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Italian Pages 164 Year 2023
Belinda Cannone
Il sentimento d’impostura
Margini
Collana diretta da Filippo La Porta
Margini | 18
Belinda Cannone
Il sentimento d’impostura Traduzione italiana di Giovanni Lombardo
Titolo originale Le sentiment d’imposture © 2005, Éditions Calmann-Lévy, Paris Published by arrangement with The Italian Literary Agency.
Prima edizione italiana Edizioni di Passaggio, Palermo 2011. Nuova edizione © 2023, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 18 – gennaio 2023 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-363-1 ISBN – Ebook: 978-88-5529-371-6 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Psychopathology – Mental Health Disorder – Bipolar Affective Disorder – Woman ripping her face © NUBEFY – stock.adobe.com
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Avvertenza e ringraziamenti
Questo libro è concepito come un «saggio», un essai nel senso, risalente al XVI sec., spiegato dai dizionarî. Per esempio, dal Petit Robert: «Ouvrage littéraire en prose, de facture très libre, traitant d’un sujet qu’il n’épuise pas». Un discorso assai libero, dunque, su un tema che non si pretende di trattare in tutti i suoi aspetti. È una vera gioia per l’Autrice ringraziare i tre amici “isolani” che hanno reso possibile l’edizione italiana di questo libro. Giovanni Lombardo, che ne ha curato la bella traduzione. Anna Lo Giudice, che ha condotto un’attenta rilettura del testo italiano. Giuseppe Pintus, che l’ha accolto con entusiasmo nel catalogo di Inschibboleth Edizioni. B. C.
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1 Un brutto sogno
Stai sognando. Sei appena arrivato al castello. Diciamo pure: al castello. Il motivo per cui ti trovi là non è chiaro. Per caso? Ti hanno invitato? Devi sbrigare qualcosa? Fatto sta che sei là. Non ti senti molto a tuo agio, ma è una sensazione ancora generica. Poco dopo, ti trovi davanti a una tavola sontuosamente apparecchiata, circondato dagli altri commensali. Ti viene assegnato un posto e ti siedi. Ma ti accorgi che gli altri sono ancora in piedi e capisci che avresti dovuto attendere che la padrona di casa invitasse tutti ad accomodarsi. Ti alzi di scatto, poi ti siedi di nuovo – ti senti ridicolo e sei un po’ agitato. Qualcuno ti avrà notato? Davanti a te, una schiera di bicchieri e di altri coperti di varia foggia. Cerchi di richiamare alla mente i tuoi vaghi ricordi sul galateo della tavola: ma non sai proprio come e quando dovrai servirti di tutti quegli attrezzi. Il panino alla tua destra è tuo o del vicino? La conversazione procede su argomenti di cui non capisci niente. E non ascolti quasi nulla, perché ti rendi conto che, col passare dei minuti, tutto il tuo essere si contrae sempre più penosamente. Nessuno ti rivolge la parola e tu osservi di sfuggita il comportamento degli altri. Hanno un’aria
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contenta, sono a loro agio. Tu invece sei in un posto che ti fa capire di essere fuori posto. Non hai niente da fare qui, anche se ti ricordi che avevi un po’ di fame. Pensi che ciò che hanno appena deposto sul tuo piatto sia una specie di pesce. Non hai mai saputo mangiare un pesce senza combinare disastri per spinarlo. Speri che nessuno dei tuoi vicini si sia accorto che cominci a sudare. Ti asciughi la fronte con il tovagliolo. La signora seduta di fronte a te ti lancia un rapido sguardo, che a te sembra di rimprovero; poi riprende la conversazione. Dici a te stesso che tutti sanno che sei un intruso. E cominci a spiare i loro sguardi senza arrivare a capire se ti stiano osservando o no. Una coppia bisbiglia qualcosa. Stanno parlando di te? Provi a ragionare un po’. Hai sempre sognato di essere ricevuto al castello, ma non ti ricordi se l’invito era per oggi o per un altro giorno. Eppure – ne sei certo – hai percorso tutto il cammino fino a qui: ti ricordi gli alberi ai margini della strada e il lungo sentiero scosceso, sotto un cielo stellato. Cerchi di fare bella figura, ma il sudore cola sui tuoi occhi e sei come impietrito. Sai di essere un impostore. Lo sai bene.
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2 (Parentesi programmatica
Quando una parola non esiste – o non esiste ancora – significa che l’oggetto che essa deve – o dovrà – designare non è stato per il momento identificato. Ciò di cui tu vuoi parlare non ha una definizione. Però sei convinto che questo sentimento – giacché si tratta senz’altro di un sentimento – sia molto diffuso. Diffuso ma oscuro. Ti trovi perciò costretto a inventare una formula che ricopra il tuo oggetto. Del resto, sarai portato a descrivere quest’oggetto nella maniera più precisa possibile, per conferirgli un contorno. Descrivere: cioè distaccare razionalmente una cosa dal continuum del mondo. In mancanza di meglio, decidi di chiamare il tuo oggetto “sentimento d’impostura”).
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3 Il bambino
Quando eri piccolo, abitavi in un piccolo villaggio di provincia, dove tuo padre era funzionario dell’amministrazione locale e tua madre maestra elementare. Andavi in una scuola frequentata da una trentina di alunni di ogni età e giocavi volentieri con loro a mosca cieca o a nascondino, ma ti sentivi un poco distaccato: ben educato, avevi un linguaggio leggermente diverso da quello dei tuoi compagni e il tuo rapporto privilegiato con la maestra ti imbarazzava un po’. Più tardi, ti hanno consigliato di seguire i corsi preparatorî per essere accolto alla “Facoltà dei Carrieristi”. Ma, per lungo tempo, non sei riuscito a liberarti di un sentimento d’impostura che ti mordeva segretamente. Tu, il bimbetto di provincia, che ci facevi dunque all’Università, in mezzo a quei giovanotti così sicuri di sé stessi e, successivamente, in mezzo a quegli ingegneri in carriera così brillanti? Oh, certo: lavoravi sodo, il tuo curriculum era invidiabile, i tuoi colleghi ti stimavano veramente e spesso eri tu che, in cantiere, risolvevi i problemi. Quante bevute avete condiviso ogni volta che un’operazione si era conclusa bene, con la tranquillità propria dei lavoratori contenti di sé e degli altri! E allora? Perché sei convinto di occupare una casella che non era stata prevista per te?
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Col tempo, il sentimento d’impostura si è dissipato. Per tre ragioni. Anzitutto, il tempo stesso faceva la sua parte e ti costringeva ad ammettere che tutti ti apprezzavano – e, d’altra parte, eri consapevole di fare bene il tuo lavoro. In secondo luogo, perché ti sei accorto (in queste cose hai un orecchio fine, da vero specialista) che altri, che avevano percorso una strada senza ostacoli (la «strada regia», dici tu), destinati da sempre a diventare grandi ingegneri in carriera, condividevano anche loro quel sentimento d’impostura. Hai cominciato a dirti che forse il sentimento d’impostura non corrisponde a niente di reale, non poggia su alcun elemento oggettivo e che si tratta piuttosto di una rappresentazione: quella che voi, fratelli in impostura, vi fate della forma propria alla “casella” in cui siete entrati. Una casella disegnata prima da un percorso di formazione e poi dalle esigenze inerenti alla natura del buon carrierista. Ma quelle esigenze erano davvero chiare? Chi dunque potrebbe mai riuscire conforme a una casella? E soprattutto: c’era come un fossato tra la tua rappresentazione, confusa ma generata dal tuo intimo, e quella dell’essere che saresti dovuto essere (te ne fai una vaga immagine) per occupare legittimamente quella casella. Hai cominciato a pensare che quel sentimento così potente, così devastante, che talvolta ti conduceva a sentirti così miserabile in mezzo ai tuoi pari, non era forse nulla di più che una fissazione della tua mente, una pura illusione. E infine, terza ragione per cui il sentimento d’impostura si è dileguato: eri diventato un poeta – senza dubbio, un residuo del senso d’estraneità proprio dell’infanzia e un insopprimibile bisogno di espressione. Abituato infatti a guardare il mondo di scorcio, finivi per accorgerti di cose che – pensavi – dovevano essere dette e condivise. Quando eri libero dal lavoro, scrivevi: e pubblicavi poi le tue poesie con piccole case editrici. Dovevi lottare per piazzare i tuoi testi. «Caro Signore», ti dicevano gli editori, «Lei non ci rende alcun guadagno e quello che scrive
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è un po’ stravagante». Ma tu finivi sempre per ritrovare il tuo entusiasmo – e continuavi. In nessun caso avresti saputo dire se le tue poesie avessero un certo valore. Se una potenza sovrannaturale fosse discesa ad avvertirti che stavi perdendo il tuo tempo, le avresti senz’altro dato ascolto. Ma credevi possibile anche l’eventualità opposta. Insomma: non lo sapevi. E tuttavia eri certo che dovevi continuare, che il tuo posto era là, che quello era il luogo in cui, a tuo rischio e pericolo, dovevi resistere, anche sapendo che delle tue opere non sarebbe rimasto niente, che esse erano forse di modesta qualità – ma tu dovevi provarci. Su questo terreno eri forse un poeta spaventoso, ma non eri un impostore. E questo ti ha fatto capire che il sentimento d’impostura non aveva niente da vedere con il valore. Si tratta indubbiamente di una rappresentazione: della nostra propria casella e di noi stessi. Hai preso l’abitudine di parlare degli impostori non già per designare i professionisti dell’impostura (quelli che di fatto occupano un posto cui non hanno diritto, quelli che mentono, che imbrogliano, che cercano, appunto, di “imporre” una certa soggezione), ma per parlare di coloro che, come te, soffrono per questa invenzione della loro stessa mente: il sentimento d’impostura.
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4 Un segreto
Hai conservato un’intima conoscenza del sentimento d’impostura. Dei tuoi impostori (e scrivi il termine in corsivo per distinguerlo dagl’impostori propriamente detti) ti accorgi sùbito: basta che comincino a parlare. Tu li indovini. Si sentono a disagio, ma non lo dicono. Non possono dirlo. Davanti agli altri, si può dubitare del proprio valore, ma non si può esibire la propria impostura. Anzi: gl’impostori sperano fortemente che gli altri non se ne accorgano. Altrimenti (credono) sarebbero cacciati via dal castello, come furfanti, come usurpatori. Com’è fortunato l’impostore che può dire: «In queste cose non sono granché, e in quelle altre cose non mi è andata tanto bene». Perché così lascia credere che avrebbe, certo, potuto ottenere migliori risultati ma che, in ogni caso, non è fuori posto. A tavola, massacra il suo pesce e dice, sorridendo – o anche tutto confuso –: «Non sono mai riuscito a cavarmela con questi piatti». E lascia intendere che, a quella mensa, egli non è fuori posto. Ma, di fatto, l’impostore non si sente legittimato a sedere a tavola, non si crede un invitato o crede di essere stato invitato per errore. E la sua paura più grande è che tutti se ne accorgano. L’impostura è un fatto segreto. L’impostore trema all’idea che un altro finisca per accorgersi di ciò che egli è – o piuttosto di
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ciò che egli non è. Il più delle volte, gli altri sembrano pensare che noi occupiamo legittimamente il nostro posto (d’altra parte, ci hanno invitati al castello), ma, nel segreto della nostra ubbia, noi non crediamo a questa legittimità: pensiamo che gli altri si siano sbagliati e tremiamo all’idea di essere scoperti. Col tempo, t’è venuto il sospetto che il mondo fosse fatto di tante caselle, ben quadrettato, ben organizzato e predisposto in anticipo. Ma spesso queste caselle, questi “quadratini” sono talmente complessi e dunque talmente indefinibili che il sentimento del nostro proprio io – necessariamente vago rispetto alla fissità della casella – non può corrispondervi. Gl’impostori devono essere legione. Nel segreto della loro mente.
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5 Origini
Ti sarebbe piaciuto che il termine impostura provenisse da in(in senso privativo) e postura; che significasse la “non-postura”, la “falsa postura”, la “postura problematica”. E invece no. Il Dictionnaire historique de la langue française ti dice: nel 11741175, troviamo attestata per la prima volta la voce emposture, un adattamento del latino imperiale impostura («inganno»), derivato del verbo imponere (imporsi nel senso di mentire, ingannare con discorsi menzogneri). È abbastanza divertente che il termine venga acquisito alla lingua francese, nel 1534, da Rabelais. L’accezione attuale di imposteur come «persona che usurpa un nome o una qualità che non gli appartengono» data a partire dal 1668. Il senso di impostore è dunque legato all’idea di imporsi, di mentire circa la propria natura e di assumere così una posizione abusiva, occupando un posto illegittimamente. Ma quelli di cui tu qui parli non lo fanno volontariamente e anzi non lo fanno proprio. Essi si credono impostori: è il loro sogno stridente, il loro incubo, la loro paura – ma non è la loro identità. Appunto quello che tu vuoi descrivere: una di quelle fissazioni create dalla mente e tali da opprimere una persona e da rovinarne talvolta o, almeno, da condizionarne immancabilmente
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la vita (o un aspetto di essa). E tu, tu vai sulle tracce di questa fissazione perché sai che potrebbe svanire sotto i colpi della descrizione. Di alcuni fra i tuoi amici potresti dire che sono impostori dell’esistenza: non sono mai stati convinti della legittimità della loro presenza nel mondo. Li vedi vivere dolcemente, silenziosamente, sempre con l’aria di sussurrare: «Scusatemi se esisto, ma non sarà una cosa lunga…». Per loro, quella postura originaria – l’essere dritti in piedi su questa terra – non è affatto ovvia. Mistero di ciò che ci è stato indubbiamente sottratto già dalla nascita, quell’amore che, solo, può farci credere che eravamo attesi, desiderati. All’inizio siamo giustificati dalla gioia di coloro che, per primi, si chinarono sulla nostra culla, quasi per dirci: «Esisti: la tua vita è necessaria alla nostra felicità». Credenza primaria, che rende sicuri i nostri passi. Altre insidie si presenteranno (e forse altre ragioni per sentirci impostori), ma noi resteremo verticali. Oggi l’impostore dell’esistenza attraversa la strada, incalzato da un appuntamento urgente. Corre, si preoccupa di essere in ritardo. Eccolo davanti alla carreggiata. Il passaggio pedonale si trova una trentina di metri più avanti. Poco male, attraverserà qui: è troppo urgente. E così raggiunge il marciapiede opposto… Ma cos’è, all’improvviso, quella piccola scheggia nel cuore? Oh… è la tentazione di andare a denunciarsi immediatamente al primo posto di polizia. Kafka racconta che, una delle rarissime volte in cui chiese – egli, l’impiegato modello – il permesso di assentarsi dall’ufficio solo per un giorno, allegò alla richiesta le lastre dei suoi polmoni infermi. E d’altra parte tu conosci qualcuno che segnalò all’ufficio delle imposte un errore nel computo delle tasse: quell’anno gli avevano fatto pagare di meno. Perché – come se non bastasse – c’è anche quel terribile bisogno di non essere in errore.
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6 La castellana
A forza di riflettere sul sentimento d’impostura, hai finito per ritrovarlo in molte opere e in molte situazioni che, sulle prime, sembravano occuparsi di tutt’altra cosa. Rebecca: nel romanzo di Daphne Du Maurier (1938), così come nel bell’adattamento cinematografico realizzato da Alfred Hitchcock (1940), una ragazza semplice e carina s’innamora di un Lord inglese, ricchissimo e vedovo, e lo sposa. La bella favola comincia a guastarsi quando la ragazza arriva a Manderley (al castello) e constata che il posto di Lady Winter è già occupato. La sontuosa Rebecca, la cui imbarcazione è colata a picco in un giorno di tempesta, ossessiona i luoghi e le menti. Nel film, non si vedrà mai questa donna, che ha inciso la sua iniziale “R” dappertutto e che viveva nell’ala più bella del palazzo (attualmente chiusa). Rebecca è una specie di fantasma con cui la nuova sposa, nella sua mediocrità, deve mettersi a confronto (così, almeno, lei pensa). Impostura: al telefono, quando chiedono di Lady Winter, lei risponde che la Signora è morta già da un anno. L’iden tità di questa ragazza povera è così evanescente che non la si chiama mai per nome. Bisognerà aspettare la fine del romanzo, la soluzione dell’enigma, perché possa finalmente accedere a un nome proprio: «Sono io adesso Lady Winter!». Ma, fino
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a quel momento, la ragazza ignora le usanze del gran mondo, non sa trattare con la servitù, non si cura della propria tenuta, non riesce insomma a occupare il posto importante ch’era stato di Rebecca – e non è nemmeno certa di riuscire a colmare il vuoto che la prima moglie ha lasciato nel cuore del marito. Il matrimonio e, nella vita, il puro trascorrere del tempo ne hanno fatto una donna. Ma come dev’essere una donna? La giovane sposa si mette alla ricerca di informazioni. Com’era Rebecca? Come viveva? E ogni volta che chiede: «Come si fa a essere Rebecca?», dietro quest’interrogativo si percepisce che la vera domanda è un’altra: «Come si fa a essere una donna?». Nessuna domanda potrà rassicurarla. Come donna, Rebecca era «la più bella creatura» che mai si fosse vista (quanto all’aspetto fisico). Intelligente e spirituale (quanto all’interiorità). Piena di gusto e bravissima ad abbigliarsi (quanto alla distinzione). Abile a governare una barca come un marinaio, brillava anche in certe attività più propriamente maschili. Ammirata da tutti, era l’orgoglio del marito. Tutte le rappresentazioni di Rebecca concorrono a costruire un modello ideale: era la donna. Ma quale donna in carne e ossa potrebbe mai essere la donna? Occupando un posto del tutto astratto (donde la sua invisibilità), Rebecca è quella forma superlativa di femminilità cui la ragazza appena uscita dall’infanzia non può certo corrispondere. Pensi allora a tutte quelle donne che un giorno ti hanno confidato di soffrire per il fatto di non sapere cosa significhi essere donna. Nel segreto della confidenza, ti manifestavano quella loro strana difficoltà di sentirsi femminili (tu invece le trovavi perfettamente femminili) e vedevi i loro sforzi per esagerare i segni esterni della femminilità o, al contrario, le vedevi un po’ maschiacce oppure aggressive, anti-maschili – un modo un po’ maldestro di convincersi della loro identità affermando una differenza ontologica, a loro vantaggio. Così hai capito che essere donna è anche una postura. Perché una donna è un
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essere dotato di un corpo di donna. Fuori da questa evidenza biologica, non sapresti indicare ciò che distingua le donne. Un cervello da donna – che cos’è? Non è affatto certo che, fuori dalle (de)formazioni culturali si possa mai trovare una specificità femminile. Al di là degli effetti di apprendimento, di mimetismo, di condizionamento, nulla ha mai permesso di distinguere un cervello femminile da un cervello maschile. Si nasce donne solo fisicamente. Lo si diventa identificandosi con modelli materni, poi con modelli che la cultura – in senso molto lato – mette a nostra disposizione (e che, peraltro, raramente ci riescono gratificanti). In certi casi, le identificazioni sono ovvie. Si ha allora l’impressione di essere donne senz’ombra di dubbio, anche se non sappiamo esattamente cosa questo propriamente significhi. In altri casi, questa identità è problematica. D’altro lato, è verosimile che le donne che non si sentono femminili non si sentano nemmeno maschili: è verosimile che non si sentano niente. Ci si confronta allora con modelli illusorî inaccessibili: le varianti di Rebecca. Modelli con cui, incapace d’inventarsi, l’impostore al femminile desidera vanamente misurarsi.
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7 Un uomo – un vero uomo
Questo non è molto più evidente per gli uomini – Rebecca ha un fratello: il bell’Antonio. In Sicilia, la terra di Pirandello (Autore – se altri ve ne furono – dell’impostura, dell’io diviso, moltiplicato, errabondo), essere un uomo non è un affare da poco. E qualora tu tendessi a credere che dappertutto è così, si dà il caso che non pochi scrittori siciliani si siano occupati di questa faccenda. Osserva Leonardo Sciascia: Buona parte dei sogni dei siciliani continuano a essere accentrati sulla donna. Un certo comportamento nei confronti della donna resta come un imperativo categorico: si è veri siciliani se si hanno donne, se si è ossessionati da esse, poiché è questa la natura del vero uomo. Tormentato da una profonda insicurezza, da un terrore esistenziale, da una fondamentale instabilità, il siciliano deve per forza rispondere al richiamo del sesso.1
D’altra parte, aggiunge Sciascia, «il siciliano è intimamente convinto di essere “il migliore” nelle cose della sessualità».
1. L. Sciascia, La Sicilia come metafora. Intervista di Marcelle Padovani, Mondadori, Milano 1979, pp. 41-42.
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Insomma: proprio come la ragazza che, di fronte all’immagine di Rebecca, si chiedeva che cosa significasse essere una donna, anche un ragazzo siciliano, messo di fronte a una tale esigenza, chiamato a un ruolo così grandioso e indefinito (che vorrà dire essere «il migliore in amore»?), ha molte possibilità di non riuscire a occupare il suo posto e di sentirsi un impostore nei cimenti della virilità. Nel Bell’Antonio (1949) di Vitaliano Brancati non si tratta che di questo. Antonio è così bello che nessuno resiste al suo fascino e finanche i suoi genitori devono reprimere la voglia di accarezzarlo. Una tale bellezza non può che preludere a un Don Giovanni. Sennonché, dopo tre anni di matrimonio, un pettegolezzo rivela a tutti che il bell’Antonio è… impotente. Nel film che, nel 1960, Mauro Bolognini trasse dal romanzo, il padre incarna perfettamente la millanteria maschile: traccia il destino del figlio, attribuendogli una vita da Casanova, e celebra continuamente la propria vigoria. Ce n’è di che nausearsi: il figlio sembra infatti fortemente risentire di quella speciale oscenità paterna. E così come vediamo che i bambini, per una sorta d’inconscia e radicale protesta, fanno tutto il contrario di quello che i genitori si aspettano da loro, il bell’Antonio non può assolvere alle esigenze del matrimonio. Al di là dell’aneddoto, la storia recconta tutta la difficoltà di conformarsi allo stereotipo della virilità, così come i Siciliani lo propongono: Antonio è un delicato che non può non sentirsi un impostore nel ruolo esagerato che la sua cultura gli impone. Alle tue amiche femministe (che peraltro sostieni senza riserve) tu spesso ricordi che, anche per coloro che non sono siciliani, non è poi così semplice essere un uomo e che le immagini preconfezionate possono anche risultare abbastanza terrificanti.
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8 Ipotesi: il doppio
Ricordi quel detto spiritoso? In una coppia, tutti i malintesi sono possibili perché ci si crede in due, quando in realtà si è sempre in sei: quello che io sono, quello che tu sei, quello che tu credi che io sia, quello che io credo che tu sia, quello che io credo di essere, quello che tu credi di essere. D’accordo con gli specialisti, ammetti che l’identità non problematica è il risultato d’una perfetta coincidenza fra tre immagini: l’immagine che ciascuno di noi ha di sé stesso, l’immagine che ciascuno di noi attribuisce agli altri, l’immagine che gli altri ci rinviano. Per descrivere la sofferenza dell’impostore, bisogna soffermarsi sul momento entro cui si costituisce il primo tipo d’immagine. Giacché l’impostore passa la maggior parte del suo tempo nello sforzo di trasmettere un’immagine credibile di sé stesso come l’occupante della sua casella (secondo tipo d’immagine): e ciò trova, quasi sempre, la conferma degli altri (terzo tipo d’immagine). Ma l’immagine che egli ha di sé stesso viene a sdoppiarsi. Accanto al sentimento complessivo di sé medesimo (con cui peraltro non riesce mai a coincidere), l’impostore ospita dentro di sé, un doppio inattingibile: quello che egli crede di dover essere e che perciò agisce su di lui come un rimprovero
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permanente. Nelle relazioni fra l’impostore e gli altri, questo fantasmatico doppio interviene sempre come una terza figura, nella misura in cui l’impostore teme continuamente che gli altri possano smascherarlo, rendendosi conto che egli (quello che gli altri percepiscono) non coincide affatto con il personaggio bello e seducente che dovrebbe essere.
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9 Il povero
Jacques proveniva da una famiglia molto povera di immigrati spagnoli e nella vita era riuscito a imporsi con le sue sole forze. Una persona irreprensibile, onesta, rispettabile e rispettata. Era bello, ma austero: verso sé stesso non era abbastanza indulgente da permettersi di essere felice. Portava spesso la mano al cuore. Quando un giorno gli hai chiesto la ragione di quel gesto così frequente, ti ha confidato che in quel modo verificava di avere sempre con sé, in tasca, il portafogli, ovvero, più precisamente, i suoi documenti di identità. Essere poveri in un mondo in cui il denaro è l’indizio del successo e dunque del valore ci fa diventare estranei a qualunque luogo si attraversi, ci impedisce di essere sicuri dei protocolli e dei codici, ci induce alla convinzione che il mondo, così com’è, non sia stato previsto propriamente per noi e che siamo stati programmati in una maniera imperfetta. L’orribile umiltà dei poveri, quella specie di vergogna che talvolta li coglie assomiglia molto – se non ti sbagli – al sentimento d’impostura. Se non si hanno soldi, significa che non si è stati al gioco della classificazione (non si è saputo o non si è potuto stare a quel gioco): il risultato è perciò venuto meno.
