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Italian Pages 320 [324] Year 1995
CLAUDIO PAVONE ALLE ORIGINI DELLA REPUBBLICA Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato
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Bollati Boringhieri
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ISBN 88-339-1
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Claudio Pavone
Alle origini della Repubblica Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato
Bollati Boringhieri
Prima edizione settembre 1995
© 1995 Bollati Boringhieri editore s.r.l., Torino, corso Vittorio Emanuele 86 I diritti di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati Stampato in Italia dalla Stampatre di Torino ISBN 88-339-0933-6
Schema grafico della copertina di Pierluigi Cerri Stampato su carta Palatina delle Cartiere Miliani Fabriano
Indice
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Prefazione 1. Le idee della Resistenza. Antifascisti e fascisti di fronte alla tradizione del Risorgimento i. Il «Secondo Risorgimento», 3 2. Risorgimento e fascismo, 5 3. La «difesa del Risorgimento», 15 4. Il Risorgimento da com pletare, 20 5.I socialisti. I comunisti fra Gramsci e il «cosiddetto Risorgimento », 30 6. Il Risorgimento e i giovani del ventennio, 46 7. Secondo Risorgimento e unità della Resistenza, 50 8. I cat tolici, 58 9. La «delusione della Resistenza». Esaurimento della polemica sul «revisionismo risorgimentale», 66
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2. La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini 1. Il problema della continuità, 70 2. La continuità attraverso il fascismo, 74 3. L’incisione dell’8 settembre, 78 4. Stato e istituzioni nei programmi della Resistenza, 81 5.1 cln: ideolo gia e realtà, 89 6. Il ruolo degli alleati, too 7. La Repubblica sociale italiana come canale di continuità, 105 8. La frattura di vertice della legalità, no 9. Qualche riferimento alla Costitu zione, 116 io. Le sanzioni contro il fascismo, 123 ir. L’epu razione della pubblica amministrazione, 140 12. I prefetti, 146 13. II «parastato» fascista e la sua eredità, 155 14. Una consi derazione finale, 158
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3. Ancora sulla «continuità dello Stato»
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4. La Resistenza oggi: problema storiografico e problema civile
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Note
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Indice dei nomi
Prefazione
La fase che attualmente attraversano gli studi e il dibattito pubblico sulla Resistenza ha fatto apparire di qualche utilità la riedizione di scritti comparsi nell’arco di più di un trentennio. Gli argomenti dei saggi che qui si ripresentano sono infatti connessi a due nuclei tematici oggi di attualità: quello della con tinuità dello Stato dal fascismo alla Repubblica e quello della identità nazionale italiana, che ha la sua tavola di fondazione nel Risorgimento e che non appare più tanto pacifico ne abbia una seconda nella Resistenza. Mutamenti politici e svolte cul turali hanno rimesso in discussione, almeno a partire dal 1989, punti che sembravano acquisiti e costringono chi voglia sfor zarsi di intendere il senso della storia dell’Italia contempora nea a riproporre considerazioni di lungo periodo. In pari tempo, il sospetto in cui era stata tenuta negli ultimi tempi la storia politica dai nuovi e benefici flussi della storia sociale, della sto ria della soggettività, della storia orale, della storia di genere, della microstoria è ormai in corso di superamento. La storia poli tica, e in particolare quella politico-istituzionale e quella delle grandi categorie storico-politiche, sta oggi richiamando su di sé un’attenzione rinnovata proprio dall’attraversamento delle espe rienze-di ricerca sopra ricordate. Nella Premessa al volume Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, che è del 1991, accennavo al cammino da me percorso da una impostazione prevalentemente istituzio nale della ricerca sui programmi politici e sociali a una che, par tendo dai comportamenti, risalisse alle idee che li avevano ispi rati. La cultura e la moralità dei protagonisti mi apparvero un
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ponte indispensabile per collegare le intenzioni agli esiti, i pro grammi anche più grandiosi e poco precisati alle loro ricadute istituzionali. Ripubblicare oggi i due saggi sulla continuità dello Stato significa per me una sorta di chiusura di un cerchio e con temporaneamente un invito a tenere aperto il problema del rap porto fra i due possibili approcci. Naturalmente, il peso degli anni trascorsi si fa sentire sia sulla compiutezza e validità dei risultati sia sui punti di vista allora adottati. Molte cose sono mutate dal 1959 ad oggi, e io con loro. A rileggermi dopo tanti anni nel singolare atteggiamento di recensore di me stesso, nel quale si mescolano molto timore e un po’ di vanità, mi sono trovato a riflettere sui caratteri delle varie fasi in cui questi scritti furono composti. Il saggio sul rapporto fra Risorgimento e Resistenza va col locato nel clima di sblocco a sinistra, determinato dai fatti d’Un gheria e dal rapporto Kruscev, che ispirava la rivista Passato e Presente sul quale esso comparve. Era un’atmosfera euforica e fiduciosa, che consentiva di trattare con notevole spregiudica tezza argomenti che fino a quel momento, anche da parte di chi come me non era mai stato iscritto al partito comunista, erano stati accantonati e sottaciuti. Non sarebbe stato ad esem pio concepibile in precedenza, dopo che degli scritti di Gram sci sul Risorgimento era stato fatto un cardine della politica cul turale non solo del Partito comunista ma dell’intera sinistra, ricordare che Togliatti aveva sprezzantemente parlato di «cosid detto Risorgimento». La storia di Spriano non era ancora com parsa e i primi due decenni di vita del partito erano coperti da un velo misterioso e imbarazzato. Quando Togliatti, in una con ferenza al teatro Eliseo di Roma, parlerà per la prima volta di Bordiga come di un grande dirigente, l’impressione diffusa sarà che il Padreterno richiamasse dall’inferno Lucifero. I due scritti sulla continuità dello Stato risentono invece del clima della nuova sinistra post-sessantottesca. Nel 1968 chi scrive non era più studente da molti anni e operaio non lo era mai stato; tuttavia si sentì partecipe di un movimento che gli sembrava riaprisse un discorso rimasto in sospeso nel 1945 e appena riabbozzato alla fine degli anni cinquanta. Ne nacque una radicalità non priva di cadute in uno schematismo di tipo classista e di punte che oggi non mi sembrano condivisibili, in particolare per quanto riguarda il giudizio distaccato e in qual
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che punto vagamente ironico sulla Costituzione. Erano allora cor renti gli strali polemici contro il «bigottismo costituzionale», che sembrava volesse imbrigliare lo slancio innovatore del movimento. Oggi gli attacchi portati alla Costituzione mi inducono ad assu mere nei suoi riguardi un atteggiamento più equilibrato, che non esclude la necessità di alcune revisioni, ma si rifiuta di vedere nella carta costituzionale il peccato d’origine del sistema politico italiano. Con questa osservazione entriamo già in un discorso di merito. Prima di passare ad esso vorrei riferire di una impres sione che ho avuto rileggendo questi vecchi scritti. Senza cedere alla tentazione di rintracciare forzatamente in essi un percorso coerente e rettilineo, mi è sembrato tuttavia di potervi cogliere la costante domanda sulla possibilità (nella quale ho nella so stanza creduto) di costruire un socialismo diverso sia da quello sovietico, sia da quello tradizionale, riformista o massimalista, sia infine da quello per il quale si sono vanamente battute le dissidenze storiche: un socialismo insomma in cui libertà e demo crazia, individuo e collettività, celebrassero davvero le loro nozze al livello più alto. Le critiche alle contraddizioni culturali e alla debolezza della progettazione istituzionale della Resistenza na scevano dal confronto con una vagheggiata situazione in cui socializzazione non significasse statizzazione e il rapporto fra l’autonomia delle aziende socializzate e il piano potesse trovare soluzioni armoniche senza affidarsi alla onnipotente mano invi sibile del mercato. Si trattava di una utopia oggi del tutto inat tuale, anche se i guasti prodotti dalle situazioni irriducibilmente diverse di fatto affermatesi possono indurre a considerarla con una certa indulgenza. Lo scritto sulle Idee della Resistenza. Antifascisti e fascisti di fronte alla tradizione del Risorgimento nacque come esame della formula della Resistenza quale «secondo Risorgimento». Era una formula largamente usata sia a destra (ovviamente, la destra antifascista) sia a sinistra. Scioglierla nell’analisi dei vari sensi in cui’era stata prospettata, tentare cioè di ricostruire, come si direbbe oggi, le vicende dell’«uso politico» di un concetto storiografico, significava anche avviare un discorso critico sul tema della unità della Resistenza. Le diverse prese di posizione di fronte al Risorgimento potevano infatti essere interpretate come segni della diversità fra le forze politiche che le avevano, non sempre in modo coerente, utilizzate.
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Oggi il discorso sul secondo Risorgimento ha un suono sicu ramente arcaico. Ma alla fine degli anni cinquanta non si trat tava soltanto di una disputa accademica. Una prima riprova se ne può trovare nell’impegno che pósero i miei interlocutori comunisti a sostenere che la Resistenza era obiettivamente un secondo Risorgimento. Ricordo una discussione che ebbi a Mosca nel 1963 con gli italianisti sovietici capeggiati dalla indi menticabile Lina Misiano. Gli studiosi sovietici avevano da poco pubblicato un libro sull’unità d’Italia diviso per l’appunto in due parti: primo Risorgimento e secondo Risorgimento. Il libro includeva un saggio di Gheorghi Filatov, molto critico nei miei riguardi, su II problema del secondo Risorgimento nella storiogra fia sulla Resistenza italiana. Gli italianisti fecero di tutto per indurmi a pronunciare le parole «secondo Risorgimento» come dato di fatto scientificamente accertabile. Il senso del discorso era chiaro: quel che la borghesia non era riuscita a fare nel primo Risorgimento lo avrebbe fatto la classe operaia a partire dal secondo. Si trattava di una sorta di schematica riduzione delle ben più complesse tesi di Gramsci. E qui occorrono ancora alcune contestualizzazioni. L’in fluenza del pensiero di Gramsci era stata fino a quel momento particolarmente avvertita nel campo della storiografia sul Risor gimento e sul post-Risorgimento. Basti pensare agli studi di Ala tri, Cafagna, Caracciolo, Carocci, Della Feruta, Manacorda, Pro cacci, Ragionieri, e poi alla monumentale Storia di Candeloro. Questo indirizzo di ricerca aveva alimentato una vivace pole mica sul «revisionismo» risorgimentale imputato agli studiosi sopra ricordati dagli antirevisionisti, custodi della tradizione etico-politica della storiografia liberale, incarnata soprattutto in Benedetto Croce e in Adolfo Omodeo. La stroncatura di Risorgimento senza eroi di Gobetti, fatta a suo tempo da Ornadeo, veniva da entrambe le parti considerata il primo atto della annosa querelle. La critica di Romeo alla storiografia politica marxista e l’ampia discussione che ne seguì a partire dal 1958 sul processo formativo della economia capitalistica italiana spo starono con profitto di tutti il discorso su di un terreno meno immediatamente ideologico-politico. Il mio saggio sul rapporto fra Risorgimento e Resistenza rimaneva invece interno a un dibattito di storia delle idee che aveva attraversato le varie fasi della formazione della coscienza nazionale dell’Italia unita.
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Sulla mia generazione Pensiero e azione del Risorgimento di Luigi Salvatorelli, comparso negli ultimi mesi del regime fasci sta, aveva esercitato una grande influenza. Qualificando il fasci smo come Antirisorgimento e coinvolgendo in questa repulsa la jnonarchia sabauda (tesi da lui ripetuta ancora in un convegno tenutosi a Venezia del 1950), Salvatorelli aveva come affran cato la coscienza dei giovani dal ricatto fascista di un Risorgi mento, il cui culto veniva insegnato nella scuola, portato a glo riosa conclusione proprio dal fascismo (come poi la Repubblica sociale, espulsane la monarchia, cercherà di ribadire). Risorgi mento e Antirisorgimento avevano ancora riscaldato le passioni resistenziali; e l’accostamento fra Risorgimento e Resistenza era come l’enfatica sottolineatura del nesso fra la Resistenza stessa e la riconquista dell’identità nazionale manomessa dal fascismo. Dopo la liberazione sarà vivo il timore che ancora una volta i democratici avessero lavorato «per il re di Prussia» (per ripren dere una espressione gramsciana); e io ricordo di aver pensato a quanto Garibaldi nel suo poema autobiografico aveva scritto dell’incontro di Teano: «Venne la ciurma ciondolata e colse della vittoria i frutti». Questi timori alimentavano la polemica con tro gli ideologi del ceto centrista di governo che vedevano nello sbocco politico del processo risorgimentale, così come poi di quello resistenziale, una compiuta realizzazione di tutto ciò che di valido si era manifestato in entrambi i movimenti. Al patriot tico sospiro che Gramsci sembrava emanare su ciò che l’Italia avrebbe potuto essere e non era stata si opponeva l’invito a con siderare le cose per come si erano realmente svolte, a ricono scere gli assetti di potere affermatisi come gli unici possibili, a mettere da parte ogni antistorica recriminazione. Si può valu tare il tempo passato da quella disputa se si pensa che oggi alla contesa per accaparrarsi l’eredità della Resistenza si va sempre più sostituendo quasi una richiesta di scuse per le origini resi stenziali della Repubblica, mentre sembra tornare alla ribalta l’antica e sterile diatriba fra la rivendicazione della identità nazionale, anche in rinnovate forme geopolitiche, e la denun cia della antiquissima italorum insipientia. Proprio nel periodo in cui comparve il mio scritto la pole mica sul revisionismo risorgimentale andava peraltro esauren dosi. Lo facevo notare nelle mie ultime pagine e lo aveva rile vato Cafagna in un saggio, da me richiamato, comparso nel 1956
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su «Società». Intervenendo nel dibattito aperto da «Passato e Presente» {Significato e limiti della tradizione risorgimentale, n. 8, marzo-aprile 1959) Valiani osservò che «la tradizione (...) poteva essere operante solo finché l’attualità politica non la con traddiceva». Attualità politica e sviluppo degli studi renderanno in effetti sempre più inoperante l’antica disputa fra le opposte interpretazioni del Risorgimento. Fra gli interventi dei miei interlocutori comunisti merita ancora un cenno quello di Roberto Battaglia, autore della pio nieristica Storia della Resistenza italiana. Battaglia difende con vigore la tesi del secondo Risorgimento e del ruolo egemone eser citato in esso dalla classe operaia {Primo e secondo Risorgimento è il titolo del suo contributo, in «Passato e Presente», nn. 11-12, settembre-dicembre 1959; poi ristampato nel 1964 nella rac colta di scritti cui il curatore, Ernesto Ragionieri, diede appunto il titolo di Risorgimento e Resistenza). Battaglia non riusciva a sopportare la mia battuta sulla classe dirigente - la classe ope raia - che non riesce a dirigere. Ma mostrava anche di avere accolto almeno in parte l’invito a problematizzare i plurimi «mi ti» del Risorgimento. Soprattutto, giudicava la contrapposizione Risorgimento/Antirisorgimento uno «schema troppo semplice e astratto», e non negava la plausibilità di un nesso fra Risorgi mento e fascismo. Appoggiandosi sull’autorità di Gobetti, il quale aveva scritto che «il fascismo si ricollega alla parte caduca e donchisciottesca del Risorgimento», Battaglia parlava di un «garibaldinismo andato a male», che si sarebbe incarnato prima nel colonialismo e poi nel fascismo. Si spingeva a dire che quella fra patrioti e austricanti era stata una guerra civile, e che la for mula del «secondo Risorgimento» era rivolta più contro i fasci sti che contro i tedeschi. Il secondo Risorgimento non inten deva, puntualizzava, «ridursi soltanto alla cacciata dello stra niero». Forse senza avvedersene, Battaglia, girando attorno a Gobetti, ricuperava anche qualcosa del «cosiddetto Risorgimen to» che Togliatti aveva opposto a Rosselli. Le contraddizioni di un uomo in cui la entusiastica milizia comunista non riuscì mai a cancellare del tutto il sottofondo azionista mi consentono di introdurre un argomento che già ci avvicina al tema della continuità dello Stato. Mi riferisco a quella «inserzione delle masse nello Stato» che ha costituito un costante rovello delle classi dirigenti italiane: liberali, nazional-
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fasciste, cattoliche, democratiche. Oggi quella formula è stata largamente soppiantata dall’altra della «nazionalizzazione delle masse», di contenuto semantico indubbiamente più ampio. Ma sia la versione tradizionale sia quella aggiornata vanno misu rate su un lungo arco temporale, che va appunto dal Risorgi mento al fascismo, alla Resistenza, alla Repubblica, alla crisi attuale di questa. Non possono cioè non essere rimessi in discus sione i caratteri essenziali di uno Stato che sembra condannato a mantenere sempre la distanza, o addirittura l’opposizione, fra paese legale e paese reale, e che, quando deve prendere atto che il proprio comando è «impossibile» (per utilizzare una pungente espressione di Raffaele Romanelli), ricorre alla scorciatoia del comando autoritario, tranne poi a dovere constatare la scarsa operatività anche di questo. Lo Stato autoritario-totalitario fascista pretese di aver con seguito l’obiettivo di sanare il distacco fra Stato e società. L’ideo logia totalitaria assumeva che tutta la società civile fosse stata assunta dentro lo Stato (e questi possibili sbocchi della tanto auspicata «inserzione delle masse» devono indurci a riguardare con occhio alquanto critico quella fortunata formula). Di fronte al fallimento fascista, la Resistenza e poi la Repubblica si fecero esse carico di quello storico compito. Ma qual era lo Stato in cui le masse avrebbero dovuto essere inserite? Era rimasto iden tico, quali che fossero stati gli accidenti di volta in volta ine renti alla sua sostanza? Da un punto di vista strettamente giu ridico il problema è privo di soluzioni sicure e deve quindi ritenersi mal posto: racchiuso nella corazza del formalismo giu ridico, lo Stato appare addirittura indistruttibile. É pertanto necessario ricorrere a un’analisi storica, nella quale acquistino pieno significato anche i dati istituzionali. I problemi che nascono da questa impostazione sono molti e sfaccettati, e ad essi diedi solo qualche parziale risposta nello scritto qui nuovamente edito, superato in parte dai successivi studi degli storici, dei costituzionalisti e dei politologi, sui quali non è mio compito soffermarmi in questa sede. Si può tuttavia di quei problemi tracciare un profilo storico seguendo la trac cia di quelle che Nicola Gallerano ha chiamato le «disavven ture della continuità», ricche di capovolgimenti di giudizi. Quando Guido Quazza ed io prospettammo per la prima volta la tesi della continuità dello Stato, fummo criticati sia dal
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ceto centrista di governo sia dai comunisti. Agli uni e agli altri quella tesi apparve una pericolosa manifestazione di revisioni smo resistenziale. Ai primi non riusciva gradita l’idea che lo Stato da loro gestito potesse essere presentato come una conti nuazione dello Stato fascista. I secondi, pur criticando le male fatte democristiane e le inadempienze costituzionali, non pote vano ammettere che lo Stato che avevano contribuito a rifondare avesse mantenuto decisive incrostazioni fasciste. Anzi, in tanto avevano senso le accuse di violazione della Costituzione rivolte agli avversari politici in quanto di quella ci si considerava i più consapevoli custodi. Una prima osservazione che si può fare al riguardo è che la parola Stato fu in molte polemiche caricata di un significato che trasbordava largamente quello suo proprio: Stato fu inteso come sinonimo del tutto. L’attribuzione di un tale significato simbo lico totalizzante allo Stato costituisce già di per sé un problema, ed è indice di una cultura statocentrica sottostante a giudizi anche discordanti. Ma pur circoscritta in termini più corretti, la continuità dello Stato rinviava a un nocciolo di problemi dif ficilmente eludibili. Ad esempio, la maggiore indubbia inserzione delle masse nello Stato repubblicano era avvenuta in modo pienamente inno vativo o utilizzando anche canali predisposti dal fascismo? In realtà, i cattolici italiani ebbero la grande capacità di utilizzare sia l’eredità fascista che aveva il suo punto forte nei Patti lateranensi inseriti nella Costituzione, sia l’organizzazione di un grande partito di massa garantito dalla capillare presenza della Chiesa nella società italiana, accresciutasi nel periodo fascista. I comunisti si affidarono soprattutto al partito e alle organizza zioni di massa, capovolgendo il segno della diagnosi che Togliatti nelle lezioni di Mosca del 1935 aveva fatto del fascismo come regime reazionario di massa. Questa irruzione dei «neri» e dei «rossi» (per riprendere la terminologia ottocentesca) fu vista con sospetto dai difensori di una tradizione risorgimentale che, pur lamentando il distacco dal paese reale, non gradiva che il vuoto fosse riempito da quelli che erano stati considerati i nemici storici dello Stato nato dal Risorgimento. Ma, nell’insieme, i benefici dell’operazione compiuta dai due principali partiti di massa furono considerati superiori ai costi. Uno dei capovolgimenti cui sopra accennavo (e sui quali mi
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intrattengo nell’ultimo dei saggi qui ripubblicati, La Resistenza oggi: problema storiografico e problema civile) si è andato verifi cando proprio su questo terreno, in una duplice direzione. Innanzi tutto, i costi hanno cominciato ad apparire superiori ai benefici perché si è fatto notare che l’inserzione delle masse nello Stato democratico era avvenuta per il tramite di due sub culture intrinsecamente non democratiche e non nazionali. L’ar gomento è in realtà rivolto soprattutto contro i comunisti: è nota la posizione di chi vede nella presenza di questi nella Resistenza poco più di un equivoco che finalmente si sarebbe oggi trovato il coraggio di smascherare. In secondo luogo, le novità politi che in corso starebbero mostrando come l’opera di democratiz zazione di un popolo dato ampiamente per refrattario, della quale i due maggiori partiti di massa menavano vanto, era riu scita meno di quanto quel vanto avrebbe dovuto comportare. Ci sono in questa posizione elementi di verità che non è possi bile qui esaminare. Ai fini del nostro discorso è sufficiente rile vare che in tal modo la tesi della continuità dello Stato da sti molo critico verso l’assetto repubblicano uscito dalla Resistenza rischia di trasformarsi o in un rassegnato riconoscimento della fatalità delle cose, o in una condanna della Repubblica in quanto tale (paradossale capovolgimento in chiave moderata della vec chia tesi della Resistenza tradita), o in una critica radicale della Resistenza stessa che quella Repubblica aveva partorito, o ancora in una frettolosa rivalutazione del regime fascista di cui final mente i fatti dimostrerebbero la positiva realtà profonda, o infine in un miscuglio variamente dosato di tutte queste posi zioni. Nel 1979 Francesco Traniello, nel saggio citato all’inizio del mio scritto Ancora sulla «continuità dello Stato», qui ripub blicato, aveva lucidamente previsto il rovesciamento della «inter pretazione parentetica del fascismo in una interpretazione so stanzialmente parentetica della Resistenza»: Traniello si rivol geva mentalmente ai delusi della sinistra; oggi il discorso si ap plica ancor meglio ai sostenitori di una continuità positivamente connotata. Il ruolo svolto dalla Repubblica sociale italiana come canale di continuità (è questo il titolo di uno dei paragrafi di La conti nuità dello Stato) deve a questo punto essere ripreso in esame almeno da due punti di vista. Può giovare al riguardo la distin zione proposta per la Francia da Stanley Hoffmann fra colla-
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borazionismo di Stato e collaborazionismo politico-ideologico. Applicata all’Italia, la distinzione deve peraltro tener conto del fatto che il fascismo, come fenomeno politico capace di portare al potere l’estrema destra novecentesca, era stato inventato in Italia e aveva governato per forza propria il paese per un ven tennio. Ciò è troppo spesso dimenticato, con la conseguenza che tutta la negatività del fascismo viene caricata sulla Repub blica sociale. Mi è accaduto ad esempio di dover contestare, in un convegno tenutosi a Parigi nel 1990 su Vichy et let Frangati, la collocazione della Repubblica sociale sotto la rubrica «collabo razionismi minori», insieme alla Slovacchia e alla Croazia. Entrambi i tipi di collaborazionismo hanno avuto in Italia, più di quanto sia avvenuto negli altri paesi che hanno conosciuto l’occupazione tedesca, radici profonde ed esiti prolungati, come le vicende che attraversa oggi il nostro Paese stanno mostrando. Il collaborazionismo politico-ideologico può essere considerato un episodio, non fra i più originali ma sicuramente fra i più sfac ciati, della cultura e dei comportamenti di estrema destra che attraversano il nostro secolo. Esso costituisce dunque un anello della continuità intesa nel senso più ampio. Il collaborazionismo di Stato ha assunto a sua volta in Italia una sua specifica fisionomia perché il suo braccio secolare, la Pubblica Amministrazione, era bene addestrata a servire un governo fascista, ritornato al potere dopo la breve parentesi badogliana. Che la partita, sul piano bellico, fosse ormai per duta certo appariva evidente anche alla maggioranza dei pub blici funzionari. Ma questo dato spingeva la Pubblica Amminitrazione a un difficile e complicato gioco di equilibri, che la portava ad essere contigua a quella che oggi si suole chiamare «zona grigia» e che altrettanto bene potrebbe essere, in molti suoi settori, definita collaborazionismo passivo. In pari tempo, e in modo funzionale a questa sua collocazione, la Pubblica Amministrazione seppe avvalersi sia dei propri elementi intrin secamente o vischiosamente fascisti sia di quelli, che pur esi stevano, schiettamente patriottici e disponibili a transitare verso la democrazia (fra gli impiegati che rifiutarono di trasferirsi da Roma a Nord con i ministeri vi sono sicuri rappresentanti di questa seconda categoria). Così, per fare due esempi estremi, la burocrazia poteva chiudere un occhio su alcune iniziative resi stenziali, ma nello stesso tempo metteva a disposizione dei tede
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schi le liste degli ebrei da deportare. I casi della Danimarca ed, entro certi limiti, della Bulgaria, che riuscirono a impedire le deportazioni, dimostrano che quei disonoranti esiti non erano predeterminati. Il risultato fu che la parte del personale amministrativo che era rimasta in servizio sotto la Repubblica sociale finirà, dopo la liberazione, con l’accreditarsi come quella che in circostanze difficili aveva salvato il salvabile. Non le sarà perciò difficile ricongiungersi alla frazione che aveva continuato a funzionare nel Regno del Sud, in circostanze altrettanto difficili ma sicu ramente meno rischiose. Così, ricompattatesi in nome dei ser vizi prestati e dello spirito di corpo, le due frazioni della buro crazia costituiranno un anello forte della continuità. Come notò Carlo Levi nel brano di L’Orologio dedicato alla conferenza stampa tenuta da Patri al momento della caduta del suo governo, anche gli uscieri del Viminale, parte rilevante anche se non deci siva di quell’anello, si compiacevano in quell’occasione della cac ciata degli «intrusi» dalle stanze ministeriali. Gli intrusi, del resto, avevano già visto privati di ogni valore i provvedimenti che il clnai aveva emanato in quanto governo clandestino dell’Italia occupata. Proprio sotto il governo Patri, una delegazione dell’ufficio legislativo della Presidenza del Con siglio, della quale faceva parte anche Jemolo, recatasi a Milano, aveva scritto nella sua relazione: «Non abbiamo affatto avver tito un desiderio che sia riconosciuto valore legislativo ai prov vedimenti del clnai o dei vari comitati di liberazione»; e, a pro posito degli effetti fiscali di quei provvedimenti, concludeva: «passiamo la spugna» (riprendo la citazione dal mio saggio Tre governi e due occupazioni, in L’Italia nella seconda guerra mon diale e nella Resistenza, a cura di F. Ferratini Tosi, G. Grassi e M. Legnani, Angeli, Milano 1988). Oggi appare chiaro che delle tre anime che convivevano nei cln - la giacobina, la consiliarista-libertaria, quella di tempo ranea coalizione fra partiti - abbia prevalso l’ultima. Questo avvenne non solo a causa delle posizioni intransigenti assunte dai liberali fino a provocare la caduta del governo Parri, ma per ché gli stessi tre grandi partiti di massa (con l’eccezione, più verbale che sostanziale, dei socialisti: «Tutto il potere ai cln! » amava proclamare Nenni) non intendevano subordinare le pro prie ragioni a quelle dei comitati. Molto opportunamente Rusco
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ni ha intitolato il paragrafo di Resistenza e Postfascismo in cui tratta della caduta di Patri «Colpo di Stato contro la Resistenza o rivincita dei partiti?». Del sostrato unitario che malgrado tutto continuò a legare i partiti antifascisti sono stati dati attraverso il tempo giudizi contrastanti. In prima istanza esso fu positivamente valutato come base del compromesso costituzionale e per avere evitato che le tensioni politiche e sociali createsi dopo la estromissione delle sinistre dal governo e dopo l’insorgere della guerra fredda degenerassero in guerra civile. Dalla sinistra dei «delusi» e, con maggior senso critico, dalla storiografia stimolata dal movimento del ’68, l’unità fondata sui Comitati di liberazione nazionale fu poi con accanimento scomposta nei suoi elementi costitutivi. Vennero sottolineati gli equivoci e i compromessi che la politica unitaria, imputata so prattutto ai comunisti, aveva generato; e alcune posizioni estre miste giunsero a giudicarla come una delle tante trappole in cui le sinistre vengono infallibilmente attirate. Le visioni agiogra fiche della Resistenza furono comunque messe in crisi. Oggi assistiamo infine a una nuova interpretazione della unità resistenziale come fattore negativo, in quanto all’origine dell’aborrito consociativismo e della devastante lottizzazione. Que sto disinvolto schiacciamento del presente sul passato è di per sé antistorico. Esso può avere il solo vantaggio di favorire la riapertura del discorso sulla continuità dello Stato, in partico lare sotto il profilo del rapporto fra politica e amministrazione. Nei miei scritti che qui si ripubblicano davo forse troppo rilievo a un minghettismo di ritorno, nemico della ingerenza dei partiti politici nella giustizia e nell’amministrazione. Oggi mi sembra si possano porre meglio alcune utili distinzioni. Innanzi tutto, la posizione «minghettiana» svolse essenzialmente un ruolo ideologico, funzionale, come del resto già allora soste nevo, all’affossamento del «più importante atto di politica sim bolica dopo la liberazione» (così Charles Maier ha chiamato l’epurazione nel suo saggio scritto per la Storia d’Europa edita da Einaudi). Ma diverso è stato il processo reale, garantito pro prio dal massimo di continuità avutosi nel legame corruttore fra partito e Pubblica Amministrazione, instaurato dal fascismo. Gli studi di Mariuccia Salvati sul regime e gli impiegati hanno inteso porre in evidenza questa eredità fascista. Il presidente
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del Consiglio Giuliano Amato, in un discorso alla Camera dei deputati che suscitò notevole scalpore, richiamò a sua volta l’at tenzione su questo punto. Egli tuttavia non sottolineò a suffi cienza la distanza che passa, anche sotto questo profilo, tra un regime monopartitico e uno pluripartitico, pur nella mancanza nel secondo, così come attuatosi in Italia, di un compiuto plu ralismo istituzionale. Si aggiunga il passaggio da un regime che vietava la sindacalizzazione del pubblico impiego a uno in cui essa, mortificati ed esauriti i fermenti di rinnovamento che ini zialmente conteneva, favorirà con il trascorrere degli anni un nuovo tipo di «mostruoso connubio» fra spirito corporativo e sfaccettata acquiescenza al potere. Certo, soprattutto a partire dagli anni ottanta, il sistema pluripartitico si rivelerà non meno corruttore di quello fascista; ma questo avverrà soprattutto per ché la mancanza di ricambio lo aveva reso, al vertice, monogo vernativo. Un discorso parzialmente analogo potrebbe farsi a proposito del secolare problema dell’accentramento. Ancora una volta, come negli anni dell’unificazione nazionale, tutti predicarono decentramento e tutti, sia dalle posizioni di governo che da quelle di opposizione, razzolarono accentramento. Ambiguità culturali e timori politici concorsero a determinare questo delu dente risultato, vera e propria lectio facilior dei problemi della ricostruzione. Nella storia del regno d’Italia l’accentramento aveva voluto surrogare la deficienza di egemonia della classe poli tica. Nel mutato contesto repubblicano di una società che pro cedeva a grandi passi verso una squilibrata quanto intensa mo dernizzazione da nessuno prevista, la ben consolidata tradizione accentratrice seppe adeguarsi alla nuova e più complessa rete di rapporti fra centro e periferia. Tuttavia neanche questa volta l’accentramento riuscirà a svolgere davvero la sua funzione surrogatoria. Ampia è ormai la letteratura su questi temi, e non è questa la sede per esaminarla. A parte il ben noto ritardo nella attua zione delle regioni, basti qui ricordare che la nuova legge comu nale e provinciale (legge sull’« ordinamento delle autonomie locali») sarà emanata soltanto nel 1990. Scomporre la continuità nei suoi elementi costitutivi mi sem bra comunque ancor oggi la via storiograficamente più profi cua, anche se la coscienza civile si nutre d’immagini riassuntive
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che, quando non riescono a raggiungere la sintesi, scadono ine vitabilmente nell’approssimazione. Fra continuità culturale, continuità comportamentale e con tinuità istituzionale esistono in realtà complicati giochi d’intrecciati rinvii. Essi sono difficili da interpretare perché in ogni campo operano fattori di dinamismo che spesso rivelano i loro effetti soltanto a medio o lungo termine. Assistiamo ad esem pio alla tendenza ad attribuire forte centralità, come asse della storia del nostro Paese, ai comportamenti di quella «zona gri gia» (si pensi a posizioni come quelle di Rocco Buttiglione) che si assume rappresenti la sanior et maiorpars del popolo italiano, ritenuto poco incline a incisivi mutamenti sociali, politici e isti tuzionali. Da questa posizione viene fatto discendere il corol lario, offensivo per tante coscienze cattoliche impegnate e in quiete, che la Chiesa sia stata la naturale interprete del grigiore di quella zona. E appena il caso di ricordare che tutt’altro è il significato da attribuire alla categoria, oggi giustamente riven dicata, di Resistenza civile. «Attendismo» fu la qualifica denigratoria che i resistenti det tero al comportamento della zona grigia; e i fascisti politico ideologici, dal loro punto di vista, non furono più leggeri nel giu dizio. È certo necessario rifuggire da ogni elitarismo antifasci sta; ma è altrettanto indispensabile farsi carico dell’analisi del rapporto positivo o negativo, e di tutte le sfumature interme die, che, soprattutto nei momenti di crisi e di emergenza, inter corre fra le minoranze culturalmente e politicamente più attive e il resto della popolazione. Le ricorrenti polemiche contro l’azionismo, volgenti ormai al neoguelfismo (si vedano ad esempio alcuni articoli pubblicati sulla rivista «Liberal»), sembrano sor volare su questo punto, salvo poi a cadere in un elitismo ancora più esclusivo. L’attendismo è, in un certo senso, il sostrato comportamen tale della base di massa della continuità. In una intervista del 1966 (che cito in uno degli scritti che qui si ripubblicano) Parti parlò della «vecchia Italia che veniva immediatamente fuori e che voleva avere non una espressione politica, ma il governo del paese». Ancor più drasticamente Patri si espresse nel 1972, sempre a proposito della sua caduta: «Mi pareva di vedere avan zare sprezzante e ghignante l’immenso esercito parafascista, l’obeso ventre della storia d’Italia che aveva vinto, mi aveva
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vinto». Rusconi, che cita queste parole in Resistenza e Postfa scismo, ne dà una parafrasi più pacata. Egli scrive che nell’at tendismo «soprattutto c’è l’indisponibilità a qualunque rimoti vazione etico-politica»: si può aggiungere che manca l’impegno, individuale e collettivo, a diventare, non a buon mercato, da fascisti, antifascisti (per usare una espressione cara a Costanzo Casucci). Lo stesso Rusconi parla di un «blocco moderato-antiprogressista, discendente ideale dell’attendismo, che nel dopo guerra si era messo al sicuro nella Democrazia Cristiana e ora è incerto tra Forza Italia e Alleanza Nazionale». Tuttavia ancora Rusconi, sempre in quella sede, ha rivolto alla sinistra il rimprovero (ma non tutta la sinistra lo merita) di avere fatte proprie le parole con le quali Calamandrei, a metà degli anni cinquanta, denunciava la continuità del «regime auto ritario fascista mascherato sotto una veste ipocrita di pio con formismo confessionale». Si trattava, in questo caso, di un ec cesso di continuismo, negativamente connotato. Mutata forma regiminis non mutatur et ipsa civitas: eadem respublica est, quamvis nunc hoc, nunc alio modo regitur. Ettore Gallo, ex presidente della Corte Costituzionale, ostilissimo alla tesi della continuità dello Stato, ha citato questa massima in un con vegno svoltosi in Campidoglio in occasione del «50° anniver sario della Resistenza e della Guerra di Liberazione», circoscri vendone il valore al solo diritto internazionale. Ma la distinzione fra regimen da una parte e civitas e respublica dall’altra può essere svolta, in termini moderni, in quelle fra regime, governo, Stato, parastato, società, popolo. Per le pretese totalitarie del fasci smo queste distinzioni erano prive di senso: tutte indicavano pezzi di fascismo. Ma noi oggi dobbiamo domandarci: in quale di questi elementi il fascismo ha più profondamente impresso la sua orma? Dove sono di conseguenza da rintracciare i segni più forti della sua eredità? «Regime» era per il fascismo una espressione riassuntiva: esso aveva davvero «messo a regime» ITjtalia tutta. E forse questo il motivo del leggero fastidio che, almeno in me, destano le espressioni «regime repubblicano» e «regime democratico». Ma per le altre parole sopra elencate occorre porsi il problema di quanto il sostantivo sia stato fino in fondo ripulito dell’aggettivo «fascista». Forse la equivoca categoria di «costituzione materiale» è servita non solo a razio nalizzare a posteriori le violazioni di quella formale, ma anche
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a nascondere le frammistioni delle eredità fasciste con le novità costituzionali. Tornando al punto di partenza di questa prefazione,; ancora oggi mi sembra che la questione più difficile sia comprendere se e come la moralità, le idee, la cultura informino di sé le isti tuzioni e se e come queste ne tengano conto, soprattutto quando vogliano essere buone e vitali. Una vena di moralismo vagamente anarchico mi spinge talvolta a pensare che l’armonia fra i due poli sia nel fondo impossibile. Il mestiere di ricercatore di sto ria (e ancor più quello di archivista, da me per lunghi anni pra ticato) mi portano in altri momenti a convincermi che quella possibilità esiste. Mi ripugna ammettere che vi sia un mondo - quello dello Stato, delle istituzioni, in definitiva quello della politica - autonomo a tal punto da avere solo in se stesso le ragioni del proprio essere e del proprio dinamismo. Non ho mai deciso una volta per tutte se il volto demoniaco del potere trovi nelle istituzioni il suo suggello o piuttosto un benefico contrap peso. In una fase della mia giovinezza avevo tentato l’impossi bile impresa di conciliare la morale giansenista con la filosofia tomista. Ora non voglio rassegnarmi a riconoscere che vi siano campi dell’agire umano nei quali non è possibile si manifestino valori positivi. Istituzioni e moralità sono insomma due poli che mi hanno guidato nel mio lavoro. Se oggi ripresento questi scritti è anche come testimonianza di una irrisolta duplicità d’ispi razione.
Alle origini della Repubblica
I.
Le idee della Resistenza. Antifascisti e fascisti di fronte alla tradizione del Risorgimento*
i. Il «Secondo Risorgimento» L’espressione « Secondo Risorgimento » per indicare la Resi stenza è divenuta largamente corrente nei discorsi, negli scritti, nelle testate di riviste e giornali usciti dopo il 1945. Tuttavia, quando si abbandonano i discorsi celebrativi e di prima appros simazione, quelle due parole appaiono avvolte in un alone di incertezza, e nascono dubbi suscitati innanzi tutto dai troppo diversi punti di vista da cui si pongono coloro che ad esse fanno ricorso. Andiamo infatti dal neogaribaldinismo dei comunisti e dalle esplicite dichiarazioni neorisorgimentali di Parti,1 alla rivista «Risorgimento, periodico della Resistenza» diretta dal più noto capo di formazioni autonome, Mauri (Enrico Martini) e al titolo di Secondo Risorgimento dato al volume governativo di celebrazione del decimo anniversario del 25 aprile;2 dalla esortazione di Pieri, in un convegno della Associazione per la difesa della scuola nazionale, a parlare nelle scuole della Resi stenza ricollegandola al Risorgimento,3 alla circolare con cui il ministro della Pubblica istruzione, Martino, non certo perché sensibile all’appello di quella provenienza, presentava nel 1954 la Resistenza come ritorno al Risorgimento. La Storia della Resi stenza italiana di Roberto Battaglia è piena di richiami risorgi mentali; e perfino in qualche scritto di anarchici si possono tro vare accenni al nuovo Risorgimento.4 Da parte di uomini politici come di storici sono stati avanDa «Passato e Presente», n. 7, gennaio-febbraio 1959, pp. 850-918.
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zati, in verità, molti dubbi sulla correttezza di quella espres sione. Ad uno studio critico della questione invitava Antonicelli in un saggio che voleva essere di ampia impostazione pro blematica;3 molto polemico e molto diffidente si mostrava Garosci nella sua comunicazione al primo convegno di studi di storia della Resistenza;6 disposto a riconoscere «che un certo parallelismo con il Risorgimento possa affermarsi anche in sede storiografica» Valiani,7 benché in seguito tornato con maggiori perplessità sull’argomento.8 Un augurio a che qualcuno si deci desse a fare la storia della espressione era formulato qualche anno fa da Mario Delle Piane, che contestava l’affermazione fatta, sia pure dubitativamente, da Gastone Manacorda di essere stati primi i comunisti a valersene.9 E, nel terzo convegno di studi sulla Resistenza tenutosi a Firenze nel marzo 1958, Bianca Ceva consigliava cautela nell’avvicinamento fra Risorgimento e Resistenza.10 Anche da parte comunista non sono mancati recenti richiami a maggior scrupolo nell’uso del paragone che sembra sminuire la novità, dal punto di vista dei rapporti di classe, della Resi stenza rispetto al Risorgimento.11 E una voce di tutt’altra pro venienza, quella di Aldo Capitini, ha sentito il bisogno di ricor dare che «il Risorgimento, anche corretto dalle forzature con venzionali, non è nella misura della Opposizione antifascista».12 Vi è stato anche qualche tentativo di affrontare in modo diretto ed esplicito il problema, e ne sono scaturiti saggi di disu guale valore, ai quali non mancheremo in seguito di riferirci, man mano che se ne presenterà l’occasione.13 Quello che ci preme dire subito è che crediamo sia da resi stere alla tentazione di comporre scolastici elenchi di analogie e di differenze, che si ridurrebbero poi all’ovvia constatazione che l’Ottocento non è il Novecento, che Garibaldi, Mazzini e Cavour non sono Longo, Parri e Croce, come Mussolini non è il re Bomba; oppure sfocerebbero nella disputa accademica sulla continuità e la novità o la rottura nella storia. Pensiamo sia più proficuo sforzarsi di ricostruire la storia di quell’espressione, vedere come sia nata, chi, in quale senso e in quali momenti l’abbia usata, fino a che punto essa abbia costituito un ideale ope rante: servirsene, cioè, per cercare di cogliere, sia pure in modo necessariamente frammentario, la posizione in cui le varie cor renti antifasciste, e i fascisti stessi, vollero collocarsi di fronte alla
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storia dell’Italia moderna. Alcuni dei temi più vivi del Risorgi mento, del postrisorgimento e della Resistenza potranno così, rapidamente e di scorcio, essere tirati in campo, anche perché, se la tradizione, o meglio le tradizioni, del Risorgimento hanno influito sulle ideologie non solo della Resistenza post 1943 ma di tutto l’antifascismo, la Resistenza ha poi a sua volta reagito su quelle tradizioni, rinnovando la tematica sul Risorgimento e sui suoi rapporti con l’Italia d’oggi. 2. Risorgimento e fascismo
«Per gli italiani, l’atteggiamento da assumere nei riguardi del Risorgimento implica ancora, e forse continuerà ad implicare per parecchio tempo, una scelta inequivocabile che precede ogni valutazione storiografica». Queste parole di Leone Ginzburg14 possono considerarsi il sottofondo implicito a tutta la disputa non solo sui rapporti fra Risorgimento e Resistenza, ma anche fra Risorgimento e fascismo: e le due questioni sono intimamente legate, la prima nascendo anche come reazione a certe soluzioni date alla seconda. Pur nella sua rozzezza culturale, infatti, il fascismo non potè sottrarsi all’obbligo di definirsi in rapporto alla più recente sto ria d’Italia; e se la retorica della romanità gli fece sempre più preferire il gran volo di collegamento diretto con il lontano Impero, tuttavia il fatto stesso di considerarsi il provvidenziale termine ad quem dell’intera storia d’Italia, rese necessario al fascismo atteggiarsi, in qualche modo, anche a continuatore e sistematore del Risorgimento. «I vincitori non si contentano di occupare il presente. Essi proiettano la loro vittoria nel pas sato per prolungarla nell’avvenire», scriveva Salvemini spie gando il sorgere dell’interesse di Nello Rosselli per gli studi risor gimentali proprio con il desiderio di reagire alle falsificazioni fasciste.15 Il primo a mettersi sulla strada di una reinterpretazione fasci stica del Risorgimento era stato Mussolini, con materiali cultu rali di scarsa originalità e grossolanamente manovrati sotto la spinta di scoperte esigenze tattiche. Ma l’eclettismo che ne deri vava corrispondeva, sul piano effettuale, all’assorbimento che il fascismo andava compiendo dei vari gruppi della vecchia classe politica e, sul piano storiografico, all’eclettismo dell’agiogra-
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fia tradizionale, che vedeva i quattro grandi, Vittorio Emanuele, Cavour, Mazzini e Garibaldi, procedere a braccetto verso i più alti destini della patria. Il fascismo accreditò questa visione, che aveva il gran pregio di non sollevare problemi e di preparargli la strada come a quello che di tutti quei grandi poteva, senza contraddizioni, considerarsi il suggello. Caratteristico, da questo punto di vista, il discorso dell’Augusteo del 9 novembre 1921, in cui Mussolini, con notevole abi lità, trova una parola di comprensione per tutti i settori dello schieramento politico tradizionale: dai repubblicani (l’Italia non ha bisogno di cercare in Russia i suoi profeti) ai liberali e ai nazionalisti (lodi alla Destra e a Crispi). Non manca nemmeno un po’ di civetteria verso gli anarchici (Malatesta santo e pro feta); mentre l’incertezza del giudizio sui popolari sottintende il proposito, chiaro fin da allora in Mussolini, di trattare, sca valcando il partito di Sturzo, direttamente col Vaticano, nella convinzione, che farà fortuna nel fascismo, che «il cattolice simo può essere utilizzato per l’espansione nazionale».16 Allor ché i Patti lateranensi porteranno a felice compimento tale indi rizzo, Mussolini, parlando alla Camera, si mostrerà di nuovo assai abile nel difendersi sia dalle critiche che potevano essergli mosse in nome della tradizione laica e risorgimentale, sia dalle accuse di debolezza dei fascisti intransigenti; e al Senato con cluderà con una perorazione sulla scomparsa di ogni ipoteca su Roma capitale: tema, quest’ultimo, riproposto per difendere la sostituzione della festa del 20 settembre con quella dell’n feb braio, giorno da considerare ormai, esso, conclusivo del Risor gimento.17 Quando voleva giocare la carta del fascismo popolaresco Mus solini non esitava poi a tirare in scena Garibaldi: così, parlando a Monterotondo il 23 dicembre 1923, menò gran vanto della pre senza di Picciotti Garibaldi,18 e proclamò che «fra la tradizione garibaldina, vanto e gloria d’Italia, e l’azione delle Camicie nere, non solo non vi è antitesi ma vi è continuità storica e ideale».19 Vedremo in seguito come di un certo tipo di continuità fra garibaldinismo e fascismo si parlasse anche in ambienti antifasci sti; e già Gobetti, in una sua complessa definizione di Musso lini, aveva inserito l’elemento del «garibaldino in ritardo».20 Nel presentarsi come vendicatore della vittoria mutilata, Mussolini contribuì a canonizzare il conflitto del 1915-18 come
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«quarta guerra d’indipendenza», facendolo divenire un anello della catena che partiva dal Risorgimento e finiva al fascismo («il decennio 1860-70, quando fu compiuta l’unità della Patria che dovrà essere perfezionata colla guerra mondiale e la nostra vittoria»);21 e di nuovo, nell’appropriarsi di tutta l’eredità per lui politicamente utile del conflitto, dall’interventismo nazio nalista a quello d’intonazione democratico-risorgimentale, Mus solini faceva appello a Garibaldi, dichiarandosi sicuro che l’Eroe «riconoscerebbe la discendenza delle sue Camicie rosse nei sol dati di Vittorio Veneto e nelle Camicie nere che da un decen nio continuano, sotto forma ancor più popolare e più feconda, il suo volontarismo».22 Perfino V Anschluss e l’Asse servirono a ridestare in Mussoli ni spiriti risorgimentali, spingendolo più volte a paralleli fra i modi con cui Italia e Germania avevano raggiunto l’unità nazionale. Ed erano paragoni che, sovvertendo tutta quell’ala della tradizione liberale che aveva sempre amato accentuare le differenze fra Cavour e Bismarck, servivano poi d’introduzione all’accostamento fra fascismo e nazismo come momenti culmi nanti delle due rivoluzioni nazionali. «Il dramma austriaco non è cominciato ieri: cominciò nel 1848, quando il piccolo animoso Piemonte osò sfidare l’allora colosso asburgico (...). Noi non ab biamo fatto nulla di diverso tra il 1859 e il 1861. Io vi esorto alla storia, o signori (...) »: così parlò Mussolini alla Camera il 16 mar zo 1938, accennando anche al «grande autoritario Cavour».23 Aiutavano Mussolini quei liberali che, man mano che si con vertivano al fascismo, lo scoprivano campione delle tradizioni di cui avrebbero dovuto, essi, costituire i portatori. Parlò per tutti Salandra alla Scala il 19 marzo 1924, quando affidò ap punto a Mussolini la tradizione del liberalismo italiano e del Ri sorgimento; e già Albertini aveva rivolto in Senato al governo fascista appena costituito un appello a raccogliere, rinnovandola, l’eredità del liberalismo.24 Sé l’idea - scrive Salvatorelli - di affidare a Mussolini l’eredità del libe ralismo risorgimentale oggi appare assurda e grottesca - e tale appariva già allora ai più perspicaci e spassionati [fra i quali va certo collocato l’au tore di Nazionalfascistno, e di Irrealtà nazionalista] - non per questo sarebbe ragionevole sentenziare che in quanti allora la professavano, da Salandra ad Albertini, essa fosse pura finzione, a scopo tattico. Illusione, certamente: ma non del tutto incomprensibile.25
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Non incomprensibile, ove si tenga conto che essa era l’espres sione del passaggio al fascismo del vecchio ceto dirigente libe rale, con le poche eccezioni di coloro che, come scrive ancora Salvatorelli, alla opposizione «furono letteralmente trascinati per i capelli».26 Se il fascismo accentuò con gli anni la sua pole mica di principio contro il liberalismo, ciò discese anche dal fatto che l’operazione di assorbimento del vecchio personale politico aveva ormai dato tutti i frutti sperabili. Fu solo in conseguenza della Grande crisi, infatti, che il fascismo fece di tutto per esa sperare il suo carattere di novità, di «terza via» corporativa, fra il mondo capitalistico in declino e il socialismo o comuni Smo. Così operando, il fascismo da una parte tendeva a far dimenticare i patteggiamenti coi vecchi liberali e il liberismo del suo primo periodo; dall’altra parte, però, stimolava una più energica reazione di tutti coloro che, sia pure da posizioni assai diverse, rivendicavano libertà e democrazia come elementi intrinseci dell’Italia nata dal Risorgimento. I due intellettuali che cercarono di dare una veste il più pos sibile colta al fascismo, Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe, dovettero entrambi fare i conti con il Risorgimento: abbando nandosi ad uno sfrenato ideologismo pseudostoriografico, il filo sofo Gentile; con maggior equilibrio lo storico Volpe, dalle modeste esigenze speculative, e propenso, in fondo, ad ammet tere che tutte le strade conducono a Roma. Per Gentile, il Risorgimento è una tappa necessaria per giun gere alla pienezza dei tempi attualistico-fascisti. Mazzini diventa l’Ezechiello della nuova Italia (...), di questa Italia nuova che si compie a Vittorio Veneto, sfolgorando e annientando il suo antico avversario (...). Ora il Vangelo mazziniano sopravvive alla meraviglia del Risorgimento, poiché è la fede dell’Italia che ne è sorta; di quella Giovane Italia che il Mazzini evocò. È il Vangelo fascista, è la fede della gioventù del 1919, del ’22, d’oggi.27
Nel Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni, comparso sui giornali del 21 aprile 1925,28 Gentile insisteva nel paragone fra la Giovane Italia e lo squadrismo, nati «da un analogo bisogno politico e morale»; e introduceva un tema caratteristico della contraddizione fascista fra demagogia di massa e preteso aristocraticismo religioso. Gentile rivendi cava infatti il carattere di élite del Risorgimento, «quando lo Stato era sorto dall’opera di ristrette minoranze», il cui seme
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si era poi purtroppo disperso. Fu proprio Croce a ribattere su questo punto,29 condannando gli intellettuali fascisti che ripe tono «la trita frase che il Risorgimento d’Italia fu l’opera di una minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debo lezza della nostra costituzione politica e sociale». Nella Dottrina delfascismo Gentile tornò alla carica in termini più generali contro il liberalismo e la religione della libertà, ricor dando che la Germania aveva raggiunto la sua unità al di fuori, anzi contro il liberalismo e che, quanto all’unità italiana, il libe ralismo vi aveva avuto «una parte assolutamente inferiore all’ap porto dato da Mazzini e Garibaldi che liberali non furono».30 Toccò al Gentile di dover anche difendere il Risorgimento dagli attacchi dei fascisti più intransigenti, desiderosi di riven dicare l’assoluta originalità del loro movimento: ma la difesa era di quelle che lasciano in imbarazzo chi vogliono proteggere, i cui tratti caratteristici, principio di nazionalità, liberalismo, Mazzini e Gioberti, erano tutti considerati antecedenti, per fettamente congrui, del fascismo.31 Soprattutto su Mazzini e Gioberti insisterà, in più occasioni, il Gentile, rendendo al primo il cattivo servizio di isolarne i tratti più confusi e mistici; e il Mazzini fascista concluderà la sua carriera sui francobolli della Repubblica sociale italiana. Gentile diveniva così fra i principali responsabili della diffusione di un quadro del Risorgimento pro vinciale ed autarchico, a caccia di spirituali primati, un Risor gimento che permetteva di considerare «il buon filosofo cattolico della Scienza nuova (...) tra i maestri spirituali del fascismo».32 «Disgustevoli miscugli storico-politici da offrire agli uomini del governo, che, del resto, non sappiamo qual uso possano mai fare di così rea poltiglia»: così definì Croce «la configurazione che al prof. Gentile è piaciuto dare alla storia del Risorgimento e dell’Italia una».33 Nel Discorso agli italiani, pronunciato in Campidoglio il 24 giugno 1943, Gentile, nel tentativo di creare nel paese una unità nazionale sotto le ali del fascismo, si sarebbe poi domandato per l’ennesima volta cosa quello fosse. Roma, avrebbe risposto, più la Chiesa cattolica, più il Rinascimento, più il Risorgimento: cioè l’Italia. E i liberali? Fascisti ritardatari. I comunisti? «Corporativisti impazienti».34 Attenzione pari a quella dedicata al rapporto Croce-Gentile merita il rapporto Croce-Volpe, dove la Storia d'Italia dal 1871
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al 1915 e l’Italia in cammino si fronteggiano, rivelando tuttavia un’affinità dovuta al fondamentale ottimismo sullo sviluppo del l’Italia moderna, nata dal Risorgimento: e, se il Croce poteva rimproverare al Volpe che la sua Italia «non pensa, non sogna, non medita, non si critica, non soffre né gioisce: cammina»,35 ben cogliendo il carattere meccanico dell’evoluzione tratteggiata dal Volpe, al Croce poteva obiettarsi che anche la sua Italia, con maggiori sfumature e più abile uso della dialettica, aveva tutta via la caratteristica di andare sempre avanti trasformando il male in bene, fino al momento in cui incappava nel più grosso e impre visto male del fascismo. Il pessimismo finale del Croce, se ovviamente gli faceva onore sul piano morale e politico, poteva non senza ragione essergli rimproverato dal Volpe come un’almeno parziale incongruen za.36 Insomma, la contrapposizione Croce-Volpe lasciava in eredità al pensiero politico e storiografico antifascista l’esigenza di una revisione della storia d’Italia, risorgimentale e postrisor gimentale, che meglio comprendesse anche il fascismo. Il Volpe37 era storico troppo scaltro per indulgere alla ricer ca dei precursori del fascismo in Giovanni dalle Bande Nere, Gian Galeazzo Visconti o Giulio Cesare, che anzi contro tali goffaggini egli apertamente ironizza in apertura alla sua Storia del movimento fascista. Ma il Risorgimento non potè esimersi dal tirarlo in campo: Possiamo, senza tradire né Risorgimento né Fascismo, raffigurarci il Fasci smo come un nuovo Risorgimento, o una ripresa spiegata e consapevole di Risorgimento, dopo un mezzo secolo d’incubazione delle forze nuove che nel primo Risorgimento erano deboli e assenti.
Contrapposizione più puntuale all’impegno che la Resistenza pose a presentarsi, essa, come nuovo Risorgimento sarebbe difficile trovare. Proseguiva Volpe in quel passo38 che il Risorgimento, se ebbe il suo punto di partenza nelle aspirazioni liberali e di indipendenza, sentì poi come valori fondamentali, se pur non esclusivi, l’unità, la potenza, la grandezza (...). Ma l’Italia del Risorgimento era un’Italia senza popolo. L’epoca che va dalla nascita del Regno ad oggi è caratterizzata, appunto, dalla formazione del popolo (...) compiutasi, prima, ai margini dello Stato e della nazione, anzi contro lo Stato e la nazione e i valori della cosiddetta classe borghese; poi, entro lo Stato e la nazione. Questa ultima fase, la fase della più attiva e consapevole partecipazione del popolo alla vita della nazione e dello Stato, è quella che noi viviamo, del Fascismo.
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In questo brano il Volpe ha concentrato l’essenza del suo giudizio sui rapporti fra Risorgimento, postrisorgimento e fasci smo. Converrà soffermarcisi un momento, accennando appena ad altri spunti e richiami in cui la finalità immediatamente poli tica e adulatoria è prevalente (anche se capita al Volpe, partito per coprire di allori il fascismo, di finire invece con lo sfron dare quelli del prefascismo): ricorderemo, ad esempio, i nume rosi voli, mazziniani e giobertiani ad un tempo, sulla rinascita della «missione», della «iniziativa» e del «primato» italiani; il presentare la legge sulle associazioni e contro le società segrete, che colpiva la massoneria, come «antico voto» di «frazioni» di liberali, socialisti, nazionalisti, cattolici; o ancora l’interpretare la legge del 24 dicembre 1925 sui poteri del capo del Governo come il «ritorno allo Statuto (...) che da un pezzo uomini della Destra avevano auspicato».39 La tesi fondamentale del Volpe è, come accennavamo, quella della progressiva inserzione delle masse popolari nello Stato, lungo processo che attraverso l’emigrazione («nuovo e più sostanzioso “Risorgimento”, anche per le masse, anche per il Mezzogiorno»),40 il socialismo (al cui riguardo non si manca di fare appello al «socialismo nazionale» di Pisacane),41 il movi mento cattolico (che «può essere considerato il riformismo del vecchio clericalismo»),42 la guerra (come «guerra di popolo» e «ultima guerra dell’indipendenza», risorgimentale e nazionali stica insieme, con la contaminazione che abbiamo notato anche in Mussolini), trova il suo punto di arrivo nel fascismo, che rifonde in un nuovo quadro organico gli elementi per l’innanzi disparati o contrastanti.43 Era implicita a tale costruzione l’idea di un Risorgimento cui fossero essenziali indipendenza e unità più assai che libertà; un Risorgimento frutto dello sforzo di pochi, senza popolo. Ma mentre gli eroici furori del Gentile, come abbiamo visto, trae vano da ciò motivo di compiacimento, il Volpe, pur con qual che oscillazione, mostrava invece di comprendere che in quel carattere stava il problema più grave dell’Italia unita. Su que sto punto era più vicino al Volpe il Croce della risposta al Mani festo degli intellettuali fascisti, quando, proseguendo nel brano sopra ricordato, ma con troppo scoperta apologia della classe dirigente liberale, attribuiva a quella il costante proposito di chiamare «sempre maggior numero d’italiani alla vita pubblica», e affermava che
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perfino il favore, col quale venne accolto da moki liberali nei primi tempi il movimento fascistico, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che, mercé di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica, forze di rinnovamento e (perché no?) anche forze conservatrici.
Salvemini osserverà molti anni dopo, intervenendo nella pole mica suscitata dall’affermazione di Parri che in Italia non c’era mai stata democrazia, che nessuno ha il diritto di attribuire [alla oligarchia parlamentare] il merito di progressi che essa tentò, finché le fu possibile, di impedire, ed accettò solamente quando non le fu più possibile opporsi. A tirare le conseguenze logiche delle opinioni di Croce, dovremmo pensare che le leghe di resi stenza e le Camere del lavoro le fondavano gli agenti della polizia (...).44
Anche il Volpe, più sensibile del Croce al conflitto delle forze reali nella società, offriva una visione meno paternalistica del processo di allargamento delle basi sociali dello Stato, perché sapeva cogliere l’elemento di urto contro la classe al potere che quella inserzione comportava. Tutto si riduceva tuttavia, per il Volpe, nel vedere lo Stato come qualcosa esistente di per sé e costruita una volta per tutte, una botte bella e pronta entro la quale versare il vino popolare. Questa entificazione dello Stato, ultima deiezione della tra dizionale dottrina dello « Stato etico » e dello « Stato di diritto », e punto, pertanto, sul quale il Volpe si ritrovava accanto il Gen tile, faceva dimenticare al Volpe che le masse, nello Stato, ci sono sempre state come oggetto, non fosse altro, degli obblighi fiscali e militari, e che pertanto il problema dello Stato non può correttamente porsi, per il «popolo», che come problema di par tecipazione al potere; e parlare di «masse nello Stato» senza aver fede nella democrazia significa fare soltanto del paternali smo o della demagogia. Ma per il Volpe lo Stato è, nazionalisticamente, soprattutto una macchina da politica estera/5 e par tecipazione del popolo allo Stato significa solo possibilità di meglio utilizzare le masse popolari a fini di potenza. Resta tuttavia a questa tesi del Volpe il merito di aver richia mato l’attenzione sul carattere di massa assunto dal fascismo, il quale, primo esempio nella storia del regno d’Italia, aveva mostrato un gruppo dirigente incapace di reggersi senza fare, sia pur demagogicamente, appello alle masse. Era un carattere che avrebbe richiamato l’attenzione anche dei più acuti antifa
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scisti; e Carlo Rosselli, sensibilissimo com’era al «nuovo» del fascismo, avrebbe visto un elemento essenziale di tale novità proprio nel regime di massa da cui, con dialettica alquanto mora listica, si riprometteva sarebbe scaturita finalmente una grande lezione di libertà per tutti gli italiani. Un’altra grossa difficoltà, anch’essa tuttavia adombrante un problema reale, era insita nella posizione del Volpe: il suo ottimi smo sullo sviluppo dell’Italia in cammino come si conciliava con la irrisione fascista rddd Italietta, come salvava quel carattere di rottura con un indegno passato cui il fascismo, per le sue vellei tà rivoluzionarie, non poteva rinunciare e che, in alcuni suoi più intransigenti apologeti, tendeva, come abbiamo visto accennan do alla reazione del Gentile, a travolgere il Risorgimento stesso? Il Volpe cercò di trarsi d’impaccio un po’ usando e abusando del suo metodo a partita doppia (bene, sì certo... ma non solo bene...; male, indubbiamente, ma anche bene...), e poi distin guendo adialetticamente il piano delle forze economiche e sociali in sviluppo (un capitolo, il più celebrato, dell’Italia in cammino si intitola Gli italiani al lavoro) e il piano della classe politica dopo l’ascesa della sinistra al potere, che viene fustigata come rinunciataria, senza ideali ecc., con l’unica eccezione di Crispi. «Alla elevazione economica e sociale del paese non era corri sposta una elevazione politica (...); l’Italia dava l’immagine di un paese migliore del suo governo e meritevole di miglior governo»: così scrive Volpe a proposito dell’età giolittiana, sulla quale il suo giudizio è, e ci pare sintomatico, sostanzialmente oscillante. Incerto è, del resto, anche il suo concetto di borghe sia, la quale deve essere insieme e la classe economica in svi luppo e quella politica in declino e, infine, la creatrice, così nel Risorgimento come nel fascismo, di valori spirituali e nazionali che la trascendono.46 Che il deus ex machina risolutore di tutte le contraddizioni sia il nazionalismo e poi il fascismo, appare così una conseguenza indispensabile della falsa dialettica del Volpe, per la quale un movimento che si poneva proprio come elemento di rottura del processo, democratico e socialista, di immissione dei ceti popolari nella vita politica del paese, assu meva la pretesa di esserne invece il sanzionatore.47 Ma, ancora una volta, la pertinace volontà del Volpe di trovare le basi del fascismo nella recente storia della società italiana lo spingeva a vedere con penetrazione maggiore di certo antifascismo mora-
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listico i legami di quello sia con alcune remote eredità risorgi mentali, sia con il nazionalismo e l’imperialismo caratteristici, in tutto il mondo, del nuovo secolo, sia infine con lo sviluppo delle forze industriali italiane, che proprio nell’età giolittiana avevano avuto un notevole slancio. Il taglio netto che si era rifiutato di compiere fra Risorgi mento e fascismo, il Volpe lo vorrebbe oggi fare fra Risorgi mento e Resistenza. In un recente opuscolo/8 nel quale mo stra di aver saputo essere più libero di fronte al fascismo trion fante che dinanzi al proprio risentimento di fascista (e di monar chico) sconfitto, egli scrive che la mania epuratrice post ’45 non risparmiò neanche il Risorgimento. Qualche «fascista più fascista di Mussolini», o qualche nazionalista dottrinario come Rocco, aveva, è vero, già manifestato «qualche cenno di fastidio» verso quella età, considerata troppo liberale: «Ma ora si andò più in là», perché quella età non era nelle grazie dei due più forti partiti formatisi o ricostitui tisi dopo il 1943 o il 1945: il comunista, che la vedeva troppo «borghese», poco « sociale »; e il democristiano che la vedeva massonica, irrispettosa dei diritti della Chiesa, usurpatrice di Roma al legittimo sovrano."15
E un giudizio, questo sulla fine del Risorgimento (o meglio, dello «spirito risorgimentale»), che vedremo nella sostanza con diviso da altri epigoni della vecchia classe dirigente postrisorgi mentale, pur lontani dal Volpe, come, ad esempio, il Croce e lo Jemolo. Riteniamo inutile offrire altre testimonianze di parte fasci sta che, oltre tutto, troppo ingombrante è la schiera dei minori apologeti, anche se rivestiti di nomi non privi di notorietà: come Francesco Ercole, autore di un centone in cui disquisisce a lungo sui rapporti fra i plebisciti risorgimentali e quello fascista del 1929, con una goffa polèmica antigiusnaturalistica;50 come Arrigo Solmi, per il quale grandezza romana, Rinascimento, Risorgimento, guerra mondiale, fascismo costituiscono un òvvio continuum-,51 come Amintore Fanfani, il quale scriveva: «E stato detto molto bene, che con la proclamazione dell’impero fascista si conclude il Risorgimento. Nulla di più esatto».52 Ricorderemo piuttosto che al Risorgimento ricorsero ancora i fascisti della Repubblica sociale sia in appoggio ai loro sforzi di creare una unità patriottica a proprio vantaggio (abbiamo già accennato a Gentile) e di risuscitare un «socialismo nazionale»
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di origine mazziniana,53 sia per i tentativi, compiuti in extre mis da alcuni, di trovare una via di uscita al di sopra, come scrisse uno di loro, delle baionette straniere: si pensi al Raggruppamento repubblicano nazionale socialista di Edmondo Cione, che fece uscire un quotidiano dal titolo mazziniano di «Italia del Popolo», e al gruppetto detto appunto del Nuovo Risorgimento, compo sto da fascisti dissidenti desiderosi di creare alternative il più possibile conservatrici al regime mussoliniano.54 3. La «difesa del Risorgimento»
Stabilire un rapporto diretto fra ciò che abbiamo sommaria mente ricordato della interpretazione fascista del Risorgimento e l’atteggiamento degli antifascisti che rivendicarono per sé l’ere dità di quella primavera della nuova Italia non sempre è pos sibile: abbiamo ricordato ciò che scrisse Salvemini di Nello Rosselli, abbiamo citato alcuni passi di Croce, e qualche altro collegamento diretto lo faremo man mano notare. Quel che conta è che l’interpretazione fascista era nell’aria, e ai contem poranei arrivava per mille strade, non tutte filologicamente con trollabili. Di più: era il fascismo in quanto tale, con il solo fatto della sua presenza, che spingeva a porre il problema di donde esso venisse, di quali addentellati avesse nella recente storia d’Italia. E il dubbio che qualcosa di vero potesse pur esserci nella sua pretesa di rappresentare la conclusione di un processo iniziatosi per lo meno col Risorgimento, non poteva non affac ciarsi nelle menti più critiche, e spingerle al riesame della sto ria di quel periodo e dei decenni successivi. Era, comunque, un ripensamento mosso direttamente da uno stimolo politico, e non destinato, almeno per il momento, a dare molti frutti tec nicamente elaborati come storiografia. Si pensi, ad esempio, alla discussione se nel Risorgimento la priorità spettasse al motivo della unità-indipendenza o a quello della libertà (discussione che si riproporrà in termini molto simili per la Resistenza): sto riograficamente l’alternativa era troppo cruda; politicamente, fin troppo evidente appariva il significato dell’insistenza sul momento della libertà. Le opinioni antifasciste sul Risorgimento, che passeremo in rapida rassegna, hanno la loro origine in questo bisogno di polemica contro l’avversario e di miglior definizione di se stessi: ed è questo il punto di vista da cui vogliamo porci.
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Nelle grandi linee di tale quadro ci sembra si collochi anche la Storia d'Italia dal 1871 al 1915 del Croce, con i lavori minori che le fanno corona:55 ma non staremo a riesporre la fin troppo nota polemica che la riguarda. Si tratta, nel complesso, di scritti tutti volti a tener fermo, di fronte al fascismo, l’ideale del libe ralismo scaturito dal Risorgimento: quasi un manifesto della restaurazione prefascista, e perciò, come suole accadere, poco adatto a comprendere ciò contro cui la restaurazione doveva essere effettuata. Quanto fosse radicato nel Croce questo senso del ristabilimento, come unica via di salvezza, di valori per il momento perduti, è confermato dal fatto che egli riconobbe sì nel 1943 alla sorgente Resistenza il carattere di guerra «che pro seguiva tenace lo spirito del Risorgimento » e che, già viva nel cuore degli italiani accanto a quella «in apparenza legale ma odiosa» condotta dal fascismo, si era infine fatta essa «lega le»;56 ma, proprio in quel giro di giorni, egli poneva gli ideali nostalgicamente accarezzati per tanti anni molto al di sopra di quelli democratici della guerra antifascista, la cui imminente con clusione vittoriosa lungi dal presentarglisi (come si presentò alla massima parte dei resistenti) quale inizio di nuova vita, accen tuava invece ih lui il senso tragico di un mondo che irrimedia bilmente si dissolveva. E del i° marzo 1944 un commosso sfogo confidato alle pagine del suo diario: (...) noi, nel tenace fondo del nostro animo, siamo ancora nell’attesa che risorga un mondo simile a quello, continuazione di quello in cui già vivemmo per più decenni, prima della guerra del 1914, di pace, di lavoro, di colla borazione nazionale e internazionale. E in ciò è la sorgente della nostra implacabile angoscia, perché quella speranza sempre più si allontana e, peggio ancora, s’intorbida e si oscura.57
E già il 16 dicembre 1943 aveva scritto di essersi convinto che «questa non è la guerra per la libertà, ma come tutte le altre, per l’indipendenza, per il dominio e per il vantaggio econo mico e politico, e che la guerra per la libertà si dovrà combattere poi, e con mezzi più veri e più adatti che non siano le armi».58 Uno stato d’animo simile a questo del Croce è dato cogliere in un’altra personalità «risorgimentale» (nel senso di tenace attaccamento alle tradizioni della classe colta moderata nata dal Risorgimento): lo Jemolo. Nostalgia del Risorgimento come pri mavera di uno spirito «proteso verso l’avvenire»; e quindi nostalgia meno «restauratrice» di quella del Croce, come del
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resto la diversa posizione politica dei due uomini sta chiaramente a indicare: ma pur sempre rimpianto di un mondo che svani sce, e che nello Jemolo si fonde con quella «delusione della Resi stenza», di cui avremo ancora occasione di parlare. «Il 1848 - scrive lo Jemolo - è l’anno dei portenti, l’esplosione dello spirito risorgimentale: il 1948 vede un’Italia nettamente anti risorgimentale». E ancora: Per chi abbia questo senso della fine dei movimenti storici, è chiaro che il moto risorgimentale è ben chiuso (...). Potrà sostenersi che abbia dato l’ultimo guizzo a Vittorio Veneto; o che lo abbia dato invece nel movi mento partigiano del 1944-45. Ma il rapido crollare di ogni aspirazione risorgimentale, ossia di rinnovamenti radicali in qualche modo ricollega bili a quell’antica tavola di valori, degli uomini della Resistenza, subito dopo la cessazione delle ostilità, mostrerebbe che era proprio stato un ultimo guizzo.
