Xavier Dolan. Il sentimento dell'invisibile 8866523356, 9788866523352

Xavier Dolan: enfant prodige canadese, autore appena ventiseienne con cinque film all'attivo, amato dai Festival di

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Italian Pages 112 [113] Year 2016

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Xavier Dolan. Il sentimento dell'invisibile
 8866523356, 9788866523352

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CIAK SI SCRIVE /1 PROTAGONISTI

a cura di Giovanni Ciofalo e Silvia Leonzi

Fabiana Di Martino - Laura Delle Vedove

Xavier Dolan Il sentimento del visibile

OVERA EDIZIONI

© 2016 SOVERA MULTIMEDIA s.r.l. Via Leon Pancaldo, 26 - 00147 Roma Tel. (06) 5585265 - 5562429 www.soveraediziom.it e-mail: [email protected]

I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, totale o parziale (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi.

Ringraziamenti

Fiaba

Pioggia di cuori per: Laura: ovviamente, e sempre.

E in ordine alfabetico, mai affettivo:

Antonio e Marcello, per tutto l’incanto. Andrea e Gabri, per la rinascita del (buon)umore. Caterina, per la forza dei tuoi occhi. Carmen, per le passioni che ci rendono vicine. Eie, Mary, Cri, Gaia, per la costante vicinanza. Elisa, per quella stella rabbiosa e ardente che condividiamo. Mathias, per la costanza della magnifica presenza. Michela, per la luce del tuo cuore. Monia, per il sorriso senza sforzo. Silvia, per tutto l’amore degli anni. Vito, per l’inseguire la coerenza. I ragazzi e le ragazze di FilmTv: per la vostra bellezza.

La mia famiglia.

Laura

Io ringrazio: FDM, per il mondo e l’Iperuranio e oltre. Dolan, per tutto il sentire del mondo. Il Cinema, per tenermi incollata e distante dal mondo sempre.

Indice

Introduzione'. Xavier Dolan - Qui m’aime me suive: L’amore oltre le ragioni

Capitolo primo'. J’ai tuè ma mère (2009)

9 17

Decostruire e destrutturare per rigenerare Manifestazione ontologica della rabbia giovane

18 23

Capitolo secondo: Les amours imaginaires (2010)

26

L’emersione del sentimento nel visivo Vedere per sentire

27 30

Capitolo terzo: Laurence anyways (2011)

38

La partitura dell’amore in implodere Il punto di non ritorno

39 47

Capitolo quarto: Tom à la ferme

53

L’incomunicabilità connaturata del visibile (Provincia meccanica)

58

Capìtolo cinque'. College Boy

64

La crocifissione dell’eteros

65

Capitolo sesto: Mommy

70

La pietas totalizzante della mise en scene (We can be heroes) Il miracolo dell’umano Combustibile della memoria Epilogo: La rivoluzione dolaniana

72 83 93 98

Filmografìa

105

Credits

108

Introduzione

Xavier Dolan - Qui m’aime me suive: L’amore oltre le ragioni

“La mente creativa sembra dover affrontare più di una volta ciò che la maggior parte degli uomini risolve una volta per sempre nella tarda ado­ lescenza o nei primi anni dell’età adulta. [...] Ma l’individuo irrequieto, e soprattutto originale, deve, bene o male, alleviare una persistente re­ viviscenza della colpa edipica con la riasserzione della sua particolare identità”.1 L’onnivorismo, Dolan, il ramificato estendersi di braccia, budella, cuori e cinefilia. Nel pastiche (più che mai imitativo), ove captiamo il parossismo di una poetica zeppa, spasmodica, neo-romantica, ci si abbaglia di coesione eterogenea che si vivifica di contraddizioni, di sostrati e figurazioni nevrotiche, latenti fissazioni, materiale lucente 1 Erikson Erik H., Gioventù e crisi d’identità, (1995), 238

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per l’indagine psicoanalitica disarmonica, beatitudine estetica astuta, giustificatamente compiaciuta in modalità del tutto ontologica, auto­ percettiva, multi-sensoriale, privata e, più di tutto, sfacciatamente sen­ timentale. La sostanza, il sentire, il patire, la cascata di acqua che pervade e aggredisce il corpo di Fred in Laurence Anyways è pura programmatica poetica di un’arte: lavora per metafore di esplicitazione dei moti interni, che Dolan ha bisogno in primis di guardare, di raffigurare, di circoscri­ vere nel quadro, nel gusto pittorico, per poterle vivere. Il sentimento va visto per essere sentito.

L’impressione permeante è la necessità primaria e insita nel filmico di aggrapparsi (di abbandonarsi) a un atteggiamento spettatoriale il più possibilmente terminale e impressionistico; per essere come Dolan, per­ ché Dolan è anni e anni di assorbimento e venerazione di altro cinema, di idea della fugacità, di peritura caducità, di estremizzazione della vita vera, istintiva, stracciante, lacerante, di cuori, e di ferite di cuori, di fe­ rite edipiche, sopra tutto: il cuore parla, il cuore risponde, l’altro è solo la madre (il cuore), e proiezioni di Lei, segnali ovunque, perché Dolan

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fa film della, sulla, per la sua immagine interiore, per sé stesso, come sé stesso, per ricucire. Impressionismo del mondo sensibile, lasciandosi fagocitare, rispon­ dendo alla richiesta della sensazione, della pulsione, come un puro “guardare” dei fenomeni esistenti in virtù della propria coscienza: Dolan attore (e non) satura l’immagine di sé stesso come un’urgenza, urgenza melodrammatica di essere, esistere. Sfruttare l’esperienza - esperire, em­ piricamente - del mezzo immaginifico come specchio ed estensione del proprio “io corporeo” mediante la rappresentazione raffigurativa, in una viscerale impellenza di riconoscimento estetico, di auto-conferma della propria esistenza tramite la trasposizione (semi) autobiografica, di rifug­ gire nell’arte per curarsi, smembrare ossessioni come catarsi personali, abbaglianti, a filtro minimo, nudo. L’età anagrafica di Dolan, regista imperfetto, trasbordante, è rintrac­ ciabile soprattutto nel piacere autoscopico dell’adolescente di essere guardato e ammirato, legittimamente e unitamente a quella sindrome che Sartre esplicava descrivendo un sé stesso bambino recatosi al parco, ove non veniva degnato di uno sguardo dai suoi pari, solo e umiliato: i per­ sonaggi, le sue ego-proiezioni, sono esseri sempre ostracizzati, passivi, che guardano all’alto dei loro idoli, che siano le madri o le loro protesi, pure maschili: la madre Chantale, su tutti; Francois - che non a caso lo accudisce, lo riporta all’antico nido materno, nella sequenza in macchina che replica quella iniziale insieme alla dispotica/amorevole madre, in J’ai tué ma mère - Nicolas, angelo efebico, marmoreo, divinità distante e androgina da ammirare, da detestare, a cui aspirare, da cui essere respin­ to, in Les Amours Imaginaires; Fred, che non può rimanere con Lauren­ ce, perché desidera un uomo, ma quando ne trova uno, non può erigere alcun stabile nucleo familiare, perché più di tutto si è in-comunicanti e incomunicabili, perché uomo e donna è il conflitto inconciliabile di un figlio che soffre per una lacerazione edipica che fatica a cicatrizzare. La retorica dell’archetipo materno impregna enfaticamente opere che a essa non possono fuggire, seppur esecrando, seppur amando: Mommy.

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Stupisce l’estetismo stilistico sottotitolato (a)criticamente da un’addebitata stilizzazione narcisista che non vede altro fine se non sé stessa: il mezzo - per estensione, il bello - in Dolan deve veicolare l’attrazio­ ne emozionale attraverso i propri strumenti, facendone uso volutamente smodato, esacerbato, talvolta stonato, ma nella indiscutibile propensione all’auto-saturazione emotiva come filosofia post-romantica di aggrava­ mento delle pulsazioni, di accelerazione di battiti, patologia anti-natura­ lista dell’iper-sensazione; il senso della seduzione visiva è il significare uno sguardo, amplificandone il sentore, poiché il tutto dev’essere vissuto doppiamente, nell’iperbole straziante dello strapiombo affettivo, nel vi­ talismo del non possedere, perché non si può, cause we were born this way, baby. Impotenza e umiliazione dell’essere, incarcerazione esisten­ ziale, emarginazione interiore, mai sociale, allunaggi strabici, spleen. Da lì, lo slow-motion, linguaggio dell’affezione: il rallentamento corporeo è la pesantezza del percepire il proprio dolore infinitamente millesimale e infinitamente grande, che sia declinato rabbia, che sia declinato amore, è semiotizzato alla stessa maniera, è identica materia, tradizionale melò.

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Dolan è un’anima antica troppo vecchia, che sembra aver già sentito tutto, come la musica si sdoppia tra tendenze wagneriane e new wave, e il suo cinema rimane da limare, compiaciuto delle proprie sbavature, del traboccare dei propri stilemi. Il decalogo degli espedienti dolaniani è en­ ciclopedia di rielaborazione pedante e scrupolosa di artifici cinematogra­ fici sovra-esposti, già ampiamente esauriti(si) dalla storia del cinema, ma pare anacronistico e scorretto riesumare, ché l’impasto diegetico, agendo per contrasti e disorientamenti cromatici, inserti semi-pittorici patinati e iconoclasti, formalismi e ambientazioni kitsch, ripetizioni, scritte go-

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dardiane sempre più pop, camere a mano e insistenti primissimi piani, è pertinente, spesso significante, ammiccante, su tutto travolgente.

Dolan sa che sono doverosi gli attori feticcio, Dolan si innamora di tutto ed è imprescindibile essere come lui, devozionale, magniloquen­ te, irrazionale negli intenti, ragionatissimo nella simmetria delle proprie opere. Onnipotente come una camera-stylò, si spende il volontarismo dell’amore, l’intimità assoluta con il film da amare, si difende in nome della politique. E le caricature, l’eccesso, le isterie di Fred, talvolta stuc­ chevoli, denuncianti l’artificio, il meccanico, domandando un medesimo male, parlano a pochi, ai simili, agli elettrocardiogrammi impennati e alle tachicardie viventi, «c’est special», sempre. Gli esseri divisi, l’espressionismo di una visione interiore si traduce nella bocca sporca di Chantale che è disgustosa per Hubert in J’ai tué ma mère, congiuntamente al gusto trash degli interni domestici, traduzione estetica di un disagio e di una diversità ostinata ed esecrata, soggettiva mentale; i piani decentrati riuniscono madre e figlio impegnati nella rela­ zione amorosa ove Hubert non può amare Chantale come una madre, ma l’ama nel candore del conplesso edipico, l’ama, e l’immagine restituisce l’amore non verbalizzato mediante la propria langue. Le nuche di Francis e Marie de Les Amours Imaginaires sono tristi, Nicolas è dio, la ripresa di spalle non lo tange. L’esubero della coscien­ za di entrambi nella competizione dipinge il narciso irraggiungibile in un ballo blu al neon (il ballo, vero tòpos autorale) mediante montaggio intellettuale, divinità greca, similitudine concettuale scolastica, denuncia tutta la sua natura di apprendimento didascalico. E Tom à la ferme, ennesimo spirito sottomesso, masochista, intra­ prende il percorso salvifico (?) verso la brutalità e la bestialità, violentato da Francis tronfio nella bandiera americana, ed è immediato il paralleli­ smo finale di Rufus Wainwright sussurrante «I’m so tired of you, Ame­ rica». L’orrore diventa, si propone di essere pedagogico, ma, nel ritorno all’urbano, la sospensione del pensiero, come sospeso il finale di J’ai tué ma mère, insinua il dubbio del pellegrinaggio a vuoto e dell’insensatezza di ogni che.

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Le chiusure, il cinema classico che Dolan divinizza, il conclusivo atto di Laurence Anyways, dramma di un regista che pensa al cinema come un europeo e alle storie americane dall’universalismo arrogante e ab­ bracciarne l’intero. Dolan, evidentemente, gioca, tra sillogismi, parago­ ni, metafore, estetismi, strutture circolari, vestiti policromi che piovono surreali, primi piani impenitenti guardando a Bergman, aderendo ai vol­ ti e ai personaggi come una maniacale preghiera, inseguendoli sempre, Dolan schizza via. Il processo di riparazione del proprio Io, tuttavia, non si interrompe. Non si riconcilia, l’immagine di sé sullo schermo dev’essere reiterata, fino a Mommy. “Avrei voluto interpretarlo, ma sono troppo vecchio”.

Laura Delle Vedove, PositifCinema.it [Sguardi] 03/12/2014

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Capitolo primo J’ai tué ma mère (2009) CASSIA 3*1

CANNES 2009 - LA RÉVÉLATION Lesfils ne savent pus que leurs nières soni mortelle^

J’AI TUÉ MA MÈRE ANNE DORVAL XAVIER DOLAN FRANCOIS ARNAUD SUZANNE CLÈMENT PATRICIA TULASNE NIELS SCHNEIDER rr MONIQUE SPAZIANI

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Decostruire e destrutturare per rigenerare

Al primo lungometraggio, Xavier Dolan è un diciannovenne cresciuto a ripetute visioni di Titanic, imbevuto del pathos calcato in (magnifico, fiammante) grassetto dell’epica tragica hollywoodiana, del neoromanti­ cismo vitalizzato dai primi piani e dai colori dominati da una saturazione fiammante, della linfa narrativa pienamente sentimentale. Arriva al pri­ mo film con un afflato cassavetesiano, pur non avendo - probabilmente - mai visto Una moglie. Con uno slancio che rinverdisce il melò trapian­ tandolo in un quotidiano che attinge tanto dall’immaginario pop (James Cameron, appunto) quanto, addirittura, videoclipparo - la sequenza del rapporto sessuale Un cinema nuovo, il suo, già personalissimo e lucidamente, sfaccia­ tamente personale all’esordio. Un esordio che è seduta d’analisi auto­ terapeutica, confessionale psicanalitico sfacciato e diario segreto allo stesso tempo, il “recap” particolareggiato e la diagnosi spietata di un rapporto viscerale e contrastato, contraddittorio e feroce, primigenio e respingente. Fin dalla prima inquadratura: la Madre, da sempre fulcro e oggetto primario pregnante nel cinema di Dolan, entra in scena in maniera par­ ziale. Ne vediamo soltanto la bocca, mentre mastica fastidiosamente la cena. Una visione filtrata dall’idiosincrasia di lui, del regi sta-figlio, che immediatamente trasmette a livello epidermico e percettivo anche agli spettatori il fastidio, la repulsione a livello carnale che è, prima di tutto, emblematica di un’insofferenza contenuta ontologicamente nel rapporto.

