Walkscapes. Camminare come pratica estetica 8806180673, 9788806180676

Il camminare come forma autonoma di arte, atto primario nella trasformazione simbolica del territorio, strumento estetic

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Italian Pages 180 [190] Year 2006

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Walkscapes. Camminare come pratica estetica
 8806180673, 9788806180676

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Francesco Careri

Walkscapes

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Piccola Biblioteca Einaudi Arte. Architettura. Teatro. Cinema. Musica

Prima di inventare l'architettura l'uomo possedeva una fqrma simbolica con cui trasformare lo spazio: l'azione del camminare. E camminando che l'uomp ha cominciato a costruire il paesaggio naturale che lo cir­ condava. E camminando che nell'ultimo secolo si sono formate le cate­ gorie con cui interpretare i paesaggi urbani che ci circondano. Walkscapes tratta del girovagare come forma d'arte, come atto primario di trasformazione del territorio, come strumento estetico di conoscenza dello spazio, come pratica di intervento urbano atta ad esplorare e tra­ sformare gli spazi nomadi della città contemporanea. Dall'erranza pa­ leolitica al nomadismo neolitico, da Dada al surrealismo, dal lettrismo all'Internazionale Situazionista, dal minimalismo alla land art, questo li­ bro ricostruisce il divenire della percezione del paesaggio e racconta la storia della città di Zonzo, la città del perdersi e del vagare in cerca del­ l'altrove. Un ricco apparato di citazioni, fotografie, volantini, comunicati stampa, poesie, mappe, voci di glossario, inserti tematici, racconti permette al lettore un percorso parallelo attraverso le testimonianze di chi si è preoc­ cupato piu di camminare che di lasciare tracce. Sommario:

La città nomade di Gilles A. T iberghien. - Introduzione. - 1. Errare humanum est... 11. Anti-Walk. 111. Land Walk. 1v. Transurbanza. - No­

te. - Bibliografia.

Francesco Careri (Roma 1966) è membro di Stalker I Osservatorio No­ made, una struttura aperta e interdisciplinare che compie ricerche e pro­ getti sulla città attraverso l'�sperienza diretta degli spazi complessi e l'in­ terazione con gli abitanti. E ricercatore presso la Facoltà di Architettura di Roma Tre, dove tiene un corso di Arte Civica sperimentando con gli studenti metodi di riappropriazione e di intervento diretto nello spazio pubblico. Ha pubblicato Constant I New Baby/on, una città nomade, Te­ sto & Immagine, Torino 2001, e ha partecipato con Stalker a numerose mostre internazionali di architettura e arte contemporanea.

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ISBN 978-88-06-18067-6

€ 20,00

9 788806 180676

Piccola Biblioteca Einaudi

Nuova serie

310

Arte. Architettura. Teatro. Cinema. Musica

© 2006 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino La casa editrice, avendo esperito tutte le pratiche relative al corredo iconografico della presente opera, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare diritti in proposito. www.einaudi.it ISBN 978-88-06-18067·6

Francesco Careri Walkscapes

Camminare come pratica estetica Prefazione di Gilles A. Tiberghien

Piccola Biblioteca Einaudi Arte. Architettura. Teatro. Cinema. Musica

Indice

p. Vll xv

La città nomade di Gilles A. Tiberghien Breve nota dell'autore

Walkscapes 3

Introduzione

I.

16 28 36 Il.

45 48 52 56 57 58 65 66 74 76

Errare humanum est ...

Caino, Abele e l'architettura Spazio nomade e spazio erratico Dal percorso al menhir Il benben e il ka

II

Anti-Walk

La visita dadaista Il ready made urbano La deambulazione surrealista La città come liquido amniotico Dalla città banale alla città inconscia La deriva lettrista La teoria della deriva L'arcipelago influen2ale La città ludica contro la città borghese Il mondo come labirinto nomade

m. Land Walk 87 92 98

Il viaggio di Tony Smith Espansioni di campo Dal menhir al percorso

VI p.

INDICE Calpestare il mondo Il viandante sulla mappa L'odissea suburbana Il paesaggio entropico

100 II2 rr4 125

IV. 129 lJl 134

141 155

Transurbanza A piedi nudi nel caos L'arcipelago frattale Zonzo

Note

Bibliografia

169

Referenze fotografiche

171

Ringraziamenti

La città nomade

Con Walkscapes Francesco Careri fa qualcosa di piu che scrivere un libro sul camminare inteso come stru­ mento critico, come modo ovvio di guardare il paesag­ gio e forma emergente di un certo tipo di arte e di ar­ chitettura. L'autore fornisce al gruppo Stalker, in origi­ ne composto da giovani studenti di architettura, un'o­ pera che in qualche modo ne radica le attività nel pas­ sato, ne determina in ogni caso una genealogia, alla ma­ niera di André Breton che considerava il surrealismo come una sorta di coda di cometa del romanticismo te­ desco, e come hanno fatto i romantici diJena stessi nel­ la loro rivista «Athenaeum>> annettendosi Chamfort, Cervantes o Shakespeare e dichiarandoli romantici ante litteram. O come anche Smithson, che nel suo ultimo te­ sto su Central Park faceva del suo creatore, Frederick Law Olmstead, un progenitore della land art. Piu che ai surrealisti - dei quali, comunque, propone qui una opportuna rilettura con Nadja e L 'amour Jou di Breton, o Le paysan de Paris di Aragon - è a Dada e alle sue incursioni nella città di Parigi, alle sue camminate senza meta nella campagna francese, che Francesco Ca­ reri si richiama. Ma, ancora a noi piu vicini, è ai situazionisti che Stalker può essere paragonato. I due gruppi condivido­ no il gusto per l'investigazione urbana, la sensibilità per le trasformazioni contemporanee in quanto sintomi ca­ ratteristici di una società in mutazione, per non dire in «decomposizione». Della città loro sanno scrutare il sub-

VIII

GILLES A. TIBERGHIEN

conscio, come a suo tempo ha fatto Benjamin affaccian­ dosi sulla Parigi del XIX secolo. Ma non equivochiamo: Stalker è un gruppo del tutto informale nel quale ciascuno dei membri sa bene cosa deve all'insieme degli altri. Il numero dei membri varia, a seconda dei momenti, da sette a venti. Il gruppo ha elaborato nel gennaio del 1996 1 un manifesto, ma leg­ gendolo ci si convince subito del suo carattere non dog­ matico e della sua funzione essenzialmente euristica. Walkscapes partecipa di questo stesso spirito. Prende in esame una pratica della quale Stalker vuole essere il pro­ lungamento, l'amplificazione, l'aggiustamento e anche, perché no, in un certo senso, il fine ultimo. Con questo libro, Francesco Careri mette a disposizione del gruppo le sue ricerche storiche, ma anche la sua inventività teo­ rica proponendoci una rilettura della storia dell'arte at­ traverso la pratica del camminare cosi come lui la con­ cepisce, dall'edificazione dei menhir attraverso l'Egitto e la Grecia antica, fino agli artisti della land art. L'idea che percorre l'intero libro e che l'autore espo­ ne in modo convincente è che, in ogni tempo, il cammi­ nare ha prodotto architettura e paesaggio, e che questa pratica, quasi del tutto dimenticata dagli stessi architet­ ti, è stata ripristinata dai poeti, dai filosofi e dagli arti­ sti, capaci per l'appunto di vedere quello che non c'è per farne scaturire qualcosa. Si pensi, per esempio, a ÈnÌ­ manuel Hocquarcl e Michael Palmer-,"'lln poeta fràncese e uri poeta americano, che fondarono nel 1990 il «Mu­ sée de la Négativité» dopo aver individuato una imI Ripubblicato in francese e in italiano in Stalker attraverso i territori at­ tuali/à travers !es territoires actuels, con un testo di Guy Tortosa, Jean-Michel

Piace, Paris 2000. Riguardo al primo percorso di Stalker vedi anche F. CA­ RERl, Rome archipel fractal, voyage dans !es combles de la ville, in «Techniques & Architecture», 427 (1996), pp. 84-87; L. ROMITO, Stalker, in P. LANG (a cu­ ra di), Suburban Discipline, Princeton Architectural Press, New York 1997, pp. 130-41; G. A. TIBERGHIEN, La vraie légende de Stalker in Stalker, catalogo della mostra (Bordeaux, CAPC, Musée d'art contemporain), Fage, Lyon 2004, pubblicato anche in forma ridotta in «Vacarme», 28 (estate 2004). Si­ ti web: www.stalkerlab.it e www.osservatorionomade.net.

LA CITTÀ NOMADE

IX

mensa buca sul bordo dell'autQstrada del Nord, in Fran­ cia; o all'artis.t_a_G__o.rdon_Matt_a:Cfaì-Rc:�, negli anni '70, aveva acquistato min.uscoleparcelle di t�rr_el!Q trii�difi­ ci quasi contigui_/. Il riferimento alla scrittura può spiegare infatti al­ meno tre differenti usi dei monoliti: supporti su cui in­ scrivere figure simboliche, elementi con cui scrivere sul territorio, segnali con cui descrivere il territorio. La pri­ ma interpretazione del termine litteradas si può riferire semplicemente al fatto che sulla facciata principale di al­ cune pietre sono disegnati diversi simboli come negli

ERRARE HUMANUM EST...

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obelischi egiziani. La seconda indica che queste pietre erano impiegate per costruire architettonicamente il pae­ saggio come una sorta di geometria - intesa etimologica­ mente come «misura della Terra» - con cui disegnare fi­ gure astratte da contrapporre al caos naturale: il punto (il menhir isolato), la linea (l'allineamento ritmico di piu menhir), la superficie (il cromlech, ossia la porzione di spazio recintata da menhir posti in circolo). La terza in­ terpretazione è che queste, oltre a una geometria, rive­ lassero la geografia del luogo, ossia che servissero per de­ scriverne sia la struttura fisica che il suo utilizzo pro­ duttivo e mistico-religioso, che erano cioè dei segnali pos,ti lungo le grandi vie di attraversamento. E stato notato che spesso le zone di diffusione del megalitismo nel neolitico coincidono con quelle dello sviluppo della caccia in età paleolitica. Questo fatto por­ ta a riflettere sul legame tra i menhir con i percorsi del1' erranza paleolitica e con quelli della transumanza no­ made. Effettivamente risulta alquanto difficile imma­ ginare come i viaggiatori dell'antichità riuscissero ad at­ traversare interi continenti senza l'aiuto di mappe, stra­ de e segnali indicatori. Eppure un incredibile traffico di viaggiatori e di mercanti attraversava continuamen­ te foreste impervie e territori �conosciuti apparente­ mente senza troppe difficoltà. E assai probabile che i menhir funzionassero come un sistema di orientamen­ to territoriale facilmente intelligibile per chi ne cono­ sceva il linguaggio: una sorta di guida scolpita nel pae­ saggio che conduceva a destinazione il viaggiatore por­ tandolo da un segnale all'altro lungo le rotte intercon­ tinentali. I menhir avevano una relazione con le rotte del com­ mercio il cui veicolo era spesso la pastorizia. Per i romani i menhir non erano altro che simulacri di Mercurio, era­ no cioè i naturali antenati delle Hermae che sorveglia­ vano il quadrivium, la croce di strade simbolo delle quat­ tro direzioni del mondo, dove l'uomo trovava differen­ ti possibilità di futuro, dove Edipo era incappato nel suo

Menhir

La parola menhir deriva dal dialetto bretone e significa letteralmen­ te 'pietra lunga' (men = pietra, e hir = lunga). L'erezione del menhir rappresenta la prima trasformazione fisica del paesaggio da uno sta­ to naturale a uno stato artificiale. Il menhir è la nuova presenza nel­ lo spazio del neolitico, è l'oggetto contemporaneamente astratto e vi­ vente da cui si svilupperanno, in seguito, l'architettura (la colonna tripartita) e la scultura (la stele-statua). Menhir Genna Arrele I, Laconi, Sardegna, IV millennio a.e.

È il primo menhir sardo scoperto nel 1957 e oggi esposto al Museo Archeologico Nazionale di Sassari. La figura in cima, interpretata da­ gli archeologi come arco sopraccigliare, si potrebbe interpretare co­ me l'impronta di benou, il raggio solare; la figura centrale, interpre­ tata come uomo capovolto, si potrebbe interpretare come simbolo del ka, l'eterna erranza in adorazione del sole; la figura in basso, in­ terpretata come vulva o come doppio pugnale, si potrebbe interpre­ tare come una freccia. Allineamento di menhir Sa Perda lddocca, Laconi, Sardegna, IV millennio a.e.