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Si è privi di un contrassegno del valore, così come il valore è inteso in una democrazia mercantile. Nelle pagine di un arguto romanziere hai letto che quando si nasceva poveri lo si restava per tutta la vita, anche se poi si diventava ricchi. Giacché non basta avere buone maniere, gusto, cultura: occorre che tutto ciò riesca «naturale». La caricatura di colui che non ha saputo «naturalizzare» i suoi guadagni è il nouveau riche. Più insidioso è il temibile commento dei benestanti, che sopraggiunge sempre come una spiegazione complessiva e vaga della personalità di qualcuno, per quanto brillante egli sia: «Viene da un ambiente molto popolare». Il privilegio della nascita non è una credenza esclusiva dell’Ancien Régime. Anche se siamo ormai entrati nell’ideologia del merito (dal momento che ciascuno vale per l’insieme dei suoi atti e non per una grazia sortita alla nascita), resta il fatto che quella tale poltrona stile Impero ha un pregio (simbolico) assai più alto se, invece di essere stata acquistata presso un antiquario, ci è stata lasciata dalla nonna. Perché, in questo secondo caso, la poltrona viene naturalizzata dalla trasmissione ereditaria: qui il potere non è stato acquisito ma è stato donato. Colui che un tempo è stato povero è spesso parte integrante di questa visione, si sente impostore perché si ricorda che ciò che gli altri possedevano fin dalla nascita egli ha dovuto, invece, «prenderlo in prestito».
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10 Il poeta
Perché non ti sei mai sentito un impostore dedicandoti alla poesia? Perché tu certo conosci cattivi poeti, ma conosci anche poeti impostori, non già quelli che fanno ciò che possono – come ogni artista è destinato e addirittura condannato a fare – ma quelli che si procurano un posto nel mondo dei poeti con l’astuzia, con l’inerzia, con la sottomissione conformista a ciò che da loro ci si attende (ben sapendo che oggi il conformismo consiste, come essi dicono, a “dare fastidio”…). Tu non parli di costoro, che sono gl’impostori di professione, quelli che prendono la posa, la postura – i realizzatori. Gli altri – buoni o cattivi che siano – corrono il rischio più alto di una vita passata a riempire pagine e pagine, senza sapere se non sarebbe meglio dedicare i preziosi istanti della loro esistenza ad altre cose, a piaceri più immediati e più certi. E tuttavia sentono che devono mettersi alla prova, ostinarsi su questa strada. È la loro postura, ma non è un posto. Da parecchi secoli, non si prevede più alcuna collocazione per gli artisti. I romantici lo hanno proclamato definitivamente: è artista colui che inventa la propria collocazione, l’essere singolare, l’individuo che non ha alcun modello e che ha solo alcune ascendenze – anche se
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oggi può capitare che, in nome dell’ideologia e della rottura, non si abbiano più ascendenze. A partire dal Rinascimento – e soprattutto da quando la modernità ha soppresso i codici, le regole che, ben applicate, potevano garantire il capolavoro e lo statuto di artista – i creatori vivono in un «regime di singolarità»: l’indeterminazione caratterizza il loro posto, la loro postura e finanche il loro comportamento. Si tratta di non assomigliare ad altri che a sé stessi (ma «sé stessi» è qui un’espressione un po’ sbrigativa, perché l’idea di un «sé stesso» non è affatto ovvia). Il loro unico (e considerevole) problema non è dunque quello del loro posto ma è quello del valore della loro opera; giacché essi devono, per definizione, inventare la loro opera, che diviene così il contrassegno del loro valore. Possiamo essere certi che se oggi volessimo buttare a terra un artista dovremmo dirgli che la sua creazione ci ricorda altri artisti precedenti, anche prestigiosi. Egli invece sarebbe compiaciuto all’idea che la sua opera non trova uguale. Essere poeta voleva dunque dire inventare la tua casella – e tanto meglio se essa non assomigliava a nessun’altra, se essa addirittura disorientava. Nessuno poteva dirti ciò che tu dovevi fare. E se il successo non arrivava (ammesso che tu te ne fossi veramente preoccupato), anche questo non significava niente: potevi benissimo avere avuto ragione, solo contro tutti – un caso peraltro non insolito nella storia delle arti. L’opera non è attesa da nessuno: inventa i suoi lettori, i suoi spettatori, li costruisce manifestandosi e talvolta c’è bisogno di un po’ di tempo affinché il pubblico riesca finalmente a identificarla come un’opera e a decifrarla. Con la tua opera – e nonostante le tue frequenti disavventure – non potevi dunque sentirti un impostore. Facevi ciò che dovevi fare, credevi di averne assolutamente diritto e ti sapevi leale di fronte al tuo desiderio. Vivevi insomma in questo paradosso: quanto meno ti sentivi riuscito (in termini mondani), tanto più ti sentivi legittimato. La legittimità non aveva perciò nulla da spartire con il valore.
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Queste constatazioni ti hanno portato a comprendere che il sentimento d’impostura ha la natura di una profonda fissazione. Anzitutto perché così hai verificato che quanto più la tua casella era, per sua natura, indeterminata, tanto meno era possibile il sentimento d’impostura. E poi perché hai sperimentato che questo sentimento non ha niente da dividere con il valore. Ed era proprio questo che tu avevi constatato: le donne più belle non si credevano femminili, i grandi ingegneri in carriera non facevano alcun conto del loro successo professionale, gl’invitati del castello non capivano perché li si accogliesse a tavola… Contro la stessa evidenza della loro adeguazione alla casella, erano ossessionati dalla fissazione di avere usurpato il loro posto.
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11 E i nipoti di Van Gogh? (Sfumatura)
«Mio caro, sarebbe certo un buon metodo non generalizzare troppo a partire da questa tua piccola esperienza». Che diamine! È proprio per questo che ho sentito tanti impostori prima di scrivere questo saggio. Nathalie ti fa osservare che nessun artista può sfuggire al sentimento d’impostura e ti dice: «Van Gogh: guarda in che impossibile situazione si trovano i suoi eredi». Per quanto la modernità ti obblighi a inventare te stesso (ah, questa idea di essere «sé stessi»: dovremo ritornarci), anche per questa postura i predecessori non mancano. La figura dell’artista autentico, indifferente all’altrui opinione, incapace di calcolo e di strategia, pronto ad accettare una vita miserabile in nome della sua arte, impermeabile dalle norme estetiche vigenti, è Van Gogh: l’uomo con l’orecchio reciso (questo è il mio corpo: ecco il mio sacrificio), il folle (a nessun altro simile), il «suicida della società» (come diceva Artaud). Proponendo una sublime incarnazione della figura dell’artista progressivamente costruita dal XIX secolo, Van Gogh è diventato (per la maggior parte della gente) una leggenda e (per gli artisti) un paradigma, cioè una forma tale da strutturare la concezione di ciò che bisogna essere. Ed eccoci nel paradosso: Van Gogh incarna la singola-
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rità più radicale, è l’artista per eccellenza e i successori dovrebbero tuttavia… assomigliargli. Ma assomigliare non è appunto cessare di essere singolari? Quanto tu vai dicendo su Van Gogh può essere oggi esteso a ogni postura d’artista e non fa che mettere criticamente in rilievo una tensione verso l’opera che non investe solo gli artisti ma anche, più in generale, la società: la tensione che, per l’appunto, risulta dall’ingiunzione paradossale, rivolta a ogni individuo, di essere sé stesso, cioè uguale a nessun altro. Insomma, qualcosa come: «Se volete essere come bisogna essere (cioè nella norma, cioè come tutti gli altri), siate assolutamente singolari». Arriviamo così alle figure contemporanee che mescolano impostura e impostura. Quel tale scrittore, assai noto, si procura il massimo di visibilità atteggiandosi ad artista maledetto (incompreso, letto male). Quel talaltro scrittore (alludo a Jean Carrière, che ha raccontato la sua esperienza in Le Prix d’un Goncourt) piomba in un profondo sentimento d’impostura e non può più scrivere una volta che il pubblico riconoscimento ha demolito la sola immagine di sé stesso in quanto artista cui egli potesse aderire (quella di Van Gogh che non vendette quasi alcun quadro). O ancora: quell’altro scrittore (Romain Gary) si irrita «perché gli hanno fatto una brutta faccia» e, non volendo più avere «alcun rapporto né con la sua opera né con sé stesso», decide addirittura di prendere a prestito un’altra opera, così da allestire una grande frode letteraria. Qui tu presagisci – e anche su questo bisognerà tornare – che il sentimento d’impostura potrebbe talvolta sfociare nell’impostura autentica, dato che questa è una risposta e forse anche un modo per porre rimedio ai disturbi dell’impostura. Ma riconsideriamo, anzitutto, questo fatto: «sé stesso»…
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12 Essere sé stessi – per la miseria!
Giacché non c’è alcun bisogno di essere artisti (e forse proprio perché non ce n’è bisogno oggi tutti fanno a gara per proclamarsi artisti) per sentirsi dire e ridire «Sii te stesso», «Cerca di essere naturale», «Solo essendo te stesso, potrai riuscire il migliore». Ti viene in mente che, quando eri giovane, hai pensato: «Effettivamente è così». L’idea invadeva le strade e i manifesti pubblicitarî. (Ovviamente, i te-stessi che i manifesti ti propongono non ti assomigliano per niente. E tuttavia sono te-stessi molto belli, molto grandi, molto elastici, molto sorridenti, molto qualunque cosa. Ma va bene. Recentemente Caroline ti confidava quanto fosse stufa – ma veramente stufa – di contemplare tutte quelle te-stesse femminili che non somigliano quasi a nessuno e che le ricordano quanto il corpo delle donne resti ancora un oggetto di mercanzia – Caroline è davvero furiosa. Ma va bene). Essere sé stessi, dunque. Vasto programma. Tu non chiedi di meglio ma, a pensarci bene, è impossibile capire dove si trovi la bestia. Nel regno dell’uniformità bisognerebbe coglierne la singolarità. Si ha l’aria di suggerire che si tratti di un comportamento, di un distacco, di un modo di non tener conto del parere o dello sguardo degli altri. Nel regno delle apparenze, dovremmo prenderci cura soltanto
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del nostro essere profondo, nell’epoca del consumismo di massa, dovremmo cercare la nostra unicità. Ovviamente, quando si sfogliano le riviste o si accende la tivù per sentire parlare dell’essere profondo si scopre solamente l’essere standardizzato: «Sii te stesso, assomiglia a noi…». (Antidoto: «Per proteggermi dal giudizio degli altri, ho tutta la distanza che mi separa da me stesso», Antonin Artaud). Insomma: essere sé stessi. Da una parte, una società alquanto complessa, che propone un’infinità di casi molto ristretti. Dall’altra parte, l’ingiunzione di essere singolari. Non sai se sia una cosa paradossale o invece una cosa estremamente coerente. Ti chiedi infatti se il sentimento d’impostura non nasca talvolta dal fatto che il mondo in cui viviamo è così complesso, così organizzato, così ordinato (per certi aspetti); dal fatto che l’esistenza è sottoposta a ogni sorta di discorso, di raccomandazione, di consiglio da parte delle persone esperte e da parte della gente come noi: a tal punto che, nella molteplicità dei riferimenti che ci vengono proposti, facciamo presto perdere i nostri punti di orientamento. Costretti a contestare un determinato modello per sceglierne un altro, proviamo il disagio di doverci comunque conformare alle caselle disponibili (antidoto: leggere, più avanti, il capitolo su Kafka). Allora: come accordare lo straordinario sviluppo dell’idea di singolarità con questo mondo fatto tutto di caselle? Come conciliare il be yourself, la religione dell’essere sé stessi, la promozione, in tutti i sensi, dell’io-prorio-io con l’obbligo di calzare le Nike, di indossare abiti firmati, di tenere un walkman alle orecchie, di avere nasi piccoli e labbra carnose? «Essere sé stessi»: la più piccola delle caselle? A meno che non si capovolga la questione. Un mondo pieno di caselle, certo: ma nessuna di queste caselle può essere veramente la «nostra». Ecco un esempio rivelatore che ci viene dal mondo del lavoro. Fino alla metà del XX secolo, un calderaio o un ingegnere potevano dire: «Sono un calderaio», «Sono un
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ingegnere». E, una volta trovata un’impresa o un posto corrispondenti alle loro competenze specifiche, avevano grandi possibilità di trascorrervi l’intera vita professionale. Da allora (tu non conosci bene le cifre), si preannuncia ai giovani che, nella loro vita, dovranno più volte cambiare mestiere – per non parlare delle imprese presso cui non hanno alcuna certezza di restare dopo un tempo relativamente breve. Questa mutevolezza del mestiere e del luogo in cui lo si esercita toglie ogni sicurezza quanto all’identità professionale e forse spiega, in qualche modo, perché, in fondo, la sola cosa di cui si abbia certezza è che questa moda dell’«essere sé stessi» si trasferirà anche nel mondo fluttuante del lavoro, senza che però si possa aspirare a un’identità professionale stabile – donde un sentimento d’impostura. Ricordi molto bene quel giorno in cui (avevi forse dodici anni) ti sei detto: «Cambio continuamente, ma è chiaro che qualcosa resta immutato, qualcosa che potrei chiamare: “me stessa”». In un’età in cui tutto – corpo, mente – diventava mutevole, in cui si delineavano le grandi incertezze dell’avvenire, tu ti rassicuravi con la modesta constatazione di una durata dell’identità: era una cosa alquanto indistinta che potevi tuttavia designare con questa formula non meno imprecisa: «me stessa». L’invito generalizzato a «essere sé stessi» non sarebbe la salvaguardia psichica con cui gl’individui reagiscono a una società così labile?
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13 Il conformista
Marcello si credeva anormale. Quando era piccolo, aveva scoperto in sé il desiderio di uccidere e il piacere della distruzione. Non lo diceva, ma forse era stato anche attratto dai ragazzi. Aveva invano cercato un suo simile nell’amico Robert ma, dopo quest’unico tentativo fallito, si era convinto di essere un anormale agli occhi dell’universo. E non ebbe tregua fino a quando non trovò la «normalità». Un uomo normale: che cosa è mai? Qualcuno che occupa un posto in questo mondo. Ma questo mondo, così vario, così proteiforme, offre parecchi posti e diverse posture. Per essere certo di attingere la normalità, il Marcello del Conformista di Alberto Moravia (1951) sceglie di stare nella media, cioè nella banalità a ogni costo: funzionario, sposa una donna carina e mediocre e acquista una casa di media qualità. Intuendo poi che, in materia di legittimità, non si può mai essere troppo sicuri, aderisce al fascismo, senza una vera convinzione politica ma solo perché, a quell’epoca, quella era l’opinione dominante ovvero l’opinione «normale». Così come non ama coloro che imita nella sua vita quotidiana (li ama soltanto in quanto massa, ma individualmente non li sopporta), egli non ha alcuna fede nell’ideologia fascista. Solo che, in quel momento, Mussolini conosce la sua massima gloria
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e stare nella norma significa appunto seguire il Duce. E poi i regimi totalitarî – non è vero? – non hanno mai incoraggiato la singolarità: perché attraverso la porta aperta della singolarità minacciano sempre d’infilarsi tutte le a-normalità. Marcello decide perciò di prestarsi agli abietti incarichi che gli vengono dal ministro: tradimento, menzogna, assassinio. Giacché lo Stato lo chiede e lo legittima… E qui si ritrova una variante delle scappatoie dischiuse all’impostore dell’esistenza. Quando la postura che ci sceglie sembra escluderci da quel dolce nido morale che è costituito dall’insieme dei nostri simili (o di quanti rispondono all’idea che ci facciamo dei nostri simili), quando sembra definirci come non-simili e cioè, fondamentalmente, come impostori (coloro che non sono al loro posto nel posto che occupano), resta pur sempre la postura del conformista: colui che accetta senza riserve le posture più comuni. Il conformista costruisce la propria postura a colpi di gesti di repertorio, di frasi banali, di espressioni correnti, di atti servili. Fa la media delle cose che ha visto: gli altri gli sembrano normali perché si ripetono reciprocamente, perché agiscono con una bella uniformità. Oh, fare come loro, proprio tutto come loro, e meritarsi così una postura. Il suo sogno? Che un giorno gli si dica: «Come siete somigliante!». Un passo avanti in questa passione per la rassomiglianza e si arriva all’uomo-camaleonte magnificamente rappresentato da Woody Allen in Zelig. Leonard Zelig soffre di mimetismo universale: zoppica se capita vicino a un uomo zoppo, ingrassa vicino a un obeso, davanti a un jazzista di colore diventa anche lui nero e si mette a suonare il jazz, in mezzo ai medici discute di medicina. Il suo trasformismo investe tanto il corpo quanto la mente. Sotto ipnosi, dirà quanto lo rassicuri «essere come gli altri» e rivelerà il desiderio che agita la sua bizzarra natura: «Voglio
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essere amato». Figlio di un attore yiddish, sottoposto alle violenze del solito antisemitismo, additato come un non-simile a causa della sua origine, Zelig spinge all’estremo il desiderio di assimilazione. Si rende uguale al primo passante in cui s’imbatte, fino a quando non fa un altro incontro. Il film afferma che quest’uomo, definito un «conformista a oltranza», riflette la natura della nostra civiltà e il carattere di un’epoca. E infatti: non vedi come le folle si precipitano nei circhi per assistere allo spettacolo delle sue trasformazioni? Non vedi come accorrono al film tratto dalla sua vita, come acquistano i più varî oggetti con la sua effigie? Come cantano i pezzi di successo che egli ha ispirato? Masse, di volta in volta, entusiaste o irritate. Lo acclamano quando, momentaneamente guarito, grida – davanti a un pubblico intruppato come un gregge di pecore – le parole magiche: «Siate voi stessi. Non copiate gli altri». Ma poi quelle stesse folle, sempre intruppate come un gregge, lo condannano: giacché se, da una parte, Zelig incarna la passione del conformista (quella passione che, per un effetto boomerang, il suo personaggio suscita di rimando), dall’altra parte, prova anche le sofferenze patite dall’ebreo attraverso le epoche (ed è difficile non indovinare questa figura sullo sfondo del personaggio). Sempre accusato di essere un «altro», i comunisti gli rimproverano di essere l’emblema del «capitalismo multiforme», i credenti di essere l’emblema della depravazione, ecc. Dopo che le folle si sollevano ancora una volta contro di lui, ormai all’ultimo stadio del suo desiderio di conformità, Zelig va a immergersi nella Germania nazista – lo stesso gesto del Marcello di Moravia – cioè proprio là dove la sottomissione assoluta alla norma è la virtù cardinale. Qualcuno ti fa notare che nelle ultime immagini del film si potrebbe cogliere una finalità positiva. Se è vero che, fuggendo in aereo dalla Germania, Zelig va a ritrovare un’altra specie di gregge, lo fa nondimeno sorvolando l’Atlantico in senso in-
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verso. Quasi che recuperasse la sua identità rientrando nella norma. Equilibrio infine raggiunto.
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14 Kafka (o il mondo come impostura)
Da quando ti sei messo a pensare agli impostori ti è naturalmente venuto in mente Kafka. Sembrava evidente: ancora prima di rileggerne i testi, eri convinto che se c’era un autore che aveva ben ritratto la figura dell’impostore, questi era l’Ebreo praghese e universale: viveva in un paese che non era il suo (destino della diaspora giudaica) e scriveva in una lingua che non era né quella del suo paese (il ceco) né quella dei tedeschi (giacché, come si sa, il tedesco di Praga non assomigliava a quello parlato in Germania, ma ne era una versione petrificata). Avevi in testa l’immagine dello scrittore che sacrifica tutto alla sua opera: i suoi successi professionali presso le Assicurazioni Generali, la rapida promozione, seguita dalle dimissioni, con l’intento di dedicare tutto il suo tempo all’attività letteraria; il rifiuto d’impegnarsi nell’impresa paterna; il suo destreggiarsi con le donne, cui diceva che avrebbe preferito vivere in una cantina. Ma avevi anche in mente l’aneddoto raccontato dal suo primo editore, Wolff, stupefatto quando si sentì dire da Kafka: «Se, invece di pubblicare i miei manoscritti, me li rispedirete indietro, vi sarò molto più grato». Come se anche quel ruolo tanto desiderato – il ruolo di autore – non potesse essere
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assunto. Ma tu ricordi anche il finale di uno dei suoi ultimi racconti, Un artista del digiuno, che ti sembra emblematico della sua vita e della sua im-postura. Sul punto di morire a seguito della sua esibizione, il digiunatore rifiuta l’ammirazione che gli si vorrebbe tributare perché – egli spiega – non avrebbe potuto fare altro che digiunare. Come mai? – gli chiedono. Perché nessuno degli alimenti gli piaceva. «Se ne avessi trovato uno, credimi, non avrei fatto cerimonie e mi sarei riempito la pancia come te e come tutti gli altri». Nemmeno la casella del campione gli si addice: rifiuta quel titolo, col pretesto di non aver fatto niente per meritarlo. (E non è forse l’immagine kafkiana dell’artista? Se avesse trovato il suo piacere nel vivere come tutti, non avrebbe votato la sua intera esistenza alla letteratura. E Fernando Pessoa diceva: «La letteratura, come ogni forma d’arte, è la confessione che la vita non basta»). Allora sei andato a riaprire i libri di Kafka, tutto contento per aver trovato l’autore e i testi che spiegavano la tua idea. Hai ripreso anzitutto Il castello. Delusione. L’agrimensore è un provocatore, un furbacchione, un contestatore a tempo perso, un superbo di tanto in tanto – non certo un impostore. Non una sola pagina in cui tu potessi sentire il primo fremito di un sentimento d’impostura. Contrariato, ma non scoraggiato, hai riaperto Il processo. Identica delusione. Josef K. si sottomette alla legge, alle sue procedure, va in tribunale, segue perfino, senza protestare, gli uomini venuti a giustiziarlo. Non è d’accordo con quella legge, ma ne subisce tutte le conseguenze. Accetta l’esclusione che gli impongono, ma non la interiorizza mai. Eri seriamente indispettito: perché tutto ciò sembrava proprio l’opposto di ciò che t’aspettavi. Come potrebbe definirsi impostore chi non solo evita di costruirsi la fissazione dell’impostore, ma non interiorizza nemmeno il rifiuto effettivo del mondo? L’impostore del tuo brutto sogno si trova al castello (non è il caso dell’agrimensore) e soffre di misconoscere le leggi di cui ammette subito la validità (non è il caso di Josef K.). Allora?
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Dov’era quell’impostura che nondimeno ti sembrava (e ne sei ancora convinto) costitutiva dell’opera di Kafka? Hai finito per capire che, se essa non abitava la coscienza dei personaggi, non c’era che una soluzione: l’impostura si trovava nel mondo con cui i personaggi si confrontano. La tua intuizione fu confermata da un altro testo crudele ma esemplare: Nella colonia penale. In questa colonia, si trova una macchina, perfetta, composta da un letto (su cui il condannato viene disteso) e sormontata da un congegno atto a eseguire disegni e provvisto di un erpice. Quando il foglio (ovvero il programma) in cui è scritta la legge viene inserito in questo meccanismo estremamente complesso, il congegno comincia lentamente a incidere il testo della legge sul corpo del condannato. Se, in origine, qualcuno (il Comandante) dovette pure inventarla, ora la macchina funziona da sola. Cosa dice la legge? Sempre la stessa cosa: disciplina e obbedienza. Una tautologia che rinvia non tanto a precise regole di condotta quanto al principio stesso della legge: essere obbedita. La sentenza che deve essere incisa sul corpo del condannato della Colonia penale proclama: «Rispetta il tuo superiore». Il soldato conosce questa sentenza? No. È stato sottoposto a un processo? No. Alla denuncia dell’errore ha fatto immediatamente séguito il giudizio. La legge della colonia non si può discutere: «L’errore è sempre certo», dichiara l’addetto alla macchina. D’altro canto, il soldato non manifesta alcun desiderio di fuga (una sorta di Josef K.). Che cosa ha fatto? Ha disobbedito all’ordine di alzarsi ogni ora per fare il saluto alla soglia dell’abitazione del suo capitano (in sé stessa, la legge è priva di senso, nella misura in cui proclama soltanto la necessità di essere rispettata). E quando il capitano, avendolo sorpreso a dormire alle due del mattino, lo ha preso a frustate, il soldato gli ha mancato di rispetto. D’altronde, se è semplice nell’espressione, la legge è tuttavia illeggibile. Agli occhi di chi viene a esplorare la colonia il foglio
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su cui è scritta la sentenza di quattro parole («Rispetta il tuo superiore») si presenta come una serie di indecifrabili arabeschi: perché si incidano sul corpo del condannato ci vorranno dodici ore. Che cosa ci fa capire dunque Nella colonia penale? Fra le altre, una cosa – vorresti dire – più che evidente. Che l’impostura sta dalla parte del mondo, perché la legge cui il mondo è subordinato non ha altro senso che d’essere la legge, cioè una costrizione assoluta ma senza significato, senza fine e senza oggetto. E ci fa capire che bisogna nondimeno pagare un tributo di intime e laceranti sofferenze, perché l’impostura vuole essere iscritta nel cuore stesso dell’individuo. Sembra che lo stesso Kafka, portato a termine il racconto, si sentì sconvolto e sorpreso da ciò che aveva scritto, da quella violenza, da quella crudeltà. Come spesso ti capita con Kafka, ritrovi dunque una sorta di ribellione e, insieme, di speranza. È infatti sufficiente che l’esploratore ne contesti la legittimità perché la macchina si disgreghi. Poiché egli non crede alla sua funzione, la macchina crolla da sola in pezzi, fino a sparire. Talvolta, per mettere a soqquadro il macchinario del mondo, sarebbe forse sufficiente che chi comincia a sentirsi un impostore ne denunciasse l’impostura.