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Lo sguardo sulla Madre, la bocca della Madre

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È uno scontro alla pari, quello tra Hubert e Chantale, ma è uno scontro frustrante, scomposto, ambivalente e impari quello che Hubert combatte con se stesso, con la propria rabbia riversa nei confronti della madre, spinta e rinfocolata dal proprio impeto ad amarla con odio. Incontro e confronto stimolante, fruttifero, costruttivo è quello invece con l’insegnante Cloutier (Suzanne Clément). Alter ego, rappresentazio­ ne di un equilibrio fra parti, altra madre - stavolta, inconsciamente puta­ tiva - e mentore timida, che lo spinge e conduce verso una costruzione culturale e consapevole di sé, e del mondo, figura femminile verso cui provare un senso di rispetto, se non di autorità.

Nuovamente, amore quasi maniacale per la composizione, un perfezionismo nervoso e millimetrico, meticolosamente attaccato alla percezione degli esseri umani in campo.

Infine, l’oggetto d’amore, Antonin (Francois Amaud); che però, pro­ prio come lo scorrere volubile e incostante, febbrile e sfuggente, degli uomori/amori dell’età, è decentrato dall’attenzione, per l’appunto pura e puberale, di Hubert. Il ragazzo, giunto nel collegio, incrocia un angelo biondo seducente ed efebico (Niels Schneider) di cui s’infatua. Liquido,

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umbratile, è il sentimento giovanile nel film di Dolan, che non giudica né adduce spiegazioni, limitandosi a un’indagine del sentimento allo stato puro e di grazia, senza le infiltrazioni della morale. Impulsivo, istintuale.

I due amori di Hubert

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Il medesimo approccio ritorna nell’immaginifico onirico, che trasuda iconografia religiosa imbrattata di postmoderno, di plastica pittoricità: Chantale versione Maria Addolorata, Chantale sposa/principessa fuggi­ tiva rincorsa in un bosco e mai raggiunta, Chantale figlia dei fiori alle Hawaii. La figura della madre diventa simbolo polimorfo e polifonico, investita di importanza linguistica e visiva che regge su di sé l’impalca­ tura di un intero universo interiore, membrana duttile che legge su di sé le inquietudini, i sogni, le illusioni e le frustrazioni del figlio. Incarnazio­ ne dell’attività in continuo mutamento dell’immaginario privato, riflessa tramite un immaginario culturale collettivo.

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Manifestazione ontologica della rabbia giovane

In ogni film di Xavier Dolan, il personaggio, in un certo, preciso mo­ mento della narrazione viene posto spalle al muro (alla camera), nuca al centro, a camminare in avanti al ralenti, esattamente come se stesse andando alla forca. È un sentimento di pressione e inesorabilità perenne, quello che incombe grave e pesante sulle spalle del giovane Hubert. Quello che il personaggio, in verità, sente calare perenne su di sé come l’ascia di un boia, come la spada di Damocle, qualcosa di insfuggibile e difficilmente accettabile. L’inaccessibilità di un libero respiro, di un li­ bero movimento, quando poco dopo Hubert viene picchiato, altra azione non presentata in precedenza da allusioni o avvertimenti, ma che è apice stavolta concreto di un malessere e di un’inadeguatezza al mondo reale che è la spinta sovvertitrice che causa l’ennesima, definitiva insurrezione dell’adolescente. Che in verità, contrariamente alle convenzioni dei teen movie e dei dramma tragici, ha una causa che rimane fuori campo, e una conseguenza che comporta e significa un ritorno a uno stato rassicurante, a un rifugio infantile. Un risvolto che evita come la peste pistolotti mora­ li retorici e lascia il personaggio al sicuro, fuori dal nostro campo visivo,

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che ci ritroviamo ad empatizzare con la Madre, con l’immedesimazione che, al suo apice drammatico in Hubert, slitta invece in Chantale.

La camminata della penitenza

Dopo una sfuriata al telefono con il presidente del collegio - un pezzo di recitazione e scrittura davvero encomiabile - ecco che Chantale accor­ re nell’unico luogo in cui sente di ritrovare - letteralmente! - suo figlio. Una zona vitale, di conforto primigenio, che accoglie i due in un momento di pace inaspettato, insperato e imprevisto, l’idillio del locus amoenus fatto di ricordi e di silenzio. E poi via, con immagini (finzionali) di repertorio, home movie commovente e fuggevole, immagini che entrano sottopelle in un sentimento del visibile quasi fisico, sicuramente empirico, che punta lì alla memoria sensoriale di chi guarda e si stacca dal rischio del commemorativo espediente simpatetico per farsi vita.

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Ancora una volta, cinema di incombente assolutismo.

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Input Montréal. I due amici Francis e Marie incontrano Nicolas a una fe­ sta. Bello, colto, seducente: se ne innamorano all’istante entrambi nel momento in cui intercettano la sua figura, una scelta irrevocabile e qua­ si programmatica. Iniziano a frequentarsi, tutti e tre, e la concorrenza tra Francis e Marie per il cuore di Nico, da silenziosa e sopportabile si fa sempre più pericolosa e sottile, mentre il loro androgino, voluttuoso, sfuggente trofeo li scruta imparziale e super partes. A corollario, come un coro greco che annuncia l’inevitabile ed esprime il conflitto fatale, uomini e donne parlano in camera delle loro delusioni d’amore.

U emersione del sentimento nel visivo Les Amours Immaginaires tratta, per dirla in una frase, dell’innamo­ ramento a due per un terzo elemento, che più che una persona è un con­ cetto. Così come l’opera seconda di Xavier Dolan è la parafrasi visiva delle emozioni contrastanti e immersive che i due protagonisti, Francis e Marie vivono verso un’idealizzazione incarnata. Un linguaggio, quello di Dolan, che, prima di essere stile inconfondibile e già fortemente iconi­ co, è manifesto trapianto del sentimento nel/come/in forma d’immagine.

Francis e Marie rimangono infatuati, folgorati, marchiati da (l’imma­ gine di) Nicolas ancora prima che la storia cominci: ancor prima che il titolo certifichi l’inizio del flusso narrativo. Nicolas è un pre-concetto, inscindibile dal miraggio patologico che i due, concatenati e coincidenti, condividono. Questo, Dolan ce lo fa percepire fin dai primi secondi di una pellicola che, a un occhio superficiale, impatta unicamente come esercitazione modaiola del proprio talento filmico. Ma la radice di un’in­ quietudine che a poco a poco, dopo averla permeata, prenderà possesso (anzi: possessione, invasamento) della narrazione, sta qui: nell’occhiata silente, emblematica, che Francis e Marie, interscambiabilmente impri­ gionati, rivolgono all’eletto delle loro iridi giovani.

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Il rapporto, tra i tre, è già tutto qui: Nico è consapevolmente in sé, ma­ gnetico e inafferrabile, mentre Francis e Marie sono persi in lui, estranei a se stessi, in un collaborazionismo inconscio che li attira ostinatamente verso una corrente senza supporto di salvataggio. La perdizione estatica, l’estasi dell’innamoramento fine a se stesso e che gode della sua malinconia, Dolan lo cuce addosso ai suoi personaggi e in direzione dello sguardo esterno spettatoriale attraverso espedienti cine­ matografici estremi e dichiarativi: il ralenti, la soundtrack pop, la coloritu­ ra accesa e i languidi movimenti di macchina. Il videoclip, s’è detto, come segno immeritatamente dispregiativo. Ma in Les Amours Imaginaires l’e­ levazione di qualsiasi strumento, di qualsiasi strada possa intraprendere il medium-cinema, è sfruttata nella sua più piena e densa costituzione. La forma-videoclip, qui, assurge infatti ad espressione definitiva ed estrem(izzat)a del sentimento e delle sue diramazioni, vibrazioni, pulsa­ zioni. L’epitome del visivo che incarna ed estroflette il subbuglio emo­ zionale dei due protagonisti. La sublimazione del ralenti, sempre epider­ micamente astrazione dell’inconscio, sua messa in scena, in abisso, in carne e in cromatismi. Al minuto 35:27 (che replica quello al 9:35, ma addensandone l’acce-

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zione), Francis e Marie si avviano all’incontro con il loro biondo oggetto del desiderio: ognuno ha accuratamente e accoratamente preparato un dono da consegnargli, una prova d’amore, pensata, ragionata, imprezio­ sita dal valore che essi vi proiettano: un pegno, una promessa, una (auto) certificazione. Entrambi, sulle note di Bang Bang di Dalida (che nel film fa da corollario fantasmatico, profetico, dolente: vedi sotto), si dirigono verso la loro meta/metà, al rallentatore. Una sequenza che è pura ma­ sturbazione visiva, gratuito esercizio stilistico fine a se stesso, si è detto. Tutt’altro. Semmai, essa è incremento di senso alla propria poetica: l’emozione, nei lenti, ipnotizzati passi color pastello di Francis e Marie, sta proprio in quel respiro trattenuto, in quell’eccitazione senza voce, in quel battito accelerato che appanna il realismo e il naturale fluire del corso tempora­ le. L’entusiasmo della febbricitazione, lo stato d’estasi di un sogno di lì a venire, dell’euforia che trema e ansima nelle inquadrature, nell’incan­ tamento che null’altro tocca, nel gioioso e affannoso sfilare verso una speranza da concretizzarsi. Altrettanto emblematici e analoghi sono i brandelli scarnificati dell’amplesso sessuale che all’interno della pellicola Dolan disperde come coriandoli a intermittenza, flash al neon che inquadrano l’intimità dandole al tempo stesso uno spessore pittorico (il filtro di colore unifor­ me, la plasticità di danza coreografata che assumono i corpi marmorei) e una pudicizia raffinata e volutamente straniante. Donando, in sintesi, a un momento estremamente privato un’aura di musicale scardinamento dalla realtà, una sublimazione onirica ed ectoplasmic.

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Alcuni frame dalle scene d’amore di Les Amours Imaginaires

Di nuovo, si tratta dell’apparizione di uno stato d’animo che prende possesso totalizzante della visione: ebbro, esplosivo, gonfio di palpito e maree emozionali, Les Amours Imaginaires ancor più di J’ai tué ma mère consolida ed afferma coscienziosamente uno stile artistico e una maturità tematica e di metodo nel cinema di Xavier Dolan, appena ventunenne. Lo strabordìo dell’entusiasmo, l’esagerazione pretenziosa, la megalo­ mania superomistica non abitano qui: semmai, la quest è riferita a un’a­ spirazione prometeica verso una forma universale del sentire: il gesto, scopeico, di restituirlo e trasmetterlo su celluloide. Vedere per sentire

Il cinema di Xavier Dolan è incarnazione pura dell’incombere dello spirito sentimentale in toto, l’irruenza dell’onestà spasmodica e lirica che si libra nella sovraesposizione appariscente sfolgorante, nell’eccessivazione ed estremizzazione dei colori, nell’oggettivazione degli umori, dei moti, nell’imperversare delle musiche, della regia che avvolge e trascina con sé qualsiasi livello del medium cinematografico possa, alla sua en­ nesima (onni)potenza, farsi sensazione sottocutanea.

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Questa è la straordinarietà, sfacciata, se vogliamo, di un enfant prodi­ go che non ha paura di essere/mostrare/trasmutare se stesso in un’effige cinematografica che è atto di indipendenza dall’immagine totalizzante, presa di posizione identitaria di una poetica onnicomprensivamente pie­ na, insaziabile, caricatissima, (s)travolgente. I suoi personaggi, come detto, volano su una passerella di aspettative in sospensione, sfolgorano a rotta di collo come stelle comete verso lo striscione d’arrivo, camminano sulle nuvole, si preparano per andare in una battaglia eterea, corroborati dal senso immenso di potenza e terrore che invade corpo e occhi e, dunque, schermo, tracimando in un palpito di cui veniamo resi partecipi tramite gli strumenti del mezzo cinema. Impre­ gnati di paura celestiale, di squarci che tutti conosciamo, sentendoci star del cinema in un videoclip tutto mentale (ma tutto meno che cerebrale) che precede l’affondamento nel rischio, il lancio del cuore oltre l’ostaco­ lo. Siamo, in un attimo, Francis e Marie. Francis e Marie sono tutti noi. Come osservato infatti da Ollivier Pourriol in Cinefilo sofia. «Si parla delle deformazioni possibili grazie al cinema. Ma, e questo è fondamen­ tale, ciò che consente al cinema di fungere da simulatore è il fenomeno di identificazione, che permette allo spettatore di mettersi al posto dell’at­ tore, senza prendere il suo posto. In altre parole, il cinema si basa sul principio dell’equazione». 2 Eppure. Eppure, l’accompagnamento musicale, nel suo amalgamarsi con grazia alle immagini, risuona straniante. “Hai vinto tu, bang bang, il cuore non l’ho più”: canta Dalida, e ci avverte Dolan, tramite lei, trasfor­ mando in uno specchio a doppio strato la frazione leggiadra messa in scena. Attenzione, ci sussurra suadente. Non finirà bene. Ma noi, proprio come Francis e Marie, non prestiamo ascolto, catturati dall’incantamento dei colori, dall’eleganza del rallentatore, dallo stordimento del glamour avvolgente, dalla perfezione dei due simulacri in amore - perfetti, perché perfetti essi si sentono.

“La bellezza del gesto”, per usare una paradigmatica citazione cara2 Ollivier Pourriol, “Cartesio, Veroe della filosofia - Le Xdel cinema, oscuro oggetto del desiderio”, in Cinefilosofia, 134.