Il menhir Genna Arrele si trova sulla via della transumanza che por­ ta alla Valle lddocca, in un classico esempio di sistema megalitico legato al percorso nomade. «Non di rado le pietre fitte stanno in pros­ simità quando non sul margine di antiche vie percorse ancora oggi, specie nelle transumanze dei pastori o nei crocicchi. Un millenario tratturo sale e passa tra due allineamenti di monumentali pietre fit­ te, che fanno come da propileo, sul valico di Perda lddocca-Laconi. È plausibile che i menhir fossero stati pensati e realizzati, oltre che nella funzione locale di simulacri del culto da parte degli abitanti dei villaggi della zona, anche come punti di riferimento, segnali o luoghi di pausa dei viandanti; essi avevano cioè un interesse generale e vor­ rei dire pubblico, seppure, come nel silente e arcano spazio occu­ pato dai menhir in fila di Perda lddocca, gruppi umani non sostava­ no intorno per cerimonie sacre nella transumanza pastorale». Giovanni Lilliu, La civiltà dei sardi, dal paleolitico all'età dei nuraghi, 1963

Menhir Sa Perda lddocca. Laconi.

Menhir Genna Arrele I, Laconi.

Pietre danzanti Tra i molti nomi con cui vengono chiamati i menhir nelle diverse cul­ ture vi è anche il termine di 'pietre danzanti', dovuto probabilmente alla taglia umana della pietra che esprimeva una presenza viva in­ terna all'oggetto, ma forse dovuto anche alle danze e ai percorsi ri­ tuali che vi si svolgevano intorno. «Queste pietre infisse nel terreno vivono - dicono i contadini e i pastori irlandesi-, girano su se stes­ se, danzano, si chinano, bevono, e sono chiamate in gaelico fear breagach = 'l'uomo falso', 'l'uomo finto' ... Vi è una particolare in­ sistenza sulla danza; oggi i menhir sono pietre, 'falsi' o 'finti' uomi­ ni, ma una volta erano uomini veri: Dio li punì, trasformandoli in pie­ tre- ma in pietre viventi-, perché li colse in atto di danzare una dan­ za profana e peccaminosa». Fulvio Jesi, li linguaggio delle pietre, 1978

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destino incestuoso, dove quindi era bene porsi sotto la protezione di un dio. Hermes o Mercurio, il messagge­ ro degli dèi, era il dio dei viaggiatori e del commercio (mercari = commerciare), come anche dei ladri e del pro­ fitto, ed era il protettore delle strade e degli incroci, nel doppio significato dei percorsi sulla Terra e percorsi del­ le anime verso l'Al-di-là 1°. Ancora oggi in Puglia, nel Sud Italia, alcuni menhir si trovano lungo i confini che separano diversi territo­ ri, luoghi che probabilmente erano stati nell'antichità teatri di scontro o di incontro tra villaggi differenti. Ad avvalorare queste ipotesi c'è il fatto che l'innalzamen­ to dei monoliti richiedeva il lavoro di un enorme nu­ mero di uomini e che perciò dovevano essere coinvolti nella costruzione gli abitanti di piu villaggi. Malagrinò riporta l'esempio del piu grande monolite di Carnac, il menhir Locmariaquer, alto 23 metri e pesante 300 ton­ nellate, per la cui erezione si calcola una forza-lavoro di almeno 3000 persone. Il numero è cosi alto che, se non fossero appartenute a diverse popolazioni, si dovrebbe supporre l'esistenza di un villaggio che sarebbe stato una vera e propria megalopoli per l'epoca. L'impossibi­ lità di tribu cosi numerose porta a ipotizzare che la lo­ calizzazione dei menhir avveniva in territori non ap­ partenenti a un villaggio particolare, bensi in territori «neutri», in cui piu popolazioni si potessero riconosce­ re, fatto che potrebbe spiegare anche l'uso, in uno stes­ so sito, di pietre provenienti da regioni a volte distanti centinaia di chilometri11 • Le zone su cui si costruivano le opere megalitiche era­ no dunque una sorta di santuari in cui le popolazioni dei dintorni si spostavano in occasione delle festività, ma anche luoghi di sosta lungo le grandi vie di transi­ to, luoghi che avevano la funzione delle moderne sta­ zioni di servizio delle autostrade, in cui transitava du­ rante tutto l'anno - e in particolare durante il periodo delle transumanze - una grande moltitudine di genti di­ verse. Lungo il viaggio la presenza dei menhir attirava

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l'attenzione del viandante per comunicare la presenza di fatti singolari e informazioni relative agli altri terri­ tori intorno, informazioni utili al proseguimento del viaggio come cambiamenti di direzione, punti di pas­ saggio, bivi, valichi, pericoli. Ma forse i menhir indica­ vano anche luoghi dove si svolgevano celebrazioni ri­ tuali legate all'erranza: percorsi sacri, iniziazioni, pro­ cessioni, giochi, gare, danze, rappresentazioni teatrali e musicali. L'intero viaggio, che era stato teatro di even­ ti, di storie e di miti, trovava lungo i menhir uno spa­ zio per la sua stessa rappresentazione: i racconti dei viaggi e le leggende venivano celebrati e ritualizzati in­ torno alle pietre infisse nel suolo. Il percorso creò dun­ que attraverso i menhir un nuovo tipo di spazio, uno spazio intorno, che gli egiziani seppero trasformare piu tardi in spazio interno. I menhir erano posizionati in re­ lazione alla struttura viaria, ma, diversamente da come ci si aspetterebbe, non funzionavano come poli pro­ spettici, ma erano posti lateralmente al percorso. Nel caso di piu menhir allineati in fila, oltre a definire una direzione, questi separavano due spazi, o meglio co­ struivano architettonicamente il bordo di uno spazio da percorrere e forse da danzare, uno spazio ritmato e de­ finito geometricamente che costituisce la prima archi­ tettura nel senso di costruzione fisica di uno spazio sim­ bolico complesso, uno spazio «dell'andare» e quindi non uno «spazio dello stare»: lo stesso tipo di spazio che verrà costruito nelle prime architetture egiziane. Mentre nel mondo dei villaggi e dei campi agricoli il percorso erratico si era trasformato in tracciato e quin­ di in strada dando luogo all'architettura della città, ne­ gli spazi vuoti dell'universo nomade il percorso conser­ va gli elementi simbolici dell'erranza paleolitica e li tra­ sferisce negli spazi sacri dei templi egizi. Da questo momento in poi sarà sempre piu difficile scindere l'ar­ chitettura dal percorso.

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Rosalind Krauss, Sculpture in the expanded field, in The Originality of Avant-Garde and Other Modemist Myths, 1985.

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LAND WALK

boli. Questo tipo di opere indipendenti dalla funzione, e èhe sono contemporaneamente scultura e architettu­ ra, sono definite da Hegel come «sculture inorganiche [unorganische Skulptur], in quanto realizzano una forma simbolica destinata solamente a suggerire o risvegliare una rappresentazione». Secondo Hegel le prime opere di questa architettura non funzionale e non mimetica so­ n� gli obelischi egiziani, le statue colossali e le piramidi: «E solamente nella creazione inorganica che l'uomo è pienamente l'uguale della natura, e che crea sotto l'im­ pulso di un profondo desiderio e senza modello esterno; da quando l'uomo supera questa frontiera e comincia a creare delle opere organiche, l'uomo diventa dipenden­ te da queste, la sua creazione perde ogni autonomia e di­ venta una semplice imitazione della natura». Tiberghien chiarisce il concetto aggiungendo alla definizione di He­ gel la sua definizione di scultura inorganica: «una pura presentazione di sé, il dono della presenza nuda», ca­ ratteristica presente in alcune opere minimali e nelle ope­ re della land art che sono contemporaneamente scultu­ ra e architettura e che si pongono sul territorio come grandi forme astratte libere da ogni mimetismo. Secon­ do Tiberghien «tutto è andato come se gli artisti mini­ mali, avendo voluto ridare alla scultura un massimo di autonomia, avessero ritrovato e dato valore a un certo numero di elementi che essa condivide con l'architettu­ ra, grazie ai quali gli è stato possibile ritornare a una sor­ ta di forma originaria». Molte delle opere della land art si situano secondo Tiberghien «al di qua dello stesso sim­ bolico, in quella sfera di indivisione dell'architettura e della scultura che corrisponde a ciò che Hegel chiama il bisogno primitivo del!'arte». Sembrerebbe opportuno a questo punto fare un ulte­ riore passo indietro rispetto a Hegel e considerare come archetipo della scultura inorganica il menhir. Seguendo questa logica a ritroso infatti il percorso dovrebbe ap­ partenere a quella sfera che si situa al di là delle scultu­ re inorganiche che Hegel chiama «bisogno primitivo del-

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l'arte» e che Rosalind Krauss chiama «costruzione dei luoghi». Considerando anche l'architettura una disci­ plina che opera in un proprio campo espanso dovremmo trovare al suo interno la scultura, il paesaggio e il per­ corso. Il loro campo d'azione comune è l'attività di tra­ ljormazione simbolica del territorio. Il camminare si situa dunque in una sfera dove è ancora contemporaneamen­ te scultura, architettura e paesaggio, tra il bisogno pri­ mitivo del!' arte e la scultura inorganica. L'obelisco e la piramide citati da Hegel come pri­ me sculture inorganiche discendono dal benben e dal menhir, che a loro volta discendono dall'erranza. Pos­ siamo dunque considerare il menhir come prima scultu­ ra inorganica, una forma simbolica non mimetica che porta in grembo la casa e l'immagine del dio, la colonna che darà vita all'architettura e la statua che darà vita al­ la scultura. Ma il menhir è anche la prima costruzione simbolica della crosta terrestre che trasforma il paesag­ gio da uno stato naturale a uno stato artificiale. Il menhir contiene quindi in sé l'architettura, la scultura e il pae­ saggio. Si comprende allora perché la scultura minimale per riappropriarsi dello spazio architettonico è dovuta tornare a confrontarsi con il menhir per poi evolversi nella direzione della land art. E in questo giro di boa in­ torno al menhir, riappare all'improvviso il percorso in­ teso questa volta come scultura in un campo espanso, e non piu come forma letteraria. Nel tentativo di annullare tutto ciò che fino a quel momento era considerato scultura, gli artisti minimali si erano ritrovati a una sorta di grado zero della propria di­ sciplina. In questa azione di sottrazione avevano trova­ to oggetti estranei alla natura, che si opponevano al pae­ saggio naturale attraverso i segni artificiali della cultura e che annullavano quella sorta di presenza animata che da sempre albergava nella scultura. Gli artisti avevano compiuto una serie di passaggi che li avevano ricondot­ ti al menhir: eliminazione del basamento per riconqui­ stare il rapporto diretto con il cielo e con il suolo (il

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menhir è direttamente infisso nel terreno); ritorno alla monoliticità e alla massa (alla tripartizione della colon­ na corrispondeva nella scultura la suddivisione del to­ tem); eliminazione del colore e dei materiali naturali per i materiali artificiali, industriali, artefatti (la pietra del menhir era nell'età della pietra il materiale piu. «artifi­ ciale» che si trovava in natura, e la sua posizione in ver­ ticale era quanto di meno naturale si poteva immagina­ re); composizioni basate sulla semplice ripetizione e pro­ gressione ritmica e seriale (punti, linee, superfici); an­ nullamento di ogni aggettivazione per forme pure e cri­ stalline; annullamento di ogni figuratività mimetica che ancora persisteva nelle sculture zoomorfe, antropomor­ fe o totemiche della scultura moderna; riconquista di una sorta di taglia umana e quindi di un antropomorfismo piu. astratto e piu. teatrale dovuto a quel residuo di «pre­ senza animata» che continua a persistere nella scultura. Il risultato di queste operazioni è un oggetto mono­ materico, situato, fisso, immobile, inerte, inespressivo, quasi morto. Ma è un oggetto che impone una certa di­ stanza e che ha un nuovo rapporto con il proprio spazio, è un personaggio senza vita interna ma che allo stesso tempo prende possesso dello spazio, impone allo spetta­ tore una partecipazione, la condivisione di un'esperien­ za che oltrepassa il visibile e che interessa, come per l' ar­ chitettura, tutto il corpo, la sua presenza nel tempo e nello spazio. Dal menhir al percorso. Se l'oggetto minimale tende al menhir inteso ancora come oggetto con una presenza interna, la land art ten­ de invece piu. direttamente all'architettura e al paesag­ gio, cioè al menhir come oggetto inanimato da utilizza­ re per trasformare il territorio. A partire dal 1966, l'an­ no della pubblicazione del viaggio di Smith, la scultura riconquista rapidamente il terreno sottrattole dall'ar-

