altre cose abbastanza folli potrebbero essere fatte. Si potrà probabilmente salvare lo stato del cervello. Così, se doveste morire, il vostro stato potrebbe essere ricaricato su un altro corpo umano, o addirittura sul corpo

di un robot […]. Si potrà decidere, per esempio, se volete essere un robot o una persona, o anche un’altra cosa» [corsivo mio]. Ma solo se si dovesse morire… In base alle ultime notizie, si sta già cercando di fare camminare dei paraplegici, e di trovare delle cure per il morbo di Parkinson. Musk annuncia che allargherà il programma di rieducazione delle nostre sinapsi ai casi di depressione nervosa, alle dipendenze e ad altre «lesioni cerebrali». Ma se, per tutta questa gentaglia, il semplice fatto di avere un cervello umano fosse già di per sé una lesione? Un cavallo di Troia, ancora e sempre… Il progetto di Diderot che porta dall’ostrica alla medusa passando dall’uomo è già operativo. Elon Musk ci spiega in termini chiari il proprio programma: «riparare tutto quello che nel cervello non funziona».181 Per quest’uomo che confessa di soffrire di sindrome di Asperger e che, per il resto, è semplicemente la persona più ricca del mondo, un simile disegno non rappresenta il capriccio di uno squilibrato, ma un progetto esistenziale vero e proprio, un progetto che potrebbe trasformarsi in un progetto di civiltà. Ha tutti i mezzi per sostenere la propria follia. Chi potrà opporsi? E soprattutto in nome di che cosa? Di quale morale? Di quale etica? Di quale Super-io? Di quali divieti? Di quali tabù? Di quali valori? Di quale spiritualità? Di quale religione? Di quale istanza trascendentale? Di quale forza del bene? La barbarie sta arrivando alle nostre porte, equipaggiata come una macchina da guerra inedita e scintillante. Quest’uomo che vuole fare l’angelo sicuramente farà la bestia: dopo il serpente, dopo il cane e dopo la scimmia, l’evoluzione continuerà probabilmente sotto il segno della medusa, animale decostruibile e ricostruito. Del resto, la decostruzione è già cominciata…

Epilogo

L’eterno silenzio degli spazi infiniti

Per lavorare al suo progetto transumanista, Elon Musk non ha creato solo la società Neuralink, ma ha anche fondato SpaceX, di cui si conosce vagamente la storia perché, sui nostri schermi televisivi, assistiamo regolarmente ai lanci dei missili per il suo programma di vita nello spazio. Sul lungo termine, si tratta, per Musk, di far uscire l’uomo dal suo biotopo terrestre naturale e di installarlo in maniera durevole in un biotopo extraterrestre artificiale. In questa prospettiva, la Luna è destinata a diventare una stazione spaziale in muratura, la prima tappa per i viaggi più lunghi verso Marte. Passerà, insomma, dallo status di pattumiera delle immondizie americane a quello di anticamera per i viaggi americani su Marte. Chi pensa che questi suoi obiettivi siano poco ragionevoli dovrebbe leggere quello che scrivono gli astrofisici quando ci parlano del Sole che, nel giro di quattro miliardi di anni, esaurirà tutto il suo combustibile e morirà. Quattro miliardi di anni, è tanto tempo, siamo d’accordo, però rimane pur sempre qualcosa di ineluttabile, e comunque ci fa riflettere sulla certezza che la vita sulla Terra si troverà compromessa molto prima, e che gli uomini sono destinati a scomparire se da qui ad allora non avranno trovato un modo per defilarsi! Le previsioni ci spiegano che il Sole si dilaterà e che il suo volume si moltiplicherà di duecento volte. L’espansione trascinerà la scomparsa di Mercurio e di Venere. Però, già prima dell’esplosione, la Terra non avrà più né acqua né vita sulla sua superficie, e si trasformerà in una palla di roccia fusa. Il nucleo solare si riscalderà fino ad arrivare a cento milioni di gradi, poi la stella di gas caldo si espanderà fino ad arrivare all’orbita di Marte: quindi, chi pensa che rifugiarsi sul pianeta rosso potrebbe rappresentare una soluzione in realtà sta solo posticipando il problema! L’elio rilasciato dal Sole finirà per esaurirsi e l’involucro del Sole sarà espulso sotto forma di nebulosa, e finirà per diluirsi nello spazio interstellare. Poi il nucleo solare si ridurrà progressivamente, si contrarrà, si trasformerà in una nana bianca e si raffredderà nel corso di decine di miliardi di anni, prima di diventare una nana nera. Il Sole morirà come il 90% delle stelle dell’universo. Perché, banalità di base che però ci si dimentica quasi

sempre di ricordare, tutto quello che è nato, vive e poi muore. Il fatto che la morte naturale del Sole trascinerà con sé anche quella della Terra, non esclude l’esistenza di altri modi di morire prima che quel momento arrivi! Se un astrofisico cominciasse a spiegare che, tenendo presente tutto quello che, da milioni di anni, ci insegna la scienza della vita della Terra, i cicli di riscaldamento e di raffreddamento sono da mettere prioritariamente in relazione con l’attività magnetica dell’eliosfera, vale a dire della bolla gassosa formata dai venti solari, questo astrofisico si vedrebbe bandito dalla comunità internazionale degli «scienziati» e bollato come climatoscettico, perderebbe il posto di lavoro e il salario, perderebbe le sovvenzioni accordate al suo laboratorio, perderebbe i suoi studenti e la possibilità di dirigere tesi e perderebbe la reputazione, pagando la propria audacia con la morte sociale. Ecco perché ci si limita a insegnare che il riscaldamento climatico è essenzialmente dovuto all’attività umana. Questo permette alla mitologia del capitalismo verde di oggi di funzionare vendendo dei prodotti che, per quanto molto inquinanti,182 passano per essere rispettosi delle risorse del pianeta. Ciò non toglie che l’eliosfera che protegge il sistema solare interno sia bucata, e che attraverso questi buchi passino pericolosi raggi cosmici che viaggiano quasi alla velocità della luce e bombardano la Terra, andandone ovviamente a intaccare la temperatura e il clima. La Terra può scomparire prima del tempo anche a causa degli asteroidi nearEarth, questi corpi solidi lanciati a tutta velocità nello spazio che potrebbero schiantarsi sulla crosta terrestre, distruggendo ogni forma di vita sulla Terra, o addirittura polverizzando l’intero pianeta azzurro, di cui resterebbero solo polveri fluttuanti nel cosmo. Nel corso di un recente esperimento condotto il 22 settembre del 2022 dalla NASA, una sonda di cinquecento chilogrammi è stata mandata dalla Terra a schiantarsi su un piccolo asteroide di centosessanta metri di diametro chiamato Dimorphos, a più di undici milioni di chilometri, al fine di deviarne la corsa. L’operazione era stata denominata DART (Double Asteroid Redirection Test), facendo riferimento alla parola «dart», che in inglese significa «freccetta». La collisione ha prodotto parecchie decine di tonnellate di polvere e modificato la traiettoria dell’asteroide. Al momento in cui scrivo, inizio di ottobre del 2022, non sappiamo però di quanto, i calcoli sono ancora in corso… Ed è probabilmente un asteroide di dodici chilometri di diametro che, sessantasei milioni di anni fa, si è schiantato sulla Terra, in un punto corrispondente all’attuale Yucatán (Messico), provocando, tra le altre cose, la scomparsa dei dinosauri. La collisione è stata seguita da un considerevole abbassamento della temperatura sul pianeta, anche perché il Sole si è trovato

almeno in parte coperto dalle tonnellate di polveri prodotte. Paradossalmente, però, è questa stessa situazione che ha reso possibile lo sviluppo dei vari mammiferi, tra cui l’uomo, che avrebbe potuto benissimo non esistere, altrimenti… Un altro asteroide, invece, e l’uomo potrebbe non esistere più. Pensando in termini di lunghissima durata, Elon Musk disorienta e sconcerta chi fa già fatica a proiettarsi sull’effimero orizzonte del futuro della propria stessa esistenza! Nella misura in cui ragionare in termini di millenni, come fanno gli storici e i filosofi degni di questo nome (Gioacchino da Fiore e Vico, Hegel e Spengler, Toynbee, Keyserling e Frobenius, e poi Malraux, per citare quelli più vicini a noi…), si rivela essere una disciplina raramente praticata, anche ragionare tenendo in considerazione l’avvenire dell’uomo nel caso (nonostante tutto) previsto della scomparsa del pianeta Terra è un esercizio che fin troppo spesso viene trascurato. Solo la fantascienza si occupa di queste cose: la filosofia no di sicuro. Il progetto di Elon Musk ha una sua coerenza, che coincide con quella del transumanesimo: tenendo conto della durata limitata della vita dell’uomo sulla Terra, la prima cosa da fare è cambiare l’uomo e cercargli un altro biotopo. Da questa esigenza di modificare l’elemento umano e di allargarlo, di aumentarlo, nasce l’Uomo Nuovo scolpito dal transumanesimo, di cui Neuralink rappresenta un po’ il braccio armato. La seconda cosa è, invece, cambiare l’ambiente dell’uomo, e trovare un luogo sostitutivo adatto a questo umanoide. Da qui le sperimentazioni di SpaceX, l’altra società di Musk, che si occupa di mettere a punto viaggi spaziali e interstellari, cercando, per esempio, di inventare nuovi carburanti in grado di risolvere il problema della durata e della velocità degli spostamenti in ordine di anni luce. Valutando sulla misura della lunga durata, è questa l’unica «grande sostituzione» che valga la pena di accettare, l’unica che sarà in grado di far nascere un’altra civiltà, l’ultima. Il progetto di colonizzare Marte preoccupa la NASA tanto quanto Musk. L’agenzia spaziale americana recluta volontari per una missione di un anno che consiste nel vivere dentro una base in Texas, a condizioni di vita extraterrestre, in uno spazio di 158 metri quadri, costruito con una stampante 3D. Per il momento, le condizioni di reclutamento sono molto restrittive: bisogna innanzitutto essere americani, poi godere di buona salute, non fumare, avere più di trent’anni ma meno di cinquantacinque, parlare inglese, padroneggiare l’ingegneria, la matematica, la fisica, la biologia e l’informatica, avere un’esperienza professionale di almeno due anni in uno di questi ambiti, oppure

avere un carnet di volo di più di mille ore. I prescelti effettueranno delle ricerche scientifiche e si familiarizzeranno con la realtà virtuale e con i comandi dei robot, simulando, per esempio, delle passeggiate nello spazio ricostruito. Si tratta di preparare un volo verso Marte con una sosta sulla Luna, trasformata, per l’occasione, in una specie di sala d’attesa. Al progetto hanno già partecipato russi, europei e cinesi. Giunta l’ora, questo postumano presupporrà probabilmente delle anime digitali caricate su encefali umani, magari clonati, in ogni caso assimilati a esoscheletri. Altrimenti, a cosa serve lavorare in tutte queste direzioni? Gli uomini vivranno una vita virtuale in un universo ostile. E queste vite, a cui potranno accedere soltanto alcuni eletti, scelti oltretutto da gente ancora più eletta (ma chi?), saranno collegate a una matrice globale che piloterà tutto l’insieme. E tutto questo per cosa? Malraux diceva: «A cosa serve conquistare la Luna se è per andarci a suicidarsi?»183 Oggi siamo privi di anima, ma chi ci dice che gli uomini acefali che siamo diventati non siano già morti?