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xiana, sta tutta qui. Nel continuo slancio apoteotico del cuore, nel ritor­ nare visceralmente a un cinema che è puro sentimento d’infinito impeto.

Marie (Monta Chokri) e Francis (XavierDolan) si recano all’incontro conNico.

Questo è evidente nel corso dell’intera pellicola: il crepitio emotivo, la vita che irrompe aggressiva e suadente nel movimento delle immagini.

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È una narrazione viscerale, rivolta all’interiorità e diretta allo spettatore percepito come corpo e non come astante, come involucro di sensazioni di frastagliata sovreccitazione, a cui Dolan prende la mira, scoccando colpi che agganciano nello stesso momento testa, pancia, organi vitali, punti di pressione cinefila. Una guerra, anche, combattuta con armi impari e persa in partenza: nei nostri occhi, non nell’ipnosi di trance vissuta da quelli dei personag­ gi (non a caso, nella sfilata sopraccitata, Francis e Marie paiono, anche, sagome semoventi, marionette manovrate dal proprio istinto autodistrut­ tivo d’amour fou). In questo senso è particolarmente interessante il momento della ‘fuga’ di Marie dalla loro gita al mare: sentendosi terza incomoda (un ruolo, questo, che Nico fa slittare impersonalmente dall’uno all’altra), decide di andarsene. Si trascina dietro la valigia e i tacchi, ingombri pesi che la trattengono, insieme alla voce rabbiosa di Francis, il quale alla compa­ gna di giochi proprio non riesce a rinunciare. I due lottano tra le foglie, in una rievocazione del nascondino che aveva colorato d’ambiguità la prima uscita a tre. Qui, a disossare l’ango­ scia è una membrana di tensione che si raggruma sui loro corpi esaspe­ rati, sulle note d’inquietudine metallica dei Fever Ray (Keep the streets empty for me) mentre Nico (non a caso, di nuovo Schneider) osserva i due contendenti dall’alto in basso, come una divinità annoiata che infi­ ne, stanca del battibecco, unicamente interessata a un’adorazione senza luoghi d’ombra, esclama: “Mi sono stufato. Torno indietro. Chi mi ama mi segua”.

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Come un pifferaio magico, una stella cometa che guida i suoi fedeli seguaci verso il tracollo, come l’anelito alla perfezione consacrato du­ rante il ballo in discoteca - dove, a intermittenza, in uno splendido mo­ mento di cinema, vedevamo la sua immagine inframmezzata da squarci di bronzi scultorei e tratteggi grafici omosessuali. Nico è una calamita, un biondo oggetto del desiderio a cui è impossibile resistere, da cui è impossibile salvarsi. Ed è chiaro dai primi minuti del film, questo, cen­ tellinato, fin dall’apparizione del titolo, che cala per l’appunto imponente e serrato come una falce sui due protagonisti, voltati di schiena, accecati.

Un continuo martellamento visivo-sonoro centripeto quello di Les Amours Imaginaires (poi livellato e perfezionato in Laurence Anyways), che molti hanno preso per modaiola esposizione scevra di significanza, ma che è film insopprimibilmente sintonizzato con i personaggi che rac­ conta, disseminato di ammonimenti e di confessioni profetiche in camera - il coro greco di (false) interviste a cuori infranti, che fanno da corolla­ rio premonitore del fato dei due protagonisti (da “Quando metti qualcuno su un piedistallo, tutto quello che fa è giusto” a “Non voglio passare la mia vita ad amarti male” fino a “Ami il concetto più di lui”). Un richiamo continuo alla tragedia, un respiro frazionato dagli eventi che preannuncia il disastro.

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Rappresentato, ancora una volta, a livello di cardiaca visibilità dal giovanissimo regista. Il momento della frattura coincide per entrambi col momento dello smascheramento di sé, la messa in campo della verità emozionale, la dichiarazione d’amore che rompe l’equilibrio mai idillia­ co creatosi nel ménage a trois. Francis mormora un “Je t’aime” terroriz­ zato e impetuoso, salvo poi accatastare nervosamente autorassicurazioni anticipate prima del secco e feroce rifiuto dell’altro, mai diretto esplici­ tamente, bensì generalizzante nella sua denigrazione. Scagliato via dalla possibilità di esser ricambiato, ancora una volta (giacché segna sul muro come un carcerato i fallimenti sentimentali), Francis si allontana lenta­ mente nel buio, in un ralenti che stavolta è scopertamente espressivo, una discesa buia nella disperazione, le tenebre di scale che si stringono su di lui come tenaglie. Ancora una volta, il cinema come espressione su plurimi livelli dell’elettrocardiogramma. Se per Francis la sconfitta è l’ennesima calata in un nero pozzo senza fondo né speranza, per Marie è uno scossone vertiginoso che segue un tentativo meno diretto di giocare a carte scoperte: ancora una volta Nico dissimula, con altrettanta crudeltà (il gioco sadico dell’abuso di potere: è forse il personaggio più spietato, nella sua idealizzata bidimensionalità, della filmografia di Dolan), con totale noncuranza, con indifferenza nel momento in cui il gioco finisce, arriva la realtà, egli non è più il dio gre­ co, ma una scelta umana. Lo sguardo registico è nitido, netto lo spaesamento distrutto di Marie, che tenta di proteggersi con la sigaretta (d’altra parte lo aveva detto: “La smoke cache la merde”, “Il fumo nasconde la merda”), e caracolla via in un ansimo che sale e invade la sfera del sonoro, mentre la camera, sempre più nervosa e sferzante, nel momento in cui Marie inciampa ta­ glia secca e improvvisa sulla scena, come un singulto improvviso, come si chiudono gli occhi di scatto, come qualcosa che precipita di colpo in un baratro.

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Francis e Marie: la discesa negli inferi dopo la sconfìtta dell’amore, l’istante prima dello stacco sul nero.

Ultimi minuti del film, un anno dopo: immaginiamo che il baricen­ tro sentimentale di Francis e Marie si sia ristabilito. Dopotutto, entram­ bi, alla festa che conclude il film, incontrando nuovamente colui che un tempo era il centro di pulsione nevralgica delle loro brame (non a caso

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più sciatto, più spettinato, più normale di come l’avessimo/avessero mai visto prima), reagiscono con rifiuto. Sono loro, stavolta, feriti ma super­ stiti, a sottrarsi al saluto, a non porgergli una mano. Un arco di trasformazione è dunque avvenuto, uno smarcamento dalla fustigazione amorosa si è compiuto? Parrebbe di sì. Ma gli indizi puntualmente, millimetricamente seminati da Dolan negli ultimi minuti (come le parole rivolte da Marie alla parrucchiera), hanno mantenuto uno spiraglio di incertezza sulla sorte finale dei nostri beniamini. E, al­ trettanto inesorabilmente, conflagrano nella scena ultima. Di nuovo un party, di nuovo insieme, di nuovo gli sguardi che inter­ cettano contemporaneamente una figura di bellezza fascinosa e irrag­ giungibile (Louis Garrel in un carneo impagabile e precipuo). Di nuovo, Bang Bang di Dalida che riparte, come un disco rotto, come un canto di sirena, come vano grido d’aiuto. E di nuovo il ralenti, stavolta dichia­ ratamente eterno ritorno ipnoidale e inesorabile, a trascinare Francis e Marie avanti, in contemporanea, ineluttabilmente attratti dalla fatalità del desiderio, dall’ossessione autolesionista, verso il prossimo fallimento annunciato, verso la prossima ennesima ferita al cuore. Come detto, Les Amours Imaginaires è una tragedia, quasi classica, circolare, una struggente ode al fallimento ma anche una cupa e pessimi­ stica riflessione anti-catartica sull’impossibilità di liberarsi delle proprie ossessioni e, anzi, sull’inerzia masochistica del reiterarle, del rinnovarle sempre uguali e dolorose, senza pacificazione salvifica né scissione rige­ neratrice dall’osmosi competitiva. Les Amours Imaginaires è un’araba fenice che rinuncia a risorgere, soffocando nelle sue ceneri, tornando a cercarle, riseppellendovi il suo cuore.

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Capitolo terzo Laurence anyways (2011)

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Input Laurence è un insegnante giovane e innamorato, che all’alba dei suoi trent’anni si rende conto di non sentirsi completo: la verità che ha in fondo sempre saputo emerge senza alcuna possibilità di negazione. Lau­ rence si sente una donna, e vuole poter vivere di conseguenza. Dovrà affrontare le inevitabili conseguenze: i pregiudizi lavorativi, i problemi familiari e la frattura sentimentale con Fred.

La partitura dell ’amore in implodere

L’entrata in scena, di spalle, del protagonista Laurence

L’ambiguità nella messinscena iniziale, nel fischio ammaliante d’i­ nizio, in Laurence Anyways, è ancora una volta e ancora più vigorosa­ mente espressione di uno stato interiore. In esso, noi come esseri umani prima ancora che come spettatori e critici, veniamo con forza ribaltati e

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catapultati; siamo dentro il punto di vista di Laurence, ancor prima che egli faccia il suo ingresso nel nostro campo visivo. È un doppio trabocchetto strumentale quello che Dolan attua in questa partenza inedita del film: inietta lo sguardo dell’Altro nella nostra visio­ ne, cosicché, mentre di fronte a ogni altra pellicola, siamo noi l’Altro guardante, in questo caso siamo noi a venire guardati, spiati, scovati, rivelati. Smascherati. Noi che, però, coincidiamo allo stesso modo con l’io del film, con Laurence, lui sottoposto a tale vaglio giudicante. Lui/ lei, il quale è l’unico che non vediamo in volto. L’unico a darci le spalle e ad accendere l’incertezza in ciò che stiamo osservando, in colui nel quale siamo stati portati immediatamente, istintivamente, a immedesimarci. L’ambiguità è parte di lui, è parte di noi. L’ambiguità siamo, prima di tutto e prima di Laurence, noi.

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Lo stacco, quasi repentino e straniarne, ci porta all’improvviso in una situazione di normalità - rassicurante. Laurence e Fred si amano, scherzano sul letto lanciandosi vestiti addosso: dal freddo del mondo e dell’occhio esterno, eccoci proiettati in un giaciglio d’intimità, all’in­ terno delle dinamiche quotidiane e affettuose di una relazione. Prima di tutto, passionale. Carnale. Questo, Dolan lo trasmette affidandosi allo slancio stretto ed esclusi­ vo dei primi piani ravvicinati, ripresi da una mano perennemente nervosa e fremente, in movimento sussultante, come a registrare le vibrazioni del cuore, quei battiti che ancora si sorprendono della bellezza e dell’esisten­ za dell’altro, euforici e vitali, ubriachi e infantili, da un sentimento sal­ dissimo eppure perennemente su un filo di rasoio eccitato, grondante di desiderio palpitante. In pochi tocchi, la profondità stordente di un amore che tutto assorbe e tutto completa.

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Una passione che però viene messa alla prova, nel rischio di sgreto­ larsi, da una prova di identità. Quella che Laurence sente non tanto più labile, bensì sempre più salda, inevitabilmente più vera, sempre più in­ combente. E a cui si avvicina tramite piccoli cenni, minuscoli mutamenti nella faglia dell’istinto quotidiano - quei fermagli sulle unghie, il sentire interiore che irrompe nel visibile, nel tangibile, nel reale. Qualcosa che non può più rifuggire, qualcosa che deve - e vuole - ac­ cogliere su di sé, una fusione e un amalgama che lo assolva dall’omicidio che sa di stare compiendo ogni giorno. “Vivendo così, sento di uccidere la donna che sono davvero”. Un’opera transgender che mette in bocca ai suoi personaggi una sen­ tenza, una declamazione così potente, è già di diritto clamorosamente epocale. L’atto del cambiare sesso come atto di sopravvivenza ma so­ prattutto di giustizia, personale, civile, etica. Morale, anche.

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Inedita, ma estremamente moderna e verosimile, è pure la reazione degli studenti, di cui Laurence è insegnante, alla vista della sua presa di posizione esistenziale. Nessuno sbeffeggio, nessun insulto: Dolan, sag­ giamente, sa che i giovani sono e soprattutto possono essere più avanti nell’apertura e nel respiro mentale, storico, sociale. Sa che il mondo sta cambiando più rapidamente di quanto immaginiamo. Al contrario dei colleghi, rigidamente imbrigliati dal pensiero regres­ sivo e conservatore, all’ostracismo dei quali Laurence (meglio: Dolan) risponderà con il silenzio e con una raffigurazione visiva, quella scritta così definitiva e tranciante.

Il conflitto vero e proprio, perché attingente alla realtà immersiva del sentimento di tutti i giorni, si detona tra Laurence e Fred. Quest’ultima accoglie dapprima sconcertata, poi reticente, infine con ostinata volontà propositiva, il processo e progresso del compagno. Ma la sua accettazio­ ne - di più, la sua compartecipazione - si scontra con la propria identità.

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Fred è innamorata di Laurence, ma è anche innamorata, visceralmen­ te, del suo essere uomo: l’impeto sessuale non va di pari passo con la razionalità della comprensione, e non si adatta così facilmente al cam­ biamento estetico, tattile e sensoriale dell’oggetto d’amore e passione. Così, la rottura per consunzione del rapporto tra Laurence e Fred assume caratteri da melodramma lirico, da amor fou reso impossibile dall’emergere della verità deH’anima. Svestendosi delle bugie, diven­ tando altro dal sé che era sempre stato, risorgendo come farfalla da un bozzolo impacciato, Laurence acquisisce il proprio soggetto imprescin­ dibile ma perde l’oggetto più importante per le proprie certezze emotive. Il sacrificio più grande, e più inaspettato e non voluto, che deve compiere Laurence, è proprio la perdita di Fred.

Laurence viene allontanato dai docenti suoi colleghi

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L’allontanamento dolorosissimo avviene per fasi, e senza mai che Fred smetta davvero di appoggiare la scelta, di diritto, compiuta da Lau­ rence. Non sono le voci d’ombra e di sciagura che le sibilano addosso, a far crollare Fred, a farle mollare la presa. È qualcosa che scatta dentro di sé, qualcosa di cui lei scopre di avere bisogno, compiendo anch’essa un percorso di mutamento e scoperta interiore, parallelamente agli accadi­ menti che attraversano Laurence.