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chitettura, un terreno non soltanto nel senso di territo­ rio disciplinare, ma di terreno fisico, nel senso di gran­ di porzioni di superficie della crosta terrestre. Gli scul­ tori si impossessano di nuovi spazi rivendicando anche alla scultura quell'azione di trasformazione e modella­ zione dei segni e delle materie del territorio da cui era­ no stati esclusi fin dal neolitico, da quando la scultura era stata sottomessa allo spazio architettonico come to­ tem al centro del villaggio, come immagine nel frontone del tempio, come opera nei musei e come statua nei par­ chi. Quello a cui tende la land art non è piu la modella­ zione di grandi o piccoli oggetti nello spazio aperto, ma la trasformazione fisica del territorio, l'utilizzo di mez­ zi e tecniche dell'architettura per costruire una nuova natura e per creare grandi paesaggi artificiali. Si abban­ dona ogni antropomorfismo scultoreo che ancora so­ pravvive nella taglia umana delle sculture minimaliste, per quella mimesi ancora piu astratta che caratterizza l'architettura e il paesaggio. Nel corso dei millenni, la superficie terrestre è stata incisa, disegnata e costruita dall'architettura sovrappo­ nendo incessantemente un sistema di segni culturali a un sistema di segni naturali originari; la Terra dei land ar­ tisti viene scolpita, disegnata, tagliata, scavata, scon­ volta, impacchettata, vissuta e percorsa nuovamente at­ traverso i segni archetipi del pensiero umano. Con la land art si assiste a un consapevole ritorno al neolitico45 • Lunghe file di pietre infisse nel terreno, recinti di foglie o di rami, spirali di terra, linee e cerchi disegnati nel suo­ lo, e ancora enormi scavi sul territorio, grandi monu­ menti di terra, di cemento, di ferro e colate informi di materiali industriali vengono utilizzati come mezzi di ap­ propriazione dello spazio, come azioni primarie verso una natura arcaica, come antropizzazione di un paesag­ gio primitivo. Gli spazi in cui avvengono queste opera­ zioni sono spazi privi di architetture e di segni della pre­ senza umana, spazi vuoti in cui realizzare opere che as­ sumano il significato di segno originario, di traccia unica

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in un paesaggio arcaico e atemporale. Sembra quasi una volontà di ricominciare da capo la storia del mondo, di ritornare a un punto zero dove ritrovare una disciplina unitaria, in cui l'arte della terra - in questo senso il ter­ mine earthwork che utilizza Smithson sembra essere de­ cisamente piu convincente di !and art - era l'unico mez­ zo a disposizione per confrontarsi con lo spazio natura­ le e con il tempo infinito. Non ci addentreremo nell'analisi delle grandi opere costruite dai land artisti come non ci siamo inoltrati nel­ le opere di architettura successive a quelle egiziane. Que­ ste opere sono incredibili spazi da percorrere, ma apri­ rebbero un altro campo di indagine troppo vasto e trop­ po legato all'architettura stessa. Andremo invece a com­ prendere come alcuni artisti della land art hanno risco­ perto nel camminare un atto primario di trasformazio­ ne simbolica del territorio. Un'azione che non è una tra­ sformazione fisica del territorio, ma un suo attraversa­ mento, una sua frequentazione che non ha bisogno di la­ sciare tracce permanenti, che agisce solo superficial­ mente sul mondo, ma che arriva a dimensioni ancora maggiori di quelle a cui erano arrivati gli earthworks. Calpestare il mondo. Nel 1967, l'anno seguente alla pubblicazione del viag­ gio di Tony Smith, dall'altra parte dell'Atlantico, Rich­ ard Long realizza A Line Made by Walking, una linea ret­ ta «scolpita» sul terreno semplicemente calpestando l'er­ ba. Il risultato di questa azione è un segno che rimarrà impresso solo nella pellicola fotografica e che scompa­ rirà al rialzarsi dell'erba. A Line Made by Walking per la sua assoluta radicalità e semplicità formale è considera­ ta un passaggio fondamentale dell'arte contemporanea. Rudi Fuchs l'ha paragonata al quadrato nero di Malevic: «una fondamentale interruzione nella storia dell'arte»46 ; Guy Tosatto la considera «uno dei gesti piu singolari e

ll11l1ard Long, A L1ne Macle by Walking, 1967.

Peripatetica

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Stanley Brouwn, This Way Brouwn, 1961.

Tra il 25 e il 26 febbraio del 1961, Stanley Brouwn domanda ad al­ cuni passanti scelti a caso di disegnare le indicazioni per andare in un altro punto della città. «La gente disegnando degli schizzi con­ temporaneamente parlava, e a volte parlava più di quanto non di­ segnasse. Sugli schizzi possiamo vedere quello che le persone spie­ gano. Ma non possiamo vedere quello che hanno omesso perché avevano qualche difficoltà nel realizzare che quello che per loro è chiaro necessita di essere spiegato».

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WALKS ARE LIKE CLOUDS THEY COME AND GO THE LIGHT OF DAY AND THE DARKNESS OF NIGHT Hamish Fulton, Walking beside the River Vechte, 1997.

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Il viandante sulla. mappa. Uno dei principali problemi dell'arte del camminare è trasmetterne in forma estetica l'esperienza. I dadaisti e i surrealisti non avevano trasferito le loro azioni su una base cartografica e sfuggivano la rappresentazione ri­ correndo alle descrizioni letterarie; i situazionisti ave­ vano prodotto delle mappe psicogeografiche, ma non avevano voluto rappresentare le reali traiettorie delle de­ rive effettuate. Nel volersi confrontare invece con il mondo dell'arte e quindi con il problema della rappre­ sentazione, Fulton e Long ricorrono entrambi all'utiliz­ zo della mappa come strumento espressivo. I due artisti inglesi in questo campo percorrono due strade che ri­ specchiano il loro diverso utilizzo del corpo. Per Fulton il corpo è unicamente uno strumento percettivo, mentre per Long è anche uno strumento di disegno. In Fulton la rappresentazione dei luoghi attraversa­ ti è una mappa in senso astratto. La rappresentazione del percorso è risolta per mezzo di immagini e testi gra­ fici che testimoniano l'esperienza del camminare con la consapevolezza di non poterla mai raggiungere attra­ verso la rappresentazione. Nelle gallerie Fulton presenta i suoi percorsi attraverso una sorta di poesia geografi­ ca: frasi e segni che possono essere interpretati come cartografie che evocano la sensazione dei luoghi, le al­ tezze altimetriche oltrepassate, i toponimi, le miglia per­ corse. Come le poesie zen le sue brevi frasi fissano l'im­ mediatezza dell'esperienza e della percezione dello spa­ zio, come gli haiku giapponesi tendono a risvegliare un hic et nunc vissuto durante il viaggio. Il camminare di Fulton è come il moto delle nuvole, non lascia traccia né sul suolo né sulla carta: « Walks are like clouds. They come and go»54. In Long inyece il camminare è un azione che si inci­ de sul luogo. E un atto che disegna una figura sul terre­ no e che quindi può essere riportato sulla rappresenta-

Cartografia, racconto, percorso «La forma più semplice di carta geografica non è quella che ci ap­ pare oggi come la più naturale, cioè la mappa che rappresenta la su­ perficie del suolo come vista da un occhio extraterrestre. Il primo bi­ sogno di fissare sulla carta i luoghi è legato al viaggio: è il prome­ moria della successione delle tappe, il tracciato di un percorso ... Il seguire un percorso dal principio alla fine dà una speciale soddi­ sfazione sia nella vita che nella letteratura (il viaggio come struttura narrativa) e c'è da domandarsi perché nelle arti figurative il tema del percorso non abbia avuto altrettanta fortuna e compaia solo spora­ dicamente... La necessità di comprendere in un'immagine la dimensione del tem­ po assieme a quella dello spazio è all'origine della cartografia. Tem­ po come storia del passato ... e tempo al futuro: come presenza di ostacoli che si incontrano nel viaggio, e qui il tempo atmosferico si salda al tempo cronologico... La carta geografica insomma, anche se statica, presuppone un'idea narrativa, è concepita in funzione di un itinerario, è Odissea». Italo Calvino, Il viandante nella mappa, 1984

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zione cartografica. Ma il procedimento può essere uti­ lizzato all'inverso, la carta può funzionare da supporto su cui disegnare figure da percorrere successivamente: una volta disegnato sulla mappa un cerchio lo si può per­ correre al suo interno, lungo i bordi, all'esterno ... Long utilizza la cartografia come base su cui progettare i pro­ pri itinerari, e la scelta del territorio su cui camminare è in relazione con la figura prescelta. Il camminare, oltre ad essere un'azione è anche un segno, una forma che si può sovrapporre a quelle preesistenti contemporanea­ mente sulla realtà e sulla carta. Il mondo diventa allora un immenso territorio estetico, un'enorme tela su cui di­ segnare camminando. Un supporto che non è un foglio bianco, ma un intricato disegno di sedimenti storici e geologici su cui aggiungerne semplicemente un altro. Per­ correndo le figure sovrapposte alla carta-territorio, il cor­ po del viandante annota gli eventi del viaggio, le sensa­ zioni, gli ostacoli, i pericoli, il variare del terreno. Sul corpo in movimento si riflette la struttura fisica del ter­ ritorio55 .

L'odissea suburbana. Nel numero di ottobre di «Artforum» del 1967 una lettera al direttore risponde ironicamente all'articolo di Michael Fried. La firma è di Robert Smithson, un gio­ vane artista dell'ambiente minimale newyorchese, il te­ sto è tagliente e paradossale: è il «prologo di un film spet­ tacolare ancora non scritto, il cui titolo è Le tribola.zioni di Michael Fried ... Fried, il modernista ortodosso, il guardiano dei vangeli di Clement Greenberg è stato ra­ pito in estasi da Tony Smith, l'agente dell'infinito ... è in preda al terrore dell'infinito. La corruzione delle ap­ parenze dell'infinito è peggio di qualsiasi forma cono­ sciuta del Diavolo. Uno scetticismo radicale, noto solo ai terribili 'letteralisti', minaccia l'intimità dell'essenza della forma. I labirinti di un tempo senza fine - il virus

Paesaggio punteggiato

«Tony Smith parla di una 'strada buia' che è "punteggiata dalle ci­ miniere delle fabbriche, dalle torri, dai fumi e da luci colorate". La parola chiave è 'punteggiata'. In un certo senso possiamo conside­ rare la 'strada buia' come una 'lunga frase', e le cose che vi perce­ piamo percorrendola, come dei 'segni di interpunzione': 'le torri' = i punti esclamativi(!), 'le ciminiere' = i trattini (-), 'i fumi' = punti in­ terrogativi(?), 'le luci colorate' = i due punti(:). Sto formulando chia­ ramente questa equazione fondandomi su dei dati sensibili e non ra­ zionali. La punteggiatura si riferisce alle interruzioni in 'materia di stampa'. È utilizzata per enfatizzare e chiarire il significato di ogni specifico segmento. Parole come skylines sono fatte di 'cose separa­ te' che costituiscono un 'intero' sintattico. E anche Tony Smith fa ri­ ferimento alla sua arte come 'interruzioni' in una 'griglia spaziale'». Robert Smithson, Towards the Development of an Air Terminal Site, 1967

Un antecedente di questo tipo di paeaggio-frase si trova nella de­ scrizione di un parco inglese di Capability Brown riportata nel 1782 da Hannah More: «Mi ha detto che paragona la sua arte a una com­ posizione letteraria: "Là, - dice puntando un dito, - ci faccio una vir­ gola, e là, - mostrando ancora un altro posto, - ci faccio due punti, perché un tornante più deciso è necessario; in un altro posto, dove è bene fare un'interruzione per rompere la continuità visiva ci sarà una parentesi; poi un punto finale, e allora comincerò a fare un'al­ tra frase». Da Gilles A. Tiberghien, Land Art, 1993

