A cura di Corrado Pestelli. Saggio introduttivo di Gino Tellini Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano. Testo critico con aggiunta di saggi e annotazioni autografe. [Third ed.] 9788860874160


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Italian Pages 663 Year 2011

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Table of contents :
A Preliminari
B Introduzione
C Nota al testo
E Prefazione
F Prefazione II
G Nota
H Avvertenze
00 Introduzione
01 cap
02 cap
03 cap
04 cap
05 cap
06 cap
07 cap
08 cap
09 cap
10a cap
10b cap
11 cap
13 Appendice I
14 Appendice II
15 Annotazioni autografe
16 Indice nomi
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A cura di Corrado Pestelli. Saggio introduttivo di Gino Tellini 
Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano. Testo critico con aggiunta di saggi e annotazioni autografe. [Third ed.]
 9788860874160

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BIBLIOTHECA

Sebastiano Timpanaro

Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano Testo critico con aggiunta di saggi e annotazioni autografe

a cura di

Corrado Pestelli saggio introduttivo di

Gino Tellini

In copertina: Thédore Rousseau, Landa delle ginestre, 1860 circa. Montepellier, Musée Fabre.

Copyright © 2011 by Casa Editrice Le Lettere – Firenze ISBN 978 88 6087 416 0 www.lelettere.it

Indice

vii xxxvii

Introduzione di Gino Tellini Nota del curatore e criteri della presente edizione

lxxv lxxvi lxxvii lxxxi ci ciii

Copertine 1973 e 1984 Bandelle 1984 Prefazione Prefazione alla seconda edizione Nota alla ristampa 1988 della seconda edizione Avvertenze sulle citazioni, sulle postille e sulle aggiunte bibliografiche Avvertenza sulle citazioni da «Aspetti e figure della cultura ottocentesca» Avvertenza sulle citazioni da «Nuovi studi sul nostro Ottocento»

cv cvii

Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano 3 37 97 108 148

I. II. III. IV.

Introduzione Le idee di Pietro Giordani Giordani, Carducci e Chiarini Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi Il Leopardi e i filosofi antichi

184

V. Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani 1. Gli «appunti» dell’abate Cozza-Luzi e la controversia CugnoniTacchi, 184 2. Le recenti vicende degli «inediti» del CozzaLuzi, 190 3. I Pensieri vaticani, 193 4. I primi due abbozzi di Idilli, 197 5. Le due suppliche a Pio VII e la lettera del cardinale Mattei, 207 6. Gli altri abbozzi dell’«Infinito», 215 7. I «Discorsi Sacri», 221 8. Conclusione, 224

227 250

VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi VII. Note leopardiane 1. «Strigne più la camicia che la sottana», 250 2. «Il Giordani, il Montani, il Vieusseux vi risalutano caramente», 251 3. «Gli sguardi innamorati e schivi» (A Silvia, 46), 253 4. «Al romorio / de’ crepitanti pasticcini» (Palinodia, 14-15), 259 5. «Le magnifiche sorti e progressive» (La Ginestra, 51), 261

266 VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi 315 328

IX. Il Leopardi e la Rivoluzione francese X. Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli I. Le idee linguistiche ed etnografiche di Carlo Cattaneo, 328 II. L’influsso del Cattaneo sulla formazione culturale e sulla linguistica ascoliana, 369

428

XI. Theodor Gomperz

Appendici 475

Appendice I I. Postilla su Maffei e Muratori, 475 II. A proposito di un inedito del Cattaneo sulla poesia dialettale, 483

489

Appendice II Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento italiano

503

Annotazioni autografe

531

Indice dei nomi

Introduzione di Gino Tellini Un libro necessario

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

1. Non è senza significato che Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano abbia nel 1965 visto la luce (al pari poi di altri tre volumi di Sebastiano Timpanaro)1 nei «Saggi di varia umanità» diretti, per i tipi pisani di Nistri-Lischi, da Lanfranco Caretti: una collezione d’orientamento italianistico, e di taglio accademico, ma fruttuosamente 1 Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi, Pisa 1965, 19692; Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1970, 19752 (Unicopli, Milano 19973); Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Nistri-Lischi, Pisa 1980, con dedica «ad Augusto Campana»; Nuovi studi sul nostro Ottocento, Nistri-Lischi, Pisa 1995, con dedica «a Lanfranco Caretti». Va da sé che Timpanaro è l’unico autore presente nei «Saggi di varia umanità» con quattro titoli. Sui tenaci rapporti di amicizia e di stima che lo hanno legato a Caretti informano la Prefazione a Classicismo e illuminismo («Esprimo la più viva riconoscenza a Lanfranco Caretti, che ha accolto questo lavoro nella collana da lui diretta; alla sua acuta sensibilità filologica e critica, al suo spirito pasqualiano sono debitore di preziosi suggerimenti»), nonché la Prefazione alla seconda edizione, la Prefazione a Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Ets, Pisa 1982 («Nemmeno nella riflessione sugli argomenti qui trattati [...] mi è venuto meno il prezioso consiglio di Lanfranco Caretti, a cui mi lega una comunanza non solo di idee filologiche e critiche, ma di visione della vita, pessimista non rinunciataria»), la Prefazione a Nuovi studi sul nostro Ottocento («Dedicare a Lanfranco Caretti un libro che si pubblica in una collana diretta da Lanfranco Caretti? È adulazione, è servilismo! Non mi meraviglierei di udire o di leggere commenti di questo genere. Ma chi conosce Caretti sa bene che le adulazioni non gli sono mai andate a genio; e chi, sia pure alla lontana, conosce me, sa che, tra i vari luoghi dell’inferno in cui potrò andare a finire, uno è escluso: la seconda bolgia dell’ottavo cerchio, quella, appunto, degli adulatori») e la nuova introduzione (dal titolo Venti anni dopo) alla terza edizione di Sul materialismo («un maestro e amico indimenticabile, della cui scomparsa [avvenuta a Firenze il 4 novembre 1995] non riesco e non riuscirò a consolarmi»). Più in particolare (oltre ai frequenti riconoscimenti disseminati in molti altri luoghi), si veda la Premessa di Timpanaro alla Bibliografia degli scritti di Lanfranco Caretti, a cura di R. Bruscagli e G. Tellini, Bulzoni, Roma 1996, pp. 14-24. Cfr. anche l’articolato panorama, in prospettiva storica, tracciato da A. Rotondò, Sebastiano Timpanaro e la cultura universitaria fiorentina della seconda metà del Novecento, nell’opera collettiva Sebastiano Timpanaro e la cultura del secondo Novecento, a cura di E. Ghidetti e A. Pagnini, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2005, pp. 3-88 (su Caretti e Timpanaro, pp. 72-77).

viii

Introduzione di Gino Tellini

aperta ai contributi di non italianisti e di non accademici, perché chi ne aveva la responsabilità della direzione era sollecitato non tanto da inquietudini metodologiche (le quali lasciano spesso il tempo che trovano), quanto piuttosto dal robusto e salutare innesto, nel domestico terreno delle nostre lettere, di energie e competenze professionali maturate in differenti campi del sapere. La tempra del classicista, del critico testuale, del linguista, del filologo, il vigore del pensatore e dello storico, la risolutezza etica e civile del militante politico, come del polemista, hanno cooperato a rendere Classicismo e illuminismo un testo capitale della storiografia sulla civiltà letteraria del xix secolo. Un libro necessario, eterodosso e problematico, che scompagina equilibri consolidati. Nella presente edizione compare integrato con altri scritti dell’autore, nonché con postille e aggiunte bibliografiche, come è chiarito in dettaglio nella Nota del curatore. Quando si pensa ai tanti meriti intellettuali di Timpanaro viene naturale passare da un settore scientifico all’altro, in una costellazione multipla di ambiti specialistici tra loro a prima vista non comunicanti (anzi spesso incomunicanti nella parcellizzata prassi universitaria). E si può correre il rischio di non tenere nel debito conto un dato ovvio eppure eccezionale: che un così poliedrico intreccio d’interessi, di dottrina, d’esperienze pratiche e conoscitive è salda espressione di un’unica, unitaria personalità.2 Definirla versatile e complessa non basta, perché l’arduo connubio di scientificità e passione, di magistero non cattedratico e intransigente moralità, di fiducia nella cultura e abnegazione personale che nutre la vita e la scrittura di Timpanaro (lui, studioso di prestigio internazionale, che ha scelto di esercitare il mestiere del correttore di bozze) non ha eguali nel panorama contemporaneo. Può valere nel caso quanto Montale osservava nel 1943 a proposito di Giorgio Pasquali: «è certo che questo creduto specialista ha ben distrutto le barriere della sua specialità».3 Tale particolarissima trama di convergenze disciplinari – peraltro mai esibita – credo 2 Su «l’originalità e l’unità dell’opera di Timpanaro», cfr. S. Settis, Presentazione del volume «Il filologo materialista. Studi per Sebastiano Timpanaro», in «Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche», s. IX, vol. XV, 2004, pp. 597-601. 3 E. Montale, Il «filologo soprano»: Giorgio Pasquali, in «Tempo», Milano, VII, 189, 7 gennaio 1943, pp. 33-35, ora in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, Mondadori, Milano 1996, 2 voll., I, p. 599.

Introduzione di Gino Tellini

ix

che si avverta tra le righe in tante pagine di Timpanaro. Però è certo che nei suoi contributi di italianistica siffatta tastiera pluriprospettica mette in moto una magistrale macchina interpretativa, che all’acribia della perlustrazione tecnica affianca la solidità della guardatura storica e della riflessione concettuale, abbinando filologia e critica letteraria sul fronte anti-intuizionistico, fino a proporre – non per via di rilucenti escogitazioni, ma sul fondamento di accertamenti empirici, di scavi lenti e pazienti – la rilettura originale di opere e di autori, come anche di interi (e quanto intricati) movimenti culturali. Il che non vuol dire che le soluzioni prospettate siano tutte, volta per volta, indubitabili (Sebastiano per primo era lieto di sottoporle alla verifica del confronto e della discussione):4 vuol dire però che la strada percorsa per giungere alla loro formulazione è in ogni caso illuminante e lascia ammirati,5 perché sempre tesa a interrogare e a capire le ragioni dei fatti accaduti, sempre orientata non a isolare il singolo evento, per contemplarlo nella sua assolutezza, ma a correlare e distinguere, a vagliare e investigare con intrepido rigore la contraddittoria complessità della realtà storica e di chi vi si trova coinvolto. Con ciò si tocca un tratto distintivo dell’habitus mentale di Timpanaro, del suo comportamento mai snobistico, sempre invece paritetico e democratico, ovvero l’attenzione esclusiva rivolta all’oggetto dell’indagine, senza nulla concedere al risalto della prima persona, al lustro del soggetto che indaga, all’ostentazione di sé. In effetti l’io dell’in4 Per talune riserve di fondo sul «disegno storiografico di Classicismo e illuminismo», cfr. ora E. Ghidetti, L’Ottocento di Timpanaro tra Illuminismo e Classicismo, nell’opera collettiva Sebastiano Timpanaro e la cultura del secondo Novecento cit., pp. 245-56, che tuttavia riconosce, all’«energica maieutica culturale» di Timpanaro, «risultati che hanno significativamente modificato le tavole storiografiche del primo Ottocento italiano, aprendo la strada a nuovi studi che hanno rimesso in discussione non solo le nozioni di Classicismo e Romanticismo, ma il problema stesso delle radici culturali dell’Italia moderna» (p. 256). 5 È quanto apertamente dichiara Cesare Cases a Timpanaro, da Torino, il 3 febbraio 1979, in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990, a cura di L. Baranelli, Edizioni della Normale, Pisa 2004, pp. 282-84: «È vero che i miei itinerari ideologici non si sono mai incontrati con i tuoi, che ero hegeliano e lukácsiano quando tu difendevi il materialismo più o meno volgare e civettavo con Freud quando tu demolivi il lapsus freudiano. [...] Tu hai scritto dei libri che si leggono volentieri, pieni di dimostrazioni persuasive, di collegamenti rivelatori, di riferimenti inediti e illuminanti. Che importa se uno poi non è d’accordo con il q.e.d. [quod erat demonstrandum] conclusivo? [...] Dopo tutto, quello che so dell’800 italiano l’ho desunto dai tuoi libri, che mettono sempre in evidenza figure e problemi interessanti [...]. Anche recentemente ho tenuto a un convegno italo-tedesco di germanisti, a Bonn, una conferenza sul mito della cultura tedesca in Italia che ha avuto un successo incredibile [...] e che per 3/4 era costituita da reminiscenze spesso neanche controllate del Timpanaro scritto e orale».

x

Introduzione di Gino Tellini

terprete non si annulla mai nel silenzio delle cose da dimostrare (come Contini diceva di Santorre Debenedetti), né mai rinuncia al proprio ruolo, anzi se ne sente sempre attiva la presenza, ma in qualità di regista energico e partecipe, coinvolto nella collettiva avventura della conoscenza, non come primattore o vocalista sulla ribalta della scena (l’io «collo-ritto», secondo l’immagine di Gadda). Basta anche poca consuetudine con la scrittura saggistica contemporanea – specie quella dei letterati – per avvedersi della distanza. Si parli pure di radicale modestia, esercitata per culto severo della verità, per un bisogno di integrale immersione e immedesimazione nella ricerca. Il fatto non è accessorio, perché discende dal carattere schivo della persona (ma gli amici sanno quanta intensità d’affetti e quanta forza di idee si celavano dietro quella ritrosa riservatezza) e connota con coerenza lo stile dello studioso, che qui più importa. La limpidezza e la sobrietà del dettato ne sono le doti subito evidenti, unite alla schiettezza antiaccademica e al rifiuto di raffinati virtuosismi. Nelle Considerazioni preliminari che aprono Il lapsus freudiano, l’epiteto «professorale» è congiunto, come sempre, all’idea della «grettezza» e, poco oltre, ecco biasimato, nei procedimenti interpretativi di Freud, il «brillante fuoco d’artificio» che può sedurre la fantasia di chi legge.6 Né toni professorali, né giochi di fioretto, né acrobazie dell’ingegno e del linguaggio, né alambiccamenti o narcisismi. L’aggettivo «brillante» ha sempre per Sebastiano un’accezione non positiva. La sua prosa è retoricamente spoglia, trasparente e spedita nella dizione, discorsiva e tangibile, attratta dall’area semantica dell’esperienza quotidiana, quindi poco incline ai voli metaforici7 e meno ancora agli ammiccamenti allusivi, perché intende non persuadere ma convincere, con il peso delle rilevazioni documentarie, con gli strumenti verificabili dell’argomentazione logica e della disciplina ragionativa. Alla scioltezza dell’eloquio risponde la sostenuta fluidità dell’impianto sintattico, al solo fine, beninteso, della chiarezza, della perspicuità, dell’efficacia comunicativa.8 Il destinatario effettivo coincide con un pubblico colto, ma 6 S. Timpanaro, Il lapsus freudiano. Psicanalisi e critica testuale, La Nuova Italia, Firenze 1974, ora nuova edizione, a cura di F. Stok, Bollati Boringhieri, Torino 2002, rispettivamente, pp. 3 e 31. 7 S. Timpanaro, Venti anni dopo, in Sul materialismo, Unicopli, Milano 19973, p. xii: «è sempre un brutto segno quando si è costretti a ricorrere a metafore». 8 Cases, da Roma, il 14 ottobre 1960, confida a Timpanaro di invidiare il suo «stile magro e vigoroso come le salsicce di Siena» (C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990 cit., p. 56).

Introduzione di Gino Tellini

xi

il destinatario implicito e ideale va oltre l’esigua cerchia degli addetti ai lavori. Perciò questo modo di scrivere ignora la separatezza tra i piani nobili e i mezzanini, onde se rifiuta gli abiti inamidati, rifiuta anche la facilità divulgativa e s’indirizza, con il medesimo timbro di una lucida sobrietà, agli intendenti e ai profani. Il «dire pane al pane e vino al vino»9 si coniuga, sul piano della dispositio, a una vivacissima tecnica dialogica che ottiene l’effetto di movimentare e animare gli argomenti dibattuti, chiamando in causa altri studiosi e consentendo di scrutare in controluce le loro prospettive di giudizio, sì da ricostruire – senza esclusioni preventive – la genesi delle valutazioni contrastanti che sono prese in esame e messe a confronto, con l’intento di valorizzare volentieri anche il lavoro altrui per una migliore chiarificazione e un ulteriore approfondimento delle questioni. Non conta chiudere la partita, ma mettere a punto la posta in gioco e questa – nei temi che a Timpanaro più stanno a cuore – non è mai sterile o pedantesca, ma sottratta alla rigidità della mera speculazione erudita e immersa, come materia compromettente e vibrante, nel flusso della storia civile. Al lettore accade allora, passo dietro passo, di trovarsi nel vivo di un laboratorio in fermento, in un’officina alacre e operativa, dinamicamente aperta, che trasforma l’inerzia dei dati di laboratorio in un drammatico (direbbe Montale) «fatto di vita»: «come un fiume perenne che può raggelarsi nella “fissità” delle schede ma non respira se non ritorna dalle schede alla vita».10 Ciò che preme infine è l’accertamento del vero, non la palma dell’originalità, che rimane variabile indipendente, spesso raggiunta ma non programmata e virtualmente irrilevante: Eh, lo so, questa mia interpretazione è trita e del tutto priva di originalità; ma che ci posso fare se la verità, in questo e in molti altri casi, è banale!

In questi termini Timpanaro si rivolge a Cesare Cases,11 dopo un istruttivo scambio di opinioni sulla teoria della tragedia. Coraggio del9 Così T. De Mauro, Premessa a Per Sebastiano Timpanaro. Il linguaggio, le passioni, la storia, a cura di F. Gallo, G. Iorio Giannoli, P. Quintili, Unicopli, Milano 2003, p. 8. 10 La frase montaliana è sempre riferita a Pasquali: cfr. E. Montale, Un filologo stravagante, in «Corriere della Sera», 7 dicembre 1951, ora in Il secondo mestiere. Prose 1920-1979 cit., I, p. 1307. Rilevante, in proposito, un’osservazione giocosa di Cases a Timpanaro, Torino, 1 aprile 1973, in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990 cit., p. 214: «tu sei sempre un eccellente storico delle idee e riesci a cavar sangue anche dalle rape filologiche». 11 S. Timpanaro a C. Cases, Pisa, 2 marzo [1963], ivi, p. 74. Cfr. almeno anche S. Timpanaro, De Amicis di fronte a Manzoni e a Leopardi, in Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., p. 211: «ma la verità non è necessariamente complicata».

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Introduzione di Gino Tellini

la chiarezza vuol dire anche anticonformistico coraggio della semplicità (che per Leopardi, si sa, è una conquista faticosa): originalità, dunque, come approdo involontario, al pari della modernità nell’impiego della strumentazione critica, conseguita proprio in virtù di un pervicace desiderio di inattualità, di leopardiana avversione per le mode del giorno, siano le «fumosità psicanalitico-sociologiche»,12 siano le primizie di grido importate da terra francese con il patrocinio dei «Grandi Saltimbanchi di Parigi».13 C’è il provincialismo strapaesano e c’è anche, oggi più insidioso, il provincialismo come passivo vezzo esterofilo.14 Contro le infatuazioni, la franchezza del «dire pane al pane e vino al vino» si rivela arma appuntita e anche ironicamente irridente «per “rompere l’incantesimo” e far vedere che l’imperatore di anderseniana memoria, da tutti elogiato per i suoi bei vestiti nuovi, in realtà è in mutande».15 Chi ha consuetudine con gli scritti di Timpanaro, ne incontra molti non solo di incantesimi rotti, ma di imperatori in mutande. Si dice da più parti, e giustamente, che siffatto metodo di lavoro si attiene con fermezza a uno statuto scientifico e razionalistico, ma occorre aggiungere che peculiare gli è anzitutto una dote rara che si chiama «vera umiltà scientifica», la quale nulla ha a che vedere – cosa mai sottolineata abbastanza – con l’esibizione scientistica, che è invece merce molto più corrente. Sempre l’amico Cases, assecondando la polemica antistrutturalistica del suo animoso interlocutore, distingue tra i «vecchi positivisti» e gli «strutturalisti»: 12 S. Timpanaro a C. Cases, Firenze, 9 gennaio 1968, in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990 cit., p. 122. 13 «La sociologia di Horkheimer e Adorno [...] mi sembra una propaggine dell’anticapitalismo romantico, con gli indubbi meriti ma anche con le insufficienze di quell’indirizzo. Direi che lo è già nel linguaggio fumoso e insopportabile. Almeno una cosa andrebbe imparata dall’illuminismo: il gusto dell’esprimersi e del pensare chiaramente. E questo è uno dei motivi [...] dell’antipatia che provo, da un lato per i francofortesi, dall’altro (ancora maggiore) per i Grandi Saltimbanchi di Parigi: per la banda Lévi-Strauss – Foucault – Lacan – Althusser» (S. Timpanaro a C. Cases, Firenze, 5 febbraio 1970, ivi, p. 146). Riguardo al «ristupidimento conformistico per cui tutti obbediscono alle mode e credono di essere liberi», cfr. S. Timpanaro, Prefazione a La «fobia romana» e altri scritti su Freud e Meringer, Ets, Pisa 1992, pp. 13-14. 14 «Com’è o dovrebbe essere noto, il provincialismo può assumere due forme, solo apparentemente opposte. Una è la forma strapaesana e autarchica [...]. L’altra è la forma dell’ammirazione acritica per qualsiasi sottoprodotto proveniente dai paesi “evoluti” [...]. In Italia c’è una periodica oscillazione fra le due forme di provincialismo» (S. Timpanaro, Un «parnassiano atlantico», in «Belfagor», XXVII, 1, 1972, p. 100). 15 S. Timpanaro a C. Cases, Firenze, 26 marzo 1971, in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990 cit., p. 190.

Introduzione di Gino Tellini

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Quello che più dà ai nervi in questi strutturalisti (a cominciare dai fondatori, Trubetzkoy e Lévi-Strauss) è la loro sterminata presunzione. I vecchi positivisti, benché andassero anche loro in cerca di sistemi rigorosi come quelli delle scienze esatte, avevano sempre la modestia di chi da una parte si inchina di fronte alla legge, dall’altra si aspetta che altri possa chiarirla e definirla meglio. Invece costoro, vedendo il mondo come un sistema di strutture che si rivelano solo al loro occhio d’aquila, alla loro prestigiosa capacità di accostare il cotto al crudo, la virgola al verso 2 con la virgola al verso 8, mancano di ogni vera umiltà scientifica [...].16

E Sebastiano, a giro di posta, sigilla lapidario: «Sono d’accordissimo con te quanto agli strutturalisti».17 L’entusiastico «d’accordissimo» aiuta a capire la funzione etica che Timpanaro non dissocia dal proprio lavoro e anche l’antispecialismo che ha sempre coltivato (in accordo con le insofferenze del suo maestro Pasquali contro la «maledetta specializzazione»),18 fermamente deciso nel praticare una cultura che si riconosce il compito non solo di leggere ma di modificare l’assetto della realtà sociale. Di qui la perseveranza del «militante di base», ansioso di un mondo migliore, più giusto e quindi più libero, che è il fulcro delle sue coraggiose scelte politiche.19 Come sullo statuto scientifico, tanto più meditato quanto lontano dalla boria dell’infallibile certezza, anche sulla nozione di «verità» occorre intendersi. Per Timpanaro essa non staziona nel regno metafisico dei massimi sistemi, non si colora di tinte intellettualistiche,20 né di falsa e fredda «ragione vuota»,21 ma assume sempre fattezze laiche e terrene, in quanto ricondotta sul campo sperimentabile della storia e degli accadimenti umani, riferita a determinate coordinate di luogo e di ambiente geografico, commisurata a concreti eventi politici, a contra16

C. Cases a S. Timpanaro, Cagliari, 8 marzo 1966, ivi, p. 97. S. Timpanaro a C. Cases, Pisa, 20 marzo 1966, ivi, p. 100. 18 Cfr. S. Timpanaro, Storicismo di Pasquali, nell’opera collettiva Per Giorgio Pasquali. Studi e testimonianze, a cura di L. Caretti, Nistri-Lischi, Pisa 1972, p. 127. La citazione di Pasquali in Storia della tradizione e critica del testo, Le Monnier, Firenze 1934, 19522, p. 8. 19 La «mia militanza politica [...] è stata almeno immune dai trasformismi e dai voltafaccia di tanti pseudorivoluzionari, e d’altra parte non è stata contrassegnata soltanto dalla “fedeltà” a certi ideali, ma anche da uno sforzo di unire alla fedeltà la lucidità e la volontà di capire» (S. Timpanaro, Il Congresso del Partito. Scherzo filologico-politico dedicato all’amico Antonio La Penna, in «Il Ponte», XXXVIII, 1, 31 gennaio 1981, p. 69). Cfr. anche E. Narducci, Sebastiano Timpanaro, in «Belfagor», XL, 3, 1985, pp. 283-311. 20 «Devo fare per la Nuova Italia un manuale di critica del testo (di critica del testo chiara, “spiegata al popolo”: non di “ecdotica” alla Avalle)» (S. Timpanaro a C. Cases, Firenze, 9 gennaio 1968, in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990 cit., p. 123). 21 S. Timpanaro, Venti anni dopo cit., pp. ix-x. 17

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Introduzione di Gino Tellini

sti di mentalità, di sentimenti, di schieramenti, di istituzioni, ma principalmente a esperienze di individui, visti in relazione tra loro e in rapporto con la natura, come cives appartenenti a distinte classi sociali e, al tempo stesso, come creature fisiche, quindi vulnerabili e deperibili, perché in tutte le «fasi della vita umana la socialità ha un peso rilevantissimo, ma non tale da annullarne il sostrato biologico».22 Il materialismo, in questa chiave, significa conoscenza disincantata delle antinomie e dei conflitti che scandiscono la storia politico-culturale, ma significa anche acutissima attenzione ai mali che tormentano – per usare le parole della Ginestra e della Palinodia – «il basso stato e frale» dell’«umana specie».23 2. Appare chiaro allora come due tra i nuclei portanti di Classicismo e illuminismo, cioè la polemica classico-romantica in Italia e il pensiero di Leopardi, al di là della loro centralità nella letteratura ottocentesca, siano questioni che toccano tasti nevralgici per l’orientamento umano e intellettuale di Timpanaro. Quanto al primo versante, basti dire che le indagini proposte hanno incrinato la complessiva fisionomia fino allora consolidata della cultura italiana nel periodo della Restaurazione. La storiografia tradizionale aveva infatti, come di solito avviene, sposato la causa del vincitore e, in merito alla querelle avviatasi a Milano nel 1816, tendeva a riconoscere ai romantici il brevetto quasi esclusivo della spinta innovativa e del progresso, specie in nome del liberalismo, del patriottismo, del diritto all’indipendenza dei popoli, nonché, nell’ambito artistico, per la battaglia contro il principio dell’imitazione, contro la mitologia, contro le cosiddette unità pseudoaristoteliche e l’aulicismo linguistico. Non tuttavia in questa dire22

Ivi, p. x. Al rapporto individuo-natura (ovvero alla condizione «dell’uomo vivente in un cosmo non fatto certamente per il suo bene, alle prese con una natura [...] che lo condiziona per tutta la sua breve esistenza, dalla nascita che non è dovuta ad una sua libera scelta, alla necessità di soddisfare certi bisogni primari, allo stato di salute, alla vecchiezza che tante volte è causa di decadenza anche psichica e intellettuale, fino alla morte»: ibidem), che ha evidenti implicazioni politiche e sociali ma non si risolve interamente in esse, spetta forse il primato nella riflessione di Timpanaro. Curiosamente eloquente, pur nel tono scherzoso, forse anzi tanto più eloquente proprio perché travestito in forma di scherzo, il seguente passo di una lettera del 30 giugno 1970, inviata a Grazia Cherchi (riportato in C. Cases e S. Timpanaro, Un lapsus di Marx. Carteggio 1956-1990 cit., p. 174, n. 2): «Il dente, finalmente estratto, non mi dà più noia. E quindi sono di nuovo disposto a riconoscere che il male principale è la divisione della società in classi e non il mal di denti». 23

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zione, già ampiamente sondata, indugia Timpanaro, bensì, attento alle ragioni dei vinti, si addentra nell’area degli oppositori, i classicisti, cui è toccata la mesta sorte dei perdenti. A costoro era di solito riconosciuto, quando andava bene, il merito di avere indirettamente, con la loro resistenza, esercitata un’azione di stimolo per l’elaborazione delle teorie romantiche. Oppure, per una sorta di fatale attrazione del polo vincente, poteva avvenire non di rado che gli stessi classicisti convinti, e perciò antiromantici (è il caso clamoroso di Leopardi), si trovassero forzatamente assimilati nell’alveo degli avversari, quasi se ne differenziassero non altro che per motivi contingenti e occasionali. Invece il discrimine sostanziale, a parte multiformi intersezioni e alleanze trasversali sempre possibili e sempre cangianti, è netto.24 Consapevole della complessa situazione, Timpanaro intende vederci il più possibile chiaro, assestare i contorni e i colori, distinguere e capire, ricomporre senza fretta (vi si riconosce il passo lento del filologo) la composita scacchiera delle forze in campo, le tensioni e i contrasti di idee, di sensibilità, d’espressione artistica che dividono intellettuali e scrittori schierati su opposti fronti. Gente seria, nell’un caso come nell’altro, che sa cosa vuole, pronta a pagare di persona e quindi degna del massimo rispetto, per quanto non vi sia certo penuria, di qua e di là, né di faccendieri pasticcioni né di buoni a nulla capaci di tutto. Da un lato, con i romantici più aperti al nuovo, si afferma – in risposta alla crisi della cultura post-napoleonica – un cristianesimo democratico deciso a conciliare passato e presente, tradizione e rivoluzione, attraverso il recupero di esigenze riformatrici già poste dall’illuminismo, ma sul fondamento di una moderna spiritualità religiosa: di qui la celebrazione del Medioevo teocratico e delle libertà comunali, quali esempio di energia vitale e di virtù patria, nonché l’impegno per una letteratura orientata in senso pedagogico e realistico, di un’arte eteronoma al servizio della società contemporanea. Dall’altro lato, l’avanguardia dei classicisti – in risposta a quella medesima crisi – si richiama in modo non mediato ma diretto all’illuminismo settecentesco, su basi sensistiche e smitizzate, secondo una concezio24 «Al Manzoni io glie ne riconosco moltissima, di legittimità. Ma il Manzoni ha stravinto già ai suoi tempi, e ancor oggi ha valentissimi campioni. I poveri classicisti progressisti, invece, o sono ignorati (come il Giordani), o vengono aggregati di forza al romanticismo (come il Leopardi e il Cattaneo). E io cerco di difenderli come posso» (S. Timpanaro a C. Cases, Pisa, 3 marzo 1962, ivi, p. 64).

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ne materialistica della civiltà umana: non dunque filomedievalismo, ma difesa di Atene e di Roma repubblicana, come simboli laici di libertà politica; non le istanze realistiche di un’estetica eteronoma, ma i diritti di un’arte autonoma e la priorità della fantasia creatrice (con l’apporto funzionale, non decorativo, della mitologia). Determinante per taluni classicisti s’impone la necessità (già settecentesca) del «ritorno alla natura», ovvero della riconquista di un’autentica spontaneità spoglia di sofisticazioni, onde l’imitazione dei classici grecolatini e dei trecentisti italiani – di contro al dettato romantico esemplato sull’uso attuale – si giustifica non come ossequio a modelli defunti, ma come riappropriazione di una perduta naturalezza. Si pone in termini differenziati la vertenza sui rapporti tra Italia e Europa, tra letteratura e filosofia, tra nuovo spiritualismo ed eredità rivoluzionaria. Anche così scarnificate e ridotte all’osso, le antitesi tra i due schieramenti risultano cruciali, tali da investire, ben oltre le chiacchiere di accademia, il fulcro stesso dell’arte e della vita associata, i modi e i procedimenti della convivenza civile. Timpanaro insiste nel rifiutare l’accezione estensiva del termine «romantico», assunto come astratta «categoria dello spirito»,25 perché

25 Prima di trattarne in Classicismo e illuminismo (e nella Prefazione alla seconda edizione), ne discorre ampiamente in Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento italiano, in Aspetti e figure della cultura ottocentesca cit., pp. 371-86, recensione a Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, a cura di P. Treves, Milano-Napoli, Ricciardi 1962, apparsa dapprima in «Critica storica», III, 1963, pp. 603-11 (la rivista di Armando Saitta, della quale Sebastiano è stato fedele collaboratore). Timpanaro, pur con il dovuto rispetto per la «straordinaria dottrina» di Treves, non può condividere l’impostazione della sua ricerca, che ruota per intero sulla preminenza della cultura romantica e neoguelfa (lasciando in ombra l’opposizione classicista), sulla base di un’invalsa accezione onnicomprensiva della nozione di «romanticismo»: «La mancanza di filologi e storici dell’antichità specificamente romantici e neoguelfi in Italia, d’altra parte, ha costituito per il Treves un incentivo ad allargare oltre ogni limite le categorie di romanticismo e di neoguelfismo, fino a includervi studiosi di tutt’altro orientamento. Per quel che riguarda il romanticismo, come è noto, questo procedimento è stato già messo in atto da molti studiosi: si è finito col fare di “romanticismo” un sinonimo di “civiltà liberale-democratica dell’Ottocento”, o addirittura di tutto ciò che nell’arte e nella cultura ottocentesca non è accademismo frigido: così Goethe, Foscolo, Leopardi, Heine, Cattaneo – tutta gente che col romanticismo polemizzò con asprezza – sono stati annessi, loro malgrado, alla schiera romantica. [...] Tutto il libro [di Treves], perciò è pieno di romantici inconsapevoli [...] e di neoguelfi inconsapevoli» (S. Timpanaro, Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento italiano cit., p. 377). Superfluo aggiungere che il dissenso non comporta disistima intellettuale («nessuno, in questo campo, ha letto quanto il Treves!»: ivi, p. 372), né tanto meno inimicizia. Infatti proprio «a Piero Treves» è dedicato Il socialismo di Edmondo De Amicis. Lettura del «Primo maggio», Bertani, Verona 1984.

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non vuole discutere di generalità tipologiche, che annebbiano la vista e alterano le tinte del paesaggio, bensì desidera affondare lo sguardo in una trama di relazioni concrete, magari discontinue, fluttuanti e sconnesse, ma storicamente determinate, per valutarne al tatto l’ordito dei fili, la qualità, gli intrecci, i limiti e i pregi, nella contingenza immediata di quella particolare epoca e delle sue aspettative, ma anche con l’occhio che guarda lontano, alla realtà dell’oggi. Ecco allora che antiromantici come Giordani, Leopardi, Cattaneo (anche Monti – dedicatario delle prime canzoni patriottiche leopardiane – per quanto riguarda la questione della lingua),26 distanti dall’oscurantismo dei classicisti pedanti e reazionari, rivelano esigenze e aspirazioni di radicale rinnovamento democratico, antispiritualista e laico, controcorrente rispetto al vento che soffia in casa nostra e oltralpe. E dire che il fronte classicista era tradizionalmente penalizzato anche da un’indifferenziata accusa di antipatriottismo. «Del Fortleben di un autore o di un movimento culturale – avverte Timpanaro – facciamo parte anche noi, e non abbiamo alcun motivo di rinunciare a esprimere anche noi il nostro giudizio, pur con la consapevolezza del margine di soggettività che esso comporta». E il giudizio suo è risoluto: i classicisti illuministi sono non solo gli esponenti di punta in un conflitto ideologico che li ha visti sconfitti, ma sono «gli ingegni più avanzati, più liberi da miti e da pregiudizi, del nostro primo Ottocento». Bisogna riconoscere come metodologicamente ineccepibile la discrezione dello storico-filologo che non confonde l’inventario dei reperti scrutinati e il giudizio di valore (che è poi, nelle inevitabili proiezioni sul presente, esplicito, fermo e persuaso giudizio anche politico).27 Importa l’una cosa e l’altra: la soggettiva valutazione, 26 L’antiromantico Foscolo, per Timpanaro, fa parte a sé, perché il suo classicismo, che conserva forti attributi di aristocraticismo alfieriano, resta estraneo a una precisa connotazione liberale e democratica. 27 Questa equità storiografica non è stata tenuta in giusta considerazione e infatti Classicismo e illuminismo, destinato a turbare la pacifica sopravvivenza di parametri convenuti, non ha mancato di suscitare anche reazioni aspre e spigolose, tanto da indurre l’autore dopo molti anni, nella Prefazione a Aspetti e figure della cultura ottocentesca, a pazientemente sperare che il «nuovo libro» aiuti a meglio comprendere il «vecchio»: «Vorrei sperare che il nuovo libro contribuisse ad una più equa comprensione del libro vecchio, e specialmente a sfatare l’idea che io abbia identificato il romanticismo (concepito come un blocco politico-culturale indifferenziato) con la reazione e il bigottismo, il classicismo (visto, ugualmente, come un’entità monolitica) con un generico spirito “progressista”, e abbia stabilito un’analoga, sbrigativa equazione tra materialismo e “progresso”, spiritualismo e tendenze retrograde anche sul piano della storia politico-

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inerente all’appassionata personalità dello studioso e alle sue scelte di campo, e l’oggettivo accrescimento di conoscenza dovuto alla rilevazione di dati nuovi, dai quali molto ha da apprendere anche chi si trovi a non condividere la soggettività del giudizio, perché la rilevazione acuminata e tenace punta diritta sempre al bersaglio dei fatti e dei testi (da cui spreme non impressioni o giochi verbali, ma idee). Sulle cause che hanno favorito l’esito di quel conflitto ideologico, Timpanaro s’interroga lungamente e la vertenza resta aperta. Determinante è tuttavia il ruolo ch’egli riconosce, nel processo di svalutazione del classicismo, all’influsso esercitato da De Sanctis, che nessuna indulgenza concede al medievalismo teocratico, ma che alla rinascita religiosa dei romantici tributa nondimeno una parte importante per l’avanzamento e la decisiva conquista del xix secolo rispetto al xviii, ovvero «il senso della storia e del reale». La scuola liberale di Manzoni e la scuola democratica di Mazzini discendono entrambe da questo clima antimaterialistico, onde la componente classicistica rimane tagliata fuori, come residuo inattuale e libresco. E difatti De Sanctis si arrovella per trovare un posto, entro il proprio sistema interpretativo, all’amatissimo poeta dei Canti, che male si colloca nella linea di sviluppo della poetica realistico-romantica e dello storicismo provvidenzialista ottocentesco. La stagione di Carducci e della sua cerchia, nell’inquieta Italia postunitaria delusa dall’impresa risorgimentale, comporta una coscienza più vigile e attenta verso il classicismo illuminista (come mostra l’episodio eccentrico e perciò sintomatico della calda ammirazione giordaniana nel cenacolo degli «Amici Pedanti»), ma ne segna anche il ripiegamento verso sponde nazionaliste e antidemocratiche, all’ombra della politica crispina. Il secolo delle «magnifiche sorti e progressive», giusto l’amaro disincanto della Ginestra, si chiude – alle soglie dell’imminente rivincita estetizzante e idealistica, nonché nei paraggi di altrettanto imminenti euforie irrazionalistiche – con l’insociale. Sarebbe bastata anche soltanto una lettura non troppo distratta dell’introduzione a Classicismo e illuminismo, per accorgersi come io sia sempre stato del tutto alieno da “equazioni” così rozze ed erronee, e come mi abbia mosso sempre, al contrario, un’esigenza di distinguere le varie posizioni politiche, ideologiche, letterarie, tenendomi lontano sia da caratterizzazioni “epocali” che tutto abbracciano e nulla stringono (il romanticismo come categoria che include in sé tutta l’intelligencija europea del primo Ottocento), sia da concezioni storiografiche esasperatamente individualizzanti e altrettanto astratte (ciascun autore da considerarsi assolutamente come un “caso a sé”, al di fuori di affinità di idee, di correnti ideologiche e culturali, di condizionamenti sociali e politici)» (S. Timpanaro, Aspetti e figure della cultura ottocentesca cit., pp. x-xi).

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voluzione e la deriva rovinosa di quel coté arditamente progressivo sostenuto in primis da Giordani e da Leopardi. Sull’epilogo della vicenda e sullo scacco patito dagli antagonisti dello spiritualismo romantico, Timpanaro non spende parole di emotiva pietas storica, perché non è nelle corde del suo stile e più perché gli importa il riscatto di quella lezione nella realtà culturale del presente. 3. Il saggio che s’intitola Le idee di Pietro Giordani (uscito dapprima in «Società» nel 1954) vale, non solo cronologicamente, da antefatto dell’intero volume e assegna un volto inatteso allo scrittore piacentino, assurto in fama ai tempi suoi e acclamato come autorità, poi avvilito da De Sanctis in un impari e anche un po’ tendenzioso confronto con Leopardi,28 quindi per lungo tempo castigato ai margini dei manuali letterari. L’inedito ritratto qui tracciato di questo ex monaco, dal carattere difficile e sdegnoso, divenuto ateo e libero pensatore (tuttavia dai contemporanei stimato, suo malgrado, quale impeccabile modello di retorica anche in ambienti clericali e confessionali), si distingue come «rivoluzionariamente novatore»29 e ha di fatto segnato una «svolta decisiva nella ricerca».30 Sgombrata la strada dalle foglie secche dei residui più caduchi di una personalità controversa e contraddittoria, ne emerge il mordente di un vigoroso intellettuale militante: un letterato che ha in uggia il frastuono dei «sonettanti» perdigiorno e che nella letteratura cerca l’educazione della mente e una seria «sostanza nutritiva» (come confida, da Piacenza, il 20 febbraio 1823, a Giuseppe Montani); che s’entusiasma, sì, per le qualità espressive dei «tre grandi gesuiti» del Seicento (Segneri, Bartoli e Pallavicino), ma esalta, con cognizione di causa, anche la «sostanza» di Galileo e rivendica a quel secolo il merito di aver creato la prosa scientifica italiana; un classicista che sostiene, in clima di culto antiquario verso il passato, la necessità per i ragazzi di studiare, prima dell’antica, la storia moderna (contro i molti – commenta Timpanaro – «che l’avrebbero volentieri abolita non solo dall’insegnamento, ma dalla coscienza dell’umanità»), non certo per illuministico discredito del mon28 «Veggo il giovane sulla cima della piramide, e Giordani strisciare tra la moltitudine» (F. De Sanctis, Giacomo Leopardi, a cura di W. Binni, Laterza, Bari 1953, p. 61). 29 Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento cit., p. 416. 30 C. Dionisotti, Pietro Giordani (1974), in Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri, Il Mulino, Bologna 1988, pp. 81-82.

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do classico, ma perché, almeno in uno stadio educativo iniziale, ritiene «stolto – così nell’articolo Dello Sgricci e degl’improvvisatori in Italia, sulla “Biblioteca Italiana” nel 1816 – di voler sapere ciò che nel mondo si facesse duemil’anni sono, prima di sapere ciò che accadde l’altro ieri, e ne’ giorni del padre e dell’avolo». Considera i giovani, che a lui si rivolgono per consigli e suggerimenti, non discepoli ma compagni di viaggio, onde rifugge dal paternalismo gerarchico e rifiuta l’appellativo di «maestro», parola che gli «fa nausea ed ira» (a Leopardi, da Milano, il 16 maggio 1817); come rifiuta il credito d’infallibilità che gli è fiorito intorno: «È vero che è di molti il voler quasi parere infallibili [...]. Ma quello parmi errore goffissimo. Non è l’errare, cioè il pensar male, che disonori; ma il non aver forza di pensare» (sempre a Leopardi, da Milano, il 17 dicembre 1817). Nell’Istruzione a un giovane italiano per l’arte di scrivere (1821) premette che «l’arte di scrivere è l’arte di ben pensare, e ben esprimere i nostri pensieri». Però, sempre nei riguardi dei giovani, prima di una giudiziosa educazione, pretende il doveroso rispetto umano: non per nulla nel 1819 denuncia al podestà di Piacenza e al governo di Parma, con lettere fiere e arroventate che poi pubblica sotto il titolo Causa dei ragazzi di Piacenza, l’«infame ed esecrabile abuso di battere crudelmente i ragazzi nelle scuole». L’ostilità che ha manifestato contro la poesia dialettale – sì da tirarsi addosso le frecciate appuntite di Carlo Porta e le malevolenze dei tanti milanesi meneghini – non va presa per quello che non è, ossia per una polemica di matrice puristica o per una censura di tipo estetico, bensì muove da motivazioni antimunicipalistiche e antipopulistiche, perché cerca di scoraggiare (senza escludere l’interesse filologico e storico per i dialetti) la separatezza dei ceti umili, per integrarli sul piano alto della cultura e della lingua nazionale. Analoga genesi civile e antiprovinciale ha d’altronde l’antipatia spesso dichiarata da Giordani per i latinomani, specie per i verseggiatori in latino, raffinati cultori di un umanesimo deteriore, che si baloccano con florilegi verbali destituiti di vita, come fatui collezionisti di ninnoli, e si dilettano nel rifare il verso ai grandi del passato, dei quali dimostrano di non intendere né il significato né il valore. Il suo orientamento politico lo porta a schierarsi dalla parte dell’assolutismo illuminato settecentesco, piuttosto che dalla parte dei liberali o dei democratici: giudica inutili le «sètte», diffida delle società segrete e delle cospirazioni, come resta insensibile all’esigenza costi-

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tuzionale; confida in un sovrano che favorisca ogni iniziativa di progresso, che tuteli le classi più disagiate, che riconosca ai sudditi il diritto e il dovere di denunciare liberamente le ingiustizie; allo scrittore assegna il ruolo di osservatore critico e di portavoce delle legittime richieste dell’opinione pubblica. In linea teorica, sono posizioni arretrate. Eppure Giordani – malgrado la non partecipazione a moti rivoluzionari – è stato vessato dai governi assolutisti, più di quanto non sia accaduto a tanti liberali: privato dell’impiego all’Accademia di belle arti di Bologna nel 1815, esiliato dal ducato di Parma nel 1824, quindi dalla Toscana nel 1830, incarcerato per tre mesi a Parma nel 1834 e messo al bando dal Lombardo-Veneto, nonché sempre spiato dalla polizia austriaca. Simili trattamenti non gli sono riservati per sbaglio, né sono dovuti al caso. Di tali «persecuzioni egli aveva pienamente meritato l’onore», osserva Timpanaro, che non si accontenta dei princìpi teorici, ma ricostruisce dal vivo le «idee audaci» di quest’uomo che non con l’azione ma esclusivamente con la penna (per di più con scritti volanti, brevi e d’occasione) riesce a turbare i sonni di inquisitori, magistrati, prelati, ministri, governanti. Vulnerabile, nevrotico, sempre scontento di sé, malmesso di salute, ma fermo come una roccia: «I ministri sono sministrati; i duchi possono essere sducati. Io per me rido, sapendo che, se anche fossi impiccato, non sarò mai sgiordanato. Voi dovete sapere (quel che i ciuchi bardati né sanno, né possono intendere) che io sono di quelli che neppur la morte fa tacere» (così al barone Mistrali, ministro delle finanze di Maria Luigia, il 4 giugno 1833). Il fatto è che Giordani non prende parte attiva alle lotte risorgimentali (che segue con fervore) e può nutrire sfiducia nel successo della rivoluzione, ma – diversamente dai moderati toscani, suoi amici negli anni fiorentini – non ha alcuna paura della rivoluzione e dei suoi effetti.31 Parlano chiaro, in proposito, le convinzioni da lui sostenute in campo sociale. Nelle pagine Se debbano impedirsi gli studi ai poveri, apostrofa come «bestiale demenza» quell’impedimento 31 Di altro avviso sui moderati toscani e su Giordani sono, com’è noto, gli studi di Umberto Carpi (Letteratura e società nella Toscana del Risorgimento. Gli intellettuali dell’«Antologia», De Donato, Bari 1974; Giordani, Leopardi e i liberali toscani del gruppo Vieusseux, nell’opera collettiva Pietro Giordani nel II centenario della nascita, Atti del Convegno di studi, Piacenza, 16-18 marzo 1974, Cassa di Risparmio, Piacenza 1974, pp. 93-110; Egemonia moderata e intellettuali nel Risorgimento, nell’opera collettiva Storia d’Italia, Annali, IV [Intellettuali e potere], Einaudi, Torino 1981, pp. 429-71), a cui Timpanaro replica in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana cit., pp. 49 sgg.

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caldeggiato da più parti. E di fronte ai «poveri» non assume atteggiamenti caritatevoli o filantropici. «Mi credo obligato – comunica a Antonio Gussalli, il 5 gennaio 1846 – di riverire quelli che lavorando guadagnano il vivere; superiori a me e a tutti quelli che non faticando e nulla producendo mangiano le fatiche e i prodotti altrui». Nell’elogio lasciato incompiuto (1817) del forlivese Domenico Manzoni, si legge che «i danni della perfetta uguaglianza non sono mai da temere, perch’ella è impossibile: laddove i mali della somma disuguaglianza gravissimi sono da temere, perch’ella è facilissima». Nell’Italia della Restaurazione (ma non solo in quella lontana Italia) sono in pochi – avverte Timpanaro – a definire irreale il pericolo dell’eccessivo egualitarismo, ovvero della «perfetta uguaglianza». Ma gli accenti polemici più accesi, il laico e sensista Giordani li indirizza contro il clericalismo e i suoi fautori, bollati come «condensatori di tenebre», e in questa mai placata battaglia antigesuitica la scrittura s’inarca di vividi scatti, come nei travestimenti onomastici che sbeffeggiano gli avversari: Tommaseo diventa «fra Nicolò»; il padre Cesari, «Sant’Antonio Cesari»; il papa, «Vicedio o Vicecristo» (dal Vice-Dieu di Voltaire); Francesco Cocchi, ministro dell’interno di Maria Luigia, «Sua Maialità Fra Coccone»; il conte di Bombelles, «l’onagro», cioè asino selvatico. Esemplare, in tema di «tenebre» e di «intenebratori», è l’eccezionale e sulfureo frammento Il peccato impossibile, composto nel 1838 e pubblicato postumo a Londra nel 1862 da Antonio Gussalli (senza nome del curatore), il quale tuttavia non lo include – per timore della censura anche nel clima liberale del neonato Regno d’Italia – nelle Opere giordaniane da lui curate a Milano tra il 1854 e il 1862: «bellissima satira sulla credenza del concubito diabolico», afferma Timpanaro, che ricorda anche il giudizio a caldo di Carducci, trasmesso in via privata a Giuseppe Chiarini, il 4 maggio 1863: «che meraviglia di stupenda scrittura quella del Peccato impossibile! Ben poche pagine di Voltaire son degne di starle a fronte: ma solo di lui. E che grande e splendido e terribile nemico di tutti i vili nemici del genere umano era quel Giordani: il solo veramente libero degli scrittori italiani moderni».32 32 La segnalazione di Timpanaro ha stimolato la riproposta editoriale (con introduzione e eccellente commento) di William Spaggiari: Il peccato impossibile, Zara, Parma 1985 (poi Aliberti, Reggio Emilia 2002), su cui cfr. la recensione di Timpanaro (unitamente alle Avventure letterarie di un giorno di Pietro Borsieri, a cura dello stesso Spaggiari, Mucchi, Modena 1986),

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Tuttavia anche per Giordani (come per Timpanaro), al di là delle petizioni di principio, contano le persone e i loro comportamenti, onde si entusiasma (invano) nel 1846 per il «miracoloso» Pio IX e mantiene nondimeno con parecchi ecclesiastici stretti rapporti di amicizia. Ma più importa l’alta stima con cui saluta – lui purista, antiromantico, antispiritualista, anticattolico – l’uscita dei Promessi sposi: «Oh lasciatelo lodare [il romanzo di Manzoni]: gl’impostori e gli oppressori se ne accorgeranno poi (ma tardi) che profonda testa, che potente leva è chi ha posto tanta cura in apparir semplice, e quasi minchione: ma minchione a chi? agl’impostori e agli oppressori che sempre furono e saranno minchionissimi: Oh perché non ha Italia venti libri simili!». E nei Pensieri per uno scritto sui «Promessi sposi», elaborati in vista di un articolo destinato all’«Antologia» ma non portato a termine, mette bene in risalto taluni essenziali motivi dell’opera di Manzoni e sono motivi non quietistici, né edificanti, né innocenti. Se li confrontiamo con l’accoglienza cauta e prudentissima che ai Promessi sposi è tributata nell’ambiente fiorentino di palazzo Buondelmonti (da Montani a Capponi, da Vieusseux a Lapo de’ Ricci a Lambruschini), se li misuriamo con la recensione del cosiddetto manzoniano Tommaseo (sull’«Antologia», ottobre 1827), impastata di toni encomiastici e di censure secche, i Pensieri dell’antimanzoniano Giordani mandano davvero un suono diverso, più schietto, più spregiudicato, più lungimirante, che resta per allora senza equivalenti e poi senza eco nella Firenze granducale.33 Bastano i tratti qui riassunti per sentire il polso del Giordani rivisitato da Timpanaro:34 un personaggio che si rivela di altro tenore in «Critica storica», XXIV, 3, 1987, pp. 508-21, poi, con il titolo Un’operetta di Pietro Borsieri ed una di Pietro Giordani, in Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., pp. 31-54. 33 Rinvio, in merito, al mio saggio (che molto deve al ritratto di Giordani disegnato da Timpanaro) Manzoni al Vieusseux, nell’opera collettiva Manzoni a Firenze, Atti delle due giornate di studio, Firenze, 23-24 novembre 1985, a cura di G. Tellini, Gabinetto G.P. Vieusseux, Firenze 1986, poi, con il titolo Manzoni 1827: Milano e Firenze, in G. Tellini, Letteratura e storia. Da Manzoni a Pasolini, Bulzoni, Roma 1988, pp. 11-37. 34 Dopo i due saggi giordaniani (del 1954 e del 1961) compresi in Classicismo e illuminismo, che hanno aperto la strada a un intenso e rigoglioso sviluppo di nuovi studi e di nuove indagini archivistiche, Timpanaro è tornato sull’argomento in più occasioni (oltre che nella ricordata recensione a Il peccato impossibile, edito da William Spaggiari), per cui cfr. almeno: Noterelle su Domizio Calderini e Pietro Giordani, nell’opera collettiva Tra latino e volgare. Per Carlo Dionisotti, Antenore, Padova 1974, 2 voll., II, pp. 709-16; Il Giordani e la questione della lingua (1974), in Aspetti e figure della cultura ottocentesca cit., pp. 147-223; Pietro Giordani e Lucano, nell’ope-

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rispetto al profilo vulgato dello squisito stilista assorto in umbratili fatiche di restaurazione formale. Ma non si tratta soltanto dell’inaspettato riconoscimento reso a un autore indebitamente mortificato negli annali delle patrie lettere (a far data nientemeno che dalla Storia di De Sanctis). È anche una lezione di metodo, dalla quale si ricava che non vale la pena dare troppo peso alle appartenenze di scuola, ai manifesti, ai programmi, alle dichiarazioni di poetica, agli schematismi sovrapposti ai fatti. Dietro le bandiere e le etichette, conviene (ma ci vuole tenacia e penetrazione) guardare in faccia gli individui e valutarli per ciò che hanno fatto, per la personale responsabilità etica e civile delle scelte da loro compiute. Se a qualcuno l’insegnamento può sembrare facile o di poco conto, rammenti (con Timpanaro) che la «verità» spesso è «banale» e che Giordani, sia come sia, ha dovuto aspettare quasi un secolo prima di vedere rimosse molte nebbie che ne offuscavano l’effettiva identità. 4. Diradate le nebbie, meglio risalta anche il legame profondo che ha unito Giordani a Leopardi, che è notoriamente l’auctor decisivo nell’orizzonte speculativo di Timpanaro, insieme leopardista e leopardiano.35 Prima tuttavia dell’indagine sul «pensiero» del poeta dei Canti, si colloca il compendioso lavoro su Le idee linguistiche ed etnografiche di Carlo Cattaneo e L’influsso del Cattaneo sulla formazione culturale e sulla linguistica ascoliana (già in «Rivista storica italiana» nel 1961-1962, quindi integrato, fino dalla prima edizione di Classicismo e illuminismo, con la Postilla su Maffei e Muratori e con A proposito di un inedito del Cattaneo sulla poesia dialettale), che offre un esempio luminoso di storicizzazione critica degli strumenti analitici e dei parametri teorici della linguistica (un campo di ricerca poi da Timpanaro ra collettiva Cultura piacentina tra Sette e Novecento. Studi in onore di Giovanni Forlini, Comitato per la promozione degli studi piacentini-Cassa di Risparmio di Piacenza, Piacenza 1978, pp. 149-70, poi parzialmente confluito nel § 7 di Aspetti della fortuna di Lucano tra Sette e Ottocento, in Aspetti e figure della cultura ottocentesca cit., pp. 1-79; Ancora su Pietro Giordani (1976) e relativa Postilla, in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana cit., pp. 103-44; Le lettere di Pietro Giordani ad Antonio Papadopoli (1990), Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846 (1981), Due cospiratori che negarono di aver cospirato (forse Giordani, certamente Bini), in Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., rispettivamente, pp. 55-67, 67-101, 103-25. 35 Per il duplice aspetto di Timpanaro, leopardista e leopardiano, cfr. L. Blasucci, Gli studi leopardiani di Timpanaro, nell’opera collettiva Il filologo materialista. Studi per Sebastiano Timpanaro, a cura di R. Di Donato, Scuola Normale Superiore, Pisa 2003, pp. 105-30.

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a più riprese ampliato e approfondito),36 proprio in un periodo nel quale studi di questo tipo risultano propriamente eccezionali in Italia e fuori. Vi appare palese l’intreccio tra la storia della linguistica e la storia culturale della società ottocentesca, in prospettiva materialistica, cioè con particolare attenzione alle radici biologiche e alogiche del linguaggio, alla larga però in pari tempo dalle secche del riduzionismo scientistico. Accanto dunque a Cattaneo – che si rivela grande maestro nel «reagire al misticismo e allo schematismo della linguistica romantica», come nel prospettare una visione dinamica dei rapporti «tra aggregati linguistici e aggregati etnici» – si profila, sia per quanto attiene alla questione della lingua, sia per la teoria del sostrato, l’animosa figura di Graziadio Ascoli che, con l’autorità di una dottrina più vasta e più esatta, si colloca in un rapporto di continuità con l’orientamento antimetafisico e democratico della linea classicista-illuminista. L’anno successivo alle ricerche su Cattaneo-Ascoli appare (su «Critica storica» nel 1963, poi in Aspetti e figure della cultura ottocentesca del 1980) lo studio sui Pensatori greci (1896-1909, versione italiana 1933-1962) del filologo e storico dell’antichità Theodor Gomperz, ebreo austriaco nutrito di empirismo e illuminismo inglese. Che cosa significhi antispecialismo, in quanto capacità di connessione tra campi culturali diversi e attitudine a interpretare la civiltà come rete di influssi e di scambi, come – direbbe Cattaneo – commercio economico, intellettuale e sociale tra i popoli, lo dimostrano le considerazioni di Timpanaro su questa storia della filosofia greca – punteggiata di figure vive, non di teorie spersonalizzate – «che dà un grande risalto al pensiero scientifico, ed è pervasa da un forte afflato antimetafisico, e non perde mai di vista il nesso tra storia del pensiero e storia politico-culturale». Ma i Pensatori greci – visti in un’ampia prospettiva di 36 Tra i molti interventi, rammento almeno i due saggi schlegeliani (Friedrich Schlegel e gli inizi della linguistica indoeuropea in Germania, in «Critica storica», IX, 1972, pp. 72-105 e Il contrasto tra i fratelli Schlegel e Franz Bopp sulla struttura e la genesi delle lingue indoeuropee, ivi, X, 1973, pp. 553-90), oltre a Giacomo Lignana e i rapporti tra filologia, filosofia, linguistica e darwinismo nell’Italia del secondo Ottocento, ivi, XVI, 1979, pp. 406-503. Queste pagine – insieme a Graziadio Ascoli, in «Belfagor», XXVII, 2, 1972, pp. 149-76 (già, in forma più condensata, nell’opera collettiva Letteratura Italiana. I Critici, a cura di G. Grana, Milano, Marzorati, 1969, I, pp. 303-21) e Il primo cinquantennio della «Rivista di Filologia e di Istruzione Classica», in «Rivista di Filologia e di Istruzione Classica», C, 1972, pp. 387-441 – sono ora raccolte in volume: S. Timpanaro, Sulla linguistica dell’Ottocento, presentazione di G.C. Lepschy, Il Mulino, Bologna 2005.

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storia della storiografia filosofica – si tengono lontani, oltre che dagli sbocchi idealistici di fine secolo, anche dalla «coloritura razzistica» che assume nel secondo Ottocento «il concetto romantico di nazione» e Gomperz si compiace «di considerare come un elemento favorevole al progresso della civiltà, accanto ai contatti culturali tra i Greci e gli altri popoli, anche la mescolanza razziale» e «all’esaltazione dei purosangue» contrappone polemicamente «l’esaltazione dei mixobárbaroi: Talete, Tucidide, Antistene ...». A quest’opera, che rifiuta la concezione «platonocentrica» della speculazione greca, per rivalutare l’investigazione della natura dei presocratici, gli atomisti, i sofisti, l’edonismo di Aristippo e di Epicuro, la medicina ippocratea, è necessario ricorrere – sostiene Timpanaro – per «riacquistare la consapevolezza che la grande originalità del pensiero greco sta nell’aver compiuto un passo decisivo verso la laicità e la scienza». Storia della linguistica in prospettiva materialistica, diffidenza verso il «misticismo» della svolta romantica, «afflato antimetafisico», filosofia della natura come conquista di una visione laica della realtà, attaccamento a una morale che non escluda il piacere: l’orizzonte è disseminato di indicatori segnaletici che sono antefatti eloquenti alla rivisitazione del «pensiero» leopardiano. E ancora: «Il sangue che noi infondiamo nelle ombre del passato affinché esse ci parlino, è tratto dalle nostre vene». Sono parole di Gomperz, che Timpanaro cita e alle quali aggiunge: «Se non fosse stato egli stesso un illuminista [...], ben difficilmente il Gomperz avrebbe potuto scoprire e apprezzare nel loro giusto valore i momenti illuministici della cultura greca». Il che è buon viatico al nuovo Leopardi presentato in Classicismo e illuminismo. Non solo unità del sapere, non solo ricerca del vero criticamente accertato, ma anche saldatura di rigore e passione, di tensione etica e coinvolgimento autobiografico. È così che le idee perdono la loro astrattezza e si trasformano in sostanza umana. Davvero quel «sangue», che rivitalizza le ombre del passato, è «tratto dalle nostre vene». 5. Il saggio Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi (già in «Critica storica» nel 1964, a dieci anni da Le idee di Pietro Giordani) ha alle spalle – nell’iter del leopardismo novecentesco – la svolta segnata nel 1947 dagli studi di Cesare Luporini (Leopardi progressivo) e di Walter Binni (La nuova poetica leopardiana), ma più ancora – nell’iter personale dell’interprete – l’aurea e celebre a buon diritto (cosa che non

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sempre avviene) indagine su La filologia di Giacomo Leopardi del 1955 (oltre agli Appunti per il futuro editore dello «Zibaldone» e dell’epistolario leopardiano, sul «Giornale storico della letteratura italiana» nel 1958), che è in assoluto il primo libro del trentaduenne Timpanaro, edito nella collana lemonnieriana «Quaderni di letteratura e d’arte», diretta da Giuseppe De Robertis, suo maestro all’Università di Firenze e leopardista insigne. Il Leopardi filologo razionalista, caratterizzato nel 1955, non congetturatore-artista ma congetturatore-scienziato, non dotato d’intuizione divinatoria (quale dal suo genio lirico ci si aspetterebbe) ma di razionale lucidità e sistematicità, prelude a Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi, lungo un percorso che saldamente congiunge inchiesta filologica e pessimismo materialistico. Quando era alle porte l’offensiva del neoscientismo strutturalistico, che avrebbe assiderato anche il poeta dell’Infinito in gelide e vitree formalizzazioni del significante, Timpanaro ha avuto il merito di portare in primo piano la sostanza concettuale e il «pensiero» dell’autore dei Canti, nel fermo convincimento – ribadito anche dopo molti anni – che «il Leopardi, poeta musicalissimo, non ha mai sacrificato il significato al significante, non è stato mai poeta di pure immagini o di puri suoni, non ha mai rinunciato a fare della sua poesia o prosa d’arte uno strumento conoscitivo».37 Le acquisizioni nuove nel saggio del 1964 sono molte e determinanti. In primo luogo, la correlazione stabilita tra l’antiromanticismo di Leopardi (in contrasto con l’ideologia cattolica della Restaurazione, poi con il cattolicesimo liberale, quindi con le varie correnti spiritualistiche contemporanee) e l’ala illuministica del classicismo italiano, onde il particolare risalto del rapporto con il laicismo sensistico di Giordani e con le sue istanze di riforma culturale. Ma questa non è che la premessa. Infatti l’eccezionalità nel contesto europeo della posizione leopardiana risiede per Timpanaro nell’oltranza di un pessimismo (non solo storico-sociale ma assoluto e sistematico, cioè inerente a dati immodificabili della condizione umana) che non si limita a respingere qualsiasi ipotesi provvidenzialistica o compensazione ultraterrena, ma che anzi rinsalda l’oltranza progressista di un «pensiero» che non si ripiega in se stesso, bensì tende a un rinnovamento radicale dell’etica, dell’educazione, dei costumi. La «filosofia dolorosa, ma vera» del Dialogo di Tristano e di 37

S. Timpanaro, Prefazione a Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., p. xvii.

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un amico non costituisce un freno alla progettazione storico-politica o all’affrancamento dagli idola, ma aziona invece – con la forza di un disincantato razionalismo laico – una carica liberatoria che distrugge dogmi, miti, false illusioni, «conforti stolti» (Amore e Morte, v. 119). «Nel suo pensiero – sintetizza lo studioso – le esigenze progressiste non sopraffanno mai il pessimismo; anzi nell’ultima fase progressismo e pessimismo si esaltano e si potenziano entrambi, e l’originale tentativo di conciliazione tra i due termini, che egli [Leopardi] compie, non significa in nessun modo vanificazione o attenuazione di uno dei due». L’approdo al pessimismo assoluto, materialistico, non avviene in virtù di uno sviluppo esclusivamente logico. La nuova concezione della natura malefica – che demolisce ogni umanistica e pertinace pretesa antropocentrica – discende dall’urto di esperienze contingenti, come la malattia e l’infelicità connessa alla deformità fisica. Il punto è delicatissimo, perché dapprima i contemporanei (come Tommaseo), poi i positivisti (come Giuseppe Sergi), quindi Croce (il teorico della «vita strozzata») hanno ritenuto di potersi sottrarre alla confutazione razionale di questo «pensiero» interpretandolo come semplice riflesso di una condizione patologica, sì da neutralizzarlo come mero accidente biografico. Timpanaro rifiuta una simile, equivoca banalizzazione. Ma non rifiuta l’incidenza della malattia e della deformità nella genesi del pessimismo leopardiano, che non va circoscritto entro un ambito puramente concettuale, né puramente politico-sociale. «Il torto – egli sostiene – dei cattolici alla Tommaseo, dei positivisti alla Sergi, degli idealisti alla Croce non sta nell’aver affermato l’esistenza di un rapporto tra “vita strozzata” e pessimismo, ma nel non aver riconosciuto che l’esperienza della deformità e della malattia non rimase affatto nel Leopardi un motivo di lamento individuale, un fatto privato e meramente biografico, e nemmeno un puro tema di poesia intimistica, ma divenne un formidabile strumento conoscitivo. Partendo da quell’esperienza soggettiva il Leopardi arrivò a una rappresentazione del rapporto uomo-natura che esclude ogni scappatoia religiosa (sia nel senso delle religioni tradizionali, sia in quello dei miti umanistici) e che, per il fatto di essere personalmente sofferta e artisticamente trasfigurata, non perde nulla della sua “scientificità”». Con buona pace di chi presume (e spesso se ne vanta) di capire un artista prescindendo dalla biografia. La sacrosanta difesa della biologicità, di contro alla pretesa di una sua sostanziale riduzione al piano politico-

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sociale, è la chiave di volta dell’interpretazione di Timpanaro, che rettamente vede nell’umana infelicità della quale parla il Leopardi materialista – in cui potente è la spinta edonistica – non un romantico mal du siècle, né un’angoscia esistenziale, ma un’afflizione anzitutto fisica, dovuta alla malattia, alla vecchiezza, alla fragilità organica dell’individuo come essere naturale. Dal saggio del 1964 emerge il ritratto di un pessimista integrale che non cerca vie di uscita, né rifugi, né rimedi al suo pessimismo, ma lo trasforma, convinto dell’inevitabile dolorosità del vero, in disperata e strenua strategia conoscitiva. Il Leopardi e i filosofi antichi (che risale al 1965 e subito segue Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi) dà la misura dell’eccezionale compresenza nell’interprete del leopardista e del classicista, segnatamente del grecista. Soprattutto rilevante è l’effetto della graduale cognizione del pessimismo degli antichi, come uno dei motivi che cooperano allo sviluppo del pensiero leopardiano. L’idea della natura salvifica si sbiadisce anche alla luce delle sconsolate sentenze pronunciate in tempi insospettabili. La lettura in Diogene Laerzio, nel novembre 1820, delle ultime parole di Teofrasto ai discepoli sulla vanità della gloria e delle illusioni (da cui muove poi nel marzo 1822 la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte), quindi la lettura (intrapresa nel febbraio 1823, durante il soggiorno romano) del Voyage du jeune Anacharsis di Jean-Jacques Barthélemy, opera fitta di citazioni dirette da testi greci, rendono conto di una visione tragica della vita comune ai maggiori autori della Grecia classica ed ellenistica. La tesi dell’allontanamento dalla natura come causa dell’infelicità s’incrina dinanzi alla teorizzazione in epoca antica ed eroica dell’infelicità come attributo necessario e perpetuo dei viventi, sì che le Operette morali del 1824 possono già in più luoghi prendere atto di quanto poi è palesato apertamente nel Dialogo di Tristano e di un amico, ovvero che la «filosofia dolorosa, ma vera» è «tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana». Del pari importante è la messa a punto della vertenza spinosa relativa ai rapporti di Leopardi con Platone e con la visione «platonocentrica» del pensiero greco (rifiutata da Gomperz) proposta nel clima dello spiritualismo romantico europeo. Via via che si precisa il materialismo leopardiano, la polemica ideologica antiplatonica si orienta in

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termini sempre più radicali che investono il sistema delle idee su cui si fondano valori estetici e morali assoluti. Nondimeno – puntualizza Timpanaro – l’«esperienza culturale» dello studio di Platone, iniziato nel 1823, è «di grande rilievo», perché, oltre a fornire l’occasione per preziosi contributi filologici, comunica un’indubitabile suggestione artistica, offrendo (come risulta dallo Zibaldone 3421, 12 settembre 1823) un «sommo e perfetto esempio di bellissima prosa, elegantissima bensì e soavissima (non meno che gravissima [...]), amenissima ec., ma pur verissima prosa». Rifiuto ideologico e speculativo, ma in pari tempo lezione di stile e di tono, come mostra, appunto nel 1823, la canzone Alla sua donna e come confermano, poco appresso, talune delle Operette «più ariose e placate», quali la Storia del genere umano e i Detti memorabili di Filippo Ottonieri. L’applicazione su Platone è sopraffatta – e siamo per Timpanaro al secondo contatto determinante di Leopardi con il pensiero greco, dopo la scoperta del pessimismo antico – dall’interesse per la filosofia pratica dell’ellenismo, attivo dal 1823-24 e accentuato nel biennio successivo, con la traduzione (nel 1825) del Manuale di Epitteto e dell’Isocrate moralista, cui si associano le letture della Tavola di Cebete, dei Caratteri di Teofrasto, dei dialoghi del cosiddetto Eschine socratico e (nel 1826) di Fozio. Che l’approdo allo statuto materialistico, clamorosamente certificato nel 1824 dal Dialogo della Natura e di un Islandese, comporti sul piano psicologico-pratico la ricerca di un distacco e di un’imperturbabilità atarassica (attestati nel 1825 dal preambolo alla traduzione di Epitteto) si spiega e anche si spiega di conseguenza la fase di disimpegno politico che Leopardi attraversa tra il 1824 e il 1827, ma senza che si manifesti in lui – puntualizza Timpanaro – una piena adesione alla morale stoica, a causa dell’istanza agonistica del suo pessimismo, attenuata e smorzata, però non annullata neanche in questo periodo in cui prevalgono quella placata saggezza e quella disincantata rassegnazione che in modi originalissimi si riverberano nella prosa ironico-fantastica delle Operette morali. 6. Il nucleo leopardiano della prima edizione di Classicismo e illuminismo non va oltre i due saggi succintamente considerati, ma già in essi s’avverte una materia in fermento che mobilita le risorse di una strumentazione operativa di lungo respiro. La seconda edizione del libro, che segue dopo quattro anni – insieme alla stampa, presso Le

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Monnier, degli Scritti filologici (1817-1832) di Leopardi, editi criticamente con la collaborazione di Giuseppe Pacella –, s’incrementa di un nuovo contributo (Natura, dèi e fato nel Leopardi), ma nell’intervallo appare Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani (sul «Giornale storico della letteratura italiana» nel 1966, poi nel 1980 in Aspetti e figure della cultura ottocentesca, volume che include anche le puntuali delucidazioni testuali delle Note leopardiane), dove il connubio tra filologia e critica, tra ideologia e stile, per ricorrere a due endiadi care a Lanfranco Caretti, si dispiega con un apporto magistrale di acume storiografico e di perizia tecnica: il più memorabile – nonostante sia talvolta dimenticato – studio di Timpanaro sul poeta di Recanati. Vi si dimostrano falsi gli inediti testi, dal titolo Appunti leopardiani, pubblicati a Roma nel 1898 dal settimanale cattolico «La Palestra del Clero» per cura dell’abate Giuseppe Cozza-Luzi, vice bibliotecario di Santa Romana Chiesa e allievo di Angelo Mai (il che non depone a favore della sua attendibilità scientifica). Tali Appunti, nell’anno centenario 1898 (che è anche l’anno in cui esce la princeps dello Zibaldone) rivelano un giovane e giovanissimo Leopardi ancora religioso e legittimista, ben al di qua della sua persuasione atea e materialistica, la quale – a parere dell’abate – sarebbe poi, ahimè, sopraggiunta come perniciosa deviazione, come orgoglioso traviamento dalla retta via: una sorta, dunque, di subdola controffensiva cattolica (o meglio parrocchiale) nei riguardi del Leopardi «patriota e profeta di un laicismo e umanitarismo – avverte Timpanaro – di tinta massonica, a cui erano improntate, nel complesso, le celebrazioni ufficiali del ’98». Spiccano, tra gli Appunti, tre abbozzi dell’Infinito (due in prosa, uno in versi) e uno (in versi) di un Idillio alla Natura, prossimo nei vv. 1-2 all’Infinito e nei successivi all’Ultimo canto di Saffo. Mentre gli altri documenti resi noti dal Cozza-Luzi sono caduti dopo le prime polemiche nell’oblio (come due «discorsi sacri» del Leopardi fanciullo, nonché nove Pensieri di filosofia varia e diciassette Pensieri varii), i quattro abbozzi di idilli, parzialmente riesumati nel 1924 da Alessandro Donati nell’edizione dei Puerili e abbozzi vari per i laterziani «Scrittori d’Italia», hanno poi – ormai dimenticate le discussioni suscitate al loro apparire – trovato credito di ufficialità in sillogi canoniche, sì da essere unanimemente tenuti per autentici. L’acribia di Timpanaro investe senza remissione la grafia, il contenuto, lo stile, l’assetto metrico di queste scritture (specie l’Idillio alla Natura) e

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accerta la falsità di simili «imposture», sulle quali si è peraltro disinvoltamente esercitata nel tempo, senza sospetto veruno, la sottigliezza ermeneutica di tanti e anche valenti esegeti, impegnati nel ricostruire la variantistica genetica dell’Infinito. La quale aveva appassionato anche un celebre filologo come Angelo Monteverdi, che vi s’era dedicato – prendendo per buoni gli abbozzi suddetti – in una lezione tenuta all’Università di Monaco. La ricerca sarebbe uscita a stampa se non fosse, proprio allora, apparsa la confutazione di Timpanaro, onde le pagine di Monteverdi hanno cambiato abito e sono diventate La falsa e la vera storia de «L’infinito» (inclusa nella seconda edizione dei Frammenti critici leopardiani), dove in apertura è dichiarato, con la franca schiettezza che è prerogativa dei grandi ingegni: «L’inchiesta del Timpanaro è ora venuta a [...] disingannarci. E dobbiamo riconoscere i nostri errori».38 Se il notevolissimo supplemento Natura, dèi e fato nel Leopardi (1969) integra Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, ricostruendo con scansione diacronica il rapporto tra le due concezioni della natura (in rispettoso disaccordo con Le due «ideologie» di Leopardi di Sergio Solmi),39 il più tardo contributo Epicuro, Lucrezio e Leopardi (già in «Critica storica» nel 1988, quindi in Nuovi studi sul nostro Ottocento, dove anche figura Il Leopardi e la Rivoluzione francese del 1989) integra a distanza di parecchi anni, e in parte corregge, Il Leopardi e i filosofi antichi. Ritornare sui propri passi, non per invertire la rotta, ma per 38 A. Monteverdi, La falsa e la vera storia de «L’infinito» (1966), in Frammenti critici leopardiani, Esi, Napoli 1959, 19672, p. 141. 39 Il saggio di Solmi, già in «Prisma» nel 1968, si legge ora in S. Solmi, Opere, II (Studi leopardiani e Note su autori classici italiani e stranieri), a cura di G. Pacchiano, Adelphi, Milano 1987, pp. 99-110. Così Timpanaro, nella Prefazione a Nuovi studi sul nostro Ottocento cit., pp. xv-xvi: «per ciò che riguarda le due concezioni della Natura (“benefica” e inconsciamente ostile all’uomo), Solmi ha affermato con piena ragione che esse hanno avuto nella mente del Leopardi due diverse genesi, ma ha creduto di poter dimostrare che non vi sia stato nessun passaggio (sia pur tormentato e non unilineo) dall’una all’altra, che esse siano convissute nel Leopardi fino alla fine, designate, benché diametralmente opposte, col medesimo termine di “Natura”. Questa tesi ha avuto più fautori che oppositori; a me è sempre sembrata del tutto inverosimile, e credo tuttora di averlo dimostrato in quel saggio su Natura, dèi e fato nel Leopardi che aggiunsi alla seconda edizione di Classicismo e illuminismo: se dovessi ora ripubblicare quel saggio, vi apporterei qualche modifica del tutto marginale, e non nel senso di un avvicinamento alla tesi di Solmi». Da parte del poeta di Levania, da vedere doverosamente la Postilla (1974), in Opere, II cit., pp. 118-19. Il dissenso ha dato luogo a uno scambio epistolare (Dal carteggio Solmi-Timpanaro), parzialmente riprodotto ivi, pp. 207-28. Su questo carteggio, cfr. i rilievi di Timpanaro nella citata Prefazione, p. xvi.

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andare avanti in vista di ulteriori e sempre possibili appressamenti a giudizi più motivati e più ponderati, rientra nel procedimento tipico di uno studioso che si preoccupa soprattutto di risolvere i problemi, non di difendere posizioni acquisite. In merito all’atteggiamento leopardiano di fronte all’epicureismo e a Lucrezio, Timpanaro riconosce, anche sulla scorta di indicazioni fornite da altri ricercatori, di avere in qualche punto mutato parere rispetto al saggio del 1965, specie per quanto riguarda la conoscenza diretta che Leopardi poteva avere di Epicuro – attraverso Diogene Laerzio – e di Lucrezio, quindi procede alla messa a punto d’una multipla e complessa costellazione di confronti testuali e tematici, dai quali emergono più marcate le divergenze che le consonanze. Proprio il dissenso nei confronti dell’ideologia sottesa al De rerum natura spiega la scarsezza (non la latitanza) di echi lucreziani nell’opera leopardiana: il che lascia nondimeno – commenta Timpanaro – «una certa meraviglia», perché «Lucrezio è un poeta eccelso» e Leopardi «avrebbe potuto trarre più motivi d’ispirazione [...] da quei brani “tragici” isolati, ma di eccezionale potenza, che pur vi sono nel suo poema». Non stupisca l’appello, infine, alla poesia. Timpanaro, filologo e storico, certo non si professa critico di poesia. Il ventaglio degli argomenti affrontati in Classicismo e illuminismo investe questioni filologiche, linguistiche, ideologiche, non estetiche. Tanto è vero che, proprio su Leopardi, alcuni critici hanno rimproverato la settorialità di una lettura tanto orientata sul «pensiero» e sulle idee da dare l’impressione di lasciare fuori la poesia. Impressione sbagliata. Timpanaro, convinto dell’indissolubilità di pensiero e poesia in Leopardi, si è posto il problema per primo e ne discorre nella Prefazione alla seconda edizione: Occupandomi quasi esclusivamente del pensiero e della cultura leopardiana, e non della poesia, sono stato fin dall’inizio ben consapevole di svolgere una ricerca settoriale, non autosufficiente; per questo ho spesso rinviato ai lavori di quei critici che, pur senza nulla concedere alla concezione profondamente falsa e sviante di un Leopardi «poeta puro», hanno posto la poesia leopardiana al centro della loro attenzione [...].

Detto con cristallina onestà. Ma anche con un eccesso di discrezione e di modestia. Infatti non basta dire che questi studi sul pensiero e sulla cultura presuppongono lavori di altri che hanno posto la poe-

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sia al centro della loro attenzione. Occorre aggiungere che l’autore di questi studi – allievo di Pasquali, ma insieme di Giuseppe De Robertis e anche perciò intrinseco di Lanfranco Caretti – è tutt’altro che insensibile alla voce della poesia, al timbro, allo spessore, alla qualità letteraria dei testi che indaga. E profonda si rivela la sua capacità di ascolto della poesia. L’aspetto estetico non è mai per lui l’oggetto primo dell’inchiesta, ma è sempre canone implicito. Anche per questo è riuscito quel filologo che tutti ammiriamo. Anche per questo i suoi studi sul pensiero e sulla cultura di Leopardi hanno raggiunto il risultato fondamentale di promuovere una nuova interpretazione della poesia leopardiana, proprio alla luce di quel pensiero e di quella cultura. Si rileggano, per toccare con mano la sensibilità letteraria dell’interprete, le Note leopardiane, specie la terza, sugli «sguardi innamorati» di Silvia. Il participio passato ha senso attivo, ribadisce Timpanaro («sguardi che innamorano»), come in due luoghi petrarcheschi (Canzoniere xlii 13 e lxxiii 69, l’uno e l’altro annotati da Leopardi: «Innamorato. Amoroso. Che innamora») e soprattutto in accordo con le molte e diffuse riflessioni linguistiche dello Zibaldone sul valore dei participi passati latini e romanzi (Zib. 4140, settembre 1825: «Innamorato p. che innamora», con rinvio ai due luoghi di Petrarca). Nel laboratorio del poeta convergono memoria letteraria e competenza erudita. Ma l’espressione «sguardi innamorati» – aggiunge Timpanaro – ha anche un’altra provenienza. In apertura dello Zibaldone, tra le «Canzonette popolari che si cantavano al mio tempo a Recanati» (Zib. 29), compare questa, con la data del maggio 1819: «Io benedico chi t’ha fatto l’occhi / Chi te l’ha fatti tanto ’nnamorati». «Innamorati» in senso attivo e riferito agli «occhi», come in A Silvia: suggestiva confluenza di classicità, erudizione e popolare colloquialità, ovvero, leopardianamente, di «familiare» e di «peregrino». «La “canzonetta” recanatese è, come le altre che il Leopardi cita in quella stessa pagina dello Zibaldone, una serenata popolare: una di quelle “dolci lodi”, appunto, che i giovani di Recanati cantavano alle fanciulle, e di cui Silvia non arrivò a sentire la lusinga. Mi pare indubitabile che all’origine di quei versi di A Silvia ci sia (profondamente trasfigurato, certo, spogliato di ogni colore “folcloristico”) il ricordo del canto popolare udito tanti anni prima». Con l’indicazione della fonte, Timpanaro non si limita a un mero accertamento di fatto, che arricchisce la multipla stratigrafia dei riferimenti inerenti all’epiteto «innamora-

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ti», ma se ne serve per meglio connotare la specifica liricità del passo. La morte di Silvia sopraggiunge intempestiva, prima che la giovinezza fiorisca, e le lodi della propria bellezza, che la fanciulla non ha potuto ascoltare, ne definiscono i tratti somatici non dal punto di vista esterno del poeta, ma dalla prospettiva interna (e pertanto più intimamente dolce e confidente) dei giovani del villaggio, affascinati da questi verecondi occhi «che innamorano». L’esempio è minimo. Uno dei tanti.40 Timpanaro filologo, storico, ideologo, militante politico si trattiene dal toccare il terreno del critico di poesia. Per scelta deliberata, non perché manchino frecce al suo arco.

40 Un altro, e ragguardevole, sempre in tema leopardiano, si riferisce (cfr. S. Timpanaro, Leopardi e la sinistra italiana degli anni settanta, in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana cit., pp. 182-83) alla Palinodia e al significato non ironico della dedica a Gino Capponi: non ironico il «candido» del v. 1 – che non allude al Candide di Voltaire, «ma deriva in linea retta dall’Albi, sermonum nostrorum candide iudex con cui s’inizia una famosa epistola di Orazio» e vuol dire «capace di retto e imparziale (e piuttosto benevolo che malevolo) giudizio» – e non irriverente il petrarchesco «o spirto gentil» del v. 182, dove invece Dionisotti ha notato una punta di velenosa malizia (cfr. C. Dionisotti, Leopardi e Bologna, in Appunti sui moderni. Foscolo, Leopardi, Manzoni e altri cit., p. 137). Il rilievo – di pertinenza insieme ideologica e letteraria – è essenziale per l’interpretazione dell’intero componimento, come ho sostenuto nel mio Leopardi, Salerno Editrice, Roma 2001, pp. 256-76.

Nota del curatore e criteri della presente edizione

Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano è stato un libro, ma non un “oggetto”-libro; è stato un nucleo (e sia pure grande nucleo) trasversale e aggiornabile della saggistica timpanariana d’argomento ottocentesco, sul piano della concezione ideologica, linguistica, letteraria: non ha sofferto di “tagli”, bensì di tagli postumi. Ha sofferto, insomma, dell’impossibilità, da parte di quei saggi e di quei contributi che hanno in séguito precisato ed integrato i nativi capitoli riunitisi in volume nella seconda metà degli anni ’60 (dopo la prima edizione del 1965), d’accedere alla coabitazione e alla convivenza editoriali, e quindi alla concettuale contiguità con i saggi di precedente stesura, ai quali molta della seriore scrittura timpanariana, soprattutto, com’è ovvio, quella d’impronta ottocentistica, italianistica, leopardistica, manifestamente si richiama, in un legame e secondo un criterio di pertinenza, o almeno d’attinenza, tutt’altro che blandi ed allentati, ma anzi, e in modo reiteratamente probatorio e dimostrabile, identificativi dello stesso tema, della coincidenza con lo stesso oggetto culturale, e insieme offerti ai lettori alla luce d’ulteriori acquisizioni realizzate nel tempo dall’autore. Dopo la seconda edizione aggiornata ed ampliata del 1969, l’opera, non più modificata, ha in effetti potuto fruire soltanto di ristampe, tanto che le revisioni, le correzioni, i parziali aggiustamenti e le rettifiche nel giudizio e nel “tiro” della visione critica, che sono intervenuti nel frattempo, hanno avuto in sorte, nella forma e nelle sostanza, di rimanere estranei al rettangolo di pagina Nistri-Lischi del 1969, a quel libro che, dalla sua prima uscita, ha rappresentato un importante e originalmente peculiare punto di riferimento per gli studi leopardiani e per il recupero del pensiero illumi-

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nistico e della linea di riflessione e d’espressione del classicismo italiano, e per un’angolazione davvero laico-materialistica nella definizione ideologica delle dottrine della sinistra marxiana. Se ogni libro ha una sua storia, questo è un libro che non può essere dimensionato nei limiti e nella centimetratura della propria res extensa di prima uscita, d’una pur nobile brossura cartonata, storicamente oggettuale e materialmente identificata una volta per tutte in un singolo, unico, irripetibile hic et nunc cronologico. E il concetto che di sé esso suggerisce è quello d’un laboratorio in continuo aggiornamento, come il tavolo e come la figura stessa del suo autore, se è vero che Timpanaro in persona ha convalidato di sé l’idea d’avere scritto saggi minori in una produzione che per parte sua non comprenderebbe saggi maggiori; a fortiori, nell’elettivo àmbito della filologia classica, potrebbe sorprendere che non si sia mai confezionata a nome di Timpanaro, dell’autore d’un testo che ancora non finisce di sorprendere come La genesi del metodo del Lachmann, un’edizione critica come tradizione intende (il progetto, dilatato a tempo biografico, d’un’edizione di Ennio, ipotizzato fin dai tardi anni Quaranta sulla scia delle sollecitazioni seminariali pasqualiane, non si realizza e non può realizzarsi, data l’estrema cautela e altresì l’estrema ritrosia dello studioso a una diretta esposizione sul piano della dichiarata edizione critica). Oserei dire che questa è una fortuna per l’autore e per noi, dato che la serie di apporti filologici e critici, storici e metrici, che l’acribia di Timpanaro ha recato nel tempo, lungo tutto l’arco della sua carriera di studioso, alla testualità e all’interpretazione di passi, di centrali snodi di concetto, di addipanate situazioni di difficoltà documentaria e ideologica nello studio dei testi dell’antichità greca e latina, ha a nostro avviso grandemente profittato di questa specifica modestia programmatica e “soggettiva”, che, così diremo, è e si risolve in valentia oggettiva nel perlustratore d’opere letterarie e di scolii esegetici. Latita, nel suo curriculum d’eccezione, l’edizione critica una e autosufficiente, con eponima copertina di protocollare e istituzionale richiamo al “genere” scientifico: ma vi è, in compenso, e in linea di leopardiana tradizione (Leopardi nella sua prevalente connotazione di filologo, non solo giovanile, è conquista critica eminentemente timpanariana), una nutritissima serie d’adversaria, d’annotazioni puntuali, precise, di motivate ripartenze contro assetti linguistici non persuasivi (si tratta spesso d’adversaria di sontuosa consistenza qualita-

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tiva, oltre che quantitativa), vòlte appunto all’emendazione testuale, alla concretezza del luogo critico e alla fondatezza della congettura. Proprio in questa tipologia d’intervento filologico, a preferenza che in altre, s’esprimono massimamente la competenza e la capacità di Timpanaro. Non penso che oggi avremmo ereditato certi severi gioielli di profondità, di specillarità ecdotica implacabilmente pertinace e razionalista, se la curva di destino (espressione cara a Giacomo Debenedetti) dell’attività filologica timpanariana fosse risultata convessa sul pretto opus confectum di compiuta definizione testuale e editoriale: ipotetico esempio, Ennio, o Virgilio, edizione critica proposta come definitiva nel tale anno, sulla base dei dati documentari e codicologici a quella data disponibili. È, questa, una notevole differenza (fra tante predominanti affinità) che separa la ratio filologica timpanariana da quella dell’altrettanto pasqualiano Lanfranco Caretti, per molti anni direttore della benemerita collana dei «Saggi di varia umanità» di Nistri-Lischi (sede di pubblicazione ’65 e ’69 del volume), e come Timpanaro operante nell’àmbito della cultura fiorentina. Un laboratorio ininterrotto di studi testuali e di focalizzazioni contestuali, per sua natura dinamico e instancabilmente flessibile, com’era il costume umano e colloquiale di Timpanaro, un’officina d’indagini e di ricerca in fieri vissuta non quale fattore di contraddizione o d’interna incoerenza, ma come genesi di vera e propria congruenza e rigore di pensiero: questa la caratterizzazione qualificante dell’“edizione” timpanariana, non solo di Classicismo e illuminismo, ma anche, a ben vedere, di tutte le altre sue opere. Ed è esattamente per questo motivo che risulta quasi impossibile concepire un volume di Timpanaro in unica edizione: dal citato La genesi del metodo del Lachmann a La filologia di Giacomo Leopardi, da Sul materialismo ad Il lapsus freudiano, alla stessa, incompiuta ventura della volontà di rieditare Classicismo e illuminismo, non vi è testo che non abbia incontrato una revisione almeno ufficiosa (e non è poco dire), spesso importante e non esigua, fino alla possibilità d’un autentico rinnovamento, ovvero d’una ripresa ampliata e modificata (talora persino una smentita) dei precedenti approdi di riflessione. Chiariamo ulteriormente il concetto di «tagli postumi». Le ristampe successive alla seconda edizione (1973, 1977, 1984, 1988), si è detto, sono realmente e solo ristampe, in un procedimento “anastatico interno” alle originarie strutture editoriali; né lo studioso manca di

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segnalarlo nelle note alle stesse singole ristampe, l’unica sede nella quale egli può dare indicazioni nuove; nel 1977 (p. XXXVI) l’autore usa, due volte nello spazio di due righe, l’espressione «senza mutamenti», rifiutando per assoluta insufficienza allo scopo le «aggiunte e modifiche» e la «bibliografia ragionata», modo d’aggiornamento già utilizzato nel passaggio prima-seconda edizione; ma nella stessa nota il «punto di vista» enunciato in Classicismo e illuminismo inizia a tracimare (in chiave di “difesa”, di “sviluppo”, di “correzione”) da un lato, a livello ideologico-politico in attualizzante “presa diretta” sulla realtà del pieno decennio 1970, nei numeri belfagoriani che conducono ad Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, e, dall’altro lato, in nuove realtà-libro, in oggetti brossurati forzatamente diversi dal sinolo-matrice (e loro origine), attivate e per certi aspetti quasi riesumate dal medesimo fermento intellettuale ispiratore di quella raccolta del 1965 che rimette in moto anche contributi e stadi di riflessione del prossimo passato, un “passato” che in verità già c’era, e insisteva urgente fin dal criterio che aveva presieduto alla fortunata prima silloge Nistri-Lischi: «altri saggi, vecchi e nuovi, riguardanti in parte anch’essi il Giordani, il Leopardi e altri personaggi e ambienti trattati o accennati in questo libro usciranno l’anno prossimo in un volume di questa stessa collana. Alcuni degli scritti teorico-polemici a cui alludevo qui sopra (p. XXXIII) {nella «Prefazione alla seconda edizione» - N. d. c.} sono stati raccolti insieme ad altri nel volume Sul materialismo, pubblicato anch’esso in questa collana (seconda edizione riveduta e ampliata, 1975)». Com’è qui ben visibile, si delineano, quasi direi inevitabilmente, le tre fondamentali direttive dell’ottocentistica timpanariana posteriore non tanto a Classicismo e illuminismo, bensì all’uscita editoriale del volume: la direttiva di Antileopardiani, il volume uscito dalle Ets di Pisa, certo ben lontano dalla sigla in prevalenza pamphlettaria che qua e là è parso attribuirgli, ma indubbiamente attestato su un battagliero movimento di pedine ideali esposte al vivo confronto critico con la contemporaneità d’allora, con la prospettiva che si chiamò del «compromesso storico», con il manzonismo come ipotesi d’unione di progressismo laico e di progressismo cattolico, con l’adesione all’acceso dibattito interno a una sinistra divisa, con i “chiarimenti” avvertiti necessari sul concetto di aristocraticismo del Giordani e sulla figura, oggi più studiata, di Carlo Bini; in secondo luogo, gli «altri saggi, vecchi e nuovi» (quindi

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anche antecedenti allo stesso Classicismo e illuminismo come libro del ’65) tracciano un ampio ma non impreciso e non vago perimetro di studi comprendente i contributi che si dovranno incanalare in Aspetti e figure della cultura ottocentesca (volume che uscirà, però, solo nel 1980); in terzo luogo, gli «scritti teorico-polemici» improntati alla riflessione sulle peculiari valenze filosofiche del materialismo s’indirizzano al volume che allo stesso materialismo s’intitola. Non appare illecito individuare negli «altri saggi, vecchi e nuovi» l’area di più appropriata e di più ravvicinata pertinenza agli studi specificamente letterari (indagini giordaniane, esplorazioni leopardiane, analisi da varie e mirate angolazioni del rapporto fra classicismo e romanticismo, affondi di genere biografico-culturale su personalità che hanno rivestito un ruolo nel classicismo italiano). Insieme agli studi su Lucano, su Cassi, su Foscolo, su Giordani, che appartengono agli anni ’70, vi sono in Aspetti e figure i contributi sul Mai (che risale al 1956), le recensioni al Treves de Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento e all’epistolario del Di Breme, il saggio su Gomperz, che risalgono agli anni ’60. Per parte loro, Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani (uscito nel «Giornale storico della letteratura italiana», 1966) e le Note leopardiane (inedite nell’ ’80, tranne la terza, che risaliva al ’61) formano quel focus di leopardistica professa che è qui sembrato doveroso riprodurre, riallineato alla cronologia compositiva degli altri capitoli a ricostituzione del nucleo di studi sul Recanatese nella saggistica letteraria di Timpanaro: nella saggistica, per intendersi, di timbro non tout court filologico (com’è eponimo caso, appunto, de La filologia di Giacomo Leopardi e degli Scritti filologici curati nel ’69 per Le Monnier) e, insieme, non scopertamente cifrata sullo specificum ideologico o filosofico. La successione di capitoli che forma la presente edizione annovera Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani e Note leopardiane al quinto ed al settimo posto (i primi quattro capitoli sono sempre quelli dell’edizione ’65, compreso Il Leopardi e i filosofi antichi, contributo uscito nel 1965, per la prima volta, proprio in Classicismo e illuminismo). Il VI capitolo è costituito da Natura, déi e fato nel Leopardi, Addendum del 1969 insieme alle Postille e aggiunte bibliografiche. Il riallineamento nell’indice “curricolare” di Natura, déi e fato si è posto come obbligatorio, oltre ad essersi reso particolarmente necessario grazie alla singolare importanza del capitolo nella connessione tra la prima e la

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seconda edizione di Classicismo e illuminismo (si tratta dell’aggiunta più compiuta e corposa fra il ’65 ed il ’69), nella precisazione fortemente limitativa della presenza di Rousseau anche nel primo Leopardi (il «ritorno alla natura» perderà definitivamente il riferimento a Jean-Jacques), nella serrata e in certi punti perfino lessicale corrispondenza con la “copertina” (e quindi con il succinto accesso concettuale al libro, scritto dallo stesso autore) nell’enunciazione della difesa della tradizione classicista dalle critiche e dalle imputazioni etico-estetiche dei romantici (per un esame più ravvicinato della funzione dell’Addendum del ’69 rimandiamo alle Annotazioni autografe, in specie alle annotazioni alle bandelle). Natura, dèi e fato nel Leopardi è, in un’opera in cui tutti i saggi appaiono avere la medesima rilevanza, il capitolo chiave dell’architettura del volume, la giuntura strutturale che salda la prima redazione a quelli che sarebbero stati, nell’autore, gli incrementi e le evoluzioni della leopardistica e degli studi sul laicismo materialistico e sull’antiprovvidenzialismo: studi che, se fosse stato possibile, sarebbero dovuti entrare in una nuova versione del libro. Del resto, l’autore si esprime chiaramente fin dal primo capoverso di quello che è qui il sesto capitolo: Il passaggio dalla concezione della natura benefica a quella della natura nemica dell’uomo ha sempre rappresentato uno dei punti più delicati nello studio dello svolgimento del pensiero leopardiano. Ciò che qui sopra ho scritto a questo proposito (pp. 153-159) {nel capitolo III, «Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi», «Cl. ill.» 1969 - N. d. c.} rimane, credo, valido nelle linee principali, ma ha bisogno di alcune precisazioni e correzioni.

Soprattutto le «correzioni» legittimerebbero, se s’intendesse estremizzare il processo di focalizzazione editoriale dell’opera di Timpanaro, addirittura un accorpamento paragrafato di Natura, dèi e fato ad Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi; qui prevale, beninteso, il rispetto della concezione ispirativa e scrittoria autonoma del capitolo aggiunto, che viene, come si è detto, semplicemente incorporato nell’indice; ma valga questa potenziale indicazione di tendenzialità nel recupero d’un reticolato di studi coeso, collegato e organico, tanto più nelle integrazioni e precisazioni, nelle modifiche e nelle sconfessioni (pur rare, queste ultime) che diacronicamente emergono nell’itinerario d’uno dei più grandi studiosi italiani del Novecento (a esempio di sconfessione, si può ricordare il riscatto filosofico-civile della figura di

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Cicerone, al quale, in Il Leopardi e i filosofi antichi, è attribuito un «superficiale stoicismo», espressione poi direttamente smentita in Epicuro, Lucrezio e Leopardi, qui ottavo capitolo, nota 24, e più ancora smentita, al di fuori di Classicismo e illuminismo, negli studi ciceroniani che si convogliano nell’edizione garzantiana del De divinatione). Sorte analoga incontrano le Postille e aggiunte bibliografiche, secondo Addendum del ’69, qui incorporate in calce al testo, ciascuna accostata con richiamo al passo al quale si riferisce e per il quale è stata concepita; anche questo Addendum, insomma, viene completamente sottratto alla destinazione di fine testo, ed è invece scisso e fatto rifluire, come si è accennato, in contiguità con i luoghi, con i passaggi, con le singole parole del testo stesso o delle note piè pagina che Timpanaro aveva ritenuto provvedere d’un’ulteriore spiegazione o d’un aggiornamento. La lettura e la fruizione culturale di Classicismo e illuminismo risulteranno, a nostro avviso, avvantaggiate e nel contempo facilitate dalla materiale attiguità del testo ’65 con le integrazioni ’69; ne risulta eliminato, infatti, l’obbligo, per il lettore, d’un doppio scorrimento di pagine: quelle del testo, e, contemporaneamente, a fine volume, quelle dell’Addendum, ogni volta che l’autore ha effettuato un’integrazione. Si aggiunga il fatto che nell’edizione del 1969 le postille non erano segnalate, nel testo, da alcun rinvio, ed il lettore era dunque costretto a tenere continuamente presente il gruppo di pagine degli Addenda in fondo al volume per attendere la pagina postillata, o a procedere ad una lettura successiva e separata delle aggiunte, con faticoso ritorno ai passi del testo ed alla ratio contestuale cui le postille s’intendevano correlate. In questa edizione, come sinteticamente riepilogheremo più sotto, la postilla è segnalata, con ripresa al piede di pagina, da singolo asterisco. In una rinnovata situazione di contiguità dei saggi qui raccolti, la lettura del libro gode concettualmente d’un percorso d’evoluzione e di modifica, e fruisce, direi, di un’entità nuova come opera in sé, non nel senso d’un reale cambiamento che da qui si possa ricavare nel giudizio critico sull’autore, ma nel senso d’un rinforzo e d’un incremento, che ben si potrà constatare, dell’oggettiva ossatura leopardiana degli studi ottocentistici di Timpanaro, e, altresì, d’un incremento di chiarificazione (e di sostegno) della visione filosofica e generalmente culturale della linguistica e del classicismo che, dopo gli studi sul Cattaneo e sull’Ascoli (con una ripresa cattaneiana nell’Appendice I), com-

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prende i contributi sul Gomperz (qui undicesimo capitolo) e l’Appendice II, costituita dal citato Treves degli studi di antichità classica (Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento italiano, dapprima in «Critica storica», II, 1963, pp. 603-611, poi in Aspetti e figure della cultura ottocentesca, pp. 371-386; «ivi», III, pp. 1-31, la prima uscita del saggio intitolato a Theodor Gomperz, poi in Aspetti e figure, pp. 387-443). Si tratta, com’è evidente in quest’ultimo caso, di due contributi antecedenti all’opera che qui si presenta, e per di più di uscita quasi contemporanea nella stessa rivista. Sono gli anni decisivi per la nascita di Classicismo e illuminismo, e questi due saggi appartengono più che mai alla sua genesi culturale e cronologica, ma soprattutto appartengono agli argomenti e alle tematiche propri e pertinenti al valore ed alla risonanza degli studi classici nell’Ottocento, e (nel caso della recensione al Treves) all’esistenza ed al confronto polemico tra la corrente storiografica del classicismo e quella della storiografia romantico-neoguelfa, ed altresì all’importanza, alla centralità ed alla propulsività della figura di Foscolo e di quella di Leopardi: l’eccesso di simpatia foscoliana e di centralità nella considerazione che si ha dell’autore, secondo Timpanaro, caratterizzerebbe la ricostruzione del Treves, mentre il contributo foscoliano in Aspetti e figure (Sul Foscolo filologo) mostra a sua volta a noi lettori la posizione timpanariana, complessivamente critica riguardo a molte componenti della personalità del poeta di Zante. Soffermandosi un momento sull’Appendice II, basti ricordarne due brani per rintracciare sùbito gli stretti legami con i tragitti tematici di fondo di Classicismo e illuminismo: Certo, i «partiti culturali» sono sempre più fluidi dei partiti politici, e gli stessi partiti politici erano nel secolo scorso ben lontani dalla rigida struttura di quelli odierni; ma tale fluidità non dev’essere esagerata a proprio piacimento dallo storico, fino a trasformare i classicisti in romantici, i giacobini in neoguelfi. / Una volta ristabilite queste distinzioni, si vedrà, credo, che il meglio degli studi classici nell’Italia preunitaria non è dovuto ai neoguelfi o ai romantici, ma ai classicisti-illuministi: Monti, Giordani, Peyron (solo dopo il ’48 passato da posizioni illuministiche e riformatrici a posizioni clericali e reazionarie), Leopardi, Cattaneo. L’influsso di questa corrente perdura anche nel secondo Ottocento: al Cattaneo si ricollega l’Ascoli (la cui impostazione della questione della lingua è nettamente antimanzoniana e antiromantica); lo stesso Comparetti potè, sì, essere definito «romantico» dal Pasquali per il suo interesse per le tradizioni popolari, ma non si deve dimenticare l’ispirazione profondamente illuministica e laica del Virgilio nel medio evo, che culmina nell’esaltazione di Dante come primo umanista (molto bene su questo punto il Treves, p. 1054). E se è giusto indicare nelle tendenze razziste e colonialiste, nel-

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la propensione alle generalizzazioni affrettate o, viceversa, nell’angustia erudita i lati negativi di molto positivismo, non è giusto svalutare quegli aspetti per cui il positivismo prosegue e sviluppa l’illuminismo: l’antimetafisica, la storicizzazione della natura, l’interesse per il rapporto uomo-natura. Questi aspetti non furono privi di ripercussioni nemmeno nel campo degli studi greco-latini: è un riflesso del positivismo il rinnovato interesse per Epicuro e Lucrezio, che in Italia trovò espressione in Gaetano Trezza e, con maggiore distacco storico, nel Comparetti e soprattutto nello splendido commento a Lucrezio di Carlo Giussani. La mancanza di filologi e storici dell’antichità specificamente romantici e neoguelfi in Italia, d’altra parte, ha costituito per il Treves un incentivo ad allargare oltre ogni limite le categorie di romanticismo e di neoguelfismo, fino a includervi studiosi di tutt’altro orientamento. Per quel che riguarda il romanticismo, come è noto, questo procedimento è stato già messo in atto da molti studiosi: si è finito col fare di «romanticismo» un sinonimo di «civiltà liberale-democratica dell’Ottocento», o addirittura di tutto ciò che nell’arte e nella cultura ottocentesca non è accademismo frigido: così Goethe, Foscolo, Leopardi, Heine, Cattaneo – tutta gente che col romanticismo polemizzò con asprezza – sono stati annessi, loro malgrado, alla schiera romantica. Anche per il Treves romantica è «tutta la migliore intelligentsia europea» (p. 592), romantico ogni storicismo; e un analogo ampliamento subisce per opera sua il neoguelfismo [...].

Nella prefazione ad Aspetti e figure (pp. X-XI), che accoglie in volume la recensione al Treves, Timpanaro spiega le ragioni della nuova pubblicazione del contributo, fortemente legate, ancora una volta, all’impatto-ricezione, anche presso il pubblico più cólto, di Classicismo e illuminismo: Sarebbe bastata anche soltanto una lettura non troppo distratta dell’introduzione a Classicismo e illuminismo, per accorgersi come io sia sempre stato del tutto alieno da «equazioni» così rozze ed erronee, e come mi abbia mosso sempre, al contrario, un’esigenza di d i s t i n g u e r e le varie posizioni politiche, ideologiche, letterarie, tenendomi lontano sia da caratterizzazioni «epocali» che tutto abbracciano e nulla stringono [...], sia da concezioni storiografiche esasperatamente individualizzanti e altrettanto astratte [...]. La lettura della recensione all’opera di Piero Treves, ripubblicata nel presente volume (p. 371 sgg.) {«Aspetti e figure»} ma anteriore a Classicismo e illuminismo, dovrebbe far comprendere ancor meglio perché io abbia sentito questa esigenza.

La necessità di “chiarimento”, fortemente avvertita dall’autore e adempiuta da questo “pezzo” su classicismo e neoguelfismo, induce a collocare la stessa recensione nel luogo distinto, e perspicuamente separato, dell’Appendice. Ritorneremo fra poco su quella che, a sua volta, è la particolare importanza dello studio su Theodor Gomperz,

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con il quale si conclude la successione dei veri e propri capitoli di questa edizione; seguiranno, appunto, le appendici. Il concetto principale che qui ci sembra acquisito è quello rappresentato dal “canone aperto” che è necessario per uno studio e un’edizione di questo volume centrale nell’opera timpanariana; Classicismo e illuminismo è un’opera che non è solo se stessa, ma è un incrocio di motivazioni e di sollecitazioni interculturali e interdisciplinari (non banalmente “pluridisciplinari”), pur mantenute fra loro insieme dalla rigorosa dottrina dello studioso-autore. In un’opera che è anche altre opere, non v’è meraviglia se i semi degli interessi culturali, letterari, linguistici, s’irradiano in varie direzioni, s’insediano in altri libri quasi apposta nati e creati per costituire non un’appendice, o una prosecuzione di Classicismo e illuminismo, ma Classicismo e illuminismo stesso, in questo senso ineluttabilmente suddiviso e scaglionato, nel tempo, in vari tomi, a scansione scientifica d’una ricerca multiforme ma nient’affatto dispersiva, ed anzi metodologicamente coerentissima. Su questo punto determinante ci permettiamo ancora rinviare alle Annotazioni autografe (pp. 522-525), alla quinta annotazione al sesto capitolo, nella quale, con il conforto del necessario e immediato e, confidiamo, persuasivo rincalzo testuale (sia del testo a stampa, sia del testo inedito a mano) si affronta in modo più partito e analitico il problema del canone aperto e della non unicità di questo volume, capace di rappresentare e veicolare una molteplicità di componenti degli interessi dello studioso (un caso simile potrebbero essere, ma è solo esempio, i due volumi di Poeti e filosofi di Grecia di Manara Valgimigli). Qui, a testo d’autore non ancora aperto o iniziato, ci è sufficiente riprendere il cenno sul valore di passaggio, quasi di varco di Natura, dèi e fato sul “futuro” di Classicismo e illuminismo. In un’annotazione al saggio, presente in una copia del 1984 della seconda edizione, si trovano allineati, in ragionata serialità, innanzi tutto Aspetti e figure, libro assolutamente non disgiunto da Classicismo e illuminismo, quindi i nomi di Carlo Dionisotti, in evidente relazione con il saggio Il Giordani e la questione della lingua (presente appunto in Aspetti e figure), di Maurizio Vitale (di cui nel capitolo giordaniano si ricordano gli interessi e la personale, già allora ricca bibliografia sul padre Cesari), di Francesco Tateo, ricordato nei Nuovi studi sul nostro Ottocento del 1994 per un saggio antoniocesariano, lo stesso articolo timpanariano sul Cesari nel Dizionario biografico degli italiani (1980), poi incluso nei

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citati Nuovi studi, la figura del barone danese Herman Schubart, ricordato ancora nei Nuovi studi sulla scorta d’un saggio di Maria Augusta Morelli. L’annotazione manoscritta crea un collegamento delle pagine de Il Giordani e la questione della lingua in Aspetti e figure alle pagine dei Nuovi studi; e i riferimenti s’infittiscono, dato che la prima uscita dell’articolo sul Cesari è coeva, nel 1980, alla nuova uscita dell’articolo su Giordani (dal 1974 ad Aspetti e figure); tutto il trend cronologico mira, o comunque ha la propria naturale meta nei Nuovi studi del 1994, che iniziano esattamente con il contributo sul Cesari ed annoverano la citazione del barone di Schubart come amico e non astratto sostenitore dell’abate linguista; il contributo antoniocesariano nei Nuovi studi, inoltre, termina con i nomi di Vitale, di Dionisotti, di Tateo, oltre a quelli di Tissoni e dello stesso Timpanaro: Vitale, Dionisotti e Tateo sono i nomi della citata annotazione manoscritta. Poco sotto, nella copia del 1984, la citazione a mano di Claudio Marazzini (come meglio si vedrà nelle Annotazioni) appare rivolta senza ambiguità ai Nuovi studi usciti da Nistri-Lischi, in particolare ad una nota sul De Amicis linguista che si riferirà anche a L’oro nella lingua di Maurizio Vitale, a Vincenzo Monti, a Graziadio Isaia Ascoli, allo stesso abate Cesari. Si tratta, quindi, di un’indubitabile correlazione di nomi e di elementi culturali, di “compagni bibliografici” che confermano e che dimostrano il concetto di reticolato unitario di ricerca e d’indagine in tutta la saggistica nistri-lischiana di Timpanaro. Molti contributi, e molti nuclei bibliografici tutt’altro che informi, che hanno fatto ufficialmente parte di Aspetti e figure o che faranno parte dei Nuovi studi, si trovano già annotati in Classicismo e illuminismo, a riprova della loro concorde cittadinanza scientifica e qualitativa e della loro mutua corrispondenza cronologica. Esempio fra tanti possibili, come si vedrà, il “filo rosso” costituito dall’interesse per il purismo leopardiano, dal citato Natura, dèi e fato allo studio su Cesari, ampliato, quest’ultimo, rispetto alla primitiva “voce” di dizionario dell’ ’80, ma parzialmente anticipato in Il Giordani e la questione della lingua. Certe annotazioni, si può dire, sono già in sé componenti costitutive di questa edizione di Classicismo e illuminismo, ed entrano legittimamente a formarne la realtà di libro. Il concetto di canone aperto va dunque sostenuto come il più proponibile per un’edizione come questa. Ed è un canone aperto che si applica correttamente alla saggistica più disponibile all’incrocio dell’accertamento filologico e della rico-

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struzione storica (non storicistica), della dimensione analitico-testuale (si vedano i due contributi leopardiani qui immessi da Aspetti e figure - capitoli quinto e settimo -, come anche l’ottavo capitolo, Epicuro, Lucrezio e Leopardi, immesso dai Nuovi studi) e della scelta critica fondata, ma anche esposta alla responsabilità del dichiarato giudizio interpretativo. Ben più difficile, a nostro parere, sarebbe l’applicazione del canone editorialmente aperto ai lavori d’istituzionale protocollo filologico (che ammettono piuttosto la riedizione modificata, ampliata, riveduta di se stessi, della propria realtà scientifica); e difficile sarebbe anche l’applicazione di tale criterio agli articoli belfagoriani confluiti, insieme ad altri contributi, in un volume programmaticamente diverso da quelli della saggistica Nistri-Lischi, com’è il caso di Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana; né si potrebbe, a meno d’un passo di violazione delle demarcazioni disciplinari, alterare, se non dal suo interno - come avviene nelle vere e proprie riedizioni d’una singola entità-libro -, il volume Sul materialismo, anch’esso nistri-lischiano, anch’esso significativamente pisano nella sua uscita editoriale, ma non certo a caso concepito come distillata astrazione d’alcuni lieviti «teorico-polemici» sottesi a Classicismo e illuminismo, che reclamavano espressione in sede scientifica e ideologica in tal senso miratamente deputata. Sul materialismo, peraltro, ha già goduto nel 1997 d’una sua terza edizione riveduta e ampliata (Milano, Unicopli), con nuova prefazione, e (oltre alla versione spagnola 1973 della prima edizione) di tre edizioni inglesi (London, Verso, 1975, 1980 e 1996); ed è quindi volume che, organicissimo alla ricerca di Timpanaro, naviga però secondo rotte editoriali autonome (e non per questo indipendenti dagli altri studi dell’autore). Vi è un periodo (non si dice una data precisa) nel quale “nasce” la riflessione, nel quale insomma prendono forma lo spirito e la ratio culturale di Classicismo e illuminismo? Molto giustamente, Vincenzo Di Benedetto (La filologia di Sebastiano Timpanaro, nell’opera collettiva Il filologo materialista. Studi per Sebastiano Timpanaro, editi da Riccardo Di Donato, Pisa, Scuola Normale Superiore, 2003, pp. 1-89, qui pp. 75-77) individua lo «snodo» decisivo che, già contenendone in sé i germi intellettuali, prelude alla realizzazione del volume del 1965; nella recensione in «Critica storica», III (1964), pp. 791-796, al La Penna di Orazio e l’ideologia del principato (il ben noto, fondamentale volume sul poeta, ma anche sulla cultura letteraria e ideologica dell’età

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augustea, uscito nel 1963 - Torino, Einaudi [«Saggi», n. 332]), Timpanaro infatti esprime, appena un anno prima dall’uscita di Classicismo e illuminismo, quel nesso tra i due termini del suo titolo editoriale che, lontano dall’essere mero richiamo o anticipo lessicale, si qualifica piuttosto come una concreta prospettiva d’indagine che coniughi l’analisi del fenomeno letterario con l’analisi delle reali coordinate ideologiche, di singolo pensiero e di singola cultura, degli autori emblematici d’un certo periodo, o, per intendersi, d’una certa “corrente”, con i suoi caratteri estetici ed espressivi, ma anche con i suoi precisi valori semantici. Si legga la parte finale di quell’importante recensione: Il classicismo dell’età augustea salvò, accanto alla raffinatezza stilistica, quella che era la più importante conquista dei neoteroi: la capacità di esprimere l’individualità passionale, ma seppe depurarla da morbosità e sottigliezze (pp. 166-170); dette, con la dottrina del miscere utile dulci, una spinta verso il realismo (pp. 170-175); non rovesciò la tendenza antiscientifica, antiepicurea, che si era ormai affermata nella cultura greco-latina, e tuttavia, riaffermando l’ideale aristotelico di un’arte equilibrata e razionale, costituì un argine contro concezioni irrazionalistiche della poesia (pp. 175-178). Tutte queste considerazioni - e altre non meno interessanti che siamo costretti a tralasciare - non solo permettono di valutare molto meglio di quanto si sia fatto finora il classicismo augusteo, ma contribuiscono anche a spiegare la funzione progressista che il classicismo ha avuto in molti momenti della storia della cultura europea, e specialmente quel nesso tra classicismo e illuminismo che appare con particolare evidenza nella letteratura del Settecento e del primo Ottocento, e che è stato oggetto di interesse e di discussioni in questi ultimi anni (vedi a questo proposito anche le appendici del libro del La Penna, p. 231 sgg.). Perfino il cànone dell’imitazione dei classici, accanto agli influssi negativi che ognuno conosce, ha avuto talvolta una sua fecondità in quanto è stato interpretato, per esempio dal Leopardi, come una forma di «ritorno alla natura» (p. 181 sgg.). Tuttora, l’esigenza dell’unità della cultura contro il settorialismo tecnicistico e contro nuove forme d’irrazionalismo ha, storicamente, un suo debito con la tradizione di quel classicismo che trovò la sua prima espressione compiuta nell’età augustea. / Credo che questo resoconto, necessariamente sommario, possa almeno dare una prima idea del valore e della ricchezza di un libro che non si rivolge solo agli studiosi dell’antichità, ma anche a italianisti (specialmente per le pagine su Parini e Carducci), a francesisti (vedi l’appendice su Agrippa d’Aubigné, p. 229 sg.), a uomini di cultura militante.

Non è questa la sede per discutere, com’è stato fatto (ad esempio, nel citato saggio di Vincenzo Di Benedetto) sulla persuasività o meno del concetto di classicismo progressista, sulla sua reale estensibilità agli ultimi decenni del Settecento ed ai primi decenni del successivo secolo, sulla proponibilità del nesso classicismo-illuminismo in un’e-

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poca in cui tutti i letterati erano improntati da una formazione classicistica che non poteva in tal senso costituire qualificante segno di differenziazione rispetto ad altri scrittori. Basti cogliere, oltre alla conclamata occorrenza terminologica, i cenni al «realismo», al valore del barrage estetico aristotelico contro riemersioni irrazionalistiche antiche e moderne, all’equilibrata e consapevole difesa d’un cànone d’imitazione che nella decodifica leopardiana si ribalta in «ritorno alla natura». Sulla base di tali premesse, si può rammentare che in significativa simultaneità cronologica con l’uscita di Orazio e l’ideologia del principato, e con la recensione timpanariana nell’anno successivo, vengono pubblicati dal prossimo autore di Classicismo e illuminismo (oltre a La genesi del metodo del Lachmann, Firenze, Le Monnier, 1963, espressione in quegli anni della sua riflessione sulla metodologia filologica, e a un contributo su Vitelli) la citata recensione, del 1963, all’opera di Piero Treves uscita nel 1962, il saggio dedicato a Theodor Gomperz («Critica storica», III, 1963, pp. 1-31) ed un contributo quale Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi («ivi», III, 1964, pp. 397-431); nel 1961 era uscito da Sansoni Giordani, Carducci e Chiarini, presentazione della ristampa a cura dello stesso Chiarini degli Scritti giordaniani (pubblicati sempre da Sansoni nel 1890; diversa nella scelta e nella classificazione era l’edizione chiariniana di Livorno, Vigo, 1876; ristt.: ivi, 1884 e ancora Firenze, Sansoni, 1936); nel 1961-1962 (si noti l’insistere di quegli anni) era uscito Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli («Rivista storica italiana», LXXIII, 1961, pp. 739771 e LXXIV, 1962, pp. 757-802). E fin dalla prima Prefazione al volume si manifesta, da parte dell’autore, l’influenza esercitata sul suo lavoro dalle conversazioni avute con Luigi Blasucci, con lo stesso Antonio La Penna, con Mario Mirri, e dagli scritti di questi studiosi (di Mario Mirri si ricordi a questo proposito F. De Sanctis politico e storico dell’età moderna, Messina-Firenze, D’Anna, 1961), né si manca di citare (nota 51 dell’Introduzione) lo studioso che traccerà nel primo fascicolo 2001 della «Nuova Antologia» un acuto profilo, post mortem, di Timpanaro: il Sergio Landucci di Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis, Milano, Feltrinelli, 1963. Sono, come si vede e si ricorda, anni fervidi di riflessione, d’elaborazione ideologica e culturale, e d’intensa produzione saggistica, anche in prospettiva degli sviluppi di ricerca che ciascuno di questi importanti studiosi intraprenderà o se già incominciati proseguirà in modo articolato e insieme

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coerente sulla base di quegli inizi. Una stagione di ragioni e di passioni profonde e non prive d’una complessiva e pur vigile fiducia, in quella temperie d’anni che si sarebbe in séguito dimostrata d’impossibile duplicazione. Una stagione pisana, o prevalentemente pisana, densa di contatti di studio e di rapporti umani; la sorte editoriale di Classicismo e illuminismo, nato in quegli anni, corrisponde in forma del tutto giusta a questa origine culturale, all’orbita cittadina e insieme intellettualmente e geograficamente cosmopolitica dell’Università e della Scuola Normale. Né meno giusta è l’espressione di gratitudine, ma anche di deferente amicizia, tributata da Timpanaro a Lanfranco Caretti, che dopo L’introduzione allo studio di Dante di Francesco Maggini, accoglie con coraggio e lungimiranza Classicismo e illuminismo come secondo dei «Saggi di varia umanità», la collana un tempo diretta da Francesco Flora. Più tardi, grande sarà il merito di Carlo Alberto Madrignani nell’accogliere (1982; rist.: 1985) Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana nelle pisane Ets, terzo volume della collana «Università», sezione «Letteratura italiana» diretta dallo stesso Madrignani. L’importanza del concetto di classicismo studiato da La Penna è d’altronde confermata dal prosieguo delle indagini oraziane dello studioso; in Orazio e la morale mondana europea, introduzione a ORAZIO, Tutte le opere, Firenze, Sansoni, 1993 (I ed.: ivi, 1968, a pochi anni di distanza da Orazio e l’ideologia del principato e quasi interposto fra le due edizioni di Classicismo e illuminismo) si sottolinea, ad esempio, il generale movimento antiscientista della cultura augustea (p. LXXXVIII: «l’epicureismo nell’età augustea perde sempre più l’ardore speculativo e la spinta ‘illuministica’ dell’epicureismo lucreziano e sempre più facilmente si adatta a credenze e a sentimenti tradizionali»); ma si ricorda anche (p. CXXXIII), ad articolazione e a ben più complessa analisi d’una generale immagine di decus letterario, attraversato, a ben guardare, da scie espressive problematiche e contraddittorie, la parzialità d’una visione composta e classicamente drappeggiata della letteratura latina post-arcaica, in realtà percorsa da una persistente e non rinunciataria componente espressionistica, che per converso avvalora l’innovatività di Orazio («Se l’importanza di tale componente viene ristabilita, la classicità di Orazio apparirà più come l’eccezione che come la regola: in un certo senso Virgilio è meno eccezionale di Orazio. Se quell’opinione comune si è affermata, si

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deve in gran parte proprio al fatto che Orazio apre una via nuova, inaugura un’esperienza stilistica fondamentale per la cultura europea»); e si ricorda soprattutto il paragone Orazio - Virgilio, il confronto fra la poesia “pittorico-disegnativa”, l’ut pictura poësis, precisa nei dettagli, tersamente perspicua nelle immagini, e la poesia aperta allo spazio infinito, allo sfumato, al vago, alla vibratilità musicale quanto più indistintamente arpeggiata tanto più fascinosa (pp. CXXXV-CXXXVI): proprio qui (p. CXXXVI, nota 1) si dice che «Questo carattere fondamentale dell’arte di Orazio [la ricerca del «cesello», della «pittura», del «disegno», del «volume»] sarà stato una delle cause dell’avversione del Leopardi, che lo qualifica di ‘basso ingegno’; si capisce, invece, come l’indefinito di Virgilio facesse sentire su di lui il suo fascino». E questo rilievo, giustissimo, procura più d’una difficoltà ad una visione timpanariana del rapporto identificativo di Leopardi con il classicismo; il notturno virgiliano, come quello omerico, è certo giocato da Leopardi in funzione antiromantica (i classici erano già capaci di quelle suggestioni letterarie): ma resta sempre da chiedersi, al lettore di Timpanaro, quanto realmente a Leopardi fosse dato di conoscere del romanticismo. E non può sfuggire che, fino ad Epicuro, Lucrezio e Leopardi compreso, Timpanaro non ha potuto a meno d’interrogarsi sulla scarsa presenza in Leopardi d’autori e filosofi come appunto Epicuro e Lucrezio, e di Orazio come corifeo-innovatore del classicismo, di autori che una lettura soltanto ideologica, e in gran parte fondata su esplicite dichiarazioni “referenziali”, dell’autocoscienza poetica leopardiana, autorizzerebbe a pensare prevalenti, e di frequente e dominante presenza. Avviene l’esatto contrario: la scommessa risulta perduta, con netta minorità del “classicista genetico” Orazio, del ricreatore dello spirito estetico aristotelico, dell’autore particolarmente amato nel Settecento razionalista, a tutto vantaggio dell’epicureismo “sentimentale” di Virgilio, e non in nome dell’epicureismo. La scelta di Leopardi ha innegabili elementi in comune con quella dei romantici; al ferrato sostenitore del classicismo leopardiano rimane da dimostrare, con la nota, impareggiabile profondità di scandaglio filologico e ideologico, la serie, notevolissima, di differenze che separano Leopardi dal pensiero e dai testi di Epicuro e di Lucrezio (conosciuti, beninteso, ma non privilegiati rispetto ad altri scrittori), a spiegazione di come, chiamiamola ancora così, la scommessa previsionale non avesse base e vera ragion d’esse-

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re: l’epicureismo in Leopardi va studiato come “fenomeno” autonomo, non prevalente, segnato come anche altri riferimenti letterari da una sua storia. Semmai, ad attirare l’ammirazione di Leopardi è l’Orazio degli «ardiri», delle associazioni a distanza di sostantivi ed aggettivi, dei viaggi strofici a ritrovare le concordanze attraverso il materiale verbale interposto, serie di diamanti poetici che illumina partenza e arrivo, attributo e nome. Un Orazio di sospetta ricezione romantica (neanche il primo Ottocento ha in realtà messo in disparte Orazio), come ha ricordato, riconducendovi l’attenzione, il convegno recanatese intitolato Lingua e stile di Giacomo Leopardi (gli Atti sono usciti da Olschki nel 1994). Risulta, in ogni caso, molto perspicuo, nelle pagine di La Penna, il contributo (dato da Orazio alla futura civiltà europea) alla fondazione d’una morale laica, ad un’autàrkeia criticamente vissuta, ad una visione della natura d’essenziale impronta immanente, tutta interna ai suoi laici e secolari circuiti. Il dialogo tra La Penna e Timpanaro, insomma, questo intendiamo sottolineare, è continuato nel tempo. Il contributo su Gomperz è nato nel 1962 (e pubblicato nel 1963); grazie a questa collocazione “storica” nella produzione di Timpanaro, esso è contemporaneo ad Orazio e l’ideologia del principato, alla recensione all’Orazio lapenniano in «Critica storica» e alla recensione al Treves; e in tal senso è assolutamente coevo anche all’elaborazione dei citati saggi che compongono Classicismo e illuminismo: Giordani, Carducci e Chiarini, il Cattaneo, il saggio sul pensiero di Leopardi. È lì che nasce Classicismo e illuminismo, ovvero da quel giro di riviste in cui il saggio sullo storico austriaco s’inserisce, in totale identità di tempo e di spazio editoriale con gli altri lavori che approderanno alla silloge del ’65. Il Gomperz fa parte di Classicismo e illuminismo, della genesi elaborativa dell’oggetto-libro come inizia a prender corpo ed a configurarsi allora, e pertiene insomma a “quel” nucleo ispirativo, culturale e ideologico; né tale appartenenza e tale contiguità si pongono solamente sul piano cronologico, pur già in sé estremamente parlante. È, scriviamolo apertamente, la tematica, sono i contenuti, è la vivacissima semantica culturale del saggio, è il suo significato di rilancio storiografico-culturale e di dotta polemica nei riguardi di tutta un’impostazione tardo-ottocentesca e poi novecentesca, idealistica, antipositivistica, antiscientista, ad acquisire il contributo all’operazione culturale denominabile Classicismo e illuminismo, perché lì il

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contributo è già acclimatato. In massima sintesi, rammentiamo l’impostazione mentale di Gomperz, aperta alla considerazione della scienza ed all’assunzione dell’attualità, dove possibile, del pensiero greco, senza che per questo si legittimi un’accusa di scientismo; ma si ricordi soprattutto il sostegno, la valorizzazione culturale d’una visione laica, contraria alle concezioni metafisiche, che, pur fra contraddizioni e qualche inevitabile incongruenza, permea la sua opera di studioso del pensiero filosofico e storiografico greco (benché Timpanaro, in quello che è un vero e proprio profilo, non si limiti certo all’opera più corposa e più nota, i Pensatori greci). Decisiva in questo senso la sua connotazione culturale di moravo-austriaco non affatto nutrito della sola cultura nazionale, o comunque germanofona o austro-ungarica, e, anzi, di studioso ebreo, laico nelle visioni filosofiche e cosmopolitico nel decodificare le sollecitazioni intellettuali, e personalmente propenso alla cultura inglese, in specie quella illuministica, in un periodo nel quale, pur con differenza di singole ricadute nazionali, prevale nella maggior parte dell’Europa la reazione nazionalistico-irrazionalista al materialismo positivistico. Studioso che si colloca in piena e insieme compassata e borghese controtendenza rispetto all’orientamento generale degli ultimi decenni ottocenteschi, il Gomperz è stato per precisa scelta storiografica accantonato, e apertamente svalutato, da Jaeger e dalla tradizione di studi classici che da lui è derivata, e in generale dalla filologia classica del Novecento e dalla visione storica che vi si è avuta dell’antichità; l’operazione rivalutativa, condotta, lo si ricordi, sempre sulla rivista «Critica storica», con un Gomperz stretto compagno sulla scrivania timpanariana (pur non italiano e nelle proprie peculiari competenze) del Leopardi, del Cattaneo, dell’Ascoli, non si limita affatto a rappresentare un recupero di figura ingiustamente dimenticata, o sottovalutata dalle nuove tendenze culturali della disciplina; tale operazione intende invece offrire, a chi vuole approfondire gli studi secondo criteri di qualità e di scelta ideologico-culturale e non di conformismo cronologico, una sorta di pregresso antidoto allo jaegerismo, e, sotto altri profili, una misura di prevenzione, si dica pure di vaccinazione antiidealistica, antispiritualistica, antiplatonica, e in buona parte antinovecentesca, come il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo lo è rispetto a quella che per l’autore di Sul materialismo è sempre stata l’involuzione psicologistica, mentalistica, metodologista del XX secolo. Gomperz è uno storico tutt’altro

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che chiuso al pensiero materialistico, uno studioso che non andava affatto liquidato, e le cui troppo rare ristampe vanno accolte con favore e con disponibilità a recepirne più d’una sollecitazione correttiva delle filiazioni jaegeriane novecentesche. Dedicato a studioso non italiano, il saggio è entrato in séguito nel libro che annovera alcuni “profili” (Mai, Comparetti; ne rimasero fuori Ascoli, Pasquali e Terzaghi, e per poco ne esulò il Cesari): Aspetti e figure della cultura ottocentesca. Ma già nella prefazione allo stesso volume dell’’80 (p. X) Timpanaro, oltre a ribadire il legame inestricabile che unisce Aspetti e figure a Classicismo e illuminismo («i saggi che compongono il presente volume [...] hanno, spero, pur nella varietà degli argomenti e del «taglio» ora più erudito ora più storico-culturale, una omogeneità di fondo, sia tra loro, sia rispetto ad altri miei precedenti libri, ad uno specialmente, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, apparso in questa stessa collana [...]. Vorrei sperare che il nuovo libro contribuisse ad una più equa comprensione del libro vecchio [...]»), supera con limpidezza, e significativamente senza sfoggio né bisogno d’enfasi argomentativa, il “problema” della non italianità del Gomperz, una figura che condivide come ed anche più di alcune delle presenze italiane del libro i valori veicolanti costituiti dall’illuminismo, dalla fiducia nella ragione, dalla tolleranza cosmopolitica, dall’antiidealismo: Nel titolo del libro mi sono riferito alla cultura ottocentesca, senza aggiungere italiana, perché, sebbene il più sia dedicato ad autori italiani, mi è accaduto spesso di sconfinare (nello scritto iniziale sul lucanismo, nella trattazione sui precursori di Angelo Mai), e l’ultimo saggio riguarda per intero un autore non italiano, Theodor Gomperz; ma mi è sembrato che questo storico del pensiero antico così ricco di fermenti illuministici (assorbiti dalla cultura inglese e trapiantati nell’Austria di fine Ottocento, per molti aspetti così diversa ideologicamente e culturalmente dalla Germania della stessa epoca) potesse rientrare nell’ambito del presente volume senza apparire come un «corpo estraneo». Anche il Gomperz, in un’Europa dominata nel bene e nel male - dalla cultura tedesca per ciò che riguardava gli studi sull’antichità classica, fu un isolato, e ancor più isolata e disconosciuta è stata poi la sua opera nel clima idealistico novecentesco. Una rivalutazione, pur lontana da qualsiasi apologia, è a mio avviso necessaria.

A proposito del Gomperz di Timpanaro, si legga quanto, a caldo, all’uscita d’Aspetti e figure, scrive in fine d’articolo Ettore Paratore (Leopardi protagonista in un volume sulla cultura dell’Ottocento, in «Il tempo», Roma, XXXVII, 295, 4 novembre 1980, p. 3):

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Chiude inaspettatamente il libro un saggio sopra un grande studioso straniero che appare quindi un po’ fuori campo nel tessuto ideologico e storico del volume: Teodoro Gomperz. Chi scrive, parlando su queste colonne dell’edizione italiana del volume aristotelico della grande opera del Gomperz sui pensatori greci, aveva già espresso le sue perplessità sul punto di vista e sul metodo di quello che pure è stato uno dei più grandi storici della filosofia greca. Il Timpanaro invece non esita ad additarlo come lo storico e il pensatore che avrebbe meritato, ben più dello Zeller o di tanti altri, di costituire il punto focale dell’indagine sul pensiero greco; ciò naturalmente perché egli rappresenta la trasposizione del nascente positivismo entro l’ambito della valutazione della filosofia ellenica. A pagina 434 il Timpanaro lo celebra come colui al quale bisogna ritornare per riscattare la nostra cultura dal platonocentrismo cui l’avrebbero oggi condannata le posizioni dello Jaeger e di quasi tutti gli attuali indagatori della speculazione greca. / Quanto ho fatto osservare sui limiti che il Gomperz ha posti al suo ripensamento di una figura come quella di Aristotele, che poteva agevolmente servirgli da riscatto da tutte le configurazioni platonocentriche, e quanto tutti, a cominciare dallo stesso Timpanaro, non possono fare a meno di registrare con stupore sul fatto che proprio il Gomperz interruppe l’opera sua prima di occuparsi dell’epicureismo contribuisce a gettare acqua sul fuoco dell’entusiasmo con cui il Timpanaro considera la figura dello studioso tedesco. Ma ciò non toglie che questo capitolo finale, facendoci entrare in ambito di molto maggiore respiro [...], conclude degnamente un’opera importante, per la sua qualità indagatrice, nell’ambito degli studi storico-letterari.

Si può aggiungere un accenno a Gomperz in Storicismo di Pasquali (nell’opera collettiva Per Giorgio Pasquali, a cura di Lanfranco Caretti, Pisa, Nistri-Lischi, 1972, p. 128 e n. 7), contributo che rielabora a fondo il profilo che Timpanaro aveva redatto nel 1969 per i Critici Marzorati; nel processo di parziale affrancamento (pur nel solco d’un magistero che sarà sempre riconosciuto) dal pensiero di Pasquali, lo studioso recupera la lezione della storiografia positivistica: Questi giudizi {si tratta di concetti antipositivistici a più riprese espressi da Pasquali} colgono senza alcun dubbio alcuni aspetti negativi della mentalità positivistica, negli studi classici e altrove: non rendono pienamente giustizia, secondo me, alla storiografia dell’età positivistica, nella quale apparvero pure potenti opere di sintesi, tutt’altro che prive del concetto di valore, come i grandi capolavori del Mommsen, o il Virgilio nel Medio Evo del Comparetti, o i saggi di storia della religione antica dell’Usener, o i Pensatori greci del Gomperz, per limitarci a qualche esempio nel campo greco-latino.

Nella citata nota 7, relativa a questo passo, Timpanaro aggiunge: «Naturalmente Pasquali ammirava altamente questi grandi studiosi [...]; su Comparetti e su Mommsen egli ha scritto pagine indimenticabili; forse soltanto il Gomperz, per quel che ricordo di ciò che talvolta

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ne disse, era da lui alquanto sottovalutato»; peraltro, poche pagine dopo (pp. 143-144), non manca l’affermazione della sostanziale indipendenza di Pasquali da Jaeger: «Di Jaeger in quanto filologo e storico della cultura, Pasquali fu amico e collaboratore; ma dal suo neo-umanesimo si è tenuto lontano [...]. Tranne questo sporadico accenno {al valore paradigmatico, universale della cultura greca: cfr. «Medioevo bizantino», in «Stravaganze quarte e supreme»: Pagine stravaganti 2, a c. di Giovanni Pugliese Carratelli, Firenze, Sansoni, 1968, pp. 340-371}, la sua estraneità al neo-umanesimo di Jaeger è totale, ed è dichiarata esplicitamente nell’ultimo libro, Storia dello spirito tedesco nelle memorie d’un contemporaneo (p. 123 sg.): qui Pasquali mette giustamente in rilievo la debolezza delle basi filosofiche del jaegerismo». Ritengo, sul fondamento di queste premesse, che lo storico del pensiero antico Gomperz, non italiano, cittadino austriaco non nazionalista ed anzi antirazzista di cultura illuministica inglese, ebreo nell’impero cattolico asburgico, materialista e positivista “critico” e classicista in lingua tedesca di pregressa valenza terapeutica antijaegeriana, possa non solamente “figurare” (o non soltanto «degnamente concludere» l’opera, secondo il concetto di Paratore), ma apertamente risiedere in un libro intitolato al classicismo e all’illuminismo italiani, per evidenza di comuni tratti di pensiero con alcune delle figure più importanti e con molti fondamentali percorsi tematici, culturali e linguistico-letterari affrontati nel volume, idealmente saldandosi, anche nella contiguità di capitolo (X-XI), al suo grande correligionario goriziano Graziadio Isaia Ascoli, intellettuale diverso, sì, ma da lui non dissimile nell’attivare il concetto di patria esattamente in funzione antinazionalistica e antipatriottarda, e fautore d’una funzione non “selettiva”, ma ben al contrario accomunante del linguaggio della cultura, al di là dei confini fatti e disfatti dalle guerre e al di là della dissennatezza delle potestà politiche. Quattro saggi, dunque, compresa l’Appendice trevesiana, vengono qui inseriti da Aspetti e figure; due saggi (Epicuro, Lucrezio e Leopardi, cap. VIII, ed Il Leopardi e la Rivoluzione francese, cap. IX) vengono inseriti da Nuovi studi sul nostro Ottocento. L’Epicuro dichiara sùbito la propria appartenenza a Classicismo e illuminismo, come si legge nella Nota alla ristampa 1988 della seconda edizione (qui riprodotta nel volume): Avrei voluto aggiungere un breve postscriptum, un saggio su Epicuro, Lucrezio e Leopardi (a parziale modifica e integrazione di quanto avevo scritto a pp. 221-224) e poche brevi postille. Ma avrei bisogno ancora di un certo tempo – più di quanto

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avevo previsto –, e intanto questo libro ormai annoso, con mia meraviglia, viene ancora richiesto, e l’amico editore, del tutto giustamente, ha fretta. Se anche questa ristampa si esaurirà, spero di poter pubblicare, la prossima volta, l’edizione accresciuta. Per ora avverto soltanto che altri saggi, riguardanti anch’essi in gran parte il Leopardi, il Giordani e altri personaggi e ambienti di cui si tratta in questo libro, sono usciti nei due volumi Aspetti e figure della cultura ottocentesca (Pisa, Nistri-Lischi, 1980) e Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana (Pisa, Ets, 1982) [...]. Vorrei, con un po’ di sfrontatezza, pregare i lettori di questo libro di tener presente anche quei successivi volumi meno fortunati, poiché su vari punti essi contengono aggiunte e correzioni di un certo rilievo a quanto avevo scritto nel presente volume.

La Nota è già in sé eloquente, sia sulla vicenda di Epicuro, Lucrezio e Leopardi, pubblicato in «Critica storica», XXV, 1988, pp. 359-409 e poi appunto nei Nuovi studi, sia nel richiamo ai «meno fortunati» volumi, non sufficientemente presenti alla critica, in un processo di “sfortuna” lettoriale legato a doppio filo alla “fortuna” di Classicismo e illuminismo, la cui fruizione sembra aver esonerato alcuni studiosi, per “appagata” curiosità, dalla lettura d’altre opere ottocentistiche di Timpanaro; la «parziale modifica e integrazione» (pp. 221-224 NistriLischi; qui pp. 177-180) si riferisce al IV capitolo, Il Leopardi e i filosofi antichi. Fra questo capitolo, e in particolare quelle pagine, ed Epicuro, Lucrezio e Leopardi, il lettore della presente edizione, tenendo conto anche delle postille al saggio presenti nelle Annotazioni finali, potrà condurre utili confronti e trarre spunti di riflessione. Da parte sua, anche il contributo su Leopardi e la Rivoluzione francese rientra nell’area cronologica della fine degli anni ’80: pubblicato nel volume collettivo La storia della storiografia europea sulla Rivoluzione francese (Relazioni tenute al Congresso dell’Associazione degli storici europei, maggio 1989), Roma, 1990, pp. 367-381, quindi nei Nuovi studi, esso è in tutto contiguo all’Epicuro dell’ ’88 e conclude la serie di saggi leopardiani della “triade” Nistri-Lischi Classicismo-Aspetti-Nuovi studi. In questa edizione è infatti prevalso il criterio di riunione del “centro”, del cuore leopardiano della saggistica letteraria Nistri-Lischi; non propriamente ed elettivamente leopardiano appare porsi De Amicis di fronte a Manzoni e a Leopardi, nei Nuovi studi, in cui, a differenza che in Epicuro, Lucrezio e Leopardi, solo gli ultimi paragrafi, i nn. 8-13, sono indirettamente dedicati al Recanatese, grazie alla sua fortuna linguistica e letteraria presso lo scrittore d’Oneglia. Infine, si consideri che l’eventuale ricostituzione in uno stesso volu-

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me d’un nucleo giordaniano prima di quello leopardiano, oltre a produrre, in sé, ipertrofici effetti editoriali non consueti nella volontà di Timpanaro, non sarebbe realmente giustificata dal comportamento e dalle dichiarazioni dello stesso autore, che nella citata premessa dell’ ’88 si limita a indicare in modo esplicito il solo Epicuro, Lucrezio e Leopardi (e si ricordi che due dei quattro contributi giordaniani dei Nuovi studi, Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846 e Un’operetta di Pietro Borsieri ed una di Pietro Giordani, rispettivamente del 1981 e del 1987, erano appunto già usciti all’epoca di quella Nota, ed un terzo, Le lettere di Pietro Giordani ad Antonio Papadopoli, poi uscito nel 1990, era con tutta probabilità già in via di conclusione; di nessuno di questi saggi Timpanaro mostra di desiderare, come invece avviene per l’Epicuro, l’inclusione in Classicismo e illuminismo). In ogni caso, in un’ipotetica raccolta di scritti giordaniani, a Le idee di Pietro Giordani e a Giordani, Carducci e Chiarini dovrebbero far séguito Il Giordani e la questione della lingua (1974) da Aspetti e figure ed i quattro contributi giordaniani dei Nuovi studi: i citati Un’operetta di Pietro Borsieri ed una di Pietro Giordani, Le lettere di Pietro Giordani ad Antonio Papadopoli, Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846, e infine, uscito come inedito nella silloge del 1995, Due cospiratori che negarono di aver cospirato (forse Giordani, certamente Bini). Quanto al contributo giordaniano presente in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, Ancora su Pietro Giordani (pp. 103-144), vale la stessa considerazione di “autonomia bibliografica” di quel volume che ha qui condotto ad escluderne anche i contributi leopardiani, un’ “autonomia” di cui nella citata prefazione (p. XII) ad Aspetti e figure si mostra ben conscio lo stesso Timpanaro: Non ho incluso in questo volume un lungo saggio pubblicato in «Belfagor» 1975-76, in quattro puntate, col titolo Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana [...]. [...] il tono molto vivacemente polemico di quelle pagine, l’estensione della polemica anche a temi di politica attuale, avrebbero suscitato un’impressione di scarsa omogeneità rispetto al carattere più «distaccato» (e talvolta, forse, fin troppo filologicamente minuto) dei saggi che compongono questo già troppo grosso volume {«Aspetti e figure»}.

Sulla vicenda di Epicuro, Lucrezio e Leopardi gioverà riprodurre due lettere, a tutt’oggi inedite, scritte da Timpanaro al filologo classico, e

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leopardista, Sergio Sconocchia, studioso più volte citato nel saggio per i suoi importanti e preziosi contributi. Ambedue le lettere sono indirizzate da Firenze ad Ancona. Nella prima, del 21 novembre 1988, Timpanaro si riferisce alla relazione di Sconocchia intitolata Ancora su Leopardi e Lucrezio, destinata al convegno nazionale su Leopardi e noi in prospettiva 2000, organizzato dall’Accademia Marchigiana di Scienze, Lettere ed Arti e tenutosi ad Ancona dal 23 al 25 ottobre 1987; tale relazione viene inviata in anteprima a Timpanaro, ancora nello stato di dattiloscritto, nel luglio 1988, quando è quasi finita la stesura di Epicuro, Lucrezio e Leopardi, che dovrà uscire nello stesso anno in «Critica storica» (Timpanaro è comunque in tempo a fruire del lavoro inviatogli da Sconocchia); poi il saggio di Sconocchia esce autonomamente in volumetto, e in anticipo sugli atti del convegno (Ancona, La Lucerna, ottobre 1988), e vi è un nuovo invio a Timpanaro, che, ringraziando l’amico studioso con questa prima lettera, gli comunica che non potrà segnalare il volumetto, perché ha appena licenziato le ultime bozze dell’articolo per «Critica storica», non ancora uscito; il volumetto sarà citato nella redazione pubblicata nei Nuovi studi, mentre il fascicolo del 1988 di «Critica storica» (prima redazione del saggio di Timpanaro) sarà successivamente inviato ad Ancona: sulla copertina, la dedica autografa: «Con amicizia e gratitudine (e in attesa di critiche!) / S. T.» (la copertina reca la seguente intestazione: «estratto da / CRITICA STORICA / BOLLETTINO A.S.E. / Rivista trimestrale diretta da ARMANDO SAITTA / Anno XXV - 1988 - 4»; a fondo pagina: «ROMA / NELLA SEDE DELL’ASSOCIAZIONE DEGLI STORICI EUROPEI»). Il contributo di Sconocchia uscirà, quindi, con lo stesso titolo, nel volume di atti del convegno Leopardi e noi. La vertigine cosmica, a cura di Alberto Frattini, Giancarlo Galeazzi e dello stesso Sergio Sconocchia, Roma, Edizioni Studium («La cultura», n. 39), 1990, pp. 87-147; alle pp. 146147 vi è il Postscriptum dello studioso, che può a sua volta citare (p. 146) l’ormai pubblicato Epicuro di Timpanaro e registrare anch’egli con piacere la possibile coesistenza dei due lavori, che pur partono da diversa impostazione. Più sotto, sono discussi contributi di Fornaro e di Giancotti, sempre su argomenti lucreziano-leopardiani. Nella seconda lettera, del 5 agosto 1994, Timpanaro ringrazia dell’invio d’un estratto di fascicolo di «Orpheus» (Rivista di umanità classica e cristiana, N. S., 5, XV - 1994 - fasc. 1, pp. 1-12; pubblicato a cura del

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Centro studi sull’antico cristianesimo dell’Università di Catania), contenente l’articolo Citazioni e appunti lucreziani in Leopardi, appunto di Sconocchia, e ringrazia altresì dell’invio di altri studi, riguardanti la medicina antica. Sia pure sinteticamente, Timpanaro potrà anche in questo caso fruire del lavoro pervenutogli, citandolo nell’aggiornata redazione del suo Epicuro che, proprio nel ’94, è d’imminente uscita nei Nuovi studi; del saggio e della sua nuova pubblicazione, come anche dello stesso volume in corso di stampa da Nistri-Lischi e della fresca uscita dei Nuovi contributi di filologia e storia della lingua latina, Timpanaro dà regolare e amichevole notizia a Sconocchia. I. Due facciate 50123 Firenze, Via Ginori, 38, 21. XI.1988 Caro Sconocchia, grazie del tuo saggio leopardiano-lucreziano, che già così gentilmente mi avevi fatto leggere in anteprima. Hai fatto benissimo a pubblicarlo a parte, senza aspettare gli Atti del Convegno. Il mio articolo non è ancora uscito in «Critica storica»: dovrebbe uscire presto, ho già licenziato le ultime bozze. Non faccio più in tempo, perciò, a segnalare questa tua pubblicazione ‘separata’: ho citato gli Atti marchigiani in un Post-scriptum e ho esplicitamente menzionato la ‘scoperta’ della derivazione delle citazioni lucreziane dalla Collectio Pisaurensis; quanto al resto, ho accennato nel P. S. che i nostri due studi, anche se in notevole misura divergenti, possono essere considerati complementari. i lettori giudicheranno; e, naturalmente, appena sarà uscito il mio articolo tu avrai il pieno diritto di discutere quei punti che ti sembreranno errati o inadeguati. Grazie ancora, un saluto affettuoso dal tuo Sebastiano Timpanaro

II. Due facciate 50123 Firenze, v. Ginori 38, 5. VIII. 1994 Carissimo Sconocchia, molte grazie per tutto ciò che mi hai mandato: sei un lavoratore instancabile, e ti muovi con eguale sicurezza nel campo leopardiano e in quello della medicina antica! Proprio in questi giorni torridi (sto per andare in ferie, ma per poco tempo) correggo le seconde bozze di un ultimo volumetto di cose otto-novecentesche, alcune nuove, altre rivedute e corrette.* {richiamo con asterisco a fine pagina} * Uscirà a Pisa presso Nistri-Lischi. Tra queste, ripubblico anche, con varie aggiunte e modifiche, quel mio articolo del 1988 su Epicuro, Lucrezio e Leopardi. Mi fosse arrivato prima il tuo articolo! Avrei potuto menzionare e utilizzare più ampiamente i risultati

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a cui sei giunto. Ora devo limitarmi a un accenno un po’ troppo sintetico, perché ho già fatto sulle prime bozze tante correzioni straordinarie che, se butto all’aria anche le seconde, l’editore mi fucila! il volumetto {canc.: «arriv», cioè «arriverà»} uscirà poi in autunno. Anche le tue cose di storia della medicina mi hanno molto interessato Vorrei farti avere un mio volume, Nuovi contributi di filol. e storia della lingua latina, in cui mi è accaduto (col prezioso aiuto di Boscherini) di occuparmi {canc.: «di»}, en passant, di tonsillae e cose del genere. Ma la casa Pàtron è stata avarissima di copie in omaggio; anche a me ne ha mandato un numero irrisorio, e sono sparite sùbito. Vedrò, comunque, di fartene avere una copia. Grazie ancora di tutto e buona estate (qui a Firenze 40 gradi!). Tuo Sebastiano Timpanaro. P.S. Rallegramenti vivissimi per la vittoria nel concorso! {prima facciata in alto a sinistra, graficamente isolato e segnalato}.

Si riassumono, a questo punto, a beneficio del lettore, gli esiti di materiale allestimento prodotti dai criteri di questa rinnovata edizione. Si sono innanzi tutto ricondotti i due Addenda della seconda edizione nel corpus dell’indice “curricolare”, riallineando date alla mano Natura, dèi e fato agli altri saggi e rendendo le postille a stampa del ’69, con richiamo d’asterisco nella stessa pagina, contigue alle parti di testo cui si riferiscono. Si sono quindi inseriti nell’indice (sempre rispettando la successione cronologica degli autori trattati e, nell’àmbito d’ogni autore, la cronologia di composizione di Timpanaro) sei contributi, di cui quattro da Aspetti e figure della cultura ottocentesca (a formare rispettivamente i capp. V, VII, XI e l’Appendice II) e due da Nuovi studi sul nostro Ottocento (a formare i capp. VIII e IX); totale undici capitoli più due Appendici, rispetto ai cinque con Appendice della prima edizione, e rispetto ai cinque con Appendice e Addenda della seconda. La vecchia Appendice, mantenuta nella sua istituzionale collocazione ma concettualmente accorpabile fin dal ’65 al capitolo cattaneianoascoliano (qui il X), si ordina come I rispetto a quella trevesiana (II), già ripubblicata, quest’ultima, nel 1980, con l’espresso fine d’un chiarimento generale non tanto sui suoi specifici e peculiari argomenti, quanto, ed esattamente, su tutta l’operazione culturale rappresentata da Classicismo e illuminismo; essa può quindi essere vantaggiosamente fruita a conclusione della lettura del libro, in un “a posteriori” fondatamente ricco di concrete acquisizioni di testi e di documenti. Si è così ricreato il nucleo leopardistico timpanariano di edizione Nistri-Lischi, non a caso il nucleo di più perspicuo ed esperito incrocio, di più sco-

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perto amalgama fra il “certo” filologico-testuale e il “vero” della riflessione storica e interpretante. Il lettore potrà constatare che l’entità del blocco leopardiano è, qui, di sette capitoli (non più di due, come inevitabilmente era nella prima edizione, o di tre, come nella seconda): dal III al IX è tutto Leopardi. Benché Leopardi, in realtà, insistendo costantemente nella saggistica di Timpanaro, sia molto spesso presente al di là dei contributi che ufficialmente gli si richiamano. Questo testo critico, come si è cercato di chiarire dall’inizio di questa Nota, si distacca dall’“oggetto” brossurato e comprabile qual è uscito allora, e certamente non è più il Classicismo e illuminismo di Nistri-Lischi (beninteso, volume altamente meritorio e sotto molti aspetti storicamente insostituibile), ma è la realtà del Classicismo e illuminismo “di Timpanaro”. La realtà, ripetiamo, non la verità, che altro sarebbe dire e pretendere, di Classicismo e illuminismo; ma siamo convinti che questa edizione costituisca, appunto, la quintessenza metodologica “reale” di quello che l’autore avrebbe voluto fare. * * * Quanto finora detto riguarda l’allestimento del volume sotto il profilo dei testi già stampati, sia di quelli che appartenevano alle originarie due edizioni degli anni ’60, sia di quelli inclusi dagli altri due libri, a questo omogenei per argomenti e per protocollo editoriale. Le Annotazioni autografe che concludono l’edizione accolgono le integrazioni, le modifiche, le revisioni di giudizio, le correzioni terminologiche, e in qualche caso gli interventi di rimedio a singoli refusi da parte dell’autore: dopo il 1969, come ampiamente chiariscono le successive Note alle ristampe, non v’è più stata alcuna possibilità per Timpanaro di operare sul testo, o sui testi. Lasciamo per intero alla fruizione del lettore il giudizio critico-interpretativo, la valutazione, la considerazione qualitativa e quantitativa del materiale d’annotazione manoscritta (a biro o a lapis) che abbiamo qui riportato e riprodotto, avendo per parte nostra come criterio la restituzione della realtà grafica degli originali timpanariani, dove è possibile, fino al singolo tratto di penna, o al segno orizzontale o verticale di richiamo, o alla singola sottolineatura senza ulteriore parola esplicita dell’autore; le sottolineature di parola o parole, o d’intere frasi, che non costituiscano titolo di opera, anziché essere riprodotte con il corsivo sono ripro-

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dotte con il carattere sottolineato: esattamente come nell’originale; altrettanto si è fatto per le parole cancellate, riprodotte con lo stile barrato. E così si è proceduto per ogni aspetto d’una serie d’annotazioni fitta e ricca di significati culturali, segno d’un processo d’inesauribile riflessione, di continuo ripensamento, di costante aggiornamento bibliografico, di assidua ricerca di riferimenti e di rinforzi, di conferme e di aggiunte sul piano della visione critica, dell’esegesi di qualunque testo trattato, e anche dell’autoesegesi; e segno, altresì, di disponibilità “autovariantistica”, in un’incessante revisione che rivitalizza, attualizzandoli nella coscienza dell’autore, anche testi scritti da tempo, nel nome d’una meditazione razionale e lucida che dimostra, sulla base del volume Nistri-Lischi, il carattere strutturale e duraturo degli interessi coltivati in questo libro in tutta la riflessione dell’autore, il valore fondante e quindi aggiornabile di tali interessi in una figura intellettuale che ha “corretto” Classicismo e illuminismo fino agli estremi tempi della propria, personale vicenda di studioso. Non minore accuratezza merita l’avviso della correzione dei refusi [cr]; in uno studioso nel quale la limpidezza “illuministica” dello stile passa dalla precisione massima d’ogni restituzione espressiva di concetto, e nei cui testi, insieme fluidi e coesi, ogni variazione nella correttezza formale può implicare un depistaggio di senso culturale o storico, i “refusi” percorrono, in più d’un caso, una loro non banale e tutt’altro che innocente vicenda. Ne adduciamo qualche esempio di palese visibilità (oltre a quello, già in altro senso trattato, della «difesa della civiltà illuministica» nella bandella 1984); nel III capitolo del volume (ed. Nistri-Lischi, p. 162), il Leopardi «critico spietato di t u tt i i miti dell’immortalità, anche dell’immortalità delle opere» (corsivo nostro) della prima redazione in rivista diviene «critico spietato di t u t t i i miti dell’immortalità delle opere»; tale “salto” accompagna il testo fino all’ultima ristampa del 1988, e induce l’autore a ripristinare, almeno a mano, nella copia del 1973 e in quella del 1984, la versione esatta apparsa in «Critica storica» (cfr., qui, p. 130); ancora nell’Epicuro dell’ ’88 in rivista (e poi nei Nuovi studi), n. 52, lo studioso, citando il suo passo di Classicismo e illuminismo, richiama la «p. 162 r. 1» Nistri-Lischi e segnala esplicitamente e per esteso, in questo caso a stampa, l’errore tipografico, con l’indicazione della versione corretta: dunque la storia di questo errore, mai “tecnicamente” dimenticato, oltre a protrarsi nel tempo, coinvolge due diversi saggi e due diver-

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si volumi, e non permette, vivente l’autore, il recupero della versione esatta. In un caso diverso, nel primo capitolo, Timpanaro parte da un «Pogiamo» di Giordani per «Pognamo» (poniamo), errore di stampa della «Biblioteca italiana», I, 1816, p. 175; da lì, un approfondimento bibliografico che conduce a «Pogniamo» come corretta grafia e alla scelta della lezione lemonnieriana anziché di quella dell’edizione Gussalli. Alle pp. 45-46 e relative note di questa edizione si può seguire la serie d’acquisizioni su «Pogniamo» in un crescendo d’interventi, anche manoscritti, che si risolve, graficamente, in una vera e formale correzione di refuso: «ia», o «ia». Ma in questa e in altre correzioni di refuso timpanariane occorre, come si è visto, saper leggere attentamente, poiché non certo di rado esse conglutinano un’autentica avventura diacronica d’acquisizioni conoscitive, da quelle rimarcate dalla precisione puntuale a quelle dilatabili a un più vasto significato culturale; tali correzioni, a nostro avviso, non possono, così e semplicemente, essere, tutte, ascritte tout court alle “varianti formali”, in una livellata uniformità di trattamento. Rinviamo all’allestimento testuale e alle Annotazioni autografe per la documentazione dettagliata di questi percorsi tipografici. Inutile negare che anche i refusi o i refusi “importati” hanno, se “pesanti”, la loro storia, sebbene un’ideale storia dei refusi potrebbe spesso chiamare a corresponsabilità l’autore non meno che l’editore. Appare perciò soluzione coerente restituire la realtà manoscritta di tutte le correzioni di refuso, peraltro non numerose, ancorché importanti, e d’agilissima segnalazione in questa nuova proposta del libro del ’65’69 (si fa eccezione per i refusi che appaiono già corretti nella ristampa ’88). Risulterebbe sorprendente una legittimazione del lusso di sorvolare sull’opera correttiva dei propri testi qui svolta da un correttore di bozze leggendario, il correttore di bozze della Nuova Italia; tanto leggendario da guadagnarsi, nolente, l’accesso a una romanzata personificazione del suo mestiere. Un mestiere ben distinto dall’attività di studioso, ma a sua volta mestiere per lui importante, non omologabile alla spinoziana modanatura di lenti. Qui di séguito si dà partitamente nota dei quattro testimoni di Classicismo e illuminismo e, per i contributi da noi inclusi (per i quali vi sono varianti rispetto al testo a stampa), si dà nota dell’unico testimone di Aspetti e figure e dei due testimoni dei Nuovi studi (anche gli altri due volumi hanno infatti copie densamente postillate, da noi ripro-

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dotte per i saggi in questione); di un contributo di Aspetti e figure, Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani (qui cap. V) si ha pure la copia d’un estratto del «Giornale storico della letteratura italiana» (sede di prima pubblicazione del saggio nel 1966) a sua volta annotato con numerose postille, tutte da noi restituite nelle finali Annotazioni; ma in questo caso si sono trascritte anche tutte le varianti a stampa, indicative della redazione precedente a quella del volume del 1980.

Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano Questa edizione si fonda sull’ultima ristampa del volume (1988), regolarmente rivista dall’autore, e su quattro copie delle edizioni Nistri-Lischi di Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano appartenute a Timpanaro, ed ora acquisite, come anche gli altri volumi che qui fanno da riferimento, alla Biblioteca della Normale di Pisa: una copia della prima edizione 1965, siglata dallo stesso autore con «C» e con l’indicazione di data, entrambe cerchiate, e tre copie della seconda edizione (1969), di cui due rispettivamente contrassegnate con «A» (e relativa data, 1969) e con «B» (ristampa del 1973), ed una priva d’indicazione di contrassegno e con il solo richiamo alla data della ristampa, «1984» (la designeremo con «d» - delta). D’ora in avanti: A, B, C, d (si sono seguite, dove presenti, le sigle date dall’autore); la copia «d» è stata così denominata perché mancante di sigla d’autore: in successione con A, B e C, ma indicata con lettera greca, vista la particolare funzione che essa sembra adempiere rispetto alle altre tre. In effetti la copia del 1984, come ripetutamente mostreranno le Annotazioni, sarà in più d’un caso il bacino collettore, cronologicamente recente, d’annotazioni e di varianti presenti nelle altre copie (le cui sigle saranno riprese in d, accompagnate da un’indicazione, in genere sintetica, che rinvia alla citazione o al riferimento dettagliato-analitico in una singola copia A, B o C); ma sarà una funzione esercitata in modo tutt’altro che sistematico; anzi, talvolta s’attuerà il procedimento inverso, per cui in d si depositerà lo scioglimento in chiaro (o un’ulteriore approfondimento sulla base di nuova acquisizione bibliografica) d’un’annotazione o anche d’un concetto compendiosamente espressi in una delle altre copie. S’aggiunga che, tranne nel caso in cui vi siano indicazioni bibliografiche post quem, ad esempio dell’anno

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1987 (quindi sicuramente posteriori anche a d), non si ha reale possibilità di distinguere la cronologia d’apposizione delle postille a mano, del tormento autografo dello studioso (l’uso d’un’altra copia, magari precedente, appare spesso come una conquista di spazio, ad evitare sovrapposizioni di scrittura a mano). È dunque prevalso, nella concreta attuazione del lavoro d’allestimento e di riproduzione delle note manoscritte, il criterio di registrare tutte le varianti, anche in quei casi, d’occorrenza statistica tutt’altro che prevaricante, in cui esse si siano ripetute: nelle Annotazioni la variante compare una sola volta, e accanto sono poste le sigle dei testimoni (ad esempio: A, d). Ma si tratta di casi non frequenti. Ciò che si pone come sicuro è che ogni testimone è dotato d’una propria autonomia, ed ogni annotazione manoscritta tratta dai testimoni può quindi essere tranquillamente registrata seguendo la lineare scansione del testo del volume. Data la natura non univoca (anzi, dimidiata fra rango d’archetipo e rango d’ultima volontà d’autore) di d, incrocio, appunto, d’una funzione di raccolta di note precedenti e d’una funzione d’origine di nuove postille con singole ricadute in A, B o C (molto ha influito su questa complessa realtà manoscritta la mole del materiale sedimentatosi negli anni in vista d’una terza edizione mai realizzata), abbiamo mantenuto carattere minuscolo alla lettera greca. Ci si è riferiti, fin qui, alle annotazioni non sintatticamente incorporabili nel testo “in alto”: parole, frasi, citazioni che non potevano entrare nel discorso per mancanza di reale e formale legame linguistico con il dettato della pagina. Le annotazioni sintatticamente incorporabili, invece, sono state, fin dove possibile, direttamente aggiunte, racchiuse in parentesi quadra, nello stesso testo “in alto”. L’uno e l’altro tipo d’annotazione è stato registrato, con gli stessi criteri, anche quando applicato alle note e alle postille a stampa del 1969 (postille che sono state anch’esse sottoposte a revisione, e che sono infatti, a loro volta, dense d’ulteriori precisazioni e focalizzazioni concettuali e bibliografiche). Le annotazioni sintatticamente non incorporabili saranno segnalate, al punto di testo voluto da Timpanaro, con doppio asterisco di rinvio alle Annotazioni autografe, dove il rinvio sarà ripreso ancora da doppio asterisco, con numero di pagina interessato e con sigla del testimone. Si sintetizza, qui, a mo’ di legenda, lo schema d’associazione sigledate:

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C (I ed., 1965); A (II ed., prima uscita, 1969); B (II ed., rist. del 1973); d (II ed., rist. del 1984). Si fa presente che esiste nella biblioteca di Timpanaro una sesta copia del volume (si tratta della prima edizione, 1965), siglata con la lettera «D», maiuscola e in alfabeto latino come le lettere che contrassegnano i testimoni A, B e C; tale copia è assolutamente intatta da interventi a mano, a differenza della stessa copia della ristampa 1988, che, sia pure in un solo caso, annovera una correzione. La copia D, potenziale approdo di correzioni a mano (come dimostra l’assegnazione di lettera- indicatore di testimone, secondo una progressione che parte dalla seconda edizione - A si riferisce al 1969 - per poi ricercare materiale spazio cartaceo con il recupero di copie precedenti, quindi di copie della prima edizione - C e D si riferiscono al primo Classicismo e illuminismo, del 1965 -), si pone, di fatto, come copia vergine del volume, e non può dunque assurgere al ruolo di copia-testimone. Rimane peraltro da sottolineare la disponibilità di materiale che tuttora offre la biblioteca di Timpanaro; all’interno dei suoi volumi è infatti possibile il ritrovamento di foglietti, o di veri e proprî fogli, contenenti annotazioni che possono fornire dati o elementi utili a chi si occupa dei testi dello studioso o di autori di cui egli si è a sua volta occupato. Un solo esempio, a proposito di Angiola Ferraris, studiosa che appare due volte citata nelle Annotazioni autografe (cfr. terza annotazione all’Introduzione e, altresì, terza annotazione al III capitolo, Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, sempre a proposito del volume Letteratura e impegno civile nell’«Antologia», Padova, Liviana, 1978): il suo nome ha ulteriore occorrenza in un foglietto autografo inserito fra le pp. XXXII e XXXIII del primo dei tre volumi, presenti appunto nella biblioteca di Timpanaro, del garzantiano Zibaldone di pensieri di Leopardi, a cura di Giuseppe Pacella, 1991. Diamo il testo dell’annotazione: «Zib. 9 mag. 1821, 1026; 9 sett. 1821, 1656-58 per il materialismo rigoroso (citati dalla Ferraris)»; il rinvio al pensiero del 9 settembre 1821 (p. 1657), senza citazione della Ferraris, sostanzia, come indispensabile antecedente, la nota 58, che qui riproduciamo, dello stesso III capitolo di Classicismo e illuminismo sul pensiero di Leopardi;

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la nota supporta un brano del testo “in alto” centrato sulla negazione del concetto di spirito in un Leopardi che ha compiutamente maturato la propria concezione materialistica («Senziente e pensante è, nell’uomo, la materia stessa: il cervello, non l’anima58»); n. 58: «Zib., 4251-53 (9 marzo 1827), 4288 sg. (18 settembre 1827). Ma vedi già il pensiero del 9 settembre 1821 (p. 1657) che comincia: “Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà”. Una chiara esposizione del materialismo leopardiano è data dal TILGHER, La filosofia del Leopardi cit., p. 88 sgg.».

Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani Il fascicolo reca scritto, sul frontespizio: «ESTRATTO DEL GIORNALE STORICO DELLA LETTERATURA ITALIANA / Vol. CXLIII - Fasc. 441 / 1966» (il saggio è alle pp. 88-119); a mano: «Falsi leopardiani (copia con alcune correzioni)»; sigla: «FLGS» («FALSI LEOPARDIANI GIORNALE STORICO»).

Aspetti e figure della cultura ottocentesca La copia da noi consultata nella biblioteca di Timpanaro contiene ritagli di recensioni al volume (fra cui quella di Ettore Paratore da noi citata). Nell’occhiello si trova scritto, a sinistra dell’intestazione di pagina, a matita e in verde: «COPIA MIA»; vi è, inoltre, a lapis, a destra dell’intestazione, ora in colore verde ora in colore grigio, una serie di numeri che corrispondono (ad eccezione della 371, rimasta indenne da rettifiche) alle pagine alle quali apportare correzioni; tale serie deriva evidentemente da un esame “panoramico” che l’autore ha effettuato del libro appena stampato; le correzioni poi recate sono più numerose di quelle indicate da questa serie, scritta in ordine sparso; ne riordiniamo la successione numerica: 34, 35, 36, 231, 233, 260, 261, 371, 392, 393, 397, 446. Le correzioni apportate alla copia di Aspetti e figure saranno riferite, nelle Annotazioni, alla sigla «AF».

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Nuovi studi sul nostro Ottocento Due sono le copie che recano annotazioni; una risulta materialmente più usata e contiene indicazioni bibliografiche e di recensioni al volume scritte a lapis sul frontespizio; l’altra, materialmente meno usata, contiene solo annotazioni; contrassegnamo le due copie (c) con la sigla (NS) dei Nuovi studi, rispettivamente NS c1 e NS c2. Il frontespizio di c1 reca il seguente scritto, di mano di Timpanaro: «rec. di F. Arato, GSLI 173, 1996, 302-307, di Corrado Pestelli, Studi italiani 15, 1996, 148-168; possibili influssi di Bini sul Leopardi: Barbara Silvia Anglani, Sul ‘Manoscritto’ di Carlo Bini, Studi italiani 15, 1996, 19-33. / Sul Bini G. Nicoletti, Lettere dal carcere in Letter. ital.: Storia e Geogr., dir. Asor Rosa, Torino 1988, II 820.». In questa edizione si è resa necessaria, data la nuova numerazione di pagine e l’inclusione di nuovi saggi, una serie d’interventi formali del curatore: abbiamo adottato la parentesi graffa e il corsivo «{...}». Ogni intervento è perspicuamente segnalato; quando vi è stato bisogno (per obbligo logico, per particolare entità o indole qualitativa dello stesso intervento, o per ulteriore chiarificazione di rinvio interno) d’un’ulteriore precisazione, abbiamo aggiunto la scritta { - N. d. c.} = Nota del curatore (sempre in graffa e in corsivo); es.: Prefazione alla seconda edizione, in calce alla prima pagina > ° {Si veda ora la nuova collocazione di «Natura, dèi e fato nel Leopardi», VI capitolo di questa edizione, e l’assorbimento delle postille in calce alle pagine, o alle singole sezioni di testo, alle quali originariamente esse si riferivano - N. d. c. -}. Non abbiamo apposto la precisazione «{ - N. d. c.}» quando ci si è limitati a pura conversione aritmetica, o formale, dell’indicazione di rinvio, o quando la stessa indicazione appare già in sé perspicua. L’inclusione di saggi nuovi comporta infatti, oltre a un aumento di mole complessiva in rinnovata impaginazione, un’altra serie di problemi. Già la seconda edizione conteneva una fittissima trama di rinvii interni a stampa dell’autore da saggio a saggio, da questo libro ad altri suoi libri, dal testo alle postille a fine volume, dalle stesse postille al testo; ora, la nuova collocazione di Natura, dèi e fato e l’assorbimento delle postille rivoluziona non soltanto la numerazione lineare, ma l’ordine stesso dei contributi: spesso, quello che era un rinvio «cfr. più sopra» diviene un rinvio «cfr. più sotto», e viceversa, ed è quin-

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di necessario l’intervento formale del curatore, a scongiurare sovrapposizioni o rinvii errati nella nuova struttura del libro. Più che mai si è reso necessario un intervento nella razionalizzazione delle nuove immissioni, con i rinvii interni dei saggi inclusi da Aspetti e figure e dai Nuovi studi fra di loro, e con i rinvii degli stessi saggi ad altri contributi nei volumi d’originaria appartenenza, contributi che qui non sono ricompresi (si rende obbligatorio, in quel caso, non un rinvio “interno”, ma una citazione del volume d’origine; es: cfr. Aspetti e figure). Vi sono poi i casi di rinvii da volume a volume - da Classicismo ad Aspetti e viceversa, dai Nuovi studi a Classicismo e ad Aspetti - di contributi qui coabitanti; in questo caso l’indicazione si converte in rinvio “interno” («cfr. Classicismo e illuminismo» > «cfr. qui sopra, titolo, n. pagina»). Si avverte che all’inizio del IX capitolo (Il Leopardi e la Rivoluzione francese), due parentesi che si trovavano nel testo in alto con la funzione di rinvii interni a precedenti saggi dei Nuovi studi, essendo stato ora inserito il testo in Classicismo e illuminismo, sono divenute note a piè pagina, nelle quali ci si è limitati a sciogliere in dizione chiara la compendiosità del rinvio (una compendiosità che non sarebbe più risultata attendibilmente comunicativa in questa nuova edizione). Si avverte, inoltre, che nel cap. X e nell’Appendice I si è resa continuativa, da paragrafo a paragrafo, la numerazione delle note, e che nel cap. XI le Postille, che costituiscono paragrafo in testo continuativo a immediato e lineare ridosso della trattazione, sono state uniformate al corpo testo standard. Si riassume, infine, la serie di accorgimenti grafico-formali necessari per “leggere” l’edizione: il singolo asterisco - * - significa postilla a stampa del 1969 incorporata a fondo pagina (in relazione alla parola o al concetto di riferimento), con ripresa dell’asterisco stesso a facilitazione e a immediato appoggio dell’occhio del lettore; doppio asterisco - ** - significa rinvio, anche in questo caso con ripresa, alle finali Annotazioni autografe non sintatticamente incorporabili (n. pagina di questa edizione, sigla del testimone, testo dell’annotazione fra virgolette; es.: ** p. ... B: «testo dell’annotazione autografa»); la parentesi quadra - […] - significa assorbimento, nel testo, d’annotazione autografa sintatticamente incorporabile;

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l’ex parentesi quadra a stampa dell’autore che includa integrazioni rispetto a redazione precedente (ad esempio, in Epicuro, Lucrezio e Leopardi, p. 291, n. 31: «[e adesso, meglio ancora, Religio, natura, voluptas, Bologna 1989; cfr. p. 123 sg., dove il Giancotti constata ...]»), diviene il seguente segno: |...|. l’ex parentesi quadra a stampa dell’autore contenente una spiegazione, con il corsivo, per il lettore, e presente fin dalla prima redazione – ad esempio, in Il Leopardi e la Rivoluzione francese, p. 324: «gli “errori semifilosofici possono esser vitali, massime [cioè “soprattutto se”] sostituiti ad altri errori ...”» –, diviene parentesi tonda: «massime (cioè “soprattutto se”)»; si evita, in tal modo, la sovrapposizione con la parentesi quadra che accoglie nel testo (vedi sopra) le annotazioni autografe incorporabili; [cr] significa «correzione refuso»; La precisazione bibliografica dell’autore, al di fuori delle note, in calce alla prima pagina d’un contributo (ad esempio: «*dapprima in “Critica storica” ... »), si converte da * a ∼; si evita, in questo modo, la confusione con il singolo asterisco delle Postille e aggiunte bibliografiche ’69 trasferite a piè pagina; il richiamo del curatore a fondo pagina è segnalato da °, o da °°, in caso di duplice precisazione. Fra i vari gradi di lettura che il sistema aperto del libro permette, il più coerente con l’assetto qui raggiunto rimane quello della “lettura logica” sul filo dei richiami alle postille a stampa e delle annotazioni autografe, il cui meccanismo si confida risulti massimamente facilitato. Lettura logica significa, è ovvio, fruizione immediata (non separata) delle note e delle postille a sostegno del testo, nel loro ordine. Per portare un esempio di pagina “ricca” (peraltro, non certo frequente in questa edizione), valgano le pp. 45-46, n. 21, del cap. I, Le idee di Pietro Giordani; nella nota 21, al primo rigo di p. 46, l’asterisco rinvia a fondo pagina alla relativa postilla a stampa; questa postilla reca a sua volta, distanziati fra loro, due rinvii alle annotazioni degli autografi, che andranno dunque sùbito consultate; quindi (e a rigore solo in quel momento), può iniziare la lettura del testo in alto («Ma l’ostilità ...»), che alla fine del primo capoverso incontra la nota 22; questa nota reca alla fine un rinvio agli autografi, nella cui sede l’annotazione verrà (né può essere altrimenti) dopo le due citate annotazioni alla postilla a stampa, che infatti dovrà essere già stata letta. Si tratta, lo ripetiamo, d’un esempio raro, ma l’ordine logico di let-

Nota del curatore e criteri della presente edizione

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tura (comprese note e postille) permette uno scorrimento del tutto lineare. Si ricorda, ancora, che i contributi di Aspetti e figure della cultura ottocentesca e di Nuovi studi sul nostro Ottocento che non sono entrati nella nostra edizione, e che sono comunque stati da noi attentamente consultati, sono anch’essi postillati con numerose, importanti e spesso qualificanti annotazioni autografe. La fruizione di quei saggi andrà integrata con la conoscenza di tali annotazioni, di cui occorrerà, in altra sede, dare segnalazione, anche in semplice chiave elencativa. Ma la presente sede non ci sembra inidonea a un’oggettiva segnalazione di continuità nel laboratorio timpanariano. Nel congedarmi dall’impegno di curatela, desidero rivolgere un vivo ringraziamento alla Dottoressa Maria Augusta Morelli Timpanaro, che ha reso disponibili i materiali necessari alla presente edizione, e che con attenta sollecitudine, nel costante ricordo del marito, mi ha incoraggiato nelle varie fasi del cammino editoriale; esprimo, qui, la mia profonda gratitudine al Professor Gino Tellini, che con importanti consigli e con vigile premura ha seguito il corso del mio lavoro, nel pieno rispetto dell’autonomia di scelte la cui responsabilità appartiene interamente al curatore; un particolare ringraziamento, sul piano umano non meno che culturale, va da parte mia al Professor Enrico Ghidetti, per i suoi preziosi suggerimenti e per il lungo impegno profuso nella generosa opera di promozione editoriale del volume. Esprimo, altresì, la mia gratitudine alla Casa Editrice Le Lettere, in specie alla Dottoressa Nicoletta Gentile Pescarolo, per avere, altrettanto generosamente, accolto e pubblicato nella propria collana un volume di non facile allestimento tipografico; tanto più significativo, il nome di Nicoletta Gentile Pescarolo, ove si ricordi il rapporto di amicizia, di reciproca stima, di alta considerazione culturale che intercorse fra Giovanni Gentile e la famiglia Timpanaro, nelle persone di Sebastiano Timpanaro senior, direttore della Domus Galilaeana di Pisa su invito dello stesso Gentile, nel 1942, e di Maria Timpanaro Cardini, prima traduttrice in italiano del Sidereus Nuncius, nel 1943-’44 (il volume uscì presso Sansoni nel 1948; ora ve n’è una nuova edizione a cura di Andrea Battistini, Venezia, Marsilio, 1993). Corrado Pestelli

Copertine 1973 e 1984

Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano**

Bandelle 1984

I saggi raccolti in questo volume mirano a illustrare le ragioni dell’antiromanticismo di alcuni tra i maggiori rappresentanti della cultura italiana dell’Ottocento (Giordani, Leopardi, Cattaneo), i quali militarono nel fronte classicista non per spirito retrivo o per tradizionalismo letterario, ma per avversione alla restaurazione religiosa propugnata dai romantici e alle sue implicazioni culturali e politiche. Il classicismo di questi scrittori e pensatori fu dunque, essenzialmente, una battaglia per la difesa e la rifondazione della civiltà illuministica contro il vagheggiamento ** della civiltà del Medioevo e contro un populismo in cui i motivi progressisti e quelli retrivi erano pericolosamente intrecciati e confusi. La fedeltà stessa ai classici latini e greci (e, per quel che riguarda la «questione della lingua», ai trecentisti) era intesa dal Giordani, dal Leopardi e da altri classicisti-illuministi minori non come scolastico ossequio a modelli precostituiti, ma come un «ritorno alla Natura» **. Da questa educazione, classicista e illuminista ad un tempo, traggono origine il pessimismo leopardiano (la cui forza ed originalità consiste appunto nella rigorosa fedeltà alle premesse materialistiche ed edonistiche) e le teorie etnografiche e linguistiche di Carlo Cattaneo, che si oppongono all’identificazione romantica di lingua e stirpe: esse vengono poi proseguite e sviluppate nel secondo Ottocento dal nostro maggiore linguista, Graziadio Ascoli, la cui posizione antimanzoniana nella questione della lingua si riattacca consapevolmente al classicismo lombardo del primo Ottocento. A tale formazione deve molto anche il repubblicanesimo e il laicismo del Carducci e degli «Amici pedanti». In questo quadro riacquista importanza la personalità di Pietro Giordani, così a lungo disconosciuta. Questa [terza] edizione reca in più, rispetto alla [seconda], una [Postfazione e numerose aggiunte e rettifiche] **.

** ** ** ** Prefazione

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

I saggi raccolti nel presente volume sono stati scritti in tempi diversi, come è indicato nella nota in fondo a questa prefazione. Quelli già pubblicati riappaiono qui con numerose aggiunte e modifiche. Non ho preteso tuttavia di trasformarli in capitoli di un’unica opera organica e non mi sono quindi proposto di eliminare a tutti i costi qualche leggera ripetizione. L’introduzione ha lo scopo di enunciare i temi comuni all’intera raccolta e, nello stesso tempo, di soffermarsi, sia pure brevemente, su alcune figure e alcuni aspetti del classicismo ottocentesco italiano che non sono stati oggetto di apposita trattazione nei singoli saggi. Una storia completa del classicismo illuminista del nostro Ottocento dovrebbe dedicare interi capitoli al Monti, al Settembrini, al Carducci giovane, e dovrebbe, anche per gli autori da me presi particolarmente in esame, dare più spazio a osservazioni stilistiche. Ma se questo volume contribuisse intanto a richiamare l’attenzione sulla necessità di studiare più a fondo la formazione classicista del Leopardi e del Cattaneo, se servisse a suscitare nuovi studi sul Giordani e a far meglio intendere (sulla via indicata da un fondamentale saggio del Luporini) il valore del materialismo e del pessimismo leopardiano, considererei raggiunto il mio scopo. In altra sede vorrei cercar di giustificare in modo più esplicito certi presupposti ideologici di questi saggi, specialmente di quello sul pensiero del Leopardi. Qui accennerò soltanto che la concezione generale a cui queste pagine si ispirano (una concezione, spero, non aprioristicamente sovrapposta alla ricerca storica) è una specie di marxismo-leopardismo che, mentre accetta l’analisi marxista della società e gli obiettivi di lotta politicosociale e culturale che sono con essa congiunti, per ciò che riguarda invece il rapporto uomo-natura si richiama soprattutto al materialismo vero e

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proprio (adialettico, «volgare», se così piace chiamarlo) del Settecento e dell’Ottocento, all’edonismo che gli è organicamente connesso e alle conseguenze pessimistiche che, con maggiore coerenza e lucidità di chiunque altro, ne ha tratto il Leopardi. Sarà anche chiaro al lettore che l’illuminismo di cui si rivendica in questi scritti il valore non ha niente a che vedere con quel terzaforzismo europeistico che caratterizza tutto un settore della vita politica e culturale italiana, né implica alcuna propensione per riforme «dall’alto», ma è tutt’uno con quel materialismo conseguente a cui ora accennavo. ** Questo volume era già tutto scritto quando è uscito il libro di Alberto Asor Rosa Scrittori e popolo, che ha suscitato e ancora susciterà accese discussioni. Per quel che riguarda la specifica forma di populismo che è propria del movimento romantico dell’Ottocento, parecchie mie osservazioni coincidono con osservazioni di Asor Rosa; così pure sono sostanzialmente d’accordo con la battaglia che Asor Rosa conduce contro il mediocre populismo della nostra attuale letteratura e contro la politica culturale che lo ha incoraggiato. Ma inaccettabili mi sembrano sia l’estensione del concetto di populismo a tutto ciò che nell’Ottocento è giacobino, democratico-rivoluzionario, comunista-agrario (il che porta, fra l’altro, al fraintendimento del pensiero di Carlo Pisacane), sia la liquidazione sommaria dell’interpretazione gramsciana del Risorgimento; soprattutto credo che una discussione seria di tale interpretazione debba far centro non sul Gioberti, il cui influsso su Gramsci è da Asor Rosa grandemente esagerato, ma sul De Sanctis, che nel libro di Asor Rosa è quasi del tutto assente. Esprimo la più viva riconoscenza a Lanfranco Caretti, che ha accolto questo lavoro nella collana da lui diretta; alla sua acuta sensibilità filologica e critica, al suo spirito pasqualiano sono debitore di preziosi suggerimenti. Dei problemi trattati nel presente volume ho molto spesso parlato con Luigi Blasucci, Antonio La Penna, Mario Mirri: da quelle conversazioni – e così pure dagli articoli leopardiani di Blasucci, dal libro desanctisiano di Mirri, dalle pagine di La Penna sul significato culturale e sociale del classicismo nel libro su Orazio e l’ideologia del principato – ho tratto grande profitto per la rielaborazione dei saggi più vecchi e la stesura dei più recenti. Il testo esatto di alcuni passi dello Zibaldone mi è stato chiarito da Giuseppe Pacella, la cui prossima edizione segnerà un notevolissimo progresso sulle precedenti e permetterà di seguire con molto maggior sicurezza (grazie alla distinzione tra stesura primitiva e aggiunte posterio-

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ri) lo svolgersi del pensiero leopardiano. Su Cattaneo e Ascoli sono debitore di importanti indicazioni al prof. Arnaldo Momigliano e all’amico Guido Manzini, direttore della Biblioteca governativa di Gorizia. Altri contributi saranno da me citati di volta in volta. s. t.

L’introduzione, il saggio su Leopardi e i filosofi antichi e l’appendice si pubblicano ora per la prima volta. Il saggio su Le idee di Pietro Giordani apparve in «Società» X, 1954, pp. 23-44, 224-254; si ripresenta qui molto rielaborato. Giordani, Carducci e Chiarini fu pubblicato come presentazione della ristampa degli Scritti del Giordani a cura di Giuseppe Chiarini («Biblioteca Carducciana», Firenze, Sansoni, 1961). Infine Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi e Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli sono apparsi, in forma non molto diversa dall’attuale, rispettivamente in «Critica storica» III, 1964, pp. 397-431 e nella «Rivista storica italiana» LXXIII, 1961, pp. 739-771 e LXXIV, 1962, pp. 757-802.

Prefazione alla seconda edizione

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

In questa seconda edizione, che si pubblica a poco più di tre anni dalla precedente, il testo è rimasto invariato, tranne la correzione di alcuni errori di stampa. Ma in fondo al volume ho aggiunto un altro breve saggio, che vorrebbe contribuire ad una ulteriore precisazione del rapporto tra le due concezioni leopardiane della natura, e una serie di postille suggerite da obiezioni di recensori, da lavori di altri studiosi, da miei ripensamenti su singoli punti.° Qui, in questa nuova prefazione, vorrei ritornare su alcuni problemi più generali che sono stati oggetto di discussione. Prima di tutto, sull’estensione da dare al termine e al concetto di romanticismo. Nel presente volume si propone di intendere il romanticismo non come caratteristica globale di tutte le manifestazioni di pensiero, d’arte e di «sensibilità» del primo Ottocento, e tanto meno come un «momento dello spirito» presente in ogni tempo e luogo, ma come un determinato movimento culturale, che raccolse nelle sue file la maggioranza, non la totalità degli intellettuali europei dell’età della Restaurazione: che ebbe perciò al di fuori e contro di sé altri orientamenti, altri gruppi di minoranza che si dissero e furono antiromantici, e che tentarono di dare altre risposte alla crisi della società europea post-rivoluzionaria. A Giuseppe Paolo Samonà (in «Giovane Critica», n. 14, inverno 1967, pp. 10-18) sembra che da ciò risulti una contrapposizione schematica tra un partito romantico e un partito classicista, per cui ciascun rappresentan-

°i{Si veda ora la nuova collocazione di «Natura, dèi e fato nel Leopardi», VI capitolo di questa edizione, e l’assorbimento delle postille a fine volume – si parla di quelle già a suo tempo stampate – in calce alle pagine o alle singole sezioni di testo alle quali originariamente esse si riferivano – N. d. C. –}.

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Prefazione alla seconda edizione

te della cultura del primo Ottocento verrebbe a tutti i costi incasellato nell’uno o nell’altro schieramento, e qualsiasi ammissione dell’esistenza di personalità intermedie, qualsiasi riconoscimento di un’eredità illuministica nei grandi romantici europei equivarrebbe ad una confessione del fallimento di quello schema. Nel silenzio quasi completo di questo libro sul Porta e completo sul Belli, nella constatazione (qui sotto, p. 7) che Stendhal aderì al romanticismo in quanto rottura dell’accademismo letterario senza con ciò rinnegare la propria formazione ideologica illuminista e sensista, nella scarsa apertura «europea» di tutto il libro, Samonà scorge altrettante prove dell’imbarazzo dell’autore di fronte a una materia riluttante ad essere costretta entro una classificazione rigidamente dicotomica. Un’analoga insoddisfazione, sia pure partendo da premesse non identiche, è stata espressa da Margarete Steinhoff in «Deutsche Literaturzeitung» 1967, col. 1084, da Elvio Guagnini in «Problemi» 1967, p. 237, da Bruno Biral in un lungo scambio di lettere che ho avuto con lui su questo e su altri argomenti affini. Ora, a me pare che, proprio perché le contrapposizioni tra romanticismo e classicismo, tra romanticismo e illuminismo alle quali mi riferisco non sono contrapposizioni «categoriali», ma schiettamente storico-empiriche, non esista alcun problema di classificazione rigida. Quando si parla di «partiti culturali», si sa bene – se per un momento vogliamo rimanere entro la metafora – che all’interno di ciascun partito ci sono, palesi o nascoste, le correnti e le sotto-correnti, e infine le singole individualità; si sa che i partiti non si contrappongono soltanto, ma spesso anche si influenzano a vicenda; e si sa che sono sempre esistiti coloro che non riescono a trovare stabile collocazione in nessun partito. È poi anche chiaro (vedi qui sotto, p. 33, e la recensione a Piero Treves in «Critica storica» II, 1963, p. 607 sg. { qui «Appendice II»}) che l’analogia coi partiti politici, utile per mettere in evidenza la determinatezza storico-empirica dei movimenti culturali, non può essere spinta oltre un certo limite: nei movimenti culturali, e più che mai in uno così proteiforme come il romanticismo, la compattezza è di gran lunga minore. Questa esigenza di distinguere, all’interno del movimento romantico e del movimento classicista, gruppi diversamente atteggiati e personalità complesse e contraddittorie, non è esibita qui come implicita ammenda di un precedente «schematismo»: è già presente nell’introduzione e in tutto il corso del volume (vedi per esempio pp. 5 sg., 7-10, 19 sg., 57-59, 332-334 ecc.; e, per gli influssi scambievoli tra romantici e classicisti, pp. 17-20, 33 sg.).

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Non costituisce perciò alcuna difficoltà, a mio avviso, l’esistenza di un «caso Stendhal», sul quale ritornerò brevissimamente più sotto. Né c’è difficoltà a riconoscere che per i due grandi poeti dialettali italiani dell’Ottocento, il Porta e il Belli, l’adesione al romanticismo (molto più esplicita, del resto, nel primo che nel secondo) significò soprattutto, con una priorità molto più assoluta che per gli scrittori «in lingua», rivendicazione di piena dignità letteraria del loro strumento espressivo, il dialetto. Il loro romanticismo si configurò quindi, in modo molto più netto ed esclusivo, come anti-accademismo e come esigenza di letteratura «popolare», lasciando impregiudicato, almeno in certa misura, il problema dei contenuti ideologici, il quale invece pesò molto di più nell’adesione al romanticismo di un Manzoni o di un Tommaseo. Riconosciuto tutto ciò, si tratta però di vedere se sia lecito valersi di questi indubbi caratteri di fluidità del movimento romantico per inglobare in esso tutti gli orientamenti culturali del primo Ottocento, anche quelli più nettamente antagonistici al romanticismo. Questa è l’operazione che è stata condotta da molti studiosi recenti. E sebbene forse nessuno di questi studiosi aderisca pienamente all’idealismo crociano o gentiliano, e qualcuno sia anzi vigorosamente antiidealista, tuttavia quel procedimento, per cui i concetti empirici vengono «dissolti» o «ridotti» a più vaste categorie che si presumerebbero non empiriche (e resi, così, inutilizzabili ai fini della caratterizzazione storica), reca ben chiara l’impronta di quella sofistica nella quale il peggior Croce, il peggior Gentile e molti loro seguaci hanno consumato tesori di falso acume. A una simile sofistica Samonà è ben contrario: proprio all’inizio del suo articolo, con felice ironia, la definisce «ignoranza sintetica a priori». La sua opposizione all’accezione ristretta del termine di romanticismo nasce, come già abbiamo visto, da moventi molto più concreti, e prima di tutto dal bisogno di non sacrificare niente nella caratterizzazione di personalità da lui particolarmente studiate e amate, come Puškin e come Belli. Non mi sembra, però, che egli consideri a sufficienza gli inconvenienti – sostanziali e non meramente terminologici – causati dall’uso onnicomprensivo di quella categoria. A tali inconvenienti (che si configurano diversamente, per esempio, nelle caratterizzazioni che del romanticismo danno il Sapegno e il Petronio) ho accennato a pp. 32-35 dell’introduzione; vorrei qui ribadirli molto brevemente. O, per assorbire nel romanticismo gli antiromantici del primo Ottocento, si insiste unilateralmente sulla continuità fra illuminismo e

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romanticismo, e va allora perduta la consapevolezza della svolta dall’uno all’altro, la quale non fu prodotta da semplici mutamenti di gusto, ma dalla grande crisi storica della rivoluzione francese, dell’avvento e del crollo del regime napoleonico. Oppure si concepiscono l’età dell’illuminismo da un lato, l’età del romanticismo dall’altro come blocchi monolitici (per cui esisterebbe uno «spirito dell’epoca» che darebbe la sua impronta unica a tutte le espressioni culturali dell’epoca stessa, un po’ come il famigerato Volksgeist la darebbe a tutte le manifestazioni della vita di un popolo), e allora si finisce con l’appiattire i motivi di contrasto che, in una stessa epoca, divisero l’uno dall’altro i diversi gruppi e individui, e con l’assimilare forzatamente le minoranze alla maggioranza. Nel caso del primo Ottocento, ne risulta quasi inevitabilmente un’interpretazione svalutativa o limitativa di tutti i sensisti e i materialisti, i quali appaiono come degli «attardati», tranne nei momenti in cui la loro anima romantica proromperebbe, «per se stessa mossa», a smentire le loro puntigliose tesi antiromantiche. Si sa quanta fortuna una simile interpretazione abbia avuto e abbia tuttora nel caso del Leopardi. Si è anche obiettato che la distinzione tra i romantici e i loro avversari verrebbe condotta solo in base alle dichiarazioni degli interessati, ai «programmi» e non alla realtà effettiva. È un’obiezione speciosa, che, mentre sembra contrapporre marxisticamente l’«essere» alla «coscienza» e ribadire che classi sociali e individui non devono essere giudicati sulla base dell’idea che hanno di se stessi, in realtà riapre le porte ad una concezione irrazionalistica del fatto letterario: per cui anche i più ostinati antispiritualisti sarebbero, inconsciamente, enfants du siècle, e il materialismo, freddamente esibito nei «programmi», si scioglierebbe al calore della poesia. Certo i programmi sono, nella storia letteraria come nella politica, solo punti di partenza; e il periodo che c’interessa è ricco di contrasti fra dichiarazioni e realizzazioni, nonché di contraddizioni insite nelle ideologie stesse, nelle poetiche stesse (cfr. per esempio pp. 9 sg., 58 sg., 83-84). Ma la totale trascuranza, non tanto dei semplici programmi quanto delle idee degli scrittori qui presi in esame, ha avuto per conseguenza ** non già uno spostarsi dell’attenzione degli studiosi dalle ideologie ai contrasti reali di forze sociali e politiche, bensì un allontanamento in direzione opposta, dalle idee verso la «sensibilità», verso una generica atmosfera psicologica che deve, senza dubbio, esser tenuta presente anch’essa dallo storico, ma che, se diviene oggetto di attenzione esclusiva, porta a un impressionismo storiografico in cui tutto sfuma.

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A un altro rischio più specifico è esposta la caratterizzazione dell’età romantica in termini di «sensibilità»: a quello di confondere un antirazionalismo sensista (basato sulla rivalutazione dell’entusiasmo e della passione come primitività naturale, come legame trasformabile ma non annullabile con le origini «ferine» dell’umanità) con un irrazionalismo religioso (basato sull’attribuzione al «sentimento» di un potere conoscitivo superiore a quello dell’intelletto, e quindi sull’affermazione del primato dell’esperienza mistica). È una confusione non imputabile tutta agli storici, ma in parte, come è noto, già presente in alcuni grandi rappresentanti del pensiero settecentesco, da Vico a Herder a Rousseau, nei quali i motivi epicurei e sensisti sono reinterpretati e trasportati su un piano religioso. Non è, quindi, del tutto assurda l’utilizzazione che di Vico o di Rousseau fecero i romantici: purché si abbia chiaro che si trattò appunto di un’utilizzazione, cioè di un’interpretazione fortemente parziale e tendenziosa, che amputò quanto di potenzialmente rivoluzionario (sul piano politicosociale come su quello ideologico) c’era nel loro pensiero. Quando d’altra parte si mette in rilievo, seguendo il De Sanctis, la cospicua eredità di razionalismo illuministico che si ritrova nel migliore romanticismo, si dice certo una cosa giusta. Nulla di più errato (e l’errore non è compiuto in questo libro: cfr. p. 5) che identificare tutto il movimento romantico con l’oscurantismo della sua ala destra. Lukács ** ha sostenuto con ragione il carattere fondamentalmente borghese, e non feudale, del movimento: in ciò trova la sua spiegazione la continuità tra illuminismo e romanticismo. Ma – ecco il punto – la novità del romanticismo rispetto alla fase precedente consiste soltanto, come apparirebbe dalla caratterizzazione del Sapegno, in un di più di maturità e di consapevolezza storico-realistica, in una liberazione dal «razionalismo astratto» che ancora viziava il pensiero del Settecento? oppure in questa stessa polemica contro l’antistoricismo settecentesco, e nel ritorno di spiritualismo che ne consegue, c’è anche qualcosa di meno rispetto ai risultati più avanzati della cultura settecentesca, una perdita ** di spinta innovatrice, dovuta alle nuove necessità di consolidamento delle posizioni conquistate e di «difesa a sinistra» che ora la borghesia sentiva? Se, come credo, la seconda alternativa è la vera, allora bisogna capire le ragioni di quegli antiromantici i quali trovarono insufficiente quel tanto di illuminismo che il romanticismo aveva assorbito, e ricercarono un contatto più diretto col pensiero e con la cultura del Settecento: anche se proprio in questa nostalgia di una borghesia illuministica che non poteva più esserci va ricercata

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una delle principali ragioni della loro sconfitta immediata. Questo punto è stato riaffermato con efficacia da Gilbert Moget in un articolo che, malgrado una certa sommarietà e provvisorietà di risultati, rappresenta a mio avviso uno dei più intelligenti contributi sulla polemica classico-romantica in Italia (En marge du bi-centenaire de M.me de Staël: «Classiques» et «Romantiques» à Milan en 1816, «La Pensée», février 1967, p. 40 sgg.). Una caratterizzazione del romanticismo come quella qui sostenuta è legata ad una prospettiva troppo esclusivamente italiana? L’obiezione è formulata da Samonà nell’articolo già citato e da Claudio Colaiacomo in «Belfagor» XXII, 1967, p. 733 sgg., e s’inquadra in quella più vasta polemica contro il «nazionale-popolare» che si è sviluppata da alcuni anni nella cultura di estrema sinistra. Nel presente volume le divergenze dalla tipica interpretazione nazionale-popolare del Risorgimento sono facilmente riconoscibili: vedi ad esempio la valutazione restrittiva del populismo romantico e della letteratura dialettale, la discussione del giudizio desanctisiano sulla letteratura del nostro Ottocento, ecc. Tuttavia i critici ora ricordati ritengono che il libro nel suo complesso rimanga ancora troppo vincolato a quella problematica; la sopravvalutazione del Giordani e del Carducci sarebbe un indizio di questo perdurante nazionalismo o provincialismo. Ora, per quanto riguarda il Giordani, non è in questione la statura «minore» della sua personalità, e nemmeno le forti contraddizioni che in lui si riscontrano fra una componente illuministica in senso stretto e una componente russoiana, tra un combattivo laicismo e una vecchia educazione retorica, tra nostalgie di assolutismo illuminato e punte di libertarismo e utopismo sociale. Ma proprio queste contraddizioni ne fanno un personaggio ben diverso dai romantici italiani suoi contemporanei: per un verso più passatista, per un altro più avanzato di quanto fosse richiesto dalla borghesia italiana in quella fase di sviluppo, come ha messo bene in rilievo anche il Moget nell’articolo ora citato. E senza lo studio di queste contraddizioni non si comprende appieno il Leopardi. Quello che, piuttosto, scarseggia nel saggio sul Giordani – lo ha notato giustamente Gennaro Barbarisi in «Critica storica» VI, 1967, p. 431, e adesso nell’Ottocento, vol. VII della Storia della letteratura italiana Garzanti, p. 88 n. 1 – è una più precisa scansione cronologica dell’evolversi della sua personalità. Nel mio saggio le idee del Giordani sono piuttosto raggruppate per nuclei di

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argomenti che inserite in una linea di svolgimento: quel saggio reca ancora troppo il carattere d’una rivendicazione di tutto ciò che negli scritti giordaniani si trova di interessante e di imprevisto rispetto alla smorta presentazione che ne danno le nostre storie letterarie; assolto questo compito, è ora necessario tracciare una storia dell’attività culturale del Giordani, avendo riguardo alle diverse situazioni in cui essa si esplicò (Parma illuministica prima della rivoluzione; la Cisalpina e il Regno italico; la Restaurazione; l’alternarsi di tentativi rivoluzionari e di illusioni riformistiche dal ’20 fino al ’48) e soprattutto ai due momenti cruciali rappresentati dalla partecipazione alla «Biblioteca Italiana» e dalla carcerazione del 1834. Quanto al preteso filocarduccianesimo, credo che il giudizio che a pp. 2829, 102 sg., 138 sg. è dato sull’involuzione politica del Carducci e sulle sue conseguenze culturali sia, nella sua brevità, sufficientemente esplicito. Rimane fuori dal tema di questo libro la valutazione dei rari momenti poetici che, pur nell’involuzione politica, è dato di cogliere nell’ultimo Carducci. Per quel che riguarda, invece, il Carducci dei Giambi ed epodi e ancora del Ça ira – che è pur esistito, con tutti i suoi limiti ben noti –, io ho solo voluto mostrare come già nella formazione giovanile classicista degli Amici Pedanti vi fossero, entro uno scolasticismo stantío, motivi illuministi che favorirono il successivo evolversi del Carducci «giacobino» e dettero anche alla critica letteraria carducciana, pur tanto più debole di quella desanctisiana, qualche punto di vantaggio sul De Sanctis nel giudizio sul classicismo ottocentesco. Ma, a parte i giudizi su Giordani e Carducci, la richiesta di una maggiore apertura «europea» assume, se non mi inganno, in Samonà e in Colaiacomo due aspetti alquanto diversi. Samonà ritiene che una considerazione globale del movimento romantico lo libererebbe da quella connotazione religiosa e conservatrice che sembra spettargli finché si prende in esame il solo romanticismo italiano. È lecito dubitare di questa opinione, che rischia di confondere l’arretratezza e la perifericità della cultura italiana in generale con l’arretratezza ideologica del romanticismo italiano. E stato anzi più volte rilevato che in Italia, per un complesso di ragioni (tra cui la parziale identificazione, presto instauratasi, tra romanticismo e movimento antiaustriaco e antiassolutista, e il fatto che la difesa delle tradizioni locali spettò ai classicisti più che ai romantici), il romanticismo assunse fin dall’inizio una fisionomia molto meno conservatrice che altrove. Grossi rappresentanti del romanticismo reazionario come Chateau-

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briand o l’ultimo Friedrich Schlegel o Novalis non ci furono in Italia. La destra reazionaria, tranne eccezioni poco significative, non fu costituita in Italia da romantici, ma da classicisti retrivi: col risultato paradossale che l’eterogeneo fronte classicista, ben presto disgregatosi, comprendeva all’inizio forze che combattevano il romanticismo da destra e altre che lo combattevano da sinistra. Samonà, parlando di romanticismo europeo, pensa a Stendhal e a Pus#kin; ma, almeno per Stendhal, alla sua grandezza non è pari la sua rappresentatività del movimento romantico, come è confermato dal suo isolamento e dall’incomprensione di cui fu oggetto: vorrei a questo proposito ricordare soltanto lo scritto di Lukács su La polemica tra Balzac e Stendhal (nei Saggi sul realismo, trad. it., Torino 1950, p. 91 sgg.), nel quale la profonda estraneità di Stendhal all’ideologia romantica è dimostrata con straordinaria acutezza; e molte delle osservazioni di Lukács sono illuminanti anche per capire la posizione, pur diversa, del Leopardi.1 Se si considera il romanticismo europeo nel suo complesso, la religiosità (non necessariamente una religiosità confessionale, beninteso) rimane una sua caratteristica da cui non si può prescindere. Essa è intimamente legata con quel concetto ** di «popolo» e con quel senso della tradizione storica, in funzione antigiacobina, che i romantici stessi considerarono come i contrassegni della nuova civiltà post-rivoluzionaria. La contrapposizione tra «epoche critiche» ed «epoche organiche» (il linguaggio è sansimoniano, ma i concetti sono nati e maturati col romanticismo) implica la convinzione che non c’è epoca organica che non sia basata su un principio religioso, l’unico capace di superare l’individualismo del secolo xviii. Sarebbe certo del tutto errato sottoporre queste idee a una sommaria svalutazione da un punto di vista angustamente laicistico, disconoscere i motivi di critica dell’individualismo borghese che esse racchiudevano; ma rimane un fatto che il pensiero illuministico aveva raggiunto una visione ben altrimenti lucida e smitizzata della realtà naturale e umana. Meno esplicito di quello di Samonà è il discorso di Colaiacomo; la rinuncia a fare «proposte alternative» finisce col rendere non del tutto chiari nemmeno i suoi rilievi critici. Sembra tuttavia profilarsi nella recen1 iSui rapporti tra Stendhal e gli idéologues vedi ora Sergio Moravia, Il tramonto dell’Illuminismo, Bari 1968, pp. 26 sgg., 366 sgg. e altrove. Si noti anche che Stendhal, in Racine et Shakespeare e negli altri scritti con questo collegati, aderì al romanticismo letterario nella sua forma milanese, non in quella francese, proprio perché la prima era molto più ricca di eredità illuministica.

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sione di Colaiacomo quell’itinerario per cui, partiti da una critica in parte giusta del provincialismo della visione nazionale-popolare del nostro Ottocento, si finisce coll’approdare non alla proposta di una linea politico-culturale e storiografica più avanzata (cioè più internazionalista e più rivoluzionaria), ma ad un totale distacco tra politica e letteratura; e da un lato si ritiene possibile un’azione rivoluzionaria non accompagnata da alcun rinnovamento culturale, dall’altro, se cultura e letteratura ha ancora da esserci, ci si compiace unicamente della letteratura «grande-borghese», ossia del decadentismo. In una simile prospettiva, la critica al provincialismo assume un carattere bifronte: provinciale è, per un verso, tutto ciò che vuol rinchiudere in un àmbito meramente nazionale la lotta del proletariato contro la borghesia (e questo è giusto, anche se occorrerà cautela nell’applicare retroattivamente questo giudizio in sede storica); per un altro verso, tutto ciò che non è «grande-borghese» o «grande-europeo»; ** come se questo eurocentrismo di alto livello, nella sua illusione di non aver nulla da imparare dai «sottosviluppati», non fosse esso stesso sommamente provinciale. Il compito del critico operaio-decadente consisterebbe allora, per quel che riguarda l’Ottocento italiano, nel ritrovare in tutti i suoi rappresentanti – nel Di Breme come nel Giordani, e, quel che è molto peggio, nel Leopardi come nel Pisacane: cfr. Colaiacomo, rec. cit., pp. 736 sg., 739 – i prodotti di un’educazione cattolico-paesana: s’intende che anche il materialismo leopardiano rivelerebbe, rovesciata ma non superata, la «dimensione intellettuale» cattolica, e che anche il Pisacane non andrebbe al di là di una visione «nazionale» e «populistica». Un’eventuale prosecuzione della discussione con Colaiacomo permetterà di chiarire se il dissenso si pone precisamente in questi termini.2 Ciò non esclude affatto che il classicismo illuminista italiano presenti, anche a mio parere, dei limiti «nazionali». Uno, al quale ho accennato nel corso del libro (pp. 16-17, 62 sg.; cfr. Colaiacomo, p. 734 sg.), ma che merita maggior risalto, è la carenza di giacobinismo. Alcuni classicisti, pur passati attraverso un’esperienza giacobina (basti ricordare il Foscolo), mutano orientamento già prima della Restaurazione: su questa parabola, 2 iPer quel che riguarda le posizioni di Asor Rosa, che stanno alla base del discorso di Colaiacomo, e che certo hanno grandemente contribuito a rinnovare il dibattito politico-culturale all’interno della sinistra italiana, condivido le osservazioni di C. A. Madrignani in «Giovane critica» 15-16, primavera-estate 1967, p. 83 sgg. e in «Nuovo impegno» 12-13, maggio-ottobre 1968, p. 134 sg., e di G. P. Samonà nell’introduzione agli Scritti letterari di Trotskij, Roma 1968, pp. 12-16.

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studiata in alcune figure particolarmente significative, si veda ora il libro di Marco Cerruti, Neoclassici e giacobini, Milano 1969. Altri non mostrano neppure una chiara coscienza della rottura che la Rivoluzione aveva compiuto nei riguardi del dispotismo illuminato; la loro nostalgia del Settecento è in sostanza, sul piano politico, nostalgia di un riformismo prerivoluzionario idealizzato, che essi vedono continuato dal riformismo napoleonico (malgrado la loro ostilità verso l’aspetto militarista del bonapartismo) e interrotto soltanto dalla Restaurazione: è il caso del Giordani e perfino del Cattaneo fino alla vigilia delle Cinque giornate. In questa aspirazione al riformismo si affacciano ogni tanto – non nell’antisocialista Cattaneo, ma per esempio nel Giordani – pensieri di ardita riforma sociale; ma come del resto accade perfino nei grandi socialisti utopisti francesi e inglesi, in un Fourier o in un Owen, l’audacia dei programmi non è collegata col problema della forza politica capace di attuarli: e, per di più, a causa dell’arretratezza della situazione politica e sociale italiana, la critica dei programmi e della retorica liberale-moderata si trasferisce facilmente su un piano meta-politico: è il caso del Leopardi. Non mancano certo le eccezioni: c’è l’Angeloni (cfr. p. 11 sg.) e c’è soprattutto il Pisacane, sul quale vorrei una volta ritornare, pur dopo le pagine particolarmente acute di Giuseppe Berti (I democratici e l’iniziativa meridionale, capp. II sgg.), sia per indagare più a fondo il legame da lui stabilito tra materialismo e rivoluzione, sia per inserire, anche sul piano letterario, la prosa del Pisacane in una corrente stilistica che chiamerei provvisoriamente «democratico-militare» e che, nata negli anni del giacobinismo, ha un suo sviluppo per tutto il primo e il medio Ottocento. Un altro limite è stato messo giustamente in rilievo da Lanfranco Caretti (nell’«Approdo letterario» n. 34, aprile-giugno 1966, p. 121 sg.). La crisi della cultura positivistica in Italia alla fine del secolo scorso, la facilità con cui il positivismo fu battuto da «correnti spiritualistiche e idealistiche di chiara ascendenza romantica» (a differenza di altri paesi, dove la stessa crisi si svolse in parte nell’ambito stesso della cultura scientifica e non contro la scienza), pone retrospettivamente, come osserva Caretti, il problema «della non salda impostazione ideologica del classicismo e poi del positivismo, insomma della intrinseca debolezza filosofica delle posizioni materialistiche nell’Italia dell’Ottocento». In effetti, vi sono nella cultura italiana del primo Ottocento spunti materialistici di pregnante verità, ma essi sono dovuti a letterati (oltre al Giordani e al Leopardi si può ricordare Carlo Bini** nel Manoscritto d’un prigioniero, così distac-

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cato, ideologicamente e stilisticamente, dall’ambiente mazziniano e guerrazziano da cui sorse) o a politici (Angeloni, Pisacane); questi spunti sono già filosofia, e non pura letteratura o pura politica; ma è evidente che una filosofia, per affermarsi, ha bisogno anche di un’elaborazione concettuale, specificamente e professionalmente filosofica; e questa mancò, come del resto era quasi del tutto mancata, in Italia, già nel Settecento. Si aggiunga che lo Zibaldone, nel quale il Leopardi aveva più distesamente argomentato la propria filosofia, rimase ignoto fino alla fine del secolo scorso. E anche correnti di pensiero non rigorosamente materialistico, ma laico-illuministico ebbero scarsissima elaborazione filosofica nell’Italia del primo Ottocento: un fenomeno, questo, che è certamente connesso col ritardato sviluppo industriale dell’Italia; per cui, anche quando si parla, in questo libro, della «scientificità» della visione del mondo leopardiana, si intende evidentemente parlare di una smitizzazione che sgombrava il terreno da ogni pregiudizio e illusione antiscientifica, non di una saldatura effettivamente avvenuta allora in Italia tra questa visione generale e una cultura scientifica moderna. Il campo in cui l’eredità del classicismo illuminista meglio si sviluppa e meglio si distingue dal generale clima positivistico del secondo Ottocento è la linguistica, grazie al legame che unisce il Cattaneo linguista al classicismo del primo Ottocento (e, risalendo più addietro, a Scipione Maffei) e l’Ascoli al Cattaneo. Sulla posizione dell’Ascoli nella questione della lingua molto di importante e di nuovo è contenuto nei saggi di Dionisotti e di Raicich citati nelle { postille a stampa} al presente volume; sui rapporti tra purismo e classicismo ha continuato fruttuosamente a indagare, anche in questi ultimi anni, Maurizio Vitale, la cui Storia del purismo, di prossima pubblicazione, permetterà una più esatta visione dell’intrecciarsi di tendenze diverse nei dibattiti sul problema della lingua nel primo Ottocento. Non mi semba di poter consentire altrettanto incondizionatamente con la relazione di Maria Corti sul Problema della lingua nel romanticismo italiano, tenuta al congresso di Budapest nel 1967 e pubblicata ora nel volume Metodi e fantasmi (Milano 1969, p. 163 sgg.). Il discorso della Corti è vivace e persuasivo finché rievoca le polemiche sulla lingua svoltesi a Milano negli ultimi anni napoleonici e nei primi della Restaurazione e finché mette in risalto alcune acute osservazioni di Giovanni Gherardini, a proposito delle koinai regionali e della loro funzione mediatrice

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tra dialetti e lingua nazionale. Diviene, invece, sfocato e poco convincente quando vuol negare, con una perentorietà a cui non fa riscontro un sufficiente approfondimento, l’esistenza di una linea di sviluppo Monti-Cattaneo-Ascoli (p. 167 sgg.). Che nella posizione del Monti sul problema della lingua ci sia un contrasto fra esigenza di modernità ed esigenza di decoro aulico, che il Monti sia, per questo rispetto, meno avanzato di quanto era stato una trentina d’anni prima il Cesarotti o di quanto sarà di lì a poco l’ex montiano Francesco Torti, è cosa risaputa: la si trova molto esattamente esposta, per esempio, nella Questione della lingua di Maurizio Vitale (pp. 181, 191 sg.), ed è accennata, come ovvia, anche nel presente libro (pp. 12, 334 n. 16, 392). Non si vede, perciò, come a questo proposito si possa parlare di «contraddizioni non ancora messe in luce». Che il Monti, nel suo programma di unità linguistica, si riferisca alla «lingua letteraria», è vero, purché si intenda, però, questa espressione nel senso ampio di lingua di cultura, incluso perciò il linguaggio scientifico e tecnico: è questo uno dei punti sui quali la Proposta più insiste, a cominciare della lettera dedicatoria al Trivulzio. Quando il Monti si scaglia contro la lingua «plebea», appresa «dalla balia», sarebbe erroneo vedere in queste parole soltanto un segno di disprezzo per il volgo: esse esprimono anche la consapevolezza che non è mimando le parlate popolari in ciò che hanno di gergale e di macchiettistico, che si può formare la lingua di una nazione moderna: la nascita di tale lingua è un fatto di cultura e non di folclore. La formula montiana dell’«uso sanzionato dalla ragione» attribuisce alla ragione una funzione selezionatrice, normalizzatrice, analogistica, di contro al gusto della Crusca di andare in cerca di «fiori di lingua», di riboboli, di forme rare e gergali. Su questo punto, cioè sul non volersi abbandonare alle anomalie dell’uso e sul rifarsi alla «grammatica generale» (identificata con la logica) in funzione normalizzatrice, sono perfettamente d’accordo col Monti anche gli scrittori del «Conciliatore», primo fra tutti il Di Breme, ma anche il Borsieri.3 Certo, il Monti si richiama anche 3 iPer il Di Breme cfr. «Belfagor», XXII, 1967, p. 240 sg. Per il Borsieri si veda ora l’introduzione alla «Biblioteca italiana» (rimasta allora inedita) nell’edizione delle Avventure letterarie di un giorno e altri scritti a cura di G. Alessandrini, Roma 1967, p. 131 sg. ** Bisogna, dice il Borsieri, regolare la lingua «secondo le leggi della logica e dell’analogia»; c’è chi è nemico di ogni innovazione e c’è chi «s’arroga di mutare d’inventare d’aggiugnere e s’usurpa quel diritto che appartiene unicamente ad un intelletto cresciuto nella meditazione». Come si vede, se il Monti compie un passo indietro rispetto al Settecento in quanto ammette soltanto l’«innovazione condizionata» (così la Corti, p. 168), lo stesso passo indietro è compiuto anche dai romantici lombardi, e più tardi dal Cattaneo. E per tutti costoro l’innovazione, si badi, non è condizionata

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all’autorità degli scrittori; ma rompe il canone chiuso degli scrittori approvati dal purismo – non solo dal purismo trecentista, ma anche da quello cinquecentista – e insiste sul fatto che bisogna dischiudere il vocabolario alle parole usate dagli scrittori di scienze, compresi quelli del Settecento (vedi ancora la lettera-prefazione al Trivulzio e i molti vocaboli scientifici trattati nella Proposta). Linea di sviluppo non vuol dire, ovviamente, ripetizione delle stesse idee in situazioni mutate. Avevo avuto cura di avvertire (p. 392) che la continuità Monti-Cattaneo-Ascoli è «una continuità non statica»; più di recente, in una recensione all’edizione del Proemio ascoliano curata da Corrado Grassi (in «Critica storica» VII, 1968, p. 400 sg.), sono ritornato, con maggiori particolari, sulla differenza tra la tesi del Cattaneo e quella del Perticari sulla formazione della lingua italiana. Ma proprio quell’esigenza a cui poco sopra accennavamo, che l’unificazione linguistica avvenga al livello della cultura nazionale (di una cultura anche scientifica e non solo letteraria), e non cercando di adeguarsi a un’anacronistica «ingenuità» popolaresca, rappresenta l’elemento comune al classicismo montiano, al Cattaneo, e all’Ascoli. Comune a tutti e tre è anche il pericolo correlativo, di un certo eccesso di compostezza aulica: né la prosa stupenda del Cattaneo, né quella, più faticosa, dell’Ascoli si distinguono per quella spigliatezza e quel brio – giornalistico nel senso buono del termine – a cui avevano mirato gli scrittori del «Caffè» e quelli del «Conciliatore», ma per una voluta austerità, che si manifesta perfino nell’ortografia alquanto latineggiante. E non manca affatto negli scritti linguistici del Cattaneo la nota «antiplebea» che la Corti isola e stigmatizza nel Monti: vedi gli accenni contro gli scritti «pezzati di riboboli da piazza» (SL, I, p. 109) e l’accusa alla Crusca di «conformarsi servilmente a tutti i capricci e li errori della plebe» e di trascrivere fedelmente «ciò che cicalavano le comari» (SL, I, p. 261) e il passo che citiamo alle pp. 486-487 n. 16. Non manca la diffidenza contro l’appello incondizionato all’uso in fatto di lingua: «Ma tali erano i nuovi decreti dell’uso; il quale è sempre giusto, e sempre venerabile, a chi è schiavo dell’autorità e incapace della ragione» (SL, I, p. 260). E addirittura, sia pure in una momentanea impennata polemica, si può trovare un aspro veto alle innovazioni di origine popolasolo dall’autorità degli scrittori, ma dalla «ragione», che esercita una funzione analogistica; anzi, gli scrittori hanno autorità non tanto in virtù della loro efficacia artistica, ma in quanto si identificano con le esigenze della logica.

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re: «Queste parole vostre (...) se sono nate ieri, oggi, come i funghi e le muffe, lasciatele dove stanno; che la nostra lingua è cosa fatta, grazie a Dio, non cosa da fare» (SL, I, p. 116). D’altra parte, mentre l’adesione del Cattaneo alle idee e all’ambiente del Monti è ben documentata anche al di fuori delle questioni linguistiche, mancano, che io sappia, le prove di un particolare influsso esercitato su di lui dal Gherardini. Non pare, soprattutto, che il Cattaneo abbia avuto chiara consapevolezza di una «critica da sinistra» del Gherardini nei riguardi delle idee linguistiche del Monti. L’unica lode, per quel che mi risulta, che il Cattaneo rivolga al Gherardini è per aver rifiutato alcune voci ribobolesche della Crusca (SL, I, p. 262 sg.); e la lode è accompagnata da parole che sembrano avere un senso limitativo: «Onde anche quelli che non consentiranno punto per punto a tutte le opinioni dell’egregio nostro Gherardini, non potranno negargli un tributo di gratitudine per ciò ch’egli fece a liberare il dizionario nazionale da codesti disonorevoli imbratti». Poco oltre, nello stesso scritto (p. 264), il Gherardini è citato fra gli emendatori e integratori della Crusca, ma insieme al Monti e al Perticari, non in contrapposizione ad essi. E questo è tutto, poiché la commemorazione del Gherardini (in SL, II, p. 171 sgg.), che la Corti (p. 178) attribuisce al Cattaneo, appartiene invece a Giovanni De Castro, come già da tempo è stato messo in chiaro (vedi l’avvertenza iniziale alla ristampa del 1948 di SL, II). Nell’ambito della questione della lingua, su un solo punto il Cattaneo si distaccò qualche volta dai classicisti: nella valutazione della letteratura dialettale. Ma anche qui, l’appendice che ho dedicato a questo problema (p. 483 sgg.) mostra quanto sia erroneo assimilare senz’altro la posizione del Cattaneo e quella dei romantici, quanto sia contraddittorio il suo atteggiamento di fronte ai dialetti, e come tale contraddittorietà derivi non da banale incoerenza, ma dalla difficoltà di conciliare i diritti delle «piccole patrie» locali con l’esigenza cosmopolita. La posizione antidialettale del Giordani, condivisa anche dal Monti,4 non si può liquidare con un richiamo alla sua idea che il perfetto scrittore italiano dovesse essere nobile. Prima di tutto, la rivendicazione pole4 iIl Dialogo di Matteo giornalista, Taddeo suo compare ecc., che la Corti (p. 175, n. 25) sembra ritenere del Giordani o di autore ignoto, è del Monti: esso compare già nell’edizione dei Dialoghi del Cav. V. Monti (Milano 1827) e di nuovo nell’edizione Resnati delle Opere (V, Milano 1841, p. 534 sgg.); e contiene, a sostegno degli argomenti portati dal Giordani, altri argomenti tutt’altro che trascurabili.

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mica della condizione di nobile come possibilità di indipendenza dello scrittore, in funzione antitirannica e (più o meno chiaramente) antiborghese, conta fra i suoi sostenitori, oltre al Giordani, un Alfieri e un Leopardi: è un mito libertario di cui è facile scorgere i limiti e i condizionamenti sociali, ma che non può essere confuso con una banale posizione conservatrice. Poi, le opinioni del Giordani sulla nobiltà ebbero un’evoluzione che non può essere ignorata, e che, in realtà, era già implicita in quell’iniziale vagheggiamento di una nobiltà ideale e astratta (vedi qui sotto, p. 68 sgg. e aggiunta a p. 68). Ma soprattutto sarebbe tempo di chiedersi se l’azione di diffusione della cultura tra il popolo, che il Borsieri e il Cherubini assegnavano alla letteratura dialettale («diffondere più facilmente una certa cultura nel volgo», «dirozzare i men colti» ecc.), o l’azione di «rottura delle pertinaci tradizioni domestiche» e d’incentivo al progresso che le assegnava il Cattaneo, abbiano avuto un’effettiva attuazione. Mi sembra chiaro che non l’hanno avuta, e che c’è un abisso tra il reale significato e valore della poesia di un Porta o di un Belli e le «giustificazioni» di quei difensori della letteratura in dialetto. Basti riflettere un momento sul fatto che quelle giustificazioni avrebbero richiesto uno sviluppo della letteratura dialettale i n p r o s a (con una congiunta azione di insegnamento elementare della lettura e scrittura in dialetto), che mancò quasi del tutto, e che certamente né un Porta né un Belli si proposero mai. Né, d’altra parte, Borsieri o Cattaneo intendevano valorizzare la letteratura dialettale come espressione di una cultura di classi subalterne in antagonismo alla cultura borghese, o di un programma giacobino di alleanza fra borghesia avanzata, contadini e artigiani: ciò avrebbe implicato un far causa comune non col «popolo» nel senso del Berchet, ma con quelli che Berchet stesso chiamava gli «ottentoti»; e una prospettiva di questo tipo, mentre era stata lucidamente teorizzata alla fine del Settecento in ambienti giacobini e aveva ispirato le poesie in dialetto piemontese di Edoardo Calvo,5 esorbitava (è questa una semplice constatazione, non una deplorazione antistorica) dai programmi dei romantici come da quelli dello stesso Cattaneo. Vi è, certo, nel Borsieri il giusto richiamo all’esigenza di studiare i dialetti come documenti di 5 iVedi M. Cerruti, Neoclassici e giacobini cit., cap. III e specialmente, pp. 191, 192-94. In questo quadro andrebbe anche ripreso in esame, per esempio, quel Lorenzo Cardone, autore del Te Deum dei calabresi, sul quale aveva già richiamato l’attenzione il Settembrini (Lezioni di letteratura italiana a cura di G. Innamorati, vol. II, pp. 1034 sg.; |cfr. ora A. Barbuto, La protesta l’utopia lo scacco: il Te Deum de’ Calabresi di G. L. Cardone, Roma 1975|).

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tradizioni e di psicologia popolare; ma, si badi, questa esigenza (che del resto il Giordani stesso non negava, cfr. p. 46) rimane non coordinata con l’altro intento, di far servire la poesia dialettale a un fine pedagogico. Il romantico milanese accoglie dal romanticismo europeo, oltre che dal Parini, la consegna di promuovere la letteratura in dialetto; ma sente troppo l’eredità illuministica per far sua un’esaltazione populistico-reazionaria dei dialetti, quale si trova in alcuni romantici tedeschi; è troppo ottimisticamente fiducioso nel progresso per riconoscere alla poesia dialettale un ruolo di rappresentazione veristica, «senza lacrime», di un’eterna miseria popolare; è troppo antigiacobino per dare alla rivendicazione del dialetto un significato classista. Da uno studio di queste contraddizioni – alle quali si aggiunge il «patriottismo milanese» coi suoi non infondati orgogli e coi suoi grossi equivoci – deve partire un riesame delle idee del romanticismo lombardo sui dialetti e sulla poesia popolare. Vorrei ancora accennare ad un’obiezione che, sebbene non formulata esplicitamente da alcun recensore (se non forse, di scorcio, dal Colaiacomo), è però implicita nelle discussioni di prospettiva politico-culturale che hanno impegnato l’estrema sinistra in questi ultimi anni. La rivalutazione dell’illuminismo contro il romanticismo non significherà esaltazione del «progresso» borghese, e quindi, implicitamente, della disumanizzazione e dello sfruttamento razionalizzato che questo cosiddetto progresso reca necessariamente in sé? Non dovrebbe dunque la polemica, invece che contro l’obiettivo ormai arretrato del romanticismo, essere rivolta proprio contro l’illuminismo, a cui oggi si richiamano (con tutte le ideologie neopositiviste, strutturaliste ecc.) le correnti culturali più moderne e più agguerrite della borghesia mondiale? Non ci sarà, viceversa, qualcosa da rivalutare nell’anticapitalismo, sia pure antistorico, di certe correnti romantiche di destra? Nelle forme più note che questa posizione ha assunto, e che sono rappresentate dalla Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno e, più di recente, da L’illuminismo e la società moderna di Goldmann, essa è del tutto insoddisfacente, perché, come già è stato osservato, coinvolge nella critica del capitalismo non solo l’uso capitalistico della scienza, ma la scienza stessa: il fatto che la distinzione sia spesso ardua non può indurre a rinunziarvi, a meno di non cadere (e vi cadono infatti Horkheimer e Adorno) in un vero e proprio oscurantismo romantico-esistenzialisteggiante.6 6 iVedi Cesare Pianciola in «Quaderni piacentini», 29, gennaio 1967, p. 68 sgg.; Lucio Colletti, Il marxismo e Hegel, Bari 1969, p. 332 sgg.

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Serve anche a poco, tanto più in sede storiografica, contrapporre a un illuminismo definito molto genericamente come «individualismo» un altrettanto generico «pensiero dialettico», che comprenderebbe tutti insieme Hegel, Marx, Lukács e Heidegger, come fa con molta disinvoltura Goldmann (op. cit., trad. it., Torino 1967, p. 39 e altrove). ** Ha tuttavia una innegabile valore l’ammonimento ad evitare, anche in sede storiografica, un uso indiscriminato e, per così dire, aclassista del concetto di progresso. Se riscrivessi ora daccapo tutto il libro, cercherei di eliminare alcuni residui di tale ambiguità, che si trovano specialmente nei due saggi più vecchi (sul Giordani e su Cattaneo ed Ascoli). Credo però che nell’insieme il presente libro tenga già conto di quell’esigenza: già nella prefazione alla prima edizione (qui sopra, p. LXXVIII) si cerca di precisare in che senso si parli qui di illuminismo, e a proposito del Cattaneo – un autore che esercita sui suoi lettori e studiosi una suggestione particolarmente forte verso quel progressismo aclassista a cui accennavamo – si sottolineano i limiti politico-sociali del suo pensiero forse più di quanto facciano di solito gli storici (p. 368 sg.); e soprattutto si cerca di mettere in rilievo come il Leopardi sottoponga alla critica più radicale i miti «umanistici» non meno di quelli religioso-tradizionali, e superi quindi – ma in una direzione opposta a quel romanticismo di cui Horkheimer e Adorno rappresentano una tarda propaggine – il facile ottimismo di certo pensiero razionalistico settecentesco o ottocentesco. Credo anche indispensabile mantenere la distinzione, che ho ripreso da Antonio La Penna, tra progressismo politico-sociale e progressismo come conquista di una visione laica e materialistica della realtà (p. 134 sg.): una distinzione che certamente ha ancora bisogno di precisazioni e approfondimenti,7 ma che ad ogni modo serve già ad escludere che si possano mettere sullo stesso piano fasi di pensiero borghese laico-materialista, come l’illuminismo e come il darwinismo, e fasi di involuzione spiritualistica, come il romanticismo e la «rinascita idealistica» del primo Novecento. Va anche notato che tale distinzione non coincide con quella, più comunemente adoperata, fra progresso sociale e progresso tecnico: spesso, anche nell’epoca attuale, il progresso tecnico coesiste con concezioni generali della realtà agnostiche o spiritualistiche; e proprio contro un connubio 7 iCfr. per ora «Quaderni piacentini» 32, ottobre 1967, p. 125 sg.; Paolo Cristofolini in «Nuovo impegno» 9-10, 1967-68, p. 47, n. 5; Ersilia Alessandrone in «Annali della Scuola Normale», 1966, p. 329.

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di questa sorta si rivolge la polemica leopardiana del Tristano, della Palinodia e della Ginestra. Nella prefazione alla prima edizione accennavo che avrei cercato di giustificare altrove con maggiore ampiezza quella specie di marxismo-leopardismo che costituisce il sottofondo ideologico di questi saggi. ** Quel proposito ha avuto un primo inizio di attuazione con le Considerazioni sul materialismo («Quaderni piacentini» 28, settembre 1966, p. 76 sgg.) e con la discussione, che ne è seguita (nei numeri 29, 30 e 32 della stessa rivista e in «Problemi» I, gennaio-febbraio 1967, p. 42 sg.; 2, marzo-aprile 1967, p. 93 sg.; vedi anche Luciano Della Mea in «Mondo nuovo» 19 febbraio 1967 e in «Nuovo impegno» 12-13, maggio-ottobre 1968, p. 104 sg.). La discussione, spero, proseguirà. Ma il «leopardismo» non deve, come è ovvio, far perdere di vista il Leopardi, e in particolar modo il Leopardi poeta. Occupandomi quasi esclusivamente del pensiero e della cultura leopardiana, e non della poesia, sono stato fin dall’inizio ben consapevole di svolgere una ricerca settoriale, non autosufficiente; per questo ho spesso rinviato ai lavori di quei critici che, pur senza nulla concedere alla concezione profondamente falsa e sviante di un Leopardi «poeta puro», hanno posto la poesia leopardiana al centro della loro attenzione; per questo, anche, ho cercato di mostrare come la filosofia stessa del Leopardi tragga origine, in notevole misura, dal classicismo italiano, cioè da una tradizione letteraria (nel senso molto largo e complesso che la nozione di letteratura aveva nel Sette-Ottocento) piuttosto che filosofica. Si può, tuttavia, contestare una simile «divisione del lavoro» tra studiosi del pensiero e studiosi della poesia leopardiana, e ritenere che ogni studio che non integri direttamente la filosofia del Leopardi nella sua poesia finisca col dare della prima un’immagine deformata. È ciò che, da punti di vista diversi, obiettano Franco Fortini in una nota pubblicata nei «Quaderni piacentini» 30 (aprile 1967), p. 91 sgg. e Giulio Bollati nell’introduzione alla Crestomazia leopardiana della prosa (Torino 1968, p. LXXIII). I due diversi modi con cui Fortini da un lato, Bollati dall’altro accennano a operare la saldatura tra i due aspetti della personalità leopardiana mi lasciano qualche dubbio. Fortini, pur rendendosi chiaramente conto della necessità di non ripetere la vecchia formula della contraddizione tra «ragione» e «cuore» in Leopardi, è irresistibilmente attratto, mi sembra, verso una concezione mistica della poesia. Si tratta, certo, di un misticismo tutt’altro che soddisfatto di sé, anzi convinto del dovere di negarsi nell’azione rivoluzionaria, ma convinto anche che tale negazione sia in un cer-

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to senso, necessariamente, negazione della poesia, perché essenziale alla poesia, e a quella moderna in particolare, sarebbe una sorta di alto narcisismo e di gioia della propria sofferenza. Mi chiedo se alla «poesia lirica dell’età moderna» intesa così appartenga veramente il Leopardi, o se questo modo di leggere Leopardi non lo renda troppo simile a un Baudelaire, a un Rimbaud, a tutta una stagione poetica europea di cui Fortini sente in sé l’eredità (assieme al bisogno di rinnegarla), ma a cui Leopardi è anteriore e sostanzialmente estraneo. Bollati sviluppa, con finezza straordinaria, un discorso che parte dalla Crestomazia (e di quest’opera ci fa comprendere per la prima volta l’importanza, in quanto rivelatrice del gusto letterario leopardiano e del concetto stesso leopardiano di letteratura), ma si estende poi all’intera personalità del Leopardi. Egli non vede in Leopardi contraddizione tra pensiero e poesia, ma ritiene che il Leopardi scrittore contenga e risolva in sé tutti gli altri aspetti: «Leopardi filosofo, Leopardi politico sono impliciti nella nozione di letteratura che presiede alla sua formazione». Ciò è pienamente giusto (vedi quanto abbiamo osservato poco fa sui rapporti del pensiero leopardiano con la tradizione classicista); e ogni volta che Bollati insiste sull’avversione del Leopardi ad ogni specializzazione e ad ogni settorialismo, sull’esigenza di totalità che per lui, e per tutta una tradizione anteriore a lui, lo scrittore ha appunto il compito di attuare, riesce del tutto convincente.8 Senonché troppe altre volte, nel precisare il concetto leopardiano di letteratura, Bollati lo fa consistere in una specie di raffinatissima civetteria, di gusto del «travestimento», della simulazione, dell’alibi (vedi specialmente p. LXXV sg.). Da una letteratura così intesa rimangono fuori i risultati più alti del pensiero e della poesia leopardiana: il «titanismo» e la «pietà», il Leopardi «idillico» e il Leopardi eroico. L’aver preso la Crestomazia come punto di partenza di un’interpretazione di tutto Leopardi, se da un lato, come abbiamo detto, si è rivelato estremamente fecondo, dall’altro ha facilitato una certa sopravvalutazione di aspetti che nella personalità umana e letteraria del Leopardi, certo, ci sono, ma che tutto sommato sono marginali. Rimane, comunque, ben viva l’esigenza additata da Bollati e da Fortini. Ma per soddisfarla compiutamente occorrerebbe, credo, se non una 8 iVedi specialmente, pp. LXXIV, XC sg., XCVI. Una parziale eccezione credo si deva fare per l’attività filologica del Leopardi, che da un certo momento in poi si sviluppò anche come attività «tecnica», non soltanto in relazione ai suoi interessi letterari e umani per il mondo antico.