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Fred si rende conto - siamo sempre a livello di percezioni, di fiamma­ te visive, mai spettacolarizzazioni retoriche - che ha un diverso bisogno. Ha bisogno di sentirsi nuovamente sotto gli occhi di un uomo che il suo sguardo e i suoi sensi possano definire, biologicamente, tale. Sentire l’odore della fame, la brillantezza della levità, la leggerezza delle luci e della danza, i pensieri che si placano nei movimenti colorati e nella musica avvolgente. Splendida in tal senso è la sequenza che vede Fred recarsi a un rice­ vimento, una serata discotecara di gran lusso: il suo arrivo è costruito come un happening epocale, gli sguardi sono tutti su di lei, analogamente alla sequenza d’inizio film, ma stavolta le occhiate sono innegabilmente positive.

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Calamita di fascino, star, regina, dea, così Fred irrompe nella sala, volando come su una passerella mobile, come un simulacro da venerare, come un totem di seduzione femminile. Momento, questo, tra l’onirico e il filtro della soggettività, vero e proprio exploit di potenza espressiva, padronanza stilistica e densità emotiva. Il punto di non ritorno Paragonabile a questo momento è soltanto quello in cui, svariati anni dopo la loro separazione, Fred, intenta a leggere un libro di poesie da Laurence scritto e dedicato (sangue e lacrime) a lei, ha un’improvvisa epifania. Uno shock felice, un’esplosione deflagrante, la manifestazione deci­ siva dell’attitudine del suo cuore, di un legame radicale, di un cordone ombelicale modellato dal destino. Un laccio che li unisce, al di là e con­ tro qualsiasi logica.

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Una pioggia scrosciante di coscienza, che la purifica, la deterge, la fa rinascere. E così Fred gli ‘risponde’ con una lettera, folgorante, che Dolan in­ nesta nella rappresentazione con una consapevolezza filmica mirabile. Più volte vediamo quella lettera nelle mani della nuova compagna di Laurence, e tremiamo per la sua sorte. Infine, quasi per caso, Laurence la vede, la legge, e le parole si stampano addosso alla sua pelle così come vengono incise, con un boato, sullo schermo, letteralmente bombardan­ do il nostro campo visivo. A quel punto, ecco la corsa, la musica che esplode, un climax di ec­ citazione travolgente che Dolan architetta come un momento clou fuori fuoco: da lì in poi, la reunion degli amanti si svolge con una gioia quasi feroce.

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Il ricordo appannato funge da espediente per l’azione definitiva, e quando finalmente Laurence e Fred sono riuniti, in barba alle convenzio­ ni sociali, alle istituzioni, al dovere, ai partner, ai figli, ecco impazzare finalmente la gioia. Il sentimento del visibile, ancora una volta, la pioggia dell’amore e della gioia: in Les Amours Imaginaires simboleggiava un’illusione idea­ lizzata, e anche in Laurence Anyways è un momento che pare eterno ma che dovrà piegarsi al reale; eppure, ha tutt’altra sostanza e impatto. Quella danza di vestiti dal cielo è una festa, una celebrazione, un in­ trodursi del sentimento nel visibile, come anche un accendersi del visi­ bile all’interno del sentimento, per renderlo materico. Quei vestiti che ci hanno introdotto alla loro storia d’amore, alla verità concreta del loro affetto, festeggiano il rinnovarsi di quell’amore, fiero, orgoglioso quanto Laurence e Fred che sfilano sfoggiando la loro bellezza e la loro gran­ dezza, e sono davvero, in quella camminata nobile e superiore, degli dei, delle figure eroiche e complete che tutto possono. L’onnipotenza del sentimento, data dal sentimento, generata dalla sua coscienza e dalla sua riappropriazione, è esaltata e inquadrata da questa sequenza in una maniera che ha del miracoloso.

Purtroppo, come tutti gli attimi infiniti e magici che cancellano per un attimo libero e felice i problemi, anche questo gaudio deve ripiegarsi, ferirsi, ammaccarsi. Dolan concede ai suoi personaggi la luce, ma li mette anche faccia a faccia con le ombre, senza tirarsi indietro di fronte a un esito degli eventi che, trattandosi di quei due personaggi precisi, non può che portare a una conclusione. Un addio, difficilissimo, più di prima, un addio messo in atto nel momento in cui entrambi vedono chiaramente la persistenza stagnante del sentimento. Ma un addio dovuto, perché nessuno di loro è cambiato per l’altro: ed è proprio questo che mantiene vivo l’amore. Il rispetto di Laurence

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e Fred per sé stessi, prima ancora che per l’altra persona, la volontà di mantenersi veri e sinceri. E proprio perché sono i personaggi che abbia­ mo conosciuto all’inizio della storia, non potranno mai davvero inca­ strarsi e funzionare nella vita l’uno dell’altra. Pur di fronte all’inevitabile, lo sconvolgimento torna a dilaniare: “Ti amo più dei miei figli” urla Fred, mentre il sentimento stesso è amplifi­ cato dalla sua atroce impossibilità.

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Proprio per questo, una riconciliazione educata, un contatto formale e cortesemente distaccato, fra i due non è e non può essere fattuale. Quando si ritrovano, a distanza di anni, alla fine del film e dell’inter­ vista che Laurence rilascia e che funge da intermezzo dalla seconda parte della pellicola, la crepa si fonde definitivamente. Entrambi sulla stessa linea d’onda - hanno l’idea di fuggire e fuggono nel medesimo istante -, entrambi ormai troppo inconciliabili, Laurence e Fred tagliano una volta per tutte il filo rosso che li lega, nessuno di loro disposto a mantenere una conoscenza soltanto di buon vicinato. L’asso­ lutismo, di nuovo, nel cinema di Xavier Dolan. È finita davvero, proprio perché non finirà mai: per non intaccare la memoria, per non far impol­ verare la perfezione perenne di quell’incontro.

Ed ecco che però, con un colpo di coda meraviglioso e straziante, in uno moto di passione, Dolan entra in quell’incontro e ci mostra la sua

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primaria accensione. I primi sguardi, l’origine del loro comunicare, l’a­ more che nasce. Alla fine del film, l’inizio conpare: a testimoniare che prima di tutto, prima delle tematiche sociopolitiche, prima di qualsiasi attestazione di cinema necessario, Laurence Anyways è una pura e sem­ plice storia d’amore.

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Capitolo quarto Tom à la ferme

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Input Tom è un giovane pubblicitario che perde tragicamente Guillaume, il suo compagno venticinquenne, a causa di un incidente. Schiacciato dal dolore, si reca al suo funerale, che si svolge nella cittadina natale del ragazzo. Lì, Tom conosce la famiglia di Guillaume - l’anziana, fragile madre Agathe e lo scostante e violento fratello Francis -, ma scopre che la genitrice non era a conoscenza deU’omosessualità del figlio, e che Francis è intenzionato a fare di tutto perché non lo scopra mai. «Today a part of me has died and I cannot cry. For I’ve forgotten all synonyms for “sadness ”. Now all I can do without you is replace you». «Oggi una parte di me è morta, e io non posso piangere. Questo per­ ché ho dimenticato tutti i sinonimi di “sofferenza”. Ora tutto ciò che posso fare senza di te è rimpiazzarti».

Una mano traballa su ima superficie assorbente, che dilapida il sen­ tire di un’atarassia della morte, quella di una carta permeabile che ri­ succhia un inchiostro blu (simbolicamente, quella tristesse che non ci si permette di sentire) votato fin dal principio all’assorbimento nel bianco

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della vacuità del sentimento non provato, impossibile da provare. «Ho dimenticato come piangere». Tom scrive, scrive di una quiete malcelata e dello sprofondamento del dolore nel risucchio dell’inconscio, che cancella e priva di futuri analitici risvegli. Tom ha bisogno di soffrire, di tornare su una sofferenza che fati­ ca ad esprimersi e che, dunque, cerca già, nel rifugio che la mente lascia all’inconscio, una via per la rimozione, per la sostituzione di un amante di cui poco ci viene detto, perché pretesto per un sudario d’incubo fatale, inevitabile. La carta assorbe, assorbe tutto ciò che il giovane Tom, protagonista di un (quasi) antitetico romanzo di formazione, necessita di dimenticare. E, in effetti, quello specchio rotto nel centro, quella crepa sull’ego che è Tom in principio affronta un viaggio autarchico e risolutivo verso lo scandagliamento di ogni certezza, verso un tentato percorso di auto-tera­ pia, di distruzione per la risoluzione, di ricercato scontro con l’autorità, con la chiusura, con quell’archetipo paterno che lo ottenebra, indissolu­ bilmente incarnato da chi sarà presto Francis. L’America. La virilità. La potenza. L’ombra.

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Dunque, questo Tom à la ferme, psicologico melodramma da camera (agricola, mai così poco bucolica), sposta il proprio focus (sempre più deep, sempre più morbosamente appiccicato ai corpi, all’eros) in manie­ ra alternata tra i vettori di un’umanità che si contrasta, che sì combatte, che si completa: Tom a incarnare la pulsione, banalmente pulsione di morte e pulsione d’amore, angelicamente conturbante e svezzato nella sua malfatta tinta bionda, nella sua attrattiva che per Francis non è al­ tro che il nome di una rimozione che per anni ha operato su di sé, sul circostanziale teatro rurale di cui si assuefa, sul negazionismo imposto a un’esistenza falsa, incarnita, come il fango a seccarsi su una radice in procinto di divenire amianto, come l’ossatura di una centrale metal meccanica, costruita per farsi inestirpabile nel flusso cieco del procedere di un’autoconvinzione reiterata, tagliando le foglie morte e ignorando l’albero, che sta seccando. E Francis, che per Tom è la lotta, già persa ma obbligatoria, contro l’inconscio di un archetipo paterno (e ci ripetia­ mo, ma è essenziale) degenerato, che si è cancrenato in un simbolo di etica fascista, di predominio, di barbarie, trasversalmente impegnato a proteggere sé e la propria razza (provinciale, autonoma, sussìstente, fatta di squarci di buoi e di ingozzamento nella melma); va da sé che Tom vi debba far ritorno, per tentare la saldatura di una ferita (che non è solo quella d’amore, bensì referente di un disagio più atavico, esistenziale), probabilmente squarciandola, demonizzandola, per guardare in faccia la propria condizione di perdita di un simbolo ormai non saldo, insabbiato, cercando di restaurare una logica interna, ricostruendo un’etica - della civiltà, della percezione dell’io. È una (tentata) cura a doppia corsia, quest’opera, un (letterale) passo a due, una motivatissima azione e contro-azione tra i due polì simboli­ ci, Tom e Francis, l’uno l’ombra dell’altro, in una speculare attrazione/ repulsione che svolta freneticamente le posizioni, ma li rende simili, per­ ché complementari, funzionali l’uno all’altro.

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La camera parla per Tom visionando in macro la porzione di carta dove si affastellano veloci e urgenti le voci blu, asserendo che Tom ha perso qualcosa: di sé, più che l’oggetto di possesso, e in virtù di ciò, deve tornare a visualizzare, deve ripercorrere le tracce passate, genea­ logiche, dell’amante, in modalità del tutto incosciente, ove il pretesto è in sé abbastanza per affrontare un microcosmo avvilente e chiuso, claustrofobico ed opacizzante, quello da cui, immaginiamo, emblema­ ticamente abbia corso, negli infiniti modi in cui le fughe possono sus­ sistere, impercettibili e solo abbozzate, spesso mentali. Il pensiero che possa esservi incappato fatalmente e del tutto incoscientemente si nutre di verità solo in ridottissima parte e, laddove si volesse porre una lettura di appena imbastita psicologia, la casualità di questo futuro scontro tra mondi interni e mentali è logicamente da escludersi: Tom ne sente solo il fioco richiamo, neppure sonoro, forse solo di battiti e micro afflussi di sangue, e lo camuffa da visita alla famiglia dell’amante (ma quale fami­ glia? Disorganica, membrana di un margine sociale possibile solo su una porzione isolata), mettendo piede nel terreno di una imprescindibile lotta

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per l’assoluzione, ma lo fa perché è l’unica vocazione, l’unica via che lo porterà alla liberazione, al risanamento (o meglio, allo spiraglio di esso, considerato il finale liberissimo d’interpretazione, a metà).

L’incomunicabilità connaturata del visibile (Provincia meccanica) Tom arriva in un mesto e cupo giorno alla fattoria dove abita la fami­ glia del defunto partner Guillaume, e sul suo volto smagrito e disorienta­ to leggiamo i segni della perdita, le stimmate di una ferita che Io divora. Il luogo è immediatamente inospitale, il vento sferzante, il gelo di una casa vuota e desolante - sensazioni che Dolan insinua nello spettato­ re caricando l’atmosfera di una tensione inusuale, grazie ai movimenti nervosi della camera a mano che sembra riflettere gli sbalzi emotivi e gli spasmi d’ansiogena incertezza di Tom. Agathe, madre di Guillaume, pur spezzata è bendisposta verso di lui, raccoglie insieme la dignità e i residui della materna dolcezza e lo accoglie in casa, dimostrandosi però inconsapevole della sua reale identità - amante, e non amico, del perdu­ to figlio - e dunque issando un muro invisibile tra lei e il giovane, che a pochi minuti dall’inizio del film, quando ancora anche noi ci stiamo

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orientando nei suoi confronti, indossa una maschera di salvataggio delle apparenze. Che alimenta il dolore per non poter esprimere appieno i suoi sentimenti: la forzata repressione blocca l’espressione del lutto, impri­ giona tra lacci invisibili Tom ancor prima che a metterlo in una gabbia perversa sopraggiunga il già citato Francis, fratello di Guillaume.