Bibliografia

Pensare la Luna. Stranamente il primo passo sulla Luna non ha smobilitato i filosofi. Con una sola eccezione, quella di Günther Anders, che personalmente ritengo il più grande filosofo del Novecento, autore di Der Blick vom Mond. Reflexionen über Weltraumflüge [La vista dalla Luna. Riflessioni sui voli spaziali], Beck, Monaco di Baviera 1970. Ma è una lettura politico-critica più che propriamente filosofica. A suo tempo, nel 1957, Alexandre Koyré aveva pubblicato in inglese Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione (Einaudi, Torino 1967). Il libro, ripubblicato nel 1973 da Gallimard nella collana «Idées», illustra la cesura epistemologica provocata dal passaggio dal geocentrismo all’eliocentrismo. Manca un’opera della stessa natura sulla rivoluzione epistemologica indotta dalla prima volta in cui gli uomini hanno vissuto fuori dalla Terra, prima di tornarci. La storia di quest’avventura viene raccontata in toni giornalistici da Lukas Viglietti nel suo Apollo Confidential (Morgan James, NYC 2019), con una prefazione di Charlie Duke che partecipò alla missione di Apollo 16 nel 1972. È in quest’opera che scopriamo come l’uomo rimanga disperatamente un animale che marca il territorio. * La storia prima della storia. La letteratura sulla preistoria è abbondante ma anche deludente. Le diverse epoche proiettano spesso i propri fantasmi su quello che resta delle tracce dei primi uomini, in particolare sulle cosiddette tracce artistiche. Preistoria neocristiana nel pensiero sacro dell’abate Breuil, patologica per l’associazione di sesso e morte con Georges Bataille, strutturalista con i segni di Leroi-Gourhan, neo-baba-cool con lo sciamanesimo di Jean Clottes. Un’eccellente sintesi in Gwenn Rigal, Le Temps sacré des cavernes, Éditions Corti. Parigi 2016 (tr. it.: Gwenn Rigal, Il tempo sacro delle caverne. Da Chauvet a Lascaux, le ipotesi della scienza, Adelphi, Milano 2022). Lettura interessante, quella dell’archeoastronomia: Chantal Jègues-Wolkiewiez, L’Ethnoastronomie, nouvelle appréhension de l’art préhistorique. Comment

l’art paléolithique révèle l’ordre caché de l’Univers [L’etnoastronomia, un nuovo modo per comprendere l’arte preistorica. Come l’arte paleolitica rivela l’ordine nascosto dell’Universo], Éditions du Puits de Roulle, Nîmes 2012, e Les Calendriers paléolithiques de Sergeac et de Lartet décryptés. Révélation de la vie collective des premiers Cro-magnons [I calendari paleolitici di Sargeac e di Lartet decifrati. Rivelazione della vita collettiva dei primi Cro-Magnon], presso l’autrice, 2014. Intuizioni a stretto contatto con i fatti. Un formidabile volume di quasi novecento pagine è stato pubblicato dopo il punto finale del mio libro: Jean-Loïc Le Quellec, La Caverne originelle. Art, mythes et premières humanités [La caverna originaria. Arte, miti e prime umanità], La Découverte, Parigi 2022. Si tratta di una nuova ipotesi, quella di un grande mito originario che racconta di animali che vivono sottoterra, in una grotta, e che risalgono sulla terra sotto lo sguardo degli uomini, un mito che sarebbe all’origine dell’arte preistorica. Idea molto seducente di un grande racconto genealogico ricostituito… * Il genio egizio… Gli studi di filosofia fanno classicamente risalire il pensiero occidentale ai greci. Quando ho cominciato i miei studi di filosofia, negli anni Ottanta, la bibliografia era quasi inesistente e, quindi, per tutto il corso dei miei studi, non ho ovviamente mai sentito parlare del pensiero egizio. È un libro di Élisabeth Laffont pubblicato nel 1979 da Gallimard, nella collana «Idées», e intitolato Les Livres de sagesses des pharaons (tr. it.: Élisabeth Laffont, a cura di, I libri di sapienza dei faraoni, Mondadori, Milano 1985) che mi ha aperto gli occhi sull’evidente parentela tra la saggezza egizia e la saggezza greca. In seguito, Pascal Vernus ha pubblicato Sagesses de l’Égypte pharaonique [Saggezze dell’Egitto faraonico], Imprimerie nationale, Parigi 2001. Più di recente, nel 2021, Les Belles Lettres hanno distribuito il lavoro di Bernard Mathieu, La Littérature de l’Égypte ancienne [La letteratura dell’antico Egitto], in due volumi: Ancien Empire et première période intermédiaire [Antico Regno e primo periodo intermedio]; e Moyen Empire et deuxième période intermédiaire [Medio Regno e secondo periodo intermedio]. Dentro, troviamo vere e proprie pepite. Da consultare anche Il libro dei morti degli antichi egiziani, curato da Ernest Alfred Wallis Budge (Ceschina, Milano 1956). … contro il miracolo greco. È a Ernest Renan che dobbiamo invece l’espressione di «miracolo greco» (Ernest Renan, Ricordi d’infanzia e di giovinezza, UTET, Torino 1954). Non esiste ovviamente nessun miracolo greco,

solo un’eredità orientale spesso dimenticata. È un peccato che questa pista sia esplorata solo dai militanti della causa della decolonizzazione, che considerano la Grecia come un semplice prodotto dell’Egitto nero. Secondo loro, il pensiero egizio che influenza la Grecia dimostrerebbe come sia il popolo nero ad aver inventato l’Occidente! Ritroviamo questo delirio nel libro di Cheikh Anta Diop, Civilisation ou barbarie [Civiltà o barbarie], Présence africaine, Parigi 1981, e, negli Stati Uniti, in un libro del 1987 di Martin Bernal, Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica (Il Saggiatore, Milano 2011). È a p. 90 di questo libro che possiamo leggere: «Lo scopo politico di Atena nera è, inutile dirlo [sic], sminuire [sic] l’arroganza culturale europea». Ed è sempre in quest’opera, presentata come scientifica, che il suo autore ci propone un’inedita genealogia dell’impressionismo. Nel 1883, l’eruzione di Krakatoa, un vulcano indonesiano, sarebbe all’origine di quel movimento estetico: «La polvere che diffuse attorno al mondo contribuì allo sviluppo dell’Impressionismo e influì sul clima dell’intero emisfero occidentale» (p. 64). Un bianco in effetti non ci sarebbe mai arrivato… * Il mistero Pitagora. Gli scritti di Pitagora sono scomparsi. Quello che della sua vita e del suo pensiero sappiamo lo dobbiamo essenzialmente alle Vite e dottrine dei più celebri filosofi di Diogene Laerzio (Bompiani, Milano 2005). Per accompagnare l’apparato critico di Diogene Laerzio, ci si rifarà all’edizione dei Presocratici nella collana della Pléiade (1988), curata da Jean-Paul Dumont. Su questi primi filosofi, consultare anche il volume intitolato Lire le présocratiques [Leggere i presocratici], PUF, Parigi 2016, curato da Luc Brisson, Arnaud Macé e Anne-Laure Therme. È proprio in quest’opera che Luc Brisson spiega che, su Pitagora, non si può dire niente di sicuro o di certo, e che è stato utilizzato per dire tutto e il contrario di tutto (pp. 97-107). Possiamo constatare quanto Luc Brisson abbia torto leggendo il libro di Ivan Gobry, Pythagore, Éditions Universitaires, Parigi 1992. L’opera comprende anche le «Paroles d’or des pythagoriciens» [Versi d’oro dei pitagorici], pp. 101121. Platone il Padrino. Nel suo Platon (Gallimard, Folio Biographie, Parigi 2019), Bernard Fauconnier scrive molto opportunamente: «Il Fedone, che si cita meno spesso dell’Apologia di Socrate, è un dialogo d’immensa portata. Ha alimentato tutto il pensiero occidentale della morte, dagli stoici fino agli umanisti, persino oltre. Il pensiero cristiano della morte e dell’immortalità gli è grandemente

debitore» (p. 228; corsivo mio). Leggiamo allora il Fedone e gli altri testi, come, per esempio, il Menone o l’Apologia di Socrate, nella traduzione di Léon Robin per le Œuvres complètes in due tomi della Biblioteca della Pléiade (Gallimard, Parigi 1977). Sulla questione dell’anima, vedere Jean Ithurriague, La Croyance de Platon à l’Immortalité et à la Survie de l’Âme Humaine [La Credenza di Platone nell’Immortalità e nella Sopravvivenza dell’Anima Umana], Librairie Universitaire J. Gamber, Parigi 1931 (le maiuscole sono dell’autore). Vedere anche Friedrich Nietzsche, Plato amicus sed. Introduzione ai dialoghi platonici (Mimesis, Udine-Milano 2020). In particolare il ragionamento intitolato Come può darsi κακία dell’anima? (§ 25). In Dieu, l’homme et la vie d’après Platon [Dio, l’uomo e la vita secondo Platone], Éditions de la Baconnière, Neuchâtel 1944, René Schaerer elabora un interessante ragionamento sui rapporti tra platonismo e cristianesimo. Sull’anima, vedere il primo e il secondo capitolo. * Plotino il Discepolo. L’opera completa delle Enneadi è pubblicate in Francia in sette volumi da Les Belles Lettres, nella Collection des Universités de France, con, in apertura, la Vie de Plotin [Vita di Plotino], scritta da Porfirio (tr. it.: Plotino, Enneadi, Bompiani, Milano 2018). All’Università di Caen, Lucien Jerphagnon tenne un corso affascinante di un anno solo su questa Vita. Due brevi testi chiari e illuminanti di introduzione: Pierre Hadot, Plotino, o La semplicità dello sguardo (1973), Einaudi, Torino 1999, e Maurice de Gandillac, La Sagesse de Plotin [La saggezza di Plotino], Vrin, Parigi 1966. Due interpretazioni dell’austera filosofia di Platone in un’ottica esistenziale. Perché, in effetti, è possibile vivere secondo Plotino. Era il caso di Lucien Jerphagnon… Orfeo senza inferi. A casa degli orfici, si mangia e si beve. Quella che di loro ci resta è una poesia molto ermetica, frammentaria, senza istruzioni per l’uso, definitivamente perdute. L’orfismo permette ogni tipo di proiezione, anche quelli più stravaganti, come succede per i fanatici dell’occultismo. I testi: Hymnes. Discours sacrés [Inni, discorsi sacri], presentati, tradotti e annotati dal compianto Jacques Lacarrière, Imprimerie nationale, Parigi 1995. Vedere anche le analisi di Marcel Detienne, Les Dieux d’Orphée [Gli dèi di Orfeo], Folio Histoire, Parigi 2007, e La scrittura di Orfeo (Laterza, Roma 1990). Soffocate però da un’erudizione che impedisce spesso di vedere con chiarezza le linee di sviluppo del discorso. Breve sintesi in Essam Safty, La Psyché humaine. Conceptions populaires,

religieuses et philosophiques en Grèce, des origines à l’ancien stoïcisme [La psiche umana. Concezioni popolari, religiose e filosofiche in Grecia, dalle origini allo stoicismo antico], L’Harmattan, Parigi 2003. Un’opera monumentale è quella di Erwin Rohde, l’amico di Nietzsche: Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i greci (1890-1894), Laterza, Bari 1970; si tratta di una summa sul soggetto dell’anima greca – Omero, presocratici, tragici, Platone, Aristotele, Plotino, orfici, e così via. Difficilmente superabile. * La favola di Gesù. La tesi mitista secondo cui Gesù non è mai esistito storicamente, ma solo come cristallizzazione intellettuale, viene trattata con disprezzo da celebri universitari che sono anche, nella maggior parte dei casi, dei veri credenti. Meriterebbe comunque una confutazione degna di questo nome, il disprezzo non può bastare. Leggiamo allora Prosper Alfaric, Jésus a-t-il existé? [È esistito Gesù?], Éditions Coda, Parigi 2005. E, sempre dello stesso autore: Origines sociales du Christianisme (1959) [Origini sociali del cristianesimo], À l’école de la raison. Études sur les origines chrétiennes (1959) [A scuola della ragione. Studi sulle origini cristiane], e De la foi à la raison (1932) [Dalla fede alla ragione], tutti e tre usciti per le Publications de l’Union Rationaliste. Sono opere scritte da un seminarista che, studiando approfonditamente i testi, si è reso conto che si trattava di una favola. Leggere, di Paul-Louis Couchoud, Le Dieu Jésus [Il Dio Gesù], Gallimard, Parigi 1951, ma anche, sempre dello stesso autore, Il mistero di Gesù (1923), Bocca, Milano 1945. Vedere anche, di Maurice Goguel, Le Problème historique de Jésus. Examen de la thèse de P.-L. Couchoud sur la non-historicité de Jésus [Il problema storico di Gesù. Esame della tesi di P.-L. Couchoud sulla nonstoricità di Gesù], Union pour la vérité, Parigi 1925. E il collettaneo Jésus a-t-il vécu? Controverse religieuse sur le «mythe du Christ» [Gesù è esistito? Controversia religiosa sul «mito di Cristo»], Albert Messein, Parigi 1912. Coraggiosa ma non temeraria, l’editoria non s’inoltra mai su questo terreno. Quelli che lavorano all’interpretazione mitista sono spesso costretti a pubblicare a proprie spese. Ringrazio dunque gli autori che mi hanno fatto avere i loro libri: Patrick Boistier, Jésus-Christ & consorts. Dernières nouvelles [Gesù Cristo & consorti. Ultime notizie], Les Éditions du Net, Saint-Ouen 2012, e Jésus. Anatomie d’un mythe [Gesù. Anatomia di un mito], À l’Orient, 2004; Nicolas Bourgeois, Une invention nommée Jésus [Un’invenzione chiamata Gesù] (Uneinventionnommeejesus.com); Guy Fau, La Fable de Jésus Christ [La favola

di Gesù Cristo], L’Union Rationaliste, Parigi 1963; René Pommier, grande demolitore di miti, tra gli altri di quelli di Roland Barthes e di René Girard: Une croix sur le Christ. Cantate iconoclastique [Una croce su Cristo. Cantata iconoclasta], Éditions Roblot, Parigi 1976. Si leggerà con profitto Maurice Halbwachs, Memorie di Terrasanta (1941), Arsenale, Venezia 1988; Louis Rougier, La Genèse des dogmes chrétiens, [La genesi dei dogmi cristiani], Albin Michel, Parigi 1972; e André Neyton, Les Clés païennes du christianisme [Le chiavi pagane del cristianesimo], Les Belles Lettres, Parigi 1980. Quest’ultimo libro mi era stato addirittura consigliato da Lucien Jerphagnon, che ha fatto molto per indirizzarmi sulla strada mitista, per quanto lui stesso non condividesse quelle tesi. * Thanatos nel deserto. Il cristianesimo, più che essere la dottrina di Gesù, è quella di san Paolo. È a quest’ultimo che dobbiamo la definizione della dottrina della Chiesa, vale a dire l’avversione nei confronti del corpo, dei desideri, delle pulsioni, delle passioni, della sessualità e dell’intelligenza, e l’esaltazione della macerazione, dell’ideale ascetico, del celibato, della verginità e della castità. È ancora a lui che dobbiamo l’associazione della spada (il suo attributo nell’iconografia artistica) alla Chiesa e i primi autodafé. Da leggere le sue Epistole e gli Atti degli apostoli. È questa dottrina del corpo da punire per ottenere la salvezza che anima i monaci del deserto. Un libro introduttivo ben fatto e piacevole da leggere è quello di Jacques Lacarrière, Les Hommes ivres de Dieu [Gli uomini ubriachi di Dio], Arthaud, Parigi 1961. Di suo, consultare anche Les Gnostiques [Gli gnostici], nella collana «Idées» di Gallimard, Parigi 1973. È una buona sintesi di quello che troviamo in Ireneo di Lione, Contro le eresie. Smascheramento e confutazione della falsa gnosi, Città Nuova, Roma 2009. Paradossalmente, esponendo le tesi gnostiche che voleva combattere, Ireneo le ha salvate, perché è proprio grazie a lui che oggi le conosciamo. Vedere anche Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio (Paoline, Milano 2007); Giovanni Cassiano, Conferenze ai monaci (2 voll., Città Nuova, Roma 2000); San Girolamo, Vite di Paolo, Ilarione e Malco (Adelphi, Milano 1988); Palladio, La Storia Lausiaca (Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Milano 1974). * Dio nel testo. Parallelamente ai monaci del deserto che credono di arrivare a Dio maltrattando il proprio corpo, i Padri della Chiesa ritengono che la strada giusta sia quella di trattare invece bene il proprio spirito e la propria intelligenza