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Prefazione alla seconda edizione

nuova estetica nel senso tradizionale del termine, una nuova giustificazione della sopravvivenza dell’arte nella cultura moderna e una nuova dimostrazione della possibilità di giudizi estetici non puramente soggettivi. Per chi neghi a qualsiasi specie di esperienza «intuitiva» o mistica un valore conoscitivo superiore o complementare a quello della conoscenza scientifica, e d’altra parte si renda conto dell’insufficienza di una critica puramente ideologica e contenutistica, la soluzione dovrà essere ricercata, credo, su quel terreno sensistico-edonistico sul quale era stata già ricercata nel Settecento e sul quale continuò sempre a ricercarla, nei pensieri estetici dello Zibaldone, il Leopardi. Ma questo è un problema che va molto al di là dell’argomento di questo libro e delle capacità dell’autore. s. t. maggio 1969 **

Nota alla ristampa 1988 della seconda edizione **

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

Questa seconda edizione del 1969, notevolmente accresciuta rispetto alla prima del 1965, venne ristampata senza mutamenti nel 1973, nel 1977, nel 1984. Viene ora nuovamente ristampata, anche questa volta senza mutamenti. Avrei voluto aggiungere un breve postscriptum, un saggio su Epicuro, Lucrezio e Leopardi (a parziale modifica e integrazione di quanto avevo scritto a pp. 221-224) {ed. ’69; qui pp. 177-180} e poche brevi postille. Ma avrei bisogno ancora di un certo tempo – più di quanto avevo previsto –, e intanto questo libro ormai annoso, con mia meraviglia, viene ancora richiesto, e l’amico editore, del tutto giustamente, ha fretta. Se anche questa ristampa si esaurirà, spero di poter pubblicare, la prossima volta, l’edizione accresciuta. Per ora avverto soltanto che altri saggi, riguardanti anch’essi in gran parte il Leopardi, il Giordani e altri personaggi e ambienti di cui si tratta in questo libro, sono usciti nei due volumi Aspetti e figure della cultura ottocentesca (Nistri-Lischi, Pisa 1980) e Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana (ETS, Pisa 1982); e che alcuni degli scritti teorico-polemici a cui alludevo qui sopra (p. XCVIII) sono stati raccolti, insieme ad altri, nel volume Sul materialismo (Nistri-Lischi, seconda ed. riveduta e ampliata, Pisa 1975). Vorrei, con un po’ di sfrontatezza, pregare i lettori di questo libro di tener presente anche quei successivi volumi meno fortunati, poiché su vari punti essi contengono aggiunte e correzioni di un certo rilievo a quanto avevo scritto nel presente volume. S. T. febbraio 1988

Avvertenze sulle citazioni, sulle postille e sulle aggiunte bibliografiche

Avvertenza sulle citazioni giordani: col solo numero romano (del tomo) e arabico (della pagina) è indicata l’edizione delle Opere a cura di Antonio Gussalli, Milano 1854-62. Con Lett. è indicata l’edizione delle Lettere a cura di Giovanni Ferretti, Bari 1937. leopardi: con PP è indicata l’edizione di Tutte le opere: Le poesie e le prose, a cura di Francesco Flora, Milano 1940 (e successive ristampe). Dello Zibaldone (abbreviato Zib.) sono citate sempre le pagine dell’autografo, riportate ** sia nella vecchia edizione Le Monnier in sette volumi, sia nell’edizione Mondadori a cura di Francesco Flora [sia nel vol. II di Tutte le opere (Sansoni) a cura di Walter Binni ed Enrico Ghidetti. Aspettiamo ancora con desiderio la nuova edizione critica e commentata a cura di Giuseppe Pacella]. cattaneo: Epist. = Epistolario a cura di R. Caddeo, Firenze 1949-56; SF = Scritti filosofici a cura di N. Bobbio, Firenze 1960; ** SL = Scritti letterari a cura di A. Bertani, ristampa con aggiunte, Firenze 1948; SSG = Scritti storici e geografici a cura di G. Salvemini e E. Sestan, Firenze 1957. [Nel saggio su Cattaneo ed Ascoli] **, con la sola parola Silloge è indicata la Silloge linguistica dedicata alla memoria di G. I. Ascoli nel primo centenario della nascita, Torino 1939 (= «Archivio glottologico italiano» XXII-XXIII).

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Avvertenze sulle citazioni, sulle postille e sulle aggiunte bibliografiche

[Per altre abbreviazioni, che compaiono solo nelle aggiunte a questa terza edizione, vedi sotto, p. 000.] **

Avvertenza sulle Postille e aggiunte bibliografiche Non si cercherà in queste aggiunte un repertorio bibliografico di tutto ciò che è uscito sugli argomenti trattati nel presente volume dopo la pubblicazione della prima edizione, ma solo la citazione di opere e di contributi che mi sembrano di particolare importanza per integrare, correggere, ampliare ciò che è stato detto nelle pagine {seguenti}. Si tenga anche presente, per la discussione di alcuni problemi più generali, la prefazione {alla} seconda edizione.

Avvertenza sulle citazioni da «Aspetti e figure della cultura ottocentesca»

giordani: col solo numero romano (del tomo) e arabico (della pagina) è indicata l’edizione delle Opere a cura di Antonio Gussalli, Milano 1854-62. Con Lett. è indicata l’edizione delle Lettere a cura di Giovanni Ferretti, Bari 1937. leopardi: con PP è indicata l’edizione di Le poesie e le prose a cura di Francesco Flora, Milano 1940 (e successive ristampe). Con TO è indicata l’edizione di Tutte le opere a cura di Walter Binni con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze 1969. Dello Zibaldone (abbreviato Zib.) sono citate sempre le pagine dell’autografo, riportate sia nella vecchia edizione Le Monnier in sette volumi, sia nell’edizione Mondadori a cura del Flora, sia nel vol. II dell’edizione già citata di Tutte le opere a cura di Binni-Ghidetti, sia nella nuova edizione critica, di prossima pubblicazione, a cura di Giuseppe Pacella. Class. illum. = S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, 2a ed. accresciuta, Pisa 1969. Treves, Studio ant. class. = Piero Treves, Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962. Altre abbreviazioni, che compaiono soltanto in singoli saggi del volume,° sono indicate all’inizio dei saggi stessi. °i{L’autore si riferisce, qui, ad «Aspetti e figure» quale singolo e autonomo volume, uscito nel 1980; il libro reca una dedica ad Augusto Campana – N. d. C. –}.

Avvertenza sulle citazioni da «Nuovi studi sul nostro Ottocento»

giordani: col solo numero romano (del tomo) e arabico (della pagina) è indicata l’edizione delle Opere a cura di Antonio Gussalli, Milano 1854-62. Con Lett. è indicata l’edizione delle Lettere a cura di Giovanni Ferretti, Bari 1937. leopardi : con T.O. è indicata l’edizione di Tutte le opere a cura di Walter Binni con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze 1969 (e successive ristampe). Dello Zibaldone (abbreviato Zib.) sono citate sempre le pagine dell’autografo, riportate in tutte le edizioni, fino a quella curata da Giuseppe Pacella, Milano 1991, la prima veramente critica. Class. illum. = S. Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, 2a ed. accresciuta, Pisa 1969 (e ristampe invariate). Aspetti e figure = S. T., Aspetti e figure della cultura ottocentesca, Pisa 1980; Antileopardiani = S. T., Antileopardiani e neomoderati nella Sinistra italiana, Pisa 1982, rist. 1985. Altre abbreviazioni, che compaiono soltanto in singoli saggi del volume,° sono indicate all’inizio dei saggi stessi.

°i{L’autore si riferisce, qui, ai «Nuovi studi» quale singolo e autonomo volume, uscito nel 1994; il libro reca una dedica a Lanfranco Caretti – N. d. C. –}.

Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

Introduzione*

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

La polemica classico-romantica iniziatasi a Milano nel 1816 è stata studiata in questi ultimi venti anni con ricchezza e originalità di risultati. Ha dato impulso a questi studi la raccolta di testi curata dal Bel*iIn questi ultimi anni è stata molto ampliata la conoscenza degli scritti dei primi romantici italiani. Sono specialmente da segnalare le edizioni seguenti: L. Di Breme, Lettere a cura di P. Camporesi, Torino 1966 (cfr. le recensioni del Fubini in «Giorn. stor. lett. ital.» CXLIV, 1967, p. 447 sgg., del sottoscritto in «Belfagor» XXII, 1967, p. 240 sgg. e di Roberto Cardini in «Rassegna lett. ital.» LXXII, 1968, p. 447 sg.; altre lettere inedite, meno interessanti, sono state pubblicate da M.-H. Laurent in «Giorn. stor. lett. ital.» CXLIV, 1967, p. 99 sgg.); S. Pellico, Lettere milanesi a cura di M. Scotti, Torino 1963 (Supplemento XXVIII del «Giorn. stor. lett. ital.»: edizione particolarmente accurata e intelligente); P. Borsieri **, Avventure letterarie di un giorno e altri scritti editi e inediti a cura di G. Alessandrini, con prefazione di C. Muscetta (tra gli inediti ha particolare interesse l’introduzione che il Borsieri aveva steso per la «Biblioteca Italiana», e che fu poi sostituita da quella del Giordani; l’edizione è condotta in modo alquanto frettoloso e inesatto, cfr. M. Scotti in «Giorn. stor. lett. ital.» CXLV, 1968, p. 137 sgg. e P. Camporesi in «Lettere italiane» XX, 1968, p. 423 sgg.). ** Fra i contributi recenti sul romanticismo italiano e sulla polemica classico-romantica, oltre agli articoli di G. Moget e di altri studiosi già citati nella prefazione a questa seconda edizione, si veda il vol. VII (L’Ottocento) della Storia della letteratura italiana di vari autori (Milano, Garzanti 1969). Gli studiosi che in quel volume si occupano più specificamente del romanticismo e delle discussioni tra romantici e classicisti-illuministi (Giovanni Macchia, Giovanni Orioli e, per l’aspetto politico-ideologico, Ettore Passerin d’Entrèves) muovono da una concezione e da una valutazione del romanticismo diverse da quelle sostenute nel presente libro. Molto pregevole è, comunque, soprattutto il saggio del Passerin. Nella stessa opera va anche segnalato il saggio di Vittorio Spinazzola su La poesia romantico-risorgimentale, ricco di osservazioni felici sul rapporto autore-pubblico nell’Ottocento italiano. Ad altri saggi contenuti nello stesso volume accenneremo in seguito. Del tutto inutile, a mio parere, è l’ambizioso tentativo di caratterizzazione del romanticismo compiuto da Northrop Frye, Il mito romantico, in «Lettere italiane» XIX, 1967, p. 409 sgg. (vedi la giusta recensione, forse ancora troppo benevola, di P. Fasano in «Rassegna letter. ital.» LXXXII, 1968, p. 441 sgg.). Per quel che riguarda, in particolare, i romantici lombardi, è importante il saggio di Marino Berengo, Le lettere milanesi di Silvio Pellico, in «Riv. storica ital.» LXXVII, 1965, p. 159 sgg.:

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Introduzione

lorini, a cui sono seguite quelle del Calcaterra e del Mazzali e l’edizione di tutto il «Conciliatore» a cura del Branca.1 I temi su cui si è più insistito, soprattutto per opera di Mario Fubini,2 sono la continuità tra illuminismo e romanticismo lombardo, l’aspirazione dei romantici italiani ad annodare più stretti rapporti con la cultura europea, il patriottismo liberale di un Berchet o di un Di Breme, ben diverso dal patriottismo puramente letterario dei classicisti retrivi. Anche di certi aspetti più propriamente romantici della cultura italiana della Restaurazione sono stati rintracciati, specialmente dal Binni,3 i precedenti settecenteschi. Più recentemente Giuseppe Petronio, prendendo le mosse da alcuni concetti storiografici di Lukács e sviluppandoli originalmente in rapporto alla letteratura italiana, ha battuto l’accento piuttosto sulla distinzione tra il cosiddetto preromanticismo e il vero romanticismo, sorto in una ben diversa situazione storica.4 In tutti questi studi si parla, come è naturale, anche degli avversari dei romantici, i classicisti; se ne parla spesso con acutezza e con comprensione. Proprio il Fubini ha caratterizzato efficacemente il pathos che anima il classicismo patriottico di Carlo Botta e ha richiamato brebenché ispirato da calda simpatia per il gruppo del «Conciliatore», l’articolo mette bene in luce (p. 170) la prospettiva più strettamente letteraria di questa rivista in confronto al «Caffè». Sulle differenze di idee e di temperamento fra il Di Breme, il Pellico e il Berchet vedi M. Puppo, Atteggiamenti e problemi dei primi romantici italiani, in «Studium» LXIV, 1968, p. 92 sgg. ** (alcune giuste riserve di P. Fasano in «Rassegna letter. ital.» LXXII, 1968, p. 445). 1 iDiscussioni e polemiche sul romanticismo, a cura di E. Bellorini, Bari 1943; I manifesti romantici del 1816 e gli scritti principali del «Conciliatore» sul romanticismo, a cura di C. Calcaterra, Torino 1951; Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica di G. Leopardi con una antologia di testimonianze sul romanticismo e un saggio introduttivo di F. Flora, a cura di E. Mazzali, Bologna 1957; Il «Conciliatore», a cura di V. Branca, Firenze 1948-54, tre volumi. 2 iM. Fubini, Romanticismo italiano, 2ª ed., Bari 1960 (si vedano in particolare i saggi «Motivi e figure della polemica romantica», del 1947, e «Giordani, Madame de Staël, Leopardi», del 1952). 3 iLa battaglia romantica in Italia (1947), ristampato in Critici e poeti del Cinquecento al Novecento, Firenze 1951, p. 77 sg. 4 iVedi, del Petronio, l’articolo del 1957 Illuminismo, preromanticismo, romanticismo e Lessing (ora nel volume Dall’illuminismo al verismo, Palermo 1963, p. 41 sgg.) e poi Il romanticismo (storia della critica), Palermo 1969, e ancor più recentemente le Proposte e ipotesi di lavoro per uno studio del romanticismo (in Dall’illuminismo al verismo cit., p. 201 sgg.) e il volume L’attività letteraria in Italia, Palermo 1964, pp. 602 sgg., 637 sgg. Sugli equivoci a cui ha dato luogo il concetto di «preromanticismo» nella storia della letteratura tedesca cfr. G. Lukács, Breve storia della letteratura tedesca, trad. di C. Cases, Torino 1956, p. 67 sg.; C. Cases in «Società» X, 1954, p. 493 sgg.

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vemente l’attenzione, alla fine del suo saggio principale, sullo stimolo che i classicisti con la loro stessa resistenza dettero all’elaborazione e alla precisazione delle teorie romantiche. E tuttavia l’opposizione classicista è stata considerata finora, in complesso, o come il momento negativo di un conflitto in cui il progresso e la ragione storica stavano dalla parte dei romantici, o come parte, essa stessa, del grande movimento romantico, da cui l’avrebbero divisa soltanto episodici malintesi, non ragioni profonde. Ciò non è avvenuto a caso. Il movimento di idee che riuscì a prevalere nella cultura del primo Ottocento, in Italia come nelle altre nazioni europee, fu il romanticismo. Esso esprimeva le esigenze di una borghesia che intendeva affermarsi come forza preminente nel campo politico e culturale senza però correre di nuovo il rischio di una radicalizzazione giacobina della lotta. L’ideologia più confacente a questo scopo era un cristianesimo illuminato, che conciliasse la tradizione col progresso. Il movimento romantico ebbe certo, specialmente in Germania, un’ala oscurantista, che mirava a un impossibile ritorno al Medioevo feudale e teocratico. Ma, come vide già il De Sanctis, questo non fu, tranne un breve periodo iniziale, l’aspetto preminente del romanticismo europeo; meno che mai di quello italiano, che fin dall’inizio assorbì molti valori della civiltà illuministica e sul piano politico si schierò contro l’assolutismo e contro l’Austria. E neppure sarebbe giusto considerare semplicemente il romanticismo come un illuminismo attenuato e privato della sua carica rivoluzionaria. Bisogna riconoscere che per certi lati il romanticismo – proprio perché riflette un’esperienza post-rivoluzionaria, sia pure di avversari della rivoluzione – è più avanzato di certo illuminismo. Gli aspetti aristocratici, cortigiani, «galanti» della civiltà settecentesca erano stati ormai spazzati via dalla rivoluzione. Un senso di appassionata serietà e interiorità – rievocato con efficacia, anche se con evidente parzialità ideologica, dall’Omodeo nelle prime pagine della Cultura francese nell’età della Restaurazione – era comune a rivoluzionari e antirivoluzionari. ** Importante è anche il fatto che i gruppi di intellettuali che in tutta Europa dettero vita al movimento romantico si erano formati in una lotta non semplicemente e direttamente antigiacobina, ma antinapoleonica. Il fatto che la Staël, Chateaubriand, i romantici tedeschi, anche i primi romantici italiani fossero in sostanza degli oppositori di destra del regime napoleonico, i quali odiavano nel Bonaparte

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piuttosto il continuatore che il negatore della rivoluzione francese, non toglie che essi agitassero contro di lui (e non per puro strumentalismo) anche motivi polemici intrinsecamente tutt’altro che reazionari: il diritto dei popoli all’indipendenza, l’esigenza di non vedersi imposte le riforme dall’alto e dall’estero[cr], l’aspirazione alla pace, la svalutazione della gloria militare. Così pure nel campo artistico non c’è dubbio che la polemica contro il principio classicistico dell’imitazione, contro la mitologia e le «tre unità» aristoteliche, contro lo stile aulico, fosse una polemica progressista, che sviluppava esigenze già poste dall’illuminismo. Infine, è ben noto che il movimento romantico, come fin dall’inizio fu assai diversamente intonato da nazione a nazione e da gruppo a gruppo, così si svolse in diverse ondate successive le quali, a seconda delle varie situazioni politico-sociali, ebbero significati ideologici ed espressioni artistiche ben diverse. Il romanticismo tedesco del gruppo di Heidelberg accentuò talmente certi aspetti misticheggianti, irrazionalisti e sciovinisti, che in confronto il gruppo di Jena può apparire ancora una propaggine dell’illuminismo (e tra i romantici stessi di Jena vi furono involuzioni ed evoluzioni assai varie: basti pensare alla netta separazione di responsabilità che a un certo momento August Wilhelm Schlegel sentì il dovere di fare con la Berichtigung einiger Missdeutungen, di fronte al cattolicesimo retrivo e bigotto del fratello Friedrich, il quale un tempo era stato invece il più intelligente e progressista dei due). Il romanticismo di cui si fece banditore Victor Hugo con Cromwell e con Hernani, nell’imminenza della rivoluzione di luglio, ebbe tutt’altra intonazione dal primo romanticismo francese della Restaurazione: anzi, segnò proprio il definitivo distacco di Victor Hugo dal conservatorismo e dalla giovanile ammirazione per Chateaubriand. Il romanticismo di Mazzini ebbe un’apertura democratica sconosciuta ai liberali del «Conciliatore» e, tanto più, ai moderati dell’«Antologia». Ma proprio un’espressione di sinistra del romanticismo, come la democrazia religiosa di Mazzini (e come quella, in parte analoga, dell’ultimo Lamennais), fa vedere con chiarezza i due vizi d’origine che il movimento romantico non giunse mai a superare: la religiosità – che, per quanto aperta e non confessionale, significava pur sempre rinuncia a una visione del mondo veramente realista e scientifica – e l’am-

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biguità insita nel concetto romantico di «popolo».5 Le critiche che il Cattaneo e, più radicalmente ancora, il Pisacane muovono al misticismo democratico mazziniano, traggono la loro forza proprio dal fatto che Cattaneo e Pisacane si rifanno direttamente all’illuminismo settecentesco, sviluppandolo, certo, ma in una direzione tutta laica e smitizzata, senza compiere quel riaccostamento alla religione e alla tradizione che alla maggioranza degli intellettuali europei era parso il carattere specifico del secolo xix, il suo motivo di superiorità in confronto al secolo precedente. E questo ripudio del «secolo religioso» era stato compiuto già prima, in Italia, dal Giordani e dal Leopardi; in Germania, da Goethe e dal modesto ma limpido ingegno di Johann Heinrich Voss, e più tardi da Heine. Uno solo tra i grandi rappresentanti della cultura europea poté dichiararsi romantico solo in quanto rivendicava l’attualità e la popolarità della letteratura, senza con ciò incrinare la propria fedeltà ai suoi prediletti idéologues, senza rinunciare alla lucidità razionale e al sensismo: Stendhal. Anch’egli, è vero, vagheggiò il Medioevo, ma il suo Medioevo, come è noto, era l’epoca dell’«energia», delle forti passioni sensisticamente intese, non della religione: mentre il movimento romantico nel suo complesso fu una reazione non soltanto al razionalismo, ma anche all’«epicureismo» settecentesco, cioè a tutte le morali e le estetiche edonistiche e a tutte le teorie sull’origine ferina dell’umanità, le quali (anche se frammischiate, come in Vico o in Rousseau, a motivi religiosizzanti) ** contenevano una formidabile spinta verso una concezione materialistica della civiltà umana. Su questo punto, che è essenziale proprio per segnare la distinzione tra il «preromanticismo» e il vero romanticismo, nemmeno Lukács, mi pare, ha insistito abbastanza. Bisogna dunque sceverare attentamente, come tra i romantici così anche tra i loro avversari, i vari gruppi e le varie posizioni. Limitandoci all’Italia, possiamo distinguere diverse linee di polemica antiromantica: una più retriva, di classicismo tradizionale e accademico, che difendeva contro le dottrine e i gusti stranieri un’«italianità» meramente retorica e quindi perfettamente conciliabile con la suddivisione dell’Italia in staterelli e coll’asservimento all’Austria (è stato già osservato che la riesumazione delle «tradizioni patrie», che in Germania era un caposaldo del programma romantico, in Italia toccava 5

iSu questo secondo punto, a cui qui accenniamo appena, vedi più oltre, pp. 98 sg., 335, 393.

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per l’appunto ai classicisti); un’altra, di difesa della poesia pura contro «l’arido vero che de’ vati è tomba», cioè contro la richiesta da parte dei romantici di una letteratura orientata in senso realistico, espressione della società contemporanea; una terza, che proclamava la necessità di un «ritorno alla natura» (con tutte le implicazioni e le risonanze che questo motivo aveva avuto nel Settecento) e giustificava l’imitazione dei classici greci e latini, e dei trecentisti italiani, proprio in quanto essi rispecchiavano più direttamente la natura nella sua vergine semplicità; una quarta, che rivendicava l’eredità dell’illuminismo e all’esaltazione del cristianesimo e del Medioevo, fatta dai romantici, contrapponeva l’esaltazione di Atene e di Roma repubblicana come simboli di libertà politica e di laicismo. Che queste quattro linee, pur nell’antiromanticismo che le accomunava, fossero in forte contrasto fra loro, è fin troppo facile dimostrare. Intrinsecamente reazionaria era soltanto la prima, la quale si manifestò allo stato puro soltanto in zone di cultura particolarmente stagnante. A Roma il «Giornale Arcadico», fondato da un uomo tutt’altro che retrivo come Giulio Perticari, ma diretto poi dal mediocre Salvatore Betti, fu il centro di questo classicismo inerte.6 Ma in un ambiente culturale molto più vivo come Milano, anche i classicisti più legati all’Austria (tranne alcuni volgari provocatori come Trussardo Caleppio, il direttore dell’«Accattabrighe») ** non poterono fare a meno di utilizzare, per combattere il liberalismo romantico, argomenti di colore progressista. Ciò corrispondeva alle direttive stesse del governo austriaco, che, pur avendo ormai perduto ogni vera fiducia in una politica riformatrice quale era stata condotta prima della rivoluzione da Maria Teresa e da Giuseppe II, non rinunziava tuttavia a presentarsi propagandisticamente come il continuatore di quella politica e a contrapporre più o meno velatamente il buon governo austriaco all’ottuso oscurantismo papalino, borbonico e piemontese, sebbene quegli stati satelliti si reggessero solo grazie all’appoggio dell’Austria.7 Ecco quindi l’austriacante direttore della «Biblioteca Italiana», Giuseppe Acerbi, accusare i romantici di medievaleria e di oscuranti6 iDel Betti è da vedere specialmente il dialogo Il Tambroni, ossia de’ classici e de’ romantici, nel «Giornale Arcadico» XXXI, 1826, p. 281 sgg. (di cui il Bellorini, Discussioni cit., II, p. 494, dà solo un riassunto). 7 iVedi per esempio «Biblioteca Italiana» XXI, 1821, p. 31, e in generale i Proemi dell’Acerbi alle singole annate della rivista.

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smo; ** ecco l’inquisitore austriaco Paride Zajotti difendere, con argomenti in sé non spregevoli, i diritti della fantasia creatrice e l’autonomia dell’arte, e perfino farsi esaltatore (lui che, fra l’altro, era cattolico osservante) del tirannicidio di Bruto e Cassio come estrema protesta libertaria.8 La polemica classico-romantica si svolse prevalentemente, fin dall’inizio, a base di ritorsioni polemiche: i classicisti, anche i più reazionari, avevano buon giuoco nel denunciare la contraddizione tra il vantato progressismo dei romantici e il loro filomedievalismo. Ma quello che nei classicisti reazionari era un espediente polemico, nei classicisti progressisti fu il vero motivo per cui non aderirono al romanticismo. Certo, non è sempre facile – e non lo fu nemmeno allora – distinguere i «pretesti illuministici» degli uni dall’illuminismo sostanziale degli altri: così come non sarà sempre facile agli storici futuri distinguere la vera rivendicazione della democrazia operaia da certo libertarismo puramente strumentale di taluni anticomunisti. Ludovico di Breme credette di ravvisare un’insincera ritorsione polemica nell’anticlericalismo di Carlo Giuseppe Londonio, e con tutta probabilità si ingannò, anche se il Londonio non fu certo un illuminista di punta né un patriota militante.9 Anche là dove non è minimamente in questione la sincerità, sussiste spesso, negli scritti dei classicisti, la mescolanza di vecchi pregiudizi scolastici con idee di rinnovamento culturale. Perfino nell’antiromanticismo di un Leopardi e di un Cattaneo vi sono elementi negativi, di patriottismo letterario un po’ chiuso, di diffidenza aprioristica verso le letterature e le filosofie straniere contemporanee; si tratta solo di capire che questa loro xeno8 iCfr. Discussioni cit., ed. Bellorini, II, p. 5 sgg. (p. 17 su Bruto e Cassio). Alcuni anni più tardi, nel ’24, quando il romanticismo non rappresentava più un pericolo per il governo austriaco, lo Zajotti si mostrò meno ostile alle dottrine romantiche (ibid., II, p. 200 sgg.). 9 iL. Di Breme in Discussioni cit., I, pp. 349 sg. Sul Londonio vedi anche più oltre, p. 18 n. 30. La figura di questo letterato, nota generalmente solo per la sua partecipazione alla polemica classico-romantica, andrebbe riesaminata tenendo conto anche di altri suoi scritti, a cominciare dal giovanile discorso Dei danni derivanti dalle ricchezze (Milano, Destefanis, 1809, senza nome d’autore; prefazione firmata con le iniziali C. G. L.). Questo discorso è, per la maggior parte, una stracca ripetizione di motivi oraziano-pariniani sulla felicità di chi sa contentarsi del poco. Tuttavia, in contrasto con questo motivo scolastico predominante, compaiono qua e là spunti interessanti di polemica sociale (ingiustizia delle disuguaglianze economiche, eccessivo sfruttamento a cui sono sottoposti i contadini e gli artigiani, carattere parassitario della grande proprietà terriera: vedi pp. 53 sg., 59, 64 sg., 68, 75; cfr. anche, a p. 30 sgg., il forte attacco contro le ricchezze della Chiesa).

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fobia era, al tempo stesso, ostilità verso le mode spiritualistiche che venivano di Francia e di Germania. Analoghe ambivalenze presentano altri concetti-base del classicismo ottocentesco. Come a Rousseau si richiamarono da un lato, con qualche parziale giustificazione, i romantici moderati del circolo di Coppet,10 ** dall’altro, con piena legittimità, i rivoluzionari più arditi, così la parola d’ordine del ritorno al Trecento significò per il Giordani e il Leopardi ben altro che per il padre Cesari (o per un romantico sui generis come il Tommaseo, ibrido miscuglio di moda francese e di vecchia pedanteria linguaiola). Purismo e classicismo, per Giordani e Leopardi, coincidevano in quanto entrambi erano intesi come un «ritorno alla natura» in senso «russoiano»;11 ma d’altra parte il pathos libertario e antitirannico, ereditato dalla tradizione alfieriana e dal giacobinismo, sottintendeva un gusto letterario ben diverso da quello del purismo, il quale voleva uno stile candido e piano, tutto ingenuità e freschezza nativa. I divergenti giudizi del Giordani e del Leopardi su Lucano e su Frontone12 indicano la difficoltà di conciliare pienamente queste due poetiche. Il Leopardi giovane alterna allo stile piano degli idilli lo stile concitato e teso delle canzoni; il Giordani raccomanda la cristallina limpidezza di Erodoto e di Domenico Cavalca, ma poi si lascia trasportare (e spesso con effetti molto felici) dall’irruenza alfieriana e dal sarcasmo. E tuttavia questa profonda differenza fra il loro classicismo e il classicismo dei vecchi retori non fu tale da spingere né il Giordani né il Leopardi in braccio ai romantici. Essi mirarono, invece, a una rivalutazione e rigiustificazione del classicismo in termini nuovi. La «conversione letteraria» del Leopardi è un processo di avvicinamento alla cultura militante e, nello stesso tempo, di rifiuto dell’ideologia e della poetica del romanticismo, che costituivano il tipo di cultura militante in voga in quel momento. L’amore stesso per il «primitivo» e il «naturale» non porta il Leopardi a salvare della poesia antica soltanto il periodo da Omero a Sofocle,* e a svalutare come poesia troppo 10 iVedi il saggio, tuttora fondamentale, di Giuseppe Berti, Origini politiche del romanticismo, in «Società» III, 1947, p. 444 sgg. 11 iVedi più oltre, pp. 58, 117. 12 iVedi pp. 121-22, n. 39.

*iSul rapporto tra «omerismo» e alessandrinismo nel Leopardi vedi ora Gilberto Lonardi, Classicismo e utopia nella lirica leopardiana, Firenze 1969.

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colta e di imitazione la poesia ellenistica e la latina, come farà tutta una corrente della critica romantica tedesca, seguendo spunti herderiani. Il suo interesse per la ferocia e l’immediatezza passionale degli eroi omerici – su cui ha recentemente insistito il Treves –13 non gli impedisce di apprezzare altamente e di sentire come parti integranti della «naturalezza» antica anche il pathos virgiliano (vedi la sua premessa alla traduzione del secondo libro dell’Eneide), anche l’arte raffinata e un po’ sdolcinata di Mosco e perfino delle anacreontèe. Pateticità e idillicità sono, insomma, elementi del suo concetto di «natura», che può quindi vivere all’interno di un classicismo inteso senza angustie, ma pur sempre classicismo.14 In questo quadro culturale trova la sua spiegazione anche un caso a prima vista sconcertante come quello di Luigi Angeloni, indomito giacobino e materialista e altrettanto indomito purista, che dall’esilio incita gli italiani alla rivoluzione e alla repubblica democratica in uno stile tutto intessuto di riboboli trecenteschi, e addirittura si ostina a difendere il purismo di stretta osservanza del padre Cesari contro il classicismo aperto alle esigenze moderne del Monti, e prova un vivo dolore nel vedersi escluso dall’accademia della Crusca per motivi politici.15 Non si tratta di una semplice bizzarria individuale: si tratta di una manifestazione estrema di una contraddizione che, in forma più attenuata, è in tutto il classicismo progressista italiano. ** Nel dare notizia all’ex governatore austriaco Saurau dell’opera Dell’Italia, pubblicata dall’Angeloni a Parigi, e del suo contenuto rivoluzionario, l’Acerbi soggiungeva: «Sfortunatamente per le intenzioni dell’autore, la sua opera è scritta nella lingua de’ trecentisti, e con uno stile che fa dormire alle prime pagine, di modo che il lettore difficilmente può 13 iLo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, a cura di Piero Treves, Milano-Napoli 1962, p. 473 sg. 14 iContribuì certo a mantenere il gusto leopardiano entro questo ambito settecentesco la mancanza dei grandi classici greci del v e iv secolo nella biblioteca di Monaldo Leopardi a Recanati; ma bisogna tener conto anche di motivi più generali, inerenti a tutto l’ambiente classicista nel quale il Leopardi si formò. Cfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, pp. 29-33, 39, n. 3; e «Atene e Roma» 1959, p. 91. 15 iSull’Angeloni purista cfr. R. De Felice in Diz. biogr. degli Italiani, III (1961), p. 247 e la bibliografia da lui citata a p. 249. Ma uno studio soddisfacente manca tuttora. Per la sua difesa del Cesari contro il Monti vedi soprattutto l’opera Dell’Italia, uscente il settembre del 1818, Parigi 1818, II, p. 203 sgg.

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arrivare alle sue conclusioni».16 L’ironica osservazione coglieva nel segno: il linguaggio arcaico fu per l’Angeloni, come per il Giordani, un ostacolo alla diffusione di idee innovatrici. La forma piana, facile e «popolare» rimase per lo più un appannaggio dei moderati, che se ne giovarono per dirigere il popolo paternalisticamente. Nella questione della lingua, certo, la Proposta del Monti* (a cui collaborarono alcuni tra i migliori ingegni del classicismo italiano, dal Perticari al Giordani ad Amedeo Peyron) indicava una soluzione molto più giusta e feconda di sviluppi che il purismo fanatico dell’Angeloni. Nel {decimo} saggio del presente volume° ho cercato di mostrare come la linea Monti-Cattaneo-Ascoli fosse per molti aspetti (malgrado certi pericoli di aulicità e di distacco dalla lingua colloquiale) adeguata alla cultura di una nazione moderna più che la stessa soluzione manzoniana. Una rivalutazione del Monti deve prendere le mosse dalla Proposta, e in generale dall’importanza culturale, non strettamente poetica, dell’opera sua. Sarà allora possibile correggere il giudizio, troppo legato a passioni risorgimentali, che sul Monti pronunciò il De Sanctis;17 e si vedrà che il saggio stesso del Croce in Poesia e non poesia non rende ancora giustizia al Monti, proprio perché si limita a un’indulgente riabilitazione della «bella letteratura» montiana, senza 16 iLettera del 27 dicembre 1818, pubblicata da A. Luzio in «Riv. stor. del Risorgim. ital.» I, 1895-96, p. 680, n. 1. 17 iLa condanna desanctisiana coinvolge anche la Proposta, considerata come un diversivo dalla politica: «I governi lasciavan fare, contenti che le guerricciole letterarie distraessero le menti dalla cosa pubblica. In Italia ricomparivano i soliti fenomeni della servitù: battaglie in favore e contro la Crusca, quistioni di lingua (...). La Proposta e il Sermone all’Antonietta Costa erano i grandi avvenimenti che succedevano alla battaglia di Waterloo» (Storia di lett. it., ed. N. Gallo, Torino 1958, II, p. 957). Il De Sanctis qui ripete, attenuandone appena la forma, un giudizio dell’Emiliani-Giudici (Storia delle belle lettere in Italia, Firenze 1844, p. 1203): «Gl’ingegni persero di vista le idee politiche (...). I despoti trionfavano e ridevano, e ci schernivano, e ci chiamavano vili e dementi (...). Monumento di questa vergognosa eunucomachia è la Proposta di correzioni al vocabolario della Crusca». Il significato nazionale e illuministico di quella polemica fu compreso, invece, dal Settembrini (Lezioni di letter. ital., a cura di G. Innamorati, Firenze 1964, II, p. 1005 sg.; tutto il capitolo sul Monti è esemplare per equilibrio e acutezza) ed era stato già apprezzato dal Di Breme (vedi più oltre, p. 339, n. 33). Una buona caratterizzazione della Proposta è stata data recentemente da M. Vitale, La questione della lingua, Palermo 1960, p. 178 sgg.

*iSul Monti abbiamo adesso il saggio di cui indicavo la mancanza: G. Barbarisi, V. Monti e la cultura neoclassica, nell’Ottocento garzantiano cit. sopra. Il Barbarisi ne sta preparando una più ampia redazione in volume autonomo. °i{«Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli», qui decimo e penultimo capitolo, ma ultimo capitolo nell’edizione 1965, e così nell’edizione 1969 e successive ristampe, nelle quali è seguìto dall’«Appendice» e dagli «Addenda» – N. d. C.}.

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mettere in luce quello che il Monti significò nella cultura del suo tempo.18 In realtà, nonostante tutte le ben note giravolte politiche, il Monti non fu privo di una sua coerenza ideologica: fu un illuminista moderato, nemico del municipalismo gretto, fautore di un dispotismo riformatore che proteggesse le lettere e le scienze e diffondesse la cultura dall’alto. Nel «piccolo rinascimento» romano di Pio VI, nel Regno Italico, nel restaurato dominio absburgico il Monti esaltò sempre questo suo ideale (solo dinanzi a un’esperienza storica come la rivoluzione francese, che andava troppo al di là del suo orizzonte ideologico, ebbe veri sbandamenti). La frase del De Sanctis: «Le massime eran sempre quelle, applicate a tutt’i casi dal duttile ingegno», non vale solo nel significato ironico che il De Sanctis intendeva darle: le «massime» furono realmente assai più ferme dei contingenti atteggiamenti politici, e non si trattava di massime puramente retoriche. La scissione del gruppo dirigente della «Biblioteca Italiana», che ebbe per protagonisti l’Acerbi dalla parte dei reazionari, il Giordani dalla parte dei progressisti – e che segnò il tramonto definitivo della speranza in un’Austria riformatrice –19 vide il Monti a fianco del Giordani, estromesso dalla direzione della rivista. Il fatto che egli non sia diventato un cospiratore, che sia rimasto estraneo al nuovo spirito risorgimentale, che abbia continuato a godere di sussidi (avaramente concessi, del resto) da parte del governo austriaco, non toglie che da allora in poi egli sia stato, culturalmente, all’opposizione. Le sue pur caute amicizie col gruppo del «Conciliatore», la dignitosa solidarietà 18 i** L’introduzione di Carlo Muscetta alle Opere del Monti nella collana dei classici Ricciardi (Milano-Napoli 1953) è ricca di penetranti osservazioni storico-culturali sul Monti e sul suo ambiente (basti ricordare la caratterizzazione della Roma di Pio VI); ma, per una giusta reazione al puro gusto della bella letteratura che ispira il saggio del Croce, finisce col riaccostarsi forse un po’ troppo alla condanna etico-politica desanctisiana. 19 iSu questo episodio vedi più oltre, p. 54 sg. ** Un’interpretazione del tutto erronea e reazionaria del dissidio tra Acerbi e Giordani (e tra Acerbi e Leopardi) è data da Alessandro Luzio, Studi e bozzetti di storia letteraria e politica, Milano 1910, I, p. 1 sgg. Migliori gli studi di Eugenia Montanari, Per la storia della «Bibl. Ital.», in Miscell. di studi crit. pubbl. in onore di G. Mazzoni, Firenze 1904, II, p. 361 sgg. (dove però l’episodio Giordani-Acerbi è trattato assai brevemente) e di G. P. Clerici, P. Giordani, G. Acerbi e la «Bibl. Ital.», in «Riv. d’Italia» XI, 1908, vol. I, p. 924 sgg. (dove si polemizza giustamente contro il reazionarismo del Luzio, ma il contrasto fra Acerbi e Giordani è interpretato in chiave soltanto psicologica e non politico-culturale). Il libro di K. R. Greenfield, Economia e liberalismo nel Risorgimento (2ª ed. ital., Bari 1964, p. 219 sgg.) dà un buon quadro generale dei periodici lombardi nell’età della Restaurazione, ma sulla «Biblioteca Italiana» è troppo frettoloso e generico. **

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col Giordani perseguitato ed esule,20 il compiacimento con cui accolse la dedica delle prime canzoni patriottiche del Leopardi, l’ardore con cui si dedicò alla polemica illuministica e antimunicipalistica sulla lingua italiana, meritano un maggiore riconoscimento di quanto abbiano avuto finora. Soprattutto non è giusto ** identificare l’attività culturale del Monti nell’età della Restaurazione con lo stanco Sermone sulla mitologia, e trascurare invece la Proposta. Tanto superiore al classicismo del Monti sul piano artistico, il classicismo dell’ultimo Foscolo* è, però, più distaccato dai problemi politico-culturali del suo tempo. Esso dà un’espressione altissima al «mito della poesia consolatrice, in un mondo storico considerato ormai irrecuperabile alla bellezza e alla magnanimità», come ben dice Lanfranco Caretti.21 Non classicismo freddo e accademico, certamente, ma nemmeno classicismo illuminista, malgrado le intenzioni didascaliche e allegorizzanti delle Grazie. E anche il suo antiromanticismo consiste fondamentalmente in una rivendicazione della poesia pura; rivendicazione legittima nei riguardi di certe angustie moralistiche e pedagogiche del Manzoni e di altri romantici lombardi, ma estranea al dibattito ideologico allora in corso. Ha visto bene, anche qui, il Caretti: «La polemica foscoliana verso i romantici italiani, Manzoni compreso, può senza dubbio giustificare l’eccezionale avventura personale di un grande artista (...); ma si mostra anche, per un altro verso, ormai eccentrica rispetto alla reale situazione italiana, agli effettivi problemi che essa poneva ai nostri scrittori». Paradossalmente si può dire che all’antiromanticismo del Foscolo si accosta più quello dello Zajotti – a parte, s’intende, la ben diversa profondità e coerenza interiore – che quello del Giordani e del Leopardi, i quali non fecero mai 20 iVedi la ben nota lettera al Giordani dell’ottobre 1824 nell’Epistolario del Monti, ed. A. Bertoldi, VI, p. 53. 21 iNell’introduzione alle Opere del Manzoni, Milano 1962, p. XVIII sg.

*iSull’ultimo Foscolo il Caretti ha ora sviluppato la sua posizione nell’Ottocento garzantiano cit., p. 99 sgg., specialmente p. 188. Vedi anche G. Luti, Foscolo, nei «Protagonisti della storia universale», Roma-Milano 1966 (specialmente il secondo e il penultimo paragrafo), e, adesso, V. Masiello, Il mito e la storia: analisi delle strutture dialettiche delle «Grazie» foscoliane, in «Angelus novus» 12-13, 1969, p. 130 sgg.: un saggio di grande interesse, che meriterebbe più ampia discussione, anche per i problemi generali che esso investe. Notevole anche A. Lepre, Per una storia degli intellettuali italiani: i giacobini e Foscolo, in «Movimento operaio e socialista» XIV, 1968, p. 219 sgg.

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questione di poesia pura, ma combatterono l’ideologia romantica in nome di un’altra ideologia. D’altra parte il tratto più originale del Foscolo politico, cioè lo sforzo da lui compiuto di superare l’astrattezza del libertarismo alfieriano nutrendolo di succhi machiavellici, hobbesiani e vichiani, non fu dal Foscolo stesso messo al servizio di un preciso orientamento liberale, e tanto meno democratico. La sua esigenza di Realpolitik rimase (dopo il breve periodo giacobino) crucciosamente chiusa in se stessa; nei riguardi della plebe il Foscolo mantenne in definitiva lo stesso distacco e disprezzo dell’Alfieri. Lo riconobbe francamente il Cattaneo in un articolo che è, tuttavia, un’appassionata difesa del Foscolo contro le calunnie dei clericali e una ricostruzione del processo attraverso il quale la tradizione alfieriana e foscoliana divenne, nel Risorgimento, suscitatrice di energie democratiche.22 Ma questo recupero del Foscolo al pensiero e all’ethos risorgimentale avvenne tramite il Mazzini: i classicisti illuministi rimasero, fino a quel tardivo articolo del Cattaneo, antifoscoliani.23 Le ragioni per cui i classicisti illuministi non riuscirono a prevalere nella cultura italiana dell’Ottocento risultano, a questo punto, abbastanza chiare. Essi non arrivarono mai a costituire un gruppo relativamente omogeneo e organizzato, come i romantici lombardi del «Conciliatore» e i moderati toscani dell’«Antologia». Dopo la scissione, già ricordata, del gruppo dirigente della «Biblioteca Italiana» e dopo il fallimento del tentativo di metter su una rivista classicista dissidente,24 mancò loro un periodico mediante il quale potessero diffondere e svi22

iCattaneo, SL, I, p. 275 sgg., specialmente pp. 315-319. iBasti pensare all’antifoscolismo del Giordani (cfr. p. 63) e allo scarso influsso esercitato dal Foscolo sul Leopardi (vedi tuttavia E. Bigi in «Giorn. stor. lett. it.» CXLI, 1964, p. 204 sgg.).* L’articolo del Cattaneo, scritto a Napoli nell’ottobre del ’60, si chiudeva appunto con un richiamo all’influsso del Foscolo sul Mazzini, che, al tempo stesso, sanzionava la riconciliazione tra Cattaneo e Mazzini, divisi nel passato da aspri dissensi (SL, I, 319). Incondizionatamente favorevole al Foscolo era stato invece, fin dal ’44, Giuseppe Ferrari (La rivoluzione e i rivoluzionari in Italia, a cura di F. Della Peruta, Milano 1952, p. 63-75): in complesso, la visione che il Ferrari ha della letteratura italiana ottocentesca è influenzata dal Mazzini assai più che dal Cattaneo (vedi anche il suo giudizio sul «Conciliatore» e sulla polemica classico-romantica, ibid., p. 75 sg.). Sulla fortuna del Foscolo nella critica risorgimentale vedi il saggio di W. Binni ne I classici italiani nella storia della critica, II2, Firenze 1961, p. 285 sgg. (dove un accenno al Ferrari è una delle poche aggiunte che si desiderano). 24 iG. Ferretti, P. Giordani sino ai quaranta anni, Roma 1952, p. 189 sg. 23

*iL’articolo del Bigi è ora ripubblicato nel volume La genesi del «Canto notturno» e altri studi sul Leopardi, Palermo 1967, p. 9 sgg. (in particolare, p. 37 sgg.).

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luppare organicamente le proprie ideee. Soltanto il «Politecnico» del Cattaneo rappresentò molti anni dopo, in certo senso, una realizzazione di quel progetto, ma in un clima culturale già mutato e con un più accentuato interesse per l’economia, la sociologia e le scienze della natura; il «Politecnico» stesso, del resto, rimase un fenomeno abbastanza isolato nella nostra cultura. Con un termine gramsciano, si può dire che i classicisti illuministi non furono, a differenza dei romantici, gli «intellettuali organici» di una classe. Le loro posizioni politiche oscillarono tra nostalgie di assolutismo illuminato (perduranti anche nel Cattaneo fino alla vigilia delle Cinque giornate) e punte di democrazia avanzata; e spesso si trattò di posizioni meta-politiche, importantissime a lunga scadenza, ma prive di immediata presa sulla realtà. Al problema del rapporto tra autore e pubblico il Giordani e il Leopardi non furono affatto insensibili: si resero conto che i vecchi, chiusi ambienti delle accademie letterarie avevano fatto il loro tempo, e che la cultura italiana poteva vivere solo allargando la cerchia dei suoi utenti.25 Ma i romantici lombardi e i moderati toscani seppero individuare con chiarezza la classe a cui intendevano rivolgersi e le sue esigenze culturali: non c’è bisogno di ricordare il famoso passo della Lettera semiseria del Berchet in cui è delimitato socialmente, con tanta acutezza, il pubblico della letteratura romantica (né «parigini» né «ottentoti», ma quella classe media a cui il Berchet dà il nome di «popolo»); né c’è bisogno di ricordare la pronta e sicura sensibilità che per le richieste del pubblico ebbe il Vieusseux. Lo scopo dei classicisti illuministi era più ambizioso: non adeguarsi a un movimento culturale già esistente e limitarsi a esprimerlo e ad assecondarlo, ma criticare e combattere tutto ciò che in tale movimento vi era di non realmente progressista, di arretrato in confronto a quella cultura illuministica che per essi rimaneva la pietra di paragone di ogni cultura. Contro la concezione del Vieusseux, di una rivista composta prevalentemente di recensioni (che era poi la concezione predominante in Italia e fuori), il Leopardi sostenne la necessità di una rivista di articoli originali, che dessero un indirizzo nuovo invece di limitarsi a informare su ciò che via via si pubblicava; la stessa cosa, con parole molto simili, aveva scritto una decina d’anni prima il Giordani, attirandosi le derisioni dei romantici lombardi.26 Ma 25

iVedi pp. 41 sgg., 93 sg. iGiordani, nella «Biblioteca Italiana», anno I, tomo II (aprile-giugno 1816), p. 186 ( = Opere,

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**, assente ancora dalla scena politico-culturale un movimento proletario, assente o troppo esigua anche una borghesia illuministica decisa a rompere ogni legame col passato feudale e clericale, come l’avrebbe voluta il Cattaneo, quel tentativo era destinato all’insuccesso. E certo nello stile aulico dei classicisti illuministi, negli elementi di aristocraticismo intellettuale che in essi contrastavano col contenuto progressista delle loro idee, dobbiamo vedere al tempo stesso una conseguenza del mancato contatto con un largo pubblico e una causa, se non determinante, aggravante di tale distacco. Nocque anche ai classicisti illuministi l’appartenenza stessa a uno schieramento così eterogeneo come quello classicista. Malgrado gli aspri dissidii che li separarono dai classicisti reazionari (basti ricordare l’inimicizia tra Giordani e Acerbi e quella, altrettanto profonda anche se non accompagnata da disistima intellettuale, tra Giordani e Zajotti, e il sistematico boicottaggio dell’Acerbi verso i primi lavori del Leopardi),27 essi continuarono ad apparire a gran parte dell’intellettualità italiana come dei classicisti tout court, e ad essere perciò misconosciuti da uomini di idee affini e a riscuotere, invece, scomode lodi da parte di reazionari che li ammiravano per il loro stile impeccabile e la loro fedeltà ai grandi modelli. Il Giordani, in particolar modo, fu per tutta la vita perseguitato da tale ammirazione mal riposta, la quale contribuì a mettere in ombra le sue doti più genuine.28 Con tutto ciò, l’influsso anche immediato del classicismo illuminista sulla cultura italiana della Restaurazione fu maggiore di quanto geneX, p. 55 sg.): «L’Italia (bisogna non dissimulare il vero) è scarsa molto di opere degne; abbondante solo d’inezie, o peggio (...). Io credo che un giornale utile in Italia non possa restringer in poco molti libri buoni; ché non gli abbiamo; ma piuttosto debba insegnare a far buoni libri, e a leggerli». L’opinione del Giordani, schernita da Pietro Borsieri nelle Avventure letterarie di un giorno (in Discussioni cit., ed. Bellorini, I, p. 106 sg.), fu ripresa quasi con le stesse parole dal Leopardi nella lettera al Vieusseux del 2 febbraio 1824: «Le dirò liberamente che a me parrebbe che un Giornale italiano dovesse piuttosto insegnare quello che debba farsi, che annunziare quel che si fa (...). I libri che oggi si pubblicano in Italia non sono che sciocchezze, barbarie, e soprattutto rancidumi, copie e ripetizioni». Sia nell’uno che nell’altro compare la contrapposizione fra l’Italia (dove questo compito formativo, e non informativo, è particolarmente urgente) e le altre nazioni. Si tenga presente che gli articoli del Giordani nella «Biblioteca Italiana» erano particolarmente ammirati dal Leopardi (vedi più oltre, p. 91). 27 iSu tutto ciò vedi il primo saggio giordaniano del presente volume, e qui sopra, p. 13, n. 19. Il classicista austriacante Trussardo Caleppio giungeva fino a sospettare nel Giordani un romantico che si fingeva classicista per meglio compiere, senza suscitare sospetti, la sua opera corrosiva contro le tradizioni patrie (cfr. Discussioni cit., ed. Bellorini, I, p. 58). 28 iVedi più oltre, pp. 39 sgg., 61.

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ralmente si crede. Il contributo positivo dato dai migliori classicisti – e specialmente dal Londonio – alla polemica classico-romantica non consisté semplicemente in un generico effetto moderatore di affermazioni troppo polemiche e paradossali dei loro avversari, ma in qualcosa di più preciso. Leggendo il «Conciliatore», si ha chiara la sensazione di un progressivo radicalizzarsi delle idee dei suoi collaboratori, i quali mettono sempre più in ombra le iniziali simpatie per il Medioevo e per i temi lugubri, e sempre più tengono a presentarsi come gli eredi dell’illuminismo lombardo.29 Tale radicalizzazione dipende certo in primo luogo dal maturarsi di una situazione politica di crescente tensione fra la borghesia-aristocrazia «italica» e il governo austriaco, che avrà il suo drammatico epilogo negli arresti e nelle persecuzioni del ’21; ma è innegabile che a chiarire le posizioni contribuì la polemica dei classicisti, che mise a nudo la contraddizione tra amore per il Medioevo ed esigenza di modernità, in cui i romantici lombardi si trovavano all’inizio.30 La scelta, compiuta dal Berchet, di quelle due famose ballate del Bürger (la Leonora e il Cacciatore feroce) come prototipi di poesia romantica, si rivelò imbarazzante:* non già perché il Bürger era stato un poeta cronologicamente e ideologicamente anteriore al vero e proprio romanticismo – un poeta populista di orizzonte limitato, ma non reazionario come lo saranno i veri romantici tedeschi –, ma proprio per la ragione opposta, cioè perché quelle due poesie indulgevano troppo al gusto della cupa superstizione medievale, e di una superstizione troppo tipicamente tedesca. Ecco quindi il Di Breme,* e poi il 29 iVedi nel fascicolo del 15 luglio 1819 (vol. III, p. 65, ed. Branca) l’esplicita dichiarazione che il «Conciliatore» aspira a continuare la battaglia culturale sostenuta dal «Caffè»; e più oltre (III, p. 241) il fervido elogio di Pietro Verri scritto dal Borsieri: «sentì ed espresse quanto le nuove istituzioni e la luce della filosofia, che altri chiamano corruzione, abbiano mansuefatta la sanguinaria e superstiziosa selvatichezza del buon tempo antico». 30 iQuesto chiarimento fu avviato, prima ancora della fondazione del «Conciliatore», dalla polemica antiromantica del Londonio (vedi per esempio Discussioni cit., I, p. 232: «Quei tempi di barbarie, d’ignoranza, di depravazione che ora da taluni, nell’esaltazione della poetica loro immaginazione, ci si dipingono come l’età dell’oro»; p. 316: «Quelli che col prestigio della poesia cercano di rimettere in onore i pregiudizi e la superstizione, non possono certamente vantarsi di promuovere la civilizzazione e il perfezionamento dell’umano intelletto»). Da allora in poi tutti i romantici lombardi, dal Berchet al Visconti al Pellico, ebbero cura di dichiarare che il loro interesse per il Medioevo non significava superstizione né gusto del lugubre.

*iSu quello che del romanticismo tedesco conobbero effettivamente i romantici italiani vedi ora M. Puppo, La «scoperta» del romanticismo tedesco, in «Lettere italiane» XX, 1968, p. 307 sgg. *iSul Di Breme e sulla posizione da lui occupata nel romanticismo lombardo qualche precisazione in «Belfagor» XXII, 1967, p. 240 sgg. (in dissenso da C. Colaiacomo, «Angelus novus», dicembre 1967, p. 80 sgg.).

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Visconti e più radicalmente infine il Montani, rinnegare quella scelta,31 ed ecco il Berchet pronunziarsi nettamente contro l’ostentata medievaleria della Narcisa del Tedaldi-Fores.32 Certo l’identificazione di «civiltà moderna» con «civiltà cristiana», il ripudio delle soluzioni antispiritualistiche a cui era arrivato il pensiero francese del secolo xviii, continuarono a contraddistinguere tutti i romantici lombardi, dal Di Breme (così drammaticamente combattutto fra sensismo e religiosità) fino al Manzoni;33 ma è pur notevole che essi – fatta eccezione di un’ala destra rappresentata dal Grossi e specialmente dal Cantú – chiarissero sempre meglio il proprio distacco del romanticismo reazionario. Così pure, è in parte un risultato della polemica milanese del 1816-19 – e in parte anche della presenza in Toscana di classicisti non retrivi, come Giovan Battista Niccolini e Francesco Forti –34 il fatto che l’«Antologia», pur continuando per molti aspetti il «Conciliatore», ripudiasse nettamente (con la sola eccezione del Tommaseo) le nostalgie medievali, e mettesse addirittura da parte, perché troppo carico di equivoci, il termine di «romanticismo».35 Senza dubbio questa posi31 iL. Di Breme, Grand commentaire sur un petit article, Genève-Paris 1817, p. 146; Ermes Visconti, Idee elementari ecc., nel «Conciliatore», vol. I, p. 396, ed. Branca; G. Montani, in Discussioni cit., ed. Bellorini, II, p. 306. Vedi, invece, la goffa difesa «pedagogica» che della scelta di quelle due poesie tentò il Tommaseo, ibid., p. 404. 32 iG. Berchet, Opere, a cura di E. Bellorini, II, Bari 1912, p. 133 sgg. 33 iIn particolare sul problema della periodizzazione della storia umana vedi più oltre, pp. 118 sg., 337-340. 34 iIl Forti, nipote del Sismondi, discusse il romanticismo da un punto di vista illuministico in una recensione al Voyage en Italie del Simond (nell’«Antologia» XXIV, luglio-settembre 1829, p. 124 sgg.). Il Mazzini menzionò questo scritto come uno dei pochi in cui la polemica antiromantica fosse condotta in nome del patriottismo e del progresso (vedi Scritti letterari di un Italiano vivente, Lugano 1847, 1, p. 105 sg.). Gli stessi motivi polemici, ma molto attenuati, ritornano in uno scritto posteriore del Forti, Dubbi ai Romantici, nell’«Antologia» XLIV, aprile-giugno 1832, p. 36 sgg. 35 iL’esigenza di abbandonare questo termine si fece strada dopo il ’21 anche nell’ambiente lombardo. Il Maroncelli sostituì a «classico» e «romantico» i termini «profilare» e «cor-mentale» da lui coniati (Addizioni alle Mie Prigioni, Lugano 1833, p. 46 sgg.): la mostruosità di quelle due parole non deve far trascurare l’importanza di questo scritto del Maroncelli nel processo di ripensamento dell’esperienza romantica milanese. Più tardi il Tenca (Prose e poesie scelte, a cura di T. Massarani, I, p. 361 sgg.) preferì parlare di «vecchia» e «nuova scuola» *. Il De Sanctis, che più tardi avrebbe introdotto la nuova distinzione fra «scuola liberale» e «democratica», già nelle giovanili lezioni napoletane osservava: «Niente di più incerto ed arbitrario vi era dell’uso di queste parole ...» (Teoria e storia della letteratura, a cura di B. Croce, I, p. 104). Per l’atteggiamento dell’«Antologia» nella polemica classico-romantica, vedi, oltre le ben note opere del Prunas e del Ciampini, G. A. Borgese, Storia della critica romantica in Italia, Firenze 19202 (nuova ed., Milano 1949, p. 61 sgg.).

*iLa posizione di Carlo Tenca di fronte al classicismo illuminista e alla polemica tra classi-

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zione meno ostile al classicismo era dovuta anche a preoccupazioni tipicamente «moderate»: attraverso il superamento delle dispute tra classicisti e romantici, il Capponi e il Vieusseux miravano a creare una cultura juste-milieu, aperta ai contatti con l’Europa ma rispettosa delle tradizioni italiane e toscane, nettamente contraria (dopo le amare esperienze napoletane, piemontesi e lombarde) a entrare in conflitto diretto col potere politico. In questo senso l’anticlassicismo dei romantici milanesi, pur con tutte le contraddizioni a cui abbiamo accennato, era più ricco di fermenti innovatori che il moderatismo eclettico dei toscani. Tuttavia per un certo periodo questo ambiente poté offrire alle migliori forze del classicismo italiano (al Giordani e, in misura molto minore, al Leopardi) una certa possibilità di dialogo e di collaborazione; e uno degli scrittori dell’«Antologia», Giuseppe Montani, superstite del gruppo del «Conciliatore», poté sviluppare il proprio romanticismo in senso sempre più illuministico, fino a simpatizzare profondamente per il Leopardi. Il Risorgimento ebbe infine una soluzione moderata, liberale e non democratica, ma tuttavia laica, non neoguelfa. Questo fu il risultato in primo luogo di un reale conflitto di interessi tra borghesia e Chiesa cattolica, in secondo luogo di nuovi influssi culturali (hegeliani e poi positivistici) che si fecero sentire anche in Italia nel secondo Ottocento. Tuttavia nella formazione del laicismo ottocentesco il classicismo illuminista ha avuto una parte che non va sottovalutata. Si pensi (per accennare appena a un argomento che meriterebbe studi approfonditi) al noviziato giordaniano di uomini come Marco Minghetti, Pietro Gioia, Cesare Cabella, i quali fecero poi parte del personale politico della Destra storica i primi due, della Sinistra costituzionale il terzo; si pensi al legame ancor più stretto ed esplicito che col classicismo illuminista ebbero da un lato il Cattaneo e i suoi seguaci, dall’altro il Carducci;36 si pensi ancora a Luigi Settembrini che, anche quando in politica abbandonò le sue giovanili posizioni di sinistra, mantenne della storia culturale italiana una visione radicalmente laica e, in complesso, filo-classicista. cisti e romantici è ora, meglio che da ogni altro, definita da Gianluigi Berardi nell’introduzione a C. Tenca, Saggi critici, Firenze 1969. Fra i numerosi studi sul Tenca apparsi poco prima del saggio del Berardi va ricordato specialmente quello di G. Pirodda, Mazzini e Tenca: per una storia della critica romantica, Padova 1968, p. 101 sgg. {Cfr. successiva nota 43 – N. d. C.}. 36

iPer il Cattaneo vedi p. 332 sgg.; per il Carducci, pp. 28 sg., 100 sgg.

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Un altro campo in cui il classicismo illuminista ebbe in Italia una parte preponderante, almeno fino al ’48, fu lo studio dell’antichità. Mentre in Germania la nuova filologia e la nuova linguistica furono per la maggior parte, nel bene e nel male, opera dei romantici, in Italia i propugnatori di una seria e moderna filologia, gli avversari dell’umanesimo stantio dei versificatori latini appartennero quasi tutti al classicismo illuminista. Mentre il Tommaseo si inorgogliva dei propri imparaticci latini, il Giordani conduceva non solo contro lo scriver latino, ma anche contro l’insegnamento del latino generalizzato e considerato come base di tutta l’istruzione una battaglia che non ha perduto ancora la sua attualità;37 e Giacomo Leopardi e Amedeo Peyron (passato solo dopo il ’48 da posizioni illuministiche e riformatrici a posizioni reazionarie) furono gli unici veri filologi italiani dell’età della Restaurazione, e il Cattaneo fu il fondatore di una linguistica storica spiccatamente antiromantica, che trovò il suo continuatore nel più grande linguista italiano, Graziadio Ascoli.38 Una valutazione del classicismo illuminista italiano, tuttavia, non può limitarsi a un rendiconto degli influssi che esso esercitò a più o meno breve scadenza: non è davvero il caso di estendere alla storia letteraria e culturale quel giustificazionismo storico che già abbastanza ha inceppato, dal 1956 in poi, i nostri studi di storia del Risorgimento, e che, con l’apparenza di opporsi alle deformazioni «pratico-politiche» della storiografia, ha in realtà obbedito a una ben precisa visione «pratico-politica» della realtà presente. Del Fortleben di un autore o di un movimento culturale facciamo parte anche noi, e non abbiamo alcun motivo di rinunciare a esprimere anche noi il nostro giudizio, pur con la consapevolezza del margine di soggettività che esso com37

iVedi più oltre, p. 46 sgg. iSu Cattaneo e Ascoli vedi {il decimo} saggio del presente volume. Sulla parte che spetta ai classicisti illuministi nella filologia classica del primo Ottocento mi sia permesso di rimandare al mio lavoro su La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze 1955. Una diversa impostazione, che fa pernio sui romantici e i neo-guelfi, è stata sostenuta con grande dottrina, ma in modo, a mio parere, non del tutto convincente, da Piero Treves ** nei due libri L’idea di Roma e la cultura italiana del sec. xix e Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento (tutt’e due Milano-Napoli 1962); cfr. «Critica storica» II, 1963, p. 603 sgg. Tuttavia un capitolo del primo di questi due libri, «L’ambivalenza del classicismo» (p. 36 sgg.), è di importanza fondamentale per intendere gli effetti libertari e democratici che un’educazione classicistica, anche di tipo arretrato, poté produrre; e nel secondo libro, se il Leopardi è trattato con scarsa simpatia e con sostanziale incomprensione, il profilo del Giordani è vivo e vero. 38

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porta, e che è maggiore per quel che riguarda i valori propriamente artistici (più legati a giudizi di gusto, cioè, in ultima analisi, a giudizi edonistici), minore per le posizioni ideologico-politiche, minore ancora per i risultati «scientifici» (di obiettiva conoscenza della realtà) raggiunti nel corso della storia.39 Classicisti illuministi furono gli ingegni più avanzati, più liberi da miti e da pregiudizi, del nostro primo Ottocento. Nel terzo saggio del presente volume ho cercato di mostrare come il pensiero leopardiano, pur oltrepassando di molto le posizioni del classicismo illuminista e dello stesso illuminismo settecentesco francese, tragga di lì la sua origine. Ebbene, si dica pure che i romantici e i moderati italiani rispondevano meglio a certe esigenze di sviluppo della società italiana; resta il fatto che il materialismo leopardiano (comprese, a mio parere, le sue conseguenze pessimistiche per ciò che riguarda il rapporto uomo-natura) aveva ed ha un valore conoscitivo incomparabilmente superiore alle varie forme di spiritualismo del primo Ottocento e ai nuovi spiritualismi di epoca più vicina a noi. Si riconosca in pieno, non solo il grande valore artistico dei Promessi sposi, ma il valore di rottura che l’introduzione del genere letterario del romanzo ha avuto rispetto a una vecchia tradizione di lirica e di prosa aulica, e l’importanza fondamentale, anche se non esclusiva, della riforma linguistica manzoniana per la costituzione dell’italiano moderno. Non si dimentichi, però, che un Giordani, un Cattaneo, e più che mai un Leopardi, dicevano in uno stile più arcaico, e nell’ambito di generi letterari meno «popolari», cose ben più ardite sul piano ideologico. Anche questo contrasto fra novità di contenuto e arcaicità di forma può e deve essere criticato finché ci riferiamo al linguaggio come comunicazione: è evidente che se Giordani, Leopardi e Cattaneo stesso avessero avuto la scioltezza e la modernità stilistica di un Pietro Verri, se fossero stati, in una parola, soltanto illuministi e non classicisti o puristi, la diffusione delle loro idee (pur trovando sempre un limite obiettivo nella situazione politico-sociale sfavorevole) sarebbe stata maggiore. Ma se ci riferiamo al linguaggio come espressione, diventa assai più difficile deplorare l’arcaismo di quei classicisti. Viene spon39 iS’intende che i tre ordini di giudizi non sono affatto indipendenti tra loro, come riconosce anche Giuseppe Petronio alla fine della sua Introduzione a una storia dell’attività letteraria in Italia («Il Contemporaneo» VII, n. 78, novembre 1964, p. 7 sgg.).

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taneo il confronto con Lucrezio, il poeta più avanzato ideologicamente di tutta la letteratura latina, e insieme uno dei più arcaizzanti. Sarebbe certo molto semplicistico rimpiangere che Lucrezio non abbia divulgato in stile «popolare» la filosofia epicurea, poiché l’arcaismo ha in Lucrezio (e così nel Leopardi, e nel miglior Giordani) una forza sdegnosa e polemica che non va minimamente confusa con la leziosaggine arcaistica di Frontone o del padre Cesari. ** A far disconoscere i motivi validi del classicismo ottocentesco ha certamente contribuito, col potente influsso esercitato dalla sua Storia e dalle sue lezioni, il De Sanctis. Come ha dimostrato Mario Mirri nel suo recente libro desanctisiano,40 il grande critico non ebbe davvero tenerezze per la fase spiccatamente reazionaria e medievaleggiante del romanticismo europeo.41 Vide con piena lucidità il suo carattere retrivo («noi uomini del secolo xix siamo figli di una delle più violente, delle più radicali reazioni che si trovino nella storia, il cui lievito dura ancora, a cui non ancora sono state mozzate le unghia»), e anche se talvolta inclinò a giustificarlo storicamente come risposta agli «eccessi» giacobini («il terrore bianco successe al rosso ... l’una esagerazione chiamava l’altra»), mise bene in chiaro la propria ostilità agli ideali teocratici e oscurantisti dei suoi promotori. Il genuino spirito del secolo xix, quale si era manifestato dopo la fine di quel breve e utopistico tentativo di ritorno al Medioevo, appariva al De Sanctis 40 iM. Mirri, F. De Sanctis politico e storico della civiltà moderna, Messina-Firenze 1961: vedi specialmente il cap. VII («Continuità e originalità del secolo xix»). 41 iBisogna tener presente che il De Sanctis poneva l’inizio del romanticismo tedesco molto presto, addirittura con Klopstock: includeva, dunque, nel romanticismo Herder e lo Sturm und Drang, cosicché i veri e propri romantici reazionari tedeschi gli apparivano come la manifestazione terminale di un movimento complessivamente sano e davvero popolare: una manifestazione, d’altronde, di breve durata, perché ben presto superata dallo «spiritualismo panteistico» dell’ultimo Goethe e dalla robusta costruzione filosofica hegeliana (cfr. F. De Sanctis, A. Manzoni, a cura di L. Blasucci, 2ª ed., Bari 1962, p. 99 sgg.; Storia della letter. ital. a cura di N. Gallo, Torino 1958, II, p. 959-61). Egli inglobava, dunque, nel romanticismo anche il cosiddetto preromanticismo tedesco; ma mentre gli storici tedeschi contro i quali giustamente polemizza Lukács mirano a interpretare Herder e lo Sturm und Drang in chiave reazionaria e a valorizzare già nella cultura settecentesca il massimo possibile di irrazionalismo, il De Sanctis, al contrario, voleva dimostrare che i più veri romantici tedeschi erano stati gli scrittori populisti ma non reazionari del Settecento, e che il romanticismo degli Schlegel aveva rappresentato solo una parentesi involutiva. Del resto, per il De Sanctis, il paese in cui il romanticismo aveva assunto un tipico carattere di «strumento politico» in funzione antilluministica era stata la Francia della Restaurazione (Manzoni cit., p. 102 e altrove).

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non come negazione, ma come proseguimento dell’illuminismo settecentesco: un proseguimento, però, che aveva eliminato tutto ciò che di eccessivo, astratto, antistorico c’era stato nel pensiero del secolo precedente; il «senso della storia e del reale» era la preziosa conquista del secolo xix rispetto al xviii. Nella formazione di questo nuovo ethos (per cui l’eroe alfieriano e giacobino era sceso dal suo piedistallo, si era riconciliato con la realtà, aveva imparato a parlare un linguaggio accessibile al popolo) una parte essenziale l’aveva avuta la rinascita dello spirito religioso, che, se nei primi anni della Restaurazione aveva assunto aspetti paurosamente reazionari, rappresentava però per il De Sanctis, nella sua forma più aperta e progressista, un carattere comune a tutta la cultura viva della prima metà dell’Ottocento. La scuola liberale, capeggiata dal Manzoni, e la scuola democratica, capeggiata dal Mazzini, erano sorte entrambe in questo clima di religiosità; erano due propaggini, se non del romanticismo nel senso che gli dava il De Sanctis, certo di quello che noi a buon diritto chiamiamo romanticismo, cioè del movimento culturale religioso-populista, antimaterialistico e antigiacobino, venuto su nell’età della Restaurazione. Il De Sanctis riteneva che nel secondo Ottocento non fosse più tempo di religione, bensì di scienza, di positivismo; ma nella religiosità del primo Ottocento vedeva, per così dire, un passaggio obbligato, l’unica via per la quale lo spirito europeo si era liberato dalle astrattezze ideologiche (razionalismo) e stilistiche (classicismo) del secolo xviii. Da questa prospettiva – ammirevole certo per la sua complessità, e molto superiore per questo rispetto agli schemi ghibellineggianti dell’Emiliani Giudici e del Settembrini – i classicisti illuministi dell’Ottocento rimanevano esclusi. Al classicismo del Settecento (Alfieri, Parini), e ancora a quel momento di crisi del classicismo e del sensismo rappresentato, ai primi dell’Ottocento, dal Foscolo dell’Ortis e dei Sepolcri, il De Sanctis riconosceva una funzione positiva, e fin dal 1855 la rivendicò appassionatamente contro il Gervinus.42 Ma in quello stesso saggio egli dichiarava che il classicismo «muore romorosamente ne’ sonanti versi del Monti», e concordava ** col Gervinus (pur nella diversità delle prospettive politico-culturali) sull’inattualità del classicismo e del giacobinismo insieme: «Ora la situazione è mutata; 42

iSaggi critici, a cura di L. Russo, I, p. 187 sgg.

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... non è più questione di principii, ma di esecuzione; non è più il tempo di Alfieri, ma di Balbo, di Gioberti, di Rosmini. Verissimo ...». Classicismo e illuminismo posteriori al 1815 gli apparivano dunque come un residuo di «astrattezza» settecentesca, qualcosa di ritardatario e di utopistico insieme.43 Al Giordani soltanto pochi accenni svalutativi sono dedicati nella Storia e nelle Lezioni.44 Dalla «scuola democratica» quale il De Sanctis la delinea sono assenti, come è già stato osservato, Cattaneo, Ferrari, Pisacane, tutti coloro che non potevano rientrare nel quadro della democrazia religiosa mazziniana. Senza dubbio bisogna tener conto anche di gravi ostacoli obiettivi, cioè della lentezza e difficoltà con cui la conoscenza di questi autori si fece strada nella cultura italiana;45 tuttavia questa è solo una faccia della questione: l’altra è costituita dalla chiusura ideologica del De Sanctis stesso a tutto quel settore del pensiero democratico ottocentesco. Unico rappresentante del classicismo anticlericale rimaneva nelle Lezioni desanctisiane Giovan Battista Niccolini. Il ridimensionamento dell’ammirazione tributata al Niccolini dai contemporanei è una prova del gusto sicuro del De Sanctis, anche se, come ha convincentemente dimostrato Luigi Baldacci, il giudizio desanctisiano va a sua volta in parte riveduto;46 ma è interessante notare che nell’accademi43 iIl De Sanctis, perciò, rifiuta in complesso anche quell’impostazione (sostenuta da Carlo Tenca* e, con accentuate simpatie per il classicismo, dal Settembrini) secondo cui romanticismo e classicismo avrebbero avuto pregi e difetti complementari: forma nuova e contenuto vecchio il primo, forma vecchia e contenuto nuovo il secondo. Qualche volta, è vero, egli sembra accettarla (Storia lett. ital., ed. cit., II, p. 958: «Il romanticismo era il razionalismo o il libero pensiero applicato alla letteratura da uomini che in religione predicavano fede e autorità. I classici, al contrario, miscredenti e scettici nelle cose della religione, erano qualificati superstiziosi in fatto di letteratura»); ma in realtà egli era convinto che la nuova scuola religiosa, malgrado certe passeggere nostalgie reazionarie, recasse essa sola in sé l’avvenire, e che i classicisti, dopo Alfieri e Foscolo, non avessero più nessuna esigenza viva da difendere: «Erano di quella scuola (la scuola di Goldoni, di Parini, dell’illuminismo settecentesco) più i romantici, i quali avevano l’aria di combatterla, che i classici, suoi eredi di nome, ma eredi degeneri, appo i quali la sua vitalità si mostrava esaurita nella pomposa vacuità di Monti e nel purismo rettorico di Pietro Giordani ...» (ibid., p. 962 sg.). Su questo problema cfr. anche M. Mirri, op. cit., p. 202 sgg. 44 iCfr. più sotto, p. 81 e n. 142. 45 iVedi anche la giusta osservazione del Muscetta (introduzione a De Sanctis, La scuola democratica, Torino 1951, p. XXXI): «Se la scuola cattolico-liberale si presenta (nel De Sanctis) con maggior compattezza, ciò corrisponde a un fatto storico, cioè alla più organica direzione culturale che riuscirono a realizzare i moderati». 46 iL. Baldacci, Nel centenario di G. B. Niccolini, in «Rassegna letter. ital.» LXVI, 1962, p. 39 sgg. Molto di ciò che il Baldacci osserva ** sulla formazione ideologica del Niccolini si può estendere al classicismo illuminista italiano nel suo complesso.

*i{Cfr. la postilla alla n. 35 – N. d. C.}.

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smo del Niccolini il De Sanctis vedeva la conferma della sua tesi, che la religiosità è un carattere essenziale della cultura ottocentesca: l’anticlericalismo sia del Manzoni che del Mazzini deriva dal fatto che essi hanno «un’idea più alta e più pura della religione», quello del Niccolini è «sentimento antireligioso», è «negazione come nel secolo xviii», e quindi non può essere che puramente astratto e libresco.47 Si sa come il De Sanctis incontrasse difficoltà nel collocare il Leopardi in una delle due scuole, liberale e democratica, e come infine si rassegnasse a considerarlo (analogamente al Guerrazzi e al Giusti, ma ancor più di loro) come un «fuori posto», un «eccentrico». L’isolamento del Leopardi nella cultura del suo tempo fu un fatto reale, e il Leopardi stesso fu il primo ad averne lucida coscienza. Tuttavia al De Sanctis il Leopardi appariva ancor più isolato di quanto in realtà non fosse, proprio perché il De Sanctis, misconoscendo il classicismo illuminista dell’Ottocento, e in particolare il Giordani, contribuiva, per così dire, a fargli il vuoto attorno. Il Sapegno ha messo molto bene in rilievo il carattere tormentato e problematico dell’ammirazione desanctisiana per il Leopardi: un’ammirazione immediata, ardente per il «poeta della sua giovinezza», che tuttavia non si inseriva facilmente nella poetica realistica del De Sanctis maturo. Questa difficoltà di inserimento dipendeva, osserva ancora il Sapegno, dall’«apparente rifiuto della popolarità della forma» da parte del Leopardi, nonché dal suo pessimismo e materialismo.48 Ora, per quel che riguarda il «rifiuto della popolarità della forma», è significativo che il De Sanctis scorga nel Leopardi quella stessa contraddizione tra forma antica e contenuto nuovo che aveva notato nel classicismo settecentesco, e in particolare nell’Alfieri. «Questa forma, entro cui apparisce un contenuto così interessante, non è ancora uguale al suo contenuto, e non ha freschezza di vita comune. Sembra l’obelisco egiziano in piazza Montecitorio. Nessuna meraviglia dunque che egli sia stato così poco inteso e poco apprezzato (...). Mirava a un’Italia avvenire, come Alfieri. Ma l’avvenire non si trova quando si smarrisce il presente».49 Ecco risorgere, anche a proposito dell’a47 iAl Niccolini sono dedicate le ultime due lezioni su La scuola democratica. Si noti che il De Sanctis tiene a ribadire la superiorità del Niccolini sugli altri classicisti, e specialmente sul Giordani (p. 576 dell’edizione commentata a cura di F. Catalano, Bari 1954): in tal modo la valutazione negativa del Niccolini veniva a colpire, a fortiori, gli altri. 48 iN. Sapegno, De Sanctis e Leopardi, in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari 1961, p. 164 sg. 49 iDe Sanctis, Studio sul Leopardi, cap. XX in fine.

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mato Leopardi, quell’accusa di passatismo e avvenirismo insieme, di scarsa aderenza alla realtà presente, che il De Sanctis muoveva a tutte le correnti culturali dell’Ottocento che erano rimaste estranee all’esperienza romantica. È vero che secondo il De Sanctis questa sconcordanza tra contenuto e forma viene a comporsi in armonia in quelli che egli chiamò i «nuovi idilli» del 1828-29, e che a lui apparivano una specie di momento «manzoniano», realistico, «bonario» nella carriera poetica del Leopardi. Ma è anche vero che questo tentativo di recuperare a una poetica di realismo antieroico un poeta che ad essa totalmente ripugnava si è ormai rivelato un tentativo fallito, assai dannoso al posteriore sviluppo della critica leopardiana.50 E non solo la forma classicheggiante, ma anche il contenuto pessimistico e antireligioso dell’opera leopardiana costituì sempre per il De Sanctis un tormentoso problema. Nel dialogo Schopenhauer e Leopardi egli fece risaltare con estrema vivezza rappresentativa la paradossale efficacia energetica di questo pessimismo che «non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare»; intuì anche che questo carattere non decadente e non reazionario del pessimismo leopardiano era in qualche modo connesso con le sue origini materialistiche.51 Nella Storia della letteratura italiana assegnò al Leopardi la funzione di distruttore delle illusioni teologico-metafisiche del primo Ottocento e di inauguratore del «regno del reale»: qui il Leopardi sembrava veramente aver raggiunto la sua collocazione nella storia del secolo xix.52 Ma anche questa immagine di un Leopardi primo positivista e realista, che pure conteneva un elemento di verità, dovette lasciare insoddisfatto il De Sanctis, sia perché non si accordava col classicismo leopardiano (che il De Sanctis era portato sempre più a giudicare negativamente, come abbiamo visto), sia perché il 50 iMeglio di tutti, mi sembra, ha colto questo limite dell’interpretazione desanctisiana Emilio Bigi, ne I classici italiani nella storia della critica a cura di W. Binni, II, 2ª ed., Firenze 1961, pp. 366 sg.* Il De Sanctis giungeva a supporre un influsso diretto del Manzoni sul Leopardi dei «nuovi idilli»: «Giovarono forse anche i lunghi colloqui col Manzoni, che dovettero stornarlo da quelle forme solenni e clamorose, le quali egli aveva ereditato dall’uso de’ latini, da Monti e da Foscolo» (Studio sul Leopardi, cap. XXXVI). Sugli equivoci a cui ha dato luogo il termine non leopardiano di «nuovi» o «grandi idilli», vedi più oltre, p. 112, n. 9. 51 iCiò è stato giustamente osservato da Sergio Landucci, Cultura e ideologia in F. De Sanctis, Milano 1963, p. 171. 52 iSull’importanza della pagina dedicata al Leopardi nella Storia desanctisiana ha richiamato l’attenzione il Sapegno, in Ritratto di Manzoni cit., p. 170 sg.

*iVedi ora, dello stesso Bigi, anche La genesi del «Canto notturno» cit., p. 116 sg.

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pessimismo leopardiano mirava al di là delle stesse posizioni cattolico-moderate, contrastava con tutto lo storicismo provvidenzialista dell’Ottocento. Perciò nello Studio sul Leopardi quella collocazione storica è abbandonata, e ciò non può dipendere solo dall’incompiutezza di quest’ultima opera del De Sanctis. Rimane comunque al De Sanctis il grande merito di aver posto il problema, tuttora aperto, del «Leopardi progressivo».53 Bisogna anche aggiungere che il De Sanctis, uomo immune da ogni rigida consequenziarietà dottrinaria, conservò sempre in sé una vena di pessimismo e un certo distacco ironico-amaro da quello storicismo che pur professava: si pensi alla bellissima divagazione sul fumo del sigaro nel capitolo quarto del Viaggio elettorale, o anche, nello Studio sul Leopardi, a certi accenni al problema del male, «problema agitato molto e poco ancora risolto, non sapendosi spiegare l’esistenza del male nella vita».54 Ciò gli concedeva nei riguardi del pessimismo leopardiano una simpatia e una comprensione molto maggiore di quella che avranno più tardi i neo-idealisti. Quello che il Carducci, come critico della letteratura ottocentesca, ha in meglio nei confronti del De Sanctis, deriva appunto dalla sua formazione più legata al classicismo illuminista. Fu quella formazione che gli consentì da un lato una maggiore attenzione ai problemi di tecnica letteraria e di magistero formale con cui si erano cimentati i classicisti del primo Ottocento, dall’altro una valutazione più positiva della componente libertaria e anticlericale del classicismo. Di questa tradizione classico-repubblicana Bologna e la Romagna hanno continuato, si può dire fino ai nostri giorni, ad essere le depositarie, e il Carducci se ne nutrì e a sua volta contribuì a darle forza. Ma da questa affinità spirituale col classicismo ottocentesco il Carducci non riuscì, come è noto, a trarre una visione organica della storia culturale italiana che potesse stare a fronte di quella del De Sanctis: un po’ per la sua molto più debole tempra di storico e di pensatore, un po’ perché l’involuzione reazionaria e nazionalistica della Sinistra repubblicana (di cui Carducci fu il protagonista culturale, come Crispi fu il protagonista politico) portò con sé anche un’involuzione del classicismo illuminista, che sempre più divenne retorica della romanità, sciovinismo, fraseologia demagogica 53

iA questo problema è dedicato il terzo saggio del presente volume. iStudio sul Leopardi, cap. XXIV (a cura di W. Binni, Bari 1953, p. 199).

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al servizio di obiettivi antipopolari: divenne, insomma, una nuova forma di classicismo reazionario, anche se di un genere ben diverso dal vecchio classicismo austriacante e cruschevole.55 Nel Novecento non sono mancate, accanto a questo filone principale di classicismo sciovinista, correnti classicistiche minori, che hanno avuto i loro riflessi anche sulla storia letteraria. Basti pensare alla Storia della critica romantica del Borgese (la cui intenzione programmatica è chiarita dall’autore stesso nella premessa alla seconda edizione), al leopardismo della «Ronda», ai Saggi sulla forma poetica italiana dell’Ottocento di Cesare de Lollis. Ma questi classicismi estetizzanti e aristocratici erano ben lontani da quell’unione di classicismo e illuminismo che aveva contraddistinto gli scrittori del primo Ottocento da noi presi in esame. Occorre tuttavia dire che mentre il de Lollis, prendendo come criterio fondamentale di giudizio l’esteriore «decoro» dello stile, finiva col salvare dalla sua ironia un po’ troppo facile, tra tutti i romantici minori, soltanto il Tommaseo proprio per quel che ha di più dignitosamente scolastico, il Borgese non mancò, invece, di alcune giuste intuizioni storico-culturali, pur tra le disuguaglianze di quel libro giovanile.56 E ancora, non va confuso né col classicismo rondista né con quello di de Lollis il particolare tipo di critica stilistica di Giuseppe De Robertis, estraneo, sì, a un interesse diretto per la storia delle idee e della società, ma capace di intendere più a fondo di tutti i critici precedenti, al di fuori di ogni classicismo puramente decorativo,57 l’essenzialità del linguaggio poetico leopardiano nei suoi momenti più alti. Anche chi (come noi in questi saggi) studi il classicismo ottocentesco da un diverso punto di vista, non può trascurare l’insegnamento di De Robertis, che ha avuto un particolare significato in un periodo in cui tanta critica leopardiana (e foscoliana) era viziata dallo psicologismo, e in cui Croce pronunziava la sua irosa scomunica che dal Leopardi ideologo si estendeva a quasi tutto il Leopardi poeta. 55 iSull’involuzione del classicismo carducciano vedi A. La Penna, Orazio e l’ideologia del principato, Torino 1963, p. 242 sgg. 56 iParticolarmente felici mi sembrano le pagine sull’«Antologia» (cap. III) e sul Tommaseo (capp. IX e XII). 57 iFu proprio De Robertis (Saggi, Firenze 1939, p. 197 sgg.) a scrivere la critica più acuta del classicismo del de Lollis.

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Nemico del romanticismo in quanto significasse squilibrio e amore dell’irrazionale, il Croce era però altrettanto e più ostile alla filosofia prerivoluzionaria e materialista del secolo decimottavo. Dal De Sanctis egli ereditò, in un certo senso, la distinzione tra romanticismo come fenomeno psicologico-morale e movimento spiritualistico del secolo xix, il primo condannato come malattia della volontà (e qui all’influsso desanctisiano si univa quello del Carducci), il secondo magnificato come «religione della libertà».58 Ma nel De Sanctis il giudizio positivo sullo spiritualismo ottocentesco era basato essenzialmente sulla continuità rispetto all’illuminismo; il Croce invece esaltava lo spiritualismo liberal-moderato in netta antitesi alla rivoluzione e alla democrazia. In un simile quadro il classicismo illuminista dell’Ottocento difficilmente poteva trovar posto. Una sola opera del Croce, mi sembra, dimostra una maggiore comprensione di certe correnti di illuminismo ottocentesco: la Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, che è, del resto, l’opera del Croce più ricca di senso storico concreto, più immune dai cattivi schemi della filosofia crociana. Anche qui il posto d’onore è dato alla «scuola cattolico-liberale», ma il Croce sa valutare abbastanza equamente anche un Cattaneo ** e giunge a riconoscere, per esempio, alla linguistica cattaneiana un valore che difficilmente le spetterebbe a norma dell’Estetica come linguistica generale.* Molto meno ricco di curiosità culturale e di versatilità, Giovanni Gentile aveva però, assai più di Croce, il senso dell’unità della cultura e la capacità di ricostruzione di tutto un ambiente intellettuale. Dal giovanile Rosmini e Gioberti fino a Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, la sua simpatia per i moderati cattolici è costante: egli non accetta il dualismo che è alla base del cattolicesimo, ma tra cattolicesimo e materialismo non ha esitazioni nel preferire il primo, che ha agli occhi suoi il merito di salvare comunque il concetto di spirito e che egli sente più consono alla propria mentalità paternalista e conservatrice. Tuttavia – con un criterio valutativo opposto a quello 58 iVedi il cap. I della Storia d’Europa. Sulla distinzione tra romanticismo morale, estetico, filosofico – in correlazione con le categorie del suo sistema – il Croce aveva già insistito in un articolo su Le definizioni del romanticismo (in Problemi di estetica, 3ª ed., Bari 1940, p. 292 sgg.). Sulla valutazione crociana del romanticismo ottime pagine ha scritto G. Petronio, Il romanticismo, Palermo 1960, p. 64-68.

*iSulla posizione di Croce nei confronti del Cattaneo cfr. F. Focher in «Riv. di studi crociani» V, 1968, p. 261 sgg.

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del presente volume – in Rosmini e Gioberti è indicata con molta acutezza l’associazione del classicismo ottocentesco col sensismo: «I classicisti furono sensisti, i romantici, in generale idealisti, o, almeno, spiritualisti ... Classicismo in arte e sensismo o lockismo in filosofia pare non si potessero scompagnare».59 Il dopoguerra ha visto, accanto a quel rinnovato fervore di studi sul romanticismo italiano a cui abbiamo accennato all’inizio (fervore di studi che aveva anch’esso una sua motivazione etico-politica: avversione alla retorica romana del fascismo, bisogno di riannodare i rapporti culturali fra Italia ed Europa), anche una nuova e approfondita valutazione del Leopardi e del Cattaneo. Sembrerebbe adesso che anche il Giordani sia finalmente arrivato a rompere l’indifferenza e l’incomprensione che hanno gravato su di lui per più di un secolo. Ma l’esatta collocazione ideologica e culturale di questi scrittori è rimasta, a mio parere, alquanto impedita dall’uso estensivo e indiscriminato che si è fatto del termine di «romanticismo».* Sull’opportunità di non fare del romanticismo una «categoria eterna», un atteggiamento dello spirito umano ricorrente nelle epoche più diverse, e di non interpretare quindi «romanticamente» poeti antichi o medievali, si è già molto insistito (basti ricordare la prefazione a La carne, la morte e il diavolo di Mario Praz). Direi, anzi, che si è troppo insistito, poiché – se è lecito azzardare un’impressione ad un incompetente – certe recenti interpretazioni dantesche mi sembrano pensate e scritte addirittura sotto l’ossessione di non cadere in una lettura 59 iG. Gentile, Rosmini e Gioberti, 3ª ed., Firenze 1958, pp. 9, 17, e vedi tutto il cap. I della parte I.

*iIl legame tra classicismo e illuminismo del primo Ottocento è indicato da Umberto Bosco, Preromanticismo e romanticismo, in «Questioni e correnti di storia letteraria», Milano 1949, ripubbl. in Realismo romantico, Caltanissetta 1959, p. 15: «Se vogliamo restare sul terreno storico, dovremo (...) vedere chi fossero propriamente i “classici” ai quali i romantici vollero opporsi. Essi erano, in sostanza, gli illuministi». Su un piano diverso, va anche ricordato l’appassionato libro postumo di Raffaello Giolli, La disfatta dell’Ottocento, Torino 1961 (scritto attorno al 1940-43). La polemica di Giolli contro il romanticismo italiano ed europeo (vedi specialmente la parte intitolata «Romanticismo: una finzione», p. 85 sgg.) non è, né vuole essere, ispirata ad un scrupolosa equità storiografica; nemmeno sembra accettabile l’immediata identificazione tra avanguardia artistica e posizioni politico-sociali rivoluzionarie, che a Giolli, critico d’arte antifascista e nemico del provincialismo culturale, apparivano due aspetti di un’unica battaglia anticonformistica (vedi l’introduzione di Claudio Pavone, p. XXII). Eppure, l’avere indicato in Leopardi e in Pisacane i due veri eroi dell’Ottocento italiano dimostra come la tensione politico-morale, se faceva trascurare all’autore la minuta imparzialità dei singoli giudizi, gli faceva però vedere lucidamente i punti essenziali.

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«romantica» della Divina Commedia. Ma mentre si è rigorosamente proibito di parlare di romanticismo per atteggiamenti psicologici, culturali e artistici anteriori all’Ottocento, si sono poi riunite sotto l’etichetta di romanticismo tutte le correnti culturali vive della prima metà dell’Ottocento, anche quelle dichiaratamente antiromantiche. Si è finito col fare di «romanticismo» un sinonimo di «civiltà liberale-democratica del secolo xix», o addirittura di tutto ciò che nell’arte e nella cultura ottocentesca non è fredda accademia e imitazione inerte del passato. Così Goethe, Foscolo, Leopardi, Heine, Cattaneo – per citare soltanto alcuni nomi di avversari espliciti del romanticismo – sono stati aggregati, loro malgrado, alla schiera romantica.60 Il culmine di questa tendenza storiografica si riscontra nel Sapegno, il quale giunge fino a considerare come un romantico Marx.61 Ma anche uno studioso molto più attento alle distinzioni storico-culturali come Walter Binni, che è tra i pochi che abbiano compreso il valore dell’illuminismo e del materialismo leopardiano, non ha mai rinunciato, parlando del Leopardi, a un uso vago e sfocato del termine «romantico» o ad espressioni-bisticcio come «romantico-illuminista», «classico-romantico».62 E anche Giuseppe Petronio – un critico a cui molto devono, per quel poco che possono avere di buono, questi miei studi ottocenteschi –, mentre ha con piena ragione polemizzato contro l’equivoca categoria del «preromanticismo»,63 ha poi, nella sua recente storia letteraria, inglobato nel romanticismo tutta la cultura della Restaurazione, compresi Leopardi e Cattaneo.64 La distinzione 60 iGli storici della musica – cioè di un’arte in cui le posizioni ideologiche si riflettono meno immediatamente e chiaramente che nella letteratura – mostrano tuttavia più chiarezza su questo problema. Essi fanno cominciare giustamente il romanticismo tedesco da Schubert e da Schumann, non da Beethoven; eppure, basandosi solo su certi caratteri psicologico-estetici (titanismo, senso tragico della vita, reazione alla grazia e alla compostezza settecentesca, e via dicendo) sarebbe molto facile fare di Beethoven un romantico. 61 iN. Sapegno, Compendio di storia della letter. ital., III, Firenze 1964, p. 68 sgg. Già il Croce (Problemi di estetica cit., p. 296) aveva aggregato Marx al «romanticismo politico», in quanto storicista, contrapponendogli «l’ideologo e politicamente classicista Mazzini»: chiaro esempio della confusione a cui porta l’identificare lo storicismo tout court col romanticismo. Fra l’altro, il Croce dimenticava che la polemica contro la rivoluzione francese, considerata come manifestazione di «astratto» spirito ideologico **, distruttivo e non creativo, è proprio tipica di Mazzini, e non di Marx. 62 iCfr. per esempio La nuova poetica leopardiana, 2ª ed., Firenze 1962, pp. 7, 92, 123, 153, n. 1, 168 e altrove; Classicismo e neoclassicismo nella letter. del Settecento, Firenze 1963, p. 413 e passim. 63 iVedi sopra, p. 4 sg. 64 iG. Petronio, L’attività letteraria in Italia, Palermo 1964, pp. 637 sgg., 698, 712.

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che egli fa tra «romanticismo» e «scuola romantica» (includendo in quest’ultima soltanto coloro che si autodefinirono romantici) è certo metodologicamente opportuna, in quanto permette di riconoscere la diffusione delle idee romantiche anche tra coloro che non appartennero alla «scuola» in senso stretto. Abbiamo visto, del resto, che un’analoga distinzione, anche se con diversa terminologia, era stata fatta dal De Sanctis. Ma se, come fa il Petronio, si intende per romanticismo il «denominatore comune di tutte le manifestazioni di sentimento, di cultura e di poetica che caratterizzarono il primo Ottocento», il complesso delle «risposte che, pur diverse, nascevano da una medesima situazione storica e si sforzavano di rispondere agli stessi problemi», si finisce, mi sembra, col fare dell’età della Restaurazione un blocco compatto, negando o almeno sottovalutando i contrasti delle forze politico-sociali e culturali, a cui corrispondeva una diversità non solo di «risposte», ma, a guardar bene, anche di «domande». O vorremo, altrimenti, definire come «socialismo» tutte le manifestazioni politiche e culturali della nostra epoca, anche le più tipicamente reazionarie o le più tipicamente neocapitalistiche, solo perché sono tutte «risposte» alla medesima situazione politica (ma non ai medesimi interessi, non alle medesime aspirazioni pratiche e ideali)? Se quindi, nei saggi che formano il presente volume, abbiamo riservato il termine di romantici solo a coloro che si dissero esplicitamente tali o che almeno dettero una valutazione complessivamente positiva del romanticismo e ne furono influenzati in maniera preponderante, e se abbiamo chiamato classicista chi al fronte classicista appartenne, non lo abbiamo fatto per un gusto ozioso di pedanteria terminologica, ma per un’esigenza di chiarezza storico-culturale che ci è parsa inderogabile. S’intende che, anche così circoscritte, le categorie di classicismo e romanticismo valgono solo come prime approssimazioni. Si tratta, per così dire, di «partiti culturali»; e se a definire la personalità e l’azione di un uomo politico non basta certo l’indicazione del partito in cui militò, tanto meno un’indicazione del genere è sufficiente per i movimenti di cultura, molto più fluidi dei partiti politici. Ma nemmeno la storia culturale può prescindere dai raggruppamenti di forze e dalle alleanze (più o meno durature, più o meno omogenee) che si formano nella battaglia delle idee. Rimane, certo, il problema degli influssi che un movimento di così vasta portata come il romanticismo esercitò anche sui suoi avversari.

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Occorrerà, io credo, distinguere, meglio di quanto non si sia fatto finora, tre tipi di influssi. Vi sono innanzitutto elementi del cosiddetto «preromanticismo» settecentesco, che erano già parte integrante della tradizione illuministica, e che i classicisti illuministi dell’Ottocento ereditarono da quella tradizione, sviluppandoli in senso ben diverso dai romantici loro contemporanei: è questo il caso degli influssi di Rousseau su Leopardi, o di Vico su Cattaneo, o anche degli aspetti «preromantici» del purismo. Vi sono, poi, motivi appartenenti alla medesima tradizione di pensiero, che si diffusero nell’Ottocento attraverso la mediazione dei primi romantici: Madame de Staël,* per esempio, fu una grande divulgatrice di Rousseau e di Herder, e il Leopardi accolse da lei (come anche da Chateaubriand) molti elementi russoiani e herderiani, senza per questo lasciarsi attrarre dalla sostanza religioso-moderata del suo pensiero.65 Vi sono, infine, i veri e propri influssi romantici. Quando si abbiano presenti queste distinzioni (anche se, come è ovvio, non sempre sarà possibile applicarle con assoluta esattezza), si vedrà, ad esempio, che il Leopardi, mentre non accolse nessun motivo propriamente romantico nella sua ideologia, subì due fugaci suggestioni del romanticismo sul piano psicologico-letterario: la prima nella primavera del ’19, quando compose la canzone Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato dal corruttore per mano ed arte di un chirurgo, poi rifiutata dall’autore stesso: canzone di stile e di metrica classicheggiante (quanto allo stile poetico, del resto, classicheggianti erano anche i romantici italiani), ma romantica per il contenuto, derivato da un fatto lagrimevole di «cronaca nera» **; la seconda in un momento del tormentato amore per la Targioni, quando scrisse il Consalvo. Non c’è bisogno di aggiungere che questi due momenti romantici non furono momenti poeticamente felici. All’esangue classicismo del Niccolini, invece, giovò l’influsso della dram65 iQuanto a Chateaubriand, vedi anche p. 119 e n. 33. Quanto a Madame de Staël, cfr. Sofia Ravasi, Leopardi et M.me de Staël, Milano 1910 (dove la distinzione che facciamo sopra nel testo non è chiaramente avvertita); A. Frattini nel volume collettivo Leopardi e il Settecento, Firenze 1964, pp. 269 sg. (dove si osserva giustamente che «il L. si richiama più volte alla Staël proprio per i presupposti di una filosofia sensistica e vitalistica sottesi alle sue opere»).

*iSulla Staël vedi l’ottimo paragrafo dell’art. di G. Moget, En marge du bi-centenaire ecc., nella «Pensée», febbraio 1967, pp. 48-53: «Le rôle de Madame de Staël». Fra i molti altri scritti pubblicati in occasione del centenario staëliano è specialmente notevole (anche per i rappoti con Rousseau) quello di Roland Mortier, Philosophie et religion dans la pensée de M.me de Staël, in «Riv. di letterature moderne e comparate» XX, 1967, p. 165 sgg.

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maturgia romantica, e in particolare dell’Adelchi, da cui nacque l’Arnaldo da Brescia. Se, invece, si qualifica genericamente come romantico il pessimismo del Leopardi, si finisce col disconoscere la base materialisticoedonistica da cui esso si sviluppa, o col considerarla un residuo di astratta ideologia settecentesca, o magari col valutarla positivamente, sì, ma più per il suo valore di eroico anticonformismo che per la sua obiettiva verità. Se si considera romantico l’interesse del Cattaneo per l’etnografia e la linguistica, si rischia di fraintendere il carattere specifico della sua etnografia e della sua linguistica, che si svolgono tutte in polemica coi romantici europei. Di qui la necessità di mantenere certe distinzioni che aiutino a ricostruire, in tutta la sua complessità, la storia culturale del nostro Ottocento.

I. Le idee di Pietro Giordani* **

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

1. Il libro su Pietro Giordani sino ai quarant’anni,1 terminato da Giovanni Ferretti poco prima di morire, rimane una delle opere più valide e più caratteristiche di questo studioso, che impersonava un tipo raro di erudito con schiette doti di narratore e simpatia umana per i propri personaggi. Egli stesso definì benissimo nella prefazione il carattere di quest’ultimo suo libro e un po’ di tutta la sua produzione, dicendo che il suo proposito era stato di narrare la giovinezza del Giordani «con una simpatia che voleva conseguir come risultato la comprensione senza però giungere all’apologia, con una linearità che rischiava di farmi cader nella cronaca ma che non voleva esser mai pura cronaca». Questo difficile equilibrio il Ferretti seppe mantenerlo di fronte al Giordani assai meglio che di fronte al Leopardi, del quale anche aveva, parecchi anni prima, scritto una biografia. Anche al Leopardi egli si era accostato con amore e con «comprensione», oltre che con ottima preparazione documentaria; ma con un amore e una comprensione troppo meramente psicologici, che, mentre miravano a seguire in tutte le sue oscillazioni e contraddizioni contingenti il «cuore» del Leopardi, si lasciavano sfuggire la profonda coerenza e l’altezza eroica della sua personalità. Troppo spesso, in quella biografia, il Leopardi è chiamato il «povero» Leopardi, un epiteto che, a chi del Leopardi non soltanto poeta ma uomo abbia inteso davvero la grandezza, non può non destare somma irritazione. Troppo spesso la «comprensione» del 1

iEdizioni di storia e letteratura, Roma 1952.

*iVedi la prefazione {alla} seconda edizione, p. LXXXI.

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biografo si fa bonaria e indulgente là dove di nessuna indulgenza c’è bisogno. E soprattutto, gli sforzi del Ferretti, come di molti altri leopardisti, sono rivolti a smorzare i contrasti tra il Leopardi e l’ambiente che lo circondò e lo oppresse, a mostrare che si trattò soltanto di malintesi, a riconciliarlo col padre e con la madre, col Capponi e col Tommaseo, con Recanati, con la natura e con Dio: mentre un vero conoscitore del Leopardi deve ben intendere la necessità e l’irriducibilità di quei contrasti **. Molto meglio, invece, si prestava a un simile tipo di biografia il Giordani. Nel Giordani l’uomo fu più ricco dello scrittore, e parecchi dei suoi scritti, per ridestare interesse, devono essere ricondotti alle loro scaturigini biografiche. Le qualità di narratore e d’indagatore psicologico del Ferretti trovano quindi il terreno migliore per manifestarsi; e anche quel tono di affettuoso moralismo che, come ho detto, irrita quando si tratta del Leopardi, non è del tutto fuor di luogo col Giordani. Nelle polemiche, nelle inimicizie, nelle altrettanto furiose amicizie del Giordani – specialmente nel primo periodo della sua vita, a cui il Ferretti si limita – ebbe effettivamente larga parte, accanto ai motivi ideali, il difficile carattere dell’uomo, sebbene sulla sua nevrastenia e ombrosità si sia molto esagerato. Il racconto del Ferretti s’interrompe al punto in cui il Giordani, raggiunta l’indipendenza economica, poté darsi tutto alla sua attività di studioso e di animatore d’iniziative culturali. Ma le ultime pagine, le più belle di tutto il libro, danno un orientamento anche per capire l’ulteriore svolgimento della sua personalità, e mettono in luce le qualità più belle del Giordani maturo: il senso profondo dell’amicizia, la dedizione ai giovani, la severa e serena valutazione di sé. Naturalmente, come tutti i libri vivi, anche questo del Ferretti suscita nel lettore il desiderio di andare oltre, non solo cronologicamente (cioè di seguire il Giordani dopo i quarant’anni), ma anche nel senso di un maggiore approfondimento. Che cosa ha significato il Giordani nella vita culturale dell’Italia del primo Ottocento? La biografia del Giordani non va certo perduta di vista; ma si sente il bisogno di una biografia un po’ meno aneddotica e psicologistica, che metta l’accento sulle i d e e e non solamente sul c a r a t t e r e : poiché il Giordani fu qualcosa di più che un carattere interessante. Da questo punto di vista, anche gli altri studi d’insieme sul Giordani, o i capitoli a lui dedicati nelle storie letterarie, non dicono molto.

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Essi insistono quasi esclusivamente sui suoi precetti in fatto di lingua e di stile, sul suo classicismo e purismo, sull’artificiosità della sua prosa. Aggiungono, ad attenuare un giudizio troppo severo, che il purismo del Giordani non era così pedantesco come quello del padre Cesari. Ricordano infine, come principale benemerenza, la sua ammirazione per il Leopardi e (felice contraddizione al suo classicismo) per i Promessi Sposi. Certamente furono le sue qualità retoriche quelle che più gli dettero fama tra i contemporanei e che più glie l’hanno diminuita tra i posteri. A imporlo per la prima volta all’attenzione del mondo letterario cisalpino – lui che fin allora aveva trascorso un’oscura e incerta vita di impiegato – fu il Panegirico a Napoleone, un’insopportabile declamazione nello stile di Plinio e dei tardi panegiristi latini.2 A quello seguirono, come è noto, molti altri panegirici, necrologi, elogi di artisti e di opere d’arte. Questa produzione retorica era ammirata anche da chi lo avversava per le sue idee politiche e religiose: lo zio del Leopardi, il reazionario Carlo Antici, andava in estasi davanti al Panegirico a Napoleone e metteva il liberale ed ateo Giordani «fra i primi classici d’Italia».3 Oggi per noi quegli scritti non presentano alcun interesse, e non possiamo non dar ragione a Stendhal, che in Rome Naples et Florence4 citava con ironia alcuni dei più macchinosi e vuoti periodi del Panegirico e considerava l’ammirazione degli italiani per questa prosa come una manifestazione della loro provincialità culturale. Gli scritti su opere d’arte, a parte la smisurata infatuazione per il «divino» Canova – condivisa tuttavia da tutta quell’epoca, anche dal Foscolo, dal Cattaneo, dagli stessi romantici –,5 sono produzioni quasi esclusivamente oratorie: descrizioni in cui il descrittore gareggia con l’artista figurativo, come nelle ekphraseis della tarda antichità. Anch’es2 iScrive Francesco Flora (Storia della letteratura italiana, 7ª ed., vol. IV, Milano 1953, p. 127) a proposito di quest’opera: «... ove la parola panegirico, che i moderni usarono per le lodi dei santi, ha già in quella unzione di origine ecclasiastica un suo odore d’incenso rappreso». No: il Giordani voleva riconnettersi alla tradizione del Panegirico di Traiano di Plinio il giovane e dei panegirici dei tardi imperatori romani composti dai retori della Gallia. Li rilesse apposta mentre rielaborava il suo panegirico per la stampa, ma li conosceva già prima: cfr. XIV, 276, 279, 296. 3 iEpistolario del Leopardi, ed. Moroncini, II, p. 116. 4 iCito dall’edizione di Parigi, Calmann-Lévy, 1927, p. 183 sg. 5 iÈ noto che Ermes Visconti, in quelle Idee elementari sulla poesia romantica che costituirono il breviario del romanticismo lombardo, ammetteva il classicismo e i soggetti mitologici nelle arti figurative, e citava con onore, a questo proposito, il Canova (cfr. «Il Conciliatore», ed. Branca, I, p. 438). Quanto a Cattaneo, cfr. SL, I, p. 7.

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se non si possono leggere senza tedio,6 pur riconoscendo che il Giordani aveva in questo campo una buona preparazione erudita, di cui si giovò il suo amico Leopoldo Cicognara per la Storia della scultura. Non meno superate sono, e in gran parte erano già allora, certe idee su lingua e letteratura, sulle quali, appunto perché costituiscono l’aspetto più noto e insieme più caduco del Giordani, non voglio soffermarmi: l’ammirazione per i «tre grandi gesuiti» del Seicento, Segneri Bartoli e Pallavicino **; la persuasione che la lingua italiana si trovasse già tutta nei trecentisti; l’ostilità per la lingua «infranciosata» (cioè moderna) e per le tendenze antiretoriche del Settecento. Di Vincenzo Cuoco, che aveva negato l’esistenza di un’«arte di scrivere» in senso retorico, pronunciò un aspro giudizio: «Ma dovette credersi più savio ed esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non darsi arte di scrivere: e quello che in poche parole affermò, ben con troppe carte, quanto a sé, confermò».7 In Giordano Bruno, in Campanella, in Vico vedeva esempi di barbarie stilistica e di incapacità ad esprimere le verità che forse avevano confusamente intravisto. Rispettava i primi due come vittime dell’oscurantismo clericale, ma il loro sacrificio, a differenza di quello di Galileo, gli appariva sterile: «Di tante vostre fatiche niun pro a voi, niun profitto a tempi venturi. Appena gli eruditissimi sanno il numero e il nome de’ vostri libri molti: sarebbe spenta la vostra fama, se lo sdegno giusto de’ buoni non avesse conservata ad infamia la memoria de’ vostri crudeli persecutori»:8 giudizio questo che, per quanto riguarda Giordano Bruno, fu riecheggiato dal Carducci,9 e che è caratteristico dell’incomprensione dell’Italia letteraria centro-settentrionale nei riguardi dell’Italia filosofica meridionale. Né si può negare che a tale incomprensione abbia contribuito il carattere oracolare e misteriosofico di tutta una tradizione di pensiero meridionale, che dal Bruno giunge al Vico e ancora ai vichiani pitagoreggianti del primo Ottocento. 6 iFanno eccezione quei casi in cui la descrizione dell’opera d’arte è occasione per qualche excursus di polemica politica o culturale: vedi qui sotto, pp. 62 n. 64, 106. Una scelta di Scritti d’arte del Giordani con un utile commento fu pubblicata da P. Papa, «La voce», Firenze 1924. 7 iVIII, 187 sg. Il Giordani forse pensava a certe sciatterie stilitiche del Cuoco, come: «Qual altra può, a l p a r i d e l l a n o s t r a , presentare un numero m a g g i o r e o a n c h e e g u a l e di persone che solo amavano l’ordine e la patria?» (Saggio storico sulla rivol. napoletana, § xvii, nelle due edizioni del 1801 e del 1806). 8 iXIII, 97; sul Vico, XI, 170. 9 iConfessioni e battaglie, serie II (in Opere, ed. nazionale, XXV, pp. 234 sg., 291 sg.).

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2. Ma in contrasto con questi pregiudizi retorici fervevano nella sua mente idee nuove, di riforma culturale, che lo pongono su un piano ben diverso dagli altri puristi. Innanzitutto, questo letterato non aveva alcun esclusivismo letterario: sapeva anzi che il male della cultura italiana era la troppa e sola letteratura, triste conseguenza dell’educazione controriformistica, e che occorreva educare la nuova generazione alla storia politica e culturale, all’economia, alla matematica, alle scienze naturali, alla tecnica. In questo senso avrebbe voluto orientata la scuola italiana, come vedremo; ed egli stesso ricordava che la sua prima vocazione era stata di studiare matematica, e già avanti negli anni cercava di migliorare la sua cultura scientifica.10 Soprattutto deplorava che il tempo che si sarebbe potuto impiegare in tali studi, col risultato d’innalzare il tono culturale di tutta la nazione, fosse sprecato nella vana ambizione di scriver poesie, cioè in un’attività che dovrebbe essere riservata ai pochissimi che ne hanno vocazione; e in ciò consentiva pienamente, lui antiromantico, con Madame de Staël, perché su questo punto la Staël e i romantici lombardi non facevano che proseguire una battaglia illuministica, divenuta tanto più necessaria nell’atmosfera stagnante della Restaurazione: Infelicissima fecondità che questi cantori ci nascano come le rane! ... In Italia la metà almeno di quelli che sanno leggere, presumono di far versi. Non sapranno altro al mondo; ma si credono poeti. E questa vana e matta credenza è gran cagione che in tutta la vita non imparino mai cosa buona. Ogni città, ogni borgo, ogni terricciuola d’Italia tiene accademie: per far che? Per esercitarsi nella lettura e nell’intendimento de’ classici? Per studiare la storia naturale o la civile del proprio paese? Per trovar modi a migliorarne l’agricoltura o le arti? Per fare esperienze di fisica o di chimica? ... No no, queste sarebbero miserie, non degne a begli spiriti. Per recitare sonetti, odi, madrigali, elegie. Ma soprattutto sonetti: questi sono il pane cotidiano, e la delizia degl’intelletti. Ma, per tutti gli dei, che farà mai al mondo un popolo di sonettanti? oh liberiamoci una volta da questa follia. Se tra noi è alcuno che la natura propriamente abbia destinato poeta ... non si ribelli alla natura: faccia sé immortale, e gloriosa la sua nazione. Ma quei cinquecento o seicentomila facitori di righe rimate o non rimate, si traggano d’inganno; siano capaci che un mezzo milione di poeti nol può la natura produrre, nol può patire la nazione: cessino di perdere il tempo, d’essere noiosi e ridicoli; occupino l’ingegno in cose utili: studino e imparino ciò che alla patria giovi sapersi; ci lascino riposare da tanto fastidioso e vergognoso frastuono.11

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iXIII, 334 e 338. iIX, 343 sg.; cfr., tra i moltissimi altri passi che si potrebbero citare, XI, 107; Lett., II, 177 sg.

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Ai tanti giovani che gli mandavano le loro produzioni poetiche e gli chiedevano giudizi (queste noie gli procurava la fama, da lui non cercata, di giudice infallibile) cercava di consigliare – con dolcezza, perché sapeva di ferire il loro amor proprio – studi più modesti e più concreti.12 Anche al Leopardi, in una delle prime lettere, consigliò di tentar la poesia più tardi, e intanto leggere e comporre in prosa: la lettura dell’Appressamento della morte (una cantica ancora così piena di rimasticature scolastiche) gli aveva fatto temere che anche quel prodigioso ingegno si perdesse nell’accademismo versificatorio. Ma quando capì, dalla lettera di risposta del Leopardi, che la vocazione poetica era in lui profonda e irresistibile, subito cedette;13 e tanti anni più tardi, rievocando quel suo consiglio non seguìto, osservava: «ed era mio il torto; poiché non comportava la natura che patisse le ordinarie leggi un tanto straordinario e trascendente capo. Né però un esempio singolare (o certamente rarissimo) sarà senza danno di molti che volessero temerarii imitarlo».14 Questa condanna della letteratura oziosa ritorna ad ogni passo nei suoi scritti, non solo come argomento di polemica attuale, ma anche come base di giudizi storici. Dopo aver consigliato a un giovane vaste letture di classici greci, soggiungeva con una brusca impennata: «Da quel seccatore d’Isocrate, comunque tanto lodato, ti dispenso».15 Frontone, il principe dei puristi latini, tanto esaltato dal suo scopritore Angelo Mai e dal Leopardi giovinetto, ricevé dal Giordani un giudizio duro e sostanzialmente esatto: «meschino retore».16 Anche di Cicerone, a cui pressoché tutta l’Italia letteraria del primo Ottocento si inchinava, il Giordani vide con acutezza i limiti, costituiti proprio dalle sue eccessive preoccupazioni retoriche: «Cicerone scrittore è un dio: Cicerone autore è un bell’uomo; non più. Anzi egli a guardarlo dentro mi s’infemminisce ... Egli è sempre in mezzo a un mondo di bellezze, di grazie, create da lui. Ma tre righe d’Aristotile, sei righe di Tucidide, dirò più, un paragrafo d’Hobbes, una pagina di Rousseau 12

iVedi specialmente Lett., I, 58 (a Giuseppe Ligi). iLeopardi, Epistolario, ed. Moroncini, I, pp. 73 sg., 84-86, 93. 14 iXI, 155; cfr. XI, 120. 15 iXI, 19. Un giudizio più favorevole sullo stile di Isocrate dava il Leopardi, Zib., 848 sg. e altrove. 16 iXI, 239 **: il passo appartiene, si noti, a una difesa di Lucano contro le obiezioni pedantesche di Frontone. Cfr. qui sotto p. 121 sg. e n. 39, e l’introduzione, p. 10. 13

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contengono più sostanza nutritiva, che un volume fioritissimo di questo amabilissimo Cicerone. Egli in filosofia e in politica prende qua e là de’ concetti; non ha un sistema suo; non è fermo in nessuna massima: la migliore è per lui quella che nella data occasione può far miglior vista col mezzo dell’eloquenza».17 In un abbozzo di dissertazione Degli studi degl’italiani nel secolo xviii rivendicava al Seicento, contro le accuse del secolo seguente, il merito di aver creato la prosa scientifica italiana, e osservava: «Gli scrittori meno purgati nel 600 (anche tra i buoni) furono appunto quelli che trattarono per professione le lettere. Meglio scrissero gli autori di scienze». E dopo avere esaltato la prosa di Galileo, aggiungeva in polemica con l’Alfieri: «– Ma i Poeti delirarono! – Oh che rileva? E qual parte sono di un popolo i Poeti? E quando Alfieri disse “il seicento sproposita”, mostra ch’egli avesse veduto solamente i poeti, non i filosofi naturali, e i civili che sono gli storici» (VIII, 186). Qui, in contrasto con altri passi dello stesso Giordani, il Seicento non è il secolo dei «tre grandi gesuiti» ** da lui ammirati per le sole qualità stilistiche,18 ma il secolo della storiografia e della scienza, il secolo di Sarpi e di Galileo. La stessa esigenza di lottare contro la scioperataggine letteraria e la provincialità culturale italiana era alla base delle sue polemiche contro i poeti estemporanei e contro la poesia dialettale. Contro i primi, – che in quell’epoca suscitavano grandi entusiasmi, anche fra letterati seri come Giulio Perticari – egli scrisse nella «Biblioteca Italiana» un articolo stringente e pieno di fine ironia, che suscitò feroci proteste e offrì all’austriacante direttore della rivista, Giuseppe Acerbi, l’atteso pretesto per estrometterlo dalla redazione. ** Notevole è specialmente la chiusa dell’articolo: a chi domandava se le qualità degli 17 iLettera al Montani, pubblicata da A. D’Ancona nella «Nuova Antologia», 16 marzo 1905, e in Memorie e documenti di storia italiana, Firenze 1914, pp. 478 sgg. L’importanza di questa lettera è stata messa in risalto da Piero Treves («Rendic. Istit. Lombardo» XCII, 1958, p. 414 sgg.), che l’ha ripubblicata in forma più corretta e con commento nel volume Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962, p. 435 sgg. 18 iFino a che punto l’ammirazione del Giordani per il Pallavicino possa essere derivata anche dalla tendenza eudemonistica e antiascetica della sua morale (cfr. E. Garin, La filosofia, nella «Storia dei generi letterari», Vallardi, Milano 1947, II, p. 235 sg.), è difficile precisare **. Vedi ad ogni modo più oltre, pp. 97-98 n. 1.

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improvvisatori non si potessero in qualche modo utilizzare per uno scopo serio, il Giordani rispondeva: «Voglion pane dai versi? Non diremo che fu negato al Tasso: che fu misero al Parini: concederemo che vivano di poesie; ma per dio non delle loro. Divengano simili agli antichi Rapsòdi, o ad alquanti dei Trovatori della mezzana età. Imparino a mente del Dante, dell’Ariosto, del Tasso, del Metastasio ... In tutta Italia il popolo appena legge di buone poesie; le intenda recitare da loro, e divenga conoscente e familiare de’ suoi veri e grandi poeti».19 Così dei virtuosi vanesii avrebbero potuto diventare diffusori di poesia e cultura popolare. Ancor più importante è la sua presa di posizione, di poco anteriore, contro la poesia dialettale,20 che gli tirò addosso le ire di quasi tutti i milanesi, attaccatissimi al loro meneghinismo. Nella narrazione che di questa polemica fa il Ferretti (p. 166 sg.) si nota, forse più che altrove, la tendenza a presentare le idee del Giordani come una manifestazione del suo «caratteraccio», da guardare con la solita affettuosa indulgenza. Dopo aver ricordato i famosi sonetti satirici scritti contro di lui, in difesa della poesia in dialetto, da Carlo Porta, il Ferretti conclude: «Se una risposta da parte del Giordani mancò addirittura, fu perché il poveretto si sentì colpito nel vivo». In realtà la posizione del Giordani era molto seria, ed egli non rispose non certo per mancanza d’argomenti, ma probabilmente perché gli mancò la solidarietà dell’Acerbi, desideroso di non alienarsi i letterati milanesi e preoccupato del significato nazionale che era implicito nella polemica contro il dialetto. Certo, un Carlo Porta aveva tutto il diritto di esprimersi in milanese, cioè nell’unica forma adeguata al suo mondo poetico. Ma il Giordani non voleva enunciare una l e g g e e s t e t i c a («la poesia dialettale non può mai essere vera poesia»), ma assumere un atteggiamento politico-culturale, valevole per l’Italia di quel tempo: la poesia dialettale – come fenomeno culturale d’insieme, prescindendo dall’apparizione di singoli artisti – non va incoraggiata perché è manifestazione di chiusura provinciale, di regionalismo angusto, e, invece di 19 iX, 112. Cfr. IV, 8 (a Gaetano Dodici): «Vedi dunque che gl’improvvisatori fan bene, quando sono rapsodi. Ma cose tutte loro, tutte improvvise e buone, non credo che la natura le comporti». E molto più tardi, al Vieusseux (lettera pubbl. in «Rassegna storica del Risorgimento», 1928, p. 276): «L’improvvisare è una gran bricconata». 20 iIX, 370 sgg. (è una recensione alle Poesie dialettali del Balestrieri, pubblicata nella «Biblioteca Italiana»).

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esercitare una funzione p o p o l a r e in senso progressivo, tende a confinare il popolo in un piano di cultura inferiore. «Il popolo in Italia purtroppo manca di tempo e di comodità, manca di abilità e fino di curiosità per leggere: ma quel pochissimo che ei legge, o ascolta leggersi, dovrà anch’egli servire a perpetuarlo nella sua grossezza?». E il carattere burlesco e macchiettistico della maggior parte della poesia in dialetto gli pareva quasi un oppio dato al popolo per lasciarlo nella miseria e nell’ignoranza: «** Pogn[i]amo ** che il ridere faccia per un momento dimenticare alla plebe le sue miserie: ma i buoni insegnamenti le gioverebbero a saperne gran parte rimediare, gran parte prevenire». Questa fiducia nei «buoni insegnamenti» oggi a noi sa troppo di università popolare, ma il carattere sostanzialmente reazionario della poesia dialettale era visto giustamente; e io credo che anche nell’odierna esigenza di un «folclore progressivo» ci siano molti equivoci, e che l’unico modo di rendere veramente progressivo il folclore sia di aiutarlo a morire,21 trasferendo le sue esigenze sul piano della cultura più avanzata.

21 iCosì scrivevo nel 1953, riferendomi a prese di posizione «filopopulistiche» frequenti, allora, nella cultura italiana di sinistra. Negli anni successivi, la polemica sull’uso del dialetto nella letteratura e nel cinema si è molto sviluppata e ha messo in chiaro il carattere in prevalenza reazionario che oggi ha questo populismo artistico. Non in modo identico, naturalmente, si poneva la questione nel primo Ottocento **: il ricorso al dialetto poteva apparire allora come l’unica via d’uscita per non rimanere imprigionati in una tradizione di linguaggio aulico e magniloquente. E tuttavia la posizione illuministica e antimunicipalistica del Giordani continua a sembrarmi, anche in rapporto alla situazione di allora, più giusta e feconda di quella dei suoi avversari. Anche l’analogia che il Giordani stabiliva (IX, 374) fra l’unificazione linguistica dell’Italia e l’unità «di leggi, di pesi, di misure, di moneta ... che sarebbe tanto comoda, e cui sí facilmente potrebbe darci il consenso de’ principi i quali dividono l’Italia» ** non era un semplice paragone retorico, ma un’intelligente e coraggiosa affermazione del significato politico della questione della lingua. La tesi del Giordani era stata valutata positivamente, già prima di me, da M. Sansone nel volume di vari autori Letterature comparate, Milano 1948, p. 313 sg. I limiti del dialettalismo del Porta sono stati messi in luce, meglio che da ogni altro, dal Caretti nell’introduzione alle Opere del Manzoni, Milano 1962, p. XXVI. Più favorevole ai romantici difensori dei dialetti, e specialmente al Borsieri, è il Fubini, Romanticismo italiano, 2ª ed. cit., pp. 25-28. La validità della polemica del Porta contro il Giordani è sostenuta, in amichevole discussione con me, da G. Barbarisi nella ricca e acuta introduzione al Porta, Le poesie, Milano 1964, I, p. XI sg. A me sembra che il sistema seguito dal Porta, il commentare in ciascuno dei suoi sonetti una frase isolata dell’articolo del Giordani, mentre giova ad ottenere felici effetti burleschi mediante la contrapposizione tra l’aulico stile giordaniano e il colorito commento dialettale, sia però anche un modo di eludere una discussione impegnativa. Fra l’altro, nell’ottavo sonetto, il Porta giuoca su uno strano significato che il Giordani avrebbe attribuito al verbo «poggiare»; ma nell’articolo della «Biblioteca Italiana» (I, 1816, p. 175), «Pogiamo» (sic) non era che un errore di stampa per «Pogn[i]amo» **, cioè supponiamo, ammettiamo (vedi il passo cit. sopra nel testo; la lezione giusta è nell’ed. [Le Monnier del 1846, I, 305] **): in questo

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Ma l’ostilità programmatica alla letteratura dialettale non escludeva, per il Giordani, l’interesse filologico e storico per i dialetti. Se quindi molti anni più tardi, nel 1839, egli scriveva a Giuseppe Roberti: «È vero che alcuni cronisti del Muratori scrissero in dialetto; ma non pertanto è buono e utile leggerli; e d è b e n e a n c h e c o n o s c e r e i d i a l e t t i », non si dovrà vedere in questa dichiarazione una palinodía, ma piuttosto una precisazione del suo pensiero, che rischiava di essere frainteso da un seguace troppo zelante.22 L’aberrazione uguale e contraria, se così si può dire, alla letteratura in dialetto è la letteratura in latino: là un eccesso di immediatezza, qui un eccesso di aulicità, ma in fondo la stessa arretratezza provinciale, lo stesso mettersi al margine della cultura viva e servirsi di strumenti inadeguati a esprimere il pensiero moderno. A quel tempo, i facitori di versi e di prosa latina imperversavano in Italia; continuarono a imperversare anche più tardi, col Vallauri e col Vitrioli, e sono vane le speranze che cessi del tutto questo spreco di carta. Tuttora i concorsi per l’insegnamento nelle scuole medie – che dovrebbero essere prove d’idoneità culturale, non di perizia pseudoartistica – si basano su una composizione in latino, e se qualcuno propone di sostituirla con qualcosa di più serio, subito si levano illustri studiosi a proclamare il grande valore «formativo» di un simile esercizio. Se ad avversare l’uso del dialetto il Giordani era spinto anche dal proprio classicismo, il medesimo classicismo lo avrebbe invece potuto portare a favorire lo scrivere in latino. Ma anche su questo punto egli era un uomo moderno: contrario, quindi, non solo allo scrivere in latino, ma anche a quell’altro esercizio (entro certi limiti utile, ma da molti ridicolamente sopravvalutato) del tradurre dall’italiano in latino. «Reputo senso va corretta la nota di Carla Guarisco nell’ed. cit. del Porta, I, p. 368.* [Lezione ancor più giusta, come mi fa osservare G. Forlini, è «pogniamo» nell’ed. Le Monnier del 1846 (I, p. 305), seguìta dal Giordani stesso («pogniamo» è anche in un altro passo dell’ed. Gussalli: XI, 101, riga 14)]. 22 iLett., II, 136 e, già con maggiori riserve, VI, 396. Il «troppo zelo» del Roberti (un giovane abate veneto, pieno di ardenti e ingenui propositi di riforma etico-religiosa, caldissimo ammiratore del Giordani) risulta da un po’ tutte le lettere del Giordani a lui dirette: cfr. per esempio VI, 379, 380 sg., 387. [Cfr., specialmente per la sua azione e le sue traversìe in anni posteriori, G. A. Cisotto, L’abate Giuseppe Roberti ecc., in «Rassegna stor. del Risorgim.» 61 (1974), 266 sgg.]. **

*iNello stesso senso va corretta la nota di Dante Isella a Carlo Porta, Le poesie, MilanoNapoli 1959, p. 299 (al v. 1 del sonetto 688). La forma pogn[i]amo ** si trova nel Giordani anche altrove, per esempio in IX, 111 n. 1. Sulle discussioni tra il Giordani e i fautori della letteratura dialettale vedi anche qui sopra, prefazione alla seconda edizione, p. XCIV sg. **

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stoltissima e dannosissima (e in molti maligna) pedanteria il far comporre o tradurre in latino; che è proprio un rovesciamento di cervello. E per Iddio tutti questi compositori e traduttori in latino son quelli che meno intendono il valor vero dei classici latini ... L’importante è l’intenderli bene, i classici: e questo è oggi rarissimo, e soprattutto raro nei maestri». Così scriveva nel ’41 a uno scolopio d’Urbino, Alessandro Checcucci, che gli aveva chiesto consigli sull’insegnamento; e già molti anni prima, a proposito dell’uso di pronunziare discorsi in latino: «Oh legislatori, i quali non intendevano che voler parlare familiarmente una lingua morta non è meno stolto che voler parlare ai morti!»23 Anche qui, come già abbiamo notato per la poesia dialettale, poco varrebbe obbiettare che al principio del nostro secolo l’Italia ha avuto, dopo tanti versificatori latini di nessun valore, un poeta latino vero, Giovanni Pascoli. Era una direttiva didattica e culturale che il Giordani voleva stabilire, contro l’umanesimo deteriore della scuola gesuitica. Ed era, ed è tuttora verissima quell’osservazione che i virtuosi dello scriver latino sono quelli che meno capiscono i classici latini, appunto perché cercano in essi soltanto dei loci communes da imitare. «In Italia, crediatemi, con tanto nuvolo di Preti (tutti gran maestri come si vede di latinità) quasi niuno intende latino o sa che farne».24 Nelle scuole dei gesuiti c’era anche chi, non contento delle solite composizioni in latino, escogitava particolari raffinatezze: «Qui (a Piacenza) obligano i poveri ragazzi alla mostruosa bestialità di tradurre le odi di Orazio in esametri latini e Virgilio in elegiaci».25 Questa tradizione «umanistica» era così forte in Italia che perdurò, sia pure un po’ attenuata, nella scuola statale organizzata dopo il ’60: qui l’insegnamento del greco, fin allora pressoché inesistente, fu istituito su basi scientifiche, sul modello della scuola tedesca, mentre per il latino non si osò romperla nettamente col passato; e questa, come più volte ha notato Giorgio Pasquali **, è stata la ragione principale del più basso livello della filologia latina in Italia rispetto alla greca, fino a pochi decenni fa. 23

iIX, 383, Lett., II, pp. 152 sg. iVI, 21 (a Pietro Brighenti); cfr. XIII, 148 e altrove. iAlcune lettere inedite di P. G., Genova 1852, p. 179 (a G. F. Baruffi, 8 luglio 1839). Nella sua risposta il Baruffi lo informava che tali esercizi si facevano anche nelle scuole gesuitiche del Piemonte (lettera del 15 luglio 1839: Firenze, Biblioteca Laurenziana, Carte Giordani, XXII, 10). 24 25

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Il Giordani, del resto, era convinto che il latino si dovesse studiare in un secondo tempo, e solo da quelli che sentissero particolare attitudine agli studi classici; ma per i ragazzi di quella che oggi chiamiamo scuola media inferiore gli pareva un inutile tormento, e proprio a questo voler insegnare il latino troppo presto (oltre che con metodi arretrati) attribuiva i cattivi risultati di questi studi. «Per leggere questo poeta (Lucano) bisognerebbe intendere molto più che mediocremente il latino: e questo è oggi di pochissimi: ed è e sarà sempre così e peggio, perocché si ostinano di volerlo insegnare quelli che nol sanno a quelli che nol possono imparare» (XI, 238). Parole simili a queste aveva già scritto nel ’26, in un articolo destinato all’«Antologia» del Vieusseux; e la mite censura granducale le aveva soppresse, e la soppressione era stata ribadita dal ministro dell’interno! «Anche i pedanti e la grammatica – commentava in una lettera a Pietro Brighenti – sono inviolabili, e protetti dalla Santa Alleanza».26 Ma la prima enunciazione di queste idee risale, anche stavolta, a un articolo nella «Biblioteca Italiana» del ’16.27 Lì rievocava, in un brano pieno di forza polemica, la propria esperienza di ragazzo: «Avendo passato non pochi anni miseramente in quelle tristissime carceri, dove si fa ogni pruova di impedire alle primizie del genere umano il diventare mai uomini, uscii dalle barbare mani dei pedanti, sapendo di latino appunto quanto essi. Dopo avere studiato e matematica e fisica, e letto assai delle moderne istorie, fui curioso di conoscere gli antichi, volli intendere i latini; gli studiai, non più spinto da sferza, ma da interno affetto; e mi divennero i più cari amici e consigli». Prima del latino, pensava che si dovesse studiare l’italiano (che nella scuola dei gesuiti era sacrificato al latino), qualche altra lingua moderna, la storia: la storia moderna, e specialmente la più recente, dalla rivoluzione americana in giù, prima che l’antica e la medievale: anche su questo insisté molto, in polemica sia col classicismo puramente esteriore della scuola gesuitica, sia col medievalismo romantico. «Quando avverrà che appresso noi gli uomini siano educati secondo la ragione, s’intenderà (ciò che le altre nazioni già intendono) dovere necessariamente alla storia antica precedere la moderna; e cia26

iV, 425; cfr. XI, 238. iIX, 382 sgg. Vedi anche la lettera a G. Roverella in Venti lettere inedite di P. G. con un discorso di A. Bertoldi, Reggio Emilia 1895, p. 36. 27

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scuno si conoscerà stolto di voler sapere ciò che nel mondo si facesse duemil’anni sono, prima di sapere ciò che accadde l’altro ieri, e ne’ giorni del padre e dell’avolo».28 Anche questa idea – di provenienza illuministica; e infatti egli stesso citava fra i suoi predecessori il d’Alembert – suscitò tra i reazionari proteste e derisioni: la storia recente essi l’avrebbero volentieri abolita non solo dall’insegnamento, ma dalla coscienza dell’umanità. Il Giordani si preparava a replicare anche su questo punto in quella Lettera al Conte Saurau che poi lasciò incompiuta. Dagli appunti che ne rimangono si vede che egli non voleva svalutare illuministicamente il mondo antico ma insistere sulla sua diversità dal moderno, e quindi sulla minore comprensibilità e meno immediata efficacia educativa (almeno in un primo stadio dell’educazione) della storia antica:29 al contrario dei vari neoumanesimi che vogliono fare dell’antichità classica qualcosa di paradigmatico, di eternamente, insostituibilmente educativo. Un genere letterario che ancora nel primo Ottocento pareva esclusivo dominio della lingua latina era l’epigrafe **. Il Giordani fu spinto a comporre epigrafi (e ne compose, come si sa, centinaia) dal desiderio di mostrare che si poteva anche qui usare con non minore efficacia la lingua italiana.30 L’epigrafe doveva cessare di essere un monumento di sapienza recondita, una specie di crittografia intelligibile solo ai dotti, e tornare, come già nell’antichità, a parlare al viandante. Non si può credere quante opposizioni incontrassero le sue epigrafi italiane da parte dei gelosi sostenitori della latinità. «Farei ridere Monsignore – scriveva a un prelato di spirito aperto, Carlo Emanuele 28

iX, 104 (è una digressione nell’articolo sugli improvvisatori, di cui abbiamo già parlato). iX, 271: «La storia antica è d’uomini e di fatti che perirono dal mondo, ... ma rimangono come esempi di fatti e di uomini o m i g l i o r i o p e g g i o r i , m a s e m p r e d i v e r s i s s i m i d a i p r e s e n t i ». Vedi anche le osservazioni del Giordani sullo stesso argomento pubblicate da L. Scarabelli in «Arch. stor. ital.», Append. VI, 1848, p. 441 sgg. Contro queste idee giordaniane e a favore della storiografia neoguelfa si pronunzia il Croce, Storia della storiogr. ital. nel sec. xix, 3ª ed., I, p. 116 sg. 30 iNon si vuol dire, con ciò, che egli sia stato il primo a scrivere epigrafi in volgare; anzi, fu certamente preceduto da Paolo Giovio, dal Fantoni e probabilmente da altri. Sulla questione di priorità e su tutte le polemiche a cui dette luogo cfr. C. Guasti, Giuseppe Silvestri, I, Prato 1874, pp. 207-60; Carducci, Opere, ed. nazionale, XVIII, p. 88 sgg.; XXV, p. 196 sgg. Molto altro materiale è stato raccolto da Piero Treves, dalla cui dottrina attendiamo una trattazione completa di questo curioso capitolo di storia culturale ottocentesca. Un accenno a Luigi Muzzi (che si proclamava, ma a torto, inventore dell’epigrafia in volgare) si trova in una lettera del Giordani al Papadopoli (V, 431). ** 29

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Muzzarelli – se le contassi una opposizione stranissima fatta alle Iscrizioni italiane da un ecclesiastico dotto, che le aborrisce e condanna fieramente come contrarie alla religione, giansenistiche, e tendenti a condurci alla messa in volgare» (XIII, 385). A Bologna alcune sue epigrafi non furono accettate nel cimitero perché italiane, e un’altra, collocata nell’Accademia di belle arti in età napoleonica, fu fatta sostituire con una latina dal governo papale dopo la Restaurazione.31 Per lo stesso motivo il governo parmense gli rifiutò la leggenda d’una medaglia commemorativa: «Le parole italiane furono intollerabili ai nostri latinissimi. Oh non immaginereste mai qual furore di latinità sia in quelli che mai non seppero, né potranno sapere che sia latino» (XII, 101). Così scriveva in una lettera aperta a Carlo Boucheron, il quale però anch’egli era piuttosto dalla parte dei latinomani (dalla sua scuola uscì il peggiore rappresentante della latinità retorica e reazionaria, Tommaso Vallauri). Perfino sua sorella Livia, umilmente affezionata a lui ma succube delle idee dei preti, cercava di persuaderlo a scrivere in latino un’iscrizione per una famiglia amica: lo racconta egli stesso in una lettera, bellissima come tutte quelle che parlano della sorella.32 Si potrebbe pensare che questa ostilità allo scriver latino derivasse da poca familiarità con gli studi classici e, più in generale, da un concetto un po’ troppo utilitaristico della cultura, quale fu proprio di alcuni illuministi. Ma invece uno dei lati per cui il Giordani più si distacca dagli altri letterati suoi contemporanei è la conoscenza sicura del latino, e cosa rarissima nell’Italia di allora, del greco. Quando, in una lettera del 1802 (Lett., I, 10), si dichiarava capace d’insegnare «1. eloquenza e lingua greca; 2. logica e metafisica; 3. elementi di matematica; 4. istituto civile; 5. filosofia morale; 6. istituto criminale», sarebbe stato certo difficile garantire la sua perfetta preparazione in tutte queste materie così disparate, ma quanto al greco non diceva il falso. E, ripetiamo, il greco aveva una parte assai scarsa nella cultura italiana del primo Ottocento, imbevuta di classicismo, ma di un classicismo in grande prevalenza latino: il caso di Vincenzo Monti, tanto famoso a causa dell’epigramma foscoliano, non aveva in realtà nulla di ecce31

iCfr. XIII, 182 e 184. iVI, 310: su Livia anche V, 286; VI, 261; VII, 61 sg.

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zionale.33 Il Giordani invece, pur non pretendendo mai di esser filologo, mostrò, nella Lettera a G. B. Canova sopra il Dionigi del Mai,34 di sapersi orientare bene anche in questioni di filologia greca. La difesa che egli faceva della tesi del Mai contro le obiezioni di Sebastiano Ciampi era vera solo per metà, come dimostrò Giacomo Leopardi; ma le correzioni singole che apportò alla traduzione e al testo del Mai erano quasi tutte giuste, e a lui va riconosciuta la priorità di una congettura (prosavdousan per prosaudou'san in Dionigi XIX 8, 1) che nelle edizioni moderne è attribuita allo Struve. E parecchi accenni contenuti in lettere o in altri scritti dimostrano che conosceva a fondo Erodoto, Tucidide, gli oratori, Platone, Aristotele, storici e retori dell’età ellenistica.35 Egli era dunque in grado, contrariamente a quanto si suol ripetere, di giudicare il valore degli studi filologici di Giacomo Leopardi, e l’esaltazione che ne fece non deriva da entusiasmo indiscriminato per ogni aspetto della personalità leopardiana, ma da piena consapevolezza critica. Piuttosto, dove davvero gli fece velo l’amicizia fu nelle iperboliche lodi ad Angelo Mai.36 Giusta era invece la sua ammirazione per Amedeo Peyron – l’unico insieme al Leopardi, tra gli italiani della prima metà dell’Ottocento, che meritasse il nome di filologo –37 e 33 iLatino e greco non erano allora in Italia in binomio consueto, come divennero più tardi, dal ’59 in poi, con l’istituzione del liceo classico secondo la legge Casati. C’era invece, generalmente, da un lato il «letterato», che sapeva il latino e il francese ma non il greco; dall’altro l’erudito orientalista (per lo più un ecclesiastico), che oltre al greco sapeva anche l’ebraico. Il Leopardi, difatti, studiò il greco e l’ebraico press’a poco contemporaneamente, in anni in cui era ancora destinato alla carriera ecclesiastica. Il caso del semi-greco Foscolo è naturalmente eccezionale. Gli «antiquari» (studiosi o curiosi di archeologia, epigrafia, numismatica) spessissimo ignoravano anch’essi il greco o ne avevano solo una minima infarinatura. Un po’ più diffusa anche tra i letterati era la conoscenza del greco nell’Italia settentrionale e a Firenze. 34 iMilano 1817, ristampata in X, 147 sgg. Cfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955; pp. 54-66. 35 iVedi per esempio VI, 141, 147; XI, 19 sg. Particolarmente significativo, nel secondo di questi passi, il giudizio su Tucidide: «Che uomo di stato! (ora non ci son più che fanciulli, anzi scimie, anzi burattini), che fabro di stile! che stile gravido di cose, e cose grandiose e vere! oh leggilo e rileggilo. Ma quando leggerai il giudizio d’Alicarnasso (cioè di Dionigi), ti parrà retore, o anzi sofista: dico il giudicante, non già il figlio d’Oloro». 36 iLe quali furono oggetto di scherno da parte del Borsieri (cfr. Discussioni e polemiche sul Romanticismo, ed. Bellorini, I, p. 103 sg.). Tuttavia il Giordani si rese conto che il Mai era più ammirevole per l’energia e l’intuito di scopritore che per doti propriamente filologiche: cfr. X, 150, e «Atene e Roma» 1956, p. 11. Sui rapporti fra il Giordani e il Mai vedi l’ottimo articolo di G. Gervasoni in «Bergomum» XXVII, 1933, num. 1, p. 28 sgg. 37 iLeopardi e Peyron nominati insieme come i maggiori grecisti d’Italia in Lett., II, 48. Sul Peyron vedi anche X, 383.

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giusto il suo riserbo verso alcune critiche un po’ avventate rivolte al Peyron dal Leopardi giovinetto.38 Anche in una questione apparentemente secondaria ma in realtà rivelatrice, allora, di tutto un orientamento mentale, la questione della pronunzia del greco, egli ebbe una posizione di avanguardia, cioè fu uno dei primi in Italia a sostenere la pronunzia erasmiana.39 ** L’idea che il rimedio per snellire la prosa italiana fosse l’imitazione dello stile greco, era certamente un pregiudizio. Il vantaggio dello stile greco (cioè della sintassi della prosa attica) rispetto al latino era di avvicinarsi di più alle movenze sciolte del parlato; ma perché, allora, non attingere direttamente al parlato italiano, sia pure rielaborandolo e innalzandolo a dignità letteraria? Tuttavia quell’idea influí grandemente sul Leopardi, da un lato sulla formazione della sua prosa, dall’altro sui suoi studi filologici: nello Zibaldone e nei manoscritti fiorentini il Leopardi si valse dell’analogia tra sintassi greca e italiana per spiegare in modo convincente alcuni passi di autori greci, e applicò lo stesso procedimento al latino volgare e ai volgarismi che s’incontrano in autori latini di epoca classica; e anche qui certe osservazioni del Giordani sullo stile di Celso dovettero contribuire a orientarlo in questa direzione.40 Anche i trecentisti italiani, del resto, il Giordani li aveva letti con spirito non solo di purista, ma di filologo. Contraffazioni come la 38

iLeopardi, Epistolario, ed. Moroncini, I, pp. 168-69. iXI, 20. Cfr. «Atene e Roma» 1953, pp. 100 sgg. ** 40 iSull’affinità tra italiano e greco vedi le lettere che il Giordani e il Leopardi si scambiarono nel ’17 (Epistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, pp. 73, 98 sg.). Quanto a Celso, si noti che già nel ’17 (in uno scritto rimasto incompiuto, X, 233 sg.) il Giordani scriveva: «I più famosi tra i Romani ... ebbero veramente assai pregi, e apparvero ingegnosi e adorni; ma si scostarono da quell’ammirabile e invidiabile purità e semplicità de’ più antichi ... Alla quale o non poterono o non vollero de’ Latini salire se non tre, il grande animo di Cesare, e quei candidi ingegni di Varrone e di Celso». Nello stesso anno il Giordani consigliò la lettura di Celso al giovane Pompeo Dal-Toso (IV, 21: «Gli autori che prenderei (contro la più comune usanza) sarebbero Aulo Gellio, Cornelio Celso, e le Pandette. Ivi la latinità è buona (...), lo stile semplice, e non figurato e pomposo»). Dunque, se il 12 febbraio del ’19 il Leopardi scriveva al Giordani «Questi ultimi giorni ho voluto leggere la Medicina di Celso, che m’è piaciuta assai per quella chiarezza e sprezzatura elegante», è probabile che il consiglio di leggerla gli fosse stato dato proprio dal Giordani, quando si videro a Recanati, nel settembre 1818 (cfr. la risposta del Giordani nell’Epistolario cit. del Leopardi, I, p. 240: «Trovo il vostro finissimo e sicurissimo giudizio anche nell’esservi piaciuto il candidissimo Celso»). E al giudizio del Giordani si riferirà anche l’inizio del lungo pensiero dello Zibaldone, 32: «... Celso nel quale è singolarmente notata (e lodata) la semplicità e facilità dello stile ...». Cfr. ancora Giordani, XI, 21 (1821). 39

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Guerra di Semifonte attribuita a Pace di Certaldo o come il Martirio de’ Santi Padri del Leopardi ingannarono il padre Cesari, ma non l’esperto senso stilistico del Giordani.41 È noto che egli non cessò mai di esortare studiosi ed editori di buona volontà alla pubblicazione di testi inediti o rari; e i consigli che dava, ovvi per noi, non lo erano allora, in quell’estrema barbarie in cui si trovava la filologia italiana. Raccomandava, nel pubblicare volgarizzamenti trecenteschi di classici latini, di tenere ben distinti gli errori dei copisti (che vanno corretti) da quelli del volgarizzatore o del testo latino che il volgarizzatore aveva dinanzi («questi non gli vorrei emendati nel testo, ma notati in fine nella pagina: perché l’opera dev’essere conservata quale l’autore lasciolla»); voleva che, in caso di correzione congetturale, si riportasse sempre la lezione tramandata a pie’ di pagina; era contrario – e qui il suo consiglio non è superfluo neppur oggi ** – a ingombrare l’apparato critico di lezioni insignificanti.42 Queste preoccupazioni filologiche, in rapporto a testi italiani, le aveva in quel tempo un altro letterato, Giulio Perticari: non altri. Fu proprio la sua seria preparazione filologica e storica che lo fece sempre insorgere contro le imprese culturali facilone. Nella «Biblioteca Italiana» del luglio 1816 (X, 44), dopo aver notato una particolarità lessicale in un verso di Empedocle,43 aggiungeva: «Questa è ben piccola cosa: ma così piccola basta a mostrare quanto grande, o soverchia, fiducia di sé debbano avere certi facili e franchi promettitori di darci tradotti tutti i poeti greci; e quante cose (non certamente da disprezzare) mancheranno necessariamente a quelle troppo affrettare traduzioni». Queste parole, che non sarebbero certo piaciute a Ettore Romagnoli, prendevano di mira Bernardo Bellini, che aveva appunto annunziato la traduzione in versi di tutti i poeti greci. Poco prima che uscisse l’articolo del Giordani, una lettera di protesta per lo stesso motivo era stata inviata alla «Biblioteca Italiana» da Giacomo Leo-

41 iX, 366-68; V, 283 sg.; V, 403 [; XIII, 130 sg.]. Sulla Guerra di Semifonte, ** falsificata da un Della Rena, cfr. S. Morpurgo, Il Libro di buoni costumi di Paolo di messer Pace da Certaldo, Firenze 1921, p. IV. 42 iXI, 272 sg.; XIII, 386. [Cfr. Lettere a O. Gigli a c. di Forlini]. 43 iIn realtà l’aggettivo ργφεος, che Empedocle riferisce all’acqua, non c’entra, a quanto pare, con φανειν «tessere»; ma quella derivazione, che del resto risale all’antichità (cfr. Eustazio ad Iliad. XXIV, 621), era allora comunemente accettata.

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pardi, che col Giordani non era ancora entrato in corrispondenza.44 Ma Giuseppe Acerbi, senza nemmeno farla vedere agli altri redattori della rivista, l’aveva cestinata, come cestinò sempre tutti gli scritti del Leopardi (e ciò dà la misura della sua equanimità, tanto esaltata da moderni storici reazionari). Molti anni dopo, nel ’46 (XIII, 169), il Giordani si pronunciò altrettanto sfavorevolmente su un’altra impresa poco seria e ispirata a idee retrive: la Storia universale di Cesare Cantù, che proprio allora era giunta a termine. Tale fu dunque, al di sotto degli aspetti retorici, la sostanza di quella che con termine poco felice è stata chiamata la «dittatura letteraria» di Pietro Giordani: un’azione per sprovincializzare la cultura italiana mantenendola tuttavia nel solco dell’illuminismo, per svecchiare e liberalizzare l’educazione, per diffondere la cultura nel popolo. Questa ultima esigenza era da lui sentita non meno vivamente delle altre due, in una forma, certo, che a noi deve necessariamente apparire un po’ paternalistica, ma che nel clima di oscurantismo della Restaurazione aveva il suo pieno valore. Entrando a far parte della redazione della «Biblioteca Italiana», aveva sperato di farne uno strumento di diffusione delle sue idee innovatrici. Per questo avrebbe voluto che la rivista contenesse più articoli originali che recensioni,45 e per questo avrebbe voluto indirizzarla non ai soli intellettuali, ma a un pubblico più largo: «Né credo – scriveva in uno degli ultimi articoli che poté pubblicarvi – che un giornale si debba indirizzare ai dotti, che l’Italia ha pochi e grandissimi; ma ai molti uomini che ha dotati d’ingegno e non troppo esercitati a studiare. Quanto a me i lettori ch’io desidero e quelli cui scrivo, sono quelli che non professano dottrina profonda, e non amano l’ignoranza; che tra i venti e i trent’anni sono capaci di ricevere il vero, e non radicati cosí nelle opinioni loro, che ricusino di mutarle se ne trovino di più probabili. A questi io intendo di scrivere».46 Questa illusione non era senza qualche fondamento, perché in un primo tempo il governo austriaco parve, e in certa misu44

iLettera ai compilatori della Biblioteca Italiana, in PP, II, p. 590 sgg. iVedi l’introduzione al presente volume, pp. 16-17, n. 26. 46 iX, 56. In un senso ancor più «popolare» (pur con quel limite a cui abbiamo accennato) IX, 395: «E questa reputo la utilità di un Giornale (del quale già i dotti han pochissimo bisogno) se il popolo vi trovi rimedio ai più comuni e più dannosi errori». 45

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ra fu, indirizzato verso un’azione di cauto riformismo, in contrasto con lo spirito stupidamente retrivo degli staterelli italiani. Ma in realtà gli articoli del Giordani erano in contrasto con tutto il tono della rivista, che sempre più si avviava ad assumere, per opera dell’Acerbi, una funzione prevalentemente reazionaria e antinazionale; ed era quindi fatale che il dissidio tra l’Acerbi e il Giordani scoppiasse (per questioni di principio, non per la nevrastenia e l’impulsività del Giordani, come, cedendo al solito difetto d’impostazione, tende a far apparire il Ferretti),47 e si concludesse con l’estromissione del Giordani. ** Da allora, mancò a lui una tribuna dalla quale potesse efficacemente diffondere le proprie idee: anche nell’«Antologia» del Vieusseux poco poté pubblicare. La sua influenza si esercitò piuttosto attraverso la conversazione – nella quale esercitava un grande fascino, –48 attraverso lettere private – molte delle quali furono pubblicate lui ancora vivente e nolente – e piccole pubblicazioni occasionali. Ma oltre questi impedimenti esterni, era di ostacolo all’efficacia della sua opera di riformatore culturale la forma puristica e arcaizzante in cui, quando si metteva a scrivere lavori d’impegno, irrigidiva le sue idee vive: finché egli stesso si annoiava di quel faticoso esercizio di traduzione in una lingua morta (un esercizio non dissimile da quello, che aveva così efficacemente biasimato, dello scrivere o tradurre in latino), e lasciava tutto in tronco; la sua produzione è infatti formata per la maggior parte da scritti non finiti. 3. ** Di questa contraddizione che era in lui tra l’abito retorico e le idee nuove era conscio, e più volte, come appare dall’epistolario, cercò in qualche modo di giustificarla. In una lettera del 1824 a Giuseppe Bianchetti, dava del purismo, e quindi implicitamente del suo purismo, un’interpretazione patriottica: «V. S. avrà notata una cosa. Gl’Italiani avevano abbandonata e disprezzata affatto la lor lingua: 47 iCiò è stato giustamente osservato da G. Forlini (autore di molti e pregevolissimi studi sul Giordani) in «Lettere italiane» V, 1953, p. 49 sg. Vedi anche qui sopra, p. 13 n. 19. 48 iVarie testimonianze di contemporanei sono raccolte da O. Masnovo, Il pensiero politico e il patriottismo di P. G. («Società nazionale per la storia del Risorgimento», XX congresso, Roma 1933), p. 355. Cfr. anche L. Scarabelli (cit. qui sopra, nota 29), p. 440. Tra gli entusiasti della conversazione del Giordani vi fu, come è noto, Byron: vedi IV, 203; V, 257; VI, 200, e la testimonianza di Byron stesso nei Mémoires de Lord Byron publiés par Th. Moore, trad. franc., V, Bruxelles 1831, p. 318.

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vengono i Francesi, e, con quella loro insolenza, vogliono proibire alla maggior parte d’Italia l’uso della lingua nativa. Per tutta Italia sorge uno sdegno generoso: si pone fatica e studio a ricuperare questo patrimonio trascurato, di che il tiranno insolente e stolto voleva rapire gli ultimi avanzi; e dall’808 ognuno s’impegna di scrivere più che può italiano, e meno che può francese. Oh come io mi rido di questi asini che credon possibile intedescare l’Italia, e buon mezzo a ciò il bastone!»49 Questa funzione patriottica del purismo fu più tardi messa in rilievo anche dal De Sanctis a proposito della scuola di Basilio Puoti, e tuttora è comunemente addotta nei manuali quasi come circostanza attenuante: erano pedanti, sì, ma italianissimi. C’è senza dubbio del vero in ciò: bisogna tuttavia stare attenti a non cadere in equivoci su questo «patriottismo». Già nel secolo scorso vi fu in Italia, di fronte al patriottismo progressista, antiassolutista e antiaustriaco, un patriottismo reazionario, tradizionalista e antifrancese, il «patriottismo de’ retrogradi», come lo definì Giuseppe Ferrari.50 E l’accusa di antipatriottismo non era solo lanciata dai liberali e dai democratici ai reazionari, ma era da questi ritorta contro i primi: non erano tutte queste ideologie liberali e democratiche merce d’importazione francese? Non erano di provenienza straniera anche i principii letterari e filosofici di questi sediziosi, per lo più romantici? Non difendevano invece i legittimisti le più pure tradizioni italiche? Anche nel campo degli studi classici, conservatori angusti come Tommaso Vallauri si atteggiavano a difensori della tradizione italiana contro le aberrazioni della filologia straniera. Ora, il «patriottismo» del movimento purista era appunto il patriottismo dei retrogradi, tant’è vero che agiva in direzione antifrancese e difendeva un’arcaica italianità contro l’illuminismo e contro il romanticismo nello stesso tempo. Bisogna tuttavia aggiungere che la confusione tra i due patriottismi non è solo un errore in cui rischiamo di cadere noi oggi facendo la storia di quel periodo, ma in certa misura esisteva già allora nelle coscienze, e non soltanto in Ita49 iLett., I, 210. Anche in V, 306 l’inizio della riscossa puristica è fissato dal Giordani al 1808. Fu quello l’anno in cui l’Accademia della Crusca, già soppressa, risorse come sezione dell’Accademia fiorentina. 50 iLa rivoluzione e i rivoluzionari in Italia (1844), parte II, cap. II (ed. a cura di F. Della Peruta, Milano 1952, p. 83).

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lia.51 E la confusione poté in alcuni casi essere anche (direbbero certi storicisti) «provvidenziale», in quanto molti giovani, partiti da un’educazione «patriottica reazionaria», si trovarono a un certo punto quasi inconsapevolmente scivolati in una posizione «patriottica progressista». Il caso del Leopardi è significativo, e le sue due prime canzoni sono una manifestazione tipica di questo patriottismo ancora legato all’educazione legittimista, ancora imprecante alla Francia «scellerata e nera», e tuttavia già contenente una carica rivoluzionaria che fa «pelare per la paura» il sanfedista Monaldo. In questo senso si può ammettere che il purismo, reazionario, abbia esercitato un’azione involontariamente maieutica in senso liberale. Ma il Giordani aveva, come già abbiamo cominciato a vedere, idee davvero innovatrici, progressiste in senso ben altrimenti diretto ed esplicito che quelle degli altri puristi. E ciò poneva il suo purismo in una situazione assai più contraddittoria. Per un Cesari o un Michele Colombo il «ritorno al Trecento», anche se riguardava in modo preminente la lingua, s’inseriva però in una visione generale coerente. C’era nel loro trecentismo, sia pure in forma più angusta e provinciale, quella stessa esigenza di restaurazione religiosa e di populismo reazionario che ispirava le fantasie medievaleggianti dei romantici tedeschi (da loro tanto odiati solo perché non appartenenti alla tradizione letteraria italiana) e dei pittori «nazareni», a loro ancor più affini. Nelle Vite dei Padri del Cavalca o nello Specchio di vera penitenza del Passavanti essi ammiravano, insieme alla forma schietta e popolare, il contenuto pio. Il Giordani, invece, si sentiva attratto dalla freschezza e popolarità di quello stile, ma avrebbe voluto dissociarlo da un contenuto a lui antipatico: «Le opere francesi (volgarizzate dai trecentisti italiani) furono la maggior parte devote; e però di materia gradita a quel secolo, intolerabile al nostro. Io non esigerò che per imparare la lingua ti annoi nelle divozioni troppo semplici e goffe di quel secolo ... Se l’opera di San Gregorio non fosse veramente uno dei limiti della demenza umana, quanto volentieri si leggerebbe quella traduzione; che è della bellissima prosa italiana» (XI, 16 sg.). Perciò, con tutta la 51 iIn tutta Europa, tranne in Francia, il patriottismo ottocentesco ebbe, come è noto, una natura bifronte, in quanto era figlio della rivoluzione francese, ma fin dall’inizio aveva dovuto rivendicare i propri diritti contro l’oppressione francese, facendo appello perciò a tradizioni nazionali prerivoluzionarie.

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sua ammirazione per i Fioretti di San Francesco e per il Cavalca, amava soprattutto di consigliare la lettura dei cronisti e dei novellieri, rappresentanti di un Trecento più laico.52 Rifuggiva, però, dal Boccaccio, perché nei suoi periodoni latineggianti vedeva, non del tutto a torto, l’inizio della corruzione della prosa italiana.53 Al fondo del suo purismo c’era un’esigenza che ben potremmo dire russoiana. Come il Leopardi nei classici greci e latini, così il Giordani nei trecentisti cercava la voce della natura vergine e incorrotta; e anche in lui l’esortazione ad imitare quei modelli si accompagnava alla nostalgica consapevolezza della loro irraggiungibilità: «Che si possa ritornare alla dicitura del trecento, ripeto che mi pare impossibile. Hanno le belle arti (e le pittoriche e le poetiche) per ogni nazione una età di bellezza vergine e adolescente, che non è ricuperabile»54 [cr]. Al Monti, troppo amante dell’elocuzione fastosa e sonora, rimproverava di aver trascurato questo Trecento più ingenuo e segreto: «Di que’ poveri trecentisti, coi quali dài vista di perdere spesso la pazienza, credo ne abbi letti meno di me: certo, o caso o scelta che sia stato, vedesti i più deboli, non prendesti dimestichezza colla tanta moltitudine de’ migliori, che ti avrebbero fatto meno severo, anzi amicissimo a quest’amabile secolo» (X [cr] **, 367). Ma questo amore del primitivo, che pure apparteneva anch’esso all’ideologia e alla sensibilità illuministica, si conciliava difficilmente con l’altra esigenza illuministica di un linguaggio come strumento di comunicazione chiaro e adeguato al pensiero moderno. Molto più profondamente illuminista del Monti quanto al complesso delle idee politico-culturali e alla concezione stessa della letteratura,55 il Giordani rimase però più legato a pregiudizi antisettecenteschi e antifrancesi nella questione della lingua; e quindi, come dal Leopardi, così da 52 iVI, 362, 364. Vedi anche il giudizio limitativo sul Paradiso dantesco in confronto alle altre due cantiche, XIV, 188: «Quei beati sono perpetui disputatori d’inconcepibili sottigliezze ... Noi siam uomini; e le cose umane solo possono piacerne: chi ci vuol trasumanare ci sforza, ci affatica, ci noia»; e il bellissimo passo sull’umana dolcezza e poeticità del Purgatorio, XIV, 190. 53 iV, 234; X, 367 e altrove. 54 iX, 367 (nello scritto Monti e la Crusca, del 1819). Cfr. Lett. inedite a cura di E. Costa, Parma 1884, pp. 4 e 21. 55 iGià assai prima della polemica romantica, per esempio, il Giordani condannava l’uso della mitologia greco-romana nella poesia contemporanea (XIV, 177, 267, 288, in lettere del 1807-08). Cfr. G. Forlini in «Convivium» 1952, p. 712 **.

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lui il Settecento e la Francia erano nello stesso tempo amati come rappresentanti dell’illuminismo e avversati come corruttori del gusto.56 L’esigenza di dare una motivazione progressista al proprio purismo lo condusse anche ad osservare con grande acutezza il diverso rapporto tra intellettuali e popolo nel Trecento e nel Quattrocento: i trecentisti «avevano mostrato amorevol cura del popolo; ed operato di farlo partecipare quanto fosse possibile ai diletti e agli utili della dottrina»; mentre i quattrocentisti «fecero veramente grandi benefizi agli studi eleganti: ma in essi cercando soltanto a sé medesimi piacere ed onore, allontanarono dal godimento di quelle nobili ricchezze e delicate consolazioni, quasi profana e indegna, la moltitudine» (XI, 271). Certo al padre Cesari non sarebbe mai venuto in mente di motivare così la sua predilezione per l’«aureo secolo». Ma come si sarebbe potuto, nell’Ottocento, creare una nuova letteratura popolare con lingua trecentesca? Del purismo stesso, del resto, il Giordani finì col dare un giudizio molto severo, come di un movimento che aveva mancato allo scopo di ricostituire una vera letteratura nazionale: «Il principio dell’età corrente – scriveva nel ’38 – mostrò un paralitico desiderio di rifarsi italiano; come se dal belletto e non dal sangue venisse l’aspetto di sanità: tutto finì prestamente in miserabil pedanteria di pochi».57 Sarebbe 56 iIn una nota di letture consigliate, arrivato al Settecento, il Giordani scriveva: «Oimè, oimè, oimè!», e salvava soltanto, riguardo allo stile, due o tre minori.* ** Analogamente il Leopardi, nella prefazione alla Crestomazia poetica, ammoniva i giovani a non cercare negli autori del secondo Settecento «esempi di buona lingua né anche di buono stile» (cfr. W. Binni, nel volume di vari autori Leopardi e il Settecento, Firenze 1964, p. 77). Eppure, anche per i precetti stilistici, il Giordani si era nutrito di ideologia francese settecentesca, e prediligeva l’Art d’écrire del Condillac ed esortava l’Ambrosoli a tradurla in italiano (VII, 13 sg.; XI, 11 sg., dove accanto al Condillac sono consigliati gli articoli di Du Marsais e di Beauzeé nell’Encyclopédie méthodique; XI, 97 sg.). Ma quanto al principio condillachiano della plus grande liaison des idées, a cui pure teneva molto, osservava: «Vero è che quel legame delle idee non deve sempre esser logico; ma secondo la materia che si tratta dev’esser pittorico o affettuoso» (XI, 12). 57 iXII, 149. Cfr. già X, 366 (nel 1819): «... alcuni viventi, che si danno per trecentisti, e sono mirabilmente deformi e spiacevoli; e prima di tutto infinitamente lontani da quella schiettezza e molle facilità che fu maravigliosa e primaria dote di quel beato secolo»; e ancora VI, 392, 397, contro il purismo pedantesco del Cesari.

*iLa condanna della prosa del Settecento è in Opere, ed. Gussalli, XIV, 372: il Giordani eccettua soltanto Francesco e Giampietro Zanotti, Eustachio Manfredi e Gasparo Gozzi. Come il gusto leopardiano si sia più tardi evoluto dal trecentismo al cinquecentismo, ha dimostrato convincentemente Giulio Bollati nell’introduzione alla Crestomazia della prosa (cit. qui sopra, p. XCVIII). Ma già nel Giordani c’era, in contrasto con la sua dichiarata ammirazione per il Trecento, una tendenza al cinquecentismo (cfr. pp. 83-84).

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difficile trovare negli scritti degli antipuristi più accesi una condanna così incisiva come questa (che meriterebbe di essere citata anche nei manuali scolastici). Eppure anche in quello scritto egli non giungeva a un vero rinnegamento e superamento del purismo: accusava piuttosto i puristi di non aver saputo reagire con efficacia alle sciatterie dei settecentisti e al torbido sentimentalismo dei romantici («scimie» della letteratura tedesca e francese) e continuava a vagheggiare il ritorno a una tradizione di prosa schiettamente italiana, di cui gli ultimi rappresentanti, pur con tutti i loro difetti, gli parevano gli scrittori del Seicento. Un’altra volta, in una lettera a Pietro Brighenti, attribuì il proprio formalismo stilistico alla reticenza a cui lo aveva costretto l’oppressione politica: «Le mie cose appena meritano qualche attenzione dalla parte dello stile; e ciò unicamente dagl’italiani. Uno straniero non può guardare che alle cose: e quelle sono miserissime. Se avessi potuto stampare tutto quello che penso, forse anche un Inglese potrebbe badarmi: ma quelle miserie son tutta paglia» (Lett., I, 190). E riconoscendo di non aver saputo raggiungere quella «limpidezza e trasparenza di concetto» che ammirava nella prosa del Leopardi, aggiungeva: «Eppure io non l’ho solamente desiderata e cercata, ma penso che forse l’avrei anche conseguita, se per iscappare come Ulisse investito in pecora dalle branche di Polifemo Censore non fossi stato obligato a studiar di coprire anziché d’illuminare il pensiero. E con tutto ciò non ho cessato di essere odiatissimo per i pensieri; ed ho guastato lo stile; che avrei potuto fare abbastanza buono».58 Era un motivo affine a quello alfieriano e foscoliano dell’uomo nato ad agire e costretto, per l’iniquità dei tempi, a sfogarsi solo nello scrivere: qui c’è invece lo scrittore che vorrebbe essere scrittore etico-politico e che la tirannia costringe al vuoto formalismo, oppure all’ermetismo tacitiano. È comunque caratteristica del Giordani questa scontentezza di sé, quest’amaro rimpianto di ciò che non era riuscito a realizzare, unito alla consapevolezza di aver voluto, tuttavia, realizzare qualcosa di nuovo e di nobile. Io non voglio – scriveva a Luisa Kiriaki Minelli –59 comparire meglio di quel che sono: ma per la verità non amerei ch’ella mi giudicasse dalle mie carte stampate. 58

iLett., II, 158; cfr. VII, 103. iXIII, 397 sg. (5 luglio 1833).

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Non è certo in quelle che si possa vedere quello che veramente io sono, cioè i miei continui pensieri, i miei desiderii, i miei disegni ... Ho sempre stampato sotto revisione di censori (sempre o frati o preti, o sotto qualunque veste servili strumenti alla dogana de’ pensieri): così non è potuto venire in pubblico se non cose e parole che si conformassero alla volgarità del pensar comune. Certo nel mio cervello e nel mio cuore è riposto pur qualcosa di non volgare: ma le porte sono sbarrate ad ogni uscita. Io porterò meco sotterra quel che mi ha fatto sì profondamente e dolorosamente sentire che il mondo è stolido, e tristo, e misero assai.

E in un’altra lettera: Certo nella mia povera testa è una gran massa di pensieri; e, che peggio è, battaglia di pensieri; i quali andranno sotto la terra, col cranio che gli racchiude, ugualmente ignorati.60

Dopo essersi visto negare, nella giovinezza, anche un modesto posto d’insegnante o di bibliotecario, ora si trovava al centro del mondo letterario italiano, ammirato da tutti e considerato un’autorità infallibile; ma quell’ammirazione andava al rètore, allo stilista, cioè alla parte di lui che egli sentiva più caduca. La sua vera personalità rimaneva ignorata e inespressa: Se vorranno mettere una pietra sulla terra che coprirà queste povere ossa, raccomanderò che vi si scrivano queste sole parole: Non fu conosciuto Pietro Giordani.61

4. Quali erano le idee audaci che il Giordani aveva dovuto rinunziare ad esprimere, o esprimere soltanto per oscure allusioni?* La generazione del Risorgimento, pur non condividendo in molta parte gli ideali letterali del Giordani, vide in lui un maestro di patriottismo: come tale le onorò nel ’48, pochi mesi prima della morte, il governo provvisorio parmense. Più tardi il gruppo toscano degli «amici pedanti», intraprendendo nel nome del Giordani la sua battaglia antiromantica, esaltava insieme allo scrittore il precursore del Risorgimento.62 E in realtà, malgrado la sua non partecipazione a congiure e a 60

iXIII, 400 (alla stessa, 6 gennaio 1834). iVI, 259; cfr. VII, 260. iVedi il saggio seguente, p. 100 sgg.

61 62

*iSulle idee politiche del Giordani ** cfr. ora E. Passerin d’Entrèves nell’Ottocento garzantiano cit., pp. 353 sg., 401 sg., 404. Il Passerin tende a mettere in maggior rilievo gli aspetti «passatisti» del pensiero politico giordaniano, che egli giudica da un punto di vista liberalecattolico. Vedi anche qui sopra, p. XXXVI, e l’art. del Moget lì citato.

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moti rivoluzionari, il Giordani subì, più di molti altri scrittori risorgimentali, le persecuzioni dei governi assolutisti: privato dell’impiego dal governo papale a Bologna appena avvenuta la Restaurazione, esiliato dal ducato di Parma nel ’24, poi dalla Toscana nel ’30, imprigionato per alcuni mesi dal governo parmense nel ’34, messo al bando dal Lombardo-Veneto, spiato sempre dalla polizia austriaca che intercettava le sue lettere.63 Eppure, per i suoi principii politici egli apparteneva piuttosto ai fautori del dispotismo illuminato settecentesco che ai liberali o ai democratici. Non solo fu sempre contrario alle «sètte» e alle cospirazioni, che giudicava inutili; ma anche all’esigenza costituzionale rimase, in fondo, estraneo. La Rivoluzione francese non lasciò in lui, a differenza che in tanti suoi contemporanei, nessun sedimento di paura, anzi non mancano nelle sue lettere, anche in piena Restaurazione, dichiarazioni di simpatia per i rivoluzionari;64 e tuttavia una meditazione approfondita su ciò che di nuovo aveva portato quel grande fatto storico, sui contrasti di classi che vi si erano manifestati, sulle soluzioni e sui compromessi a cui aveva dato luogo, mancò, in complesso, da parte sua, come da parte del Cattaneo. Il suo ideale rimase un sovrano illuminato o assistito da consiglieri illuminati, che fugasse l’oscurantismo clericale, favorisse ogni iniziativa di progresso e difendesse il popolo più umile. Credette dapprima di averlo trovato in 63 iSulle persecuzioni subìte dal Giordani e sulla sua azione «risorgimentale» le pagine migliori, per la loro simpatica vivacità e per la preziosa documentazione, rimangono quelle di Alessandro D’Ancona, Memorie e documenti di storia italiana, Firenze (1914), pp. 331 sgg., 457 sg. Pregevoli contributi particolari sono stati recati da Stefano Fermi e da altri studiosi. Il lavoro del Masnovo già cit. alla nota 48, utilissimo per i riferimenti bibliografici, non fornisce, però, una ricostruzione persuasiva delle idee politiche del Giordani. Assai meno buono l’altro studio del Masnovo, Il patriottismo di P. G. in «Archivio storico per le province parmensi», serie 3ª, I, 1936, p. 151 sgg. Il breve articolo di giornale che Luigi Salvatorelli scrisse nel 1937 a proposito dell’edizione delle Lettere curata dal Ferretti (articolo ora ristampato in Spiriti e figure del Risorgimento, 3ª ed., Firenze 1962, p. 183 sgg.) avrebbe potuto servire, allora, a richiamare l’attenzione sulla necessità di studiar meglio il Giordani politico ed educatore. 64 iVedi per esempio la lettera dell’8 settembre 1821 al Montani (Lett., I, 201), con le impressioni sul monumento del Thorvaldsen in memoria «degli uffiziali e de’ soldati che nell’agosto e nel settembre del 1992 ammazzarono, e si fecero ammazzare, difendendo la corte Parigina contro il popolo». Commenta il Giordani: «Ma a che un monumento per un valore venduto? e speso per una tal causa? Un monumento vorrei ai fondatori della libertà Elvetica, non agl’impugnatori della Francese». Questa lettera, una delle più belle del Giordani, è stata giustamente messa in evidenza dal compianto Francesco Tropeano, che nel vol. III, p. 75 sgg. dell’antologia Civiltà letteraria, composta in collaborazione con L. Malagoli ed E. Bruni (Milano 1960), ha scritto un intelligente e sensibile profilo del Giordani.

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Napoleone, e con entusiasmo sincero, anche se espresso in forma letteraria artificiosa, lo celebrò nel famoso Panegirico non come capo militare, ma come riformatore (un riformatore più energico e geniale, ma, agli occhi suoi, non sostanzialmente dissimile dai monarchi illuminati prerivoluzionari). Più tardi, tra il ’18 e il ’21, sperò in Carlo Alberto, infine in Pio IX.65 Ognuno di questi entusiasmi fu seguito da delusioni,66 le quali però, tranne forse l’ultima, non mutarono la sostanza delle sue idee. La monarchia (la monarchia assoluta) gli pareva un male necessario: nelle piccole città della Grecia antica poteva esser utile nutrire l’odio contro i re, «ma ora che la civiltà o piuttosto morbidezza accresciuta e diffusa ha fatto più pazienti e più timidi i popoli, ... è importunissimo l’inquietare gli uomini con questo aborrimento alla monarchia, che ora è divenuta inevitabile, e più lieve a comportare».67 Così scriveva in regime napoleonico; e se dopo il 1815 le monarchie gli apparvero sempre meno «lievi a comportare», continuò tuttavia a ritenerle inevitabili. Anacronistiche quindi gli parevano le declamazioni alfieriane contro i tiranni; dannoso, e dettato più da esibizionismo che da ragioni ideali, l’indocile servire del Foscolo, verso il quale, dopo un famoso scambio di lettere a proposito del Panegirico a Napoleone, il Giordani serbò fino all’ultimo un’invincibile antipatia, che dall’uomo si estese al poeta e allo scrittore.68 Soltanto, egli riteneva che, accettata lealmente la monarchia assoluta, fosse diritto e dovere del suddito di denunciare liberamente tutte le ingiustizie e le 65 iNapoleone e Pio IX, l’entusiasmo giovanile e quello senile, sono contrapposti spesso nelle ultime lettere: per esempio Lett., II, 223: «In gioventù mi scaldai la testa per i p r i n c i p i i di Napoleone: ora, vecchio, e parendomi conoscere di più questo mondaccio porco, ammiro di più questo prete ...»; Alcune lettere inedite (Genova 1852), p. 100: «Gli avrei secondo le mie forze fatto (a Pio IX) un panegirico meglio che a Napoleone». 66 iSu Napoleone vedi per esempio i passi cit. più oltre, p. 73 e nota 98 (e anche Lett., I, 93, dove però il Giordani, retrospettivamente, esagera alquanto il suo antinapoleonismo). Su Carlo Alberto, V, 224, e la lettera pubblicata da S. Fermi e F. Picco nel «Bollett. storico piacentino» VI, 1911, pp. 213 sg. Su Pio IX, Lett., II, 254 (13 maggio ’48, al Gussalli): «Tu dici bene; era un delirio voler fondare l’Italia sul papa, il quale quel che ha fatto non l’ha fatto da sé, ma spinto e portato dal popolo, che è veramente bravo e assennato» (in VII, 217 questo passo è riportato soltanto in parte). 67 iVIII, 189 (si noti tuttavia, in quella stessa pagina, l’amara constatazione del disprezzo che i potenti hanno verso la volontà popolare). Cfr. X, 21, dove il Giordani, in polemica con lo Scinà, riafferma che nell’evo antico il regime repubblicano era preferibile al monarchico. 68 iVIII, 317 sg. (con la nota del Gussalli, ispirata alle idee del Giordani); IX, 111, n. 1; Lett., I, 303, e II, 22, 175. Cfr. G. Ferretti, P. Giordani sino ai quaranta anni cit., pp. 116 e 119; W. Binni, I classici italiani nella storia della critica, II, 2ª ed., Firenze 1961, p. 287 sg. ** Vedi anche l’introduzione al presente volume, p. 15.

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mancanze che in essa si commettessero; e riteneva che soprattutto lo scrittore dovesse assumere questa parte di libero ammonitore, di portavoce dell’opinione pubblica offesa presso il sovrano troppo spesso tenuto all’oscuro di tutto dai suoi ministri. Attaccare e rendere responsabile direttamente il sovrano gli pareva dannoso; lecito invece criticare anche aspramente i ministri. In un frammento per un elogio funebre di suo cugino Luigi Uberto Giordani (X, 280), tracciava questa linea di condotta: «Rispettare i príncipi, e parlare liberamente de’ ministri: non perché i príncipi siano dèi; essendo uomini come noi, e alzati sopra gli altri o dal consenso libero o almeno dalla pazienza degli uomini: ma perché il mutare i príncipi reca grandi e pericolosi turbamenti: mutare i ministri (da’ quali dipende il governo) facilmente si opera senza danno e rischio publico». Queste parole sono del 1818; ma ancora nel ’46, in una lettera a Giacomo Giovanetti (il romagnosiano consigliere di Carlo Alberto) ribadiva la stessa idea: «Ed è bene il confermare e diffondere questa opinione; che è merito del re il bene che si fa nel suo stato; e non è sua colpa il male di che molti si lamentano» (Lett., II, 210). Non era dunque dettata da astuzia per sfuggire alla condanna, ma da convinzione sincera la linea di difesa che egli tenne durante la sua carcerazione nel ’34, come risulta dai suoi memoriali al governo parmense e dai verbali degli interrogatorii pubblicati dal Gussalli.69 La causa del suo arresto era stata una lettera privata, intercettata dalla polizia, nella quale manifestava con forti espressioni la sua gioia per l’uccisione del ministro dell’interno Sartorio. Il Giordani sostenne che l’oggetto della sua avversione era stato soltanto un ministro indegno, non la sua sovrana Maria Luigia. «Io non ho mosso mai, non moverò mai un dito contro i troni; i quali sempre tengo raccomandati alla provvidenza divina e alla umana pazienza ... E se io offesi qualche principe, se volli pur levare una scheggia da qualsiasi trono; precipitino tutti i troni sopra di me; o a soddisfare gli sdegni loro mi punisca Sua Maestà. Ma dov’è il principe offeso da me? In nessuno degli Almanacchi reali, in nessuna delle case regnatrici ho mai trovato un Serenissimo Sartorio» (XI, 329). E il Gussalli (XI, 288), stampando questi scritti in Milano austriaca nel 1857, poteva con qualche appa69 iXI, 287 sgg.; XIV, 9 sgg. Su un primo interrogatorio non pubblicato dal Gussalli cfr. D’Ancona (cit. alla nota 63), p. 419 sgg.

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renza di verità sostenere che essi, distinguendo tra principe e ministro e facendo il primo non responsabile degli errori del secondo, servivano a rafforzare lo spirito di obbedienza al principe. Senonché la veemenza con cui rivolgeva le sue critiche ai ministri reazionari e alle classi sociali di cui quelli erano l’espressione, lo portava ben oltre le sue posizioni teoriche, gli faceva praticamente superare i suoi principii settecenteschi: così che le persecuzioni da lui subite non furono, come potrebbe sembrare e come egli stesso credette almeno in parte, causate da equivoci: di quelle persecuzioni egli aveva pienamente meritato l’onore. Basta leggere i liberi ammonimenti al restaurato governo papale ** nell’Orazione per il riacquisto delle tre Legazioni (IX, 313 sgg.) e ancor più nella lettera aperta al cardinale Consalvi (IX, 310 sgg., cfr. 323 sgg.), e l’aspra polemica col governo parmense a proposito della Causa dei ragazzi,70 e i tanti accenni politici sparsi non soltanto nelle sue lettere private, ma anche in scritti pubblicati o destinati alla pubblicazione,71 per convincersi che egli esorbitava di gran lunga dalla parte che si era assunta di critico entro il sistema assolutista, per divenire critico del sistema stesso; e critico assai più deciso e coraggioso di molti liberali che, guardando solo ai principi teorici, avrebbero potuto sembrare più avanti di lui. Si capisce quindi come i governi reazionari dovessero vedere in quella distinzione fra principe e ministro soltanto un’astuzia per combattere l’assolutismo senza esporsi a condanne. E il Giordani stesso, pur senza abbandonare mai del tutto le sue posizioni iniziali, andò via via comprendendo che, dopo la grande paura della Rivoluzione francese e delle guerre napoleoniche, le monarchie avevano ormai rinunciato ad ogni iniziativa progressista, e che anche nel campo culturale la scissione tra le forze vive della nazione e i governi assoluti era ormai compiuta. Nota una cosa – scriveva a un suo amico piacentino –. Quel Zaiotti, vero scrittore, il solo vero ingegno italiano che siasi venduto agli Austriaci, pure non vuol passare per vile né per coglione, e in quello stesso articolo osa maledire le tirannidi. Quando parlò della passione amorosa de’ Tirolesi per Francesco, e maledisse chi non l’adora, pagò un tributo inevitabile alla sua laida fortuna; ma molte altre volte ha voluto 70

iVedi più oltre, pp. 87-88. iVedi in particolare i coraggiosissimi scritti da lui indirizzati a Vincenzo Mistrali e alla contessa Scarampi (XI, 289-316; D’Ancona cit. alla nota 63, p. 382 sgg.). Quanto al carattere di «lettere aperte» che assumevano molte sue lettere private, vedi più oltre, pp. 105-106 n. 32. 71

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pagare il debito alla riputazione e al secolo. Tale è il secolo! Il re di Napoli ad un Toscano che andò a domandargli de’ suoi onori di corte, e gli ottenne, disse: – È trista la condizione dei re in questi tempi: gl’ingegni son tutti alienati da noi; e ci si mostrano affezionati solo gli sciocchi –. E quel buon uomo ebbe la semplicità di riferir queste parole, che fanno onore al re, ma non a lui.72

Nella ferocia repressiva dei governi vedeva la prova che essi, non più sorretti dal consenso dell’opinione pubblica, erano destinati a cadere: «Che bozare di Carbonari? Il carbone è nelle scellerate corti; ed elle pur si consumeranno nel fuoco, in che stolte e crudeli vanno soffiando»73. Specialmente dopo la carcerazione del ’34 (che, come egli scrisse, era servita a compiere la sua educazione politica)74 si fecero più frequenti nelle sue lettere gli attacchi rivolti direttamente ai principi; solo per Maria Luigia conservò, nonostante tutto, un certo affetto misto a commiserazione.75 Se continuò a considerare la monarchia come un male necessario, fu per la sua sfiducia nelle società segrete; ma se la realtà lo avesse smentito, sarebbe stato il primo a gioirne. E infatti già nel marzo 1821 aveva scritto pieno di entusiasmo a un amico: «Italiae venere dies. Mio caro: siate di qual filosofia volete: questo momento è grande, straordinario, unico per l’Italia. Fosse pur pericoloso (a me non pare), fossero pur fallacissime le speranze; un gran bene è già posto in sicuro. E cancellata la lunga ignominia d’Italia. In magnis [et] voluisse sat est [cr] **. ** Non c’è più ragion, né pretesto alle altre nazioni d’insultarci. Potremo essere incatenati come Leoni; non venduti come porci. Io morirò contento d’aver veduto nascere le speranze del bene; e qualunque sia la fortuna, è gran cosa 72 iLett., I, 240 sg. (giugno 1825). L’aneddoto sul re di Napoli anche in XI, 193. Sui rapporti Giordani-Zajotti – improntati a reciproca stima in fatto di letteratura, ad aspra inimicizia nel campo politico – cfr. XI, 311; XII, 50 sgg.; D’Ancona, op. cit., p. 457 sgg.; e la lettera dello Zajotti all’Acerbi pubblicata da A. Luzio in «Riv. stor. del Risorgim. ital.» I, 1895-96, p. 708. Lo scritto adulatorio dello Zajotti a cui allude il Giordani è contenuto, anonimo, nell’opuscolo Francesco I in Trento nelle feste di Natale del 1822, Trento 1823, p. 5 sgg. Per l’attribuzione allo Zajotti cfr. F. Ambrosi, Commentari della storia trentina, Rovereto 1887, p. 161 (segnalatomi gentilmente dalla Dott. Annamaria Schlechter, direttrice della Biblioteca comunale di Trento). 73 iAlcune lettere inedite (Genova 1852), p. 70. «Bozàre» ** (chiacchiere, frottole) è una parola del dialetto piacentino cara al Giordani.* 74 iCfr. VIII, 311. 75 iCfr. Alcune lettere inedite cit., pp. 69 sg.; D’Ancona, op. cit., p. 393 sg.

*iNon «bozàre», ma «bózare» (cioè «bùggere»), come mi fa osservare giustamente Bruno Migliorini: il Vocabolario piacentino-italiano di Lorenzo Foresti (3ª ed., Piacenza 1883, p. 80) registra bôzra (al plurale bôzar: la desinenza -e che vi appone il Giordani è un’italianizzazione). **

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averla meritata buona» (Lett., I, 196). Più riservato fu di fronte ai moti del ’31, che si svolsero sotto i suoi occhi in Emilia, perché fin dal principio vide chiara l’impreparazione e l’incapacità politica dei governi provvisori;76 ma di nuovo si entusiasmò senza riserve nel ’48. A Cornelia Fabris, alla quale due anni prima aveva scritto una lettera sfiduciata,77 ora scriveva: «Io benché vecchio e caduco sono affatto del suo parere nel desiderare pronta liberazione d’Italia dai ferocissimi barbari, e nell’ammirare la Sicilia, e specialmente Palermo, la Lombardia, e massimamente l’Eroica Milano».78 Ed espresse la sua ammirazione a Carlo Cattaneo per il suo proclama agli ungheresi, «una delle poche e più belle cose che siensi pubblicate in Europa».79 * Tra sé e i combattenti della nuova generazione sentiva un distacco di età e di formazione spirituale, che gli impediva di partecipare alle loro lotte, ma non di seguirle con animo appassionato. «La mia età e le mie circostanze mi tolgono dal numero de’ valorosi e combattenti; ma non sono freddo spettatore dell’altrui virtù: e desidero, e vorrei sperare, degni successi alle generose intenzioni». «Avrei pur recitato volentieri qualche parte nel dramma della vita; almeno di suggeritore. Ma la Natura mi vuole ozioso, e nondimeno ansioso, aspettatore. Voi combatterete e (per Dio spero) vincerete: io applaudirò. Io triumphe». Queste due citazioni80 non si riferiscono specificamente a fatti politici, ma non è arbitrario usarle per definire l’atteggiamento del Giordani di fronte alle lotte risorgimentali. Questo atteggiamento lo stac76 iCfr. O. Masnovo, Il patriottismo ecc. (cit. all anota 63), p. 162; e tieni presente ciò che osserviamo più oltre, pp. 132-133. Anche verso il Mazzini non mancano nelle lettere del Giordani accenni ostili (cfr. O. Masnovo, art. cit. alla nota 48, p. 337): in questo caso, all’antipatia per le «sette» si univa l’antiromanticismo. 77 iCitata da G. Gambarin, «Giorn. stor. letter. ital.» LXXVII, 1926, p. 320. 78 iLett., II, 243 (incolpiuta in VII, 207). 79 iLett., II, 248; vedi anche la lettera seguente al Gussalli. Il proclama agli Ungheresi nell’Epistolario del Cattaneo a cura di R. Caddeo, I, Firenze 1949, p. 448; la risposta del Cattaneo al Giordani, ibid., p. 247. Come risulta dalle lettere al Gussalli – il quale faceva in un certo senso da trait d’union fra lui e il Cattaneo –, il Giordani fu contrario all’immediata annessione al Piemonte, voluta dai piacentini (cfr. anche G. P. Clerici in «Riv. d’Italia» XVIII, 1915, vol. I, p. 109 sgg.). Sulla prospettiva politica generale rimase incerto, perché da un lato tendeva a simpatizzare per il repubblicanesimo e l’antipiemontesismo del Cattaneo, dall’altro non aveva fiducia nella realizzabilità di una soluzione rivoluzionaria. 80 iXIII, 105; Lett., I, 284. Cfr. Lettere al padre A. Fania, a cura di F. Sarri, Firenze 1933, p. 120.

*iSui rapporti Giordani-Cattaneo vedi lo studio di Giovanni Forlini, Giordani e Cattaneo, di prossima pubblicazione ** nel «Bollett. storico piacentino» LXIV, 1969, fasc. 1.

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ca in modo ben deciso dai moderati, per esempio da Gino Capponi e dagli altri toscani di cui fu amico negli anni di Firenze. In quelli è difficile dire fin dove arrivasse la sfiducia nel successo della rivoluzione e dove cominciasse la paura della rivoluzione stessa; mentre nel Giordani c’era il senso virilmente pessimistico di essere lui ormai vecchio e fuori del suo tempo, ma non c’era alcun timore e alcuna riserva verso le nuove idee. Più vicina alla sua, nonostante sensibili differenze, era la posizione politica del suo Giacomo Leopardi. 5. ** Un analogo contrasto fra le premesse arretrate e le conseguenze progressiste troviamo nelle idee sociali. Il Giordani, non nobile, molto aspettava dalla nobiltà italiana, più che nel campo strettamente politico, in quello civico e culturale. Tra le qualità che desiderava nel «perfetto scrittore italiano» (di cui avrebbe voluto tracciare un ritratto ideale, a somiglianza dell’Orator di Cicerone) c’era l’esser nato nobile: gli pareva che così avrebbe potuto con più autorità e minor pericolo dire la verità: «Molto è creduto dal volgo al nobile; molto è comportato dai potenti al ricco. Quis bene dicentem Basilum ferat? Disprezzati e bistrattati Torquato e Giangiacopo; riveriti e temuti il signor di Voltaire, il conte Alfieri ed il barone di Zach».81 La sua Istruzione a un giovane italiano per l’arte di scrivere (XI, 8 sgg.) è diretta a un immaginario Eugenio, nome parlante («il bennato»). Esultava ogni volta che trovava un giovane di famiglia nobile appassionato agli studi: il conte Pompeo Dal-Toso, il marchese Felice Carrone di San Tommaso, entrambi morti giovanissimi con suo grande dolore. Per la stessa ragione si rallegrò che fosse nobile Giacomo Leopardi.82 Anche il Leopardi, del resto, la pensava così, e fino all’ultimo mantenne un piccolo e innocuo orgoglio del suo titolo di conte, che non gli impedì tuttavia di superare, nei suoi rapporti concreti con altri uomini, ogni pregiudizio sociale.* Né il Giordani né il Leopardi vedevano che tra Alfieri o Voltaire e la realtà loro contemporanea c’era stata la Rivoluzione francese e che ormai la nobiltà, presa nel suo insieme come classe, era esausta anche 81

iXI, 95. Quis ... ferat: Giovenale, VII, 147. iEpistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, p. 59.

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*iSulla coscienza «nobiliare» del Leopardi vedi ora (con molta finezza di indagine psicologica e sociologica, anche se, a mio parere, con insistenza eccessiva) G. Bollati, op. cit. nella prefazione, p. LXXXVII sgg. Cfr anche G. Moget, art. cit., p. 58 sgg. **

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dal lato culturale. O meglio, il Giordani lo vedeva suo malgrado, e lo spettacolo della nobiltà dei suoi tempi, così contrastante con la funzione che egli le assegnava, lo spingeva a feroci invettive. «La nobiltà ha perduto i feudi; non ha rinunciato alle massime feudali. Massima feudalissima, che ogni inferiore è c o s a del superiore, ogni debole è c o s a del più forte» (X, 299). A proposito delle esequie di un medico benefattore dei poveri, che erano state seguite da tutto il popolo di Piacenza, diceva: «Esequie trionfali, lutto glorioso; quale non otterrà mai l’insolente avarizia degli straricchi, vilissimi successori di rapacissimi antenati; che non osano redimere dall’abominazione universale, con qualche atto benigno di sociale virtù, almeno una porzione di tanto odiosa eredità di antichi delitti». E se i nobili verranno meno al loro compito, «noi, popolo mal disprezzato, ci sforzeremo di dare alla nazione la nobiltà vera dell’uomo, la nobiltà dell’animo; rimarranno ignobili, vera plebe, gl’ignoranti e gli oziosi».83 Qui il popolo sono tutti i non nobili: ma la sua sollecitudine andava anche al popolo più umile. Già abbiamo visto come si ponesse il problema dell’istruzione popolare. Un suo scritto non finito s’intitola Se debbano impedirsi gli studi ai poveri (XII, 208 sgg.), e l’idea, sostenuta specialmente dai gesuiti, che i poveri non debbano studiare è bollata come «bestiale demenza». Tra il popolo piacentino e parmigiano egli doveva essere molto popolare, specialmente in seguito all’azione da lui svolta per l’istituzione di asili d’infanzia e contro l’uso di picchiare i ragazzi nelle scuole; e ne ebbe prova specialmente quando fu incarcerato. Non doveva essermi discaro quando i Signori han voluto riconoscere in me l’amor del vero e del buono: ma più mi concilia a me stesso la benevolenza portatami dal popolo. Povero popolo, che per voi altri signori è nulla; e senza il quale sareste voi nulla! Più volte ho saputo quanto mi voglia bene quella moltitudine faticante e misera di popolo, che i superbi dicon plebe; alla quale certo non può importare ch’io sia letterato o filosofo; né debbo parere superbo o egoista, se mi ama. Quanto mi compensa de’ vostri inetti disdegni questo amore! dappoiché la mano degli iniqui fu ardita di toccarmi ne ho avuto più chiaro segno; venendo a mia notizia che alcune povere donne le quali non conobbi mai di presenza né di nome, fanno dire ogni sera delle Avemarie a’ loro poveri bambini, perché Dio mi liberi dalle vostre mani. Oh buon popolo parmigiano, sì indegnamente maltrattato! Oh consolazione, oh gloria del mio carcere!84.

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iX, 402; XI, 101-03. iXI, 342. Questo brano fa parte di un memoriale che il Giordani incarcerato nel ’34 inviò al conte di Bombelles, ministro di Maria Luigia. 84

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Né si dava, di fronte al popolo, arie untuosamente caritatevoli: iscrivendosi come «socio benefattore» [cr] a una società di mutuo soccorso, ci teneva a dichiarare che poco gli piaceva questa espressione;85 e aggiungeva: «Mi credo obligato di riverire quelli che lavorando guadagnano il vivere; superiori a me e a tutti quelli che non faticando e nulla producendo mangiano le fatiche e i prodotti altrui». Quando morì assassinato Domenico Manzoni, un forlivese di umile origine che sotto Napoleone aveva accumulato in pochi anni, con fortunate speculazioni, un’immensa ricchezza, il Giordani, pregato dalla vedova, ne abbozzò un elogio che poi non condusse a termine.86 Sarebbe stato, a quanto risulta dai frammenti, un elogio alquanto ambiguo: il Giordani lodava la sollecitudine del Manzoni per i suoi contadini («Cura di fabricar case salubri ai contadini. ** Barbarie di tutti i possidenti d’Italia, che hanno più cura di buone stalle alle bestie: e alloggiano orribilmente chi si consuma per dar loro pane, e delizie, e fasto»),87 ma nello stesso tempo s’inoltrava in considerazioni sulla disuguaglianza delle ricchezze che sarebbero state quasi un’implicita critica al morto. E fra l’altro notava: «È un difetto pericoloso delle attuali società la gran disuguaglianza delle ricchezze ... È derisa la cura d’introdurre l’uguaglianza; e nondimeno è adorato, e riverito come più che umano il legislatore88 che unico pose incredibili cure ad introdurla e mantenerla nel suo popolo. E tanto più ragionevolmente, quanto che i danni della perfetta uguaglianza non sono mai da temere, perch’ella è impossibile: laddove i mali della somma disuguaglianza gravissimi sono da temere, perch’ella è facilissima. Fu dunque sapientissimo quel legislatore ** che si allontanò con tutte le cure da quell’estremo, nel quale è più facile e più rovinoso il cadere».89 85

iVII, 128 (al Gussalli, 5 gennaio 1846). iX, 276 sgg. (1817). Cfr. G. Gambarin, «Giorn. stor. letter. ital.» LXXXVII, 1926, p. 282 sgg. 87 iX, 278. A questo passo [o piuttosto all’iscrizione per Francesco Soprani in Gussalli XIII 192, nr. 34] **, probabilmente, allude Edmondo De Amicis **, Sull’Oceano, 3ª ed., Milano 1889 (anche la 1ª ed. è di quell’anno), p. 51: «Mio malgrado, mi risonavano in mente, come un ritornello, quelle parole del Giordani: il nostro paese sarà benedetto quando si ricorderà che anche i contadini sono uomini»: singolare testimonianza dell’influsso delle idee sociali del Giordani su uno scrittore di formazione letteraria nettamente diversa, manzoniana. 88 i** Mosè. ** 89 iX, 276. Vedi anche X [cr], 277: «Uso buono che si poteva fare de’ beni nazionali: invece abbandonati alla cupida ingordigia di pochi»; e la discussione del problema perché il popolo «invidii tanto e odii le ricchezze recenti; e riverisca le antiche, benché ugualmente ingiuste e superbe». 86

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Il ragionamento è, se si vuole, semplicistico, e non sarebbe certo sufficiente a tranquillizzare chi è affetto dalla paura del comunismo!, ma è interessante per il corollario pratico che suggerisce. Dei due estremi, l’unico realmente minaccioso, anzi già in atto, e quindi l’unico da combattere è la somma disuguaglianza: l’altro, l’eccessivo egualitarismo, è un pericolo inattuale e astratto: e dunque, pas d’ennemis à gauche.90 Qui meglio ancora si vede la differenza tra il Giordani e i moderati toscani; i quali ebbero anch’essi, qualche tempo dopo, «paterne» sollecitudini per i contadini e deplorazioni per le eccessive ricchezze; ma sempre a scopo conservatore, per impedire cioè che l’estrema miseria suscitasse esasperati moti di ribellione. Che il pericolo della «somma uguaglianza» fosse irreale, non lo avrebbero certamente mai detto né il Capponi né il Ricasoli; non lo avrebbero detto neppure illuministi come Romagnosi, Melchiorre Gioia, Cattaneo, dotati di una visione dei problemi economico-sociali molto più organica che il Giordani, ma in senso nettamente liberista, ostile a qualsiasi forma di socialismo. Il Giordani non fu certo propugnatore o precursore di moti sociali; ma era libero da pregiudizi e da paure anche di fronte a questi problemi. E gli accenni che qua e là ricorrono nei suoi scritti al «paventoso intervallo onde fortuna ruppe e separò la natura comune», gli ammonimenti a fare un uso socialmente benefico delle ricchezze perché questo solo può far «perdonare il peccato della origin loro»,91 benché inseriti in contesti non rivoluzionari, rivelano che il discorso di Rousseau sull’origine dell’ineguaglianza, o altri testi settecenteschi di analoga ispirazione, costituirono per il Giordani una lezione non mai dimenticata. Alle agitazioni sociali, nella sua Piacenza come in Inghilterra e in Francia, continuò sempre a interessarsi.92 Un interesse non meramen90 iConsapevole dell’audacia di queste idee, il Giordani pensava di pubblicare l’elogio di Domenico Manzoni all’estero: V, 30 (lettera al Brighenti). 91 iIX, 273 (cfr. ibid.: «Ecco a’ poveri agricoltori, senza i quali pur non si vivrebbe, come duramente si comanda! e come ingratamente la vita de’ ricchi si fa aiutare dalla turba de’ meccanici artieri!»; lo scritto è del 1812); X, 391 (1820). Vedi anche le trasparenti allusioni contenute in un bell’elogio dell’Utopia di Tommaso Moro (XI, 5-7); e l’abbozzo di lettera aperta al Vieusseux (XI, 228-230), in cui il Giordani mostra di ritenere utile l’ereditarietà delle ricchezze, ma con molte riserve e molti ironici sottintesi. 92 i** Cfr. VII, 140, e le due lettere inviate al Giordani da Pietro Gioia (Biblioteca Laurenziana di Firenze, Carte Giordani, XXII, 81 e 83, pubblicate senza nome d’autore dal Gussalli, VII, 140 n. 1, 146 n. 1) a proposito dei tumulti piacentini del 1846, causati dalla crisi economica. Pietro Gioia, divenuto più tardi filo-sabaudo e cavurriano, nel ’46 aveva ancora idee sociali assai avanzate. **

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te letterario lo spinse a tradurre nel 1842 la storia della «sollevazione degli straccioni» dal latino di Bartolomeo Beverini, e a comporre l’anno dopo un discorso introduttivo all’orazione di Giovanni Guidiccioni sullo stesso tema.93 Il Giordani metteva in luce le analogie tra quell’episodio di lotta di classe nella Lucca cinquecentesca e «i tumulti di Manchester e di Lione», e il tono di tutte quelle pagine è di solidarietà coi proletari oppressi e di dolore per la loro sconfitta.94 Certo in lui, più ancora che esigenze strettamente politiche o sociali, erano esigenze di progresso educativo e, in senso lato, culturale: esigenze a n t i o s c u r a n t i s t e, ma sentite con larga umanità e senza alcun razionalismo arido. E quindi, più ancora che contro l’assolutismo monarchico e i ceti economicamente privilegiati, la sua polemica doveva rivolgersi contro il clericalismo, il più immediato responsabile dell’arretratezza dell’Italia. Contro l’ignoranza e l’oscurantismo dei preti e dei frati vi sono in tutti i suoi scritti punte polemiche efficacissime; e anche le sue prese di posizione su singoli problemi culturali che abbiamo già esaminato (contro lo scriver latino; contro l’esclusivismo letterario nella scuola, ecc.) rientrano nel quadro generale della battaglia laica. In Galileo e in Sarpi venerava due combattenti per la verità, vittime dei «condensatori di tenebre» che avevano spento ogni vita intellettuale e morale in Italia. Uno dei motivi che gli suscitarono le contumelie dei reazionari e che dettero all’Acerbi l’occasione per estrometterlo dalla «Biblioteca Italiana» fu appunto un suo accenno alla tortura a cui fu sottoposto Galileo durante il processo.95 Vedeva bene che la questione galileiana era ancora viva, le forze che avevano oppresso Galileo tuttora operanti: «Ora i perpetui nemici d’ogni vero tornano ad impugnare anche questo (cioè 93 iXII, 304 sgg., 361 sgg. La pubblicazione dell’orazione del Guidiccioni e del preambolo del Giordani fu vietata dalla censura (cfr. la nota del Gussalli a XII, 360). Il Giordani tradusse poi dagli Annali del Beverini anche la narrazione della congiura del Burlamacchi (XII, 423 sgg.) e pensò di raccogliere in un volume, con l’aiuto del Gussalli, tutti questi testi di storia politicosociale lucchese del Cinquecento. Ma nemmeno questo progetto poté essere attuato. Gli abbozzi della prefazione a questo volume e di un’altra lettera-prefazione al Minghetti sulla Sollevazione degli straccioni furono pubblicati dal Gussalli, XII, 430 sgg. 94 iXII, 435; cfr. 433. 95 iX, 22. Il Giordani avrebbe voluto svolgere con maggiore ampiezza questo argomento (cfr. X, 273 sgg.), sostenendo che il «rigoroso esame» di cui parla la sentenza è un termine tecnico per indicare la tortura. Ma non riuscì mai a procurarsi il Manuale inquisitorum (cfr. Gussalli, nelle Opere del Giordani, I, p. 63 sg.). Vedi anche il progetto per un’edizione di scritti scelti di Galileo (Firenze, Biblioteca Laurenziana, Carte Giordani, XXIV, 51).

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il sistema copernicano), e presumono di scacciarlo dalle menti umane».96 Quasi certamente c’è qui una allusione a Monaldo Leopardi, il quale pochi anni prima aveva augurato la venuta di un anti-Galileo che «restituisse alla terra l’antico onore, mettendola nel centro dell’universo, e liberandola dal fastidio di tanti moti».97 In un altro scritto abbozzato e non finito, Della religione in Italia (XI, 26 sgg.), poneva il problema, discusso poi fino alla sazietà, della mancanza di una riforma religiosa in Italia e del conseguente scetticismo degli italiani. Ai prìncipi, italiani e stranieri, che si erano susseguiti nel nostro paese da Carlo V in poi, rimproverava soprattutto di non aver colpito la potenza del clero e incoraggiato una riforma religiosa. Anche Napoleone aveva finito col seguire le vecchie vie del compromesso e del concordato: «A’ nostri giorni abbiamo veduto Bonaparte incredulo, odiatore e sprezzatore de’ preti, cavarli dal niente ov’erano caduti, alzarli a sua possanza che fosse perniciosissima ai popoli, e finalmente dannosa a lui stesso».98 Ancora dopo la Restaurazione ammoniva i prìncipi a staccarsi dall’alleanza clericale: «Male i prìncipi si associano a’ preti, quest’associazione li rovinerà» (X, 275). Ammonimento vano, perché di fronte al pericolo della rivoluzione i prìncipi avevano abbandonato ogni velleità riformatrice e giuseppista e vedevano nell’oscurantismo clericale l’unica difesa possibile dei loro troni. Ma nell’atto stesso in cui si mostrava ancora legato a speranze anacronistiche, il Giordani ci teneva ad avvertire che quell’appello ai prìncipi egli lo rivolgeva non nell’interesse delle monarchie, ma dei popoli: «Se volessi sostenere le ragioni dei re, la vita e il fine di Pietro Giannone mi avvisa qual mercede dovrei aspettarne. Muovemi l’interesse de’ popoli, ai quali importa che i principi non siano dal prete impediti di fare il bene» (X, 274). Allo stesso modo sperava ancora qualche volta di poter staccare dai preti i nobili: «Molti beni potrebbe l’Italia ricevere dai Nobili: e infiniti danni ha ricevuti e riceve dai Preti. Come quei beni si possano 96

iXII, 208 (1839). iCfr. G. Piergili, Notizia della vita e degli scritti del conte M. Leopardi, Firenze 1890, p. 43. Lo scritto di Monaldo (Considerazioni sulla Storia d’Italia di Carlo Botta) apparve nella «Voce della Ragione» e poi separatamente (Pesaro 1834) **. 98 iXI, 28; cfr. VII, 109: «Bisognava confessare che la rifabbricazione del potere pretesco fu opera di Napoleone. Oh lì ebbe la vista corta!». Ammonimenti a Napoleone perché combattesse il clero erano contenuti nella prima redazione del Panegirico: cfr. XIV, 253 sgg., 283. 97

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procurare, e questi danni rimediare intendo discorrere nel presente ragionamento». Così doveva cominciare un suo opuscolo De’ nobili e de’ preti in Italia (XI, 31); ma non andò oltre questo esordio. E in fondo egli stesso vedeva bene che nobili e preti, preti e prìncipi costituivano ormai un unico blocco reazionario e oscurantista: «In Italia (colpa della tirannia de’ preti e de’ principi) è sempre stato piccolo il numero di chi sappia e possa leggere» (XI, 29). Più oscurantisti di tutti – non saprei dire se con ragione o soltanto perché ne aveva più diretta esperienza – gli parevano i preti e i nobili della sua Piacenza. «La nostra Società di Lettura – scriveva all’amico Leopoldo Cicognara – può ben guardarsi come cosa misera e quasi ridicola: ma è l’unico raggio di luce in quel paese bujo; è l’unica particella di civiltà di quel paese scitico o africano: e ci è costata non poco travaglio per la guerra perfida di que’ nobilacci, e di que’ pretacci; ivi anche più che altrove barbari e maligni; i quali non vogliono assolutamente che l’uom legga né sappia leggere (hanno ragione)».99 E i nobili e ancor più i preti piacentini lo ricambiavano d’un odio feroce, e andavano dicendo che bisognava bruciarlo vivo o chiuderlo in una gabbia di ferro!100 6. Si comprende bene perciò la sua ostilità al rifiorente cattolicismo della Restaurazione, ostilità che appare per esempio in un accenno sprezzante a Chateaubriand, «idolo degli sciocchi e degli ipocriti di Francia».101 Anche il cattolicismo liberale che si andava diffondendo dopo il 1830 gli sembrava un insidioso ritorno del vecchio oscurantismo: erano «i nuovi apostoli del cristianesimo decrepito».102 Al suo amico Giuseppe Bianchetti – come lui purista e patriota, ma simpatizzante per le nuove tendenze spiritualiste – raccomandava: «Abbiate cura che del vostro nobil filosofare non possano presumere di cavar armi difensive i preti, veri e incorreggibili e perpetui avversari di ogni bene, flagelli veri e grande ignominia del genere umano».103 E lo stuz99

iLett., I, 279; cfr. Lett., I, 109. iCfr. per esempio V, 267 e 272; XI, 207; XIII, 413. iXII, 60; cfr. XI, 198; XII, 32, 168 sgg.; VII, 75 sgg. 102 iAlcune lettere inedite, Genova 1852, p. 158. Così pure a Giuseppe Ricciardi (pubbl. in «Riv. d’Italia» 1911, vol. II, p. 973): «Cotesto furore di catolicesimo in Francia (scimiottescamente contrafatto dagl’Italiani) è vanità di moda? è ipocrisia? e allora con quale intendimento? persuasione di ragionevoli non può essere». Cfr. ibid., pp. 977 (sul Mamiani), 980 (sul Lamennais). 103 iLettera del 7 luglio 1832, pubblicata da G. Gambarin, «Giorn. stor. letter. ital.» XCIII, 1929, p. 280. ** 100 101

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zicava chiedendogli: «Che pensate ** della filosofia del prete Rosmini, che taluno chiama il primo pensatore d’Europa? E con tanti pensieri, pensa a fondare nuova fraterìa! Al dì d’oggi!».104 Dal punto di vista della specifica preparazione filosofica, certo, era lui poco aggiornato: lui che era rimasto fermo a Voltaire e al sensismo,105 parlava di Kant con disprezzo senza conoscerlo direttamente, e, quando voleva citare un’opera filosofica italiana che stesse alla pari con le straniere più celebrate, ricorreva immancabilmente all’Etica di Jacopo Stellini.106 Non diversamente Giacomo Leopardi condannava in blocco, sulla base di vaghe notizie di seconda o di terza mano, tutta la filosofia tedesca, e affermava che si può essere filosofi «senz’aver letto o inteso Kant»;107 e il Romagnosi, come ricorderà più tardi Giuseppe Mazzini, «giudicava, quasi maestro, la filosofia d’Hegel o di tutt’altro tedesco su di un estratto francese di due pagine, cadutogli sott’occhi»;108 e il Cattaneo stesso, benché assai più nutrito di cultura europea, in fatto di filosofia contemporanea non si curò mai di colmare certe sue grosse lacune. Eppure, in quanto respingevano ogni ricorso al trascendente e al metafisico e propugnavano una visione del mondo e una cultura integralmente laiche, questi classicisti illuministi erano davvero più avanti, anche filosoficamente, non solo di Rosmini e di Gioberti, ma di gran parte del pensiero europeo del loro tempo. ** L’ammirazione stessa del Giordani per lo Stellini, esageratissima in sé, diviene comprensibile quando si pensi che lo Stellini assegnava alla morale un fondamente eudemonistico e indagava – con molto minore originalità di Vico, ma con più chiarezza espositiva – il problema del passaggio dallo stato ferino alla società civile.109 Lo stellinismo del Giordani era qualcosa di analogo al romagnosismo del Cattaneo: in tutti e due i casi, l’opera di un pensatore non grande veniva assunta come simbolo e rappresentanza di tutto un indirizzo di pensiero pro104 iIbid., p. 261, n. 1 (30 settembre 1837). La «nuova fraterìa» è la congregazione dei Rosminiani (Istituto della carità), fondata dal Rosmini nel 1828 e approvata poi dal papa nel ’39. 105 iSu Voltaire vedi per esempio XI, 57 sgg.; VII, 160. Quanto al sensismo, vedi la pagina seguente, e inoltre, per Condillac, p. 79 n. 116. 106 iSu Kant vedi VI, 83. Sullo Stellini, per scegliere un solo passo tra gli innumerevoli che si potrebbero citare, cfr. VI, 376: «Tutto quello che l’antica e la moderna filosofia può dir di vero e di utile l’ho trovato in quella divina opera». 107 iZib., 1857 e 4304. 108 iScritti letterari di un Italiano vivente, Lugano 1847, III, p. 312. 109 iCfr. E. Garin (cit. alla nota 18), II, p. 443 sgg.

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gressista, in polemica con le tendenze retrive che avevano ripreso il sopravvento. Gli stessi Romagnosi e Cattaneo, pur essendosi accostati (a differenza del Giordani) direttamente a Vico, continuarono a considerare lo Stellini come un maestro.110 Senza dubbio la prima formazione illuministica del Giordani va ricondotta all’ambiente parmense, che nel secondo Settecento era stato un tipico ambiente illuminista e classicista ad un tempo.* Là aveva dimorato per un decennio (1758-67), precettore del figlio del duca di Parma, il Condillac, e là il Rezzonico aveva esposto la dottrina sensista in versi classicheggianti.111 Studente a Parma dal 1788 al ’93, e poi di nuovo nel ’95, il Giordani non poté avere rapporti diretti coi più tipici rappresentanti della cultura parmense settecentesca; ma l’atmosfera intellettuale da essi creata non doveva ancora essersi dissolta. Le lettere di argomento filosofico che tra il 1795 e il ’97, poco più che ventenne, egli scrisse al suo ex professore Domenico Santi – di cui ben presto era divenuto amico e addirittura consulente filosofico e didattico – mostrano un Giordani già sensista convinto, seguace di Charles Bonnet nel campo fisio-psicologico e gnoseologico, dello Stellini nell’etica sociale; mostrano anche che l’edonismo su cui egli basava la teoria delle passioni si colorava di tinte pessimistiche, che fanno pensare a Maupertuis e a Pietro Verri.112 Tali idee non ebbero più tardi da parte del Giordani uno sviluppo filosofico originale; ma l’importante è che egli non le abbandonò durante la Restaurazione, anzi 110 iDel Romagnosi vedi soprattutto L’antica morale filosofia ..., aggiuntavi la delineazione di quella di J. Stellini, Milano 1831, p. v sg. e passim, e numerose menzioni dello Stellini in altre opere (cfr. F. Luzzatto, Contributo agli studi stelliniani, Udine 1989, p. 104 sgg.). Del Cattaneo vedi SF, I, 78, 136 sg., 260, e altrove. 111 iVedi la ben nota opera di H. Bédarida, Parme et la France de 1748 à 1789, Parigi 1928; e, per il Rezzonico e altri letterati a Parma nel Settecento, W. Binni, Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze 1963, pp. 164 sgg. 112 iIl microfilm di queste nove lettere filosofiche, conservate tra le Carte Giordani della Palatina di Parma, mi è stato gentilmente inviato dal direttore di quella biblioteca, Dott. R. A. Ciavarella. La lettera più interessante è stata pubblicata da Anita Marradi nel «Nuovo giornale», Firenze 27 ottobre 1913. Ma anche le altre meriterebbero di essere rese note. Il Ferretti (P. G. sino ai quaranta anni cit., p. 16 sgg. e passim) delinea molto bene i rapporti umani tra il Giordani e il Santi, ma quasi nulla ci dice sulla formazione ideologica del Giordani.

*iSull’ambiente illuministico parmense e sulle idee filosofiche del Giordani vedi la grossa opera di Giuseppe Berti (diverso dal noto storico), Atteggiamenti del pensiero italiano nei Ducati di Parma e Piacenza dal 1750 al 1850, Padova 1858-62: al Giordani è dedicato un capitolo nel vol. II, pp. 361-88. Si tratta di un lavoro molto ingenuo e goffo, utile tutt’al più come raccolta di materiali.

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le accentuò sempre più in senso anticattolico e tendenzialmente materialistico; e poté quindi costituire una guida per i giovani che non si appagavano delle varie forme di spiritualismo venute di moda. La sua polemica anticattolica, tuttavia, era rivolta contro l’aspetto culturalmente e socialmente retrivo del cattolicesimo più ancora che contro l’aspetto propriamente religioso. Anzi, nonostante la sua antipatia per il cattolicesimo liberale e il suo scetticismo di fronte alla democrazia religiosa dell’ultimo Lamennais,113 egli stesso non era del tutto privo di speranza in una riforma della chiesa. Già abbiamo accennato al suo entusiasmo per Pio IX nel ’46; ma ogni volta che s’imbatteva in un ecclesiastico non intrigante e non nemico del progresso, non risparmiava le espressioni di giubilo: si veda per esempio la prefazione ad un opuscolo collettivo in onore del nuovo vescovo di Piacenza, Lodovico Loschi (XI, 36). Parecchi furono i preti con cui mantenne ottimi rapporti di amicizia, da Giovan Battista Canova ad Angelo Mai, ad Alessandro Checcucci, ad Antonio Cesari (con quest’ultimo a un certo punto si guastò, ma per motivi che non avevano a che fare direttamente con la religione).114 E ammirò i Promessi Sposi appunto come espressione di una religiosità immune da oscurantismo, aperta alle esigenze dello spirito moderno, esercitante una benefica azione educativa sul popolo. «Se lo guardate come libro letterario, ci sarà forse un poco da dire; secondo la varietà de’ gusti e delle abitudini. Ma come libro del popolo, come catechismo (elementare; bisognava cominciare dal poco) messo in dramma; mi pare stupendo, divino. Oh lasciatelo lodare: gl’impostori e gli oppressori se ne accorgeranno poi (ma tardi) che profonda testa, che potente leva è chi ha posto tanta cura in apparir semplice, e quasi minchione: ma minchione a chi? Agl’impostori e agli oppressori che sempre furono e saranno minchionissimi. Oh perché non ha Italia venti libri simili!»115 E lo lodava di «aver espresso una religione che nessuno incredulo può deridere; una filosofia che nessun devoto può calunniare». Avrebbe tuttavia desiderato (ed era un desiderio evidentemente inappagabile da parte del Manzoni, la cui 113

iVedi sopra, nota 102; sul Lamennais anche VI, 175; VII, 34. iCfr. A. Bertoldi, Prose critiche di storia e d’arte, Firenze 1900, p. 177 sgg. 115 iVI, 15. Cfr. VI, 14 e i Pensieri per uno scritto sui Promessi Sposi (XI, 132 sgg.). 114

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individualità umana e artistica sta tutta in quel sapientissimamente ambiguo equilibrio tra il cattolicesimo tradizionale e le esigenze innovatrici e rigoriste, ma molto interessante per capire il Giordani) una maggiore accentuazione polemica contro la falsa religione: «Poiché tutti danno consigli a Manzoni io direi che avesse rappresentato Renzo e Lucia perseguitati dalla Inquisizione: male che allora infieriva; che noi credevamo spento per sempre, e che ora tenta di risorgere» (XI, 134). La sua fama di ateo (con questo epiteto lo designavano costantemente alcuni suoi avversari) avvalorò la leggenda che egli avesse indotto all’ateismo il Leopardi. Fu Monaldo Leopardi il primo a convincersi che l’incredulità religiosa e il liberalismo politico del figlio fossero dovuti alle nocive suggestioni di Pietro Giordani. È nota la smentita che il Leopardi, nella lettera del 13 agosto 1819 al conte Broglio d’Ajano, diede alle induzioni del padre, rivendicando giustamente a sé solo la responsabilità delle proprie idee. Ma, molti anni dopo, l’accusa al Giordani fu rinnovata da Vincenzo Gioberti, che nella famosa nota 32 alla Teorica del sovranaturale (Bruxelles 1838), dopo aver deplorato che uno spirito nobile e alto come il Leopardi non avesse trovato pace nella fede cristiana, aggiungeva: «Un personaggio a cui l’ingegno, gli scritti ed il nome davano allora un’autorità grande, lo vide e prese l’assunto di renderlo incredulo: né penò a riuscirvi per la sua eloquenza, che doveva aver molta forza sull’immaginazione di un giovane, il quale d’altra parte, dottissimo in letteratura, non era egualmente versato nelle materie, che spettano alla religione e alla filosofia»; e asseriva di aver udito ciò direttamente dal Leopardi. Il Giordani, appena seppe di questa insinuazione calunniosa, reagì con sdegno; e il Gioberti, invece di confermare la sua accusa o di confessare di aver detto il falso, scelse una terza gesuitica via: scrisse al Giordani (e ad un amico di lui, Gian Francesco Baruffi) che egli aveva per lui un’altissima stima; che ammirava ugualmente il Leopardi; che era capace di stimare anche chi avesse opinioni filosofiche diverse dalle sue: senza minimamente accennare all’unico punto in questione, cioè se il Leopardi gli avesse detto o no di essere stato convertito all’ateismo dal Giordani. E intanto scriveva ad altri esprimendo ironicamente la speranza che il Giordani si risentisse contro di lui pubblicamente, perché «le collere del Giordani sono così eleganti, ed anche quando sono ingiuste mi vanno talmente al sangue, che per

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vederne qualcuna sosterrei volentieri di esserne il bersaglio»; e derideva la sua fedeltà al Settecento laico e antispiritualista: «Il Giordani che nel Panegirico a Napoleone tocca il modo con cui il celabro distilla il pensiero, e altrove chiama magistrale un libercoletto del Condillac,116 il povero Giordani materialista, e furioso contro la dottrina cristiana, secondo la moda che correva cinquant’anni fa, dee essersi avveduto che in Francia, in Italia e altrove la miscredenza rabbiosa non è più in corso, e i santi padri del secolo diciottesimo sono scaduti da quell’imperio che avevan sull’opinione, il che dee renderlo di mala voglia contro di noi».117 Negli anni successivi, la pubblicazione del Primato e le polemiche tra Gioberti e i gesuiti ebbero il costante contrappunto dei commenti giordaniani, che sottolineavano l’intrinseca debolezza e ambiguità della posizione del Gioberti e l’ipocrisia che ne era la necessaria conseguenza: «È veramente curiosa la goffaggine e l’impudenza di questi signori Neocatolici, e l’audace ipocrisia colla quale vorrebbero a modo loro rifare il mondo»;118 e a proposito dell’Apologia di Francesco Pellico contro il Gesuita moderno: «i frati ... nella loro tanta ignoranza sono ben più astuti del povero Prete Vincenzo. Niente mi piacque la sua troppo lunga e vacua declamazione; che non toccò nessuno de’ punti importanti» (VII, 136). E infine, con quella profonda limpidezza intellettuale e morale che egli serbava anche nelle polemiche più aspre: «Il povero Gioberti (se pur è di buona fede) è in perpetua e misera con116 iIl passo del Panegirico (VIII, 229) aveva già scandalizzato il Padre Cesari, a cui il Giordani rispondeva (Lett., I, 95): «Quanto al pensiero, intendo solamente che l’abitudine della complessione, o lo stato attuale del corpo possa moltissimo sulla mente, o aiutandola, o impedendola nel suo operare. Il mio qualunque intelletto, se mi entra in corpo un bicchierino di rhum, è ito». Quanto al «libercoletto del Condillac», cioè all’Art d’écrire, vedi sopra, nota 56; il Giordani l’aveva chiamato «magistrale» in XI, 97. 117 iLettera del 25 maggio 1841 al Massari. La migliore esposizione della polemica GiobertiGiordani è quella di G. Forlini nella «Strenna dell’anno XVI dell’Ist. naz. di cultura fascista di Piacenza» (1938). Il punto fondamentale, che dimostra la malafede del Gioberti, è questo, notato dal Giordani in una sua lettera al Baruffi (Lett., II, 156): «Notate che in sì lunga lettera il prete Vincenzo sfugge qualunque cenno della calunnia datami, come se questa non fosse l’unica e vera cagione de’ miei rimproveri». Può sembrare strano che il Giordani, in quella stessa lettera, neghi che il Leopardi «abbia fatto mai professione d’incredulità»; ma egli temeva che l’accusa di ateismo potesse nuocere, come difatti avvenne, alla diffusione degli scritti leopardiani. ** 118 iLettera a Michele Amari, 26 agosto 1843, pubbl. da A. D’Ancona, Carteggio di M. Amari raccolto ecc., I, Torino 1896, p. 121. Questa lettera all’Amari e l’altra che citiamo alla nota seguente sono da aggiungere alla documentazione raccolta dal Forlini, alla quale rimandiamo in generale il lettore.

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traddizione con se stesso, come tanti altri; ma io benché abborrisca estremamente i mezzi termini, non dirò mai Viva sant’Ignazio».119 Negli entusiasmi patriottici ancora un po’ indifferenziati del ’48, il Giordani e il Gioberti, in occasione di una visita di quest’ultimo a Parma, si riconciliarono. Ma soltanto dopo la morte del Giordani, quando ebbe ripudiato il neoguelfismo, e dato al proprio cristianesimo un’impronta assai più eterodossa, e assorbito (sia pure in modo incoerente) fermenti socialisteggianti dall’ambiente francese, il Gioberti mutò sostanzialmente il suo giudizio sull’antico avversario: nel Rinnovamento civile d’Italia il Giordani è spessissimo citato, non soltanto come maestro di stile e di eloquenza (per questo rispetto il Gioberti, cattolico ma filoclassicista, lo aveva sempre ammirato), ma come educatore e riformatore culturale, e l’amicizia tra Giordani e Leopardi è esaltata in termini che costituiscono un’implicita ritrattazione della vecchia accusa.120 E tuttavia è caratteristico della tortuosità giobertiana il fatto che nella seconda edizione della Teorica del sovranaturale il Gioberti tolse, sì, l’accenno esplicito al Giordani maestro di incredulità al Leopardi, ma ribadì che l’incredulità non fu per il Leopardi «un parto spontaneo della sua mente, né un frutto immediato dei suoi studi», ma gli fu «instillata» da altri.121 In realtà (e questa è un’ulteriore prova dell’inattendibilità della pretesa testimonianza giobertiana) l’ateismo del Leopardi aveva un’intonazione notevolmente diversa da quello del Giordani. Nel Giordani, come abbiamo visto, l’esigenza predominante era quella a n t i c l er i c a l e, mentre ad una religione moralmente pura e non nemica del 119

iCarteggio di M. Amari cit., I, p. 176. iVedi specialmente – nell’edizione del Rinnovamento a cura di F. Nicolini (Bari 1911-12), vol. II, pp. 189-191 (sull’istruzione del popolo più umile); III, pp. 81 (dove è citata con lode un’interpretazione marcatamente laica che il Giordani aveva dato della Divina Commedia), 139 sg. (su Giordani e Leopardi; il passo si conclude così: «Dolce è il contemplare in questo gretto e invidioso secolo la coppia generosa e unica di quei grandi intelletti, i quali, come vissero uniti d’indissolubile amore, così saranno indivisi nella memoria de’ posteri»). S’intende che questa esaltazione del Giordani e del Leopardi non si inserisce, nemmeno nel Rinnovamento, in una coerente prospettiva democratica e illuminista. Il Gioberti mantiene, anche se in forma più sfumata, le proprie riserve sul materialismo e l’ateismo dei due scrittori (ibid.), e, nell’atto stesso in cui loda le idee del Giordani in fatto di istruzione popolare, le altera e le sforza alquanto in senso paternalistico. 121 iTeorica del sovranaturale, 2ª ed., Capolago 1850, II, p. 352. Cfr. Forlini, art. cit., p. 14 dell’estratto. 120

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progresso egli, pur rimanendo personalmente ateo, non sarebbe stato ostile. Nel Leopardi invece il motivo anticlericale era meno fortemente sentito (in quanto era attutito dalla sfiducia pregiudiziale verso qualsiasi ordinamento sociale e politico), ma molto più fortemente quello a n t i r e l i g i o s o. Per lui anche una religione purificata e conciliata col progresso, anche la più nobile forma di deismo era pur sempre da combattere, perché anch’essa mirava a illudere l’uomo e a fargli chinare vilmente il capo dinanzi all’oppressione dell’empia natura. La sua polemica perciò si rivolgeva non tanto contro l’organismo sociale e politico della Chiesa cattolica (pessimo, sì, ma in fondo formato anch’esso di infelici e di vittime della natura), quanto contro il concetto stesso di divinità, la quale se esistesse, sotto qualunque forma, non potrebb’essere che malvagia e direttamente responsabile del male del mondo. Qua e là anche negli scritti del Giordani risuonano accenti di pessimismo, certe volte si direbbe di leopardismo; e certo la sua vita, travagliata da infermità fisiche, da ristrettezze economiche e da persecuzioni, soprattutto da profonda scontentezza di sé, fu nell’insieme una vita infelice. Ma al sentimento della propria infelicità individuale si accompagnava in lui una contrastata e pur tenace fiducia nell’avvenire dell’umanità. «Io non so temperare le mie tante malinconie, se non coll’imaginarmi futuro dopo me un mondo meno stolto e meno misero del presente» (Lett., II, 211). In una lettera a Michele Amari diceva che la vita è guerra continua, «della quale vedo tre stadii. Il primo è stato lungamente guerra di forza contro la forza. A noi tocca di vivere nel secondo, di guerra della ragione contro la forza; vorrei possibile il terzo, che sarebbe il bello e buono e nobile, di contrasti di ragione con ragione. Ma chi lo vedrà[?] [cr] ** Ella Intanto è uno degli (oggidì sì rari) Ercoli od Ettori della povera ragione. Macte animo, generose!»122 E nell’ardore della lotta per la ragione dimenticava talvolta le miserie che lo affliggevano, si sentiva trascinato da una specie di senso religioso della laicità e del progresso: «Io vi voglio sempre un gran bene, mio caro Baruffi; e ne ho molte cagioni: ma specialmente vi adoro perché siete così innamorato della luce, e sì bene la predicate né vi lasciate smagare dai tanti intenebratori. Fiat lux, gridiamo, 122

iLett., II, 204. Cfr. XI, 330.

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gridiamo sempre, fiat lux, fiat lux. Secondo Cristo, filii lucis voleva dire Cristiani: come diavolo vogliono ora farlo Dio dello scuro? Fiat lux. – Vi abbraccio di tutto cuore e prego molto che non dimentichiate il vostro Giordani, detto l’Empio perché non ama lo scuro».123 Nell’ampio articolo sulle Operette morali del Leopardi, scritto nel ’26 per l’«Antologia» del Vieusseux ma dal Vieusseux non pubblicato,124 a un certo punto sembrava condividesse la visione pessimistica dell’amico; anzi dichiarava che anche lui era «da gran tempo» arrivato per contro proprio alla stessa visione, e non l’aveva manifestata solo per timore dell’incomprensione o dell’odio altrui.125 Ma subito dopo sentiva risorgere in sé motivi di fiducia e di impegno nella vita: ** Pur nondimeno ... considero che per quanto sia minima cosa l’uomo e il suo potere; ciò non ostante qualche cosa di non circoscritto, o almanco di non misurabile, si sente nella forza e nella durata del pensiero: vedo che agl’inumerabili ed inevitabili dolori ai quali fu abbandonata tutta la materia senziente, sottoponendola (per quale mistero?) alle medesime ferree leggi della sorda materia inorganica; ** troppi altri supplizi, che levare si potrebbero, ne aggiunge agli uomini o l’ignoranza, o più spesso l’errore: sento che il pensiero è una potenza ineffabile; e ogni potenza vuol guerra, cioè incontro e rovesciamento di ostacoli: e il pensiero, combattendo colla morta e colla vivente natura, la quale se gli mostra tanto inimica, ne ha debellato pure non poca parte, e sottomessa agli umani servigi. Reputo in fine che il supremo del vivere si sente negli sforzi di un combattimento, o nel fuoco di un grande amore. A questa guerra, a questa vita, a questo amore, a questo impeto (comunque ci debba succedere) di conquistare alla povera famiglia umana qualche vero e qualche bene, cioè qualche alleviamento di tanti guai, qualche aumento di consolazioni, vogliamo invitare e pregare Giacomo Leopardi, e tutti gli altri ingegni che nol potendo uguagliare sperino di somigliarlo.