La sua figura è forse la più inquietante mai dipinta nell’opera omnia di Dolan (sebbene il suo profilo non sia tutta farina del sacco del regista, essendo Tom à la ferme tratto dalla pièce teatrale del drammaturgo cana­ dese Michel Marc Bouchard). Francis è un’ombra carnivora, uno spettro paranoico e omofobo che tinge lo strato di tragedia che preme intorno a Tom di un alone di terrore. L’ingiunzione a non rivelare la verità ad Agathe passa attraverso un improvviso slancio di violenza: il ragazzo picchia a sangue l’interdetto visitatore sconosciuto e gli intima di stare zitto, di portare avanti la farsa, di fungere da strumento di elaborazione della disgrazia prendendo su di sé un’immagine precostruita, per Agathe, e programmaticamente ‘personalizzata’, per se stesso. Perché Tom, da quella fattoria, non può andarsene. Il ruolo che ha - forzatamente, volontariamente? - assunto diviene gradualmente indi­

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spensabile alla riuscita dello show (che «must go on», per l’appunto), al proseguimento dello spettacolo. La perdita di Guillaume non è più soltanto un peso funebre che provoca la sballata riconfigurazione delle parti, ma anche e soprattutto un fattore scatenante di vivo rimiscelamento, che spinge i personaggi a praticare inconsapevolmente una fittizia, destrutturata, malata ricomposizione costitutiva del nucleo familiare.

Chi è, insomma, che sostituisce, e chi è che è chiamato a sostituire? Le carte si scompaginano, si scombussolano, vengono rimaneggiate e ri­ ordinate a formare un oppressivo, buio, frangibile castello. Tom rimpiaz­ za Guillaume, per Agathe e Francis, ma nel meccanismo che s’instaura pericolosamente è lo stesso Francis a rimpiazzare Guillaume per Tom, e, in un certo senso, a rimpiazzare Tom stesso. Per l’intero film, Tom deve mantenere in apnea le proprie sensazioni più naturali e disperate, mentre Francis è brutale, animalesco, nella sua rabbia impastata di sofferenza. Attraverso Francis, Tom si riconnette con la parte più crudele e furiosa di se stesso, una parte ancor più sotterranea e sepolta di quella legata alla devastazione per la morte di Guillaume. Attraverso Francis, Tom ha modo di riallacciare un rapporto - benché, certo, deformato, disfunzio­ nale, irreale - con la presenza che era abituato ad avere nel suo mondo.

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Entrambi riempiono un vuoto, uno strappo lasciato dall’assenza improv­ visa di un frammento di se stessi, delle proprie esistenze. Ma il problema non è soltanto l’illusione - potenzialmente, forse, te­ rapeutica - che i personaggi vanno a creare e che è immersa nella men­ zogna. Il problema è che Tom, sfinito, svuotato, incapace, appunto «di piangere», viene risucchiato in una spirale di colpe dove però è l’elemen­ to più debole, più sfruttabile, più strumentale, e ben raffigurata da Dolan con una regia claustrofobica, colori scarni e spesso desaturati, stringenti primissimi piani, che concorrono a caratterizzare Tom à la ferme come un incubo.

La funzione da cui Tom è trangugiato si risolve infatti in tossici effetti collaterali, in una patologica Sindrome di Stoccolma (vedasi la bellissi­ ma, e spaventosa, scena del ballo in cui i ruoli tra i due si sdoppiano e riversano l’uno nell’altro, prendendo la consistenza di fantasmi ma an­ che quasi giungendo ad annullarsi). Il loro diventa un rapporto di forza in cui la bilancia pende prepotentemente verso Francis, che non a caso nel

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momento in cui Tom aveva provato ad allontanarsi, aveva reagito in ma­ niera estremamente aggressiva. In lui rivede ciò che odiava del fratello, eppure gli dà la possibilità di un odio vivo, di una presenza da detestare, ed è al tempo stesso creatura affascinante. Eppure è un abuso psicologico quello che egli agisce su Tom, benché ne diventi lui stesso dipendente: non può, appunto, più lasciarlo andare.

A irrompere in questa realtà alterata che si perpetua sempre più spie­ tatamente sono due donne, due personaggi femminili che in maniera di­ versa sparpagliano le emozioni e le reazioni in campo. La prima è una collega di Guillaume che arriva alla fattoria su richiesta di Tom. La sua presenza palesa il coinvolgimento ormai totale di Tom verso Francis, il quale dal canto suo si contorna di ancor maggiore, allarmante mistero: qual è il suo scopo? E ha davvero sfigurato un compaesano che aveva fatto intendere l’omosessualità del fratello? La seconda persona che apre gli occhi a Tom è proprio Agathe, la quale, durante una folgorante sequenza notturna - dalla suspence quasi insosteni­ bile polanskiana -, mettendo insieme i pezzi sembra finalmente intuire e di­ svelare il velo dipinto sull’identità del figlio. Identità che Francois vorrebbe tacere, a cui si ostina a non concedere agnizione e certificazione di realtà.

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La verità si rimpalla e ribolle prepotentemente: Tom e Francis sono entrambi, l’uno per l’altro, surrogato di una mancanza atroce, e si usano voracemente rischiando però di valicare il proprio limite psicoemotivo. Tom ha una brusca epifania: e sebbene molto venga - intelligentemen­ te - lasciato al non detto (che fine farà Agathe? La morte di Guillaume potrebbe essere stata provocata proprio da Francis), percepiamo forte­ mente la sua paura, il lampo di coscienza, e come nel successivo Mommy il formato respira con i personaggi, schiacciandoli (benché in Mommy, come vedremo poi, ci sia un’azione diretta dal protagonista), ma anche liberandoli. Proprio come accade nella scena finale, nella fuga dall’autodistruttivo e masochistico rapporto, a chiudere la parentesi nel modo in cui si era aperta, a ricucire una ferita che pure non si è chiarita fino in fondo: Tom si avvicina al risveglio dall’incubo, prende forza, si libera, vola via, a riprendersi, a ritrovarsi. Mentre gli interrogativi si disperdono tra le note di una canzone, a sancire una vittoria sottotraccia mantenuta tra le maglie dell’implicito.

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Capitolo cinque

College Boy

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La crocifissione dell’eteros

L’opera più violenta, radicalmente brutale, orrorifica quasi nel suo andamento e nella sua rappresentazione visuale, di Xavier Dolan, non è un film. È un videoclip musicale, girato per il singolo della celebre band francese alternative rock e new wave Indochine College Boy.

Dolan chiama a raccolta un gruppo di ragazzini e, soprattutto, quell’Antoine Olivier Pilon che fece una comparsala breve in Laurence Anyways e che deflagrerà imprescindibilmente nel futuro Mommy. In 6, secchi e agghiaccianti minuti, il regista allora ventiquattren­ ne fa mettere in scena un’aggressione durissima, inaudita perfino. Il suo è un vero e proprio atto di denuncia contro l’intolleranza che porta al rifiuto, alla negazione, all’estirpazione, all’annullamento del di­ verso. Dell’Eteros; dell’Altro da sé.

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Un videoclip - udite udite - da vietare ai 18, almeno su carta, perché le tematiche messe in campo in quella manciata di minuti potrebbero far venire la pelle d’oca ad adulti apatici e indolenti, ma sono questione di tutti i giorni, ordinaria amministrazione, faccenda quotidiana per un adolescente di oggi. Ancora una volta si dimostra cineasta senza paura, Dolan, indefessa­ mente concentrato sulla materia, al di là della sua portata scottante, politi­ camente scorretta, quasi oscena nel suo manifesto, esplicito simbolismo. Nel messaggio che passa direttamente, senza filtri come è l’approccio dolaniano che non conosce vie di mezzo, o meglio, coperture d’ammorbidimento protettivo e misure di sicurezza dall’estremo - dall’estrema verità, dalla cruda realtà. In College Boy, un ragazzino (interpretato da Pilon) viene vessato dai compagni di scuola, senza motivo apparente (non c’è bisogno che ve ne sia uno, ci sta dicendo Dolan). Prima si tratta di piccole prevaricazioni, dispetti, provocazioni. Che gradualmente degenerano sul piano fisico, fino a spingersi fino alla crocifissione finale.

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La tortura, il tormento costante, l’angoscia perenne che non si scolla mai dal petto, tutto quel che prova la vittima viene reso attraverso un climax inquietante quanto elegantemente esposto, mostrato. La crocifis­ sione finale, assieme al suo corredo di astanti immobili, silenti e ciechi - tutti sono bendati, assistono al calvario come testimoni non vedenti, perché non comprendono, perché non empatizzano, perché sono privi di empatia - non è che l’apice finale di una corsa al soffocamento a cui si assiste impotenti e, forse, complici. L’omertà non è soltanto quella dei compagni del ragazzo, che non fanno nulla per aiutarlo, per liberarlo, per schierarsi contro l’ingiustizia e dunque sono, al contempo, essi stessi carnefici. Il mondo adulto è colpe­ vole allo stesso modo: insegnanti, suore, genitori, presidi, persino le for­ ze dell’ordine, tutti immuni al sentimento di pietà e compartecipazione, tutti accomunati dal contagio dell’intolleranza e della cecità, tutti infetti allo stesso modo, nessuno meno degli altri.

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Si tratta di educazione, come Dolan e il leader degli Indochine han­ no sottolineato all’uscita del videoclip (a oggi, a più di 3 milioni di visualizzazioni su YouTube in versione integrale), che ha sollevato non poche polemiche in terra francese e canadese ed è andato incon­ tro, prevedibilmente, a un’indicativa censura (da parte del Conseil supérieur de T audio visuel), che parla quanto le immagini di College Boy. Si tratta di educazione perché si tratta della realtà in cui vessati e vessatori sono immersi: una realtà che non esperisce il “prossimo nostro”, che lo allontana, anestetizzata dalla forma, dall’avidità, dal capitale, dagli schermi - gli “spettatori” riprendono con il cellulare la gogna pubblica del giovane, peraltro addobbato come un albero di Na­ tale, dunque a un tempo attrazione visiva (la mercificazione del corpo e la spettacolarizzazione pornografica della violenza) e demistifica­ zione di una festa sulla carta santa, che punta a celebrare gli “uomini di buona volontà”, che celebra la bontà, la speranza, la tolleranza, la pace. A metà fra un episodio della miniserie tv cult Black Mirror firma­ to Charlie Brooker (stiamo parlando della puntata White Bear, fol­ gorante intermezzo sci-fi/drammatico/satirico) e un film di Michael Haneke (Il nastro bianco, ma anche Funny Games), College Boy è un frammento straordinario che è stato incompreso, tacciato di sol­ leticare istinti bassoventrali, di essere una provocazione meramente gratuita, e far leva sulla violenza come soggetto principale dell’ope­ ra, mentre è l’oggetto tramite il quale la denuncia parte e si dipana forte e chiara. «Volevo dimostrare che una situazione del genere, apparentemente assurda, è possibile, perché oggi non ci sono limiti, niente potrebbe impedirle di verificarsi. In un luogo come VAmerica dove chiunque può comprare un'arma da fuoco, più che altrove. La lapidazione può avvenire in molti modi e per molte ragioni, non solo in Usa. Questo videoclip non sostiene né incoraggia la violenza, non c'è alcuna ambi­ guità perché tutti noi siamo portati a empatizzare e a identificarci con

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il protagonista. College Boy è davvero più violento di ciò che vediamo ogni giorno in televisione? O negli altri videoclip musicali, dove ad essere presi di mira sono le donne e i neri, con scene denigratorie, sessiste e razziste?».

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Capitolo sesto

Mommy “Divertente, struggente e, soprattutto, originale” — VARIETY

“un film che toglie il respiro” — VANITY FAIR

PREMIO DELLA GIURIA FESTIVAL DI CANNES “Un film dal potere soffocante e dal calore sorprendente...” — TIME Magazine

“Una performance portentosa di Anne Dorval” - HOLLYWOOD REPORTER — THE GUARDIAN

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«[...] Se c'è un tema, anche solo uno che conosco meglio di qualsiasi altro, uno che m'ispira incondizionatamente, e che amo sopra a tutti gli altri, è certamente mia madre. E quando dico mia madre, intendo la madre in senso lato, la figura che rappresenta. Perché è su di lei che torno sempre. È lei che voglio vedere vincere la battaglia, è per lei che voglio inventare problemi che lei possa avere il merito di risolvere, è attraverso di lei che mi pongo delle domande, è lei che voglio sentire gridare quando non ci siamo detti una sola parola. È lei che voglio abbia ragione quando avevamo torto, è sempre lei, che ha l’ultima parola su tutto. Ai tempi di J’ai tué ma mère, sentivo di voler punire mia madre. Da allora sono passati solo cinque anni, e credo che per mezzo di Mommy, stia cercando di farla vendicare. Non chiedetemi altro». Xavier Dolan, Maggio 2014

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La pietas totalizzante della mise en scene (We can be heroes)

Il primo piano pacifico di Diane, unico momento di quiete

Arriviamo ora al film più dichiarativo, più testamentario (ebbene sì) di Xavier Dolan. Quasi un manifesto della propria poetica, come se an­ cora ce ne fosse bisogno - e sì, ce n’è. Mommy è l’opera più equilibrata, più definitiv)a, più calibrata del suo intero corpus filmico. Ogni istante è pensato, ragionato al millimetro in funzione di un’esclamazione visiva dichiarativa, eppure ogni istante arriva fluidamente, istintivo, naturale come respirare la celluloide che il regista prende e trasforma in battiti di farfalla. Esaltando, come in un film di supereroi girato con nervosa macchina a mano, le imprese del quotidiano come una lotta di sangue e carne su un campo di battaglia non soltanto emotivo, ma anche pratico. La poesia nei piatti da lavare e nei carrelli rotti, nei panni stesi e nelle collanine tarocche. Esattamente come nel prologo senza parole di Mommy, avvolto in una sospensione quasi

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magica, uno stato di trance e di grazia atemporale, fuori dalla narrazione eppure così già impiantato nel vissuto dei personaggi. Vediamo Diane (la straordinariamente autentica Anne Dorval), pre­ sentata a noi tramite rapidi flash sfaccettanti, dettagli minuscoli di una quotidianità contenuta e riassunta, all’interno di un ambiente idilliaco, pacifico, limato da un clima solare e cosparso di luci dorate; quasi uno spiraglio di pace che prelude alla tempesta, ma, anche, ci proietta imme­ diatamente nel paesaggio inconscio di Diane. E una programmazione di poetica lucida e immediata, quella che Dolan proietta nella tiepida luce solare, a indirizzare ancora una volta il focus - semmai ce ne fosse ulte­ riore bisogno - sull’atto di amore che ivi si gioca, sul sentire tutto par­ ticolare di una vicinanza emozionale estrema all’eroina (vedremo, poi, come e quanto per l’autore Diane sia centro nevralgico e summa di una poetica intera), su come ella schiuda, inglobi, assurga a filtro, lente, car­ tina tornasole di un corpus magnifico che rompe gli argini del testo filmi­ co ponendosi come suggellato di una visione esistenziale extra-testuale, essenzialmente onnicomprensiva. L’abnegazione, l’autoaffermazione, e dove intercorre il limite tra le due.