Nell’esaurirsi del cattolicesimo liberale, e nella scarsa sensibi lità al problema dei rapporti fra Stato e Chiesa, vede lo Jemolo una controprova della sua tesi; e il fallimento della classe diri gente della Resistenza, che ha portato l’Italia a divenire simile al «più tipico degli Stati antirisorgimentali», quello pontificio, dà un ulteriore suggello al suo pessimismo.59 Su quest’ultimo punto, in particolare, la posizione del Croce era diversa e meno generosa: la restaurazione di un mondo di valori coincideva infatti per lui col ritorno della vecchia classe dirigente al governo dello Stato. Per questo motivo, e non sol tanto perché Guido Calogero non aveva bene inteso il rapporto fra libertà e giustizia, egli fu ostilissimo al Partito d’Azione, fre nando con la sua autorità gli unici spunti di liberalismo moderno che si erano manifestati in Italia. Croce sperò che dietro al par tito liberale, il partito dei «padri del Risorgimento», si sarebbe ricostituita l’antica unione dei ceti dirigenti, e nelle elezioni del 1946 la sua partecipazione al blocco nazionale di Orlando, Nitti e Bonomi ebbe chiaramente il significato di favorire tale ripresa. La sostituzione della Democrazia Cristiana a quello che era stato il «partito» liberale prefascista dovette certo apparire a Croce, nei suoi ultimi anni, un’ulteriore conferma della decadenza del mondo che gli era caro. Difesa del Risorgimento-, questo titolo dato alla nota raccolta di scritti di Adolfo Omodeo ben esprime l’atteggiamento di tutela del «significato piano ed onesto del Risorgimento» che,
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accanto al Croce, vide appunto nell’Omodeo un tenace rappre sentante. Si deve anzi all’Omodeo quello che potrebbe definirsi il manifesto dell’«antirevisionismo» risorgimentale: la recensione a Risorgimento senza eroi di Piero Gobetti.60 Cosa intende difendere, dalla «revisione», l’Omodeo? Più che un insieme di risultati storiografici in quanto tali, egli vuol salvare un ideale politico e di vita, il «senso del Risorgimento» come era stato costruito, tramandato e idealizzato dalla classe colta liberale, e che non ci si riusciva a persuadere dovesse venire, rebus ipsis dictantibus, messo in forse dalle nuove generazioni.61 Soltanto in tale quadro ci sembra possa essere intesa la polemica, che tuttora si trascina, fra «revisionisti» e «antirevisionisti», anche se non del tutto assolto può andare l’Omodeo per la durezza cattiva («ho cercato invano una scintilla d’intelligenza in quelle pagine») del suo giudizio su Gobetti, da poco morto in esilio, e che nello stimolare la resistenza al fascismo avrebbe avuto un peso certo maggiore di quello del suo acre recensore. Colpisce, nell’atteggiamento dell’Omodeo di fronte al Go betti, la mescolanza, tipica dell’intellettualità idealistica, della «boria del dotto» contro l’«irregolare» tecnicamente sprovve duto (che spinge l’Omodeo a configurare il contrasto non come quello di due posizioni politiche e morali, ma come lotta della Scienza contro il «giornalismo»), con l’incomprensione del con servatore, resa più aspra e aggressiva dalla delusione che il fasci smo dava a tutti i conservatori illuminati. L’Omodeo, e con lui molti dei più accaniti «antirevisionisti», coinvolgeva nell’odio contro chi aveva, nel fatto, manomesso il suo ideale, coloro che quell’ideale avevano criticato proprio perché troppo fiacco e minato da intime contraddizioni. Si spiega in tal modo l’abitu dine presa dall’«antirevisionismo», anche in alcuni suoi tardi epigoni radicali,62 di porre in un unico sacco Oriani, Gobetti, Dorso, Gramsci, Missiroli, Mussolini, tutti rei di aver profa nato la tradizione liberale del Risorgimento. Omodeo stesso ha raccontato il suo volgersi agli studi del Risorgimento per una «ispirazione polemica a dimostrare le forze costruttive della libertà nella storia recente d’Italia»; e ha inqua drato tale ispirazione nel senso che ebbe dopo la prima guerra mondiale, dalla quale pure aveva cercato di enucleare, in impli cita polemica antifascista, un significato non retorico ma «risor gimentale»,63 «di essere figlio di una età di decadenza, di ap
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partenere a un mondo in reinvoluzione»: così da esserne spinto, quasi per contrasto, a immergersi nello studio delle «primavere storiche» come il Risorgimento e, più su, la Restaurazione che, con scambio rivelatore di tutto l’indirizzo moderato, egli pone, al posto della Rivoluzione, come vera matrice di quello.64 Que sto gusto della ricerca dei momenti aurorali spingeva l’Omodeo ad aver maggiore simpatia e interesse per il Risorgimento che per il postrisorgimento, reintroducendo, sia pur indiretta mente, quella distinzione di valori fra prima e dopo il 1870 o il 1876 che il Croce aveva con nettezza, e quasi con disprezzo, tolta di mezzo. Il fatto è che la Destra storica e i «padri del Risorgimento» (che l’Omodeo, nonostante i suoi studi critici su figure come Carlo Alberto, doveva necessariamente tendere a ricomporre in un quadro armonico senza vincitori né vinti, trasposizione dotta della vecchia agiografia) esercitavano indub biamente un fascino più immediatamente percepibile da parte di chi cercava conforto contro gli «hyksos» piombatigli in casa. L’Omodeo, è noto, negli ultimi suoi anni, sotto la spinta degli eventi, si radicalizzò molto, come mostra la sua adesione al Par tito d’Azione, che gli fruttò qualche amichevole rimbrotto del Croce: ma non risulta che questa sua evoluzione politica abbia inciso sulla sua ideologia e sulla sua visione storiografica,65 che era ciò che qui ci premeva ricordare come esempio di un atteg giamento proprio di quella parte della vecchia classe dirigente più affezionata ai valori tradizionali manomessi dal fascismo. Un tentativo di utilizzare l’ideologia risorgimentale, oscil lante fra impennate romantiche e desiderio fin troppo scoperto di portare su posizioni di antifascismo restauratore le più solide forze conservatrici non immediatamente fasciste (monarchia ed esercito, Vaticano ed Azione cattolica), fu quello compiuto da Lauro De Bosis e Mario Vinciguerra con l’Alleanza Nazio nale.66 Il Risorgimento, proprio quello classico, canonizzato da una destra conciliazionista in pectore, e quindi irrimediabil mente eclèttico, fu parte integrante delle parole d’ordine dell’Alleanza. «L’Italia di Cavour e di Mazzini è nuovamente in mar cia contro l’Italia dei Radetzky e dei Borboni», scriveva, ad esempio, il De Bosis.67 Nei manifestini da lui lanciati su Roma durante il volo senza ritorno del 5 ottobre 1931 è tutto un tam bureggiare di ricordi risorgimentali: «Siamo in pieno Risorgi mento»; «non fumare»; «il secondo Risorgimento trionferà
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come il primo»; «l’Asburgo in camicia nera, rientrato di sop piatto nel suo palazzo, è un oltraggio per tutti i nostri morti»; e, rivolgendosi direttamente al re: «Accettate Voi veramente d’infrangere dopo Vittorio Veneto quel giuramento cui il Vostro avo restò fedele dopo Novara? Sono sette anni che Vi vediamo firmare i decreti di Radetzky con la penna di Carlo Alberto».68 L’efficacia pratica dell’Alleanza, scompaginata dall’arresto di Vinciguerra e dalla morte di De Bosis, fu scarsa: ma il suo atteg giamento, volto a ricostruire una unità d’Italia che mettesse a frutto tutto ciò che di sedimentato era nella società e nella cul tura media italiane, non sarebbe rimasto senza eco e senza con seguenze.
4. Il Risorgimento da completare La famosa frase di Fortunato, non essere il fascismo una rivo luzione ma una rivelazione, offre una appropriata epigrafe agli atteggiamenti, pur differenziati, di un antifascismo che, non ponendosi come restaurazione ma desiderando invece che l’Italia compisse un passo innanzi decisivo anche nei confronti del regime politico e sociale prefascista, era indotto a cercare nella recente storia d’Italia dal Risorgimento in poi (ma per alcuni, di più fervida fantasia, anche da prima o da sempre),69 non solo le «origini» del fascismo, ma i motivi che avevano resa debole e stentata la vita democratica e lo sviluppo sociale del paese, provocando poi l’ingloriosa resa della sua classe dirigente. Era questo un atteggiamento carico di ben maggiore aggressività nei confronti del fascismo e che, se dette origine ai molti «processi» al Risorgimento e al postrisorgimento tanto fastidiosi per gli sto rici togati, si rivelò poi fecondatore delle correnti principali della Resistenza, dal Partito d’Azione ai comunisti. Non è infatti con cepibile una Resistenza svuotata di questa volontà eversiva con tro qualcosa di più profondo del fascismo inteso nei suoi ristretti termini di regime fondato da Mussolini il 28 ottobre del 1922 e fatto rinascere, dopo 1’8 settembre del 1943, dalle baionette tedesche. L’utilizzazione di un concetto storiografico come il Risorgi mento nella polemica antifascista era talvolta soltanto implicita nella scelta di nomi e di parole d’ordine che facevano appello alla tradizione patriottica e democratica, senza particolari prese
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di posizione storico-politiche: come fu, ad esempio, per il gruppo della Giovane Italia, sorto nel 1927, il cui nome mazziniano e la cui organizzazione di arcaico tipo settario coprivano un rag gruppamento assai largo di antifascisti di varie tendenze, per nulla radicale.70 Un contributo originale non fu dato nemmeno dal movimento politico che direttamente si richiamava al grande sconfitto del Risorgimento: il Partito repubblicano italiano, che pure, quando la Concentrazione antifascista adottò nel maggio 1928 la pregiudiziale repubblicana, parve aver raggiunto un suo obiettivo essenziale. Il fatto è che l’ortodossia mazziniana mostrò proprio di fronte al fascismo la sua inadeguatezza, che il corag gio civile di alcuni suoi fedeli non riuscì a far dimenticare. Non erano, a tale scopo, sufficienti richiami come quello formulato dalla minoranza del congresso di St. Louis, nel marzo 1932, alla «scuola socialista italiana» rappresentata dal pri.71 Anche nella lotta armata dopo 1’8 settembre del ’43 i repubblicani, rimasti fuori dei cln, e le loro brigate Mazzini non troveranno un posto di grande rilievo. L’iniziativa della riflessione critica sul fascismo e sull’Italia contemporanea era passata in altre mani con Gobetti, Rosselli e, accanto ad essi, ancora Salvemini (non parliamo per ora dei comunisti). Erano uomini, soprattutto i due ultimi, che avevano sentito il fascino della personalità di Mazzini: e il fatto che la loro posizione non si risolvesse nel mazzinianesismo politico (sia pur contaminato di cattaneanesimo) del partito repubblicano, contro il quale il giudizio di Gobetti è particolarmente duro,72 mostra come il loro desiderio di «fare finalmente ciò che nel Risorgimento (e nel postrisorgimento) non era stato fatto» non avesse nulla in comune con un tardivo spirito di rivincita degli sconfitti del Risorgimento. Di Salvemini basterà qui ricordare come negli ultimi anni, pur dopo i riconoscimenti concessi al suo antico avversario,73 egli finisse col ribadire il giudizio negativo su Giolitti: La differenza fra Mussolini e Giolitti era in quantità e non in qualità. Gio litti fu per Mussolini quel che Giovanni il battezzatore fu per Cristo: gli preparò la strada. Gobetti giustamente disse che Mussolini non fece altro che estendere a tutta l’Italia i «mazzieri» di Giolitti.74
Giudizio questo che, espresso in termini così drastici, oggi pochi sarebbero disposti a sottoscrivere: e che pure, in quel fustigato re d’ipocrisie, serviva a denunciare i rinnovati tentativi di bolsa
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apologia della classe dirigente tradizionale. Ai partiti antifasci sti non comunisti Salvemini attribuiva il compito di perpetuare e rinnovare la tradizione del Risorgimento (per i comunisti parlava di «fonti postrisorgimentali»); e nella Resistenza egli vide attuarsi il sogno che Mazzini aveva invano coltivato dal 1833, quando tratteggiava il quadro Della guerra d’insurrezione conveniente all’Italia: la guerra per bande. Proprio facendo ri ferimento agli esempi classici dei moti sanfedisti di fine Set tecento e della Spagna contro Napoleone, Salvemini scriveva che ciò che aveva resa finalmente possibile nel 1943-45, in Ita" lia, una guerra per bande non al servizio della reazione, era stato l’appoggio dei contadini. «La partecipazione dei contadini ita liani alla lotta partigiana è il fatto più importante nella storia italiana del secolo in cui viviamo»; cosicché, aggiungeva, «pos siamo dire ormai che una nazione italiana esiste non solo nelle aspirazioni di una minoranza intellettuale»: che era il ricono scimento, fin troppo generoso, di una «inserzione delle masse nello Stato» ben diversa da quella del Volpe. Salvemini giun geva fino a rovesciare la frase di Fortunato sopra ricordata, asse-, rendo che non il fascismo, ma il «movimento partigiano (...) ha rivelato il popolo italiano a se stesso» e agli altri popoli. Di fronte alla nostalgia verso un mondo che muore che, come abbiamo visto, si impadroniva di Croce allo sbocciare della Resi stenza, Salvemini ricordava la seconda metà del 1944 e i primi mesi del 1945 come un «tempo di esaltazione crescente», come un rinnovarsi, per diciotto mesi e non in una sola città, delle Cinque giornate di Milano.75 Dell’atteggiamento di Piero Gobetti di fronte al rapporto Risorgimento-fascismo vogliamo qui mettere in rilievo due aspetti. Il primo è che il risalire indietro nei decenni era per Gobetti uno strumento della critica che egli intendeva fare a quella classe dirigente che vedeva spappolarsi sotto i propri occhi. Offrire «la teoria di una classe dirigente», sbarazzando il terreno dalla incancrenita tradizione politica italiana, è il com pito che apertamente egli confessa nella Nota conclusiva della Rivoluzione liberale. E altrove, per spiegare il significato che attribuisce al «fallimento della nostra rivoluzione», ricorda «l’in capacità del popolo a esprimere dal suo seno una classe di governo».76 L’interpretazione «ideologica» che Gobetti dà del Risorgimento trova la sua origine in questo accanito desiderio
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di non vedere nella crisi della classe politica qualcosa di occa sionale, e nel rifiuto di cambiare in positivi i segni negativi di cui vedeva costellata la storia d’Italia contemporanea. Accettando la realtà fatta, quale è data dal Risorgimento - scrive - noi dobbiamo soddisfare un’esigenza che il Risorgimento non ha appagata e perciò non possiamo esaltare e porre come aspirazione del nostro avvenire quella debolezza che aspramente pesa su di noi e che è nostro compito sfor zarci di superare prendendone coscienza.77
La dialettica cui Gobetti ricorre per realizzare il suo assunto è una dialettica di puri concetti politici che, messi in moto dal suo moralismo, tentano di sfociare nella realtà con abuso di arti fici e di astuzie della provvidenza; e in questo sta la sua debo lezza, che lo rende in qualche modo compartecipe dell’attivi smo irrazionalistico che voleva combattere, e che lo porta a dare un giudizio incerto proprio sul fascismo. In fondo, il fascismo rimane anche per Gobetti un’aberrazione rispetto a un ideale: aberrazione dalle salde radici storiche, ma individuate unilate ralmente nelle «pecche tradizionali» (e ideologiche) del popolo italiano, e non messe sufficientemente in rapporto con lo svi luppo complessivo della società borghese italiana e mondiale. In tal modo, e passiamo così al secondo rilievo sopra prean nunciato, Gobetti tende a far convivere in maniera singolare la teoria del fascismo-incidente con quella del fascismo «auto biografia della nazione»:78 «parentesi storica», egli definisce il fascismo, «fenomeno di disoccupazione nella economia e nelle idee, connesso con tutti gli errori della nostra formazione nazio nale». Di fronte ad esso occorreva aver fiducia che l’Italia tro vasse in sé la forza di «riprendere quella volontà di vita euro pea che parve annunciarsi, almeno in certi episodi, col Risorgi mento».75, Nel Risorgimento Gobetti distingueva pertanto una parte da rilanciare e una da espungere: ed è caratteristico del suo inte resse prevalentemente accentrato sul problema della classe diri gente che alla critica ad essa rivolta dall’interno egli unisca una chiara insofferenza, di tipo aristocratico, contro quella che pur era stata l’unica manifestazione concreta di una possibile alter nativa risorgimentale all’egemonia piemontese: il garibaldinismo. Anzi, Gobetti giunge a stabilire quasi una filiazione del fascismo dal garibaldinismo, tramite il partito repubblicano.
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Il fascismo — scrive infatti — ricollegandosi alla parte caduca e donchisciot tesca del nostro Risorgimento, si assume quel compito di rivendicazioni romantiche, di predicazione di esaltato patriottismo, di sentimentalismo sociale collaborazionista, che dopo la fine del Partito d’Azione era stato il solo patrimonio continuato dal mazzinianesimo.
E ancora: \' attualismo, il garibaldinismo, il fascismo sono esperienze attraverso cui l’inguaribile fiducia ottimistica dell’infanzia ama contemplare il mondo sem plificato secondo le proprie misure.80
La Resistenza, e non i soli comunisti, preferirà rifarsi a un Garibaldi e a un garibaldinismo positivi: ma vedremo come in Giustizia e Libertà ricomparissero le preoccupazioni, proprie dell’antifascismo di élite, nei confronti di un garibaldinismo rite nuto (cogliendone, certo, un aspetto reale) simbolo di piccola borghesia disoccupata, incolta, sbracata e retorica. L’espressione «secondo Risorgimento» fu usata per la prima volta esplicitamente nell’ambiente da cui doveva uscire Giusti zia e Libertà; e, fra tutte le formazioni politiche che presero poi parte alla Resistenza, il Partito d’Azione o, almeno, la sua ala che discendeva direttamente da gl, fu senza dubbio quella che più potè considerarla congeniale. Già Rosselli e Parti al processo di Savona per la fuga di Turati avevano affermato la necessità di riprendere, integrandola, la tradizione di un Risorgimento rimasto patrimonio di pochi, feno meno di avanguardie e non di popolo, Rosselli accentuando il significato socialista di questa ripresa e insieme il senso di una continuità familiare che portava, a distanza di mezzo secolo, due Rosselli ad ospitare l’uno Mazzini esule in patria, l’altro Turati fuggiasco; Parri, ex combattente, rivendicando il signi ficato risorgimentale della guerra 1915-18 contro l’accaparra mento fattone dal fascismo.81 Di «secondo Risorgimento» Rosselli parlerà poi spesso, sia nei suoi scritti ideologici che in quelli politici. Nel primo appello di gl agli italiani82 egli dichiara che «la lotta è durissima e impone i massimi sacrifici. Questo è il prezzo del secondo Risor gimento italiano», e propone il motto «insorgere per risorgere» che poi, con il saluto alla città delle Cinque giornate, sarà stam pato sui manifesti lanciati da Bassanesi su Milano l’i 1 luglio 1930, nonché sui buoni-moneta distribuiti da gl con evidente
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richiamo al prestito nazionale mazziniano. È evidente la deri vazione di molti motivi della eclettica ideologia rosselliana da Gobetti, «genio precoce», che «aveva indicato la via del riscatto con gli ideali dell’autonomia e della rivoluzione liberale ope raia».83 Ma Rosselli potè conoscere non soltanto il fascismo delle origini, quello di cui Gobetti aveva colto con finezza gli aspetti di gratuità dannunziana, estetizzante e tardoromantica, ma anche il fascismo nel pieno del suo potere, quello che si atteg giava a signum contradictionis del secolo. Rosselli tentò perciò di fondere la tesi del fascismo male tipicamente italico con l’al tra, di cui si fece tenace propugnatore, del fascismo come novità di portata mondiale, cui pertanto andava opposta, da parte del l’antifascismo, altrettanta novità. Egli stesso, in un importante scritto del 193 7,84 in cui traccia come un bilancio della sua creatura politica, pone al 1932 l’anno in cui gl passa dalle posi zioni di concentrazione democratica socialista, sostenute però fin da allora dall’impegno di «rivolta contro gli uomini, la men talità, i metodi del mondo politico prefascista, responsabile della fine miserabile dell’Aventino », alla prospettiva dell’oltrefasci smo, per usare un’espressione ricorrente sulla stampa giellista. Il 1932, scrive Rosselli, per il fascismo è il decennale, l’ingresso nel pnf di sei milioni di nuovi iscritti, la nuova demagogia cor porativa: insomma, l’apparenza della stabilità. Per gli antifa scisti, è la fine del periodo postaventiniano. Una nuova genera zione d’italiani si affaccia: quella per cui il fascismo «non è più la parentesi irrazionale; è la norma, il punto di partenza per ogni azione». A questi fenomeni italiani sempre più avrebbero fatto riscontro, amplificandone il significato, quelli europei: Hitler,85 Dollfuss, le Asturie, la giornata del 6 febbraio 1934 a Parigi, la Sarre,86 e infine, esperienza culminante, la Spagna. Di fronte alla guerra d’Etiopia, Rosselli aveva dichiarato con vigore che «si deve essere disfattisti integrali e pratici» e accettare la guerra civile, ricordando che durante la prima guerra mondiale c’erano stati dieci milioni di caduti invano, e «quasi tutti coatti».87 Di fronte alla Spagna, come ha messo in evidenza il Garosci,88 egli manifestò la sua fiducia in un antifascismo mondiale come forza autonoma, con fini non necessariamente coincidenti con quelli politici e diplomatici delle varie potenze: con il che ve niva posto con chiarezza, anche se in termini alquanto astratti e moralistici, un problema delicatissimo per la Resistenza, che
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pure dovrà distinguere fra i suoi interessi specifici e quelli mili tari e diplomatici delle potenze della coalizione antihitleriana. La parola d’ordine del «secondo Risorgimento» costituiva un antidoto specifico solo per il primo aspetto del fascismo, quello italico, perché la dilatazione del Risorgimento ad «età» di significato europeo non era persuasiva, che anzi il Risorgimen to appariva, agli storici meno conformisti e meno nazionalisti, il tentativo di un popolo arretrato di portarsi al livello di altri d’Europa più evoluti; e proprio l’insoddisfacente esito di quel tentativo, che si scontava col fascismo, poteva giustificare l’esi genza che esso venisse con più energia ripreso. Rosselli rielabo rava le tesi del fascismo «rivelazione degli italiani agli italiani» e « autobiografia della nazione », della mancanza in Italia di rivo luzioni popolari e di lotte religiose, dei Savoia che «furono tosto l’equivalente dei Lorena e dei Borboni», della burocrazia pie montese che «serrò nelle sue spire tutta l’Italia», di Mazzini e Cattaneo «grandi vinti del Risorgimento», della prassi cor ruttrice del giolittismo che invischiò anche i socialisti, rei fra l’altro (va segnalata tale indulgenza di Rosselli) di avere inter rotto la «tradizione socialista locale che aveva avuto in Maz zini, Ferrari e Pisacane i suoi principali rappresentanti».89 Ne derivava che il fascismo «è il risultato più passivo della storia d’Italia, è un gigantesco ritorno ai secoli passati, un fenomeno abietto di adattamento e di rinuncia»; e che esso è nato come per esplosione di fermentazioni nascoste della razza, dell’e sperienza delle generazioni (...). Il fascismo si radica nel sottosuolo ita liano, esprime i vizi profondi, le debolezze esistenti, le miserie del nostro popolo, del nostro intero popolo.90
Queste ultime citazioni le abbiamo tratte da Socialismo libe rale, scritto nel 1929, prima cioè della «svolta» del 1932, cui sopra accennavamo; e pertanto sarebbe inesatto contrapporle con puntualità formalistica alle tesi sul fascismo fenomeno mon diale. Tuttavia, non è possibile risolvere integralmente con la cronologia la difformità delle due interpretazioni offerte da Ros selli, perché entrambe, sia pur con diversa accentuazione, si tro vano nelle due fasi del suo pensiero politico. Durante la guerra di Spagna, ad esempio, che segna il culmine della seconda fase, i richiami rosselliani al Risorgimento, ai suoi esuli, ai suoi volon tari, ai suoi legami con la libertà del popolo spagnolo, non sono dovuti soltanto a nobile enfasi.91
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Il fatto è che può cogliersi in Rosselli uno sforzo di sintesi analogo a quello che contemporaneamente, e sia pur da altro punto di vista e con altri risultati, venivano compiendo i comu nisti: fondere la considerazione sul fascismo primogenito con quella sui fascismi, fino a cercare di attingere una definizione del fascismo come sistema politico proprio di una certa fase dello sviluppo della società borghese. Crediamo non vada sottovalu tata, negli antifascisti non comunisti, la spinta che a tale slargamento del quadro derivò dall’umiliazione di sentirsi rinfac ciare che chez nous o mit uns (proprio così: anche mit unsi) un fenomeno d’inciviltà come il fascismo non sarebbe stato possi bile:92 rinfaccio democratico che si mescolava (il danno e la beffa) alle lodi conservatrici per Mussolini baluardo dell’Occidente contro il bolscevismo e, nella fervida fantasia di qualche baronetto inglese, novella incarnazione di Garibaldi.93 In che cosa consistesse, per Rosselli, la modernità mondiale del fascismo non è compito di questo scritto riesporre. Possiamo solo ricordare quanto egli, senza tuttavia mostrare una reale conoscenza delle tesi sull’imperialismo di Lenin, cui preferisce il De Man, insista sulla novità del capitalismo contemporaneo che rimprovera (nel 1929)94 al marxismo di non più compren dere, dato che l’elemento essenziale non starebbe più nella pro duzione, ma nella distribuzione e nella morale. L’eclettismo cul turale, favorito dalle ambizioni superatrici, e l’affrettato desi derio di porsi in una posizione di punta sulla scena politica ita liana o addirittura europea, offuscano in realtà in Rosselli l’in tuizione storico-politica fondamentale, che finisce col venire argomentata in termini poco coerenti e persuasivi. In contrad dittorio con Salvemini, egli afferma potersi parlare di «sistema economico fascista», di «tipo nuovo di struttura sociale», di nuova barbarie alleata con un tecnicismo forsennato.95 Ed è nota la sua definizione dei fascismi come i più perfetti regimi di massa della storia: con il che, come già abbiamo fatto notare a proposito del Volpe, si coglieva del fascismo un aspetto reale, ma nello stesso tempo lo si distorceva in una interpretazione sostanzialmente moralistica e aristocratica che rischiava, fra l’al tro, di dimenticare proprio le critiche al Risorgimento come movimento di pochi. Secondo Rosselli «la massa, in quanto massa, è brutale, ignorante, impotente, femminile, preda di chi fa più chiasso, di chi ha più quattrini, di chi ha la forza e il
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successo (...). Combattere i regimi di massa fascisti a forza di massa, è tempo perso».96 Il senso della classe operaia come élite della rivoluzione liberale, mutuato da Gobetti,97 non era sufficiente a riempire il vuoto così prodotto e a far fronte ai compiti sempre più pressanti posti dall’espansione fascista nel mondo. Non era sufficiente sul piano della teoria e dell’azione politica a lunga scadenza, perché la nobiltà del comportamento di Rosselli, fino a che Mussolini e Ciano non lo fecero assassi nare, non ha certo bisogno di essere difesa. Il «secondo Risorgimento» non rimase senza opposizione nel l’ambito di gl, e nel 1935 si svolse in proposito sul settimanale del movimento una discussione di notevole vivacità e interes se.98 Aprì il fuoco Andrea Caffi il quale, portando alle estreme conseguenze la critica al Risorgimento, fallito fin dal nascere, che ha «avuto per sbocco (tutt’altro che inaspettato) il fasci smo», e attaccando con particolare veemenza il gretto e cultu ralmente improduttivo Mazzini, negava la convenienza dell’an tifascismo a rifarsi al Risorgimento, nel quale «prevalgono elementi, ai quali i nostri avversari hanno più ragione di attin gere che non noialtri, sovversivi senza riguardi». In un succes sivo, più elaborato, intervento Caffi chiariva che «la questione si pone non sul piano della cultura storica, ma su quello della pratica»: sull’utilità, cioè, per i rivoluzionari di oggi, di pren dere come modello gli impacciati rivoluzionari di ieri. Con il che il carattere pragmatico del «secondo Risorgimento» era for zato fino a considerare la comprensione della verità storica total mente irrilevante per l’efficacia dell’azione politica; ma, nello stesso tempo, veniva individuato un punto che, vedremo fra poco, avrebbe messo in sospetto, anche se con altra motivazione, anche i comunisti: parlare di secondo Risorgimento non signi ficava distoreere lo sguardo dall’avvenire al passato, non signi ficava «porre una (fosse pure parziale) “restaurazione” fra le finalità dell’antifascismo italiano?». Il Risorgimento, insomma, non lo si poteva raddrizzare: era stato quello che era stato, una volta per tutte, moto per nulla popolare e guidato, a loro esclu sivo vantaggio, da retrive oligarchie; e come si sarebbe potuto in buona fede negare che l’Italia di Giolitti, che aveva parto rito quella di Mussolini, era creatura del Risorgimento? Il supporto ideologico dell’atteggiamento di questa frazione di gl fu esposto dall’intervento di Nicola Chiaromonte, e con
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sisteva in una violenta dissociazione del motivo della libertà, trattato con sensibilità quasi anarchica, da quello della nazio nalità, dando a quest’ultimo un significato, ab antiquo, total mente negativo, quello che, appunto, aveva irrimediabilmente compromesso il valore di civiltà del Risorgimento. Chiaromonte sbeffeggiava, conseguentemente, sia Croce e la storiografia libe rale, di cui vedeva, non a torto, una difesa nelle tesi raccoman date da Venturi, sia Marx per il suo principio della rivoluzione nazionale tappa della rivoluzione sociale. La posizione rosselliana, fu sostenuta dall’«uomo della stra da», e poi da Rosselli stesso. Griffith, l’autore di Mazzini pro feta di una nuova Europa, si limitò a difendere la nobiltà del credo spirituale di Mazzini; e Calosso si prese il gusto di ritor cere l’accusa di reazionarismo in pectore all’antirisorgimentismo di Caffi e di Chiaromonte. Rosselli riconobbe anch’egli che, più che di un problema storiografico, si trattava di un problema del movimento rivoluzionario italiano; ma, appunto per questo, è conveniente, si chiedeva, lasciare il monopolio del Risorgimento al fascismo? Egli rispondeva distinguendo due Risorgimenti: quello «ufficiale, prima neoguelfo, poi sabaudo e sempre mode rato», e quello popolare, in cui nazionalità e libertà erano stati momenti inscindibili; di quest’ultimo, sconfitto fra il 1859 e il i860, l’antifascismo aveva tutto il diritto e l’interesse a pre sentarsi come vendicatore e continuatore. Ne era riprova la per manenza nel popolo italiano della tradizione risorgimentale democratica, come dimostrava, fra l’altro, il grande successo edi toriale delle dispense della Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia dello Spellanzon. La discussione su gl mise in luce il facile scambio di posi zioni (ad esempio, rispetto al «popolo» nel Risorgimento: era più «rivoluzionario» rivendicarne la presenza, o darne per scon tata l’assenza?) e il rischio di astratti giochi dialettici nel maneg gio di termini storiografici disancorati dalla loro base effettuale. Risultava comunque evidente che l’antifascismo non poteva non fare i conti col Risorgimento, e che la difficoltà consisteva nella elaborazione di una nuova sintesi, dopo quella liberale, fra dati (per la maggior parte dei quali non c’era tuttavia, almeno per il momento, che da rifarsi alle ricerche degli storici tradizio nali), nuove spinte politiche e nuove esigenze metodologiche.
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5. I socialisti. I comunisti fra Gramsci e il «cosiddetto Risorgimento »
Anche il socialismo scese in campo su questo terreno. Le for tune del Risorgimento nel socialismo italiano erano state varie, e una indagine accurata su di esse servirebbe anche a chiarire quanto di veramente popolare c’era nel mito del Risorgimento, e quanto invece di piccolo-borghese colto o semicolto. Schema tizzando, può dirsi che, alle origini, il movimento operaio ita liano, proprio perché nasceva dalla delusa democrazia risorgi mentale, dovette, per prendere coscienza della propria origina lità, accentuare la polemica politica e ideologica contro di quella e contro i due Giuseppi che ne erano i pontefici massimi. Il mag gior attaccamento alle tradizioni della sinistra risorgimentale rimase perciò una caratteristica delle ali destre del movimento, quelle che meno riuscivano a sottrarsi ad una posizione subal terna nei confronti della piccola borghesia democratica, e che erano conseguentemente inclini alla politica dei blocchi con mas soni, liberi pensatori, mazziniani e garibaldini. Il Partito socialista italiano ereditò da questa situazione una relativa indifferenza nei confronti del Risorgimento. Se si scorre, ad esempio, la «Critica Sociale» degli anni 1909, 1910, 1911 non si trova alcuno scritto che prenda posizione nei confronti del cinquantenario dei fatti conclusivi dell’unificazione, se non due insignificanti articoletti, pur scritti da un membro della dire zione del partito, e che, del resto, rientrano nella campagna per il suffragio universale." I giudizi che Marx ed Engels avevano dato sul processo di unificazione italiana100 non stimolarono la elaborazione della problematica che poteva scaturirne per il movimento operaio, per quanto, nella nota lettera a Turati del 26 gennaio 1894,101 Engels enunciasse un giudizio destinato a divenir classico, e cioè che la borghesia italiana «noa seppe né volle completare la sua vittoria», cosicché anche ailTtalia poteva applicarsi la tesi di Marx sui paesi che soffrono insieme dello sviluppo della produzione capitalistica e della mancanza di esso. La sostanziale accettazione dell’alveo del regime parlamen tare borghese per svolgere la propria specifica azione di classe, implicava naturalmente, per il partito socialista, il riconosci mento di certe strutture fondamentali dello Stato scaturito dal
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Risorgimento. Era un riconoscimento che sarebbe stato aspra mente rinfacciato dai comunisti delle origini, pronti a vedere, come fece Rakovsky nella discussione sulla «questione italiana» al III congresso dell’Internazionale comunista (giugno-luglio 1921), nei richiami che alle «tradizioni del Risorgimento» vi sarebbero stati nella «Critica Sociale» (cosa, abbiamo visto, da non prendere alla lettera), una manifestazione del socialpatriottismo e del riformismo di Turati.102 Ma era anche un ricono scimento che avrebbe fornito in seguito, unitamente a più remo te ispirazioni che potrebbero farsi risalire alle lodi del Manifesto verso l’opera rivoluzionaria saputa svolgere dalla classe borghese, armi polemiche contro la borghesia italiana traditrice dei suoi stessi ideali, secondo uno schema che proprio Lenin enunciava fin dal 1915, in occasione dell’entrata in guerra delITtalia: L’Italia democratica e rivoluzionaria, cioè l’Italia della rivoluzione bor ghese che si liberava dal giogo austriaco, l’Italia del tempo di Garibaldi, si trasforma definitivamente davanti ai nostri occhi nell’Italia che opprime altri popoli, che depreda la Turchia e l’Austria, nell’Italia di una borghesia brutale, sudicia, reazionaria in modo rivoltante, che all’idea di essere am messa alla spartizione del bottino, si sente venire l’acquolina in bocca.105
Toccò a Gramsci compiere lo sforzo più complesso di ripen sare, in una nuova sintesi socialista, la più recente storia d’Ita lia. Questo sforzo si basava, obiettivamente, sulla maturità rag giunta dal movimento operaio italiano, che poteva infine riproporsi, senza complessi, il problema del suo rapporto col Risorgimento, sottraendosi alla posizione subalterna che era stata della sua ala destra, come pure al rifiuto polemico che aveva caratterizzato le sue correnti più vivaci della sinistra. In Gram sci questa maturità si esprime col porre il problema dello Stato in generale, e di quello italiano, della sua origine e delle sue carat terizzazioni storiche, in particolare. Gramsci volle slargare la sua attenzione dagli sconfitti del Risorgimento a tutto lo Stato e alla sua classe dirigente, nelle cui caratteristiche soltanto, del resto, potevano esser pienamente colti i motivi di quella scon fitta. Proprio per questo, le fonti immediate di Gramsci, nelle sue considerazioni sulla storia d’Italia, vanno ricercate non tanto nella tradizione socialista italiana (che, abbiamo ricordato, era stata poco sensibile all’argomento), e tanto meno nelle queri monie degli epigoni del mazzinianesimo, ma nelle élite critiche che si erano formate nell’interno stesso della classe dirigente:
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Salvemini, i liberisti di sinistra e, in un rapporto di dare e avere, Gobetti.10,1 Gramsci innestò alcuni risultati di quella critica nel suo marxismo riattiviz2ato dalle esperienze leniniste e della rivo luzione d’Ottobre: e ne derivò quel nuovo quadro dello Stato italiano su cui è ancora impegnata la discussione di storici e di politici. Le prese di posizione del Partito comunista d’Italia, che ricorderemo tra poco, fanno sorgere l’interrogativo sulla cir colazione e l’influenza che le idee elaborate in forma definitiva nei Quaderni del carcere ebbero nel partito della clandestinità e dell’esilio. Si tratta di un problema dalle ampie implicazioni, e che il limitato angolo visuale di questo scritto può solo sfiorare. Pubblicamente Gramsci aveva già manifestato alcune sue tesi risorgimentali ai tempi dell’«Ordine Nuovo», riconoscendo, ad esempio, che «la borghesia italiana è stata lo strumento storico di un progresso generale della società umana», ma che ormai, perso tale ruolo, sta affossando e disgregando la stessa nazione da lei creata, cosicché «solo lo Stato proletario, la dittatura pro letaria, può oggi arrestare il processo di dissoluzione dell’unità nazionale»: tema, questo, che avrà ampi e caratteristici sviluppi, innestandosi in quello della vera unità (non quella del regno sorto «con un vizio di origine che lo rende incapace, nonché di risolve re, di sentire il problema del popolo»), da realizzare finalmente con l’alleanza degli operai del Nord e dei contadini del Sud.105 I socialisti delle varie correnti non sembra che approfondis sero, nell’esilio, questi suggerimenti, né che ne venissero sti molati a proprie originali riflessioni, il loro impegno politico culturale essendo rivolto in altre direzioni. I socialisti non potendo, specie nei primi anni di esilio, non rimanere in qual che modo fedeli al proprio passato, furono frenati sulla via di quell’integrale riesame dei rapporti politici e di classe sviluppa tisi in Italia dal Risorgimento in poi, sulla quale si erano messi sia i comunisti che gl. I socialisti perciò, proprio perché parte integrante del sistema politico prefascista e giolittiarto, indu giarono a riconoscere nel fascismo un fenomeno che non fosse solo una parentesi nella «normalità». Glielo rimproverava Ros selli;106 e, nell’alternativa di polemiche e di collaborazione che caratterizzò i rapporti fra socialisti (prima e dopo la riunifica zione del 1930) e gl,107 da parte socialista si univa alla critica del carattere generico e aclassista del socialismo di gl - «anti capitalismo da ceti medi», come lo definì Nenni -108 un certo
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fastidio per un atteggiamento che voleva sbarazzarsi con tanta irruenza di tutta una tradizione ancora cara, pur nello sforzo di rinnovamento, al socialismo italiano. Per quanto riguarda i comunisti, la grande svolta compiuta dopo l’ascesa di Hitler al potere, divide in due fasi, i cui rap porti di continuità e di rottura non sono di facile definizione, il loro atteggiamento anche di fronte al problema che stiamo esaminando: riprova, questa, di quanto esso sia legato alla evo luzione generale delle correnti antifasciste, per l’esame delle quali costituisce un limitato, ma non impreciso, reattivo. Nelle Tesi del congresso di Lione (gennaio 1926)109 ricom pare con grande evidenza l’argomento, cui già abbiamo fatto cenno, del proletariato come unica forza unitaria d’Italia, dato che la «classe industriale non riesce a organizzare da sola la società intiera e lo Stato». «La costruzione di uno Stato nazio nale - si aggiunge -, non le è resa possibile che dallo sfrutta mento di fattori di politica internazionale (cosiddetto Risorgi mento)». E Gramsci stesso, autore con Togliatti delle Tesi, che spinge qui a tal punto la critica dello Stato italiano da coinvol gervi, tout court, il Risorgimento: posizione di cui, nel contesto del pensiero di Gramsci, è possibile precisare e chiarire il signi ficato; ma che, nella polemica politica del partito fino agli anni della svolta, farà del «cosiddetto Risorgimento» una espressione largamente e sprezzantemente usata. Partendo dalla premessa, già implicita nelle Tesi di Lione (richiamantesi a quelle del V con gresso mondiale sulla divisione di funzioni fra fascismo e demo crazia), che «la sola politica antifascista è la politica comuni sta» e che «la lotta per abbattere il fascismo ed eliminarlo completamente dalla vita politica italiana coincide con la lotta per la instaurazione dello Stato operaio in Italia»,110 i comu nisti conducono un’aspra battaglia contro tutte le posizioni che sembrano prospettare l’ipotesi che il fascismo possa essere invece rovesciato da forze democratiche borghesi, con la conseguente restaurazione dello Stato parlamentare e democratico borghese. Così, ad esempio, più volte «Lo Stato Operaio» sente il biso gno di chiarire che la espressione «rivoluzione popolare», con tenuta nella risoluzione sulla situazione italiana approvata dal Praesidium dell’Internazionale nel gennaio 1927, non può venire intesa come parola d’ordine mirante ad accodare il Partito comu nista a una rivoluzione antifascista democratico-borghese, ma
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solo come individuazione di una prima tappa, di un periodo di lotte aperte antifasciste e per la egemonia del proletariato.111 Tale atteggiamento fu rafforzato dalla convinzione, espressa dal decimo Plenum dell’esecutivo dell’Internazionale (nel 1929, quando ci fu la svolta in senso intransigente - il «socialfascismo» - che portò all’espulsione dal partito italiano di Tresso, Leonetti e Ravazzoli) che «il lineamento fondamentale della situazione è l’inizio di una nuova ondata di movimento rivolu zionario ascendente».112 Gli atteggiamenti neorisorgimentali dovevano necessaria mente fare le spese di una tale politica, secondo la quale, va ancora ricordato tenendo presente che il bordighismo non fu eliminato d’un colpo (Bordiga fu espulso solo nel 1930), «il pro letariato non deve rivendicare la conquista democratico-parla mentare».113 Fin dal primo numero di «Lo Stato Operaio», nel? Editoriale già citato, si polemizza infatti contro coloro che «parlano della battaglia contro il fascismo nei termini di Maz zini e del liberalismo di tre quarti di secolo fa»; e in un articolo dell’anno successivo,11"1 sbozzate rapidamente le «stentate vi cende del cosiddetto Risorgimento», e ricordato che «i tratti ca ratteristici del regime fascista nbn sono altro che lo sviluppo, logico e conseguente sino alle conseguenze estreme, di princìpi, di consuetudini e di stati di fatto i quali erano insiti nello stesso regime statutario», si concludeva affermando che «l’antifasci smo liberale democratico e socialdemocratico non spezza il cer chio di questa politica. E un momento di essa. È una posizione di attesa e di riserva». L’attacco frontale contro il Risorgimento, vecchio e nuovo, doveva venir sferrato da Togliatti nel corso di un violento arti colo contro Rosselli e Giustizia e Libertà.115 Una prima presa di posizione nei confronti di gl si era avuta nel numero precedente della rivista, con un articolo di Giorgio Amendola che, riesponendo le tappe del cammino da lui e da altri compiuto dal gobettismo (si cita Risorgimento senza eroi) al Partito comunista d’Italia, riconosceva che altri gobettiani erano invece passati a GL, verso la quale egli usa un linguaggio un po’ meno aggressivo di quello di cui poco dopo si sarebbe servito Togliatti.116 Il quale, fors’anche perché preoccupato di una certa forza di attrazione che gl mostrava di esercitare sui comunisti che uscivano dal partito,117 tiene a considerare assurdo ogni parai-
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lelo fra Gobetti e Rosselli: l’uno povero, pensatore originale, rivoluzionario; l’altro ricco, dilettante dappoco, revisionista ignorante del marxismo fino alla malafede. L’obiettivo politico principale dell’articolo è espresso con chiarezza: Giustizia e Libertà - scrive Togliatti - rappresenta, in questa crisi, il ten tativo più vasto che sino ad oggi sia stato fatto dalla intellettualità piccolo borghese e dalla piccola borghesia radicale per darsi una posizione politica autonoma, assumendo essa la direzione di tutto il movimento antifascista.
Contro tentativi di tal genere la replica dei comunisti non poteva mai essere troppo dura. L’ideologia del «nuovo Risorgimento» è vista da Togliatti come strumentale rispetto all’ambizione politica di gl. Già nel l’articolo di commento ai Patti lateranensi Togliatti aveva par lato del «Risorgimento» e della «Terza Italia» come ideologia autonoma che la borghesia italiana aveva tentato di darsi, peral tro con meschini risultati.118 Ora scrive che la dissoluzione del mito del «Risorgimento» nazionale è uno dei risultati cui era già arrivata la critica storica più spregiudicata. Nella propaganda di Giustizia e Libertà il mito viene restaurato in pieno, e nella sua forma più pacchiana, nella stessa forma, del resto, in cui lo si trova, col marchio di dottrina ufficiale, nei «libri di Stato» del fascismo per le scuole ele mentari. Il «Risorgimento» è, per il piccolo-borghese italiano, come la fan fara militare per gli sfaccendati. Fascista o democratico, egli ha bisogno di sentirsela squillare agli orecchi, per credersi un eroe. Il «Risorgimento» italiano è stato - siamo tutti d’accordo - un movimento stentato, limi tato, rachitico. Le masse popolari non vi partecipano. I suoi eroi sono figure mediocri di uomini politici di provincia, di intriganti di corte, di intellet tuali in ritardo sui loro tempi, di uomini d’arme da oleografia. Ma tutto questo non è stato un caso, tutto questo ha avuto una ragione.
E la ragione sta nel fatto che la borghesia italiana, non avendo voluto risolvere il problema della terra e della distruzione totale della feudalità, non potè essere conseguentemente rivoluziona ria «per la paura che il suo potere venisse travolto prima ancora di essere saldamente instaurato». Ma appunto perciò, prosegue Togliatti, «è assurdo pensare che vi sia un “Risorgimento” da riprendere, da finire, da fare di nuovo, e che questo sia il com pito dell’antifascismo democratico». Infatti, il capitalismo ita liano è ormai divenuto imperialismo, è nata la moderna lotta di classe e i contadini si trovano di fronte proprio la borghesia risorgimentale, reazionaria oggi come ieri.
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La tradizione del Risorgimento vive quindi nel fascismo, ed e stata da esso sviluppata fino all’estremo. Mazzini, se fosse vivo, plaudirebbe alle dot trine corporative, né ripudierebbe i discorsi di Mussolini su «la funzione dell’Italia nel mondo». La rivoluzione antifascista non potrà essere che una rivoluzione «contro il Risorgimento», contro la sua ideologia, contro la sua politica, contro la soluzione che esso ha dato al problema dell’unità dello Stato e a tutti i problemi della vita nazionale. Le questioni che il Risorgimento, come rivoluzione borghese, non ha risolto, dovranno essere risolte contro la classe che fu protagonista del Risorgimento, dalla classe che oggi è rivoluzionaria, dal proletariato (...). I borghesi tengono curvi i contadini sotto il giogo del capitale. Le fantasie sul «secondo Risorgi mento» sono fatte solo per nascondere questa realtà.
Abbiamo riportato ampiamente l’articolo di Togliatti non solo perché i suoi argomenti verranno ripresi in numerosi scritti di «Lo Stato Operaio»,119 ma perché, connesso al significato politico immediato cui sopra abbiamo fatto cenno, l’articolo ne ha un altro che si presta a considerazioni più generali. I comunisti si trovarono infatti di fronte a un problema ana logo a quello che richiamava l’attenzione di Rosselli: fondere la considerazione sul fascismo come fenomeno mondiale carat terizzato dalla «dittatura terroristica aperta degli elementi più reazioniari, più sciovinisti, più imperialistici del capitale finan ziario» (secondo la nota definizione datane poi da Stalin nel 1933), con l’altra sul fascismo legato a tutte le tare storiche di un paese ben individualizzato come l’Italia. Era un problema di largo respiro legato alla struttura composita dell’Italia (anello forte o anello debole?) e, in definitiva, a quella che sarebbe stata poi la controversia sulla «via italiana al socialismo». I comunisti, in effetti, proprio mentre sembravano spingere alle più drastiche conseguenze la tesi del Risorgimento fallito, potevano (e possono) soltanto fino a un certo punto farla inte gralmente propria. Per quanto meschino e stentato, il Risorgi mento non può tuttavia non rimanere, marxisticamente, il pro cesso storico che ha portato in Italia al potere la borghesia: borghesia asfittica, poco coerente, che non ha saputo legarsi i contadini ecc., ma pur sempre borghesia.120 Non solo. Ma tale borghesia, sia pure alla retroguardia e col fiato grosso, ha seguito poi una linea di sviluppo sostanzialmente simile a quella delle altre borghesie, ed è divenuta imperialistica come tutte le altre. Si tratta, anche qui,-di un imperialismo w generis, da straccioni, ma, contro tutte le altre proposte d’interpretazione del fasci
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smo, «sul carattere imperialistico del capitalismo italiano non vi possono essere dubbi», come scriveva Longo.121 E Togliatti, polemizzando con Salvemini, affermava che non la mania di grandezza o la buffoneria di Mussolini stavano alla radice della politica estera fascista, ma le basi obiettive dell’impe rialismo italiano, debole, ma non per questo non aggressivo. To gliatti ne prendeva spunto per un’altra spallata al Risorgimento: Fa ridere - scriveva - sentir accennare qua e là a una politica estera del «Risorgimento italiano» che sarebbe stata qualcosa di grande, di generoso, idealistico, rettilineo. Per dirla con Marx, non vi è stato nulla di più sor dido e pidocchioso della manovra diplomatica, durata più di venti anni, attraverso la quale la dinastia dei Savoia riuscì a trasformare il suo regno di Sardegna in regno d’Italia.122
In un discorso di tal tipo, volto a mostrare di quali meschine lacrime grondasse il capitalismo italiano, il settarismo politico e lo schematismo ideologico erano mescolati ad un forte senso della irripetibilità degli eventi storici (le occasioni, la storia, le presenta agli uomini e alle classi una volta sola) e ad una intran sigente affermazione della novità dei tempi imperialistici, desti nati a sfociare nella instaurazione della dittatura del proleta riato nella Repubblica mondiale dei Soviet, con totale eversione non solo delle strutture economiche capitalistiche, ma anche delle forme politiche della democrazia borghese-parlamentare: nella totale sostituzione, insomma, di una civiltà ad un’altra. Più pensoso della complessità del nodo storico dell’Italia moderna, il Gramsci dei Quaderni del carcere è tratto a non sca vare abissi tra Pieri e l’oggi. Gramsci volle far quadrare l’espe rienza del Nord, dove gli operai si trovano di fronte una bor ghesia con caratteri ormai abbastanza analoghi a quelli della borghesia occidentale, con l’esperienza meridionale dei conta dini rimasti vittime anche della insufficiente rivoluzione bor ghese. Gramsci, insomma, tentò di cogliere l’individualità ita liana in questa coesistenza, nell’ambito di uno stesso Stato, di un anello forte e di un anello debole. Va addebitata all’uso super ficiale delle tesi gramsciane, nonché a certe caratteristiche, che non possiamo qui esaminare, dell’azione del PCI nel dopoguerra, la conseguenza, assai semplicistica da un punto di vista marxi sta, che alcuni sembra abbiano voluto trarne: e cioè che il rim provero principale da muovere alla borghesia italiana sarebbe stato di essere borghesemente poco coerente. No, avrebbe rispo
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sto «Lo Stato Operaio»: ciò che si deve, senza rimpianti, rim proverare alla borghesia italiana (se avessero un senso rimpro veri di tal fatta) è di essere, puramente e semplicemente, bor ghesia. E nella rigidezza di questa posizione che va intesa la denuncia del «cosidetto Risorgimento» come tentativo d’indi vidualizzare il giudizio sul fascismo italiano, senza però cedere alle lusinghe della democrazia borghese. La tesi generale sulla «stabilizzazione relativa» del capitali smo era stata applicata all’Italia affermando che il fascismo era il tentativo di stabilizzazione di «un paese ad economia preva lentemente agricola, sprovvisto di materie prime e di mercati esterni e di un largo mercato di consumo interno».123 E, nelle Osservazioni al «Progetto di programma della Intemazionale Comu nista» presentate alla Commissione del programma del VI congresso mondiale dalla delegazione del Partito Comunista d’Italia (1928), si criticava l’uso troppo generico del termine fascismo, soste nendo che vi sono forme di reazione aperta che non possono a quello assimilarsi. Il fascismo sarebbe infatti caratterizzato dalla debolezza capitalistica del paese e dalla possibilità di appro fittare di uno spostamento e di un movimento di masse della piccola borghesia rurale e urbana.124 Sono le tesi che Togliatti riprenderà e svilupperà, ricollegandole a vari motivi gramsciani sul Risorgimento e sullo Stato da esso scaturito, nel saggio A proposito delfascismo, scritto anch’esso in occasione del VI con gresso dell’Internazionale.125 Alle soglie poi della svolta del 1933-35, Grieco scriverà un interessante articolo126 di contrappunto al dibattito che si svi luppava fra i fautori, soprattutto giellisti, del «secondo Risor gimento», ricordando che non poteva avere senso sperare in una «rivincita» dei «princìpi giusti» che nel Risorgimento avevano avuto la peggio di fronte a quelli «falsi». Grieco riprendeva alcune delle critiche rivolte da Gramsci al Partito d’Azione, rim proverava a Garibaldi, che nel i860 avrebbe potuto diventare il «Washington italiano», di essersi invece impigliato in una «diplomazia di bassa lega» e, ribadendo che i problemi non risolti dal Risorgimento potevano ormai esserlo solo nel nuovo quadro di classe, affermava con orgoglio che «l’introduzione al programma dei comunisti italiani è la storia d’Italia». Subito dopo chiariva molto bene la differenza fra la «continuità» riven dicata dai comunisti e quella di cui si faceva invece banditore
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l’antifascismo borghese: «Il partito del proletariato rivoluzio nario italiano non è il continuatore di nessun partito storico, ma solo del movimento politico del proletariato, dal momento in cui questo è sorto dalla nuova classe rivoluzionaria». Con il che, tuttavia, insieme alla tradizione dei partiti politici ita liani si rischiava anche di espungere dal socialismo ogni tradi zione di pensiero democratico, pur nei limiti, certo modesti, in cui esso si era manifestato in Italia. La svolta operata dopo il 1933, e sanzionata dal VII con gresso della Internazionale (1935), è evento di troppo vasta por tata nell’intero comuniSmo mondiale per poter essere valutato adeguatamente in questa sede. La necessità di far fronte a Hitler e alla minaccia di guerra che scaturiva dalla sua ascesa al potere spinge I’urss e i comunisti a uscire dallo splendido isolamento fino ad allora mantenuto. Essi si convincono che, nella lotta contro il fascismo mondiale (la Francia, nel febbraio 1934, era apparsa anch’essa sull’orlo dell’abisso), il proletariato (e I’urss sul piano diplomatico) non può «fare da sé», ma ha bisogno di alleanze che, ormai, è in grado di sollecitare senza tema di restarne inquinato, poiché ha alla sua testa un partito e uno Stato per definizione incorruttibili, quali appunto sono il Partito comu nista e l’Unione Sovietica. É vero, le tesi sul «fronte unico» erano state approvate fin dal 1921 dal Comitato esecutivo del l’Internazionale, e nel congresso di Lione del pedi il tema era stato ampiamente sviluppato. Ma proprio a Lione si era chia rito che la tattica del fronte unico mirava a unificare il proleta riato sulle posizioni comuniste; tanto che essa, come azione poli tica, veniva definita «manovra» volta a smascherare i dirigenti di partiti e gruppi sedicenti rivoluzionari, per strappare loro la base, alla quale, quindi, direttamente ci si rivolgeva. Con la tattica dei fronti popolari, inaugurati concretamente in Francia, ci si sposta invece su un altro piano: si cerca l’ac cordo di vertice con partiti e movimenti non comunisti, in quanto tali. È caratteristica, al riguardo, la polemica sulla «unità organica», svoltasi coi socialisti: nel 1932 Grieco spiegava che la tattica del fronte unico consisteva nello stabilire l’unità di lotta «con qualsivoglia organizzazione o gruppo di proletari disposto a battersi per una rivendicazione di classe, quale che sia».127 Nei programmi di unità antifascista seguiti alla svolta, i comunisti, invece, tennero proprio a escludere le precise riven-
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dicazioni di classe, e perciò contrastarono la tendenza sociali sta a vedere nel riaccostamento dei due partiti l’avvio alla unità organica della classe operaia.128 C’era, in questo atteggiamento comunista, il desiderio di sfruttare fino in fondo la nuova tat tica (che si rivolgerà infatti sempre più anche a gruppi e partiti per nulla proletari e «a tutti gli uomini semplici e di buona volontà»), senza tuttavia rinunciare completamente all’antica, conservando intatto il nucleo comunista come unica élite diri gente dell’intero gruppo di alleati.129 Insomma: verso l’esterno apertura, larghezza e duttilità, fino al più spicciolo realismo; all’interno, ferma preservazione del carattere accentrato e buro cratico del partito, che sembrava condizione indispensabile per affrontare senza rischi questa ed eventualmente altre svolte, a prescindere dal loro contenuto. Altro, naturalmente, dovrebbe essere il discorso sui risultati che, al di là delle iniziali intenzioni dei gruppi dirigenti, furono provocati dalla svolta nella composizione e nella natura dei par titi comunisti, quello italiano in particolare. La svolta, infatti, secondo il costume comunista, fu subito ideologizzata, e da espe diente tattico e diplomatico, sia pur di vasta portata, suggerito da una situazione di emergenza, tese sempre più a trasformarsi in piattaforma programmatica di quello che fu poi detto il «par tito nuovo», ritenuto senz’altro tale da molti arrivati al comu niSmo durante e subito dopo la Resistenza. La «doppia anima» del Partito comunista italiano, e la equivoca formulazione della «via italiana al socialismo» hanno la loro origine in questo carat tere ambiguo della svolta, che, non va dimenticato, si compì in concomitanza con i definitivi giri di vite della dittatura per sonale di Stalin. L’atteggiamento comunista verso il Risorgimento (e chiu diamo così la digressione, necessaria tuttavia per dare un senso a quanto ora diremo) risentì subito del mutamento avvenuto nella direzione politica e di quella che sopra abbiamo chiamato la sua ideologizzazione. Innanzi tutto, non poteva venir mante nuto, nemmeno sul piano ideologico, il totale e sprezzante ostra cismo contro quei gruppi antifascisti non comunisti di cui ormai si sollecitava la collaborazione: non si poteva più parlare, rivol gendosi al psi, di «socialfascismo»;150 non si poteva continuare a insultare i democratici borghesi sensibili a certi movimenti risorgimentali, ma bisognava scendere a più sottili distinzioni.
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L’obiettivo politico immediato della lotta contro il «cosiddetto Risorgimento» veniva in tal modo a cadere. Si doveva inoltre necessariamente ridar fiducia a motivi popolari e popolareschi ritenuti idonei a commuovere le masse; e Garibaldi si sarebbe trovato, fra questi, in prima fila. Ma, accanto a queste manife stazioni tattiche per le quali la intransigenza settaria sembrava cedesse il posto solo a improvvisazioni e confusionarismo, quasi che l’apertura politica dovesse essere scontata con una perdita di chiarezza intellettuale, il nuovo atteggiamento, almeno in chi veramente lo sentì come tale, si sarebbe dimostrato capace di meglio riprendere certi temi cari al pensiero di Gramsci. Il lunghissimo appello lanciato nel 1935 dal Comitato cen trale del partito contro la guerra di Etiopia, Salviamo il nostro paese dalla catastrofe!,131 che pur finiva ancora con le parole «Viva l’Italia proletaria! L’Italia Sovietica! », fu una delle prime ufficiali manifestazioni del nuovo corso. Tutto ciò che vi fu di progressivo, di rivoluzionario - affermava l’appello nelle lotte del secolo scorso e di questo secolo, appartiene al proletariato, è nostro! Noi continuiamo le lotte dei nostri nonni, proseguite dai nostri padri, contro gli oppressori d’Italia, per le libertà popolari, per il benes sere delle masse lavoratrici.
Seguiva la consueta diagnosi sulla borghesia italiana mai stata rivoluzionaria e sulla classe operaia unica capace di fare ciò che quella non aveva fatto; ma, contro il fascismo nato dalle forze che avevano soffocato la rivoluzione popolare del Risorgimento, si rivendicava per sé l’eredità di quella rivoluzione, operando così una distinzione che apriva la porta al reingresso del Risor gimento (o meglio, di una delle facce di esso) fra i beni del patri monio socialista: «La bandiera che passò dalle mani di Pisacane e di Garibaldi a quelle di Andrea Costa e dei pionieri del movi mento socialista, è, oggi, nelle mani del partito comunista». Il manifesto, che si rivolgeva a comunisti, socialisti, massimalisti, repubblicani, anarchici, cattolici e fascisti, trovava il suo sug gello nel lancio di quella politica di «riconciliazione del popolo italiano», di fascisti e «non fascisti», che doveva spingersi, senza che fosse più possibile distinguere la spregiudicatezza dalla inge nuità o dall’opportunismo, fino a rivendicare il programma fasci sta del 1919 come programma di libertà.132 Che la nuova posizione riportasse alla ribalta il problema del
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Carattere internazionale della rivoluzione proletaria e le «partico larità nazionali», è mostrato dall’articolo che con questo titolo, e a commento dell’appello del 1935, fu scritto da Ruggero Grieco,135 che appare fra i dirigenti comunisti più impegnati a dare una base culturale alle posizioni del partito. Grieco che, nel già ricordato scritto attorno al Patto d’accordo coi socialisti del 1934, aveva con sincera enfasi scritto: «Diffondiamo fra le masse lavoratrici il pathos della patria socialista (...) Oggi la Unione dei Soviet e la Repubblica Soviettica cinese sono la nostra patria. Grande fatto per il proletariato del mondo intero, quello di avere finalmente una patria», si sforza di far quadrare questo atteggiamento con la rivendicazione del carattere nazio nale del Partito comunista italiano. Egli concede ai polemisti di gl che nell’Appello c’è del nuovo: ma non, come essi cre dono, un nuovo meramente tattico, bensì l’organico sviluppo di quell’insegnamento di Gramsci che il partito non aveva ancora saputo mettere bene a frutto. Del resto, non aveva già Engels, nella sua lettera a Giovanni Bovio del 14 aprile 1872, osser vato che «nel movimento della classe operaia (...) le vere idee nazionali, cioè corrispondenti ai fatti economici, industriali ed agricoli che reggono la rispettiva nazione, sono sempre nello stesso tempo le vere idee intemazionali»? «Noi possiamo dun que - concludeva Grieco - giustamente richiamarci alla tradi zione rivoluzionaria del Risorgimento nazionale, cioè alla tra dizione delle lotte popolari per la libertà»: e questa continuità è in Italia più intima che nei paesi capitalisticamente più avan zati, proprio per il rachitismo delle soluzioni risorgimentali; né è possibile confondere questa posizione comunista con il fili steismo dei «socialisti nazionali» piccoli borghesi. A questo motivo di rivalutazione della pur sconfitta demo crazia risorgimentale si aggiunge, da parte, ad esempio, di Emilio Sereni,13'1 l’altro di difesa addirittura dello Stato liberale e bor ghese in quanto tale: con il che da una parte si estendeva la tat tica delle alleanze fino alle ali destre della borghesia, dall’altra si poteva riprendere il motivo del riconoscimento, marxisticamente indispensabile, di un qualche sviluppo borghese italiano. Ed è sintomatico che a questo tema si dimostrasse sensibile pro prio chi, come Sereni, si dedicava allo studio del capitalismo nelle campagne italiane, cioè dei reali, se pur particolarmente contraddittori, effetti borghesi del Risorgimento, e non di quelli
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mancati. Perciò Sereni, rivendicando il valore del xx settem bre come momento in cui la classe dirigente italiana compie final mente un atto di significato europeo e mondiale, può affermare che, «nonostante tutta la sua incompletezza ed incoerenza», il Risorgimento rimane un fatto «obiettivamente rivoluzionario», avendo creato in Italia lo Stato moderno, borghese, s’intende, ma unitario, indipendente, laico, costituzionale, «autonomo» (nel senso dello Spaventa): quello Stato che il fascismo aveva dovuto, per disfrenare tutta la sua carica reazionaria, distrug gere, e che è compito di tutti gli italiani «che non rinnegano e non arrossiscono delle lotte dei loro padri», rivendicare. La guerra di Spagna doveva essere l’occasione della glorieuse rentrée di Garibaldi nel mondo del comuniSmo italiano e inter nazionale. Il nome di Brigate Garibaldi nacque in Spagna; e durante quel periodo la stampa comunista (e non solo comuni sta) è piena di richiami all’eroe dei due mondi. La politica del fascismo in Spagna, scriveva Dimitrov, «è in stridente contra sto con le tradizioni democratiche e rivoluzionarie che si incar nano nella immortale figura di Garibaldi, eroe del popolo ita liano, e sono patrimonio inalienabile del popolo italiano».135 «Dovunque si rammenta la libertà, il nome di Garibaldi le tien dietro quasi eco di quella»: queste parole del Guerrazzi furono da Giuseppe Berti poste come epigrafe in testa al primo di due suoi articoli dedicati a Garibaldi.136 Berti ripeteva an cora una volta che se i comunisti parlano di Risorgimento ciò non significa che essi pensino ci sia in Italia una rivoluzione democratico-borghese da compiere. Questo può crederlo gl quando pretende di porsi alla testa di tutto l’antifascismo, men tre invece, come ammoniva in quel torno di tempo Montagnana, meglio farebbe a dedicarsi, più modestamente, ma più utilmente, a organizzare le frazioni antifasciste della media e piccola bor ghesia.137 Berti rivendica la continuità del primo socialismo ita liano con il garibaldinismo, che, proprio per questo, solo in parte può considerarsi sconfitto; e rivaluta il significato rivoluziona rio di Garibaldi, in virtù certo dell 'istinto e non della teoria rivo luzionaria: ma fra il buon istinto e la cattiva teoria, caratteri stica di Mazzini, la scelta deve essere tutta a favore del primo. Caratteristico è il rimprovero che Berti muove a Garibaldi: non quello dell’«ascetico e settario» Mazzini, di essersi messo d’ac cordo con la monarchia, bensì l’altro di non aver saputo, in quel
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l’incontro, essere il più forte, mantenendo in mani democrati che la direzione del fronte unico delle forze nazionali. Insomma, Garibaldi aveva avuto il merito di essere «unitario», ma il deme rito di essersi fatto rimorchiare dagli alleati, anziché rimorchiarli. La riscoperta di un filone democratico del pensiero politico italiano diveniva una delle conseguenze del nuovo corso: e ancora Berti vi si sarebbe dedicato con impegno qualche anno dopo, in America, durante la guerra.158 Avrebbe allora espresso giudizi più equanimi su Mazzini, facendo sue le belle parole di Cattaneo: «Reputava vittorie anche i disastri, purché si com battesse »; e avrebbe invitato a non limitarsi a ripetere all’infi nito i giudizi di Marx ed Engels sui democratici italiani del Risorgimento, i quali, poi, non furono tutti trasformistizzati, che altrimenti fra Garibaldi e Mazzini da una parte e Crispi e Nicotera dall’altra non ci sarebbe differenza. Contempora neamente, Berti avrebbe riaffermato con vigore l’irriducibilità fra democrazia e liberalismo e, a maggior ragione, tra democra zia e liberalismo italiano, che era stato nulla più di un modera tismo e di un cattolicesimo non sanfedista, nato e sviluppatosi come reazione all’illuminismo, alla democrazia e al socialismo assai più che come lotta contro l’assolutismo e i residui feudali, e perciò legittimo antecedente del fascismo. La parziale assolu zione che, sul terreno strutturale, il marxismo doveva conce dere alla borghesia italiana non poteva infatti minimamente estendersi all’azione e al pensiero politico dei moderati. La rivalutazione dell’illuminismo fu in effetti, ed è ben noto, comune a molti pensatori politici dell’antifascismo; e vogliamo qui ricordare come, quasi contemporaneamente a Berti, e pur partendo da altre premesse, Leone Ginzburg, nel saggio citato all’inizio di questo scritto, spezzasse una intelligente lancia a favore del Settecento, e non per ciò che esso anticipa dell’Ottocento, ma proprio per ciò che ebbe di peculiare: fu progres sivo in Italia, scriveva Ginzburg, quel romanticismo che seppe continuare anche la tradizione dell’illuminismo. Gioberti in par ticolare faceva, sia in Berti che in Ginzburg, le spese di una tale impostazione; ma Berti, preoccupato di salvaguardare da ogni infiltrazione liberale la via democratica al socialismo, si spingeva fino a travolgere anche Gobetti in un giudizio stron carono, che fa pendant con quello di Omodeo. Gobetti, sim bolo del disorientamento della gioventù intellettuale del dopo
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guerra, aveva avuto, secondo Berti, proprio l’assurda pretesa di trovare gli antenati del movimento operaio e del comuniSmo non già nella democrazia (di fronte alla quale egli aveva tutti i pregiudizi insegnatigli dalla reazione crociana), ma nel libera lismo: in concreto, nelle vecchie cariatidi (Cavour non escluso) che costituivano la classe dirigente piemontese. «Vedete un po’ - commentava Berti -, che antenati Gobetti regalava alla clas se operaia!» Berti, diversamente dal Togliatti del 1931, riconosceva la filiazione di gl da Gobetti, e ne traeva motivo di ulteriore condanna per l’autore della Rivoluzione liberale. Errore dei comunisti era stato quello di non sottoporre a cri tica radicale le idee di Gobetti, limitandosi a cercare di attrarre alla classe operaia i giovani da quello influenzati: ma un mili tante della classe operaia può imparare da Gobetti solo «nella misura in cui riesce a capire la gravità degli errori in cui cadde». Fra il patto tedesco-sovietico del 1939 e l’attacco di Hitler all’uRSS corre uno dei periodi più travagliati e confusi della storia dei partiti comunisti occidentali. L’elaborazione ideologica, che aveva sempre voluto accompagnare con baldanza tutte le svolte, in quei due anni si fa incerta e segna il passo, racchiusa in un arco che ha al suo inizio la tesi (echeggiante le vecchie posizioni leniniste del 1914-18) che si tratta di guerra meramente inte rimperialistica, e al suo termine l’altra, che l’aggressione all’uRSS ne ha modificato la natura, trasformandola nella «più giusta di tutte le guerre».139 Il Partito comunista italiano, nelle testimonianze che abbia mo potuto esaminare ai fini della nostra ricerca, partecipa di questa incertezza, pur non deflettendo dalla opposizione di prin cipio al fascismo. Si ha l’impressione che certi motivi vengano come tenuti in caldo, in attesa di tempi migliori: ad esempio, quello del vassallaggio di fronte all’imperialismo tedesco, che dà sempre motivo a citazioni di Garibaldi e degli altri «padri del Risorgimento»; o l’altro dell’indipendenza della Grecia, per cui morirono Santorre di Santarosa e i garibaldini italiani; o per fino quello, alla vigilia ormai del giugno 1941, della «tradizionale amicizia» con l’Inghilterra, che ci aveva aiutati nel Risorgimento e aveva dato generosa ospitalità a Garibaldi e a Mazzini.140 Erano discorsi d’occasione. Ma fra il 1941 e il 1943 passa rono due anni che permisero al Partito comunista italiano di presentarsi all’inizio della Resistenza senza dover rimettere in
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discussione la parentesi 1939-41, e ricollegandosi direttamente a quanto in tutti gli anni antecedenti esso era venuto elaborando. 6. Il Risorgimento e i giovani del ventennio
Le opinioni che abbiamo finora esaminato sono opinioni di vertice, elaborate fra le ristrette elites antifasciste rimaste in pa tria e, soprattutto, fra i fuorusciti. Ma la Resistenza non sca turì dal solo fuoruscitismo, bensì dall’incontro di esso con gli italiani che mai avevano varcato i confini e che, pure, non giun sero impreparati all’8 settembre del 1943. Altro discorso sarebbe dunque da fare sulle reazioni e sui fermenti che l’accaparramento fascista di tutta la storia d’Italia suscitò fra i giovani nati sotto il fascismo e privi, fino al 1943, di contatti con l’antifascismo politicamente organizzato. Sarebbe un discorso da inquadrare in quello più ampio su di una generazione che, quasi da sola, seppe costruirsi, usando i materiali più disparati, una coscienza politica e culturale antifascista. Si possono, fra tali materiali, rinvenirne di risorgimentali? E indubbio che il Risorgimento abbia agito in molti casi come mito conformista, provinciale e piccolo-borghese, elemento pas sivamente accolto nella formazione del cittadino disciplinato e rispettoso di una immagine oleografica della Patria. Ricordiamo che i programmi d’insegnamento della storia nelle scuole medie, elaborati nel 1936 da De Vecchi di Val Cismon,141 prescrive vano che il massimo rilievo deve essere dato in ogni ordine di scuole al processo formativo dello Stato unitario italiano che confluisce nel Fascismo, alla funzione esercitata dalla dinastia Sabauda dal suo primo orientamento verso l’Italia all’azione decisiva che essa svolse durante il Risorgimento e nella più recente vita italiana. E il Risorgimento venga presentato non quale materiale conseguenza di sia pur grandi eventi stranieri ma come fenomeno schiettamente italiano le cui origini risalgono ai primordi del secolo xvin.