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15 Beneficî
Sottile com’è, Yvonne ti fa osservare che forse, «in secondo luogo», c’è un orgoglio nell’impostore che continua a starsene nella sua scomoda casella. Allora tu ne immagini il dialogo segreto: «Se il tuo posto non è qui, cambia posto. – Ma no. Il mio desiderio mi spingeva proprio qui. – Eppure tu soffri a essere dove sei. – Ma voglio esserci lo stesso. – Ne hai qualche diritto? – Non più degli altri che si trovano qui. – Com’è possibile? – Loro hanno fatto quello che bisognava fare per arrivare là. Io invece, non avendo seguito la via maestra, devo la mia situazione solo ai miei grandi meriti personali. Certo, non corrispondo alle norme. Ma ho qualcosa in più: la mia singolarità, la mia intelligenza, il mio fascino che mi hanno aperto un varco». Yvonne dice: non c’è forse, più o meno consapevolmente, una sorta di presunzione dell’impostore, convinto di dovere soltanto ai suoi meriti speciali un posto che altri hanno ottenuto con la semplice imitazione di un modello, con un semplice atto di conformismo? L’impostura si accoppierebbe così a un beneficio. Un beneficio annidato, certo, dietro la sofferenza. Un beneficio narcisistico, ma comunque un beneficio. Yvonne è molto ingegnosa.
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Purché non rimanga paralizzato dalla sua fissazione e purché non la contrasti per un eccesso di conformismo, l’impostore può trarre un beneficio dalla sua postura obliqua: lo sguardo critico. Giacché talvolta egli sarà tentato di dirsi che, se in quel luogo egli non trova il suo posto, forse quel luogo sarà stato mal concepito. E bisogna sottoporlo a una revisione. L’impostore verrà così a trovarsi nella situazione di quei borghesi che, nel 1789, non potendo accedere alle funzioni riservate alle classi aristocratiche, concepirono una rivolta che ne fece gli adepti e i sostenitori della Rivoluzione francese. L’invidia – ti si dirà? Non proprio. La sensazione di non avere ciò che ci si merita, perché l’organizzazione sociale – che, per l’appunto, sotto l’Ancien Régime, dava valore non già al merito o al talento ma alla nascita – non lo consente ed è per questo che bisogna cambiarla. Lo stesso dicasi dell’impostore: che finisce per rifiutare la postura entro cui si sente costretto e perciò si ribella. Tra coloro che cambiano il mondo ci sono probabilmente numerosi impostori. Agli estremi dello spettro degli effetti del sentimento d’impostura si potrebbero dunque trovare questi due tipi opposti: il conformista e il ribelle.
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16 Il Negro bianco
La terza volta che hai letto una storia sul Negro bianco ti sei detto che ne avevi abbastanza. Una figura che si ripete (una figura, del resto, piuttosto originale) scatena sempre in te una voglia di comprendere ciò che essa esprime, ciò che, sotto la sua andatura romanzesca, essa dice sull’essere umano in generale. Conosci Christmas, nel magnifico Luce d’agosto di William Faulkner. Poi incontri Ruis in Lo splendore del Portogallo, di António Lobo Antunes, e subito dopo t’imbatti in Coleman Silk, in La macchia umana di Philip Roth. Tre uomini con la pelle in apparenza bianca, ma negri d’origine. Tre uomini che sembrano tutti conformi alla norma ma che, di fatto, sono segretamente diversi e inferiori (secondo un pregiudizio razzista). Qui tu vedi bene che non si tratta più del vecchio problema della divergenza tra l’essere e l’apparire. Un problema che spesso la letteratura ha declinato secondo questo schema: aspetto nero (il brutto anatroccolo…) ma anima bianca (… diventa un cigno). Indubbiamente perché, in fondo, l’anima c’entra poco in un affare di pelle. Se il Negro è bianco, su cosa può fondarsi la diversità? Il fantasma resiste: è una pura costruzione mentale.
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Il Negro bianco ti sembra proprio l’incarnazione del sentimento d’impostura. Per quanto egli si affanni a dimostrare di essere un bianco, nel cuore del suo essere si cela un senso di manchevolezza e di colpa. La macchia, l’errore risalenti alle origini non si vedono. Ma potrebbero essere noti. In Faulkner – certamente a causa della prospettiva tragica che gli è propria – il Negro bianco Christmas è preda della fatalità della sua «cattiva natura» e, dopo avere assassinato una donna bianca, finisce per essere linciato. Nello Splendore del Portogallo, il figlio più grande è anch’egli un Negro bianco. Frutto degli amori ancillari del padre, trascina la sua vergognosa origine come una palla al piede. In questo romanzo, in cui tutti i figli della famiglia incarnano, ciascuno a modo suo, il cattivo funzionamento della società, il Negro bianco indica l’ideologia crudele e delirante della differenza razziale. In Roth, c’è un intento quasi opposto a quello di Faulkner, giacché si tratta di mettere in scena la libertà individuale. Idea formidabile: il Negro bianco avrebbe potuto accettare fino in fondo la sua negritudine e, essendo un uomo pieno di talenti, avrebbe potuto avere la sicurezza di essere il re del suo villaggio (nel senso che avrebbe potuto primeggiare nelle Università riservate ai Negri, nelle occupazioni riservate ai Negri – insomma in tutto ciò che l’America ha inventato per risolvere solo a metà l’ineguaglianza che essa stessa aveva innescato). Ma anche se questo viene in qualche modo a favorirlo, Coleman Silk rifiuta il determinismo della sua nascita. Rifiuta di essere considerato un Negro, non perché questo implichi uno statuto d’inferiorità, ma perché vuole scegliersi, vuole liberamente inventarsi, senza che gli si imponga un’identità. Di questa problematica della libertà, che ha certo un significato particolarmente forte in un’America travagliata dai comunitarismi, tu conoscevi già un’espressione molto viva attraverso i film di Pedro Almodóvar. Se questo regista mette spesso in scena esseri sessualmente transfughi, se ci presenta, come in
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Parla con lei, un uomo che rifiuta la necessità più grande, la nostra finitudine, così decisamente da procreare un figlio con la sua giovane innamorata mentre lei è in coma – è perché ciascuno dei suoi personaggi sceglie di essere libero fino al punto di ignorare i dati che a noi sembrano i più inesorabili: il sesso fisiologico e la morte. Che Coleman Silk non sia un Negro disonorevole ci viene confermato dalla sua scelta identitaria: non s’inventa appartenente al WASP – ciò che sarebbe la conformità assoluta – ma ebreo. Quasi che, ricreando sé stesso unicamente attraverso una sua decisione, egli accettasse comunque e fino in fondo la sua – relativa – esclusione. Altrimenti detto: egli non fa la scelta più comoda in rapporto alla norma vigente, ma si schiera dalla parte delle identità problematiche. Ecco una terza opzione nello spettro degli effetti dell’impostura. Né conformista, né ribelle, l’impostore può anche decidere di inventare di nuovo sé stesso, da cima a fondo. Insomma: il Negro bianco potrebbe essere spiegato come l’inverso del brutto anatroccolo: anche se presenta l’aspetto di un cigno, egli è, in fondo, intrinsecamente votato all’esclusione, perché è manchevole, è fuori dalla norma. In questa situazione, la cosa interessante è il perdurare di una fissazione. Ormai da lungo tempo si sa che il colore della pelle non ci dice nulla dell’umanità di una persona e che, fortunatamente, il problema della «razza» è fuori moda. Che cosa significa dunque essere un Negro bianco, dopo che è venuto meno ogni pregiudizio legato a quell’unico segno distintivo, il colore della pelle? Sappiamo anche che l’uniformità epidermica non impedisce l’esclusione: da questo punto di vista, il Negro bianco ha qualche affinità con l’ebreo. Il fantasma paranoico attivo nell’antisemitismo è proprio quello di un Altro che sembra dissimularsi sotto la figura del Medesimo. Da qui l’idea che il Negro bianco sia una figura del «male» o di un «fuori-norma» interiorizzato e dunque divenuto, in que-
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sto senso, una fissazione. Malgrado le apparenze, io non sono come gli altri, come bisognerebbe essere: io ho una tara – e posso essere scoperto. Non si tratta forse di un fantasma abbastanza comune? Non è forse questa, propriamente, la preoccupazione dell’impostore?
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17 L’impostore di professione
Un amico ha detto: «Non puoi fare a meno di evocare i casi d’impostura professionale: la gente che volontariamente, consapevolmente si costruisce una vita di impostore. Il vocabolo che hai scelto lo esige. E in ogni caso – ha aggiunto – è una cosa che va vista». Vediamola, dunque. Mettiamo a confronto alcuni casi. Per esempio, ancora un altro caso d’impostura alla tua maniera. Zoé, di cui ti sono note le qualità che tutti le riconoscono (è una delle migliori addette al montaggio del cinema francese), ti raccontava che, quando era più giovane e partecipava alle proiezioni private (non a quelle dei film di cui aveva curato il montaggio – là tutto andava bene), si conciava con cappelli stravaganti e cappe enormi: e questo aveva l’effetto di dissimularla e, insieme, di metterla in mostra. Lei pensa che quelli che la vedevano dovevano dirsi: «Guarda questa smorfiosa!» – e invece lei, poverina, faceva quello che poteva per soffocare il sentimento d’impostura che l’attanagliava. E aveva trovato questo sistema: distinguersi caricando i segni. Faceva il suo teatrino – come si dice. Indubbiamente, il «mondo del cinema» le sembrava irraggiungibile. Niente da dividere con una come lei. Lei che si sapeva
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amante dei cavolfiori. Lei che dormiva sul fianco sinistro. Lei che ignorava quasi del tutto la letteratura del Settecento. Lei con quella brutta cicatrice, lasciatale da un intervento di appendicite. Lei sempre pronta a commuoversi per una storia sentimentale. Lei che non capiva nulla della musica dodecafonica. Una persona comune. Molto comune. E il suo talento di montatrice cinematografica – un talento evidente e tante volte applaudito – non cambiava niente. Il modo con cui Zoé si rappresentava la casella «cinema» non poteva corrispondere a una persona così mediocremente umana. Zoé era come la scatola del cambio di una Jaguar: si sarebbe detto che la macchina era troppo bella perché quella scatola facesse parte del motore… Tutto questo cos’ha da dividere con quel signore – un impostore di professione – che, senza avere alcuna laurea, s’era introdotto con alcune strane manovre in una clinica e, spacciandosi per chirurgo, aveva fatto operazioni a cuore aperto? Nei nostri due esempî troviamo il medesimo rispetto da parte dell’ambiente di lavoro, il medesimo apprezzamento di una competenza evidente. Ma quel signore aveva mentito. Aveva fatto finta di possedere una laurea che non aveva mai conseguito: forse aveva falsificato i documenti, inventato aneddoti sugli anni di goliardia, raccontato le difficoltà del suo precedente impiego presso una clinica privata. Si era fatto passare per un altro, si era fatto rispettare, si era «imposto». Non è il caso di Zoé. C’è una grande differenza. Zoé ha un problema d’identità, mentre il falso chirurgo ha un problema di verità – forse di schizofrenia. Zoé è banale (non me ne voglia – intendo dire che tutti, più o meno, conosciamo i suoi grattacapi). Il chirurgo è un caso a parte. E va bene. Cerchiamo comunque di capire. Il caso più recente e più notevole di impostore professionista è senz’altro quello di Jean-Claude Romand. Non entro nei par-
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ticolari perché ormai tutti li conoscono1. Comincia a studiare medicina ma, a partire dal secondo anno, Romand smette di sostenere esami. Più tardi, si fa passare per un medico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e dice di essere quotidianamente impegnato a Ginevra. Le sue manovre sono così abili che, per diciotto anni, la sua famiglia e i suoi amici ci credono. Ma come impiegava realmente il suo tempo? Andava in giro per i boschi del territorio di Gex o s’attardava nelle aree di parcheggio delle autostrade. Il suo stipendio? Dopo avere prosciugato i conti dei genitori, finse di investire i fondi di alcuni parenti, mettendo in moto un giro di capitali che gli permetteva di vivere con il denaro altrui. E poi altri trucchi del genere. C’è un fascino in questa storia realmente accaduta. Perché saper allestire un tale marchingegno (inventare tutta la propria vita, le singole ore della propria giornata, fare di sé un personaggio) implica una follia e un senso dell’impostura che sfiorano il genio. Arrestato per avere sterminato la propria famiglia, Romand alla fine si converte e predica la fede ai suoi compagni di galera. L’ennesima impostura, non c’è dubbio. Come comprendere un’esistenza siffatta? L’ipotesi della frustrazione è del tutto insufficiente. Dopo un primo fallimento, Romand non ha conseguito la laurea perché non ha più sostenuto alcun esame. E verrebbe di dire che – in termini di energia, di immaginazione e di spirito pratico – costruire una vita come la sua è assai più difficile che superare gli esami universitarî. Pensi alla fatica di Romand. Ci si può accomodare in una routine dell’impostura? Difficile, a questi livelli di complessità. Se ne può gioire? Ci si può giocare? Qui bisognerebbe essere in grado di capire i meccanismi interni di quest’uomo: anzitutto
1. Emmanuel Carrère ha raccontato la vicenda in L’avversario, tr. it. di E. Vicari Fabris, Einaudi, Torino 2000.
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la paura di deludere, l’impossibilità di sistemarsi nella casella del «perdente» o del «fallito» o ancora – mi suggerisce un’amica psicanalista – la follia di obbedire soltanto al principio del piacere invece di adeguarsi – com’è necessario, almeno per una metà del proprio tempo – al principio di realtà. E allora, forse, quando si è troppo impegnati nell’affabulazione, bisogna sopprimere la realtà facendo fuori tutti quelli che sono sul punto di scoprire gli altarini. Un tratto ti permetterebbe tuttavia di collegare l’impostura di Romand all’impostura che t’interessa. È possibile che, in origine, cioè quando intraprese gli studî di medicina, indotto dal forte desiderio dei suoi genitori, egli si sia sentito impostore. È possibile cioè che la casella a cui lo spingeva quel desiderio (essere medico – un successo sociale per quel figlio di guardie forestali) gli sia sembrata irraggiungibile, impossibile da occupare. Perché immaginava che i suoi mezzi reali non glielo avrebbero permesso; che non ne aveva le forze. Il terrore di dover affrontare il fallimento gli avrebbe così impedito di presentarsi agli esami. Avrebbe allora deciso di «recitare» e di «imposturare». Fece credere a tutti di essere riuscito: perché era un medico, era stimato, ecc. E questo sembrerebbe confermare la tua prima intuizione: l’impostore non ha veri problemi con gli altri (agli occhi del mondo, Romand non ha alcuna difficoltà a occupare la casella “medico”). I problemi li ha con sé stesso (si crede fin dall’inizio incapace di raggiungere quel posto). Per l’impostore di professione, invece, gli altri costituiscono realmente un problema. Dopo quel momento iniziale, in cui un sentimento d’impostura poté sfociare in un’impostura vera e propria, lo sviluppo dei due tipi umani si distingue. L’impostore di professione ha un suo fascino (che attira e respinge) come figura di giocatore. Si conoscono casi celebri e forse qualcuno si è anche divertito a compilarne il repertorio – perché si tratta comunque di esseri d’eccezione. Per contro, i tuoi impostori sono moneta corren-
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te: non sono impostori in tutti gli aspetti della vita, lo sono spesso in un solo aspetto – e non ci sono altarini da scoprire. Diversamente da quanto essi temono, non saranno mai smascherati, perché non portano alcuna maschera. Forse finiranno per abbattere la loro fissazione e nessuno forse se ne accorgerà perché si trattava di una cosa del tutto intima.
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18 La passione di farne parte
Non appena, martedì sera, sei arrivata a casa sua, Noémie, sapendo che per ora ti interessi dell’impostura, ti ha subito raccontato la scena che aveva vissuto proprio quella mattina. Seduta al computer, sta lavorando al film di cui cura il mixage, quando riceve la visita del regista con due amiche. Due donne belle e gioviali, due gran signore, molto spiritose, molto «Ah, che tesoro…», molto «Ah, ah, ah…». (Tu hai subito pensato a Zoé). La tua povera Noémie s’è sentita male: male come se là, nel suo studio, davanti al suo film, non fosse stata al suo posto. Ci ha messo un po’ a capire – dopo, a cose fatte – che provava un sentimento d’impostura e che, come accade sempre con l’impostura, questo era del tutto assurdo. Per lei, quelle due Rebecche, tutte strass, tutte disinvolte, incarnavano confusamente il «mondo del cinema», un mondo mirifico cui Noémie non può veramente credere di appartenere. Tu le hai parlato di Zoé, dei suoi grandi cappelli. E vi siete chieste se, ogni volta che un gruppo di gente diventa «il mondo del», «quel certo ambiente», «quella determinata cerchia», non se ne generino inevitabilmente problemi d’appartenenza (farne parte o non farne parte – o farne parte, ma non veramente).
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Proseguendo sull’onda del suo racconto, Noémie t’ha detto: «Ogni volta che sono invitata al Festival di Cannes, sorprendo negli invitati una frenesia del tutto particolare. Ciascuno di loro scoppia, visibilmente, di gioia: e questa gioia è legata, te l’assicuro, al sentimento di farne parte». Andare a Cannes (è difficilissimo – spiega Noémie – trovare un albergo, ottenere l’accesso alle proiezioni, gl’inviti per le serate) significa raggiungere i Sancta Sanctorum della «professione», il cuore pulsante – e non c’è alloro che possa valere tutto questo. Se ne fa parte perché ci si trova là! Ma Noémie non ha certo torto quando pensa che, in molti frequentatori di festival, Cannesil-Castello deve risvegliare le segrete angosce dell’impostura. Ovviamente, ogni istituzione genera le sue imposture e, con esse, in senso opposto, una genia particolare: quella dei guardiani del tempio. Fenomeno tanto più accentuato, perché la definizione delle competenze necessarie per farne parte è ondeggiante. Antoine è un «comparatista». Ti spiega che è una specialità della letteratura – una specialità che tu peraltro non sei il solo a trovare enigmatica, giacché numerosi manuali, redatti dagli esperti, si intitolano: Che cos’è la letteratura comparata?. Antoine ti spiega che, ogni anno, una commissione nazionale si riunisce per «conferire la qualifica» ai richiedenti, ovvero a coloro che, muniti di un lasciapassare, potranno andare a proporre la loro candidatura: «Mio caro, Lei è certamente un comparatista. Si presenti nelle Università con la nostra benedizione». A stento, il cinquanta per cento dei candidati supera la prova. Anche negli altri settori della letteratura esistono le commissioni nazionali: ma verificano il valore dei candidati, che possono risultare più o meno all’altezza, secondo la qualità dei loro lavori e della loro tesi. La commissione dei comparatisti valuta, anzitutto, l’identità comparatistica del candidato («o è uno dei nostri o non lo è»), ancora prima di apprezzarne il valore. E per essere un comparatista in piena regola occorre padroneggiare parecchie lingue e mettere
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a confronto, l’una con l’altra, le letterature nazionali. Quanti cialtroni lavorano invece su testi tradotti oppure tendono a privilegiare lo studio della letteratura francese o ancora lo studio di una sola letteratura straniera, senza istruire confronti! Che canaglie! Un bel mucchio d’impostori, necessariamente. In un reparto così selettivo, gli occupanti «illegittimi» sono una marea. Antoine non vi si è mai potuto sentire a suo agio. Ha tutti i titoli richiesti, le sue lezioni sono eccellenti, i suoi studenti entusiasti – ma nel segreto del suo cuore lui non è affatto certo di essere un comparatista. Ah, che situazione precaria… Antoine evita accuratamente quelli che chiama i «guardiani del tempio», grandi figure paterne e severe che, certi di essere nel giusto, si battono continuamente per quella che chiamano la «difesa della disciplina». Antoine è assolutamente convinto dell’interesse della disciplina. Ma ha un’ipotesi che confermerebbe la tua intuizione: mentre gli appartenenti ad altri territorî della ricerca letteraria sono ben distribuiti in àmbiti specialistici relativi al secolo di cui si occupano (i secentisti, i settecentisti, ecc.), ai comparatisti non si riconosce alcuna competenza specifica. La loro attività mira appunto ad aprire nuovi campi d’indagine, a gettare ponti, a mettere in rapporto aspetti che prima non erano in rapporto. Secondo Antoine, l’indeterminazione di fondo che caratterizza quanti si collocano in quest’àmbito provoca l’esasperazione delle posizioni difensive e la proliferazione dei guardiani del tempio. Egli si chiede quanti comparatisti possano veramente dormire sonni tranquilli. Ma che delizia per coloro che «ne fanno parte»! Se il conformista si conforma per timore di essere diverso, l’«adeguato» nuota nel puro godimento della sua adeguazione. Ha compreso bene la definizione della sua casella e si bea di starvi bene attaccato. Ci sono vizî più pericolosi… All’improvviso, tu segnali ad Antoine una variante: quelli che, pur di «farne parte», occupano posti periferici. All’interno del-
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le istituzioni letterarie (società di scrittori, di poeti, ecc.), ti è già capitato di osservare che, nei consigli d’amministrazione, s’affollano scrittori sconosciuti o poco produttivi, attratti senza dubbio dalla possibilità di trovare là quella legittimazione che non potrebbero mai trarre dalla loro opera. Attratti dalla possibilità di farne, in ogni caso, parte.
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19 Ma da dove viene tutto questo?
A questo punto del tuo sondaggio, ti sembra chiaro che quello dell’impostura è un problema d’identità. Un problema che risponde non già alla domanda: «Chi sono io?», ma alla domanda: «In quale misura io sono fatto per il (o sono conforme al) posto che occupo?». Ricordi bene che, quando hai interrogato Henri per capire se conoscesse il sentimento d’impostura, egli ha dapprima detto di no, poi però si è ricreduto e ti ha parlato di certi suoi sogni ricorrenti e angoscianti che – come tu sai bene – sono moneta corrente: il sognatore si trova al cospetto di una commissione esaminatrice e deve superare alcune prove. Ebbene: in tutte le sue varianti, il sogno di essere sottoposti a un esame è una manifestazione del sentimento d’impostura. Illustra la preoccupata sensazione di non meritare il posto che si occupa e la conseguente necessità di dimostrarsene all’altezza (superando un esame). Un sogno che diventa un incubo quando l’impostore si crede sul punto di essere smascherato. Ne siamo convinti: l’impostura è un problema d’origine. Hai sentito, peraltro, la storia – al riguardo esemplare – di Sophie, quella tua intima amica con cui hai spesso e a lungo rievocato una vicenda che la coinvolgeva molto da vicino.