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Per questo il momento successivo è così brusco, uno strappo che pro­ voca un senso di straniamento, quasi un impeto sintattico che ci catapulta da un’altra parte. Diane viene tamponata e quella ferita alla testa è presagio implici­ to dell’incontrollabile che verrà, del caos sbaragliato nella sua vita dal figlio che sta andando a prendere al centro di recupero. Lo stesso che preannuncia l’acqua, che inonda il corridoio del centro a causa di un inci­ dente. Uno shock audiovisivo che ci lancia addosso, letteralmente, tutta una pre-visualizzazione del turbamento, della lotta, dello scarnificarsi di unghie e capelli che i due protagonisti andranno a compiere. Elementi profetici tutti giocati sulla percezione che hanno, inconscia­ mente, a nostra insaputa, sullo spettatore. Tuttavia, di questi primi minuti di Mommy quel che cogliamo a livello epidermico è la vitalità, la presenza scenica e vitalistica di Diane. I suoi tacconi, i suoi pantaloni a zampa di elefante, le sue chiavi adornate da appariscenti quisquilie, i suoi occhiali da sole, la gomma da masticare che macina senza ritegno. Esorbitante, bigger than life\ Diane lo è già dopo soli dieci minuti del film, specialmente perché contrapposta a una donna che è quasi sua nemesi, la direttrice del centro: pacata, fisicamen­ te materna, dolcemente rassegnata, assunto di una normalità che il film rifugge, vomitandola come un’intrusa avulsa dalle interrelazioni che si andranno a dispiegare. Una “scettica”, come la definisce Die. Una che, eppure, pronuncia la frase che potrebbe simboleggiare la fine, il sunto e il significato del film: “Non possiamo salvare quelli che amiamo, l’amo­ re in questo non c’entra niente”. La maestria di Dolan va colta anche, e soprattutto, nel fornirci, implicitamente, i mezzi verbali (e non) per riannodare i fili di una storia che brilla di auto completezza e grandiosa significazione ontologica fin da principio, quando l’occhio spettatoriale accoglie inerte dettagli e frammenti in maniera osmotica, beandosi dell’impatto estetico e tralasciando, com’è bene che sia, tasselli di un puzzle che solo in conclusione si riapproprieranno della loro effettiva (ambi)valenza. Noi, infatti, non ascoltiamo, così come non ascolta Dia­ ne: tutto quello che conta, tutto quello che è importante, che capiamo, che vediamo, è la potenza del ricongiungimento madre/figlio. Senza

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abbracci, senza frasi di circostanza, senza imbarazzi il riaversi naturale della consanguineità: Diane e Steve riprendono i fili della loro relazione messa in stand-by come se nulla fosse, con la nonchalance con cui Diane mette un cuoricino sulla ‘i’ della sua firma. Come se non si fossero mai lasciati, come se il passato fosse una mosca che non abbiamo bisogno di scacciare, che è già volata via. E noi stiamo lì, a bearci di quella sintonia, di quell’intesa alchemica che scatta fra i due. Conciliati e conciliabi­ li nelle scaramucce che riprendono automaticamente, spontaneamente, sulle note di White Flag di Dido. Che canta “I will go down with this ship”: ed è quello che, senza accorgercene, stiamo facendo noi. Insieme a Diane e Steve.

Stiamo, fin dall’inizio, affondando con quella nave che è un amore imprescindibile quanto impossibile: ma è un amore in cui è così dolce immergersi, che non ce ne accorgiamo. E come tutti gli amori impossi­ bili, il più imperituro, il più inviolabile, più simulacro di un’idea assolu­ tista, in quanto totalizzante, alcova di disperazione, di morbosità, eppure

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di autenticità. Dolan, in questa sequenza come in molte altre, compie un doppio miracolo: la sua regia è al contempo onnisciente - la scelta della musica fittamente contestualizzata, l’osservazione sapiente e densa dei personaggi, l’approccio drastico - e volatile, come se nascesse e si scaturisse in quel momento per auto-generazione dai movimenti corrivi e leggiadri di Diane e Steve. Una limpidezza di racconto, che dà l’impres­ sione di farsi da sé, di srotolarsi come una bobina dinnanzi alle nostre cornee. Un percorso in divenire, un flusso di luce, eppure già tracciato.

In aggiunta, ciò che Dolan crea e rende palpabile con una facilità e una maestria da far spavento, è l’integrazione dell’occhio esterno - il nostro - nella famiglia disastrata di Diane e Steve. Accogliamo le stra­ nezze ipercinetiche di Steve, l’isteria maniacale di Diane, due musiche che si sovrappongono (proprio quel che accade quando entrano in casa) ma che non urtano l’udito. Diane, nonostante quel periodo di lontananza (e il passato, scopriremo, alquanto travagliato) riprende in mano il lavoro sporco e sudato di madre con naturalezza brusca. Il mondo corre veloce, e Die sa di dover correre più forte di lui; si evince quanto abbia maturato esperienza dai sacchi di immondizia scaturiti dai colpi e dagli strattoni

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ricevuti dalla vita, tanto da renderla conscia di come sia imprescindibi­ le un attitudine attiva nei confronti del tangibile, a evitare quel vortice degenerativo che sa poterla annientare. Il suo è un attraversamento au­ tomatico quanto e come quello di un karate kid. E non a caso, il giorno dopo, assistiamo a uno degli exploit di Steve, estremamente violento e pure razzista, in un turbinio di eventi e di agitazione che si susseguono braccati frontalmente dalla macchina da presa come in un film d’azione, come in una pellicola dei fratelli Luc e Jean-Pierre Dardenne. La camera a mano, ancora, come una protuberanza dettata dalla necessità di cattura­ re fatti come convulsioni mai immanenti, perciò da rapire, inghiottire, la cui nevrosi bisogna testimoniare. Ma, nel momento in cui Diane perde il lavoro, ecco penetrare un mo­ mento di tenerezza. Primissimi piani, di nuovo elementi materici, terra­ gni: le lacrime scurite, rugginose dal trucco di Diane, e le parole rassi­ curanti che Steve le rivolge, tanto incastonato in una visione esclusiva e binoculare del rapporto, in quell’improvviso quanto istintivo scambio di ruoli. E finalmente abbiamo la conferma che Diane e Steve funzionano, insieme, come gli ingranaggi di un meccanismo, anzi, come due organi vitali di uno stesso corpo: si pompano sangue a vicenda, si fanno del bene pur nel loro disequilibrio stonato, pur nella loro dinamitarda azione esplosiva.

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Un’instabilità che viene curata, pacatamente, da una terza figura. Kyla, la vicina di casa appena trasferitasi nella casa di fronte alla loro, è quasi un essere angelico (un angelo caduto) quando la vediamo per la prima volta: lo sguardo perso, liquido, profondo, annegato d’azzurro elemento estraneo alla sua stessa casa, esteriormente molto più normale e più sanamente istituzionale rispetto a quella di Diane e Steve, ma estre­ mamente fredda. Ancora una volta un lavoro di parallela funzionalità scenografica, laddove l’inserimento circostanziale concorre a definire psicologie e moti esteriori, come una luce alla Rembrandt va a definirsi sui volti. Persino la ripresa di Dolan, quando si approccia all’abitazione e alla famiglia di Kyla, subisce un blocco, un freno: immobile, congela­ ta, distaccata quanto il marito e la figlia di una donna che è straniera nel proprio nucleo - teoricamente - vitale ed esistenziale. La qualità del tutto clandestina di Kyla è l’apporto di una diversità prospettica, per quanto in sé non perfettamente veicolante stabilità, che sembra assurgere al com­ pimento di una potenziale complementarità nella forma tripartita di un triangolo umano.

Dapprima soltanto osservatrice esterna, spettatrice raffrontabile al no­ stro sguardo eppure diversa rispetto ad esso, Kyla contempla perplessa e

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pensierosa gli strepiti e il subbuglio creato dalla sola presenza di Diane e Steve dall’altro lato della strada. Il movimento frenetico, la scarica elettrica febbricitante che emanano i due al di là del vetro che si frappone tra loro e Kyla è proprio ciò che calamita l’attenzione della donna, così evidentemente sola. Che li guarda come attraverso uno schermo, segre­ tamente invidiandoli, sognando di potersi unire a loro. Proprio come noi. La differenza è che a Kyla questo accade; ma, al solito, in circostanze diverse da quelle che ci immagineremmo.

Succede che Steve esce di casa, solo, sul suo skateboard, ascoltando musica nelle cuffie. Una musica diversa da quella, extradiegetica, che udiamo noi: malinconica, triste, Colorblind (Counting Crows) incorni­ cia un momento di libertà insinuandoci un’ombra quasi autistica, sotto­ lineando con delicatezza il distacco dal mondo che è in atto, innegabile e prestabilito, all’interno di Steve. È una sequenza-manifesto di auto­ espressione adolescenziale, di idillio quasi metafisico ove la materialità d’un insieme di pezzi metallici si erge a strumento per un librarsi aereo, fisico, che si preme di raggiungere il compimento emozionale. Si ricerca, in questo modo, il contatto empatico che sfonda l’impressione estetica (ed estatica) per ricongiungersi a un certo automatismo di rispecchia­ mento: tutti noi siamo stati, e saremo, quel giovane. Steve trova pace e spensieratezza nel giocare con un carrello rotto, vettore al contempo di spurgo passivo - aggressivo, e parallelamente Dolan riesce a girare una scena così semplice e quasi ridicola in sé esaltandola e cospargendola di stelle, incastonandola in un sentimento visivo di lucente unicità. Al suo ritorno a casa, Steve presenta a Diane qualche ‘acquisto’ ap­ pena portato a termine; Diane si inalbera, e fra i due scoppia un litigio. Vediamo per la prima volta un lato di Steve che ci era oscuro e scono­ sciuto; Steve non accetta di essere sgridato, si sente ferito nell’orgoglio e rifiutato, un’altra volta, per quanto non fosse nelle intenzioni di Diane, così impulsiva, così ruvida. Si avvia uno scontro violento, Diane deve difendersi e ferisce il ragazzo, per poi nascondersi. Ancora una volta, un primo piano stretto tramite cui assistiamo allo sfogo della donna: un’u­

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nica scena che fa capire prepotentemente la difficoltà di vivere assieme all’adolescente, per quanto Diane sia la sola a tenergli testa, la sola ca­ pace di entrare in connessione con lui. Prende forma, in via embrionale, il dispiegarsi di una patologia mentale verso la quale Dolan (e ancor più si sottolineerà in seguito) dimostra un disinteresse in termini finemente tecnici, tanto che l’iperattività, gli sbalzi d’umore, le crisi di rabbia ci appaiono, a fronte di una vaghezza medica, del tutto assimilabili a una percezione di “normalità”, ancora e sempre di più ancorati a un probabile sostrato di quotidianità, volti al compimento di una comunicazione il più possibile spuria di complicanze e diretta, a sfilettate e a carezze, verso l’umano e il di lui sentimento. Una comunicabilità che è pernio e vittoria di un’universale scommessa autoriale.

Stavolta, però, qualcosa cambia, attraversa le dinamiche bilaterali di sempre: avviene tutto fuori campo, e quando Diane esce dal suo nascon­ diglio trova Kyla, accorsa ad aiutare Steve, decisamente sottosopra. Una sconosciuta salvatrice, negli occhi di Diane e Steve, e anche, rigerminata come tale, nei nostri.

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Per ringraziarla, Diane la invita a cena: di nuovo, una delle sequenze migliori del film. Realizzata in tre controcampi, che si palleggiano fra loro in modo eguale, anche se stavolta, di nuovo, entriamo nel punto di vista di Kyla - istintivamente, non siamo portati a questa immedesima­ zione data dalla composizione delle inquadrature, assolutamente impar­ ziale. Ma, come lei, siamo travolti dal tornado di verace incontinenza verbale di Diane e Steve, la loro ruggente impennata popolare, il loro fuoco perenne e frastagliato, acuto, a note altissime, a prendere la vita di petto, con marginatole foga e ardore. Espresso in modo mirabile dalla scena di ballo, in cui Steve, truccato per l’occasione e affettuosamente sfottuto da Diane, coinvolge Kyla a scatenarsi su colonna sonora di Ce­ line Dion. Kyla avverte il moto centripeto e verso di esso si sente attirata, ascol­ tando letteralmente il richiamo alla vita che per così tanto tempo ave­ va deliberatamente silenziato. La relazione vagamente incestuosa che si dipana tra Die e Steve, suggellamento di quella stessa antica ferita narcisista di cui Dolan ama parlare, declama a piena voce un potenziale espressivo d’inaudita bellezza, di bellezza dilagante, di vortice pronto a risucchiare, divorando e nobilitando al contempo chiunque vi si trovi in prossimità. La diversità di Kyla, in fondo, è di sola facciata; è, anzi, sug­ gerimento più o meno esplicito del diegetico indicare quanto vi sia in atto un ritrovarsi unidirezionale da parte della “visitatrice”: il richiamo della pulsione, della liberazione psico-fisica è forte, e Kyla vede in essa un’af­ finità, una riconduzione emotiva lucida e incosciente allo stesso tempo, e decide di gettarvisi. Forse non aspettava altro.