Un Risorgimento siffatto, cui poco interessavano le più sot tili distinzioni di un Volpe, entrava bene nel gran calderone monarconazionalfascista: e un uomo sensibile ai problemi edu cativi come Aldo Capitini ha ricordato di recente le gravi respon sabilità del «patriottismo scolastico», della «esaltazione del Risorgimento italiano» e degli «stimoli della letteratura nazio nale dal Foscolo al Carducci e al D’Annunzio».142
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Tuttavia, per quanto il discorso su tale terreno sia difficile, per la quasi completa mancanza di testimonianze esplicite, una più dignitosa tradizione nell’insegnamento della storia fu man tenuta da alcuni docenti; e l’immagine di un Risorgimento un po’ all’antica, ma nobilmente ravvolto nei suoi pur logori panni liberali, fornì senza dubbio qualche germe di potenziale resi stenza alla pressione fascista.1"13 La stessa presentazione della guerra 1915-18 come «ultima del Risorgimento» poteva offrire uno stimolo, per chi era in grado di ricordarne o di apprenderne la realtà, a porsi, non fosse altro, la domanda se essa fosse stata veramente dichiarata, combattuta e vinta da Mussolini. I ten tativi, anche se presto falliti, di organizzare associazioni di ex combattenti non fascisti (come, ad esempio L’Italia Libera)144 avevano giovato in questa direzione; e anche giovò il già ricor dato libro dell’Omodeo, che raccoglieva le lettere degli ufficiali combattenti, cercando di ricostruirne un’umanità più ricca e con traddittoria di quella canonizzata e oleografica. Sia, dunque, per derivazione diretta dagli ultimi fili della tra dizione prefascista, attraverso fortunati incontri nella scuola o, per alcune elites, attraverso più diretti e precisi canali,145 sia per spontanea reazione alla grossolanità dell’insegnamento fascista, nacque in alcuni giovani la spinta a riscoprire un Risorgimento più schietto, come uno dei punti sui quali far leva per trarsi dalle secche fasciste. Influì su questo atteggiamento il fastidio per il bolso romanesimo del regime: non di Cesare si desiderava infatti sentirsi figli, ma di quegli uomini che, cento anni prima, avevano tentato di fare dellTtalia un paese moderno e civile.146 Di fronte al nazionalismo fascista, sorgeva la esigenza di riporsi il problema dei rapporti fra nazionalità e libertà, andando a veri ficare cosa avevano davvero pensato al riguardo gli uomini del Risorgimento, soprattutto Mazzini, che i fascisti facevano di tutto per tirare dalla loro. Di «tradimento di Mazzini» avrebbe allora parlato chi, come ad esempio il Capitini così poco tenero verso il Risorgimento patriottardo, vedeva nel genovese colui che invano aveva riproposto ai distratti italiani il problema della riforma religiosa, nella cui mancanza tutta una tradizione indi viduava una delle tare dellTtalia moderna.147 Dal Risorgimento provinciale, cui era stata assegnata da De Vecchi come termine a quo l’impresa di Pietro Micca, si veniva respinti, con l’aiuto dei migliori studiosi non clandestini come, oltre l’Omodeo, il Maturi,148 al Risorgimento che aveva significato il reingresso
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dell’Italia nel circolo della vita culturale, politica ed economica d’Europa. Un Risorgimento, insomma, che poco quadrava con il fascismo autarchico e corporativo. La pubblicazione da parte di Giaime Pintor del Saggio sulla rivoluzione di Pisacane venne poi a ricordare l’esistenza di un Risorgimento dichiaratamente «eretico»: Pintor reintroduceva la tematica della rivoluzione italiana, del socialismo, della ribel lione ai miti borghesi, del marxismo; e nel fallimento pratico di Pisacane e dei mazziniani denunciava pericoli che provavano «la loro realtà di fronte all’Italia unita».149 Nell’ultima, ben nota, lettera al fratello la frase di Pintor «oggi sono riaperte agli italiani tutte le possibilità del Risorgi mento », avrebbe definito il « senso del Risorgimento » proprio di alcuni giovani di quella generazione. Che era un Risorgimento non agiografico, e implicitamente da «revisionare», poiché non potevano, quei giovani, presentarsi con Yheri àicebamus dei superstiti della vecchia classe dirigente prefascista.150 Il successo che ebbe al suo apparire (1943) il libro di Salva torelli, Pensiero e azione del Risorgimento, si spiega proprio per la spavalderia con cui rompeva lo schema scolastico, attaccando apertamente la monarchia, mostrando che nel 1861 c’erano stati dei vincitori e dei vinti, e personificando quasi nell’« Antirisor gimento» il «male» d’Italia, sempre vivo e operante, e che con un piccolo e sollecitatissimo trapasso si identificava senz’altro col fascismo. Se l’Antirisorgimento di Salvatorelli è divenuto poi una categoria di comodo, in quel momento, alla vigilia della resistenza armata, rappresentò, per un certo tipo di cultura gio vanile, un ben riconoscibile obiettivo da battere. La guerra fascista del 1940-43, crediamo, non fu mai pre sentata come «quinta guerra dell’indipendenza». La Corsica, Nizza, Malta non erano tanto sentite, dagli stessi fascisti, nel quadro della tradizione unitaria (niente di paragonabile a Trento e Trieste del 1915), quanto in quello nuovo della espansione imperialista, come mostrava il metterle sullo stesso piano della Savoia, di Tunisi e di Gibuti; e che anche quelle rivendicazioni imperiali fossero poi provinciali, è altro discorso. Molti, la mag gioranza forse, di coloro che parteciparono poi alla Resistenza avevano anche combattuto nella guerra 1940-43: il senso oscuro dell’ingiustizia di essa e la tensione richiesta dall’adempimento di un astratto dovere trovarono dopo 1’8 settembre come un
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atteso compenso nel collaborate a una impresa collettiva che poteva, finalmente, essere compiuta senza ricorso a criteri di doppia verità. Spunti e parole d’ordine risorgimentali, reinter pretati spesso senza un preciso significato politico e culturale, entrarono allora a far parte dei materiali che la nuova esperienza tentava di rifondere in una sintesi originale, anche se non da tutti veniva acquistata piena coscienza di tale novità.151 Il Giumella152 si è sforzato di ricostuire il clima che, nei lager tedeschi, portava gli internati italiani a trasformare la «leg genda» del Risorgimento in una idea-forza; e ha individuato alcuni motivi eterogenei, dall’equiparazione fra i tedeschi di oggi e gli austriaci di ieri come simbolo di barbarie, alla fratellanza degli italiani coi polacchi e con tutti gli altri popoli oppressi dalla stirpe teutonica; dai ricordi scolastici, ai cori del Nabucco e dei Lombardi-,153 dalla fierezza dell’esiliato politico, alla sensazione che, pur nella disgrazia, l’Italia ritrovava il suo posto accanto ai popoli d’Europa. In alcuni si manifestava il desiderio di un «ritorno alle origini» che raddrizzasse un cammino finito non casualmente nel baratro; e la nostalgia di un’antica tavola di valori si confondeva con la spinta a trapassare oltre tutte le espe rienze compiute. Un atteggiamento di questo tipo si poteva già cogliere (fac ciamo un esempio fra i molti) in due documenti stilati da un gruppo di giovani, in maggioranza combattenti, che, tentato invano di prender contatto con l’antifascismo organizzato, volle ro ugualmente affermare la loro presenza pubblicamente (se così può dirsi di un documento clandestino).154 In essi la volontà, risolutamente affermata, di una «radicale rivoluzione sociale» e non di una semplice «rivolta antifascista», si appoggiava ad un acceso idealismo politico, alla «religione della libertà» (ma non quella «illusoria prefascista»), al senso della «gloriosa fatica comune dèi Risorgimento»; e c’era l’invito ad appendere ai muri i ritratti di Mazzini e di Cavour, e ad insegnare ai figli l’inno di Garibaldi. Dopo 1’8 settembre la spontaneità di certi motti e parole d’or dine risorgimentali («bastone tedesco Italia non doma», inni di Garibaldi e di Mameli ecc.) si incontrò con i risultati della elaborazione del pensiero politico antifascista; e il «secondo» o «nuovo» Risorgimento (la parola «Resistenza», di origine fran cese, si affermò in Italia a cose fatte) divenne un termine di
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largo uso, ma, proprio per questo, atto a coprire atteggiamenti ancor più svariati o contrastanti di quelli che erano stati propri delle preesistenti correnti antifasciste. Il generico, ma indub biamente stimolante, richiamo alle precedenti lotte per la libertà sostenute dal popolo italiano, appena arrivava al livello dei partiti e delle forze politiche organizzate si frantumava infatti in signi ficati profondamente diversi. 7. Secondo Risorgimento e unità della Resistenza
Può dirsi che il «secondo Risorgimento» fu parte integrante della ideologia della «unità della Resistenza», bandita soprat tutto dai comunisti, ma non respinta, almeno esplicitamente, da nessuna delle altre correnti, anzi talvolta da quelle ritorta, ancor oggi, contro i comunisti per sostenere il carattere aclassi sta della Resistenza.155 I contrasti e, talvolta, gli equivoci, che erano coperti dalle parole d’ordine unitarie, trovavano così riscontro nei signifi cati diversissimi con cui il Risorgimento veniva tirato in campo, pur sotto l’apparenza di cosa su cui era facile intendersi e ritro varsi, quasi si volesse ancora una volta ricorrere alla vecchia oleo grafia dei padri della patria che, per vie diverse, vengono dalla provvidenza condotti alla realizzazione del fine comune. E come l’«unità del Risorgimento» era stata uno dei modi con cui la nuova classe dirigente aveva affermato la sua forza di assimila zione dei movimenti politici concorrenti, così l’«unità della Resi stenza», con i richiami risorgimentali che la puntellavano, voleva essere l’espressione della fiducia della formazione politica che più la sosteneva, ma non solo di quella, di costituire la forza egemone dell’intero movimento. Perfino il «Regno del Sud» fu considerato dai suoi apolo geti la «riemersione dello Stato italiano risorgimentale», il «disincrostamento» della monarchia, unico istituto costituzio nale che il fascismo non aveva abbattuto.156 «Ritorno allò Sta tuto » di nuovo genere, che pretendeva coprire con una parvenza di dignità storica la preoccupazione fondamentale della monar chia e dei ceti che le si stringevano attorno di salvare «la conti nuità dello Stato». Agli «istituti tradizionali» e ai «valori ideali del Risorgimento» si appellava, ad esempio, il primo giornale confessionalmente monarchico uscito a Brindisi, il quale non esitava a rilanciare il grido di «Viva v.e.r.d.i. ».157
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La guerra del 1915-18, più che mai ripresentata come quarta guerra dell’indipendenza, fu ampiamente utilizzata a tal fine. Del «secolare nemico» parlava Vittorio Emanuele già nel discorso da radio Bari del 24 settembre 1943, e parlerà il nuovo «governo dei sottosegretari» nella sua prima dichiarazione del 28 novembre, stigmatizzando come antirisorgimento coloro che avevano ancora una volta chiamato quel nemico al di qua delle Alpi.158 La carta dei «tradizionali alleati» fu a sua volta scopertamente giocata nel tentativo di trovar grazia presso i vincitori: dalla risposta inviata da Badoglio al messaggio di Churchill e Roosevelt dell’n settembre 1943, ai proclami dello stesso mare sciallo del 15 settembre 1943 («i nostri antichi compagni del Piave e di Vittorio Veneto») e dell’11 febbraio 1944,159 alle di chiarazioni di uomini politici e della stampa.160 Che l’alleanza coi tedeschi dovesse considerarsi «innaturale» era cosa ripetuta da molti e con sfumature diverse: si andava da affermazioni retoriche o addirittura da un razzismo rove sciato (nemici «della nostra razza e della nostra civiltà» erano stati chiamati dal re i tedeschi nel ricordato discorso), al desi derio di riaffermare la vocazione liberal-occidentale dell’Italia, contro il prussianesimo e il nazismo, contro la politica estera fascista. Nell’ordine del giorno redatto da Bonomi, e approvato il 2 settembre 1943 dal Comitato centrale delle forze antifasci ste, si rivendicava, ad esempio, per l’Italia il rinnovamento di quella scelta a favore della libertà, dell’eguaglianza e della paci fica convivenza di tutte le nazioni, che essa aveva già compiuto nel Risorgimento;161 e, in un telegramma inviato a Badoglio dal Comitato di liberazione nazionale di Napoli, il maresciallo veniva lodato per «aver rotto l’iniqua alleanza» e riportato l’Ita lia alle antiche tradizionali amicizie.162 Privati del loro «antico valore » erano stati i soldati italiani solo perché costretti a com battere «in una via opposta a quella della storia secolare del popolo italiano »: questa era la convinzione espressa dal nuovo governo di Salerno di concentrazione antifascista.163 Bonomi, capo del governo, in un suo discorso del 4 novembre 1944 riprenderà questi temi, sforzandoli a dismisura, fino a dichia rare che il fascismo, dilapidando l’eredità del Risorgimento, aveva fatto passare l’Italia per tre anni al nemico, in quell’unica grande guerra contro «l’eterno barbaro» che era comin ciata nel 1914 e che finalmente si avviava alla vittoria totale.
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Da parte alleata, come è noto, si dava moderato ascolto a tali affermazioni italiane; o meglio, si prendeva di esse quanto poteva servire a rafforzare la linea di condotta, d’ispirazione britannica, volta a sostenere il re e Badoglio e, più in generale, a salvare, anch’essa, la continuità dello Stato. Anche gli alleati amavano fare appello, contro quella fascista, a una Italia «vera», i cui interessi e le cui tradizioni, come avevano detto, poco prima del 25 luglio, Churchill e Roosevelt in un loro messaggio, erano stati traditi dalla Germania e dai gerarchi «falsi e corrotti».16'’ Ad armistizio concluso, l’interesse alleato per un profondo rin novamento italiano sarebbe ovviamente diminuito. Nel dibat tito sull’Italia svoltosi ai Comuni il 21 e 22 settembre 1943 i laburisti tentarono invano di portare a conseguenze più radi cali, in polemica con Churchill, il motivo dell’Italia che ritrova se stessa: «Se il legittimo appello dei capi democratici italiani al popolo italiano - essi dissero - fosse stato consentito», in modo che «la fiamma della libertà legittimamente percorresse l’Italia, come fece durante il Risorgimento», ben altro aiuto avrebbero fornito alla causa alleata gli italiani, i quali si era invece preteso rischiassero la vita per sostenere, con armi insuf ficienti, dei voltagabbana; e il deputato Thomas ricordò l’esem pio dei garibaldini di Spagna.165 L’appello al Risorgimento riproponeva ancora una volta il problema del rapporto fra nazionalità e libertà: era prevalente, oggi come un secolo fa, l’aspetto di guerra al tedesco per l’indi pendenza della patria, o invece quello di guerra per la libertà, di guerra civile non solo italiana, ma europea e mondiale? La tematica era resa ancora più complessa dall’intervento di un terzo termine, quello della lotta per il socialismo, come forma più piena della libertà dei tempi moderni. E vero: nel corso della lotta il problema non si poneva in termini così scolastici, e una concreta unità dei primi due motivi, e anche del terzo, si rea lizzava con relativa facilità nella coscienza dei singoli combat tenti. Ma non per questo il problema non sussisteva; e il diverso modo di vederne la soluzione influì allora in re, e non può non influire oggi sul nostro giudizio. È stato da molti, e giustamente, osservato che la Resistenza italiana fu tra le più politicizzate: i motivi di ciò sono intuitivi, come è facile comprendere che i più ostili a tale politicizzazione furono i ceti monarchici e conservatori, nonché gli alleati. Per
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tutti costoro il nuovo Risorgimento era solo una formula di comodo per incanalare il rischioso ribollire della società italiana nella patriottica guerra al tedesco; e abbiamo potuto vedere nel volume governativo che celebra il decimo anniversario della libe razione, Il Secondo Risorgimento, riservare venticinque pagine fredde, burocratiche e inspirate da una invincibile ripugnanza per la politica, al saggio di Cadorna sul Corpo 'Volontari della Libertà, e ottanta pagine a quello del generale Primieri su II con tributo delle Forze armate alla guerra di liberazione. Non sarebbe tuttavia giustificato un atteggiamento di suffi cienza verso il motivo nazionale della Resistenza, quale si riscon tra soprattutto in una parte dell’antifascismo di origine giellista (si ricordi la discussione del 1935):166 non si può, cioè, considerare un mero equivoco il fatto che la Resistenza si avvalse con larghezza di uomini mossi da spinte prevalentemente patriot tiche; bensì si deve riconoscere che le più mature forze politi che antifasciste non seppero trasformare tali spinte, in quella situazione, in motivo di generale rinnovamento della società ita liana. Anche i fascisti della Repubblica sociale tentarono la corda del patriottismo contro l’invasore angloamericano, ma con esito pressoché nullo. Paradossalmente, i fascisti post 8 settembre avrebbero potuto anch’essi fare i nazionalisti antitedeschi, e così tentare di rinfrescare il proprio volto: se non lo fecero, è per ché il legame che li univa alla Germania nazista non era per essi qualcosa di occasionale; e non occasionale fu dunque il carat tere di lotta insieme antifascista e antitedesca che assunse la Resistenza: antitedesca perché antinazista. «Viva l’Italia e viva la Germania libera! » esclamò sul pati bolo il chimico siciliano Pietro Mancuso, impiccato 1’ 11 settem bre 1944 dai tedeschi a Carignano: e sembra che l’ufficiale nazi sta guardasse stupito e senza comprendere.167 Viene in mente, ma trasferito su un piano assai più alto, il «ripassin l’Alpe, e tornerem fratelli» del poeta risorgimentale. La presenza del fattore nazionale contribuì, fra l’altro, a far riflettere sul posto che ad esso sarebbe spettato nella ricostru zione postbellica e sul valore che poteva ancora avere per l’uomo moderno. Il Risorgimento, da questo punto di vista, servì a riva lutare il civile patriottismo del secolo scorso contro la spuria filiazione del nazionalismo e dell’imperialismo. Anzi, sulla scia di un secondo Risorgimento che doveva ricollocare, come già
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il primo, l’Italia nell’Europa,168 il carattere europeo del Risor gimento fu sforzato fino a vedere in esso il precedente di quello che, con pari, anzi maggiore sforzatura, sembrava ad alcuni il carattere essenziale, in tutti i paesi, della Resistenza: l’europei smo o federalismo europeo.169 Ne sarebbe nata quella confu sione di atteggiamento realmente aperto e di sciovinismo occi dentalistico caratteristica del federalismo europeo postbellico. Per l’Italia c’era, in particolare, da risolvere in termini demo cratici la questione delle minoranze nazionali oppresse durante il fascismo, soprattutto quelle slave. La slavofilia della demo crazia risorgimentale tornò allora di attualità, quella slavofilia che aveva sempre dato fastidio ai nazionalfascisti: il Volpe, ad esempio, aveva ritenuta superata «certa tradizione del Risorgi mento, che considerava croati e sloveni strumenti ciechi d’oc chiuta rapina dell’impero asburgico dominato dai Tedeschi, cioè vittime essi stessi, come noi, di un uguale regime di oppres sione».170 Soprattutto i comunisti si erano, durante il venten nio, interessati alla sorte delle minoranze etniche in Italia, nel quadro delle note tesi di Lenin e di Stalin sulla questione nazio nale; anzi, era stato da parte loro sopravvalutato il ruolo che la ribellione di quelle minoranze avrebbe potuto giocare nella rivoluzione italiana. Articoli e dichiarazioni comunisti sugli slo veni e sui croati si erano susseguiti in abbondanza,171 e non ci si era dimenticati né dei greci del Dodecanneso,172 né dei tede schi dell’Alto Adige,173 anche se la posizione di questi ultimi aveva necessariamente risentito dell’Asse, dell’Anschluss, del ple biscito per il trasferimento in Germania e, dopo 1’8 settembre, della loro pratica annessione al Reich, che li collocò in una posi zione totalmente diversa da quella delle altre popolazioni alpine e di confine. Anche Salvemini, in Mussolini diplomatico, aveva denunciato la politica fascista contro le minoranze slave e tede sche; gl aveva a sua volta agitato questo motivo; e Sforza, in una intervista alla «Gazzetta del Mezzogiorno» di Bari dell’ot tobre 1943, appellandosi a Cavour, Mazzini e Garibaldi indi cava nella politica balcanica del fascismo la riprova del suo carat tere antitaliano.174 Fu prova di maturità della Resistenza aver saputo affrontare con spirito democratico le rivendicazioni autonomiste delle popolazioni alpine,175 e anche, almeno nelle linee di massima (che il resto non dipendeva dai soli italiani), i rap porti difficili coi francesi e difficilissimi con gli jugoslavi:176 il
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neorisorgimento democratico prevalse, in quelle occasioni, su quello nazionalisteggiante. L’atteggiarsi delle due principali formazioni politiche della Resistenza, i Partiti comunista e d’Azione, di fronte al Risorgi mento era fissato, nelle sue grandi linee, dalla elaborazione pre cedente, di cui abbiamo già parlato. Ma la concretezza della lotta e il fatto che essa coinvolgesse masse assai più larghe di quelle cui erano abituati a rivolgersi i fuorusciti, non furono, anche in questo campo, senza conseguenze. Il carattere composito del Partito d’Azione, di cui il vecchio tronco giellista costituì solo una delle parti, conteneva in sé un’implicita diversità di valutazione della storia italiana risor gimentale e postrisorgimentale. Ciò si rispecchia, curiosamente, nel modo stesso con cui fu scelto un nome tanto «revisionista», proposto da Mario Vinciguerra, cioè da un rappresentante del l’estrema destra del partito, perché, come racconta Ragghiami, «meno impegnativo circa il carattere e il contenuto del nuovo partito»; cioè, potrebbe dirsi, per evitare il peggio, rappresen tato da parole come «lavoro» e «socialismo», che pure erano entrate in ballottaggio.177 La lotta, nel suo corso, fece comun que prevalere la interpretazione più radicale, e il partito interpre tò il suo nome quale incitamento alla «conquista della libertà», motto che «Oggi e domani», periodico azionista uscito clande stinamente a Firenze alla fine dell’agosto 1943, contrapponeva a quello badogliano di «ritorno alla libertà»,178 e quale impe gno a realizzare i «fini supremi che allora [nel Risorgimento] furono solo additati e non conseguiti», come si esprimeva il primo numero dell’«Italia libera» uscito a Bari nell’ottobre 1943; e riteniamo superfluo ricordare altri analoghi atteggiamenti azionisti. Per i,comunisti, poiché la base più larga della unità da essi patrocinata era costituita dalla lotta contro il tedesco invasore, il largo uso di echi e di suggestioni risorgimentali diveniva ovvio; e senza', anche qui, dilungarci in soverchie esemplificazioni, cite remo le parole dell’Appello dei comunisti all’insurrezione (12 marzo 1945): «L’insurrezione (...) si svolge sotto la bandiera del tricolore, simbolo dell’unità di tutto il popolo, nella tradi zione degli eroi che combatterono e si sacrificarono nel corso del primo Risorgimento, per fare l’Italia unita, libera e indi pendente».179 Giova piuttosto ricordare che il secondo Risor-
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gimento, se aveva dato in precedenza luogo, nel Partito comu nista, alle contrastanti reazioni che abbiamo esaminato, ora con tribuì a coprire, senza tuttavia ben risolverlo, il problema del rapporto tra i fini di classe, socialisti, della Resistenza e quelli nazionali e genericamente democratici. Togliatti, nel dicembre 1943, sostenendo la necessità della partecipazione italiana alla guerra contro la Germania come solo mezzo per presentarsi con un nuovo volto dinanzi ai vincitori, dichiarava che gli italiani non avevano combattuto nella guerra fascista perché l’unica tradizione militare che vive nel popolo italiano è la tradizione delle guerre di liberazione nazionale del secolo scorso, delle Camicie rosse di Garibaldi, la tradizione cioè di un esercito popolare pronto a combattere, e che combattè realmente, sotto la bandiera dell’indipendenza e della libertà di tutte le nazioni.180
Motivo militare e garibaldino, cui si accoppiava quello del Risor gimento politicamente e socialmente incompiuto: Reclamando la convocazione di Un’Assemblea Costituente, noi ci ricolleghia mo alle migliori tradizioni democratiche del Risorgimento italiano (...). La lotta per l’Assemblea Costituente è in tutto il nostro Risorgimento come un filo rosso, il quale permette di scorgere quali fossero gli elementi e le forze che, mentre auspicavano la formazione di un fronte di lotta veramen te nazionale, per creare un’Italia libera, indipendente e unita, pure volevano fosse garantito al popolo il sacro diritto di darsi una Costituzione corrispon dente ai suoi bisogni e alle sue aspirazioni. Se questo diritto fosse stato ri spettato, non v’è dubbio che la marcia dell’Italia sulla via della civiltà e del progresso sarebbe stata molto più rapida, dolorose parentesi di reazione sarebbero state evitate, e forse non ci troveremmo ora al punto in cui ci troviamo.161
L’accenno alla coesistenza, nel Risorgimento, di fini d’indipen denza e unità nazionale con altri di miglioramento della condi zione delle classi popolari quadrava bene con la pari coesistenza di obiettivi nella guerra partigiana, più volte affermata da parte comunista, e argomentata con la separazione fra le trasforma zioni strutturali e politiche in senso socialista, che venivano rin viate, e quelle riforme sociali che avrebbero dovuto invece far parte integrante della democrazia nuova o progressiva.182 Deri vava, da questa posizione, un nodo di problemi che non è qui il caso di dipanare e che potrebbe, ad esempio, essere riguar dato sotto l’angolo visuale del dibattito sui cln, che raggiunse una delle sue formulazioni più esplicite nella nota polemica delle «cinque lettere».183
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Naturalmente - ha poi scritto Longo - noi rifuggivamo dall’idea di sot toporre il movimento operaio per le rivendicazioni immediate al controllo e alla direzione operativa dei cln. Sarebbe stato un non senso. Il cln, pro prio per la sua natura di organo di unità nazionale di tutte le forze patriot tiche, non poteva assumere la direzione delle lotte operaie che erano clas siste per la loro stessa natura e per gli obiettivi che si ponevano.184
Secchia, a sua volta, considerava un «errore da evitare (...) quello di far tacere la voce del partito per parlare solo a nome del cln»185 e, nella riunione allargata alla direzione del PCI dell’ii marzo 1945, dopo aver citato un lungo brano di Togliatti sul partito nuovo, commentava: «Partito nuovo dunque per i suoi compiti, per la sua funzione, per le forme ed i metodi nuovi della nostra organizzazione, partito nuovo la cui natura di classe e l’ideologia rivoluzionaria rimangono inalterate».186 Se si ram menta l’accusa lanciata dal Cominform a Tito, di aver anne gato il partito nel Fronte (la Resistenza jugoslava era stata fra quelle con più spiccati caratteri nazionali e di massa), si può meglio cogliere il senso di queste distinzioni fra partito e cln. D’altra parte, citiamo ancora parole di Longo, «noi eravamo per dei cln che fossero non dei semplici strumenti di un organo centrale, burocratico e lontano, ma organi di mobilitazione e di autogoverno delle masse, strumenti di democrazia diretta e immediata».187 Discendeva, da tutto ciò, che l’unità, pei comu nisti, oscillava fra il riconoscimento della spinta dal basso ten dente a vedere nei cln l’embrione di nuovi strumenti di potere popolare, e l’alleanza, al vertice, di partiti, patrocinata nella fidu cia di saperne costituire la guida e i beneficiari; e il secondo Risorgimento poteva far gioco nell’uno come nell’altro atteg giamento. Che sotto quella bandiera potessero nascondersi degli equi voci fu avvertito, ad esempio, da Eugenio Curiel che, nel dicem bre 1943,188 criticando l’atteggiamento «antipartitico» di al cune formazioni di montagna, avanzava il dubbio che esso si rifacesse a certe situazioni risorgimentali, e in particolare alla formazione della Società Nazionale del 1857. «Sono richiami astratti dalla realtà storica», commentava Curiel, non rispar miando le sue critiche alla «indefinibilità politica» e al «can dore» di Garibaldi, che lo facevano «facile strumento di avve dute diplomazie». Ormai l’Italia non era più nazione di «po polo», nel senso indiscriminato e precapitalistico che poteva
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ancora valere nel Risorgimento, bensì nazione di classi social mente diverse e contrastanti, che di ciò acquistano coscienza nei partiti: quindi, «nazione di partiti». E «l’unità d’azione non si raggiunge nella romantica ed enfatica confusione dell’embrassons nous, ma nella coscienza della distinzione». Perciò, con cludeva Curiel, ridurre, quasi per tema di complicazioni, le parole d’ordine al vecchio motto sabaudo e garibaldino di via i tedeschi, significa non aver inteso la pro fonda differenza tra la occupazione nazista di oggi e il dominio asburgico di ieri. Noi non possiamo scindere la parola d’ordine di via i tedeschi da quella di morte ai fascisti.
Parole chiare, in cui il desiderio di evitare l’equivoco viene argo mentato in termini quasi liberali, come invito a ciascuna delle forze in campo a giocare fino in fondo il ruolo che le è proprio, nella fiducia che i fatti avrebbero poi dimostrato quale fosse la più valida ed efficiente. In realtà, come abbiamo visto all’inizio ricordando Longo e Secchia,189 i comunisti ancor oggi, nonostante il largo uso fat tone, considerano il « Secondo Risorgimento » come formula tutt’altro che ovvia, anzi bisognosa di molte precisazioni, di cui ormai siamo in grado di meglio cogliere il significato e la remota ori gine.190 C’è da aggiungere che man mano che passano gli anni, e i fatti dimostrano come la classe operaia sia lontana dall’esercitare in Italia quella funzione dirigente che avrebbe dovuto costi tuire il presupposto della sua azione unitaria durante la Resistenza, agli stessi comunisti sarà sempre più difficile sottrarsi alla neces sità di un riesame critico che non continui a dare per scontato ciò che palesemente non sussiste. Di «attaccamento eccessivo, in qualche caso, alla politica unitaria» ha parlato anche Togliat ti; 191 e Longo riconosceva, nella conferenza già ricordata, che se la catastrofe nazionale aveva fatto confluire nella Resistenza numerosi gruppi delle vecchie classi dirigenti, ciò fu sì «indice della profondità e della ampiezza raggiunte dalla Resistenza, ma fu anche la causa dei suoi contrasti e delle sue remore interne». 8. I cattolici
Non abbiamo finora parlato dei cattolici. I cattolici non hanno prodotto un pensiero politico antifascista che possa essere messo alla pari di quello giellista o comunista. A leggere, ad
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esempio, il volume che raccoglie i principali scritti di De Gasperi durante il fascismo, I cattolici dall’opposizione al governo,192 è difficile sfuggire all’impressione che, se il governo fosse premio alla originalità e al mordente del pensiero politico, i cattolici meritavano di rimanere ancora per lunghi anni all’opposizione. Non bastano, a smentire questo giudizio, scrittori vivaci e corag giosi, come Giuseppe Donati e Francesco Luigi Ferrari, il primo dei quali, quando Mussolini si presentò alla Camera dopo il 28 ottobre, voleva tornare a cospirare «con passione garibaldina e mazziniana, con la passione della mia stirpe, cristiana e repub blicana»;193 e il secondo denunciava con forza, nel solco di una sincera accettazione delle strutture fondamentali dello Stato libe rale, la collusione fra la Chiesa e il fascismo.194 Sturzo fin dal congresso di Torino del 1923 del Partito popolare fece appello alla «tradizione più sana del nostro Risorgimento», e in uno dei primi discorsi fatti in esilio, nel 1925, parlò della «attuale battaglia per la libertà come un secondo Risorgimento».195 Nel volume L'Italia e l’ordine intemazionale, pubblicato a New York nel 1944, in un excursus sulla storia d’Italia egli fa largo usò di simili espressioni. Ma l’equivoca rivendicazione di libertà pro pria della tradizione democratico-cristiana (nello Stato risorgi mentale, scriveva Sturzo, «la libertà era per la borghesia, ma non per il popolo né per la Chiesa»),196 rendeva arduo un ori ginale ripensamento della storia dellTtalia contemporanea, e por tava a giudizi eclettici e poco mordenti sul fascismo. Va anche detto che un vero dibattito fra antifascisti cattoli ci e non cattolici non vi fu, sia per disabitudine degli uni come degli altri, sia perché gli antifascisti democratici, socialisti e comunisti, non mostrarono di prendere in seria considerazione l’ipotesi che sarebbe stato il partito cattolico la grande riserva della borghesia italiana. Ma va soprattutto ripetuto che il fatto massicciò che caratterizzò il cattolicesimo italiano durante il ven tennio fu la «conciliazione», con tutto ciò che essa implicava sul piano culturale non meno che su quello politico. Hic Rhodus, hic salta-, e saltò male Sturzo;197 e inciampò anche Jemolo.198 Per i giovani cattolici nati durante il ventennio il cammino verso l’antifascismo, se da una parte trovò qualche appoggio nella appartenenza all’unica organizzazione non fascista esistente in Italia, dall’altra fu reso doppiamente difficile dalla necessità di superare il peso non di una, ma di due autorità costituite: la
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seconda, anzi, più che di superarla si trattava, per chi voleva restare cattolico, di tentare di interpretarla in una chiave con trastante con gli atteggiamenti che essa ogni giorno palesemente assumeva. Un giovane studioso cattolico ha recentemente scritto che accanto all’antifascismo politico degli ex popolari si formò nel ventennio, fra i giovani, un «nuovo antifascismo, originale, se così può dirsi», «morale più che politico», basato su due con vinzioni, lentamente maturate: la prima, della irriducibilità dei princìpi cristiani a quelli fascisti (e in questo il fascismo fu seria mente compromesso dalla politica razzista); la seconda, che «pre carie e instabili sono le garanzie offerte alla Chiesa e alla reli gione da una dittatura, anche se dichiari di voler difendere il patrimonio religioso della Nazione».199 L’ingresso nella Resistenza di cattolici così formatisi costi tuì indubbiamente uno di quegli eventi sui quali molte cose sono ancora da scrivere (insufficienti appaiono, ad esempio, alcune ricostruzioni biografiche di singole esperienze):200 il peso avuto da considerazioni sulla storia d’Italia e sul Risorgimento potreb be venire allora meglio chiarito. Possiamo tuttavia accennare al fatto che la partecipazione cattolica alla Resistenza non coinvolse solo pochi giovani intel lettuali, ma strati molto più ampi di popolazione, soprattutto nelle campagne, e che quindi si legò alla presenza di quei con tadini che, come diceva appunto Salvemini, segnarono la scon fitta della tradizione sanfedista e antirisorgimentale delle cam pagne italiane. E possiamo appena ricordare il problema, troppo schematicamente impostato, e che pur si è dibattuto, se i catto lici furono nella Resistenza come cattolici o come italiani, se spinti cioè da moventi religiosi o politici (e poi, di nuovo, nella seconda ipotesi, se come semplici patrioti o come antifascisti, ripresentandosi anche per loro l’interrogativo di cui già abbiamo parlato). Occorre comunque distinguere fra la partecipazione dei democristiani, e quella dell’alto clero, del basso clero, dei semplici credenti: gruppi non omogeni, e non mossi da uguali finalità.201 E bisognerà saper leggere le frequentissime espres sioni di fede cattolica ricorrenti nelle Lettere dei condannati a morte, di contro, per far un esempio connesso al nostro tema, agli accenni al Risorgimento contenuti in una sola lettera, quella di un ufficiale in servizio permanente effettivo, iscritto al Par tito d’Azione, Pedro Ferreira.202
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Esiste una interpretazione cattolica della Resistenza? Ne esi ste più d’una perché, anche in questo caso, la cultura cattolica non è stata capace di elaborare una sua posizione originale, ma si è dovuta accontentare di riprendere, variandole e adattan dole alle proprie esigenze, quelle che venivano offerte dalla cul tura laica. Ciò sembra valere in modo particolare per il nesso Risorgimento-Resistenza, dato che i cattolici erano, su quel ter reno, doppiamente compromessi: essi avevano infatti alle spalle o la tradizione clericale-antirisorgimentale, o quella, latu sensu, neoguelfa, che così bene si era portata su posizioni conciliazioniste e filofasciste. Quanto questa seconda tradizione fosse forte è mostrato, fra l’altro, dal fatto che perfino uno dei pochi movi menti clandestini cattolici del ventennio, quello facente capo a Piero Malvestiti, non trovò nome migliore di Movimento Guelfo d’Azione;203 mentre nel «Regno del Sud» la Democra zia Cristiana, non stimolata dal movimento partigiano, fu subito proclive a riprendere logore parole d’ordine neoguelfe e italocattoliche, come quelle che abbondantemente apparivano sulla sua stampa.204 E noto del resto come lo stesso De Gasperi av vertisse in qualche modo i rischi di tali atteggiamenti quando, nella sua ultima lettera a Fanfani, raccomandava di tenere fuori il partito dallo «storico steccato politico» dell’alternativa guelfo ghibellina. Due appaiono, ad ogni modo, le tesi principali avanzate da parte cattolica sul nesso Risorgimento-Resistenza, cioè sulla posi zione della Resistenza nella storia dell’Italia moderna. L’una si rifà alla definizione del Risorgimento come fatto essenzial mente religioso per applicare pari modulo interpretativo alla Resistenza; l’altra accetta molte delle tesi «revisioniste» sul Risorgimento, conducendole ovviamente a conclusioni assai diverse da quelle dei loro primi formulatori. II Passerin d’Entreves, nel saggio Risorgimento e Resisten za,205 offre la formulazione più colta della prima posizione. Egli polemizza contro chi ha posto in primo piano i motivi sociali e politici della Resistenza, «che non si voglion certo ignorare, ma si voglion vedere come una materia che non sarebbe stata sollevata e sublimata senza un lievito religioso »: parole caratte ristiche di tutti gli spiritualismi, cattolici e no, i quali sempre ritengono la vita politica e sociale bisognosa di sollevamenti e sublimazioni, senza i quali rimarrebbe affetta dalla sua origi-
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naie limitazione o colpa (e di religiosità scaturente dalla «insuf ficienza dei concetti morali» parla infatti il Passerini. Storio graficamente, il Passerin porta in primo piano analoga essenza religiosa del Risorgimento, sforzandola fino a farla coincidere, al limite, proprio con il cattolicesimo (la religiosità di Mazzini diventa così «cattolicesimo deviato (...) e secolarizzato»). Il cat tolicesimo liberale appare così il vero protagonista del Risorgi mento; e il suo riemergere, sia pure in forme nuove, il protago nista della Resistenza. Con minor dottrina e sensibilità, il Marazza ha esposto tesi analoghe, accettando senz’altro il «Secondo Risorgimento». E di nuovo - scrive - come nel primo Risorgimento, essi [i cattolici] ebbero la fortuna di sentire accanto a sé la presenza fortificante dei loro sacerdoti. La Resistenza fu nella storia d’Italia, come era stato nel Risor gimento, ansia di rinnovamento etico prima che azione politica, e questo spiega perché, come nel primo Risorgimento, di nuovo si dispiegò fervente il patriottismo del clero, e con noi tanti religiosi si fecero congiurati ed il Vaticano stesso, pur conscio delle sue enormi responsabilità, scese nella battaglia, mentre il Sommo Pontefice pronunciava contro i nuovi barbari la sua chiara e pesante condanna.206
Su questa strada, la totale annessione al cattolicesimo, liberale e no, del Risorgimento come della Resistenza non appare lon tana. L’impegno europeistico di alcuni cattolici può essere posto accanto a questa interpretazione religiosa della Resistenza. Un certo tipo di cattolico colto italiano è venuto infatti alimentando una sempre maggiore ammirazione per i cattolici stranieri, spe cie francesi e belgi, considerati simbolo di una religiosità aperta alle esigenze del mondo moderno: essere antifascisti significò soprattutto, per i cattolici di tal fatta, uscire dal bigotto catto licesimo italico su cui aveva fatto leva Mussolini. I cattolici ita liani si fecero talvolta, e si fanno, dei cattolici stranieri un vero mito; e tutti i problemi aperti fra cattolicesimo e civiltà moderna, che hanno sempre angustiato i cattolici più sensibili, si postula vano, e si postulano, con semplicistico entusiasmo, risolti da quei vivaci cattolici d’oltralpe. Occorre comunque riconoscere che in tal modo i cattolici colti parteciparono positivamente al moto, caratteristico dell’antifascismo, per ricondurre l’Italia, come già nel Risorgimento, nell’ambito della vita europea. In ciò essi furono favoriti dalla coscienza di appartenere ad un cor pus, anche culturale, che scavalca i confini dei singoli Stati. Que
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sta coscienza, dal Risorgimento in poi, era entrata in conflitto con la rivoluzione nazionale come fatto progressivo: e i catto lici si erano sentiti ricacciati ai margini della vita, anche morale, del nuovo Stato. Si aggiunga che contro la nazionalità dello Stato era sorta la internazionalità del socialismo: per i cattolici, da Scilla a Cariddi. Il federalismo europeo (quello dell’Europa carolingia) è apparso come un’occasione di rivincita per i cattolici che si sen tivano finiti in quel vicolo cieco. Essi hanno creduto di avere finalmente la possibilità di presentarsi in veste moderna, all’a vanguardia contro i nazionalismi e i socialismi degenerati nelle tirannidi totalitarie: e non casualmente uno dei rappresentanti più espliciti di tale tendenza, il Benvenuti,207 può presentare il federalismo europeo quale superamento (come già si diceva del corporativismo) del liberalismo e del socialismo, tesi cui altri menti sarebbe difficile attribuire un significato. Così facendo, i cattolici hanno avvertito come la soddisfazione di ritrovare la loro strada e la loro tradizione, che finalmente si dimostra vano le più positive e feconde: Cristianità o Europa. È chiaro allora come, sia nel Risorgimento che nella Resistenza, si voglia scoprire come essenziale il clima cattolico-europeo, rinvenendo in esso il vero legame fra i due eventi storici.208 I cattolici «revisionisti» sono stati soprattutto dei giovani influenzati da Gramsci e dall’ambiente della Resistenza e della immediata postresistenza. Il fascismo, reazione degli agrari e degli industriali, «affonda le sue radici nelle carenze del vec chio Stato borghese», affermavano anni fa i giovani democri stiani, e argomentavano ricordando che l’Italia fu fatta senza gli italiani, ad opera di una minoranza «che nelle baionette piemontesi trovò la sua forza di realizzazione» e che «sistemati camente soffocava quegli ideali di libertà e di giustizia più schiet tamente rivoluzionari». Quei giovani, inoltre, non solo separa vano nettamente la «mistificazione corporativa» fascista dal corpora'tivismo cattolico (questa era una distinzione cui molto aveva mostrato di tenere, come è ovvio, De Gasperi), ma anche verso il secondo non rivelavano un entusiasmo troppo vivace.209 Il revisionismo cattolico, se da una parte ha sbandato fino alle equivoche, anche se non prive d’intelligenza, prese di posi zione del Ciccardini,210 dall’altra ha espresso il sincero deside rio di riesaminare la storia d’Italia dal Risorgimento in poi alla
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luce delle nuove esperienze che avevano portato al potere un gruppo dirigente cattolico la cui impreparazione culturale era avvertita dai più sensibili giovani di quella fede; ed è quanto si sono accinti a fare su un piano di sbrigliata e, spesso, sofisti cata dialettica il De Rosa, con più profondo senso della storia il Fonzi, lo Scoppola e altri, della cui opera non vogliamo qui tentare il bilancio. Un punto, fra tanta frammentarietà di atteggiamenti catto lici, può essere individuato come raccordo ricco d’implicazioni non solo culturali, ma direttamente politiche: quello secondo cui la Resistenza rappresenterebbe l’inserzione nello Stato delle masse cattoliche che ne erano state escluse durante il Risorgi mento. Si vuole in tal modo non solo offrire una interpretazione della Resistenza, ma trovare una base storica e culturale al potere esercitato, dopo la liberazione, dai cattolici. L’assimilazione dei cattolici alle forze popolari escluse dallo Stato risorgimentale costituisce, sul piano della logica storica, un evidente equivoco, oggi peraltro molto fortunato. Il De Rosa ne fa il suo cavallo di battaglia, quando discorre del Partito popo lare come della Resistenza e della Democrazia Cristiana, e vi innesta l’altra affermazione sui cattolici rivendicatori delle libertà dei cosiddetti «corpi intermedi» fra l’individuo e lo Stato, conculcate dalla «borghesia censitaria» e dall’«assetto proprie tario ». Gli editori degli scritti di De Gasperi rivolgono al lea der democristiano la lode di aver contribuito « a dare al nuovo Stato una base popolare che non ebbe lo Stato risorgimen tale»;211 e altri scrittori cattolici identificano senz’altro il carat tere popolare della Resistenza, che la contraddistingue dal Risor gimento, con la partecipazione dei cattolici.212 La conclusione politica aperta di tale atteggiamento si poteva leggere su «Il Popolo» del 26 aprile 1955 che, commentando le manifestazioni per il decimo anniversario della Resistenza, presentava quella come semplice prologo o premessa del secondo Risorgimento, il quale così veniva senz’altro a coincidere con la Democrazia Cristiana al potere. Del resto, anche un liberale, Mario Ferrara, nella stessa occasione celebrativa, scriveva che il 18 aprile del 1948 il popolo italiano «riaffermò la sua fede nella ispirazione morale e negli ideali del Risorgimento».213 Abbiamo all’inizio di questo scritto ricordato la tesi del Volpe sul fascismo come immissione delle masse nello Stato: mutatis
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mutandis, molte delle obiezioni che abbiamo mosse al Volpe potremmo ora ripeterle a queste posizioni cattoliche. E potrem mo anche mettere in rilievo che fra i due atteggiamenti non esiste solo un’affinità ideologica, ma anche una continuità in re, se è vero che la «pace» fra Italia e Chiesa (cioè, la «immissione dei cattolici nello Stato») ebbe una sua manifestazione essen ziale proprio nella Conciliazione fascista, e che la Democrazia Cristiana, assumendo il carattere di partito di massa, ha fruito, non da sola del resto, anche di certe eredità fasciste. La «dolorosa dilacerazione» fra cattolici e Stato risorgimen tale che sarebbe stata sanata dalla Resistenza, non può essere considerata un fatto occasionale, un sovrapprezzo che sarebbe stato augurabile risparmiare. Il Risorgimento conteneva intrin secamente, in quanto volto a fare dell’Italia un paese di civiltà moderna, una carica anticattolica che nessun apologeta del cat tolicesimo liberale potrà mai, contro l’autorità di Pio IX, nascon dere. Altro è caso mai il discorso da fare, e cioè che la classe dirigente liberale non fu capace di foggiare una società e uno Stato così civili da non far più sentire come dilacerazione la ten denziale, corretta, riduzione delle cose di religione nell’ambito del comune diritto di libertà. Pertanto, se la partecipazione dei cattolici, o almeno di parte di essi, alla Resistenza è fenomeno di grande interesse e di significato sicuramente positivo, occorre tenere ben distinta la deduzione politico-ideologica che si pre tende trarne.214 In realtà, la formula della inserzione delle masse cattoliche nello Stato da un lato esprime la prevalenza finale avuta, nella Resistenza, dalla continuità dello Stato, dall’altro sta ad indi care le sempre maggiori pretese che di fronte ad esso Stato hanno accampato i cattolici, fino a rovesciare l’iniziale significato della formula, immettendo, se così può dirsi, lo Stato nella Chiesa: tanto che oggi l’Italia soffre insieme della sussistenza dello Stato liberale borghese e del suo sovvertimento ad opera dei cattolici. I cattolici, fino ancora al 1945-46, si sentivano ed erano sen titi come forza subalterna nella società e nello Stato, alla cui direzione, anche se non più da soli, avevano riproposto la can didatura gruppi e uomini prefascisti. Fu errore della sinistra ita liana essere rimasta troppo a lungo ancorata a un quadro prefa scista in cui il Partito popolare poteva essere considerato, entro limiti che oggi si tende però a dilatare, una forza di potenziale
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rinnovamento della società italiana. Le sinistre, e in particolare i comunisti, ricercando l’alleanza dei democristiani partivano evidentemente da un presupposto di tal fatta, pensando di potersi subordinare i cattolici sulla via di quelle riforme che, d’altronde, non avevano fiducia di poter condurre in porto da soli.215 Ma De Gasperi concepiva le riforme come provvedi menti amministrativi da attuare dall’alto, dopo aver restaurato l’autorità dello Stato, salvaguardato l’ordine pubblico e rico struita l’economia su basi privatistiche: cioè, dopo aver ridato forza a tutto ciò che si sarebbe poi opposto alle riforme.216 Così la Democrazia Cristiana, lungi dal costituire una forza almeno potenzialmente eversiva in senso progressivo, finì col funzio nare, proprio per quel carattere di massa di cui la borghesia non può più fare a meno per i suoi partiti, da strumento principale della salvaguardia della continuità dello Stato tradizionale, bor ghese, censitario, proprietario, conservatore e, a suo modo, risor gimentale. Nel volume ufficiale sul Secondo Risorgimento lo rico nosce anche il Bendiscioli, quando scrive che la Democrazia Cristiana, col primo governo De Gasperi, «si assumeva il com pito di avviare la restaurazione del vecchio Stato burocratico, facendo leva sulle correnti politicamente conservatrici dello spi rito pubblico»; ma, crede di poter aggiungere il Bendiscioli quasi a contrappeso, «rimanendo fedele al proprio programma sociale avanzato, condiviso dalle sinistre».217 Che poi la Democrazia Cristiana, impadronitasi dello Stato così restaurato, abbia voluto fare un passo più in là, è altro discorso, cui sopra accennavamo, ma che non rientra, almeno direttamente, nell’oggetto di que sto studio. 9. La «delusione della Resistenza». Esaurimento della polemica sul «revisionismo risorgimentale»
Ai nostri fini immediati, interessa porre in luce come il punto della continuità dello Stato, le cui implicazioni vanno al di là del discorso sulla Democrazia Cristiana, può forse consentire anche a noi di prospettare uno di quei paragoni puntuali fra Risorgimento e Resistenza, cui all’inizio abbiamo dichiarato di volerci sottrarre. E cioè, che nel i860 come nel 1945 ha pre valso nelle cose italiane, col favore della situazione internazio nale, lo Stato come momento del già istituzionalmente compiuto.
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Fra i cln e gli altri organismi nati durante la lotta come embrioni di nuove forme di potere e lo Stato ricostituitosi al Sud, è il secondo che ha finito, e abbastanza rapidamente, coll’avere la meglio, nonostante che nel 1946 si sia ottenuta la cacciata della monarchia e quella Costituente invano sognata nel i860. Discende da questo, che è ovviamente solo un accostamento volto a stimolare la riflessione sulla vocazione italiana allo Stato già fatto come unico luogo, intrinsecamente trasformistico, della evoluzione sociale, discende forse da ciò che è da ritenere giu stificata una «delusione della Resistenza» che faccia il paio con la «delusione del Risorgimento» patita dai democratici italiani dopo il i860? La critica storica ha ormai sufficientemente messo in luce, al di là dei termini in cui il problema era posto dalla pubblici stica dell’epoca, quale fosse la realtà sottintesa da quella delu sione; e vincitori e vinti della battaglia per l’egemonia risorgi mentale sono sempre più riconosciuti nelle loro caratteristiche storicamente concrete, nel quadro di un evento globalmente pro gressivo. Per la Resistenza un analogo processo critico non è forse neppure iniziato. Ma non per questo dobbiamo astenerci dal respingere sia il volgare ottimismo ufficiale e governativo, sia il moralismo sterile, anche se nobile, dei nuovi delusi. Le forze politiche che hanno raggiunto il potere sogliono nu trire scarsa simpatia per coloro che, nel processo che le ha con dotte a tanto, non rinunciano ad individuare voci ed esigenze reali, realmente sacrificate e non soltanto verbalmente «media te» o «conciliate» dalla parte vincitrice; e ciò avviene con tanto maggiore impegno, quanto più una rivincita è considerata nel l’ordine del possibile. Nella classe dirigente postliberazione, come in quella postunitaria, la polemica contro i delusi ha ap punto questo significato pragmatico: negare che vi siano pro blemi lasciati aperti dal periodo critico e rivoluzionario, e imbal samare questo come eroica, oleografica e, al limite, apolitica parentesi, da considerarsi definitivamente chiusa con l’avvento della normalità e col passaggio dalla poesia alla prosa. Da parte loro, i delusi del Partito d’Azione (mai, forse, come in questo caso l’identità del nome rinvia ad una reale affinità fra il partito del Risorgimento e quello della Resistenza) hanno il torto di non vedere tutta la originalità, gravida di progresso, delle situazioni scaturite pur dalla rivoluzione incompiuta: e fini
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scono o col far pesare nel giudizio la continuità giuridica più che la novità dei fatti,218 o, come ad esempio fa il Bauer, col rifugiarsi in un ideale di libertà proprio dell’eroismo di pochi, mentre «pei più non v’è che l’entusiasmo facile di fronte alla conclusione fatale, ormai evidente».219 I comunisti oscillano, nella loro valutazione dei risultati della Resistenza, fra il pessimismo implicito nella denuncia di una Italia preda dei gruppi più retrivi del capitale monopolistico e del clericofascismo,220 e l’ottimismo basato sulla convinzione della forza acquistata dal loro partito, che costituirebbe la irre versibile garanzia di una situazione ricca di potenzialità progres sive, caratterizzata dai nuovi rapporti di forza già espressi dalla Costituzione. Pietro Secchia ha espresso abbastanza chiaramente questo duplice atteggiamento in un discorso pronunciato a Napoli nel 1954,221 dove riconosce che sino ad oggi «gli ideali, gli obiettivi, il programma della Resistenza non sono stati rea lizzati», e che perciò è legittima una certa analogia coll’esito del Risorgimento (e cita il giudizio di Antonio Labriola su di quello come «rivoluzione democratica non compiuta che lasciò il paese nella corruttela e nel pericolo permanente»); ma con clude che oggi le forze popolari e democratiche sono tali che indietro non è possibile tornare. Togliatti, recensendo la Storia della Resistenza del Batta glia,222 tornava, dopo ventidue anni, a porsi la domanda della legittimità della formula «nuovo» o «secondo Risorgimento». La molta strada percorsa dal Partito comunista italiano trova in quello scritto un riscontro quasi pari a quello che lo stesso Togliatti ha fornito col suo Discorso su Giolitti. Nel 1953 Togliatti si colloca con un certo distacco di fronte all’argomento, ironizzando sui molti ricami e sulle cose belle e lodevoli che intorno ad esso si dicono, e ponendosi alcune corrette domande metodologiche sul nesso tra novità e continuità nella storia. Il fatto è che Togliatti non teme più, come nel 1931, che il «secon do Risorgimento» possa servire da bandiera a un gruppo antifa scista concorrente: egli parla ormai dal punto di vista della nuova quella di classe dirigente di cui la Resistenza, scrive, ha segnato il primo apparire e affermarsi. E che Togliatti si serva della espressione di «nuova classe dirigente» piuttosto che di quella di classe operaia, indica la persistente convinzione che quest’ultima, e per essa il Partito comunista, stia al centro, come guida, di un più vasto raggruppamento di forze sociali e politiche.223
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Torniamo così al punto della valutazione globale dei risul tati della Resistenza, perché una classe dirigente che non riesce a dirigere non è un fenomeno che possa essere preso alla leg gera. Ma il nostro scritto deve, a questo punto, fermarsi, per ché la parabola dell’uso immediato del Risorgimento nella pole mica politico-culturale antifascista può considerarsi ormai compiuta; e le parole di Ginzburg, che abbiamo citato all’ini zio, sembrano più che mai destinate a conservare valore come semplice richiamo a una scelta pregiudiziale fra libertà e rea zione. «Gli è che il mondo del Risorgimento - e chi è stato educato nel suo culto non può scriverlo senza angoscia - si è andato decomponendo nei suoi elementi costitutivi e ciascun elemento se ne va tutto solo a cercarsi le sue origini storiche»: così uno dei migliori storici liberali italiani esprimeva pochi anni fa il senso, già da noi richiamato, della caduta dell’ambizione del Risorgimento a costituire il centro della coscienza di una classe dirigente.224 Di fatto, il Risorgimento si allontana sempre più come mito capace di suscitare passioni politiche di vasta risonanza; e, quale che sia il futuro riservato all’Italia, è difficile immaginare che una ripresa di vita democratica possa, dopo il primo e il secondo, inalberare la bandiera di un terzo Risorgimento. I francesi, tutti i francesi, che dopo il 13 maggio 1958 intonavano la Marsigliese ci rendono d’altronde accorti sulla ambigua polivalenza cui può scadere nella lotta politica l’uso di certi appelli a eventi sempre più remoti. Agli studi sul Risorgimento il dibattito svoltosi in seno all’an tifascismo ha fornito un alimento ormai messo sufficientemente a frutto, tanto che, fermo rimanendo che ad ogni solida conce zione politica non può non corrispondere una organica visione storiografica, possono considerarsi in via di superamento i vec chi termini della polemica fra revisionismo e antirevisionismo. Lo notava tempo fa, da parte marxista, il Cafagna;225 lo con ferma oggi il più spregiudicato storico liberale, il Romeo,226 che, passando oltre l’impuntatura spiritualistica sul Risorgimento incontaminatamente etico-politico, considera ormai indispen sabile far largo all’esame dei modi e dei risultati dell’accumula zione capitalistica in Italia, e sia pure per ribadire il giudizio positivo sulla Destra.
1.
La continuità dello Stato. Istituzioni e uomini"
i.
Il problema della continuità
Il titolo della mia esposizione non corrisponde pienamente al suo contenuto. Sia infatti per mia ignoranza, sia per la deficienza di studi preliminari e analitici specie sugli «uomini» (ricerche bio grafiche, raffronti statistici ecc.) dovrò limitarmi a tracciare alcune linee generali e problematiche, a offrire un programma di ricerca con campioni di documenti più che i risultati di una ricerca.1 Alle parole «continuità dello Stato» viene spesso attribuito un non corretto significato totalizzante, che le rende sinonime di «continuità delle cote». Dirò subito che non è questo il senso che intendo assumere, anche se sarebbe certo più interessante parlare delle «cose», della realtà sociale nel suo complesso, piut tosto che soltanto dello Stato. Ma il tema della «continuità» in generale è quello criticamente proposto dall’intero ciclo di lezioni in cui questa si inserisce; e ad esso farò pertanto un sem plice rinvio, dando per ammesso che non si potrebbe parlare di «continuità dello Stato» se non vi fosse stata continuità della struttura socioeconomica e del dominio di classe. Per non far sorgere equivoci sarà bene peraltro procedere a qualche ulteriore chiarimento preliminare. Innanzi tutto occorre evitare il rischio di invischiarsi in una disputa accade mica sul problema della continuità nella storia. Non sarebbe ad * Da E. Pisciteli! e altri, Italia 1945-48. Le origini della Repubblica, Torino 1974, pp. 139-289. Il volume raccoglie i seminari di storia contemporanea orga nizzati dall’istituto di storia della Facoltà di Magistero dell’università di Torino, dal Circolo della Resistenza e dal Centro studi Piero Gobetti nel 1973.
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esempio difficile mostrare - nel nostro caso - come il tema della continuità fra prefascismo, fascismo, postfascismo sia pre sente con ambiguità e polivalenze, implicitamente o esplicita mente, in quasi tutte le correnti interpretazioni del fascismo. Così la tesi crociana del fascismo parentesi o invasione degli hyksos appare, in prima approssimazione, a favore della rottura; ma ove non si precisi e qualifichi il grado d’incisività dell’opera compiuta dagli hyksos, è pensabile che la parentesi così come fu aperta sia stata chiusa, proprio come si guarisce dalla malattia conservando la propria identità personale. Di contro, la tesi del fascismo «rivelazione» o «autobiografia degli italiani» batte l’ac cento sulla continuità nel male; ma, sempre nella tradizione del pensiero politico radicale, Rosselli avrebbe poi cercato di cogliere anche la novità del fascismo. La letteratura marxista da una parte ha fatto proprio il tema della continuità delle tare della borghe sia risorgimentale, dall’altra ha dovuto necessariamente insistere sulla continuità del dominio di classe ut sic e insieme sforzarsi di riconoscere la novità rappresentata dal fascismo nella storia del potere capitalistico. Oggi vediamo la continuità riscoperta dalla storiografia neomoderata ed eclettica, ma anche, con segno diverso, dall’ondata giovanile ansiosa di comprendere come mai l’Italia uscita dalla Resistenza sia ancora piena di tante brut ture. Constatiamo d’altra parte che i vari apologeti dell’assetto politico generato dalla Resistenza e dalla immediata postresi stenza appaiono alquanto infastiditi dalla sola proposizione del problema e preferiscono in genere chiudersi in un atteggiamento difensivo poco sensibile a discorsi di lungo periodo. E bene in secondo luogo ricordare che continuità non è sino nimo d’immobilismo. Proporre il riesame dell’esito di una Resi stenza analizzata nelle sue componenti piuttosto che costretta in un quadro forzatamente unitario non significa disconoscere i molti cambiamenti avvenuti in Italia nel ’45 e dopo il ’45, né costituisce un invito a rifluire sulla «storiografia dei delusi». Significa' soltanto ricordare che la ricostruzione, economica e istituzionale, è stata guidata, pur in un nuovo quadro politico, dalle forze di classe, tutt’altro che statiche, dominanti in Italia prima, durante e dopo il fascismo. Cosicché il tema della nostra esposizione potrebbe essere riformulato nel modo seguente: pro posta di ricerca sul ruolo che lo Stato ha svolto nell’intreccio
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di vecchio e di nuovo che caratterizza il nostro paese nel pas saggio dal fascismo alla repubblica. In terzo luogo partirò - senza alcuna pretesa di definizione teorica - dal punto di vista che lo Stato gode rispetto alla eco nomia e alla società civile di una sua relativa autonomia: for mula questa nella quale solo l’analisi delle singole situazioni sto riche può chiarire se l’accento debba battere sul sostantivo piuttosto che sull’aggettivo. Il ruolo che lo Stato svolge nella sua triplice funzione di repressione, mediazione (sia all’interno della classe dominante che fra le classi antagoniste), diretto inter vento nel processo produttivo è infatti variabile e obbedisce, in parte, a certi suoi peculiari ritmi non sempre perfettamente coincidenti con quelli della dinamica economica, sociale e poli tica isolatamente considerate. Il riconoscimento di questo pos sibile scarto serve fra l’altro a indirizzare in un senso preciso, anche se non esaustivo, la domanda tante volte posta sulla pos sibilità che nel ’45 si aveva di «fare di più». Constatata infatti la mancanza di fratture rivoluzionarie, resta legittimo il pro blema se sul piano delle istituzioni - innanzi tutto delle isti tuzioni statali - non sarebbe stato possibile procedere a tagli e riforme incisivi, e a non mandare smarrite esperienze abboz zate nel corso della Resistenza. Debbo ancora chiarire che cercherò di impostare il discorso su due distinti piani. Il tema della continuità può infatti essere inteso in senso ristretto e formale, come rottura o meno della «legalità costituzionale» e di vertice, e conseguentemente come problema della legittimità di una discendenza Regno-Repubblica e Mussolini-Badoglio-Bonomi-Patri-De Gasperi. Esiste però un secondo livello, dove lo Stato va esaminato come apparato e organizzazione, come complesso di uffici, servizi e procedure, come burocrazia, distinguendo poi ancora fra amministrazione statale in senso proprio e diretto (ministeri e loro uffici perife rici) e quel complesso di istituzioni che il fascismo chiamò «para stato» e che lasciò come parte sostanziosa della sua eredità al postfascismo. Legato strettamente a questo discorso, tramite la tematica accentramento-decentramento, è anche quello sugli enti pubblici territoriali (regione, provincia, comune), sul quale potremo peraltro soffermarci del tutto inadeguatamente. Limitare l’esposizione a questi due livelli - che saranno ben lungi dall’essere indagati in modo esauriente -2 significa tagliar
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fuori argomenti tutt’altro che estranei al nostro tema, ma dei quali possiamo qui ricordare appena l’esistenza. Pensiamo ad esempio alla funzione svolta dalla Chiesa non solo lungo un arco che, alla luce del sole, va dai Patti lateranensi del 1929 all’arti colo 7 della Costituzione, ma anche in quanto capillare appa rato istituzionale pronto a supplire a quello statale in crisi e ad offrire il ricambio della base di massa di cui nessuna forza poli tica, anche conservatrice, può ormai fare a meno. Pensiamo alla scuola, esplosa in questi ultimi anni per il tasso particolarmente elevato di continuità da cui è rimasta affetta. Pensiamo ancora alla presenza nella società del fatto istituzionale in sé, denun ciato dalla recente contestazione come elemento qualificante così di manicomi, ospedali, carceri, come di matrimonio, famiglia ecc.3 Tanto meno potremo trattare di quel formidabile canale di continuità che sono stati i codici, e non solo quelli penale e di procedura penale, venuti più volte alla ribalta della cro naca politica (basterebbe ricordare che nel codice Rocco fu tra sfusa larga parte della legge istitutiva del Tribunale supremo per la difesa dello Stato), ma anche quelli civile e di procedura civile, che offrono la rete entro cui dovrebbero svolgersi i rappor ti personali ed economici socialmente rilevanti. E una rete che resta a tutt’oggi pressoché inalterata, malgrado - ed è un mal grado di cui andrebbero spiegate le ragioni - le molte de nunce di crescenti smagliature (si pensi, ad esempio, alla man cata riforma delle società per azioni, o al sempre più palese ridursi del campo in cui i contratti nascono come libero incon tro della volontà delle parti). Avverto infine che non mi sforzerò di ricondurre la vicenda della continuità italiana, come sopra precisata, negli schemi ela borati dai giuristi sulla continuità o estinzione degli Stati e, in generale, degli ordinamenti giuridici. Per chi volesse portare l’analisi sù quel terreno, rinvio alla dotta e articolata disamina svolta qualche anno fa da Crisafulli, il quale, per il caso che ci interessa, dichiara «inaccettabile» la tesi secondo cui «lo Stato italiano attuale è uno Stato nuovo e diverso da quello preesi stente al 1943»/ Il Crisafulli giunge alla conclusione generale che solo un fatto, «anche se possa talora apparire il prodotto di atti giuridici “estintivi” », può condurre alla morte di uno Stato. E un richiamo realistico (sulla scia di Santi Romano), che non deve tuttavia condurre alla affrettata conclusione di un possi
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bile comodo trapasso dal terreno della dottrina giuridica a quello storiografico. In realtà il discorso giuridico è condotto a un tal punto di «estrema rarefazione» (come si esprime lo stesso Crisafulli) che l’ausilio diretto che può venirne dagli storici appare piuttosto scarso, ove, ad esempio, si consideri che il Crisafulli svolge i suoi princìpi fino a manifestare qualche dubbio sulla estinzione nel 1917 dell’impero russo e perplessità ancora mag giori sulla novità della Repubblica popolare cinese. Di contro il «Grande Reich » sarebbe davvero scomparso nel 1945 e le due attuali repubbliche tedesche sarebbero in pari misura Stati nuovi. E evidente il peso predominante attribuito alle cause esterne nella comunque rarissima estinzione degli Stati (uno dei pochi casi dati per sicuri è quello del Sacro romano impero). Per cause interne gli Stati, quando li si racchiuda nella imper forabile corazza del formalismo giuridico, non solo appaiono quasi indistruttibili - non essendo loro riconosciuta nemmeno la capacità di suicidarsi - ma, anche allorché finalmente si estinguono, lascerebbero largamente sopravvivere il diritto di cui erano tessuti.5 2. La continuità attraverso il fascismo
Il problema della continuità dello Stato non si pone soltanto - come già accennato - a proposito del passaggio dal fascismo alla Repubblica, ma va affrontato su uh più lungo periodo, quale problema di continuità attraverso il fascismo. «La continuità degli ordinamenti statutario, fascista e repubblicano» si intitola ad esempio il primo paragrafo di uno dei più interessanti saggi di giuristi comparsi sull’argomento;6 e c’è ormai tutta una serie di studi che affronta questa tematica. Già il principale storico nazionalfascista, Gioacchino Volpe, aveva - certo con qualche forzatura - interpretato la posizione preminente data dalla legge del 24 dicembre 1925 al capo del governo come attuazione di quel «ritorno allo statuto» che il Sennino, in polemica con la evoluzione parlamentaristica del nostro sistema politico, aveva auspicato alla fine del secolo precedente;7 e sono note le ricer che di Paolo Ungari sulla sostanza nazionalistica dell’opera del principale «legislatore» del fascismo, Alfredo Rocco.8 Il peso determinante che l’apparato statale centralizzato ha fin dall’u nità avuto quale strumento di governo da parte della ristretta
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classe dirigente di un paese solcato da profonde fratture sociali e territoriali ed in via di squilibrato sviluppo, è venuto richia mando con crescente intensità l’attenzione degli studiosi delle nuove generazioni, sia storici che sociologi e giuristi. Giuliano Amato ha parlato della identificazione, già in periodo liberale, fra Stato e amministrazione, accoppiata all’assunto «che non v’è libertà o diritto individuale prima dello Stato»; e ha aggiunto che il fascismo «fu semplicemente più incisivo nel dare svolgi mento a questa impostazione e la sbarazzò delle difficoltà che le creavano le libertà individuali».9 Giampiero Carocci - che pure sottolinea il peso del Parlamento - ha ricordato che l’am pliamento dei poteri dell’esecutivo, caratteristico di tutti i paesi industrializzati, si era manifestato in Italia con maggior forza e nuovo carattere proprio nel periodo giolittiano.10 Di un «pro getto burocratico di governo» da parte del blocco dominante nell’età giolittiana ha trattato Paolo Farneti in una ricerca di impianto sociologico;11 e Nicola Tranfaglia ha ripreso questo tema nella comunicazione presentata a un convegno anconi tano.12 Giorgio Rochat e Guido Neppi Modona hanno inda gato sulla continuità delle forze armate e della magistratura;13 mentre Aldo A. Mola ha verificato, al livello di un campione locale rappresentativo come Cuneo, in che modo la «linea gio littiana» comportasse la burocratizzazione dell’amministrazione provinciale, e cioè un alto saggio di stabilità-continuità.14 La rivista «Quaderni storici» - per concludere questa esemplifi cazione - sta a sua volta mostrando un costante interesse ai temi amministrativi, visti in un ampio contesto socioeconomico di medio e lungo periodo.15 Il punto mi sembra dunque stia nel vedere come una tradi zione, che prende le mosse dal sistema moderato di governo, si rafforzi nel periodo fascista da una parte rompendo unilate ralmente, à favore di un esasperato accentramento, il «mostruoso connubio» con il parlamentarismo denunciato per più di mezzo secolo dai critici liberali del sistema politico italiano, dall’altra incontrandosi con la tendenza propria di tutti i paesi capitali stici a un certo stadio del loro sviluppo, ma in Italia particolar mente radicata ed acuta, a una sempre più estesa e capillare pre senza del fatto statuale e istituzionale nei rapporti economici e sociali. La continuità del postfascismo rispetto al fascismo e al prefascismo - possiamo anticipare in modo molto schema-
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tico - sarà data dalla impossibilità di invertire la seconda linea di sviluppo, e insieme dal ritorno a un sistema di precario equi librio fra ordinamento amministrativo scarsamente mutato nelle sue componenti tradizionali e restaurato parlamentarismo. Una «restaurazione» peraltro non già del sistema giolittiano bensì - come ha precisato Carocci -16 della «situazione che era emersa in Italia dopo il biennio rosso del 1919-1920», raffor zata dalla esperienza resistenziale e da spinte democratiche ag ganciabili ad alcune parti della nuova Costituzione, e depurata infine - aggiungerei - dall’equivoco di un partito cattolico pro gressista. Ma non possiamo qui tentare una compiuta analisi del sistema di potere operante nell’Italia del dopoguerra. Dovremmo concludere che non è dunque mai esistito un vero e proprio «Stato fascista»? Dovremmo dar ragione all’amareg giato ultimo segretario del pnf, Carlo Scorza, che in un memo riale inviato al duce il 23 giugno 1943 lamentava che lo Stato è fascista solo perché Voi lo volete tale, perché avete emanato delle leggi che lo hanno trasformato in senso fascista, e soprattutto perché ci siete Voi al centro. Ma in effetti esso rimane non fascista nella sua strut tura più intima: quella cioè che dovrebbe realizzare il Fascismo, riferen domi con ciò a sopravvivenze di leggi e di istituti antichi e alla persistenza di una mentalità non fascista negli ordini burocratici (...). In tempo di guerra si è rivelato non fascista quello che avrebbe dovuto essere il più formida bile strumento dello Stato: l’Esercito con le altre Forze Armate?17
Le parole di Scorza testimoniano in realtà lo scollamento in atto, sotto la pressione della disfatta militare, fra i tradizionali «corpi» dello Stato, che tentano di gestire in proprio la crisi come garanti di continuità, e il «regime» di cui quelli erano pur stati ingredienti essenziali. La distinzione fra Stato e regime è stata posta - com’è noto - da Alberto Aquarone al centro di quella che è a tutt’oggi la migliore ricostruzione di assieme della vicenda dello Stato italiano sotto il fascismo.18 Aquarone ha infatti illustrato come l’apparato statale conservasse netta pre valenza su quello del pnf (emblematica la supremazia del pre fetto sul segretario federale), e come il regime si reggesse sull’e quilibrio fra la dittatura personale e demagogica di Mussolini, il partito e gli organismi che ad esso facevano capo, la monar chia, gli altri tradizionali vertici della struttura statale e, non ultima, la Chiesa. Aquarone sintetizza questa sua ricostruzione
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nella formula secondo cui lo Stato fascista non fu in realtà un vero e compiuto Stato totalitario. \ Questo giudizio - che non è proprio del Solo Aquarone -19 merita, ai fini del nostro discorso, due brevi considerazioni. Innanzi tutto, riconoscere il carattere non completamente tota litario dello Stato fascista significa certo portare acqua alla tesi della continuità, ma è un’acqua che si presta ad essere inqui nata da notevoli dosi di ambiguità. Le istituzioni statali potreb bero infatti, su questa strada, essere gratificate come di una loro innocenza rispetto al fascismo, che nasce e crolla mentre esse istituzioni - comprese alcune di quelle create dal fascismo stesso - restano. Cosicché, partiti dalla critica alla trasposi zione sul terreno istituzionale della tesi del fascismo-parentesi, si tornerebbe paradossalmente ad essa, una volta messa la sor dina sulla intrinseca disponibilità al fascismo di tante nostre isti tuzioni. Torneremo brevemente su questo punto nelle conclu sioni. Ma qui vogliamo accennare a una seconda considerazione, che meriterebbe certo ben più ampio sviluppo. Si tratterebbe cioè di riproporre a un dibattito critico la no zione stessa di « Stato totalitario » e del suo uso in storiografia. E lecito il dubbio che la formula, adottata chiassosamente dal fascismo e accettata come bersaglio polemico dai suoi avversari, riesca difficilmente a reggere a un tentativo di rigorosa definizio ne. Appare in effetti arduo annullare davvero quella distinzione fra Stato e società civile che sarebbe nelle ambizioni dello Stato totalitario vanificare. Se lo Stato soverchia la società civile per imbrigliare, mediare, reprimere e sospingere in certe direzioni la dinamica sociale e le lotte delle classi, non è contraddittorio pensare che quella dinamica e quelle lotte si compongano davve ro e si plachino senza residui nella forma statuale? O non sarà piuttosto vero che questa forma tanto più tende ad accreditarsi come totalitaria quanto più avverte di coprire un terreno sociale instabile e contraddittorio? Se le cose stanno così, è chiaro che lo sforzo di qualificare, in sede storica, uno Stato come totalita rio è destinato a rimanere sempre deluso anche di fronte alle più patenti forme di oppressione e invadenza statali e anche quando, ad esempio, dal fascismo italiano si passasse al più compatto nazismo. La ricerca infatti di una fattispecie che integri l’ipote si di reato prevista - il totalitarismo - non potrebbe che con durre alla assoluzione di tutti gli Stati fascisti per insufficienza
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di prove o, al massimo, alla loro condanna per delitto tentato, mai consumato.20 E potrebbe - un procedimento di questo tipo - giungere perfino alla conclusione che uno Stato di così labile presa effettiva come la Repubblica sociale italiana sia riu scito ad essere più «totalitario» del fascismo del ventennio.21
3. L'incisione dell'8 settembre
Far battere oggi l’accento sul tema della continuità non deve indurci a dimenticare che coloro che vissero la crisi dell’8 set tembre 1943 furono invece colpiti dallo sfasciamento dello Stato o almeno dal senso della sua «sospensione». Dissoltosi in poche ore l’esercito, fuggito il re al Sud con pochi brandelli di governo, chiusi i pubblici uffici e paralizzati i servizi, confusione e incer tezza ovunque regnanti su chi detenesse ancora qualche parte di potere, gli italiani si trovarono come librati in una condizione che, se non era proprio lo stato di natura, appariva lontanis sima da quella organizzata di cui si era avuta quotidiana e tra dizionale esperienza. Fu certo, in questo senso estremo, una situazione eccezionale di pochi giorni o settimane, sufficiente tuttavia a lasciare profonde tracce in chi la visse, anche se ovvia mente sarebbe difficile dare del fenomeno una misura quanti tativa (ma la importanza di certi nodi storici sta proprio nel costringere ampie masse di uomini e scoprire problematico ciò che fino a poco prima appariva ovvio). Nel Sud - è noto - lo Stato del re avrebbe stentato a ridar si un volto presentabile. «Popolazione ritiene che non esiste governo e di non essere tenuta conferimento prodotti ammasso», riferiscono ad esempio i carabinieri d’Isernia il 4 gennaio 1944; o ancora, sempre i carabinieri a proposito delle agitazioni avve nute in Montesano, in provincia di Salerno, il 18 e 19 dicem bre: «Tra i dimostranti era stato propagandato che non essen dovi più leggi e autorità occorreva abolire le tasse».22 Queste testimonianze e altre analoghe, relative a un mondo contadino in cui riaffiorano antichi impulsi allo «sfascio», sono generaliz zabili con molta cautela. Ma ciò nonostante esse sono sintomo di un fenomeno che non sarà facile riassorbire. Il discredito in cui erano cadute le forze armate e il sincero disprezzo per larga parte dei loro quadri, tanto maggiore quanto più si saliva nella gerarchia, avrebbe ad esempio reso particolarmente difficili gli
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sforzi per organizzare i primi reparti regolari da affiancare agli alleati;23 mentre al Nord avrebbe posto come ovvio presuppo sto della parte di gran lunga più ampia della partigiania il netto rifiuto del vecchio organismo militare. Nel Nord a mettere a dura prova uno dei piloni più tradi zionali della stabilità delle istituzioni sarebbe intervenuta pre sto la crisi del giuramento. Larga parte degli italiani avevano giurato fedeltà al tele insieme al duce (la causa della rivoluzione fascista si erano anzi impegnati a servirla, «se necessario», anche col proprio sangue). La nascita della Repubblica sociale li poneva ora di fronte ad una scelta: a quale dei due giuramenti dare mag gior credito? Sappiamo che molti ufficiali trovarono nei lager tedeschi la forza di resistere proprio in virtù del giuramento fatto al re; e non intendiamo sottovalutare la prova di carattere da essi in tal modo fornita, anche se argomentare rigorosamente la preferenza data a un giuramento rispetto all’altro non sarebbe stato agevole.24 Ma ci sembra che molto più feconda sia stata l’esperienza di chi trasse la conclusione che i giuramenti, quando vengono alla ribalta le questioni di fondo, non servono, e biso gna trovare altrove il punto di appoggio per la propria condotta. Fra le tante «lezioni morali» che si sogliono, cadendo spesso nella retorica, accreditare alla Resistenza, questa della messa in mora dell’istituto del giuramento ci sembra una delle più schiette, perché si rifà a quel senso di scelta autonoma, impo sta dalla durezza della situazione, che è alla base del più valido comportamento resistenziale. Venivano, da tutto quanto sopra ricordato, poste in luce disponibilità soggettive ad accettare fratture istituzionali, riscon trabili in un arco più ampio di quello che faceva capo ai partiti del cln, e che erano tanto più interessanti in quanto ad esse si mostravano sensibili soprattutto esponenti di quei ceti medi che.costituirono nei fatti uno dei canali della continuità. Che poi la coesistenza di tanti giuramenti e di tanti spergiuri pas sati impuniti si sia risolta in un ulteriore incentivo al lassismo opportunistico di quei ceti, è altro discorso, che andrebbe ricol legato a quello sul fallimento dell’epurazione.25 Del senso del crollo dello Stato vorrei offrire ancora due testi monianze di diversa provenienza, collocabili l’una all’inizio, l’al tra alla conclusione della Resistenza. Un documento comunista anonimo così si esprimeva non molto dopo 1’8 settembre:
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Dal compimento dell’unità d’Italia è questa la prima volta che lo Stato si sfascia e l’organizzazione della classe dirigente si disgrega. Già altri periodi storici ha conosciuto il paese nei quali la esistenza dello Stato italiano è stata messa in pericolo; ma oggi la crisi è sboccata nella disgregazione dello Stato borghese, nel fallimento delle vecchie classi dirigenti, nel vuotamente dei vecchi istituti conservatori che sono miseramente crollati. Se lo Stato italiano, nella sua breve esistenza, ha potuto essere minacciato di rovina ad ogni aspra prova cui era sottoposto, la ragione essenziale deve ricer carsi nelle fragili basi economiche su cui lo Stato borghese ha riposato.