E terminava indicando, tra i mali contro cui era possibile e dove123 iAlcune lettere inedite, Genova 1852, p. 189. Lo stesso motivo ritorna in una lettera citata dal Della Giovanna, P. G. e la sua dittatura letteraria, Milano 1882, p. 164, n. 1: «Tutta la gran lite del mondo è manifesta: chi ama l o s c u r o e chi i l c h i a r o ». ** 124 iXI, 149 sgg., cfr. 179. Più tardi, nel ’45, l’articolo fu in parte rimaneggiato dal Giordani (cfr. Gussalli in I, 110), e tale appare nell’edizione del Gussalli: vi sono difatti alcuni accenni a poesie leopardiane posteriori al ’26 (Canto notturno, A se stesso). 125 iXI, 175 sg. Abbiamo già visto (p. 76) che fin dagli anni giovanili compaiono nel Giordani non solo espressioni di malinconia, ma anche accenni di teorizzazioni pessimistiche. Ancor più chiaramente «pre-leopardiano» sarebbe il passo sulla natura nemica dell’uomo che si trova all’inizio del Panegirico a Canova (IX, 17 sg.), se davvero fosse stato scritto nel 1810. Ma i primi quattro capitoli di quello scritto furono rimaneggiati nel ’36 (cfr. la nota del Gussalli a IX, 16), e quindi quel passo, almeno nella forma precisa in cui lo leggiamo, sarà influenzato a sua volta dalla lettura delle Operette morali. **

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roso lottare, quelli «de’ cattivi governi, della pessima educazione», e il ritorno di atrocità che parevano scomparse per sempre, come la tortura e l’Inquisizione. Come si vede da questa bella pagina, il Giordani sentiva anch’egli a fondo il motivo pessimistico del suo amico (** efficacemente espresso è soprattutto quell’accenno alla materia senziente sottoposta alle ferree leggi della sorda materia inorganica); perciò la sua esortazione al Leopardi perché partecipasse alla lotta per il progresso umano e sociale ha un tono del tutto diverso dalle esortazioni apparentemente simili che gli rivolgevano i vari Tommasei e Capponi. I quali in realtà erano avversi al Leopardi perché vedevano dissolte dalla spietata lucidità del suo intelletto le credenze religiose in cui piaceva loro di adagiarsi; mentre il Giordani temeva solo che il pessimismo dell’amico potesse tradursi in rinunzia a lottare contro l’oppressione politica e l’oscurantismo. Questo pericolo c’era: il pessimismo del Leopardi, progressivo, per così dire, a lunga scadenza, rischiava di avere un effetto immediatamente reazionario. La consapevolezza che, anche eliminati i mali derivati dall’ignoranza, dalla superstizione e dall’arretrata struttura sociale, l’umanità sarebbe stata pur sempre infelice, poteva paralizzare le lotte che l’umanità progressista sosteneva per eliminare intanto quei mali. Del resto, l’ultima fase del pessimismo leopardiano, quella espressa nella Ginestra, fa proprie in un certo senso le esigenze del Giordani, pur trasferendole su un piano di eroismo disperato che non può costituire una base di azione per larghe masse di popolo. Il Giordani a sua volta, nella lettera già citata del 1845 all’Amari (Lett., II, 204), riprendeva il programma della Ginestra, ma con un’intonazione meno radicalmente pessimistica: la «guerra continua immensa» con la Natura – scriveva – «non si può mai vincere del tutto»; ma se ne possono «menomare le offese, mediante unione intensa e perseverante di tutte le forze della razza umana». 7. Chi per caso abbia avuto la resistenza necessaria per arrivare a questo punto del nostro saggio, dopo aver letto tutte le citazioni che vi abbiamo inserito, si sarà già accorto che il Giordani, rètore quando voleva dare esempi di bello scrivere, è invece uno scrittore pieno di forza quando ha cose da dire. Il suo ideale stilistico, come abbiamo visto, era quello di una prosa lucida e piana, che avesse l’ingenua semplicità di

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Erodoto e dei primi trecentisti. Questo ideale riconosceva egli stesso, già prima dei suoi critici, di non averlo realizzato, e si rammaricava di esser riuscito, invece che grecizzante e trecentista, latineggiante e cinquecentista.126 Ma, in contrasto con questa sua poetica, il suo temperamento non era di scrittore candido e cristallino, ma di vivido e immaginoso polemista. La sua vera musa era quel sentimento che abbiamo visto essere al centro di tutta la sua personalità: lo sdegno contro l’oscurantismo e l’ipocrisia, la consapevolezza di essere dalla parte dell’intelligenza e della giustizia.127 Facit indignatio versus: sotto l’impulso di questo energico sentimento, il suo periodare spesso troppo esterioramente euritmico acquistava scioltezza e calore, e anche quel certo arcaismo e quei modi latineggianti contribuivano ottimamente a raggiungere effetti di ironica magniloquenza. Si veda, per esempio, in aggiunta al molto che abbiamo già avuto occasione di citare, questo passo di una lettera al Cicognara, a proposito della rozzezza delle sculture dell’arco di Augusto a Susa; e si noti come l’ironia allusiva del Giordani contrapponga prima la grettezza della monarchia sabauda all’alto tono delle monarchie più potenti, per poi rivolgersi anche contro queste: Credo proprio che fosse la grande ignoranza e la grande miseria di sua Maestà piemontese Cotti, che non aveva mezzi da invitare famosi (e però buoni) artisti; e abbastanza buoni gli doveano parere i suoi grossi e goffi scarpellini. Ma Augusto, per Dio, doveva dar del coglione a quella Sacra Maestà asinina; e fargli buttar giù l’arco; e dirgli: non voglio esser vituperato io e il mio secolo dalle vostre goffaggini. Ma Augusto era un principe; non asino veramente come gli altri; ma a lui come agli altri perveniva difficilmente la verità dei fatti e la verità delle massime. Lasciamo andare tutta questa canaglia.128

O, tra le innumerevoli variazioni che gli suggeriva la passione anticlericale, si legga questa classificazione zoologica dei preti: «... siccome voi nella natura vegetante siete del regno animale, di Classe Ver126

iXIII, 356 e altrove. iCiò è stato giustamente osservato dal Ferretti nell’«Enciclopedia italiana», XVII, p. 169. Aveva mostrato, del resto, di rendersene conto già il Gioberti, pur nella malevola ironia di quell’accenno all’«eleganza» delle «collere del Giordani» (vedi qui sopra, pp. 78-79). 128 iV, 206. «Cotti» è, per così dire, la trasformazione in cognome (di tipo italiano) del nome del re Cottius. Per altri esempi di queste «modernizzazioni» ironico-allusive cfr. P. Treves, Lo studio dell’antichità classica cit., pp. 442 n. 4, 453 n. 1; e vedi ancora VII, 65 e 67: «il teologo Algerino» (S. Agostino) e «il biliosissimo Schiavone Girolamo» (dove, forse, c’è anche un’indiretta allusione al dalmata Tommaseo). ** 127

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tebrali, di Ordine Mammali, di Genere Umani, di Specie Preti; che è degenerazione d’uomo».129 A dispetto del suo principio che la lingua italiana si dovesse trovare tutta nei trecentisti, la foga polemica gli faceva creare nuovi vocaboli di conio alfieriano: «I ministri sono sministrati; i duchi possono essere sducati. Io per me rido, sapendo che, se anche fossi impiccato, non sarò mai sgiordanato» (XI, 291). E i nomi dei suoi avversari erano assoggettati a curiosi travestimenti, che mettevano in rilievo la loro stupidità o la loro falsa santità. Il Tommaseo (il «vilissimo briccone» che aveva oltraggiato Giacomo Leopardi) diventava fra Nicolò; il padre Cesari, dopo la rottura dell’amicizia, Sant’Antonio Cesari; il papa, il Vicedio o Vicecristo (secondo il modello del Vice-Dieu di Voltaire) **; il ministro dell’interno di Maria Luigia, Francesco Cocchi, Sua Maialità Fra Coccone; il conte di Bombelles, «l’onagro» **. Anche ad altri motivi, beninteso, seppe dare efficace espressione stilistica: per esempio a quello, già accennato, della scontentezza di sé. Negli ultimi anni la scontentezza si era mutata in rassegnato distacco, rotto tuttavia ogni tanto da un ritorno dell’antico spirito polemico. Al pittore Nicola Monti, che dopo aver invano insistito per fargli il ritratto lo aveva esortato a scrivere lui stesso un proprio «ritratto interiore», rispondeva: Che mai ti viene in mente, o mio caro, ch’io faccia un ritratto o una descrizione del mio interno! io non ne avrei abilità, e molto meno pazienza. Io non penso a me: figurati se vorrei pensarci per proporre ad altri quello che abbiano a pensare di me. Ti basti che io riverisco ed amo cordialmente i buoni. E che io ti sono amico veramente. Tutto il resto che importa? E a dir vero, o mio caro, io stesso non so bene che diamin mi sia; e se mi mettessi a pensarci, mi confonderei. Addio, caro. Dipingi lietamente; vivi lietamente: carezza il tuo buon cane. Anch’io preferisco di molto i cani agli uomini. Bisognerebbe adorarli i cani per tutte le ragioni che dici e per tante altre: sono un po’ femminieri, un po’ collerici: ma non sono impostori, non traditori, non egoisti. Se ci fosse un paese senza preti e con monarca un cane, andrei subito a farmi suo suddito. Oh per dio non sarebbe meglio aver padroni de’ cani che degli Onagri?130 129 iÈ un brano del Peccato impossibile, bellissima satira sulla credenza nel concubito diabolico, pubblicata dal Gussalli a Londra nel 1862. Sull’ammirazione del Carducci per questo scritto vedi il saggio seguente, p. 101. 130 iXIV, 361. «Onagri» (non «uomini» come stampa il Gussalli) reca l’apografo nella Biblioteca Laurenziana, Carte Giordani, XVIII, 274 (l’autografo non risulta conservato); così anche un altro apografo di lettere giordaniane a Nicola Monti, donatomi gentilmente dal prof. Delio Cantimori. L’allusione è rivolta al conte di Bombelles (vedi {in questa pagina}). Dagli stessi apo-

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Le lettere a donne – quando non trattano problemi di educazione dell’infanzia, come quelle, particolarmente notevoli, a Caterina Franceschi Ferrucci – sono molto spesso fredde esercitazioni di galanteria, da cui il miglior Giordani è assente. Ma i «Frammenti di copioso carteggio» che il Gussalli pubblicò in fondo al settimo volume dell’Epistolario (e dai quali, fedele alla volontà del Giordani, espunse ogni accenno che potesse far identificare la donna amata),131 contengono squarci bellissimi, esprimenti un’amicizia di uomo maturo tenera e profonda, priva di gelosia, serenamente consapevole della propria breve durata. Accanto a questi brani, il Gussalli pubblicò pensieri sull’amore e le donne diretti a un giovane amico (forse il Gussalli stesso?), improntati anch’essi a una virile mestizia, in cui sembra di cogliere un’eco di quell’esperienza sentimentale già conclusa. Basterebbero questi frammenti, a quanto pare ben poco letti finora, a dimostrare con quanta avventatezza si sia voluto dipingere il Giordani come uomo incapace di passione profonda.132 8. Un uomo così ricco di idee e di umanità doveva necessariamente riuscire un maestro. Quando Giacomo Leopardi gli scrisse di aver sentito dire dal giovane Benedetto Mosca «che avea avuto maestro il Giordani», rispose: «Né di Benedetto Mosca, né di niun altro sono mai stato, né mai vorrò essere maestro: parola, che mi fa nausea ed ira».133 Questa è la prova che rifuggiva da ogni paternalismo e sapeva vedere nei giovani soltanto dei compagni nella ricerca della verità. Da essi, anzi, sollecitava critiche, e faceva di tutto per sfatare quella fama d’infallibilità letteraria che gli si era creata attorno. «È vero che è di molti il voler quasi parere infallibili ... Ma quello parmi errore goffissimo. Non è l’errare, cioè il pensar male, che disonori; ma il non aver forgrafi ho tratto qualche altra piccola correzione al testo dato dal Gussalli, dove, fra l’altro, manca l’inciso «vivi lietamente». 131 iIl Gussalli, come è noto, mentre in certi casi si limitò a sopprimere nomi e riferimenti nell’edizione, in altri, come qui, mutilò addirittura gli autografi. Tale procedimento non può non suscitare il nostro rammarico, e tuttavia si deve ammettere che esso corrispose – tranne, forse, qualche eccesso di zelo – alla volontà del Giordani. 132 iNon è qui il caso di passare in rassegna le amenità scritte a questo proposito dal Ridella, dal Clerici e da altri studiosi più o meno influenzati dalla scuola lombrosiana. ** 133 iEpistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, p. 93; cfr. ibid., p. 73, e Opere del Giordani, VI, 379 (a Giuseppe Roberti): «Non si dica mio discepolo, ch’io non voglio esser maestro di nessuno».

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za di pensare». Così scriveva al Leopardi che esitava a comunicargli certe obiezioni ai suoi scritti.134 Ad alcuni aspetti della sua polemica contro le scuole della Controriforma abbiamo già accennato. Quelle scuole le aveva sperimentate lui stesso da ragazzo; le sperimentò una seconda volta a ventitré anni, durante l’episodio più bizzarro e sconcertante della sua giovinezza: il suo ritiro nel monastero di San Sisto presso Piacenza come novizio benedettino.135 A farsi frate non era stato spinto da alcun sentimento religioso: già allora, nel 1797, era incredulo e anticlericale, seppure con meno decisione e chiarezza di come divenne più tardi. Si era deciso a quel passo in un accesso di misantropia: tormentato da dissensi coi genitori e dallo strano amore per Rosa Milesi, aveva pensato che un monastero potesse essere un luogo adatto anche a un ateo per estraniarsi dalle noie del mondo e meditare e studiare in solitudine. «Tu dici – Che farai tra quegli uomini che son sì cattivi? Che potrai godere? – Del mondo non godrò nulla; e poco me ne cale. Godrò la libertà e la quiete dell’animo. Io sarò in mezzo a loro senz’aver nulla di comune con loro».136 Ma questi propositi di isolamento e di vita puramente contemplativa furono ben presto sconvolti dallo spettacolo dei maltrattamenti che il padre Soprani, maestro dei novizi più giovani, infliggeva loro. Subito il Giordani prese le difese di quei ragazzi, li incitò alla ribellione, riuscì perfino in un primo tempo a far allontanare il Soprani dal monastero. Poi naturalmente ebbe la peggio, e dopo altre burrascose vicende lasciò il convento e rientrò nella vita civile. Ma quell’appassionata difesa dei novizi riscatta in un certo senso l’ingenua doppiezza della sua parentesi monastica e illumina di luce simpatica anche l’unico episodio discutibile della sua vita. Molti anni più tardi, nel ’19, intraprese la famosa azione perché cessasse l’«infame ed esecrabile abuso di battere crudelmente i ragazzi nelle scuole», con scritti veementissimi rivolti al podestà di Piacenza e al governo parmense, scritti che poi pubblicò sotto il titolo, bello per il suo antipaternalismo, di Causa dei ragazzi di Piacenza (X, 285 sgg.). Ancor più tardi riuscì, destando con lettere e opuscoli un moto di opinione pubblica, a impedire che i gesuiti ottenessero nel 134

iEpistolario del Leopardi cit., I, p. 147. iSui particolari di questo episodio vedi Ferretti, P. G. sino ai quaranta anni cit., p. 49 sgg. 136 iBrano di lettera riportato dal Ferretti, op. cit., p. 50 n. 31. 135

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ducato di Parma il monopolio dell’istruzione.137 Fu anche uno dei primi a promuovere l’istituzione di asili d’infanzia. Rispondendo ad amici che gli chiedevano consigli sull’educazione dei loro figli, raccomandava che l’educazione mirasse non a «predestinare», ma a lasciar sviluppare liberamente le attitudini naturali; era contrario all’insegnamento cattedratico e al far imparare cose a memoria; insisteva sull’opportunità che tutti i ragazzi, anche quelli che poi avrebbero proseguito gli studi, imparassero un mestiere manuale. Erano in buona parte idee non proprie del solo Giordani, ma circolanti tra gli spiriti più aperti di quel tempo. Le possiamo ritrovare nell’Aporti, nel Lambruschini, nel Capponi. Il tono generale di questo indirizzo educativo è espresso dalla bella epigrafe che il Giordani compose per una scuola di mutuo insegnamento (XIII, 212): Entrate lietamente o fanciulli qui s’insegna non si tormenta non faticherete per bugie o vanità apprenderete cose utili per tutta la vita.

Oggi queste idee, che complessivamente possiamo chiamare russoiane, sono diventate stucchevoli per il troppo ripeterle da parte di epigoni inintelligenti; e si sente il bisogno di ricordare che il problema dell’insegnamento è meno semplicistico e meno ottimisticamente risolubile di quanto credono i predicatori della «scuola attiva», e che il momento della coercizione è ineliminabile dall’educazione (soltanto, esso va sentito come una dolorosa necessità provvisoria, da superare il più presto possibile). Ma al tempo del Giordani uno era il nemico da battere: la scuola della Controriforma, e perciò in quel momento occorreva essere unilaterali per essere concreti. Anche sul problema educativo, del resto, non è difficile scorgere, tra le idee comuni a tutto lo schieramento dei riformatori, alcuni tratti caratteristici del Giordani. ** Innanzitutto, egli era l’unico del tutto libero da concezioni religiose, e quindi deciso a spingere a fondo la battaglia per l’educazione laica, mentre un Capponi o un Lambruschini miravano soltanto a rigenerare l’educazione cristiana. Poi, i 137 iXIV, 90 sgg., 341 sgg., 356; Alcune lettere inedite, Genova 1852, p. 177 sgg. Cfr. S. Fermi, Per la storia del movimento antigesuitico in Piacenza, in «Bollettino storico piacentino» XII, 1917, p. 13 sgg.

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moderati toscani portavano anche nella pedagogia le loro preoccupazioni sociali conservatrici; scriveva il Vieusseux al Tommaseo a proposito degli asili d’infanzia: «Ma quanto ci vorrà ancora perché gli italiani si persuadano dell’urgenza di simili istituti p e r l ’ e d u c az i o n e m o r a l e d e l l e m a s s e c h e c i m i n a c c i a n o ?»138 Il Giordani invece capì bene che alla prima fase, in cui i retrivi e i clericali si erano opposti tout court all’istituzione di asili e ad ogni altra forma di educazione popolare, ne era sottentrata ben presto un’altra, in cui tali istituzioni erano fatte proprie dagli avversari di ieri, svuotate del loro contenuto innovatore, utilizzate per dare alle classi inferiori un tipo di educazione che le mantenesse in posizione subalterna: «Quelli che fecero contrasto al nascere degli Asili ... ora brigano di levarli di mano a chi verso il primitivo fine li conduce; e vogliono tirarli a sé, e recarli a fine tutto contrario di quello per cui furono proposti. Volevano privata di ogni educazione la povera plebe: adesso vogliono che sia educata non alla società ma alla schiavitù ... Volevano abbandonata a sé stessa la plebe (ed era insolente disprezzo): vogliono rimpastarla a modo loro; maligna provvidenza di paura stolta» (XIII, 58 sg.). Diagnosi che colpisce per la sua precocità e verità, e che assegna al Giordani nella storia dell’educazione un posto particolare, non ancora riconosciutogli. Esperienza diretta d’insegnamento il Giordani ne ebbe poca, e soltanto nella giovinezza. Nel periodo del monastero gli fu affidata per breve tempo una classe di ragazzi, che (in contrasto con le solite lagnanze sull’indisciplina degli scolari) gli parvero troppo supinamente ubbidienti, e quasi intontiti dalla disciplina fratesca: «Avrebbero in verità più bisogno di un Prometeo che d’un pedante».139 Più tardi, in regime napoleonico, fu per qualche mese incaricato di eloquenza all’università di Bologna e per un anno insegnante di matematica, fisica e giurisprudenza al ginnasio di Cesena; ma gli incarichi burocratici a cui dovette contemporaneamente badare, le ristrettezze finanziarie e l’incertezza del futuro gli impedirono, a quanto appare dalle lettere di quel periodo, di trovar gioia nell’insegnamento. Un progetto interessante era quello, che concepì nel 1815, di raccogliere una decina di 138 iN. Tommaseo-G. P. Vieusseux, Carteggio inedito, a cura di R. Ciampini e P. Ciureanu, I, Roma 1956, p. 225 (lettera del 28 ottobre 1834). 139 iLettera a Domenico Santi cit. da G. Ferretti, op. cit., p. 56.

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giovani «che volessero far meco un corso di filosofia e di lettere ... per avere da me in cinque anni quell’assistenza a fare un buon corso di studi che non potrebbero nelle pubbliche scuole».140 Sarebbe stato qualcosa di simile alla scuola di Basilio Puoti che ancora vive nelle pagine del De Sanctis; ma con un’apertura culturale e umana tanto maggiore. Il progetto non si realizzò perché il Giordani fu chiamato alla redazione della «Biblioteca Italiana»; un paio d’anni più tardi, raggiunta l’indipendenza economica, non pensò più a cattedre. Ma attraverso le riunioni della Società di lettura di Piacenza, i colloqui, la corrispondenza epistolare con tanti giovani che gli chiedevano consigli negli studi e conforto nelle loro crisi di sfiducia e di pessimismo,141 egli esercitò ugualmente una parte di maestro. Quella sua stessa incapacità di dare compiuta espressione alle idee che gli si agitavano nella mente, quel suo non pubblicare quasi nulla e lasciar tutto a mezzo, rendevano forse la sua opera di maestro più feconda. Nei giovani il Giordani vedeva i futuri realizzatori di ciò che egli, «impedito forse più da una grande malignità di fortuna che da natura», non aveva compiuto: «sicché a consolarmi cercai se forse potessi altrui agevolare l’altezza della quale non avevo speranza» (XI, 94). Avrebbe voluto essere per loro quella guida negli studi che egli aveva invano cercato da giovane. Oh se potessimo vivere insieme – scriveva ad Antonio Gussalli (VI, 341) – non ti sarebbe forse inutile ricevere tutti i miei pensieri; i quali compressi mi soffocano, e moriranno con me. Oh sarei pur divenuto qualche cosa, se cominciando da ragazzo mi avesse avviato un simile a me! Sarei pur divenuto uno scrittore, se dai principii di gioventù avessi creduto poterlo divenire! Avrei pure speso meglio la vita, se da principio avessi potuto vedere la strada, o avessi trovato chi me la mostrasse! Io non ho studiato, perché in tempo non mi credetti buono ad imparare. Ho i mali dell’intendere, e non ho i compensi.

9. Come egli entrasse in corrispondenza col Leopardi nel 1817, con che confidente abbandono il Leopardi gli aprisse il suo animo nelle 140

iIII, 221 (cfr. Ferretti, op. cit., p. 154). iSotto l’aspetto umano sono particolarmente belle, nonostante alcune intemperanze affettive e disuguaglianze di stile, le lettere a Cesare Cabella (oltre quelle edite dal Gussalli e dal Ferretti, altre furono segnalate e pubblicate da G. P. Clerici in «Nuova Antologia», 16 giugno 1916, p. 399 sgg. e 16 febbraio 1917, p. 434 sgg. e da F. Ridella, La vita e i tempi di C. Cabella, Genova 1923). Ma vedi anche quelle a Pompeo Dal-Toso, Antonio Papadopoli, Giuseppe Roberti, Antonio Gussalli. 141

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prime lettere, è ben noto. Ma il significato di questa amicizia nella formazione del Leopardi non è ancora del tutto chiaro, proprio per l’insufficiente valutazione che dell’ingegno e della personalità del Giordani hanno fatto in genere gli studiosi del Leopardi, a cominciare dal più grande di tutti, Francesco De Sanctis. Il De Sanctis ha ceduto al compiacimento di mettere a contrasto da un lato il grande Leopardi, dall’altro un rètore, brav’uomo ma limitato, che ammira il suo giovane amico ma in fondo non lo capisce. «L’uomo risponde al retore ... Veggo il giovane sulla cima della piramide, e Giordani strisciare tra la moltitudine»: così egli conclude enfaticamente un esame assai poco obbiettivo delle prime lettere.142 In realtà il Leopardi vide fin dal principio nel Giordani non un puro e semplice maestro di bello scrivere, ma di cultura e di umanità. A desiderarne l’amicizia era stato spinto – lo raccontò egli stesso al Giordani in una delle prime lettere –143 dalla lettura degli articoli della «Biblioteca Italiana». Li aveva «letti e riletti una diecina di volte», aveva notato uno stacco assoluto tra essi e tutti gli altri articoli della «Biblioteca»: «ora che non ci son più mi vien voglia di gittar via i quaderni di quel Giornale». Uno stacco di sola forma letteraria? Ma qualche anno dopo, quando ormai era passato il periodo del suo infervoramento puristico, scriveva a Pietro Brighenti di avere riletto da poco quegli articoli con rinnovata ammirazione: «Io penso che se molti de’ nostri sapessero scrivere in quella maniera, n o n d i c o s o l a m e n t e 142 iF. De Sanctis, G. Leopardi, cap. VIII (ed. Binni, Bari 1953, p. 60 sg.). Nelle lezioni della prima scuola napoletana il De Sanctis aveva espresso sul Giordani un giudizio ammirativo, in perfetto acccordo col suo maestro Basilio Puoti: «Il Giordani si può dire il primo oratore d’Italia ... E se l’orazione funebre è il più alto genere di prosa, bene le si conviene quella stupenda perfezione che il Giordani ha data al suo stile. Niuno ha saputo essere tanto artificiato, e nondimeno parer tanto spontaneo e naturale» (Teoria e storia della letteratura, ed. Croce, I, p. 97; per il giudizio del Puoti cfr. la testimonianza dello stesso De Sanctis, Saggi critici, ed. Russo, II, p. 233). Quando il suo gusto letterario mutò profondamente, e al culto per la prosa aulica (e per quella «spontaneità» raggiunta attraverso lungo e sapiente artificio) subentrò l’esigenza di uno stile realistico e moderno, quelli che gli erano sembrati i pregi della prosa giordaniana diventarono per lui gravi difetti. Ecco quindi, nelle opere desanctiane della maturità, un susseguirsi di accenni sfavorevoli al Giordani, fino al giudizio perentorio: «Pietro Giordani, che fa tanti ritratti ed orazioni ed epigrafi, non è mai riscaldato da un soffio di vita» (Scuola democratica, cap. VII). Mancò, da parte del De Sanctis maturo, una rilettura del Giordani, che puntasse non sugli scritti di circostanza tanto ammirati dal Puoti, ma sugli scritti di polemica culturale e ideologica e sull’epistolario. E, del resto, se anche quella rilettura vi fosse stata, troppo forti erano ormai le preoccupazioni «realistiche» del De Sanctis (nel duplice senso stilistico e politico-ideologico) perché egli potesse apprezzare il Giordani. Vedi l’introduzione al presente volume, pp. 24-27. 143 iEpistolario, ed. Moroncini, I, p. 84.

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q u a n t o a l l e p a r o l e , m a q u a n t o a l l e c o s e , la letteratura italiana seguiterebbe ad essere la prima d’Europa»;144 e si compiaceva che nell’edizione bolognese delle sue opere il Giordani non li avesse tralasciati, come dapprima sembrava volesse fare. In realtà, come abbiamo visto sopra, gli articoli della «Biblioteca» sono tra i meno «letterari» del Giordani, tra i più ricchi di idee innovatrici nel campo culturale. Dello stile estremamente arcaizzante e artificioso che il Leopardi predilesse nei primi scritti della conversione letteraria (e di cui è esempio specialmente la traduzione dei frammenti di Dionigi, che il Leopardi stesso in seguito ripudiò come scritta con ridicola affettazione)145 il Giordani non è responsabile. Quando cominciò la loro corrispondenza, il Leopardi si era già formato quello stile da più di un anno, ed era giunto a eccessi di purismo e di trecentismo a cui il Giordani non arrivò mai. Si confronti la traduzione leopardiana di Frontone e di Dionigi con quella che degli stessi frammenti di Dionigi e di altri testi greci e latini fece il Giordani:146 si vedrà quanto più artificioso sia il Leopardi giovane: «più vicino all’abate Cesari che a Pietro Giordani», dice giustamente il De Sanctis.147 La conversione letteraria del Leopardi cominciò come un fatto strettamente, un po’ angustamente letterario: solo in un secondo tempo si andò approfondendo, e investì non la sola forma stilistica, ma tutta la personalità. L’amicizia col Giordani fu appunto la prima grande esperienza, umana e culturale, che approfondì la conversione. In questo senso vanno intese le parole del Leopardi, nella lettera citata, che gli articoli della «Biblioteca Italiana» «diedero stabilità e forza alla sua conversione che era appena sul cominciare», e in questo senso non aveva del tutto torto Monaldo, dal suo punto di vista reazionario, di gridare contro il Giordani che gli aveva fatto uscire dalla retta via politica e religiosa il figlio; sebbene, come abbiamo visto, 144

iIbid., II, p. 130 (11 maggio 1821). iVedi la lettera del 27 luglio 1818 a G. B. Sonzogno. iDalla sua Lettera a G. B. Canova sul Dionigi del Mai il Giordani estrasse la traduzione dei nuovi frammenti di Dionigi, che vi aveva inserito, e la pubblicò a parte nell’edizione bolognese delle sue opere, stampata dal Brighenti. Il Gussalli ripubblicò di nuovo tutta la lettera. Vedi qui sopra, p. 51. 147 iG. Leopardi, ed. cit., p. 36. Strettamente «linguaiole» sono alcune osservazioni del Leopardi giovane agli scritti del Giordani (lettera del 30 maggio 1817) sull’uso di «non per tanto» e sui cognomi senza l’articolo. Questa seconda obiezione gli era stata già fatta dal Padre Cesari (cfr. XIII, 333) e gli fu di nuovo mossa più tardi da Lazzaro Papi (XIII, 376). 145 146

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il Giordani non avesse svolto nessuna azione diretta a tale scopo. Su alcuni punti il Leopardi fin dall’inizio dissentì dal Giordani con ragione: per esempio sul principio neoclassicista che l’artista non debba mai rappresentare il brutto. Questo era davvero il Giordani deteriore, il Giordani canoviano, che per di più appoggiava il suo gusto neoclassico ad argomenti moralistici.148 Altre idee, invece, furono da lui accolte e assorbite. Della formula «lingua del Trecento e stile greco» abbiamo già parlato. Ancor più importa vedere come le esigenze di un rinnovamento culturale illuministico, di una letteratura popolare (ma non populista in senso romantico), espresse tante volte dal Giordani a cominciare dagli articoli della «Biblioteca Italiana», fossero riprese dal Leopardi, specialmente nella lettera a Giuseppe Montani del 21 maggio 1819. Qui, anzi, sembra che il Leopardi abbia del tutto superato quelle remore puristiche e classicheggianti che impedivano di fatto al Giordani di essere uno scrittore popolare, e sia sul punto di aderire ad un romanticismo alla Di Breme: «Per corona de’ nostri mali, dal seicento in poi s’è levato un muro fra i letterati ed il popolo che sempre più s’alza, ed è cosa sconosciuta appresso le altre nazioni. E mentre amiamo tanto i classici, non vogliamo vedere che tutti i classici greci tutti i classici latini tutti gl’italiani antichi hanno scritto pel tempo loro ... E com’essi non sarebbero stati classici facendo altrimenti, così né anche noi saremo tali mai, se non gl’imiteremo in questo ch’è sostanziale e necessario, molto più che in cento altre minuzie nelle quali poniamo lo studio principale». Ma in realtà nemmeno il Leopardi fu mai così antitradizionalista e anti-aulico come apparirebbe da questa lettera. Oggi certo, dopo De Robertis, nessuno ripeterebbe il giudizio che della prosa leopardiana (attraverso un implicito confronto con la prosa manzoniana) dava il De Sanctis: «frutto d’ingegno solingo, e sente di biblioteca, e non esce di popolo». E tuttavia è innegabile che questo giudizio, se riferito solo ai momenti meno felici delle Operette, contiene una piccola parte di vero, e che anche sulla prosa leopardiana, sebbene in misura tanto 148 iEpistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, p. 99 sg.; cfr. la risposta del Giordani a p. 106 sg. Che tuttavia la posizione del Leopardi non si discostasse troppo da quella del Giordani, si vede dall’abbozzo di recensione all’Innocenzo Francucci (PP, II, 685 sgg.): il Leopardi ammette che si possa rappresentare il «brutto», ma non lo «sconcio» (per esempio non la scorticazione di Marsia). Siamo sempre entro il concetto del decorum, dell’επρεπς.

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minore che su quella del Giordani, la formazione troppo letteraria continuò talvolta a pesare negativamente. In questo il Giordani era, si potrebbe dire, troppo generoso col suo amico, quando diceva che nelle scritture del Leopardi, a differenza che nelle sue, non si sentiva affatto lo sforzo e l’elaborazione.149 Non per questo deploreremo che il Giordani e il Leopardi non siano passati decisamente dalla parte dei romantici, né li accuseremo semplicisticamente di incoerenza. Il rifiuto del romanticismo rappresentò, da parte loro, il rifiuto di vecchi miti che, solo parzialmente ammodernati, si ridiffondevano nell’Europa della Restaurazione; e sul piano stilistico, quello che nei punti meno felici della prosa leopardiana si sente come contrasto fra novità di ispirazione e forma aulica, nelle pagine felici, che sono le più, è miracoloso equilibrio, e allora il Leopardi è più grande di tutti i romantici; e anche il Giordani, come abbiamo visto, riuscì, sebbene più frammentariamente, a fare del suo stile classicheggiante una forza artisticamente positiva. Questa somiglianza di formazione fece sì che il Giordani capisse per primo la grandezza del Leopardi e continuasse a proclamarla e a difenderla per tutta la vita, contro l’indifferenza e l’ostilità dei più. «Crediatemi», scriveva a Pietro Brighenti nel ’19, in risposta ai giudizi sfavorevoli che questi aveva raccolto sulle prime due canzoni leopardiane «che Monti, Perticari, Mai (e se credeste che il Signor Giordani fosse qualche cosa), riuniti tutti insieme non fanno la metà dell’ingegno e del sapere di questo giovane di ventun anni». E tanti anni dopo, quando il Leopardi era già morto e la sua fama incontrava tuttavia ostacoli: «Così è: quel povero Giacomo è indigesto a tutti gli ambiziosi letterati. Urit enim fulgore suo. Oh incomoda a molti questa nostra insistenza di proclamarlo: e tanto più insisteremo».150 Si è detto che la sua ammirazione per il Leopardi era troppo generica e priva di motivazioni critiche; ma le sue osservazioni sul passaggio dai primi canti alle Operette, sul Canto notturno, sulla Ginestra dimostrano una comprensione della prosa leopardiana e del Leopardi eroico, non organizzata, certo, in un compiuto discorso critico, ma, nella sua fram149 iPer esempio (tra i numerosi passi che si potrebbero citare) Lett., II, 171: «È mirabile Giacomo in ciò; ed è poco meno che l’unico e solo, che, essendo letto, appena pochissimi e rarissimi possano accorgersi ch’egli scriva. In me si sente; e troppo si sente». 150 iV, 26; VII, 155. Urit ecc.: Orazio, Epist. II, 1, 13.

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mentarietà, più vera e congeniale [che l’] **interpretazione idillicorealistica ** dell’ultimo De Sanctis.151 Si è detto che egli ebbe torto di proclamare il Leopardi «sommo poeta, sommo filosofo, sommo filologo», mentre veramente sommo era soltanto il poeta. Ma per filosofia il Giordani non intendeva la filosofia in senso professionale, alla quale, come abbiamo visto, era estraneo: intendeva una visione del mondo coerente e libera da vecchie e nuove mitologie, e in questo senso il nome di filosofo spetta al Leopardi. Quanto alla filologia, ho cercato di mostrare altrove che il giudizio del Giordani era fondato e che il Leopardi fu, se non sommo filologo, uno dei pochissimi veri filologi che l’Italia abbia avuto in quel primo Ottocento. Questa costanza nell’ammirare il Leopardi e nel difenderne la memoria è tanto più bella, in quanto il Giordani ebbe da un certo tempo in poi la sensazione che l’affetto del Leopardi verso di lui si fosse intiepidito, e nei dieci anni che ancora visse dopo la morte del Leopardi non cessò di ripensare con amarezza alla fine prematura di quella grande amicizia. Finì col convincersi, assai probabilmente a torto, che al Leopardi avesse dato fastidio di vedere gli scritti del Giordani preferiti ingiustamente ai propri dal pubblico. «Egli conosceva me, e conosceva se stesso: conosceva di essermi superiore, e di non poco: e doveva ben sapere che io conoscevo me stesso e lui; e che lo sapevo e lo predicavo (come ancora fo) superiore a me ... L’ho esaltato quando nessuno lo conosceva; l’ho predicato quando si voleva negare o diminuire la sua innegabile e immensa grandezza. Ma ho sempre creduto (benché non l’ho detto mai a nessuno) che gli dava molto fastidio il parlarsi un poco più di me che di lui. Ed aveva ragione: ma io nessuna colpa ... E per lui che potevo fare di più, che antiporlo sempre a me e a qualunque? ... E non doveva capire che appunto la sua troppa grandezza lo sottraeva alla fama, perché lo sottraeva alla misura? ... Egli mi ha invidiato e disamato; e certo non per mia colpa. Io non l’ho mai invidiato; e sempre mi sono affaticato perché egli avesse sopra me e sopra tutti il suo posto nella fama. S’egli avesse più conosciuto gli uomini avrebbe veduto come non ve n’era un altro generoso e cordiale più di me ... Io non sono più che uom mediocre; ma più conseguente e più sincero degli altri e di lui».152

Non fu certo questo il motivo principale per cui il Leopardi, che ancora nel ’28 gli scriveva «Tu non devi scemarmi la tua benevolen151 iCfr. E. Bigi ne I classici italiani nella storia della critica a cura di W. Binni, II, 2ª ed., Firenze 1961, pp. 353 sg., 402; e le prime pagine dell’introduzione di Carlo Muscetta al Leopardi del De Sanctis, Torino 1960. 152 iLett., II, 140 (11 ottobre 1839) e 162 (13 ottobre 1841).

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za, la quale è fondata sulle qualità del mio cuore, e su quell’amore antico e tenero che io ti giurai nel primo fiore de’ miei poveri anni, e che ti ho serbato poi sempre e ti serberò fino alla morte», e ancora nel ’32 ripeteva «Io penso a te sempre, e ti adoro come il maggiore spirito ch’io conosca, e come il più caro ch’io abbia», negli ultimi tempi smise di scrivergli e parve lo avesse dimenticato. Ed è vano andare in traccia di altri motivi più o meno episodici, come hanno fatto tanti studiosi. Furono nuove esperienze a far passare in penombra nell’animo del Leopardi l’amicizia per il Giordani, pur senza fargliela mai rinnegare; l’amore per Aspasia, la nuova amicizia per Antonio Ranieri (un uomo di così desolante mediocrità intellettuale, ma ricco di quelle qualità di successo mondano di cui il Leopardi si sentiva dolorosamente privo). Quello che importa, è che l’amicizia tra il Leopardi e il Giordani fu un momento essenziale nella vita di entrambi.

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Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

Nell’Italia della Restaurazione Pietro Giordani lottò assiduamente per la laicidità e il progresso. Non si limitò a condividere le aspirazioni riformatrici comuni a tutti gli spiriti aperti dell’epoca (aspirazioni a un’educazione anticonformistica, che aiutasse l’allievo a formare liberamente la propria personalità; a una cultura storica e scientifica seria, che ponesse fine al vaniloquio delle accademie): andò oltre. Alle varie forme di cattolicismo più o meno ammodernato che fiorivano in Europa dopo il ’15 contrappose il proprio laicismo, prosecuzione e sviluppo dell’eredità illuministica. All’interesse dei romantici per il folclore e la poesia dialettale (un interesse in cui elementi retrivi e progressisti erano pericolosamente intrecciati e confusi) contrappose l’esigenza di dare a tutto il popolo una cultura moderna. Avversò la latinomania imperversante nelle scuole e nelle accademie italiane, ma non per questo cadde in una concezione puramente utilitaristica della cultura; anzi sostenne la necessità di studiare i classici latini – e i greci, allora trascuratissimi in Italia – con rigore filologico. E animò queste idee con la sua umanità, col suo senso profondo dell’amicizia, e fu sempre pronto a sostenere la causa degli oppressi con fieri scritti polemici. E questo medesimo uomo fu un purista, anche se meno angusto di altri. Si illuse che idee innovatrici, figlie dell’illuminismo, potessero essere espresse in «lingua del Trecento e stile greco»; peggio ancora, raccomandò come esempi di bello scrivere un Bartoli, un Pallavicino, un Segneri, e l’ammirazione per il loro stile lo rese talvolta indulgente anche per le loro idee tanto diverse dalle sue.1 Scrisse, specialmente 1 iVedi in X, 407 sgg. l’elogio del Pallavicino: lì il Giordani, dimenticando quasi la propria ammirazione per il Sarpi (la quale risulta per esempio da XII, 171 sg.; XIII, 97 sg. **), com-

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nel primo periodo della sua attività, prolissi discorsi di circostanza, in cui dovette adattarsi a rivestire di bella forma i pensieri altrui, e solo di tratto in tratto poté far brillare qualche frase ardita, contrastante col tono generale. Guardò le letterature e le filosofie straniere contemporanee con un’ostilità che in parte, sì, dipendeva dal loro carattere cristianeggiante o spiritualista, ma che in sostanza contribuiva a perpetuare l’isolamento provinciale della cultura italiana. Questa contraddizione, di cui egli ebbe dolorosa coscienza, ma che non riuscì a superare, non era di lui solo, ma della parte migliore del classicismo italiano (la ritroviamo, pur su un piano tanto più alto, in Leopardi); ed era, diciamo così, correlativa alla contraddizione del romanticismo. I romantici avevano proclamato la necessità di una letteratura che non avesse origini libresche, ma attingesse alla vita; i romantici italiani, in particolare, avevano accentuato, in confronto ai tedeschi, questa esigenza di a t t u a l i t à , di rottura con la tradizione, tanto da dare al «Conciliatore» un’intonazione assai più illuministica che romantica nel senso originario. E tuttavia le origini antigiacobine e spiritualistiche della loro ideologia impedivan loro di percorrere fino in fondo questa strada, ed ecco che anch’essi, come i loro capi-scuola tedeschi, facevano cominciare la civiltà moderna europea non dal rinascimento o dall’illuminismo, ma dal Medioevo, e identificavano «moderno» con «cristiano», e il concetto di letteratura «popolare» anche nei loro scritti si caricava di tutta la pericolosa ambiguità a cui accennavamo: popolo come classe rivendicante il proprio diritto a governarsi da sé e ad avanzare sulla via del progresso, o come primitività, attaccamento alle vecchie e buone usanze, insomma ultimo rifugio del Medioevo? E così a sua volta il classicismo rappresentò, certo, l’attaccamento a una tradizione letteraria fossilizzata, ma rappresentò anche, in alcuni, una protesta contro le tendenze filomedievali dei romantici, una fedeltà alla Ragione contro il sentimento mistico, un’affermazione di laicismo: si ricordi, del resto, quanto classicheggianti erano stati, anche in certe manifestazioni esteriori, gli uomini della rivoluzione francepie ogni sforzo per far apparire il suo personaggio sotto una luce simpatica anche dal punto di vista umano e ideologico (sebbene neppure in questo scritto manchino allusioni anticlericali e antiassolutiste). E vedi in XIII, 128 sg. una delle tante iperboliche esaltazioni del Bartoli («Il Bartoli è unico ... non rassomigliato mai, né possibile a rassomigliare, nella qualità dell’ingegno»), la quale coesiste con la consapevolezza della sua sostanziale vacuità («Di lui terrete a mente innumerabili frasi smaglianti, niuna sentenza ripeterete: il mirabile è nel vestito non nella persona. Poi niuno affetto mai in quelle tante migliaia di pagine ...»).

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se. Ma naturalmente anche su questi classicisti progressisti pesavano, specialmente in Italia dov’erano così forti, gli elementi deteriori della tradizione classicista, a cominciare da una lingua aulica, troppo distaccata dall’uso popolare e dalle esigenze del pensiero moderno. Questi aspetti contrastanti del classicismo si ritrovano appunto negli scritti di Pietro Giordani, e fanno sì che egli appaia ora più arcaico, ora molto più avanzato rispetto ai tanti cattolici liberali o spiritualisti democratici che davano il tono alla cultura europea di allora. Anche nel campo politico e sociale egli da un lato non abbandonò mai del tutto certi pregiudizi assolutisti-illuminati, ricordo della sua educazione settecentesca e della sua adesione al dispotismo riformatore napoleonico: dall’altro combatté, in pratica, contro l’oscurantismo di nobili e preti e contro le stesse monarchie assolute con decisione molto maggiore di tanti liberali, e assai più apertamente di loro denunciò le iniquità sociali e le sofferenze del popolo più umile. Il meglio dell’insegnamento del Giordani fu assimilato e rivissuto originalmente, per vie ben diverse, da due uomini in dissidio col loro ambiente: Leopardi e Cattaneo.2 Molti, invece, ammirarono soltanto il Giordani purista: uomini come Carlo Antíci, lo zio del Leopardi, come Salvatore Betti, autore dell’Illustre Italia **, e gli altri della «scuola romana», imitarono i lati meno felici del suo stile ma rimasero impermeabili alle sue idee. D’altra parte molti progressisti, tediati dall’oratoria di alcuni tra i suoi più celebri scritti di circostanza, buttarono via le sue opere senza accorgersi di quanto c’era in esse di innovatore: basti ricordare il giudizio sommario del Mazzini.3 E ai più, moderati in politica e manzoniani in letteratura, dette noia nello stesso tempo il classicismo e l’anticlericalismo del Giordani, la sua prosa troppo paludata e le sue idee troppo ardite: per loro, che cosa di peggio che un purista ateo? Quest’ultima posizione, l’antigiordanismo dei moderati, era particolarmente forte in Toscana dopo il ’49. A Firenze invecchiava, sempre più misoneista, Gino Capponi, un tempo amico del Giordani, ma poi l’amicizia si era interrotta e la divergenza di idee, esistente in 2 iSui rapporti Giordani-Leopardi vedi il saggio precedente, pp. 51 sgg., 90 sgg. Il Cattaneo affermò il proprio filoclassicismo nella prefazione ad Alcuni scritti (= Sl, I, p. 3 sgg.), con accenti che ricordano molto da vicino il Giordani, benché senza nominarlo. Vedi sopra, p. 67, e {il penultimo} saggio del presente volume. 3 iScritti letterari di un Italiano vivente, Lugano 1847, III, p. 301 n. 1.

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realtà fin dall’inizio tra il Giordani e tutto il gruppo dei moderati fiorentini, si era fatta più chiara.4 Si capisce quindi come l’«Archivio storico italiano», pur mantenendo un tono rispettoso per lo scrittore morto da pochi anni, facesse delle riserve sul valore di alcuni suoi scritti e sull’opportunità di pubblicarne l’epistolario, come aveva cominciato a fare dal ’54 Antonio Gussalli.5 In un altro periodico fiorentino, lo «Spettatore», Ruggiero Bonghi pubblicò per la prima volta quelle Lettere critiche (Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia) in cui tutti i difetti dello stile giordaniano sono individuati con grande chiarezza, e giustamente è criticata l’ammirazione del Giordani per Daniello Bartoli, ma nessun accenno si fa al valore delle sue idee di riforma culturale.6 In questa atmosfera il gruppo degli «amici pedanti» (Carducci, Chiarini, Gargàni, Targioni-Tozzetti)* iniziò a Firenze la battaglia contro i tardi romantici proclamando sommi modelli, l’uno per la poesia, l’altro per la prosa, il Leopardi e il Giordani. Fu precisamente Giuseppe Chiarini il primo ad ammirare il Giordani e a farlo conoscere agli amici.7 Nei loro primi scritti, gli omaggi ad Antonio Gussalli, depositario dell’eredità giordaniana, si alternavano ad aspre invettive contro i detrattori del Giordani. Di tali scritti, e di tutte le polemiche che ne seguirono, dà precise notizie Stefano Fermi nel suo saggio su Pietro Giordani e gli «amici pedanti».8 Del Carducci sono special4 i** La rottura col Capponi nel 1830 ebbe origine da un malumore forse ingiustificato del Giordani (vedi G. Forlini, Il soggiorno fiorentino di P. Giordani, ne «L’Arca», luglio 1954, p. 4 sgg.) **; ma la divergenza di idee preesisteva. Sull’ostilità del Capponi verso i filogiordaniani «amici pedanti» vedi M. Tabarrini, G. Capponi, Firenze 1879, p. 352. 5 i«Archivio storico italiano», nuova serie, I, 1855, parte I, pp. 185 sgg. Cfr. anche «Il passatempo», I, 1856, p. 127 sg. In parecchi punti della sua edizione giordaniana il Gussalli sfogò la sua amarezza per le accoglienze sfavorevoli che essa aveva ricevuto (per esempio tomo VIII, p. IX sgg.; XIV, pp. 138, 532). ** 6 iR. Bonghi, Lettere critiche, Milano 1856, pp. 7 sg., 14, 18, 43 sg., 45, 107 sg., 123 sgg. 7 iG. Chiarini, Memorie della vita di G. Carducci, 2ª ed., p. 59: «Il Giordani, del quale a poco a poco inoculai l’ammirazione anche agli altri».

*iAccanto all’influsso del Giordani e del Leopardi sugli «Amici pedanti», va tenuto presente l’influsso, in parte (ma solo in parte) concomitante, del Tenca: vedi U. Bosco, Giusti, Tenca, Carducci, in Realismo romantico, Caltanissetta 1959, p. 111 sgg.; in questo saggio sono anche ben distinte le varie fasi dell’atteggiamento del Carducci nei riguardi del romanticismo. ** Vedi ora anche l’accurato studio complessivo di E. Circeo, Carducci e Leopardi, in «Giorn. stor. lett. ital.» CXLV, 1968, pp. 573 sgg. ** 8 iS. Fermi, Saggi giordaniani, Piacenza 1915, p. 1 sgg., con aggiunte a p. 159 sg. Vedi anche, per il carteggio tra Chiarini e Gussalli, A. Pellizzari, G. Chiarini, Napoli 1912, pp. 20 sgg., 58 sgg. e, per tutto l’ambiente degli «amici pedanti», l’ampio e ben documentato studio di Piero Tre-

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mente da ricordare il sonetto «Qual tra le ingiurie di Fortuna e i danni», poi incluso negli Iuvenilia, e la raccolta, da lui compiuta per il volume XIV dell’edizione Gussalli, dei giudizi critici sparsi nell’epistolario giordaniano; del Chiarini, due scritti dedicati al Gussalli9 e due articoli sulle opere del Giordani.10 Paragonando la prosa del Giordani a quella del Leopardi, il Chiarini manifestava, sia pure con una certa cautela, la sua preferenza per la prima: «Io, quando non debbo dare il primo luogo al piacentino, li dirò almeno eguali. Ché se è unica quella perfetta esattezza e semplicità lucidissima del Leopardi, conveniente alla esattezza del filosofico ragionare, io sento più calda più splendida più varia la prosa del Giordani».11 Il giordanismo degli amici pedanti era certamente ben diverso da quello della scuola romana; la loro ammirazione non andava solo al Giordani stilista, ma anche al suo patriottismo e al suo odio per «preti e tiranni». «Imparammo da lui – scriveva il Chiarini – come si può stare al mondo non vili, come si può spendere in degne cagioni la vita, come giovare ai lumi e contendere coi tristi e debellarli; e come in questa guerra a pro’ della umana famiglia han loro ufficio le lettere». E il Carducci, letto il Peccato impossibile, esclamava: «Che grande e splendido e terribile nemico di tutti i vili nemici del genere umano era quel Giordani: il solo veramente libero di tutti gli scrittori italiani moderni».12 ** Nel discorso Di un migliore avviamento delle lettere moderne al proprio loro fine,13 che più tardi, rifatto nel ’76, s’intitolò Di alcune condizioni della presente letteratura, il Carducci faceva propri i giudizi del Giordani sul carattere popolare della letteratura trecentesca, sull’estraniarsi della classe dotta dal popolo nel Rinascimento, sulla necessità che la nuova letteratura parlasse di nuovo a tutta la nazione. Tuttavia anche nel Chiarini e nel Carducci giovani – per non parlare del Gargani, il più chiuso e arcaizzante – i pensieri del Giordani ves, L’abate Giuseppe Tigri e la cultura toscana, ne L’idea di Roma e la cultura italiana del sec.xix, Milano-Napoli 1962, p. 145 sgg. 9 iRiportati da Guido Mazzoni in G. Chiarini, La vita di U. Foscolo, Firenze 1910, p. XIV sgg. 10 iDegli scritti editi e postumi di P. Giordani, nel «Poliziano», I, 1859, p. 96 sgg.; recensione al vol. XIV delle Opere, nella «Rivista ital., di scienze, lettere ed arti colle effemeridi della Pubbl. Istr.», IV, 1863, pp. 273 sgg., 305 sgg. 11 iNel «Poliziano» cit. alla nota precedente, p. 106. 12 iLettere, ed. nazionale, III, p. 333 (al Chiarini, 4 maggio 1863); cfr. Chiarini in «Rivista italiana» cit., IV, p. 274. 13 i«Il Poliziano», I, 1859, pp. 10 sgg., 65 sgg.; vedi specialmente p. 67 (ora in Opere, ed. nazionale, V, p. 265 sgg.).

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rivivevano in una forma più angusta: il patriottismo, l’anticlericalismo, che il Giordani aveva concepito in funzione di un rinnovamento culturale illuministico, tendevano a restare fine a sé stessi, oggetto di declamazioni e di «sparate» truculente. Né essi cercavano di liberare i motivi vitali del Giordani dalle scorie puristiche, anzi le aggravavano. «Modificare la sostanza di una letteratura si può senza danno, quando un vero progredimento della civiltà lo comandi; mutare la forma, cioè la maniera di esprimersi, non si può», sentenziava il Chiarini, con una recisione che il Giordani non avrebbe certamente condiviso.14 E il purismo, il classicismo, il nazionalismo culturale – uniti a quella mancanza di spirito filosofico che costituiva la più grave tara della cultura toscana – stonavano, naturalmente, nel ’59 assai più che venti o trent’anni prima, e mettevano il gruppetto dei «pedanti» in una situazione di svantaggio di fronte alla nuova cultura di De Sanctis e Spaventa, nutrita di filosofia europea, o al gruppo milanese di Cattaneo e Ferrari, che sviluppava anch’esso, come abbiamo accennato, ma su un piano assai più alto, certe esigenze giordaniane. Anche l’interesse per la storia di alcune forme stilistiche e metriche, che il Carducci, come è stato osservato recentemente da Gianfranco Folena,15 derivò in parte dal Giordani, e che costituiva un’indubbia originalità rispetto al De Sanctis, rimase sempre un interesse filologico-retorico, non divenne mai vera e moderna filologia,16 e questo fu un grave danno per l’ulteriore sviluppo della filologia italiana. Ma pur con tutte queste riserve, bisogna riconoscere che l’avere scelto a maestri il Giordani e il Leopardi significò per il Carducci e il Chiarini la rottura coi pregiudizi religiosi e con un certo moderatismo buonsensaio, e facilitò grandemente la loro evoluzione democratica. Più tardi, come è noto, altre esperienze culturali (specialmente il contatto coi poeti e gli storici della rivoluzione francese, e con Goethe e con Heine) vennero ad affrettare tale evoluzione. Il Chiarini, pur così inferiore artisticamente al Carducci, e di statura modesta anche come critico, fu però più pronto ad assimilare certi nuovi indirizzi culturali, 14 i«Il Poliziano» cit., p. 105. Vedi quanto più articolata e ricca di distinzioni fosse la posizione del Giordani, per esempio in XI, 10 sgg., o, ancora più, nell’abbozzo di Storia dello spirito pubblico d’Italia considerato nelle vicende della lingua (IX, 105 sgg.). 15 iNella presentazione alle Orazioni scelte del sec. xvi a cura di G. Lisio, Firenze 1957, p. VIII sg. 16 i«Una filologia nata in ipso sinu rhetoricae», dice giustamente il Folena.

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che poi trasmise all’amico. E noto che dal ’70 in poi, ripudiando le sue giovanili tirate contro i poeti francesi, egli dedicò molta parte della sua attività allo studio delle letterature straniere. Meno noto è che fin dal ’65 recensì entusiasticamente Forza e materia di Büchner – e anche qui il materialismo del Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco, e l’antioscurantismo di molte pagine del Giordani, sono alla base di tale entusiasmo –.17 E non solo fu, come il Carducci, repubblicano, ma assai più di lui sentì le ingiustizie sociali che accompagnavano anche in Italia lo sviluppo del capitalismo; e si rifiutò, nonostante la grande ammirazione per il Carducci, di seguirlo nella triste involuzione filomonarchica e cortigianesca dal ’78 in poi.18 La riforma scolastica che egli progettò negli anni in cui fu direttore generale della pubblica istruzione mirava a ridurre l’insegnamento del latino e del greco, a sviluppare l’istruzione scientifica: suscitata da necessità attuali, era, nello stesso tempo, d’accordo con quanto aveva sostenuto tanti anni prima il Giordani negli articoli della «Biblioteca italiana» e in altri scritti. Dalla prosa aulica dei primi anni il Chiarini, a differenza del Carducci, finì col distaccarsi completamente; anche in poesia predilesse un umile e patetico, e spesso sciatto, verismo. È quindi naturale che il suo entusiasmo per il Giordani prosatore andasse diminuendo dopo il ’70,19 finché, in un saggio del 1885,20 egli dette sullo stile giordaniano un giudizio abbastanza limitativo. «A me – scriveva fra l’altro – pare di scorgere nel Giordani una contradizione singolare fra il giudizio ed il gusto; come scrittore, egli mi fa l’effetto di un uomo che ragionando si persuade che i cibi semplici sono i migliori, e che quando si mette a tavola preferisce gl’intingoli. Guidato dal giudizio, loda ed ammira in altri la naturalezza, e la semplicità dello scrivere, e biasima in sé l’assenza di queste qualità e la presenza delle contrarie;21 si 17 i«Rivista ital. di scienze, lett. ed arti», VI, p. 39. Lo Stratone di Lampsaco è esplicitamente ricordato dal Chiarini. 18 iG. Mazzoni, in G. Chiarini, La vita di U. Foscolo, Firenze 1910, p. XXIV sgg., e nella prefazione alla 5ª ed. delle Memorie della vita di G. Carducci, Firenze 1935, p. XI sgg. 19 iVedi le testimonianze nell’articolo cit. di S. Fermi, p. 19 sgg. 20 iG. Chiarini, P. Giordani: i primi anni e i primi scritti, nella «Nuova Antologia», 16 settembre 1885, p. 226 sgg. (il passo da noi riportato è a p. 241). Quest’articolo doveva essere il primo capitolo di una biografia del Giordani, che il Chiarini non condusse a termine. 21 iIl Chiarini allude per esempio a XIII, 356; Lett. II, 171. Cfr. qui sopra, pp. 60 sg., 8384, 93-94 n. 149.

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mette a scrivere, e il gusto lo porta a seguitare nella mala via. Non dico che non sia sincero quando accenna le cagioni che gl’impedirono di correggersi; ma dico che la volontà di correggersi non dové mai essere molto forte, e che seguitò a scrivere artificioso e raffinato, perché in fondo lo scrivere artificioso e raffinato gli piaceva. Non è ammissibile che s’egli avesse voluto assolutamente correggersi, non gli fosse, almeno in parte, riuscito; ma si capisce come la volontà, se non fu mai forte, dovette divenire anche più debole, quando quel suo modo di scrivere gli acquistò nome di primo prosatore italiano. Anzi allora la volontà dovette cessare affatto; e giudicando da’ suoi scritti, si vede ch’egli non ebbe d’allora in poi altra cura che di perfezionare e, quasi direi, cesellare e brunire quella sua maniera di prosa». L’osservazione, nel suo buon senso, contiene qualcosa di vero; si deve però aggiungere che in molte prose polemiche, in molte espressioni di scontentezza di sé e dei suoi tempi, il Giordani riesce a trasformare in forza positiva gli stessi aulicismi e arcaismi, a fonderli in un impasto stilistico tutto suo: perciò egli non avrebbe potuto seguire il semplicistico consiglio di buttar via senz’altro il proprio stile aulico e mettersi a scrivere terra terra.22 Fino all’ultimo, invece, rimase nel Chiarini l’ammirazione per il Giordani educatore, patriota e difensore degli oppressi. Anche in questa ammirazione si potrebbe notare una certa genericità, un porsi da un punto di vista più morale in senso stretto che storico-culturale e politico, e quindi un mancato approfondimento di ciò che il Giordani significò per la cultura italiana. Ma su questa facile osservazione non sarebbe giusto insistere con professorale sussiego: l’amore del Chiarini per il Leopardi e il Giordani rimane uno dei più bei tratti della sua personalità così schietta e simpatica: quest’amore gli ispirò, alcuni anni dopo, la Vita di Giacomo Leopardi, che è ancor oggi la sola biografia leopardiana che si legga volentieri, la sola che simpatizzi decisamente per il protagonista e non per Monaldo, per Adelaide Antici, per i moderati toscani. In quella biografia anche la figura del Giordani, in rapporto al Leopardi, è delineata assai bene. La scelta di scritti del Giordani curata dal Chiarini fu pubblicata per la prima volta nel 1876 presso l’editore Vigo di Livorno;23 fu 22

iCfr. qui sopra, pp. 22.23, 83-84. iProse scelte di P. Giordani proposte come libro di lettura alle scuole liceali, p. 526.

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ristampata nell’80; riapparve notevolmente modificata nell’89 presso Sansoni.24 Già la prefazione all’edizione del ’76 rivela che il distacco del Chiarini dall’ideale aulico degli anni giovanili era bell’e avvenuto. «Anche nell’arte di scrivere – osservava il Chiarini –25 ... prevalgono oggi fra noi certe dottrine, che non sono interamente quelle che ai tempi del Giordani si avevan per buone: e tutti, un po’ più un po’ meno, siamo intinti nella pece di queste dottrine, che, a dir vero, hanno molta apparenza di essere ragionevoli». E proseguiva (e il seguito fu da lui riprodotto anche nella prefazione all’edizione sansoniana) dicendo che non solo la prosa del Giordani, ma anche quella del Leopardi è troppo discosta dall’uso popolare (p. VII); c’era tuttavia adesso, secondo lui, il pericolo di un manzonismo troppo esclusivo, di un oblio troppo totale della grande tradizione classica: perciò, come antidoto, egli proponeva la lettura del Giordani nelle scuole secondarie. Questa destinazione scolastica del libro influì inevitabilmente sul criterio della scelta. Pur affermando di aver voluto che gli scritti prescelti «rappresentassero, nel suo meglio, non solamente lo scrittore, ma anche l’uomo, che è nel Giordani non meno rispettabile dello scrittore, ed è una sola cosa con esso» (p. XI), il Chiarini non poté fare a meno di escludere gli scritti più aspramente anticlericali, come le satire sul Procerismo e sul Peccato impossibile,26 l’opuscolo Per le legazioni,27 gli abbozzi dei discorsi Al Saurau, Della religione in Italia e Se debbano impedirsi gli studi ai poveri,28 i Discorsi alla società di lettura di Piacenza,29 la Lettera a G. Vicini,30 gli scritti contro i gesuiti31 e moltissime delle più belle lettere private, parecchie delle quali, copiate e diffuse più o meno clandestinamente, assumevano il carattere e l’efficacia di lettere aperte.32 Certe espressioni contenute in questi scrit24

iCfr. M. Parenti, G. C. Sansoni, Firenze 1955, pp. 93, 99, 102 sg. iEd. di Livorno cit., p. VI. 26 iIl Procerismo in XII, 105 sgg.; sul Peccato impossibile vedi qui sopra, pp. 84-85, 101. 27 iIX, p. 310 sg. 28 iX, 248 sgg.; XI, 26 sgg.; XII, 208 sgg. (sulla questione del non impedire lo studio ai poveri vedi anche XIII, 57 sg. e qui sopra, p. 69). 29 iX, 391 sgg.; XI, 34 sgg., 40 sgg., 180 sgg., 209 sgg. 30 iXI, 205 sgg. 31 iXIV, 83 sgg.; cfr. le lettere del medesimo periodo (1839-40), e gli altri scritti citati dal Gussalli, XIV, 84. Su tutti gli scritti qui rapidamente menzionati si veda il saggio precedente. 32 iCiò fu messo giustamente in rilievo da G. Tribolati, Saggi critici e biografici, Pisa 1891, p. 330, e già prima da L. Scarabelli in «Archivio storico ital.» app. VI, 1848, p. 435. Un gesuita 25

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ti dell’«empio Giordani» sarebbero apparse troppo forti anche nella scuola italiana di fine Ottocento, pur molto più laica dell’attuale: tanto più che in molti di essi vi sono spunti di polemica sociale espressi in un linguaggio veemente. Così pure il Chiarini dovette ritenere troppo polemici gli articoli contro lo Zajotti33 e contro le calunnie del Tommaseo al Leopardi;34 troppo difficili per una scuola secondaria gli scritti di riforma culturale pubblicati nella «Biblioteca Italiana».35 Un notevole miglioramento rispetto alla prima edizione livornese fu l’inclusione di una quarantina di lettere; un peggioramento, l’esclusione della Causa dei ragazzi di Piacenza,36 che è uno degli scritti più belli del Giordani e, io credo, dei più adatti alla scuola. ** Molto del migliore Giordani è dunque assente da quella raccolta, proprio perché il migliore Giordani è quello degli scritti polemici. E tuttavia già lì c’è materia bastante per cominciare almeno a capire che il Giordani non è quale lo presentano le odierne storie letterarie. Si leggano soprattutto le sezioni seconda e quarta: «Scritti varii» e «Lettere», e alcune iscrizioni. Non ci si lasci spaventare dalla prolissità dei «Discorsi ed elogi» coi quali l’edizione chiariniana si apre. In questi il Giordani è, come abbiamo accennato, portavoce di idee e sentimenti in parte non suoi. I più di questi discorsi, inoltre, appartengono all’epoca napoleonica, in cui il Giordani non aveva ancora raggiunto l’indipendenza di giudizio che mostrò in seguito, dal ’14 e specialmente dal ’34 in poi;37 molti trattano di arti figurative, un campo in cui il Giordani soprattutto ci appare invecchiato, per il suo gusto rigidamente neoclassico che oggi nessuno può condividere. Eppure anche in essi troviamo qualche preannuncio del Giordani migliore: vedi quelle puntate contro i monarchi, i preti, i ricchi che qua e là interrompono la cerimoniosità dei discorsi ufficiali;38 vedi nell’Innocenzo Francucci (IX, 180 sgg.) quell’interpretazione allegorica di lego filogesuita che si firmava Filarete gli scriveva: «Voi, singolare in tutto, solete non pure, come praticano gli altri uomini, mandare le vostre lettere a cui sono indirizzate, ma anche qua e colà in processione da essere ammirate dai vostri divoti» (Firenze, bibl. Laurenziana, carte Giordani, XXII, 57). 33 iXII, 50 sgg. 34 iXII, 199 sgg. 35 iSi trovano nei tomi IX e X delle Opere. Uno solo, quello sugli improvvisatori, fu ristampato dal Chiarini (p. 133 sgg. dell’edizione del 1889). 36 iX, 285 sgg. 37 iIl 1834 è l’anno della sua carcerazione (vedi qui sopra, p. 66). 38 iVedi qui sopra, pp. 71-72.

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gende antiche, mantenuta su un tono di sorridente empietà e misoginìa, di un’eleganza settecentesca inconsueta nel Giordani, rotta però a un certo punto dall’invettiva contro Apollo persecutore di Marsia (p. 193 sg.), in cui esplode lo «sdegno giusto» contro i persecutori moderni, condannati dalla «coscienza libera del genere umano». Uno dei compiti che oggi si pongono agli storici della cultura italiana dell’Ottocento è uno studio più approfondito della corrente classicista: non per rivalutare il classicismo in quanto tale, che è definitivamente morto, ma per individuare meglio i motivi progressisti che vi erano in quel movimento, e che si contrapponevano ad alcuni aspetti retrivi del romanticismo: per capire sempre più a fondo come da un’educazione classicista, non mai rinnegata sostanzialmente, sia venuto su un uomo più grande e più moderno di tutti i romantici, Giacomo Leopardi. In una prospettiva di questo genere acquisterà un particolare interesse e rilievo la figura di Pietro Giordani; e anche il giordanismo minore di Giuseppe Chiarini avrà la sua giusta collocazione.39

39 iTra gli studiosi del Giordani posteriori al Chiarini vanno ricordati soprattutto Stefano Fermi, Giovanni Ferretti e Giovanni Forlini. È quasi esclusivamente merito loro se si è mantenuta una tradizione di studi giordaniani. Del Fermi vedi specialmente i Saggi giordaniani (Piacenza 1915) e lo studio su P. Giordani e G. D. Romagnosi nella polemica tra classici e romantici («Arch. stor. per le province parmensi», 1949-50, p. 247 sgg.): una bibliografia completa dei suoi scritti è nel «Bollettino storico piacentino», XLVII, 1952, fasc. 3-4. Sui meriti e su alcuni limiti del Ferretti come studioso del Giordani vedi sopra pp. 37 sgg., 44. Del Forlini si veda lo studio Orientamenti culturali e atteggiamenti critici nella prima metà del secolo xix (in «Convivium», 1952, p. 707 sgg.) e molti preziosi articoli sui rapporti tra il Giordani e altre personalità dell’Ottocento (Gioberti, Manzoni, Colletta ecc.) pubblicati in varie riviste. Il Forlini sta ora preparando una bibliografia giordaniana che costituirà un indispensabile strumento di studio.

III. ** Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

1. Il fatto nuovo degli studi leopardiani nel secondo dopoguerra consiste, come è noto, nell’attenzione che si è rivolta al pensiero e alla cultura del Leopardi. Il ripudio di una critica letteraria troppo rinchiusa in una considerazione puramente estetica dell’opera d’arte, troppo preoccupata soltanto di sceverare poesia da non poesia, è stato certamente un fenomeno generale di quest’ultimo ventennio; ma ha assunto un particolare valore nel caso del Leopardi, poeta-pensatore avversato per il suo materialismo e pessimismo dai moderati toscani e da Benedetto Croce, e proprio in odio a tali sue idee ridotto a poeta «idillico»: poeta, cioè, solo nei fugaci momenti in cui dimenticherebbe la propria amara filosofia. Il merito di aver distrutto questo cliché (che, nella forma brutale in cui era stato presentato da Croce in un famigerato saggio, aveva suscitato perfino tra i critici più crociani perplessità e resistenze) spetta a due saggi usciti nello stesso anno 1947: il Leopardi progressivo di Cesare Luporini e la Nuova poetica leopardiana di Walter Binni.1 Nel saggio del Luporini lo studio del pensiero leopardiano era per la prima volta condotto al di là dell’onesta ricostruzione erudita (Losacco, Zumbini, Tocco, Porena) e dell’adesione sentimentale, immediata e astorica (Graf, Amelotti, Tilgher).2 Non sono mancati al Lupori1 iC. Luporini, Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze 1947, p. 183 sgg.; W. Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze 1947, 2ª ed. 1962. 2 iNaturalmente ciò non implica alcuna disconoscimento dei contributi di codesti studiosi. In particolare il volumetto del Tilgher (La filosofia del Leopardi, Roma 1940) contiene, accanto a forzature facilmente riconoscibili e isolabili, un’espressione lucidissima di alcuni concetti fondamentali del pensiero leopardiano: distinzione fra primitività e barbarie, materialismo, critica

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ni rimproveri di unilateralità e di forzatura ideologico-politica. In che senso si possa, anche a nostro parere, parlare di unilateralità, cercheremo di precisare in seguito. Ma intanto dobbiamo dire che, nella forma in cui viene espresso talvolta (di avere, cioè, presentato un Leopardi «precursore del marxismo»), quel rimprovero non è accettabile. I punti di riferimento adottati da Luporini per valutare il «progressismo» del Leopardi sono l’illuminismo e il romanticismo, il concetto di Natura hobbesiano e russoiano, la «delusione storica» suscitata dalla fine dell’esperienza rivoluzionaria e napoleonica. Le acquisizioni più importanti del saggio luporiniano sono la valutazione del Leopardi come «moralista», il chiarimento del valore essenziale che il concetto di «vitalità» ha nella prima fase del pensiero leopardiano, la netta distinzione tra il pessimismo materialistico del Leopardi e i pessimismi romantico-esistenzialistici di cui è ricco l’Ottocento europeo. Nessuna forzatura antistorica vi è in tutto ciò, a meno che non si voglia considerare antistorico il possesso stesso di un criterio valutativo, di un impegno critico-pratico da parte dello studioso. Bisogna, anzi, dire che il Luporini ha sottratto per primo lo studio del pensiero leopardiano alle analogie brillanti ma fallaci con tutti gli «spiriti tormentati» del passato, da Sant’Agostino a Pascal ai romantici e ai decadenti del secolo scorso; e ha fatto, con ciò, opera di storico rigoroso. Una forzatura nell’interpretazione del pensiero politico leopardiano c’era stata, più che da parte del marxista Luporini, da parte del democratico Salvatorelli, che aveva visto nell’ultimo Leopardi «il presentimento del socialismo, della Società delle nazioni», dello «stato scientifico»; e ancor prima, alla fine dell’Ottocento, da parte del Romano-Catania (lo studioso di Filippo Buonarroti) e del Carducci, con quel suo curioso «Diciamocelo in un orecchio: s’accostava al socialismo».3 Il Luporini, è vero, nella conclusione del suo saggio citava con dell’antropocentrismo. Tra gli studi su singole questioni, merita un particolare risalto quello di F. Neri, Il pensiero del Rousseau nelle prime chiose dello Zibaldone, «Giorn. stor. letter. ital.» LXX, 1917, p. 131 sgg. (poi in Letteratura e leggende, Torino 1951, p. 257 sgg.). 3 iG. Romano-Catania, L’etica sociale nelle opere di G. Leopardi, «Il pensiero italiano», maggio 1893, p. 74 sgg. Il Carducci (Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. Leopardi, ora in Opere, ed. nazionale, vol. XX, Bologna 1937, p. 94 e n. 1) ignora il Romano-Catania, e si richiama invece a un accenno, assai più generico, di G. Martinozzi, Per la continuità nella vita nazionale, Bologna 1897, pp. 18-25. Contro il Romano-Catania polemizzò M. Losacco in uno scritto del 1896 (rist. in Indagini leopardiane, Lanciano 1937, p. 69 sgg.): egli ebbe buon giuoco nel negare l’esplicito «socialismo» del Leopardi, ma non rese giustizia ad alcuni spunti felici del proprio

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assenso il giudizio del Salvatorelli – e forse avrebbe dovuto accompagnare l’assenso con una più esplicita riserva –; ma veniva a temperarne la crudezza in quanto ricostruiva t u t t o lo svolgimento del pensiero politico leopardiano e storicizzava, così, quella posizione di punta dell’ultimo Leopardi.4 Su un’altra cosa finora non osservata conviene, piuttosto, richiamare l’attenzione. Il saggio del Luporini rappresentava, all’interno della storiografia marxista, una posizione teoretico-storiografica particolare. A differenza della grande maggioranza dei marxisti italiani, che erano degli ex-idealisti, Luporini proveniva dall’esistenzialismo; e già da esistenzialista si era interessato al pensiero leopardiano e gli aveva dedicato un saggio.5 Rispetto a quel saggio, il Leopardi progressivo è cosa del tutto nuova e inconfrontabile: abbiamo già accennato che uno dei suoi meriti principali consiste proprio nella separazione netta fra il pessimismo del Leopardi e il pessimismo di un Kierkegaard. Ma quella precedente esperienza non idealistica, non storicistica, aiutò certamente il Luporini a comprendere un pensatore non professionale, antisistematico, formatosi al di fuori della «via maestra» dello storicismo e dalla dialettica, quale è il Leopardi. Il saggio del Luporini, pur considerando l’assenza della dialettica come una condizione d’inferiorità del pensiero leopardiano (su ciò ritorneremo), tuttavia sottintendeva un marxismo che non si riducesse a uno storicismo più corposo e concreto, che non facesse di Marx soltanto il migliore scolaro del professor Hegel, ma che sapesse rifarsi, al di fuori del passaggio obbligato hegeliano, direttamente al materialismo e all’epicureismo settecentesco, alle esperienze democratico-rivoluzionarie francesi, all’empirismo inglese. In confronto al Luporini del Leopardi progressivo, il Luporini delle ultime discussioni su «Rinascita», che si schiera senz’altro coi marx-hegeliani e considera come nemico numero uno il materialismo volgare, mi sembra assai meno originale e meno rivoluzionario. E mi sembra che nelle recenti discussioni sul rapporto uomo-natura il Luporini abbia semplicemente trascurato la problematica leopardiana, piuttosto che cercare di metterla a un serio avversario. ** Del Salvatorelli vedi Il pensiero politico italiano, 5ª ed., Torino 1949, p. 210 (la 1ª ed. è del 1935). Pur nel suo schematismo, la formulazione del Salvatorelli ebbe allora il merito di contrapporsi all’infelice tesi crociana dell’affinità di idee tra Monaldo e Giacomo Leopardi. 4 iVedi l’appendice II del saggio luporiniano (Discussione col Salvatorelli, p. 277 sgg.). 5 iIl pensiero di Leopardi, in Studi sul Leopardi di vari autori, Livorno 1938, p. 41 sgg.

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confronto col marxismo.6 * Ci scusi il lettore della digressione, che non si allontana, poi, dal nostro tema quanto può a prima vista sembrare. Se l’ostilità al Leopardi pensatore, alle sue asprezze antispiritualistiche, aveva portato anche in sede propriamente estetica alla svalutazione degli ultimi Canti e dei Paralipomeni,7 il libro del Binni reagiva a questo giudizio, proprio in nome di una considerazione più unitaria della personalità leopardiana; e mostrava come l’illuminismo, il materialismo, la polemica apertamente anticristiana dell’ultimo Leopardi non fossero stati elementi perturbatori di un’ispirazione esclusivamente idillica, ma anzi generatori di una nuova, non meno alta poesia. Anche il libro del Binni aveva le sue durezze e unilateralità – più tardi temperate, anche se non del tutto risolte, dal Binni stesso in successivi saggi –:8 un eccessivo stacco tra il Leopardi idillico e il Leopardi eroico,* tra l’ispirazione eroica delle Canzoni giovanili 6 iCfr. specialmente L’uomo e la natura, in «Atti del XII congr. internaz. di filosofia (Venezia 12-18 settembre 1958)», vol. II, Firenze 1960, p. 273 sgg. La discussione su «Rinascita» a cui accenniamo sopra si svolse dal 23 giugno al 3 novembre 1962. 7 iMa non si dimentichi il giudizio di Giuseppe De Robertis sulla Ginestra, nel commento ai Canti, Firenze 1925, p. 330, e in Studi, Firenze 1944, p. 12. 8 iTre liriche del Leopardi, Lucca 1950; La poesia eroica di G. Leopardi, «Il Ponte» XVI, 1960, p. 1729 sgg.

*iDiversa è, oggi, la posizione di Luporini nei riguardi del rapporto Hegel-Marx, e molto cambiato è tutto il panorama del marxismo contemporaneo: nel quale, tuttavia, perdura la carenza di materialismo. ** Vedi gli articoli citati nella prefazione a questa edizione, p. XCVIII. Un nuovo tentativo di interpretazione del Leopardi da un punto di vista marxista (in realtà piuttosto adorniano-marcusiano, con qualche civetteria verbale strutturalistica) è stato compiuto da Enzo Schiavina, La crisi della coscienza borghese nell’ideologia leopardiana, in «Rendiconti» 1967, fasc. 14, pp. 157 sgg. Non mi sembra che esso segni alcun vero progresso sul saggio di Luporini. Una convincente interpretazione dell’Infinito in chiave sensistica è data da G. Pirodda in «Problemi» 4-5, 1967, p. 166 sgg. Ricca di acute osservazioni è l’introduzione di Mario Pazzaglia alle Operette morali, Bologna 1966 (giustamente il Pazzaglia mette in guardia, a pp. XIVXVIII, contro gli equivoci a cui può dar luogo la definizione del Leopardi come «moralista»). Accenni importanti su Leopardi e Rousseau e sul rapporto tra letteratura e vita nel pensiero leopardiano si trovano in G. Lonardi, Classicismo e utopia cit., pp. 42-45. *iL’esigenza di non separare nettamente il Leopardi «idillico» dal Leopardi «eroico» è ora affermata giustamente anche dal Sapegno, Giacomo Leopardi (nell’Ottocento garzantiano già citato, p. 820). Ma il saggio di Sapegno ricalca troppo le orme di quella critica leopardiana che, pur rifiutando il giudizio irosamente svalutativo di Croce, ammira tuttavia il Leopardi m a lg r a d o la sua ideologia: rappresenta quindi, tutto sommato, un passo indietro rispetto a Binni. Bisogna d’altra parte osservare che né Luporini né il sottoscritto, negando il «romanticismo» del Leopardi, hanno mai sostenuto un suo «meccanico ritorno ai moduli razionali e alle soluzioni letterarie settecentesche» (Sapegno, ibid.). Hanno piuttosto sostenuto che il Leopardi vive in pieno la crisi del suo tempo, ma dà ad essa una risposta radicalmente diversa da quella dei roman-

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(soprattutto del Bruto minore) e quella dei canti post-1830, e una troppo frettolosa aggregazione del Leopardi alla schiera dei romantici.9 Ma le osservazioni sul nuovo impegno polemico e «missionario» del Leopardi dal 1830 in poi, sulla forza del lucido e spietato materialismo dei Paralipomeni, rimangono punti fermi per lo studio del pensiero leopardiano, anche a prescindere dal grande valore specificatamente critico-letterario del saggio. Dopo Luporini e Binni non sono certo scomparse d’un tratto le vecchie posizioni di sottovalutazione del pensiero leopardiano e di riduzione del Leopardi a poeta puro e frammentario. Proprio ora uno studioso del valore di Piero Treves, prendendo lo spunto da un riesame del Leopardi filologo ma estendendo il suo giudizio all’intera personalità leopardiana, ha ripresentato l’immagine crociana di un Leopardi «monaldesco», ostile al progresso, incapace di comprensione serena del mondo che lo circondava.10 Ma nonostante queste resistenze l’impulso principale è ormai nell’altra direzione. I saggi di Martino Capucci sui Paralipomeni,11 di Carlo Muscetta sulla canzone Nelle nozze della sorella Paolina e sull’Ultimo canto di Saffo,12 l’introduzione del Muscetta stesso al Leopardi di De Sanctis, l’articolo di Luigi Blasucci sulle due canzoni patriottiche e alcune sue recensioni, specialmente quella agli scritti leopardiani di Giovanni Gentile,13 hanno rappretici (anche se poi, nella definizione e valutazione di questa risposta, vi sono tra Luporini e me alcuni punti di dissenso). Molto importante mi sembra invece, per un superamento della troppo recisa contrapposizione tra idillico ed eroico, lo studio di E. Bigi, La genesi del «Canto notturno» (nel vol. omonimo cit., p. 113 sgg.). ** 9 iSu quest’ultimo punto vedi l’introduzione al presente volume, p. 31 sg., e più oltre, p. 116 sg. Al rischio di una contrapposizione troppo recisa tra «idillico» ed «eroico» ha contribuito, penso, l’appellativo non leopardiano di «nuovi» o «grandi idilli», dato dal De Sanctis e dal Carducci ai canti pisano-recanatesi del 1828-30, e derivante, in sostanza, dal grosso fraintendimento in senso «manzoniano-realistico» che di tali canti compì il De Sanctis. Molto giustamente, perciò, nel nuovo commento di Fubini e Bigi ai Canti (Torino 1964) si propone di chiamare «idilli» soltanto quelli che il Leopardi chiamò così, le brevi liriche in endecasillabi sciolti del 1819-21. 10 iP. Treves, Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962, p. 471 sgg. e altrove. Cfr. «Critica storica» II, 1963, p. 609 sg. 11 iM. Capucci, I «Paralipomeni» e la poetica leopardiana, «Convivium» 1954, p. 581 sgg.; La poesia dei «Paralipomeni» leopardiani, id., p. 695 sgg. 12 iIn Ritratti e letture, Milano 1961, pp. 215 sgg., 230 sgg. 13 iL. Blasucci, Sulle prime due canzoni leopardiane, «Giorn. stor. letter. ital.» CXXXVIII, 1961, p. 39 sgg. (particolarmente importante, per il tema del nostro presente studio, la nota a p. 70); e le recensioni agli scritti leopardiani di Bacchelli (id., p. 478 sgg.), Gentile (id., CXXXIX, 1962, p. 560 sgg.), Bigongiari (id., CXL, 1963, p. 289 sgg.).

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sentato sempre maggiori approfondimenti in questo senso. Perfino un critico tanto elegante ed eloquente quanto eclettico come Natalino Sapegno, oscillante fra il settarismo dei saggi su Alfieri, Giusti, Carducci e il moderatismo del Ritratto di Manzoni e della recente introduzione ai Promessi Sposi, non si è sottratto all’influsso dell’impostazione Luporini-Binni, anzi ha dato in quella direzione un contributo di prim’ordine col saggio su De Sanctis e Leopardi, anche se, in altri scritti leopardiani, è rimasto legato alla visione di un Leopardi genericamente «romantico», il cui dissidio col proprio secolo sarebbe solo frutto di malumori o di malintesi.14 Ancor più di recente, il problema del Leopardi ideologo e moralista è stato riaffrontato da due studiosi che hanno il dono di una forma espositiva particolarmente limpida ed efficace: Bruno Biral e Gianluigi Berardi.15 L’influsso del Luporini sull’uno e sull’altro è evidente, e specialmente il Biral avrebbe dovuto riconoscerlo in modo più esplicito. Non si tratta, tuttavia, di pure e semplici volgarizzazioni del saggio di Luporini (a parte il fatto che il Berardi non si occupa soltanto del pensiero leopardiano, ma dei rapporti tra pensiero e stile; e sotto questo aspetto il suo articolo meriterebbe un esame che esula dal nostro tema). L’attenzione che il Biral dedica al Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, e il Berardi alla Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, apportano al quadro generale elementi nuovi non trascurabili. L’alfierismo giovanile del Leopardi, che culmina nel Bruto minore, riacquista l’importanza che gli compete come antecedente della fase conclusiva del pensiero e della poesia leopardiana.16 Le Operette morali, che troppo sbrigativamente erano 14 iAlludiamo soprattutto alla Noterella leopardiana (in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari 1961, p. 154 sgg.: ivi, a p. 162 sgg., è anche ripubblicato De Sanctis e Leopardi) e al volumetto su Leopardi edito dalla RAI, Torino 1961. 15 iB. Biral, Il significato di «natura» nel pensiero di Leopardi, «Il Ponte» XV, 1959, p. 1264 sgg.; La «posizione storica» di G. Leopardi, Venezia, Stamperia di Venezia, 1962; G. Berardi, Ragione e stile in Leopardi, «Belfagor» XVIII, 1963, pp. 425 sgg., 512 sgg., 666 sgg. 16 iG. Berardi, art. cit., pp. 512-15. Sull’alfierismo del Leopardi cfr. C. G. Ferrero, Alfierismo leopardiano, «Giorn. stor. letter. ital.» CIX, 1937, p. 211 sgg. Il Binni nella Nuova poetica leopardiana (cap. III) aveva segnato una contrapposizione troppo netta, e troppo esclusivamente basata su considerazioni stilistiche, tra le canzoni del ’21-’22 («impostazione genericamente energica», «residuo alfieriano», «vigore ... più letterario che poetico») e gli ultimi canti. Assai meglio ora il rapporto Alfieri-Leopardi è trattato dal Binni nel saggio su Leopardi e la poesia del secondo Settecento («Rassegna letter. ital.» LXVI, 1962, p. 405 sgg. = Leopardi e il Settecento (cit. più sotto), p. 91 sgg.), sebbene anche qui, forse, il nesso tra il titanismo alfieriano e quello leopardiano non abbia un risalto sufficiente. Vedi qui sotto, p. 120 sg.

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state considerate dal Luporini come un momento di cristallizzazione letteraria e di regresso ideologico rispetto ai pensieri dello Zibaldone, si reinseriscono di pieno diritto nel discorso sul Leopardi pensatore.17 C’è anche una certa diversità di prospettiva teoretica tra il Luporini e i due studiosi di cui parliamo. Il punto di vista marxista (e marxista di quel particolare tipo a cui accennavamo) del saggio di Luporini si stempera, nel Biral e nel Berardi, in un più generico progressismo laico-illuminista: col vantaggio di smussare certe durezze della ricostruzione luporiniana e di valutare con più equilibrio gli aspetti non politico-sociali del pessimismo leopardiano, ma d’altra parte con lo svantaggio di perdere un poco di quella penetrante forza di analisi che il Luporini attingeva proprio dalla sua posizione di punta e di rottura sul piano politico-culturale. All’estremo opposto del Biral e del Berardi si colloca, tra le interpretazioni del «progressismo» leopardiano, quella di Gian Franco Vené **, nel recente libro su Letteratura e capitalismo in Italia dal ’700 ad oggi.18 Qui ci troviamo di fronte ad un marxismo puramente intenzionale, a una visione estremamente schematizzata, condotta su una scarsissima conoscenza di testi, che nel dramma del Leopardi vede tout court il dramma dell’alienazione dello scrittore nella società industriale. Ed è significativo che il Vené, mentre ignora del tutto il saggio del Luporini, aderisca invece pienamente a quel semplicistico giudizio del Salvatorelli sul Leopardi precursore del socialismo e della Società delle Nazioni.19 Il convegno recanatese su Leopardi e il Settecento, di cui ora sono usciti gli atti,20 ha contribuito più allo studio della formazione letteraria e culturale del Leopardi che all’indagine specifica sui motivi ispi17 iIl giudizio di Luporini sulle Operette morali (espresso a pp. 221 n. 1, 237, 246) fu sin dall’inizio considerato come uno dei punti più discutibili del suo saggio. In realtà l’osservazione luporiniana che il Leopardi nelle Operette, «presentandosi al pubblico, si tiene come un passo indietro (qualche volta più di un passo indietro)» rispetto allo Zibaldone, «e maniera e stilizza non poco, letterariamente, la sua posizione», ha una parte di vero. Ma essa riguarda esclusivamente l’aspetto politico-sociale del pensiero leopardiano. Per ciò che concerne la critica di ogni spiritualismo e antropocentrismo e l’affermazione di un materialismo conseguente, le Operette sono, nella sostanza, altrettanto audaci ed esplicite quanto lo Zibaldone. 18 iMilano 1963, p. 135 sgg. 19 iOp. cit., p. 151 sg., cfr. p. 483. 20 iLeopardi e il Settecento, Atti del I convegno internaz. di studi leopardiani, Firenze 1964: gli scritti del Sansone e del Frattini sono rispettivamente a pp. 133 sgg., 253 sgg.; la frase del Binni che cito nel testo è a p. 78.

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ratori della sua filosofia: la relazione di Mario Sansone su Leopardi e la filosofia del Settecento contiene singole osservazioni felici, ma è troppo ortodossamente idealistica per accostarsi con vera comprensione all’illuminismo e al pessimismo leopardiano. Walter Binni, proprio all’inizio della sua relazione su Leopardi e la poesia del secondo Settecento, osservando con piena ragione che l’illuminismo «non fu “carcere” ma forza per il Leopardi», ha implicitamente denunciato l’errore di prospettiva che vizia un po’ tutto il discorso del Sansone. Più utile, in quel medesimo convegno, la relazione di Alberto Frattini su Leopardi e gli ideologi francesi del Settecento; ma soprattutto hanno indirettamente giovato allo studio del pensiero leopardiano alcuni contributi singoli, riguardanti vari aspetti del rapporto tra il Leopardi e la cultura settecentesca. 2. A chi volesse ora proseguire e approfondire lo studio del pensiero leopardiano, si porrebbe innanzitutto, credo, l’esigenza di indagare con più cura i rapporti tra il Leopardi e gli ambienti culturali con cui egli entrò in contatto e in polemica.21 Abbiamo già sopra riconosciuto al Luporini il gran merito di avere sgombrato il terreno dai numerosi accostamenti antistorici fra il Leopardi e altri pensatori il cui pessimismo nasce da situazioni ben diverse e ha sbocchi ben diversi, e di aver fissato come punti di riferimento (per analogia o per contrasto) autori di cui il Leopardi ebbe effettiva conoscenza, o coi quali, almeno, esiste una seria possibilità di raffronto, dovuta a certe affinità di situazioni storico-culturali. Tuttavia si tratta pur sempre, nel saggio luporiniano, di g r a n d i n o m i della storia del pensiero (Hobbes, Rousseau, Voltaire, i grandi romantici ...). Questi termini di riferimento sono necessari, ma non sufficienti. Il Leopardi dialogò idealmente, sì, con questi grandi autori, ma visse a contatto diretto (personale o epistolare) con ambienti italiani, che furono dapprima lo Stato pontificio (Recanati, cioè Monaldo col suo enciclopedismo illuministico-reazionario e le sue pose da ultra; il classicismo marchigiano-romagnolo, cioè Francesco Cassi e Giulio Perticari; Roma, cioè il poligrafo arruffone Francesco Cancellieri e lo zio Carlo Antici, reazionario ma 21 iQuesta esigenza fu giustamente affermata da Giampiero Carocci in un’importante recensione al Leopardi progressivo («Belfagor» III, 1948, p. 261 sg.), anche se, poi, il Carocci sopravvalutava l’influenza del Foscolo sul pensiero leopardiano.

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non così grettamente municipalista come Monaldo: reazionario che sapeva il tedesco e voleva fare del nipote un campione della Restaurazione al livello europeo);22 poi Milano (cioè le scoperte del Mai che dettero impulso alla filologia leopardiana, e la battaglia tra classicisti e romantici, e l’amicizia col maggiore rappresentante del classicismo illuminista, Pietro Giordani, mentre il classicista reazionario Giuseppe Acerbi aveva sùbito osteggiato il Leopardi);23 poi ancora, nel 1822-23, l’«antiquaria» romana, veduta questa volta da vicino nella sua meschinità; poi l’ambiente bolognese, di tranquille amicizie letterarie, che contribuirono a creare nello spirito del Leopardi un periodo di relativa distensione e adattamento alla realtà della vita; fino alle ultime esperienze, aspramente polemiche, del cattolicesimo liberale fiorentino e napoletano. Una narrazione dei contatti, degli influssi, degli scontri fra il Leopardi e i suoi contemporanei – un Leopardi e gli altri, se vogliamo dargli un titolo provvisorio;24 ma tutto tenuto su un piano culturale, non di biografia aneddotica alla Moroncini o alla Ferretti – è ancora da scrivere, e permetterebbe di approfondire notevolmente la comprensione del pensiero leopardiano. Il Luporini ha accennato molto bene ai motivi di fondo che dividevano il Leopardi dai «nuovi credenti», e all’antiromanticismo leopardiano:25 molto meglio di pur insigni italianisti, i quali non vogliono decidersi a togliere al Leopardi la qualifica di «romantico» usata in un’accezione bonne à tout faire che la priva di ogni preciso valore carat22 iMentre i vari precettori di casa Leopardi non esercitarono sulla formazione della personalità leopardiana nessun influsso importante, e mentre l’influsso di Monaldo sul figlio è stato spesso sopravvalutato, Carlo Antici deve essere più attentamente studiato a questo riguardo. ** Vedi, provvisoriamente, un mio accenno ne La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, p. 146. La corrispondenza tra l’Antici e Monaldo è stata in parte pubblicata da A. Avòli (in Autobiografia di Monaldo Leopardi, Roma 1883, pp. 278-81, 285 n. 1) e da F. Moroncini (Monaldo Leopardi e Carlo Antici, nel «Casanostra», 1932, p. 3 sgg.; Epistolario del Leopardi, vol. I, pp. 13 n., 37 n. 2, 206 n. 1 e altrove). 23 iLa «conversione letteraria» coincide, non casualmente, con uno spostamento della corrispondenza epistolare e degli interessi culturali del Leopardi da Roma a Milano. L’importanza di questo spostamento e il valore che i rapporti con la cultura milanese ebbero per il Leopardi furono intuiti acutamente dal De Sanctis (Studio sul Leopardi, cap. V), anche se la scarsa conoscenza e comprensione del classicismo illuminista, e soprattutto del Giordani, impedirono al De Sanctis di sviluppare questo spunto. 24 iVedo ora che Leopardi e gli altri è il titolo d’un paragrafo del capitolo dedicato al Leopardi ne L’attività letteraria in Italia di G. Petronio, Palermo 1964, p. 705. 25 iLeopardi progressivo cit., pp. 188 sg., 263.

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terizzante.26 Ma la giusta qualificazione di Leopardi come antiromantico – e quindi contrario all’ideologia cattolica della Restaurazione e, più tardi, allo stesso cattolicesimo liberale degli anni trenta – va precisata e integrata con lo studio dei rapporti tra il Leopardi e l’ala illuministica del classicismo italiano. È vero, il Leopardi portò già nella polemica classico-romantica milanese, con la Lettera ai compilatori della «Biblioteca Italiana» e col Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, una sua nota personale: una nostalgia dell’antichità in quanto più vicina di noi alla natura vergine e incorrotta (dell’antichità in quanto giovinezza del genere umano), che bruciava le scorie del classicismo scolastico e che era in verità assai più russoiana che classicistica nel senso tradizionale.27 Ma, in primo luogo, questa posizione, pur così originalmente e intensamente vissuta dal Leopardi, si riconnetteva al gusto del purismo, che, anche se degenerato ben presto in mera pedanteria, esprimeva tuttavia un’esigenza di ritorno alla natura, di esaltazione della freschezza nativa (Erodoto e Domenico Cavalca!) contro la magniloquenza retorica da un lato e l’aridità razionalistica dall’altro: in questo senso era stato purista il Giordani, che della rapida degenerazione del purismo fu poi critico severo.28 In secondo luogo, la scelta antiromantica che il Leopardi compì nel ’16 lo portò ad accostarsi sempre più al Giordani e ad assorbirne non tanto il purismo (nel quale, del resto, il Leopardi giovanissimo si era spinto molto più in là del Giordani stesso), quanto le esigenze di riforma culturale, il laicismo, il sensismo, di cui il Giordani, formatosi a Parma dov’era stato così forte l’influsso del Condillac, rimase sempre assertore anche nel clima mutato della Restaurazione. Anche il sensismo e il materialismo leopardiano, dunque, non vanno ricondotti solo alla lettura diretta dei grandi illuministi francesi del Settecento (e anche qui sarebbe necessaria una ricerca che determinasse con più esattezza quali, tra gli illuministi settecenteschi più decisamente materialistici, furono noti al Leopardi),29 ma anche ai contatti 26

iVedi l’introduzione al presente volume, p. 31 sgg. iCfr. M. Fubini, Romanticismo italiano2, Bari 1960, p. 81 sgg.; e, per la consonanza tra la nostalgia dell’antichità e il rimpianto per la fine della giovinezza, le penetranti osservazioni di G. De Robertis, Studi, Firenze 1944, p. 10 sg., [152-54] **. 28 iVedi qui sopra, p. 58 sgg. 29 iI lavori del Losacco (nel vol. cit. alla nota 3) sono ricchi di materiale, ma male organizzati e in buona parte anteriori alla pubblicazione dello Zibaldone. Il volumone del Serban su Leopardi et la France, nonostante i suoi indubbi meriti, è da usarsi con molta cautela, come dimostrò il 27

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fra il Leopardi e il classicismo illuminista dell’Ottocento, in cui la tradizione sensistica permaneva ben salda. Si deve in parte a questa formazione se la nostalgia dello stato di natura, la polemica contro l’eccesso di razionalismo che conduce all’infelicità, così forti nel Leopardi, non lo condussero a pseudo-soluzioni religiose, ma anzi a una condanna sempre più energica di tutte le correnti spiritualistiche contemporanee. Un punto fondamentale del pensiero leopardiano, su cui si sono già soffermati gli studiosi a cominciare dal Tilgher, è la recisa distinzione tra «stato di natura» e Neri nell’art. cit. alla nota 2. Molte indicazioni utili si trovano nella comunicazione di A. Frattini cit. a p. 115. Do qui alcuni brevi cenni che non pretendono certo di sostituirsi a una ricerca sistematica. La lettura di Holbach risulta da un passo dello Zibaldone (p. 183, 23 luglio 1820) e da un elenco di progetti letterari posteriori al 1827 (PP, I, p. 705: «Frammenti alla Cousin, o al modo delle Idee naturali opposte alle soprannaturali di Holbach»; cfr. l’indice delle letture compilato dal Leopardi stesso e pubblicato dal Porena, Scritti leopardiani, p. 427, num. 307, maggio 1825). Un altro testo materialistico importante, letto dal Leopardi nello stesso mese di maggio del 1825, è la Lettre de Thrasyboule [cr] à Leucippe di Nicolas Fréret (indice cit., ibid., num. 306; cfr. p. 430 num. 411), che conteneva una vigorosa polemica antiteistica e antiprovvidenzialistica (questo testo era stato pubblicato postumo da Holbach nel 1765; l’attribuzione a Fréret, comunque, sembra fondata, cfr. da ultimo F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, Torino 1962, pp. 302 sgg., 303 n. 5). È anche documentabile la lettura e l’influsso delle Ruines di Volney (Zibaldone, pp. 4127 sg.). Non risulta, invece, che il Leopardi abbia letto direttamente La Mettrie, e neppure Condillac e Diderot. Gli accenni a Helvétius ** contenuti in un Dialogo filosofico del 1812 (PP, II, pp. 1083, 1096) saranno attinti probabilmente a qualche libello polemico reazionario (le opere di Helvétius mancavano nella Biblioteca Leopardi); tuttavia l’idea di un’affinità tra intelletto umano e istinto animale, respinta con orrore dal Leopardi fanciullo in questo dialogo e già l’anno precedente in una ** Dissertazione sopra l’anima delle bestie (inedita, a Recanati), riemergerà con forza nei Paralipomeni. In generale bisogna tener presente, più di quanto non si sia fatto finora, che le prime notizie sul materialismo settecentesco giunsero al Leopardi indirettamente, attraverso opere di apologisti cattolici: vedi il nostro saggio seguente, pp. 149-50. Il Binni (Leopardi e la poesia del secondo Settecento cit., p. 433 n. 184) osserva che «oltre alle letture giovanili (condizionate dai limiti della biblioteca paterna) è legittimo supporre nuove letture leopardiane della filosofia settecentesca più ardita, nell’epoca fiorentina e napoletana». Ma questa giusta osservazione riguarda, naturalmente, gli ultimi sviluppi del materialismo leopardiano, non la sua genesi e la sua sistemazione, già compiute tra il 1823 e il 1826.*

*iSulle letture di materialisti e sensisti francesi ** compiute dal Leopardi molto di nuovo, adesso, nel Saggio sui «Paralipomeni» di G. Leopardi di Gennaro Savarese, Firenze 1967, cap. IV. La Dissertazione ** sopra l’anima delle bestie (1811) è stata pubblicata da M. A. Morelli in «Critica storica» VI, 1967, p. 532 sgg. In essa il Leopardi non nega, in verità, ogni analogia tra intelletto umano e istinto animale; anzi, per confutare la teoria cartesiana dell’animale-macchina (che con troppa facilità conduceva all’uomo-macchina di La Mettrie), ammette che le bestie siano dotate «di senso, di libertà, e di un qualche lieve barlume di ragione». Invece nel Dialogo filosofico, scritto l’anno seguente, insisterà sulla differenza tra l’uomo e gli animali. Tutt’e due le tesi presentavano in realtà seri pericoli per l’ortodossia cattolica: di qui l’oscillazione del Leopardi giovinetto e, prima di lui, degli apologisti cattolici settecenteschi ai quali egli attingeva. Una derivazione da Helvétius per la teoria del piacere è stata messa in luce da A. Parronchi nella «Nazione» del 12 luglio 1969.

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«barbarie», tra la sana primitività degli antichi, dominati da illusioni magnanime, e la corruzione del Medioevo: le superstizioni cristiane sono, per il Leopardi, contrarie alla natura non meno che alla ragione.30 Per i romantici, invece, l’epoca ideale non era lo stato di natura, ma la «barbarie ritornata» ... e battezzata, il Medioevo; e anche quelli tra loro che vagheggiavano un’epoca antichissima, la ponevano sotto il segno di una «Rivelazione originaria», le davano cioè un crisma religioso che ne faceva qualcosa di ben diverso dall’età dei bestioni vichiani e anche dallo stato di natura russoiano.31 Perfino i romantici lombardi, molto più progressisti dei loro confratelli d’oltralpe, insistevano, sì, sull’esigenza di creare una letteratura rispondente alle idee e ai sentimenti dell’età moderna, ma identificavano modernità con cristianesimo e facevano cominciare l’età moderna, appunto, dalla caduta dell’Impero romano e dalla morte del paganesimo, non già dal rinascimento o dall’illuminismo. Ora, proprio questo problema della periodizzazione della storia umana, che era stato oggetto di discussione fra il Romagnosi e i romantici del «Conciliatore»,32 viene ripreso dal Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani; e la soluzione che il Leopardi ne dà, in polemica con Chateaubriand, è nettamente antiromantica: «È un falsissimo modo di vedere quello di considerare la civiltà moderna come liberatrice dell’Europa dallo stato antico. Questo falso concetto guasta generalissimamente il giudizio e il vero modo di pensare sulla storia e le vicende del genere umano e delle nazioni, ed è un errore o una svista sostanzialissima che turba e falsifica tutta l’idea che un filosofo può concepire in grande sulla detta storia e sui progressi o andamenti dello spirito umano. Il risorgimento è stato dalla barbarie de’ tempi bassi non dallo stato antico; la civiltà, le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando e propagandosi non ci hanno liberato dall’antico, ma anzi dalla totale e orribile corruzione dell’antico. In somma la civiltà non nacque nel quattrocento in Europa, ma rinacque».33 E in tutto l’appassionato brano 30

iA. Tilgher, op. cit., pp. 105 sg., 120-123. Cfr. Luporini, p. 208. iVedi l’introduzione al presente volume, p. 7. 32 iVedi più oltre, p. 337 sgg. 33 iPP, II, p. 577 sg. È interessantissimo vedere come il Leopardi sa assorbire da Chateaubriand spunti di esaltazione della vita primitiva (la chiusa dell’Inno ai Patriarchi!) e respingerne invece il falso primitivismo consistente nella rivalutazione del Medioevo cattolico. Questo atteggiamento, complesso ma coerente, non è stato ben colto da Ferdinando Neri (Il Leopardi ed un 31

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che segue l’avversione illuministica per la barbarie e l’ignoranza medievale si unisce alla nostalgia per l’antichità, che rimane un termine di confronto irraggiungibile per la civiltà moderna: anche qui il sostrato del pensiero leopardiano non va cercato soltanto in Rousseau o nella «delusione storica» del fallimento della Rivoluzione, vissuta con particolare intensità dal Leopardi, ma nel classicismo illuminista dell’Ottocento italiano, che mentre lottava contro il mito del Medioevo, non rinunciava a contrapporgli il mito dell’antichità classica, a esaltare Atene e Roma in funzione laica e libertaria.34 Un altro motivo che il Leopardi desunse dalla sua educazione classicistica – pur sviluppandolo, poi, in modo originalissimo – è il titanismo. Qui bisogna rifarsi, prima ancora e più ancora che al Giordani, all’Alfieri, che fu per il Leopardi giovinetto il principale modello non soltanto letterario, ma umano, il personaggio ideale a cui egli si studiò di agguagliarsi. Come l’atteggiamento antitirannico di derivazione alfieriana si sia andato svolgendo nel Leopardi fino a diventare lotta disperata contro l’intero ordine del mondo, è stato mostrato lucidamente da Umberto Bosco.35 Come si parla da tempo di un passaggio del pensiero leopardiano da un «pessimismo storico» a un «pessimismo cosmico», così si potrebbe parlare di un «titanismo storico», più vicino alla matrice alfieriana, e di un «titanismo cosmico», che trova la sua prima espressione compiuta nel Bruto minore, e poi, dopo la parentesi «rassegnata» degli anni 1824-27, ha un nuovo slancio e un nuovo arricchimento nell’ultimo Leopardi. Il Bosco chiama «romantica» la seconda forma del titanismo leopardiano, in cui il nemico è «la stessa necessità naturale, invincibile per definizione».36 E, per intendersi, si chiami pure romantica; ma, in sede storico-culturale, non si deve dimenticare che lo spunto per questo sviluppo del titanismo non venne al Leopardi dai grandi romantici europei, bensì dalla stessa tradizione alfieriana. Già nell’Alfieri la lotta fra eroe e tiranno è portata su un piano che non è più semplicemente politico, e in particolar modo «mauvais maître», in Letteratura e leggende cit., p. 276 sgg.), al quale i giudizi leopardiani su Chateaubriand sembrano mutevoli e contraddittorii. Simile – ma con un tono generale di maggiore simpatia – è l’atteggiamento del Leopardi verso Madame de Staël, come ho accennato nell’introduzione, p. 34. 34 iCfr. P. Treves, L’idea di Roma e la cultura ital. del sec. xix, Milano-Napoli 1962, p. 36 sgg.; A. La Penna, Orazio e l’ideologia del principato, Torino 1963, p. 163 sgg. 35 iU. Bosco, Titanismo e pietà in G. Leopardi, Firenze 1957, cap. I. 36 iOp. cit., pp. 11-13. Cfr. Binni, La nuova poetica cit., 2ª ed., p. 89.

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il Saul rappresenta uno sviluppo antiteistico del tema antitirannico. «Come un tiranno ci ha da essere, Dio è il tiranno, e tutto l’interesse (cioè la simpatia dell’autore) è per Saul» osservò giustamente il De Sanctis.37 A sua volta questo atteggiamento alfieriano di rivolta contro la divinità e il fato si nutriva di tutta una tradizione classica, che aveva avuto il suo massimo rappresentante in Lucano. Nella Farsaglia la lotta dei difensori della repubblica contro Cesare assume dimensioni cosmiche, diventa lotta dei buoni contro gli dèi protettori dell’empietà. L’antiteodicèa di Lucano – come tanti secoli prima quella di Teognide – nasce da una «delusione storica» che si ripercuote sulla visione generale della condizione umana. L’epigrafe finale del Misogallo alfieriano («Tenea ’l Ciel dai Ribaldi, Alfier dai Buoni») riecheggia consapevolmente il lucanèo Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni; e ciò che ha di più dichiaratamente antiteistico deriva da altri passi dello stesso Lucano.38 Nel primo Ottocento il Giordani e Francesco Cassi, cugino del Leopardi e traduttore della Farsaglia, tennero viva questa tradizione lucanèa, la quale agì, forse più per tramite loro che per lettura diretta, sul Leopardi.39 «Dunque degli empi / siedi, Giove, a tutela?» 37

iStoria della letteratura italiana, cap. XX (ed. N. Gallo, Torino 19622, II, p. 918). iPer esempio III, 448 sg. (servat multos fortuna nocentes et tantum miseris irasci numina possunt); VI, 443 sg. ecc. Cfr. J. E. Millard, Lucani sententia de deis et fato, Utrecht 1891, p. 12 sgg. 39 iCfr. L. Paoletti, La fortuna di Lucano dal Medioevo al Romanticismo, «Atene e Roma» 1962, p. 155 sg.; P. Treves, Lo studio dell’antichità classica (cit. alla nota 10), p. 444 sgg. Fino a che punto il poemetto Catone in Affrica, scritto dal Leopardi a 12 anni e tuttora in massima parte inedito (cfr. H. L. Scheel, Leopardi und die Antike, München 1959, p. 19 sgg.) attesti una lettura diretta della Farsaglia in latino, è ancora da precisare. Riferimenti a Lucano mancano, pare, nel Pompeo in Egitto (1812). Un accenno alla descrizione lucanèa della selva di Marsiglia (Phars. III, 399 sgg.) è in un progetto di «poema di forma didascalica sulle selve e le foreste» (Poesie e prose, ed. Flora, I, p. 697), da cui poi nacquero, ma senza più l’allusione a Lucano, la canzone Alla primavera e l’Inno ai Patriarchi. Sulla scarsezza di espliciti riferimenti a Lucano nello Zibaldone e nelle opere del Leopardi dalla «conversione letteraria» in poi, cfr. La filologia di G. Leopardi, p. 158, n. 1 (dove, tuttavia, mi ero espresso in forma troppo recisa). Bisogna tener conto, in generale, del contrasto fra il gusto letterario del purismo (che era ostilissimo allo stile enfatico e alla violenza espressionistica di Lucano) e il repubblicanesimo di molti di quegli stessi puristi-classicisti, che li portava a simpatizzare per il poeta anticesariano, interpretato naturalmente non come difensore della vecchia oligarchia senatoriale, ma come banditore di libertarismo. Nel Giordani prevalse il secondo elemento, la simpatia «contenutistica» per Lucano: nel Leopardi rimasero più forti le prevenzioni stilistiche. Un contrasto analogo si produsse per Frontone, esaltato dal Leopardi giovane in quanto precursore del purismo, severamente giudicato dal Giordani per la mancanza di un serio contenuto etico-politico. – Alle testimonianze sul filo-lucanismo della cultura italiana del primo Ottocento, raccolte dal Treves e dal Paoletti, vorrei aggiungere quella di Pietro Borsieri ** (Avventure letterarie di un giorno, in Discussioni e pole38

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è un tipico motivo lucanèo, e tutto immerso in quest’atmosfera è il Bruto minore. 3. Rimane tuttavia il fatto che, anche all’interno del classicismo illuminista italiano e della tradizione alfieriana – come nel più vasto ambito della cultura europea – il Leopardi occupa una posizione di punta. In lui giunge al massimo grado quella tensione tra «progressismo» e pessimismo che era implicita in gran parte del pensiero e della letteratura di cui egli si era nutrito. Già nei grandi illuministi francesi del Settecento, pur così fiduciosi nella possibilità di riformare la società e di rendere felice l’uomo, affiorano spunti di pessimismo non soltanto storico-sociale, ma anche «cosmico», relativo cioè al rapporto uomo-natura e a certi dati immodificabili della condizione umana.* La polemica contro la religione tradizionale, intrapresa con la profonda convinzione di contribuire non solo a un acquisto di verità ma anche di felicità, finiva per coinvolgere qualsiasi concezione provvidenzialistica, anche l’idea di una provvidenza immanente alla storia, di un progresso costante e necessario realizzato dall’umanità con le proprie forze. Gli argomenti usati per demolire la teodicèa si rivelavano efficaci anche contro la fiducia nella possibilità d’instaurare un regnum hominis. Il Poème sur le désastre de Lisbonne di Voltaire è l’esempio più celebre, ma tutt’altro che unico, di questo insorgere di motivi pessimistici all’interno dell’illuminismo; ed è noto che il Leopardi lo lesse e ne risentì l’influsso, specialmente per ciò che riguarda l’antinomia tra infelicità dei singoli e (presunta) felicità collettiva.40 Ancor più evidente è, come già abbiamo accennato, il pessimismo implicito nel titanismo alfieriano. E anche nel Giordani la fede nella miche sul Romanticismo, ed. Bellorini, I, pp. 143 sg.), un romantico antipurista che su questo punto veniva a concordare col suo avversario Giordani. 40 iZib., 4175. Per gli spunti pessimistici che il Leopardi poté trarre da Bayle, Fontenelle, Voltaire, Holbach, vedi M. Losacco, Indagini leopardiane cit., pp. 121 sg., 123 sgg., 135 sgg.; Binni, Leopardi e la poesia del secondo Settecento cit., p. 433, nn. 186-188; A. Frattini, art. cit. alla nota 20. Anche l’idea dell’inno ad Arimane abbozzato dal Leopardi nei suoi ultimi anni (PP, I, p. 434) deriverà probabilmente dal Poème sur le désastre de Lisbonne («Est-ce le noir Typhon, le barbare Arimane, / dont la loi tyrannique à souffrir nous condamne?»), come suppose già l’Antognoni, piuttosto che dal Manfredo di Byron come vorrebbe l’Allodoli.

*iSugli spunti pessimistici nel pensiero settecentesco, e sulle ragioni per cui essi non danno ancora luogo a una visione del mondo radicalmente pessimista, vedi alcune interessanti osservazioni nel libro di Giuseppe Paolo Samonà sul Belli, di prossima pubblicazione (Firenze 1969). Cfr. anche «Quaderni piacentini» 32, ottobre 1967 **, p. 123.

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felicità dell’umanità futura, liberata da pregiudizi e da oppressioni, si alternò a una visione desolata dell’uomo ineluttabilmente infelice.41 Tuttavia né gli illuministi del Settecento, né Alfieri, né Giordani portarono a fondo la presa di coscienza di questo contrasto. Il Poème sur le désastre de Lisbonne si conclude con un ripiegamento fideistico che, se può essere in parte dettato da cautela «diplomatica», corrisponde però sostanzialmente al deismo a cui Voltaire rimase fermo.42 Nell’ultimo Alfieri, anche per effetto dell’involuzione politica di fronte all’esperienza rivoluzionaria, il titanismo cede spesso a vaghe nostalgie religiosizzanti. Il Giordani non concede nulla allo spiritualismo e alla trascendenza, ma in lui prevale la tendenza a dimenticare, nella lotta per il progresso sociale e culturale dell’umanità, il fondo pessimistico della propria Weltanschauung: anzi egli indica esplicitamente al Leopardi l’impegno nella lotta come l’unico mezzo per superare, pragmaticamente se non in linea teorica, il pessimismo.43 Nel Leopardi ciò non accade. Nel suo pensiero le esigenze progressiste non sopraffanno mai il pessimismo; anzi, nell’ultima fase progressismo e pessimismo si esaltano e si potenziano entrambi, e l’originale tentativo di conciliazione tra i due termini, che egli compie, non significa in nessun modo vanificazione o attenuazione di uno dei due. Le caratteristiche specifiche della posizione leopardiana appaiono più chiare se ripercorriamo, sia pure in modo necessariamente sommario, l’evoluzione che il rapporto pessimismo-progressismo subisce nel suo pensiero. Nel periodo che va, a un dipresso, dall’inizio della «conversione letteraria» fino alla grande crisi pessimistica della primavera del ’19 – ma che per più aspetti si prolunga anche dopo quella crisi, fin verso il ’22 – il Leopardi sembra orientarsi verso una missione di poeta civile quale lo auspicava il Giordani: poeta patriottico, classicista, tendenzialmente repubblicano-russoiano: di un patriottismo, quindi, per un verso più libresco, più legato al passato, più provinciale, per un altro più avanzato e democratico del patriottismo riformatore-cristiano dei romantici lombardi. Il cosiddetto «pessimismo storico» di questa prima fase non è, a rigore, ancora pessimismo, cioè non si è ancora assolutizzato ed eret41

iVedi sopra, p. 81 sgg. iCfr. Luporini, op. cit., p. 269. 43 iVedi sopra, p. 82 sg. 42

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to a sistema. È piuttosto vivissima insofferenza dell’atmosfera stagnante dell’Italia e dell’Europa della Restaurazione, vagheggiamento di una società repubblicana, libera da superstizioni mortificanti e da ascetismo ma anche da eccessi di razionalismo e di raffinatezza, capace di vivere una vita intensa sotto l’impulso di energiche e magnanime illusioni. La propria infelicità individuale è considerata, almeno prevalentemente, dal Leopardi come un caso-limite dell’infelicità della società italiana del suo tempo, condannata all’inattività e alla noia (nella Canzone al Mai il motivo della noia ha una forte intonazione politica), fisicamente decaduta per colpa di un’educazione ascetica che tende a comprimere ogni impulso vitale. Recanati – e, in Recanati, casa Leopardi – è il luogo in cui i mali comuni a tutta l’Europa della Restaurazione si soffrono in modo particolarmente intenso e paradigmatico. Ancora nella lettera dedicatoria della Canzone al Mai (1820, ristampata con poche varianti nel ’24) il Leopardi dà un’interpretazione politica del proprio atteggiamento pessimistico: «Ricordatevi – scrive al conte Leonardo Trissino – ch’ai disgraziati si conviene vestire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni rassomiglino ai versi funebri. Diceva il Petrarca, ed io son un di quei che ’l pianger giova. Io non posso dir questo, perché il piangere non è inclinazione mia propria, ma necessità de’ tempi e volere della fortuna».44 Ma già in questa fase – e specialmente dalla primavera del ’19 in poi – comincia a manifestarsi, in forma ancora sporadica, quello che con espressione poco felice è stato chiamato il pessimismo cosmico, cioè la tesi della radicale e insanabile infelicità dell’uomo. Alla concezione di una Natura benefica, da cui gli uomini si sarebbero allontanati causando la propria infelicità, subentra talvolta la visione opposta, di una Natura matrigna che è essa la causa dell’infelicità umana. Questi accenni sono da ricercare non tanto nello Zibaldone, quanto in poesie o in abbozzi di poesie. «Natura / n’ha fatti a la sciaura / tutti quanti siam nati» leggiamo nella canzone Per una donna inferma di malattia lunga e mortale (scritta nella primavera del ’19 e poi non pubblicata); e poco sotto: «E chi diritto guata, / nostra famiglia (cioè il genere umano) a la natura è gioco».45 E in un abboz44

iPP, I, p. 183. iIbid., pp. 298-299.

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zo di idillio Alla Natura:46 «Sempre adorata mia solinga sponda / Deh perché agli occhi miei furi la vista / Dell’incantevole e magico effetto / Che Natura concede alle creature. / Alle creature sì, ma non a tutte ... / Ahi a me madrigna, spietata madre! / Dimmi il perché di tal misura e peso. / Qual sfregio mai ti feci, il perché dimmi? / Da l’alveo materno me traesti / Forse a scherno e ludibrio de’ mortali? / Mortal pur io, non a lor secondo,47 / Né merto pena tal. Benedicesti / Pure la terra di cui me plasmasti ... / (...) Opra delle tue man son dunque io, / Né disdegnar me puoi, qual belva i nati». C’è alla fine di questo abbozzo, dopo una punta «blasfema», un ripiegamento: «Tu ridesti forse della mia sorte. / Ridi pur, n’hai ben d’onde: oh gran prodezza! / Ridi dell’opra tua! Perdona o Matre; / È il dolore che parla, non parlo io ... / Son opra tua pur io: né mi fa credere / Che me tu lascierai fra tante pene». Ma nell’Ultimo canto di Saffo, che è la compiuta realizzazione artistica di questo abbozzo informe, la nota «fiduciosa» finale è, ovviamente, sparita; il canto è tutto una protesta contro l’ingiustizia della disuguaglianza fisica, non sociale: la natura idillica del paesaggio ha per contrapposto non la civiltà corrotta, ma la bruttezza di Saffo, cioè una manifestazione abnorme della natura stessa, che è motivo di infelicità insanabile per chi ne è soggetto e vittima. È dunque senz’altro auspicabile una ricerca approfondita sulla genesi del pessimismo cosmico, come quella che preannuncia il Berardi.48 Essa permetterà di confutare sia quegli studiosi che hanno negato ogni distinzione tra le due fasi del pessimismo leopardiano, sia quelli che hanno asserito che il passaggio avviene in modo repentino e concettualmente immotivato, col Dialogo della Natura e di un Islandese. L’una e l’altra tesi, nella loro apparente opposizione, nascevano in realtà da un identico desiderio: negare coerenza e organicità di sviluppo al pensiero leopardiano, dimostrare che le idee del Leopardi 46 iIbid., p. 375 sg. Cfr. C. Muscetta, Ritratti e letture, Milano 1961, pp. 244 sg. | Ma sull’autenticità di questo abbozzo, pubblicato da fonte sospetta, ho adesso forti dubbi. Ritornerò tra breve sull’argomento |.* 47 iIn margine a questo verso, secondo il primo editore, l’autografo recherebbe un «son». Ma anche altri versi zoppicano. 48 iRagione e stile in Leopardi cit., p. 527 n. 57.

*iLa non-autenticità dell’abbozzo di Idillio alla Natura si può ormai considerare certa; ** e su tutto il problema del passaggio dalla prima alla seconda concezione della natura vedi quanto ho aggiunto qui {sotto}, p. 227 sgg.

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hanno l’immediatezza passionale e fantastica, la mancanza di valore autonomo che è caratteristica delle idee dei poeti puri. Nel controbattere queste tesi, bisognerà, tuttavia, stare attenti a non presentare il passaggio dal primo al secondo pessimismo come frutto di uno sviluppo puramente concettuale. E giusto, sì, ricordare che ogni «puro vitalismo» ha in sé una «contraddizione intrinseca» che lo porta a convertirsi in pessimismo.49 È giusto analizzare le ambivalenze insite fin dall’inizio nel concetto leopardiano di «natura», e osservare che il Leopardi doveva necessariamente, prima o poi, rendersi conto che quella stessa Natura che aveva dato all’uomo le beatificanti illusioni gli aveva però anche dato la ragione destinata a dissolverle (né era facile incolpare soltanto l’uomo, e non in ultima analisi la Natura stessa, dell’«abuso» della ragione e dell’allontanamento dallo stato primitivo).50 Si può anche aggiungere che nella prima fase del pensiero leopardiano la Natura era concepita come una madre pietosa che aveva velato all’uomo, mediante le illusioni, l’amara verità della sua condizione: dunque nemmeno lo stato originario dell’umanità era uno stato di felicità obiettiva, ma piuttosto di infelicità velata:51 facile, dunque, da questa esaltazione della Natura madre pietosa, passare alla denuncia della Natura matrigna, proprio in quanto essa non aveva dato agli esseri viventi la felicità obiettiva, non li aveva resi esenti da malattie, vecchiezza, morte. E infine, come cercherò di mostrare nel saggio seguente (p. 163 sgg.), la scoperta del pessimismo antico, compiuta dal Leopardi nel 1823, contribuì a convincerlo che l’infelicità non era una conseguenza dell’eccessivo razionalismo dei tempi moderni, ma un dato costante dell’esistenza umana. Tutto questo è giusto, ma non bisogna dimenticare che la nuova concezione della Natura malefica nasce nel Leopardi, primariamente, non sul filo logico di tali argomentazioni, ma per l’urgere di nuove esperienze pratiche, non sistemabili nel quadro del «pessimismo storico». ** Queste esperienze pratiche consistono nell’aggravarsi delle sue condizioni di salute (primavera del ’19) e, già prima, nell’accentuato senso di infelicità per la sua deformità fisica. 49 iLuporini, p. 246. Il Luporini ricorda Nietzsche, e si potrebbe ricordare il cirenaico Egesia,  πεισινατος, al quale il Leopardi pensò come a protagonista di un’operetta morale (PP, I, p. 700; Egesia è rammentato anche nel Dialogo di Plotino e di Porfirio). 50 iVedi i lavori del Biral cit. alla nota 15, e già M. Porena, Il pessimismo di G. Leopardi, 1923, rist. in Scritti leopardiani, Bologna 1959, p. 151 sg. 51 iCfr. A. L. De Castris in «Convivium» 1959, p. 437 n. 1.

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È questo un punto che può prestarsi con estrema facilità a grossolanissimi equivoci, ma che proprio per ciò va affrontato, non eluso o negato. Il Leopardi ha sempre protestato con piena ragione contro quegli avversari che credevano di potersi esimere dalla confutazione razionale del suo pessimismo presentandolo come il mero riflesso di una condizione patologica (pessimista perché gobbo!), privo quindi di ogni validità generale.52 Che questa tesi, nata dal livore clericale di Niccolò Tommaseo, ripresa poi dai positivisti alla Sergi e infine riutilizzata da Benedetto Croce,53 sia da respingere, non c’è dubbio. Ma il vero modo di respingerla non consiste nel negare, come pure si è fatto, ogni incidenza della malattia e della deformità fisica nella genesi della Weltanschauung leopardiana, di fare, quindi, del pessimismo leopardiano un fatto puramente «spirituale» o, seguendo un altro indirizzo, puramente politico-sociale. Bisogna invece riconoscere che la malattia dette al Leopardi una coscienza particolarmente precoce ed acuta del pesante condizionamento che la natura esercita sull’uomo, dell’infelicità dell’uomo come essere fisico. Come certe esperienze personali di rapporti di lavoro sviluppano nel proletario una consapevolezza particolarmente intensa del carattere classista della società capitalistica (quel «senso di classe» così difficile ad acquisire per l’uomo di sinistra di origine non proletaria), così la malattia contribuì potentemente a richiamare l’attenzione del Leopardi sul rapporto uomo-natura. Il torto dei cattolici alla Tommaseo, dei positivisti alla Sergi, degli idealisti alla Croce non sta nell’aver affermato l’esistenza di un rapporto tra «vita strozzata» e pessimismo, ma nel non aver riconosciuto che l’esperienza della deformità e della malattia non rimase affatto nel Leopardi un motivo di lamento individuale, un fatto privato e meramente biografico, e nemmeno un puro tema di poesia intimistica, ma divenne un formidabile strumento conoscitivo. Partendo da quell’esperienza soggettiva il Leopardi arrivò a una rappresentazione 52 iVedi in particolare il Dialogo di Tristano e di un amico e la lettera al de Sinner del 24 maggio 1832 (il passo in francese). 53 iUna caratteristica saliente del saggio di Croce sul Leopardi (in Poesia e non poesia) è la spregiudicatezza con cui egli utilizza, pur di combattere il pessimismo leopardiano, argomenti positivistici offertigli dalla scuola lombrosiana. Con analoga spregiudicatezza Croce si servì di argomenti empiriocriticisti e pragmatisti per negare il valore conoscitivo delle scienze fisiche, usò strumentalmente il marxismo per combattere (da destra!) le ideologie democratico-umanitarie, e via dicendo. Le esigenze politico-culturali (talvolta politico-culturali in senso deteriore) sopraffacevano in lui di gran lunga le esigenze scientifiche.

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del rapporto uomo-natura che esclude ogni scappatoia religiosa (sia nel senso delle religioni tradizionali, sia in quello dei miti umanistici) e che, per il fatto di essere personalmente sofferta e artisticamente trasfigurata, non perde nulla della sua «scientificità». Anche nei riguardi del «male fisico», beninteso, il Leopardi non trascurò mai di attribuire la sua parte di colpa alla società sua contemporanea, a quell’educazione tutta «spirituale» e malsana di cui egli e tutta la sua generazione avevano così gravemente sofferto. Nell’importanza che greci e romani avevano dato all’educazione fisica vide sempre uno dei punti di superiorità degli antichi sui moderni.54 Ancora nel Tristano – cioè in pieno «pessimismo cosmico» – ribadirà con gran forza questo punto: «... tra noi già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito»; e chiarirà che questo difetto dell’educazione moderna non è eliminabile con semplici riforme di istituzioni scolastiche – come pensavano i pedagogisti cattolico-liberali –, ma implica tutta una nuova etica, antiascetica e anticristiana, e quindi una riforma radicale della società: «E dato che si potesse rimediare in ciò all’educazione, non si potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo».55 Ma era pur evidente che la migliore società di questo mondo, mentre avrebbe potuto eliminare le ingiustizie di origine politico-sociale (e anche su questo punto rimasero nel pensiero del Leopardi forti riserve), avrebbe potuto soltanto esercitare un’azione palliativa nei riguardi nell’oppressione esercitata dalla natura sull’uomo. E quindi l’approfondimento di questo tema doveva prevalentemente orientare il pessimismo del Leopardi in senso «cosmico». Il che accade, come abbiamo visto, in modo ancora episodico nel ’19, e poi sistematicamente a partire dal ’23-’24. 54

iCfr. per esempio Zib., 115, 207, 223, 1631 sg., 4289, e la canzone A un vincitore nel pallone. iSull’utilità della ginnastica aveva insistito per esempio Gino Capponi nelle sue Considerazioni pedagogiche sugli Istituti di Hofwyl («Antologia» del Vieusseux, gennaio-marzo 1822; ora in A. Gambaro, La critica pedagogica di G. Capponi, Bari 1956, p. 231), ma nel quadro di un’educazione cristiana, che asseriva pur sempre il primato dello spirito sul corpo. 55

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Con piena ragione il Luporini considera come una scelta decisiva per l’ulteriore sviluppo del pensiero leopardiano l’avere, a questo punto, rifiutato il ricorso a Dio, il rifugio nel mistero e nella trascendenza, l’avere, anzi, imboccato la strada opposta, di un ateismo e materialismo sempre più conseguente.56 È qui, in effetti, che si misura tutta la grandezza umana e intellettuale del Leopardi, in confronto ai tanti «spiriti inquieti» del suo e del nostro secolo, per i quali il pessimismo è stato solo l’anticamera della conversione religiosa. La constatazione della fragilità dell’uomo di fronte alla natura non porta il Leopardi a fabbricarsi un mitico «regno dello Spirito», un altro mondo (comunque inteso) in cui l’uomo prenderebbe la sua rivincita. Egli porta avanti, invece, un’analisi del rapporto uomo-natura in termini totalmente demistificati. Dal Dialogo di un folletto e di uno gnomo fino al Copernico e oltre, ogni antropocentrismo e teleologismo viene radicalmente criticato e deriso. L’uomo è «una menomissima parte dell’universo», e la natura segue un suo ritmo di produzione-distruzione del tutto indipendente da ogni fine o interesse del singolo uomo o dell’umanità nel suo complesso. La nozione di spirito, come qualcosa di essenzialmente diverso e contrapposto alla materia, si rivela illusoria.57 Senziente e pensante è, nell’uomo, la materia stessa: il cervello, non l’anima.58 Al tempo stesso, il Leopardi continua a svolgere, raccordandola col pieno materialismo ora da lui raggiunto, quella «teoria del piacere» che era sorta nel suo pensiero alquanto prima, come estrema conseguenza nichilistica del suo iniziale vitalismo.59 Più di uno studioso ha 56 iLuporini, op. cit., p. 246 sgg. Oltre che da una pseudo-soluzione religiosa, il materialismo ha salvato il Leopardi anche da quella tendenza al «misantropismo» che si era espressa attorno al ’20 negli abbozzi di operette Galantuomo e Mondo e Senofonte e Machiavello, e che costituiva un rischio insito nell’isolamento stesso del Leopardi. Il memorabile pensiero del 2 gennaio 1829 (Zibaldone, p. 4428: «La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia ... La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi»), la cui importanza è ben messa in rilievo dal Luporini, non rappresenta solo una polemica verso gli avversari, ma un chiarimento con se stesso, lo scongiuramento di una possibile deviazione del pessimismo. Nello stesso senso è significativo, e si potrebbe dire simbolico, il mutamento del nome del personaggio autobiografico leopardiano da «Misenore» in «Eleandro». 57 iCfr. soprattutto Zib., 4111 (11 luglio 1824) e 4206-08 (26 settembre 1826). 58 iZib., 4251-53 (9 marzo 1827), 4288 sg. (18 settembre 1827). Ma vedi già il pensiero del 9 settembre 1821 (p. 1657) che comincia: «Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà». Una chiara esposizione del materialismo leopardiano è data dal Tilgher, La filosofia del Leopardi cit., p. 88 sgg.

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visto, a questo punto, una contraddizione fra «pessimismo cosmico» e materialismo. Il materialismo avrebbe dovuto produrre nel Leopardi, si dice, l’imperturbabilità di uno Spinoza o di ** un Holbach:60 il pessimismo leopardiano costituirebbe un residuo di antropocentrismo, o addirittura sarebbe la spia di un’esigenza religiosa,61 o rivelerebbe l’impossibilità di trovare nel poeta Leopardi una coerenza filosofica. In realtà il collegamento tra materialismo e pessimismo è dato proprio dalla teoria del piacere, da quell’edonismo che è un elemento essenziale del pensiero leopardiano. Non contrasta con un materialismo conseguente la constatazione che l’uomo ha una costituzione fisico-psichica tale da procurargli molto più sofferenza che godimento. L’infelicità umana di cui parla il Leopardi non è il mal du siècle romantico né una fumosa angoscia esistenziale: è (e il Leopardi se ne è reso conto man mano che diventava materialista) anzitutto un’infelicità f i s i c a , basata su dati ben concreti: malattie, vecchiezza, fugacità del piacere. Il Leopardi naturalmente sa bene che dalla base edonistica si sviluppano nell’uomo esigenze di ordine superiore (sentimentale, morale, culturale ecc.). Ma anche su questo piano più elevato ha ragion d’essere il pessimismo, poiché i valori elaborati dalla civiltà umana sono estremamente caduchi, e la natura li annienta non meno di quanto annienti gli organismi biologici. Il Leopardi è critico spietato di t u t t i i miti dell’immortalità [, anche dell’immortalità] [cr] ** delle opere.62 La morte stessa dell’individuo, che sul piano meramente edonistico-individuale si può considerare, ed è considerata dal Leopardi, come un non-male, un oggetto di timore infondato (di un timore, tut59 iSull’anteriorità della «teoria del piacere» rispetto al materialismo hanno giustamente insistito il Tilgher (op. cit., p. 88) e il Luporini (pp. 245 sg., 251 sgg.), anche se l’analisi luporiniana della «crisi del vitalismo» leopardiano rischia di essere, in certi passaggi, troppo sottile e tecnicistica. 60 iVedi per esempio F. Tocco, Il carattere della filosofia leopardiana, nel vol. miscellaneo Dai tempi antichi ai tempi moderni: da Dante al Leopardi, Milano s.d. (1904), p. 571 sg.; G. Gentile, Manzoni e Leopardi, Milano 1928, p. 102 sgg.; B. Biral, nel «Ponte» XV, 1959, p. 1272 sgg.; e molti altri. 61 iÈ questa l’interpretazione del pessimismo leopardiano instaurata dal de Sinner e dal Gioberti, ripresa più recentemente da Giulio Augusto Levi e da altri studiosi cattolici. 62 iÈ superfluo ricordare quanto spesso ricorra nel Leopardi il tema dell’inanità e caducità della gloria. In ogni caso, qualsiasi mito dell’immortalità delle opere trova, per il Leopardi, la sua confutazione nella sicura previsione di una catastrofe cosmica che annienterà il nostro mondo: vedi la chiusa del Cantico del gallo silvestre e il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco; e la Ginestra, specialmente vv. 41-51.

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tavia, difficile a eliminarsi, e che dunque contribuisce all’infelicità della maggioranza degli uomini), ridiviene un male al livello dei rapporti affettivi tra le persone, per la lacerazione dell’«amante compagnia» ** che essa produce.63 Ciò che dall’esposizione di Luporini non risulta, mi sembra, con sufficiente evidenza, è che questo passaggio al materialismo conseguente non coincide con una spinta in senso più democratico, ma si accompagna per tutto un periodo (all’ingrosso dal ’23 al ’29) ad una forte diminuzione dell’interesse politico, a un disimpegno da quella missione di poeta civile a cui il Leopardi non aveva rinunciato fino a tutto il ’21. Sono gli anni in cui il Leopardi si sente particolarmente vicino, dapprima, a Luciano (e per un breve periodo anche a Platone, non sul piano metafisico, ma ironico-lirico), e poi soprattutto alla filosofia ellenistica.64 La conversione alla prosa ha precisamente questo significato, di rinuncia all’eroica disperazione e alle magnanime illusioni, di adozione di un atteggiamento rassegnato-ironico di fronte alla realtà.65 Il Luporini ha tutte le ragioni di polemizzare con chi, a cominciare dal De Sanctis, considera la morale epittetèa come l’unica coerente col pessimismo leopardiano, e l’altra, la morale eroica, come «tirata co’ denti, non dedotta bene, anzi in contraddizione con le premesse».66 63 iCosì si risolve, mi pare, l’apparente contraddizione tra le diverse affermazioni del Leopardi riguardo alla morte (cfr. M. Porena, Scritti leopardiani cit., p. 159 sg.) Di tale ambivalenza della morte le due più compiute rappresentazioni leopardiane, lirico-affettive e ragionative insieme, sono le due poesie «sepolcrali» (Sopra un basso rilievo ... e Sopra il ritratto di una bella donna ...). 64 iVedi il saggio seguente, in particolare pp. 168 sgg. (Platone), 174 sgg. (Epitteto e altri filosofi ellenistici). 65 iSu questo periodo, dopo il De Sanctis (Giacomo Leopardi, capp. XXI sgg.), è ritornato con finezza di analisi e novità di risultati E. Bigi, Dalle «Operette morali» ai «Grandi idilli», in «Belfagor» XVIII, 1963, p. 129 sgg.* ** 66 iLuporini, p. 259 sgg. (cfr. De Sanctis, Giacomo Leopardi, cap. XXV).

*iIl saggio del Bigi è ora ripubblicato nella Genesi del «Canto notturno» cit., p. 83 sgg.; i passi a cui particolarmente mi richiamavo sono a pp. 92-94, 108 sgg. Con la lettera al Vieusseux del 4 marzo 1826 (qui {sotto}, p. 133) è da confrontare il pensiero dello Zibaldone (4138 sg., 12 maggio 1825) in cui il Leopardi distingue il «metafisico» (il cui interesse è rivolto soprattutto ai rapporti tra l’uomo e la natura) dal «filosofo di società»: cfr. Savarese, op. cit., p. 109 e n. 61. Sul periodo di relativa «apoliticità» leopardiana ({qui}, pp. 131-134) vedi Ersilia Alessandrone in «Annali della Scuola Normale», cl. di Lettere, 1966, p. 331, n. 11: la Alessandrone sostiene una persistenza di interessi, se non politici in senso stretto, politico-culturali, e di una concezione militante della letteratura, ancora nel 1823-24 {La postilla vale anche per le successive note 68 e 70 – N. d. C.}.

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Ha anche ragione di notare che nell’adesione alla morale epittetèa vi è nel Leopardi molto pudore ironico e una non mai sopita nostalgia della morale eroica. Il Leopardi, certo, non si acquetò mai in una morale tardo-antica dell’atarassìa, che sarebbe stata un’evasione dal pessimismo lucido e razionale, in un certo senso analoga all’evasione «buddistica» di Schopenhauer. Per di più, Epitteto fu, per così dire, controbilanciato da Teofrasto, cioè da un moralista empirico e mondano, il quale insegnava, seguendo l’Etica Nicomachea, che non bastano virtù e saggezza a dare la felicità, ma che è indispensabile anche il concorso di circostanze esteriori favorevoli.67 Ma quello che mi sembra vada riaffermato, è che la suggestione della morale epittetèa – o, più in generale, ellenistica – non fu sentita dal Leopardi sporadicamente per tutto l’arco della sua vita, nei momenti di stanchezza e di pausa della tensione eroica, ma improntò di sé sostanzialmente u n a f a s e della vita e del pensiero leopardiano, quella degli anni di Bologna e del primo soggiorno fiorentino (1825-’27); e che essa segnò il culmine di un periodo di fondamentale apoliticità. Di tale apoliticità non è difficile indicare i motivi. Intanto, bisogna ricordare che al movimento di rivolta politico-culturale contro la Restaurazione, culminato nei moti del ’20-’21, era succeduto in tutta Italia, dopo la sconfitta di quei moti, un periodo di ripiegamento e di stasi. Tutta una generazione di intellettuali abbandonò allora la prospettiva rivoluzionaria e passò ad una prospettiva «riformistica». Lo spostamento dell’epicentro della cultura progressista da Milano a Firenze, dal «Conciliatore» all’«Antologia», coincide appunto con questa svolta. La nuova ondata rivoluzionaria del ’31 troverà quasi tutti questi intellettuali su posizioni di sfiducia e di estraneità alle «sette»: perfino il Giordani, che aveva esultato per i moti del ’20 e che ideologicamente e umanamente non si amalgamò mai con l’ambiente del Vieusseux e del Capponi, si mantenne freddo e sfiduciato dinanzi ai moti emiliani e romagnoli del ’31 – mentre poi di nuovo parteciperà agli entusiasmi del ’48 –. L’abbandono della prospettiva risorgimentale da parte del Leopardi, se era già implicito nel nuovo corso impresso al suo pensiero dalla crisi personale del ’19, ricevette certo un forte impulso dalla crisi politica del ’21. Accanto alla più 67

iVedi il saggio seguente, p. 163 sg.

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vasta «delusione storica» per la sconfitta della rivoluzione francese, a cui si riferisce costantemente il Luporini (e che forse andrebbe essa stessa meglio circostanziata e distinta nei suoi vari motivi), non bisogna trascurare questa nuova delusione prodotta dal fallimento dei moti di Napoli e di Torino, la quale si farà ancora sentire chiaramente nei Paralipomeni, sommata all’esperienza dell’ulteriore fallimento del ’31. Il cupo pessimismo etico-politico del Bruto minore (dicembre del ’21) è a n c h e un riflesso di quella delusione. È ben naturale che, in un’atmosfera ormai priva di tensione rivoluzionaria, a quell’estrema protesta titanistica seguisse una fase più rassegnata e diseroicizzata. Le Operette morali, progettate dal Leopardi ancora nel luglio del ’21 come una prosecuzione, su altro piano, del suo impegno di educazione politica e civile («le armi del ridicolo» usate «a scuotere la mia povera patria, e secolo»: Zibaldone, p. 1393 sg.), segnarono di fatto, tre anni dopo, il temporaneo abbandono di quell’impegno. Al Leopardi «questo ridicolissimo e freddissimo tempo» appariva ormai refrattario non solo alla lirica politica appassionata, ma anche alla satira politica. Ma oltre a ciò bisogna tener conto del fatto che il passaggio del Leopardi a un materialismo coerente, che avviene appunto dal ’23 in poi, costituì, almeno in un primo tempo, un incentivo al disimpegno politico. Mentre il pessimismo «storico», democratico-russoiano degli anni precedenti era, per così dire, spontaneamente progressista sul piano politico-sociale, molto meno facile e immediato era il compito di coordinare il nuovo pessimismo materialistico con un atteggiamento politico-sociale progressista. La persuasione dell’infelicità radicale di tutti gli esseri viventi, a cui il Leopardi era giunto, poteva far apparire come trascurabili gli sforzi per conquistare migliori istituzioni. A questa conclusione il Leopardi effettivamente giunse, per esempio in quella lettera al Vieusseux del 4 marzo 1826 su cui giustamente hanno richiamato l’attenzione il Bigi e il Biral: «gli uomini sono a’ miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell’universo, e i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m’interessano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissimamente. Però siate certo che nella filosofia sociale io sono per ogni parte un vero ignorante. Bensì sono assuefatto ad osservar di con-

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tinuo me stesso, cioè l’uomo in se, e similmente i suoi rapporti col resto della natura ...».68 ** Il Leopardi progressivo di Luporini soffre un po’ di un’indeterminatezza del concetto di progressismo, che non è un fatto isolato nella storiografia marxista. La lotta per la liberazione dell’uomo dai pregiudizi religiosi e metafisici e per la conquista di una visione del mondo integralmente laica è logicamente – ed è stata anche storicamente, ed è tuttora – connessa con la lotta contro ogni sorta di oppressione politicosociale. Tuttavia connessione non significa identità immediata, ed è facile citare molti casi di sfasatura, o addirittura di temporaneo contrasto tra progressismo politico-sociale e progressismo «scientifico», tra democraticità e razionalismo laico. Questo punto è stato messo bene a fuoco da Antonio La Penna in un recente articolo su Lucrezio.69 Il problema (del progressismo di Lucrezio) è tutt’uno con quello dell’atteggiamento da prendere verso il razionalismo e il materialismo del passato, anche quando essi siano stati politicamente agnostici o addirittura reazionari. Orbene razionalismo e materialismo reazionario, quando hanno portato ad una conoscenza più esatta della natura e della storia, quando hanno segnato un progresso scientifico, hanno pur sempre accresciuto le condizioni per una liberazione totale dell’uomo, per una liberazione, cioè, sia dall’errore sia dalla soggezione sociale e politica: appunto perché la liberazione totale, a cui aspira il marxismo, è fondata sulla conoscenza scientifica della realtà naturale e storica. Credo di non errare affermando che Machiavelli fu meno democratico di Savonarola: eppure Machiavelli conta per il marxista molto più di Savonarola come base della sua visione storica e politica. Illuminismo e marxismo sono, a gradi diversi, due sintesi della chiarezza razionale e della spinta liberatrice che prima trovava espressione in utopie e in miti religiosi.

Nell’illuminismo stesso i due momenti della sintesi di cui parla il La Penna sono presenti, nei vari pensatori, in molto varia misura; e proprio l’illuminismo fornisce, per la distinzione tra progressismo scientifico e progressismo politico-sociale, esempi anche più pertinenti di quelli di Machiavelli e Savonarola. Basti pensare a Rousseau democratico avanzatissimo, eppure molto meno laico e razionalista di La Mettrie, Holbach, Helvétius, materialisti conseguenti ma molto moderatamente progressisti in politica. 68 iCfr. Biral, La «posizione storica» cit., p. 17 sg.; Bigi, Dalle «Operette morali» ai «Grandi idilli» cit., p. 135 sg.* 69 iNe «L’Unità» del 3 novembre 1963.

*i{Cfr. la precedente postilla alla nota 65; per il riferimento alla lettera al Vieusseux del 4 marzo 1826, valga: «qui sopra» – N. d. C.}.

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La confusione tra i due piani può condurre a forzature opposte: a presentare come democratico ogni laico e materialista, oppure a liquidare senz’altro come reazionario in senso globale il materialista antidemocratico. Il primo caso si è verificato con Epicuro e Lucrezio; il secondo, col positivismo del secondo Ottocento, che tuttora non trova nella storiografia democratica e marxista un’equa valutazione. Nel caso del Leopardi, non si tratta minimamente di limitare il suo progressismo al piano razionalista-laico. Progressista il Leopardi fu anche sul piano politico-sociale: questa conquista del saggio di Luporini non si cancella. Ma la distinzione tra i due piani serve, per il Leopardi, a raggiungere una visione più articolata del suo pensiero, a riconoscere che in diversi periodi della sua vita ora l’uno ora l’altro progressismo furono predominanti, a rendersi conto, infine, che tra l’uno e l’altro vi furono delle collisioni e che l’ultimo Leopardi è caratterizzato appunto dallo sforzo di armonizzare questi due aspetti del proprio pensiero. Nel saggio luporiniano, invece, il materialismo è preso in esame – e valutato positivamente – quasi soltanto in funzione del progressismo politicosociale (pp. 251-254): il momento materialistico viene ad assumere importanza non in sé, ma come raccordo tra il primo e l’ultimo Leopardi, come ancoraggio contro il rischio di esser travolto dai flutti dell’irrazionalismo prima di aver elaborato la nuova morale laica e combattiva. Di qui quella sottovalutazione delle Operette morali a cui già abbiamo accennato; di qui, anche, il fatto che, fra gli ispiratori del pensiero leopardiano, sono sempre presenti a Luporini i «filosofi politici» Hobbes, Rousseau e Voltaire, ma non è nemmeno una volta ricordato il «materialista volgare» Holbach, a cui pure, come abbiamo accennato (p. 122 n. 40), il Leopardi deve alcuni spunti importanti. ** 4. Il nuovo vigore che il motivo della fraternità umana assume a partire dal Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827),70 la nuova grande fioritura lirica dei canti pisano-recanatesi del ’28-’29, segnano l’abbandono definitivo della morale dell’atarassìa, ma non ancora un deciso ritorno all’interesse politico. Fu il contatto polemico con l’ambiente cattolico-liberale, specialmente nel secondo soggiorno fiorentino e poi nel napoletano, a porre dinanzi al Leopardi il problema di ristabilire, iCfr. l’art. cit. del Bigi, p. 146 sgg.* *i{Cfr. la precedente postilla alla nota 65; per il riferimento alla lettera al Vieusseux del 4 mar70

zo 1826, valga: «qui sopra» – N. d. C.}.

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su basi necessariamente diverse che nel ’18-’21, un nesso tra il proprio pessimismo e un atteggiamento politico progressista. Il cattolicesimo liberale rappresentava qualcosa di particolarmente avverso a tutto il pensiero del Leopardi. Era il mito del progresso, privato della carica di lucido razionalismo che aveva avuto nel Settecento francese e riconciliato coi vecchi miti cattolici. Era l’esaltazione delle conquiste tecnico-scientifiche (il vapore, la diffusione rapida delle notizie: si pensi alla satira della Palinodia) accompagnata però dalla rinuncia ad una visione veramente scientifica, cioè laica, della realtà. Era il cattolicesimo ottimista – mentre il Leopardi, finché aveva creduto di poter conciliare in qualche modo il proprio pessimismo col cristianesimo, aveva puntato proprio sulla rappresentazione pessimistica che il cristianesimo fa di questo mondo –.71 A un tale ambiente gli scritti del Leopardi, e in particolar modo le Operette morali, erano apparsi come l’espressione di un ateismo che negava insieme la religione e il progresso; che si opponeva, quindi, totalmente allo «spirito del secolo».72 Né questi nuovi detrattori era71 iIl progressivo distacco del Leopardi dal cristianesimo è analizzato con minuta documentazione dal Porena, Scritti leopardiani cit., pp. 161-169. Sul perdurare fin verso il ’22 di motivi cristiano-pessimistici nel Leopardi si soffermò il Carducci (Degli spiriti e delle forme ecc., in Opere, ed. nazionale, XX, pp. 72-80), con un certo compiacimento a cui non dovettero essere estranee le vaghe nostalgie religiose dei suoi ultimi anni (quel saggio è del ’98, l’anno dopo della Chiesa di Polenta). Nello stesso tempo, l’antimanzoniano Carducci pensava agli Inni cristiani progettati dal Leopardi nel ’19 come a una fusione di religiosità popolare, deismo rivestito di forme classiche e patriottismo, da contrapporre agli Inni sacri del Manzoni «tutti evangelo e cristianesimo illuminato» (ivi, p. 75), e deplorava che il Leopardi non avesse portato a termine quel disegno. 72 iManca tuttora uno studio soddisfacente sulle reazioni suscitate dagli scritti del Leopardi nei suoi contemporanei, non solo dal punto di vista critico-letterario, ma anche da quello ideologico.* I lavori di Bianca Stirpe (G. L. nella critica italiana dei suoi tempi, «Riv. di cultura», Roma, IV, 1923, pp. 189 sgg., 254 sgg., 302 sgg., 399 sgg.) e di M. Marti (La fortuna del L. nella critica predesanctisiana, «Antico e Nuovo», genn.-febbr. 1946, p. 13 sgg.; genn.-marzo 1947, p. 31 sgg.) possono provvisoriamente servire come raccolte di materiali tutt’altro che complete **; cfr. anche il proemio del Moroncini all’edizione delle Operette, Bologna 1929, I, pp. XVIIIXXVI, e le relazioni dei giudizi per il premio della Crusca pubbl. da G. Ferretti, «Giorn. stor. lett. ital.» LXII, 1918, p. 49 sgg. Nulla di nuovo reca Maria Grazia Biovi, I recensori di Leopardi, «Paragone» Letteratura, XII, 1961, fasc. 134, p. 12 sgg. Un profilo molto felice – ma, conforme al suo assunto, incentrato più sulle valutazioni della poesia che del pensiero leopardiano – è nel cap. I della storia della critica leopardiana di E. Bigi (I classici italiani nella storia della critica a cura di W. Binni, II, Firenze 19612, p. 353 sgg.). Sulle diverse linee interpretative del pensiero leopardiano nell’Ottocento, meglio di tutti, nella sua brevità, L. Blasucci, «Giorn. stor. letter. ital.» CXXXIX, 1962, p. 562 sg.

*iSulla critica leopardiana nell’Ottocento vedi la relazione tenuta da Mario Fubini al convegno recanatese dell’ottobre 1967, di prossima pubblicazione negli Atti di quel convegno (Leopardi e l’Ottocento). ** Lì apparirà anche un notevole intervento di A. Leone De Castris.

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no puri e semplici reazionari che il Leopardi pote[sse] ** trascurare. Stavolta le critiche venivano da un’opinione pubblica, a suo modo, illuminata e progressista; e l’accusa di irreligione era (ben diversamente dalle critiche che il Leopardi aveva ricevuto in occasione delle prime canzoni patriottiche) congiunta strettamente a quella di scarso patriottismo e di sfiducia nell’umanità. Che, del resto, una parte di quelle accuse trovasse risonanza anche fuori dell’ambiente liberalecattolico, anche tra l’opinione pubblica risorgimentale in senso largo, lo dimostra il saggio di Pietro Giordani sulle Operette morali, destinato all’«Antologia» del Vieusseux ma poi non pubblicato: il Giordani, come già accennammo, dichiarava di condividere il pessimismo leopardiano e lo difendeva dalle critiche dei moderati toscani, ma esprimeva anch’egli il desiderio di un maggiore impegno politico da parte del Leopardi.73 Il bisogno di rispondere a queste accuse di apoliticità e di egocentrismo («il proprio petto / esplorar che ti val? Materia al canto / non cercar dentro te», sono le parole che il Leopardi mette in bocca ad uno dei suoi oppositori nella Palinodia) costituì certamente la spinta decisiva per la ripresa polemica e combattiva, per il nuovo titanismo dell’ultimo Leopardi. Questo movente in qualche misura «esterno» dell’ultima fase del pensiero leopardiano non toglie nulla (diversamente da come è parso a qualche critico) alla sua profonda sincerità e coerenza: dimostra piuttosto la capacità del Leopardi di reagire al nuovo clima politico-culturale, allargando il respiro umano e sociale del proprio pessimismo, fondando una morale integralmente laica e smitizzata. Al compromesso ideologico attuato dai cattolici liberali il Leopardi contrappone, in quest’ultima fase, una grande ripresa di temi illuministici e materialistici.* Non c’è libertà politica, egli afferma, senza 73 iVedi sopra, pp. 82 sg., 123. In questo clima di distacco e d’incomprensione tra il Leopardi e i liberali del suo tempo vanno inquadrati due episodi che ferirono particolarmente il suo animo e suscitarono la sua aspra reazione: la diceria, alla quale credette per un momento anche il Giordani **, che egli fosse andato a Roma nell’autunno del ’31 per entrare nella carriera ecclesiastica (cfr. Epistolario ed. Moroncini, VI, pp. 102 e n. 2, 107, 108), e l’attribuzione a lui dei Dialoghetti reazionari di Monaldo (cfr. lettera al Vieusseux del 12 maggio 1832 e lettere seguenti).

*iSui rapporti polemici tra il Leopardi e il cattolicesimo liberale fiorentino e napoletano lo studio più esauriente è ora quello di G. Savarese, Saggio sui «Paralipomeni» cit. ** Il Savarese tende a rivalutare anche quel momento di esasperazione patriottica e xenofoba che è testimoniato dal canto I dei Paralipomeni (qui {sotto}, p. 138); la rivalutazione è probabilmente un po’ eccessiva, anche se è ben riuscita l’ambientazione storica di quella fase passeggera di risentito

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libertà dal dogma e dal mito («Libertà vai sognando, e servo a un tempo / vuoi di nuovo il pensiero»). È proprio questa esigenza di smascheramento degli «errori barbari» del cattolicismo che fa superare al Leopardi ogni residuo di dubbio sull’opportunità o meno di rivelare agli uomini il male della condizione umana in tutta la sua crudezza: alla convinzione del «valore sociale del vero» (per usare una felice espressione del Berardi)74 il Leopardi giunge perché l’esperienza gli ha dimostrato che nell’epoca attuale il vuoto dell’ignoranza non è riempito dalle gagliarde e magnanime illusioni dei primitivi, ma da un ibrido connubio delle deprimenti superstizioni medievali con un progressismo superficiale e falso, incapace di dare la felicità all’uomo: meglio, allora, quella «fiera compiacenza» che è prodotta da una lucida disperazione, e che costituisce, in un mondo in cui l’azione eroica è ormai preclusa, l’ultima e paradossale forma di «virtù» classicheggiante. I Paralipomeni, con la negazione di ogni differenza qualitativa insuperabile tra uomo e animali, con la rivendicazione del Settecento empirista e antimetafisico contro l’Ottocento cristianeggiante, sono la punta estrema del progressismo ideologico leopardiano. Sul piano politico, assistiamo (accanto a un rinvigorimento dell’avversione ad ogni posizione reazionaria e assolutista, testimoniato dai Paralipomeni e dall’epistolario) a due successivi momenti della polemica contro i moderati cattolici. Dapprima, nei primi canti dei Paralipomeni, un recupero di motivi patriottici di stampo classicheggiante, con punte di xenofobia settaria e di esaltazione retorica della romanità (fino alla protesta perché in Italia non si mettono ai bambini nomi di antichi romani, ma di eroi barbari come Annibale o Arminio!).75 È questo, indubbiamente, il momento più debole della polemica leopardiana, quello che ha più il carattere di mera ritorsione e che più fa risaltare i limiti provinciali del patriottismo classicista in confronto all’apertura europea del riformismo cattolico-liberale: limiti che più tardi inficieranno il repubblicanesimo del Carducci e lo predisporrannazionalismo leopardiano (cfr. la mia recensione in «Belfagor» XXIII, 1968, p. 251 sg.). Sui Paralipomeni, oltre i sempre validi saggi del Capucci cit. a p. 112, vedi anche Attilio Brilli, Satira e mito nei «Paralipomeni» leopardiani, Urbino 1968. 74

iRagione e stile in Leopardi (cit. sopra, nota 15), p. 437 sgg. iParalipomeni, I, st. 22-31; III, st. 31. Cfr. Binni, La nuova poetica cit., 2ª ed., p. 139 sg. Per quel che riguarda l’invettiva contro certi linguisti tedeschi – non attribuibile tutta a mero nazionalismo – cfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, p. 225 sgg. 75

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no alla finale involuzione reazionaria.76 Tuttavia non bisogna dimenticare che, sia pure in forma inadeguata, questa posizione leopardiana esprime pur sempre l’esigenza di un ritorno a quelle prospettive di soluzione rivoluzionaria del problema nazionale che l’intellettualità italiana aveva fatte proprie nel ’20-’21 e aveva abbandonate dopo il fallimento di quell’esperienza.77 Un secondo momento è rappresentato dal ben noto passo della Ginestra in cui il Leopardi fa appello alla solidarietà di tutti gli uomini nella lotta contro la natura. Nessun dubbio sulla grande potenzialità democratica di questo appello. Soltanto, bisogna parlare appunto di potenzialità, per sottolineare, accanto all’estrema apertura e spregiudicatezza del discorso leopardiano, anche la sua indeterminatezza. Non vi è traccia in esso di preclusioni di classe, di cautele da «liberale», anzi vi è l’esplicita esigenza di far partecipe della nuova morale laica tutto il popolo;78 ma non c’è nemmeno alcun accenno a una lotta contro l’oppressione politico-sociale, come condizione preliminare per raggiungere la «confederazione» dell’intera umanità. Il Leopardi pensa che i contrasti tra gruppi umani siano secondari, e perciò da mettersi a tacere, di fronte all’esigenza di far blocco contro il nemico numero uno, l’empia Natura.79 Quando il Pascoli trovava preannunciato nella Ginestra il proprio 76 iPer l’uso nazionalistico di questi passi dei Paralipomeni da parte del Carducci vedi l’articolo su Giacomo Leopardi deputato (in Opere, ed. nazionale, vol. XX, Bologna 1937, p. 193 sg.) e la chiusa del discorso Allo scoprimento del busto di G. Leopardi (ibid., p. 204). Per l’entusiasmo giovanile degli «Amici pedanti» per i Paralipomeni vedi la prefazione di Giuseppe Chiarini all’edizioncina delle Poesie di G. Leopardi, Firenze, Sansoni, 1885, p. vi sg. 77 iVedi qui sopra, p. 132 sg. 78 iGinestra, v. 145 sg.: «Così fatti pensieri / quando fien, come fur, palesi al volgo / ...». 79 iGinestra, v. 119 sgg.: «... né gli odii e l’ire / fraterne, ancor più gravi / d’ogni altro danno, accresce / alle miserie sue, l’uomo incolpando / del suo dolor, ma dà la colpa a quella / che veramente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna»; v. 135 sgg.: «ed alle offese / dell’uom armar la destra, e laccio porre / al vicino ed inciampo, / stolto crede così qual fora in campo / cinto d’oste contraria, in sul più vivo / incalzar degli assalti, / gl’inimici obbliando, acerbe gare / imprender con gli amici, / e sparger fuga e fulminar col brando / infra i propri guerrieri». In quel rifiuto della misantropia a cui abbiamo accennato sopra (nota 56) è implicito, per il Leopardi, non solo il rifiuto degli odii privati e delle guerre tra popoli, ma anche dei contrasti di politica interna. Vedi il pensiero dello Zibaldone, pp. 4070-72 (17 aprile 1824) in cui si dichiara che gli uomini addossano ingiustamente ai propri governanti la colpa della loro infelicità, la quale deriva da cause naturali ed è quindi destinata a rimanere identica sotto qualsiasi governo. Una formulazione così recisa è senza dubbio legata a quella fase transitoria di apoliticità che il Leopardi, come abbiamo detto, attraversò dal ’24 al ’27; tuttavia tra questo pensiero, quello cit. alla nota 56 e la Ginestra vi è un’innegabile concatenazione.

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solidarismo,80 trascurava certamente l’ispirazione illuministica e l’afflato eroico che sono essenziali alla posizione leopardiana, e che mancano all’ideologia pascoliana; rimane però il fatto che anche il Leopardi propugna un solidarismo, cioè un appello alla cessazione della lotta «fratricida», per dirigere tutti i colpi non contro un avversario umano, ma contro la Natura. ** Rifacendoci ancora una volta alla distinzione tra progressismo politico-sociale e progressismo «scientifico», possiamo dire che il Leopardi assorbe il primo nel secondo. Soltanto, in quest’ultima fase del suo pensiero, egli toglie al proprio materialismo pessimistico quel carattere alquanto solitario e umbratile che aveva assunto negli anni di Bologna, così come, riprendendo il titanismo del Bruto minore, ne elimina quella coloritura aristocratica che il titanismo aveva sempre avuto fin allora. Non c’è più alcuna contrapposizione di principio tra l’eroe e il volgo, anzi il pessimismo agonistico è destinato a divenire un atteggiamento comune a tutta l’umanità, una filosofia popolare. In questo senso si può dire che il progressismo politico non si dissolve semplicemente nel progressismo scientifico, ma gli infonde la propria esigenza democratica. Inoltre, non bisogna dimenticare che la lotta contro la natura a cui il Leopardi chiama l’umanità è e rimarrà sempre una lotta d i s p er a t a , per ciò che riguarda gli obiettivi di fondo. Certo il Leopardi non nega la possibilità di raggiungere successi parziali di notevole rilievo (di qui la sua rivendicazione della «civiltà, che sola in meglio / guida i pubblici fati»: Ginestra, v. 76 sg.). Ma che la vittoria definitiva spetti alla natura, tutta la Ginestra lo riafferma, come lo riafferma il Tramonto della luna, che appartiene allo stesso periodo finale della vita 80 iG. Pascoli, Pensieri e discorsi, Bologna 1907, p. 117: «E io so che, per grande poeta che tu sia, il tuo tempo non è ancora venuto. Tu non sei il vate delle ardenti rivoluzioni nazionali; tu non sei il profeta delle cupe secessioni sociali. Riconquistati i confini delle patrie, ricostituiti i diritti delle classi, verrà il tuo evo. Perché in vero tu contempli il genere umano da così sublime vetta di pensiero e dolore, che non puoi scoprire, da così lungi e da così alto, tra gli uomini, differenza di condizioni, di parti, di popolo, di razza. È un formicolìo di piccoli esseri uguali: e se n’alza un murmure confuso di pianto»; p. 126: «Ora egli dice: ... E io vi dico che dovete avanzare, dovete gettare le illusioni, dovete acquistare la coscienza della vostra piccolezza, della vostra solitudine, della vostra miseria, del vostro essere fortuito ed effimero. Perché da cotesta coscienza verrà in voi lo appaciamento degli odi e delle ire fraterne ...». E vedi anche il successivo paragrafo 13 del medesimo saggio, che dimostra come i vv. 158-201 della Ginestra siano tra le «fonti» del motivo, tipicamente pascoliano, dello sgomento dell’uomo dinanzi all’immensità dell’universo.

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e del pensiero leopardiano.81 Qui è la differenza tra il materialismo leopardiano e il credo scientista del secondo Ottocento (quantunque si debba aggiungere che all’ottimismo scientista il secondo Ottocento alternò un senso cosmico desolato che, quando non finì in un agnosticismo vagamente religiosizzante, si richiamò a buon diritto a Lucrezio e a Leopardi).82* L’illuminismo che il Leopardi, nella Ginestra e nel canto IV dei Paralipomeni, rivendica contro lo spiritualismo cattolico dell’Ottocento, è un illuminismo interpretato pur sempre come filosofia dolorosa, che non dà all’uomo, insieme con la verità, la felicità. Il riflusso spiritualistico della Restaurazione non è spiegato dal Leopardi con motivi in primo luogo politici (antigiacobinismo), ma come un arretramento dinanzi alle conseguenze pessimistiche dell’analisi del rapporto uomo-natura intrapresa dal materialismo settecentesco: «In quell’età, d’un’aspra guerra in onta, / altra filosofia regnar fu vista, / a cui dinanzi valorosa e pronta / l’età nostra arretrossi appena avvista / di ciò che più le spiace e che più monta, / esser quella in sostanza ama81 iUno dei pochi punti deboli del libro del Binni è, a mio parere, la svalutazione del Tramonto della luna (La nuova poetica cit., 2ª ed., p. 185 sg.), la quale mi sembra che nasca, assai più che da una lettura «disinteressata», dal preconcetto secondo cui ogni ripresa di motivi «idillici» nell’ultimo Leopardi costituirebbe un passo indietro. Ma alternanza di «idillico» e di «eroico», sia pure in varia misura, vi è in tutta la poesia leopardiana (basti pensare alla chiusa aspra e sarcastica de La quiete dopo la tempesta); e quella «dolcezza d’un mesto coro», che il De Robertis riconosceva soltanto all’ultima strofe, è il tono predominante di tutta la poesia, che davvero richiama alla mente, per la perfetta compenetrazione di lirica e gnomica, alcuni dei più bei cori di Euripide; d’altra parte la polemica antiteistica della terza strofe, che disturba chi nel Leopardi cerca solo i toni idillici, avrebbe dovuto trovare proprio nel Binni un difensore e un interprete adeguato. Ad ogni modo, anche a prescindere dalla valutazione del Tramonto della luna come opera d’arte, non si può ignorarlo come testimonianza del pessimismo leopardiano, perdurante fino all’ultimo. 82 iIl libro di Spartaco Borra, Spiriti e forme affini in Lucrezio e Leopardi (Bologna 1911, 2ª ed. 1934), è, con un certo ritardo, un frutto di questo clima culturale-psicologico, di cui per esempio Arturo Graf fu un cospicuo rappresentante, e a cui va ricondotta anche la formazione giovanile di Concetto Marchesi.

*iUna interessante professione di leopardismo in epoca positivistica ** è il saggio di Giacomo Pighini, Il pessimismo nella scienza e G. Leopardi, «L’idea liberale» 30 nov. 1898-15 febbr. 1899, ristampato in Scritti di carattere letterario ed artistico, Parma 1964. L’autore sosteneva, contro i positivisti alla Lombroso e alla Sergi, l’oggettiva validità scientifica del pessimismo leopardiano. L’enfasi eccessiva dello stile e alcune ingenuità non debbono far disconoscere il valore di questa presa di posizione, anche in rapporto a ciò che io (senza ancora conoscere lo scritto del Pighini) osservavo sopra, pp. 126-28. I successivi scritti di vario argomento raccolti nel volume del Pighini mostrano, invece, una rapida involuzione ideologica, dovuta anche alla totale inesperienza politica di questo valente medico e storico della scienza.

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ra e trista» (Paralip. IV, st. 16). Non si possono isolare i due primi bellissimi versi di quest’ottava dai seguenti, senza dare dell’illuminismo leopardiano un’immagine alterata. E nella Ginestra di nuovo il Leopardi dirà, rivolto al proprio secolo: «Così ti spiacque il vero / dell’aspra sorte e del depresso loco / che natura ci diè. Per questo il tergo / vigliaccamente rivolgesti al lume / che il fe palese». Tale interpretazione leopardiana dell’illuminismo settecentesco non è, lo abbiamo già visto, così arbitraria come spesso si è sostenuto; ma, senza dubbio, costituisce una forte accentuazione di un motivo che nei grandi illuministi francesi era rimasto in secondo piano. Per quel che riguarda le prospettive della lotta tra uomo e natura, la Ginestra non annulla, anzi conferma, proiettandoli su un più vasto sfondo cosmico, questi versi della Palinodia (154-197): Quale un fanciullo, con assidua cura, di fogliolini e di fuscelli, in forma o di tempio o di torre o di palazzo, un edificio innalza; e come prima fornito il mira, ad atterrarlo è volto, perché gli stessi a lui fuscelli e fogli per novo lavorio son di mestieri; così natura ogni opra sua, quantunque d’alto artificio a contemplar, non prima vede perfetta, ch’a disfarla imprende, le parti sciolte dispensando altrove. E indarno a preservar se stesso ed altro dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa eternamente, il mortal seme accorre mille virtudi oprando in mille guise con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta, la natura crudel, fanciullo invitto, il suo capriccio adempie, e senza posa distruggendo e formando si trastulla. Indi varia, infinita una famiglia di mali immedicabili e di pene preme il fragil mortale, a perir fatto irreparabilmente: indi una forza ostil, distruggitrice e dentro il fere e di fuor da ogni lato, assidua, intenta dal dì che nacque; e l’affatica e stanca, essa indefatigata; insin ch’ei giace alfin dall’empia madre oppresso e spento.

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Queste, o spirto gentil, miserie estreme dello stato mortal; vecchiezza e morte, ch’han principio d’allor che il labbro infante preme il tenero sen che vita instilla; emendar, mi cred’io, non può la lieta nonadecima età più che potesse la decima o la nona, e non potranno più di questa giammai l’età future. Però, se nominar lice talvolta con proprio nome il ver, non altro in somma fuor che infelice, in qualsivoglia tempo e non pur ne’ civili ordini e modi, ma della vita in tutte l’altre parti, per essenza insanabile, e per legge universal, che terra e cielo abbraccia, ogni nato sarà.

In questi versi l’infelicità è affermata, con spietata chiarezza, come essenziale non a un determinato uomo storico, ma all’«uomo in generale». Le interpretazioni «progressive» dell’ultimo Leopardi devono fare i conti con questo e coi molti altri passi in cui il Leopardi ribadisce la stessa tesi. Si tratta, in sostanza, di vedere se il pessimismo cosmico leopardiano sia da considerare soltanto come un’estrapolazione del suo pessimismo storico-sociale. Per Lukács il pessimismo reazionario di Schopenhauer è un’«apologetica indiretta» della società borghese;83 si può considerare il pessimismo cosmico leopardiano come una «requisitoria indiretta» contro la medesima società? Né il Luporini, né il Biral né il Berardi traggono questa esplicita conclusione; ** eppure tutti e tre tendono a far apparire la tesi dell’infelicità perpetua e insanabile dell’uomo come un aspetto in certo senso non essenziale del pensiero leopardiano: l’«onda più lunga» su cui secondo il Luporini si troverebbe il Leopardi rispetto ai liberali e ai democratici del Risorgimento, il regnum hominis di cui, secondo il Biral, la Ginestra sarebbe il preannuncio, l’illuminismo della fase finale del pensiero leopardiano su cui insiste il Berardi, costituirebbero un superamento, o almeno un inizio di superamento del pessimismo; e il pessimismo sarebbe tutto relativo al determinato ambiente storico in cui si trovò inserito il Leopardi.84 È, in fondo, l’interpretazione «risorgimentale» 83

iG. Lukács, La distruzione della ragione, trad. ital., Torino 1959, p. 205 sgg. iLuporini, p. 274 (cfr. anche p. 269: «Pessimismo e razionalismo si congiungono così per-

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del Leopardi (Poerio, De Sanctis) che, allargata a interpretazione sociale o illuministica, conserva tuttavia la convinzione della non definitività del pessimismo leopardiano. Affermazioni come quella della Palinodia che abbiamo ora citato rappresenterebbero dunque piuttosto un irrigidimento «metafisico» che la sostanza viva e positiva del pensiero del Leopardi. I motivi per cui questa tesi non ci sembra accettabile risultano abbastanza chiaramente, crediamo, da quanto siamo venuti osservando sul materialismo-pessimismo leopardiano. La polemica storicistica contro l’«uomo in generale» è giusta e necessaria nei riguardi delle arbitrarie generalizzazioni di caratteristiche economico-sociali, culturali, psicologiche che sono in realtà peculiari di una data epoca. Non è certo propria dell’umanità in generale la divisione in sfruttati e sfruttatori, né la proprietà privata, né la fede in una divinità, per non parlare di istituzioni e di abiti mentali e affettivi ancor più ristretti nel tempo e nello spazio. Ma per ciò che riguarda l’uomo come essere naturale, biologico, il discorso è ben diverso.85 Ora il pessimismo del Leopardi, nella sua seconda e più matura fase, trae origine appunto dalla constatazione di certi dati fondamentali della vita fisica dell’uomo («vecchiezza e morte») che sono in contrasto con quell’aspirazione alla felicità che è, anch’essa, una tendenza «naturale» dell’uomo. Il Leopardi non ignora affatto che anche la natura ha la sua storicità (l’autore degli ultimi due audacissimi canti dei Paralipomeni non sarebbe certo rimasto sconcerfettamente in Leopardi in questa costruttiva spinta verso il futuro, e ciò mostra quanto relative siano queste accentuazioni assiologiche che si chiamano appunto pessimismo e ottimismo: come esse cioè siano accentuazioni assiologiche che non vanno mai giudicate in se stesse, ma relativamente alle concrete situazioni storiche in rapporto alle quali si sono prodotte»). Biral, La «posizione storica» cit., p. 34: «Nella Ginestra riuscì a fissare un nuovo principio, e lasciò intuire che quel bene che potrà esservi nella vita non sarà mai un dono elargito dalla natura o dalla sorte, ma conquista faticosa della buona volontà degli uomini solidali in uno sforzo (...) per fare della società un regnum hominis» (anche nelle pagine precedenti il Biral sostiene che il pessimismo leopardiano rappresenta la crisi di una vecchia civiltà «fondata sull’idea dei doveri verso Dio, verso il sovrano, verso le gerarchie costituite» e l’esigenza «di una moderna civiltà fondata sul vero e sulla scienza»: un accenno in questo senso già in Gramsci, Lettere dal carcere, nuova ediz., Torino 1965, p. 670). ** Più sfumata la posizione del Berardi; ma anch’egli tende a risolvere (p. 431 sgg.) il pessimismo leopardiano in illuminismo. 85 iMi sia lecito rimandare, per adesso, a un breve accenno in «Belfagor» XVIII, 1963, p. 10, n. 30.*

*iVedi ora gli scritti citati nella prefazione alla seconda edizione, qui sopra, p. XXXVIII; e, per la persistenza dell’«uomo naturale» nell’«uomo storico», già un accenno di C. Muscetta, Cultura e poesia di G. G. Belli, Milano 1961, p. 264. **

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tato dinanzi al darwinismo), ma sa che è una storicità di ritmo incomparabilmente più lento, di carattere meccanico e inconsapevole, a cui non si può attribuire alcun teleologismo o provvidenzialismo.86 Egli non ignora nemmeno la possibilità di f o r z a r e la natura stessa (basti ricordare quel pensiero, giustamente ammirato dal Luporini, sulla «futura civilizzazione dei bruti e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare», in modo da poter associare anche questi animali «alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti»);87 ma ritiene che tale intervento dell’uomo sulla natura non potrà mai giungere a modificare quei dati fondamentali a cui accennavamo sopra, dai quali inevitabilmente scaturisce l’infelicità. In questo senso schiettamente materialistico si può, a mio parere, parlare di un valore p e r m a n e n t e del pessimismo leopardiano, senza nulla concedere a interpretazioni metafisiche ed esistenzialistiche del pensiero del Leopardi e senza affatto rinunciare a indagare le esperienze concrete – individuali e storico-sociali – da cui quel pessimismo nacque. A più riprese, nel suo saggio, il Luporini osserva che ciò che impedì al Leopardi di sviluppare fino in fondo il nucleo progressista del suo pensiero fu (oltre alla mancanza di contatto con un movimento popolare rivoluzionario) la mancanza della dialettica, il nuovo «strumento mentale» che si andava elaborando in quegli anni nella filosofia tedesca.88 Il Leopardi, anzi, arriverebbe alle soglie del concetto dialettico in quel gruppo di pensieri dello Zibaldone in cui nota che le «contraddizioni palpabili che sono in natura» (aspirazione naturale dei viventi alla felicità e impossibilità naturale di conseguirla; perpetuazione della vita della specie che si attua solo attraverso la distruzione degli individui) sembrerebbero infirmare la validità del principio stesso che «non può una cosa insieme essere e non essere», su cui si basa la nostra ragione.89 Ora, è indubbio che qui il Leopardi constata una 86 i«Così, dell’uomo ignara e dell’etadi / ch’ei chiama antiche (...), / sta natura ognor verde, anzi procede / per sì lungo cammino / che sembra star» (Ginestra, vv. 289-294). Una critica del teleologismo che anticipa il concetto darwiniano di «selezione naturale» è nello Zibaldone (p. 4510), come notò G. A. Levi, Storia del pensiero di G. L., Torino 1911, p. 136. 87 iZib., 4279 sg. (13 aprile 1827); cfr. Luporini, p. 273 sg. 88 iLuporini, pp. 235, 241, 247-51, 253. 89 iZib., 4099 sg. (3 giugno 1824), 4127-32 (5-6 aprile 1825), e già p. 4087 (11 maggio 1824).

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difficoltà l o g i c a che gli appare, giustamente, insolubile col vecchio strumento della logica aristotelica. Ma supporre che l’acquisizione di un nuovo strumento teoretico (la logica dialettica) avrebbe indicato al Leopardi, o possa indicare a un leopardiano del secolo ventesimo, la via per superare il pessimismo, significa disconoscere il carattere tutto pratico, sensistico-edonistico, del pessimismo leopardiano. Per un pensatore così profondamente antiteoreticista, antimetafisico come Leopardi, l’infelicità non si supera «dialettizzandola» sul piano logico, ma soltanto (ove ciò fosse possibile) eliminandola di fatto. Dopo aver messo in risalto l’incomprensibilità – dal punto di vista della logica formale – della contraddizione tra vitalità e infelicità, il Leopardi soggiunge, quasi a mettere in guardia contro ogni attenuazione del secondo termine: «Intanto l’infelicità necessaria de’ viventi è certa» (Zibaldone, p. 4100). Né c’è bisogno, a guardar bene, di far la storia con un «se» («se Leopardi avesse conosciuto la logica dialettica ...»). La tesi provvidenzialistica secondo la quale Dio o la natura consegue, pur attraverso l’infelicità dei singoli individui, la felicità generale dell’umanità, o la variante della stessa tesi, secondo cui la civiltà moderna assicurerebbe, se non la felicità degli individui, la felicità delle masse, erano, a loro modo, tentativi di superamento «dialettico» del pessimismo. Non si vuole certo, con ciò, equipararli alla logica hegeliana sul piano teoretico: si vuol dire soltanto che esercitarono una funzione analoga in rapporto al problema dell’infelicità umana. Il pessimismo sarebbe effetto di una considerazione frammentaria e statica della realtà, di un’incapacità di vedere il singolo fenomeno nella sua relazione col tutto. Ebbene, il Leopardi, seguendo Voltaire e andando molto oltre Voltaire, non si è mai stancato di respingere e di deridere tale soluzione «dialettica», proprio perché essa è una soluzione illusoria, una «negazione ideale» che maschera la reale incapacità di liberare l’uomo dall’oppressione che su di esso esercita la natura.90 90 iZib., 4175 (col richiamo di Voltaire, per cui vedi sopra, p. 122 e n. 40); Palinodia, v. 197 sgg.: «ma novo e quasi / divin consiglio ritrovàr gli eccelsi / spirti del secol mio: che, non potendo / felice in terra far persona alcuna, / l’uomo obbliando, a ricercar si diero / una comun felicitade; e quella / trovata agevolmente, essi di molti / tristi e miseri tutti, un popol fanno / lieto e felice». Si noti ancora che le catastrofi naturali che, come il Leopardi più volte sottolinea, hanno annientato estesi gruppi umani e annienteranno alla fine l’umanità stessa (vedi sopra, nota 62), costituiscono tipici casi di «negazione adialettica», non di negazione-conservazione.

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Sotto questo aspetto, la polemica leopardiana contro gli apologeti della divinità o della natura presenta una reale analogia con la polemica marxista contro la pretesa degli hegeliani (e di tutta una millenaria tradizione filosofica) di sopprimere l’alienazione umana «nel pensiero» e non, prima di tutto, «nella realtà»: di giustificare il mondo e non di cambiarlo. Soltanto, per il pensiero marxista la realtà che è causa dell’infelicità umana è essenzialmente una realtà economicosociale; per il Leopardi, è essenzialmente una realtà fisico-biologica. Per il marxista, la forza condizionatrice della natura sull’uomo si è esercitata soprattutto ai primordi dell’umanità, in una specie di prologo o di antefatto preistorico: da quando l’uomo ha cominciato a lavorare e a produrre, la natura avrebbe cominciato a ridursi (e sempre più si ridurrebbe in futuro) a mero oggetto di attività umana: l’«uomo storico» metterebbe sempre più in ombra, e alla fine assorbirebbe e supererebbe del tutto l’«uomo naturale». Per il Leopardi, la natura conserva anche di fronte all’uomo civilizzato tutta la sua formidabile forza logoratrice e distruttrice: perciò la lotta dell’uomo contro la natura si configura nel pensiero leopardiano come una lotta disperata, e la distruzione di tutti i miti non dà luogo a una visione ottimistica della realtà, ma ad un pessimismo lucido e combattivo.

** IV. Il Leopardi e i filosofi antichi*

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

1. All’insegnamento di filosofia ricevuto da fanciullo il Leopardi ripensò in seguito con scarsa stima. Ci tenne a notare nello Zibaldone che a certi risultati della filosofia moderna (la critica lockiana delle idee innate; «l’ottimismo del Leibnizio», o quello che egli credeva tale) era giunto da sé, «non avendo mai letto scrittori metafisici, e occupandomi di tutt’altri studi, e null’avendo imparato di queste materie alle scuole (che non ho mai vedute)».1 In realtà le lezioni di logica e metafisica impartitegli nel 1810-12 dal suo precettore, don Sebastiano Sanchini, costituiscono soltanto una 1 iZib., 1347 (20 luglio 1821). Quanto all’idea che il Leopardi si era fatta dell’ottimismo leibniziano come di una negazione del concetto di «bene assoluto», cfr. Zib., 391 sg.

*iSu questo stesso argomento un importante saggio è stato scritto da Vincenzo Di Benedetto, G. Leopardi e i filosofi antichi, in «Critica storica» VI, 1967, p. 289 sgg. (cfr. anche la recensione dello stesso studioso al presente volume, in «Riv. di filologia» XCVII, 1969, p. 114 sgg.). I principali risultati del saggio del Di Benedetto sono: 1) la dimostrazione di un influsso dello scetticismo antico (conosciuto specialmente attraverso Luciano e il libro IX di Diogene Laerzio) sul pensiero leopardiano, dal Saggio sopra gli errori popolari fino ai pensieri del 1821; 2) la precisazione dell’atteggiamento (fondamentalmente, ma non esclusivamente polemico) del Leopardi di fronte a un aspetto particolare del platonismo, cioè alla concezione dell’amore esposta nel Simposio; 3) l’analisi di ciò che è specificamente leopardiano nelle libere traduzioni da lirici e comici greci, specialmente da Simonide; 4) alcune precisazioni sull’interpretazione che il Leopardi dà della figura di Socrate nello Zibaldone e nell’Ottonieri; 5) lo studio della forma nuova che nell’ultimo Leopardi assume la contrapposizione fra antichi e moderni: la superiorità degli antichi viene affermata in modo più reciso e globale, ed estesa alla filosofia; gli antichi sono considerati ora come i depositari di una desolata sapienza pessimistica, che i moderni avrebbero cercato di mascherare e di eludere con vani sofismi; ne risulta una visione del pensiero antico più astorica [cr] ** e indifferenziata (almeno in alcune affermazioni), ma d’altra parte la rivendicazione della maggiore umanità degli antichi costituisce uno dei motivi che confluiranno nell’umanitarismo polemico della Ginestra. Su questo saggio vedi anche qui {sotto}, pp. 234, 248 sg. **

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preparazione agli studi teologici, a quella carriera ecclesiastica a cui era stato destinato alla famiglia. Il testo prescelto per l’insegnamento della metafisica fu quello del padre François Jacquier, che recava il titolo significativo di Institutiones philosophicae ad studia theologica potissimum accommodatae; il Leopardi ne fece dei riassunti, oggi perduti.2 Alla lettura del Jacquier venne ben presto ad affiancarsi quella di altre opere di filosofia cattolica e di polemica antimaterialista e antisensista, di cui la biblioteca di Monaldo era molto largamente fornita.3 I cinque quaderni di Dissertazioni filosofiche di Giacomo Leopardi (1811-12), che si conservano tuttora inediti a Recanati,4 rappresentano un tentativo di sintesi di quelle letture. Tra le opere che il Leopardi cita, e da cui appare più influenzato, possiamo ricordare gli Elementi di Metafisica, ovvero Preservativo contro il Materialismo, contro l’Ateismo e contro il Deismo dell’abate Sauri (edizione italiana, Venezia 1777), Il buon uso della Logica in materia di Religione del conte Alfonso Muzzarelli (Foligno 1787), il Dictionnaire de Physique di Aimé-Henri Paulian (8a edizione, Nîmes 1781). Erano, queste e altre che il Leopardi possedeva e in gran parte lesse, opere del tardo Settecento, che combattevano l’illuminismo con brio e scioltezza illuministica, in uno stile per nulla paludato o arcaico. Di tale cultura illuministico-reazionaria si era nutrito Monaldo e si nutrì inizialmente Giacomo Leopardi. ** Tutti questi libri contenevano fitte citazioni degli illuministi francesi e dei filosofi greci. Fu per questa via indiretta che il Leopardi ebbe una prima conoscenza delle dottrine di Voltaire, Diderot, La Mettrie, Helvétius, Holbach, e del filosofo inglese che era considera2 iCfr. Indice delle produzioni di me Giacomo Leopardi dall’anno 1809 in poi, num. 27 e 28 (pubbl. da A. Donati nell’edizione dei Puerili e abbozzi vari, Bari 1924, p. 270, con l’avvertenza che quei riassunti «mancano nelle carte leopardiane di Recanati», e poi di nuovo dal Flora, PP, II, p. 1108). Dell’opera del Jacquier la biblioteca Leopardi possedeva l’edizione di Venezia 1785: nel vol. II era esposta la metafisica, che il Jacquier suddivideva in «Ontologia» e «Pneumatica» (cioè dottrina delle sostanze spirituali). 3 iTali opere si trovano tuttora specialmente nella sala I, sezioni XI-XIII («Philosophia») e nella sala II, sezioni XII-XIV («Polemica»). 4 iNel pubblicare alcuni scritti del Leopardi fanciullo, gli studiosi hanno dato la preferenza a quelli in versi. L’unica prosa di argomento filosofico finora pubblicata (e senza le note di cui il Leopardi stesso la corredò) è il Dialogo filosofico sopra un moderno libro intitolato «Analisi delle idee ad uso della gioventù» (Donati, ed. cit., p. 119 sgg.; Flora, PP, II, p. 1082 sgg.). Eppure la conoscenza di quei componimenti scolastici è indispensabile per avere un quadro completo di ciò che il Leopardi lesse. Spero di darne io prossimamente un’edizione.

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to il progenitore di questa funesta setta di liberi pensatori: John Locke. E fu per questa stessa via che imparò a conoscere per sommi capi il pensiero dei principali filosofi antichi, prima ancora di poterli leggere direttamente. Due atteggiamenti, entrambi tradizionali nell’apologetica cristiana, si alternavano in quei libri rispetto alla filosofia antica.* Un atteggiamento di condanna sommaria di tutti i filosofi pagani, di cui si metteva in risalto la discordia e la stravaganza delle opinioni;5 e una posizione meno radicale, che distingueva i filosofi spiritualisti, precursori del cristianesimo (Socrate, Platone, Aristotele inteso nel senso della Scolastica), dai materialisti (Democrito, Epicuro, Lucrezio), precursori dell’empia filosofia del secolo decimottavo.6 Queste idee sono fedelmente riecheggiate nei primi lavori scolastici del Leopardi. Una poesia del 1810 in martelliani, con la quale il fanciullo dodicenne presentava al padre il sunto della «Pneumatica» di Jacquier,7 cita con onore Socrate e Platone, e li oppone ai falsi sapienti che «con empie inique massime corromper sanno il mondo». Una Dissertazione sopra la Felicità, contenuta nel quarto quaderno di Dissertazioni filosofiche (1812), reca una condanna sprezzante dell’epicureismo: «Epicuro Filosofo, il di cui solo nome è bastante per iscreditare qualsivoglia ipotesi afferma, che la felicità non consiste che nel piacere».8 5 iScriveva per esempio il già citato Muzzarelli (Il buon uso ecc., I, p. 262): «Basta scorrere i secoli Gentileschi, e penetrar nelle scuole de’ Filosofi per udire i clamori delle varie Sette, che quistionavano inutilmente su la natura dell’anima, e sul governo dell’universo (...). I Platonici sostengono un Dio spirituale, gli Stoici lo aggravano tutto all’intorno di un corpo. I primi professano la provvidenza, la spiritualità, e l’immortalità dell’anima; gli Epicurei negano tutti questi dogmi. E intanto, mentre essi si mordono rabbiosamente, gli Scettici e i Pirronisti rovescian dal fondo tutti i sistemi. Que’ medesimi, che insegnano il vero, parlano in modo oscuro, si appoggiano a deboli conghietture, e contraddicono senza pena a se medesimi (...). Così i Licei della Grecia, e di Roma occupati da un popolo di Filosofi echeggiano di molte grida, e di poche verità». ** 6 iTirate contro l’epicureismo si trovano per esempio in Jacquier, Institutiones cit. (ho sott’occhio l’ed. di Venezia 1767), II, p. 331 sg.; VI, pp. 18, 30 sg.; Sauri, Elem. di Metafisica cit., I, p. 48 sg. (Epicuro accostato a La Mettrie), 60 sg. (Lucrezio accostato a Voltaire); Paulian, Dictionn. cit., IV, p. 33 s.v. Matérialisme; A. Valsecchi, La Religion vincitrice, Genova 1776, p. 57 sgg. (Holbach seguace di Lucrezio). 7 iPP, I, p. 727 sg. (già in Donati, ed. cit., p. 24); cfr. l’Indice cit. qui sopra (p. 149, n. 2), num. 29. 8 iTesto ancora inedito, p. 7 dell’autografo conservato a Recanati.

*iLa pubblicazione integrale delle dissertazioni filosofiche giovanili (nel vol. II delle «Opere di G. Leopardi inedite o rare» edite dal Centro nazionale di studi leopardiani) permetterà di precisare quanto si accenna qui sulla prima formazione filosofica del Leopardi. Per la Dissertazione sopra l’anima delle bestie vedi intanto qui sopra, {postilla a p. 118} n. 29. **

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Fra Platone e Aristotele il Leopardi fanciullo, fedele anche qui ai suoi testi e – si può esserne sicuri – all’insegnamento del Sanchini, dà la palma ad Aristotele, specialmente per ciò che riguarda la filosofia morale.9 In Germania cominciava proprio in quegli anni una rinascita platonica: il cristianesimo dei romantici, che puntava sul sentimento contro la ragione, trovava naturalmente in Platone (e più ancora nei neoplatonici) un appoggio molto più sicuro che in Aristotele; e quei tedeschi erano troppo buoni filologi per non sapere che il v e r o Aristotele escludeva l’immortalità dell’anima individuale e, pur con tutti i suoi residui di platonismo, era un pensatore fortemente orientato in senso immanentistico. Anche in Italia, specialmente nel mezzogiorno vichianeggiante, c’erano correnti di pensiero che si richiamavano a Platone e al pitagorismo della Magna Grecia: il Platone in Italia del Cuoco era apparso proprio nei primi anni del secolo. Ma il cattolicesimo tardosettecentesco che ancora si respirava in casa Leopardi guardava con molto più simpatia ad Aristotele, sia perché questo era rimasto il filosofo per eccellenza delle scuole cattoliche, sia per quell’aspirazione ad un cattolicesimo razionale che, come abbiamo detto, caratterizzava quell’ambiente, e che lo teneva lontano dai «sogni» e dagli slanci mistici del platonismo. Il Leopardi, che più tardi porrà tra religione e ragione un contrasto insuperabile, nell’epoca a cui ci riferiamo è ancora convinto che la sana ragione conduce immancabilmente ad accettare il cattolicesimo. A questa convinzione sono ispirati i martelliani del 1810: i filosofi empi sono scacciati dalla Ragione, e la poesia culmina nell’augurio: Così potesse alfine filosofia scacciare L’empie seguaci turbe, e i chiari rai vibrare: Per cui Ragion nel trono sublime un dì si assida, La Religion si avvivi, giubili il mondo e rida.

L’apprendimento del greco, iniziato dal Leopardi nel 1813 e portato avanti con straordinaria rapidità, rappresenta la prima iniziativa di studio autonoma rispetto al precettore e al padre, che di greco era9 iVedi soprattutto il quarto quaderno delle Dissertazioni filosofiche, p. 13 sgg. dell’autografo: il Leopardi ammette che la dottrina morale platonica «è certamente consentanea in gran parte, a quanto insegnato ci viene dalla Cattolica Fede»; ma dichiara che la verità piena è stata raggiunta – per quanto era possibile col solo aiuto della ragione – da Aristotele, e di lì in poi si limita a esporre i principii etici aristotelici.

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no ignari.10 Ora anche ai filosofi greci egli può accostarsi direttamente, non più attraverso lo schermo dei mediocri apologeti e trattatisti cattolici sui quali aveva iniziato i suoi studi. Uno dei primissimi lavori eruditi del Leopardi è la traduzione con commento della Vita Plotini di Porfirio, compiuta nel 1814. La Bibliotheca Graeca del Fabricius, miniera di notizie bio-bibliografiche su tutti gli autori greci, compresi i filosofi, gli diviene familiare. Per il Porfirio, come già pochi mesi prima per l’Esichio Milesio, egli ha frequenti occasioni di consultare Diogene Laerzio nella bella edizione del Meibomius (Amsterdam 1692) con note del Casaubonus e di altri con le osservazioni del Menagius.11 Anche in seguito quell’edizione non cessò mai di essere da lui letta e riletta, come testimonia lo Zibaldone; essa offriva, nelle note, una raccolta di quasi tutte le fonti dossografiche allora accessibili. Da questi studi di erudizione, iniziati ancora nella prospettiva di una carriera ecclesiastica, nasce ben presto la filologia leopardiana, come critica testuale ed esegesi di singoli passi. Non c’è da meravigliarsi, invece, che la visione leopardiana del pensiero antico, benché molto arricchita di notizie, rimanga per il momento invariata nelle sue linee fondamentali. Il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, composto all’inizio del ’15, rappresenta il risultato ultimo e, a suo modo, perfetto di quel tipo di divulgazione illuministico-cattolica verso cui, come abbiamo visto, il Leopardi era stato orientato inizialmente dai libri della biblioteca paterna (s’intende che, in certi passi già notati dagli studiosi, il Leopardi è fin da ora scrittore ben più originale ed efficace dei suoi modelli).* Appare ancora ben salda in quest’opera la convinzione che religione cattolica e conoscenza razionale coincidono, che gli «errori popolari» sono contrari al dogma cristiano non meno che alla sana filosofia. Quindi i filosofi antichi a volte sono biasimati 10

iCfr. sopra, p. 51 n. 33. iVedi per esempio i riferimenti a questa edizione nell’Esichio Milesio, pp. 171 n. 7, 175 n. 8 ecc. dell’ed. Cugnoni (G. L., Opere inedite, I, Halle 1878), e nel Porfirio, pp. 34 n. 284, 35 n. 87, 37 n. 312, 50 n. 462 ecc. dell’autografo (Biblioteca Nazionale di Firenze, Banco rari 342, num. 5). ** 11

*iErsilia Alessandrone (rec. cit., p. 330 n. 9) ritiene che già le letture di opere di divulgazione scientifica orientate in senso razionalistico (Fontenelle, Algarotti, Thomas Brown, Bailly), compiute dal Leopardi negli anni 1813-15 per la compilazione della Storia dell’astronomia e del Saggio sopra gli errori popolari **, lo abbiano condotto «a discostarsi notevolmente dai giudizi correnti presso gli apologeti cattolici (...), allontanandosi dal concetto che la saggezza fosse appannaggio esclusivo dei partecipi della Rivelazione».

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per esser rimasti essi stessi vittime dei pregiudizi popolari, o addirittura per essersene fatti promotori (e allora il Leopardi, come già nella Storia dell’astronomia, si abbandona a tirate sulla discordia e l’assurdità delle loro teorie che ricordano quella, già citata, del Muzzarelli);12 a volte, invece, appaiono come savi che cercarono di opporsi alle superstizioni del volgo. Questo secondo punto di vista, direi, predomina nel Saggio: quasi in ogni capitolo l’esposizione degli errori antichi è accompagnata dalla menzione dei pochi eletti (non solo filosofi e scienziati, ma spesso anche poeti) che ne rimasero immuni. Nel calore della sua polemica anti-superstiziosa, il Leopardi elargisce riconoscimenti non solo ai filosofi greci e romani spiritualisti (da Pitagora a Platone a Cicerone e Seneca), ma, qua e là, anche a un Democrito, a un Epicuro;13 e osa terminare il quarto capitolo con la citazione enfatica del verso di Lucrezio (conosciuto con tutta probabilità di seconda mano, come la maggior parte degli autori citati nel Saggio): O miseras hominum mentes, o pectora caeca! Si tratta, naturalmente, di audacie occasionali e ancora un po’ fortuite. La religiosità del Leopardi, prima di dileguarsi definitivamente, conosce ancora periodi di travaglio e di meditazione dolorosa, ritorni di ascetismo: anzi, prima di respingere il cristianesimo, egli si sforzerà abbastanza a lungo, come è noto, di interpretare in chiave cristiana il proprio nascente pessimismo. L’Appressamento della morte (novembredicembre 1816) ci mostra quest’altra faccia del cristianesimo giovanile leopardiano, opposta a quella, fiduciosamente razionalistica, delle Dissertazioni fanciullesche e degli Errori popolari. E qui, in uno dei brani più scolasticamente ricalcati su Dante e sui Trionfi (canto III, vv. 31-108), ritorna la contrapposizione fra i tre grandi filosofi spiritualisti – Socrate Platone Aristotele – e gli altri, con punte polemiche 12 iVedi per esempio il cap. IX (PP, II, p. 310 sg.): «Accorsero i filosofi in aiuto del popolo, ma Anassagora fece del sole un ferro infocato, Alcmeone lo credé una lastra, Eraclito un battello (...). Il numero degli errori si accrebbe, e i filosofi continuarono a dire (...). La filosofia degli antichi era la scienza delle contese; le scuole pubbliche che essi aveano, erano le sedi della confusione e del disordine. Aristotele condannava ciò che Platone gli aveva insegnato. Socrate si ridea di Antistene, e Zenone si scandolezzava di Epicuro. Pitagorici, Platonici, Peripatetici, Stoici, Cinici, Epicurei, Scettici, Cirenaici, Megarici, Eclettici, si accapigliavano, si faceano beffe gli uni degli altri, mentre qualche vero saggio si rideva di tutti». Così a pp. 312-314, 318 sgg., 324, e già nella Storia dell’Astronomia (1813) in tutto il cap. II, specialmente p. 809 ed. Flora. 13 iPP, II, pp. 270, 131.

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aspre contro la dottrina pitagorica della metempsicosi, contro Democrito e, ancor più, contro Epicuro, il «lercio duce de la mandra impura».14 2. La «conversione letteraria», dopo una prima fase di purismo un po’ angusto (vedi sopra, p. 92), segnò il vero nascere della personalità leopardiana in netta antitesi, ormai, all’ambiente familiare e al più vasto ambiente della Restaurazione. Essa rappresentò anche il primo contatto non più meramente erudito, ma appassionato e impegnato, con l’antichità. Ma l’antichità, adesso, per il Leopardi significava contatto con la natura, vita ancora libera dal razionalismo disgregatore e dall’ascetismo mortificante. Le manifestazioni tipiche dell’antichità così russoianamente concepita erano dunque l’azione pratica (le repubbliche classiche, tutte patriottismo, eroismo e magnanime illusioni) e la poesia: non la filosofia, che era invece il triste contrassegno della civiltà moderna, ammalata di razionalismo. Collocare e giustificare la filosofia antica in questa concezione generale dell’antichità diventava un compito difficile. Nello Zibaldone, dal 1818 al ’22, assistiamo a una serie di tentativi. Innanzitutto, un tentativo di minimizzare l’importanza della filosofia antica in confronto al posto centrale che la filosofia occupa nella cultura moderna. «Il gusto presente per la filosofia – scrive il Leopardi in un pensiero della fine del ’18 o dei primi del ’19 –15 non si dee stimare passeggero né casuale, come fu varie volte anticamente, per esempio appresso i Greci al tempo di Platone dopo Socrate, e appresso i Romani in altri tempi ancora, ma fra i nobili e gli scioli come presentemente al tempo di Luciano, quando mantenevano il filosofo come ingrediente di corte e di famiglia illustre, e si trattenevano benché scioccamente con lui ecc. Vedi Luciano fra le altre opere nel trattato De mercede conductis. In questi tali tempi era effetto di moda, e non avendo il suo principio radicale nello stato dei popoli poteva passare e passava come ogni altra moda, sicch’era cosa accidentale che sopravvenisse questo gusto piut14 iChe l’allusione sia rivolta ad Epicuro (non a Diogene cinico o ad Antistene, come è stato supposto) ha sostenuto giustamente H. L. Scheel, Leopardi und die Antike, München 1959, p. 149. Una conferma in «Gnomon» 1960, p. 583. Il Leopardi giovinetto riecheggia, ma in tono di sdegno moralistico, [cr] la sorridente espressione di Orazio Epicuri de grege porcum. 15 iZib., 31. Per la datazione cfr. gli indizi raccolti da G. A. Levi in «Giorn. stor. letter. ital.» XCII, 1928, p. 216.

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tosto che un altro. Ma presentemente il commercio scambievole dei popoli, la stampa ecc. e tutto quello che ha tanto avanzato l’incivilimento cagiona questo amore dei lumi e per conseguenza della filosofia (...): onde questo gusto avendo la sua ferma radice nella condizione presente dei popoli si dee stimare durevole e non casuale né passeggero e molto differente da una moda». Ma un giudizio così sommario, che liquidava come «effetto di moda» un’attività che aveva tanto pesato nella cultura, nella politica e nel costume antico, non poteva evidentemente accontentare il Leopardi, che aveva già una conoscenza abbastanza larga, anche se disorganica e in massima parte di seconda mano, del pensiero greco e latino. Direi che l’insoddisfazione si nota già nella forma intricata con cui è espresso il pensiero che abbiamo ora riferito: il Leopardi, mentre contrappone l’«accidentalità» della filosofia antica all’essenzialità della moderna, sente il bisogno di distinguere tra il gusto filosofico dei tempi di Platone e quello, del tutto frivolo e superficiale, dei tempi di Luciano, e di ammettere, d’altra parte, che la filosofia come moda di nobili e di saputelli si trova anche «presentemente». Una soluzione meno sforzata poteva consistere nel presentare la filosofia antica come un sintomo della decadenza della civiltà antica, del suo allontanarsi dalla natura. Il Leopardi si impegnò a dimostrare questa tesi specialmente per il mondo romano. Che l’introduzione in Roma della filosofia greca fosse stata (accanto alle eccessive ricchezze e alla cessazione del metus hostilis) una causa della decadenza civile e morale dei romani dopo le guerre puniche, era una vecchia idea risalente a Catone il censore.16 La lettura della Grandeur et décadence di Montesquieu, compiuta nel ’20, rafforzò nel Leopardi questa convinzione. Era questo un periodo in cui la fine della repubblica romana costituiva oggetto di appassionata meditazione per il giovane alfieriano, che già tendeva a dare, più dello stesso Alfieri, uno sbocco disperato al proprio libertarismo. Già in una delle prime pagine dello Zibaldone,17 a proposito dell’impossibilità di ristabilire la repubblica dopo l’uccisione di Cesare, aveva osservato: «Cicerone predicava indarno, non c’erano più le illu16

iCome ricorda lo stesso Leopardi, Zib., 274, 331. iZib., 22 sg. (databile tra il febbraio e il settembre 1818, cfr. Levi, art. cit., p. 216). Le sottolineature sono mie. 17

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sioni d’una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria la gloria il vantaggio degli altri dei posteri ecc. (...); così perderono la libertà, non si arrivò a conservare e difendere quello che pur Bruto per un avanzo d’illusioni aveva fatto, vennero gl’imperatori, crebbe la lussuria e l’ignavia, e poco dopo con tanto più filosofia, libri scienza esperienza storia, erano barbari».18 Ribadì questo concetto nel giugno del ’20, durante la lettura del Montesquieu: «I romani non furono mai così filosofi come quando inclinarono alla barbarie, cioè a tempo della tirannia. E parimente negli anni che la precedettero, i romani aveano fatti infiniti progressi nella filosofia e nella cognizione delle cose, ch’era nuova per loro».19 E ancora: «Vedete che cosa avvenne ai romani quando s’introdusse fra loro la filosofia e l’egoismo, in luogo del patriotismo. Il qual egoismo è così forte che dopo la morte di Cesare, quando parea naturalissimo, che le idee antiche si risvegliassero ne’ romani, fa pietà il vederli così torpidi, così indifferenti, così tartarughe, così marmorei verso le cose pubbliche».20 Soprattutto da quest’ultimo pensiero nasce, uno o due anni dopo, quel gioiello di prosa satirica che è il dialogo Filosofo greco, Murco senatore romano, Popolo romano, Congiurati.21 Qui il Filosofo greco è il teorizzatore di quella viltà – dovuta al prepotere della ragione e alla morte delle illusioni – di cui il senatore romano Murco è l’incarnazione. Quando Murco afferma che «questo non è il secolo della virtù ma della verità» e che l’incivilimento ha distrutto ogni passione magna18 iQuesto scorcio cronologico, per cui la caduta della repubblica romana è vista come l’immediato antecedente della «barbarie», ritorna nella prima stanza del Bruto minore, vv. 3-9. 19 iZib., 114 sg. 20 iZib., 161 (8 luglio 1820). 21 iPP, I, p. 1057 sgg. (dalle carte napoletane). I primi editori (Scritti vari inediti, Firenze 2 1910 , p. 306) assegnarono il dialogo al 1822, senza addurne i motivi. Lo Scarpa (G. L., Opere a cura di R. Bacchelli e G. Scarpa, Milano 1935, p. 1292) lo riferisce all’agosto del ’20, supponendo – ma è ipotesi labile – che ad esso alluda il Leopardi nella lettera al Giordani del 4 settembre 1820: «In questi giorni, quasi per vendicarmi del mondo, e quasi anche della virtù, ho immaginato e abbozzato certe prosette satiriche». I riferimenti al libro II di Velleio Patercolo, che si trovano annotati all’inizio del dialogo, indicherebbero come terminus post quem il gennaio del ’21, quando il Leopardi lesse quel libro (cfr. Zib., 465-81). Tuttavia l’esame dell’autografo dimostra che tali riferimenti furono aggiunti dal Leopardi in un secondo tempo. Certo è, ad ogni modo, che il germe del dialogo si trova già nel pensiero del luglio 1820 da noi citato sopra. Si osservi, oltre la concordanza generale di contenuto, il ritornare dell’immagine della tartaruga: nello Zibaldone: «fa pietà il vederli così torpidi (...), così tartarughe»; nel dialogo, p. 1058: «la ragione è pigra come una tartaruga».

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nima, il Filosofo greco soggiunge: «Sto22 a vedere che costui mi vuol fare il maestro di filosofia. Murco mio caro, questi insegnamenti noi gli abbiamo su per le dita. La filosofia non è altro che la scienza della viltà d’animo e di corpo, del badare a se stesso, procacciare i propri comodi in qualunque maniera, non curarsi degli altri, e burlarsi della virtù e di altre tali larve e immaginazioni degli uomini (...). Oh filosofia filosofia! Verrà tempo che tutti i mortali usciti di tutti gl’inganni che li tengono svegli e forti, cadranno svenuti e dormiranno perpetuamente fra le tue braccia». L’atto eroico e feroce di Bruto non può ridestare un popolo così profondamente corrotto dalla ragione. Come la filosofia aveva portato la Repubblica alla rovina, così a loro volta i filosofi dell’età neroniana e flaviana, malgrado il loro personale amore per la libertà, contribuirono a ribadire la servitù: «Considera la gran contrarietà di Catone ai progressi dello studio presso i Romani, i quali sono un vivissimo esempio di quello ch’io dico, cioè dell’esser gli studi, tanto ameni quanto seri e filosofici, favorevolissimi alla tirannia. Vedi anche Montesquieu, Grandeur ecc., ch. 10, principio. Certo la profonda filosofia di Seneca, di Lucano, di Trasea Peto, di Erennio Senecione, di Elvidio Prisco, di Aruleno Rustico, di Tacito ecc. non impedì la tirannia, anzi laddove i Romani erano stati liberi senza filosofi, quando n’ebbero in buon numero, e così profondi come questi, e come non ne avevano avuti mai, furono schiavi».23 Nell’Essai sur l’indifférence en matière de religion del Lamennais il Leopardi trovò, di lì a poco, una nuova conferma a queste idee:24 la filosofia era stata «la distruttrice di Roma» e la storia romana dimostrava quanto fosse vero che «la religione si ritrova presso la culla di tutti i popoli, a quella guisa che la filosofia si è trovata sempre vicina alla lor tomba». Tuttavia, di fronte all’uso apologetico, filocattolico che il Lamennais della prima maniera faceva delle osservazioni del Montesquieu, si ribellava la profonda onestà e chiarezza intellettuale del Leopardi, convinto della dolorosità del vero, ma non per questo disposto a gabellare il falso per vero e a credere nella obiettiva verità 22 i«Sta» legge il Donati, e parrebbe più giusto; ma l’autografo, ha chiaramente «Sto», e così gli altri editori. ** [Sto è confermato definitivamente da Zib. 976.] 23 iZib., 274 (14 ottobre 1820). Il Montesquieu, nel passo a cui si riferisce il Leopardi, opinava che «la secte d’Epicure (...) contribua beaucoup à gâter le coeur et l’esprit des Romains»: cfr. Zib., 331. 24 iZib., 331 sg. (16 novembre 1820).

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delle illusioni religiose: «laddove gli apologisti della religione ne deducono che gli stati sono stabiliti e conservati dalla verità, e distrutti dall’errore, io dico che sono stabiliti e conservati dall’errore, e distrutti dalla verità. La verità non si è mai trovata nel principio, ma nel fine di tutte le cose umane; e il tempo e l’esperienza non sono mai stati distruttori del vero, e introduttori del falso, ma distruttori del falso e insegnatori del vero. E chi considera le cose al rovescio, va contro la conosciuta natura delle cose umane. Questo è il controsenso fondamentale in cui è caduto l’autore sopracitato. Egli avrebbe difesa molto meglio la Religione se l’avesse difesa non come dettame dell’intelligenza, ma come dettame del cuore». L’accordo religione-ragione, in cui il Leopardi aveva ancora così fermamente creduto al tempo del Saggio sopra gli errori popolari, era definitivamente rotto. L’avvento del cristianesimo appariva ora al Leopardi come una reazione irrazionalistica a uno stato di profonda disperazione, causato dalla troppa filosofia: il momento in cui il cristianesimo aveva preso piede era quello «a cui forse si dee riferire il maggior progresso della setta scettica o Pirroniana» (Zib., p. 427), e in cui d’altra parte il bisogno di abbandonarsi al misticismo aveva pervaso gli stessi intellettuali, stanchi di tanto raziocinare: «E quel tempo appunto per li suoi lumi inclinava al metafisico, all’astratto, al mistico, e quindi Platone trionfava in quei tempi. Vedi Plotino, Porfirio, Giamblico e i seguaci di Pitagora, anch’esso astratto e metafisico» (p. 336). Ma proprio per questo suo carattere di restaurazione (di «ideale di ritorno», avrebbe detto il De Sanctis), non di fede integra e primigenia, il cristianesimo non poteva non riuscire assai meno beatificante delle religioni antiche: non poteva non rappresentare un elemento di «barbarie» anziché di «primitività».25 Gran parte dei pensieri leopardiani del 1820-22 rivelano questa oscillazione tra il tentativo di metter d’accordo il cristianesimo col suo «sistema»26 e la ripugnanza, che 25 iVedi specialmente Zib., 337: «Del resto è vero che il Cristianesimo ravvivò il mondo illanguidito dal sapere, ma siccome, anche considerandolo com’errore, era appunto un errore nato dai lumi e non dall’ignoranza e dalla natura, perciò la vita e forza ch’ei diede al mondo, fu come la forza che un corpo debole e malato riceve da’ liquori spiritosi, forza non solamente effimera, ma nociva, e produttrice di maggiore debolezza» (tutto il resto di questo pensiero è da leggere). Cfr. Zib., 421 e, per la distinzione leopardiana fra «primitivo» e «barbaro», qui sopra, pp. 118-119. 26 iVedi in particolare il lungo pensiero del 9-15 dicembre 1820, Zib., 393-420; e qui sopra, p. 136 n. 71.

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infine prevalse, ad accettare quel tipo di illusioni negatrici della vita attiva, della felicità terrena, del patriottismo, che erano le illusioni cristiane, ben diverse da quelle dei Greci e Romani antichi. Contro questi «errori per loro particolar natura mortificanti, come quelli derivati da un’ignoranza barbarica e diversa dalla naturale», diventava necessario ricorrere a una «mezza filosofia», che ridestasse l’umanità dal torpore senza perciò riprecipitarla nell’eccessivo razionalismo.27 Ora, proprio questo concetto di «mezza filosofia» permise al Leopardi, dai primi del ’21 in poi, di non coinvolgere più tutto il pensiero filosofico antico in una condanna sommaria. Gli stoici dell’ultima Repubblica romana e dell’Impero, che si erano opposti al dispotismo – e che nel pensiero già citato dell’ottobre del ’20 erano stati senz’altro giudicati complici, sia pure involontari, del dispotismo stesso, in quanto distruttori delle illusioni – ora gli apparivano già in luce diversa: «Del resto la mezza filosofia, non già la perfetta filosofia, cagionava o lasciava sussistere l’amor patrio e le azioni che ne derivano, in Catone, in Cicerone, in Tacito, Lucano, Trasea Peto, Elvidio Prisco, e negli altri antichi filosofi e patrioti allo stesso tempo» (Zib., 522). Di qui in avanti, pur senza abbandonare del tutto la tesi dell’eccesso di filosofia come causa della decadenza del mondo antico, il Leopardi viene riscoprendo la positività della filosofia antica in quanto «mezza filosofia», non interamente razionalistica, ma commista di fantasia e di sentimento. Il fatto che i filosofi greci tenessero a distinguersi anche esteriormente (nel vestire, nel modo di vivere) assai più che i moderni, così da formare «una classe e una professione formalmente distinta dalle altre, ed anche dalle altre sette di filosofi», gli appare adesso una «conseguenza necessaria del predominio della natura fra gli antichi, e della sua nessuna influenza sui moderni. Dalla qual natura deriva il fare: e il dare una vita, una realtà, un corpo visibile, una forma sensibile, un’azione allo stesso pensiero, alla stessa ragione»: per cui «l’apparenza e la sostanza erano assai meno discordi fra gli antichi i più istruiti, e per conseguenza allontanati dalla natura; di quello che sia fra i moderni i più ignoranti e inesperti, o i più naturali» (Zib., 1018 sg., 6 maggio 1821). 27 iZib., 520 sgg. (17 gennaio 1821); cfr. gli altri passi elencati dal Leopardi stesso nell’Indice del mio Zibaldone alla voce «Filosofia perfetta, e mezza Filosofia» (vol. II, p. 1388 Flora).

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È noto come il rapporto poesia-filosofia, che ancora ai primi del ’21 era visto dal Leopardi come assoluta e inconciliabile opposizione, a poco a poco gli si andò configurando come una concordia discors, e infine come stretta affinità.28 Ora, il genere di filosofia che più presto venne riconosciuto dal Leopardi come non incompatibile con la poesia fu appunto la «mezza filosofia» degli antichi: «La filosofia di Socrate poteva e potrà sempre non solo compatire, ma infinitamente servire alla letteratura e poesia, e gioverà pur sempre agli uomini più dell’odierna (...). Ma la filosofia di Locke, di Leibnizio ecc. non potrà mai stare colla letteratura né colla vera poesia. La filosofia di Socrate partecipava assai della natura, ma questa nulla ne partecipa, ed è tutta ragione. Perciò né essa né la sua lingua è compatibile colla letteratura, a differenza della filosofia di Socrate, e della di lei lingua. La qual filosofia è tale che tutti gli uomini un poco savi ne hanno sempre partecipato più o meno in tutti i tempi e nazioni, anche avanti Socrate. È una filosofia poco lontana da quello che la natura stessa insegna all’uomo sociale».29 Socrate non era dunque visto dal Leopardi come il distruttore dell’etica della polis (quale apparirà a Nietzsche, e già a Hegel), ma come il rappresentante di una filosofia popolare che era quasi una trascrizione dei precetti della natura. Per questo i filosofi antichi avevano potuto governare stati, godere di larga autorità presso il popolo, non essere insomma ridotti alla parte di intellettuali umbratili.30 E tuttavia l’elemento fantasioso, irrazionale, di questa «mezza filosofia» antica, se giovava a tener vive le illusioni, costituiva un ostacolo obiettivo al raggiungimento della verità. Per un verso le filosofie degli antichi avevano serbato una funzione sociale, di stimolo alla virtù, che mancava alle aride filosofie moderne; per un altro verso, giudicate da un punto di vista strettamente scientifico, esse erano «le pazze filosofie degli antichi», inferiori alle moderne proprio perché avevano preteso di «insegnare e fabbricare», mentre oggi la ragione 28 iVedi – per citare soltanto due punti estremi di questa evoluzione – da un lato Zib., 1228 sg., 1231 (26-27 giugno 1821: «Dove regna la filosofia, quivi non è vera poesia ... Tra questa e quella esiste una barriera insormontabile, una nemicizia giurata e mortale»), dall’altro 3382 sg. (8 settembre 1823) e il cap. VII del Parini. 29 iZib., 1359 sg. (20 luglio 1821). Più tardi, nel capitolo del Parini cit. alla nota precedente, riconoscerà anche a Leibniz (e, nella prima stesura, anche a Locke) attitudine artistica. 30 iZib., 3386 (8 settembre 1823).

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umana aveva acquistato coscienza del proprio compito esclusivamente negativo.31 Risorgeva sempre nel Leopardi quel profondo rigore intellettuale che (come abbiamo visto nella sua polemica col Lamennais) gli vietava di credere alla verità del mitico e dell’irrazionale pur mentre era persuaso del loro effetto consolatore. In questo quadro che egli si era fatto della filosofia antica spiccava però una vistosa eccezione. Già nel novembre del 1820 aveva letto in Diogene Laerzio le ultime parole di Teofrasto ai discepoli, in cui si affermava la vanità della gloria e delle illusioni.32 C’era dunque stato già nell’antichità un filosofo pessimista! Il Leopardi non aveva ancora notizia, a quell’epoca, dei molti altri pensatori greci che, ben più propriamente di Teofrasto, si possono dire pessimisti. Quelle parole di Teofrasto gli apparvero perciò una voce isolata di pessimismo ragionato (non puramente momentaneo e passionale) in un mondo ancora rigoglioso di illusioni: «Io credo di essere il primo a notare che Teofrasto, essendo filosofo e maestro di scuola (...), anteriore oltracciò ad Epicuro, e certamente non Epicureo né per vita né per massime, si accostò forse più di qualunque altro alla cognizione di quelle triste verità che solamente gli ultimi secoli hanno veramente distinte e poste in chiaro, e della falsità di quelle illusioni che solamente a’ dì nostri hanno perduto il loro splendore e vigor naturale» (Zib., 317). 31 iZib., 1352 (20 luglio 1821): 1465 (7 agosto 1821), dove tuttavia il Leopardi riconosce acutamente alla metafisica antica (e alle sue propaggini cristiane) la funzione positiva di aver dato impulso alla creazione del linguaggio astratto; 2709 sg.; 2711 sg. (21 maggio 1823): «I filosofi antichi seguivano la speculazione, l’immaginazione e il raziocinio. I moderni l’osservazione e l’esperienza. (E questa è la gran diversità fra la filosofia antica e la moderna)»; 3321 (1-2 settembre 1823). In tutti questi pensieri si svolge una specie di querelle des anciens et des modernes, in cui la nostalgia delle illusioni antiche è contrastata dall’orgoglio illuministico per le conquiste del pensiero moderno. 32 iDiogene Laerzio V 40 sg. Il passo è tradotto dal Leopardi in Zib., 316 e, con poche modifiche formali, nella Comparazione delle sentenze ecc. (PP, I, p. 1038). Per l’interpretazione di καταλαζονε)εται («disprezza») il Leopardi seguì, credo giustamente, l’edizione di Amsterdam (cit. qui sopra, p. 152), nella quale era anche riportata, a conferma, una nota dello Stefano. Le altre interpretazioni («Multa dulcia gloriae obtentu vita mentitur», Ambrogio Traversari, riportato nell’ed. di Amsterdam; «La vita rivela che molte gioie sono mera parvenza», M. Gigante, Bari 1962) mi sembrano incapaci di render ragione di δι τν δ(ξαν. Sulle difficoltà che presenta la concatenazione delle idee in questa parlata di Teofrasto quale è riferita da Diogene Laerzio vedi F. Tocco, Leopardi e Teofrasto, in «Atene e Roma» 1899, col. 242 sgg. Le difficoltà sono, tuttavia, meno gravi di quanto apparissero al Tocco; non bisogna dimenticare che una certa discontinuità logica è frequentissima in testi greci.

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Le altre testimonianze, specialmente ciceroniane, su Teofrasto, che ricavò dalle note dell’edizione olandese di Diogene Laerzio e dal Fabricius, lo condussero sempre più a formarsi di Teofrasto un ritratto ideale, fortemente colorito di autobiografismo. Teofrasto, proprio perché aveva riconosciuto meglio di ogni altro la vanità delle illusioni, «non però le fuggiva o le proscriveva come i nostri pazzi filosofi, ma le cercava e le amava». Aveva studiato a fondo i caratteri degli uomini, e la scienza del cuore umano porta naturalmente alla malinconia, «tanto più che la base di questa scienza è la sensibilità e suscettibilità del proprio cuore, nel quale principalmente si esamina la natura dell’uomo e delle cose». Aveva – come il Leopardi giovane – un «sapere enciclopedico», che «influisce necessariamente sulla profondità dell’intelletto, e il disinganno del cuore». Aveva liberato due volte la patria dalla tirannide:33 il pessimismo non aveva spento in lui, come nemmeno nel Leopardi, la fiamma patriottica e libertaria! Questi pensieri ritornano, un anno e mezzo dopo (marzo 1822), nella Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte. Qui il paragone con Bruto dà maggiore risalto al carattere particolare del pessimismo teofrasteo, non esploso in un momento di concitata disperazione, ma maturato nel corso di tutta una vita lunghissima, agiata, esteriormente felice.34 Bruto e Teofrasto rappresentano due diverse facce del pessimismo leopardiano, quella alfieriana e agonistica, quale si era espressa nelle Canzoni, e quella ragionativa e filosofica, a cui il Leopardi avrebbe di lì a poco dato espressione nelle Operette. Ma la prima appariva al Leopardi normale anche nell’antichità: Niobe, Giobbe, Giuliano l’Apostata erano esempi tipici di questo atteggiamento di ribellione contro il destino, che giungeva fino alla bestemmia (vedi l’importante pensiero del 15 gennaio 1821, Zib., 503-507). Eccezionale gli sembrava invece la dolorosa e pacata saggezza teofrastea. Eppure, se dall’ovvia constatazione della tinta autobiografica di questo ritratto di Teofrasto si volesse concludere, con Felice Tocco,35 che il Teofrasto leopardiano è «un Teofrasto di fantasia», del tutto 33 iSu questa notizia, riferita da Plutarco Mor. 1126 F e 1097 B, cfr. O. Regenbogen in PaulyWissowa, Suppl. VII (1940), col. 1359. 34 iPP, I, p. 1040. Sulla Comparazione vedi l’interessante analisi di G. Berardi in «Belfagor» XVIII, 1963, pp. 433-438. 35 iArt. cit. qui sopra, nota 32. Per analoghi giudizi del Tocco su altri scritti leopardiani cfr. pp. 172 n. 65, 180 n. 87.

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diverso da quello storico, si cadrebbe in errore. Certo, noi oggi sappiamo che le ultime parole di Teofrasto, dato e non concesso che siano almeno in parte autentiche, non autorizzano a fare un pessimista di un pensatore così pieno di aristotelico equilibrio e di lieta curiosità empirica come egli fu; e non dobbiamo dimenticare che a quell’epoca il Leopardi non aveva ancora letto i Caratteri36 né alcun altro degli scritti teofrastei a noi giunti. Ma c’è un punto che il Leopardi ha visto con perfetta esattezza storica: l’importanza della polemica teofrastea (in parte già aristotelica) contro la tesi, tanto cara al pensiero greco, dell’indipendenza della felicità del savio dagli eventi esterni. «Del rimanente mi pare che Teofrasto (...) sentisse (...) soprattutto l’impero della fortuna, e la sua preponderanza sopra la virtù relativamente alla felicità dell’uomo e anche del saggio, al contrario degli altri filosofi tanto meno profondi, quanto più superbi, i quali ordinariamente si compiacevano di credere il filosofo felice per se, e la virtù sola o la sapienza, bastanti per se medesime alla felicità»: ** così aveva scritto già nel pensiero dell’11 novembre 1820, polemizzando col superficiale stoicismo di Cicerone.37 E nella Comparazione aggiunse: «Della qual fantasia non pare che i filosofi sieno ancora guariti, anzi pare che sieno peggiorati non poco, volendo che ci debba menare alla felicità questa filosofia presente, la quale in somma non dice e non può dir altro, se non che tutto il bello, il piacevole e il grande è falsità e nulla». Effettivamente la profonda verità dell’etica aristotelico-teofrastea – che la distacca da tutte le altre etiche antiche e da gran parte delle moderne – è la consapevolezza dell’insufficienza della «libertà interiore». E che in questa consapevolezza vi sia – una volta negata una provvidenza trascendente – un germe di pessimismo, il Leopardi aveva ragione di rilevare. 3. Il 1823 è un anno di grande importanza, come per gli studi filologici del Leopardi, così per i suoi rapporti con la filosofia antica. In 36 iLi lesse poi nell’ottobre-novembre 1825: cfr. Zib., 4146-49 e l’indice delle letture pubblicato dal Porena, Scritti leopardiani, p. 428, num. 341. 37 iZib., 316 sgg. I passi di Cicerone contro cui polemizza il Leopardi sono Tusc. V 25 (cfr. III 21) e De fin. V 12. Nell’edizione del Flora, vol. I, p. 1594 le note 1 e 2 a p. 287 vanno scambiate di posto. Si noti ancora che, come mi conferma Giuseppe Pacella, nella citazione di Tusc. V 25 il Leopardi scrisse effettivamente laudarit (che è la lezione giusta), non laudavit come stampano gli editori fiorentini e il Flora.

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febbraio, durante il soggiorno a Roma, intraprese la lettura del Voyage du jeune Anacharsis,38 e ben presto fu attratto da ciò che il Barthélemy riferiva sul pessimismo antico. Attraverso questa lettura giunsero per la prima volta a lui – che non conosceva direttamente né Teognide né Pindaro né Sofocle né Euripide –39 le famose sentenze: meglio per l’uomo non esser mai nato e, una volta nato, morire al più presto; giorno di lutto dovrebb’essere il giorno della nascita, come è presso alcuni popoli barbari, non quello della morte. Press’a poco nello stesso tempo, analoghe testimonianze del pessimismo antico trovò in alcuni opuscoli plutarchei (soprattutto nell’apocrifa Consolatio ad Apollonium) che egli leggeva nella traduzione di Marcello Adriani.40 Tra queste testimonianze c’era la famosa risposta di Sileno a Mida nell’Eudemo di Aristotele, e c’era il verso di Menandro che divenne poi l’epigrafe di Amore e Morte: «Muor giovane colui ch’al cielo è caro».41 Il pessimismo antico non era dunque, come il Leopardi aveva fin allora creduto, un fenomeno eccezionale, limitato al solo Teofrasto: era una visione della vita comune ai maggiori poeti e savi della Grecia classica ed ellenistica. «Ces plaintes effrayantes – scriveva il Barthélemy – ne sont que trop conformes aux maximes des sages de la Grèce».42 E non della Grecia soltanto: le stesse espressioni di dolore si ritrovavano in Giobbe, nell’Ecclesiaste.43 Poco dopo, la lettura del 38 iCfr. Zib., 2669 sgg. (sul pessimismo antico specialmente 2671-2675, 2686) e l’elenco delle letture leopardiane a Roma pubblicato dal Porena, Scritti leopardiani, p. 444. ** 39 iSui motivi di questa limitazione delle letture leopardiane di classici greci cfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, p. 29 sgg. (un’edizione cinquecentesca dell’Aiace, Antigone ed Elettra di Sofocle c’era, tuttavia, nella biblioteca Leopardi, come risulta dal Catalogo in «Atti e mem. Deput. storia patria Marche» 1899, p. 380); «Atene e Roma» 1959, p. 91; «Gnomon» 1960, p. 583. Diversamente giudica Piero Treves, «Rendic. Istit. Lombardo» 1958, p. 420, n. 39. ** 40 iZib., 2673; cfr. l’elenco cit. alla nota 38, ibid. 41 iCfr. Zib., ed. Flora, vol. II, p. 1340 (nota a p. 36). Il verso di Menandro (fr. 125 Kock) nella versione dell’Adriani suonava così: «In giovinezza muor quel che ama Iddio». Il Leopardi, per quanto risulta, non ebbe poi occasione di leggere la Consolatio ad Apollonium in greco; ma il testo originale del verso menandreo gli capitò sott’occhio qualche anno dopo, leggendo Stobeo IV 52, 27 (vol. V, p. 1081 Hense): cfr. la nota del Leopardi al Tristano (PP, I, p. 1033, ultima nota) e, per la lettura di Stobeo, qui sotto, p. 165 e n. 44. 42 iCit. in Zib., 2671. L’ignoranza del pessimismo greco, che Piero Treves (Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli 1962, p. 497, n. 1) attribuisce al Leopardi in generale, va dunque riferita soltanto al p r i m o Leopardi: cfr. M. Pavan, «La parola del passato» 1963, p. 472. 43 iGià un accenno in Zib., 507 (15 gennaio 1821), dove tuttavia la ribellione di Giobbe contro la divinità appariva ancora al Leopardi consona al modo di pensare degli antichi (vedi qui sopra, p. 162). Vedi ancora Zib., 1849 (7 ottobre 1821). Molto più tardi, nel Tristano, dirà che

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Florilegio di Stobeo – alcuni capitoli del quale sono tutto un susseguirsi di massime dolorose – offriva al Leopardi, insieme al già noto, nuovo materiale sul pessimismo dell’antichità.44 Queste letture non furono certo l a c a u s a del passaggio del Leopardi dal pessimismo storico al pessimismo cosmico: abbiamo già cercato di mostrare in un saggio precedente (cfr. p. 125 sgg.) la complessità dei motivi di tale passaggio. E tuttavia esse hanno – cosa finora, credo, non osservata – un posto non trascurabile in questa evoluzione del pensiero leopardiano. Un presupposto necessario del pessimismo storico era la felicità degli antichi, o almeno il carattere meramente passeggero ed episodico della loro infelicità. Ora il Leopardi constatava che già la Grecia classica ed eroica, prima della decadenza, aveva non solo sentito, ma teorizzato l’infelicità necessaria e perpetua dell’uomo. L’infelicità non era dunque la conseguenza d’un distacco dalla natura, ma era insita nella natura stessa. Nel dicembre del ’20, quando ancora la persuasione della felicità degli antichi era in lui abbastanza salda (ma l’«eccezione» di Teofrasto vi aveva prodotto, come vedemmo, una prima incrinatura), il Leopardi aveva ribadito la sua prediletta tesi dell’allontanamento dalla natura come causa dell’infelicità (Zib., 446 sg.) e aveva poi aggiunto in parentesi: «L’uomo può essere anche infelice accidentalmente per forze esterne, che gl’impediscano di conformar le azioni alle credenze, cioè di far quello ch’egli giudica buono per lui, o non far quello ch’egli giudica e crede cattivo. Tali forze sono le malattie, le violenze fattegli da altri individui, o da altre specie, o dagli elementi, ec. ec. ec. Quest’infelicità non entra nel nostro discorso. Essa è appresso a poco l’infelicità antica». Qui l’oppressione che sull’uomo esercita la natura, e che anche l’uomo antico subì, è ancora vista dal Leopardi come qualcosa di meno grave e di «accidentale» in confronto all’infelicità derivante dalla il pessimismo è antico «quanto Salomone e quanto Omero, e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano»; e nei Nuovi credenti (vv. 2, 75) contrapporrà polemicamente il pessimismo di Salomone e di Giobbe, da lui condiviso, al panglossismo dei moderni cattolici. Si veda anche il breve frammento di versione in terzine del Libro di Giobbe (PP, I, p. 653), che non credo sia da assegnare al ’19 con lo Scarpa e il Flora, e tanto meno al ’16 coi primi editori, ma almeno al ’21 o anche molto più tardi. 44 iCitazioni dirette da Stobeo vi sono nello Zibaldone a cominciare da p. 4019 (20 gennaio 1824): cfr. l’indice del Flora. Vedi anche le note del Leopardi alle Operette morali, in PP, I, p. 1032 sg. (note 37 e 62). **

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civiltà eccessiva, triste privilegio dei moderni. Nel corso degli anni successivi il rapporto era destinato a invertirsi; e allora l’infelicità degli antichi doveva apparire al Leopardi come sostanzialmente omogenea a quella dei moderni: come una caratteristica dell’«uomo in generale».45 Le Operette morali (mi riferisco per ora a quelle composte nel ’24) rispecchiano già in larga misura questa nuova visione del pessimismo antico. C’è, sì, ancora in esse la contrapposizione antichi-moderni (alla quale, del resto, il Leopardi non rinuncerà mai del tutto: il riconoscimento che l’umanità è stata sempre infelice non annulla per lui la constatazione che nel mondo moderno nuovi motivi di infelicità si sono aggiunti agli originari). C’è anche, in più punti, la persistente convinzione che l’attivismo e l’ottimismo morale fossero ideologie adeguate all’antichità e, all’inverso, il pessimismo e l’indifferentismo lo siano all’età moderna. Filippo Ottonieri, nel professarsi scherzosamente epicureo, «condannava Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione di colui, molto maggior diletto si poteva trarre dagli studi della virtù e della gloria, che dall’ozio, dalla negligenza, e dall’uso delle voluttà del corpo (...). Ed affermava che la dottrina epicurea, proporzionatissima all’età moderna, fu del tutto aliena dall’antica».46 Ma per lo più i filosofi e i poeti-filosofi della Grecia antica sono ricordati nelle Operette per mettere in risalto non la differenza, ma la sostanziale identità della condizione umana nell’evo antico e nel moderno. Il Leopardi si compiace di contrapporre polemicamente all’ottimismo moderno la voce dei pensatori antichi che avevano già riconosciuto la vanità e l’infelicità della vita. Basta scorrere le note del Leopardi stesso alle Operette per ritrovarvi citate quelle testimonianze sul pessimismo greco che egli aveva raccolto l’anno prima nello Zibaldone, e altre dello stesso genere.47 Circola già, dunque, in queste Operette il motivo che diventerà poi del tutto esplicito nel Tristano: «Io diceva queste cose fra me, quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d’invenzione mia; vedendola così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripensando, mi ricordai ch’ella era tanto nuova, quan45

iVedi il saggio precedente, pp. 143 sgg. iDetti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. I; cfr. cap. VI, terzo capoverso. Per l’atteggiamento del Leopardi verso l’epicureismo, vedi più oltre, p. 177 sg. 47 iVedi, in PP, I, pp. 1029-1033, le note 1, 22, 23, 31, 37, 48 e i passi relativi del testo. 46

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to Salomone e quanto Omero,* e i poeti e i filosofi più antichi che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di figure, di favole, di sentenze significanti l’estrema infelicità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato, morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare».48 Ritorna anche nelle prime Operette, sviluppata adesso con piena lucidità materialistica, la polemica di origine teofrastea (vedi qui sopra, p. 163) contro quei filosofi che raffiguravano il savio come del tutto indifferente ai colpi della sorte avversa. Nel capitolo II dell’Ottonieri – e già in un pensiero dello Zibaldone49 forse ancor più efficace nella sua polemica immediatezza – il Leopardi osserva che quella stessa imperturbabilità del sapiente, anche ammesso che sia raggiungibile in certi casi, è pur sempre uno stato fisiologico, che può essere alterato dai riflessi psichici di una perturbazione patologica dell’organismo. C’è qui una profonda critica di ogni volontarismo, il quale sempre presuppone un concetto metafisico e antiscientifico dello spirito. Anche all’elaborazione delle Operette giovò la lettura – non interrotta mai, come abbiamo accennato – delle Vite di Diogene Laerzio. Di lì il Leopardi trasse spunti non solo di pessimismo in senso stretto, ma di materialismo e di osservazione disincantata della realtà;50 e di lì, oltre che dai Memorabili senofontei e da altri modelli, derivò la struttura esteriore dei Detti memorabili di Filippo Ottonieri.51 In Diogene Laerzio (II, 86) egli trovò anche la menzione di Egesia, un vero pessimista antico, anzi un edonista-pessimista: progettò un’operetta 48 iCfr. la nota del Leopardi a questo passo, e qui sopra, p. 164 sg. Di queste riprese di motivi pessimistici antichi fanno parte anche le due libere versioni «dal greco di Simonide» che il Leopardi incluse nei Canti (XL, XLI: un brano della prima anche nel Parini, cap. X) e le due versioni da Alessi Turio (PP, I, p. 459 sg.). 49 iZib., 2800-03 (21 giugno 1823). 50 iVedi per esempio Zib., 660 (sull’«insensibilità dell’atto della morte», pensiero sviluppato poi nel Ruysch) e 661 («dell’influenza del corpo sull’animo»). 51 iSui Memorabili di Senofonte (la cui ispirazione è visibile fin nel titolo) e sulla Vita di Demonatte di Luciano hanno già richiamato l’attenzione i commentatori. Ma vedi anche, in Diogene Laerzio, le citazioni di detti memorabili quali I 26; I 59; I 69, e molti altri.