Un ballo che diventa, allora, l’emblema declamatorio di Mommy: tut­ ti e tre danzano in modo discorde, disarmonico, in una sorta di assolo concentrato e orgoglioso. Eppure, a dispetto dell’inconciliabilità dei loro movimenti, i tre si incastrano alla perfezione formando un unicum di serena disfunzionalità, che Dolan ci permette di abbracciare tirandosi indietro, mentre la mdp indietreggia, a contemplare, e lascia chiusi in quello spazio di compiutezza imperfetta che i personaggi hanno creato fra sé e gli altri.

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Un nuovo intero, un nuovo nucleo che tuttavia, per completarsi e for­ marsi definitivamente, ha bisogno di smascherarsi. La fiducia tra Kyla e Steve scatta e si fortifica, esattamente come il loro rapporto, nel momen­ to in cui s’istituisce un limite, si traccia un confine. Lo fa Kyla quando Steve va troppo oltre, mettendo mano al simbolo tangibile della sua per­ dita. Il trauma vissuto da Kyla è il pendant che ritroviamo nel lutto di Die e di Steve e nella loro risposta del tutto inefficace (e quando lo è?) alla sofferenza. Lei lo ripaga con la stessa moneta, dimostrando una secre­ zione caratteriale molto decisa, tanto che la sua determinazione furiosa, così disperatamente sincera, porta lo stesso Steve a svelarsi, a far crollare la maschera da bullo, da duro, da indiavolato intrattenitore, tremando e rivelando la paura che lo irrigidisce. Ciò nonostante, il faccia a faccia, quasi inaudito, è il collante della loro relazione: più sensibile e intelligen­ te di quanto sembri e voglia sembrare, Steve coglie la verità del dolore negli occhi e nelle parole di Kyla, e si scusa con lei. Insieme, i due organizzano una piccola celebrazione a sorpresa per Diane, appena tornata da un primo colloquio di lavoro: di nuovo, un mo­ mento perfetto. Che stavolta il trio immortala in una fotografia, mentre la regia ci regala la cristallizzazione graduale dell’istante, cogliendo l’at­ timo e permettendoci di gustarcelo al rallentatore, cosicché anche noi, quanto Diane, Kyla e Steve, ci sentiamo come se potesse non finire mai.

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È, forse, il primo atto, la prima volta di un progressivo riuscire a vi­ sualizzarsi come neo-nato nucleo para-familiare, laddove ancora una volta il sentimento dev’essere stretto tra le mani per essere riconosciuto; il sapiente uso del ralenti dà espressione a questa rivelazione in progres­ so, a questo fiorire lento e imperfetto di un’unione senza etichetta, quan­ do le umanità sole ritrovano i fantasmi di loro stesse negli altri, insieme a pezzi di cuore e pezzi di organi che credevano perduti, e si guardano, si guardano imparare a prendere, prendere dell’altro (e dall’altro) che non sia solo e soltanto dolore.

Il miracolo dell’umano

I successivi momenti sono di gioia. Di consonanza armoniosa, quella che s’instaura fra Diane e Steve, che dopo cena, un po’ ubriache, discu­ tono e scherzano, ridendo fino alle lacrime. Ancora una volta, infine, la telecamera si allontana da loro, lasciandole sole, permettendogli di vive­ re quel momento così spumeggiante e così privato, e permettendo a noi di contemplarlo nella sua magica interezza, nella sua esclusività piccola, eppure eccezionale. Ha il suono dell’intrusione impacciata e disarmante, l’occhio intimista di Dolan.

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Dove Mommy si fa, una volta per tutte, clamorosamente epocale, è durante la sequenza successiva. Mentre gli Oasis cantano il loro inno generazionale di speranza e amore che meglio non potrebbe esprimere lo stato d’animo condiviso di Diane, Kyla e Steve (“Because maybe, you could be the one that saves me. And after all, you’re my wonderwall”), vediamo i nostri eroi finalmente crescere nelle loro esistenze e nel loro rapporto. Coltivano un’idea di futuro e di serenità: Diane va al lavoro un lavoro semplice, umile, di donna delle pulizie - accompagnata dalla musica e ripresa come una principessa che entra in un castello, come una regina fiera e selvatica; Kyla fa da insegnante a Steve, lasciando che la sua balbuzie (puramente psicosomatica) le dia attimi di riposo, e ac­ costandosi al ragazzo come a un figlio - quel figlio che, intuiamo senza sterili riavvolgimenti, male endemico della maggior parte della cinema­ tografia, ha perduto -, finalmente trova un suo posto nel mondo. Un po­ sto che è accanto a quelle due persone: e lo stesso vale per Diane e Steve. La formazione di una famiglia non biologica, ma dell’anima, che uni­ ta potrebbe conquistare il mondo, è lo spirito con cui Dolan ci presenta un’intuizione geniale, nonché intelligente uso del mezzo filmico troppo spesso intrappolato nelle stesse, solite, soporifere soluzioni visive.

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Steve, finalmente integrato, finalmente libero di essere se stesso in un microcosmo di deflagrante affetto, assapora tutta una leggerezza naif che non credeva gli sarebbe ma appartenuta e, scivolando sul suo skateboard, chiude gli occhi e schiude l’universo ingabbiante in cui, finora, lo aveva­ mo visto. Il formato 1:1, a sorpresa, si apre su suo gesto, permettendo a tutti e tre di respirare e vivere in un’unica inquadratura - proprio perché tutti e tre la stanno respirando e vivendo. L’impressione è quella di uno squarcio flebile ma esatto di una finestra che si sbottona sul mondo, sul mondo prima solo nebulosamente vagheggiato, ma ora impresso inde­ lebile sulla nuova percezione visiva, a cambiare sorgenti di pensiero e di sentimento. Parvenza di un imprinting. Una vera e propria cassa di risonanza, il divaricamento del visibile, dalla quale si ergono gli echi dei respiri affannati e dei battiti accelerati di chi, come loro, sta assaporando la vertigine di una miracolosa, per quanto germinale, esalazione di feli­ cità. L’emancipazione dalle costrizioni soffocanti, dalla claustrofobica interiorità - lo strumento visivo come espressione potenziata al suo api­ ce, del proprio sentire - è finalmente conquistata. E su quelle biciclette scassate, finalmente, Diane, Kyla e Steve sono eroi. Eroi delle proprie esistenze, gloriose, a cui applaudire, a cui urlare. We are loud like love, li sentiamo appena permettersi di pensare.

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È, però, un momento non illusorio, quanto momentaneo. Lento, ma deciso, lo schermo torna a restringersi e a stritolare Diane quando arriva una lettera di denuncia a Steve, per un incidente avvenuto all’inizio del film e su cui la donna aveva ironizzato. Col fiato sul collo, ottimamente metaforizzato dalla richiusura dell’inquadratura, Diane si trova costretta a uscire con il vicino di casa, un avvocato che le ha già fatto molte avances. Per ingraziarselo, Diane organizza una serata e vi porta anche Steve, ‘responsabile’ della loro ricaduta nell’incertezza.

Ma la serata è, prevedibilmente, un disastro, e degenera una volta al karaoke: dopo un ultimo, disperato, impacciato e tenero tentativo di attirare a sé l’attenzione della madre, cantando Vivo per Lei (una scelta geniale), Steve perde il controllo - la regia si frammenta, si distorce, accelera allo stesso modo in cui aumentano i battiti del cuo­ re impazzito di Steve. L’indice prospettico è, qui, per nulla mobile nell’incentrarsi a caratterizzare l’angustia e l’escalation d’aggressivi­ tà del giovane, tanto che, sempre all’ordine della più pura e massima compenetrazione dei livelli discorsivi, ci troviamo a riflettere la fru­ strazione di chi si vede mortificato nel suo atto d’amore e minacciato di morte psicologica, causata dalla perdita dell’oggetto investito di

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fissazioni affettive. Non può che rimbombare dentro, sconquassare e risvegliare liturgie mai sopite.

D’appunto, il ragazzo combina un pasticcio nel locale (da cui i tre, logicamente, vengono cacciati), tanto che subito dopo egli prende a male parole l’avvocato. Tutto è rovinato, e dopo uno sfogo esasperato di Dia­ ne, Steve scompare. Il ragazzo torna in scena poco dopo, rincasando tardi, con un umore del tutto diverso. Steve, come fulminato dalle parole di Diane, che nel momento di rabbia lo accusava di essere la fonte di tutti i suoi proble­ mi, esclama, con una convinzione da far stringere le budella, “un gior­ no smetterai di amarmi”. Di nuovo, l’emersione della paura, il bambino fragile che cercava di ricacciare dentro di sé con la furia convulsa delle sue azioni si aggrappa alla figura della mamma, attende una negazione. Poi, la bacia fugacemente. Una decisione rischiosa, azzardata, quella di Dolan, che tuttavia si inserisce perfettamente nel contesto relazionale dei due: totalizzante, assoluto, puro, proprio come quel bacio istintivo, quel­ la richiesta di vicinanza. Si agisce su doppi (tripli?) strati significanti, laddove la riparazione narcisista avviene tramite la figurazione di un mo­

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mento idilliaco, la tanto favoleggiata unione con la madre, che Dolan ha il coraggio di servire a una mise en scène pregna di topic umanisti, prima di tutto, ma esistenziali, culturali e sociali subito dopo. L’impasto tonale della scelta cromatica insiste sul carattere segreto e impronunciabile, poi, tramite la scelta di una fotografia calda e fortemente chiaroscurale - a rimostranza ulteriore, sebbene a campione, di quanto si tratti di una co­ sciente completezza espressiva. L’urgenza di un cinema auto-terapeutico è, poi, soggetto lampante del lavoro.

Tornando a Diane, la vediamo disorientata e sperduta; ha bisogno di riprendersi, di mandar giù l’ennesimo colpo, di capire come muoversi. Ma dall’esterno, Steve vede soltanto il suo distacco. Sente di perderla, di nuovo. Da qui, il tentato suicidio: di costruzione cinematografica, ancora una volta, impeccabile.

Kyla parla, aggirandosi fra i corridoi di un supermercato: Steve spari­ sce. La donna lo cerca, con aria interrogativa, e infine lo trova disteso a terra. Vede prima lui, poi un coltellino insanguinato, infine i suoi polsi. Il respiro e la voce le si blocca in gola, e la tensione schizza ai massimi livelli. Una scena che gela il sangue nelle vene a noi, e che rischia di far

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crollare anche Kyla. Per fortuna, l’amore - di nuovo - è più forte, e in un urlo strozzato la donna chiama Diane. Insieme, le due sollevano Steve e corrono fuori dal negozio: una corsa che la regia raggela in un ralenti, che, proprio come dilatava l’estasi del momento di gioia, ora rende in­ sostenibilmente lungo il momento di disperazione rarefatta; attimi che pesano come macigni, come piombo. Li viviamo noi, in questo modo, proprio come li stanno vivendo Diane, Steve e Kayla.

Da questo punto in poi, l’inesorabile della tragedia è, percettivamen­ te, in potenza. Sorprendentemente - apparentemente - tranquille dopo un tale shock, Diane e Kayla si preparano per una gita con Steve, il quale vediamo essere tornato in sé come se nulla fosse, con un’ellissi i cui po­ stumi possiamo leggere con chiarezza sui volti provati delle due donne. Sta tutta lì, l’ansia dell’attesa, sui loro volti, e sulla padronanza del girato che Dolan rende fatale. L’immagine della strada che l’auto di Diane sta per attraversare è come fossilizzata in un’attesa spettrale, con i rami che si muovono impercettibilmente: hanno la forza di un respiro sospeso pri­ ma di un salto nel vuoto.

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E ce lo conferma lo sguardo di Diane, che si posa su Kyla e Steve, presi a rincorrersi in un giocoso break dal viaggio, ancora una volta nello slancio di curarsi a vicenda, ad abbeverarsi della presenza terapeutica l’uno dell’altra. Diane li guarda, poi i suoi occhi si perdono lontano, in una proiezione onirica e subconscia, un sogno ad occhi aperti in cui scivoliamo assieme a lei, rapiti, ipnotizzati da un percorso che sembrerebbe così naturale, così reale - tanto che, per qualche lungo istante, crediamo che lo sia. Un’eterna illusione, che nel momento del suo esaudirsi - Steve, laure­ ato, si sposa con una brava ragazza - si rivela una bugia, un’illusione. Si sfalda, come le presenze che lo popolano, che si appannano e offuscano di fronte al disorientamento improvviso di Diane, che si rende conto di un’amarissima verità. Era vero, dunque: “L’amore non c’entra niente in questo”. Lei, da sola, non può davvero aiutare suo figlio. E cercando di rendersi forte con questa convinzione, Diane decide di portare Steve all’istituto correzionale citato a inizio film; una mossa ragionata, soffer­ ta, ma che crede fortemente sia quella giusta. Purtroppo, a Steve viene teso un agguato, e il ragazzo reagisce con scomposta violenza, con stu­ pefatta rabbia. Una scena straziante, di smania e tormento, in cui Diane si spezza,

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ma non può tornare indietro, e in cui Kyla rivive il trauma della perdita, come un incubo a getto continuo, come una strada senza uscita e un vi­ colo cieco senza soluzione di continuità.

Il resto, è di nuovo ellissi. Eclissi nera su ciò che avviene, perché Do­ lan ci risparmia compassionevolmente ulteriore strazio, ma sono pochi tocchi a farci intuire la non-vita disumanizzante che conduce Steve in quello che è una sorta di manicomio, una prigione, in cui è cavia e pezzo di carne. Fuori, senza di lui, l’equilibrio si è rotto e Diane e Kyla non riescono a tenerlo insieme, a tenersi insieme. Kyla annuncia la sua imminente par­ tenza, desiderando di essere fermata, ma Diane non riesce. Sbandierando come in una pubblicità la sua volontà di continuare a sperare - fulcro del film, ma testimoniato dalla scena successiva, non in questa, nella quale è solamente bastone fittizio su cui Diane si regge - la donna rimette su la maschera che un tempo lo stesso Steve aveva indossato, una maschera di forza e serenità, di stoico perdurare. E anche Kayla non ha il coraggio di pretendere altro, da lei.