Fragilità, continuava il documento, che ha fatto nascere la voca zione della borghesia italiana alla dittatura.26 Si può scorgere in queste parole l’eco delle vecchie tesi della Terza Internazio nale sul fascismo ultima carta della borghesia. Ma se l’esten sore si mostrava non ben aggiornato con la più recente evolu zione del Partito comunista italiano, riusciva a cogliere bene una sensazione viva, largamente diffusa alla base e in molti qua dri comunisti e di cui è traccia anche in molti documenti del Partito d’Azione, talvolta sub specie di moralismo altero ed offeso, talaltra come diagnosi presupposta dalla richiesta della « rivoluzione democratica ». Rodolfo Morandi, in un suo intervento al primo congresso dei cln della provincia di Milano tenutosi dopo la liberazione, - è questa la seconda testimonianza cui sopra accennavo pone in luce un’acuta e molto significativa tensione fra ottimi smo e pessimismo nei riguardi della sorte e della reale consi stenza dello Stato italiano. Sullo sfasciamento dello Stato Mo randi esprime una opinione fiduciosamente rivoluzionaria. Egli parla di «disgregazione della compagine statale», di «decom posizione» conseguente dell’unità sociale ed economica della nazione; e avverte che «lo Stato italiano, consumato dal can cro che per venti anni lo ha roso, è crollato. Le amministra zioni pubbliche si sono sfasciate. Da Roma si tenta inutilmente di governare, utilizzando i detriti di questa grande rovina».27 Allora, verrebbe da commentare, i giochi erano fatti? A questo punto Morandi, sotto la sferza con cui passa a fustigare quei «detriti», rivela un realistico pessimismo circa il potere di cui erano ancora dotati. «Roma - egli infatti prosegue - non di spone di un solo prefetto o questore di carriera che non sia com promesso e possa dare il benché minimo degli affidamenti»: ma questo - viene da osservare - era un reale dramma del perso-
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naie politico antifascista, non una prova dello sfasciamento dello Stato. La conclusione di Morandi era accorata: Stremate restano tutte le branche dell’amministrazione, se noi vogliamo applicare i criteri più moderati dell'epurazione. La burocrazia intanto boi cotta e sabota silenziosamente. Si difende con l’omertà. Così gli uomini nuovi che la lotta di liberazione ha portato al governo e a capo dell’ammi nistrazione si trovano \affogati in questa ovatta putrida che ne smorza e consuma miseramente'le energie.
A Morandi non sfuggiva la contraddizione esistente fra la prima e la seconda parte del suo discorso. Ma noi non vogliamo per ora discutere la validità della via di uscita che egli invocava, un potenziamento cioè dei cln che non si esaurisse in una «disci plina meramente formale fra i partiti» e consentisse la diffu sione a Sud della esperienza del Nord; vogliamo solo ricordare che questo rovello ottimistico-pessimistico sulla sorte, consi stenza e utilizzabilità a nuovi fini dello Stato italiano è uno dei temi che attraversa, con maggiore o minore consapevolezza, tutta la Resistenza d’ispirazione democratica e socialista, e non è a sua volta che un aspetto del contrasto fra la diagnosi per eccesso della profondità della crisi italiana e la limitatezza e incertezza degli obiettivi della ricostruzione.28 4.
Stato e istituzioni nei programmi della Resistenza
Quale fu la risposta della Resistenza, sul piano della proget tazione istituzionale, a questo problema dello Stato? Fu una risposta largamente insufficiente. Questo giudizio, ormai cor rente, non deve tuttavia esimerci dal tentare in merito un discorso più articolato. Non ci si deve infatti accontentare della constatazione'di una unità resistenziale al livello più basso; e, soprattutto, il problema delle istituzioni non va isolato da quello dei rapporti di forza fra le classi e i partiti, quasi esistesse un arbitrium indifferentiae delle forze politiche e sociali dominanti rispetto alla scelta delle istituzioni progettate dai tecnici. D’al tra parte non si deve nemmeno porre, senza ulteriori specifica zioni, sul conto delle debolezze della Resistenza la gracilità dei suoi programmi istituzionali,29 dimenticando che una dimen sione antistituzionale passa attraverso tutti i moti di rinnova mento, caratterizza tutti i momenti di crisi, e ne costituisce anzi
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una delle spinte tanto indispensabili quanto difficilissime da mediare. Il raggelarsi delle rivoluzioni in forme istituzionali non sempre atte a esprimerne tutta la potenzialità, o il ripiegare di movimenti innovatori sulle istituzioni preesistenti - come è il più modesto caso dell’Italia 1945 -, non costituirebbero pro blemi tanto duri se potessero venir ridotti a mera deficienza di cultura tecnico-giuridica. In linea molto generale e schematica può dirsi che le posi zioni manifestatesi durante la Resistenza in merito ai problemi dello Stato e delle istituzioni si muovevano entro un triangolo di posizioni diverse i cui vertici erano costituiti dalla coscienza della crisi generale delle istituzioni rappresentative fra le due guerre mondiali, dalla proposta di una sostanziale restaurazione delle istituzioni parlamentari prefasciste, dalla formula comu nista della democrazia progressiva. Coloro che si collocavano nel primo vertice - e che scon tavano anche la insoddisfacente esperienza istituzionale delI’urss stalinista, non proponibile come modello alternativo partivano dalla constatazione che le istituzioni parlamentari non erano state in grado né di aprire la strada a un’evoluzione paci fica verso il socialismo, né di costituire un sicuro presidio delle libertà democratico-borghesi minacciate dal fascismo, e nem meno infine di venite incontro a tutte le esigenze dello sviluppo economico capitalistico. Da questa constatazione partivano peraltro due diverse linee programmatiche. L’una potrebbe chia marsi «ideologia consiliare» o «ideologia dell’autonomismo»; l’altra, tendenza alla «razionalizzazione del sistema parlamen tare»30 e al rafforzamento, o almeno alla stabilità, dell’esecu tivo. La prima linea muoveva dalla critica allo Stato accentratore - comune peraltro, con formule quasi rituali, a un ampio ed eterogeno schieramento politico e ideologico - e, in parti colare attraverso la dottrina dei cln estesi o da estendere a tutti i livelli territoriali, aziendali, sociali (dottrina sulla quale fra poco ritorneremo), cercava di riproporre in nuove forme istanze antistataliste e filolibertarie. Si trattava di un atto di fiducia nella capacità popolare di autogoverno dal basso e nella possibilità di composizione non coatta degli interessi così espressi; o almeno, se coazione si fosse dovuta prevedere, essa sarebbe stata d’ispirazione giacobina (e questa mescolanza di libertarismo e giacobinismo meriterebbe maggiore attenzione).
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Dell’«ideologia dell’autonomismo» si possono cogliere tracce anche nei gruppi e nei partiti che non ne facevano espressa pro fessione (tutta l’etica delle bande partigiane ha ad esempio un sottofondo «autonomista» e libertario, alimentato dalla esaltante scoperta che è possibile ricominciare da soli e da zero).31 Altro sarebbe ovviamente il discorso se, oltre ad esaminare i tenta tivi di elaborazione in forma programmatica delle istanze auto nomistiche e consiliari, si dovessero indagare le reali possibi lità che esse avevano di trovar spazio in quel contesto storico. Si potrebbe ad esempio notare che la guerra di Spagna era abba stanza di frequente ricordata, dalle sinistre, come eroico prece dente di lotta antifascista, ma ne veniva scarsamente analiz zato il senso politico e sociale. Il clima di unità nazionale era certo il meno adatto per riproporre il problema dello scontro fra governo di fronte popolare, anche nella versione spagnola meno difensiva di quella francese, e collettivizzazioni anarchi che autogestite; ma in tal modo la tragica esperienza spagnola, aggrovigliatasi proprio attorno al tema, anche istituzionale, della «rivoluzione in Occidente»,32 non fu approfondita nel suo non transeunte significato emblematico.33 La tendenza che ho sopra chiamata di «razionalizzazione del sistema parlamentare» è presente nella Resistenza italiana al quanto in sordina. E qui può giovare il paragone con la Francia. La Resistenza francese è tutta percorsa, in forme e misure diverse, da un’aspra e risentita polemica contro la Terza Repubblica, che aveva condotto il paese al disastro. I progetti di nuove costitu zioni furono in conseguenza numerosi, tanto da far nascere il motto che «chaque resistant a sa constitution propre».34 In molti di questi progetti era richiesto il rafforzamento dell’esecu tivo, fino alla repubblica presidenziale. Tuttavia, se dai progetti elaborati dai gruppi formatisi durante e in funzione della Resi stenza - i mouvements - si passa a quelli dei partiti tradizionali, la spinta verso il rinnovamento istituzionale diminuisce.35 Cosicché non c’è da meravigliarsi se il documento elaborato nel marzo 1944 dal Conseil National de la Résistance, e conosciuto come Charte de la Résistance, dia poco spazio a precise proposte di riforma delle istituzioni;36 ed è noto come la Quarta Re pubblica non riuscisse poi molto diversa dalla Terza. Agiva del resto in Francia, che faceva in questo da battistrada all’Italia, una forza ben più possente dei dibattiti sulla miglior costi-
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tuzione: il permanere dell’apparato amministrativo e la convin zione che su di esso - antico, capace e orgoglioso - si fondesse il senso stesso della continuità dello Stato. Per sottolineare que sto canale di continuità De Gaulle, entrando in Parigi liberata, avrebbe scelto di andare innanzi tutto al ministero della Guerra anziché all’Hòtel de Ville, dove sedevano il Consiglio della Resi stenza e il Comitato di liberazione parigino, perché, avrebbe spiegato poi, «je voulais qu’il fut établi que l’Etat, après des épreuves qui n’avaient pu ni le détruire, ni l’asservir, rentrait d’abord, tout simplement, chez lui».37 Appare abbastanza evidente che in un’Italia che usciva dal fascismo (ed era stato il fascismo a perdere la guerra, mentre nel 1918 il regime parlamentare l’aveva vinta) le proposte di rafforzamento e stabilità dell’esecutivo non potessero essere molto popolari. Esse compaiono peraltro nella stampa clande stina liberale e democristiana, perché congrue a un’interpreta zione del fascismo - proposta innanzi tutto dal fascismo stes so - come scaturente dal disordine postbellico e dal troppo rapido mutar di governi. Il fascismo - scrivevano i liberali «approfittò di un momentaneo ma innegabile discredito dell’i stituto parlamentare» dovuto appunto all’instabilità dei governi; o anche, più severamente, sempre i libérali qualificavano come «regime di licenza» quello immediatamente prefascista, degenerazione d’un regime parlamentare il quale di liberale non aveva più che il nome, dominato com’era dal sopraggiunto prepotere dei partiti socia listi e popolari, di quei partiti che, alieni sempre dall’assumersi la diretta responsabilità del governo, ne hanno volta a volta intimidito l’autorità ed estorto il favore.56
«La stabilità del governo, l’autorità e la forza dell’esecutivo» erano richieste a lor volta dalle Idee ricostruttive della Democra zia Cristiana in un quadro che affermava peraltro il primato del Parlamento;39 mentre con più rozzezza l’opuscolo La Democra zia Cristiana ai lavoratori affermava che «bisogna anche finirla con le troppe crisi ministeriali e con le troppe mutazioni di governo. Abbiamo bisogno di un governo forte e stabile».401 democristiani non potevano certo condividere tutti gli strali rivolti dai liberali all’immediato passato prefascista; ma nell’ac corto dosaggio degli elementi del loro programma politico sape vano far confluire anche la tematica di cui abbiamo ora discorso.
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Il partito che - proprio in quanto partito «nuovo» -41 legò più di ogni altro la sua fortuna alle prospettive di rinnovamento istituzionale, tanto da non sopravvivere al loro fallimento, fu il Partito d’Azione. Nella formula «rivoluzione democratica» (e aclassista) in cui quel partito compendiava il proprio pro gramma, largo spazio trovavano necessariamente le istanze volte ad un diverso assento dello Stato e delle istituzioni in genere, anche in rapporto a quella sistemazione federale dell’Europa di cui il partito si faceva con ostentata insistenza banditore. Nel Partito d’Azione convivevano in realtà, con molte varianti, sfu mature e contaminazioni, entrambe le linee che abbiamo sopra schematicamente tratteggiato: la linea ciellenistica - autonomi sta - consiliare, che era la più evidente ed era congrua all’a nima neosocialista di un’ala del partito; e la linea, propria del l’ala destra e « razionalizzatrice », alla cui ispirazione si deve evidentemente se nella prima delle dichiarazioni programmati che del partito si trova la richiesta di un esecutivo controllato sì dagli organi rappresentativi, ma dotato «di autorità e stabi lità tali da consentire continuità, efficacia e speditezza di azione, per evitare ogni ritorno ai sistemi di crisi permanente, risultati fatali ai regimi parlamentari».42 Come ha scritto Ungati, que sta linea «rivendicava l’attualità di una funzione liberale e libe ratrice dello Stato nella società contemporanea, minacciata dal l’insorgenza feudalizzante di chiuse caste economiche e buro cratiche».43 Nel programma del Partito d’Azione per l’elezione della Costituente questa seconda linea avrebbe fatto includere - con un gioco di argomentazioni che non è qui possibile inda gare e che cercava di far propri anche alcuni temi autonomi stici - la richiesta di repubblica presidenziale (fu l’unico par tito a formulare siffatta proposta). La tendenza alla restaurazione - con alcuni ritocchi tratti dalla tematica del rafforzamento dell’esecutivo, cui abbiamo accennato, e altri cui accenneremo - dell’assetto istituzionale prefasdista si lega troppo strettamente al tema complessivo del nostro discorso perché sia possibile indugiare in una disamina minuta delle formulazioni programmatiche che più o meno espli citamente la richiedevano. Nel relativamente abbondante fio rire di opuscoli clandestini liberali volti in parte ad aristocrati camente ammonire, in parte a tecnicamente consigliare su punti particolari (organi dello Stato, autonomie locali, scuola, indù
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stria, banche, agricoltura ecc.) si può ad esempio vedere impli cita una buona dose di sicurezza che il gioco sarebbe finito col tornare nelle mani della vecchia classe dirigente, anche se i libe rali sbagliavano nel considerarsi ancora la formazione politica favorita da quella classe e anche se c’erano pure fra di loro diver sità di atteggiamenti, specie fra i centro-meridionali e i setten trionali.4'1 L’aspettativa restauratrice trovava un sostegno, in larga parte della popolazione meno politicizzata, in quanto prima e quasi meccanica reazione alla ormai scontata, definitiva scomparsa del fascismo. Si trattò di una reazione abilmente utilizzata dalle forze conservatrici come contrappeso a quella, cui abbiamo sopra accennato, di disponibilità verso più incisive fratture. D’altra parte, mentre le proposte innovative avrebbero avuto biso gno di chiare e forti formulazioni, e di una coerente azione poli tica di sostegno, la prospettiva di un ritorno alla situazione pre fascista aveva dalla sua la forza dell’inerzia e poteva apparire talvolta, anche a sinistra, l’ovvio minimo da rivendicare, do po averlo ripulito dalle più grossolane incrostazioni fasciste.45 Sarebbe così venuta delineandosi una specie di paradosso sto rico: l’Italia, paese del fascio primogenito, e che avrebbe dovuto in conseguenza essere particolarmente sensibile alla crisi del sistema rappresentativo parlamentare come problema generale posto dal capitalismo, fu invece di fatto portata ad acconten tarsi, in larga parte, proprio di una restaurazione del sistema politico battuto dal fascismo, perché quella sconfitta era ormai lontana e i vincitori del ’22 si erano trasformati in vinti scredi tati e odiati. La proposta comunista di una «democrazia progressiva» pos siamo intenderla anche come tentativo di sfuggire a questa china. Non essendo nostro compito valutare qui il complessivo significa to politico di quella formula, ci limitiamo a ricordare che l’incer tezza della sua elaborazione si ripercuoteva in modo particolar mente acuto proprio sul terreno istituzionale.46 Alla aspettativa di un corso profondamente nuovo, non socialista ma in qual che modo «sulla via» del socialismo, non corrispondeva infatti un’adeguata indicazione degli istituti che avrebbero dovuto caratterizzare il presumibilmente lungo periodo di transizione. Certo, non è difficile trovare sulla stampa comunista richie
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ste di «ricostruzione su nuove basi di tutto l’apparato politico e amministrativo dello Stato italiano, corrotto e disorganizzato da vent’anni di dittatura fascista».47 Quello che manca è un piano sufficientemente articolato di quell’innovatore tipo di rico struzione; anzi, questa mancanza viene essa stessa teorizzata. «Sarebbe vano, oggi, in una situazione interna e internazionale ancor così fluida, fissare alla democrazia progressiva un pro gramma od una graduatoria di obiettivi concreti», scriveva la rivista teorica del partito nell’Italia occupata, riassumendo in modo molto esplicito la linea seguita.48 La direttiva si ritrova espressa anche in documenti delle minori istanze di partito. Simon, ispettore della prima zona (Liguria) del comando gene rale delle Brigate Garibaldi, l’aveva ad esempio praticata in modo fin troppo letterale, sconsigliando ai commissari politici di parlare di «liberalismo, democrazia, democrazia popolare o democrazia cristiana, di socialismo e di comuniSmo»; quel che conta, aveva scritto, è «orientare bene i garibaldini a compren dere la politica del Fronte di liberazione nazionale, alla ricerca cioè di quello che unisce e non di quello che divide».49 Anche documentabile, d’altra parte, è la richiesta che partiva dalla base di maggior chiarezza sul significato di una formula - quella appunto di democrazia progressiva - che impegnava insieme grandi questioni teoriche e prospettive concrete per l’immediato futuro. «La Nostra Lotta» nello stesso, già ricordato, fascicolo in cui dedicava un articolo alla democrazia progressiva, riferiva che «nelle riunioni alla base i compagni hanno avuto la tendenza a soffermarsi di più a discutere sulla prospettiva che dovremo affrontare domani»-, il che, pur lodato come segno di interesse politico, veniva in realtà respinto in nome della necessità di non perdersi «in oziose discussioni sulle prospettive lontane, su ciò che dovrà farsi domani».50 Così da una parte le innovazioni introdotte rispetto alla classica dottrina marxista dello Stato venivano genericamente accreditate alla inesauribile fecondità della storia proclamata dal marxismo stesso,51 dall’altra non ci si impegnava in discorsi concreti e si puntava tutto, per il mo mento, su una certa interpretazione del ruolo dei cln (alla quale torneremo presto a far cenno) e, per il prossimo futuro, sulla Costituente.52 Il discorso dovrebbe, a questo punto, chiamare integralmente
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in causa quella linea della sinistra che è stata chiamata di «occu pazione delle istituzioni» o di «lunga marcia attraverso le isti tuzioni»,53 piuttosto che di rinnovamento di esse. Questo at teggiamento - largamente comune a comunisti e socialisti, fatta eccezione, riguardo a questi ultimi, per uomini quali Mo randi e Basso - si basava su una non corretta valutazione della natura tutt’altro che adiafora delle istituzioni stesse. In virtù di un frettoloso svolgimento di presupposti classisti si finiva infatti con l’arrivare a un singolare recupero della tradizionale dottrina della «indipendenza» e «neutralità» della pubblica amministrazione, ritenuta disponibile a molteplici usi politici, anche antagonisti rispetto a quelli per i quali era stata ab anti quo creata. Probabilmente influiva su questo atteggiamento il processo di burocratizzazione in corso negli stessi partiti di sini stra, che li conduceva a vedere nel controllo di apparati docili e spoliticizzati un momento decisivo dell’esercizio non solo del governo, ma anche del potere, e perfino della egemonia. I pre supposti classisti potevano tuttavia essere usati anche in senso opposto e altrettanto parziale, potevano cioè condurre a una sorta di scetticismo o sfiducia verso il fatto istituzionale in sé, svalutato a meccanico e rigido epifenomeno, a modificare diret tamente il quale non metteva conto impegnarsi oltre un certo limite. Per di più i comunisti, poco propensi come allora erano a sostenere l’adozione di una politica di piano,54 non avverti vano l’urgenza delle riforme necessarie a rendere la pubblica amminitrazione atta a sostenerne lo svolgimento. Ragionieri ha giustamente osservato che il Partito comuni sta privilegiò il rapporto fra i tre partiti di massa - e, in par ticolare quello fra comunisti e democristiani - nei confronti delle questioni istituzionali.55 Aggiungerei che questo scarso in teresse è un elemento di rilievo nella valutazione da dare della linea comunista di lungo periodo, quella uscita dalla svolta del 1933-35. Nella discussione, infatti, tuttora aperta, sul carattere offensivo o difensivo della politica dei fronti popolari e succes sivi sviluppi, la poca attenzione prestata alle istituzioni di quello che pur avrebbe dovuto essere uno stato di transizione di non breve durata, mi pare fornisca argomenti a favore della inter pretazione difensiva. Va infine ricordato il ruolo predominante assegnato alla «politica», dopo averne allentato i nessi con la lotta di classe,
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nella linea allora seguita dalle sinistre socialiste e comuniste: politique d’abord, come empiricamente diceva Nenni, fidando nel proprio intuito; reggersi il più possibile al governo e insieme costruire innanzi tutto lo strumento politico per eccellenza, il «partito di tipo nuovo », come era indubbiamente fra gli obiet tivi prioritari di Togliatti. 5. I
cln:
ideologia e realtà
Sui cln mi limiterò ai cenni indispensabili per il nostro discorso. Il problema, a questo fine, può essere così riassunto: dovevano i cln essere considerati l’embrione di nuovi istituti sulla cui base costruire una nuova organizzazione statale - co me sostenevano con particolare nettezza, ma con motivazioni in parte diverse, l’ala del Partito d’Azione che abbiamo chia mato «consiliare»56 e l’ala del Partito socialista facente capo a Rodolfo Morandi57 - oppure erano essi da intendere come temporanee coalizioni di partiti, imposte da circostanze ecce zionali e con quelle destinate a cadere? Da questo interroga tivo ne discende subito un altro: i cln erano dotati di un potere originario oppure delegato? Sono note le vicende che condus sero all’ambigua delega di poteri al clnai da parte del governo Bonomi.58 L’ambiguità non va vista soltanto nella incerta defi nizione dei poteri trasmessi, come scrisse Morandi, «a tasso d’usura»,59 ma nell’obiettivo significato del fatto stesso della delega, la quale rafforzava certo e garantiva sotto molti profili il clnai, ma gli negava nello stesso tempo la piena indipendenza, sconfessandone ogni aspirazione a costituire un centro alterna tivo di potere. Era proprio questo il punto sul quale si verifi cava lo scontro politico; e ad esso deve ancor oggi rifarsi la valu tazione dèi ruolo svolto dai cln nella vicenda della continuità dello Stato. L’esame andrebbe condotto distintamente al Sud - dove dòpo la svolta di Salerno il governo si basava, coi limiti e gli equivoci che subito ricorderemo, sul cln -60 e al Nord, dove la base ciellenistica di quel governo appariva scolorita, tanto che un altro cln dava segni di volersi ergere come suo antagonista. Il «Risorgimento liberale» scrisse nella sua edizione settentrio nale che i cln, col riconoscimento da parte del governo di Roma,
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avevano il «potere governativo diretto in zona liberata, e dele gato in zona occupata»;61 nella realtà le cose stavano in senso opposto, perché quel tanto di potere che si erano conquistato i cln lo esercitavano più direttamente in zona occupata (e nei brevi periodi di transizione) che in zona liberata. In quest’ultima il governo era sì basato sul cln centrale, ma andava rapi damente, alla sua ombra, ricostruendo il vecchio apparato sta tale ed esautorando i cln stessi. Di qui un paradosso abilmente sfruttato dalle forze politiche moderate e conservatrici interne ai cln (ma sorrette da quelle esterne), pronte a denunciare come scorretta ogni opposizione che dai cln locali venisse abbozzata contro un governo che dichiarava di trarre la sua autorità pro prio dal massimo dei comitati, quello centrale. Se dunque il dualismo di poteri si vuole per quei mesi par lare, occorre subito aggiungere che era un dualismo zoppo, ma non per questo meno indicativo di una forte tensione politica, innanzi tutto all’interno dei cln stessi; e solo un diretto esame di quella tensione potrebbe dare il pieno significato a polemi che e scontri che altrimenti rischierebbero di apparire discus sioni accademiche poco consone alla gravità dell’ora. Da vari documenti socialisti e comunisti traspare la coscienza che si aveva della complessità del problema. Commentando la forma zione del secondo governo Bonomi senza socialisti e azionisti, Nenni, in un discorso tenuto al teatro Brancaccio di Roma il 31 dicembre 1944, disse ad esempio che se i cln fossero stati solo quelli dell’Italia liberata, la formazione di un governo sca turito dalla rottura fra i partiti che li componevano avrebbe potuto porre in discussione l’esistenza stessa dei comitati; ma c’erano anche i cln dell’Alta Italia e da quelli, disse Nenni, noi ci sentiamo invece pienamente rappresentati.62 In un articolo di commento alla costituzione del governo di Salerno «La Nostra Lotta» aveva affrontato il problema dei rapporti tra cln e governo di unione nazionale, negando che esistesse contrappo sizione e suggerendo una distinzione fra Nord e Sud che non rispondeva soltanto alla diversità delle situazioni di fatto, ma anche alle differenti accentuazioni che del ruolo dei cln davano i comunisti a nord e a sud della linea gotica. A Sud il dato fon damentale appariva il governo e, prima e dentro di esso, il rap porto - cui ho già accennato - fra i tre partiti di massa; cosic ché i cln dell’Italia occupata erano visti - sempre dal Sud -
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non solo come «organi dirigenti della lotta contro il nazifasci smo» ma anche come istituti che dovevano porsi l’obiettivo di diventare realmente «gli organi rappresentativi del Governo di Unione Nazionale». A Nord si preferiva invece insistere sulla capacità di governo che i Cln, capillarmente diffusi e aperti agli organismi di massa, si sarebbero conquistati attraverso la lotta.63 E proprio in questa apertura, a tutti i livelli, agli orga nismi di massa che va a mio avviso cercato il tratto distintivo della posizione comunista verso i cln, posizione che i comuni sti pensavano permettesse di sviluppare la potenzialità dei nuovi istituti senza contraddire alla dottrina leninista del partito come avanguardia. I partiti non possono inquadrare che una parte delle energie che vengono espresse dalle masse popolari (...).! Comitati di liberazione nazionale, che sono stati finora soltanto una coalizione di partiti antifascisti, non pos sono non tenere conto di questa nuova realtà che si è venuta creando in questi mesi di lotta.6"1
E ancora: i partiti «non hanno mai costituito e non possono costituire che una avanguardia di elementi politicamente più attivi».65 I socialisti non concordavano invece su questa linea che, almeno formalmente, fu recepita dal clnai:66 confluivano in questa posizione socialista gli interessi di un partito assai meno radicato nelle masse e le preoccupazioni di un uomo come Morandi circa un corretto rapporto tra classe e partito.67 Per ancorare il discorso sul concreto andrebbe anche inda gata la reale presa dei cln sulle varie situazioni locali dell’Italia occupata. Sarebbe infatti erroneo identificare con le posizioni dei cln e dei partiti che li componevano - posizioni che il tipo di discorso che stiamo conducendo è portato necessariamente a privilegiare - l’intero arco di atteggiamenti ed esperienze avutisi specie a livello operaio e giovanile. Non tutto quello che veniva fatto in nome dei cln - inoltre - proveniva veramente da questi, che ai livelli più bassi stentavano talvolta a trovare rappresentanti di tutti i partiti che formalmente avrebbero dovuto costituirli. Poteva infatti accadere che i partiti più pre senti e attivi, in particolare il Partito comunista, parlassero a nome di un comitato creato poco più che sulla carta.68 C’erano anche casi in cui la stessa esistenza dei comitati era dalle popo lazioni ignorata. È indicativo a questo riguardo un avvertimento
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che il segretrio del cln di Conegliano rivolse al comando della divisione garibaldina «Nino Nanetti» il 14 marzo 1945: In uno dei vostri prossimi manifestini alludete alla presa di governo da par te dei cln appena avvenuta la liberazione del paese, specificando le funzio ni di questi. Molta popolazione ignora persino il significato di tali Enti ed è bene che sappia che i Comitati rappresentano tutto il popolo italiano.65
E pure da rivedere il problema dei rapporti fra cln e forma zioni partigiane, che può in parte essere ricondotto alle tradi zionali diffidenze e rivalità fra «politici» e «militari», ma che presenta anche più complessi sottintesi. Ci sono testimonianze di critiche ai cln come fastidiosi intralci,70 d’insofferenza di combattenti verso i «civili»,71 di vere e proprie accuse di sabo taggio politico-militare o almeno di freno moderato alla lotta.72 Un impegnativo banco di prova della effettiva capacità di governo dei cln e delle giunte da essi emananti fu costituito dalle cosiddette «repubbliche partigiane», fiorite nelle zone libere dall’arco alpino e appenninico soprattutto nell’estateautunno del 1944. L’economia del nostro discorso ci consente soltanto di rinviare allo studio complessivo del Legnani,73 non senza tuttavia ricordare gli ostacoli che anche in quelle «repub bliche» si opposero a profonde innovazioni sul piano sociale e istituzionale (posto che tali innovazioni fossero state congrue alla linea di unità nazionale). Ci riferiamo alla precaria situa zione militare, alla breve durata dell’esperienza, alle difficoltà tecniche di ogni genere, allo stentato ricambio del personale amministrativo, alla epurazione e alla punizione dei delitti fasci sti, alle difficoltà incontrate da una politica fiscale più popo lare che pure fu in qualche caso tentata, alla composizione sociale, infine, delle zone libere (solo nell’Ossola vi era un forte nucleo di classe operaia): tutte circostanze che concorrono a ren dere le zone libere italiane tanto diverse da quelle jugoslave. All’impegno jugoslavo a creare organismi socialmente e istitu zionalmente nuovi si contrapponeva in misura varia, nelle nostre «repubbliche», la preoccupazione di trovare un arduo equili brio fra spinte innovatrici e all’autogoverno, e desiderio di dare la sensazione che la «normalità» veniva per quanto possibile restaurata e rispettata. L’ora della verità arrivava, per i cln quali organi di governo, al momento della Liberazione, come ben mostravano di com-
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prendere, ad esempio, le istruzioni che la «Direzione del PCI» inviava il io luglio 1944 al «Comando della ia divisione d’as salto Garibaldi Valsesia»: E assolutamente necessario - si legge in esse - che prima dell’arrivo degli Alleati si passi all’occupazione di città e di villaggi e si creino subito degli organismi democratici di potere popolare. Bisogna evitare la ripetizione degli errori commessi nel Sud, dove in molte località, crollata parzialmente o totalmente la resistenza tedesco-fascista di seguito all’avanzata degli alleati, nessuno si preoccupò di prendere nelle mani il potere.74
Il primo cln che seppe vivere con dignità e con pienezza di significato, sia nei rapporti con il governo di Roma che in quelli con gli alleati, la cruciale esperienza della fase di trapasso fu, come è noto, il Comitato regionale toscano.75 Merita di essere ricordato il giudizio dato al riguardo dal «Times», in una sua corrispondenza da Firenze del 25 ottobre 1944. Lodata l’espe rienza di autogoverno regionale offerta dalla Toscana in con trapposto all’indirizzo restauratore del governo di Roma, l’au torevole quotidiano scriveva che in Italia si diffonde sempre più l’impressione che il Governo del Paese può essere ricostruito soltanto così su fondamenta locali. Se gli alti funzionari educati al fascismo debbono essere eliminati, non c’è materiale umano per costruire un solido Governo centrale. Bisogna cominciare dalla formazione di amministrazioni regionali, in cui la mancanza di esperienza sarà com pensata da conoscenze locali e da entusiasmo locale. E questo forse l’unico mezzo per garantirsi da un’altra dittatura, dopo un periodo di caos disperato.
Il che è un bell’esempio di come ciò che a un inglese illuminato (e senza responsabilità di potere) poteva apparire semplice e rea listico, in Italia diventava complicatissimo e pressoché uto pistico.76 La vicenda del cln toscano e dei suoi contrasti con il pre fetto imposto dal governo italiano e dagli alleati suggerì a uno storico del diritto della statura di Francesco Calasse un com mento «a caldo» che ha il pregio di portare alla ribalta alcuni fra i più aggrovigliati nodi del problema. Scrisse Calasso: Il Comitato di liberazione intese di trasmettere [agli alleati] - per esserne eventualmente reinvestito appena le circostanze lo permettessero - i poteri nuovi e straordinari, nati spontaneamente dalla frattura con un mondo che si riteneva crollato; le autorità alleate invece ritennero di ricevere i vecchi e ordinari poteri, regolati dalle leggi in vigore: le quali, per gli alleati, erano semplicemente le leggi italiane, ch’essi trovavano e intendevano di
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rispettare e per noi invece rappresentavano gli strumenti di un’oppressione ventennale, che credevamo di avere distrutti.77
Nacque così, proseguiva Calasso, un dualismo di legalità: «E due legalità non possono convivere». Calasso si addentrava quindi in un sottile discorso sulla legalità, dove correva il rischio di rimanere invischiato; tanto che cercava di uscirne facendo appello all’autorità di Salvio Giuliano, il quale aveva detto: «Che cosa importa che il popolo dichiari la sua volontà nelle forme legali, o nella realtà dei fatti? » Purtroppo importava, e agli alleati e, forse ancor più, al governo di Roma.78 Questi, in attesa del rischioso scioglimento finale che sarebbe scaturito dalla libera zione del Nord, si preoccuparono di guardarsi le spalle riducendo sempre più, nel territorio da loro controllato, i poteri e l’in fluenza dei cln, che d’altronde a sud di Roma avevano costi tuito, per usare le parole di Morandi, una «efflorescenza piut tosto superficiale».79 Le carte dei cln dell’Italia centrale, e soprattutto meridionale, che mi è stato possibile consultare per il periodo posteriore alla Liberazione, confermano sufficientemente i giudizi sopra espressi.80 E penso che abbia ragione il Giarrizzo quando riconduce il rapido proliferare dei cln in Sici lia «più che all’iniziativa antifascista delle sinistre» alla circo lare con cui Aldisio, ministro dell’interno nel governo di Salerno, disponeva che «i prefetti, nella ricostituzione delle giunte municipali e delle deputazioni provinciali, tenessero pre sente la composizione attuale del governo e modellassero su di essa la partecipazione degli esponenti dei vari partiti ai due organi collegiali degli enti locali».81 È noto il ruolo di punta svolto dai liberali nel provocare la crisi finale del sistema dei cln. La vicenda si intreccia strettamente a quella della nascita difficile, vita travagliata e dram matica morte del governo Parti; e non è pertanto mio compito illustrarla. Ma voglio riportare un brano della lettera che il segre tario del pli, Leone Cattaui, indirizzò agli altri cinque partiti del Comitato centrale il 29 maggio 1945, per la chiarezza con cui viene in essa riassunta la posizione liberale: Il voler diffondere in tutta la struttura della società i c. di L. quando ormai la liberazione è avvenuta contrasta con la loro natura provvisoria, contra sta con la democrazia che si fonda sui suffragi liberi, diretti e segreti di tutti i cittadini singolarmente considerati; minaccia insomma di porre le
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basi di un secondo Stato accanto e forse contro Io Stato democratico uni tario che faticosamente si va ricostruendo. Tale indirizzo si risolve in realtà in una grave violazione del reale spirito e della esistenza stessa dei cln quali furono voluti da tutti i partiti dopo il 25 luglio 1943 e durante la lotta di liberazione.
Giulio Andreotti, che riporta in un suo libro la lettera di Cattani, ricorda che la direzione della Democrazia Cristiana aveva votato due giorni prima, il 27 maggio, un ordine del giorno di analoga ispirazione, che non fu però pubblicato. Nel com plesso, spiega Andreotti, i democristiani agirono con maggior cautela, «perché in politica si deve tener presente non solo l’ideale ma anche il possibile».82 La cautela ritenuta necessa ria dalla direzione del partito non escludeva peraltro che il set timanale dei giovani democristiani, «La Punta», citato dallo stesso Andreotti, proprio in quei giorni denunciasse apertamente il tentativo di trasformare i cln, «organi creati per imprescin dibili necessità dall’alto», in «piattaforma dello Stato nuovo» come una «manovra che il Paese deve valutare e rigettare e che è sintomo in chi la sostiene di una coscienza democratica sol tanto nominale».83 In verità la Democrazia Cristiana aveva con molta nettezza e notevole forza di argomentazione esposto il suo punto di vista sui cln già qualche mese prima, al tempo del «dibattito delle cinque lettere».84 Nella sua lettera la dc aveva concordato nella necessità di rafforzare il clnai, che «non sarà mai abbastanza dotato di poteri effettivi»; ma aveva messo in guardia contro quattro pericoli: scomparsa della «individualità dei partiti»; tra sformazione del cln in una sorta di superpartito unico, neces sariamente totalitario; distruzione immediata dell’intero Stato prefascista; ammissione nei cln delle organizzazioni dei «sen za partito». Di particolare interesse era l’atteggiamento di fron te al vecchio Stato liberale. La dc non poteva certo avallarne «né lo1 spirito informatore (...) né varie delle sue forme»: e l’esemplificazione del dissenso poneva in primo piano «il teo rico agnosticismo religioso» che significava «neutralità fra bene e male», e ad esso faceva seguire il disinteresse per i problemi sociali «e cioè l’elevazione delle masse lavoratrici, la scomparsa del proletariato, la lotta contro la miseria, la liberazione dal bisogno».
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Ma - si affrettava a precisare il documento - da questo riconoscimento della necessità di riforme anche radicali del vecchio istituto statale italiano all’abbandono improvviso, totale e immediato di esso, vi è un’immensa distanza che il partito della Democrazia Cristiana, conscio di rappresen tare una forza di equilibrio nella vita nazionale e di far valere l’esigenza di rivoluzione progressiva entro un ordine evolutivo che è la esigenza che esso ritiene propria della grande maggioranza del popolo italiano, non var cherà mai. Questo soprattutto perché il partito della Democrazia Cristiana si sente anzitutto partito democratico e, come tale, vuole che sia il popolo a decidere, con la maggioranza dei suoi voti, il proprio assetto statale.
Il Partito d’Azione «e con esso, a quanto sembra, il Partito comunista», proseguiva non senza ironia il documento, «vuole invece una vera e propria rivoluzione segreta, dichiarando che i poteri dello Stato italiano siano assunti dal cln». Ma così «essi imporrebbero al popolo italiano un’altra dittatura, certo infini tamente migliore, ma sempre dittatura, perché non liberamente eletta dalle masse popolari, ma autodesignatasi salvatrice e guida della nazione»; e non sarebbe bastato un plebiscito - aveva ancora cura di precisare il documento - a sanare la situazione. La grande intuizione del cattolicesimo politico soprattutto dai tempi giolittiani, e cioè che un moderno partito moderato può fondare la sua indispensabile base di massa sulla scheda elet torale,85 era qui lucidamente recepita dalla Democrazia Cri stiana e contrapposta con nettezza a ogni prospettiva rivolu zionaria, o anche solo incisivamente innovatrice, agitata da élites intellettuali o di classe. Insistendo sulla individualità dei par titi la dc segnava poi altri punti a suo favore: metteva in imba razzo il PCI, che infatti su quel tema prendeva volentieri le di stanze dal Partito d’Azione; si poneva come tutrice di quella plu ralità dei partiti che era attesa come la più ovvia conseguenza del la sconfitta del fascismo; e infine, mentre accettava l’unità, anzi l’unanimità ciellenistica per il periodo di emergenza - quan do i partiti più dinamici sul piano della lotta clandestina, partigiana e di classe avrebbero potuto correre troppo avanti - già ne scontava la rottura per il periodo successivo, in cui, sotto le ali del vecchio Stato, si sarebbe sentito il peso dei voti del la gran massa di coloro che per il momento preferivano non esporsi in prima linea. La Democrazia Cristiana, insomma, in questa come in altre occasioni, sapeva giocare con notevole ca pacità sia la carta antistatale che quella filostatale: la prima
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era spendibile presso coloro che vedevano nel fascismo soprat tutto statalismo e che sia a livello borghese, sia a livello conta dino, nutrivano diffidenze ancor più antiche nei confronti dello Stato;86 la seconda serviva a garantire dal rischio di sostanziali innovazioni. Coloro che si mostravano insofferenti verso «lo Stato con tutte le sue pesanti, protettive e opprimenti barda ture d’ogni genere»,87 erano spesso, del resto, gli stessi che ne invocavano tutela contro la rivoluzione e favori nella gestione dei propri affari: vecchio meccanismo di potere dei moderati, che la Democrazia Cristiana seppe gestire in forme atte ai tempi nuovi, quando l’equilibrio centrista necessita, per non essere travolto da destra, di una forte spinta democratica delle masse. Dopo la liberazione del Nord, che pure ne vedeva l’apo geo,88 la decadenza dei cln avrebbe dunquè seguito una via obbligata, ormai senza speranza di ulteriori rinvii.89 Come nel i860 nel Sud, così ora nel Nord le forze democratiche più avan zate non sarebbero riuscite a mantenere a lungo una propria base territoriale, anche se a qualcuno potevano essere venuti in mente, come dice Parti, «questi cattivi pensieri».90 Ma non per questo sarebbe meno interessante seguire da vicino la con tinua perdita di potere patita da quegli istituti a vantaggio degli organi del vecchio Stato.91 Che ci si dovesse accontentare di una funzione meramente consultiva apparve subito chiaro, e fu del resto così affermato in un ordine del giorno approvato a Roma dai sei partiti del cln centrale il 2 giugno 1945,92 come nella mozione conclusiva presentata proprio da Morandi e appro vata all’unanimità dal già ricordato convegno dei cln regionali dell’Alta Italia, tenutosi il 6-7 giugno 1945, quando ancora non si erano concluse le trattative per la formazione del governo Parri.93 E «organi consultivi dei prefetti e delle autorità locali» verranno definiti i cln nella dichiarazione programmatica di quel governo.94 I dibattiti avutisi in quelle settimane e nei mesi suc cessivi sono indice del tentativo delle sinistre di ritardare la totale emarginazione dei cln, ribadendo posizioni di principio e sforzandosi di «inventare» per i comitati nuove sfere d’azione. Così nel primo convegno dei cln regionali dell’Alta Italia, ora ricordato, il comunista Sereni, presidente del cln lombardo, diede grande rilievo alla struttura regionale dei cln, che sta vano assolvendo, nei confronti del governo militare alleato, orga nizzato appunto su basi regionali, una funzione di «rappresen-
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tanza nazionale» e, attraverso i loro commissariati tecnici, «quasi piccoli dicasteri regionali», anche una funzione di organo ese cutivo, «un organo però italiano che mantiene la sua totale indi pendenza italiana».95 Sul tema di una vitalizzazione tecnica e operativa dei cln Sereni sarebbe tornato ad insistere nel suc cessivo - anch’esso già ricordato - congresso dei cln della pro vincia di Milano. Sereni avrebbe allora affrontato direttamente la domanda: «A che servono ora i cln?»; e alla risposta pro priamente politica, che esponeva ancora una volta la linea di unità nazionale, avrebbe fatto seguire una esemplificazione di cose che «l’apparato statale ancora non rinnovato, i prefetti, i sindaci» non era possibile facessero, mentre invece potevano farle i cln, capaci di suscitare la «mobilitazione di tutte le ener gie popolari». Gli esempi che seguivano - assistenza ai reduci, ricostruzione di ponti, strade e ferrovie, cura di colonie eliote rapiche e di sanatori, gestione di cooperative ecc. - dovevano certo apparire deludenti a chi aveva vagheggiato i cln quali nuovi strumenti di potere rivoluzionario; ma Sereni partiva dal realistico riconoscimento che i cln non potevano ormai essere organi di potere, anzi, non dovevano esserlo, perché qualsiasi dualismo di potere nei confronti dello Stato democratico si sarebbe risolto in «un fattore di disorganizzazione della demo crazia» e, possiamo aggiungere, in un rischio di quella frattura fra Nord e Sud cui abbiamo accennato e che il Partito comuni sta intendeva assolutamente evitare.96 Va tenuto presente che una proposta concretistica come quella di Sereni proseguiva una linea, già battuta durante la Resistenza, che investiva i cln del compito di provvedere all’alloggio, al vitto, al riscaldamento, alla scuola e alle più urgenti opere di ricostruzione materiale: soltanto che, prima, si era affermato che «la lotta contro il freddo, la fame, il terrore fascista pone alla classe operaia ed a tutto il popolo dei problemi che non sono semplicemente riven dicativi, ma di potere effettivo »;97 e ora, nella nuova situazione della postliberazione, quel ventaglio di proposte, che avevano possibilità di essere messe in pratica quasi soltanto dai comuni sti, si inquadrava nel programma di radicare il partito «di tipo nuovo » a tutti i livelli della società civile, offrendo palesi prove di efficiente cura degli immediati interessi delle popolazioni.98 Né era detto che tutto ciò comportasse senz’altro un com pleto abbandono della tematica dei cln quali organi di controllo
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popolare. Sempre nel rapporto del 6 agosto Sereni aveva un inte ressante spunto critico nei confronti di un «controllo democra tico» esercitato soltanto ogni cinque, sei o sette anni col voto elettorale. Sereni vi contrapponeva l’obiettivo di un controllo popolare attraverso una «partecipazione cosciente e quotidiana ed organizzata» e, con un ottimismo di cui è difficile valutare il grado di sincerità, individuava proprio nel cln «l’organo natu rale» di questa nuova forma di controllo. Perfino Togliatti, cui certo non può essere attribuita eccessiva indulgenza verso l’ideo logia dei cln, non solo riconobbe, in quel convegno milanese, carattere di «novità» istituzionale ai cln, ma spiegò che non sarebbero potuti bastare parlamento, consigli provinciali, con sigli comunali anche quando fossero stati liberamente ricostituiti: Rimarrà sempre aperta la possibilità di esistenza e di funzionamento di forme di contatto diretto le quali sorgano dall’accordo di tutti i partiti e di tutte le organizzazioni di massa ed escano dal popolo stesso. Naturalmente - avvertiva Togliatti - noi non possiamo prevedere l’avvenire, non pos siamo impegnare l’avvenire, ma sappiamo che nella lotta contro il fasci smo, attraverso questa dura lotta, qualcosa si è rinnovato nella coscienza dei cittadini italiani che hanno riconquistato la loro libertà colle armi e attraverso la loro unità.
Questo patrimonio, dichiarava il leader comunista, non doveva andare perduto, e - questo è il punto che volevo sottolineare Togliatti si spingeva a indicare nei cln gli organi di «democra zia diretta» atti allo scopo." Anche l’idea di legare i cln al problema del decentramento - in particolare, alle regioni - fu avanzata da molte parti, com presa la Democrazia Cristiana;100 e Valiani la ribadì nella mozione presentata a nome del Partito d’Azione nel convegno milanese del giugno.101 Sarebbe probabilmente errato discono scere del tutto il lascito decentratore e regionalista dell’espe rienza dei cln; ma non possiamo qui affrontare il problema.102 Ai nostri fini è sufficiente ricordare che mancò una diretta discendenza delle regioni dai cln regionali, così come mancò l’innesto di nuòve forme di autogoverno sui cln provinciali, comunali, o addirittura rionali, per non parlare di quelli azien dali. I comitati provinciali, del resto, erano quelli che più diret tamente si erano scontrati con i prefetti. Nel convegno mila nese del giugno ’45 il democristiano Brusasca disse che i prefetti, i questori, i sindaci erano sì «mandatari» dei cln, ma solo in
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senso «morale e politico», non giuridico; aggiunse peraltro che in caso di contrasto col cln il prefetto, il questore ecc. avevano il dovere di dimettersi «e non valersi di protezioni straniere per rimanere ad un posto nel quale il popolo non li vuole più». Sereni gli diede ragione, senza peraltro compromettersi sulla sorte del l’istituto prefettizio.103 La realtà - alla quale torneremo ad ac cennare - sarà una rapida liquidazione dei «prefetti della libe razione» e una piena ripresa del potere prefettizio.
6. Il ruolo degli alleati Più volte, nel corso della nostra esposizione, abbiamo dovuto e dovremo accennare agli alleati. Gli alleati come alibi di tutto il non fatto o il mal fatto da parte della Resistenza sono divenuti un ambiguo vezzo della storiografia, specie di sinistra. Respinge re questo vezzo non significa peraltro un invito a sottovalutare il peso che ebbero sia la politica, come tale, svolta dagli alleati in Italia con l’appoggio di potenti eserciti, sia, e forse ancor più, il fatto stesso che l’Italia fosse caduta nella sfera d’influenza delle potenze occidentali, con la cui strategia mondiale - con la sua evoluzione come con i suoi contrasti interni - vanno dunque messi in rapporto i singoli atti compiuti in Italia sia dagli inglesi e dagli americani, sia delle classi dominanti italiane.104 Se pertanto a guardare le cose da lontano e nelle grandi linee gli alleati furono importante fattore di sostanziale continuità, qualora si volesse analizzare la loro condotta dall’angolo visuale della «continuità dello Stato» nel senso limitativo che abbiamo all’inizio cercato di chiarire, sarebbe possibile suggerire utili distinzioni e più sfumate riflessioni. L’elaborazione della linea da seguire nei territori italiani di imminente occupazione rivela già quella differenza fra inglesi e americani che si sarebbe poi manifestata in molteplici occa sioni.105 La formula della «resa incondizionata» - annunziata, com’è noto, da Roosevelt a Casablanca contro il parere dei suoi consi glieri oltre che di Churchill - poteva aprire la strada ad una netta frattura negli Stati vinti, ed esprimeva comunque l’inten zione di non invischiarsi, come era avvenuto ad Algeri, con tra sformisti e transfughi fascisti. Ma la formula tanto appariva rigo rosa sul piano etico, militare e immediatamente politico (anche
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per il suo significato di reciproca assicurazione fra gli alleati con tro paci separate), quanto era silenziosa su quelle «condizioni» di fondo implicite nel regime sociale del paese vinto e nel suo assetto istituzionale, una volta che questo fosse stato depurato dalle più appariscenti malformazioni introdottevi dal fascismo. Affidata per di più alla gestione di quel senior partner che di fatto fu in Italia, in una prima fase, il governo britannico, la formula di Casablanca diventava un avallo al governo che avesse firmata la resa e che se ne fosse fatto garante. Nella linea stra tegica di Churchill una forte punizione all’Italia, sprovveduta concorrente imperialista, e il sostegno a un massimo di conti nuità dello Stato e dell’assetto sociale contro il «bolscevismo rampante»106 erano obiettivi pienamente coerenti. Meno coe renti si mostreranno invece quei conservatori italiani che, mentre si battevano per la continuità dello Stato aggressore e sconfitto, avrebbero poi preteso che da tale continuità proprio i vincitori prescindessero al tavolo della pace. Sarebbe da ciò derivata quella infondata campagna nazionalistica contro il cosiddetto diktat, che fu una delle spine nel fianco dei primi governi postli berazione. Di contro, molti resistenti, andando generosamente assai al di là delle condizioni di fatto, assegnarono alla guerra di liberazione un compito di rottura, da valorizzare anche di fronte ai paesi vincitori, in modo che l’Italia potesse poi giun gere purificata alla conferenza della pace, portatrice da pari a pari di un nuovo stile nei rapporti fra i popoli.107 La potenzialità antifascista della resa incondizionata fu in qualche modo, e sempre nella prima fase dell’occupazione, fatta valere dagli americani, e di nuovo più per impulso di Roosevelt e dei suoi più stretti collaboratori che della amministrazione usa in generale. In realtà, lo stesso presidente americano aveva messo molta acqua sul fuoco della sua iniziale intransigenza.108 Fra i risultati più evidenti di questa acquiescenza al punto di vista britannico - nonché alle richieste del Vaticano e agli umori degli italo-americani fino a poco prima prevalentemente filofa scisti - si possono citare le istruzioni dello Stato Maggiore Combinato (ccs) per la organizzazione dell’AMGOT: «I dirigenti politici italiani in esilio non parteciperanno all’amministra zione».109 Sulla natura di questa amministrazione si rivelò tut tavia fra usa e Gran Bretagna una divergenza di punti di vista di notevole interesse ai fini del nostro discorso. Gli americani
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propendevano infatti per l’assunzione diretta dell’amministra zione da parte degli eserciti occupanti; gli inglesi invece per un sia pur rigido controllo sull’amministrazione italiana lasciata per quanto possibile in funzione.110 In prima approssimazione, l’at teggiamento inglese appare più aperto; ma nella realtà esso gio cava a favore della continuità non solo della monarchia ma del l’intero apparato statale italiano, cui gli inglesi offrivano l’im munità in cambio della obbedienza. Proporre di conferire una massa maggiore di poteri diretti nelle mani dell’AMGOT suonava certamente duro per l’orgoglio nazionale italiano, ma conseguiva anche a una realistica disistima per la vecchia classe dirigente, politica e burocratica, dell’Italia. Che poi anche gli americani, escludendo ad esempio, come abbiamo visto, gli esuli antifasci sti, cadessero in contraddizione, è altro discorso, che rinvia a quello sulla natura di fondo della loro politica; ma intanto il loro atteggiamento offriva maggiori possibilità di qualche rapida operazione di pulizia, sia pur compiuta sotto l’egida di un governo militare straniero al di sopra delle «fazioni» che gli anglosassoni temevano infestassero un popolo ineducato come l’italiano. Va anche tenuto conto della tendenza americana a rinviare alla fine della guerra la soluzione dei maggiori problemi politici, dando per il momento la prevalenza a quelli militari: che questa programmatica tendenza, del resto attenuatasi col tempo, non debba essere identificata con il reale corso delle cose è, ancora una volta, un altro discorso che non possiamo certo qui sviluppare. Di fatto, e al di là delle divergenze cui abbiamo accennato, la politica degli alleati in Italia dovette affrontare una duplice esigenza: da una parte rimettere in moto, a tutti i livelli, la mac china amministrativa italiana; dall’altra cercare di rinnovarla sia per motivi di funzionalità rispetto al nuovo ordine di cose, sia per venire incontro alle esigenze dell’opinione pubblica anti fascista dei propri paesi. Accadde così, sempre nella prima fase, che gli alleati furono, in molte questioni amministrative, più antifascisti e più progressisti del regio governo di Badoglio che, anzi, cercò di sabotare le iniziative alleate proprio in materia, ad esempio, di epurazione.111 Si consideri, ad esempio, il cosid detto «armistizio lungo» firmato a Malta da Badoglio il 29 set tembre 1943, e sul quale scrittori chiusi nell’ambito delle rela zioni diplomatiche, come il Toscano, hanno continuato ad ali-
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meritare una polemica di tipo nazionalistico, per la durezza delle sue clausole e per l’umiliazione che esso avrebbe inteso inflig gere al regio governo.112 Tralasciamo il giudizio sulle clausole militari (da valutare comunque anche in rapporto allo sfacelo dell’8 settembre); ma le clausole politiche sono difficili da disappròvare, là dove impongono lo scioglimento di tutte le organiz zazioni fasciste, con espressa menzione dell’ovRA, il «licenzia mento ed internamento del personale fascista», la «soppressione dell’ideologia e dell’insegnamento fascista», la totale abolizione della legislazione razzista. Va caso mai notata una certa astrat tezza di formulazioni; ma, soprattutto, ci si deve dolere che quelle clausole, per il sabotaggio del governo italiano e per la successiva involuzione della politica alleata, siano rimaste in larga parte inattuate. La dichiarazione di Mosca del 19 ottobre 1943 costituì - com’è noto - un passo avanti sulla strada della costituzione in Italia di un governo democratico, anche se il significato della dichiarazione venne sminuito dall’aver lasciato il Comando mili tare alleato arbitro di scegliere il momento per dare attuazione alle misure decise dai tre ministri degli Esteri. La dichiarazione comunque chiedeva la soppressione di tutte le istituzioni e orga nizzazioni fasciste, l’epurazione, la riorganizzazione democra tica degli organi di governo locali, il processo ai criminali di guerra.113 Non è nostro compito ricostruire tutte le tappe del compor tamento degli alleati verso l’Italia. Vogliamo però accanto ai documenti ufficiali che abbiamo fin qui richiamato - alcuni dei quali rimasti allora segreti - ricordarne uno destinato in vece, per sua natura, ad avere la massima diffusione. Ci rife riamo a una trasmissione di Radio Londra, nella quale il colon nello Stevens formulava con molta chiarezza quel programma d’illuminatò buon governo che aveva fra i suoi presupposti una seria epurazione. «Meglio tardi che mai» era il primo commento del popolare commentatore ai provvedimenti epurativi decisi dal’governo Badoglio nel dicembre 1943.114 Stevens così pro seguiva: Parliamoci chiaro. Siamo tutti d’accordo, italiani ed inglesi, che il regime fascista era incompetente e corrotto. E la incompetenza e la corruzione non si limitavano agli alti papaveri, ma dilagavano in tutti gli strati della burocrazia e in tutte le cariche statali e parastatali. Quando si disse alle
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popolazioni del Mezzogiorno che il colpo di Stato di Badoglio aveva rove sciato il fascismo esse si attendevano di vedere sparire - immediatamen te - non solo il segretario del fascio ed il centurione della milizia, ma anche quei podestà, quei funzionari parastatali, quegli agenti di polizia cui le popolazioni avevano da rimproverare colpe per le quali il regime fasci sta aveva sempre negato giustizia. Ciò è stato deciso ora. E la misura potrà risultare tempestiva ed utile se sarà oculata e radicale. Si tratta di ristabi lire la fiducia nelle amministrazioni statali e parastatali da parte dei citta dini, di ogni categoria, resi scettici da vent’anni di malgoverno (...). Rista bilire la fiducia ed eliminare il sospetto significa fare un gran passo avanti verso quel movimento di cooperazione che deve unire governanti e gover nati e tutte le classi di cittadini fra di loro, per il conseguimento di uno scopo d’importanza somma: assicurare la transizione dal periodo di guerra al periodo di pace, senza catastrofici squilibri.
Nella chiusura del suo commento il colonnello Stevens rive lava con chiarezza anche lo scopo «interno» della sua presa di posizione: «I prepotenti, piccoli e grandi, saranno eliminati. A noi inglesi è stato detto che abbiamo fatto la guerra per questo; e ne siamo, tuttora, assolutamente convinti».115 Questo pro gramma d’imparziale e corretta amministrazione resterà una costante dell’atteggiamento alleato, anche quando l’evolversi del la situazione lo renderà uno schermo sempre più trasparente della scelta a favore della continuità della vecchia amministra zione.116 Rispetto alla dinamica dell’atteggiamento alleato le forze innovatrici italiane scontarono in realtà una doppia sfasatura. In un primo momento, quando, prima di Yalta, i giochi fra Oriente e Occidente non erano ancora fatti in maniera defini tiva e formale, le forze innovatrici italiane erano troppo deboli per cercare di trarre profitto dai pur limitati margini che la situa zione internazionale avrebbe potuto concedere; quando poi, in virtù della Resistenza, esse si rafforzarono, erano intervenute non solo Yalta, ma anche l’esperienza greca, e gli alleati erano passati dallo scetticismo alla diffidenza circa la capacità del movi mento popolare italiano. La seconda sfasatura, connessa alla prima, sta nel fatto che man mano che l’influenza degli Stati Uniti prendeva il soprav vento su quella della Gran Bretagna, gli americani abbandona vano le loro iniziali aperture e diventavano in prima persona i garanti della continuità dello Stato. Si considerino, come esempio di queste sfasature, due arti
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coli dell’armistizio lungo. Pretendere nel settembre del 1943 la consegna di Mussolini e dei criminali di guerra (art. 29) signi ficava affermare con forza gli obiettivi antifascisti della guerra, contro il trasformismo monarchico e badogliano; chiedere la stessa cosa nell’aprile del 1945 significherà tentare di sottrarre Mussolini e i suoi complici alla giustizia popolare. Stabilire, nel settembre del 1943, che «il governo italiano fornirà tutte le informazioni e provvederà tutti i documenti occorrenti alle Nazioni Unite. Sarà proibito distruggere archivi, verbali, pro getti e qualsiasi documento od informazione» (art. 35),117 signi ficava prendere misure utili per la condotta della guerra e impe dire la scomparsa o l’inquinamento delle prove dei crimini del fascismo e delle compromissioni con esso dell’apparato statale; operare secondo il dettato di quell’articolo nel 1945 significherà assumere in proprio la riservata gestione di quelle prove, nel l’ambito dei compromessi e degli accordi raggiunti con il vec chio apparato. 7. La Repubblica sociale italiana come canale di continuità
La Repubblica sociale italiana come canale di continuità dello Stato è stata finora oggetto di assai scarsa considerazione in sede storiografica, essendosi - come d’altronde era ovvio - puntata l’attenzione soprattutto sulla sua natura di governo fantoccio. In sede giuridica, invece, il problema è stato affrontato non solo sotto il profilo, di evidente rilievo politico, delle sanzioni con tro il fascismo, ma anche sotto l’altro del valore da attribuire agli atti amministrativi e giurisdizionali emanati sotto il domi nio della rsi - in grandissima parte in base a preesistenti nor me dello Stato italiano - e alla vastissima gamma di situazioni giuridiche conseguentemente createsi. Era questo un problema reale, per la cui soluzione il governo Bonomi provvide a ema nare un decreto legislativo luogotenenziale, 5 ottobre 1944, n. 249, «sull’assetto della legislazione nei territori liberati», decreto che, come ha osservato il Giannini, meglio sarebbe sta to intitolato «sull’efficacia degli atti dei pubblici poteri operanti sotto l’impero del sedicente governo della Repubblica sociale italiana». Secondo il Giannini, cui si deve il più ampio e ar ticolato studio condotto su questo decreto, la rsi fu un ordina mento giuridico (non uno Stato) «dichiarato irrilevante come tale
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rispetto a quello dello Stato italiano», mentre invece la sua «or ganizzazione costituzionale» fu dichiarata «illegittima». Quanto agli « atti promananti da organi della rsi, o che ad essa obbedi rono», il decreto del 5 ottobre, continua il Giannini, li ha considerati tutti atti di un ordinamento diverso, e, con una divisione per categorie, ha attribuito efficacia ad alcuni di essi, l’ha negata ad altri, ma ha insieme previsto la possibilità di deroghe, per l’una o per l’altra cate goria. Gli atti efficaci o dichiarati efficaci sono recepiti nell’ordinamento legittimo, e dopo tale momento in esso valutabili.118
In questa ricostruzione sistematica del Giannini va innanzi tutto notato il riconoscimento alla rsi della natura di ordina mento giuridico, difficilmente controvertibile (anche le associa zioni a delinquere sono ordinamenti giuridici), e insieme l’af fermazione della estraneità della Repubblica sociale allo Stato italiano, del quale viene data per ovvia la continuità attraverso i governi del Sud. Le difficoltà cominciano, volendo usare in sede storiografica lo schema proposto dal Giannini, allorché ci si addentri nella complicata casistica, giurisprudenziale e dot trinale, degli atti efficaci o inefficaci. Questa casistica offre un notevole supporto non solo al modo in cui la magistratura inter pretò le sanzioni contro il fascismo, ma anche a quel tipo di «continuità» attraverso la rsi alla quale intendiamo riferirci, come subito vedremo, in questo paragrafo. Va comunque subito rilevato che nell’ampia ricerca del Gian nini, ricchissima di rinvìi alla giurisprudenza e alla dottrina, non una sola volta è avvertita la necessità di un richiamo alle norme che il clnai aveva emanato sulla nullità (non sulla semplice inef ficacia) degli atti della rsi. Il 14 settembre 1944, infatti, il Comi tato, con due distinti decreti, non solo aveva stabilito che tutte le norme legislative emanate dal governo fascista repubblicano non ché tutte le sentenze, decreti, ordinanze pronunciati ed emessi in virtù delle norme medesime da qualsivoglia autorità, ente, ufficio e servizio, a partire dall’8 settembre 1943, a qualunque effetto e comunque motivati, sono nulli di diritto ed, ove in corso, la relativa esecuzione dovrà essere immediatamente sospesa;
ma aveva dichiarato tout court che ordini e disposizioni delle autorità tedesche, del sedicente governo della Repubblica sociale italiana, del partito fascista repubblicano e degli organi
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militari, politici, finanziari ed amministrativi da essi dipendenti e loro comunque aderenti, qualunque ne sia l’oggetto e lo scopo, sono illegittimi e nulli.119
Ora, è vero che questi atti del clnai sono antecedenti sia alla delega ricevuta dal governo di Roma sia al decreto del 5 ot tobre col quale il governo stesso legiferò sulla medesima mate ria; ma è indicativo che né la giurisprudenza né la dottrina - che pure sembra abbiano preso in considerazione ipotesi come quella di una negotiorum gestio esercitata dalla rsi nei con fronti dello Stato italiano - hanno sentito il bisogno di pren dere in esame quei decreti del clnai (e anche chi si è occupato della natura giuridica dei cln, come il già ricordato Volterra, non si è soffermato su questo punto). Nello snodarsi degli eventi e delle situazioni creatisi dopo 1’8 settembre 1943 - giova ora tornare a un’analisi più ravvi cinata dei fatti - la «illegittimità» della rsi diede peso, per contraccolpo, alla «legittimità» del regio governo del Sud, sia a livello internazionale,120 sia a livello di opinione pubblica.121 Ma fu la rsi stessa che, come tale, svolse una funzione di continuità in più di un senso. La rsi garantì infatti la sussistenza dell’apparato amministrativo, superficialmente intaccato da fascisti e tedeschi:122 questi ultimi, anzi, desiderosi di retrovie tranquille e di corrente sfruttamento delle risorse italiane, e per di più infastiditi da certe rumorose velleità fasciste, adottarono in merito una linea quanto mai conservatrice.123 Manca ancora una indagine completa sui trasferimenti da Roma a Nord dei funzionari dell’amministrazione centrale. Il Pisciteli! li ha cal colati presuntivamente nel 15 per cento;124 meno o più che siano stati, non va limitato ad essi il discorso sulla sussistenza, nella rsi, del tessuto amministrativo tradizionale, che trovò negli apparati centrali comunque trasmigrati un solido punto di rife rimento. , Al vertice dell’amministrazione periferica, la rsi sostituì, fra il settembre e l’ottobre 1943, tutti i prefetti,125 attingendo lar gamente ai «prefetti fascisti» (quelli cioè nominati fuori della carriera fra il 1922 e il 1943) e ai fascisti non prefetti.126 Ma, oltre il nome, mutato in quello di «capo della provincia» (omag gio linguistico agli occupanti tedeschi e anche desiderio di supe rare definitivamente il dualismo col segretario federale),127 ben
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poco mutò nella sostanza. Altrettanto può dirsi per gli altri quadri burocratici, che non cambiarono nemmeno il nome.128 Quanto poi alla magistratura, possiamo ricordare il forse fin troppo drastico giudizio del Neppi Modona:129 «Non viene evi dentemente avvertita l’esigenza di mutare le strutture e l’orga nizzazione del corpo giudiziario, perfettamente congeniale anche alla Repubblica sociale».130 La continuità, sotto la rsi, dell’amministrazione corrente è stata talvolta spiegata e giustificata con l’argomento che era pur necessario che qualcuno si occupasse della - o addirittura si sacrificasse nella - gestione dei normali e quotidiani interessi della popolazione, che non poteva essere abbandonata a se stes sa.131 E singolare come la distinzione fra politica e amministra zione, sempre così difficile da cogliere, venga riproposta quale canone interpretativo proprio di uno di quei periodi di scon volgimento che insegnano agli uomini - funzionari amministra tivi compresi - l’impossibilità di essere politicamente neutrali. Quando la partita era ancora in corso, l’alibi dell’ordinaria ammi nistrazione comunque necessaria fu largamente usato per tes sere la trama dei doppi giochi dell’oggi e dei trasformismi del domani.132 La tesi di una pubblica amministrazione tanto neu tra da non venir compromessa neppure in periodo di guerra civile avrebbe poi avuto un ulteriore duplice esito: da una parte sarebbe stata usata come corrosivo dell’epurazione, dall’altra avrebbe favorito il disinteresse degli antifascisti verso la riforma dell’amministrazione stessa. Il principio accolto dal diritto internazionale della «conti nuità dei pubblici servizi» è in effetti riconosciuto dal Gian nini, che pur lo definisce «convenzionale e non preciso», come accettabile canovaccio interpretativo e discriminatorio; anche se poi il Giannini riconosce al più volte citato decreto del 5 otto bre il merito di non essersi attardato nella ricerca di princìpi generali, ma di aver semplicemente fissato - come abbiamo già detto - le categorie di atti della rsi efficaci o inefficaci, rela tivamente o assolutamente. Ma ricostruendo il «sistema» impli cito in quel decreto e in quelli sulle sanzioni contro il fascismo (dei quali parleremo in seguito), il Giannini giunge alla conclu sione che, se sono illegittimi gli atti della rsi modificativi del l’assetto costituzionale, amministrativo e giurisdizionale dello Stato italiano, «gli uffici e gli organi non costituzionali della
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Repubblica sociale non sono illegittimi come uffici o organi, onde i loro titolari non sono titolari di uffici ed organi illegit timi». Cosicché, non l’ordinamento della Repubblica sociale fu considerato un illecito penale, e neppure fu illecito l’aver organizzato la Repubblica sociale o l’aver in essa retto supremi uffici costituzionali: fu illecito penale aver prestato aiuto all’occupante tedesco [collaborazionismo]. Se in fatto le due evenienze coin cidono, in diritto sono tra loro parecchio diverse.