*iSu Omero come maestro di saggezza pessimistica, e in generale sul rapporto fra il Leopardi e il pessimismo antico, vedi ora anche G. Lonardi, Classicismo e utopia cit., p. 91 sgg.; e qui {sotto}, p. 248.

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Egesia pisitànato, e di Egesia si ricordò più tardi nel Dialogo di Plotino e di Porfirio.52 4. Accanto alla conoscenza del pessimismo greco, un’altra esperienza culturale di grande rilievo fu iniziata dal Leopardi nel 1823: la lettura di Platone.53 Abbiamo già accennato al posto centrale che a Platone assegnava lo spiritualismo romantico europeo. La traduzione dello Schleiermacher (1804-28), l’edizione con traduzione latina di Friedrich Ast (1819-32), la traduzione francese di Victor Cousin (1822-40), l’edizione di Gottfried Stallbaum (1821-25, seguita dal commento dello stesso studioso, 1827-60), pur rappresentando notevolissimi contributi allo studio filologico e storico di Platone, non nascevano da un puro bisogno di conoscenza, ma da un intento ideologico e pratico: sconfiggere l’ateismo e il materialismo del secolo xviii. Una visione «platonocentrica» del pensiero greco – in polemica non solo con l’epicureismo, ma con lo stesso aristotelismo – ispirava gli studi platonici di August Boeckh, che, pure, non apparteneva certo all’ala più retriva dello storicismo tedesco. Le tendenze più misticheggianti si rifacevano, oltre che a Platone, al neoplatonismo: basti ricordare l’edizione di Plotino del Creuzer. Anche nella cultura cattolica italiana l’interesse per Platone non poteva non ridestarsi, sia pure con qualche ritardo, man mano che si avvertiva l’insufficienza del vecchio aristotelismo scolastico a costituire un efficace baluardo contro la filosofia moderna. Un reazionario «europeo» come Carlo Antici aveva già da alcuni anni sentito questa 52 i** PP, I, pp. 700 (scheda risalente forse al 1823, certo anteriore alla composizione del primo gruppo di Operette morali), 1012 (con la nota 60 a p. 1033). 53 iCombinando i dati forniti dagli elenchi di letture compilati dal Leopardi stesso (Porena, Scritti leopardiani, pp. 419 sgg., 439 sgg.) con le indicazioni dello Zibaldone, si ricostruisce questa serie di letture platoniche: ** dal gennaio del ’23 (quando il Leopardi ricevette dal De Romanis i primi volumi dell’edizione dell’Ast, cfr. lettera del 13 gennaio) alla fine di aprile, Protagora, Fedone, Ipparco, Menesseno, Minosse, Clitofonte, Anterastae, Gorgia, Fedro (Porena, p. 443, e per il Gorgia anche Zib., 2672, 2674); nel maggio 1823, Teeteto (Porena, p. 441); luglio ’23, Sofista e Convito (Porena, p. 419 sgg., num. 41 e 42); marzo ’24, nuova lettura del Fedro (id., num. 148); gennaio ’25, alcuni dialoghi pseudoplatonici (id., num. 283); ottobre ’25, Teagete, Alcibiade secondo, Carmide e Lachete nella traduzione del Cousin (id., num. 334-337); dicembre ’27, Repubblica e Ipparco (id., num. 420 e 421); maggio ’28, Cratilo (num. 430); gennaio ’32, Apologia e Critone (Zib., 4524 sg.). Ma l’anno del grande interesse per Platone fu il 1823, come è dimostrato anche dalle note filologiche (vedi qui sotto, nota 55). Il riferimento all’edizione platonica dell’Ast che si trova in Zib., 89 è un’aggiunta posteriore, come mi conferma Giuseppe Pacella. **

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esigenza e avrebbe voluto indirizzare l’ingegno filologico e letterario di Giacomo Leopardi verso una traduzione completa dei dialoghi platonici, come arma contro il «vile materialismo».54 La proposta dell’editore Filippo De Romanis al Leopardi di tradurre tutto Platone sorse appunto in questo clima e, pur non giungendo ad effetto, rappresentò per il Leopardi l’occasione alla lettura dei dialoghi e a preziosi contributi filologici.55 Che cosa significò questa lettura per la formazione ideologica del Leopardi? Non credo che ci sia bisogno di soffermarsi a confutare la tesi di un Leopardi platonico, basata solo su fraintendimenti o su sofismi.56 Decisamente avverso al platonismo il Leopardi era già prima di leggere Platone. La critica delle «idee preesistenti alle cose», che egli aveva letto nell’Essai sur le goût del Montesquieu, gli era sembrata non solo ovvia, ma ancora troppo timida: noi moderni non crediamo più alle idee di Platone – argomentò fin dal luglio 1820 – ma continuiamo, incoerentemente, a credere a valori estetici e morali assoluti.57 In questa polemica antiplatonica e già tendenzialmente anticristiana – anche se per un momento dette luogo a un singolare tentativo di interpretazione totalmente irrazionalistica del cristianesimo –58 il Leopardi si 54 iCfr. F. Moroncini, proemio alle Opere minori approvate del Leopardi, Bologna 1931, I, p. LXXXIV, n. 1; Leopardi, Epistolario ed. Moroncini, I, p. 37, n. 2. 55 iTali contributi, tuttora inediti, saranno pubblicati da G. Pacella e da me nell’edizione degli scritti filologici leopardiani. Vedi per ora La filologia di G. Leopardi, pp. 147-152.* 56 iTale tesi (giustamente respinta dal Luporini, Filos. vecchi e nuovi cit., p. 241) fu sostenuta per esempio da F. Tocco, Il carattere della filosofia leopardiana, nel vol. di vari autori Da Dante al Leopardi (già cit. a p. 130 n. 60), p. 573 sg. Più equilibrato e veritiero è il giudizio di Giovanni Setti, La Grecia letteraria nei «pensieri» di G. Leopardi, Livorno 1906, p. 180 sgg.; tuttavia il passo dello Zibaldone, 1712 sg. (= vol. III, pp. 325 sg. dell’ed. Le Monnier) fu completamente frainteso dal Setti (p. 185), il quale, fermandosi alla prima frase, vi scorse un’adesione al platonismo: il Leopardi, invece, intende dire che se si ammettono valori assoluti e metempirici, si deve necessariamente ammettere la teoria platonica delle idee, e conclude (p. 1714): «Ora, trovate false e insussistenti le idee di Platone, è certissimo che qualunque negazione e affermazione assoluta rovina interamente da se, ed è maraviglioso come abbiamo distrutte quelle, senza punto dubitar di queste». Su un nuovo tentativo di interpretazione platoneggiante del Leopardi, dovuto a V. Cilento, vedi qui sotto, p. 171, n. 62. 57 iZib., 154 (6 luglio 1820, col riferimento a Montesquieu), 1340 (17 luglio 1821), 1461 sgg. (7 agosto 1821), 1712 sgg. (16 settembre 1821 cit. alla nota precedente). Vedi anche i passi cit. nelle due note seguenti. 58 iZib., 1638 sgg. (5-7 settembre 1821): «la morale dipende da Dio ... e Dio non dipende punto dalla morale».

*iVedi ora G. Leopardi, Scritta filologici a cura di G. Pacella e S. Timpanaro, Firenze 1969, p. 469 sgg.

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appoggiò anche a filosofi antichi di indirizzo più o meno marcatamente relativistico: Archelao, Aristippo, Diogene cinico, Sesto Empirico.59 E già nel ’20 contrapponeva alla filosofia scientifica di Aristotele e di Teofrasto, rivolta a «discorrere delle cose sul fondamento del vero e dell’esperienza», la filosofia artistica di Platone, mirante a «fabbricare un sistema fondato sul brillante e sul fantastico» (Zib., 351). La lettura diretta non modificò il giudizio sul filosofo, lo confermò anzi pienamente. Leggendo il Gorgia, il Leopardi trova gli argomenti di Callicle più forti di quelli di Socrate: «Tutta la vituperazione della filosofia che Platone in quel Dialogo mette in bocca di Callicle (...) è degna d’esser veduta. V’è anche insegnata (sebben Platone lo fa per poi negarla e confutarla) la vera legge naturale, che ciascun uomo o vivente faccia tutto per se, e il più forte sovrasti il più debole, e si goda quel di costui».60 Via via che, dal ’23 in poi, si preciserà il materialismo leopardiano, più radicale si farà la polemica contro Platone e contro i neoplatonici.61 Essa trova la sua più chiara espressione in un pensiero del 17 ottobre 1826 (Zib., 4219-22). Dopo aver riferito alcuni brani della Vita Isidori di Damascio, in cui si insisteva sul valore che Isidoro attribuiva all’illuminazione mistica a scapito della ragione, il Leopardi soggiunge: «Ridete? Or traducete queste che vi paiono stoltizie, dalla lingua antica filosofica nella moderna, e voi vedrete accadere quello che dice il Dutens, cioè quante verità (qui però si tratterà di errori) si troverebbero negli antichi, credute moderne, se si sapessero tradurre i loro detti nella lingua modernamente adottata per la filosofia. Queste scempiaggini del filosofo mistico Isidoro, comuni in gran parte agli altri mistici di quello e dei vicini secoli, e dominanti in quei tempi di sogni e di creuseries, che altro sono se non, con diverse parole, le misticherie di quei moderni, che quando non ci possono pro59 iZib., 209, 223, 661 (citazioni tratte da Diogene Laerzio). Vedi, più tardi (Zib., 2660, 22 dicembre 1822) i richiami al discorso di Furio Filo sulla relatività del concetto di giustizia nel De re publica di Cicerone, e ad altri passi citati dal Mai nella nota a questo passo ciceroniano. 60 iZib., 2672, 12 febbraio 1823. Cfr. la Palinodia, vv. 69-81. 61 iVerso i neoplatonici che aveva studiato da giovinetto (quando aveva lavorato attorno alla Vita Plotini di Porfirio) il Leopardi assunse prestissimo un atteggiamento di insofferenza: vedi il Discorso Della fama di Orazio presso gli antichi (1816), in cui egli deplora che siano andati perduti tanti capolavori dell’antichità classica, e si siano invece conservati i commenti dei neoplatonici ai dialoghi di Platone, «e gran parte di Filone, di Sesto Empirico, di Porfirio, dei misteri di Plotino più eterni che l’argomento del settimo della terza Enneade», e così via (PP, II, p. 627). Un accenno sprezzante a Porfirio si trova anche nella Lettera al Giordani sopra il Frontone del Mai, del 1818 (PP, II, p. 657).

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vare con ragioni quello che vogliono, quando sono obbligati a confessare che argomenti per provarlo non vi sono, che anzi abbondano gli argomenti in contrario, ricorrono alla gran prova del sentimento, e pretendono che questo debba esser l’unica guida, canone, maestro della verità nelle cose che più importano? E noi che ridiamo di questi passi di Damascio, non ridiamo di queste sentenze moderne, anzi le ripetiamo e magnifichiamo. Questo è proprio il caso del mutato nomine (propriamente il nome e non altro) de te fabula (...). Del resto, ho detto che questi principii erano comuni e dominanti in quei secoli; ma Damascio ha ragion di dire, ξα'ρετον δ’ ν ατ$ ec., e di fare Isidoro singolare dagli altri, perché pochi filosofi anteriori o contemporanei (e così posteriori) avevano osato così sfacciatamente ripudiar la ragione, o sottometterla al sentimento, all’entusiasmo, all’ispirazione (...); deprimere e condannare Aristotele, appunto perché seguace το ναγκα'ου, cioè dei metodi esatti di conoscere il vero, di ragionare, di convincere, per principii incontrastabili, conseguenze necessariamente dedotte; ed anteporgli Platone, Pitagora ec., perché non ragionatori, perché πιστε)οντας al libero sentimento e all’immaginario, che Isidoro chiama divino ec.». «Qui mira e qui ti specchia», verrebbe fatto di dire leopardianamente a Vincenzo Cilento, che con sovrano disprezzo di ogni documentazione, con un puro lavoro di arbitrio e di fantasia, ha recentemente costruito un Leopardi non soltanto platonico, ma addirittura neoplatonico!62 Nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, scritto un anno dopo questo pensiero dello Zibaldone, il divieto del suicidio è combattuto da Porfirio con quella lunga e appassionata apostrofe a Platone che, se è potuta sembrare una forzatura dell’equilibrio compositivo e lirico dell’operetta,63 rappresenta tuttavia un’ulteriore, importante espressione dell’antiplatonismo leopardiano. Un antiplatonismo, certo, – questo e quello del pensiero del ’26 –, sotto il quale traspare ben chiaro l’anticristianesimo. Ma a chi tenga presente quel clima di spiritualismo platoneggiante della Restaurazione a cui abbiamo poco fa accennato, la 62 iV. Cilento, Leopardi e l’antico, in «Studi di varia umanità in onore di F. Flora», Milano 1963, p. 601 sgg. Giuste riserve su questo saggio ha già espresso M. Capucci in «Convivium» XXXII, 1964, p. 100 sg. Si veda anche la critica leopardiana dell’antiedonismo di «Pitagora» (cioè del neoplatonico Giamblico) in Zib., 4431. 63 iMa vedi le osservazioni di Emilio Bigi (Dalle «Operette morali» ai «Grandi Idilli», in «Belfagor» XVIII, 1963, pp. 146-148) che limitano molto questo giudizio corrente.

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polemica antiplatonica del Leopardi non sembrerà affatto un mero pretesto o un travestimento arbitrario. Era la risposta dovuta ai platonici italiani ed europei che identificavano, essi per primi, il loro cristianesimo raffinato col platonismo (e l’identificazione non era del tutto illegittima). Era anche, su un piano più personale, una reazione ai compromessi a cui il Leopardi stesso aveva per un momento accennato a piegarsi per ottenere un impiego dal governo pontificio: di quei compromessi faceva parte anche la traduzione di Platone, desiderata, ad maioren Dei gloriam, da Carlo Antici e dal Bunsen.64 Questa vicenda personale spiega, se non mi inganno, lo scatto iniziale della parlata di Porfirio, quel tono di chi dichiara finalmente un dissenso che ha dovuto a lungo tener celato: «Altra cosa è lodare, comentare, difendere certe opinioni nelle scuole e nei libri; ed altra è seguitarle nell’uso pratico. Alla scuola e nei libri, siami stato lecito approvare i sentimenti di Platone e seguirli; poiché tale è l’usanza oggi: nella vita, non che gli approvi, io piuttosto gli abbomino». Dove la realtà storica è, volutamente, abbandonata, è nella raffigurazione dei due personaggi del dialogo. Il Leopardi, conoscitore e critico così severo del neoplatonismo, sapeva bene che la parlata conclusiva di Plotino è leopardiana e non plotiniana. E tuttavia la scelta dei due personaggi non è arbitraria: serve a evocare attorno al dialogo l’atmosfera triste e pacata del paganesimo morente: per cui il tono generale del colloquio, pur nella somiglianza di talune argomentazioni, è così distante sia dal Bruto minore, sia dal Tristano.65 64 iVedi L. Blasucci, Su una lettera «insincera» di G. L., in «Giorn. stor. letter. ital.» CXLII, 1965, p. 88 sgg. Il Bunsen, pur diversissimo dall’Antici per le idee politiche e per la qualità del suo cristianesimo, si illuse anch’egli, in base alla lettera del 3 agosto 1825 di cui ignorava il retroscena, che il Leopardi aderisse al platonismo allora di moda. Cfr. la sua lettera del 5 luglio 1835 (Epistolario del Leopardi, ed. Moroncini, VI, p. 291): «La lettura delle vostre opere filosofiche m’aveva ispirate alcune idee che desidero comunicarvi. Per confessarvelo francamente, non vi ritrovo in molte parti il mio antico platonico ...».** 65 iIl Tocco (Il dialogo leopardiano di Plotino e di Porfirio, in «Studi ital. di filol. classica» VIII, 1900, pp. 497 sgg. non va oltre l’ovvia constatazione della diversità tra gli interlocutori del dialogo e i personaggi storici reali. Sulla concezione leopardiana del neoplatonismo come fenomeno di civiltà stanca e morente, vedi sopra, p. 158. È interessante osservare come anche il Giordani, in una lettera all’Ambrosoli (VII, 89 n.), gli suggerisse di assumere i neoplatonici come pretesto di una polemica antispiritualista **: «Se non credete bene di sferzare i tedeschi presenti, e i loro immediati predecessori; se vi par di tacere dei nostri Gioberti, Rosmini, Romagnosi, potete prendervela cogli Alessandrini neoplatonici, che tanto affrettarono lo smarrimento d’ogni saper vero, e la rovina d’ogni ordine politico». (Al sensista e materialista Giordani anche il Romagnosi pareva troppo metafisico e spiritualeggiante). **

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Messo così in chiaro il radicale antiplatonismo ideologico del Leopardi, rimane però da aggiungere che di Platone il Leopardi sentì vivamente la suggestione artistica: «sommo e perfetto esempio di bellissima prosa, elegantissima bensì e soavissima (non meno che gravissima ...), ma pur verissima prosa», aliena dai poeticismi artificiosi della «seconda sofistica» e della patristica greca, e di molta prosa francese.66 In Platone il Leopardi vide la miglior conferma di un’idea della quale era convinto da tempo: la prosa d’arte deve avere uno stile suo, semplice e «sedato», nettamente distinto da quello della poesia:67 idea che sta alla base delle Operette e che dimostra erroneo ogni tentativo di leggerle come «liriche in prosa», prescindendo dal particolare genere letterario in cui il Leopardi volle inserirle.68 Ma da Platone egli non ricavò soltanto una lezione di stile in senso stretto, bensì anche di «tono». Se Luciano è all’origine di certi tocchi ironici delle prime Operette, un po’ troppo voluti e letterariamente compiaciuti, Platone è l’ispiratore di una più elevata fusione di ironia e fantasia, la quale ha la sua prima espressione nella canzone Alla sua donna (con l’esplicita allusione platonica «Se dell’eterne idee / l’una sei tu ...») e ritorna poi in alcune delle più ariose e placate Operette. Un mythos platonico è, nel ritmo narrativo e in alcune invenzioni singole (Amore figlio di Venere Celeste), la Storia del genere umano:69 sebbene anche in essa i principii ideologici del Leopardi, tutt’altro che platonici, siano espressamente enunciati. Platonico, anche se poi sviluppato in forma personalissima e con una nota chiaramente autobiografica, è lo spunto da cui muove la raffigurazione di Socrate nel capitolo primo dell’Ottonieri. In questo senso, artistico e non ideologico, si può dunque parlare di una breve fase di platonismo leopardiano; e in questo senso aveva perfettamente ragione Pietro Giordani di osservare che nelle Operette «tutto lo spirito di Luciano, tutta l’arguzia di Platone si muovono per entro gran copia di saper moderno, con tutta la forza del singolare intelletto di lui».70 66 iZib., 3421 sg. (12 settembre 1823). Cfr. l’osservazione sullo stile, anzi sui diversi stili del Fedro, in Zib., 2717 (23 maggio 1823). 67 iVedi già Zib., 373-75 (2 dicembre 1820). 68 iSulla necessità di una lettura non forzata in senso lirico-commosso, ma aderente al tono peculiare delle Operette, insiste a ragione E. Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli 1854, p. 111 sgg. 69 iCfr. specialmente i passi (già citati dai commentatori) del Protagora, capp. 11-12 (320 D sgg.) e del Convito, cap. 8 (180 C sgg.). 70 iOpere, ed. Gussalli, XI, p. 174.

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Tuttavia, anche sul piano artistico, l’ammirazione del Leopardi per Platone ha precisi confini. Intanto, il Leopardi considerava ormai irrimediabilmente invecchiata e priva d’interesse in Platone tutta la parte maieutica, a domande e risposte. Filippo Ottonieri «né anche ragionava, al modo di Socrate, interrogando e argomentando di continuo; perché diceva che, quantunque i moderni sieno più pazienti degli antichi, non si troverebbe oggi chi sopportasse di rispondere a un migliaio di domande continuate, e di ascoltare un centinaio di conclusioni. E per verità non avea di Socrate altro che il parlare talvolta ironico e dissimulato» (cap. I). In una lettera a Carlo Antici del 5 marzo 1825 il Leopardi precisa così il suo progetto di versione dei pensieri di Platone, sul quale aveva ripiegato dopo l’abbandono della proposta di traduzione integrale: «Finalmente io voleva dare (...) i Pensieri di Platone, che io avrei raccolti e scelti e tradotti, opera simile a quella dei Pensieri di Cicerone dell’Olivet, ma che avrebbe dovuto essere un poco più ampia, e contenere tutto il bello e l’eloquente di Platone, sceverato da quella sua eterna dialettica, che ai tempi nostri è insoffribile,71 e da’ suoi sogni fisici, che riuscirebbero parimente noiosi ai più dei lettori moderni, massimamente per la loro oscurità». Ecco dunque una seconda limitazione: non solo niente «dialettica», ma niente «sogni fisici», cioè quei miti in cui hanno ampio sviluppo escogitazioni cosmologiche (come quelli della Repubblica, del Fedone, del Timeo, del Crizia). Dallo Zibaldone sappiamo che anche il pensiero politico di Platone appariva al Leopardi una mera fantasticheria utopistica.72 Eseguiti tutti questi tagli, rimaneva un Platone ridotto alla misura dei filosofi pratici dell’ellenismo – o, se vogliamo, a una misura «socratica», di un Socrate più cinico che platonico, in cui la saggezza morale prevaleva sugli interessi speculativi. 5. È appunto l’interesse per la filosofia pratica dell’ellenismo quello che, già presente negli anni ’23-’24, si accentua nei due seguenti, sopraffacendo l’interesse per Platone, e perdura in parte fino al ’29. È 71 iAl suo proposito di escludere le «spinosità dialettiche» accenna anche nella lettera al Bunsen del 3 agosto 1825. Cfr., tra i progetti di lavori in PP, I, p. 701 sg.: «Pensieri di Platone» e «Saggi platonici». 72 iCfr. Zib., 3469, dove l’utopismo è considerato come un carattere generale del pensiero politico antico – anche di quei pensatori antichi che, relativamente, furono meno utopisti, come Aristotele e Teofrasto.

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del ’25 la traduzione di Epitteto e dell’Isocrate moralista, a cui si affiancano le letture (compiute anch’esse in vista di traduzioni) della Tavola di Cebete, dei Caratteri di Teofrasto, dei dialoghi del cosiddetto Eschine socratico.73 È del ’26 la lettura di Fozio – altra fonte di aneddotica morale e di saggezza spicciola antica –, a lato della quale continua la lettura di Stobeo.74 Anche alla fine del ’26 il Leopardi acquista gli Opuscula Graecorum veterum sententiosa et moralia a cura di Johann Conrad Orelli, che leggerà in parte nel ’29.75 Spesseggiano in questi anni i progetti di imitazioni dei moralisti greci: «Antologia greca morale», «Manuale di filosofia pratica: cioè un Epitteto a mio modo», «Massime morali sull’andare del manuale di Epitteto», «Spoglio e traduzione di Stobeo», «A se stesso; ad imitazione di M. Aurelio τν ες αυτν», «Galateo morale».76 Il risultato più compiuto di questo interesse per la filosofia ellenistica è il preambolo alla traduzione di Epitteto. In che misura esso testimoni un’adesione da parte del Leopardi, ho cercato di precisare in un saggio precedente (qui sopra, p. 131 sgg.). Qui voglio solo ricordare che una piena adesione del Leopardi alla morale di Epitteto era impedita non solo dalla componente agonistica del suo pessimismo (sopita, ma non annullata in questo periodo), ma anche da precedenti esperienze nel campo della stessa filosofia greca, a cominciare da Teofrasto. Alla possibilità di raggiungere la perfetta atarassia il Leopardi, come già

73 iCfr. F. Moroncini, proemio alle Opere minori approvate, I, p. LXXXIV sgg. Una prima lettura di Epitteto era stata già compiuta dal Leopardi a Roma (cfr. Porena, Scritti leopardiani, p. 443). Sui frutti filologici di queste letture vedi La filologia di G. Leopardi, pp. 156-164; su una congettura leopardiana alla Tavola di Cebete, vedi ora anche Antonio Carlini in «Studi classici e orientali» XII, 1963, p. 181 sg. 74 iFozio: Zib., 4191 sgg., e l’indice delle letture pubblicato dal Porena, Scritti leop., p. 429, num. 389. – Stobeo: vedi sopra, p. 165; nel ’25-’26, vedi per esempio Zib., 4156 (sulle espressioni antiche del dolore) e 4226 (su un passo di Ierocle, cfr. qui sotto, p. 180). 75 iPer l’acquisto dell’opera, cfr. Epistolario, ed. Moroncini, IV, pp. 62, 211; per la lettura di vari testi contenuti in questa silloge, cfr. l’indice pubbl. dal Porena, Scritti leop., p. 423, num. 452-470, e i passi dello Zibaldone registrati nell’indice del Flora alla voce «Orelli». 76 iVedi i progetti in PP, I, pp. 701, 702, 704, e gli indici dello Zibaldone compilati dal Leopardi stesso, vol. II dell’ed. Flora, pp. 1389 («Galateo morale»), 1430 («Manuale di filosofia pratica»). L’idea di un «Epitteto a mio modo» può essere stata in parte suggerita al Leopardi dall’Encyclopédie méthodique (ediz. di Padova, posseduta dalla biblioteca Leopardi), dove, nel vol. III della sezione Morale, alla voce Liberté (p. 509 sgg.), era inserito un «Nouveau Manuel d’Epictète». Ma il suggerimento, in ogni caso, non sarebbe andato oltre il titolo, poiché lo scritto dell’Encyclopèdie méthodique era di orientamento cristianeggiante.

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sappiamo, non credette mai;77 e nella chiusa del preambolo («ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento ..., desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, l a f a c o l t à di porlo medesimamente ad esecuzione») ritorna il concetto, già svolto nell’Ottonieri, che l’imperturbabilità non dipende solo dal nostro volere. E ancora: come ha già notato il Fubini, il Leopardi applica anche ad Epitteto l’osservazione che aveva fatto nell’Ottonieri a proposito di Epicuro: le filosofie della rassegnazione e dell’indolenza sono adatte «agli uomini moderni ancora più che agli antichi».78 Tipicamente antico rimane, per lui, l’atteggiamento di ribellione al fato, che egli esemplifica nei Sette a Tebe di Eschilo.79 Ciò non toglie che l’interesse per Epitteto, e per la filosofia ellenistica in generale, si accordi realmente con una fase di disimpegno politico e di tentativo di adattamento alla realtà della vita, che il Leopardi attraversò all’incirca dal ’24 al ’27. Rimandando anche qui al saggio precedente per il problema generale, voglio richiamare l’attenzione su un pensiero del 1° agosto 1826 (Zib., 4190): «Concordanza delle antiche filosofie pratiche (anche discordi) nella mia; per esempio della socratica primitiva, della cirenaica, della stoica, della cinica, oltre l’accademica e la scettica ec.». Questo proposito di fondare una morale in cui le «antiche filosofie pratiche» trovassero il loro punto d’incontro non nasceva da un’ambizione di «sintesi» in senso idealistico, di «inveramento» di tutto il pensiero umano precedente (tutta la formazione adialettica del Leopardi lo rendeva estraneo a simili ambizioni); era invece basata su una acuta percezione del fondo di apoliticità e di rassegnazione che è real77 iVedi sopra, p. 167, e tieni presente che l’Ottonieri, con le altre Operette morali composte nel ’24, fu pubblicato dal Leopardi nel ’27: egli non aveva dunque rinunciato alla critica dell’atarassia, formulata nel cap. II di quell’operetta. 78 iVedi il commento del Fubini alle Operette, Firenze 1933, p. 202. 79 iIl Leopardi non lesse direttamente i Sette a Tebe, ma ne ebbe notizia dall’Anacharsis del Barthélemy. Cfr. Zib., 222 (22 agosto 1820): ** «Ses héros aiment mieux être écrasés par la foudre que de faire une bassesse, ET LEUR COURAGE EST PLUS INFLEXIBLE QUE LA LOI FATALE DE LA NÉCESSITÉ. Barthélemy, dove discorre di Eschilo» (questa dev’essere, a sua volta, una citazione di seconda mano, poiché il Leopardi nella sua biblioteca aveva del Barthélemy soltanto una traduzione italiana, Venezia 1791, e non lesse il testo francese prima del ’23; cfr. sopra, p. 164).*

*iIl Bollati (nell’introduzione cit. alla Crestomazia della prosa, p. XLIV) dimostra che la fonte della citazione indiretta del Barthélemy è l’antologia francese di Noël e Delaplace.

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mente comune a tutte quelle filosofie. Il problema dell’adesione o meno del Leopardi alla morale ellenistica non deve far trascurare l’importanza della valutazione storica che il Leopardi ne dà. Il giudizio sulla morale stoica come morale degli spiriti forti era allora corrente:80 esso sottintendeva una contrapposizione fra la morale stoica, non appoggiata a speranze ultraterrene, e la morale cristiana. Il Leopardi, spingendo il suo sguardo più a fondo, vide ciò che la morale stoica e le altre morali ellenistiche avevano in comune col cristianesimo: la rinuncia a dominare il mondo esterno. Egli comprese perfettamente che il concetto di libertà interiore, per quanto orgogliosamente affermato e vissuto, nasceva pur sempre dalla consapevolezza dell’impossibilità di conquistarsi la libertà esteriore, sia sul piano politico, sia su quello del rapporto uomo-natura. In questo senso anche lo stoicismo era una «morale dei deboli». Che questa disincantata interpretazione della morale stoica non abbia impedito al Leopardi di sentirne, nello stesso tempo, la magnanimità e la bellezza, lo dimostra la chiusa del Parini: «Ma il nostro fato, dove che egli ci tragga, è da seguire con animo forte e grande»; la quale riecheggia, come è noto, i versi di Cleante citati proprio alla fine del Manuale di Epitteto. Ma per gli stoici questo amor fati implicava una fede nella Provvidenza che il Leopardi, anche nel periodo di maggior vicinanza alla morale ellenistica, rifiutò sempre: non c’è bisogno di ricordare la satira del provvidenzialismo antropocentrico di Crisippo nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo. La sua simpatia andò certamente assai più allo stoicismo di Epitteto, intinto di cinismo, mirante alla difesa dal mondo esterno, che allo stoicismo originario, il quale pretendeva di giustificare e glorificare il mondo esterno. Fra le morali ellenistiche un posto di primaria importanza spetta all’epicurea. Ma in quel pensiero dello Zibaldone sulla concordanza delle antiche filosofie pratiche che abbiamo ora citato, proprio l’epicureismo spicca per la sua assenza. Ciò concorda con un atteggiamento generale di riserbo verso Epicuro, che si riscontra in tutto Leopardi. 80

iÈ superfluo accumulare citazioni; ricorderò solo che nella già citata Encyclopédie méthodique, sezione Morale, IV, p. 808, in un paragrafo dedicato a Epitteto del Discours sur l’objet de la morale, si insisteva su questo concetto: «Quelques autres plus sages et plus éclairés ont convenu que cette Philosophie étoit trop forte et trop élevée pour convenir à nos siècles modernes» (cfr. al contrario il Leopardi: «... più accomodata all’uomo, e specialmente agli animi di natura o d’abito non eroici ..., e p e r ò a g l i u o m i n i m o d e r n i a n c o r a p i ù c h e a g l i a n t i c h i »).

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Filippo Ottonieri, lo abbiamo già veduto (p. 166), «si professava epicureo», ma abbiamo anche veduto come questa adesione sia accompagnata e quasi sopraffatta da restrizioni. Nello Zibaldone, osservava il Tocco, «Epicuro non è citato se non una volta sola e per un’osservazione grammaticale, Democrito quattro volte e sempre alla sfuggita».81 Da ciò il Tocco credeva di poter ricavare un appoggio indiretto alla sua tesi di un Leopardi filo-platonico. Ma anche dopo aver dimostrato l’inconsistenza di questa tesi (e dopo aver ricordato che tra i progetti di Operette non realizzati c’è un Ippocrate e Democrito, di cui non possiamo purtroppo congetturare l’argomento),82 rimane vero che in un materialista-edonista come il Leopardi ci aspetteremmo più riferimenti a Democrito e soprattutto ad Epicuro. Per tutto il pensiero laico del Sei e Settecento, come già per un Valla, Epicuro era stato un punto di riferimento costante: ogni teoria sulle origini ferine dell’umanità e del linguaggio, ogni morale terrena e antiascetica, ogni fisica e biologia libera da preconcetti scolastici si era rifatta a Epicuro e a ciò che della dottrina di Democrito è accolto in Epicuro.83 Il Leopardi, come sappiamo, si nutrì moltissimo di filosofia epicurea settecentesca, ma sentì, a quel che pare, scarsamente l’esigenza di risalire direttamente a Epicuro e a Lucrezio. Pensò che tutto l’essenziale dell’atomismo e dell’edonismo antico fosse ormai incorporato nella filosofia materialistica del Settecento? Fu trattenuto ** da una certa diffidenza verso una filosofia che gli sembrava antitetica al concetto classico di «virtù» civile, da lui pur sempre vagheggiato?84 81 iArt. cit. qui sopra (p. 130 n. 60), p. 574; cfr. G. Setti, La Grecia letteraria cit., p. 205. I passi dello Zibaldone sono, per Epicuro, p. 4299 (oltre a un paio di menzioni puramente incidentali); per Democrito, pp. 38, 961, 3965, n. 4436, 4437, 4466. Il fatto che le menzioni di Democrito siano sei e non quattro (come risultava dall’incompleto indice dell’edizione Le Monnier) non toglie validità all’osservazione del Tocco; il Leopardi non cita mai Democrito in quanto materialista. 82 iPP, I, p. 701 (non registrato nell’indice del Flora alla voce «Democrito»). ** 83 iVedi qui sopra, pp. 7, 150 n. 6. Anche un gesuita di larghe vedute come Giovanni Andres, nella sua grande compilazione Dell’origine, progressi e stato attuale d’ogni letteratura (vol. V, Parma 1794, pp. 443-445, 580 sgg.), difendeva l’epicureismo dalle accuse volgari, anzi nel contrasto fra la morale di Epicuro e la stoica vedeva, si direbbe, qualcosa di analogo al contrasto fra il lassismo dei gesuiti e il rigorismo dei giansenisti, e pertanto si schierava a favore di Epicuro. Ma mentre il Leopardi lesse ripetutamente la parte dell’opera dell’Andres dedicata alle lingue e alle belle lettere (come è dimostrato dallo Zibaldone), non risulta che si sia soffermato con uguale attenzione sulla parte dedicata alla filosofia. 84 iSi ricordi il giudizio del Montesquieu, accolto dal Leopardi, sull’epicureismo come causa della decadenza politica e civile dei romani (qui sopra, p. 157 n. 23).

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Nel caso di Lucrezio, all’interesse ideologico si sarebbe dovuta aggiungere una consonanza sentimentale e poetica: non possiamo leggere la Ginestra senza pensare al De rerum natura; non possiamo non ricordare che tra i più aspri negatori di ogni Provvidenza e accusatori della Natura c’è appunto Lucrezio (nequaquam nobis divinitus esse paratam naturam rerum: tanta stat praedita culpa!). Il tema «Lucrezio e Leopardi» fu svolto con appassionata enfasi da Spartaco Borra.85 Ma altro è l’affinità spirituale, altro la lettura e la derivazione diretta: le citazioni da Lucrezio spesseggiano nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (dove è molto difficile individuare le poche citazioni di prima mano), poi cessano praticamente del tutto: i riferimenti a Lucrezio nello Zibaldone consistono in notazioni lessicali attinte al Forcellini, o in menzioni troppo generiche per dimostrare una lettura diretta.86 Se negli ultimi anni, quando non annotava più niente nello Zibaldone e aveva cessato di elencare le proprie letture, il Leopardi abbia letto Lucrezio, è impossibile stabilire. Quando, nell’autunno del ’25, il Leopardi volle dare un’espressione freddamente esplicita ed esatta al proprio materialismo, scelse 85

iVedi sopra, p. 141 n. 82. Cfr. V. E. Alfieri in «Athenaeum» n.s. Xl, 1962, p. 185. **iContro una presunta reminiscenza lucreziana nell’Appressamento della morte cfr. la mia recensione a Leopardi und die Antike di H. L. Scheel in «Gnomon» 1960, p. 583, con una precisazione, che credo giusta, di C. F. Goffis in «Rassegna letter. ital.» LXIV, 1960, p. 547. L’unico passo dello Zibaldone che potrebbe far pensare a una lettura diretta è la nota (aggiunta in un secondo tempo) a p. 4037, dove l’esempio di alius in Lucr. II 9 non è attinto dal Forcellini. Ma si tratta di un indizio abbastanza tenue. Napoleone Giotti, nella sua biografia del Leopardi («I contemporanei italiani» num. 52, Torino, Utet, 1862, p. 65), riferisce che il Leopardi avrebbe letto a Francesco Puccinotti, il medico e fisiologo suo amico, alcuni frammenti di «un poema sulla natura sul genere di quello di Lucrezio, poema per altro rimasto affatto ignoto, e del quale nessuno dei suoi biografi ha mai fin qui parlato, per quanto io mi sappia». È difficile dire se questa notizia meriti qualche credito. Un indizio di lettura almeno parziale sembrerebbe rappresentato da un appunto che si trova in un elenco di opere di vari autori nelle carte napoletane (X, 12, 22): «Lucrezio, dove parla dello stabilimento della società, libro 5». Ma in quell’elenco, ** che mi riprometto di pubblicare, accanto ad opere che il Leopardi lesse sicuramente, ve ne sono altre (come la Scienza della legislazione del Filangieri) non menzionate mai nello Zibaldone né in altri scritti. Rimane perciò il dubbio che in parte si tratti di letture progettate e non eseguite. E sebbene i pochi indizi da noi enumerati accennino a una certa probabilità, rimane abbastanza forte l’argomento in contrario: ** se il Leopardi avesse letto un poeta-filosofo a lui così profondamente congeniale, come mai non ne sarebbe rimasta traccia in lunghi ed espliciti appunti e in precise allusioni? * 86

*iChe, almeno negli ultimi anni, il Leopardi abbia letto o riletto Lucrezio è molto probabile: certo i versi 111-114 della Ginestra («Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato») presentano, come già da tempo è stato osservato, ** una somiglianza che non può essere fortuita con Lucrezio I 66 sg. (primum Graius homo mortalis tollere contra / est oculos ausus).

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come prestanome non uno dei materialisti più famosi dell’antichità, ma Stratone da Lampsaco, il filosofo peripatetico che aveva accentuato, ancor più di Teofrasto, la componente scientifica dell’aristotelismo, fino a ritornare, in sostanza, all’atomismo democriteo. Troppo facile, anche qui, osservare che il Frammento apocrifo si discosta consapevolmente da quel poco che su Stratone da Lampsaco ci tramandano Diogene Laerzio e Cicerone.87 Resta il fatto che la scelta di quel prestanome era una professione di materialismo e di ateismo: Stratone era colui che aveva negato ogni intervento degli dèi nell’origine del mondo e che aveva trovato troppo fantasiosa e priva di rigore scientifico perfino la fisica di Democrito.88 6. L’ultimo Leopardi, dal ’30 in poi, impegnato com’è in un ardente polemica con la società sua contemporanea, assai meno si ripiega a meditare sulla civiltà antica. Dalla saggezza ellenistica, come da ogni altra forma di «saggezza», egli è ormai del tutto distaccato. Sono tuttavia riconoscibili, anche in quest’ultima fase, echi di precedenti letture dei filosofi greci, che egli adesso utilizza per la sua battaglia contro il cattolicesimo e il falso progressismo dei moderati. Abbiamo già ricordato (p. 166 sg.) l’accenno al pessimismo greco nel Tristano; vogliamo concludere citando due altre risonanze del pensiero antico, l’una già nota, l’altra, a quanto sembra, sfuggita finora agli studiosi. L’idea dell’unione di tutti gli uomini nella lotta contro la Natura trae uno spunto, come è stato osservato,89 da un pensiero dello stoico Ierocle, che il Leopardi annotò nello Zibaldone (4226 sg., novembre 1826): «Bellissima è l’osservazione di Ierocle nel libro de Amore fraterno, ap. Stob. serm. "τι κ!λλιστον  φιλαδελφ'α etc., 84 Grot., 82 Gesner., che essendo la vita umana come una continua guerra, nella quale siamo combattuti dalle cose di fuori (dalla natura e dalla fortuna), i fratelli, i genitori, i parenti ci son dati come alleati e ausiliari ec.».90 Allora, nel ’26, il Leopardi era stato indotto da questo pensie87 iCosì F. Tocco («Atene e Roma» 1903, col. 321 sgg.), seguendo uno schema a lui consueto, di cui abbiamo già notato l’insufficienza a proposito di Teofrasto e di Porfirio e Plotino (pp. 162-163, 172). Contro il Tocco cfr. G. Gentile, commento alle Operette, Bologna 19402, p. 256. 88 iCfr. Cicerone, Lucull. 121; De nat. deor. I 35. 89 iVedi specialmente U. Bosco, Titanismo e pietà in G. Leopardi, Firenze 1957, p. 64. 90 iNell’edizione di Stobeo a cura di Wachsmuth e Hense, che è oggi comunemente seguita, il passo di Ierocle si trova in Flor. IV 27, 20 (vol. IV, pp. 663, 19 sgg.).

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ro a riflettere sul proprio senso di smarrimento nel trovarsi lontano da casa, sul proprio bisogno di rifugio; nella Ginestra invece* trasse dallo stesso spunto sviluppi opposti, allargando il pensiero di Ierocle fino a comprendere nell’alleanza contro la Natura l’intera umanità, e accentuando, molto al di là di quello che l’antico stoico aveva inteso, l’aspetto eroico e disperato di quella lotta.91 Nel canto IV dei Paralipomeni il Leopardi affronta uno dei temi su cui più recisa era la contrapposizione fra il materialismo del Settecento e lo spiritualismo romantico: l’origine dell’umanità e della civiltà. I primordi del genere umano furono contrassegnati da una condizione simile a quella degli animali, o da una civiltà perfetta, largita all’uomo da una rivelazione divina? Lo stato selvaggio è da ritenersi primitivo o, invece, frutto di corruzione? Per caratterizzare le due opposte tesi, il Leopardi ricorre ad un’immagine singolare: gli spiritualisti sostengono «che la città fu pria del cittadino» (st. 11); i materialisti, e più in generale coloro il cui senso della realtà non è stato stravolto da un fideismo assurdo, sanno bene «che il cittadin fu pria della cittade» (st. 13). Lì per lì, questa immagine può sembrare non del tutto appropriata. A guardar meglio, essa è particolarmente felice, ma colpisce un bersaglio più ampio di quello che è l’immediato oggetto della polemica leopardiana. Essa infatti non è rivolta solo contro quei pensatori particolarmente retrivi che – come i «tradizionalisti» francesi, l’ultimo F. Schlegel, l’ultimo Schelling – ponevano all’inizio della storia umana una «rivelazione originaria», ma contro ogni sorta di aprioristi:92 91 iOccorre notare, infatti, che nel passo di Ierocle manca ogni concetto della Natura nemica dell’uomo, anzi la Natura è vista come una divinità provvidenziale che ci ha dato, essa, i parenti per difenderci nella lotta contro le avversità esterne: "εν καλς  φ)σις, ς ν φ’ γενν$ µ γνοοσα, παρ&γαγεν µν καστον τρ(πον τιν µετ συµµαχ'ας. È interessante osservare come il Leopardi, parafrasando Ierocle, scriva «i parenti ci son dati come alleati e ausiliari», senza aggiungere «dalla natura»; e come, viceversa, precisi che «le cose di fuori» da cui siamo combattuti sono «la natura e la fortuna», mentre Ierocle si era riferito, più indeterminatamente, alle «cose stesse che hanno una natura (un carattere) ostile all’uomo» e agli «improvvisi e inaspettati assalti della sorte», e aveva poi aggiunto, come terza e più importante causa di pericolo per noi, la malvagità umana (πολ δ µ!λιστα δι’ατν τν κακ'αν οτε β'ας τινς πεχοµ%νην οτε δ(λου κα κακν στρατηγηµ!των). Con queste varianti, a prima vista di non grande peso, il provvidenzialismo di Ierocle viene, già nel pensiero del ’26, quasi interamente rovesciato. 92 iGià nella stanza 10 il Leopardi ha scritto: «Questa conclusione (...) non d’altronde provien se non da quella / forma di ragionar diritta e sana / ch’a priori in iscola ancor s’appella».

*iTra i precedenti della Ginestra è importante anche Zibaldone 2679 sg. (4 marzo 1823), sul quale cfr. Di Benedetto, art. cit., p. 320; Lonardi, op. cit., p. 144 sg.

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anche contro quegli storicisti di formazione romantica che nella storia temporale, nell’effettivo succedersi degli avvenimenti, vedevano l’estrinsecazione di un’altra storia ideale, in cui, per usare una famosa espressione aristotelica, il «primo per natura» è ciò che appare ultimo «rispetto a noi». L’immagine leopardiana, inoltre, ha una particolare impronta settecentesca, in quanto implica una concezione della società come somma di singoli individui: una concezione contro cui lo storicismo dell’Ottocento ha polemizzato in parte con ragione, non riuscendo però ad evitare di cadere in un misticismo dell’«ente collettivo» (lo Stato, lo Spirito con la maiuscola). La polemica del Leopardi contro l’esaltazione della «felicità delle masse» a scapito di quella degli individui, nel Tristano e nella Palinodia, indica quanto egli si sentisse irritato dalle prime avvisaglie di tale misticismo, che avrebbe poi dominato gran parte della cultura europea dell’Ottocento e del Novecento. Abbiamo nominato Aristotele; da lui appunto deriva l’immagine della «città pria del cittadino». Nel primo libro della Politica (1253 a 18 sgg.) Aristotele afferma la «priorità» della polis sulla famiglia e sui singoli individui: κα πρ(τερον δ τ$ φ)σει π(λις οκ'α κα καστος µν στιν τ γρ "λον πρ(τερον ναγκαον ε ναι το µ%ρους ναιρουµ%νου γρ το "λου, οκ σται πο ς οδ χε'ρ ... "τι µν ον  π(λις κα φ)σει κα πρ(τερον καστος, δλον. Il Leopardi aveva letto la Politica di Aristotele nell’autunno del ’23: fu questa l’unica opera aristotelica da lui letta per intero.93 Ad Aristotele, come abbiamo visto, egli riconobbe sempre il merito di una maggiore concretezza e scientificità in confronto a Platone.94 Ma nemmeno Aristotele si era del tutto svincolato dall’apriorismo.95 Quel pas93 iCfr. l’indice pubblicato dal Porena, Scritti leop., p. 424, num. 91 e i passi dello Zibaldone registrati nell’indice del Flora alla voce Aristotele (avvertendo, naturalmente, che Politica e Repubblica sono la stessa opera). Il Leopardi lesse anche un paio di opere pseudo-aristoteliche: De virtutibus et vitiis nel cod. Barberiniano 257, cfr. Porena, Scritti leop., p. 443 (sarebbe forse questa l’«operetta greca sconosciutissima» che il Leopardi credette di avere scoperto a Roma? Per questo problema vedi un resoconto delle precedenti discussioni in «Atene e Roma» 1959, p. 92 sg.); e gli Oeconomica, ibid., p. 423, num. 45 e Zib., 2686.* 94 iVedi sopra, pp. 210, 212. 95 iZib., 3470: «Aristotele spianta le repubbliche degli altri, ma n é p i ù n é m e n o c h e i n f i l o s o f i a, si crede in obbligo di sostituire, e ci dà la sua repubblica e il suo sistema»; e in nota soggiunge: «Ed Aristotele era pur de’ più devoti all’osservazione, tra’ filosofi antichi».

*iSull’«operetta greca sconosciutissima» che il Leopardi credette di avere scoperto a Roma vedi ora una nuova ipotesi, che credo più fondata, in un articolo di prossima pubblicazione negli «Studi in memoria di Carlo Ascheri», Urbino 1969.

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so della Politica dovette sembrare al Leopardi adatto a simboleggiare, appunto, la mentalità aprioristica e il suo vedere le cose alla rovescia: di qui l’utilizzazione polemica che ne fece nei Paralipomeni. Non credo di aver sopravvalutato l’influsso della filosofia greca sul pensiero leopardiano. I maestri prediletti di filosofia furono sempre per il Leopardi i materialisti e i sensisti del secolo xviii, conosciuti prima attraverso i loro avversari cattolici, poi direttamente. Tuttavia almeno due contatti col pensiero greco hanno avuto per l’evoluzione ideologica del Leopardi un’importanza essenziale: la scoperta del pessimismo antico, che mise in crisi il mito dell’antichità felice, tutta azione, illusioni e poesia; e la lettura dei filosofi ellenistici, che offrì al Leopardi il modello di una saggezza rassegnata, di cui egli sentì la suggestione specialmente negli anni dal ’23 al ’27 pur senza mai aderirvi interamente. Ma anche esperienze meno profonde, come la lettura di Platone e quella – assai più limitata – di Aristotele, esercitarono sul pensiero del Leopardi, soprattutto in senso polemico, un’influenza di cui bisogna tener conto.

V.** Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani ∼

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

1. Gli «appunti» dell’abate Cozza-Luzi e la controversia Cugnoni-Tacchi Nel 1898, centenario della nascita di Giacomo Leopardi, il settimanale cattolico «La palestra del Clero» pubblicò in varie puntate gli Appunti leopardiani di Giuseppe Cozza-Luzi, vice-bibliotecario di Santa Romana Chiesa, già abate di Grottaferrata.1 Questi Appunti avevano tutto il carattere di una contro-commemorazione. Per il Cozza-Luzi, il Leopardi rappresentava il tipico esempio di un grande ingegno traviato dall’orgoglio: i suoi dolori, «morali» assai più che «fisici» **, erano la necessaria conseguenza della pretesa di atteggiarsi a «spirito forte», rinnegando l’educazione religiosa ricevuta in famiglia. Non c’era nel Cozza-Luzi né la simpatia che per il Leopardi avevano provato cattolici intelligenti come il Gioberti e il Sinner, né, d’altra parte, l’invido rancore di un Tommaseo: c’era piuttosto un ∼ «Giornale storico della letteratura italiana», CXLIII (1966), pp. 88-119; qui con modifiche e aggiunte. 1 i«La palestra del Clero», 20 gennaio, 17 febbraio, 3, 10, 17, 24 e 31 marzo, 14 e 21 aprile, 5, 12, 19 e 26 maggio, 2, 16 e 30 giugno, 21 luglio, 8 e 22 settembre, 13 ottobre 1898. II titolo Appunti leopardiani e la firma del Cozza-Luzi mancano solo nelle puntate del 20 gennaio, 3 e 10 marzo, le quali però appartengono chiaramente alla stessa serie. Gli Appunti furono ristampati a parte, con qualche variazione nell’ordine, in sei fascicoletti, senza nome di autore e col titolo ampliato: Appunti leopardiani offerti alla studiosa gioventù nel centenario della nascita di Giacomo Leopardi (la quale fu al 29 Giugno 1798), Roma, tip. Sociale, 1898. Io citerò con la sigla AL questa edizione in fascicoli separati. Non è facile trovare nelle biblioteche tutti e sei i fascicoli; li possiede, per esempio, l’Alessandrina di Roma. La Bibliografia leopardiana di Mazzatinti-Menghini-Natali, mentre cita più volte alcune puntate ** (cfr. vol. I, pp. 37, 63, 79, 198199, 231; vol. II, pp. 49 e 76), ne ignora altre **.

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moralismo parrocchiale, a cui faceva perfetto riscontro la forma espositiva goffa e meschina. Il Cozza-Luzi era un assiduo studioso di paleografia e di erudizione ecclesiastica (per quanto anche in questi studi portasse la mancanza di rigore e la frettolosità del suo maestro Angelo Mai), ma per la formazione culturale complessiva apparteneva a un mondo ormai chiuso e sorpassato. L’unico periodo della vita e dell’attività del Leopardi che si salvava ai suoi occhi era il primissimo: quello in cui non era ancora avvenuto il distacco del poeta dalla religione e dall’ambiente monaldesco. Gli Appunti leopardiani miravano proprio a rivalutare e amplificare questo Leopardi ancora cattolico e legittimista, contro l’esaltazione ** (anch’essa, in senso diverso, riduttiva e aberrante, seppur meno assurda) di un Leopardi patriota e profeta di un laicismo e umanitarismo di tinta massonica, a cui erano improntate, nel complesso, le celebrazioni ufficiali del ’98.2 Tra i documenti che il Cozza-Luzi riportava in appoggio alla sua tesi, molti erano attinti a precedenti pubblicazioni, soprattutto alle Opere inedite del Leopardi curate dal Cugnoni e all’Epistolario pubblicato dal Viani. Apparivano per la prima volta, invece, i seguenti testi: a) una supplica del 1819 al Papa Pio VII per ottenere la licenza di leggere i libri proibiti («Pal. d. Clero» 17 febbraio 1898 = AL I, pp. 1-2); b) una supplica al Papa, dello stesso anno, per ottenere un impiego nella Biblioteca Vaticana (ibid. = AL I, pp. 3-6); 2 iPer la rivalutazione polemica del primo Leopardi, compiuta dal Cozza-Luzi, vedi specialmente AL I, p. 7: «Era Giacomo fin d’allora di precoce ingegno e vestiva l’abito clericale, che anzi scriveva ed in pubblico recitava sacri discorsi con tanta profondità, pietà ed affetto (...). Gli ebbe pur cari egli stesso questi discorsi primi ed ingenui (...). E se talora non giungono a quelle eleganze, che un’età più matura ed uno stile esercitato avrebbero dato con impronta più eguale ed elevata, sono però una bella rivelazione del suo sapere e più del suo sentire, non ancor per altri e per sé traviato dall’alterigia e dalla smania di comparire indipendente e spirito forte: e ciò con tanta iattura sua ed altrui. Si paragonino queste care pagine della sua giovane mente e del cuore ancor giovane con le produzioni degli altri futuri quattro lustri di vita; le quali sono compassionevoli per sostanza se non per forma. E si vegga come i bei fiori si cangiassero in spine sotto l’alito di non buone amicizie e di passioni indomate» (le «non buone amicizie» sono, ovviamente, un’allusione al Giordani). E vedi ancora in AL II, pp. 17-19 l’esaltazione di Monaldo in contrapposizione al figlio; V, p. 78 l’accenno ai «dolori non solo fisici, ma che più eran morali»; IV, p. 60 la raffigurazione di un Leopardi politico «non chiaro», che «ambiva ad accattarsi lodi ed approvazioni tanto da destra che da sinistra»!

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c) una lettera del cardinale Alessandro Mattei al Leopardi a proposito di tale richiesta d’impiego (ibid.); d) due «discorsi sacri» del Leopardi fanciullo (Il portar della Croce da N. S. Gesù Cristo al Calvario e Gesù innalzato in croce) e un Frammento di un sermone intorno l’immacolato concepimento di Maria («Pal. d. Clero» 10 e 17 marzo e 21 aprile 1898 = AL II, pp. 20-27; III, pp. 46-48), oltre due «discorsi sacri» già editi; e) tre abbozzi (due in prosa, uno in versi) dell’Infinito e uno (in versi) di un Idillio alla Natura («Pal. d. Clero» 24 e 31 marzo 1898 = AL II, pp. 28-32; III, pp. 33-36); f ) due serie di pensieri, cioè nove Pensieri di filosofia varia («Pal. d. Clero» 2 giugno 1898 = AL VI, pp. 90-91) e diciassette Pensieri varii («Pal. d. Clero» 30 giugno 1898 = AL V, pp. 65-68). Il Cozza-Luzi asseriva di aver riprodotto tutti questi scritti da autografi, sulla cui provenienza però non dava alcuna precisa indicazione: «Essendoci venuto alle mani qualche suo autografo ...» (AL I, p. 1); «Anche più interessanti sono altri due autografi che abbiamo tra mano ...» (I, p. 3); «Il seguente discorso ... fu estratto dai manoscritti leopardiani, come ci venne comunicato» (II, p. 24); e così via. Che si trattasse di autografi conservati nella biblioteca di casa Leopardi, egli lo escludeva implicitamente, poiché deplorava che il conte Giacomo, nipote del poeta, non gli avesse concesso di attingere a quei tesori (III, p. 48 n. 1). Piuttosto sembrava alludere ad autografi tuttora in circolazione tra privati, come molti di quelli troppo generosamente regalati da Paolina Leopardi.3 Di un solo testo, cioè dei tre foglietti contenenti le due serie di pensieri, il Cozza-Luzi indicò, se non la provenienza, almeno la sede: la Biblioteca Vaticana («Pal. d. Clero» 2 giugno 1898, p. 132). Mentre la pubblicazione degli abbozzi dell’Infinito e degli altri documenti minori non suscitò sul momento una particolare risonanza (anche per la scarsa diffusione della «Palestra del Clero» in ambienti non ecclesiastici), i Pensieri riaccesero una vecchia polemica. Era accaduto nel 1884 che Giuseppe Cugnoni, professore di lessicografia latina e italiana all’università di Roma, purista di vecchio stampo, bene3 iSu uno di questi autografi o pseudo-autografi si trovava infatti un’autenticazione – vera o apocrifa – di Paolina: vedi più oltre, p. 216 sg.

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merito studioso del Leopardi, pubblicasse incautamente come leopardiani alcuni «inediti» (una serie di pensieri, una lettera al Giordani e una contraffazione trecentesca del genere del Martirio de’ Santi Padri) comunicatigli da un certo Ilario Tacchi, il quale poco dopo se n’era rivelato autore. L’intenzione del Tacchi – una patetica figura di ambizioso provinciale in cerca di notorietà e di un impiego – era stata di ripetere le burle fatte dal Leopardi stesso con l’Inno a Nettuno e col Martirio e di dimostrare la sua bravura nell’imitare lo stile leopardiano. Ma il Cugnoni, indispettito per esser caduto nel tranello, era ricorso ad un partito «eroico»: si era ostinato a sostenere che quegli scritti non potevano non essere del Leopardi, che il Tacchi li aveva effettivamente tratti da autografi leopardiani come aveva detto all’inizio, e che mentiva adesso, per farsi credere capace di una così perfetta contraffazione. Nessuno, però, gli aveva creduto.4 Ma ora, tra i Pensieri vaticani pubblicati dal Cozza-Luzi ce n’erano quattro che coincidevano quasi alla lettera con quelli pubblicati nell’84 dal Cugnoni; e ce n’era un altro che, con lievi varianti di forma, ricorreva nello Zibaldone, come si poté constatare quando, poche settimane dopo la pubblicazione del Cozza-Luzi, il primo volume dello Zibaldone, a cura della Commissione presieduta dal Carducci, comparve presso Le Monnier.5 La coincidenza con lo Zibaldone sembrava garantire l’autenticità dei Pensieri vaticani; a sua volta la coincidenza tra i Pensieri vaticani e quelli editi dal Cugnoni obbligava ad ammettere l’autenticità di questi ultimi. La tesi del Cugnoni, che il Tacchi 4 iGli «inediti» furono pubblicati dal Cugnoni nella «Nuova Antologia» del 15 aprile 1884, p. 569 sgg. Prima ancora che il Tacchi si rivelasse, la falsificazione fu intuita da Giuseppe Chiarini, il cui lucido articolo nella «Nuova Antologia» del 1° maggio 1884, p. 124 sgg., merita ancora di esser letto (cfr. Carducci, Lettere, ed. nazionale, XIV, pp. 281, 282, 293). Altri documenti di quella polemica sono indicati nella Bibliografia leopardiana di Mazzatinti e Menghini, vol. I, p. IX sg. La controversia fu poi narrata dal Cugnoni nell’opuscolo Dopo quattordici anni (Roma 1898), e da D. Gnoli in «Rivista d’Italia» a. I, vol. II (1898), p. 525 sgg. II Tacchi – che si presentò la prima volta al Cugnoni sotto il falso nome di G. B. Ubaldini – aveva già cercato di farsi una notorietà contraffacendo alcuni scritti di Gaspare Gozzi. 5 iSi tratta dell’ottavo dei Pensieri di filosofia varia («Caino, l’autore della colpa, fu il primo fabbricatore di città; né è perciò meraviglia che li abitatori di esse siano degni figli di tanto padre»), che trova riscontro nello Zibaldone, p. 191 dell’autografo (= vol. I, p. 296 ed. Le Monnier): «II primo autore delle città, vale a dire della società, secondo la Scrittura, fu il primo riprovato, cioè Caino, e questo dopo la colpa, la disperazione e la riprovazione. Ed è bello il credere che la corruttrice della natura umana e la sorgente della massima parte de’ nostri vizi e scelleraggini sia stata in certo modo effetto e figlia e consolazione della colpa».

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fosse stato un plagiario e non un falsario, risultava apparentemente vittoriosa, a dispetto dell’incredulità con cui era stata accolta fin allora: tanto più quando il Cozza-Luzi, nella «Palestra del Clero» dell’8 settembre 1898, pubblicò il facsimile di una pagina del manoscritto vaticano.6 Il Cugnoni passò ora al contrattacco: scrittore bizzoso e arguto, si divertì a ritorcere contro i suoi derisori l’accusa di ignoranza e a sviluppare su questo tema tutte le variazioni ironiche di cui fu capace, nei due opuscoli Dopo quattordici anni: commedia e contro-commedia e Questione leopardiana, usciti entrambi a Roma nel ’98: finché il Tacchi, esasperato, gli intentò un processo per diffamazione. Dal processo, che dopo molti rinvii si tenne a Roma dal 15 al 30 giugno del 1900, il Cugnoni uscì assolto.7 Tuttavia le discussioni che, dentro e fuori della sede giudiziaria, si svolsero sui documenti pubblicati dal Cozza-Luzi, indebolirono gravemente, in complesso, la tesi dell’autenticità. Le obiezioni sollevate dai periti calligrafi del Tacchi non furono confutate dai periti del Cugnoni. Gli articoli di Domenico Orano nel «Don Chisciotte di Roma», pur tra molte lungaggini e divagazioni superflue **, misero alle strette il Cozza-Luzi quanto alla provenienza degli «inediti»: risultò che almeno alcuni di essi erano stati forniti al Cozza-Luzi dal prete Oliviero Jozzi, già noto per precedenti falsificazioni, e che i tre fogli contenenti i Pensieri non appartenevano ad alcun fondo della Vaticana né provenivano da regolare dono o acquisto documentabile, ma vi erano stati introdotti recentissimamente, con ogni probabilità dal Cozza-Luzi stesso.8 Il prefetto 6 iCfr. AL VI, p. 88 sg. Le riproduzioni fotografiche di tutti e tre i fogli vaticani furono poi pubblicate nello stesso anno dal Cugnoni in fondo all’opuscolo Questione leopardiana (Roma, tip. della Camera dei Deputati). 7 iTra i resoconti dei quotidiani di allora, vedi specialmente quelli della «Tribuna» (col titolo Un’accademia leopardiana; favorevole al Tacchi) e del «Popolo romano» (col titolo Leopardi redivivo; favorevole al Cugnoni). Vedi inoltre le due autodifese pubblicate dal Cugnoni (Per Cugnoni prof. Giuseppe querelato contro Tacchi Ilario querelante ..., Querela I, Roma, tip. Agostiniana, 1899; Querela II, tip. Failli, Roma 1899) e la memoria legale Per le ragioni dello scrittore Ilario Tacchi presentata dai suoi avvocati E. Pessina, E. Ferri, V. O. Gentiloni, tip. Pistolesi, Roma 1900. Più tardi il processo, che aveva suscitato molto interesse anche per la presenza di avvocati di grido come Pessina e Ferri, fu narrato, ma con eccessiva parzialità a favore del Cugnoni, da E. Veo nel «Messaggero» del 12 settembre 1929 e da un certo «Sigma» nello stesso giornale, 30 dicembre 1933. 8 iGli articoli di Domenico Orano, I manoscritti leopardiani: autografi o apocrifi?, non registrati nella Bibliografia leopardiana di Mazzatinti-Menghini-Natali, comparvero nel «Don Chisciot-

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della Vaticana, Franz Ehrle, uomo di tutt’altra formazione e scrupolosità scientifica, pur astenendosi necessariamente da un aperto contrasto col Cozza-Luzi che era suo superiore diretto, fece capire in modo abbastanza chiaro che all’autenticità di quelle carte non credeva.9 Mentre il Cozza-Luzi si chiuse nel silenzio come se la controversia non lo riguardasse, il Cugnoni dopo il processo sentì ancora il bisogno di tornare a difendere la sua tesi nel volumetto Alla ricerca di Giacomo Leopardi;10 e lo fece, al solito, con brio e con calore, ma con argomenti tutt’altro che probativi. Del resto, l’interesse dei leopardisti era ormai attratto dallo Zibaldone, a cui si aggiunse nel 1906 l’edizione degli Scritti vari dalle carte napoletane. Di fronte a una mole così imponente di inediti, le poche pagine pubblicate dal Cozza-Luzi passarono in secondo piano. Nelle più notevoli opere sul Leopardi pubblicate in quegli anni (gli ultimi volumetti delle Divagazioni leopardiane di Giovanni Negri, gli Studi sul Leopardi dello Zumbini, la Vita del Chiarini) non si fa cenno di quegli scritti, neppure per negarne l’autenticità.

te di Roma» del 25, 27 e 29 maggio, 11, 12, 18, 20 e 25 luglio, 3, 9 e 19 agosto, 27 novembre 1899. Vedi inoltre la perizia grafica litografata, non firmata, contro l’autenticità dei Pensieri vaticani (un esemplare se ne trova a Roma, Biblioteca Alessandrina, collezione leopardiana G. 44); e i resoconti del processo cit. alla nota precedente. Oliviero Jozzi aveva già pubblicato nel 1889 alcune lettere false di S. Luigi Gonzaga (cfr. Lettere ed altri scritti di S. Luigi Gonzaga a cura di E. Rosa, Firenze 1926, p. V sg.) e nel 1898 un Supplemento alla «Roma sotterranea» di G. B. De Rossi (Milano, Hoepli) in cui erano riportate molte iscrizioni false (vedi la testimonianza di Giuseppe Gatti al processo Tacchi-Cugnoni ne «La Tribuna» del 21 giugno 1900). Nell’istruttoria del Processo lo Jozzi ammise di aver regalato al Cozza-Luzi gli «autografi» delle due suppliche a Pio VII, e dichiarò di averli avuti, insieme ad altri documenti leopardiani, da Florindo Cesari, segretario di Giovanni Rosini a Pisa; ma fu smentito dal Cesari (vedi la memoria Per le ragioni dello scrittore I. Tacchi cit., p. 118 sg.). Il Cozza-Luzi ammise di aver avuto dallo Jozzi soltanto la minuta in versi dell’Infinito (ibid., p. 115): cosa, oltre tutto, impossibile perché sullo stesso foglio vi era anche una delle minute in prosa 9 iCfr. D. Orano nel «Don Chisciotte di Roma» del 29 maggio 1899. L’Ehrle si rifiutò di testimoniare al processo Cugnoni-Tacchi (cfr. «La Tribuna» del 16 giugno 1900), certamente per non smentire il Cozza-Luzi e il Cugnoni; ma aveva parlato chiaro all’Orano. Giova ricordare che il prefetto della Vaticana si trova in posizione subordinata rispetto al Cardinale Bibliotecario e al Vice-bibliotecario (carica, quest’ultima, che è esistita solo in rari casi). 10 iRoma 1901. Nella Bibliografia leopardiana (II, p. 8) il Natali riassume così questo volumetto: «A proposito di asseriti autografi, dei quali si confessa autore». Tutt’altro: il Cugnoni ribadisce anche qui la tesi dell’autenticità sia degli «inediti» del 1884, sia di quelli pubblicati dal Cozza-Luzi.

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2. Le recenti vicende degli «inediti» del Cozza-Luzi I Pensieri vaticani e i Discorsi sacri pubblicati dal Cozza-Luzi non sono stati inclusi in nessuna edizione delle opere leopardiane, e nessuno più oggi ne parla; la stessa sorte è toccata agli scritti che aveva pubblicato nell’84 il Cugnoni. Invece gli abbozzi di idilli (vedi qui sopra, ** p. 186, lettera e) furono riesumati nel 1924 da Alessandro Donati, che li ripubblicò parzialmente nell’edizione dei Puerili e abbozzi vari,11 indicando come fonte il Cozza-Luzi ma, a quanto pare, ignorando i dubbi che erano sorti sulla loro autenticità. Di nuovo dal Cozza-Luzi li trassero per le loro edizioni lo Scarpa e il Flora;12 oggi questi abbozzi sono unanimemente tenuti per leopardiani, e su di essi si ricostruisce la genesi dell’Infinito e – per quel che riguarda l’abbozzo di idillio Alla Natura – dell’Ultimo canto di Saffo.13 Quanto alle due suppliche al Papa e alla lettera del cardinale Mattei (qui sopra, pp. 185-186, lettere a, b, c), il Moroncini le riportò nelle note alla sua edizione dell’Epistolario,14 e da allora in poi anche questi documenti sono stati considerati autentici e utilizzati per la biografia del Leopardi.15 11 iBari 1924, p. 197, cfr. p. 277. II Donati fuse arbitrariamente in uno i due abbozzi in prosa e omise l’abbozzo in versi dell’Infinito (cfr. G. De Robertis, Saggio sul Leopardi, nuova ed., Firenze 1973, p. 150 sg. **). 12 iLeopardi, Opere a cura di R. Bacchelli e G. Scarpa, Milano 1935, p. 1103 sg., cfr. p. 1288 sg.; PP **, p. 375 sg., cfr. p. 1132. | Vedi ora anche l’edizione dei Canti a cura di C. Muscetta e G. Savoca, Torino 1968, dove gli abbozzi sono di nuovo pubblicati come autentici; e TO, p. 73, cfr. 1430 sg., dove sono dati come «di discussa attribuzione»; e cfr. qui sotto, p. 226, n. 73 |. Giovanni Ferretti, mentre non incluse i due abbozzi in versi nell’edizione Utet delle Poesie leopardiane (Torino 1948), pubblicò invece i due abbozzi in prosa, fusi in uno come nel Donati, nel volume delle Prose (Torino 1950, p. 440), con l’indicazione erronea: «L’autografo è conservato nella Biblioteca nazionale di Napoli». 13 iAll’autenticità credetti anch’io in un primo tempo: cfr. ** Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa 19651 **, pp. 154 sg. (dove feci ** in tempo soltanto ad aggiungere in nota un’espressione di dubbio; ma cfr. la 2a ed., Pisa 1969, p. 379 {ovvero cfr., qui, l’«incipit», secondo capoverso, del VI cap.: «Natura, dèi e fato nel Leopardi» – N. d. C.}). Cfr. anche K. Maurer, G. Leopardis «Canti» ecc., Frankfurt a. M. 1957, pp. 98, 103, 116 sgg.; ** e i saggi del De Robertis e della Accame Bobbio che citeremo più oltre. 14 iVol. I, Firenze 1934, pp. 192, n. 3; 283, n. 2. Il Moroncini trasse i documenti dalle copie che si conservano nella Biblioteca Comunale di Recanati (vedi qui sotto, p. 207 sg.) senza avvertire che si trattava di copie e non di autografi. I riferimenti alla pubblicazione del Cozza-Luzi furono poi indicati dal Ferretti nelle note aggiunte all’edizione del Moroncini (vol. VII, pp. 45 e 48). Vedi anche Leopardi, Lettere a cura di F. Flora, Milano 1949, p. 1160. 15 iOltre gli studiosi citati alla nota precedente, cfr. G. Ferretti, Vita di G. Leopardi, Bologna 1940, pp. 79 sg., 86, con le note relative in fondo al volume.

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Nel 1951 il noto libraio ed editore napoletano Gaspare Casella acquistò, non si sa da chi, due degli abbozzi dell’Infinito, esattamente corrispondenti alla descrizione e alla trascrizione del Cozza-Luzi: ne dette notizia Giuseppe De Robertis,16 pubblicandone anche la riproduzione fotografica. Nella sua edizione delle Opere leopardiane per i Classici Rizzoli (1937), De Robertis non aveva accolto quegli abbozzi né alcun altro inedito del Cozza-Luzi; e da qualche frase del suo articolo si ritrae l’impressione che egli, conoscitore sensibilissimo dello stile leopardiano, abbia avuto qualche dubbio sulla loro autenticità. Ma quando vide che il foglio acquistato da Casella corrispondeva perfino nella filigrana e in altri dettagli al foglio descritto dal Cozza-Luzi, finì col convincersi che quelli erano proprio gli abbozzi dell’Infinito: l’ipotesi che già il Cozza-Luzi potesse aver propalato una falsificazione era ormai lontana dalla mente di tutti i leopardisti, proprio perché le polemiche del 1898-1900 erano del tutto dimenticate. Due anni dopo, nel 1953, Sergio Antonielli pubblicava la fotografia di un altro inedito del Cozza-Luzi, anch’esso ritrovato da Gaspare Casella: la minuta della supplica per leggere i libri ** proibiti.17 Purtroppo questi manoscritti, venduti dal Casella nel 1954, sono risultati per me irreperibili. L’ultimo possessore di cui io abbia avuto notizia è il collezionista milanese Arnaldo Dell’Avalle; non so a chi siano andati i manoscritti dopo la sua morte. Le riproduzioni fotografiche pubblicate da De Robertis e da Antonielli costituiscono quindi, per ora, l’unica base a nostra disposizione per discutere l’autografia di quelle scritture. Quanto ai tre fogli contenenti i Pensieri, essi si trovano tuttora alla Biblioteca Vaticana, dove sono entrati a far parte del codice Vaticano latino 12895 (ff. 43, 44, 45), composto di autografi di personaggi illustri, di varia provenienza.18 Degli altri testi pubblicati dal Cozza-Luzi – i «discorsi sacri», la supplica per l’impiego alla Vaticana, il primo abbozzo dell’Infinito e l’abbozzo di idillio Alla Natura – non sappiamo se i presunti autografi siano mai esistiti: anche nel 1898-1900 nessuno, a quel che pare, riuscì a vederli.

16 iG. De Robertis, Ritrovati gli abbozzi autografi dell’«Infinito», in «Tempo», Milano, 3-10 marzo 1951, p. 20 sg.; e più ampiamente, ma senza le riproduzioni dei manoscritti, nel Saggio sul Leopardi, ed. cit., p. 149 ** sgg. 17 iS. Antonielli, Leopardi e i «libri proibiti», in «Epoca» 25 aprile 1953, Supplemento «Epoca lettere», p. 30. 18 iSono debitore di questa notizia all’amico Rino Avesani.

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Da quanto abbiamo esposto appare chiara, crediamo, la necessità di riesaminare nel suo insieme il problema degli inediti pubblicati dal Cozza-Luzi. Non è più possibile continuare a considerare pacificamente come autentici gli abbozzi di idilli e le suppliche al Papa, mentre si considerano altrettanto pacificamente come falsi i Pensieri vaticani. Con ciò non intendiamo affatto dire, naturalmente, che la questione dell’autenticità debba avere per forza una soluzione unica per tutti gli inediti del Cozza-Luzi: anche un falsario (o, a maggior ragione, uno studioso onesto ma incauto) può pubblicare, insieme a

a)

b) Tavola 1 a) Pseudo-Leopardi, Pensieri varii, fine del secondo foglio (Cod. Vat. lat. 12895). b) Pseudo-Leopardi, supplica al Papa per leggere i libri proibiti (già nella collezione di autografi di Gaspare Casella).

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testi falsi, testi autentici. Vogliamo soltanto dire che nessuno di quegli inediti può essere accettato a occhi chiusi, senza una verifica del contenuto, dello stile e – là dove possediamo i presunti autografi o le loro riproduzioni – della scrittura. Tale verifica faremo nelle pagine che seguono, tenendo presenti le discussioni del 1898-1900 e aggiungendo nuove considerazioni.

3. I Pensieri vaticani La non autenticità dei Pensieri vaticani fu subito sospettata da Domenico Gnoli e più ampiamente dimostrata da Domenico Orano e dai periti calligrafi citati da Ilario Tacchi.19 Alle loro osservazioni c’è poco da aggiungere; piuttosto bisogna sceverare gli argomenti veramente importanti da quelli di scarso rilievo, i quali finirono per offuscare – invece di rafforzarla – l’evidenza della dimostrazione. L’esame della scrittura (vedi tavola I, a) rivela almeno tre sicuri elementi di falsità: 1) mentre l’r minuscola nella scrittura del Leopardi è sempre di tipo «antico» (cioè di forma analoga a quella dei nostri caratteri di stampa, con la biforcazione dei due tratti molto bassa, tanto che un inesperto può quasi confonderla con un v), il falsario si è lasciato sfuggire alcune r di tipo «moderno» (cioè della forma, derivata dalla scrittura gotica, che ha prevalso nell’odierna corsiva in Italia).20 2) Per dividere una parola in fin di riga il Leopardi usa sempre due trattini orizzontali paralleli; il falsario ne usa spesso uno solo.

19 iD. Gnoli, art. cit.. alla nota 4; D. Orano nel «Don Chisciotte di Roma» dell’11, 12, 18, 20 e 25 luglio 1899; perizia grafica cit. alla nota 8 **. Delle tre prove di non autografia che arrechiamo, soltanto la terza non era stata finora notata, per quanto mi risulta. Fra le molte altre prove che allora furono addotte, alcune si rivelano inconsistenti ad un più ampio esame delle scritture genuine del Leopardi. Io ho preso, in generale, come termini di confronto i molti autografi riprodotti nelle edizioni dei Canti e delle Operette a cura del Moroncini; ho anche tenuto presenti molti dei manoscritti filologici fiorentini e l’autografo dello Zibaldone, per il quale sono ricorso spesso all’esperienza dell’amico Giuseppe Pacella. Varie particolarità della scrittura leopardiana mutano a seconda dell’epoca o anche nel corso di uno stesso autografo; io ho preferito attenermi a pochi elementi sicuri. 20 iVedi nei Pens. di filos. varia, 1, riga 3, la prima r di tradirsi; 7, accanto al numero d’ordine, la prima r di rifarsi; nei Pens. varii, 16, r. 2, la prima r di propria; id., r. 5, l’iniziale di ricca. Cfr. la Perizia grafica cit., p. 25 sg.

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3) Le cifre arabiche che contrassegnano i singoli pensieri sono, nella maggioranza, non seguite dal punto, mentre il Leopardi pone il punto dopo la cifra ogni qual volta questa indichi un numero d’ordine. È questo uno degli usi grafici più costanti del Leopardi (e non di lui solo, ma in generale dei manoscritti e delle stampe di quell’epoca): le carte filologiche fiorentine, ricchissime come sono di rinvii a pagine, capitoli ecc., ne forniscono un’ottima prova. L’aspetto generale della scrittura, inoltre, è considerevolmente diverso da quello dei veri autografi leopardiani, pur mostrando uno sforzo di imitazione. E ancora un’osservazione di Domenico Orano merita di essere ricordata: ciascuno dei tre foglietti vaticani è scritto solo sul recto, mentre il Leopardi, come ben sa chi ha pratica dei suoi autografi, soleva scrivere ** anche sul verso e faceva, negli abbozzi e nelle minute, un feroce risparmio di carta, probabilmente per un’abitudine che si era sviluppata al di là ** delle necessità economiche. Se dalla scrittura passiamo al contenuto, notiamo i seguenti «falsi rimandi»: Pensieri varii, 9: «vedi le polizzine al nome esperienza». id., 11: «vedi polizzine alla voce amico». Pensieri di filosofia varia, 5: «vedi la società indice 1°». id., 9: «vedi polizzine alla parola pianto». Si sa che il Leopardi stesso compilò a più riprese indici dello Zibaldone e, per certi argomenti più importanti, segnò i richiami su schedine a parte, da lui chiamate «polizzine». Nell’Indice del mio Zibaldone compilato nel 1827 a Firenze (ed. Flora, II, p. 1377 sgg.; TO, II, pp. 1241 sgg. **) si trovano numerosi rimandi alle «polizzine»: per esempio alla voce «perfettibilità»: «Vedi polizzine a parte, intitolate Perfettibilità o Perfezione umana»; alla voce «Romanticismo»: «Vedi polizzine a parte, intitolate Romanticismo». Senonché, come osservò già lo Gnoli, tra le «polizzine» non si trovano affatto le voci «esperienza», «amico», «pianto», e l’«indice primo» (che dovrebb’essere il primo dei due indici parziali, II, pp. 1413 sgg. Flora; TO, II, pp. 1263 sgg. **) non contiene la voce «società».21 21 iNon la contiene nemmeno il secondo indice parziale (pp. 1421-1423 Flora), mentre il più ampio Indice del mio Zibaldone ha solo una voce «Società degli animali» che non c’entra affatto col quinto dei Pensieri di filosofia varia.

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Per uscire in qualche modo da questa difficoltà, il Cugnoni (Questione leopardiana, p. 10) non trovò di meglio che supporre l’esistenza di un altro zibaldone leopardiano, anteriore a quello che ci è giunto, munito anch’esso di indici e di «polizzine», e andato poi smarrito o distrutto: a questo, non al nostro Zibaldone si riferirebbero i quattro richiami dei Pensieri vaticani! L’assurdità di una simile ipotesi è evidente: fra l’altro, si dovrebbe ammettere che già prima del ’17 il Leopardi avesse messo su carta pensieri improntati a una cupa misantropia, quale si trova solo in alcuni scritti posteriori al ’19; e si dovrebbe credere che questo «proto-zibaldone» **, scomparso senza lasciar traccia, fosse anch’esso tanto lungo da richiedere indici e «polizzine». Del resto, un richiamo come «vedi polizzine alla parola pianto», apposto al peregrino pensiero «L’uomo è nato per piangere», si rivela subito inconsistente, perché rimanda a una parola di valore emotivo, non a un «argomento» quale può figurare in un indice per materie. Scartata l’ipotesi disperata del Cugnoni, non ne resta che un’altra: che i Pensieri vaticani siano opera di un falsario il quale riuscì a dare un’occhiata, prima della pubblicazione, o all’autografo dello Zibaldone o all’apografo che servì per l’edizione Le Monnier o alle bozze dell’edizione stessa. Il falsario trasse dallo Zibaldone il pensiero già citato su Caino, che doveva appunto dare un’apparente garanzia di autenticità alla sua contraffazione. Vide anche l’indice dello Zibaldone cosparso qua e là di rimandi alle «polizzine», e pensò di accrescere l’attendibilità dei suoi Pensieri mettendovi alcuni rimandi dello stesso genere; ma non avendo avuto l’agio di controllare quali voci figuravano effettivamente nell’indice e nelle «polizzine», foggiò dei rimandi insussistenti e ** rivelò così la propria frode. Bisogna ricordare che, quando uscirono nella «Palestra del Clero» i Pensieri vaticani, il primo volume dello Zibaldone (che nell’edizione Le Monnier contiene anche, all’inizio, gli indici del Leopardi e le «polizzine») era già da tempo in bozze e stava per essere pubblicato. Ma anche ammettendo che da studiosi e tipografi addetti alla pubblicazione il Cozza-Luzi o i suoi amici non siano riusciti a cavar niente, resta il fatto che in quel periodo l’autografo dello Zibaldone, in attesa di essere definitivamente collocato alla Nazionale di Napoli, era depositato a Roma, nella Biblioteca Casanatense. Non è arrischiato imma-

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ginare che il Cozza-Luzi, data l’alta carica che ricopriva nell’ambiente bibliotecario romano, abbia avuto alla Casanatense qualche anima buona che gli comunicò alcuni passi dello Zibaldone. E se, infine, si volesse scartare anche questa ipotesi, bisogna considerare che il lavoro di copiatura per l’edizione fu eseguito da scrivani estranei alla Biblioteca, e che parecchia gente ebbe in quel periodo occasione di vedere, sia pur fuggevolmente, l’autografo.22 Tra costoro può esservi stato il falsario o il suo informatore. Uno degli scopi, se non l’unico, per cui furono fabbricati i Pensieri vaticani fu certamente il desiderio di dimostrare l’autenticità degli inediti pubblicati un quindicennio prima dal Cugnoni. Per questo il falsario ebbe cura di far coincidere quattro dei nuovi pensieri con altrettanti dei vecchi (vedi sopra, ** p. 187). Smascherata la contraffazione dei Pensieri vaticani, viene a cadere ogni plausibile motivo per credere autentici i testi pubblicati dal Cugnoni e rivendicati a sé dal povero Ilario Tacchi. E in realtà la tesi del Cugnoni, secondo cui il Tacchi sarebbe stato un plagiario che si spacciava per falsario, è del tutto inverosimile. Se il Tacchi avesse davvero trovato degli autografi leopardiani, li avrebbe pubblicati lui, preferendo la fama di scopritore (assai giovevole a chi, come lui, voleva far carriera nelle biblioteche) a quella di abile imitatore. L’unico punto che può rimanere in dubbio, e che del resto importa assai poco, è se il Tacchi abbia eseguito da sé la contraffazione del 1884 o si sia fatto aiutare da persone più dotte **: in effetti, al processo del 1900 il Tacchi rimase incerto sul significato di alcune parole trecentesche che ricorrevano negli «inediti», e di ciò menarono grande scalpore il Cugnoni e i suoi sostenitori.23 Ma anche se quegli scritti sono troppo dotti per un Tacchi,

22 iVedi la testimonianza di Giuseppe Chiarini al processo Tacchi-Cugnoni, riferita dal «Popolo romano» del 20 giugno 1900: la copia destinata alla tipografia fu fatta da «amanuensi, i quali non erano persone di fiducia, ma gente pagata a giornata». Sulla possibilità che fu offerta a molti di vedere l’autografo prima della pubblicazione, cfr. D. Orano nel «Don Chisciotte di Roma» del 19 agosto 1899. Che il primo volume dello Zibaldone fosse già in bozze nella primavera del ’98, risulta per esempio dalla lettera del Carducci a Filippo Mariotti dell’aprile (in Lettere, ed. nazionale, XX, p. 126). Anche il titolo Pensieri di filosofia varia ha tutta l’apparenza di una goffa modifica del titolo dello Zibaldone prescelto dai primi editori **: Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura. 23 iCfr. Cugnoni, Alla ricerca di G. Leopardi cit., p. 91 sg. **; e l’articolo di «Sigma» cit. alla nota 7.

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sono certamente, come si accorse il Chiarini, troppo vuoti e banali per un Leopardi! E altrettanto vuoti, nonostante la diversità del contraffattore, sono i Pensieri vaticani pubblicati dal Cozza-Luzi. Che il Leopardi si sia abbandonato a una retorica di quart’ordine come questa: «Quando mi trovo nel santuario dello studio (!) mi sento rapito fuor de’ sensi e l’animo s’accende a sdegno o ad amore», è assurdo per chiunque abbia un po’ in pratica lo stile e l’ethos 1eopardiano.

4. I primi due abbozzi di Idilli Secondo il Cozza-Luzi, il Leopardi avrebbe scritto su uno stesso foglio, uno di seguito all’altro, il primo abbozzo in prosa dell’Infinito e l’abbozzo di idillio Alla Natura. Su quale foglio? Le indicazioni del Cozza-Luzi sono contraddittorie: secondo due passi degli Appunti leopardiani (I, p. 3, n. 5; III, p. 33) il foglio sarebbe quello su cui il Leopardi aveva scritto la minuta della supplica al Papa per ottenere un impiego nella Vaticana; secondo un terzo passo (II, p. 29) si tratterebbe invece dell’altra supplica, quella per leggere i libri proibiti. Siccome l’«autografo» di questa seconda supplica, ritrovato da Gaspare Casella e ora di nuovo irreperibile (vedi sopra, paragrafo 2), non conteneva, a quel che pare, alcun abbozzo di idillio, dovremmo ritenere che gli abbozzi si trovassero sulla minuta della prima supplica, e che la indicazione di AL, II, p. 29 sia dovuta a un lapsus del Cozza-Luzi. Ma Domenico Orano testimoniò che nel novembre del 1897 don Oliviero Jozzi (l’erudito-falsario che abbiamo già avuto occasione di nominare) gli aveva mostrato i veri o presunti autografi di tutt’e due le suppliche, e che su nessuno dei due fogli c’erano gli abbozzi di idilli.24 E tuttora la Biblioteca Comunale di Recanati possiede, come 24 iCfr. «Don Chisciotte di Roma» 27 novembre 1899 **: «Non ricordo affatto – eppure ho buona memoria – che nel retto e nel verso delle due lettere leopardiane, presentatemi dallo Jozzi, vi fossero contenuti altri scritti e tanto meno minute autografe dello stesso Leopardi. Se è così (...), le minute sono false e furono vergate nei due documenti posteriormente alla presentazione a me fattane. È mai possibile che se le due minute inedite fossero esistite nei due documenti, lo Jozzi, che cercava di venderli, non me l’avrebbe fatto notare, per accrescere valore alla sua offerta? Ed è mai possibile che io, che pur tenni per più giorni in casa mia la prima delle due lettere, non me ne sarei accorto?».

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meglio diremo nel paragrafo seguente, copie manoscritte delle due suppliche, e nemmeno in esse compaiono gli abbozzi, come non vi compaiono certi «appunti di cose di famiglia» che, secondo il CozzaLuzi (AL, ** I, p. 3, n. 5), vi sarebbero pure stati su uno dei due fogli. Le testimonianze esterne sono, dunque, già di per sé sfavorevolissime all’autenticità: pare accertato che ancora nel ’97 esistessero le due suppliche s e n z a g l i a b b o z z i d i i d i l l i : il che equivarrebbe a dire che gli abbozzi furono aggiunti ** da un falsario in un secondo tempo, o addirittura che il falsario li propalò senza neppure darsi la pena di contraffare la scrittura del Leopardi. Passiamo, comunque, a esaminare i due abbozzi pubblicati negli Appunti leopardiani. Il primo, in prosa, è brevissimo: Idillio I. (1819) sopra l’Infinito O quanto a me gioconda quanto cara fummi quest’erma plaga e questo roveto che all’occhio copre l’ultimo orizzonte.

Il Cozza-Luzi avverte che «plaga» è una correzione di «spiaggia», che a sua volta è una correzione di «sponda»; prima di «copre», sembra che il Leopardi abbia scritto e poi cancellato «apre»; tutto l’abbozzo sarebbe stato poi cancellato. Ciò che meraviglia in questo primo abbozzo è l’assoluta incertezza non solo di espressione (che sarebbe naturale), ma di concezione. «Non si esagera – osserva giustamente il De Robertis, Saggio cit., p. 152 ** – dicendo che (...) il Leopardi non sentiva neppure alla lontana ciò che dovesse riuscir poi L’Infinito». Addirittura egli sarebbe stato incerto tra due parole di significato opposto come «apre» e «copre» (e sì che il «coprire», cioè l’escludere la vista dell’orizzonte, è l’idea generatrice di tutto l’idillio!); e avrebbe dapprima pensato d’ambientare la sua contemplazione dell’infinito non su un colle, ma sulla sponda (spiaggia) di un fiume o del mare.25

25 iDifatti, se «plaga», o magari «piaggia», può ben alludere all’«ermo colle», «sponda» e «spiaggia» devono riferirsi a tutt’altra collocazione (così intende anche il Flora in «Letterature moderne» I – 1950 –, p. 103). Forse chi scrisse l’abbozzo ricordò La vita solitaria, vv. 23 sg., 33. Quanto all’oscillazione fra «apre» e «copre», i numerosi tentativi di giustificarla che sono stati compiuti (vedi per esempio Aurelia Accame Bobbio nel volume collettivo Leopardi e il Settecento, Firenze 1964, pp. 197; 219, n. 78) mi sembrano troppo sottili.

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Queste difficoltà, tuttavia, non sarebbero ancora insormontabili. Le difficoltà davvero grosse vengono nel secondo abbozzo di idillio, che avrebbe tenuto dietro immediatamente al primo sullo stesso foglio. Qui bisogna prima di tutto mettere in chiaro un problema di testo. Il Cozza-Luzi (AL, III, pp. 33-36) pubblicò l’abbozzo con una specie di «apparato critico», nel quale non solo registrò le numerose varianti e correzioni che vi sarebbero state nell’autografo, ma indicò anche i punti in cui il testo leopardiano era stato corretto da lui, Cozza-Luzi, per ragioni metriche. Il Donati, lo Scarpa, il Flora e Muscetta e Savoca **, che ritenevano autentico l’abbozzo, avrebbero evidentemente dovuto pubblicarlo nella forma genuina, liberandolo dalle rabberciature del Cozza-Luzi. Invece lo hanno pubblicato tutti ** nella forma «emendata», e in questa forma esso viene tuttora studiato e citato dai leopardisti | tranne, adesso, Binni e Ghidetti in TO cit. | . Cominciamo dunque col riprodurre la redazione «genuina», cioè quella che, secondo l’Apparato critico del Cozza-Luzi, corrisponderebbe all’ultimo intendimento del Leopardi. Indichiamo via via in nota alcune incertezze, dovute al fatto che non sempre il Cozza-Luzzi distingue chiaramente tra le correzioni del Leopardi e le proprie.26 05 05 05 50 05 05 05 50 05 10 30 30 30 30

Sempre adorata mia solinga sponda, Deh perché agli occhi miei furi la vista Dell’incantevole e magico effetto Che natura concede alle creature. Alle creature sì, ma non a tutte ... Ahi a me madrigna, spietata madre! Dimmi il perché di tal misura e peso. Qual sfregio ti feci mai, dimmi il perché? Da l’alveo materno me traesti Forse a scherno e ludibrio de’ mortali? Mortal pur io, non a lor secondo27 Né merto tal pena. Benedicesti Pure la terra di cui me plasmasti ... Forse de la tua diva luce un raggio

26 iLa distinzione è chiara quando egli usa per il Leopardi la terza persona («Scrisse», «cancellò» ecc.) e per sé la prima plurale; non è sempre chiara quando usa espressioni impersonali o passive («Fu tralasciato ...», «Le parole furono posposte ...»). 27 iIn margine a questo verso il Leopardi avrebbe scritto un «son», che il Cozza-Luzi corregge in «sono» e colloca prima di «a lor».

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Non balenò ne la mia fronte per cui Mi festi a te simile? E lo spirto28 Sentii in me: in me sentii esultar le ossa? Opra delle tue mani son dunque io Nè disdegnar me puoi, qual belva i nati. È vero. Larga mi fosti di doni,29 Di quanti doni ingegno adunar puote. Sitibondo corsi qual cervo all’onda30 Premei le tue vestigia, né m’arrestai ... Perché poi maggiori beni negarmi E dei mortali farmi, ahi spietata Il più meschino, e dei mali spezzarmi Sul capo di Pandora il fatal vaso! Tu ridesti forse de la mia sorte Ridi pur, che n’hai ben d’onde: oh prodezza! Ridi dell’opra tua! Perdona o Matre, È il dolore che parla, non parlo io ... Son opra tua pur io: né mi fa creder Che me lascerai in mezzo a31 tante pene.

Il componimento incomincerebbe in modo simile all’Infinito, ma ben presto prenderebbe un’altra direzione, quella che porterà all’Ultimo canto di Saffo. Di per sé questo è plausibile: anche le due canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante hanno per matrice, come è noto, un unico abbozzo. Il pensiero dell’infelicità fisica del poeta, del suo sentirsi escluso dalla comunione con gli altri viventi e con la stessa natura inanimata, si sarebbe sovrapposto all’iniziale mossa «idillica» e avrebbe mutato la contemplazione dell’infinito in lamento e invettiva contro la Natura matrigna. Osserviamo un poco, però, c o m e avviene il trapasso. Anzitutto, l’impossibilità di vedere l’orizzonte, che nell’Infinito sarà motivo di gioia per il poeta in quanto suscitatrice o agevolatrice della meditazione sugli «interminati spazi» (e in questo senso sembrava già orien28 iII Cozza-Luzi scrive nel testo «lo tuo spirto» e annota: «Sul fine mancando una sillaba fu posto tuo»: fu posto, parrebbe, dal Cozza-Luzi, non dal Leopardi. 29 iIl Cozza-Luzi scrive «di (tuoi) doni», intendendo, pare, che «tuoi» sia stato scritto e poi cancellato dal Leopardi stesso (cfr. AL II, p. 31 e n.). 30 iNota del Cozza-Luzi: «Avea cominciato una linea Risposi io qual che fu cancellata. E poi Sitibondo ti seguii, ove fu cancellato ti seguii soprapposto. Posponemmo corsi a causa del verso». Parrebbe dunque che «corsi» (correzione di «ti seguii») si trovasse nell’autografo dopo «Sitibondo». Ma non è ben chiaro ciò che il Cozza-Luzi ha voluto dire. 31 i«Prima di tante scrisse in mezzo che cangiasi in tra» (Cozza-Luzi).

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tato il primo abbozzo in prosa), qui costituirebbe invece un motivo di rammarico. La Natura avrebbe concesso, da quel luogo, il godimento di un bel panorama, di un «incantevole e magico effetto» (si badi a questa espressione, così banale e così poco degna ** del rigore stilistico di Giacomo Leopardi!): la siepe, o la «sponda», precluderebbe quel godimento. Se lì per lì questo sembra, per qualche eco verbale, il preannuncio dell’Infinito, in realtà è il suo contrario esatto. E se nell’Infinito è perfettamente naturale che il colle e la siepe siano detti «cari», qui non si capisce perché la sponda, che rappresenta uno sgradito ostacolo alla vista, sia addirittura «adorata». Il tono patetico-dolciastro riesce male a nascondere la sconnessione delle idee. A questo punto, ecco il verso di trapasso: «Alle creature sì, ma non a tutte ...». Dal lamento contro la sponda che impedisce di vedere il panorama, si passa al lamento contro la Natura che, anche se la sponda non ci fosse, escluderebbe ugualmente dal godimento del panorama le creature brutte e deformi come il poeta. Questo motivo, della persona deforme che si sente estraniata e respinta dalla natura stessa, lo conosciamo bene dall’Ultimo canto di Saffo («A’ tuoi superbi regni / Vile, o natura, e grave ospite addetta, / E dispregiata amante ...» ); ma qui esso s’innesta sul motivo precedente in modo del tutto sforzato **, svuotando di significato l’invocazione patetica iniziale. Che anche i versi seguenti, fino in fondo al componimento, siano di una bruttezza difficilmente concepibile nel Leopardi, non è certamente sfuggito ai critici. «Endecasillabi abbandonati alla frenesia della loro scomposta ingenuità e audacia», li chiama Carlo Muscetta;32 ma espressioni come «Dimmi il perché di tal misura e peso» (che sembra un goffo travestimento poetico della banale locuzione «fare due pesi e due misure»), o come «dei mali spezzarmi / Sul capo di Pandora il fatal vaso» (!) meriterebbero senza dubbio un giudizio ancor più negativo. E questo, si noti, non sarebbe un Leopardi principiante 32 iL’ultimo canto di Saffo **, ora in Leopardi, Bonacci, Roma 1976, p. 68 sg. Pur non ponendo la questione dell’autenticità | alla quale, come abbiamo detto, ha continuato a credere anche dopo questo nostro studio |, il Muscetta mostra di rendersi conto della strana mancanza di coscienza stilistica di questi versi. Dell’analisi della Accame Bobbio (in Leopardi e il Settecento cit., p. 191 sg. e note) si salva, mi pare, soltanto l’individuazione delle reminiscenze bibliche presenti nell’abbozzo. Ma tali reminiscenze, come non meraviglierebbero nel Leopardi, così sono intonate alla mentalità e agli scopi «edificanti» del falsario: si confrontino le citazioni bibliche nelle suppliche al Papa, certamente apocrife (qui sotto, paragr. 5 **).

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(sebbene anche nei cosiddetti «Puerili» pubblicati dal Donati, dal Flora, dallo Scheel ** e più compiutamente dalla Corti non si trovi assolutamente nulla di così maldestro): sarebbe il Leopardi del 1819, che ha già scritto le versioni poetiche dal greco e dal latino e le prime due Canzoni, e scriverà tra pochissimo l’Infinito e gli altri idilli. Prendiamo pure quella che è forse la prova meno felice di questo periodo, la Telesilla: non vi troveremo niente di lontanamente paragonabile al cattivo gusto e all’impaccio di codesti versi. Ma più delle impressioni di gusto conta, per la questione dell’autenticità, l’analisi tecnica. Se si può – fino ad un certo punto! – ammettere che il Leopardi anche nel ’19 abbia avuto una défaillance poetica, non si può certo supporre che si sia improvvisamente scordato come è fatto un endecasillabo. Ora si osservino i versi 6, 8, 12, 15, 16, 17, 18, 22, 23, 24, 25, 28, 29, 31, 33. In quasi tutti si possono contare undici sillabe, ma endecasillabi non sono quanto agli accenti. Per esempio ** «Qual sfregio ti feci mai, dimmi il perché» sarebbe un endecasillabo solo se si leggesse «fecì» e «pèrche», e così al verso 15 bisognerebbe leggere «pèr cui», ** al verso 22 «corsì», al verso 23 «arrèstai», e via discorrendo. In altri la misura di undici sillabe si può raggiungere solo a prezzo di elisioni e dieresi tali da far rabbrividire; per esempio al verso 6 bisognerebbe fare di «Ahi a» un’unica sillaba e poi allargare «spietata» con una dieresi; al verso 17 occorrerebbe leggere «Sentii ° in me ° in mé sentii esultar le / ossa», con due durissime sinalèfi consecutive e un iato. Al verso 32 **, dove pure sarebbe stato possibile foggiare un brutto ma non errato endecasillabo sdrucciolo terminante con «credere», il pregiudizio che non dovesse essere in alcun caso superata la misura di undici sillabe ha persuaso il versificatore a porre un «creder» troncato, impossibile in fine di verso. Soffermarsi ancora a dimostrare che un simile scempio metrico e prosodico non può essere opera del Leopardi, sarebbe un offendere il lettore. Siccome molti abbozzi leopardiani sono misti di versi e prosa,33 si potrebbe supporre che i versi che non tornano fossero, nell’intenzione del Leopardi, prosa, e che il Cozza-Luzi li abbia trascritti andando arbitrariamente a capo. Ma che al Leopardi sia venuta scritta per caso una prosa tutta divisibile in «pseudo-endecasillabi» (cioè in serie di 33 iVedi per esempio PP, I, pp. 377 sg. (Le fanciulle nella tempesta), 379, 382 sg., 385 sgg., 427 (** = TO, I, pp. 336, 335 sg., 331, 332 sg., 337).

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parole che, bene o più spesso male, sono raggruppabili in sequenze di undici sillabe) non è assolutamente credibile. Del resto, quella presunta prosa è già troppo ricca di inversioni e di agghindamenti poetici: ben diversa dalla prosa nervosa e rapida, tutta inframezzata di «eccetera», degli altri abbozzi leopardiani! Dovremmo allora supporre che il Cozza-Luzi abbia ritoccato lui la prosa leopardiana, in modo da ridurla in versi o pseudoversi? Ma il Cozza-Luzi riportò come prosa altri due abbozzi dell’Infinito (quello da noi già esaminato e un altro che esamineremo più avanti): non era, dunque, allergico agli abbozzi in prosa. Inoltre, come abbiamo detto, nelle note all’Idillio alla Natura indicò parecchie correzioni da lui apportate al testo leopardiano per ragioni metriche: non c’è motivo di ritenere che abbia taciuto altre correzioni. Ma è proprio l’esame delle correzioni – quelle che il Cozza-Luzi presenta come leopardiane e quelle che attribuisce a se stesso – a darci la definitiva conferma della falsificazione. Le prime ci mostrerebbero un Leopardi che a poco a poco trasforma la prosa in versi aggiungendo qui una parola, togliendone là un’altra, ** contando le sillabe come il più duro d’orecchio degli scolari ** ... e trascurando gli accenti. Per esempio, al verso 1 ** («Sempre adorata mia solinga sponda») il «mia» sarebbe, secondo il Cozza-Luzi, un’aggiunta sopra il rigo, con la quale il Leopardi avrebbe fatto tornare un verso che in un primo tempo aveva una sillaba di meno. Al verso 24 il poeta avrebbe dapprima scritto «Perché negarmi maggiori beni»; avrebbe quindi aggiunto un «poi» dopo «perché»; avrebbe infine spostato «negarmi» in fondo al verso, e nemmeno così, dopo tanti sforzi, sarebbe riuscito a scrivere un endecasillabo con gli accenti giusti. Al verso 28 («Tu ridesti forse de la mia sorte») leggiamo nella nota: «Cominciò con Ridesti, o forse Deridesti ma fatta piccola la lettera r, scrisse prima il Tu innanzi, e poi soprappose forse»: anche qui il Leopardi avrebbe raggiunto soltanto con due zeppe la sospirata misura di undici sillabe, con risultati, peraltro, anche stavolta negativi quanto agli accenti. Al verso 31 [(questo è, forse, il caso più clamoroso)] il Cozza-Luzi c’informa che il Leopardi aveva incominciato: «Al dolor ...»; poi, cancellate queste parole, aveva avuto la bella idea di utilizzare pari pari (togliendo solo un «che») un famoso verso dantesco: «Disperato dolor il cor mi preme ...»; poi era passato a «È il dolor che parla, non parlo io»; e infi-

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ne, accortosi che il verso era ancora troppo breve, aveva corretto «dolor» in «dolore». Che molti versi di questo abbozzo, anche nella forma raggiunta a prezzo di tanti stenti, non tornassero, il Cozza-Luzi certo non lo ignorava. Per quanto le Muse non dovessero aver sorriso attorno alla sua culla, tuttavia non è credibile che egli non sapesse riconoscere o anche comporre un endecasillabo: aveva pur fatto i suoi studi di «umanità» e «retorica», aveva certamente imparato e poi forse insegnato a scrivere sonetti o versi sciolti. Se, dunque, avesse voluto ridurre in versi una prosa leopardiana, il risultato sarebbe stato tecnicamente un po’ meno disastroso. Ma quei versi zoppicanti costituivano per il CozzaLuzi il tipico contrassegno dell’«abbozzo» che, come egli scriveva, «dallo stesso autore non fu ritoccato a dovere» (AL, III, p. 33). Sia stato egli stesso il falsario o abbia prestato fede a una falsificazione altrui, in entrambi i casi è certo che egli trovava normale che il giovane Leopardi, come un seminarista zuccone, fosse arrivato al risultato poetico definitivo attraverso una lunga vicenda di errori non solo stilistici, ma metrici. Tantae molis erat rectum componere versum! Il compito dell’editore di un abbozzo, poi, egli non lo faceva consistere né in una mera edizione diplomatica, né in un completo rifinimento, ma in una prudente eliminazione dei soli sbagli più grossi (i quali, tuttavia, andavano segnalati con scrupolo «filologico» in nota). Perciò in parecchi punti, come abbiamo detto, egli mise nel testo una lezione «emendata». Se, per esempio, Giacomo Leopardi non era stato capace di scrivere, al verso 12, niente di meglio che «Né merto tal pena. Benedicesti», il Cozza-Luzi rimediò alla claudicatio hendecasyllabi scrivendo «Né merto pena tal. Benedicesti»; e analogamente intervenne ai versi 15, 22, 23, 29, 32, 33, come si può vedere nelle edizioni del Donati, dello Scarpa e del Flora, che riproducono la lezione «emendata». Altre volte si limitò a segnalare il difetto e a proporre eventuali rimedi in nota (per esempio ai versi 17 e 31); altre volte ancora, lasciò i versi imperfetti senza alcun commento.34 È un com34 iUna caratteristica grafica certamente non leopardiana dell’Idillio alla Natura sono i frequentissimi punti sospensivi. È noto che il Leopardi non usò quasi mai questo segno d’interpunzione, per il quale espresse anche, in un pensiero dello Zibaldone (p. 976 dell’autografo), la propria antipatia. Ma siccome il Cozza-Luzi dissemina arbitrariamente punti sospensivi anche nei brani di poesie leopardiane autentiche che riporta (vedi per esempio AL I, p. 5 sg.; IV, pp. 49-51), non è il caso di usare questa osservazione come prova di non autenticità.

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a)

b) Tavola 2 a) Pseudo-Leopardi, secondo abbozzo in prosa dell’Infinito (già nella collezione di G. Casella). b) Psuedo-Leopardi, abbozzo in versi dell’Infinito (già nella collezione di G. Casella).

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portamento **, più che da curatore d’edizione, da «precettore»: si corregge il peggio, senza tuttavia pretendere di rifare interamente quello che deve rimanere un «saggio» scolastico. Se il movente della contraffazione dei Pensieri vaticani fu, come si è visto, il desiderio di porgere una mano amica al Cugnoni, quale può essere stato il movente di quest’altra, ancor più bislacca falsificazione? Ce lo fa capire il Cozza-Luzi stesso nel fervorino che tien dietro all’edizione dell’abbozzo: In questi ultimi versi si conosce che le passioni disperate non erano cotanto violenti, come si vede in altre poesie. Ritorna ad invocare la natura come madre e non madrigna. Confessa che a lei debbe tanti doni di quell’ingegno, nel quale idolatrava pur troppo se stesso. E quantunque sembri sarcasticamente invitar questa madre a rider dell’opera sua imperfetta per la mancanza dei doni esteriori; pure di ciò le chiede scusa, poiché non egli così parla; ma sibbene il suo dolore si è che parla tali parole acerbe. Dopo questa scusa ricorda esser egli opra di lei, e che ha pur confidenza e speranza di non esser lasciato in preda a cotali sue pene ... Così Giacomo dipinge se stesso; e l’ondeggiar dell’animo, non abbandonato ancora alle fatali tempeste senza speme.

Siamo dunque ricondotti a quello che, come dicemmo all’inizio, è l’assunto fondamentale degli Appunti leopardiani: mostrarci un Leopardi non ancora traviato, o almeno non ancora interamente traviato. Nell’Idillio alla Natura ci sono già i funesti inizi del pessimismo e c’è quell’«orgoglio» che, secondo il Cozza-Luzi, aveva costituito per il Leopardi il primo impulso verso l’ateismo («È vero. Larga mi fosti di doni, / Di quanti doni ingegno adunar puote»). Ma c’è anche, alla fine, il pentimento di aver detto parole troppo blasfeme. Accanto a questo scopo principale, il falsario ne ha avuto un altro direi, banalmente didattico: far vedere alla «studiosa gioventù» (alla quale sono dedicati gli Appunti leopardiani) come il fare una poesia costi molto sudore, e come solo a poco a poco sia possibile anche a un grande poeta migliorare il primo abbozzo e, dagli strafalcioni iniziali, assurgere alla perfezione stilistica e metrica dell’Infinito. Se da così umili inizi erano venuti fuori gli idilli leopardiani, nessuno scolaro, per quanto tardo ad apprendere, doveva disperare! Di qui la sequela delle «varianti» registrate con tanto zelo. Di questo secondo scopo avremo una conferma quando esamineremo, nel paragrafo 6, gli altri due abbozzi di idilli. Per ora notiamo che

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la falsità evidente dell’Idillio alla Natura porta con sé, inevitabilmente, quella del breve abbozzo in prosa («Oh quanto a me gioconda» ecc.) che si sarebbe trovato sullo stesso foglio. Abbiamo già visto, del resto, che molto probabilmente di nessuno dei due abbozzi è mai esistito l’autografo **, nemmeno un falso autografo.

5. Le due suppliche a Pio VII e la lettera del cardinale Mattei Falsi i primi due abbozzi di idilli, non è ancora detto che siano false anche le suppliche a Pio VII. Anzi, le copie conservate nella Comunale di Recanati e la testimonianza di Domenico Orano che abbiamo citato all’inizio del paragrafo precedente possono far supporre che le due suppliche s e n z a g l i a b b o z z i d i i d i l l i siano autentiche. Ma un esame un po’ attento, quale non è stato fatto né dal Moroncini né dal Perretti o dagli altri biografi del Leopardi, porta alla conclusione che anche le suppliche sono con tutta probabilità false. Cominciamo col dire che nell’Archivio Vaticano (o eventualmente nella Biblioteca Vaticana) dovrebbe trovarsi la bella copia della supplica per l’impiego alla Vaticana, corrispondente alla minuta pubblicata dal Cozza-Luzi; e così pure dovrebbe essere conservata o in qualche modo registrata la domanda per leggere i libri proibiti. Di nessuna delle due, invece, si è trovata finora alcuna traccia, sebbene parecchi studiosi, da Domenico Spadoni a Carlo Bandini, a Raffaello Morghen, a Gellio Cassi, abbiano cercato e trovato documenti leopardiani nell’Archivio e nella Biblioteca Vaticana. Anche le ricerche eseguite, su mia richiesta, dall’amico Rino Avesani hanno avuto esito negativo. Si potrebbe, è vero, supporre che la supplica per l’impiego alla Vaticana sia stata soltanto abbozzata e poi non ricopiata né spedita; ma la lettera del cardinale Mattei, che esamineremo tra poco, rende assai improbabile tale ipotesi. Sia il Cozza-Luzi, sia colui che eseguì la copia oggi conservata a Recanati indicarono varie correzioni che si sarebbero trovate nella minuta autografa.35 Non sempre le loro indicazioni coincidono: ciò 35 iLa copia recanatese reca all’inizio questo titolo: «Copia dell’istanza con le correzioni come si trovano».

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non meraviglia, se si considera che anche i Pensieri vaticani furono riportati dal Cozza-Luzi con parecchie inesattezze; e altre inesattezze avrà compiuto l’altro trascrittore. Ecco, comunque, il testo con le varianti riportate in nota:36 B(eatiss)mo Padre Giacomo figlio del conte Monaldo37 Leopardi di Recanati avendo piena conoscenza delle lingue greca e latina38 e di altre moderne potendo offrire saggio della sua perizia in fatto di bibliografia39 chiede di essere ammesso in cotesta biblioteca Vaticana. Che se la giovine età facesse ostacolo, è da osservare40 che il più delle volte l’ingegno unito al senno avvantaggia l’età, e se modestia mel consente, potrei anch’io dire41 in brevi explevi tempora multa. Che della grazia tanto spera.

Chi abbia pratica dell’epistolario leopardiano e, più in generale, dello stile delle «suppliche» rivolte ad autorità nel primo Ottocento, resta sorpreso dal tono scarsamente cerimonioso e deferente di queste righe. Il Leopardi ebbe in seguito occasione, nel ’21 e ancora nel ’23 e nel ’25, di sollecitare raccomandazioni per ottenere un posto di «scrittore» alla Vaticana e un impiego all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Si rileggano le lettere che a tale scopo egli scrisse, per esempio, il 30 marzo 1821 al Perticari e al Mai, il 15 agosto 1823 [e già prima, nel marzo (lett. 258, p. 409 Flora)] al cardinale Consalvi, il 3 agosto 1825 al Bunsen: si vedrà come in tutte ricorrano insistenti quelle dichiarazioni di esagerata umiltà che non erano, in quell’epoca **, una manifestazione di servilismo, ma un ingrediente d’obbligo in qualsiasi sollecitazione di un favore. «S. Em. non mi conosce se non per quell’uomo oscurissimo e sconosciutissimo ch’io sono effettivamente ...». «È sempre grave il domandare (...). Ma molto più se chi domanda non ha diritto nessuno al benefizio (...), qual è ora il caso mio». «Io non mi sarei mai potuto indurre a molestare V. S. con questa preghiera, e a cimentare la sua benignità con questa forse 36 iRacchiudo tra parentesi {tonde} ciò che il Leopardi avrebbe cancellato: indico con R. e con C.-L rispettivamente la copia recanatese e l’edizione del Cozza-Luzi. Trascuro poche divergenze di interpunzione o di grafia del tutto insignificanti. 37 iLe parole «figlio del conte Monaldo» sarebbero aggiunte sopra il rigo. 38 i«della lingua greca e latina» C.-L., che annota: «Prima avea scritto greco»; «(dell’idioma) delle lingue greca latina» R. 39 i«(biblioteche) bibliografia» R. e, press’a poco, anche C.-L. 40 i«ostacolo, è da (pensare) osservare» C.-L.: «(difetto) ostacolo è pur vero» R. 41 i«dire anch’io» R.

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temeraria e presuntuosa confidenza, se ...». «Io son uomo da nulla ...». «Mi feci animo di rappresentare in quel foglio all’Em. V. i deboli studi da me fatti nelle lingue antiche e negli antichi classici, le ristrettezze della mia famiglia ...». «E mirando all’alta generosità dell’Em. V. più che alla mia insufficienza e piccolezza ...». «Io non posso dissimulare a me stesso la piccolezza delle mie forze, e questa mi spaventa ...». Questo florilegio si potrebbe allungare ancora di molto senza alcuno sforzo. Niente di tutto ciò nella supplica pubblicata dal Cozza-Luzi (la quale, si noti, sarebbe stata rivolta non ad abati o a cardinali, ma addirittura al Papa): qui lo sbrigativo tono protocollare, da domanda «in carta da bollo», è interrotto soltanto, non da un’espressione di modestia, ma di orgoglio: il Leopardi, senza tanti complimenti e con una certa saccenteria gnomica, si dichiarerebbe fornito di «ingegno unito al senno» e applicherebbe a se stesso, assai poco a proposito, il versetto del Liber sapientiae biblico (4, 13) in cui si dice che la morte dell’uomo giusto, anche se avviene nel fiore dell’età, non è mai da compiangere come immatura: Consummatus in brevi explevit tempora multa. Che cosa, poi, chiederebbe il Leopardi? «Di essere ammesso in cotesta biblioteca Vaticana». Una simile frase andrebbe benissimo per una di quelle richieste che tuttora deve compilare chi voglia f r e q u e n t a r e , come studioso, la Vaticana ; ma è del tutto inaudita come domanda di i m p i e g o alla Vaticana. E di quale impiego si sarebbe trattato? Secondo il Cozza-Luzi (AL, I, pp. 3 sg.), non deIl’impiego di «scrittore», al quale più tardi, nel ’21, il Leopardi aspirò effettivamente, ma del posto di Primo Custode, cioè, come oggi si direbbe, di Prefetto della Vaticana: quel posto che era stato sempre conferito ad alti prelati o ad uomini, comunque, già maturi e noti nel campo dell’erudizione, e che proprio nell’autunno del ’19 sarebbe stato dato a monsignor Angelo Mai. Che il Leopardi appena ventenne chiedesse per sé quel posto, e lo chiedesse con un’espressione così vaga da riuscire incomprensibile, è fuori di ogni verosimiglianza. Si dirà che il Cozza-Luzi si è sbagliato a interpretare il documento, e che in realtà il Leopardi non mirava al posto di Primo Custode, ma ad un impiego secondario. Senonché, insieme a quella minuta, il Cozza-Luzi pubblicò anche (AL, I, p. 4) una lettera che sarebbe stata inviata al Leopardi dal cardinale Alessandro Mattei, suo lontano parente. Eccone il testo, di cui si trova copia anche alla Comunale di Recanati:

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Giacomino Carissimo Ho tentato tutte le vie immaginabili, ò42 spesa tutta la mia influenza; ma essendo troppo conosciuta la persona a voi pure nota, e della quale mi pare abbiate concorso anche voi a far accrescere43 l’estimazione, non sono riuscito a favorirvi nonostante i vostri meriti: ma badate, dico per questa volta, perché ostacoli sì seri non si presenteranno44 più, né voi potrete con altri temere di essere posposto. Gradite i miei saluti e di tutti di casa e ricordatevi di pazientare. Sempre tutto45 vostro A. Card. Mattei.

La «persona a voi pure nota» non può essere che Angelo Mai, come intende anche il Cozza-Luzi. Se la lettera è autentica, la vicenda non può che essere ricostruita così: il Leopardi nel ’19, sapendo che è vacante il posto di Primo Custode della Vaticana, fa domanda per averlo; il posto viene invece conferito ad Angelo Mai (autunno del 1819), fin allora ** [«dottore»] della Biblioteca Ambrosiana; il cardinale Mattei, a cui il Leopardi era stato raccomandato da Monaldo o da Carlo Antíci, gli fa sapere che purtroppo non c’è niente da fare: il Mai era troppo noto e perciò gli è stato preferito; del resto, non aveva lo stesso Giacomo contribuito ad «accrescerne l’estimazione»? Quest’ultimo accenno, ci spiega il Cozza-Luzi (p. 4), si riferisce alla Canzone ad Angelo Mai: «Egli pure avea applaudito con un lodatissimo inno alle scoperte che levarono tanto grido in tutto il mondo, quando Angelo Mai trovò ne’ palinsesti delI’Ambrosiana di Milano alcuni frammenti dei perduti libri De Republica di Cicerone». Disgraziatamente, come tutti sanno (e certo doveva saperlo benissimo anche il Cozza-Luzi, fedele allievo del Mai, ma la distrazione gli giocò un brutto tiro), il Mai non scoprì il De re publica di Cicerone all’Ambrosiana di Milano, ma alla Vaticana, verso la fine del ’19, poco dopo aver preso possesso della sua nuova carica di Primo Custode. Il Leopardi ebbe notizia della scoperta ai primi del ’20,46 scrisse la canzone Ad Angelo Mai in quello stesso mese e la pubblicò alla fine di giugno. La lettera del cardinale Mattei, invece, presuppone la canzone al 42 i«immaginabili ed ò» C.-L. – La grafia ò per ho (che si trova sia nel Cozza-Luzi, sia nella copia recenatese, e doveva quindi trovarsi nel presunto autografo) è, se non sconosciuta, molto rara nel primo Ottocento. 43 i«a far accrescere» R.; «a crescere» C.-L. 44 iC.-L. omette «sì» prima di «seri» e scrive «si ripeteranno». 45 iR. omette «Sempre tutto». 46 iCfr. G. Gervasoni, Leopardiana: G. Leopardi nei suoi rapporti con A. Mai, Bergamo 1934, p. 83; e la lettera del Leopardi al Mai del 10 gennaio 1820.

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Mai già scritta e divulgata nel ’19, prima che il Mai diventasse Primo Custode della Vaticana. Dunque, essa è falsa. Che il Mattei, invece che alla canzone al Mai, alluda ad altri scritti precedenti del Leopardi che prendevano lo spunto da qualche scoperta dell’abate bergamasco (le traduzioni di Frontone e di Dionigi d’Alicarnasso, la Lettera sull’Eusebio), non è possibile. Le traduzioni rimasero inedite, e non si poteva perciò allora dire che avessero contribuito ad accrescere la fama del Mai;47 la Lettera sull’Eusebio, appena terminata, non era stata ancora vista da nessuno, e solo nel ’23 il Leopardi la pubblicherà in una redazione assai rimaneggiata. Altrettanto priva di senso, a guardar bene, è quella precisazione: «Ma badate, dico per questa volta, perché ostacoli sì seri non si presenteranno più, né voi potrete con altri temere di essere posposto». Come se il concorso per il posto di Primo Custode si tenesse ogni due o tre anni, e ci fosse quindi speranza, per il Leopardi, di vincerlo la prossima volta! A questa lettera, e precisamente alla frase «... mi pare abbiate concorso anche voi a far accrescere l’estimazione» il Leopardi avrebbe aggiunto di sua mano, secondo il Cozza-Luzi (AL, I, p. 5), la seguente postilla (di cui non c’è traccia nella copia recanatese): «Ben mi sta – incidi in foveam quam mihi feci». A parte l’insulsaggine della postilla nel suo insieme, si noti che anche qui, come nella supplica per l’impiego alla Vaticana, il Leopardi avrebbe utilizzato a sproposito una citazione biblica. È frequente nella Bibbia l’immagine di chi cade nella fossa da lui stesso scavata, cioè di chi rimane vittima dell’insidia che egli ha teso a d a l t r i : incidit in foveam quam fecit (Psalm., 7, 16); foderunt ante faciem meam foveam et inciderunt in eam (Psalm, 56, 7); qui fodit foveam incidet in eam et qui volvit lapidem revertetur ad eum (Prov., 26, 27); et qui foveam fodit incidet in eam et qui statuit lapidem proximo offendet in illo (Eccles., 27, 29). Ma che diavolo può ignificare incidi in foveam quam m i h i feci? Il Cozza-Luzi parafrasa: «... crede di esser caduto nella fossa scavata colle sue mani»; ma evidentemente mihi non può significare che «per me», e allora la frase è priva di senso. 47 iGiovanni Labus, in un articolo non firmato apparso nella «Biblioteca Italiana» a. I, vol. III (1816), pp. 428-30, aveva accennato di sfuggita alla «traduzione inedita (di Frontone) già compiuta dal conte Leopardi», senza aggiungere altro. Non bastava certo questo accenno a poter dire che il Leopardi aveva «concorso a far accrescere l’estimazione» del Mai così da favorire la sua chiamata a Roma.

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Ricordiamo, del resto, che sia la lettera del cardinale Mattei, sia la supplica per la Vaticana provengono, come fu accertato nel 1899, da una fonte estremamente sospetta: il noto falsario don Oliviero Jozzi (vedi sopra, ** pp. 188-189 e n. 8). Lo scopo di un falsario può essere semplicemente quello di guadagnar soldi o rinomanza; ma questi documenti rivelano anche un sottinteso «ideologico». La supplica al Papa ci presenta un Leopardi orgoglioso, che si dichiara fornito di senno e di ingegno in abbondanza e si paragona al «giusto» della Bibbia. Viene subito in mente il famigerato Idillio alla Natura, in cui, come vedemmo, il presunto Leopardi si attribuiva «quante doti ingegno adunar puote». È sempre il tema dell’orgoglio generatore di ateismo e quindi di infelicità, che ritorna in tutti gli Appunti del Cozza-Luzi. Né deve meravigliare che questo motivo appaia in un documento che non fu fabbricato dal Cozza-Luzi in persona, ma, con tutta probabilità, dallo Jozzi. Si tratta, infatti, di un’interpretazione del Leopardi largamente diffusa nell’ambiente clericale dell’epoca. Pochi anni prima, nel 1894, il frate agostiniano Nicola Mattioli l’aveva svolta in termini quasi identici a quelli usati poi dal Cozza-Luzi.48 Nemmeno si può escludere che la falsificazione sia stata «concordata» tra il Cozza-Luzi e lo Jozzi. ** Quanto alla lettera apocrifa del Cardinale Mattei, essa mira a far vedere che il Vaticano – contrariamente a quanto asserivano, con ragione, ** i leopardisti anticlericali – non aveva ostacolato le aspirazioni del Leopardi: gli aveva soltanto raccomandato di pazientare per un poco! Commenta il Cozza-Luzi: «Se non avesse avuto a competitore quel famoso Mai è certo che il Leopardi sarebbe stato il successore degli Allacci ed Assemani. E poi quale splendida riuscita poteva da lui attendersi, e quanta soddisfazione per quella mente e per quel cuore impaziente. Vien esortato dallo zio a pazientare, ma non pazientò ...». E a proposito del «ben mi sta» con cui il Leopardi avrebbe postillato la lettera del Mattei: «Quasi sembra qui pentirsi della splendida poesia ... Quante volte il triste pentimento ritornò a turbargli la mente negli anni futuri!». Naturalmente, questo episodio serviva anche a interpretare in senso antileopardiano il posteriore screzio fra il Leopardi e il Mai, su cui già allora si discuteva molto.49 48 iVedi Il Trionfo della Croce. Ragionamento inedito di Giacomo Leopardi pubbl. sull’autografo da N. Mattioli, Roma 1894, pp. 8-10. 49 iSulle polemiche fra clericali e anticlericali di fine Ottocento a proposito del dissidio Leopardi-Mai cfr. {«Angelo Mai», in «Aspetti e figure della cultura ottocentesca» – N. d. C.}, p. 267;

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Possiamo anche individuare nell’epistolario leopardiano gli spunti da cui il falsario prese le mosse. Nel 1818-19 Carlo Antíci e il Giordani si erano effettivamente informati se per il Leopardi vi fosse una possibilità d’impiego alla Vaticana. Avevano saputo che non era vacante alcun posto secondario, ma solo quello di Primo Custode, a cui evidentemente il Leopardi non poteva aspirare. In una lettera del 5 gennaio 1819 il Giordani scriveva: «Senza adulazione vi dico, che voi Giacomino non siete punto inferiore a qualunque più alto luogo possa darsi all’ingegno e al sapere; ma confesso che l’obiezione degli anni è impossibile a vincere: e chi vorrà credere che di 20 anni uno sappia quanto i dottissimi di 40? Dunque non si può pensare alla Vaticana». Questo passo, che sul finire dell’Ottocento si poteva già leggere nell’edizione dell’Epistolario del Leopardi a cura di Prospero Viani,50 ha invogliato il falsario a immaginare un Leopardi che non dà retta a questi saggi consigli, ma presume di avere tanto ingegno e tanta dottrina da compensare ad usura la giovane età. L’idea, poi, di far intervenire il cardinale Mattei gli fu suggerita da altri due passi del medesimo epistolario: uno del Giordani, che nella stessa lettera del 5 gennaio chiedeva: «II cardinal Mattei che può tanto per far del male, non potrà per far un bene, che infine gli sarebbe gloriosissimo?» (alludendo non al posto di Primo Custode della Vaticana, ma ad un impiego minore); l’altro del Leopardi, che il 18 gennaio rispondeva: «Dite voi, non ci sarebbe il Card. Mattei? Non si potrebbe? Non sarebbe facile? Se ci fosse volontà sincera ed efficace in uno solo di quelli che ci hanno in potere, certo che non sarebbe impossibile ...». Implicitamente accusato da queste parole del Giordani e del Leopardi, il cardinale usciva assolto dalla lettera pubblicata dal Cozza-Luzi: aveva fatto tutto il possibile; la colpa era del carissimo Giacomino che non aveva voluto aver pazienza. Un discorso molto più breve, per fortuna, si può fare sull’altra sup-

G. Gervasoni ne «L’eco di Bergamo» del 10 maggio 1956; P. Treves in «Rendic. Istituto Lombardo» 1958, p. 413 e n. 24. Dell’episodio che dette origine al risentimento del Leopardi verso il Mai parla anche il Cozza-Luzi, AL V, pp. 75-77. 50 i5ª ristampa, Firenze 1892, III, p. 142 sgg. (= ediz. Moroncini, I, p. 208 sg.). Cfr. E. Zerbini, A. Mai e G. Leopardi, nel volume collettivo Nel primo centenario di A. Mai, Bergamo 1882, p. 107. Un’altra lettera, di Carlo Antíci, che svolgeva considerazioni analoghe a quelle del Giordani, non era ancora nota a quell’epoca (fu pubblicata solo nel 1932 da G. e R. Bresciano e poi, integralmente, dal Moroncini, I, p. 198 sg.).

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plica a Pio VII, quella per leggere i libri proibiti. Eccone il testo, quale risulta non solo dagli Appunti del Cozza-Luzi e dalla copia nella Comunale di Recanati, ma anche dalla riproduzione fotografica del documento pubblicata, come abbiamo detto, dall’Antonielli:51 B(eatissi)mo Padre Giacomo Leopardi figlio del Conte Monaldo di Recanati dovendo consultare per i suoi studi diverse opere, specialmente filosofiche, chiede nuova facoltà di poter leggere libri di ogni specie; giacché anche gli stessi veleni riescono talvolta potentissimi rimedi, cosí per poter combattere vittoriosamente gli avversari fa duopo conoscere le armi con le quali aggrediscono. Che della grazia

La riproduzione fotografica rivela chiaramente che la scrittura è contraffatta. Si notino in particolare: 1) gli accenti acuti di giacché e cosí (mentre il Leopardi usò l’accento «sempre grave in fin di parola, e soltanto, rare volte, acuto nel mezzo della parola, quando l’accento poteva essere utile ad evitare un equivoco di significato»);52 2) il trattino semplice per dividere le parole in fin di riga, che si ritrova, come abbiamo visto, nei Pensieri vaticani ugualmente falsi (cfr. pp. 193-194 **); 3) la R di Recanati, con quel ghirigoro con cui termina in basso l’asta verticale. Ma anche altre lettere, come la f, a un attento confronto si dimostrano diverse da quelle della genuina scrittura leopardiana. Certo, una supplica non autografa non è necessariamente una supplica falsa: anche tra le carte napoletane è conservata una domanda del 1° luglio 1825 per leggere i libri proibiti, non scritta e con tutta probabilità neppure dettata dal Leopardi53 e tuttavia certamente voluta da lui. Ma la scrittura del documento edito dal Cozza-Luzi, mentre non è certamente del Leopardi, dimostra l’indubbia intenzione di so-

51 iVedi qui sopra, ** nota 17 e tav. I, b. Nella riproduzione fotografica non è inclusa l’intestazione «B.mo Padre», e manca anche il retro del documento, col rescritto del cardinale Consalvi. 52 iCosì giustamente il Flora, ed. dello Zibaldone, I, p. 1555. Cfr. Moroncini, ed. dei Canti, I, pp. LXVII-LXIX, e delle Operette, I, p. LXIII e n. 2. 53 iNapoli, Bibl. Nazionale, carte leopardiane, XIII 35. La scrittura è chiaramente non leopardiana; aggiungo «neppure dettata», perché mi pare difficile che il Leopardi, tra i lavori eruditi già compiuti, menzioni «le sue annotazioni alla Storia Ecclesiastica (invece che alla Cronaca) di Eusebio». Sembra più probabile che il Leopardi abbia incaricato qualcuno di scrivergli la supplica, e che costui ** (non un ignorante ma un semi-dotto o uno sbadato) abbia sostituito per errore il titolo della più nota opera di Eusebio a quello di una meno nota.

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migliarle il più possibile. Anche questo documento, poi, proviene dal solito Oliviero Jozzi. E ancora bisogna notare la singolarità di quella motivazione («giacché anche gli stessi veleni» ecc.) che mentre non corrisponde, che io sappia, allo stile formulare con cui venivano di solito redatte queste domande, trova invece riscontro nella sentenziosità della supplica per l’impiego alla Vaticana («è da osservare che il più delle volte l’ingegno unito al senno» ecc.). Dal Cozza-Luzi e dalla copia recanatese apprendiamo che la supplica conteneva a tergo il seguente rescritto: «Ex audientia SS.mi die 13. Aug. 1819. Renovatur Clerico Iacobo Leopardi licentia legendi libros prohibitos exceptos tamen eos ex professo contra bonos mores. H. Card. Consalvus». Quell’exceptos ... eos per exceptis ... eis è un bello strafalcione di latino che, forse, si può attribuire con più facilità alla distrazione di don Oliviero Jozzi che agli impiegati della segreteria vaticana, i quali, non foss’altro che per la lunga abitudine, un minimo di perizia nello scrivere queste formule protocollari l’avranno avuta. Ma di ciò potrà giudicare con più sicurezza qualche studioso più pratico di quegli ambienti. Abbiamo già detto (p. 197 sg. **) che lo Jozzi aveva mostrato ad altri le due suppliche, prima di darle da pubblicare al Cozza-Luzi; e altrettanto avrà fatto con la lettera apocrifa del cardinaIe Mattei. Qualcuno di coloro a cui egli le mostrò ne avrà tratto le copie che sono oggi possedute dalla Comunale di Recanati.

6. Gli altri abbozzi dell’«Infinito» Da «un altro foglio, che pure è autografo», il Cozza-Luzi pubblicò (AL, II, pp. 30-32) gli abbozzi che nell’edizione del Flora (PP **, I, p. 376 sg.) figurano come terzo e quarto. Dopo la primissima traccia in prosa dell’Infinito e la deviazione rappresentata dall’Idillio alla Natura, il Leopardi avrebbe ripreso il primitivo concetto facendone un’altra stesura in prosa e quindi una stesura in versi già molto simile alla definitiva. Di questi due ultimi abbozzi, come già sappiamo, ricomparve nel 1951 l’«autografo», acquistato da Gaspare Casella (vedi p. 190 ** e tav. II, a-b). Che esso sia il medesimo di cui parla il Cozza-Luzi, risulta chiaramente dall’articolo già citato di De Robertis e dalla riprodu-

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zione fotografica. Si tratta – come aveva detto il Cozza-Luzi e come confermò il De Robertis – di un foglio recante nella filigrana lo stemma della Reverenda Camera Apostolica, le iniziali della medesima (R. C. A.), la data 1817 e la parola «fabbrica». Nella parte superiore di una delle due facce è scritta una ricevuta notarile (qui non riprodotta). «La data 1817 – dice il Cozza-Luzi – conferma che ben poteva quella carta, o mezzo foglio non scritto, esser poi staccato, e nel 1819 adoperato da Giacomo a scrivervi sopra i suoi lavori letterarii, come pur si vede in altri autografi del medesimo». Giustissimo; ma è altrettanto vero che un falsario (specialmente un falsario che bazzicasse gli ambienti archivistici ed ecclesiastici romani) «ben poteva» procurarsi una ricevuta notarile del 1817 e utilizzarla per dare apparenza di genuinità alla propria contraffazione. La carta usata, dunque, non dice nulla né pro né contro. La scrittura, ancora una volta, ha parecchi elementi di non autenticità. Nell’abbozzo in prosa ritroviamo il trattino semplice per la divisione di parola in fine di riga (im-petuoso); la z ha una forma goffamente tondeggiante, assai diversa dalle due forme fondamentali della z leopardiana; la L (nel titolo L’infinito) è formata di due tratti molto più rettilinei che nelle scritture leopardiane (dove, inoltre, il tratto inferiore è fortemente inclinato verso il basso, non orizzontale come qui); tutta la scrittura ha un andamento impacciato. Nell’abbozzo in versi, invece, appare evidente l’intenzione di simulare una grafia frettolosa, mentre la scrittura leopardiana – anche negli abbozzi poetici, come negli appunti filologici e nello Zibaldone – è sempre calma, senza quel carattere tachigrafico che hanno per lo più i nostri appunti; inoltre il D iniziale del terzo verso pare di forma minuscola, mentre nella scrittura del Leopardi questa lettera ha, a differenza di altre, due forme ben distinte per la maiuscola e per la minuscola. Anche l’autenticazione che si trova in fondo all’abbozzo in versi («È il Carattere di Giacomo – Paolina Leopardi») non assomiglia affatto ad altre scritture di Paolina,54 ed è invece, secondo ogni apparenza, della stessa mano che ha tracciato l’abbozzo in versi. Se, a sua volta, l’abbozzo in prosa provenga dalla stessa mano dell’abbozzo in 54 iVedi per esempio il brano di lettera di Paolina riprodotto in facsimile nel numero unico A Giacomo Leopardi, XV Giugno MDCCCLXXXVI (stampato a Città di Castello, Lapi), p. 2; e la lettera autografa del 15 dicembre 1864 a Felice Le Monnier nella Biblioteca Nazionale di Firenze, carteggio Le Monnier, cass. 28, num. 38.

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versi, non è del tutto sicuro; tuttavia il loro diverso aspetto può derivare semplicemente, anziché da differenza di mano, da differenza di «corsività»: mi conferma in questa opinione l’autorevole parere di Augusto Campana **. Per quanto riguarda il contenuto e lo stile, è evidente che qui il falsario si trovava molto agevolato, perché la necessità di inventare era ridotta al minimo: bastava seguire la falsariga dell’Infinito leopardiano, peggiorandone qua e là il testo. Non ci sono e non possono esserci, dunque, in questi due abbozzi le colossali gaffes dell’Idillio alla Natura, della supplica per la Biblioteca Vaticana e della lettera del cardinale Mattei. Eppure è, a mio parere, molto improbabile che nell’abbozzo in prosa, dopo avere scritto: «... questo verde lauro che gran parte cuopre dell’ o r i z z o n t e allo sguardo mio», il Leopardi possa aggiungere: «Lunge spingendosi l’occhio gli si apre dinanzi interminato spazio vasto o r i z z o n t e per cui si perde l’animo mio»: adopri, cioè, la parola «orizzonte» prima nel senso proprio di confine apparente tra cielo e terra, subito dopo nel senso lato di «veduta dello spazio». Ciò è tanto più inverosimile in quanto l’orizzonte è una parola-chiave e un concetto-chiave dell’Infinito: l’idea e la sensazione delI’infinito sono suscitate proprio dalla non visibilità dell’orizzonte **.55 Goffaggini stilistiche e concettuali insieme sono anche le espressioni «Caro luogo a me sempre fosti b e n c h é ermo e solitario» (come se al Leopardi, e a tutta una tradizione sentimentale e letteraria anteriore a lui, fossero cari generalmente i luoghi frequentati e chiassosi) e «nella amica quiete par che si riposi s e p u r spaura» (dove ritorna una frase concessiva poco a proposito, e dove al posto della «profondissima quiete» degli spazi celesti abbiamo un’«amica quiete» che sembrerebbe piuttosto riferirsi all’ermo colle, a ciò che circonda immediatamente il poeta). Nell’abbozzo in versi, che sarebbe già vicinissimo ai vv. 1-11 dell’Infinito, due correzioni appaiono molto strane. A primo verso il Leopardi avrebbe scritto «Sempre caro mi è quest’ermo colle», e soltanto dopo avrebbe corretto «è» in «fu». Domandiamoci se è verosimile che, dopo avere usato il passato remoto nei due abbozzi in prosa («quanto cara f u m m i ...», «Caro luogo a me sempre f o s t i »), il poeta abbia pensato, sia pure per un momento solo, a quel «mi è», che da un lato 55 iSi ripete, in certo modo, l’ambiguità dell’abbozzo I, dove apre / copre presuppongono due diversi significati di «orizzonte»: cfr. qui sopra, p. 198 e nota 25.

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lega male ** con «sempre», dall’altro crea un iato dei più sgradevoli e inconsueti (nella tradizione di linguaggio poetico a cui il Leopardi appartiene si scrive «m’è», non certo «mi è» misurato come due diverse sillabe). Ai versi 2-3 la prima stesura recherebbe: «... che da tanta parte De l’ultimo orizzonte il guardo s p a r t e» (corretto poi in «esclude»): del tutto improprio l’uso di «spartire» in quel contesto, e assai poco credibile il bisticcio ** «parte – sparte», entrambi in fin di verso. Devo aggiungere che anche il verso 6 «Silenzi e interminabil quiete» (che il Cozza-Luzi stampò in forma «emendata»: «Silenzi, e interminabile quiete») mi lascia perplesso. Certo, se non avessimo altri indizi di falsificazione, dovremmo concludere con De Robertis (Saggio cit., p. 151) ** che il Leopardi osò un’ardita dialefe. Ma a chi, ora, ricordi i versi ametrici dell’Idillio alla Natura e le pietose rabberciature del Cozza-Luzi, non parrà inverosimile che anche in questo abbozzo il falsario abbia voluto introdurre un verso zoppicante; e forse il Cozza-Luzi si dimenticò di notare esplicitamente la sua correzione di «interminabil» in «interminabile», un altro dei tanti soccorsi da lui prestati all’inferma metrica leopardiana! Ancora: dell’Infinito possediamo, come è noto, due autografi, uno tra le carte napoletane, con alcune correzioni, l’altro conservato nel Municipio di Visso, quasi privo di correzioni e certamente posteriore.56 Ora si osservi il comportamento del nostro abbozzo – che, ripetiamo, contiene i soli versi 1-11, fino a «Vo comparando» – nei confronti delle correzioni dell’autografo napoletano: Abbozzo del Cozza-Luzi Autografo napoletano Autografo napoletano corretto prima della correzione De l’ultimo orizzonte interminato tra queste

Del celeste confine un infinito fra queste

Autografo di Visso

** De l’ultimo orizzonte57 De l’ultimo orizzonte interminato tra queste

interminato tra queste

Tutte e tre le volte il Leopardi, dopo avere innovato passando dall’abbozzo all’autografo napoletano, sarebbe ritornato sui propri passi. 56 iVedi l’edizione critica dei Canti a cura del Moroncini, I, p. XXX sg.; II, p. 400 sgg. Sugli autografi leopardiani di Visso (già posseduti da Prospero Viani) cfr. A. Lesen, L’archivio del comune di Visso ecc., in «Convivium» X (1938), p. 361 sgg. 57 i| Questa correzione compare per la prima volta nel Supplemento generale a tutte le mie carte (Firenze, Bibl. Nazionale, Banco rari 342, inserto 11, 1): cfr. A. Monteverdi, Frammenti critici leopardiani2, Napoli 1967, p. 149) |.

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Ciò non è inverosimile di per sé: anche nel penultimo verso dell’Infinito il Leopardi ha oscillato tra «immensità» («immensitade») e «infinità», anche al verso 8 delle Ricordanze corresse nell’autografo «Creommi» in «Mi creò» e poi ritornò a «Creommi». Ma poco credibile è che tutte e tre le correzioni che si trovano in così pochi versi ** dell’autografo napoletano siano ritorni ad una lezione precedente. La stranezza scompare quando si sappia che, al tempo in cui furono pubblicati gli Appunti leopardiani, le carte napoletane – e quindi l’autografo dell’Infinito tra esse contenuto – erano ancora inaccessibili, mentre l’autografo di Visso era stato pubblicato in facsimile già da tempo, nell’edizione degli Studi filologici a cura di Pietro Pellegrini e Pietro Giordani.58 Il falsario, perciò, nel fabbricare l’«abbozzo» ebbe come unico punto di riferimento l’autografo di Visso: non poté immaginare che nella precedente redazione, rappresentata dall’autografo di Napoli, vi fossero quelle tre varianti. Bisogna aggiungere, per completezza, che in quegli anni di fine Ottocento esisté ancora un altro abbozzo in prosa dell’Infinito. Narra Domenico Orano nel «Don Chisciotte di Roma» del 27 novembre 1899: Lo Jozzi (il prete falsario già da noi ricordato più volte) aveva pure ceduto al senatore Filippo Mariotti una minuta dell’Infinito che fu dichiarata falsa da quanti la videro. L’esaminai anch’io come la esaminarono il professor commendatore Giuseppe Chiarini e il professor Mario Menghini e tutti fummo concordi nel riconoscerne la grossolana, ed io aggiungo, puerile contraffazione. Ora basta dare un’occhiata alla minuta suddetta ed alle tre carte dei pensieri famosi (i Pensieri vaticani) per accorgersi che la stessa mano vergò l’una e gli altri.

Di quell’abbozzo l’Orano riproduceva in quello stesso giornale un facsimile, contenente questo testo (tra parentesi {tonde} le parole cancellate): e sovrumani silenzi e (dolcissima) profonda quiete io nel mio pensiero mi fingo ove per poco il cuore non si spaura. E siccome l’impetuoso vento sibila e rovinoso (scuote) flagella l’annosa selva, io quell’infinito silenzio a cotal voce paragono e mi sovvien l’eterno e le passate stagioni e la presente e viva e il suon di lei. Così nell’infinito s’annega il pensier mio. 58 iFirenze, Le Monnier, 1845 (e successive ristampe), di contro al frontespizio. Da questo facsimile deriverà anche l’intestazione Idillio / MDCCCXIX / L’Infinito, con quella data in solenni cifre romane che appare fuor di luogo in un abbozzo, e che invece è al suo posto nella «bella copia» di Visso, in cui è riferita a tutto il quadernetto degli Idilli (Idilli / MDCCCXIX / L’infinito / Idillio I).

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Dopo avere abbozzato in prosa e quindi composti i versi 1-11, il Leopardi sarebbe tornato a scrivere un abbozzo in prosa (anche di una parte che aveva già versificato!) spingendosi quasi fino alla fine: mancherebbe ancora il concetto dell’ultimo verso. Che, anche nella composizione di poesie molto più lunghe e complesse, il Leopardi non abbia mai compiuto questo andirivieni di prosa e versi, questa versifìcazione un pezzetto per volta, non c’è bisogno di osservare. Il facsimile, che noi qui non riproduciamo, conferma pienamente quanto osserva l’Orano riguardo alla scrittura: ritroviamo ancora una volta il trattino unico per dividere una parola (pen-siero) e l’andamento impacciato degli altri pseudoautografi. Può darsi che un giorno o l’altro anche questo pseudoautografo rispunti fuori nel commercio antiquario. Perché il Cozza-Luzi non l’abbia pubblicato nei suoi Appunti, non sappiamo: forse lo Jozzi nel frattempo l’aveva già venduto ad altri, o forse il Cozza-Luzi si rese conto che un eccessivo numero di abbozzi poteva destare sospetti. È facile capire come mai lo Jozzi e i suoi eventuali collaboratori abbiano prediletto l’Infinito nella loro attività falsificatoria. Prima di tutto, il facsimile dell’Infinito che, come abbiamo ricordato, adornava l’edizione di Pellegrini e Giordani, costituiva allora l’unica riproduzione esistente di un autografo di poesia leopardiana; poter tenere sott’occhio il facsimile della poesia definitiva rappresentava una grossa agevolazione per il fabbricatore di «abbozzi». Poi ** l’Infinito aveva l’altro grande vantaggio di essere la più breve poesia del Leopardi. Infine, era una delle poche poesie non «empie». Quest’ultimo motivo è messo in rilievo dal Cozza-Luzi: «possiamo fare uno studio della genesi delle idee su tal soggetto in quella giovine mente a n c o r a b e n a s s e n n a t a », egli scrive (AL, II, p. 28). E aggiunge subito uno di quei fervorini sull’utilità pedagogica della critica delle varianti, di cui citammo altri esempi a proposito dell’Idillio alla Natura: «I cangiamenti, i ritocchi e le espunzioni mostrano ai giovani, come denno tormentarsi col lungo lavoro della lima le proprie composizioni. Anche i più frettolosi e vivi ingegni debbono tenerle a lungo sotto l’esame proprio e l’altrui», e via di questo passo. Adesso, liberata da codeste imposture, la storia dell’Infinito potrà farsi più rapidamente, sulla sola base dell’autografo napoletano, dell’autografo di Visso e delle edizioni curate dal Leopardi.59 59

iSolo su questi testimoni autentici si è fondato il Moroncini nella già citata edizione criti-

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7. I «Discorsi Sacri» Nella biblioteca di casa Leopardi a Recanati si conservano undici «discorsi sacri» del Leopardi fanciullo, composti all’incirca tra il 1809 e il 1814 e recitati da lui stesso nella chiesa di S. Vito, in occasione delle adunanze della Compagnia dei Nobili.60 All’epoca degli Appunti del Cozza-Luzi erano stati già pubblicati tre di questi discorsi: la Crocifissione e morte di Cristo,61 la Flagellazione62 e il Trionfo della Croce.63 Inoltre un discorso molto più breve, Sopra il purissimo concepimento della Beata Vergine Maria, era stato edito da Camillo Antona-Traversi, che l’aveva tratto non dalla biblioteca di casa Leopardi, ma da un autografo donatogli da un amico.64 Vari ** anni fa è stato pubblicato un altro discorso recanatese, la Condanna e viaggio del Redentore al Calvario.65 Gli altri sette sono tuttora inediti. Il Cozza-Luzi, dopo avere ristampato la Flagellazione e la Crocifissione (AL, I, pp. 7-16), pubblicò due discorsi nuovi (Il portar della Croce da N. S. Gesù Cristo al Calvario, in AL, II, pp. 20-23, e Gesù innalzato in croce, ivi, pp. 24-27) e un Frammento di un Sermone intorno l’immacolato concepimento di Maria (AL, III, pp. 47-48) che non è uguale a quello pubblicato dall’Antona-Traversi.

ca dei Canti. Se ciò significhi che egli abbia ritenuto falsi gli abbozzi pubblicati dal Cozza-Luzi non si può dire **: dalla sua edizione, infatti, sono generalmente esclusi i semplici abbozzi, anteriori alla stesura, se non definitiva, almeno compiuta, delle singole poesie. 60 iLe notizie più precise su questi discorsi si trovano nella prefazione di F. Ferri-Mancini alla Flagellazione (qui sotto, nota 62 **). Molto più sommario e inesatto il catalogo del Cugnoni, in Leopardi, Opere inedite, I, Halle 1878, p. XXXV sgg.; cfr. anche G. Piergili, Nuovi documenti intorno agli scritti ed alla vita di G. Leopardi, 3ª ed., Firenze 1892, pp. 175 sgg., 177 n. 1. Non tutti i discorsi sono autografi. 61 iRecanati 1882, a cura del Comitato delle scuole serali private, omaggio a don M. BraviPennesi; e ora in PP **, II, p. 1097 sgg.; TO, I, p. 582 sgg. 62 iA cura di F. Ferri-Mancini, Recanati 1885 ( = PP **, II, p. 1100 sgg.; TO, I, p. 751 sgg.). 63 iA cura di N. Mattioli, Roma 1894; omesso, probabilmente per semplice dimenticanza, nelle edizioni di Donati, Scarpa **, Flora, Binni-Ghidetti. 64 iNel «Fanfulla della Domenica» del 27 maggio 1888. Scrive l’Antona-Traversi: «L’autografo – un foglio volante incollato sur un cartoncino – mi fu donato dal chiarissimo bibliofilo comm. Carlo Lozzi» (da non confondersi col famigerato falsario Oliviero Jozzi!). Non so dove si trovi adesso tale autografo. Poiché l’Antona-Traversi fu studioso serio e buon conoscitore di autografi leopardiani, l’autenticità di questo scritto non sembra da mettersi in dubbio. Anch’esso è stato trascurato dagli editori delle opere leopardiane. 65 iRecanati 1962 («Quaderni del Casanostra», n. 2).

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Questi nuovi discorsi non fanno parte di quelli che giacciono inediti in casa Leopardi: già abbiamo veduto, del resto, che il Cozza-Luzi stesso lo escludeva (cfr. sopra, p. 186 **). Dovremmo dunque supporre che fossero giunti al Cozza-Luzi dal commercio antiquario, o dalle mani di qualche bibliofilo, come era capitato all’Antona-Traversi. Ma i tristi precedenti del Cozza-Luzi in fatto di «inediti» leopardiani e il suo assoluto silenzio sulla provenienza di tali testi (di cui nessuno ha mai visto l’autografo) fanno sospettare che, ancora una volta, ci si trovi dinanzi a una falsificazione. Ciò pare confermato da alcuni indizi. Il discorso intitolato Il portar della Croce da N. S. Gesù Cristo al Calvario è presentato dal Cozza-Luzi come una diversa redazione di un discorso conservato a Recanati: «Questo discorso, che nel manoscritto non ha il suo titolo autografo, presso il Cugnoni (p. XXXVIII) fu intitolato: Gesù Cristo s’avvia al Golgota colla Croce. Si dice che non vi si trova vergato di pugno del Leopardi, ma sibbene in copia tra gli scritti di lui. Pare che abbia avuto diverso inizio in qualche altra copia, cioè: Giù per le balze del monte di Hai etc., ma questa copia non venne sinora alle nostre mani» (AL, II, p. 20). In realtà, come si era già accorto il Ferri-Mancini, il Cugnoni nel suo frettoloso inventario degli autografi recanatesi aveva preso un abbaglio: il discorso che incomincia «Giù per le balze del monte di Hai» non ha per argomento – tranne che nell’esordio – Gesù che porta la Croce, ma il «trionfo della Croce».66 Dunque il tema che il Cugnoni aveva attribuito per puro errore a uno dei discorsi recanatesi, sarebbe stato invece realmente trattato in un altro discorso leopardiano, rimasto ignoto al Cugnoni e scoperto dal Cozza-Luzi. La coincidenza non è impossibile (anche perché il numero dei temi adatti a discorsi sacri non è illimitato), ma appare tuttavia piuttosto sospetta. Curiose sono anche le somiglianze tra il Frammento di un Sermone intorno l’immacolato concepimento di Maria e il componimento analogo pubblicato, come abbiamo detto, dall’Antona-Traversi. Dice il primo: «Lodiamo, o compagni, la Vergine tutta bellissima, tutta purissima, il cui celeste candore niuna macchia giammai offuscò»; e il secondo 66 iSi tratta appunto del discorso pubblicato da N. Mattioli (vedi ** sopra, nota 63). Non pare che il Cozza-Luzi abbia avuto notizia della pubblicazione del Mattioli; ma il curioso è che dovette sfuggirgli anche l’osservazione del Ferri-Mancini, sebbene egli stesso ne ristampasse integralmente la prefazione in AL III, pp. 41-45, e la citasse già in AL I, p.7; II, pp. 24, 27.

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incomincia quasi identicamente: «Lodiamo, o compagni, quella Vergine, la più fortunata del mondo, la quale tutta bellissima, tutta purissima, ed illesa dalla comune macchia nasce per ispeciale beneficio dell’Onnipotente», e termina: «la cui chiarezza il pestilente alito della tartarea serpe mai non appannò, non offuscò, non imbrattò». A sua volta l’accenno alla serpe ritorna in un altro punto (a breve distanza dal principio) del discorso edito dal Cozza-Luzi: «... e l’infernale serpe, nostro nemico, venne conquiso»; e la frase già citata «il cui celeste candore niuna macchia giammai offuscò» (Cozza-Luzi) ha nel testo dell’Antona-Traversi, oltre la chiusa, un altro locus similis: «questo è quel giglio, il cui purissimo candore niun reo mai imbrattò». Dovremmo pensare a due diverse redazioni, leopardiane entrambe, dello stesso discorso; o meglio, siccome il testo del Cozza-Luzi finisce in tronco («non già come Eva madre dei ...») e quello dell’Antona-Traversi invece è compiuto, dovremmo ritenere che il primo sia un abbozzo del secondo. Eppure il fatto che espressioni simili ricorrano i n p u n t i d i v e r s i dei due discorsi fa piuttosto pensare che il testo del Cozza-Luzi sia una consapevole «variazione» di quello dell’Antona-Traversi, eseguita modificando e spostando i singoli pezzetti. Bisogna, certo, riconoscere che un confronto stilistico tra i discorsi sicuramente autentici e quelli pubblicati dal Cozza-Luzi non dà risultati decisivi, perché i discorsi «autentici» sono essi stessi – a giudicare, almeno, da quelli finora pubblicati – dei puri e semplici riecheggiamenti dell’oratoria sacra gesuitica, ispirati da Monaldo o dal precettore don Sebastiano Sanchini.67 Nessun preannuncio del vero Leopardi c’è in questi imparaticci: stando così le cose, il concetto stesso di autenticità diviene evanescente. Ciò non toglie che alcune differenze si possano cogliere. I periodi, per lo più lunghi e complessi nei discorsi recanatesi, sono assai più brevi in quelli editi dal Cozza-Luzi. Espressioni pedestri come « s tu f o dei grandi benefizi» (AL, II, p. 21) o come «rifuggiamo da lui f a c e n d o i s o r d i» (AL, II, p. 25), sciatterie come «creatura più bella che la somigli per bellezza e candore» (AL, III, p. 47), non hanno riscontro nei discorsi autentici fino67 iLo hanno già osservato il Ferri-Mancini e altri studiosi. L’importanza di questi discorsi è stata certamente esagerata da Mary Emiliozzi in «Aevum» XXIX (1955), p. 282 sg. Non c’è in essi ancora nulla di quell’impronta personale che avrà poi, dal ’15 al ’20, il cristianesimo giovanile del Leopardi.

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ra pubblicati. La differenza, insomma, non è tra uno stile leopardiano (che manca anche nei discorsi autentici) ed uno non leopardiano, ma tra una retorica ecclesiastica più aulica e arcaizzante ed una alquanto ammodernata e negligente. II Cozza-Luzi stesso, in quell’annata 1898 della «Palestra del Clero» in cui uscirono gli Appunti leopardiani, pubblicò una serie di suoi propri discorsi Sopra il «Salve Regina» e vari altri pezzi di oratoria religiosa che per stile e contenuto paiono del tutto simili a quelli attribuiti al Leopardi. Si rimane tuttavia nell’ambito degli indizi, non delle prove. La non autenticità dei «discorsi sacri» non si può dimostrare con la stessa sicurezza degli altri testi editi dal Cozza-Luzi. Ma dimostrarla importa anche assai meno allo studioso del Leopardi.

8. Conclusione Le falsificazioni di scritti leopardiani che abbiamo esaminato nel nostro articolo non costituiscono affatto un caso isolato nel secondo Ottocento. Basta scorrere la Bibliografia leopardiana di Mazzatinti e Menghini e il Catalogo del fondo leopardiano della Biblioteca Comunale di Milano (1958) per trovarne altri esempi.68 Gli «inediti» del Cozza-Luzi si trovano ** dunque in buona compagnia; soltanto, sono stati più fortunati, perché sono riusciti in parte, per le vie che abbiamo indicato, a insinuarsi nelle edizioni leopardiane e a rimanervi finora. Tali falsificazioni sono imputabili, più che a generica disonestà, ad arretratezza culturale, a «umanesimo» ritardatario. Qualche volta – come nel caso di Ilario Tacchi – il falsario voleva soltanto ingannare gli studiosi per breve tempo e poi svelare la burla: di simili scherzi il Leopardi stesso aveva dato famosi esempi. Altre volte può essere accaduto che questa intenzione iniziale sia stata poi deviata, cioè che il falsario, scoperto troppo presto, si sia ostinato a difendere l’autenticità della propria contraffazione. Altre volte ancora la falsificazione può aver avuto motivi di interesse pecuniario o può essere stata compiuta a sostegno di una tesi. All’origine di alcune delle falsificazioni da noi 68 iVedi ad esempio i numeri 134, 156, 222, 518 del citato Catalogo della Comunale di Milano **; e cfr. G. Lonardi, Leopardismo, Firenze 1974, pp. 21, 23, 77; A. Balduino, Manuale di filol. italiana, Firenze 1979, p. 165.

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esaminate (quelle in cui appare più direttamente immischiato Oliviero Jozzi) ci sarà stato anche il motivo pecuniario; ma in complesso si tratta di falsificazioni «a tesi»: si volle, come abbiamo visto, dar risalto alla religiosità giovanile del Leopardi e all’orgoglio come causa del suo traviamento; si volle inoltre, coi Pensieri vaticani, permettere al Cugnoni di prendersi la rivincita su Ilario Tacchi. Ma il Cozza-Luzi fu soltanto vittima degli imbrogli di Oliviero Jozzi e di altri eventuali falsari, o fu consapevole e partecipe della falsificazione? La seconda eventualità sembra di gran lunga la più probabile, non solo per il silenzio che egli mantenne sulla provenienza degli «inediti» e per la sua riluttanza ad ammettere i propri rapporti con lo Jozzi (vedi qui sopra, nota 8 **), ma anche perché quei testi si attagliano troppo perfettamente alla tesi che egli voleva dimostrare. Sembra anche molto strano che due persone diverse avessero l’identico concetto (e un concetto piuttosto strano) di ciò che si deve intendere per «abbozzo» poetico, specialmente per quanto riguarda la tecnica della versificazione (vedi sopra, p. 204 **). Allo stato attuale della ricerca, appare probabile che il Cozza-Luzi non solo si sia reso conto della falsità dei manoscritti fornitigli da Oliviero Jozzi, ma abbia egli stesso «inventato» altri scritti pseudo-leopardiani: mi riferisco in particolar modo a quell’Idillio alla Natura di cui, come vedemmo, non sembra sia mai esistito alcun autografo, né vero né falso. Chi avrà modo di studiare più a fondo la personalità del Cozza-Luzi, di raccogliere su di lui e sul suo modo di lavorare più ricche testimonianze, potrà esprimere forse un parere definitivo su questo problema.69 ** Sarei più riluttante a considerare come consapevole o partecipe delle falsificazioni anche il Cugnoni. Certamente il Cugnoni era un reazionario sul piano culturale come su quello politico, ma non privo di simpatici tratti di fierezza e d’indipendenza.70 I suoi opuscoli polemici 69 iNulla si ricava dalla bibliografia degli scritti a stampa del Cozza-Luzi pubblicata a pp. 1416 delle Onoranze a G. Cozza-Luzi, Roma 1898: non vi figurano componimenti poetici né, comunque, scritti letterari, ma solo (tranne gli Appunti leopardiani) discorsi religiosi e lavori di paleografia e filologia. Tuttavia continua a parermi molto improbabile (cfr. qui sopra, p. 204) che il Cozza-Luzi ignorasse la fattura metrica d’un endecasillabo. 70 iSul Cugnoni vedi (in mancanza di uno studio complessivo soddisfacente) la commemorazione di G. Giri **, in «Annuario dell’anno scolastico 1908-09 dell’Univ. di Roma», pp. 229-232; F. Picco, L. M. Rezzi maestro della «Scuola romana», Piacenza 1917, p. 70 sg.; G. Natali, in Encicl. Ital. s. v.; e i ricordi aneddotici di Ettore Romagnoli, Genii in incognito, Milano 1934, p. 221 sgg.

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contro il Tacchi contengono molte intemperanze e molte argomentazioni semplicistiche, ma suscitano una forte impressione di sincerità. Mentre il Cozza-Luzi era un antileopardiano di cortissime vedute, il Cugnoni, benché estraneo alla sostanza più profonda del pensiero e della poesia leopardiana, si sentiva tuttavia erede, attraverso la «Scuola romana», di quel classicismo ottocentesco che aveva avuto nel Giordani e nel Leopardi i suoi più ammirati rappresentanti; e si era reso benemerito degli studi leopardiani con la pubblicazione delle Opere inedite giovanili.71 Piacerebbe, perciò, supporre che l’aiuto fornitogli coi Pensieri vaticani non sia stato da lui richiesto e che egli abbia fino all’ultimo sinceramente creduto alla loro autenticità. Tuttavia non possiamo nasconderci che questa ipotesi urta in difficoltà non indifferenti, dati gli stretti rapporti che univano ** il Cugnoni al CozzaLuzi72 e all’ambiente dei bibliotecari romani e data la scarsa verosimiglianza di una falsificazione perpetrata allo scopo di «beneficare» il Cugnoni senza che il beneficato ne fosse in alcun modo partecipe. Il problema dell’identificazione dei falsari, ad ogni modo, benché meritevole di ulteriore approfondimento, resta pur sempre marginale, una volta che si è accertato che gli «inediti» pubblicati dal CozzaLuzi sono falsi (con qualche incertezza per i soli «discorsi sacri»). L’importante è, soprattutto, che si eliminino dalle edizioni leopardiane i tre abbozzi dell’Infinito e l’abbozzo di Idillio alla Natura.73 71 iQuesta edizione, stampata a Halle nel 1878-80, lascia molto a desiderare quanto ad esattezza; ma certo ebbe torto il Viani (Appendice all’Epistolario del Leopardi, Firenze 1878, p. xx) ad accusare sgarbatamente il Cugnoni di aver pubblicato scritti insignificanti. Cfr. la replica del Cugnoni nell’Avvertenza del vol. II della sua edizione. Per una giusta reazione agli attacchi del Viani, suppongo, anche il De Sanctis, benché uomo di tutt’altre idee, senti la necessità di sottolineare che il Cugnoni aveva «fatto benissimo» a studiare quei primi scritti leopardiani (G. Leopardi a cura di W. Binni, Bari 1953, p. 3). 72 iA p. 10 dell’opuscolo cit. alla nota 69 qui sopra, si informa che in occasione delle onoranze al Cozza-Luzi gli fu offerta una pergamena il cui testo latino fu dettato appunto dal Cugnoni. 73 iSono particolarmente grato agli amici Umberto Albini, Rino Avesani, Carlo Ginzburg, alla Dott. Guerriera Guerrieri, già direttrice della biblioteca Nazionale di Napoli e al Dott. Massimo Fittipaldi, poi direttore della medesima, per le preziose informazioni bibliografiche che mi hanno fornito. | Questa dimostrazione, o ridimostrazione, della falsità dei testi pubblicati dal Cozza-Luzi è stata generalmente accettata dagli studiosi. Vedi in particolare (perché contiene ulteriori argomenti sussidiari, ed è scritta con gusto e garbo singolari) La falsa e la vera storia de «L’infinito» nella 2a ed. dei Frammenti critici leopardiani di Angelo Monteverdi, Napoli 1967, pp. 137-151. Cfr. anche P. Bigongiari, Leopardi, Firenze 1976, pp. 308, n. 22 e p. 546. Non del tutto convinto, per ciò che riguarda gli abbozzi dell’Infinito, si dichiara invece Walter Binni, La protesta di Leopardi, Firenze 1973, p. 199, n. 2; ma non tiene abbastanza conto, mi sembra, né degli argomenti «esterni» (irreperibilità di alcuni dei presunti autografi, scrittura evidentemente contraffatta di altri, ecc.), né delle considerazioni stilistiche e metriche |.

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Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

Il passaggio dalla concezione della natura benefica a quella della natura nemica dell’uomo ha sempre rappresentato uno dei punti più delicati nello studio dello svolgimento del pensiero leopardiano. Ciò che qui sopra ho scritto a questo proposito (pp. 123-128) rimane, credo, valido nelle linee principali, ma ha bisogno di alcune precisazioni e correzioni. Intanto, l’abbozzo di idillio Alla Natura, che poteva sembrare il più vistoso preannuncio della concezione della natura matrigna fin dal 1819, si è rivelato una falsificazione tardo-ottocentesca **. Se già nella prima edizione di questo libro ({cap. III} n. 46) avevo fatto in tempo ad aggiungere sulle bozze un’espressione di dubbio, poco dopo credo di aver potuto dimostrare la non autenticità di questo come di altri scritti pubblicati come leopardiani da Giuseppe Cozza-Luzi: vedi l’articolo Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani nel «Giornale storico della letteratura italiana» CXLIII, 1966, pp. 88 sgg.,° e le ulteriori considerazioni che, con la finezza e il gusto stilistico che gli erano consueti, aggiunse Angelo Monteverdi in uno scritto che è forse il suo ultimo, La falsa e la vera storia de «L’infinito» (nella seconda edizione dei Frammenti critici leopardiani, Napoli 1967, p. 137 sgg.). Ma più che questa piccola novità filologica importa il riesame complessivo che del problema delle due concezioni della natura ha fatto Sergio Solmi **, in un saggio (Le due «ideologie» di Leopardi, in «Prisma» giugno-luglio 1968, p. 12 sgg.) che sviluppa alcune osservazioni

°i{Poi in «Aspetti e figure della cultura ottocentesca» e, ora, qui sopra riprodotto – N. d. C.}

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della sua introduzione al secondo volume delle Opere leopardiane (Milano-Napoli, Ricciardi, 1966). Altre considerazioni che inducono ad un approfondimento del problema si trovano nell’articolo di Vincenzo Di Benedetto sul Leopardi e i filosofi antichi, che {abbiamo avuto} occasione di citare più {sopra} (p. 148).° S’intende che non ho alcuna pretesa, nemmeno con questa nota supplementare, di esaurire un tema che richiederà ancora attente riletture di testi leopardiani. Ulteriori chiarificazioni verranno certamente dallo studio che Gianluigi Berardi ha preannunciato su questo argomento (vedi qui sopra, p. 125) e da un saggio sulla teoria del piacere e sul sensismo leopardiano di cui l’amico Luigi Blasucci mi ha esposto qualche tempo fa le prime linee **. Per quanto una conoscenza più o meno frammentaria e indiretta di Rousseau non mancasse al Leopardi fin dal tempo delle sue primissime esercitazioni scolastiche di filosofia (come apparirà chiaramente quando esse saranno tutte pubblicate), tuttavia l’idea della natura benefica non gli venne, inizialmente, da Rousseau né da altre fonti filosofiche. La Lettera ai compilatori della «Biblioteca Italiana» in risposta a Madame de Staël e gli appunti dello Zibaldone che confluiranno poi nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica mostrano che quella concezione della natura nasce su un terreno di discussioni letterarie e acquista i suoi primi contorni precisi nella polemica contro la rivendicazione di una letteratura «moderna» ed «europea», fatta dalla Staël e dal Di Breme. In quegli scritti, come è noto (cfr. qui sopra, pp. 10 sg., 117), il Leopardi mira ad una rigiustificazione e rigenerazione del classicismo, che lo sottragga alle accuse di scolastica imitazione e di distacco dalla vita, rivoltegli dai romantici. Gli antichi, egli dice, sono superiori a tutti i poeti successivi perché interpreti diretti (come noi oggi non riusciamo più ad essere) della «vera castissima santissima leggiadrissima natura». Le stesse idee, con non minore intensità, sono espresse nel discorso introduttivo alla versione della Titanomachia esiodea (PP, I, p. 557): «Leggiadro tempo quando il poeta della natura, fresca vergine intatta, vedendo tutto cogli occhi propri, non s’affannando a cercare novità, °i{Cfr., in questo volume, la postilla all’inizio del cap. IV, «Il Leopardi e i filosofi antichi»; nell’edizione 1969 (p. 380), con il rinvio alla stessa postilla collocata a fine volume, il testo è: «che avremo ancora occasione di citare più sotto (p. 417)» – N. d. C.}

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che tutto era nuovo, creando, senza pensarselo, le regole dell’arte, con quella negligenza di cui ora tutta la forza dell’ingegno e dello studio appena ci sa dare la sembianza, cantava cose divine ed eternamente durature!». La tesi – sostenuta già da alcuni antichi – dell’anteriorità cronologica di Esiodo rispetto ad Omero è condivisa dal Leopardi, nonostante la sua abbastanza evidente inverosimiglianza, proprio perché Esiodo gli sembra «tanto più semplice, candido, naturale». E siccome questa «naturalezza» è il valore estetico assoluto, antichità e pregio poetico vengono a coincidere: «Sapete bene che le lettere, e singolarmente la poesia, vanno a ritroso delle scienze; voglio dire, dove queste vengon via sempre all’insù, quelle quando nascono sono giganti, e col tempo rappicciniscono». Sono certamente molto giusti e importanti i raffronti che il Fubini e il Bigi hanno fatto, rispettivamente, con un passo della storia letteraria dell’Andres (spesso consultata e citata dal Leopardi) e con uno del primo articolo di Madame de Staël nella «Biblioteca Italiana».1 Ma credo che, nell’indagare la genesi di quell’atteggiamento leopardiano che Fubini chiama felicemente «primitivismo classico», non si possa trascurare l’influsso del purismo. ** La Lettera ai compilatori della «Biblioteca Italiana» (luglio 1816) cade in quel breve periodo di zelo puristico che il Leopardi attraversò dalla primavera-estate del ’16 ai primi mesi del ’17. Nei primi mesi del ’16, quando aveva compiuto la traduzione di Frontone e il relativo discorso proemiale, il Leopardi conosceva già l’esistenza del movimento purista, ma aveva ancora un atteggiamento di cauta accettazione delle sue tesi più moderate, di ripudio della sua forma estrema. Proemio e traduzione sono scritti ancora in un italiano «moderno», cioè settecentesco, quale il Leopardi aveva usato anche nelle sue prose precedenti; e a proposito delle analogie tra il purismo di Frontone e il purismo dell’Ottocento il Leopardi si esprime così: «Non v’ha tra gli antichi uomo, a cui possa più che a Frontone paragonarsi qualche giudizioso imitatore dei Trecentisti Italiani. Frontone però è uno specchio, a cui pochi di questi nostri moderni settari possono riconoscersi. Benché amante dell’antichità, egli non è meno intelligibile di qualunque altro scrittore latino, tanto 1 iM. Fubini, Romanticismo italiano2, Bari 1960, p. 85-88; E. Bigi, La genesi del «Canto notturno», Palermo 1967, p. 44. Cfr. anche H.-L. Scheel, Leopardi und die Antike, München 1959, p. 116 e n. 29.

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bene seppe usare l’antico, e rigettare il rugginoso, spargere i suoi scritti della luce, non della polvere, che si trovava nelle vecchie opere, rispingere sino al giusto mezzo la lingua latina già troppo inoltrata, non ricacciarla ai suoi cominciamenti, e tornarla di anziana in adulta e matura, non in bambina» (PP, II, p. 654). È nei mesi successivi del ’16 e nei primi del ’17 che, distaccandosi da questa posizione «giudiziosa», il Leopardi si foggia uno stile ultrapuristico, che – attraverso il proemio al secondo libro dell’Eneide, il proemio alle Iscrizioni Triopee, il Discorso della fama di Orazio presso gli antichi – tocca il suo culmine nella versione dei frammenti di Dionigi d’Alicarnasso scoperti dal Mai. Ora, il ritorno al Trecento era motivato dai puristi proprio col richiamo alla purezza e alla conformità a natura che la lingua e la letteratura italiana avevano avuto in origine, e che erano state poi irrimediabilmente perdute. Già nel manifesto del purismo più intransigente, la Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana di Antonio Cesari **, questo motivo ritorna continuamente: «Tutti in quel benedetto tempo del 1300 parlavano e scrivevano bene ...»; i trecentisti portarono la lingua «a tal perfezione e bellezza, che non fu potuta poscia non che oscurare, ma né agguagliare giammai». Ai sostenitori del Cinquecento il Cesari risponde che «il fatto nostro è di lingua, non di erudizione, non d’eloquenza, né d’altre prove d’ingegno. Tutte codeste cose furono grandi nel cinquecento, in cui le scienze e l’arti più belle crebbero anzi ad altissimo onore: ma la nettezza, la natia grazia, la purità ingenua, il nitor singolare della lingua, dopo il trecento non parve più». E ancora: «Essi medesimi i Fiorentini ... confessano, che quel primo oro non è più tornato ... quella originale purità e bellezza che col trecento morì ... quella purità, nitore e candor nativo di lingua, morì con quel secolo d’oro che la produsse». Per questo «sono da leggere e studiar forte gli antichi; perché quella grazia naturale, quella schietta gentilezza di puro linguaggio, dopo il trecento più non comparve».2 È possibile ripristinare questi valori della lingua trecentesca? Il Cesari dice di sì, e addita l’esempio dei cinquecentisti che già 2 iCfr. A. Cesari, Opuscoli linguistici e letterari a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia 1907, pp. 145, 146, 150, 151, 153, 213, 199. La Dissertazione, scritta nel 1808, fu pubblicata a Verona nel 1810. Su questo aspetto del purismo del Cesari vedi M. Vitale, in «Lettere italiane» II, 1950, p. 3 sgg.

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compirono una simile restaurazione (p. 218); ma proprio questo esempio parrebbe indicare l’estrema difficoltà, e forse impossibilità, dell’impresa, poiché già prima, come abbiamo visto, il Cesari aveva negato che il tentativo del Bembo e degli altri puristi del Cinquecento avesse avuto successo; e tutta la Dissertazione è più un lamento sull’irrecuperabilità della purezza linguistica originaria che un’esortazione a recuperarla. Non mancava nemmeno, nello scritto del Cesari, quel paragone fra grecità e trecentismo che verrà poi sviluppato dal Giordani e avrà tanta risonanza nel Leopardi giovane. «Ma finalmente, donde è avvenuto che la poesia Greca venisse in tanta fama di cosa eccellente? Io non credo che in que’ poeti si trovi pure un cenno o un sentore di que’ sottili e tanto artifiziali lavori d’ingegno, che sentiam ne’ moderni. Ivi tutto è natura, ma la più sincera, bella, gentile (...). Or questa poesia rendé i Greci i primi maestri del mondo in fatto di gentilezza, e modelli di perfezione» (p. 206). Conobbe direttamente il Leopardi, nel 1816, la Dissertazione del Cesari? Nonostante alcune somiglianze non solo di idee ma di espressione, sembra che si deva rispondere di no: quello scritto non è mai citato dal Leopardi giovane, e nella sua biblioteca ce n’è una ristampa molto posteriore, del 1832. Ancor più improbabile è, in quel periodo, un influsso del Giordani: quando scrisse la Lettera alla «Biblioteca Italiana» il Leopardi non aveva ancora letto di lui quasi nulla, forse soltanto l’anonima risposta alla Staël, nella quale questi motivi «primitivistici» non sono trattati.3 In attesa di una ricerca più precisa sulle fonti del primo purismo leopardiano, dobbiamo supporre che le idee puristiche gli siano giunte indirettamente, forse attraverso la lettura di qualche periodico, senza del tutto escludere che la Dissertazione del Cesari possa essergli stata prestata da qualcuno a Recanati.4 Certo la 3 iVedi la lettera al Giordani del 30 aprile 1817 (I, p. 84 ed. Moroncini; p. 59 sg. ed. Flora). Nella frase della Lettera ai compilatori della «Bibl. Ital.» (in PP, II, p. 597): «Io dunque non taccio il mio nome perché la illustre Dama non asconde il suo, ed egli mi par non sia cosa da uomo magnanimo quel combattere sempre a visiera calata», bisognerà scorgere una punta polemica nei riguardi del contraddittore della Staël che si era firmato «un Italiano» (il Leopardi non sapeva ancora che si trattasse del Giordani). 4 iManca, che io sappia, uno studio sulle fonti della fase iniziale del purismo leopardiano (della fase, cioè, anteriore all’influsso del Giordani). La lettura della corrispondenza col Giordani permette piuttosto di stabilire ciò che il Leopardi non aveva ancora letto prima di entrare in corrispondenza con lui, che di acquisire indizi precisi su ciò che aveva letto.

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coincidenza cronologica fra la sua conversione al purismo (a un purismo, inizialmente, più «cesariano» che «giordaniano», cfr. sopra, p. 92) e la prima enunciazione del «primitivismo» nella Lettera alla «Biblioteca Italiana» può difficilmente essere dovuta ad un puro caso. Se non sulla genesi, il Giordani esercitò un forte influsso sullo sviluppo di questo nucleo d’idee leopardiane. L’inizio della corrispondenza epistolare col Giordani segna, da un lato, il superamento del purismo ultra di cui il Leopardi si era compiaciuto nei mesi precedenti; dall’altro, l’approfondimento dello studio dei trecentisti, lo svolgimento, in senso giordaniano, del parallelismo fra stile greco e stile italiano antico-popolare,5 la distinzione, insomma, sempre più chiara, fra ciò che nel purismo era nostalgia della natura incorrotta e ciò che era pedanteria sterile. I motivi accennati nella Lettera del luglio 1816 riappariranno grandemente arricchiti e sviluppati nel Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica; e in questo sviluppo il Giordani avrà una parte fondamentale. In che cosa, allora, consiste il tono nuovo con cui quelle idee, fin dalla Lettera, sono rivissute ed espresse dal Leopardi? A me sembra che consista nella tendenza molto più forte, che il Leopardi mostra fin dal principio, ad estendere quelle idee dall’ambito meramente linguistico-letterario a tutta la Weltanschauung, a un giudizio globale su «antichi» e «moderni» non solo relativamente al loro valore artistico, ma alla loro felicità e intensità di vita. I puristi si accontentavano di predicare il ritorno all’antico in letteratura e accettavano, quanto al resto, la società presente; oppure desideravano, sì, un ritorno generale alle origini, ma ad origini medioevali e pie; oppure vivevano (è il caso del Giordani, cfr. pp. 57-60) una contraddizione fra primitivismo letterario e progressismo ideologico. Il Leopardi, quando ancora il suo 5 iQuanto ai trecentisti e all’affinità fra greco e italiano, vedi in particolare la lettera del Giordani al Leopardi del 15 aprile 1817 (Epistolario del Leopardi, ed. Moroncini, I, p. 73), e la risposta del Leopardi (30 maggio 1817, ibid., p. 98 sg.): «Dopo che Ella mi ha fatto notare l’amicizia che è tra la lingua nostra e la greca, ho preso a riflettervi sopra seriamente, e aperto qualche prosatore greco, ho trovato con grandissimo piacere che la sua osservazione è verissima e maestrevole, tantoché qualche passo di autore trecentista mi è paruto aver sembianza di traduzione dal greco. Non è maraviglia che io non mi sia accorto prima di questa parentela tanto evidente (e già probabilmente l’ingegno mio senza il suo avviso non se ne sarebbe accorto mai), perché fin qui de’ prosatori nostri ho avuto per le mani piuttosto i cinquecentisti e gli altri che i trecentisti». E vedi il seguito della lettera, e ancora la lettera dell’8 agosto 1817: «Sto ora quanto posso coi trecentisti ...».

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concetto di natura è fresco di derivazione puristica, già sente che esso implica una condanna di tutto questo mondo «innaturale» in cui si trova a vivere. Corrotta non è soltanto la lingua o la letteratura, è l’intera società (intesa più come «modo di vita» che in senso specificamente politico-sociale): il «corrotto costume», dirà nella canzone Nelle nozze della sorella Paolina. Proprio per questa radicalizzazione del concetto di natura e del contrasto fra semplicità antica e corruzione moderna è legittimo l’accostamento a Rousseau, anche se Rousseau, almeno in un primo tempo, non fu una fonte diretta del Leopardi. La lettura delle prime pagine dello Zibaldone conferma l’origine letteraria di questi concetti leopardiani e, in pari tempo, ci fa assistere alla loro progressiva «filosofizzazione». Se si volesse indicare il punto di passaggio da una filosoficità ancora implicita ad una filosoficità cosciente (pur con tutte le riserve sulla possibilità di individuare tali punti precisi in un processo mentale che costituisce una continuità), si dovrebbe citare quel famoso pensiero di p. 14 dell’autografo, che incomincia: «Gran verità, ma bisogna ponderarle bene. La ragione è nemica d’ogni grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la ragione è piccola». Quella che per tutta una tradizione letteraria – arcadica prima che puristica, e, più indietro ancora, risalente a teorie estetiche greco-latine – era l’antitesi fra natura e artificio, tra ingenium (nel senso latino di ispirazione, genialità innata) e ars, diviene, assolutizzata, l’antitesi tra natura e ragione. La posizione che di qui in poi, per alcuni anni, il Leopardi viene svolgendo è una posizione di rifiuto del romanticismo e del razionalismo illuministico insieme: la sua intensa nostalgia di uno stato umano ancora immedesimato con la natura lo porta a respingere insieme il moderno e il cristiano-medievale. Invece, come già abbiamo accennato (p. 10 sg.), egli tende a identificare il «primitivo» con l’antichità classica, in letteratura, come nella storia politica: di qui il fatto che egli non vede contraddizione tra il «ritorno alla natura» e un classicismo bene inteso: di qui anche la varietà delle attuazioni stilistiche di questa poetica del classico-primitivo, nelle traduzioni dai greci e da Virgilio, nelle Canzoni e negli Idilli. Molto giustamente Sergio Solmi (Le due «ideologie» cit.) ha osservato che la natura, secondo questa prima concezione leopardiana, «non coincide con la totalità dell’essere, con l’integralità dell’Ordine cosmico», ma è solo un principio informatore che «esprime in pari tempo lo sviluppo vitale nella sua spontaneità, l’armonia originaria del

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vivente contrastata dalle deviazioni e corruzioni apportate dalla ragione e dalla civiltà». La ragione umana non è stata capace di sostituire alla natura qualcosa di più vitale e beatificante (e in questo senso è «piccola», mentre la natura è «grande»); ma è stata, d’altra parte, capace di guastare irrimediabilmente l’equilibrio vitale dell’essere vivente, e contro quest’opera distruttrice la natura ha dolorosamente rivelato la propria impotenza: «Oh contra il nostro / scellerato ardimento i n e r m i regni / della saggia natura!» (Inno ai Patriarchi). E anche prima che la perturbazione prodotta dalla civiltà avesse luogo, la natura era pur sempre impotente a dare ai viventi uno stato di felicità reale: la sua «saggezza» si dimostrava appunto nel celare ai viventi la loro oggettiva infelicità. I preannunci di una diversa concezione della natura, come ho già osservato (pp. 124-125), non fanno la loro prima apparizione nello Zibaldone o in altre prose «ragionate», ma in poesie. Scartato il non autentico abbozzo di idillio Alla Natura, rimangono due diversi ambiti in cui questi preannunci si collocano. Uno è rappresentato dai due passi (cit. a p. 124) della canzone Per una donna inferma di malattia lunga e mortale. Essi sono inseriti, come nota giustamente Vincenzo Di Benedetto (art. cit., «Critica storica» 1967, p. 303), in un contesto «consolatorio» che limita la loro significatività, riducendoli, in un certo senso, a luogo comune: la sofferente a cui la canzone è dedicata deve consolarsi pensando che tutti siamo ugualmente infelici e perituri. Manca quel tono agonistico, quella rappresentazione della natura come deità nemica e tiranna, che caratterizzerà la più matura concezione leopardiana; e subito dopo (anche questo è da notare) il poeta introduce, con un rilievo più forte, un altro motivo consolatorio, che si rifà al «pessimismo storico»: in questa età presente, vivere a lungo significa scendere a compromessi con la viltà e nefandezza della società, «farsi abietto ed empio» anche se si ebbe da «natura» (v. 128) un cuore gentile. E tuttavia, pur isolata com’è, ha un suo valore quell’immagine dell’intera famiglia umana che «a la natura è gioco» (v. 117): c’è qui un’anticipazione, non solo verbale, di quel potente passo della Palinodia sul «gioco reo» di produzione e distruzione a cui la natura assoggetta gli esseri viventi. L’altra forma in cui compare una nota di dubbio sulla benignità della natura è quella di un lamento che il poeta rivolge alla natura per

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essere stato, lui solo (o lui con altri derelitti) escluso dalla vivificante comunione con lei. La natura rimane, in generale, madre pietosa e forza vitale; ma si è dimostrata matrigna col poeta. Su questo piano si collocano i passi della Vita solitaria, 14-20 («Natura ... un giorno oh quanto / verso me più cortese! E tu pur volgi / dai miseri lo sguardo; e tu, sdegnando / le sciagure e gli affanni, alla reina / felicità servi, o natura»); della canzone Alla primavera (dapprima ai vv. 20-22: «Vivi tu, vivi, o santa / natura? vivi e il dissueto orecchio / della materna voce il suono accoglie?», e poi nell’implorazione finale, in cui, come osserva Mario Fubini nel suo commento, «già l’antico affetto per la Natura è raffreddato da un dubbio»); e soprattutto l’Ultimo canto di Saffo. Il lamento rivolto alla natura ha, in queste poesie, una forte impronta autobiografica: è la deformità fisica del poeta che lo porta a sentirsi figlio negletto della natura. Appartiene a questo stesso ambito – malgrado il tono più teso e tragico, notato giustamente dal Berardi – anche il passo della Sera del di di festa, 11 sgg.: «io questo ciel, che sì benigno / appare in vista, a salutar m’affaccio, / e l’antica natura onnipossente, che mi fece all’affanno. A te la speme / nego, mi disse, anche la speme; e d’altro / non brillin gli occhi tuoi se non di pianto». Qui la natura ha già un volto crudele, a cui danno rilievo i due epiteti «antica» e «onnipossente» (quest’ultimo, in particolare, la differenzia da quell’immagine di madre pietosa ma impotente a conservare gli uomini in uno stato di relativa felicità, che ancora predomina nel Leopardi di questi anni). Ma dalla concezione della natura nemica dell’intero genere umano siamo anche qui tuttora lontani, non solo per il carattere autobiografico in cui il lamento del poeta anche stavolta è circoscritto, ma anche perché il lamento, in questa come nelle altre poesie ora citate, è di un amante non corrisposto, non di un oppresso che ricambia di pari inimicizia il suo oppressore. E ancora: se in alcune delle poesie che abbiamo preso in esame – tutte appartenenti al periodo 1819-22 – il motivo dominante per cui il poeta si sente escluso dalla comunione con la natura è la deformità fisica, in altre è piuttosto la morte delle illusioni, la precoce vecchiezza spirituale da cui il Leopardi si sente gravato. Il lamento alla natura è anche preghiera perché la natura aiuti il poeta a ricongiungersi a lei. Questo secondo aspetto prevale nella canzone Alla primavera, e già in quel famoso passo della lettera al Giordani del 6 marzo 1820: «... mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto

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nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo». L’esperienza della malattia di occhi aggravatasi nel 1819, e del conseguente senso di isolamento e di accresciuta infelicità, agì in una duplice direzione: da un lato dette un primo impulso alla concezione della natura ostile, che più tardi si libererà dalla dimensione strettamente autobiografica (e su questo punto, del rapporto tra malattia e pessimismo, credo tuttora valide le osservazioni fatte sopra, pp. 126-128); dall’altro, come ben si vede ripercorrendo l’epistolario e lo Zibaldone, produsse nel Leopardi la dolorosa impressione del proprio inaridimento sentimentale, della fine di quella giovinezza che rappresentava pur sempre, per l’uomo singolo, l’equivalente di ciò che per il genere umano era stata l’antichità: in questo secondo senso l’estraniamento dalla natura rientrava ancora nel quadro del «pessimismo storico», poteva ancora apparire come una conseguenza della civiltà corruttrice, che esercita più fortemente il suo potere sull’individuo appena esso sia uscito dall’adolescenza. Di qui il sovrapporsi di diversi motivi nella concezione della natura in questi anni. Ma, già in questo periodo, i caratteri di arcana crudeltà o indifferenza verso i viventi che la natura assumerà più tardi nel pensiero e nella poesia leopardiana compaiono in piena evidenza, non riferiti, però, alla natura, bensì al fato e agli dèi. Anche questo è stato veduto bene dal Solmi: «L’altra idea leopardiana della Natura (...) è rappresentata, inizialmente, dall’oscura e capricciosa divinità che ha nome Fato, dal torvo Cielo contro cui, nell’Ultimo Canto di Saffo, si leva la solitaria imprecazione di una creatura offesa». Già la storia del titanismo leopardiano tracciata dal Bosco, del resto, mostra come il cosiddetto pessimismo cosmico si sviluppi dal titanismo. Più precisamente, direi che abbiamo una fase, soprattutto nel ’21-’22 ma con qualche propaggine anche nelle prime Operette, in cui, mentre la natura è ancora teorizzata come madre benefica o tutt’al più è oggetto di lamento nel senso che abbiamo cercato sopra di precisare, dèi e fato sono veduti come forze ostili, contraccambiate di pari odio. Tipico di questa situazione è il Bruto minore. Da un lato abbiamo in questa poesia, come è noto, la raffigurazione più negativa degli dèi e del fato: «gl’inesorandi numi», i «marmorei numi» (v. 19, con una variante «perversi numi»), ai quali «ludibrio e scherno è la prole infelice» degli

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uomini; Giove che siede a tutela degli empi e colpisce i giusti e i pii; il «fato indegno» che fa gravare la sua mano tiranna sull’uomo; il cielo che gode dei nostri affanni come di «giocondo spettacolo» ai propri ozi. Dall’altro, la natura, ben distinta da codeste forze malefiche, aveva assegnato agli uomini una vita libera da ansie e da colpe, e i suoi «regni beati» sono stati distrutti dall’«empio costume» instaurato dalla ragione. Già la canzone Nelle nozze della sorella Paolina, che precede di un paio di mesi il Bruto minore, rivela lo stesso dualismo. L’«obbrobriosa» età moderna, dice il poeta nella prima strofe, è la conseguenza di un decreto del «duro cielo», dell’«empio fato» (lo stesso aggettivo, «empio», che nella Ginestra sarà riferito alla natura!); ma nella seconda strofe il «corrotto costume» sembra di nuovo alludere a un colpevole allontanamento degli uomini dalla natura benefica, e ciò è confermato dal confronto con l’«insano costume» di A un vincitore nel pallone (v. 36 sg.) e con l’«empio costume» del Bruto minore (v. 56, già citato), dove il riferimento alla colpa degli uomini e alla benignità della natura è ben chiaro. E ancora si noti, nella chiusa di A un vincitore nel pallone (v. 57), quel «nostra colpa e fatal» (cioè «colpa nostra e del fato», come spiega il Leopardi stesso): qui si parla della decadenza dell’Italia, non della decadenza generale dell’umanità; ma ritorna anche qui, sia pure fuggevolmente, l’accenno a una duplice «colpa», degli uomini e del destino malefico. Un analogo contrasto ci si presenta nell’Ultimo canto di Saffo: nei riguardi della natura, lo abbiamo già accennato, Saffo si spinge solo fino al lamento dell’amante non corrisposta; ma dietro la natura, da un certo punto della poesia in poi (v. 37 sgg.), appare un’altra forza più misteriosamente ostile, che è designata ora come «torvo cielo», ora come «i celesti», ora come Giove («il Padre»), ora come «il cieco dispensator de’ casi» (cioè il «fato», come annota il Leopardi stesso). E se la frase dei versi 46-47 «Arcano è tutto, fuor che il nostro dolor» può ancora essere riferita alla sola Saffo (i commentatori, come è noto, non sono concordi su questo punto; vedi anche Berardi, p. 672 n. 85), i versi finali «Ogni più lieto / giorno di nostra età primo s’invola» ecc. non possono riferirsi che all’intero genere umano, al suo comune destino di malattie, di vecchiezza e di morte. Se la concezione della natura benefica deriva da una corrente del classicismo italiano, anche la concezione della divinità ostile, come

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abbiamo cercato di dimostrare (pp. 120-122), deriva da un altro filone – alfieriano con ascendenze lucanèe – della stessa tradizione. Ritroviamo ancora questo dualismo nel Dialogo della Natura e di un’anima (aprile 1824). Qui la natura è materna e pietosa verso le sue creature, ma è così poco onnipotente come il Dio di John Stuart Mill; e dietro la natura c’è il fato, e ad esso – non, come aveva un tempo creduto il Leopardi, agli uomini colpevoli di essersi distaccati dalla natura – risale l’infelicità dei viventi. «Né l’una né l’altra cosa (rendere felici gli uomini, o non dar loro la vita) è in potestà mia, che sono sottoposta al fato; il quale ordina altrimenti, qualunque ne sia la cagione; che né tu né io la possiamo intendere. (...) Tutto questo è contenuto nell’ordine primigenio e perpetuo delle cose create, il quale io non posso alterare. (...) Tutte le anime degli uomini, come io ti diceva, sono assegnate in preda all’infelicità, senza mia colpa. (...) Di cotesto conferirò col destino». Osserva nel suo commento il Fubini che sulla distinzione tra natura e fato «a torto hanno sottilizzato alcuni commentatori, perché essa non è giustificabile concettualmente, ma è conforme all’ispirazione poetica di tutta l’opera». E aggiunge: «Piuttosto si può notare come, mantenendo quella distinzione che egli certo considerava finzione fantastica né voleva giustificare razionalmente, il Leopardi poteva esprimere il duplice sentimento che egli aveva della natura, il sentimento di una natura materna e provvida e quello di una natura estranea ed indifferente alle umane miserie, senza essere costretto dalla logica a scegliere tra uno di quei sentimenti e a dargli parvenza di una concezione sistematica». Non mi sentirei di concordare interamente con questa osservazione, perché la distinzione tra natura e fato non è una finzione fantastica i s o l a t a , funzionale a ciò che il Leopardi voleva esprimere in questa sola operetta, ma riflette, come abbiamo visto, un dualismo presente in tutta una fase della poesia leopardiana. La pacata e pur profonda tristezza di questo dialogo è certo assai lontana dalla concitata tensione del Bruto minore; e tuttavia non a caso il dualismo tra natura e fato (o divinità) è comune ad entrambi. È d’altra parte vero che questo dualismo non giunge mai, nel Leopardi, ad una vera e propria teorizzazione. L’unica concezione che in questo periodo continua ad essere elaborata concettualmente è quella della natura benefica; l’altra, della malvagità degli dèi o del fato, rimane ad uno stadio pre-filosofico; essa costituisce, però, un modo provvisorio di esprimere la crescente insoddisfazione che il Leo-

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pardi provava nei confronti della sua prima teoria, secondo cui soltanto la «ragione» era responsabile dell’infelicità umana. Tale insoddisfazione si riflette anche nei pensieri dello Zibaldone dal ’21 al ’24, nei quali egli continua a discolpare la natura e a difenderne la bontà e provvidenzialità, ma con sempre maggior fatica. Via via che egli viene elaborando la «teoria del piacere» e dimostrando la necessaria infelicità di tutti i viventi (non solo di alcune anime elette), la provvidenzialità della natura gli appare sempre più limitata alla sola conservazione della specie – o, più generalmente ancora, dell’ordine cosmico –, conservazione di cui la sofferenza e la morte degli individui è un prezzo necessario.6 Ma ha un senso, da un punto di vista edonistico, il pagamento di questo prezzo? Il Leopardi si orienta sempre più verso il rifiuto di una presunta «felicità collettiva» che si realizzerebbe attraverso la negazione delle felicità individuali. D’altra parte, il materialismo rigoroso che egli elabora alquanto più tardi, nel ’25-’27, mina alla base il concetto stesso di provvidenzialità, di teleologia della natura. La natura diviene così un meccanismo di produzione-distruzione da cui tutti i viventi sono oppressi e da cui è negata quell’esigenza di felicità che questo stesso meccanismo crea in essi. Il dualismo tra natura benefica e fato (o divinità) malefico non ha, a questo punto, più ragion d’essere, perché quei caratteri di maleficità e di indifferenza alla sorte degli individui sono assunti dalla natura stessa. E mentre fato e dèi, pur non risparmiando l’infelicità a nessun vivente, colpivano ancora soprattutto gli uomini grandi (secondo la tradizione del titanismo), adesso il Leopardi insiste di più sulla comune sofferenza di tutti gli esseri animati: non occorre ricordare il famosissimo pensiero sulla souffrance di tutte le piante d’un giardino (Zib., 4175, che non va isolato da ciò che precede in quella stessa pagina), né, più tardi, la chiusa del Canto notturno. Poeticamente il Leopardi continuerà a parlare anche degli dèi, o di Arimane: non rinuncerà alla nota specificamente antiteistica per dare un maggior rilievo alla propria polemica anticristiana e per sottoli6 iIn questo sforzo di giustificazione, in cui il Leopardi viene inconsapevolmente precisando quelli che di lì a poco saranno i suoi argomenti di accusa contro la natura, particolare importanza hanno i pensieri del 20 agosto 1821 (Zib., 1530 sg.) e del 10 luglio 1823 (Zib., 2936-38), sui quali molti studiosi hanno già richiamato l’attenzione.

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neare che la sua filosofia «discolpa gli uomini totalmente» e «rivolge l’odio, o se non altro il lamento, all’origine prima de’ mali de’ viventi» (Zib., 4428). Ma dèi, fato, natura saranno adesso usati come sinonimi: «... a quale ultimo intento / lei (cioè l’umana stirpe) spinga il fato e la natura» (Al conte Carlo Pepoli, 144 sg.); «O natura cortese, / sono questi i doni tuoi ...», e poco dopo «Umana / prole cara agli eterni![»] [cr] (La quiete dopo la tempesta, 42 sgg.); «... la natura, il brutto / poter, che, ascoso, a comun danno impera» (A se stesso, 14 sg.); ancor più esplicitamente nell’abbozzo di inno Ad Arimane: «te con diversi nomi il volgo appella Fato, natura e Dio». Che questo passaggio dalla prima alla seconda concezione della natura sia stato un passaggio lungo e tormentato, proprio perché metteva in discussione un punto centrale della filosofia leopardiana; che ancora le Operette del ’24 presentino oscillazioni fra l’una e l’altra concezione (basti pensare al Dialogo della Natura e di un’anima da un lato, al Dialogo della Natura e di un Islandese dall’altro); che ancora un’eco alquanto debole della prima concezione si senta in quel passo dell’epistola Al Conte Carlo Pepoli (vv. 27-43) in cui il poeta ricorda che la necessità di provvedere al sostentamento era una specie di rimedio apprestato dalla natura affinché «pieno, / poi che lieto non può, corresse il giorno / all’umana famiglia», – tutto ciò è indubbio. Nessuno degli studiosi recenti, del resto, ha presentato quel passaggio come una brusca conversione. Ma quello che credo si deva ribadire, è che il passaggio ci fu. Come non risponde a verità la tesi di un continuo oscillare del Leopardi tra le due concezioni (le quali non sarebbero, quindi, concezioni, ma stati fantastico-sentimentali, quali si addicono a un «poeta puro»), così non mi sembra nemmeno accettabile la tesi, sostenuta dal Solmi, di una coesistenza pacifica fra l’una e l’altra concezione, il cui contrasto sarebbe dovuto ad «una semplice confusione terminologica» (art. cit., p. 15), cioè al fatto che il Leopardi, da un certo momento in poi, chiamò con lo stesso nome due entità che nel suo pensiero si mantenevano distinte. Beninteso, qualcosa di vero nella tesi di Solmi c’è; ed è che le due concezioni, come ha confermato la nostra precedente analisi, non sono nate l’una dall’altra. Esse provengono, abbiamo visto, da due diversi filoni del classicismo; hanno nell’illuminismo stesso due diversi precursori (Rousseau l’una, il Voltaire del Poème sur le désastre de Lisbon-

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ne l’altra); corrispondono a diverse esperienze di vita e a diversi obiettivi polemici. E tuttavia la rigorosa precisazione e sistemazione concettuale della seconda – che va di pari passo con la conquista di un coerente materialismo, tra il ’25 e il ’27 – segna il tramonto della prima. La coesistenza era stata possibile quando la seconda idea di natura era ancora ad uno stadio passionale-fantastico, e si configurava, abbiamo visto, come dèi o come fato; non è più possibile quando essa, senza perdere nulla del suo vigore poetico, assume però una caratterizzazione concettuale. Se si esaminano da vicino i passi che il Solmi cita (p. 13) per dimostrare la persistenza della prima concezione fin nel 1827-29, si nota che nessuno di essi contiene un’effettiva esaltazione della benignità della natura, tale da potersi contrapporre ai pensieri, ben altrimenti espliciti ed energici, che in questi stessi anni il Leopardi formula sull’oppressione che la natura esercita nei riguardi di tutti i viventi. Si tratta sempre, invece, di passi concernenti problemi particolari, e il concetto di «provvidenza» della natura vi è introdotto solo limitatamente e relativamente a quel dato contesto. Nel primo passo (Zib., 4242, dell’8 gennaio 1827) il Leopardi parla del problema del suicidio, sul quale meditava già da anni, e che presto avrebbe costituito l’argomento del Dialogo di Plotino e di Porfirio. L’amore della vita, dice il Leopardi, non è innato, «altrimenti niuno s’ammazzerebbe»; innato è soltanto l’amore di se stessi, cioè il desiderio della felicità; ma siccome l’essere vivente è portato a giudicare la vita come il suo maggior bene e la morte come il suo maggior male, «ecco che la natura ha veramente provveduto alla conservazione, rendendo immancabile questo error di giudizio». Si deve vedere in queste parole un giudizio positivo sulla natura? Evidentemente no, perché la natura, «provvedendo» alla nostra conservazione, provvede anche al prolungamento della nostra infelicità.7 Si legga il Dialogo di Plotino e di Porfirio, e se ne avrà la conferma. A Plotino che gli aveva detto che il suicidio è biasimevole perché contro natura, Porfirio risponde: «La natura vieta l’uccidersi. Strano mi riuscirebbe che non avendo ella o volontà o potere di far7 iChe cosa implichi tale «conservazione» a cui la natura provvede, il Leopardi lo dice, per esempio, nel Risorgimento, vv. 121 sgg.: la natura «non del ben sollecita / fu, ma dell’esser solo: / purché ci serbi al duolo, / or d’altro a lei non cal»; e lo aveva già detto più volte nello Zibaldone (cfr. la nota di Fubini e Bigi a quel passo del Risorgimento).

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mi né felice né libero da miseria, avesse facoltà di obbligarmi a vivere». È vero che, nel seguito del dialogo, si riprende l’argomentazione del Bruto minore: i popoli primitivi, vivendo secondo natura, non sentivano il bisogno del suicidio; lo sentiamo noi, corrotti dalla civiltà e quindi più infelici. Ma «quella natura primitiva», «quella madre nostra e dell’universo», alla quale Plotino si richiama per dissuadere l’amico dal suicidio, «non ha mostrato di amarci» e «ci ha fatti infelici», come Plotino stesso ammette: non è la «madre benignissima» di un tempo, è soltanto «assai meno inimica e malefica» della civiltà. Proprio la ripresa del vecchio motivo mette in evidenza quanto sia ormai debole la difesa che il Leopardi fa della natura: una difesa valida solo nel confronto con la presente civiltà, che ai mali naturali aggiunge altri mali acquisiti. Analoghe considerazioni si possono fare per il passo di Zib. 42434245, anch’esso del gennaio 1827. Il Leopardi polemizza contro le filosofie che «predicano il disprezzo del dolore» senza peraltro esser capaci di eliminarlo; e dice che, in confronto a queste pseudo-consolazioni, val meglio lo sfogo violento del proprio dolore, quale è praticato dai popoli primitivi: esso è «veramente una medicina quasi un narcotico preparata dalla natura medesima, perché l’uomo potesse sopportare i suoi mali più leggermente». Anche qui l’assunto, per chi legga tutto il contesto, non è la dimostrazione della bontà della natura, ma dell’impotenza delle filosofie spiritualistiche a dare la felicità reprimendo e surrogando gli istinti naturali. Infine, nel pensiero del 16 febbraio 1829 (Zib., 4461 sg.) si parla di «disordini nel corso delle cose» (atti contrari alla conservazione della specie, come quelli di certi animali che divorano i propri figli), i quali non si possono «attribuire ad intenzione della natura», ma costituiscono, per così dire, delle deviazioni o anomalie. È questo un pensiero che appartiene contemporaneamente a due diversi ordini di ragionamenti che il Leopardi viene svolgendo in questi anni. Da un lato il Leopardi vuol dimostrare che l’incivilimento, pur essendo uno sviluppo di p o s s i b i l i t à insite nella natura, non è però uno sviluppo «naturale», ma in qualche modo casuale o deviante: per questo verso il pensiero si ricollega a quello di Zib. 4625 sg., in cui il Leopardi aveva osservato che, se era intenzione della natura che l’uomo «così debole e disarmato» arrivasse «coll’ingegno» alla civiltà, non si comprenderebbe come mai tanti popoli selvaggi non vi siano arrivati, e ave-

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va domandato sarcasticamente: «È stata dunque la natura così sciocca e così mal provvidente, che ella abbia missed il suo intento per più della metà?». Anche se questo concetto di «disordine» nel corso naturale corrisponde ad una posizione ancora provvisoria e insoddisfacente, si scorge già la direzione antiprovvidenzialistica verso la quale si muove il pensiero leopardiano: direzione che giungerà al suo punto d’arrivo nelle prime ottave del canto quarto dei Paralipomeni. Dall’altro lato, il Leopardi è alle prese col problema della spiegazione di quel tanto di teleologia che s e m b r a esservi nella natura: per questo aspetto il pensiero di cui stiamo trattando è continuato da quello (a cui il Leopardi stesso rinvia il lettore) di Zib. 4467 sg., in cui è posto il problema – che ha continuato poi e continua a occupare gli evoluzionisti – dei «rudimenti, organi imperfetti, incoati solamente, ed insufficienti all’uso dell’animale», e in cui già si esprime un dubbio sull’esistenza di «cause finali» in natura. Un’ulteriore continuazione è data dal pensiero di Zib. 4510 all’inizio, in cui infine si dimostra che la teleologia è solo apparente, con un’argomentazione geniale che, come è stato già detto, ricorda da vicino Darwin (vedi sopra, p. 145 n. 86). Ma ad ogni modo, ponendo il problema dei «disordini della natura», il Leopardi non intende affatto dire che l’ordine della natura è buono, come un tempo aveva creduto. Per «ordine» egli intende soltanto «la tendenza continua alla conservazione delle specie esistenti», la quale si attua, come ben sappiamo, soltanto col sacrificio della felicità (e della vita stessa) degli individui. Pochi mesi dopo, il 17 maggio ’29 (Zib., 4510 sg.), in polemica con Rousseau che aveva affermato che il male non può derivare che dal «disordine» arrecato dall’uomo al sistema della natura, il Leopardi ribadisce che, anzi, i mali peggiori (perché chiaramente irrimediabili) sono quelli inerenti all’«ordine», essenziali al «sistema». Mi sembra che si possa concludere che nelle pagine dello Zibaldone del 1826-29 non c’è in realtà nessun ritorno alla tesi della natura benefica. Si noti che la parte finale dello Zibaldone (se si prescinde dalle ultime due pagine e mezzo, che contengono pochi pensieri degli anni ’31-’33) coincide coi canti pisano-recanatesi, detti comunemente «grandi idilli», i quali spesso sono stati semplicisticamente interpretati come un ritorno allo stato d’animo e alla poetica degli anni giovanili. Troppo poco si è tenuto contro dei saggi nei quali Emilio Bigi ha dimostrato che in questi canti il risveglio di commozione e di sen-

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sibilità poetica non annulla mai, anzi presuppone costantemente il possesso delle verità materialistiche e pessimistiche raggiunte negli anni precedenti.8 L’analisi dei passi dello Zibaldone che abbiamo ora compiuto conferma questo risultato. Col venir meno dello Zibaldone, inoltre, non cessa lo svolgimento del pensiero leopardiano. La «nuova poetica» degli ultimi anni è anche una posizione di p e n s i e r o almeno in parte nuova. E negli ultimi canti la concezione della natura matrigna domina assolutamente incontrastata: basti pensare a Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, alla Palinodia, alla parte centrale del Tramonto della luna, alla Ginestra, ai Paralipomeni. Non credo che si possa – come tende a fare il Solmi – escludere questi testi, in quanto «poetici», da uno studio sul Leopardi «filosofo». Se è vero che lo Zibaldone stesso ci presenta più volte il pensiero del Leopardi già atteggiato poeticamente, è anche vero che molte poesie, e le ultime in particolar modo, sono rigorosamente «ragionate» (si pensi ancora, per citare un esempio indiscutibile, alle prime ottave del quarto canto dei Paralipomeni). È certamente giusto insistere sulla potenza poetica della raffigurazione «di una Natura nemica dell’uomo e di ogni altro essere vivente (...), divinità sinistra identificantesi con un Arimane senza un corrispondente Ormuzd» (Solmi, p. 14). Non si deve, però, dimenticare che alla base di questa rappresentazione fantastica non c’è una specie di gusto byroniano dell’immane e dell’orrido, ma c’è quel rigoroso concetto materialistico dell’universo che il Leopardi era venuto formandosi nel 1825-27 e che aveva ulteriormente rafforzato nella polemica con gli spiritualisti fiorentini e napoletani. Né vi è, come potrebbe sembrare, una contraddizione fra una natura concepita come meccanismo cieco e una natura odiata come «empia», come «capital carnefice e nemica» del genere umano. L’atteggiamento antagonistico (per cui la natura è oggetto di odio) nasce dall’insoddisfatto bisogno di felicità e dalla convinzione che qualsiasi rappresentazione ottimistica della realtà costituisce un «conforto stolto»; ma il poeta non dimentica che, considerata su un piano puramente teoretico, la natura non è una divinità malvagia, ma solo un meccanismo inconsciente e non-provvidenziale. Spesso, anzi, le più aspre invettive contro la natura sono segui8 iE. Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli 1954, pp. 143-145: La genesi del «Canto notturno» cit., pp. 95-101, 111 sg., 194 sg.

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te da precisazioni in quel senso: anche nei momenti più vigorosamente poetici sembra quasi che il Leopardi, sempre presente a se stesso, voglia mettere in guardia contro il pericolo di prendere alla lettera l’antropomorfizzazione della natura. Così nel Dialogo della Natura e di un Islandese dice la Natura: «Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità». E nel canto Sopra un basso rilievo antico sepolcrale, dopo quella serie di incalzanti domande e accuse alla natura, ecco la riflessione finale: «Ma da natura / altro negli atti suoi / che nostro male o nostro ben si cura». E nei Paralipomeni (IV, st. 12-13), subito dopo averla detta «capital carnefice e nemica» dei suoi figli, il poeta soggiunge, correggendosi, che la natura è «piuttosto ad ogni fin rivolta, / che al nostro che diciamo o bene o male», o, meglio ancora, priva di ogni fine, «da fini sciolta». Che, del resto, non possa esservi tra le due idee leopardiane di natura benefica e di natura matrigna una coesistenza pacifica è confermato da quei pensieri del 1821-23 che segnano il tormentoso passaggio dall’una all’altra idea. Si rilegga un momento il pensiero del 20 agosto 1821 (Zib. 1530 sg.) in cui il Leopardi chiama ancora la natura «madre benignissima del tutto», e si propone di «iscusar gl’inconvenienti accidentali che occorrono nel sistema della natura», e proprio a titolo di giustificazione osserva che la conservazione dell’universo richiede necessariamente il sacrificio degli individui, e talvolta anche delle specie, e che «l’ordine naturale è un cerchio di distruzione, e riproduzione». Giustamente il Solmi dice che qui c’è il germe del Dialogo della Natura e di un Islandese, «che ne ricalca persino un inciso»: nella giustificazione ci sono già tutti gli elementi sui quali il Leopardi baserà di lì a non molto la condanna. Questa è dunque già la natura malefica, eppure, in quanto il Leopardi si sforza ancora di scusarla, è ancora la natura benigna. Come si può, di fronte a questa transizione in atto, pensare che il Leopardi non avesse coscienza di un proprio travaglio e, più tardi, di un proprio mutamento d’opinione riguardante la medesima entità? Come si può pensare a un mero equivoco terminologico, derivato dal chiamare due distinte entità con lo stesso nome? ** Osserva ancora il Solmi (p. 13 sg.): «È evidente che Leopardi non avrebbe mai potuto rinunciare all’idea di una Natura provvidenziale, fondamentalmente benigna (...). Se egli vi avesse rinunciato, pressoché nulla del suo “sistema” sarebbe rimasto in piedi. Non l’idea della pre-

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VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi

cellenza dello stato originario dell’uomo, nonché delle repubbliche antiche, più vicine alla Natura. Non l’idea dei forti errori e illusioni (...). Non l’idea della corruzione e della decadenza della civiltà moderna ad opera della ragione allontanatasi dalla Natura. Non quella della superiorità della poesia omerica e primitiva, con la sua potenza fantastica originata direttamente dalla Natura, a contrasto con la decaduta poesia “sentimentale” dei moderni, che a quella fonte non sa più attingere». È un’osservazione intelligente: i corollari della prima concezione della natura erano per il Leopardi, in un certo senso, più importanti della concezione in quanto tale, e mantennero certamente nel suo pensiero una vitalità, in qualche misura, autonoma, anche dopo il dileguarsi dell’idea che li aveva generati e sorretti. Ma ciò che più interessa, a mio parere, consiste proprio nella trasformazione che questi temi subiscono nell’ultimo Leopardi: una trasformazione che tende a sganciarli il più possibile dal sistema entro il quale erano sorti, e ad inserirli nel nuovo sistema materialista-pessimistico. Si segua, per esempio, il tema delle illusioni. Già nei canti del ’28’29 – che pure rappresentano, ma nel senso e con le riserve che abbiamo accennato sopra, un «risorgimento» degli antichi affetti e dell’antico bisogno di appassionarsi e di fantasticare –9 la natura non è veduta come madre pietosa che dà all’uomo le illusioni per rendergli meno infelice l’esistenza, ma come ingannatrice che illude per poi deludere. «O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? perché di tanto / inganni i figli tuoi?». La colpa della caduta delle illusioni non è più attribuita all’uomo che ha distrutto la saggia opera della natura, ma alla natura stessa, all’inesorabile vicenda biologica che condanna gli esseri viventi o alla morte immatura (col rimpianto di non aver goduto la felicità sperata e di lasciare nel lutto i propri cari) o ad una sopravvivenza non più allietata dalla speranza: Silvia e il poeta stesso rappresentano emblematicamente queste due possibili sorti dell’uomo. Per questo aspetto, il canto Sopra un basso rilievo costituisce una continuazione e un approfondimento di A Silvia, su un piano meno 9 i Vedi i saggi del Bigi cit. sopra, nota 8. Vorrei aggiungere che il Risorgimento costituisce assai meno di quanto di solito si creda una «prefazione» o un annuncio dei canti successivi. Lo è solo in quanto segna il ridestarsi degli affetti e della fantasia; ma quel tenue filo di speranza e di capacità di godimento del presente (pur nel permanere del «pessimismo dell’intelligenza») che il Risorgimento esprime, non trova alcuna prosecuzione in A Silvia e nei canti recanatesi del 1829-30.

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intensamente lirico, ma più dolorosamente meditativo. Qui la natura è incolpata non solo della frustrazione delle illusioni giovanili (v. 57 sgg. «Piacqueti che delusa / fosse ancora dalla vita / la speme giovanil»), ma anche di aver gravato gli uomini di un’illusione malefica, cioè del timore di quella morte che, pure, rappresenterebbe l’unico scampo all’infelicità: «Ahi perché dopo / le travagliose strade, almen la meta / non ci prescriver lieta? / (...) colei che i nostri danni / ebber solo conforto, / velar di neri panni, / cinger d’ombra sì trista, / e spaventoso in vista / più d’ogni flutto dimostrarci il porto?». E ancora si veda il ventinovesimo dei centoundici Pensieri (redatti dopo il ’30). Quel che il Leopardi osserva sull’utilità dell’impostura, capace di rendere lucroso perfino lo sterile mestiere del letterato, è trascritto quasi alla lettera da un passo dello Zibaldone di molti anni prima (1787 sg., 25 settembre 1821). Ma nuova è la considerazione finale: «La natura medesima è impostora verso l’uomo, né gli rende la vita amabile o sopportabile, se non per mezzo principalmente d’immaginazione e d’inganno». Alle illusioni (finché durano) è ancora riconosciuto un valore positivo, ma quel duro termine «impostora» indica quanto la valutazione della natura è mutata. Questo nuovo atteggiamento non esclude la contemplazione della bellezza della natura; ed è quindi, come già abbiamo accennato,10 un errore quello di sottovalutare i momenti cosiddetti «idillici» nell’ultimo Leopardi, di considerarli soltanto come dei residui o delle ricadute in una poetica ormai sorpassata. Piuttosto, questa bellezza è ora contemplata con la consapevolezza del suo carattere effimero e ingannevole: nel Tramonto della luna i «mille vaghi aspetti / e ingannevoli obbietti» creati dalla luce lunare sono appunto un’allegoria dell’illusorietà e fugacità della giovinezza. E l’affetto del poeta non va più (come ai tempi del discorso sulla poesia romantica, o della canzone Alla Primavera, o della lettera del 6 marzo 1820 al Giordani) alla natura unitariamente intesa come una forza primigenia da cui l’uomo si è colpevolmente distaccato, ma alle singole creature e alla loro sofferenza: non solo il titanismo, ma anche la «pietà»,11 nella particolare forma che essa assume dalla svolta del ’25-’27 in poi, fino alla Gine10

iQui sopra, pp. 140-141 e n. 81; cfr. anche «Belfagor» XXIII, 1968, p. 254 sg. iSul motivo della «pietà» in tutta l’opera leopardiana vedi il libro di Umberto Bosco già più volte citato. Sul particolare accento che questo motivo assume dopo il raggiungimento di un coerente materialismo da parte del Leopardi, cfr. i saggi del Bigi già citati. 11

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stra stessa, presuppone l’avversione contro il «sistema della natura» di cui tutti i singoli esseri, non esclusi gli animali e le piante, sono vittime. Un’analoga trasformazione subisce il motivo della superiorità degli antichi. Negli ultimi pensieri dello Zibaldone, e poi nel Tristano e nell’esordio dei Nuovi credenti, tale superiorità non è più fondata sulla loro maggiore capacità di gagliarde illusioni, ma piuttosto sul loro possesso di una saggezza pessimistica non ancora adulterata dai sofismi delle varie filosofie spiritualistiche né dalle «barbare» superstizioni cristiane. Si è già veduto sopra (p. 164 sg.) come tale mutamento di prospettiva, per cui «Omero e Salomone» divengono i rappresentanti di questo pessimismo originario, abbia avuto inizio dalla «scoperta del pessimismo antico» compiuta dal Leopardi ai primi del 1823 e poi sempre più approfondita. Giustamente il Di Benedetto (art. cit., pp. 316-318) ha richiamato l’attenzione sull’importanza che in questo sviluppo della meditazione leopardiana sugli antichi ha il passo di Zib. 4478 (31 marzo 1829), in cui la superiorità degli antichi «in tutte le cose il riconoscimento delle quali non dipende da osservazione e da esperienza materiale» è asserita con inconsueta recisione e globalità. Certo, come giudizio storico quel pensiero può essere considerato un passo indietro rispetto a precedenti osservazioni dello Zibaldone, in cui le filosofie antiche erano assai meglio distinte l’una dall’altra, collocate e valutate storicamente: in questo il Di Benedetto ha ragione. Tuttavia quel pensiero non è senz’altro «un segno evidente dell’involuzione nel Leopardi delle sue capacità di approfondimento filosofico in questi ultimi anni», ma fa parte del tentativo di riformulare la tesi della superiorità degli antichi in termini conciliabili col pessimismo «cosmico» da lui raggiunto. Osservando che «non è raro che le genti del volgo e i fanciulli abbiano di molte cose opinioni migliori o più ragionevoli che i sapienti», e motivando con questa considerazione la superiorità della Weltanschauung degli antichi, il Leopardi non intendeva fare una professione di qualunquismo antifilosofico, ma voleva piuttosto rivalutare quel tanto di realismo, di antimetafisica, di materialismo sia pure embrionale che c’è nel «buon senso» o «senso comune»: la lettera a Pietro Colletta del marzo 1829 (contemporanea, quindi, all’appunto dello Zibaldone) mostra come egli progettasse addirittura un’operetta su questo tema.12 La rivaluta12

iSul significato che i riferimenti al «buon senso» e al «senso comune» hanno nel Leopardi

VI. Natura, dèi e fato nel Leopardi

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zione del senso comune implicava, per contrapposto, una polemica contro una lunga tradizione di pensiero che aveva assegnato alla filosofia un ruolo di «consolazione», o addirittura di «negazione» (negazione solo nel pensiero, non già soppressione reale) della finitezza, caducità, infelicità umana: polemica che diverrà esplicita nei Paralipomeni, IV, st. 14: «Non è filosofia se non un’arte ...» ecc. Senonché nei Paralipomeni, divenuta più consapevole e più polemica la sua avversione allo spiritualismo, egli individuerà nel pensiero materialistico del Settecento, più che nella saggezza pessimistica antica, il momento culminante di questa lotta contro i sofismi della «filosofia». Interessante è, comunque, nel pensiero del 1829 una particolare formulazione della tesi della superiorità del buon senso: «Oltre che la natura, voglio dir la ragione semplice, vergine e incolta, giudica spessissime volte più nettamente che la sapienza, cioè la ragione coltivata e addottrinata». Qui la natura, ovviamente, non è la forza malefica che governa il mondo, ma non corrisponde nemmeno alla prima concezione leopardiana: non è più contrapposta alla ragione, anzi si identifica con la ragione non sofisticata; quell’epiteto, «vergine», così caratteristico della natura vagheggiata dal primo Leopardi in antitesi alla ragione, ora serve a caratterizzare la ragione non corrotta dallo spiritualismo. Ciò che nell’ultimo Leopardi soprattutto rimane della sua prima filosofia, è l’idea che una civiltà degna di questo nome non debba reprimere quegli impulsi vitali dell’uomo che sono tutt’uno col suo bisogno di felicità individuale: la lotta contro la natura non dev’essere ascetismo e rinuncia. In questo senso mantiene anche per l’ultimo Leopardi la sua validità (e non è in contraddizione con la nuova concezione della natura) la polemica contro un falso progresso, che ai mali irrimediabili della situazione biologica dell’uomo ha aggiunto quelli di una falsa educazione e di falsi rapporti sociali (vedi sopra, p. 128). Senonché il rimedio, almeno parziale, che egli indica ora non è più una restaurazione degli «ameni inganni» delle età primitive, ma anzi un ultrailluminismo, che riconduca la società allo scopo per cui fu inizialmente costituita: l’unione di tutti gli uomini contro la natura.

(in connessione, soprattutto, con l’operetta di Holbach, Le bon sens, da lui letta e citata) vedi le ottime precisazioni di G. Savarese, Saggio sui «Paralipomeni», Firenze 1967, pp. 23 sg., 146-149.

VII. Note leopardiane ∼

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

1. «Strigne più la camicia che la sottana» In quell’autentico gioiello di prosa satirica che è il dialogo Filosofo greco, Murco senatore romano, popolo romano, congiurati (PP I, pp. 1057-1059; TO I, pp. 192-194), Murco, amico di Cesare ma pronto a rinnegarlo all’arrivo dei congiurati che lo hanno ucciso, si fa prestare dal Filosofo greco uno stilo da scrivere: «Murco: Date date, anche questo farà. Mi caccerò tra la folla, e mi crederanno uno de’ congiurati. – Filosofo: A maraviglia: l’amico di Cesare. – Murco: Strigne più la camicia che la sottana». L’unico commento a questo passo è di Giovanni Ferretti, nell’edizione delle Opere leopardiane da lui curata (vol. II, Prose, Torino, Utet, rist. 1964, p. 291): «Strigne più la camicia ecc. Il senso di questo proverbio, di cui non ho trovati altri esempi, è: bisogna badare all’essenziale, a ciò che stringe di più. E l’essenziale era, per Murco, salvar la vita». Nel recente e ricco commento alle Operette (Napoli, Guida, 1977, p. 479) Cesare Galimberti riporta tale e quale la nota del Ferretti, citandolo. Gli altri editori e commentatori tacciono. Il Ferretti non trovò altri esempi di quel detto perché dovette consultare soltanto repertori di proverbi italiani. Ma la Crusca, nell’edizione di Venezia 1697 posseduta dal Leopardi, alla voce camicia annota: «Da camicia abbiamo il proverbio: Egli strigne più la camicia, che la gonnella: cioè che s’ha più riguardo al suo interesse, ch’a quel d’al∼iInedite {nel 1980 – N.d.c.}, tranne la terza, già pubblicata nel «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXVIII (1961), pp. 101-106, e qui ristampata con aggiunte.

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trui. Lat. tunica pallio propior est». Nell’edizione del 1806 (si tratta della famosa Crusca veronese con le aggiunte del padre Cesari, anch’essa posseduta dal Leopardi), la spiegazione è un po’ mutata e ampliata: «Dicesi in proverbio: Strigne più la camicia, che la gonnella; e vale, che s’ha più riguardo al suo interesse, o de’ suoi, che a quel d’altrui. Lat. Tunica pallio propior est. Gr. γνυ γγιον κνµης. Lasc. Spir. (cioè Lasca, “La Spiritata”) 3.2. Strigne più la camicia che la gonnella».1 Consultatore, anzi lettore assiduo della Crusca, il Leopardi avrà attinto da essa, piuttosto che dal Lasca, il proverbio; e tanto più si sarà sentito autorizzato ad usarlo in un dialogo tra personaggi antichi, in quanto esso aveva i suoi corrispettivi in latino e in greco. Neppure nella spiegazione del proverbio il Ferretti è del tutto esatto, anche se si tratta di sfumature. Non è che si deva badare «all’essenziale», cioè a ciò che «stringe» (preme, importa) di più. Il proverbio contiene un paragone: come la camicia è più vicina al nostro corpo (lo stringe, lo tocca più da presso) che la sottana, così il nostro interesse particolare ci è più vicino di quello degli amici: non c’è maggior prossimo di noi stessi. Equivale a questo il proverbio citato dal Giusti (e richiamato da C. F. Russo, loc. cit.): «Il dente è più vicino di ciascun parente».

2. «Il Giordani, il Montani, il Vieusseux vi risalutano caramente»** Ogni volta, si può ben dire, che si riscontra sull’autografo una lettera del Leopardi (sia che la più recente edizione sia stata condotta sull’autografo stesso, sia, a maggior ragione, su una copia), si trova qualche inesattezza di lettura da rettificare: minuzie per lo più, ma qualche volta minuzie non insignificanti. Ho sott’occhio la riproduzione fotografica della lettera del 26 settembre 1827 a Niccolò Puccini, che è stata posta come copertina all’opuscolo Spigolature dalla libreria di Niccolò Puccini, Mostra per la sezione ottocentesca del Museo Civico a cura di Alessandro Aiardi e Maria Solleciti (comune di Pistoia, Assessorato agli Istituti culturali, 1 iPer i passi latini e greci (che la Crusca cita con qualche inesattezza nell’ordine delle parole) vedi il commento di Carlo Ferdinando Russo a Seneca, Divi Claudii Α  ποκολοκντωσις, Firenze 19644 (rist. 1970), p. 100.

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1977). La collaziono con l’edizione del Flora (G. L., Le lettere, Milano 1949 e successive ristampe, p. 788), condotta sull’autografo che si trova nella biblioteca Forteguerriana di Pistoia, e quindi molto più corretta di quella del Moroncini (G. L., Epistolario, IV, Firenze 1938, p. 312) che riproduce una vecchia copia.2 Eppure trovo ancora qualcosa. Invece che «il Giordani, il Montani, il Vieusseux v i s a l u t a n o caramente», il Leopardi ha scritto «vi risalutano», cioè vi ricambiano i saluti. Questo significato di risalutare (corrispondente al latino resalutare, e più arcaico quindi dell’altro, più frequente, di «salutare di nuovo») è notato nella Crusca veronese (cfr. la noterella precedente) ed è registrato in alcuni dizionari come significato corrente, sebbene io lo creda ormai obsoleto. L’errore di trascrizione «salutano», che si trova già nella prima edizione dell’epistolario dovuta a Prospero Viani, è una tipica banalizzazione. Il Leopardi si è espresso con la sua abituale esattezza, perché il Puccini (G. L., Epistolario a cura di F. Moroncini, vol. IV cit., p. 309, 23 settembre 1827) gli aveva scritto: «... di Giordani, di Vieusseux, di Montani, di Niccolini (i quali tutti voi mi saluterete)». Si trattava dunque di un ricambio di saluti; il Niccolini non è menzionato perché il Leopardi non lo aveva ancora veduto (nella lettera di cui ci occupiamo, subito dopo la frase da noi riportata, egli soggiunge: «farò le parti vostre col Niccolini quando io lo vegga, che sarà presto»). Già che ci siamo, notiamo due minuzie ancor più minute. Gli editori tutti datano giustamente questa lettera al 26 settembre 1827, ma nell’autografo, per un lapsus, è scritto chiaramente 1825: data impossibile, poiché il 26 settembre 1825 il Leopardi partiva da Milano per Bologna, né era ancora entrato in corrispondenza col Puccini, alla cui lettera di pochi giorni prima, come abbiamo visto, egli risponde; ma sebbene sulla data 1827 non vi sia alcun dubbio, converrebbe forse avvertire che essa risulta da una correzione. Nel secondo periodo della lettera gli editori interpungono: «Vi ringrazio molte e molte volte, senza fine, dell’amore e della cortesia che mi dimostrate» ecc. Interpunzione «logica» ineccepibile; ma il Leopardi non aveva posto alcuna virgola dopo «volte» e quell’unica sequenza «molte e molte volte 2 iL’edizione di Binni e Ghidetti, mentre per molti altri scritti leopardiani rappresenta un progresso rispetto a quella del Flora, per l’epistolario riproduce il testo del Flora senza alcuna variazione.

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senza fine» va lasciata così, perché ha una maggiore intensità emotiva, anche se dal punto di vista meramente logico, che non sempre il Leopardi rispetta nell’interpunzione, la virgola dopo «fine» ne richiederebbe una precedente.3

3. «Gli sguardi innamorati e schivi» (A Silvia, 46) Tu pria che l’erbe inaridisse il verno, Da chiuso morbo combattuta e vinta, Perivi, o tenerella. E non vedevi Il fior degli anni tuoi; Non ti molceva il core La dolce lode or delle negre chiome, Or degli sguardi innamorati e schivi; Né teco le compagne ai dì festivi Ragionavan d’amore.

Vito R. Giustiniani ha sostenuto che «sguardi innamorati» è da intendere in senso attivo: «sguardi che suscitano amore».4 Tale interpretazione non è menzionata da nessuno dei commentatori leopardiani,5 i quali o col loro silenzio mostrano di attribuire a innamorati il suo significato usuale, o difendono esplicitamente questo significato,6 o, infine, intendono l’aggettivo in un senso più ampio e vago («pieni d’amore, e come incantati», parafrasa il De Robertis), ma non esplicitamente attivo. L’interpretazione del Giustiniani era stata invece, come egli stesso ricorda, già precorsa in parte dalla Crusca.7 Lì, alla voce Innamorato, il passo leopardiano si trova citato sotto il lemma «Che dimostra amore; ed altresì Che ispira amore, amoroso» (§ VII), insieme ad un esempio del Petrarca: «Stelle noiose fuggon d’ogni parte, Disperse dal bel 3 iPer altri contributi a una futura edizione dell’epistolario leopardiano – in gran parte fornitimi da Augusto Campana – vedi «Giorn. Stor. Lett. ital.», CXXXV (1958), pp. 617-626. Vedi anche Ginetta Auzzas, in «Studi in onore di Mario Puppo», Padova 1969, pp. 43-48. 4 iV. R. Giustiniani, Silvias «verliebte» Blicke, in «Romanische Forschungen», LXXII, 1960, p. 99 sgg. 5 i| Affermazione troppo drastica: vedi la postilla qui sotto, pp. 258-259 |. 6 iCosì il Flora: «Gli sguardi di Silvia sarebbero pure stati innamorati un giorno! E proprio di qualcuno tra i giovani che lodavano i suoi capelli e i suoi occhi». Ma cfr. le considerazioni del Giustiniani che riferiamo più oltre. 7 a i5 ed., Firenze 1894, p. 849.