attraverso il pensiero e la scrittura. Introduzioni generali alla patristica: Jacques Liébaert e Michel Spanneut, Introduzione generale allo studio dei Padri della Chiesa, Queriniana, Brescia 1998. Nello stesso spirito, destinato ai futuri sacerdoti: Fulbert Cayré, Patrologia e storia della teologia, Società di S. Giovanni Evangelista-Desclee, Roma 1948. La patristica è il punto cieco della storia della filosofia europea. La s’insegna in effetti solo nei seminari, eppure sono i dieci secoli nel corso dei quali si costruisce il pensiero giudaico-cristiano all’origine della cristianità e della civiltà che l’accompagna. Nelle facoltà di Filosofia, nella maggior parte dei casi si conosce solo un Padre della Chiesa, cioè sant’Agostino. Consultare allora i tre volumi (1998, 2000 e 2002) di una scelta delle sue opere pubblicata nella collana della Pléiade, con la curatela di Lucien Jerphagnon, in cui troviamo anche le Confessioni e la Città di Dio, opere importanti per capire l’Occidente. Bella biografia e piacevole da leggere di Peter Brown, Agostino d’Ippona (Einaudi, Torino 1971). Anche Tertulliano gioca un ruolo importante: le sue Œuvres complètes sono state ripubblicate in un volume per le Belles Lettres nel 2017. Un titolo prezioso di monsignor Charles Lagier, in due volumi, per contestualizzare tutti questi pensieri. Il titolo generale è L’Orient chrétien [L’Oriente cristiano], Au Bureau de l’œuvre d’Orient, Parigi 1935 e 1950; tomo 1: Des apôtres jusqu’à Photius (De l’an 33 à l’an 850) [Dagli apostoli fino a Fozio (Dall’anno 33 all’anno 850)]; tomo 2: De Photius à l’Empire latin de Constantinople (De l’an 850 à l’an 1204) [Da Fozio all’Impero latino di Costantinopoli (Dall’anno 850 all’anno 1204)]. * Stoici cinici e cristiani. I filosofi stoici e cinici sono stati spesso accostati ai cristiani. È stato addirittura composto e pubblicato un falso Epistolario tra Seneca e san Paolo (Rusconi Libri, Milano 1995). Ovviamente, si tratta di una contraffazione. Non la pensa così, però, Amédée Fleury, che esamina il documento in un libro in due volumi intitolato: Saint Paul et Sénèque. Recherches sur les rapports du philosophe avec l’apôtre et sur l’infiltration du christianisme naissant à travers le paganisme [San Paolo e Seneca. Ricerca sui rapporti del filosofo con l’apostolo e sull’infiltrazione del nascente cristianesimo attraverso il paganesimo], Librairie philosophique de Ladrange, Parigi 1853. Già in Antichità, l’accostamento tra il dolorismo stoico e quello del cristianesimo paoliniano dà luogo alla figura di un Epitteto cristiano. Un esame dei documenti lo troviamo nel Commentaire sur la Paraphrase chrétienne du Manuel d’Épictète [Commento sulla parafrasi cristiana del Manuale di Epitteto],

Le Cerf, Sources chrétiennes, Parigi 2007. Leggere, in parallelo: Origene, Esortazione al martirio, Pontificia Universitas Urbaniana, Roma 1985. Sull’altro versante, l’accostamento tra la trasandatezza cinica e quella dei monaci del deserto ha prodotto invece la figura di un Diogene cristiano. Marie-Odile Goulet-Cazé è la specialista della questione cinica. Tra le sue pubblicazioni: L’Ascèse cynique [L’ascesi cinica], 1986, Le Cynisme, une philosophie antique [Il cinismo, una filosofia antica], 2017, e Cynisme et christianisme dans l’Antiquité [Cinismo e cristianesimo nell’Antichità], 2014, tutti e tre pubblicati a Parigi, da Vrin. * L’imperatore Thénardier. La costruzione del cristianesimo la si deve molto all’imperatore Costantino e alla madre Elena. Sul primo, si consultino: Robert Turcan, Constantin en son temps. Le baptême ou la pourpre? [Costantino ai suoi tempi. Il battesimo o la porpora?], Éditions Faton, Digione 2006. Sulla seconda, più che una biografia, che in verità manca, troviamo un’agiografia: Hélène Yvert-Jalu, L’Impératrice sainte Hélène. À la croisée de l’Orient et de l’Occident [L’imperatrice santa Elena. All’incrocio tra Oriente e Occidente], per le cattolicissime edizioni Téqui, Parigi 2013. Compenseremo con le considerazioni su questa donna poco raccomandabile avanzate da Lucien Jerphagnon in L’Absolue Simplicité [L’assoluta semplicità], Bouquins-Laffont, Parigi 2019. L’imperatore e sua madre s’inventano la biografia di Gesù. Elena pretende addirittura di aver trovato, nel corso di un soggiorno a Gerusalemme, la croce, i chiodi, la corona di spine, il titulus e il luogo stesso della crocifissione! Iacopo da Varazze arricchisce tutta questa favola con un best seller medievale, la Legenda aurea (Sismel Edizioni del Galluzzo-Biblioteca Ambrosiana, FirenzeMilano 2007), che è il libro dove i parroci vanno a recuperare i materiali per i loro sermoni. È con questo testo che infonde a tutta la storia sacra un carattere propriamente meraviglioso che si costruisce un cristianesimo da favola, ben lontano da quello della teologia. La contraffazione conciliare. Si lavora poco anche sui concili, che invece così tanto contribuiscono a scolpire la nostra civiltà. In Voting about God in early church councils [Votare per Dio nei concili della Chiesa ai suoi inizi], Yale University Press, New Haven 2006, Ramsay MacMullen ci racconta in maniera straordinaria come interi tratti della nostra cultura siano stati costruiti da vescovi che spesso erano dei personaggi estremamente festaioli, alcolizzati, avidi, rissosi e violenti!

Nella mia biblioteca, occupano un buon metro di scaffale i venti volumi della traduzione francese della Conciliengeschichte di Carl Joseph von Hefele (Herder’sche Verlagshandlung, Friburgo 1855-1874; tr. fr.: Charles-Joseph Hefele, Histoire des conciles d’après des documents originaux, Éditions Le Touzey et Ané, Parigi 1907-1949). Poi ci sono anche i quattro volumi della Histoire des conciles [Storia dei concili] di Jean Hermant, pubblicato a Rouen, presso Jean-Baptiste Besogne nel 1730. Tutti testi che, assieme ai ventisei volumi della Bibliothèque choisie des Pères de l’Église grecque et latine [Biblioteca scelta dei Padri della Chiesa greca e latina] (1824) di Marie-NicolasSylvestre Guillon (un altro metro di scaffale), offrono materiali incredibili per ricostruire l’evoluzione della civiltà giudaico-cristiana. * La scolastica e oltre. Raffaello lo illustra bene nel suo affresco della Scuola di Atene: Platone è il pensatore idealista per eccellenza, mentre Aristotele è l’esatto opposto, cioè un filosofo che cerca di afferrare il reale senza preoccuparsi minimamente della trascendenza. Il suo vocabolario immanente produce, nel corso del medioevo, una scolastica perniciosa, e perniciosa in primis per lo stesso stagirita, che perde potenza concettuale. Il suo scritto sull’anima (Aristotele, L’anima, Loffredo, Napoli 1979) è una grande opera concettuale postplatonica. Vedere anche Dominique Demange, La ‘définition’ aristotélicienne de l’âme [La ‘definizione’ aristotelica dell’anima], in «Le Philosophoire», n. 21, 2003/3, p. 65-85. Non si sottolineerà mai abbastanza quanto i Saggi di Montaigne contribuiscano a far crollare in un colpo solo, come un castello di carte, secoli di filosofia scolastica. Con il suo ironico ragionamento sul prosciutto («Il prosciutto fa bere, il bere disseta, dunque il prosciutto disseta»), mette a mal partito tutto un dispositivo di esposizione del pensiero che, dopo di lui, diventa impossibile. Leggere la versione «rattoppata» (la definizione è di Bernard Combeaud) pubblicata da Laffont-Mollat, nella collana «Bouquins», Parigi 2019 (tr. it.: Michel de Montaigne, Saggi, Bompiani, Milano 2012). * Lezioni di anatomia. Montaigne sta alla filosofia come Vesalio o Ambroise Paré stanno all’anatomia: aprono e dissezionano il reale e i corpi come si fa con la frutta. Una biografia del primo: Robert Delavault, André Vésale (1514-1564), Le Cri, Bruxelles 1999; un testo letterario elegante e informatissimo sul secondo: Jean-Michel Delacomptée, Ambroise Paré. La main savante [Ambroise Paré. La mano dello scienziato], Gallimard, Parigi 2007. In francese, l’Œuvre di

Ambroise Paré è pubblicata in tre volumi, più un quarto di indici, dall’Union Latine d’Édition, nel 1983. Interessanti i capitoli sull’anima. Leggere il capitolo Le contexte historique et philosophique de l’ouverture des corps, avant et au moment de la Révolution française [Il contesto storico e filosofico dell’apertura dei corpi, prima e al momento della Rivoluzione francese], di Philippe Charlier, in un collettaneo intitolato Quand les aliénistes ouvraient les corps [Quando gli alienisti aprivano i corpi], Éditions Glyphe, Parigi 2020, a cura di Jean-Pierre Luauté. Su Vesalio, vedere Georges Canguilhem, L’Homme de Vésale dans le monde de Copernic [L’uomo di Vesalio nel mondo di Copernico], Les Empêcheurs de penser en rond, Parigi 1991. Di Vesalio, in francese: https://www.biusante.parisdescartes.fr/vesale/debut.htm. * Un Descartes sconosciuto. Descartes crolla sotto le glosse alle proprie opere filosofiche. Ci si occupa invece poco del Descartes esistenziale, quello che cerca di praticare la filosofia per vivere meglio, per vivere in maniera diversa, per allungare la durata della vita e migliorare la salute. Questo Descartes dimenticato ma appassionante pensa a partire dalla propria vita: ecco allora Francine, la figlioletta morta in tenera età; ecco i primi capelli bianchi; ecco il desiderio di lasciar perdere la metafisica e l’ontologia per approfondire invece la medicina, come annunciato alla fine del Discorso sul metodo; ecco i vari corrispondenti; ed ecco il proprio carattere, il proprio temperamento, ecco la prudenza, ecco il lato patologico della discrezione. Come sempre, è la corrispondenza che permette di rivelare la verità di un pensatore; si tratta di una vecchia idea nietzschiana, sempre rifiutata dagli universitari, o perlomeno da quelli che restano, e cioè che una filosofia è sempre l’autobiografia del corpo del filosofo. Leggere quindi i due tomi della corrispondenza: René Descartes, Tutte le lettere (1619-1650) (Bompiani, Milano 2005), e René Descartes, Isaac Beeckman e Marin Mersenne, Lettere (16191648) (Bompiani, Milano 2015). È ad Adrien Baillet che dobbiamo la prima biografia del filosofo, scritta a quarant’anni dalla morte, un lavoro abbastanza agiografico che passa comunque sotto silenzio la vita privata: Vita di monsieur Descartes (Adelphi, Milano 1996). Per qualcosa di più affidabile, consultare: Geneviève Rodis-Lewis, Cartesio. Una biografia (Editori Riuniti, Roma 1997). Un romanzo presentato come un racconto su Francine e il padre, è quello scritto da Jean-Luc QuoyBodin, Un amour de Descartes [Un amore di Descartes], Gallimard, Parigi 2013. Il Descartes della morale pratica è meno conosciuto del pensatore della morale