Ecco come un concetto apparentemente innocuo, con le sue varianti, come quello di «continuità dei pubblici servizi» abbia potuto offrire un solido ponte a una continuità attraverso la rsi di ben più ampio significato; ed ecco ancora come una forma lizzazione giuridica possa trasformarsi in un formidabile stru mento d’intervento pratico e politico. Rispetto al problema della ottemperanza a norme ed atti della rsi, il Giannini registra infatti, consentendo, che la «giurisprudenza è orientata nel senso che a tali norme e a tali atti dovesse prestarsi ottemperanza, salvo il caso di norme o atti palesemente contrari ai princìpi generali di equità e di giustizia».133 L’esperienza della rsi offrì dunque un intrinseco e sottile sostegno alla continuità dello Stato, ove non si consideri sol tanto la frattura della legalità di vertice - che pochi potevano negare - ma si guardi alla continuità dell’esercizio del potere, proprio, fra l’altro, attraverso la stabilità di quell’apparato ammi nistrativo che lo rappresenta visivamente agli occhi della mag gioranza della popolazione. La rsi impedì che gli italiani, dopo lo sconquasso seguito all’armistizio, vivessero fino in fondo l’esperienza rinnovatrice dell’assenza di poteri costituiti, che non fossero quelli troppo palesemente odiosi e provvisori del l’occupante tedesco. Essa favorì, nei confronti di una parte più o meno ampia della popolazione, un recupero sul senso di sfa sciamento dello Stato seguito - come abbiamo accennato - alle giornate del settembre 1943. Questo era un risultato obietti vo, che derivava dal fatto stesso di esistere come amministra zione che richiedeva la consueta obbedienza (pur messa in scacco proprio nel settore più esposto, quello della leva militare), a pre scindere dalla reale presa e dall’effettivo credito del personale politico fascista, cui toccò anzi in sorte di essere spesso più odiato e disprezzato di quello tedesco. Ciò che gli apologeti della rsi
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si sono affannati a ripetere, che essa costituiva un cuscinetto fra occupanti tedeschi e paese, era perciò, in un certo senso, vero. Ma non si trattava di un cuscinetto atto ad alleviare le pene del popolo italiano, pene che talvolta, nel vano tentativo di liberarsi dal senso di frustrazione che provava di fronte al tedesco, la rsi si industriava anzi di accrescere; si trattava invece del cuscinetto costituito da un antico apparato di potere che intuiva potersi, entro certi limiti, compromettere, perché molto gli sarebbe stato perdonato per aver molto salvato del princi pio che, legale o non legale, al potere si deve obbedire. Come più in là vedremo, la magistratura italiana si comporterà con notevole coerenza, in materia di delitti fascisti, rispetto a que sta impostazione.134 E, se il gioco non fosse troppo tetro, po tremmo provare a stendere le sentenze della Cassazione e i saggi dei giuristi volti a dimostrare, nel caso avesse vinto la rsi, non già la sua legittimazione di fatto, ma proprio la sua continuità rispetto allo Stato italiano prefascista e fascista. 8. La frattura di vertice della legalità
Dobbiamo ora riprendere il filo di quella che abbiamo all’i nizio chiamato la vicenda della legalità. Gli eventi principali sono noti, e saranno perciò sufficienti pochi richiami essenziali. La sostanza dell’operazione compiuta il 25 luglio trovava nel tentativo di ricollegarsi alla continuità statutaria la sua forma più ovvia e direi necessaria. Un atto fra i più significativi com piuti in questo senso durante i quarantacinque giorni badogliani fu il decreto legge 2 agosto 1943, n. 705, che scioglieva la Ca mera dei fasci e delle corporazioni e disponeva l’elezione della nuova Camera e «conseguente convocazione e inizio della nuova legislatura» a quattro mesi dalla fine della guerra:135 program ma restauratore massimo - posto anche il silenzio serbato sul Senato - che saltava a piè pari i rapporti creatisi fra statuto e fascismo,136 e che può servire come punto di riferimento per valutare il cammino compiuto, nonostante tutto, nei tre anni successivi. Nella dichiarazione con cui, il 9 settembre, annunciava la propria costituzione, il cln centrale non prendeva ancora posi zione sui problemi costituzionali; e in quella di poco successiva
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del 12 settembre si limitava a constatare «dolorosamente» la fuga del re e di Badoglio.137 Soltanto il 16 ottobre il cln cen trale, in un ben noto ordine del giorno, affermava la necessità di un «governo straordinario» che assumesse «tutti i poteri costi tuzionali dello Stato, evitando però ogni atteggiamento che pòftesse] compromettere la concordia della nazione e pregiudi care la futura decisione popolare». In questo quadro il governo straordinario doveva «condurre la guerra di liberazione a fianco delle Nazioni Unite» e «convocare il popolo, al cessare delle ostilità, per decidere sulla forma istituzionale dello Stato».138 In questo ordine del giorno erano contenuti i due punti sui quali si sarebbe appuntato il dibattito politico-costituzionale dei mesi successivi: natura e limiti dei poteri del governo straordinario; rinvio della soluzione della questione istituzionale a una con sultazione popolare postbellica. Cosa doveva intendersi - era questo il primo punto - per «tutti i poteri costituzionali»? Vi si dovevano ricomprendere anche quelli della Corona? L’interpretazione estensiva sostenuta dalle sinistre, e con particolare forza da socialisti e azionisti, ri spondeva sì; l’interpretazione restrittiva, caldeggiata da liberali e democristiani e dallo stesso presidente del cln centrale, Bonomi, rispondeva no. Nel congresso dei partiti antifascisti tenu tosi a Bari nel gennaio 1944 la spuntarono i secondi, che riusciro no a far approvare la meno impegnativa formula dei «pieni po teri», suscitando a Roma le vivaci reazioni che sono testimonia te dalla stampa clandestina di sinistra, soprattutto dall’« Avan ti!»139 Le reazioni sboccarono nella crisi del Comitato centrale di liberazione, aperta da Bonomi in seguito a un’ordine del giorno, votato dai socialisti il 9 febbraio 1944, contro le macchinazioni del congresso di Bari e contro l’interpretazione che libe rali e. democristiani davano del documento del 16 ottobre.140 La polemica sui poteri del costituendo governo straordina rio si legava strettamente a quella sulla questione istituzionale, nel senso che si trattava di decidere quali fossero le condizioni da garantire perché il popolo si esprimesse su quel punto con la massima possibile libertà. L’argomento principale portato in campo da liberali e democristiani, oltre che da Bonomi, era che la dichiarazione di decadenza o anche solo di sospensione della monarchia dai suoi poteri costituzionali (e il passaggio di questi
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al governo straordinario di coalizione antifascista) avrebbe, come scriveva «Il Popolo», «precipitato di fatto la soluzione» o, come sosteneva il «Risorgimento liberale», lasciato alla «Costituente o qualsiasi altro organo di consultazione o rappresentanza popo lare» niente «altro da fare se non consacrare il fatto compiuto», con palese manomissione - si aggiungeva - della libera espres sione della volontà popolare da parte dei fautori della repub blica.141 Liberali e democristiani non scambiavano di certo la sussistenza del regime monarchico per qualcosa di simile allo stato di natura, che postula la piena libertà degli uomini di fronte alla stipulazione del contratto sociale; ma per i moderati fau tori della continuità dello Stato questa continuità era davvero, in un certo senso, «natura», era l’ovvietà delle cose che non possono non esserci come condizione e quadro di tutte le altre. I moderati avevano ragione a temere che, privando la monar chia dei poteri costituzionali, si sarebbero rafforzati i repubbli cani; ma, sul piano formale sul quale amavano condurre tanto spesso il discorso, era singolare che qualificassero equidistante la tesi opposta da loro sostenuta, che costituiva una così patente compromissione a vantaggio di una delle due parti, proprio di quella che aveva dalla sua la forza della tradizione e dell’ap parato. Dopo la costituzione del primo governo di unità nazionale e il compromesso istituzionale della luogotenenza (luogotenenza del regno, non del re),142 fu il decreto legge luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, emanato dal governo Bonomi costituitosi subito dopo la liberazione di Roma, a segnare una ulteriore tappa nell’erosione della vecchia legalità costituzionale.143 Il Cala mandrei lo definisce addirittura «l’atto di nascita del nuovo ordi namento democratico italiano», in quanto esso «segnò il prov visorio equilibrio» fra le forze politiche e fu «il primo atto di quella ricostruzione costituzionale dalla quale doveva nascere la Repubblica italiana»: donde anche la sua natura di «costitu zione provvisoria che doveva reggere e resse l’Italia fino alla convocazione della Assemblea costituente». L’entusiasmo del Calamandrei si spinge fino a dire che il decreto fece nascere un ordinamento nuovo, che aveva ormai rotto ogni continuità costituzionale col regime precedente, e nel quale la monarchia non poteva più vantare altro che aspettative di fatto, non già diritti fondati sul «patto fra re e popolo» che essa aveva rotto e la cui decadenza aveva reso al popolo la sua piena sovranità.144
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Cosa, in concreto, il decreto stabiliva? Che la scelta delle «forme istituzionali» veniva rimessa al popolo italiano attraverso l’elezione, a guerra finita, di un’assemblea costituente; che fino a quel momento doveva essere attuata la cosiddetta tregua istitu zionale; che il potere legislativo veniva affidato al consiglio dei ministri, che lo avrebbe esercitato con decreti legislativi luogote nenziali, fino alla formazione del nuovo parlamento (e rimaneva oscuro se questo dovesse identificarsi con la Costituente); che i ministri non giuravano fedeltà al re, ma «sul loro onore di eser citare la loro funzione nell’interesse supremo della nazione». Partito d’Azione e Partito socialista interpretarono subito il decreto come sospensione della monarchia e riconoscimento del cln quale unica fonte del potere; liberali, democristiani, Bonomi si trovarono ovviamente sulla sponda opposta. I comu nisti cercarono ancora una volta di non lasciarsi trascinare in una disputa che ponesse al centro la questione istituzionale e giuridica;145 e quando Bonomi, con le sue dimissioni nel dicem bre 1944 nelle mani del luogotenente anziché del cln, impose coi fatti l’interpretazione restrittiva, i comunisti non ritennero la mossa tale da farli recedere alla partecipazione al nuovo gabi netto formato dallo stesso Bonomi senza socialisti ed azionisti. La sterzata a destra rappresentata dalla crisi fra il primo e il secondo governo Bonomi trova, nelle testimonianze di alcuni dei suoi protagonisti, una motivazione molto chiara proprio nella necessità di ribadire la continuità dello Stato. Aldobrando Medici Tornaquinci, il sottosegretario all’Italia occupata che sarà protagonista nel marzo del ’45 di quella «missione al Nord» volta proprio a prevenire rischi per il momento della resa finale dei conti, spiegò ad esempio a un’assemblea fiorentina del Par tito liberale, il 13 gennaio, che nel momento della crisi si era «giocata la sorte del Paese» fra la linea che voleva sulla base dei cln costruire uno Stato nuovo (con formule «naturalmente socialistiche», aveva cura di precisare il sottosegretario, pole mico specie verso il psiup) e «i princìpi della continuità, dell’u nità e dell’autorità dello Stato».146 Un punto molto importante del decreto del 25 giugno, messo in ombra dalla prevalente polemica istituzionale, fu il conferi mento al governo dei poteri legislativi. In teoria, il governo avrebbe potuto in quei mesi far tutto: dalla riforma dei codici alla riforma agraria, all’abolizione dei prefetti. Se il cln fosse
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stato davvero un compatto e nuovo organo di potere, non avrebbe certo lesinato l’uso di un così formidabile strumento riformatore, che non a caso aveva allarmato vecchi e sospettosi notabili come Vittorio Emanuele Orlando.147 Nella pratica in vece quell’arma si rivelò assai poco incisiva, anche perché il cln era frenato dalla regola dell’unanimità, che si ripercuoteva ovvia mente in sede governativa; mentre poi gli alleati erano in grado di far sentire con particolare immediatezza le loro pressioni su un governo dotato di tanto ampi e incontrollati poteri.148 I risultati raggiunti con il decreto del 25 giugno 1944 furono rimessi in discussione su due punti essenziali venuti entrambi a maturazione dopo la caduta del governo Parti, caduta che rap presenta il più evidente punto di svolta involutiva dopo l’alta marea della Resistenza.149 Il primo punto consistette nella deci sione di affidare lo scioglimento del problema istituzionale non più alla Costituente ma ad un referendum popolare. De Gasperi vi aveva fatto un primo discreto accenno nel discorso tenuto a Roma il 23 luglio 1944; il luogotenente Umberto aveva rilan ciato la proposta in un’intervista a Matthews del 7 novembre sempre del ’44; Bonomi, i liberali e gli alleati avevano recepito con favore l’idea.150 Il senso dell’iniziativa era chiaro: puntare su un referendum il più possibile differito nel tempo significava poter far conto sugli strati della popolazione più arretrati poli ticamente, specie nel Mezzogiorno, e sul prevedibile riflusso da parte della massa dei ceti medi; significava infine consentire alla Democrazia Cristiana di non scoprirsi troppo su un tema così scottante.151 In un’assemblea costituente tempestivamente elet ta si poteva invece dar per scontato che l’iniziativa sarebbe stata assunta dai partiti repubblicani. Le sinistre, quando si accor sero che la disputa sul referendum minacciava di rinviare sine die la consultazione popolare, accettarono a loro volta la pro posta, con la condizione che elezioni per la Costituente e refe rendum si svolgessero contestualmente.152 Data la vittoria della repubblica il 2 giugno 1946 (sia pure con soli 2 milioni di voti in più di quelli monarchici), deve dirsi che il comportamento delle sinistre, posto che non erano riuscite a sbloccare prima la situazione, sia stato saggio; e in questo quadro effettuale vanno lette anche le considerazioni favorevoli al referendum fatte a posteriori dal Calamandrei e dal Sereni.153 L’altro punto cui sopra accennavamo - meno appariscente,
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ma gravido di significato -15 PP- i-ió. 15. Prefazione a C. Rosselli, Oggi in Spagna domani in Italia, Paris 1938, p. vn. 16. B. Mussolini, Scritti e discorsi, voi. 2, La Rivoluzione fascista, Milano 1934, pp. 199-206. 17. I due discorsi sui Patti lateranensi in Mussolini, Scritti e discorsi cit., voi. 7, Dal 1929 al 1931, Milano 1934, pp. 31-122. Quello sul xx settembre, alla Camera, 12 dicembre 1930, ibid., pp. 241-50.
18. Sulla misera storia dei rapporti fra i Garibaldi e il fascismo, cfr. A. Garosci, Storia dei fuorusciti, Bari 1953, pp. 271-73. 19. Mussolini, Scritti e discorsi cit., voi. 3, L’inizio della nuova politica, Milano 1934, PP- 295 sg. 20. «Rivoluzione liberale», 28 maggio 1922 (citato da G. Solari, Aldo Mautino nella tradizione culturale torinese da Gobetti alla Resistenza, premesso ad A. Mautino, La formazione della filosofia politica di Benedetto Croce, Bari 1953, p. 85). Cfr. quanto diremo poi su Gobetti.
21. B. Mussolini, Prefazione alla «Rivista marittima» del gennaio 1937, in Scritti e discorsi cit., voi. 11, Dal novembre 1936 al maggio 1938, Milano 1938, p. 39. Anche il «germe del nuovo Impero» risaliva «all’anno in cui il pic colo Piemonte osò sfidare il potente impero degli Absburgo»: discorso ai gerarchi torinesi del 30 maggio 1935 (Scritti e discorsi cit., voi. io, Scritti e discorsi dell’impero, Milano 1936, p. 143). 22. Mussolini, Scritti e discorsi cit., voi. 8, Dal 1932 al 1933, Milano 1934, p. 63. 23. Mussolini, Scritti e discorsi cit., voi. 11, pp. 221-29. Parlando poco dopo a Genova, il 14 maggio, ancora dell*Anschluss, Mussolini tirò in campo anche Mazzini (ibid., p. 285).
NOTE
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24. Cfr. L. Salvatorelli, L’opposizione democratica durante ilfascismo, in AA.W., Il Secondo Risorgimento cit., p. 120. 25. Ibid., p. 104. 26. Ibid., p. 112. 27. G. Gentile, Che cosa è il fascismo (conferenza tenuta a Firenze 1’8 marzo 1925), in Istituto nazionale fascista di cultura, Pagine fasciste, I, I fonda menti ideali, Roma 1926, pp. 28 sg.
28. Vedilo in N. Valeri, La lotta politica in Italia dall’Unità al 1925 Idee e docu menti, Firenze 1958 (za ed.), pp. 583-89. 29. Vedi la sua risposta al Manifesto, nella «Critica» del 1925; ora in Valeri, La lotta politica cit., pp. 390-93.
30. Mussolini, Scritti e discorsi cit., voi. 8, pp. 81-83. 32. G. Gentile, Risorgimento e fascismo, in «Politica sociale» del 1931: ora in Id., Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, Firenze 1936, pp. 115-20. 32. Gentile, Che cosa è il fascismo cit., p. 42. 33. Parole comparse nel 1929 sulla «Critica», in polemica diretta con quanto Gentile aveva scritto sul «Leonardo» nello stesso anno: ora in B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, voi. 2, Bari 1947 (3 “ ed.), pp. 260 sg. 34. Cfr., del Gentile, anche Iprofeti del Risorgimento-, la prefazione alla terza edizione, datata 2 marzo 1944, conclude nel nome di Garibaldi «perché esso ha virtù oggi come sempre di riscuotere e riunire i cuori di tutti gli italiani» (p. vm). Sugli appelli all’«unità della patria» del Gentile della Repubblica sociale, cfr. R. Battaglia, Storia della Resistenza Italiana, Torino 1953 (za ed.), pp. 275 sg., 289-92. 35. Croce, Storia della storiografia cit., voi. 2, p. 240. 36. G. Volpe, Prefazione (A proposito di storia d’Italia) alla terza edizione di L'Italia in cammino, Milano 1928. In essa, fra l’altro, il Volpe rinfaccia al Croce la critica alla democrazia per anni da lui insegnata agli italiani. 37. Prendiamo qui in considerazione la già ricordata Italia in cammino e la Sto ria del movimento fascista, scritta per l’Enciclopedia italiana, Milano 1943 (23 ed.), che ne è come la continuazione. Tralasciamo la rielaborazione pub blicata dal Volpe dopo la guerra (Italia moderna, Firenze 1945-49, 3 voli.; il primo volume era già uscito nel 2943) che del resto, per quanto riguarda le grandi linee della prospettiva storico-politica, non presenta innovazioni di rilievo. 38. Volpe, Storia del movimento fascista cit., pp. 227 sg. 39. Ibid., pp. 70, 147 sg., 137. 40. Volpe, L’Italia in cammino cit., pp. 66-72. 41. Volpe, Storia del movimento fascista cit., p. 197. 42. Volpe, L’Italia in cammino cit., p. 221.
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NOTE
43. « La nazione italiana si metteva in moto a scaglioni e reparti; o meglio, ele menti che erano fuori di essa erano tratti un po’ per volta nella sua orbita, si legavano, pur lottando, con gli altri elementi» (ibid., p. 266). 44. G. Salvemini, Fu l'Italia prefascista una democrazia?, in «II Ponte», VII, 1952. PP- 295-9745. Caratteristiche le parole con cui commenta il «piatto realismo di tanta parte dei ceti dirigenti che non volevano Trento e Trieste, non volevano colo nie, insomma non si sa bene che cosa volessero... » (Volpe, Storia del movi mento fascista cit., p. 44).
46. Cfr. Volpe, L’Italia in cammino cit., p. 18; Id., Storia del movimento fasci sta cit., p. 46.
47. Cfr., su questo punto, la recensione di R. Romeo a Italia moderna (in «Rivista storica italiana», LXIII, 1951, pp. 120-28). 48. Volpe, Dieci anni, Edizioni «Monarchia», Roma 1956. 49. Ibid., pp. 5 sg. 50. F. Ercole, La Rivoluzione fascista, Palermo 1936. 51. A. Solmi, Il fascismo e la sua genesi nazionale, in Id., Discorsi sulla Storia d’Italia, Firenze 1935, pp. xm-xvi. 52. A. Fanfani, Cinquantanni di preparazione all’impero, in Colonialismo europeo ed Impero fascista, a cura di L. Silva, Milano 1936, p. 27. Cfr., dello stesso auto re, Da soli!, in «Rivista internazionale di scienze sociali», XIJV, 1936, pp. 22931, dove, commentando il fatto che «mezzo milione di legionari hanno sbara gliato le orde scioane», svolge il concetto che, per la prima volta dal Risorgi mento, nessuno potrà insinuare che gli italiani non hanno fatto da soli.
53. Le testimonianze in tal senso sono numerose. Ricordiamo l'articolo di C. Pet tinato su «La Stampa» del 5 marzo 1944, a commento degli scioperi di quel mese (citato da G. Vaccarino, Il movimento operaio a Torino nei primi mesi della crisi italiana, in «Il Movimento di liberazione in Italia», n. 20, settembre 1952, p. 42). 54. Su questo gruppo cfr. Vaccarino, Il movimento operaio cit., p. 34, e la nota introduttiva ad Alcuni documenti delle gerarchie di Salò sulla industria ita liana e sulla classe industriale del Nord, in « Il Movimento di liberazione in Italia», n. 11, marzo 1951, p. 41.
55. Vedi, in particolare, per la nota tesi del fascismo-malattia, la postilla Verità storica e ideale politico, in Croce, Storia della storiografia cit., voi. 2, p. 273. 56. Vedi il Manifesto redatto da Croce per la chiamata dei volontari dei Gruppi Combattenti Italia, e affisso in Napoli il io ottobre 1943 (in appendice al dia rio Quando l’Italia era tagliata in due, Bari 1948, pp. 154-56). Un certo impac cio nel trattare la questione della legalità è indicativo delle preoccupazioni, di Croce e di tanta parte del ceto dirigente prefascista, di salvare, al di sopra del fascismo e anche attraverso ad esso, la «continuità dello Stato».
57. Croce, Quando l'Italia... cit., pp. 87 sg. 58. Ibid., p. 44. Cfr. pure le note del giorno precedente, 15 novembre.
NOTE
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59. A. C, Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1948, PP- 7i5> 7*8, 730, 716. 60. Apparsa nel 1926 sul «Leonardo»; ora in A. Omodeo, Difesa del Risorgi mento, Torino 1955, pp. 439-46. 61. Scrive l’Omodeo nella recensione citata: «I danni successivi dipesero dall’aver smarrito progressivamente il senso del Risorgimento, non dal Risor gimento stesso». 62. Vedi, ad esempio, F. Compagna, Benedetto Croce e la questione meridio nale, in «Archivio storico per le provincie napoletane», n. s., XXXIV (LXXIII), 1955, pp. 465-82.
63. «In sede storica è certamente erroneo considerare la recente guerra ita liana come l’ultima del Risorgimento. Tuttavia essa fu la guerra combat tuta dai figli del Risorgimento. Tremenda e sanguinosa, non fu, per chi la visse, esclusivamente un museo degli orrori, proprio per questa luce ideale, per questa fede nativa, sincera, così diversa dalla maledetta retorica gior nalistica che la falsò e la contaminò» (A. Omodeo, Momenti della vita di guerra, Bari 1934, p. 389). 64. A. Omodeo, Trentacinque anni di lavoro storico, in Id., Il senso della storia, Torino 1955, pp. 13 sg. Cfr., nello stesso volume, Il distacco dal Risorgi mento (del 1933), pp. 444-48, e La nostalgia del passato (del 1946, uno dei suoi ultimi scritti), pp. 617-20; e, in Difesa del Risorgimento cit., pp. 537-39, Storia ipotetica (del 1937), aspra polemica contro la scuola dell’istituto storico per l’età moderna e contemporanea, diretta dal Volpe. 65. Vedi, ad esempio, la sua recensione a Pensiero e azione del Risorgimento di Salvatorelli, dove la simpatia espressa è chiaramente più politica che cul turale (Omodeo, Difesa del Risorgimento cit., pp. 531-33). 66. Cfr. Delle Piane, Lauro De Basis cit. « Guai lasciare ai sovversivi il mono polio della lotta contro il fascismo! », scrisse De Bosis nella prima circolare della Alleanza, del giugno 1930 (citato da M. Salvadori, Il sacrificio di Lauro De Bosis, in E. Rossi (a cura di), No al fascismo, Torino 1957, p. 224). Dobbiamo aggiungere che il Salvadori cita una lettera (febbraio 1931) del De Bosis (la cui personalità non può essere valutata solo nell’ambito dell’Alleanza) a Salvemini, in cui monarchia, Vaticano e fascismo vengono accomunati nella condanna, e l’atteggiamento dell’Alleanza è presentato come mero espediente tattico. 67. Citato da Delle Piane, Lauro De Bosis cit. 68. Citato da A. Gavagnin, Vent'anni di resistenza al fascismo, Torino 1957, pp. 320-22. 69. Ricordiamo quattro opere che potrebbero raggrupparsi sotto il titolo di De antiquissima italorum insipientia'. G. Fenoaltea, Storia degli italieschi dalle origini ai giorni nostri, Firenze 1945; G. Colamarino, Il fantasma liberale, Milano s. d.; F. Cusin, Antistoria d'Italia, Torino 1948; G. A. Borgese, Golia. Marcia delfascismo, trad, it., Milano 1946 [ed. orig. am. 1937]. Su questi au tori, eredi della parte peggiore di Gobetti, e che spesso capovolgono soltan to il segno morale di quei romanzi fascisti che partivano da Augusto e fini
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NOTE
vano a Mussolini, vedi N. Valeri, Premesse ad una storia d’Italia nelpostrisorgimento, in AA.W., Orientamenti per la storia d’Italia nel Risorgimento, Bari 1952, pp, 65-71. 70. Vedi, sulla Giovane Italia, R. Luraghi, Momenti della lotta antifascista in Piemonte negli anni 1926-1943, in «Il Movimento di liberazione in Ita lia», nn. 28-29, gennaio-marzo 1954, pp. 15 sg.; e Gavagnin, Vent’anni di resistenza cit., pp. 257 sgg. Il Luraghi (pp. 31-33) ricorda anche il muri (Movimento Unitario di Ricostruzione Italiana), sorto dopo gli arresti che scompaginarono nel 1937 Giustizia e Libertà, ma dal carattere affine alla Giovane Italia. 71. Traggo la notizia da G. Bonfante, Che cosa è il partito repubblicano, in «Lo Stato operaio», VI, 1932, pp. 242-50: articolo di aspra critica al fri, nel solco della violenta polemica comunista di quegli anni contro i partiti della Concentrazione antifascista (l’uscita del fri dalla Concentrazione, delibe rata proprio a St. Louis, è considerata dal Bonfante un tentativo di ripren der quota sotto la spinta della concorrenza di gl). Per i rapporti fra FRI e GL, e per la reciproca irriducibilità dei due gruppi, cfr. Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 57 sg. e 69 sg. 72. «Dottrina democratica conservatrice» è definito da Gobetti il mazzinianesimo: La Rivoluzione liberale, Torino 1948, p. 149. 73. Vedi G. Salvemini, Introduzione a W. Salomone, L’età giolittiana, Torino 1949. 74. Salvemini, Fu l'Italia cit., p. 285.
75. G. Salvemini, Partigiani e fuorusciti, in «Il Mondo», 6 dicembre 1952, pp. 3-4; e La guerra per bande, in Aspetti della Resistenza in Piemonte, a cura dell’istituto storico per la Resistenza in Piemonte, Torino 1950, pp. xm-xvi. 76. P. Gobetti, Risorgimento senza eroi, Torino 1926, p. 130. 77. Ibid. Altrove scrive che «constatando l’immaturità ideale dellTtalia del Risor gimento, o la mancata partecipazione popolare, non si vuol fare un pro cesso alla cultura e agli uomini, ma un semplice calcolo di forze » (Gobetti, La Rivoluzione liberale cit., p. 34). 78. L’espressione è in un suo articolo sulla «Rivoluzione liberale» del 23 novem bre 1922, riportato poi largamente nel libro omonimo, p. 185. E l’arti colo in cui si dice che « in Italia non ci sono proletari e borghesi: ci sono soltanto classi medie», come aveva insegnato Giolitti e come confermava Mussolini. 79. Gobetti, La Rivoluzione liberale cit., p. 188. 80. Ibid., pp. 183 sg. Cfr. supra, nota 20. 81. Cfr. E. Tagliacozzo, L’evasione di Turati, in Rossi (a cura di), No al fasci smo cit., pp. 58-61. 82. Vedi la Prefazione (p. 15) a C. Rosselli, Socialismo liberale, Edizioni di gl, Milano 1944-45. 83. C. Rosselli, Risposta a Mussolini, in «Giustizia e Libertà» del 21 maggio
NOTE
zi?
1936, dove si legge anche questa apostrofe: «A voi, fascisti, l’impero; a noi, la nazione. A voi la Roma della decadenza; a noi ITtalia repubblicana, comunale, risorgimentale, protesa verso il nuovo umanesimo proletario» (ora in Id., Scritti politici e autobiografici, Napoli 1944, pp. 96-106). 84. C. Rosselli, Per l'unificazione politica del proletariato italiano, in «Giusti zia e Libertà» del T4 maggio 2937 (ora in Id., Scritti cit., pp. 189-200). 85. Vedi il lucido articolo di C. Rosselli, La guerra che toma, pubblicato sui «Quaderni di Giustizia e Libertà» poco dopo l’ascesa di Hitler al potere (ora di Id., Scritti cit., pp. 116-28), e che provocò una polemica con l'« Avanti! », poco propenso ad ammettere, nel solco del tradizionale pacifismo socialista, la liceità di una «guerra rivoluzionaria» (cfr. G. Arfè, Storia dell’Avanti! 1916-1940, Milano-Roma 1958, pp. 96 sg.). 86. «Quel che è avvenuto il 13 gennaio in Sarre è la prova ultima, in vitro, della cadaverica impotenza di tutte le forze, partiti, uomini del passato pre fascista»: C. Rosselli, La lezione della Sarre, in «Giustizia e Libertà» del 18 gennaio 2935 (ora in Id., Scritti cit., p. 81).
87. C. Rosselli, Perché siamo contro la guerra d’Africa, in «Giustizia e Libertà» dell’8 marzo 2935 (ora in Id., Scritti cit., pp. 84-90). 88. Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 150-63. Su questo punto, dell’auto nomia dell’antifascismo di fronte agli interessi diplomatici delle potenze, cfr. E. Lussu, Diplomazia clandestina, Firenze 1956. 89. Rosselli, Socialismo liberale cit., pp. 287, 174, 168, 70.
90. Ibid., pp. 167, 173. 91. Vedi, per tutti, il discorso da radio Barcellona del 23 novembre 2936, che lanciò la formula «oggi in Spagna, domani in Italia»: «Un secolo fa l'Italia schiava taceva e fremeva sotto il tallone dell’Austria, del Borbone, dei Savoia, dei preti» (Rosselli, Scritti cit., pp. 266-72). 92. Vedi, su questo punto, le testimonianze di Salvemini, Partigiani e fuoru sciti cit.; L. Sturzo, L’Italia e l’ordine intemazionale, Torino 2946, pp. 67 sg.; M. Salvadori, Resistenza e azione, Bari 2952, pp. 26-28. 93. Ceva, L’Istituto Nazionale cit., p. 12, ricorda il generale Sir George White, amico di Churchill, che «entusiasta di Garibaldi, percorreva la Sicilia segnando le tappe della campagna dei Mille; per lui Mussolini e Garibaldi erano una stessa cosa, e, purtroppo, non solo per lui». 94. Rosselli, Socialismo liberale cit., p. rro. 95. Cfr. Garosci, Appunti cit., p. 44. 96. Rosselli, La lezione della Sarre cit. Corollario di tale atteggiamento è che il fascismo non si batte con il classismo (vedi, ad esempio, Classismo e anti fascismo, articolo di fondo di «Giustizia e Libertà» del 25 gennaio 2935). 97. « La classe operaia nella società capitalistica è la sola classe veramente rivo luzionaria»: Rosselli, Socialismo liberale cit., p. 245. Ma, ibid., p. 203, ammo niva i socialisti italiani a decidersi: o attendere fatalisticamente che l’Italia si trasformi in Inghilterra, o farsi rappresentanti di tutti gli italiani, e non dei soli, pochi, operai.
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NOTE
98. Andrea [Andrea Caffi], Appunti su Mazzini (29 marzo); Gianfranchi [Franco Venturi], Sul Risorgimento italiano (5 aprile); G.O. Griffith, Attorno a Mazzini (12 aprile); Luciano [Nicola Chiaromonte], Sul Risorgimento (19 aprile); Curzio [Carlo Rosselli], Discussione sul Risorgimento (26 aprile); Replica di Gianfranchi e Lettera di un uomo della strada (3 maggio); Andrea, Discussione sul Risorgimento, con Postilla di Luciano (io maggio); U. Calesse, Palinodia mazziniana (24 maggio). 99. S. Cammareri Scurti, La mancata conquista inglese della Sicilia e l’Unità d'Italia, e La Sicilia e il suffragio universale (Dal cinquantenario dei Mille al suffragio universale), in «Critica sociale», XX, 1910, pp. 117-19, 228 sg. 100. Su di essi, vedi E. Ragionieri, Il Risorgimento italiano nell'opera di Marx ed Engels, in «Società», VII, 1951, pp. 54-94. 101. Vedila in appendice a Lenin, Sul movimento operaio italiano, Roma 1949, PP- 195-97102. Cfr. La questione italiana al3° congresso dell’Internazionale comunista, Edi zioni del Partito comunista d’Italia, Roma 1921. Rakovsky era stato dele gato del Comitato esecutivo dell’Internazionale al congresso di Livorno.
103. Lenin, Imperialismo e socialismo in Italia, pubblicato sul «Kommunist» nell’agosto 1915 (ora in Id., Sul movimento operaio italiano cit., p. io). 104. Su questo punto, vedi un’osservazione proprio di Gobetti, in La Rivolu zione liberale cit., p. 129.
105. A. Gramsci, L’Ordine nuovo, Torino 1954, pp. 276-78 (.L’Unità nazio nale)-, pp. 327-30 (Tradizione monarchica). Vedi anche, oltre vari spunti disseminati nel volume, il paragone fra Cavour e Giolitti, ritenuto irrive rente per il primo (pp. 300 sg.). 106. Vedi, ad esempio, Rosselli, Socialismo liberale cit., p. 186. 107. Cfr., su questo punto, Arfè, Storia dell'Avanti! cit., passim. 108. Cit. da Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 78 sg.
109. Vedile in Trentanni di vita e di lotte del Partito comunista italiano, Qua derno di «Rinascita», n. 2, Roma [1952], pp. 93-103. no. Editoriale del primo numero di «Lo Stato Operaio», I, 1927. in. Vedi, ad esempio, ('Editoriale, in «Lo Stato Operaio», I, 1927, n. 4, e le Osservazioni sulla politica del nostro partito, ivi, II, 1928, p. 332.
112. Cfr. l’editoriale La conquista della maggioranza, in «Lo Stato Operaio», III, 1929, p. 465.
113. La riforma costituzionale, in «Lo Stato Operaio», I, 1927, p. 1077. 114. Lo Statuto e la lotta per la libertà, in «Lo Stato Operaio», II, 1928, PP- 225-29. 115. Ercoli, Sul movimento di «Giustizia e Libertà», in «Lo Stato Operaio», V, 1931, pp. 463-73. 116. G. Amendola, Con il proletariato 0 contro il proletariato? (Discorrendo con gli intellettuali della mia generazione), in «Lo Stato Operaio», V, 1931, pp. 309-18.
NOTE
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117. Cfr., su questo punto, Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 77, 99.
118. Ercoli, Fine della questione romana, in «Lo Stato Operaio», III, 1929, p. 128. 119. Vedi, ad esempio, E. R., Il programma di «Giustizia e Libertà», in «Lo Stato Operaio», VI, 1932, pp. 87-96; e, soprattutto, due articoli di R. Grieco, Ilprogramma agrario di «Giustizia e Libertà», ivi, pp. 157-65, e Ancora sul programma agrario di «Giustizia e Libertà», dove, a p. fi-js, scrive: «Ah, no, bastardi di Giuseppe Mazzini [definiti poco prima «imbro glioni quanto il loro antenato»]! Non l’avete voluta e non l’avete fatta nel 1848 una rivoluzione contadina, ed oggi ve ne venite fuori con la riformetta ». Rivelatrice del complesso di borghesismo che affliggeva GL di fronte ai comunisti è la risposta, Sulla questione agraria, comparsa nel n. 6, marzo 1933, dei «Quaderni di Giustizia e Libertà» (pp. 75-78), in cui si offre il seguente sillogismo: chiunque si batte oggi per la rivoluzione contadina, «a parte le differenze di dettaglio» non può, «per definizione», essere borghese; GL si batte per la rivoluzione contadina; dunque GL non è borghese. 120. Di qualche interesse, in questa direzione, la comunicazione presentata al X congresso internazionale di scienze storiche dalla sovietica Lina Misiano, Alcuni problemi di storia del Risorgimento italiano, Mosca 1955. 121. L. Gallo [Luigi Longo], Aspetti dell’imperialismo italiano, in «Lo Stato Operaio», VI, 1932, p. 147. 122. Ercoli, Per comprendere la politica estera del fascismo italiano, in «Lo Stato Operaio», VII, 1933, pp. 270-76. 123. Così nelle Tesi presentate dal Comitato centrale alla II conferenza del Par tito Comunista d'Italia (La situazione italiana e i compiti del partito), in «Lo Stato Operaio», II, 1928, p. 127.
124. Ibid., pp. 478-80. 125. Ripubblicato in «Società», Vili, 1952, pp. 591-613, accompagnato da una breve nota in cui Togliatti, ricordando che l’articolo era nato per com battere sia la negazione socialdemocratica dell’identità fascismo-capitalismo, sia le tendenze comuniste a chiamare fascismo ogni forma di reazione dimenticando le caratteristiche del fascismo tipo, quello italiano, conclu deva che il dibattito sulla natura del fascismo era poi stato risolto da Sta lin con la definizione già da noi ricordata (la quale sembra, invece, rica dere proprio nell’appiattimento che Togliatti volle criticare nel 1928). T26. R. Grieco, Centralismo e federalismo nella rivoluzione italiana, in «Lo Stato Operaio», VII, 1933, pp. 414-22. Cfr. anche un successivo articolo di Longo: L. Gallo, Centralismo, federalismo e autonomia, in «Lo Stato Ope raio», pp. 647-61.
127. R. Grieco, Per il fronte unico proletario di lotta, in «Lo Stato Operaio», VI, 1932, p. 749. T28. Vedi al riguardo («Lo Stato Operaio», Vili, 1934, pp. 570-80) le due Dichiarazioni, del psi e del pci, allegate al «patto d’accordo» (il primo) del 17 agosto 1934, e l’articolo di commento di Grieco che, pur nel titolo,
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NOTE
Per l'organizzazione delfronte unico, tende a rivendicare la continuità della
politica comunista (pari tentativi facevano i socialisti: ma è evidente che sia l’uno che l’altro partito, nel realizzare l’unità di azione, operarono una svolta). Cfr., su tutta la discussione, Arfè, Storia dell’Avanti! cit., pp. 109-20.
129. Scriveva Togliatti, in piena svolta, che «la sola garanzia reale della vitto ria della classe operaia sulla borghesia, in tutti i momenti della lotta e particolarmente nei momenti supremi, è il fatto che esista un partito bol scevico e che questo partito non rinunci mai alla sua funzione di dire zione e alla sua iniziativa rivoluzionaria » (Ercoli, Problemi delfronte unico, in «Lo Stato Operaio», IX, 1935, p. 510).
130. Nella ricordata Dichiarazione del psi annessa al patto del 1934, si diceva appunto che, con il patto, il PCI mostrava di aver ripudiato la teoria del «socialfascismo».
131. In «Lo Stato Operaio», IX, 1935, pp. 241-60. 132. Vedi l’appello Per la salvezza dell'Italia, riconciliazione del popolo italiano!, pubblicato come editoriale del numero di agosto 1936 di «Lo Stato Ope raio». Contro questo «diciannovismo ritardatario», vedi le reazioni dei socialisti in Arfè, Storia dell'Avanti! cit., pp. 144 sgg. 133. In «Lo Stato Operaio», IX, 1935, pp. 404-16. 134. E. Sereni, XX Settembre, in «Lo Stato Operaio», X, 1936, pp. 588-92. 135. Vedi il saluto inviato alla rivista per il suo decimo anniversario, in «Lo Stato Operaio», XI, 1937, p. 188.
136. Jacopo, Garibaldi nella rivoluzione nazionale italiana, in «Lo Stato Ope raio», X, 1936, pp. 599-609; G. Berti, L'attualità di Garibaldi, ivi, XI, i937> PP- 386-99. 137. M. Montagnana, Franche parole a « Giustizia e Libertà », in « Lo Stato Ope raio», XI, 1937, pp. 379-85. 138. Materiali in preparazione del centenario di Antonio Labriola, saggio com parso anonimo, in più puntate, sullo «Stato Operaio» del 1942. Va tenuto presente che la serie americana della rivista (primo numero: 15 marzo 1940, «anno I», senza aggiungere «nuova serie») fu pubblicata da Berti per ini ziativa personale, e quindi non ha più carattere ufficiale. 139. Vedi, ad esempio, l’editoriale La disfatta dell'hitlerismo libererà l'Italia e assicurerà il suo avvenire, che commenta l’aggressione all’uRSS, in « Lo Stato Operaio», I, 1941, pp. 89-96.
140. Vedi, ad esempio, l’Appello del Comitato centrale del PCI del 16 maggio 1941: «Lo Stato Operaio», I, 1941, pp. 103 sg. 141. Avvertenze generali per l’insegnamento, annesse al R.D. 7 maggio 1936, n. 762. 142. Cfr. supra, nota 12. 143. In una delle Autobiografie di giovani del tempo fascista, pubblicate a Brescia nel 1947 a cura della rivista cattolica «Humanitas», G. C. parla ad esempio
NOTE
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(pp. 9 sg.) del «carattere risorgimentale» che ancora informava ai suoi tempi (17 anni nel 1935) la scuola elementare e media: «idee di libertà e di nazionalità», «sensi romantici», filofrancesismo e antitedeschismo.
144. Cfr. Gavagnin, Vent'anni di resistenza cit., pp. 157, 182-85; e Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 271 sg. 145. Vedi, ad esempio, il saggio di Solari, Aldo ÌAautino cit. 146. Ricordiamo un interessante articolo, con accenni autobiografici, di G. Levi, La scuola fascista e la gioventù, in « Lo Stato Operaio », II, t942,pp. 207-11. «Noi non ci vantiamo - scriveva nel 1934 la madre di un antifascista della generazione di mezzo - di essere una fedele copia degli antichi romani - Dio ci liberi! - ma sappiamo essere degli autentici italiani, di quegli italiani che nel ’48 seppero soffrire e morire per il bene della Patria » (Elide Rossi, Lettere ad Ernesto, Firenze 1958, p. ror). 147. Cfr. A. Capitini, Un'esperienza religiosa dell'antifascismo, in «II Movimento di liberazione in Italia», n. 33, novembre 1954, pp. 60-64. t48. Si può fare un confronto fra le voci Risorgimento dell'Enciclopedia ita liana e del Dizionario di politica (edito dall’istituto dell’Enciclopedia in collaborazione col partito fascista) : scritte entrambe dal Maturi, la prima, problematica, si colloca bene nella tradizione liberale; la seconda è invece espositiva e anodina.
T49. G. Pintor, Prefazione a C. Pisacane, Saggio sulla rivoluzione, Torino 1942.
150. «Loro [la vecchia classe dirigente] credono (...) che il fascismo sia stato nient’altro che un’offesa alla cultura mossa da alcuni insipienti. Per loro, tolti di mezzo gli insipienti, la cultura rimane intatta e perfetta come prima; per noi invece rimane malata come prima, e sempre in grado di ripetere l’ascesso (...). II fascismo affonda le sue radici nel lontano risorgimento »: così U. Alfassio Grimaldi, in una delle Autobiografie citate supra, nota 143 (pp. 78, 73, 54). 151. Gli ufficiali di carriera che parteciparono alla Resistenza possono consi derarsi il caso limite della continuità pre e post 8 settembre: vedi, ad esem pio, la lettera del capitano Franco Balbis, tutta fondata sulla convinzione della perfetta identità fra il dare la vita per l’Italia in Africa e il darla ora contro tedeschi e fascisti (Lettere dei condannati a morte della Resi stenza italiana, Torino 1952, pp. 42 sg.).
152. Giumella, Mito e realtà cit. 153. G. Carocci racconta dei cori verdiani che si levavano dalla tradotta dei prigionieri al passaggio del Brennero (Il campo degli ufficiali, Torino 1954, p. 46). 154. Agli Italiani (novembre 1941) e Ai migliori degli Italiani (agosto 1942), ripubblicati poi sul «Bollettino» nn. 1-2, giugno-luglio 1943 del Movi mento «Popolo e Libertà». 155. Vedi, ad esempio, quanto scrive G. Rossini nel volumetto, celebrativo della Resistenza sub specie democristiana, Ilfascismo e la Resistenza, Roma i955> PP- to, 97.
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NOTE
156. A, Degli Espinosa, Il Regno del Sud, Roma 1946, pp. 342-44. 157. «L’Unione», organo del «Partito d’Unione», 25 dicembre 1943 (anno I, n. 1), e 28 gennaio 1944.
158. Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., pp. 80 sg.; M. Bendiscioli, La Resi stenza: aspetti politici, in AA.VV., Il Secondo Risorgimento cit., p. 314. 159. P. Badoglio, L'Italia nella seconda guerra mondiale, Milano 1946, p. 126; Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., pp. 53-58, 273.
160. Vedi, ad esempio, l’intervista, ancora di Badoglio, del 13 novembre 1943 (ibid., p. 191) e «La Rassegna» di Bari, 14 dicembre 1943. 161. I. Bonomi, Diario di un anno, Milano 1947, p. 87. 162. Si può leggere in «Il Risorgimento» di Napoli, 19 ottobre 1943.
163. Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., p. 340. 164. Il testo del messaggio in W. Churchill, La seconda guerra mondiale, parte V, voi. 1, La campagna d’Italia, Milano 1951, pp. 60 sg. 165. Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., pp. 63-79; Churchill, La seconda guerra cit., pp. 168-74. Nel volume a cura di A. e V. Toynbee, Hitler's Europe, London-New York-Toronto 1954, il saggio The Italian Resistance Movement ài E. Wiskemann accenna (p. 331) al «Secondo Risorgimento», e lo differenzia dal primo per la partecipazione di operai e contadini. 166. Vedi, ad esempio, gli scritti di Salvadori, Resistenza e Azione cit., e, in misura attenuata, Id., Storia della Resistenza italiana, Venezia 1955. 167. G. Marabotto, Un prete in galera, II Cuneo 1953, pp. 277 sg.
168. Cfr., su questo punto, le osservazioni di G. Spini, Della Resistenza come di un aspetto della storia d’Europa, in « Il Movimento di liberazione in Ita lia», n. 22, gennaio 1953, pp. 48 sg. 169. Esemplare, per l’esposizione di questa tesi, il saggio del cattolico L. Ben venuti, Resistenza europea e federalismo europeo (sul quale avremo occa sione di tornare), in «Civitas», n. s., VII, aprile 1955, n. 4, pp. 60-81. 170. Volpe, L’Italia in cammino cit., pp. 131 sg.
171. Vedi, ad esempio, in «Lo Stato Operaio»: V. Ukov, Sul problema delle minoranze slovene e croate in Italia, III, 1929, pp. 668-76; lo Schema di una piattaforma per l'azione politica delle organizzazioni comuniste della Vene zia Giulia, IV, 1930, pp. 514-31; la Risoluzione del IV congresso del Par tito comunista d’Italia, V, 1931, p. 223; la Dichiarazione comune dei par titi comunisti della Jugoslavia, dell’Italia e dell’Austria sul problema sloveno,
Vili, 1934, pp. 349-51. Nel 1942-43 E. Curiel, triestino, scrisse a Ven totene alcuni Appunti per uno studio sul movimento nazionale slavo (ora in Id., Classi e generazioni del Secondo Risorgimento, Roma 1955, pp. 145-54). 172. K. Grispos, La popolazione del Dodecanneso in rivolta contro l'imperiali smo italiano, in «Lo Stato Operaio», Vili, 1934, pp. 627 sg. 173. S. Gassmayer, Il problema del Titolo meridionale, in «Lo Stato Operaio», III, 1929, pp. 132-46. Cfr. pure la Risoluzione, citata a nota 171, dove si parla anche delle minoranze tedesche.
NOTE
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174. Degli Espinosa, 11 Regno del Sud cit., pp. 161 sg. 175. Cfr. G. Peyronel, La dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine al convegno di Chivasso il 19 dicembre ip4y. contro «il motto brutale e fanfarone di Roma doma» si rivendicò, nella fedeltà allo spirito del Risor gimento, il diritto alle autonomie locali, schiacciate dallo Stato monarchico accentratore («Il Movimento di liberazione in Italia», n. 2, settembre 1949, pp. 16-26). 176. Parri, nel secondo convegno di studi sulla Resistenza, ha ricordato che il solo consiglio dato ai triestini «fu quello di combattere da antifascisti il più attivamente possibile: unico modo per pesare sulle sorti della città» («Il Movimento di liberazione in Italia», nn. 34-35, 1955, P- 15). Cfr. i paragrafi Gli accordi diplomatici della Resistenza e L’internazionalismo partigiano, in Battaglia, Storia della Resistenza cit., pp. 318-26.
177. Cfr. C. L. Ragghiami, La politica del Partito d’Azione in un giornale clan destino di Firenze, in «II Movimento di liberazione in Italia», n. 14, set tembre 1951, pp. 9 sg. 178. Ibid., p. 3. 179. Trent’anni di vita e di lotte cit., p. 202. 180. Ercoli, Per un 'Italia libera e democratica, in « Lo Stato Operaio », III, 1943, pp. 102-4. 181. Parole di Togliatti citate da Longo nel Rapporto politico presentato alla riunione allargata della Direzione per l'Italia occupata del PCI, 11 e 12 marzo 1945 (ora in L. Longo, Sulla via dell’insurrezione nazionale, Roma 1945, PP- 44° sg.). 182. Cfr., fra i tanti documenti comunisti che si esprimono in tal senso, gli articoli Saluto al governo di unione nazionale, in « Il Combattente », mag gio 1944, e Tutta la nazione per la insurrezione, in «La nostra lotta», set tembre 1944, nonché lo Schema di rapporto politico presentato alla confe renza dei triumvirati insurrezionali del PCI (novembre 1944), in cui Longo si dilunga a spiegare la differenza fra democrazia progressiva e dittatura del proletariato (Longo, Sulla via dell’insurrezione cit., pp. 209-12, 288, 329 sgg.).
183. Cfr., su questa polemica, Battaglia, Storia della Resistenza cit., pp. 517-25; e R. Carli Ballola, Storia della Resistenza, Milano-Roma 1957, pp. 47-51. 184. Longo, Sulla via dell’insurrezione cit., p. xxvi. 185. Il partito e il CLN, in «La nostra lotta», dicembre 1943 (ora in P. Secchia, I comunisti e l'insurrezione, Roma 1954, pp. 49-55). 186. Ibid., p. 391. 187. Longo, Sulla via dell'insurrezione cit., p. xxxrv. Cfr. lo Schema di rapporto, citato supra a nota 182, dove si dice che, a liberazione avvenuta, i CLN periferici dovranno trasformarsi in organi di potere popolare. 188. Fronte nazionale, società nazionale, blocco nazionale (Curiel, Classi e gene razioni cit., pp. 161-67).
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NOTE
189. Cfr. supra, nota 11.
190. Aggiungiamo che le ultime propaggini del bordighismo stanno ferme al totale ripudio del secondo Risorgimento. Vedi: Alfa, Il ridicolo «bis» del risorgimento e Dopo le garibaldine, in «Prometeo», 1946, n. 2, p. 70, e 1948, n. io, p. 433.
191. Trentanni di vita e di lotte cit.,p. 208 (si tratta di una delle note redazio nali, attribuite comunemente a Togliatti). 192. Bari 1955. 193. Citato da Rossini, Il fascismo e la Resistenza cit., p. 43. 194. F. L. Ferrari, L’Azione cattolica e il «regime», Firenze 1957, in cui è ripub blicato anche 1’Appello ai parroci d’Italia, redatto nel 1931 e diffuso in Italia a cura di gl.
195. Cfr. Salvatorelli, in II Secondo Risorgimento cit., p. 108; A. Marazza, I cattolici e la Resistenza, in « Il Movimento di liberazione in Italia », n. 43, luglio 1956, p. 4. 196. L. Sturzo, L'Italia e l'ordine intemazionale, New York 1944, p. 118. 197. In L’Italia e l’ordine intemazionale cit., p. 131, Sturzo, difendendo la Chiesa dall’accusa di avere approvato teoria e prassi del fascismo, considera i Patti del 1929 la conclusione del Risorgimento come processo di unificazione: e le sue riserve sono nel senso che non per questo deve intendersi che la Chiesa abbia voluto sanzionare implicazioni teoriche e leggi del Risor gimento ad essa ostili.
198. Per risolvere la questione romana «occorreva venisse l’Uomo capace di comprendere che il momento era giunto (...). Nel 1929 quest’Uomo domi nava ormai da sette anni la vita italiana, e la sua figura già si levava pode rosa nel cielo d’Europa» (A. C. Jemolo, La questione romana, Milano 1938, p. 16). 199. P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, Roma 1957, p. 170.
200. Vedi, oltre le già ricordate Autobiografie (fra le quali, quella di U. Alfassio Grimaldi appare la più articolata): A. Caracciolo, Teresio Olivelli, Brescia 1947 (dove però proprio l’insorgere del momento della libertà rimane insuf ficientemente chiarito, nonostante il richiamo a Mazzini, ma forse anche per questo); Ignazio Vian, il difensore di Boves, testimonianze raccolte da V.E. Giuntella, Roma 1954. 201. Buone osservazioni in G. Roveto, Il clero piemontese nella Resistenza, in Aspetti della Resistenza in Piemonte cit., pp. 41-75. Si può anche citare l’ultima lettera del sacerdote Aldo Mei, fucilato il 4 agosto 1944, il quale attribuisce la sua sorte all’«aver fatto il prete» (Lettere dei condannati a morte cit., pp. 142-45). Ingiuriosa fu ritenuta dalla «Civiltà Cattolica» (CV, 1954, n. 4, pp. 684 sg.) la distinzione, fatta dal Battaglia nella sua Storia, fra alto e basso clero. 202. Lettere dei condannati a morte cit., pp. 76-83. Per una interpretazione laica della religiosità dei combattenti che muoiono con i riti cattolici, cfr. Omo deo, Momenti della vita di guerra cit., pp. 376 sgg.
NOTE
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203. Cfr. Rossini, Il fascismo e la Resistenza cit., pp. 55-58.
204. Nel numero del 26 dicembre 1943 di «Il Risveglio» di Bari, «settima nale della Democrazia Cristiana », in un Saluto ai valorosi rivolto alle truppe italiane entrate in linea accanto agli alleati, si tiravano in campo la Roma onde Cristo è romano, san Francesco d’Assisi e santa Caterina da Siena, la Madonnina del Grappa e il Carroccio, san Nicola e le Alpi che Iddio pose a termine sacro d’Italia. Della «Chiesa, testimone di tutta la storia d’Italia, dall’impero di Roma fino ai nostri giorni» parlava il 12 dicem bre dello stesso anno la «Giustizia Sociale», «organo della Democrazia Cristiana, Sezione jonica». Cattivo gusto provinciale, certo: ma non per questo meno rivelatore. 205. Cfr. supra, nota 13. 206. Marazza, I cattolici e la Resistenza cit., e La Democrazia Cristiana come forza politica della Resistenza, in «Civitas», n. cit., pp. 15-29. 207. Cfr. supra, nota 169. 208. Cfr. ancora il citato saggio del Passerin. 209. Il fascismo in Italia, edito da «Per l’Azione», rivista dei gruppi giovanili della Democrazia Cristiana, a cura di A. Paci, L. Elia, V. Bachelet, F. Grassini, prefazione di F.M. Malfatti, Roma s.d. 210. B. Ciccardini, Ilfascismo come esame di coscienza delle generazioni, in « Terza generazione», I, 1953, pp. 39-44. 211. De Gasperi, I cattolici cit., p. xm.
212. Vedi, ad esempio, F. Salvi, Valori morali della Resistenza, in «Civitas», n. cit., pp. 9-14. Cfr. anche Rossini, Ilfascismo e la Resistenza cit., p. 22 e passim. Un infortunio deve cosiderarsi quello del Ciasca che, negando con sdegno alla Resistenza la qualifica di primo moto armato popolare nella storia d’Italia, le dona come precedenti i lazzaroni del cardinale Ruffo, gli insorgenti aretini del «Viva Maria», e tutti i moti antigiacobini della fine del Settecento (Moti di popolo nella storia d’Italia, in «Civitas», n. cit., pp. 92-102).
213. M. Ferrara, Il consolidamento della democrazia, in II Secondo Risorgimento cit., p. 451. 214. Uno degli scrittori cattolici già ricordati, lo Scoppola, sembra rendersi conto del semplicismo della formula che pure, almeno in parte, accetta, quando scrive che se « il caso di coscienza del nostro Risorgimento » appare oggi sanato, non è ancora risolto il «problema centrale » di un giusto rap porto tra coscienza religiosa e azione politica (Dal neoguelfismo alla demo crazia cristiana cit., p. 176). 215. Cfr. P. Melograni, Comunisti e cattolici, in «Passato e Presente», I, 1958, pp. 587-614. E vedi anche Valiani, Ilproblema politico cit., in AÀ.VV., Dieci anni dopo cit., pp. 72 sg. e passim. 216. Cfr. ancora ibid., e P. Togliatti, L’opera di De Gasperi. Rapporti fra Stato e Chiesa, Firenze 1958. 217. M. Bendiscioli, in II Secondo Risorgimento cit., p. 359. Cfr. le conclu sioni del saggio dello stesso autore citato supra, nota 13.
NOTE
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218. Questa ci sembra sia l’osservazione principale da fare al Valiani per il suo saggio, più volte citato, in Dieci anni dopo. Rivelatori, nel Valiani, gli acco stamenti comunisti-garibaldini (sotto l’insegna del coraggio unito al pos sibilismo) e azionisti-mazziniani (sotto quella dell’intransigenza).
219. R. Bauer, Non poteva essere altrimenti, vero manifesto della Resistenza tradita (Id., Alla ricerca della libertà, Firenze 1957, pp. 411-20). 220. Anche nelle note redazionali di Trent’anni di vita e di lotte del Partito comu nista italiano cit., attribuite a Togliatti, si parla, a p. 209, di «restaura zione reazionaria».
221. P. Secchia, Il significato e il valore delle quattro giornate, in «Cronache meridionali», I, 1954, pp. 669-76. Cfr. anche la conferenza alla Fonda zione Gramsci citata supra, nota ri. 222. In «Rinascita», X, 1953, pp. 678-80. 223. Soltanto come esempio di testardaggine ricordiamo «Il Dibattito politico» che, intervenendo nelle discussioni suscitate dal decimo anniversario della Liberazione, scrive che la Resistenza ha per novità irreversibile l’aver por tato alla ribalta «due vigorose forze antiborghesi: la cattolica e la comu nista», il cui dialogo e incontro caratterizza anche gli anni susseguenti. (La Resistenza vince ancora, e Storiografia dei delusi, nei numeri del 23 aprile e del 6 giugno 1955).
224. W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in Cinquant'anni di vita intellettuale italiana, a cura di C. Antoni e R. Mattioli, voi. 1, Napoli 1950, p. 247. 224. L. Cafagna, Intorno al «Revisionismo risorgimentale», in «Società», XII, 1956, pp. 1015-35. 226. R. Romeo, Problemi dello sviluppo capitalistico in Italia dal 1861 al i88y, in «Nord e Sud», V, 1958, n. 44, pp. 7-60; n. 45, pp. 23-57.
2. La continuità dello Stato 1. Pur avendolo arricchito con argomentazioni collaterali e con riferimenti documentari e bibliografici, ho cioè lasciato lo scritto nello schema della relazione svolta oralmente. Nelle note ho usato le seguenti abbreviazioni: acs, Archivio centrale dello Stato; as, Archivio di Stato; ig, Istituto Gram sci, Roma; ISMLI, Istituto nazionale per la storia del movimento di libe razione; isrl, Istituto storico della Resistenza in Liguria; ISRT, Istituto storico della Resistenza in Toscana; ISRR, Istituto per la storia della Resi stenza, Ravenna; isrtv, Istituto per la storia della Resistenza nelle Tre Venezie, Padova. Ringrazio tutti coloro che, nei predetti istituti, hanno agevolato le mie ricerche.
2. Non ho alcuna pretesa - è bene precisare - di stabilire coincidenze fra la distinzione dei due livelli di discorso cui ho accennato nel testo e quella dottrinale fra « Stato-persona » o « Stato-governo » da una parte e « Statoordinamento» o «Stato-comunità» dall'altra.
NOTE
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3. Per una proposta di discorso critico sull’antistituzionalismo della contestazione, nel quadro di un riesame globale del problema delle istituzioni, si veda il fascicolo Queste istituzioni. Sondaggio su un'ipotesi di lavoro, a cura di S. Ristuccia, Roma 1973.
4. V. Crisafulli, La continuità dello Stato, in «Rivista di diritto internazio nale», XLVII, 1964, pp. 365-408 (le parole citate sono a p. 372, con ampia bibliografia di appoggio). 5. Crisafulli, La continuità dello Stato cit., pp. 403-5. Il paragone fra Germa nia e Italia andrebbe sviluppato. Appare infatti paradossale, da un punto di vista storico-politico, che all’Italia, la quale ha conosciuto un profondo movimento di Resistenza, sia da riconoscere continuità dello Stato al con trario che alla Germania, dove quel movimento fu pressoché sconosciuto (alludiamo alla Repubblica Federale, perché nella novità della Repubblica Democratica è stato certo determinante il fattore internazionale). Il Cri safulli ricorda (p. 368, nota) che il 17 settembre 1953 fu nella Repubblica Federale dichiarata l’estinzione, alla data dell’8 maggio 1945, dei «rap porti d’impiego con l’apparato statale nazionalsocialista»: andrebbe inda gata la reale portata di una misura a prima vista così spregiudicatamente innovratice. 6. L. Paladin, Fascismo. Diritto costituzionale, in Enciclopedia del diritto, voi. 16, 1967, pp. 887-902.
7. G. Volpe, Storia del movimento fascista, Milano 1943, p. 137. Sul dibat tito svoltosi nel 1925 attorno alla formula sonniniana del «ritorno allo Sta tuto», si veda R. De Felice, Mussolini il fascista. II. L'organizzazione dello Stato fascista. 1925-1929, Torino 1968, p. 42. 8. P. Ungari, Alfredo Rocco e l'ideologia giuridica del fascismo, Brescia 1963. 9. G. Amato, Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, Milano 1967, pp. 261 sg. Le parole citate nel testo vanno peraltro lette nel qua dro della complessa e sfumata ricostruzione delTAmato, che non è qui il caso di esaminare.
io. G. Carocci, Il Parlamento nella storia d'Italia, Bari 1964, p. ix. li. P. Farneti, Sistema politico e società civile, Torino 1971.
12. N. Tranfaglia, Il deperimento dello Stato liberale in Italia, in « Quaderni sto rici», n. 20, maggio-agosto 1972, pp. 677-702 (poi in N. Tranfaglia, Dallo Stato liberale al regime fascista, Milano 1973, pp. 34-52). 13. Si vedano i saggi, che danno una visione d’assieme delle loro ricerche, pub blicati nel volume di AA.W., Fascismo e società italiana, Torino 1973: G. Rochat, L’esercito e il fascismo, pp. 89-123; G. Neppi Modona, La magi stratura e il fascismo, pp. 126-81. 14. A. A. Mola, Storia dell’amministrazione provinciale di Cuneo dalFUnità al fascismo (1859-1925), Torino 1971. 15. Si veda in particolare il fascicolo speciale n. 18, settembre-dicembre 1971, dedicato appunto a Stato e Amministrazione e, in esso, l’editoriale di A. Ca racciolo e S. Cassese, Ipotesi sul ruolo degli apparati burocratici nell'Italia
22Ó
NOTE liberale, pp. 601-08. Cfr. anche ]’«aggiornamento» di R. Romanelli (a cura di), Stato, Amministrazione, classi dirigenti nell'Italia liberale, nel n. 23,
maggio-agosto 1973, pp. 603-42.
16. G. Carocci, recensione a G. Amendola, La classe operaia italiana, in «Belfagor», XXV, 1970, p. 109. 17. Citato in F. W. Deakin, Storia della Repubblica di Salò, Torino 1963, p. 331. 18. A. Aquarone, L'organizzazione dello Stato totalitario, Torino 1965. 19. Si veda ad esempio il saggio di Paladin, sopra ricordato. E si vedano, nel' l’opera di Deakin anch’essa già citata, affermazioni come quella di p. 40 i - «l’Italia era governata da gruppi di funzionari, non da una classe diri gente» -, la sottolineatura dell’abilità di Bocchini nel tenere la polizia distinta dal pnf (pp. 112-15), e, infine, il giudizio riassuntivo di p. 327: « Il fascismo italiano non era mai riuscito ad essere totalitario e il suo destino alla fine sarebbe stato deciso da quegli organi che per vent’anni avevano gelosamente resistito alla sua penetrazione e al suo controllo: la corte, l’eser cito, la pubblica amministrazione e perfino la polizia». 20. Aquarone è in realtà storico troppo accorto per non avvertire il pericolo di questo « tranello », come egli stesso lo ha definito in un dibattito sul suo libro (cfr. «Il canocchiale», n.s., I, n. 3, rgóó, pp. 85-104). E anche il giurista Paladin, che pure svolge con insistenza la tesi del mancato carat tere totalitario del fascismo, riconosce che la piena realizzazione di quel carattere «rimane in vario senso un’utopia» (Fascismo cit., p. 898). 21. Questa appare la conclusione suggerita con coscienza del paradosso da Ph. V. Cannistraro, Burocrazia e politica culturale nello Stato fascista: il mini stero della Cultura popolare, in «Storia contemporanea», I, 1970, pp. 273-98. 22. I documenti sono citati da Nicola Gallerano in un saggio sul Sud in corso di pubblicazione fra i risultati di una ricerca di gruppo promossa dall’istituto na zionale per la storia del movimento di liberazione in Italia sulla crisi del 1943-44. [Cfr. ora La disgregazione delle basi di massa delfascismo nel Mez zogiorno e il ruolo delle masse contadine, in AA.W., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Milano 1974, pp. 435-96]. Gallerano osserva che «le segnalazioni dei carabinieri sono concordi» nel senso sopra indicato. 23. Sullo spirito delle truppe del Corpo italiano di liberazione combattente sul fronte adriatico si veda la «Relazione dell’ispettorato censura militare del servizio informazioni militari (sim) relativa al mese di settembre 1944», pubblicata da E. Aga Rossi Sitzia in appendice al saggio La situazione poli tica ed economica dell'Italia nelperiodo 1944-43: igoverni Bonomi, in «Qua derni dell’istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza», 1971, n. 2, pp. 128-45. Ivi (PP- 86-88) anche il «Riassunto generale dei rapporti delle regie prefetture per il mese di gennaio» 1945, con un qua dro molto negativo della reazione delle popolazioni ai richiami alle armi.
24. Si veda, ad esempio, l’articolo Fede a un giuramento, pubblicato nel demo cristiano «Il Popolo», edizione romana, il 14 novembre 1943. L’«ufficiale di marina » che lo firma sostiene che il giuramento al re è valido perché « è una promessa fatta liberamente », mentre il giuramento fascista « è assurdo e illecito per lo scopo a cui impegnava. Era strappato alla maggioranza con
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la violenza perché veniva imposto come condizione per guadagnarsi la vita » (ma altrettanto, in realtà, poteva dirsi del giuramento fatto al re). Giova ricordare che il giuramento al duce era stato uno degli obiettivi polemici della enciclica Non abbiamo bisogno di Pio XI: il papa, riconoscendo le diffi coltà di carriera, di pane e di vita, aveva suggerito che i fascisti già tesse rati facessero la riserva mentale «salve le leggi di Dio e della Chiesa» o «salvi i doveri del buon cristiano», «col fermo proposito di dichiarare anche esternamente una tale riserva, quando ne venisse il bisogno»; e aveva chiesto che la riserva fosse introdotta nei giuramenti futuri, «quando non si voglia far meglio, molto meglio, e cioè omettere il giuramento, che è per sé un atto di religione, e non è certamente al posto che più gli conviene in una tessera di partito» (cfr. P. Scoppola, Chiesa e Stato nella storia d’Italia, Bari 1967, p. 673). 25. Ecco, fra i tanti possibili, qualche documento sul tema del giuramento. «L’Italia libera», organo del Partito d’Azione, edizione lombarda, pub blicò il 7 marzo 1944 un articolo di commento al giuramento imposto dalla rsi, Giuramenti falsi e veri, che arrivava a questa conclusione: «O i giura menti sono buffonate ed allora è meglio non farne, 0 sono cose serie ed allora bisogna sapere fin d’ora quali saranno le conseguenze». II fascismo, si legge nel corso dell’articolo, «non ha capito la lezione che s’è avuta dai milioni d’italiani che hanno firmato una tessera che recava un giuramento altamente impegnativo e al momento buono se ne sono scordati (...). A cosa servirà tutta quest’orgia di promesse di fedeltà? Soltanto a creare una nuova massa di spergiuri, a stracciare la coscienza della gente (...). Ma il fascismo è forse spinto da un senso di sadismo nel voler mettere un certo numero d’italiani in una posizione sgradevolissima, nel creare le condizioni per un disagio morale che è ostacolo troppo lieve per tener fede al giura mento ma sufficiente per aumentare il caos nell’Italia di domani»/Di un colonnello dei carabinieri divenuto comandante di formazione gl in Vai-
tellina si legge, in un documento garibaldino, che «ha dichiarato di essere apolitico e di voler mantenere fede al suo giuramento come militare finché il Popolo Italiano in una libera consultazione deciderà una costituzione diversa dalla precedente monarchica e fascista». Al colonnello era stato fatto notare dai garibaldini che «mantenere fede anche adesso ad un giu ramento precedente significa mantenere fede alla monarchia e allo Stato fascista» (lettera del «Comando raggruppamento divisioni e brigate d’as salto Garibaldi» dell’Alta Lombardia alla «Delegazione Comando» e al «Triumvirato insurrezionale» della Lombardia, 3 aprile 1945, in ig, Bri gate Garibaldi, 01335). La pratica del giuramento è documentabile fra i garibaldini; mentre, per il senso del discorso che abbiamo condotto nel testo, vale questa testimonianza di Giovana a proposito di un gruppo, d’ispira zione giellista, che aveva rifiutato il giuramento «perché Io considera un atto contrario al carattere genuinamente volontario della lotta e quindi di maggior tensione morale; inoltre l’esperienza fascista aveva dimostrato la vanità di questi impegni non accompagnati da un’autentica adesione della coscienza ideale, per cui ripugna risuscitarne anche soltanto la formalità» (cfr. M. Giovana, Resistenza nel Cuneese. Storia di una formazione partigiana, Torino 1964, p. 63).
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26. Al servizio dell’Armata tedesca, documento conservato nella biblioteca Forteguerriana di Pistoia, Documenti cln, inserto 2. 27. Si confrontino le parole che l’azionista Franco Momigliano aveva scritto, sotto il nome di Luigi liberti, nell’opuscolo clandestino Le commissioni di fabbrica: lineamenti politici: «crollo dell’intera impalcatura statale», «dis soluzione dell’intera struttura statale» (p. io).
28. Per il discorso di Morandi si veda l’opuscolo Democrazia al lavoro. Una guida per lo sviluppo dei cln sulla via della ricostruzione. 10 congresso dei cln della provincia di Milano, 6 agosto 1945, pp. 38-41 (il discorso è rie dito in R. Morandi, Lotta di popolo. 1937-1945, Opere di R.M., voi. 4, Torino 1958, pp. 138-41). Morandi interveniva su una relazione di Emi lio Sereni, preoccupata della situazione «esplosiva» e tesa alla ricerca dei mezzi per dominarla. 29. Per qualche interessante spunto in questo senso cfr. E. Passerin d’Entrèves, Un recente saggio sui problemi di storia della Resistenza, in «Il Movi mento di liberazione in Italia», n. 79, aprile-giugno 1965, pp. 96 sg.
30- Sono parole usate da N. Matteucci, Problemi e compiti dei sistemi costitu zionali pluralistici, in «Politica del diritto», II, 1971, pp. 224-47 Oa frase citata è a p. 244). Matteucci mi pare tuttavia che compia un’operazione riduttiva quando privilegia questo problema, proprio del costituzionalismo antifascista fra le due guerre, come «il problema vero». 31. Sull’«ideologia dell’autonomismo » (espressione certo logorata dall’uso fat tone dalla pubblicistica successiva alla Resistenza) mi permetto di rinviare a qualche ulteriore osservazione inclusa nella comunicazione su Autono mie locali e decentramento nella Resistenza, che ho presentato al convegno «Stato e Regioni dalla Resistenza alla Costituente» organizzato a Milano il 26-27 ottobre 1973 dalla Regione Lombardia e dall’istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia (gli atti sono in corso di pubblicazione [cfr. ora M. Legnarti (a cura di), Regioni e Stato dalla Resi stenza alla Costituzione, Bologna 1975, pp. 49-65]). 32. Il discorso è giustamente impostato in tal senso da G. Ranzato nel saggio Le collettivizzazioni anarchiche in Catalogna durante la guerra civile spagnola, 1936-1939, in « Quaderni storici », n. 19, gennaio-aprile 1972, pp. 317-38
(le parole citate sono a p. 318). 33- Segnaliamo comunque due spunti interessanti. Emilio Lussu, volendo dimo strare che la «Repubblica presuppone la totale rovina dello Stato fascista (...) [e Io] Stato fascista non si modifica né si adatta», fa l’esempio della Spagna, dove la Repubblica commise appunto l’errore di non distruggere lo Stato preesistente (si veda, a p. 5, l’opuscolo La ricostruzione dello Stato, «Quaderni dell’Italia libera», 1, datato giugno 1943, ma già edito clande stinamente in Francia). Diversamente Franco Venturi, mentre individua nei limiti nazionali le deficienze sostanziali della esperienza spagnola, ne vede la caratteristica fondamentale e positiva nella simbiosi fra vecchia impal catura democratica e nuove forme di autogoverno dal basso (cfr. l’opuscolo Socialismo di oggi e di domani, pubblicato nel dicembre 1943 con lo pseudo nimo di Leo Aldi, «Quaderni dell’Italia libera», n. 17, pp. 24-26).