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viso inamorato Per cui lagrime molte son già sparte»,8 e ad uno del Boccaccio: «Se tu ci rechi la ribeba tua, e canti un poco con essa di quelle tue canzoni innamorate, tu la farai gittare a terra dalle finestre per venire a te».9 Il lemma della Crusca, certo, non è univoco: «Che dimostra amore» e «Che ispira amore» sono due significati diversi, il primo ancora una semplice sfumatura dell’usuale significato passivo («Che prova amore»), il secondo, invece, chiaramente attivo: «Che innamora». Al significato passivo mi sembra ancora riconducibile l’esempio del Boccaccio: le «canzoni innamorate» possono essere canzoni dettate da amore, anche se, a loro volta, susciteranno amore in altri. Ma nell’esempio petrarchesco il significato passivo è escluso: Laura non prova amore, ma solo lo suscita. Un interprete cauto può tutt’al più fermarsi a un significato neutro: «il bel viso in cui risiede, in cui regna Amore»;10 ma insomma in esso è contenuto, almeno potenzialmente, un valore attivo. Lo stesso si dica di un altro passo del Petrarca, citato a raffronto dai commentatori del Canzoniere: «Pace tranquilla senza alcuno affanno, Simile a quella ch’è nel ciel eterna, Muove da lor inamorato riso» (degli occhi di Laura).11 L’interpretazione del passo leopardiano accennata dalla Crusca ha, dunque, validi raffronti a suo appoggio.12 Ma il Giustiniani ha avuto il merito, non solo di richiamare su di essa l’attenzione dei leopardisti, ma di confermarla con nuovi argomenti tratti dal Leopardi stesso. Egli fa notare, anzitutto, come il significato passivo sia in contrasto con la situazione psicologica immaginata dal poeta. Quella prima gioia nel sentirsi ammirata, che a Silvia non fu concesso di provare, sarebbe stata comunque, ancora, qualcosa di ben diverso dall’amore per una determinata persona; e i giovani corteggiatori non avrebbero 8

iÈ la terzina finale del sonetto Ma poi che ’l dolce riso. iDecam., IX, 5. 10 i«Pieno d’amore», parafrasano il Carducci e il Ferrari nel loro commento. 11 iCanzone Poi che per mio destino, vv. 67-69. 12 iLa stessa interpretazione si ritrova nel Dizionario enciclopedico italiano e nel Lessico universale italiano (s. v.), dove il passo del Leopardi è citato insieme a quello del Boccaccio sotto il lemma «Che esprime e ispira amore» (anche qui, come nella Crusca, sono messi insieme due significati alquanto diversi). Nel Tommaseo-Bellini l’esempio leopardiano non figura (il Tommaseo citava il Leopardi solo quando credeva di poter fare del sarcasmo su qualche sua espressione, come alla voce procombere): sono invece citati, al paragrafo 6 («Dei segni esprimenti l’amore»), gli esempi del Petrarca e del Boccaccio (quello del Petrarca con la ridicola interpretazione «Che ispira l’amore, e però par che lo senta»!) e uno del Gozzi in cui l’aggettivo ha il significato usuale. 9

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certo lodato Silvia come già innamorata di uno di essi, ma come tale da innamorare col suo sguardo. Il Giustiniani, inoltre, ricorda che il Leopardi stesso, come dimostra lo Zibaldone, aveva studiato a lungo il problema dei participi latini e romanzi e aveva già visto con perfetta chiarezza ciò che più tardi la linguistica storica ha confermato: che il participio latino è in origine un puro e semplice aggettivo verbale, indipendente dalle categorie della diatesi e del tempo, nelle quali si inquadra solo più tardi, e non mai completamente, per svincolarsene poi di nuovo nelle lingue romanze. Quindi in latino participi come potus, cenatus, profusus (= «che profonde», in Sallustio), scitus, e molti di più in testi popolareggianti, arcaici o tardi; quindi anche in italiano, per esempio, discreto = «che sa discernere», trascurato = «che trascura», falso = «ingannatore», e via dicendo.13 E anche sul caso specifico di innamorato = «che innamora» si era soffermata, pochi anni prima della composizione di A Silvia, l’attenzione del Leopardi filologo: in una schedina di appunti, da lui intitolata Carte supplementarie di Bologna,14 egli aveva annotato: «Entendu, per intendente. Innamorato per che innamora. Petr. Son. Ma poi che ’l dolce riso v. penult.», e poco più sotto «Spasimato per spasimante. Crus(ca)».15 E ripeté la nota nello Zibaldone,16 aggiungendovi anche l’altro esempio petrarchesco, della canzone Poi che per mio destino; e nel commento 13 iIl Giustiniani cita passi dello Zibaldone scritti «tra l’estate del 1823 e la primavera del 1826», e in particolare uno del novembre 1823 (p. 3851 sg. dell’autografo). Ma il primo accenno ai «participi in tus de’ verbi neutri o attivi latini» che, pur essendo «di desinenza passiva», hanno la «significazione attiva o neutra», è in un pensiero del 1821 (Zibaldone, 1107). Vedi poi i passi dello Zibaldone elencati dal Leopardi stesso nel suo indice, Polizzine a parte, alla voce «Participii in US de’ verbi neutri o attivi» (TO, II, p. 1272); e poi ancora pp. 4450, 4469, 4485, 4495, 4517 dell’autogr., e altrove. Gli esempi tratti da lingue romanze (specialmente dallo spagnolo) prevalgono sui latini a cominciare da p. 3851. Per trattazioni moderne dell’argomento, vedi la bibliografia citata dal Giustiniani nel suo articolo, pp. 100-102. Per il legame che nel pensiero del Leopardi vi era tra l’argomento specifico dei participi e il tema più generale del latino volgare e dei suoi rapporti col latino arcaico da un lato, con le lingue romanze dall’altro, vedi specialmente p. 4062 dello Zibaldone (TO, II, p. 1051) e La filologia di G. Leopardi, Bari 19782 pp. 54-58. 14 iBibl. Nazionale di Firenze, Banco rari 342, inserto 12, 3 (ora in G. L., Scritti filologici a cura di G. Pacella e S. Timpanaro, Firenze 1969, p. 635 e p. 633, nota a r. 1). Il Giustiniani non poteva conoscere questa scheda, allora inedita. Niente di male, giacché il suo contenuto, come diciamo subito dopo, si ritrova anche in un passo dello Zibaldone che egli cita. 15 iDi quest’uso di spasimato la Crusca (ed. di Venezia 1741, IV, p. 426) citava esempi di Firenzuola, Davanzati, L. Salviati. Ma, come mi ricorda Luigi Blasucci, anche il Leopardi, nella canzone Nella morte di una donna fatta trucidare col suo portato (1819), aveva scritto: «Invan le braccia Spasimate stendesti» (v. 34 sg.). 16 ip. 4140: il pensiero è del settembre 1825.

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al Petrarca (composto anch’esso nel ’25) annotò ad entrambi i passi: «Innamorato. Amoroso. Che innamora». Gli argomenti del Giustiniani basterebbero già, io credo, a dimostrare la giustezza dell’interpretazione attiva di «sguardi innamorati». Che un’espressione, dopo avere interessato il Leopardi per motivi strettamente fìlologici, sia entrata a far parte del suo linguaggio poetico, è un fatto di cui si possono citare altri esempi.17 Ma, in questo caso, l’espressione leopardiana ha anche un’altra fonte. A p. 29 dell’autografo dello Zibaldone (TO, II, p. 20), tra le «canzonette popolari che si cantavano al mio tempo a Recanati», c’è questa, con la data del maggio 1819: Io benedico chi t’ha fatto l’occhi, Che te l’ha fatti tanto ’nnamorati.

Innamorati ha qui, senza alcun dubbio, valore attivo; ed è riferito anche qui agli occhi, come nella canzone del Petrarca e come in A Silvia.18 Ma l’analogia coi versi di A Silvia non riguarda solo l’espressione isolata, si estende a tutto il contesto. La «canzonetta» recanatese è, come altre che il Leopardi cita in quella stessa pagina dello Zibaldone, una serenata popolare: una di quelle «dolci lodi», appunto, che i giovani di Recanati cantavano alle fanciulle, e di cui Silvia non arrivò a sentire la lusinga.19 Mi pare indubitabile che all’origine di quei versi di A Silvia ci sia (profondamente trasfigurato, certo, spogliato di ogni colore «folcloristico») il ricordo del canto popolare udito tanti anni prima. Di lì dunque – prima ancora che dalla lettura del Petrarca e dall’interesse erudito per i participi attivi – venne al Leopardi anche il significato attivo di «innamorati». Naturalmente, la pura e semplice spiegazione del significato non esaurisce il valore suggestivo e musicale della parola, che è anzi accre17 iLa frase magniloquente-ironica della Palinodia (v. 28 sg.) «Aureo secolo omai volgono, o Gino, I fusi delle Parche», riecheggia, come notò il Flora, un passo di Simmaco che aveva interessato il Leopardi per la forma neutra fusa e per il ritmo della clausola (cfr. Zibaldone, p. 1181). 18 iG. Crocioni, Il Leopardi e le tradizioni popolari, Milano 1948, p. 195, nota l’analogia tra gli «occhi ’nnamorati» della canzonetta popolare e gli «sguardi innamorati» di Silvia, ma non si pronuncia sull’interpretazione dell’aggettivo. Altra questione – che il Crocioni non pone nemmeno, e che io non sono in grado di risolvere – è l’eventuale rapporto fra i passi del Petrarca e il canto recanatese (che, come molti canti popolari, può benissimo aver avuto fonti letterarie più o meno indirette). Cfr., del resto, Zibaldone, p. 4485: «Penato per penante. Crusca e volgare marchegiano». 19 iCfr. anche Le ricordanze, 162 sgg.

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sciuto proprio dalla possibilità di molteplici significati accessori. In questo senso, l’interpretazione più vaga del De Robertis, che abbiamo ricordato all’inizio, mantiene il suo valore e costituisce un implicito ammonimento a non voler precisare troppo. E tuttavia, dal chiarimento del significato fondamentale deve pur partire l’interprete, specialmente per un poeta come il Leopardi, in cui – a differenza che in altri più recenti – la parola non è mai pura musicalità, pura suggestione evocativa, ma serba sempre un nucleo semantico ben preciso. Alla prima redazione di questa nota (in «Giorn. Stor. Lett. it.» CXXXVIII, 1961, p. 101 sgg.) Mario Fubini, allora direttore del «Giornale», aggiunse la seguente postilla, che mi piace qui riprodurre: «Per desiderio di Sebastiano Timpanaro (...) faccio seguito alla sua prima “nota” con pochi appunti, riferendo la citazione che a conferma dell’interpretazione da lui sostenuta, gli avevo comunicato in una lettera: alcuni versi della canz. “Donna ne gli occhi vostri” di Eustachio Manfredi: “Quanto sopra del vostro esser mortale / alzar poteavi un solo / di que’ soavi innamorati sguardi!” (vv. 84-86); e saranno pure da ricordare per la retta interpretazione degli «innamorati sguardi», se pur potesse sorgere un dubbio sul significato di questa voce in chi conosca la canzone e il motivo tutto che la informa, altri che si leggono nella stanza precedente: “Amor, tu ’l sai che (...) additasti al cor mio / in quai modi celesti / costei l’alme solleva e le innamora” (vv. 68-74). Aveva dunque presente il Leopardi (come pensa il Giustiniani) un’espressione consacrata da un’illustre tradizione letteraria, di cui con tanti altri ci è offerto un esempio dal raffinatissimo petrarchista Manfredi, o non piuttosto (come suggerisce qualche commentatore) la “canzonetta popolare” cantata a Recanati, di cui aveva preso nota nello Zibaldone? È questo per se stesso un caso tipico della confluenza di espressioni della poesia d’arte e della poesia popolare, ma per ciò che si riferisce al nostro poeta ci sembra che l’una e l’altra suggestione non siano da escludere. Certo il Leopardi si sarà compiaciuto risentendo in quella canzonetta una voce della lingua letteraria, come si compiaceva sentendo “in bocca de’ contadini e della plebe minuta” deIla sua terra il “ragionare” e altre simili voci nell’accezione letteraria e arcaica (lett. al Giordani del 30 maggio 1817). Così esse venivano ad assumere per lui carattere di voci familiari insieme e peregrine e come tali a comporsi nel suo linguaggio poetico tutto classico e pur atto a rendere senza deformarlo anche quel piccolo mondo a cui rivolgeva amo-

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rosamente lo sguardo.20 Perciò negli “sguardi innamorati e schivi” possiamo sentire la presenza della canzonetta recanatese come di voci della più illustre poesia: così nella canzone Alla sua donna – una delle vette della lirica leopardiana, – il “faticoso” nell’accezione più rara ha dietro di sé esempi illustri come quello del Tasso, ma pur ci sembra leggendo quel verso “del faticoso agricoltore il canto” che con quegli esempi il poeta avesse nell’animo l’eco di un’altra canzonetta ricordata nella medesima pagina dello Zibaldone: “I contadì fatica e mai non lenta ...”. E sarà da aggiungere l’osservazione del Bacchelli a proposito del “tenerella” (“perivi, o tenerella”): “I vezzeggiativi, proprio di questa sorta, sono frequenti nell’uso della parlata popolare marchigiana”;21 ma son pure, e quest’osservazione non è in contrasto con la sua, frequenti nella poesia pastorale.22 S’intende poi, come dice il Timpanaro, che tutti i precedenti valgono a spiegare ma non a dare il significato preciso e unico degli “sguardi innamorati e schivi” nel canto A Silvia: un’espressione con cui il Leopardi riprendendo un epiteto ormai consacrato e quasi fisso, spesso puro e semplice epiteto ornante, lo ha così profondamente rinnovato compiendolo in quella indimenticabile coppia “innamorati e schivi” che riecheggia con una rima lontana gli occhi “ridenti e fuggitivi” della prima strofa e discretamente annuncia con una sorta di rima interna la parola che chiuderà la stanza: “ragionavan d’amore”». ** Post scriptum. – Già prima del Giustiniani, un paio di Commentatori dei Canti avevano inteso innamorati in senso attivo: Ladislao Kulczycki (I Canti di G. L., II, Milano-Roma-Napoli 1922, p. 23, col riferimento al Petrarca) e Angelo Ottolini (G. L., I Canti, Milano 1929: quest’ultimo mi è stato segnalato da Giovanni Forlini). Cercan20 iSu questa duplice risonanza di certe espressioni leopardiane cfr. pure quanto scrive Emilio Bigi, il quale però proponendosi di porre in rilievo la letterarietà del linguaggio dei cosiddetti grandi Idilli osserva che forme come queste (dolcezza mia, mio dolce amor, occhi innamorati) sono solo “apparentemente popolaresche”, “non certo ignote”, come sono, “alla poesia arcadica e melodrammatica” (Dal Petrarca al Leopardi, Studi di stilistica storica, Milano-Napoli 1954, p. 162 e la nota 27). 21 iG. L., Canti e operette morali, scelta e commento di R. Bacchelli, Milano s. a. (ma 1946). 22 iSi ricordi pure a questo proposito “Egli ci ha tante stelle” e “Ma sola / Ha questa luna in ciel” del Frammento “Odi Melisso”, in cui l’uso di “avere” per il consueto “essere” (e l’effetto è accresciuto dalla prossimità delle due espressioni) mira qui a quella stilizzata popolarità di linguaggio che è di tutto il componimento, ottenendola col riprendere un modo raro della lingua letteraria (tutti conoscono gli esempi del Boccaccio e del Petrarca), ma presente pure in parlate popolari – e un esempio per le Marche è segnalato dall’A.I.S.

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do ancora nel mare magnum dei commenti leopardiani, si potrà trovare qualche altro «precursore»; ciò non toglie che, fino al Giustiniani, la grande maggioranza dei commentatori avesse trascurato codesta interpretazione. A proposito delle fonti «popolari» di quest’uso di «occhi (o sguardi) innamorati», di cui abbiamo discorso in precedenza, il compianto amico Ugo Gimmelli, la cui squisita e sterminata dottrina fu nota solo a chi lo frequentò personalmente (vedi ora il suo volume postumo I cognomi pisani e altri scritti a cura di L. Blasucci, Pisa 1978), mi segnalò anni fa una variante toscana (pratese) del canto popolare che il Leopardi aveva udito a Recanati, edita da Giovanni Giannini, Canti popolari toscani, Firenze 1921, p. 133: «Bella, bellina, chi v’ha fatto gli occhi? / Chi ve l’ha fatti tanto i n n a m o r a t i ? / Di sotto terra levereste i morti; / di Santa Marenova (cioè Santa Maria Nuova, l’ospedale di Firenze) gli ammalati». 4. «Al romorio / de’ crepitanti pasticcini» (Palinodia, 14-15) Uno dei passi satirici più riusciti della Palinodia è la raffigurazione dei liberali come assidui frequentatori di caffè e lettori di gazzette, marziali nell’aspetto e nei modi ma ben fermi, all’occorrenza, a non agire. V. 13 sgg.: «... Alfin pel entro il fumo / De’ sigari onorato, al romorio / De’ crepitanti pasticcini, al grido / Militar, di gelati e di bevande / Ordinator, tra le percosse tazze / E i branditi cucchiai, viva rifulse / Agli occhi miei la giornaliera luce / Delle gazzette». Gennaro Savarese (Saggio sui «Paralipomeni» di G. Leopardi, Firenze 1967, p. 50) ha per primo messo in luce un brano di lettera di G. B. Niccolini al Ranieri, che contiene una stretta somiglianza con questo brano della Palinodia. «(...) fra questi baffuti – scrive fra l’altro il Niccolini – che la già città del fiore, ed ora del piscio,23 ammorban di più col fumo del sigaro oziando sulle panche del caffè laddove i liberali fiorentini siedono a distruzion dei pasticcini». 23 iQuesto accenno trova riscontro in un passo dello Zibaldone di alcuni anni prima (p. 4298, 22 novembre 1827) dove si inveisce contro «quella sporchissima e fetidissima città per li cui amabili cittadini ogni luogo, nascosto o patente, è comodo e opportuno per li loro bisogni»: donde la necessità di dipingere o scolpire delle croci «ne’ luoghi che si vogliono salvare dalle brutture». – Quanto ai «baffuti», è superfluo rammentare l’insistente ironia leopardiana, nella Palinodia e nei Paralipomeni, contro le barbe e i baffi dei liberali.

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Questa coincidenza di espressione, osserva il Savarese, fa «pensare addirittura alla possibilità di influssi diretti». Influssi del Leopardi sul Niccolini, o viceversa? Recensendo il libro del Savarese (in «Belfagor» XXIII, 1968, p. 252 sg.) notai che in questo caso la priorità sembra spettare al Niccolini. La sua lettera al Ranieri è del 15 marzo 1835: egli non poteva ancora conoscere la Palinodia, che avrà letto per la prima volta nell’edizione Starita dei Canti, inviatagli dal Ranieri il 6 ottobre del ’35 (cfr. Leopardi, Epistolario, ed. Moroncini, VI, p. 304 n. 2). Naturalmente, aggiungevo, il confronto serve anche per misurare la distanza tra la nitida ironia leopardiana e il tono, più andante e stizzoso, caratteristico di molte lettere del Niccolini; ma resterebbe al Niccolini il merito di essere stato la «fonte» di un celebre passo leopardiano. Senonché la questione è forse più complicata. Nei Carteggi italiani inediti o rari, antichi e moderni raccolti e annotati da Filippo Orlando (1a serie, IV, Firenze 1902, p. 42 sgg.) è pubblicata una lettera dello stesso Niccolini a Maddalena Pelzet (l’attrice amica sua e del Ranieri) non datata dal Niccolini, ma recante il timbro postale del 23 novembre 1836: ho collazionato l’autografo, che si trova alla Nazionale di Firenze, Carteggi vari 64, 39; la data del 21 novembre, che risulterebbe dalla pubblicazione dell’Orlando, è dovuta ad una congettura o ad una svista. Qui il Niccolini riprende l’immagine cara a lui e al Leopardi: «tutti i barbuti giovini fumanti, nati a distruzione dei sigari, e dei pasticcini i quali sarebbero un gran che se con parole sguaiate, romanticamente deliranti si potesse liberare questa terra di vilissimi ciuchi la quale ha l’Appennino per basto».24 A queste parole Filippo Orlando appose la seguente nota: «Questa frase rammenta un epigramma fiorentino del tempo, sul Caffè Ferruccio, che era in via di Por S. Maria, chiuso già da varii anni, dove, dicea l’epigramma: – i liberali fiorentini – siedono a distruzion de’ pasticcini». 24 iLa frase è molto trasandata, ma il senso è chiaro. Se bastassero gli eccessi puramente verbali di questi giovani eroi da caffè per liberare la Toscana, essi sarebbero «un gran che», cioè persone di alto valore («i quali» si riferisce, naturalmente, ai giovani liberali): ma non bastano le parole, e quindi essi meritano soltanto disprezzo. Cfr. Leopardi, Paralipomeni, VI, st. 15. La qualificazione della Toscana come «terra di vivissimi ciuchi» ha suggerito al Niccolini l’immagine dell’Appennino come «basto», quasiché il Granducato fosse un unico grande asino, su cui sovrasta la catena appenninica.

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Purtroppo la nota dell’Orlando ci lascia col desiderio di saperne di più. Sul caffè Ferruccio niente mi è riuscito di trovare in libri che trattano della vecchia Firenze ottocentesca. Il primo verso dell’epigramma è riportato dall’Orlando in modo incompleto, e la prima parola non può essere stata il «laddove» attestato dal Niccolini nella lettera al Ranieri. Tuttavia la testimonianza non pare da mettere in dubbio, e aiuta a chiarire meglio anche la lettera del Niccolini al Ranieri: il «caffè laddove i liberali» ecc. non è un caffè qualsiasi, ma è il caffè Ferruccio. E allora può darsi che non il Leopardi abbia attinto al Niccolini, ma entrambi a quell’epigramma anonimo, che il Leopardi può aver già conosciuto nel suo soggiorno fiorentino, e il cui ricordo, magari, gli sarà stato ridestato (questo si può ben ammettere ) dalla lettera del Niccolini al Ranieri.

5. «Le magnifiche sorti e progressive» (La Ginestra, 51) Non tema il lettore che io voglia ritornare sul progressismo o antiprogressismo del Leopardi, sul suo contrasto coi moderati e via dicendo. Di tutto ciò molti e io stesso ci siamo occupati, e può darsi che torneremo a discuterne, ma in altra sede. Lo scopo di questa noterella è più circoscritto: mettere in luce una particolare punta ironica celata, per cosi dire, all’interno della complessiva ironia del verso leopardiano, e rimasta, per quel che mi risulta, finora inosservata. Sappiamo tutti che il Leopardi intese deridere amaramente una frase di Terenzio Mamiani («... le sorti magnifiche e progressive dell’umanità» ), e che a questo verso appose la nota: «Parole di un moderno, al quale è dovuta tutta la loro eleganza». Si è inteso finora che l’ironia nel riguardi dell’«eleganza» colpisca la frase nel suo insieme, il tono ampollosamente goffo che maschera inconsciamente, secondo il Leopardi, ben altra realtà. Questo è vero; ma io credo che l’ironia sia rivolta anche, più specificamente, verso una parola dalla quale il senso linguistico del Leopardi, e non soltanto il suo pensiero, si sentiva urtato (donde l’accusa di «ineleganza»). Quella parola è «progressive». Nella lingua italiana tradizionale, progressivo significava «che va avanti» o «che procede gradualmente», senza riferimento al concettovalore di «progresso» in senso sociale o scientifico-tecnico. La Crusca

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veronese25 parafrasava progressivo con «Che ha virtù d’andar avanti, o Che va avanti Lat. Progrediens», e citava due esempi, l’uno del Buti nel commento a Dante, l’altro di Galileo. Dalla Crusca derivarono poi, con gli stessi esempi, il Manuzzi (Vocab. d. lingua ital.2, III, Firenze 1863, p. 614), lo Scarabelli (Vocab. univ. d. lingua ital., V, Milano 1878, p. 1206) e, con un’aggiunta insignificante, il Tommaseo-Bellini (Diz. d. lingua ital., III, Torino 1871, p. 1265). Questo fu dunque, ancora molto tempo dopo la morte del Leopardi, per tutto l’Ottocento e (come un’occhiata ai dizionari novecenteschi dimostra) per il Novecento fino alla seconda guerra mondiale, l’unico significato di progressivo accettato nella «buona lingua» italiana. Al tempo del Mamiani giovane e del Leopardi, progressivo in senso ideologico-politico era un neologismo, forse (ma di questo siamo tutt’altro che sicuri: bisognerebbe essere in grado di escludere il periodo giacobino-napoleonico, e non siamo in grado) introdotto per la prima volta dal Mamiani stesso. Un neologismo, e più precisamente un francesismo (ricordiamo che il Mamiani era esule a Parigi). Nel Grand dictionnaire universel du xix e siècle del Larousse, progressif è registrato nel senso di «qui progresse, qui suit une voie de progrès, d’amélioration croissante», con un numeroso corredo di esempi, a cominciare da uno di Chateaubriand: alcuni esempi hanno una connotazione chiaramente politica. È indicato anche come sostantivo («partisan du progrès»).26 Una lieve vena di purismo non si estinse mai nel Leopardi, sebbene egli ammettesse la legittimità dei neologismi necessari. Ma tra i neologismi e i francesismi lo urtavano soprattutto, e se ne comprende bene il motivo, quelli che si riferivano a tutto ciò che egli riteneva i l l u s o r i o progresso, falsa felicità basata su mere acquisizioni tecnologiche e scompagnata dallo spirito più genuino e libero della filosofia settecentesca («Libertà vai sognando, e servo a un tempo / vuoi di nuovo il pensiero ...»). Tale, cioè insieme linguisticamente brutto 25 iVedi qui sopra, p. 251. Il Leopardi possedeva anche la Crusca nell’ed. di Venezia 1697, dove progressivo era spiegato soltanto con «che ha virtù d’andare avanti», ed era riportato il solo esempio del Buti. 26 iE. Littré, Dictionnaire de la langue française, II, Paris 1863, p. 1342 registra anch’egli progressif (con un esempio di Guizot), mentre denota progressiste come «neologismo». Nel Larousse cit. progressiste è registrato come sostantivo, con un esempio di Balzac in cui è contrapposto a conservateur.

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e ideologicamente ingannevole, dovette apparirgli l’aggettivo progressivo. È già stato osservato27 come, cambiando l’ordine delle parole della frase del Mamiani, il Leopardi ne accentuasse ironicamente l’ampollosità; possiamo ora aggiungere che non a caso egli collocò per ultima, in posizione di rilievo, la parola più che mai «inelegante». Un buon parallelo è costituito dall’ironia sulla parola masse (in quanto depositarie di una felicità negata ai singoli individui che le compongono) nel Dialogo di Tristano e di un amico: anche qui, l’ironia colpisce insieme la falsità del concetto e l’ineleganza della parola.28 Per quel che mi risulta, progressivo ** nel senso usato dal Mamiani non ebbe, lì per lì, successo. Ma rifece altre comparse (l’ultima più duratura) nella lingua italiana. Il 22 novembre 1848 usciva per la prima volta a Firenze – e durò fino al 25 gennaio 1849 – «La Democrazia Progressiva, giornale politico-letterario». I redattori del giornale spiegavano nel primo numero che «il titolo di Democrazia Progressiva indica che lo scopo del giornale non è la sola verificazione del puro principio popolare nelle forme del Governo, ma la prosecuzione, e l’effettuamento del progresso sociale». Aggiungevano che «le rivoluzioni politiche non possono rimanere a mezzo, e sono governate da quella stessa legge di natura che spinge ogni cosa al suo perfezionamento». Dunque una democrazia politica avanzante in senso sociale. I primi numeri, tuttavia, presentavano questo avanzamento come qualcosa di gradualistico, non rivoluzionario: «teniamoci lontani dalle opinioni estreme, egualmente colpevoli e pericolose» (I n. 1, p. 2). È soltanto verso la fine della sua breve vita che il giornale tende a radicalizzarsi (il 6 dicembre ’48 pubblica una lettera di A. Blanqui dal carcere). Maggiori particolari sulle forze politiche che lo sostenevano, sulle posizioni successivamente assunte nella sua breve vita esorbitano dal carattere di questa nostra noterella. Neanche stavolta la parola progressivo dovette aver fortuna. Introdotta anche stavolta dalla Francia (il giornale riportava frequenti articoli e corrispondenze francesi, e aveva anche intrapreso la pubbli27 iVedi nel commento di G. De Robertis (nuova ed. a cura di G. e D. De Robertis, Firenze 1978, p. 461): «Per rimaner solo all’eleganza, vedi l’effetto che il Leopardi n’ha ricavato con una semplice inversione». 28 i«Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse, dicono e l e g a n t e m e n t e i pensatori moderni» (la spaziatura è mia). E poco sopra: «delle masse (per usare questa leggiadrissima parola moderna)».

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cazione in appendice di un romanzo di Eugène Sue, La lussuria, o Maddalena), dovette morire di nuovo con la morte del giornale. E tuttavia non fu una morte definitiva. In contrasto col perdurante silenzio dei vocabolari, l’aggettivo si riincontra nel linguaggio politico di fine Ottocento e del primo Novecento. Io sono in grado di citare tre esempi: due di Antonio Labriola (Su un filo di rasoio, 1894, in Scritti filosofici e politici a cura di F. Sbarberi, Torino 1973, I, p. 202: «rivoluzione pratica e progressiva»; In memoria del Manifesto dei Comunisti, 1895, ibidem, II, p. 507: «una minoranza, sia pur essa coraggiosa e progressiva»), il terzo di Antonio Gramsci (Quaderni del carcere, in appunti del 1931-33, ed. a cura di V. Gerratana, Torino 1975, II, p. 1061: «Non mi pare insomma che il modo di pensare contenuto nella risposta del Labriola sia dialettico e progressivo, ma piuttosto retrivo», ripetuto con piccole varianti nella nuova stesura di p. 1367). Siccome i tre esempi mi sono capitati sott’occhio per caso, è praticamente certo che la parola sia stata usata altre volte, probabilmente dagli stessi Labriola e Gramsci, nonché da altri scrittori e pubblicisti politici. E tuttavia oserei affermare che l’uso fu, in tutto questo periodo, r e l at i v a m e n t e raro. Esso si diffuse, invece, molto di più a partire dagli anni della Resistenza e dell’immediata post-Resistenza, da quando Eugenio Curiel e Palmiro Togliatti introdussero l’espressione «democrazia progressiva» (anche stavolta, verosimilmente, come calco da altre lingue: dal francese, dal russo?). Nell’accezione togliattiana, l’aggettivo non equivaleva a progressista (che aveva una sfumatura più radical-borghese), ma a «democratico-avanzato», di una democrazia destinata a sfociare nel socialismo senza un’ulteriore rivoluzione specificamente proletaria. Ancora dopo la caduta del fascismo, negli anni Quaranta e Cinquanta, l’aggettivo ebbe, in contrapposizione a reazionario, una grande fortuna. Luporini poté intitolare Leopardi progressivo il suo famoso saggio, alludendo al verso della Ginestra (il Leopardi nemico del falso progressismo alla Mamiani, ma progressivo in un senso molto più profondo) e nello stesso tempo uniformandosi all’uso togliattiano del termine. Ma sebbene questa nuova introduzione dell’aggettivo nella lingua italiana sia stata assai più vasta e fortunata delle precedenti, nemmeno essa ha avuto un successo definitivo. Press’a poco dal 1956 in poi, vivo ancora Togliatti, il suo uso diminuì rapidamente: quelli stessi (anch’io) che avevano usato largamente quel termine fin allora,

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poi ricorsero ad altri aggettivi, privi di quell’ambiguità di significato che aveva costituito la forza e il limite di progressivo. Ho l’impressione che già i giovani di sinistra del Sessantotto ignorassero quell’aggettivo, e che oggi esso sia estremamente raro nel linguaggio politico italiano. Significativo è un confronto tra il Dizionario enciclopedico italiano, uscito negli anni Cinquanta, e quel suo rifacimento molto ampliato che è il Lessico universale italiano, tuttora in corso di pubblicazione. Nel primo (vol. IX, 1958, p. 826), al paragrafo 2, dopo l’esempio di Mamiani-Leopardi, si legge: «Democrazia p. (...) è l’espressione con cui definiscono la loro politica i partiti e i regimi di tipo comunista (analogamente, repubblica p., partito p., e sim.». Nel secondo (vol. XVII, 1977, p. 698), benché la voce progressivo sia nell’insieme più ampia, al paragrafo 2 è rimasto soltanto l’esempio di Mamiani-Leopardi. I nuovi redattori hanno considerato l’accezione «comunista» dell’aggettivo ormai disusata; hanno avuto torto, però, di sopprimerla, anziché registrarla appunto come disusata, al pari dell’accezione «mamianea-leopardiana».29

29 iCosì pure a torto alcuni dizionari (Diz. Garzanti della l. ital., Milano 1965; F. Palazzi, nuova ed. a cura di G. Folena, Milano 1974; Nuovo diz. d. lingua ital. Curcio, Milano 1972) citano da solo l’esempio leopardiano, senza dire che è una ripresa ironica dell’uso del Mamiani. Occorre appena avvertire che questa mia scorribanda lessicale sulI’uso di progressivo non può non essere imperfettissima, dal momento che non è basata su alcuna ricerca sistematica. Essa può valere solo come invito a ricercare ancora; a me basta aver cercato di precisare la reazione polemica che quell’aggettivo dovette suscitare nel Leopardi. | Un altro esempio mi accade ora di trovare in uno scritto del 1853 attribuito, non senza incertezze, a Carlo Tenca (cit. da Paola Luciani in un saggio sul Carcano, «Critica letteraria» VI, 1978, p. 559): «una militante e progressiva energia di conati e di voglie» |.

VIII. Epicuro, Lucrezio e Leopardi ∼ **

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

1. Mi sembra necessario ritornare su un punto di un mio vecchio saggio su Il Leopardi e i filosofi antichi,1 riguardante l’atteggiamento del Leopardi di fronte all’epicureismo e a Lucrezio. Là io notavo, non inesattamente, credo, ma con una certa meraviglia e perplessità, «l’atteggiamento generale di riserbo verso Epicuro, che si riscontra in tutto Leopardi», e dicevo che tale atteggiamento appariva ancora più strano nel caso di Lucrezio, verso il quale «all’interesse ideologico si sarebbe dovuta aggiungere una consonanza sentimentale e poetica». Non escludevo risolutamente la lettura di Lucrezio da parte del Leopardi, ma tuttavia mi chiedevo (p. 179 n. 86): «Se il Leopardi avesse letto un poeta-filosofo a lui così congeniale, come mai non ne sarebbe rimasta traccia in lunghi ed espliciti appunti e in precise allusioni?». Più tardi, in una postilla alla seconda edizione ({qui} p. 179), feci ammenda di una grossa dimenticanza e dichiarai «molto probabile» (in realtà sicuro) che il Leopardi avesse letto o riletto Lucrezio «alme∼i«Critica storica», XXV, 1988, pp. 359-409, con numerosi ritocchi e aggiunte. Le citazioni da Epicuro sono tratte dalla 2a ed. delle Opere a cura di G. Arrighetti, Torino 1973, o, più di rado, dagli Epicurea, ed. H. Usener, Lipsiae 1887. Col solo nome del curatore indico i più autorevoli commenti a Lucrezio (in particolar modo quelli a cura di C. Giussani – Torino 1896-98 –, di A. Ernout – L. Robin, Paris 1925-28 e rist. successive, di C. Bailey, voll. 3, Oxford 1947, rist. corretta 1950; per il lib. III anche Lucretius, De rer. nat., Book III, ed. by E. J. Kenney, Cambridge 1971, 19802). Così pure, con i soli nomi dei curatori indico i commenti più noti, facilmente reperibili, dei Canti e delle Operette morali (per altre abbreviazioni vedi l’avvertenza all’inizio del presente volume {sulle citazioni da «Nuovi studi sul nostro Ottocento» – N. d. C. –}). Coi nomi di Saccenti, Mazzocchini, Grilli indico i saggi citati qui sotto, nota 2. 1 i{Qui sopra, pp. 148-183 e relative postille}. Molto notevole anche V. Di Benedetto, G. Leopardi e i filosofi antichi, «Critica storica», VI, 1967, pp. 289-320 (ma sul rapporto Epicuro-Lucrezio-Leopardi c’è solo un fugace accenno a p. 311).

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no negli ultimi anni», per i quali non possediamo la testimonianza dello Zibaldone. Mi era infatti sfuggito nella prima edizione un raffronto, già notato da molti studiosi, fra la Ginestra, 111-113 («Nobil natura è quella / che a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra / al comun fato») e Lucrezio (Primus Graius homo mortalis tollere contra / est oculos ausus), che non può essere casuale: vedi quanto ribadirò tra poco. Ma non affrontai di nuovo, allora, tutta la questione del rapporto Epicuro-Lucrezio-Leopardi. A farmi ripensare a quel rapporto hanno molto contribuito, nonostante vari punti di dissenso, i saggi di Mario Saccenti, di Alberto Grilli e di Paolo Mazzocchini, che cito qui in nota.2 C’è stato anche un mio personale destarsi d’interesse su Cicerone filosofo e sui filosofi ellenistici coi quali egli si confrontò.3 E infine ho potuto leggere un saggio ancora inedito di Sergio Sconocchia (cfr. il postscriptum al presente articolo), traendone, pur nella completa diversità dell’impostazione generale, preziose indicazioni singole. Quella che, come dirò più oltre, mi sembra oggi molto minore che un tempo è l’affinità ideologica, la “congenialità” del Leopardi con Epicuro e (per quanto non valga per entrambi un identico discorso) anche con Lucrezio. Invece, quanto alla conoscenza diretta che il Leopardi, fin dai suoi primi studi, potè avere di tutto il De rerum natura4 2 iM. Saccenti, Leopardi e Lucrezio, in AA.VV., Leopardi e il mondo antico («Atti V Convegno internaz. di studi leopardiani», 1980), Firenze 1982, pp. 119-148; A. Grilli, Leopardi, Platone e la filosofia greca, ivi, pp. 57-73 (per l’argomento che qui c’interessa, specialmente p. 60 sg.); P. Mazzocchini, Sulla questione della presenza di Lucrezio in Leopardi, «Esperienze letterarie», XII, 1987, pp. 57-71. Sul rapporto Epicuro-Leopardi è importante anche uno studio, rimasto poco conosciuto, di Mirella Naddei Carbonara, G. Leopardi: il morire e la morte, «Atti Accad. Scienze morali e polit.» di Napoli, XCIII, 1982 (specialm. pp. 234-248), che avrò ancora occasione di citare. | Questa studiosa, dopo una vita inquieta e infelice che le aveva procurato isolamento e inimicizie nel mondo accademico napoletano, è prematuramente scomparsa nel 1989. Una sua rivalutazione sarebbe doverosa |. 3 iPer ora cfr. l’introduzione e le note a Cicerone, De divinatione, Milano 1988 (edizione destinata a lettori non specialisti, ma, se non m’illudo, non del tutto inutile nemmeno agli studiosi del pensiero ciceroniano) e Nuovi contributi di filologia, Bologna 1994, pp. 241-264. Contributi molto acuti e originali allo studio di Cicerone filosofo e ideologo ha pubblicato Emanuele Narducci (ora nel vol. Modelli etici e società: un’idea di Cicerone, Pisa 1989; cfr. anche Introduzione a Cicerone, Bari 1992, e altri saggi che spero di vedere presto raccolti in volume). A lunghi scambi d’idee con Narducci sono largamente debitore. 4 iLa biblioteca di casa Leopardi non era mal fornita quanto a edizioni di Lucrezio, sia pure alquanto invecchiate già rispetto a quei tempi: vi erano quelle di J. B. Pius (G. B. Pio, Bologna, De Benedictis, 1511) e del Lambinus (D. Lambin, Frankfurt a.M., Wechel, 1583), e quella pubblicata, senza nome di curatore, dal tipografo Jansson (Amsterdam 1631): cfr. A. Gordon, A Bi-

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e alle successive riletture anche di lunghi brani, darei un parere, tutto sommato, molto meno titubante. Innanzi tutto, mi pare strano che quel confronto con la Ginestra, che era sempre apparso sicuro ai leopardisti e che a me, ripeto, era sfuggito in un primo tempo per mera sbadataggine, sia stato più di recente annoverato dal Grilli (p. 71) tra le «folgorazioni dell’ingegno, che si rivelano autonomamente, senza che se ne debba cercare l’origine nel mondo antico». Se ben comprendo queste parole (e quelle che seguono poco dopo: «Non sarà che proprio solo per questo tocco si debba creare un rapporto con Lucrezio»), l’amico Grilli, per la cui dottrina e il cui ingegno ho avuto sempre la più alta considerazione, pensa ad una coincidenza casuale, sia pure di una casualità non banale, quale può prodursi tra grandi spiriti a loro insaputa. Ma le parole che abbiamo citato poco sopra, «... a sollevar s’ardisce / gli occhi mortali incontra ...», sono una vera e propria traduzione di mortalis (accusativo plurale) tollere contra / est oculos ausus, per di più con quel riferimento dell’epiteto mortales agli occhi, che è un’audacia stilistica rarissima in latino,5 e che, per quanto mi risulta, non ha riscontri nemmeno nella letteratura italiana (a parte la traduzione italiana del Marchetti: «gli occhi mortali»). La coincidenza casuale o, se bliography of Lucretius, Wincester, St. Paul’s Bibliographies, 19852, pp. 76 nr. 101, 84 nr. 102 B, 136 nr. 208 B, e, per notizie più precise sulla biblioteca Leopardi, S. Sconocchia (cfr. postscriptum al presente articolo), dal quale apprendo che l’ed. del Pius, registrata nel Catalogo a stampa, oggi è mancante (uno dei molti furti, purtroppo, compiuti da indegni visitatori della biblioteca). Ma un testo completo di Lucrezio, tratto quasi esclusivamente dall’ed. a cura di Th. Creech (Oxford, Sheldon, 1695), c’era anche nel vol. I della Collectio Pisaurensis omnium poematum ... Latinorum, Pesaro 1766, pp. 336-392 (la Collectio, utile a scopo pratico anche se consistente, tranne rare eccezioni, in ristampe di edizioni precedenti, era stata messa insieme da Pasquale Amati; il testo di Lucrezio è segnalato da Gordon, Bibliogr. cit., p. 62 nr. 19; su P. Amati cfr. A. Fabi in «Diz. biogr. d. Italiani», I, 1960, pp. 677-679). Che il Leopardi, pur consultando talvolta anche le altre edizioni in suo possesso, abbia tenuto sott’occhio soprattutto la Collectio Pisaurensis (cioè il testo del Creech), è stato brillantemente dimostrato dallo Sconocchia (cit. qui sotto, p. 311, e il recente art. cit. a p. 276), che si è avvalso anche di un suggerimento di A. Campana. Tale dimostrazione, in aggiunta a ciò che diremo in séguito, contribuisce a rendere ancor meno probabile l’ipotesi che il Leopardi, tranne per qualche singolo passo riguardante fenomeni linguistici, abbia citato Lucrezio di seconda mano. Quanto alla traduzione del Marchetti, cfr. qui sotto, nota 61. 5 iCfr. Reichmann-Lumpe in Thesaurus linguae Latinae, VIII, 1511, 64 sg. Gli esempi di Albinovano Pedone e di Apuleio cit. ibid. non dovettero esser noti al Leopardi e si trovano, comunque, in contesti del tutto diversi da quello di Lucrezio (e del Leopardi). Altri passi, ai quali Reichmann e Lumpe accennano senza, purtroppo, indicarli specificamente, saranno di autori tardi, estranei a Lucrezio o (come avviene talvolta in testi cristiani) tratti da quel passo lucreziano.

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più piace al Grilli, l’«inconscia folgorazione», è, direi, del tutto esclusa; anzi, sebbene il Leopardi avesse una tenacissima memoria, vien fatto di pensare ancora una volta ad una (ri)lettura recente.6 Che, poi, i due contesti abbiano una certa diversità ideologica, è vero, e vi torneremo sopra; ma ciò accade per tante altre brevi espressioni che il Leopardi ha tratto da antichi e moderni (dal Petrarca, dai cinquecentisti ...) inserendole in contesti del tutto “suoi”. Considererei ora sicuro anche il raffronto tra Lucrezio II 48 curaeque sequaces e Leopardi, Inno ai Patriarchi, 66 «e le seguaci ambasce», già notato da molti commentatori e confermato da un’osservazione lessicale del Mazzocchini (p. 61 n. 11). Alquanto più dubbioso (non del tutto dissenziente, beninteso) rimango dinanzi ad un altro raffronto, che il Saccenti (p. 131 sg.) ha ripreso da alcuni commentatori, tra il famoso passo del Canto notturno, 39 sgg. («Nasce l’uomo a fatica ...») e Lucrezio, V 222-227 (il bambino nasce piangendo, bisognoso di tutto, quasi presago della vita infelice che dovrà condurre ...). L’analogia c’è, ma è più “contenutistica” che “formale”: precise coincidenze di espressione mancano. Quel pensiero appartiene a una specie di saggezza amara largamente diffusa; la si troverà in altri autori, anche italiani: ulteriori indagini sarebbero opportune, specialmente nella vasta area dei cinquecentisti, anche minori; e nemmeno escluderei del tutto che la somiglianza sia casuale. Ancor meno sarei propenso a credere, nonostante il parere di studiosi autorevoli, che il passo della Storia del genere umano (la prima delle Operette morali: cfr. T.O., I, p. 79) in cui si parla del suicidio di molti uomini per taedium vitae, sia derivato dai versi di Lucrezio, III 78-80, su coloro che si uccidono perché ossessionati dalla paura della

6 iCfr. W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze 19824, p. 232. Giuseppe Pacella mi fa notare che il passo lucreziano è citato nel Forcellini s.v. audeo. Come è noto, il Forcellini fu consultato e riconsultato assiduamente dal Leopardi per i propri studi sul latino arcaico-volgare (cfr. anche il presente articolo, p. 310). Ma che il Leopardi, leggendo per caso in un sia pur insigne dizionario quella frase di Lucrezio, ne abbia tratto ispirazione per la Ginestra, mi sembra del tutto inverosimile. Il Pacella, nella fondamentale edizione critica e commentata dello Zibaldone, ha individuato un gran numero di citazioni di seconda mano, qualche volta non designate come tali dal Leopardi. Ma, metodologicamente, l’ipotesi da prendere per prima in considerazione, quando si tratti di opere che il Leopardi possedeva (come appunto il De rerum natura) o potè in séguito procurarsi, è quella della lettura diretta, specialmente in passi di tale pathos poetico. Ben altrimenti tenue è la somiglianza, menzionata sùbito dopo dal Grilli, tra l’Ottonieri, cap. II, e Seneca, De tranquillitate animi, 2, 12: qui, sì, l’analogia sarà dovuta al caso.

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morte.7 Qui da un lato le coincidenze di espressione sono troppo tenui, perché si riferiscono a singole parole assai frequenti sia in latino sia in italiano (Lucr. Vitae ... odium lucisque videndae; Leop. «convertita la sazietà in o d i o ... non sopportando la l u c e e lo spirito ...»), dall’altro il concetto è assolutamente diverso: la noia di una vita monotona in un mondo tutto eguale (Leopardi) non ha niente a che vedere col timore ossessivo della morte che, paradossalmente, induce a “farla finita” procurandosi appunto la morte (Lucrezio). Il motivo del taedium vitae, al quale non si sfugge mutando luogo, c’è altrove in Lucrezio stesso (III 1053 sgg.), c’è in passi tra i più belli di Orazio (Carm. II 16, 17-20; Epist. I 8, 12; I 11, 27), dei quali può essersi ricordato il Leopardi, soprattutto nei versi Al conte Carlo Pepoli; ma non in connessione col suicidio. Si noti, per di più, che nella Storia del genere umano questa epidemia di suicidii non è presentata come un fatto costante, o ricorrente, nell’esistenza umana, né come una conseguenza della troppa civiltà (in quest’altra prospettiva il problema del suicidio era già stato e fu poi ancora affrontato dal Leopardi, cfr. qui sotto, § 7), ma è collocata in un’unica fase remota della «storia», alla fine di un primo periodo r e l a t i v a m e n t e felice.8 Tutta l’atmosfera di questa prima operetta (che pur svolge il tema schiettamente leopardiano del bisogno di felicità e contiene già quell’audace pensiero anticristiano sulla malvagità umana come conseguenza e non causa dell’infelicità) è smorzata: «luce di mestizia», come dice il Binni (Lettura cit., p. 28), non pessimismo spiegato. La prima operetta (su questo punto bisognerebbe forse insistere più esplicitamente) è scritta in modo da non rivelare ancora al lettore tutta l’amara filosofia dell’autore; della sua straordinaria bellezza fa parte un elemento di reticenza. Tutto ciò ci allontana da Lucrezio, ci richiama piuttosto a Esiodo, a Platone (come hanno già osservato molti stu7 iCfr. per esempio i ben noti commenti alle Operette di I. Della Giovanna, M. Fubini, G. Gentile, C. Galimberti, e (con maggiore cautela, e con l’avvertenza che «il concetto leopardiano è diverso») di S. Orlando (Milano 1976). Vedi anche Mazzocchini, p. 61 sg. 8 iCfr. W. Binni, Lettura delle «Operette morali», Genova 1987, p. 22 sg. (specialmente per gli dèi, che in questa operetta appaiono, eccezionalmente, «visti in una luce di tolleranza, a volte quasi di simpatia»: non nemici degli uomini, ma, piuttosto, incapaci di comprenderli). Non sarei, invece, d’accordo con la qualifica di «lucrezianamente contenti» che il Binni (ibid.) dà degli dèi: nell’operetta leopardiana non c’è la totale e beata trascuranza delle cose umane che è tipica degli dèi epicurei e lucreziani; essi, anzi, intervengono più volte, sebbene, per lo più, senza successo, nelle vicende del genere umano.

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diosi) e, si parva licet ..., a Frontone.9 Uno “stacco” in parte analogo si nota, nei Canti, tra il Risorgimento e i successivi canti pisano-recanatesi: quel tenue spiraglio, non certo di ottimismo, ma di accettazione della vita come qualcosa di non totalmente negativo, che si dischiude nel Risorgimento non ha alcun séguito nei canti seguenti, nemmeno nel Sabato; e anche qui, forse, occorrerebbe nei commenti un’osservazione più precisa. II Mazzocchini, che in complesso ammette nel Leopardi pochi riecheggiamenti lucreziani (quelli, a un dipresso, dei quali abbiamo trattato finora), e li considera come persistenze mnemoniche di letture giovanili, «scolastiche» (p. 63), e sottolinea il fatto che quasi tutti si riferiscono a proemii o comunque a parti iniziali del De rerum natura (pp. 61-63: gli “inizi”, come è noto, rimangono più impressi nella memoria, anche in mancanza di frequenti riletture), ritiene, però, che vi sia un’eccezione, alla quale dedica la seconda metà del suo saggio. L’eccezione sarebbe costituita dal raffronto tra il Coro di morti del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, v. 5 sg., là dove la «ignuda natura» dei morti (cioè il loro essere spogli di vita, il loro non esistere) è detta dai morti stessi «lieta no, ma sicura / dall’antico dolor», e alcuni passi lucreziani (III 211-213; 939; 972-977) in cui la morte è presentata come una quiete secura: «la morte come totale assenza di pena, piena e perfetta atarassia» (p. 66 e n. 20). Nonostante l’appoggio che, secondo il Mazzocchini (pp. 67-69), verrebbe a questo raffronto da un passo del molto più tardo Dialogo di Plotino e di Porfirio – dove, però, non si parla della morte come status di quiete, ma si dice che, per colpa dei timori delle pene infernali, «la quiete e la sicurtà dell’animo sono escluse in perpetuo dall’ultima ora dell’uomo», cioè dell’uomo ancor vivo, all’avvicinarsi della morte: il che è ben diverso –, io rimango molto incerto. Intanto, la quiete della non-esistenza non è, per Epicuro e per Lucrezio, identificabile con l’atarassia, la quale è g o d u9 iCfr. S. Timpanaro, Contributi di filologia ..., Roma 1978, p. 347 (già in una recensione del 1955). Un accenno a Frontone come ispiratore della prosa delle Operette (non specificamente della Storia del genere umano) trovo già in E. Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli 1954, p. 117 (il saggio è del 1950). Non c’è bisogno di ricordare con quanta assiduità Frontone fosse stato tradotto e studiato filologicamente dal Leopardi nel 1815-18, né come il giudizio leopardiano su Frontone, prima che il Leopardi aderisse al purismo e poi, quando il distacco dalla breve infatuazione puristica fu ormai consumato, rimanesse pur sempre meno aspro di quello del Giordani (cfr.{, qui sopra, «Le idee di Pietro Giordani», p. 42 n. 16, « Natura, dèi e fato nel Leopardi», pp. 229-230 – N. d. C.} e Aspetti e figure, p. 55 sg.).

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t a dai vivi, è s e n t i t a come beatitudine. L’atarassia accomuna il sapiente epicureo non ai morti, ma agli dèi immortali. I passi lucreziani citati sopra si riferiscono appunto alla morte e non all’atarassia. Il perfetto epicureo, come rammenteremo e come, del resto, è ben noto, non teme la morte ma neppure la desidera (tranne casi eccezionalissimi: il suicidio fu, nell’antichità, praticato soprattutto dagli stoici, ammesso con molto maggiori restrizioni dagli epicurei): Epicuro nell’Epistola a Meneceo (4, 126 Arrighetti2), dice che appunto il non temere la morte rende lieta la vita, anche nella vecchiezza, e deride il famoso detto di Teognide, che per gli uomini il meglio è non nascere, ma una volta nati, morire al più presto: un detto che, invece, avrà il consenso del Leopardi nel Tristano (T.O., I, p. 181). Pensare che l’unica liberazione da timori e affanni sia la morte sarebbe stato per Epicuro (e per Lucrezio) il fallimento della filosofia. Né si può giungere all’identificazione di morte (in quei passi lucreziani) e atarassia per via etimologica: se-curus, usato come calco del greco a-tàrachos:10 «privo di turbamento», certo, è a n c h e il vivente che ha conquistato l’atarassia, ma il Leopardi, e Lucrezio nei passi citati dal Mazzocchini, parlano di un’altra securitas: della quiete dell’annullamento. L’osservazione che ciò che Epicuro-Lucrezio presentano come il sommo bene equivale a una specie di morte anticipata può provenire da un avversario dell’epicureismo, il quale obbietti che la vera felicità non è atarassia inerte, ma intensità di vita attiva; e vedremo (§ 6) che questa obiezione (anche se non sempre formulata in polemica esplicita con l’epicureismo, ma talvolta sì), c’è appunto in Leopardi. Ciò rende ancor più inverosimile l’ipotesi, già di per se stessa immetodica, cha sia da attribuire al Leopardi la confusione tra atarassia epicurea e morte. Mi sembra, inoltre, che il Mazzocchini sorvoli, non legittimamente, sulla forte restrizione che nel Coro di morti è introdotta da quel « l i e t a n o, ma sicura ...», e sul fatto che nella chiusa, dopo la ripetizione di questo verso, si ribadisce con ancor più assolutezza: «Però ch’esser beato / nega ai mortali e nega a’ morti il fato».11 Per rappresentare il non-esser-più dei morti, il Leopardi presta ad essi una sorta di «esistenza minima», allucinata: migliore della vita, perché esente dal dolore e anche dalla 10 iMazzocchini, p. 66 n. 20. Il Bayley, da lui citato (comm. cit. a Lucr. III 211), dice che la morte è considerata da Epicuro «a care-free rest», ma non la identifica certo con l’atarassia. 11 iNella prima stesura del 1824: «Nega agli estinti ed ai mortali il fato». Il concetto è già quello, anche se il progresso poetico (con quell’espressione “ribattuta”, perentoria) è grande.

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noia («senza tedio», v. 13: la vitalità è talmente spenta che nemmeno più se ne sente il bisogno), ma pur sempre del tutto lontana dalla felicità, che presupporrebbe appunto una vita intensa, e che quindi, se non si ha da vivi, non si ha neppure quando si è sprofondati nel nulla. Anche così rappresentata, questa non è, nemmeno sotto forma d’immagine poetica, la morte epicurea, così come la vita breve e dolorosa che i morti ricordano confusamente non è la vita d a v v e r o b e a t a che l’epicureismo promette. Per alcuni aspetti, come osserva il Fubini, l’esistenza larvale di questi morti del Ruysch precorre la pur diversa raffigurazione che dei morti il Leopardi darà nel canto VIII dei Paralipomeni.12 Ma sulla differenza tra le concezioni lucreziana e leopardiana della morte dovremo ritornare (§7). Molto più fondato mi sembra un altro raffronto, anch’esso nel Coro di morti, a cui invece, il Mazzocchini accenna più fuggevolmente e con maggior cautela:13 tra l’inizio del Coro, in cui la morte è detta «Sola nel mondo eterna», e la chiusa del lib. III di Lucrezio: m or s a e t e r n a tamen nilo minus illa manebit, a cui si può aggiungere anche III 869: mors immortalis. Osserva giustamente il Mazzocchini: «È questo l’unico caso, nelle opere poetiche almeno, in cui il Leopardi qualifica la morte come eterna». Qui non è in gioco tutta la concezione della morte; ma il Leopardi può essersi ricordato di una iunctura lucreziana (o di due) di singolare potenza, e averla ripresa, con pari efficacia, ad apertura del Coro. Non risultano nella letteratura latina altri passi in cui vi sia quell’espressione, e uno di un comico greco, citato dal Bailey nel commento a Lucrezio III 869, non sarà stato noto al Leopardi. Se nel «brutto / poter che, ascoso, a comun danno impera» (A se stesso, 14-15) si possa ravvisare una remin[i]scenza [cr] della vis abdita quaedam che res humanas ... obterit (Lucr. V 1233 sg.), come alcuni hanno supposto, rimane per me non certo, tuttavia non inverosimile (cfr. anche qui sotto, p. 312 sg.).

12 iLeopardi, Opere, Torino 1977, p. 760. Là il Leopardi si rifarà a concezioni proprie dei primitivi, incapaci di concepire la morte sia come annullamento totale, sia come sopravvivenza di un’anima distinta dal corpo: donde la loro idea della morte come continuazione attenuata, depotenziata, della vita corporea: cfr. il commento di Ersilia Alessandrone (nell’ed. ora cit. del Fubini, pp. 1088-1091) a Paralipom. VIII, st. 10-15. 13 iMazzocchini, p. 67 n. Un accenno molto breve già nel commento alle Operette di G. Gentile, Bologna 19403, p. 177, alle righe 2-3.

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2. Abbiamo lasciato indietro il giovanile Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (1815: cfr. T.O., I, pp. 769-868). Il Saccenti (p. 126) denuncia «la mancanza di continuità, di compattezza, e quindi la quasi completa occasionalità e casualità» delle ben sette citazioni lucreziane nel Saggio. A torto, mi sembra. Nell’insieme, come risulta dalla disamina del Saccenti stesso (pp. 127-129), si possono distinguere due tipi di citazioni, di numero press’a poco eguale. Le une servono di conferma alla polemica antisuperstiziosa (contro la magia, i terrori notturni, le credenze in esseri mitici mostruosi, ecc): qui il Leopardi, dal punto di vista cattolico-illuministico (accordo tra religione e ragione) da cui è condotto il Saggio,14 dà di Lucrezio un uso libero da rèmore e pregiudizi religiosi, lo considera come un autore dal quale un cattolicesimo bene inteso, alieno da ogni superstizione dovuta ad ignoranza, non abbia nulla da temere. Arriva a dire nel cap. XVI, a proposito dei Centauri, che «Lucrezio si è distinto per il coraggio con cui ha combattuto la superstizione che li ammetteva, adottata universalmente nel suo secolo» (e qui evidentemente c’è un’esagerazione). Le citazioni del secondo tipo, invece, segnalano errori scientifici ai quali Lucrezio era soggiaciuto. Il punto di vista “illuministico” (nel senso che si è precisato sopra) rimane invariato, ma in questi passi Lucrezio ne è, per così dire, il bersaglio, non il sostegno. Neanche qui, tuttavia, c’è alcuna particolare asprezza antilucreziana: anche gli antichi più colti, dice a più riprese il Leopardi, errarono spesso in fatto di scienze della natura, Lucrezio come tanti altri. Rimangono fuori da tutt’e due i gruppi

14 iNotevoli analogie tra il Saggio e un’ampia opera erudita composta dal Leopardi press’a poco contemporaneamente, i Fragmenta Patrum Graecorum, sono state messe in risalto da C. Moreschini, Metodi e risultati degli scritti patristici di G. Leopardi, «Maia» XXIII, 1971, pp. 312-314. Non per questo, tuttavia, io credo, si dovrà negare la componente cattolico-illuministica del Saggio, e la sua diversa finalità, brillantemente divulgativa e apologetica, talvolta anche artistica (G. De Robertis, Saggio sul Leopardi, nuova ed., Firenze 1973, pp. 15-25), erudita solo “in seconda istanza”: cfr. ciò che ho osservato in «Giornale stor. letter. ital.» CXLIV, 1977, p. 153. Anche il Moreschini, del resto (art. cit., p. 314), parla, a proposito del saggio, di «tesi ibridamente reazionaria e illuministica». Era questa una componente della personalità di Monaldo Leopardi e la sua biblioteca era molto ricca di opere ispirate a tale tendenza (cfr. {«Il Leopardi e i filosofi antichi», pp. 149-153, e qui sotto, «Il Leopardi e la Rivoluzione francese», p. 315 sg. – N. d. C.}). Una lettura del Saggio dal punto di vista antropologico ha dato G. B. Bronzini, in Leopardi e il mondo antico (cit. qui sopra, nota 2), pp. 321-360: assai acuto nel mettere in evidenza alcuni aspetti di originalità del Saggio in confronto ad analoghe opere precedenti, ma, nell’insieme, un po’ sforzato, come sembra sia destino di quasi tutti gli scritti di antropologia culturale, quando vogliono non (come è giusto) integrare le discipline storiche, ma sostituirle.

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due citazioni verso l’inizio del cap. XIV, per esemplificare l’uso di anima nel senso di «vento». Insieme a Lucrezio sono citati anche altri autori, è rammentata la «conformità» del latino anima col greco ànemos, si ricorda che «in greco la voce pneûma vale al tempo stesso spirito e vento». Ma al Leopardi diciassettenne questi richiami servono come conferma che gli antichi annoverano i venti tra gli dèi, non per affrontare la ben nota (almeno da Locke in poi) e pericolosa tesi dell’origine materialistica del concetto di anima, tesi alla quale egli stesso, invece, aderirà più tardi.15 Aveva il Leopardi letto già nel 1815, sia pure alquanto frettolosamente, il De rerum natura, oppure le citazioni lucreziane sono di seconda mano, come un tempo io inclinavo a supporre e come tuttora i più suppongono? È molto difficile dare una risposta sicura, come per altre innumerevoli opere citate nel Saggio. Tuttavia significheranno pur qualcosa le baldanzose parole della Prefazione, in cui il Leopardi afferma la propria indipendenza da precedenti opere sullo stesso argomento, anche se quelle parole non escludono che il giovane autore abbia attinto citazioni da libri moderni di argomento e carattere diverso. Ma in attesa di minute (e non facili) ricerche finora non eseguite, vorrei osservare che, dato e non concesso che il Leopardi nel 1815 non avesse ancora letto il De rerum natura, rimane pressoché certo che lo aveva già letto nel 1822, quando compose l’Inno ai Patriarchi (cfr. qui sopra, § 1, a proposito delle «seguaci ambasce», e la pregiudiziale metodologica alla quale accenno alla nota 6). E poiché una lettura totale appare esclusa per il periodo dall’estate del ’17 (inizio dello Zibaldone) al 1822 – appunto perché dovrebbero rimanerne tracce cospicue nello Zibaldone, il che non è, come vedremo meglio in séguito –, l’ipotesi più probabile mi sembra quella di una lettura totale giovanilissima (già terminata, quindi, allorché fu scritto il Saggio)16 e di successive letture parziali, anche tarde: si ricordi ciò che abbiamo osservato a propo-

15 iCfr. Zib. 602 (febbraio 1821); 1054 (maggio 1821), dove c’è una “autocitazione” del Saggio, ma il punto di vista è mutato. 16 iII fatto che nel Saggio Lucrezio sia citato con indicazione di libro ma non di verso non costituisce un sospetto di citazione di seconda mano: nell’edizione della Collectio Pisaurensis mancava ogni numerazione di verso in margine, ed era troppo faticoso «contare», per ciascun libro, fin dal primo verso! Non sarà forse inutile a qualche studioso sapere che la Biblioteca della Facoltà di Lettere di Firenze possiede un esemplare della Pisaurensis con numerazione di versi aggiunta a mano da un ignoto “benefattore”.

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sito della Ginestra (§ 1 e nota 6). Qualcosa significherà – me lo fa osservare lo Sconocchia – anche il fatto che alla fine della Storia dell’Astronomia (1813, due anni prima del Saggio) nell’«Indice delle opere delle quali si è fatto uso nello scrivere la Storia dell’Astronomia» (T.O., I, p. 747), figuri «Lucretius (T. Carus) – De rerum natura» | cfr. ora Sconocchia in «Orpheus», 1994, fasc. 1, che indica in quell’opera alcune citazioni lucreziane |. Quanto agli anni più tardi, dobbiamo ancor dire qualcosa su un elenco di dieci opere, del 1830 (Carte napoletane, X 12, 22), pubblicato dal Pacella, Elenchi di letture leopardiane, «Giornale stor. letter. ital.», CXLIII, 1966, p. 557. Si tratta di opere antiche e moderne, raggruppate, «seppur genericamente», attorno ad una «tematica antropologica-giuridica» (Mazzocchini, p. 59 sg.), cioè al problema dell’origine dell’umanità e della civiltà. Se ci chiediamo quale valore abbia questo elenco come prova di un’avvenuta lettura di Lucrezio (sia pure del solo lib. V), dobbiamo rispondere che tale valore è assai scarso. In quell’elenco – scrivevo in {«Il Leopardi e i filosofi antichi», p. 179} n. 86 – «accanto ad opere che il Leopardi lesse sicuramente, ve ne sono altre (come la Scienza della legislazione del Filangieri) non menzionate mai nello Zibaldone né in altri scritti; rimane perciò il dubbio che in parte si tratti di letture progettate e non eseguite». Analogo, anzi ancor più reciso è il giudizio del Pacella, loc. cit. Ma se, p e r a l t r a v i a , ci siamo persuasi (come io mi sono ora persuaso) che una lettura integrale di Lucrezio, con ogni probabilità, era stata compiuta dal Leopardi, quell’elenco riacquista un certo interesse come progetto, appunto, di rilettura negli anni tardi. Rilettura eseguita o rimasta intenzionale? Non possiamo saperlo. Ma è interessante constatare come, anche ammettendo la seconda eventualità, fosse rimasta in mente al Leopardi quella lunga parte finale del lib. V di Lucrezio (925-1457) che rimane una delle “vette” di tutto il poema. Il fatto che, come dice il Mazzocchini (p. 60), quel progetto di rilettura potesse essere «strumentale», cioè finalizzato a un’opera sull’origine della civiltà che forse il Leopardi si propose di compiere (ma si rimane al livello di mera ipotesi), non ne menoma comunque il valore, mi sembra. Il Leopardi, certo, in molti punti non avrebbe concordato con Lucrezio (cfr. più oltre, § 6 e nota 35), e ancor meno con altri autori citati in quell’elenco. Ma, come tutta una vasta corrente di pensiero “epicureo” settecentesco, egli aveva compreso, con tutta proba-

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bilità, l’importanza di quel tentativo di ricostruzione della storia dell’umanità primitiva senza intervento divino e di raffigurazione della vita dei primi uomini: vita per un lato tutt’altro che idillicamente felice, anzi esposta a pericoli, sofferenze, disagi che furono poi in parte mitigati dalla civiltà (niente «età dell’oro», quindi; e tale concezione idillica, tipica della prima fase del suo pensiero, il Leopardi nel 1830 l’aveva già superata da tempo); per un altro lato, libera ancora dai mali che l’incivilimento produsse, a cominciare dal timore degli dèi (qui sotto, nota 35). 3. Ma, oltre che dal poema di Lucrezio, sul quale dovremo ritornare, il Leopardi ebbe notizia dell’epicureismo anche da testi di Epicuro stesso (in misura molto scarsa, come ora vedremo) e di altri autori, soprattutto Cicerone. Per i testi epicurei, vi sarebbe stata nella biblioteca Leopardi un’ottima fonte: l’edizione di Diogene Laerzio a cura del Meibomius (Marcus Meibom), con note del Casaubonus (Isaac Casaubon) e con le osservazioni supplementari del Menagius (Gilles Ménage), pubblicata ad Amsterdam, Wettstein, nel 1692. Come è noto, nel lib. X delle sue Vite dei filosofi Diogene Laerzio, fortunatamente per noi, riporta le tre famose epistole di Epicuro a Erodoto, a Pitocle e a Meneceo e le cosiddette Massime capitali (K|riai dóxai). Tuttora questo è l’insieme più importante di testi epicurei a noi pervenuto; tanto più lo era allora, in mancanza delle Sentenze Vaticane e della maggior parte dei papiri ercolanesi attribuibili ad Epicuro. È merito del Grilli, però, aver osservato (p. 60 sg.) che le citazioni da Diogene Laerzio nello Zibaldone, in complesso, non vanno oltre la fine del lib. VI: perciò niente Epicuro (lib. X) e, aggiunge il Grilli, niente Stoici (lib. VII). L’osservazione del Grilli mantiene la sua importanza (a me e, credo, anche ad altri il fatto era sfuggito), anche se, a mio avviso, è un po’ troppo perentoria.17 Egli dice di considerarla valida 17 iII saggio del Grilli è degno della sua ben nota dottrina e competenza in fatto di filosofia antica. Ma, nonostante alcune osservazioni di grande finezza (per esempio sull’Ottonieri e i suoi modelli, p. 64 sg.), il Grilli è convinto che la scarsezza e frammentarietà delle letture che il Leopardi poté compiere gli preclusero, sostanzialmente, un fecondo contatto col pensiero antico. Ciò è vero se si cerca (e non lo si trova certamente!) un Leopardi “storico della filosofia antica”; il Grilli stesso, p. 54, riconosce che ciò, almeno per il primo Leopardi, sarebbe «anacronistico». Ma che il Leopardi sia riuscito a “confrontarsi”, spesso fecondamente, col pensiero greco-romano, io persisto a crederlo. Il Voyage du jeune Anacharsis di J. J. Barthélemy, dice ad esempio il Grilli (p. 59), «gli rivelò (con quanti mai abbagli!) l’esistenza di un pessimismo greco». Io credo che gli «abbagli» riguardino questioni marginali, e che l’essenziale di quel pessi-

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«tanto per la prima lettura, anteriore al 1817-18, quanto per la seconda testimoniata dallo Zibaldone tra il luglio 1820 e il febbraio 1821». Non mi è chiaro su quali testimonianze della «prima lettura» egli si basi: escluso lo Zibaldone (che incomincia, appunto, come è noto, nell’estate del ’17), siamo rinviati al Saggio sopra gli errori popolari degli antichi e, prima ancora, alla Storia dell’Astronomia e ai lavori eruditi su Esichio Milesio e su Porfirio.18 Ma nella Storia e nel Saggio, e anche nel Porfirio (nell’Esichio Milesio, tuttora mal pubblicato, i riscontri sono più faticosi a compiersi), io non trovo alcuna interruzione alla fine del lib. VI di Diogene Laerzio. Epicuro, fra l’altro, è citato cinque volte nel Saggio con l’indicazione del lib. X di Diogene Laerzio e dei rispettivi paragrafi. Citazioni di seconda mano? Ritorniamo al solito sospetto, che però non sembra probabile, perché altre volte il Leopardi indica onestamente che le sue notizie sull’epicureismo sono tratte da Lattanzio, da Tertulliano, da Achille Tazio ... Ad ogni modo, poiché le menzioni di Diogene Laerzio non si fermano alla fine del lib. VI, o neghiamo che vi sia mai stata la “prima lettura” ammessa dal Grilli ed esprimiamo una sfiducia pregiudiziale su t u t t e le citazioni da filosofi antichi nelle opere del Leopardi adolescente (con l’impegno, tuttavia, di cercare almeno di precisare di volta in volta le fonti indirette del Leopardi),19 o dobbiamo supporre che una lettura, sia pure mismo (nei p o e t i greci più che nei filosofi: su questo punto importante vorrei ritornare in altra occasione) fu inteso bene dal Leopardi. I punti fondamentali risultano anche dal Barthélemy, che non è da disprezzare troppo. 18 iNella Storia della Astronomia cfr. ad esempio (tra le poche citazioni da libri di Diog. Laert. posteriori al VI), T.O., I, pp. 637, 638 n. 8. Nell’Esichio Milesio (in Leopardi, Opere inedite a cura di G. Cugnoni, I, Halle 1878) i riferimenti a Diogene Laerzio (e, forse ancor più, ai suoi commentatori nell’ed. cit. del Meibom) sono moltissimi, da tutti i libri; io, in {«Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 152 n. 11, ne avevo citato soltanto un paio a titolo di esempio. Del Porfirio, di cui allora ero costretto a citare l’autografo, abbiamo ora l’ottima edizione del Moreschini (Porphyrii De vita Plotini ecc., Firenze 1982; cfr. la mia recensione in «Giorn. stor. letter. ital.» CLXI, 1984, pp. 609-615); i passi che citavo in {«Il Leopardi e i filosofi antichi»} si trovano ora a pp. 44, 45, 55; ma anche lì mi ero limitato ad un’esemplificazione minima. 19 iNella biblioteca di casa Leopardi c’era un’edizione di Opera omnia di P. Gassendi (Firenze, Tartini e Franchi, 1727, 6 voll.). Ma il Leopardi cita (e non specificamente a proposito di Epicuro né di Lucrezio) il Gassendi una sola volta nel Saggio (T.O., I, p. 812 n. 13 ); lo citerà una seconda ed ultima volta in una nota al Cantico del gallo silvestre (ibid., I, p. 157 n. 1); non mai nello Zibaldone. Per le ragioni di metodo a cui ho accennato (cfr. sopra, nota 6), ritengo estremamente improbabile che le citazioni da Epicuro (e, tanto più, da Lucrezio), nel Saggio e in opere successive, derivino dal Gassendi, anche se, con un lavoro da certosini che finora non è stato fatto, si riuscisse a ritrovarle tutte nei volumi del filosofo francese: del che, per ora, è lecito dubitare molto fortemente, poiché l’epicureismo del Gassendi è una filosofia “originale”, non un tessuto di citazioni.

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cursoria, sia stata compiuta, quella prima volta, fino alla fine dell’opera di Diogene Laerzio. Quello che, semmai, va osservato (e che, lo ammetto, riduce il valore sostanziale dell’obiezione che ho creduto di muovere al Grilli) è che i problemi fondamentali della filosofia epicurea non sembrano aver interessato particolarmente il Leopardi in questa probabile «prima lettura». Epicuro non è mai “maltrattato” nel Saggio (lo sarà poco più tardi nell’Appressamento della morte, che segna un passeggero ritorno di cattolicesimo più doloroso-pessimistico che razionalista);20 nel Saggio è citato con consenso per il suo rifiuto della divinazione (cap. III), con dissenso per opinioni scientifiche erronee; le citazioni da Epicuro sono analoghe a quelle da Lucrezio; ma, in quanto nemico della superstizione, Lucrezio è lodato con più calore. Quanto alla «seconda lettura» di Diogene Laerzio, testimoniata dallo Zibaldone, l’osservazione del Grilli ha, invece, buon fondamento, ed è confermata dagli Scritti filologici (a cura di G. Pacella e S. Timpanaro, Firenze 1969, cfr. l’indice a p. 683). C’è un’eccezione, che il Grilli stesso segnala: in Zib. 4299 (17 dic. 1827) è citato, per un fatto linguistico (πως con l’infinito: cfr. anche Scritti filologici cit., p. 654 r. 65 sg.), un passo dell’Epistola ad Erodoto di Epicuro (da Diogene Laerzio, X 37). Il passo è «citato in modo difforme dall’abitudine del Leopardi» dice il Grilli, e perciò egli suppone, senza peraltro identificare la fonte, una citazione di seconda mano. Ma le citazioni leopardiane da Diogene Laerzio, come da molti altri autori, sono spessissimo leggermente «difformi» l’una dall’altra: ne troviamo senza indicazione del passo preciso (ad esempio in Zib. 162, 197, 207); ne troviamo del tipo «Laerzio, in Aristippo l(ib.) 2. segm. 21» (ad esempio Zib. 223); talvolta è riportato il passo in greco con o senza traduzione latina, talaltra soltanto una parafrasi italiana; e via dicendo. La citazione incriminata dal Grilli («Epicuro, Epist. ad Herod. ap. Laert. X. segm. 37»; 20 iCfr. {«Il Leopardi e i filosofi antichi»}, pp. 153-154 e n. 14. Parlo di “ritorno” di cattolicesimo, anche quanto al giudizio su Epicuro, riferendomi, già prima che all’Appressamento della morte (c. III, v. 60), alle Dissertazioni filosofiche (1811-12), ora pubblicate, in modo frettoloso e provvisorio, a cura di R. Gagliardi, Montepulciano 1983: accenni antiepicurei a pp. 53-57 (con un prolisso tentativo di confutazione), 166 (già riportato, dall’autografo, in {«Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 150), 240 (con l’aggiunta di una “confutazione”, tradotta in versi italiani, dall’Anti-Lucretius del Polignac, vedi oltre); accenni a Lucrezio a pp. 52 (non gli dà torto, quanto alla non eternità del nostro mondo), 242. Queste sembrano, in effetti, ancora citazioni di seconda mano; ma saranno necessarie indagini più accurate, e probabilmente i dubbi rimarranno.

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quasi identica negli Scritti filologici cit.) non mostra, a mio avviso, una difformità particolare e, per questo rispetto, potrebbe ben essere di prima mano. È tuttavia vero che, per dirla col Grilli, «un unicum rimane un unicum»:21 non si sfugge all’impressione che, terminata la «seconda» lettura del lib. VI, il Leopardi abbia smesso (per il sopraggiungere di altri interessi? per una certa sazietà della lettura di un autore come il Laerzio, che in parte merita la rivalutazione che ne ha fatto Marcello Gigante, ma che certo manca di vivezza espositiva, di chiaroscuri, anche a prescindere dall’assenza di originalità filosofica che sarebbe ingiusto pretendere da lui?) la lettura continuata di quell’opera e che quella citazione dal lib. X sia il risultato di una “scorsa” saltuaria (che ebbe come frutto, del resto, un’osservazione di sintassi greca: nulla di specifico sulla filosofia epicurea). Nemmeno molto più tardi, da brani di Diogene Laerzio contenuti nella silloge degli Opuscula Graecorum veterum sententiosa et moralia di Johann Conrad Orelli, il Leopardi trasse notizie sull’epicureismo; o non si curò di prenderne nota.22 Senza Diogene Laerzio, dice ancora il Grilli (p. 61), «tutti i problemi della filosofia ellenistica non potevano esser visti e conosciuti 21 iIn verità un’altra citazione, da VII 57 (cioè dal libro dedicato agli Stoici) c’è in Zib. 43, a proposito della parola greca βλτερι. Il Grilli (p. 60 n. 28) suppone che il Leopardi l’abbia letta nell’indice dell’ed. del Meibom, e di lì sia risalito alle note del Casaubon e del Ménage. Ma, come mi fa osservare per lettera il Pacella, perché pensare a una consultazione del solo indice anziché a lettura del testo di Diogene Laerzio? Certo, anche qui – come in X 37 cit. sopra, come in varie citazioni da Lucrezio, cfr. qui sotto, paragr. 11 – l’interesse del Leopardi è rivolto alla lingua, non al pensiero filosofico. Per la notevole osservazione del Leopardi su βλτερι, che va molto al di là di quanto si sapeva allora e costituisce una delle prove del suo ingegno di linguista-filologo, cfr. Filippo Di Benedetto, G. Leopardi e una nuova etimologia di franc. «bélître», «Siculorum Gymnasium», IV, 1951, p. 129 sg. 22 iQuella silloge fu posseduta dal Leopardi a partire dal dicembre 1826, ma a leggerla egli incominciò soltanto nel ’29, come è dimostrato dall’Indice delle letture IV (ed. Pacella, | cfr. sopra, p. 276 |, p. 572, nr. 452-70) e dallo Zibaldone, 4431 sg.: cfr. Leopardi, Scritti filologici, ed. Pacella-Timpanaro cit., p. 607 e altrove. A torto il Grilli (p. 60 n. 27) dice che il Leopardi aveva avuto «sicuramente» a disposizione una copia dell’Orelli «durante il soggiorno romano e un’altra durante quello bolognese», e cita vari passi degli Scritti filologici, i quali, però, contengono tutti aggiunte posteriori (cfr. le note dell’ed. Pacella e mia). Anche quanto alle citazioni da Stobeo (Grilli, p. 61 e nn. 31-32), quelle che risalgono al soggiorno bolognese non derivano dall’Orelli, benché sulla provenienza di alcune permangano dubbi (cfr. Scritti filologici cit., Indice, p. 717). Nell’insieme le citazioni da Stobeo, dirette o indirette, non sono poche né tutte insignificanti. Devo, tuttavia, dare atto al Grilli che in {«Il Leopardi e i filosofi antichi», qui sopra,}, pp. 164-165, mi ero espresso troppo indeterminatamente e avevo antedatato le letture del testo g r e c o di Stobeo (a Recanati il Leopardi possedeva soltanto una traduzione latina: cfr. l’Indice cit. dagli Scritti filol., dove quel mio precedente errore è corretto). È probabile, tuttavia, che sia opportuno un supplemento d’indagine.

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altro che attraverso Cicerone, testimone certo autorevole, ma non esente da sospetti». Non è questa la sede per riprendere la vexatissima quaestio dell’autorità di Cicerone come espositore dello stoicismo e, per il problema che più ci interessa da vicino, dell’epicureismo: il Grilli, del resto, nei suoi molti studi su Cicerone filosofo non ha mai dimostrato, a differenza di altri, sospetti eccessivi. Se devo esprimere un parere necessariamente molto rapido e sommario su un argomento sul quale mi sono espresso e spero (ma ... «il tempo manca»!) di esprimermi più diffusamente altrove, dirò che Cicerone non intese il grande valore dell’epicureismo come tentativo ( n o n r i u s c i t o, ma, quanto all’esigenza, giusto e geniale) di fondare un’etica “dal basso”, di concepire, senza affatto sminuirli, i valori morali più alti e “disinteressati”, a cominciare dall’amicizia, non come dati a priori ma come punti di arrivo di un processo che prendesse inizio da bisogni e appetiti “animali”, e di tracciare secondo questa stessa concezione lo sviluppo, faticoso e tutt’altro che trionfalistico (vedi sopra, § 2 in fine), della civiltà umana. Questo è il grandissimo debito che verso l’epicureismo ha tutta una vasta e varia corrente della filosofia moderna, dall’Umanesimo all’Illuminismo e poi ancora nel secondo Ottocento; e il debito non è ancora estinto, tanto più che sono poi venute correnti filosofiche (già Kant, del resto!) che su questi problemi hanno fatto gravi passi indietro. Ma, in primo luogo, nel non comprendere questo audace e raro pregio dell’epicureismo Cicerone (non dimentichiamolo) si trovava e, come si è ora accennato, si trova tuttora in compagnia di insigni “filosofi professionali”, cosicché non può, per questo solo motivo, essere considerato come un filosofo dilettante o un uomo politico che piegava la filosofia agli interessi del gretto conservatorismo della nobilitas romana ormai incapace di governare (anche questo, indubbiamente, c’è in Cicerone, e non dev’essere taciuto; ma l’uomo fu molto superiore, per intelligenza e cultura, alla classe a cui rimase legato, e dalla quale naturalmente fu condizionata anche la sua intelligenza, ma tutt’altro che totalmente). In secondo luogo, a mio parere (un parere che dovrei cercare di motivare in altra sede, ma in buona parte è stato già espresso da altri studiosi), se si eccettua quell’incomprensione di cui già si è parlato, ulteriori fraintendimenti o addirittura falsificazioni del pensiero di Epicuro non esistono in Cicerone, o riguardano questioni del tutto marginali oppure opinabili, sulla cui interpretazione c’è tuttora dissenso. Molte obie-

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zioni di Cicerone all’epicureismo (o all’epicureismo e allo stoicismo insieme), tratte dall’Accademia nuova e, in parte, da Teofrasto, colpiscono, seppure talvolta non fino in fondo, il punto debole dell’epicureismo non meno che di altre filosofie ellenistiche: la pretesa di rendere l’uomo felice in quanto “autosufficiente”, non toccato da alcun “male esterno”, lieto anche in mezzo ai tormenti e alle sventure. Anche Plutarco, che nella pars construens del suo pensiero è un platonico poco profondo e poco originale, nella polemica antiepicurea (e antistoica) non è trascurabile. 4. Questo punto, il Leopardi fu in grado di capirlo anche senza aver letto (o avendo letto una volta sola e superficialmente, cfr. § 3 all’inizio) i libri VII e X di Diogene Laerzio, anche basandosi soltanto su Cicerone e Lucrezio; così come Cicerone e Lucrezio bastarono a fargli intendere il carattere apolitico, non animato da entusiasmo per la «virtù» repubblicana, dell’epicureismo, molto più che dello stoicismo (di un certo stoicismo almeno, non di quello, altrettanto apolitico, di Epitteto: vedi più oltre). Quanto all’epicureismo, va sempre ricordato quel passo dei Detti memorabili di Filippo Ottonieri (cap. I): Nella vita, quantunque temperatissimo, si professava epicureo, forse per ischerzo più che da senno. Ma condannava Epicuro; dicendo che ai tempi e nella nazione di colui, molto maggior diletto si poteva trarre dagli studi della virtù e della gloria, che dall’ozio, dalla negligenza, e dall’uso delle voluttà del corpo; nelle quali cose egli (cioè Epicuro) riponeva il sommo bene degli uomini. Ed affermava che la dottrina epicurea, proporzionatissima all’età moderna, fu del tutto aliena dall’antica.

«Proporzionatissima all’età moderna» – cioè al torpore della Restaurazione e, più tardi, all’affarismo e all’egoismo borghese –, «del tutto aliena dall’antica»: un pensiero paradossale e almeno in parte erroneo (perché il mondo ellenistico o immediatamente preellenistico nel quale sorse l’epicureismo fu un mondo, nel senso che a questo aggettivo dava il Leopardi, moderno, ben diverso dalla grecità classica, e perché quell’accenno all’«uso delle voluttà del corpo» non rende giustizia all’edonismo epicureo che, in realtà, fu così poco edonistico da sfociare in un eccessivo ascetismo, e rivela, questa volta sì, un influsso deformante di alcune letture ciceroniane). Un pensiero, tuttavia, coerente con la concezione etico-politica leopardiana degli anni gio-

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vanili (gli antichi tutti attività, energia, magnanime illusioni), già fortemente intaccata da dubbi, ma non ancora esauritasi nel ’24, e coerente poi di nuovo con la pur tormentata ripresa di interesse politico degli ultimi anni.23 Quanto alla polemica contro l’“autosufficienza” del sapiente, bisogna di nuovo richiamarsi all’Ottonieri (cap. II), e già a un pensiero, forse espresso con più energica immediatezza, dello Zibaldone, 28002803 (22 giugno 1823). Fu molto comune «specialmente tra’ filosofi antichi», dice il Leopardi, l’idea che il sapiente non debba far dipendere la propria felicità o infelicità «dalla fortuna (...), o da veruna forza di fuori». Senonché questa medesima disposizione d’animo (...) non è ella sempre suddita della fortuna? Non si sono mai veduti de’ vecchi ritornar fanciulli di mente, per infermità o per altre cagioni, l’effetto delle quali non fu in balia di coloro l’impedire o l’evitare? (...) La nostra medesima ragione non è tutta quanta in balia della fortuna? (...) In somma, se il nostro corpo è tutto in mano della fortuna, e soggetto per ogni parte all’azione delle cose esteriori, temeraria cosa è il dire che l’animo il quale è tutto e sempre soggetto al corpo, possa essere indipendente dalle cose esteriori e dalla fortuna. Conchiudo che quello stesso perfetto sapiente, quale lo volevano gli antichi (...), sarebbe interamente suddito della fortuna, perché in mano di essa fortuna sarebbe interamente quella stessa ragione sulla quale egli fonderebbe la sua indipendenza dalla fortuna medesima.

E vedi anche il pensiero immediatamente seguente: il terrore, cioè un moto d’improvviso pànico, può travolgere ogni difesa razionale anche nell’uomo di temperamento «perfettamente coraggioso e savio»: «Nessuno può debitamente vantarsi di non poter essere spaventato». Questa è (non ho mutato parere su questo punto) una profonda e radicale critica del volontarismo. Gli accidenti e s t e r n i possono colpire l’uomo all’ i n t e r n o stesso del suo corpo (del corpo fa parte anche il cervello, anche il sistema nervoso, anche l’“anima”): una perturbazione patologica dell’organismo, coi suoi riflessi sulla psiche, può da un momento all’altro sconvolgere quello stato di grazia che è l’imperturbabilità del sapiente. Già l’entusiasmo che, qualche anno prima, il Leopardi aveva concepito per Teofrasto si basava soprattut23 iSull’itinerario del pensiero leopardiano non è questo il luogo adatto per un elenco bibliografico. Sull’«egoismo» inteso essenzialmente come apoliticità e contrapposto all’«eroismo» cfr. ad esempio (per citare un passo particolarmente significativo) Zib. 537 (gennaio 1821) col commento del Leopardi al passo di Cicerone, Laelius, 13, 45 sg. Cfr. anche qui {sotto}, p. 324 sg.

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to sulla consapevolezza che Teofrasto aveva avuto, di questa precarietà della forza dell’uomo saggio di fronte alle sventure.24 Su questo punto, l’«apatia» stoica era non meno condannabile dell’atarassia epicurea: se gli epicurei sostenevano il libero arbitrio con argomenti del tutto inconsistenti, incompatibili col materialismo, d’altra parte il fatalismo p r o v v i d e n z i a l i s t i c o degli stoici non era migliore; e infatti il Leopardi contrappone l’etica teofrastea a tutta la successiva filosofia ellenistica (del neoaccademismo di Carneade egli non ebbe una nozione sufficientemente chiara: a giudicare dallo Zibaldone, le due opere più ardite e intelligenti di Cicerone filosofo, il De natura deorum e il De divinatione, furono oggetto di letture tarde e parziali). Nel riconoscimento della positività del piacere da parte di Teofrasto il Leopardi vede, sì, un precorrimento di un aspetto positivo dell’epicureismo, ma si affretta ad aggiungere una nota implicitamente e ingiustamente svalutativa nei riguardi dell’edonismo epicureo.25 Questa sorta di parzialità filo-stoica non dev’essere per nulla esagerata, ma va spiegata rammentando che il Leopardi, in due fasi diverse del suo iter filosofico e da due punti di vista che si potrebbero addirittura considerare opposti, dette una valutazione favorevole, benché limitata da forti riserve, dello stoicismo. Di ciò altri studiosi e io stesso abbiamo già trattato a suo tempo: bastino qui due rimandi in nota, 24 iSu Teofrasto non credo di dover correggere quanto ho scritto in {«Il Leopardi e i filosofi antichi»}, pp. 161-163. Dall’etica teofrastea il Leopardi vide con piena lucidità un punto solo, ma un punto di capitale importanza: la negazione (in buona parte già aristotelica) della tesi secondo la quale la virtù basterebbe a dare la felicità. Già Cicerone, in passi che il Leopardi conosceva (cfr. Zib. 317 e la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte, in T.O, I, pp. 205-210; cfr. anche{, qui sopra, «Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 163 n. 37; ma lì, p. 163 nel testo, non parlerei più con frettoloso disprezzo del «superficiale stoicismo di Cicerone»), pur non arrivando a consentire pienamente con Teofrasto, aveva compreso la difficoltà di svalutare del tutto l’incidenza dei beni e dei mali esterni sulla felicità del sapiente. Ma al Leopardi, giustamente, le riserve di Cicerone nei riguardi dell’etica aristotelico-teofrastea sembrano ancora eccessive. 25 iCfr. Zib., 317: (Teofrasto) «anteriore oltracciò ad Epicuro e certamente non epicureo per vita né per massime» (cioè non edonista volgare ed egoista). Teofrasto, secondo una tradizione riferita da Plutarco (cfr. {«Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 162 e n. 33), aveva per due volte liberato la patria dalla tirannide; non era dunque stato un apolitico come Epicuro; e ciò, per il Leopardi pur disilluso dalla politica, continuava ad essere un titolo di merito. L’antiepicureismo è un po’ più attenuato nella Comparazione cit. (T.O., I, p. 208): «... con tutto che fosse diversissimo e ne’ costumi e nelle sentenze da quello che poi furono gli Epicurei»: qui il biasimo morale, come molto spesso anche in Cicerone, è rivolto solo contro i seguaci dell’epicureismo, non contro il maestro. Cfr. il passo di Montesquieu cit. in Zib. 274, in cui si dice che «la secte d’Epicure (...) contribua beaucoup à gâter le coeur et l’esprit des Romains».

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per ciò che riguarda gli stoici, o loro affini, ultimi difensori della Repubblica romana e martiri della libertà sotto l’Impero26 e, più tardi, l’adesione alla morale di Epitteto, la sua breve durata, la sua non-totalità anche nel momento culminante.27 Vorrei aggiungere soltanto un’osservazione che non so se sia stata già fatta, né quanto consenso troverà. La scarsa convinzione con cui il Leopardi fece propria la morale di Epitteto è dimostrata, a me pare, anche dalla resa stilistica, tutto sommato non eccelsa, della traduzione del Manuale. Può darsi che futuri studi sullo stile di questa versione mi facciano cambiar parere. Ma per ora mi sembra che, mentre il Preambolo del volgarizzatore, con quella caratterizzazione dello stoicismo epittetèo come “morale dei deboli”, con quella non sopita nostalgia della morale eroica già ben notata dal Luporini, è bellissimo anche letterariamente (anche se non va assunto, ormai lo sappiamo, come espressione tipica e duratura dell’etica leopardiana), il volgarizzamento del Manuale – un’opera che, certo, anche nel testo greco non eccelle affatto per pregi stilistici: questo limite oggettivo non va dimenticato – è scritto in quello stile alquanto arido, freddamente letterario, un po’ troppo arcaico, che tanto ingiustamente e per tanto tempo è stato rimproverato alle Operette morali.28 26 iCfr. {«Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 159, anche per l’importante e tormentato concetto di «mezza filosofia»; Zib. 522, e altri passi cit. da E. Paratore, Moderni e contemporanei fra letteratura e musica, Firenze 1975, pp. 11-16. Sulla conoscenza (da me, un tempo, erroneamente messa in dubbio) di Lucano da parte del Leopardi cfr. Paratore, p. 15 sg. e i miei Aspetti e figure, pp. 44-46; cfr. anche A. La Penna, Leopardi fra Virgilio e Orazio, in Leopardi e il mondo antico (cit. sopra, nota 2), p. 174 n. 77 | ora in La Penna, Tersite censurato, Pisa 1991, p. 277 n. 77 |. Naturalmente il Leopardi condivideva l’immagine “libertaria”, predominante al suo tempo, di tutti questi repubblicani: ignorava il loro conservatorismo sociale; ma sarebbe anacronistico fargliene rimprovero. Del resto, è già molto che egli comprendesse l’inanità di questo genere di opposizione limitato ai soli intellettuali, le titubanze degli oppositori stessi in un mondo ormai «corrotto» (Zib. 22 sg., 161, 274, dove vi sono notevoli influssi del Montesquieu). 27 iCfr. C. Luporini, Leopardi progressivo (1947), rist. Roma 1980, pp. 82-84 (tuttora fondamentale su questo punto); e una mia precisazione, che mi sembrò e mi sembra necessaria, in {«Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi», qui sopra,}, p. 132; e ancora W. Binni, La protesta di Leopardi cit., p. 5. 28 iCon ragione L. Blasucci (La posizione ideologica delle «Operette morali», ora in Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna 1985, p. 198 n. 26) precisa che la disposizione d’animo espressa nel preambolo alla versione di Epitteto, «svuotata ormai di qualsiasi implicazione eroica, | ma non si dimentichino le osservazioni di Luporini cit. alla nota preced. |, non va confusa con «l’indifferenza a suo modo ancora eroica delle Operette» (lo stacco era stato già notato dal Binni, La protesta di Leopardi cit., p. 109 sg., a cui tuttavia il Blasucci arreca qualche giusta precisazione; una posizione più equilibrata il Binni stesso aveva raggiunto nelle lezioni universitarie sulle Operette, pubblicate solo di recente, cit. qui sopra, nota 8). Il saggio di E. Bigi, Dalle «Operette mora-

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5. Per tornare al nostro tema, le lievi incomprensioni del Leopardi verso l’epicureismo non devono farci dimenticare che la filosofia leopardiana ha un carattere profondamente diverso, su punti essenziali, anche dall’epicureismo rettamente inteso: non si tratta, dunque, soltanto di equivoci, e nemmeno di inferiorità del Leopardi filosofo in confronto a Epicuro: su molti problemi il Leopardi si rivela assai più acuto di Epicuro. Lo abbiamo già accennato all’inizio del nostro articolo;29 cercheremo di mostrarlo ora in modo più particolareggiato, ritornando a parlare anche del rapporto Leopardi-Lucrezio. Qui bisogna dire almeno qualcosa su un annoso problema, sul quale ancora non è stato raggiunto l’accordo tra gli studiosi: Lucrezio è,

li» ai «Grandi Idilli» (ora in La genesi del «Canto notturno» e altri studi sul Leopardi, Palermo 1967, p. 83 sg.), anticipa un po’ troppo, includendovi anche le Operette, la fase “epittetèa”; ma conserva il suo pieno valore, che il Binni tende a disconoscere, per la ricostruzione dell’iter leopardiano dal ’25 al ’27. Ancora un momento diverso, e passeggero, dello stoicismo leopardiano è costituito dalla chiusa del Parini; ma vedi la riserva che esprimevo in {«Il Leopardi e i filosofi antichi», qui sopra,}, p. 177; e ora, nello stesso senso, Binni (cit. qui sopra, nota 8), p. 77. Più ancora, come è ovvio, il Leopardi si sente lontano da certe forme esterne e addirittura grottesche che il provvidenzialismo filantropico aveva assunto per esempio in Crisippo: cfr. la bellissima satira nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo, dove il Leopardi stesso cita un passo di Crisippo tratto da Cicerone, De nat. deor. II 64, 160 (T.O., I, pp. 92-94 e nota 1). Lo stile «freddo» è stato rimproverato a torto, secondo me, al Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco anche da ammiratori delle Operette quali il Fubini e il Binni; io condivido il giudizio positivo del Bigi, Dal Petrarca al Leopardi (cfr. qui sopra, nota 9), p. 136. ** 29iCfr. § 1. La diversità è sottolineata bene anche dalla Naddei (cit. qui sopra, nota 2). Non riesco, però, a persuadermi che la posizione coerentemente materialistica sia quella di Epicuro, e che il pessimismo leopardiano, pur superiore, introduca una deroga al materialismo. Su questo punto (cioè sulla piena legittimità e logicità di un materialismo «non soddisfatto della condizione umana») rimango ancora fermo a ciò che scrissi in {«Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi», qui sopra,}, p. 130 sg. e, con alcune ulteriori precisazioni, in Antileopardiani, p. 193 sg. e nell’introduzione a P. Thiry D’Holbach, Il buon senso, Milano 1985, pp. LIX-LXVI. Il conflitto tra «intelletto» e «senso dell’animo» (cfr. Dialogo di Plotino e di Porfirio), al quale si richiama la Naddei, p. 243 e altrove, è, nel Leopardi maturo, tutto all’interno del materialismo. Il materialismo non è mero razionalismo, riconosce anzi l’inesistenza ineliminabile dell’affetto, della passione, del timore, dell’infelicità, del dolore che la nostra morte procurerà ai nostri cari: donde l’oscillazione, che nel Leopardi non è dovuta a banale incoerenza, tra l’asserzione della liceità del suicidio (Bruto minore; La vita solitaria, 22) e un arrestarsi dinanzi a questa soluzione estrema (Plotino e Porfirio). Soltanto, attribuisce a queste “passioni” un carattere appunto, di manifestazioni psichiche, non le considera come varchi aperti verso soluzioni spiritualistiche, come rivelazioni di Verità soprarazionali. Beninteso, la compianta studiosa ha mantenuto sempre una posizione molto controllata, che non va confusa con quella degli interpreti spiritualistici del Leopardi. Ma assai meno materialistico del pensiero leopardiano è in realtà l’epicureismo, per il suo carattere religioso (sul quale ritorneremo), e, insieme, per la pretesa di annullare con «discorsi», come se si trattasse di errori dovuti ad insipienza, le passioni, le ansie, la ben reale infelicità umana.

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fino in fondo, un epicureo? Il “di più” che vi è nel De rerum natura in confronto ai testi di Epicuro consiste solo nell’altissima ispirazione poetica lucreziana? Come è noto, si è discusso fino alla sazietà, almeno a cominciare dal tardo Ottocento, sul problema dell’Antilucrèce chez Lucrèce (la formula brillante è di un latinista francese, H.J.-G. Patin; l’Anti-Lucretius è un mediocre poema latino di apologia cattolica, del cardinale di Polignac, vissuto tra la fine del Sei e i primi del Settecento). Nel De rerum natura, si è detto, nonostante la fedeltà dottrinaria di Lucrezio ad Epicuro e la sua appassionata venerazione per il filosofo liberatore dell’umanità dalle angosce dovute a superstizione e a ignoranza, predomina, involontaria e non domata, una visione tragica della vita, che costituisce il più alto motivo ispiratore della poesia lucreziana. Questa tesi è stata recisamente combattuta da alcuni tra i migliori studiosi di Lucrezio e di Epicuro nel nostro secolo. Da un lato si è obiettato che motivi pessimistici in senso molto lato (ma di un pessimismo che la filosofia può vincere fugandolo col pacato ragionare) vi sono già in Epicuro. Dall’altro, si è sostenuto che nella poesia di Lucrezio l’entusiasmo per la verità rasserenatrice e per Colui che l’ha insegnata, l’amore per gli uomini che il Verbo di Epicuro può salvare dall’infelicità, prevale sulla raffigurazione tragica della vita di chi non è stato ancora illuminato da quel verbo (non, dunque, di Lucrezio stesso). Certamente, la tesi dell’Anti-lucrezio in Lucrezio può portare a risultati aberranti: a fare di Lucrezio tout court il «poeta dell’angoscia» (così s’intitola un saggio di Luciano Perelli, Firenze 1969, acuto in molti punti, inaccettabile nell’insieme), negandone la mirabile lucidità razionale che è anch’essa fonte di alta poesia; o, addirittura, a trasformare il suo materialismo e antiprovvidenzialismo in un disperato bisogno di religione (di una religione dell’immortalità individuale e della divinità benefattrice, non della religione epicurea). Vengono sùbito in mente le falsificatrici interpretazioni spiritualistiche o addirittura cattoliche del Leopardi. Eppure, che Lucrezio abbia vissuto (non solo sul piano biografico e psicopatologico, ma, ciò che veramente importa, nella sua opera stessa) l’epicureismo come una continua lotta tra l’adesione – anche emotiva, certo, non soltanto razionale – alla dottrina serenatrice del Maestro e un senso tragico della condizione umana sempre riaffiorante, che il disarmante semplicismo di certe “consolazioni” epicuree, da lui

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stesso fedelmente esposte e difese, non lo abbia, e pour cause, persuaso fino in fondo, non mi sembra che si possa negare. Tanto per fare un esempio, finché Lucrezio, nel lib. V (195-234, cfr. II 167-181), nega che il mondo sia stato fatto dagli dèi a beneficio degli uomini, nega cioè ogni teodicea e ogni provvidenza nei riguardi dell’umanità, espone una fondamentale idea epicurea basata su solidissimi argomenti e che ancora non può essere definita pessimistica, poiché secondo Epicuro spetta all’uomo costruirsi la propria inespugnabile felicità interiore in un mondo esterno dal quale non deve aspettarsi aiuti. Ma l’esposizione di Lucrezio trapassa in un atteggiamento che non si può non considerare, sia pure emotivamente e non ragionativamente, pessimistico quando insiste su tale «indifferenza» come fonte di infelicità per tutto il genere umano, e vede nella natura una forza non soltanto non-provvidenziale, ma ferocemente rivolta contro l’uomo. In V 198 sg. (e già in II 180 sg. secondo un’emendazione del Lachmann che sembra l’unica giusta e necessaria; ma questa il Leopardi non poteva ancora conoscerla) leggiamo i due famosi versi, ripetuti tali e quali secondo quella tecnica di “reiterazione ossessiva” che, almeno in molti casi, non è dovuta a guasti della tradizione manoscritta né allo stato di non perfetta rifinitura in cui Lucrezio morendo lasciò il suo poema, ma a un preciso scopo di efficacia artistica: nequaquam nobis divinitus esse creatam / naturam mundi: tanta stat praedita culpa. Fino a naturam mundi, siamo entro l’ortodossia epicurea; con tanta stat praedita culpa, la natura è addirittura resa responsabile, come una forza consapevole, dell’infelicità umana: culpa (una parola sulla quale i commentatori favorevoli alla tesi dell’ortodossia epicurea, come Robin e Bailey, ma anche il Giussani che è su una posizione diversa, credono bene di tacere), in un contesto così vibrato, difficilmente si può intendere nel senso di “imperfezione”, “difettosità”, appoggiandosi (se ben vedo, sarebbe l’unico raffronto plausibile) a un passo di Virgilio, Georg. III 68, dove culpa è la malattia di un capo di bestiame, che va soppressa uccidendo l’animale prima che esso propaghi agli altri il contagio (e anche in Virgilio, a mio avviso, c’è, in senso paradossalmente e dolentemente scherzoso, come in tutta la narrazione della morìa del bestiame, un significato “morale”: la bestia ammalata è «colpevole» della morte di tutto il gregge, se il pastore non interviene sùbito, senza una dannosa compassione). Certo, come tante volte il Leopardi parla della natura «matrigna» o «nemica» per dare risalto emotivo e poe-

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tico a quella che egli concepisce come un meccanismo i n c o n s c i o di produzione-distruzione, che infelicita e infine distrugge l’individuo senza nemmeno accorgersene, così avrà fatto qui Lucrezio: culpa va tradotto, senza attenuazioni, con «colpa», ma bisogna poi spiegare che la personificazione appartiene al pathos poetico, non al pensiero. E tuttavia essa presuppone una concezione della natura che in Epicuro non c’è | cfr. tuttavia qui sotto, p. 312|. Lo ammette il Giussani a proposito di tutto il brano del lib. V sulla non-provvidenzialità della natura: «Qui è Lucrezio che parla per conto suo, non è Epicuro. Non c’è nulla che materialmente contraddica a nessuna dottrina epicurea; ma l’intonazione generale non è epicurea». Lo stesso – direi, più ancora – si può dire per quella domanda angosciosa di V 176 quidve mali fuerat nobis non esse creatis? («qual male sarebbe stato per noi non essere nati?»), che irrompe in un contesto non del tutto omogeneo, e tuttavia trae forza proprio da quel suo relativo isolamento: «a curious question», commenta a V 174 Bailey, mostrando, come in altri casi simili, una certa sordità (una sordità, forse, voluta, per eludere un problema imbarazzante). Lucrezio non arriva a dire, contro Epicuro (vedi quanto abbiamo detto sopra, § 1), che «meglio per l’uomo è non nascere»; dice che «il non nascere non è un male per l’uomo» (non lo sarebbe stato per l’intera specie umana). Ma, espressa con quel pathos, quella domanda implica una concezione della vanità e dolorosità della vita, che anche poco dopo (V 226 sg., in un passo che abbiamo già citato come una possibile, non sicura, fonte del Canto notturno) viene presentata come un susseguirsi di mali, fin dalla nascita. Di fronte a passi come questi, Robin e Bailey cercano di trarsi d’impaccio ora supponendo che Lucrezio abbia attinto a fonti non epicuree (consolationes ellenistiche, ancor più improbabilmente l’Assioco pseudo-platonico), ora affermando che Epicuro promette la felicità soltanto a un’élite capace di assimilare intimamente la sua dottrina, non a tutti gli uomini che, privi di quella dottrina, infelici sono e rimangono. La prima ipotesi è indimostrabile, e a ogni modo non servirebbe a molto: resterebbe da chiedersi come mai Lucrezio abbia sentito il bisogno di attingere ad altri filosofi o “pseudo-filosofi” tutt’altro che epicurei; a me sembra molto più probabile che quei trabocchi improvvisi di senso tragico derivino a Lucrezio, come pensava il Giussani, da Lucrezio stesso, dalla sua esperienza della vita (della vita uma-

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na in generale e delle sventure a cui nessuno sfugge, non necessariamente dalla follia conclusasi col suicidio; gli elementi biografici riferiti da san Girolamo non sono del tutto assurdi, a parte il «filtro amoroso», ma sono molto fortemente sospetti). La seconda ipotesi può avere qualcosa di vero, ma, se si accentua oltre un certo limite il carattere elitario dell’epicureismo, la sua difficoltà di espandersi anche i n f u t u r o , si finisce col menomarne gravemente la forza liberatrice: non si può presentare Epicuro come il Salvatore (anche su ciò ritorneremo) se la stragrande maggioranza dell’umanità è destinata a non trarre vantaggio alcuno dal suo avvento. 6. Potremmo ancora continuare (ricordando, per esempio, i passi del lib. III sul «tendere alla morte», fin dalla nascita, di ogni vivente e del mondo intero, o il paradosso, che a me continua a parer tale, nonostante il parere contrario di studiosi che stimo altamente, per cui un’opera che dovrebbe insegnare una verità beatificante si conclude con la stupenda, ma tragica raffigurazione della peste d’Atene nel libro sesto; e che quella fosse davvero la chiusa voluta da Lucrezio, che il poema ci sia giunto non rifinito in molti punti a causa della morte dell’autore ma non mancante di ulteriori libri progettati e non scritti, ritengono oggi con ragione molti studiosi: cfr. VI 92 sgg.) [cr]. Ma tutto ciò è stato oggetto di indagini approfondite, e io ho voluto soltanto rammentare alcuni esempi a conferma della tesi che, riguardo al rapporto Epicuro-Lucrezio, mi sembra la più giusta. Tutto ciò non autorizza, peraltro, a formulare semplicistiche equazioni Lucrezio-Leopardi. Di un pessimismo coerente (che non è in contraddizione, cfr. qui sopra, nota 29, con l’amore per gli uomini, con la pietà che sorge dalla convinzione della loro insanabile e incolpevole infelicità) si deve parlare per Leopardi, almeno dall’inizio degli anni Venti e, più fermamente ancora, dal 1825-26 in poi: non si può per Lucrezio, il quale non si propose mai un distacco da Epicuro sul piano dottrinario, e neanche si permise alcuna dichiarazione esplicita di un sia pur parziale dissenso nei riguardi di Epicuro. «Lucrezio era un epicureo di malumore; e il malumore è certamente contrario alla dottrina epicurea, ma non è una dottrina». Questa frase del Giussani (comm. a V 226 sg.) è di una rozzezza alquanto irritante, strana in un uomo di gusto e di ingegno quale egli fu (altrove, per esempio nel volume introduttivo degli Studi lucreziani, Torino 1896, p. XXIII egli si

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esprime con ben diversa finezza). Il «malumore» è qualcosa di troppo meschino e transitorio rispetto al senso tragico della vita; ma rimane vero che il senso tragico della vita è sempre in Lucrezio qualcosa di saltuario, di non sistematizzato (e contraddetto da passi di tutt’altro tono, anch’essi poeticamente altissimi).30 La formula, dovuta a Francesco Giancotti, dell’«ottimismo relativo» di Lucrezio31 lascia, sul piano espressivo, una certa insoddisfazione, ma indica, tutto sommato, correttamente un contrasto interiore che Lucrezio non vinse, ma che non lo condusse mai a un vero pessimismo. Aver riconosciuto che le Weltanschauungen di Lucrezio e di Leopardi sono profondamente diverse è merito del Saccenti, e tale rimane anche se, a mio avviso, nel negare quelle sia pur non sistematiche espressioni di senso tragico della vita in Lucrezio egli è andato troppo oltre.32 Se, nel sommario esame che io a mia volta farò di tale diversità (ad integrazione di quanto ho già accennato sopra), le mie osservazioni divergeranno talvolta da quelle del Saccenti, ciò dipenderà soprattutto dal fatto che ad un sostanziale – anche se, come ho detto, non assoluto – consenso tra noi due per ciò che riguarda l’ideologia di Lucrezio non fa riscontro un’altrettanta identità di vedute quanto al Leopardi. Il Saccenti, io credo, si è lasciato troppo sedurre dall’interpretazione leopardiana di Cesare Galimberti, che ci ha presentato un Leopardi non certo banalmente cattolico, ma «teologo negativo», seguace di una religione del Nulla, «gnostico» più che ateo e materiali30 iAlludiamo non solo alle espressioni di esaltazione della potenza generatrice della natura (tutto l’inizio del lib. I, con l’invocazione a Venere) e di entusiasmo per il dileguarsi dei terrori di fronte al fulgore della verità, ma anche a certi passi in cui la condizione umana è rappresentata in modo tragico sì, ma pacato, almeno apparentemente privo di ogni pathos (a differenza di quelli che abbiamo citato nel paragr. precedente) e tuttavia proprio per questa pacatezza, tanto più doloroso: tra questi, soprattutto stupendo è II 573-580 (sull’alternarsi, ogni giorno e ogni notte, di nascite e morti). 31 iF. Giancotti, L’ottimismo relativo nel «De rerum natura» di Lucrezio, Torino 1960, 19752; II preludio di Lucrezio e altri scritti lucreziani ed epicurei, Messina-Firenze 19782 (con citazione e discussione di molta altra bibliografia); | e adesso, meglio ancora, Religio, natura, voluptas, Bologna 1989; cfr. p. 123 sg., dove il Giancotti constata – e ne sono molto lieto – un sostanziale accordo tra le sue e le mie posizioni, pur con «qualche differenza»; cfr. ora l’ottima edizione da lui curata di Lucrezio, La natura, Milano 1994: le differenze tra le nostre posizioni, quali appaiono dall’Introduzione e dalle note, mi sembrano ora un po’ maggiori, cioè l’aspetto “ottimistico” assume maggior rilievo |. 32 iIn questo ha ragione il Mazzocchini, p. 58 n. 5. Prego il lettore di scusarmi per questo andirivieni di consensi e dissensi; ma nella «questione lucreziana» non è possibile procedere per tagli troppo netti.

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sta.33 Con quell’interpretazione, che pur considero seria e sofferta, io non credo di poter consentire, per motivi che sono contenuti in tutto ciò che, spesso autocorreggendomi ma seguendo una linea, spero, coerente, sono venuto scrivendo sul Leopardi, e anche per la banale, ma difficilmente confutabile constatazione che il Leopardi, studioso di autori a n c h e gnostici sul piano erudito nei Fragmenta Patrum Graecorum (vedi ora l’edizione a cura di C. Moreschini, Firenze 1976), non ha mai fatto, neppure in quel lavoro giovanile e tanto meno nelle espressioni mature del suo pensiero, alcuna professione di gnosticismo, né ha aderito mai esplicitamente a testi gnostici. ** L’epicureismo, come è noto e non va dimenticato, è una religione. Religione appassionatamente antisuperstiziosa e antiprovvidenzialistica, ma tuttavia religione profondamente sentita, non ateismo mascherato, come fin dall’antichità molti credettero. Forse il Leopardi non seppe mai che già Epicuro aveva istituito o lasciato istituire, nella comunità del «Giardino» ad Atene, il culto di se stesso. Ma dai proemii del De rerum natura seppe certamente che gli epicurei (e Lucrezio con un pathos non inferiore ad alcun altro) avevano continuato a esaltarlo come un Dio, come il Salvatore.34 Sapeva inoltre (per esempio da Lucrezio, II 644-651, 1090-1104, III 18-22 e dal lib. I del De natura deorum di Cicerone) che l’epicureismo implicava la credenza negli dèi immortali: strani dèi, certo, che, per non “abbassarsi” ad alleviare l’infelicità umana e di tutti i viventi e ad occuparsi, in generale, dell’andamento del cosmo, si riducono a paradigmi immutabili di una beatitudine oziosa e inutile, a cui il sapiente deve adeguarsi, raggiungendo una beatitudine non inferiore per intensità, anche se limitata nel tempo (ma tale limitazione non comporta alcunché di negativo per Epicuro: il suo edonismo è “momentaneistico” quanto alla durata e quietistico quanto all’intensità; e già la negazione del tempo nel senso, diciamo pure, “banale”, eppure ineliminabile da ogni di33 iCfr. ad esempio l’introduzione alle Operette morali, Napoli 1977, spec. pp. XXVl-XXX; e ora, Leopardi: meditazione e canto, Milano 1987 (saggio introduttivo a G. L., Poesie e prose, I). Non presumo, con questo breve cenno, di aver “liquidato” la posizione del Galimberti, col quale vorrei tornare a discutere. | Ma ciò che pensavo di dire io, lo ha detto poco dopo, in modo eccellente, E. Bigi, «Giorn. stor. letter. ital.», CXLVI, 1989, pp. 278-286 |. 34 iCfr. ad esempio Lucr. V 8: deus ille fuit, deus. E specialmente il proemio del libro III è un «inno» a Epicuro che, anche nello stile, ricalca gli inni a divinità: vedi E. Norden, Agnostos Theos, Leipzig 1913, pp. 143 sg., 150 n. 4, e il commento di Kenney al lib. III (cfr. sopra, p. 266, nota al titolo), p. 74.

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scorso serio sulla vita umana, è un escamotage idealistico, che accomuna Epicuro alla maggior parte dei filosofi e degli scienziati, che vogliono “raffinare” la religione, non negarla). Questa religione (che Lucrezio, come è noto, non chiama mai religio, poiché con questo nome designa la volgare e nociva superstizione; ma parole come pietas, deus, divi ecc. non potevano lasciar dubbi al Leopardi sul carattere religioso dell’epicureismo) scavava già tra il pensiero leopardiano e l’epicureismo di Lucrezio un abisso. Il Leopardi, dopo essersi lasciato alle spalle alcune fasi (più d’una) di tormentata religiosità puerile e adolescenziale, non solo è ateo, ma mentre non crede in nessuna teodicea – come quella di Crisippo, cfr. sopra, nota 28, e specialmente quella del cristianesimo –, non è nemmeno disposto, se, per un’ipotesi che egli ritiene del tutto irreale, la divinità esistesse, a considerare come il suo pregio più alto la noncuranza nei riguardi del male del mondo.35 La constatazione dell’assenza di ogni provvidenzialità lo porta piuttosto a sfiorare l’“antiteismo”, la credenza in una divinità malvagia come quella a cui tanto spesso allu35 iÈ nobile e suscita simpatia (tanto più in quanto proviene da un cristiano, che ha ricevuto influssi buonaiutiani) la difesa che E. Paratore, seguendo una linea di pensiero che annovera filosofi di prim’ordine, fa del concetto epicureo di divinità come esente da «ogni contaminazione ibrida di do ut des, di contrattualismo fra l’uomo e Dio» (Lucreti De rer. nat., locos praecipue notabiles collegit et illustravit H. Paratore, commentar. instruxit H. Pizzani, Roma 1960, p. 75). Ma se è meschino chiedere alla divinità «favori personali» in cambio di un culto zelante, non sembra nemmeno possibile, una volta ammessa l’esistenza della divinità, “deresponsabilizzarla” da tutto il male del mondo. Ciò fu obiettato con piena ragione da Holbach a Voltaire. Si aggiunga che gli dèi epicurei, da quando i simulacra da essi emanati hanno reso gli uomini consapevoli della loro esistenza e hanno fatto sorgere la convinzione (falsa, certo, ma inevitabile: come tale la presenta Lucrezio e l’aveva presentata certo Epicuro) che da essi potessero derivare beni e, ancor più, mali per gli uomini, sono stati causa, sia pure inconscia e involontaria, della superstizione, di quella che Lucrezio chiama religio e che è, per lui come per Epicuro, il più grave motivo d’infelicità per l’uomo (cfr. V 1161-1240). Si è dovuto aspettare l’avvento di Epicuro (secoli e secoli) per porre rimedio a questa infelicità, e la dottrina epicurea è stata ancora accolta solo da pochi, e (su ciò Lucrezio insiste particolarmente, cfr. ad esempio III 41-58) difficile è farla propria fin nell’intimo. Queste difficoltà non mi sembrano superate dall’interpretazione, senza dubbio una delle più intelligenti, di G. Sasso, Il progresso e la morte: saggi su Lucrezio, Bologna 1979, p. 102 sgg. Il Sasso ha indubbiamente ragione di sostenere che Lucrezio pone l’origine della credenza degli dèi e della superstizione in una fase abbastanza evoluta della civiltà – là dove appunto ne parla –, non al primo sorgere della specie umana. Ma da quel momento in poi l’uomo fu di gran lunga più infelice, e Lucrezio lo compiange più assai di quanto lo rimproveri (V 1194-1197, 1204-1240). D’altronde, Lucrezio prevede una prossima estinzione della specie umana (II 1144-1174): la «salvezza» che il divino Epicuro ha arrecato all’umanità sarà durata, in tutto, ben pochi secoli, e avrà salvato soltanto una élite (cfr. V 1197 minoribus nostris[, a quelli che verranno dopo di noi]: molti rimarranno incapaci anche in futuro di comprendere la dottrina di Epicuro, e rimarranno infelici).

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de Lucano (qui sopra, nota 26). Anche quando, nel suo pensiero, gli dèi malvagi, nella cui esistenza reale egli con ogni probabilità non credette mai, furono sostituiti coerentemente dalla natura concepita come cieco e inconscio meccanismo di produzione-distruzione, che tormenta e annienta l’uomo e ogni essere vivente senza nemmeno accorgersene, sul piano della raffigurazione poetica la natura conservò molto spesso le sembianze della divinità empia, di Arimane (cfr. {, qui sopra, «Natura, dèi e fato nel Leopardi»}, pp. 227-249; di qui l’appiglio ai sostenitori della “teologia negativa”; ma costoro sarebbero disposti ad ammettere l’esistenza s o l t a n t o di un dio malvagio? Comunque, sul piano razionale, per il Leopardi la natura è, ripetiamo, una forza cieca, involontariamente malefica). E gli «inni ad Epicuro» (qui sopra, nota 34), dio mortale, gli saranno sembrati del tutto assurdi, poiché né Epicuro né altri (ovviamente, nemmeno il cristianesimo) avevano liberato la specie umana dall’infelicità. Abbiamo già notato (§ 1) che la più sicura allusione a Lucrezio che si trovi in Leopardi (Ginestra, 111-113 = Lucrezio I 66 sg.) non implica identità di pensiero. Un punto di contatto, veramente, c’è (non messo bene in luce dal Saccenti, p. 133): il coraggio della verità, che accomuna l’Epicuro lucreziano e l’eroe laico leopardiano nella lotta contro la superstizione. Ma la battaglia intrapresa da Epicuro ha reso lui, mortale, pari agli dèi immortali. L’eroe leopardiano osa guardare l’infelicità sua e dei suoi simili senza la maschera di alcun «conforto stolto» (cfr. Amore e morte, 119), e chiamare tutti gli uomini a una lotta impari contro la natura: il suo eroismo sta proprio nella lucida coscienza della sua debolezza, che non lo induce a immaginarie consolazioni. Il divario, anche inteso così,36 è evidente. Si aggiunga che 36 iUna delle difficoltà d’interpretazione della Ginestra consiste nel fatto che l’umanità preconizzata dal Leopardi, esente da miti religiosi e “umanistici”, da umiliazioni dinnanzi a presunte divinità protettrici come, d’altra parte, da autodivinizzazioni, è f o r t e proprio in quanto sa di essere infinitamente più d e b o l e della natura che la opprime, ma non per questo rinuncia alla lotta. Il simbolo della ginestra, se, come tende a fare il Saccenti (p. 133), viene inteso soltanto nel senso della debolezza, conduce ad uno squilibrio dell’interpretazione. Non in quel simbolo, del resto, nonostante l’inizio e la chiusa e il titolo, si esaurisce tutto il significato di quel carme così vasto e polifonico. Con tutto ciò, ripeto, il divario tra l’eroe laico leopardiano (che è poi l’intera umanità futura, il «volgo» libero da miti, non un isolato uomo eccezionale seguito da pochi fidi) ed Epicuro quale è celebrato da Lucrezio rimane. Esiterei, perciò, a definire «lucreziana» col Blasucci (cit. sopra, nota 28), p. 214 n. 39, la fase del pessimismo leopardiano rappresentata soprattutto dalla Ginestra, in contrasto con una fase anteriore che il Blasucci chiama «simonidea» (riferendosi al secondo dei frammenti di Simonide tra-

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il Leopardi batte l’accento, illuministicamente (Holbach) ma andando assai oltre gli illuministi anche più arditi, sull’esigenza di far partecipe della verità materialistica non un’élite, ma tutti, anche «il volgo»; mentre su questo punto (cfr. § 5 in fine, e qui sopra, nota 35) l’epicureismo rimane su una posizione almeno ambigua. Come è ovvio, il rifiuto della religione epicureo-lucreziana porta con sé il ripudio di tutta la «pedagogia» (della parenetica, dei discorsi suasorii) mediante la quale l’uomo avrebbe dovuto essere liberato dall’ansia dovuta ai mali esterni, o anche ai desideri smodati, o alla noia. Il Leopardi, tranne la breve e non del tutto persuasa parentesi «epittetèa» alla quale si è già accennato, non crede nella filosofia come consolazione (“negazione ideale”) dei mali; non crede, si potrebbe anche dire, nella “saggezza”. Epicuro, è vero, nega la teodicea: cfr. Epicurea, ed. Usener, pp. 246-253 ; sappiamo che i suoi dèi hanno altro da fare, o meglio, da non fare; ma esige pur sempre l’ a c c e t t a z i o n e : infelici sono soltanto gli stolti, laddove per il Leopardi, caso mai, «misera non è la gente sciocca» (I nuovi credenti, 78). Anche questa, tuttavia, è una ritorsione sarcastica: l’infelicità, prima o poi, viene per tutti, non risparmia nemmeno gli animali e le piante (Zib. 4175 sgg., in un passo meritamente famoso). È molto probabile (cfr. § 4) che della nozione epicurea di “piacere” il Leopardi abbia avuto un’idea non del tutto adeguata. Ma in ogni caso l’edonismo epicureo, anche nella forma “pura”, quale risulta, ad esempio, dal proemio, pur non esente da ambiguità, del lib. II di Lucrezio37 e dalla polemica così aspramente antierotica del lib. IV (1058 sg.), non ha niente a che vedere con la «teoria del piacere» leopardiana; e oserei aggiungere che anche una più precisa conoscenza delle idee di Epicuro in proposito (delle quali, come è noto, Lucrezio non ci dotto molto liberamente dal Leopardi e posto in fine ai Canti). Trovo poco opportuna, beninteso, la scelta dei termini, non la distinzione concettuale-stilistica, che, del resto, il Blasucci ha cura di non irrigidire. Quanto all’«illuminismo per tutti» nella Ginestra, ho cercato di chiarire meglio questo motivo negli Antileopardiani, p. 187 sg.; cfr. anche «Belfagor», XLII, p. 631 sgg. | una replica ad Adriano Sofri che considero tuttora valida e che riguardava la sua sconfessione della lotta di classe. Beninteso, quando, vari mesi dopo quel mio articolo, Sofri fu perseguito penalmente senza alcuna prova valida, io non ho avuto dubbi sulla sua innocenza |. 37 iL’ambiguità, a mio avviso, rimane anche dopo la lettura di un articolo molto dotto e ben argomentato di A. Barigazzi, Lucrezio e la gioia per il male altrui, in Filologia e forme letterarie: Studi offerti a F. Della Corte, Urbino 1987, II, pp. 269-284. | Su questo punto non sono mai riuscito a trovarmi d’accordo con Barigazzi, uno studioso di alto ingegno, di eccezionale probità, la cui morte improvvisa mi ha profondamente addolorato |.

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dà un’esposizione sufficientemente ampia e sistematica, e che, caso mai, il Leopardi avrà potuto conoscere meglio dal discorso di Torquato nel lib. I del De finibus di Cicerone) non avrebbe colmato il divario. Il Leopardi è un edonista in quanto rifiuta di consolarsi con “felicità spirituali”, religiose, ascetiche (mentre a una forma di ascetismo va ad approdare, come si è accennato e come è noto, Epicuro, e ciò appare dal lib. IV di Lucrezio); ma è d’altra parte convinto che il piacere sia una mèta irraggiungibile, un bisogno insoddisfatto: qualcosa di sperato o (già con minore convinzione e, del resto, con scarsa consolazione) di ricordato, non mai di goduto presentemente. E se un sentimento che si accosti al piacere o alla felicità può esserci – o esserci stato nell’evo antico, o esserci tuttora nell’infanzia; ma anche riguardo a questo punto il Leopardi tenderà sempre più, benché non mai definitivamente, a disilludersi –, tale sentimento non è l’atarassia, il piacere stabile, «catastematico» dell’epicureismo (che per il Leopardi si tramuterebbe ben presto in noia, l’altra grande causa d’infelicità della vita), ma è vitalità intensa, illusioni gagliarde e magnanime, vita vitalis, secondo una bella espressione di Ennio, che non a caso piacque al Leopardi.38 Come si legge nella chiusa del Dialogo di un fisico e di un metafisico, «la vita debb’esser viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio». Gli dèi di Epicuro, l’ideale del sapiente epicureo, sono, anche qui, del tutto lontani.39 E sono anche lontani, nonostante qualche fallace apparenza, quando il Leopardi enuncia quell’altra versione della teoria del piacere (il piacere come breve sollievo dovuto alla cessazione del dolore) che 38 i** Cfr. Zib. 2433. Il Leopardi cita dal Laelius ciceroniano, 6, 22: qui potest esse vita vitalis, ut ait Ennius ...?, e rende l’espressione in italiano, inserendola in un contesto diverso da quello di Cicerone: la noia come negazione della vitalità. Più tardi la vitalità gli apparirà menomata non solo dalla noia in quanto tale, ma anche dalla mancanza di vigore fisico. Basti rammentare il Tristano (T.O., I, p. 182): «E il corpo è l’uomo; perché (...) la magnanimità, il coraggio, le passioni, la potenza di fare, tutto ciò che fa nobile e v i v a l a v i t a, dipende dal vigore del corpo». Le parole che abbiamo riprodotte spaziate sono, mi sembra, ancora un’eco della vita vitalis enniana. 39 iPer ciò che riguarda la fugacità del piacere (fugacità tale da renderlo, come godimento in atto, inesistente secondo il Leopardi: vedi sopra nel testo), qualcuno potrebbe pensare a una famosa espressione di Lucrezio, IV 1333 sg.: medio de fonte leporum / surgit amari aliquid. Che il Leopardi se ne sia ricordato, non è impossibile. Ma Lucrezio si riferisce ai vani piaceri del lusso ozioso; il piacere vero, quello a cui conduce l’insegnamento di Epicuro, per Lucrezio esiste (pur con le occasionali oscillazioni a cui abbiamo accennato), ma non ha niente a che vedere col piacere al quale, secondo il Leopardi, l’uomo aspira invano.

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Adriano Tilgher ebbe il merito di distinguere dalla prima,40 ma il torto di separarla troppo rigidamente, mentre gli studiosi più recenti del pensiero leopardiano hanno, per lo più, trascurato del tutto o quasi la distinzione (s’intende che, nel mare magnum della bibliografia leopardiana, molto può essermi sfuggito). Non tento neppure una trattazione approfondita, che ci allontanerebbe troppo dal nostro tema. Accenno soltanto che i “documenti principali” di questa seconda concezione41 sono un ricordo giovanile del Leopardi (tentazione del suicidio, poi riattaccamento alla vita in séguito a grave malattia),42 la chiusa della canzone A un vincitore nel pallone, il Dialogo di Colombo e di Gutierrez, la seconda parte della Quiete dopo la tempesta. Nel Vincitore nel pallone e nel Colombo sono messi in risalto due successivi momenti di felicità, anche se il secondo è conseguenza del primo: dapprima felicità del rischio, dell’affrontare anche la morte pur di vivere una vita intensa, libera dalla noia (qui, come è chiaro, c’è un punto di contatto con la prima e prevalente teoria del piacere leopardiano), poi sollievo per lo scampato pericolo, che, sia pure per breve tempo, fa riaffezionare alla vita.43 Nella Quiete il piacere si riduce al solo secondo momento, un momento breve, tanto da non essere nemmeno vero piacere: «Gioia v a n a , ch’è frutto / del passato timore ...». E poiché nel ’29 il Leopardi ha già oltrepassato da tempo la fase del suo pessimismo che il Blasucci qualifica come sensistica (cfr. il saggio cit. sopra, nota 40

iA. Tilgher, La filosofia di Leopardi (1940), rist. Bologna 1979, pp. 17-22. iEssi sono citati, beninteso, in tutti i buoni commenti e saggi leopardiani. È la distinzione tra questo gruppo di testi e la «teoria del piacere» più ampiamente sviluppata dal Leopardi (in molte e molte pagine dello Zibaldone e nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare) che, come ho detto, viene di solito trascurata, fermo restando che non si tratta di concezioni «opposte» come afferma il Tilgher (il quale d’altra parte non si sofferma, come sarebbe stato opportuno, a notare le due diverse sfumature all’interno della seconda versione: cfr. ciò che osserviamo tra breve sopra, nel testo). Finora le osservazioni più acute ed equilibrate (anche riguardo al mito del «salto di Leucade») si devono a E. Bigi, Colombo e Leopardi, in AA.VV., Columbeis, Genova, Università, 1986, pp. 53-75 | ora in E. B., Poesia e critica tra fine Settecento e primo Ottocento, Milano 1986, pp. 85-102 |. 42 iZib. 82 (rievocato molto più tardi nelle Ricordanze, 104-118). Una certa affinità ha anche il ricordo biografico di Zib. 137 sg. (cfr. la lettera del Giordani, 18 giugno 1820, in Leopardi, Epistolario a cura di F. Moroncini, I, p. 52 sg.). 43 iChe questo passo del Colombo, bellissimo nella sua pacatezza, non sia da svalutare in confronto alla più fervida chiusa del Vincitore nel pallone o ai versi su Colombo nella canzone al Mai, 76-87, che i due registri stilistici e psicologici abbiano entrambi la loro piena legittimità artistica, sostiene a ragione il Bigi (cit. qui sopra, nota 40), pp. 70-72 | = 98-102 |. Bisogna aggiungere che entrambi presentano un’affinità concettuale di contro alla Quiete. 41

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28) ed è giunto alla fase decisamente materialistica, questo breve sollievo dal dolore o dal timore è da lui presentato come uno dei modi con cui la natura, forza inconsciamente malefica, agisce c o m e s e si compiacesse di dare all’uomo qualche attimo di respiro per tornare a colpirlo poi più crudelmente, fino alla morte. Superfluo dire che tali pensieri non trovano rispondenza in Lucrezio. Si potrebbe supporre che l’idea del piacere come breve cessazione del dolore fosse venuta al Leopardi da un famoso passo del Fedone platonico (60 B-C: parole di Socrate, quando si sente sollevato dal tormento che gli aveva dato la catena). Ma nemmeno su questo raffronto insisterei: il Leopardi non si limita affatto ad asserire una correlatività, un «rapporto dialettico» tra dolore e piacere (come quello, del resto anch’esso diversamente formulato, dello Zibaldone, 2599-2602, che il Tilgher chiama addirittura «terza teoria del piacere»). Le fonti sono piuttosto settecentesche: qui ha ragione il Tilgher, anche se il suo accenno è troppo sommario, e anche se, soprattutto, non bisogna dimenticare quanto nel pensiero leopardiano (in questo punto particolare come nella concezione generale) c’è di apporto nuovo, di esperienza diretta, non “libresca”. 7. Maggiore somiglianza sembra esserci (ma, come vedremo, sembra soltanto) fra la dottrina epicurea, anche nell’esposizione di Lucrezio, sulla morte e la concezione che della morte ebbe il Leopardi. Su questa analogia, come abbiamo visto (§ 1), punta quasi esclusivamente il Mazzocchini, col savio avvertimento (p. 70 n. 26): «Per visione della morte intendo, restrittivamente, la concezione dello status post mortem quale annullamento totale e la polemica antispiritualistica ad essa correlata». Certo, sulla mortalità dell’anima il Leopardi è del tutto concorde con Epicuro-Lucrezio, e anche sull’asserzione che la morte (nel senso di «esser morto») non è un male: così incomincia, recisamente, come tutti ricordiamo, il sesto dei Centoundici pensieri (T.O., I, p. 218). Ma la concordanza, come il Mazzocchini stesso riconosce (riferendosi anche amichevolmente a un vecchio nostro scambio epistolare), finisce qui. E devo confessare che mi sembra che finisca ancor più presto di quanto mi appariva quando Mazzocchini e io ci scrivemmo quelle lettere (e un ulteriore scambio di lettere, pochi anni fa, non ha mutato le posizioni, benché continuare a dialogare con studiosi intelligenti sia sempre utile). Anche prescindendo dalla fallace equipara-

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zione tra morte e atarassia, sulla quale mi sono già soffermato nel paragr. 1, la morte è per il Leopardi desiderabile, da invocarsi addirittura, come unico scampo all’infelicità della vita; e poiché la parte peggiore della vita è la vecchiezza, il Leopardi ripete con Menandro che «muor giovane colui ch’al cielo è caro» (Amore e morte, motto iniziale). Ecco: già qui il Leopardi è del tutto distante da Epicuro e – nonostante il tono molto meno tranquillamente sicuro con cui Lucrezio tratta nel lib. III il problema della morte – anche da Lucrezio. Per l’epicureo, dobbiamo ancora ripeterlo, la vita del saggio, liberata dal timore della morte, è felice, e chi ha imparato a vivere non ha alcun motivo di desiderare la morte. Posizione eroica, ma di un semplicismo disarmante. Il fatto stesso che occorra un lungo esercizio di ammaestramento, di rimproveri rivolti all’uomo per la sua stoltezza che gli fa temere la morte,44 dimostra che c’è nell’uomo un timore i s t i n t u a l e , una fobìa della morte, come negli altri animali o nei selvaggi quando si vedono minacciati di morte; la differenza (una differenza in peggio, come è chiaro) sta solo nel fatto che l’uomo civilizzato sa con molto anticipo di esser destinato a morire. La natura, dice il Leopardi (ad esempio Bruto minore, 52-60), ha mantenuto nell’uomo civilizzato (e reso infelice dalla perdita delle illusioni) quell’istinto di conservazione che non era contraddittorio nel selvaggio e non lo è nelle bestie: ora l’uomo sperimenta, insieme, l’insopportabilità della vita e l’attaccamento alla vita. Bruto, pur ben deciso al suicidio, sente quanto questo atto gli costi; e arriva a suicidarsi non con animo pacato e per mera sazietà, come allontanandosi da uno spettacolo teatrale divenuto noioso (che era l’unica forma di suicidio ammessa, caso mai, da Epicuro: cfr. Cic. De fin. I 49), ma bestemmiando gli dèi, questi esseri vili, «molli», che, se potessero uccidersi, non ne avrebbero il coraggio, e provano ira contro gli uomini che tale coraggio riescono ad avere (ibid., 46-50). Qui c’è Lucano, e c’è un’implicita polemica anticristiana, ma Epicuro e Lucrezio no di certo: essi avrebbero considerato 44 iSullo stile «diatribico» (non necessariamente «satirico»; o almeno, nel lib. III, la satira è molto amara) usato a questo scopo da Lucrezio, sulla falsariga di Epicuro e di tutta la filosofia ellenistica ma, forse, con maggiore veemenza, cfr. Kenney (cit. sopra, p. 266, nota al titolo), pp. 15-20, 248 e la bibliografia ivi cit. Si ha talvolta l’impressione che i violenti rimproveri contro chi persiste nel temere la morte (accompagnati anche da veri e propri insulti: 939 stulte; 955 baratre, o una parola, comunque, di vilipendio; 1026 improbe) siano rivolti da Lucrezio non solo all’insipiente ancora ignaro della dottrina epicurea, ma a se stesso, ancora riluttante nell’intimo. Né credo che una simile ipotesi possa cadere sotto l’accusa di psicologismo.

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quell’invettiva contro la viltà degli dèi come un’infamia, come un attacco non contro la superstizione (la religio di Lucrezio), ma contro la vera religione (la pietas di Lucrezio, V 1198-1203, l’eusébeia di Epicuro). Quanto, poi, al detto di Epicuro che la morte non è nulla per noi, perché finché viviamo essa non c’è, quando c’è noi non ci siamo più (in forma meno didattica e più pregnante anche Lucrezio, III 830: nil igitur mors est ad nos neque pertinet hilum), il Leopardi sapeva che la morte, pur desiderata come liberazione dall’infelicità, è già presente nei vivi come pensiero angosciante, anche a prescindere dal timore di tormenti eterni nell’aldilà, ispirato dal cristianesimo (da «Platone»).45 Ci voleva davvero l’insuperabile incomprensione di Benedetto Croce verso il Leopardi perché egli presentasse il detto epicureo come tale da mettere a tacere le fisime pessimistiche leopardiane.46 D’altra parte la felicità del morir giovani non è affermata dal Leopardi costantemente, per tutto l’arco della sua meditazione; egli ha anche sentito (e nessuno vorrà accusarlo di banale incoerenza, poiché la contraddizione è in re) i motivi d’infelicità della morte ante diem, come li aveva sentiti Virgilio.47 45 iSull’apostrofe di Porfirio a Platone nel Dialogo di Plotino e di Porfirio cfr. {qui sopra, «Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 171 sg. E si noti che in quell’apostrofe, se è considerato angosciante il timore del Tartaro (dell’Inferno cristiano), non ha migliore accoglienza la speranza nell’Eliso (nel Paradiso): «uno stato che ci apparisce pieno di noia, ed ancor meno tollerabile che questa vita»; la dolcezza del Paradiso, inoltre, è «nascosta, ed arcana, e da non potersi comprendere da mente d’uomo» (T.O., I, p. 173 ; su ciò vedi già il lungo e lucidissimo pensiero di Zib. 3497-3509, settembre 1823, rivolto esplicitamente contro il cristianesimo). Ma quando Plotino ribatte che il suicidio è vietato dalla natura, la replica di Porfirio è ancor più risoluta, e riprende il tema del Bruto minore (p. 176 sg., e la nota a piè di pagina del Leopardi stesso, che ripete la critica della falsa civiltà e del falso progresso). 46 iB. Croce, Poesia e non poesia, Bari, Laterza, 19243, p. 104. Il Leopardi, dice il Croce, vedeva dinnanzi a sé, indispettito, uomini lieti e vigorosi, che «alla morte non pensavano, conformandosi consapevolmente o inconsapevolmente al detto antico, che la morte non concerne i vivi, perché sono vivi, né i morti, perché sono morti». In realtà gli uomini a cui andava il disprezzo, non il dispetto, del Leopardi erano, per lo più, cattolici speranzosi nel Paradiso (con maggiore o minor convinzione); altri, agnostici desiderosi di “rimuovere” il più possibile il molesto pensiero della morte. Gente che si conformasse alla massima di Epicuro, il Leopardi non ne avrà mai conosciuta nell’Italia del suo tempo (a meno che quella massima non si intenda in modo talmente “sbiadito” da perdere ogni caratterizzazione). Se poi qualcuno avesse chiesto a Croce perché non bisognava temere la morte, avrebbe avuto una risposta basata sull’immortalità del Soggetto assoluto: del tutto diversa da quella di Epicuro, un filosofo che Croce non stimava affatto. Ma, contro il Leopardi, tutto poteva servire, anche l’epicureismo! 47 iBasti pensare (all’inizio e alla fine, si potrebbe quasi dire, dell’iter leopardiano) da un lato ai ricordi di adolescenti morti, che dovevano servire per un romanzo autobiografico (T.O., I, p. 362; notazioni particolarmente felici in A. Monteverdi, Frammenti critici leopardiani, Napoli

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Infine, e soprattutto, la morte non è soltanto la morte nostra, ma anche quella delle persone a noi care. Lo stupendo pensiero dello Zibaldone del 9 aprile 1827 (noi piangiamo i morti non perché pensiamo che essi stiano soffrendo, «non come morti, ma come stati vivi», come persone che non vedremo mai più: la sottolineatura è del Leopardi), l’accenno nel Canto notturno alla morte come «venir meno / ad ogni usata, amante compagnia», e, ancora una volta, la meditazione dolorosa di Sopra un basso rilievo ..., dimostrano come il Leopardi abbia sentito la morte altrui come perdita irreparabile di una parte di noi stessi; e qui, nel caso della morte altrui, riesce ancor più difficile considerare felice la morte dei giovani. Anche nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, l’unico argomento forte (e che è ripetuto con molteplici variazioni) di Plotino per dissuadere il discepolo dal suicidio, nell’ultima lunga parlata, è, come abbiamo accennato, il dolore che, morendo, lasceremo nei nostri cari.48 Ora, è soprattutto la considerazione del tutto inadeguata del dolore per la morte degli altri il punto debole della consolazione-negazione epicurea riguardo alla morte. La «massima capitale» XL di Epicuro (p. 136 Arrighetti2) è una mera asserzione: chi ha goduto l’amicizia di qualcuno non piange, «come per commiserazione», la sua morte, nemmeno prematura. La morte degli altri è tout court equiparata alla nostra: vedremo che altrove Epicuro concesse qualcosa di più al dolore per la morte degli amici, ma senza toccare il punto centrale della questione. Lucrezio, III 894-911 immagina una scena di lamentazione funebre: due lamenti, e a ciascuno segue la risposta della saggezza epicurea. Al primo lamento rivolto al morto («Non godrai più l’intimità della casa, l’affetto della moglie e dei figli, non avrai più onori, non potrai proteggere i tuoi cari») la replica è relativamente facile: il morto non sente alcun dolore per la mancanza di tutto ciò; i vivi compiangono chi non ha alcun bisogno di compianto.49 Ma poi si ode 19672, pp. 1-23), dall’altro al canto Sopra un basso rilievo sepolcrale ...; e, a metà di quell’iter, a Silvia e Nerina. 48 iSopra, nota 29 **. Sul problema della morte (specialmente della morte altrui) in Leopardi cfr. il saggio della Naddei (cit. sopra, nota 29), ricco di felicissime osservazioni, malgrado le riserve che mi è parso di dover esprimere; inoltre Antileopardiani (cit. anch’essi alla nota 29), p. 188 sg. e n. 48. Sul pensiero del 1827, Binni, La protesta di Leopardi cit., p. 118 sg. 49 iDico «relativamente facile», perché in quel pensiero finale, che il morto non potrà più essere un praesidium per i suoi, s’insinua già un accenno non alla sofferenza (inesistente) del morto, ma a quella dei superstiti: vedova, orfani. Anche il Bailey riconosce che «this thought (...) is more real and less selfish».

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un’altra voce: «Tu, addormentato nella morte, sarai libero per tutto il tempo dagli aspri dolori. Ma noi, dinanzi al tuo rogo orribile ridotto in cenere, ti abbiamo insaziabilmente compianto, e nessun trascorrere di giorni farà dileguare nel nostro cuore il rimpianto eterno». Lucrezio ha espresso questo secondo lamento, ancor più del primo, in uno stile “caricato”, con parole lunghe ed enfatiche (at nos horrifico cinefactum te prope bustum / insatiabiliter deflevimus aeternumque ...: nota anche la chiusa spondiaca); l’imitazione sarcastica di certi lamenti funebri insinceri (intonati dalle praeficae?) o troppo “enfiati” stilisticamente anche se sincero è il sentimento che li ispira, è stata notata dai commentatori. E tuttavia il dolore per la morte delle persone care è cosa seria, e non può essere eluso dal sarcasmo. E la replica di Lucrezio, questa volta, è davvero debole: «A costui bisogna dunque chiedere, poiché la questione (res, il punto decisivo) si riconduce al sonno e al riposo eterno, che cosa vi sia di tanto doloroso, per cui qualcuno possa consumarsi in un lutto perpetuo» (III 909-911). Il Bailey, che per lo più, come abbiamo avuto occasione di constatare, tende a presentare Lucrezio come fedele interprete dell’epicureismo (e l’epicureismo come una dottrina tuttora valida nei punti essenziali), questa volta ammette che la risposta di Lucrezio (la quale riconduce il secondo caso al primo, e considera assurdo il dolore dei sopravvissuti di fronte al non-dolore del morto) «è inadeguata: il sapere che il morto dorme un sonno senza affanni non placa il senso di perdita del piangente» (ed. cit., vol. II, p. 1143 e comm. a III 911). Come in altri passi del suo commento (cfr. qui sopra, p. 289), il Bailey, quando proprio non può dar ragione a Lucrezio, si rassegna ad attribuirgli un fraintendimento del Verbo di Epicuro, o un influsso sporadico di un’altra fonte: Epicuro non può errare! In questo caso egli osserva che Epicuro, come risulta da altre fonti, ammetteva che si desse sfogo al dolore per la perdita di amici,50 e suppone che Lucrezio, se gli fosse bastata la vita, avrebbe rimaneggiato quel passo, chiarendo quella “concessione” del Maestro. L’ipotesi non ha alcun plausibile fondamento, e, soprattutto, la “concessione” non cambia la sostanza delle cose. Epicuro non esigeva dagli amici del morto una esteriore freddezza che poteva apparire ostentata o derivata da scarso senso dell’amicizia, ma 50 iCfr. Epicuro, Epist. fr. 46, p. 424 (e comm. a pp. 553 sg., 671) Arrighetti2; E. Bignone, L’Aristotele perduto e la formazione filosofica di Epicuro, Firenze 19732, I, p. 543 e n. 283.

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non definì mai la morte degli altri come u n m a l e per i sopravvissuti: ciò avrebbe aperto una falla irreparabile nella sua «medicina dell’anima»; e infatti abbiamo visto sopra come egli si esprimesse nella massima capitale XL. Gli studiosi (Bignone, Arrighetti ecc.) che sostengono la non contraddizione tra questa massima e le altre testimonianze hanno ragione, ma proprio perché la massima e le testimonianze si pongono su un piano diverso come si è detto: altro è il concedere uno sfogo emozionale passeggero, altro considerarlo teoricamente legittimo. Non si può, io credo, accusare d’infedeltà quel passo di Lucrezio; e se il Leopardi non solo lo lesse, ma fermò su di esso la sua attenzione, non potè non sentirsi dissenziente, e forse addirittura irritato per un’ironia che dovette apparirgli più che mai fuor di luogo. 8. Altre “consolazioni” epicuree, che Lucrezio omette o sulle quali sorvola, il Leopardi potè leggerle in Cicerone (diamo sempre per scontato, anche se, come abbiamo visto, scontato del tutto non è, che i testi conservatici da Diogene Laerzio non siano stati letti, o siano stati letti troppo precocemente e frettolosamente). Un argomento specioso, non peculiare del solo epicureismo,51 è l’equiparazione dell’esser morto al non esser mai nato: come è assurdo compiangere i non nati, così i morti. Il Leopardi, se non erro, non prese mai in esame esplicitamente questo argomento, ma la sua confutazione è implicita in quel pensiero dello Zibaldone che abbiamo già menzionato (cfr. anche nota 48) sul nostro compianto per i morti non come morti, ma come «stati vivi». Il morire è una perdita, una deminutio: tutto un insieme di valori, e perfino di piccole caratteristiche psico-fisiche che 51 iSi trova già in Euripide, Troades, 636, in un contesto alquanto sconnesso; fu poi sviluppata, pare, dal platonico Crantore (le testimonianze, indirette, non sono sicure); poi cfr. ancora Cicerone, Tusc. I 13 e De fin. I 49, e Lucrezio, III 832-842, 867-869 (lì ricorre l’espressione mors immortalis, sulla quale cfr. sopra, § 1 in fine). Vedi ancora Seneca, Troades, 407 sg. Giustamente commenta il Robin a Lucr. cit.: «Tous ces arguments appartiennent moins à telle ou telle école qu’au genre de la consolation». Ma che, se non Epicuro stesso (il che, del resto, non è inverosimile), gli epicurei abbiano fatto proprio questo argomento, è dimostrato dalla concidenza di Lucr. cit. e di Cic. De fin. cit. (dove parla l’epicureo Torquato). Si veda anche Le bon sens del barone d’Holbach, cap. 108 (dove la “consolazione” non riesce a vincere del tutto un concetto pessimistico della vita e della morte; cfr. l’Introduzione alla mia ed. italiana del Buon senso cit. sopra {p. 286 n. 29}, pp. LIX-LXIV). Il Leopardi lesse quell’operetta di Holbach (cfr. ibid., p. LXIII n. 65), e anche da quella, oltre che da Lucrezio e da Cicerone, poté conoscere questa pseudo-consolazione.

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fanno parte anch’esse della personalità (ciascuna diversa dall’altra, irripetibile), scompare per sempre, e in chi rimane non può essere compensata dalla consolazione dell’«immortalità del ricordo» e dell’«immortalità delle opere».52 Per i non nati questo problema non si pone nemmeno (e ciò, potremmo aggiungere, vale anche per le opere stesse, per interi popoli, intere civiltà di cui non sappiamo nulla o quasi nulla, eppure esistettero; oppure sappiamo che vi furono e perirono, e perciò ne soffriamo: cfr., del resto, La ginestra, 106-110, e Lucr. III 832, forse anche Ant. Test., Ecclesiastes, 1, 11). La consolazione epicurea delle malattie (o sono brevi, e ce ne libera presto la guarigione o la morte; o sono lunghe, e non arrecano gravi dolori, anzi concedono perfino degli intervalli di piacere **)53 merita il dileggio di Cicerone (De fin. II 28, 93 – 29, 95), anche se Cicerone si affretta a sostituirla con un’altra consolazione, stoica, basata sulla forza d’animo, che vale soltanto in quanto non pretenda di negare, come gli stoici di fatto negavano, la realtà del male fisico anche per il sapiente, e il costo, non sempre sopportabile, del suo superamento (in Cicerone questa «durezza» stoica, questa adrogantia come egli stesso altrove la chiama, è in parte attenuata per influsso di Teofrasto, cfr. qui sopra, nota 24; ma l’attenuazione, come abbiamo accennato, non dovette sembrare sufficiente al Leopardi). Polemica esplicita contro quella tesi epicurea non c’è, se ho ben visto, in Leopardi; ma le due concezioni della malattia, corrispondenti alla prima e alla seconda concezione della natura, che troviamo in Leopardi, costituiscono ambedue un implicito e tuttavia chiarissimo rifiuto delle idee di Epicuro in proposito: idee tanto deboli quanto eroico fu, invece, il comportamento di Epicuro fino alla fine della dolorosissima malattia che lo condusse a morte. Finché il Leopardi crede nella natura benefica, e nella civiltà come infelicitante anche sul piano fisico, egli vede nelle malattie, o nel loro farsi più frequenti e gravi, una delle tante prove della «corruzione» che la civiltà ha esercitato sull’uomo.54 Quest’idea, sia 52 iQuanto all’«immortalità delle opere» cfr. {qui sopra, «Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi»}, p. 130 e n. 62 **. Si ricordi anche lo sdegnoso e sarcastico accenno alla posterità nel Bruto minore, 109-116, e il cap. XI del Parini, ovvero della gloria. 53 iCfr. Cic. De fin. I, 15, 49; Tuscul. II, 19, 44; e un fugace accenno in Lucr. III 173, dove la lezione suavis, da molti messa in dubbio ma ormai riconosciuta giusta, era accolta già nell’editio Pisaurensis (cit. qui sopra, nota 4), I, p. 354, col. 2. 54 iVedi l’Indice del mio Zibaldone compilato nel 1827 dal Leopardi stesso, s.v. Malattie, III, p. 1193 nell’ed. Pacella; e l’indice analitico della stessa edizione, III, p. 1392.

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pure in via del tutto subordinata, sopravvivrà nel Leopardi fino all’ultimo: ognuno ricorderà quel passo, poco dopo l’inizio del Dialogo di Tristano e di un amico, in cui si accusa la civiltà (più precisamente la civiltà spiritualistica, l’ascetismo mortificante) di trascurare «il corpo» e, con ciò, di rendere più debole anche lo «spirito». Che corpo e anima siano due aspetti inscindibili di una unica realtà, lo aveva già detto anche Epicuro, si sofferma a dimostrarlo Lucrezio (III 94-829), ma per convalidare la tesi della mortalità dell’anima (della quale, ovviamente, era convinto anche il Leopardi); nel corso della sua lunga esposizione, Lucrezio accenna anche alle malattie (per esempio III 487-509, 824 ecc; cfr. II 1122 sg. dove non solo gli esseri umani, ma tutto il nostro mondo appare “ammalato di senilità” e prossimo a dissoluzione), ma non mette in particolare rilievo il loro carattere infelicitante, né la possibilità di superare tale infelicità con la consolatio epicurea. E quanto alla maggiore forza fisica e resistenza alle malattie degli uomini primitivi, Lucrezio ne parla, in termini che anche il Leopardi avrà potuto approvare, nella «storia della civiltà» che occupa buona parte del lib. V (cfr. 925-930, e alcuni accenni anche in séguito), ma non si sofferma sulle malattie come prodotto della civiltà. Quando, poi, nel Leopardi prevale l’idea della natura come forza logoratrice e distruttrice dell’uomo, le malattie (anche prima che sopraggiunga quella malattia “generale” e finale che è la vecchiezza) sono considerate, appunto, come una delle tante azioni logoratrici che tormentano l’uomo (l’uomo di tutte le epoche: niente da sperare nemmeno per il futuro) fin dal momento della nascita. Ritengo superfluo moltiplicare le citazioni (a cominciare almeno dal Dialogo della Natura e di un Islandese; ma già prima bisognerebbe rammentare i ricordi d’infanzia, e quel passo dell’Ultimo canto di Saffo, 65-68, che è una vera e propria traduzione da Virgilio, e dove «il morbo» è collocato per primo in ordine di tempo fra le cause infelicitanti che subentrano alla brevissima gioia della fanciullezza). Preferisco ricordare che la rappresentazione più potente del succedersi implacabile e sempre crescente delle malattie il Leopardi l’ha data nella Palinodia, 173-181: la straordinaria altezza di questo canto, canto tragico nella sua essenza profonda, ben più che satirico, ha stentato a lungo prima di essere riconosciuta, e dovrà essere ancora studiata (cfr. intanto, per un altro lato, Vené e Parronchi, cit. qui {sotto, pp. 326-327 n. 26}). In quest’ultimo Leopardi, più ancora che nel primo, ogni considerazione

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“edulcorata” della malattia è perentoriamente esclusa. La malattia va affrontata con lucido coraggio, senza lagnanze, ma senza “giustificazioni” (Amore e morte, 110-120). Epicuro e Lucrezio, come del resto anche gli stoici, sono lontani quanto più si può essere. 9. Tutto ciò che si è detto finora (con eccessiva prolissità? Eppure l’argomento sarebbe tutt’altro che esaurito) sul divario ideologico tra Lucrezio, in quanto epicureo, e Leopardi spiega in larga parte la presenza scarsa (anche se, come si è visto, non tanto scarsa quanto vari studiosi e io stesso avevamo affermato) di echi lucreziani in Leopardi. E tuttavia una certa meraviglia rimane. Lucrezio è un poeta eccelso; e come il Leopardi ebbe sempre presente e ammirò con viva passione Virgilio nonostante la lontananza ideologica indubbiamente maggiore, così avrebbe potuto trarre più motivi d’ispirazione da Lucrezio, da quei brani “tragici” isolati, ma di eccezionale potenza, che pur vi sono nel suo poema (sopra, § 5). Sul piano emotivo-poetico, la consonanza tante volte affermata tra Lucrezio e Leopardi non è mera invenzione, come si è visto. Si dovrà pensare che il Leopardi abbia visto in Lucrezio più un filosofo che un poeta, e che perfino certi indubbi punti di contatto ideologici (antisuperstizione, negazione della teodicea, negazione dell’immortalità dell’anima e di tutto il cosmo ...) abbiano lasciato in lui, come accenna anche il Saccenti (p. 147), «un generale sentimento di estraneità, fors’anche di avversione», inclusi com’erano in contesti così diversi:55 pur senza dimenticare che, come si è visto, l’estraneità non fu poi così completa. Bisognerà anche tener conto del fatto che il Leopardi, più che il Giordani, più che lo stesso padre Cesari!, ebbe scarsa simpatia e comprensione per la poesia latina dell’età repubblicana,56 sulla quale, pur con oscillazioni e qualche 55 iCfr. anche Grilli, p. 68: «Lucrezio fu travolto insieme col suo maestro» (ben detto, anche se il Grilli, diversamente da me, ritiene che il Leopardi abbia senz’altro «rifiutato la lettura di Lucrezio»). 56 iII Giordani (VI, p. 358) consigliava ad Antonio Gussalli di leggere, dopo Plauto (come «rappresentatore dei costumi di quel tempo») e Terenzio (per «la lingua dell’età seguente» a quella di Plauto: motivazioni, ambedue, alquanto riduttive), «i sei libri rimasti di Lucrezio». Una giusta comprensione dello stile di Terenzio (non altrettanto di quello di Plauto) si nota nelle sue critiche alla versione di Terenzio del padre Cesari: cfr. Aspetti e figure, p. 196 e n. 80. Ma in complesso, per quel che mi risulta (“sorprese” sono sempre possibili, trattandosi di un’autore di cui molto è ancora inedito e anche ciò che è edito non è raccolto in un’unica edizione munita di indici), l’entusiasmo del Giordani andava agli augustei e ai poeti della cosiddetta età argentea: grande ammirazione per Virgilio, per Lucano, per Giovenale, frequenti citazioni da questi

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incoerenza, fece pesare la tradizionale qualifica di «poesia d’imitazione»57 e, nello stesso tempo, di rozzezza: né la geniale e spontanea primitività greca, né i pregi, almeno, dell’eleganza. In particolare, soprattutto nei primi pensieri dello Zibaldone (all’incirca tra il 1817 e il ’20), egli deplorò la mancanza di una poesia epica arcaica «che avesse per soggetto le cose latine così eccessivamente grandi e poetiche, eccetto quella d’Ennio che dovette essere una misera cosa» (Zib. 54). «La prima voce della tromba epica che fu di Lucrezio, trattò di filosofia» (ibid.): ciò è detto come qualcosa di innaturale; l’uccello di Minerva (avrebbe detto il Leopardi se avesse conosciuto la famosa frase hegeliana) aveva avuto a Roma un’anormale comparsa al mattino e non al tramonto! Così i primi poeti latini si erano lasciati sfuggire l’occasione di cantare degnamente le «infinite vicende passate della storia romana, le speranze ec. ec. ec.» (ibid.: superfluo dire che la svalutazione di Ennio, oltre che da pregiudizi di teoria letteraria, derivava da troppo scarsa conoscenza di ciò che di lui ci è rimasto). Quanto a Lucrezio, la patrii sermonis egestas, la difficoltà di rendere in latino termini e concetti filosofici,58 tende ad esser considerata dal Leopardi come qualcosa che ha avuto un risultato doppiamente negativo: sforzo di tradurre termini tecnici greci, e riuscita poco felice di questo sforzo, nel quale fece miglior prova Cicerone, «grande e avveduto uomo, il quale benché gelosissimo della purità della favella, conosceva che alla novità delle cose era necessaria la novità delle parole» autori che certamente conosceva in gran parte a memoria; niente di simile per Lucrezio. Quanto al padre Cesari, una coraggiosa infrazione alla sua pedanteria e al suo cattolicesimo alquanto bigotto fu l’aver dichiarato Lucrezio superiore a Virgilio, sia pure soltanto per amore dell’arcaismo: cfr. {«Ancora sul padre Cesari: per un giudizio equilibrato», in «Nuovi studi sul nostro Ottocento», p. 4 – N. d. C.}. 57 iCfr. tra i numerosi passi che si potrebbero citare, non tutti unìvoci, Zib. 54 («l’imitazione dei greci fu (...) mortifera alla poesia latina» nel suo sorgere); 857 (la letteratura latina, appena nata, «subito e intieramente in balia delle regole»: questo pensiero procede tuttavia con andirivieni, ammette qualche passeggera superiorità dei latini, ma si conclude negativamente); 4351 (la poesia latina «non divenne, ma fu sempre essenzialmente impopolarissima»). Che, nonostante ciò, il Leopardi non condanni sempre la poesia «d’imitazione», ha osservato giustamente A. La Penna, Tersite censurato, | cit. qui sopra, nota 26 |, p. 288 sg. D’altra parte, sul piano filologico va ascritta a merito del Leopardi la difesa di una lezione enniana, che non ha ancora avuto il suo giusto riconoscimento (cfr. Scritti filol., ed. Pacella-Timpanaro cit., p. 93, r. 54 sg.; cfr. anche ibid., p. 180). 58 iIn Zib. 748 (marzo 1821: «Lucrezio volendo trattar materie filosofiche s’era lagnato della novità delle cose e della povertà della lingua») il Leopardi, fra i vari passi lucreziani simili, ha in mente soprattutto I 139: propter egestatem linguae et rerum novitatem.

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(ancora Zib. 748). Se, come si è visto, il padre Cesari aveva osato preferire Lucrezio a Virgilio, per il Leopardi la possibilità di un confronto non si pone nemmeno. In un pensiero del marzo 1821 in cui il purismo è ormai (e non per la prima volta) rinnegato esplicitamente dal Leopardi, Virgilio è dichiarato «il primo poeta latino, e limpidissimo specchio di latinità» sebbene (o proprio perché: c’è un «per ciò» preceduto da negazione che è a metà strada fra i due significati) la sua lingua sia «ben diversa da quella di Ennio, di Livio Andronico ec. e anche di Lucrezio».59 Virgilio, quanto allo stile, è «il più poetico di quanti si conoscono, e forse il non plus ultra della poetichità» (Zib. 3719, 17 ottobre 1823). Non solo: è colui che espresse per primo nella letteratura romana «il sentimento profondo dell’infelicità» (Zib. 232, 6 settembre 1820). Giustamente osserva Antonio La Penna60 che questa è una «nota certo discutibile come riflessione storica (prima di Virgilio c’erano stati Catullo e Lucrezio), ma illuminante per capire che cosa il Leopardi (...) trova nel suo poeta». Bisogna forse anche rammentare ancora una volta che in Lucrezio l’infelicità è, a tratti, potentissimamente sentita, ma contrastata da ragionamenti consolatorii e da momenti anche emotivi e poetici di entusiasmo; in Virgilio (nonostante qualche accenno all’«immortalità della gloria», e ad una teodicea stoica che appare già, in più punti, intimamente corrosa dal dubbio) ciò non accade. 10. Alle ragioni di questo incontro non mancato, ma relativamente poco fervido, tra Leopardi e Lucrezio non direi che si debba aggiunger59 iZib. 755 sg. Al giudizio così elogiativo sullo stile di Virgilio il Leopardi aggiunge: «riconosciuto dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionis». Egli aveva letto questa operetta grammaticale nell’edizione frontoniana del Mai (Milano, «Regiis Typis», 1815), che a Frontone la attribuì. In realtà, gli Exempla elocutionum non sono di Frontone, ma di un grammatico molto più tardo, Arusiano Messio (cfr. Grammatici Latini, VII 449-514 Keil, e l’ed. a cura di Adriana Della Casa, Milano 1977). Frontone non cita mai Virgilio, almeno in ciò che di lui è rimasto: cfr. L. Gamberale, Autografi virgiliani e movimento arcaizzante, «Atti del Convegno virgiliano sul bimillenario delle Georgiche», Napoli 1977, pp. 364-366. 60 iTersite censurato cit., p. 271 sg.; cfr. anche 276 e passim. Il La Penna cita anche giudizi più tardi e, talvolta, meno totalmente entusiastici di Leopardi su Virgilio. Uno stranamente incomprensivo è sul personaggio di Turno, Zib. 3141. Importante anche L. Blasucci, Una fonte linguistica (e un modello psicologico) per i «Canti»: la traduzione del II lib. dell’Eneide, {in «Leopardi e il mondo antico», cit.}, p. 283 sgg. (ora in Leopardi e i segnali dell’infinito cit., p. 9 sgg.). Per il carattere di “esperienza totale”, non soltanto letteraria, che la lettura di Virgilio rappresentò per il primo Leopardi cfr. già un mio accenno in «Gnomon» 1960, p. 584 (recensione a Leopardi und die Antike di H.-L. Scheel).

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ne ancora una, che il Saccenti propone alla fine del suo saggio (p. 148): il Leopardi avrebbe letto prevalentemente non il testo latino di Lucrezio, ma la traduzione, «rivissuta in tono minore», dignitosamente aulica ma non trascinante, di Alessandro Marchetti; proprio questa mediazione avrebbe impedito al Leopardi di entusiasmarsi per la grande «voce di Lucrezio» e avrebbe contribuito a creare un distacco che non fu superato nemmeno quando il De rerum natura, come il Saccenti è incline a ritenere, fu letto direttamente.61 Il Saccenti, studioso particolarmente competente del Marchetti, ma alieno, forse fin troppo, dal sopravvalutarlo, gli ha questa volta addossato, io credo, una colpa sia pure involontaria dalla quale egli è esente. Benché il Leopardi abbia letto con attenzione, seppure con forti riserve, alcuni poeti italiani del Seicento,62 non risulta che si sia particolarmente interessato al Marchetti: nessun accenno, se ho ben visto, nei Puerilia poetici, nulla in tutto lo Zibaldone (nemmeno menzionato in quanto traduttore di Lucrezio), nessun suo brano accolto nella Crestomazia italiana della poesia. Tutto si riduce all’abbozzo dell’Erminia, attribuito generalmente al 1818-19 (avrebbe dovuto essere, come è noto, una sorta di dramma pastorale, derivato liberamente dalla Gerusalemme del Tasso, forse con spunti tratti anche dall’Aminta; il Leopardi, poi, non portò a compimento il lavoro). In fondo all’abbozzo (T.O., I, p. 334) c’è un elenco di autori ed opere, da Teocrito e dalle «tragedie greche» ad autori italiani del Cinque-Sei-Settecento; e nell’elenco figura il nudo nome «Marchetti». Osserva il Saccenti: «Nucleo di testi da considerare con interesse», riferendosi a «una fascia di classicismo eloquente» in cui «il volgarizzamento marchettiano si trova a suo agio» (p. 123 sg.). Bene – anche se gli autori citati sono troppo eterogenei per rientrare tutti nell’ambito del «classicismo eloquente»: per fare l’esempio più cospicuo, non vi rientrano (a meno che a quell’espressione non si attribuisca un senso del tutto vago) i tragici greci, i quali, del resto, non furono mai letti dal Leopardi; né, per moti61 iCfr. Saccenti, p. 148 (vedo ora che anche S. Sconocchia, indipendentemente da me, ha espresso dubbi su questa tesi). Sulle edizioni della versione del Marchetti esistenti nella biblioteca Leopardi, cfr. Saccenti, p. 124 n. 15. Sul Marchetti cfr., dello stesso Saccenti, Lucrezio in Toscana, Firenze 1966, opera fondamentale. 62 iSaccenti, p. 123 sg.; importante anche M. Scotti, Leopardi e il Seicento, in Leopardi e la letter. ital. dal Duecento al Seicento («Atti del IV Convegno Internaz. di studi leopardiani», 1976), Firenze 1978, p. 339 sg.

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vi diversi, vi rientra Teocrito –. Ma anche se, come è possibile, quel cognome si riferisce ad Alessandro Marchetti e alla sua versione di Lucrezio, è impossibile dire quale uso volesse farne il Leopardi per la composizione dell’Erminia, che, a giudicare dall’abbozzo, di lucreziano non doveva aver nulla. Resta il fatto che, là dove il Leopardi cita Lucrezio (a cominciare dal Saggio sopra gli errori popolari, come si è visto), lo cita in latino, e che anche le poche espressioni tratte da Lucrezio, con certezza o con probabilità, nei Canti e nelle Operette non rivelano alcuna “mediazione marchettiana”. Poiché Lucrezio è un poeta difficile e le edizioni lucreziane che il Leopardi aveva a disposizione (cfr. sopra, nota 4) non fornivano, spesso, esegèsi sufficienti o davano un testo erroneo per cattive congetture o per passi corrotti non sanati – l’editio Pisaurensis dava il solo testo, senza alcuna nota –, si può supporre che, avendo a disposizione tre esemplari della versione del Marchetti (cfr. Saccenti, p. 124 n. 15), il Leopardi se ne sia servito come sussidio, per capire passi particolarmente ardui del testo latino. Ma che quest’uso puramente “strumentale”, se pur vi fu, sia stato tale da influenzare in senso limitativo l’immagine che il Leopardi si fece di Lucrezio, non è credibile. 11. Un’ultima osservazione. Se al Leopardi rimase sostanzialmente estraneo il valore della poesia latina arcaica e, in notevole misura, anche di un autore fortemente arcaizzante come Lucrezio, non gli fu affatto estraneo l’interesse per quelle parole o espressioni del latino arcaico che, eliminate dal latino classico, ricompaiono nel volgare preromanzo e nelle lingue romanze. Questo fenomeno «carsico», come si suol chiamarlo, era stato già osservato da vari dotti (con particolare intelligenza da Scipione Maffei), ma il Leopardi compì un lavoro vastissimo e acuto di raccolta di materiali e di approfondimento concettuale.63 E in questa raccolta ragionata, che si snoda nello Zibaldone fino alle ultime pagine, compaiono citazioni da Lucrezio, le più (come talvolta dichiara il Leopardi stesso) attinte al Forcellini, ma almeno una (Zib. 4037 in nota, cfr. {Il Leopardi e i filosofi antichi, p. 179} n. 86) desunta, con ogni probabilità, da lettura diretta. Ma, certo, quelle citazioni, molto importanti per lo studio del Leopardi filologolinguista, non rientrano nel tema del rapporto ideologico e poetico tra 63

iCfr. S. T., La filologia di G. Leopardi, Bari 19782, pp. 54-61.

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Lucrezio e Leopardi. Un tema che ho cercato di trattare senza preconcetti e unilateralità, pur con la consapevolezza che dubbi sulle letture leopardiane di Lucrezio, discussioni sulle “affinità” tra i due poeti e sui rapporti tra Leopardi e l’epicureismo e tutta la filosofia ellenistica, continueranno ancora e soluzioni del tutto sicure, forse, non si raggiungeranno.

Postscriptum 1.iStavo terminando la stesura di questo lavoro (luglio 1988), quando un amico, filologo classico ma rivelatosi, ora, anche molto esperto di cose leopardiane, Sergio Sconocchia, mi inviò “in anteprima” il dattiloscritto di una sua relazione congressuale, Ancora su Leopardi e Lucrezio, 1987 (Ancona 1988), e ora nel vol. di AA.VV., Leopardi e noi, Roma 1990. | Cfr. anche l’art. qui cit. sopra, p. 276 |. Il saggio dello Sconocchia è altamente pregevole, ma ha un’impostazione per più aspetti diversa dal mio (per esempio, si sofferma a lungo, nella prima parte, sull’Infinito, in cui egli vede una stretta consonanza lucreziana che io, almeno per ora, non riesco a vedere; e aderisce a un’interpretazione spiritualistica del Leopardi che io rispetto ma – non ho bisogno di dirlo ancora una volta – non condivido). Io credo tuttavia che i due saggi possano “coesistere”, in ciò che hanno di divergente e in ciò su cui concordano; essi potranno costituire uno stimolo a ulteriori ricerche e discussioni. Poiché, ripeto, il mio saggio era ormai ultimato, non mi è sembrato opportuno inserirvi in extremis discussioni con lo Sconocchia; mi sono limitato a segnalare con piacere, come il lettore avrà constatato, alcuni punti sui quali lo Sconocchia ed io, lavorando l’uno all’insaputa dell’altro, siamo giunti alle medesime conclusioni; e a far tesoro (cfr. nota 4) di un risultato a cui lo Sconocchia è giunto sulle orme di Augusto Campana: che, fra le edizioni di Lucrezio che il Leopardi aveva nella sua biblioteca, la più seguita da lui, almeno nei primi tempi, fu quella contenuta nella Collectio Pisaurensis: per i particolari della dimostrazione si veda il suo saggio. 2.iEmanuela Andreoni Fontecedro, dotta e acuta studiosa del pensiero antico, ha pubblicato recentemente (Roma 1993) un libro che per molti aspetti affronta di nuovo, in modo originale, alcuni temi di questo mio saggio epicureo-leopardiano: «Natura di voler matrigna»:

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saggio sul Leopardi e su «natura noverca» (si veda anche l’ampio contributo Sul contrasto ideologico fra il «De re publica» di Cicerone e il poema di Lucrezio, in «Studi di poesia lat. in onore di A. Traglia», Roma 1989, 1, pp. 281-321, che citerò col solo inizio del titolo: Sul contrasto) [cr]. Su molti punti mi trovo d’accordo, e ne sono lieto, con la Andreoni (fra l’altro, cfr. p. 37 n. 1, sulla lunga discussione che ebbi con Solmi a proposito della concezione leopardiana della natura e sulla falsificazione dell’idillio Alla natura: si veda {Prefazione a «Nuovi studi sul nostro Ottocento»}, pp. xv sg. e x). Su altri punti vi sono tra la Andreoni e me alcune divergenze (non profondi dissensi, direi), sui quali mi propongo di riflettere ancora: prego quindi il lettore di considerare queste righe come provvisorie. In complesso, la Andreoni accentua ulteriormente il distacco tra Lucrezio e Leopardi: ritorna, seppur con argomenti in buona parte nuovi, alla posizione di Bignone e a quella, pur più sfumata e problematica, di Giancotti (che avrebbe meritato una citazione). Sull’interpretazione di tanta stat praedita culpa (qui sopra, p. 288 sg.), sarei ora propenso a dar ragione alla Andreoni (p. 13, cfr. Sul contrasto, p. 292 sg.) e al commento del Giancotti: culpa come semplice “noncuranza”, non come «malvagità»: anche se i due passi lucreziani nei quali l’espressione ricorre hanno un pathos che va al di là della mera polemica antiteleologica. Più dubbioso rimango quanto a Lucrezio, V 1233 sgg. (qui sopra, p. 273: cfr. Andreoni, pp. 13 sg., 104 e Sul contrasto, p. 292 n. 36): usque adeo res humanas vis abdita quaedam / obterit, et pulchros fasces saevasque secures / proculcare ac ludibrio sibi habere videtur. Più dubbioso, voglio dire, non tanto per ciò che riguarda una possibile derivazione di A se stesso del Leopardi (qui mi ero già espresso con cautela), quanto sulla negazione di qualsiasi accenno all’ o s t i l i t à della natura verso l’uomo: un’ostilità, certo, inconsapevole e involontaria, eppure ben esistente: obterit è indipendente da videtur, e l’interpretazione di videtur come “sembra a torto” («impressione sbagliata» dice la Andreoni), mi sembra minimizzante. [Caso mai, videtur mette in guardia contro un’interpretazione antropomorfica della vis abdita: la quale non ha ‘sentimenti’, ma è, sia pure inconsciamente (come inconscia è la Natura leopardiana, cfr. Islandese), ostile all’uomo]. Rimane tuttavia vero che di «natura matrigna» Lucrezio non parla mai, e che tra Leopardi pessimista coerente e Lucrezio la vicinanza è molto meno stretta di quanto si credette un tempo e credetti anch’io

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dapprima (qui sopra pp. 266-268). Ma forse la Andreoni ha alquanto esagerato nell’indicare altre fonti antiche (patristiche, lette da un Leopardi giovanissimo) e moderne del pessimismo leopardiano, molto eterogenee fra loro e col pensiero del Leopardi maturo. Troppo, a mio avviso, essa ha concesso al Leopardi «gnostico» o «manicheo» del Galimberti; su questo punto ho già espresso il mio dissenso dal Galimberti e il mio pieno consenso col Bigi: cfr. qui sopra, pp. 291-292 e n. 33. Aggiungerei, ribadendo in forma un po’ diversa ciò che ha già osservato il Bigi, che le dottrine dualistiche come lo zoroastrismo e il manicheismo sono, appunto, dualistiche: di contro alla divinità malefica c’è quella benefica, che finirà col vincere. Anche nel cristianesimo (non solo nel luteranesimo, che tuttavia è citato a proposito dalla Andreoni, p. 87) c’è, in contrasto con Dio, il Diavolo: l’Inferno è popolato di anime sulle quali il Diavolo ha riportato la vittoria, e chi, come Origene, negò le pene eterne, fu considerato eretico. Ma nel Leopardi c’è un «Arimane senza Ormuzd», contro il quale bisogna lottare, non arrendersi vilmente, ma senza speranza di vittoria [, meno che mai di una vittoria che venga dall’alto, dall’intervento provvidenziale di un Dio buono che, se esistesse, avrebbe già da tempo dovuto «provvedere»]. E quanto ai moderni, io credo che studiosi recenti abbiano esagerato l’influsso di Montaigne ** e di Pascal sul Leopardi (anche la Andreoni, direi, pur molto più cauta di altri); ma qui il discorso si farebbe lungo. Io tenderei a limitare gli influssi agli illuministi più audaci: al Voltaire del Poème sur le désastre de Lisbonne e di pochi contes in cui la malinconia e l’amarezza sopraffanno il deismo (altrove, come è noto, il deismo trascina Voltaire su posizioni molto più timide, e anche nel Désastre de Lisbonne c’è un ripiegamento finale), al Bon sens cit. del Barone d’Holbach (cfr. qui sopra, p. 286 n. 29), alla Lettre de Thrasybule à Leucippe di N. Fréret (della quale vedi ora la magistrale edizione a c. di S. Landucci, Firenze 1986), a pochi altri testi. Darei già minore importanza, nonostante la Andreoni, p. 69, a Les Ruines di Volney, che il Leopardi cita una sola volta, Zib. 4127-32, a proposito della teoria del piacere, dissentendo (cfr. L. Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito cit., p. 225 sg.). Il Leopardi avrà anche letto tutte le Ruines, ma non bisogna dimenticare che questo «seguace di Holbach e La Mettrie» (Andreoni cit.) fu un pessimista fortemente intriso di religiosità (i confronti che G. Savarese, Saggio sui «Paralipomeni» di G. L., Firenze 1967, passim, istituisce tra il poemetto leopardiano e l’opera di Volney sono interessanti, ma non denotano

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una stretta consonanza ideologica: sono piuttosto riflessioni sulla caducità di tutte le cose di questo mondo, quali si trovano per esempio anche in Dante, nel Tasso, in tanti altri autori certo non atei né materialisti). Meno ancora darei importanza a Sade (Andreoni, pp. 83-85), non citato mai dal Leopardi, credo, non per la damnatio nominis che tuttora gravava sul terribile marchese, ma perché l’etica (se pur merita questo nome) di Sade è “indegna” anche per chi non abbia il benché minimo pregiudizio moralistico, e la sua antiteodicea è superficiale e “d’accatto”. Un’ultima osservazione. A p. 99 e altrove, in cortese discussione con me, la Andreoni tende, pur con alcune riserve, a segnare un divario tra la concezione coerentemente materialistica alla quale il Leopardi era giunto nell’Islandese e nei pensieri dello Zib. scritti soprattutto nel ’26, e una specie di ritorno, «nelle ultime composizioni», ad una personificazione della Natura (degli Dèi, del Fato) chiamati in causa come responsabili del male del mondo, non come cieco meccanismo. Io persisterei a credere che tale «ritorno» non vi sia stato, e che, da quando il Leopardi giunse alla concezione della natura come meccanismo inconscio di produzione-distruzione, privo di scopo o, tutt’al più, avente per scopo la conservazione della specie e non dell’individuo, i «Numi», il Fato, la natura siano da intendere come immagini poetiche (il Fato, del resto, già nel pensiero greco e romano, a cominciare da Omero, rimane a metà strada fra una “forza” non personale e una divinità, identificata spesso, non sempre, con Zeus/Giove): cfr. {qui sopra, «Natura, dèi e fato nel Leopardi»}, pp. 227 sgg., spec. 239-248, e, per l’influsso che sul concetto di natura malefica Lucano ebbe probabilmente sul Leopardi, Aspetti e figure, pp. 44-53 (dove cito anche contributi di E. Paratore e di G. Velli) e A. La Penna, Tersite censurato, Pisa 1991, p. 277 n. 77. Ogni pessimista «agonista», non «rassegnato», come è il Leopardi, tende a tali personificazioni di alta emotività e poeticità. Del resto perfino Holbach, non poeta e rigorosamente materialista ed ateo, si lascia sfuggire più volte, nel Bon Sens più ancora che nel Système de la Nature, espressioni quasi personificate (più «antiteistiche» che «atee») nei riguardi di quel Dio che tuttavia egli ritiene del tutto inesistente. Qui mi fermo, poiché, ripeto, ho voluto solo accennare a qualche divergenza tra la Andreoni e me, senza soffermarmi su tutto ciò che da quel libro c’è da imparare, o da discutere amichevolmente, anche al di fuori della querelle Leopardi-Lucrezio.

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Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

Il 1798, anno di nascita di Giacomo Leopardi, appartiene ad uno dei periodi più agitati e travagliati della storia delle Marche, non esclusa la cittadina natale del poeta, Recanati. Dai moti giacobini del 1796-97 sostenuti dalle truppe francesi, alla violenta reazione di stampo “vandeano” appoggiata dagli austro-russi, al ritorno dei francesi e al nuovo assetto del 1808 in base al quale le Marche fecero parte del regno d’Italia, alla sconfitta, infine, del Murat a Tolentino nel maggio del 1815 e alla restaurazione del dominio papale, i sommovimenti furono quasi continui. Il conte Monaldo Leopardi fu una volta, circa un anno dopo la nascita di Giacomo, condannato a morte dai francesi. La condanna fu annullata prestissimo e negli anni successivi Monaldo, uomo prudente, seppe destreggiarsi in modo da non diventare mai un «notabile» napoleonico ma da non esporsi nemmeno per la causa legittimista. Rimase, però, nel suo animo una vera fobìa della Rivoluzione e di qualsiasi, pur minima, novità politica, che alimentò vari decenni più tardi, come accenneremo, la sua attività di scrittore satirico reazionario. Monaldo fu un personaggio, in complesso, mediocre, e i tentativi, più volte ripetuti, di ravvisare in lui, a dispetto di quelle che sarebbero soltanto apparenze esteriori, uno spirito affine a quello del suo grande figlio, e addirittura un suo “precursore”, sono da considerarsi aberranti. Se, però, lasciamo da parte queste falsificazioni della realtà, dobbiamo constatare che egli fu un reazionario sui generis, scomodo, per molti aspetti, alla causa della reazione. Da un lato (e ciò lo accomuna a vari intellettuali di fine Settecento) fu cattolicissimo ma non ∼iDal volume collettivo La storia della storiografia europea sulla Rivoluzione francese (Relazioni tenute al Congresso dell’Associazione degli storici europei, maggio 1989), Roma 1990, pp. 367-381.

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misticheggiante, anzi razionalista: fu, si potrebbe dire con una certa paradossalità, un illuminista di estrema destra.1 Non credette ai miracoli, ai quali, in quei tempi di sovraeccitazione, erano pronti a credere ad ogni piè sospinto non solo i popolani controrivoluzionari, ma anche alcuni nobili. Fu convinto che la religione avesse il suo fondamento nella ragione, cioè in una sorta di acritico buon senso, che le classi alte dovevano propinare al popolo per mantenerlo ubbidiente (meglio ancora, tuttavia, se il popolo fosse stato mantenuto in una totale ignoranza: gli asili infantili e altre forme d’educazione paternalistica, propugnate dai moderati toscani e di altre regioni a scopo sostanzialmente conservatore, furono fermamente osteggiate da Monaldo, che le considerò esperimenti troppo rischiosi).2 ** Non ebbe mai, nel modo di scrivere, quelle velleità puristiche che per un breve periodo giovanile sedussero suo figlio,3 e lasciarono qualche lieve traccia anche nella prosa delle Operette morali, il cui altissimo valore artistico tardò, anche per questo, ad essere riconosciuto. Monaldo scrisse sempre in uno stile settecentesco, “moderno”, sia nei suoi lavori di erudizione locale, sia nei libelli di propaganda politica. D’altro canto, se sostenne l’assolutismo politico contro la rivoluzione e contro ogni sia pur moderatissimo liberalismo, non riuscì mai ad accettare nemmeno la monarchia assoluta: conservò uno spirito di “feudatario” medievale, ribelle ai re. Perfino lo Stato pontificio restaurato, che certo non era paragonabile per forza e capacità accentratrice alle grandi monarchie assolute europee pre e post-rivoluzionarie, gli sembrò troppo irrispettoso dei poteri locali. Molto più che suddito pontificio (a Roma si recò molto di rado e di mala voglia), si sentì marchigiano e, più ancora, recanatese. A Recanati, nel proprio palazzo, raccolse, come è noto, una biblioteca davvero cospicua, ricca di opere di erudizione locale, di teologia, di ideologia controrivoluzionaria, ma non priva nemmeno di «libri proibiti». Ma quella biblioteca, che costituì un suo indubbio merito, doveva anche servire a far sì che egli e i suoi figli (Giacomo in particolare, destinato alla carriera ecclesiastica) potessero studiare senza muovere mai un passo fuori di 1 iSu questo “illuminismo reazionario” di fine Settecento cfr. A. Prandi, Religiosità e cultura nel Settecento italiano, Bologna 1966; [G(ius). Pignatelli, Le origini settecentesche del cattolicesimo reazionario, «Studi storici» XI, 1970, p. 755-782]. 2 i{Cfr. «Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846», in «Nuovi studi sul nostro Ottocento» – N. d. C. –}, p. 74 n. 8. 3 i{Ivi («Ancora sul padre Cesari: per un giudizio equilibrato») – N. d. C –.}, p. 11 n. 9.

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Recanati. E se qualche studioso liberale del secolo scorso accusò a torto Monaldo di durezza tirannica e di mancanza di affetto verso i figli (accuse che sono, invece, giuste e inconfutabili nei riguardi di sua moglie, la bigotta e disumana Adelaide Antíci), se non si può pretendere che egli comprendesse le idee di Giacomo (idee non comprese nemmeno da uomini di ben altra levatura), d’una cosa bisogna davvero fargli colpa: di aver contribuito all’infelicità del figlio opponendosi con tutte le forze a qualsiasi suo viaggio o soggiorno fuori di Recanati, negandogli (tranne qualche rara e avara eccezione negli ultimi tempi) ogni sussidio economico se egli voleva uscir di casa; e il guadagnarsi da vivere col proprio lavoro (in quell’Italia in cui il lavoro intellettuale come professione era così poco riconosciuto, e meno che mai a chi professasse idee considerate «empie») fu sempre difficilissima impresa per Giacomo Leopardi, fino a ridurlo più volte in condizioni che si possono dire di vera povertà.4 Le pubblicazioni di Monaldo alle quali abbiamo accennato finirono con l’apparire troppo provocatoriamente retrive, e quindi dannose, allo stesso governo pontificio, ai consiglieri del reazionarissimo Gregorio XVI. I Dialoghetti sulle materie correnti nell’anno 1831, a dispetto del grande successo immediato, contenevano tali rimproveri di eccessiva tolleranza rivolti ai re assoluti, tali esortazioni a praticare un vero e proprio «terrore bianco» preventivo contro ogni pericolo rivoluzionario, e, nello stesso tempo, tali nostalgie feudali e oscurantiste, da suscitare malcontento a Roma e censure governative; e il periodico «La Voce della Ragione», intrapreso da Monaldo nel 1833 a imitazione della famigerata «Voce della Verità» di Modena, fu soppresso nel 1835. Che le idee politiche di Giacomo Leopardi fanciullo e appena ado4 iA ciò contribuì, com’è noto, anche l’avarizia di Adelaide Antíci, alla quale, per rimediare al dissesto finanziario causato da un breve periodo di dissipatezza giovanile di Monaldo (tipica di certi nobili oziosi di provincia; anche Monaldo, prima di diventare un rigido moralista, vi era passato), era stata demandata per legge l’amministrazione del patrimonio. Su Monaldo non credo di dover qui esibire una bibliografia. In generale, gli scritti su di lui sono prevalentemente o delle “invettive” o delle “difese”, più di rado e più frettolosamente delle “caratterizzazioni”. A un tono un po’ troppo polemico e attualizzante non sfugge, forse, nemmeno quello che rimane il saggio più intelligente, Monaldo l’inalterabile, di C. Muscetta, in Letteratura militante, Firenze 1953, p. 176 sgg. (e di nuovo in Leopardi, Roma 1976, p. 19 sgg.). Cfr. anche M. Leopardi, Autobiografia e Dialoghetti, a cura di A. Briganti, introduzione di C. Grabher, Bologna, Cappelli, 1972. Più attenzione meriterebbe il cognato di Monaldo e zio di Giacomo, Carlo Antíci, residente a Roma, reazionario di più larghe vedute: alcuni accenni provvisorii, che andrebbero sviluppati, in {«Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi»}, p. 116 n. 22, e Antileopardiani, ad indicem. L’Antíci meritava una voce nel Dizionario biografico degli italiani.

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lescente siano state all’incirca le stesse del padre (il quale, del resto, nei primi anni della Restaurazione non aveva ancora raggiunto le vere e proprie follie degli anni trenta), che a convalidare quelle idee abbiano contribuito anche le letture dei libri e opuscoli antirivoluzionari di cui la biblioteca Leopardi, come si è detto, era ben fornita,5 è più che naturale. Piuttosto è impressionante la rapidità con cui avvenne il distacco. Già il primo scritto politico (Agli Italiani: orazione in occasione della liberazione del Piceno, composto dal giovane diciassettenne nel maggio-giugno 1815, dopo la sconfitta del Murat a Tolentino e prima di Waterloo),6 rivela oscillazioni e contraddizioni molto significative. E uno scritto duramente antifrancese e “antitirannico” (di quell’anticesarismo declamatorio che vigeva nelle scuole dei gesuiti7 misto tuttavia a influssi alfieriani), ma tutt’altro che trionfalistico nei riguardi delle idee della Restaurazione e dell’assetto che il Congresso di Vienna, già prima dei Cento Giorni, aveva ormai dato all’Italia. L’unità e l’indipendenza d’Italia, dice il Leopardi, sarebbero desiderabili (e quest’affermazione rivela già il distacco dai fautori del ritorno all’ancien régime), ma sono irraggiungibili: dopo le tempeste napoleoniche, gli italiani hanno soprattutto bisogno di pace, e devono rinunciare a quegli ideali. Ma nella chiusa, con una certa ingenuità che tuttavia è significativa, il giovanissimo autore non accetta senz’altro codesta pace accolta passivamente: egli vorrebbe che gli italiani facessero in tempo a partecipare alla propria liberazione dallo straniero, movendo in guerra contro la Francia non ancora definitivamente sconfitta. È la voce di quel patriottismo antinapoleonico che, come è noto, tranne pochissime eccezioni, fu una fase quasi inevitabile di incubazione del futuro patriottismo antiaustriaco. 5 iMolte indicazioni utili, a questo proposito, dà G. Savarese, Un tentativo giovanile del Leopardi: la «Maria Antonietta», «Rassegna letter. italiana», LXX, 1966, pp. 3-22, specialmente p. 5 n. 17 e note seguenti. Sulla pubblicistica antirivoluzionaria in Italia (e in particolare nello Stato pontificio) già prima dell’invasione francese è ancora utile P. Hazard, La révolution française et les lettres italiennes, Paris 1910, pp. 1-23. 6 iT.O., I, pp. 869-875; pubblicata per la prima volta da G. Cugnoni, in G. L., Opere inedite, II, Halle, Niemeyer, 1880, pp. 1-18, e poi in molte edizioni successive. L’autografo, conservato a Recanati, non è datato; la data approssimativa si ricava dal contenuto stesso dell’Orazione (più esatto di tutti, a questo proposito, è G. Mestica, introduzione a G. L., Scritti letterari, I, Firenze 1898, p. LXXI). 7 iCfr. a questo proposito P. Treves, L’idea di Roma e la cultura italiana del secolo xix, Milano-Napoli 1962, nel capitolo intitolato L’ambivalenza del classicismo (pp. 36-53), dove, fra l’altro, è citata un’osservazione molto acuta di Giovanni Ruffini, nel romanzo autobiografico Lorenzo Benoni, cap. IX.

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Poco più di un mese dopo (30 luglio 1816: la data è autografa) il Leopardi intraprende un abbozzo di tragedia: Maria Antonietta.8 Già da fanciullo, nel 1811 e 1812, egli aveva portato a compimento due tragedie «politiche», La virtù indiana (imitazione di una tragedia di Monaldo) e Pompeo in Egitto (improntata a quell’anticesarismo scolastico di cui già si è detto). Questa volta volle affrontare un tema di storia politica contemporanea ancora “scottante” (in senso, naturalmente, filo-legittimistico: in tutto ciò che egli aveva potuto leggere, Maria Antonietta era presentata come una martire della ferocia rivoluzionaria e nient’altro). L’abbozzo è estremamente scarno, la parte versificata si riduce a sedici endecasillabi, del secondo e terzo atto manca anche un brevissimo schema. E tuttavia quel che c’è basta a fare intravedere che il motivo ispiratore del dramma (a prescindere da un intreccio molto convenzionale e ingenuo, basato su poco credibili colpi di scena) sarebbe stato quello della pietà per la donna costretta ad una morte precoce, oscillante tra la volontà di affrontare il destino con dignità eroica e il timore sempre riaffiorante: «Ben me n’avveggo: a le sventure io forza / bastevol non oppongo». E a questi momenti di debolezza e di sconforto sembra andare la simpatia, la pietà dell’autore. Più tardi, nei bellissimi appunti e ricordi autobiografici, il Leopardi rievocherà un sogno da lui avuto nel tempo in cui progettava quella tragedia: avrebbe voluto far cantare a Maria Antonietta una canzone «in musica senza parole».9 Per quel che si può supporre, il Leopardi si sentiva spinto a comporre più un dramma di “pietà umana”, risolto in lirica pura, che una tragedia di propaganda rivoluzionaria. Maria Antonietta sarebbe stata uno di quei personaggi giovanili stroncati da una morte prematura, che già allora commovevano intensamente il Leopardi (cfr. A. Monteverdi, Frammenti critici leopardiani, Napoli 19672, pp. 1-23) e che trovarono, molti anni dopo, piena realizzazione poetica nelle figure di Silvia e di Nerina. Ma con molta difficoltà ciò s’inquadrava in uno schema di tragedia politica, e il personaggio stesso di Maria Antonietta, pur idealizzato, non era adatto: questa può essere stata la ragione per cui il Leopardi abbandonò così presto quel lavoro **. 8 iT.O., I, p. 329 sg. Cfr. l’ampio saggio del Savarese citato qui sopra (nota {5}), dal quale mi discosto leggermente solo in pochi punti. Per il testo della Virtù indiana, T.O., I, pp. 536546 (e la lettera dedicatoria a Monaldo, ivi, p. 1006); del Pompeo in Egitto, T.O., I, pp. 546-558. 9 iI, p. 360. Cfr. ibidem, poco sopra, a proposito di un canto sull’Amore «principio del mondo»: «ch’io avrei voluto porre in musica non potendo la poesia esprimere queste cose ec. ec.». Su questo bisogno di espressione musicale cfr. G. Savarese, art. cit., p. 18 sgg.

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Del resto, già pochi giorni prima di quell’abbozzo, con la Lettera ai Sigg. Compilatori della «Biblioteca italiana»10 e poi nel ’17, con l’inizio della corrispondenza epistolare con Pietro Giordani, il Leopardi intraprende su un piano più generale, non solo letterario ma ideologico-politico, il distacco dalle idee monaldiane e da tutta l’ideologia della Restaurazione. La pace, che ancora nell’Orazione del 1816 è considerata – sia pure con le contraddizioni a cui abbiamo accennato – come un bene dopo le continue guerre napoleoniche (e questo sentimento, come è noto, era largamente e comprensibilmente diffuso in tutta l’Europa), diviene ben presto per il Leopardi uno stato di insopportabile soffocamento di ogni vitalità, magnanimità, eroismo. La pace della Santa Alleanza è l’aspetto politico di quel male che il Leopardi considererà poi sempre, accanto al dolore, il massimo motivo di infelicità per l’uomo: la noia. Le due prime canzoni patriottiche, All’Italia e Sopra il monumento di Dante (1818), che il Leopardi, a differenza dagli scritti da noi menzionati finora, riuscì non solo a portare a termine, ma a pubblicare, contengono certo ancora, specie la seconda, motivi antinapoleonici: il compianto, del resto ben giustificato anche da un punto di vista patriottico, per gli italiani morti combattendo non per la propria patria ma «in estranie contrade» e particolarmente nella campagna di Russia;11 l’invettiva contro «la Francia scellerata e nera», un’espressione che spiacque ad alcuni patrioti e che il Leopardi, in una lettera al Brighenti, si affrettò a giustificare in modo non insincero, ma un po’ sforzato.12 E tuttavia quelle canzoni, e forse ancor più la 10 iQuesta Lettera (T.O., I, pp. 879-882, 18 luglio 1816), non pubblicata dalla rivista milanese a cui era diretta, rappresenta, come è noto, il primo intervento del Leopardi nella polemica classico-romantica del 1816. Del pari inedito rimase il Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica (I, pp. 914-948, scritto a più riprese nel 1818). 11 iCfr. All’Italia, vv. 41-60; e, con maggiore sviluppo, Sopra il monumento di Dante ..., vv. 103174. Qui, al v. 100, il Leopardi aveva scritto «Ma non (sottintendi “taccio”) la Francia scellerata e nera», e poco sotto, v. 108, «Di Franche torme il bestïal furore». 12 iAvendo appreso da Pietro Brighenti, attraverso una lettera di costui a Monaldo, che alcuni letterati bolognesi avevano espresso critiche verso l’autore della seconda canzone, «avendolo per uomo contrario ai princìpi liberali, per quella sua dipintura delle sciagure del regno italico, e dei macelli di Russia» (cfr. G. L., Epistolario, a cura di F. Moroncini, II, Firenze 1935, p. 29 sg. n. 1), il Leopardi si affrettò rispondere (lettera al Brighenti del 21 aprile 1820): «Quelli che presero in sinistro la mia Canzone sul monumento di Dante, fecero male, secondo me, perché le dico espressamente che io non la scrissi per dispiacere a queste tali persone; ma parte per amor del puro e semplice vero e odio delle vane parzialità e prevenzioni; parte perché non potendo nominar quelli che queste persone avrebbero voluto, io metteva in iscena altri attori come per pretesto e figura». Il primo motivo è certamente veritiero: anche un liberale nemico della Santa Alleanza aveva il diritto di condannare il sacrifizio di tanti italiani al militarismo napoleonico.

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terza, Ad Angelo Mai (1820), di argomento, in apparenza, meno «politico»,13 esprimono fondamentalmente un’insofferenza profonda per il clima torpido dell’Italia post-1815, «al quale incombe / tanta nebbia di tedio», e un disperato agonismo, come, nella prima canzone, in quel grido che, per una certa sua ingenuità, potè essere oggetto di facili, superficiali ironie (e del vile insulto del Tommaseo): «L’armi, qua l’armi: io solo / combatterò, procomberò sol io». Contro chi il Leopardi nel 1818 avrebbe voluto prender le armi? Evidentemente non contro i francesi, che non erano più nemici e oppressori attuali, ma contro gli austriaci e i monarchi della Restaurazione da essi sostenuti.14 E i re di tre versi latini composti dal Leopardi stesso e annotati nello Zibaldone, che tanto più tengono ad essere chiamati «pii» quanto più hanno perduto ogni vera pietas, non possono essere se non i monarchi della Santa Alleanza.15 Il secondo (l’autore avrebbe parlato dei francesi alludendo in realtà agli austriaci) difficilmente può essere inteso alla lettera, poiché il verso «Ma non la Francia scellerata e nera» rimase immutato nell’edizione delle Canzoni del 1824, e soltanto nel ’31 (edizione fiorentina dei Canti) fu sostituito dal più generico «Ma non la più recente e la più fera» (il v. 108, invece, già nel ’24 divenne «L’asta inimica e il peregrin furore»). È quindi almeno in parte giusta la nota del Moroncini, Epistolario cit., II, p. 33 n. 2, il quale però semplifica troppo le cose attribuendo al Leopardi un costante «concetto sfavorevole della nazione francese», mentre il giudizio del Leopardi maturo sulla Francia fu molto più complesso e, nell’insieme, tutt’altro che negativo (soltanto alla l i n g u a francese egli rimase puntigliosamente avverso). Bisogna tener presente che le due prime canzoni appartengono ancora a una tormentata fase di “trapasso” da anti-bonapartismo ad anti-Restaurazione; e che, nell’insieme, il passaggio sia avvenuto, lo dimostra il fatto che, a cominciare da Monaldo, i reazionari videro in quelle canzoni pericolosi accenni liberali (cfr. ancora Moroncini, pp. 29 n. 1, 31 n. 2 dell’Epistolario, II). Sulle due prime canzoni il saggio più intelligente e ricco di sfumature è quello di L. Blasucci (1961, ora in Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna 1985, pp. 31-80). Contro l’incomprensione che per queste due poesie mostrò il De Sanctis è da leggere specialmente Luigi Settembrini, Lezioni di letteratura italiana (1868-71), a cura di G. Innamorati, Firenze 1964, II, p. 1114 sg. 13 iMa cfr. ciò che il Leopardi scriveva al Brighenti, 28 aprile 1820: Monaldo era rimasto rassicurato dal titolo «innocentissimo» della canzone: «Si tratta di un Monsignore (cioè del Mai). Ma mio padre non s’immagina che vi sia qualcuno che da tutti i soggetti sa trarre occasione di parlar di quello che più gli importa e non sospetta punto che sotto quel titolo si nasconda una canzone piena di orribile fanatismo» (T.O., I, p. 1100). Come è ovvio, il Leopardi usa ironicamente la parola «fanatismo» nel senso che le davano i reazionari, cioè estremismo rivoluzionario, follia sovvertitrice dell’ordine costituito. Che, poi, la canzone al Mai (come le due precedenti) non sia soltanto politica, ma contenga già spunti di una più ampia Weltanschauung pessimistica, è ben noto. 14 iBene W. Binni, La protesta di Leopardi, Firenze 19742, p. 38: «E quale senso avrebbe avuto, nel 1818, l’invocazione “l’armi, qua l’armi” se riferita solo alla distrutta dominazione napoleonica?». Sul carattere “titanistico” di quest’invocazione cfr. U. Bosco, Titanismo e pietà in G. Leopardi (1957), Roma 1980, p. 10; L. Blasucci (citato qui sopra, nota {12}), p. 56 sg. 15 iZib. 85; cfr. S. Timpanaro, La filologia di G. Leopardi, Bari 19772, p. 144 n. 10; G. Pacella, in «Giorn. stor. letter. ital.», CXXXVIII, 1961, p. 111.

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Frattanto il Leopardi va elaborando una prima concezione filosofica che si può, approssimativamente, chiamare «rousseauiana», anche se Rousseau non ne fu il primo e diretto ispiratore, e se divergenze tra il pensatore ginevrino e il giovane Leopardi non mancarono. È una concezione basata sul contrasto natura-ragione («La natura è grande, la ragione è piccola»), sull’esaltazione delle magnanime passioni degli antichi (dai «primitivi» fino ai greci e ai romani della Repubblica non ancora corrotta), contro la civiltà che, quando prende il sopravvento, esercita sull’uomo una funzione inariditrice e mortificante. Il “classicismo” leopardiano (credo ancora di essere autorizzato ad usare questo termine, naturalmente con le dovute precisazioni) non è imitazione scolastica dei classici: è un tentativo di tornare ad ispirarsi alla schietta natura primigenia. Tentativo, almeno in gran parte, disperato: lo stato di natura, perduto con la decadenza dell’evo antico, è irrecuperabile, così come irrecuperabile è per il singolo individuo la fanciullezza.16 Il Medioevo non fu schietta primitività, ma “barbarie”, cioè razionalismo corrotto, eccesso di civiltà che si tramutò in ignoranza superstiziosa e in repressione di quel bisogno di felicità che è inerente all’uomo. Pur con molte tormentose oscillazioni, il Leopardi finì col coinvolgere in questo giudizio negativo anche il cristianesimo. E qui è la radice del rifiuto leopardiano del Romanticismo, che col passare degli anni diventerà più sfumato e problematico, senza peraltro, mai scomparire:17 il Romanticismo è, per il Leopardi, medie16 iG. De Robertis, Studi, Firenze 1944, pp. 10 sg., 152-154 (quest’ultimo passo ripubblicato nella nuova edizione del Saggio sul Leopardi, Firenze 1973, p. 127). 17 iPersisto a credere che, se per «Romanticismo» si intende non un generico stato sentimentale e passionale, ma un movimento ideologico (e politico e letterario) storicamente determinato, la qualifica di romantico non debba essere attribuita al Leopardi. Ciò non toglie che singoli motivi e spunti del Romanticismo siano stati da lui fatti proprii, quasi sempre con l’accompagnamento di precise riserve, come risulta da vari passi dello Zibaldone: cfr. (dopo un mio breve accenno {qui sopra, «Introduzione»}, p. 33 sg.; vedi anche la prefazione alla 2a ed., e tutta l’Introduzione {, e «Giordani, Carducci e Chiarini» – N. d. C.}, pp. 97-98) molto più ampiamente E. Bigi, Il Leopardi e i romantici, in «Studi di lingua e letteratura lombarda offerti a M. Vitale», I, Pisa 1983, pp. 709-34 | = E. B., Poesia e critica tra fine Settecento e primo Ottocento, Milano 1986, pp. 149-173 |, che ha analizzato, fra l’altro, con grande equilibrio la «Polizzina» Romanticismo annessa all’Indice dello Zibaldone compilato dal Leopardi stesso (vol. III, p. 1224 ed. Pacella). Meno convincente, a mio avviso, anche se molto fine, P. Fasano, Leopardi controromantico, 1971, ristampato con modifiche in L’entusiasmo della ragione, Roma 1984; cfr. E. Bigi cit., p. 710 nota 3 | = 150 n. 3 |). Ma che il Romanticismo sia stato tutto reazionario e il classicismo tutto “progressista” (a parte l’ambiguità di questo termine, che converrebbe non usar mai) sarebbe una mera, squalificante sciocchezza, che io non ho mai pensato né detto; e mi duole che

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valismo ammodernato, che ai mali della «troppa civiltà» unisce i pregiudizi della barbarie. Se un vero ritorno alla natura non è sperabile, il minor male è il ricorrere a quella che il Leopardi chiama «mezza filosofia»: una concezione che riaccosti il più possibile l’uomo alla natura, ne recuperi almeno in parte la forza vitale combattendo, invece, gli «errori barbari» e deprimenti del Medioevo. Ecco allora che il giudizio sulla Rivoluzione francese risulta (in una serie di appunti dello Zibaldone, scritti negli anni 1820-22) profondamente mutato.18 La Rivoluzione fu forse «preparata dalla filosofia» del Sei-Settecento, ma «non fu eseguita da lei», e nemmeno da «quei legislatori francesi e repubblicani» che credettero di assecondare la rivoluzione «geometrizzando» tutta la vita. Il Leopardi condanna come contrari al vero spirito della Rivoluzione il culto dell’Essere Supremo e della Dea Ragione, la proposta di Condorcet di abolire anche «la religion naturale», l’istituzione del nuovo calendario. È fin troppo facile notare in questi appunti gravi carenze di informazione e, di conseguenza, fraintendimenti. Il Leopardi cita come sue fonti soltanto una traduzione francese della prima parte dell’opera France di Lady Morgan19 e l’Essai sur l’indifférence en matière de religion di Lamennais (ma coi postulati cattolici di Lamennais, già ora, egli non alcuni studiosi, tra i quali uno, W. Binni, che ho sempre considerato come un mio maestro, abbiano continuato pertinacemente ad attribuirmela, anche dopo ciò che, ad abundantiam, avevo precisato in «Belfagor» XV, 1970, p. 236, con esatta documentazione, e in Antileopardiani, p. 29 nota 19 (cfr. anche ulteriori considerazioni in AA.VV., Poetica e metodo storico-critico nell’opera di W. Binni, Roma 1985, pp. 438-442). La meritata autorità di Binni ha fatto sì che anche altri studiosi mi abbiano attribuito quella tesi aberrante. 18 iGli appunti leopardiani che in parte riassumo e in parte riporto testualmente (ma da una lettura completa non si dovrebbe prescindere) si trovano in Zib. 160 sg. (8 luglio 1820), 357 sg. (27 novembre 1820, continuazione del precedente), 520-522 (17 gennaio 1820), 671 (17 febbraio 1821), 870 (26 marzo 1821, addendum a 160 sg.), 911 (30 marzo-4 aprile 182 0, 1078 (23 maggio 1821), 2334 sg. (6 gennaio 1822). Per il periodo in cui furono scritti cfr. anche qui sotto, nota {23} in fine. Sull’atteggiamento leopardiano riguardo alla Rivoluzione francese osservazioni molto intelligenti in C. Luporini, Leopardi progressivo (1947), Roma 19802, pp. 50-56 (è soltanto un po’ troppo messo in ombra, credo, il contrasto che, in questa fase del suo pensiero, il Leopardi segna tra illuminismo settecentesco e Rivoluzione). 19 iCfr. Zib. 160 sg. (Lady Morgan, France, 3ème édition française, Paris 1818, II, p. 284). Per altre citazioni della stessa opera, le quali però non si riferiscono alla Rivoluzione, cfr. T.O., II, Indice analitico, p. 1378, s.v. «Morgan». La scrittrice e poetessa Sydney Owenson (Dublino 1783-Londra 1859), sposata a Th. C. Morgan, ardente patriota irlandese, liberale e filantropa, scrisse due opere intitolate France, nel 1817 (la cui versione francese fu letta dal Leopardi) e nel 1830 (questa gli sarà rimasta ignota).

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concorda).20 Non si mostra informato sui contrasti tra girondini e giacobini, tra Robespierre e Hébert, nemmeno in fatto di religione. Non è quindi in grado di apprezzare – come, dal suo punto di vista, avrebbe dovuto – lo sforzo di Robespierre di reagire proprio (fin troppo!) al razionalismo illuministico, di fondare una nuova religione rivoluzionaria e patriottica, e mette quasi sullo stesso piano i giacobini e Condorcet che, come è noto, ne fu vittima. E tuttavia il Leopardi ha còlto bene gli aspetti di frattura (più che quelli, innegabili anch’essi, di continuità) tra illuminismo e Rivoluzione. La vera “spinta” alla Rivoluzione, egli dice, fu data da una sazietà di civiltà razionalistica e di artificiosa raffinatezza; era stato questo clima la causa e, insieme, l’effetto del dispotismo dell’ancien régime. La Rivoluzione rappresentò un ritorno, se non alla natura tout court (impossibile, come si è detto), alla «mezza filosofia»: gli «errori semifilosofici possono esser vitali, massime (cioè “soprattutto se”) sostituiti ad altri errori per loro particolar natura mortificanti (...). Così gli errori della mezza filosofia possono servire di medicina ad errori più antivitali». Vitalità nel senso leopardiano – da non confondere, come molti studiosi hanno cercato di fare, col vitalismo di Nietzsche e, peggio che mai, con le sue successive degenerazioni – significa anche vera e non ipocrita moralità. Al «pestifero egoismo», che aveva raggiunto il culmine nel secolo di Luigi XIV (polemica sottintesa col Siècle de Louis XIVe di Voltaire, che c’era nella biblioteca di Monaldo e che il Leopardi lesse per tempo?), sottentrò una sia pur parziale rigenerazione etica: cosa, questa, «notata da tutti», arriva a dire il Leopardi. Lo «stato popolare» giovò soprattutto alle virtù pubbliche («virtù grandi», le chiama il Leopardi), ma esercitò benèfici effetti anche sulle «virtù private e domestiche». Come si vede, il Leopardi istituisce un nesso tra politica e morale al di fuori di ogni banale moralismo. Egli è convinto che solo la partecipazione attiva di tutti i cittadini alla vita politica può far superare quell’individualismo, quella asocialità che è, insieme, causa di immoralità e di vita infelice; proprio per questo, più uno stato è corrotto per 20 iCfr. a questo proposito Zib. 331-333 (e {, qui, Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 157 sg.); ma tutta l’“utilizzazione polemica” che il Leopardi fa del primo Lamennais, anche in altri passi dello Zibaldone (sì alla religione come illusione benefica quando non sia tendente alla mortificazione e all’ascetismo; no alla religione come verità; e alla verità, pur considerata come infelicitante, già ora il Leopardi non vuole e non sa rinunciare) meriterebbe uno studio più approfondito. Della seconda fase del pensiero di Lamennais, negli anni Trenta, il Leopardi avrà avuto qualche notizia attraverso i liberali fiorentini; ma a quell’epoca, una posizione democratico-religiosa non poteva suscitare il suo interesse e tanto meno il suo assenso, al pari del mazzinianesimo.

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egoismo, più i re assoluti vi si sentono sicuri.21 In un breve accenno, il Leopardi giustifica o almeno ritiene inevitabile anche il Terrore.22 Certo, poiché tutto ciò fu operato non direttamente dalla natura, ma da quel suo insufficiente surrogato che è la «mezza filosofia», aveva in sé i germi della caducità: su ciò il Leopardi non cessa di insistere, e le frasi che abbiamo citato sono quasi sempre accompagnate da riserve in tal senso. Eppure, di fronte ai moti spagnoli, napoletani, piemontesi del 1820-21 il Leopardi spera ancora in una ripresa della grande Rivoluzione: speranza di brevissima durata per ciò che riguarda l’esito politico di quei moti, soprattutto a Napoli e in Piemonte (un’eco della poco gloriosa sconfitta dei napoletani ad Antrodoco risuonerà ancora, tanti anni più tardi, nei Paralipomeni della Batracomiomachia); speranza più tenace quanto al persistente influsso della Rivoluzione francese, e dei suoi pur falliti tentativi di ripresa sui costumi e sulla letteratura.23 E del dispotismo napoleonico quale giudizio dà ora il Leopardi? Anch’esso, sia pure cautamente, viene rivalutato. C’è, sì, un pensiero 21 iOltre i passi citati alla nota 18 (tra cui soprattutto, in Zib. 161, il brano che finisce con divide et impera) cfr. Zib. 302 (3 novembre 1820): «La corruttela de’ costumi è mortale alle repubbliche, e utile alle tirannie e monarchie assolute. Questo solo basta a giudicare della natura e differenza di queste due sorte di governi»; e Zib. 252 (28 settembre 1820). Contrario ai compromessi monarchico-costituzionali (Zib. 576-579, un lungo pensiero di particolare acutezza, del 22-29 gennaio 1821; cfr. 1535, 20 agosto 1821), il Leopardi tuttavia non è schematico e sa quanto peggiore sia l’assolutismo, tranne qualche rarissimo caso di despoti davvero “illuminati” (cfr. ancora Zib. 1535); anche molto più tardi, nei Paralipomeni, la distinzione è netta. 22 iZib. 2334 sg.: la Rivoluzione «se non ricondusse la mezzana civiltà degli antichi, certo fece poco meno (...), e non ad altro si debbono attribuire quelle azioni dette barbare, di cui fu sì feconda allora la Francia». 23 iCfr. Zib. 520 cit. (con allusione esplicita alla Spagna) e, per i costumi e la letteratura, Zib. 1077 sg. (23 maggio 1821); quanto alle vecchie e ridicole mode, il Leopardi cita un passo del Giordani (cfr. X, p. 221) il quale si dichiarava più pessimista quanto ad una loro possibile restaurazione, e dalla moda allargava il discorso ad altre più odiose usanze dell’ancien régime); Zib. 1084 (24 maggio 1821), dove sono valutati positivamente (e considerati tuttavia come effetto, sia pure ritardato, della Rivoluzione) atteggiamenti che potrebbero dirsi romantici, compreso «un certo maggior rispetto della religione dei nostri avi». Cfr. C. Luporini, Leopardi progressivo cit., p. 52, che osserva: «Questa è, in certo modo (...) la punta estrema del tentativo leopardiano di avvicinarsi alla propria epoca»: una punta, perciò, isolata e transitoria, rispetto alle posizioni di pensiero che il Leopardi aveva raggiunto nel ’21. Ma, a parte ciò, è da notare che i pensieri favorevoli alla Rivoluzione francese incominciano dal 1820 (cfr. sopra, nota {18}), e a suscitarli sembra che siano stati appunto i moti del ’20, specie quelli di Spagna: essi produssero una “riflessione retrospettiva” sulla Rivoluzione francese, in quanto (così sperò il Leopardi, e altri con lui) non definitivamente soffocata dalla Restaurazione. Di quella che Luporini ha chiamato la “delusione storica” leopardiana bisogna distinguere momenti successivi: l’itinerario fu assai complesso (cfr. {qui sopra, «Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi»}, pp. 132-133: ciò che là accennai andrebbe ancora sviluppato).

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del 1820 (Zib. 114) che ricalca l’antico schema dell’anarchia che, nel susseguirsi ciclico delle costituzioni, si converte nel suo opposto, la tirannide («la Francia passata di salto da una libertà furiosa al dispotismo di Bonaparte»); ma poco dopo il Leopardi riconosce la maggiore onestà ed efficienza dell’amministrazione napoleonica in confronto a quella dei vecchi monarchi, la più efficace e, insieme, meno sanguinosa lotta contro il brigantaggio: c’era ancora nel regime napoleonico quella «vita interna» che gli derivava dall’essere pur derivato dalla Rivoluzione.24 Come nel Panegirico a Napoleone di Pietro Giordani, di cui il Leopardi dovette sentire l’influsso, l’imperatore è lodato per la sua politica interna, cioè per le conseguenze, tutto sommato, positive del suo dominio in Francia e in Europa: mentre il Leopardi, ora, pur non rinnegando le due prime canzoni patriottiche, tace sulle esecrate guerre di conquista. Ancora nel 182825 egli progettava una «Poesia sopra Napoleone» sulla quale niente possiamo congetturare (un’“emulazione” del Cinque Maggio manzoniano?); ma che fosse una poesia tutta antinapoleonica, pare difficile supporre. Ma intanto, nel 1824-26, attraverso un iter del quale non possiamo qui soffermarci ad indicare le fasi (altri ed io lo abbiamo fatto in precedenza), il pensiero leopardiano aveva compiuto un approfondimento in senso materialistico-pessimista, da cui anche il concetto di natura era uscito radicalmente mutato: non più vitale forza benefica, ma cieco meccanismo di produzione-distruzione, causa dell’infelicità insanabile dell’uomo e di tutti i viventi. C’era il rischio, e il Leopardi lo corse, di un allontanamento da ogni interesse politico, poiché nessun regime politico avrebbe potuto eliminare l’infelicità coessenziale alla vita stessa. E tuttavia, dal 1830 fino alla morte, il Leopardi tornò a interessarsi alla politica molto più di quanto desse a vedere in certi momenti di sconforto e di malumore, espressi soprattutto (ciò si suol trascurare) in lettere private. Nella Palinodia, nei Paralipomeni, nella Ginestra non vi sono più, certo, riferimenti diretti alla Rivoluzione francese: la polemica è ora rivolta contro lo spirito di rapina, il colonialismo, la mercificazione di tutti i valori operata dalla borghesia capitalistica (Palinodia),26 contro il «progressismo» dei moderati tosca24

iZib. 229 (31 agosto 1820); 251 sg. (29 settembre 1820). iI, p. 372 (XII); la data di questi appunti, scritti a più riprese, non è del tutto sicura. 26 iSui vv. 55-96 della Palinodia cfr. G. F. Vené, Letteratura e capitalismo in Italia ..., Milano 1963, p. 145; S. Timpanaro, Antileopardiani, pp. 181-183 (dove avrei dovuto citare il Vené, che in un saggio precedente avevo ingiustamente svalutato, e che è stato svalutato anche da E. Gior25

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ni miranti a dare al popolo un’educazione religiosa a scopo paternalistico e di prevenzione di ogni sviluppo democratico-laico. Della lotta di classe il Leopardi non ebbe chiara nozione; non fu, perciò, un socialista, se si ritiene, come si deve, che la lotta di classe sia inerente alla nozione di socialismo (non fu, d’altra parte, un socialista nemmeno nel senso che questo termine ha assunto oggi, o aveva già assunto presso alcuni pensatori e gruppi politici dell’Ottocento). Propugnò, piuttosto, una ripresa di certi aspetti dell’illuminismo settecentesco, concepito come filosofia «amara e trista», dotata del coraggio della verità: filosofia estesa anche al «volgo» (ben diversamente da quanto pensava Voltaire, e più lucidamente e con più larga e intensa umanità anche in confronto a quanto ritenne Holbach),27 totalmente laica e quindi negatrice di ogni concetto di Provvidenza, anche del deismo di Voltaire. E tuttavia l’esaltazione della virtù repubblicana, la satira della monarchia costituzionale, le aspre invettive contro De Maistre e Bonald (Paralipomeni, canti II, V) indicano ancora, pur in ambito così mutato, una fedeltà a idee della Rivoluzione francese nella sua fase più radicale e un rifiuto sia della Restaurazione, sia dei compromessi liberalmoderati.28 dano, La corazza e la spada, Salerno 1990, pp. 90-93, con argomenti troppo sottili); e ora, ottimo, A. Parronchi, «II computar», nel volume La nascita dell’«lnfinito» e altri studi leopardiani, Montebelluna 1989, pp. 77-95 (il Parronchi estende il suo discorso a tutta la polemica leopardiana contro il progresso meramente tecnico, quale si trova anche in scritti anteriori o contemporanei alla Palinodia). 27 iSul nesso, che considero innegabile, ma anche sul lungo percorso che l’esigenza del “materialismo per tutti” compì dal Barone d’Holbach al Leopardi cfr., in attesa di ulteriori sviluppi, ciò che ho osservato nell’introduzione all’ed. italiana del Buon Senso {cit. qui sopra}, pp. LIV-LIX. 28 i| Proprio nello stesso anno 1989 in cui fu letta questa mia breve relazione congressuale, apparve in «Lettere Italiane», XLI, pp. 532-553, un saggio di Rolando Damiani sullo stesso argomento e con lo stesso titolo, Leopardi e la Rivoluzione francese. In questi ultimi anni quel saggio mi era sfuggito: faccio in tempo solo ora a segnalarlo sulle bozze di stampa. Come è naturale, su molti punti il D. ed io, l’uno all’insaputa dell’altro, citammo gli stessi testi leopardiani e osservammo le stesse cose. Qui annoto soltanto un paio di dissensi, almeno parziali. Non mi sembra felice la qualifica di “iperilluministico” che a più riprese (p. 538 e in seguito) il D. attribuisce all’atteggiamento del Leopardi verso la Rivoluzione francese, tanto più in quanto egli stesso è ben consapevole degli aspetti di discontinuità che il Leopardi sottolinea tra un illuminismo troppo razionale, e quindi partecipe della corruzione etico-politica dell’ancien régime, e una Rivoluzione sorta “dal basso” (cfr. qui sopra, pp. 323-325), come sia pur insufficiente ritorno alla Natura. Non ben delineato, direi, ciò che a p. 534 sg. si dice sull’Orazione per la liberazione del Piceno e sulle sue interessanti contraddizioni; laddove sono forse troppi i riferimenti a scritti di molto posteriori (alcune Operette morali, il Discorso sopra i costumi degli Italiani) che con l’argomento trattato dal D. hanno connessioni molto tenui. Ma nell’insieme il saggio è pregevole, e le mie pagine non ne rendono minimamente superflua la lettura |.

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Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

I. Le idee linguistiche ed etnografiche di Carlo Cattaneo In una lettera aperta all’etnologo Francesco Pullè, pubblicata nel 1900, Graziadio Ascoli, allora settantenne, esaltava la vastità e la potenza d’ingegno del Cattaneo negli studi storici e si professava seguace, fin dalla giovinezza, delle sue idee etnico-linguistiche.1 A questa lettera si sono richiamati tutti coloro che, studiando il Cattaneo o l’Ascoli, hanno riaffermato il rapporto di derivazione culturale che li unisce. E siccome un caposaldo fondamentale della lin1 iG. I. Ascoli, Carlo Cattaneo negli studi storici, lettera a Francesco Lorenzo Pullè, datata «Monte Generoso, settembre 1898», pubblicata nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1900 (vol. CLXXI, p. 636 sgg.).

*iSugli argomenti trattati in questo saggio, ** oltre la relazione di Maria Corti discussa già nella prefazione {alla} seconda edizione (qui sopra, p. XCI sgg.), vedi T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari 1963, passim; C. Dionisotti, Per una storia della lingua italiana, in «Romance Philology» XVI, 1962, p. 41 sgg., e, più ampiamente, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, p. 75 sgg. (a p. 101 sg. la migliore valutazione finora apparsa del significato del Proemio ascoliano e della sua efficacia); M. Raicich, Questione della lingua e scuola, in «Belfagor» XXI, 1966, pp. 245 sgg., 369 sgg. (sull’Ascoli specialmente pp. 250-252); l’introduzione di Corrado Grassi alla nuova edizione degli Scritti sulla questione della lingua dell’Ascoli (Milano 1967, Torino 19682; cfr. la mia recensione in «Critica storica» VII, 1968, p. 398 sgg.). Vedi anche la recensione di Giulio Lepschy al presente volume, in «Riv. storica ital.» LXXX, 1968, p. 165 sgg., e la discussione che di alcuni punti del mio saggio fece Benvenuto Terracini in «Archivio glottologico italiano» LI, 1966, p. 86 sgg. È una discussione che avrei voluto poter proseguire con l’insigne studioso, al quale tanto devono tutti coloro che, sia pur dissentendo in parte da lui, si sono occupati dell’Ascoli. Purtroppo la scomparsa del Terracini ha reso vano questo desiderio; e le poche risposte che qui sotto formulerò ad alcune sue osservazioni non potranno avere da lui ulteriori risposte. Ancor più è da rimpiangere che egli non abbia potuto portare a termine il lavoro più ampio sui rapporti tra Cattaneo e Ascoli che egli preannunziava in quella noterella.

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guistica ascoliana è la teoria del sostrato, e tale teoria si trova già enunciata e sostenuta negli scritti linguistici del Cattaneo, si è riconosciuto appunto in essa l’elemento che l’Ascoli avrebbe derivato dal suo grande predecessore.2 Eppure, a un esame un po’ più attento, le cose sembrano complicarsi. L’epistolario del Cattaneo (la cui pubblicazione è stata portata a termine solo recentemente), gli accenni che si trovano in alcuni scritti dell’Ascoli pubblicati quando il Cattaneo era ancora in vita, indicano che tra i due non mancarono divergenze e nemmeno qualche asprezza polemica. La teoria del sostrato, poi, non è una scoperta del Cattaneo, ma un’idea che circolava già da tempo nella linguistica europea e italiana; né dal solo Cattaneo sembra averla appresa l’Ascoli, il quale, del resto, l’accettò relativamente tardi. Si sente dunque il bisogno d’indagare più a fondo il rapporto tra il pensiero storico e linguistico del Cattaneo e la glottologia ascoliana, anzi la glottologia dell’Ottocento in generale: un’indagine necessariamente provvisoria, perché troppo poco esplorato è ancora l’epistolario dell’Ascoli e troppo superficialmente studiate molte figure del nostro Ottocento; ma, comunque, un’indagine che potrà servire di stimolo a nuovi studi. E siccome anche la formazione del Cattaneo linguista non è stata finora oggetto di alcuna apposita ricerca, di qui dobbiamo rifarci. 1. Il primo scritto di linguistica pubblicato dal Cattaneo è quello sul Nesso della nazione e della lingua valaca coll’italiana, che uscì negli «Annali universali di statistica» del 1837.3 Ma la sua composizione, come il Cattaneo stesso avvertiva in una lunga nota finale, risaliva a molti anni prima; ed esso era soltanto uno «studio leggiero ed acces2 iVedi, tra gli studiosi dell’Ascoli, soprattutto B. Terracini in «Arch. glottol.» XIX, 192325, pp. 137 sg., 141 e in Guida allo studio della linguistica storica, I, Roma 1949, pp. 125, 135; G. Devoto, Storia della lingua di Roma2, p. 387. Tra gli studiosi del Cattaneo, G. Salvemini, Le più belle pagine di C. Cattaneo, Milano 1922, pp. v e 258-61 (ma senza specifico riferimento al sostrato); E. Sestan, introduzione alle Opere di Romagnosi, Cattaneo e Ferrari, Milano-Napoli 1957, p. XXX. Altri contributi saranno citati in seguito. 3 iVol. LII, num. 155, p. 129 sgg.; ripubblicato dal Cattaneo stesso in Alcuni scritti, I, Milano 1846, p. 169 sgg. col titolo Del nesso fra la lingua valaca e l’italiana, e poi in SL, I, p. 209 sgg. (cfr. {postilla a p. 370 – N. d. C.}), da cui cito. Per un possibile influsso esercitato da questo scritto del Cattaneo sul movimento «italianista» romeno, cfr. C. Tagliavini, Un frammento di storia della lingua rumena nel sec. xix, in «Europa orientale» VI, 1926, p. 313 sgg.*

*iCfr. il nuovo studio del Tagliavini, Concordanze e analogie fra rumeno e italiano, «Il Veltro» XIII, 1969, p. 241 sgg.

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sorio» nato in margine a un lavoro più vasto, che riguardava un argomento «più vicino e nazionale», cioè «l’influenza delle invasioni dei barbari sulla favella italica». Di quest’opera non condotta a termine il Cattaneo pubblicava, sempre in quella nota del 1837, l’abbozzo o «tessera dei capitoli», che egli aveva steso «sino dalla fine del 1824», cioè appena terminati gli studi universitari.4 Da quell’abbozzo appare evidente il carattere storico generale, e non puramente linguistico, che l’opera avrebbe avuto. Lo stretto legame con la storia e l’etnografia è un carattere comune a tutta la linguistica del Settecento e della prima metà dell’Ottocento; ma qui esso appare in forma particolarmente accentuata. I titoli di molti capitoli accennano ad argomenti di storia giuridica ed economica, assai lontani dalla linguistica.5 Era insomma uno studio sul passaggio dalla società tardo-romana alla società feudale e poi comunale quello che il Cattaneo, sotto l’influsso del Romagnosi, aveva progettato. Ma mentre il Romagnosi tendeva a ridurre la storia della civiltà a storia di istituti giuridici, e solo marginalmente si interessava di fatti linguistici, il Cattaneo mostrava già allora un vivo interesse per la lingua come espressione della nazionalità e come testimonianza delle vicende della storia dei popoli. Di tale interesse il Cattaneo stesso, in quella nota che abbiamo già più volte citato, amava sottolineare l’origine personale, autodidatta: «Vi si era imbarcato – scriveva, parlando di sé in terza persona, e con un certo tono di affettuosa indulgenza per quei suoi studi giovanili – non per proposito letterario, ma per mera curiosità destata dal casual paragone tra alcune lingue a cui si era applicato fin dalla adolescenza. Dai dizionarii di lingue vive a poco a poco si era aggrappato ai glossarii di lingue morte o quasi appena vissute: all’anglosassone, al gotico, al franco, all’islandese e ad altre consimili anticaglie; nonché a quelli dei vulgari dialetti di Svizzera, di Scozia, di Germania. Ciò che era faticoso allora, è divenuto in questi anni assai facile per le cure che molti stranieri vi posero». E in realtà anche a Milano, nella città più «europea» d’Italia, doveva essere molto raro nell’età della Restaura4 iSL, I, pp. 405-410. L’articolo sulla lingua valacca fu invece scritto nel 1830; cfr. SL, I, p. 237: «Ai sette anni ch’erano già corsi nel 1837, quando i redattori degli Annuali di Statistica s’indussero ad accogliere questo scritto ...». 5 iVedi per esempio i titoli dei capitoli 5-14 della parte IV (SL, I, p. 409).

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zione il caso di un conoscitore di tante lingue germaniche. Forse soltanto un altro milanese, il conte Carlo Ottavio Castiglioni, l’editore di Ulfila,6 avrebbe potuto guidare il Cattaneo in quel ramo di studi; ma non pare che il Cattaneo, pur avendolo conosciuto, sia mai stato suo intimo.7 Un impulso importante, certo, il Cattaneo dovette riceverlo dal suo professore di liceo G. B. De Cristoforis, che gli aveva «aperto la mente all’idea del medio evo e del vasto mondo asiatico e ad altre fonti escluse dal circolo degli antichi studi»;8 un impulso, però, soltanto iniziale. Il Cattaneo aveva dunque ragione di considerare questi suoi studi come cosa sua, indipendente da ogni tirocinio scolastico. E tuttavia, per quel che riguarda certi orientamenti generali, ideologici più che tecnici, la prima fase della linguistica cattaneiana è assai più legata di quanto si sia creduto finora al classicismo italiano del Settecento e del primo Ottocento. Quando il Sestan, nel suo vivace e ben documentato saggio sul Cattaneo giovane,9 afferma che negli studi linguistici «non lo guidavano le ombre domestiche, le glorie locali dei Cherubini e dei Gherardini ..., ma lo guidava una sorta di libera personale ispirazione che non aveva precedenti nell’ambiente grammaticale-glottologico locale, ma solo nel grande movimento romantico europeo», ha ragione per ciò che riguarda specificamente il Cherubini e il Gherardini, ma stacca un po’ troppo, come ora vedremo, il Cattaneo linguista dall’ambiente italiano. Parlare poi, come fanno anche altri studiosi, di un romanticismo del Cattaneo può essere giusto in quanto ci si riferisca al romanticismo come «categoria spirituale», e si chiami perciò romantico qualsiasi interesse per le età primitive, per la vita collettiva dei popoli, per il nesso tra lingua e nazione e via dicendo: in questo senso, il Settecento razionalista è tutto intersecato da corren6 iSul Castiglioni cfr. B. Biondelli, Studi linguistici, Milano 1856, p. xv sgg.; A. Ceriani, Sui lavori gotici di Mai e Castiglioni, in «Rendiconti Ist. Lombardo», classe di Lettere, III, 1866, p. 23 sgg. 7 iNell’epistolario del Cattaneo il Castiglioni è nominato per la prima volta in una lettera al Biondelli del 1840 (I, p. 97), poi poche altre volte. Parrebbe che il Cattaneo fosse entrato in relazione con lui attraverso il Biondelli, cioè non prima del ’39. Ma, data la scarsità delle notizie sul Cattaneo giovane, conviene essere cauti. 8 iCosì il Cattaneo stesso nel «Politecnico» VIII, 1860, p. 520 (= SSG, III, p. 51). Cfr. E. Sestan, Cattaneo giovane, in Europa settecentesca e altri saggi, Milano-Napoli 1951, p. 209 sgg.; L. Ambrosoli, La formazione di C. Cattaneo, Milano-Napoli 1960, pp. 10, 14. 9 iCit. alla nota precedente, p. 242.