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dell'eternità- contaminano il suo cervello. Fried, il san­ to marxista, non si lascerà tentare da questa pericolosa • sensibilità»s6 Il viaggio di Tony Smith a un anno di di­ stanza dalla sua pubblicazione continua ad essere al cen­ tro delle polemiche tra modernisti e minimalisti. Srnithson aveva già affrontato i terni sollevati da Tony Smith nell'articolo Towards the development o/an air ter­ minal site apparso nel numero di giugno di «Artforum» in cui era pubblicato l'articolo di Michael Fried. Smith­ son narra di «posti remoti, come Pine Barrens nel New Jersey o le pianure ghiacciate del Polo Nord e del Polo Sud, che possono essere riconsiderati da forme d'arte che potrebbero usare il territorio attuale come medium»57 • Paragona la strada di Smith alla struttura di una frase che si svolge lungo la New Jersey Turnpike: il territorio attuale è un medium surreale attraverso cui possiamo leg­ gere e scrivere sullo spazio come su un testo. Il natura­ lismo «è sostituito da un senso non oggettivo dello spa­ zio. Il paesaggio comincia allora ad apparire piu come una carta in tre dimensioni che come un giardino rusti­ co»s•. L'azione di svelare nuovi paesaggi è un'altra delle con­ seguenze del racconto di Tony Smith. La «strada buia» di Srnith era stata prolungata come oggetto (Carl Andre) e come assenza dell'oggetto (Richard Long). Smithson mette invece l'accento sul dove corre la strada buia, sul­ la qualità del paesaggio attraversato. La sensazione di infinito e di fine dell'arte provata da Smith non proveniva solo dalla sagoma nera che per­ correva il paesaggio, ma anche dal tipo di paesaggio che le stava intorno, un territorio attuale che ancora non era stato investigato dall'arte. Smithson comprende che con la «earth art» si aprivano nuovi spazi da sperimentare fisicamente e concettualmente e che gli artisti potevano modificare lo sguardo del pubblico su questi territori, ri­ proporli sotto una nuova ottica, svelarne i valori esteti­ ci: la nuova disciplina estetica dello Studio della Selezio­ ne dei Siti era appena cominciatas'.

Robert Smithson e Cari Andrea Pine Barrens, New Jersey, 1968.

«Lo Studio della Selezione dei Siti in termini artistici è appena all'i­ nizio. La ricerca di un sito specifico consente di estrarre dei concet­ ti fuori dall'esistente, a partire dai dati sensibili, per mezzo della per­ cezione diretta. La percezione precede la concezione quando si trat­ ta di selezionare o definire un sito. Non si deve imporre ma esporre un sito - essere al suo interno o al suo esterno. l.'.interno può essere trattato come esterno o viceversa. Sono gli artisti che possono esplo­ rare, meglio di chiunque altro, i luoghi sconosciuti». Robert Smithson, Towards the development of an air terminal site, 1967

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Nel dicembre del 1967 su «Artforum» esce un nuo­ vo articolo di Robert Smithson dal titolo The Monu­ ments of Passaic e contemporaneamente si inaugura la sua mostra a New York alla galleria di Virginia Dwann60 • Sono esposte una mappa al negativo, Negative Map Showing Region o/Monuments along the Passaic River, e 24 fotografie in bianco e nero raffiguranti i monumen­ ti di Passaic. Ma la mostra non è una mostra fotografi­ ca e i monumenti sono in realtà strani oggetti di un pae­ saggio industriale della periferia. L'invito invece era chiaro: il pubblico avrebbe dovuto affittare una mac­ china e recarsi con l'autore-svelatore-guida lungo il Pas­ saic River per esplorare una «terra che ha dimenticato il tempo»u. L'articolo su «Artforum» fornisce alcuni indizi, è il resoconto dell'esperienza della scoperta di questa terra, una sorta di parodia dei diari dei viaggiatori del xix se­ colo in cui Smithson si inoltra a esplorare i territori ver­ gini e sconosciuti delle aree marginali di Passaic, la sua città natale. Smithson definisce il viaggio un'odissea su­ burbana, un'epopea pseudoturistica che celebra come nuovi monumenti le presenze vive di uno spazio in dis­ soluzione, di un luogo che trent'anni dopo sarà chiama­ to non-luogo. Con tutt'altro significato Smithson chia­ mava non-site i materiali che prelevava dai sites e che as­ sumevano un significato in negativo una volta deconte­ stualizzati nelle gallerie62 • La mattina del 30 settembre del 1967 esce di casa per il suo Tour. Prima di prendere un autobus verso Passaic compra un romanzo tascabile di Brian W. Aldiss dal ti­ tolo Earthworks. Mentre sfoglia il libro nota dal fine­ strino che l'autobus aveva superato un primo monu­ mento, decide di scendere e di entrare in città a piedi. Il primo monumento era un ponte, Smithson cerca di fargli una foto, ma c'è_una strana luce, sembra di fare la foto a una fotografia. E da questo momento che la realtà comincia a mescolarsi con la sua rappresentazione. Scen­ de sulla riva e trova un cantiere incustodito, ascolta il

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rumore di un grande condotto che succhia la sabbia dal fiume, poi vede un cratere artificiale pieno di acqua lim­ pida e pallida con grandi tubi che ne fuoriescono per in­ filarsi nell'acqua. Continua a percepire un senso di di­ sgregazione permanente. Il territorio si presenta in uno stato primitivo, un «panorama zero», e contempora­ neamente in fuga verso un futuro di autodisfacimento. Uscito dal cantiere si trova in un nuovo territorio, un parcheggio dove si vendono macchine usate che divide in due la città: uno specchio in cui non si comprende da che parte ci si trova. La realtà della città comincia a per­ dersi all'infinito nel suo doppio riflesso, in due rappre­ sentazioni di se stessa63 • Alla Dwan Gallery non c'è un'opera, almeno non nel senso di un oggetto costruito e mostrato dall'artista. E l'opera non c'è neanche nel luogo indicato dalla cartina: la mappa non indica l'azione del percorso, e comunque chi andrà sul sito non troverà un paesaggio trasformato dall'artista, ma il paesaggio cosi com'è, nello stato na­ turale in cui si trova. L'opera dunque è l'aver compiuto questo percorso? Oppure l'opera è aver condotto altre persone lungo il Passaic River? L'opera è nelle foto espo­ ste alla galleria o nelle foto che scatteranno i visitatori? La risposta è che l'opera è tutte queste cose insieme. Ci sono una serie di elementi (il luogo, il percorso, l'invito, l'articolo, le foto, la mappa, gli scritti precedenti e gli scritti successivi) che ne costituiscono il senso, e che so110, come in molte opere di Smithson, l'opera stessa. An­ che nel caso dei suoi grandi earthworks, una volta che i lavori di trasformazione della terra sono ultimati dando vita a un'opera, questa viene sottoposta a una serie di prolungamenti in tutte le direzioni. Smithson continua II rielaborare i materiali fotografici, i video, le descri­ zioni, rimandando sempre il senso compiuto, sfuggendo 11 ogni tipo di definizione. Le opere di Smithson non so110 mai concluse, rimangono eternamente aperte, ten­ dono all'infinito.

«Cosa puoi trovare a Passaic che non puoi trovare a Parigi, Londra o Roma? Cercalo da solo. Scopri {se ci riesci) il respiro mozzafiato del Passaic River e i monumenti eterni nei suoi argini incantati. Cavalca nel comfort del rent-a-car verso la terra che ha dimenticato il tempo. A pochi minuti da New York City. Robert Smithson ti guiderà attraverso questa serie favolosa di luoghi ... e non dimenticare la tua macchina fotografica. Sono previste mappe speciali per ogni viaggio. Per maggiori informazioni visitate Dwan Gallery, 29 West 57th Street, New York». Robert Smithson, See the Monuments of Passaic, New Jersey, 1967

Robert Smithson, Negative Map Showing Region of Monuments along the Passaic River, 1967.

Tour of the Monuments of Passaic

« ... Camminando sul ponte, era come camminare su un'enorme foto­ grafia fatta di legno e di ferro e, sotto, il fiume si presentava come un'e­ norme pellicola cinematografica che non aveva altro da mostrare che un bianco continuo ... Lungo le rive del Passaic River c'erano numerosi mo­ numenti di minore importanza, come i cavalletti in cemento che soste­ nevano la banchina di un'autostrada in costruzione. River Drive era in parte trasformata dai bulldozer e in parte intatta. Era difficile distingue­ re la nuova strada dalla vecchia; erano confuse entrambe in un caos uni­ tario. Siccome era sabato, molte macchine non lavoravano, e questo le faceva sembrare delle creature preistoriche intrappolate nel fango, o me­ glio, delle macchine estinte - dinosauri meccanici a cui avevano strap­ pato la pelle. Sul lato di questa preistorica Età della Macchina c'erano delle casette di prima e dopo la seconda guerra mondiale. Mentre continuavo a camminare verso nord lungo quello che era rima­ sto di River Drive, ho visto un monumento al centro del fiume - una gru che pompava in un tubo ... una fontana monumentale fatta da sei ca­ mini orizzontali immetteva nel fiume un fumo liquido. Il grande condot­ to era misteriosamente collegato alla fontana infernale. Era come se, so-

domizzando segretamente qualche orifizio tecnologico nascosto, avesse provocato l'orgasmo di un organo sessuale mostruoso (la fontana). Uno psicanalista direbbe senza dubbio che il paesaggio manifestava delle 'tendenze omosessuali', ma io non tirerei delle conclusioni così grosso­ lanamente antropomorfiche. Mi accontenterei di dire: 'Era là' ... Può essere che ero scivolato a un livello inferiore di futurità. Avevo la­ sciato un futuro per procedere in un altro futuro? Sì, sicuramente. A que­ sto stadio della mia odissea suburbana la realtà era ormai dietro di me. Se il futuro è desueto e fuori moda, allora avevo fatto un'incursione nel futuro. Mi ero trovato in un pianeta dove era tracciata la pianta di Passaic, una carta imperfetta, a dire il vero. Una carta siderale dove erano segna­ te linee della lunghezza delle strade, e blocchi quadrati della dimensione degli edifici. In ogni momento il suolo di cartone si sarebbe potuto aprire sotto i miei piedi. Sono sicuro che il futuro si è perso da qualche parte nel­ la discarica di un passato non storico; sta nei giornali di ieri, negli annunci dei film di fantascienza, nei falsi specchi dei nostri sogni abbandonati. Il tempo trasforma le metafore in cose, le impila nelle celle frigorifere o le mette sui terreni di gioco celesti delle nostre periferie ... Avevo errato in un mondo immaginario che non riuscivo neanche io be­ ne a immaginare. Questo panorama zero sembrava contenere delle ro­ vine all'inverso, ossia tutte le costruzioni che sarebbero state costruite. È il contrario della rovina romantica: queste opere non cadono in rovina dopo la loro costruzione, tendono alla rovina ancora prima di essere co­ struite. Questa messa in scena antiromantica evoca l'idea ormai screditata del tempo e di altre cose fuori moda. Le periferie esistono senza un passato razionale, fuori dai 'grandi avvenimenti' della storia. Beh, ci possono an-

che essere delle statue, una leggenda e due o tre curiosità, ma non il passato, solamente quello che avviene per il futuro. Un'utopia senza fon­ do ... Passaic sembra piena di 'buchi', se comparata a New York City, che sembra ben impacchettata e solida; in un certo senso, questi buchi sono delle lacune monumentali che evocano, senza volerlo, le tracce di un insieme di futuri all'abbandono. Sono quei futuri che troviamo nei film utopici di serie B, e che poi vengono imitati dagli abitanti delle pe­ riferie. t.:ultimo monumento è una grande vasca di sabbia ... Evocava la tetra dissoluzione di interi continenti, l'essiccamento degli oceani; sparite le verdi foreste e le alte montagne, tutto quello che era esistito non era al­ tro che milioni di granelli di sabbia, un immenso ammasso di ossa e pie­ tre polverizzate. Ogni granello era una metafora morta ... una tomba a cielo aperto su cui i bambini giocavano gaiamente ... Mi piacerebbe sta­ bilire l'irreversibilità dell'eternità per mezzo di una semplice esperienza che provoca l'entropia. Immaginate questa vasca di sabbia divisa in due, una parte di sabbia nera e l'altra di sabbia bianca. Prendiamo un bam­ bino e facciamolo correre nella vasca per cento volte seguendo la dire­ zione delle lancette di un orologio, fin quando la sabbia si mescola e co­ mincia a diventare grigia; poi facciamolo correre in senso inverso; que­ sto non porterà a ristabilire la divisione iniziale, ma a un aumento del grigio e a un'entropia accresciuta. Certamente se filmassimo l'azione po­ tremmo fare la dimostrazione della reversibilità dell'eternità mostrando­ lo all'inverso, ma prima o poi sarà il film che si disintegrerà o sarà per­ duto, per finire in uno stato di irreversibilità». Robert Smithson, The Monuments of Passaic, 1967