provvisoria. Ed è normale, perché la prima appare nella corrispondenza, mentre la seconda è quella che si trova nel Discorso sul metodo. Vedere René Descartes, Le passioni dell’anima. Lettere sulla morale, con un’appendice di frammenti giovanili (Laterza, Bari 1966). Nello stesso spirito, leggere Marguerite Néel, Descartes et la princesse Élisabeth [Descartes e la principessa Elisabeth], Elzévir, Parigi 1946, e Jean-François de Raymond, La Reine et le Philosophe. Descartes et Christine de Suède [La regina e il filosofo. Descartes e Cristina di Svezia], Les Lettres modernes, Parigi 1993. L’estrema prudenza di Descartes non gli ha comunque evitato di passare dei guai in Olanda, a causa soprattutto dell’imprudenza del proprio corrispondente, Regius, o Le Roy, cui dobbiamo la Philosophia naturalis, pubblicata in francese nel 1686, quindi quando ormai Descartes era già morto. Su questi guai, leggere un collettaneo intitolato Descartes et le cartésianisme hollandais [Descartes e il cartesianesimo olandese], PUF, Parigi 1951, e René Descartes e Martin Schoock, La Querelle d’Utrecht, Les Impressions nouvelles, Parigi 1988. * Grandi figure del Grand Siècle. Esiste una filosofia di La Fontaine, ed è una filosofia epicurea e vagamente cristiana, capace di trasformare gli animali in altrettanti eroi letterari e filosofici per meglio raccontare l’uomo. È Fontenelle che ci racconta la storia della cagna di Malebranche, picchiata solo perché considerata una macchina. Leggiamo allora Descartes, La Fontaine e Malebranche nelle edizioni della Biblioteca della Pléiade. E Fontenelle nei nove volumi delle Œuvres complètes pubblicati nel «Corpus des œuvres de philosophie en langue française», per Fayard. Sul numero speciale della rivista consacrata al filosofo normanno con il titolo di Les Philosophies de Fontenelle [Le filosofie di Fontenelle], leggiamo: Qui était Fontenelle? [Chi era Fontenelle?] di Alexis Philonenko, «Corpus», n. 44, 2003, pp. 129-139, articolo in cui questo professore di storia della filosofia, che è stato anche mio insegnante a Caen, distribuisce i voti e le pagelle. Conclusione: Fontenelle non è un filosofo. Meglio, perché è il pensatore libero che preferisco in lui! La questione dell’anima degli animali attraversa per intero il secolo di Luigi XIV e impazza nei salotti dell’epoca. Vedere, per esempio: Marin Cureau de La Chambre, Traité de la connaissance des animaux [Trattato della conoscenza degli animali], del 1648, e, sempre suo, il Discours de l’amitié et de la haine qui se trouvent entre les animaux [Discorso dell’amicizia e dell’odio che si trovano tra gli animali], del 1667, entrambi pubblicati nella serie del «Corpus» di Fayard, rispettivamente nel 1989 e nel 2011. La Fontaine si serve di Cureau de La Chambre per mettere in ridicolo la teoria degli animali-macchine di Descartes.

Un ritratto di Cureau realizzato da Condorcet lo troviamo negli Éloges des académiciens de l’Académie royale des sciences depuis l’an 1666 jusqu’en 1699 [Elogi degli accademici dell’Accademia reale delle scienze dall’anno 1666 fino al 1699], consultabile in francese all’indirizzo: https://books.google.fr/books/about/Eloges_de_académiciens_de_l_Academie_ro.html? id=VlwVAAAAQAAJ&redir_esc=y Vedere anche Pierre Chanet, De l’instinct et de la connaissance des animaux, avec l’examen de ce que M. de La Chambre a écrit sur cette matière [Dell’istinto e della conoscenza degli animali, con l’esame di ciò che M. de La Chambre ha scritto in materia], del 1646, consultabile in francese all’indirizzo: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k95608f/f1.image. Sulle Observationes medicae di Nicolaas Tulp (Nicolai Tulpii Amstelredamensis Observationum medicarum. Libri tres, presso Ludovicum Elzevirium, Amsterdam 1641), consultare Raphaële Andrault, Stefanie Buchenau, Claire Crignon e Anne-Lise Rey (a cura di), Médecine et philosophie de la nature humaine, de l’âge classique aux Lumières [Medicina e filosofia della natura umana, dall’età classica agli illuministi], Classiques Garnier, Parigi 2014; e Ignace Gaston Pardies (SJ), Discours de la connaissance des bestes, presso Sebastien MabreCramoisy, Parigi 1672 (tr. it.: Dell’anima delle bestie, e sue funzioni, Andrea Poletti, Venezia 1696). * * Conosciamo però poco l’opposizione tra Gassendi, canonico epicureo, e Descartes, spiritualista dualista. Il fatto è che Descartes ha schiacciato ogni cosa sul suo passaggio e, ormai, di Gassendi, non si parla quasi più. Eppure è stato un pensatore importante. A lui dobbiamo la riabilitazione di Epicuro in Vita e costumi di Epicuro (Ventura, Senigallia 2022) e una critica serrata a Descartes nella Disquisitio metaphysica. Seu dubitationes, et instantiae: adversus Renati Cartesii Metaphysicam, & Responsa (presso Iohannem Blaeu, Amsterdam 1644; tr. fr.: Recherches métaphysiques ou doutes et instances contre la métaphysique de René Descartes et ses réponses, Vrin, Parigi 1962). Gassendi scrive a volte in latino, spesso prende tempo e tergiversa, oppure si ripete, e poi attacca, attacca, a volte diventa persino violento e polemizza ad hominem; peccato, perché il suo pensiero, una volta estratte le pepite dal fango, è interessante e notevole. Nella sua polemica contro Descartes, punta spesso il dito su quello che trova debole nei ragionamenti del proprio avversario. Leggere, di lui, le Lettres familières à François Luillier pendant l’hiver 1632-1633 [Lettere familiari a François

Luillier nell’inverno 1632-1633], Vrin, Parigi 1944. E su di lui gli Actes du Congrès Tricentenaire de Pierre Gassendi.1655-1955 [Atti del Congresso del Tricentenario di Pierre Gassendi. 1655-1955], PUF, Parigi 1957, che comprendono un articolo di François Meyer intitolato Gassendi et Descartes, pp. 217-226. Vedere anche, su Gassendi et l’Europe, a cura di Sylvia Murr (Vrin, Parigi 1997), l’articolo Volonté divine et vérité mathématique: le conflit entre Descartes et Gassendi sur le statut des vérités éternelles [Volontà divina e verità matematica: il conflitto tra Descartes e Gassendi sullo statuto delle verità eterne], pp. 31-42. Pensare gli animali. Diversamente da quanto sostiene la vulgata filosofica, e cioè che sia stato Bentham il primo a pensare gli animali in senso moderno, dobbiamo dare a Cesare quel che è di Cesare. E ricordare che a porre le basi di quello che oggi chiamiamo antispecismo non è Bentham, nell’Ottocento, ma il curato Meslier agli inizi del Settecento, nel Testamento scoperto alla sua morte nel 1729. Su Meslier: Maurice Dommanget, Le Curé Meslier. Athée, communiste et révolutionnaire sous Louis XIV [Il curato Meslier. Ateo, comunista e rivoluzionario sotto Luigi XIV], Julliard, Parigi 1965. In Francia, le sue opere complete sono state pubblicate in tre volumi dalle Éditions Anthropos, tra il 1970 e il 1971 e con il titolo di Testament (tr. it.: Jean Meslier, Memorie intellettuali e sentimentali, 3 voll., Diderotiana, Torino 2019). Vedere Élisabeth de Fontenay per Le Silence des bêtes. La philosophie à l’épreuve de l’animalité [Il silenzio degli animali. La filosofia alla prova dell’animalità], Fayard, Parigi 1998. Si fa fatica a intravedere il piano generale di questo libro, perché è un miscuglio confuso di riferimenti senza ordine; però possiamo ricavare qualche cosa per la nostra erudizione sfogliando l’indice. Sui rapporti tra uomo e animale, è già stato praticamente detto tutto da Darwin, L’origine delle specie, del 1859 (Bollati Boringhieri, Torino 1960), e soprattutto L’origine dell’uomo e la scelta sessuale, del 1871 (Rizzoli, Milano 1982). Le lezioni di Darwin aspettano ancora di essere prese seriamente in considerazione dal mondo filosofico, che si ostina a perseverare in una specie di platonismo in cui le Idee prendono tutto lo spazio. I pensatori del materialismo francese, La Mettrie, Helvétius, d’Holbach, sono tutti pubblicati nella serie del «Corpus des œuvres de philosophie en langue française», per Fayard: vedere in particolare La Mettrie, Œuvres philosophiques [Opere filosofiche], 2 voll., 1987 (in parte recuperabili sull’edizione italiana di Julien Offroy de La Mettrie, L’uomo macchina e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1955), e Ouvrage de Pénélope ou Machiavel en médecine [L’opera di Penelope, ovvero Machiavelli in medicina], 2002.

L’opera di Diderot è stata pubblicata in quattro volumi da Laffont-Bouquins, tra il 1994 e il 1997. Quella di Sade da Gallimard, in tre volumi, nella Biblioteca della Pléiade, tra il 1990 e il 1998. Stessa cosa per Rousseau, cinque volumi per la Pléiade tra il 1959 e il 1995. Non dimentichiamoci del Traité des animaux [Trattato degli animali] di Condillac, filosofo sensualista (Vrin, Parigi 2004). Aggiungiamo François Dagognet, L’Animal selon Condillac [L’animale secondo Condillac], Vrin, Parigi 2004. Su Sade: Jean Deprun, De Descartes au romantisme: études historiques et thématiques [Da Descartes al romanticismo: studi storici e tematici], in particolare il capitolo Sade et la philosophie biologique de son temps [«Sade e la filosofia biologica dei suoi tempi»], Vrin, Parigi 1987, pp. 133-147. Armelle StMartin, De la médecine chez Sade. Disséquer la vie, narrer la mort [Della medicina in Sade. Dissezionare la vita, raccontare la morte], Honoré Champion, Parigi 2010. Daniel Wanderson Ferreira, L’énergie chez Sade [L’energia in Sade], in «Modernités», n. 42, (Écritures de l’énergie) [Scritture dell’energia], 2017, pp. 31-45. Clara Carnicero de Castro, Le fluide électrique chez Sade [Il fluido elettrico in Sade], in «Dix-huitième siècle», n. 46, 2014/1, pp. 561-577. Su Diderot: May Spangler, Science, philosophie et littérature: le polype de Diderot [Scienza, filosofia e letteratura: il polpo di Diderot], in «Recherches sur Diderot et sur l’Encyclopédie», n. 23, ottobre 1997, pp. 89-107. Sulla prossimità tra scimmia e uomo molto prima di Darwin: Alain Mothu, Rêves de singe au XVIIIe siècle [Sogni da scimmia nel Settecento], consultabile in francese su https://hal.science/hal-02276114/document. Vincent Jolivet, L’imaginaire érotique du singe au siècle des Lumières [L’immaginario erotico della scimmia nel secolo dei Lumi], in Le Singe aux XVIIe et XVIIIe siècles. Figure de l’art, personnage littéraire et curiosité scientifique [La scimmia nel Seicento e nel Settecento. Figura artistica, personaggio letterario e curiosità scientifica], a cura di Florence Boulerie e Katalin Bartha-Kovács, Hermann, Parigi 2019. Vedere anche Buffon (Georges-Louis Leclerc, conte di), Histoire naturelle, générale et particulière [Storia naturale, generale e particolare], tomo XIV dell’edizione dell’Imprimerie royale, Parigi 1766; Cornelius de Pauw, Recherches philosophiques sur les Américains, ou mémoires intéressants pour servir à l’histoire de l’espèce humaine [Ricerche filosofiche sugli americani, ovvero Memorie utili alla storia della specie umana], Baestecher, Clève 1772; Restif de La Bretonne, Monsieur Nicolas (tr. it.: Restif de La Bretonne, Monsieur Nicolas, o Il cuore umano svelato, Longanesi, Milano 1971), la prima parte: Fisica; Honoré-Gabriel Riqueti, conte di Mirabeau, Erotika biblion (Guanda, Milano 1983).