Le due donne si guardano sorridenti, si dicono addio con quell’oc­

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chiata, ma è chiaro a entrambe e a tutti noi che quello che gli era necessa­ rio, quella vera famiglia che avevano ritrovate, l’hanno persa per sempre.

Ma ecco che arriva il finale. Un finale suscettibile a più interpreta­ zioni (anche quella mortifera, sottolineata dalla scelta musicale: Born to Die di Lana del Rey), eppure per noi così evidentemente, gioiosamente catartica, salvifica.

Steve viene portato da due inservienti nel corridoio dell’istituto, e mentre essi discutono (guarda caso, su una donna che si ostina a stare accanto a un uomo perduto...), Steve approfitta della loro disattenzione per fuggire. In un movimento minuscolo eppur potente, Steve scivola via dalle catene immacolate e si libra, in avanti. Verso un’enorme finestra, con un sorriso di vittoria: verso l’unico modo di essere libero, di trovare spe­ ranza, di continuare ad amare, di sopravvivere. Perché dopotutto “E la natura umana”.

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Combustibile della memoria Dopo tre anni di assenza, la grande e giovanissima cantante inglese Adele prepara il nuovo disco (25) e sceglie, per dirigere il videoclip del primo singolo estratto dall’album, proprio Xavier Dolan. Una scelta perfetta, perché l’attitudine di sguardo e la misura estetica del cineasta canadese si sposano alla perfezione con la malinconia dispe­ rata e l’armonia dolorosa di Adele, che si esprime in Hello, allo stesso modo di Someone Like You e Turning Tables. Con simili armonizzazio­ ni, e il medesimo incanto ferito. Il videoclip parte in silenzio, in sordina, con Adele - presentata in un primissimo piano sui suoi capelli sfrangiati, densi, irrequieti - che arriva in una casa, una casa vecchia, una casa ricolma di fantasmi. Accende i fornelli, toglie i rivestimenti di plastica tra i mobili, tutto tace tranne il suo cuore incrinato.

Il cromatismo color seppia, valorizzato dall’impianto IMAX in cui Hello è girato, lascia che l’epidermide assapori la consistenza visiva del ricordo.

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Adele chiude gli occhi, e nel momento in cui respira la memoria e le palpebre si sollevano, le note partono a risuonare, a piangere lo ieri.

Hello, it’s me I was wondering if after all these years You ’d like to meet, to go over everything They say that time’s supposed to heal ya But I ain ’t done much healing E i flash del passato emergono prepotenti e docili, si schiudono in immagini in soggettiva e senza parole, immagini che si ripetono. L’uo­ mo in cucina, l’uomo a tavola, l’uomo in camera da letto, l’uomo sotto la pioggia.

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Momenti volatili e imprescindibili, momenti di un quotidiano sottile e fugace che rimane marchiato a fuoco nelle vene e nelle note, che si ri­ percuotono e ripropongono, sempre un po’ diversi, sempre un po’ uguali, sempre un po’ rimaneggiati dall’immaginazione, dal tempo, dal dolore. There’s such a difference between us And a million miles

Una chiamata invisibile, una chiamata impossibile, agognata e crude­ le, un’aspirazione che scorre in sottofondo mentre il desiderio si dipinge sull’espressione languida e disillusa di Adele, sulle foglie di un passato che battono incostanti sullo schermo, sul volto, sugli occhi.

Hello from the other side I must’ve called a thousand times to tell you I’m sorry, for everything that I’ve done But when I call you never seem to be home

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La musica come combustibile della memoria, le panoramiche a schiaffo emblemi rappresentativi e incarnazioni infiammate del rim­ pianto, della richiesta di redenzione, del bisogno di contatto visivo. Un piccolo capolavoro di regia, fotografia e, ovviamente, musiche, l’Hello di Dolan e di Adele. Un “ciao”, un “pronto” che servono prima di tutto a noi stessi, per ricercare dentro di noi l’espiazione, per telefonare al passato, per salutare ciò che non è più possibile avere accanto e intorno e incontro. Per dire addio al tempo che è corso troppo in fretta, troppo crudele, troppo tardi.

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Hello from the outside At least I can say that I’ve tried to tell you I’m sorry, for breaking your heart But it don’t matter, it clearly doesn’t tear you apart anymore

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Epilogo: La rivoluzione dolaniana Xavier Dolan porta a compimento, con Mommy, un’opera altissima della quale si fatica a trovare la punta, e cui persino la scalata critica è compito arduo, talmente è sovrastante. Un inno alla vita, all’amore, alla speranza, per quanto corpo filmico nevrotico, morboso, disperato, disfunzionale e inpossibile esso sia. Un’opera totale, di profondità frastagliate e oceaniche tanto da potersi perdere, affogare e annegare in essa; dotata di una verticalità, un’espres­ sione, un lirismo misto a realismo esasperato ed esasperante, una qualità tutta eterea ed emozionale che difficilmente altri cineasti prima di lui hanno raggiunto. Film morbosissimo, Mommy, nervoso, instabile e indefesso, un melo­ dramma post-moderno, contaminato e inesauribile, onnivoro e poli-funzionante: un magma di generi tellurici e quasi antitetici, mischiati l’uno nell’altro fino a compiere un gesto nuovo, una nuova idea di cinema: classico, d’autore, lessai, ma anche videoclip, televisione, installazione artistica. Un’opera monumentale, inevitabilmente il punto focale, d’arri­ vo e (forse) di ripartenza, di un’intera carriera (e lo si dice di un regista classe 1989). Un gorgo terminale e seminale, senza fondo, disperatamente foriero di stimoli, contenuti e approcci espressivi. Un film attivo, le cui dirama­ zioni squarciano lo schermo e abbrancano le sinapsi spettatoriali: Dolan vuole svegliarci, scuoterci, farci prendere coscienza del nostro intorpidi­ mento verso i rapporti, verso il mondo, verso le istituzioni che ingabbiano (che prendono un ragazzo e lo costringono alla camicia di forza), verso noi stessi, verso la negazione dei sentimenti. Prorompente, in qualsiasi direzione dei canali comunicativi, ricercando i canali dell’inconscio.

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Xavier Dolan con Mommy si trova in uno stato di grazia inarrivabile, in grado di iniettare una perfezione dilagante in ogni attimo, di rendere vive e dilaniarti le inquadrature, dotarle di una pelle che brucia, arden­ tissima, fulgida, di carica e vitalità deflagrante, un fuoco che non smette di bruciare. E dunque da leggersi in questo senso il finale, in cui la stasi condivisa da Die e Kayla (entrambe chine sulla rassegnazione, sull’autoconvinzio­ ne di aver fatto la scelta giusta) viene spezzata e scossa dal gesto librante, eversivo e definitivo di Steve che si libera, scatta avanti, va avanti, salta oltre l’ostacolo e il precipizio, e si libra oltre - un atto coraggioso di libertà, un’impennata, uno scardinamento. Una cristallizzazione eterna e sterminata, del grido di libertà, di un bisogno umano, un’ovazione, la fiammella che nonostante tutto non si spegne, l’osso che nonostante tutto non si rompe, l’amore che nonostante tutto non muore, e che la colonna sonora mai così azzeccata diegeticamente e concettualmente, esprime, letteralmente parlando da sola: “I will go down with this ship” (White

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Flag, Dido), “Vivo per lei perché non ho altra via d’uscita” (Vivoper lei, Andrea Boccelli), “I said maybe you’re gonna be the one that saves me” (Wonderwall, Oasis), “Feet don’t fail me now, take me to the finish line” (Bom to Die, Lana del Rey).

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È questo, dopotutto, che Steve fa durante tutto il film: vola. Spicca il volo quando spiega le ali sulla sua longboard in slow-motion, quando vola sul carrello della spesa, e così volerà alla fine, verso la sua vita, per ritrovare se stesso, perché tutti dobbiamo andare avanti, e “in questo modo io vinco, vinciamo tutti”. Sulle note di “sometimes love is not enough and the road gets tough I don’t know why” (Bom to Die, la can­ zone di Lana Del Rey sui titoli di coda, ma anche la malinconica consta­ tazione iniziale della direttrice dell’istituto). Un grandissimo, esorbitante sì alla vita. Al rialzarsi dell’umanesimo, a riprendere in mano quel contatto con l’humanitas e la pietas ormai da tempo gettato in un angolo. In Mommy, l’uomo, l’essere umano, lotta, si rigenera, si (ri)crea. Ed è per questo che, apparentemente, è un film del tutto fuori (dal) tempo: nessun esistenzialismo, nessun cinismo, si disconosce tutta la filosofia nichilista dell’ultimo secolo. Sembra quasi, nella quinta opera di Xavier Dolan, che solo grazie a una regressione nel senso del ritorno all’istinto l’uomo possa sopravvive­ re. Senza tutte quelle sovrastrutture che Steve non ha. Che Die ha smar­ rito. Che Kyla ha perso. Tutti hanno perduto qualcosa: chi il padre, chi il figlio. Sono tre persone distrutte che non hanno più nulla da perdere. Ma ogni dettaglio, nella loro storia, nel loro miracolo momentaneo e imperi­ turo, ci rimanda addosso il suo significato e il monito a risollevarsi. Nati per morire, ma, attenzione, bom to DIE. Per tornare da lei, Diane, Die, dalla persona che amiamo, dall’amore. Quindi, per rinascere, moriamo, tutti, dentro, almeno una volta, ma possiamo rialzarci come un’araba fenice (ed ecco la rivoluzione dolaniana, il punto di svolta rispetto alle sue opere precedenti). Ed è questo che Steve rimanda e reclama per sé e per noi: perché pur con tutto il comparto di dolore e frustrazione, sa che è con Die il suo posto, il posto per risorgere e resuscitare: lì dove è il suo cuore, dove è l’amore.

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Un manifesto all’amore, Mommy, un atto di libertà e di speranza no­ nostante tutto e contro tutto. L’amore che non sempre vince, anzi, l’amo­ re perde, perché i personaggi non riescono a salvarsi l’altro (e lo dice la segretaria a Die a inizio film, e lei risponde “dovranno ricredersi”, e dice lo stesso l’infermiere alla fine: “E inutile, ma è la natura umana”). Eppu­ re Die è sopravvissuta. L’amore non può tutto, ma la natura sì, la natura dell’uomo è più forte, l’amore per se stessi spinge all’affermazione totale del proprio essere. E allora Steve tenta e ri-tenta, cade e si ri-alza, perché non ha altra scelta.

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Camminando sulle macerie, letteralmente. Una poetica, quella del giovanissimo enfant prodige canadese, in via di esplosione, pronto ad essere chiamato, forse dopo l’approdo hollywo­ odiano, forse una volta metabolizzato lo scoglio dell’imberbe età, mae­ stro di cinema.

«La messinscena [...] basta sapere di cos'è fatta e com'è fatta, ba­ sta imparare a vederla e a trovarla nella composizione dei suoi segni e smette di essere tale, finisce di essere trasparente e invisibile per mo­ strarsi nella sua doppia perfezione di convenzione rodata, liscia, scor­ revole, ripetibile all'infinito, e di luogo ancora e sempre disponibile a invenzioni e sorprese (se il regista sa inventare e sorprendere)».

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Filmografia

J’ai tué ma mère (id., 2009, Canada) Regia e sceneggiatura’. Xavier Dolan Montaggio'. Hélène Girard Fotografia'. Stéphanie Weber-Biron Interpreti'. Anne Dorval (Chantale Lemming), Xavier Dolan (Hubert Minei), Suzanne Clément (Julie Cloutier), Francois Arnaud, Niels Schneider (Eric) Durata'. 96’ Les Amours Imaginaires (id. 2010, Canada) Regia e sceneggiatura'. Xavier Dolan Montaggio'. Xavier Dolan Fotografia'. Stéphanie Weber-Biron Interpreti'. Xavier Dolan (Francis), Monia Chokri (Marie), Niels Schnei­ der (Nicolas), Anne Dorval (Désirée) Durata'. 101’

Laurence Anyways (id., 2012, Canada/Francia) Regia e sceneggiatura'. Xavier Dolan Montaggio'. Xavier Dolan Fotografia'. Yves Bélanger Interpreti'. Melvil Poupaud (Laurence Alia), Suzanne Clément (Fred Be­ lair), Nathalie Baye (Julienne Alia), Monia Chokri (Stéfanie Belaire), Yves Jacques (Michel Lafortune), Sophie Faucher (Andrée Belair) Durata'. 168’

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Tom à la ferme (id., 2013, Canada/Francia) Regia e sceneggiatura'. Xavier Dolan Montaggio'. Xavier Dolan Fotografia'. André Turpin Interpreti'. Xavier Dolan (Tom), Lise Roy (Agathe), Pierre-Yves Cardi­ nal (Francis), Evelyne Brochu (Sarah), Manuel Tadros (barman) Durata'. 102’ Mommy (id., 2014, Canada) Regia e sceneggiatura: Xavier Dolan Montaggio: Xavier Dolan Fotografia: André Turpin Interpreti: Anne Dorval (Diane Després), Suzanne Clément (Kyla), An­ toine Olivier-Pilon (Steve Després), Patrick Huard (Paul), Alexandre Goyette (Patrick) Durata: 139’

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Credits J’ai tué ma mère MIFILIFILMS

Les Amours Imaginaires MIFILIFILMS QUEBEC FILM OR VIDEO PRODUCTION TAX CREDIT (CPTC) RADIO CANADA TELEVISION SODEC TELEFILM CANADA Laurence Anyways LYLA FILMS MK2 PRODUCTIONS

Tomà la ferme MK2 PRODUCTIONS SONS OF MANUAL ARTE FRANCE CINEMA CANAL+ FRANCE CINE +

Mommy METAFILMS SOCIETE DE DEVELOPPEMENT DES ENTREPRISES CULTURELLES (SODEC) SONS OF MANUAL SUPER ECRAN TELEFILM CANADA

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