34. Cfr. H. Michel, Les Courants de pensée de la Résistance, Paris 1962, p. 376.
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35. Si veda ad esempio il progetto di costituzione elaborato da Charles Dumas e approvato dal Comitato esecutivo clandestino del Partito socialista: in esso si tenta una conciliazione fra la difesa del parlamentarismo tradizio nale e l’esigenza di una maggiore stabilità dell’esecutivo. Quanto ai comu nisti, ci fu chi reagì a un tipo di polemica che - presente Vichy - poteva divenire ambiguo: così Grenier disse il 27 gennaio 1944 all’Assemblea con sultiva di Algeri che «ce n’est pas la faiblesse du pouvoir exécutif qui est la raison de nos malheurs; c’est la corruption de l’exécutif et des Assem bles élues», e il.male, aggiunse, «est venu du défaut de contróle des élus sur le Gouvernement et des électeurs sur les élus ». (Sulle decisioni prese ad Algeri si confronti la severa critica espressa da «Un comunista», in «La Nostra Lotta», aprile 1944, pp. 12-14: Gli organi di potere in Francia dopo la liberazione e le riserve del partito comunista). Nel complesso, mi pare che la posizione del pcf sia abbastanza bene sintetizzata da Michel quando scrive che « activistes pour le combat, les communistes sont attentistes en politi que»: dove però non deve intendersi la politica tout court, ma soprattutto quella di progettazione istituzionale ed economica (per i riferimenti fatti sopra cfr. Michel, Les courants cit., pp. 516-18, 694, 683). 36. Cfr. ibid., p. 384. Si veda anche, in generale, H. Michel et B. MirkineGuetzevitch, Les Idées politiques et sociales de la Resistance (Documents clandestins, 1940-1944), Paris 1954, soprattutto il capitolo 12, Quelques projets de constitution. yi. Cfr. C. De Gaulle, Nlémoires de guerre, II, L’Unité, 1942-1944, Paris 1956,
p. 303. Il brano va letto alla luce di quest’altra affermazione del generale: «C’est moi qui détiens la légitimité» {ibid., p. 321). 38. Le citazioni sono tratte dagli opuscoli 11 problema istituzionale («Movimento liberale italiano», n. 6, 15 ottobre 1943), p. 16, e Primi chiarimenti (id., n. 1, i° maggio 1943), p. 18 (il secondo opuscolo è opera di Niccolò Carandini, stando a quanto si legge in « Risorgimento liberale », edizione setten trionale, novembre-dicembre 1944). Un altro opuscolo, questo di liberali settentrionali, chiede a sua volta un governo forte e stabile allo scopo di eliminare «sterili o loschi giochi parlamentari» e spinge il suo esorcismo del regime assembleare fino a sostenere che le Camere debbono collabo rate col governo nell’opera legislativa e controllarlo politicamente, ma non debbono governare o « imporre esse l’indirizzo politico al Governo », ridu cendolo a «un semplice comitato esecutivo di maggioranze parlamentari variabili e infide» {La Riforma costituzionale, Collana di studi politici, I, p. 4). Con maggiore equilibrio, Einaudi chiedeva uno stabile potere esecu tivo «fornito di tutti i mezzi d’azione i quali siano compatibili con la rigida osservanza della costituzione », e insieme un parlamento « atto a promuo vere ed efficacemente controllarne l’operato» {Lineamenti di un programma liberale, p. 1). Tornando sull’argomento in un articolo scritto per la «La Nuova Europa» del 31 dicembre 1944, Governo parlamentare e presiden ziale, Einaudi sosterrà che la evoluzione va «verso un avvicinamento sem pre maggiore fra i due tipi di governo» (cfr. L. Einaudi, Il Buongoverno, Bari 1954, pp. 85-92). 39. Cfr. Atti e documenti della Democrazia Cristiana, 1943-1967, a cura di
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A. Damilano, Roma 1968, p. 2. Le Idee ricostruttive, com’è noto, sono dovute largamente alla penna di De Gasperi e comparvero semiclandestinamente durante i quarantacinque giorni badogliani.
40. «Quaderni di Democrazia», 1 (cfr. p. 5). 41. Una formulazione molto netta di questo ruolo attribuito al Partito d’Azione soprattutto dalla sua ala «consiliare» può leggersi nell’opuscolo che Vitto rio Foa scrisse nel marzo 1944 con Io pseudonimo di Carlo Inverni, I partiti e la nuova realtà italiana (la politica del cln), « Quaderni dell’Italia libera », n.s., 1. Si veda ad esempio la p. 59: il Partito d’Azione potrà svolgere le sue funzioni di partito nuovo soltanto se la rivoluzione «imporrà una riforma di tutti i partiti ed una riforma dello istituto stesso del partito politico nei suoi rapporti con le masse». Cfr. anche l’«Italia libera», edizione setten trionale, 30 settembre 1944, articolo La democrazia e i partiti politici.^ 42. La richiesta è contenuta nel primo dei «sette punti» programmatici com parsi sul primo numero dell’«Italia libera» clandestina, gennaio 1943 (ora si possono leggere in E. Aga Rossi, Il movimento repubblicano. Giustizia e libertà e il partito d’Azione, Bologna 1969, pp. 174-77). 43. Così la linea è caratterizzata da P. Ungati, «Lo Stato moderno»: per la sto ria di un'ipotesi sulla democrazia, in AA.W., Studi per il ventesimo anniver sario dell’Assemblea costituente, voi. 1, Firenze 1969, pp. 841-68 (le parole citate sono a p. 862). Le simpatie di Ungati vanno tutte a questa linea, considerata l’unica modernamente realistica. Ci sarebbe in verità da osser vare che la linea della riforma razionalizzatrice e «moderna» dello Stato italiano non si sarebbe poi dimostrata molto più praticabile dell’istanza consiliare-libertaria e/o giacobina; mentre lo sbocco concreto che se ne lasciava (e se ne lascia) intravedere non era (e non è) tranquillizzante. Ungati cita ad esempio a p. 863 l’articolo De Gaulle e la crisi della democrazia, scritto dal direttore di «Lo Stato moderno», Mario Paggi, il 20 aprile 1947, nel quale si parla del «grande tema della dignità dello Stato (...) abbando nato dalla democrazia e ripreso da De Gaulle, e che è certo una delle sue carte più cospicue, se la lezione non sarà avvertita in tempo dai partiti».
44. «L’Opinione», foglio liberale piemontese, riportava ad esempio il 15 gen naio 1945 ampi stralci del commento che il «Risorgimento liberale» di Roma aveva fatto (Punto morto) della crisi di passaggio dal primo al secondo governo Bonomi. Il giornale romano era stato molto aspro verso le sinistre e aveva proclamato la necessità di «restaurare l’autorità dello Stato». « L’Opinione » approvava; ma aveva cura di osservare che i liberali romani «non precisano che cosa sia, che cosa voglia essere e in qual modo ricreato e assicurato debba accettarsi questo Stato. Può dunque aver ragione chi intravede il pericolo di rinascita del vecchio Stato autoritario, manovrato con leve prefettizie» (per l’ostilità ai prefetti dell’ala liberale einaudiana, cfr. p. 154). 45. Fra i molti esempi dell’esplicito o implicito richiamo, anche da sinistra, all’ordinamento prefascista ne ricordiamo alcuni ricavabili da documenti non dei vertici partitici, che ci sembrerebbero meno significativi ai fini di questa parte del nostro discorso. Promuovendo la nascita della giunta popolare comunale di Gallo d’Alba il «delegato civile» della VI divisione
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Garibaldi «Langhe» parlava della «ripresa da parte del popolo di quel potere di amministrazione che il fascismo gli aveva strappato e dal quale lo aveva tenuto lontano per 22 anni e più»; in analoga occasione, nel comune di Niella Belbo, il delegato annunciava il «ritorno alle forme democratiche della vita popolare ed amministrativa dei nostri comuni». II comando della III divisione Garibaldi Lombardia (Oltrepò pavese) stabiliva che «la Giunta comunale deve essere eletta con votazione segreta diretta, applicando le norme stabilite prima delle leggi eccezionali che misero nella illegalità tutte le organizzazioni e le-istituzioni statutarie italiane». (I documenti citati si trovano in ig, Brigate Garibaldi, 05547, 05568, 01420: i primi due sono «relazioni di attività» in data rispettivamente 21-22 ottobre e 5 novem bre 1944; il terzo è una circolare del 17 settembre 1944 «ai comandi delle brigate dipendenti»). Naturalmente, si potrebbero citare anche documenti di diversa intonazione: ad esempio, alla Giunta amministrativa di Montefiorino i comunisti volevano preporre un « commissario del popolo », i cat tolici un sindaco. Prevalsero i cattolici, che si richiamarono «alla legisla zione vigente fino al 1921 »: cfr. E. Corrieri, La Repubblica di Montefiorino. Per una storia della Resistenza in Emilia, Bologna 1966, pp. 359 sg. Ma il punto non sta nell’intentare un processo alla coerenza innovatrice delle sini stre (in questo caso, dei comunisti) bensì nel richiamare l’attenzione sulla complessità di un moto nel cui seno operavano spinte non omogenee. 46. Cfr. quanto scrive Guido Quazza, secondo il quale la genericità della for mula « democrazia progressiva » denuncia « quello che è forse il più grave limite di tutta la politica delle sinistre nella Resistenza e nel dopoguerra: l’assenza di una discussione sullo Stato, sul suo rapporto con la nuova società, sulle sue istituzioni quale espressione di una democrazia “proletaria”» (G. Quazza, Storia del fascismo e storia d'Italia, in AA.W., Fascismo e società italiana cit., pp. 3-43; le parole trascritte sono alle pp. 37 sg.). 47. Così si esprimeva «La Nostra Lotta» il 20 marzo 1945 (Tutti in campo per l’insurrezione nazionale liberatrice: rapporto politico presentato alla riu nione allargata della Direzione per l’Italia occupata del Partito Comunista Ita liano, 11-12 [marzo] 1965', cfr. p. 19). Il rapporto fu svolto da Luigi Longo.
48. Perché i comunisti lottano oggi in Italia per una democrazia progressiva, in «La Nostra Lotta», i° gennaio 1945, p. 6. L’articolo, chiaro e didasca lico, è dovuto alla penna di Eugenio Curiel; è ora ristampato in E. Curiel, Scritti 1935-1945, a cura di F. Frassati, voi. 2, Roma 1973, pp. 173-77. 49. Risposta critica al Commissario divisionale della 2a Divisione «F. Cascione », Sezione Agitazione e Propaganda, il quale in una circolare del 3 novembre 1944 aveva raccomandato ai commissari di illustrare le «teorie più comuni e correnti del mondo politico moderno ». Simon aveva coscienza dei gravi equivoci che potevano nascere, perché polemizzava anche contro coloro che interpretavano lo spirito unitario come apoliticità (il documento è conservato in ISMLI, Brigate Garibaldi, b. 149, fase. 3).
50. Problemi di oggi (discussione sul rapporto politico presentato alla conferenza dei Triumvirati insurrezionali), in «La Nostra Lotta», i° gennaio 1945, pp. 9-13: uno dei paragrafi dell’articolo si intitola appunto Democrazia pro gressiva 0 dittatura proletaria? e risponde a domande poste da militanti mila-
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nesi. Si confronti un Rapporto della commissione organizzativa della federa zione milanese sulle riunioni tenute per discutere il rapporto del partito, fir
mato il 21 novembre 1944 dalla Commissione organizzativa federale, dove si riferisce che al primo posto fra le richieste di ulteriori chiarificazioni for mulate dai compagni figurano la democrazia progressiva e la dittatura del proletariato (ismli, clnai, b. 6, fase. 2, s. fase. 4). Ed ecco come il pro blema veniva posto in un Questionario per la base preparato dal Comando Brigata SAP Garibaldi «F. Ghinaglia», Cremona: «Quali sono gli organi di potere del popolo alla quale [sic] noi dobbiamo creare e dar vita attra verso la lotta in difesa delle necessità immediate del nostro popolo (in sosti tuzione dei vecchi organismi amministrativi e politici fascisti) alla quale [sic] sono alla base della democrazia progressiva ». Una precedente domanda dello stesso questionario chiedeva «perché si lotta oggi per una Democra zia Progressiva e non Sovietica, che cosa intendiamo noi per Democrazia Progressiva». (Il Questionario è allegato a una relazione del Commissariato in data 9 febbraio 1945 ed è conservato in IG, Brigate Garibaldi, 011273). 51. Si veda l’articolo La classe operaia classe di governo comparso su « La Nostra Lotta», il 30 settembre 1944, pp. 12-14, e ripubblicato poi - evidente mente per l’importanza che gli si attribuiva - come supplemento a « [’Unità » sotto la data del 31 ottobre. «Vero è - si legge nell’articolo che Marx, Engels, Lenin, Stalin ci hanno insegnato che la classe operaia (...) non può limitarsi a impadronirsi della macchina dello Stato borghese, ma deve spezzarla. Ma chi volesse applicare meccanicamente questo inse gnamento come uno schema per i problemi che la classe operaia deve oggi affrontare e risolvere, dimostrerebbe solo di non intendere nulla di quella inesauribile originalità della storia che proprio i maestri del marxismo rivo luzionario hanno sempre affermato» (cfr. pp. 13 sg.). 52. «A chi ci chiede cosa faremo dopo il periodo insurrezionale - rispondeva Luigi Longo in «La Nostra Lotta», 20 maggio 1945, Tutti in campo cit., p. 19 - la nostra risposta è semplice: ci rimetteremo per tutto alle deci sioni dell’Assemblea Costituente». Nell’articolo vi sono molti riferimenti al discorso tenuto da Togliatti al teatro La Pergola di Firenze il 3 ottobre 1944. 53. Cfr. Ristuccia (a cura di), Queste istituzioni cit., pp. 19 e 25 (la seconda delle formule citate è di Rudi Dutschke).
54. Cfr. in proposito L. Cafagna, Note in margine alla «Ricostruzione», in «Gio vane critica», 37, estate 1973, pp. 1-12. 55. Mi riferisco alla comunicazione fatta da Ragionieri al già ricordato conve gno milanese del 26-27 ottobre 1973 (cfr. supra, nota 31). Si veda anche quanto era stato da lui scritto nelle ultime pagine del saggio II partito comu nista, in L. Valiani, G. Bianchi ed E. Ragionieri, Azionisti, cattolici e comu nisti nella Resistenza, Milano 1971. 56. Esemplari al riguardo alcuni scritti di Vittorio Foa: il già ricordato opu scolo Jpartiti e la nuova realtà italiana, e l’articolo di commento al programma del Partito d’Azione comparso nel n. 4, novembre-dicembre 1944, dei «Nuovi Quaderni di Giustizia e Libertà», pp. 134-43. In questo secondo scritto Foa chiede che il movimento dei CLN venga esteso dal Nord al Sud
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«nelle sue forme nuove dell’autonomia degli organi di base e non nella sua forma attuale di coalizione di partiti» (cfr. p. 142).
57. Si vedano, in generale, gli scritti di Morandi raccolti nel citato volume Lotta di popolo.
58. Rinviamo a: F. Catalano, Storia delclnaj, Bari 1956, soprattutto pp. 218 sg.; P. Secchia e F. Frassati, La Resistenza e gli Alleati, Milano 1962, soprat tutto la parte III (La prima missione nel Sud)-, Il Governo dei cln. Atti del Convegno dei Comitati di liberazione nazionale. Torino 9-10 ottobre 1965,
Torino 1966, soprattutto la relazione di E. Volterra, Il problema giuridico, pp. 125-46. Il Volterra batte entrambe le piste circa il fondamento giuri dico dei Cln: egli dà credito alla legittimazione formale del clnai da parte del governo di Roma e nello stesso tempo afferma che l’attività dei cln fu «di per sé legittima», data la eccezionalità della situazione e il dovere di farvi fronte.
59. Cfr. l’articolo Chiarificazione, comparso su «Politica di classe» nel gennaio 1945 (ora in Lotta di popolo cit., pp. 103-7). L’articolo illustra con molta chiarezza il «grosso e pericoloso equivoco» nato dalla delega. 60. Una formulazione estrema del rapporto di preminenza dei cln rispetto al governo la possiamo trovare - oltre che nella parola d’ordine «Tutto il potere ai Comitati di liberazione nazionale! » che campeggia in testa all’in tera prima pagina dell’«Avanti! », edizione romana, del 26 febbraio 1944 e che sarà poi più volte ripetuta dai socialisti - in un articolo di fondo, Guerra, governo e popolo, pubblicato sull’«Italia libera», edizione setten trionale, il 19 giugno 1944. Descritta la diffusione a tutti i livelli dei CLN, l’articolista cosi concludeva: «Tutti questi organismi sono la sola auten tica rappresentanza del popolo italiano fino alla Costituente. Il governo resta come organo esecutivo, munito di larghi poteri date le circostanze, ma pur sempre un organo esecutivo ». Contra, si veda il « Risorgimento libe rale», edizione romana, 5 gennaio 1944, articolo La politica del Comitato di liberazione: «Il comitato che collega i sei partiti dell’antifascismo ita liano non è un comitato di salute pubblica, né si propone di trasformarsi in una oligarchia». 61. Articolo di fondo Per la solidarietà tra i partiti, nel numero dell’ottobre 1944. 62. Si veda l’opuscolo II Partito socialista e la crisi ministeriale (novembre 1944), Biblioteca «I documenti nel Partito», 2, pp. 28 sg.
63 L’articolo di «La Nostra Lotta», comparso nel fascicolo del maggio 1944, pp. 6-8 (Il Governo di Unione Nazionale è il governo di tutti gli italiani) è interessante perché vi coesistono, con reciproche sfumature, entrambe le accentuazioni sopra tratteggiate (accentuazioni di una stessa linea, non linee diverse). L’insistenza sull’«appoggio che oggi si deve dare al Governo» diven tava poi nell’articolo argomento critico verso chi restava sull’Aventino della discussione sui programmi futuri (si ricordi quanto abbiamo ricordato poco sopra). L’articolo è di Eugenio Curiel ed è ristampato in Curiel, Scritti cit., pp. 80-84. 64. Si veda l’articolo Nascita di una nuova democrazia, in «La Nostra Lotta», io luglio 1944, p. 6.
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65. Così si esprimeva la lettera aperta del Partito comunista in risposta a quella del Partito d’Azione (cfr. infra, nota 84). La lettera è pubblicata in «La Nostra Lotta», 15 dicembre 1944, pp. 7-12 (le parole citate sono a p. 8). La formula «comitati di liberazione nazionale di massa» compare frequen temente sia negli ultimi numeri di «La Nostra Lotta» (si vedano ad esem pio gli articoli Per il rafforzamento del lavoro dei cln di massa nel fascicolo del 10 febbraio e I cln di massa quali organi dell’insurrezione in quello del 20 febbraio 1945) che nelle direttive di partito ai comandi partigiani (si veda ad esempio la lettera dei «compagni responsabili» ai «compagni respon sabili della II Divisione Garibaldi Piemonte», ió dicembre 1944: ig, Bri gate Garibaldi, 04814 [ora in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Docu menti, voi. 3, a cura di C. Pavone, Milano 1979, pp. 98-102]). 66. Il 30 agosto e il 16 ottobre 1944 il clnai emanò due decreti sulla rappre sentanza nei cln del Fronte della gioventù e dei Gruppi di difesa della donna (cfr. Documenti ufficiali del Comitato di liberazione nazionale per l'Alta Ita lia, Milano 1945, pp. 47 sg.). 67. Sull’atteggiamento di Morandi rinviamo ad A. Agosti, Rodolfo Morandi: il pensiero e l'azione politica, Bari 1971, soprattutto le pp. 380-91. 68. Il Gorrieri insiste ad esempio più volte sull’incapacità del cln di Modena di dirigere veramente la lotta, specie nell’inverno del 1944. Quello che non faceva il comitato, faceva direttamente il PCI (Gorrieri, La repubblica di Montefiorino cit., passim). Si consideri anche questo ammonimento che il comando della I divisione Garibaldi «Antonio Gramsci» inviò il 19 novem bre 1944 al commissario politico della 6a brigata: «Bisogna fare attenzione di non cadere nel formalismo, ricercando elementi di partiti politici inesi stenti nella località» (ig, Brigate Garibaldi, 06990).
69. La lettera è firmata da Orel, comunista, che lamenta dover fare tutto da solo, nel partito come nel cln (ismli, clnai, b. 7, fase. 2, s. fase. 11). 70. «Mentre la creazione degli organismi di massa facilita i nostri compiti e ci porta un valido aiuto, il cln di Biella e forse anche il Comando militare biellese per volere tutto accentrare ci ostacola il nostro lavoro » (« Rapporto sull’attività del commissariato » inviato dalla 50® brigata « Nedo » al comando della V divisione d’assalto Garibaldi «Piemonte», 27 settembre 1944, in ig, Brigate Garibaldi, 05222). 71. La lettera che il comandante della divisione «Cascione», Curto, inviò all’ispet tore delle brigate Garibaldi, Simon, il 28 luglio 1944 è, ad esempio, per vasa da spirito polemico contro coloro che criticano chi opera ma «se ne restano a casa e non accettano responsabilità» (ig, Brigate Garibaldi, 010068 [ora in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, voi. 2, a cura di G. Nisticò, Milano 1979, pp. 168 sg.]). 72. Il Bernardo, che dà molte testimonianze della reciproca diffidenza fra cln provinciale e garibaldini, racconta in particolare della delusione provata da coloro che venivano in montagna con la goffa aspettativa di trovarvi una zona protetta dai carri armati: «Il motivo di tutto ciò - egli spiega stava nella assoluta superficialità degli elementi politici che costituivano i cln, i quali inviavano in montagna degli uomini affatto impreparati alla guerriglia e spesso negati all’antifascismo militante. Per questo molti par tigiani di base guardavano con diffidenza i nuovi venuti, quasi fossero degli inetti o, peggio, delle spie del fascismo, e consideravano i membri dei cln dei
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sabotatori del movimento» (M. Bernardo, Il momento buono. Il movimento garibaldino bellunese nella lotta di liberazione del Veneto, Roma 1969, p. 34). Un’eco di queste tensioni si riscontra ancora nella polemica svol tasi nel 1967 fra Leo Valiani e Mario Giovana: cfr. L. Valiani, Sulla storia sociale della Resistenza, in «Il Movimento di liberazione in Italia», n. 88, luglio-settembre 1967, pp. 87-92 e Lettere alla direzione, ivi, n. 89, ottobredicembre 1967, pp. 125-29. 73. Cfr. M. Legnarti, Politica e amministrazione nelle repubblichepartigiane. Studio e documenti, Milano 1967, con ampia bibliografia. Si veda anche la comu nicazione presentata dallo stesso Legnani e da Gaetano Grassi, Il Governo dei cln, al già ricordato convegno «Stato e Regioni dalla Resistenza alla Costituente» [cfr. ora G. Grassi e M. Legnani, Il governo dei CLN, in M. Legnani (a cura di), Regioni e Stato cit., pp. 69-85]. 74. IG, Brigate Garibaldi, 06166. La lettera fu scritta da Secchia: vedila ora edita in P. Secchia, Il Partito comunista italiano e la guerra di liberazione, 1943-1945, «Annali» dell’istituto Giangiacomo Feltrinelli, XIII, 1971,
PP- 5i9-2575. Rinviamo, per tutti, a C. Francovich, La Resistenza a Firenze, Firenze t96r, e a La Resistenza e gli Alleati in Toscana. I cln della Toscana nei rapporti col Governo militare alleato e col Governo dellTtalia liberata, atti del I con vegno di storia della Resistenza in Toscana (Firenze, 29 settembre -1 ° otto bre 1963), con bibliografia, Firenze 1964. 76. L’articolo comparve nel «Times» il 25 ottobre (Building a New Italy. The Realistic Spirit of Florence. Experiment in Selfhelpp, fu ripubblicato tradotto dall’«Italia libera», edizione settentrionale, 20 dicembre 1944 (dalla quale citiamo), col titolo Da Roma a Firenze: dalla sterile diplomazia alla demo crazia costruttiva. Su di esso si vedano le notizie che dà E. Roteili, L’av vento della regione in Italia dalla caduta del regime fascista alla Costituzione repubblicana (1943-1947), Milano 1967, pp. 36 sg.
77. Articolo Dei comitati di liberazione, in «Corriere del mattino» (Firenze), 6-7 maggio 1945. In esso Calasse parlava di una «macchina statale invec chiata » che « era andata in frantumi » (cito dagli Scrìtti politici di Calasso, in corso di edizione a cura di R. Abbondanza e M. Caprioli Piccialuti, che qui ringrazio [cfr. ora F. Calasso, Cronache politiche di uno storico (1944-1948), a cura di R. Abbondanza e M. Caprioli Piccialuti, Firenze, I975> PP- 47-5°])78. Mario Delle Piane, commentando le risposte ad un questionario inviato ai protagonisti sopravvissuti in occasione del ricordato convegno sui CLN toscani, osserva che è una «costante» l’affermazione che «i rapporti fra cln e governo italiano siano stati peggiori di quelli fra cln ed Alleati» (cfr. La Resistenza e gli Alleati in Toscana cit., p. 286). 70. Sono parole - pronunciate con la cautela di farle precedere da un «a volte » - che si leggono nella relazione svolta da Morandi ad un convegno milanese dei primi di giugno 1945 (cfr. Verso il Governo di popolo: I conve gno dei cln regionali dell'Alta Italia, 6- 7 giugno 1943, a cura della Segrete ria generale del CLNAI, p. 16. Il discorso di Morandi è ristampato in Morandi, Lotta di popolo cit., pp. 128-33). 80. Un caso francamente grottesco è quello di Ragusa, dove il presidente del CLN lamenta che i carabinieri si rifiutano di «fornire le informazioni ri
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chieste dal cln provinciale non essendo questo compreso nella tabella an nessa al regolamento organico deU’Arma dei Reali Carabinieri » (as Ragusa, CLN, b. 1, fase. 2, verbale n. 21, del 14 settembre ^45). Si può ricor dare anche il caso di Avella, denunciato dalla Giunta esecutiva nata dal congresso di Bari in una lettera al CLN di Napoli del 7 marzo 1944: in quel piccolo comune della provincia di Avellino « alcuni esponenti del CLN (...) si rifiutarono di ricevere dalle mani del popolo le chiavi del Muni cipio» e il cln «si rifugia sotto la protezione dei Reali Carabinieri, i quali alla beffa aggiungendo il danno, ne arrestano i componenti » (ISMLI, Carte Calace, b. 1, fase. 2).
81. Circolare n. 2139 del 27 aprile 1944, interpretativa del R.D.L. 4 aprile 1944, n. in, «Norme transitorie per l’amministrazione dei comuni e delle province», citato in G. Giarrizzo, Sicilia politica 1943-1945. La genesi dello statuto regionale, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», LXVI, 1970, PP- 37 sg82. G. Andreotti, Concerto a sei voci. Storia segreta di una crisi, Roma 1945, pp. 63-67. Tutto il libro è pervaso da diffidenza verso i CLN, considerati « un pericolo grave per la rinascita democratica dell’Italia ed un mezzo che può essere sfruttato per tentativi rivoluzionari» (p. 8).
83. Cfr. ibid., p. 66. Nello stesso articolo «La Punta» prende netta posizione contro un Fronte della gioventù unitario, che andrebbe a tutto vantaggio dei comunisti: si ricordi la richiesta del PCI di inserire nei CLN gli organismi di massa - quali appunto il Fronte della gioventù e i Gruppi di difesa della donna -, che i giovani democristiani definiscono tipici dei regimi totalitari, in quanto appunto «unitari» e «di massa».
84. E questa la formula usata da Roberto Battaglia, che per primo richiamò l’attenzione sulla importanza del dibattito politico e ideologico svoltosi fra i partiti del clnai in seguito all’iniziativa assunta dal Partito d’Azione con la sua lettera del 20 novembre 1944 (si veda R. Battaglia, Storia della Resi stenza italiana, nuova ed., Torino 1964, pp. 499-513). La lettera del Par tito d’Azione fu scritta da Foa, Lombardi, Altiero Spinelli e Valiani: cfr. L. Valiani, Il problema politico, in II governo dei cln cit., p. 114. Per la lettera del pci cfr. supra, nota 65. Le lettere della oc, del pli, del psiup furono in realtà elaborate a Roma, nella nuova situazione creata dalla crisi che aveva condotto al secondo governo Bonomi (cfr. R. Lombardi, Iproble mi politici della Resistenza, in AA.W., Fascismo e antifascismo (1936-1948). Lezioni e testimonianze, Milano 1962, pp. 540 sg.). La lettera della oc fu pubblicata il 28 febbraio 1945 su «Il Popolo», edizione settentrionale, donde citiamo. 85. L’osservazione mi è suggerita da Carocci, che però la svolge accentuando, in quel passo, il significato democratico della posizione cattolica (cfr. G. Carocci, Giolitti e l’età giolittiana, Torino 1961, p. 103). 86. La propaganda della Democrazia Cristiana verso i contadini, a nord e a sud della Linea gotica, è piena di garanzie contro la temuta statizzazione della terra. «Lavoratori della terra - diceva ad esempio un manifesto dif fuso nel regno del Sud - temete come il peggiore dei mali lo Stato pa drone, lo Stato parassita; sbarrate la strada alla espropriazione stata le della terra!» (citato da N. Gallerano [in La disgregazione delle basi di massa cit., nota 22]).
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87. Riprendo le parole di un articolo, Sinistra, pubblicato dal giornale romano dei giovani democristiani, «La Punta», il 15 aprile 1944. 88. Si veda, come esempio di una situazione di punta, la testimonianza di Ric cardo Lombardi sul suo rifiuto di riconoscersi investito della carica di pre fetto di Milano dall’AMG anziché dal cln (cfr. AA.VV., La Resistenza in Lombardia. Lezioni tenute nella sala dei congressi della provincia di Milano, febbraio-aprile 1965, Milano 1965, p. 262).
89. Possiamo qui appena ricordare che i cln avevano subito un altro scacco di rilievo nella questione della Consulta. Di questa era stato dato l’annun cio già nel programma del governo di Salerno, che ne prevedeva la costitu zione «in contatto con i comitati di liberazione» (cfr. Volterra, in II governo dei clncit., p. 134). «La Nostra Lotta», maggio 1944 (articolo II Governo di Unione Nazionale cit., p. 6), aveva parlato della «parte preponderante» che i cln avrebbero avuto nella Consulta. Di fatto, il dll 5 aprile 1945, n. 146, che infine la istituì, prescisse dai cln. Si veda, fra le proteste, quella della direzione politica del Partito d’Azione, sezione di Firenze, del 2 aprile 1945 (sta in «Partito d’Azione. Bollettino per gli iscritti», nn. 3-4, febbraiomarzo 1945).
90. «Non voglio dire che ci siano venute delle tentazioni antiunitarie, ma in qualcuno, e in qualche momento, il pensiero che potesse convenire di pro rogare la separazione, devo dire che c’è stato»: così Parri al II congresso internazionale di storia della Resistenza europea, svoltosi a Milano nel marzo 1961 (cfr. AA.W., La Resistenza europea e gli Alleati, Milano 1962, p. 314). 91. Interessanti elementi sono stati forniti, al riguardo, dalla già citata comu nicazione di Grassi e Legnani al convegno milanese su «Stato e Regioni dalla Resistenza alla Costituente» [cfr. supra, nota 73]. 92. L’ordine del giorno è riportato da Andreotti, Concerto a sei voci cit., PP- 7° sg. e da M. Bendiscioli, La Resistenza: aspetti politici, in A. Garosci e altri, Il Secondo Risorgimento, Roma 1955, p. 355. Funzioni consultive «accanto ai prefetti» erano riconosciute dall’ordine del giorno, fino alle elezioni amministrative, ai cln provinciali e comunali. Gli altri cln peri ferici «là dove esistono» avrebbero dovuto essere «ricondotti al loro carat tere esclusivamente politico». 93. La mozione rivela lo sforzo di Morandi di compensare la sostanza della mera consultività con affermazioni che lasciassero aperto un discorso più ampio. I cln erano infatti definiti «organi consultivi dello Stato democra tico » ma anche di « direzione politica della rinascita nazionale »: essi « sino alle libere consultazioni elettorali ed alla Costituente, saranno i soli orga nismi completamente idonei alla rappresentanza della volontà popolare di radicale rinnovamento della vita e del costume politico italiano e centri propulsori di ogni iniziativa che sia rivolta alla ricostruzione del Paese e alla preparazione del nuovo Stato» (Verso il Governo di popolo cit., p. 72). 94. Vedine il testo in Aga Rossi, Il movimento repubblicano cit., pp. 243-48 (le parole citate sono a p. 245). 95. Si veda Verso il Governo di popolo cit., pp. 26 sg. Sui commissariati tecni ci, cfr. la proposta di loro istituzione contenuta nei «Lineamenti di un’ammi-
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Distrazione provvisoria in Lombardia (...) compilati dalTaw. Achille Mocchi nel periodo clandestino per incarico del clnai e del cln Regionale di Lom bardia» (in as Genova, cln, b. 2, fase. 3).
96. Per il rapporto di Sereni al congresso del 6 agosto si veda Democrazia al lavoro cit., pp. 7-37. Il già ricordato rapporto Tutti in campo per l’in surrezione nazionale, aveva messo in guardia contro anche solo «la par venza di alcun separatismo, di una qualsiasi autonomia o indipendenza da parte di nessun cln»: se il governo centrale non soddisfa, «deve essere modificato per le vie normali per cui si modificano i governi e non già con atteggiamenti e manovre che possono avere significato scissionistico e recare, perciò, pregiudizio alla unità e alle sorti immediate della Patria» («La Nostra Lotta», 20 marzo 1945, p. 18). 97. Cfr. I Comitati di liberazione nazionale nella lotta contro ilfreddo, la fame ed il terrore fascista, in «La Nostra Lotta», i° gennaio 1945, p. 3.
98. Sull’atteggiamento comunista valutato nel suo complesso va ricordata que sta testimonianza di Amendola: «Dopo la Liberazione crebbero in tutto il movimento operaio, anche nel Partito comunista, non vogliamo nascon derlo, la tendenza ad ammettere come inevitabile la dissoluzione dei cln, ed a puntare tutte le carte nel gioco elettorale da cui non potevano, in quelle condizioni, che venire amare delusioni, che non mancarono». Poco prima Amendola aveva giustificato la «mancata elaborazione di un pro gramma di rinnovamento » da tante parti lamentata, non solo con la preoc cupazione di non accrescere i motivi di contrasto fra i partiti del cln, ma facendo soprattutto appello a quanto aveva critto Curiel sulla demo crazia progressiva come «metodo per la soluzione dei problemi politici e sociali quali attualmente si pongono più che cabier de revendications» (si veda G. Amendola, La lezione dei cln, in «Rinascita», 24 aprile 1965). 99. L’intervento di Togliatti è in Democrazia al lavoro cit., pp. 42-46. eoo.
Si veda la Dichiarazione della Direzione centrale della dc, 8-9 maggio 1945, in Atti e documenti della Democrazia Cristiana cit., p. 157.
eoi.
Cfr. Verso il Governo di popolo cit., pp. 57-58. A distanza di quasi trent’anni, nel convegno citato a nota 31, Valiani, con evidente forzatura, ha affermato tout court il carattere intrinsecamente regionalistico della Resistenza.
[02. Rinviamo all’attenta ricerca di E. Roteili, L’avvento della regione in Ita lia, già citata (si veda in particolare il giudizio espresso a p. 178) e agli Atti del convegno ricordato alla nota precedente. [03. Cfr. Verso il Governo di popolo cit., pp. 21, 27 sg. [04. La definizione più elementare della spartizione del mondo e delle conse guenze che ne discendevano la diede Stalin conversando con Tito e Gilas nel 1945: «Questa guerra è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupa un territorio vi impone anche il suo sistema sociale. Ciascuno impone il suo sistema sociale, fin dove riesce ad arrivare il suo esercito; non potrebbe essere diversamente» (M. Gilas, Conversazioni con Stalin, Milano 1962, p. 121).
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105. Si veda in merito E. Aga Rossi, La politica degli Alleati verso l'Italia nel 1943, in «Storia contemporanea», III, 1972, pp. 847-95, e il saggio di Gallerano citato [cfr. supra, nota 22]. Ambedue questi autori ricordano le parole pronunciate da Churchill alla Camera dei Comuni il 27 luglio 1943 : « Sarebbe un grave errore da parte delle potenze liberatrici, Inghil terra e Stati Uniti, nel momento in cui la situazione italiana è in questa condizione aperta, fluida, agire in modo da abbattere e distruggere l’in tera struttura ed espressione dello Stato italiano ». Rinviamo, in generale, a N. Kogan, L’Italia è gli Alleati, Milano 1963, e, per l’aspetto più stret tamente amministrativo, a C. R. S. Harris, Allied Military Administration of Italy, London 1957. 106. Sono parole di Churchill in una lettera a Roosevelt del 5 agosto 1943: «Non è rimasto nulla tra il re e i patrioti che si sono schierati attorno a lui e che hanno il completo controllo della situazione, e il bolscevismo rampante » (cfr. W. Churchill, La seconda guerra mondiale, parte V, voi. 1, La campagna d’Italia, Milano 1951, p. in). 107. Questo atteggiamento fu proprio soprattutto del Partito d’Azione; ed è facile scorgerne i nessi con l’obiettivo della rivoluzione democratica in Italia e in Europa. Fra le molte testimonianze scegliamo questa, tratta da «La libertà. Periodico toscano del Partito d’Azione. Italia libera», 30 aprile 1944, articolo II Partito d’Azione nella lotta per la democrazia ita liana, dedicato, come tutto il numero, alla formazione del governo di Salerno: «Continuità dello stesso re, degli stessi generali, vuol dire che è sempre Io stesso Stato a far finta di combattere, prima contro gli anglo sassoni e la Russia, poi contro la Germania». Ma sembra, continuava il giornale, «che non tutti gli italiani abbiano capito che il potersi presen tare alla fine della guerra come un nuovo Stato, come l’Italia del popolo e della libertà e non come lo Stato ex fascista, fosse l’unica condizione veramente essenziale perché gli italiani potessero chiedere i diritti che competono ad uomini e a paesi liberi». Si veda anche l’articolo La bilan cia delfarmacista, in «Gioventù d’Azione. Organo della Federazione gio vanile del Partito d’Azione», settembre 1944: al conte Sforza, che «guarda ai rapporti internazionali da vecchio diplomatico, da aggiustatore di carte geografiche, da ministro provetto nell’alchimia delle combinazioni», il gior nale contrappone l’avvicinamento fra i popoli generato dalla guerra di libe razione: «I partigiani italiani, francesi, slavi hanno stretto fra di loro dei patti che valgono per oggi e per domani », perché « le forze combattenti alla base hanno rovesciato le alleanze combinate dai vari duci d’Europa». Su questa tematica cfr. F. Parri e F. Venturi, La Resistenza italiana e gli Alleati, in AA.W., La Resistenza europea e gli Alleati cit., pp. 237-80.
108. Cfr. Aga Rossi, La politica degli Alleati cit., pp. 877 sg. 109. Coerentemente Eisenhower, nelle direttive per la propaganda trasmesse il 7 settembre 1943 al Dipartimento per la Guerra, vietò tutti gli appelli degli emigrati (cfr. Aga Rossi, La politica degli Alleati cit., p. 881, che rin via a H. L. Coles e A. K. Weinberg, Civil Affairs: Soldiers become Governors, Washington 1961, p. 178, e a documenti conservati nella F.D. Roose velt Library).
no. Anche su questo punto rinviamo ad Aga Rossi, La politica degli Alleati cit., pp. 867-74, e passim. Com’è noto, prevalse la tesi inglese. Contro quella
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americana ostava anche la difficoltà tecnica di immobilizzare un troppo alto numero di ufficiali in compiti civili (cfr. Harris, Allied Military Admi nistration cit., p. 3).
in. Cfr., su questo punto, il saggio di N. Gallerano ricordato a nota 22 e le comunicazioni presentate dallo stesso Gallerano e da D. Ellwood al convegno milanese citato a nota 31. 112. Cfr. M. Toscano, Dal 25 luglio all'8settembre, Firenze 1966, pp. 93-106. 113. Il testo della dichiarazione di Mosca può leggersi in P. Secchia e F. Frassati, Storia della Resistenza, voi. 1, Roma 1965, pp. 301 sg. 114. Cfr. infra, nota 216.
115. Trasmissione del 14 dicembre 1943, ore 18.40, dal titolo molto indica tivo A Purge prescribed in Time, nella serie «Italian News Comment» (BBC Written Archives, Italian Service, s. I, b. io [ora in M. Piccialuti Caprioli, Radio Londra, 1939-1945, Roma-Bari 1979, pp. 221 sg.]). 116. Dalla «missione al Sud» Pizzoni riferirà il 17 dicembre 1944 al CLNAI che gli alleati non vogliono che i comitati di liberazione nominino alle varie cariche pubbliche «uomini che facciano della politica, ma che facciano solo dell’amministrazione, onesta, competente, imparziale, cioè non a favore di questo 0 quel partito ». Gli alleati raccomandavano inoltre, sempre in quell’occasione, « che uno dei due viceprefetti venga scelto fra elementi provenienti dalla carriera, anche se di età piuttosto avanzata, e questo per evitare errori nella emissione di norme di carattere amministrativo». A Roma, commentava Pizzoni, «hanno pronti i vari ex prefetti e consi glieri di prefettura che, al minimo incidente, potranno essere immessi d’au torità, in sostituzione di elementi nostri» (citato in Catalano, Storia del clnai cit., p. 338). La commissione alleata di controllo - come ricorda il Kogan citando dal «Weekly Bulletin» del 29 ottobre 1944 - aveva del resto dato istruzioni ai suoi commissari regionali «di fornire tutto il loro appoggio ai prefetti di nomina regia anche quando i funzionari fos sero presi di mira dal locale cln» (Kogan, L’Italia e gli Alleati cit., p. 115).
117. Citiamo da Toscano, Dal 25 luglio cit., pp. 102-4. 118. M. S. Giannini, La Repubblica sociale rispetto allo Stato italiano, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», s. Ill, V, 1951, pp. 330-417 (le parole citate nel testo sono alle pp. 332 e 358 sg.).
119. Cfr. Documenti cit., pp. io e 12. Lo stesso giorno 14 il clnai emanò un ulteriore decreto «sul rifiuto d’imposta», il cui art. 1 esordiva: «Tutta la legislazione fiscale è sospesa» (ibid., p. 11). Un esempio di pratica ese gesi dalle disposizioni emanate dal clnai in materia finanziaria è dato dalle vicende del cosiddetto «prestito Parini», lanciato dal capo della provin cia di Milano, Piero Parini, e riconosciuto pienamente valido dopo la Libe razione nonostante che il clnai, con un decreto del 15 marzo 1944, lo avesse dichiarato non riconoscibile e avessé diffidato dal sottoscriverlo (cfr. L. Canapini, Le lotte operaie: Milano, saggio in corso di pubblica zione fra i risultati della ricerca già ricordata a nota 22 [ora in AA.W., Operai e contadini cit., pp. 145-90]). 120. Si veda ad esempio il messaggio inviato dal Foreign Office ad Algeri, 17 settembre 1943, trasmesso per conoscenza da Churchill a Roosevelt (cit. da Aga Rossi, La politica degli Alleati cit., p. 892).
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121. Un manifestino a stampa del cln regionale veneto, del marzo ’44, sostiene, ad esempio, con forza la legittimità del governo Badoglio contro quello della rsi, «sotto tutti gli aspetti illegale» (il manifestino è in isrtv, cln, Stampa non periodica). Ma era soprattutto la stampa dei partiti e movi menti fattisi espliciti paladini della continuità dello Stato a insistere su questo tema. Il «Risorgimento liberale», edizione settentrionale, maggio 1944, nell’articolo L'incontro Mussolini-Hitler scriveva ad esempio che il go verno di Salerno si contrapponeva al governo ribelle di Mussolini in quanto era «un governo che è tale di fatto e di diritto, se esercita le sue funzioni ed è stato nominato dal Re secondo la costituzione del Regno d’Italia che sino ad oggi non è stata né modificata né abolita». Contra, si veda «La Voce repubblicana», Roma, numero del 6 ottobre 1943, che parla di «repubblica antirepubblicana» (articolo Riepilogo nella tragedia) e numero del 28 settembre 1943, dove si lancia lo slogan: «Non diventiamo monar chici per dispetto!» (articolo La Repubblica sociale del fascismo). 122. II Giannini scrive che «l’organizzazione amministrativa» della rsi «era quella propria dello Stato italiano», con qualche modifica introdotta da essa rsi (Giannini, La Repubblica sociale cit., p. 340).
123. Il Roteili ha scritto che le autorità tedesche ritennero il prefetto l’istituto più consono ai loro fini e lo difesero di fronte ai militanti fascisti e tede schi, esercitando così proprio a livello prefettizio la massima loro pres sione sull’amministrazione italiana (cfr. Roteili, L’avvento della regione cit., pp. 13 sg.). Fin dal io settembre 1943 il Fuhrer, con la sua prima ordinanza relativa all’amministrazione dell’Italia occupata, aveva dispo sto che ai prefetti venissero affiancati consiglieri amministrativi tedeschi (cfr. E. Collotti, L’amministrazione tedesca dell’Italia occupata, 1943-1943Studio e documenti, Milano 1963, p. 222). (I giudizi sopra espressi non riguardano, com’è ovvio, le zone di operazioni delle prealpi e del litorale adriatico, praticamente annesse al Reich). 124. Cfr. E. Pisciteli!, Storia della Resistenza romana, Bari 1965, p. 180. La circolare della presidenza del Consiglio dei ministri, a firma Barracu, che disponeva, il 14 ottobre 1943, il trasferimento minacciando per i refrat tari pene che andavano dall’arresto immediato alla segnalazione alla poli zia tedesca, fu pubblicata su «Il Popolo» del 23 e sul «Risorgimento libe rale» del 29 ottobre 1943 (edizioni romane). 125. Solo i prefetti di Ascoli Piceno (Broise) e dell’Aquila (Biancorosso) dura rono più a lungo, rispettivamente fino al 5 novembre e fino al 12 dicem bre (il primo era di nomina antecedente al 25 luglio; il secondo era stato insediato da Badoglio il i° agosto). 126. Nelle sostituzioni iniziali la RSI, che era stata in qualche caso preceduta dal diretto intervento tedesco, nominò prefetti di carriera «fascista», di cui 20 dei 30 messi a riposo da Badoglio (gli altri io furono consi derati «a disposizione»: si veda in seguito) e 46 fascisti del tutto estranei alla carriera. Nei mesi successivi recuperò ancora 5 prefetti di carriera «fascista» e fece ricorso a ulteriori 37 fascisti extra carriera. Si tenga conto che le province controllate dalla rsi furono al massimo 67. Tutti i prefetti trovati in sede e rimossi furono dalla rsi collocati prima a dispo-
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sizione, poi a riposo; mentre il governo Badoglio li considerò sempre a disposizione. I prefetti della rsi sono gli unici di cui sembra poi perdersi totalmente la traccia - almeno fino al 2 giugno 1946 - nei quadri del l’amministrazione. (Tutti i dati precedenti sono tratti da M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato e prefetti del regno d'Italia, Roma 1973. Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Fonti e Sussidi, voi. 3; si vedano, in particolare, le pp. 263 sg.).
127. «In conformità delle direttive impartite dal Duce nella prima riunione del Consiglio dei Ministri del Governo Fascista Repubblicano, il Capo della provincia - per la durata della guerra - realizza nella provincia l’unità del comando politico e amministrativo, essendo a capo tanto della Prefettura quanto della Federazione Fascista Repubblicana. I Capi delle province sono scelti di comune accordo tra il ministro Segretario del Par tito e il ministro dellTnterno, e nominati dal ministro dellTnterno. Per le organizzazioni provinciali del Partito il Capo della provincia è coadiu vato dal triumvirato federale, o, dove la situazione Io richieda, da un com missario straordinario»: questo è il testo del comunicato diramato alla stampa il 30 novembre 1943 (si trova in acs, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, rsi, fase. 650, s. fase. 4/A: ringrazio Mario Missori per avermi segnalato resistenza di questo documento, come pure di quello citato infra a nota 239). Di fatto l’unità delle due cariche è da supporre rimanesse spesso sulla carta, e che il commissario fosse portato a ripren dere le vecchie vesti del segretario federale. Tanto è vero che un tele gramma circolare inviato da Mussolini il 15 febbraio 1944 ai capi delle province così esordiva: «Bisogna che i Capi delle Province si ricordino che sono anche i Capi del Partito» {ibid., s. fase. 4/D). 128. Non possediamo dati sui movimenti di questori effettuati dalla rsi e tanto meno su quelli degli altri funzionari dei vari rami dell’amministrazione. Data la concorrenza - talvolta violenta - fra i vari corpi armati e di poli zia, i mutamenti nelle questure potrebbero offrire una guida per studiare le lotte fra le varie fazioni fasciste. Il Canapini (nel saggio citato supra a nota 119) ricorda ad esempio il questore di Milano, Coglitore, nomi nato da Badoglio e destituito soltanto alla metà del dicembre 1943, «ma la Muti avrebbe voluto fucilarlo». 129. G. Neppi Modona, La magistratura e il fascismo, in AA.W., fascismo e società italiana cit., pp. 170 sg. 130. Un dato a favore del tipo di continuità di cui stiamo discorrendo ci è offerto dagli archivi. Nei fondi versati all’Archivio centrale dello Stato le vec chie serie «normali» continuano in quelle della rsi (le pratiche correnti furono infatti trasferite a Nord), mentre nascono a Sud nel 1943 e nel 1944 serie nuove. Dal giugno 1944 ricominciano a Roma tutte le serie regolari, che si svolgono in parallelo con quelle del Nord fino all’aprile 1945. Quando poi queste ultime tornarono nella capitale, sembrò ovvio - almeno nel ministero dellTnterno - intercalare in larga parte, nell’or dine alfabetico delle province, i fascicoli del Nord con quelli del Sud. Sono venute così a formarsi fittizie serie unitarie, da Aosta a Viterbo, nelle quali pratiche regie e pratiche rsi riposano le une accanto alle altre (rin grazio Paola Carucci per avermi fornito queste informazioni).
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i J i. Scrive, ad esempio, il Corrieri che « in molti casi le cariche [della rsi] furono accettate in buona fede, nella convinzione che in circostanze così dure e difficili fosse pur necessario che qualcuno si assumesse il pesante carico dell’amministrazione pubblica nell’interesse della popolazione»; insiste poi che « così agendo i capi della Provincia e i funzionari delle Prefetture e dei vari organismi dipendenti, non facevano che il loro dovere. Ma le difficoltà del momento erano così gravi che non sarebbe giusto dimentica re i loro sforzi nel settore amministrativo, nel momento in cui giustamente si denunciano le gravi colpe di cui alcuni di loro si macchiarono sul piano politico» (Corrieri, La repubblica di Montefiorino cit., pp. 52, 205). 132. « Il nuovo podestà di Intra mi sembra non abbia nemmeno giurato fedeltà alla Repubblica Sociale (...); dovrebbe servire da paraurti tra i partigiani ed i tedeschi, fascisti, inglesi, operai ecc., pronto quindi a tutti i compro messi, ma fedele esecutore di manovra borghese»: così veniva descritta una delle situazioni cui abbiamo accennato nel testo in una lettera del commissario politico garibaldino Michele a «Cari compagni» (ig, Brigate Garibaldi, 06351). 133. Giannini, La Repubblica sociale cit., pp. 355-59, 349, 354, 381. 134. Si veda in particolare la sentenza del Tribunale supremo militare che citiamo supra a p. 136. 135. Sul significato di quel decreto si veda P. Calamandrei, Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori, in Commentario sistematico alla Costitu zione italiana, diretto da P. Calamandrei e A. Levi, Firenze 1950: poi in P. Calamandrei, Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, voi. 3, Napoli 1968 (donde citiamo: cfr. p. 297). 136. «E noto che la maggior parte dei giuristi italiani fece ogni sforzo per dimo strare che le innovazioni costituzionali del fascismo non avevano stravolto lo Statuto ma lo avevano soltanto modificato, completato, adattato ai tempi nuovi. Furono insomma i primi sostenitori della tesi della continuità» (N. Bobbio, La cultura e il fascismo, in AA.VV., Fascismo e società ita liana cit., p. 227). 137. La dichiarazione del 9 settembre è riportata in tutte le storie della Resi stenza. Quella del 12 si può leggerla su «l’Unità», edizione romana, del rg settembre. Sulla genesi e interpretazione tormentate di questi ordini del giorno cfr., tra gli altri, C. L. Ragghianti, Disegno della liberazione ita liana, Pisa 1962, pp. 45 sgg.; e l’intervento di Leone Cattani in Atti Con vegno nazionale sulla Resistenza, 23 -24 ottobre 1964 (« Rassegna del Lazio », numero speciale, 1965, pp. 219-22). 138. Il testo dell’ordine del giorno fu redatto da Giovanni Gronchi (cfr. L. Valiani, Il partito d'azione, in Valiani, Bianchi e Ragionieri, Azionisti, cat tolici, comunisti cit., p. 74). L’ordine del giorno del ró ottobre fu riba dito da uno successivo del 26 novembre. 239. Fra i documenti di questo dibattito ricordiamo l’«Avanti! » del 7 febbraio 2944, articolo La chiarezza dei fatti, che polemizza coi liberali; ancora l’« Avanti! » del 14 febbraio, articolo II congresso antifascista di Bari («Se si tiene conto che la formula adottata a Roma, malgrado il suo rigore logico, è stata intrepretata dai liberali e dai democratici-cristiani in senso testrit-
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tivo, è facile immaginare a quali e quanti equivoci si presti la formula adottata a Bari»); «Il Popolo » del 20 febbraio, Dopo il congresso di Bari, che plaude invece alla soluzione prevalsa in quel congresso.
140. L’ordine del giorno socialista è pubblicato nel già ricordato «Avanti!» del 14 febbraio. La polemica risposta democristiana, siglata df. {Demofilo — De Gasperi) comparve su «Il Popolo» del 27 marzo, Commenti e chiari menti su una mozione socialista. Sulla crisi del cln provocata da Bonomi rinviamo a quanto scritto da Bonomi stesso nel suo Diario di un anno, Milano 1947, pp. 145-71. 141. L’articolo di «Il Popolo» è quello citato supra a nota 139. Il giornale osser vava inoltre che l’Italia rappresentata al congresso di Bari era soltanto una minoranza. L’argomento va rilevato perché si connette a un altro che circola largamente nella stampa liberale e democristiana: poiché nel Sud non vive più di un terzo della popolazione italiana, come potrebbe essa decidere anche per gli altri due terzi? Aspettare la liberazione del Nord - viene da commentare - era certo, per i moderati, un rischio, ma un rischio che essi seppero calcolare e gestire con sufficiente accortezza. (Le citazioni dal «Risorgimento liberale» fatte nel testo sono tratte da un arti colo di positivo commento alla costituzione del governo di Salerno, com parso il 5 maggio 1944: si tratta sempre della edizione romana). 142. Della luogotenenza Calamandrei ha scritto che, benché formalmente sul ter reno statutario, in realtà si poneva fuori di esso, dato il carattere «irrevo cabile» della rinuncia di Vittorio Emanuele, e dato l’impegno alla convo cazione della «assemblea costituente-legislativa» che entrò nel programma del governo di Salerno (cfr. Calamandrei, Opere giuridiche cit., pp. 299 sg.).
143. Sulla genesi di questo decreto cfr. U. La Malfa, La lotta per la Repubbli ca, in AA.W., Lezioni sull’antifascismo, Bari 1962, pp. 273-75. generale, sulla formazione e l’opera del primo come del secondo governo Bonomi, si veda Aga Rossi Sitzia, La situazione politica ed economica cit., pp. 5-151.
144. Calamandrei, Opere giuridiche cit., pp. 300 sg. 145. Molto realisticamente « l’Unità » fece notare che il nuovo governo non era il «governo del Comitato di liberazione», come «qualcuno ha detto», bensì «un governo del Fronte nazionale nel quale, per l’accresciuto peso delle masse popolari antifasciste, i partiti del Comitato di liberazione [si noti, non il comitato] hanno un posto e un’influenza preponderanti, ma nel quale sono incluse e rappresentate anche altre forze, oltre quelle rappresentate dal Comitato. Le masse sono intervenute nella sua costituzione»; e quest’ul timo suonava come memento per i velleitarismi dei partiti privi di base di massa {Note sul programma del nuovo Governo. 1. Da Napoli a Roma, in edizione romana, 14 giugno 1944). Questo commento va Ietto insieme all’intervista concessa da Togliatti a «l’Unità» pochi giorni prima, l’n giugno {Sulcammino della riscossa), nella quale si prende qualche distanza dal nuovo governo dal punto di vista del partito («è evidente che la nostra scarsa partecipazione ai posti di comando limita la nostra responsabilità»). 146.
isrt, Archivio di A. Medici Tornaquinci, b. io, fase. 1, n. 3. Mario Fer rara, commemorando Bonomi nel «Corriere della Sera» del 21 aprile 1951
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(U« grande esempio) gli farà gran merito proprio di aver salvata «la conti nuità dello Stato italiano», e di aver impedito che il cln trapassasse da «espediente costituzionale» a «Comitato di salute pubblica».
147. Cfr. Aga Rossi Sitzia, La situazione politica cit., p. 13, dove viene ricor dato che Orlando, in un memorandum scritto nel febbraio 1945 su invito di Myron Taylor (inviato personale di Roosevelt presso Pio XII) e da questi trasmesso al presidente, affermò che la concessione di quei poteri ren deva il governo «dittatoriale e totalitario»; il che non impediva all’Or lando di scrivere in altra parte del memorandum, con tranquilla contrad dizione di conservatore, che il governo Bonomi aveva in sé «i germi dell’anarchia» (cfr. p. 16). 148. Si veda un’osservazione in tal senso di S.J. Woolf, The Rebirth of Italy, 1943-1950, London 1972, p. 224. 149. Fra le testimonianze rese in varie occasioni da Parri circa la caduta del suo governo vogliamo scegliere, traendole dal testo inedito di una inter vista da lui rilasciata il 3 novembre 1966 e conservata presso l’istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza [cfr. ora F. Parti, Intervista sulla guerra partigiana (1966), in «Italia contemporanea», n. 149, dicembre 1982, pp. 21-28], le seguenti parole direttamente attinenti al nostro tema. La lotta dei liberali al suo governo - dice Parri - apparve a La Malfa e «a tutti gli altri (...) una normale lotta di partito e invece in quella vi era la continuità dello Stato, delle istituzioni che parlava, vi era la continuità delle superstizioni, liberali e conservatrici, c’era la per manenza della mentalità retriva dei magistrati, la permanenza della stu pidità - mi scusi - [intervistatrice era Luisa Calogero La Malfa] dei pro fessori universitari, che hanno rovinato tanta parte della Resistenza. C’era la permanenza della mentalità fascista dei direttori generali e della buro crazia, c’era la permanenza di questa vecchia Italia che veniva immedia tamente fuori e che voleva avere non una espressione politica, ma il governo del paese. Rispetto a questo bisognava resistere ancora per un po’ ». Per questo urto fra l’uomo Parri e la burocrazia simbolo della vecchia Italia si legga l’affettuoso giudizio che della «inesperienza» di Parri dà uno scrit tore americano: «The very lack of political and administrative experience that made him so attractive as the symbol of a new and better Italy was also his ruin» (H. Stuart Hughes, The United States and Italy, ed. riv., Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1965, p. 139).
150. Rinviamo ad Aga Rossi Sitzia, La situazione politica ed economica cit., pp. 14 sg.; e a Kogan, L’Italia e gli Alleati cit., p. 152. 151. Su un problema che appassionava tutti gli italiani, un grande partito di mas sa come la Democrazia Cristianà riuscì a non prendere una posizione uffi ciale fino all’aprile 1946, quando il congresso di Roma si pronunciò per la repubblica con 740000 voti contro 254 000 (cfr. Atti e documenti della Democrazia Cristiana cit., pp. 254 sg.). Ma quel deliberato non sarà mai posto al centro dell’attività del partito, che doveva tener conto degli umori del Vaticano e dell’alto clero e alla cui posizione di asse del nuovo equili brio moderato erano comunque indispensabili i voti dei monarchici. Si ricordi questa testimonianza di Nenni: «Questa mattina ho trovato
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De Gasperi nervoso ed inquieto, dopo una lunga riunione della direzione del suo partito. Ormai è venuto anche per lui il momento di uscire dai ni. E gli duole» (I Taccuini di Nenni, 7 marzo 1946, in «Avanti! », 26 maggio 1966). 152. La più importante testimonianza in merito è quella di Nenni, relativa al suo rovesciamento di posizione nel Consiglio dei ministri del 27 febbraio 1946: cfr. AA.W., Lezioni sull’antifascismo cit., pp. 292 sg. Si vedano inoltre i Taccuini di Nenni, dei giorni 25 e 26 febbraio 1946, in «Avanti! », 26 maggio 1966. Da essi si rileva anche che una delle remore di Togliatti nei riguardi del referendum era stato il timore che esso portasse a una «rottura tra i partiti del cln e in particolare con la Democrazia Cristiana ». 153. Calamandrei ha osservato che col referendum «ogni pretesto anche pura mente formale di continuità del nuovo Stato col precedente ordinamento statutario era definitivamente troncato» (Calamandrei, Opere giuridiche cit., p. 313). Sereni ha scritto che i comunisti si convertirono al referen dum in quanto « giudizio definitivo del popolo », mentre « temevano che nell’Assemblea costituente l’atteggiamento di alcuni partiti - e princi palmente dei cattolici - non sarebbe stato contrario alla monarchia» (cfr. AA.W., Lezioni sull'antifascismo cit., p. 288). 154. Riccardo Lombardi ha giustamente fatto notare che l’aver privato la Costi tuente dei poteri legislativi fu la «più clamorosa, anche se allora poco avver tita» manifestazione del recupero, da parte della vecchia classe dirigente, delle «posizioni perdute nel corso della lotta» (cfr. AA.W., La Resistenza in Lombardia cit., p. 265). 155. Cfr. I Taccuini di Nenni, relativi ai giorni 19, 20, 22 febbraio 1946, in «Avanti!», 26 maggio 1966. 156. Sulle vicende che portarono al compromesso rinviamo alle già ricordate opere del Kogan e del Calamandrei. Il primo ricorda che il consulente giuridico della Commissione alleata di controllo, sentiti quattro giuristi italiani, espresse il parere che il decreto del 25 giugno 1944, n. 151, voleva una Costituente con pieni poteri sovrani. «Invece il Dipartimento di Stato concluse che il DL 151 convocava Un’Assemblea che doveva limitarsi a stendere la Costituzione. Questo punto di vista fu presentato al governo ita liano, senza però insistere perché fosse adottato » (Kogan, L’Italia e gli Al leati cit., pp. 152 sg.); ma non c’era bisogno di troppe insistenze. Il Kogan si riferisce evidentemente al memorandum « Powers of the Italian Govern ment versus the Constituent Assembly», inviato a Roma il 16 novembre 1945 (e non pubblicato in Foreign Relations). Il contenuto ne era stato riassunto in un telegramma del segretario di Stato, Byrnes, all’ambasciato re a Roma, Kirk, del 22 ottobre; e verrà richiamato in altro telegramma del 28 febbraio 1946, ancora di Byrnes a Kirk, in cui si sottolinea ancora una volta la necessità di salvaguardare la «legai continuity of Italian Go vernment» (cfr. Foreign Relations of the United States, 1945, vol. 4, Wa shington 1968, pp. 989-91 e vol. 5, Washington 1969, pp. 879 e 881-83). 157. Un giurista autorevole come il Ranelletti si è espresso in proposito molto chiaramente: la Costituente non era un organo sovrano ma «un organo rappresentativo straordinario dello Stato con la sola competenza a lui attri buita dalla nostra legislazione » (citato in Calamandrei, Opere giuridiche cit., p. 319).
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158. Cfr. gli Atti della Consulta nazionale, Assemblea plenaria, sotto la data del 7 marzo 1946, p. 102. Quando si tratterà di negare la fiducia al quarto ministero De Gasperi - quello che estromise le sinistre - Togliatti, sor volando sul secondo ministero Bonomi, riesumerà proprio l’argomento dei poteri legislativi al governo interpretandolo in chiave d’indispensa bile unità e compresenza in esso dei partiti del CLN: come poteva - egli disse - un governo dotato di tanto ampi poteri reggersi su una così ristretta maggioranza che rompeva il provvisorio patto costituzionale ancora in vigore? (Atti della Assemblea costituente, Discussioni, voi, 5, tornata del 20 giugno 1947, pp. 5088 sg.). 159. Il compromesso assunse la forma di una modifica del regolamento interno dell’Assemblea: cfr. ancora Calamandrei, Opere giuridiche cit., pp. 319 sg. 160. Parri pronunciò queste parole intervenendo su una relazione di Enzo Piscitelli intorno ai primi governi De Gasperi, in un dibattito organizzato il 2 maggio 1969 dall’istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza.
161. A. Predieri, La dinamica delle istituzioni, in «Politica del diritto», II, 1971, P- 237162. Utile, al riguardo, la lettura di S. Cassese, Cultura e politica del diritto amministrativo, Bologna 1971.
163. Ricordiamo soltanto l’opinione dei due studiosi americani già menzionati: Stuart Hughes, The United States and Italy cit., pp. 152-56; N. Kogan, L'Italia del dopoguerra, Bari 1968, p. 53. Ungati ha ricordato come gli esperti alleati influirono molto sulla sistemazione istituzionale di Germa nia e Giappone, al contrario di quanto avvenne - in via diretta - in Ita lia (cfr. P. Ungati, in AA.W., Studi per il ventesimo cit., pp. 843 sg.). 164. Si vedano L. Basso, Il principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana, Milano 1958, e V. Crisafulli, Ipar titi nella Costituzione, in AA.W., Studi per il ventesimo cit., II, pp. 105-43. 165. Richieste di una suprema corte di garanzia costituzionale si leggono nella stampa clandestina liberale, democristiana, azionista. Si vedano, ad esem pio, per i liberali gli opuscoli Realtà (15 agosto 1943), Il problema istitu zionale (15 ottobre 1943), La riforma costituzionale-, per i democristiani le già ricordate Idee ricostruttive (in Atti e Documenti cit., p. 2); per gli azionisti le Direttive programmatiche della sezione toscana (« Quaderni del l’Italia libera», n. 3). Da ricordare per la sua singolarità la proposta del liberale emiliano Zoccoli, al primo convegno dei cln regionali dell’Alta Italia, di trasformare i CLN in Corte costituzionale (cfr. Verso il governo di popolo cit., pp. 56 sg.).
166. Si veda su questo tema, in generale, E. Ragionieri, Politica e ammini strazione nella storia dell'Italia unita, Bari 1967. Per l’esame delle proposte regionalistiche dalla Resistenza alla Costituzione rinviamo all’opera del Roteili, L'avvento della regione cit., e ai risultati del già ricordato convegno milanese dell’ottobre 1973. Per un’analisi retrospettiva: R. Ruffilli, La questione regionale dall’unificazione alla dittatura (1862-1942), Milano 1971. 167. Sono parole tratte dalle già ricordate Idee ricostruttive della Democrazia Cristiana. Il brano citato va letto assieme a questi altri: «Il corpo rappre-
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sentativo della Regione si fonderà prevalentemente sull’organizzazione professionale», e «le professioni organizzate (...) saranno (...) la base della rappresentanza degli interessi e nomineranno loro rappresentanti nelle Regioni e, a mezzo di essi, nella seconda Assemblea Nazionale» (cfr. Atti e documenti della Democrazia Cristiana cit., pp. 2 sg., 6).
168. Ad esempio: nel programma liberal-radicale esposto in Pentad, The Remak ing of Italy, London 1941 (tradotto in italiano nel 1943, pure a Londra, col titolo L’Italia di domani) si afferma la necessità di un organo elettivo, da affiancare all’assemblea politica, e che abbia la rappresentanza «di tutte le categorie economiche della nazione, tecnici, operai, agricoltori, impie gati, professionisti». La proposta viene collegata all’altra della «socializ zazione di certe industrie, la fine del capitalismo individualista e un piano organico di produzione» (cfr. p. 266). Il libro è opera di A.F. Magri, L. Minio, I. Thomas, R. Orlando e P.P. Fano. Per i liberali, si vedano gli opuscoli Problemi del lavoro (15 dicembre 1943), p- 13, e La Riforma costituzionale cit., nonché l’articolo Tono e indirizzo generale del nuovo pli, in «Il Caffè», febbraio 1945. I liberali (ad esempio, nell’opuscolo ultimamente ricordato e nell’altro, Il problema istituzionale cit., p. 15) chie dono talvolta anche un organo di mera consulenza economica da affian care al parlamento. Un articolo apparso sull’« Avanti! », edizione romana, il 12 gennaio 1944, Parlamento e Camera dei consigli, presenta, come rime dio ai mali del parlamentarismo, un singolare intreccio d’ispirazioni sindacaliste, consiliari, corporative e regionalistiche, in un quadro di riferi mento che non si comprende bene se sia una società socialista ormai tutta di lavoratori o qualcosa da realizzare a più breve scadenza. Con più chia rezza Vico Lodetti (Ludovico D’Aragona) in uno scritto del 1943, pub blicato a Vigevano dopo la Liberazione col titolo Problemi di politica ita liana ed estera (contributo alla preparazione della Costituente), «Quaderni socialisti», n. 2, parla (pp. 9 sg.) di una «Camera tecnica» eletta «dai vari organi tecnici esistenti nella nazione: sindacati professionali, univer sità, scuole professionali, cooperative, consigli locali dei capi famiglia ecc. ».
169. Cfr. A. Battaglia, Giustizia e politica, in AA.W., Dieci anni dopo, Bari 1955, PP- 384 sg.; e Calamandrei, Opere giuridiche cit., pp. 328-33. Iro nia volle che la distinzione fosse inventata dalla suprema Corte per respin gere un ricorso di fascisti che chiedevano l’abrogazione delle leggi sulle sanzioni contro il fascismo perché -- sostenevano - in contrasto con la non retroattività della legge penale sancita dalla Costituzione. 170. A voler essere precisi, la distinzione era stata già introdotta dalla legge del 9 dicembre 1928, n. 2693, sul Gran Consiglio del fascismo, ma non aveva avuto modo di realmente operare. 171. V. Crisafulli, La Costituzione e le sue disposizioni di principio, Milano 1952 (i brani citati sono alle pp. 19-22). Si veda anche la presa di posizione del Rodotà, per il quale la disputa fra norme precettizie e norme program matiche diventa uno degli argomenti critici da portare contro il concet tualismo giuridico, incapace di comprendere che la costituzione contiene «princìpi» e non «disposizioni analitiche»: cfr. S. Rodotà, Gli studi di diritto contemporaneo, in A. Aquarone, P. Ungati e S. Rodotà, Gli studi di storia e di diritto contemporaneo, Milano 1968, p. 103.
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172. Scegliamo anche in questo caso una testimonianza del Partito d’Azione (formazioni gl piemontesi). «Il Pioniere: giornale d’azione partigiana e progressista» nel suo numero di febbraio-marzo 1945 pubblicò un arti colo di fondo, Attenti a non lasciarci giocare in un prossimo domani, dove i protagonisti del temuto gioco venivano individuati nei vecchi dirigenti industriali e nella vecchia burocrazia: «Col tempo che passa essi, che dispongono a proprio esclusivo beneficio degli avanzi del vecchio Stato, soldi, uffici, relazioni ecc., preparano e migliorano i loro piani (...). Noi dobbiamo colpire subito, senza falsa pietà, questi pezzi grossi collabora zionisti della burocrazia», ma non basta: «Ci vogliono organi nuovi e demo cratici dello Stato fin d’ora».
173. La dichiarazione fu diffusa con un volantino a stampa che si conserva in isrt, Fondo Traquandi, b. 2, fase. «Partito d’Azione». 174. Si vedano i tre volumi con la Relazione all’Assemblea costituente stampati dal ministero nel 1946. La commissione si era suddivisa in quattro sotto commissioni, ognuna delle quali presentò una sua relazione: 1. Problemi co stituzionali; n. Organizzazione dello Stato; m. Autonomie locali; iv. Enti pubblici non territoriali. Fu poi aggiunta, dal 26 febbraio, una quinta sot tocommissione, sulla organizzazione sanitaria. Il Forti era stato fra gli «esperti» che avevano dato a Badoglio parere contrario alla retroatti vità delle sanzioni contro i fascisti e alla istituzione di tribunali popolari (si vedano i documenti citati infra a nota 216). 175. Le relazioni delle due sottocommissioni - «Problema della regione» e «Amministrazione locale» - furono pubblicate anch’esse dal ministero per la Costituente, nel voi. 2 dell’opera citata nella nota precedente. 176. Si vedano, sullo «Stato giuridico», le osservazioni di Cassese, Politica e cultura cit., p. 89. 177. Su questa strada il problema della burocrazia diventa una parte di quello - in Italia particolarmente rilevante - dei ceti medi: si veda in propo sito P. Sylos Labini, Sviluppo economico e classi sociali in Italia, in «Qua derni di sociologia», XXI, 1972, pp. 371-443. 178. Non sarebbe impossibile, peraltro, rintracciare sulla stampa della Resi stenza alcuni spunti che, al di là del corteggiamento dei ceti medi ope rato da tutti i partiti, cercavano di interpretare il significato della cre scita della burocrazia. 179. Dalla abbondante letteratura in materia vogliamo trarre un interessante spunto del Galgano, che distingue un’azione della burocrazia volta a porre in non cale gli obiettivi dei politici e un’azione che invece serve ai gover nanti per fare la loro «politica reale (...) divergente da quella dichiarata» (G. Galgano, Una nuova dimensione del potere: l’autonomia regionale, in «Quale giustizia», nn. 15-16, maggio-agosto 1972, p. 303). Per il rap porto politica-amministrazione andrebbero discusse le tesi del gruppo di studiosi che fa capo alla rivista «Politica del diritto» (si veda in partico lare, per il punto ultimamente trattato, il sintetico scritto di S. Cassese, L’immunità della burocrazia, II, 1971, pp. 185-87). Acuti indagatori della reale dislocazione del potere giuridico, lucidi e brillanti nel denunciare
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la insostenibilità della tesi di una pubblica amministrazione apolitica - anche se talvolta attribuiscono a questa ideologia, per il passato, un peso effettuale che contrasta con il rigore della denuncia teoretica - il loro discorso dà adito a perplessità quando passa a sostenere che il «diritto » (gli operatori giuridici, dobbiamo intendere, compresi i pubblici funzio nari) debba svolgere, sembra, una sua politica.