Vedere anche, di Maupertuis, le Lettere filosofiche e scientifiche; Lettera sul progresso delle scienze (Pavia University Press, Pavia 2014). E nel suo libro del 1745, Vénus physique (tr. it.: Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, La venere fisica, per Antonio Graziosi, Venezia 1767) già ci s’immagina l’ibridazione tra uomini e scimmie, in particolare nel capitolo intitolato Produzioni di nuove spezie. Jean-Luc Guichet cura un’opera collettiva intitolata De l’animal-machine à l’âme des machines. Querelles biomécaniques de l’âme (XVIIe-XXIe siècle) [Dall’animale-macchina all’anima delle macchine. Querelles biomeccaniche sull’anima (XVII-XXI secolo)], Publications de la Sorbonne, Parigi 2010. In quest’opera seguiamo lo sviluppo dell’idea che porta dall’animale-macchina fino all’uomo-macchina. Frankenstein non è tanto lontano… E nemmeno il transumanesimo… Giacobinismo, bolscevismo e fascismo. La Rivoluzione francese produce una teoria dell’Uomo Nuovo grazie ai giacobini, che ci provano nel 1793. Nell’eugenismo repubblicano si trova radicato il pensiero di Condorcet; leggere il suo Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, del 1794 (tr. it.: Jean-Antoine-Nicolas Caritat de Condorcet, Saggio di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, Editori Riuniti, Roma 1974). Leggere anche Léon Cahen, Un fragment inédit de Condorcet. Notes manuscrites déposées à la Bibliothèque nationale [Un frammento inedito di Condorcet. Note manoscritte depositate alla Biblioteca nazionale], sulla «Revue de métaphysique et de morale», t. 22, n. 5, settembre 1914, pp. 581-594. Marylin Maeso, Réformer le peuple français: la création du citoyen révolutionnaire et le rôle des institutions dans les œuvres de Saint-Just [Riformare il popolo francese: la creazione del cittadino rivoluzionario e il ruolo delle istituzioni nelle opere di Saint-Just], https://journals.openedition.org/lrf/1093. Luc Monnin, De la genèse naturelle à la régénération sociale: fictions de l’origine chez Rousseau [«Dalla genesi naturale alla rigenerazione sociale: finzioni dell’origine in Rousseau»], in «MLN», vol. 124, n. 4, 2009, pp. 970-985. Troviamo anche un progetto di chimera, il capripede, nel Colloquio fra d’Alembert e Diderot, in cui la storia di un uomo aumentato con parti di animali, o di un animale aumentato con parti di uomo, prende corpo nel corso di un dialogo tra mademoiselle de Lespinasse e Bordeu. Vedere anche Cabanis, l’amico di Condorcet, che come lui frequentava il salotto di Mme Helvétius: Rapports du physique et du moral de l’homme, 2 voll., Firmin-Didot, Parigi 1823-1825 (tr. it.: Rapporti del fisico e del morale dell’uomo, Marotta e

Vaspandoch, Napoli 1820); vedere più in particolare la sesta memoria. Su questo Uomo Nuovo, consultare L’Homme Nouveau dans l’Europe fasciste (1922-1945). Entre dictature et totalitarisme [L’Uomo Nuovo nell’Europa fascista (1922-1945). Tra dittatura e totalitarismo], a cura di Marie-Anne Matard-Bonucci e Pierre Milza, Fayard, Parigi 2004. Ai margini dei circuiti mediatici, Xavier Martin, storico del diritto e professore universitario, pubblica, per le edizioni di Dominique Martin Morin, una serie di opere molto critiche nei confronti dei Lumi: nel 2001, L’homme des droits de l’homme et sa compagne (1750-1850) [L’uomo dei diritti dell’uomo e la sua compagna (1750-1850)]; nel 2002, Nature humaine et Révolution française: du siècle des Lumières au Code Napoléon [Natura umana e Rivoluzione francese: dal secolo dei Lumi al Codice napoleonico]; nel 2006, Voltaire méconnu: aspects cachés de l’humanisme des Lumières (1750-1800) [Voltaire sconosciuto: aspetti nascosti dell’umanesimo dei Lumi (1750-1800)]; nel 2013, S’approprier l’homme: un thème obsessionnel de la Révolution (1760-1800) [Appropriarsi dell’uomo: un tema ossessivo della Rivoluzione (1760-1800)]; nel 2014, Naissance du sous-homme au cœur des Lumières: les races, les femmes, le peuple [Nascita del sotto-uomo nel cuore dell’Illuminismo: le razze, le donne, il popolo], e, nel 2020, L’homme rétréci par les Lumières. Anatomie d’une illusion républicaine [L’uomo rimpicciolito dai Lumi. Anatomia di un’illusione repubblicana]. Ripetizioni da un libro all’altro, cosa che è normale, grande erudizione, letture molto attaccate al testo, a volte persino troppo, abbondanti citazioni e spesso stupefacenti rivelazioni che aiutano a mettere in luce il lato oscuro della scena illuminista. Politicamente scorretto quanto basta! Sulla questione della rigenerazione della «razza» nel periodo illuminista: abate Grégoire, Essai sur la régénération physique, morale et politique des Juifs [Saggio sulla rigenerazione fisica, morale e politica degli ebrei], Lamort, Metz 1789 (consultabile, in francese, all’indirizzo: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k1056775j), dove si spiega che meno gli ebrei saranno ebrei, meglio sarà per la Repubblica; dello stesso autore, il Rapport sur la nécessité et les moyens d’anéantir les patois et d’universaliser l’usage de la langue française, séance du 16 prairial de l’an deuxième (4 juin 1794) [Rapporto sulla necessità e i mezzi per annientare i dialetti e universalizzare l’uso della lingua francese, seduta del 16 pratile dell’anno secondo (4 giugno 1794)], dove invece viene illustrato che meno quei bifolchi dei provinciali saranno provinciali, meglio sarà per la Repubblica. Leggere Alyssa Goldstein Sepinwall, Les paradoxes de la régénération révolutionnaire. Le cas de l’abbé Grégoire [I paradossi della rigenerazione rivoluzionaria. Il caso dell’abate Grégoire], in «Annales historiques de la Révolution française», n. 321,

luglio-settembre 2000. Faiguet de Villeneuve, Économie politique. Projet pour enrichir et perfectionner l’espèce humaine [Economia politica. Progetto per arricchire e perfezionare la specie umana], del 1763. Consultabile in francese all’indirizzo: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k6508w.image. E poi: Vandermonde, Essai sur la manière de perfectionner l’espèce humaine [Saggio sul modo di perfezionare la specie umana], del 1766: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k6481542r?rk=21459;2. L’abate de Mably, Observations sur l’Histoire de la Grèce [Osservazioni sulla storia della Grecia], del 1766; il conte di Vauréal, Plan ou essai d’éducation général et national, ou la meilleure éducation à donner aux hommes de toutes les nations [Piano o saggio di educazione generale e nazionale, ovvero la migliore educazione da dare agli uomini di tutte le nazioni], del 1783 (Hachette BnF, Parigi 2023). Di Robespierre, sulla questione religiosa: Discours pour la liberté des cultes [Discorso per la libertà dei culti] (t. X, p. 196; tr. it.: Maximilien Robespierre, Sulla religione e sulla morale (Sui rapporti delle idee religiose e morali con i princìpi repubblicani e sulle feste nazionali), in La rivoluzione giacobina, Editori Riuniti, Roma 1967); Discours sur les principes de la morale politique qui doivent guider la Convention nationale dans l’administration intérieure de la république, del 5 febbraio del 1794 (t. X, p. 350; tr. it.: Maximilien Robespierre, Sui princìpi di morale politica (che devono guidare la Convenzione nazionale nell’amministrazione interna della Repubblica), in La rivoluzione giacobina, Editori Riuniti, Roma 1967); Discours sur les rapports des idées religieuses et morales avec les principes républicains sur les fêtes nationales, del 7 maggio del 1794 (tr. it.: Maximilien Robespierre, Rapporto fatto in nome del Comitato di Salvezza pubblica, intorno ai rapporti delle idee religiose e morali, coi princìpi repubblicani, ed intorno alle Feste nazionali, Stamperia nazionale esecutiva del Louvre, Parigi, 1793); Discours pour la déportation des prêtres réfractaires à la Guyane [Discorso per la deportazione dei preti refrattari in Guyana] (t. IX, pp. 626-627); La fête de l’Être suprême [La festa dell’Essere supremo] (20 pratile dell’Anno secondo). Jacques-Nicolas Billaud-Varenne, Principes régénérateurs du système social [Princìpi rigeneratori del sistema sociale], del 1795 (Éditions de la Sorbonne 1993). Joseph-Emmanuel Sieyès, Opere e testimonianze politiche, 2 voll. (Giuffrè Editore, Milano 1993). Jean-François Bacot, L’idéologie de la régénération: ce legs délétère de la Révolution [L’ideologia nella rigenerazione: il lascito deleterio della

Rivoluzione], in «Le Philosophoire», n. 45, 2016/1, pp. 143-168. Lucien Jaume, Le religieux et le politique dans la Révolution française. L’idée de régénération [Il religioso e il politico nella Rivoluzione francese. L’idea di rigenerazione], PUF, Parigi 2015. Mona Ozouf, L’Homme régénéré. Essai sur la Révolution française [L’uomo rigenerato. Saggio sulla Rivoluzione francese], Gallimard, Parigi 1989. Tutta questa letteratura si rivela edificante nel senso che mostra i meccanismi di funzionamento di quel totalitarismo che prende oggi la forma del transumanesimo. * La parapsicologia freudiana. Freud salva l’anima dal pericolo scientista e, per farlo, propone, se non una filosofia reazionaria, quantomeno una filosofia conservatrice, capace cioè di conservare il carattere immateriale della psiche. Vedere quindi l’opera completa (Sigmund Freud, Opere, 12 voll., Bollati Boringhieri, Torino 1989), e in particolare un testo del 1915, la Metapsicologia (sull’ottavo volume dell’edizione Bollati Boringhieri). In verità, agli inizi della propria carriera, Freud era stato molto scientista. Lo attesta il Progetto di una psicologia, testo iper-scientista del 1895, stranamente assente dall’opera completa dell’edizione francese PUF, ma pubblicato successivamente assieme alla corrispondenza con Fliess, sempre per le edizioni PUF, nel 2015. Per i dettagli, mi si permetterà di rimandare al mio Crepuscolo di un idolo. Smantellare le favole freudiane (Ponte alle Grazie, Milano 2011). * L’occultismo decostruzionista. È di buon gusto citare Deleuze senza averlo letto: per gli universitari, è garanzia di scientificità (sic). Leggere il suo Da che cosa si riconosce lo strutturalismo? (in Gilles Deleuze, L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007), modello del genere scolastico postmoderno… Per il famoso Corpo senza Organi, o CsO, concetto rubato ad Antonin Artaud, vedere (assieme a Félix Guattari) L’anti-Edipo, del 1972 (tr. it.: Einaudi, Torino 1975), e Mille piani, del 1980 (tr. it.: Cooper & Castelvecchi, Roma 2003). Alain Badiou, «professore emerito all’École normale supérieure», parla di Deleuze come di un platonico; leggiamo allora: Deleuze. Il clamore dell’essere (Einaudi, Torino 2004). Io, più che a platonico, penserei allo scotista nel senso rabelaisiano del termine: «inutilmente sofisticato, oscuro» – cosa che finisce inevitabilmente per qualificare lo stesso Badiou… Per Foucault non può non valere la stessa critica. L’autore della Storia della

follia, ex gollista, simpatizzante comunista, estremista di sinistra, maoista, socialista mitterandiano e infine liberale, a seconda dell’utilità mondana del momento, è stato per un certo periodo anche strutturalista. Suo è il concetto di «morte dell’uomo», che troviamo ne Le parole e le cose, pubblicato da Gallimard nel 1966 (tr. it.: Rizzoli, Milano 1967). Ovviamente, Foucault sosterrà di non essere mai stato strutturalista, e cercherà di cancellare tutte le riedizioni dei suoi lavori più vecchi sulla clinica, in modo da poterne dare l’illusione. Sono stati in pochi, ai tempi, a criticare lo strutturalismo che ha portato, oggi, attraverso gli Stati Uniti, al decostruzionismo. Tanto di cappello, quindi, a Pierre Fougeyrollas e al suo L’Obscurantisme contemporain: Lacan, Lévi-Strauss, Althusser [L’oscurantismo contemporaneo: Lacan, Lévi-Strauss, Althusser], Savelli, Roma 1983, e a Mikel Dufrenne e al suo Pour l’homme [Per l’uomo], Seuil, Parigi 1968. * L’orizzonte transumanista. Dobbiamo ormai fare i conti con il transumanesimo, che si enuncia essere l’orizzonte della prossima civiltà totale. Una biografia del personaggio che con maggiore ardore lavora a questo progetto: Ashlee Vance, Elon Musk. Tesla, SpaceX e la sfida per un futuro fantastico (Hoepli, Milano 2017). Genealogia di questo progetto: oltre all’Uomo Nuovo dei giacobini, ripreso e corretto dai bolscevichi, dai fascisti e poi anche dai nazisti, leggiamo qualcosa dei futuristi italiani, compagni di strada del fascismo mussoliniano. Da consultare: Filippo Tommaso Marinetti, Mafarka il futurista, prima edizione in francese del 1909 (tr. it.: Edizioni futuriste di poesia, Milano 1910) e, sempre di Marinetti, gli scritti e i manifesti di questo movimento estetico raccolti da Giovanni Lista in Le Futurisme (L’Âge d’homme, Losanna 1979). Una biografia del personaggio, sempre scritta in francese da Giovanni Lista: F.T. Marinetti. Biographie (Séguier, Parigi 1995). Per quanto riguarda il pensiero futurista, la sua filosofia e la sua visione del mondo, vedere Serge Milan, L’Antiphilosophie du futurisme. Propagande, idéologie et concepts dans les manifestes de l’avantgarde italienne [L’antifilosofia del futurismo. Propaganda, ideologia e concetti nei manifesti dell’avanguardia italiana], L’Âge d’homme, Losanna 2009. Sul prototipo dell’uomo-medusa, leggiamo la biografia che François Noudelmann dedica a Édouard Glissant. L’identité généreuse [Édouard Glissant. L’identità generosa] (Flammarion, Parigi 2018). Dello stesso Édouard Glissant, Tuttomondo (Lavoro, Roma 2009) e, in dialogo con Alexandre Leupin, Les Entretiens de Baton Rouge [Le conversazioni di Baton Rouge] (Gallimard, Parigi 2008). E anche Philosophie de la relation [Filosofia della relazione] (Gallimard, Parigi

2009).