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Prima dell'odissea lungo il Passaic River, Smithson aveva sperimentato le forme qell'espressionismo astrat­ to e della scultura minimale. E tra il 1966 e il 1967 che comincia a elaborare quegli earthworks per cui sarà ri­ cordato nella storia dell'arte. Il Tour si colloca in un mo­ mento di passaggio e continuerà ad essere presente in tutte le opere successive. Per Smithson i viaggi sono un'istintiva necessità di ricerca e di sperimentazione della realtà dello spazio che lo circonda. Viaggi con la mente in ipotetici continenti scomparsi, viaggi dentro mappe che piega, ritaglia e sovrappone in infinite com­ posizioni tridimensionali, e viaggi compiuti con Nancy Holt e con gli altri artisti nei grandi deserti americani, nelle discariche urbane, nelle zone abbandonate, nei ter­ ritori sconvolti dall'industria. «Verso il 1965, in qual­ che modo per caso, Smithson comincia una serie di esplorazioni piu metodiche del New Jersey ... La fase preliminare - racconta Nancy Holt - consistette in esplorazioni approfondite dei luoghi abbandonati, in­ vasi da erbacce, case diroccate dove le scale si snoda­ vano in mezzo a una sorta di giungla americana ... aprendosi un percorso attraverso il sottobosco, attra­ versando a tentoni le fessure delle cave abbandonate, sondando i paesaggi distrutti dall'azione dell'uomo. Le escursioni erano diventate il punto focale del pensiero di Smithson: lo portarono ad abbandonare progressiva­ mente le sculture quasi minimaliste ... e gli indicarono il cammino che permetterà alla sua arte di liberarsi da­ gli obblighi sociali e materiali imposti dai musei e dalle gallerie»6�. L'esplorazione urbana è per Smithson la ricerca di un medium, un mezzo per desumere dal territorio categorie estetiche e filosofiche con cui confrontarsi. Una delle ca­ pacità piu straordinarie di Smithson è quella del conti­ nuo confondersi nelle sue esplorazioni di descrizioni fi­ siche e interpretazioni estetiche: il discorso attraversa diversi piani contemporaneamente, si perde lungo stra­ de mai percorse, affonda nella materia che lo circonda

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trasformando le stratificazioni del territorio in quelle della mente, come recita il titolo di un altro articolo A sedimentation o/ the mind:earth projects, in cui definisce il suo rapporto con il tempo: «Molti vorrebbero sempli­ cemente obliare il tempo, perché racchiude un 'princi­ pio di morte' (tutti gli artisti lo sanno). Fluttuando in questo bagnasciuga temporale, si trovano i resti della sto­ ria dell'arte, ma il 'presente' non può piu difendere le culture d'Europa, né le civiltà primitive o arcaiche; si deve invece esplorare lo spirito pre- e post- istorico; bi­ sogna andare là dove i futuri lontani incontrano i passa­ ti lontani»65 • Il senso ultimo della gita a Passaic è la ri­ cerca di una «terra che ha dimenticato il tempo», in cui non abitano presente passato e futuro, ma diverse tem­ poralità sospese, fuori dalla storia, tra la fantascienza e l'alba dell'umanità, frammenti di tempo che si colloca­ no nell'attuale della suburbia. Al contrario di Long che lo definisce un urban cowboy 66 e di Fulton che ammette di non saper camminare nello spazio urbano67 , Smithson si spinge tra gli scarti della suburbia del mondo alla ri­ cerca di una nuova natura, di un territorio privo di rap­ presentazione, di spazi e tempi in continua trasforma­ zione. La periferia urbana è metafora della periferia ,del­ la mente, degli scarti del pensiero e della cultura. E in questi luoghi e non nella falsa natura arcaica dei deserti che si possono formulare nuove domande e ipotizzare nuove risposte. Non sfugge le contraddizioni della città contemporanea, ma vi si inoltra a piedi, in una condi­ zione esistenziale a metà tra il cacciatore paleolitico e l'archeologo di futuri in abbandono. Il paesaggio entropico. In Entropy and the New Monuments, scritto un anno prima del viaggio a Passaic, Smithson affermava che al­ cuni oggetti minimali celebravano quello che Flavin chiamava una «storia inattiva» e che i fisici chiamava-

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no «entropia» o «dispersione energetica», la misura di un'energia che viene dissipata quando uno stato si tra­ sforma in un altro68 • Erano oggetti che confermavano la frase di Vladimir Nabokov secondo il quale «il futuro non è altro che l'obsoleto all'inverso». Secondo Smith­ son «i nuovi monumenti, invece di provocare in noi il ricordo del passato, sembrano volerci far dimenticare il futuro»69 • Negli spazi vuoti e dimenticati dagli stessi abitanti riconosce il piu naturale territorio dell'oblio, un paesaggio che ha assunto il carattere di una nuova na­ tura entropica. Nel Tour la descrizione del territorio non porta a considerazioni di tipo ecologico-ambienta­ le sulla distruzione del fiume o sugli scarichi industria­ li che ne rendono l'acqua putrescente, c'è un sottile equilibrio tra la rinuncia alla denuncia e la rinuncia al­ la contemplazione. Il giudizio è esclusivamente esteti­ co, non è etico e non è mai estatico. Non c'è nessun go­ dimento, nessun compiacimento e nessuna partecipa­ zione emotiva nell'attraversare la natura della suburbia. Il discorso parte da un'accettazione della realtà per co­ me essa si presenta, e prosegue su un piano di riflessio­ ne generale in cui Passaic diventa l'emblema della peri­ feria del mondo occidentale, il luogo dello scarto e del­ la produzione di un nuovo paesaggio fatto di rifiuti e di sconvolgimenti. I monumenti non sono ammonimenti, ma naturali elementi che fanno parte integrante di que­ sto nuovo paesaggio, presenze che vivono immerse in un territorio entropico: lo creano, lo trasformano e lo disfano, sono monumenti autogenerati dal paesaggio, ferite che l'uomo ha imposto alla natura, e che la natu­ ra ha riassorbito trasformandole di senso, accettandole in una nuova natura e in una nuova estetica. Il nuovo paesaggio che si rivela nella suburbia ha bisogno secon­ do Smithson di una nuova disciplina capace di cogliere il significato della trasformazione e del mutamento dal naturale in artificiale e viceversa: «Abitiamo in strut­ ture definite, siamo circondati da sistemi di riferimen­ to - ma la natura li smantella, li riporta a uno stato an-

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teriore di non-integrità. Gli artisti oggi cominciano a rendersi conto del carattere fortemente evanescente di questa disintegrazione progressiva delle strutture. Claude Lévi-Strauss ha proposto l'elaborazione di una nuova disciplina, 'l'entropologia'. L'artista e la critica d'arte devono orientare i loro sforzi nello stesso sen­ so»70. James Lingwood riprende questo brano di Smith­ son e spiega: «Secondo Lévi-Strauss, piu l'organizza­ zione di una società è complessa, piu è grande la quan­ tità di entropia prodotta. Piu una data struttura è elaborata, piu sarà segnata dalla disintegrazione. Cosi le società primitive o 'fredde' (il cui funzionamento, se­ condo Lévi-Strauss, ricorda quello di un meccanismo a pendolo) producono molto poca entropia; mentre le so­ cietà 'calde' (che assimila a un motore a scoppio) ne ge­ nerano una quantità enorme. Gli Stati Uniti, la piu svi­ luppata delle macchine calde, generano dunque la mag­ gior parte del disordine. Immerso nei suoi paesaggi in piena disgregazione, Smithson diventa l'artista-entro­ pologo della sua epoca»71 . Il 1967 è dunque l'anno del camminare: in Inghilter­ ra e negli Stati Uniti vengono realizzati A Line Made by Walking e A Tour o/ the Monuments o/ Passaic, due per­ corsi che in modi diversi influenzeranno fortemente la generazione seguente. Un anno dopo la pubblicazione del racconto di Tony Smith quell'esperienza ineffabile ed estranea al campo dell'arte è stata praticata, rappre­ sentata e teorizzata dagli artisti che ne hanno trovato sia l'archetipo nell'arte primitiva che le possibilità espres­ sive nella città contemporanea. I percorsi di Long si inol­ trano nella natura incontaminata, dove il tempo si è fer­ mato a uno stato arcaico. Per dirla con Lévi-Strauss, Long attraversa i «territori freddi», rivive una spazia­ lità neolitica alla ricerca delle origini dell'arte e le riper­ corre a ritroso, dall'erezione del menhir fino alle prime tracce del percorso. Smithson si spinge invece a esplo­ rare i «territori caldi», i paesaggi industriali, i territori sconvolti dalla natura o dall'uomo, le zone abbandona-

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te votate all'oblio del paesaggio entropico. Un territorio in cui si percepisce il carattere transitorio della materia, del tempo e dello spazio, in cui la natura ritrova una nuo­ va wildemess, uno stato selvaggio ibrido e ambiguo, an­ tropizzato e poi sfuggito al controllo dell'uomo per es­ sere riassorbito dalla natura.

IV. Transurbanza

A piedi nudi nel caos. Negli stessi anni in cui Smithson si aggirava tra gli spazi vuoti delle periferie americane, gli architetti ten­ tavano di comprendere ciò che spontaneamente cresce­ va nel territorio sotto i loro sguardi increduli72 • Lasciate da parte le analisi sui centri storici, sui rapporti tipo­ morfologici e sui tracciati urbani, gli architetti si accor­ sero che intorno a loro stava succedendo qualcosa che si erano rifiutati di guardare e che non rientrava tra le lo­ ro categorie interpretative. Non riuscivano a spiegarsi come era possibile che una sorta di cancro avesse attac­ cato la città e la stesse distruggendo. Intorno alla città era nata una cosa che non era città, e che non esitavano a definire «non-città» o «caos urbano», un disordine ge­ nerale al cui interno era impossibile comprendere altro che frammenti di ordine giustapposti casualmente sul territorio. Alcuni di questi frammenti li avevano co­ struiti loro, gli architetti, altri erano opera degli specu­ latori, altri erano invece interventi che provenivano da scale regionali, nazionali, multinazionali. Il punto di vi­ sta da cui si guardava a questo tipo di città caotica era situato all'interno della città storica. Da questa posizio­ ne gli architetti si ponevano nei confronti di questa co­ sa come fa il medico con il paziente: bisognava curare il cancro, rimettere ordine, tutto ciò non poteva essere ac­ cettato, bisognava intervenire, riqualificare, portarvi la qualità. Ci si accorse allora che - sempre li accanto, nel­ la «periferia» - c'erano dei grandi vuoti che non veni­ vano piu utilizzati, e che potevano prestarsi alla grande operazione di chirurgia territoriale. Data l'ampiezza del-

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la loro scala vennero denominati vuoti urbani. Il proget­ to si doveva occupare di queste aree e portare nel caos della periferia nuove porzioni di ordine: riconnettere e ricucire i frammenti, saturare e suturare i vuoti con nuo­ ve forme di ordine spesso estratte dalla qualità della città storica. Ancora oggi molti architetti intervengono nel cancro della periferia con queste intenzioni e con que­ ste modalità. Con lo spegnersi di queste certezze positiviste, il di­ battito sulla città contemporanea ha messo a punto al­ tre categorie interpretative. Si cercò di guardare a che cosa effettivamente stava succedendo e a domandarsi perché. Un primo passo fu il comprendere che questo si­ stema di sgretolamento si estendeva molto oltre i confi­ ni di quella che si immaginava essere la città e che for­ mava un vero e proprio sistema territoriale, «la città dif­ fusa>>7'. Un sistema di insediamento suburbano a bassa densità che si estendeva formando tessuti discontinui ed espansi in grandi aree territoriali. Gli abitanti di questa città, i «diffusi», erano gente che viveva fuori dalle piu elementari regole civili e urbane, abitavano il solo spa­ zio privato della casa e dell'automobile, e concepivano come soli spazi pubblici i centri commerciali, gli auto­ grill, le pompe di benzina e le stazioni ferroviarie, di­ struggevano ogni spazio progettato per la loro vita so­ ciale. I nuovi barbari che avevano invaso la città vole­ vano trasformarla in quella Paperopoli Globale che vive nelle casette unifamiliari e che prolunga il proprio habi­ tat lungo le autostrade reali e le reti virtuali di lnternet74. Osservando questo nuovo territorio cresciuto ovun­ que con diverse declinazioni locali, è apparso sempre piu evidente che oltre ai nuovi manufatti dell'edilizia ano­ nima c'era una presenza che, dopo essere stata per tan­ to tempo lo sfondo, diventava sempre piu protagonista del paesaggio urbano: questa presenza era il vuoto. Il mo­ dello della città diffusa descriveva effettivamente ciò che si era formato spontaneamente intorno alle nostre città, ma ancora una volta analizzava il territorio a partire dai