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Sua madre era una donna silenziosa e melanconica. Suo padre, chiacchierone inarrestabile, era una specie di eterno adolescente che adorava Sophie e le parlava spesso dei grandiosi progetti che nutriva per il suo avvenire. Sophie era dunque cresciuta nell’amore appassionato di suo padre: figlia obbediente, alunna esemplare e sempre pronta ad assistere i fratelli più piccoli nei compiti scolastici, era seria e – a quanto sembrava – tranquilla. Ma c’è una cosa che non riesce a dimenticare: timida, evitava il contatto con i suoi professori e, in generale, con gli adulti. Durante l’adolescenza, invidiava – senza sapere bene perché – gli amici abili a trovarsi i loro «maestri», persone adulte da cui anche lei avrebbe potuto imparare qualcosa e con cui avrebbe potuto condividere le sue nascenti passioni. Oggi Sophie – prendendo in prestito la tua formula – sostiene che allora soffriva di un sentimento d’impostura: evitava gli adulti per paura che essi si accorgessero di quante cose lei «non sapesse» – quasi che non le fosse possibile assumere il suo posto di bambina. Ecco le considerazioni a cui perviene quando parla con te del l’impostura. Poiché il posto della madre sembrava vacante, Sophie si era voracemente nutrita dell’amore paterno, cedendo indubbiamente all’illusione infantile che la portava a credersi la «donna» di suo padre. (Da parecchi anni, peraltro, è in analisi: la qual cosa spiega certo la sua tendenza a ricondurre tutto al triangolo edipico, ma – ve lo assicuro – quello che dice riesce abbastanza convincente). Sophie si ritrovava perciò a essere due volte adulta: perché era una figlia responsabile di fronte a due genitori un po’ immaturi e perché si sentiva la «donna» di suo padre. Ma non c’è dubbio che i bambini intui scano anche la falsità di una situazione siffatta. Sophie sapeva che non si sarebbe dovuta trovare in quel posto che non era il suo. Piacevole all’interno della famiglia, all’esterno quella posizione la faceva vergognare. Chi era effettivamente fuori da casa? Davanti ai suoi professori, per esempio: come avrebbe
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potuto accettare di non possedere le loro conoscenze di adulti, lei che non sapeva essere bambina? Crede di ricordare che raramente la si udì dire: «Non lo so»; e che, pur essendo una brava alunna, dovette fuggire dai suoi maestri affinché non si accorgessero… – di cosa, poi? Non si accorgessero che lei era solo una ragazzina. Quanto a quel «sapere» carente che per lei riassume il senso della sua fragilità di quegli anni, Sophie immagina (essendosi un po’ dilettata di teorie psicoanalitiche) che in origine si trattasse del sapere sessuale: come si fanno i bambini, da dove si viene. Ignorare queste cose è il destino di tutti i bambini: ma in lei – che non sapeva trovare una scusa per essere bambina – questa ignoranza si rendeva ancora più problematica. È appunto in questo senso che Sophie dice di non avere mai avuto la possibilità di essere bambina, la fortuna di poter chiedere aiuto, protezione, consiglio. Non poté nemmeno ribellarsi ai genitori – che erano così inconsistenti (ah, quanto invidia quelli che invece poterono farlo!). Nel corso più tardo della sua vita, Sophie si è a lungo sentita nella condizione dell’impostore. E anche oggi, con i suoi sessant’anni che le accordano finalmente, nella realtà, quel sapere e quel posto che, nell’immaginazione, lei aveva prematuramente occupato, anche oggi che è diventata indubitabilmente adulta, anche oggi il sentimento d’impostura torna talvolta ad assalirla – fuggevolmente, ma ritorna. Tu lei hai detto con franchezza che in quella sua storia erano piuttosto i genitori ad avere l’aria d’impostori – di veri impostori. Una madre e un padre incapaci di assolvere al loro ruolo come si deve. E suggerisci anche che quella provata da Sophie poteva benissimo essere non già la vergogna di sé stessa ma la vergogna dell’impostura dei genitori. Quante volte accade che i figli cerchino in tutti i modi di dissimulare, di non lasciare trasparire la debolezza dei genitori. E quante persone hai incontrato la cui vita è stata ostacolata dalla necessità di non
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riuscire migliori dei genitori – quasi che la loro vita fosse obbligata a non umiliare il padre e la madre con l’evidenza che avrebbero dovuto conseguire migliori risultati. Sophie ammette: «Può darsi…». Bisognerà presentarla a Manuel, che soffre del disagio opposto. Ti racconta che talvolta, mentre conversa con gli altri, lo prende il timore che la sua voce slitti verso il falsetto di quand’era ragazzino, rivelando così la sua vera natura: Manuel non è un adulto, non sa cosa significhi essere adulto. E quell’ombra che talora gli sorprendi sugli occhi è la preoccupazione di essere smascherato, l’apprensione che si scopra quella terribile realtà: egli non è mai stato in grado di crescere e quel suo corpo massiccio e muscoloso nasconde ancora un bambino. Come Sophie, anche Manuel non sa spiegarti da dove venga quella sua impostura: ma non c’è dubbio che c’entrino le origini. Potrebbe per esempio provenire dall’essere stato figlio di un padre e di una madre che si sentirono impostori svolgendo il loro ruolo di genitori. Non pochi amici ti hanno confidato che spesso, davanti ai loro figli, provavano un crudele sentimento d’impostura. C’è un ruolo più mitico di quello dei genitori? I genitori! Questa parola voleva pur dire qualcosa! Papà e mamma: anche se oggi li detestiamo, anche se ci irritano, ne abbiamo tuttavia piena la bocca e la testa – e noi, proprio noi che siamo ancora circonfusi dai vapori dell’infanzia, come potremmo prendere il loro posto? (Apriamo una parentesi. In certi casi, il trapasso da una situazione a un’altra deve spesso generare sentimenti d’impostura, anche se non vi si è predisposti. Anzitutto, com’è ovvio, quando si passa dalla condizione di figlio a quella di genitore, ma anche quando da alunni si diventa professori o da pazienti si diventa psicoanalisti. Dopo tanti anni passati stando seduti dietro un banco di scuola o allungati su un divano, un bel giorno ci si trova proiettati sul posto un tempo occupato da chi
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deteneva il sapere – il nostro insegnante, il nostro medico. Un cambio di condizione così radicale può essere assunto senza turbamenti? Parentesi chiusa). Tu sai bene che i casi raffigurati qui sopra non bastano certo a descrivere le molteplici vicende infantili che portano all’impostura. Solo questa convinzione: al di là delle situazioni puntuali e inevitabili che, in un dato momento, provocano un sentimento d’impostura, la radice di questo sentimento in coloro che ne soffrono più degli altri affonda nell’infanzia, nel periodo in cui si costruisce l’identità.
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20 Ideale dell’io
Allora ti sei fregato le mani con l’aria di chi conosce l’importanza e la difficoltà del suo compito, ti sei seduto nel tuo studio e, saldamente sprofondato nella tua poltrona, hai aperto il Dizionario di psicoanalisi alla voce «Ideale dell’io». Un boccone grosso per le tue piccole fauci. Ma sentivi che bisognava cercare in quella direzione. Nei primi anni – dice Freud – l’identità si costruisce nel confronto con le persone amate, con cui il bambino si identifica. Attraverso l’identificazione, si elabora, a poco a poco, un ideale dell’io che si presenta come una forma da realizzare, un idea le intimo (e relativamente inconscio) da raggiungere. Questo ideale dell’io si distingue dal super-io perché, mentre il superio si forma a partire da divieti interiorizzati («non devi essere così»), l’ideale dell’io risponde invece a esigenze interiorizzate («devi essere così»). Freud accosta le due istanze e attribuisce loro la medesima funzione di autosservazione e di censura1.
1. Al riguardo: S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi e altri scritti 19151917, in Id., Opere, ed. it. dir. da C.L. Musatti, vol. VIII, Bollati Boringhieri, Torino 2000, e Id., La vita sessuale, Boringhieri, Torino 1970.
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E qui tu riconosci qualcosa e prepari la tua minestrina. La teo ria dice che uno scarto troppo grande tra l’io e l’ideale dell’io provoca un senso di vergogna, mentre il senso di colpa è il risultato di una trasgressione (immaginaria o reale) dei divieti interiorizzati. Ah, ah! Quando provi a descrivere nei particolari gli affetti di cui il sentimento d’impostura si compone, ti sembra che si tratti, nello stesso tempo, della vergogna e della colpa. Colpa di occupare un posto indebitamente. Vergogna all’idea che gli altri possano accorgersene. (Nell’infanzia, le parole petrificanti di certi genitori: «Per chi ti prendi!»). Entriamo nei particolari. Trasgredire, in senso etimologico, è «andare oltre», «superare una barriera», «portarsi dall’altro lato», fuori dalla legge. Il tuo comparatista, la tua addetta al montaggio o la novella Lady Winter hanno oltrepassato la legge solo immaginariamente. Hanno titoli di studio, competenza riconosciuta e certificato di matrimonio che legittimano la loro nuova posizione. Ma intimamente, secondo la loro fisima, questa sarebbe la conseguenza di una specie d’errore da parte dell’istituzione o del marito, che non li hanno ben valutati. O piuttosto: essi, gl’impostori, sanno intimamente che ciò che essi sono non corrisponde alla casella occupata – una casella che, per l’appunto, appare come un ideale. Il loro io non corrisponderebbe alla rappresentazione ideale che essi si fanno di quel posto. O meglio: non corrisponde alla rappresentazione di colui che potrebbe legittimamente occuparlo. L’ideale dell’io assume la figura di quell’io che, secondo loro, bisognerebbe essere per corrispondere realmente alla casella. Donde il senso di vergogna. (Max Jacob: «Sono troppo piccolo per quel posto»). Vergogna di essere troppo insignificanti rispetto all’idea che essi si fanno di colui che potrebbe occupare il posto, colpa di avere violato la soglia e di essersi recati lo stesso al castello. Tu ti dici che, forse, la specificità dell’impostura – indubbiamente per il fatto che investe un aspetto sociale (un posto) e un aspet-
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to intimo (la rappresentazione di sé) – sarebbe un miscuglio di vergogna e di colpa, una doppia implicazione di super-io e di ideale dell’io, le cui rispettive esigenze l’impostore sembra mettere in contrasto.
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21 La vergogna
L’altro giorno, provavi a esprimere l’idea che ci sono beneficî anche nell’impostura e ti rifiutavi di parlare di un «complesso d’impostura». Troppo pesante, troppo immobilizzante, la nozione di complesso conferisce a un sentimento volatile e (a diversi livelli) alquanto generale il passo di una specie di malattia dell’anima. Andavi sviluppando questo tema davanti a Julie, che ha protestato e ti ha detto: «Ah, non esagerare! È un freno terribile l’impostura». Hai riso sotto i baffi perché non vedi in che cosa, lei, che presume di essere così interessata, sia riuscita a frenarsi. Che abbia sofferto, non vuoi certo negarlo. Ma sofferto di che? Di colpo, hai cominciato a riflettere seriamente: a quali condizioni l’impostura potrebbe essere un freno? Quasi mai – ti sembra. Giacché per essere impostori bisogna essere in un dato posto e bisogna agire per restarvi e per conservare tutto il potere che a quel posto inerisce. Il sentimento d’impostura assale soltanto coloro che «riescono». Quando si dice che esso può intralciare un’esistenza lo si sta probabilmente confondendo con la vergogna. Può capitare. I due stati emotivi peraltro si somigliano e tu hai appena scritto che la vergogna s’accoppia senz’altro al senso di colpa per dare luogo al sentimento d’impostura. Ma, per il momento, vorresti esplorare
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la vergogna non già come un affetto destinato a costituire un sentimento più generale, ma come un principio d’identità, al fine di distinguerla dal sentimento d’impostura. Prendiamo Lord Jim, di Joseph Conrad. Giovane, tutto fremente dei sogni d’eroismo proprî dell’adolescenza, impaziente che gli si offra l’occasione di dar prova del suo ardimento («Non aveva smesso di immaginare tutta una parata di rischiose distrette, pensando al peggio e allenandosi a dimostrarsi un eroe»), il marinaio Jim s’imbarca su un vecchio e malandato piroscafo che trasporta alcune centinaia di pellegrini stranieri. Una notte, il piroscafo va a urtare inspiegabilmente contro un ostacolo in alto mare. Jim e l’equipaggio, convinti che, nel disastro imminente, l’imbarcazione stia per inabissarsi, fuggono a bordo di una scialuppa di salvataggio. Dire che Jim scappi sarebbe eccessivo: «Quanto al motivo per cui era stato strappato alla sua immobilità, egli non ne sapeva di più di quanto l’albero strappato alle radici ne sappia del vento che l’ha abbattuto». Che altro avrebbe potuto fare? Nulla: se non affrontare la morte con i passeggeri, come un marinaio d’onore. Poiché, contro ogni previsione, il piroscafo riesce a restare a galla e a raggiungere il porto, la codardia dell’equipaggio si rende manifesta a tutti. Da quel momento, avendo sbagliato una volta, Jim perde la stima di sé stesso e si nasconde, dissimulando la sua identità e il suo passato. Alla fine, si rifugia in un paese lontano dalla (sua) civiltà – e popolato, forse, da persone non molto diverse dai pellegrini imbarcati sul piroscafo (e ciò potrebbe dargli una possibilità di riscattarsi). In quel paese, egli spera di rinascere. Jim si sente impostore? A te pare che Jim sia piuttosto preda della vergogna, quel sentimento che s’attacca al nostro amor proprio e distrugge l’opinione che abbiamo di noi stessi. In primo luogo, egli ha ragione: ha effettivamente sbagliato (anche se le circostanze e la sua giovinezza potrebbero, in parte, giustificarlo). E questo non è il caso dell’impostore che, a dirla
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propriamente, non commette alcuno sbaglio. In secondo luogo, Jim non tenta più di rioccupare il suo posto (di riprendere il mare): non se ne sente degno. L’impostore vuole invece restare al suo posto, anche se dubita di occuparlo legittimamente. Nella vergogna di Jim, la parte del reale è molto più diretta: c’è una norma che egli ha infranto (il marinaio deve colare a picco con la sua nave) e, per effetto del suo errore, egli interiorizza il giudizio degli altri (giudizio effettivo e non illusorio: si tiene infatti un processo, anche se il verdetto impone semplicemente la revoca del suo brevetto, giacché, dopo tutto, non ci sono stati morti). L’impostura si sviluppa invece in un circolo chiuso, fa a meno del giudizio altrui (a meno che non si tratti del giudizio, temuto, di un altrui creato dalla stessa fantasia: «se fossi scoperto…», dice a sé stesso l’impostore). All’uscita dal processo, Jim dichiara che ora egli «non vale più di un pezzente». E aggiunge che «un giorno o l’altro, bisognerà pur avere una qualche possibilità di recuperare tutto». È andata dunque perduta una cosa che potrebbe essere riconquistata: la stima di sé. L’impostore invece non «perde» e non vince alcunché. Certo, questi due problemi d’identità possono senz’altro essere accostati. Sono fenomeni interiori che si sviluppano in una forma incrociata analoga all’intreccio dell’affettivo, del sessuale e del sociale. Possiamo costruire tutto l’edificio della nostra propria persona su un sentimento di vergogna, perché quando eravamo bambini siamo stati umiliati (Quella volta che abbiamo dichiarato che, da grandi, avremmo sposato la bella signora, vicina di casa – e tutti sono scoppiati a ridere, prendendoci per idioti. Da quel momento, si è generato in noi un sentimento d’inferiorità che è come una gravissima ferita narcisistica: quel giorno, abbiamo pensato di essere definitivamente «troppo piccoli» per quel ruolo e oggi permangono in noi tracce profonde di quella convinzione di essere destinati a restare, per dirla con le parole della psicoanalisi, «un ogget-
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to sessuale inadeguato, respinto e umiliato dagli stessi oggetti del suo desiderio»1). Anche la situazione sociale può provocare la vergogna, per noi stessi o per i nostri genitori – che è poi quasi la stessa cosa (quei modi che ci facevano sentire una nullità – noi, i figli di quella madre alcoolizzata che riceveva tanti uomini – e i soldi che non c’erano mai, ecc.). Non basterà mai ribadire che il sociale non è esclusivamente il sociale (esterno, razionale, consapevole), ma è anche una cosa intima e le sue ripercussioni sulla psiche non sono meno definitive e laceranti dei traumi sessuali o affettivi. Il sociale può essere il luogo di una violenza che ha molteplici conseguenze emotive. Étienne, per esempio, era molto povero – un uomo degnissimo, certo, ma veramente povero. Oggi ne parla raramente: non si ha molta voglia di dispiegare la propria miseria, non è vero? Egli o i suoi genitori (che poi è la stessa cosa) avrebbero potuto avere la goffaggine di non ritenersi responsabili di questa condizione: quando si conta così poco, si è dovuto pur fare qualcosa per meritarlo. (Trappola della società del merito: poiché, in teoria, tutti potrebbero affermarsi, chi non riesce ad avere successo deve prendersela solo con sé stesso). In Étienne, l’originaria sofferenza sociale s’è mutata in sofferenza psichica, il sentimento della sua identità ne è rimasto alterato e oggi egli si sente responsabile della sua sorte: ha interiorizzato la vergogna. La vergogna si eredita: spesso, quando i genitori vanno soggetti alla vergogna – allorché, per esempio, un segreto vizia le loro origini (figlio naturale, trovatello, ecc.) –, la loro sensazione d’illegittimità e perciò di umiliazione si trasmette al figlio. E il figlio prova vergogna per sé stesso e per loro: un doppio tur-
1. S. Freud, Il delirio e i sogni della Gradiva di Wilhelm Jensen, in Id., Opere, ed. it. dir. da C.L. Musatti, vol. V, Bollati Boringhieri, Torino 1975.
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bamento. Costruita su queste due diverse fonti di vergogna, la sua identità sarà necessariamente fragile. Si può scommettere che vivrà con un violento sentimento d’inferiorità. Insomma: la vergogna può essere la conseguenza di un’umiliazione personale (perché siamo stati sorpresi in una situazione vergognosa, perché siamo stati maltrattati, perché abbiamo visto i nostri genitori umiliati), ma può anche risultare da un’invalidante assimilazione nel proprio gruppo d’appartenenza (famiglia, razza, classe sociale). La traccia psichica rimane anche quando l’umiliazione è ormai cessata. Appunto perché siamo sempre solidali con la vergogna dei genitori, le strategie per venirne fuori non sono sempre efficaci. Le poste in gioco sono infatti tremendamente paradossali: sul piano sociale, ci impongono di tentare il successo a ogni costo, di fare meglio dei nostri genitori, per superarli e per vendicare così la loro umiliazione. Sul piano affettivo, entrano invece in contraddizione con la stima (come non disprezzare un genitore così incapace?) o con la tendenza – già ricordata – a non sottolineare l’incapacità dei genitori (quella donna che, per spiegare perché venga regolarmente a mettersi in una condizione di fallimento, diceva: «se posso fare meglio di mia madre, vuol dire che anche mia madre avrebbe potuto fare meglio»). Per uscire dalla vergogna, che è un’umiliazione interiorizzata, dobbiamo spingerla all’esterno. Conosci la vicenda di Françoise: avendo preso coscienza che la povertà non era proprio l’effetto di un destino personale ma la conseguenza delle disuguaglianze sociali, si fece militante comunista e, attraverso questa rivolta, ritrovò la stima di sé stessa. (Puoi anche cogliere un nesso tra questo meccanismo e quello dell’impostura, quando l’impostura conduce a una ribellione contro lo stato delle cose). Sarà ormai chiaro: la parola dominante è qui «umiliazione». Proprio perché ci hanno effettivamente costretti in una situazione di inferiorità, proviamo vergogna. Impossibile andare
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avanti, quando si ha un’opinione così modesta di sé stessi. L’idea di essere portatori di una tara, di essere stati segnati da un errore o gravati da un’eredità che vieta di attraversare degnamente il mondo – quest’idea ci impedisce di avviare qualsiasi iniziativa e di mostrarci in mezzo ai nostri simili. Dobbiamo nasconderci, dobbiamo optare per il basso profilo, non dobbiamo desiderare nulla. Perché dentro ci troviamo brutti, perché non amiamo noi stessi. Tu percepisci quanto questa inibizione mal corrisponda al sentimento d’impostura. Questo sentimento assale infatti coloro che si sono già incamminati con successo nella loro impresa – o almeno coloro che si trovano già al loro posto. Oppure assale coloro che non si sentono talmente «inferiori» da non ambire a quella posizione, coloro che hanno la superbia di conservarsi in essa. La vergogna impedisce di agire. L’impostura è, profondamente, desiderio (e stupore): desiderio di azione, di movimento, di vittoria (e stupore di durare, di non essere stati scoperti e respinti). Se Jim non avesse provato vergogna, avrebbe ripreso il mare, avrebbe mostrato un caratteraccio chiuso, taciturno, aspro. E, se si fosse sentito impostore, avrebbe continuamente avuto paura di essere scoperto, messo a nudo (ah, ah!, quel capitano fifone che non sa guidare la sua nave e trema davanti a una tempesta); avrebbe temuto la perspicacia del quartiermastro che, prendendolo a bordo, avrebbe potuto smascherare in lui il marinaio d’acqua dolce. Ma, perbacco!, taciturno e aspro, si sarebbe incatenato al suo albero e nulla avrebbe potuto impedirgli di solcare i mari in ogni direzione.
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22 L’eroismo
Nel sentimento d’impostura si può dunque trovare almeno un aspetto molto positivo: non di rado, esso si accompagna a un vivo desiderio di agire e di realizzare alcune aspirazioni. Certo, le esistenze sono mosse da tante altre fonti d’energia (gusto del potere, volontà di essere amati, narcisismo, noia, senso del dovere, ecc.), ma il sentimento d’impostura presenta non poche qualità. Mettendo l’individuo a confronto soltanto con sé stesso, questo sentimento non ferisce gli altri (diversamente dal potere o dall’amore). Essendo molto violento, è efficace (non c’è mai tregua per l’impostore). Interrogando le caselle e i posti, può sfociare in una critica costruttiva. Creando il dubbio, apre all’azione. Dato che sviluppano nel personaggio principale un problema d’impostura, gl’ideatori di Matrix (primo episodio) avrebbero potuto farne un film appassionante e tale da illustrare alcune caratteristiche di questo sentimento. Ecco la trama. Il giovane Neo, una natura inquieta, non è contento di questo mondo (e, d’altronde, il suo padrone – cioè il mondo stesso – non lo trova serio). Egli comincia dunque a navigare sulle reti Internet alla ricerca di qualcosa – ma di che cosa, poi? Finisce per incontrare una specie di gruppo di resistenza e apprende che
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il mondo che egli ritiene reale è solo un simulacro: il potere è infatti detenuto da certe macchine divoratrici d’uomini che hanno creato quella realtà virtuale. Ma apprende pure che apparirà un salvatore per portare gli uomini alla liberazione. Il capo dei resistenti, Morpheus, pensa che Neo sia l’eletto a questa liberazione. Neo, invece, tende a credere di essere un uomo assolutamente comune. Il film presenta dunque una situazione che ha tutte le caratteristiche dell’impostura: Neo è collocato (con il suo parziale consenso) in un determinato posto – quello dell’eletto. Ma non è affatto certo di poterlo legittimamente occupare. Peripezia: Morpheus è subito fatto prigioniero dai cattivi. Ahi, ahi! Qualche tempo prima, Neo ha appreso da un’indovina di non essere lui l’eletto: il libro del suo destino prevede anzi che egli debba sacrificare la propria vita per salvare la vita di Morpheus. Se presta fede all’indovina e corre a salvare Morpheus, Neo va incontro alla fine. Se invece l’indovina si è sbagliata e Neo è veramente l’eletto, ai cattivi non resta che tremare di paura. Qui, ormai verso la fine del film, ti sei detto che le cose si facevano veramente interessanti. Perché, certo, Neo va comunque avanti; con qualche dubbio, ma va avanti. E subito pensi che, anche se non si poteva ancora dire che egli era l’eletto, una cosa era tuttavia indubitabile: era un eroe. E questo la dice lunga sull’eroismo, sulla sua natura e sul suo eventuale rapporto con l’impostura. Ci dice, per esempio, che l’eroe è qualcuno che, senza sapere se godrà di una protezione speciale o se il suo destino è la vittoria, invece di tergiversare, si lancia – sia perché conserva in sé una parte d’infanzia che lo induce a credersi onnipotente (a credersi l’«eletto»), sia perché i suoi ideali rifiutano la paura. Egli dunque va dritto contro il drago e si dice: «Tanto peggio per me, devo farlo, devo salvare Morpheus o Amédée o Anne-Charlotte o il reame». Grazie a questo bisogno di grandezza, egli si sottrae alla generale me-
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diocrità e diventa, di fatto, un eroe, cioè qualcuno che, per il suo coraggio, si distingue dagli altri mortali. Giacché se si è (o si nasce) eletti, ci si fa invece eroi (o lo si diventa) – il che è molto più interessante. Capite bene cosa intendo dire: l’impostore (colui che ignora se è un eletto o se non lo è), per il fatto stesso di dubitare, potrebbe diventare un eroe solo decidendo di andare avanti, comunque si mettano le cose. O ancora: abbia qualche capacità (se non altro, quella di tirare avanti la sua vita) o non ne abbia forse alcuna (perché è una schiappa), decide di andare avanti, comunque si mettano le cose: affronta il rischio, combatte, vive. Così diventa eroico. Poiché Matrix non è altro che Matrix, Neo non è un eroe, ma è l’eletto e, come tale, non ha alcun merito nel bloccare uno per uno i proiettili della mitragliatrice, nel volteggiare per l’aria, nel tener testa a una macchina, ecc. Quel magnifico istante d’esitazione (quando egli, ancora ignaro di essere l’eletto – e dunque di essere un protetto – decide di andare incontro all’avversario), quell’attimo che faceva di Neo un nostro fratello d’umanità si dissolve in una schematica variazione sulla figura del messia: e questa prevedibilità esclude il personaggio dalla nostra condizione e dal nostro interesse. Così, dopo che hai dipinto il nostro impostore come una persona commiserevole, triste, ansiosa, ora lo risollevi. Quell’istante di esitazione, che egli conosce bene («Avrei la forza di occupare quel posto?», si chiede infatti), gli offre la chance dell’eroismo, proprio perché nessun posto gli è stato assegnato, nessun luogo lo mette al sicuro. Ma egli va avanti comunque…
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23 Una figura contemporanea?