Note

Parte prima. Costruire l’anima 1. Anticorpi, non-corpi e controcorpi 1. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi (VIII, 3), Bompiani, Milano 2005. 2. Isocrate, Il Busiride (II, 28), Vallecchi, Firenze 1955. 3. Porfirio, Vita di Pitagora (6), Rusconi, Milano 1998, p. 137. 4. Erodoto, Storie (II, 123), Rizzoli, Milano 1984. 5. Libro dei morti (CXXV), in Testi religiosi dell’Antico Egitto, Mondadori, Milano 2001, p. 641. 6. Ivi, pp. 636-637. 7. Massimo di Tiro, Dissertazioni (10, 2), Bompiani, Milano 2019. 8. Platone, La Repubblica (X, 600b), Bompiani, Milano 2009. 9. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi (III, 2), cit. 10. Ivi (III, 5).

2. Scheletro con anima 11. Platone, Gorgia (493a), in Opere complete, vol. 5, Laterza, Roma-Bari 1996. 12. Platone, Fedone (63c), in Opere complete, vol. 1, Laterza, Roma-Bari 1982. 13. Ivi (62b). 14. Ivi (65a). 15. Ivi (65b-c).

16. Ivi (65c). 17. Ibidem. 18. Ibidem. 19. Ivi (83b).

3. Il divenire riccio della pianta 20. Porfirio, Vita di Plotino (1), in Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992. 21. Ivi (2). 22. Ivi (3). 23. Plotino, Enneadi (I, 4, 14), Rusconi, Milano 1992. 24. Ivi (I, 4, 7). 25. Ibidem. 26. Ibidem. 27. Ivi (III, 6, 5). 28. Ivi (III, 1, 6). 29. Ivi (III, 4, 2). 30. Porfirio, Vita di Plotino (23), in Plotino, Enneadi, cit.

5. Le lingue di fuoco dello Spirito Santo 31. Una «lutte» [lotta], come traducono Grosjean e Léturmy; «donner des coups» [menare colpi], traduce invece Sacy; Segond parla, a sua volta, di «boxe». L’opera di evangelizzazione è quindi decisamente uno sport da combattimento… 32. Michel Onfray, Trattato di ateologia, Fazi, Roma 2005, pp. 127-128. 33. Ho già sviluppato il ragionamento nel mio Trattato di ateologia, cit., e in Decadenza. Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana (Ponte alle Grazie, Milano 2017). 34. Il principio dell’uomo nuovo, che si appoggia a quello di rigenerazione (Ef 4, 24), si ritrova nelle furibonde follie dei giacobini, dei fascisti, dei

nazisti, dei bolscevichi, degli strutturalisti e, ormai, anche dei transumanisti. Sarà in effetti l’argomento del prossimo volume, che avrà come titolo Barbarie.

6. Niente erezioni nel giardino dell’Eden 35. Anonimo, Epistolario tra Seneca e san Paolo (Prologo di san Girolamo), Rusconi, Milano 1995, p. 127. 36. Ivi (Lettera X), p. 147. 37. Ivi (Lettera VII), p. 141. 38. Ivi (Lettera XIV), p. 155. 39. Ibidem. 40. Seneca, Lettere a Lucilio (102, 27-28), in Tutte le opere. Dialoghi, trattati, lettere e opere in poesia, Bompiani, Milano 2000. 41. Ivi (89, 18-19). 42. Ivi (15, 2). 43. Ivi (8, 5). 44. Ivi (31, 11). 45. Seneca, Consolazione alla madre Elvia (11, 7), in Tutte le opere, cit. 46. Seneca, Lettere a Lucilio (31, 10), cit. 47. Ivi (87, 21). 48. Seneca, Consolazione a Marcia (25, 1), in Tutte le opere, cit. 49. Seneca, Lettere a Lucilio (36, 10), cit. 50. Ivi (120, 13-14). 51. Origene, Contro Celso (VII, 53), in Contro Celso. Opere scelte, UTET, Torino 1971. 52. Vedi il mio Saggezza. Saper vivere ai piedi di un vulcano, Ponte alle Grazie, Milano 2019. 53. Sant’Agostino, Confessioni Libri I-III (III, 4), Valla-Mondadori, Milano 1992.

54. Ivi (II, 2). 55. Ivi (III, 1). 56. Sant’Agostino, La città di Dio (XIII, 2), Bompiani, Milano 2001. 57. Ibidem. 58. Ivi (XIII, 13). 59. Ibidem. 60. Ibidem. 61. Ivi (XIII, 21). 62. Ivi (XIV, 4). 63. Ivi (XIV, 11, 2). 64. Ivi (XIV, 12). 65. Ivi (XIV, 11). 66. Ivi (XIV, 12). 67. Ivi (XIV, 16). 68. Ivi (XIV, 17).

7. Il sangue, semente dei cristiani 69. Celso, Il discorso della verità. Contro i cristiani (III, 55), Rizzoli, Milano 1989. 70. Ambrogio, La morte di Teodosio (43), in Opere, UTET, Torino 1969. 71. Ivi (44). 72. Quinto Settimio Fiorente Tertulliano, Apologia del cristianesimo (L, 13), Rizzoli, Milano 2000. 73. Ignazio di Antiochia, Ai Romani (IV, 1-2), in Lettere di Ignazio di Antiochia / Lettere e Martirio di Policarpo di Smirne, Città Nuova, Roma 2009. 74. Ivi (IV, 3). 75. Ivi (V, 2).

76. Ivi (V, 3). 77. Ivi (VI, 3). 78. Iacopo da Varazze, Legenda aurea con le miniature del codice Ambrosiano C 240 inf. (XXXVI), SISMEL - Edizioni del Galluzzo - Biblioteca Ambrosiana, Firenze-Milano 2007. 79. Ibidem. 80. Ibidem. 81. Ibidem. 82. Origene, Esortazione al martirio (37), Rusconi, Milano 1985, pp. 152153. 83. Ivi (23), pp. 132.133. 84. Ivi (2), p. 108. 85. Ivi (30), p. 141. 86. Martirio di Policarpo (14, 2), in Atti e passioni dei martiri, VallaMondadori, Milano 1987. 87. Martirio dei santi Carpo, Papilo e Agatonice (38), in Atti e passioni dei martiri, cit. 88. Ivi (35). 89. Ivi (44). 90. Martirio dei santi Giustino, Caritone, Carito, Evelpisto, Ierace, Peone, Liberiano e della loro comunità (5, 5), in Atti e passioni dei martiri, cit. 91. Atti dei martiri di Lione (18), in Atti e passioni dei martiri, cit. 92. Ivi (23). 93. Ivi (29). 94. Ivi (35). 95. Ibidem. 96. Ivi (38). 97. Martirio di Policarpo (3, 1), in Atti e passioni dei martiri, cit. 98. Ivi (4).

8. L’amore per la santa abiezione 99. Per il dettaglio di questo calcolo, vedi il mio Decadenza. Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana, seconda tappa della Breve enciclopedia del mondo, Ponte alle Grazie, Milano 2017. 100. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio (5, 1), Paoline, Milano, 2007. 101. Ivi (5, 5). 102. Ivi (6, 1). 103. Ibidem. 104. Ivi (9, 5-6). 105. Ivi (13, 1). 106. Ivi (23, 3). 107. Ivi (52, 2). 108. Ivi (25, 2). 109. Ivi (6, 2). 110. Ivi (30, 1-2). 111. Ivi (41, 1). 112. Ivi (53, 1). 113. Ivi (53, 2-3). 114. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi (VI, 11), cit. 115. Ivi (VI, 71). 116. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio (7, 1), cit. 117. Ivi (Prologo 3). 118. Ivi (3, 1). 119. Ivi (7, 9). 120. Ivi (16, 8). 121. Ivi (17, 1-3). 122. Iacopo da Varazze, Legenda aurea (XC), cit. 123. Ibidem.

124. Ibidem. 125. Ibidem. 126. Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi (VII, 121), cit. 127. Palladio, La Storia Lausiaca (2, 2), Valla-Mondadori, Milano 1974. 128. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio (47, 2), cit. 129. Marie-Nicolas-Silvestre Guillon, Bibliothèque choisie des Pères de l’Église grecque et latine, ou Cours d’éloquence sacrée, vol. 15 (Saint Jean Chrysostome), t. VI, Librairie Maquignon-Havard, Parigi 1826, p. 169.

9. L’arte di educare i corpi 130. Pseudo Ippolito, Confutazione di tutte le eresie (VI, 19, 5), Città Nuova, Roma 2017. 131. Epifanio di Salamina, Panarion. Eresie 1-29 (II, 26.4.4-26.5.4), Città Nuova, Roma 2017, pp. 186-187. 132. Ireneo di Lione, Contro le eresie (I, 6.2), Jaca Book, Milano 1981, p. 61. 133. Clemente Alessandrino, Gli Stromati. Note di vera filosofia (III, 2, 3, 8,3-9,3), Edizioni Paoline, Roma 1985. 134. Jean Hermant, Histoire des conciles (I, 21), presso Jean-Baptiste Besongne, Rouen 1698. 135. Vincenzo di Lérins, Commonitorio. Estratti (XXIII), Edizioni Paoline, Roma 2008, p. 205. 136. Canone I del Concilio Niceno I, in Decisioni dei concili ecumenici, UTET, Torino 1978, p. 105-106. 137. Gregorio Nazianzeno, Carmen II (1.12), cit. in Jean Bernardi, Gregorio di Nazianzio, Città Nuova, Roma 1995, pp. 219-220. 138. Iacopo da Varazze, Legenda aurea (CIL), cit.

Parte seconda. Decostruire l’anima 1. Il luogo del filo dell’ascia 1. Aristotele, L’anima (I, 402a, 11), Loffredo, Napoli 1979. 2. Ivi (I, 402a, 6). 3. Ivi (I, 403a, 29-30). 4. Ivi (I, 402a, 6). 5. Ivi (I, 402b, 6-7). 6. Ivi (I, 402b, 17-25). 7. Ivi (II, 412a, 19-21). 8. Ivi (II, 412b, 5-6). 9. Ivi (II, 413b, 20-21). 10. Ivi (II, 413b, 16-24). 11. Ivi (II, 412b, 12-15). 12. Ivi (II, 414a, 19-21). 13. Ivi (I, 402a). 14. San Tommaso d’Aquino, La Somma Teologica, vol. 1 (Iª q. 119 a. 2 co.), Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996. 15. San Tommaso d’Aquino, La Somma contro i gentili (III, 22, 7), UTET, Torino 1975.

2. I sofismi della volpe 16. Michel de Montaigne, Saggi (I, 26), Bompiani, Milano 2012, p. 311. 17. Ivi (I, 26), p. 295. 18. Ivi (III, 9), p. 1763. 19. Ivi (I, 51), p. 543. 20. Ivi (II, 12), p. 981.

21. Ivi (I, 26), p. 261. 22. Ivi (II, 12), p. 985. 23. Ivi (III, 5), p. 1621. 24. Ivi (II, 12), p. 981. 25. Ivi (I, 26), p. 261. 26. Ivi (II, 18), p. 1227. 27. Ivi (I, 26), p. 311. 28. Ibidem. 29. Ivi (I, 26), p. 313. 30. Ivi (I, 26), p. 289. 31. Ivi (I, 25), p. 247. 32. Ivi (II, 27), p. 1227. 33. Ivi (I, 56), p. 575. 34. Ivi (II, 6), p. 663. 35. Ivi (II, 6), p. 663. 36. Ivi (I, 42), p. 471. 37. Ivi (I, 21), p. 183. 38. Ibidem. 39. Ivi (II, 12), p. 887. 40. Ivi (II, 12), p. 993. 41. Ivi (II, 12), p. 1007-1009. 42. Ivi (II, 12), 2012, p. 1013. 43. Ivi (II, 12), p. 1015. 44. Ibidem. 45. Ivi (II, 12). 46. Ibidem. 47. Ivi (II, 12), p. 943.

48. Ivi (II, 17), p. 1185. 49. Sull’argomento della morale di Montaigne, vedere all’interno del secondo tomo della mia Controstoria della filosofia, il capitolo Montaigne e l’«uso dei piaceri» (Michel Onfray, Controstoria della filosofia, t. II, Il cristianesimo edonista, Fazi, Roma 2007, pp. 160-259). Vedere anche la mia prefazione a Michel de Montaigne, Les Essais, Laffont, Parigi 2019, intitolata «Savoir vivre loyalement de son être». Lire, lire encore et relire Montaigne. 50. Michel de Montaigne, Saggi (III, 11), cit., p. 1909. 51. Ivi (I, 39), p. 447. 52. Ivi (III, 8), p. 1719. 53. Ivi (II, 11), p. 775. 54. Blaise Pascal, Pensieri (558), in Opere complete, Bompiani, Milano 2020, p. 2563. 55. Michel de Montaigne, Saggi (II, 12), cit., p. 821. 56. Ivi (II, 12), p. 835. 57. Ivi (II, 12), p. 807. 58. Ivi (II, 12), p. 823. 59. Ivi (II, 12), p. 843. 60. Ivi (II, 12), p. 847. 61. Ibidem. 62. Ivi (II, 12), p. 867. 63. Ivi (II, 12), p. 865.

3. Lezioni dalle lezioni di anatomia 64. Ivi (II, 37), p. 1411. 65. Ibidem. 66. Ibidem. 67. Ibidem. 68. Ivi (II, 37), p. 1415.

69. Ivi (II, 37), p. 1417. 70. Ivi (II, 37), p. 1419. 71. Ivi (II, 37), p. 1423. 72. Ibidem. 73. Ivi (II, 37), p. 1431. 74. Ibidem.