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pieni e non lo osservava dall'interno dei vuoti. I diffusi infatti non frequentano solo case, autostrade, reti infor­ matiche e autogrill, ma anche quei vuoti che non erano stati inseriti nel sistema. Effettivamente gli spazi vuoti voltano le spalle alla città per orgaq_izzarsi una vita au­ tonoma e parallela, ma sono abitati. E lf che i diffusi van­ no a coltivare l'orto abusivo, a portare il cane, a fare un picnic, a fare l'amore e a cercare �corciatoie per passare da una struttura urbana all'altra. E li che i loro figli van­ no a cercare spazi di libertà e di socializzazione. Oltre ai sistemi insediativi, ai tracciati, alle strade e alle case, esiste cioè un'enorme quantità di spazi vuoti che for­ mano lo sfondo su cui la città si autodefinisce. Sono di­ versi da quegli spazi vuoti tradizionalmente intesi come spazi pubblici - piazze, viali, giardini, parchi - e for­ mano un'enorme porzione di territorio non costruito che viene utilizzata e vissuta in infiniti modi diversi e che a volte risulta assolutamente impenetrabile. I vuoti sono parte fondamentale del sistema urbano e sono spazi che abitano la città in modo nomade, si spostano ogni qual volta il potere tenta di imporre un nuovo ordine. Sono realtà cresciute fuori e contro quel progetto moderno che risulta ancora incapace di riconoscerne i valori e quindi di accedervi. L'arcipelago frattale.

Osservando la foto aerea di una qualsiasi città svi­ luppatasi oltre le sue mura, l'immagine che viene subito in mente è quella di un tessuto organico, di una forma filamentosa che si ammassa in grumi piu o meno densi. Al centro la materia è relativamente compatta, mentre verso l'esterno espelle delle isole staccate dal resto del costruito. Queste isole crescendo si trasformano in cen­ tri spesso equivalenti al centro originario e vanno a for­ mare un grande sistema policentrico. Viene fuori un di­ segno «a forma di arcipelago»: un insieme di isole co-

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struite che fluttuano in un grande mare vuoto in cui le acque formano un fluido continuo che penetra nei pie­ ni, ramificandosi alle varie scale fino ai piu piccoli in­ terstizi abbandonati tra le porzioni di città costruita. Non soltanto allora esistono ovunque grandi porzioni di territorio vuoto, ma queste sono collegate da tanti vuo­ ti di diversa scala e di diversa natura che vanno a costi­ tuire un sistema ramificato che permette di collegare tra loro le grandi aree che erano state definite i «vuoti ur­ bani». Nonostante la sua figura informe, in realtà il disegno della città che si ottiene separando i pieni dai vuoti può essere invece riletto come «forma» dalle geometrie com­ plesse, usate proprio per descrivere quei sistemi che au­ todefil).iscano l'a loro struttura e che si presentano come ammassi di materia «senza forma»75 • Se si accetta il fat­ to dhe la città si sviluppa attraverso una dinamica natu­ rale simile 1a quella delle nuvole o delle galassie, si com­ prende come questa sia difficilmente programmabile e prevedibile per la quantità di forze e di variabili che en­ trano in gioco. Ma osservando il processo di crescita si vede come le isole espandendosi lasciano al loro interno delle aree vuote e disegnano figure dai bordi irregolari che presentano la caratteristica di autosimilarità, una pro­ prietà intrinseca delle strutture frattali: alle differenti scale si possono osservare gli stessi fenomeni come la di­ stribuzione irregolare dei pieni, la continuità dei vuoti e il bordo irregolare che permette al vuoto di inoltrarsi nei pieni. Questo sistema non tende per sua natura so­ lamente a saturarsi riempiendo gli spazi rimasti vuoti, ma anche a espandersi lasciando al suo interno un siste­ ma di vuoti. Mentre il centro originario ha meno proba­ bilità di svilupparsi e muta piu lentamente, ai margini del sistema le trasformazioni sono piu probabili e piu ve­ loci. Ai margini si trovano cioè quei paesaggi che Lévi­ Strauss definirebbe caldi e che Robert Smithson defini­ rebbe entropici. Lo spazio-tempo urbano ha diverse ve­ locità: dalla stasi dei centri alla trasformazione continua

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dei margini. Al centro il tempo si è fermato, le trasfor­ mazioni si sono congelate e quando avvengono sono tal­ mente evidenti da non nascondere alcun imprevisto: si svolgono sotto stretta sorveglianza, sotto il vigile con­ trollo della città. Nei margini troviamo invece un certo dinamismo e possiamo osservare il divenire di un orga­ nismo vitale che si trasforma lasciando intorno a sé e al suo interno intere parti di territorio in abbandono e piu difficilmente controllabili. È importante sottolineare il carattere autorappresen­ tativo della forma ad arcipelago frattale: la nostra civiltà l'ha costruita da sola per definire la propria immagine indipendentemente dalle teorie degli architetti e degli urbanisti. Gli spazi vuoti che ne determinano la figura sono i luoghi che piu di ogni altro rappresentano la no­ stra civiltà nel suo divenire inconscio e molteplice. Que­ ste amnesie urbane non sono solo in attesa di essere riem­ pite di cose, ma sono spazi vivi da riempire di significa­ ti. Non si tratta dunque di una non-città da trasformare in città, ma di una città parallela con dinamiche e strut­ ture proprie che devono ancora essere comprese. Come abbiamo visto, la città può essere descritta dal punto di vista estetico-geometrico, ma anche da quello estetico-esperienziale. Per riconoscere una geografia al­ l'interno del supposto caos delle periferie si può allora tentare di entrare in relazione con esso utilizzando la for­ ma estetica del percorso erratico. Quello che si scopre è un complesso sistema di spazi pubblici che si possono at­ traversare senza soluzione di continuità76 • I vuoti del­ l'arcipelago costituiscono l'ultimo luogo in cui è possi­ bile perdersi all'interno della città, l'ultimo luogo in cui ci si può sentire fuori dal controllo e in spazi dilatati ed estranei, un parco spontaneo che non è né la riproposi­ zione ambientalista di una falsa natura rustica, né lo sfruttamento consumista del tempo libero. Sono uno spazio pubblico a vocazione nomade che vive e si tra­ sforma tanto velocemente da superare di fatto i tempi di progettazione delle amministrazioni.

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Se si scavalca un muro e ci si inoltra a piedi in queste zone ci si trova immersi in quel liquido amniotico da cui traeva linfa vitale l'inconscio della città descritto dai sur­ realisti. L'immagine liquida dell'arcipelago permette di vedere l'immensità del mare vuoto, ma anche ciò che è sommerso, ciò che si trova sul fondo, a diverse profon­ dità, sotto il pelo dell'acqua. Immergendosi nel sistema dei vuoti e cominciando a percorrerlo nelle sue insena­ ture capillari, si comprende come quello che fino ad ora abbiamo chiamato vuoto non è poi cosi vuoto come sem­ bra, e che presenta in realtà diverse identità. Il mare è formato da diversi mari, da un insieme di territori ete­ rogenei posti l'uno accanto all'altro. Questi mari, se af­ frontati con una certa predisposizione a varcarne i con­ fini e a inoltrarsi nella zona, si rivelano interamente na­ vigabili, tanto che, seguendo i sentieri spesso già tracciati dagli abitanti, si arriva a fare il giro della città senza di fatto mai entrarvi. La città si rivela come uno spazio del­ lo stare interamente attraversato dai territori dell'andare.

Zonzo. Andare a Zonzo significa in italiano « perdere tempo gi­ rovagando senza meta»77 • E un modo di dire di cui non si conoscono le origini, ma che si inscrive perfettamente nella città passeggiata daifldneurs, e nelle strade in cui si aggiravano gli artisti delle avanguardie degli anni venti e dove andavano alla deriva i giovani lettristi del dopo­ guerra. Oggi Zonzo è profondamente cambiata, intorno a lei è cresciuta una nuova città formata da diverse città attraversate dai mari del vuoto. Andando a Zonzo all'i­ nizio del secolo scorso, si sapeva sempre se ci si stava di­ rigendo verso il centro o verso la periferia. Se immagi­ niamo di camminare sezionando la Zonzo di ieri in linea retta dal centro alla periferia, allora i nostri piedi incon­ trerebbero prima le zone piu dense del centro, poi quel­ le piu rarefatte delle palazzine e dei villini, poi i sobbor-

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ghi, poi le zone industriali, per poi arrivare alla campa­ gna. Da qui avremmo potuto raggiungere magari un bel­ vedere e osservare il panorama: un'immagine unitaria ras­ sicurante sulla città e sulla campagna intorno. Operando oggi la stessa sezione, camminando sulla stessa rotta, la sequenza degli spazi non è piu cosf sem­ plice. I nostri piedi troverebbero una serie di interru­ zioni e di riprese, frammenti di città costruita e di zone non costruite che si alternano vicendevolmente in un continuo passaggio dal pieno al vuoto. Quella che cre­ devamo essere una città compatta, si rivela piena di bu­ chi spesso abitati da culture diverse. Se ci fossimo persi non sapremmo dirigerci né verso un fuori né verso un dentro. E se pure riuscissimo a raggiungere un luogo al­ to da cui osservare il panorama, questo punto di vista non sarebbe piu molto rassicurante, sarebbe difficile ri­ conoscere in questo strano magma una città con un cen­ tro e una periferia. Ci troveremmo invece di fronte a una sorta di pelle di leopardo con delle macchie vuote den­ tro alla città costruita e delle macchie piene nel bel mez­ zo della campagna. Perdersi fuori dalle mura di Zonzo è oggi un'esperienza assai differente, ma crediamo che le modalità e le categorie messe a disposizione dalle espe­ rienze artistiche che abbiamo analizzato possono essere di aiuto per comprenderla e trasformarla senza cancel­ larne l'identità. Dada aveva scoperto nel cuore turistico di Zonzo l'e­ sistenza di una città banale e del quotidiano in cui sco­ prire di continuo relazioni inaspettate; con un'azione di attribuzione di valore estetico, il ready made urbano, ave­ va svelato l'esistenza di una città che si opponeva sia al­ le utopie ipertecnologiche della città futurista sia alla città pseudoculturale del turismo. Aveva compreso che il sistema spettacolare dell'industria del turismo avreb­ be trasformato la città in una simulazione di se stessa, e aveva quindi voluto mostrarne il nulla,, svelarne il vuo­ to culturale, esaltarne l'assenza di ogni significato, la ba­ nalità. I surrealisti intuirono che c'era qualcosa che si