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ti «romantiche», tanto che si è dovuto ricorrere sempre più largamente al termine, suggestivo ma ingannevole, di preromanticismo.10 Ma per il romanticismo come movimento culturale storicamente determinato il Cattaneo ebbe, come è noto, una decisa ostilità. Sarebbe quindi preferibile parlare di motivi vichiani, che il Cattaneo assorbì – prima attraverso Romagnosi, poi attraverso la lettura diretta e la consuetudine con l’altro vichiano lombardo, Giuseppe Ferrari – e coi quali seppe correggere certi eccessi razionalistici e antistorici dell’illuminismo, senza però accettare gli aspetti teologizzanti del vichianesimo e senza mai rinunziare al concetto illuministico del progresso.11 E come fu illuminista in filosofia, in economia, in politica, così fu classicista in letteratura. La prefazione al primo volume di Alcuni scritti, le stupende stroncature della Vita di Dante di Cesare Balbo e di Fede e bellezza del Tommaseo, gli accenni sparsi in tanti altri scritti, parlano chiaro in proposito.12 Certo, la polemica classico-romantica che si svolse nei primi anni della Restaurazione fu talmente complessa, dette luogo a una tale varietà di posizioni, a un tale incrociarsi di ritorsioni polemiche e, talvolta, addirittura a un tale scambio di par10

iVedi sopra, pp. 4, 34. iCfr. Cattaneo, Su la Scienza Nuova di Vico (1839), in SF, I, p. 95 sgg. Sul vichianesimo del Cattaneo – diversissimo da quello degli hegeliani di Napoli, e non perfettamente identico neppure a quello del suo amico Ferrari – vedi il saggio assai utile, anche se non del tutto esauriente, di Alessandro Levi nel volume Il positivismo politico di C. Cattaneo, Bari 1928, p. 39 sgg., e l’introduzione di N. Bobbio a SF, I, p. XI sgg. Cfr. anche Paolo Rossi nell’opera collettiva «I classici ital. nella storia della critica», II, 2a ed., p. 19 sg. Sul suo illuminismo cfr. l’introduzione di F. Alessio alla scelta di Scritti filosofici, letterari e vari, Firenze 1957, e l’articolo di G. Cottone, C. Cattaneo e il Risorgimento, in «Quaderni di cultura e storia sociale» II, 1953, p. 71 sgg. 12 iSL, I, pp. 3 sgg., 96 sgg., 114 sgg., 315; II, pp. 148, 252 sg. Le polemiche del 1816-19 sono ricordate dal Cattaneo nella prefazione ad Alcuni scritti con quel tono affettuoso-ironico che egli ha sempre quando rievoca la propria giovinezza; ma ben chiara è la sua presa di posizione a favore dei classicisti, la quale giunge fino alla rivendicazione della Basvilliana (SL, I, p. 4) e a un aspro giudizio su A. W. Schlegel e Madame de Staël (ibid., p. 5: «... non mi pareva che si potessero senza sdegno udire li ammaestramenti che Schlegel e la Staël accompagnavano con sì arrogante vilipendio della generazione vivente in Italia ...»). Vedi su questo problema i saggi un po’ disorganici, ma ricchi di giuste osservazioni, di Felice Momigliano, Il classicismo di C. Cattaneo e la questione della lingua, in «Riv. d’Italia» XXII, 1919, vol. II, p. 167 sgg., e Il classicismo letterario e il positivismo filosofico di C. Cattaneo, in Vita dello spirito ed eroi dello spirito, Venezia 1928, p. 213 sgg.; e gli scritti del Fubini ripubblicati in Romanticismo italiano 2a ed., Bari 1960, p. 187 sgg., insigni per intelligenza critica e finezza di gusto, anche se tendenti a mettere un po’ troppo in ombra l’ostilità del Cattaneo al romanticismo (per esempio a p. 199: «Lo stesso atteggiamento, di distacco e insieme di adesione, si osserva nel nostro autore rispetto alle idee letterarie del tempo suo, vale a dire del romanticismo ...»). 11

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ti fra i due schieramenti, che sarebbe ingenuo credere di poter definire uno qualsiasi dei partecipanti applicandogli semplicemente l’etichetta di classicista o di romantico. Ed è vero che i romantici del «Conciliatore», specialmente negli ultimi mesi di vita del periodico, furono ben diversi dai romantici reazionari tedeschi, tanto da parlare spesso un linguaggio da illuministi. E tuttavia bisogna pur rendersi conto dei motivi non episodici, ma sostanziali per cui un Giordani, un Leopardi, un Cattaneo, che non erano certo dei retrivi, non ritennero di poter aderire al romanticismo e preferirono militare nel campo classicista, pur non trovandocisi a loro perfetto agio. Questi motivi vanno ricercati soprattutto (anche se non esclusivamente) nell’avversione al medievalismo, a quella concezione religiosa della vita che i romantici, sia pur con diverse sfumature, professavano. Senza dubbio l’esigenza di sprovincializzare la cultura italiana, di lottare contro un patriottismo letterario mummificato in nome di un patriottismo ben più vivo – il quale non escludeva affatto, anzi richiedeva i contatti con la cultura europea – costituiva un grande merito dei romantici lombardi, che li accomunava agli illuministi del secolo precedente, che faceva del «Conciliatore» il prosecutore del «Caffè». Senonché l’Europa verso la quale i romantici del 1816-21 volevano spalancare le finestre era, anche nei suoi esponenti migliori, ben diversa dall’Europa settecentesca. Era un’Europa cattolicizzante, che considerava con disprezzo le ideologie sensiste e materialiste del Settecento e, insieme, ne temeva la ricomparsa, perché aveva l’oscura coscienza che non fossero poi tanto superate quanto ostentava di credere; che esaltava lo spirito «popolare», ma lo intendeva in modo assai ambiguo, come ingenuità e sano attaccamento alle tradizioni locali più che come aspirazione democratica. I romantici italiani, con tutto il loro sincerissimo desiderio di libertà politica, di progresso economico e civile, non chiarirono mai fino in fondo i loro rapporti con l’ideologia conservatrice del romanticismo europeo, e per alcuni aspetti ne rimasero succubi. Nel campo classicista, quindi, vi erano, sì, degli arcadi perdigiorno, degli ultrareazionari e perfino degli agenti provocatori del governo austriaco, ma vi erano anche uomini che, a costo di apparire fuori moda, mantenevano fede ai grandi ideali dell’illuminismo, o se anche ne avvertivano i limiti, cercavano di superarli in senso ben diverso dai romantici. Considerati in astratto, illuminismo e classicismo non sono

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certamente la stessa cosa, anzi sarebbe fin troppo facile dimostrarne l’inconciliabilità. Ma in quella determinata situazione storico-culturale, in quanto costituivano entrambi un’antitesi al romanticismo, vennero spesso a coincidere nelle medesime persone: ciò si verificò soprattutto nel Giordani, nel Leopardi e nel Cattaneo; in ciascuno dei tre, s’intende, con caratteristiche particolari.13 Se tra questi classicisti-illuministi si debba annoverare anche Vincenzo Monti, può essere oggetto di molti dubbi finché si guarda al complesso della sua personalità, così poco consistente dal punto di vista propriamente politico, così ricca di aspetti «letterari» in senso deteriore. Ma in un campo specifico, e tuttavia importantissimo per la cultura italiana di allora, la questione della lingua, quella qualifica gli spetta di diritto. La polemica contro la Crusca, sostenuta da lui in collaborazione con Giulio Perticari e con altri studiosi nei volumi della Proposta, la polemica contro i dialetti,14 l’esigenza di un «volgare illustre» adeguato alla cultura non solo letteraria, ma scientifica e filosofica di una nazione moderna, costituiscono un suo merito storico di grandissima portata.15 E proprio queste idee trovarono un appassionato seguace nel Cattaneo, che fin da giovanissimo aveva frequentato il Monti e la sua cerchia, e che tornò poi sempre a polemizzare contro il fiorentinismo esclusivo (sia quello arcaizzante della Crusca, sia quello popolareggiante del Manzoni), contro l’uso dei dialetti in generale, per una lingua insieme austera e moderna.16 13 iSu questi problemi, a cui accenno qui brevemente, vedi l’Introduzione al presente volume e i {primi quattro saggi}. 14 iGià prima del Monti (Proposta, I, Milano 1817, pp. XXXVIII, XL), e con ancor più vigore, aveva protestato contro la letteratura dialettale il Giordani: vedi qui sopra, p. 44 sgg. 15 iVedi qui sopra, p. 12 sgg. 16 iSL, I, p. 8: «Nel fatto poi della lingua, la dottrina della popolarità da cui primamente si presero le mosse, oramai non significa più che si debba agevolare l’intendimento e l’arte della lingua agli indotti; ma bensì che si debbano raccogliere presso uno dei popoli d’Italia le forme che, più domestiche a quello, riescono più oscure a tutti li altri. S’intende un’angusta e inutile popolarità d’origine, non la vasta e benefica popolarità dell’uso e dei frutti»: parole che svelano benissimo gli equivoci insiti nel concetto romantico di «popolarità» anche fuori del campo linguistico, sebbene, a sua volta, la posizione del Cattaneo non fosse abbastanza premunita contro un certo paternalismo nel modo di concepire l’istruzione popolare. Cfr. anche SL, I, pp. 115 sgg., 147, 208, 239 sgg. Sui rapporti del Cattaneo giovane col Monti e col suo ambiente cfr. E. Sestan (cit. qui sopra, nota 8); L. Ambrosoli, La formazione cit., p. 14 sg. Dove il Cattaneo accentua in senso illuministico e antipuristico le idee del Monti, è nella difesa dello stile cosiddetto infranciosato; cfr. nell’abbozzo del ’24 (SL, I, p. 410): «pregiudizio vulgare contro lo spirito d’analisi e di semplicità calunniato col nome di gallicismo». Qui egli condivide la spregiudicatezza del Cesarotti.

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Né tra questa sua attività di linguista militante, normativo, e i suoi studi di linguistica storica egli scorgeva una separazione. Anzi, considerava lo studio storico delle lingue come il fondamento di una sana linguistica normativa. Per esempio, lo studio del processo per cui i dialetti si vanno a poco a poco unificando in una lingua nazionale avrebbe potuto suggerire, secondo lui, i mezzi opportuni per proseguire consapevolmente, programmaticamente (e quindi anche con maggiore rapidità e coerenza) tale processo.17 Applicazione dei principii linguistici alle questioni letterarie (cioè della linguistica storica alle questioni di linguistica normativa) è il titolo sotto il quale egli raccolse tre articoletti contro l’abuso di toscanismi e di grecismi dotti e per una riforma dell’ortografia italiana.18 Nello stesso tempo, lo studio della linguistica storica sarebbe servito a elevare il tono delle discussioni sulla lingua, a toglier loro quel tanto di ozioso e di accademico che esse inevitabilmente hanno finché rimangono nell’ambito strettamente normativo: «Dacché gli studi di lingua sono per molte necessarie cagioni i più popolari di tutti in Italia, e il maggior numero purtroppo degli studiosi tiene a quelli più che ad altri rivolta la mente, non gioverà tanto il riprovarli e dispregiarli com’altri fa, quanto il trarli da confini troppo angusti e municipali, estenderli, collegarli coll’istoria e riconciliarli colla filosofia. Certo non v’è più sicura via per appagare l’universale desiderio surto fra i dotti di risalire cautamente e fondatamente alle fonti dell’istoria nazionale»: così scriveva nell’articolo del 1837.19 In realtà, fin dal De vulgari eloquentia, la linguistica normativa aveva sempre sentito il bisogno di fare appello a ragioni storiche, di stabilire un rapporto fra il modo in cui la lingua italiana si era spontaneamente formata e il modo in cui avrebbe dovuto essere regolata e sistemata consapevolmente. Un particolare interesse, non puramente linguistico ma nazionale-culturale, aveva destato il problema dell’in17 iSL, I, p. 147: «E coll’arte medesima si può dirigere lo sforzo della popolare istruzione contro i cardini fondamentali di quei dialetti, i quali, essendo segni d’un’origine spesse volte nemica, perpetuano talora la discordia e la debolezza fra gli abitatori d’una patria comune». Cfr. Scritti economici, ed. Bertolino, I, p. 336. Per un diverso atteggiamento che altre volte il Cattaneo dimostra nei riguardi dei dialetti, vedi sotto, Appendice {I}. 18 iSL, I, pp. 238-72. L’abuso di grecismi nel linguaggio scientifico era stato biasimato anche dal Giordani (X, 378 sgg.). Contro l’ortografia troppo latineggiante del Cattaneo vedi la spiritosa protesta di Carlo Ravizza (Epist. del Cattaneo, I, p. 428). 19 iSL, I, p. 212; cfr. p. 208.

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flusso delle lingue barbariche sulla formazione del volgare italiano: il problema stesso, cioè, che appassionava il Cattaneo giovane. Già nel Quattrocento, mentre Leonardo Bruni, d’accordo almeno in parte con Dante, riteneva che fin dall’antica Roma il latino e il volgare fossero coesistiti come due lingue del tutto distinte, l’una intelligibile ai soli dotti, l’altra parlata dal popolo, Flavio Biondo aveva sostenuto che la lingua degli antichi romani era stata fondamentalmente una (anche se con diverse sfumature a seconda del grado di cultura e della condizione sociale dei parlanti) e che il volgare italiano era nato più tardi, per un inquinamento del latino dovuto prima al gran numero di stranieri confluiti a Roma, poi, in misura assai maggiore, alle invasioni barbariche.20 Il Bruni vedeva bene lo stretto nesso fra italiano e latino volgare, ma negava ogni evoluzione delle lingue e riduceva quindi un rapporto di derivazione a un rapporto d’identità statica; il Biondo poneva molto meglio il problema cronologico, ma attribuiva alla mescolanza con le lingue barbariche un peso superiore al dovuto, perché partiva dal presupposto che una lingua si trasformasse solo per infiltrazione di elementi esterni, per «barbarismo», e che la perdita della «purezza» del latino fosse stata la fatale conseguenza della perdita della purezza razziale dei Romani. Da allora le due tesi (italiano = latino volgare; italiano = latino mescolato con le lingue dei barbari) si erano sempre trovate di fronte in tutte le discussioni sulla lingua, pur perdendo via via un po’ della rigidezza e dell’unilateralità iniziale. Nel Settecento il contrasto si era riprodotto, a un livello di dottrina e di consapevolezza storica molto più alto, fra Scipione Maffei e Ludovico Antonio Muratori. Il primo – spinto, oltre che da considerazioni linguistiche, dall’analogia con fatti paleografici e metrici – aveva riaffermato energicamente che l’italiano è la continuazione del latino volgare.21 Egli non commetteva l’errore di credere a un volgare rimasto invariato fin dall’epoca romana,22 ma pensava che nella trasformazio20 iVedi M. Vitale, Sommario di una storia degli studi linguistici romanzi, nel volume collettivo Preistoria e storia degli studi romanzi, Milano-Varese 1955, p. 12 sgg.; Riccardo Fubini, La coscienza del latino negli umanisti, in «Studi medievali», 3a serie, II, 1961, p. 505 sgg. 21 iS. Maffei, Verona illustrata, parte I, libro XI (1731) = vol. II, p. 529 sgg. dell’edizione di Milano 1825. Sul nesso tra le idee paleografiche, linguistiche e metriche del Maffei vedi l’Appendice I del presente volume. 22 iEd. cit., p. 548: «Non bisogna, per quanto si è detto, dar nell’estremità, in cui si vede nel principio delle Prose del Bembo si diede per alcuni altre volte, cioè, di dire che l’Italiana favel-

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ne del volgare latino in volgare italiano le lingue dei barbari avessero esercitato un influsso trascurabile; tanto più che, secondo lui, il numero dei barbari dominatori (Eruli, Goti, anche Longobardi) era stato assai scarso: «Il numero de’ Barbari che in Italia allignarono, minor certamente fu, ch’altri non crederebbe ... Non vennero costoro adunque in numero che avesse proporzione con que’ milioni di persone che abitavan l’Italia da un capo all’altro ... Non fu però da’ Longobardi ripopolata l’Italia di nuovo; e chi l’ha supposto finora, non ha pensato in oltre, come coloro non occuparono già mai l’Italia tutta ...».23 Né soltanto per ciò che riguarda la lingua, ma anche per la religione, per le arti, per le fogge del vestire, il Maffei negava o riduceva al minimo l’influsso barbarico. C’era senza dubbio in questa posizione del Maffei un pathos patriottico che poteva renderla scientificamente sospetta.24 Non aveva torto, da questo punto di vista, il Muratori a osservare: «Pudeat fortasse aliquos petere e Barbaris gentibus ejusmodi subsidium, non secus atque nonnullos pudet suae gentis exordia agnoscere a populis Borealibus: quasi decus tantummodo sit e Trojanis, Graecis, ac Romanis sanguinem suum duxisse: quae vetus insania est».25 Effettivamente, come è noto, la «boria delle nazioni» fu responsabile, fino alla metà dell’Ottocento almeno, delle più assurde teorie etniche e linguistiche. Eppure in questo caso specifico il Maffei aveva sostanzialmente visto giusto; il Muratori, col suo sapiente equilibrio, col suo tener conto di tutti i fattori della formazione del volgare italiano, con la sua documentazione molto più ricca, può sembrare superiore al Maffei; ma finiva col mettere sullo stesso piano gli elementi decisivi e quelli sela fosse già fin dal tempo de’ Romani ...». In tale «estremità» – in cui era caduto, come sappiamo, il Bruni – ricaddero, dopo il Maffei, Francesco Quadrio (Della storia e della ragione d’ogni poesia, I, Bologna 1739, p. 42) e ancora Sebastiano Ciampi (De usu linguae Italicae saltem a saeculo quinto, Pisa 1817). 23 iEd. cit., pp. 19 sg.; vedi in generale i libri IX e X della parte I della Verona illustrata. 24 iOltre ai libri cit. della Verona illustrata, cfr. la Dissertazione sopra i versi ritmici, in Istoria diplomatica, Mantova 1727, p. 186, dove il Maffei ironizza su «quell’universal sentimento, per cui sembriamo immaginarci, che all’entrare in Italia de’ barbari uno spirito lapidifico occupasse tosto gl’Italiani, talché impietrissero in un momento tutti, né mai più funzione alcuna per lor si facesse né animale, né intellettuale, onde debban coloro chiamarsi progenitori nostri, e a que’ pochi stranieri debba generalmente attribuirsi tutto ciò, che in Italia o di buono o di reo da poi s’è fatto». 25 iMuratori, Antiquitates Italicae medii aevi, II, Milano 1739, col. 1083 sg.

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condari e col concedere troppo all’influsso germanico. Il suo errore fu aggravato, anche per astio polemico contro il Maffei, dal Tiraboschi.26 La polemica tra classicisti e romantici rinfocolò la questione e, in parte, le dette un nuovo significato. Un punto fermo della dottrina romantica era che la civiltà moderna aveva avuto inizio dalla caduta dell’impero romano. Il prevalere del cristianesimo sul paganesimo e il sostituirsi delle nuove lingue nazionali (neolatine o germaniche) alla lingua latina segnavano, per i romantici, la fine dell’epoca classica e l’inizio dell’epoca romantica o moderna, della quale era parte integrante il Medioevo.27 Le equazioni lingua = civiltà e religione = civiltà sembravano confermare questa bipartizione della storia universale. Quindi anche nella questione dell’origine dei volgari i romantici erano portati a negare o a ridurre il più possibile la continuità rispetto al latino e a dare invece il massimo rilievo all’elemento germanico: a riattaccarsi, insomma, alla tesi del Muratori e non a quella del Maffei.28 Giuseppe Nicolini riassumeva le idee di tutta la corrente romantica scrivendo che, con le invasioni barbariche, «al dispotismo de’ Cesari successe l’anarchia feudale, alla poesia del politeismo i dogmi del cristianesimo, alla mondana e forte morale dell’antichità la mitica e soave dei popoli rigenerati nel Vangelo, all’idioma del Lazio la lingua chiamata romana e romanza, miscuglio degli antichi dialetti germanici col latino e germe comune delle lingue meridionali d’Europa, e con tutte queste cose un nuovo ordine d’istituzioni, di reggimenti, di costume, di affezioni, di pensieri, d’immagini, di forme».29 Così il vantaggio 26 iI recenti storici della linguistica settecentesca (A. Monteverdi, L. A. Muratori e gli studi intorno alle origini della lingua italiana, in «Atti e mem. dell’Arcadia», serie 3a, I, 1948, p. 81 sgg.; M. Vitale, Sommario cit., pp. 72 sgg., 78 sgg.) hanno, mi pare, concesso troppo al Muratori e trascurato invece il Maffei. Del Tiraboschi vedi Storia della lett. ital., III, 1, prefazione. 27 iLa netta divisione tra le due epoche, con riferimento alle lingue romanze e al cristianesimo, si trova nelle Vorlesungen über dramatische Kunst und Literatur di A W. Schlegel (I, p. 8 sgg. ed. Amoretti), assai note in Italia attraverso la traduzione francese del 1814 e poi quella italiana del Gherardini (Milano 1817, I, p. 26 sgg.). Più sulla religione che sulle lingue insisteva madame de Staël, De l’Allemagne, parte II, cap. XI. Cfr. Ermes Visconti, Idee elementari sulla poesia romantica, nel «Conciliatore», ed. V. Branca, I, pp. 363, 391. 28 iViceversa Giacomo Leopardi, classicista, sviluppò nello Zibaldone, con una ricchezza di esempi e un rigore filologico eccezionale, la tesi della derivazione dell’italiano dal latino volgare (cfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, p. 82 sgg.). Alla discussione sul superstrato germanico egli non prese parte direttamente, ma tutte le sue considerazioni portavano a limitarlo al massimo. 29 iIn Discussioni e polemiche sul romanticismo, ed. Bellorini, Bari 1943, II, p. 119. Cfr. anche p. 120: romantica è quella poesia che «deriva la sua origine e il carattere dall’epoche in cui si vennero formando le lingue romanze, e con esse le nuove civiltà».

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che poteva derivare dal farla finita coi miti della romanità e del primato italico era neutralizzato dallo svantaggio di dare all’Italia, anzi a tutta l’Europa moderna un atto di nascita medievale, cioè oscurantista. Su questo problema della periodizzazione* fece giuste riserve il Romagnosi, amico, ma amico diffidente appunto perché illuminista, degli scrittori del «Conciliatore». Il suo articolo Della poesia considerata rispetto alle diverse età delle nazioni30 peccava, certo, di professoralismo, e i romantici, come osserva il Fubini, avevano buone ragioni per non accettare il goffo termine «ilichiastico» che egli voleva sostituire a «romantico».31 Ma egli aveva visto bene che, a voler essere davvero moderni, bisognava sentirsi distaccati dal Medioevo non meno, forse addirittura più che dall’antichità: bisognava dunque tornare alla tripartizione della storia, separando l’età moderna dalla medievale,32 e non negando d’altra parte il persistere di tradizioni e istituzioni romane anche nel Medioevo. Su questo punto i redattori del «Conciliatore», nonostante tutto il loro progressismo, non consentirono: «L’autore di questo articolo – diceva una nota redazionale – non ci negherà che, dopo la mescolanza dei popoli del nord co’ tralignati figli de’ romani, si è cominciata una nuova generazione d’italiani, dalla quale noi deriviamo in retta linea; e che non può considerarsi, esattamente parlando, come una nazione d’origine latina».33 Qui il giudizio di valore era nettamente favorevole ai barbari, che avevano rinsanguato e rigenerato la «tralignata» stirpe romana. 30

iNel «Conciliatore», ed. V. Branca, I, 55 sgg. iM. Fubini, Romanticismo italiano cit., p. 14. iArt. cit., p. 56: «I tre periodi della storia antica, media e moderna sono fra loro distinti non da una divisione artificiale, ma da effettive rivoluzioni». 33 iIbid., p. 59, n. 1. Cfr. la nota del Berchet in un numero successivo del «Conciliatore» (ibid., p. 66 n. 2). Tra i romantici del «Conciliatore», colui che più limitò l’influenza germanica sulla lingua italiana fu Ludovico di Breme (cfr. «Conciliatore», ed. Branca, III, p. 153: «non già, crediam noi, che le genti del settentrione modificassero gran fatto il sistema della lingua degl’italiani, e facessero molto di più che portarle in buon dato nuovi vocaboli ...»); nelle questioni riguardanti la lingua, del resto, il Di Breme aderiva a concezioni illuministiche assai più che romantiche; credeva fermamente nell’ideale della grammaire générale (cfr. «Conciliatore», III, p. 681) e plaudì agli aspetti più nettamente illuministici della Proposta del Monti. Tuttavia anch’egli tendeva pur sempre a esagerare il numero dei vocaboli italiani di origine germanica (III, p. 325: «Tutta la derrata teutonica registrata dal buon Muratori, e la molta ancora ch’ei tuttavia non registrò»). 31 32

*iQuanto alle discussioni sul problema della periodizzazione storica (generalmente trascurate dagli studiosi del romanticismo italiano) vedi adesso anche Armando Saitta, Sinistra hegeliana e problema italiano negli scritti di A. L. Mazzini, Roma 1968, p. 331 sg., con nuove osservazioni sulla parte che in quel dibattito ebbe il Romagnosi.

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Il Romagnosi replicava con un nuovo articolo, Delle fonti della cultura italiana,34 ancor più interessante e più ricco di spunti che saranno poi sviluppati dal Cattaneo. Accennava – riprendendo l’osservazione già citata del Maffei – al minor numero dei barbari invasori in confronto alla popolazione già residente in Italia; ma, soggiungeva acutamente, non è questo il punto essenziale: «Io non aspiro alla gloria di tessere alberi genealogici, specialmente dopo che ho imparato che le razze si naturalizzano nei paesi nei quali sono trapiantate, e realmente cessano d’essere straniere». L’importante non è «la fisica derivazione degli odierni italiani», ma «i primordi della moderna civiltà». Ammettiamo pure che il popolo italiano sia sorto dalla mescolanza di romani e barbari, ma «egli sarà pur vero che in questa mescolanza la parte intellettuale latina avrà recato il lume alla parte intellettuale germanica, e le avrà impresso il movimento»; la cultura italiana moderna, certo, è diversissima dall’antica, ma «per indurre questa diversità non era necessaria la visita desolante di que’ signori del nord». Rispetto alla posizione del Maffei, la novità introdotta dal Romagnosi consisteva nella dissociazione tra la formazione culturale di un popolo e la sua composizione antropologica: una dissociazione tipicamente pre-cattaneiana. Nel clima di queste discussioni, dunque, si spiega perfettamente l’interesse del Cattaneo giovane per i rapporti tra romani e barbari e per le origini della lingua italiana. E si spiega come egli, classicista e romagnosiano, sostenesse il «piccol numero dei barbari»35 e il limitato influsso delle loro lingue sul volgare italiano.36 Dall’abbozzo del 1824 risulta che egli intendeva far notare come le parole introdotte dai barbari nella lingua italiana designassero «cose guerresche, politiche ecc.», mentre quelle designanti «cose religiose, agricole, artigiane, commerciali» erano tutte di origine latina.37 Anche di questa osservazione si può trovare la fonte nell’ambiente classicista, e precisamente nella dissertazione del Perticari Dell’amor patrio di Dante, che faceva parte del secondo volume della Proposta montiana: «Il latino – scriveva il Perticari – si mescolò di molte parti barbariche, per cui parve 34

iIbid., p. 201 sgg. iAbbozzo del 1824, parte IV, cap. 2 (SL, I, p. 409). Il corsivo è del Cattaneo. 36 iId., parte III, capp. 5, 8 sgg. (SL, I, p. 408); più esplicitamente nella recensione al Balbo (vedi qui sotto, nota 40). 37 iSL, I, p. 408, titoli dei capp. 10-11. Cfr. anche p. 409, cap. 17: «Perché la più parte delle voci straniere passassero nello stile poetico e non divenissero vernacole»: osservazione, questa, che il Cattaneo riprese nella recensione al Balbo, SL, I, p. 111. 35

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oro tutto infuso di fango. Per cui è da fare una considerazione assai bella, e forse nuova: cioè che leggendo le scritture di quell’età, veggiamo che le parole pertinenti al vivere sono per lo più dei latini e quelle pertinenti a’ magistrati ed alla guerra per lo più sono de’ barbari».38 Se il lavoro del 1824 rimase allo stato di progetto, la tesi dello scarso numero dei barbari invasori e della scarsità dell’elemento germanico nella lingua italiana fu espressa poi più volte dal Cattaneo: nell’articolo del ’37 sulla lingua romena,39 nella recensione alla Vita di Dante del Balbo,40 nel saggio Della conquista d’Inghilterra pei Normanni,41 nella Sardegna antica e moderna.42 Con ciò egli partecipava ad una discussione che si svolse assai viva per tutto l’Ottocento e che, per quel che riguarda il primo punto (scarsità dei barbari), fu conclusa da un accurato studio di Carlo Cipolla,43 mentre il secondo punto (quello linguistico) è stato ancora in tempi recenti oggetto di polemica tra Clemente Merlo e Walther von Wartburg.44 E su tutt’e due i punti le idee del Cattaneo hanno avuto piena conferma. 38 iG. Perticari, Dell’amor patrio di Dante, in Monti, Proposta II, 2, Milano 1820, p. 90. Ma già il Castelvetro, nelle postille al Bembo, aveva notato che le poche parole recate nel volgare italiano dai barbari significavano «o dignità, o uficio, o cosa nuova trovata o recata da loro: sì come con le cose nuove sogliono nelle regioni altrui trapassare insieme i vocaboli stranieri» (Bembo, Le prose ecc. con le Giunte di L. Castelvetro, Napoli 1714, p. 28 sgg.). Dal Perticari attinse il Foscolo, Saggi di lett. ital. ed. C. Foligno, I, p. 48. 39 iSL, I, p. 220: «Questi fugitivi a cui l’immaginazione degli istorici largì il nome di vincitori dei Romani ...»; e poco sotto: «Fu a quel tempo che avvenne la rivolta universale dei mercenarii, chiamata ampollosamente la gran trasmigrazione dei popoli; e non fu altro che l’acquartierarsi delle orde dei militari stranieri nelle province dell’occidente, ma in così scarso numero che di loro appena rimase reliquia alquanto al di dentro delle frontiere». 40 iSL, I, p. 109 sgg. 41 iSSG, I, p. 74 sg. 42 iSSG, I, p. 203 sg.; e ancora più volte in altri scritti posteriori. 43 iNei «Rendic. dell’Accad. dei Lincei», serie 5a, IX, 1900, pp. 329 sgg., 369 sgg., 517 sgg., 567 sgg. Cfr. G. Romano e A. Solmi, Le dominazioni barbariche in Italia, Milano 1940, p. 286, n. 10 (ma Carlo Troya, Storia d’Italia del Medio-Evo, IV, 1, p. 137, sostenne la tesi opposta a quella che gli attribuisce il Romano). Né il Cipolla né il Romano menzionano il Cattaneo, sebbene egli abbia avuto una parte importante in questa discussione. Fu probabilmente la recensione del Cattaneo alla Vita di Dante (1839) a produrre nel Balbo quel mutamento di opinione che il Cipolla documenta a p. 389 del suo articolo (cfr. p. 337). Alla «questione longobardica» appartiene, come è ben noto, anche il Discorso del Manzoni (vedi più oltre, Appendice I), che però non tratta il problema del rapporto numerico fra romani e barbari. Per le discussioni in parte analoghe che, contemporaneamente, si svolgevano in Francia, vedi A. Saitta, introd. alla Storia della civiltà in Europa di F. Guizot, Torino 1956, pp. XXXIX sg., XLIII sgg. 44 iCfr. C. Merlo, Saggi linguistici, Pisa 1959, pp. 189 sgg., 203 sgg. (già nei «Rendiconti Accad. d’Italia» 1940 e 1941); T. Bolelli in «Annali della Scuola Normale» XX, 1951, p. 255 sgg. (specialmente 267 sgg.); B. E. Vidos, Manuale di linguistica romanza, trad. ital., Firenze 1959, pp. 239 sgg., 257 sgg.

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Ma oltre alla mescolanza del latino con le lingue germaniche, un’altra mescolanza era stata già da tempo indicata come una possibile origine dei volgari neolatini: la mescolanza con le lingue dei popoli conquistati dai romani: osco-umbri, etruschi, celti, ibèri. Oltre al superstrato, diremmo noi oggi, il sostrato. Il merito di aver dato le prime formulazioni rigorose della teoria del sostrato non solo lessicale, ma anche fonetico, spetta a studiosi francesi del Cinque-Seicento (Pasquier, Du Cange) più che a italiani.45 Ciò si comprende bene: gli italiani potevano in un certo senso considerare la loro lingua come la continuazione d i r e t t a del latino volgare, mentre un’indagine sulle origini del francese poneva immediatamente il problema della d i f f er e n z i a z i o n e del latino nei vari idiomi romanzi. Tuttavia anche in Italia un problema analogo era posto dai dialetti, così diversi l’uno dall’altro; e anche qui la teoria del sostrato finì coll’imporsi. Con molta nettezza la enunciava il Maffei, a proposito della diversità fra il dialetto bresciano e il veronese: «Che Brescia e Verona da nazioni diverse tenute già fossero, e quella da Galli, questa da Veneti, altra grandissima pruova ne dà tuttora il linguaggio dell’una e l’altra, e la somma diversità di pronunzia e di troncamenti, e le contrarietà d’accenti e di suoni, e il ritenere i Bresciani ancora non so qual Gallicismo, uniformandosi co’ dialetti di Bergamo e d’altri Lombardi; dove i Veronesi hanno la favella ed il suono istesso di Vicenza e di Padova, che n’è sì alieno. Questo per verità è un testimonio sensibile e ancor presente; certa cosa essendo che i nostri odierni dialetti non altronde si formarono, che dal diverso modo di pronunziare negli antichi tempi e di parlar popolarmente il Latino; la qual diversità non altronde nasceva, che dal genio delle varie lingue che avanti la Latina correvano, vestigio delle quali restò pur sempre, ed è quasi indelebile».46 Qui, come si vede, la teoria ha già la stessa forma che avrà nel Cattaneo e poi nell’Ascoli: sostrato fonetico, più che lessicale; non una vaga «mescolanza di lingue», ma la nuova lingua pronunciata secondo cer45 iM. Vitale, Sommario (cit. qui sopra, alla nota 20), pp. 40, 64 e passim. Al sostrato accenna già abbastanza chiaramente, nel Cinquecento, Claudio Tolomei (Vitale, p. 36). Flavio Biondo non parlava ancora di vero e proprio sostrato, ma di imbarbarimento della lingua latina dovuto ai molti stranieri confluiti a Roma: fenomeno, questo, che era stato già deplorato da Cicerone (Brutus, 258) e da molti altri scrittori latini. 46 iVerona illustrata, parte I, lib. I (ed. di Milano 1825, I, p. 26 sg.). Questo importante passo non è di solito citato dagli storici della linguistica romanza e del concetto di sostrato.

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te abitudini foniche precedenti, abitudini estremamente tenaci, tanto da sussistere tuttora e da costituire perciò una testimonianza vivente dell’etnografia dell’Italia preromana. Il Muratori aveva manifestato nei riguardi della tesi del Maffei qualche riserva – sappiamo già che egli era affezionato alla tesi del superstrato germanico –, tuttavia aveva finito coll’attribuire anch’egli alle lingue preromane un influsso assai notevole sull’origine dei dialetti italiani e degli altri idiomi romanzi.47 Da allora in poi, anche in Italia la teoria del sostrato aveva avuto larga diffusione, sia nella forma eclettica del Muratori (duplice influsso, del sostrato e del superstrato), sia nella forma esclusiva del Maffei. Perfino uomini che in fatto di linguistica avevano solo nozioni vaghe e di seconda mano, come il Foscolo e il Gioberti, aderirono ad essa e la esposero in modo abbastanza esatto.48 Né mancarono dei fanatici che videro senz’altro nei dialetti italiani la continuazione delle lingue dell’Italia preromana poco o nulla modificate dall’influsso latino. Già nel Cinquecento, come è noto, il Giambullari aveva considerato il fiorentino come la continuazione dell’etrusco; ma ancora nel 1831 Ottavio Mazzoni Toselli si affaticò a dimostrare che il bolognese non era che il dialetto dei Galli Boi, e che anche negli altri dialetti italiani l’elemento celtico predominava su quello latino.49 In queste storture è facile riconoscere le manifestazioni di ridicoli orgogli regionali o municipali. Ma anche la teoria del sostrato nella sua forma seria e ragionevole si nutriva di quel «patriottismo italico», di quel vagheggiamento dell’Italia preromana, che ispirò e accompagnò sempre, dal Settecento fino a metà Ottocento, gli studi di antichità italiche.50 La lingua e la civiltà dell’Italia moderna apparivano come 47 iAntiquitates Italicae medii aevi, II, col. 991 sg., 995 sg., 1017, 1043 sg. (in quest’ultimo passo è citato il Maffei e sono formulate le riserve a cui accennavamo sopra). 48 iFoscolo, Epoche della lingua italiana, in Saggi di letter. italiana, ed. C. Foligno, Firenze 1958, I, pp. 46 («La lingua romana adattandosi agli organi di popoli di differenti classi e d’abitudini e lingue diverse ...»), 48, 117 sg. («Il suono d’ogni sua parola si cangiò in varie guise a norma degli organi e dei linguaggi anteriori di ciascun popolo»). Sull’epoca di composizione (1823-24) e sulle varie vicende di queste lezioni foscoliane, rimaste in gran parte inedite (e perciò ignorate dal Cattaneo giovane), vedi l’introduzione del Foligno. Gioberti, Del primato morale e civile degli Italiani, II, Bruxelles 1843, pp. 264-66. Diversamente il Leopardi: vedi più oltre, p. 386. 49 iO. Mazzoni Toselli, Origine della lingua italiana e Dizionario Gallo-Italico, Bologna 1831. 50 iSu questa corrente filoitalica e antiromana, che va dagli etruscomani settecenteschi al Denina, al Sismondi e al Micali (e, in un ambito più largo, dal Vico del De antiquissima al Cuoco

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una sintesi dell’elemento latino con l’elemento italico primitivo, o meglio come un riaffiorare, nel Medioevo, di quel genuino fondo italico che la conquista romana aveva sommerso. Non è un caso che il Maffei e più tardi il Lanzi, fautori del sostrato in linguistica, fossero appassionati di etruscologia e di antichità italiche;51 e nemmeno che, ancora più tardi, il Gioberti vedesse nella teoria del sostrato un appoggio alla sua tesi dell’autoctonia della civiltà italiana e della conservazione del «tipo pelasgico» nel popolo italiano odierno.52 Anche in Francia, del resto, la teoria del sostrato era sorta nel clima della celtomanìa, cioè di un patriottismo antiromano. Perciò, quando il Cattaneo nell’abbozzo del suo lavoro giovanile accennava al «rinvigorimento degli antichi idiomi non affatto spenti» come ad una delle principali cause generatrici dei dialetti italiani,53 e quando nella recensione al Balbo, in maniera più esplicita, faceva risalire la differenza tra i dialetti stessi alla «differenza delle popolazioni primitive, le quali non si sradicarono mai dal terreno nativo, né dopo i Romani né prima, e assumendo dai Romani il linguaggio latino, lo modificarono a seconda del loro anteriore idioma etrusco, o celtico, o veneto, o carnico, e della domestica loro abitudine di pronunciarlo»,54 seguiva una opinione largamente diffusa, senza apportare sostanziali modifiche alla formulazione che già ne aveva dato il Maffei.55 e al Gioberti) vedi B. Croce, Storia della storiogr. ital. nel sec. xix, Bari 19473, I, pp. 52 sg., 110 sgg. (solo per l’Ottocento); F. Mascioli, Anti-Roman and Pro-Italic Sentiment in Italian Historiography, in «Romanic Review» XXXIII, 1942, p. 366 sgg.; A. Momigliano, Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955, pp. 92 sgg., 104 sgg., 276. Su un testo generalmente poco citato a questo proposito, il Saggio sopra la filosofica degli antichi Etruschi di G. M. Lampredi (Firenze 1756, pp. 59 sgg.), ha richiamato la mia attenzione Mario Mirri. Mentre il significato storiografico generale di questo indirizzo è stato messo ottimamente in luce dagli studiosi ora citati, il suo rapporto con la teoria linguistica del sostrato richiederebbe ancora un’apposita indagine. ** 51 iSu differenze e analogie tra il Maffei e gli etruscomani settecenteschi cfr. A. Momigliano, Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, p. 270. Si noti che nel Ragionamento sopra gl’Itali primitivi (in Istoria diplomatica, Mantova 1727, p. 239) il Maffei accennava con un certo favore perfino alla tesi del Giambullari sulla derivazione del fiorentino dall’etrusco. Quanto al Lanzi, cfr. il suo Saggio di lingua etrusca2, I, Firenze 1824, p. 327. 52 iPrimato (ed. cit. qui sopra, n. 48), II, p. 265. Anche nel Foscolo – sostenitore, come abbiamo detto, della teoria del sostrato – si trovano spunti di patriottismo antiromano, come il famoso passo delle Ultime lettere d’Iacopo Ortis, 28 ottobre 1797; ma in lui non è del tutto sicuro che vi sia una connessione tra i due ordini d’idee. 53 iSL, I, p. 408. 54 iSL, I, p. 112. 55 iNon mi pare che si possa dire col Vitale (Sommario cit., p. 120) che nella linguistica anteriore al Cattaneo il sostrato era concepito «erratamente, cioè come incontro e scontro di due lin-

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Più nuova, caso mai, almeno tra gli studiosi italiani, era l’idea di un influsso negativo esercitato dal sostrato linguistico: i popoli soggiogati, costretti a parlar latino coi loro dominatori, avevano semplificato la morfologia latina più ancora di quanto non l’avesse già semplificata la plebe romana; avevano insomma trasformato il latino in una sorta di lingua franca: «Tanto il latino quanto il greco e il gotico si decomposero nel dilatarsi e nel divenire, da idiomi di tribù, lingue commerciali di vaste popolazioni. Si diradò quella selva lussureggiante di neutri, di passivi, di medii, d’ottativi, di duali ... Laonde il latino parlato si dové semplificare, nel propagarsi pel vasto occidente e nel divenir lingua mercantile di cento rozze popolazioni, dalle foci del Tago a quelle del Danubio».56 Questa idea, comunque, rimase in secondo piano nel suo pensiero; quella che continuò a prevalere in lui, come vedremo, fu la valutazione positiva del sostrato. E neppure in lui mancava un po’ di quel patriottismo italico al quale accennavamo or ora. La sua simpatia per il federalismo etrusco, il suo rimpianto che esso avesse dovuto soccombere all’accentramento statale romano,57 il suo insistere sulla continuità storica delle città italiane dall’epoca preromana fino al fiorire dei comuni medievali,58 si riconnettono, attraverso il Sismondi e il Micali, al federalismo repubblicano degli etruscologi settecenteschi. Vedremo tuttavia che, in linguistica non meno che in politica, il suo federalismo e il suo italicismo avevano un’impronta particolare. gue opposte». La formulazione del Maffei che abbiamo riportato qui sopra (p. 342) era sostanzialmente uguale a quella enunciata poi dal Cattaneo, e dallo stesso Ascoli. 56 iSL, I, p. 110. Cfr. nell’abbozzo del 1824 (SL, I, p. 406): «Comparazione fra il deperimento della lingua latina, e quello dell’idioma greco e dell’anglosassone»; e ancora nelle Lezioni d’Ideologia (SF, II, p. 338): «Le lingue ... quando si propagano presso un altro popolo impoveriscono, perché rimane solo la parte più facile e più necessaria». Questa tesi si trova già accennata in Adam Smith (trad. francese del Manget, Essai sur la première formation des langues, Ginevra 1809, p. 64). 57 iNotizie naturali e civili su la Lombardia, X (= SSG, I, p. 350): «Ben altra sarebbe l’istoria d’Europa ... se gli Etruschi avessero propagato sin d’allora lungo il Reno e il Danubio quel loro vivajo di città. Il principio etrusco era diverso dal romano, perché federativo e molteplice poteva ammansare la barbarie senza estinguere l’indipendenza; e non tendeva ad ingigantire un’unica città, che il suo stesso incremento doveva snaturare, e render sede materiale d’un dominio senza nazionalità». Cfr. ibid., VI (= SSG, I, p. 343). Un giudizio d’intonazione più favorevole ai romani si trova nel saggio Dell’evo antico (SSG, I, p. 169); anche qui, tuttavia, il Cattaneo osserva che «nel popolo romano e nelle sue colonie l’ordine, la disciplina, la legalità non lasciarono libero il corso alla natura, come nelle sciolte colonie greche». 58 iÈ questa, come è noto, la tesi del saggio La città considerata come principio ideale delle istorie italiane (1858, in SSG, II, p. 383 sgg.). Cfr. E. Sestan, nell’edizione delle Opere di Romagnosi, Cattaneo e Ferrari, Napoli 1957, p. 998 n.

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La ricerca che abbiamo condotta fin qui non mira affatto a risolvere sic et simpliciter il Cattaneo linguista nei suoi predecessori italiani. Abbiamo già detto che, col suo interesse per le lingue germaniche e per il romeno, il Cattaneo dimostrò fin dall’inizio di saper guardare al di là dei confini nazionali. Aggiungiamo che fin dal suo primo articolo egli aveva ben chiaro in mente il principio che la comunanza d’origine tra due lingue è dimostrata all’affinità di struttura grammaticale assai più che da somiglianze di vocaboli, le quali potrebbero essere dovute ad imprestiti59 e questo principio egli non lo trovava nel Maffei o nel Romagnosi, ma nella nuova linguistica comparata, sorta all’inizio dell’Ottocento per opera di studiosi danesi e tedeschi.60 È però un fatto che, in questa prima fase del suo pensiero linguistico, il Cattaneo si muove ancora prevalentemente in un ambito italiano, nell’ambito della tradizione classicista. Fu il passaggio dagli studi romanzi agli indeuropei, avvenuto verso il 1840, ad allargare il suo orizzonte e ad aprire nuove possibilità di applicazione ai suoi principii linguistico-etnografici. 2. Nel 1839 il veronese Bernardino Biondelli,* dopo aver insegnato matematica, geografia e storia in diverse città del Veneto, venne a stabilirsi a Milano, conobbe il Cattaneo e cominciò a pubblicare nel «Politecnico», fondato proprio allora, una serie di articoli sulla linguistica indeuropea e sulle lingue germaniche, informando ampiamente il pubblico italiano sui risultati raggiunti dalla nuova scienza in un trentennio di vita.61 Alcuni di questi articoli furono poi dal Biondelli stesso ripubblicati, una quindicina d’anni più tardi, in un volume di Studii linguistici 59

iSL, I, p. 214; cfr. p. 109 sg. iA quell’epoca il Cattaneo non avrà conosciuto direttamente né il Rask, né il Bopp, né la Sprache und Weisheit der Indier di F. Schlegel (vedi qui sotto, p. 000). Può darsi, invece, che avesse letto alcuni scritti di A. W. Schlegel, più diffusi e di carattere più divulgativo (per esempio De l’étymologie en général, 1827), in cui quel principio era enunciato. Ma questa rimane una semplice ipotesi. 61 iVedi specialmente Sullo studio comparativo delle lingue («Politecnico», II, 1839, p. 161 sgg.); Sull’origine e lo sviluppo della lingua italiana (III, 1840, p. 123 sgg.); e l’ampia recensione alla Deutsche Grammatik di Jacob Grimm (ibid., 250 sgg.), che contiene alcune critiche sensate, suggeritegli in parte dal Castiglioni (cfr. p. 266). 60

*iSul Biondelli vedi l’articolo di Tullio De Mauro di prossima pubblicazione nel Dizionario biografico degli italiani. **

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(Milano 1856), di cui l’Ascoli scrisse un’amplissima recensione, cortese nella forma, ma sostanzialmente assai severa.62 Quella recensione ci ha tramandato l’immagine di un Biondelli divulgatore brillante ma superficiale, pieno di entusiasmo per la nuova linguistica ma estraneo ai suoi motivi ispiratori più profondi, e, per di più, poco aggiornato anche dal punto di vista meramente bibliografico.63 Non si può dire che questa immagine sia interamente falsa. Bisogna, tuttavia, non dimenticare due cose. Prima di tutto, il rimprovero fondamentale che l’Ascoli mosse al Biondelli fu di avere ristampato nel ’56 i suoi vecchi articoli lasciandoli quasi invariati, senza metterli al corrente coi notevoli progressi che erano stati compiuti nel frattempo. Rimprovero giusto, dal momento che quegli articoli non avevano un tale valore intrinseco da meritare di essere conservati nella forma originaria, a testimonianza di una fase degli studi linguistici. Ma fra il ’39 e il ’45, quando essi apparvero per la prima volta, non si sarebbe potuto dire che fossero poco aggiornati. Il Biondelli mostrava di conoscere, e non di seconda mano, i principali lavori di linguistica comparata apparsi in Europa dall’inizio del secolo; conosceva e apprezzava anche il Rask, come indeuropeista e come germanista,64 e ciò è particolarmente notevole, se si pensa quanto tardarono i glottologi tedeschi a riconoscere i meriti del grande studioso danese. In secondo luogo, il difetto di distinguere in modo eccessivamente reciso e schematico i tre grandi tipi di lingue – difetto che l’Ascoli molto giustamente criticava – non era peculiare al Biondelli, ma comune alla maggioranza dei linguisti ottocenteschi. Da quando Friedrich Schlegel nella Sprache und Weisheit der Indier aveva distinto nella maniera più assoluta le lingue flessive dalle non flessive – giungendo quasi ad attribuire alle prime un’origine divina, alle seconde un’origine ferina –, da quando suo fratello August Wilhelm aveva sostituito alla bipartizione una tripartizione, distinguendo i tipi che furono poi chiamati isolante, agglutinante e flessivo, e si era diffusa tra i linguisti e iG. I. Ascoli in «Studj orientali e linguistici» III = Studj critici, Milano 1861. iInfluenzata dal giudizio negativo dell’Ascoli è la commemorazione del Biondelli tenuta da V. Inama («Rendic. Ist. Lombardo» XXI, 1888, pp. 26 sgg.). Cfr. anche B. Terracini in «Enciclopedia Italiana», s.v. 64 iCfr. la recensione al Grimm (cit. qui sopra, n. 61), p. 255, e l’Atlante linguistico d’Europa, I, Milano 1841, p. 14. 62

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gli etnografi l’idea che questi tre tipi fossero del tutto incommensurabili, che corrispondessero addirittura a tre diverse formae mentis, e che ogni tentativo di ricondurli a un’origine comune fosse da respingersi a priori come assurdo. Motivi di diversa natura – un legittimo senso di reazione alle sbrigliate fantasie etimologiche di chi non esitava a far derivare tutte le lingue dall’ebraico o magari dall’olandese; l’analogia tra la linguistica comparata e l’anatomia comparata cuvieriana, che sosteneva la fissità delle specie animali; il colonialismo e il razzismo incipienti, che asserivano l’inferiorità assoluta ed eterna dei popoli di colore, o anche degli ebrei, rispetto agli indeuropei – concorrevano a rafforzare questa convinzione. Un linguista serio (anche se alquanto pachidermico) come August Friedrich Pott, un linguista dilettante ma ricco d’ingegno e di fascino come Renan, rimasero sempre convinti dell’assoluta scientificità di quella classificazione tripartita delle lingue e dell’impossibilità di stabilire qualsiasi connessione fra i tre tipi. È vero che Franz Bopp si era sempre opposto a quelle schematizzazioni, e che anche Wilhelm von Humboldt se n’era mostrato insoddisfatto. Ma la loro pur grandissima autorità non era riuscita a imporsi su questo punto; anzi, il Bopp, sostenendo in modo un po’ troppo meccanico l’origine perifrastica di tutte le forme flessive, e pretendendo di dimostrare la parentela delle lingue malaico-polinesiche e caucasiche con le indeuropee, aveva finito col dare armi agli avversari. Perciò, quando il Biondelli ripeteva il dogma dell’assoluta differenza tra le lingue «semplici», «affissive» e «inflessive», e affermava che «gli idiomi indo-europei formano un regno perfettamente distinto sino ab origine da tutti gli altri del globo, il cui genio essenzialmente diverso non ammette possibilità di conciliazione», e, sconfinando dalla linguistica nel razzismo, sosteneva che «al bel cranio ovale e simmetrico della razza caucasica va unito il più ricco corredo di facoltà intellettuali, mentre la stupidità caratterizza d’ordinario il povero negro dal cranio deforme e compresso» e attribuiva tali diversità linguistiche e antropologiche all’opera della divina Provvidenza,65 diceva delle sciocchezze, certo, ma delle sciocchezze che circolavano larga65 iVedi Atlante cit., pp. 246 sgg., 249; «Politecnico» II, p. 182; cfr. p. 162: «Si vide che il linguaggio d’una nazione forma quasi un tipo caratteristico della medesima, del pari che la struttura dello scheletro e il colore della pelle».

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mente in Europa; e la critica dell’Ascoli, attraverso il Biondelli, colpiva i suoi maestri tedeschi e francesi. Assai più accettabili erano le sue idee sulle cause che producono la differenziazione di più lingue nate dal medesimo ceppo. Egli escludeva giustamente l’influenza del clima;66 riteneva, come già molti teorici settecenteschi, che il «vario cangiamento di culto e di costumi», potesse ripercuotersi sulle lingue;67 ma soprattutto attribuiva la differenziazione al sostrato. Per quel che riguardava i dialetti italiani e le lingue romanze in genere, riteneva senz’altro che questa fosse stata l’unica causa differenziante: seguiva, dunque, l’opinione del Maffei e del Cattaneo, e cercò di svolgerla sistematicamente nell’articolo Sull’origine e lo sviluppo della lingua italiana,68 nella breve trattazione sui dialetti d’Italia scritta per l’Enciclopedia Pomba69 e, infine, nel Saggio sui dialetti gallo-italici (Milano 1853-56) che è forse il suo miglior lavoro. La teoria del sostrato, del resto, era stata nel frattempo applicata anche alla linguistica indeuropea: Friedrich Schlegel aveva fatto derivare il greco, il latino, il germanico, lo slavo, il persiano da mescolanza della perfetta lingua sanscrita con le lingue rozze, non flessive, dei primitivi abitatori dell’Europa e del Medio Oriente;70 il sanscrito stesso, poi, gli era parso non sufficientemente puro, e quindi egli aveva supposto che fosse stato anch’esso contaminato da lingue di popoli aborigeni dell’India.71 Si capisce, dunque, come il Biondelli accettasse senza esitazioni una teoria che trovava già sostenuta sia dai linguisti italiani, sia da uno dei fondatori della linguistica indeuropea. Gli articoli del Biondelli, probabilmente anche la conversazione con lui, esercitarono un efficace stimolo sul Cattaneo. Non che egli abbia imparato molto dal Biondelli: della teoria del sostrato era fautore già da tempo (anche se si può ammettere che il Biondelli abbia contribuito a rafforzare ulteriormente in lui questa convinzione), e su altre questioni di linguistica generale e indeuropea egli non tardò, come vedremo, a dissentire dall’amico. Ma mentre nel ’37 aveva pub66

i«Politecnico» II, p. 175. iAtlante cit., p. 250. 68 iCit. qui sopra, nota 61. 69 iRist. in Studii linguistici, Milano 1856, p. 161 sgg. 70 iF. Schlegel, Über die Sprache und Weisheit der Indier, Heidelberg 1808, p. 71 sgg. 71 iIbid., p. 66 sg. Lo Schlegel supponeva giustamente che gli inni vedici, a quel tempo non ancora studiati, documentassero una fase linguistica anteriore al sanscrito stesso. 67

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blicato l’articolo sulla lingua romena col tono di chi dice addio agli studi della giovinezza,72 adesso l’esempio del Biondelli lo spinse a occuparsi nuovamente di linguistica, a leggere alcune tra le opere straniere di cui il Biondelli dava notizia, a prender posizione critica di fronte a quei maestri della glottologia indeuropea che il Biondelli venerava. Come è noto, il Cattaneo era soprattutto scrittore di recensioni: per sviluppare le sue idee personalissime aveva bisogno di prendere l’avvio da un’opera altrui che gli presentasse un materiale già raccolto e lo informasse sui risultati fin allora raggiunti. E fu appunto il primo volume dell’Atlante linguistico d’Europa, in cui il Biondelli esponeva in forma sistematica idee e notizie già accennate negli articoli del «Politecnico», ad offrire al Cattaneo l’occasione per il saggio Sul principio istorico delle lingue europee, cioè per il suo scritto linguistico-etnografico più ampio e originale.73 Fra le opere di linguistica indeuropea citate e seguite dal Biondelli, il Cattaneo rivolse la sua attenzione soprattutto alla Sprache und Weisheit der Indier di Friedrich Schlegel, al saggio Über den Ursprung und die verschiedenartige Verwandtschaft der europäischen Sprachen di Christian Gottlieb von Arndt74 e al Parallèle des langues de l’Europe et de l’Inde di Frédéric-Gustave Eichhoff.75 Ora, specialmente quest’ultimo autore faceva provenire dall’Asia non solo le lingue, ma i popoli europei: la diffusione delle lingue indeuropee non sarebbe stata che la conseguenza di grandi migrazioni di genti asiatiche, le quali avrebbero invaso un’Europa scarsamente abitata, sopraffacendo con la forza del numero le popolazioni autoctone. «Tous les Européens – scriveva l’Eichhoff – sont venus de l’orient: cette vérité, confirmée par les témoignages réunis de la physiologie et de la linguistique, n’a plus besoin de démonstration ... Longtemps ces tribus errantes, refoulées par d’autres tribus, ont continué leur marche incertaine à travers les 72 iSL, I, p. 237: «Intanto l’autore si venne affezionando a studii d’indole affatto diversa, sicché non gli sembra omai di poter facilmente ritornare a questi». 73 iSL, I, p. 145 sgg. (già nel «Politecnico» IV, 1841, p. 560 sgg.); con utili note del Sestan nell’ed. di Romagnosi, Cattaneo e Ferrari, p. 617 sgg. 74 iPubblicato a Francoforte nel 1827, molti anni dopo che era stato scritto. Ch. G. von Arndt (da non confondersi col noto poeta e pubblicista Ernst Moritz Arndt) aveva collaborato ai Linguarum totius orbis vocabularia del Pallas. 75 iParigi 1836. L’Eichhoff fu un benemerito divulgatore della linguistica indeuropea, in Francia, una specie di Biondelli francese.

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plaines de l’Europe ...».76 Con ciò l’Eichhoff non faceva che seguire una communis opinio, secondo cui le affinità tra le lingue fornivano indizi sulla comunanza di origine tra i popoli e permettevano di ricostruire gli spostamenti che i popoli stessi avevano compiuto in età preistorica: «cum inter alios usus cognitionis linguarum ille non sit infimus, ut judicari possit de populorum originibus et migrationibus», aveva scritto già il Leibniz.77 L’Asia, poi, era considerata da tempo come la «cuna del genere umano»,78 e quindi quella teoria delle migrazioni indeuropee appariva del tutto naturale. Ma al Cattaneo, che portava nello studio delle origini indeuropee le proprie esperienze di studioso delle origini neolatine, quelle grandi migrazioni di genti asiatiche richiamavano subito alla mente le cosiddette grandi migrazioni dei barbari invasori dell’impero romano. E se queste, secondo la tesi del Maffei a cui egli, come sappiamo, aderiva, non erano esistite se non nella fantasia degli storici, perché quelle avrebbero dovuto meritare più credito? «Li astronomi, da quella parte di corso in cui possono seguire una cometa, inducono il rimanente dell’invisibile suo volo nell’immensità dello spazio»:79 allo stesso modo lo studio della storia medievale – della «barbarie ritornata», avrebbe detto Vico – poteva servire a rischiarare le tenebre preistoriche80 e a persuadere che il numero degli asiatici che avevano invaso l’Europa primitiva era stato piccolo, molto più piccolo di quello degli aborigeni europei. I popoli, nel loro complesso, erano stati sempre assai più stazionari di quanto gli storici amassero credere: «In tutta l’istoria si scambiarono troppo sovente i popoli, ossia le moltitudini sottomesse e lavoratrici, colle caste militari che imponevano loro il dominio ed il nome. Le prime stanno quasi sempre avvinte alla terra nativa; le altre si stendono rapidamente colla vittoria, e spariscono rapidamente nella sconfitta. Ma li scrittori superficiali, che s’apprendono ai nomi, vedono 76

iOp. cit., p. 12 sg. Cfr. Biondelli, Atlante linguistico cit., p. 55 sgg. iOpera omnia, ed. Dutens, VI, 2, Ginevra 1768, p. 140. 78 iCosì il Cantù (Storia univ., I, Torino 1838, p. 191), ripetendo un concetto che, specialmente da Herder in poi, aveva avuto larghissima diffusione. 79 iSL, I, p. 166. 80 iIl Vico, come è noto, riteneva di potere invece «schiarire la storia barbara ultima (il Medioevo) col ricorso della storia barbara prima»: cfr. Scienza nuova seconda, II, p. 131 sgg. ed. Nicolini. 77

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sempre nelle spedizioni d’una casta o d’un esercito una radicale trasfusione di razze, e le vanno cacciando e ricacciando da luogo a luogo, come onde di mare».81 Un motivo polemico, questo, che il Cattaneo non si stancò mai di ripetere con sempre nuove e sempre efficacissime variazioni ironiche.82 Come spiegare, allora, l’innegabile affinità fra il sanscrito, l’iranico, l’armeno e la maggior parte delle lingue europee? Qui il parallelismo tra gli asiatici invasori dell’Europa preistorica e i barbari invasori dell’impero romano veniva meno. Questi ultimi, infatti, scarsi di numero e, nello stesso tempo, inferiori culturalmente ai romani, non erano riusciti a imporre nel mondo latino le proprie lingue. Gli «indopersi», invece, avevano avuto una fioritura di civiltà più precoce che gli europei delle età preistoriche: in Asia si erano già formati grandi «imperi sacerdotali» quando l’Europa era ancora immersa nella barbarie. Perciò le lingue e le civiltà degli indiani e dei persiani si erano imposte anche senza la forza del numero, attraverso la fondazione di colonie e la penetrazione militare, commerciale e religiosa, «sotto forma primamente di mercanti, di prigionieri, e di caste guerriere e sacerdotali».83 Qui dunque, più che il parallelismo con l’insediamento dei barbari nell’impero romano, valeva quello con le colonie greche e romane, o con le colonizzazioni effettuate da portoghesi, spagnoli, francesi, inglesi nell’epoca moderna. L’Europa preistorica era stata, rispetto all’Asia, un po’ quello che l’America o l’Australia erano rispetto all’Europa.84 E come nella colonizzazione inglese del Nord America avevano avuto larga parte i profughi per motivi religiosi e politici, così il Cattaneo amava pensare che tra gli indopersi venuti a colonizzare l’Europa ve ne fossero molti che erano emigrati dagli imperi teocratici dell’Asia in cerca di libertà, e non solo di spazio vitale o di ricchezze.85 81

iSL, I, p. 160 sg. iCfr., tra i molti esempi che si potrebbero citare, SL, I, p. 163: «Quelle correnti d’uomini, quei banchi d’aringhe terrestri, che spinti quasi da un fato, vanno perpetuamente camminando dal Caspio all’Atlantico, se vennero mai, certamente vennero in tempi che l’istoria non conosce, e sono contrari a tutto ciò che l’istoria conosce». 83 iSL, I, p. 188. 84 iSL, I, p. 166 sg.; II, p. 297; SSG, I, p. 340; SF, III, p. 200. Per idee simili sostenute da studiosi recenti cfr. V. Pisani in «Paideia» XV, 1960, p. 163 sg. 85 iSL, I, p. 170 («in cerca ... d’asilo a fedi proscritte»); SF, I, p. 376 («in questa nostra Europa, in questa multiforme colonia fondata da tribù e da sètte che fuggivano dal giogo orientale»). Più ampiamente il Cattaneo sviluppò quest’ipotesi nel saggio Le origini italiche illustrate coi libri dell’antica Persia (1861: SL, II, p. 291). 82

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In verità, molte di queste idee si trovavano già accennate nell’opera di Friedrich Schlegel. In contrasto con gli storici e i linguisti del tempo, già lo Schlegel aveva sostenuto che non si dovevano concepire le migrazioni dei popoli come l’effetto di pure e semplici «pressioni e spinte in conformità a leggi meccaniche», ma che bisognava indagare «per quali cause un grande popolo si può frazionare in popoli minori i quali poi si suddividono e si differenziano sempre più, o, al contrario, la fusione di più popoli diversi può dar luogo ad un popolo del tutto nuovo, con una sua lingua e un suo carattere nazionale ben determinato». Aveva anche ammesso che l’ipotesi delle grandi migrazioni non era l’unica possibile: «Non sempre colonie e migrazioni furono tutt’uno; un piccolo numero di individui poté spesso bastare a fondare una colonia, se non si trattava di conquistatori e di guerrieri, ma di sacerdoti che avevano qualche motivo di abbandonare la propria patria e di recarsi tra popolazioni selvagge per educarle e governarle». Aveva, infine, accennato anch’egli a profughi per motivi politici o politico-religiosi: «È mai possibile che una costituzione così oppressiva per le classi inferiori (come quella indiana) sia stata imposta senza il ricorso alla forza e senza un periodo di lotte, le cui alterne vicende avranno indotto molte tribù ad emigrare? La mescolanza di tali tribù profughe con le popolazioni selvagge dell’Europa potrebbe aver dato luogo al popolo slavo: si spiegherebbe così la somiglianza non molto stretta che le lingue slave hanno con la famiglia delle nobili lingue flessive. Né c’è bisogno di pensare che i profughi appartenessero solo alle classi oppresse; può darsi che anche altri, i quali avevano serbato un animo puro, inorriditi per la corruzione, e l’anarchia che certo precedettero la divisione in caste, fuggissero lontano dalla patria, alla ricerca di luoghi ancora incontaminati, dove essi potessero mantenersi fedeli all’antica pietà».86 Nei riguardi dello Schlegel il Cattaneo, bisogna riconoscerlo, non fu del tutto equanime; mise in rilievo solo i punti di dissenso, non queste pur notevoli concordanze. Rimane, però, il fatto che nell’opera dello Schlegel questi erano solo accenni più o meno isolati (inseriti, per di più, in una visione misticheggiante della preistoria); mentre per il Cattaneo si trattava di un’idea fondamentale, che egli desumeva in primo luogo, come abbiamo visto, dai suoi studi sul Medioevo e sulle origini delle lingue romanze. 86

iF. Schlegel, Über die Sprache und Weisheit der Indier, Heidelberg 1808, pp. 171, 179, 182.

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Certo, se per molti storici ed etnografi dell’Ottocento le grandi migrazioni erano un mito romantico, il principio della «sedentarietà» delle popolazioni era, d’altra parte, sostenuto dal Cattaneo con rigidezza eccessiva. Il parallelismo stesso con la colonizzazione dell’America reggeva solo fino ad un certo punto: in America vi è pure stata una migrazione ininterrotta di un grandissimo numero di europei, mentre le stirpi indigene sono state in gran parte annientate, e non hanno lasciato tracce di qualche importanza nelle lingue dei conquistatori. Tuttavia il grande merito del Cattaneo fu di aver visto con assoluta chiarezza che non vi è connessione necessaria tra affinità linguistica e affinità razziale. «Introdurre una lingua non è infondere nelle vene un altro sangue»:87 come i negri di Haiti, pur rimanendo antropologicamente ben diversi dai loro padroni francesi, hanno abbandonato le loro lingue originarie e parlano un dialetto creolo-francese, così i popoli indeuropei non costituiscono un’unica famiglia in senso razziale, ma soltanto in senso linguistico.88 La prima idea di questa importantissima distinzione fu suggerita probabilmente al Cattaneo dal Romagnosi, il quale, come già sappiamo,89 aveva tenuto distinto il problema della «fisica derivazione» degli italiani da quello dell’origine della loro civiltà. Un po’ più tardi del Romagnosi, verso il 1827-29, Wilhelm von Humboldt aveva sostenuto in modo più esplicito la non coincidenza tra lingua e razza; ma quei suoi pensieri rimasero inediti,90 e il Cattaneo poté solo coglierne un’eco nel primo volume del Kosmos di Alexander von Humboldt, uscito nel ’45, quando ormai il suo pensiero su questo argomento era perfettamente definito.91 Del resto, le enunciazioni cattaneiane sono 87

iSL, I, p. 185. iL’esempio dei negri di Haiti è particolarmente caro al Cattaneo: SL, I, pp. 165, 167; SSG, I, p. 342; II, p. 101. 89 iCfr. p. 244. 90 iW. V. Humboldt, Über die Verschiedenheiten des menschlichen Sprachbaues, 1827-29, pubblicato per la prima volta nelle Gesammelte Schriften ed. Leitzmann, VI, 1, Berlino 1907, p. 111 sgg.; su lingua e razza, p. 196 sgg. Questo scritto non va confuso con l’introduzione all’opera Über die Kawi-Sprache, Berlino 1836 ( = vol. VII, 1 dell’ed. Leitzmann), che ha un titolo quasi identico (Über die Verschiedenheiten des menschl. Sprachbaues ecc.) e coincide in molti punti, ma non in tutti. 91 iNella recensione al primo volume del Kosmos («Politecnico» VII, 1845 = SF, I, p. 220) il Cattaneo scriveva: «Volentieri vediamo di non esser soli nell’altro principio che communanza di lingue non prova communanza d’origini, onde altro è linguistica, altro etnografia». Etnografia, s’intende, nel senso di antropologia, di studio dell’uomo dal punto di vista fisico. 88

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più ampie, più dettagliate di quelle stesse di Wilhelm von Humboldt. Se si pensa, poi, che la confusione tra concetti linguistici e concetti razziali imperversò nella cultura europea ancora per parecchi decenni dopo la morte del Cattaneo, per riapparire ancora in tempi recenti a sostegno delle ideologie più reazionarie, si apprezzerà tanto più il valore di quella rigorosa distinzione. E si apprezzerà anche il fatto che il Cattaneo, a differenza degli Humboldt e di molti linguisti recenti, abbia saputo distinguere la linguistica dall’antropologia senza per questo cadere in una concezione idealisteggiante della lingua, senza contrapporre schematicamene alla naturalità della razza l’assoluta «spiritualità» del linguaggio. Anche sul piano puramente linguistico, del resto, il Cattaneo riteneva che si fosse troppo insistito sull’unità indeuropea, trascurando le differenze tra le varie lingue, dovute al sostrato: «Li indagatori, attenti pur troppo a notar solo ciò ch’è simile e commune, omisero affatto di appurare ciò che ciascuna combinazione nazionale serbò di distinto e nativo; e rendendo ragione delle corrispondenze col principio delle immigrazioni, obliarono il principio dell’indigenità, che solo poteva chiarire le differenze».92 Al sostrato Friedrich Schlegel attribuiva, come abbiamo visto, una funzione negativa, di «corruzione» del perfetto organismo grammaticale del sanscrito. Il Cattaneo invece, pur riconoscendo anch’egli che il sanscrito e l’iranico avevano una struttura morfologica più perfetta, non vedeva affatto nella loro commistione con le lingue dell’Europa primitiva una deplorevole «perdita di purezza», ma un innesto fecondo. Al pari degli Schlegel e di W. von Humboldt, egli era convinto che le lingue, a seconda della loro maggiore o minore ricchezza di possibilità espressive, promuovessero o inceppassero lo sviluppo intellettuale dei popoli che le parlavano.93 Ma mentre gli Schlegel, misticheggianti e reazionari, vedevano il non plus ultra nella lingua e, corrispettivamente, nella «sapienza» degli indiani, il Cattaneo aveva ben altri ideali: la civiltà non era per lui sapienza contemplativa, ma attività modificatrice della natura, scienza che si traduce in progresso economico, vita politica che tende a costituire associazioni sempre più vaste senza però introdurre un’uniformità 92 iPrefazione al vol. II di Alcuni scritti = SSG, II, p. 104. Cfr. SL, I, p. 187; SF, I, p. 153; SSG, I, p. 341. 93 iSL, I, p. 190.

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desolante, senza violare i diritti dei singoli gruppi minori. Perciò tra i grandi «imperi asiatici» e la «prisca Europa» con la sua varietà di popoli e di lingue, egli simpatizzava per quest’ultima, meno civile, ma racchiudente in sé i germi di una futura civiltà superiore: «Come sempre avvenne, quanto le genti profughe perdevano in dottrina e civiltà tra le selve dell’occidente, compensavano con altrettanta libertà. Mentre nella vasta Irania la disciplina sacerdotale dei magi e la disciplina militare delle caste fedeli domavano sempre più le volontà e comprimevano le menti in una ferrea forma: nell’Europa, e più nelle sparse isole e penisole di Grecia e d’Italia, la varietà delle stirpi, e le stirpi nuove che via via se ne generavano, barbare o semibarbare, dotte o semidotte, e il commercio colle genti maritime e colle città di vario linguaggio da loro fondate, e più libere sempre della madrepatria, facevano perpetuo il conflitto e il fermento delle idee di qua e di là raccozzate. Indi fra stati vicini, e fortunatamente angusti, atti alla difesa, impotenti alla conquista, assidue guerre; fra le quali li autorevoli erano costretti a tollerare i prodi e i generosi, e farli partecipi dei beni e del comando; ch’è quanto a dire della libertà».94 Egli estendeva così a tutta l’Europa primitiva quelle qualità (federalismo, amore della libertà, resistenza all’accentramento oppressivo) che gli esaltatori dell’Italia primitiva attribuivano, come abbiamo visto, agli etruschi e ai sanniti. Il «patriottismo italico» (e antiromano) si allargava a «patriottismo europeo» (e antiasiatico), mantenendo immutate certe caratteristiche. Inerente a entrambi i patriottismi era la valutazione positiva del sostrato, il quale rappresentava appunto il principio della varietà linguistica, non cancellata dall’azione unificatrice esercitata dal popolo colonizzatore. Tuttavia qui, nell’ambito indeuropeo, si rivelavano anche, più chiaramente che in quello romanzo, le differenze tra la posizione del Cat94 iSL, II, p. 291 (Le origini italiche illustrate coi libri sacri dell’antica Persia, 1861). Per il contrasto Asia-Europa, cfr. anche SF, I, pp. 149, 170, 376 sg. Già il Giordani, in un articolo pubblicato nella «Biblioteca Italiana» del 1816 ( = Opere, X, 22), aveva scritto: «Né io intendo che sia da fare gran conto di quelle società magiche e teurgiche, le quali mostravano niente curare gli uomini e la presente vita; nella quale però volevano ogni copia di ricchezze e di onori; e con pochissima fatica vendevan caro oscure dottrine, delle quali dicevano cogliersi frutto in un altro mondo. Ciò aveva grande spaccio in Asia; dove gl’intelletti dormivano e volentieri sognavano: ma nella più culta parte d’Europa tanto era alcuno in concetto di valente uomo, quanto si dimostrava non ozioso ma utile cittadino». Anche se nel Giordani c’è una polemica anticlericale più scoperta, la contrapposizione fra Asia ed Europa è molto simile ai passi citati del Cattaneo, e autorizza a supporre che questi abbia tratto almeno uno spunto da quell’articolo giordaniano.

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taneo e quella degli «italomani» suoi contemporanei. Costoro attribuivano agli antichi italici una civiltà autoctona, immune da influssi greci e orientali; nella conquista romana dell’Italia vedevano soltanto, o prevalentemente, un male; e pur esaltando la costituzione politica federale degli etruschi e dei sanniti, consideravano le genti italiche come varietà di un popolo sostanzialmente unico, proiettavano cioè in quel lontanissimo passato il concetto di nazione italiana (il Mazzoldi, poi, che di tutti gli italomani era il più fantasioso e antistorico, attribuiva addirittura agli italici primitivi una forma di governo monarchico-costituzionale).95 Invece il Cattaneo, riprendendo una tesi del Romagnosi96 e integrandola in base ai risultati della linguistica indeuropea, sosteneva che in origine le genti italiche erano diversissime di stirpe e di lingua, che la loro unità era il risultato (non ancora pienamente raggiunto) di un lunghissimo processo storico, e che la loro civiltà era sorta dalla fusione tra elemento indigeno e colonizzazione «indopersa» – e, più tardi, conquista romana.97 Perciò, alla fine del saggio Sul principio istorico delle lingue europee, dopo aver polemizzato contro l’indomania schlegeliana, egli teneva a dichiarare anche il proprio dissenso nei riguardi della «boria nazionale» del Mazzoldi;98 perciò anche più tardi negava fede ai «dotti sogni del Mazzoldi e del Gioberti intorno ai Pelasghi»99 e criticava l’eccessivo zelo del Micali nel «rivendicare l’istoria d’Italia dalle alterazioni greche».100 95 iA. Mazzoldi, Delle origini italiche, Milano 1840. Cfr. B. Croce, Storia della storiogr. ital. nel sec. xix, Bari 19473, p. 53 sg. 96 iCfr. G. D. Romagnosi, Esame della Storia degli antichi popoli italiani di G. Micali, in relazione ai primordi dell’italico incivilimento, nella «Biblioteca Italiana» LXIX, 1833, p. 285 sgg.; LXX, pp. 38 sgg., 161 sgg.: articolo prolisso e confuso, che tuttavia ebbe il merito di contrapporsi alla tesi dell’autoctonia. 97 iSSG, I, p. 341; SL, I, pp. 190-92; II, p. 265 sgg. Ma già nell’abbozzo del 1824 (vedi qui sopra, p. 330) il Cattaneo aveva scritto: «I primi Itali furono di varie stirpi, e di varie favelle, e tutte miste» (SL, I, p. 406). 98 iSi sa che contro il Mazzoldi polemizzò esplicitamente il Bianchi Giovini (Sulle origini italiche di A. Mazzoldi, Milano 1841). Ma non si è notato che anche la chiusa del saggio del Cattaneo («A questo grande e non difficile studio dei dialetti devono concorrere tutti gli studiosi delle diverse parti d’Italia, non per boria nazionale, non sull’arbitraria traccia d’Atlantidi disfatte e rifatte ...») contiene un’allusione al Mazzoldi, il quale aveva appunto identificato l’Italia antichissima con l’Atlantide. 99 iEpist. III, p. 192 (a G. M. Cattaneo, 1° settembre 1859): «Non posso far gran conto dei pochi dotti sogni del Mazzoldi e del Gioberti intorno ai Pelasghi. Credo che l’idea ch’essi si fanno della primitiva unità dell’Italia contrasta a tutto quel poco che possiamo sapere». Cfr. la lettera del Giordani al Gussalli, 20 luglio 1846 (VII, 169): «L’opera del Mazzoldi è per me un labirinto, nel quale mi affatico invano, e mi perdo». 100 iSL, II, p. 279.

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In fondo, l’indomania e l’italomania (concezioni entrambe nostalgiche e negatrici del progresso) si accordavano nel giudicare sfavorevolmente gli incontri di genti, di lingue e di culture diverse, mentre per il Cattaneo la civiltà aveva origine proprio da questo superamento di angustie particolaristiche attraverso il «commercio» (economico e culturale) dei popoli. «Li arbori primitivi non danno, senza innesto e per mera forza di tempo, altre frondi e altre frutta che non comporti la loro radice. Il primo motivo alla trasformazione progressiva d’una società, ossia d’una tradizione, è il fortuito contatto d’un’altra tradizione e d’un’altra società. Messe in commercio per qualsiasi modo le due opinioni tendono a riassumersi in qualche compatibile forma, e perdono entrambe la nativa semplicità del concetto. Il Cabailo, tratto nel consorzio musulmano, non diviene al tutto arabo; ma la sua suppellettile mentale non è più così povera come nel Numida suo progenitore».101 Questa concezione implicava anche il riconoscimento della positività delle guerre e delle conquiste, il superamento del geloso indipendentismo di un Sismondi o di un Micali o di un Vincenzo Cuoco, ma, nello stesso tempo, l’esigenza che la conquista non fosse distruzione della civiltà dei vinti, bensì fusione tra vincitori e vinti. Di qui, per esempio, la tensione drammatica di una famosa pagina del saggio sulla Conquista d’Inghilterra, in cui lo scrittore è combattuto tra la consapevolezza che il soggiogamento delle «innocenti tribù primigenie» è un momento necessario del progresso e la ribellione contro un troppo facile giustificazionismo storico.102 Di qui anche il suo complesso atteggiamento nei riguardi del colonialismo, che egli condannava in quanto «conquista e rapina» e tentava di giustificare solo in quanto capace di rompere le «immobili tradizioni» dei popoli extraeuropei, di suscitare in loro nuove energie autonome che si sarebbero alla fine rivolte contro il colonialismo stesso.103 Così anche in linguistica, da un 101 iSSG, II, p. 112. Cfr. anche ibid., p. 98: «Il ripetere ogni principio di civiltà sia solo dalli aborigeni, sia solo dalli alienigeni, ripugna egualmente al corso universale e perpetuo dell’istoria». E sull’utilità che la mescolanza delle stirpi arreca non solo alla civiltà, ma anche al miglioramento fisico del genere umano, vedi Scritti economici, ed. Bertolino, II, p. 364. 102 iSSG, I, p. 68 sg.: vedi anche la chiusa del medesimo saggio, p. 123 sg., con l’accenno alla guerra franco-algerina; e nota che, mentre a p. 109 il Cattaneo rimprovera al Thierry di essere «troppo infervorato pei vinti», nella chiusa finisce col dargli ragione. 103 iVedi specialmente SF, I, p. 377; e anche SL, II, p. 342, dove è ripresa la polemica contro il colonialismo francese (cfr. nota precedente).

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lato il Cattaneo esaltava l’«opera assimilatrice» della civiltà che a poco a poco elimina i dialetti, dall’altro incitava a «raccogliere con pietosa cura tutte queste rugginose reliquie», queste memorie «di quella prisca Europa che non ebbe istoria, e non lasciò monumenti».104 E, in linguistica come in politica, egli combatteva il nazionalismo da due direzioni opposte: in nome dei diritti delle regioni e delle città, delle «piccole patrie» minacciate dall’accentramento, e in nome di aggregazioni più vaste, super-nazionali, in cui si sarebbe realizzato l’affratellamento dell’umanità. Uno dei motivi principali dell’ostilità dei classicisti italiani verso la linguistica indeuropea era la comunanza di origine che questa affermava tra latini e germani. Anche coloro che non credevano all’autoctonia della primitiva civiltà italica, esigevano però un’origine nobile: erano quindi disposti ad ammettere che la lingua latina fosse figlia o sorella della greca o magari dell’ebraica, ma non delle lingue dei barbari! D’altra parte, le esagerazioni di alcuni linguisti tedeschi, i quali volevano dimostrare che la loro lingua aveva un’affinità particolarmente stretta con la greca o con la latina, non potevano che accrescere la diffidenza dei dotti italiani.105 Si riproduceva, insomma, nei riguardi del legame preistorico tra romani e barbari quello stesso atteggiamento antitedesco che aveva già spinto il Maffei e i classicisti suoi seguaci a negare l’influsso barbarico sulla lingua e sulla civiltà italiana: con la differenza che la tesi del Maffei, quali che fossero i suoi motivi ispiratori, aveva rispondenza nei fatti, e i negatori della linguistica indeuropea invece avevano torto. Il Cattaneo si rendeva conto che l’affinità linguistica tra la «gentile stirpe italogreca» e i «barbari delle selve boreali» era incontestabile;106 e tuttavia il suo classicismo continuava, anche nell’ambito indeuropeo, a farsi sentire. Ai greci e agli italici egli assicurava un diritto di primogenitura: secondo lui, infatti, la colonizzazione «indopersa» non era penetrata in Europa per via di terra, attraverso le pianure sarmatiche, ma per via marittima: i popoli mediterranei erano stati i primi ad accogliere i principii linguistici e culturali asiatici, e a trasmetterli poi ai Celti, ai Germani, agli Slavi. «Se poniamo l’accesso dell’Europa, non per le arene e le paludi, a quel 104

iSL, I, p. 191. Vedi anche più oltre, Appendice {I}. iCfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, p. 225 sgg. 106 iSL, II, p. 267. 105

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tempo geologicamente inaccessibili, del Volga e del Tanai, ma per l’Ellesponto e le apriche riviere del Mediterraneo, ne indurremo che le ultime terre a cui dovevano pervenire le propagini dell’incivilimento orientale, erano appunto le rive dell’Atlantico, del Baltico, del Mar Bianco, e la lista che giace tra il Volga e gli Urali. Ed è appunto in quell’estremo contorno dell’Europa che troviamo tuttora superstiti quelle lingue, le quali, o come la basca, la finnica, la samoieda, non si assimilarono le inflessioni indopersiane; o come la cambrica e la gaelica, non se le assimilarono così profondamente, da perdere le tracce d’una primigenia struttura ben diversa».107 Come si vede da queste ultime parole – e da altri passi analoghi108 –, egli considerava il celtico come una lingua indeuropeizzata solo parzialmente e superficialmente: d’accordo in ciò con l’erronea opinione di Friedrich Schlegel.109 E verso i Celti manifestò spesso una curiosa antipatia, raffigurandoli come un popolo superstizioso e teocratico, perturbatore della serena civiltà classica, precursore del Medioevo.110 Ma anche nei riguardi del carattere indeuropeo delle lingue germaniche esprimeva riserve e limitazioni; riteneva che, degli elementi indeuropei che si riscontrano nelle lingue germaniche, ben pochi risalissero alla preistoria, e che i più fossero da attribuirsi ai contatti militari e commerciali dei Germani con l’impero romano, o ad epoca ancor più recente;111 e così cercava di ridurre a imprestiti greci la maggior parte degli elementi indeuropei delle lingue slave.112 Si nota insomma nel Cattaneo uno sforzo – dovuto, appunto, al pregiudizio classicista – di far apparire i Celti, i Germani e gli Slavi come gli ultimi arrivati nel 107 iSL, I, p. 170 (cfr. p. 186). A una corrente migratoria Asia minore-Grecia-Italia aveva accennato anche F. Schlegel, Über die Sprache u. Weish. der Indier cit., p. 187; ma gli slavi e i germani egli li faceva arrivare dall’India in Europa per via di terra, e supponeva che essi fossero stati indotti a migrare dalla leggenda del monte Meru e della «hohe Würde und Herrlichkeit des Nordens» (p. 193 sg.). Su questa ipotesi schlegeliana il Cattaneo non si stancò di ironizzare: SL, I, 163 sg., 174, 183. 108 iCfr. specialmente SL, I, p. 178 sg. 109 iCfr. Über die Sprache u. Weish. der Indier cit., pp. 3 sg., 50, 81 sgg. Il Rask stesso arrivò a convincersi solo assai tardi del carattere indeuropeo del celtico: cfr. H. Pedersen, Linguistic Science in the Nineteenth Century, Cambridge Mass. 1931, p. 57. La dimostrazione decisiva fu data da Bopp, Die Celtischen Sprachen ecc. «Abhandl. Berl. Akad.» 1838. Il Cattaneo modificò in parte la sua opinione alcuni anni dopo, quando ebbe letto l’opera di Heinrich Leo, Die Malbergische Glosse, Halle 1842: vedi il saggio Su la lingua e le leggi dei Celti in SL, I, p. 193 sgg. 110 iVedi soprattutto il cap. XI delle Notizie naturali e civili su la Lombardia (SSG, I, p. 350 sgg.). 111 iSL, I, pp. 179-83; cfr. p. 204. 112 iIbid., p. 183 sg.

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processo di indeuropeizzazione, come i parenti poveri (e parenti solo alla lontana) dei Romani e dei Greci. Viceversa, nell’intento di stabilire legami particolarmente stretti e precoci fra i popoli mediterranei e la civiltà indoiranica, egli non rinunciava a utilizzare l’equivoco e screditato nome di Pelasgi, facendone appunto i mediatori fra l’Oriente e la Grecia e l’Italia.113 3. Confrontata con l’indeuropeistica «ufficiale» che si andava costituendo fra il ’40 e il ’60, quella del Cattaneo appare insieme più arcaica e più moderna. Più arcaica perché egli era ancora estraneo a quel lavoro di p r e c i s a z i o n e della parentela linguistica indeuropea, di ricostruzione delle forme originarie comuni e delle varie fasi di differenziazione e di sviluppo delle singole lingue, che, iniziatosi poco dopo il ’30 con la Vergleichende Grammatik del Bopp e (nel campo fonetico) con le Etymologische Forschungen del Pott,114 doveva poi trovare una sistemazione nel Compendium dello Schleicher. Il Cattaneo apparteneva ancora (con un certo ritardo) alla fase precedente, nella quale ci si era preoccupati soltanto di riconoscere la parentela tra le lingue indeuropee, di indicarne un certo numero di prove morfologiche e lessicali, e di lanciarsi poi subito in ricostruzioni storico-etnografiche o in ipotesi glottogoniche. Questa mancanza di approfondimento in sede propriamente linguistica si nota soprattutto nelle considerazioni, che abbiamo ora ricordato, sugli elementi indeuropei del celtico, del germanico e dello slavo. Ma anche quando sono giuste, le osservazioni linguistiche del Cattaneo sono sempre rapide, puramente riassuntive o esemplificative: un vero e proprio interesse «autonomo» per la comparazione linguistica in lui manca. Ma, nello stesso tempo, il Cattaneo anticipa per alcuni aspetti le critiche che alla ricostruzione genealogica dell’indeuropeo muoveranno linguisti come lo Schuchardt, Johannes Schmidt, il Kretschmer o addirittura, in forma esasperata, il Marr e il Pisani.* Egli concepisce, come 113 iIbid., pp. 153, 175; SSG, I, p. 347. S’intende che il Cattaneo, come più o meno tutti i linguisti del suo tempo, riteneva che tra greco e latino vi fosse, all’interno della grande famiglia indeuropea, un’affinità particolarmente stretta. 114 iDi entrambe queste opere il primo volume uscì nel 1833. Né il Bopp né il Pott, e tanto meno lo Schleicher, sono mai citati dal Cattaneo, neppure nei suoi ultimi scritti di argomento linguistico-etnografico.

*iFra i critici della ricostruzione genealogica dell’indeuropeo si aggiunga il Trubeckoj (cfr. Lepschy, rec. cit., p. 167, n. 4).

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abbiamo visto, la parentela linguistica non come identità di origine, ma come il risultato di un progressivo avvicinamento dovuto a contatti politici, economici e culturali. L’unità indeuropea è per lui più una meta finale (non ancora raggiunta) che un punto di partenza: «Le lingue vive d’Europa non sono le divergenti emanazioni d’una primitiva lingua commune, che tende alla pluralità ed alla dissoluzione; ma sono bensì l’innesto d’una lingua commune sopra i selvatici arbusti delle lingue aborigene, e tende all’associazione ed all’unità ... Non è che una lingua madre si scomponga in molte figlie; ma bensì più lingue affatto diverse, assimilandosi ad una sola, divengono affini con essa e fra loro; e per poco che l’opera si continui, o a più riprese si rinovi, divengono suoi dialetti, e infine mettono foce commune con lei».115 Ciò lo portava ad assumere una posizione sua propria nel dibattito, allora vivissimo, sulla monogenesi o poligenesi del linguaggio. Al monogenismo egli era evidentemente contrario: i passi che abbiamo ora citato lo dimostrano. Ma era anche contrario a quel tipo di poligenismo alla Schlegel (e alla Biondelli) che consisteva nel separare con tratti marcatissimi pochi tipi linguistici fondamentali, da ciascuno dei quali sarebbero germogliate molte lingue-figlie.116 Il Cattaneo supponeva invece un grandissimo numero di lingue primitive, tante quante erano le primitive tribù. A mano a mano che le tribù si erano unite in aggregati più vasti, anche le lingue si erano ridotte di numero. Gli ispiratori di questo poligenismo cattaneiano sono Epicuro, Vico e, più vicini nel tempo, Cesarotti e Romagnosi.117 Ma anche qui, come già a proposito della dissociazione tra lingua e razza, dobbiamo notare che nessuno prima 115 iSL, I, pp. 190 sg. Cfr. p. 202: «Pare che queste affinità delle lingue siano cose di fatto istorico e posteriore, e non d’origine primitiva»; e SSG, I, p. 341. 116 iL’Arndt (op. cit. sopra p. 258), p. 16, esprimeva un’opinione assai diffusa scrivendo: «Es ist wahrscheinlich ... dass die sämmtlichen Sprachen der jetzigen Welt ... weder von einer einzigen Ursprache, noch von einer sehr grossen Zahl Ursprachen abstammen». 117 iM. Cesarotti, Saggio sulla filosofia delle lingue, parte I, cap. 1: «Una lingua nella sua primitiva origine non si forma che dall’accozzamento di varj idiomi, siccome un popolo non si forma che dalla riunione di varie e disperse tribù». Romagnosi, postille a Robertson, Ricerche storiche sull’India antica, trad. ital., 3a ed., Prato 1838, p. 366: «Egli è certo che le tribù ridotte in principati, e indi in grandi monarchie, ordinate a civiltà, e non semplicemente raccozzate dalla conquista, si fondono così l’una nell’altra, che alla fine parlano, o almeno scrivono, una lingua comune, la quale viene intesa universalmente, benché si conservino vernacoli locali. Quanto più una grande nazione vive unita, e quanto più antica è la coltura e la convivenza civile, tanto più la differenza dei linguaggi primitivi va dileguandosi, e prevale una comune favella».

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del Cattaneo aveva sviluppato così ampiamente questo pensiero; nessuno, inoltre, si era trovato a doverlo sostenere contro avversari così agguerriti come i fondatori della linguistica indeuropea. Tra le molte lingue primitive il Cattaneo ammetteva che vi fossero state già alcune somiglianze, dovute, però, non ad un’origine storica comune, ma a quella che più tardi lo Schuchardt avrebbe chiamato Elementarverwandtschaft: «Da per tutto gli uomini primitivi, con istinti imitativi più o meno simili, e con organi vocali più o meno simili, imitarono suoni naturalmente simili, che ferivano organi di più o meno eguale sensibilità ... La chiave di questa simiglianza primigenia non è a cercarsi nell’Asia o nell’Africa, ma nella natura umana».118 Di questo genere erano, per esempio, le somiglianze tra latino ed ebraico, o tra lingue americane ed europee. Questo poligenismo, a differenza di quello schlegeliano, non ammetteva che fossero esistite lingue perfette fin dall’inizio. Tutte le lingue avevano avuto origini umili, origini «ferine». Perciò, mentre gli Schlegel – seguiti, come abbiamo detto, dalla maggioranza dei linguisti ottocenteschi – sostenevano che le lingue flessive avevano posseduto fin dall’origine la loro complessa struttura grammaticale, il Cattaneo simpatizzava per la cosiddetta teoria agglutinante, secondo la quale tutte le lingue erano state originariamente monosillabiche e le «eleganti inflessioni organiche» erano sorte per aggregazione di parole originariamente autonome.119 Oggi ci rendiamo conto che questa teoria è un po’ troppo meccanica e semplicistica, e che non tutte le forme flessive devono necessariamente aver avuto origine agglutinante; ma non bisogna dimenticare che, di fronte alla teoria schlegeliana, la quale attribuiva la flessione indeuropea a un intervento divino, la teoria agglutinante rappresentava un tentativo di spiegazione razionale, puramente umana: in ciò sta il suo grande merito storico. E l’origine umana del linguaggio, di tutti i linguaggi, fu sempre affermata dal Cattaneo con grande vigore, a cominciare dagli scritti giovanili fino ai più 118

iSSG, III, p. 125 (nell’articolo su Gli antichi Messicani, 1860). Cfr. SF, II, pp. 340, 342. iSL, I, p. 172; cfr. SF, I, pp. 349, 415; II, p. 338 sgg. Ma già nell’articolo del 1837, SL, I, p. 228: «Forse anche le declinazioni delle lingue latina, greca, gotica in origine non furono altro che semplici nomi con un articolo affisso». Della storia di questa teoria (la quale compare per la prima volta, che io sappia, nell’Histoire critique du Vieux Testament di Richard Simon, poi nel Condillac, in vari linguisti tedeschi del Settecento e del primo Ottocento, infine nel Bopp) mi occuperò altrove. 119

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tardi, in polemica col Bonald e «altri simili detrattori della natura umana».120 E ancora: per Friedrich Schlegel non solo la lingua sanscrita, ma tutta la civiltà indiana era nata perfetta: era l’espressione di una sapienza originaria, infusa da Dio in quel popolo privilegiato. Il Cattaneo vedeva bene che in questo modo il romantico Schlegel finiva col precludersi, per eccesso di misticismo, quella giusta comprensione dell’umanità primitiva che alcuni pensatori settecenteschi si erano preclusa, viceversa, per eccesso di razionalismo: «In ciò ripeteva, da opposta parte, e con mistico intento, lo stesso errore prediletto dai filosofi del secolo scorso; i quali inauguravano l’istoria dell’umanità, non dai barbari di Vico, ma da una generazione sapiente, inventrice delle arti e delle scienze, la cui opera si dovesse per noi disseppellire dai ruderi delle interposte età».121 Così il pensatore illuminista, forte degli insegnamenti vichiani, poteva prendersi la meritata soddisfazione di sconfiggere i romantici sul loro terreno. Questi motivi fondamentali del saggio sulle lingue europee si ritrovano, più o meno immutati, negli scriti storico-etnografici che il Cattaneo pubblicò nella seconda serie del «Politecnico»122 e nelle lezioni di ideologia del ’62.123 Abbiamo già avuto occasione di citarne alcuni passi nelle pagine precedenti. Ma in quest’ultima fase del suo pensiero, pur restando ben ferma la distinzione tra linguistica e antropologia, l’interesse per l’antropologia si fa più vivo. Nella cultura europea dominava ormai il positivismo. Il Cattaneo da un lato vedeva affermarsi principii per i quali aveva sempre combattuto: valore preminente della scienza, negazione di ogni metafisica, assoluta laicità. Dall’altro osservava con sospetto certi elementi antidemocratici e inconsapevolmente metafisici che il positivismo aveva ereditato non tanto dall’illuminismo settecentesco, quanto dal romanticismo. Uno 120 iVedi soprattutto SF, I, p. 349 sg. (nell’Invito alli amatori della filosofia, 1857); II, p. 349 (nelle lezioni ticinesi di ideologia), dove è confutato il «sofisma di Bonald, il quale negò all’uomo la facultà di farsi un linguaggio, perché l’homme pense sa parole, avant de parler sa pensée». Il primo a dare a questo sofisma la sua formulazione tipica era stato in realtà Roussseau, seguito da moltissimi altri (cfr. «Annali della Scuola Normale», 1959, p. 158, n. 1). L’aveva confutato già Herder nella Abhandlung über den Ursprung der Sprache. 121 iSL, I, p. 155; cfr. SF, III, p. 186, dove «Schelling» è un lapsus per «Schlegel». 122 iVedi specialmente Le origini italiche illustrate coi libri sacri dell’antica Persia e L’antico Egitto e le origini italiche (entrambi nel «Politecnico» XI, 1861 = SL, II, pp. 265 sgg., 297 sgg.). 123 iSF, II, p. 324 sgg.; III, p. 181 sgg.

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di questi elementi era appunto il poligenismo linguistico e razziale, che, sebbene presentato sotto veste rigorosamente scientifica, rivelava la sua diretta discendenza dalla concezione romantico-reazionaria di Friedrich Schlegel, ed era poi sempre più esplicitamente diventato uno strumento di interessi schiavisti e colonialisti. Diritto della razza bianca a dominare e a ridurre in schiavitù le altre; all’interno della razza bianca, primato della stirpe germanica: questi erano i principii sostenuti, con diverse sfumature, in Europa dal maniaco conte di Gobineau e da diversi linguisti ed etnologi tedeschi, in America da Agassiz, Nott, Gliddon e altri portavoce dei proprietari di schiavi. D’altra parte, i loro avversari monogenisti troppo spesso si limitavano a fare appello a vaghi sentimenti umanitari, o addirittura alla dottrina cristiana, ed erano quindi facilmente accusabili di spirito antiscientifico e di cieco ossequio a pregiudizi religiosi.124 Proprio per il timore di sacrificare la scienza al sentimento, e, insieme, per quell’orgoglio intellettuale europeistico che era così forte in lui, il Cattaneo era rimasto lungamente incerto su questo problema. Nel ’44, recensendo il Kosmos di Alexander von Humboldt, si era ancora opposto alla tesi dell’uguaglianza naturale di tutti i popoli. «Savio e bello», egli diceva, il pensiero di una futura umanità affratellata, senza privilegi di razza; ma ciò non deve farci dimenticare che alcune stirpi «vissero e perirono insanabilmente selvagge», e che altre hanno accolto la civiltà solo per costrizione esterna. «Né si deve contendere il diritto di una giusta superbia a quelle nazioni che preste e docili al primo impulso di civiltà divennero maestre e benefattrici alle altre di più torpida natura. Né queste, se dopo migliaia d’anni giunsero finalmente a degenerar quasi dalla avita brutalità pareggiandosi alle prime, possono sdebitarsi verso di loro, attribuendo il tardo e faticoso fatto a nobile spontaneità della propria natura».125 Quindici anni dopo, nella prima comunicazione tenuta all’Istituto Lombardo sulla Psicologia delle menti associate,126 il tono era molto 124 iMonogenisti e antischiavisti per motivi umanitari-religiosi erano per esempio Alexander von Humboldt, il Bunsen, Max Müller, e in Italia il Lambruschini. 125 iSF, I, p. 221. S’intende che anche questa posizione, che il Cattaneo avrebbe poi superato, non aveva comunque niente a che vedere con le tesi degli schiavisti americani, a cui egli fu sempre radicalmente avverso (cfr. l’articoletto del 1834 in Scritti politici a cura di M. Boneschi, I, p. 63). 126 iSF, I, pp. 410-412.

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cambiato. Il problema dei negri di America appassionava ora il Cattaneo. Egli sottolineava ancora l’insufficienza degli argomenti puramente umanitari: «Voi vedete, Signori, che se l’ipotesi (dell’inferiorità naturale dei negri) fosse dimostrata, l’iniquità delle conseguenze non ci esimerebbe dal dovere d’accettare una dura verità»; e dichiarava di non essere in grado di esprimere un giudizio definitivo. Ma le parole con cui alludeva agli scritti dei razzisti americani («quelle odiose illazioni che parrebbero dover quindi scaturire a danno delle stirpi più deboli, e a conforto di coscienza ad ogni sorta di conquistatori e d’oppressori») dimostrano che già egli li avversava, ed era solo alla ricerca di una confutazione rigorosamente scientifica. E già indicava le prime linee di una tale confutazione nella storia stessa della civiltà, che aveva visto popoli intellettualmente fulgidissimi decadere, senza che ciò potesse attribuirsi a mescolanza con razze inferiori. Infine nel ’62 usciva l’ampia recensione ai Types of Mankind di Nott e Gliddon.127 Il Cattaneo si dichiarava d’accordo con loro e col loro maestro Samuel Morton nel respingere il monogenismo razziale, che gli sembrava incompatibile con la grande varietà dei tipi umani e con la tesi, da lui prediletta, della sedentarietà delle popolazioni primitive. Ma di nuovo, per le razze come per le lingue, al poligenismo di grandi gruppi, prevalente fra gli antropologi dell’Ottocento, contrapponeva la sua teoria di un’originaria molteplicità di piccoli aggregati: «Perloché noi vorremmo riformare il detto dell’illustre Agassiz, che il genere umano fu creato in nazioni ..., dicendo piuttosto che il genere umano apparve primamente in piccole tribù, più o men diverse d’aspetto, come appare dai loro crani più antichi: e più o meno atte a unirsi col favore dei luoghi e nel lungo corso dei tempi in numerose nazioni».128 Tra queste nazioni, dichiarava ora esplicitamente il Cattaneo, non ve n’erano di eternamente privilegiate. Agli esaltatori della stirpe germanica egli dimostrava l’inconsistenza delle loro pretese: «Se codesta imaginaria famiglia teutonica, che si viene conflando coll’unificare assurdamente la sferoide germanica e l’ovale britannico, aveva da 127 iTipi del genere umano, nel «Politecnico» XIV, 1862, p. 336 sgg. = SSG, III, p. 214 sgg. L’opera di Nott e Gliddon era uscita a Filadelfia nel 1854; gli stessi autori avevano ribadito le loro tesi poligeniste e schiaviste in Indigenous Races of the Earth, Filadelphia 1857, opera che probabilmente il Cattaneo non vide. 128 iSSG, III, p. 243.

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natura tanto tesoro di cerebrale potenza: perché, nei cinque o sei mila anni della civiltà egizia, dormì così duri e infecondi sonni? Perché fu necessario che la lingua latina, una lingua concepita da popoli di minor cervello, venisse dal mezzodì ad addottrinarla per più secoli, fino a che la lingua germanica tanto si esercitasse e si rimodellasse che alla sua medesima nazione paresse degna d’esser ministra del pensiero?».129 Si sente in queste parole un’eco della vecchia polemica antiteutonica. Ma l’importante è che il Cattaneo non contrapponeva al primato della razza germanica un non meno cervellotico primato della razza mediterranea (come poi farà Giuseppe Sergi) o della razza bianca in generale, ma anzi considerava la tardiva fioritura culturale dei popoli germanici come la prova migliore che «non bisogna disperare di alcuna parte del genere umano», che non esistono razze votate per sempre alla barbarie o alla schiavitù. Se gli inglesi e i tedeschi, dopo esser rimasti per secoli e secoli tanto arretrati rispetto ai popoli dell’Oriente e del Mediterraneo, «nelle ultime generazioni fecero inaspettati prodigi d’intelligenza», perché un giorno non potranno fare altrettanto i popoli di colore? «Ai detrattori dei Negri noi per converso additeremo la tarda eppur meravigliosa civiltà dei Britanni e dei Teutoni».130 Così il razzismo era combattuto non in nome di pure esigenze morali – inefficaci contro chi faceva orgogliosamente appello alla scienza –, ma proprio smascherandone il carattere pseudoscientifico: «È un’idea barbara, che s’involge nei panni della scienza. È tempo di ridurla alla sua barbara nudità». E siccome gli schiavisti americani amavano ripetere che il negro assomiglia più alla scimmia che al bianco, e illustravano questo concetto raffigurando la testa di un negro tra quelle dell’Apollo di Belvedere e di una scimmia, il Cattaneo replicava: «A noi non importa che un Negro sembri nelle sue forme più vicino ad una specie qualsiasi d’animali che a un Dio. Noi collochiamo l’uomo al supremo grado d’una scala che comincia dalle monadi organiche per ascendere fino al selvaggio, cioè fino all’essere parlante. Questo a noi pare già un gran progresso. E dal selvaggio più vicino al bruto, per noi, 129 iIbid., p. 244. La «sferoide germanica» e l’«ovale britannico» sono, come è ovvio, forme craniche. Cfr. ciò che il Cattaneo osserva poco sopra, pp. 237-242. 130 iIbid., p. 244. Ma tutti gli altri periodi di questa efficacissima chiusa del saggio cattaneiano meriterebbero ugualmente di essere citati.

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comincia un’altra scala, che ascende fino agli eroi della ragione e dell’umanità. Tutte le nazioni che diedero alcuno di codesti eroi, sono venerabili per noi; ma tutte le altre per noi sono egualmente inviolabili; e non riconosciamo egemonie del genere umano».131 Con questa rivendicazione dell’uguaglianza di tutti gli uomini, fondata non su una mitica «fratellanza» originaria ma sulla capacità, posseduta da tutti, di superare le primitive divisioni e di prender parte all’opera comune della civiltà, il Cattaneo toccava il culmine dei suoi studi storico-etnografici e, insieme, del suo pensiero democratico. Per andare oltre, egli avrebbe dovuto accorgersi che l’umanità del suo tempo era agitata non solo da contrasti etnici e da lotte tra la borghesia progressista e le vecchie forze assolutiste, teocratiche e feudali, ma anche – all’interno del fronte del «progresso» – dall’antagonismo sempre più forte tra il terzo e il quarto stato, e che questo antagonismo non era risolubile con una pura azione di filantropia o di diffusione della cultura. Ma a questo aspetto della realtà contemporanea, che fu così prontamente avvertito non solo da socialisti delle più disparate tendenze, ma anche da tanti conservatori e liberali di sguardo acuto, il Cattaneo rimase completamente chiuso. L’esperienza stessa del Quarantotto – che per molti democratici e molti moderati fu, sia pure in due sensi opposti, rivelatrice – lasciò sostanzialmente immutato il suo liberismo economico e il suo illuminismo sociale.132 Di qui il suo 131 iIbid., p. 246. La concezione di questi antropologi schiavisti, che assimilavano il negro alla scimmia, non ha nulla a che vedere con l’evoluzionismo, che con le scimmie connette geneticamente t u t t a la specie umana. I poligenisti, anzi, furono per lo più contrari all’evoluzionismo lamarckiano e poi darwiniano, perché vedevano abbattuta dalla dottrina evoluzionista quella barriera insuperabile che essi volevano mantenere tra razza e razza (vedi per esempio Indigenous Races of the Earth cit., p. 448 sg.). Quanto al Cattaneo, s’incontra più volte nei suoi scritti l’affermazione che l’uomo è il culmine della scala degli esseri viventi, l’«ultimogenito della natura» (SF, I, p. 219); ** ma nei riguardi dell’evoluzionismo vero e proprio – non solo di quello darwiniano, ma anche di quello lamarckiano, che dovette essergli noto fin dai suoi anni giovanili – egli non prese mai posizione. Tacque anche quando, proprio sul «Politecnico» (XXI, 1864, p. 5 sgg.), Filippo De Filippi pubblicò la famosa conferenza L’uomo e le scimmie, suscitatrice di aspre discussioni. Probabilmente il suo senso geloso della «dignità dell’uomo», nutrito di tradizione classicheggiante e illuministica al tempo stesso, fu in questo caso più forte del suo spirito scientifico e gli impedì di aderire all’evoluzionismo. Così anche la sua teoria poligenistica lascia senza risposta un interrogativo: da quali altri esseri avrebbero avuto origine, in varie zone della terra, i primi gruppi umani? 132 iNel 1844 (SF, I, p. 260 sg.) aveva qualificato il comunismo una dottrina «per i famelici senza ingegno», la quale «sopprimendo fra li uomini l’eredità, e per conseguenza la famiglia, ricaccerebbe il lavorante nell’abiezione delli antichi schiavi, senza natali, e senza onore». Ma ancora nel ’63 rimproverava Giuseppe Ferrari di «preferire edificii socialisti, e fantasmagorie,

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isolamento, e l’astrattezza della sua pur così splendida polemica contro i moderati, la quale colpiva le ambiguità della politica moderata con ineccepibile rigore logico e morale, senza però individuarne le ragioni profonde. Una astrattezza tanto più sconcertante in quanto (come più tardi nel Salvemini dell’Unità) si accompagnava a un esasperato amore del particolare concreto, a una straordinaria conoscenza di dati e di statistiche. Ma tutto ciò, se costituisce un limite del Cattaneo uomo politico e studioso di storia politica, non incide sul valore dei suoi studi linguistico-etnografici, appunto perché il linguaggio, pur non essendo certo privo di differenziazioni sociali, è fondamentalmente un fatto comune a tutto un popolo, e il rapporto stesso lingua-dialetti è più una questione di diffusione della cultura (alla quale il Cattaneo era estremamente sensibile) che di l o t t a tra classe dominante e classe oppressa. E là dove si trattava di reagire al misticismo e allo schematismo della linguistica romantica, di raggiungere una visione riccamente articolata dei rapporti tra aggregati linguistici e aggregati etnici, di studiare i fenomeni che risultano dagli incontri di lingue e di tradizioni culturali, il Cattaneo era un grande maestro.

II. L’influsso del Cattaneo sulla formazione culturale e sulla linguistica ascoliana 1. Nel 1846, cioè quando il pensiero linguistico del Cattaneo era già delineato nei suoi tratti essenziali, Graziadio Ascoli, appena sedicenne, esordiva con un opuscoletto Sull’idioma friulano e sulla sua affinità alle modeste, e sicure, e caute, e sapienti vie della libertà diffuse equabilmente» (SSG, II, p. 311). La sua rosea fiducia nell’«armonia» economica, che ricorda il Bastiat, è documentata per esempio dal «Politecnico» XI, 1861, pp. 313 sg., 339. Vedi poi le critiche e le riserve da lui mosse al progetto di statuto della Fratellanza artigiana, in Èpist. IV, pp. 197 sg. Sulla sua incomprensione per i problemi sociali giudica bene, seppur brevemente, il Sestan, introd. a Romagnosi, Cattaneo e Ferrari cit., p. XXXVII; cfr. anche F. Catalano in «Nuova Riv. storica» XLII, 1958, p. 521 sgg. Il fatto che all’indomani del ’48 il Cattaneo abbia avuto in comune con Pisacane, Ferrari e Montanelli molti motivi di polemica antimazziniana e federalista rischia talvolta di far mettere in ombra il contrasto fra il suo reciso antisocialismo e il socialismo (molto variamente atteggiato) degli altri tre. «Gioberti si dice socialista, Cattaneo non lo è: ecco il male ...», scriveva il Ferrari al Cernuschi nel ’51 (in F. Della Peruta, I democratici e la rivol. italiana, Milano 1958, p. 438). Vedi ora anche Giuseppe Berti, I democratici e l’iniziativa meridionale nel Risorgimento, Milano 1962, pp. 100, 432-434, 786, e passim.

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colla lingua valaca,* dedicato a Jacopo Pirona, il filologo e storico locale che aveva guidato i suoi primi passi di autodidatta.133 Questo titolo richiama subito alla memoria quello del primo articolo linguistico del Cattaneo: Nesso della nazione e della lingua valaca coll’italiana, pubblicato per la prima volta, come sappiamo, nel ’37, ma ristampato proprio in quello stesso anno 1846, nel primo volume di Alcuni scritti.134 Vien fatto di supporre che l’Ascoli giovinetto abbia conosciuto l’articolo del Cattaneo e, con zelo un po’ ingenuo, abbia voluto riferire in particolar modo al suo dialetto, al friulano, quell’affinità con la lingua romena che il Cattaneo affermava per l’italiano in generale. L’ipotesi è attraente, e può sembrare confermata da qualche analogia di struttura fra i due lavori: per esempio, sia il Cattaneo che l’Ascoli, per dimostrare con maggiore evidenza l’affinità tra i due idiomi che essi mettono a raffronto, non citano soltanto singoli vocaboli o singole forme grammaticali, ma anche intere frasi.135 Tuttavia nell’opuscolo ascoliano il Cattaneo non è mai citato, e, ciò che più importa, non vi si nota alcun influsso sicuro delle sue idee linguistico-etnografiche. Per l’Ascoli il passaggio dal latino al romeno, e dal latino al friulano, non è dovuto al sostrato, ma al superstrato, cioè all’influsso delle lingue dei 133 iL’opuscolo fu pubblicato ad Udine nel ’46. Ne ho avuto una copia in prestito dalla Biblioteca governativa di Gorizia, per gentile interessamento del direttore, Guido Manzini. Su Jacopo Pirona (1789-1870) vedi Giuseppe Marchetti, Il Friuli, Udine 1959, p. 505 sgg. 134 iVedi sopra, p. 329. 135 iCfr. Cattaneo, SL, I, p. 231 sg., e Ascoli, op. cit., p. 33. Si tratta, però, di frasi diverse.

*iL’ipotesi (da me presentata già come assai malsicura) che l’opuscoletto dell’Ascoli sedicenne Sull’idioma friulano presupponga la conoscenza del Nesso della nazione e della lingua valaca coll’italiana del Cattaneo, va senz’altro abbandonata: come mi fa osservare A. M. Cirese {l’osservazione è assunta anche nel testo “in alto”, qui sotto, p. 371 – N.d.c.}, l’Ascoli stesso, in una lettera del 1857 a Giovenale Vegezzi-Ruscalla (edita da Teodoro D. Onciulencu in «Rendic. Accad. Archeol., Lettere e Belle Arti» di Napoli, n. s. XVII, 1937, p. 261 sg.), dichiarò: «Nel 1846 ritenevo sinceramente che nessuno al mondo si fosse mai addato di qualsiasi parentela valaco-friulana. Ma Carlo Cattaneo, nel suo articolo Del nesso fra la lingua valaca e l’italiana (...) aveva notato: (segue la citazione di un passo del Cattaneo)». È da notare che in quella lettera l’Ascoli, pur esprimendosi con la massima severità nei riguardi di quel suo lavoretto giovanile («Mi vergognerei ch’Ella vedesse l’opuscolettaccio ..., immaturissimo lavoro d’un fanciullo ...»), ribadisce che «una peculiare affinità fonologica tra quei due parlari romanzi (friulano e romeno) esiste senza dubbio, ed io non dispero di poterne trattare un giorno con qualche maturità di studio. V’ha anzi tra di essi qualche affinità più che fonologica». Ma nel ’57 l’Ascoli non aveva ancora affrontato con rigore e modernità di metodo gli studi di linguistica romanza. La lettera è interessante anche per gli accenni al viaggio a Torino compiuto nel ’52 (vedi qui {sotto}, p. 373 sg. e il diario cit. alla nota 145) e ai rapporti che l’Ascoli aveva stretto col Flechia e voleva stringere col Lignana.

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barbari invasori; e l’affinità particolarmente stretta che egli s’illudeva di scorgere tra il proprio dialetto e la lingua romena dipenderebbe dal fatto che i medesimi popoli barbarici avrebbero invaso e occupato la Dacia e il Friuli: «Se ... le terre ove si parla la lingua valaca, ebbero a soffrire invasioni di Slavi, d’Ungheri, di Tedeschi, spesso pure il Friuli vide calpestar le sue belle contrade da Slavi, Ungheri e Tedeschi, che vi potrebbero nella lingua aver lasciato le stesse traccie che nella Valachia ... Se le stesse barbare irruzioni infestarono queste due contrade, chiaramente scorger potrassi che le lingue della Valachia e del Friuli, nella loro più importante parte, esser dovranno una composizione della romana, mista agli idiomi delle stesse barbare famiglie, cui queste orde appartenevano, né più stupore recare ci dovrà, se immensa somiglianza fra questa e quella troveremo».136 Rispetto alle altre regioni italiane il Friuli avrebbe conservato «più intatte le impressioni cagionatele particolarmente dalle germaniche irruzioni», e perciò il friulano somiglierebbe al romeno più degli altri dialetti d’Italia. Al sostrato dacico l’Ascoli non attribuiva alcun influsso rilevante sulla formazione del romeno: «Pare che l’imperatore Trajano abbia col suo sistema di colonizzazione estirpato quasi del tutto e lingua e costumi dei precedenti abitatori dei paesi corrispondenti all’odierna Valachia».137 [Sembra escluso, come mi fa notare A. M. Cirese, che l’A. conoscesse allora lo scritto del Cattaneo: cfr. lettera di Ascoli edita da T. Onciulencu in Rendic. Accad. Arch. Lett. e Arti Napoli XVII 1937, 262]. Egli non seguiva, dunque, le idee del Maffei e del Cattaneo, ma quelle del Muratori, che a lui erano forse giunte attraverso il Pirona. Il tentativo di scorgere già in questo primo lavoretto il segno di una predilezione dell’Ascoli per la teoria del sostrato non ha alcun fondamento.138 Questo lavoretto, d’altronde, appartiene più alla preistoria che alla storia degli studi dell’Ascoli. La vera e propria formazione della per136

iOp. cit., p. 12 sg. iIbid., p. 11. L’Ascoli riteneva che anche la lingua dei Daci fosse germanica (egli credeva, p. 10 n., alla connessione etimologica tra Daci e deutsch); ma l’elemento germanico che, combinandosi col latino, avrebbe dato origine al romeno era stato apportato, secondo lui, dai barbari invasori dell’Impero, non dai Daci precedentemente assoggettati. 138 iIl Goidánich (Silloge, p. XXVI) scrive: «È tuttavia meraviglioso che in quell’età egli fosse spontaneamente tratto a ricercare le c a u s e delle alterazioni fonetiche, che delle alterazioni simili fin da allora egli fosse indotto a vedere – bene o male – il motivo in un c o m u n e s o s t r at o e t n i c o !». Ma – a parte il fatto che la teoria che faceva risalire i mutamenti fonetici a mescolanze etniche era, come abbiamo visto nel nostro articolo precedente, diffusissima già da tempo –, nel passo citato dal Goidánich l’Ascoli parla chiaramente di superstrato, non di sostrato. 137

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sonalità ascoliana si compie negli anni immediatamente seguenti. Mediante contatti personali ed epistolari, e vaste letture, il giovane autodidatta goriziano riesce a mettersi al corrente dei progressi compiuti dalla linguistica comparata e dagli studi orientali: fa la conoscenza del versatile e brillante orientalista Joseph von Hammer-Purgstall,139 diviene socio della Deutsche Morgenländische Gesellschaft,140 si appassiona soprattutto alla lettura di Bopp e di Humboldt.141 L’interesse per la dialettologia romanza cede un po’ in lui, per ridestarsi soltanto più tardi. Adesso lo attraggono specialmente il sanscrito (anche la letteratura, non solo la lingua), l’ebraico,142 i problemi più generali dell’origine del linguaggio e del rapporto tra lingua e scrittura.143 Ma di pari passo con gli interessi scientifici si sviluppano nell’Ascoli quelli politici e culturali in senso largo; e se i primi lo inducevano a rivolgere lo sguardo verso l’Austria e la Germania, dove la linguistica era in pieno rigoglio, i secondi lo attiravano sempre più verso l’Italia. Appartenente ad una famiglia della borghesia israelita della Venezia Giulia, egli credette in un primo tempo di poter trovare in un impero austriaco riformato la soddisfazione delle sue esigenze di piena emancipazione degli ebrei, di rispetto per le minoranze alloglotte, di libertà politica.144 La reazione del ’49 lo convinse che ciò era insperabile, e che solo uno stato italiano unitario e liberale avrebbe potuto far diventare realtà quelle esigenze; lo indusse perciò a indi139

iVedi le lettere pubblicate da G. D’Aronco in «Studi goriziani» XXIII, 1958, p. 31 sgg. iNel 1852 ne era già socio: cfr. «Annali della Scuola Normale» 1959, p. 182. 141 iVedi l’introduzione al primo fascicolo degli «Studj orientali e linguistici» e, quanto a Humboldt, anche Silloge, p. XXIX. Molti anni più tardi l’Ascoli stesso diceva (XIIe Congrès des Orientalistes à Rome, 1899, Bulletin N. 12, p. 3): «Non è facile, signori, il trovare un altro linguista che abbia studiato, come fu dato a me, alcune parti della prima edizione della Grammatica Comparata di Francesco Bopp, mano mano che i fogli ne uscivano dal torchio» (press’a poco così già in «Arch. glottol.» X, 1886, p. 43 n. 1). Bisogna intendere che egli abbia acquistato via via l e d i s p e n s e del vol. VI della Vergleichende Grammatik (1852): non, come intese il Goidánich (Silloge, p. XXV), che abbia letto l’opera «in bozze». 142 iQuanto all’interesse per la letteratura indiana, vedi negli «Studj orientali e linguistici» la traduzione poetica del Nalo. Quanto agli studi semitici e, in generale, all’ambiente ebraico in cui l’Ascoli trascorse la giovinezza cfr. specialmente B. Terracini, Guida allo studio della linguist. storica, I, p. 127 e in «Rassegna mensile di Israel» XXIV, 1958, p. 3 sgg.; G. Hugues in «Studi goriziani» XXIV, luglio-dicembre 1958, p. 33 sgg. 143 iVedi ancora l’introduzione agli «Studj orientali e linguistici». Cfr. «Annali della Scuola Normale» 1959, pp. 153 sg., 157 sg. 144 iVedi il suo opuscolo Gorizia italiana, tollerante, concorde, pubblicato a Gorizia nel 1848, ristampato da G. Morpurgo in «Archeografo triestino» XLIII, 1929-30, p. 419 sgg. Cfr. G. Manzini in «Studi goriziani» XXI, genn.-giugno 1957, p. 60 sg. 140

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rizzare verso l’Italia anche la propria attività di studioso, a farsi promotore e coordinatore degli studi linguistici del nostro paese. Di qui la sua decisione di fondare un periodico (gli «Studj orientali e linguistici»), e quel suo viaggio nell’Italia settentrionale, alla ricerca di collaboratori, che ebbe una notevole importanza nella sua formazione.145 Milano e Torino furono le due tappe principali di quel viaggio. A Milano nel 1852 non c’era il Cattaneo, esule in Svizzera. Ma l’Ascoli conobbe alcuni della sua cerchia: Bernardino Biondelli, Pietro Giuseppe Maggi, Carlo Tenca (il direttore del «Crepuscolo» a cui il Cattaneo e il suo fedele Gabriele Rosa collaboravano).146 Conobbe anche colui che, come ha giustamente notato il Sestan,147 può esser considerato in un certo senso l’anti-Cattaneo: Cesare Cantù; non durò fatica a scorgerne la superficialità culturale e lo spirito retrivo, e dissentì da lui sul problema dell’origine del linguaggio.148 Gli stessi motivi che contrapponevano l’Ascoli al Cantù dovevano invece avvicinarlo al Cattaneo: la convinzione che il linguaggio avesse avuto origine puramente umana, che anche le più perfette e complicate forme flessionali fossero derivate da agglutinazione di monosillabi originariamente autonomi, l’interesse per i rapporti tra linguistica ed etnografia, l’ammirazione per Vico (ma per un Vico liberato dalle nebbie teologiche e rivissuto con spirito progressista), erano tutti elementi di consenso tra il Cattaneo e il giovane goriziano.149 Si aggiunga che il Cattaneo era l’autore delle Interdizioni israelitiche, cioè del145 iDi questo viaggio, compiuto nella primavera del 1852, ci è giunto un diario, ora pubblicato in «Annali della Scuola Normale» 1959, p. 151 sgg. Cfr. anche l’altro diario giovanile in Silloge, p. XXVIII sgg. 146 i«Annali» cit., pp. 164, 165, 185. Sentì anche parlare, ma in modo poco lusinghiero, di Antonio Madini, orientalista, parente del Cattaneo (ibid., pp. 164, n. 2, 166). Quanto al giudizio negativo dell’Ascoli sul Rosa come linguista, e ad una collaborazione del Rosa agli «Studj orientali e linguistici», cfr. ibid., pp. 157, n. 1, 191 **.* 147 iEuropa settecentesca e altri saggi, Milano-Napoli 1951, p. 209 sgg. 148 i«Annali» cit., p. 165 sgg. 149 iSull’origine umana del linguaggio vedi le opinioni espresse dall’Ascoli nel diario del 1852 («Annali» cit., pp. 166-168) e in «Studj orientali e linguistici» I, p. 5 sgg. Sulla teoria agglutinante, ibid., p. 10 sg. Sul Vico, Silloge, p. XXIX, e «Studj orient. e ling.» I, p. 16.

*iPer i rapporti di Gabriele Rosa con l’Ascoli (e con Paolo Marzolo) cfr. le sue Autobiografie a cura di G. Tramarollo, Pisa 1963, pp. 127 e 129. Da quest’ultimo passo risulta che più tardi l’Ascoli propose il Rosa per la cattedra di storia antica all’Accademia scientifico-letteraria di Milano: la sua stima per il Rosa doveva essersi accresciuta – non, forse, sul piano strettamente scientifico, ma su quello politico-educativo – {La postilla vale anche per la p. 412 e per la n. 278 – N. d. C.}.

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l’opera più profonda, chiara ed efficace che fosse stata scritta in Italia a favore dell’emancipazione degli ebrei. Nell’introduzione al primo fascicolo degli «Studj orientali e linguistici» (1854), alcuni passi rivelano ben chiaro l’influsso cattaneiano. Per esempio: «Scritta una favella, le si piegano i dialetti affini; e le rozze genti, o circonvicine o investite, parlanti idiomi non consanguinei a quella, sono invase dalla superior civiltà della lingua scritta, la quale accoglie e si assimila parte dei loro parlari che sconfigge ...»;150 oppure: «né sarà impossibile riconoscere, quantunque per leggi d’analogia assimilate, le parti che accolsero dal frequentar genti d’altra stirpe, o quelle che assunsero dalle favelle estranee, che trovarono parlate, sia da minor numero d’uomini di quello dei sopravvenuti con loro, sia da uomini più rozzi, i quali, abbenché maggiori di numero, soccombettero alla forza della civiltà superiore».151 Questa seconda alternativa era appunto quella che, a giudizio del Cattaneo, si era verificata per le lingue indeuropee. L’Ascoli, però, la enunciava soltanto, senza aderirvi; anzi poco dopo, nel secondo fascicolo degli «Studj orientali e linguistici», la respingeva esplicitamente: «Messa questa (la fonologia ario-europea) per base alle grammatiche e ai dizionarj comparativi, ed estesasi la cognizione delle antiche lingue e letterature appartenenti alla famiglia nostra, risultò, come infinite diversità, più o men notevoli, che appaiono in ogni singola delle antiche sorelle, vi si disviluppassero organicamente dai fondamenti di originaria identità, oppur ne provenissero per naturali processi di mutazione e di decadenza, e non già vi dipendessero da inorganiche trasformanti mistioni con altri idiomi aborigeni, cui fosse venuto a sovrapporsi, come taluno fra noi opinò, un debole strato sanscritico».152 Che con quel «taluno fra noi» l’Ascoli alludesse al Cattaneo, non c’è bisogno di avvertire. Vedremo come l’Ascoli motiverà e svilupperà più ampiamente questo suo dissenso nel saggio Lingue e nazioni pubblicato un decennio più tardi. Per ora ci basti notare che, all’inizio della sua carriera di studioso, l’Ascoli ci appare, sì, consenziente col Cattaneo su alcuni problemi generali, linguistico-filosofici, ma dissenziente su quelle che erano le tesi fondamentali del Cattaneo indeuropeista: la teoria del sostrato e la negazione delle grandi migrazioni preistoriche. 150

iIbid., p. 19. iIbid., p. 21. 152 iIbid., II, 1855, p. 254 sg. 151

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E anche l’unica volta che, negli «Studj orientali e linguistici», il Cattaneo è citato nominativamente, è per esprimere un dissenso. L’Ascoli sostiene la derivazione dell’articolo sardo, su, sa dal tema pronominale so- che compare nelle forme latine arcaiche sum (= eum), sam, sapsa ecc., e dopo aver riportato dal secondo volume di Alcuni scritti del Cattaneo un brano di una poesia in sardo, aggiunge: «Questo insigne letterato, al cospetto dell’istoria dell’articolo sardo che tentammo disseppellire, ritirerà forse l’ipotesi che dall’ipse latino quello sia da ripetersi».153 Qui indubbiamente l’Ascoli aveva torto; in questa fase dei suoi studi, come già abbiamo accennato, l’interesse per il sanscrito e per la comparazione delle lingue indeuropee lo aveva talmente assorbito da fargli trascurare un poco le lingue romanze; più tardi non solo riconoscerà la derivazione dell’articolo sardo da ipse, ma estenderà la ricerca agli altri continuatori romanzi di questo pronome latino.154 Ancora una testimonianza relativa a quegli anni ci è fornita da un passo del discorso che l’Ascoli vecchio pronunziò nel 1901 in occasione delle onoranze che gli furono tributate: «Sin da allora (cioè dal periodo anteriore al ’59) Milano era la capital morale pur di quelle terre (le tre Venezie). Doleva, mi ricordo, a noi giovani, che il Cattaneo bersagliasse il Tommaseo; ma riuscivamo a unirceli in un culto comune».155 Per tutto l’orientamento del proprio pensiero, certo, l’Ascoli era già allora incomparabilmente più vicino al Cattaneo che al Tommaseo, il quale, chiuso nel suo iroso e torbido cattolicismo, sostenne sempre l’origine rivelata del linguaggio e manifestò per la glottologia, come per ogni altra scienza, un’irriducibile avversione.156 Ma quel «culto comune» era lo stesso nel quale tanti patrioti univano Mazzini, Garibaldi e Cavour: era quel patriottismo generico che costituì da un lato la forza immediata, dall’altro il limite dell’opinione pubblica risorgimentale. Si comprende inoltre come l’Ascoli in quell’epoca vedesse il Tommaseo nella luce eroica della Repubblica Veneta del ’48-’49, 153 iIbid., p. 272. Cfr. C. Salvioni, Commemoraz. di G. I. Ascoli, in «Rendic. Ist. Lombardo», serie II, vol. XLIII, 1910, p. 58, n. 2. Il passo del Cattaneo a cui l’Ascoli si riferisce è nel saggio Della Sardegna antica e moderna (SSG, I, p. 196), che egli leggeva in Alcuni scritti, II, p. 183 **. 154 iIntorno ai continuatori neolatini del lat. «ipsu-», in «Arch. glottol.» XV, 1901, p. 303 sgg. 155 iOnoranze a Graziadio Ascoli, Milano 1901, p. 18 (cfr. G. Manzini in «Studi goriziani» XXI, p. 71). 156 iVedi l’opuscolo L’uomo e la scimmia (Milano 1869), rivolto principalmente contro il darwinismo, ma anche contro i negatori dell’origine divina del linguaggio.

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cioè in una posizione apparentemente analoga a quella del Cattaneo delle Cinque giornate; ** e anche il duplice amore del Tommaseo per l’Italia e per le terre slave, il suo gusto per la poesia popolare, dovevano destare risonanze nell’animo del patriota e linguista giuliano.* Compiutasi l’unione della Lombardia al Piemonte, costituito il regno d’Italia, l’Ascoli, che già si era fatto conoscere coi suoi «Studj orientali e linguistici» e con altre pubblicazioni, fu nominato professore di grammatica comparata e lingue orientali all’Accademia scientifico-letteraria di Milano.157 Finalmente egli poteva abbandonare l’attività commerciale che era stato costretto ad esercitare fin allora, e dedicarsi tutto all’insegnamento e alla scienza. Il 15 novembre 1861 egli tenne la sua prolusione. A Milano era risorto fin dal ’59, dopo un quindicennio di silenzio, il glorioso «Politecnico». Il Cattaneo ne aveva ripreso la direzione, ma questa gli fruttava assai più malumori che gioie: l’editore Daelli accoglieva articoli senza il suo consenso, dava alla rivista un tono eclettico, si preoccupava di non pubblicare nulla che offendesse i benpensanti, senza tuttavia riuscire a guadagnarsi il favore del governo. Già si profilava, da parte del Cattaneo, l’abbandono della direzione, che avvenne poi ufficialmente nel ’64. E non solo il «Politecnico», ma tutta la situazione italiana rendeva il Cattaneo sempre più malcontento. Gli avvenimenti del ’59-’61 avevano dato vita ad un’Italia monarchica, burocratica, accentratrice, retta da una borghesia orientata in un senso ben diverso dal liberismo utopista che egli professava. Né, d’altra parte, egli si sentiva d’accordo coi mazziniani, e ancor meno – per le ragioni che abbiamo già 157 iSui particolari della sua nomina prima a Bologna e poi a Milano non occorre qui soffermarsi. Cfr. P. G. Goidánich in Silloge, p. XXIV; B. Terracini in «Rassegna mensile di Israel» XXIV, 1958, p. 9.

*iPer l’influsso del Tommaseo tra gli intellettuali della Venezia Giulia vedi Pacifico Valussi (giornalista e patriota, amico dell’Ascoli), Dalla memoria d’un vecchio giornalista dell’epoca del Risorgimento italiano (1884), nuova ed., Udine 1967, cap. III sgg. ** L’incomprensione che il Tommaseo ebbe per la linguistica comparata in generale, e per l’Ascoli in particolare, è ben documentata dalle lettere pubblicate da Alfredo Stussi, Ascoli-Tommaseo-Cantù, Lettere inedite, in «Annali della Scuola Normale», cl. di Lettere, 1963, p. 39 sgg. Che, ciò malgrado, l’Ascoli abbia fino all’ultimo serbato ammirazione al Tommaseo come patriota e scrittore civile, lo dimostra lo scritto cit. più sotto, p. 423 n. 313; vedi anche l’accenno al Tommaseo in una lettera al Ciccotti (cit. qui sotto{, p. 410, postilla a n. 271}), a proposito del problema della censura sulla stampa: un problema di cui l’Ascoli si era interessato fin da giovane, come risulta dal diario del 1852 in «Annali della Scuola Normale», cl. di Lettere, 1959, p. 169.

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accennato – coi primi tentativi di organizzazione operaia.158 Avverso ai moderati, era un isolato anche tra i democratici. In questo stato d’animo egli ricevette a Lugano le bozze della prolusione dell’Ascoli, che era stata accolta nel «Politecnico» a sua insaputa.159 La baldanza giovanile con cui l’Ascoli parlava della nuova scienza linguistica e dei suoi trionfi, la lieta fiducia con cui si accingeva alla sua opera di maestro e di pioniere, lo disposero male. Dunque tutto ciò che in fatto di studi linguistici si era pensato e scritto fin allora in Italia, e a Milano in particolare, era da considerarsi superato e da guardarsi con benevolo compatimento? Ed egli scrisse una lunga lettera all’Ascoli,160 proponendogli molte correzioni e modifiche da apportare sulle bozze. «Mi sono presa quella libertà che da venti e più anni mi prendo con tutti gli amici, segnando nella prova stessa quelle minuzie che stuonano al mio orecchio e al mio giudizio. M’immagino che non vi spiacerà ch’io vi tratti come se già foste dei miei amici, tanto più che vi manifestate israelita; e io, sin dai primordii della mia carriera, mi posi tra i loro difensori». L’esordio era cortese, ma ad esso seguivano critiche alquanto aspre. Alcune si riferivano a questioni di terminologia o di forma letteraria,161 altre erano più sostanziali. Sembrava al Cattaneo che l’Ascoli avesse ecceduto nell’esaltare da un lato la lingua sanscrita e la cultura indiana antica, dall’altro la purezza della tradizione religiosa ebraica. Come sappiamo, egli sosteneva l’originalità della cultura europea contro chi pretendeva di farla derivare interamente dall’Asia; ma anche tra le civiltà asiatiche, preferiva la persiana, con la sua religione della luce e i suoi elevati principii etici, all’indiana, che gli appariva improntata a misticismo e servilismo; e questa sua convinzione si era rafforzata proprio negli ultimi anni.162 Gli spiaceva perciò anche l’appellativo – coniato da Humboldt 158

iVedi sopra, pp. 368-369 n. 132. iCiò risulta dalle prime parole della lettera all’Ascoli cit. alla nota seguente, e dalla chiusa della risposta dell’Ascoli. 160 iEpist. IV, p. 10 sgg. (12 gennaio 1862). In Scritti politici ed epistolario, II, Firenze 1894, p. 336 era stata pubblicata solo la parte iniziale di questa lettera. 161 iTali, per esempio, quelle contro l’abuso di grecismi scientifici (su questo argomento il Cattaneo si era già pronunziato in SL, I, p. 250 sgg.: cfr. qui sopra, p. 335 e n. 18). Fra i grecismi che spiacevano al Cattaneo c’era anche «glottologico», coniato dall’Ascoli e destinato a notevole fortuna fino all’avvento della linguistica idealista. 162 iVedi il saggio già citato su Le origini italiche illustrate coi libri sacri dell’antica Persia (SL, II, p. 265 sgg.). Anche Hegel, nelle Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, aveva posto la civiltà persiana molto al di sopra dell’indiana; così pure Goethe, in contrasto coi fratelli Schlegel. 159

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e ripreso dall’Ascoli – di «sanscritico» per «indeuropeo»; e, riprendendo una vecchia tesi del Romagnosi, ci teneva a ribadire il carattere non «nativo», ma «dativo» della civiltà indiana: «Chiamando primigenia la cultura indiana e sanscritica la persiana, voi sciogliete il quesito in un modo al quale contrasta il fatto che i Bramini in India sono certamente una colonia, mentre il zendo sembra aborigeno in casa sua».163 Così pure gli pareva che l’Ascoli disconoscesse i debiti dell’India e della Palestina verso l’Egitto, per ciò che riguardava molti elementi religiosi e culturali.164 E ancora: l’Ascoli, nel suo entusiasmo per la scienza tedesca, aveva trascurato il contributo delle altre nazioni europee: «Fra i linguisti avete obliato i francesi, tranne Burnouf, i danesi, molti italiani come Peyron, Castiglioni, Clavigero, Mai, Fabretti, Madini, Galvani ecc.» In realtà un Clavijero o un Mai non potevano esser considerati propriamente dei linguisti, e anche il Castiglioni e il Galvani lo erano solo in un senso ormai arcaico. Il Cattaneo, conoscitore della nuova linguistica e insofferente della provincialità degli studi italiani, non ignorava certamente ciò; ma in questo momento, di fronte a chi gli appariva eccessivo lodatore dei tedeschi, sentiva il bisogno di schierare tutte le forze della «linguistica italiana» in senso lato, senza distinzione di scuola. Ma quello che soprattutto ferì il Cattaneo fu il vedersi menzionato, insieme al Romagnosi, al Balbo e al Gioberti, tra quei «savj» italiani che erano stati costretti, «e spesso con mal sicuro consiglio», ad «accattare fra gli stranieri» i frutti del sapere glottologico. Ciò equivaleva a disconoscere del tutto la sua originalità in questo campo, nel quale egli riteneva di non dovere molto neppure al suo amato maestro Romagnosi. Il Balbo, poi, era stato proprio colui al quale il Cattaneo, nella famosa recensione alla Vita di Dante, aveva impartito una severa lezione di linguistica,165 e quindi più che mai dovette dispiacere al Cattaneo di essergli accomunato. «A torto vi avete annoverato (fra i linguisti) Romagnosi e Balbo. Io qualche cosa ho scritto; e per dovere e necessità inevitabile mi sono valso delle mie scarse letture straniere; 163 iLett. cit., p. 12. Cfr. G. D. Romagnosi in W. Robertson, Ricerche storiche sull’India antica, Prato 18383, p. 366 sg., e Defendente Sacchi, ibid., p. 570. ** 164 iAlcune tesi a cui il Cattaneo accenna in questa lettera erano state da lui sviluppate più ampiamente nel saggio su L’antico Egitto e le origini italiche, pubblicato l’anno prima nel «Politecnico» (SL, II, p. 297 sgg.). 165 iVedi sopra, p. 341 sg. e n. 43.

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ma mi parrebbe cosa piuttosto da lodarsi. I maligni diranno che ci avete dato del savio per darci dell’asino. Anche Mazzini, in questi ultimi dì, mi chiamò tenace, perché secondo lui non avrei saputo tenere; in verità io non ho mai avuto».166 Così nella lettera; ma in una minuta aveva scritto, più esplicitamente e con maggiore asprezza: «Ho vissuto quindici anni con Romagnosi né mai mi sono accorto che sapesse altre lingue che il latino e il francese; certamente non vidi fra i suoi libri un solo che fosse stato scritto in altre lingue, e se fosse stato veramente dotto di lingue straniere, non era questo il caso di fargli un’accusa. Quando a Balbo, sapeva un po’ di tedesco, ma era in tutte le cose un grande idiota. Per me avrò caro che nel mio giornale non mi darete lodi, né censure. In questo caso poi non mi pare d’aver meritato né le une né le altre, perché perdonatemi se ve lo dico schietto che negli scritti di Marzolo ho ben trovato molte cose per me novissime, mentre in voi, giovine di belle speranze, lo spero ancora».167 Paolo Marzolo, che qui il Cattaneo contrapponeva all’Ascoli, era un medico, etnografo e linguista che da molti anni lavorava a un’opera vastissima, i Monumenti storici rivelati dall’analisi della parola.168 Giusto e sano l’indirizzo generale, il fondamento ideologico dell’opera: il Marzolo si ricollegava alla teoria epicurea dell’origine del linguaggio, sviluppata dai sensisti nel Settecento; respingeva, d’accordo col Cattaneo e coll’Ascoli, le teorie mistiche degli Schlegel e la rigida classificazione tripartita delle lingue, ma, nello stesso tempo, criticava il razionalismo eccessivamente semplificatore di chi riteneva che tutte le lingue avessero avuto uno stadio iniziale monosillabico.169 Faceva difetto, invece, al Marzolo la specifica preparazione glottologica, e la sua stessa mentalità era troppo «vichiana» per adattarsi al paziente e cauto lavoro del ricercatore. L’Ascoli lo aveva conosciuto nel ’52 e aveva annotato nel 166

iPer questa allusione vedi Epist. IV, p. 9 e la nota del Caddeo. iEpist. IV, p. 12 n. 4, 13 n. 5. 168 iI primi due volumi erano usciti a Padova, 1848-59; il resto rimase in massima parte inedito. Sul Marzolo vedi M. Ceccarel, Della vita e degli scritti di P. Marzolo, Treviso 1870 (utile per notizie biografiche, anche se eccessivamente apologetico); Gina Lombroso Ferrero, Cesare Lombroso, Bologna 19212, p. 25 sgg. 169 iVedi, contro le classificazioni troppo rigide, Monumenti cit., I, p. 10; contro il monosillabismo originario, p. 15 sg. Non posso concordare col Terracini (in «Arch. glottol.» XIX, 192325, p. 135) quando considera come una prova dell’arretratezza del Marzolo il suo interesse per i problemi glottogonici: vedi più oltre, p. 413. Nemmeno mi pare opportuno accostarlo a Max Müller: il Marzolo era superiore al Müller in quanto era libero da preconcetti religiosi, mentre, d’altra parte, gli rimaneva assai indietro quanto a preparazione specifica e a capacità di divulgazione. 167

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suo diario: «Grandi lavori, forse però in parte anacronismi».170 Il Cattaneo era entrato in rapporti con lui nel ’60 e, più sensibile com’era agli aspetti ideologici che a quelli strettamente linguistici, ne era rimasto entusiasta.171 A lui, senza dubbio, alludeva nella chiuse del saggio sui Tipi del genere umano, quando, dopo aver osservato che gli antropologi americani erano incapaci per i loro preconcetti razzistici di portare più avanti la fiaccola della scienza, soggiungeva: «Tocca ai medici italiani d’accenderla; e di precedere a noi tutti sull’arcana via».172 La contrapposizione Marzolo-Ascoli riappare, in forma ancor più violenta, in una lettera che il Cattaneo scrisse al Daelli, ancora a proposito della prolusione ascoliana: «Ieri vi ho rimandato la prova di stampa del sig. Ascoli; la citazione che fa del mio nome con quelli di Romagnosi e Balbo non ha senso comune. Non vale un dito di Marzolo; se non vuole adottare gli altri miei consigli, pazienza; ma bisogna assolutamente che cancelli i tre nomi».173 Nella sua risposta,174 rispettosa e fiera ad un tempo, l’Ascoli controbatteva con giuste ragioni le obiezioni terminologiche del Cattaneo: non era possibile abbandonare termini ormai entrati nell’uso generale, come «semitico». Chiariva che, pur avendo chiamato «primigenia tra le sorelle indoeuropee la lingua sanscrita», non aveva inteso «mettere nell’India l’origine del sanscritismo». Con particolare calore replicava all’ultima osservazione del Cattaneo: «Io non ho messo Romagnosi e Lei e Gioberti e Balbo tra gli orientalisti. Dissi, a lode di codesti savj italiani (ossia di codesti litterati italiani d’ordine superiore), che essi sentirono sete delle risultanze di simili studj, ma che furono sempre costretti ad accattare presso gli stranieri, spesso con malo consiglio, cotali frutti, causa la mancanza di studj italiani. Balbo ricorse alla linguistica per le sue cose storiche, Romagnosi attese al sanscrito come meglio poté nell’illustrare l’India di Robertson175 ed ha, p.e., quell’infelice ravvicinamento ** di sat e satya. Le compiego a mia discolpa il 170 iVedi «Annali della Scuola Normale» 1959, p. 162, e cfr. Silloge, p. XLIII. Vedi anche più sotto, p. 408. 171 iVedi Epist. III, pp. 291, 313, 365; SSG, III, p. 128; M. Ceccarel, op. cit., p. 263: «Noi ci rassomigliano come due gocce d’acqua – disse un giorno al pensatore veneto il pensatore lombardo». 172 iSSG, III, p. 247. Su questo saggio del Cattaneo vedi sopra, p. 366 sgg. 173 iEpist. IV, p. 9 (12 gennaio 1862). 174 iPubblicata dal Caddeo in appendice a Epist. IV, p. 597 sgg. 175 iVedi qui sopra, nota 163.

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brano della chiusa, perché certamente qualche equivoco ha cagionato la sua doglianza, che mi avvilì». Il desiderio che, all’inizio e alla fine della sua lettera, l’Ascoli esprimeva di conoscere personalmente il Cattaneo, la «grandissima riverenza» e il «grandissimo affetto» che gli professara «come ebreo e come italiano e come studioso», erano certamente sinceri. L’Ascoli ammirava già allora, come sappiamo, la personalità etico-politica del Cattaneo e l’opera da lui svolta per la cultura italiana in generale. Ma non riconosceva nel Cattaneo un linguista, e nemmeno un pensatore che avesse additato ai linguisti degli orientamenti importanti. Da questo lato, anche la sua «discolpa», nonostante il suo tono appassionato, non era tale da soddisfare il Cattaneo. L’Ascoli infatti poneva di nuovo il Cattaneo tra quei «savj» la cui compagnia gli era così poco gradita, e tornava a considerarlo come uno che aveva avuto «sete» di scienza linguistica ma, evidentemente, non era riuscito a dissetarsi! Se si fosse limitato a negare al Cattaneo la qualifica di linguista in senso tecnico, avrebbe avuto perfettamente ragione; ma equipararlo col Balbo e col Gioberti (o con lo stesso Romagnosi, che così fuggevolmente si era interessato di problemi linguistici) significava non aver compreso la verità di certe intuizioni cattaneiane e nemmeno il vigore e l’acutezza di certe sue opinioni erronee. D’altra parte – non c’è bisogno di aggiungerlo – il Cattaneo non aveva neppur lui intuito il valore di quel giovane, il quale iniziava un’epoca nuova nella linguistica italiana ed era destinato a lasciare negli studi glottologici una traccia ben più profonda di quella di un Biondelli o di un Marzolo. La prolusione dell’Ascoli uscì nel «Politecnico»176 senza il riferimento esplicito al Cattaneo, al Romagnosi e agli altri, ma solo con l’accenno generico ai «nostri savj» (p. 303); le altre modifiche suggerite dal Cattaneo non furono accolte. Il Cattaneo non dimenticò tanto presto il disappunto cagionatogli da quel giudizio ascoliano. «Ella sa – scriveva il 10 marzo del ’62 a Giovanni De Castro – che il sig. Ascoli aveva trovato opportuno di far la prima comparsa nel giornale qualificandomi d’ignorante col mio maestro Romagnosi. Il Politecnico era una volta come lo stato maggiore d’un esercito; adesso è una tavola rotonda. E così sia».177 E ancora, più di un anno dopo (nonostante che 176

iXII, 1862, p. 289 sgg. iEpist. IV, p. 35.

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l’Ascoli nel frattempo gli avesse scritto di nuovo, chiedendogli scusa di certe espressioni vivaci della prima lettera): «Una volta ebbi a scrivere al prof. Ascoli che non potevo permettergli di venirmi a dar dell’asino in casa mia».178 Nel 1864 un altro lavoro dell’Ascoli, Lingue e nazioni, appariva nel «Politecnico», la cui direzione era stata ormai abbandonata dal Cattaneo.179 Qui l’Ascoli affrontava il problema della diffusione degl’indeuropei e del modo con cui l’unica lingua indeuropea originaria si era differenziata: cioè il problema centrale della linguistica cattaneiana. «Due principali supposti etnologici – egli scriveva – tendono a darci ragione del fenomeno de’ linguaggi ârj dell’Europa ... Delle due ipotesi, l’una vuole che successivamente immigrassero nell’Europa interi popoli di idioma ârio ossia sanscritico, provenienti da commune patria asiana; per l’altra, all’incontro, assai scarse immigrazioni di genti ârie sarebbero bastate a rendere, col tempo, ârioglossa una Europa aborigena, riuscendo i pochi, in grazia della superiore civiltà, ad imporre la propria favella ai molti. Gli etnologi tedeschi stanno, in generale, per la prima ipotesi ... L’altro supposto, all’incontro, ha campioni valentissimi in Italia». Né in questo esordio, né in seguito il Cattaneo è nominato; ma tutto l’articolo è (anche se alcuni studiosi dell’Ascoli non sembrano essersene accorti) una polemica contro il saggio cattaneiano Sul principio istorico delle lingue europee. Le affinità tra il sanscrito, il greco e il latino, dice l’Ascoli, sono troppo strette, le corrispondenze fonetiche e morfologiche troppo precise e regolari, perché si possa attribuire al sostrato un influsso così forte come quello che suppongono «i nostri etnologi». Se la lingua greca o la latina fossero il risultato di «mistioni eterogenee», non presenterebbero un organismo grammaticale così saldo e coerente. Proprio questa regolarità è indice di sviluppo autonomo, non turbato da intrusioni esterne. Quanto, poi, alle lingue germaniche e balto-slave, l’ipotesi che il loro carattere indeuropeo sia dovuto a tardi influssi latini o greci è particolarmente assurda, dal mo178 iIbid., p. 150 sg. (lettera ad A. Bertani, 12 maggio 1863). Per la seconda lettera dell’Ascoli (23 luglio ’62) cfr. ibid., p. 600, nota. 179 i«Politecnico» XXI, 1864, p. 77 sgg. L’articolo è presentato in forma di «frammento»: preceduto e seguito, quindi, da alcune righe di punti sospensivi.

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mento che queste lingue presentano alcuni elementi molto più arcaici dei corrispondenti latini e greci. «Dunque noi dovremmo credere che il Goto, ad imitare il più civile Romano, balbettasse anthar per alter, svaihra per socer, than-ja per tendo, e siu-ja per il latino suo, e thaursus (secco) thaurus-ja (ho sete) storpiando il torreo dei Romani, e via così, – quando la verità è all’incontro, che le corrispondenti forme sanscrite antara, çvaçura, tan, siv, tarsh (aver sete) ci attestano più genuine le voci gotiche di quel che le latine non sieno? E il lituano, che nel suo lessico, oggi ancora, conserva una meravigliosa purità sanscritica, il lituano sarà il produtto di tenui innesti greci sull’ampio tronco barbarico?»180. Come spiegare, allora, le differenze tra le lingue indeuropee? L’Ascoli ricorreva all’ipotesi di emigrazioni successive: «La vetusta favella âria, da cui derivano tutte le indo-europee, non poté per certo sottrarsi mai neppur essa alle influenze di tempo e di luogo, e perciò le emigrazioni dalla commune patria asiana non portavano seco un idioma affatto identico, se a varie epoche ne partivano e da varj punti del suo territorio».181 L’origine prima delle differenze, dunque, andava cercata in Asia, nell’evoluzione dell’indeuropeo comune (di cui le diverse lingue-figlie rappresentavano diverse fasi cronologiche) e nelle differenziazioni dialettali che l’indeuropeo comune già racchiudeva in sé. Altre differenze potevano anche essere «effetti di ulteriori sviluppamenti», i quali però «per nulla rinnegano le origini» e quindi non devono essere attribuiti al sostrato.182 180 iArt. cit., p. 81. Abbiamo già avuto occasione di osservare (p. 360 sg.) che la parte dedicata alle lingue germaniche e slave era la più debole del saggio Sul principio istorico delle lingue europee. Le osservazioni dell’Ascoli su questo punto erano, perciò, particolarmente fondate. Tuttavia, per rendere piena giustizia al Cattaneo, bisogna notare che: 1) già nel saggio Sul principio ecc. egli non escludeva che le lingue germaniche e slave avessero subìto una prima indeuropeizzazione in età preistorica, molti secoli prima che i Germani entrassero in contatto coi romani e gli Slavi coi bizantini (cfr. SL, I, p. 182); 2) nel saggio su Le origini italiche ecc., pubblicato nel ’61 (cioè tre anni prima di Lingue e nazioni dell’Ascoli), il Cattaneo, correggendo in parte la sua precedente opinione, dava maggiore rilievo a questo legame preistorico delle lingue germaniche, baltiche e slave con le altre indeuropee (SL, II, p. 266 sg.). Probabilmente questo saggio non era noto all’Ascoli. 181 iArt. cit., p. 83. 182 iIbid., p. 88. Così anche poco prima: «Per conguagliare il tedesco schlaf al greco hypnos, o il latino suavis all’hêdys greco, e via dicendo, noi non abbiamo bisogno che della istoria naturale del vocabolo ârio, ossia non ci vediamo costretti a ricorrere ad alcuna ipotesi di elementi aborigeni od eterogenei, dacché non troviamo in alcun modo perturbati i naturali rivolgimenti di quello».

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Perfino per ciò che riguarda il lessico – cioè il campo in cui l’ipotesi del sostrato incontra, in linea di principio, minori difficoltà – l’Ascoli era molto riluttante ad ammettere elementi non indeuropei: «Per fermo, non tutto il lessico italo-greco o germano-slavo potremmo o sapremmo mai ricondurre ai vocabolarj indo-irani. Ma, generalmente parlando, la parte di que’ lessici europei, che non è ancora dilucidata, non presenta organismo diverso dal restante, e quindi non ne concede sospettarvi una materia eterogenea, come sarebbe l’arabo nel persiano o nel turco, oppur l’arameo nel pehlvi».183 Il Cattaneo, come si ricorderà, aveva molto insistito sul confronto coi moderni fenomeni di colonizzazione per dimostrare che una minoranza può, con la forza o col prestigio, imporre la propria lingua ad una maggioranza, come era appunto accaduto, secondo lui, nel caso degli indeuropei.184 L’Ascoli ribatteva che il confronto non era probativo, innanzi tutto perché in molti casi di colonizzazione moderna il numero dei colonizzatori non era stato poi tanto esiguo, in secondo luogo perché la capacità assimilatrice di uno stato moderno, con tutta la sua organizzazione burocratica, scolastica, militare non può trovare riscontro in epoca preistorica.185 Insomma la non coincidenza di lingua e razza, pur essendo un fatto universalmente vero, si manifesta in modo sempre più accentuato via via che ci si allontana dalla preistoria: osservazione indubbiamente giusta, quantunque l’Ascoli se ne valesse al di là del lecito, per tornare semplicemente ad asserire che «il sangue ârio scorre in amplissima misura nelle vene dell’Europa», che gli indeuropei sono un’unità antropologica e non solo linguistica. Egli concedeva, tuttavia, al Cattaneo che gli invasori indeuropei fossero stati pochi, purché si ammettesse che avessero trovato in Europa un numero di aborigeni ancor minore: «Le proporzioni che noi stabiliamo tra Aborigeni ed Arj non importano il concetto che gli ultimi venissero gran fatto numerosi, bensì, in generale, la scarsissima presenza dei primi. Stimiamo cioè, contro l’opinione degli etnologi tedeschi, che picciole colonie ârie, passate, in remotissimi tempi, nell’Europa deserta, o pressoché deserta, siano le generatrici de’ nostri popoli ârj».186 183

iIbid., p. 89 sg. iVedi sopra, p. 352 sg. 185 iArt. cit., p. 91. 186 iIbid., p. 90. Cfr. anche Studj critici, II, Roma-Torino 1877, p. 50 (= «Politecnico» 1867) in cui l’Ascoli dichiara di accostarsi, «non senza però varie restrizioni», all’opinione che «popolo 184

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Qualche maggiore concessione alla teoria del sostrato l’Ascoli faceva passando dalla linguistica indeuropea alla romanza. Tuttavia anche qui prevaleva in lui la diffidenza: «Certe particolari disuguaglianze del volgare italico vedremmo poi riflesse nei dialetti della nostra penisola. E saremmo tentati a cercarvi additamenti etnologici; non immemori della grande cautela che qui si domandi nelle illazioni, le coincidenze fortuite potendo scambiarsi per affinità genetiche; ma persuasi, d’altronde, che nessuno indizio abbia ad essere trascurato, solo dall’ampia indagine potendo sperarsi definitivi giudizj ... Non ci asterremo però dall’avvertire, come da taluno si metta soverchia speranza nella significazione etnografica delle particolarità organiche e quindi de’ confini territoriali che gli odierni dialetti ne esibiscono; molte delle quali ponno avere intera spiegazione dal lavoro del tempo e dalla differente epoca o spessezza della sovrapposizione romana, senza che sia d’uopo ricorrere a varietà essenziali negli strati».187 Questa diffidenza non era caratteristica del solo Ascoli, ma comune a tutta l’indeuropeistica ufficiale intorno alla metà dell’Ottocento. La concezione, che allora predominava, del linguaggio come «organismo naturale» conduceva logicamente ad attribuire i mutamenti linguistici all’intima vita vegetativa del linguaggio stesso più che ad influssi esterni. Come gli esseri viventi nascono, si sviluppano, invecchiano e muoiono, così le lingue. Già Orazio, in un famoso passo dell’Arte poetica (60 sgg.), aveva paragonato alla breve vita delle foglie la mutevolezza dell’uso linguistico; ma i linguisti ottocenteschi – sopra tutti lo Schleicher –, considerando il linguaggio alla stregua di un essere vivente, non intendevano metterne in evidenza semplicemente la mutevolezza o la caducità, ma piuttosto l’ i n c o n s a p e v o l e r e g o l a r i t à del mutamento, la sua obbedienza a leggi indipendenti dalla volontà dei parlanti. Ora, proprio tale assolutezza delle leggi fonetiche implicava che esse non fossero condizionate da eventi accidentali – come l’incrocio di stirpi diverse –, ma avessero la loro causa solo in tendenze generali dell’organismo umano (ricerca del minimo sforzo ecc.). «La credenza generalmente diffusa – scriveva nel 1859 lo Schleicher – secondo la quale il mutamento di una lingua avverrebbe di lingua ariana» e «popolo di sangue ariano» siano la stessa cosa, contro la tesi «del Cattaneo, del Rosa e del Benfey». 187 iIbid., p. 97 sg. Questo invito alla prudenza era probabilmente rivolto non solo al Cattaneo, ma anche al Biondelli, il quale classificava i dialetti italiani appunto in base al sostrato.

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soprattutto in seguito all’influsso di altre lingue parlate da popoli con cui, in periodi storici agitati, si verifica un intimo contatto, è da considerarsi accettabile solo in misura assai limitata. I mutamenti che una lingua subisce in seguito all’introduzione di parole straniere, o all’analogia con fenomeni linguistici stranieri, sono assolutamente insignificanti in confronto alle profonde trasformazioni che hanno origine dall’interno della lingua stessa, per effetto di processi necessari».188 Questa opinione era sostanzialmente condivisa dall’Ascoli al tempo in cui scrisse Lingue e nazioni, anche se, come appare da alcune espressioni che abbiamo riportato sopra, egli non era del tutto d’accordo con lo Schleicher nel ritenere che i mutamenti linguistici in epoca storica fossero solo una manifestazione di «decadenza». Anche per ciò che riguardava, più specificamente, la differenziazione linguistica (ossia la nascita di più lingue da un’unica linguamadre), i glottologi di metà Ottocento cercavano il più possibile di fare a meno del sostrato. Già nella linguistica pre-scientifica, del resto, c’erano stati dei tentativi di attribuire la differenziazione o all’influsso dei diversi climi,189 o al semplice fatto che, in un territorio molto esteso e senza un forte accentramento politico-culturale, finiscono per forza col manifestarsi delle ineguaglianze nello sviluppo di una lingua. Così già Dante aveva osservato che «si per eandem gentem sermo variatur ... successive per tempora, nec stare ullo modo potest, necesse est ut disiunctim abmotimque morantibus v a r i e v a r i e t u r».190 Così, in tempi più vicini a quelli di cui ci occupiamo, il Leopardi aveva messo in dubbio la teoria maffeiana del sostrato: «Sebbene un popolo conquistatore trasporti e pianti la sua lingua nel paese conquistato, e d i s t r u g g a a n c h e d e l t u t t o l a l i n g u a p a es a n a, la sua lingua in quel tal paese appoco appoco si altera, finattanto che torna a diventare una lingua diversa dalla introdottaci ... Questa impossibilità naturale e positiva dello estendersi una lingua più che tanto, in paese, e in numero di parlatori (o provenga dal clima che diversifichi naturalmente le lingue, o da qualunque cagione), non è 188

iA. Schleicher, Die Deutsche Sprache, Stuttgart 1859 (2a ed. 1869, p. 36). iVedi per esempio Condillac, Essai sur l’orig. des connoiss. hum., in Oeuvres, I, Parigi 1798, p. 432. Questa teoria, naturalmente, era in stretto rapporto con quella che attribuiva al clima le differenze fisiche tra le razze. L’influsso del clima era limitato o negato dai poligenisti (linguistici e razziali), tra cui il Cattaneo: vedi SSG, II, p. 118; SF, II, p. 345 sg. 190 iDe vulg. eloq., I, 9. 189

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solamente dipendente dalla mescolanza di altre lingue che guastino quella tal lingua che si estende ...: ma è un’impossibilità materiale, innata, assoluta, per cui, quando anche tutto il resto del mondo fosse vuoto, o muto, quella tal lingua, dilatandosi più che tanto, si dividerebbe presso a poco in più lingue».191 Ma mentre nella linguistica pre-scientifica queste opinioni erano rimaste in minoranza di fronte a quelle che spiegavano la differenziazione con la mescolanza etnica, nell’indeuropeistica ufficiale avevano prevalso. Se Friedrich Schlegel, come vedemmo, attribuiva ancora la diversità tra le lingue indeuropee a «fremde Einmischung», già August Wilhelm Schlegel dava la preminenza ai fattori interni,192 e lo Schleicher scriveva semplicemente, senza accennare al sostrato: «Il mutamento linguistico non si compie in modo uniforme in tutto il territorio occupato da una lingua. In seguito a tale mutamento non uniforme, nelle diverse parti del territorio si sviluppano, a lungo andare, da un’unica lingua-madre più lingue, le quali a loro volta si frazionano in più dialetti e così via».193 Assai più tenacemente che nella linguistica indeuropea, la teoria del sostrato resisteva in quello che era stato il suo terreno d’origine: la linguistica romanza. Qui l’influsso delle lingue preromane sul latino era, in certa misura, documentabile: si comprende perciò come anche intorno alla metà dell’Ottocento la teoria trovasse difensori tra i romanisti,194 e come l’Ascoli stesso la considerasse meno improbabile nell’ambito romanzo che nell’indeuropeo. Tuttavia colui che per primo applicò alla linguistica romanza il rigore delle leggi fonetiche, Friedrich Diez, cercò di limitare l’influsso del sostrato il più possibile;195 ancor 191

iZib., 933 sg. iA. W. Schlegel, Oeuvres écrites en français, III, Lipsia 1846, p. 67 (nello scritto De l’origine des Indous, del 1833). Più affezionato all’idea della mescolanza etnico-linguistica si mantenne W. von Humboldt (Ges. Schriften ed. Leitzmann, VI, 1, p. 280 sgg.): anch’egli, tuttavia, con forti restrizioni. 193 iDie Deutsche Sprache cit., p. 27; cfr. p. 58, e Compendium4, 1876, p. 4. 194 iVedi specialmente Claude Fauriel, Dante et les origines de la langue et de la littér. italienne, Parigi 1854, II, p. 297 sgg., i cui argomenti saranno poi ripresi dallo Schuchardt, Der Vokalismus des Vulgärlateins, I, Lipsia 1866, p. 85 ** [(accenno ostile a Fauriel in Stendhal Vie de H. Brulard, c. IX, p. 91 ed. Martineau, Class. Garnier).]. 195 iVedi F. Diez, Grammatik der Roman. Sprachen, I2, Bonn 1856, p. 74: «Was nun die Bestandtheile der italienischen Schriftsprache betrifft, so ist vornweg anzuerkennen, dass sie nicht eine Spur der nur auf Erz- und Steinplatten, auf Vasen und Münzen uns überlieferten Reste altitalischer Sprachen enthält: dasselbe scheint auch von den Mundarten zu gelten»; solo 192

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più oltre in questa direzione si spingerà poi il Meyer-Lübke. E al Diez, più che al Cattaneo, era ancora vicino l’Ascoli di Lingue e nazioni. 2. Quali reazioni suscitò nel Cattaneo questo nuovo articolo dell’Ascoli? Fu esso preceduto o seguito da discussioni orali o epistolari tra i due studiosi? Purtroppo lo ignoriamo. Non si conoscono per ora lettere del Cattaneo all’Ascoli o dell’Ascoli al Cattaneo posteriori a quelle, già ricordate, del 1862; anche in lettere del Cattaneo ad altri, l’Ascoli non è mai rammentato dopo quell’accenno ostile nella lettera al Bertani del 12 maggio 1863.196 Certo essi si conobbero personalmente: il 15 dicembre del ’64, nella medesima seduta dell’Istituto Lombardo, il Cattaneo lesse un brano della sua Psicologia delle menti associate e l’Ascoli alcuni suoi Frammenti linguistici.197 Anche in altre sedute si trovarono insieme.198 Che negli ultimi anni di vita del Cattaneo i loro rapporti personali fossero migliorati, lo si può arguire dal fatto che, quando il Cattaneo morì (1869), l’Ascoli fu nominato relatore della commissione per le solenni onoranze alla sua memoria. Nella relazione che egli lesse all’istituto il 18 febbraio di quell’anno199 c’è una frase che va oltre il puro e semplice elogio di circostanza all’illustre collega scomparso: «Imperocché in Carlo Cattaneo, che si è spento lontano dalla nostra sede e fuori del regno, si rimpianga il promotore di pressocché tutti gli studj ai quali l’istituto nostro intende, si rimpianga l’uomo, il quale rinnovando e ravvivando, tra noi, ogni disciplina economica, letteraria, istorica, fisica, speculativa e industriale, in sé raccolse tanta somma di civile efficacia, che, giunta l’ora della riscossa politica, ei parve a tutti il natural moderatore del paese risorto». Qui c’è un’implicita, ma indubbia polemica contro i moderati che, a cominciare dal Cavour, avevano cercato di diminuire il prestigio del Cattaneo non solo nella vita politica italiana, ma nello stesso Istituto Lombardo;200 c’è la decia p. 220 n. ammette l’origine osca di nd > nn nei dialetti italiani meridionali. Anche per l’influsso celtico sul francese il Diez era molto scettico (ibid., pp. 116, 426; Etymol. Wörterbuch3, Bonn 1869, p. XX). 196 iVedi qui sopra, nota 178. 197 iCfr. «Rendic. Ist. Lomb.», scienze morali, I, 1864, pp. 182 sgg., 185 sgg. 198 i7 luglio 1864 («Rendic.» cit., I, p. 101); 16 agosto 1866 (ibid., III, p. 213). 199 i«Rendic.» cit.; serie 2a, II, 1869, p. 222 sgg. Cfr. anche a p. 374 la nomina dell’Ascoli nel comitato che avrebbe dovuto curare l’edizione delle opere del Cattaneo. 200 iCfr. Epist., III, pp. 232, 367 e molti altri accenni nelle lettere degli anni 1859-61; vedi anche le note del Caddeo a pp. 265, 295.

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sa affermazione che il Cattaneo avrebbe dovuto essere il leader, se non propriamente politico, almeno morale e culturale della nuova Italia. Ma anche nel campo linguistico ed etnografico assistiamo, dal ’67 in poi, ad un graduale avvicinamento dell’Ascoli a quelle idee del Cattaneo che egli aveva dapprima combattuto. La teoria del sostrato, che l’Ascoli ancora in Lingue e nazioni aveva negato senz’altro nell’ambito indeuropeo e accettato solo in minima parte e con mille riserve nell’ambito romanzo, assume un’importanza sempre crescente nel pensiero linguistico ascoliano. Nei Saggi ed appunti del 1867, a Demetrio Camarda che voleva ricondurre interamente l’albanese al sottogruppo «italo-greco» delle lingue indeuropee201 l’Ascoli obiettava: «Ma il quesito è veramente questo: I fenomeni fonetici, morfologici e lessicali, pei quali l’albanese riesce ad avere la sua propria fisionomia, rappresentano essi la reazione o i resti d’una favella, che ancora non sappiam determinare, alla quale si sovrapponessero e la ellenica e la latina, oppur si possono anche essi in qualche modo ricondurre all’unità italo-greca?».202 L’Ascoli propendeva nettamente per la prima ipotesi: bisogna individuare e raccogliere, diceva, «que’ fenomeni di originalità» dell’albanese i quali costituiscono «i resti e i vestigi, più o meno abbondanti, d’un idioma affatto speciale»: un idioma che potrà anche essere indeuropeo (l’Ascoli non si pronunziava su tale questione, che era stata oggetto di controversia tra il Bopp e il Pott), ma che ha comunque una sua individualità distinta da quella del greco e del latino. Questo, che egli chiamava il «substrato originale dell’albanese», non è ancora il «sostrato» nel senso oggi usuale, è piuttosto il «fondo primitivo» di una lingua che, al pari dell’inglese ma in misura ancora più forte, ha poi accolto un gran numero di elementi lessicali forestieri. Ma all’Ascoli questo fondo primitivo interessava anche come spia di una comune lingua balcanica che, a parere suo come del Miklos#ic! e di altri studiosi, traspariva in alcuni fenomeni linguistici romeni e bulgari; e qui nel caso del romeno e del bulgaro, si trattava proprio del sostrato nel senso nostro. Tra questi fenomeni l’Ascoli annoverava la posposizione dell’articolo, comune all’albanese, al romeno e al bulgaro: «singolarissima concordanza di tre diverse favelle 201 iD. Camarda, Saggio di grammatologia comparata della lingua albanese, Livorno 1864. Questa tesi era stata già sostenuta dallo Schleicher. 202 i«Politecnico» XXX, 1867, parte letterario-scientifica, p. 301 = Studj critici, II, RomaTorino 1877, p. 64.

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contigue, la quale è dai linguisti ritenuta per documento non dubbio di comune substrato aborigeno».203 È interessante notare che proprio questo, che fu il primo caso di sostrato ammesso esplicitamente dall’Ascoli, era stato, invece, uno dei pochi casi a cui il Cattaneo, contro il parere di altri studiosi, si era rifiutato di applicare l’ipotesi del sostrato da lui prediletta. «Questa maniera di classificar le nazioni su la sfumata simiglianza d’una sola forma grammaticale – aveva ammonito il Cattaneo – è troppo ardita. Altronde il supporre che avanti la conquista romana una sola purissima stirpe occupasse tutta l’immensa valle che si stende dall’Emo ai Carpazi, è veramente assurdo».204 Quest’ultima fase ci spiega l’atteggiamento, a prima vista strano, del Cattaneo: il sostrato costituiva per lui un principio di differenziazione, non di unità: serviva a spiegare le varietà dialettali all’interno di una lingua, o le differenze tra le lingue di una stessa famiglia, non a riconoscere, al di sotto delle differenze, un elemento comune originario; il suo principio basilare, come sappiamo, era che le lingue «dovevano esser più divergenti quanto erano più antiche», e quindi egli non poteva ammettere che la penisola balcanica, così varia oggi dal punto di vista etnico e linguistico, avesse costituito un’unità omogenea in tempi preistorici. Ad ogni modo, anche se nella valutazione di questo particolare fenomeno balcanico l’Ascoli dissentiva ancora una volta dal Cattaneo, dimostrava però di avere attenuato notevolmente la sua diffidenza per la teoria del sostrato, ancora così forte al tempo di Lingue e nazioni. Un altro passo in questa direzione egli compì nelle Lezioni di fonologia comparata del sanscrito, del greco e del latino, pubblicate a Torino nel ’70: qui attribuiva a influsso del sostrato aborigeno le cerebrali del sanscrito, un fatto, dunque, fonetico; e soggiungeva a conferma: «L’ü della Gallia ... è tra’ più facili esempj analoghi, e non il meno calzante».205 Dopo il ’70, come è noto, l’Ascoli si occupò sempre meno di linguistica indeuropea e concentrò le sue indagini, e quelle dei suoi sco203 i«Politecnico» cit., p. 302 = Studj crit., p. 66 sg. Su questo fenomeno «balcanico», che sarà da attribuire al contatto fra le tre lingue in epoca storica (se non addirittura ad una coincidenza casuale), piuttosto che ad un sostrato tracio o illirico, cfr. C. Tagliavini, Sulla questione della posposizione dell’articolo, in «Dacoromania» III, 1924, p. 515 sgg. 204 iSL, I, p. 277 sg. 205 iOp. cit. nel testo, p. 240. Sull’ü vedi più oltre, pp. 400-01.

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lari e seguaci, sui dialetti italiani. L’«Archivio glottologico italiano», fondato nel ’73, fu «italiano» non solo perché composto e pubblicato in Italia, ma anche per gli argomenti trattati, mentre la prima pubblicazione periodica tentata dall’Ascoli giovane, gli «Studj orientali e linguistici», si era estesa ad un campo d’indagini assai più vasto e remoto. Non credo che le ragioni di questa svolta si possano ricercare in un orientamento generale della linguistica europea intorno al ’70. Se in quell’epoca fiorivano – sotto la guida del Diez, del Tobler, di Gaston Paris – gli studi romanzi, non era certo rallentato il lavoro di «ricostruzione» dell’indeuropeo: basti ricordare i contributi di Curtius, di Fick, di Kuhn, e il successo ottenuto dallo stesso Ascoli con la sua teoria delle gutturali. È probabile che – come mi suggerisce Arnaldo Momigliano – il fallimento degli studi di comparazione ariosemitica, su cui ritorneremo nelle ultime pagine del presente saggio, abbia contribuito a distogliere l’Ascoli dai tentativi di ricostruzione preistorica, anche entro il solo ambito indeuropeo. Ma il motivo principale per cui egli si consacrò alla dialettologia italiana fu, a mio parere, l’esigenza di unire ancor più intimamente la disciplina da lui professata alla vita culturale della nazione, di creare una scuola, saldamente organizzata sul modello tedesco, la quale esplorasse in modo sistematico la varia e complessa fisionomia linguistico-etnografica dell’Italia e ne illustrasse la formazione storica.206 Un’esigenza in certa misura analoga avea già spinto Jacob Grimm a studiare la lingua tedesca e a scriverne la storia; ma dal patriottismo romantico e misticheggiante dei Grimm (e, più ancora, di altri della loro cerchia) si distingueva nettamente il patriottismo ascoliano, immune da chiusure nazionalistiche,207 ispirato da ideali illuministici di libertà e di tolleranza religiosa. Su questo punto il fondo originario di idee e di sentimenti suggeriti all’Ascoli dalla sua condizione di israelita e dai contatti con altri intellettuali ebrei della Venezia Giulia208 era stato poi rafforzato dall’influsso del Cattaneo e di tutto l’ambiente lombardo, uno dei meno angustamente nazionalistici d’Italia. Non sarà inutile ricordare, del resto, che anche nella vicina Torino un linguista di fine ingegno, Giovanni Flechia, amicissimo dell’Ascoli, compiva in quegli stessi anni un analogo pas206

iCfr. «Annali della Scuola Normale» 1959, p. 156. iCfr. «Archivio glottologico» I, p. XXXIV sg. 208 iSull’ambiente ebraico nel quale si formò l’Ascoli vedi sopra, nota 142. 207

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saggio dall’indianistica alla dialettologia italiana, e diveniva un prezioso collaboratore del periodico fondato dall’Ascoli. Ma lo studio dei dialetti italiani e della formazione dell’italiano letterario non aveva per l’Ascoli un interesse esclusivamente storico o storico-patriottico: doveva anche servire a portar chiarezza nella «questione della lingua», rinfocolata in quegli anni dallo scritto del Manzoni Dell’unità della lingua e dei mezzi per diffonderla e dall’inizio della pubblicazione del Novo vocabolario di G. B. Giorgini.209 Nel proemio dell’Ascoli al primo volume dell’«Archivio glottologico», è attuata quell’unità di linguistica storica e normativa che, come abbiamo visto nella prima parte di questo saggio, era un’esigenza profondamente sentita dal Cattaneo. La posizione assunta dall’Ascoli contro il fiorentinismo angusto del Manzoni e, peggio, dei manzoniani si riattacca direttamente alle idee del Cattaneo, le quali a loro volta, come sappiamo, erano uno sviluppo dei principii enunciati da Monti e Perticari nella Proposta. Su questo problema vi è dunque, e non è stata forse abbastanza messa in luce finora, una continuità di quella che si può chiamare la tradizione classicista-illuminista lombarda.210 Una continuità, certo, non statica: mentre il Perticari cercava ancora di difendere la teoria dantesca del volgare illustre come quintessenza di tutti i dialetti italiani, già il Cattaneo si era reso conto che il fondo dell’italiano letterario è innegabilmente fiorentino,211 e che l’errore dei fiorentinisti consisteva solo nel ripudio di tutto quel processo storico di selezione e di arricchimento per cui il fiorentino era divenuto lingua nazionale; e l’Ascoli sviluppò ulteriormente questa tesi e le dette il sostegno di una dottrina storico-linguistica ben più vasta ed esatta. E ancora: mentre il Perticari era più classicista che illuminista, cioè batteva l’accento sul valore della tradizione e dell’aulicità in quanto tali, già il Monti, e ancor più il Cattaneo e l’Ascoli, erano soprattutto desi209 iVedi M. Vitale, La questione della lingua, Palermo 1960, pp. 167 sg., 204, 209 sgg.; B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze 1960, p. 687 sgg.; G. Devoto, G. I. Ascoli di fronte al Manzoni, in Nuovi studi di stilistica, Firenze 1962, p. 169 sg. 210 iIl Vitale (op. cit., p. 167) ricorda il Cattaneo come precursore dell’Ascoli solo a proposito della teoria del sostrato, ma non per la questione della lingua. Il Goidánich (Silloge, p. XVIII) ricollega giustamente la posizione dell’Ascoli a quella del Monti, ma trascura il Cattaneo. A quest’ultimo accenna giustamente A. Schiaffini in «Italia dialettale» V, 1929, p. 165 n. 2 (tutto l’articolo è importante). 211 iContro la parte storica degli scritti del Perticari alcune osservazioni giuste erano state fatte già dal Tommaseo e (con maggiore dottrina, benché in stile estremamente prolisso) da Giovanni Galvani: cfr. M. Vitale, op. cit., pp. 194 sg., 265.

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derosi di adeguare lo strumento linguistico alle esigenze di una cultura nazionale moderna, e una lingua troppo familiare e popolareggiante spiaceva loro proprio in quanto inadatta a quelle esigenze (quantunque non si possa negare che anche su di loro la tradizione classicista continuasse, in parte, a pesare negativamente). Gli avversari stessi, del resto, si erano andati evolvendo: al fiorentinismo arcaizzante della Crusca era succeduto il fiorentinismo dell’uso attuale, propugnato dal Manzoni con ragioni molto più valide.212 Ma alla radice dell’uno e dell’altro vi era pur sempre quell’ambiguo concetto di «popolarità» (intesa come ingenuità nativa e non come spirito democratico) che già notammo nel romanticismo. Riprendendo le osservazioni del Cattaneo contro l’uso di nuovi fiorentinismi, l’Ascoli scriveva: «Prima si aveva (e dura ancora per molti) l’ideale della tersità classica; ora sorge l’ideale della tersità popolana; ma è sempre idolatria ... L’ideale del classicismo di certo non si attagliava al concetto della vera unità nazionale; ma a questo non ripugna meno, od anzi gli ripugna ben di più, il nuovo ideale del popolanesimo ...: E se è vero, come anzi ci mostrano di continuo, che nelle regioni dell’Arte corra un legame, più ancora stretto che non sia altrove, fra il pensiero e la forma, l’arte medesima non avrà forse gran fatto a rallegrarsi di questa infinita brama di fiorellini, placidamente raccolti sull’ajuola nativa, che ora vorrebbe dire l’unica ajuola fiorentina. Non mai, per avventura, l’Arte si sarebbe messa in maggiore antitesi con quella virile civiltà a cui pur l’Italia virilmente aspira; né mai si sarebbe più fatalmente scambiato, sotto le apparenze di serbar puro il carattere nazionale, quel di poetico o di terso che la lunga immobilità dei secoli può conferirci, col genuino e sempre nuovo suggello che i popoli robusti imprimono nella sostanza e nella forma di quella parte che a loro spetta nel comune lavoro delle genti civili».213 Non si trattava, dunque, di un puro e semplice contrasto fra le esigenze normative (impersonate dal Manzoni) e le esigenze storiche (impersonate dall’Ascoli). L’Ascoli non polemizzava contro qualsiasi normatività, ma contro quella normatività manzoniana, che rischiava di ridurre tutta la cultura italiana alla misura di un «buon senso» un po’ angusto. L’Ascoli negava a Firenze il diritto di 212 iVedi ciò che a questo proposito osservava l’Ascoli in A. Cesari, Elogi italiani e latini a cura di G. Guidetti, Reggio Emilia 1898, p. XLIX sg. 213 iArch. glottol.», I, p. XXX sg., da confrontare con C. Cattaneo, SL, I, pp. 8, 115-17, 23950.

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continuare a legiferare in materia di lingua proprio perché Firenze aveva perduto ormai da secoli il ruolo di capitale culturale della nazione, perché era ormai solo il luogo d’origine della nostra lingua, non il centro della vita civile italiana.214 Anche nel giudizio sul Manzoni, in cui l’ammirazione per l’artista si univa al dissenso dalla sua teoria linguistica e ad alcune giuste riserve sullo stile delle sue prose filologiche e filosofiche, l’Ascoli seguiva le orme del Cattaneo.215 Sempre più, ora, lo studio dei dialetti italiani, compiuto con interesse non puramente linguistico ma anche storico-etnografico, portava l’Ascoli a rivalutare la teoria del sostrato. Nel proemio all’«Archivio glottologico» c’è, sì, ancora un ammonimento contro il pericolo di far risalire con troppa facilità voci italiane «ad una o più d’una favella dell’antica Italia, che sia o s’imagini disforme, o almeno affatto divergente, dalla lingua che ci sta dinanzi nella letteratura di Roma»;216 ma esso prende di mira etimologie avventate di singole parole, non la teoria del sostrato nel suo complesso, soprattutto se applicata alla fonetica; tant’è vero che due pagine dopo l’Ascoli assegna alla dialettologia romanza il compito principale di «scoprire, scernere e definire, a larghi ma sicuri tratti, gli idiomi e quindi i popoli che ben soggiacquero a quella potente parola,217 ma sempre riagendo sopra di lei con maggiore o minor forza, per guisa che ciascuno di loro la rifrangesse in diversa maniera, e rivivesse, in qualche modo, sotto spoglie romane». Tra le varie lingue dell’Italia preromana di cui si potevano riconoscere le tracce nei dialetti italiani, il celtico fu quella a cui l’Ascoli rivolse la maggiore attenzione.218 Contribuirono a ciò, probabilmente, 214 iIbid., pp. xii («Se Firenze fosse potuta diventare Parigi» ecc.), xxx («l’Europa dice che l’Italia politica e pensante» ecc.). 215 iSi confronti C. Cattaneo, SL, I, p. 244 («Ben vi fu ai nostri giorni un grande scrittore» ecc.) con l’Ascoli, p. XXVIII. Vedi anche, su certe qualità negative dello stile manzoniano applicato alla trattazione di argomenti storici e scientifici, la bellissima lettera dell’Ascoli pubblicata nella «Perseveranza» del 12 aprile 1880 e ristampata in appendice all’ediz. del Proemio a cura di A. Camilli, Città di Castello 1914. 216 iP. XXXVII. Insieme a questo, l’Ascoli indica il pericolo dell’«indomania», cioè del derivare direttamente voci italiane dalle «remote fonti dell’Asia ariana». Uno di coloro a cui questi ammonimenti erano rivolti era il Caix: cfr. «Arch. glottol.» X, p. 1 sgg. 217 iCioè la parola di Roma. «Parola» per «lingua», o meglio per «caratteri specifici di una data lingua», è termine caro all’Ascoli. 218 iOltre al vol. V dell’«Arch. glottol.»; vedi anche il vol. II, 1876, pp. 160 («vere e proprie trasformazioni specifiche che il substrato gallico fa subire alla parola di Roma»), 445 («quella che si potrebbe dire l’acutissima fra le spie celtiche, cioè dell’é = A latino»), e moltissimi altri passi. Cfr. C. Merlo in Silloge, p. 602 sgg.

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l’amore per la Lombardia, sua seconda patria, e gli studi che già il Biondelli e il Nigra avevano dedicato ai dialetti «gallo-italici».219 Nella prefazione alla monumentale edizione (rimasta purtroppo incompiuta) del Codice Irlandese dell’Ambrosiana,220 egli stesso dichiarava: «Il principale fra i motivi, che m’indussero a accostarmi agli antichi monumenti del linguaggio dei Celti, è stato il desiderio di conseguire quell’idea più viva, che ancora si potesse, della favella colla quale il latino venne a lottare nelle Gallie, e che bene a lui soggiacque, ma non senza riagir sopra di lui nel modo più gagliardo. Se non si poteva ricomporre, intera e perspicua, tal fase di linguaggio che rappresentasse i Galli ancora affatto indipendenti dai Latini, non potevamo almeno rifar ben vive nel nostro spirito quelle condizioni idiomatologiche, in mezzo alle quali son nati, nella Cisalpina, Virgilio e Tito Livio?». Così il vagheggiamento dell’Italia preromana, o appena romanizzata, dopo aver dato vita a tante ricostruzioni più o meno fantasiose, ispirava una seria opera glottologica. E a sua volta, lo studio dei sostrati italici sempre più induceva l’Ascoli a ricorrere ad ipotesi analoghe per spiegare peculiarità di altre lingue indeuropee, non escluso il sanscrito.221 3. L’anno 1878, in cui l’Ascoli pubblicò il suo grande lavoro sul celtico, è anche l’anno di nascita ufficiale della scuola neogrammatica in Germania. Nella prefazione al primo volume delle Morphologische Untersuchungen, Brugmann e Osthoff enunciavano i principii fondamentali del nuovo indirizzo: ineccepibilità delle leggi fonetiche; carattere psicologico dei mutamenti linguistici; necessità di studiare le lingue vive e di portare l’esperienza di questo studio anche nel lavoro di ricostruzione preistorica. Insorgevano contro la baldanza della nuova scuola il Curtius, Johannes Schmidt, lo Schuchardt. E quando, con la traduzione dell’Einleitung di B. Delbrück compiuta da Pietro Merlo,222 219 iPer il Biondelli vedi sopra, p. 349. Il Nigra, nella prefazione alle Glossae Hibernicae veteres codicis Taurinensis (Parigi 1869, p. xxxii), formulò molto nettamente la tesi del sostrato fonetico: «Dum Celtae a Romanis glossarium et grammaticam mutuantur, propriam phonologiam servaverunt. Latinam linguam accomodaverunt legibus Celticae phonologiae, propriis, ut ita dicam, organis propriaeque pronuntiationi». Egli aveva iniziato anche il lavoro di edizione delle glosse ambrosiane, ma preferì che lo continuasse l’Ascoli (cfr. «Arch. glottol.» V, prefazione). 220 i«Arch. glottol.» V, 1878. 221 iDopo le Lezioni del ’70, a cui abbiamo già accennato (p. 310 sg.), vedi Studj critici, II, Roma-Torino 1877, p. 17; «Riv. di filol.» X, 1881, p. 49 sg.

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le dottrine neogrammaticali cominciarono a diffondersi in Italia, insorse anche l’Ascoli con le sue «lettere glottologiche».223 Della polemica Ascoli-neogrammatici si sono date, come è noto, interpretazioni assai diverse. Alcuni, come il Salvioni, Clemente Merlo, il Goidánich, hanno sostenuto che l’Ascoli era sostanzialmente d’accordo coi fautori del nuovo indirizzo, e che soltanto rimproverava loro di spacciare per novità assolute principii metodologici già noti ai glottologi della vecchia scuola e soprattutto a lui stesso.224 Altri, come il Bartoli e il Pisani, hanno visto nell’Ascoli un precursore della neolinguistica, il quale avrebbe combattuto l’astrattezza dei principii neogrammaticali in nome dell’individualità storica dei fenomeni linguistici.225 Assai lontano da queste tesi schematiche è il migliore studioso dell’Ascoli, Benvenuto Terracini: egli vede piuttosto un Ascoli intimamente combattuto tra naturalismo e storicismo, tra l’ossequio alle leggi fonetiche e il senso storico concreto; ma anche per lui ciò che nella personalità ascoliana è veramente vivo è questo secondo elemento.226 A voler riesaminare tutta la questione, finiremmo troppo lontano. Ci limitiamo perciò a brevi osservazioni, per soffermarci poi un po’ più a lungo su un solo punto della polemica, quello riguardante il sostrato, che ci interessa più da vicino. A nostro parere, la tesi di un Ascoli precursore dei neolinguisti (anche intendendo questo termine in senso molto lato) non regge. L’indirizzo iniziato dallo Schuchardt, prose222 iB. Delbrück, Introduzione allo studio della scienza del linguaggio, trad. di P. Merlo, Torino 1881. L’edizione originale era uscita a Lipsia l’anno precedente. 223 iLettere glottologiche: Prima lettera, in «Riv. di filol.» X, 1881, p. 1 sgg.; Due recenti lettere glottologiche e una poscritta nuova, in «Arch. glottol.» X, 1886, p. 1 sgg. Cfr. D. Ga˘zdaru, La controversia sobre las leyes fonéticas ecc., in «Anales de filologia clásica» IV, 1947-49, p. 211 sgg.; B. Terracini in «Arch. glottol.» XLI, 1956, pp. 89 sgg., 139 sgg. 224 iC. Salvioni in «Rend. Ist. Lombardo», serie 2a, XLIII, 1910, p. 78; C. Merlo, G. I. Ascoli e i canoni della glottologia, in Silloge, p. 587 sgg.; P. G. Goidánich, L’Ascoli e i neogrammatici, ibid., p. 611 sgg. 225 iM. Bartoli, Introduzione alla neolinguistica, Ginevra 1925, p. 62 sg. (cfr. anche in «Ce fastu?» VI, 1930, p. 97 sg.); V. Pisani in «Paideia» IV, 1949, p. 309. 226 iVedi per esempio ciò che egli dice in Silloge, p. 647: «Se anche contenuta entro concetti nettamente naturalistici ed espressa con terminologia naturalistica, la sua teoria delle “reazioni etniche” è da lui stesso opposta per il suo valore storico a teorie sul mutamento linguistico di carattere puramente evoluzionistico»; in «Arch. glottol.» XIX, 1923-25, p. 149: «Un residuo dei tempi in cui la linguistica era concepita come scienza naturale sopravvive dunque nell’Ascoli ...» (ben più che un residuo, come vedremo); e in «Arch. glottol.» XLI, 1956, p. 91: «Quel senso, tutto ascoliano, della concretezza storica del fenomeno linguistico, destinato a superare un giorno la concezione del Brugmann ...».

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guito dal Gilliéron, portato alle estreme conseguenze dal Vossler e dal Bertoni, implica una concezione della realtà – e del linguaggio in particolare – più o meno marcatamente idealistica.* Comune a tutti questi studiosi, benché poi si esprima in forme assai diverse, è lo sforzo di concepire i fatti linguistici come fatti «spirituali», di separare la linguistica dalle scienze naturali e di avvicinarla alla filologia e addirittura alla critica letteraria.227 Nulla di ciò nell’Ascoli: egli rimase sempre convinto che la linguistica fosse una scienza naturale, affine, per il metodo e l’oggetto delle sue ricerche, all’anatomia comparata e all’antropologia assai più che alla filologia.228 E ancora: dallo Schuchardt in poi, è stata sempre più forte nella linguistica idealisteggiante la tendenza a dimostrare l’impossibilità di qualsiasi classificazione, a risolvere l’unità della lingua nella molteplicità delle singole isoglosse o addirittura dei singoli linguaggi individuali. L’Ascoli criticò anch’egli, come sappiamo, lo schematismo di certe classificazioni schlegeliane e biondelliane,229 ma non pensò mai a mettere in dubbio la realtà obiettiva delle lingue e delle famiglie di lingue: basti ricordare il tono risentito e, potremmo ben dire, scandalizzato con cui respinse i dubbi di Paul Meyer sull’unità del franco-provenzale, proprio perché gli sembrava 227 iSo bene che tra le posizioni di uno Schuchardt e quelle degli idealisti vi è una notevole differenza, come ha messo bene in rilievo G. Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, Firenze 1946 **. Ma qui si tratta di indicare delle tendenze generali. 228 iSu questo punto ha perfettamente ragione Clemente Merlo, art. cit., p. 592 sgg. Espressioni naturalistiche («anatomia delle lingue», «paleontologia della parola», «istoria naturale della parola», «organismo ariano», e via dicendo) sono frequentissime nell’Ascoli, come nello Schleicher e già nel Rask e nel Bopp. Quanto alla netta distinzione che egli poneva tra glottologia e filologia, vedi specialmente la sua polemica col Lignana in Studj critici, II, p. 45 sg. e la nota a p. XXXVI del primo volume dell’«Archivio». Anche il Terracini, del resto, riconosce giustamente che «egli scorse sempre un abisso fra arte e lingua, fra scienza della letteratura e scienza della parola, ed il mirare ad un’intima fusione della linguistica e della filologia gli parve per lo meno una funesta esagerazione» («Arch. glottol.» XIX, 1923-25, p. 149). In questo l’Ascoli era perfettamente d’accordo con lo Schleicher (Die Deutsche Sprache2, p. 119) e con Max Müller, mentre un avvicinamento tra le due discipline era stato propugnato dal Curtius e dallo Steinthal. 229 iVedi sopra, pp. 347, 349.

*iScriveva il Terracini (art. cit., p. 86 n. 1): «Accade così al T. {Timpanaro} di porre Schuchardt in un fascio con la linguistica idealisticheggiante, e Gilliéron in compagnia di Vossler e di Bertoni senza tutte le cautele che sarebbero state necessarie». Vorrei precisare che in verità io parlo di un «indirizzo iniziato dallo Schuchardt, proseguito da Gilliéron, portato alle estreme conseguenze dal Vossler e dal Bertoni»: indico abbastanza chiaramente, dunque, le differenze, pur nei limiti di un rapido accenno. Poco sotto aggiungo che la tendenza antinaturalistica si esprime in questi studiosi «in forme assai diverse», e ancora in nota preciso: «So bene che tra le posizioni di uno Schuchardt e quelle degli idealisti vi è una notevole differenza ...». Non mi sembra, dunque, di «porre in un fascio» tutti questi studiosi.

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che quei dubbi, al di là del singolo problema, mettessero in forse il principio stesso della classificazione linguistica, e quindi la scientificità della glottologia.230 Vedremo tra poco come anche sul problema del sostrato la concordanza tra l’Ascoli e i linguisti più recenti sia più apparente che reale. L’altra tesi, di un Ascoli concorde coi neogrammatici, è molto meglio fondata. Senza dubbio uno dei principali motivi che spinsero l’Ascoli a scrivere le Lettere glottologiche fu il desiderio di rivendicare alla vecchia linguistica – e più particolarmente alla «scuola milanese», cioè a sé stesso – la priorità nell’enunciazione e soprattutto nell’applicazione dei principii banditi dai neogrammatici. E in effetti, sebbene tali rivendicazioni di priorità possano sembrare troppo insistenti e personalistiche (tanto più personalistiche quanto più sono condite con espressioni di esagerata modestia),231 non si può negare la loro fondamentale giustezza. Già da tempo l’Ascoli era orientato nel senso di un sempre maggior rigore nell’indagine fonetica, di una sempre più risoluta eliminazione delle «eccezioni», di uno studio dei dialetti basato sulle vive testimonianze orali a preferenza che sui monumenti letterari, così da poter essere considerato, in certo senso, un neogrammatico ante litteram.232 Tuttavia accanto a questo motivo polemico, nelle Lettere glottologiche ce n’è un altro, di difesa della concezione storico-naturalistica del linguaggio contro la concezione p s i c o l o g i c a sostenuta dalla nuova scuola. Nonostante il tono perentorio delle sue enunciazioni, la dottrina dei neogrammatici racchiudeva in sé un contrasto non risolto. Da un lato, affermando l’assoluta ineccepibilità delle leggi fonetiche, essa portava alle estreme conseguenze quell’aspirazione al rigore scientifico che, da Rask e Bopp fino a Schleicher, era stata sen230 iPaul Meyer e il franco-provenzale, in «Arch. glottol.» II, 1876, p. 385 sgg. Cfr. N. Maccarrone in Silloge, p. 309 sgg. 231 iIl tono personalistico è ancor più accentuato in alcune lettere private, per esempio in quella al Brugmann pubblicata da D. Ga˘zdaru, art. cit., p. 253. Vedi anche ibid., pp. 257 sg. e 290 sgg., le risposte, indubbiamente giuste, del Brugmann e di J. Schmidt a talune eccessive pretese dell’Ascoli. 232 iAncora nella prefazione al vol. XI dell’«Archivio» (1890, p. VII), a polemica ormai conclusa, egli osservava: «Le innovazioni, alle quali di qua dall’Alpi siam riusciti (prima dei neogrammatici), importavano un rimutamento del metodo». Il Pedersen (Linguistic Science in the xix Century, Cambridge Mass. 1931, p. 279) considera giustamente le Lezioni di fonologia dell’Ascoli come una delle opere che prepararono l’avvento della scuola neogrammatica.

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tita sempre più fortemente dai linguisti. Ma mentre costoro, pur ammettendo in pratica non infrequenti «eccezioni» alle leggi fonetiche, le consideravano teoricamente come «leggi di natura», leggi «fisiche e meccaniche» o almeno biologiche,233 i neogrammatici, nel momento stesso in cui ne asserivano l’ineccepibilità, ne davano una spiegazione psicologica che sembrava piuttosto indebolirla che confermarla. Difatti, abbandonata la concezione del linguaggio come «organismo naturale», riconosciuto che i mutamenti fonetici non dipendono né da variazioni climatiche né da altre cause capaci di modificare gli organi vocali di tutto un popolo, ma da impulsi psicologici, non si poteva più ammettere che, a un dato istante, tutta una vasta comunità di parlanti avesse incominciato a profferire un suono in modo diverso da come lo aveva profferito sino allora; bisognava riconoscere che l’ineccepibilità della legge fonetica non era data fin dall’inizio, ma costituiva un punto di arrivo, il risultato di una generalizzazione. Il Delbrück arrivava già ad affermare che il mutamento fonetico ha inizio da un singolo individuo e da esso si propaga per imitazione ad un numero d’individui sempre maggiore e infine all’intera comunità.234 Il Brugmann e il Paul, desiderosi di porre già all’inizio del fenomeno un elemento «collettivo», sostenevano che l’innovazione ha origine simultaneamente in un piccolo gruppo d’individui.235 Ma anche in questo secondo caso la legge fonetica veniva ad essere soltanto una tendenza generalizzata, priva, quindi, del carattere di universalità e necessità delle leggi di natura. 233 iDi «leggi fisiche e meccaniche» parla il Bopp proprio all’inizio della prefazione alla Vergleichende Grammatik (vedi la sua ulteriore precisazione nell’ed. francese, Gramm. comparée etc., trad. Bréal, I, Parigi 1866, p. 1). 234 iB. Delbrück, Einleitung in das Sprachstudium, Lipsia 1880, p. 119: «Wenn wir hier ... absehen von den etwaigen Einwirkungen des Klimas, über die ich nichts Bestimmtes aussagen kann, so ist es klar, dass die Veränderungen in der Aussprache bei dem Einzelnen beginnen und sich von da zu den Mehreren und den Vielen durch Nachahmung von Seiten dieser fortpflanzen. Der letzte Grund aller Sprachveränderung kann also nur darauf beruhen, dass der Einzelne die ihm überkommene Sprache nicht genau so weiter giebt wie er sie erhält, sondern das Überlieferte, sei es aus Bequemlickeit, sei es aus einem ästhetischen Triebe, sei es weil sein Ohr trotz aller Anstrengung nicht genau genug auffasst und sein Mund nicht genau genug wiedergiebt, sei es aus welchem Grunde immer, i n d i v i d u a l i s i e r t». 235 iK. Brugmann, Zum heutigen Stand der Sprachwissenschaft, Strasburgo 1885, p. 49; H. Paul, Prinzipien der Sprachgeschichte3, Halle 1898, p. 58 sg. (con un tentativo di spiegazione statistica di tale mutamento fonetico simultaneo). Ma nel Grundriss, I2, Strasburgo 1897, p. 63, il Brugmann ammetteva entrambe le tesi: «Der sogen. lautwandel pflegt von einzelnen Individuen, von einem, örtlich oder social beschränkten, kleinen Kreis von Sprechenden auszugehen».

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L’Ascoli scorse acutamente questa contraddizione. Polemizzando in particolare contro il Delbrück, egli osservava che la «dottrina delle spinte individuali» coesisteva in modo alquanto strano con l’affermazione «che non solo resti salda la dottrina delle trasformazioni regolari e specifiche dei suoni di ciascun linguaggio, ma questa anzi si debba intendere, d’ora in poi, con un rigore non mai prima sentito e draconianamente inesorabile».236 Ma nonostante l’ironia di queste ultime parole, egli non voleva risolvere la contraddizione attenuando il draconiano rigore delle leggi fonetiche, bensì negando la loro origine individuale. Soggiungeva infatti: «Ma qual pur sia il modo in cui si pensi che la gran comunità dei parlanti accolga e regoli o simmetrizzi gli errori o gli arbitrî personali, ne verrà sempre, che gli effetti di tale azione, se la imaginiamo grande, avrebbero dovuto perturbare l’ordine storiale della parola, causarvi continuamente dei salti o degli strappi, rendere insomma impossibile, o anzi impensabile, quella che diremmo la storia naturale e ragionata delle lingue. Or la verità è all’incontro, che questa storia ci resulta sempre più viva e più sicura, perocché sia come un’ampia tela, che si svolge, di fase in fase, con intera continuità e per via di coerenze generali».237 Bisognava dunque trovare alla legge fonetica una motivazione meno psicologica e più naturalistica, che non la facesse dipendere, n e m m e n o i n i z i a l m e n t e , dalla «pronuncia difettosa o arbitraria di singole persone», dal «capriccio» individuale.238 Scartata l’ipotesi di un influsso climatico,239 tale motivazione poteva essere offerta solo dal sostrato. I mutamenti fonetici dovuti al fatto che un popolo, nell’imparare una nuova lingua, vi porta le «abitudini orali» della lingua da lui parlata precedentemente, sono mutamenti c o l l e tt i v i f i n d a l l ’i n i z i o , pensava l’Ascoli. Se i Galli non possedevano nella loro lingua il suono u e, imparando il latino, trovavano notevole difficoltà a pronunciarlo, se «il latino duro, per esempio, non 236

i«Riv. filol.» X, 1881, p. 46. iIbid. 238 iIbid., e «Arch. glottol.» X, 1886, p. 76. 239 i«Riv. filol.» X, p. 43. Nell’escludere l’influsso del clima, l’Ascoli si trovava d’accordo col Cattaneo (cfr. qui sopra, nota 189), col Biondelli e con gli stessi neogrammatici. Tuttavia egli stesso, a proposito della tendenza alla sonorizzazione delle occlusive sorde che si riscontra nei dialetti dell’Italia meridionale, in neogreco e in albanese, aveva parlato una volta di «alterazione isotermica» («Arch. glottol.» VIII, 1882-85, p. 113), e ribadì questa sua spiegazione nella terza «lettera glottologica» («Arch. glottol.» X, p. 22). 237

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potea dal loro stromento orale esser facilmente riprodotto se non per düro», ecco che questo mutamento fonetico doveva compiersi necessariamente in t u t t o il territorio della Gallia romanizzata, ogni volta che un Gallo prendeva a parlar latino; esso poteva dunque a buon diritto esser chiamato «legge fonetica».240 Perciò la teoria del sostrato, respinta dapprima dall’Ascoli (come dallo Schleicher) sotto l’accusa di turbare, con l’intrusione di elementi «esterni», la regolarità dell’evoluzione linguistica,241 ammessa poi in via subordinata, per spiegare le «eccezioni», le anomalie di sviluppo del linguaggio, diventava ora la massima garante dell’ineccepibilità delle leggi fonetiche, la salvatrice della scientificità della glottologia. E diventava anche il principale titolo di originalità della «scuola italiana», da contrapporre alle orgogliose asserzioni dei neogrammatici. Dimenticando ciò che egli stesso aveva scritto in Lingue e nazioni, l’Ascoli esprimeva il suo stupore «nel veder così stranamente trascurati» dai neogrammatici i «motivi etnologici nelle trasformazioni del linguaggio», e osservava: «Pare che non entri pur nella loro imaginazione un caso come quello dell’ü che l’abitudine orale di tutt’intiero un popolo avrebbe pressoché contrapposto a ogni u nitido e accentato che era proposto nella parola romana all’imitazione sua».242 Qui si vede ancor meglio ciò che distingueva la polemica ascoliana contro i neogrammatici dalla polemica che in quel medesimo tempo conduceva contro di essi lo Schuchardt, il quale sarebbe stato poi seguito da altri studiosi orientati ancor più decisamente in senso idealistico. L’Ascoli non accusava i neogrammatici di scientismo, di disconoscimento dei fattori individuali nello sviluppo storico del linguaggio, ma anzi di pericolosa sopravvalutazione di tali fattori, e quindi di scarsa scientificità. C’era senza dubbio da parte sua un certo compiacimento nel far vedere come i più accesi fautori delle leggi foneti240 i«Riv. filol.» X, p. 23; cfr. p. 43 sgg.; «Arch. glottol.» X, p. 21 sg. Già nel 1878, appena iniziatesi le polemiche pro e contro i neogrammatici, aveva scritto («Arch. glottol.» III, p. 253, n. 1): «Molti si meravigliano della regolare costanza che s’avverte nelle evoluzioni fisiche della parola, o, in altri termini, dell’esistenza delle leggi fonetiche. Ma le cause delle principali riduzioni sono veramente etnologiche, cioè dipendono da predisposizioni orali, le quali inducono a divariazioni costanti di quell’entità fonetica che uno strato storico assume dall’altro». 241 iVedi sopra, pp. 382-383, 385-386. 242 i«Riv. filol.» X, pp. 13 sg., 45. Vedi anche la seconda «lettera glottologica», dedicata al sostrato osco-umbro (Di un filone italico, diverso dal romano, che si avverta nel campo neolatino), in «Arch. glottol.» X, 1886, p. 1 sgg.

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che finissero proprio essi con l’infirmarne la validità assoluta; tuttavia l’esigenza di ribadire tale validità, di giustificarla in modo più convincente di quanto i neogrammatici e lo stesso Schleicher avessero saputo fare, era da lui sinceramente sentita, non nasceva da un puro e semplice desiderio di ritorsione polemica. È vero che alla teoria del sostrato si richiamava volentieri anche lo Schuchardt,243 e che ciò costituiva quindi un motivo comune ai due oppositori dei neogrammatici. Senonché la concezione ascoliana del sostrato era molto diversa da quella dello Schuchardt. Per l’Ascoli si trattava di un fenomeno strettamente meccanico: il popolo colonizzato, costretto a parlare la lingua dei colonizzatori, non riusciva a riprodurne esattamente i suoni e quindi li modificava inconsciamente in conformità alle proprie «abitudini orali», al proprio «abito idiomatico». Vedemmo che già il Maffei, il Cattaneo, il Biondelli avevano inteso il sostrato in questo modo. Ma l’Ascoli, sotto l’influsso del positivismo schleicheriano e, probabilmente, del Nigra, accentuò ulteriormente questo aspetto, arrivando a concepire l’«abitudine orale» non come una assuefazione acquisita e modificabile, ma come un carattere permanente, connesso con la struttura anatomica, con la conformazione glottica di una data stirpe. Lo Schleicher aveva asserito l’impossibilità di apprendere perfettamente una lingua diversa dalla propria, appunto perché a ciascuna lingua corrispondeva, secondo lui, una diversa conformazione «del cervello e degli organi vocali» dei parlanti;244 l’Ascoli ammetteva ora, a differenza dello Schleicher, la mescolanza linguistica come il principale fattore di mutamento del linguaggio, ma riteneva che, pur prendendo a parlare un’altra lingua, un popolo mantenesse immutate le caratteristiche del suo «stromento orale» e a queste adattasse il nuovo idioma.245 243 iGià nel Vokalismus des Vulgärlateins (vedi qui sopra, nota 194), e poi in vari altri scritti: vedi i brani riportati nello Schuchardt-Brevier a cura di L. Spitzer, Halle 19282, p. 150 sgg. 244 iA. Schleicher, Über die Bedeutung der Sprache für die Naturgeschichte des Menschen, Weimar 1865, p. 9 sgg. 245 iIl sostrato fu inteso in senso ancor più marcatamente biologico dal Nigra (oltre al passo citato alla nota 219, vedi il saggio del 1876 ripubblicato come introduzione ai Canti popolari del Piemonte, Torino 1888, p. XVIII: «Queste due parti del linguaggio (fonetica e sintassi) hanno stretta relazione cogli organi materiali della pronunzia e del pensiero, che nelle due razze (italica e celtica) non dovevano essere assolutamente identici ... Né gli organi di cui parliamo possono mutarsi o modificarsi per il solo fatto della volontà». Come è noto, il Nigra applicò la nozione di sostrato anche al folclore (V. Santoli, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana, Napoli 1950, II, p. 119; G. Cocchiara, Storia del folklore in Europa, Torino 1952, p. 368 sg.). Mentre

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Intesa così, la teoria del sostrato rischiava di essere addirittura in contrasto con la tesi cattaneiana della non correlazione tra lingua e razza. E infatti, quando il Whitney tornò a sostenere che lingua e razza non sono in alcun rapporto fisso, tant’è vero che un popolo può assumere la lingua di un altro,246 l’Ascoli già nel secondo volume degli Studj critici replicò: «Ma non l’assume (massime nelle condizioni di civiltà di que’ tempi che noi diciamo antichi) se non adattandola alle sue facoltà e alle sue tendenze elocutive; la riazione delle quali si fa testimonio perenne dell’elemento che soggiace»;247 e ribadì la stessa tesi nella prima lettera glottologica.248 Proprio per sottolineare questo legame tra linguistica e antropologia, egli preferì sempre parlare, invece che di sostrato, di «reazioni etniche», di «criterio etnologico». Lo Schuchardt, nella sua recensione alle due lettere glottologiche del 1886,249 pur desiderando di mettere in luce soprattutto i motivi di consenso con l’Ascoli, suo alleato nella lotta contro i neogrammatici, non poteva fare a meno di notare che la terminologia ascoliana gli pareva poco felice: «La mescolanza etnica non è la stessa cosa della mescolanza linguistica, la seconda non è nemmeno sempre la conseguenza necessaria della prima»; meglio perciò, egli diceva, parlare semplicemente di Sprachmischung. L’osservazione dello Schuchardt era giusta; ma in séguito si finì col cadere nell’eccesso opposto: si vollero considerare i fenomeni di sostrato come un influsso del Nigra sull’Ascoli appare assai probabile (cfr. qui sopra, nota 219), non del tutto sicura mi sembra la derivazione del Nigra dal Cattaneo, affermata dal Santoli e dal Cocchiara negli scritti ora citati. Abbiamo visto che la teoria del sostrato era già largamente diffusa in Italia e fuori; e il Cattaneo, tra i fautori del sostrato, era stato proprio quello che meno di tutti lo aveva inteso in senso biologico. 246 iW. D. Whitney, La vita e lo sviluppo del linguaggio, trad. D’Ovidio, Milano 1876, pp. 4, 10 sg. Il Whitney, come è noto, combatteva la concezione del linguaggio come organismo e della linguistica come scienza naturale, sostenuta dallo Schleicher e (in forma più brillante, ma assai meno coerente) da Max Müller. 247 iStudj critici, II, Roma-Torino 1877, p. 17. Per quella precisazione «massime nelle condizioni di civiltà ecc.» cfr. qui sopra, p. 384. 248 i«Riv. filol.» X, p. 44 n., dove il Whitney è citato esplicitamente. Scrive il Pisani (in «Paideia» IV, 1949, p. 308): «I Neogrammatici tentarono di tirar dalla loro il principio ascoliano, dal suo autore diretto contro di essi, scorgendo nell’influsso del sostrato il puro reagire di predisposizioni fisiologiche di singole nazioni». No: era proprio l’Ascoli a interpretare così la teoria del sostrato, e a trovare i neogrammatici troppo psicologi e troppo poco fisiologi! Vedi anche più sotto, nota 254. 249 iIn «Literaturblatt für german. und roman. Philologie» VIII, 1887, col. 12 sgg., specialmente 14.

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fatti puramente culturali, privi di qualsiasi meccanicità, a n c h e p s i c o l o g i c a ; si identificò il bilinguismo in senso specifico con quel bilinguismo in senso lato che è proprio di ciascun parlante, il quale parla ad un tempo la lingua della collettività e il proprio linguaggio individuale e continuamente adegua questo a quella e continuamente riafferma la propria autonomia; si allargò, quindi, la nozione di sostrato fino a farla coincidere con l’innovazione linguistica tout court.250 [cr] Così «filosofizzato», il concetto di sostrato diviene inservibile come categoria storico-linguistica, così come il predicato della liricità, esteso crocianamente a qualsiasi espressione artistica, non può più adempiere al compito di caratterizzazione (sia pure molto approssimativa) a cui adempiva il «genere letterario» della lirica. Comunque, il sostrato così inteso, se ha poco in comune col sostrato dello Schuchardt, non ha addirittura nulla a che vedere col sostrato dell’Ascoli.* E anche quando si loda l’Ascoli per aver contrapposto, con la teoria del sostrato, la propria concezione «storica» della lingua all’astratta concezione «evoluzionistica» dello Schleicher e dei neogrammatici, e si tempera poi questa lode con l’osservazione che egli non seppe del tutto liberarsi da residui di naturalismo e divenire pienamente storicista,251 non si interpreta con esattezza, mi pare, la posizione ascoliana. Se si considerano, hegelianamente, natura e storia come termini antitetici, e si ritiene che solo dello Spirito vi possa essere storia, allora bisogna concludere che l’Ascoli non aveva una concezione storica del linguaggio. Lo Schleicher, che era un materialista prigioniero di schemi hegeliani, diceva appunto che la glottologia era una 250 iVedi soprattutto B. Terracini, Sostrato, in Scritti in onore di A. Trombetti, Milano 1938, p. 321 sgg. (e già Paleontologia ascoliana e linguistica storica, in Silloge, pp. 649, 653). Beninteso, la finezza e l’intelligenza delle molte osservazioni storiche concrete che si trovano in questi due saggi possono e devono essere apprezzate anche da chi non ne condivida l’impostazione generale idealistica. 251 iVedi i passi del Terracini citati qui sopra, nota 226, e il suo articolo sul Sostrato (cit. alla nota precedente), p. 322 sg.

*iVedi, a p. 92 dell’art. cit. del Terracini, l’appassionata rivendicazione che egli fa della derivazione ascoliana della sua «teoria individualistica del sostrato». Parlando di «filosofizzazione» del concetto di sostrato, io intendevo accennare a quel processo mentale, caro all’idealismo italiano, per cui si dimostra che un concetto empirico, se lo si vuol pensare rigorosamente, deve perdere la sua finitezza e identificarsi col Tutto (o, comunque, con categorie più ampie, che si pretenderebbero non empiriche ma «pure»). Ma non ho mai disconosciuto la schiettezza e la profondità dell’interesse del Terracini per l’Ascoli (cfr. pp. 396, {la n. 250 qui sopra}, 426). {La postilla vale anche per la p. 422 – N. d. C.}.

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scienza naturale e non storica.252 Ma se, dopo Lyell e dopo Darwin, si ritiene che anche la natura inorganica e organica abbia una storia, quell’antitesi viene a cadere, e si dovrà allora riconoscere che anche la linguistica comparata ottocentesca è linguistica storica. Non si dovranno, beninteso, disconoscere le differenze specifiche tra la storia della natura e la storia umana; averle disconosciute è senza dubbio un grave difetto del pensiero positivistico, e, in parte, dello stesso Ascoli. Ma non si potrà nemmeno scavare tra i due tipi di storia un abisso, e pretendere poi che la storia linguistica appartenga tutta quanta alla sfera «spirituale»; si dovrà anzi riconoscere che l’evoluzione del linguaggio, nella quale hanno tanta parte l’inconscio e il meccanico, sta a metà strada tra il tipo «naturale» e il tipo «umano». In questo senso l’Ascoli non aveva torto a parlare di «storia naturale e ragionata delle lingue», di «continuità storica e filologica nella gran tela della parola indeuropea».253 Che egli abbia superato di molto il Brugmann e altri neogrammatici quanto a senso storico concreto; che la teoria del sostrato, implicando un rapporto diretto tra lingue e popoli, abbia preservato la linguistica ascoliana dal pericolo di concepire il linguaggio come un ente a sé, staccato da coloro che lo parlano, rimane verissimo; ed è merito del Terracini aver messo in luce questa verità. Ma questo storicismo ascoliano non è tanto il preannunzio dello storicismo di marca idealistica, quanto una manifestazione dello storicismo romantico-positivista dell’Ottocento. Il soggetto della storia ascoliana non è l’individuo che crea ogni volta la propria espressione originale e irripetibile, ma è la nazione come entità collettiva (anche se concepita al di fuori da ogni misticismo). Come abbiamo accennato, era proprio il distacco della linguistica dall’etnografia e la sua riduzione a scienza psicologica ciò che all’Ascoli soprattutto spiaceva negli scritti dei neogrammatici.254 252 iDie deutsche Sprache, 3a ed., Stuttgart 1874, p. 119 sgg. Sulla formazione hegeliana dello Schleicher (della quale egli non si liberò neppure quando divenne materialista) cfr. E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, 2a ed., I, Oxford 1954, p. 109 sgg. Un analogo accozzamento di hegelismo e materialismo (ma meno stridente) si trova nel biologo e filosofo Jakob Moleschott. 253 i«Riv. filol.» X, p. 46; lettera al Brugmann pubbl. dal Ga˘zdaru in «Anales de filología clásica» IV, 1949, p. 253. 254 iVedi il violento sfogo contro la «gazzarra psicologica» in «Riv. di filol.» X, pp. 9-12. Il Brugmann, in una lettera all’Ascoli (pubbl. dal Ga˘zdaru, art. cit., p. 256), ribadiva che questo era il principale punto controverso. Cfr. B. Terracini in «Arch. glottol.» XLI, 1956, pp. 91 e 149.

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D’altra parte, è giusto notare che, se l’evoluzione linguistica «per cause interne», così com’era concepita dallo Schleicher e dai neogrammatici, rischiava di diventare un’astrazione, la teoria del sostrato racchiudeva anch’essa un pericolo di antistoricismo. Essa infatti presupponeva che una lingua perdurasse invariata fino a quando non intervenisse a mutarla il contatto con un’altra lingua: negava, quindi, a ciascuna lingua presa per sé ogni capacità di sviluppo storico o anche di semplice «divenire».255 L’Ascoli, certo, non arrivò mai ad attribuire tutti i mutamenti fonetici all’azione del sostrato. Ammise anzi esplicitamente l’esistenza di innovazioni dovute a cause psicologiche, soprattutto all’influsso dell’analogia; e ad esse dedicò una delle appendici alla terza lettera glottologica: Le fono-nomie e la loro fissità.256 Qui egli indagava con molta finezza e con larga esemplificazione il modo in cui un’innovazione si va propagando. Si sente, leggendo queste pagine, che egli non era rimasto affatto inaccessibile alle nuove idee, che aveva meditato non solo sull’Einleitung di Delbrück e su altri scritti dei neogrammatici, ma anche sul famoso opuscolo dello Schuchardt Über die Lautgesetze, gegen die Junggrammatiker. Non a caso la Schuchardt apprezzava particolarmente questa appendice,257 e l’Ascoli ringraziava lo Schuchardt di averlo indirettamente spronato a scriverla.258 E tuttavia anche qui appaiono ben chiare le differenze di mentalità e di impostazione. Mentre lo Schuchardt vedeva nella non assolutezza delle leggi fonetiche un valore positivo, che consentiva al linguaggio di emergere dalla naturalità e di attingere la libertà spirituale, l’Ascoli, al contrario, vi 255 iLa polemica tra assertori e negatori dell’influenza del sostrato è tuttora viva, specialmente nella linguistica romanza; ** vedi, per un orientamento generale, C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, 3a ed., Bolona 1962, p. 112 sgg. e la bibliografia ibid., p. 117. Ma, diversamente che nella fase cattaneiana-ascoliana, si tratta ormai di una polemica puramente scientifica, del tutto (o quasi del tutto) indipendente da presupposti ideologici. 256 i«Arch. glottol.» X, 1886, p. 73 sgg. 257 iRec. cit. qui sopra (alla nota 249), col. 16. 258 iLettera allo Schuchardt pubbl. da B. Migliorini ne «La cultura» n.s. IX, 1930, p. 694. In precedenza lo Schuchardt si era lagnato che l’Ascoli, nelle ultime due Lettere glottologiche (pubblicate, prima che nell’«Arch. glottol.» X, nella Miscellanea linguist. in memoria di Caix e Canello, Firenze 1886), non avesse menzionato il suo scritto (lettera pubbl. da Ga˘zdaru, art. cit., p. 305). Ad ogni modo l’indubbia divergenza tra i due, alla quale accenniamo subito dopo, non autorizza a concludere addirittura, col Goidánich (in Silloge, p. 613), che l’appendice sulle Fono-nomie sia rivolta «contro lo Schuchardt». Anzi, essa rappresenta pur sempre il massimo avvicinamento dell’Ascoli al punto di vista dell’amico. Cfr. le giuste osservazioni del Terracini in «Arch. glottol.» XLI, p. 148 sg.

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scorgeva un limite alla scientificità della linguistica. L’ideale, per lui, rimaneva pur sempre quello di «disciplinare le apparenti bizzarrie delle serie fonetiche», di scoprire nuove leggi «non peranco avvertite» in cui potessero trovar posto le apparenti eccezioni.259 Perciò la sua simpatia continuava ad andare ai mutamenti fonetici dovuti al sostrato, i quali erano esenti, o quasi, da fluttuazioni e da irregolarità;260 e la lotta perché fosse dato il massimo risalto ai «motivi etnologici» era, per lui, una lotta per far sì che alla linguistica fosse riconosciuto il più possibile il carattere di scienza. 4. Il primo accenno di un avvicinamento dell’Ascoli alle idee linguistiche del Cattaneo risale, come abbiamo visto, al ’67. Le postille alla terza «lettera glottologica» sono dell’86. In questi venti anni l’Ascoli aveva sempre più intimamente aderito ai principii cattaneiani, sia per quel che riguarda la «questione della lingua», sia per la teoria del sostrato. Certo, egli non arrivò mai a negare, come aveva fatto il Cattaneo e come di nuovo avrebbero fatto un Kretschmer o un Pisani o un Marr, l’esistenza di un’unica lingua indeuropea originaria, e a considerare l’affinità tra le lingue indeuropee come qualcosa di divenuto. La sua concezione genealogica rimase molto più ortodossa, molto più vicina a quella dello Schleicher. Più stretto che nel Cattaneo rimase sempre in lui anche il legame tra linguistica e antropologia, sicché la stessa teoria del sostrato ne risultò, come abbiamo visto (p. 402), alquanto modificata. Ma pur tenendo conto di queste divergenze, non si può dubitare che al tempo della polemica coi neogrammatici l’Ascoli fosse molto più cattaneiano che all’inizio della sua carriera di studioso e di maestro. ** Eppure, nei suoi scritti l i n g u i s t i c i di tutto questo lungo periodo l’Ascoli nominò il Cattaneo, se ho ben visto, una volta sola **, e non per la teoria del sostrato, ma semplicemente per l’interesse che egli e il Cherubini avevano dimostrato per il dialetto friulano.261 259 i«Arch. glottol.» X, p. 83 sg. (è la chiusa della nota sulle Fono-nomie; e vedi anche la nota seguente sulle Cause inavvertite). 260 iDico «o quasi», perché, in confronto alla prima Lettera glottologica, nella nota sulle Fononomie la fede dell’Ascoli nell’assoluta regolarità dei mutamenti fonetici dovuti al sostrato appare un po’ scossa. Egli riafferma, sì, il carattere «istantaneo» e generale di tali innovazioni, ma ammette che esse possano presentare diverse gradazioni d’intensità (p. 75 sg.). 261 i«Arch. glottol.» I, p. 477. L’Ascoli allude probabilmente ad un abbozzo inedito del Cattaneo su questo dialetto (carte Cattaneo, Milano, museo del Risorgimento, cartella 18, plico 3), che egli, facendo parte del comitato per l’edizione degli scritti cattaneiani, aveva potuto vedere.

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In una nota alla prima «lettera glottologica» ricordò, tra i fautori della teoria del sostrato, lo Schuchardt, il Miklos#ic! e soprattutto il Nigra;262 a proposito della «ü celtica», osservò che «molto prima che l’indagine scientifica venisse a tentare queste connessioni ..., se ne aveva tra noi come una persuasione tradizionale»;263 nel famoso articolo su L’Italia dialettale citò fra i suoi predecessori il Biondelli:264 non il Cattaneo. La tesi dello scarso numero sia degli invasori indeuropei, sia degli aborigeni, già sostenuta dall’Ascoli in Lingue e nazioni, è riaffermata nella prima «lettera glottologica»;265 ma l’Ascoli tace che essa era una variante di una tesi del Cattaneo. E ancora per dieci anni dopo la fine della polemica coi neogrammatici il nome del Cattaneo non compare mai negli scritti glottologici ascoliani, nemmeno là dove si accenna alla teoria del sostrato e alla sua varia fortuna.266 Non è facile indovinare il motivo di questo lungo silenzio. È vero che negli anni immediatamente seguenti alla morte il Cattaneo fu quasi del tutto dimenticato in Italia;267 ma l’Ascoli, come è dimostrato dal suo atteggiamento successivo, non era uomo che tacesse per conformismo. Sembra anche da escludersi che egli non considerasse il Cattaneo abbastanza «linguista» in senso professionale per poterlo citare in pubblicazioni scientifiche: un simile motivo gli avrebbe impedito di citare anche il Marzolo; e invece negli Studj critici ci tenne a ricordare i Monumenti storici rivelati dall’analisi della parola, «opera condotta con mezzi inadeguati, ma con oltrepotenza d’ingegno», e ad esprimere questo alto riconoscimento: «Il Marzolo era di certo anche per me un vero eterodosso; ma un eterodosso geniale, poderoso, michelangiolesco, dinanzi al quale dovevamo tutti inchinarci».268 Si potrà forse supporre che il ricordo delle antiche divergenze abbia lasciato nell’animo dell’Ascoli un certo imbarazzo difficile da superare? Che gli sia occorso molto tempo per poter parlare degli studi linguistici del Cattaneo con piena serenità? L’ipotesi non sembrerà assurda 262

i«Riv. di filol.» X, 1881, p. 43, n. 1. Sul Nigra vedi anche qui sopra, note 219 e 245. iIbid., p. 20 n. 264 i«Arch. glottol.» VIII, p. 127. 265 i«Riv. di filol.» X, p. 51. 266 iPer esempio in «Arch. glottol.» XI, 1890, p. X: «I sostenitori dell’importanza dei motivi etnologici, ch’erano poche persone al primo apparire dell’Archivio glottologico, oggi si avviano a formar legione». 267 iVedi P. C. Masini in «Riv. stor. del socialismo» II, 1959, p. 524 sg. 268 iStudj critici, II, Roma-Torino 1877, p. 42 n. Cfr. qui sopra, pp. 379-380. 263

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a chi tenga presente il carattere dell’Ascoli, nobile e alto, ma fortemente passionale anche nel campo degli studi: in tutte le sue discussioni scientifiche si sente, al di sotto della forma esteriore ** sempre cortese e dello stile un po’ aulico, un vivo calore e talvolta un’animosità a stento trattenuta. Riconoscere un proprio errore era una cosa che egli senza dubbio faceva ogni qual volta glielo imponeva il suo austero senso di giustizia, ma che gli costava un sacrificio maggiore che ad altri studiosi più sereni o più scettici. Può darsi, dunque, che anche dopo avere accolto gran parte delle idee cattaneiane egli abbia lungamente riluttato a esprimere il suo mutato giudizio sul Cattaneo linguista. Fu soltanto negli ultimi anni del secolo che egli ruppe finalmente il silenzio **, e non solo riconobbe il proprio debito verso il pensatore lombardo, ma mostrò di aver compreso forse meglio di chiunque altro il valore della sua opera di storico. Ma è significativo che anche allora egli non abbia fatto parola degli antichi dissensi e si sia anzi sforzato di presentarsi come un fedele discepolo del Cattaneo fin dalla prima giovinezza. A ravvivargli il ricordo del Cattaneo e a rendergli più pressante l’esigenza di dichiararsi esplicitamente suo seguace dovette contribuire la situazione politica. Si sa che nell’ultimo decennio dell’Ottocento, dinanzi al sorgere di un movimento operaio organizzato, gran parte degli uomini politici e degli intellettuali provenienti dalle file della democrazia risorgimentale, e spostatisi poi verso posizioni conservatrici, consumarono fino in fondo la propria involuzione. L’Ascoli non fu tra questi. Non solo rimase fedele alle idee liberali della sua giovinezza, ma comprese che esse potevano sopravvivere soltanto ampliandosi, riconoscendo cioè il diritto ad esistere del movimento socialista: altrimenti, nella lotta contro la nuova sinistra operaia, anche le libertà «classiche» dello stato risorgimentale sarebbero state travolte. E quando Ettore Ciccotti, socialista e professore straordinario di storia antica all’Accademia scientifico-letteraria di Milano, si vide impedita per motivi politici la promozione a ordinario, l’Ascoli parlò coraggiosamente in senato contro questo sopruso269 e scrisse in 269 iAtti parlamentari, Senato, Discussioni, 17 giugno 1897 (XX legisl., 1a sessione, pp. 686 sgg.) [intervento ricordato da Gramsci, art. nell’Avanti! del 2 febbr. 1917, ora in Scritti giovanili, Torino 1958, p. 69] **.

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difesa del Ciccotti due memorabili lettere aperte,270 che, in quel clima di feroce reazione, gli costarono incomprensioni e ostilità.271 Non è ammissibile, dicevano i reazionari, che sia insegnante statale un socialista, cioè un nemico delle istituzioni statali.272 L’Ascoli rispondeva: «Non usurpa l’altrui, non ricorre insidiosamente alla carità di nessuno, il socialista che ottiene la catedra per il merito che gli è legalmente riconosciuto e la ottiene a test’alta, senza punto nascondere la sua fede politica, sicuro quando pur sia che la confessione gli costi di andar classificato più o meno avaramente. Egli non è vincolato da alcun giuramento e vive in coerenza perfetta. Se è d’uopo che nell’insegnamento a lui affidato si ripercuotano i principj della sua fede politica, egli naturalmente non li rinnega; e la vita e la scuola non sono allora per lui se non due aspetti diversi di uno stesso apostolato. Si credono fallaci i suoi principj? La maggioranza ortodossa li confuterà. Ma anche potrà accadere che l’ortodossia poco o molto si trasformi in questo cimento, razionale insieme e necessario ...». 270 iIntorno alla condizione del prof. Ciccotti nella scuola, lettera del prof. Ascoli al direttore del Corriere della sera, opuscolo datato 28 marzo 1897; e Il professore socialista, lettera aperta ad Arturo Graf, nel «Pensiero italiano» fasc. 82, ottobre 1897 (stampata anche a parte). Da quest’ultima (pp. 4-6) sono tratte le nostre citazioni. 271 iA questo episodio l’Ascoli alludeva soprattutto, quando, in occasione delle onoranze tributategli, diceva: «Ho io, nella mia povertà, variamente combattuto, per la libertà, la dignità, la purità della Scuola ... e ho volentieri sfidato, in questi intenti, i pregiudizj politici, o quei pudori di parte, sotto ai quali si può appiattare tanta brutta mercanzia» (Onoranze a Graziadio Ascoli, Milano 1901, p. 16). E il Pullè (Graziadio Ascoli, ricordi, Bologna 1907, p. 11 sg.) gli scriveva: «Voi vi faceste, nei giorni dello sgomento e delle aberrazioni reazionarie, scudo alla verità, sostegno alla fiducia dei buoni e alle speranze dei perseguitati», e ricordava che nell’estate del ’98, trovandosi sul Monte Generoso della Svizzera italiana, l’Ascoli aveva ospitato e confortato alcuni esuli, sfuggiti alla repressione dei moti di Milano. Tra questi vi era il Ciccotti stesso (vedi il suo libro Attraverso la Svizzera, Palermo 1899, p. XXXIV). Sulle posteriori oscillazioni politiche del Ciccotti non è qui possibile soffermarsi. Gli indubbi lati positivi della sua discutibile e discussa opera di storico sono messi bene in luce da A. Momigliano, Contributo alla storia degli studi classici, p. 281 sg. Cfr. ora anche P. Treves, L’idea di Roma ecc., Milano 1962, p. 221 sgg., e A commemorazione di E. Ciccotti, in «Athenaeum» XLI, 1963, p. 356 sgg.* 272 iTra coloro che argomentavano così vi era il capo della consorteria moderata lombarda, Gaetano Negri. Cfr. la sua lettera a Turati in Filippo Turati attraverso le lettere di corrispondenti a cura di A. Schiavi, Bari 1947, p. 151 sg., e la risposta di Turati, ibid., p. 154 sgg.

*iClaudio Cesa mi segnala un altro notevole documento, di poco posteriore, dell’impegno dell’Ascoli a favore del Ciccotti e contro le persecuzioni antisocialiste: la lettera di solidarietà che egli scrisse al Ciccotti il 16 giugno 1899, quando questi fu incriminato, in seguito ad un articolo, per «eccitamento all’odio tra le classi sociali». La lettera è pubblicata nel volume del Ciccotti, Sulla questione meridionale, Milano 1904, p. 98 sg. La polemica del 1897 è ricordata da Gramsci in un articolo del 1917 **, ora in Scritti giovanili, Torino 1958, p. 69 (una nuova edizione ampliata di questi scritti sarà pubblicata prossimamente da Sergio Caprioglio).