Ti dicono che un tale vuole scrivere un libro sull’impostura e ti segnalano continuamente articoli, riviste e varie citazioni relative a questo tema. Finisci per chiederti se non si tratti – come ritiene Philippe – di un tema davvero attuale. Se fosse così, perché? Perché l’impostura (e forse anche l’impostura) è un fenomeno d’attualità? Prova a sviluppare un’ipotesi in questo senso, mettendo da parte il criterio della moltiplicazione dei casi a profitto di un sistema esplicativo più generale. Devi ritornare su quell’idea secondo cui viviamo tutti con l’ossessione di essere «noi stessi». E che si tratta di un’impresa «faticosa»1. Riprendi alcuni elementi dell’analisi dedicata da Alain Ehrenberg alla condizione dell’individuo contemporaneo. Secondo lui, il modello tradizionale, che imponeva condotte, regole di autorità e di conformità ai divieti, ha lasciato il posto a norme che spingono ciascuno all’iniziativa individuale e gli ingiungono di diventare sé stesso. Ci siamo «emancipati». E cioè: «l’ideale politico moderno, che fa dell’uomo il proprietario 1. A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi. Depressione e società, tr. it. di S. Arecco, Einaudi, Torino 1999.
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di sé stesso e non il docile servitore del Principe, si è esteso a tutti gli àmbiti dell’esistenza. L’individuo sovrano e uguale solo a sé stesso, di cui Nietzsche preannunciava l’avvento, è ormai una forma di vita comune». Ne consegue pesantemente che la responsabilità intera delle nostre vite si situa solo in ciascuno di noi. Ehrenberg cita la Genealogia della morale di Nietzsche: «Il frutto più maturo dell’albero è l’individuo sovrano, l’individuo che somiglia solo a sé stesso». Non dimentichiamo che il problema dell’impostore, legato alla doppia definizione della casella e di sé stesso, finisce nell’angosciante interrogativo: «Sono colui che dovrei essere per occupare legittimamente questa casella?». Seguendo Ehrenberg, possiamo chiederci se una società che propone agli individui di assomigliare solo a sé stessi non escluda, in linea di principio, la possibilità che essi assomiglino all’«abitante della casella». Di qualunque casella. Possiamo chiederci se gl’individui non siano necessariamente proiettati in una tensione insolubile tra ciò che essi pensano di essere («sé stessi») e ciò che essi immaginano o sanno della casella (modello ideale, astratto e comunque diverso da ciò che essi sono). Insomma: non bisogna forse temere che l’individuo uguale solo a sé stesso sia poi incapace di abitare una qualunque casella? Continuiamo a vedere. Il sociologo aggiunge: «Siamo diventati puri individui, nel senso che nessuna legge morale e nessuna tradizione ci indicano, da fuori, cosa dobbiamo essere e come dobbiamo comportarci». All’opposizione autorizzato/vietato – che, fino a tutti gli anni Cinquanta, organizzava la società e i comportamenti – è subentrata l’alternativa possibile/impossibile: un sistema che non dipende tanto dalla legge quanto dalle attitudini individuali. Puoi supporre che questo cambiamento si mostri favorevole all’impostore: all’essere desiderante che chiede solo di spostarsi, di cambiare e di occupare posti. Ma ti rendi conto che, a questo punto, il linguaggio potrebbe giocarti un brutto
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tiro, perché talvolta la parola impostore sembra dipingere anche l’arrivista. No: tu vuoi parlare proprio dell’umano in quanto distinto dal vegetale, vuoi parlare dell’essere in movimento. E quando, qui, dici «riuscire», intendi «realizzare il proprio desiderio» e non già, come più comunemente si intende, «conseguire il successo sociale». Puoi dunque immaginare che una tale organizzazione dei comportamenti, guidata dal semplice principio di «possibilità», sia favorevole all’impostore. Egli desidera, prova e si stabilisce in un posto. Ma poi? Egli ha tratto la legittimità della sua azione solo da sé stesso. Dove trovare la legittimità per occupare quel posto? Non basta essere approdati all’isola, bisogna anche trovare buone ragioni per abitarla, giacché quell’isola esiste al di là del semplice desiderio del viaggiatore: è un dato con le sue costrizioni. Le ragioni si celano soltanto all’interno dell’individuo: «Invece di essere agita da un ordine esterno (o dalla conformità a una legge), la persona deve appoggiarsi sulle proprie molle interne, ricorrere alle proprie competenze mentali». In fondo, oggi il tipo dell’impostore è tanto diffuso perché si tratta di un uomo normale (e così possiamo rispondere alla questione iniziale di questo capitolo): e cioè un uomo che, trovandosi, con tutti i suoi desiderî e senza particolari patologie, in una società ormai incapace di offrire, all’esterno, punti di orientamento unici e sicuri, è indotto a dubitare sempre della legittimità della postura raggiunta. Detto ancora altrimenti: Ehrenberg mostra che il nuovo modello d’individuo creatosi negli anni Cinquanta trova il suo esatto contrario, cioè la sua patologia specifica, nella depressione. Questa si presenta come «una malattia della responsabilità, in cui domina il sentimento d’insufficienza. Il depresso non è all’altezza, è stanco di dovere diventare sé stesso». La depressione si presenta come una patologia del cambiamento e investe una personalità che cerca di essere unicamente sé stessa in un contesto in cui la misura della persona non è più
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l’obbedienza ma l’iniziativa individuale: e ciò provoca un acuto senso d’insicurezza interiore e un’avaria dell’azione. Se il depresso è in difficoltà, stanco di dovere essere sé stesso, convinto di non essere all’altezza dell’ideale del proprio io e se, perciò, è affetto da immobilismo, l’impostore si muove invece verso la riuscita: vuole realizzare le proprie potenzialità, forse ne ha anche i mezzi, lo desidera e agisce. Così facendo, realizza pienamente quel programma di iniziativa e di affermazione personale che la società attuale propone. Ma qui è raggiunto dalle caratteristiche di questa società: nulla, all’esterno, gli garantisce che egli è veramente l’uomo per quel posto (che è all’altezza dell’ideale del proprio io o che il modo con cui egli percepisce la propria casella gli corrisponde). Vive quasi in un flusso di incerte definizioni (di sé stesso e di quel posto) e se ne preoccupa continuamente. In questi termini, si può forse dire che l’impostore, al pari del depresso, sia l’uomo di oggi, ma nella sua variante dinamica. È nel desiderio ed è anche nell’angoscia. Ma, diversamente da quanto accade nella depressione, quest’angoscia non ha un effetto inibitorio: è invece un principio motore e spinge al movimento e all’azione. Se ora tu volessi sintetizzare una parte delle tue varie riflessioni, potresti dire, schematicamente, che alla triade inibizione- depressione-vergogna l’impostore contrappone la triade desiderio-angoscia-sentimento d’impostura. Restano due tipi contemporanei che non hai ancora evocato. Il tipo dell’integrato: quello assolutamente «formattato» dal posto che occupa e che non lascerà mai, perché spesso si tratta di un posto davvero bello. E il tipo dell’individuo sano: quello che si adatta al nostro mondo talmente bene da trovarvi gioiosamente il suo posto e da essere anche disposto a cambiarlo – un caso non molto frequente.
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24 [Impostrice]
Scrivendo il capitolo precedente, ti eri interrotto per ascoltare una trasmissione su France Culture, durante il pranzo. Da qualche tempo, quando pensavi alle conclusioni del tuo saggio, provavi una vaga preoccupazione all’idea di trascurare o di trattare solo marginalmente certi sviluppi che poi avresti magari rimpianto di non aver saputo affrontare. E pensavi soprattutto a quante persone avevano sostenuto, davanti a te, che le donne hanno un rapporto specifico con l’impostura. Nelle cose dello spirito, tu tendi a privilegiare il neutro (il genere dell’universale) e a diffidare della rivendicazione di una differenza in cui non intravedi alcun vantaggio per le donne. L’argomento della differenza – indimostrabile, eccezion fatta per ciò che riguarda il corpo – ha peraltro sempre giocato a loro disfavore. Insomma: le hai sempre ascoltate con un orecchio circospetto, lasciandole parlare senza sentirti mai veramente convinto. Tu eri là, sempre puntuale, davanti al tuo filetto di merluzzo e alla tua insalatina verde e ascoltavi quattro registi che commentavano l’attualità cinematografica. Fra di loro c’era una donna e aveva subito dichiarato di non sentirsi all’altezza degli altri tre invitati al dibattito. I quali, peraltro, parlavano molto
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più di lei e con accenti molto più brillanti. Poi, verso la fine, le hanno fatto una domanda e lei ha chiesto che gliela ripetessero. Un regista si è messo a ridere, dicendo che non stavano «su France Inter ma su France Culture» (e, diversamente da quanto può sembrare da questo racconto, non parlava contro di lei, ma riprendeva una battuta scherzosa fatta già nel corso della trasmissione). A quel punto ti sei detto: «Anche così, non sentiremmo mai un uomo ammettere una cosa del genere su France Culture»1. Hai pensato alle tue amiche. Quando parlano dell’impostura, vogliono dire, se le capisci bene, che per le donne è difficile essere intellettuali, che le cose dell’ingegno sembrano riservate agli uomini – o piuttosto che esse credono di sentire che gli uomini considerano quest’attività un loro privilegio naturale. E in ogni modo esse hanno interiorizzato la vecchia divisione del mondo che le esclude dalle alte sfere del pensiero e perciò si sentono impostori nel loro esercizio intellettuale. Digressione per andare loro incontro. Non sai perché non esista il femminile del termine «impostore». L’ipotesi di Camille ti sembra tirata un po’ per i capelli (e, d’altra parte, lei ammette che ci vorrebbe il conforto degli esperti di lessico), ma vale la pena di riportarla. È significativo che, tra i sostantivi maschili francesi mancanti di femminile (o con una forma femminile acquisita da poco) alcuni esprimano funzioni relative al potere: ministre, directeur de cabinet, conseiller d’État (che alludono a un potere reale) écrivain, auteur, peintre (che implicano un potere simbolico), ecc.2 Ora: per essere (o per sentirsi) impostori, bisogna occupare un posto che corrisponda a un mi1. France Inter e France Culture sono due radio pubbliche francesi. [N.d.T.] 2. Ministro, Capo di gabinetto, Consigliere di Stato, scrittore, autore, pittore. Diversamente dal francese, l’italiano prevede un femminile impostora. Il termine impostrice ricalca quindi il neologismo postulato dall’Autrice. [N.d.T.]
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nimo di potere (lo hai già detto parecchie volte: per sentirsi impostori, occorre avere avuto successo). Avete dunque capito Camille: perché esistesse un «impostore» al femminile, se ne sarebbe dovuta avvertire l’esigenza, sarebbero cioè dovute esistere donne in grado di aspirare al potere, di detenerlo o di simularlo. Ma l’avvento di queste donne è così recente che non si è avuto il tempo (il bisogno) di inventare il femminile di questo sostantivo. Divertente. A pensarci bene, d’altra parte, non vedi attorno a te o per la strada tante donne degne della qualifica d’impostore. Uomini ne incontri più spesso. E va bene così.
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25 Impostura-impostura
Alla fine, puoi talvolta constatare che esistono (senza alcuna sistematicità) collegamenti tra l’impostura e l’impostura. Tale era il caso di Romand. Se pensi alla storia di Frank Abagnale Jr., da cui Spielberg ha tratto il suo bel film Prova a prendermi, puoi portare nuova acqua al tuo mulino. Abagnale fu un impostore magistrale. Giovanissimo, scappa dalla casa paterna, devastata dal divorzio dei suoi genitori. All’inizio, si finge pilota d’aereo e, attraverso falsi fogli di paga, riesce a farsi versare uno stipendio. Più tardi, si fa passare per medico, poi per avvocato: stampa assegni falsi e false banconote. Si sposa sotto mentite spoglie. Una vita fabbricata di sana pianta, con un talento pazzesco. E tu noti: quando l’impostura ha una qualità tale da non riuscire odiosa (come vedremo presto a proposito di Grosjean), diventa affascinante. Quanto genio, infatti, quanto lavoro, quanto spirito d’osservazione, quanta immaginazione, quanta perseveranza occorrono per essere un grande impostore! Si segue il film di Spielberg con la medesima esaltazione che ci procura la storia di un brillante hold-up, quando bisogna dimostrare un’intelligenza superlativa per giungere fino alle riserve monetarie di Fort Knox.
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Da dove viene dunque ad Abagnale questo genio dell’impostura? Il film suggerisce alcune risposte. Figlio unico e amatissimo di un millantatore che era specializzato in piccoli intrallazzi e credeva di essere molto furbo, subisce la doppia delusione di assistere al miserabile fallimento professionale del padre e al conseguente divorzio dei genitori. Qui l’impostore è anzitutto il padre: lo spaccone che alla fine si rivelerà un cialtrone. Di colpo, per mimetismo, fin dall’infanzia Abagnale sviluppa reali talenti d’impostore (non esordisce forse entrando in un’aula scolastica, dove gli alunni fanno baccano, e si fa credere il nuovo professore?). Che altro fa, in fondo, se non trovare un rimedio e un compenso per gli errori del padre? E infatti, quando avrà messo da parte i primi frutti delle sue imposture, il primo regalo sarà per il padre: una Cadillac. Ecco, papà, ecco i segni del potere che ho acquisito grazie a te – e fingiamo d’ignorare che tu non avresti saputo farlo. L’impostura sembrerebbe qui risultare da un sentimento comune al padre e al figlio. Il padre si rivela improvvisamente un professionista dell’impostura che non ha mantenuto le sue promesse di potere e ha così perduto la moglie. Il figlio prende consapevolezza, nella vergogna, della mediocrità delle sue ascendenze. Giacché come si fa a essere il figlio di un padre come quello? Quale casella può esserci per lui, quale identità, sotto il peso di un genitore siffatto? L’identificazione delusa conduce talvolta (e anzi spesso) alla volontà di «porre un rimedio» all’inadempienza del genitore. O andando ad arenarsi sulle medesime secche del padre (prova che questi non poteva dunque fare di meglio), o diventando grande percorrendone lo stesso cammino paradossale: l’impostura. La costruzione affascinante dell’impostura di Abagnale si leva a partire dall’impossibilità di occupare la casella che l’adolescenza gli aveva assegnato. È quella che tu hai già chiamato l’im-postura.
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Ti sembra che il caso di Romain Gary muova da una medesima situazione iniziale. In Vie et mort d’Émile Ajar (il testo postumo che ci ha lasciato su questo spettacolare caso d’impostura), egli si spiega chiaramente. Stanco della mediocrità dell’ambiente letterario, stufo di essere catalogato, allestisce una sorpresa. Poiché lo credono finito (e, d’altra parte, egli stesso ha suggerito una cosa del genere in Au-delà de cette limite votre ticket n’est plus valable), si mette a orchestrare una prova del contrario. Mentre si dichiara «toccato dalla più antica tentazione proteica dell’uomo, quella della molteplicità», si finge un giovane scrittore al debutto: Émile Ajar. E ottiene quello stesso premio Goncourt che aveva già vinto Gary. Si comincia a cercare l’uomo che si nasconde sotto quel nome che tutti sospettano falso. E Gary invia suo nipote, Paul Pavlowitch, a recitare la parte della marionetta Ajar. Ma non basta: scrive anche un romanzo, Pseudo, firmato da Ajar, in cui il narratore, che si chiama… Paul Pavlowitch, racconta la storia del suo pseudonimo: Ajar. Ti chiedi: questo Ajar non assomiglia come un fratello a un Gary virtuale, quel Gary che Romain sarebbe potuto diventare – non più l’aviatore compagno della Liberazione, il brillante diplomatico, il gran signore, lo scrittore di successo, il marito di Jean Seberg, ma il figlio d’immigrati ebrei dell’est, il cui padre aveva abbandonato la casa fin dalla nascita e la cui famiglia si era, bene o male, stabilita a Nizza? L’adorazione della madre ha fatto di Romain un uomo pienamente realizzato. Ma quando si finse Ajar, Romain non era forse il figlio di quel padre oscuro che, in lui, contestava quella postura? Insomma: è proprio impossibile immaginare che, nell’uomo di successo, si sarebbe generato un vago sentimento d’impostura causato dalle sue origini? E che egli avrebbe «rimesso in gioco» quelle origini sotto un falso nome? Lo si vorrebbe ben credere, quando si legge il primo romanzo di Ajar, La Vie devant soi, che mette appunto in scena una sorta di doppio, Momo, un
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giovane arabo che, privato del padre e della madre dall’età di quattordici anni, è costretto a inventare la propria vita. Anche al rischio di forzare un po’ l’interpretazione, non è forse vero che Gary ci presenta qui un altro sé stesso, straniero al paese che lo ha accolto e costretto a crearsi un suo posto? Ancora una volta, hai l’impressione che, al fondo, gli uomini credano nella «naturalezza» della loro identità: importa poco ciò che hanno fatto di sé stessi, si credono afferrati dalla propria «natura», segnati dalle proprie origini. Quella tale persona ha ben meritato il buon posto che si è costruito: eppure soffre segretamente dell’umiltà dei suoi genitori e prova una leggera invidia davanti a chi ha origini borghesi o è figlio d’intellettuali – insomma davanti a chi non è il primo, nella sua famiglia, a occupare quel posto. D’altra parte, La place era il titolo di un racconto di Annie Ernaux inteso a descrivere un sentimento che sembra essere l’altra faccia di quello che tu cerchi di descrivere: il turbamento per avere «tradito» le proprie origini, per avere abbandonato il modesto mondo dei proprî genitori. L’autrice avrebbe potuto intitolare La place anche un racconto che avesse ricostruito l’universo borghese e intellettuale in cui lei è entrata e in cui avrebbe potuto concepire un vivo sentimento d’impostura. Così, poiché l’ordine borghese nato dalla rivoluzione francese ci spinge a farlo e poiché ne avvertiamo l’ardente possibilità, vogliamo inventare la nostra vita. Sentiamo infatti che ciò che ci rende uomini è appunto la capacità infinita di autocrearci, di provare a sconvolgere le determinazioni, a infrangere i limiti. La capacità di tentare e talvolta di riuscire. Tuttavia, questo impulso è intimamente minato dalla credenza, molto diffusa (ancorché raramente espressa in quanto tale), che la nostra condizione sia una cosa «naturale». Pensiamo – segretamente, a nostra insaputa – che la nascita, la prima formazione, la parentela, inscrivano in noi una natura e che questa finisca poi per riacciuffarci – nonostante lo sforzo che abbiamo profuso
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per inventarci. Fissazioni. Ma anche guardare i fantasmi in faccia: Gary si fece Ajar.
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26 L’ambiguità della casella
«Gli accademici Goncourt mi perseguitavano perfino in sogno. Volevano che rendessi loro conto della mia imperizia, mi intimavano di dimostrare, con una seconda e più grande opera, che ero stato proprio io lo scrittore che essi avevano incoronato». Non è vero che in questo racconto di Jean Carrière s’incomincia a intravedere un sogno tipico dell’impostore? La storia di Gary e del suo secondo Goncourt (con lo pseudonimo di Ajar) ricorda un’altra storia famosa dell’ambiente letterario. Una storia in cui ritrovi qualcuna delle tue questioni («E i nipoti di Van Gogh?»). Ma questa volta potresti dire che il sentimento d’impostura risulta non solo da un dato ideologico-estetico (il paradigma dell’artista maledetto), ma anche da una situazione che, a seguito di un cambiamento brutale, provoca questo sentimento artificialmente, nel senso che lo accende in una persona che forse non vi era molto predisposta. Ti si potrà sempre replicare che, in quella persona, il fermento dell’impostura era già latente e aspettava solo di essere attivato. Oppure ti si dirà che, in generale, tutti portiamo nascosto in noi questo fermento: perché, secondo lo schema del triangolo edipico, il figlio ambisce a occupare il posto del genitore del suo stesso sesso e, aspirando ai confusi piaceri che ne conse-
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guono, acquisisce una precoce e viva disposizione all’impostura. Sia pure. Ammettiamo questo dato generale e passiamo comunque a esplorare le manifestazioni superficiali o tardive dell’impostura, perché ciascuna di esse rivela un aspetto diverso della questione. Se dunque riprendi la formula di Max Jacob, «Sono troppo piccolo per questo posto», puoi immaginare che, ove si verificasse un ingrandimento brusco e repentino del posto che si occupa, l’occupante si sentirebbe improvvisamente un menomato. Le situazioni esistenziali in cui può attuarsi un tale ampliamento di proporzioni non sono numerose. È il caso forse di coloro che vincono immense fortune alla lotteria (ma tu non sai niente delle loro reazioni) ed è certo il caso di certi artisti «baciati dalla sorte». Un bel giorno, improvvisamente, arrivano gloria e popolarità: hanno avuto un premio letterario. Jean Carrière aveva scritto il suo secondo romanzo, l’Épervier de Maheux, senza essere sicuro che avrebbe poi trovato un editore. Conosci bene questa postura: spersonalizzazione (non ci si rivolgeva più alla sua persona, ma al premiato), reificazione (non era più padrone del suo tempo, dei suoi spostamenti, delle sue relazioni) e senso di colpa (non meritava certamente tanto – egli pensava). In questa fase, riconosci un classico problema d’identità, relativo al divario tra il sentimento di sé e l’immagine che gli altri ce ne rinviano. Tuttavia, ciò che lo scrittore ha raccontato nella sua autobiografia – ovvero le conseguenze immediate e a lungo termine di questa sua «prova»1 – ti sembra particolarmente pertinente al sentimento d’impostura. Quindici anni più tardi, le sue parole, in Le Prix d’un Goncourt, lo dicono abbastanza chiaramente: «Tutta questa parte della mia vita mi appare talmente astratta, talmente
1. Per riprendere l’espressione di N. Heinich, L’épreuve de la grandeur, La Découverte, Paris 1999.
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allucinata che un estraneo deve averla vissuta al posto mio». Il doppio fantasmatico fa capolino. Il suo stesso nome non gli riesce più familiare, quasi che – egli dice – quel nome «avesse smesso di appartenermi, quasi che un fantoccio lo portasse al posto mio». E questa estraneità da sé stesso si ripercuote sull’attività di scrittore: «Ma la cosa peggiore era sentirsi catapultato, dall’errore di questo successo esagerato e brutale, in una categoria di scrittori che non era la mia». Una tale situazione non è però priva di ambivalenze. Avresti voglia di dire che Carrière si sentiva indubbiamente… «troppo grande per quel posto». Scrittore segnato, come tutti noi, dall’impronta della modernità, aspirava a essere singolare. Sennonché la singolarità (si pensi a Van Gogh, a Cézanne, a Bartók, ecc.) non conduce sempre a un riconoscimento immediato e a una fama popolare. In questo caso, il premio Goncourt (la più popolare fra le onorificenze letterarie) non significava forse «assenza di singolarità»? Allora: come non gridare al malinteso, come guardare senza sospetto al successo del suo libro? (Ancora pochi giorni fa, uno scultore ti ha detto con uno sguardo fiero: «No, cosa crede? Io non vendo quasi niente»). Con una formula non meno complessa che confusa, Carrière contrappone il talento alla gloria e scrive: «Fui preso dallo scoraggiamento: non avrei mai avuto un talento sufficiente a far dimenticare una gloria immeritata venutami, più che dal merito, da una circostanza favorevole». Troppo piccolo e troppo grande: l’impostura consiste nel non sentirsi la persona adatta a quel posto. Il seguito della sua storia, molto patetico, sviluppa le figure dell’impostore. Carrière dice: «Sentivo di non avere il diritto di disporre a mio piacimento del mio denaro, come se non fossi certo che fosse veramente mio». Uno dei suoi amici, un medico, si stupisce: «Si direbbe che tu abbia vergogna di esistere». Egli non riesce più a scrivere, «petrificato dall’impotenza»: chi è mai, infatti, in quanto scrittore? È Carrière o è il Goncourt? Il cambio di statuto produce un double bind: «Passando dal
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registro dell’autore discreto a quello della vedette, mi trovavo impigliato in un problema insolubile: scrivere seguendo un percorso che, a mio parere, non poteva troppo corrispondere al profilo dell’autore di successo e, nello stesso tempo, rendere questo percorso accessibile a tutti coloro che mi avevano assicurato il successo». Si accusa di tradimento, di frode letteraria, si crede falsario e responsabile di tutte le disgrazie che capitano intorno a lui: arriva perfino a parlare di suicidio e cade in una lunga depressione. Ciò che qui ti sembra molto interessante è il sentimento d’im postura collegato all’ambiguità della casella. Di solito, l’impostore valorizza il posto che ha raggiunto: professore, psicanalista, donna, ecc. È la rappresentazione di sé stesso, non il valore della casella, che gli crea un problema. Qui Carrière non riesce a scrivere più niente, perché è preso da una contraddizione inerente allo statuto ambiguo che si attribuisce oggi al Goncourt: da una parte, egli deve fornire la prova di avere meritato quella «ricompensa prestigiosa» (prima definizione del premio Goncourt), dall’altra parte, egli sa che scrivere nello spirito del Goncourt significa fare una letteratura quasi commerciale (seconda definizione del Goncourt). Onorifica e disonorante: l’ambivalenza della casella lo conduce a una situazione interiore disperata.