180. Del Consiglio di Stato già Leone Ginzburg aveva scritto nel 1933 che «nel suo nucleo originario porta pur sempre quell’impronta napoleonica, accentratrice e assolutistica, che lo fece odiare dai belgi mentre procla mavano la propria indipendenza»: cfr. M. S. [L. Ginzburg], Chiarimenti sul nostro federalismo, in «Quaderni di Giustizia e libertà», n. 7, giugno 1933, PP- 48-56. Sulla Corte dei conti si veda R. Faucci, Teoria epolitica amministrativa nellTtalia liberale: problemi aperti, in «Studi storici», XIII, 1972, pp. 447-65-
181. Per una prima informazione sulla recente esperienza regionale in Francia si veda la Rivista bibliografica dedicata a vari libri francesi sull’argomento in «Rivista trimestrale di diritto pubblico», XXI, 1971, pp. 568-85. Per un accenno critico ai risultati della regione francese si veda M. S. Gian nini, Enti locali territoriali e programmazione, ivi, XXIII, 1973, pp. 193-208. 182. E forse sintomo del modo in cui dalla massa borghese e piccolo borghese fu vista l’epurazione - un guaio capitato ad alcuni sfortunati 0 ingenui il fatto che nell’uso corrente l’aggettivo «epurato» fu usato non per indi care l’organismo o ufficio ripulito dai fascisti, bensì il funzionario rimosso. 183. Articolo Senza discriminazioni. Il giornale aveva come sottotitolo «Organo del fronte unico della libertà». Bonomi ne darà questa caratterizzazione: «Senza intransigenza e senza particolarismi nocivi, voleva riunire tutto l’antifascismo, dai liberali ai socialisti, dai democratici ai cattolici, giun gendo fino ai comunisti» (Bonomi, Diario cit., p. xxx).
184. La frase fu pronunciata da Churchill dai microfoni di Radio Londra il 23 dicembre 1940, nel messaggio rivolto agli italiani dopo le vittorie di Wavell nel Nord Africa (cfr. Churchill, La seconda guerra mondiale cit., parte II, voi. 2, Isolati, pp. 322 sg.). La si ritrova, ad esempio, nella let tera che Ciano scrisse al re dal carcere di Verona (cfr. P. Puntoni, Parla Vittorio Emanuele III, Milano 1958, p. 237). 185. Si veda II fascismo, antologia di scritti critici, a cura di C. Casucci; e C. Casucci, Sorti di un’antologia sulfascismo, in «Il Mulino», XIII, 1964, p. 1182. 186. Si veda il manifesto Ai migliori degli italiani, dell’agosto 1942, ripubblicato in «Movimento Popolo e Libertà», Bollettino nn. 1 e 2, giugno e luglio
T943187. L’articolista (edizione settentrionale, 8 gennaio 1945) denunciava con ener gia uno Stato «rimasto nelle sue istituzioni uguale a se stesso» e che «pre tende di giudicare il regime in cui sino ad ieri si immedesimava, quasi il processo di corruzione gli sia stato estraneo. Nulla di più assurdo di questo Stato che, incrollabilmente uguale a se stesso, crea e distrugge il fascismo ». 188. Coerentemente, l’articolista (edizione settentrionale, 20 agosto 1944) si appellava soltanto alla legge ordinaria e alla magistratura ordinaria: «Niente
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più dunque, finalmente, tribunali speciali di qualsiasi natura». Più a caldo, poco dopo 1’8 settembre, anche «Il Popolo» (edizione romana, 23 ottobre 1943, articolo Giustizia) aveva invocato la morte per i traditori della patria. ■89. Si vedano la «Relazione per il progetto di riforma del dl 27 luglio 1944, n. 159» stesa dall’ufficio epurazione del cenai il 17 settembre 1945 e la «Relazione sul convegno tra i rappresentanti dell’ufficio Epurazione del cenai e l’Alto Commissariato per l’epurazione che ha avuto luogo in Roma nei giorni 22, 23, 24 settembre» 1945 (ringrazio Marcello Flores per avermi segnalato i due documenti - come pure quelli citati infra a nota 208 -, che si conservano in ismli, clami, b. 46, fase. 5 e fase. 4).
190. Alcune delle norme emanate dagli alleati sono raccolte nell’opuscolo Allied Commission-Italy, Sospensione dei funzionari e degli impiegati fascisti, stam pato nel febbraio 1945. Le difficoltà di coordinamento fra normativa AMG e normativa italiana sono segnalate da Harris, Allied Military Administra tion cit., p. 173. Quelle difficoltà alimentavano lo scetticismo qualunqui stico circa il buon esito dell’operazione. Si veda un cenno nella «Rela zione mensile riservatissima [dei carabinieri] relativa al mese di luglio [1944] sulla situazione politica e sulle condizioni dell’ordine e dello spirito pub blico ecc. della città di Roma», pubblicata da Aga Rossi Sitzia, La situa zione politica cit., p. 104. 191. «Ufficiali e sottufficiali! Sarete giudicati per quello che farete oggi, non per quello che farete domani! Disertate, consegnatevi ai Patrioti! Oggi vi tratteremo bene, domani vi fucileremo»: così si esprimeva uno dei tanti manifestini indirizzati alle formazioni militari della RSI. 192. Sarebbe anche da fare una ricerca sulle diffide ad hominem inviate dai cln e dalle formazioni partigiane a singoli fascisti, tedeschi e collabora zionisti. In AS Genova, cln, b. 2 è custodito ad esempio un fascicolo, « Carteggio con autorità nazifasciste », con varie lettere del suddetto tenore. 193. Arrendersi operire!, in «La Nostra Lotta», 20 marzo 1945, pp. 6 sg. (l’ar ticolo è di Luigi Longo, ed è stato da lui ristampato nel volume Sulla via dell'insurrezione nazionale, Roma 1954, pp. 445-48, con la data «aprile 1945, n. 7 »). Le parole riportate nel testo compaiono anche nel proclama insurrezionale del cenai del 19 aprile 1945 (Documenti cit., p. 85).
194. Il 13 aprile il cenai aveva disposto che i militari di truppa delle forze armate della rsi che si fossero arresi (non i fascisti né la polizia, tutti da inter nare) dovevano essere lasciati liberi, mentre gli ufficiali e i sottufficiali dovevano essere rinchiusi nei campi di concentramento; ma il 25 aprile tornò sulla sua decisione, ordinando che anche la truppa fosse avviata ai campi (cfr. Documenti cit., pp. 19 sg., 6).
195. Con la consueta sensibilità per questi problemi, i liberali - in questo caso i loro rappresentanti nel CLN ligure - avevano per tempo manife stato i loro dubbi «sulla convenienza di creare un diritto sostanziale, diverso e singolare, rispetto a quello vigente nell’Italia liberata, la cui applica zione dovrà estendersi anche all’Italia attualmente occupata» (isrl, Ver bali delle riunioni clandestine del cln ligure, 15 dicembre 1944 [ora in Resi stenza e ricostruzione in Liguria. Verbali del cln ligure, 1944-1946, a cura di P. Rugafiori, Milano 1981, pp. 177-79]). 196. Cfr. «Lettera alla federazione livornese [recte: torinese] del pei», Torino, 4 novembre 1943 (ig, Fondo Partito, Piemonte, novembre 1943).
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197. Manifesto a stampa: «A tutti i comunisti! A tutti i lavoratori e gli intel lettuali», a firma «Il Grido di Spartaco, organo di battaglia dei comuni sti piemontesi», Torino, 6 settembre 1944. Una circolare del «Comando Vili Divisione d’assalto Garibaldi Asti», del i° dicembre 1944, ricor dava che le norme, non sempre osservate, erano: «I prigionieri devono essere trattati con dignità (...) come prigionieri» e «i fuori legge, come stabilito dalle superiori direttive, cioè quelli della Muti, Brigate Nere, X Mas e gli iscritti al Partito Repubblicano, devono essere giustiziati» (ig, Brigate Garibaldi, 05831 [ora in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, voi. 3 cit., p. 7]). 198. Una copia del progetto è conservata in fase. 4.
ismli, Brigate Garibaldi,
b. 146,
199. Verbale di «costituzione delle giunte popolari comunali a Roddino e a Serralunga d’Alba», 24 settembre 1944 (ig, Brigate Garibaldi, 05522). Il «Comando della ia divisione Garibaldi Piemonte» aveva emanato il 16 settembre 1944 delle «Direttive per la costituzione di organismi popo lari» in cui si concedeva che «in via eccezionale gli ex podestà, quando vi esiste un vero plebiscito di stima da parte della popolazione, possono essere anche ammessi nei nuovi organismi». Da Torino, il 30 settembre, fu condannata la clausola sugli ex podestà: poteva pur la cosa rendersi indispensabile in via di fatto, ma non era il caso di includerla in una diret tiva (ig, Brigate Garibaldi, 04413 e 04426). Sempre la ia divisione Gari baldi Piemonte segnalava il 17 settembre 1944 il diffuso odio verso i segre tari comunali, tranne poche eccezioni; ma sostituirli non era facile (Pietro e Barbato a «cari compagni», IG, Brigate Garibaldi, 04416). 200. Istruzioni del «Comando divisionale delle SAP», Divisione Torino, «a tutte le Brigate SAP della provincia», io novembre 1944 (ig, Brigate Garibaldi, 06059 [ora in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, voi. 2 cit., PP- 557-6i]). Questo timore di ritrovarsi domani di fronte i medesimi poliziotti serpeggia in alcuni documenti. Quasi come esorcismo, «Ban diera rossa», organo del Movimento comunista d’Italia (frazione di sini stra dissidente operante in Roma), invitava i poliziotti a non illudersi e a prepararsi al rendiconto finale (Rilievi di attualità, nel numero del 22 ottobre 1943).
201. Cfr. Documenti cit., pp. 53, 65, 8, 19, 54. 202. Cfr. Legnani, Politica e amministrazione cit., pp. 43 sg., al quale si rinvia per tutto il problema della epurazione e della punizione dei delitti fasci sti nelle zone libere. Sulla conoscenza che si aveva in dette zone della legislazione italiana si veda, per il caso delI’Ossola, dove è da escludere, G. Grassi, L’amministrazione della giustizia nella Repubblica delI’Ossola attraverso i verbali della GPG, in « Il Movimento di liberazione in Italia », n. 98, gennaio-marzo 1970, pp. 146-48. 203. Ad esempio, il Comando regionale lombardo diramò il 1° marzo 1945 «Istruzioni preinsurrezionalli» volte a sbarrare la strada alle «persone di doppia coscienza (...) tanto detestabili quanto pericolose ad uno sviluppo della libera coscienza democratica italiana». Le istruzioni disponevano che gli ufficiali delle Brigate Nere e della Muti fossero immediatamente passati per le armi; che nessuno il quale il 20 marzo 1945 fosse ancora inquadrato nei vari corpi fascisti potesse far parte del CVL; che si evitasse
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la presenza, fra le formazioni patriottiche, di forze in divisa da carabi niere: «Questo per evitare gravi incidenti, data la scarsa popolarità di questo corpo» (ismli, Comando regionale militare lombardo, b. 90, fase. r).
204. Cfr. Documenti cit., pp. 24-29. 205. Articolo di fondo Per l'insurrezione, del 26 aprile 1945 (edizione setten trionale). 206. È questo il succo delle discussioni fra garibaldini veneti secondo il reso conto di Bernardo, Il momento buono cit., p. 36.
207. Cfr. A. Gibelli, Genova operaia nella Resistenza, Genova 1968, p. 47. 208. Si vedano ad esempio il «Verbale del convegno dei presidenti delle com missioni provinciali di epurazione della Lombardia, tenuto in Milano il 24 agosto 1945 » e il « Programma di lavoro dell’ufficio Epurazione » del clnai, s.d. (ismli, clnai, b. 44, fase. 9; b. 46, fase. r). 209. Sereni aveva detto: «Io penso personalmente che, se dovessimo applicare la giustizia in Italia per i delitti ed i reati fascisti, troppi fiumi di sangue dovrebbero scorrere nel nostro Paese (voci: Bisogna farlo!)»; e ancora: «Ci sono stati milioni di italiani i quali sono stati in una maniera o nel l’altra legati al fascismo. Vogliamo noi dire che la via migliore per l’epu razione è quella di eliminare dalla vita italiana tutti questi italiani? (voci: SI! Rumori)»: cfr. Democrazia al lavoro cit., pp. 32 sg. 210. Rinviamo per tutti ad A. Battaglia, in AA.W., Dieci anni dopo cit., pas sim-, e a P. Barile e U. De Siervo, Sanzioni contro ilfascismo ed il neofasci smo, in «Nuovissimo Digesto italiano», XVI, pp. 541-64, e bibliografia ivi citata.
211. Articolo Rinnovare l’amministrazione della giustizia, a firma «ludex», in «Il Popolo», edizione romana, 23 gennaio 1944. Per la critica alla tesi di comodo sul Tribunale speciale, si veda G. Neppi Modona, in AA.W., Fascismo e società cit., pp. 153-57, c^e parla del «carattere sussidiario» del Tribunale speciale nel sistema giudiziario del regime. 212. Cfr. G. Neppi Modona, in AA.W., Fascismo e società cit., pp. 172 e 176. 213. La citazione è tratta da Battaglia, in AA.W., Dieci anni dopo cit., p. 321. Si confronti quanto scriveva circa un secolo prima un funzionario italiano sul comportamento di giudici che avevano cessato da poco di essere pon tifici e che erano chiamati a procedere contro gli autori di manifestazioni «antinazionali»: «Come è possibile che gente profondamente devota al principio in cui favore si perpetrano i suddetti reati, non si trovi perlo meno impacciata nel raccogliere le prove e dar forma d’accusa ad atti ed imputazioni ch’essa sente così conformi alle sue idee, così in armonia colle aspirazioni della propria coscienza? » (« Relazione settimanale sulle con dizioni dello spirito pubblico » inviata l’r 1 dicembre 1870 dal regio com missario di Viterbo alla luogotenenza, in as Roma, Luogotenenza del re per Roma e le province romane, b. 48, fase. 14). 214. Non era passato un mese dal decreto del 27 luglio 1944 - al quale subi to accenneremo - e già compariva un «Manifesto dei giuristi» firmato da diciannove professori universitari «appartenenti a diverse tendenze
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politiche», che protestavano contro la retroattività (cfr. Battaglia, in AA.W., Dieci anni dopo cit., p. 332, dove a p. 329 si ricorda anche la vivace polemica condotta nella stessa direzione dal padre Lener sulla «Civiltà Cattolica»).
215. Il 12 marzo 1945 l’Alta corte di giustizia condannò correttamente Fulvio Suvich in base al principio che quanto più elevata era la carica ricoperta «tanto più acquistava rilevanza Fatto compiuto». Ma il 6 marzo 1948 la Cassazione assolverà il medesimo gerarca sostenendo che «bisogna distin guere fra Stato e regime fascista». In mezzo a questo involutivo arco trien nale si colloca - fra le tante - la sentenza della Corte d’Appello di Roma che il 12 aprile 1946 assolse il capo dell’ovRA e vicecapo della polizia della rsi, Guido Leto, sostenendo che «la semplice appartenenza all’ovRA, sia pure nella qualità di capo di tutta l’organizzazione o di capo di una zona, non costituisce il reato di aver contribuito a mantenere in vigore il regime fascista perché l’adempimento dei doveri d’ufficio senza spirito di fazio sità è doveroso da parte dei funzionari, i quali non possono sindacare la costituzionalità di un sistema legislativo approvato dagli organi costituiti» (le citazioni della sentenza - così come di tutte le altre che sguiranno sono tratte, salvo contrario avviso, dalla già ricordata voce di Barile e De Siervo in Nuovissimo Digesto Italiano). E singolare come questo sci voloso terreno sia fatto proprio anche da un autore come Battaglia, pro prio nel commento alla sentenza della Cassazione relativa a Suvich. Scrive infatti il Battaglia: «Se un ambasciatore o un funzionario di polizia ha agito proprio per tutelare gli interessi dello Stato - e li ha tutelati - che cosa ci importa di sapere se questi interessi abbiano coinciso con quelli del regime? Forse che egli avrebbe dovuto sacrificare i primi per non con tribuire ai secondi?» (in AA.W., Dieci anni dopo cit., p. 338). Accettata questa distinzione, come fa il Battaglia a rivolgere i suoi strali polemici contro il «mito» della continuità dello Stato?
216. Debbo limitarmi a un mero elenco. Il rdl 28 dicembre 1943, n. 29/B, dettò norme sulla «Defascistizzazione delle Amministrazioni dello Stato, degli enti locali e parastatali, degli enti comunque sottoposti a vigilanza o tutela dello Stato e delle aziende private esercenti servizi pubblici». Il rdl 6 gennaio 1944, n. 9, avviò l’operazione opposta alla epurazione, e cioè il richiamo in servizio dei licenziati dal fascismo per cause politi che. Il rdl 12 aprile 1944, n. 101, apportò varie modifiche ai due decreti precedenti. Con il rdl 13 aprile 1944, n. 1 io, fu istituito un «Alto com missariato per la epurazione nazionale dal fascismo» (fu nominato alto commissario Tito Zaniboni). Formatosi a Salerno il primo governo di unità nazionale, comparvero le norme penali. Il rdl 26 maggio 1944, n. 134, provvide infatti alla «punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo» e abolì l’Alto commissariato per l’epurazione, sostituendolo con altro «per la punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo » (il 2 giugno furono nominati Carlo Sforza alto commissario e Mario Berlinguer alto commis sario aggiunto). Sullo stentato avvio dell’epurazione nel «Regno del Sud» si veda il più volte citato saggio di Gallerano, cui debbo anche la segnalazio ne delle lettere scritte a Badoglio, fra la fine del marzo e l’inizio dell’apri le del 1944, dai ministri dell’industria e commercio, Corbino, dell’Agri
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coltura e foreste, Lucifero, dei Lavori pubblici, De Caro, nonché dagli «esperti» Enrico De Nicola e Ugo Forti: tutti ostilissimi alla emanazione di nuove norme che dessero reale avvio alle sanzioni. Corbino, ad esem pio, ricordava che «il nostro è un governo normale e non rivoluziona rio»; e De Nicola faceva appello ai «princìpi fondamentali della nostra legislazione» (acs, Presidenza del Consiglio dei ministri. Brindisi-Salemo, Provvedimenti legislativi, b. 3, fase. 84/B). A sua volta Harris ricorda che l’epurazione fu condotta con più vigore nelle province amministrate dall’AMG che inquelle sottoposte al governo italiano, nelle quali il decreto del 28 dicembre rimase «largely a dead letter». Lo stesso Harris ricono sce che dopo la formazione del governo di Salerno l’azione italiana divenne più vigorosa (cfr. Harris, Allied Military Administration cit., pp. 148-50, I73-75)217. L’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo, istituito, come già ricordato, nel maggio 1944, fu riconfermato dal titolo V del decreto del 27 luglio, che gli affidò il compito di promuovere le azioni previste dal decreto stesso. Dopo aver subito varie modifiche, sarà soppresso con un decreto dell’8 febbraio 1946, n. 22. Quattro Alti commissari aggiunti (Commissari, dopo il DLL 12 luglio 1945, n. 410) assistevano l’Alto com missario: uno per la punizione dei delitti, uno per l’epurazione dell’am ministrazione, uno per l’avocazione dei profitti di regime, uno, infine, per la liquidazione dei beni fascisti (DLL 3 ottobre 1944, n. 238). Dopo le dimissioni di Sforza del 5 gennaio 1945, la carica di Alto commissario rimase vacante fino al 5 luglio r945, quando fu nominato Nenni, che la ricoprì fino alla sua soppressione. Alti commissari aggiunti all’epurazione furono prima Mauro Scoccimarro, poi Ruggero Grieco, comunisti, e infine - commissario - Domenico Riccardo Peretti Griva. A Berlinguer, alto commissario aggiunto per la punizione dei delitti fascisti, succedette, come commissario, Giovanni Macaiuso. All’avocazione dei profitti di regime fu prima alto commissario aggiunto il democristiano Mario Cingolani, poi commissario Ferdinando Carbone (ma un dll del 22 settembre 1945, n. 623, trasferì la competenza al ministero delle Finanze). Infine, per la liquidazione dei beni fascisti fu Alto commissario aggiunto Felice Stangoni, né risulta poi la nomina del commissario. L’abolizione dell’Alto com missariato rientrava nel «decalogo liberale» presentato durante la gesta zione del primo governo De Gasperi (cfr. E. Pisciteli!, Igoverni De Gasperi fino al 18 aprile 1948, in «Quaderni dell’istituto romano per la storia d’Ita lia dal fascismo alla Resistenza», 2, 1971, pp. 152 sg.). 218. Barile e De Siervo, Sanzioni contro il fascismo cit., p. 545.
219. Rinvio ancora una volta allo scritto citato nella nota precedente. 220. Le corti erano composte (art. 6) da un presidente e da quattro giudici popolari. Il presidente, togato, veniva nominato dal primo presidente della Corte d’Appello; i giudici popolari erano estratti a sorte da liste, presen tate dai CLN, di cento cittadini «d’illibata condotta morale e politica», ridotti a cinquanta dal presidente del tribunale (art. 5). I CLN potevano anche designare a far parte dell’ufficio del pubblico ministero «avvocati d’illibata condotta morale, d’ineccepibili precedenti politici e di provata
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capacità» (art. io). (Per un giudizio critico sull’opera dei giudici popo lari, specie nell’ultima fase di vita delle corti, si veda Battaglia, in AA.W., Dieci anni dopo cit., pp. 341 e 356 sg.). Secondo il già citato decreto del clnai del 25 aprile la funzione inquirente era affidata alle «commissioni di giustizia», quella giudicante alle «Corti d’Assise del Popolo e durante lo stato di emergenza ai Tribunali di guerra» (art. 1). Le Corti d’Assise del Popolo sarebbero state composte da un «presidente designato dal cln provinciale d’intesa col primo presidente della Corte d’Appello » e da quat tro giurati da sorteggiare fra i nomi di liste presentate dai partiti del cln stesso (artt. 18-21). 221. Un grottesco esempio è rappresentato dalla seguente sentenza della Suprema Corte: «Qualora una squadra di rastrellamento intenda proce dere solamente all’arresto di partigiani, con esclusione di volontà omi cida, e, per intimorire i partigiani stessi, taluno dei militi spari in aria alcuni colpi, non può il giudice condannare tutti i partecipanti alla squa dra per omicidio volontario, se a quei colpi sparati in aria i partigiani rispon dano con altri colpi, in modo che determinasi una sparatoria nella quale uno di essi partigiani sia ucciso, ad opera del milite della gnr» (processo contro Aretano, 27 febbraio 1947). 222. Su di essa cfr. anche Battaglia, in AA.W., Dieci anni dopo cit., pp. 372-74. 223. Questa norma passò poi in parte nelle disposizioni transitorie e finali della Costituzione: la disposizione xn affidò infatti alla legge ordinaria il com pito di stabilire, per non più di un quinquennio, limitazioni all’elettorato attivo e passivo dei «capi responsabili del regime fascista».
224. Nella Relazione al decreto, Togliatti scriveva che la Repubblica doveva fin dai suoi primi passi presentarsi «come il regime della pacificazione e conciliazione di tutti i buoni italiani» (cfr. Raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti della Repubblica italiana, 1946, voi. 1, p. 9). 225. La Relazione di Togliatti così si esprimeva al riguardo a p. io: «Si è parti ti qui dalla considerazione che non sarebbe giusto perseguire e punire atti - anche gravi - commessi, per una specie di forza d’inerzia del movi mento insurrezionale antifascista, anche dopo che i singoli territori erano passati alTAmministrazione alleata». Per quanto riguarda i partigiani, vanno comunque tenuti presenti anche l’amnistia e il condono «per reati militari» concessi con decreto luogotenenziale 29 marzo 1946, n. 132, ed estesi, dall’art. 15 del decreto del 22 giugno, ai reati compiuti a tutto il 18 giugno 1946. Per estinguere, a lor volta, «reati politici antifascisti» erano stati necessari due decreti: del 5 aprile 1944, n. 96, e del 17 novembre 1945, n. 719. 226. Si veda Battaglia, in AA.W., Dieci anni dopo cit., pp. 362 sg.
227. Cfr. ancora ibid., pp. 363-72, dove fra le altre si cita una sentenza della Corte d’Assise di Treviso, confermata dalla Cassazione il 2 dicembre 1946, che condannò per rapina alcuni partigiani che avevano requisito vettova glie, in base alla considerazione che se nella zona vi fosse stato l’esercito regolare, la requisizione non sarebbe stata necessaria. 228. Si confronti quanto scrive il Michel sul rapido capo volgimento verifica
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tosi in Francia dopo l’ondata epuratrice seguita alla Liberazione: nell’o pinione pubblica si diffuse presto «un tei désir generalise d’oubli et d’union que les Résistants, toujours mus, mais à contre-courant cette fois, par leur passion de justice et leur soif de pureté, seraient dénoncés, par les coupables, souvent sauvés grace à eux, cornine des fanatiques passionnés et cruels» (Michel, Les courants cit., p. 350).
2 29. Di quanto fosse difficile seguire fino in fondo questa logica fornì un esempio la discussione svoltasiin seno al cln ligure il 7 febbraio 1945. Il rappre sentante comunista aveva fatto presente «che la polizia non può of frire alcuna garanzia per mantenere l’ordine pubblico» e aveva ritenuto che «l’ordine pubblico dovrebbe essere affidato al Comando dei parti giani». Si opposero non solo il rappresentante liberale ma anche quello del Partito d’Azione. Proprio quest’ultimo osservò «che la necessaria ed inevitabile epurazione non può per questo far pensare a distruggere e ad accantonare l’organizzazione» (verbale in ismli, clnai, b. 6, fase. 1, s. fase. 2 [ora in Resistenza e ricostruzione in Liguria cit., pp. 198 sg.]. 230. E stato giustamente osservato che «la classe dirigente amministrativa nell’accettare un’ideologia che le attribuisce carattere subalterno ha però un corrispettivo proprio nell’immunità che essa si guadagna nei confronti della società e della politica attraverso il controllo interno dell’accesso, delle carriere e del posto» (Caracciolo e Cassese, Ipotesi cit., pp. 603 sg.).
231. Rinviamo, per tutti, come espressione del clima da cui scaturiva il giudi zio cui accenno nel testo, al paragone che Andreotti fece fra la violenza degli squadristi e quella dei partigiani indicati come chi «anche oggi orga nizza squadre armate e fa, fuor d’ogni dubbio, affidamento sulla effica cia del piombo dei fucili» (Andreotti, Concerto a sei voci cit., p. 15). 232. Il documento additava anche i settori d’immediato interesse della popo lazione nei quali - secondo la linea cui abbiamo già accennato - occor reva prendere misure urgenti e concrete senza «grandi progetti avveniri stici» e senza «anticipare ciò che deve essere risolto dall’Assemblea Co stituente», dove peraltro - precisava ancora il documento - i partiti go dranno di tanto maggiore autorità quanto più avranno contribuito a risol vere gli impellenti problemi dell’oggi. Si aveva anche cura di avvertire che la legge comunale e provinciale prefascista serviva soltanto come punto di riferimento (il documento fu indirizzato il 18 settembre 1944 dal Trium virato regionale Emilia-Romagna « ai Comitati federali » e « ai compagni chiamati a coprire cariche pubbliche»; è conservato in isrr, Sezione C, b. lxix, fase. i). Un «rapportino settimanale» del 15 marzo 1945, senza autore e destinatario, ma da attribuire all’organizzazione militare comu nista, darà «degli uffici della prefettura e, in genere, del ceto impiegatizio» un quadro assai squallido. Gli impiegati sono descritti co me freddi, grigi e scettici: «Anche i partigiani si sacrificano inutilmente - dicono -, tanto noi non ci risolleveremo più (...). Aspireranno poi, questi partigiani - aggiungono - a una sistemazione finanziaria come ricompensa del loro operato?» (isrr, Sezione C, b. cxxi, fase. c).
233. Il giudizio di epurazione era affidato in primo grado a commissioni costi tuite presso i singoli ministeri ed enti; in secondo grado a una «Commis
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sione centrale nominata dal presidente del Consiglio dei ministri e com posta di un presidente, di due magistrati dell’ordine giudiziario 0 ammi nistrativo in servizio o a riposo, di due funzionari delle Amministrazioni centrali e di due membri, designati daU’Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo» (artt. 18-20). 234. Il decreto incluse anche una norma rivolta al futuro: concedeva cioè all’Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo la facoltà di opporsi alle nomine ai primi quattro gradi del personale statale (art. 7). 235. Cfr. le due relazioni del settembre 1945 citate supra a nota 189. Nella relazione sull’incontro romano si legge anche la richiesta di adottare come unica sanzione la dispensa dal servizio: inutile e sciocco, si osservava giu stamente, colpire e rendersi nemici coloro che si lasciano nell’amministra zione. Valiani racconta di una inascoltata proposta di La Malfa - fatta poco dopo il 25 aprile - di sospendere, fino alla Costituente, lo stato giuridico di tutti i funzionari delle pubbliche amministrazioni e licenziare quindi per via diretta coloro che «si fossero rivelati moralmente o tecni camente non all’altezza dei nuovi tempi di democrazia» (L. Valiani, L’av vento di De Gasperi, Torino 1949, p. 22).
236. Cfr. ibid., p. 33.
237. Cfr. Aga Rossi Sitzia, La situazione politica ed economica cit., soprattutto pp. 18-21. Emilio Lussu aveva previsto il salvataggio dei «tecnici» quando aveva scritto: «Meglio valersi d’inesperti che lasciare ai posti di comando autentici gerarchi che saboterebbero la ricostruzione, o girella che vol tando casacca renderebbero ridicolo il nuovo regime con l’enfasi della meta morfosi» (La ricostruzione dello Stato cit., p. io). 238. Ad esempio, il 30 novembre 1944: «Un grande senso di sfiducia e di delu sione serpeggia nel popolo, che vede tuttora ai posti di comando i soliti loschi figuri del fascismo» (articolo Epurazione). «Il Seme» uscì a Firenze dal 30 novembre 1944 al 18 febbraio 1945 (clandestinamente, perché gli alleati non avevano concesso l’autorizzazione). Aveva per sottotitolo «Gior nale socialista» e, nell’articolo di presentazione del primo numero, si dichia rava «espressione non di partito, ma di un gruppo di spiriti liberi» (rin grazio Rosalia Manno per avermi dato queste notizie). 239. Nella lettera di dimissioni da Alto commissario che inviò il 5 gennaio 1945 a Bonomi, Sforza fornì le seguenti cifre sull’opera fino a quella data svolta. Punizione dei delitti: 3000 investigazioni compiute; 1013 processi tra smessi alla magistratura ordinaria o militare; 225 processi istruiti com pletamente dall’Alto commissario. Epurazione dell’amministrazione: erano state costituite 160 commissioni di primo grado che avevano emesso 3210 sentenze di cui 539 di dispensa dal servizio, 1316 di sanzioni minori e 1355 di proscioglimento; si erano avuti 162 appelli contro i prosciogli menti da parte dell’Alto commissario aggiunto. Profitti di regime: 3006 istruttorie e 334 sequestri. Sforza arricchiva le cifre con due osservazioni: «A volte mi son domandato io stesso se non era ipocrisia colpire i soli impiegati quasi fossero i soli colpevoli»; e «nel Nord, dopo la guerra civile, non si rischierà più di incontrarci col fascista che fu di buona fede (...); castighi ed epurazione saranno dunque infinitamente più facili e rapi
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di»: che era aspettativa largamente diffusa (la lettera di Sforza è conser vata in acs, Presidenza del Consiglio dei ministri, Gabinetto, 1944-1947, b. 100, fase. 1-7/10124/4-1; si veda anche l’opuscolo C. Sforza, Le san zioni contro il fascismo, quel che si è fatto e quello che si deve fare. Dichia razioni e documenti inediti, Roma 1945). I dati che Mauro Scoccimarro, Alto commissario aggiunto per l’epurazione, fornì in una Relazione sul l’attività svolta dal 15 agosto al31 dicembre 1944, stampata a Roma a cura
dello stesso Alto commissario aggiunto, differiscono notevolmente da quelli offerti da Sforzar il che ci conferma la difficoltà di un discorso rigoroso. Quanto all’opera svolta direttamente dall’AMG, possiamo offrire un ancor più ristretto campione. In Sicilia gli alleati comunicarono al subentrante governo italiano che «avevano arrestato 1556 fascisti. Di questi 971 furono scagionati, perdonati o condannati con la condizionale. 7234 altri “casi di fascisti” erano sotto inchiesta e furono affidati al governo italiano per la relativa istruttoria » (cfr. L. Mercuri, La Sicilia e gli Alleati, in « Storia contemporanea», III, 1972, p. 953, dove si rinvia a J. A. Hearst jr, The Evolution of Allied Military Government Policy in Italy, tesi Ph. D., Colum bia University, New York i960). Lo Harris esprime il giudizio che la rimo zione dei fascisti fu in Calabria e in Basilicata «rather easier than it was in Sicily», e fornisce i seguenti dati sui podestà allontanati dall’AMG: pro vincia di Reggio Calabria 70 su 89, di Catanzaro 100 su 154, di Cosenza 93 su 152, di Matera 27 su 32, di Potenza 70 su 91 (cfr. Harris, Allied Military Administration cit., pp. 72 sg.). 240. Carlo Scorza aveva scritto in un rapporto a Mussolini del 7 giugno 1943: «Mentre la burocrazia dei gradi inferiori è generalmente onesta e fasci sta, quella dei gradi superiori non è, generalmente, né onesta né fascista» (citato in Deakin, Storia della repubblica di Salò cit., p. 325). La forzatura è evidente; l’osservazione va comunque collegata con l’altra di Scorza che ho citato a p. 76.
241. «Il Popolo», edizione romana, 23 gennaio 1944, aveva parlato di «quella certa burocrazia marginale, d’origine e nomina prevalentemente fascista, annidata nei vari gabinetti e in organismi e organizzazioni più marcatamente fascisti, senza con questo escludere che sapesse e potesse bene insi nuarsi anche tra la burocrazia “tradizionale” e non vi trovasse - meno spesso però di quanto a prima vista sembri - terreno favorevole» (arti colo L’aria e il respiro, a firma «L’uomo della strada»). 242. «L’epurazione sarebbe in definitiva una commedia se si arrestasse alle porte del Quirinale e dei consigli di amministrazione, e questo non è tempo di commedie», disse Nenni a Napoli il 3 settembre 1944, dopo aver denun ciato l’esistenza ancora di troppi prefetti fascisti e di gerarchi fascisti in posti di comando (P. Nenni, Che cosa vuole ilpartito socialista, Roma 1944, p- 12). 243. L’articolo fu ripubblicato su «La Nostra Lotta» del io luglio 1944, pp. 16-20. Togliatti dava per «evidente» che «la maggior parte dell’eser cito italiano sarà ricostituita sotto forma di unità di partigiani » e che le unità regolari del Sud «non potranno essere ristabilite che nel caso in cui il vecchio apparato militare e governativo sarà completamente ripulito
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degli dementi reazionari fascisti e profascisti e quando sarà penetrato dal l’alto al basso un nuovo spirito patriottico, democratico e popolare» (p. 18).
244. Si veda ad esempio «Quelli della montagna, Gazzettino della prima divi sione alpina Giustizia e Libertà» e le «Informazioni dall’Emilia», docu mento garibaldino del 20 ottobre 2944, dove si lamenta che i volontari non abbiano costituito la parte essenziale d’un esercito che deve combat tere la guerra di liberazione e non già «preparare una eventuale lotta armata contro il popolo italiano, cosa alla quale pensa soprattutto l’attuale stato maggiore» (ig, Brigate Garibaldi, Emilia-Romagna, G/IV/2/8).
245. Si vedano le notizie che dà Aga Rossi Sitzia in La situazione politica cit., pp. 33-41, e nei documenti pubblicati in appendice, specie per quanto riguarda il diverso atteggiamento dei comunisti rispetto agli altri partiti della sinistra: pronti a impegnarsi nella ricostruzione delle forze armate i primi, diffidenti e recalcitranti i secondi. 246. Ci limitiamo a rinviare al documento finale dell’unificazione, approvato il 29 marzo 1945 e pubblicato in Atti del Comando generale del Corpo volon tari della libertà, a cura di G. Rochat, Milano 1972, pp. 460-65. Il testo va messo a confronto con le iniziali proposte del Partito comunista (le più elaborate, presentate 1’8 gennaio 1945, custodite in ismli, clnai, b. io, fase. 1 e riassunte in Catalano, Storia del CLNAI cit., pp. 353-55) e del Partito d’Azione (presentate già il 31 dicembre 1944 e sunteggiate ibid., pp. 352 sg., dalle Carte Damiani dello stesso ismli). Cfr. anche Sec chia e Frassati, Storia della Resistenza cit., pp. 922-28. Si veda infine G. Franzini, Storia della resistenza reggiana, Reggio Emilia 1966, pp. 573 sg. e 839 sg., per quanto riguarda il riconoscimento concesso il 20 gennaio 1945 da Casati alla brigata reggiana «Fiamme Verdi» (sotto influenza democristiana), motivato con la circostanza che tutti i suoi uomini «appar tengono a reparti dell’esercito italiano scioltosi in seguito ai noti avveni menti dell’8 settembre 1943» e tutti «indossano regolari uniformi sulle quali figurano i distintivi di grado nonché i segni di appartenenza alle forze regolari dell’Esercito italiano (stellette) », esercito del quale seguono anche le norme disciplinari e amministrative. Peraltro, anche in un caso come questo prudenza voleva che per il futuro si promettesse soltanto che sarebbe stata «esaminata la possibilità di incorporare il Battaglione in un reparto operante italiano».
247. Gli ultimi fascicoli di «La Nostra Lotta» ritornano molte volte su questo tema. 248. I documenti socialisti, redatti, nell’ambito del clnai, l’uno all’inizio l’al tro alla fine del processo di unificazione, sono citati da Catalano, Storia del clnai cit., pp. 355 e 369. 249. Cadorna aveva ammesso che «le necessità della guerra di liberazione impli cano che non si possono riconoscere i gradi rivestiti nel vecchio esercito italiano. Per converso, - aveva subito aggiunto - non si può nemmeno parlare di conferire gradi dell’esercito a comandanti partigiani»: così si legge nelle sue osservazioni al progetto presentato dall’Esecutivo del Partito d’Azione per l’Alta Italia circa l’unificazione delle forze partigiane (ismli, Clnai, b. io, fase. 1, s. fase. 2). In sede non ufficiale Cadorna si espri-
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meva più sinceramente, raccomandando «molta cautela, se non si vorrà inquinare il corpo ufficiali del rinascente Esercito»; e citava i precedenti dei garibaldini (quelli del i860) e addirittura dei legionari cecoslovacchi del 1918. La lotta partigiana, aggiungeva, ha certo rivelato «uomini con reali qualità di guerra», ma con caratteri da «capitano di ventura e pur troppo talvolta anche da brigante» (lettera del 15 gennaio 1945, da Milano, al ministro della Guerra, Casati, conservata in ACS, Carte Casati, b. Ili ed edita in Aga Rossi Sitzia, La situazione politica cit., pp. 147-49). Sul l’atteggiamento del generale cfr. R. Cadorna, La riscossa, Milano 1948, pp. 291 sg.; su quello «somewhat reserved» degli alleati, cfr. Harris, Allied Military Administration cit., p. 282. 250.
Si può forse avanzare l’ipotesi che i socialisti pensassero di farsi in qual che modo interpreti delle resistenze e delle diffidenze che alla unificazionemilitarizzazione affioravano fra i partigiani. Avvertimenti sulla confusione e i pericoli che avevano creato la unificazione dei Francs Tireurs et Parti sans Francis, dell’Armée Secrete e dei Maquis, e la successiva fusione delle Forces Francises de l’Intérieur così costituite con l’esercito rego lare, erano stati inviati il io ottobre 1944 alla direzione del pci e al Comando generale delle Brigate Garibaldi da «Riccardo», reduce da una missione svolta in Francia dal 23 al 30 settembre (ig, Brigate Garibaldi, 05666 [ora in Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, voi. 2 cit., pp. 421-23]).
251.
A titolo di esempio riportiamo le disposizioni contenute in una circolare del Comando regionale lombardo del CVL, 4 maggio 1945, che prevedeva la distinzione dei partigiani in cinque categorie: « 1. Uomini da lasciare immediatamente in libertà dietro versamento del premio di smobilitazione. 2. Uomini da assorbire nell’esercito regolare. 3. Uomini da assorbire nelle forze della Pubblica Sicurezza. 4. Uomini da avviare alle formazioni speciali del lavoro. 5. Uomini da collocare nella vita civile». (ismli, Comando regionale lombardo, b. 94, fase. 7). Si noti che né questi né altri documenti fanno cenno a una eventuale immissione dei partigiani fra i carabinieri. In un successivo «promemoria» dello stesso Comando, 26 maggio, si legge che «per l’immissione nei Reali Carabinieri non vi sono ancora disposizioni» (ibid.).
252.
Romita ha scritto nelle sue memorie di aver provveduto all'arruolamento di circa 15 000 ex partigiani nella polizia ausiliaria creata per sopperire alla deficienza di uomini di quella ordinaria. Quasi a compenso, Romita si vanta di aver riammesso in servizio tutti i funzionari di polizia epurati, «salvo qualche eccezione assolutamente tracurabile» (G. Romita, Dalla monarchia alla repubblica, Milano 1966, pp. 49 e 52).
253.
Cfr. Verso il Governo di popolo cit., pp. 69-71. Sull’animo dei partigiani post-liberazione, incerti dell’avvenire, si veda la sofferta testimonianza di Bernardo, Il momento buono cit., pp. 176 sgg.
254.
Esaminando i pro e i contro alla costituzione di un governo coi soli demo cristiani, liberali e demolaburisti al tempo della crisi fra il primo e il secondo
2Ó2
NOTE
governo Bonomi, Andreotti aveva posto fra i pro la possibilità di evitare «un possibile slittamento delle forze di polizia verso “nuovi” orientamenti» (Andreotti, Concerto a sei voci cit., pp. 35 sg.).
255. Cfr.
ismli, L'Italia dei quarantacinque giorni,
Milano 1969, pp. 179-89.
256. Cfr. P. Badoglio, L’Italia nella seconda guerra mondiale, Milano 1946, PP- 88 sg. 257. Cfr. Missori, Governi, alte cariche cit., pp. 261-521 e 529-32. E bene avverti re subito che i dati ricavabili dall’opera del Missori si riferiscono tutti e soltanto ai prefetti in sede. Non servono cioè per valutare l’assieme dei ruoli prefettizi, che comprendono anche i direttori generali presso il ministero, i prefetti a disposizione del ministro e quelli con incarichi fuori dal ministe ro. Nel complesso, il i° gennaio 1943, i ruoli comprendevano 56 prefetti di 1* classe e 61 di 2a classe, per un totale di 117 (le province erano 94, più quelle fittizie create con l’occupazione della Jugoslavia). Per una valu tazione politica della figura del prefetto a disposizione va ricordato che, di massima, essi sono o particolarmente nelle grazie del ministro o, all’op posto e più frequentemente, in mascherata disgrazia. In periodi burrascosi come quello che ci interessa, l’istituto della disposizione viene utilizzato anche per offrire ai più compromessi una zona di franchigia e riqualificazione.
258. Cfr. C. Senise, Quand'ero capo della polizia, 1940-1943, Roma 1946, p. 214, nonché acs, Presidenza del Consiglio dei ministri, Gabinetto, Prov vedimenti legislativi 1942-43, Ordini del giorno, b. 63; id. id., Interno, b. 17; id. id., Atti sospesi ministero Badoglio, b. 62. Gli autori del volume sui quarantacinque giorni, paragonando (a p. 179) il dato fornito da Senise alle «oltre novanta» province, non tengono conto dei prefetti non in sede. Secondo Badoglio (L’Italia nella seconda guerra mondiale cit., p. 88) «più della metà dei prefetti erano creature del regime», i quali, «se obbedi vano ciecamente agli ordini del Governo fascista, non avevano in gene rale alcuna preparazione per esercitare una carica così importante». Un dato parziale è fornito da Aquarone, L'organizzazione cit., pp. 74 sg.: fino al 1929 furono collocati a riposo 86 prefetti, sostituiti soltanto in 29 casi con elementi tratti dalle file del PNF.
259. Per questi dati cfr. L'Italia dei quarantacinque giorni cit., p. 182, che ricorda anche alcuni casi analoghi di prefetti non in sede. Si vedano anche i docu menti dell’ACS citati alla nota precedente.
260. L'Italia dei quarantacinque giorni cit., p. 181. 261. La tabella che segue tenta un quadro riassuntivo dei movimenti effettuati fra il 25 luglio e 1’8 settembre. Riprendiamo in essa la distinzione tra il periodo di Fornaciari (fino al 9 agosto) e quello di Ricci, che già gli autori del più volte citato volume sui quarantacinque giorni hanno adottato per contestare la tesi di Badoglio, il quale attribuisce a Fornaciari - istigato dal ministro della Real casa, Acquatone - la responsabilità dello scarso rinnovamento iniziale dei quadri prefettizi. I dati della nostra tabella, rica vati dall’opera del Missori e dai documenti citati supra a nota 258, che permettono di attribuire a Fornaciari decisioni rese poi operative da Ricci, si scostano notevolmente da quelli del ricordato volume (cfr. p. 189).
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Fornaciari A riposo A disposizione Dalla disposizione a una sede Trasferiti Richiamati in servizio Promozioni
30
Ricci
Totale
7
37
9 6
I 6*
IO
I
20“
21
7
—
7
IO
2
12
12
* fra i quali 3 dei collocati a disposizione da Fornaciari ** di cui 1 torna al Consiglio di Stato.
Come si vede, fu soprattutto nei trasferimenti che Ricci sopravanzo di gran lunga Fornaciari, mentre nei collocamenti a riposo gli fu notevol mente inferiore. 262. Cfr. Harris, Allied Military Administration cit., p. 41, ove si legge anche che «some Questori and municipal officers were arrested, and others depo sed by Civil Affairs officers». 263. In un primo momento 1’amg aveva nominato Arcangelo Cammarota, pro veniente dall’Azione cattolica e segnalato, sembra, dal clero (cfr. Giarrizzo, Sicilia politica cit., p. io). 264. Sempre secondo il Giarrizzo {.ibid., pp. io sg.) il Pancamo era sostenuto dal demolaburista Giovanni Guarino Amelia. 265. Al prefetto Silvio Innocenti, che era stato nominato il 16 agosto, fu affi dato l’incarico di capo dell’ufficio degli affari civili. Al suo posto fu inviato il prefetto a disposizione Domenico Soprano, che gli alleati avevano rimosso appena entrati a Napoli. 266. Dei prefetti, tutti della carriera «normale», che erano in carica fin da prima del 25 luglio, due furono trasferiti e uno posto a disposizione. Di questi movimenti, l’unico a essere compiuto dopo la formazione del governo di unità nazionale fu l’insediamento a Bari di Falcone Lucifero. 267. A Foggia il generale dei carabinieri installato da Badoglio durante i qua rantacinque giorni, Giuseppe Pièche, fu nominato comandante dell’Arma e sostituito il 15 novembre 1943 con un altro generale. Il Pièche si era conquistato una promozione per meriti eccezionali durante la guerra di Spagna e aveva poi diretto azioni di polizia nei Balcani. Di lui lo Harris (in Allied Military Administration cit., p. 79), ha scritto che fu «a little difficult» fargli capire «the limits of his authority, a matter which was certainly not rendered any easier by a visit from the King of Italy on 30th september». A Catanzaro gli alleati rimossero il prefetto «fascista» ancora in carica e lo sostituirono con Falcone Lucifero. Le altre sei province del gruppo considerato erano passate attraverso la rsi. 268. A Benevento si trattava ancora del prefetto nominato prima del 25 luglio, che durò fino al io ottobre 1944, quando fu collocato a disposizione (ricom parirà ad Ancona il 5 settembre 1945, nominato dal governo Parri al posto di un generale dei carabinieri). A Matera il prefetto nominato nei qua-
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rantacinque giorni fu destinato ad altra sede il 21 ottobre 1943 e sosti tuito con il capo di gabinetto, un segretario di prefettura lasciato in que sto grado inferiore quando Bonomi il 30 marzo 1945 nominò un prefetto di carriera. A Salerno e a Potenza rimasero per tutto il periodo i prefetti dei quarantacinque giorni. Le altre province, delle sedici indicate, ave vano tutte conosciuto l’esperienza della rsi.
269. Del gruppo fanno parte province ex rsi, con l’unica eccezione di Cosenza, dove I’amg lasciò in carica per quasi due mesi il prefetto «fascista» non ri mosso da Badoglio, sostituendolo poi con l’ex deputato Pietro Mancini, socia lista. Questi occupò il posto fino a che, il 22 aprile, non fu nominato ministro senza portafoglio e fu surrogato da un funzionario di carriera reggente, sosti tuito poi a sua volta, da Bonomi, con un nuovo titolare, sempre di carriera. 270. Appartengono a questo gruppo tre province ex rsi, e Avellino e Campo basso, dove duravano ancora prefetti pre-25 luglio, sostituiti rispettiva mente il 9 giugno e il 15 maggio 1944; nonché Napoli, dove I’amg inse diò in un primo momento un prefetto a riposo, e poi, il 13 aprile ’44, un sostituto avvocato generale dello Stato, Francesco Selvaggi. 271. Sull’aspro contrasto sorto fra il cln e il colonnello-podestà, Guido Gui doni Mori, si veda, in isrt, il fase, cln Arezzo. Le province fra la linea del fronte dell’inverno *43-’44 e la linea dell’inverno >44-’45 nelle quali I’amg nominò prefetti non di carriera rimasti in carica per tutto il periodo di amministrazione alleata furono Chieti, Littoria, Lucca, Perugia, Teramo e Terni. Le province in cui i prefetti di carriera subentrarono solo in un secondo momento furono Ancona, Arezzo, Ascoli Piceno, L’Aquila. Le province in cui avvenne il contrario furono Grosseto, Macerata (dove il prefetto non di carriera fu un generale di brigata della riserva) e Roma. Dei prefetti destituiti dagli alleati (includendo nel calcolo anche quelli siciliani) tre furono poi collocati a riposo (ed erano i tre prefetti «fasci sti» di Ragusa, Palermo e Cosenza) e otto a disposizione; di questi ultimi quattro non ricompaiono più in altre prefetture, almeno fino al 2 giugno 1946 (uno di loro era un altro «fascista», già a Trapani). 272. Vanno aggiunte a queste province amministrate dal governo italiano le sette, già ricordate, «del re». Bonomi operò in esse qualche ulteriore movi mento, sostituendo a Bari Falcone Lucifero e a Brindisi il generale della giustizia militare con prefetti di carriera, e cambiando, nell’ambito del la carriera, i prefetti di Cagliari, Nuoro e Sassari (quest’ultimo durava dal 15 giugno 1943).
273. A Catanzaro l’u febbraio Lucifero fu nominato prefetto e posto a dispo sizione perché chiamato a reggere il ministero dell’Agricoltura e foreste; il nuovo prefetto, di carriera, arriverà il io marzo. A Caltanissetta, nomi nato Aldisio ministro dell’interno il 22 aprile, la prefettura rimase affi data al viceprefetto, fino a che Bonomi non inviò il 17 settembre un pre fetto di carriera. A Trapani l’avvocato D’Antoni il 20 maggio fu nominato prefetto e inviato a Palermo; dopo una reggenza affidata al viceprefetto, il 20 agosto Bonomi nominerà un prefetto di carriera. 274. A Salerno il 4 marzo e a Siracusa il i° aprile 1944.
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275. Fra queste province fu Benevento, dove il prefetto era in carica dal 15 giugno 1943. 276. La larga ricostituzione del vecchio apparato, così operata, trova puntuale riscontro nel tenore delle relazioni che i prefetti inviavano a Roma. Elena Aga Rossi, che ne ha pubblicato un certo numero (assieme ad altre dei carabinieri e dell’ispettorato centrale militare) osserva che esse «riflet tono il carattere conservatore e antidemocratico degli organi su cui si fon dava l’autorità del governo, il distacco fra paese e autorità amministra tive, politiche e militari, il significato concreto dell'attuazione del principio della continuità dello Stato» (cfr. Aga Rossi Sitzia, La situazione politica cit., p. 61). In effetti in molti di quei rapporti si nota una specie d’intristito incontro fra il qualunquismo precoce che serpeggiava nel Mezzogiorno e a Roma e quello di antica data che i burocrati sogliono chiamare pru dente obiettività, intessuto di luoghi comuni sulla immaturità del popolo, la faziosità dei partiti ecc.
277. A Grosseto le pressioni del cln provinciale convinsero I’amg - che aveva all’atto del suo insediamento rifiutato la designazione del comuni sta Aster Festa quale «commissario provinciale» (il cln aveva voluto eli minare il nome di prefetto) - a sostituire, il 5 dicembre 1944, il prefetto di carriera con l’azionista avvocato Amato Mati. A Lucca l'avvocato Gio vanni Carignani era democristiano (cfr. La Resistenza e gli Alleati in Toscana cit., pp. 87-91 e 186). A Chieti l’avvocato Gaetano Petrella, da un arti colo, Fiducia, da lui pubblicato 1’8 aprile 2945 su «L’Eco della Regione» (e che ringrazio Carmine Viggiani di avermi segnalato), risulta vagamente liberale. Ad Ancona l’avvocato Oddo Marinelli, presidente del cln, era del Partito d’Azione, che rappresentò poi anche alla Consulta, mentre alla Costituente farà parte del gruppo repubblicano (si veda il necrologio comparso nel «Corriere Adriatico» il 17 gennaio 1972, segnalatomi da Giuseppina Gatella, che ringrazio). 278. Lettera del 12 settembre 1861 a Giuseppe Pasolini, in Lettere e documenti del barone Bettino Ricasoli, pubblicati per cura di M. Tabarrini e A. Gotti, voi. 6, Firenze 1891, p. 142. 279. Indicativa, a questo riguardo, la circolare che Bonomi inviò il 12 aprile 1945 a ministri e sottosegretari per lamentare che membri del governo si recavano nelle province senza avvertire il prefetto: «Ciò viene a meno mare il prestigio del prefetto, anche verso i locali comandi alleati» (tsRT, Archivio Medici-Tomaquinci, b. 1, fase. G, s. fase. Gì, n. 5). 280. Il Medici-Tornaquinci così sintetizzò lo spirito dell’incontro con il CLNAI in un appunto preso presumibilmente durante la discussione stessa: «Pre fetti al di sopra dei partiti no; di partito, ma capaci di mettersi al di sopra dei partiti» (tSRT, Archivio Medici-Tomaquinci, b. 4, «Viaggio nell’Italia occupata», fase. 1, n. 15). 281. La lettera, conservata in ACS, è stata illustrata da D. Ellwood al già ricor dato convegno su «Stato e regioni dalla Resistenza alla Costituzione» [cfr. D. W. Ellwood, L’occupazione alleata e la restaurazione istituzionale: il pro blema delle regioni, in M. Legnani (a cura di), Regioni e Stato cit., pp. 167-96]. Il suo contenuto trova conferma in questo passo di Allied Military Administration cit., p. 283: «The Italian Government naturally
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wished to reserve its right to appoint career officials to these posts» (pre fetti e questori del Nord). Si veda anche la testimonianza di un funziona rio della Commissione alleata di controllo, Upjohn, al quale il vecchio pre sidente avrebbe dichiarato, il 26 aprile, che i cln «non credessero di potersi arrogare il diritto a queste nomine» (cfr. Coles e Weinberg, Civil Affairs cit., p. 543: citato da Aga Rossi Sitzia, La situazione politica cit., p. 48).
282. Harris, Allied Military Administration cit., pp. 283-97. 283. Merita di essere ricordata la proposta, apparentemente massimalista, che era stata fatta dal PLI nel CLN regionale ligure il 26 agosto 1944 (cfr., in isrl, Verbali del cln [ora in Resistenza e ricostruzione in Liguria cit., pp. 76-78]). I liberali avevano allora chiesto che il comitato assumesse tutte le funzioni di governo, comprese quelle prefettizie, così da rendere super flua la nomina di un prefetto. Era un caso evidente di rifugio dietro la regola dell’unanimità, propria del cln, da parte di un partito che rite neva poco probabile conquistare quella fondamentale posizione (che poi invece, forse anche per quell’impennata, riuscì ad ottenere nella persona dell’avvocato Enrico Martino). Ma la proposta liberale portava alla luce una contraddizione reale; tanto è vero che essa verrà, alla vigilia della Liberazione, ripresentata dal Partito d’Azione, evidentemente in tutt’altra chiave, nel cln veneto, anche questa volta senza successo (si veda l’intervento del delegato di quel cln, l’azionista Meneghetti, al x° conve gno dei cln regionali dell’Alta Italia: Verso il Governo di popolo cit., p. 36). 284. E precisamente ad Aosta, Cremona, Ferrara, Rovigo, Udine, Varese.
285. Ad Ancona (dove il sostituito era un generale dei carabinieri), Campo basso (l’ex deputato Veneziale, divenuto - lo si è già accennato - con sultore nazionale per la Democrazia del lavoro), Lucca (il democristiano Carignani, anch’egli nominato dal suo partito consultore nazionale), Mace rata (il già ricordato generale immesso nei ruoli e inviato a Modena), Terni (il dottor Umberto Gerlo, che si qualificava antifascista e repubblicano e dopo qualche tempo si iscriverà alla Democrazia Cristiana: ringrazio Ermanno Ciocca per avermi dato questa informazione). 286. A Perugia rimase l’avvocato Luigi Peano, figlio di Camillo, immesso nei ruoli. A Bologna fu inviato il generale Giovanni D’Antoni, già prefetto badogliano di Milano. A Como fu nominato, il i° marzo ’46, l’avvocato Vittorio Craxi, socialista, già viceprefetto politico di Milano, che sarà osteg giato dai liberali e verrà posto a disposizione il i° marzo 1947, dimetten dosi poi il 28 febbraio 1948. A Milano Riccardo Lombardi, divenuto mini stro dei Trasporti, fu sostituito dall’avvocato Ettore Troilo, comandante della brigata partigiana Maiella. Sarà questi l’ultimo prefetto resistenziale; e quando infine il 25 novembre 1947 De Gasperi e Sceiba lo destitui ranno, asprissima sarà la protesta (una «edizione speciale» di «l’Unità» del 28 novembre avrà come titolo su tutta la prima pagina: Milano risponde all’insulto del Governo. Sciopero generale. Partigiani e lavoratori presidiano la Prefettura).
287. Cfr. Romita, Dalla monarchia cit., pp. 37 sg.
288. Cfr. Pisciteli!, I governi De Gasperi cit., pp. 152 sg. 289. Cfr. L'Italia e il secondo Risorgimento, supplemento alla «Gazzetta tici nese», 17 luglio 1944, a firma Junius; poi in Einaudi, Il Buongoverno cit.,
NOTE
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pp. 52-59. Si vedano, a conferma di quanto accennato nel testo, due fogli clandestini liberali del Nord, entrambi ostilissimi ai prefetti: «L’Idea libe rale, foglio del gruppo pavese del partito liberale italiano», marzo 1945, articolo Libertà e autogoverno-, e «L’Alfiere, foglio di ispirazione liberale» di Asti, 15-30 aprile 1945, articolo Autogoverno in Italia.
290. Nenni scrisse nel suo «taccuino» del 31 gennaio 1946 che nel Consiglio dei ministri «si è molto discusso oggi di prefetti. Romita ha proposto la sostituzione dei prefetti politici con funzionari di carriera. Era tenuto a farlo per ragioni politiche ma poteva sforzarsi, come ha fatto per Milano, di trovare uomini nuovi. Dice che non ce ne sono. Ho fatto rinviare la maggior parte delle nomine. Ci vorrebbe un generale colpo di scena e potrebbe darlo soltanto una Costituente che avesse i poteri di una auten tica Convenzione» (I taccuini di Nenni, in «Avanti! », 22 maggio 1966). 291. Cfr. F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Torino 1961, p. 143. La testimonianza del prefetto nominato a Massa dal CLN, il comandante partigiano cattolico Pietro Del Giudice, è di segno opposto: egli ricevette da Romita un telegramma in cui lo si ringraziava dell’opera svolta e si annunciava l’arrivo del successore (cfr. La Resistenza e gli Alleati in Toscana cit., p. 215). 292. Manca, come ho già accennato, un’analisi completa sulla evoluzione della burocrazia, e in particolare di quella dell’interno, dal fascismo agli anni del dopoguerra. Nella voce Epurazione dell’Enciclopedia dell'antifascismo e della Resistenza, voi. 2, Milano 1971, pp. 222-24, Celso Ghini e Pietro Secchia riportano i seguenti dati: su 64 prefetti di prima classe in servi zio nel i960, 62 erano già funzionari dell'interno durante il fascismo e «analoga situazione si aveva tra gli altri prefetti della Repubblica»; su 241 viceprefetti, tutti erano già in servizio nel periodo fascista; su 135 questori, tutti erano stati in servizio sotto il fascismo, e 15 di essi erano funzionari fin da prima del fascismo; anche i 139 vicequestori - sempre alla data del i960 - erano entrati tutti nell'amministrazione in epoca fascista e «soltanto 5 risultavano avere in qualche modo contribuito alla Guerra di liberazione nazionale collaborando alla Resistenza».
293. Si confronti un’osservazione del Ragionieri, di più ampia portata: «Tali e tanti erano gli spazi associativi lasciati aperti nello sviluppo della società italiana che non potevano non essere riempiti da un regime reazionario di massa che si prefiggesse di inquadrare e di controllare tutti gli strati in qualche misura attivi e produttivi del paese» (E. Ragionieri, Il partito fascista: appunti per una ricerca, in La Toscana nel regime fascista (1922-1939), convegno di studi promosso dall’Unione regionale delle province toscane, dalla provincia di Firenze e dall’istituto storico per la Resistenza in Toscana, Firenze 1971, p. 87). È evidente che larga parte degli spazi così riempiti non si sarebbe più svuotata. 294. È indicativo ad esempio che nel Nuovo Digesto Italiano, uscito fra il 1937 e il 1940, alla voce un vi sia il rinvio alla voce «Banche». 295. Riprendo le parole usate da Caracciolo e Cassese, Ipotesi cit., p. 606. 296. Il Cassese si è spinto, ad esempio, a scrivere che «la maggior parte delle imprese pubbliche fu costituita nelle attuali forme per sottrarle alle norme
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di contabilità dello Stato» (Cassese, Politica e cultura cit., p. 212). Si ricordi che dietro la legge sulla contabilità c’è quel grosso centro di potere ammi nistrativo che è la Ragioneria generale dello Stato, il cui peso venne accre scendosi proprio sotto il fascismo.
297. Citerò due documenti lontani fra loro nel tempo e (ma forse non del tutto) nell’ispirazione. Le Idee ricostruttive della 'Democrazia Cristiana (estate 1943) ricordavano «l'esistenza di taluni istituti che, creati con spirito e scopo di dominio politico, potranno, opportunamente modificati, essere indirizzati a realizzare una migliore distribuzione della ricchezza e ad impe dirne il concentramento in poche mani » (Atti e documenti della Democra zia Cristiana cit., p. 5: la nota editoriale pone Pasquale Saraceno fra i con siglieri di De Gasperi nella stesura del documento). Un ordine del giorno approvato 1’8 agosto 1945 dai cln delle aziende iri, ricordata l’origine dell’istituto «come organo dello Stato con scopi di finanziamento e smo bilizzo» e la gestione fattane dal fascismo «secondo concetti e programmi capitalistici ideati e imposti da un ristretto numero di persone al servizio totale delle idee megalomani ed imperialistiche del fascismo », affermava con risolutezza che I’iri doveva avere, « anche nella nuova Democrazia italiana (...) compiti di finanziamento e coordinamento nel quadro di una economia nazionale socializzata»; e concludeva con la richiesta di ener gica epurazione e d’immissione di delegati dei lavoratori «negli organi sociali» dell’istituto (il testo è riprodotto in «Giovane critica», nn. 34-36, primavera 1973, pp. io sg.). 298. La formula è di Massimo Severo Giannini: si veda in merito Cassese, Poli tica e cultura cit., pp. 127 sgg.
299. Dopo il colpo di Stato dei colonnelli lo storico della Resistenza greca André Kédros ha scritto: «Si è avuta la dimostrazione che il regime democra tico non è compatibile con un apparato statale fascistizzante. Qui è infatti la radice del male. In Grecia l’amministrazione, l’esercito, la polizia, la gendarmeria non sono stati epurati dopo la Liberazione. Essi hanno con servato nei posti chiave, come nei loro effettivi, uomini che erano stati i sostenitori della dittatura fascista d’anteguerra o che avevano aperta mente collaborato con l’occupante» (La fin d'un mythe, in «Le Monde», 25 aprile 1967, citato da E. Collotti, La Resistenza greca tra storia e politica, in «Il Movimento di liberazione in Italia», n. 88, luglio-settem bre 1967, p. 48). Va da sé che facendo questa citazione non ho inteso - quod Deus avertat - proporre un paragone fra l’Italia e la Grecia.
300. De Felice, L'organizzazione dello Stato fascista cit., p. 345.
3. Ancora sulla «continuità dello Stato» 1. Mi riferisco in particolare a C. Pavone, La continuità dello Stato. Istitu zioni e uomini, in E. Pisciteli! e altri, Italia 1945-1948. Le origini della Repubblica, Torino 1974, pp. 137-289 [ora nel presente volume, pp. 70 sgg.] e G. Quazza, Resistenza e storia d'Italia, Milano 1976, che rielabora problemi e ipotesi di ricerca espressi in scritti precedenti. Si vedano al
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riguardo, fra le altre, le osservazioni critiche, di diversa ispirazione, di F. De Felice, La formazione del regime repubblicano, in L. Graziano e S. Tarrow (a cura di), La crisi italiana, Torino 1979, voi. 1, pp. 43-77, e di S. Ristuccia, Amministrare e governare. Governo, parlamento, ammini strazione nella crisi del sistema politico, Roma 1980, pp. xiv sg., xuv. 2. Cfr. R. Romanelli, Apparati statali, ceti burocratici e modi di governo, in V. Castronovo (a cura di), L’Italia contemporanea: 1945-1975, Torino 1976, p. 145; F. Traniello, Stato e partiti alle origini della Repubblica nel dibattito storiografico, in «Italia contemporanea», n. 135, aprile-giugno 1979, p. 5; E. Roteili, I cattolici e la continuità dello Stato: l'ordinamento amministra tivo, in AA.W., La successione. Cattolici, Stato e potere negli anni della rico struzione, Torino 1980, p. 7. 3. Un approccio a questo indirizzo di ricerca è ora riscontrabile in C. Desi deri, L'amministrazione dell'agricoltura (1910-1980), Roma 1981.
4. Si vedano i saggi raccolti in G. Amendola, Gli anni della Repubblica, Roma 1976. 5. Si veda: P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna 1977, e la Introduzione, sempre di Scoppola, a II mondo cattolico e la dc, in R. Ruffilli (a cura di), Cultura politica e partiti nell’età della Costituente, Bolo gna 1979, voi. 1, p. 148; V. Onida, I cattolici e la continuità dello Stato: profili costituzionali, in AA.W., La successione cit., pp. 29-93. 6. Questa è una delle critiche fatte da Franco De Felice in La formazione del regime repubblicano cit., p. 51. 7. Si veda la traduzione italiana: C. Maier, La rifondazione dell'Europa bor ghese, Bari 1979, p. 20. Cfr. in merito Mar. Salvati, Teoria «corporatista» e storia contemporanea, in «Rivista di storia contemporanea», IX, 1980, pp. 621-42. Sulla periodizzazione del Novecento si veda ora quella propo sta da R. Luperini, Il Novecento, Torino 1981, pp. xv-xx: gli anni 1926-56 costituiscono, secondo questo schema, il periodo « delle origini del neoca pitalismo e della sua “ricostruzione”».
8. G. Sabbatucci, Fascist Institutions: Recent Problems and Interpretations, in «The Journal of Italian History», II, n. 1, primavera 1979, p. 76. 9. Cfr. A. Pizzorusso e L. Violante, Dal Regno d'Italia alla Repubblica ita liana: il ruolo dell’Assemblea costituente, in E. Cheli (a cura di), La fonda zione della Repubblica. Dalla costituzione provvisoria alla Assemblea costi tuente, Bologna 1979, pp. 17-30 (le parole citate sono a p. 23).
io. G. Berti, La riforma dello Stato, in Graziano e Tarrow (a cura di), La crisi italiana cit., voi. 2, p. 455.
11. Per un rapido schizzo storico di veda G. Ambrosini, I «corpi separati», in Castronovo (a cura di), L’Italia contemporanea cit., pp. 277-306. 12. Cfr. M. Bloch, La strana disfatta, Napoli 1970, p. 155 e passim.
13. Si veda quanto osserva al riguardo G. Carocci, Storia d'Italia dalla Unità ad oggi, Milano 1975, pp. 136-38. E, in generale, cfr. G. Neppi Modona, Sciopero, potere politico e magistratura. 1870-1922, Bari 1969.
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14. «II Congresso aveva votato la legge Sherman come un'arma del popolo con tro i trust. I tribunali spesso interpretavano la legge come un’arma dei padroni contro i sindacati »: L. Hubermann, Storia popolare degli Stati Uniti, Torino 1977, p. 224 (cfr. anche p. 238). 15. Rinvio al riguardo a un saggio di Anna Rossi-Doria, di prossima pubblica zione [cfr. ora A. Rossi-Doria, Il ministro e i contadini. Decreti Gallo e lotte nel Mezzogiorno (1944-1949), Roma 1983]. 16. Cfr. C. Levi, L'orologio, Torino 1950, pp. 165-75. 17. Su questo punto, attribuendogli potere qualificante, hanno richiamato fra gli altri l’attenzione, oltre a De Felice, La formazione del regime repubbli cano cit., in particolare p. 62, M.G. Rossi e G. Santomassimo, Introdu zione a II pci, in Ruffilli (a cura di), Cultura politica e partiti nell'età della costituente cit., voi. 2, p. 213.
18. L’opuscolo II problema istituzionale, stampato clandestinamente dal Movi mento liberale italiano sotto la data del 15 ottobre 1943, riconosceva che la formula «ritorno allo Statuto», se «era anacronistica nel momento in cui con essa si intendeva annullare la forma di governo parlamentare», era più che mai improponibile come invito a tornare proprio «a quel tipo di governo parlamentare non esente dalla colpa di aver reso possibile il fasci smo» (p. 12). 19. Cfr. la lettera di Croce al conte Sforza, Sorrento, 20 ottobre 1943, pub blicata in appendice a C. Pavone, I Gruppi combattenti Italia. Un fallito tentativo di costituzione di un corpo di volontari nell’Italia meridionale (settembre-ottobre 1943), in «Il Movimento di liberazione in Italia», 1955,
nn. 34-35, pp. ria sg. Croce aggiungeva che «converrebbe sciogliere e rifare» il Senato: un «rifare» che riguardava più le persone che l’istituto. 20. Il capo della polizia, Senise, inviando il 2 agosto 1943 al direttore della colonia di confino di Ventotene istruzioni telegrafiche sulla liberazione dei confinati, così, ad esempio, si esprimeva: «Per attentatori occorre esami nare se loro propositi delittuosi erano diretti soltanto contro personalità cessato regime nel qual caso dovranno essere liberati, aut contro poteri costi tuiti in generale nel qual caso dovranno essere trattenuti » (il telegramma è conservato in Acs e pubblicato da G. Antoniani Persichilli, Disposizioni normative e fonti archivistiche per lo studio dell’internamento in Italia (giu gno 1940-luglio 1943), in «Rassegna degli Archivi di Stato», XXXVIII,
1978. PP- 92 sg.). 21. Sui rapporti con gli alleati rinvio, una volta per tutte, a N. Gallerano, L'in fluenza dell’amministrazione militare alleata nella riorganizzazione dello Stato italiano, in «Italia contemporanea», n. 115, aprile-giugno 1974, pp. 4-23; e a D. Ellwood, L'alleato nemico. La politica dell'occupazione angloameri cana in Italia 1943-1946, Milano 2977.
22. Si veda in proposito C. Macchitella, L'autonomismo, in Ruffilli (a cura di), Cultura politica e partiti cit., L'area socialista, voi. 2, pp. 69-153. 23. Si vedano i due « atti di riconoscimento », da parte del clnai, del Fronte della gioventù e dei Gruppi di difesa della donna, 7 e 16 ottobre 1944 (in « Verso il governo del popolo». Atti e documenti del clnai 1943-1946, a cura di G. Grassi, Milano 1977, pp. 190, 195).
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24. Si veda ora F. Sbarberi, I comunisti italiani e lo Stato 1929-1945, Milano 1980, soprattutto l’ultimo capitolo, La concezione togliattiana della demo crazia progressiva e la teoria del partito nuovo.
25. Al solo scopo di sottolinare quanto sia infida, in sede storiografica, la gene ralizzazione dei giudizi espressi, secondo le varie occasioni, dai protagoni sti della lotta politica, ricordo che anche Togliatti, quando volle schierarsi contro la tesi della continuità dello Stato, parlò di «dualismo di potere indi struttibile» (P. Togliatti, Il partito comunista italiano, Roma 1971, p. 22). 26. Sulla vicenda della Consulta cfr. E. Pisciteli!, Da Parri a De Gasperi. Storia del dopoguerra, Milano 1975, pp. 22-27. 27. Fra le prime lucide diagnosi di questo fenomeno è da annoverare quella di V. Foa, La crisi delia Resistenza prima della liberazione, in «Il Ponte», HI, 1947, nn. 11-12, ora in Id., Per una storia del movimento operaio, Torino 1980, pp. 13-24. Merita di essere ricordato anche G. Dani (pseudonimo di Girolamo Dolmetta), L'offensiva reazionaria, in «La Verità» (Milano), io dicembre 1945.