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Pur non contenendo nessuna adesione al socialismo, pur rimanendo anzi in un ambito puramente democratico, la lettera aperta al Graf è qualcosa di più che una difesa puramente giuridica del Ciccotti e degli altri professori socialisti: è un riconoscimento della giustezza delle esigenze da cui il socialismo era scaturito273 e un ammonimento che togliere la libertà ai socialisti avrebbe fatalmente significato toglierla a tutti. Per mostrare ancora meglio quanto fosse insostenibile il punto di vista di quegli pseudo-liberali, l’Ascoli prendeva come termine di paragone appunto il Cattaneo: «Omnis comparatio claudicat, tutti ne convengono; ma vien qui da chiedersi, quasi irresistibilmente, se Carlo Cattaneo mancava alla coerenza della sua vita intemerata quando toccava dal tesoro italiano, egli repubblicano e federalista, l’assegno che gli spettava nella sua qualità di membro del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere. O se quel grande cittadino mancasse ancora alla coerenza della vita, quando egli punto non metteva, pur negli intimi colloquj, la propria fede politica tra le ragioni che lo inducevano a ricusare l’invito, o meglio la preghiera, d’un Ministro del Re, di Carlo Matteucci, che voleva l’ostinato ribelle tra i professori di Stato, lasciando in assoluta sua libertà la scelta della materia e della scuola».274 E ancora: «Rimanendo agli esempj che dianzi imaginavo, si sarebbe egli impedito al professore Carlo Cattaneo di sostenere vivacemente i suoi principj in una Rivista qualunque? O l’aula, in cui egli avesse parlato, supponiamo nell’Accademia milanese, sarebbe ella mai bastata a tutt’intiero quel pubblico, estraneo alla scuola, che ha pur diritto d’assistere alle lezioni universitarie?». Il Cattaneo, s’intende, era citato qui come esempio di eterodosso, di dissidente dalle istituzioni monarchiche: non di socialista. L’Ascoli, mentre si dichiarò sempre fedele alla monarchia,275 nei riguardi dei problemi sociali era andato invece maturando un atteggiamento assai 273 i«Le aspirazioni dei socialisti genuini – scriveva l’Ascoli – sono poi tali, che in tutto o in parte potranno bensì dar nel fantastico, ma provengono pur sempre dalla sete e dal bisogno d’una giustizia, la quale nessuno osa affermare che esista o regni». Cfr. anche il passo citato qui sotto, alla nota 316. 274 iPer questo episodio cfr. C. Cattaneo, Epist. IV, pp. 63 n. 3, 91 sg. 275 iIl professore socialista, p. 2: «Io naturalmente vi parlo ... da quel povero zelatore delle vigenti istituzioni che assai tenacemente sono sempre stato e rimango». Cfr. il discorso per le onoranze, nell’opuscolo Onoranze a Graziadio Ascoli, Milano 1901, p. 16: «... ligio pur sempre qual mi sono sentito a quei giuramenti, che per quattro volte mi hanno ormai sacrato alla patria insieme ed al Re».

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più aperto di quello assunto dal Cattaneo tanti anni prima.276 Ma questa sua evoluzione dal liberalismo moderato degli anni giovanili a posizioni democratiche era stata certamente favorita dalla consuetudine col pensiero del Cattaneo.277 Del resto, negli ultimi decenni dell’Ottocento tutta la scuola cattaneiana (Gabriele Rosa,* Alberto e Jessie Mario, Arcangelo Ghisleri) aveva sempre più riconosciuto l’urgenza delle rivendicazioni sociali, pur con una perdurante diffidenza verso le soluzioni collettivistiche e con nostalgie di liberismo puro. Nei riguardi, poi, della borghesia reazionaria di fine Ottocento – colonialista, militarista, negatrice delle autonomie locali –, e perfino nei riguardi di alcuni pseudogiacobini filocolonialisti come il Bovio, i socialisti e i cattaneiani avevano in comune molti motivi di polemica immediata.278 Il ricordo del Cattaneo, perciò, s’inseriva bene nel contesto della lettera al Graf, e si spiega così il tono particolarmente vibrato con cui l’Ascoli ricordava il grande politico e pensatore. Due anni dopo (1899), al dodicesimo congresso degli orientalisti a Roma, l’Ascoli pronunziava un discorso279 il cui motivo fondamentale era, ancora una volta, il rimpianto che la linguistica fosse divenuta linguistica pura, che si fosse staccata dall’antropologia e dall’etnografia e ai cultori di queste scienze avesse abbandonato i problemi glottogonici. «Come i vari tipi di favelle primamente si formino e si maturino, come l’uomo arrivi a conseguire uno strumento così meraviglioso e così vario, il quale è insieme un requisito immancabile della natura umana e il prodotto necessario di particolari convenzioni», erano questi gli interrogativi che avevano appassionato la linguistica del periodo eroico, rivolta (al pari della geologia e della biologia evoluzionistica) a svelare il mistero delle origini. La nuova linguistica, invece, di questi problemi non voleva saperne: «Ci sono certi idoli, come le ori276

iSull’antisocialismo del Cattaneo cfr. sopra, pp. 368-369 n. 132, e le opere ivi citate. iSulla posizione politica dell’Ascoli giovane cfr. «Annali della Scuola Normale» 1959, p. 155. Vedi anche qui sopra, pp. 372, 391. 278 iSul pensiero politico di Gabriele Rosa e sui suoi rapporti coi socialisti vedi in particolare P. C. Masini in «Riv. stor. del socialismo» II, 1959, p. 515 sgg. Sulla polemica anticolonialista del Ghisleri (che si rifaceva esplicitamente al Cattaneo, ripetendone alla lettera alcune espressioni) cfr. R. Battaglia, La prima guerra d’Africa, Torino 1960, p. 332 sgg.* 279 iXIIe Congrès des Orientaliste, Bulletin n. 12, Discours de M. Ascoli (in italiano). 277

*i{Cfr. precedente postilla alla n. 146 – N. d. C.}. *i{Cfr. precedente postilla alla n. 146 – N. d. C.}.

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gini delle radici, i rapporti tra due diverse famiglie di lingue, e altrettali, che le mettono paura». Effettivamente in questa avversione per i problemi glottogonici confluivano due motivi diversi: da un lato un giustificato scetticismo, una sazietà di tante ipotesi e discussioni basate su dati troppo scarsi; dall’altro un’aprioristica negazione della legittimità stessa di questi problemi, poiché, dicevano i restauratori dell’idealismo, il linguaggio è «categoria eterna», e si può quindi ricercarne solo la genesi ideale, non l’origine nel tempo.280 Con argomenti dello stesso genere, come è noto, si cercò di svalutare anche il darwinismo, o qualsiasi altra ipotesi tendente a spiegare l’origine dell’uomo. Bisogna perciò andare adagio nell’esaltare senz’altro l’abbandono delle ipotesi glottogoniche come una prova di maturità e di accresciuta consapevolezza metodica della linguistica di fine Ottocento, e nel tacciare di arretratezza chi, come l’Ascoli, si rifiutava di sanzionare questo abbandono. Ma insieme a questa polemica contro le nuove tendenze, la quale si riallacciava alle «Lettere glottologiche», risuonava nel discorso dell’Ascoli anche un rimpianto personale. «Non mi è mancato – egli diceva – il tempo di fare qualcosa. Ma sono sempre stato agitato da troppi desiderî, e ne venne che la qualunque opera mia ne risultasse come dispersa in saggi eterogenei e frammentarî». E tra questi desideri, quello di indagare l’origine del linguaggio e la formazione dei grandi gruppi linguistici era stato «forse il più fervoroso, benché fosse uno di quelli cui paressi attender meno». C’era dunque in lui, giunto ormai vicino al termine della propria carriera di studioso, quasi una nostalgia dei suoi interessi giovanili che egli aveva poi sacrificato all’esigenza di non perdersi in vane speculazioni, di lavorare e far lavorare sul solido.281 Nel secondo periodo dei suoi studi, quando si era concentra280 iCosì il Croce (Problemi di estetica, 3a ed., p. 200 sgg.), polemizzando contro il Trombetti. Ma già l’hegeliano ortodosso Augusto Vera (Introd. alla filosofia della storia, Firenze 1869, p. 369) aveva obbiettato al Lignana che «l’origine delle lingue non sta nel fatto storico, in una lingua primitiva, ma nell’idea». Aver confutato (pur all’interno di una concezione idealistica della realtà) questi presuntuosi sofismi è merito di Giorgio Fano: vedi il suo Saggio sulle origini del linguaggio, Torino 1962, p. 24 sg. 281 iVedi ciò che aveva scritto nel proemio all’«Archivio glottologico» (I, 1873, p. XXXVIII): «La verità pratica è finalmente, che l’indagator severo ha per ora, e avrà per molto tempo, troppo di meglio da fare e da scoprire, perché gli avanzi tempo o voglia di avventurarsi, comunque vi si possa trovare preparato, all’improbo mestiere delle soluzioni ipotetiche, le quali in sé contengano, alla lor volta, dei problemi imaginarj».

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to sulla dialettologia romanza e particolarmente italiana, aveva anch’egli compiuto, in certo senso, quel passaggio dalla preistoria alla storia, dalla linguistica-etnografia alla linguistica pura, che rimproverava ai neogrammatici e alle tendenze ancor più recenti. Tuttavia in questo secondo periodo la teoria del sostrato era servita a mantenere un legame tra etnografia e linguistica e tra preistoria e dialetti viventi. Del sostrato l’Ascoli riaffermava anche questa volta la propria interpretazione naturalistica, con un’espressione che ricorda un poco l’oraziano Graecia capta ...: «Una gente domata e conquisa perde, in certe condizioni, la propria lingua, ma assoggetta la lingua del vincitore alle abitudini del proprio organo vocale».282 E sostenendo di nuovo lo scarso numero degli indeuropei invasori, nominava finalmente, come autore di questa teoria, il Cattaneo, «un Italiano, che nessun linguista estero ha di certo mai citato e che non è stato un vero linguista, ma era un uomo di genio». Nel 1900, infine, usciva quella lettera aperta a Francesco Pullè che abbiamo già citato all’inizio del presente saggio.283 Il Pullé era un etnologo con vivi interessi glottologici ed orientalistici: un tipo di studioso, quindi, che all’Ascoli doveva riuscire particolarmente simpatico, così come vicine erano le loro posizioni politiche.284 Anche il Pullè era ammiratore del Cattaneo, e in vari scritti si era dimostrato seguace delle idee cattaneiane e ascoliane.285 Queste faranno sentire ancora il 282

iDiscorso cit., p. 6. iAbbiamo già avvertito che la lettera porta la data del settembre 1898 e che fu scritta sul Monte Generoso nella Svizzera italiana: cioè in luoghi pieni di ricordi del Cattaneo e in un momento politico particolare (cfr. qui sopra, nota 271). Non mi sono noti i motivi per cui l’Ascoli la pubblicò con due anni di ritardo; ma forse nel ’98 la «Nuova Antologia» non avrebbe accolto un così caldo omaggio al pensatore repubblicano. 284 iOltre che di problemi etnologici, si occupò di letteratura indiana e di dialetti italiani; fu professore di filologia indoeuropea a Padova e a Bologna (cfr. A. De Gubernatis, Francesco L. Pullè, Firenze 1906). Negli anni di fine Ottocento il suo orientamento politico era radicale, ma sempre più decisamente favorevole ai socialisti: vedi le sue lettere al Cavallotti nel volume L’Italia radicale: carteggi di F. Cavallotti a cura di L. Delle Nogare e S. Merli, Milano 1959, pp. 311-317 (a p. 311 è chiamato per errore Francesco Leopoldo anziché Francesco Lorenzo). 285 iVedi in particolare il suo Profilo antropologico dell’Italia, Firenze 1898, pp. 61 sgg., 65 sg. Alla lettera aperta dell’Ascoli egli rispose con due diverse lettere: una, di carattere più personale ed immediato, che egli poi pubblicò nell’opuscoletto Graziadio Ascoli, ricordi, Bologna 1907, p. 11 sgg. (vedi qui sopra, nota 271); l’altra, più elaborata stilisticamente e più «scientifica» per il contenuto, nella Miscellanea linguistica in onore di G. Ascoli, Torino 1901, p. 575 sgg. Qui egli portava argomenti a favore della tesi dell’esiguità numerica delle immigrazioni preistoriche, e accentuava (d’accordo con l’Ascoli e col Nigra più che col Cattaneo) l’aspetto razziale del sostra283

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loro influsso, venti anni più tardi, nella sua opera complessiva su L’Italia: genti e favelle,286 ma mescolate a venature di retorica nazionalista ben diversa dal patriottismo risorgimentale a cui l’Ascoli aveva tenuto fede. Nonostante il tono appassionatamente autobiografico, la lettera al Pullè è qualche cosa di più che una «confessione». Essa contiene un giudizio acuto e preciso sul Cattaneo storico, sulla molteplicità e novità d’interessi che egli portò nei suoi studi etnografici, sul suo spirito scientifico che ce lo fa apparire così vivo e moderno in confronto a certi suoi pur illustri contemporanei come il Balbo e il Gioberti. L’Ascoli vede bene la natura, intellettuale e politica insieme, del disprezzo del Cattaneo per i moderati;287 accenna ai «poveri livori della saccenteria e della politica» che hanno contribuito a fare il silenzio attorno all’opera del Cattaneo; e quanto a se stesso, proclama: «Io sono un poverissimo esempio di quelle menti che, in ispecie nelle contrade orientali dell’Italia superiore, il genio di Cattaneo ha sin dai loro inizi giovanili invasato per sempre». Il fatto che, come adesso sappiamo, la devozione dell’Ascoli al Cattaneo non sia stata fin dai primi anni così assoluta come apparirebbe da queste dichiarazioni, non diminuisce il loro valore. Anzi, per chi ricordi i dissapori tra l’Ascoli giovane e il Cattaneo, la lettera al Pullè suona, in molti punti, come un’implicita autocritica. Leggendo, per esempio, le parole dell’Ascoli: «L’invidia ha tentato di stremare i meriti del Cattaneo, facendone un fortunato ricercatore di periodici e libri stranieri ...»,288 non si può non ricordare che l’Ascoli stesso, in quella prolusione del ’61 che al Cattaneo era tanto spiaciuta,289 lo aveva messo fra coloro che avevano cercato di «accattare» dall’estero – e spesso, per di più, con esito infelice – qualche nozione di glottologia. to (p. 593: «Ai diametri e alla forma del capo corrispondono forma e diametri del palato» e simili). Cfr. anche il suo saggio sul Cattaneo come antropologo e come etnologo in «Archivio per l’antropologia e l’etnologia» XXII, 1902, p. 157 sgg. ( = C. Cattaneo, Scritti politici ed epistolario, III, Proemio). 286 iTorino 1927: vedi specialmente II, pp. 18 sgg., 252. 287 iLett. cit., p. 638: «Il sentimento della superiorità sterminata per la quale egli prevaleva, nella speculazione storica, a scrittori pur tanto insigni com’erano il Gioberti e il Balbo, quanta parte non avrà esso avuto, dopo i disastri del ’48, negl’impeti danteschi dell’Uomo delle Cinque Giornate!». 288 iIbid., p. 639. 289 iVedi sopra, p. 378 sg.

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Così pure l’efficace antitesi tra il Cattaneo e il Balbo («Quando Cattaneo investe Cesare Balbo, a proposito della Vita di Dante, intorno alle ragioni storiche dei dialetti, parlandone come oggi non si potrebbe far meglio, la lotta è tra due uomini che lavoravano, si può dire, uno accanto all’altro; e par che di più di un secolo s’interponga tra loro») è una vera e propria correzione di quel passo della prolusione in cui il Cattaneo e il Balbo erano accomunati290 ed è, nello stesso tempo, un aperto riconoscimento del valore del Cattaneo anche come storico del linguaggio. E ancora: mentre in Lingue e nazioni l’Ascoli, pur accogliendo già la tesi dello scarso numero degli invasori indeuropei, sottolineava assai più le divergenze dal Cattaneo che i consensi,291 qui esaltava i principi etnografici cattaneiani senza alcuna riserva, e addirittura faceva risalire il suo atteggiamento attuale agli anni della prima giovinezza: «Io non ho, e chissà se le ritrovo, se non poche noterelle, pressoché infantili. Notavo, mi ricordo, come egli procedendo metodicamente dal positivo al congetturale, dall’un canto avvertisse nell’Inghilterra le esigue e ripetute immigrazioni germaniche, le quali si assimilavano una parte della popolazione indigena, e vuol dir celtica, rada essa pure, perché insieme ne uscisse, nel giro di quattordici secoli, il più gran popolo del mondo. E come indi assurgesse ad altitudini infinitamente maggiori, divinando le proporzioni degli incroci, mercé i quali il linguaggio degli Arii si dilatava tra le antichissime genti. Nessuno poi mi pareva aver fatto più di lui per snebbiare la storia dalle tante favole e illusioni che si compendiavano sotto il nome delle grandi trasmigrazioni dei popoli. I suoi concetti sulla relativa fissità delle stirpi, sulla propaggine della specie e della cultura nell’infinito corso dei tempi, avevano come sedato quel tumulto imaginario di nazioni che la fantasia vantava quanto mai popolose e accavallantisi tra loro da innumerevoli età».292 Sarebbe certo una cosa di grande interesse poter rintracciare fra le carte ascoliane quelle «poche noterelle pressoché infantili»; ma gli scritti dell’Ascoli giovane che abbiamo esaminato precedentemente bastano, comunque, a mostrarci che in quegli anni lontani la sua ammirazione per il Cattaneo non era stata affatto così incondizionata come in questo scritto della vecchiaia. 290

iSopra, pp. 378-379. iVedi p. 384 sg. 292 iLett. cit., p. 637. 291

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E anche qui, come nel discorso del 1899, il ricordo del Cattaneo era collegato ad un rinnovato interesse per i problemi glottogonici. Con un artifizio letterario che può farci sorridere per la sua ingenuità (eppure, com’è bello, in complesso, questo scritto anche dal punto di vista letterario! Come l’ingenuità compositiva è trascesa dal calore umano e dalla limpidezza del ragionamento!), l’Ascoli narrava di aver conversato in sogno col Cattaneo sul problema della monogenesi o poligenesi del linguaggio. Sappiamo già che il Cattaneo era fautore di un poligenismo di numerosi piccoli gruppi: che la maggior parte dei linguisti dell’Ottocento sostenevano un poligenismo di pochi grandi gruppi: che i monogenisti erano quasi tutti legati a principii religiosi o umanitari, ed erano perciò disprezzati dai «laici» poligenisti (i quali d’altra parte, con poche eccezioni tra cui il Cattaneo, manifestavano pericolose inclinazioni per il colonialismo e il razzismo). L’Ascoli già nell’introduzione agli Studj orientali e linguistici si era dichiarato monogenista, distinguendosi in pari tempo dai religiosizzanti per la sua esplicita affermazione dell’origine umana del linguaggio.293 In coerenza con questa sua posizione, egli aveva criticato, come vedemmo, le rigide classificazioni degli Schlegel e del Biondelli, e si era accostato soprattutto a Franz Bopp, cioè all’unico tra i fondatori della linguistica indeuropea che, pur non facendo aperta professione di monogenismo, aveva implicitamente mostrato di simpatizzare per questa tesi. Ma all’interno del monogenismo, un punto stava particolarmente a cuore all’Ascoli: l’unità d’origine degli indeuropei e dei semiti. Egli tentò di dimostrarla in due lettere aperte al Kuhn e al Bopp,294 negli Studj âriosemitici,295 in una lunga nota dedicata ad un’amichevole discussione con Giacomo Lignana296 [e nello Squarcio d’una lettera concernente le ricostruzioni paleontologiche della parola, in Studj critici cit., II, pp. 22 sgg, 29 sg.] **. All’origine di questo sforzo scientifico c’era senza dubbio un motivo sentimentale: l’Ascoli sentiva intensamente così il proprio ebraismo come la propria italianità ed europeità, e teorie come quelle degli Schlegel o del Renan, che vedevano nel293 i«Studj orientali e linguist.» I, pp. 5 sgg. sull’origine umana del linguaggio, pp. 21 sg. sulla monogenesi. 294 iNel «Politecnico» XXI, 1864, p. 190 sgg.; XXII, id., p. 221 sgg. 295 iPubblicati in due puntate (con numeraz. delle pagine a parte) nelle «Memorie dell’Ist. Lombardo», classe di Lettere, X, 1867. 296 iStudj critici, II, Roma-Torino 1877, p. 51 sgg.

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l’indeuropeo e nel semitico non solo due tipi linguistici, ma due formae mentis inconciliabili, lo ferivano nell’intimo. D’altra parte, egli aveva in comune coi suoi avversari il principio che l’affinità a t t u al e di cultura e di sentimenti tra due popoli implicasse una loro comunanza di o r i g i n e: per fraternizzare davvero, ariani ed ebrei dovevano scoprire di essere consanguinei. L’idea del Cattaneo, che l’unità delle stirpi fosse un punto di arrivo e non di partenza, non arrivò mai a convincerlo; anche nei contatti che indeuropei e semiti avevano avuto in epoca storica sulle rive del Mediterraneo egli vedeva l’indizio di una comune origine preistorica.297 Di qui il pathos che anima i suoi scritti dedicati a questo problema: «Sono io in preda a un’allucinazione – si chiede a un certo punto della lettera al Kuhn – od è questa una importante scoverta? Giudichi Lei, e intanto mi permetta di procedere con coraggio».298 Di qui anche il dolore che dovette provare nel veder la sua tesi respinta dal grande Schleicher e dal Lignana, trascurata dalla maggior parte degli studiosi,299 e, peggio ancora, nel vedersi confuso, lui animato da una così severa fede nella scienza, tra i monogenisti succubi di preconcetti religiosi. «Fu detto – scriveva al De Gubernatis – che io, seguace della Bibbia, mi sforzassi a mostrare come la scienza delle lingue ammetteva l’unità della specie. (...) [cr] Io non ho alcun pregiudizio o preconcetto teocratico o teosofico. Se ne avessi, non [i]studierei [cr]. La mia teoria ario-semitica scaturisce dagli studj di morfologia ariana».300 L’affetto verso questi studi e il rammarico per la cattiva accoglienza che essi avevano ricevuto durarono anche più tardi, quando poté sembrare che, immerso nelle ricerche concrete di dialettologia romanza, li avesse dimenticati. In una nota alla terza «lettera glottologica» 297 iCfr. F. D’Ovidio in «Arch. glottol.» XVII, 1910-13, p. 8; B. Terracini, Guida allo studio della linguistica storica, I, p. 125. 298 i«Politecnico» XXI, p. 197. 299 iLa lettera di Schleicher è pubblicata da D. Ga˘zdaru in «Anales de filol. clásica» V, 195052, p. 104. Il Lignana, nei suoi discorsi su La grammatica comparata di Bopp (in Anniversario Bopp, Napoli 1866) e La filologia al secolo xix (Napoli 1868), si dimostrò fautore di un’assoluta separazione tra indeuropeo e semitico, benché nel secondo attenuasse leggermente questo punto di vista (vedi anche qui sotto, nota 304, e la replica dell’Ascoli già cit. alla nota 296). Contrario agli scritti ascoliani si dichiarò anche Fr. Delitzsch, Studien über indogerm.-semitische Wurzelverwandtschaft, Lipsia 1873, p. 12 sgg. (cfr. D. Ga˘zdaru, art. cit., p. 99 sgg.; A. Trombetti in Silloge, p. 1 sgg.; C. Tagliavini, ibid., p. 43 sgg.). 300 iA. De Gubernatis, Cenni sopra alcuni indianisti viventi, in «Rivista europea» a. III vol. IV, 1872, p. 47. [Ora, dall’autografo di Ascoli in Breschi, AGI 58 (1973), p. 85].

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dichiarava di non pentirsene301 e notava con «particolare sodisfazione» come anche un neogrammatico, il Moeller, avesse ripreso la stessa tesi con argomenti in parte analoghi. Si spiega così anche il favore con cui egli accolse i tentativi monogenistici di Alfredo Trombetti: favore che a molti glottologi e anche ad un suo fedele scolaro come il Salvioni, parve uno scandalo.302 ** Per noi, oggi, l’unica vera difficoltà della tesi monogenistica (come anche della poligenistica) consiste nella scarsezza e nell’incertezza dei dati, che non permettono una dimostrazione solidamente scientifica. Da tali obiezioni di carattere scettico l’Ascoli non si sentì frenato; piuttosto, quelle che negli ultimi anni gli si affacciarono, e che cercò di superare, furono difficoltà di principio. Al tempo degli Studi âriosemitici egli attribuiva ancora la differenziazione linguistica a cause interne, assai più che al sostrato.303 Ma poi, come abbiamo visto, aveva finito col considerare il sostrato come la causa precipua della differenziazione. Ora, questa teoria sembrava incompatibile col monogenismo, poiché presupponeva fin dall’inizio una p l u r a l i t à di lingue, le quali avrebbero poi dato luogo, mescolandosi e sovrapponendosi, a varietà ulteriori. Non a caso Friedrich Schlegel, il Biondelli, il Cattaneo, fautori esclusivi della teoria del sostrato, erano poligenisti. E ancora: per chi, come l’Ascoli, credeva a uno stretto legame tra la lingua e il complesso delle caratteristiche psichiche e culturali di un popolo o di una famiglia di popoli, e considerava queste caratteristiche non come acquisite nel corso della storia ma come esistenti – almeno potenzialmente – fin dall’origine, non era facile conciliare il monogenismo con la constatazione di tali diversità. Fu questo, come è noto, il problema intorno a cui si affaticò per tutta la vita Wilhelm von Humboldt: per risolverlo, egli suppose, fra l’altro, che i vari tipi linguistici fossero derivati dall’unica matrice non per evoluzione lenta e graduale, ma per un processo «a salti», acquistando cioè di colpo, con un’improvvisa mutazione qualitativa, i loro caratteri specifici.304 301

i«Arch. glottol.» X, 1881, p. 50 n. iCfr. C. Salvioni in «Rendic. Ist. Lomb.» serie 2a, XLIII, 1910, p. 81. 303 iVedi sopra, p. 383 sgg. 304 iCfr. W. von Humboldt, Gesamm. Schr. ed. Leitzmann, V, p. 397 sg.; VI, 1, pp. 270, 275. Questa tesi, che in Humboldt ha ancora una forte coloritura misticheggiante (la fulgurazione improvvisa, la scintilla divina, contrapposta alla meccanicità dell’evoluzione graduale), più tardi si farà forte dell’analogia con teorie biologiche che sostenevano l’evoluzione «a salti» dall’una all’altra specie (De Vries ecc.). Vedi a questo proposito il discorso del Lignana su L’evoluzione 302

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Mosso da un’esigenza simile, l’Ascoli fin dalla prima «Lettera glottologica» aveva cercato di applicare alla differenziazione primitiva dei tipi linguistici quel principio delle «innovazioni individuali» che egli respingeva come antiscientifico nel campo della linguistica storica. Proprio a quel passo in cui discuteva l’affermazione di Delbrück che ogni innovazione deve aver inizio da un parlante (vedi sopra, p. 400) egli aveva apposto la seguente nota: «L’affermazione si potrebbe accettare, senza molta difficoltà, in quanto si volesse riferire a diverse tendenze orali per cui andarono tra di loro distinti dei veri patriarchi, generatori di primi nuclei di tribù o di popoletti».305 Dunque dall’unica lingua originaria alle poche «lingue prototipe»306 il passaggio sarebbe avvenuto per un atto individuale (anche se inconscio e condizionato fisicamente) di capi tribù, di «patriarchi», di «quegli uomini che a buon dritto si dicono gl’istitutori delle nazioni»;307 una volta stabilitasi questa prima differenziazione, tutte le altre sarebbero avvenute per fenomeni collettivi, riconducibili essenzialmente al sostrato e soggetti al rigore delle «leggi fonetiche». C’era senza dubbio qualcosa di paradossale in questa costruzione. Mentre la nuova linguistica, sostenitrice del carattere individuale delle innovazioni, odiava le speculazioni glottogoniche, l’Ascoli considerava il principio delle innovazioni individuali come accettabile solo per la fase glottogonica! La distinzione netta, stabilita già da Humboldt e più ancora da Scleicher, tra un periodo linguistico c r e a t i v o e un periodo puramente e v o l u t i v o veniva mantenuta dall’Ascoli sotto una forma particolare, che gli permetteva di collocare nel primo periodo le innovazioni individuali, nel secondo le «reazioni etniche», e di conciliare così la monogenesi con la teoria del sostrato.308 Perfino delle specie e le tre epoche delle letterature indo-europee, Roma 1871, p. 16 sgg. Anche il Labriola, come è noto, prese a prestito dalla biologia il concetto di «epigenesi» per servirsene nella polemica contro i sociologi evoluzionisti. C’era in tutti questi tentativi l’esigenza giusta di affermare l’originalità, l’individualità dei singoli momenti del processo evolutivo, e c’era nello stesso tempo (come più tardi, in forma assai accentuata, nel Bergson) il pericolo di ricadere in una sorta di miracolismo. 305 i«Riv. di filol.» X, p. 46, n. 1. 306 i«Arch. glottol.» X, p. 74. 307 iIbid., p. 34. 308 iLa distinzione tra i due periodi era stata affermata dall’Ascoli già negli Studj critici, II, p. 54 sg. ( = «Politecnico» 1867): «Altre hanno potuto o dovuto essere le norme, per le quali si venne a fissare, pur nelle ultime sue evoluzioni, codesta che è per noi la favella originale degli

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la tesi cattaneiana dello scarso numero dei migranti preistorici, trasformata dall’Ascoli nella tesi dello scarso numero degli uomini preistorici in generale,309 s’inseriva bene in questo quadro, perché consentiva di far partecipare al lavoro di creazione linguistica non grandi masse di popolazione, ma piccoli gruppi, «tribù e popoletti» che più facilmente si potevano immaginare obbedienti alle innovazioni linguistiche dei «patriarchi». Quando invece, in epoca storica, l’umanità si era grandemente accresciuta di numero, anche i fenomeni linguistici si erano collettivizzati, e non erano più consistiti in creazioni individuali, ma solo in mutamenti dovuti a mescolanza etnica. Queste idee, appena accennate nelle «lettere glottologiche», costituiscono appunto il tema del «sogno», narrato dall’Ascoli nella lettera al Pullè. «La meditazione – dice l’Ascoli al suo grande interlocutore – si è sempre in me ribellata contro l’idea che i fondamenti organici di un qualsiasi tipo di lingue sien l’opera, comunque imaginata nel tempo, di una moltitudine di persone, e mi ha all’incontro portato alla convinzione, via via più ferma, che debbano esser l’opera ben rapida di uno scarso numero d’individui». Il Cattaneo gli chiede allora se lo soddisfa «il monophyletismo, o, com’egli preferiva dire, l’unigenía».310 «I tipi delle diverse famiglie di lingue essendo tra di loro tanto diversi, poteva parere che il mio supposto senz’altro importasse, come di necessità, la polyphylia. Onde io risposi, con trepidazione venera-

Arj, ed altre le norme, sotto l’imperio delle quali ella poi visse e dispersa si alterò; come altra è la vita entruterina dell’animale, ed altra quella ch’egli vive al sole». Ma allora egli non aveva ancora pensato ad attribuire ai due diversi periodi rispettivamente le innovazioni individuali e i fatti di sostrato. In questa nuova forma, invece, la distinzione tra i due periodi ritorna nella terza «lettera glottologica» («Arch. glottol.» X, p. 38): «È rimota per noi la costituzione dei primi nuclei idiomatici; e la penetrazione istorica, massime quando s’eserciti intorno alle lingue delle stirpi autrici e altrici di larghe civiltà, mal può presumere di spingersi in sino a tali giacimenti, che già non sieno il prodotto dell’incrociarsi di più filoni, variamente tra di loro diversi». Vale a dire: i mutamenti linguistici ricostruibili con sicurezza sono quelli dovuti a mescolanza di lingue diverse; essi presuppongono già avvenuta la formazione di più lingue prototipe, la quale non può essere oggetto se non di ipotesi. Cfr. ibid., pp. 39 sg., 74. 309 iVedi sopra, pp. 384, 408. 310 iNon saprei indicare esempi del termine «unigenía» negli scritti editi del Cattaneo. Si tratterà di un ricordo orale dell’Ascoli? O forse l’Ascoli vuole semplicemente alludere all’ostilità del Cattaneo per i grecismi (cfr. sopra, nota 29)?* **

*iChe l’Ascoli alluda all’ostilità del Cattaneo per i grecismi pare confermato da quanto egli scrive poco sopra, p. 638: «L’epoca dell’homo àlalus, o, come egli avrebbe preferito di dire, dell’homo illoquus».

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bonda, che il monophyletismo, secondo che era a un dipresso pensato, nel rispetto del linguaggio, dal Bleek, a me punto non ripugnava; ma che principalmente non vedevo alcuna vera antitesi tra questa monophylia e quella polyphylia che dalla diversità dei tipi glottologici poteva parer voluta; poiché pensavo una serie di sviluppi ulteriori, importati da peculiari motivi psichici, determinantisi in mezzo a frazioni, naturalmente molto esigue, di quella umanità minutissima, onde la base monophyletica sarebbe primamente constata». E qui finisce il sogno. Avrebbe il Cattaneo approvato questo tentativo di conciliare monogenesi e poligenesi? Si può dubitarne. La costruzione ascoliana, probabilmente, gli sarebbe parsa troppo artificiosa e ideologicamente composita, come difatti è. L’Ascoli stesso non sviluppò ulteriormente queste idee. Ma per la storia delle ideologie linguistiche dell’Ottocento rimane interessante questo suo sforzo di fondare un «monogenismo laico», che sfuggisse ai pericoli della trascendenza da un lato, del razzismo dall’altro. Perciò egli citava il Bleek, uno dei pochi monogenisti non sospettabili di preconcetti religiosi, parente e seguace di Ernst Haeckel.311 E perciò poteva richiamarsi idealmente al Cattaneo, poligenista, ma mirante col suo poligenismo ad uno scopo non dissimile: rifiutare l’origine divina e affermare la pari dignità umana di tutte le stirpi. 5.* Fu appunto questa eredità cattaneiana, questo spirito democratico e illuminista che i due rami della scuola dell’Ascoli, l’«ortodosso» e il «neolinguista», non furono in grado di raccogliere e sviluppare adeguatamente. La causa di ciò va naturalmente ricercata, più che in responsabilità di singoli studiosi, nel mutato clima politico-culturale. Negli anni attorno alla prima guerra mondiale, e peggio ancora nei successivi, tutta la tradizione patriottico-democratica del Risorgimento venne reinterpretata in chiave nazionalistica e, quindi, profondamente falsata. La figura dell’Ascoli non sfuggì a questo travisamento, al quale cooperarono il «neogrammatico» Salvioni e i «neolinguisti» Parodi e Bartoli, aspramente dissenzienti tra loro sul terreno scienti311 iW. H. I. Bleek, Über den Ursprung der Sprache (con prefazione di E. Haeckel), Weimar 1868; trad. it. di C. Emery, nella «Rivista Partenopea» del 1872.

*i{Cfr. precedente postilla alla p. 404 – N. d. C.}.

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fico, ma concordi nel propugnare il nazionalismo più acceso e, in politica interna, il più ottuso conservatorismo.312 L’Ascoli, pur serbando un vivissimo affetto per la sua terra natale e riaffermandone sempre l’italianità, aveva manifestato con molta chiarezza le sue riserve nei riguardi del movimento irredentista, che gli appariva pericoloso per l’avvenire pacifico e democratico dell’Italia. Aveva ritenuto che gli italiani della Venezia Giulia dovessero mirare essenzialmente alla rivendicazione dei loro diritti entro lo stato austroungarico. Aveva, è vero, affermato con un certo orgoglio illuministico la superiorità culturale degli italiani soggetti all’Austria nei riguardi degli slavi, tuttavia ciò non gli aveva mai impedito di auspicare una pacifica convivenza delle due stirpi che il governo austriaco aizzava l’una contro l’altra per meglio opprimerle.313 All’indomani del 1918, invece, l’Ascoli fu presentato come un profeta dell’irredentismo. Si sentì persino il bisogno di mettere in dubbio che sapesse fin da ragazzo lo sloveno: il perfetto irredento, anche se appassionato di linguistica, non 312 iLa commemorazione che del Salvioni fece nel 1922 il Parodi (ristampata in E. G. Parodi, Lingua e letteratura a cura di G. Folena, Venezia 1957, I, p. 60 sgg.) dà una chiara immagine delle idee politiche dell’uno e dell’altro (vedi in particolare pp. 60 n. 1, 79 sg., 85, 94 sg.). Il Salvioni aveva professato in gioventù idee di estrema sinistra, poi si era bruscamente convertito (cfr. Parodi, p. 67 sgg.). Quanto al Bartoli, vedi qui sotto, note 314 e 316. È tuttavia necessario riconoscere l’onestà personale di questi studiosi, i quali, a differenza di altri intellettuali di quel periodo, non trassero per sé dal loro sciovinismo alcun vantaggio; nel caso, poi, del Salvioni e del Bartoli (** come anche* del Goidánich) bisogna tener conto della loro psicologia di italiani nati fuori dei confini e quindi particolarmente sensibili all’irredentismo. La calda umanità del Bartoli è dimostrata, fra l’altro, dall’affetto che ebbe per lui Antonio Gramsci, malgrado l’assoluto dissenso politico. Considerazioni analoghe valgono per Clemente Merlo, che, nonostante il suo nazionalismo acceso, ebbe il merito di continuare a proclamare la grandezza dell’Ascoli anche dopo l’emanazione delle leggi razziste, e di non aderire al filotedeschismo fascista (cfr. T. Bolelli, Clemente Merlo, ne «L’Italia dialettale» XXIII, 1958-59, p. XVI). Nei riguardi della questione ladina (vedi qui sotto, nota 315) il Merlo, a differenza del Salvioni, non si lasciò influenzare da preconcetti politici: cfr. «L’Italia dialettale» I, 1924-25, p. 16 sgg. 313 iVedi in particolare Gli irredenti, in «Nuova Antologia», 1° luglio 1895, p. 34 sgg.: A proposito dell’Università italiana in Trieste, ibid., 1° febbraio 1903; Di Niccolò Tommaseo sedicente slavo, ne «La vita internazionale» VI, 1903, p. 65 sgg. Quest’ultimo articolo tempera e in parte corregge, in senso filoslavo, certe affermazioni dei precedenti. Ma già nella prolusione del 1861 (vedi sopra, nota 176) aveva esordito: «Nato e cresciuto in quell’estremo lembo del Bel Paese, dove Italia e Slavia si confondono, e un governo pseudo-tedesco viene a inceppare le natie favelle e la civiltà con esse ...».

*iNell{’ottava} riga si tolga la menzione del Guarnerio, irredentista ma non «irredento» (era nato a Milano). I rapporti dell’Ascoli col Salvioni e col Guarnerio sono ora più minutamente chiariti, grazie alla pubblicazione dei loro carteggi a cura di P. A. Faré, I carteggi Ascoli-Salvioni, Ascoli-Guarnerio e Salvioni-Guarnerio, Milano 1964 («Mem. Ist. Lombardo» XXVIII, 1).

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doveva conoscere una parola di slavo!314 Il Salvioni, patrocinatore di un irredentismo ticinese che non trovava alcuna vera rispondenza nei sentimenti della popolazione della Svizzera italiana, assunse, nei riguardi dei Saggi ladini dell’Ascoli, una posizione stranamente contraddittoria, combattuto com’era tra il desiderio di far risalire all’Ascoli la tesi dell’italianità del ladino e la consapevolezza che questa tesi non si poteva sostenere se non c o n t r o l’Ascoli.315 ** Perfino una frase del Professore socialista, isolata dal contesto, servì per far apparire il democratico e filosocialista Ascoli come un invocatore del «governo forte» e un precursore del fascismo.316 314 iCfr. M. Bartoli, G. I. Ascoli, in «Ce fastu?» VI, 1930, p. 99: «Non esageriamo quanto allo sloveno» (cioè quanto alla conoscenza che ne avrà avuto l’Ascoli giovinetto). Sulla precocità degli interessi slavistici dell’Ascoli vedi ora P. Rezzi, Gli interessi slavistici di G. I. Ascoli, in «Studi goriziani» XXXII, 1962. 315 i«Rendiconti dell’Ist. Lombardo», serie 2a, L, 1917, p. 41 sgg. Non vogliamo con ciò negare la legittimità di alcune delle obiezioni che il Salvioni (preceduto da Carlo Battisti) muoveva all’Ascoli: cfr. C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, 3a ed., Bologna 1962, p. 323 sg. Notiamo solo la contraddittorietà del suo atteggiamento. 316 iIl Bartoli (cit. qui sopra, nota 314), p. 100, rievocava «l’età dei comizi inconcludenti, quando l’Ascoli invano ricordava al fiacco Governo d’Italia il suo preciso dovere, di “attendere a toglier forza ai nemici delle istituzioni e non già contribuire colla sua fiacchezza ad aumentarla”». Ora, l’Ascoli nel Professore socialista (vedi qui sopra, nota 270), aveva scritto: «È di certo molto chiaro per tutti che un Governo deve attendere a toglier forza ai nemici delle istituzioni ch’egli rappresenta e non già contribuire con la sua fiacchezza ad aumentarla. Ma ognuno insieme conosce che il proposito della diretta repressione è, in troppi casi, tutt’altro che una massima razionale. E molti sentono, anche tra le file dei moderati, che certe sfide la maggioranza plebiscitaria non le può oggi lanciare impunemente; sentono davvero che la vittoria è ormai riservata ad altre virtù che non sia quella delle esclusioni e dei rigori». È difficile trovare un esempio più chiaro di come si possa, isolando una sola frase, travisare completamente il pensiero di un autore!*.

*iScriveva Terracini (art. cit., p. 87 n.): «Se T.{Timpanaro} vuol rileggere il passo incriminato entro il contesto dal quale non può essere isolato, ammetterà che i “comizi inconcludenti” ai quali Bartoli allude non hanno nulla a che fare col vagheggiamento di un Ascoli in camicia nera, ma sono una allusione alle piazzate irredentistiche di un tempo rammentate dinanzi ad un pubblico goriziano per giustificare la realistica posizione prudenziale assunta pubblicamente dall’Ascoli verso manifestazioni di un irredentismo che il Governo italiano non era in condizioni di sostenere efficacemente». Rileggo tutto il contesto: e tuttora non riesco a intenderlo altrimenti che come una contrapposizione tra il governo fascista e i governi precedenti. Si ricordi quanto la propaganda fascista insistesse sulla «fiacchezza» dei governi liberali-democratici, incapaci di opporsi validamente ai «sovversivi». I «nemici delle istituzioni» sono evidentemente, per il Bartoli (e già per l’Ascoli, anche se il senso complessivo del discorso ascoliano era addirittura opposto), i partiti di estrema sinistra; come è possibile credere che questa espressione voglia designare gli irredentisti troppo focosi? ** Si noti, del resto, che nel Professore socialista, da cui quella frase è tratta, di irredentismo non si parlava minimamente: in ogni caso, perciò, il senso della frase ascoliana sarebbe stato del tutto falsato dal Bartoli. All’atteggiamento dell’Ascoli verso l’irredentismo il Bartoli accenna precedentemente: «La nota contraddizione dei par-

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Nel campo propriamente linguistico, gli ascoliani-neogrammatici, dal Salvioni al Merlo al Goidánich, ebbero l’indiscutibile merito di sostenere, contro l’estetismo crociano, il carattere meccanico, inconscio, collettivo di gran parte dei fenomeni linguistici, l’irriducibilità di tutta la lingua a espressione individuale. In ciò essi erano davvero sulla linea dell’Ascoli. Ma nelle polemiche, oltre alla giustezza intrinseca delle tesi, conta anche (e spesso in misura determinante) l’ampiezza di respiro culturale con cui si è in grado di sostenerle, la capacità di assorbire le esigenze dell’avversario e di sconfiggerlo sul suo stesso terreno. Questa capacità mancò ai nostri neogrammatici. Essi erano fondamentalmente degli specialisti, che nelle discussioni linguisticofilosofiche non si sentivano a loro agio e non avevano armi sufficienti per controbattere la brillante eristica degli idealisti. Erano scolari o seguaci dell’Ascoli dialettologo; non avevano ereditato la vastità d’interessi e l’ardire del maestro (mentre a sua volta il Trombetti, erede di questo aspetto della personalità ascoliana, mancava del rigore e della misura del vero scienziato). La difesa stessa del carattere naturalistico della glottologia assunse in loro un aspetto «settoriale»: il Merlo e il Goidánich erano naturalisti in linguistica, ma spiritualisti o addirittura cattolicizzanti nella visione generale della realtà. Scriveva il Goidánich: «Si offende forse, per fare un paragone, il sentimento religioso dell’immortalità dell’anima col riconoscere che noi siam fatti “d’ossa e di polpe”, che “noi siam vermi nati a formar l’angelica farfalla”? Si offende forse la dignità del nostro genere di homo sapiens col riconoscere in noi accanto alla nostra vita intellettiva una vita vegetativa? Col riconoscere che un intelletto divino può essere in un frale organismo fisico?».317 E il Merlo, mentre riduceva la fonetica a fisio317

iSilloge, p. 623 sg.

titi democratici dell’Italia prebellica, i quali volevano Trento e Trieste e a un tempo la riduzione delle spese militari, addolorava l’Ascoli, e lui forse più d’ogni altro»: anche qui stravolgendo il pensiero dell’Ascoli, quasiché egli avesse voluto risolvere la «contraddizione» incrementando le spese militari! Vedi qui sopra, p. 423 e n. 313. Fatte queste precisazioni, sono pienamente d’accordo con Terracini nel ritenere che il Bartoli fu essenzialmente un linguista e che il suo stile di uomo e di maestro fu ben lontano dallo stile fascista: cfr. quello che già osservavo nella nota 312, p. 423 sg. Il mio intendimento non era certo di fare moralistici processi postumi contro singoli studiosi che in politica peccarono soltanto di ingenuità, ma di mostrare come il pensiero del democratico e filosocialista Ascoli fosse stato falsificato in senso nazionalistico. S’intende che ciò che ho scritto presuppone un ben preciso giudizio negativo sull’interventismo (anche sull’interventismo «democratico») della prima guerra mondiale.

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logia della glottide umana, amava poi dire che il linguaggio costituisce «quell’abisso tra uomo e bruto che nessuna teoria materialistica varrà mai a colmare».318 Era quel che ci voleva per farsi accusare dagli idealisti di «naturalismo» e di «trascendenza» ad un tempo! E tuttavia, nonostante le loro chiusure culturali e il loro tono da laudatores temporis acti, questi studiosi ebbero il pregio di difendere, in tempi poco propizi alla scienza, certi principii troppo facilmente disprezzati dai loro colleghi. I neolinguisti furono assai superiori agli ascoliani-neogrammatici in fatto di aggiornamento culturale e di varietà d’interessi. Senonché, per loro, amica veritas sed magis amicus Plato. Al desiderio di non apparire arretrati nel campo filosofico e di non tirarsi addosso le scomuniche di Benedetto Croce sacrificarono molto spesso le esigenze concrete della loro scienza. Non videro che l’«estetica come linguistica generale» era la fine della linguistica, o se lo videro, reagirono troppo timidamente.319 Di contro all’ascolismo ortodosso di un Goidánich e di un Merlo, essi sostennero che il pensiero dell’Ascoli si poteva far rivivere solo aggiornandolo e superandolo, cioè liberando la teoria del sostrato dalle scorie naturalistiche;320 ma, come abbiamo già veduto, tale aggiornamento non lasciò sopravvivere quasi nulla delle genuine esigenze ascoliane. Abbiamo anche accennato alla posizione particolare di Benvenuto Terracini, l’unico linguista di formazione idealistica che abbia avuto un vero e profondo e tormentato interesse per la personalità umana e scientifica dell’Ascoli.321 All’aspetto collettivo e

318 iCfr., per quest’ultima frase, «Annali delle Università Toscane» XXXVI, 1917, fasc. 6, p. 3. Anche il Trombetti, del resto, diversamente dall’Ascoli, dette al proprio monogenismo linguistico un’intonazione cattolica. 319 iSu ciò vedi il libro già citato del Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, Firenze 1946. Bisogna tuttavia (come osserva il Nencioni stesso) distinguere tra un Giulio Bertoni, che subì l’influsso dell’idealismo in maniera determinante, e un Bartoli, che si mantenne sempre diffidente verso i «glottosofi» (vedi per esempio Introd. alla neolinguistica, Ginevra 1925, p. 63 sg.). Della distinzione si rendeva ben conto Gramsci (Letteratura e vita nazionale, p. 206 sg., cfr. p. 202), anche se tendeva a sopravvalutare l’originalità e l’importanza del Bartoli. Un giudizio molto equo ed esatto sul Bartoli ha espresso G. Devoto, M. Bartoli e le leggi, in Scritti minori, Firenze 1958, p. 412 sgg. Vedi anche la bella rievocazione in Silvio Pellegrini, Muffe vecchie e nuove, Pisa 1965, p. 85 sgg., e ora l’esauriente articolo di T. De Mauro in «Diz. biogr. degli italiani» VI, pp. 582-586. 320 iOltre agli scritti cit. sopra, alla nota 225, cfr. la recensione di Mario Casella alla Silloge Ascoli nel «Marzocco» del 6 luglio 1930. 321 iVedi sopra, p. 396 sgg.

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inconscio dei fatti linguistici ha dato sempre un giusto rilievo Giacomo Devoto;322 ma questa sua rivendicazione non prese le mosse dall’Ascoli, ma piuttosto dal Meillet: non dalla lingua come fatto istintivo, preculturale, ma dalla lingua come «istituto». Oggi non si tratta certo di riprendere la polemica tra glottologi positivisti e idealisti nei termini di cinquant’anni fa, ma piuttosto, di riconoscere che il naturalismo dell’Ascoli (e, in generale, del pensiero scientifico-filosofico ottocentesco) contiene più elementi positivi di quanti ve ne potesse scorgere la cultura idealistica; e, nello stesso tempo, di valutare più pienamente l’influsso antimetafisico, democratico, antirazzista che sulla formazione dell’Ascoli esercitò il Cattaneo.

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iGià in Adattamento e distinzione nella fonetica latina, Firenze 1923, p. 5 sg.

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Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

1. – È giunta a termine, col quarto volume (1962), la versione italiana dei Pensatori greci di Theodor Gomperz. Il primo volume era uscito nel lontano 1933. Il lavoro di traduzione, condotto fino al terzo volume da Luigi Bandini – un traduttore intelligente e fedele, anche se un po’ troppo arcaizzante – è stato degnamente proseguito, dopo la morte del Bandini, da Dario Faucci.1 Poco prima che incominciasse ad uscire la versione italiana, era apparsa a Berlino, dal ’22 al ’31, la quarta edizione dell’opera originale, curata dal figlio dell’autore, Heinrich Gomperz. In Germania questa ripubblicazione di un’opera che al suo primo apparire (18961909) aveva destato tanto interesse, fu accolta con freddezza. I due maggiori rappresentanti della nuova generazione di storici della filosofia greca, Julius Stenzel e Werner Jaeger, dichiararono – il secondo più recisamente del primo – che l’opera del Gomperz era ormai invecchiata: tanto più rapidamente invecchiata quanto più aveva preteso di «attualizzare» il pensiero greco. Il Gomperz, osservarono i due recensori, non ricostruisce nella loro organicità le dottrine dei grandi filosofi greci, ma si riduce a fare il bilancio di ciò che è vivo e di ciò che è morto; e considera vivo soltanto ciò che concorda coi risultati della scienza moderna o almeno ne costituisce un preannuncio: dunque ∼i«Critica storica», II (1963), pp. 1-31.

1 iA questa edizione (T. Gomperz, Pensatori greci, I3, Firenze, La Nuova Italia, 1950; II3, 1950; III2, 1953; IV, 1962) farò riferimento col solo numero romano del volume e arabico della pagina.

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mancanza di vero senso storico, disconoscimento delle esigenze speculative, positivismo angusto.2 Anche le recensioni – poche e poco impegnative – ai primi due volumi della traduzione italiana riecheggiarono questi stessi motivi. Il clima culturale dell’Italia di allora non era certo uguale a quello della Germania: c’era meno irrazionalismo torbido, meno scorie romantiche, ma, d’altra parte, una tradizione filologica assai meno robusta, più superficialità, più pretese di risolvere tutti i problemi con un paio di formule. Ma un elemento comune agli indirizzi dominanti delle due culture era l’ostilità verso il positivismo ottocentesco e verso le ideologie democratiche e laiche, la svalutazione della scienza. Anche in Italia, quindi, l’opera del Gomperz sembrò appartenente a un’epoca ormai tramontata, e si dubitò se fosse stato opportuno intraprenderne la traduzione. La massima lode che i Pensatori greci ottennero da parte di alcuni recensori italiani (come già da parte dello Stenzel) fu il riconoscimento della loro utilità come «correttivo» di fronte al pericolo di una storiografia troppo hegelianamente aprioristica.3** Poco più tardi, a rendere «fuori moda» il Gomperz, sopravvenne, prima ancora dell’Anschluss con la Germania nazista, il clerico-fascismo di Dollfuss. Di una biografia redatta dal figlio, con corredo di lettere e documenti, solo il primo volume uscì a Vienna, quando già Heinrich Gomperz era emigrato in America.4 Riceverà oggi l’ultimo volume del Gomperz italiano un’accoglienza migliore? Certo una storia della filosofia greca che dà un grande risalto al pensiero scientifico, ed è pervasa da un forte afflato antimetafisico, e non perde mai di vista il nesso tra storia del pensiero e storia politi2 iCfr. J. Stenzel, in «Gnomon», 1928, p. 72 sgg.; W. Jaeger, in «Deutsche Literatur-Zeitung», 1932, col. 731 sgg. (rist. in Scripta minora, Roma 1960, II, p. 119 sgg.). Accenni sfavorevoli al «positivista» Gomperz vi sono anche nelle opere maggiori di Jaeger: vedi specialmente Paideia, trad. it., II, p. 343 sg. (dove, fra l’altro, il pensiero del Gomperz è riferito inesattamente), e la prefazione a La teologia dei primi pensatori greci. 3 iCfr. R. D’Ambrosio, in «Nuova Rivista Storica», 1933, p. 585 sg.; e, con intonazione complessiva più favorevole, G. Calogero, in «Giornale critico della filosofia italiana», 1934, p. 244. Del Calogero vedi anche la voce Gomperz, Th. nell’«Enciclopedia Italiana». Negativo, come era naturale, il giudizio di M. F. Sciacca, in «Logos», 1933, p. 487 sgg. 4 iTh. Gomperz 1832-1912, Briefe und Aufzeichnungen, eingeleitet, erläutert und zu einer Darstellung seines Lebens verknüpft von H. Gomperz, I (1832-68), Wien 1936. Sono vivamente grato a Mario Untersteiner che mi ha prestato questo volume, molto raro in Italia. L’Untersteiner ne scrisse una bella e coraggiosa recensione in «Mondo classico», 1939, p. 24 sgg. Su una pubblicazione ridotta del resto di quest’opera, uscita alcuni anni fa, vedi qui sotto, p. 463 sgg.

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co-culturale, dovrebbe riuscire assai più gradita oggi che trent’anni fa. E tuttavia c’è il pericolo che, ancor più che trent’anni fa, i lettori siano urtati da quel gusto, tipico del Gomperz, di sottolineare gli aspetti ancora attuali della scienza e della filosofia antica. È anche probabile che gli odierni studiosi di storia della scienza trovino l’opera del Gomperz troppo legata al positivismo ottocentesco, verso il quale i neopositivisti, come è noto, nutrono un’avversione non molto inferiore a quella degli idealisti. E infine c’è da temere che, per troppo amore dell’aggiornamento bibliografico fine a se stesso, ci si rifiuti addirittura di prendere in considerazione un’opera vecchia di mezzo secolo, alla quale non sono state apportate modifiche o aggiunte di alcun genere.5 Io credo che, per intendere nel suo vero valore l’opera del Gomperz, non ci si debba fermare a certi suoi aspetti esteriori. A una lettura superficiale, essa può apparire come una tipica opera di divulgazione tardo-ottocentesca e nulla più. I capitoli dei Pensatori greci hanno un po’ la forma espositiva di lezioni o conferenze per un pubblico di non specialisti. Alla fine di ciascun capitolo è preannunciato, in modo da tener desta la curiosità del lettore, il tema del capitolo seguente. L’autore si preoccupa soprattutto che il suo pubblico non consideri il pensiero greco come cosa troppo lontana dai suoi interessi attuali: ci tiene, perciò, a mostrare quanti germi di conquiste scientifiche moderne vi siano in quelle antiche filosofie e cosmogonie, e come, d’altra parte, la conoscenza dei pensatori greci sia necessaria a liberarci da vecchi schemi mentali che abbiamo più o meno inconsciamente ereditato da loro.6 E ravviva la materia con notazioni paesistiche,7 con rievocazioni leggermente romanzate di scene della vita antica,8 con frequentissimi riferimenti a fatti e a pensieri del mondo moderno. 5 iII vol. I dei Griechische Denker uscì per la prima volta nel 1896, il II nel 1902, il III nel 1909; una seconda edizione dei primi due volumi apparve nel 1903, una terza nel 1911-12. L’edizione curata da Heinrich Gomperz, a cui abbiamo accennato sopra (e sulla quale è condotta l’edizione italiana in quattro volumi) contiene in più molti rimandi a testi antichi, ma, come è giusto, nessun rimaneggiamento o aggiornamento. 6 iGià nel 1866, in una conferenza ripubblicata poi in Essays und Erinnerungen (Stuttgart 1905, p. 86), il Gomperz aveva detto: «Man widerlegt nur, was man erklärt hat. Und wir Spätgeborenen können uns von dem übermächtigen Einfluss der Vergangenheit nur befreien, wenn wir sie gründlich erkennen». Su questo stesso motivo egli ritorna nei Pensatori greci, I, p. 66 n. 7 iDerivanti per lo più, come il Gomperz sottolinea con compiacimento, da conoscenza diretta dei luoghi (I, pp. 96, n. 1; 239 n.; 343, n. 1; II, 18, n. 1; III, 29, n. 1; 607, n. 1). 8 iVedi per esempio il discorso (ben inventato, del resto!) che il Gomperz mette in bocca a un «vecchio ateniese» ostile a Socrate (II, p. 490 sgg.), e le rievocazioni del soggiorno di Platone a Siracusa (III, p. 29 sgg.) e del suo incontro con Dione a Olimpia (id., p. 451 sg.).

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Ma a chi credesse di poter considerare il Gomperz solo come un divulgatore brillante o uno scientista privo di senso storico, bisognerebbe innanzi tutto ricordare l’eccellenza dei contributi strettamente filologici (congetture critico-testuali, interpretazioni di singoli passi) che si trovano disseminati nelle note dei Pensatori greci. È di prammatica il confronto tra il Gomperz e l’altro grande storico ottocentesco della filosofia greca, Eduard Zeller. Ebbene, la grande opera zelleriana Die Philosophie der Griechen in i[h]rer [cr] geschichtlichen Entwicklung è, rispetto all’opera del Gomperz, molto più ricca di e r u d i z i o n e (cioè di apparato documentario e bibliografico), non già di contributi filologici originali. Lo Zeller, benché scrupolosissimo dell’esattezza storica, proveniva dalla speculazione metafisica, e la critica testuale o l’esegesi del passo singolo lo interessavano solo in quanto coinvolgessero problemi più generali d’interpretazione filosofica. Nelle note del Gomperz, invece, nonostante la molto maggiore stringatezza dell’apparato erudito, si sente subito il critico testuale esperto del mestiere, il conoscitore profondo di lingua e stile greco.9 Ciò risulta ancor più chiaro se si dà uno sguardo all’attività del Gomperz anteriore ai Pensatori greci. Non era stata, è vero, la sua una tipica carriera di filologo del secondo Ottocento. Da giovane si era sentito attratto dagli interessi più vari (scienza, filologia, politica, giornalismo, letteratura), tanto da disperdere il suo ingegno in troppe direzioni e da frequentare per molti anni, all’Università di Vienna, diversissimi corsi di studi senza poi arrivare a laurearsi. A favorire questa dispersività – che non fu, del resto, un fatto puramente negativo, ma significò anche allargamento di orizzonte intellettuale, formazione di una personalità viva e antiaccademica – aveva contribu[i]to [cr] anche la sua situazione di figlio di un’agiata famiglia ebraica, non assillato da necessità economiche urgenti e, d’altra parte, date le leggi illiberali dell’Austria di allora, escluso dalla prospettiva di una carriera universitaria.10 Ma il primo campo di studi in cui, verso il 1855, egli riuscì 9 iCongetture degne di considerazione mi sembrano, per esempio, ψευδ ς in Aristot. Metaph. Γ 1010 b 2 sg. (Pens. Greci, IV, p. 269, n. 1: semplice ritocco di una precedente congettura del Bonitz, ma convalidato dal confronto con un passo di Platone); συµπαραλαµβανµενον in Temistio, De an. pp. 107, 35 sgg. Heinze (id., p. 684, n. 1); σωµ των in Erone, vol. I, p. 26, 21 Schmidt (id., p, 740, n. 2). Un’interpretazione giusta di un passo di Teofrasto (ripresa più tardi, credo indipendentemente, da Giorgio Pasquali nella sua traduzione dei Caratteri) è in IV, p. 717, n. 2. Giusta anche l’interpretazione di κατ στοιχεον sostenuta dal Gomperz, IV, p. 724, n. 2, contro l’Usener. 10 iVedi le memorie autobiografiche ripubblicate in Essays und Erinnerungen cit., p. 24 sgg.

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finalmente a fissarsi, ad imporsi una disciplina di lavoro, fu proprio la filologia in senso rigorosamente tecnico, la critica testuale, anche se applicata prevalentemente a testi filosofici. A indirizzarlo in questo senso contribuì certamente l’influsso del suo maestro Hermann Bonitz, risuscitatore degli studi filologici in Austria, valente interprete di Platone e soprattutto di Aristotele. Il Gomperz ricordò sempre con commossa gratitudine questo studioso non geniale, ma herbartianamente rigoroso:11 a lui dedicò l’edizione del De ira di Filodemo, e un suo giudizio su Aristotele (un giudizio, a dire il vero, un po’ scolastico) volle porre come motto dell’ultimo volume dei Pensatori greci. Ma anche in questo campo specifico l’allievo superò il maestro: le edizioni di testi epicurei e filodemei provenienti da Ercolano, l’edizione commentata del De arte pseudo-ippocratico, gli studi su Platone, Aristotele, Teofrasto pongono il Gomperz tra i più acuti curatori filologici di testi filosofici antichi, più su del Bonitz, accanto all’Usener e al Diels.12 Né si limitò ai testi filosofici. Tra le copiose note di critica testuale che egli stesso ripubblicò nei due volumi di Hellenika (Lipsia 1912) vi sono contributi ad Euripide, ai frammenti dei tragici, ad Erodoto, con qualche incursione anche nel campo latino (Cicerone, Arnobio). Molte di quelle congetture sono oggi unanimemente accolte;13 altre, come è inevitabile, a un più maturo esame appaiono inaccettabili. Ma che in lui la congettura non fosse divenuta sterile ostentazione di virtuosismo, lo dimostra la sua giustissima polemica contro il Cobet, 11 iCfr. il ricordo del Bonitz pubblicato dal Gomperz nel «Biographisches Jahrbuch fiir Alterthumskunde», XI (1888), p. 53 sgg.; e Th. Gomperz 1832-1912 cit., p. 94 sgg. 12 iSul valore dei contributi epicurei si veda il giudizio di G. Arrighetti, Introd. a Epicuro, Opere, Torino 1960, p. XVI sg. | 19732, p. XXIII sg. |. I principali risultati dei Platonische Aufsätze (Wien 1887-1905), delle memorie sulla Poetica di Aristotele («Sitzungsber. der Wiener Akad.», 1888-96 ed «Eranos Vindobonensis», 1893) e sui Caratteri di Teofrasto («Sitzungsber. der Wiener Akad.», 1888) sono riassunti e utilizzati dal Gomperz stesso nei Pensatori greci (specialmente III, cap. II; IV, pp. 589 sgg., 712). L’edizione del De arte (Apologie der Kunst, Wien 1890, Leipzig 19102) conserva un grande valore critico-testuale ed esegetico anche per chi non accetti l’attribuzione dell’opera a Protagora. | In generale per gli studi del Gomperz sulla medicina greca cfr. V. Di Benedetto, in «Critica storica», V (1966), pp. 354-356, dove alcune interpretazioni del Gomperz riguardanti il De prisca medicina sono confermate e sviluppate |. 13 iVedi il riconoscimento del Nauck nella 2a ed. dei Tragicorum Graecorum fragmenta, Lipsiae 1889, p. XVIII e n. Cfr. per esempio anche Murray ad Euripide, Iph. Aul. 1058 ** (Gomperz, Hellenika, I, p. 15); Schoell a Cicerone, Phil., I 15 (id., II, p. 265), ecc. Si deve al Gomperz la prima edizione di uno dei più importanti testi callimachei (sul quale vedi ora V. Bartoletti, in «Studi ital. di filol. class.» n. s. XXXIII, 1961, p. 154 sgg.).

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emendatore acuto, ma, come molti dotti olandesi, troppo analogista.14 Questo aspetto della personalità del Gomperz andava sottolineato (anche se abbiamo dovuto farlo troppo brevemente) perché nelle storie della filologia non gli è riconosciuto il posto che gli spetta, e la stessa biografia intellettuale scritta dal figlio è, da questo lato, manchevole. Heinrich Gomperz – che non difettava affatto di preparazione filologica, ma, a differenza del padre, si sentiva essenzialmente «filosofo teoretico» – tende un po’ a considerare le congetture paterne un ingegnoso perditempo, e giunge fino a intitolare Stockung (stagnazione intellettuale!) un capitolo che si riferisce agli anni 1855-61, anni d’intensa e felice attività filologica. Ma Theodor Gomperz conosceva bene se stesso quando nel ’67 – cadute le leggi discriminatrici contro gli ebrei, superato, col conseguimento della libera docenza, l’ostacolo che a lui derivava dalla mancanza di diploma universitario – non volle tuttavia accettare una chiamata a Graz come professore di filosofia antica e aspettò per altri due anni, finché l’università di Vienna lo chiamò a insegnare filologia classica, come successore del Bonitz. «La esclusiva limitazione a questo campo particolare (la filosofia antica) non mi soddisfaceva», ricorderà più tardi. «Ancor oggi non rimpiango che il mio ufficio di professore di filologia mi abbia costretto, per lunghi anni, a familiarizzarmi con i più vari aspetti della scienza dell’antichità. Anche se qualche volta ciò mi ha allontanato dallo scopo principale dei miei studi, tuttavia i miei studi stessi hanno finito per trarre vantaggio da questo ampliamento di orizzonte».15 Le parole che abbiamo ora citato, però, sottintendono già una diversa e più vasta concezione della filologia: non più semplice attività di restauro e di interpretazione puntuale dei testi, ma «scienza dell’antichità», ricostruzione della vita dei popoli antichi in ogni suo aspetto. La prima concezione, come è noto, era stata sostenuta nel primo Ottocento da Gottfried Hermann (e di Hermann era stato scolaro il Bonitz); la seconda, per cui filologia e storia s’identificavano, da August Böckh e da Karl Otfried Mueller. Il Gomperz, pur senza perdere mai il gusto della filologia in senso stretto, si andò sempre più accostando (per influsso di Otto Jahn e, attraverso Jahn, di Jacob Ber14 iDie Bruchstücke der griech. Tragiker und Cobets neueste kritische Manier, Wien 1878, ripubbl. in Hellenika, I, p. 29 sgg. 15 iEssays und Erinnerungen cit., p. 46.

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nays) a questa più larga visione storica.16 Nel 1881, commemorando il Bernays, egli scriveva: Storia e filologia ... Potrebbero mai sorgere dei dubbi sul rapporto tra queste due discipline? In linea di principio, certamente no. Lo storico che non si rassegna a guardare con gli occhi altrui, che vuol formarsi un giudizio indipendente sul proprio materiale di ricerca, è necessariamente un filologo; e il filologo che non è un puro e semplice conoscitore di alcuni autori prediletti, il filologo che è un ricercatore e con la sua ricerca mira a scopi di interesse generale, che cos’altro può essere se non uno storico? Poco importa che egli si occupi di illustrare la vita politica, sociale, religiosa o speculativa di un popolo, oppure di studiare la storia della sua letteratura o della sua lingua: poco importa, cioè, che si chiami Gottfried Hermann o August Böckh, Scaligero o Bentley, Jakob Grimm o Christian Lassen. Filologia e ricerca storica rigorosa dovrebbero esser considerate espressioni quasi del tutto equivalenti; da questo punto di vista, non costituisce una grande differenza il fatto che il restauro di testi sfigurati da errori e la ricostruzione storica in grande stile appaiano talvolta uniti nella medesima persona – per esempio nel Mommsen o in Wilhelm Scherer –, mentre altri studiosi, come un Lachmann o un Immanuel Bekker, dedicano la loro vita a quella sola attività preliminare. E, beninteso, anche il cosiddetto filologo formale non è soltanto un ausiliario della storiografia, ma è egli stesso, sempre, uno storico; ogni passo che egli muove, per esempio, nella critica del testo, si appoggia su osservazioni e riflessioni storiche che riguardano l’evoluzione del linguaggio, della tecnica metrica, delle concezioni filosofiche, dei mezzi di espressione stilistica, delle circostanze esteriori e via dicendo.17

È interessante anzitutto notare, in queste parole, il superamento dell’ambito «classico», greco-latino, in cui si erano prevalentemente mantenute fin allora le discussioni su filologia «formale» e «reale». Il Gomperz è consapevole – come lo sarà l’Usener nella famosa lezione Philologie und Geschichtswissenschaft, posteriore di un anno (1882, rist. in Vorträge und Aufsätze, Leipzig 19142, p. 1 sgg.) che il rapporto storia-filologia si pone egualmente per lo studio di tutte le culture; e lo sottolinea citando, accanto a filologi classici e a storici della Grecia e di Roma, germanisti come J. Grimm e Scherer (e, per una parte importante della sua attività, Lachmann) e un indianista come Lassen. In secondo luogo, bisogna osservare come nel Gomperz la piena adesione al concetto storico della filologia non si accompagni ad alcuna svalutazione della «filologia formale»: il Gomperz afferma con for16 iSui rapporti del Gomperz col Jahn vedi Essays und Erinnerungen cit., p. 29; sull’influsso del Bernays (i cui Heraclitea gli furono prestati dal Jahn) ibid., pp. 38, 106 sgg. Cfr. A. Momigliano, Quinto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1975, I, p. 134. 17 iIbid., p. 106 sg.

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za che il lavoro di emendazione e di esegesi minuta dei testi, anche se rappresenta un momento preliminare per più vaste ricostruzioni storiche, non va però concepito in modo puramente strumentale, ma è esso stesso, già, ricostruzione storica, sia pure in un ambito più circoscritto: mentre il Böckh, il Mueller, lo stesso Bernays avevano mantenuto verso la filologia formale un certo atteggiamento di sufficienza.18 Alcuni anni più tardi, nelle pagine conclusive della sua Introduzione alla tragedia greca, il Wilamowitz sostenne anch’egli la necessità di rivalutare la filologia formale, ma in modo un po’ diverso: il compito specifico del filologo sarebbe consistito nel mettere in grado il lettore moderno di gustare direttamente l’opera d’arte antica nel suo valore imperituro, senza abbassarla a mero documento di un’epoca.19 Il Gomperz non sentiva tanto l’esigenza di rivendicare una simile autonomia del filologo nei riguardi dello storico, quanto quella di unificare davvero le due correnti culturali, in modo che, all’interno di una concezione rigorosamente storica della filologia, nulla andasse perduto dell’insegnamento dei filologi formali. I Pensatori greci costituiscono appunto un esempio di tale unificazione. Se parecchie osservazioni particolari rivelano, come abbiamo già notato, lo scolaro del Bonitz e l’erede della tradizione che faceva capo a Gottfried Hermann, la struttura generale dell’opera si ispira al concetto di «scienza dell’antichità» elaborato dal Wolf e dal Böckh. Di qui deriva la caratteristica più spiccata di questa storia della filosofia greca, che la distingue dalle precedenti (Ritter, Brandis, Zeller) e dalle seguenti: la stretta connessione, che il Gomperz mette sempre in risalto, tra la filosofia greca e la civiltà greca nel suo insieme: una connessione non irrigidita (come in Hegel) in un complicato e artificioso sistema di categorie concettuali, ma còlta con metodo empirico e induttivo, al di fuori di ogni schematismo. Tracciando il piano della sua opera, il Gomperz scriveva (I, p. xv sg.): «Della storia della religione, della letteratura e delle scienze par18 iVedi la difesa degli adversaria, delle note filologiche sparse, che il Gomperz (ibid., p. 108 n.) fa contro il Bernays, il quale accettava la condanna degli adversaria pronunziata dallo Scaligero e ribadita da K. O. Mueller. 19 iU. von Wilamowitz, Einleitung in die griechische Tragödie2, Berlin 1910, p. 25[6] [cr] sg. Queste pagine del Wilamowitz sono in implicita polemica con Philologie und Geschichtswissenschaft di Hermann Usener, cit. sopra: vedi la sua lettera all’Usener del febbraio 1883, in Usener-Wilamowitz, Ein Briefwechsel, Leipzig 1934, p. 28 sg.

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ticolari entreranno nell’opera quelle parti che siano indispensabili all’intelligenza del movimento speculativo, delle sue cause e dei suoi effetti. Le linee divisorie di questi vari campi appaiono all’Autore tutt’altro che rigide e fisse. L’ideale che gli sta davanti agli occhi non potrebbe realizzarsi completamente se non in un’opera che abbracciasse ed esaurisse tutta la storia della vita spirituale dell’antichità. Se una tale grandiosa impresa venisse mai portata degnamente a termine, il presente saggio, infinitamente più modesto, non potrà non apparire, di fronte ad essa, superato ed invecchiato». Ma in realtà i Pensatori greci sono già, in larga misura, una realizzazione di questo ideale. Sulle manifestazioni extra-filosofiche della cultura greca il Gomperz dice molto di più di quanto sarebbe stato «indispensabile all’intelligenza del movimento speculativo» in senso stretto: basti ricordare le pagine dedicate alla medicina greca (la cui importanza per la storia generale della cultura fu messa in rilievo per la prima volta dal Gomperz),20 ai tre grandi tragici, a Erodoto e a Tucidide, alla vita politicosociale delle città ioniche, di Atene, di Siracusa.21 Soprattutto importa notare che queste pagine non hanno (a differenza che nello Zeller) carattere semplicemente introduttivo, di «inquadramento storico-culturale» delle dottrine filosofiche, ma costituiscono parte integrante della storia del pensiero greco come il Gomperz la intendeva. 2. – Ma, cosa importante, della filologia storica tedesca il Gomperz seppe assimilare solo l’aspetto positivo e respingere le scorie. Il Böckh e i suoi seguaci, mentre abbattevano con piena ragione le barriere tra le varie manifestazioni di civiltà di un popolo, consideravano, poi, ciascun popolo come un «organismo» chiuso in sé, dotato di proprie caratteristiche rigidamente unitarie, di un proprio «spirito nazionale» che restava sostanzialmente identico a se stesso in tutto il corso della sua storia. Una concezione, questa, che, inserita ancora da Herder e dai cosiddetti preromantici nell’ambito di una visione generale progressista e cosmopolita della storia umana, si era fatta nazionalistica20 iVedi II, pp. 3 sgg., 292 sgg. Sull’interesse del Gomperz per la medicina antica e sui suoi rapporti con Émile Littré vedi Essays und Erinnerungen cit., p. 40 sg.; Th. Gomperz 1832-1912 cit., p. 243 (e qui sopra, nota 12). 21 iVedi specialmente I, p. 385 sgg.; II, pp. 160 sgg., 331 sgg., 363 sgg., 401 sgg.; IlI, p. 25 sgg. Sull’«illuminismo» di Euripide (che fu poi il tema del libro di W. Nestle, Euripides der Dichter der griechischen Aufklärung, Stuttgart 1901) l’essenziale era stato già detto dal Gomperz.

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mente angusta col Savigny e con i romantici del gruppo di Heidelberg. Il popolo greco, per la spiccata originalità delle sue manifestazioni culturali e la relativa scarsezza degli influssi che aveva subito da parte di altri popoli, si adattava meglio di ogni altro a questa concezione; anzi, neo-umanesimo alla Winckelmann e romanticismo nazionalista si trovavano, in questo caso, concordi nell’esaltazione del «miracolo ellenico». È vero che un’altra corrente del romanticismo tedesco, più misticheggiante che nazionalistica, facente capo a Creuzer e al Friedrich Schlegel dell’ultima maniera, voleva ricondurre tutto il pensiero greco alla «sapienza» orientale, e aveva trovato ancora verso la metà dell’Ottocento due seguaci nel Gladisch e nel Röth; ma le strampalate fantasie di questi eruditi (paragonabili per certi aspetti a quelle dei nostri vichiani in ritardo: Jannelli, Mazzoldi, ecc.) erano servite soltanto a riconfermare negli studiosi più seri la convinzione che il pensiero greco fosse da considerarsi del tutto indipendente da influssi orientali. Di questa tesi si era fatto deciso assertore lo Zeller.22 Il Gomperz seppe mantenersi ugualmente lontano dal chiuso nazionalismo o etnicismo degli uni e dall’orientalismo mistico degli altri. I suoi Greci non sono i ripetitori di un verbo che viene dall’Egitto o dall’India, ma non sono neppure un popolo eletto, tanto più originale quanto più immune da qualsiasi contatto con altri popoli. La loro eccellenza consiste proprio nella capacità di avere rapporti (economici e culturali) con altre genti, di assorbirne gli influssi senza lasciarsi assorbire: non per nulla la cultura greca nasce nelle colonie dell’Asia minore, in una zona di contatto con la cultura orientale. La grande originalità della forma mentis scientifica greca, il Gomperz la sottolinea con convinzione; ma ritiene molto probabile che la matematica e l’astronomia caldea abbiano esercitato una notevole influenza sugli inizi della ricerca scientifica greca, e che l’orfismo e le altre correnti misteriche greche debbano molto a religioni orientali. Trattando di quest’ultimo punto egli esce in una vivace dichiarazione di principio (I, p. 146): Questa assunzione provocherà certamente le più vivaci obbiezioni, se non anche gli acri sarcasmi, di molti studiosi per i quali è un fare affronto ai Greci il supporre che

22 iCfr. E. Zeller, La filosofia dei Greci ecc., trad. ital., parte I, vol. I, Firenze 1932, p. 35 sgg., e l’informatissima ed equilibrata nota del Mondolfo (ibid., p. 63 sgg.; cfr. p. 45 n. 1) che dà notizia delle discussioni posteriori sull’argomento e corregge l’unilateralità del punto di vista dello Zeller. | Cfr. ora anche M. L. West, Early Greek Philosophy and Orient, Oxford 1971 |.

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essi siano stati a scuola dalle nazioni che li hanno preceduti nella civiltà, e che abbiano ricevuto da esse germi della loro scienza e della loro fede religiosa. Ma l’angusta e caparbia mentalità che vorrebbe, per così dire, far salire il popolo greco su di un trespolo isolatore per sottrarlo all’influsso di altri e più antichi popoli civili, non può mantenere la sua posizione di fronte ai fatti sempre più numerosi, più sicuri e più importanti che ogni giorno vengono alla luce. E quasi più nessuno si trova oggi che sia disposto a negare ciò che anche soltanto qualche diecina d’anni fa si contestava con ostinata, veemente sicurezza, che cioè i Greci debbano all’Oriente tanto gli elementi della civiltà materiale quanto i primi rudimenti dell’arte. La resistenza che una tale veduta ha incontrato per quel che concerne la scienza della religione è stata certo potentemente alimentata dagli studi prematuri, incompleti e partigiani, condotti senza alcun metodo dagli studiosi precedenti; anche questa corrente tuttavia, promossa da uomini eminenti, fra i quali fu anche il Lobeck, deve alla fine venir meno, e cedere il campo ad una valutazione spassionata ed imparziale dei fatti storici. Come mercenari e come mercanti, come marinai avventurosi e come pugnaci coloni, gli Elleni stabilirono ben presto, come abbiamo visto, molti e stretti contatti con popoli stranieri. Presso il fuoco dei bivacchi, nei bazar e nei caravanserragli, sulla coperta dei battelli alla luce delle stelle, o nell’ombra intima della stanza coniugale che così spesso l’emigrato greco divideva con l’indigena, avveniva uno scambio continuo d’idee in conversazioni le più varie, nelle quali sicuramente ci si intratteneva intorno alle cose celesti non meno che intorno a quelle terrene.

I sarcasmi previsti dal Gomperz non mancarono. Certo, il piglio un po’ fantasioso di questa rievocazione contribuì a suscitarli. E tuttavia, quando John Burnet osservava ironicamente che la sposa indigena dell’emigrato greco «non avrà probabilmente parlato di teologia con suo marito, e meno che mai di filosofia della scienza»,23 sbagliava completamente bersaglio. Il Gomperz, ben diversamente da un Gladisch o da un Röth, non faceva venire dall’Oriente i sistemi filosofici belli e fatti, ma certi culti e certe credenze religiose, o – su un altro piano – certi ritrovati tecnici; soltanto, a differenza degli intellettualistici Zeller e Burnet, egli sapeva che la filosofia, specialmente nella sua fase iniziale, si nutre di succhi non filosofici: perciò si rifiutava di porre barriere troppo rigide tra «speculazione» greca e «teosofia» orientale, tra «scienza pura» greca e «tecnica» orientale.24 Nel secondo Ottocento il concetto romantico di nazione assumeva sempre più una coloritura razzistica. L’originalità dell’arte e della filo23

iJ. Burnet, Early Greek Philosophy4, London 1930, p. 17, n. 2. iChe la maggior parte delle connessioni culturali e religiose tra Grecia e Oriente fossero ancora ipotetiche, il Gomperz lo sapeva e lo dichiarava con tutta franchezza (vedi specialmente I, pp. 87, 208 sg.). Ma l’importante era non assumere un atteggiamento di negazione p r e g i u d iz i a l e , dettato da motivi extrascientifici, che avrebbe scoraggiato e intralciato ulteriori ricerche. 24

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sofia greca veniva messa in relazione con la purezza razziale del popolo ellenico; la presunta decadenza filosofica dell’età ellenistica era attribuita alla mescolanza tra sangue greco e orientale. La testimonianza erodotea, secondo la quale Talete era di stirpe fenicia, veniva fatta segno a confutazioni più appassionate di quanto avrebbe richiesto il mero interesse per l’accertamento di un dato biografico: si trattava di liberare dalla taccia di semitismo il fondatore della filosofia europea. Thales ein Semite? era il titolo allarmistico di un articolo di Hermann Diels; ma le conclusioni erano rassicuranti: semita no di certo, caso mai di origine caria: ma i Carii, com’è provato dai più recenti studi, sono indeuropei!25 E il Diels era ancora uno degli studiosi tedeschi meno sciovinisti e antiliberali. Bisogna tener presente questa atmosfera, queste discussioni, per comprendere come mai il Gomperz si compiaccia ripetutamente di considerare come un elemento favorevole al progresso della civiltà, accanto ai contatti culturali tra i Greci e gli altri popoli, anche la mescolanza razziale, e all’esaltazione dei purosangue contrapponga polemicamente l’esaltazione dei mixobárbaroi: Talete, Tucidide, Antistene ...26 Questa lotta al razzismo condotta con le sue stesse armi era allora inevitabile: perfino il pensatore ottocentesco che meglio di ogni altro seppe distinguere tra razza, lingua e cultura, Carlo Cattaneo, non rinunciò a esaltare, contro gli etnologi razzisti, gli incroci tra stirpi diverse come fattori di miglioramento, fisico e culturale insieme, del genere umano.27 A questo superamento dell’etnicismo romantico e delle sue propaggini razziste il Gomperz fu portato – prima ancora che dalla sua consuetudine col pensiero illuministico e radicale inglese, su cui ritorneremo – dalla sua duplice condizione di cittadino dello stato austroungarico e di ebreo. La plurinazionalità dell’impero austriaco fu sempre considerata da lui come un elemento positivo: l’impero avrebbe dovuto liberalizzarsi e decentrarsi, ma non dissolversi in singoli stati 25 iL’articolo del Diels è in «Archiv fur Geschichte der Philosophie» II (1889), p. 165 sgg. Contro l’origine fenicia di Talete anche Zeller, trad. ital., parte I, vol. II, p. 103 n. 1. A favore, invece, W. Christ, Gesch. der griecb. Liter., I6, p. 622, e Schmid-(Stählin), I, p. 728 n. 6. È sintomatico che una delle pochissime critiche mosse dal Lortzing al primo volume dei Griechische Denker (in «Berliner philol. Wochenschr.», 1894, col. 520) riguardasse appunto il semitismo di Talete! 26 iCfr. I, pp. 8, 18, 73; II, pp. 338, 563. 27 iCfr. C. Cattaneo, Scritti economici, ed. A. Bertolino, II, p. 364.

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nazionali; meno che mai gli austro-tedeschi avrebbero dovuto lasciarsi sedurre dal miraggio della Grande Germania.28 Un punto di vista del tutto diverso, quindi, da quello della quasi totalità degli studiosi tedeschi suoi contemporanei, nazionalisti convinti. E gli ebrei, secondo il Gomperz, avrebbero dovuto rivendicare la fine di ogni persecuzione e menomazione di diritti, ma non per mantenersi come un gruppo a sé, con un proprio orgoglio etnico, bensì per assimilarsi con i popoli tra i quali vivevano ormai da secoli: di qui la sua ostilità al sionismo.29 La tragicità che il problema ebraico avrebbe riacquistato nel xx secolo, con le più feroci persecuzioni che mai fossero state, egli non era in grado di prevederla. 3. – Ma anche nel campo specificamente filosofico non esiste per il Gomperz lo «spirito greco» come unità organica; né la storia del pensiero greco si riduce allo svolgimento di un tema unico, con tre fasi successive di ascesa, apogeo e decadenza. Gli storici ottocenteschi anteriori al Gomperz consideravano tutto il pensiero pre-platonico come un processo di liberazione dal naturalismo. Ricalcando le orme dell’excursus autobiografico di Socrate nel Fedone e di un famoso passo della Metafisica aristotelica, essi esaltavano Anassagora come lo scopritore dello Spirito e insieme deploravano che nel suo sistema lo Spirito avesse ancora così poca parte. Vi erano, certo, delle varianti all’interno di questa impostazione generale: c’era un’ala destra che considerava il platonismo come il culmine del pensiero antico, con28 iQuesto punto di vista è espresso già nelle lettere giovanili al fratello Karl (Th. Gomperz 1832-1912, cit, pp. 49 sgg., 54, 58 sg.) ed è ribadito in Essays und Erinnerungen, pp. 30-32. Si ricordi che il Gomperz era nato e aveva passato la prima giovinezza a Brünn (Brno), tra popolazione prevalentemente cèca. 29 iVedi Der Zionismus, in Essays und Erinnerungen, p. 196 sgg. Il Gomperz abbandonò l’osservanza della religione ebraica fin dalla primissima giovinezza (ibid., p. 15) e non condivise mai l’ebraismo un po’ chiuso e misoneista – anche se moralmente molto elevato – del Bernays (ibid., p. 107 sgg., cfr. Pens. gr., II, p. 598); ma nemmeno volle sconfessare le proprie origini e aderire al cristianesimo per averne facilitata la carriera accademica (ibid., p. 24; Th. Gomperz 1832-1912, p. 469). Negli ultimi anni di vita del Bernays, il Gomperz si sentì più distaccato da lui anche per motivi politici, cioè per l’atteggiamento fortemente conservatore che si espresse nel libro del Bernays su Focione: cfr. Die Akademie und ihr vermeintlicher Philomacedonismus: Bemerkungen zu Bernays’ Phokion, in «Wiener Studien», IV (1882), p. 102 sgg. Ma in questo stesso saggio, pur nel dissenso, egli ribadiva la grandezza del Bernays (p. 102: «Starke Geister bewähren auch im Irren ihre Stärke»); né si può considerare questo articolo separatamente dall’ampia commemorazione del Bernays (in Essays und Erinnerungen, p. 106 sgg.) pubblicata l’anno prima, della quale abbiamo già citato sopra qualche passo (cfr. p. 434 e nota 16), e nella quale il giudizio complessivo sul geniale studioso è di schietta ammirazione.

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dannava nel modo più aspro gli atomisti e i sofisti, considerava Aristotele come troppo empirista; e c’era una tendenza meno estrema che ammetteva la validità della critica di Aristotele alla dottrina delle Idee e riconosceva alla sofistica almeno una funzione di stimolo critico30. Ma anche gli appartenenti a questa seconda tendenza misuravano pur sempre il valore dei vari filosofi greci in termini di spiritualizzazione della realtà, di passaggio (come diceva lo Zeller) dalla Naturbeobachtung alla Selbstbetrachtung,31 e svalutavano tutti quei movimenti di pensiero che non si inserivano in questa linea evolutiva: atomisti, cinici e cirenaici, epicureismo.32 Ben diverse valutazioni erano state date dagli «epicurei» dei secoli xv-xviii, cioè dai rivendicatori dell’atomismo in fisica, dell’edonismo in etica, e di una storia della civiltà che prendesse le mosse non da una rivelazione originaria, ma dalle origini ferine dell’uomo. Ma al principio dell’Ottocento l’ondata romantica e spiritualista aveva sopraffatto questa corrente di pensiero a cui tanto dovevano la scienza e la cultura moderna. La rivalutazione dell’epicureismo, intrapresa contro Hegel (anche se in un contesto ancora hegeliano) da Marx giovane, era rimasta ignorata. Ancora nel 1887 Hermann Usener, nel pubblicare la sua fondamentale edizione di Epicuro, teneva a separare le proprie responsabilità dall’epicureismo, e dichiarava (lui, storico del pensiero e della civiltà antica, ostile al puro filologismo) che a studiare quei testi era stato mosso da un interesse meramente tecnico: «Epicuro ut operam darem, non philosophiae Epicureae me admiratio commovit, sed, ut accidit homini grammatico, librorum a Laertio Diogene servatorum obscuritas et difficultas».33 Bisogna arrivare al Gomperz per vedere finalmente quei motivi illuministici ripresi, sottrat30 iII più tipico rappresentante dell’«ala destra» in Germania è lo Schleiermacher (Gesch. der Philosophie, in Sämmtliche Werke, III. Zur Philosophie, IV, 1, Berlin 1839, pp. 72, 87, 113 sgg.); ma anche il Böckh è molto più unilateralmente filoplatonico e antiaristotelico di quanto farebbe supporre la sua concezione generale della scienza dell’antichità (cfr. Encyklopaedie und Methodologie der philol. Wiss.2, Leipzig 1886, p. 604 sgg.). Recisamente ostile a Democrito e ai sofisti è anche H. Ritter (Gesch. der Philos., I), il quale, però, tende a una svalutazione generale del pensiero greco nei confronti di quello cristiano e moderno. La tendenza più moderata è invece rappresentata da Hegel e dallo Zeller. 31 iE. Zeller, Die Philos. der Griechen, II, I5, Leipzig 1922, p. 37. 32 iSi veda, per esempio, con quale difficoltà (da lui stesso onestamente e un po’ ingenuamente confessata) lo Zeller riuscisse a collocare nel suo schema i «socratici imperfetti», ossia i cinici, i cirenaici e i megarici (op. e vol. cit., p. 42). 33 iVedi, a proposito di questa dichiarazione dell’Usener, le giuste osservazioni di G. Arrighetti nella già citata edizione di Epicuro, p. XII | 2a ed., p. XVI sg.| .

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ti al fuoco della polemica immediata, verificati filologicamente e sistemati in una vasta (anche se, purtroppo, incompiuta) opera storica. Il pensiero presocratico, per il Gomperz, ha valore non come primo ingenuo tentativo di cercare nello studio del mondo esterno la soluzione di un problema che il pensiero può cogliere solo ripiegandosi su se stesso, ma proprio come inizio di investigazione scientifica della natura, e quindi liberazione dal mito, conquista di una visione laica della realtà. Il punto culminante di questo progresso dello spirito scientifico è rappresentato dagli atomisti;34 la sua larga diffusione in tutta la cultura greca è merito dei sofisti. Il giudizio tradizionale su Anassagora è rovesciato dal Gomperz: «La verità è che se egli avesse agito altrimenti, se (come vorrebbe Platone ...) avesse compiuto la sua investigazione ponendosi esclusivamente dal punto di vista del ‘migliore’, se, perciò, a proposito di qualsiasi fatto particolare si fosse domandato non già in qual modo e in quali circostanze esso abbia luogo, ma perché e a qual fine, se egli avesse fatto questo, il suo contributo al tesoro dell’umana conoscenza sarebbe stato incomparabilmente più modesto che non sia stato di fatto. Ma egli seppe evitare questo falso cammino ...» (I, p. 328). La svolta che il pensiero greco compie con Socrate e con Platone segna per molti aspetti un grande approfondimento della consapevolezza critica e pone nuovi problemi, destinati a rimanere per secoli al centro del pensiero europeo; ma nello stesso tempo costituisce un arresto di quel processo di laicizzazione della cultura e d’incremento dello spirito scientifico che era stato portato avanti dai presocratici. L’ammirazione vivissima che il Gomperz ha per Platone è rivolta in particolar modo alla sua capacità di autocriticarsi e di rinnovarsi,35 alla sua concezione della filosofia come ricerca e non possesso della verità; ma l’antisperimentalismo, la svalutazione delle scienze naturali connessa col disprezzo per le attività 34 iII Gomperz errò senza dubbio nel negare la derivazione di Leucippo dalla scuola eleatica (II, pp. 65, n. 1; 106 sg.: su questo punto bene il Burnet, Early Greek Philosophy4, p, 334, n. 1). Rimane tuttavia vero che l’atomismo è «il frutto ormai venuto a maturazione dell’albero dell’antica dottrina della materia quale era stata concepita e sviluppata dai filosofi naturalisti della Ionia» (II, p. 74); così come rimane un merito del Gomperz l’aver sostenuto (contro lo schema cronologico e logico tradizionale, seguito ancora dallo Zeller) che Parmenide è posteriore ad Eraclito e polemizza contro di lui (I, p. 255 sgg.). 35 iVedi III, pp. 518 sgg., 531, e cfr. la prefazione al vol. II dell’edizione tedesca, purtroppo omessa nell’edizione italiana.

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tecniche e artigianali, sono indicati esplicitamente come gli «aspetti oscuri» del pensiero platonico.36 La forza del pensiero aristotelico consiste, per il Gomperz, nel suo interesse per le scienze della natura e nella sua capacità di classificare e comparare. I concetti aristotelici basilari (materia-forma, potenzaatto, entelechia), che costituiscono uno sforzo poderoso di superare il dualismo platonico, trovano la loro più feconda applicazione nello studio degli organismi viventi: «La vera patria di queste categorie è la vita della natura, in particolare la vita organica, che offre, tanto nei gradi dell’accrescimento quanto nella scala degli esseri, una progressiva realizzazione di germi dapprima rudimentali e di disposizioni solamente accennate» (IV, p. 125). Per quanto contestata da studiosi posteriori,37 questa intuizione del Gomperz rimane, mi sembra, del tutto valida. Il biologismo è la grande forza di Aristotele ed è, insieme, un suo limite; molti punti deboli della Fisica e della Politica sono il risultato dell’applicazione troppo immediata di concetti biologici alla natura inorganica da un lato, alla società umana dall’altro. Il Gomperz ha visto più chiaramente, direi, i limiti di Aristotele studioso del mondo fisico (IV, capp. VII, XI, XII) che quelli di Aristotele studioso del mondo umano. A quella prima intuizione di un Aristotele che eccelle soprattutto nello studio della natura organica (e più nell’anatomia che nella fisiologia) se ne sovrappone talvolta un’altra, di una sempre maggiore acutezza di Aristotele a mano a mano che il suo sguardo si sposta dal mondo inorganico verso il mondo umano: l’Etica, la Politica, la Retorica sarebbero tuttora più vive e attuali delle opere biologiche, per il semplice fatto che le «scienze morali» avrebbero compiuto, dall’età di Aristotele ad oggi, progressi meno grandi e incontestabili che le scienze della natura!38 Qui, senza dubbio, il criterio attualizzante del Gomperz finisce per deformare l’esatto giudizio storico che egli stesso aveva formulato. Anche nelle opere biologiche, del resto, l’amore di Aristotele per l’osservazione e l’esperienza è contrastato da una persistente tendenza all’apriorismo. Il Gomperz fa risalire questo contrasto a due diverse fonti: da un lato l’eredità dei medici Asclepiadi, antenati di Aristotele, 36

iIII, pp. 367 sg., 569 e passim. iSpecialmente da W. Jaeger, Aristotele, trad. it., p. 524. 38 iCfr. IV, pp. 187, 670. 37

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dall’altro l’influsso dell’insegnamento di Platone: «II Platonico e l’Asclepiade» è il titolo di due capitoli dedicati all’esame di queste oscillazioni del pensiero aristotelico.39 Lo Jaeger ha obiettato che anche il gusto per le scienze della natura venne ad Aristotele non dal padre medico – che morì troppo presto per potersi occupare della sua educazione –, non da un molto ipotetico abito mentale ereditario, ma dalla stessa Accademia platonica, in cui, specialmente negli ultimi anni di vita del maestro, vi fu un grande fervore di studi scientifici.40 Questo è vero, e il Gomperz, che agli interessi di Platone vecchio e di Speusippo per la classificazione scientifica dedicò pagine di grande acutezza e suggestività,41 non lo avrebbe negato. Ma quella formula «Platonico e Asclepiade» rimane efficace ad indicare l’assiduo sforzo di Aristotele per liberarsi dall’apriorismo prepotente di Platone: uno sforzo non del tutto vittorioso, giacché su molte questioni (esistenza o no del vuoto, sede del pensiero nel cuore o nel cervello, geocentrismo o eliocentrismo) Aristotele rimane indietro a taluni suoi predecessori; e spesso, come il Gomperz mette in rilievo, all’apriorismo platonico si allea in Aristotele una specie di ossequio al senso comune e alle opinioni correnti.42 Il peso di queste concezioni erronee si farà sentire per secoli e secoli, e non varrà a diminuirlo il fatto che gli immediati successori di Aristotele (Teofrasto, Stratone di Lampsaco) si riattacchino assai più all’«Asclepiade» che al «Platonico», sviluppando le idee del maestro in senso più decisamente empiristico.43 4. – Nonostante il vivissimo interesse del Gomperz per la storia della scienza greca, non è giusta l’accusa di scientismo che tante volte gli è stata mossa, se per scientismo s’intende la riduzione di tutta la cultura a modelli fisico-matematici e biologici. I problemi morali, politici, estetici appassionano il Gomperz non meno di quelli scientifici. Risulta evidente, anzi, che egli lavora assai più di prima mano quando tratta la storia di questi problemi, e che la scienza greca non lo interessa tanto in sé e per sé (a differenza, per esempio, che in un Tannery o in uno Schiaparelli), quanto per il suo contributo a un processo di 39

iIV, capp. VI-VII. Ma lo stesso motivo ritorna anche in altri capitoli. i«Deutsche Literatur-Zeitung», 1932, col. 734. 41 iIII, p. 519 sgg.; IV, p. 4 sgg. 42 iIV, pp. 83 sg., 87, 89 sgg., 153 sgg., 194 sg, 303 sgg. ; cfr. II, p. 132 sg. 43 iIV, pp. 683 sgg., 740 sgg. 40

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laicizzazione generale della cultura e della vita umana, a cui hanno validamente cooperato anche altre attività culturali, a cominciare dalla storiografia. «Lo studio della natura non fu la sola via per la quale il popolo greco venne attuando il proprio affrancamento spirituale»; così comincia il capitolo dedicato agli storici,44 nel quale è illustrata – per la prima volta in una storia della filosofia – la parte importantissima che in tale affrancamento ebbero i logografi ed Erodoto, col loro razionalismo e relativismo storico-etnografico. E tra i capitoli più riusciti sono certamente quelli su «Gli inizi della scienza dello spirito», sui «Mutamenti delle credenze e dei costumi» nel quinto e quarto secolo, su «Atene e gli ateniesi»: cioè su tutto quel movimento d’idee e quel fervore di polemiche – imperniate sull’antitesi nomos-physis – che sconvolsero le concezioni tradizionali sull’origine dello stato, del linguaggio, della civiltà: polemiche inconcepibili al di fuori del clima democratico che seguì alla vittoria nelle guerre persiane.45 Il Gomperz, insomma, è perfettamente consapevole che la «laicizzazione» è sempre un processo sociale-culturale e non puramente scientifico. Non solo: egli si rende conto che, anche da un punto di vista radicalmente antimetafisico, sarebbe un grave errore considerare i movimenti religiosi solo come un aspetto negativo della storia della cultura greca. Anche in Grecia, come in tutto il corso storico posteriore, fino ad un passato molto recente, il progresso culturale è avvenuto non solo attraverso prese di posizione schiettamente laiche, ma anche attraverso la lotta per conquistare una religiosità più pura, più adeguata a nuove esigenze. Quindi il Gomperz riconosce, per esempio, a quel complesso movimento religioso che si indica genericamente come «orfismo» tutta l’importanza che esso merita, anche se non passa sotto silenzio «l’ombra di quella luce», «l’intimo dissidio della personalità (...), l’ostilità dichiarata alla natura e il rinnegamento ascetico delle sue esigenze anche salutari o innocenti», che quelle dottrine implicavano e che esse tramandarono a Platone e poi al Cristianesimo.46 E anche qui lo sguardo dello storico discende fino al sostrato 44 iI, p. 385. Preferisco rendere Naturforschung con «studio della natura» che con «ricerca naturalistica» (così il Bandini). 45 iII, pp. 159 sgg., 363 sgg., 401 sgg. 46 iI, p. 209 sgg.; cfr. I, p. 380; III, pp. 255 sgg,, 668 (molto acuta e precorritrice, in quest’ultimo luogo, l’osservazione sul valore antiscolastico e antidogmatico che hanno avuto certe correnti mistiche dell’antichità e del Rinascimento). Ben diversa, e veramente scientistica, è la posizione del Burnet, Early Greek Philosophy4, p. 83 sg.

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sociale di questo movimento religioso: «La crisi religiosa si mostra come un riflesso della crisi sociale. Essa ci appare come un fatto concomitante delle lotte di classe che agitarono il vii secolo e parte del vi. Fu, anche allora, la dura necessità dei tempi che insegnò a pregare. Furono specialmente le vittime della conquista e dell’oppressivo regime oligarchico che furono indotte dalla loro condizione a gettare uno sguardo pieno di accorata speranza nell’al di là, ripromettendosi di ottenere dalla divinità la ricompensa per le ingiustizie ed i mali che dovevano sopportare sulla terra. Certo è che l’orfismo prese radice in mezzo alle classi medie e popolari, e non a quelle nobiliari ...» (I, p. 210). Senza dubbio questo angolo visuale può apparire troppo ristretto: l’uomo fu ed è indotto a pregare non soltanto dall’oppressione sociale, ma anche dall’oppressione esercitata su di lui dalla natura. Ma quanto arretrati, rispetto al Gomperz, quegli studiosi più recenti di lui che hanno creduto di far storia della religione greca partendo da nozioni acritiche come il sacrum o il «numinoso»! Anche la qualifica di «positivista», che viene data comunemente al Gomperz, è troppo generica e può facilmente indurre in errore. Alla corrente materialistica del positivismo (il cosiddetto materialismo volgare di Büchner, Moleschott, Haeckel, Vogt) il Gomperz, come risulta da parecchi accenni nei Pensatori greci,47 è estraneo e piuttosto ostile: direi troppo ostile, perché credo che al materialismo volgare ottocentesco (i cui aspetti negativi non hanno bisogno di essere illustrati) vada pur riconosciuto il merito notevole di aver combattuto, in modo più netto e radicale che lo stesso marxismo, contro ogni concezione antropocentrica, e di aver posto l’accento sul condizionamento dell’uomo da parte della natura. Anche nei riguardi del darwinismo (e, a maggior ragione, del più generico evoluzionismo spenceriano) il Gomperz mantiene un atteggiamento più riservato di quello che ci potremmo aspettare e che sarebbe giusto. Segnala, sì, i precursori antichi dell’evoluzionismo, e svela il carattere illusorio di alcuni pre47 iVedi per esempio II, p. 135 (allusione ai «manualetti» coi quali si fa propaganda di materialismo in forma «popolare»), 614 («quei pensatori che tentano di fondare l’etica sulla zoologia»); III, p. 306 («quella confusione d’idee che fa considerare le funzioni psichiche stesse come qualche cosa di corporeo»: allude evidentemente alla famosa frase di Vogt sul «pensiero secrezione del cervello», la quale, del resto, era stata già criticata anche da un materialista come Büchner). È significativo che il Gomperz, mentre cita quasi tutti i pensatori suoi contemporanei, non nomini mai né Moleschott, né Büchner, né Vogt, né Haeckel.

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tesi precorrimenti;48 ma in complesso si sente che egli è già sotto l’influsso di quell’ondata antidarwinistica che, per effetto dei nuovi studi di genetica e del discredito provocato da talune generalizzazioni troppo frettolose e superficiali dell’evoluzionismo, si sollevò nell’ultimo Ottocento e ai primi del Novecento.49 Perfino il punto di vista teleologico nello studio della natura vivente, pur non ottenendo certo l’assenso del Gomperz, non è respinto da lui con assoluta decisione.50 Nelle filosofie sistematiche dell’Ottocento, fossero esse di tendenza materialistica o idealistica, il Gomperz sentiva odore di metafisica e di romanticismo: la Naturphilosophie di uno Schelling o di un Oken, l’hegelismo, l’evoluzionismo, il marxismo finivano perciò con l’essere coinvolti da lui, molto sommariamente, in un unico atteggiamento di diffidenza.51 È significativo che il solo pensatore tedesco del primo Ottocento che il Gomperz citi frequentemente, e con assenso, sia l’antihegeliano Wilhelm von Humboldt. Ma soprattutto, data la sua formazione illuministica, il Gomperz trovò appagamento nell’empirismo inglese, cioè in quella corrente di pensiero che continuava direttamente l’illuminismo settecentesco. Racconta egli stesso come, a poco più di vent’anni, gli capitò tra le mani l’Analysis of the Phenomena of the Human Mind di James Mill; come vi trovò quello che da tempo cercava, «una descrizione della vita spirituale che prescindesse da qualsiasi concezione trascendente od ontologica»; come la lettura di Mill padre lo invogliò a cercare e a studiare le opere del figlio, John Stuart, 48

iCfr. I, pp. 86, 369 sg.; III, pp. 570, 599 sg.; IV, pp. 223 sg., 321 n. 1. iII, p. 136: «... benché le previsioni che aveva fatto nascere due generazioni fa il tentativo di soluzione del Darwin siano in parte venute meno in conseguenza di ulteriori ricerche»; IV, p. 190: «... cerchiamo una soluzione che, nonostante Lamarck, Wallace e Darwin, non abbiamo affatto raggiunto». Cfr. anche III, p. 246, contro la gnoseologia evoluzionistica dello Spencer. Ciò nonostante, il Gomperz mostra simpatia per la teoria della formazione dei principii e sentimenti morali nell’uomo attraverso l’evoluzione biologica, che gli appare un superamento dell’etica immediatamente edonistica: cfr. II, p. 688 sg., e anche II, p. 638. 50 iCfr. II, p. 135; IV, p. 190 sg. 51 iCfr. II, pp. 25, 37 (su Schelling e Oken), 660 («Come, fra il quarto e il quinto decennio del secolo xix, il grandioso sviluppo delle scienze della natura ha, quasi senza lotta, banditi i sistemi aprioristici di uno Schelling e di un Hegel ...»). Sulla sua avversione all’hegelismo vedi anche Essays und Erinnerungen cit., p. 15 (una breve fase di hegelismo giovanile sembra attestata da alcuni scritti riportati in Th. Gomperz 1832-1912 cit., pp. 38 sg., 43 sgg.; ma in ogni caso essa non lasciò traccia nel pensiero del Gomperz maturo). Sull’evoluzionismo vedi qui sopra, nota 49. Di Marx sembra – a giudicare dall’unico accenno in Essays und Erinnerungen, p. 38 – che il Gomperz abbia avuto una conoscenza assai superficiale, anche se, per via indiretta, sentì l’influsso del metodo storiografico marxista (vedi il passo cit. sopra, p. 446; e più sotto, pp. 456-457). 49

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il cui nome egli aveva già visto citato nella Storia greca del Grote.52 Da allora John Stuart Mill rimase per il Gomperz il filosofo per eccellenza, colui che, riassumendo in sé il meglio di tutta la tradizione illuministica, aveva definitivamente liberato la mente umana dai pregiudizi della realtà extrafenomenica e della morale basata su imperativi assoluti e trascendenti: «fenomenismo», utilitarismo e determinismo erano i tre punti fondamentali del pensiero filosofico del Mill, accolti dal Gomperz.53 Dal 1869 all’80 il Gomperz spese buona parte del suo tempo a tradurre le opere del Mill in tedesco (con vari collaboratori, tra i quali figura anche Sigmund Freud, allora ventiquattrenne),54 e pochi anni prima gli aveva dedicato l’edizione del De pietate di Filodemo (Philodem, Über die Frömmigkeit, Leipzig 1865). Nei Pensatori greci il Mill è, tra i filosofi moderni, di gran lunga il più citato; e influssi si possono scorgere anche dove non è citato. In III, p. 580, a proposito dell’«anima mundi cattiva» a cui si accenna nelle Leggi di Platone, il Gomperz osserva, in polemica col Böckh: «Non torna a piccolo onore del pensatore poeta il fatto che la sua anima d’artista assetato di bellezza non lo rese cieco ai mali del mondo, e gli permise di riconoscere coerentemente che, data l’esistenza di tali mali, la bontà assoluta della divinità era inconciliabile con la sua onnipotenza». Mi sembra evidente che qui c’è un richiamo alla ben nota tesi di Mill, che Dio, per essere infinitamente buono, non può essere onnipotente. Il laico Gomperz, beninteso, non credeva né nel Dio onnipotente né nel 52 iEssays und Erinnerungen, p. 33 sgg.; cfr. ibid., p. 87 sgg. («Zur Erinnerung an J. S. Mill», 1873); Th. Gomperz 1832-1912, passim; F. Heinemann, Th. Gomperz und J. S. Mill, in «Philosophia», III (Beograd 1938), p. 188 sgg.; Adelaide Weinberg, Th. Gomperz and J. S. Mill, in «Cahiers V. Pareto», II (1963), p. 145 sgg. (con molto materiale inedito). 53 iEssays und Erinnerungen, p. 34 (dove fra l’altro, il Gomperz rivendica a sé la creazione del termine Phänomenalismus). Professioni di empirismo, dichiarazioni polemiche contro ogni ontologia si incontrano ripetutamente nei Pensatori greci (ad esempio II, p. 44; III, p. 374, n. 1 ecc.). Quanto al determinismo, vedi soprattutto IV, capp. X e XVI. 54 iCfr. E. Jones, Vita e opere di Freud, trad. it., Milano 19663, I, pp. 87, 409; III, p. 494; Ph. Merlan, in «Journ. of History of Ideas», VI (1945), p. 375 sgg.; e il mio Lapsus freudiano, Firenze, rist. 1975, p. 166. Ma sui rapporti Gomperz-Freud ci sarebbe ancora da indagare. L’accenno di E. Funari, II giovane Freud, Firenze 1975, p. 137, dimostra solo l’incompetenza dell’autore in questo campo e il suo cattivo compilare da fonti in lingue straniere: il Funari parla dell’«editore Theodor Gomperz (noto anche come storico)», cioè trasforma in «editore» l’editor, ossia il «curatore» della traduzione tedesca delle opere di Mill, le quali diventano, nella sua prosa, «la Gesammelte Werke di John Stuart Mill». Non sarebbe male che certi psicanalisti, se vogliono occuparsi di storia della psicanalisi, si munissero di una elementare preparazione storico-culturale, possibilmente non di seconda mano.

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Dio di Mill. Ma riconosceva l’esigenza morale che aveva spinto il pensatore inglese a quella singolare concezione della divinità; e scorgeva la stessa esigenza nella teoria platonica delle due animae mundi. Accanto all’influsso del Mill, si fece sentire sul Gomperz anche quello di Auguste Comte. Scolaro del Comte, benché scolaro tutt’altro che pedissequo, era Émile Littré, il grande studioso della medicina greca che guidò le prime ricerche del Gomperz sul Corpus Hippocrateum. Tuttavia, in confronto al Mill, il Comte fu sempre considerato dal Gomperz un astro di seconda grandezza:55 la sua filosofia della storia non poteva non apparirgli inficiata da arbitrio metafisico e da eccessivo schematismo. Soltanto nel campo politico-sociale, come vedremo tra poco, egli finì col preferire al Mill il fondatore del positivismo francese. Dato questo suo orientamento empiristico, si comprende come il Gomperz accogliesse con favore, fin dal suo primo apparire, la filosofia di Ernst Mach, e come facesse di tutto per facilitare al Mach (fisico e fisiologo, non ben visto dai filosofi professionali austriaci) la carriera universitaria.56 Le storie della filosofia, là dove trattano dell’empiriocriticismo, dedicano un cenno a Heinrich Gomperz e al suo Pathempirismus, ma tacciono di Theodor Gomperz. Eppure da un’indagine un po’ meno limitata ai soli «filosofi teoretici», un po’ più largamente storico-culturale, dovrebbe risultare, credo, che proprio Theodor Gomperz, con la traduzione del Mill e gli scritti dedicati a diffonderne le idee, costituì un importante trait d’union fra l’empirismo inglese e l’empiriocriticismo austriaco; e che Heinrich Gomperz, anche come teorico, fu allievo di suo padre (sia pure allievo ben presto renitente), prima ancora che del Mach. Non mancano, nei Pensatori greci, giudizi storici dettati da un empirismo a tinta agnostica e antimaterialistica, quale fu l’empirismo del Mach e, ancor più, dei suoi successori. Democrito è esaltato soprattutto per aver asserito il carattere soggettivo di quelle che saranno più tardi chiamate le qualità secondarie; all’atomismo è riconosciuto un grande valore euristico e metodologico, ma le sue pretese ontologiche, 55

iCfr. Essays und Erinnerungen, pp. 89 (con la nota 13 a p. 235), 97 sg. iCfr. «Archiv für die Geschichte der Philosophie» (Ia sezione dell’«Archiv fiir Philosophie»), XXIX (1916), p. 316. Mill e Mach sono citati insieme nei Pensatori greci, II, pp. 698, n. 2; 699 (per le altre citazioni dal Mach vedi l’indice dei nomi). 56

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secondo il Gomperz, sono da considerarsi come una manifestazione di realismo ingenuo.57 In sede di teoria della conoscenza, i prediletti del Gomperz non sono gli atomisti, ma Protagora e soprattutto i Cirenaici.58 Significativo è anche un passo riguardante l’ultimo filosofo greco trattato dal Gomperz, Stratone di Lampsaco. A proposito della testimonianza di Cicerone, secondo la quale Stratone dichiarava di non ricorrere agli dèi per spiegare l’origine dell’universo, il Gomperz si chiede (IV, p. 745): «Stratone ha ideato una cosmogonia in cui non ammetteva interventi soprannaturali? Oppure ha creduto che tale argomento fosse sottratto all’intelligenza umana e si è accontentato di descrivere i fenomeni effettivamente osservati e di ricondurli a leggi naturali?». E, nonostante che le parole di Cicerone (negat opera deorum se uti ad fabricandum mundum: quaecumque sint, omnia effecta esse natura) non lascino in realtà alcun dubbio, egli simpatizza per la tesi agnostica: «II senso letterale di quella testimonianza di Cicerone è in favore della prima alternativa; il robusto senso della realtà che troviamo in Stratone e il suo rifuggire da avventure intellettuali quali erano i ‘sogni’ di Democrito, sono in favore della seconda».59 Tuttavia questi sono accenti isolati: la punta dell’empirismo di Theodor Gomperz è rivolta, in generale, non contro il materialismo, ma contro le metafisiche spiritualistiche, e quindi, per ciò che riguarda il pensiero antico, soprattutto contro il platonismo. Dagli sbocchi idealistici del pensiero di fine Ottocento lo tenne lontano il suo amore per le scienze della natura, il suo rigido determinismo e la sua profonda ostilità per ogni filosofia del soggetto assoluto, dell’Io con la maiuscola; dagli sbocchi neopositivistici, il suo gusto per la storia integrale della civiltà e la sua diffidenza per i pericoli di apriorismo insiti nella matematica e nella logica formale.60 Questa diffidenza va, anzi, tanto oltre da renderlo quasi indifferente alle grandi conquiste della matematica greca, a cui nei Pensatori greci sono dedicati accenni troppo 57

iVedi II, pp. 119 sg., 129. iII, pp. 268 sgg., 690 sgg. Cfr. Essays und Erinnerungen, p. 34: «Diesem meinem Standpunkt (il fenomenismo), der schon jener der alten Kyrenaïker gewesen ist ...». 59 iL’accenno ai «sogni» si riferisce a una critica mossa da Stratone a Democrito a proposito delle differenze di forma degli atomi (Cic., Lucull. 121; il Gomperz ne tratta a p. 741). 60 iOltre ai capitoli dei Pensatori greci dedicati alla logica aristotelica, si veda l’edizione del Περ σηµεων κα σηµεισεων di Filodemo, intitolato dal Gomperz «Philodem über Induktionsschlüsse» (Herkulanische Studien, I, Leipzig 1865) e considerato come un antecedente della logica induttiva di John Stuart Mill. 58

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rapidi e sommari. La consapevolezza dei danni – certamente gravi – che la forma mentis deduttiva arrecò alla ricerca sperimentale presso i Greci,61 finisce con l’offuscare il riconoscimento dell’immenso valore di quelle conquiste. Ma più che per la storia dei problemi gnoseologici, l’adesione del Gomperz al pensiero dei «radicali» inglesi si rivela feconda per la storia dell’etica antica. Qui appare ancor più evidente l’ispirazione illuministica che pervade tutta l’opera, il suo ricongiungersi alle correnti di pensiero «epicureo» del Sei-Settecento. Esattamente al contrario, per esempio, di uno Schleiermacher, il Gomperz rivolge il suo interesse più vivo a quei pensatori che si sforzano di secolarizzare la morale, di rintracciarne le radici utilitaristiche: ai Cirenaici in primo luogo, e poi anche all’etica aristotelico-teofrastea, nemica del rigorismo e dell’ascetismo, piena di indulgente curiosità per i vari caratteri umani, desiderosa veramente di comprendere più che di ammonire o esecrare.62 Nella personalità stessa di Socrate – alla quale sono dedicati alcuni capitoli tra i più riusciti di tutta l’opera – il Gomperz mette in risalto non tanto gli aspetti religiosizzanti, quanto l’utilitarismo etico, l’identificazione di bene e piacere. Questo interesse per i «caratteri morali» si rivela anche nei cenni biografici sui vari pensatori, nei riferimenti, sempre felicissimi, alla loro personalità umana. Dal difetto che il Gomperz rimprovera giustamente alle Platonische Studien del Bonitz (III, p. 503: «l’immagine di Platone che ci viene incontro in quest’opera difetta troppo dei colori del tempo e del luogo, e troppo altresì di determinatezza individuale») i Pensatori greci sono del tutto immuni: sia che si tratti di grandi personalità come Platone o Aristotele, sia di mediocri come Senofonte, il Gomperz sa coglierle in tutta la loro complessità e ricchezza di sfuma61 iCfr. IlI, p. 374: «Lo spirito di Platone, nutrito di dialettica e di matematica, è preso dall’ebbrezza che produce di solito l’esercizio esclusivo o preponderante delle scienze deduttive, e che ognuno può sperimentare direttamente, ove si lasci prendere interamente, per un tempo abbastanza lungo, dallo studio della teoria delle funzioni, o di un’altra branca della matematica superiore» (così pure III, p. 571, dove l’influsso dei Pitagorici su Platone è considerato soltanto nel suo aspetto negativo). Ai propri studi matematici giovanili e, insieme, alla sua scarsa propensione per essi, il Gomperz accenna in Essays und Erinnerungen, p. 25: «Ich studierte höhere Mathematik (zu der ich nur geringe Befähigung besass) unter der Anleitung des Professors am Polytechnikum Simon Spitzer, eines der besten, ja hinreissendsten Lehrer, die man sich denken kann». 62 iII, p. 669 sgg.; IV, pp. 351 sgg., 707 sgg., 733 sgg.

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ture. Il capitolo su Senofonte è, sotto questo riguardo, un piccolo capolavoro. Anche qui viene spontaneo il confronto con l’opera dello Zeller, in cui non vi è una sola figura viva, ma solo dottrine spersonalizzate. Soprattutto per ciò che riguarda la storia dell’etica greca dobbiamo rimpiangere che il Gomperz, giunto alla soglia degli ottant’anni, con un’opera che gli era via via cresciuta oltre il previsto, sia stato costretto a modificare il piano iniziale e a rinunziare alla trattazione della filosofia ellenistica.63 Del tutto a torto lo Jaeger,64 partendo dal solito preconcetto di un Gomperz «scientista», riteneva che quest’ultima parte dell’opera, se fosse stata scritta, sarebbe riuscita inferiore alle precedenti. La filosofia post-aristotelica doveva apparire come una lunga decadenza a quegli storici speculativi che vedevano l’akmé del pensiero greco in Platone o in Aristotele: non già al Gomperz, che aveva iniziato, come si ricorderà, la sua carriera di studioso con la pubblicazione di testi epicurei e che considerò sempre Epicuro (il pensatore in cui erano confluiti gli insegnamenti di Democrito e di Aristippo) come uno dei suoi autori prediletti.65 Più lontano, certo, egli si sentiva dall’etica (e dalla logica) degli Stoici; e tuttavia a questi pensatori riconosceva il grande merito storico di aver riaffermato, nel nuovo clima creato dalle conquiste di Alessandro e dalla formazione delle monarchie ellenistiche, gli ideali cosmopolitici già proclamati da alcuni sofisti e dai Cinici.66 No, l’opera del Gomperz non era arrivata al suo termine «naturale» con Stratone di Lampsaco: le anticipazioni contenute nei primi volumi e in altri scritti del Gomperz ci autorizzano a supporre che alcuni tra i capitoli più impegnativi e originali dovessero ancora venire. 63 iCfr. IV, prefazione. Il cap. XLIV del vol. IV avrebbe dovuto costituire l’introduzione ad un’opera sul pensiero ellenistico; fu Heinrich Gomperz che lo collocò in fondo all’edizione da lui curata dei Pensatori greci. 64 iIn «Deutsche Literatur-Zeitung», 1932, col. 732: «Die griechische Philosophie des Hellenismus und der Kaiserzeit war, mit den Augen eines Anhängers von John Stuart Mill betrachtet, restloser Verfall – Ausnahmen wie Poseidonios ändern daran nichts –, und Gomperz hätte sie schwerlich konsequent aus dieser negativen Einstellung schreiben können». A giudicare da queste parole, si direbbe che lo Jaeger ignorasse completamente l’interesse del Gomperz per Epicuro. 65 iVedi Tb. Gomperz 1832-1912, pp. 316 sgg. Scrive Heinrich Gomperz (ivi, p. 318): «Schüler erzählen mir, dass sein Vortrag nie so ergreifend war, als wenn er im Kolleg Lucrez rezitierte, ja dass ihnen dabei die Tränen ins Auge traten». Cfr. gli accenni a Epicuro nei Pensatori greci, specialmente II, pp. 122, 184 sg. 66 iCfr. II, p. 592 sg.; IV, p. 759 sg.

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5. – Un’opera come questa non poteva non riserbare ampio spazio alla storia del pensiero politico greco e all’esame delle concrete situazioni politico-sociali che ne avevano costituito il sottofondo. Ora, esisteva già una storia politica greca ispirata alle idee dei «radicali» inglesi: la grande opera di George Grote. Lì per la prima volta la democrazia ateniese era esaltata senza riserve, contro una tradizione ostile che da Platone, si può dire, era giunta con pochissime interruzioni fino ai primi dell’Ottocento e che aveva avuto in Inghilterra i suoi ultimi rappresentanti in John Gillies e, ancor più, in William Mitford.67 Né il Grote si era limitato alla storia politica in senso stretto: la sua valutazione positiva della sofistica, benché troppo dominata dalla preoccupazione di difendere la «rispettabilità morale» dei sofisti (tanto che il Grote finiva col mettere un po’ in ombra l’originalità e il radicalismo di questi pensatori pur di renderli accetti al lettore bempensante), costituì senza dubbio un primo passo decisivo sulla via che poi sarebbe stata percorsa dal Gomperz.68 Anche i saggi del Grote su Platone e Aristotele, assai meno originali della Storia greca, offrirono al Gomperz un modello di esposizione chiara ed equilibrata, pur suscitando il suo ben motivato dissenso su parecchie questioni particolari.69 L’ammirazione che il Gomperz aveva provato alla prima lettura della Storia del Grote, e che si era ancora accresciuta in seguito alla conoscenza personale del grande storico, rimase vivissima anche negli ultimi anni.70 Tuttavia nel campo politico-sociale – e quindi anche nella 67 iCfr. A. Momigliano, G. Grote and the Study of Greek History, in Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955, p. 213 sgg. (specialmente p. 217 sgg. sui rapporti tra il Grote e i radicali inglesi). Secondo una testimonianza di John Stuart Mill riferita dal Gomperz (Essays und Erinnerungen, p. 87 e n. 4 a p. 234), l’idea di scrivere una storia greca sarebbe stata suggerita al Grote da James Mill. La diversa testimonianza della moglie di Grote sembra meno attendibile: cfr. Gomperz, l. cit., e Momigliano, p. 218. 68 iII Grote (Hist. of Greece, VIII, cap. 67) polemizzava soprattutto contro le storie della filosofia del Ritter e del Brandis e i commenti a Platone dello Stallbaum. Una tesi fondamentale del Grote, ripresa dal Gomperz, è che i sofisti non costituiscono un’unica scuola (cfr. Pens. greci, II, pp. 212, 229). 69 iVedi per esempio IlI, pp. 62 n.; 64 n.; 110 e n. 1; 191, n. 1; 414; IV, pp. 28, n. 2; 290, n. 1, e altrove. 70 iVedi Th. Gomperz 1832-1912, pp. 337 sgg. (nel ’63, subito dopo averlo conosciuto, scriveva alla sorella: «Ich hatte Grote gegenüber unter Anderem auch das Gefühl, dass er mir an blosser A u f k l ä r u n g ausserordentlich überlegen ist», p. 339); Essays und Erinnerungen, pp. 33, 184 sgg.; Pensatori greci, IV, p. 103 («l’immortale storico della Grecia, George Grote») e passim. Cfr. A. Momigliano, Contributo cit., p. 225; A. Weinberg (cit. alla nota 52), pp. 170-177.

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valutazione delle correnti politiche del mondo antico – il Gomperz si allontanò dai suoi maestri e amici inglesi, Grote e Mill, assai più che nel campo filosofico. L’Austria-Ungheria dell’ultimo Ottocento, con i suoi conflitti di nazionalità non risolti, col suo complicato intreccio di sopravvivenze semifeudali e assolutistiche e di nuovi problemi suscitati dall’avanzata del socialismo, era un ambiente troppo diverso da quello in cui era sorto il liberalismo «radicale» inglese. E già le primissime esperienze politiche del Gomperz – la rivoluzione del ’48 e la reazione susseguente – avevano indirizzato in un senso diverso tutto il suo pensiero. Appena sedicenne, alle prime notizie della rivoluzione di Parigi aveva scritto da Vienna al fratello Karl una lettera di sorprendente acutezza, in cui esprimeva la sua gioia per la caduta dell’«oligarchia bancaria» francese e aggiungeva: «Non mi illudo certo che tutto sia finito. Al contrario, la vera rivoluzione sociale deve ancora venire, anche se, una volta che la maggioranza del popolo sia in grado di esprimere con mezzi legali la propria volontà, molto spargimento di sangue e molta anarchia potranno essere evitati nei futuri rivolgimenti». Una simile prospettiva gli appariva realizzabile anche in Germania e in Italia; per l’Austria invece, «data l’incultura e la rozzezza delle masse e la scarsa consistenza materiale e morale della classe media» temeva una rivoluzione sanguinosa e distruttrice, un «regno del terrore». «E tuttavia» aggiungeva subito «questo non sarebbe il peggior male. Occorrerebbe molto tempo, molto spargimento di sangue, ma alla fine il potente influsso di tutta l’Europa occidentale farebbe certamente prevalere idee sane, e il torrente delle passioni popolari, gonfiatesi selvaggiamente, finirebbe con l’incalanarsi nel suo alveo normale ...». L’ipotesi peggiore era un’altra: che il governo austriaco, atterrito da una rivoluzione scoppiata in Germania, chiedesse aiuto alla Russia zarista: «sopporterei un milione di volte più volentieri la sanguinosa anarchia rivoluzionaria che il soffocamento di tutti i nostri fermenti migliori da parte di un sistema dispotico come quello russo».71 Erano idee, speranze e timori che il Gomperz probabilmente aveva almeno in parte assorbito dal suo maestro di ginnasio Thomas Franz Bratranek, un frate agostiniano libero-pensatore e seguace della sinistra hegeliana.72 Troppo breve e superficiale, sui rapporti Grote-Gomperz, è M. L. Clarke, G. Grote, London 1962, pp. 89-93. 71 iTh. Gomperz 1832-1912, p. 40 sgg. (lettera del 7 marzo 1848). 72 iEssays und Erinnerungen, pp. 13-15. Cfr. qui sopra, p. 447, n. 51.

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Nel corso degli eventi del ’48-’49, ai quali il Gomperz assisté e partecipò a Vienna (e che in parte, ad esempio per ciò che riguarda la richiesta dell’intervento zarista, si svolsero secondo le sue previsioni), quel primo atteggiamento di simpatia per le idee rivoluzionarie si andò affievolendo, e si rafforzò, invece, il timore dell’«anarchia» e la sfiducia nell’iniziativa popolare.73 Il Gomperz, beninteso, non divenne mai un reazionario né un fautore dello «Stato forte»; si mantenne fedele allo spirito del ’48 in quanto risveglio delle nazionalità oppresse e lotta contro l’assolutismo;74 ma sempre più si convinse che al popolo si potesse giovare solo «dall’alto», per opera della borghesia colta e illuminata. Perciò anche il pensiero politico di John Stuart Mill finì con l’apparirgli troppo radicaleggiante e filosocialista.75 Egli era d’accordo col Mill nel ritenere che il puro liberismo fosse incapace di risolvere i problemi della società industriale; era anche d’accordo nella solidarietà con i movimenti di indipendenza nazionale e con la causa della liberazione dei negri d’America (a differenza del Grote, che, con tutto il suo illuminismo e il suo democratismo, parteggiava per i sudisti).76 Ma gli sembrava che il Mill si fosse pericolosamente illuso sulla capacità del proletariato di emanciparsi da sé. Anche la richiesta del suffragio universale, sostenuta dal Mill con grande fervore, era mal vista dal Gomperz, in parte per la giusta consapevolezza che questo provvedimento non sarebbe certamente stato il toccasana per i mali di cui il popolo soffriva, ma soprattutto per la sua sfiducia verso ogni iniziativa dal basso.77 73 iSi può cogliere questo graduale mutamento nelle lettere pubblicate in Th. Gomperz 18321912, pp. 44-75. 74 iVedi il capitolo sul ’48 nelle sue memorie, in Essays und Erinnerungen, p. 16 sgg. 75 iEssays und Erinn., pp. 34-38. Sull’avvicinamento del Mill al socialismo L. Stephen, The English Utilitarians, III, London 1900, p. 224 sgg. 76 iAl Risorgimento italiano il Gomperz fu costantemente favorevole. In una lettera del 3 agosto 1848 (Th. Gomperz 1832-1912, p. 46) considerava la vittoria del Radetzky a Custoza come una sventura per la causa della democrazia austriaca: «denn mit der Unterjochung (della Lombardia) würden wir uns selbst die Knechtschaft bereiten». Cfr. Essays und Erinn., p. 22, e le lettere del 1966 dall’Italia (Th. Gomperz cit., p. 427 sgg.). Per l’atteggiamento a favore dei negri d’America vedi Th. Gomperz cit., p. 310 sg.; Essays und Erinn., p. 47, e il simpatico passo di Pensatori greci, IV, p. 71 sg., in cui, mentre si riconosce la sterilità del sillogismo ai fini dell’acquisizione di nuove conoscenze, gli si attribuisce un valore di chiarificazione logico-morale, di smascheramento di pregiudizi e di ipocrisie: e a questo proposito si adduce appunto l’esempio della presunta inferiorità dei negri. Per il dissenso Grote-Mill a questo proposito Essays und Erinn., pp. 185; 242, n. 48. 77 iEssays und Erinn. p. 36 sg.; cfr. Pensatori greci, IV, p. 555.

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Di qui la sua persuasione che, nel campo politico-sociale, il Comte avesse visto più giusto del Mill, proprio perché il pensiero del Comte aveva un’intonazione più scientista-pedagogica: L’ideale sociale di Auguste Comte incomincia a realizzarsi, anche se non esattamente nelle forme previste dal grande pensatore ... La classe colta, e il ceto politico dirigente sviluppatosi dal suo seno, è divenuto realmente il fuoco centrale da cui si irradiano influssi che a poco a poco penetrano anche negli strati meno colti della società e costringono la comunità a prendersi cura dei suoi membri economicamente meno fortunati. Gli esperti di politica sociale, detti erroneamente «socialisti dalla cattedra», questa élite di filantropi che trasformano lentamente ma profondamente le leggi e il costume, adempiono appunto a quella missione che Comte assegnava al pouvoir spirituel organizzato. Aziende-modello statali e comunali, giornata lavorativa di otto ore, ispettorati delle fabbriche e delle miniere, assicurazioni contro gli infortuni e le malattie, provvidenze a favore dei vecchi, riposo domenicale pagato, – tutto ciò avrebbe ottenuto il plauso di Comte. Come ulteriore conseguenza di tali provvedimenti possiamo attenderci un miglioramento costante delle condizioni di vita delle masse e, con ciò, l’estinguersi di quei movimenti rivoluzionari che aspirano a un ordine di cose totalmente nuovo, ad un antistorico ritorno al collettivismo della buia preistoria.78

In conformità con questo orientamento, egli si battè per estendere in Austria il cooperativismo di Schulze-Delitzsch; ma la socialdemocrazia (anche la socialdemocrazia austriaca e tedesca di fine Ottocento, sempre più riformista) gli sembrò ancora troppo rivoluzionaria o, per essere più esatti, troppo poco paternalistica79. E poiché morì nel 1912, potè mantenere fino all’ultimo la convinzione che l’epoca delle rivoluzioni – e delle guerre condotte fino all’ultimo sangue – fosse finita per sempre.80 S’intende che queste idee politiche del Gomperz, analoghe a quelle di tanti altri intellettuali e uomini politici di fine Ottocento, non ci 78

iEssays und Erinnerungen, p. 35 sg., cfr, p. 236. iAppoggio al cooperativismo: Essays und Erinnerungen, p. 47. Condanna del socialismo (e rifiuto della distinzione del Mill tra socialismo e comunismo): ibid., p. 38. Ancora intorno al ’60, tuttavia, la sua posizione doveva essere alquanto diversa, come appare da una lettera del 20 aprile 1863 da Londra, piena di espressioni ammirative per la maturità politica degli operai inglesi (Th. Gomperz 1832-1912, pp. 346 sgg., 350 sg.). Ma anche allora il proletariato inglese doveva sembrargli una rara e forse unica eccezione. 80 iSulle guerre cfr. II, p. 399. Si noti, tuttavia, che anche questa «illusione» del Gomperz non era basata su pure aspirazioni sentimentali, ma su un’analisi dei rapporti internazionali come si erano venuti configurando nell’ultimo Ottocento. Proprio in quella stessa pagina egli ribadiva il principio che «la comunanza dei sentimenti suole seguire e non già precedere la comunanza degli interessi». 79

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interessano tanto in sé (è facile scorgerne i forti limiti), quanto per i loro riflessi storiografici. Rispetto al Grote, il Gomperz dimostra, sia nei Pensatori greci che negli altri scritti raccolti in Essays und Erinnerungen, un senso storico più acuto e complesso. La democrazia ateniese non è per lui un ideale assoluto: egli scorge chiaramente i suoi limiti, rappresentati soprattutto dal mantenimento della schiavitù e da una politica estera aggressiva e sfruttatrice;81 e sa apprezzare, a differenza del Grote, il valore positivo di forme di governo «antiliberali» ma tuttavia parzialmente liberatrici, come la tirannide greca, le monarchie ellenistiche, l’impero romano.82 D’altra parte, la nota paternalistica del suo pensiero politico riecheggia nella sua esaltazione del programma politico di Dione di Siracusa, «un regime di cui si potrebbe riassumere la tendenza nella divisa: “tutto per il popolo, poco dal popolo”».83 La stessa polemica contro l’idealizzazione della democrazia greca ha – accanto all’aspetto antischiavistico e antiimperialistico a cui abbiamo accennato – un aspetto conservatore: il Gomperz denuncia (contro il Grote che aveva cercato di negarle o di minimizzarle) le violenze dei democratici contro i ricchi,84 considera come un male della democrazia antica la troppo immediata dipendenza dei governanti dai governati,85 applica ai democratici radicali dell’antichità le critiche di un Burke contro il carattere «astratto» e «antistorico» del giacobinismo.86 Eppure, se confrontiamo il Gomperz con gli altri critici del Grote che pullularono in Germania nella seconda metà dell’Ottocento,87 vediamo quanto più immune da chiusure retrive e illiberali egli sia rimasto. È specialmente istruttivo il confronto con Robert von Pöhl81

iII, pp. 380, 385 sgg.; Essays und Erinnerungen, pp. 189, 230 sg. iSulla tirannide vedi I, pp. 11 sg., 211; III, pp. 26, 33 sg.; e, in polemica esplicita col Grote, Essays und Erinnerungen, p. 193: «Es entgeht ihm (al Grote), dass es staatliche und gesellschaftliche Zustände gegeben hat, in denen ein Durchbrechen der Legalität ein Gebot der Notwendigkeit war und das Heil des Gemeinwesens bedeutet hat. Darum wird er der schwerwiegenden und im wesentlichen segensreichen Rolle nicht gerecht, welche die sogenannte Tyrannis in der Entwicklung des griechischen Staatlebens gespielt hat». Sulle monarchie ellenistiche vedi qui sotto, p. 429. Sull’impero romano, Ess. und Erinn., p. 141. 83 iIII, p. 455 sg. (il dissenso dal Grote è espresso a p. 455, n. 1). 84 iIII, p. 26, n. 1: «Si consulti l’Hist. of Greece del Grote, evitando di lasciarsi fuorviare dalla sua tendenza ad attenuare le violenze democratiche». Cfr. IlI, p. 455 sgg. 85 iCfr. IlI, p. 638 (a proposito del progetto di costituzione delle Leggi platoniche); IV, p. 637. 86 iCfr. IV, p. 569; II, p. 606. 87 iSu di essi vedi A. Momigliano, Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955, p. 225. 82

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mann, la cui polemica contro il Grote era condotta dal punto di vista di un paternalismo sociale che accettava, sì, in buona parte la denuncia marxista del carattere illusorio della democrazia meramente politica, ma rifiutava nettamente il principio dell’emancipazione dei lavoratori per opera dei lavoratori stessi e attendeva solo dallo Stato la riforma della società: un punto di vista, in fondo, non molto lontano da quello del Gomperz stesso, ma con l’aggiunta di uno statalismo e antiliberalismo che al Gomperz erano estranei: per il Gomperz la soluzione della questione sociale spettava alla classe colta, per il Pöhlmann alla monarchia guglielmina.88 Al Pöhlmann che dipingeva a colori estremamente foschi la democrazia ateniese e tornava ad accusare i sofisti della decadenza morale della Grecia, il Gomperz rispondeva con una appassionata difesa dell’illuminismo greco, mettendo in risalto come le vecchie classi aristocratiche fossero state molto più sopraffrattrici e incivili dei «demagoghi» ateniesi (II, p. 383); e ribadiva che «la ‘tirannia della maggioranza’ ha incomparabilmente meno minacciato la libertà individuale nell’Atene del v secolo che in qualsivoglia altro paese e in qualsivoglia altra epoca» (II, p. 247). Si aggiunga che nel Gomperz, a differenza che nella maggior parte degli storici tedeschi suoi contemporanei, le tendenze paternalistiche erano in parte controbilanciate e neutralizzate dalla simpatia per il decentramento e le autonomie locali. Ciò che egli soprattutto apprezzava nella democrazia ateniese non era la libertà astrattamente considerata, né il principio generale dell’elettività di tutte le cariche, ma la struttura decentralizzata dello Stato: Le espressioni correnti, di libertà, di governo di popolo, ecc., non forniscono un’immagine idonea della vita costituzionale ateniese. L’essenziale in essa non è che la totalità della popolazione maschile, adunandosi sulla Pnice, vi prendesse delle decisioni, deliberando a maggioranza di voti, e che in tal modo governasse direttamente lo Stato. Molto più importante è l’organizzazione estremamente articolata dello Stato – che ha preceduto di assai l’avvento della democrazia ... Tutte quelle associazioni intermedie erano come dei gusci protettivi entro i quali l’individualità, la varietà dei caratteri, l’originalità potevano nascere e giungere ad una piena matu88 iDel Pöhlmann vedi, oltre la Geschichte des antiken Sozialismus und Kommunismus (18931901; 2a ed. col titolo Geschichte der sozialen Frage und des Sozialismus in der antiken Welt, 1912), specialmente il saggio Zur Beurteilung Georg Grotes und seiner Griechischen Geschichte (1890, ripubbl. in Aus Altertum und Gegenwart2, Munchen 1911). Lì è anche espresso chiaramente il suo punto di vista statalistico, antimarxista, più vicino, se mai, alle tesi di Rodbertus e di altri «socialisti cattedratici». Cfr. anche F. Natale, in «Nuova Rivista Storica», XLII (1958), p. 21 sgg.

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rità. C’è bisogno di dire che la libertà politica stessa può essere capace di durevole esistenza e atta ad esercitare un’azione salutare soltanto là ove essa si appoggia sull’autonomia di piccoli e piccolissimi circoli sociali, e che, in mancanza di questo fondamento, la libertà popolare non può far buona prova, e può soltanto degenerare in una tirannide della maggioranza, sotto la quale ogni libertà del singolo vien meno? (II, pp. 413-15).

Il fatto che queste idee, derivate al Gomperz soprattutto da W. von Humboldt e dal Mill,89 avessero una punta antigiacobina (chiaramente visibile nelle ultime parole che abbiamo citato), non deve far dimenticare la loro funzione positiva contro lo Stato burocratico-accentratore di tipo prussiano o absburgico, né l’aiuto che ne ricevette il Gomperz per una migliore comprensione storica della democrazia ateniese. Nell’impero di Alessandro e nelle monarchie ellenistiche, d’altra parte, il Gomperz non scorgeva né una mediazione tra antichità e cristianesimo né una prefigurazione dello stato unitario ottocentesco, ma piuttosto l’attuazione dell’ideale universalistico vagheggiato dai cinici e poi dagli stoici (II, p. 592 sg.). E vorrei ancora richiamare l’attenzione sulla conferenza Demosthenes der Staatsmann, generalmente ignorata dagli studiosi, sebbene, a mio parere, costituisca uno dei primi e dei più seri tentativi di superare la contrapposizione tra il panegirico di Demostene «eroe della libertà» e il panegirico di Filippo «eroe della Realpolitik».90 Questa ricca esperienza di storiografia politica – ignota ad uno Zeller e alla maggior parte degli storici della filosofia antica – il Gomperz la portò nello studio del pensiero politico dei filosofi greci. Si veda, per esempio, ciò che egli osserva sul duplice sbocco (ultrademocratico e ultraoligarchico: Ippia e Crizia) a cui tendeva la teoria del «diritto di natura» propugnata dai sofisti.91 Si veda di quanto la ricostruzione

89 iCfr. II, p. 412 (poco prima del passo che abbiamo citato sopra): «Mai più, può dirsi, d’allora in poi, i requisiti esaltati da Guglielmo di Humboldt e dopo di lui da John Stuart Mill, hanno avuto una così integrale realizzazione». Il Versuch, die Grenzen der Wirksamkeit des Staates zu bestimmen di Humboldt è citato anche altrove dal Gomperz, e fu certo uno scritto che esercitò su di lui un notevole influsso. 90 iLa conferenza, del 1864, è ristampata in Essays und Erinnerungen cit., p. 53 sgg., con le note (molto importanti) a p. 228 sgg. Due delle note sono parzialmente sconfessate dal Gomperz nella prefazione, ma di tale sconfessione egli non chiarisce il motivo, 91 iCfr. II, pp. 189 sgg., 247 sgg. Come è noto, questi temi hanno avuto ampi e originali sviluppi negli studi degli ultimi decenni: basti ricordare il saggio di Mario Untersteiner su Le origini sociali della sofistica, in «Studi di filosofia greca» dedicati a R. Mondolfo, Bari 1950, p. 121 sgg.

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del pensiero politico di Socrate, e quindi la valutazione della condanna del grande pensatore, sia superiore a quella del Grote. Ossessionato dalla preoccupazione di esaltare insieme Socrate e la democrazia ateniese, il Grote osservava che, in fin dei conti, Socrate aveva potuto divulgare liberamente le sue dottrine per tutta una lunga vita, e che la condanna lo aveva liberato dalla decadenza senile e gli aveva procurato gloria immortale: l’eutanasia di Socrate ridondava anch’essa a merito di quel perfetto regime politico!92 Il Gomperz invece vede nel processo di Socrate il conflitto, storicamente necessario, tra gli ideali della polis e i nuovi princìpi cosmopolitici che avrebbero trionfato nell’epoca seguente (II, pp. 514-25). Era, come il Gomperz stesso notava, l’interpretazione di Hegel, liberata, però, dallo spirito conformistico e statolatra che aveva portato Hegel a simpatizzare, assai più che per l’«eroe tragico» Socrate, per i diritti della religione tradizionale e della morale corrente da lui conculcati.93 La difficoltà di valutazione della condanna di Socrate consiste, in realtà, nel fatto che Socrate era un antidemocratico razionalista e antitradizionalista, mentre i suoi avversari erano democratici tradizionalisti e oscurantisti: l’associazione tra democrazia e razionalismo (e, viceversa, tra antidemocrazia e tradizionalismo), che siamo abituati a considerare normale, in questo caso non si verificava. Ciò, forse, non è messo adeguatamente in rilievo dal Gomperz, il quale sottolinea più gli aspetti apolitici, interiorizzanti del pensiero socratico, che gli aspetti propriamente antidemocratici. Nell’ampia trattazione che il Gomperz dedica al pensiero politico platonico, sono particolarmente pregevoli le osservazioni sul comunismo della Repubblica (limitato alle classi dirigenti, paragonabile perciò a quello di «certi ordini cavallereschi» piuttosto che al comunismo moderno) e sul passaggio dalla Repubblica alle Leggi.94 Della Politica di Aristotele il Gomperz mette in luce l’assunto rigorosamente scientifico che costituisce la grande originalità di quest’opera, ma anche l’angustia di orizzonte che fa ribadire ad Aristotele la necessità perpetua della schiavitù e gli fa proclamare che «non nascono più monarchie al giorno d’oggi» proprio mentre la monarchia ellenistica soppiantava la polis.95 E soprattutto osserva come il più grave limite del pensiero pla92

iVedi la chiusa del cap. LXVIII della History of Greece, dedicato a Socrate. iCfr. Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia, trad. Codignola e Sanna, II, p. 84 sgg. 94 iCfr. III, pp. 403 sgg., 430 sg, 603 sgg. 95 iIV, pp. 473 sgg., 520 sgg. e altrove. 93

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tonico-aristotelico sia il disprezzo per il lavoro manuale, e come ciò abbia non solo impoverito l’etica greca, ma costituito anche un ostacolo insormontabile al progresso delle scienze empiriche.96 Occorrerà ora ritornare sull’accusa mossa al Gomperz, di avere eccessivamente «modernizzato» il pensiero antico? Il Gomperz stesso ha risposto a quest’accusa in un saggio sul Mommsen (alla cui Storia romana era stato rimproverato lo stesso difetto) e in uno degli ultimi capitoli dei Pensatori greci. «II sangue che noi infondiamo nelle ombre del passato affinchè esse ci parlino, è tratto dalle nostre vene. Lo storico, per resuscitare dinanzi a se stesso e agli altri ciò che è morto, non ha altro mezzo che l’a n a l o g i a ...». «Scrivere una storia della scienza prescindendo dalle proprie convinzioni personali ci sembra una cosa impossibile (...). Colui che di fronte al processo storico da lui descritto non ha un proprio giudizio, come potrebbe distinguere con una certa sicurezza ciò che è importante da ciò che è insignificante, ciò che è duraturo da ciò che è effimero, in modo da adempiere alla condizione fondamentale per una prospettiva storica soddisfacente?»97 Tali considerazioni, se sono valide in generale, lo sono più che mai per i Pensatori greci. Se non fosse stato egli stesso un illuminista – nel senso che abbiamo cercato sopra di precisare –, ben difficilmente il Gomperz avrebbe potuto scoprire e apprezzare nel loro giusto valore i momenti illuministici della cultura greca. S’intende che vi sono anche, come abbiamo visto, i casi in cui i limiti ideologici del Gomperz (specialmente nel campo politico-sociale) si riflettono nella sua storiografia; e non mancano nemmeno i casi in cui lo storico si lascia sedurre da un’apparente analogia tra un singolo aspetto del pensiero di un filosofo greco, staccato dal suo contesto, e una proposizione filosofi96 iSu questo punto, oltre ai Pensatori greci, II, p. 215, III, p. 367, IV, p. 488 sgg., è da vedere il saggio Realismus und klassisches Altertum, in Essays und Erinnerungen, pp. 209 sgg., specialmente p. 210. 97 iEssays und Erinnerungen, p. 139 sg.; Pensatori greci, IV, pp. 681 sg. Sull’accusa di modernizzazione rivolta al Mommsen vedi l’introduzione di G. Pugliese Carratelli alla nuova traduzione della Storia di Roma antica, Firenze 1960, I, p. XXVIII sgg.; e P. Treves, L’idea di Roma e la cultura italiana del sec. xix, Milano-Napoli 1962, p. 82 sg. | Con errore opposto, Italo Lana accusa il Gomperz di aver preteso di dare alla sua opera «carattere rigorosamente “oggettivo” con l’accettare i canoni storiografici positivistici» (in «Encicl. filosofica» del Centro di Gallarate, 2a ed., III, Firenze 1967, p. 320). Invece di partire dallo studio dell’opera del Gomperz e dalle sue esplicite dichiarazioni di principio, si parte da una nozione estremamente generica del «positivismo» e la si applica dall’esterno, come un’etichetta, ad una personalità che evidentemente non si conosce! |.

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ca o scientifica moderna. Ma questi episodici e vistosi peccati di anacronismo si lasciano individuare e isolare facilmente, non turbano quasi mai la visione complessiva di un periodo o di una personalità filosofica.98 Forme ben più sottili e insidiose di antistoricità doveva portarci la storiografia posteriore al Gomperz. In Paideia di Werner Jaeger, nell’Uomo greco (Der hellenische Mensch) di Max Pohlenz l’influsso dei Pensatori greci è riconoscibile sia nella struttura generale – cioè nel proposito di fare storia della cultura e dell’ethos greco, non del pensiero filosofico in senso stretto –,99 sia nell’importanza che entrambi gli autori attribuiscono alla medicina greca come fenomeno storico-culturale e non puramente tecnico. Ma l’indirizzo di pensiero che anima queste due opere è profondamente diverso da quello del Gomperz, e a me sembra che rappresenti, sotto molti aspetti, un ritorno a vecchie posizioni che il Gomperz aveva confutato. È questo un discorso che, per non cadere nella genericità o nel settarismo, richiederebbe un ampio sviluppo, e ben altra competenza specifica che la mia. È evidente che personalità così ricche e complesse come uno Jaeger e un Pohlenz non si possono liquidare con una frettolosa polemica meramente ideologica: gran parte della loro opera di filologi e di storici della cultura rimarrà valida anche per studiosi orientati in tutt’altro senso. Ma intanto, il lettore che dai Pensatori greci passa al primo volume di Paideia vede riapparire, insieme a venature di razzismo, il vecchio 98 iII Gomperz stesso, del resto, non mancò di reagire a questo pericolo della propria storiografia. Vedi ad esempio ciò che egli osserva a proposito della teoria dei quattro elementi (I, p. 350 sg.): «La storia della scienza non può adottare sempre come criterio di valutazione quello della verità obiettiva. Una teoria può essere interamente vera, e tuttavia rimanere senza applicazione di sorta e infruttuosa perché lo spirito umano non è ancora sufficientemente preparato, e quindi non è ancora idoneo a riceverla; un’altra teoria può essere interamente falsa, e tuttavia, in quella data fase di sviluppo spirituale, essere oltremodo vantaggiosa al progresso della cultura e della civiltà». 99 iÈ interessante notare come Guido Calogero, recensendo il primo volume di Paideia («Giornale critico della filosofia italiana», XV, 1934, p. 358 sgg.), mentre polemizzava molto acutamente contro il neo-umanesimo jaegeriano e ne metteva coraggiosamente in luce certe implicazioni politiche retrive, negava poi, in nome di pregiudizi idealistici, la possibilità di una storia dell’ethos greco, e ammetteva soltanto storia di attività spirituali «pure»: della poesia, o dell’etica come scienza filosofica professionale. Vedi su questo punto le osservazioni di Giorgio Pasquali, in «Studi italiani di filologia classica» n. s., XII (1935), p. 45 sgg., e la replica – brillante, ma elusiva – del Calogero in «Leonardo», 1935, p. 337 sgg. Pregi e difetti analoghi – ma con una minore vivacità critica e una più stretta osservanza crociana – presenta la recensione dell’Omodeo, nella «Critica», 1937, p. 455 sgg.

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mito della grecità come modello universalmente valido, contro cui il Gomperz aveva così efficacemente polemizzato. Nel Pohlenz gli elementi razzisti acquistano un rilievo ancor maggiore; nello Jaeger, a cominciare dal secondo volume di Paideia, scompaiono, ma per dar luogo a un’accentuazione di motivi religiosizzanti, a un ritorno alla concezione «platonocentrica» del pensiero greco e alla correlativa svalutazione degli atomisti, dei sofisti, dei cinici e cirenaici.100 E infine, negli ultimi lavori jaegeriani, la cultura greca è vista come preparazione a un cristianesimo raffinato e aristocratico, e il merito principale dei Greci diventa quello di aver fondato la teologia. Per riacquistare la consapevolezza che la grande originalità del pensiero greco sta nell’aver compiuto un passo decisivo verso la laicità e la scienza, è ancor oggi necessario leggere, accanto a lavori più recenti, l’opera del Gomperz.

POSTILLE 1. Lettere e documenti gomperziani pubblicati recentemente. – Ho citato spesso, nelle pagine precedenti, il primo volume, uscito nel 1936, di una biografia del Gomperz, a cura del figlio Heinrich, con ampio corredo di lettere e documenti (cfr. qui sopra, p. 429, n. 4 e passim). Prima ancora di abbandonare Vienna, Heinrich Gomperz aveva portato a termine quest’opera, che avrebbe dovuto occupare lo spazio di altri due grossi volumi. Ma, esule a Los Angeles, non trovò alcuna possibilità di pubblicare tutto questo materiale, che, del resto avrebbe difficilmente interessato un pubblico sufficientemente ampio di lettori anglo-americani: troppi particolari minuti erano strettamente legati alla storia, e talvolta alla cronaca, della «classe alta» (nel duplice senso, politico-sociale e culturale) dell’Impero absburgico. Dopo la morte di Heinrich Gomperz (1942), una copia del manoscritto inedito rimase conservata presso l’University of Southern California. Recentemente, negli anni Settanta, l’Österreichische Akademie der Wissenschaften ha preso la meritoria iniziativa di un completa100 iSui sofisti vedi anche Umanesimo e teologia, trad. it., Milano 1958, p. 42 sgg., 45 sgg. Sul neo-umanesimo jaegeriano e sui suoi ultimi sviluppi concordo specialmente con A. La Penna, in «Società», XVI (1960), p. 646 sg. Cfr. anche L. Sichirollo, ibid., XVII (1961), p. 957 sgg., | e Storicità della dialettica antica, Padova 1965, p. 333 sgg. |.

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mento parziale del progetto di Heinrich Gomperz: parziale, poiché non solo difficoltà finanziarie, ma anche la sovrabbondanza del materiale (meno interessante, nell’insieme, di quello che era stato pubblicato nel primo volume del 1936) hanno imposto una drastica riduzione. È uscito così nel 1974, come vol. 295 dei «Sitzungsberichte der Österr. Akad. der Wissenschaften», Theodor Gomperz: ein Gelehrtenleben im Bürgertum der Franz-Josefs-Zeit: Auswahl seiner Briefe und Aufzeichnungen, 1869-1912, erläutert und zu einer Darstellung seines Lebens verknüpft von Heinrich Gomperz, neubearbeitet und herausgegeben von Robert A. Kann, Wien 1974. Benché una pubblicazione parziale lasci sempre un certo senso d’insoddisfazione (accresciuto, in questo caso, dai tagli forse troppo frequenti di s i n g o l e lettere e documenti, con continuo uso di punti sospensivi), è doveroso riconoscere che questo era, ormai, l’unico modo praticamente attuabile di render noto ciò che, nel mare magnum lasciato da Heinrich Gomperz, più poteva interessare gli studiosi. Dell’esistenza di questo volume io ho avuto notizia, purtroppo, soltanto quando il presente libro, e quindi anche il saggio sul Gomperz, era già in bozze; e (anche a causa della scarsissima pubblicità che, per quanto mi risulta, esso ha avuto) mi sarebbe quasi certamente del tutto sfuggito, se non lo avessi visto menzionato in un saggio di Giuseppe Cambiano (Merlan: filologia e filosofia, in «Riv. di filosofia», n. 10, febbraio 1978, p. 89 sgg.): un saggio di grande interesse per comprendere non solo la personalità di Philip Merlan, ma quella di Heinrich Gomperz, e il tormentato e, in fondo, antagonistico rapporto tra Heinrich Gomperz e suo padre: un argomento, questo, sul quale ritorneremo brevemente verso la fine di questa postilla. Non credo di indulgere alla pigrizia o alla presunzione del quod scripsi scripsi, se affermo che (tranne alcuni punti a cui ora accennerò) il volume del 1974 non arreca notevoli mutamenti all’immagine di Theodor Gomperz che ho cercato di tracciare nelle pagine precedenti: non perché sul Gomperz non vi sia ancora molto da indagare, da sottoporre a nuovo esame, correggendo magari radicalmente alcune delle mie asserzioni (sono ben lontano dalla sciocca pretesa di avere scritto su una personalità così complessa e finora poco studiata il saggio “definitivo”!), ma perché, mentre sul Gomperz giovane il volume uscito nel 1936 aveva offerto una documentazione in gran parte inaspettata – basti pensare alle lettere del 1848-49 –, sui decenni della

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maturità e della vecchiezza lo schizzo autobiografico e altri saggi raccolti negli Essays und Erinnerungen, e molti passi degli stessi Pensatori greci, ci avevano già fatto conoscere l’essenziale. Le lettere, gli articoli, gli abbozzi riportati nel volume uscito sei anni fa hanno quindi, per la maggior parte, un valore (tutt’altro che trascurabile, beninteso) di conferma piuttosto che di rivelazione. Ritroviamo in essi il Gomperz nemico di ogni dogmatismo, intolleranza, illiberalismo, e d’altra parte il Gomperz antisocialista, diffidente verso il suffragio universale (cfr. per esempio pp. 257-260), convinto che il fattore determinante, in ogni questione di emancipazione degli oppressi, fosse «die Gesinnung der leitenden Classen» (p. 258; cfr. anche i passi cit. nell’indice analitico, alle voci «Soziale Frage», «Sozialismus», «Wahlrechtsreform»). Ritroviamo il miglior Gomperz empirista-antimetafisico, fautore di una fondazione laica della morale, e il Gomperz diffidente verso il materialismo, partecipe già di un positivismo in crisi. A proposito di quanto abbiamo osservato qui sopra, pp. 446-447, 449 sg., 461 n. 97, sul carattere ingannevole dell’etichetta di positivista applicata al Gomperz senza tutte le necessarie distinzioni, è particolarmente significativa una lettera del 19 aprile 1912 (p. 478 sg.: il Gomperz morì pochi mesi dopo). Egli si rallegrava che uomini eminenti, tra cui Poincaré, avessero preso l’iniziativa di fondare una «Società positivistica», ma prima di aderirvi voleva metter meglio in chiaro che cosa s’intendesse per positivismo: «il materialismo ingenuo di un Auguste Comte, incurante di ogni problema gnoseologico, o la concezione del mondo di un Mill, di un Mach ecc., basata su una radicale critica della conoscenza?». Non solo, dunque, Büchner o Moleschott, ma anche Comte (che per altri aspetti, come abbiamo visto, il Gomperz apprezzava altamente) era annoverato fra i materialisti volgari o, epiteto non molto diverso, «ingenui». D’altra parte l’accostamento (certo discutibile) di Mill a Mach conferma che la «critica della conoscenza» non doveva intaccare, secondo Gomperz, il causalismo più rigido (cfr. qui sopra, pp. 448 e 450). Molte altre interessanti testimonianze (oltre quelle da noi citate sopra, p. 448, n. 54) confermano gli stretti rapporti tra Gomperz e Freud, e accennano – al di là delle cure che Freud prodigò alla moglie di Gomperz, tormentata da una grave nevrosi – a spunti di collaborazione intellettuale fra i due (vedi i numerosi passi citati nell’indice alla voce «Freud», p. 537). Su questa più ampia base documentaria il tema

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«Gomperz e Freud» potrà essere trattato più a fondo di quanto si sia fatto finora. I due punti a proposito dei quali il nuovo volume non fornisce solo conferme e incrementi di documentazione, ma dati in qualche misura contrastanti con ciò che risultava finora, riguardano l’atteggiamento dell’ultimo Gomperz sui rapporti Austria-Germania e, soprattutto, sulla questione ebraica. Nell’introduzione al volume (p. 20) Robert A. Kann presenta il Gomperz come un fautore del predominio dell’elemento austro-tedesco nell’Impero (e quindi come un «centralista», ostile a tendenze autonomistiche o federalistiche) e, in politica estera, come un «incondizionato sostenitore» dell’alleanza con la Germania; e considera queste posizioni come un residuo, sia pure saggiamente adattato alla realtà, degli ideali quarantotteschi di una «Grande Germania» democratica. Che l’Anschluss tra Austria e Germania, attuato tanto più tardi su un piano aggressivamente reazionario e sciovinista da Hitler, sia stato originariamente un ideale democratico, condiviso ancora dopo la prima guerra mondiale dai socialisti austriaci, è noto. E tuttavia il Gomperz nelle sue memorie (Essays und Erinnerungen cit., p. 19) si annovera tra coloro che, nel ’48, non erano tanto sedotti dall’ideale della Grande Germania da dimenticare di essere austriaci, e da non sentire anche un persistente attaccamento per la «engere Heimat» da cui il Gomperz stesso e altri suoi compagni di studi provenivano, la Moravia; e le lettere che ho citato a p. 440, n. 28 confermano che questi erano stati effettivamente i sentimenti del Gomperz giovane. Nelle memorie stesse, riferendosi al più tardo periodo della maturità (Essays und Erinner., pp. 30-32), egli ribadisce di essere stato «kein Grossdeutscher»; aggiunge sùbito, è vero, di essere sempre stato altrettanto contrario a uno sciovinismo austriaco che minacciava di isolare Vienna da tutto il resto del mondo («Wien wider die Welt»), ma include nella condanna di tale sciovinismo anche il «centralismo» in politica interna (p. 32), e sottolinea i suoi sentimenti di amicizia per gli ungheresi. Un esame attento (di cui non possiamo qui esporre i risultati per mancanza di spazio) dei passi che il Kann, nell’indice analitico del volume del 1974 (p. 554), indica sotto la voce «Grossdeutsche Idee bei Th. G.», rivela, io credo, un accentuato favore per l’alleanza tra Austria e Germania come fattore di pace e di stabilizzazione in Europa e un’accentuata preoccupazione per le spinte nazio-

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nalistiche centrifughe sempre più forti all’interno dell’Impero (con qualche punta d’insofferenza verso gli ungheresi e i galiziani), ma nessun vero orientamento «grande-tedesco». Rispetto a ciò che sapevamo finora, c’è una qualche differenza di atteggiamenti emotivi, non di idee politiche. Né mancano forti punte polemiche contro l’«orgoglio sciovinistico» dei tedeschi, contro lo slogan Deutschland über alles (p. 432 sg., lettera del 1908). E, soprattutto, l’interpretazione del Kann non tiene conto del fatto che culturalmente il Gomperz rimase sempre (come la maggior parte degli intellettuali austriaci in tutti i campi, dalla filosofia alla letteratura e alla musica, dalla psicologia alle scienze esatte) molto distaccato dalla Germania, molto più aperto a influssi inglesi e francesi. Difficilmente si può qualificare come «grossdeutsch» un seguace di Mill, di Grote e di Comte, un simpatizzante per personalità che nella cultura tedesca ebbero difficile accoglienza, come Freud o Mach. Sotto questo aspetto, il nuovo volume non arreca che conferme: si scorrano per esempio i riferimenti alle letture del Gomperz, anche di opere letterarie, contenuti nelle lettere (cfr. l’indice analitico, p. 551 col. 2-553, alla voce «Lektüre»), e si vedrà che i tedeschi sono in minoranza. Ma anche nel campo dell’antichità classica, se si eccettuano poche grandi figure come Otto Jahn, Bernays, Mommsen (tutti, per un verso o per l’altro, estranei al nazionalismo tedesco come si era andato configurando con Bismarck e dopo Bismarck), si nota, e già si era notato nei Pensatori greci e negli altri scritti del Gomperz, un senso complessivo di distacco. A proposito dei rapporti, prima cordiali poi divenuti più freddi, col Diels, Heinrich Gomperz testimonia (p. 62) che suo padre si era sempre più convinto di essere sottovalutato dai «berlinesi»; e bisogna aggiungere che non era convinzione infondata. Per l’astro sorgente della filologia tedesca, Wilamowitz, il Gomperz non ebbe simpatia (p. 162 sg.): pur avendo fatto molti passi a destra, si sentiva ancora troppo liberale per amare il prussianesimo conservatore di Wilamowitz; e la lettura delle Homerische Untersuchungen gli lasciò un’impressione di dogmatismo, di avventatezza nei giudizi, di scarsa attitudine alla ricerca serena e obiettiva. Ciò non gli impedì, nei Pensatori greci, di consentire spesso col Wilamowitz su singole questioni.101 101 iAlla Festschrift per i settant’anni di Gomperz (cfr. p. 347 del volume di cui ci occupiamo) collaborarono, di contro a 30 austriaci, soltanto 11 tedeschi (uno dei quali, L. Radermacher,

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Più diverso da quanto si potesse supporre (più tormentato e, sul piano strettamente biografico, meno avanzato) appare l’atteggiamento del Gomperz vecchio sulla questione ebraica. Ciò che ho accennato sopra a questo proposito (p. 440 e n. 29) non è falso, ma presenta soltanto un lato della verità. Nell’antisionismo del Gomperz vecchio permane ancora – credo che ciò si deva ribadire – quello spirito cosmopolita-illuministico, quell’aspirazione a non perpetuare vecchie divisioni tra l’umanità e a non crearne di nuove, che fu sempre una costante della sua personalità. Ma, senza dubbio, affiora anche un altro aspetto (tutt’altro che caratteristico del solo Gomperz, beninteso): un desiderio di integrarsi nella società alto-borghese e di avvicinarsi all’ambiente della corte imperiale e, più in generale, una fobìa di apparire «cattivo suddito», eterodosso. Quantunque tale desiderio si unisse ai più sinceri propositi di non rinunciare (e il Gomperz in effetti non vi rinunciò) alle proprie idee «illuminate» e anzi di contribuire a orientare in questo senso le alte sfere della politica dell’Impero, tuttavia un certo prezzo, in termini di conformismo, andava pur pagato; e di questo prezzo faceva parte un rinnegamento delle proprie origini ebraiche che era diverso dall’abbandono puro e semplice della religione ebraica (avvenuto già da tempo, e con piena sincerità, da parte del Gomperz), poiché implicava anche l’abbandono, non altrettanto sincero, della posizione dichiaratamente anticonfessionale che era stata propria del Gomperz giovane (vedi qui sopra, p. 440, n. 29), e l’accostamento meramente esteriore alla religione cristiana al solo scopo di cancellare ogni «diversità». Personalmente, il Gomperz non arrivò mai a compiere questo passo; ma nel suo testamento, scritto nel 1887 (pp. 173-175 del volume di cui trattiamo), consigliò ai figli di compierlo. Parole d’ordine in sé valide come «unione e affratellamento, non isolamento e separatismo» (p. 173), proposizioni dotate di un aspetto di verità come «was die Menschen unterscheidet, das scheidet sie auch» (p. 174), sforzi di valutare le religioni non per il loro contenuto di verità o meno ma solo per la loro funzione di legame sociale, finivano col soffocare o mascherare, in questo tormentato testo, la consapevolezza che non c’è vera libertà senza anticonformidoveva di lì a poco diventare professore a Vienna), e 9 studiosi di altre nazioni. Uno di essi, il polacco T. Zielin!ski, doveva più tardi scrivere forse il più bel necrologio di Gomperz (riportato a p. 488 sgg. del vol. cit.).

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smo e rispetto di idee e posizioni minoritarie, e che per un laico la vera fratellanza può basarsi, appunto, soltanto sulla laicità, fermo restando, ovviamente, il rispetto per tutte le religioni, senza privilegi per alcuna. Il Gomperz dichiarava invece fonte di discordia e di isolamento l’ateismo d i c h i a r a t o , e veniva a considerare come condizione necessaria della pace sociale il conformismo religioso, con un’unica perdurante avversione per la Compagnia di Gesù che gli faceva preferire il protestantesimo (altrimenti da lui non amato, cfr. p. 435 sg.) al cattolicesimo (p. 175). E tuttavia – anche a prescindere dalla drammatica e disperante insolubilità della questione ebraica, che non autorizza a impartire facili lezioni di coerenza morale –102 sono convinto che nel giudizio su un uomo di pensiero la biografia, per quanto importante, non deva prevalere sull’opera, tanto più quando si tratta di un’opera non meramente libresca, ma essa stessa espressione di legame tra ricerca scientifica e affermazione di valori. I Pensatori greci, gli studi del Gomperz sull’epicureismo, i suoi scritti filosofici o di attualità, anche quelli degli ultimi decenni della sua lunga vita, spirano laicismo, illuminismo, antidogmatismo da ogni pagina; i compromessi che il Gomperz, come tanti altri, credette di dover fare nella vita quotidiana non intaccano questo dato di fatto sostanziale. Ancora nel 1909, in un articolo ripubblicato nel volume del 1974, il Gomperz riaffermava una posizione che ben si portebbe dire cattaneiana sulla non coincidenza di razza, lingua e cultura e contro ogni orgoglio razzista e nazionalista (p. 438 sg.). Infine, il volume del 1974 pone, in modo ancor più paradossale, il problema del rapporto tra Theodor e Heinrich Gomperz, al quale abbiamo già fugacemente accennato qui sopra (pp. 433, 449). Da un lato, il fatto stesso che Heinrich Gomperz abbia dedicato gran parte del suo tempo e delle sue energie a raccogliere documenti e testimo102 iParlo di insolubilità (fino ad ora, beninteso), perché non scorgo nemmeno nell’esasperato nazionalismo e nell’aggressività dell’attuale classe dirigente israeliana alcuna prospettiva accettabile, mentre d’altra parte in troppi paesi perdura l’antiebraismo. Per quanto riguarda il Gomperz, bisogna tener conto del rincrudirsi dell’antiebraismo in Germania dal 1880 in poi, ad opera specialmente di H. von Treitschke. È da questa data che in lettere, appunti, articoli di Gomperz il problema ebraico viene trattato particolarmente spesso (cfr. a p. 121 sgg. le inedite Kritische und historische Glossen zur sogenannten Anti-Semiten Bewegung, e tutti i passi cit. nell’indice analitico, pp. 5.55, alla voce Judenfrage; è interessante notare che a p. 386 in un lungo appunto inedito del 1904, tra i più splendidi ingegni di origine ebraica Gomperz annovera Karl Marx, malgrado il proprio antimarxismo).

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nianze sul padre e a scriverne la biografia, con una cura perfino eccessiva di non omettere il minimo dettaglio, indica un legame affettivo profondo: ben pochi casi, credo, di una simile abnegazione si potrebbero citare. E tutto ciò che riguarda la vita del padre, i suoi affetti familiari, i suoi rapporti con altre personalità del suo tempo, è non solo documentato, ma commentato e narrato dal figlio con viva partecipazione sentimentale e, insieme, senza dolciastri sentimentalismi e agiografie. D’altro lato, un lavoro di tanta mole presupporrebbe anche, nel figlio, la consapevolezza di un alto valore intellettuale del padre, di un valore non destinato a estinguersi col subentrare di nuovi orientamenti storiografici e filosofici. E invece tale consapevolezza (lo si scorge ora ancor meglio di prima) mancò quasi del tutto a Heinrich Gomperz. L’accentuazione anticoncettualistica e, insieme, antioggettivistica dell’empirismo, che sta alla base del Pathempirismus di H. Gomperz, costituivano uno sviluppo (uno sviluppo, certo, estremizzato ed esasperato) di motivi derivanti non solo da Mach, ma anche da Th. Gomperz: sotto questo aspetto, credo di dover ribadire (cfr. sopra, p. 449) che un nesso tra il pensiero del padre e quello del figlio c’era. Ma H. Gomperz non mostrò mai, credo, di esserne conscio, anzi attribuì a se stesso (pp. 256 sg., 283 sg., cfr. 292) un influsso su quel tanto (quel poco!) di valido che egli riconosceva nel pensiero del padre: con ragione per quel che riguarda qualche dettaglio;103 ma il «fenomenismo» di Th. Gomperz, derivato da John Stuart Mill, era di molto anteriore a ogni possibile influsso del figlio; e questi esagerò grandemente il distacco dall’etica utilitaristica che, persuaso da lui, Th. Gomperz avrebbe compiuto: non vi fu in realtà alcun distacco, solo qualche maggior cautela di espressione. D’altronde i motivi di contrasto fra i due pensatori prevalsero ben presto, perché Heinrich Gomperz, seguendo un itinerario mentale comune a molti della sua generazione (quell’itinerario mentale che, a dispetto di singoli ed episodici errori e forzature, è stato, a mio avviso, genialmente ricostruito e confutato e, in parte, addirittura previsto da Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo, dove non figura H. Gomperz, ma figurano molti suoi affini), utilizzò l’empirismo agnosticizzante come pars 103 iScritti di Heinrich Gomperz sono citati spesso nei Pensatori greci (vedi l’indice dei nomi dell’edizione italiana), ma a proposito di questioni storico-filosofiche particolari, e non sempre con consenso (cfr per esempio III, p. 584, n.).

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destruens per spianarsi la strada ad una ricostruzione spiritualistica: disgregazione di ogni causalismo considerato come un errore ottocentesco confutato dalla «nuova fisica», critica di ogni morale basata su fondamenti edonistici e utilitaristici, e, per quanto riguarda più specificamente la filosofia greca, svalutazione della grande funzione critica e liberatrice della Sofistica e sua riduzione a mera retorica, interpretazione del platonismo che puntava non sul valore del dialogo, dell’incessante ricerca autocritica, ma sugli aspetti mistico-irrazionalistici. Su tutto ciò vedi, meglio di ogni altro, l’articolo già citato di Giuseppe Cambiano (p. 9**), il quale afferma con ragione che «per molti versi Heinrich Gomperz è stato il rovescio del padre Theodor», e richiama l’attenzione sul giudizio estremamente riduttivo che, giunto al termine della sua biografia (pp. 494-498), H. Gomperz esprime sui Pensatori greci, come opera ormai del tutto inattuale e superata: un giudizio concorde con quello che poco prima aveva espresso Werner Jaeger (vedi qui sopra, p. 428 sg.). La pietas verso il padre e la miope incomprensione della sua opera coesistettero, in Heinrich Gomperz, come una contraddizione irrisolta. 2. Augusto Murri e Theodor Gomperz. – Un influsso della lettura dell’opera principale del Gomperz si può ritrovare nel Medico pratico (Bologna 1914, p. 34 sg.) di Augusto Murri, grande medico dotato di interessi filosofici: «Aristotele (...) fu pure il teorico dell’induzione, anzi il primo, il costante, l’autorevolissimo inculcatore di questa maniera di ragionare. Fortunatamente, s’egli era stato scolaro di Platone, era pure figlio d’un medico, e qualche boccata d’aria esalata da un sano empirismo e respirata in casa paterna dovrebb’essere per un cervello infantile un tonico eccellente e un preservativo contro i contagi della scuola». Qui come si vede, Murri interpreta fin troppo alla lettera (vedi qui sopra, p. 443 sg.) la dicotomia di Aristotele alcmeonide-platonico enunciata dal Gomperz.

Appendici

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

Appendice I **

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

1. Postilla su Maffei e Muratori Ho già accennato (pp. 336 sgg., 342 sg.) all’importanza di Scipione Maffei nella discussione sull’origine delle lingue volgari e sul rapporto tra Romani e barbari nel Medioevo. Vorrei, senza pretendere affatto di esaurire un argomento così complesso, soffermarmi ancora un momento sulla genesi di queste idee maffeiane e sul dissenso che, riguardo a questi problemi, divise il Maffei dal Muratori.1 Nel libro che, pur non avendo uno scopo principalmente erudito, segnò il suo primo accostamento alle ricerche erudite, la Scienza cavalleresca (1710), il Maffei ci si presenta animato da un forte sentimento antimedievale, di impronta umanistica. I Romani sono da lui idealizzati come il popolo giusto e civile, che impugnava le armi solo per necessità e non per spirito di sopraffazione. Della fine di quell’età felice sono responsabili i barbari: «Venne finalmente l’Italia in così lunga serie di mali (le invasioni barbariche) a smarrir se stessa; ed a cambiare non solo il governo, le leggi, e le dignità, ma l’abito, la lingua, i nomi degli uomini, e de’ paesi, e finalmente l’indole, ed i costumi» (lib. II, cap. I, pp. 138-39). Dai barbari proviene il feudalesimo e, legato ad esso, il falso concetto dell’«onore», che tuttora mantiene in vita l’usanza irrazionale e feroce del duello. L’umanesimo del Maffei 1 iNon è questo il luogo adatto per citazioni di bibliografia generale sul Maffei; voglio soltanto ricordare il fondamentale saggio di Arnaldo Momigliano, Gli studi classici di Scipione Maffei (1856, ora nel Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, p. 255 sgg.). Molto materiale utile sul Maffei come umanista ed erudito e sui rapporti tra il Maffei e il Muratori si trova nei vecchi studi del Simeoni e nei più recenti del Gasperoni e del Garibotto.

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non è un mero atteggiamento libresco: esso esprime esigenze di abbandono dei pregiudizi nobiliari più anacronistici e di evoluzione della nobiltà verso forme di vita borghesi (si pensi alla riforma della costituzione di Venezia che il Maffei proporrà più tardi, e infine al trattato Dell’impiego del denaro); ma tali esigenze non sono ancora così forti da sostenersi solo per virtù propria, come dettàmi della Ragione: hanno ancora bisogno di un appoggio nella tradizione classica, e del resto continueranno in parte ad averlo anche nell’età del pieno illuminismo. Il patriottismo locale del Maffei, che è all’origine delle sue ricerche sulla storia di Verona, presenta anch’esso fin dall’inizio una netta ispirazione antimedievale: si tratta di rivendicare a Verona la gloria di figlia prediletta di Roma. Di qui (per citare i due esempi più noti e clamorosi) lo sforzo di dimostrare che il distico di Catullo attestante la derivazione di Verona da Brescia è interpolato, e che Verona condivide soltanto con Roma e Capua il privilegio di possedere un anfiteatro (cfr. Momigliano, p. 268). La celebre scoperta dei codici antichi della Capitolare, avvenuta nel 1712, segna una svolta nella vita intellettuale del Maffei. Da letterato (con interessi eruditi già vivi, ma ancora marginali e un po’ dilettanteschi) egli diviene, in breve tempo, un erudito e uno storico della cultura, in funzione dello studio di quei codici e di tutti i problemi che essi implicavano. Che questa conversione filologica, intrapresa in età non più giovanile, non sia in tutto e per tutto riuscita, è indubbio, e lo riconobbe per primo il Maffei stesso. Tuttavia se si confronta, per esempio, il caso del Maffei con quello di Angelo Mai – il quale, meno di un secolo dopo, dovette anche lui improvvisarsi filologo per poter pubblicare i testi da lui scoperti –, non si può fare a meno di riconoscere la molto migliore riuscita del Maffei. Soprattutto si deve ammettere che la diseguale e lacunosa preparazione filologica non infirmò la sostanza delle sue geniali scoperte storico-culturali, anche se gli impedì forse di trarne tutte le conseguenze possibili. La prima, in ordine di tempo, di tali scoperte avvenne nel campo paleografico. Alla molteplicità di scritture nate, secondo il Mabillon, da innesti barbarici sul ceppo romano (scrittura longobardica, gotica, merovingica, sassonica) il Maffei sostituiva un tipo fondamentalmente unico: la minuscola romana. Vale ancora la pena, forse, di chiarire che il dissenso tra il Maffei e la scuola del Mabillon non si può risol-

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vere in una contrapposizione tra una mentalità «storicistica» e una mentalità «illuministica», «linneiana», staticamente classificatoria.2 Ciò che contraddistingue il Maffei non è tanto il concetto dell’evoluzione storica delle scritture (anche il Mabillon considerava i suoi vari tipi come un prodotto storico, connesso con la fusione tra cultura romana e cultura barbarica), quanto la consapevolezza che già i Romani, accanto alla solenne scrittura capitale, avevano avuto una minuscola e una corsiva:3 più che una distinzione di fasi storiche, dunque, una distinzione tra «aulico» e «usuale» nell’ambito della stessa cultura romana antica. Ciò non toglie, naturalmente, che la scoperta del Maffei abbia anche portato come conseguenza un più giusto concetto dell’evoluzione storica delle scritture, richiamando l’attenzione sulle gradazioni intermedie tra i vari tipi e sui motivi intrinseci (esigenze di rapidità e di minimo sforzo) dei mutamenti di forma delle lettere. Sulla via indicata dal Maffei si trovano non solo, come è noto, il grande Ludwig Traube, ma anche Jean Mallon con la sua teoria della «minuscola primitiva». Dalla paleografia il Maffei trasferì ben presto, con procedimento analogico, la sua nuova concezione ad altri campi. Se nella lettera ad Antonio Conti del 1° novembre 1714 e in quella al Muratori del 16 novembre nello stesso anno parlava ancora soltanto delle scritture (cfr. Epistolario, ed. Garibotto, I, pp. 199 sg., 204), già l’Istoria diplomatica (1727) conteneva, accanto all’annuncio della sua scoperta paleografica, un’appendice4 in cui il problema dell’origine della metri2 iCosì, per esempio, G. Cencetti, Lineamenti di storia della scrittura latina, Bologna 1954, p. 8 sg. 3 iCfr. la lettera al Bacchini negli Opuscoli ecclesiastici annessi all’Istoria teologica (Trento 1742), p. 57: «I grand’uomini, che sopra questa materia hanno scritto, supposero sempre, che i Romani altra maniera di scrivere non avessero, che la maestosa delle lapide, delle medaglie, e de’ codici più nobili, e sontuosi. Ma questo è per l’appunto, come s’altri osservando in oggi parimente le nostre iscrizioni, le nostre monete, e le nostre stampe, venisse a credere, che dell’istesso carattere, e dell’istesso modo ci servissimo anche nell’ordinario scrivere, e negli atti notariali, e nelle missive». Così anche nella Verona illustrata, ediz. di Milano 1825, vol. II, p. 560. 4 iP. 177 sgg.: Ritmo de’ tempi di Pipino e dissertazione sopra i versi ritmici. La dissertazione fu ripubblicata dal Maffei negli Opuscoli ecclesiastici cit. (p. 247 sgg.), col titolo De’ versi ritmici e dell’origin loro e con notevoli modifiche, le quali però non riguardano la tesi fondamentale, ma singole questioni di critica del testo. Cfr. L. Simeoni, prefazione al tomo II, parte I della nuova ediz. dei Rerum Italicarum Scriptores (Bologna 1918), p. x sg.; A. Campana, Veronensia, in Miscellanea Mercati, II, Roma 1946, p. 57 sgg., specialmente, p. 63. Sul testo dei carmi veronesi si veda anche D. Norberg, La poésie lat. rythmique du haut Moyen Age, Stoccolma 1954, p. 104 sgg.

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ca accentuativa mediolatina e romanza era risolto allo stesso modo, respingendo la tesi dell’influsso barbarico e sostenendo che già i romani antichi, come i greci antichi, conoscevano, accanto ai versi m et r i c i ligi alla quantità, i versi r i t m i c i costruiti in base al numero delle sillabe e all’accento: i primi opera dei dotti, i secondi del popolo. Proprio perché popolareschi, i versi ritmici dovevano essere più antichi dei metrici: le testimonianze di Orazio (Epist. II, 1, 145 e 157) sulla Fescennina licentia e sull’horridus Saturnius sembravano avvalorare questa tesi.5 La metrica mediolatina e romanza non era, perciò, che il riemergere del vecchio fondo romano-italico, quando la crisi politico-culturale alla fine dell’Impero romano aveva indebolito la tradizione dotta. Il parallelismo fra paleografia e metrica nel pensiero del Maffei sarebbe già evidente di per sé, ma il Maffei stesso ha cura di metterlo in rilievo: «È assai – egli esclama ironicamente, p. 185 – che anche cotesti versi non siano stati divisi in Gotici, e Longobardi, e in altre sì fatte spezie», come le scritture secondo il Mabillon. Infine nella Verona illustrata (1732) lo stesso schema è applicato alle origini delle lingue neolatine (non influsso barbarico, ma persistenza e sviluppo del latino volgare) e quindi ai costumi e all’arte. Abbiamo già notato (p. 238 sgg.) che la tesi della derivazione dell’italiano dal latino volgare non era affatto nuova, anzi era stata sostenuta in forma molto più unilaterale. Anche per la questione dell’origine dei versi ritmici è facile citare precursori, dai tardi grammatici latini6 agli umanisti che avevano effettuato imitazioni «ritmiche» dei versi di Plauto e di Terenzio, a G. J. Vossius che aveva teorizzato la distinzione tra poesia ritmica e metrica e la maggiore antichità della prima in termini analoghi a quelli del Maffei.7 Ma la novità del Maffei consiste pre5 iIl Maffei supponeva – come più tardi altri studiosi – un originario saturnio «ritmico», poi regolarizzato e reso «metrico» da Nevio: cfr. Ist. diplom., p. 187 = Opusc. eccles., p. 248. Dal Maffei deriva il Muratori, Ant. Ital. Medii Aevi, III, col. 665 sg. 6 iSoprattutto un passo di Beda sulla distinzione fra rhythmus e metrum (ora nei Grammatici Latini del Keil, VII, p. 258) sembrava a favore di questa tesi. Probabilmente già lo stesso Beda, basandosi sulla propria sensibilità ritmica non più quantitativa, aveva frainteso i grammatici più antichi, i quali intendevano per «ritmo» qualcosa di meno regolarizzato del «metro», ma sempre su fondamento quantitativo. Cfr. W. Meyer, Gesammelte Abhandlungen zur mittelalt. Rhythmik, III, Berlino 1936, p. 139; D. Norberg, Introd. à l’étude de la versif. lat. médiév., Stoccolma 1958, p. 87 sgg.; M. Barchiesi, Nevio epico, Padova 1962, p. 310 sg.; S. Mariotti in «Riv. di cultura class. e mediev.» VII, 1965, p. 628. 7 iDel Vossius vedi De artis poeticae natura ac constitutione, cap. XIII, e Poeticarum Institutionum lib. I, cap. VIII, § 12 (tutt’e due nell’ediz. delle Opere di Amsterdam 1697, vol. III,

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cisamente nel legame che egli stabilisce tra i vari aspetti della cultura medievale, e quindi nella visione unitaria del Medioevo italiano come continuazione della civiltà romana (o romano-italica: si ricordi l’importanza da lui attribuita al sostrato), immune da rilevanti influssi germanici. Se, quindi, nel passo sopra citato della Scienza cavalleresca egli aveva asserito che la civiltà romana in tutti i suoi aspetti (fra l’altro anche nella lingua) era stata corrotta dai barbari, ora, nella Verona illustrata, si disdice esplicitamente.8 Resta immutato il patriottismo classicista, l’odio verso i barbari; ma alla visione pessimistica del Medioevo come catastrofe della civiltà romana è sottentrata una visione positiva del Medioevo stesso, almeno di quello italiano. Mentre per quel che riguarda la lingua e la scrittura le teoria del Maffei si sono rivelate – a parte i loro moventi ideologici – scientificamente in massima parte esatte, maggiori riserve si devono fare quanto alla metrica. Rimane, certo, un merito del Maffei l’avere analizzato con grande finezza vari tipi di ritmi mediolatini, a cominciare dal famoso «quindicinario» dell’arcidiacono Pacifico, e l’aver dettano sane norme per la critica testuale dei versi ritmici, tenendosi lontano sia dalle arbitrarie regolarizzazioni secondo i criteri della metrica classica, sia dal lassismo critico-testuale di cui aveva dato prova, fra gli altri, il Muratori. È anche giusto, in via generalissima, il principio che in fatto di metrica «natural cosa è il principiar col più semplice e men perfetto, passando poi al più studiato ed artifizioso»: il Wilamowitz esprimerà lo stesso concetto nella formula von der Freiheit zur Strenge, da lui messa a fondamento dell’evoluzione della metrica greca. Ma assai rischioso fu l’identificare la «semplicità» o «libertà» col sistema accentuativo e l’«artificio» col sistema quantitativo, l’attribuire cioè al volgo romano antico la nostra stessa sensibilità ritmica, la nostra mancanza o debolezza del senso della quantità. Il Maffei non arrivò a enunciare questa tesi in forma estrema, anzi ammise che «il nostro orecchio lunghe e brevi più non distingue, fuorché ne’ raddoppiamenti e nelle penultime sillabe» (diversamente, dunque, dall’orecchio con numerazione delle pagine non continua). Il secondo passo del Vossius è citato anche dal Muratori. 8 iEd. di Milano cit., II, p. 532: «Tanto parci poter bastare, e almeno a noi certamente basta, per conoscere quanto c’ingannammo, quando asserimmo in altr’opera ... e l’abito e la lingua per la dimora de’ Barbari essersi in Italia cambiati».

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dei romani); e tuttavia in quella stessa dissertazione egli contrapponeva, già in Roma antica, i versi accentuativi fatti «a orecchio» ai versi quantitativi composti «dagli uomini di studio». Questo errore ha avuto lunga vita: i vari tentativi di interpretazione accentuativa del saturnio, la convinzione che nei versi di Plauto e di Terenzio l’accento avesse una funzione distintiva accanto alla quantità o perfino al di sopra di essa, la tendenza a considerare la metrica latina dotta come un prodotto di importazione greca non solo riguardo agli schemi dei singoli versi (qui non ci sono dubbi), ma anche riguardo al principio stesso quantitativo: tutto questo complesso di pregiudizi ha la sua radice in quella concezione della poesia ritmica che, come abbiamo visto, preesisteva al Maffei ma che il Maffei contribuì a rafforzare. Le puntate polemiche che il Maffei nella Verona illustrata rivolge contro chi riteneva che Romani e Longobardi si fossero fusi in un unico popolo con uguaglianza di diritti sono certamente allusive al Muratori, il quale aveva già sostenuto quella tesi nelle Antichità Estensi. Anche il Muratori era passato – come narra egli stesso nella lettera autobiografica al conte di Porcìa – dal giovanile antimedievalismo ad una valutazione positiva del Medioevo; ma in un senso ben diverso dal Maffei. Quello che il Muratori apprezzava nel Medioevo non era l’elemento romano, ma il germanico. È stato messo bene in luce da Sergio Bertelli come la simpatia del Muratori per i Goti e i Longobardi nasca nel vivo della polemica giurisdizionalistica contro le pretese temporali del papato e si alimenti nei rapporti col Leibniz.9 Il Bertelli osserva anche giustamente che tale atteggiamento non ha nulla a che vedere con un «preromantico desiderio di esaltazione della barbarie» (i barbari sono apprezzati dal Muratori non per la loro forza primigenia, ma per la loro capacità di civilizzarsi rapidamente a contatto coi romani), e che piuttosto bisogna vedere in esso «una reazione al classicismo barocco e quasi un contraltare alla figura dell’eroe quale era inteso dai canoni secentisti» (p. 257). Accanto al motivo giurisdizionalistico, infatti, uno dei principali impulsi ad una valutazione positiva dei barbari era venuto al Muratori dalle sue indagini genealogiche, 9 iS. Bertelli, Erudizione e storia in L. A. Muratori, Napoli 1960, cap. III. Cfr. l’introduzione di G. Falco a Muratori, Opere a cura di G. Falco e F. Forti, Milano-Napoli 1964, I, p. XXII. Per il filo-longobardismo del Muratori va tenuto presente anche l’influsso del Bacchini: cfr. l’articolo di Arnaldo Momigliano su Bacchini in Diz. biogr. degli Italiani, V, p. 24.

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che lo avevano portato a respingere le vantate ascendenze greche o romane delle famiglie nobili italiane. Attraverso la rivalutazione dei popoli del nord, il Muratori tende a combattere lo sterile orgoglio e il patriottismo accademico della tradizione culturale italiana e a rimettere in contatto l’Italia con l’Europa. Direi che il suo filobarbarismo è una forma indiretta di cosmopolitismo. Perciò, accingendosi a trattare nei volumi II e III delle Antiquitates Italicae Medii Aevi (1739-40) i problemi dell’arte medievale, dell’origine della lingua italiana e dell’origine della poesia ritmica, egli si trovava tendenzialmente in disaccordo con la soluzione «antibarbarica» che nell’Istoria diplomatica e nella Verona illustrata ne aveva dato il Maffei. D’altra parte la tesi del Maffei non era un semplice enunciato aprioristico: aveva dalla sua fatti concreti e ottimi argomenti, che il Muratori era troppo onesto per trascurare. La soluzione a cui il Muratori ricorre consiste quindi nell’accogliere sostanzialmente le opinioni del Maffei, accompagnandole però con tutta una serie di riserve, correzioni parziali, integrazioni. La lingua italiana, dice il Muratori, è la continuazione del latino volgare modificato dai sostrati italici, ma a n c h e all’elemento germanico va dato il suo peso. La poesia accentuativa deriva in primo luogo dalla ritmica popolare latina (e qui il Muratori accetta in pieno l’idea della maggiore antichità e spontaneità di questo genere di versificazione), ma non si può escludere né l’influsso arabo, né quello germanico. Nelle dissertazioni XXXII, XXXIII e XL, dedicate appunto ai problemi linguistici e metrici, il Muratori cita il Maffei parcamente, quasi soltanto per esprimere dissensi: gli studiosi moderni hanno perciò finito col non accorgersi che quasi tutto il buono che c’è in quelle dissertazioni deriva dal Maffei.10 Ciò si dice non per ritessere la cronaca delle indelicatezze e dei dissapori fra i due grandi eruditi (è indubbio che le indelicatezze più gravi furono commesse dal Maffei), ma per sottolineare che, sebbene il Muratori fosse più moderno in certe esigenze di anticlassicismo e di riforma morale-religiosa, sebbene fosse lavoratore più costante e più capace di portare a termine i suoi piani, tuttavia quanto a intuito filologico e a senso dell’essenziale il Maffei era di gran lunga superiore al suo amico-avversario. 10 iVedi qui sopra, pp. 337-338 e n. 26. Anche nelle note ai passi delle Antiquitates inclusi nell’antologia cit. a cura di Falco e Forti (I, p. 630 sgg.) il contributo del Maffei, soprattutto per ciò che riguarda l’origine della lingua italiana, non mi sembra posto nel dovuto rilievo.

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Un campo in cui il Maffei ha ottenuto, anche in confronto al Muratori, il posto che gli compete è quello della storia dell’arte. Giovanni Previtali ha messo in chiaro come la rivalutazione del Medioevo artistico italiano, compiuta nella Verona illustrata, non solo preceda cronologicamente la dissertazione XXIV delle Antiquitates del Muratori («De artibus Italicorum post inclinationem Romani imperii»), ma sia anche basata su una più diretta conoscenza di opere d’arte.11 Ciò che forse rimane un po’ troppo in ombra nell’esposizione del Previtali è la diversità di angolo visuale che, anche per ciò che riguarda le belle arti, si nota tra i due studiosi. Il Maffei rivaluta l’arte medievale, specialmente l’architettura, in quanto continuazione della romana: «Per quanto riguarda la perfetta compositura delle muraglie, e la solidità, e la magnificenza, si ritenne in Italia non solamente dopo la venuta de’ Barbari, ma fino agli ultimi secoli la stessa maniera de’ Romani» (Verona illustrata, ed. cit., vol. II, p. 528). Il Muratori polemizza, sì, anche lui, sulla scia del Maffei, contro il termine di «arte gotica», ma solo per negare che tale arte sia peculiare dei Goti, non – «come aveva fatto il Maffei» – per escludere che in essa abbiano avuto parte i barbari in generale (cfr. Antiquitates, II, col. 354 sg.). All’arte medievale egli attribuisce caratteri suoi: inferiore all’arte grecoromana (e alla moderna neoclassica) per elegantia, l’arte medievale è però talvolta superiore per magnificentia e maiestas (ibid., 354-356, 365), doti che non sono, come riteneva il Maffei, una semplice eredità romana. In questa consapevolezza, sia pure ancora estremamente generica, di caratteristiche di gusto proprie dell’arte medievale bisogna riconoscere, mi sembra, un merito del Muratori: l’insistenza sulla continuità fra evo antico e Medioevo, a cui teneva tanto il Maffei, era fondamentalmente giusta nel caso di attività più «strumentali» che «sovrastrutturali», come la lingua e la scrittura: diventava meno giusta per attività più soggette a subire l’effetto delle trasformazioni della società, come le arti. Mentre il Maffei esercitò un forte influsso sui classicisti dell’Ottocento – Leopardi da un lato, Romagnosi e Cattaneo dall’altro,12 – l’at11 iG. Previtali, La fortuna dei primitivi dal Vasari ai neoclassici, Torino 1964, pp. 70 sgg., 79 sgg. Sul Maffei come conoscitore e giudice di opere d’arte, specialmente veronesi, cfr. Franco Barbieri, S. Maffei storico dell’arte, in «Miscellanea Maffeiana», Verona 1955, p. 25 sgg. 12 iVedi qui sopra, pp. 338, 340, 342-343. Per il Leopardi vedi anche C. Galimberti in «Rassegna della letter. ital.» LIX, 1955, p. 460 sgg. L’ammirazione non meramente culturale che il Leopardi ebbe per il Maffei come precursore di quel tipo di nobile «alfieriano» di cui egli stesso si considerava un esempio, è documentata da Zib., 4419.

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teggiamento filobarbarico del Muratori, come già abbiamo accennato, trovò naturalmente consensi in campo romantico. Tuttavia i romantici introducevano un punto di vista nuovo in quanto consideravano come elemento decisivo della distinzione fra antichità e Medioevo l’avvento del cristianesimo (vedi sopra, p. 338). È singolare, in effetti, come tanto il Maffei quanto il Muratori, benché implicati a fondo nella problematica religiosa del loro tempo, abbiano trascurato quasi del tutto, nella loro valutazione complessiva del Medioevo, l’elemento religioso. Sia il Medioevo classicheggiante del Maffei, sia il Medioevo germanico del Muratori, non sono affatto contrapposti all’antichità in quanto epoca cristiana ad epoca pagana; anzi nel Muratori, come si è detto, la simpatia per i Longobardi nemici del papato è colorata di giurisdizionalismo – sebbene con toni meno accesi che nel Giannone –. Diviene quindi spiegabile come il Manzoni, nel Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, polemizzi contro il Muratori con una forte animosità che affiora sotto un tono ostentamente pacato; e come addirittura, per impugnare il filo-longobardismo del Muratori, prenda a prestito molti argomenti dal Maffei e lo citi con molto onore.13 Ma in realtà, nella prospettiva storiografica generale il Manzoni non concorda minimamente neppure col Maffei: alla svalutazione dei Longobardi egli univa, come appare chiaro dalla Lettre à Chauvet e da vari altri scritti, la svalutazione dei Romani e di tutta la civiltà antica. Allo stesso modo la famosa frase «Le rugiade del medio evo! Dio ne preservi l’erbe de’ nostri nemici» riprende, certo, un motivo illuministico, ma lo inserisce in un generale pessimismo su tutta la storia umana, la moderna non meno dell’antica. Soltanto la politica dei papi nel Medioevo riceve da lui una difesa: una difesa, tuttavia, anch’essa piuttosto cauta, consapevole che il papato stesso, in quanto forza temporale, soggiace in certa misura alla feroce legge («far torto, o patirlo») che governa il mondo.

2. A proposito di un inedito del Cattaneo sulla poesia dialettale In «Paragone» (serie Letteratura, XVI, fasc. 184, giugno 1965, p. 3 sgg.) Silvia Giacomoni pubblica un articolo inedito e incompiuto del Cattaneo Sui milanesi e il loro dialetto, in occasione della traduzione 13

iVedi specialmente la parte finale del cap. IV del Discorso manzoniano.

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milanese della Poetica di Orazio, da lei rinvenuto tra le carte Cattaneo presso le Raccolte storiche del Comune di Milano. L’articolo, «databile al 1836, anno della pubblicazione a Milano de L’arte poetica esposta in dialetto milanese di Giovanni Rajberti», presenta un notevolissimo interesse, sia per la grande bellezza di questa prosa lucida ed energica, già all’altezza del Cattaneo migliore, sia perché costituisce in parte, per le idee che enuncia, una sorpresa: il Cattaneo non solo difende in pieno la letteratura in dialetto e polemizza, pur senza nominare il Giordani, col suo famoso articolo antidialettale della «Biblioteca Italiana», ma non risparmia aspre puntate nemmeno al Monti. Osserva a questo proposito la Giacomoni: «Si sarebbe tentati, sulla scorta anche di altri inediti risalenti allo stesso anno, di ipotizzare un cedimento del Cattaneo alle idee romantiche, delle quali questo scritto rappresenterebbe una radicalizzazione. Ricordiamo però che negli anni intorno al 1836 il Cattaneo si dedica quasi esclusivamente agli studi di economia e alle intraprese finanziarie, e lascia trasparire nei suoi scritti i primi accenni a quella che sarà la sua poetica della letteratura scientifica: ponendosi un problema squisitamente letterario egli non poteva svolgerlo che in termini di completa rottura con il proprio passato di apprendista-classicista, e ne fa fede il poco riverente ritratto del Monti». A queste osservazioni – che condivido, specialmente per ciò che riguarda il rapporto fra la «poetica della letteratura scientifica» e questa impennata contro i classicisti – vorrei aggiungere qualcosa. Mi pare necessario innanzi tutto notare che alla raffigurazione satirica dei classicisti («si aggruppavano intorno al canuto Monti timoroso per la sua gloria molti amatori delle abitudini ereditate, e zelatori delle Muse a cui le Muse non aveano mai sorriso») tien dietro quella, altrettanto ostile, dei romantici («O r a g l i i n n i s a c r i i n l i n g u a s ib i l l i n a, i r o m a n z i i s t o r i c i, le strenne, le traduzioni, i rimpasti e la quotidiana selva degli articoli da teatro sono l’unica nostra industria mentale ... Intanto dopo la caduta della mitologia il romanzo e la poesia riscaldarono le fredde ceneri del misticismo ...»), la quale culmina in un accenno ostile a quel Rosmini contro cui il Cattaneo sosteneva nello stesso anno 1836 una dura polemica in difesa del Romagnosi (SF, I, pp. 19 sgg., 39 sgg.; cfr. L. Ambrosoli, La formazione di C. Cattaneo, pp. 69 sgg., 124 sgg.).

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La posizione del Cattaneo sembra dunque essere questa: favorevole ai romantici milanesi del ’16-21 in quanto avversari di un accademismo fossile; ma deluso per gli sviluppi del movimento romantico, che aveva finito col sostituire a un conformismo un altro conformismo e con lo scoraggiare lo spirito scientifico («Le scienze fisiche non danno successori ai grandi che furono superstiti al Secolo XVIII. La gioventù si cura poco d’esperienze ove non sia nella bigattiera o in cantina. Le scienze morali dovranno compiangere a lungo la perdita di Romagnosi e dell’inonorato Gioia»). Da questa insofferenza per ogni «bella letteratura» che evada dalla realtà della vita e della scienza scaturisce la valutazione positiva della poesia dialettale. Finché il Cattaneo considera tale poesia come espressione del «vero stato degli animi e delle anime», come «specchio delle abitudini, delle tradizioni, delle simpatie, delle antipatie» (p. 4), concorda più o meno con la difesa che dei dialetti aveva fatto il Borsieri nelle Avventure letterarie di un giorno. Ma quando, nello stesso articolo, soggiunge che «la poesia vernacola giova non solo a rappresentare l’intimo spirito degli uomini e dei tempi ma benanco a dargli spinta e direzione», e la definisce «strumento che giunge ad operare entro le latebre più intime della società, e urta e rompe i fili delle pertinaci tradizioni domestiche, e quindi affretta e sprona il corpo del pensiero e il progresso delle generazioni» (p. 6), allora si distacca non solo, come è ovvio, dai romantici reazionari – per i quali i dialetti erano da apprezzare proprio come espressione di quelle «pertinaci tradizioni domestiche» –, ma anche dai romantici illuminati del «Conciliatore». Alla poesia dialettale egli attribuisce un’attiva funzione di polemica sociale e di rinnovamento illuministico. Questo motivo ritorna – con espressioni analoghe, anche se, forse, con minore incisività – in scritti successivi del Cattaneo. Nell’articolo Della satira, pubblicato nel ’39 come recensione a un altro travestimento dialettale di Orazio per opera del medesimo Rajberti, il Cattaneo scrive (SL, I, p. 129): «Ai nostri tempi Milano, non ostante l’eteroclito dialetto, sembra aver preso un certo primato letterario sulle altre città d’Italia. E, se valesse il termometro della satira, sarebbe forza riconoscervi una vera superiorità mentale, poiché la satira di Carlo Porta, per altezza d’obietti, intrepidezza d’assalto e vigor d’espressione, non ha riscontro in altra città. È dunque parte del nostro orgoglio municipale che la sferza troppo presto caduta di mano a Porta,

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non giaccia inerte al suolo; ma si rialzi, si agiti di quando in quando, e ne faccia accorgere d’esser vivi». E ancora nelle Notizie naturali e civili su la Lombardia del 1844 (SSG, I, p. 432) dirà: «Questo dialetto, inosservato all’Europa, ma parlato da più d’un milione di popolo, ha due secoli di letteratura. Uomini d’ingegno e di studii e d’alto affare si finsero plebe, affilarono coll’acerbità popolare l’ottusa verità ...14 Carlo Porta, poeta d’altissimo ingegno, alla naturalezza del dipinto fiammingo15 congiunse la forza comica di Molière, il frizzo di Giovenale, l’efficacia contemporanea di Béranger ...». In che rapporto sta questa rivendicazione della letteratura dialettale col programma di eliminazione dei dialetti, che il Cattaneo aveva enunciato già nell’abbozzo di opera etnografico-linguistica del ’24 (SL, I, p. 410: «Dei mezzi con cui sostituire la lingua ai dialetti») e tornò ad enunciare proprio nel ’36 (Interdizioni israelitiche, in Scritti economici, ed. Bertolino, I, p. 336) e poi ancora nel grande saggio del 1841 Sul principio istorico delle lingue europee (vedi qui sopra, pp. 334-335 e note 16-17)? Tra una politica culturale antidialettale e l’ammirazione per l’arte e per l’arguzia satirica di un Porta non c’è contraddizione: si tratta di piani diversi. Ma più difficile è conciliare pienamente quel programma con la tesi di un valore sociale progressista (non soltanto artistico) della satira dialettale: era appunto questo valore che il Monti e il Giordani negavano. C’è qui perciò un’oscillazione nel pensiero del Cattaneo: la conciliazione tra i diritti delle «piccole patrie» e le esigenze di unificazione politico-culturale costituì per lui, come già abbiamo visto (pp. 358-359), un problema non mai definitivamente risolto. In questa oscillazione un fattore non trascurabile era rappresentato dal fortissimo attaccamento del Cattaneo alla tradizione milanese. Antidialettale – e quindi concorde col Monti e col Giordani – quando si trattava di reagire al fiorentinismo della Crusca o del Tommaseo o del Manzoni,16 il Cattaneo era pronto però a insorgere in difesa 14 iLa poesia dialettale non è dunque, per il Cattaneo, espressione immediata dello «spirito popolare» in senso romantico, ma opera di poeti colti che si servono dell’arguzia plebea come strumento espressivo. 15 iCosì già nell’articolo del 1836 (p. 5): «Nelle storie di Porta ella (l’ironia) si unì a tutto il vigore e a tutta la verità di un dipinto fiammingo». 16 iVedi per esempio come, nella polemica col Tommaseo, riemerga in tutta la sua forza l’esigenza dell’unificazione linguistica e il fastidio per il dialettalismo: «Quale invasione di barbari è codesta? Qual ribellione di ortolane e di pettegole e di raccattoni da Fiesole e da Camaldoli

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del suo dialetto. La polemica antigiordaniana con cui s’inizia l’articolo del ’36 è anche una reazione di meneghinismo offeso, sebbene certo non si riduca soltanto a questo. Non a caso tanto in questo articolo quanto in quello sulla satira, e poi più ampiamente nelle Notizie naturali e civili, la difesa della poesia dialettale si inserisce in un’esaltazione di tutta la storia economico-sociale e culturale di Milano. Anche nella questione del classicismo e del romanticismo c’è fra l’articolo del ’36 e gli scritti della maturità una diversa accentuazione. Certo, il Cattaneo continuò sempre a dichiararsi indipendente da tutt’e due le tendenze scolasticamente intese: «Non faremo tesi di pedanteria classica, ma nemmeno di pedanteria romantica», scriverà nel ’62 (SL, II, p. 252 sg.); ma proprio quel «ma» indica chiaramente dove adesso batte la polemica. E lo conferma quel che segue: «I due generi, i due mondi, non sono forse così facili a separarsi perfettamente, come i credenti pensano. Anche in poesia, come in altre cose assai più gravi, per la via dell’oriente si perviene all’occidente; e per la via dell’occidente si perviene, pur troppo, all’oriente!». Anche qui, mentre si respinge sia l’uno sia l’altro dogmatismo, l’ironia grava soprattutto sui romantici, che si vantano novatori, moderni, «occidentali», e intanto col loro misticismo ci riconducono all’«oriente» (si ricordi il valore ideologico che il Cattaneo attribuiva alla contrapposizione Asia-Europa: qui sopra, p. 355 sg.). Così pure nel saggio su Ugo Foscolo e l’Italia (1860) ritorcerà contro i romantici l’accusa da loro rivolta ai classicisti, di imprigionare in una precettistica la libera fantasia del poeta: «Un giorno vedremo forse quanto inique fossero ai liberi ingegni quelle dottrine che chiusero le nostre arti nei misterj del medio evo, e fecero schiava al Procuste germanico l’Italia. Foscolo, italiano nell’anima quant’altri mai, non pensava così; e le anime nostre vogliono esser libere come la sua» (SL, I, p. 315 **). E già nella prefazione al primo volume di Alcuni scritti, come abbiamo notato, sotto l’atteggiamento formale di distacco da entrambe le scuole e di fastidio per una contesa che aveva fatto troppo contro la lingua d’una nazione, contro il solo vincolo della vita e del nome comune? Per fermo quest’è opera di tenebre e di confusione, contro la quale parlar dovrebbe chiunque ha caro questo prezioso patrimonio dei dotti e del vulgo, la lingua, la lingua, che, più dell’alpi inutili e del mare non nostro, segna il confine e la divisa della nostra gloriosa nazione» (SL, I, p. 116). E nel passo già citato delle Interdizioni israelitiche l’eliminazione dei dialetti (e del campanilismo di cui sono espressione) è addirittura considerata «un fomento alla pace universale».

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rumore si rivela chiara la molto maggiore simpatia per i classicisti; e il Monti, irriso nell’articolo del ’36, è in quella prefazione perfino troppo rivalutato. L’articolo del ’36 è comunque interessantissimo perché fa meglio comprendere come il filoclassicismo del Cattaneo non sia stato un fatto di pigrizia mentale e di impermeabilità alle nuove idee, ma sia maturato attraverso ripensamenti e attenta valutazione delle ragioni delle due parti avverse. Può anche darsi che nella prefazione ad Alcuni scritti, rievocando a più di vent’anni di distanza il proprio atteggiamento giovanile di fronte alla polemica classico-romantica, egli si sia raffigurato ancor più univocamente filoclassicista di quanto fosse stato in realtà. Si può pensare, cioè, che negli anni venti e ancora negli anni trenta egli abbia oscillato tra il riconoscimento di quel che c’era di giusto e di illuministico nell’anticlassicismo del «Conciliatore» e l’avversione al misticismo e al medievalismo romantico; e che soltanto a distanza di tempo si sia convinto che il movimento romantico aveva complessivamente portato più danno che vantaggio al progresso civile e culturale. Forse la pubblicazione di altri inediti giovanili potrà dirci se questa ipotesi ha qualche fondamento. ** ** **

Appendice II. Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento italiano ∼

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome

Nella collana dei Classici Ricciardi il volume curato da Piero Treves rappresenta, come pochi altri, il superamento di una concezione strettamente letteraria della letteratura, il riconoscimento che nemmeno le grandi personalità artistiche sono comprensibili appieno se non si studia la cultura di cui si nutrirono. E certo nella formazione dei poeti, scrittori, ideologi dell’Ottocento italiano lo studio dell’antichità classica ebbe una parte essenziale, e il diverso modo di intendere e valutare la civiltà antica costituì uno dei principali punti di dissenso tra le varie correnti di idee, dalla polemica classico-romantica fino alle discussioni di fine secolo tra marxisti, positivisti, neo-idealisti, puri eruditi. Un libro, dunque, questo, che è destinato ad apportare un’integrazione indispensabile alla storia culturale del nostro Ottocento. Il criterio antologico che ispira la collezione ricciardiana, e che è, a mio parere, fuor di luogo per i massimi autori della nostra letteratura, si dimostra invece del tutto opportuno quando si tratta, come qui, di presentare movimenti di cultura, piuttosto che singole personalità d’eccezione, a un pubblico non strettamente specializzato. Il Treves, del resto, ha incluso nella sua antologia non piccole gemme isolate, ma lunghi brani, per lo più, anzi, scritti interi; e l’introduzione generale all’inizio del volume, gli ampi saggi su ciascun autore, le note esplicative contribuiscono a inserire i singoli «pezzi» della raccolta in una visione unitaria. ∼iRecensione a Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento a cura di Piero Treves, MilanoNapoli, Ricciardi, 1962 («La letteratura italiana», Storia e testi, vol. 72), pubblicata in «Critica storica», II (1963), pp. 603-611.

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Rispetto ad altri, pur pregevolissimi, lavori del Treves (il saggio su Ciceronianismo e anticiceronianismo nella cultura italiana del sec. xix nei «Rendiconti dell’Ist. Lombardo» del 1958; il volume su L’idea di Roma e la cultura italiana del sec. xix, uscito presso lo stesso Ricciardi), la superiorità di questo volume mi sembra indubbia. Comune a tutti e tre è la straordinaria dottrina (nessuno, in questo campo, ha letto quanto il Treves!) e soprattutto la capacità di ricostruire una fitta trama di influssi e di rapporti culturali tra storici italiani e stranieri, tra studiosi professionali dell’antichità e letterati e politici: vedi, per esempio, come il Treves sa tener dietro a tutte le reazioni suscitate in Italia dalla storiografia del Niebuhr, del Grote e del Mommsen. Ma nei lavori precedenti la sovrabbondanza della dottrina offuscava talvolta la chiarezza della ricostruzione storica; qui la necessità stessa di tracciare profili di autori singoli, di commentare singoli testi, ha portato ad una maggiore nitidezza, senza per questo far perdere la visione d’insieme. Anche lo stile, pur ricco di quegli arcaismi e di quelle preziosità che il Treves ama un po’ troppo, è meno faticoso che negli scritti precedenti, e raggiunge in parecchi punti una notevole efficacia espressiva. I più felici tra i profili mi sembrano quelli del Visconti, del Monti, del Giordani, del Borghesi, del Ferrai, del Comparetti. Dei primi due il Treves mette bene in luce la «feconda capacità di apertura europea» (p. 181), l’esigenza di superare l’angustia provinciale del classicismo controriformistico – donde anche, sul piano politico, la loro adesione al dispotismo illuminato napoleonico e l’incomprensione a cui furono fatti segno da parte della generazione seguente, già tutta impegnata in senso patriottico, ostile al cosmopolitismo settecentesco –. Del Giordani, che finalmente ottiene il posto che gli compete in una storia della cultura italiana, il Treves, dopo una pregevolissima caratterizzazione generale, sottolinea l’importanza dei giudizi sul De re publica di Cicerone e su Lucano. Questo del lucanismo nella cultura italiana è un problema di primaria importanza: il Treves contribuisce al suo studio con una lunga e dotta nota, in cui, prendendo lo spunto dal Giordani, insegue le tracce di letture lucanèe lungo tutto l’Ottocento, fin nel testamento di Garibaldi (p. 444 sg.). Contemporaneamente al volume del Treves, è uscito un interessante articolo di Lao Paoletti, uno scolaro di Antonio La Penna, su La fortuna di Lucano dal Medioevo al Romanticismo (in «Atene e Roma», 1962, p. 144 sgg.). Certo è che il

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libertarismo dell’ultimo Settecento e del primo Ottocento, specialmente nelle sue espressioni più disperate e titanistiche, ha in Lucano un suo diretto ispiratore («Tenea ’l Ciel dai Ribaldi, Alfier dai Buoni»); e spesso si continua a chiamare plutarchismo anche quello che più esattamente dovrebbe dirsi lucanismo; ma su ciò vorrei ritornare altrove.1 Sul Comparetti c’era già un saggio esemplare, quello di Giorgio Pasquali; ma anche qui il Treves ha saputo dire parecchio di nuovo, specialmente sul precoce isolamento del grande studioso dalla cultura italiana post-unitaria e sulla particolare intonazione del suo epicureismo (pp. 1058 sgg., 1089). Collocherei tra i saggi più riusciti anche quello sul Mai, se non fosse un po’ troppo uniformemente svalutativo: è giusto limitare fortemente il valore del Mai filologo, ma non ridurre le sue scoperte a semplici colpi di fortuna; e se i discorsi di circostanza del Mai sono fredde esibizioni di oratoria conformistica, alcune lettere e prefazioni ci fanno scorgere esigenze, certo non attuate ma tuttavia significative, di rinnovamento culturale, attinte al Giordani e a tutto l’ambiente lombardo del primo Ottocento.2 Ma più che continuare a passare in rassegna i vari saggi introduttivi e a segnalarne i molti pregi, è utile dare un’idea dell’impostazione generale dell’opera: poiché il Treves, uomo eruditissimo, non si appaga affatto della pura erudizione, anzi è uno studioso fortemente impegnato e caratterizzato dal punto di vista ideologico, come tutta la sua produzione dimostra con piena evidenza. Egli stesso dichiara (pp. XLII, XLVI) il suo debito verso la Storia della storiografia italiana nel sec. xix di Croce, che è senza dubbio una delle opere più vitali dell’insigne maestro, l’unica, forse, che autorizzi davvero a parlare di un «Croce storico» più ricco e moderno del Croce filosofo. Col Croce il Treves concorda nel considerare la scuola neoguelfa come la migliore espressione della storiografia italiana dell’Ottocento; concorda nell’ostilità al positivismo e al marxismo (al quale riconosce soltanto una limitata funzione di stimolo critico) e nella concezione puramente strumentale della filologia (su cui ritorneremo più oltre). Non mancano, tuttavia, le divergenze, o almeno le diverse accentuazioni di certi motivi. 1 i| Vedi ora il primo saggio {di «Aspetti e figure della cultura ottocentesca»: «Aspetti della fortuna di Lucano tra Sette e Ottocento», pp. 1-79 } |. 2 | Vedi {«Angelo Mai», ivi}, pp. 245-247 |.

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II Treves è molto più «antibismarckiano», molto più avverso alla Realpolitik di quanto non fosse Croce – anche l’ultimo Croce, scottato dall’esperienza fascista, ma pur sempre restìo a rinnegare il fondo «prussiano» del suo pensiero politico, il suo disprezzo per le ideologie umanitarie e illuministiche. La simpatia stessa per gli storici neoguelfi si arricchisce in Treves di un motivo «anticesareo» che a Croce era del tutto estraneo (si ricordi che, dopo aver esaltato i neoguelfi nel capitolo VI, Croce dedicava il capitolo VIII agli «sviati della scuola cattolico-liberale», cioè proprio alla critica del moralismo neoguelfo). I due tests fondamentali in base a cui il Treves giudica gli storici ottocenteschi del mondo antico sono la fine della libertà greca e la fine della libertà romana, il conflitto tra Demostene e Filippo e quello tra Cesare e gli ultimi difensori della repubblica; e le sue simpatie vanno agli storici anti-giustificazionisti. Si riconosce l’autore di quel libro su Demostene e la libertà greca che, uscito nel 1933, rappresentò una coraggiosa affermazione di antifascismo. Il valore positivo di questo atteggiamento va certamente sottolineato, oggi che la maggior parte degli storici italiani è ossessionata dal timore di incorrere nell’accusa di «moralismo» e pronta a tutto pur di evitarla. Ma, credo, occorre distinguere meglio tra un antigiustificazionismo progressista ed uno reazionario, tra l’anticesarismo democratico del Giordani o di Atto Vannucci e quello conservatore (e veramente moralistico in senso angusto) di Enrico Bindi, o addirittura la mediocrissima pubblicistica antirivoluzionaria dei Romani nella Grecia di Vittorio Barzoni, in cui i nomi antichi sono delle semplici crittografie per sfuggire a un immediato sequestro da parte della polizia napoleonica. Così pure la corrente di patriottismo italico e antiromano (rappresentata nell’antologia dal solo Micali), al di sotto di un’apparente uniformità, cela contenuti ideologici e politici di volta in volta ben diversi. Ma in quale misura è esistita nel secolo scorso una storiografia del mondo antico che possa dirsi neoguelfa? Questa è la domanda che si presentava spontanea già al lettore de L’idea di Roma e che si ripresenta al lettore del nuovo volume. Il Croce, anche se sopravvalutò la scuola neoguelfa, aveva comunque tutto il diritto di parlarne ampiamente, perché si riferiva agli studi di storia medievale di Balbo, Troya, Manzoni, Capponi. Ma nel campo della storia antica, a cui si riferisce il Treves, è difficile indicare in tutto l’Ottocento una sola opera ori-

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ginale di indirizzo neoguelfo. Vi sono, certo, brevi scritti e occasionali meditazioni di cattolici liberali sulla storia e la letteratura romana (col greco nessuno di essi aveva confidenza). Il Treves riporta nella sua antologia, con un prezioso commento, due testi di grande interesse, le postille del Manzoni alla Storia romana del Rollin e gli Studi sopra le lettere di Cicerone di Gino Capponi: il primo tutto teso alla condanna morale del mondo antico (violento, schiavista, adoratore del potere politico e della falsa gloria militare, e quindi essenzialmente anticristiano), il secondo più preoccupato di conciliare il cristianesimo con la comprensione storica del mondo pagano. Sta di fatto, però, che queste meditazioni non costituirono, come il Treves stesso riconosce (pp. XXX-XXXII), un avvìo a un’esplicita attività storiografica. La polemica contro l’idealizzazione retorica dell’antichità – quella che il Treves chiama felicemente la «decoturnizzazione dell’antico» – è certo un merito di alcuni scrittori cattolico-liberali (non, tuttavia, una caratteristica esclusiva della loro scuola: contro il valore paradigmatico dell’antichità classica si batté sempre il Giordani, si erano battuti gli illuministi nel Settecento; e d’altra parte, non è forse affetto gravemente dalla retorica della romanità il Gioberti, leader politico e ideologico del neoguelfismo?). Ma la «decoturnizzazione», benché importantissima, appartiene ancora alla pars destruens: i romantici, i neoguelfi italiani non fecero seguire ad essa la costruzione di una nuova filologia e storiografia, ma preferirono svalutare l’antichità pagana a favore del Medioevo cristiano. E in quella loro condanna dell’antichità, insieme a fermenti di umanitarismo cristiano-democratico, di antiretorica, di antigiustificazionismo, c’erano (non solo negli oltranzisti francesi alla Gaume, molto efficacemente caratterizzati dal Treves, ma anche nel Manzoni) motivi di polemica antimaterialistica e antigiacobina; così come, a sua volta, il classicismo del primo Ottocento non fu soltanto difesa di una tradizione letteraria imbalsamata, ma, in alcuni suoi rappresentanti, repubblicanesimo, laicismo, antimetafisica. Ciò ha riconosciuto ed espresso assai bene lo stesso Treves nel capitolo de L’idea di Roma intitolato «L’ambivalenza del classicismo» (p. 36 sgg.) che è, a mio parere, il migliore di quel libro. I più ampi sviluppi che quel capitolo avrebbe potuto avere nell’una e nell’altra opera del Treves sono stati, mi pare, bloccati dall’eccessivo amore per la tesi neoguelfa.

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La mancanza di filologi e storici dell’antichità specificamente romantici e neoguelfi in Italia, d’altra parte, ha costituito per il Treves un incentivo ad allargare oltre ogni limite le categorie di romanticismo e di neoguelfismo, fino a includervi studiosi di tutt’altro orientamento. Per quel che riguarda il romanticismo, come è noto, questo procedimento è stato già messo in atto da molti studiosi: si è finito col fare di «romanticismo» un sinonimo di «civiltà liberale-democratica dell’Ottocento», o addirittura di tutto ciò che nell’arte e nella cultura ottocentesca non è accademismo frigido: così Goethe, Foscolo, Leopardi, Heine, Cattaneo – tutta gente che col romanticismo polemizzò con asprezza – sono stati annessi, loro malgrado, alla schiera romantica. Anche per il Treves romantica è «tutta la migliore intelligentsia europea» (p. 592), romantico ogni storicismo; e un analogo ampliamento subisce per opera sua il neoguelfismo, che non è più solo una forma di cattolicesimo liberale (e anche queste due correnti andrebbero tenute più distinte di quanto faccia il Treves), ma è «l’unico tentativo sistematico di elaborazione d’un’educazione popolare italiana, d’una sintesi storica di nuovo e d’antico, di classico e popolare, di tradizione e rivoluzione. La quale, indipendentemente dall’opera individua dei singoli, dal loro contingente militare in uno o in altro partito, dal loro aderire all’una o all’altra scuola storiografica, restò per mezzo secolo, dalla maturità del Manzoni alla maturità del Carducci, il sostrato universo della nostra cultura» (p. XXVIII). Tutto il libro, perciò, è pieno di romantici inconsapevoli (il Giordani e il Leopardi nei loro momenti validi, pp. XXIX; 457, n. 1; 472; perfino il Peyron, p. 875, perché «ebbe il senso della storia» e s’interessò di fonti non letterarie, come le epigrafi e i papiri) e di neoguelfi inconsapevoli. Avversione alla retorica della romanità e anticesarismo: basta la presenza di uno di questi due caratteri – e non sarebbero sufficienti nemmeno tutti e due – perché uno studioso sia aggregato al neoguelfismo. In base al primo carattere, il Niebuhr diviene una specie di collaboratore inconscio del Manzoni, il Mommsen un suo allievo ideale (pp. XXXI, 597, 602; cfr. L’idea di Roma, p. 81 sg.), sebbene il Treves stesso dichiari che rapporti Niebuhr-Manzoni e MommsenManzoni sul piano degli studi storici non ve ne furono, che «il Niebuhr costruiva, professionalmente, la storia; mentre il Manzoni, le quante volte si propose di trattarne ex professo, la demoliva», che i manzoniani e i neoguelfi furono tutti ostilissimi ai due grandi storici

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tedeschi (pp. 597, XXXI sg.). In base al secondo carattere, un violento anticlericale e democratico avanzato come Atto Vannucci diventa anch’esso un neoguelfo. Il caso del Vannucci è paradossale perché non c’è pagina di lui – anche tra quelle riportate dal Treves – che non contraddica a questo suo incasellamento tra i neoguelfi. L’anticesarismo del Vannucci è quello della tradizione alfieriana e giordaniana, rinfocolato dall’ostilità per Napoleone III. Il Vannucci esalta il suicidio di Catone (p. 768), mentre il Manzoni, il Capponi e il Bindi, anticesariani ma cattolici, lo condannavano severamente. Il Treves, a questo proposito, rimprovera il Vannucci di incoerenza (p. 768, n. 5), mentre la vera incoerenza consiste, mi sembra, nel voler fare ad ogni costo un neoguelfo di un democratico anticlericale. Né è prova di neoguelfismo la polemica del Vannucci contro il Gaume (p. 728): se l’ultraclericale francese, che voleva bandire ogni istruzione classica perché diffonditrice di paganesimo, era avversato dai cattolici di spirito aperto, tanto più dovevano avversarlo i classicisti laici. Io credo che, pur non vietando evidentemente a nessuno di usare il concetto di romanticismo e altri analoghi in senso lato, come atteggiamenti spirituali che si possono ritrovare in epoche e in autori diversissimi, si debba però, quando si fa storia dei movimenti culturali dell’Ottocento, restituire a queste categorie il loro valore storico preciso, e tenere conto dell’adesione consapevole del tale o tal altro individuo a questo o quel «partito culturale». Anche nella storia politica vi sono, evidentemente, socialisti influenzati più o meno consapevolmente dal liberalismo, cattolici più o meno eterodossi e via dicendo; ma che cosa diventerebbe una storia dei partiti politici in cui si prescindesse totalmente dalle esplicite professioni di liberalismo o di socialismo, dall’appartenenza a questo o a quel partito? Ebbene, a un tal punto di confusione rischiamo di arrivare nella storia culturale dell’Ottocento. Certo, i «partiti culturali» sono sempre più fluidi dei partiti politici, e gli stessi partiti politici erano nel secolo scorso ben lontani dalla rigida struttura di quelli odierni; ma tale fluidità non dev’essere esagerata a proprio piacimento dallo storico, fino a trasformare i classicisti in romantici, i giacobini in neoguelfi. Una volta ristabilite queste distinzioni, si vedrà, credo, che il meglio degli studi classici nell’Italia preunitaria non è dovuto ai neoguelfi o ai romantici, ma ai classicisti-illuministi: Monti, Giordani, Peyron (solo dopo il ’48 passato da posizioni illuministiche e riformatrici a

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posizioni clericali e reazionarie), Leopardi, Cattaneo. L’influsso di questa corrente perdura anche nel secondo Ottocento: al Cattaneo si ricollega l’Ascoli (la cui impostazione della questione della lingua è nettamente antimanzoniana e antiromantica); lo stesso Comparetti poté, sì, essere definito «romantico» dal Pasquali per il suo interesse per le tradizioni popolari, ma non si deve dimenticare l’ispirazione profondamente illuministica e laica del Virgilio nel medio evo, che culmina nell’esaltazione di Dante come primo umanista (molto bene su questo punto il Treves, p. 1054). E se è giusto indicare nelle tendenze razziste e colonialiste, nella propensione alle generalizzazioni affrettate o, viceversa, nell’angustia erudita i lati negativi di molto positivismo, non è giusto svalutare quegli aspetti per cui il positivismo prosegue e sviluppa l’illuminismo: l’antimetafisica, la storicizzazione della natura, l’interesse per il rapporto uomo-natura. Questi aspetti non furono privi di ripercussioni nemmeno nel campo degli studi grecolatini: è un riflesso del positivismo il rinnovato interesse per Epicuro e Lucrezio, che in Italia trovò espressione in Gaetano Trezza e, con maggiore distacco storico, nel Comparetti e soprattutto nello splendido commento a Lucrezio di Carlo Giussani. Con la predilezione per una storiografia orientata in senso prevalentemente etico-politico si connette, nel Treves, il disprezzo per la filologia in senso stretto (critica testuale, interpretazione), che egli qualifica più e più volte come mera «tecnica», distinguendola recisamente dalla storia. Contro un certo tipo di filologismo che oggi rischia di prevalere negli studi storici, e che presume di espungere dalla storiografia ogni interesse «pratico-politico», la protesta del Treves ha il suo valore. Ma ricadere nella concezione crociana di una filologia puramente strumentale rispetto alla storia etico-politica o alla critica letteraria, non è, a mio parere, il modo giusto di reagire al filologismo. L’interpretazione di un passo, la ricostruzione di un testo mal tramandato, sono lavoro storiografico: sono, se vogliamo, «micro-storia», la quale non deve certo soffocare l’esigenza di una storia più ampia, culturale o politico-sociale, ma non è neppure semplice mezzo per quelle più vaste sintesi. La filologia testuale ed esegetica – la filologia di un Porson, di un Hermann, di un Leopardi – è autonoma nella stessa misura in cui si può considerare autonoma qualsiasi attività umana, la quale, in quanto distinta da altre per una necessità pratica di divisione del lavoro, reca sempre in sé il pericolo del settorialismo,

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dell’angustia specialistica: in questo senso, certo, è purus asinus il puro filologo, ma anche il puro artista, filosofo, politico: l’errore consiste nello strumentalizzare certe attività e nel dare una posizione privilegiata a certe altre. D’altra parte, senza il possesso della deprecata «tecnica» l’interesse storico rimane velleitario. La sintesi di filosofia e filologia proclamata da Vico rimane inattuata se – come in Vico stesso – manca o difetta la filologia. Proprio l’insufficiente preparazione filologica è uno dei motivi principali per cui gli scritti dei nostri Bindi, Centofanti, Trezza su cose romane sono «espressione di polemica immediata, non esperienza attuale tradottasi in problema storico» – così Arnaldo Momigliano, in una vecchia ma tuttora valida polemica contro il nazionalismo storiografico di Mario Attilio Levi (in «Leonardo», V, 1934, p. 566 | ora in Quarto contributo, Roma 1969, p. 662 |), al quale mi pare che conceda troppo il Treves, p. XLIV –. Lo stesso si dica del Foscolo: non si fa torto al suo profondo senso poetico della grecità riconoscendo il presuntuoso dilettantismo delle sue polemiche antifilologiche e dei suoi tentativi eruditi (con una parziale eccezione per gli abbozzi di studi di filologia dantesca degli ultimi anni); e quanto all’esegèsi della lezione ales equus in Catullo, 66, 54, che il Treves (p. 244) cita come contributo filologico originale, bisogna ricordare che quella era l’interpretazione corrente al tempo in cui il Foscolo scriveva il suo commento alla Chioma di Berenice. Vincenzo Monti, nella dissertazione Del cavallo alato d’Arsinoe (Milano 1804, p. 12 sg.), citava una mezza dozzina di «zefiristi», cioè di interpreti convinti che l’ales equus fosse lo Zefiro, tra i quali, ultimo in ordine di tempo, il Foscolo.3 Anche la «tecnica» ha la sua storia, che si intreccia strettamente con la storia «ideologica» della storiografia. Una storia degli studi classici, se non deve prescindere dalle ideologie, dai legami con la storia generale della cultura, non può nemmeno considerare come cosa estranea l’evoluzione dei metodi di ricerca, né i risultati concreti ottenuti grazie all’applicazione intelligente di quei metodi. Il Treves coinvolge in una unica, indifferenziata condanna di tecnicismo i ricercatori mediocri o incapaci e i geniali, gli «antiquari» romani della Restaurazione («un’accademia di tecnici», p. 4) e studiosi di filologia formale 3 i| Su limiti e pregi della filologia foscoliana sono ritornato più tardi: vedi {«Sul Foscolo filologo», in «Aspetti e figure della cultura ottocentesca», cit.}, pp. 105-135 |.

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della forza di un Garatoni o di un Leopardi. I rimproveri che il Peyron moveva alla scadente tecnica editoriale del Mai, la sua rivendicazione della necessità della «critica di parole» accanto alla «critica di cose» (cioè della filologia testuale accanto all’erudizione storico-antiquaria), diventano per il Treves (p. 874 sg.) una presa di posizione dello «storico» contro il «tecnico» che riduceva il compito della filologia all’«apprendimento o all’insegnamento linguistico»; e invece era proprio l’insufficiente conoscenza delle lingue antiche che il Peyron biasimava nel Mai | vedi {«Angelo Mai», cit.,} p. 235 sg. |. Per le stesse ragioni, pur riconoscendo che i filologi italiani del secondo Ottocento non ebbero, tranne il Comparetti, grande ampiezza di orizzonte culturale, e sentirono troppo la loro sudditanza alla filologia tedesca, pur riconoscendo, in particolare, che il Vitelli è stato oggetto di esaltazioni talvolta eccessive, non mi sentirei di condividere pienamente la severità del Treves verso quel gruppo di studiosi, i quali avvertirono l’urgente necessità di sprovincializzarsi, di imparare il mestiere filologico da chi aveva già una solida organizzazione di lavoro in questo campo. Non mi pare, soprattutto, che possa essere liquidato con un accenno poco favorevole (p. 958) Enea Piccolomini, filologo di non grande produttività (anche per una crudele malattia che gli tolse precocemente la possibilità di lavorare), ma lucido rivendicatore dei diritti della filologia formale nella prolusione pisana Sulla essenza e sul metodo della filologia classica (1875) e in altri scritti.4 4 i| Cfr. Il primo cinquantennio della «Rivista di filologia e d’istruzione classica», in quella rivista, C (1972), p. 387 sgg., specialmente 389-93, 403-06. Sul Vitelli ho cercato di dare un giudizio equilibrato, a partire dal suo pamphlet postumo Filologia classica ... e romantica, in «Belfagor», XVIII (1963), p. 456 sgg. e XXXIII (1978), p. 697 sgg., e, per quanto riguarda i suoi rapporti con giovani letterati che ebbero per lui vivissima ammirazione, nell’articolo De Robertis e la filologia, in «L’approdo letterario», X, n. 25, gennaio-marzo 1964, p. 29 sgg.; vedi anche, per l’atteggiamento del Vitelli di fronte a F. De Sanctis, a Croce e a un crociano eterodosso come Luigi Russo, la sua lettera a Russo pubblicata in «Belfagor», XXXIV (1979), p. 305 sgg. Il Treves è tornato a ribadire la sua posizione antivitelliana (troppo antivitelliana, a mio avviso, seppure in parte giustificabile come reazione agli atteggiamenti troppo apologetici di alcuni scolari del Vitelli) nel saggio, come sempre ricco di dottrina, Girolamo Vitelli, in «Studi in onore di Vittorio De Caprariis», Messina 1970, p. 289 sgg. Rimane sempre fondamentale il saggio su Vitelli di G. Pasquali, in Terze pagine stravaganti, Firenze 1942, p. 297 sgg. [Pagine stravaganti, nuova ed. {, Firenze 1968}, II, p. 205 sgg.]; il distacco di forma mentis di Pasquali rispetto al Vitelli è, in questo scritto, ben visibile; ma non può essere sforzato fino a presentarlo quale un’assoluta contrapposizione, come fa il Treves. Quanto al Piccolomini, oltre ciò che ho osservato nell’art. cit. della «Riv. di filologia», p. 418 sg., mi sia lecito rinviare all’articolo {su «Giacomo Lignana e i rapporti tra filologia, filosofia, linguistica e darwinismo nell’Italia del secondo Ottocento»}, in «Critica storica», 1979, p. 489 sg. |.