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27 Campione!
Il corpo si stacca dallo starting-block e, in meno di due secondi, i muscoli sviluppano la loro massima potenza. Sole radioso sopra di lui e forza indomabile dentro di lui. Le sue gambe cesellano ritmicamente l’aria, il perfetto ingranaggio del corpo obbedisce, risponde al desiderio del cervello che lo spinge verso il traguardo – quindici anni, quindici anni di sforzi, di lavoro, di privazioni, perché il corpo e la mente realizzassero l’ingiunzione venuta dall’infanzia: «Devi essere il più veloce». E quella mattina egli lo capisce in un baleno: è appena arrivato primo. Nove secondi e ottantasette centesimi: 9’’ 87’’’. Due cifre, incontestabili (9’’ 87’’’), lo rendono campione. «Campione»: casella fatta di cifre, verificabile, sicura. Nessuno spazio per il caso: è colui che per quindici anni (sudore, respirazione, ascesi, niente vino, poche donne, orarî rigidi, disciplina) ha lavorato per occupare un giorno quel posto: «Campione». Avevi sempre pensato che uno sportivo non potesse essere toccato dall’impostura: perché questa viene spesso generata (risvegliata) da una definizione della casella insufficiente e tale da escludere che chiunque possa veramente sentirsi al posto giusto. Invece, in uno stadio, 9’’ 87’’’ o si fanno o non si fanno: si è campioni o non si è campioni. È una verità relativa al corpo,
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alla certezza delle cifre, un’evidenza. Ti era finache sembrato che, alle due estremità dello spettro, avresti potuto mettere da un lato lo sportivo – assolutamente non-impostore – e dall’altro l’attore. Gli attori: quante volte ti hanno raccontato che, quella tale sera, quando avevano l’impressione (la certezza) di essere stati mediocri, per nulla all’altezza del testo interpretato, gli spettatori li avevano invece applauditi per la loro eccezionale recitazione. E, al contrario, altre volte, certi di avere recitato nel modo più giusto e ispirato, avevano invece dovuto constatare che per il pubblico era stata una serata abbastanza normale. Essere un buon attore? Una casella fuori parametro: non la si può valutare. C’è solo l’entusiasmo del pubblico che ti acclama re o ti butta giù dal trono. E tu non sai veramente perché lo faccia. O almeno: ciò che tu credi di sapere non incontra sempre la conferma del pubblico. Allora diventare un grande attore, una star, dev’essere una cosa davvero preoccupante. Funamboli sostenuti dallo sguardo della folla. E se gli occhi del pubblico si voltano dall’altra parte? E se tra poco, domani, gli spettatori decidono che non sei più un re? D’altra parte: riesci a spiegarti perché oggi ti acclamano? Sei davvero certo di capire ciò che in te, nella tua prestazione, ti ha permesso di conseguire quell’onore? E saresti capace, domani, di ricominciare, di farti di nuovo applaudire? Certi attori (soprattutto attori di cinema) esigono cachets esorbitanti. A spingerli non è tanto il gusto del danaro quanto il bisogno di una conferma materiale, concreta, del loro talento e dell’amore del pubblico. È insomma il loro modo di fare 9’’ 87’’’ e di rassicurarsi per mezzo di cifre altisonanti. Chi poteva pensare che coloro che possono contare sui numeri si sarebbero comunque sentiti impostori? E tuttavia: perché Marie-José Pérec si è ritirata invece di concorrere e di tornare – certamente – a vincere? Quale paura la ha allontanata dalle piste? Ti dicono che Yannick Noah, campione di raro valore, quando rilascia interviste sulla sua carriera non fa che parlare
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del suo sentimento d’impostura. Allora pensi (e non puoi farne a meno): fare 9’’ 87’’’ sapendo che, dopo tutto, potevano essere 9’’ 97’’’ e che si poteva arrivare al secondo posto; sapendo che un riflesso solare di troppo, proprio in quel secondo, avrebbe potuto guastare ogni cosa; che gli avversarî, alla partenza, dovevano pur perdere qualche centesimo; e che ci voleva una piccola casualità (perché il corpo non è una macchina, no: ha i suoi margini aleatorî, imprevedibili), un leggero azzardo perché il titolo andasse al vincitore e non al secondo arrivato – che si è allenato, come il vincitore, per quindici anni: la stessa ascesi, la stessa forza di volontà. Senza un piccolo aiuto del caso, niente primo posto. Pensi che il campione non possa evitare di chiedersi fino a che punto il caso non abbia contribuito alla sua prova; di chiedersi se ha veramente meritato il titolo e se sarà in grado di conservarlo. O anche quest’altra cosa che ti ha riferito uno sportivo amico tuo: il sentimento d’illegittimità che il campione in carica prova di fronte al perdente che tuttavia sa più dotato di lui. Dotato: il dono, la nascita, l’elargizione di una natura generosa. Si grida al vincitore: «Bravo! Sei il campione». E quello: «Ma no, ma no. Non sono io. È lui il campione. – Come? Ma sei tu che hai vinto il titolo! – Certo, ma io mi sono allenato tutti giorni, tutti i santi giorni come una bestia da soma sotto la verga del mio allenatore, mentre lui, invece, non ha fatto niente: belle serate, vino, pochi allenamenti. E poi? Avete visto la sua performance, la sua naturalezza, la sua grazia? È lui il vero campione». L’atleta dotato, anche se si piazza al terzo o al quarto posto senza avere fatto grandi sforzi, sarà sempre più elegante del vincitore. E poi, va bene: campione, campione. Per quanto lo abbia tanto desiderato e lo abbia vissuto come l’ideale più ambito, il mio sé, questo mio piccolo sé, ha veramente la stoffa per sistemarsi in una parola così grande? Io che amavo tanto i biscottini al burro e il cagnolino di mia zia (stai inventando), io così seria, così abi-
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tudinaria, così fragile in determinati momenti e in determinati luoghi – io campionessa? Ma voi vi sbagliate: vi sbagliate tutti. Non chiedetemi che significa essere una campionessa, non ne so nulla. Io non sono che Valentine, Caroline, Joséphine. Io sono io: non sono quella cosa enorme e impersonale che è la campionessa. Sì, l’ho voluto, ho voluto farlo in 9’’ 87’’’. Ma non so se sarei capace di rifarlo. E quanto a «campionessa»: non avevo idea di cosa significasse e continuo ancora a ignorarlo.
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28 L’impostura amorosa
Eccola davanti a te. È venuta all’appuntamento (strano, peraltro, che sia venuta: ma per ora non vuoi pensarci troppo). Ti parla con quel tono serio che ti ha subito conquistato. Tu cominci a studiarla. È chiaro che, in molte cose, avete gli stessi gusti. Parli con un certo ardore, come sai fare benissimo senza alcuna difficoltà; e cerchi di avere un’aria intelligente (la cosa ti riesce facilmente – bando a ogni falsa modestia). Questo tipo di scambio ti piace molto: sedurre ed essere sedotto e sentire, nello stesso tempo, che oggettivamente lei ti interessa – ti interessa in ogni modo. «Tutto è bellissimo», ti dici. E cominciate a parlare di politica – un terreno rischioso, è facile litigare o essere delusi. E invece no: l’intesa continua. Pattinate mano nella mano (dolce crepitare della pista di ghiaccio incisa dai pattini), scivolate in armonia e lei ha quel foulard color lilla (sì: diresti proprio che è lilla) che risalta meravigliosamente sulla sua carnagione. Chiacchierate a lungo e intanto viene la sera. Lei ti propone di lasciare quel bar e di andare a bere un bicchiere di vino bianco in un locale che conosce. Sì. Tu dici di sì. E quella sera ti senti senz’altro pronto a preferire il vino bianco. Lei è, nello stesso tempo, dolce e decisa: proprio il tuo tipo. E hai l’impressione di interessarla. Allora, mentre passeg-
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giate lungo il marciapiede, cominci a pensare che bisogna fare quel gesto: quel gesto tanto impegnativo che rimonta alla notte dei tempi (da allora, in tutti i luoghi e in tutte le epoche, non si è scoperto nulla di meglio), quel gesto che, prima di essere tentato, ti ha sempre fatto tremare un po’: abbracciarla. L’aria è chiara, il fiume smorza i rumori e la luce sembra propiziare la stretta. Ti pieghi piano, piano verso di lei: lentamente, per lasciarle il tempo di ritrarsi senza bruschi movimenti, respiri già il suo profumo, i fragori della città vaniscono e tu già vedi la grana della sua pelle. Lei tende il viso verso le tue labbra e, dopo averti baciato, dice: «Mi piaci, mi piaci, mi piaci». O mio impostore, fratello, tu sai renderti attraente, sai stringere una donna fra le braccia, sai elargire il piacere. Fino a quando si tratta di scommettere e di giocare, di provare a conquistare, tutto va bene. In fase di combattimento, tutto va bene. Variazione I. Un mese dopo. Non puoi esprimere l’effetto del sole che tramonta sul fiume, il vocabolario disponibile è del tutto prosciugato, logoro, ridicolo. Non fa niente. È bello lo stesso. Hai fatto bene a darle un appuntamento sul ponte perché, se è vero che, come tu speri, siete sulla stessa lunghezza d’onda – con quella sensibilità tipica degli innamorati, confusamente convinti che ogni bellezza sia loro destinata, che l’universo disegni un vasto reticolo di connivenze con il loro sentimento – allora potrai dirle la cosa miracolosa: che tu la ami. Ed è qui, o impostore, o mio simile, che cominci a vacillare. Tu non manchi di coraggio (raramente l’impostore ne manca), non è questo il punto o non è propriamente questo. Il fatto è che non puoi credere, neppure per un secondo – no, non puoi immaginarlo – che lei risponda affermativamente alla tua dichiarazione. Esplicitamente, non dici nulla. Ma come potresti essere amato tu che sei così poco amabile? Tu che non meriti l’amore? Lei è veramente deliziosa con te ma tu, che non sei né pazzo né presuntuoso, non ne trai alcuna conclusione favorevole.
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Variazione II. (L’impostore è comunque riuscito a dichiararsi). Presi dall’entusiasmo, siete andati a vivere insieme. Il tuo appartamento era grande, lei avrebbe dovuto traslocare: non ci avete riflettuto oltre e avete deciso di abitare nella stessa casa. Come ammettere che, nella piena di tanta felicità, si avverta talvolta uno strano fremito al cuore, quasi un torcersi delle viscere, una mano gelida sul plesso solare? Il tono della sua voce: lo senti e ti assale un senso di colpa. Un bicchiere fuori posto, una carta che hai dimenticato, un’ora di tempo che hai sciupato. E poi c’è quell’errore fondamentale, l’errore – come dire? – di cui gli altri non sono che trasformazioni o metonimie: il fatto che tu sei tu. Potrebbe anche darsi che lei ci giochi, che abbia capito come manipolarti: è un’idea che, ogni tanto, torna a sfiorarti. Ma tu sei talmente certo di non essere soddisfacente che, in fondo in fondo, ti sembra già un miracolo che lei accetti di dividere la sua vita con la tua. Non è vero? Variazione III. I tuoi amici pensano che ti preoccupi troppo di lei. Non te lo dicono a chiare lettere, ma tu te ne accorgi dai loro sguardi di disapprovazione. Sempre disponibile, sempre vigile, «Tesoro» di qua, «Tesoro» di là, questo essere sempre pronto a servirla, a riservirla, a darle i bocconi migliori, a prevenire ogni suo minimo desiderio i tuoi amici lo trovano eccessivo. «Quante attenzioni!» – ti sembra di sentirli. Ma lo sanno che tu sei indegno di lei? Indegno, per natura, di quest’amore che ti è toccato in sorte? Sanno che, per quanti sforzi tu faccia, non riuscirai mai a esserne all’altezza? E un giorno lei se ne renderà conto e vedrà che non la meriti. E questo significa che tu non meriti l’amore di nessuno, in generale. Forse meriti il rispetto, la stima (anche se…), ma l’amore no. L’amore non è cosa per te. Variazione IV. Lei ti ha lasciato? Certo che ti ha lasciato. Non poteva che finire così. E tu ti sei cercato subito un’altra donna, perché non puoi stare da solo, hai voglia di compagnia, occorre che qualcuna venga ad acquietare quel tuo punto intimo in
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cui s’annidano la paura e il desiderio dell’amore – altrimenti quel punto s’allarma, si agita molto più di quanto non faccia quando loro sono là, le tue compagne. I tuoi amici considerano quest’ultima tua amichetta un vero errore. Non è carina, non è gentile, non è intelligente. Ma ditemi: pensate seriamente che io meriti di meglio? Anche questa ragazza, che voi un pochino disprezzate, anche lei, quando capirà che io sono… Variazione V. (L’impostore non si è mai dichiarato, perché…). Certo, sul ponte ci sei andato, ma quella sera ti sei mostrato così sgradevole che, dopo un’ora, lei ti ha detto che aveva altro da fare e se ne è tornata a casa. Ora ti analizzi. Non avevi niente contro di lei, è chiaro. Ma previeni il momento in cui lei finirà per detestarti, disprezzarti, respingerti e l’orgoglio ti costringe a difenderti in anticipo. Così la aggredisci. Variazione VI. (Un’altra possibilità, dopo il primo incontro). Non vuoi essere né troppo gentile, né troppo scortese: e aspetti. Ti piacerebbe che fosse lei a dire le prime parole (d’amore), perché, dal canto tuo, non vuoi ridicolizzarti dichiarandoti a una donna che, secondo te, non potrebbe amarti. No: non vedi come e perché dovrebbe farlo. E aspetti tanto a lungo che un giorno l’uccellino vola via. Variazione VII. (In forma d’antidoto). L’onestà ti spinge a ricordare che, dal punto di vista dell’altro, di quello che è amato dall’impostore, le cose sono ben lungi dall’essere tragiche: e anzi sono alquanto piacevoli. Marie sostiene che non è mai così felice come quando si trova con un impostore. È vissuta molto tempo con Marcel, grande impostore in amore: un uomo che – lei dice – sapeva veramente farle sentire il suo amore, sapeva veramente coltivarne l’espressione! Certo, per lui – che ogni giorno si stupiva di essere amato come si era stupito il primo giorno – niente era banale in Marie, né la sua bellezza, né la sua intelligenza; nulla si logorava nella cotidianità del loro rapporto. Sapeva custodire intatta la sua capacità di meravigliarsi di lei e dell’amore. E Marie dice: «Viva gl’impostori in amore».
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Insomma. Tu non vuoi parlare degl’impostori di professione: non dirai nulla di Denise che, con le lacrime agli occhi, ti dice che è innamorata e che sta per sposare Jean. Non dirai nulla di Marianne che, ben truccata, ti dice di credere più alla coppia che alla fedeltà e che la vita è fatta per danzare da un uomo a un altro – eppure tu sai che il suo sogno è di essere richiesta in matrimonio. Né parlerai di Christophe, che ti giura che muore d’amore per Charlotte e che pensa a lei tutto il tempo – quando invece – le sere in cui Charlotte è impegnata in una riunione – Christophe s’incontra con Marianne o con Anne-Marie. Ma dirai senz’altro qualcosa di Justine, che si crede talmente indegna di essere amata da non riuscire a conservarsi un fidanzato; oppure parlerai di Stéphane, celibe, che ha talmente esaltato l’uomo – il maschio – da non vedere come una donna potrebbe ora bastargli. Tu non parli dunque dei Don Giovanni, di quelli che promettono a ogni donna il matrimonio, di quelli – e di quelle – che giurano fedeltà nell’intervallo fra due appuntamenti segreti. A rigore, sarebbe meglio esplorare quelli e quelle che si domandano com’è veramente amare d’amore, che non sanno se provano amore, desiderio o pietà, che interrogano l’amore quando il desiderio lo supera e si volge ad altri, che si rimproverano di farsi credere più attaccati di quanto in realtà non siano o che (si) dissimulano che l’amore è morto. Ma soprattutto – soprattutto – tu vuoi parlare di coloro che si ritengono indegni dell’amore che viene loro portato.
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29 Il non-riamato
La Bella era trattata come una regina. Adorna di gioielli e di vesti meravigliose, servita, nutrita, dormiva tra velluti e morbidi guanciali ed era delicatamente corteggiata dalla Bestia: «Bella, io verrò ogni sera ad assistere alla vostra cena e farò sempre la stessa domanda: volete sposarmi? – E io, la Bella, vi darò ogni sera la stessa risposta: no». La Bella voleva tornare dal padre cui era profondamente attaccata, al punto di essersi sacrificata per lui. Era infatti venuta al castello incantato in cambio della vita del suo vecchio genitore, che aveva malcautamente reciso (per offrirla a lei) una rosa dal giardino della Bestia. La Bestia è ripugnante – bestiale, appunto. Coperta di un’immonda peluria e provvista di artigli, si nutre degli animali di cui va in caccia, per divorarli nella foresta – e intanto geme per la sua infelicità. Come farsi amare? Tuttavia, la Bella si sente commossa dalla Bestia: vi scorge una bontà e una dolcezza che, se pure non fanno dimenticare il suo aspetto spaventoso o la sua orribile voracità, hanno – come dire? – un che di toccante. Il caso della Bestia non è isolato. Nelle pagine della Contessa di Ségur, come potrebbe quella principessina amare il rospo che vuole entrare nel suo letto? E, in un racconto africano, come
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potrebbe quella bella fanciulla non fuggire alla vista del nano che la concupisce? Numerose fiabe ci raccontano di amanti brutti e respinti e di principesse accecate che, fortunatamente, alla fine del racconto riescono a vederci chiaro: basta che acconsentano ad amare perché il bel sembiante di un principe appaia sotto le repellenti fattezze della bestia. La fine del film di Jean Cocteau mostra, dopo varie peripezie, questa meravigliosa metamorfosi: il personaggio di Avenant – che, nella vita reale, era il pretendente della Bella – muore perché ha voluto forzare il tesoro del castello, mentre la Bestia agonizza (per avere troppo a lungo atteso la Bella). Ma, già sul punto di morire, tra le braccia della Bella che (si) confessa finalmente il suo amore, la Bestia rinasce riprendendo i tratti (deliziosi, tu pensi: si tratta di Jean Marais) di Avenant. Insomma: siate più accorte, principesse. Giacché se vorrete concedergli il vostro amore, l’innamorato brutto e respinto rivelerà la sua autentica parvenza, la sua vera natura: quella del più meraviglioso dei principi. Tutte queste fiabe di metamorfosi – di cui La Belle et la Bête di Jean Cocteau offre forse la versione più bella1 – contrappongono due figure: quella della giovinetta bella, eterea e innocente e quella dell’uomo potente, ripugnante e preda di pulsioni bestiali. L’interpretazione è squisitamente sessuale. In Cocteau, si vede bene che la Bella, per potere amare un uomo e accettare la sessualità, deve anzitutto distaccarsi dal padre. La fiaba ci indica che la Bestia è solo una fissazione della Bella: la paura della sessualità l’aveva indotta a rivestire Avenant, il suo affascinante fidanzato, d’un aspetto fisico pauroso. Ma, grazie all’amore, la sessualità diventerà accettabile – perché appunto il fidanzato e la Bestia erano una sola cosa.
1. Il racconto originale fu scritto, nel 1757, da Mme Jeanne-Marie Leprince de Beaumont.
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Ma queste fiabe possono essere spiegate anche dal punto di vista dell’amante brutto e respinto. Il punto di vista del ragazzo che ha una carenza d’amore e che si sente percepito come una creatura ripugnante – mentre solo un po’ d’amore lo renderebbe agli occhi degli altri una creatura deliziosa. Non è forse vero che questa preoccupazione di essere amati governa interamente le nostre vite? Mi piaci. Ti piaccio. È un avvenimento. Le fiabe lo dicono. E dicono anche, nella loro maniera immaginifica, l’orrore di non essere amati e il sentimento d’impostura che se ne genera. Giacché cos’altro è la manifestazione di un’apparenza bestiale se non la manifestazione estrema – e riflessa sulle fattezze fisiche – dell’inadeguatezza al posto che si occupa? Il posto fondamentale dell’essere uomini e dell’essere amati? In un giorno di tristezza, a seguito di una separazione, Marcel ti ha parlato dell’impostura di essere amati. Successivamente, in giorni più gioiosi, siete spesso ritornati sull’argomento: e Marcel ci ha riso sopra, ha riso di sé stesso – ma ciò non toglie che si tratti una cosa assai poco divertente, che va a urtare contro un punto debole. Ti ha detto che in lui essere amato suscita una sorpresa da mozzargli il fiato, una sensazione incredibile che gli dà le vertigini: troppa aria entra improvvisamente nel suo petto, troppo per i piccoli esseri che noi siamo, che sappiamo o che crediamo di essere. «Ciò che crediamo di essere. Giacché – dice Marcel – non so per te ma, per quello che mi riguarda, per quanto vada indietro coi ricordi, non mi sono mai creduto degno d’amore. Mi è mancato, irrimediabilmente, l’amore dei miei genitori. A meno che (senso di colpa supplementare) io non sia riuscito a percepirlo bene: “Tutto quello che abbiamo fatto per te”, mi dicevano. “Non te ne rendi conto”. Se ora provo a capire me stesso, capisco che, per quanti sforzi io abbia fatto di decennio in decennio, è come se in me fosse rimasta una sacca d’infanzia incompresa, che mi ha impedito di vederci chiaro.
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La lucidità e il sapere stavano dalla parte dei genitori: come dubitare, da quel momento, che essi avevano ragione? Giacché essi, gli adulti, sapevano e vedevano come funzionavano le cose, conoscevano la vita e la gente: e mi lasciavano intendere che avevano percepito in me qualcosa che non andava bene. Per tutta la vita, mi sono portato dietro quest’intuizione che in me qualcosa non andava bene – un’intuizione consolidata dalla costante sensazione di comportarmi male e di confermare così la legittima disapprovazione di mio padre e di mia madre. Ti chiedi se io veramente mi comportassi male? No: non saprei proprio descrivere un solo atto che avrebbe potuto farmi obiettivamente demeritare. Era l’impressione confusa e generica che essi non sbagliavano a essere così scontenti, che essi percepivano correttamente in me la causa della loro delusione: una causa per me oscura e tuttavia una causa certa. Ancora oggi, essi mi ripetono: “Non immagini, figlio mio, quante preoccupazioni allora ci davi. Eri troppo giovane. Ma se tu sapessi, se tu sapessi che calvario…”. Allora – prosegue Marcel – viene ad allungarsi l’ombra di un altro dubbio. Dico a me stesso: racconti storie, giochi a fare l’incompreso come tutti gli adolescenti che non si sentono mai abbastanza amati». A questo punto, lo interrompi e fai: «Ma di quale momento della tua vita stai parlando?». Ti risponde che, per queste cose, per questi sentimenti, non ci sono età perché, quando si tratta dell’amore, si vivono contemporaneamente tutte le età della vita. «Dunque – continua – dico a me stesso: sei tu che ti sei costrui to questo racconto crudele per uscirtene poi a buon mercato: e questo, riconoscilo, non è, da parte tua, un risultato molto brillante». E qui Marcel ha ripreso fiato, quel fiato corto del bambino incompreso che scarica tutto in una frase tirata a lungo, indignata e tuttavia ancora impacciata – e appesantita dal fatto che egli dubita della sua innocenza. E, con un’aria sarcastica
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(tu sai che spesso gli piacerebbe riuscire veramente beffardo), ha aggiunto: «Dico infine a me stesso: o tu hai giustamente sofferto per la tua vicenda familiare oppure ti sei raccontato storie piene di lamentele e di compiacenze con l’unico scopo di conquistarti un amore sempre crescente, quell’amore che il tuo narcisismo infantile ti spinge a rivendicare e che tuttavia – lo sai bene – ti lascia indignato. Ma, in ogni caso, è questo il tuo bagaglio per la vita affettiva. Giacché anche tu, non meno degli altri, sei imbarcato: sei la Bestia che cerca la Bella. E tu la cerchi sul serio. Allora entri nel ballo e provi. E la vita, brava ragazza, fa il suo gioco e ti offre le sue occasioni. E così anche tu, come tutti gli altri, fai i tuoi incontri, hai le tue relazioni, le tue avventure, ti sposi (o magari non ti sposi affatto). La vita fa la sua parte. Sennonché, nel vario succedersi delle possibilità che essa ti offre, rimane in te, tenace, la sensazione che tutto ciò sia sorprendente. È sorprendente che l’altra ti ami. Se lei sapesse… Se sapesse chi sei veramente. Giacché, anche nel caso di un amore felice, il dubbio persiste: l’occhio del super-io veglia sull’alcova e spia l’amante che si sente amato ma si ricorda anche di non meritarlo, perché è una persona del tutto insoddisfacente. Sì, Amore mio, se tu sapessi, se tu sapessi chi sono nel profondo della mia anima, ma veramente nel profondo, nella mia vera realtà… La realtà sono sempre gli altri: e gli altri sono i genitori che, per quanto si possa resistere, modellano la nostra realtà fin dall’inizio e ci condizionano per sempre. Perciò tu non sei mai tranquillo: anche negli abbandoni d’amore, anche nelle confessioni più sincere, percepisci la voce di un altro dubbio: quello che da sempre nutri nei riguardi di te stesso. E questo dubbio ti dice: “Sei un impostore, la stai ingannando sul tuo conto, non meriti il dono prezioso dell’amore che lei ti offre”. Sai cosa mi auguro? Che sul mio letto d’agonia io possa dirmi: “Povero idiota, è così che gli uomini si amano – tutti”. Allora, mi immagino, mi sentirò come soffocare in una grande risata: una grande risata di rimpianto.