28. Oltre al già ricordato volume di Pisciteli!, si rinvia ad A. Gambino, Storili del dopoguerra. Dalla liberazione alpotere oc, Bari 1978, e ad AA.W., L'Ita lia dalla Liberazione alla Repubblica, Milano s.d. (atti di un convegno orga nizzato a Firenze nel marzo 1976 dall’istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia). 29. Cfr. G. Andreotti, Concerto a sei voci. Storia segreta di una crisi, Roma 1945.
30. Su questo ruolo di generale legittimazione, posto esplicitamente o implici tamente a base della corrente storiografia, vorrei qui fare particolare rin vio a G. Ferrara, Il governo di coalizione, Milano 1973, dove il tema è svolto con l’irenismo che spesso ispira i giuristi che scrivono di storia.
31. Si tratta del cosiddetto « dibattito delle cinque lettere », svoltosi fra il novembre 1944 e il febbraio 1945, sul quale richiamò per primo l’attenzione R. Bat taglia, Storia della Resistenza italiana, Torino 1964, pp. 499-513. 32. Citato in S. M. Ganci, Appunti per la storia dei comitati di liberazione nazio nale in Sicilia, in M. Legnani (a cura di), Regioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, Bologna 1975, pp. 142 sg. 33. Così si legge nella ordinanza emanata dal sottocapo di stato maggiore della V armata americana per i territori ad essa soggetti (per la Liguria l’ordine fu pubblicato 1’8 maggio). 34. Posso fare un esempio negativo. Il cln di Massa Carrara si lamentò del fatto che il prefetto da esso designato, il socialista Pietro Del Giudice, andasse in giro a dire che i decreti del cln non erano validi (si trattava, in particolare, dei decreti di confisca delle cave di marmo). Il cln provin ciale di Massa così commentava: « Se è anche vero che i decreti non hanno valore, non doveva essere il prefetto a renderlo noto » (verbale della seduta del i° luglio 1945, conservato nell'archivio comunale di Carrara: citato nella tesi di laurea sulla ricostruzione a Massa Carrara con me discussa da Giovanni Andreazzoli presso l'Università di Pisa). 35. DLL 5 ottobre 1944, n. 249, «sull’assetto della legislazione nei territori liberati».
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36. «Verso il governo del popolo» cit., pp. 172-74. 37. Cfr. M.S. Giannini, La Repubblica sociale rispetto allo Stato italiano, in «Rivista italiana per le scienze giuridiche», s. Ill, V, 1951, pp. 330-417. 38. Si veda P. Calamandrei, Cenni introduttivi sulla Costituente e sui suoi lavori, in Commentario sistematico alla Costituzione italiana diretto da P. Calaman drei e A. Levi, Firenze 1950; poi in Id., Opere giuridiche, a cura di M. Cappelletti, voi. 3, Napoli 1968 (cfr. p. 297 di quest’ultima edizione). 39. Rinvio su questo punto al già ricordato saggio di Anna Rossi-Doria [cfr. supra, nota 15].
40. Si veda ad esempio l’intervento al primo congresso dei cln (della provin cia di Milano, 5 agosto 1945; pubblicato con il titolo Valore e funzione dei cln comunali, aziendali e periferici, in R. Morandi, Lotte di popolo I937'I945, Torino 1958, pp. 138-41. 41. Imporre il controllo dei lavoratori sulle attività economiche e produttive, rela zione tenuta il 23 gennaio 1948 al XXVI congresso del psi, Roma (ora in R. Morandi, Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica, Torino i960, pp. 284-91). Sull’esperienza di governo di Morandi si veda ora M. Battini, Rodolfo Morandi ministro dell'industria, in «Rivista di storia contem poranea», X, 1981, pp. 461-88. 42. Traggo la notizia dai risultati di una ricerca di Marcello Flores, di pros sima pubblicazione a cura dell’istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia [cfr. ora M. Flores, Governo e potere nel periodo transitorio, in AA.W., Gli anni della Costituente. Strategia di governi e delle classi sociali, Milano 1983, pp. 1-75]. 43. Citato in Ganci, Appunti per la storia cit., p. 160. 44. La più compiuta ricostruzione d’insieme è quella di M. Flores, L’epura zione, in AA.W., L'Italia dalla Liberazione alla Repubblica cit., pp. 413-67. Sono da auspicare ricerche analitiche e quantificabili come quelle svolte in Francia, delle quali il «Bullettin trimestriel de l’Institut d’histoire du temps present» ha dato periodicamente notizia.
45. Un classico di questo genere di letteratura è da considerare R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne in Italia, il cui voi. 4 (Roma 1976) copre gli anni dal 1922 al 1948. 46. Si veda al riguardo A. Gibelli, Le lotte degli statali nella esperienza della cgil unitaria, in «Italia contemporanea», n. 127, aprile-giugno 1977, pp. 3-29. 47. Sul rapporto burocrazia-sistema democristiano di potere debbo limitarmi a rinviare al già citato saggio di Romanelli e a R. Cavana e M. Sciavi, Gli statali 1923-1978: autonomi e confederali tra politica e amministrazione, Torino 1980. 48. I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione era stato il titolo dell’opera pubblicata da Marco Minghetti nel 1881. Saragat ne scrisse, nel gennaio 1945, la Introduzione a una nuova edizione (vedila ora in G. Saragat, Quarantanni di lotta per la democrazia. Scritti e discorsi 1925-1965, Milano 1966, pp. 260-63). 49. Rossi e Santomassimo, Il PCI cit., p. 223, dove si fa rinvio a E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, voi. 4, t. 3, Torino 1976,
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pp. 2464 sg. Si veda quanto scriveva Jemolo nel 1948: «I loro [del pci] intellettuali ripugnano a tutto ciò che è amministrazione, che è diritto: che è almeno l’amministrazione e il diritto come noi li concepiamo (della loro attitudine a creare un nuovo Stato, un nuovo ordinamento, nulla posso dire)»: A.C. Jemolo, Comunisti e intelligenza, in «Il Ponte», IV, 1948, p. 220. 50. Nel 1978 Sciascia osserverà che «il richiamo e la congenialità per cui almeno un terzo dell’elettorato italiano si riconosceva e si riconosce nel partito della Democrazia Cristiana risiedono appunto nell’assenza, in questo partito, di un’idea dello Stato: assenza rassicurante, e si potrebbe anche dire ener getica» (L. Sciascia, L'affaire Mioro, Palermo 1978, p. 32). Naturalmente, il rapporto della DC con lo Stato non si esaurisce nel suo rapporto con l’idea di Stato. 51 ■ Sulle affinità elettive fra DC e ceto burocratico, buone osservazioni in Roma nelli, Apparati statali cit., specie a p. 163.
52. Si veda, per tutti, C. Daneo, La politica economica della ricostruzione, 1945-1949, Torino 1975. 53. Cfr. E. Sereni, Illusioni costituzionali, in «Rinascita», IV, 1947, n. 9, pp. 239-43. L’articolo di Sereni, che contiene una realistica valutazione del la continuità degli apparati statali, è notevole per il significato autocritico, appena attenuato dalle accuse alla DC e dal rinvio alla ingenuità delle masse. 54. Scelgo, tra le tante possibili, una testimonianza significativa per la sua prove nienza da una zona periferica fra le più bianche d’Italia. Replicando ad un invito dei partiti di sinistra a partecipare a un comizio per sollecitare la convocazione dell’assemblea, la DC lucchese dichiarava: «Non è opera educativa insegnare alle masse che la Costituente risolverà il problema del carovita, dell’assistenza popolare e del potere della lira, poiché (...) la Costi tuente ha il solo e fondamentale scopo di restaurare l’ordine giuridico dello Stato»: cfr. «La Gazzetta del Serchio», 15 ottobre 1945, citato nella tesi di laurea di Marta Quirini sulla ricostruzione a Lucca, con me discussa presso l’Università di Pisa. 55. Possono essere sufficienti due citazioni: quella delle parole con cui Togliatti concludeva l'articolo scritto per il primo fascicolo di «Rinascita», giugno 1944: «Noi assicuriamo al popolo la libertà di esprimere liberamente domani in Assemblea costituente la sua volontà sovrana su tutte le questioni della ricostruzione del paese » (Ercoli, Classe operaia e partecipazione al governo, p. 5); e quella delle parole pronunciate dallo stesso Togliatti nel suo rap porto al V congresso del pci, svoltosi a Roma dal 29 dicembre 1944 al 6 gennaio 1945: «La Costituente dovrà essere sovrana, avendo facoltà di deli berare su tutte le questioni che si presenteranno al Paese nel periodo della sua esistenza» (P. Togliatti, Rinnovare l'Italia, Roma 1946, p. 42). 56. Traggo l’osservazione, indicativa della coesistenza di impegno politico e di disagio teorico, dalla tesi di laurea di Daniele Nannini sulla campagna elettorale del pci per l’Assemblea costituente, con me discussa presso l’Uni versità di Pisa. 57. Ranelletti parlerà della Costituente come di «organo rappresentativo straor dinario dello Stato italiano, con le sole competenze a lui attribuite dalla nostra legislazione»: citato in Calamandrei, Opere giuridiche cit., p. 319. 58. Cfr. G. Saragat, Quarant'anni di lotte per la democrazia cit., p. 336.
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59. Si veda Pizzorusso e Violante, Dal regno d’Italia cit., p. 26. Cfr. ora il volume (Bologna 1980) in cui Caterina Fiumano e Roberto Romboli hanno pubbli cato i verbali delle quattro commissioni consultive istituite dall’Assemblea costituente per l’esame dei provvedimenti di legislazione ordinaria ema nati dal governo. Degli stessi autori cfr. anche il precedente saggio L’Assem blea costituente e l’attività di legislazione ordinaria, in Cheli (a cura di), La fondazione della Repubblica cit., pp. 381-441. Ma si vedano anche le con vincenti osservazioni critiche di Onida, Icattolici cit., pp. 6r sgg. e nota 113. 60. Sulla distinzione delle norme costituzionali in precettive, precettive ad attua zione differita, programmatiche, cfr. P. Calamandrei, La Costituzione e le leggi per attuarla, in AA.W., Dieci anni dopo. 1945-1955, Bari 1955, pp. 217 e 228. La distinzione risaliva ad una sentenza della Cassazione a sezioni unite penali del 7 febbraio 1948.
61. Si veda al riguardo V. Accattatis, L. Ferrajoli e S. Senese, Per una magi stratura democratica, in «Problemi del socialismo», XV, 1973, pp. 149-82. 62. Cfr. P. Petta, Ideologie costituzionali della sinistra italiana (1892-1974), Roma 1975. P- Io563. Disposizione VI sulla revisione dei minori organi di giurisdizione speciale; disposizione IX sull’adeguamento della legislazione alle esigenze delle auto nomie locali e alla competenza legislativa delle regioni. 64. Disposizione VII, in cui si parla genericamente della emanazione di una «nuova legge sull’ordinamento giudiziario in conformità con la Costitu zione»; diposizione Vili con la previsione, senza scadenza, di «riordina mento» e di «distribuzione delle funzioni amministrative fra gli enti locali».
65. Cfr. Petta, Ideologie costituzionali cit., pp. nosg. 66. Ancora nel 1961 Togliatti affermerà: «Noi volevamo e vogliamo un parla mento il quale effettivamente diventi organo dirigente di tutta la vita politica e organo di controllo effettivo anche dello sviluppo della vita economica » (P. Togliatti, Il Partito comunista e il nuovo Stato, in AA.W., Fascismo e antifascismo (1956-1948). Lezioni e testimonianze, Milano 1962, p. 644). Non mancano nella pubblicistica resistenziale e postresistenziale critiche al parlamento e al parlamentarismo; esse tuttavia ebbero scarsa efficacia sul piano legislativo. 67. Un precedente della Corte costituzionale, significativo per il momento in cui fu formulato, si può trovare nella richiesta, contenuta nella mozione approvata dal Partito socialista dei lavoratori italiani nella riunione clan destina del 21 ottobre 1926, di una «azione popolare di reclamo, ad una Corte speciale eletta dal popolo, per tutte le violazioni del potere pubblico contro i diritti dei cittadini ». I due caratteri - azione d’iniziativa popo lare, corte eletta dal popolo - saranno entrambi esclusi dalla Corte così come configurata dai costituenti (la mozione è edita in appendice a N. Tranfaglia, Carlo Rosselli dall’interventismo a «Giustizia e Libertà», Bari 1968: vedi p. 366). Della necessità storica di allontanarsi da un sistema che «pure attuando la classica struttura dello Stato parlamentare non seppe, esso, evi tare il totalitarismo» parla F. Calasso, Prologo in cielo, in «Il Nuovo Cor riere», Firenze, 14 maggio 1947 (ora in Id., Cronache politiche di uno
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storico (1944-1948), a cura di R. Abbondanza e M. Caprioli Piccialuti,
Firenze 1975, pp. 201-3).
68. A rigore, la distinzione era stata introdotta, quasi di sfuggita, dall’art. 12 della legge 9 dicembre 1928, n. 2693, sul Gran consiglio del fascismo. 69. Fra i leader delle sinistre fu Lelio Basso l’unico a patrocinare senza riserve la istituzione del referendum (cfr. L. Basso, Ilprincipe senza scettro. Demo crazia e sovranità popolare nella costituzione e nella realtà italiana, Milano 1968, soprattutto pp. ryo-8o). 70. «Si può arrivare a sancire la revocabilità del mandato parlamentare, qua lora gli elettori constatino che il loro rappresentante non ha tenuto fede agli impegni assunti e non serve alla loro causa » (Togliatti, Rinnovare l'Ita lia cit., p. 58). L’articolo 142 della Costituzione sovietica recitava: «Ogni deputato è tenuto a rendere conto davanti agli elettori del proprio lavoro e del lavoro del Soviet dei deputati dei lavoratori e può essere richiamato in qualunque momento, per decisione della maggioranza degli elettori, secondo la procedura stabilita dalla legge». 71. Sbarberi, I comunisti italiani cit., p. 186.
4. La Resistenza oggi 1. La prima trasmissione televisiva sulla Resistenza è del 1961 in occasione della cerimonia per l’ossario di Marzabotto, svoltasi alla presenza del ministro della Difesa, Giulio Andreotti (informazione contenuta nella relazione svolta da Chiara Ottaviano, Un caso di studio: la televisione italiana e la storia, nel convegno sull’uso pubblico della storia, organizzato a Roma dal 1° al 3 marzo 1993 dall’istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza). Precedentemente, in un convegno tenutosi a Saint-Vincent nel 1985, era stato ricordato che la radio fino al 1953 aveva taciuto della Resistenza, fatta eccezione per le celebrazioni del 25 aprile, affidate il più delle volte al generale Cadorna (G. Crainz e N. Gallerano, I documentari televisivi sulla Resistenza, in AA.W., Cinema, Storia, Resistenza. 1944-1985, Milano 1987, pp. 125-57).
2. Nel convegno dell’istituto romano citato nella nota precedente Gabriele Ranzato, che ha svolto una relazione su La storia della guerra civile nella Spagna postfranchista: uso e disuso, ha ricordato che limitatissime sono le modifiche apportate nella toponomastica imposta dal regime. In Italia invece, come sappiamo, è stata fatta una radicale piazza pulita della toponoma stica fascista ed è stato dato spazio a una toponomastica d’ispirazione anti fascista e resistenziale. 3. Ricordo i principali: Dall’antifascismo alla Resistenza. Trent'anni di storia italiana (1915-1945), Torino 1961; Lezioni sull'antifascismo, a cura di P. Permoli, Bari 1962; Fascismo e antifascismo (1936-1948). Lezioni e testi monianze, Milano 1962, 2 voli.
4. II volume II Secondo Risorgimento, edito a cura del ministero della Pubbli ca Istruzione in occasione del decennale della Liberazione, Roma 1955, con
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scritti di A. Garosci, L. Salvatorelli, C. Primieri, R. Cadorna, M. Bendi amoli, C. Mortati, P. Gentile, M. Ferrara, F. Montanari, può essere consi derato un tentativo di ricomposizione unitaria sub specie moderata della ancora fresca esperienza resistenziale. Si veda di contro il più articolato e critico Dieci anni dopo (1945-1955). Saggi sulla vita democratica italiana, edito da Laterza nel 1955, d’ispirazione laica: vi collaborarono A. Battaglia, P. Cala mandrei, E. Corbino, G. De Rosa, E. Lussu, M. Sansone, L. Valiani.
5. E indicativo che nel volume di L. Valiani, G. Bianchi ed E. Ragionieri, Azio nisti, cattolici e comunisti nella Resistenza, Milano 1971, che raccoglie parte degli atti di un convegno organizzato nel 1968 dall’iNSMLl sui partiti poli tici nella Resistenza, mentre il primo e il terzo dei nomi che figurano nel titolo sono appunto quelli di partiti, il secondo individua una categoria ben più vasta. A titolo esemplificativo si ricordano qui, per le diverse imposta zioni cui si ispirano: P. Mazzolati, La Resistenza dei cristiani, Vicenza 1965; AA.W., Aspetti religiosi della Resistenza, Atti del convegno nazionale, Torino 18-19 aprile 1970, Torino 1972; AA.W., Il clero toscano nella Resistenza, Atti del convegno di Lucca, 4-6 aprile 1975, Firenze 1975; i contributi di G. Miccoli, M. Reineri, S. Tramontin (scrittore molto fecondo), L. Briguglio, contenuti nella terza parte di AA.W., Società rurale e Resistenza nelle Venezie, Milano 1978, che pubblica gli Atti di un convegno organizzato dal l’istituto veneto per la storia della Resistenza. Di Miccoli si veda anche Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Casale Monferrato 1985. 6. Cfr. l’intervista concessa a Rossana Rossanda, pubblicata in «il manifesto» (mensile), I, 1969, n. 4, pp. 41-54, con il titolo II rischio della spontaneità, la logica dell'istituzione. Patri non voUe sottrarsi a un confronto con posi zioni che Io addoloravano e talvolta lo offendevano. Si rivolse con le parole che seguono ai «ragazzini» che commiseravano gli ex partigiani «come reducisti da sfilata»: «E il passato di dolore e di sangue che è nell'animo nostro che può aiutare non a capire, ma a sentire, la grandezza di Ho Ci Minh e del suo popolo, meglio che la vostra furia polemica» (F. Parti, La Resistenza sotto accusa, in «Astrolabio», VII, 1969, n. 36, p. ir). 7. L’articolo di Pietro Secchia, commissario generale delle Brigate Garibaldi, comparve in «La Nostra Lotta», I, r943, n. 6, pp. 16-19. Secchia raccolse poi i suoi articoli postresistenziali sotto il titolo La Resistenza accusa. 1945-1973, Milano 1973. A sua volta Luigi Longo, comandante generale delle Brigate Garibaldi, intitolò una raccolta di suoi articoli Chi ha tradito la Resistenza, Roma 1975. Longo ha sempre rappresentato l’aspetto più com battentistico, di fronte a quello più ideologico di Secchia. Per il sinistrismo resistenziale cfr. ora A. Peregalli, L'altra resistenza. Il PCI e le opposizioni di sinistra, 1943-1945, Genova 1991. 8. Un’attenta e sensibile ricostruzione del ruolo svolto dagli eventi del ’68 sulla formazione della giovane storiografia resistenziale è stata fatta da A. Gibelli, in «Storia e memoria», edita dall’istituto storico della Resistenza in Ligu ria, I, 1992, n. 1, pp. 79-84. 9. Seri tentativi di porsi in maniera critica dinanzi a questa fase furono il fascicolo Fascismo e antifascismo negli anni della Repubblica, che la rivista «Problemi del socialismo» pubblicò nel 1986 a cura di N. Gallerano, e il convegno
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Attualità dell'antifascismo, organizzato nel dicembre 1989 dall’istituto storico
della Resistenza in Cuneo e provincia: gli Atti sono parzialmente pubbli cati nella rivista dell'istituto, «Il presente e la storia», 1992, n. 41. io. Cfr. R. Romeo, Nazione, in Enciclopedia del Novecento, voi. 4, Roma 1979. p. 632.
11. Un primo bilancio della storiografia sulla Resistenza fu fatto in un conve gno svoltosi a Genova nel maggio 1959. In esso Roberto Battaglia abbozzò una periodizzazione cheparlava di una prima ondata memorialistica distinta in «biografica» e «militare» (o «politico-militare»), ritenuta conclusa con la triade formata dai libri di tre protagonisti di primo piano: L. Longo, Un popolo alla macchia, Milano 1947; L. Valiani, Tutte le strade condu cono a Roma, Firenze 1947; R. Cadorna, La riscossa. Dal 25 luglio alla libe razione, Milano 1948. Una svolta fondamentale si era avuta, sempre secondo Battaglia, con il convegno di Venezia su La Resistenza e la cultura italiana (22-25 aprile 1950), con la fondazione, a opera di Ferruccio Parri (1949), dell’istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, e con la pubblicazione, curata da P. Malvezzi e G. Pirelli, delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana, Torino 1952. 12. Ed. it. F. Chabod, L'Italia contemporanea (1918-1948), Torino 1961. Cfr. il cap. 1 della parte III: La guerra e il crollo del regime fascista. La Resistenza. 13. Questa distinzione, che valorizza lo sbocco repubblicano del ciclo di eventi 1943-46 senza nascondere gli obiettivi mancati, va in una direzione ana loga a quella recentemente seguita da Paul Ginsborg. Lo studioso inglese, infatti, ritiene che «guerra democratica», piuttosto che la tripartizione guerra patriottica, guerra civile, guerra di classe, sia la formula che meglio per mette di concentrare l’attenzione sia sugli scopi che sugli esiti della Resi stenza (P. Ginsborg, Resistenza e riforme in Italia e in Francia, 1943-1948, in «Ventesimo Secolo», II, 1992, pp. 297-319). La tripartizione sopra ricor data era stata proposta da C. Pavone, Le tre guerre: patriottica, civile e di classe, relazione al convegno di Belluno del 27-29 ottobre 1988 (ora in M. Legnani e F. Vendramini (a cura di), Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Milano 1990, pp. 25-36).
14. Per la tesi della continuità cfr. innanzi tutto i molti interventi di Guido Quazza e la sintesi che egli ne fa fatto in Resistenza e storia d’Italia (cfr. oltre). Cfr. anche C. Pavone, La continuità dello Stato. Istituzioni e uomi ni, in E. Pisciteli! e altri, Italia 1943-1948. La nascita della Repubblica, Torino 1974, pp. 139-289; Id., Ancora sulla continuità dello Stato, in R. Paci (a cura di), Scritti storici in memoria di Enzo Piscitelli, Padova 1982, PP- 537’68 [ora entrambi nel presente volume, rispettivamente pp. 70 sgg. e 160 sgg.]; Id., Italia: Resistenza e unità nazionale, in AA.W., Dopo l’Ottobre, introduzione di A. Natoli, Milano 1977, pp. 255-68. Sul ruolo avuto in questa vicenda dalla nascita dell’ordinamento regionale cfr. E. Roteili, L'avvento della regione in Italia: dalla caduta del regime fascista alla Costitu zione repubblicana (1943-194-/), Milano 1967 e i saggi raccolti in M. Legnani (a cura di), Regioni e Stato dalla Resistenza alla Costituzione, Bologna 1975.
15. Lettera del fratello del generale Raffaello Operti, Piero, al ministro della Guerra, il liberale Alessandro Casati (acs, Carte Casati, fase. H). L’arti
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colo di Moro è stato citato da Ugo De Siervo in un seminario presso l’Università di Pisa.
16. Crispi e lo «Stato di Milano» è il titolo di un libro di Fausto Fonzi (Milano 1965) ripreso da una espressione polemica cara a Francesco Crispi. L’espres sione «grasso Belgio della Valle padana» è di Adolfo Omodeo, quando fa merito al conte di Cavour di non avere avuto paura a oltrepassare l’Ap pennino (A. Omodeo, L’opera politica del conte di Cavour, voi. 2, Firenze 1945, 3“ ed., p. 206). Nella lettera del Partito d’Azione che diede avvio al «dibattito delle cinque lettere» (cfr. infra, nota 24) c’era una chiara presa di posizione contro la frattura fra Nord e Sud; e questo era l’atteggiamento dei principali capi della Resistenza (ricordo esplicite affermazioni di Parri in questo senso). 17. Sul primo punto rinvio ad A. Rossi-Doria, Il ministro e i contadini. Decreti Gullo e lotte nel Mezzogiorno (1944-1949), Roma 1983. Sul secondo punto mi limito a ricordare le osservazioni in tal senso fatte più volte in scritti e in convegni da Gaetano Arfé, anche in base ai ricordi della sua espe rienza di giovane militante socialista nel Mezzogiorno.
18. Cfr. al riguardo M. Occhipinti, Una donna di Ragusa, preceduta da un sag gio di E. Forcella, Un altro dopoguerra, Milano 1976; nonché alcuni dei saggi raccolti in N. Gallerano (a cura di), L'altro dopoguerra. Roma e il Sud, 1943-1945, Milano 1985. 19. Nell’ambito e sotto la spinta di alcuni Istituti di storia del movimento di liberazione sono state condotte ricerche sulla partecipazione alla Resistenza di cittadini delle regioni che non la conobbero. Ricordo per tutti: I. Sangineto, I calabresi nella guerra di liberazione, I: I partigiani della provincia di Cosenza, Cosenza 1992; S. Sechi (a cura di), I sardi nella Resistenza e nella guerra di liberazione, in M. Brigaglia, F. Manconi, A. Mattone e G. Melis (a cura di), L'antifascismo in Sardegna, Cagliari 1986, voi. 2, pp. 131-256. Nel « Bollettino dell’istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e del l’Italia contemporanea», Vili, 1992, n. 2, è comparsa alle pp. 49-62 un’inte ressante intervista a Italo Nicoletta, crotonese, che fu valoroso comandante partigiano nelle valli del Piemonte (era il «superiore» di Guido Quazza). 20. Il romanzo autobiografico di G. Rimanelli, Tiro al piccione, Milano 1953 (poi Torino 1991) contiene belle pagine sull’accoglienza che in un paese del Molise viene fatta, in ambiente piccolo-borghese, al protagonista reduce da un reparto della rsi: interesse scarsissimo a comprendere, e desiderio di riassorbire al più presto un’esperienza estranea e lontana, che disturba la memoria che si vuole serbare senza troppi traumi del regime fascista. Sui reduci della rsi cfr. A. Bistarelli, Sconfitti due volte. Le associazioni dei reduci di Salò, in Legnani e Vendramini (a cura di), Guerra, guerra di libera zione, guerra civile cit., pp. 391-400. 21. La ia ed. è del 1953; la 2a, che l’autore non ebbe il tempo di condurre a completa revisione, è del 1964. Una raccolta di scritti minori fu curata da E. Ragionieri con il titolo di Risorgimento e Resistenza, Roma 1964. Dalla posizione di privilegio cui si accenna nel testo l’opera di Battaglia non è stata scalzata da alcuno dei libri che qui di seguito si elencano: M. Salva-
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dori, Storia della Resistenza italiana, Venezia 1955; R. Carli Ballola, Storia della Resistenza, Milano-Roma 1957 (za ed., con il titolo di La Resistenza armata, Milano 1965); G. Bocca, Storia dell'Italia partigiana, Bari 1966. Va piuttosto ricordato, per il suo valore pionieristico, F. Catalano, Storia del clnai, Bari T956, che oggi va letta in controluce con «Verso il governo del popolo». Atti e documenti del clnai 1943-1946, a cura di G. Grassi, Milano
197722. Roma-Firenze-Milano 1945.
23. Testimonianza all’autore di Vittorio Foa. 24. Per «dibattito delle cinque lettere» si intende la discussione innescata dal Partito d’Azione nel novembre 1944 e conclusasi con la tardiva risposta della Democrazia Cristiana, redatta a Roma nel gennaio r945 (nell’opera di Battaglia cfr. pp. 499-513). 25. Battaglia, Storia della Resistenza cit., p. in. In una discussione presso l’isti tuto campano per la storia della Resistenza (1992) Gloria Chianese e Guido D’Agostino contestarono la visione spontaneistica e «tellurica» (uso una parola messa in voga da C. Schmitt, Teoria del partigiano, Milano 1981; ed. orig. Theorie des Partisanen, Berlin 1963) delle quattro giornate. Il discorso mi sembra debba rimanere aperto. Ma va ricordato che Battaglia valorizzava molto i poco studiati episodi di resistenza avvenuti durante la ritirata delle truppe tedesche a sud di Salerno. Egli parta infatti di « quell’ignorata “rivolta del Mezzogiorno” che s’accese nella parte più stretta della penisola» (ibid., p. 112).
26. Cfr. Canti della Resistenza italiana, raccolti e annotati da T. Romano e G. Solza, con introduzione di R. Leydi, Milano i960. Per la precedente citazione di R. Battaglia si veda Storia della Resistenza cit., p. 270. 27. Cfr. su questo punto F. Castelli, Antropologia linguistica della Resistenza: i nomi di battaglia partigiani, in «Rivista italiana di dialettologia. Scuota, società, territorio», X, 1986, pp. 161-218. 28. Battaglia, Storia della Resistenza cit., p. 550. Su piazzale Loreto cfr. ora M. Isnenghi, Il corpo del duce, in S. Bertelli e C. Grottanelli, Gli occhi di Alessandro. Potere sovrano e sacralità del corpo da Alessandro Magno a Ceau sescu, Laboratorio di storia, 2, Firenze 1990, pp. 170-93; M. Dondi, Piaz zale Loreto 29 aprile: aspetti di una pubblica esposizione, in «Rivista di sto
ria contemporanea», XIX, 1990, pp. 219-48. Sulla rsi in generale il miglior tentativo di riflessione storiografica è stato compiuto in un convegno orga nizzato dalla Fondazione Micheletti di Brescia (dal 4 al 5 ottobre 1985): se ne vedano gli atti negli Annali della stessa Fondazione, 2, 1986. Si veda anche G. Bocca, La Repubblica di Mussolini, Roma-Bari 1977. 29. Sottotitolo: Problemi e ipotesi di ricerca, Milano 1976.
30. G. Quazza, Un diario partigiano, in Id., La Resistenza italiana. Appunti e documenti, Torino 1965. 31. Per la precisione: Istituto per la storia della Resistenza e della società con temporanea della provincia di Alessandria; Id. per la provincia di Asti; Id. per la provincia di Vercelli; Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea; Istituto lucano id.; Istituto calabrese id.; Isti tuto di Imperia id.; Istituto regionale Ferruccio Parri per la storia del movi
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mento di liberazione e dell’età contemporanea in Emilia Romagna; Isti tuto sardo per la storia della Resistenza e dell’autonomia; Istituto siciliano per la storia dell’Italia contemporanea; Istituto romano per la storia d'Ita lia dal fascismo alla Resistenza; Istituto per la storia della Resistenza e del l’età contemporanea in provincia di Lucca; Id. in provincia di Macerata; Id. in provincia di Varese; Istituto storico della Resistenza e di storia con temporanea, Modena; Istituto milanese per la storia della Resistenza e del movimento operaio, Sesto San Giovanni. Quanto alle riviste: «Mezzo secolo. Materiali di ricerca» (Istituto regionale piemontese); «Il presente e la sto ria» (Cuneo); «Quaderni di storia contemporanea» (Alessandria); «Annali di ricerca contemporanea» (Novara); «Annali. Studi e strumenti di storia metropolitana milanese» (Sesto San Giovanni); «Storia in Lombardia» (Isti tuto regionale lombardo); « Studi e ricerche di storia contemporanea » (Ber gamo); «Studi bresciani» (Brescia); «Protagonisti» (Belluno); «Storia con temporanea in Friuli» (Udine); «Quale storia» (Istituto regionale Friuli Venezia Giulia); «Storia e memoria» (Istituto regionale ligure); «Studi piacentini» (Piacenza); «Studi e documenti» (Parma); «Ricerche storiche» (Reggio Emilia); «Storia e storie» (Rimini); «In-formazione» (Firenze); «Storia e problemi contemporanei» (Istituto regionale delle Marche). 32. Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Milano 1974, con scrit ti di G. Bertolo, E. Brunetta, C. Dellavalle, N. Gallerano, L. Canapini, A. Gibelli, L. Guerrini, M. Ilardi, M. Legnani, Mar. Salvati, prefazione di G. Quazza. 33. Quanto alla dimensione internazionale si ricordano: G. Vaccarino, Storia della Resistenza in Europa. 1938-1943, I: Ipaesi dell'Europa centrale: Ger mania, Austria, Cecoslovacchia, Polonia, Milano 1981, e, dello stesso autore, La Greciafra Resistenza e guerra civile, 1940-1949, Milano 1988. 34. Questo punto è ben lumeggiato da F. Sbarberi, I comunisti italiani e lo Stato. 1929-1943, Milano 1980, soprattutto il cap. 5, e da M. Flores e N. Galle rano, Sul pcl Un'interpretazione storica, Bologna 1992, soprattutto il cap. 4. 35. Mi limito a rinviare a G. Contini, Memoria e storia. Le officine Galileo nel racconto degli operai, dei tecnici, dei manager, Milano 1985; B. Guidetti Serra, Compagne, Torino 1977; S. Tato, A voi cari compagni, Bari 1981. Per una valutazione complessiva cfr. Flores e Gallerano, Sul PCI cit., pp. 151-60.
36. Mi riferisco in particolare ai suoi libri La proposta politica di De Gasperi, Bologna 1988, e La repubblica dei partiti, Bologna 1991, che costituiscono la più elaborata lettura di parte cattolica democratica degli esiti della Resi stenza e della nascita della Repubblica. Del massimalismo etico Scoppola ha parlato in un intervento presso l’istituto regionale per la storia della Resistenza in Liguria: vedilo in «Storia e memoria», I, 1992, n. 1, p. 95. 37. Per il discorso sulla moralità, che consente l’esame di una tematica non immediatamente politica ma alla politica collegata, cfr. C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino 1991. 38. Cfr. ora G. Rochat, La memoria dell'internamento 1943-1943, in «Italia contemporanea», 1986, n. 163, pp. 5-30; A. Bendotti, G. Bertacchi, M. Pelliccioli e E. Valtulina (a cura di), Prigionieri in Germania. La memoria
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degli internati militari, Bergamo 1990. Negli anni precedenti, Vittorio Ema
nuele Giumella aveva svolto un’azione in merito di alto valore civile.
39. Ricordo qui l’ampia ricerca condotta per il Piemonte, i cui risultati sono esposti in due importanti volumi: A. Bravo e D. Jalla (a cura di), La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvis suti, prefazione di P. Levi; F. Cereja e B. Mantelli (a cura di), La deporta zione nei campi di sterminio nazisti. Studi e testimonianze, prefazione di
N. Tranfaglia: entrambi Milano 1986.
40. L’insmli aveva a suo tempo programmato una cartografia e una cronolo gia generali della Resistenza, ma l’iniziativa fu travolta dall’ondata sessan tottesca, cui quella impresa apparve un pedantesco impaccio. 41. Ricordo soltanto le edizioni di carattere nazionale, tutte avvenute su ini ziativa dell’iNSMLl: Atti del Comando generale del Corpo volontari della libertà (giugno 1944 - aprile 1945), a cura di G. Rochat, prefazione di F. Parri, Milano 1972; Le Brigate Garibaldi nella Resistenza. Documenti, a cura di G. Carocci, G. Grassi, G. Nisticò e C. Pavone, Milano 1979, 3 voli.; Le formazioni GL nella Resistenza. Documenti, a cura di G. De Luna, P. Camilla, D. Cappelli e S. Vitali, Milano 1985. È in corso l’edizione dei documenti delle formazioni autonome, a cura di G. Perona. 42. Cfr. ad esempio P. Melograni, Fu guerra civile, ecco i documenti, in «Cor riere della Sera», 30 ottobre 1991. La tesi è stata ripresa in modo grosso lano da G. B. Guerri, Ceravamo tanto armati, in «Moda», novembre 1992, p. 22 (ringrazio Angelo Bendotti per la segnalazione). 43. «Sotto l’aspetto militare la Resistenza (...) rese un contributo di rilievo alla liberazione del paese. Kesselring parlò di sette divisioni che furono stornate dal suo potenziale militare per contrastare quella “guerra per bande” da lui profondamente detestata»: J. Petersen, L'Italia dopo ilfascismo. Una società tra identità post-nazionale e integrazione europea, di prossima pubbli cazione in «Dimensioni e problemi della ricerca storica» [1993, n. 1, pp. 17-54] (ringrazio l’autore per avermene fatto prendere visione). La Fon dazione Micheletti di Brescia sta organizzando un convegno sulla guerra di guerriglia durante la seconda guerra mondiale [il convegno si è svolto nel marzo 1995]. 44. Cfr. A. Bendotti, La storia contemporanea locale, in «Italia contempora nea», 1986, n. 163, pp. 98-107. Nel libro di F. De Giorgi, La storiografia di tendenza marxista e la storia locale in Italia nel dopoguerra. Cronache, Milano 1989, le pp. 145-52 sono dedicate agli Istituti di storia della Resistenza. 45. Cfr. D. Borioli e R. Botta, Igiorni della montagna. Otto saggi sui partigiani della Pinan Cichero, Alessandria 1990, e, degli stessi autori, Comunità locali e movimento partigiano, in «Parolechiave», 2993, n. 1, pp. 83-103. 46. Cfr. le opere citate supra, nota 35. 47. A. Ardigò (a cura di), Società civile e insorgenza partigiana: indagine sociolo gica sulla diffusione della insorgenza partigiana nella provincia di Bologna, Bolo gna 1979. Cfr. in merito le osservazioni di G. Quazza, Fra sociologia e sto ria: una ricerca sulla Resistenza, in «Rivista di storia contemporanea», X, 1981, n. 4, pp. 619-25.
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48, A.M. Bruzzone e R. Farina (a cura di), La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Milano 1976. Cfr. anche le interviste raccolte da Guidetti Serra, Compagne cit.
49. In questa direzione cfr. la raccolta di saggi, curata dalla stessa A. Bravo, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Roma-Bari 1991. [Si veda ora A. Bravo e A. M. Bruzzone, In guerra senza armi. Storia di donne, 1940-1945, RomaBari 1995]. 50. Va in questo campo ricordata l’opera svolta dal landis (Laboratorio nazio nale didattica della storia), con sede a Bologna e collegato all’lNSMLl. Inse gnare gli ultimi cinquantanni è il titolo di un convegno organizzato dall'isti tuto di storia della Resitenza di Ascoli Piceno e dalla casa editrice La Nuova Italia, che ne ha pubblicato gli atti, a cura di G. De Luna (Firenze 1992). 51. Cfr., ad esempio, l’intervista di Giuliano Ferrara a Renzo De Felice, in «Corriere della Sera», 27 dicembre 1987, «Le norme contro il Fascismo sono grottesche, aboliamole»: è un sincero inno a Craxi e «in parte» a Comu nione e Liberazione, contro i «pregiudizi» e le «pigrizie ideologiche» ere ditati dall’antifascismo. 52. Cfr. E. Renan, Quest-ce qu'une Nation?, in Id., CEuvres completes, voi. 1, Paris 1947, pp. 587-906 [trad. it. in Id., Che cos’è una nazione e altri saggi, Roma 1993]. 53. Fra queste vanno ricordati il saggio di N. Bobbio, Guerra civile?, in «Teo ria politica», 1992, nn. 1-2, pp. 297-307; e un articolo di G. Pasquino, E la moralità fu guerra civile, in «l’Unità», 18 novembre 1991.
54. Valga per tutte la menzione di G. Pisano, Storia della guerra civile in Italia (1945-1945), Milano 1965-66, 3 voli. Ma in una trasmissione televisiva («Babele») Pisano dirà: «Visto che ora di guerra civile parlano loro, non ne parlerei più io». 55. In un convegno un ex capo partigiano prese in pubblico netta e ideologica posizione contro la guerra civile; poi in privato raccontò un episodio che egli stesso riconosceva non potersi spiegare altrimenti che nella logica di una guerra civile. 56. In una intervista (non ricordo il giornale che la pubblicò) Vittorio Musso lini, a chi gli chiedeva cosa pensasse della scoperta delle varie specie e sot tospecie di «fascisti critici», antinazisti, antirazzisti, criptoliberali, crip tosocialisti ecc. rispose: «Mi pare strano che i principali collaboratori di mio padre fossero degli antifascisti». 57. Cfr. in questa direzione l’eccellente studio di G. Crainz, Il conflitto e la memoria. «Guerra civile» e «triangolo della morte», in «Meridiana», 1992, n. 13, pp. 17-55. Cfr. anche M. Dondi, Azioni di guerra e potere partigiano neldopoliberazione , in «Italia contemporanea», 1992, n. 188, pp. 457-77. Per i processi cui dopo la Liberazione furono sottoposti i partigiani, anch’essi uno strascico della guerra civile, cfr. G. Neppi Modona (a cura di), Giusti zia penale e guerra di liberazione, Milano 1984; e L. Alessandrini e A.M. Politi, Nuove fonti sui processi contro i partigiani, 1948-1955, in «Italia con temporanea», 1990, n. 178, pp. 41-62. Angela Maria Politi sta per pub blicare un libro su questo argomento.
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58. In una discussione svoltasi recentemente in un liceo di Milano una studen tessa ha domandato come mai il Nord, che con la Resistenza aveva rag giunto un livello tanto elevato di maturazione politica e sociale, avesse poi voluto ricongiungersi al Sud, rimasto ancora una volta alla retroguardia. Per l’affiorare di spinte federaliste, durante la Resistenza e nell’immediato dopoguerra, cfr. G. F. Miglio, La Padania e le «Grandi Regioni», in «Cor riere della Sera», 28 dicembre 1975. Subito dopo la Liberazione era uscito a Como il giornale « Il Cisalpino » al quale Miglio si ricollega in nome di una «Padania politico-amministrativa ». Su una «Unione autonomistica ita liana settentrionale», di cui era giunta notizia a Roma agli inizi del 1945, ironizzò F. Calasso, Politica della Regione, in «Il Mondo» (Firenze), 7 set tembre 1946 (ora in F. Calasso, Cronache politiche di uno storico (1944-1948), a cura di R. Abbondanza e M. Caprioli Piccialuti, Firenze 1975, pp. 179-81).
59. Cfr. S. Lanaro, L'Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Torino 1988,
PP- 73'7560. Questo punto è al centro della recente discussione fra Bobbio e Rusconi. Cfr. G.E. Rusconi, Bobbio, l'ultimo azionismo, in «Il Mulino», 1992, n. 342, pp. 575-86; N. Bobbio e G.E. Rusconi, Lettere suU’azionismo, e G.E. Rusconi, Alle radici della legittimazione della Repubblica, in «Il Mulino», 1992, n. 344, pp. 1021-39. Cfr. anche i numerosi interventi gior nalistici dei due principali interlocutori e di altri. Rusconi aveva avviato l’esposizione di queste tesi nel saggio Per una revisione storica della Resi stenza, in «MicroMega», 1991, n. 5, pp. 25-34. 61. Cfr. E. Collotti, Il collaborazionismo con le potenze dell’Asse nell'Europa occupata: temi e problemi della storiografia, in « Rivista di storia contempo ranea», XXI, 1992, n. 2-3, pp. 327-59.
62. Anche l'Italia ha vinto fu l’inopportuno titolo di un fascicolo della rivista romana «Mercurio» comparso nel dicembre 1945 (II, n. 16): vi conflui vano orgoglio antifascista e resistenziale e rimozione del dato da cui la Resi stenza stessa aveva preso le mosse. 63. Sui reduci, in attesa dell’opera complessiva cui sta attendendo Agostino Bistarelli, si rinvia a C. Pavone, Appunti sul problema dei reduci, in Galle rano (a cura di), L'altro dopoguerra cit., pp. 89-106. Sui reduci partigiani cfr. i primi suggerimenti di G. Grassi, Les Archives de la Résistance italienne: sources documentaires et histoire, in Mémoire de la Seconde guerre mon diale. Actes du colloque de Metz présentés par A. Wabl, Metz 1984, pp. 5-22. 64. Una insolita attenzione al dato della sconfitta si trova nelle prime pagine di Lanaro, Storia dell'Italia repubblicana cit. Lanaro è sensibile a questo problema nel quadro della sua insistita ricerca di una tradizione nazionale da riproporre agli italiani. 65. E questo il titolo di uno dei paragrafi del saggio di Rusconi, Alle radici cit. Cfr. F. Traniello, Il mondo cattolico italiano nella seconda guerra mon diale, in F. Ferratiti! Tosi, G. Grassi e M. Legnarti (a cura di), L'Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, Milano 1988, pp. 325-69. 66. L’insofferenza verso questa egemonia caratterizzò la relazione tenuta da S. Cotta, Lineamenti di storia della Resistenza italiana nel periodo della occu-
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pazione, nel convegno svoltosi a Roma il 23 e 24 ottobre 1964 («Rassegna del Lazio», XII, 1965, pp. 28-45). Cfr. poi S. Cotta, Quale Resistenza? Aspetti e problemi della guerra di Liberazione in Italia, Milano 1977.
67. Sono parole di Francesco Traniello, citate in Rusconi, Alle radici cit., p. 1032. 68. Cfr. ad esempio l’intervista di Pierluigi Battista a Rocco Buttiglione, in «La Stampa», 17 settembre 1992 (Dopo l'addio del mito fascista riabilitate la Resistenza: «Non il mito della Resistenza armata, ma l’idea della Resi stenza come rifiuto del mito della violenza»); la risposta del segretario del msi, Gianfranco Fini, con una lettera allo stesso giornale, 18 settembre 1992 (Il regime disattese le leggi sugli ebrei}-, l’articolo, ancora di Buttiglione, Riconciliarsi su una parola, in «II Tempo», 19 settembre 1992 e infine, sempre di Buttiglione, l’articolo, chiaro e riassuntivo, Ma dalla Resistenza passiva è nata la convivenza civile, in «Avvenire», 8 ottobre 1992. Butti glione si riconosce discepolo di due grandi maestri: Augusto Del Noce (senza dubbio l’unico intellettuale di destra di alto livello esistito nellTtalia del dopoguerra) e Renzo De Felice. 69. Cfr. Bobbio e Rusconi, Lettere sull’azionismo cit., p. 1023. 70. Pietro Scoppola, studioso attento alle ragioni della politica come a quelle della metapolitica, ha formulato nei suoi scritti giudizi equilibrati sui par titi come collettori di masse poco educate, e ha mediato questa posizione con un’apertura verso il ruolo pacificatore del mondo cattolico nel suo insieme. 71. Cfr. al riguardo S. Mastrogiovanni, Un protestante nella Resistenza, Firenze 1962; D. Gay Rochat, La Resistenza nelle Valli valdesi, Torino 1969. 72. Cfr. Vaccarino, La Grecia cit., p. 187.
Indice dei nomi
Abbondanza, R., 235, 275, 283 Absburgo, dinastia, 210 Accattatis, Vincenzo, 274 Aga Rossi Sitzia, Elena, 143, 226, 230, 237, 239 sg., 245, 251, 258, 260 sg., 265 sg. Agosti, Aldo, 234 Alatri, Paolo, x Albertini, Luigi, 7 Aldi, Leo, vedi Venturi, Franco Aldisio, Salvatore, 94, 149, 151 sg., 264 Alessandrini, L., 282 Alfa, 222 Alfassio Grimaldi, U., 219, 222 Amato, Giuliano, XIX, 75, 225 Ambrosini, Giangiulio, 269 Amendola, Giorgio, 34, 161, 216, 225, 238, 269 Andreazzoli, Giovanni, 271 Andreotti, Giulio, 95, 170, 236 sg., 257, 262, 271, 275 Antoni, C., 224 Antoniani Persichilli, G., 270 Antonicelli, Franco, 4, 209 Aquarone, Alberto, 76 sg., 225, 248, 262 Ardigò, A., 281 Arfè, Gaetano, 2155g., 218, 278 Augusto, imperatore, 213 Bachelet, Vittorio, 223 Badoglio, Pietro, 52 sg., 72, 102-04, ni, 124, 132, 147-51, 166, 173, 220, 241 sg., 249, 254, 262-64
Balbis, Franco, 219 Barbato, vedi Colajanni, Pompeo Barile, Paolo, 132, 253-55 Barracu, Francesco Maria, 241 Bassanesi, Giovanni, 24 Bassano, Carlo, 154 Basso, Lelio, 88, 117, 247, 275 Battaglia, Achille, 119, 131, 139, 248, 253 sg., 256> 27Ó, 279 Battaglia, Roberto, xn, 3, 68, 194 sg., 203, 211, 221 sg., 236, 271, z-n-jt) Battini, Michele, 272 Battista, Pierluigi, 284 Bauer, Riccardo, 68, 224 Bendiscioli, M., 66, 209 sg., 220, 224, 237, 276 Bendotti, Angelo, 280 sg. Benvenuti, L., 63, 220 Berlinguer, Mario, 254 sg. Bernardo, M., 235, 253, 261 Bertacchi, G., 280 Bertelli, Sergio, 279 Berti, Giorgio, 163, 269 Berti, Giuseppe, 43-45, 218 Bertolo, G., 280 Bianchi, Giovanni, 232, 243, 276 Biancorosso, Rodolfo, 241 Bismarck-Schònhausen, Otto von, 7 Bistarelli, Agostino, 278, 283 Bloch, Marc, 164, 269 Bobbio, Norberto, 192, 205, 243, 282-84 Bocca, Giorgio, 279
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INDICE DEI NOMI
Bocchini, Arturo, 226 Bonomi, Ivanoe, 17, 51, 72, 89 sg., 105, 222-24, 125, 130, 143, i50'52. *54. 168-71, 220, 230, 236, 244 sg., 247, 250, 258, 262, 264 sg. Borboni, dinastia, 19, 26, 215 Bordiga, Amadeo, vui, 34 Borgese, Giuseppe Antonio, 213 Borioli, D., 281 Botta, R., 281 Bovio, Giovanni, 42 Bravo, Anna, 199, 281 sg. Brigaglia, M., 278 Briguglio, L., 276 Broise, Guido, 241 Brunetta, E., 280 Brusasca, Giuseppe, 99 Bruzzone, Anna Maria, 199, 282 Bulferetti, Luigi, 210 Buttiglione, Rocco, xx, 205, 284 Byrnes, James Francis, 246 Cadorna, Raffaele, 53, 146, 209, 260 sg., 276 sg. Cafagna, Luciano, x sg., 69, 224, 232 Caffi, Andrea, 28 sg., 216 Calamandrei, Piero, xxi, 222, 114-16, i73> 243 sg., 246-48, 272-74, 276 Calasso, Francesco, 93 sg., 235, 274, 283 Calogero, Guido, 27 Calogero La Malfa, Luisa, 245 Calosso, IL, 29, 216 Camilla, P., 282 Cammareri Scurti, S., 216 Cammarota, Arcangelo, 263 Candeloro, Giorgio, x Cannistraro, Ph.V., 226 Capitini, Aldo, 4, 46 sg., 206, 229 Cappelletti, M., 243, 272 Cappelli, D., 282 Caprioli Piccialuti, M., vedi, Piccialuti Caprioli, M. Caracciolo, Alberto, x, 222, 225, 257, 267 Carandini, Niccolò, 229 Carbone, Ferdinando, 255 Carducci, Giosuè, 46
Carignani, Giovanni, 266 Carli Ballola, R., 222, 279 Carlo Alberto, re di Sardegna, 19 sg., 222 Carocci, Giampiero, x, 75 sg., 229, 225 sg., 236, 269, 282 Carucci, Paola, 242 Casati, Alessandro, 245, 260 sg., 277 Cassese, Sabino, xvn, 226, 247, 249, 257, 267 sg. Castelli, F., 279 Castronovo, Valerio, 269 Casucci, Costanzo, xxi, 225, 204, 250 Catalano, F., 233, 240, 260, 279 Caterina da Siena, 223 Cattaneo, Carlo, 26, 44 Cattani, Leone, 94 sg., 243 Cavarra, R., 272 Cavour, Camillo Benso di, 4, 6 sg., 29, 45> 49, 54 Cereja, F., 282 Ceva, Bianca, 4, 220, 225 Ceva, U., 209 Chabod, Federico, 255, 292-93, 202, 267, 277 Cheli, E., 269, 274 Chianese, Gloria, 279 Chiaromonte, Nicola, 28 sg., 226 Churchill, Winston, 52 sg., 200 sg., 224, 225, 220, 2395g., 250 Ciano, Costanzo, 28 Ciano, Galeazzo, 250 Ciasca, Raffaele, 223 Ciccardini, Bartolo, 63, 223 Cingolani, Mario, 255 Ciocca, Ermanno, 266 Cione, Edmondo, 25 Coglitore, Domenico, 242 Colajanni, Pompeo, 252 Colamarino, G., 223 Coles, H.L., 239, 266 Collotti, Enzo, 242, 268, 283 Compagna, F., 223 Contini, Gianfranco, 280 Corbino, Epicarmo, 254 sg., 276 Cortese, Pasquale, 272 Costa, Andrea, 42 Cotta, Sergio, 283 sg. Crainz, G., 275, 282
INDICE DEI NOMI
Craxi, Bettino, 282 Craxi, Vittorio, 266 Crisafulli, Vezio, 73 sg., 117, 119 sg., 225, 247 sg. Crispi, Francesco, 6, 13, 44, 278 Cristo, 21, 223 Croce, Benedetto, X, 4, 9-12, 14-19, 22, 29, 167, 211 sg., 270 Curiel, Eugenio, 57 sg.; 168, 220 sg., 231, 233. 238 Curto, vedi Siccardi, Nino Curzio, vedi Rosselli Carlo Cusin, Fabio, 213
D’Agostino, Guido, 279 Damilano, A., 230 Daneo, Camillo, 273 Dani, G., vedi Dolmetta D’Annunzio, Gabriele, 46 D’Antoni, Paolo, 151, 264 D’Antoni, Giovanni, 266 D’Aragona, Ludovico, 248 Deakin, Frederick William, 226, 259 De Bosis, Lauro, 19 sg., 213 De Caro, Raffaele, 255 De Gasperi, Alcide, 59, 61, 63 sg., 66, 72, 114, 146, 153-55, 161, 170-72, 223, 230, 246 sg., 255, 266 De Felice, Franco, 269 sg. De Felice, Renzo, 225, 268, 282, 284 De Gaulle, Charles, 84, 123, 229 sg. De Giorgi, F., 281 Degli Espinosa, A., 220 sg. Del Carria, R., 272 Del Giudice, Pietro, 267, 271 Della Peruta, Franco, x Dellavalle, C., 280 Delle Piane, Mario, 4, 209, 213, 235 Del Noce, Augusto, 284 De Luna, Giovanni, 281 sg. De Man, Henri, 27 Demofilo, vedi De Gasperi, Alcide De Nicola, Enrico, 255 De Rosa, Gabriele, 64, 276 Desideri, C., 269 De Siervo, Ugo, 132, 253-55, 278 De Vecchi di Vai Cismon, Cesare Maria, 46 sg. Dimitrov, Georgi, 43
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Dollfuss, Engelbert, 25 Dolmetta, Girolamo, 271 Donati, Giuseppe, 59 Dondi, M., 279, 282 Dorso, Guido, 18 Dumas, Charles, 229 Dutschke, Rudi, 232
Einaudi, Luigi, 154, 229, 266 Eisenhower, Dwight David, 239 Elia, Leopoldo, 223 Ellwood, D., 240, 265, 270 Engels, Friedrich, 30, 42, 44, 232 Ercole, Francesco, 14, 212 Ercoli, vedi Togliatti, Palmiro Ezechiele, 8
Fanfani, Amintore, 14, 61, 212 Fano, P. P., 248 Farina, Rachele, 199, 282 Farini, Carlo, 87, 231, 234 Farneti, Paolo, 75, 225 Faucci, R., 250 Fazio, Antonino, 149 Fenoaltea, G., 213 Ferrajoli, L., 274 Ferrara, Giovanni, 271 Ferrara, Giuliano, 282 Ferrara, Mario, 64, 209, 223, 244, 276 Ferrari, Francesco Luigi, 59, 222 Ferrari, Giuseppe, 26 Ferratini Tosi, F., xvn, 283 Ferreira, Pedro, 60 Festa, Aster, 265 Filatov, Gheorghi, x Fini, Gianfranco, 205, 284 Fiumano, Caterina, 274 Flores, Marcello, 251, 272, 280 Foa, Vittorio, 168, 197, 230, 232, 236, 271, 279 Fonzi, Fausto, 64, 278 Forcella, E., 278 Fornaciari, Henri, 148, 262 sg. Forti, Ugo, 121, 249, 255 Fortunato, Giustino, 22 Foscolo, Ugo, 46 Francesco d’Assisi, 223 Francovich, C., 235
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INDICE DEI NOMI
Franzini, G., 260 Frassati, F., 231, 233, 240, 260 Gaetani, Alfonso, 147 Galgano, G., 249 Gallerano, Nicola, xm, 226, 236, 239 sg-. 254, 270, 275 sg., 278, 280, 283 Gallo, Ettore, xxi Gallo, L., vedi Longo Gambino, A., 271 Canapini, L., 240, 242, 280 Ganci, S. M., 271 sg. Garibaldi, famiglia, 210 Garibaldi, Giuseppe, xi, 4, 6 sg., 9, 24, 27, 30 sg., 38, 41, 43-45. 49. 54, 56 sg., 211, 215 Garibaldi, Ricciotti, 6 Garosci, Aldo, 4, 25, 209 sg., 215-17, 219. 237. 276 Gassmayer, S., 220 Gatella, Giuseppina, 265 Gavagnin, A., 213 sg., 219 Gay Rochat, D., 284 G.C., 218 Gentile, Giovanni, 8 sg., 11-14, 211 Gentile, P., 209, 276 Gerlo, Umberto, 266 Ghini, Celso, 267 Giannini, Massimo Severo, 105 sg., 108 sg., 173, 240 sg., 243, 250, 268, 272 Giarrizzo, Giuseppe, 94, 236, 263 Gibelli, Antonio, 176, 253, 272, 276, 280 Gilas, Milovan, 238 Ginsborg, Paul, 277 Ginzburg, Leone, 5, 44, 69, 210, 250 Gioberti, Vincenzo, 9, 44 Giolitti, Giovanni, 21, 28, 164, 214, 216 Giovana, Mario, 227, 235 Giovanni Battista, 21 Giovanni dalle Bande Nere, io Giulio Cesare, io, 47 Giumella, V. E., 49, 210, 219, 222, 281 Gobetti, Piero, x, xn, 6, 18, 21-23, 25, 28, 32, 35, 44, 210, 213 sg., 216 Corrieri, E., 231, 233, 243
Gotti, A., 265 Gramsci, Antonio, vili, X, XI, 18. 30-33. 37 sg., 41 sg., 63, 216 Grandi, Dino, 147 Grassi, Gaetano, xvn, 235, 237, 252, 270, 279, 281, 283 Grassini, F., 223 Graziani, Rodolfo, 194 Graziano, Luigi, 269 Grenier, Fernand, 229 Grieco, Ruggero, 38 sg., 42, 217, 255 Griffith, G.O., 29, 216 Grispos, K., 220 Gronchi, Giovanni, 243 Grottanelli, C., 279 Guarino Amelia, Giovanni, 263 Guasco, Francesco, 150 Guerrazzi, Francesco Domenico, 43 Guerri, Giordano Bruno, 281 Guerrini, L., 280 Guicciardini, Francesco, 207 Guidetti Serra, Bianca, 282 sg. Guidotti Mori, Guido, 264 Cullo, Fausto, 165, 174
Harris, C.R. S., 149, 153, 2395g., 25!, 255, 259, 261, 263, 266 Hearst, J. A. jr, 259 Hitler, Adolf, 25, 33, 39, 45, 215, 241 Ho Ci Minh, 276 Hoffmann, Stanley, xv Hubermann, Leo, 270
Ilardi, M., 280 Innocenti, Silvio, 263 Inverni, Carlo, vedi Foa, Vittorio Isnenghi, Mario, 279 Jacopo, vedi Berti Giuseppe Jalla, D., 281 Jemolo, Arturo Carlo, xvn, 14, 16 sg., 59, 213, 222, 273 Junius, vedi Einaudi, Luigi Kédros, André, 268 Kesselring, Albert, 281 Kirk, ambasciatore, 246 Kogan, N., 239 sg., 245-47 Kruscev, Nikita S., vili
INDICE DEI NOMI
Labriola, Antonio, 68 La Malfa, Ugo, 244 sg., 258 Lanaro, Silvio, 283 Legnani, M., xvn, 92, 228, 235, 237, 252, 265, 271, 277 sg., 280, 283 Lener, padre, 254 Lenin, Nikolaj, 27, 31, 54, 216, 232 Leonetti, Francesco, 34 Leto, Guido, 254 Levi, Arrigo, 243, 272 Levi, Carlo, xvn, 166, 270 Levi, Giovanni, 219 Levi, Primo, 199, 281 Leydi, Roberto, 279 Li Causi, Girolamo, 175 Lodetti, Vico, vedi D’Aragona, Lu dovico Lombardi, Riccardo, 236 sg., 246, 266 Longo, Luigi, 4, 37, 57 sg., I46, I94> 210, 217, 221, 231 sg., 251, 276 sg. Lorena, dinastia, 26 Luciano, vedi Chiaromonte, Nicola Lucifero, Falcone, 149, 151, 255, 263 sg. Luperini, R., 269 Lussu, Emilio, 215, 228, 258, 276
Macaiuso, Giovanni, 255 Macchitella, Carlo, 270 Magri, A.F., 248 Maier, Charles, xvm, 162, 269 Malatesta, Errico, 6 Malfatti, Franco Maria, 223 Malvestiti, Piero, 61 Malvezzi, Piero, 277 Mameli, Goffredo, 49 Manacorda, Gastone, x, 4, 209 Mancini, Pietro, 152, 264 Manconi, F., 278 Mancuso, Pietro, 53 Manno, Carlo, 147 Manno, Rosalia, 258 Mantelli, B., 281 Marabotto, G., 220 Marazza, Achille, 62, 222 sg. Marinelli, Oddo, 265 Martini, Enrico, 3 Martino, Enrico, 266
289
Martino, Gaetano, 3 Marx, Karl, 29 sg., 37, 44> 2J2 Mastrogiovanni, S., 284 Mati, Amato, 265 Matteucci, N., 228 Matthews, Herbert Lionel, 114 Mattioli, R., 224 Mattone, A., 278 Maturi, Walter, 47, 219, 224 Mauri, vedi Martini, Enrico Maurizio, vedi Parri, Ferruccio Mautino, Aldo, 210 Mazza, Libero, 150 Mazzini, Giuseppe, 4, 6, 8 sg., 19, 21 sg., 24, 26, 28-30, 34, 36, 43-45, 47, 49, 54, 62, 210, 217, 222 Mazzolati, Primo, 276 Medici-Tornaquinci, Aldobrando, 113, 153, 265 Mei, Aldo, 222 Melis, G., 278 Melograni, P., 223, 281 Meneghetti, Egidio, 266 Mercuri, L., 259 Micca, Pietro, 47 Miccoli, Giovanni, 276 Michel, H., 228 sg., 2565g. Michele, vedi Venanzi, Mario Miglio, Gian Franco, 283 Minghetti, Marco, 272 Minio, L., 248 Mirkine-Guetzevich, B., 229 Misiano, L., x, 217 Missiroli, Mario, 18 Missori, Mario, 147, 262 Mocchi, Achille, 238 Mola, Aldo A., 75, 225 Momigliano, Franco, 228 Montagnana, M., 43, 218 Montanari, F., 209, 276 Morandi, Rodolfo, 80 sg., 88 sg., 91, 94. 97. 174 sg-, 228, 233-35, 237, 272 Mordini, Alfredo, z6i Moro, Aldo, 193, 278 Mortati, C., n7, 209, 276 M. S., vedi Ginzburg, Leone Musotto, Francesco, 149
290
INDICE DEI NOMI
Mussolini, Benito, 4-7, u, i4i jg, 20 sg., 27 sg., 36 sg., 47, 62, 72, 76, 105, 133, 166, 170, 176, 210 sg., 214 sg., 241 sg., 259 Mussolini, Vittorio, 282
Nannini, Daniele, 273 Napoleone, imperatore dei Francesi, 22 Natoli, Aldo, 277 Nenni, Pietro, xvn, 32, 89 sg., 115, 120, 282, 245 sg., 255, 259, 267 Neppi Modona, Guido, 75, 108, 137, 225, 242, 253, 269, 282 Nicola, san, 223 Nicoletta, Italo, 278 Nicotera, Giovanni, 44 Nisticò, G., 234, 281 Nitti, Francesco Saverio, 17
Occhipinti, M., 278 Olivelli, Teresio, 204 Omodeo, Adolfo, x, 27-19, 44, 47, 213, 222, 278 Onida, V., 262, 269 Orano, Paolo, 133 Operti, Piero, 277 Operti, Raffaello, 277 Orel, 234 Oriani, Alfredo, 18 Orlando, R., 248 Orlando, Vittorio Emanuele, 27, 224, 245 Ottaviano, Chiara, 275
Paci, A., 223 Paci R., róon., 277 Paggi, Mario, 230 Paladin, L., 225 sg. Pancamo, Antonio, 249, 263 Parini, Piero, 240 Parri, Ferruccio, xvn, xvm, xx, 3 sg., 22, 24, 72, 94, 97, 224, 226, 220, 222, 230 sg., 243, 252-54, 265 sg., 269, 272, 292, 209, 222, 237, 239, 245, 263, 276-78, 282 Pasolini, Giuseppe, 265 Pasquino, Gianfranco, 282
Passerin d’Entrèves, E., 6r sg., 220, 223, 228 Paterno, Giulio, 250 Pavone, Claudio, 234, 268, 270, 277, 280 sg., 283 Peano, Camillo, 266 Peano, Luigi, 266 Pelliccioli, M., 280 Peregalli, A., 276 Peretti Griva, Domenico Riccardo, 255 Permoli, P., 275 Perona, Gianni, 299, 282 Persico, Giovanni, 252 sg., 254 Petersen, J., 282 Petrella, Gaetano, 265 Petta, Paolo, 282, 274 Pettinato, Concetto, 235 sg., 222 Peyronel, G., 222 Pièche, Giuseppe, 263 Piccialuti Caprioli, M., 235, 240, 275, 283 Pieraccini, Gaetano, 250 Pieri, Piero, 3, 209 Pietro, 252 Pintor, Giaime, 48, 229 Pio IX, 65 Pio XI, 227 Pio XII, 245 Pirelli, Giovanni, 277 Pisacane, Carlo, rr, 26, 42, 48, 229 Pisano, Giorgio, 282 Pisciteli!, Enzo, 70, 207, 242, 247, 255, 266, 272, 277 Pizzoni, Alfredo, 240 Pizzorusso, Alessandro, 263, 269, 274 Politi, Angela Maria, 282 Predieri, A., rró sg., 247 Primieri, C., 53, 209, 276 Priolo, Antonio, 249 Procacci, Giuliano, x
Quazza, Guido, xni, 296-98, 232, 268, 277-82 Quirini, Marta, 273
Radetzky, Johann Joseph Franz Karl,
19 sgRagghiami, Carlo Ludovico, 55, 222, 243
INDICE DEI NOMI
Ragionieri, Ernesto, x, xn, 88, 216, 232, 243, 247, 267, 272, 276, 278 Rakovskij, Christian Georgevic, 31, 216 Ranelletti, Oreste, 246, 273 Ranzato, Gabriele, 228, 275 Ravazzoli, Paolo, 34 Reineri, M., 276 Renan, Ernest, 201, 282 Ricasoli, Bettino, 152 Riccardi, Raffaello, 133 Riccardo, vedi Mordini, Alfredo Ricci, Renato, 136, 148, 262 sg. Rimanelli, G., 278 Ristuccia, S., 225, 232, 269 Rocco, Alfredo, 14, 73 sg., 132 Rochat, Giorgio, 75, 225, 260, 280 sg. Rodotà, Stefano, 248 Romanelli, Raffaele, xni, 160, 163, 226, 269, 272 sg. Romano, Santi, 73 Romano, T., 279 Romboli, Roberto, 274 Romeo, Rosario, X, 69, 190, 212, 224,
277 Romita, Giuseppe, 146, 154 sg., 261, 266 sg. Roosevelt, Franklin Delano, 51 sg., 100 sg., 183, 239 sg., 245 Rossanda, Rossana, 276 Rosselli, Carlo, xn, 13, 21, 24-29, 32, 34-36, 71, 210, 214-16 Rosselli, Nello, 5, 15, 24 Rossi, Elide, 219 Rossi, Ernesto, 2135g., 219 Rossi, Mario G., 270, 272 Rossi-Doria, Anna, 270, 272, 278 Rossini, G., 219, 222 sg. Roteili, Ettore, 160, 235, 238, 241, 247. 269, 277 Roveto, G., 222 Ruffilli, R., 247, 269 sg. Ruffo, Fabrizio, 223 Rugafiori, P., 251 Rusconi, Gian Enrico, xvn, xxi, 192, 205, 283 sg. Sabbatucci, Giovanni, 163, 269 Salandra, Antonio, 7
291
Salomone, W., 214 Salvadori, Massimo, 213, 215, 220, 278 Salvati, Mariuccia, xvin, 269, 280 Salvatorelli, Luigi, Xi, 7 sg., 48, 209, 211, 213, 222, 276 Salvemini, Gaetano, 5, 12, 15, 21 sg., 27, 32, 37. 54. 60, 212-14 Salvi, F., 223 Salvio, Giuliano, 94 Sangineto, I., 278 Sansone, M., 276 Santarosa, Santorre, conte di, 45 Santomassimo, G., 270, 272 Saraceno, Pasquale, 268 Saragat, Giuseppe, 181, 272 sg. Sartre, Jean-Paul, 188 Savoia, dinastia, 215 Sbarberi, Franco, 184, 271, 275, 280 Scelba, Mario, 146, 266 Schmitt, Carl, 279 Sciascia, Leonardo, 273 Sciavi, M., 272 Scoccimarro, Mauro, 174, 255, 259 Scoppola, Pietro, 64, 161, 198, 222 sg., 227, 269, 280 Scorza, Carlo, 76, 259 Secchia, Pietro, 57 sg., 68, 188, 210, 221, 224, 233, 235, 240, 260, 267, 276 Sechi, S., 278 Selvaggi, Francesco, 264 Senese, S., 274 Senise, Carmine, 147, 167, 262, 270 Sereni, Emilio, 42 sg., 97-100, 114, 180, 218, 228, 238, 246, 273 Sforza, Carlo, 54, 239, 254 sg., 258 sg., 270 Sherman, John, 164 Siccardi, Nino, 234 Silva, L., 212 Simon, vedi Farini, Carlo Socrate, Mario, 209 Solari, G., 210, 219 Solmi, Arrigo, 14, 212 Solza, G., 279 Sonnino, Giorgio Sidney, 74 Soprano, Domenico, 263 Spaventa, Silvio, 43
292
INDICE DEI NOMI
Spellanzon, Cesare, 29 Spinelli, Altiero, 236 Spriano, Paolo, vm Stalin (Iosif Visarionovic Dzugasvili), 36, 40, 54, 217, 232, 238 Stancanelli, Antonio, 149 Stangoni, Felice, 255 Stella, Luigi, 149 Stevens, Harold Raphael Gaetano, 103 sg. Stone, Ellery Wheeler, 153 Stuart Hughes, H., 245 Sturzo, Luigi, 6, 59, 225, 222 Suvich, Fulvio, 254 Sylos Labini, Paolo, 249 Tabarrini, M., 265 Tagliacozzo, E., 224 Tarrow, Sidney, 269 Tato, S., 280 Taylor, Myron, 245 Teruzzi, Attilio, 147 Tessati, T., 210 Thomas, Ivan, 52, 248 Tito (Josip Broz), 57, 238 Togliatti, Paimiro, vm, xu, xiv, 33-35, 37 sg., 45. 56-58, 68, 89, 99, 130, 137, 145, J68, 174 sg., 178 sg., 282-84, I9°> 197, 226-28, 222 sg., 224, 238, 244, 246 sg., 256, 259, 271, 273-75 Tosato, Egidio, 227 Toscano, Mario, 202, 240 Toynbee, Arnold, 220 Toynbee, V., 220 Tramontin, S., 276 Tranfaglia, Nicola, 75, 225, 274, 282 Traniello, Francesco, xv, 260, 269, 284 Tresso, Pietro, 34 Troilo, Ettore, 266 Tupirri, Giorgio, 230 Turati, Augusto, 24, 234 Turati, Filippo, 30 sg.
liberti, Luigi, 228 Ukov, V., 220 Umberto II, re d’Italia, 224 Ungari, Paolo, 74, 85, 225, 230, 247 sg. Upjohn, 266 Vaccari, Marcello, 247 Vaccarino, Giorgio, 222, 280, 284 Valeri, Nino, 222 Valiani, Leo, xu, 4, 99, 243, 209, 224, 232. 235 sg., 238, 243, 258, 276 sg. Valtulina, E., 280 Venanzi, Mario, 243 Vendramini, F., 277 sg. Veneziale, Ferdinando, 252, 266 Venturi, Franco, 29, 226, 228, 239 Verucci, Guido, 225 Vico, Giambattista, 293 Viggiani, Carmine, 265 Vinciguerra, Mario, 29, 55 Viola, Gaspare, 247 Violante, Luciano, 263, 269, 274 Visconti, Gian Galeazzo, 20 Vitali, S., 282 Vittorio Emanuele II, re d’Italia, 6 Vittorio Emanuele III, re d’Italia, 5 r, 244 Volpe, Gioacchino, 8-24, 22, 27, 46, 54, 645g., 74, 222-23, 22°. 225 Volterra, E., 207, 233, 237
Washington, George, 38 Wavel, Archibald Percival, 250 Weinberg, A. K., 239, 266 White, George, 225 Wiskermann, E., 220 Woolf, S.J., 245
Zaccherini, Alberto, 237 Zanardelli, Giuseppe, 233 sg. Zaniboni, Tito, 254 Zoccoli, Antonio, 247
Temi
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Laura Malvano, Fascismo e politica dell’immagine Mario Silvestri, Il futuro dell’energia Pietro Barcellona, L’egoismo maturo e la follia del capitale Tatiana Pipan, Sciopero contro l’utente La metamorfosi del conflitto industriale
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