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Nel caso del Leopardi, l’antipatia per il «tecnico» e quella per il materialista e pessimista si sommano. L’antileopardismo del Treves affiora in numerosi accenni occasionali (vedi per esempio pp. 3, 13, 181, 187, 239, 349, 464, 541, 833, 835, 873) e culmina nel profilo del Leopardi e nelle note apposte ai suoi brani (p. 471 sgg.). Il valore positivo della filologia leopardiana è fatto consistere dal Treves solo in un vichiano interesse per la barbarie eroica, per la vigorosa passionalità e combattività dei popoli antichi (p. 474), che è un motivo, certo, importante – e il Treves ha il merito di ribadirlo con efficacia, dopo il Luporini –, ma non esclusivo nel rapporto del Leopardi con l’antichità. A un aspetto ancor più essenziale, cioè all’interesse del Leopardi per la filosofia ellenistica (basti ricordare la prefazione a Epitteto), il Treves non accenna neppure. Questa limitazione della filologia leopardiana si inserisce in una limitazione di tutta la personalità leopardiana, sulle orme di quel famigerato saggio di Croce su cui anche i crociani di stretta osservanza preferiscono di solito sorvolare, e a cui invece il Treves si riattacca esplicitamente (p. 488). Non è questo il luogo adatto per una discussione generale sulla presunta arretratezza ideologica del Leopardi, né sul suo «nazionalismo» che il Treves vuol dimostrare basandosi in parte su prese di posizione estremamente giovanili, più tardi abbandonate dal Leopardi stesso, in parte su un passo dei Paralipomeni di cui già il Binni (La nuova poetica leopardiana, p. 110; 4a ed., p. 139 sg.) ha indicato la particolare collocazione psicologica e ideologica. Vorrei soltanto accennare a qualche punto singolo. In che senso il progetto di edizione delle opere ciceroniane, «ugualmente significativo nella chiarezza metodica della programmatica impostazione e nel mediocre latino del manifesto pubblicitario», indichi «quanto la filologia leopardiana, ogni qual volta pur si proponga di trascendere l’ambito meramente formale, invece di assurgere e divenire esegesi storica, rimanga sostanzialmente al di qua della storia» (p. 481), non mi riesce assolutamente di capire. Vorremo rimproverare a un progetto di edizione di non essere un progetto di saggio critico, di opera storica su Cicerone? Devo, del resto, ripetere (cfr. «Atene e Roma» 1959, p. 90) che il Leopardi si limitò a criticare e, per quel che era possibile, a correggere un pretensioso e immetodico progetto di Niccolò Tommaseo, che l’editore Stella gli sottopose.5 – I versi dei Paralipo5 i| Cfr. La filologia di G. Leopardi, Bari 19782, pp. 127-129; G. Bezzola, Tommaseo a Milano, Milano 1978, pp. 114-123 |.

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meni (VII, st. 2) «Gli anni non so di Creta o di Minosse: il Niebuhr li dirìa, se vivo fosse» sono uno scherzo, certo, non particolarmente arguto – come in generale sono deboli, nei Paralipomeni e nelle stesse Operette, le battute meramente scherzose, messe lì quasi in obbedienza al «genere letterario», ben lontane dalla più autentica e alta ironia leopardiana –; ma considerare quei versi come un insulto alla memoria del Niebuhr (Treves, pp. 3, 483, 487; cfr. L’idea di Roma, p. 96) è un’evidentissima forzatura. Non ha nulla a che fare col Niebuhr, poi, il «tedesco filologo» dei Paralipomeni, I, st. 16: lì il Leopardi prende di mira quegli pseudo-linguisti tedeschi che sostenevano un’affinità immediata (ben diversa dall’unità d’origine di tutta la famiglia indeuropea) tra le lingue tedesca, greca e latina; cfr. quanto ho esposto ne La filologia di G. Leopardi, Firenze 1955, pp. 225-233 | Bari 19782, pp. 163-169 |. – A p. 497 il Treves osserva che il Leopardi «non pare aver nemmen sospettato l’esistenza d’un pessimismo ellenico e del motto, tradizionalmente attribuito al Sileno, secondo cui la miglior cosa, per l’uomo, è il non essere nato». L’osservazione può esser valida se riferita a quel singolo passo dello Zibaldone che il Treves commenta, ma non al Leopardi in generale; basti ricordare il Dialogo di Tristano e di un amico: «... e chi di loro (cioè dei poeti e filosofi antichi) dice che l’uomo è il più miserabile degli animali; chi dice che il meglio è non nascere, e per chi è nato morire in cuna; altri, che uno che sia caro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose infinite su questo andare»; e vedi la nota del Leopardi stesso a questo passo, e l’epigrafe menandrèa di Amore e Morte.6 – Noto infine che il Leopardi meritava di esser citato a p. 375 n., accanto al Giordani, al Ciampi, a Karl Ludwig (non Jacob Theodor) Struve e al Visconti, tra coloro che parteciparono alla polemica sui frammenti di Dionigi: il suo fu il miglior contributo a quella polemica.7 Ma queste diversità di valutazione – inevitabili dinanzi a un’opera così vasta e di così preciso impegno ideologico – non devono far dimenticare neppure per un momento l’eccezionale somma di cultura e di ingegno che è racchiusa in questo volume. Anche per quegli autori sulla cui collocazione storico-culturale si può dissentire, non si ricorre 6 i| Sulla «scoperta» del pessimismo antico, compiuta dal Leopardi nel primo soggiorno romano, vedi ora {, qui, «Il Leopardi e i filosofi antichi»}, p. 163 sgg. (e p. 161 sgg. per Teofrasto) |. 7 i| G. Leopardi, Scritti filologici a cura di G. Pacella e S. Timpanaro, Firenze 1969, pp. 141; cfr. La filologia di G. Leopardi2 cit., pp. 33-41 |.

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mai inutilmente all’opera del Treves: vi si trovano sempre giudizi e riferimenti nuovi, preziosi stimoli a ulteriori ricerche. Gli studiosi del Capponi, tanto per fare un esempio, dovranno ricorrere a questo libro per trovare (p. 663) indicazioni finora ignote sui suoi rapporti con studiosi stranieri suoi contemporanei. O, per fare un altro esempio, l’inaccettabilità della definizione del Vannucci come neoguelfo non deve far trascurare l’importanza del fatto che qui il Vannucci storico è per la prima volta rivendicato contro la troppo sbrigativa condanna da parte del Croce. E questi, e tanti altri, sono risultati che contano non solo per la storia degli studi classici, ma di tutta la cultura ottocentesca. Dal Treves attendiamo ora un’opera sugli studi classici nell’Italia del Novecento, di cui egli ci ha dato già alcune anticipazioni (i saggi su Marchesi, Valgimigli, e quello su D’Annunzio nell’«Osservatore politico-letterario»). Ci sarà anche qui da discutere, ma, più ancora, da imparare.

Annotazioni autografe

Testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe, testo epigrafe. Nome Cognome copertine 1973 e 1984 ** p. LXXV B: «(copia con postille)». ** ibid. δ: «Zib. 22 genn. 1821, Cicerone / Teofrasto?» bandelle 1984 ** p. LXXVI («vagheggiamento») δ: La bandella del 1984 recava scritto «una battaglia in difesa della civiltà del Medioevo», segmento di testo modificato nella ristampa 1988; si tratta d’un’omissione tipografica che capovolge il senso della presentazione del volume di Timpanaro, oltre a costituire, ovviamente, concetto opposto al pensiero espresso dall’intero libro e dall’intera vicenda culturale dell’autore. La rist. 1973, invece, recava correttamente «una battaglia in difesa della civiltà illuministica contro il vagheggiamento del Medioevo» (corsivo nostro): è il testo che Timpanaro ripristina in δ e poi in Classicismo e illuminismo 1988, sostituendo e integrando «in difesa» con «per la difesa e la rifondazione» (prima di «rifondazione»: cancellato «rigene», per «rigenerazione» – cfr. qui sotto, annotazione immediatamente successiva), e aggiungendo, dopo «vagheggiamento», «della civiltà». ** ibid. δ: «ritorno alla Natura»; cassato, significativamente, «nel senso di Rousseau», che nelle precedenti edizioni (fino, appunto, a δ 1984) chiudeva il periodo; su questa eliminazione del riferimento a Rousseau, come anche su quel «rigene» per «rigenerazione» – segnalato nell’annotazione precedente –, ipotesi d’occorrenza lessicale che fremeva per affiorare allo status d’esplicito dettato scrittorio, cfr., soprattutto nella sua prima parte, il capitolo VI, Natura, dèi e fato nel Leopardi, nel quale si rendono particolarmente chiare la negazione, o almeno il forte ridimensionamento della presenza rousseauiana come fonte filosofica dell’idea d’una benefica natura, ed altresì l’opera di discolpa, in questo caso non esattamente dell’illuminismo ma della tradizione del classicismo letterario, dal côté accusatorio romantico. Proprio Natura, dèi e fato nel Leopardi, il primo Addendum dell’edizione 1969, qui appunto inglobato nel centrale nucleo leopardistico e allineato quale sesto capitolo del volume, manifesta un tragitto di fluido, osmotico scambio linguistico-lessicale con la «copertina»: non a caso, in quella ch’era ad oggi rimasta l’ultima edizione-proposta editoriale di Classicismo e illuminismo, l’«aggiunta» più cospicua s’era specificamente inverata in questo importante saggio, così peculiare focus dell’antichistica e insieme della modernistica di Timpanaro. Basti riferirsi, in Natura, dèi e fato nel Leopardi, agli accenni a Rousseau: Per quanto una conoscenza più o meno frammentaria di Rousseau non mancasse al Leopardi fin dal tempo delle primissime sue esercitazioni scolastiche di filosofia [...], tuttavia l’idea della natura benefica non gli venne, inizialmente, da Rousseau né da altre fonti filosofiche.

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Annotazioni autografe

Più sotto: Proprio per questa radicalizzazione del concetto di natura e del contrasto fra semplicità antica e corruzione moderna è legittimo l’accostamento a Rousseau, anche se Rousseau, almeno in un primo tempo, non fu una fonte diretta del Leopardi.

Sulla «rigenerazione del classicismo» basti il cenno a Leopardi: In quegli scritti {La «Lettera ai compilatori della “Biblioteca Italiana”» e il «Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica»}, com’è noto [...], il Leopardi mira ad una rigiustificazione e rigenerazione del classicismo, che lo sottragga alle accuse di scolastica imitazione e di distacco dalla vita, rivoltegli dai romantici.

Immediato, sino, in certi tratti, alla ripresa testuale del dettato, il raffronto identificativo con la «copertina»: «Giordani, Leopardi, Cattaneo [...] militarono nel fronte classicista non per spirito retrivo o per tradizionalismo letterario», bensì per elevare laico argine all’attacco d’un romanticismo concepito soprattutto nelle sue componenti reazionarie, provvidenzialistico-religiose: La fedeltà stessa ai classici latini e greci (e, per quel che riguarda la «questione della lingua», ai trecentisti) era intesa dal Giordani, dal Leopardi e da altri classicisti-illuministi minori non come scolastico ossequio a modelli precostituiti, ma come un «ritorno alla natura».

E tutto lo svolgimento di Natura, dèi e fato nel Leopardi sarà un’esplicazione in chiaro dei concetti espressi in quel capoverso della «copertina»; o, se si preferisce, sarà quest’ultima a potersi consentire il lusso d’eleggere a fonte, a materia prima per la propria essenza di compendio scrittorio di «presentazione» allo studioso e al comune lettore, il vero capitolo chiave, se non dell’intero libro, certo dello sviluppo diacronico dello stesso libro, del suo passaggio dalla prima alla seconda edizione, e anche alla successiva, ipotizzata e mai realizzata vivente l’autore (sulle vere e proprie correzioni al VI capitolo, cfr. più sotto, ad vocem, in queste Annotazioni). ** ibid. δ: «Postfazione e numerose aggiunte e rettifiche»: la Postfazione è rimasta, per quanto ci risulta, nel rango d’indicazione intenzionale nel progetto d’autore; le «aggiunte e rettifiche» sono invece documentate e qui riprodotte; dopo «numerose»: cancellato «postille».

occhiello (p. I 1965, 1969 e 1984) ** p. LXXVII C: «correzioni a pp. 6, 19, 76, 145, 147, 155, 260, 283, 208, 227, 282» (i numeri di pagina si riferiscono alla prima edizione, 1965). ** ibid. A: «156-79» «correzioni a p. 64 n. 89» «su Stellini e Romagnosi cf. Moravia, Vichismo e ‘idéologie’, in Omaggio a Vico, Napoli 1968» «Su Giordani critico lett. abbastanza bene G. Marzot, nei Critici I, 30-39.» «M. Vitale, Classicismo e purismo, «Acme» XXIII (1970), 233 sg. [ho l’estratto]» «Giuliano Baioni, Classicismo e rivoluzione: Goethe e la Rivol. francese, Guida, Napoli 197» Il numero di pagina (64) delle «correzioni» si riferisce, nello stesso modo dei numeri segnati qui sotto in δ («addenda»), alla precedente edizione 1969; l’ultima annotazione sul volume di Baioni termina con il numero di pagina, «197»; appare da escludere un’indicazione mutila di data – ad esempio «1970» – perché la prima ed. di Classicismo e rivoluzione di Baioni è del 1969 e il libro non ha avuto ristampe negli anni 1970, bensì nel 1982, nel 1988 e nel 1998 (l’ultima con il titolo mutato in Goethe: classicismo e rivoluzione, sempre Einaudi, Torino). ** ibid. δ: «Addenda p. 409, 412, 413, 414» «Pacella Elenco, Binni-Ghidetti, Luporini, Cattaneo SL» (SL si riferisce agli Scritti letterari di Cattaneo).

Annotazioni autografe

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controfrontespizio (p. IV 1965 e 1969) ** ibid. C: «Claudio Colaiacomo, Un critico ideologo del primo Romanticismo italiano: L. Di Breme, in ‘Angelus Novus’ 5-6, dic. 1965, 80 sg.» «F. Neri, “Purista” (p. 118 sg.) e «La poesia dei puristi» (p. 123 sg.), in Letteratura e leggenda, Torino 1951.» «M. Vitale, Purista purismo. Storia di parole e motivi della loro fortuna, in Acme XVII 1964, 187 sgg.» «Sergio Anselmi, Riflessi dell’illuminismo nelle Marche, in Rass. storica Risorgim. LV 1968, 20 sgg.»

prefazione ** p. LXXVIII C: «cfr. Madrignani (anche su Contropiano), Cases, Samonà introd. a Trotzskij» (citazioni di Madrignani e dell’introduzione trotzskijana di Samonà sono ora nella n. 2 della Prefazione alla seconda edizione).

prefazione alla seconda edizione ** p. LXXXIV B: da «ha avuto per conseguenza» a «generica atmosfera psicologica» il testo è segnato a margine da barra verticale di richiamo (segno palese dell’interesse di Timpanaro per la necessità dello studio dei «programmi» e delle dichiarazioni ideologiche degli autori e non della mera fenomenologia letteraria delle loro opere, e della convinzione con cui lo stesso autore sostiene tale concetto). ** p. LXXXV B: da «Lukács» a «romanticismo», a margine, barra verticale di richiamo. ** ibid. B: da «una perdita» a «sentiva?», a margine, barra verticale di richiamo. ** p. LXXXVIII B: da «concetto» a «post-rivoluzionaria», a margine, barra verticale di richiamo. ** p. LXXXIX B: da «come se questo eurocentrismo» a «rappresentanti», a margine, barra verticale di richiamo. ** p. XC δ: «p. XXIII Bini Antileop.». L’annotazione si trova all’inizio delle Postille e aggiunte bibliografiche, p. 409 della seconda edizione; ma la stretta attinenza d’argomento con il tema degli scrittori democratici avanzati, non liberal-moderati, del nostro Ottocento, trattato proprio alla p. XXIII della Prefazione alla seconda edizione – alla «Prefazione» l’autore esplicitamente si riferisce nel suo appunto manoscritto (vedi più sotto, annotazione a p. XXXIII) –, insieme alla mancanza, in Antileopardiani, di numerazione romana (con la seconda prefazione a Classicismo e illuminismo la coincidenza di tipologia di numerazione e di pagine è invece perfetta), persuasivamente assegnano questa nota, con precisi presupposti di pertinenza, alla stessa Prefazione alla seconda edizione; identica considerazione vale per il riferimento alla «nobiltà» e a Sul materialismo: cfr. la successiva annotazione alla p. XXXIII. Si può pensare che Timpanaro, lavorando ormai su δ, che è, rammentiamolo, del 1984 (ristampa precedente all’ultima riedizione 1988), e disponendosi a recare nuove, non banali e ulteriori annotazioni sulle stesse postille e aggiunte bibliografiche (a p. 409, sùbito dopo l’avvertenza, iniziano le postille all’Introduzione e le relative annotazioni a mano), abbia qui inteso esordire facendo materialmente precedere, alle proprie annotazioni all’Introduzione, proprio le note alla seconda prefazione, in tal senso premessa e concepita come serialmente allineabile a quanto segue, ovvero all’ordinata successione dei capitoli del volume dall’Introduzione in poi. L’allusione a Bini, valida per la p. XXIII di Classicismo e illuminismo edizione Nistri-Lischi, va quindi riferita come contenuti alle relative pagine di Antileopardiani (Appendice I: Alcuni chiarimenti su Carlo Bini, pp. 199-285, e passim).

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Annotazioni autografe

** p. XCII n. 3 A: «sec. R.{iccardo} Massano il proemio è difficilmente del Borsieri, più probabilmente del Foscolo ispirato da lui.». ** p. XCVII B: da «Ha tuttavia» fino alla chiusura di parentesi («Ascoli») e da «si sottolineano» a «religioso-tradizionali», barra verticale di richiamo. ** p. XCVIII δ: «p. XXXIII Prefazione sulla nobiltà: Antileop. Sul materialismo (e Post. 1979 ed. inglese)» (si ricorda, anche in questo caso, che il numero di pagina si riferisce alla Prefazione alla seconda edizione del 1969; oltre al professo riferimento ai suoi saggi sul materialismo, presente nella correlata pagina dell’Introduzione, si rammenti la trattazione del concetto di «nobiltà» nelle pagine leopardiane e soprattutto giordaniane di Antileopardiani – in particolare le pp. 117-125 –; per le considerazioni sulla collocazione testuale della presente annotazione, cfr. annotazione a «p. XXIII Bini Antileop.»). ** p. C δ (fine Prefazione alla seconda edizione): la nota che segue la fine della seconda prefazione (p. XXXVI della seconda edizione) viene cancellata con una grande «X» e con la scritta «eliminare» cerchiata sul margine sinistro; tale nota è infatti da considerarsi integrata e superata dalla nuova nota, sempre a p. XXXVI, della ristampa 1988, da noi separatamente riprodotta nel testo. Qui, per fornire al lettore l’opportunità comparativa, riproduciamo il testo della nota cassata, che ha accompagnato la seconda prefazione del volume dal 1977 fino alla ristampa del 1984: Questa seconda edizione del 1969, notevolmente accresciuta rispetto alla prima del 1965 {copia «C» – N. d. C.}, venne ristampata senza mutamenti nel 1973 {presente in queste «Annotazioni» come copia «B» – N. d. C.}; viene adesso nuovamente ristampata, anche stavolta senza mutamenti. / Il libro è ormai «datato», e non avrebbe senso deformarlo con una lunga serie di aggiunte e modifiche e ridurlo ad una sorta di bibliografia ragionata di quanto è apparso dopo il 1969 sugli argomenti qui trattati. Mi sia lecito soltanto avvertire che più di recente ho difeso, sviluppato, in parte corretto il mio punto di vista (che nell’insieme continuo a ritenere valido) in un lungo articolo pubblicato in «Belfagor» (XXX, 1975, pp. 129-56, 395-428; XXXI, 1976, pp. 1-32, 159-200) col titolo Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana; e che altri saggi, vecchi e nuovi, riguardanti in parte anch’essi il Giordani, il Leopardi e altri personaggi e ambienti trattati o accennati in questo libro usciranno l’anno prossimo in un volume di questa stessa collana. Alcuni degli scritti teorico-polemici a cui alludevo qui sopra (p. XXXIII) sono stati raccolti insieme ad altri nel volume Sul materialismo, pubblicato anch’esso in questa collana (seconda edizione riveduta e ampliata, 1975) / luglio 1977 / S. T.

Com’è noto, il «volume di questa stessa collana» (Aspetti e figure della cultura ottocentesca) che doveva uscire «l’anno prossimo» (cioè nel 1978), uscirà invece tre anni dopo questa nota, nel 1980.

nota alla ristampa 1988 della seconda edizione ** p. CI: cfr., sùbito qui sopra, la nostra nota alla fine della Prefazione alla seconda edizione.

avvertenze sulle citazioni, sulle postille e sulle aggiunte bibliografiche ** p. CIII («riportate») δ: cassato «in carattere neretto». ** ibid. («SL = Scritti letterari..») δ: a margine, cassata l’annotazione autografa «Treves». ** ibid. δ: «Infine nell’ultimo saggio» nel testo a stampa; sostituzione autografa con «Nel saggio su Cattaneo ed Ascoli». ** p. CIV «vedi sotto, p. 000» δ: è qui manifesto lo stadio tipograficamente progettuale dell’annotazione aggiunta da Timpanaro e nel contempo è evidente l’intenzione d’autore d’immettere senz’altro le «aggiunte» nella «terza edizione».

Annotazioni autografe

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introduzione ** p. 3 postilla («Borsieri») A: «D. Consoli, La critica letteraria di P. Borsieri, Atti e mem. Arcadia serie 3a, vol. VI f. 3. pp. 1 sgg.». ** ibid. («pp. 423 sgg).») δ: «Spaggiari Calcaterra-Scotti». ** p. 4 postilla δ: «Breme: Asp. fig.; Ferraris;» (cfr. Angiola Ferraris, Letteratura e impegno civile nell’«Antologia», Liviana, Padova 1978). ** p. 5 B: a tutto il periodo da «Importante» a «antinapoleonica», a margine, barra verticale di richiamo. ** p. 7 B: da «contenevano» a «abbastanza», a margine, barra verticale di richiamo. ** p. 8 δ: «cfr. Spaggiari e DBI» («DBI»: Dizionario Biografico degli Italiani). ** p. 9 δ: «Bibl. Ital. Bizzocchi»; annotazione a margine, cancellata (Timpanaro si riferiva a Roberto Bizzocchi, La Biblioteca italiana e la cultura della restaurazione: 1816-1825, F. Angeli, Milano 1979). ** p. 10 δ: «meno roussoiano. Cfr. Di Breme». ** p. 11 δ: «Angeloni: M. Bellina qui accluso» (non risulta in δ, né in altre copie di Classicismo e illuminismo, alcun foglietto o scheda che contenga riferimenti al nome di Bellina; Timpanaro si riferisce a Massimo Bellina, G. Tagliazucchi, L. Angeloni e le origini della lessicografia puristica ottocentesca, in «Studi linguistici italiani», XIII, 1987, pp. 40-62; cit. in Nuovi studi sul nostro Ottocento, p. 7 n., con particolare riguardo alle pp. 46-49 e 50-62). ** p. 13 n. 18 δ: «aggiornare». ** ibid. n. 19 δ: «Bizzocchi» (cfr. qui sopra, Roberto Bizzocchi, La Biblioteca italiana e la cultura della restaurazione: 1816-1825, cit.). ** ibid. n. 19 A: «Roberto Wis, Fatti e misfatti di G. Acerbi, nel vol. dello stesso autore Terra boreale, Helsinki 1969 (Le Monnier, Firenze), pp. 79-105». ** p. 14 δ: «Dionisotti». ** p. 17 B: a tutto il periodo da «Ma» ad «insuccesso», a margine, barra verticale di richiamo. ** p. 21 n. 38 δ: «Asp. e fig.» (nel volume del 1980, infatti, Timpanaro ripubblica la recensione a Piero Treves, con il titolo Classicismo e «neoguelfismo» negli studi di antichità dell’Ottocento italiano, pp. 371-386). ** p. 23 δ: «Binni / Cell. / Bellucci / Muscetta»; annotazione replicata e ampliata, sempre in δ, nelle Postille e aggiunte bibliografiche: «p. 25.32 De Sanctis (Muscetta, Binni, vol. collettivo, io su Binni / Cell. Bellucci, Bigi Antileop. Gramsci» («Cell.», puntato in ambedue le occorrenze, si riferisce a Liana Cellerino). ** p. 24 B: da «e concordava» a «Verissimo», a margine, barra verticale di richiamo. ** p. 25 n. 46 δ: «Lett. e verità??». ** p. 30 A: «V. P. Castaldi, I rapporti fra Cattaneo e Manzoni, “Il Risorgimento” XXVI 1974, pp. 95-121 / L’opera e l’eredità di C. Cattaneo, Bologna 1975, I, 307-321» (l’annotazione è in un foglietto interposto fra le pp. 34 e 35 dell’edizione Nistri-Lischi; la citazione bibliografica cattaneiana [L’opera e l’eredità di C. Cattaneo] si riferisce ad un’opera collettiva in 2 voll. – I: L’opera; II: L’eredità –, a cura di Carlo G. Lacaita, Il Mulino, Bologna 1975-1976). ** p. 32 n. 61 A: «illuministico» nel testo; sostituzione autografa con «ideologico». ** p. 34 A: «R. Cavalluzzi, Momenti del L. truce, in “Trimestre” III 3-4, sett.-dic. 1969, pp. 373 sg.».

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Annotazioni autografe

i. le idee di pietro giordani ** p. 37 δ: «Aspetti e Antileop.; / Forlini Bibliogr. e Antologia». ** p. 38 A: «(Mazzatinti-Menghini-) Natali, Bibliografia leopardiana, Parte II, Firenze 1932, non registra il Badke. A. Tortoreto-C. Rotondi, Bibliografia analitica leopardiana 196170, Firenze 1973. Alcune osservazioni sul pensiero del L. (in Critica storica) rec. da Raimondi in Resto del Carlino 30 nov. 1966 e Rev. des études italiennes 1966, p. 192. Class. e ill. rec. in Bimestre, genn.-febbr. 1970, p. 45, Silvio Ramat; Aevum 1967, 574, di Noè Casuiti.» (l’annotazione è in un foglio interposto fra le pp. 42 e 43 dell’edizione Nistri-Lischi; la citazione del Mazzatinti-Menghini e della continuazione del Natali, come di quella di Tortoreto e di Tortoreto-Rotondi – manca solo la segnalazione di quella di Natali-Musumarra – depone per il forte legame di Classicismo e illuminismo con i contributi di Aspetti e figure e di Nuovi studi sul nostro Ottocento: in questo caso, Aspetti della fortuna di Lucano tra Sette e Ottocento, in Aspetti e figure, p. 53, alla n. 77, chiarisce come gli autori della Bibliografia leopardiana, in particolare Mazzantinti e Menghini, mai a stampa in Classicismo e illuminismo nonostante la «genetica» cifra leopardiana del libro, siano invece, in questo Classicismo e illuminismo «autografo» offerto da Timpanaro, rammentati in un contesto che annovera molte loro citazioni nel volume nistrilischiano del 1980; l’annotazione manoscritta congiunge, in modo direttamente, fenomenologicamente documentario, libri diversi e fasi editoriali diverse dello stesso autore; quanto all’importanza del Badke, alla segnalazione di Giuseppe Velli e all’assenza dello stesso Badke nelle bibliografie leopardiane, cfr. la suddetta nota 77, capitolo I, di Aspetti e figure – si ricordi Otto Badke, Einführung in das Studium G. Leopardis, in «Wissenschaftliche Beilage zum Jahresberichte des Realgymnasiums zu Stralsund», – 1907 –, p. 24). ** p. 40 δ: «44, [49] Pallavicino ecc.» («44» è numero di pagina dell’ed. Nistri-Lischi; il numero è allineato a «49», altra occorrenza, che sotto segnaliamo, del richiamo a Sforza Pallavicino). ** p. 42 n. 16 δ: «p. 48 n. Lucano / su Cic. esagera» («48 n.» è numerazione dell’ed. NistriLischi; alle pp. 42-43 vi è il giudizio “esageratamente” negativo di Giordani su Cicerone, espresso nella lettera al Montani: Giordani è il sottinteso soggetto di «esagera»). ** p. 43 δ: «[44], 49 Pallavicino ecc.» («49» è numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi; cfr. più sopra, annotazione a Pallavicino). ** ibid. A: «lett. del Pellico al fratello Luigi, 12 lug. 1817, p. 96 ed. Scotti. Favorevole allo Sgricci! Annovera tra i “favorevoli a Sgricci” anche il Giordani! Tra i contrari Breme e Borsieri». ** ibid. n. 18 A: «Lett. a Gigli (1844) nella raccolta di Forlini, p. 269, forse con allusione autobiografica per il motivo di essersi fatto frate». ** p. 45 (immediatamente prima della parola) A: «più probab. Pogniamo, vedi postilla a p. 52» (Timpanaro si riferisce – «p. 52» – alla numerazione dell’ed. Nistri-Lischi; per «postilla» l’autore non intende, qui, un’annotazione stampata alla fine dello stesso testo 1969, bensì una delle annotazioni autografe alla pagina successiva, che direttamente riproduciamo in parentesi quadra nella n. 21, nella presente edizione; «Pognamo» del testo a stampa è sottolineato a mano). ** ibid. (immediatamente dopo la parola) δ: «ia»; riproduciamo «ia» per «Pogniamo», divenuta in δ 84 simile a correzione di refuso (formalmente suffragata dalla barretta obliqua posta sia sul termine da correggere nel testo, sia, a ripresa, sul margine destro con le sole due lettere da integrare a modifica della stampa); simile a correzione di refuso, si è detto, ma, in realtà, non si tratta affatto di mero rimedio formale, e quindi l’intervento di Timpanaro non è da considerarsi tale: a «Pogniamo» l’autore è pervenuto sulla base di una precisa elaborazione e di una documentata riflessione sul termine, come è qui attestato dalla citata annotazione autografa da noi inserita nella n. 21 e dalla postilla alla stessa nota. Concependo le proprie copie di Classicismo e illuminismo, e in specie δ, come protobozza d’una futura (e mai realizzata) edizione, Timpanaro può, com’è il caso della presente annotazione, approdare a una correzione di refuso, che

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è in realtà frutto di meditato studio e di specillare vaglio bibliografico. ** ibid. n. 21 («nel primo Ottocento») δ: «p. 51 n. 1 (dialetti) AF, Spaggiari» («51» è numerazione di Classicismo e illuminismo Nistri-Lischi; la n. «1» è in realtà la n. 21 – probabilmente l’autore ha inteso designarla come unica nota della relativa pagina –; «AF» è Aspetti e figure, volume nel quale il problema dei dialetti è affrontato in particolare alle pp. 171 n. 39 e 195-196, nel capitolo Il Giordani e la questione della lingua). ** ibid. n. 21 («dividono l’Italia...») A: «un accenno / non specificam. antidialettale, ma contro frazionamenti di usanze, leggi, monete ecc. già nel Paneg., VIII 273 sg.». ** ibid. n. 21 («Pogn[i]amo») δ: «ia» (cfr. qui sopra l’annotazione a «Pognamo» nel testo). ** ibid. n. 21 («[Le Monnier del 1846, I, 305]») δ: «Gussalli, IX, 371» cassato e sostituito; dopo l’annotazione da noi inserita in parentesi quadra, vi è «; cfr. qui sotto, p. 000» (Timpanaro si riferiva all’annotazione, anch’essa da noi inserita in parentesi quadra, che segue più sotto: «Lezione ancor più giusta, come mi fa osservare G. Forlini...»); l’edizione Gussalli, per il presente segmento testuale, è perciò a tutti gli effetti sostituita dall’edizione Le Monnier, in questo senso e in questo contesto più accreditabile. ** p. 46 postilla δ: «pogniamo»; anche il pognamo originario della postilla a stampa è sottolineato a mano da Timpanaro. ** ibid. fine postilla δ:«Asp fig.». ** ibid. n. 22 δ: «p. 52 n. 22 A su G. Roberti» («p. 52» è numerazione di Nistri-Lischi; l’annotazione sull’abate Roberti è regolarmente scritta nella copia A e da noi assorbita nel testo della nota, in parentesi quadra). ** p. 47 C: «Stravaganze 4e e supreme, p. 61; Università e scuola, p. 107.»; δ: «C Pasquali» (la «C» è cerchiata come copia-testimone di Classicismo e illuminismo). ** p. 49 A: «III 105 allude al “Maestro Morcelli” per le iscrizioni italiane (raccomandava la “semplicità”; ... “io mi dorrò sempre di non sapere abbastanza esser semplice{”}»{)}. (riproduciamo esattamente la realtà grafica dell’annotazione manoscritta – p. 57 ed. Nistri-Lischi –, ivi compresa una minima incongruenza nella virgolettatura e una mancata chiusura di parentesi). ** ibid. n. 30 C: «cfr. ora Roberto Papi, Luigi Muzzi principe dell’epigrafia italiana, Prato, ed. Camera di Commercio.». ** p. 52 δ: «MAI 52-60 Prisciano e 60 n. 39» (si tratta di Angelo Mai; i numeri si riferiscono all’edizione Nistri-Lischi; per l’annotazione alla nota 39, vedi qui sotto). ** ibid. n. 39 A: «La fil. di G L» (La filologia di Giacomo Leopardi; Timpanaro si riferisce alla prima edizione – 1955 – del volume). ** p. 53 n. 41 δ: da «falsificata» alla fine del testo della nota vi è un segno di cancellazione e una scritta che doveva essere sostitutiva: «già da altri sospettata di falsità, cfr. qui sotto, p. 000»; sul margine destro della nota vi è inoltre: «Anche Scritti Filol. di G. Leop.?». L’autore aveva dunque intenzione di aggiungere nota, o più probabilmente postilla, sui risultati, cospicui, dei successivi studi sulla non autenticità della Guerra di Semifonte. Tali risultati sono ricavabili (e sarebbero certo stati ripresi) da Il Giordani e la questione della lingua, in Aspetti e figure, p. 192 e n. 73, e dalla voce, sempre ad opera di Timpanaro, Cesari, Antonio nel Dizionario biografico degli Italiani, XXIV, 1980, pp. 151-58, poi ampliata e modificata in Ancora sul padre Cesari: per un giudizio equilibrato, inserito nei Nuovi studi sul nostro Ottocento, pp. 1-29; i cenni alla Guerra di Semifonte sono alle pp. 22-23 e n. 17; dalla n. 17, come esito più aggiornato dei dati in possesso di Timpanaro, riproduciamo, in linea di fedeltà all’intento d’autore, il segmento riguardante la Guerra di Semifonte, un passo di testo che supera e ingloba non soltanto la nota di Classicismo e illuminismo, che siamo qui costretti a mantenere inalterata, ma anche la citata nota 73 di Aspetti e figure: Cfr. Maria Augusta Morelli Timpanaro, Il dibattito sulla Storia della guerra di Semifonte nei secoli xvii-xx, «Critica storica», XXIII, 1986, pp. 215-58 (la non autenticità sembra ormai sicura, anche se un contributo di un linguista, in appoggio alla ricostruzione documentaria della Morelli, sarebbe molto utile); sul Cesari, p. 249 e n. 95 (dove è corretto un vecchio errore di lettura in una lettera del Cesari, dal quale sarebbe risultato, mol-

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to stranamente, che nel medesimo anno 1806 il prete veronese avesse dichiarata autentica quell’opera nella prefazione alla «Crusca veronese», I, p. XII, e apocrifa in una lettera privata al Tomitano!). Anche sul parere del Giordani (V, pp. 280-84 e 403; X, p. 366; XII, p. 251) cfr. Morelli, p. 250 sg.: egli ignorava tutte le discussioni precedenti e le prove documentarie che dimostravano la non autenticità, ma arrivò ad esserne sicuro in base allo stile: aveva ben altro fiuto filologico-linguistico che il Cesari. Ciò che avevo scritto in Aspetti e figure, p. 192 n. 73, è ormai insufficiente.

** ibid. δ: «Gigli (Forlini-Anelli)» (annotazione replicata in forma quasi uguale – «p. 62: Gigli, Forlini, Anelli» – nelle Postille e aggiunte bibliografiche in δ; «p. 62» è riferimento alla numerazione Nistri-Lischi). ** p. 55 A: «Pellico sempre antigiordaniano nelle lettere al fratello ed. M. Scotti, GSLI Suppl. 28, 1963, p. 39 – (Dopo l’uscita dei 1i due nr. della Bibl. Ital., “Il povero Monti è già disgustato, e d’Acerbi, ch’è, dicono, un intrigante, e di Giordani, che col suo preteso saper la lingua ha ottenuto gran voce in questo giornale”{)}». ** ibid. δ: «pp. 65-71 quest. lingua Asp. figure; p. 69 Cecioni e mia recens.; p. 69 lett. a Viani, cfr. A» (le indicazioni numeriche appartengono all’edizione Nistri-Lischi; la questione della lingua è trattata, in Aspetti e figure, soprattutto nel capitolo dedicato, appunto, ad Il Giordani e la questione della lingua – pp. 147-223 –, anche riguardo al rapporto con i dialetti; su Gabriele Cecioni cfr. più sotto, annotazione alla n. 125; per la lettera a Viani cfr. qui sotto, annotazione a n. 55; A è la copia del 1969). ** p. 58 A e δ: «XI» (il testo stampato, compresa l’edizione 1969 nella rist. 1988, reca «XI, 367»: errato rinvio a quello che è invece il vol. X delle Opere di Pietro Giordani). ** ibid. n. 55 A: «e anche più tardi lett. a P. Viani in Clelia Viani, con accenno alle “antiche e moderne mitologie”» (in A 69 è lasciato un ampio spazio bianco fra il mancato compimento della citazione del volume della Viani e la precisazione dell’«accenno»; Timpanaro si riferisce a Clelia Viani, La vita e l’opera di Prospero Viani accademico della Crusca, con lettere inedite di Pietro Giordani a lui, U. Guidetti, Reggio Emilia 1920). ** p. 59 n. 56 C: «(XIV, )» (l’autore allude ad Opere, XIV, 372; cfr. postilla alla stessa n. 56). ** p. 61 postilla δ: «Antileop. Panegirico Dionisotti». ** p. 63 n. 68 A: «G. Gambarin (annotato qui sotto, a p. 122)» (a p. 122 dell’ed. NistriLischi vi è effettivamente l’annotazione qui anticipata, che riproduciamo più sotto). ** p. 65 δ: «p. 77 cfr. Passerin e Spadoni» («p. 77» si riferisce all’edizione Nistri-Lischi); A: «Male su ciò E. Passerin, L’Ottocento nella St. lett. Garzanti, p. 000; bene D. Spadoni, Sètte cospirazioni e cospiratori nello St. pontificio, Roma-Torino 1904, pp. LIII e LXXXII.» (prima di «LIII» vi è un «LX» cancellato). Il riferimento a Passerin allude alla trattazione di Ettore Passerin D’Entrèves, Ideologie del Risorgimento, nell’opera collettiva Storia della letteratura italiana, a cura di Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, 9 voll., Garzanti, Milano 19822 – I ed.: 1969 –, VII – L’Ottocento –, pp. 181-366. Le pagine alle quali si richiama (senza precisarle) Timpanaro sono nella Bibliografia finale del capitolo di Passerin d’Entrèves e sono riferite proprio alla collocazione ideologico-culturale di Giordani, in particolare all’Orazione per il riacquisto delle tre Legazioni ed alla lettera al Cardinale Consalvi; dalle stesse pagine (354-355) appare opportuno riprendere le considerazioni di Passerin d’Entrèves, a confronto comparativo con i concetti timpanariani e a riprova dell’importanza d’un’equa valutazione della figura di Giordani, intellettuale e scrittore determinante ai fini dell’incerto giudizio storiografico (e polemico) che si è affermato sul classicismo primoottocentesco italiano: Resta tuttavia da riflettere sulla persistente tendenza di Pietro Giordani, e non soltanto del Giordani, a non distinguersi da quel patriottismo del movimento purista che «difendeva un’arcaica italianità contro l’illuminismo e contro il romanticismo nello stesso tempo». Né sembra che il Timpanaro, volendo salvare la posizione «patriottica progressista» del Giordani stesso, abbia presente tutta l’orazione Per le tre Legazioni riacquistate dal Sommo Pontefice Pio VII (Parma, tipografia Imperiale, 1815: importante anche la lunga dedica al Card. Consalvi, che vi è premessa, e la replica alle critiche di Mons. Giustiniani, delegato apostolico della città e provincia di Bologna, che la segue). Giustamente, insomma, il Giordani avvertiva di non poter entrare nel mon-

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do nuovo degli scrittori impegnati del Risorgimento, anche se moderati, e si sentiva mero «spettatore» delle loro lotte. L’aulicità irrimediabile, ch’era retaggio dell’età napoleonica, poteva ben suggerirgli una sincera e veridica autodifesa nel ’34: «Io non ho mosso mai, non moverò mai un dito contro i troni»: neppur contro il potere temporale del pontefice, soggiungerei, quando altri supplicava il pur aulico Monti di far presente ai potenti, a Milano, la volontà prevalente fra i colti, in Bologna, di restare aggregati ad uno Stato laico (cfr. S. Timpanaro, op. cit. {«Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano», citato nell’edizione 1965 – N. d. C. –}, pp. 76-81 e l’Epistolario di V. Monti, Firenze 1928-31, vol. IV, p. 157, per la lettera di P. Costa del 6 maggio 1814 in cui gli raccomanda, a nome di molti, la sorte di Bologna). Le «esigenze antioscurantiste» (ivi, pp. 86-97) potevano portare il Giordani a polemizzare colla tendenza concordataria del regime napoleonico, e più tardi col neoguelfismo, con Gioberti, col Rosmini stesso, che «pensava a fondare nuova fraterìa», ma non ad una coerente impostazione politico-culturale progressiva, per servirsi del termine del Timpanaro, che ammette inoltre quanto poco fosse aggiornato sugli sviluppi del pensiero recente, specie tedesco: simile in questo ad un Leopardi, ad un Romagnosi, ecc. (ivi, pp. 89-90).

Una citazione timpanariana del VII volume della Letteratura Garzanti, comprendente un riferimento (in questo caso segnato da consenso al singolo scritto – non alla generale impostazione –), a Passerin d’Entrèves, è nella prima postilla all’Introduzione a Classicismo e illuminismo, alla quale rinviamo, ricordando, secondo le parole dell’autore, che gli studiosi che in quel volume si occupano più specificamente del romanticismo e delle discussioni tra romantici e classicisti-illuministi (Giovanni Macchia, Giovanni Orioli e, per l’aspetto politico-ideologico, Ettore Passerin d’Entrèves) muovono da una concezione e da una valutazione del romanticismo diverse da quelle sostenute nel presente libro. Molto pregevole è, comunque, soprattutto il saggio del Passerin.

**p. 66 n. 73 C: «bózare (cioè ‘buggere’), mi osserva Bruno Migliorini. bózara è accentato in A. Bombelli, Diz. etim. del dialetto cremasco, 1940» (cfr. postilla alla stessa n. 73). ** ibid. postilla δ: sul margine destro, doppie virgolette e una barretta verticale di richiamo. ** ibid. B: «In magnis et voluisse sat est Properzio II 10, 6» (Timpanaro qui non si limita ad integrare con l’«et» la citazione, ma riscrive per intero la frase, accompagnandola con l’autore e con il locus; non si tratta, quindi, di mera correzione di refuso); δ: «In magnis ...: Properzio II 10, 6 vedi se l’et c’è nell’aut.» («aut.» può significare «autore»; ma appare difficile che il promemoria possa concernere scientificamente l’«et», tràdito e avvalorato dalla filologia properziana – puro esempio, l’ed. Oxoniensis del Barber, 19602 –; il promemoria sembra invece rivolgersi ad un’incertezza di controllo sull’«aut.», «autografo», in questa circostanza la copia B – l’altro testimone che è destinato ad annoverare questa correzione –, definita tale, con tutta probabilità, perché sede di correzioni a mano: un «nodo al fazzoletto» a memento praticoorganizzativo d’un’esigenza di verifica: controllare se si è o meno apportata la necessaria correzione). ** ibid. δ: sul margine sinistro, doppia barretta obliqua di richiamo (cfr. annotazione precedente). ** p. 67 postilla δ: «prossima pubblicazione» sottolineato. ** p. 68 δ: «pp. 80-86 idee sociali: Antileop., nobiltà». ** ibid. postilla δ: « – Antileop.». ** p. 70 B: «piuttosto l’iscrizione cit. dal Bezzola». ** ibid. n. 87 δ: «p. 83 A cf. Bertone?? e nota 88» (si ricordi, a questo proposito, l’appassionata polemica con Giorgio Bertone sull’edizione del romanzo Primo Maggio di De Amicis; l’accenno alla n. 88 confluisce nel luogo suo proprio – cfr. qui sotto, annotazione a nota 88 A). ** ibid. («Edmondo De Amicis») δ: «altro passo» (cfr. annotazione precedente). ** ibid. n. 88 (prima di «Mosè») A: «Cfr. già Panegirico». ** ibid. (dopo «Mosè») δ: «Licurgo??». ** p. 70 («quel legislatore») A: «Un accenno a Mosè e a questa argomentazione già nel Panegirico a Napoleone». ** p. 71 n. 92 (inizio della nota) δ: al margine destro della nota, barra verticale di richiamo. ** ibid. (fine della nota) A: «F. Giarelli, L’avvocato P. Gioia, Piacenza 1868; S. Fermi in

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Annotazioni autografe

“Boll. stor. piac.” 1911 e 1913»; δ: «p. 85 A e art. nel Boll. stor. piacent.» (p. 85 è riferito all’edizione Nistri-Lischi; la precisa indicazione, in δ, della copia A, e delle due correzioni che regolarmente vi sono confluite, rende evidente la funzione, rivestita in questa come in altre annotazioni dal testimone δ, di collettore razionalizzante di modifiche già distillatamente apportate negli altri testimoni, cronologicamente anteriori). ** p. 73 n. 97 A: «e Napoli 1835, p. 64 (così Savarese, Paralipomeni, da vedere a pp. 150-51 per il geocentrismo di Monaldo{)}.»; δ: «p. 87 A» («87» si riferisce all’edizione Nistri-Lischi). ** p. 74 n. 103 A: «sul Bianchetti cfr. Gentile, Storia d. filos. italiana dal Genovesi al Galluppi, II 2, 1930, p. 111 n. 1; ibid. p. 116 sg sul Papadopoli.»; δ: «p. 89 A Bianchetti, e Di Preta» («89» nell’edizione Nistri-Lischi; Di Preta è citato da Timpanaro in Aspetti della fortuna di Lucano tra Sette e Ottocento, primo capitolo di Aspetti e figure, p. 61, n. 94). ** p. 75 C: «dite (?)» (sia «pensate» del testo, sia «dite» scritto a margine sono accompagnati da una crocetta di richiamo: «x»). ** ibid. B: «A. De Rubertis, Studi sulla censura in Toscana, Pisa 1936, p. 249 il Panegirico vietato al libraio Pietti, oltre che per le lodi a Napoleone, perché si diceva che il pensiero risultava “da un misterioso composto di operazioni chimiche e meccaniche”.»; δ: «p. 91 pens. secrez. del cervello B A. De Rubertis» (la p. 91 è in realtà la 90 dell’edizione Nistri-Lischi; l’indicazione di «B» riprende in δ il testimone 1973, sede dell’annotazione). ** p. 79 n. 117 A: «Ruffini, Un angolo tranquillo del Giura, cap. VIII: sul Leopardi con testim. del Gioberti?»; δ: «p. 95 A e Antileop.» (95 è numero di pagina dell’edizione NistriLischi; «p. 95 A» è la ripresa, in δ, dell’annotazione concernente Ruffini). ** p. 81 δ: «”» (la correzione di refuso, una chiusura di virgolette non assumibile nella nostra edizione, data la regolare chiusura alla fine del periodo a generose!, denota l’incertezza dell’autore in questa citazione; la correzione da noi regolarmente assunta nel testo [cr], il punto interrogativo, è invece in B; il punto interrogativo si trova pure, ed è significativo che si tratti dell’unica correzione autografa lì presente, nella copia da noi consultata della ristampa 1988). ** p. 82 n. 123 A: «Lettere inedite a Lazzaro Papi, Lucca 1851, p. 117 (17 aprile 1833): “Sentii la morte dell’Antologia; ed è veramente cosa deplorabile. Le tenebre s’infittiscono; ma il sole durerà più di loro”.». ** ibid. n. 125 A: «Tuttavia Cecioni, Viglio»; δ: «p. 99 n{ota}. A Cecioni, Viglio {ripetuto sul margine sinistro:} Cecioni (e mia recens.), Viglio, Spaggiari» (Timpanaro si riferisce, qui, a Gabriele Cecioni, Lingua e cultura nel pensiero di Pietro Giordani, Roma, Bulzoni, 1977 – volume più volte citato in Aspetti e figure della cultura ottocentesca e in Nuovi studi sul nostro Ottocento e ripetutamente presente nelle annotazioni autografe di δ – e a Patrizia Viglio, Sulla formazione ideologica di Pietro Giordani, in «Bollettino storico piacentino», LXXVII – 1982 –, pp. 54-81). ** ibid. inizio citazione B: «Bibl. Laur. C. Giordani XII 38, 5 nov. 1845 (a propos. della malattia della moglie di Pietro Gioia): “Dirò anch’io; oh che vita! Ma quasi non bastasse la natura a farcela grave e dura, tanti uomini si brigano di aggravarcela; e per essere sicuri di non mancare di guai ci fabbrichiamo principi e preti!”»; δ: «B (Gussalli tesi-ipotesi)» (nella copia B non v’è, all’altezza di questa pagina – 99 edizione Nistri-Lischi –, annotazione autografa riguardante il Gussalli; ma, a parte la continua «occorrenza concettuale», nei saggi ottocentistici di Timpanaro, del nome del curatore delle opere del Giordani, il binomio tesi-ipotesi può essere implicito nella stessa citazione dalle laurenziane Carte Giordani sulla malattia della moglie del Gioia: la tesi «generale» – «oh che vita!» – è che l’esistenza biologica dell’uomo è improntata alla sofferenza; l’ipotesi è costituita da un auspicabile mondo in cui a tale sofferenza fosse almeno risparmiato il concorso dell’umana responsabilità e, soprattutto, dell’umana ignoranza; e tutto quel nucleo di pagine e di citazioni giordaniane è centrato sull’antioscurantismo del Piacentino, sulla sua oscillazione tra una parziale assunzione del radicale pessimismo leopardiano, diacronicamente realizzatasi nella lettura delle opere del Recanatese, e una linea di ripresa della fondamentale fiducia illuministica nella possibilità di lottare per rischiarare l’umanità dalle tenebre dell’ignoranza e dell’ingiustizia).

Annotazioni autografe

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** ibid. citazione («sorda materia inorganica)» C: «Forse accenno alla chiusa di Sopra il ritratto di una bella donna?». ** p. 83 C: «cf. nota a p. preced.» (per «nota» Timpanaro intende proprio l’annotazione autografa precedente a questa – «Forse accenno alla chiusa di Sopra il ritratto di una bella donna?» –, dato che la scritta a lapis si pone, nella p. 100 dell’ed. 1965, esattamente all’altezza del capoverso che allude, da parte dello studioso, alla «materia senziente» e alla sua soggezione alle stesse dure leggi della «materia inorganica»; dunque, non «nota» piè pagina né postilla, ma annotazione autografa). ** p. 84 n. 128 δ: «Lett. a ... 102 n. 128» («102» si riferisce all’edizione Nistri-Lischi; la lettera ha come destinatario Leopoldo Cicognara). ** p. 85 A: «cfr. Binni, Arcadia e Metastasio, p. 60.». ** ibid. A: «Nei Carteggi it. ed. Orlando, 1, II, p. 133 a proposito del tempo cattivo (a Vieuss., 13 dic. 1830, da Parma): “Oh stagione monarchica!”. – XIV, 175: “Don Seneca” (per il tono predicatorio).»; δ: «p. 103 A, e teologo algerino, schiavone (Tommaseo?) (“Matteo” cf. oltre{)}» («teologo algerino» – si tratta ovviamente di Sant’Agostino – e quel che segue sono cancellati poiché l’autore s’è potuto avvedere che tali riferimenti erano già impliciti nell’annotazione precedente alla n. 128 – cfr. qui sopra, e, nel testo, con due maiuscole al posto della cursoria citazione a mano dell’autore, «il teologo Algerino» e «il biliosissimo Schiavone Girolamo», n. 128). ** p. 86 n. 132 A: «Su rapporti sessuali del G. cfr. XIV, 174.»; δ: «p. 104 A + Dionisotti». ** p. 88 δ: «p. 107 Antileop.» («107» è numerazione Nistri-Lischi). ** p. 95 (prima di «interpretazione») A e δ: sostituito «dell’». ** ibid. (dopo «realistica») δ: «115. De Sctis e Leop.» (De Sanctis e Leopardi; «115», al solito, secondo la numerazione Nistri-Lischi).

ii. giordani, carducci e chiarini ** p. 97 n. 1 A: «XIV, 317»; δ: «p. 120 Sarpi A» («120» è numerazione di Nistri-Lischi). ** p. 99 C: «rapporti col Betti: 20 lett. di P. Giordani con un proemio di A. Bertoldi, Reggio E. 1895»; δ: «C rapp. col Betti». ** p. 100 n. 4 A: «cfr. G. Gambarin, Ancora del Giordani, del Foscolo e del Capponi, in “GSLI” CXLVIII (1979), p. 82 sgg. A. D’Ancona, G. Capponi e P. Giordani, in “Dai tempi antichi ai tempi moderni: da Dante al Leopardi”, Milano, Hoepli, [1904], pp. 557-64; lett. di A. Pezzana a Capponi in Capponi, Lett. ed. Carraresi, VI, p. 184 (cfr. Forlini, Bibliografia, p. 303)»; δ: «122 A e Antileop. per il Capponi e Giordani». ** ibid. B: «espulsione del Giordani: cfr. Mario Pieri, Memorie, Firenze, Bibl. Riccardiana, vol. V cc. 114-15: varie ipotesi.»; δ: «B Mario Pieri». ** ibid. n. 5 B: «Prose di A. Gussalli, Milano, Libr. editrice, 1877. Nella pref. Felice Tribolati (p. XV) ricorda che il Gussalli fu imprigionato per l’ed. del Giordani ed ebbe sequestrati i voll. XI-XII “finché non venne a redimerli il cannone di Magenta”.». ** ibid. postilla («romanticismo») δ: «Treves». ** ibid. postilla (fine) A: «ora in volume» (cfr. Ermanno Circeo, Lettura di Carducci e di altri scrittori, D’Anna, Messina-Firenze 1971). ** p. 101 A: «M. Parenti, Rarità bibliografiche dell’Ottocento, II, Firenze 1956, pp. 58-60: G. Carducci, Rime, S. Miniato, tip. Ristori, 1857: dedica: “A voi / Giacomo Leopardi e Pietro Giordani / viventi / queste mie rime / come ad autori e maestri / offerto avrei vergognando / le quali parmi ora superbo / consecrare / alla memoria di voi grandissimi / io piccolissimo”»; δ: «dedica». ** p. 106 C: «Lucr. contro la provvidenzialità della natura: II 167-83; V 110-234; II 1070-

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Annotazioni autografe

1104; autodifesa della N.: III 931-77.» (l’annotazione si trova su un foglietto incollato, a coprire il testo, sulla p. 131 della copia del 1965; i rinvii lucreziani dell’annotazione e la collocazione all’altezza della penultima pagina del capitolo Giordani, Carducci e Chiarini, quasi immediatamente prima dell’inizio di Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi e, più in generale, prima di una sequenza di capitoli interamente leopardiani o comunque centrati sul Recanatese, fa propendere per una collocazione «concettuale» diversa del foglietto, che doveva essere introduttivo allo stesso gruppo di capitoli leopardiani).

iii. alcune osservazioni sul pensiero del leopardi ** p. 108 C: «molto importante il pensiero di Zib. 2679 sg. (4 marzo 1823).». ** p. 110 n. 3 A: «Caffi, {/} p. 244 cita Leop. e parafrasa la Ginestra in senso socialista» (si cfr. Andrea Caffi, Scritti politici, presentazione di Gino Bianco, La Nuova Italia, Firenze 1970; la barretta obliqua da noi interposta {/} significa uno spazio bianco ed un “a capo”, che doveva essere riempito dalla citazione bibliografica dettagliata del volume di Caffi). ** p. 111 postilla δ: «Impossibile nota da Antileop. - Luporini - Binni - Leop. idéologue Ferraris - Leop. verde» (al di sopra di «Leop. verde» vi sono due parole cancellate, di difficile interpretazione; su Angiola Ferraris cfr. terza annotazione all’Introduzione; «Impossibile», anziché attributo di «nota», sembra un rinvio al giordaniano Peccato impossibile, citato appunto, in un segmento di testo a dominante storico-politica sul Piacentino, in una «nota» di Antileopardiani - p. 143 n. 59 -, con riferimento all’improponibilità dell’opera «anche nell’Italia sabauda e liberale»: del Peccato impossibile venne infatti promossa, dal Gussalli, la pubblicazione a Londra nel 1862). ** p. 112 postilla δ: «mia rec. a Binni e nel vol. su Binni». ** p. 114 δ: «p. 140 su Vené autocritica» («p. 140» è riferimento all’edizione NistriLischi). ** p. 116 n. 22 δ: «142 n. 22 Monaldo e Antici» (l’autore aveva evidentemente intenzione di integrare la nota 22, o di inserire un riferimento ad altri cenni critici da lui fatti sui due personaggi; in particolare, riguardo ad Antici, si ricordino i cenni in Aspetti e figure, pp. 196 n. 80 e 330 e n. 50 - quest’ultimo, qui presente nel V capitolo: Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani - e in Nuovi studi sul nostro Ottocento, p. 129 n. 2: Il Leopardi e la Rivoluzione francese, ora, in questo volume, IX capitolo, n. 4). ** p. 117 n. 27 δ: alla correzione dei numeri di pagina segue, nell’annotazione, un cenno incompiuto, «(quest’ultimo ripubbl. nella nuova» (si tratta non della seconda, ma propriamente, e appunto, della nuova edizione del volume derobertisiano: Giuseppe De Robertis, Studi 2, Le Monnier, Firenze 1971). ** p. 118 n. 29 A: «Garin, Helvétius e l’Italia nel 700, Riv. crit. st. filos. 26, 1971, 207, 213, spec. 208 importan{te}.». ** ibid. n. 29 («già l’anno precedente in una») C: «No! Nella Dissert. è sostanzialmente favorevole» (nel 1967 la Dissertazione sopra l’anima delle bestie esce dallo stato d’inedito ad opera della moglie di Timpanaro, Maria Augusta Morelli, che la pubblica in «Critica storica»; cfr. postilla alla stessa n. 29). ** ibid. postilla δ: «(mio Holbach) Garin». ** ibid. postilla («La Dissertazione») δ: «Tutte le Dissertazioni in ediz. ecc. t. Puerilia t. poetici vedi a p. 183-187» (la cancellazione delle precedenti parole è spiegata dallo stesso rinvio ad una successiva postilla, la quinta al capitolo Il Leopardi e i filosofi antichi: questo il senso dell’indicazione delle pp. «183-187» della vecchia edizione; a quella postilla vi sarà l’annotazione «nunc!» - cfr. più sotto -). ** p. 121 n. 39 A: «Borsieri già segnalato da Treves, p. 418 Cfr. anche (segnalatomi dal

Annotazioni autografe

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Treves), Guerzoni, Giulio Cesare nell’arte, in «Politecnico» XXV, 1865, 211-32, 257-97 (su Lucano 223-229, su Plutarco 230-232).»; d: «149-150 A e tutto Aspetti e figure (Grassi anche); La Penna, Velli Narducci». ** p. 122 postilla δ: «Sul materialismo mio Holbach». ** p. 125 postilla δ: «Falsificaz. Aspetti e figure (dubbi di Binni)» («Falsificaz.» allude al saggio timpanariano Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani, inserito, dopo la prima pubblicazione nel «Giornale storico della letteratura italiana» – 1966 –, in Aspetti e figure della cultura ottocentesca, e ora capitolo V di questo volume). ** p. 126 δ: «156-58: Blasucci e già Antileop. 157 n. 16» («156-58»: numero di pagina appartenente all’edizione Nistri-Lischi). ** p. 130 δ: sul margine sinistro, una parentesi quadra aperta ed una barretta verticale di richiamo. ** ibid. B: «così già bene in “Crit. stor.” III 1964, 417» (Timpanaro allude alla redazione del testo di questo capitolo, Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, apparsa in rivista nel 1964 – al testo in rivista si riferisce anche il numero di pagina, 417 –; il testo era allora corretto e non necessitava, quindi, di un intervento su quel saut du même au même che avrebbe causato l’omissione di «anche dell’immortalità»; di tale correzione v’è invece qui bisogno, al punto che l’autore la scrive di sua mano in δ, oltre che in B: cfr. più sotto, in queste Annotazioni, cap. VIII – Epicuro, Lucrezio e Leopardi –, n. 52. In B, con l’aggiunta della presente annotazione, Timpanaro ricorda che la modifica non è altro che il legittimo ritorno all’esatta versione, precedentemente stampata in «Critica storica»). ** p. 131 δ: «162 sulla morte» («162» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi). ** ibid. n. 65 δ: sul margine destro, segno di richiamo, espresso con un cerchietto. Timpanaro si riferisce al testo della postilla (che parte appunto dalla considerazione del saggio di Bigi) alla stessa nota 65: postilla resa valida dall’autore anche per le successive note 68 e 70. ** p. 134 C: «cfr. anche Zib., 4138 sg. (12 maggio 1825), su cui Savarese, Paralip., 109 n. 61.». ** p. 135 δ: «p. 166-67 Rousseau e gli altri, troppo reciso» («166-67» è numerazione dell’edizione 1969). ** p. 136 postilla δ: «ora pubbl. Cat. Del Vivo, Vannucci». ** ibid. n. 72 A: «Atto Vannucci». ** p. 137 δ: viene corretto «poteva». ** ibid. n. 73 A: «Lett. del Giord. in Carteggi ital. ined. o rari, antichi e moderni racc. ed annot. da Filippo Orlando, serie I, vol. I, Firenze 1892, p. 11.»; δ: «170 A Carteggi Orlando» («170» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi). ** ibid. postilla δ: «Antileop. e Carpi». ** p. 140 δ: «p. 173 Ginestra, solidarismo: Antileop., Leop. e Riv. francese e “Leop. verde”» («173» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi). ** p. 141 postilla δ: «Belf. su Marchesi – La Penna / De Liguori». ** p. 143 δ: «p. 177 Biral» («p. 177» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi). ** p. 144 n. 84 δ: «178 nota: Gramsci» («p. 178» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi). ** ibid. postilla δ: «Materialismo; Antileop. Leop. verde». iv. il leopardi e i filosofi antichi ** p. 148 A: «cfr. Cavalluzzi (annotato a p. 40), p. 382 n. 14» («p. 40» si riferisce all’edizione 1969 A, su cui Timpanaro lavora; per il precedente richiamo a Cavalluzzi cfr. l’ultima annotazione all’Introduzione; la pagina iniziale di Il Leopardi e i filosofi antichi, naturalmente sprovvista d’esplicita numerazione, è stata segnata dall’autore, per comodità, con il suo numero, cerchiato: «183»).

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Annotazioni autografe

** ibid. postilla («[cr]») δ: formalmente, correzione di refuso; a stampa, «antistorica» dal 1969 al 1988. ** ibid. postilla δ: «Naddei» (Mirella Naddei Carbonara; cfr. più oltre, cap. VIII, Epicuro, Lucrezio e Leopardi). ** p. 149 δ: «cattolici illuministico-reazionari: Pignatelli, Le origini 700sche del cattolicesimo reaz. Studi storici XI, 1970, 755-82» (cfr., nel testo, cap. IX, Il Leopardi e la Rivoluzione francese, n. 1). ** p. 150 postilla δ: «nunc!». ** ibid. n. 5 A: «un modello, per tirate di questo genere, è forse Seneca, Ep. 88, 42 sgg.»; δ: «185 n. 5: oltre Di Ben., cfr. Seneca A» («185» è numero di pagina dell’edizione NistriLischi; «A» è la copia della seconda edizione 1969). ** p. 152 n. 11 δ: «187 n. Porfirio, riferim. a ed. Mores.» (si tratta dell’edizione a cura di Claudio Moreschini di Porphyrii De Vita Plotini, Le Monnier, Firenze 1982; cfr. la recensione di Timpanaro in «Giornale storico della letteratura italiana», CLXI – 1984 –, pp. 609-615). ** ibid. postilla δ: «Moreschini e mia recensione» (si tratta di C. Moreschini, Metodi e risultati degli scritti patristici di G. Leopardi, in «Maia», XXIII – 1971 –, pp. 303-320; recensione di Timpanaro in «Giornale storico della letteratura italiana», CLIV – 1977 –, pp. 151-156; cfr. VIII capitolo, Epicuro, Lucrezio e Leopardi, n. 14). ** p. 157 n. 22 δ: «193 n. 22 a fav. di Sto cfr.» («193» è numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi). ** p. 163 δ: «202 Zib. sul Cic st {?}» («202» è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi; le parole di difficile interpretazione sono probabilmente leggibili come «Cicerone stoico»). ** p. 164 n. 38 δ: «202 n. 38 Pacella» («202» è numero di pagina dell’edizione NistriLischi). ** ibid. n. 39 δ: «203 n. 39» («203», al solito, è numerazione dell’edizione Nistri-Lischi). ** p. 165 n. 44 B: «Grilli Atti 1982 p. 61 n. polemica a vuoto» (Timpanaro si riferisce ad Alberto Grilli, Leopardi, Platone e la filosofia greca, nell’opera collettiva Leopardi e il mondo antico – «Atti del V Convegno internazionale di studi leopardiani», 1980 –, Olschki, Firenze 1982, pp. 57-73). ** p. 168 n. 52 δ: «Grilli» (cfr. precedente annotazione). ** ibid. n. 53 δ: «cfr. Scritti filologici». ** ibid. n. 53 (fine nota) δ: «p. 208 n. 53: rivedere le letture di Platone (Scritti filol. cit. e Fil. Leop.)» («p. 208»: numerazione dell’edizione Nistri-Lischi). ** p. 172 n. 64 δ: «aggiorn. Bigi e Blasucci» (l’annotazione vale per la nota 63 e per la nota 64). ** ibid. n. 65 (prima della citazione) A: «Cfr. anche Giordani, XIII, 129 “i sogni platonici (ai quali con tanta veemenza e sì poco giudizio si tenta oggi da taluni risospingerci” (1845).». ** ibid. n. 65 (in fine di nota) B: «Sul Romagnosi lettera molto interessante a Pietro Zambelli, 12 agosto [1832?], in I. Della Giovanna, P. G. e la sua dittatura lett., Milano 1882, p. 215 sg.; forse la stessa pubbl. da Donato Valli, Giordani e Brighenti, “GSLI” CLII, 1975, p. 426.»; δ: «214 Giordani A / “B” (“214” si riferisce alla numerazione dell’edizione Nistri-Lischi; il segno «”» intende compendiare – “virgolette” – la ripetizione di “Giordani”, ovvero “Giordani A/Giordani B”: cfr. infatti questa e la precedente annotazione alla nota 65)». ** p. 176 n. 79 C: «Bollati, p. XLIV» (cfr. postilla alla stessa n. 79). ** p. 178 n. 82 δ: «Sulla fonte Grilli p. 69 e n. 58». ** ibid.: «piacere intenso, non catastematico; piacere come assenza di dolore, magra consolazione, Platone Fedone; Ruysch e Diogene Cinico in Diog. Laerz. supra p. 207 n. 50» (il numero di pagina – 207 – si riferisce all’edizione Nistri-Lischi; la nota 50 di questo capitolo si richiama proprio alla tematica che qui si tratta, con una citazione del Ruysch e con due citazioni dallo Zibaldone, mentre nel testo cui tale nota è correlata vi è esplicita menzione di Diogene Laerzio). ** p. 179 n. 86 C (inizio nota): «/ /» (sul margine a destra della nota, una doppia barretta obliqua di richiamo, a forte evidenziazione concettuale dell’argomento).

Annotazioni autografe

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** ibid. n. 86 («in quell’elenco») δ: «ora Pacella». ** ibid. n. 86 («in contrario: se il Leopardi...») δ: da «se il Leopardi» a «congeniale», barra verticale di richiamo a margine e periodo sottolineato. ** ibid. postilla δ: «sistem. (Saccenti male). / Grilli, folle, nega» («sistem.» sarà compendio di «sistemare», riordinare i concetti che poi saranno ampiamente trattati, anche e appunto in relazione alle tesi di Saccenti, di Grilli, di Mazzocchini e di altri studiosi – ai quali, peraltro, Timpanaro non manca di tributare ancor più spesso il proprio convinto consenso critico –, in Epicuro, Lucrezio e Leopardi, dapprima in «Critica storica» nel 1988, poi in Nuovi studi sul nostro Ottocento, e infine qui, capitolo VIII del presente volume).

v. di alcune falsificazioni di scritti leopardiani Si avverte in premessa che, nel testo a stampa 1980 Nistri-Lischi, Timpanaro usa, a compendio di Appunti leopardiani di Cozza-Luzi, «AL», anziché, come nel «Giornale storico» del 1966, «A. L.». ** p. 184 Foglio di risguardo FLGS: «cfr. G. Lonardi, “Leopardismo” ecc. in ‘Studi novecenteschi’ I 1, marzo 1972, pp. 17 sg. / Binni, La protesta di Leopardi, Firenze 1973, p. 199 n. 2. / A. Monteverdi, / forse R. Negri, Leop. nella poesia italiana, Le Monnier, Firenze 1970 (rec. in Rass. lett. ital. 76, 1972, 152 sg.)» (questi riferimenti bibliografici sono giunti ad utilizzazione nelle pagine della redazione in volume – in particolare quello concernente Monteverdi, sul quale vedi qui sotto, e quello riguardante lo specifico luogo citato di Binni, discussi nell’aggiunta alla finale nota 73, regolarmente pósta fra i segni «| ... |» –, ad eccezione di Renzo Negri, il cui Leopardi nella poesia italiana – appunto Le Monnier, «Documenti e studi leopardiani» 4 – non è citato neanche in Aspetti e figure; l’incompiuta citazione da Angelo Monteverdi si richiama a Frammenti critici leopardiani2, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1967, più volte rammentato nel testo e in nota; si ricorda che il Lonardi di Leopardismo, insieme al Balduino del Manuale di filologia italiana, integrerà anche la successiva nota 68, limitantesi nel 1966 – «Giornale storico» cit., p. 118 n. 1, secondo la numerazione di pagine e di note adottata dalla rivista – alla precisazione numerica di voci del Catalogo del fondo leopardiano della Biblioteca Comunale di Milano, 1958). ** ibid. n. 1 FLGS: «alcuni degli Appunti» (redaz. 1966). ** ibid. n. 1 FLGS: «altri» (redaz. 1966). ** ibid. FLGS: «“dolori fisici e non solo fisici” G. Mercati!» (annotazione manoscritta, sul margine sinistro). ** p. 185 FLGS: «(anch’essa, in senso diverso, reazionaria e falsificante riduttiva e aberrante) d’un» (correzione autografa del 1966; «reazionaria e falsificante» cancellato; «seppur meno assurda» è aggiunta del testo a stampa, non documentata in annotazione manoscritta; al posto di «di un [Leopardi]», il testo a stampa del 1966 recava «del», e la relativa correzione autografa «d’un»). ** p. 188 FLGS: «polemiche» (attributo di «lungaggini e divagazioni»: redaz. 1966; «superflue» è innovazione della stampa nistri-lischiana e non è attestato in annotazione manoscritta). ** p. 190 («qui sopra») FLGS: «p. 89» (numerazione del «Giornale storico»; e così più sotto, «p. 89, lettere a, b, c»). ** ibid. n. 11 FLGS: «Saggio sul Leopardi, 4a ed., Firenze 1960, p. 264» (redaz. 1966; nel «Giornale storico» le citazioni dal Saggio saranno riferite a questa edizione). ** ibid. n. 12 FLGS: «Le poesie e le prose a cura di F. Flora, I, 4a ed., Milano 1953» (redaz. del 1966; cfr. Avvertenza sulle citazioni da «Aspetti e figure della cultura ottocentesca»). ** ibid. n. 13 («cfr.») FLGS: «Ultimo, in ordine di tempo, a credere all’autenticità sono stato io, in un articolo pubblicato in “Critica storica” del 1964 e ristampato in» (redaz. del 1966; da «All’autenticità» sino a «cfr.» si tratta d’innovazione, non attestata come manoscritta, del-

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Annotazioni autografe

l’edizione 1980; l’articolo è Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, anche qui, come fin dalla prima edizione 1965, capitolo III di Classicismo e illuminismo). ** ibid. («19651») FLGS: «1965» (mancava ovviamente l’esponente indicatore dell’edizione: precisazione superflua, dato che Classicismo e illuminismo, nel 1966, era uscito soltanto da un anno). ** ibid. («feci») FLGS: «ho fatto» (redaz. del 1966; anche riferendosi alla redazione del 1964 in «Critica storica», prima vera sede dell’articolo, l’autore è legittimato, in base alla contiguità cronologica, all’uso del passato prossimo; nel 1980, dopo quattordici anni – sedici anni dalla redazione in «Critica storica» –, vi è il passaggio alla forma aoristico-“remota”). ** ibid. («116 sgg.») FLGS: «P. Bigongiari, Leopardi, Firenze 1962, pp. 295 sgg., 341 sgg.;» (redaz. del 1966; nella redaz. 1980 viene eliminato, in questa nota, il riferimento; il Leopardi di Bigongiari tornerà nella nota 73, in fine di saggio, citato nella nuova edizione del 1976; diamo gli estremi completi delle due edizioni: la prima è Vallecchi, Firenze 1961 – Timpanaro cita, appunto, dalla ristampa del 1964 –; la seconda è La Nuova Italia, Firenze 1976, con qualche modifica e arricchita di quattro saggi, che indichiamo nell’ordine interno al volume: Leopardi e il desiderio dell’Io. Riflessioni preliminari sull’ordinamento dei «Canti», 1976; L’«infinito» di Leopardi e l’«interminato» del Cusano, 1975; Leopardi e il «senso dell’animo», 1967; Leopardi e l’ermetismo, 1972). ** p. 191 n. 16 FLGS: «261» (redaz. del 1966: si tratta dell’edizione 1960 del Saggio di De Robertis, mentre in AF Timpanaro cita dalla «nuova ed.», da lui menzionata alla nota 11, del 1973). ** ibid. AF 305 rr. 4-5: «proi/biti» > «proi-/biti» (sillabazione di rinvio «a capo», a penna, margine destro; la correzione è resa superflua dalla nuova impaginazione). ** p. 193 n. 19 FLGS: «1 di p. 92» (redazione – e impaginazione – del 1966). ** p. 194 FLGS: «sempre» (redazione 1966; sostituzione autografa con «anche»). ** ibid. («sviluppata al di là») FLGS: «sviluppata anche al di là» (redazione del 1966; l’«anche» è stato eliminato per evitare la ripetizione con l’«anche» istituito poco sopra nello stesso periodo – cfr. la precedente annotazione –). ** ibid. FLGS: «vol. II, pp. 1377 sgg. dell’edizione del Flora» (redaz. del 1966; manca ancora, ovviamente, nella versione in rivista, il riferimento costituito dalla sansoniana Binni-Ghidetti del 1969). ** ibid. FLGS: «II, pp. 1413-1421 Flora» (redaz. del 1966; cfr. precedente annotazione). ** p. 195 FLGS: «il Tacchi avrebbe copiato un po’ da questo proto-Zibaldone, un po’ dal vero Zib., cfr. sopra p. 91» («p. 91»: numero di pagina della redazione in rivista; in volume – Aspetti e figure –, tale pagina corrisponde alle pp. 299-301; qui, vedi alle pp. 187-188). ** ibid. FLGS: «si dette così la zappa sui piedi» (redaz. del 1966; «rivelò così la propria frode» di AF non ha attestazione manoscritta ed è quindi innovazione della stessa edizione 1980). ** p. 196 n. 22 FLGS: manca «prescelto dai primi editori», istituito ex novo, senza annotazione manoscritta, dall’edizione 1980. ** ibid. («vedi sopra,») FLGS: «pp. 90-91» (numerazione del «Giornale storico»). ** ibid. («più dotte») FLGS: «e, magari, desiderose di far fare una figuraccia al Cugnoni» (redaz. del 1966; la frase è completamente cassata nell’edizione 1980: non v’è segno manoscritto dell’eliminazione). ** ibid. n. 23 FLGS: «3 di p. 91» (redazione del 1966). ** p. 197 AF, p. 312 n. 24: «1890» (così il testo a stampa 1980; si tratta d’evidentissimo refuso, riferendosi la data ad uno dei «numeri» citati del «Don Chisciotte di Roma», tutti – per quanto concerne l’argomento in questione – del 1899: tale è infatti l’anno indicato a stampa nella nota 1, p. 98, di FLGS). ** p. 198 («AL, I») FLGS: «A. L. I» (non vi era virgola, e così sempre dopo «A. L.», in FLGS, nel testo «in alto»).

Annotazioni autografe

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** ibid. («gli abbozzi furono aggiunti») FLGS: «gli abbozzi vi furono aggiunti» (redaz. del 1966; non v’è segno manoscritto dell’eliminazione di «vi»). ** ibid. («p. 152») FLGS: «(2) Saggio sul Leopardi cit., p. 267.» (redaz. del 1966; nel «Giornale storico» l’indicazione giuseppederobertisiana costituisce la nota 2 a p. 98, e riguarda l’edizione 1964 [1960] del Saggio; in AF, oltre all’aggiornamento del dato bibliografico, vi è stato l’assorbimento della citazione nell’immediata, lineare sequenzialità del testo «in alto»). ** p. 199 («il Flora e Muscetta e Savoca») FLGS: «e il Flora» (redaz. del 1966; il riferimento a Muscetta e a Savoca è intervenuto successivamente, e non è documentato con integrazione manoscritta). ** ibid. («tutti») FLGS: «tutti e tre» (redaz. del 1966). ** p. 201 («degna») FLGS: «degna certo più di una guida turistica o di una didascalia di cartolina illustrata che» (redaz. del 1966; nessuna cancellazione o sostituzione manoscritta). ** ibid. («sforzato») FLGS: «artificioso» (redaz. del 1966; nessun intervento manoscritto). ** ibid. n. 32 («L’ultimo canto di Saffo») FLGS: «in “Rassegna della letter. ital.” 1959, pp. 205 sg., e ora in Ritratti e letture, Milano 1961, p. 244 sg.» (redaz. del 1966; nessuna sostituzione manoscritta). ** ibid. («paragr. 5») FLGS: «pp. 106 e 108» (redaz. del 1966; l’autore si riferisce ai numeri di pagina del «Giornale storico»). ** p. 202 («Scheel») FLGS: manca il successivo «e più compiutamente dalla Corti», aggiunto nella redazione 1980 AF. ** ibid. («Per esempio ...») FLGS: «“Dell’incantevole e magico effetto” è un doppio quinario, e» (cancellato; redaz. 1966). ** ibid. («“pèr cui”, ...») FLGS: «al verso 22 corsì, al 28 forsé, al 23 arrèstai» (redaz. 1966; «al 28 forsé», perfettamente legittimo come esempio e allineabile agli altri forniti, forse perché inframesso, nell’àmbito dell’annotazione autografa, nella sequenza degli esempî costituiti dai versi 22 e 23 – [22, 28, 23] –, è rimasto fuori dalla redazione in volume; non è in tal senso da escludere una distrazione d’autore nel passaggio dalla redazione nel «Giornale storico» a quella in Aspetti e figure, o una distrazione indotta nello stesso autore in séguito ad errore tipografico: dopo l’allineamento dell’esempio del verso 23 a quello dell’esempio del verso 22, il suddetto esempio del verso 23 è rimasto pur sempre, nell’ordine della serie manoscritta, l’ultimo, e può avere escluso l’esempio – appunto, il verso 28 – che concettualmente, nella «serie mentale», avrebbe in realtà dovuto ultimare la micro-filza elencativo-dimostrativa). ** ibid. («Al verso 32, ...») FLGS: «Al verso 32 crèder in fin di verso» (redaz. 1966; da «dove pure» a «impossibile in fine di verso» si tratta d’aggiunta della redaz. 1980, in volume, non attestata, neppure a livello manoscritto, nella redaz. comparsa nel «Giornale storico»). ** ibid. n. 33 FLGS: manca ovviamente nel 1966 la citazione, poi istituita, per questo saggio, nella redazione AF, di TO (Tutte le opere, Binni-Ghidetti). ** p. 203 («togliendone là un’altra,») FLGS: «trasponendo,» (redaz. del 1966; nessuna correzione manoscritta). ** ibid. («degli scolari») FLGS: manca il successivo «...e trascurando gli accenti», che è aggiunta, non documentata come integrazione manoscritta, di AF 1980. ** ibid. («al verso 1») FLGS: «al primo verso». ** p. 206 FLGS: «È un atteggiamento, più che da curatore di un’edizione, da “precettore” verso il ragazzo Leopardi: si corregge quel che si può, senza tuttavia pretendere di rifare interamente quello che deve rimanere un “saggio” scolastico» (annotazione manoscritta nella redazione 1966; vi sono, come si può constatare, alcune differenze rispetto all’edizione 1980 in volume). ** p. 207 («l’autografo») FLGS: manca il successivo «, nemmeno un falso autografo», aggiunto in AF 1980. ** p. 208 FLGS: «, in quell’epoca,» (integrazione manoscritta regolarmente giunta nel testo a stampa del 1980). ** p. 210 FLGS: «Prefetto»; AF 326 r. 24 (compresa citazione): «“scrittore” della Biblio-

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Annotazioni autografe

teca Ambrosiana» > «“dottore” etc» a lapis, margine sinistro (si segnala la correzione anche in questa sede perché si tratta d’inserzione sostitutiva del precedente termine). ** p. 212 FLGS: «p. 91 sg.» (numerazione del «Giornale storico»). ** ibid. («Jozzi») FLGS: manca per intero il periodo che va da «Nemmeno» a «Jozzi», che è aggiunta di AF 1980, senza anticipazione autografa. ** ibid. («, con ragione,») FLGS: manca «, con ragione,», che è inserzione di AF 1980, senza, anche in questo caso, anticipazione autografa (le ultime due annotazioni – cfr., infatti, la precedente inserzione d’intero periodo – rafforzano, motivatamente, il laico e anticlericale concetto che, qui addirittura su diretta base filologico-documentaria, sostiene tutta l’argomentazione di Timpanaro). ** p. 214 n. 51 FLGS: «94 n. 1» (numerazione del «Giornale storico»). ** ibid. FLGS: «95» (numerazione del «Giornale storico»). ** ibid. n. 53 FLGS: «abbia confuso tra le due opere di Eusebio; oppure che il lapsus sia stato commesso da uno scrivano dell’autorità ecclesiastica che gli rimandò la copia della supplica col rescritto in cui si concedeva la licenza» (redaz. del 1966; AF 1980 ha in tal senso, e limitatamente a questo caso, molto semplificato il testo apparso nel «Giornale storico»). ** p. 215 FLGS: «p. 98» (numerazione del «Giornale storico»). ** ibid. FLGS: «Poesie e prose» (cfr. Avvertenza sulle citazioni da «Aspetti e figure della cultura ottocentesca»). ** ibid. FLGS: «93» (numerazione del «Giornale storico»). ** p. 217 FLGS: da «mi conferma» ad «Augusto Campana», si tratta, senza mutamenti, di testo trasferito dalla nota 2, p. 112 dell’edizione 1966 nel «Giornale storico», al testo «in alto» nella redaz. 1980 («Mi» con l’«M» maiuscola nella suddetta nota del «Giornale storico», dato che si trattava della parola iniziale della nota stessa). ** ibid. FLGS: «!»; «cfr. abbozzo I, dove apre / copre presuppongono due diversi significati di orizzonte» (il punto esclamativo a «non visibilità dell’orizzonte» è nella redaz. 1966; i concetti dell’annotazione, da «cfr. abbozzo I», confluiscono nella redaz. 1980, con alcuni mutamenti testuali – com’è visibile –, nella nota 55; da tenere particolarmente presente il rimando, che vi è nella stessa nota 55, alla precedente nota 25). ** p. 218 FLGS: «non lega affatto» (redaz. 1966). ** ibid. («bisticcio») FLGS: «di» (ossia, «bisticcio di...»; nessuna correzione autografa). ** ibid. FLGS: «G. De Robertis, Saggio sul Leopardi cit., p. 265» (redaz. 1966; la citazione costituiva la nota 1 – ora inglobata nel testo «in alto» – a p. 113 del «Giornale storico»: Timpanaro ancora si riferiva alla IV ed. – 1960 – del Saggio). ** ibid. FLGS: «Questa correzione compare per la prima volta nel “Suppl. generale a tutte le mie carte”, cfr. Monteverdi, p. 149.» (è, in forma di pregresso nucleo annotato a margine, la nota 57 del testo 1980). ** p. 219 FLGS: «nei versi 1-11» (senza anticipazione autografa della variante). ** p. 220 FLGS: «,» (ossia, «Poi, l’Infinito»; la virgola, scritta a mano, non è approdata ad AF 1980). ** p. 221 n. 59 FLGS: «con certezza» (non v’è segno autografo d’espunzione in vista di AF 1980). ** ibid. n. 60 FLGS: «4» (numerazione del «Giornale storico»). ** ibid. n. 61 FLGS: «Poesie e prose a cura del Flora,» (cfr. l’Avvertenza sulle citazioni da «Aspetti e figure della cultura ottocentesca»; manca ovviamente, in FLGS, il rinvio alla Binni-Ghidetti). ** ibid. n. 62 FLGS: «ed. Flora» (cfr. la precedente annotazione). ** ibid. n. 63 FLGS: «e Flora» (cfr., per ogni necessaria precisazione, le due annotazioni precedenti). ** ibid. FLGS: «Pochi» («pochi» anni, quattro, separavano il 1966, l’anno in cui fu pubblicato l’articolo timpanariano nel «Giornale storico», dall’uscita recanatese – 1962, appunto – della Condanna e viaggio del Redentore al Calvario: nella nota 65 Timpanaro ne dà gli estremi biblio-

Annotazioni autografe

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grafici; nel 1980, invece, i diciotto anni nel frattempo trascorsi giustificano il «Vari» di AF). ** p. 222 FLGS: «90» (numerazione del «Giornale storico»). ** ibid. n. 66 FLGS: «pagina preced., n. 5» (numerazione del «Giornale storico»; la pagina precedente è, nel 1966, la 115). ** p. 224 n. 68 FLGS: la nota 1 p. 118 della redazione nel «Giornale storico» – corrispondente, appunto, alla nota 68 di AF – si ferma a «Comunale di Milano»; da «cfr. G. Lonardi» a «p. 165» si ha in AF 1980 un’aggiunta parzialmente anticipata (proprio nel Leopardismo di Lonardi), in FLGS, dall’annotazione autografa sul foglio di risguardo, la prima del presente capitolo V – vedi più sopra – da noi trascritta in questa sede. ** ibid. («trovano») FLGS: «trovavano» (redaz. 1966; nessuna anticipazione autografa di «trovano»; – ne risulta, nel testo di AF, la conquista, con un «presente» di puro resoconto concettuale-culturale, svincolato dal condizionamento temporale-narrativo espresso dall’imperfetto «di cronaca» del 1966, d’una superiore misura di respiro saggistico, d’una, se possibile trattandosi di Timpanaro, ancor più nitida cifra di distaccata dimensione scrittoria; né questo dato menoma in alcun modo la ratio vigile e «schierata», la subcutanea vena polemica che la filologia del saggio sui «falsi leopardiani» acuminatamente arma contro le strategie, o talvolta semplicemente contro le tattiche ideologiche del mondo ecclesiastico, e più in generale contro i pretestuosi movimenti culturali del clericalismo). ** p. 225 («vedi qui sopra, nota 8») FLGS: «Vedi sopra, p. 92 n. 1» (numerazione del «Giornale storico»; il rinvio, che in AF è nel testo «in alto», costituisce invece in FLGS la nota 2 di p. 118; del passaggio da nota piè pagina a rinvio incorporato nel testo «in alto» non v’è, in FLGS, alcuna anticipazione autografa). ** ibid. («p. 204») FLGS: «p. 103» (numerazione del «Giornale storico»). ** ibid. («questo problema69») FLGS: «(*) {richiamo con asterisco, ripreso a fondo pagina} (*) Onoranze rese a G. Cozza-Luzi Vice Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, Roma 1898, pp. 14-16 bibliografia: non risulta abbia composto versi stampati» (l’annotazione autografa è un pregresso nucleo della nota 69 di AF 1980; sulla funzione dell’asterisco in questa annotazione e in quella che darà luogo alla nota 72, cfr., più sotto, la citazione dell’offerta d’una pergamena al Cozza-Luzi). ** ibid. n. 70 FLGS: «Giri» («i»: [cr]; la correzione del refuso, oggetto di doppia sottolineatura, viene regolarmente apportata nella redaz. 1980). ** p. 226 FLGS: «Onoranze cf. qui sotto: fu offerta al Cozza-Luzi una pergamena il cui testo dettato dal Cugnoni, p. 10» (dopo «Cugnoni, p. 10» la frase rimane formalmente non conclusa – manca, è un’ipotesi, un «fu» a comporre «fu dettato [...] dal Cugnoni», che è il testo acquisito dalla n. 72 in AF 1980 –; questa composita forma d’annotazione – cfr. qui sopra il primo richiamo alle Onoranze e alla bibliografia sul Vice Bibliotecario, destinato alla nota 69, e insieme cfr., qui, la successiva e quasi immediata ripresa del tema e delle notizie sulle Onoranze [«cf. qui sotto», sempre a proposito del Cozza-Luzi] – istituisce appunto, ex integro, non una, bensì due note, la 69 e la 72 dell’edizione 1980 Nistri-Lischi, nelle quali si scindono, ciascuno diversamente arricchendosi, indicazioni e concetti qui vergati a mano; si parla d’annotazione in forma composita poiché l’asterisco di richiamo, già prima citato, si pone in alto, al margine destro del testo a stampa, all’altezza della fine del capoverso che termina con «su questo problema», quindi, con buona approssimazione di spazio, all’altezza delle parole che accolgono la nota 69 della redazione Nistri-Lischi: la relativa annotazione doveva primitivamente essere concepita come origine della sola nota 69, mentre in séguito lo stesso asterisco, che appare autonomamente «stagliarsi» in alto, ha invece ampliato il proprio ruolo grafico-manoscritto assumendo la duplice funzione di segnale per la citazione delle Onoranze – nota 69 –, per il quale si rivela insufficiente lo spazio materiale-cartaceo, onde il necessario rinvio «richiamato» al più capiente e comodo fondo pagina, e altresì la funzione di contiguità con quella notizia dell’offerta d’una pergamena al Cozza-Luzi che non a caso s’incanala verso l’altra e del pari nuova e non meno specificamente mirata nota 72).

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Annotazioni autografe

vi. natura, dèi e fato nel leopardi ** p. 227 δ: «379 Alla Natura v. sopra Asp. f.» (per il presunto idillio Alla Natura cfr. infatti Di alcune falsificazioni di scritti leopardiani, qui citato da Timpanaro nella sua versione in volume, appunto in Aspetti e figure, ma comunque precedente, in quanto pubblicato in rivista nel 1966, a Natura, dèi e fato nel Leopardi, uscito come primo degli Addenda nel 1969). ** ibid. δ: «Solmi nuove indicaz. bibliogr. ha torto» (una sintetica ma efficace ricognizione dei motivi di dissenso critico da Sergio Solmi può essere letta nella Prefazione ai Nuovi studi sul nostro Ottocento, cit., pp. XIV-XVI). ** p. 228 δ: «380 Blasucci» («380»: numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi; di Blasucci si ricordi La posizione ideologica delle «Operette morali», allora – 1969 – di imminente pubblicazione nell’opera collettiva Critica e storia letteraria. Studi offerti a Mario Fubini, 2 voll., Padova, Liviana, 1970, I, pp. 621-672, quindi in Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino – «Saggi» 293 –, 1985, pp. 165-226). ** p. 229 δ: «purismo: Binni mi fraintende». ** p. 230 δ: «Asp. fig. Dionisotti – Vitale – Tateo – art. Cesari DBI – Schubart»; il nome di «Vitale» è congiunto da un tratto di penna, con funzione di richiamo, ad alcune parole scritte al di sotto di «poco rigore di Solmi» – cfr. successiva annotazione –; le parole sono: «Quest. lingua; / Purista, purismo, Acme 17, 1964, 187 sg. / Marazzini»; si ricorda che il saggio di Maurizio Vitale intitolato Purista purismo. Storia di parole e motivi della loro fortuna, in «Acme», XVII (1964), 187 sgg., come anche il saggio Classicismo e purismo, «ivi», XXIII (1970), 233 sg., appare già citato in queste Annotazioni. S’aggruma, qui, una costellazione di nomi, e di rimandi non solo bibliografici ma anche generalmente culturali, che acquisiscono il saggio Natura, dèi e fato nel Leopardi, e insieme la seconda, dinamica «fase» di Classicismo e illuminismo, ad una dimensione più latamente timpanariana, capace d’abbracciare l’intera ottocentistica dello studioso, o, meglio, impossibilitata, fecondamente e fortunatamente impossibilitata a non abbracciare un campo così ampio, a non spaziare in un àmbito intessuto d’una fittissima rete di rinvii e di rimbalzi concettuali, nessun piano escluso, da quello della linguistica a quello dell’ideologia filosofica e letteraria. La focalizzazione critica del purismo primoottocentesco e in specie antoniocesariano s’apre infatti, proprio e significativamente qui, sulle pagine del «vecchio» Classicismo e illuminismo (tanto più se in δ, la copia della seconda edizione nella ristampa del 1984), a tutta una serie di riflessioni e di studî che ormai non fanno più parte del volume Classicismo e illuminismo quale oggetto ufficiale, ma ne fanno parte, di contro e a ben maggiore «compenso» culturale, quali componenti d’un’unica, grande ricerca che deve trovare altri titoli editoriali (nel tempo e per questi argomenti, soprattutto Aspetti e figure e i Nuovi studi) soltanto perché non è possibile scardinare la primitiva impaginazione del volume-matrice, dell’UrClassicismo e illuminismo; ma da queste pagine s’era formato ed era partito, e qui ritorna, il robusto nucleo di revisione storiografica, in ratio antihegeliana e in buona parte antidesanctisiana, dell’Ottocento italiano. E tutte appartenenti ad Aspetti e figure e ai Nuovi studi sono le sollecitazioni e i caposaldi bibliografici annotati a mano, quasi a lista, riguardo a Natura, dèi e fato nel Leopardi: una sequenza di nomi intensamente registrati come a non perderne uno perché si era sull’ultima pagina delle postille di δ, ancoraggi onomastici d’autori di saggi fra loro collegati a catena, a sancire, ove ve ne fosse bisogno, l’assoluta attualizzazione dei fondamenti di Classicismo e illuminismo nella coerente prosecuzione della ricerca di Timpanaro, oppure, se si preferisce, la perfetta acclimatazione degli studî cronologicamente nuovi nella non fortuita temperie antecedente, la temperie metodologica delle indagini sull’origine del purismo leopardiano e sul suo superamento, su un fenomeno decisivo, anche nel suo momento ideologico denegante, per tutta l’evoluzione del primo Leopardi. Da qui l’osmosi, armoniosa ed omogenea, e nel contempo rigorosa e severa, fra Aspetti e figure, ed altresì i Nuovi studi, e Classicismo e illuminismo (un’osmosi coerente e organicamente nistrilischiana): Aspetti e figure è sùbito scritto, quasi a premessa, come volume del tutto legato a Clas-

Annotazioni autografe

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sicismo e illuminismo e da questo non indipendente; il nome di Dionisotti ricollega al saggio Il Giordani e la questione della lingua, in special modo a p. 150 n. 2 e alle successive pp. 151-152 e 157, nelle quali si evidenzia con qualche dissenso rispetto allo stesso Dionisotti la novità di concezione linguistica di Cesari rispetto al modernismo settecentesco, facendo riferimento, oltre alla recensione alla Storia della lingua italiana di Migliorini in Geografia e storia della letteratura italiana, alla «distinzione fra il purismo cesariano e il fiorentinismo», e richiamandosi pure agli studî di Maurizio Vitale, che è difatti il secondo nome dell’annotazione. La questione della lingua, come anche il già citato articolo del 1964 in «Acme», la Storia del purismo allora in preparazione, L’oro nella lingua, il contributo nei Saggi di letteratura italiana in onore di G. Trombatore, gli articoli su Il purismo linguistico di A. Cesari in «Lettere italiane» (1950) e Il purismo linguistico italiano e l’opera di A. Cesari in «Cultura e scuola» (1978), dunque alcuni dei più importanti lavori di Vitale, entrano in relazione con la voce dedicata a Cesari dallo stesso Timpanaro nel DBI del 1980, contemporaneamente alla ripubblicazione de Il Giordani e la questione della lingua (che era del 1974) in Aspetti e figure; e più ancora funziona, la griglia di collegamenti, con i Nuovi studi, che nel 1994 iniziano proprio con la rielaborazione della voce su Antonio Cesari (cfr. qui sopra l’annotazione alla n. 41 de Le idee di Pietro Giordani), supportata dalla costellazione bibliografica il cui nucleo è quello depositato senza neanche indicazione di numero di pagina nelle annotazioni a Natura, dèi e fato, com’è reso palmare dalla conclusione del saggio (Nuovi studi, p. 26): «[...] a una valutazione storicamente più equa [...] si è giunti nell’ambito del rinnovato interesse per la questione della lingua (M. Vitale, C. Dionisotti, F. Tateo, R. Tissoni, S. Timpanaro con maggiori riserve, e altri)». Vitale, Dionisotti, Tateo (cfr., di quest’ultimo, Da Cesari a Leopardi, I, L’intenzionalità estetica del purismo cesariano, in Michele Dell’Aquila-Arcangelo Leone De Castris-Vitilio Masiello-Francesco Tateo-Michele Tondo, La cultura letteraria italiana dell’Ottocento, De Donato, Bari 1976, pp. 14-47, citato proprio in Nuovi studi, p. 28) sono gli stessi nomi presenti a concludere, in autografo, la copia stampata da noi denominata «δ»; e sùbito dopo l’autore allinea il proprio articolo su Cesari; e ancora, il barone di Schubart, nominato in δ, è personaggio che costituisce un preciso e miratissimo rinvio ai soli Nuovi studi, l’unico volume timpanariano in cui Herman Schubart, appunto, ambasciatore del re di Danimarca a Napoli fino al 1805, poi residente a Montenero presso Livorno e vicepresidente dell’Accademia (in séguito Società) Italiana di Scienze, Lettere ed Arti, venga esplicitamente menzionato. Amico di Cesari e di Monti, fautore d’una loro riconciliazione quando nacquero reciproci dissensi, culturalmente filoitaliano e promotore d’artisti e di letterati (compreso il sostegno prestato per far premiare dalla suddetta Società la cesariana Dissertazione), dedicatario delle cesariane Grazie, egli è citato nelle sole pp. 13-14 dei Nuovi studi, anche sulla base d’un notevole contributo nel frattempo pubblicato dalla moglie di Timpanaro, Maria Augusta Morelli: Alcune note sul barone di Schubart, in «Critica storica», XVIII (1981), pp. 466-519 (Nuovi studi, p. 13 n. 12; nella stessa n. 12 lo studioso precisa nel saggio della Morelli i riferimenti ai rapporti con il Cesari – p. 479 n. 40 e pp. 482 sg. – e con Vincenzo Monti – pp. 473, 481 sg., 490, 499, 518 sg. –; il danese Herman Schubart non ha alcunché in comune con il filologo tedesco Wilhelm Schubart, autore fra l’altro dell’articolo «Palimpsestus», in Pauly-Wissowa, XVIII. 3, 1949, col. 123 sg., citato nell’Appendice A – Sulle scoperte e pubblicazioni di palinsesti prima del Mai – ad Angelo Mai, VI capitolo di Aspetti e figure, p. 248). Anche nel caso di Claudio Marazzini la citazione concerne solo i Nuovi studi, a p. 211, n. 10, a proposito dell’ultimo capitolo De Amicis di fronte a Manzoni e a Leopardi: Il gran «polverone» attorno alla relazione manzoniana del 1868, in «Archivio glottologico italiano», LXI (1976), p. 120; e nella stessa nota (pp. 211-212) tornano i richiami al Vitale di L’oro nella lingua e, insieme, i richiami al Monti, all’antimanzoniano Graziadio Isaia Ascoli, al padre Cesari (anche a p. 213) e all’«ambiguità fiorentino/toscano». Aspetti e figure, e oserei dire in ancor maggiore misura i ben più recenti Nuovi studi sul nostro Ottocento (tutta, e non è certo un caso, la saggistica nistri-lischiana di Timpanaro) sono strettamente lì, dunque, sono presenti e vivi e convintamente depositati via inchiostro in Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, ne fanno già legittimamen-

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Annotazioni autografe

te parte, e, considerati nella loro genesi intellettuale di “volumi”, imprescindibile parte integrante. Semmai, stupirebbe fortemente il contrario: sul piano logico, innanzi tutto, e altresì sul piano storico-cronologico, sul piano culturale e su quello editoriale. Più che mai appare riconquistabile l’appunto che siamo venuti svolgendo sull’annotazione alla «copertina» – vedi sopra, in queste Annotazioni – sul valore di midollare essenza storica e critica rivestita da Natura, dèi e fato nel Leopardi riguardo allo snodo intellettuale verso il rinnovato Classicismo e illuminismo; in singolar modo, valga il concetto d’osmotica, scambievole continuità linguistica fra le prime pagine (ma non esclusivamente quelle) di questo VI capitolo e il primo capoverso della «copertina», in una sorta di speculare reduplicazione cogitativa ed espressiva. Speculare come distillato sintetico, sì, ma tale da non esser deterrente alla ripresa nomenclatoria, alla citazione diretta, al mutuo transito capitolo-«copertina» della medesima dotazione terminologica, alla pronuncia lessicalmente professa della stessa parola, vivente o cancellata (come il già notato «rigene» per «rigenerazione», virtuale ospite della copertina e invece escluso poiché già defluito nel testo del capitolo), ma ancora visibile nel fervido, quasi ancora visivamente «sudato» dinamismo dell’annotazione manoscritta. La «copertina» si scrive quasi sempre a testo finito: e il Timpanaro della «copertina» del 1965 – I edizione – era già, intellettualmente, il Timpanaro della sontuosa «aggiunta», dell’Addendum assolutamente necessario; era, in definitiva, già l’autore della seconda edizione, se non anche, proprio a causa delle limitazioni editoriali, e quindi con la mente oltre l’ostacolo, l’autore del progetto d’una terza potenziale concezione del volume. Non a caso, Natura, dèi e fato nel Leopardi accusa una «percentuale» assai esigua di successivo ripensamento, di modifica (in uno studioso ideologicamente, ma anche espressivamente tormentato da «flaubertiana» pressura di correttoria autorevisione). Il testo di Natura, dèi e fato nel Leopardi v a b e n e , insomma, e ciò è fortemente significativo; e le posteriori annotazioni autografe, poche se confrontate a quelle che devono sopportare altri saggi della seconda edizione di Classicismo e illuminismo, non si pongono, come per altri testi invece avviene, quali «correzioni», quali «modifiche» o «integrazioni-rettifiche», e perciò quali interventi d’alterazione qualitativa, seppur talora minimale, del testo precedente; essi sono piuttosto indicazioni, direzioni di ricerca, e, spesso, sanzione di pertinenza di ricerche già avvenute e di saggi già scritti e già pubblicati e sostanzialmente non rimessi in discussione. Non, dunque, una vera volontà correttoria su questo saggio, ma una serie di possibilità e di conferme; e, più ancora, una rete di connessioni e d’associazioni, di riferimenti e d’incrociati rinvii rispetto a studi ed a testi saggistici, dell’autore o d’altri, che sta a dimostrare, certo, l’assiduità d’elaborazione concettuale di Timpanaro, ma che dichiara pure (e questo è il dato principale) la reciprocatio inestricabile, se non in presenza di macroscopiche differenze di protocollo critico, fra molti dei lavori saggistici del Timpanaro ottocentista, e non solo ottocentista. Una reciprocatio tenacemente coesa, anche dove è varia, a tal grado da rendere culturalmente intercambiabili gran parte dei contributi interpretativi, storico-critici, critico-letterari, ideologico-culturali, e anche propriamente linguistici, leopardiani e non, con esclusione (così almeno sembra di poter pensare in omaggio al genere e al «timbro» ispirativo e scrittorio di determinati lavori timpanariani) della produzione peculiarmente, specificamente filologica (si vedano le varie edizioni de La filologia di Giacomo Leopardi e la stessa edizione degli Scritti filologici) e di quella più scopertamente ideologico-politica, cifrata sul «morso» polemico dell’indignatio appena velata, dell’attualizzazione scottante e della manifesta pronuncia d’una vivace opzione di schieramento, anche nell’àmbito della stessa sinistra e pur nella piena coscienza d’un’amara disillusione strategica sui percorsi della res publica (è il caso di Antileopardiani). Nel doveroso rispetto dell’autonomia degli «estremi», da quello tecnico-testuale proprio della professione del filologo a quello del pensoso ma schietto e dichiarato militante politico, si può considerare tutta la gamma degli studi nistri-lischiani come una zona critica tutt’altro che diversa, nel protocollo di pensiero, da quella degli «estremi» peculiarmente professati; ma si tratta d’una zona programmaticamente fluida e aperta alle due fondamentali tipologie di approccio e al loro reciproco concorso, un’area di metodo che non rinuncia ad alcuno dei due vettori, né a quello filologico né a quello storico, e che, proprio e in

Annotazioni autografe

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particolare nei saggi pubblicati da Nistri-Lischi, tiene d’ambedue le sollecitazioni, nel solco basilare d’una pur criticamente rivissuta eredità pasqualiana; ed è quindi da giudicare una zona saggistica unitaria, anche al di là delle sue apparenze formali, della molteplicità delle contingenze e delle occasioni critiche. ** p. 245 δ: «poco rigore di Solmi». vii. note leopardiane ** p. 251 AF 275: «Leop. lett. a Giordani, 30 aprile 1817 “Mio Padre la ringrazia de’ saluti suoi, e caramente la risaluta{”}» (a lapis, nell’intestazione). ** p. 258 (inizio Post scriptum) AF 284 r. 10: «segnalazione di Rino Avesani, 13. vi. 1961 (!): Guido Vitaletti, Benedizioni e maledizioni in amore, “Arch. Rom.” III (1919), 206-39: a p. 239 cita il canto marchigiano con le parole “Nelle Marche abbiamo una lezione raccolta già dal Leopardi in Recanati”.» (a penna, margine sinistro e intestazione). ** p. 263 AF 290 r. 11: «(segnalaz. di A. Carrannante, 21. i. 1981: progressivo in una corrisp. anon. nell’“Antologia” gennaio 1832, 146 (opposto a retrogrado)» (a penna, margine sinistro).

viii. epicuro, lucrezio e leopardi ** p. 266 NS c1 143: «La Penna su Lucrezio (“Unità” 1983, rist. in volume ora)» (a lapis, fronte pagina: cfr. Antonio La Penna, Da Lucrezio a Persio. Saggi, studi, note. Con una bibliografia degli scritti dell’autore, a cura di Mario Citroni, Emanuele Narducci, Alessandro Perutelli, Sansoni, Firenze 1995). ** p. 286 n. 29 NS c2 166: «ora di nuovo Bigi, GSLI» (a penna, margine sinistro). ** p. 292 NS c1 173: «gli dèi di Epicuro “consentono all’opinione pubblica”, in realtà Epicuro ateo (cfr. De Nat. deor.): così, a torto, Pasquali Or. lirico 220 n. 3.» (a lapis, margine destro). ** p. 296 n. 38 NS c2 177: «Cfr. già Giordani, lett. al Leop. del 16.7.1827: “Mio caro, la mia vita vitale è finita da un pezzo”.» (a penna, piè pagina). ** p. 301 n. 48 NS c2 183: «29» (Timpanaro, a maggior chiarezza della correzione di refuso, riscrive, cerchiandolo, il numero – 29 – della nota citata; a penna, margine destro nota). ** p. 304 n. 52 testo a stampa ’94: «(a p. 162 r.1, dopo “immortalità”, furono omesse per errore tipografico una virgola e le parole “anche dell’immortalità”).» (frase da noi cassata perché ormai del tutto superflua: la correzione del refuso, un saut du même au même, è poi stata regolarmente da noi apportata nel testo [cr], in Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi – saggio inserito fin dall’edizione 1965 in Classicismo e illuminismo –, sulla base di precisa annotazione autografa dell’autore: B e δ 162. ** ibid. NS c2 187: «Ricordo dei piaceri passati: più che mai infelicitante nella sventura: Euripide Iph. Taur. 1117-22; Dante “nessun maggior dolore” ecc.; Leop. Ricordanze (e A Silvia)» (a penna, fronte pagina e margine destro). ** p. 313 NS c2 196: «cfr. tuttavia U. Dotti»; nel testo, «Montaigne» sottolineato (cfr. Ugo Dotti, Il savio e il ribelle. Manzoni e Leopardi, nuova edizione ampliata, Editori Riuniti, Roma 1993, in part. 170-172 – ma vedi, in generale, pp. 41, 122, 165, 181, 275 n. –; a lapis, margine sinistro).

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Annotazioni autografe

ix. il leopardi e la rivoluzione francese ** p. 316 NS c1 e c2 128: «:» (i «due punti» si riferiscono a «cfr. qui sopra, p. 74 n. 8», da noi trasposto in n. 2 come rinvio interno ad un saggio dei Nuovi studi – Pietro Gioia, Pietro Giordani e i tumulti piacentini del 1846 – qui non ricompreso; nella nota è citato per esteso il saggio; correzione a penna). ** p. 319 NS c2 132: «Nei “disegni letterari”, TO (Binni-Ghidetti) I p. 370: “Ifigenia, tragedia o dramma dove si finisca colla morte della fanciulla”. – Segnalato già da Pasquali, Ifigenia in Enc. Ital. 18 (1933), p. 810 “Anche G. Leopardi giovinetto si proponeva di trattare il tema”.» (a penna, margine sinistro e intestazione).

x. carlo cattaneo e graziadio ascoli I. Le idee linguistiche ed etnografiche di Carlo Cattaneo ** p. 328 postilla δ: «Armani, Bibliogr. C. Cattaneo / D. Santamaria. / Altra mia roba a cantiere. {?} e ide {?} / Rec. a {annotazione incompiuta} / Castellani Castelnuovo Frigessi». Le parole di difficile lettura possono far ipotizzare «coordinare le idee»; i nomi degli studiosi corrispondono a Giuseppe Armani, Gli scritti su Carlo Cattaneo: saggio di una bibliografia (18361972), Nistri-Lischi – Collana scientifica «Domus Mazziniana», 13 –, Pisa 1973; a Domenico Santamaria, Bernardino Biondelli e la linguistica preascoliana, Cadmo, Roma 1981; al linguista Arrigo Castellani; a Delia Castelnuovo Frigessi, curatrice di Carlo Cattaneo, Opere scelte, 4 voll., Einaudi, Torino 1972. ** p. 344 n. 50 A: «P. de Tommaso, Il “Platone in Italia” del Cuoco, in “Belfagor” XXIX (1974), p. 389 sg.»; δ: «De Tommaso». ** p. 346 postilla δ: «aggiornare; e Santamaria (Lo Piparo?)». ** p. 368 n. 131 B: «No: nel brano cit. sopra, le “monadi organiche” sono gli animali unicellulari o simili!». II. L’influsso del Cattaneo sulla formazione culturale e sulla linguistica ascoliana ** p. 373 n. 146 C: «cfr. G. Rosa, Autobiografie a c. di G. Tramarollo, Pisa 1963, pp. 127129.» (cfr. postilla alla stessa n. 146). ** p. 375 n 153 δ: «rabbuffo al Salvioni! / Santamaria». ** p. 376 C: «influsso del Tommaseo tra gli intellettuali della Venezia Giulia: v. le memorie di P. Valussi.» (cfr. postilla a fine capoverso). ** ibid. postilla A: «Tommaseo-Valussi: Tommaseo e la “fratellanza dei popoli”, di G. Rutto, ‘Rassegna storica del Risorgimento’ 62, 1975, 3 sg.». ** p. 378 n. 163 δ: «294 n. 4 v. Lignana» («p. 294» è numerazione dell’edizione NistriLischi; «n. 4» è svista dell’autore per nota 31, a sua volta numerazione N. – L.: svista probabilmente indotta dall’immediata contiguità con «4», ultima cifra del numero di pagina NistriLischi – la pagina 294 Nistri-Lischi annovera le note 31 e 32 –). ** p. 380 A: «cfr. già Ascoli, “Studj orient. e linguistici” I, p. 36.»; δ: «297 A Ascoli cit.» («297», indicato in δ, è, al solito, numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi). ** p. 387 n. 194 δ: «306 n. 62 Fano» («306 n. 62»: numero di pagina e di nota dell’edizione Nistri-Lischi; di Giorgio Fano è sinteticamente citato più sotto, nel testo, alla nota 280, il Saggio sulle origini del linguaggio – titolo completo: Saggio sulle origini del linguaggio: con una storia delle dottrine glottogoniche, Einaudi, Torino 1962 – ed a lui, «pur all’interno di una concezione idealistica della realtà», è attribuito il merito d’aver «confutato» i «presuntuosi sofismi» che nascono dalla restaurazione dell’idealismo anche in linguistica: Timpanaro si riferisce, in quella nota, alla polemica di Croce contro Alfredo Trombetti e alle posizioni dell’«hegeliano

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ortodosso Augusto Vera» e dell’Introduzione alla filosofia della storia di quest’ultimo, Firenze 1869; ma in questa annotazione autografa l’autore, avendo in vista d’immettere nel volume un contributo nuovo d’aggiornamento bibliografico e di conoscenza, vorrà richiamarsi non alla precedente e già citata edizione, bensì alla riedizione del Saggio di Fano, quindi alla sua più recente riproposta – cfr. anche successiva annotazione alla nota 227 –, forzatamente non confluita nelle ristampe di Classicismo e illuminismo: Giorgio Fano, Origini e natura del linguaggio. Ried. postuma con pag. inedite a cura di Anna e Guido Fano dell’ed. intitolata Saggio sulle origini del linguaggio, Einaudi – «Piccola Biblioteca Einaudi» 209 –, Torino 1973). ** p. 397 n. 227 δ: «319 n. 95 Nencioni, nuova ediz.» («319 n. 95»: numero di pagina e di nota dell’edizione Nistri-Lischi; alla prima edizione, citata da Timpanaro nella nota 227 – Giovanni Nencioni, Idealismo e realismo nella scienza del linguaggio, La Nuova Italia-«Biblioteca di cultura» 25, Firenze 1946 –, ha fatto séguito la «nuova ediz.», con lo stesso titolo, Scuola Normale Superiore-«Pubblicazioni della Classe di Lettere e Filosofia», «Scuola Normale Superiore» 5, Pisa 1989). ** p. 406 n. 255 B: «Sostrato-manie e S-phobie:» («S-phobie» sta evidentemente per «Sostrato-phobie»; l’annotazione, dopo il segno dei due punti, non è completata). ** p. 407 A: barra verticale di richiamo ad inizio periodo (si tratta, qui e nei successivi capoversi, d’un concetto che particolarmente interessa Timpanaro: il lungo silenzio, non facilmente spiegabile, degli scritti linguistici di Ascoli su Cattaneo – cfr. anche la successiva annotazione allo stesso passo); δ: «p. 333 “Eppure ...”. No, cfr. Santamaria» («p. 333»: numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi). ** ibid. B: «No (D. Santamaria)» (il «No» è scritto cerchiato, a riprova – cfr. la precedente annotazione – del costante interesse rielaborativo applicato all’argomento). ** p. 409 A: «Pignatelli, Le origini settecentesche del cattolicesimo reazionario ecc, “Studi storici” XI, 1970, pp. 755-82». Sono parole autografe scritte in un foglietto inserito fra le pp. 334 e 335 dell’ed. 1969; la collocazione del foglietto appare incongrua agli argomenti trattati in questo passaggio del capitolo cattaneiano-ascoliano; l’annotazione coincide invece totalmente con il secondo riferimento bibliografico autografo da noi qui sopra inserito nella nota 1 ad Il Leopardi e la Rivoluzione francese, cap. VI dei Nuovi studi sul nostro Ottocento e, qui, IX capitolo di Classicismo e illuminismo. Il foglietto è stato evidentemente posto per errore tra le pagine di questo capitolo; ma la citazione è discesa inalterata, con «;[G(ius). ...]», «Giuseppe», premesso a «Pignatelli», nell’annotazione autografa di NS c1. ** ibid. B: «non, un poco lo aveva già rotto?». ** ibid. n. 269 C: al di sotto di «febbr.» appare «genn.» cancellato. ** p. 410 postilla δ: «vedi» (cerchiato). ** p. 417 δ: «p. 346 agg. A» («p. 346»: numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi; «agg.», «aggiunta» – o «aggiungere» –, appunto, delle parole che, nel testo, è stato in questo caso possibile incorporare in parentesi quadra). ** p. 419 A: «cfr. ancora Carteggi Ascoli-Salvioni, p. 96»; δ: «pp. 347 agg. A» («p. 347»: numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi; per «agg.», cfr. precedente annotazione; in questo caso, la mancanza d’espliciti, formali legami sintattici ed interpuntivi con la concreta fenomenologia del dettato testuale destina alle presenti Annotazioni il rinvio bibliografico ai Carteggi Ascoli-Salvioni). ** p. 421 n. 310 C: «Cfr. nello stesso art. p. 638 “L’epoca dell’homo àlalus, o, come egli avrebbe preferito di dire, dell’homo illoquus ...” (poco prima del passo ora citato.)» (cfr. postilla alla stessa n. 310). ** p. 423 n. 312 C: «del Guarnerio» (cancellato: cfr. postilla alla stessa nota 312). ** p. 424 A: «cfr. Gius. Marchetti, Il Friuli (cit. a p. 284 n. 1), p. 632 sulle “ragioni nazionalistiche e sentimentali” del dissenso di Salvioni da Ascoli sul ladino» («p. 284» si riferisce all’impaginazione Nistri-Lischi, già nell’edizione 1965; la n. 1 è ora la 133, p. 370, all’inizio del presente II paragrafo – capitolo X –, L’influsso del Cattaneo sulla formazione culturale e sulla lin-

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Annotazioni autografe

guistica ascoliana); δ: «p. 354 Marchetti A; io» («354» è numero di pagina dell’edizione NistriLischi; «io» è scritto con doppia sottolineatura). ** ibid. postilla A: «Sull’interventismo virulento del Bartoli a Torino, cfr. G. De Sanctis, Ric. della mia vita a c. di S. Accame, Firenze 1970, p. 107.».

xi. theodor gomperz ** pp. 429 AF 388-389: «1909. Socrate di Zuccante, n. a p. 15 di Framm. di storia della filos.: sui Memorabili “Vedi quel che ne dice giustamente ne’ suoi Griech. Denk., II, 139-40 (della trad. franc.) il Gomperz, a cui mancherà, anzi manca, il bernoccolo del filosofo, non quello dell’uomo di gusto”.» (foglietto dattiloscritto incollato fra le pagine). ** p. 432 n. 13 AF 393: «9 verif.» (l’autore si riferisce ad una precisazione di verso, «Iph. Aul.», 1058 > 1059; a lapis, margine destro). ** p. 471 AF 442: «9» sottolineato; Timpanaro si riferisce a Giuseppe Cambiano, Merlan: filologia e filosofia, in «Rivista di filosofia», 10 – febbraio 1978 –, p. 89 sgg.; su Philip Merlan cfr. anche, in questo contributo dedicato a Theodor Gomperz, la n. 54; a lapis, margine sinistro).

appendice i 1. Postilla su Maffei e Muratori ** p. 475 A: «Cfr. art. del Vitale sul Becelli» (la pagina iniziale dell’Appendice è stata segnata dall’autore, per comodità, con il suo numero, cerchiato, «359»; su Giulio Cesare Becelli, settecentesco purista veronese, cfr. appunto Maurizio Vitale, L’oro nella lingua: contributi per una storia del tradizionalismo e del purismo italiano, Ricciardi, Milano-Napoli 1986, pp. 383-441); δ: «359 Vitale su Becelli A, B?» («359» è il numero di pagina dell’edizione Nistri-Lischi; il punto interrogativo, molto probabilmente rivolto solo a «B», è giustificato – vedi qui sopra, in questa annotazione – dalla presenza del richiamo a Vitale soltanto in «A»: ulteriore conferma dello scambio dinamico, della relazione non monogenetica esistente fra δ e gli altri testimoni, «C», «A» e «B»; δ spesso raccoglie annotazioni già presenti negli altri testimoni, e talvolta, come in questo caso, «a distanza», senza immediato controllo – onde la momentanea incertezza qui espressa dal punto interrogativo, come a chiedersi: «Il richiamo a Vitale sarà stato inserito solamente in A o lo sarà stato anche in B?» –). 2. A proposito di un inedito del Cattaneo sulla poesia dialettale ** p. 487 C: «cfr. SF I 260» (Scritti filosofici: cfr., qui, l’Avvertenza sulle citazioni, sulle postille e sulle aggiunte bibliografiche). ** p. 488 δ: «Borsieri: Spaggiari / Postfazione: lavori recenti Antileop. cap. su L. nota 3 / Giovampietro / Galimberti» (questo appunto, scritto su autonomo foglietto inserito fra le pagine precedenti all’Indice dei nomi di Classicismo e illuminismo, dimostra la volontà dell’autore di aggiungere, se gli fosse stato possibile, una postfazione; gli aggiornamenti ragionati della bibliografia sono in buona parte riuniti proprio nella nota 3 di Leopardi e la sinistra italiana degli anni settanta, capitolo IV di Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana, pp. 146-147). ibid. C: «R. Bacone, De secretis trad. di G. Dee?, Milano 1945 / G. Mattiussi, Les points fondamentaux de la philos. thomiste, Torino 1926??» (l’annotazione si trova in un foglietto posto dopo l’Indice dei nomi, diviso in due parti da una linea orizzontale; ciascuna delle due parti reca la rispettiva indicazione di Bacone e di Mattiussi; si cfr. adesso I segreti dell’arte e

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della natura e confutazione della magia, di frate Ruggero Bacone, ora pubblicata per i candidati alla vera scienza da un amatore della verità, secondo l’edizione critica antica di GIOVANNI DEE [John Dee] londinese, Milano-San Donato, Archè-PiZeta, 1999 - tit. lat.: Fratris ROGERII BACONIS De secretis operibus artis et naturae et de nullitate magiae, ripr. facs. dell’ed. Sebastiani; dell’opera di Mattiussi, si veda appunto GUIDO MATTIUSSI, Les points fondamentaux de la philosophie thomiste: commentaire des vingt-quatre thèses approuvées par la s. Congregation des études traduit et adapté de l’Italien avec l'authorisation de l'auteur par l’abbé Jean LEVILLAIN, Turin, M. E. Marietti Edit. Tip., 1926). ibid. B: «W. Fahr, Θεος νοµζειν. Zum Problem der Anfänge des Atheismus bei den Griechen, “Spudasmata” 26, Hildesheim 1969.» (cfr. infatti WILHELM FAHR, THEOUS NOMIZEIN: zum Problem der Anfänge des Atheismus bei den Griechen, Hildesheim-New York, Olms - «Spudasmata» -, 1969; l’annotazione è in un foglietto inserito fra le pagine successive all’Indice dei nomi).

Indice dei nomi e delle cose principali

Accademia della Crusca, vedi Crusca. Accame Bobbio Aurelia, 190 n. 13, 198 n. 25, 201 n. 32. Accame Silvio, 528. «Accattabrighe (L’)», 8. Acerbi Giuseppe, 8 e n. 7, 11, 13 e n. 19, 17, 43, 44, 54, 55, 66 n. 72, 72, 116, 507, 510. Adorno Theodor W., XCVI, XCVII. Adriani Marcello (il giovane), 164. Agassiz Louis, 365, 366. Agostino (santo), 84 n. 128, 109, 513. Aiardi Alessandro, 251. Albini Umberto, 226 n. 73. Alembert Jean-Baptiste d’, 49. Alessandrini Giorgio, XCII n. 3, 3. Alessandro Magno, 452, 459. Alessandrone Ersilia, XCVII n. 7, 131, 152, 273 n. 12. Alessi Turio, 167 n. 48. Alessio Franco, 332 n. 11. Alfieri Vittorio, XCV, 15, 24, 25 n. 43, 26, 43, 68, 113 e n. 16, 120, 123, 155; A. e Lucano, 490-491. Alfieri Vittorio Enzo,179 n. 85. Algarotti Francesco, 152. Allacci Leone, 212. Allodoli Ettore, 122 n. 40. Amari Michele, 79 n. 118, 81, 83. Amati Pasquale, 268 n. 4. Ambrosi Francesco, 66 n. 72. Ambrosoli Francesco, 59 n. 56, 172 n. 65. Ambrosoli Luigi, 331 n. 8, 334 n. 16, 484. Amelotti Giovanni, 108. «Amici pedanti», XVIII, LXXVI, LXXXVII, 61, 100 e nn. 4 e 8, 101, 102, 139

n. 76. Anacreonte (anacreontèe), 11. Anassagora, 153 n. 12, 440, 442. Andreoni Fontecedro Emanuela, 311-314. Andres Giovanni, 178 n. 83, 229. Angeloni Luigi, XC, XC, 11 e n. 15, 12, 507. Anglani, Barbara Silvia, LXX. Anselmi Sergio, 505. Antíci Carlo, 115, 116 e n. 22, 168, 172 e n. 64, 174, 210, 213 e n. 50, 317 e n. 4, 514. Antíci Leopardi Adelaide, 104, 317 e n. 4. «antiquaria» sette-ottocentesca, 497. Antistene, 154 n. 14, 439. Antognoni Oreste, 12 n. 40. «Antologia» (rivista), XXIII, 6, 15, 19 e nn. 34 e 35, 20, 29 n. 56, 48, 55, 82,128 n. 55, 132, 137. Antona-Traversi Camillo, 221 e n. 64, 222, 223. Antonielli Sergio, 191 e n. 17. Aporti Ferrante, 88. Arato Franco, LXX. Archelao (filosofo greco), 170. Arimane, personificazione della natura ostile nel Leopardi, 294; «Arimane senza Ormuzd», nel Leopardi, 294, 313. Aristippo, XXVI, 170, 452; vedi anche cirenaici. Aristotele, XLIX, L, LII, LVI, 6, 42, 51, 150, 151 e n. 9, 153, 164, 170, 174 n. 72, 182 e n. 93, 183, 431 n. 9, 432 e n. 12, 440, 441 e n. 30, 443, 444, 450 n. 60, 451, 452, 453, 460, 461, 471; giudizio del Gomperz («Platonico e

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Indice dei nomi e delle cose principali

Asclepiade», etica, politica), 443-444, 450 n. 60, 451, 460-461, 471. Armani Giuseppe, 526. Arndt Christian Gottlieb von, 350 e n. 74, 362 n. 316. Arndt Ernst Moritz, 350 n. 74. Arnobio, 432. Arrighetti Graziano, 266, 302 n. 50, 303, 432 n. 12, 441 n. 33. Aruleno Rustico, 157. Ascoli Graziadio Isaia, XXV, XLIII, XLVII, LIV, LV, LVII, LXXVI, LXXIX, XCI, XCII, XCIII, XCVII, CIII, 12, 21 e n. 38, 328 e n. 1, 329 e n. 2, 342, 345 n. 55, 347 e nn. 62 e 63, 349, 369-427, 496, 506, 523, 526, 527; formazione giovanile, 369-376; idee politiche, 372, 375, 391, 409-412; 422-424, 425; legame tra linguistica e antropologia, 398, 407-408, 412-414; interesse per i problemi glottogonici, 372-374, 412-414, 417; monogenesi e unità ario-semitica, 417-422; contro il Biondelli, 346-348, 349, 385 n. 187; dissenso iniziale dal Cattaneo, 374-375, 376-385; adesione alle idee del Cattaneo, 388-390, 392-394, 407-422; polemica contro i neogrammatici, 395422; ostilità iniziale alla teoria del sostrato, 374, 382-388; adesione a tale teoria e suo sviluppo, 389-390, 394395, 401-407, 414, 419-421; studi di dialettologia italiana, 369-371, 375, 390-392, 394-395; nella «questione della lingua», XCI, XCII, XCIIIXCIV, 392-394; scuola dell’Ascoli, 422-427. Asor Rosa Alberto, LXX, LXXVIII, LXXXIX n. 2. Assemani Simone, 212. Ast Friedrich, 168 e n. 53. Atene, giudizi di studiosi ottocenteschi sulla democrazia ateniese, 453, 456-459. atomisti greci, 440, 441-442 e n. 34, 449450, 462-463. Avalle D’Arco Silvio, XIII n. 20. Avesani Rino, 191 n. 18, 207, 226 n. 73, 525. Avòli Alessandro, 116 n. 22. Bacchelli Riccardo, 112 n. 13, 156 n. 21, 190 n. 12, 258 e n. 21. Bacchini Benedetto, 477 n. 3, 480 n. 9.

Bacone Ruggero (Roger Bacon), 528-529. Badke Otto, 508. Bailey Cyril, 266, 273, 288, 289, 301 n. 49, 301 n. 49, 302. Bailly Jan-Sylvain, 152. Baioni Giuliano, 504. Balbo Cesare, 332, 340 nn. 36 e 37, 341 e n. 43, 344, 378, 379, 380, 381, 415 e n. 287, 416, 492. Baldacci Luigi, 25 e n. 46. Balduino Armando, 224 n. 68, 517. Balestrieri Domenico, 44 n. 20. Balzac Honoré de, LXXXVIII, 262 n. 26. Bandini Carlo, 207. Bandini Luigi, 428, 445 n. 44. Baranelli Luca, IX n. 5. barbari: influsso sulla lingua e la civiltà italiana, 337-341, 475-483. Barbarisi Gennaro, LXXXVI, 12, 45 n. 21. Barber Edwin A., 511. Barbieri Franco, 482 n. 11. Barbuto, Antonio, XCV n. 5. Barchiesi Marino, 478 n. 6. Barthélemy Jean-Jacques, XXIX, 164, 176 n. 79, 277-278 n. 17. Bartoletti Vittorio, 432 n. 13. Barigazzi Adelmo, 295 n. 37. Barthélemy Jean-Jacques, XXIX, 164, 176 n. 79, 277-278 n. 17. Bartoli Daniello, XIX, 40, 97, 98 n. 1, 100, 396. Bartoli Matteo, 396 n. 25, 42, 423 n. 312, 424 nn. 314 e 316, 425, 426 n. 319, 528. Baruffi Gian Francesco, 47 n. 25, 78, 79 n. 117, 81. Barzoni Vittorio, 492. Bastiat Frédéric, 369 n. 132. Battaglia Roberto, 412 n. 278. Battisti Carlo, 424 n. 315. Battistini Andrea, LXXIII. Baudelaire Charles, XCIX. Bayle Pierre, 122 n. 40. Beauzée Nicolas, 59 n. 56. Becelli Giulio Cesare, 528. Beda, 478 n. 6. Bédarida Henri, 76 n. 111. Beethoven Ludwig van, 32 n. 60. Bekker Immanuel, 434. Belli Giuseppe Gioacchino, LXXXII, LXXXIII, XCV, 122. Bellina Massimo, 507. Bellini Bernardo, 53, 254 n. 12, 262.

Indice dei nomi e delle cose principali Bellorini Egidio, 4 n. 1, 8 n. 6, 9 n. 8, 17 nn. 26 e 27, 19 nn. 31 e 32, 51 n. 36, 122 n. 39, 338 n. 29. Bellucci Novella, 507. Bembo Pietro, 231, 336 n. 22, 341 n. 38. Benfey Theodor, 385 n. 186. Bentley Richard, 434. Berardi Gianluigi, 20 n. 35, 113 e nn. 15 e 16, 114, 125, 138, 143, 144 n. 84, 162 n. 34, 228, 235, 237. Berchet Giovanni, XCV, 4, 16, 18 e n. 30, 19 e n. 32, 339 n. 33. Berengo Marino, 3. Bergson Henri, 420 n. 304. Bernays Jacob, 434 e n. 16, 435 e n. 18, 440 n. 29, 467. Bertani Agostino, CIII, 382 n. 178, 388. Bertelli Sergio, 480 e n. 9. Berti Giuseppe, XC, 10 n. 10, 369 n. 132. Berti Giuseppe (studioso cattolico di storia della filosofia), 76. Bertoldi Alfonso, 14 n. 20, 77 n. 114, 513. Bertolino, Alberto, 335 n. 17, 358 n. 101, 439 n. 27, 486. Bertone Giorgio, 511. Bertoni Giulio, 397, 426 n. 319. Betti Salvatore, 8 e n. 6, 99, 513. Beverini Bartolomeo, 72 e n. 93. Bézzola Guido, 499 n. 5, 511. Bianchetti Giuseppe, 55, 74, 512. Bianchi Giovini Aurelio, 357 n. 98. Bianco Gino, 514. «Biblioteca Italiana», LXV, LXXXVII, XCII n. 3, 3; nella polemica classicoromantica, 8 e n. 7; scissione del gruppo dirigente, 13 e n. 19, 15-17 e n. 26, 43, 44 n. 20, 45 n. 21, 48, 53-55, 72, 90-93, 103, 106, 211 n. 47, 228, 229, 231, 232, 356 n. 94, 357 n. 96, 484. Vedi anche Acerbi, Giordani. Bigi Emilio, 15 e n. 23, 27 e n. 50, 95 n. 151, 112 e n. 9, 131 e n. 65, 133, 134 n. 68, 135 n. 70, 136 n. 72, 171 n. 63, 173 n. 68, 229 e n. 1, 241 n. 7, 243, 244 n. 8, 246 n. 9, 247 n. 11, 258 n. 20, 271 n. 9, 285-286 n. 28, 292 n. 33, 297 nn. 41 e 43, 313, 322 n. 17, 507, 515, 516, 525. Bignone Ettore, 302 n. 50, 303, 312. Bigongiari Piero, 112 n. 13, 226 n. 73, 518. Bindi Enrico, 492, 495, 497. Bini Carlo, XXIV n. 34, XL, LXX, XC, 505, 506.

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Binni Walter, XIX n. 28, XXVI, CIII, CV, CVII, 4, 15 n. 23, 27 n. 50, 28 n. 54, 32, 59 n. 56, 63 n. 68, 76 n. 111, 91 n. 142, 95 n. 151, 108 e n. 1, 111, 112, 113 e n. 16, 114 n. 20, 115, 118 n. 29, 120 n. 36, 122 n. 40, 136 n. 72, 138 n. 75, 141 n. 81, 199, 221 n. 63, 226 nn. 71 e 73, 252 n. 2, 269 n. 6, 270 e n. 8, 285-286 nn. 27-28, 292 n. 33, 301 n. 48, 321 n. 14, 323 n. 17, 499, 504, 507, 513, 514, 515, 517, 518, 519, 520, 522, 526. Biondelli Bernardino, 331 nn. 6 e 7, 346, 347 e n. 63, 348-351 e nn. 75 e 76, 362, 373, 381, 385 n.187, 395 e n. 219, 400 n. 239, 402, 408, 417, 419, 526. Biondo Flavio, 336, 342 n. 45. Biovi Maria Grazia, 136 n. 72. Biral Bruno, LXXXII, 113 e n. 15, 114, 126 n. 50, 130 n. 60, 133, 134 n. 68, 143, 144 n. 84, 515. Bismarck Otto von, 467. Bizzocchi Roberto, 507. Blanqui Auguste, 263. Blasucci Luigi, XXIV n. 35, L, LXXVIII, 23 n. 41, 112 e n. 13, 136 n. 72, 172 n. 64, 228, 255 n. 15, 259, 285 n. 28, 294-295 n. 36, 297, 308 n. 60, 313, 321 nn. 12 e 14, 515, 516, 522. Bleek Wilhelm Heinrich Immanuel, 422 e n. 311. Bobbio Norberto, CIII, 332 n. 11. Boccaccio Giovanni, 58, 254 e n. 12, 258 n. 22. Böckh August, 168, 433, 434, 435, 436, 441 n. 30, 448; «etnicismo», 436-437; filoplatonismo, 441 n. 30. Bolelli Tristano, 341 n. 44, 423 n. 312. Bollati Giulio, XCVIII, XCIX, 59, 68, 176, 516. Bombelles Charles-René de, XXII, 69 n. 84, 85 e n. 130. Bonald Louis-Gabriel-Ambroise de, 327, 364 e n. 120. Bonaparte Napoleone, vedi Napoleone I. Bonghi Ruggiero, 100 e n. 6. Bonitz Hermann, 431 n. 9, 432 e n. 11, 433, 435, 451. Bonnet Charles, 76. Bopp Franz, 346 n. 60, 348, 360 n. 109, 361 e n. 114, 363 n. 119, 372 e n. 141, 389, 397 n. 228, 398, 399 n. 233, 417.

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Indice dei nomi e delle cose principali

Borgese Giuseppe Antonio, 19 n. 35, 29. Borghesi Bartolomeo, 490. Borra Spartaco, 141 n. 82, 179. Borsieri Pietro, XXII n. 32, XCII e n. 3, XCV, 3, 17 n. 26, 18 n. 29, 45 n. 21, 51 n. 36, 121 n. 39, 303 n. 51, 485, 506, 507, 508, 514, 528. Bosco Umberto, 31, 100, 120 e n. 35, 180 n. 89, 236, 247 n. 11, 321 n. 14 Botta Carlo, 4. Boucheron Carlo, 50. Bovio Giovanni, 412. Branca Vittore, 4 e n. 1, 18 n. 29, 19 n. 31, 39 n. 5, 338 n. 27, 339 nn. 30 e 33. Brandis Christian, 435, 453 n. 68. Bratranek Thomas Franz, 454. Bravi-Pennesi Mariano, 221 n. 61. Bréal Michel, 399 n. 233. Breme Ludovico di, XLI, LXXXIX, XCII e n. 3, 3-4, 9 e n. 9, 12 n. 17, 18, 19 e n. 31, 93, 228, 339 n. 33, 505, 507, 508. Bresciano Giovanni, 213 n. 50. Bresciano Raffaele, 213 n. 50. Brighenti Pietro, 47 n. 24, 48, 60, 71 n. 90, 91, 92 n. 146, 94, 320 e n. 12, 321 n. 13, 516. Brilli Attilio, 138. Bronzini Giovan Battista, 274 n. 14. Brown Thomas, 152. Brugmann Karl, 395, 398 n. 231, 399 e n. 235, 405 e nn. 253-254. Bruni Ettore, 62 n. 64. Bruni Leonardo, 336 e n. 22. Bruno Giordano, 40. Bruscagli Riccardo, VII n. 1. Bruto, 9 e n. 8, 157, 162, 299. Büchner Ludwig, 103, 446 e n. 47, 465. Bunsen Christian Carl Josias, 162 e n. 64, 174 n. 71, 208, 365 n. 124. Bürger Gottfried August, 18. Burke Edmund, 457. Burnet John, 438 e n. 23, 442 n. 34, 445 n. 46. Buti Francesco, 262 e n. 25. Byron George, 55 n. 48, 122 n. 40. Cabella Cesare, 20, 90 n. 141. Caddeo Rinaldo, CIII, 67 n. 79, 369 n. 166, 380 n. 174, 388 n. 200. «Caffè (Il)», XCIII, 4, 18 n. 29, 333. Caffi Andrea, 514. Calcaterra Carlo, 4 e n. 1, 507. Caleppio Trussardo, 8, 17 n. 27.

Callimaco, frammento dell’Ecale edito dal Gomperz, 432 n. 13. Calogero Guido, 429 n. 3, 462 n. 99. Calvo Edoardo, XCV. Camarda Demetrio, 389 e n. 201. Cambiano Giuseppe, 464, 471, 528. Camilli Amerindo, 394 n. 215. Campana Augusto, CV, 217, 253 n. 3, 268 n. 4, 311, 477 n. 4, 520. Campanella Tommaso, 40. Camporesi Piero, 3. Cancellieri Francesco, 115. Canova Antonio, 39 e n. 5. Canova Giovan Battista, 77. Cantimori Delio, 85 n. 130. Cantù Cesare, 19, 54, 351 n. 78, 373. Capponi Gino, XXIII, XXXV n. 40, 20, 38, 68, 71, 83, 88, 99, 100 n. 4, 128 n. 55, 132, 492, 493, 495, 501, 513. Caprioglio Sergio, 410. Capucci Martino, 112 e n. 11, 138 n. 73, 171 n. 62. Carcano Giulio, 265 n. 29. Cardini Roberto, 3. Cardini Timpanaro Maria, LXXIII. Cardone Lorenzo, XCV n. 5. Carducci Giosue, XVIII, XXII, LXXVI, LXXVII, LXXXVI, LXXXVII, 20 e n. 36, 28, 30, 40, 49 n. 30, 85 n. 129, 100 e n. 7, 101,103 e n. 18, 109 e n. 3, 112 e n. 9, 113, 136 n. 71, 138, 139 n. 76, 187 e n. 4, 196 n. 22, 254 n. 10, 513. Caretti Lanfranco, VII e n. 1, XIII n. 18, XXXI, XXXIV, XXXIX, LI, LVI, LXXVII, XC, CVII, 14, 45 n. 21. Carlini Antonio, 175 n. 73. Carlo Alberto di Savoia, 63 e n. 66, 64. Carocci Giampiero, 115 n. 21. Carpi Umberto, XXI n. 31, 515. Carrannante Antonio, 525. Carraresi Alessandro, 513. Carrone di San Tommaso Felice, 68. Casaubonus (Isaac Casaubon), 152, 277, 280 n. 21. Casella Gaspare, 191, 192, 197, 205, 215. Casella Mario, 426 n. 320. Cases Cesare, IX n. 5, X n. 8, XI e nn. 1011, XII e nn. 12-13 e 15, XIII nn. 1617 e 20, XIV n. 23, XV n. 24, 4 n. 4, 505. Cassi Francesco, XLI, 115, 121. Cassi Gellio, 207.

Indice dei nomi e delle cose principali Cassio, 9 e n. 8. Cassirer Ernst, 405 n. 252. Castaldi Vittorio Paolo, 507. Castellani Arrigo, 526. Castelnuovo Frigessi Delia, 526. Castelvetro Ludovico, 341 n. 38. Castiglioni Carlo Ottavio, 331 e n. 6, 346 n. 61, 378. Casuiti Noè, 508. Catalano Franco, 26 n. 47, 369 n. 132. Catone il censore, 155, 157. Catone Uticense, 159, 495, condannato dal Manzoni e da altri cattolici, 495; esaltato da A. Vannucci, 495. Cattaneo Carlo, XVII, XXV, XLIII, LIV, LXXVI, XC, XCII e n. 3, XCIII, XCIV, XCV, XCVII, CIII, 7, 9, 12, 16, 20 e n. 36, 21 e n. 38, 22, 25, 30, 31, 32, 34, 35, 39 e n. 5, 62, 67 e n. 79, 71, 75, 76 e n. 110, 99 e n. 2, 102, 328-427, 439 e n. 27, 482, 483-488, 494, 496, 504, 506, 526; idee politiche e sociali, XC, XCVII, 16, 17, 62, 358359, 368-369, 376-377, 411-412; «patriottismo italico», 345, 356-358; europeismo, 355-356; atteggiamento verso il colonialismo e il razzismo, 358359, 365-368, 380; antirazzismo, 439 e n. 27, 469; verso l’evoluzionismo, 368 n. 131; distinzione tra stirpe e lingua, 354-355; contro le grandi migrazioni dei popoli, 341 e n. 39, 350-354, 382384; poligenismo linguistico e razziale, 361-364, 366; concetto di sostrato, 328-329, 344-345, 349-350, 355, 356, 390, 407; concetto di parentela linguistica, 352, 355, 361-362; sulle lingue celtiche, germaniche e slave, 360-361, 361-362, 383 n. 180; simpatia per la civiltà persiana, 377-378; polemica contro F. Schlegel, 350-353, 355-356, 362364; sulla «questione della lingua, XCII-XCIV, 334-335 e n. 16, 392-394, 496; contro l’abuso dei grecismi, 335 e n. 18, 377 n. 161, 421 n. 310; atteggiamento verso i dialetti, XCIII-XCV, 334-335, 359, 483-487; conoscenza della linguistica tedesca, 346 e n. 60, 349-351, 381 n. 114; vichianesimo, 332 e n. 11, 362, 364; filoclassicismo, 331-334, 340, 359, 360-361, 487; presunto suo romanticismo, 494; giudizio sul Foscolo, 15 e nn. 22-23, 487; rap-

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porti col Monti, XCIII-XCIV, 332 n. 12, 334 e n. 16, 484; col Romagnosi, 330, 332, 340, 354, 357, 362, 378 e n. 163, 379; col Giordani, 67 e n. 79, 99 n. 2, 335 n. 18, 356 n. 94, 357 n. 99, 484; con l’Ascoli e influsso su di lui, vedi Ascoli; seguaci del C. nel secondo Ottocento, 411-412. cattolicesimo liberale, 74-75, 135-138. Catullo, 308, 476, 497; interpretazione di LXVI, v. 54: 497. Cavalca Domenico, 10, 57, 58, 117. Cavalluzzi Raffaele, 507, 515. Cavour Camillo, 375, 388. Cebete, XXX, 175 e n. 73. Ceccarel Matteo, 379 n.168, 380 n. 171. Cecioni Gabriele, 510, 512. Cellerino Liana, 507. Celso, 52 e n. 40. Cencetti Giorgio, 477 n. 2. Centofanti Silvestro, 497. Cerruti Marco, XC, XCV n. 5. Ceriani Antonio Maria, 331 n. 6. Cesa Claudio, 410. Cesare, 52 n. 40, 155, 250, 492; anticesarismo nel primo e medio Ottocento, 250, 492, 494-495, 515. Cesari Antonio, XXII, XLVI, XLVII, LV, 10, 11 e n. 15, 23, 39, 53, 57, 59 e n. 57, 77, 79 n. 116, 85, 92 n. 147, 230 e n. 2, 231, 251, 306 e n. 56, 308, 393 n. 312, 509, 510, 522, 523. Cesari Florindo,189 n. 8. Cesarotti Melchiorre, XCII, 334 n. 16, 362 e n. 117. Chateaubriand François-Auguste-René de, LXXXVII-LXXXVIII, 5, 6, 34 e n. 65, 74, 119 e n. 33, 262. Checcucci Alessandro, 47, 77. Cherchi Grazia, XIV n. 23. Cherubini Francesco, XCV, 331, 407. Chiarini Giuseppe, XXII, L, LXXIX, 100107, 139 n. 76, 187 n. 4, 189, 196 n. 22, 197, 219. Ciampi Sebastiano, 51, 337 n. 22, 500. Ciampini Raffaele, 19 n. 35, 89 n. 138. Ciavarella Angelo, 76 n. 112. Ciccotti Ettore, 376, 409-411 e n. 271. Cicerone, XLIII, 42, 68, 153, 163 e n. 37, 170 n. 59, 180 e n. 88, 210 e n. 46, 267 e n. 3, 277, 281, 282, 283 n. 23, 284 e nn. 24-25, 286 n. 28, 292, 296 e n. 38, 299, 303 e n. 51, 304 e n. 53,

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Indice dei nomi e delle cose principali

307, 342 e n. 45, 432 e n. 13, 450 e n. 59, 490, 499, 503, 508, 516; come filosofo, letto dal Leopardi, 267 e n. 3; «incomprensione» dell’epicureismo, ma critiche giuste a Epicuro, 280-282, 303305; giudizio del Giordani su C., 490; critica del Leopardi a un progetto di ediz. ciceroniana del Tommaseo, 499. Cicognara Leopoldo, 40, 74, 84, 513. Cilento Vincenzo, 169 n. 56, 171 e n. 62. cinici greci, 441 n. 32, 452, 459, 462-463. Cipolla Carlo, 341 e n. 43. Circeo Ermanno, 100, 513. cirenaici, 441 n. 32, 449-450 e n. 58, 451, 462-463. Cirese Alberto Mario, 370, 371. Cisotto Gianni A., 46 n. 22. Citroni Mario, 525. classicismo ottocentesco, passim; diverse posizioni classiciste, 7-10, 333-334; scarsa incidenza del giacobinismo sul classicismo illuminista, LXXXIX-XC, 62-63; ragioni dell’insuccesso immediato dei classicisti illuministi, LXXXVLXXXVI, 15-17; loro influsso culturale, 17-23; classicismo e filologia classica nell’Ottocento, 21; «forma vecchia e contenuto nuovo», 25 n. 43; varietà di posizioni, 493, 495-496. Clarke Martin Lowther, 454 n. 70. Clavijero Francisco, 378. Cleante, 177. Clerici Graziano Paolo, 13 n. 19, 67 n. 79, 86 n. 132, 90 n. 141. clima: presunto influsso sull’evoluzione delle lingue, 349, 386-387 e n. 189, 400 n. 239. Cobet Carel Gabriel, 432, 433 n. 14. Cocchi Francesco, XXII, 85. Cocchiara Giuseppe, 402-403 n. 245. Colaiacomo Claudio, LXXXVI, LXXXVII, LXXXVIII-LXXXIX e n. 2, XCVI, 18, 505. Colletti Lucio, XCVI n. 6. Colombo Michele, 57. Comparetti Domenico, LV, 490, 491, 496, 498; presunto romanticismo del C. e suo concetto del rapporto fra «letterario» e «popolare», 496; interesse per Epicuro, 496; valutazione di Dante, 496. Comte Auguste, 449, 456, 465, 467; giudizi del Gomperz, 449, 456, 465, 467.

«Conciliatore (Il)», XCII, XCIII, 4 e n. 1, 6, 13, 15 e n. 23, 18 e nn. 29-30, 19 e n. 31, 20, 39 n. 5, 98, 119, 132, 333, 338 n. 27, 339 e nn. 30 e 33, 485, 488. Condillac (Etienne Bonnot de), 59 n. 56, 75 n. 105, 76, 79 e n. 116, 117, 118 n. 29, 363 n. 119, 386 n. 189. Condorcet (Marie-Jean-Antoine Caritat de), 323, 324. Consalvi Ercole, 65, 208, 214 n. 51, 510. Consoli Domenico, 507. Contini Gianfranco, X. Corti Maria, XCI, XCII n. 3, XCIII, XCIV e n. 4, 202, 328, 519. Costa Paolo, 510. Cottone Giovanni, 332 n. 11. Cousin Victor, 118 n. 29, 168 e n. 53. Cozza-Luzi Giuseppe, XXXI, 184-226, 227, 517, 521; come allievo e collaboratore del Mai, 184-185, 210; come falsificatore (o editore di falsificazioni altrui) di scritti del Leopardi, e come antileopardiano clericale, 184-226; rapporti con G. Cugnoni, 187-188, 196, 226 e n. 72. Crantore, 303 n. 51. Creuzer Georg Friedrich, 168, 437. Crisippo, 177, 286 n. 28, 293. Crispi Francesco, 28. «cristianesimo» e modernità» identificati dai romantici, 122, 338-339. Cristofolini Paolo, XCVII n. 7. Crizia, 459. Croce Benedetto, XXVIII, LXXXIII, 12, 13 n. 18, 19 n. 35, 29, 30 e n. 58, 32 n. 61, 49 n. 29, 91 n. 142, 108, 111, 127 e n. 53, 300 e n. 46, 344 n. 50, 357 n. 95, 413 n. 280, 426, 491, 492, 498 n. 4, 499, 501, 526. Crocioni Giovanni, 256 n. 18. Crusca, Accademia della -; XCII, XCIII, XCIV, 11, 12, 56, 58,136, 250, 251, 252 (Crusca veronese), 253, 254 e n. 12, 255 n. 15, 256 n. 18, 261, 262 e n. 25, 334, 393, 486, 510 (Crusca veronese); voci della Crusca a cui attinse il Leopardi, 251 e n. 1, 253-254, 261-262 e n. 25. Cugnoni Giuseppe, 225-226 e nn. 70-71, 318 n. 6, 518; ediz. delle Opere inedite del Leopardi, 185, 221 n. 60, 222, 226 e n. 71; controversie sui Pensieri pseudo-leopardiani, 186-189, 196 e n. 23,

Indice dei nomi e delle cose principali 206, 225; ignaro o consapevole delle falsificazioni del Cozza-Luzi?, 225-226. Cuoco Vincenzo, 40 e n. 7, 151, 343 n. 50, 358, 526. Curiel Eugenio, 264. Curtius Georg, 391, 395, 397 n. 228. Cusano Niccolò, 518. Dal Toso Pompeo, 52 n. 40, 68, 90 n. 141. Damascio, 170-171. D’Ambrosio Renato, 429 n. 3. Damiani Rolando, 327 n. 28. D’Ancona Alessandro, 43 n. 17, 62 n. 63, 64 n. 69, 65 n. 71, 66 nn. 72 e 75, 79 n. 118, 513. D’Annunzio Gabriele, 501. Dante, XLIV, 58 n. 52, 80 n. 120, 153, 203, 262, 314, 336, 386, 392, 496, 497, 525; dantismo nel Virgilio nel Medioevo del Comparetti, vedi Comparetti. D’Aronco Gianfranco, 372 n. 139. Darwin Charles, 145 n. 86, 243, 368 n. 131, 405, 447 e n. 49; darwinismo, reazione antidarwiniana dell’ultimo Ottocento e primo Novecento, 447 e n. 49. Davanzati Bernardo, 255 n. 15. De Amicis Edmondo, XI n. 11, XVI n. 25, XLVII, LVIII, 70 n. 87, 511, 523. Debenedetti Giacomo, XXXIX. Debenedetti Santorre, X. De Castro Giovanni, XCIV, 381. De Cristoforis Giambattista, 331. Dee Giovanni (John Dee), 528-529. De Felice Renzo, 11 n. 15. De Filippi Filippo, 368 n. 131. De Gubernatis Angelo, 414 n. 284, 418 e n. 300. Delaplace Guislain-François-Marie-Joseph, 176. Delbrück Berthold, 395, 396 n. 222, 399 e n. 234, 400, 406, 420. De Liguori Girolamo, 515. Delitzsch Friedrich, 418 n. 299. Della Giovanna Ildebrando, 82 n. 123, 270 n. 7, 516. Della Mea Luciano, XCVIII. Della Peruta Franco, 15 n. 23, 56 n. 50, 369 n. 132. Della Rena, famiglia, 53 n. 41. Dell’Avalle Arnaldo, 191. De Lollis Cesare, 29 e n. 57. Del Vivo Caterina, 515.

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De Mauro Tullio, XI n. 9, 346, 426 n. 319. De Maistre Joseph, 327. «Democrazia progressiva», giornale fiorentino (1848-49), 263. Democrito, 150, 153, 154, 178 e nn. 81-82, 180, 441 n. 30, 449, 450 n. 59, 452; vedi anche atomisti greci. Demostene, 459 e n. 90, 492. Denina Carlo, 343 n. 50. De Robertis Domenico, 263 n. 27. De Robertis Giuseppe, XXVII, XXXIV, 29 e n. 57, 93, 111 n. 7, 117 n. 27, 141 n. 81, 190 nn. 11 e 13, 191 e n. 16, 198, 215, 216, 218, 253, 257, 263 n. 27, 274 n. 14, 322 n. 16, 514, 518, 519, 520. De Romanis Filippo, 168 n. 53, 169. De Rossi Giovan Battista, 189 n. 8. De Rubertis Achille, 512. De Sanctis Francesco, XVIII, XIX e n. 28, XXIV, LXXVIII, LXXXV, LXXXVII, 5, 12 e n. 17, 13, 19 n. 35, 23 e n. 41, 25 e nn. 43 e 45, 26 e nn. 47 e 49, 27 e nn. 50 e 52, 28, 30, 33, 56, 90, 91 e n. 142, 92, 93, 95 e n. 151, 102, 112 e n. 9, 116 n. 23, 121, 131 e nn. 65-66, 144, 158, 226 n. 71, 321 n. 12, 498 n. 4, 507, 513, 522, 528; sul romanticismo, 5, 19 n. 35, 23-25 e n. 43, 30, 33; periodizzazione del romanticismo, 23 n. 41; disconoscimento dei classicisti illuministi, 24-26, 91 n. 142; sul Monti, 12 e n. 17, 13-14; sul Leopardi, 26-28, 90-91, 92, 93-94, 9495, 112 n. 9, 116 n. 23, 131 nn. 65-66, 144; rapporti col Vitelli, 498 n. 4. De Sanctis Gaetano, 528. De Tommaso Piero, 526. Devoto Giacomo, 329 n. 2, 392 n. 209, 426 n. 319, 427. De Vries Hugo, 419 n. 304. dialetti e letteratura dialettale, LXXXIII, XCI-XCII; vedi Cattaneo, Giordani, Monti. Diaz Furio, 118 n. 29. Di Benedetto Filippo, 280 n. 21. Di Benedetto Vincenzo, XLVIII, XLIX, 148, 181, 228, 234, 248, 266 n. 1, 280 n. 21, 432 n. 12, 516. Di Breme, vedi Breme. Diderot Denis, 118 n. 29, 149. Di Donato Riccardo, XXIV n. 35, XLVIII. Diels Hermann, 432, 439 e n. 25, 467.

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Indice dei nomi e delle cose principali

Diez Friedrich, 387-388 e n. 195. Diogene cinico, 154 n. 14, 170, 516. Diogene Laerzio, XXIX, XXXIII, 148, 152, 161 e n. 32, 162, 167 e n. 51, 170 n. 59, 180, 277, 278 e n. 18, 279, 280 e n. 21, 282, 303, 516; due letture compiute dal Leopardi?, 277-280. Dione di Siracusa, 430 n. 8, 456-457 e n. 83. Dionigi d’Alicarnasso, 51 e n. 35, 92 e n. 146, 211, 230, 500; excerpta scoperti dal Mai, 211, 500. Dionisotti Carlo, XIX n. 3, XXXV n. 40, XLVI, XLVII, XCI, 328, 507, 510, 513, 522, 523. Di Preta Antonio, 512. Dollfuss Engelbert, 429. Donati Alessandro, XXXI, 149 nn. 2 e 4, 150 n. 7, 157 n. 22, 190 e nn. 11 e 12, 199, 202, 204, 221 n. 63. «Don Chisciotte di Roma», 518. Dotti Ugo, 525. D’Ovidio Francesco, 403 n. 246, 418 n. 297. Du Cange (Charles du Fresne), 342. Du Marsais César, 59 n. 56. Dutens Louis, 170, 351. edonismo greco e moderno, 441, 452, 470. Egesia, 126 e n. 49, 167, 168. Ehrle Franz, 189 e n. 9. Eichhoff Frédéric-Gustave, 350 e n. 75, 351. Elvidio Prisco, 157, 159. Emiliani Giudici Paolo, 12 n. 17, 24. Emiliozzi Mary, 22 n. 67. Empedocle, 53 e n. 43. Ennio, XXXVIII, XXXIX, 296, 307, 308; mal conosciuto e frainteso dal Leopardi, 307; contributo filologico del Leopardi, 307 n. 57. Epicuro, XXVI, XXXIII, LII, CI, 135, 150 e n. 6, 153 e n. 12, 154 e n. 14, 176, 177, 178 e nn. 81 e 83, 266-314, 362, 432 n. 12, 441 e n. 33, 452 e nn. 6465, 496, 525; «epicurei» dei secc. XVXVIII, 441, 451; antiepicureismo nel primo e nel medio Ottocento, 441; rivalutazione da parte del Gomperz, 432 e n. 12, 452 e nn. 64-65; interesse per Epicuro e Lucrezio nel secondo Ottocento italiano, 496; epistole in Diogene Laerzio, 277; grande valore

nel tentativo di tracciare un’etica “dal basso” e nel tracciare lo sviluppo della civiltà, 281; divinità, 270 n. 8, 271272, 292-294 e n. 34; culto di E. come “Salvatore”, 289-290, 292 e n. 34, 293 e n. 35; divergenze ideologiche del Leopardi da Epicuro, 286-306; debolezza delle “consolazioni” epicuree, inaccettabili dal Leopardi, 295, 298-306; pretesa di combattere l’angoscia con “discorsi”, 286 n. 29, 295; atarassia, non equiparabile all’esser morto, 271273; non timore ma neppure desiderio della morte, 271-272, 299-300; concessione d’un momentaneo dolore per la morte d’un amico, 302-303; nozione di “piacere”, totale divergenza dal Leopardi, 295-298; apoliticità, sgradita al Leopardi, 282-283 e n. 23. Vedi anche Lucrezio. Epitteto, XXX, 131, 132, 175 e nn. 73 e 76, 176, 177 e n. 80, 282, 285 e n. 28, 499; vedi stoicismo. Eraclito, 153 n. 12, 442 n. 34. Ernout Alfred, 266. Erodoto, 10, 51, 83-84, 117, 277, 279, 432, 436, 439, 445. Erone alessandrino, 431 n. 9. Eschilo, 176 e n. 79. Eschine socratico (pseudo-), XXX, 175. Esichio Milesio (e Leopardi), 152 e n. 11, 278 e n. 18. Esiodo, 229, 270. etruscomania, 343-344 e n. 50, 344 n. 51, 346. Euripide, 141 n. 81, 164, 303 n. 51, 432 e n. 13, 436 e n. 21, 525; Th. Gomperz sull’«illuminismo» di E., 436 e n. 21. Eusebio di Cesarea, Cronaca edita da Mai e Zohrab, studiata dal Leopardi, 211, 214 n. 53, 520. Eustazio di Tessalonica, 53 n. 43. evoluzione delle lingue per cause «interne», 382-383, 385-388; vedi clima, sostrato; periodi creativo ed evolutivo nella storia delle lingue, 420-421 e n. 308; evoluzione «a salti», 419 e n. 304; evoluzionismo in biologia, 368 n. 131, 419 n. 304. evoluzionismo, 447 e n. 49; evoluzionismo etico, 447 n. 49; vedi anche Darwin. Fabi Angelo, 268 n. 4.

Indice dei nomi e delle cose principali Fabretti Ariodante, 378. Fabricius Johann Albert, 152, 162. Fahr Wilhelm, 531. Falco Giorgio, 480 n. 9, 481 n. 10. Fano Anna, 527. Fano Giorgio, 413 n. 280, 526-527. Fano Guido, 527. Fantoni Giovanni, 49 n. 30. Faré Paolo A., 423. Fasano Pino, 3, 4, 322 n. 17. Faucci Dario, 428. Fauriel Claude, 387 n. 194. Fermi Stefano, 62 n. 63, 63 n. 66, 88 n. 137, 100 e n. 8, 103 e n. 19, 107 n. 39, 511. Ferrai Eugenio, 490. Ferrari Giuseppe, 15 n. 23, 25, 56, 102, 254 n. 10, 329 n. 2, 332 e n. 11, 345 n. 58, 350 n. 73, 368 n. 132. Ferraris Angela, LXVIII, 507, 514. Ferrero Giuseppe Guido, 113 n. 16. Ferretti Giovanni, CIII, CV, CVII, 15 n. 24, 37, 38, 44, 55, 62 n. 63, 63 n. 68, 76 n. 112, 84 n. 127, 87 nn. 135-136, 89 n. 139, 90 nn. 140-141, 107 n. 39, 116, 136 n.72, 190 nn. 12 e 14-15, 250, 251. Ferri Enrico, 188 n. 7. Ferri-Mancini Filippo, 221 nn. 60 e 62, 222 e n. 66, 223 n. 67. Filangieri Gaetano, 179 n. 86, 276. Filippo II di Macedonia, 459, 492. filologia come «scienza dell’antichità», 434436; «filologia formale», non riducibile a tecnica in senso svalutativo, 496-497; f. classica in Italia dopo l’Unità, 498. Filone, 170 n. 61. Firenzuola Agnolo, 255 n. 15. Fittipaldi Massimo, 226 n. 73. Flaubert Gustave, 524. Flechia Giovanni, 370, 391. Flora Francesco, LI, CIII, CV, 4 n. 1, 39 n. 2, 121 n. 39, 149 nn. 2 e 4, 153 n. 12, 159 n. 27, 163 n. 37, 164 n. 41, 165 nn. 43-44, 171 n. 62, 175 nn. 75-76, 178 n. 82, 182 n. 93, 190 e n. 14, 194 e n. 21, 198 n. 25, 199, 202, 204, 208, 214 n. 52, 215, 221 n. 63, 231 n. 3, 252 e n. 2, 253 n. 6, 256 n. 17, 517, 518, 519, 520. Focher Ferruccio, 30. Folena Gianfranco, 102 e nn. 15-16, 265 n. 29, 423 n. 312.

539

Foligno Cesare, 341 n. 38, 343 n. 48. Fontenelle (Bernard Le Bovier de), 122 n. 40, 152. Forcellini Egidio, 179 e n. 86, 269 n. 6, 310. Foresti Lorenzo, 66. Forlini Giovanni, 46 n. 21, 53 n. 42, 55 n. 47, 58 n. 55, 67, 79 nn. 117-118, 80 n. 121, 100 n. 4, 107 n. 39, 258, 508, 509, 510, 513. Fornaro Pierpaolo, LX. Forti Fiorenzo, 480 n. 9, 481 n. 10. Forti Francesco, 19 e n. 34. Fortini Franco, XCVIII-XCIX. Foscolo Ugo, XVII n. 26, XLI, XLIV, LXXXIX, 14, 15 e n. 23, 24, 25 n. 43, 32, 39, 51n. 33, 63, 115 n. 21, 341 n. 38, 343 e n. 48, 344 n. 52, 494, 497, 506, 513; il Foscolo come filologo, 497. Fourier Charles, XC. Fozio, XXX, 175 e n. 74. Franceschi Ferrucci Caterina, 86. Frattini Alberto, LX, 34 n. 65, 114 n. 20, 115, 118 n. 29, 122 n. 40. Fréret Nicolas, 118 n. 29, 313. Freud Sigmund, X; rapporti col Gomperz, 448 e n. 54, 465, 467. Frontone, 10, 23, 42 e n. 16, 92, 121 n. 39, 211 e n. 47, 229; F. e Leopardi, 271 e n. 9; tradotto dal Leopardi, 211 e n. 47; operetta grammaticale attrib. a F. (in realtà di Arusiano Messio), 308 n. 59. Frye Northrop, 3. Fubini Mario, 3, 4 e n. 2, 43 n. 21, 112 n. 9, 117 n. 27, 136, 176 e n. 78, 229 e n. 1, 235, 238, 241 n. 7, 257-258, 270 n. 7, 273 e n. 12, 286 n. 28, 332 n. 12, 339 e n. 31, 522; postilla del F. a una nota leopardiana, 257-258. Fubini Riccardo, 336 n. 20. Funari Enzo, 448 n. 54. Gadda Carlo Emilio, X. Galeazzi Giancarlo, LX. Galilei Galileo, XIX, 40, 43, 72 e n. 95, 73, 262. Galimberti Cesare, 250, 270 n. 7, 291, 292 n. 33, 313, 482 n. 12, 528. Gallo Franco, XI n. 9. Gallo Niccolò, 12 n. 17, 23 n. 41, 121 n. 37 Galvani Giovanni, 378, 392 n. 211. Gambarin Giovanni, 67 n. 77, 70 n. 86, 74

540

Indice dei nomi e delle cose principali

n. 103, 510, 513. Gambaro Angiolo, 128 n. 55. Gamberale Leopoldo, 308 n. 59. Garatoni Gaspare, 498. Gargani Giuseppe Torquato, 100, 101. Garibaldi Giuseppe, 375, 490. Garibotto Celestino, 475 n. 1, 477. Garin Eugenio, 43 n. 18, 75 n. 109, 514. Gasperoni Gaetano, 475 n. 1. Gatti Giuseppe, 189 n. 8. Gaume Jean-Joseph, 493, 495. Ga#zdaru Dimitrie, 396 n. 223, 398 n. 231, 405 nn. 253-254, 406 n. 258, 418 n. 299. Gellio, 52 n. 40. Gentile Giovanni, LXXIII, LXXXIII, 30, 31 n. 59, 112 e n. 13, 130 n. 60, 180 n. 87, 270 n. 7, 273 n. 13, 512. Gentile Pescarolo, Nicoletta, LXXIII. Gentiloni Vincenzo Ottorino, 188 n. 7. Gerratana Valentino, 264. Gervasoni Gianni, 51 n. 36, 210 n. 46, 213 n. 49. Gervinus Georg Gottfried, 24. gesuiti: antitirannismo declamatorio nelle scuole dei gesuiti, 318 e n. 7. Gherardini Giovanni, XCI, XCIV, 331, 338 n. 27. Ghidetti Enrico, VII n. 1, IX n. 4, LXXIII, CIII, CV, CVII, 199, 221 n. 63, 252 n. 2, 504, 518, 519, 520, 526. Ghisleri Arcangelo, 412 e n. 278. Giacomoni Silvia, 483, 484. Giamblico, 158, 171 n. 62. Giambullari Pier Francesco, 343, 344 n. 51. Giancotti Francesco, LX, LXII, 291 e n. 31, 312. Giannini Giovanni, 259. Giannoli Giovanni Iorio, XI n. 9. Giannone Pietro, 73, 483. Giarelli Francesco, 511. Gigante Marcello, 161 n. 32, 280. Gigli Ottavio, 53 n. 42, 508, 510. Gilliéron Jules, 397. Gillies John, 453. Ginzburg Carlo, 226 n. 73. Gioberti Vincenzo, LXXVIII, 25, 75, 78, 79 e n. 117, 80 e n. 120, 84 n. 127, 107 n. 39, 130 n. 61, 172 n. 65, 184, 343 e n. 48, 344 e n. 50, 357 e n. 99, 369 n. 132, 378, 380, 381, 415 e n. 287, 493, 511, 512. Gioia Melchiorre, 71, 485.

Gioia Pietro, 20, 71 n. 92, 512. Giolli Raffaello, 31. Giordani Livia, 50 e n. 32. Giordani Luigi Uberto, 64. Giordani Pietro, XV n. 24, XVII, XIX-XX, XXI e n. 31, XXII, XXIII e n. 33, XXIV, XXVII, XL, XLI, XLVII, LXV, LXXVI, LXXVII, LXXIX, LXXXVI, LXXXVII, LXXXIX, XC, XCIV e n. 4, XCV, XCVI, XCVII, CI, CIII, CV, CVII, 3, 4 n. 2, 7, 10, 12, 13 e n. 19, 14 e n. 20, 15 e nn. 2324, 16 e n. 26, 17 e n. 27, 20, 21 e n. 38, 22, 23, 25 e n. 43, 26 e n. 47, 31, 37-96, 97-107, 116 e n. 23, 117, 120, 121 e n. 39, 123, 132, 137 e n. 73, 156 n. 21, 172 n. 65, 173, 185 n. 2, 187, 213 e n. 50, 219, 220, 226, 231 nn. 34, 232 e n. 5, 235, 247, 252, 257, 271 n. 9, 297 n. 42, 306 e n. 56, 320, 325 n. 23, 326, 333, 334 e n. 14, 335 n. 18, 356 n. 94, 357 n. 99, 484, 486, 490, 491, 492, 493, 494, 495, 500, 504, 506, 508, 510, 511, 512, 513, 514, 516, 525; aspetti retorici, 39-40, 55-56, 97-98; contro la letteratura oziosa, 41-42, 43-44, 53-54; contro la poesia dialettale, XCIV-XCVI, 44-46, 334 n. 14, 484; contro lo scriver latino, 4647; contro l’abuso di grecismi in italiano, 335 n. 18; per l’epigrafia in italiano, 49-50; cultura filologica, 50-52, 5254; purismo, 10, 55-60, 232-233; come scrittore, 22-23, 83-86, 103-104, 106; sulla cultura popolare, 44-46, 54, 69, 73-74, 97; sulla funzione delle riviste, 16-17, 54; formazione filosofica, 75-77, 78-79 e n. 116, 172 n. 65; spunti di pessimismo, 76, 82 n. 125, 122-123; laicismo e anticlericalismo, 72-75, 77, 80-82, 84-85; idee politiche e azione politica, 61-68, 99, 132; idee sociali, XC, XCV, 67-72, 89, 99; idee didattiche e pedagogiche, 47-49, 87-90; giudizi su autori greci e latini, 42, 52, 121122 e n. 39; sui trecentisti, 52-53, 5759; «lingua del trecento e stile greco», 231, 232 e n. 5; sui secentisti, 40, 43, 60, 97-98; sul Settecento letterario e ideologico, 59 e n. 56, 76, 79 e n. 116; rapporti col Leopardi e giudizi su di lui, 42, 51-52, 60, 68-69, 78-83, 86-87, 9096, 116-117, 123, 137, 173, 185 n. 2,

Indice dei nomi e delle cose principali 213, 219, 220, 231 e nn. 3-4, 232 e n. 5; rapporti col Monti, 13-14, 58-59; col Foscolo, 15 n. 23, 63; con l’Acerbi, 13 e n. 19, 17, 43, 44, 55; col Capponi, 99-100 e n. 4; col Gioberti, 78-80, 172 n. 65; col Cattaneo, vedi Cattaneo; giudizio sul Manzoni, 77-78; influsso sul laicismo risorgimentale, 20; influsso sul Carducci e sugli «Amici pedanti», 100103; misconosciuto dal De Sanctis, 25 e n.43, 26 e n. 47, 91 e n. 142; ammirato per il suo stile dalla «Scuola romana», 226; presunto romanticismo, 494; perizia in filologia classica, 500; su Lucano, 490, 494-495; Panegirico a Napoleone, 326; sulle “mode” della Restaurazione, pensiero notato dal Leopardi, 325 n. 23. Giordano Emilio, 326-327 n. 26. Giorgini Giambattista, 392. «Giornale Arcadico», 8 e n. 6. Giotti Napoleone 179 n. 86. Giovampietro Renzo, 528. Giovanetti Giacomo, 64. Giovenale, 68 n. 81, 307 n. 56, 486. Giovio Paolo, 49 n. 30. Giri Giacomo, 225 n. 70, 521. Girolamo (santo), 84 n. 128, 290, 513. Giuliano l’Apostata, 162. Giussani Carlo, XLV, 266, 288, 289, 290, 496. Giusti Giuseppe, 113, 251. Giustiniani Giacomo (cardinale), 510. Giustiniani Vito R., 253 e nn. 4 e 6, 254255 e nn. 13-14, 256, 257, 258, 259, 510. Gladisch August, 437, 438. Gliddon George R., 365, 366 e n. 127. Gnoli Domenico, 187 n. 4, 193 e n. 19, 194. Gobineau Joseph-Arthur de, 365. Goethe Wolfgang, XVI n. 25, 7, 23 n. 41, 32, 102, 377 n. 162, 494, 504. Goffis Cesare Federico, 179 n. 86 Goidánich Pier Gabriele, 371 n. 138, 372 n. 141, 376 n. 157, 392 n. 210, 396 e n. 224, 406 n.258, 423 n. 312, 425, 426. Goldmann Lucien, XCVI-XCVII. Gomperz Heinrich, attività per far conoscere la vita e l’opera del padre, 428, 429 e nn. 4-5, 452 n. 63, 463, 467, 469471; influssi ricevuti dal padre, 470; influssi esercitati sul padre?, 470 e n.

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103; dissensi e sottovalutazione dell’opera paterna, 433, 464, 469-471. Gomperz Karl, 440 n. 28, 454, 455 n. 73. Gomperz Theodor, XXV, XXVI, XXIX, XLI, XLIV, XLV, LIII-LVII, 428-471; formazione giovanile, 431-432; valore come filologo e concetto di filologia, 431 e n. 9, 432-436 e nn. 11-21; i Griechische Denker opera di storia culturale in senso ampio, 435-436; rapporti tra Grecia e Oriente, 436-438 e n. 24; visione dello svolgimento del pensiero greco, 440-446, 449-452 (vedi anche i nomi dei singoli filosofi e movimenti di pensiero); sulla storia politicosociale e sul pensiero politico greco, 453, 456-457, 458-460; valutazione della politica ateniese, vedi Atene; valutazione di altri regimi politici antichi, 456, 459; sulla religione greca, 445-446 e n. 46; sulla civiltà e la filosofia ellenistica, 452; valutazione della medicina greca, 432 n. 12, 436 e n. 20, 449; sottovalutazione della matematica greca, 450-451 e n. 61; scarso influsso della cultura tedesca sulla sua formazione, 447, 467; rapporti col Bernays, 433-434 e n. 16, 435 n. 18, 439-440 e n. 29; contatti con la cultura inglese (Mill, Grote), 447-449, 453-454, 455457, 459, 460; rapporti con Comte, 449, 456, 465; erroneità delle accuse generiche di «positivismo» e «scientismo» rivoltegli, 429 e n. 2, 429-430, 444-447, 451-452, 461 n. 97, 464-46; ostilità generale per le filosofie «sistematiche» tedesche, 447, 450; antimaterialismo, riserve sul darwinismo, 446447, 465; empirismo e «fenomenismo», 447-450 e nn., 464-465, 470-471; induttivismo logico, 450 e n. 60; determinismo, 448 e n. 53, 465; edonismo e utilitarismo etico, 441, 447 n. 49, 448, 451, 452, 465, 470; riluttanza ad aderire a posizioni novecentesche propriamente idealistiche, 450; rapporti con Freud, vedi Freud; idee politico-sociali, 454-458 e n. 86, 459, 460, 464-465; dissenso dal Pöhlmann, 457-458; scarsa conoscenza del marxismo, 447 n. 51 (cfr. p. 469 n. 102); favorevole al Risorgimento italiano, 455 n. 76 (cfr. anche Pens. greci, I p. 344, III p. 454);

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Indice dei nomi e delle cose principali

antirazzismo e valutazione positiva della mescolanza delle stirpi, 439, 469; favorevole ai negri nella Guerra di secessione, 455 e n. 76; sulla plurinazionalità dell’Impero austro-ungarico e contro la «Grande Germania», 439-440 e n. 28, 466-468; contro il suffragio universale, 455-456, 465; questione ebraica, 439-440 e n. 29, 468-469; «attualizzazione dell’antichità», 428430, 461-462; influsso su A. Murri, 471; incomprensione da parte degli studiosi delle generazioni posteriori, 428430, 438, 443-444, 452 e n. 64, 461 e n. 97, 470. Gonzaga Luigi (santo), 189 n. 8. Gozzi Gasparo 59, 187 n. 4, 254 n. 12 . Graf Arturo, 108, 141 n. 82, 410 n. 270, 411, 412. Gramsci Antonio, LXXVIII, 144 n. 84, 264, 409 n. 269, 410, 423 n. 312, 426 n. 319, 507, 515. Grana Gianni, XXV n. 36. Grassi Corrado, XCIII, 328, 515. Greenfield Kent Roberts, 13 n. 19. Gregorio XVI (Cappellari, Mauro), papa, 317. Grilli Alberto, 266, 267 e n. 2, 268, 269 e n. 6, 277 e n. 17, 278, 279, 280 e nn. 21-22, 281, 306 n. 55, 516, 517 . Grimm Jacob, 34 n. 61, 347 n. 64, 391, 434. Grimm Wilhelm, 391. Grossi Tommaso, 19. Grote George, 453-454 e nn. 67-70, 457458, 467; valutazione della sofistica greca, 453 e n. 68; della democrazia ateniese, vedi Atene; sulla condanna di Socrate, 459-460 e n. 92; saggi su Platone e Aristotele, 453; contro i negri d’America, 455 e n. 76; reazioni suscitate in Italia dalla sua Storia greca, 490; rapporti col Gomperz, vedi Gomperz. Guagnini Elvio, LXXXII. Guarisco Carla, 46 n. 21. Guarnerio Pier Enea, 423, 527. Guasti Cesare, 49 n. 30. Guerrieri Guerriera, 226 n. 73. Guerzoni Giuseppe, 515. Guidetti Giuseppe, 230 n. 2, 393 n. 212. Guidetti Ugo, 510. Guidiccioni Giovanni, 72 e n. 93.

Guizot François, 262, 341 n. 43. Gussalli Antonio, XXII, LXV, CIII, CV, CVII, 46 n. 21, 59, 63 nn. 66 e 68, 64 e n. 65, 67 n. 79, 70 nn. 85 e 87, 71 n. 92, 72 nn. 93 e 95, 82 nn. 124-125, 85 nn. 129-130, 86 e n. 131, 90 e n. 141, 92 n. 146, 100 e nn. 5 e 8, 101, 105 n. 31, 173 n. 70, 306 n. 56, 357 n. 99, 509, 512, 513, 514. Haeckel Ernst, 422 e n. 311, 446 e n. 47. Hammer-Purgstall Joseph von, 372. Hazard Paul, 318 n. 5. Hébert Jacques-René, 324. Hegel Georg Wilhelm Friedrich, XCVII, 75, 110, 111, 160, 377 n. 162, 435, 441 e n. 30, 447 e n. 51, 460 e n. 93; hegelismo giovanile e successivo antihegelismo del Gomperz, 447 e n. 51, 454. Heidegger Martin, XCVII. Heine Heinrich, 7, 32, 102, 494; presunto romanticismo, 494. Heinemann Fritz, 448 n. 52. Helvétius Claude-Adrien, 118 e n. 29, 134, 149, 514. Herder Johann Gottfried, LXXXV, 23 n. 41, 34, 351 n. 78, 364 n. 120, 436. Hermann Gottfried, 433, 434, 435, 496. Hobbes Thomas, 115, 135. Holbach (Paul Heinrich Dietrich, barone d’ -), 118 n. 29, 122 n. 40, 130, 134, 135, 149, 150 n. 6, 249 n. 12, 293 n. 35, 295, 303 n. 51, 313, 314, 327 e n. 27, 514, 515. Horkheimer Max, XII n. 13, XCVI, XCVII. Hugo Victor, 6. Hugues Guido, 372 n. 143. Humboldt Alexander von, 354, 355, 365 e n. 124. Humboldt Wilhelm von, 348, 354 e n. 90, 355, 372 e n. 141, 377, 387 n. 192, 419 e n. 304, 447, 459 e n. 89. Ierocle, 175 n. 74, 180 e n. 90, 181 e n. 91. «illuminismo reazionario» settecentesco, 316 n. 1, 274 n. 14. illuministi francesi: spunti pessimistici, 118, 122, 142; influsso sul Giordani e sul Leopardi, 59 n. 56, 76, 117-118 n. 29, 118, 122 e n. 40, 149-150, 152. «immortalità del nome (o delle opere)», 304 e n. 52, 308-309.

Indice dei nomi e delle cose principali Inama Vigilio, 347 n. 63. Innamorati Giuliano, XCV n. 5, 12 n. 17, 321 n. 12. innamorato = «che suscita amore», 253-257; vedi anche participii. Ippia, 459. Ippocrate e pseudo-Ippocrate, 178, 432 e n. 12. iscrizioni in volgare, 49-50 e n. 30. Isella Dante, 46. Isidoro neoplatonico, 170-171. Isocrate, XXX, 42 n. 15, 175. Jacquier François, 149 e n. 2, 150 e n. 6. Jaeger Werner, LIV, LVII, 428, 429 e n. 2, 443 n. 37, 444, 452 e n. 64, 462, 463, 471; incomprensione per il Gomperz, 428-429 e n. 2, 443 n. 37, 444, 452 e n. 64, 471. Jahn Otto, 433, 434 n. 16, 467. Jannelli Cataldo, 437. Jozzi Oliviero, 188-189 n. 8, 197 e n. 24, 212, 215, 219, 220, 221 n. 64, 225, 520. Kann Robert A., 464, 466, 467. Kant Immanuel, 75 e n. 106, 281. Kenney E. J., 266, 292 n. 34, 299 n. 44. Kierkegaard Sören, 110. Klopstock Friedrich Gottlieb, 23 n. 41. Kretschmer Paul, 361, 407. Kulczycki Ladislao, 258. Labriola Antonio, 264, 420 n. 304. Labus Giovanni, 211 n. 47. Lacaita Carlo G., 507. Lachmann Karl, XXXVIII, XXXIX, L, 288, 434. Lamarck Jean-Baptiste, 368 n. 131, 447 n. 49. Lambruschini Raffaello, XXIII, 88, 365 n. 124. Lamennais Félicité de, 7, 74 n.102, 77 e n. 113, 157, 161, 323, 324 n. 20 La Mettrie (Julien Offroy de), 118 e n. 29, 134, 149, 150 n. 6, 313. Lampredi Giovanni Maria, 344 n. 50. Lana Italo, 461 n. 97. Landucci Sergio, L, 27 n. 51, 313. Lanzi Luigi, 344 e n. 51. La Penna Antonio, XIII n. 19, XLVIII, L, LI, LIII, LXXVIII, XCVII, 29 n. 55, 120 n. 34, 134, 285 n.26, 307 n. 57,

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308 n. 60, 314, 463 n. 100, 490, 515, 525. Larousse Pierre, 262 e n. 26. Lasca (Anton Francesco Grazzini detto il -), 251. Lassen Christian, 434. Laurent M.-H., 3. Leibniz Gottfried Wilhelm, 160 n. 29, 351, 480. Le Monnier editore, XLI, 187, 195, 507, 509, 517. Le Monnier Felice, 216 n. 54. Lenin (Vladimir Il’ic# Ulianov), LIV, 470. Leo Heinrich, 360 n. 109. Leone de Castris Arcangelo, 136, 523. Leopardi Giacomo, XII, XIV, XV, XVII, XIX, XX, XXIV, XXVI, XXVIIXXXI, XXXIII-XXXIV, XXXVIII, XLII, XLIV, LII, LVIII, LXIII, LXVIII, LXXVI, LXXVII, LXXVIII, LXXIX, LXXXIV, LXXXVI, LXXXVIII-XCI, XCV, XCVII-C e n. 8, CI, CIII, CV, CVII; passim; rapporti con altri, vedi sotto i rispettivi nomi; «conversione letteraria», 10, 92-93, 116 n. 23; alfierismo, 26-27, 113 n.16, 120121; 155; titanismo, 120-122, 236-238, 239-240; influsso del Maffei, 338 n. 28, 482 n. 12; influsso del Giordani, vedi Giordani; purismo, 10, 92, 117, 229-233; rapporti col classicismo lombardo, 333; presunto «romanticismo» (senza esclusione di influssi romantici), LXXXIV, 31-33, 116-117, 322 n. 17; veri influssi romantici, 33-35; gusto letterario rispetto all’antichità classica, 10-11, 121 n. 39, 233; conobbe Lucrezio?, 179 e n. 86; conobbe Lucano?, 121 n. 39; giudizi sui filosofi antichi, 148-183, 248-249; influsso della morale ellenistica, 131-132, 174178, 180-181; giudizi sul cristianesimo, 248, 136 e n. 71, 157-159, 169 e n. 58, 177; conoscenza degli illuministi francesi, 117 n. 29, 118, 122 e n. 40, 135, 149, 152; atteggiamento di fronte al Settecento, 59 n. 56, 141; estraneità alla filosofia tedesca, 75, 145-146; sul rapporto autore-pubblico, 16-17 e n. 26; patriottismo, 56, 123, 132-133, 162; concetto di «natura», 10, 117, 124-126, 144-145, 181 n. 91, 227-249; concetto di natura, nel primo L. e nel

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Indice dei nomi e delle cose principali L. maturo, 294, 314; dèi e fato, 236240; «mezza filosofia», 159-161, 284 n. 65, 323-325; passaggio dal pessimismo storico al pessimismo cosmico, 123-131, 164-166, 227-249; «vita strozzata» e pessimismo, 126-128; superamento della misantropia, 129 n. 56; materialismo, XCI, 129, 239 e passim; negazione della teleologia nella natura, 242-243, 244-245; teoria del piacere, 129-131; fase «rassegnata», 131-135, 174-177; cosiddetti «grandi idilli» e posizione particolare del Risorgimento, 112 n. 9, 243-244, 246 n. 9; evoluzione del tema delle illusioni, 246-247; momenti «idillici» nell’ultimo L., 111, 141 n. 81, 247-248; ultima fase del pensiero leopardiano, XCVIIXCVIII, 137-139, 180-183, 244, 248 249; sul latino volgare e l’origine della lingua italiana, 338 n. 28; contrario alla teoria del sostrato in linguistica, 386387; influsso sul Carducci e sul suo gruppo, 100-102, 138-139 e n. 76; problema del rapporto tra poesia e pensiero leopardiano, XCVIII-C; Discorsi sacri, 221-223 e nn. 66-67; traduzione di Frontone, 211 n. 47; scritti non autentici, 125, 227; Infinito, autografi e «abbozzi» falsi, 198-199, 213-220 (vedi anche più sotto, falsificazioni); Ultimo canto di Saffo, 200-201; Zibaldone, depositato presso la Casanatense di Roma prima della pubblicazione, 195196; interpretazioni di singoli passi, 250-265 (vedi anche l’Indice generale); correzioni al testo dell’epistolario, 251253 e n. 3; influssi della poesia popolare e convergenze con influssi letterari, 256, 257-258, 259; studi filologici, 255-256 e nn. 13-14, 495-496, 496497, 498, 499-500; «scoperta del pessimismo greco», 500 e n. 6; falsificazioni tardo-ottocentesche di scritti del L., 184-226, 224 n. 68; ambiente reazionario-clericale di fine Ottocento di fronte al L., 184-185, 188-189, 206-207, 212, 213, 220, 224-226; presunta aspirazione a divenire Primo Custode della Vaticana, 209-211, 213; aggiunte da arrecare alle bibliografie leopardiane, 184 n. 1, 188-189 n. 8; cristianesimo giovanile doloroso-pessimistico, 279 e

n. 20, 293; Dissertazioni filosofiche e Appressamento della morte: antiepicureismo, 279 n. 20; Storia dell’Astronomia e citazioni da Lucrezio, 276; Saggio sopra gli errori popolari e citazioni da Lucrezio e da Epicuro, 274, 275, 278 n. 18, 280; Bruto minore, 286 n. 29, 299; Inno ai Patriarchi, 269, 275; posizione ideologica delle Operette, 285 n. 28; Storia del genere umano, 269-271; Coro di morti (nel Ruysch), 271-273; Dialogo di Plotino e di Porfirio, 271, 286 n. 29; Il Risorgimento, 271; A se stesso, 273; Ad Arimane, 294, 313; La ginestra, 267, 268-269, 294-295 e n. 36; abbozzo dell’Erminia, 309-310; gnosticismo o manicheismo del L.?, 291-292; echi di Lucrezio, sicuri e incerti, in L., 266273; diversa Weltanschauung in confronto a Epicuro e a Lucrezio, 291-306; contro l’autosufficienza del sapiente e il volontarismo, contro l’accettazione o la negazione «filosofica» dei mali, 295; teoria del piacere, formulazioni diverse, tutte divergenti dall’epicureismo, 295298; felicità / infelicità del morir giovani, non contraddizione banale, 299-300 e n. 47; non piena comprensione dell’edonismo epicureo, 282-283, 284 n. 25; motivi dello scarso influsso di Lucrezio, come poeta, su Leopardi, 306-310; scarsa conoscenza della letteratura latina arcaica, 306-308; rapporti coi genitori, 315-318; «musica senza parole», 319 n. 9; Maria Antonietta (abbozzo), 319; Per la liberazione del Piceno, 318-319; pensieri sulla Rivoluzione francese, 315325; su Napoleone, 325-326; mutato atteggiamento sulla «pace» della Restaurazione, 320-321; moti del 182021 (Spagna, Napoli, Torino) concepiti come revival della grande Rivoluzione, 325; «la Francia scellerata e nera» e atteggiamento verso la Francia in séguito, 320 e n. 12; canzone al Mai, 321 n. 13; vedi anche Cicerone, Esiodo, Frontone, Lucano, Lucrezio, Platone, Porfirio, Stobeo, stoicismo, Teofrasto, morte, malattie, «immortalità del nome (e delle opere)», Virgilio. Leopardi Giacomo (nipote del poeta), 186. Leopardi Monaldo, 11 n. 14, 57, 73, 78, 9293, 104, 110 n. 3, 115, 116 e n. 22,

Indice dei nomi e delle cose principali 137 n. 73, 149, 185 n. 2, 208 n. 37, 223, 274 n. 14, 315-317 e n. 4, 319 e n. 8, 320 n. 12, 321 n. 13, 324, 512, 514. Leopardi Paolina, 186 e n. 3, 216-217 e n. 54. Lepre Aurelio, 14. Lepschy Giulio, XXV n. 36, 328, 361. Lesen Aristide, 218 n. 56. Leucippo, 442 n. 34. Levi Alessandro, 332 n. 11. Levi Giulio Augusto, 130 n. 61, 145 n. 86, 154 n. 15. Levi Mario Attilio, 497. Levillain Jean, 529. Lignana Giacomo, XXV n. 36, 370, 397 n. 228, 413 n. 280, 418 e n. 299, 419 n. 304, 498 n. 4, 526. lingua: distinzione dei tipi linguistici fondamentali, 347-348, 362-364; lingua e razza, 340, 354-355; vedi monogenesi, origine del linguaggio, evoluzione delle lingue; «questione della lingua» in Italia, XCI-XCVI, 11-12, 334-335, 392-394, 230-231, 328; discussioni sull’origine della l. italiana, 335-339, 340341; conoscenza della l. greca in Italia nel primo Ottocento, 50 e n. 33. Littré Émile, 262 n. 26, 436 n. 20, 449. Lobeck Christian August, 438. Locke John, 150, 160 e n. 29, 275. Lombroso Cesare, 141, 379 n. 168. Lombroso Ferrero Gina, 379 n. 168. Lonardi Gilberto, 10, 111, 167, 181, 224 n. 68, 517, 521. Londonio Carlo Giuseppe, 9 e n. 9, 18 e n. 30.o, Lo Piparo Franco, 526. Lortzing Franz, 439 n. 25. Losacco Michele, 108, 109 n. 3, 117 n. 29, 122 n. 40. Loschi Lodovico, 77. Lozzi Carlo, 221 n. 64. Lucano, XLI, 10, 42 n. 16, 48, 121 e n. 39, 157, 159, 307 n. 56, 508, 512, 515; conosciuto e apprezzato dal Leopardi, 285 n. 26, 293-294, 299, 314; nell’Ottocento italiano, 490-491; lucanismo e plutarchismo, 491. Luciani Paola, 265 n. 29. Luciano, 131, 148, 154, 155, 167 n. 51, 173. Lucrezio, XXXIII, LII, LXI, CI, 23, 134,

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135, 141, 150 e n. 6, 153, 178, 179 e n. 86, 266-314, 452 n. 65, 496, 513, 515, 516, 525; edizioni nella biblioteca Leopardi, 267 n. 4; ed. nella Collectio Pisaurensis, 267 n. 4, 275 n. 16, 304 n. 53; sull’origine dell’umanità e della civiltà (lib. V), 276; fedeltà alla dottrina epicurea ma sentimento indomabile dell’infelicità della vita, 286-291 (vedi anche «morte»); culpa della natura, 288-289, 312; che c’era di male nel non esser nati? (V 176), 289; res abdita quaedam ... videtur (III 1234 sg.), 273, 312; tragicità pacata (II 573-580), 291 n. 30; giudizi del Cesari (306-307 e n. 56) e del Giordani (306); vedi anche Epicuro, Leopardi. Lukács György, LXXXV, LXXXVIII, XCVII, 4 e n. 4, 7, 23 n. 41, 143 e n. 83, 505. Lumpe (e Reichmann; cfr. Thesaurus linguae Latinae, VIII, 1511, 64 sgg.), 268 n. 5. Luporini Cesare, XXVI, LXXVII, 108 e n. 1, 109, 110, 111, 112, 113, 114 e n. 17, 115, 116, 119 n. 30, 123 n. 42, 126 n. 49, 129 e n. 56, 130 n. 59, 131133, 134, 135, 143 e n. 84, 145 e n. 87, 169 n. 56, 264, 285 e nn. 27-28, 323 n. 18, 325 n. 23, 499, 504, 514. Luti Giorgio, 14. Luzio Alessandro, 12 n. 16, 13 n. 19, 66 n. 72. Luzzatto Fabio, 76 n. 110. Lyell Charles, 405. Mabillon Jean, 476, 477, 478. Maccarrone Nunzio, 398 n. 230. Macchia Giovanni, 3, 511. Mach Ernst, 449 e n. 56, 465, 470. Machiavelli Niccolò, 134. Madini Antonio, 373 n. 146, 378. Madrignani, Carlo Alberto, LI, LXXXIX n. 2, 505. Maffei Scipione, XXIV, XCI, 310, 336 e nn. 21-22, 337 e n. 24, 338 e n. 26, 340, 342, 343 e n. 47, 344 e n. 51, 345 n. 55, 346, 349, 351, 359, 402, 475 e n. 1, 476, 477 e n. 4, 478 e n. 5, 479, 480, 481 e n. 10, 482 e nn. 11-12, 483, 528. Maggi Pietro Giuseppe, 373. Maggini Francesco, LI. Mai Angelo, XXXI, XLI, LV, 51 e n. 36,

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Indice dei nomi e delle cose principali

77, 92 n. 146, 94, 116, 124, 170 n. 59, 185, 208, 209-212, 213 n. 50, 230, 308 n. 59, 321 n. 13, 331 n. 6, 378, 476, 491 e n. 2, 498, 509, 523; rapporti col Leopardi, 208, 211 e n. 47, 212 e n. 49; col Peyron, 495-496, 498; giudizi di studiosi posteriori, 212 e n. 49, 491. Malagoli, Luigi, 62 n. 64. malattie (Epicuro, stoici, Leopardi), 304, 305. Mallon Jean, 477. Mamiani della Rovere Terenzio, 74, 261, 262, 263, 264, 265 e n. 29. Manfredi Eustachio, 257. Manuzzi Giuseppe, 262. Manzini Guido, LXXIX, 370 n. 133, 372 n. 144, 375 n. 155. Manzoni Alessandro, XV n. 24, XVIII, XXIII, LXXXIII, 14 e n. 21, 19, 22, 24, 26, 27 n. 50, 45 n. 21, 77, 107 n. 39, 334, 341 n. 43, 392, 393, 394, 483, 486, 492, 493, 494, 495, 507, 523, 525; postille all’Histoire romaine del Rollin, 493-494; presunte analogie col Niebuhr e col Mommsen, 494. Manzoni Domenico, XXII, 70, 71 e n. 90. Marazzini Claudio, XLVII, 522, 523. Marchesi Concetto, 141 n. 82, 501, 515. Marchetti Alessandro, 268 e n. 4, 309 e n. 61, 310; trad.di Lucrezio, 308-310. Marchetti Giuseppe, 370 n. 133, 527-528. Marco Aurelio, 175. Maria Luigia d’Austria, duchessa di Parma, XXI, XXII, 64, 66, 69 n. 84, 85. Mario, Alberto, 412. Mario Jessie, 412. Mariotti Filippo, 196 n. 22, 219. Mariotti Scevola, 478 n. 6. Maroncelli Pietro, 19 n. 35. Marr Nikolaj Jakovlevic#, 361, 407. Marradi Anita, 76 n. 112. Marti Mario, 136 n. 72. Martinozzi Giuseppe, 109 n. 3. Marx Karl, IX n. 5, X n. 8, XI n. 10, XII nn. 12 e 15, XIII n. 20, XCVII, 32 e n. 61, 110, 111, 134, 147, 441, 447 n. 51, 458 e n. 88, 469 n. 102. Marzolo Paolo, 373, 379 e nn. 168-169, 380, 381, 408. Marzot Giulio, 504. Mascioli Frederick, 344 n. 50. Masini Pier Carlo, 408 n. 267, 412 n. 278. Masnovo Omero, 55 n. 48, 62 n. 63, 67 n.

76. Massano Riccardo, 506. «materialismo volgare» ottocentesco, 446447. Mattei Alessandro (cardinale), 186, 190, 207, 209, 210, 211, 212, 213, 215, 217. Mattioli Nicola, 212 e n. 48, 221 n. 63, 222 n. 66. Mattiussi Guido, 528-529. Maupertuis (Pierre-Louis Moreau de), 76. Maurer Karl, 190 n. 13. Mazzali Ettore, 4 e n. 1. Mazzatinti Giuseppe, 184 n. 1, 187 n. 4, 188 n. 8, 224, 508. Mazzini Giuseppe, XVIII, 6, 15 e n. 23, 19 n. 34, 24, 32 n. 61, 67 n. 76, 99, 375, 379. Mazzocchini Paolo, 266, 267 e n. 2, 269, 270 e n. 7, 271, 272, 273, 276, 29 n. 32, 298, 517. Mazzoldi Angelo, 357 e nn. 95 e 98, 437. Mazzoni Guido, 101 n. 9, 103 n. 18 Mazzoni Toselli Ottavio, 343 e n. 49. medicina greca, 432 e n. 12, 436, 462-463. Medioevo: secondo il Maffei, 475-481; il Muratori, 480-483; il Romagnosi, 339340; i romantici italiani, 18-20, 98-99, 118-120, 333, 338-339, 482-483; il Leopardi, 119-120. Meibomius (Marcus Meibom), 152, 277, 278 n. 18. Meillet Antoine, 427. Menagius (Gilles Ménage), 277. Menandro, 164 e n. 41. Menghini Mario, 184 n. 1, 187 n. 4, 188 n. 8, 224, 508. Mercati Giovanni, 517. Merlan Philip, 448 n. 54, 464, 528. Merlo Clemente, 341 n. 44, 394 n. 218, 396 n. 224, 397 n. 228, 423 n. 312, 425, 426. Merlo Pietro, 396 n. 222. Mestica Giovanni, 318 n. 6. Meyer Paul, 397, 398 n. 230. Meyer Wilhelm, 478 n. 6. Meyer-Lübke Wilhelm, 388. Micali Giuseppe, 343 n. 50, 345, 357 e n. 96, 358, 492. Migliorini Bruno, 66, 392 n. 209, 406 n. 258, 511, 523. migrazioni dei popoli, secondo l’etnografia e la linguistica ottocentesca, 337, 341 n.

Indice dei nomi e delle cose principali 39, 350-354, 383-385, 416. Miklos#ic! Franz, 389, 408. Mill James, 447, 453 n. 67; rapporti col Grote, 453 n. 67. Mill John Stuart, 238, 447, 448 e nn. 52 e 54, 449 e n. 56, 450 n. 60, 452 n. 64, 453 n. 67, 455 e nn. 75-76, 456, 459 e n. 89, 465, 467, 470; rapporti col Gomperz, 447-449 e nn. 51-54, 449 e n. 56, 450 e n. 60, 452 n. 64, 455-456 e nn. 75-76, 456 n. 79, 459 e n. 89, 465, 467, 470; accenno implicito al Mill in un passo del Gomperz, 448449; trad. tedesca delle Opere promossa dal Gomperz, 448 e n. 54, 449. Millard Joseph England, 121 n. 38. Minghetti Marco, 20, 72 n. 93. Mirri Mario, L, LXXVIII, 23 e n. 40, 25 n. 43, 343-344 n. 50. Mistrali Vincenzo, barone, XXI. Moeller Hermann, 419. Moget Gilbert, LXXXVI, 3, 34, 61, 68. Moleschott Jakob, 405 n. 52, 446, 446 n. 47, 465. Momigliano Arnaldo, LXXIX, 344 nn. 5051, 391, 410 n. 271, 434 n. 16, 453 nn. 67 e 70, 457 n.87, 475 n. 1, 476, 480 n. 9, 497. Momigliano Felice, 332 n. 12. Mommsen Theodor, LVI, 434, 461 e n. 97, 467, 490, 494. monogenesi e poligenesi del linguaggio e delle razze umane, 361-363, 364-365, 366, 417-422. Mondolfo Rodolfo, 437 n. 22, 459 n. 91. Montaigne Michel de, 313, 525. Montale Eugenio, VIII e n. 3, XI e n. 10. Montanari Eugenia, 13 n. 19. Montanelli Giuseppe, 369 n. 132. Montani Giuseppe, XIX, XXIII, 19 e n. 31, 20, 93, 251-252, 508. Montesquieu (Charles de Secondat de), 155, 156, 157 e n. 23, 169 n. 57, 178 n. 84, 284 n. 25, 285 n. 26. Monteverdi Angelo, XXXII e n. 38, 218 n. 57, 226 n. 73, 300 n. 47, 319, 338 n. 26, 517, 520. Monti Nicola, 85 e n. 130. Monti Vincenzo, XVII, XLVII, LXXVII, XCII e n. 3, XCIII, XCIV e n. 4, 11 e n. 15, 12 e n. 17, 13 e n. 18, 14 e n. 20, 24, 25 n. 43, 27 n. 50, 50, 58, 334 e n. 14, 339 n. 33, 341 n. 38, 392,

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484, 486, 488, 490, 495, 497, 511, 523; interesse per gli studi di antichità classica, 490, 495; su un passo di Catullo, 497. Moravia Sergio, LXXXVIII, 504. Morcelli, Stefano Antonio, 509. Morelli Timpanaro Maria Augusta, XLVII, LXXIII, 118, 509, 510, 514, 523. Moreschini Claudio, 274 n. 14, 278 n. 18, 292, 516. Morgan, Lady - (Sidney Owenson), 323 e n. 19. Morghen Raffaello, 207. Moro Tommaso, 71 n. 91. Moroncini Francesco, 39 n. 3, 42 n. 13, 52 nn. 38 e 40, 68 n. 82, 86 n. 133, 91 n. 143, 93 n.148, 116 e n. 22, 136 n. 72, 137 n. 73, 169 n. 54, 172 n. 64, 175 nn. 73 e 75, 190 n. 14, 193 n. 19, 207, 213 n. 50, 214 n. 52, 218 n. 56, 220 n. 59, 231 n. 3, 232 n. 5, 252, 260, 297 n. 42, 320-321 n. 12. Morpurgo Giulio, 372 n. 144. Morpurgo Salomone, 53 n. 41. morte, secondo Epicuro-Lucrezio e Leopardi, 298-304; «m. eterna» in Lucrezio e in Leopardi, 298-304. Mortier Roland, 34. Morton Samuel, 366. Mosca Benedetto, 86. Mosco, 11. Müller Karl Otfried, 433, 435 e n.18. Müller Max, 365 n. 124, 379 n. 169, 397 n. 228, 403 n. 246. Murat, Gioacchino, 315, 318. Muratori Ludovico Antonio, 46, 336, 337, 338 e n. 26, 339 e n. 33, 343, 475 e n. 1, 477, 478 e nn. 1 e 7, 479, 480 e n. 9, 481, 482, 483, 528. Murray Gilbert, 432 n. 13. Murri Augusto, eco di una lettura del Gomperz, 471. Muscetta Carlo, 3, 13 n. 18, 25 n. 45, 95 n. 151, 112, 125 n. 46, 144, 190 n. 12, 199, 201, 201 n. 32, 317 n. 4, 507, 519. Musumarra Carmelo, 508. Muzzarelli Alfonso, 149, 150 n. 51, 153. Muzzarelli Carlo Emanuele, 49-50. Muzzi Luigi, 49 n. 30, 509. Naddei Carbonara Mirella, 267 n. 2, 286 n. 29, 301 n. 48, 516.

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Indice dei nomi e delle cose principali

Napoleone I, 5, 63 e nn. 65-66, 70, 73 e n. 98, 326, 495, 511, 512; giudizio del Leopardi, 325-326; pubblicistica antinapoleonica reazionaria, 492. Napoleone III, 495. Narducci Emanuele, XIII n. 19, 267 n. 3, 515, 525. Natale Francesco, 45 n. 88. Natali Giulio, 184 n. 1, 188 n. 8, 189 n. 10, 225 n. 70, 508. Nauck August, 432 n. 13. negri d’America, emancipazione: idee di Mill, Gomperz, Grote, 455 e n. 76. Negri Gaetano, 410 n. 272. Negri Giovanni, 189. Negri Renzo, 517. Nencioni Giovanni, 397 n. 227, 426 n. 319, 527. neogrammatici, 395-407. neoguelfismo: abuso di questa categoria storiografica, 491, 492-495, 495-496. neoplatonici, 158, 168, 170-171. Neri Ferdinando, 108-109 n. 2, 117-118 n. 29, 119-120 n. 33, 505. Nestle Wilhelm, 436 n. 21. Niccolini Giovan Battista, 19, 25 e n. 46, 26 e n. 47, 34, 252, 259-261; rapporto tra una sua frase e la Palinodia del Leopardi, 259-261. Nicoletti Giuseppe, LXX. Nicolini Giuseppe, 80 n. 120, 338, 351 n. 80. Niebuhr Bartold Georg, 490, 494, 500; reazioni suscitate in Italia dalla Storia romana, 490; presunte analogie Niebuhr-Manzoni, 494. Nietzsche Friedrich, 126 n. 49, 160, 324. Nigra Costantino, 395 e n. 219, 402-403 e n. 245, 408 e n. 262, 414 n. 285. Noël Jean-François, 176. Norberg Dag, 477 n. 4, 478 n. 6. Nott Josiah Clark, 365, 366 e n. 127. Novalis (Friedrich von Hardenberg), LXXXVIII. Oken Lorenz, 447 e n. 51. Olivet Pierre-Joseph, 174. Omero, XXIX, 10, 164-165 n. 43, 167, 229, 248, 314. Omodeo Adolfo, 5, 462 n. 99. Onciulencu Teodoro D., 370. Orano Domenico, 188 e n. 8, 189 n. 9, 193 e n. 19, 194, 196 n. 22, 197, 207, 219.

Orazio, XXXV n. 40, LI, LII, LIII, 47, 94 n. 150, 154 n. 14, 270, 385, 478, 485; possibili echi nel Leopardi, 270. Orelli Johann Conrad, 175 e n. 75, 280 e n. 22. orfismo e correnti misteriche greche affini, 437-438, 445-446. Origene, 313. origine della civiltà (teorie sull’–), 7, 75, 118-119, 181; origine del linguaggio, 363-364, 373-374 e n. 149, 379, 412413. Orioli Giovanni, 3, 511. Orlando Filippo, 260, 513, 515. Orlando Saverio, 270 n. 7. Osthoff Hermann, 395. Ottolini Angelo, 258. Owen Robert, XC. Pacchiano Giovanni, XXXII n. 39. Pace da Certaldo (pseudo-), 53 e n. 41. Pacella Giuseppe, XXXI, LXVIII, LXXVIII, CIII, CV, CVII, 163 n. 37, 168 n. 53, 169 e n. 55, 193 n. 19, 255 e n. 14, 269 n. 6, 276, 279, 280 nn. 21-22, 304 n. 54, 307 n. 57, 321 n. 15, 322 n. 17, 500 n. 7, 504, 516, 517. Pagnini Alessandro, VII n. 1. Palazzi Fernando, 265 n. 29. Pallas Peter Simon, 350 n. 74. Pallavicino Sforza, XIX, 40, 43 n. 18, 97 e n. 1, 508. Paoletti Lao, 121 n. 39, 490. Papa Pasquale, 40 n. 6. Papadopoli Antonio, 49 n. 30, 90 n. 141, 512. Papi Lazzaro, 92 n. 147, 512. Papi Roberto, 509. Paratore Ettore, LV, LVII, LXIX, 285 e n. 26, 293 n. 35, 314. Parenti Marino, 105 n. 24, 513. Parini Giuseppe, XLIX, XCVI, 24, 25 n. 43, 44. Parmenide, 442 n. 34. Parodi Ernesto Giacomo, 422, 423 n. 312. Parronchi Alessandro, 118, 305, 326-327 n. 26. participii indipendenti dalla diatesi, 255 e nn. 13-16. Pascal Blaise, 109, 313. Pascoli Giovanni, 47, 139, 140 n. 80. Pasquali Giorgio, VIII, XI n. 3, XIII e n. 18, XXXIV, XLIV, LV, LVI, LVII,

Indice dei nomi e delle cose principali 47, 431 n. 9, 462 n. 99, 491, 496, 498 n. 4, 509, 525, 526. Pasquier Etienne, 342. Passavanti Jacopo, 57. Passerin d’Entrèves Ettore, 3, 61, 510, 511. Patin Henri-Joseph-Guillaume, 287. patriottismo ottocentesco, 55-57; «patriottismo italico», 343-344 e n. 50, 345, 356-358. Paul Hermann, 399 e n. 235. Paulian Aimé-Henri, 149, 150 n. 6. Pavan Massimiliano, 164 n. 42. Pavone Claudio, 31. Pazzaglia Mario, 111. Pedersen Holger, 360 n. 109, 398 n. 232. Pellegrini Pietro, 219, 220. Pellegrini Silvio, 426 n. 319. Pellico Francesco, 79. Pellico Luigi, 508, 510. Pellico Silvio, 3-4, 18 n. 30, 508, 510. Pellizzari Achille, 100 n. 8. Pelzet Maddalena, 260. periodizzazione della storia secondo i romantici, 118-120; 338-339. Perelli Luciano, 287. Persio, 525. Perticari Giulio, XCIII, XCIV, 8, 12, 43, 53, 94, 115, 208, 334, 340, 341 n. 38, 392 e n. 211. Perutelli Alessandro, 525. pessimismo antico, 161-168. Pessina Enrico, 188 n. 7. Pestelli Corrado, XXXVII-LXXIII (Nota del curatore). Petrarca Francesco, XXXIV, 124, 253, 254 e n. 12, 256 e n. 18, 258 e n. 22, 269. Petronio Giuseppe, LXXXIII, 4 e n. 4, 22 n. 39, 30 n. 58, 32 e n. 64, 33, 116 n. 24. Peyron Amedeo, XLIV, 12, 21, 51 e n. 37, 52, 378, 494, 495, 498; rapporti col Mai, vedi Mai; suo presunto romanticismo, 494. Pezzana Angelo, 513. Pianciola Cesare, XCVI n. 6. Picco Francesco, 63 n. 66, 225 n. 70. Piccolomini Enea, 498 n. 4 . Piergili Giuseppe, 73 n. 97, 221 n. 60. Pieri Mario, 513. Pietti, libraio, 512. Pighini Giacomo, 141. Pignatelli Giuseppe, 316 n. 1, 516, 527. Pindaro, 164.

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Pio VI (papa), 13 e n. 18. Pio VII (papa), 185, 189 n. 8, 207, 209, 214, 510. Pio IX (papa), XXIII, 63 e nn. 65-66, 77. Pirodda Giovanni, 20, 111. Pirona Jacopo, 370 e n. 133, 371. Pisacane Carlo, LXXVIII, LXXXIX, XC, XCI, 7, 25, 31, 369 n. 132. Pisani Vittore, 352 n. 84, 361, 396 e n. 225, 403 n. 248, 407. Pitagora e pseudo-Pitagora, 153, 158, 171 e n. 62. Pitagorici, 451 n. 61. Platone, XXIX-XXX, LIV, 51, 131 e n. 63, 150, 151 e n. 9, 153 e n. 12, 155, 158, 168-174, 178, 182, 183, 270, 282, 289, 298, 300 e n. 45, 303, 430 n. 8, 431 n. 9, 432, 440, 441 n. 30, 442, 443, 444, 445, 448, 449, 451 e n. 61, 452, 453 e n. 68, 457 n. 85, 460, 471, 516, 526; P. e Leopardi, 270-271, 298; pretesto per una polemica anticristiana, 300. Plauto, 306 n. 56, 478, 480; P. e Giordani, 306 n. 56. Plinio il giovane, 39 e n. 2. Plotino, 158, 168, 170 n. 61, 172, 180 n. 87, 241, 242, 300 n. 45, 301, 516. Plutarco, 162 n. 33, 282, 284 n. 25, 515; «plutarchismo», 490-491. Poerio Alessandro, 144. poesia “ritmica” (accentuativa): sua origine secondo il Maffei e il Muratori, 477480, 481. Pohlenz Max, 462-463. Pöhlmann Robert von, 458 e n. 88. Poincaré Henri, 465. Polignac Melchior de, 279 n. 20, 287. «Politecnico (Il)», 16, 331 n. 8, 346 e n. 61, 348 n. 65, 349 n. 66, 350 e n. 73, 354 n. 91, 364 e n. 122, 366 n. 127, 368 n. 131, 369 n. 132, 376, 377, 378 n. 164, 381, 382 e n. 169, 384 n.186, 389 n. 202, 390 n. 203, 417 n. 294, 418 n. 298, 420 n. 308, 515. «popolarità» secondo i romantici, vedi romanticismo. Porena Manfredi, 108, 118 n. 29, 126, n. 50, 131 n. 63, 136 n. 71, 163 n. 36, 164 n. 38, 168 n. 53, 175 nn. 73-75, 182 n. 93. Porfirio, 152, 158, 170 n. 61, 171, 172, 180 n. 87, 241, 278 e n. 18, 300 n. 45, 516; Vita Plotini (e Leopardi), 278 e n. 18.

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Indice dei nomi e delle cose principali

Porson Richard, 496. Porta Carlo, XX, LXXXII, LXXXIII, XCV, 44, 45-46 n. 21, 46, 485, 486 e n. 15. Posidonio, 452 n. 64. positivismo negli studi classici in Italia, 495496; in Austria (Gomperz), vedi Gomperz Theodor. Pott August Friedrich, 348, 361 e n. 114. Prandi Alfonso, 316 n. 1. Praz Mario, 31. «preromanticismo», 4, 7, 32-33, 34, 331332. Previtali Giovanni, 482 e n. 11. Prisciano, 509. progressismo politico-sociale e progressismo scientifico, XCVII-XCVIII, 134-135. «progressista», termine divenuto sempre più ambiguo, 322-323 n. 17. progressivo in senso politico-sociale, 261-265, 525. Properzio, 511. Protagora, 432 n. 12, 450. Prunas Paolo, 19 n. 35. Puccini Niccolò, 251, 252. Puccinotti Francesco, 179 n. 86. Pugliese Carratelli Giovanni, LVII, 46 n. 97. Pullè Francesco Lorenzo, 328 e n. 1, 410 n. 271, 414, 415, 421. Puoti Basilio, 56, 90, 91 n. 142. Puppo Mario, 4, 18, 253 n. 3. purismo, 10, 11-12, 55-60, 102, 117, 121 n. 39, 229-233. Puškin Aleksandr Sergeevic#, LXXXIII, LXXXVIII. Quadrio Francesco, 337 n. 22. Quintili Paolo, XI n. 9. Radermacher Ludwig, 467 n. 101. Radetzky, Johann Joseph, 455 n. 76. Raicich Marino, XCI, 328. Raimondi Ezio, 508. Rajberti Giovanni, 484, 485. Ramat Silvio, 508. Ranieri Antonio, 96, 259, 260, 261. Rask Rasmus, 346 n. 60, 347, 360 n. 109, 397 n. 228, 398. Ravasi Sofia, 34 n. 65. Ravizza Carlo, 335 n. 18. razzismo nell’etnologia e nella linguistica ottocentesca, 348, 364-368, 417.

Regenbogen Otto, 162 n. 33. Reichmann (e Lumpe; cfr. Thesaurus linguae Latinae, VIII, 1511, 64 sgg.), 268 n. 5. Renan Ernest, 348, 417. Resnati editore, XCIV n. 4. Rezzi Paolo, 424 n. 314. Rezzonico (Carlo Della Torre di), 76 e n. 111. Ricasoli Bettino, 71. Ricci Lapo de’, XXIII. Ricciardi Giuseppe, 74 n. 102. Ridella Franco, 86 n. 132, 90 n. 141. Rimbaud Arthur, XCIX. risalutare = «ricambiare il saluto», 251-252, 525. Ritter Heinrich, 435, 441 n. 30, 453 n. 68. Roberti Giuseppe, 46 e n. 22, 86 n. 133, 90 n. 141, 509. Robespierre Maximilien, 324. Robin Léon, 266, 288, 289, 303 n. 51. Rodbertus Johann Karl, 458 n. 88. Rollin Charles, 493. Roma nell’Ottocento preunitario: retorica della romanità, 493, 494. Romagnoli Ettore, 53, 225 n. 70. Romagnosi Gian Domenico, 71, 75, 76 e n. 110, 119, 172 n. 65, 329 n. 2, 330, 332, 339, 340, 345 n. 58, 346, 350 n. 73, 354, 357 n. 96, 362 e n. 117, 369 n. 132, 378 e n. 163, 379, 380, 381, 482, 484, 485, 504, 511, 516; valutazione del Medioevo e distinzione tra stirpe e civiltà, 338-339. Romano Giacinto, 341 n. 43. Romano-Catania Giuseppe, 109 e n. 3. romanticismo, passim; varietà di gruppi e di posizioni in Europa, LXXXIILXXXIII, 5-6, 332-333; uso estensivo del termine (eccessiva estensione data a questo concetto storiografico), LXXXILXXXVI, 31-35, 331, 493, 494-495; polemica romantica in Italia (1816-21), 3-35, 332-333, 338-339 e passim; ostilità al termine «romanticismo» in Italia, 19 n. 35, 339; reazione all’epicureismo settecentesco, 7; religiosità, LXXXVIII, 6-7, 24, 25-26, 98; «popolarità», 7, 98, 333, 334 n. 16, 393; r. del gruppo di Heidelberg, 436-437; r. mistico-orientalizzante tedesco, 437. Rosa Enrico, 189 n. 8. Rosa Gabriele, 373 e n. 146, 385 n. 186, 412 e n. 178, 526.

Indice dei nomi e delle cose principali Rosini Giovanni, 189 n. 8. Rosmini Serbati Antonio, 25, 75 e n. 104, 172 n. 65, 484, 511. Rossi Paolo, 332 n. 11. Röth Eduard, 437, 438. Rotondi Clementina, 508. Rotondò Antonino, VII n. 1. Ruffini Giovanni, 318 n. 7, 512. Rousseau Jean-Jacques, XLII, LXXXV, 7, 10, 34, 42, 71, 109 n. 2, 111, 115, 120, 134, 135, 228, 233, 240, 243, 322, 503, 504, 515; analogie col primo Leopardi, 322. Russo Carlo Ferdinando, 251 e n. 1. Russo Luigi, 24 n. 42, 91 n. 142, 498 n. 4. Rutto Giuseppe, 526. Saccenti Mario, 266, 267 e n. 2, 269, 274, 291, 294 e n. 36, 306, 309 e n. 61, 310, 517. Sacchi Defendente, 378 n. 163. Sade Donatien-Alphonse-François, marchese di -, 314. Saitta Armando, XVI n. 25, LX, 339, 341 n. 43. Sallustio, 255. Salomone, XXIX, 165 n. 43, 167, 248. Salvatorelli Luigi, 62 n. 63, 109, 110 e n. 3, 114. Salvemini Gaetano, CIII, 329 n. 2, 369. Salviati Lionardo, 255 n. 15. Salvioni Carlo, 375 n. 153, 396 e n. 224, 419 e n. 302, 422, 423 n. 312, 424 e n. 315, 526, 527. Samonà Giuseppe Paolo, LXXXI-LXXXIV, LXXXVI, LXXXVII-LXXXVIII, LXXXIX n. 2, 122, 505. Sanchini Sebastiano, 148, 151, 223. Sansone Mario, 45 n. 21, 114 n. 20, 115. Santamaria Domenico, 526, 527. Santi Domenico, 76 e n. 112, 89 n. 139. Sapegno Natalino, LXXXIII, LXXXV, 26 e n. 48, 27 n. 52, 32 e n. 61, 111, 113, 510. Sarpi Paolo, 43, 72, 97 n. 1, 513. Sartorio Odoardo, 64. Sasso Gennaro, 293 n. 35. Saurau Franz Joseph von, 11. Sauri (Saury) Jean, 149, 150 n. 6. Savarese Gennaro, 118, 131, 137, 249 n. 12, 259-260, 313, 318 n. 5, 319 nn. 89, 512, 515. Savigny Friedrich Karl von, 437.

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Savoca Giuseppe, 190 n. 12, 199, 519. Sbarberi Franco, 264. Scaligero Giuseppe, 434, 435 n. 18. Scarabelli Luciano, 49 n. 29, 55 n. 48, 105 n. 32, 262. Scarpa Gino, 156 n. 21, 165 n. 43, 190 e n. 12, 199, 204, 221 n. 63. Scheel Hans Ludwig, 121 n. 39, 154 n. 14, 179 n. 86, 202, 229 n. 1, 308 n. 60, 519. Schelling Friedrich Wilhelm Joseph, 181, 364 n. 121, 447 e n. 51. Scherer Wilhelm, 434. Schiaffini Alfredo, 392 n. 210. Schiaparelli Giovanni Virginio, 444. Schiavina Enzo, 111. Schlechter Annamaria, 66 n. 72. Schlegel August Wilhelm, XXV n. 36, 6, 23 n. 41, 332 n. 12, 338 n. 27, 346 n. 60, 355, 377 n. 62, 379, 387 e n. 192, 417. Schlegel Friedrich, XXV n. 36, LXXXVIII, 23 n. 41, 181, 346 n. 60, 347, 349 nn. 70-71, 350, 353 e n. 86, 355, 360 e nn. 107 e 109, 362, 363, 364 e n. 121, 365, 377 n. 62, 379, 387, 417, 419, 437. Schleicher August, 361 e n. 114, 385, 386 e n. 188, 387, 389 n. 201, 397 n. 228, 398, 401, 402 e n. 244, 403 n. 246, 404, 405 n. 252, 406, 407, 418 e n. 299. Schleiermacher Friedrich, 168, 441 n. 30, 451. Schmidt Johannes, 361, 395, 398 n. 231, 431 n. 9. Schoell Friedrich, 432 n. 13. Schopenhauer Arthur, 132, 143. Schubart Herman, barone di, XLVII, 522, 523. Schubart Wilhelm, 523. Schuchardt Hugo, 361, 363, 387 n. 194, 395, 396, 397 e n. 227, 401-402, 403, 404, 406-407 e n. 258, 408. Schulze-Delitzsch, Hermann, 456. Sciacca Michele Federico, 429 n. 3. Scinà Domenico, 63 n. 67. Sconocchia Sergio, LX-LXI, 267, 268 n. 4, 276, 309 n. 61, 311. Scotti Mario, 3, 309 n. 62, 507, 508, 510. Segneri Paolo, XIX, 40, 97. Seneca il filosofo, 153, 157, 251 n. 1, 269 n. 6, 303 n. 51, 513, 516. Senecione, 157.

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Indice dei nomi e delle cose principali

Senofonte, 129 n. 56, 167 n. 51, 451-452; caratterizzazione datane dal Gomperz, 451-452. Serban Nicolas, 117 n. 29. Sergi Giuseppe, XXVIII, 127, 141, 367. Sestan Ernesto, CIII, 329 n. 2, 331 n. 8, 334 n. 16, 345 n. 58, 350 n. 73, 369 n.132, 373. Sesto Empirico, 170 e n. 61. Settembrini Luigi, LXXVII, XCV n. 5, 12 n. 17, 20, 24, 25 n. 43, 321 n. 12. Setti Giovanni, 169 n. 56, 178 n. 81. Settis Salvatore, VIII n. 2. Sichirollo Livio, 463 n. 100. Sgricci Tommaso, XX, 508. «Sigma» (pseudonimo di un articolista del «Messaggero» di Roma), 188 n. 7, 196 n. 23. Simeoni Luigi, 475 n. 1, 477 n. 4. Simmaco, riecheggiato dal Leopardi, 256 n. 17. Simon Richard, 363 n. 119. Simonide, 148, 167 n. 48, 294 n. 36. Sinner Louis de, 127 n. 52, 130 n. 61, 184. Sismondi Jean-Charles-Léonard Simonde de, 19 n. 34, 343 n. 50, 345, 358. Smith Adam, 345 n. 56. Socrate, 148, 150, 153 e n. 12, 154, 160, 170, 173, 174, 298, 430 n. 8, 440, 442, 451, 460 e n. 92, 528; «socratici imperfetti» secondo E. Zeller, 441 n. 32. sofisti greci, 440-441 e n. 30, 442, 445, 452, 453 e n. 68, 458, 459, 463 e n. 100, 470-471. Sofocle, 10, 164 e n. 39. Solleciti Maria, 251. Solmi Arrigo, 341 n. 43. Solmi Sergio, XXXII e n. 39, 227, 233, 236, 240, 241, 244, 245, 312, 522, 525. Soprani Francesco, 70 n. 87. Soprani Leone, 87. Spadoni Domenico, 207, 510. sostrato, nella linguistica anteriore al Cattaneo, 342-344, 349-350, 356-357; nel Cattaneo, vedi Cattaneo; nell’Ascoli, vedi Ascoli; nel Nigra, 395 n. 219, 402 n. 245; nell’indeuropeistica a metà Ottocento, 385-388; nello Schuchardt, 401-402 e n. 243, 403404; sostrato e monogenesi delle lingue, 419-421.

Spaggiari William, XXII n. 32, XXIII n. 34, 507, 509, 512, 528. spasimato = che spasima, 255 e n. 15. Spaventa Bertrando, 102. Spencer Herbert, 447 n. 49. Speusippo, 444. Spinazzola Vittorio, 3. Spinoza Baruch, 130. Spitzer Leo, 402 n. 243. Spitzer Simon, 451 n. 61. Staël, Madame de (Anne-Louise-Germaine Necker), LXXXVI, 4 n. 2, 5, 34 e n. 65, 41, 120 n. 33, 228, 229, 231 e n. 3, 332 n. 12, 338 n. 27. Stallbaum Gottfried, 168, 453 n. 68. Stefano (Henri Etienne), 161 n. 32. Steinhoff Margarete, LXXXII. Steinthal Heymann, 39 n. 228. Stella Antonio Fortunato, 499. Stellini Jacopo, 75 e n. 106, 76 e n. 110, 504. Stendhal (Henri Beyle), LXXXII, LXXXIII, LXXXVIII e n. 1, 7, 39, 387 n. 194. Stenzel Julius, 428, 429 e n. 2. Stephen Leslie, 455 n. 74. Stirpe Bianca, 136 n. 72. Stobeo, 164 n. 41, 165 e n. 44, 175 e n. 74, 180 n. 90, 280 n. 22; cit. dal Leopardi secondo due diverse edizioni, 280 n. 22. stoici greci secondo il Gomperz, 452, 459. stoicismo, XLIII, 163, 175-177, 178 n. 83, 281, 282, 284 e n. 24, 285, 286 e n. 28; nell’età imperiale romana, 157, 159; nel Leopardi: valutazione degli stoici ultimi difensori della libertà nel mondo antico, 284-285 e n. 26; accostamento (con riserve e per breve tempo) ad Epitteto, 285 nn. 27-28; contro il provvidenzialismo stoico, 286 n. 28. storici greci secondo il Gomperz, 445, cfr. 436. Stok Fabio, X n. 6. Stratone da Lampsaco, 180, 444, 449-450 e n. 59, 452. Struve Jacob Theodor, 500. Struve Karl Ludwig, 51, 500. Stussi Alfredo, 376. Sue Eugène, 264. Tabarrini Marco, 100 n. 4. Tacchi Ilario, 187 e n. 4, 188 e n. 7, 189 e

Indice dei nomi e delle cose principali nn. 8-9, 193, 196 e n. 22, 224, 225, 226, 518. Tacito, 157, 159. Tagliavini Carlo, 329 e n. 3, 390 n. 203, 406 n. 255, 418 n. 299, 424 n. 315. Talete, XXVI, 439 e n. 25; discussioni sulla sua origine semitica, 439 e n. 25. Tannery Paul, 444. Targioni-Tozzetti Fanny, 34. Targioni-Tozzetti Ottaviano, 100. Tasso Torquato, 44, 258, 309, 314. Tateo Francesco, XLVI, XLVII, 522, 523. Tedaldi-Fores Carlo, 19. Tellini Gino, VII-XXXV (Introduzione), LXXIII. Temistio, 431 n. 9; De anima, congettura del Gomperz, 431 n. 9. Tenca Carlo, 19-20 e n. 35, 25 n. 43, 100, 265 n. 29, 373. Teocrito, 309, 310. Teofrasto, XXIX, XXX, 132, 161 e n. 32, 162, 163, 164, 165, 170, 174 n. 72, 175, 180 e n. 87, 282, 283, 284 e nn. 24-25, 304, 431 n. 9, 432 e n. 12, 444, 500 n. 6, 503; ammirato dal Leopardi, 282, 284 e n. 24, 304. Teognide, 121, 164, 272; «meglio è per l’uomo non esser nato ... »: giudizio opposto di Epicuro, consenziente del Leopardi, 164, 272. Terenzio, 306 n. 56, 478, 480; T. e Giordani, 306 n. 56. Terracini Benvenuto, 328, 329 n. 2, 347 n. 63, 372 n. 142, 376 n. 157, 379 n. 169, 396 e n. 223, 397 e n. 228, 404 e nn. 250-251, 405 e n. 254, 406 n. 258, 418 n. 297, 424-425, 426. Terzaghi Nicola, LV. Thierry Augustin, 358 n. 102. Thorvaldsen Bertel, 62 n. 64. Tilgher Adriano, LXIX, 10 e n. 2, 118, 119 n. 30, 129 n. 58, 130 n. 59, 297 e nn. 40-41, 298. Timpanaro Sebastiano senior, LXXIII. Timpanaro Cardini Maria, vedi Cardini Timpanaro Maria. Timpanaro Morelli Maria Augusta, vedi Morelli Timpanaro Maria Augusta. Tiraboschi Girolamo, 338 e n. 26. Tissoni Roberto, XLVII, 523. Tocco Felice, 108, 130 e n. 60, 161 n. 32, 162 e n. 35, 169 n. 56, 172 n. 65, 178 e n. 81, 180 n. 87.

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Togliatti Palmiro, 264. Tolomei Claudio, 342 n. 45. Tomitano Bernardino, 510. Tommaseo Niccolò, XXII, XXIII, XXVIII, LXXXIII, 10, 19 e n. 31, 21, 29 e n. 56, 38, 84 n. 128, 85, 89 e n. 138, 106, 127, 184, 254 n. 12, 262, 321, 332, 375, 376, 392 n. 211, 486 e n. 16, 499, 513, 526. Torti Francesco, XCII. Tortoreto Alessandro, 508. Tramarollo Giuseppe, 373, 526. Trasea Peto, 157, 159. Traube Ludwig, 477. Traversari Ambrogio, 161 n. 32. Treitschke Heinrich von, 469 n. 102. Treves Piero, XVI n. 25, XLI, XLIV-XLV, L, LIII, LXXXII, CV, 11 e n. 13, 21 n. 38, 43 n. 17, 49 n.30, 84 n. 128, 112 e n. 10, 120 n. 34, 121 n. 39, 164 nn. 39 e 42, 213-214 n. 49, 318 n. 7, 410 n. 271, 461 n. 97, 489-501, 506, 507, 513, 514, 515; concordanze e divergenze rispetto a Croce, 491-492; antigiustificazionismo storico, 492; disprezzo per la «tecnica» filologica, 496-498; abuso delle categorie di romanticismo e di neoguelfismo, 492497; antileopardismo, 499-500. Trezza Gaetano, XLV, 496, 497. Tribolati Felice, 105 n. 32, 513. Trombetti Alfredo, 413 n. 280, 418 n. 299, 419, 425, 426 n. 318, 526. Tropeano Francesco, 62 n. 64. Trotzskij Lev (Lev Trockij: Lejba Davidovic# Brons#tein), 505. Troya Carlo, 341 n. 43, 492. Trubeckoj Nikolaj Sergeevic#, 361. Tucidide, XXVI, 42, 51 e n. 35, 436, 439. Turati Filippo, 410 n. 272. Ubaldini Giovan Battista (pseudonimo di Ilario Tacchi), 187 n. 4. Untersteiner Mario, 429 n. 4, 459 n. 91. Usener Hermann, LVI, 266, 295, 431 n. 9, 432, 434, 435 n. 19, 441 e n. 33. Valgimigli Manara, XLVI, 501. Valla Lorenzo, 178. Vallauri Tommaso, 46, 50, 56. Valli Donato, 516. Valsecchi Antonio, 150 n. 6. Valussi Pacifico, 376, 526.

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Indice dei nomi e delle cose principali

Vannucci Atto, 492, 495, 501, 515. Varrone, 52 n. 40. Vegezzi Ruscalla Giovenale, 370. Velleio Patercolo, 156 n. 21. Velli Giuseppe, 314, 508, 515. Vené Gian Franco, 114, 305, 326 n. 26, 514. Veo Ettore, 188 n. 7. Vera Augusto, 413 n. 280, 527. Verri Pietro, 18 n. 29, 22, 76. Viani Clelia, 510. Viani Prospero, 185, 213, 218 n. 56, 226 n. 71, 252, 510. Vico Giambattista, LXXXV, 7, 34, 40 e n. 8, 75, 76, 332 n. 11, 343 n. 50, 351 e n. 8, 362, 364, 373 e n. 149, 497, 504. Vidos Benedictus Eleutherius, 341 n. 44. Vieusseux Giampietro, XXIII, 16-17 e n. 26, 20, 44 n. 19, 48, 55, 71 n. 91, 82, 89 e n. 138, 128 n. 55, 131, 132, 133, 134, 135, 137 e n. 73, 251, 252, 513. Viglio Patrizia, 512. Virgilio, XXXIX, LI, LII, 47, 233, 288, 300, 305, 306, 307 n. 56, 308 e nn. 59-60 (Leopardi), 395; culpa (Georg. III 68), 288 (ma cfr. 312). Visconti Ennio Quirino, 490, 500. Visconti Ermes, 18 n. 30, 19 e n. 31, 39 n. 5, 338 n. 27, 490, 500. Vitale Maurizio, XLVI, XLVII, XCI, XCII, 12 n. 17, 230 n. 2, 322 n. 17, 336 n. 20, 336 n. 26, 342 n. 45, 344 n. 55, 392 nn. 209-211, 504, 505, 522, 523, 525, 528. Vitaletti Guido, 525. vitalità, vita vitalis (Ennio), nel Leopardi, 296 e n. 38. Vitelli Girolamo, L, 498 e n. 4. Vitrioli Diego, 46.

Vogt Karl, 446 e n. 47. Volney (Constantin-François de Chasseboeuf), 118 n. 29, 313. Voltaire (François-Marie Arouet), XXII, XXXV n. 40, 68, 75 e n. 105, 85, 115, 122 e n. 40, 123, 135, 146 e n. 90, 149, 150 n. 6, 240, 293 n. 35, 313, 324, 327; Giordani e Leopardi spesso dissentono da lui quanto alla religione, 313, 327; Siècle de Louis XIV, 324. Voss Johann Heinrich, 7. Vossius Gerhard Johannes, 478-479 e n. 7. Vossler Karl, 397. Wallace Alfred Russel, 447 n. 49. Wartburg Walther von, 341. Weinberg Adelaide, 448 n. 52, 453 n. 70. West Martin L., 437 n. 22. Whitney William Dwight, 403 e nn. 24 e 248. Wilamowitz Ulrich von, 435 e n. 19, 467, 479. Winckelmann Johann Joachim, 437. Wis Roberto, 507. Wolf Friedrich August, 435. Zach Franz Xavier von, 68. Zajotti Paride, 9, 14, 17, 65, 66 n. 72. Zampa Giorgio, VIII n. 3. Zanotti Francesco, 59. Zanotti Giampietro, 59. Zeller Eduard, LVI, 431, 435, 436, 437 e n. 22, 438, 439 n. 25, 441 e nn. 30-32, 442 n. 34, 452, 459. Zerbini Elia, 213 n. 50. Zielin!ski Tadeusz, 468 n. 101. Zuccante Giuseppe, 528. Zumbini Bonaventura, 108, 189.