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Era così bello, in fondo, amare ed essere amato. E io lo avrei desiderato e ne avrei goduto più di molti altri». Tu annuisci e dici: «Molti altri infatti…». Tutti quelli per i quali essere amati è inconcepibile. Sono molto più numerosi di quanto si creda. L’impostura di essere amati è un segreto di Pulcinella: più o meno confessato, più o meno dissimulato. E in verità non è altro che la grande faccenda dell’amore. Perché è l’amore che coniuga l’immaginario e la realtà, è l’amore che fa ruotare la porta girevole del Grand Hôtel dove, tra lacrime e sorrisi, ci abbracciamo e sospiriamo, ora trepidi ora felici.
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30 Adolphe
Davanti all’Adolphe di Benjamin Constant, è difficile non porsi il problema dell’impostura. Non sei del tutto convinto che ce la troverai, ma per essere in pace con la tua coscienza di saggista devi comunque sbrogliare questa matassa. Alla corte di D***, Adolphe si annoia e si rende conto che desidera essere amato. Mette gli occhi su una donna che versa in una precaria situazione sociale. Straniera, più grande di lui, Ellénore vive con un uomo da cui ha avuto due figli senza esserne stata sposata. Adolphe ne sottolinea anche i limiti intellettuali: ha un «ingegno ordinario» ed è «piena di pregiudizî». Questa precisazione mira indubbiamente ad accrescere il prezzo dei sacrificî che la donna farà per Adolphe, giacché, ove fossero stati compiuti da uno spirito libero, quegli stessi sacrificî avrebbero certo avuto meno valore. Inoltre, essa vuole forse indicare che la relazione tra i due personaggi, ancorché del tutto singolare, non è legata al carattere eccezionale di questa donna ma serve piuttosto a illustrare l’assioma di Benjamin Constant: «L’amore è del resto un sentimento che, quando se ne avverte il bisogno, viene riposto sul primo venuto. Tutte le attrattive che esso genera si trovano nell’immaginazione di chi
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lo prova»1. Ellénore è dunque presentata come una donna in difficoltà che, avendo rifiutato l’ignominia che avrebbe potuto procurarle il suo stato sociale, si sente «molto infelice» ed è «costantemente in lotta con il destino». Sappiamo tutti come si metteranno le cose. Ellénore sprofonda in una passione cui sacrificherà la sua fragile posizione sociale, i figli, la sua fortuna e suo padre, mentre Adolphe, da quando lei è diventata un legame e non più uno scopo, se ne distacca. Egli ha però un grande timore di farla soffrire (ed è qui tutta la problematica del romanzo), così che la volontà di Ellénore diventa la sua e gli impedisce di lasciarla. Vediamo così girare su sé stessa la faticosa condizione di un uomo che non ama una donna ma che, non potendo risolversi a farla soffrire, finge di amarla e le dice cose che vanno ampiamente al di là dei suoi sentimenti reali. Anche se Ellénore non è così sciocca da credere a tutte quelle dichiarazioni (la sua lettera testamentaria lo proverà), come potrebbe trovare il coraggio di non ascoltare quelle parole che lusingano il suo desiderio più forte? Ellénore capisce tutto, ma preferisce lasciarsi stordire da quei vuoti accenti. E il loro rapporto va avanti. Nel chiuso della loro convivenza, si sviluppano continuamente due tremende spirali. Anzitutto l’illusione (sentita o indotta) di un amore vivo: ciò suscita in Adolphe la sensazione di essere in trappola e, per liberarsene, lo porta a un atteggiamento molto violento. Ma egli non accetta la sua violenza e anzi, ogni volta, se la rimprovera severamente e tenta subito di correggerla: così, con un’infausta reiterazione, la coppia ritorna all’incatenamento iniziale. La seconda spirale investe l’illusione e funziona come una sorta di giro di vite. Si installa fin dai primi momenti del rapporto e ha tutta l’apparenza di un paradosso. Quanto più egli si disin-
1. B. Constant, Journaux intimes, Gallimard, Paris 1952.
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namora e si sente pronto a lasciarla, tanto più sente crescere in sé un senso di colpa che lo induce a fingerle affetto e a darle ancora un po’ di gioia. Perciò, quanto più lei gli crede, tanto più i legami si stringono. Giacché proprio allora Adolphe comprende che, se egli partisse, le procurerebbe una sofferenza troppo grande: e non può risolversi a infliggerle tanto dolore. Un esempio fra i tanti. Quando il barone di T*** gli ingiunge di lasciarla immediatamente, Adolphe dice: «Non avevo più alcuna impazienza. Avevo anzi un segreto desiderio di ritardare il momento funesto. Ellénore si accorse di quella mia disposizione più affettuosa e più sensibile. Lei stessa divenne meno aspra. Cercavo quei colloqui con lei che prima avevo evitato; gioivo delle sue espressioni d’amore, prima importune e ora, invece, preziose, perché potevano ogni volta essere le ultime». Impostura? L’impostore (quello vero) si fa passare per qualcuno che sa di non essere, così da «imporci» la sua figura, laddove l’impostore soffre di essere scambiato per colui che crede di non essere. Quale dei due tipi corrisponde a Adolphe? Adolphe è andato a trovarsi un suo posto: nel cuore di Ellénore. Se, all’inizio, s’era detto: «Voglio essere amato»; alla fine, quando Ellénore muore, egli si sente solo sulla terra: «Tutta la natura sembrava dirmi che dal quel momento in poi non sarei più stato amato». Il posto conquistato da questo impostore era il posto dell’amato. Per ottenerlo bastava che egli si mostrasse amabile (e lo era per natura) e che si facesse amante. Sulle prime, la loro relazione, segnata dalla resistenza di Ellénore, si svolge in un clima di sincerità – nei limiti in cui si può essere sinceri, suggerisce Constant, che sa quante trappole si chiudano nel cuore umano. Adolphe desidera e soffre più di quanto egli avrebbe immaginato: lo ammette e così getta subito un dubbio sull’autenticità di questo desiderio. In questa fase, è difficile parlare d’impostura (o d’impostura), giacché il primo a essere ingannato è lo stesso protagonista. Dopo che l’ha conquistata, Adolphe si stanca di Ellénore e, d’alta parte (non lo si
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sottolinea mai abbastanza), lei non lo fa respirare, cioè non lo lascia desiderare2. Così Adolphe comincia a fingere. Anche se, detta così, sembra una cosa troppo semplice. Come qualificare questo comportamento? Questo ostinarsi a fingere un amore che non «apporta» nulla? Impostore Adolphe lo è diventato nel senso di chi occupa un posto che non gli è dovuto. Ma se, come spesso ci viene ricordato, si entra nell’impostura non appena si comincia a parlare (a esprimersi come altrettante maschere, altrettanti ruoli, altrettanti personaggi di cui si recita la parte), Adolphe è, invece, un impostore anche nei suoi atti. Egli prova continuamente il suo falso amore attraverso i suoi atti («Ma voi stessa, da sola, non avete forse mille prove che io non posso desiderare ciò che ci separa?» – lei le ha), egli cioè non fa che infliggersi tutte le conseguenze della sua finzione. Dov’è dunque il beneficio di un’impostura così costosa? Ciò che si oppone all’interpretazione (nondimeno frequente) di Adolphe come semplice impostore è proprio il gran numero di inconvenienti e l’esiguità dei vantaggi che la sua impostura produce. L’impostore vuole occupare quel posto perché il suo desiderio e il suo piacere sono là. Per Adolphe, il posto consiste nell’essere amato: un’esperienza non priva di attrattive, ma sta di fatto che, nell’occupare quel posto, egli non prova un piacere schietto. Piuttosto, restiamo colpiti da tutto ciò che egli non riesce a fare (rendersi libero, lasciarla, ferirla, parlarle sinceramente) e per la quantità di costrizioni che egli si impone (rinunciare alla sua carriera, troncare con il padre, interrom-
2. Per esempio, nel cap. IV: «Vicino a Ellénore, non rimpiangevo affatto quei piaceri della vita sociale cui non avevo mai mostrato tanto interesse, ma avrei voluto che lei mi avesse permesso di rinunciarvi più liberamente. Avrei trovato una maggiore dolcezza nel ritornare da lei di mia volontà, senza dirmi che l’ora era arrivata, che lei mi aspettava ansiosa; e senza che l’idea della sua pena venisse a mischiarsi all’idea della felicità che avrei provato nel ritrovarla».
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pere le sue relazioni), insomma per la sua assoluta mancanza di libertà interiore. Quanto al sentimento d’impostura, che potrebbe essere? Sentirsi indegni dell’amore che si provoca secondo un meccanismo che gli psicanalisti chiamano impostura isterica? Adolphe è colmato dall’amore di Ellénore, ma non se ne dice mai indegno. Forse bisogna cercare dalla parte di questa paura di farla soffrire. Egli se ne lamenta, spesso perché quella condizione, difficile per chiunque, per lui è particolarmente incresciosa. Ti sei già chiesto se sotto l’Adolphe-amante non sonnecchiasse l’Adolphe-figlio (e questa sarebbe insieme l’impostura e l’impostura). Il testo ti invita a questa lettura: Adolphe non evoca mai sua madre (mentre suo padre gioca un ruolo importante) e comincia la sua narrazione descrivendo la vecchia donna, emarginata (come Ellénore) dalla buona società, che gli aveva fatto da madre e che egli ebbe la disgrazia di vedere morire. Donna, madre, morte. La vita di Benjamin Constant – se è lecito prendere qualcosa in prestito dalla biografia dell’autore – spiegherebbe anche il carattere funebre di quest’immaginario materno: si sa che la madre di Constant morì nel metterlo al mondo. Da qui alla possibilità di scorgere un atroce senso di colpa nell’idea di fare soffrire una donna il passo è breve. Adolphe si comporta come uno di quegli eterni adolescenti che si rifiutano di abbandonare la madre e rinunciano perciò alla loro vita. E, d’altra parte, non è forse la madre che egli difende ogni volta che qualcuno cerca di ferire Ellénore? Quando invece è proprio lui a farle spesso del male. Impostore: colui che, sotto le parvenze di un uomo fatto, dà ancora ricetto a un ragazzo? Sentimento d’impostura: quello che assale l’uomo che sa di non provare il sentimento adeguato?
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31 I delusi
Quando il tuo vicino ripeteva: «Deluso, deluso, mi sento veramente deluso», aveva un’aria da maestro di scuola scontento dell’alunno: «Sono deluso, deluso. Mi aspettavo molto di più». Quell’aria che spesso assumiamo quando si parla di politica, cioè di quella barca che ciascuno di noi, che tutti noi sapremmo governare molto meglio se fossimo al timone (ma che Dio ce ne guardi – non è vero?). Diceva queste parole poco dopo il maggio del 1981, dopo la breve ma intensa esultanza della Bastiglia – quando aveva pensato che, in quel momento, si era quasi a una svolta della Storia. Una svolta che riscattava le sofferenze di suo nonno, gli anni di lotta del suo vecchio zio, la miseria dei bisognosi. Aveva pensato che finalmente la Storia ci vedeva chiaro e affidava il potere ai giusti. Ma subito dopo, nei mesi immediatamente successivi, la delusione. Eri uno studente e sei diventato professore. Eri un paziente e sei diventato psicanalista. Eri all’opposizione e il candidato della tua famiglia politica è stato eletto presidente. Se fin qui hai interrogato il sentimento d’impostura dal punto di vista dell’identità individuale, nella sua fase elaborativa o nella sua fase matura, ora puoi anche allargare la tua indagine e osservarne le manifestazioni collettive. In politica, per esempio. Nelle
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democrazie, la gente elegge i proprî rappresentanti. Questo significa che la gente ha una sua propria identità politica (quella che ne guida le scelte elettorali) e che le persone che eleggiamo con il nostro voto sono una proiezione di noi stessi. Stanno lì in quanto nostri rappresentanti, giacché sono, per così dire, strumenti promossi da noi a quelle cariche, per agire secondo la nostra volontà. Si dà il caso che la politica sia un mestiere: esige un sapere e un saper-fare, richiede tempo e assai difficilmente – sulla larga scala delle nostre grandi nazioni – può essere diretta. Occorre dunque che alcuni uomini rappresentino la volontà generale e agiscano secondo quella volontà. Questo breve ed elementare riassunto del significato della democrazia ci conferma che, in politica, non è illegittimo porre un problema d’identità (analogo a quello dell’impostura). Ma bisogna tenere conto che qui le cose vengono complicate dal fatto che si parla, nello stesso tempo, di individui (le mani che, materialmente, introducono la scheda nell’urna elettorale) e dell’insieme di coloro che sono rappresentati dagli uomini politici che si sono scelti. Dunque non più gli elettori singoli e concreti, ma gli elettori considerati attraverso i loro rappresentanti. In quanto tali, gli elettori possono assumere comportamenti alquanto contorti, prese di posizione contraddittorie e legate a un ambivalente rapporto di odio e d’amore. E così via. Qui l’impostura investe dunque un’identità collettiva, si manifesta attraverso la proiezione del sé su una minoranza di cui, di volta in volta, si dirà: «È proprio come noi». Oppure: «Non è affatto come noi». Ti è sembrato che questo sentimento collettivo d’impostura si ritrovasse negli atteggiamenti della sinistra francese dopo il 1981. Come hai spesso notato, per provare un sentimento d’impostura occorre essersi affermati. A partire dal 1981, la sinistra è arrivata al potere – una cosa che, dal 1792 (la Prima Repubblica), le era a stento capitata per una trentina d’anni in tutto. Ma molto presto, nei mesi successivi all’avvento al po-
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tere, cominciò a fiorire, sulla stampa e nelle opinioni correnti, l’idea che si era tutti «delusi». Forse era una specie di tristezza post partum? Quando si è a lungo atteso il lieto evento, una volta che si sia verificato e che ci si trovi improvvisamente a viverlo, bisogna forse mutare il proprio stato d’animo? Bisogna uscire dall’attesa e dalla speranza? Col tempo, il motivo della delusione è venuto fuori più chiaramente: una volta al potere, la sinistra non era abbastanza a sinistra. Non vuoi commentare né i fatti (i temi del vero malcontento, gl’indubbî errori del governo e lo stato generale delle cose), né le fantasticherie (buttare il capitalismo fuori dalla Francia e cominciare finalmente a fare promesse irrealizzabili), né i comportamenti radicati (per non sembrare ipocriti, bisognava mostrarsi, per così dire, «ipercriti» e mantenersi nel conforto morale racchiuso in ogni atteggiamento critico). Bisogna invece dire senz’altro qualcosa sulla tendenza, abbastanza diffusa, a detestare il potere. Col passare degli anni, i fatti dimostravano che la sinistra poteva dirigere il paese, che essa non offriva soltanto un pensiero generoso ma anche un’alternativa concreta. La gente di sinistra avrebbe dovuto gioirne – a patto di accettare l’idea che, anche quando si è di sinistra, si può andare al governo e ci si può restare. Ora, tu credi di capire che, per la gente di sinistra, il potere non è, come spesso si crede, il «poter fare», ma è una posizione sospetta, una specie di tentazione vergognosa. Vecchia cultura di chi non è mai o quasi mai andato al potere. E forse anche vecchio influsso cristiano: chi ha ragione, deve essere crocifisso, non può governare. Il regno della giustizia non è di questo mondo. Ma ti chiedi se anche qui non agisca l’effetto di un sentimento d’impostura. Quelli di sinistra si sono talmente abituati a non avere potere che finiscono per trovare normale questa condizione e pensano che il potere non faccia per loro. Non sono quelli che dovrebbero essere per occupare quel posto. E quando vi si trovano, non si sentono legittimati. Fanno di tutto per buttarsi fuori
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dal potere. Ovvero per buttarne fuori i loro rappresentanti. E dopo venti anni di critiche severe – fra provocazioni, lamentele, irritazioni e tentazioni radicali – accadde proprio questo: per porre un freno all’estremismo di destra, il popolo della sinistra si vide costretto a votare in massa per un presidente di destra. Come si arrivò a quel punto? Disperdendo i voti, al primo turno, su una dozzina di candidati che si presentavano come alternative alla sinistra deludente. Non tanto perché li si ritenesse veramente capaci di andare al potere, quanto perché si voleva «sanzionare» la sinistra al governo. Risultato stupefacente: la sinistra si era messa fuori gioco da sola. Non pretendi certo di fare un bilancio della sinistra e delle sue personalità in questi ultimi venti anni. Ma non puoi fare a meno di pensare che questa impossibilità di apprezzarsi, di trovarsi soddisfacenti, questa tendenza ad autodetestarsi una volta raggiunto il potere (cioè una volta ottenuto il successo), questa maniera di sentirsi profondamente delusi (e cioè di ritenere che la sinistra non era quella che sarebbe dovuta essere) e, insieme, l’auspicio, inespresso ma realizzato nei fatti, di espellere la sinistra (e dunque di espellere sé stessi) dal potere, ritenga tutto l’aroma dell’impostura. Altrimenti detto: la sinistra non aderiva mai abbastanza all’ideale dell’io di sinistra. Un ideale naturalmente abbastanza indistinto da poter essere definito «angelico». Bisognava essere persone pure come gli angeli: essere cioè «più a sinistra» e, in fondo, rinunciare al potere.
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32 Morire d’impostura
Se ritorni al piano individuale – che in politica s’innesta sempre nel piano collettivo – noti che, per certi uomini politici, stare dalla parte del potere provoca un acuto sentimento d’impostura. Ti viene in mente il caso del padre di un tuo amico. Alto funzionario e vecchio militante nella sinistra, era stato da poco destinato a un segretariato di Stato. Fin dai primi giorni del suo nuovo incarico, un’auto blu veniva a prenderlo ogni mattina a casa. E lui, impacciato e un po’ teso: «Buon giorno, Jacky. Vi chiamate Jacky, non è vero? Sì, mi hanno detto il vostro nome. No, no: non sono sceso giù da molto, ma non volevo farvi aspettare. Se permettete, mi siedo davanti, accanto a voi, sarà più gradevole…». Il poveretto si sentiva a disagio ad avere un autista. Chi mai era infatti per avere un autista? Come lo aveva meritato? E va bene: l’aveva meritato. Ma un uomo al suo servizio? Neanche a pensarci. Finì per rinunciare all’autista. C’è però un percorso – un percorso tragico – che ti sembra particolarmente emblematico di questa generazione della sinistra al potere e del suo (eventuale) sentimento d’impostura. Il percorso di Pierre Bérégovoy. Il suo itinerario fu esemplare. Figlio di operai immigrati, conseguì la licenza elementare e ottenne poi un certificato di abilità
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professionale come operaio tecnico. Successivamente, quando già lavorava, seguì alcuni corsi serali. Collaborò alla Resistenza e poi si buttò a capofitto nella militanza sindacale e politica. Tutto ciò lo portò (per farla breve) a diventare Ministro per gli Affari Sociali, poi Ministro per l’Economia e infine Primo Ministro. La sua ascesa illustrava perfettamente le qualità di quello che la sinistra chiamava il «modello repubblicano» e faceva di lui ciò che altri, non senza un po’ di disprezzo, definivano un «meritevole». Premessa a ogni altra riflessione: non vedi come, con un percorso del genere (si è conquistato tutto, non ha ereditato nulla), egli avrebbe potuto sfuggire al sentimento d’impostura. Voci d’anticamera dicono che un giorno un suo familiare fece notare che le sue calzette (retaggio persistente delle sue umili origini) non erano all’altezza dei suoi abiti: e ciò lo mortificò. Come si sentiva, qualche giorno prima del suo suicidio? La sinistra aveva appena subito un insuccesso clamoroso e, a partire da marzo, sarebbe entrata in un periodo di coabitazione. La destra rimproverava all’ex ministro l’ampiezza dei deficit, senza considerarne gli sforzi vittoriosi per preservare le conquiste sociali e per combattere l’inflazione. Non gli perdonava di avere promosso il «rigore». Critiche paradossali che dovevano dargli l’impressione di essere doppiamente sconfessato, anche se all’estero si lodavano i suoi risultati. Nel 1993, in un clima propenso agli scandali politici, si scopre improvvisamente che Roger-Patrice Pelat, che era già stato coinvolto nell’affare Pechiney e che era l’amico di François Mitterand (l’amico di Mitterand: tutta la stampa di quel tempo menzionava questo fatto senza commenti, come per dire: «Capite bene cosa si intende…», puntini di sospensione), Pelat aveva dunque prestato a Bérégovoy un milione di franchi, rimborsabili senza interessi, perché egli potesse acquistare un appartamento ai suoi figli. Si sospettò che si trattasse di una forma di favoritismo che, nel 1986, in quanto Ministro delle
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Finanze, egli aveva accordato a Pelat nell’àmbito di una transazione internazionale. Stufo di tutto questo, Bérégovoy fu in grado di dimostrare, attraverso adeguate documentazioni, che in certe occasioni egli aveva semmai preso decisioni svantaggiose per Pelat. Dopo un’indagine, la Procura della Repubblica confermò che il prestito non aveva carattere fraudolento e che non c’erano gli estremi di alcun reato. Ma il danno era stato irrimediabilmente fatto. La stampa aveva divulgato con una perfida ironia i dubbî che schiacciavano una persona che si era proposta come un campione di onestà. Qua e là si poteva leggere che chi «s’era fatto un cavallo di battaglia della lotta contro la corruzione» avrebbe dovuto evitare certi favoritismi privati. «In questa antica faccenda non c’è nulla di reprensibile a priori, se non che la persona che riceve il prestito si propone come il “Signor Mastro Lindo” di una maggioranza sporcata dagli scandali». Bisognava essere puri come gli angeli e non comprare appartamenti a Parigi, dal momento che non si poteva contare su un patrimonio familiare e si facevano troppi elogi della Probità. Non è improbabile – tu pensi – che lo stesso Bérégovoy si sia sentito in torto. Qualcosa come un senso di colpa legato alla sua ascesa sociale. Non è improbabile che un nonnulla bastasse a farlo sentire socialmente in colpa. Che tutti avessero riconosciuto che, in questa vicenda del prestito, egli non aveva commesso alcuno sbaglio non bastò a calmarlo. Tanto più che il processo Pechiney sarebbe cominciato in giugno ed egli sapeva che avevano intenzione di citarlo come testimone. Tutti concordano nel dire che non aveva alcun motivo di preoccuparsi. Ma intanto le violente accuse rivolte dai suoi successori alla sua politica economica vennero ad aggiungersi ai sospetti sulla sua vita privata: ed egli dovette sentirsene prostrato. Pierre Bérégovoy si toglie la vita il 1° maggio. L’uomo che era stato gran croce nell’Ordine nazionale del Merito e che veniva proprio dal mondo del lavoro muore nel giorno della festa del
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lavoro. Ci si chiede se l’eccesso di fatica (egli veniva veramente da lontano) non l’avesse reso troppo sensibile all’ingiustizia o se un sentimento d’impostura che gli faceva apparire estremamente fragile la sua postura lo avesse indotto a disperare della possibilità di ricevere giustizia. Anche qui si tratta solo di un’ipotesi. Ma non puoi fare a meno di pensare che, con quel suo percorso, difficilmente si sarebbe potuto sottrarre a un sentimento d’impostura. E ciò spiega forse il suo suicidio. Un suicidio legato comunque a un dubbio, mentre tanti altri uomini politici, pienamente colpevoli, quando la giustizia li condanna, gridano al reato di lesa maestà. Non è mai stato facile opporsi al sistema, dopo la notte della democrazia. Prima del 1981, cioè prima che la sinistra fosse percepita come un’alternativa seria, i padri rimproveravano facilmente ai figli di sputare sul piatto in cui mangiavano. La generazione che è andata al potere nel 1981 si è forse sentita in una situazione precaria in quella società che essa criticava e da cui pure traeva vantaggi. E poi c’è la questione del denaro, altra fonte d’impostura. Gli uomini di sinistra avevano qualcosa da chiarire quanto al denaro. E cioè: che se essi ne mettevano in discussione il potere e il valore simbolico, questo non significava che non sapessero guadagnarlo o che non ne avessero. E, se contestavano la legge del mercato, non era neanche per uno sciocco pregiudizio idealistico. La prova? Bernard Tapie. Non puoi impedirti di pensare che, da solo, Tapie incarni tutte le difficoltà della sinistra con il denaro. Egli provava (con le sue imprese visibilmente fiorenti) che la sinistra poteva guadagnare denaro e anche giocare con le leggi del mercato e che in essa non c’era nulla di ingenuo (si pensi alle fortune di Tapie) né di complessato (si pensi alla sua boria). Non erano solo «anime belle» ma avevano fatto i soldi. A causa del sentimento d’impostura di colui che si ribella contro un ordine apparentemente ovvio (come peraltro sembrano essere tutti gli ordini che, col passare
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del tempo, hanno quasi sempre l’aria di essere «naturali»), è spesso inevitabile l’errore di fornire pegni all’ideologia avversa. Grave errore, peraltro. Perché chi rivendica maggiore giustizia per gli uomini è costretto a essere un angelo, dato che si trova sempre sotto la fervente sorveglianza di tutti. Quasi che in una persona che chieda agli uomini di essere migliori ci sia una violenza tale che, al primo passo falso, gli uomini gliela fanno pagare. Da qui l’assurda serie dei «casi» sollevati durante il governo della sinistra: «casi» che non erano poi più numerosi del solito – ma all’altra parte politica li si perdonava più facilmente. Riassumendo, diresti: gli uomini di sinistra si sono sentiti impostori dal momento in cui si sono trovati al potere e ne sono stati rappresentati. Questo non s’accordava con l’immagine che avevano di sé stessi: un’immagine che escludeva l’acquisizione del potere. Da quando sono passati di nuovo all’opposizione, sembrano molto più a loro agio.