4. Una certa ghiandola assai piccola 75. Philippe Charlier, Danielle Gourevitch, Un procès-verbal d’autopsie inédit (Saint-Nectaire,1765). Étude technique et diagnostic rétrospectif, in «Histoire des sciences médicales», XLIII 3, 2009, pp. 307-318. 76. René Descartes, Lettera 3, in Tutte le lettere 1619-1650, Bompiani Milano 2005, p. 549. 77. René Descartes, Lettera 74 (a Mersenne), in René Descartes, Isaac Beeckman, Marin Mersenne, Lettere 1619-1648, Bompiani, Milano 2015, p. 995. 78. Descartes, Lettera 7 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., p. 197. 79. Descartes, Lettera 29 (a Constantin Huygens), in Tutte le lettere 16191650, cit., p. 443. 80. Descartes, Lettera 81 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., p. 219. 81. René Descartes, Discorso sul metodo (VI, 78), in Opere 1637-1649, Bompiani, Milano 2009, p. 115. 82. Descartes, Lettera 42 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., pp. 409411. 83. Ivi, Lettera 50 (a Mersenne), pp. 459-467. 84. Ibidem. 85. Ivi, Lettera 36 (a Mersenne), pp. 373-379. 86. Ivi, Lettera 127 (a Mersenne), pp. 1305-1311. 87. Ivi, Lettera 158 (a Mersenne), p. 1501. 88. Descartes, Lettera 5 (a Vopiscus Plempius), in Tutte le lettere 1619-

1650, cit. 89. Descartes, Lettera 78 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., p. 1053. 90. Descartes, Diottrica (V, 115), in Opere 1637-1649, cit., p. 167. 91. Descartes, Lettera 65 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., p. 891. 92. Ibidem. 93. Ibidem. 94. Ivi, Lettera 74 (a Mersenne), p. 995. 95. Ivi, Lettera 64 (a Mersenne), p. 993. 96. Ibidem. 97. Descartes, Meditazioni (II, 27), in Opere 1637-1649, cit., p. 717. 98. René Descartes, L’Uomo (I, 1), in Opere postume 1650-2009, Bompiani, Milano 2009, p. 363. 99. Ivi (I, 1), pp. 363-365. 100. Descartes, Passioni dell’anima (I, art. 31), in Opere 1637-1649, cit., pp. 2361-2363. 101. Ivi (I, art. 31), p. 2361. 102. Ivi (I, art. 32), p. 2363. 103. Ibidem. 104. Ivi (I, art. 34), p. 2365. 105. Descartes, Pensieri privati (213), in Opere postume 1650-2009, cit., p. 1061. 106. Nicolas-Joseph Poisson, Commentaire ou remarques sur la méthode de René Descartes, Sébastien Hip, Vendôme 1670, p. 156. 107. Descartes, L’Uomo (I, 1), in Opere postume 1650-2009, cit., p. 363. 108. Descartes, Lettera 80 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., p. 1067. 109. Descartes, Meditazioni (II, 32) in Opere 1637-1649, cit., p. 723. 110. Descartes, Discorso sul metodo (VI, 62), in Opere 1637-1649, cit., p. 97.

5. Il cartesianesimo contro Descartes 111. Descartes, Lettera 28 (a Mersenne), in Lettere 1619-1648, cit., p. 413. 112. Ivi, Lettera 28 (a Mersenne), p. 415. 113. Descartes, Lettera 253 (a Regius), in Tutte le lettere 1619-1650, cit., p. 1189. 114. Descartes, Lettera 312 (a Regius), in Tutte le lettere 1619-1650, cit., p. 1457. 115. Descartes, Lettera 313 (a Regius), in Tutte le lettere 1619-1650, cit., p. 1459. 116. Ibidem. 117. Ibidem. 118. Descartes, Lettera 313 (a Regius), in Tutte le lettere 1619-1650, cit., p. 1463. 119. Lettera 343 (a Regius), in Tutte le lettere 1619-1650, cit., p. 1587. 120. Ivi, pp. 1587-1589. 121. Ibidem. 122. René Descartes e Martin Schoock, La Querelle d’Utrecht, Les Impressions nouvelles, Parigi 1988, p. 105. 123. Ivi, p. 113. 124. Ivi, p. 109. 125. Ivi, p. 115. 126. René Descartes, Lettera 343 (a Regius), in Tutte le lettere 1619-1650, cit., p. 1589. 127. Ivi, Lettera 506 (a Regius), p. 2038. 128. René Descartes, Principi della filosofia (Appendice, lettera dell’autore, 19), in Opere 1637-1649, cit., p. 2237. 129. René Descartes, Lettera 482 (a Mesland), in Tutte le lettere 1619-1650, cit., p. 1965. 130. Ivi, Lettera 482 (a Mesland), p. 1967.

6. Pensare senza pensare che si pensa 131. NicolasCharles Joseph Trublet, Mémoires pour servir à l’histoire de la vie et des ouvrages de Mr. de Fontenelle tirés du Mercure de France 1756, 1757 et 1758, Marc Michel Rey, Amsterdam 1759, p. 115. 132. René Descartes, Meditazioni di filosofia prima (II, 28), in Opere 16371649, cit., p. 719. 133. René Descartes, Lettera 587 (a Cavendish), in Tutte le lettere 16191650, cit., p. 2353. 134. Nicolas Fontaine, Mémoires pour servir à l’histoire de Port-Royal, Utrecht, 1736, II, p. 470. 135. Fontenelle, Lettera 11 (Al Signor C…), in Lettere galanti del Signor Cavalier d’Er***, t. III, Venezia 1759, pp. 27-28. 136. Jean de La Fontaine, I due Topi, la Volpe e l’Uovo (Sermone alla signora de La Sablière), in Le favole (X, 1, vv. 27-63), Sonzogno, Milano 1886. 137. Ivi (X, 1, v. 162). 138. Ivi (X, 1, v. 173). 139. Ivi (X, 1, v. 175). 140. Ivi (X, 1, v. 177). 141. Ivi (X, 1, v. 180). 142. Ivi (X, 1, v. 214). 143. Ivi (X, 1, vv. 221-222). 144. Ivi (X, 1, v. 225). 145. Ivi (X, 1, vv. 229-269). 146. Ignace Gaston Pardies, Discours de la connaissance des bestes, chez Sebastien Mabre-Cramoisy, Parigi 1672; tr. it. Dell’anima delle bestie, e sue funzioni, Andrea Poletti, Venezia 1696, pp. 108. 147. Ivi, pp. 155-156. 148. Ivi, pp. 11-14. 149. René Descartes, Discorso sul metodo (I, 1), in Opere 1637-1649, cit., p.

25. 150. Ignace Gaston Pardies, Discours de la connaissance des bestes, cit., p. 31. 151. Ivi, p. 34. 152. Ivi, p. 36. 153. Ivi, p. 48. 154. Ivi, p. 58. 155. Ivi, p. 63. 156. Ivi, p. 72. 157. Ivi, pp. 73-74. 158. Ivi, p. 99. 159. Ivi, p. 48. 160. Ivi, pp. 141-142. 161. Ivi, pp. 145-146. 162. Ivi, pp. 71-72.

7. Il fiore degli atomi 163. Pierre Gassendi, Vie et mœurs d’Épicure, Éditions Alive, Parigi 2001, p. 5. 164. Epicuro, Epistula ad Menœceum, in Opere, Einaudi, Torino 1960, p. 116. 165. Pierre Gassendi, Vie et mœurs d’Épicure, cit., p. 25. 166. Ivi, p. 21. 167. Pierre Gassendi, Recherches métaphysiques ou doutes et instances contre la métaphysique de René Descartes et ses réponses (295b), Vrin, Parigi 1962, p. 112. 168. Ivi, p. 56. 169. Ivi, p. 112. 170. Ivi, p. 92.

171. Ivi, p. 150. 172. Ivi, p. 152. 173. Ivi, p. 150. 174. Ivi, p. 124.

8. Come la fiamma di una candela 175. Jean Meslier, Extrait des sentiments de Jean Meslier adressés à ses paroissiens sur une partie des abus et des erreurs en général et en particulier, presso Marc-Michel Rey, Amsterdam 1762. 176. Jean Meslier, Œuvres complètes. Mémoire des pensées et sentiments de Jean Meslier (1), Éditions Anthropos, Parigi 1970, p. 414. 177. Ivi, p. 416. 178. Ivi, p. 58. 179. Ivi, pp. 23-24. 180. Ivi, p. 34. 181. Ivi, p. 336. 182. Ivi, p. 150. 183. Ivi, p. 120. 184. Ivi, p. 39. 185. Ivi, p. 180. 186. Ibidem. 187. Ivi, p. 89. 188. Ivi, p. 187. 189. Ivi, p. 471. 190. Ivi, pp. 13-14. 191. Ivi, p. 45. 192. Ibidem. 193. Ibidem.

194. Ivi, p. 47. 195. Ivi, p. 216. 196. René Descartes, Meditazioni (III, sesta obiezione, 182), in Opere 16371649, cit., p. 923. 197. Ivi, pp. 217-218. 198. Ivi, p. 104. 199. Ibidem. 200. Ivi, p. 78. 201. Ivi, pp. 99-100.

9. Il cuore della rana su un piatto riscaldato 202. Voltaire, Du curé Meslier, in Œuvres complètes de Voltaire, t. XXVI (Mélanges), Garnier, Parigi 1879, pp. 511-512. 203. Voltaire, À M. Damilaville (19 marzo 1766), in Œuvres complètes de Voltaire, t. XLIV (Correspondance, XII, 1765-1766), Garnier, Parigi 1881, p. 248. 204. Ivi, À M. Damilaville (1 aprile 1766), p. 256. 205. Julien Offroy de La Mettrie, Ouvrage de Pénélope ou Machiavel en médecine, t. II, presso Her. de Cramer e Ph. Philibert, Lione 1748, p. 105. 206. V. Michel Onfray, Controstoria della filosofia, t. IV, Illuminismo estremo, Ponte alle Grazie, Milano 2010. 207. Julien Offroy de La Mettrie [Lamettrie], Antiseneca, ossia Discorso sulla felicità, in L’uomo macchina e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1955, p. 121. 208. Ivi, p. 128. 209. Julien Offroy de La Mettrie, Discours préliminaire, in Œuvres philosophiques de Mr. de La Mettrie, t. I, Amsterdam 1753, p. 25. 210. Ivi, p. 24. 211. Ivi, p. 73. 212. Ibidem.

213. Ivi, p. 74. 214. Julien Offroy de La Mettrie, L’uomo pianta, in L’uomo macchina e altri scritti, cit., p. 104. 215. Ivi, p. 30. 216. Julien Offroy de La Mettrie, Traité de l’âme, in Œuvres philosophiques de Mr. de la Mettrie, t. II, Amsterdam 1753, pp. 229-235. 217. Julien Offroy de La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 32. 218. Ibidem. 219. Ivi, pp. 32-33. 220. Ivi, p. 48. 221. Ivi, p. 49. 222. Ivi, p. 64. 223. Ivi, p. 37. 224. Ivi, p. 64. 225. Ivi, p. 65. 226. Ivi, p. 75. 227. Jean Meslier, Œuvres complètes, cit., p. 389. 228. Julien Offroy de La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 75. 229. Julien Offroy de La Mettrie, Discours préliminaire, cit., p. 16. 230. Julien Offroy de La Mettrie, L’uomo macchina, cit., p. 86. 231. Ivi, pp. 49-50. 232. Ivi, p. 20. 233. Julien Offroy de La Mettrie, Antiseneca, cit., p. 176. 234. Per i dettagli di questa vita da delinquente sessuale, vedere Michel Onfray, La Passion de la méchanceté. Sur un prétendu divin marquis [La passione della cattiveria. Su un preteso divino marchese], Éditions Autrement, Parigi 2014. Per quanto riguarda il pensiero di Sade, vedere anche Michel Onfray, Controstoria della filosofia, t. IV, Illuminismo estremo, Ponte alle Grazie, Milano 2010. La sadofilia di moda a Saint-Germain-des-Prés testimonia del grado di decomposizione del pensiero francese nel Novecento,

con la sola eccezione di alcune individualità, come Albert Camus e Raymond Queneau. 235. Donatien-Alphonse-François de Sade, Le 120 giornate di Sodoma, Newton Compton, Roma 1993, pp. 194-195. 236. Donatien-Alphonse-François de Sade, Aline e Valcour, Newton Compton, Roma 1993, p. 176, n. 25. 237. Donatien-Alphonse-François de Sade, Juliette ovvero le prosperità del vizio, in I romanzi maledetti, Newton Compton, Roma 1993, p. 63. 238. Ivi, p. 97. 239. Ivi, p. 86. 240. Julien Offroy de La Mettrie, Les Animaux plus que machines, in Œuvres philosophiques, t. II, cit., p. 59.