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nascondeva nel vuoto indicato da Dada e compresero che poteva essere riempito di valori. Deambulando tra i luoghi banali di Zonzo definirono questo vuoto come la città inconscia: un grande mare nel cui liquido amnioti­ co si trova il rimosso urbano, territori non indagati e che si presentano densi di continue scoperte. Lo scarto e l'as­ senza di controllo avevano prodotto all'interno di Zon­ zo dei luoghi estranei e spontanei che potevano essere analizzati come la psiche umana, e i situazionisti attra­ verso la psicogeografia avevano proposto uno strumen­ to con cui investigarla. La città surrealista-situazionista è un organismo vivente ed empatico dotato di un pro­ prio inconscio, ha spazi che fuggono il progetto moder­ no e che vivono e si trasformano indipendentemente dal­ le volontà degli urbanisti e spesso anche degli abitanti. La dérive consentiva di timonare all'interno di questo mare e di dirigere il punto di vista non a caso, ma in quel­ le zone che piu delle altre sembravano proporsi come un altrove in grado di mettere in crisi la società dello spet­ tacolo. I situazionisti cercavano nella città borghese del dopoguerra i luoghi non frequentati dalla cultura domi­ nante e fuori dagli itinerari turistici: quartieri operai fuo­ ri mano e luoghi in cui una grande moltitudine di per­ sone viveva fuori dagli sguardi della società in attesa di una rivoluzione che non è mai arrivata. I concetti di psi­ cogeografia, deriva e urbanismo unitario, una volta sal­ dati ai valori dell'universo nomade, avevano prodotto la città in transito permanente di Constant, una città che voleva opporsi alla natura sedentaria di Zonzo. New Babylon era un sistema di enormi corridoi vuo­ ti che si estendeva sopra il territorio consentendo il mi­ grare continuo delle popolazioni multiculturali della nuo­ va Babilonia. Corridoi vuoti per l'erranza nomade si so­ stituivano alla città consolidata sovrapponendosi come una ragnatela informe, continua e comunicante, in cui si viveva andando all'avventura. Se ci si avventura oggi tra le pieghe vuote di Zonzo si ha l'impressione che New Babylon si sia realizzata. I mari di Zonzo si presentano

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come una New Babylon priva di ogni aspetto mega­ strutturale e ipertecnologico. Sono spazi vuoti come i deserti, ma che, come i deserti, non sono poi cosi vuoti, anzi sono città. Sono corridoi vuoti che penetrano la città consolidata mostrandosi con il carattere estraneo di una città nomade che vive dentro alla città sedenta­ ria. New Babylon vive nelle amnesie della città contem­ poranea come un enorme sistema deserticq pronto ad es­ sere abitato dalla transurbanza nomade. E una sequen­ za di settori collegati non piu sollevati dal terreno, ma immersi nella città. Tra le pieghe di Zonzo sono cresciuti spazi in transito, territori in trasformazione continua nel tempo come nello spazio, mari percorsi da moltitudini di gente straniera che si nasconde alla città. Qui si svi­ luppano nuovi comportamenti, nuovi modi di abitare, nuovi spazi di libertà. La città nomade vive in osmosi con la città sedentaria, si nutre dei suoi scarti offrendo in cambio la propria presenza come nuova natura, è un futuro all'abbandono prodotto spontaneamente dell'en­ tropia della città. New Babylon è emigrata, ha ormai la­ sciato la periferia di Passaic, ha oltrepassato gli oceani e ha raggiunto territori culturalmente lontani, antichi, po­ nendo interessanti problemi di identità. Andare all'av­ ventura a New Babylon può essere un metodo utile per leggere e trasformare quelle zone di Zonzo che negli ul­ timi anni hanno messo in difficoltà il progetto architet­ tonico e urbanistico. Grazie anche agli artisti che l'han­ no percorsa questa città è diventata oggi visibile e si pre­ senta come uno dei piu importanti problemi irrisolti della cultura architettonica. Progettare una città nomade sem­ brerebbe essere una contraddizione in termini. Forse lo si dovrebbe fare alla maniera dei neobabilonesi: trasfor­ marla ludicamente dal suo interno, modificarla durante il viaggio, ridare vita alla primitiva attitudine al gioco delle relazioni che aveva permesso ad Abele di abitare il mondo. Buona transurbanza.

«Stalker attraverso i Territori Attuali», Roma, 5-8 ottobre 1995

Comunicato stampa • Ma là dove c'è pericolo, cresce anche ciò che salva•. Hiilderlin

Giovedì, 5 ottobre 1995, alle ore 10 presso la stazione inattiva di Vigna Clara partirà un nucleo di ricercatori del laboratorio Stalker per inaugu­ rare un primo itinerario attraverso i Territori Attuali. I circa 15 ricercatori realizzeranno un percorso, tuttora inedito, che si sno­ derà circolarmente nelle aree interstiziali della città comprese tra l'anello ferroviario e il raccordo anulare. Per compiere l'intero itinerario inaugurale è previsto un viaggio a piedi di 5 giorni durante i quali verranno percorsi circa 60 chilometri. I Territori Attuali, una volta inaugurati, costituiranno lo spazio cittadino dove esplo­ ratori, artisti e ricercatori di tutto il mondo potranno operare i propri per­ corsi sperimentali di ricerca oltre i confini del quotidiano. Verranno attraversate: la valle del Tevere nel tratto di Tor di Quinto; la val­ le dell'Aniene presso l'Acqua Sacra; le aree SDO; la valle della Caffarel­ la; il fosso di Tor Carbone; le Tre Fontane; Pian Due Torri; la valle dei Ca­ sali; Valle Aurelia; per poi tornare, attraverso un tunnel dismesso lungo 4 km, alla stazione di Vigna Clara. Si va alla scoperta di un sistema territoriale diffuso, indefinito e meta­ morfico all'interno del perimetro urbano, fatto di aree dismesse e boschi, fossi, campi coltivati e pascoli, ruderi, forti, casali e torri medievali, in­ sediamenti abusivi, centrali elettriche, antenne, acquedotti e serbatoi del­ l'acqua, svincoli autostradali e tunnel ferroviari; dominato dai profili dei monumentali complessi di edilizia popolare che vi affondano dentro e dalle compatte pareti della città costruita che ne determinano i margini. Spazi affascinanti, spesso privi di ogni rappresentazione, attraverso i qua­ li intendiamo tracciare un primo percorso unitario di connessione, per sancirne il diritto all'esistenza, rivendicando, per questi luoghi, un'auto­ nomia di sviluppo, rifiutandoli all'espansione del costruito e alle bana­ lizzanti regole economiche, per garantirne il carattere indefinito e meta­ morfico, atto al gioco, all'arte e alla ricerca attraverso l'attitudine al viag­ gio e all'ascolto, propria, da sempre, delle società nomadi, per stabilire nuove e diverse relazioni con la natura e tra gli uomini.

Cartografia del percorso.

Nei Territori Attuali si intende tracciare una rete di percorsi, delle porte di accesso, delle stazioni di scambio, attraverso cui penetrare la realtà mutante del pensiero e del territorio, fino adesso rimossa ma allo stesso tempo alimentata da un'incredibile quantità di scarti, materiali, imma­ teriali e umani. Tra questi scarti si schiudono nuove forme di vita, nuo­ vi spazi, di fatto vergini, di cui vorremmo capire il senso e le possibilità di evoluzione. È questa un'operazione che necessita la riformulazione delle categorie attraverso cui procedere alla descrizione nonché all'in­ tervento in questi luoghi di cui si è perduta l'intelligibilità. Sperimentare nuove forme conoscitive attraverso la reintegrazione dei percorsi di ri­ cerca dell'arte e della scienza, alla scoperta di inediti ecosistemi che ri­ compongano la lacerazione tra l'uomo e il proprio ambiente, la cui rea­ lizzazione torni ad essere la naturale espressione delle relazioni che vi hanno luogo.

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Errare humanum est ... I

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Questa interpretazione della Genesi è alla base di molti testi sullo spa­ zio nomade. Si ricordano: E. TURRI, Gli uomini delle tende, Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp. 57-58; B. CHATWIN, The Songlines (1987), trad. it. Le vie dei canti, Adelphi, Milano 1988, pp. 257-60; E. J. LEED, The Mind o/ the Traveler (1991), trad. it. La mente del viaggiatore. Dal­ l'Odissea al turismo globale, il Mulino, Bologna 1992, p. 21. Vedi anche l'interpretazione della nascita dell'architettura in F. L. WRIGHT, The Li­ ving City (1958), trad. it. La città vivente, Einaudi, Torino 1991, pp. 2829.

Genesi 4.12 e 4.15. 'Genesi 4.20-21. • CHATWIN, The Songlines cit., p. 259. 'R. SENNETT, The Conscience o/ the Eye (1990), trad. it. La coscienza del­ !'occhio, Feltrinelli, Milano 1992, p. 17. ' Sul ruolo del Sahel come margine tra nomadismo e sedentarietà e sulla percezione del vuoto nello spazio nomade cfr. TURRl, Gli uomini delle tende cit., pp. 193-98. Per il nomade, scrive Turri (ibid., p. 40), il de­ serto profuma di vuoto e in proposito cita una frase di Lawrence: «"Que­ sto - dicevano gli arabi - è il profumo migliore; non sa di nulla". La sua vita conosceva l'aria, i venti, sole e luce, spazi aperti ed un immenso vuo­ to. Nella natura non v'era fecondità, non apparivano sforzi umani: solo il cielo in alto, la terra intatta in basso. Nient'altro». 7 G. DELEUZE e F. GUATTARI, Mille plateaux (1980), trad. it. parziale No­ madologia, Castelvecchi, Roma 1995, p. 50. • Sul walkabout degli aborigeni australiani, oltre a CHATWIN, The Songlines cit., vedi anche F. LA CECLA, Perdeni, l'uomo senza ambiente, Laterza, Roma-Bari 1988; ID., Mente locale. Per un'antropologia dell'abitare, Elèuthera, Milano 1993; B. GLOWCZEWSKI, YAPA. Peintres aborigènes, Baudoin Lebon, Paris 1991; M. MORGAN, Mutant Message Down Under (1991), trad. it.... e venne chiamata Due Cuori, Sonzogno, Milano 1994; T. G. H. STREHLOW, Centrai Australian Religio. Penona!Monototemism in a Polytotemic Community (1993), trad. it. I sentieri dei sogni. La religione degli aborigeni dell'Australia centrale, Mimesis, Milano 1997. Sull'invio­ labilità della terra aborigena Kenneth White scrive: «è bene ricordare che in alcune tradizioni, tra le pili antiche del mondo, fare una traccia sulla terra è .considerato un atto grave, che non si può commettere alla leggera. Cito le parole di un aborigeno australiano contemporaneo indi­ rizzate a un antropologo: "Quando avevo sedici anni, mio padre mi ha

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insegnato a cantare alcuni canti che parlavano della terra ... un giorno ero andato a pescare con papà. Camminando dietro di lui, trascinavo il mio arpione sulla spiaggia, lasciando una lunga linea dietro di me. Quan­ do lui ha visto cosa stavo facendo, mi ha detto di smetterla. Fare un se­ gno, o scavare, senza ragione, mi spiegò, è fare del male alle ossa delle genti che hanno abitato da sempre questa terra. Non si deve marcare il terreno se non quando abbiamo fame o quando dobbiamo fare una ceri­ monia"»: K. WHITE, L'artdelaterre, in «Ligeia», 11-12 (1992), p. 76. 'La dizione perdas litteradas mi è stata riferita direttamente da Antonia Manca di Villermosa, cui si deve nel 1975 la «scoperta» del primo menhir sardo Genna Arrele I, oggi conservato al Museo Sanna di Sassari. «Don­ na Atonia», come la chiamavano gli abitanti di Laconi, ha studiato per anni i menhir locali attraverso le leggende e le canzoni che ancora persi­ stono nella tradizione orale e si è interessata particolarmente alla topo­ nomastica del territorio. A Laconi quaranta monoliti provenienti dai ter­ ritori circostanti sono stati trasferiti nel Civico Museo Archeologico del­ le statue-menhir diretto da Giorgio Murru, il quale ha recentemente curato E. ATZENI, La scopertadelle Statue-Menhir. Trent'annidi r icerche ar­ cheologiche nel territorio di Laconi, a cuia di G. Muiru, Cuec, Cagliari 2004. Sulla storia nuragica e prenuragica della Sardegna vedi G. LILLIU, La civiltà dei sardi, dal paleolitico ali'etàdei nuraghi, Nuova Eri, Torino 1963. Recentemente sono stati pubblicati due studi assolutamente inte­ ressanti e rivoluzionari: s. FRAU, Le colonned'Ercole. Un'inchiesta, Nur Neon, Roma 2002; L. MELIS, Shardana. I popoli del mare, PTM, Mogoro 2002. •• Cfr. M. CAZENAVE, Encyclopédie des Symboles, Librairie Générale Fran­ çaise, Paris 1996; J. CHEVALIER, Dictionnairedes Symboles, Lafontflupi­ ter, Paris 1969. Uno dei miti che riguarda la nascita di Mercurio rac­ conta che il dio usd dal grande fallo di pietra dedicato alla fertilità che veniva adorato dai Beoti nel Thespius, il piu famoso tempio di Tespi con­ sacrato a Eros. Il rapporto tra il menhir e il fallo ricorre in tutte le ci­ viltà. Nel regno di Tara in Irlanda esiste la pietra di Fai, il primo idolo d'Irlanda, che intorno aveva altre dodici pietre (fai significa anche «re­ cinto sacro») e che simboleggiava la sovranità che veniva dalla terra. Il pretendente al regno di Tara vi si doveva sedere sopra e, se il re era quel­ lo legittimo, la pietra avrebbe gridato sotto il suo peso. Secondo la leg­ genda, san Patrizio distrusse il santuario pagano colpendo le pietre con la croce e facendole affondare nella terra. Sempre a Tara esistevano due pietre gemelle, Blocc e Bluigne, cosi vicine che non vi si riusciva a far passare una mano, ma che, se accettavano la regalità del viaggiatore, si aprivano per far passare il suo carro. Le pietre con tagli o incisioni sulla sommità erano reputate guarire chi avesse saputo montarci sopra. Le pie­ tre con delle scanalature servivano spesso per contatti magici: le donne vi salivano sopra nude, con il sesso a contatto con il masso, per racco­ gliere le energie per la fecondità. Allo stesso modo in Bretagna alcuni dolmen erano pietre bollenti che dovevano caricare di energie il ventre delle donne che vi si sedevano sopra. II Cfr. P. MALAGRINÒ, Dolmen e menhirdi Puglia, Schena, Fasano 1982, p. 23. Sulla diffusione del megalitismo, Malagrinò scrive (p. 16): «Si va dal­ le ampie aree di diffusione della Corea, dell'India occidentale e della Pa­ lestina per l'Asia, ali'Africa nord-occidentale, dove occupa una fascia che