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33 La pena di nascere
Nel 1784, Figaro se ne esce con questa battuta a proposito del suo signore, il Conte d’Almaviva: si è dato soltanto «la pena di nascere», niente di più. Ben altrimenti complicata è invece la vita di chi, come Figaro, deve cercare di migliorare il proprio stato a forza di intelligenza e di azione. Analogo è l’atteggiamento del giocatore di Dostoevskij quando, al termine di una serata propizia, fa lo spaccone davanti ai nobili e ai ricchi borghesi. Costoro gli fanno garbatamente notare che egli ha soltanto avuto fortuna. «E voi, invece…» – egli mormora. La battuta di Figaro è rimasta celebre e non senza una buona ragione: essa fonda il sistema politico francese. Contro l’Ancien Régime, l’ideale repubblicano è stato costruito rimettendo in questione i privilegî di nascita e opponendo loro il merito personale. Una volta che l’idea del merito penetrò nelle coscienze, si generò improvvisamente una nuova specie di preoccupazione, fino a quel momento inedita: quella di chi ha ereditato la sua fortuna, quella di chi è talmente «ben nato» (quasi col cucchiaino d’argento in bocca…) da sentirsi un impostore in un mondo in cui conta il merito. Tutto quello che ho, come l’ho meritato? Conosci due tipi di risposta a questo interrogativo. Nato da una famiglia aristocratica, il cui
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lignaggio risale alle crociate, il tuo amico Henri si è impegnato a percorrere una brillante carriera universitaria. Ed egli deve la sua riuscita unicamente ai suoi sforzi e alle sue qualità intellettuali. Egli stesso peraltro dichiara che la sua aspirazione era di ottenere un successo attraverso il merito. Un altro tuo amico, Jacques, affetto da una grave forma di alcolismo, è morto l’altro giorno a cinquant’anni. Rampollo di una grande famiglia borghese, Jacques non è mai stato capace di sopportarsi e le sue notevoli qualità intellettuali non hanno mai potuto compensare quella sua origine che a lui sembrava vergognosa. Forse perché tutto era già stato deciso il giorno della nascita. Forse perché gli avevano lasciato ben poche possibilità di sentire il bisogno di battersi per la sua vita. Forse perché il caso fortunato della sua nascita aveva in lui reciso la radice del desiderio. Tu conosci parecchi casi di ricchi assolutamente inetti: generazioni intere che si disgregano, come se i figli non avessero più nulla da desiderare o come se l’affermazione sociale dei loro genitori fosse insuperabile o li avesse comunque trasformati in impostori, che avevano semplicemente ereditato il loro benessere. La forza del romanzo di Stendhal, Lucien Leuwen, dipende dalla capacità di mettere insieme il problema del nato ricco (problema intimo) con il problema del plebeo (problema sociale, in una società ancora segnata dall’Ancien Régime). Lucien è bello, ricco, figlio di genitori colti e intelligenti. Ma il suo desiderio è sempre oscillante: non c’è nulla di cui abbia risolutamente voglia e vivacchia piacevolmente. Più volte però gli capita di chiedersi (secondo la battuta di Figaro): «e se io mi fossi dato unicamente la pena di nascere?». La cosa gli sembra veramente deplorevole: eccolo dunque arruolato nell’esercito, di guarnigione a Nancy. Così avrà modo di dare prova del suo valore e potrà meritarsi la felicità. Ma, in tempi di pace, come dimostrarsi prodi sul campo di battaglia? Il sottotenente si annoia a starsene chiuso a Nancy, fra quei soldati privi di
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ogni creanza. Lucien ha stima dei repubblicani, ma non può frequentarli perché ha assolutamente bisogno di quelle «idee fini» che gli fanno preferire la compagnia di un Talleyrand e i «piaceri offerti da un’antica civiltà…». Così, disperato, conclude: «Non so cosa io desideri». Un’unica sfida potrebbe porre un freno a tanta noia: introdursi nei manieri dei noblilions di Nancy, come li chiama suo padre. La sua bellezza, la sua giovinezza, la sua ricchezza sono altrettante chiavi d’accesso. Accolto fra quella nobiltà di provincia, reazionaria e decisamente stupida, si trova ad affrontare una seconda difficoltà: quella di non essere nato nobile, una cosa che lo dequalifica agli occhi dei giovani aristocratici. Questa differenza di nascita lo costringe peraltro a mobilitare tutte le risorse della sua intelligenza (finalmente una vera battaglia!) per compensare il suo stato sociale. E Stendhal descrive con un’ironia veramente mirabile la situazione particolare di quel primo mezzo secolo durante il quale l’ideologia nobiliare era in concorrenza con l’ideologia repubblicana. Una situazione eccezionale, dunque, quella di Lucien: in difficoltà in entrambi i sistemi, egli ha ereditato il suo patrimonio (essendosi soltanto dato la pena di nascere) ma non è aristocratico (non essendo «ben nato»). C’è una cosa di cui per ora sei assolutamente convinto, un fatto che trova una formulazione politica, anche se dipende dalla vita psichica inconscia. Per quanto noi viviamo in una società democratica, fondata sull’ideologia del merito, nel nostro inconscio s’annida in realtà una concezione del valore del tutto aristocratica. C’è una distinzione associata alla nascita. D’altra parte – lo hai già detto prima – anche il bravo campione sportivo che si piazza sempre senza sforzo al secondo o al terzo posto ha un suo prestigio. Ma non è lo stesso prestigio che si riconosce al vincitore. Il segno più superficiale di questa percezione spiega perché, in un paese di vecchia tradizione repubblicana e di origine rivoluzionaria com’è la Francia, è indubbio che ci sia ancora una forma irrazionale di rispetto
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verso gli aristocratici. Non già perché – ti pare – si faccia loro credito di una natura ancora superiore, ma piuttosto perché il loro titolo indica un’antica familiarità con il potere. Mentre la maggior parte di noi non ha molte informazioni sulle sue origini, al di là di due o tre generazioni, l’aristocrazia sa, grazie al casato, di avere costantemente goduto dei privilegî di quel suo mondo (privilegî che, nella realtà, sono spesso divenuti illusorî: ma il nome mantiene la sua nobiltà…). Questa problematica si ritaglia una sua postura immaginaria, che è presente in quello che Freud chiama il romanzo familiare. Con questa formula, egli designa un inconscio fantasma infantile che talvolta emerge nel corso dell’analisi quando immaginiamo che, se siamo necessariamente figli di nostra madre, il nostro padre vero non è quello che vive con noi ma è un re o un potente di questo mondo (mater certissima, pater semper incertus). Ne consegue che, nella nostra famiglia, siamo semplicemente adottati. Questo fantasma permette di disinnescare i conflitti edipici (perché separa il padre dalla madre) e ci fa insieme sperare che potremo sottrarci alla nostra modesta condizione sociale. Questo significa che la questione dell’essere «ben nati» ha una dimensione unicamente sociale. Durante l’infanzia, l’idea si mescola a varî sogni e a varî fantasmi. In seguito, dal momento in cui ti sei creduto figlio di un re, non ti diventa facile essere unicamente te stesso, una persona fondamentalmente comune? Una volta adulto, ciascuno è restituito alla modestia della sua condizione reale. Così, quale che sia la nostra origine sociale, in ciascuno di noi il piccolo principe dell’infanzia esige dall’io divenuto adulto un’identità grandiosa – e insostenibile. Donde, forse, quel sentimento d’impostura così largamente condiviso.
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34 Trovare un uditorio
Bruno Dössekker si è un giorno deciso a raccontare i suoi ricordi. In Frantumi. Un’infanzia (1939-1948), ci narra che, bambino ebreo della Lettonia, assistette al massacro degli ebrei a Riga. A quel tempo, si chiamava Binjamin Wilkomirski. Era il novembre del 1941 ed egli aveva due o tre anni. Vide morire suo padre e, dopo una fuga con la sua famiglia (una fuga conclusasi tragicamente), fu condotto al campo di concentramento di Maïdanek. Egli ha ricostruito i frammenti di quel soggiorno orribile in un racconto che ha commosso il mondo intero. Violenza, fame, parassiti, ultimo incontro con la madre moribonda nel capannone delle donne, senso di colpa per avere mal consigliato un bambino portato poi a morte, solidarietà con un ragazzo più grande che gli insegna a sopravvivere, trasferimento ad Auschwitz. Poi, a guerra finita, breve sosta in un orfanotrofio polacco e partenza per la Svizzera, dove viene adottato da una famiglia agiata: i Dössekker. Il racconto non offriva propriamente alcuna nuova rivelazione sulla realtà dei campi, ma era una delle rare testimonianze provenienti dai bambini: perciò i sopravvissuti e gli storici confermarono la precisione degli eventi che Wilkomirski evocava. Il libro ottenne premî, l’autore fu accolto in Israele e in
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numerose comunità e istituzioni ebraiche d’Europa e d’America; e, dopo aver messo insieme una vasta documentazione sul genocidio, s’impegnò per aiutare i bambini senza identità. Giacché il suo problema e il suo dolore – così come egli ne parlava nelle interviste – venivano dal bisogno di recuperare la sua vera identità: egli era Dössekker solo per adozione; per nascita era Wilkomirski. Sta di fatto che i suoi documenti ufficiali dicevano che, prima di essere adottato, egli si era chiamato Bruno Grosjean, nato in Svizzera (un paese neutrale durante la guerra) da una madre nubile, il 12 febbraio del 1941 – e ciò escluderebbe che egli abbia potuto vivere la tragedia dei Lager. «Ma questa data non corrisponde né alla storia della mia vita né ai miei ricordi. Perciò ho intentato un ricorso giudiziario contro questa identità arbitraria». Wilkomirski apparve sempre come un uomo profondamente ferito, spesso in lacrime, preda frequente di incubi e di fobie, intimamente sconvolto dai suoi ricordi. Una cosa era certa e manifesta: la sua terribile sofferenza. Ma un bel giorno, dopo una serie di rivelazioni, di attente verifiche e di controlli incrociati, il suo libro fu ritirato dal mercato quasi in ogni paese. Sembra infatti che la vera storia di Grosjean-Wilkomirski non abbia nulla da spartire con i campi di concentramento. La verità effettiva sarebbe che, figlio illegittimo di una donna senza marito (anche lei povera e illegittima), egli fu separato dalla madre per essere preso in carico dalle autorità municipali fino alla sua adozione, avvenuta intorno ai sei o ai sette anni. Si sa che, nella Svizzera, lo statuto di figlio illegittimo fu atroce fino a tutti gli anni Cinquanta: i bambini erano sistemati entro case coloniche dove lavoravano in cambio del vitto e dell’alloggio, fra maltrattamenti che per molti di loro furono spesso spaventosi. Anche se Grosjean non conobbe l’affidamento, la sua prima infanzia si svolse su questo sfondo.
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La giornalista che ha condotto l’inchiesta sul suo caso1 conclude con un dubbio: non saprebbe dire se egli ha mentito al mondo o a sé stesso. E tu, d’altra parte, non osi propendere né per l’una né per l’altra risposta. Ma ciò che in questo caso d’impostura sembra sorprendente è che esso ritiene anche qualcosa dell’impostura come tu la intendi. Tu ti spieghi così la storia di Grosjean. Era un uomo che soffriva: una sofferenza radicata nella sua infanzia. Perdita, separazione, abbandono segnarono i suoi primi giorni. Come raccontare, in età adulta, l’orrore della sua infanzia spezzata? Per esprimere la sua infinita sofferenza, prese in prestito l’identità di un bambino dei Lager e ci costruì sopra una storia credibile. Estese la sua sofferenza individuale a quella di tutto un popolo: un popolo fra i più infelici. Quella non era la verità dei fatti; era la verità degli affetti. Così egli assicurò al suo dolore di bambino abbandonato l’udienza e la pietà dell’Occidente intero. Senti che non puoi fare a meno di indignarti contro di lui, contro la sua impostura. È più forte di te. Perché ti sembra veramente scandaloso usare la storia di un genocidio a fini personali. E tuttavia non metti in dubbio l’enorme dolore che ha generato un’impresa così folle e così faticosa (Grosjean ha dovuto imparare tante cose per rendersi credibile, s’è dovuto trasformare in uno specialista straordinario, esperto di ogni dettaglio). Per Bruno-Binjamin, l’impostura doveva risultare dal divario tra la concreta realtà della sua sofferenza e la mediocrità della sua storia. Tu credi che la «forma» che egli ha trovato corrispondesse meglio agli affetti che lo ossessionavano. Il suo io (sofferente) non si sentiva adatto alla casella (bambino abbandonato) che la realtà gli aveva assegnato: impostura. Egli si è dunque ribellato contro questa casella e ne ha inventato un’altra: impostura. E tu lo ritieni un folle piuttosto che un imbroglione.
1. E. Lappin, L’homme qui avait deux têtes, Éditions de l’Olivier, Paris 2000.
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35 Rimettersi al mondo
Ecco dove la problematica dell’impostura viene tragicamente a dispiegarsi tra la vita e la morte: nello sterminio. Sei milioni di ebrei europei furono deportati e decimati nei campi di concentramento. Alcuni sopravvissero. E, come si sa, furono destinati a conoscere una sofferenza del tutto particolare: il senso di colpa del sopravvissuto. Perché non è toccato a me? Perché mia sorella, mia figlia, il mio vicino sono morti e io, invece, sono ancora in vita? Un esempio. Nelle testimonianze del figlio di un sopravvissuto si legge una storia (e come questa dovettero essercene tante altre) che illustra la complessità di questo sentimento doloroso. Un uomo, sopravvissuto ai campi, si trovava in uno di quei «vagoni della morte» in cui i nazisti, abbandonando i Lager sotto l’avanzare degli alleati, deportavano i pochi detenuti rimasti ancora in vita. A una fermata, una guardia delle SS viene a informarsi se per caso nel vagone ci sia un calzolaio, perché i suoi stivali sono malmessi. Un uomo si dichiara calzolaio ma, in cambio della riparazione che eseguirà, pretende qualcosa da mangiare. Ripara gli stivali e la guardia gli dà due piccole pagnotte. L’uomo chiede di mangiarle fuori dal vagone: sa che dentro i suoi compagni affamati gli salterebbero addosso.
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Il militare lo obbliga a risalire sul vagone e minaccia con la mitraglietta gli altri detenuti. Il calzolaio manda giù il suo pane in pochi secondi, sotto gli occhi supplichevoli dei suoi compagni. È probabile che quell’uomo sia sopravvissuto anzitutto grazie alla sua capacità di resistenza fisica e poi grazie anche alla sua capacità di resistenza morale: quella che, per esempio, gli ha permesso di porre certe condizioni alla guardia delle SS. E, quanto a quest’ultimo episodio del suo calvario, forse è anche sopravvissuto grazie a quel piccolo pezzo di pane che lo ha sostenuto. Ma come gioire, in seguito, della propria forza? Sarebbe dovuto essere fiero di non avere condiviso il suo pane? Certo, condividerlo non avrebbe cambiato le cose per nessuno: la porzione era troppo piccola ed era più ragionevole mangiarla. Ma, anche così, come non provarne poi vergogna? In Sopravvivere, Bruno Bettelheim ha spiegato molto bene la qualità specifica di questo senso di colpa che ora tu puoi anche analizzare come una variante del sentimento d’impostura: stavolta si tratterebbe dell’impostura della vita. Quando nasciamo, la nostra esistenza è, in qualche modo, naturale e fortuita (conosciamo tutti la formula con cui spesso gli adolescenti aggrediscono i loro genitori: «Non ti avevo chiesto niente, non ti avevo chiesto di essere messo al mondo»). Per il superstite, sopravvivere significa rinascere. Significa avere sfiorato la morte nel massimo punto di approssimazione e rinascere. Questa volta, però, la seconda nascita è una sorta di grazia: se la merita? Una domanda cui nessuno può presumere di rispondere affermativamente. L’interrogativo abituale sul senso della vita (un interrogativo che ciascuno sa facilmente tenere a una certa distanza) diventa all’improvviso centrale e non trova risposta. Essere in vita si dimostra l’effetto di un disegno impenetrabile e di un colpo di fortuna immeritato. Bettelheim attribuisce il senso di colpa del sopravvissuto ad altre due cause. Prima causa: tu sei vivo perché un altro è morto al posto tuo – quello con cui (lo credi ancora oggi) avresti
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potuto dividere la tua magra razione di pane, quello che avresti in qualche modo potuto aiutare, quello che è stato destinato al forno crematorio o che è stato fucilato, senza alcuna decisione logica (giacché, come si sa, assai spesso i nazisti decidevano arbitrariamente sulla vita o sulla morte dei reclusi). Seconda causa: in fondo, se vuoi essere onesto con te stesso, non sei forse contento che un altro – e non tu – sia morto? Non ti compiaci forse della morte degli altri? Tu credi di poter ridefinire questa sofferenza dicendo che il sopravvissuto soffre di un sentimento d’impostura radicato negl’intimi recessi dell’individuo: l’evidenza di essere vivi, di esistere. Essere vivi diventa un fatto problematico: perché questa “postura” – essendo stata rimessa in questione dai carnefici ed essendo poi desiderata, voluta dal superstite (per lui, il banale desiderio di vivere equivale improvvisamente alla voglia frenetica di entrare nel castello) – solleva una profonda questione d’identità: perché proprio io? Cos’ho fatto per meritarlo? Conosciamo tutti la reazione di molti superstiti (Bettelheim, Primo Levi…): il suicidio.
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36 Vivere nel desiderio
Eppure noi continuiamo. Dato che non siamo dovuti rinascere, teniamo per lo più a distanza la questione inquietante dell’esistenza. Anzi: di fronte alla bellezza di un tramonto, di fronte a una siepe di biancospino oppure negl’incantevoli abbandoni dell’amore, ci capita perfino di provare il sentimento vivissimo della nostra perfetta consonanza con l’universo. Ma altre volte, quando inseguiamo i nostri sogni (purché siano sogni abbastanza grandi da non farsi perdere di vista) e quando poi li realizziamo, il nostro cuore ha una stretta all’idea che, dopo tutto, non siamo certo quelli che dovremmo essere per insediarci nel castello. E abbiamo l’impressione che il sentimento d’impostura provenga dall’originaria meraviglia di essere al mondo, dalla stranezza dell’esistere. Che ci faccio qui? C’è un posto per me? Che farmene di questo mondo (e che fare in esso)? Che farmene dei miei simili (e che fare insieme a loro)? E d’altra parte: io sono davvero simile ai miei simili? Non è detto che tutti possano rispondere positivamente e che qualcuno possa credere di trovarsi là dove dovrebbe trovarsi e di essere quello che dovrebbe essere. E poiché io vedo la società come attraverso una foto mossa che mi impedisce di configurarmela senza rifletterci bene, non posso che conside-
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rarmi l’elemento di un insieme infinitamente più vasto entro cui mi è dato solo di transitare ed entro cui la mia necessità non è affatto certa. E tuttavia andiamo avanti. Ardentemente e non senza apprensioni, gioiosamente e non senza timori, procediamo. O impostore, fratello mio, ci sono non poche cose positive nel nostro tormento. Non si vuole dire, con un rovesciamento troppo comodo, che l’impostura sia un sentimento favorevole, arricchente e così via. No: è un sentimento doloroso, increscioso. Ma l’impostore, quanto è interessante! Che temperamento fiero! Creatura del desiderio, si sposta, corre i suoi rischi, agogna, muta. Certo, sarebbe senz’altro meglio non sentirsi un impostore. Ma fa lo stesso. È difficile non apprezzare l’inquietudine: quell’inquietudine che ci impone uno spostamento, che ci sollecita a criticare lo scacchiere, a interrogarci sui posti assegnati e che ci conduce a renderci migliori di quelli che siamo. Un giorno, certo, ne dovremo venir fuori. E ne usciremo più grandi. Ma immersi sempre nel desiderio.
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Bibliografia
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Filmografia
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Indice
Avvertenza e ringraziamenti
p. 9
Il sentimento d’impostura
1. Un brutto sogno
p. 11
2. (Parentesi programmatica
p. 13
3. Il bambino
p. 15
4. Un segreto
p. 19
5. Origini
p. 21
6. La castellana
p. 23
7. Un uomo – un vero uomo
p. 27
8. Ipotesi: il doppio
p. 29
9. Il povero
p. 31
10. Il poeta
p. 33
11. E i nipoti di Van Gogh? (Sfumatura)
p. 37
12. Essere sé stessi – per la miseria!
p. 39
13. Il conformista
p. 43
14. Kafka (o il mondo come impostura)
p. 47
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15. Beneficî
p. 51
16. Il Negro bianco
p. 53
17. L’impostore di professione
p. 57
18. La passione di farne parte
p. 63
19. Ma da dove viene tutto questo?
p. 67
20. Ideale dell’io
p. 73
21. La vergogna
p. 77
22. L’eroismo
p. 83
23. Una figura contemporanea?
p. 87
24. [Impostrice]
p. 91
25. Impostura-impostura
p. 95
26. L’ambiguità della casella
p. 101
27. Campione!
p. 105
28. L’impostura amorosa
p. 109
29. Il non-riamato
p. 115
30. Adolphe
p. 121
31. I delusi
p. 127
32. Morire d’impostura
p. 131
33. La pena di nascere
p. 137
34. Trovare un uditorio
p. 141
35. Rimettersi al mondo
p. 145
36. Vivere nel desiderio
p. 149
Bibliografia
p. 151
Filmografia
p. 155
Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da
Filippo La Porta
1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia. 4. Giovanni Catelli, Parigi, e un padre. 5. Lucilio Santoni, Legato con amore in un volume. Quasi un diario. 6. Luciano Curreri, Il non memorabile verdetto dell’ingratitudine. Seguito dai Sei pensieri grati e gratis. 7. Francesco Borrasso, Restare vivo. 8. Domenico Calcaterra, L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia. 9. Natàlia Cerezo, Nelle città nascoste. 10. Xavier Farré, L’auditorio di Görlitz. (Visioni poetiche). 11. Michele Rago, Pagine di diario (1951-1996). 12. Foulek Ringelheim, La seconda vita di Abram Potz. 13. Fabrizio Cossalter, Frammenti dell’età di mezzo.
14. Cesare Maria Cornaggia, Dalla parte del desiderio. Da una paternità un metodo nella cura. 15. Claudio Donà (a cura di), Note sui Sillabari. 16. Francesco Bargellini, L’impotenza. 17. René de Ceccatty, L’accompagnamento. 18. Belinda Cannone, Il sentimento d’impostura.
Il sentimento d’impostura L’«impostura» di cui questo libro si occupa non è l’atteggiamento dei simulatori che, ingannando chi li circonda, ostentano competenze fittizie e usurpano un posto indebitamente. L’Autrice descrive invece quel sentimento – tanto diffuso quanto inconfessato – per cui, molto spesso, siamo intimamente convinti di non essere le persone adatte a occupare legittimamente il nostro posto e abbiamo perciò paura di essere smascherati. Benché metta in discussione la nostra identità, il sentimento d’impostura implica che ci si chieda non già: «Chi sono io?», bensì: «Sono veramente la persona che dovrei essere per stare in questo posto?». Ogni tipo di ambizione (professionale, amorosa, esistenziale etc.) può suscitare questa preoccupazione. In trentasei agili capitoli – che toccano la letteratura, la psicoanalisi, il cinema, la politica e le nostre esperienze quotidiane – questo saggio brillante e arguto esplora (in una forma ora narrativa, ora riflessiva, ora dialogica) le origini del sentimento d’impostura e ne illustra le manifestazioni più significative. Parigina con antenati siciliani, Belinda Cannone è romanziera e saggista. È stata a lungo docente universitaria di Letteratura Comparata. Insignito, nel 2005, del Grand Prix de l’essai de la Société des Gens de Lettres, Il sentimento d’impostura è apparso in Italia nel 2011 e giunge ora alla sua seconda edizione. In italiano è disponibile anche il suo saggio E forse il bacio (Mucchi, Modena 2017).
Margini | 18 € 9,00
Collana diretta da Filippo La Porta
ISBN ebook 9788855293716