Parte terza. Distruggere l’anima 1. Vita e morte dell’ostrica 1. Voltaire, Dizionario filosofico (voce Anima, sezione III), Bompiani, Milano 2013, p. 171. 2. Nicolaas Tulp, Observationes medicae (III, 56), Amsterdam 1641, pp. 276-277. 3. Julien Offroy de La Mettrie, Traité de l’âme, cit., p. 238. 4. Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, La venere fisica, presso Antonio Graziosi, Venezia 1767, p. 121. 5. Ivi, p. 119. 6. Ivi, p. 120. 7. Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, Lettere filosofiche e scientifiche; Lettera sul progresso delle scienze, Pavia University Press, Pavia 2014, p. 53. 8. Ivi, pp. 53-54. 9. Ivi, p. 55. 10. Ivi, p. 56. 11. Ibidem. 12. Joseph-Emmanuel Sieyès, Écrits politiques, Édition des archives contemporaines, Parigi 1985, p. 75. 13. Cornelius de Pauw, Recherches philosophiques sur les Américains, ou mémoires intéressants pour servir à l’histoire de l’espèce humaine, t. II, Baestecher, Clève 1772, p. 50. 14. Restif de La Bretonne, Monsieur Nicolas, ou Le Cœur humain dévoilé, t. II, De l’imprimerie du Cercle social, 1796, p. 114. 15. Restif de La Bretonne, Monsieur Nicolas, ou Le Cœur humain dévoilé, t. I, De l’imprimerie du Cercle social, 1796, p. 148. 16. Ibidem. 17. Honoré-Gabriel Riqueti, conte de Mirabeau, Erotika biblion, Guanda,

Milano 1983, p. 113. 18. Georges-Louis Leclerc, conte de Buffon, Storia naturale, generale, e particolare, presso Giuseppe Galeazzi, Milano 1773, p. 6. 19. Ivi, p. 37. 20. Ibidem. 21. Ivi, p. 39. 22. Mirabeau, Erotika biblion, cit., p. 115.

2. Costruire l’emulo di un capriolo 23. Jean-Jacques Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, in Opere, Sansoni, Firenze 1972, p. 6. 24. Jean-Jacques Rousseau, Lettre à l’abbé Raynal, in Œuvres, t. III, Gallimard, coll. Pléiade, Parigi 1964, p. 32. 25. Jean-Jacques Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza, in Opere, cit., p. 43. 26. Ibidem. 27. Ibidem. 28. Ibidem. 29. Ibidem. 30. Ivi, p. 44. 31. Ivi, p. 43. 32. Ivi, p. 42. 33. Ivi, p. 43. 34. Ivi, pp. 46-47. 35. Ivi, p. 47. 36. Ibidem. 37. Ivi, p. 48. 38. Ivi, p. 60.

39. Ibidem. 40. Jean-Jacques Rousseau, Emilio, in Opere, cit., p. 394. 41. Ivi, p. 419. 42. Ibidem. 43. Ivi, p. 594. 44. Ivi, p. 435. 45. Ivi, p. 483. 46. Ivi, p. 528. 47. Ivi, p. 596. 48. Ivi, p. 678. 49. Ivi, p. 454. 50. Ivi, pp. 699-700. 51. Jean-Jacques Rousseau, Del contratto sociale, in Opere, cit., p. 286. 52. Ivi, p. 339. 53. Jean-Jacques Rousseau, Emilio, cit., p. 550. 54. Ivi, p. 551. 55. Jean-Jacques Rousseau, Del contratto sociale, cit., p. 296.

3. Genealogia dell’eugenetica repubblicana 56. Henri Grégoire, Essai sur la régénération physique, morale et politique des Juifs, Lamort, Metz 1789, p. 132. 57. Ivi, p. 139. 58. Ivi, p. 45. 59. Henri Grégoire, Rapport sur la nécessité et les moyens d’anéantir le patois et d’universaliser l’usage de la langue française, Convention nationale, Parigi 1794, p. 3. 60. Ivi, p. 6. 61. Ibidem.

62. Ivi, p. 17. 63. Ivi, p. 19. 64. Marie-Jean-Antoine-Nicolas Caritat de Condorcet, Saggio di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 187. 65. Ibidem. 66. Ibidem. 67. Ivi, p. 188. 68. Ibidem. 69. Ibidem. 70. Ivi, p. 210. 71. Ivi, p. 209. 72. Ivi, p. 210. 73. Pierre-Jean-Georges Cabanis, Rapporti del fisico e del morale dell’uomo, Marotta e Vanspandoch, Napoli 1820, pp. 283-284. 74. Jean-Jacques Rousseau, Del contratto sociale, cit., p. 296. 75. Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, in Paolo Biscaretti di Ruffìa, Le Costituzioni di dieci Stati di «democrazia stabilizzata», Giuffrè, Milano 1994, p. 167. 76. Maximilien Robespierre, Sulla religione e sulla morale, in La rivoluzione giacobina, Editori Riuniti, Roma 1967, pp. 194-195. 77. Ivi, p. 195. 78. Ivi, p. 199. 79. Ivi, p. 202. 80. Ivi, pp. 203-204. 81. Ivi, p. 204. 82. Ibidem. 83. Ivi, p. 205. 84. Ibidem. 85. Maximilien Robespierre, Rapporto fatto in nome del Comitato di

Salvezza pubblica, intorno ai rapporti delle idee religiose e morali, coi princìpi repubblicani, ed intorno alle Feste nazionali, Stamperia nazionale esecutiva del Louvre, Parigi 1793, p. 23. 86. Ibidem. 87. Journal des débats et des décrets (seduta di décadi 10 germinale, anno II della Repubblica francese), Baudoin, Parigi 1793, p. 169. 88. Maximilien Robespierre, Œuvres, Leroux, Parigi 1913, p. 32. 89. Sigmund Freud, Autobiografia, in Opere, vol. X, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 101. 90. Ibidem.

4. Una ghiandola pineale postmoderna 91. Sigmund Freud, Psicopatologia della vita quotidiana, in Opere, vol. IV, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 280. 92. Ernest Jones, Vita e opere di Freud, t. III, Il Saggiatore, Milano 1962, p. 530. 93. Ivi, p. 531. 94. Sigmund Freud, Progetto di una psicologia, in Opere, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 201. 95. Ibidem. 96. Ivi, p. 202. 97. Ivi, p. 203. 98. Sigmund Freud, Lettera 141, in Lettere a Wilhelm Fliess (1887-1904), Bollati Boringhieri, Torino 1986, p. 302. 99. Ivi, Lettera 142, p. 304. 100. Ernest Jones, Vita e opere di Freud, t. I, Il Saggiatore, Milano, 1962, p. 36. 101. Sigmund Freud, Compendio di psicoanalisi (1938), in Opere, vol. XI, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 609. 102. Sigmund Freud, Metapsicologia, in Opere, vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, p. 50.

103. Ivi, p. 21. 104. Ivi, p. 50. 105. Ibidem. 106. Ivi, p. 51. 107. Ibidem. 108. Ivi, p. 52. 109. Ivi, p. 53. 110. Ibidem. 111. Ivi, p. 54. 112. Ivi, p. 55. 113. Ivi, p. 54. 114. Ivi, p. 57. 115. Ivi, pp. 57-58. 116. Ivi, p. 58. 117. Ivi, p. 21. 118. Sigmund Freud, L’Io e l’Es, in Opere, vol. IX, Bollati Boringhieri, Torino 1989, p. 509. 119. Sigmund Freud, Analisi terminabile e interminabile, in Opere, vol. XI, cit., p. 535. 120. Sigmund Freud, Compendio di psicoanalisi (1938), in Opere, vol. XI, cit., p. 572. 121. Per seguire il dettaglio dell’articolazione del plasma germinale con le topiche psichiche in Freud, vedere, nel mio libro Crepuscolo di un idolo (Ponte alle Grazie, Milano 2011), il capitolo intitolato Come voltare le spalle al corpo?

5. Il tempo del Corpo senza Organi 122. Roland Barthes, Leçon, Stampa alternativa, Roma 1979, p. 9. 123. Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola, Einaudi, Torino 1977, p. 157.

124. Gilles Deleuze, Da che cosa si riconosce lo strutturalismo?, in L’isola deserta e altri scritti, Einaudi, Torino 2007, p. 215. 125. Ivi, p. 217. 126. Ivi, p. 219. 127. Ivi, p. 220. 128. Ivi, p. 218. 129. Ivi, p. 219. 130. Ivi, p. 220. 131. Ivi, p. 219. 132. Ivi, p. 237. 133. Ivi, p. 221. 134. Ibidem. 135. Ibidem. 136. Ibidem. 137. Ivi, p. 223. 138. Ivi, p. 224. 139. Ibidem. 140. Ibidem. 141. Ivi, p. 225. 142. Ivi, p. 226. 143. Ivi, p. 230. 144. Ibidem. 145. Ibidem. 146. Ivi, p. 233. 147. Ivi, p. 237. 148. Ivi, p. 239. 149. Dionigi Areopagita, Teologia mistica (IV), in Tutte le opere, Bompiani, Milano 2009, p. 613.

150. Antonin Artaud, J’étais vivant, cit. in Gilles Deleuze, Logica del senso, Einaudi, Torino 1975, p. 84 (nota 64). 151. Gilles Deleuze, Logica del senso, cit., p. 84 (nota 64). 152. Ivi, p. 84. 153. Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo, Einaudi, Torino 1975, p. 10. 154. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani, Cooper & Castelvecchi, Roma 2003, p. 228. 155. Ivi, p. 229.

6. Un volto di sabbia cancellato dal mare 156. Michel Foucault, Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1998, pp. 369370. 157. Ivi, p. 239. 158. Ivi, p. 14. 159. Ivi, pp. 336-337. 160. Ivi, p. 368. 161. Ivi, p. 409. 162. Ivi, p. 414.

Conclusione. Sotto il segno della medusa Verso le chimere transumaniste 163. Karl Marx e Friedrich Engels, Ideologia tedesca, Bompiani, Milano 2011, p. 359. 164. Il prossimo volume di questa Breve enciclopedia del mondo s’intitolerà Barbarie e tornerà sulla questione dell’uomo nuovo, della sua genealogia, della sua attualità e del suo avvenire all’interno del transumanesimo. Esporrà i primi vagiti di quella che potrebbe tranquillamente diventare una nuova civiltà, l’ultima a svilupparsi sulla Terra prima di quelle che apparterranno al post-terrestre. Il progetto di civiltà totale, il progetto transumanista che incarna la vera «Grande sostituzione».

165. Filippo Tommaso Marinetti, Mafarka il futurista (1910), Mondadori, Milano 2003, p. 163. 166. Ivi, p. 160. 167. Ivi, p. 209. 168. Ivi, p. 160. 169. Ivi, p. 158. 170. Ivi, p. 163. 171. Ivi, p. 162. 172. Ivi, p. 210. 173. Ivi, p. 208. 174. Ivi, p. 221. 175. Ivi, p. 208. 176. Ibidem. 177. Ibidem. 178. Denis Diderot, Opere filosofiche, romanzi e racconti, Bompiani, Milano 2019, p. 559. 179. Ibidem. 180. Ibidem. 181. https://intelligence-artificielle.developpez.com/actu/307121/… https://intelligence-artificielle.developpez.com/actu/….

e

Epilogo. L’eterno silenzio degli spazi infiniti 182. Guillaume Pitron, La Guerre des métaux rares. La face cachée de la transition énergétique et numérique, Les liens qui libèrent, Parigi 2018 (tr. it: Guillaume Pitron, La guerra dei metalli rari. Il lato oscuro della transizione energetica e digitale, LUISS University Press, Roma 2019). 183. Intervista con Paul-Marie de La Gorce, in «L’Actualité» (maggio 1970).

Indice

Sommario Introduzione. La magnifica desolazione Parte prima COSTRUIRE L’ANIMA. Sotto il segno del serpente 1. Anticorpi, non-corpi e controcorpi. Smaterializzare il corpo 2. Scheletro con anima. Sopraffare la materia 3. Il divenire riccio della pianta. Purificare la carne 4. Corpi di carta e vita testuale. Creare un anticorpo 5. Le lingue di fuoco dello Spirito Santo. Dannare la carne 6. Niente erezioni nel giardino dell’Eden. Sessualizzare il peccato 7. Il sangue, semente dei cristiani. Suppliziare i corpi 8. L’amore per la santa abiezione. Imitare il cadavere 9. L’arte di educare i corpi. Ingabbiare il desiderio Parte seconda DECOSTRUIRE L’ANIMA. Sotto il segno del cane 1. Il luogo del filo dell’ascia. Deplatonizzare l’anima 2. I sofismi della volpe. Riabilitare l’animale 3. Lezioni dalle lezioni di anatomia. Cancellare l’anima

4. Una certa ghiandola assai piccola. Localizzare l’anima 5. Il cartesianesimo contro Descartes. Circoscrivere lo spirito 6. Pensare senza pensare che si pensa. Umanizzare l’animale 7. Il fiore degli atomi. Atomizzare l’anima 8. Come la fiamma di una candela. Meccanizzare l’anima 9. Il cuore della rana su un piatto riscaldato. Elettrizzare i corpi Parte terza DISTRUGGERE L’ANIMA. Sotto il segno della scimmia 1. Vita e morte dell’ostrica. Animalizzare l’uomo 2. Costruire l’emulo di un capriolo Rigenerare l’Homo sapiens 3. Genealogia dell’eugenetica repubblicana. Decapitare l’anima 4. Una ghiandola pineale postmoderna. Metapsicologizzare la psiche 5. Il tempo del Corpo senza Organi. Strutturalizzare l’essere 6. Un volto di sabbia cancellato dal mare. Uccidere l’uomo Conclusione. SOTTO IL SEGNO DELLA MEDUSA Verso le chimere transumaniste. Digitalizzare l’anima Epilogo. L’eterno silenzio degli spazi infiniti Bibliografia Note

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