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si estende dalla Tunisia al Marocco. In Europa è presente in maniera massiccia in Spagna, Francia, Inghilterra, Danimarca ... altrettanto de­ gna di nota è la distribuzione cronologica. Si va infatti dal V-IV millen­ nio per l'Europa, ad un megalitismo attuale. Troviamo ancora vivo in Indonesia l'uso di erigere monoliti strettamente connesso al culto dei morti ... Un megalitismo attuale è diffuso ancora in Etiopia, India, Ma­ dagascar. Lo stesso dicasi per l'Oceania, ove si rizzano menhir per un matrimonio, per un fidanzamento, d per la promozione sociale di una persona in vista». Sulla localizzazione dei menhir lungo i percorsi inter­ continentali vedi A. BREIZH, Le ossa del drago. Sentieri magici dai menhir ai celti, Keltia, Aosta 1996. Sui pellegrinaggi religiosi E. TIJRNER e v. TIJR­ NER, li pellegrinaggio, Argo, Lecce 1997. Per le erranze giovanili di Buddha, Gesu e Maometto si segnala invece o. VALLET, Trois marcheurs: Bouddha, Jésus, Mahomet, in AA. vv., Qu 'est-ce qu 'une route?, in «Les Cahiers de médiologie», 2 (1997). 12 Sono molte le somiglianze tra la spazialità dell'ipostilo Karnak in Egit­ to e gli allineamenti di Carnac in Bretagna. Si fa notare anche come il termine, facendo coincidere le lettere e e k, è quasi un palindromo, co­ me per esempio il nome Anna, quindi comprensibile sia per chi leggeva da destra verso sinistra che per chi leggeva da sinistra verso destra, a di­ mostrare quanto il concetto di ka fosse diffuso in diverse civiltà dell' an­ tichità. n Sui concetti di ka e benben e le loro relazioni con le piramidi e i primi templi egiziani vedi s. GIEDION, The Eternai Present (r964), trad. it. L'e­ terno presente, Feltrinelli, Milano 1965; s. SAUNERON e J. YOYOTTE, La Naissance du Monde, in «Sources Orientales», I (1959), pp. 82-83.

Anti-Walk 14

Il programma della Grande Saison Dada era stato stampato a febbraio nel retro dell'invito alla mostra di Max Ernst e proponeva «visite, salon dada, congressi, commemorazioni, opere, plebisciti, requisizioni, messe in accusa e processi». Negli stessi giorni era distribuito un volantino Da­ da che invitava alla prima visita con frasi come: «lavate i vostri seni co­ me i vostri guanti»; «la pulizia è il lusso del povero: siate zozzi»; «un nuovo culto: lezioni di taglio»; «corse pedestri nel giardino», «distribu­ zione di calze di seta a 5,85», ed era stato mandato ai giornali un comu­ nicato stampa con il programma. L'operazione è descritta nella rivista «Litterature» n. 19 e negli articoli di A. D'ESPARBÈS, Les Da,da visitent Pa­ ris, in «Comcedia», 14 aprile, e Les disciples de Dada à l'Eglise Saint-Ju­ lien-le-Pauvre, ivi, 15 aprile; e di P. SOUDAY, Dadaisme, in «Le Temps», 15 aprile. L'episodio è stato raccontato da due partecipanti: A. BRETON, Entretiens, a cura di A. Parinaud (1952), trad. it. Entretiens, Erre Em­ me, Roma 1991, pp. 48-49; e G. RlBEMONT·DESSAIGNES, Déjà ;adis, René Juillard, Paris 1958. Per ulteriori approfondimenti: M. SANOUILLET, Dada à Paris,Jean-Jacques Pauvert, Paris 1965, pp. 242-48; G. HUGNET, L'aventure Dada (1916-1922), Galerie de l'Institut, Paris 1957, p. 81; x. REY, Saint-Julien-le-Pauvre, in AA.VV., Dada, catalogo del Cenere Geor­ ges Pornpidou, Paris 2005, pp. 856-59.

NOTE Entretiens cit., p. 48. Si fa qui riferimento al libro Le mouvement di É tienne-Jules Marey, del 1894, con gli studi cronofotografici della locomozione umana realizzati nel 1886. Sono le foto che avrebbero ispirato il Nu descendant un esca­ lierdi Duchamp e i tentativi futuristi di rappresentare il dinamismo nel­ le pitrure di Balla e nelle sculture di Boccioni. 17 Sul tema della/lanerie dr. w. BENJAMIN, Die Wiederkehr des/laneurs, in F. HESSEL, Spa:i:ieren in Ber/in, 1929; w. BENJAMIN, Le Flaneur. Le Paris du Second Empire che:i: Baudelaire, in Charles Baudelaire un poète lyrique a l'apogée du capitalisme, Payot, Paris 1974, trad. it. in ID., Opere com­ plete, IX. I «passages» di Parigi, a cura di R. Tiedemann e E. Ganni, Ei­ naudi, Torino 2000; J. H. MARTIN, Itinéraires sum!alistes, dérives et autres parcours, in AA.VV., Cartes et/igures de la Terre, catalogo del Centre Geor­ ges Pompidou, Paris 1980, pp. 197-202; c. HOLLEVOET, Quand l'ob;et de l'art est la démarche. Flanerie, dérive et autres déambulations, in« Exposé», 2 (1995); ID., Déambulation dans la ville, de la/lanerie et la dérive ii l'ap­ préhension de I'espace urbain dans Fluxus et l'art conceptuel, in «Parachu­ te», 68 (1992); «Le visiteur», 5 (primavera 2000); R. SOLNIT, Wander­ lust. A History o/ Walking (2000), trad. it. Storia del camminare, Bruno Mondadori, Milano 2002; m., Walking and Thinking and Walking, in «Kunstforum», 136 (1997), pp. 117-31; T. DAVILA, Marcher,créer, Re­ gard, Paris 2002; A. URLBERGER, Parcours artistiques et virtualités urbai­ nes, L'Harmattan, Paris 2003. II BRETON, Entretiens cit., pp. 53-54. "ID., Manifeste du Sum!alisme (1924), trad. it. in ID., Manifesti del Surrea­ lismo, Einaudi, Torino 1987. 0 ' L. ARAGON, Le paysan de Paris, Gallirnard, Paris 1926, p. 155. Le esplo­ razioni urbane degli anni di Dada erano confluite negli scritti del grup­ po surrealista e questi ne sono le uniche testimonianze che ci rimango­ no. Alcune esperienze erano raccolte dalla rivista«Littérature», dove si trovano i primi saggi di scrittura automatica, i racconti dei sogni, i gio­ chi comuni come questionari, giochi di parole, associazioni verbali, i giochi-poemi collettivi. Tra piu noti romanzi erratici surrealisti si ricor­ dano: A. BRETON, Les pas perdus, Gallimard, Paris 1924; ID., Nadia (1928), trad. it. Nadia, Einaudi, Torino 1977; M. MORISE, Itinérairedu temps de la préhistoire ii nos iours, in «La révolution surréaliste», 11 (1928). 21 M. BANDINI, La vertigine del moderno. Percorsi surrealisti, Officina Edi­ zioni, Roma 1986, p. 120. "A. BRETON, Pont Neu/, in ID., La clé des champs, Éditions du Sagittaire, Paris 1953, citato in M. BANDINI, Referentes Surrealistas en las nociones de deriva y psicogeografia del entomo urbano situacionista, in L. ANDREOTil e x. COSTA (a cura di), Situacionistas:arte, politica, urbanismo, Actar, Bar­ celona 1996. "Le frasi sono tratte dai numeri 1 e 5 di «Potlatch», la rivista dell'Inter­ nazionale Lettrista ripubblicata integralmente in G. BERRÉBY, Documents relatifs ii la /ondation de l'Intemationale Situationniste 1948-1957, Allia, Paris 1985. I testi in italiano sono tratti dalla rivista« lnternationale Si­ tuationniste» raccolti in Intemaxionale Situaxionista 1958-69, Nauti­ lus/Stampatre, Torino 1994. Su questi temi dr. M. BANDINI, L'estetico, il politico. Da Cobra alt' Internaxionale Situaxionista 1948-1957, Officina "BRETON, 16

NOTE

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Edizioni, Roma 1977; M. PERNIOLA, I Situai:ionisti, Manifestolibri, To­ rino 1972; A. JAPPE, Guy Debord, Manifestolibri, Roma 1999; R. RUM­ NEY, Le Consul. Entretiens avec Gérard Berréby en collaboration avec Giu­ lio Minghini et Chantal Osterreicher, Allia, Paris 1999; G. MARELLI, L'ul­ tima Internazionale, Bollati Boringhieri, Torino 2000; A. BONITO OLIVA, Le tribu del!'Arte, Galleria Comunale d'Arte Moderna, Roma 2001. Sul­ la relazione ludica con la città vedi s. SADLER, The Situationist City, Mit Press, Cambridge Mass. 1998; L. ANDREOTTI, Play-tactics o/ the Interna­ tionale Situationniste, in «October», 91 (2000). 24 r. CHTCHEGLOV (alias Gilles lvain), Formulaire pour un Urbanisme Nou­ veau, scritto nel 1953 e pubblicato in «Internationale Situationniste», 1 (1958), p. 15. " G. E. DEBORD, Introduction à une critique de la géographie urbaine, in «Les Lèvres Nues», 6 (settembre 1955), pp. 11-15. 6 ' Tutte le citazioni sono tratte da ID., Théorie de la dérive, in·«Les Lèvres Nues», 8/9 (r956), ripubblicato in «lnternationale Situationniste», 2 (r958), p. 20. 27 Cfr. J. HUIZINGA, Homo ludens (1939), trad. it. Homo ludens, Einaudi, Torino 1946. 28 CONSTANT, Un'altra città per un'altra vita, in «lnternationale Situation­ niste», 3 (1959), p. 37. 29 Su Alba e il Laboratorio Sperimentale dr. M. BANDINI, Pinot Gallii:io e il lAboratorio Sperimentale d'Alba, Galleria Civica di Arte Moderna, To­ rino 1974; s. RICALDONE, Jom in Italia. Gli anni del Bauhaus Immaginista, Fratelli Pozzo, Moncalieri 1997; P. GALLIZIO, Il laboratorio della scrittu­ ra, a cura di G. Bertolino, F. Comisso e M. T. Roberto, Charta, Milano 2005; F. CARERl, A. LINKE e L. V!TONE, Constant e le radici di New Baby­ /on, in «Domus», 885 (ottobre 2005). Sul rapporto con le avanguardie vedi R. BANHAM, Megastructure (1976), trad. it. Le tentazioni dell'archi­ tettura. Megastrutture, Laterza, Roma-Bari 1980; L. PRESTINENZA PUGLI­ sr, This is Tomorrow, avanguardie e architettura contemporanea, Testo & Immagine, Torino 1999. CONSTANT, New Baby/on, Haags Gemeentemuseum, Den Haag 1974, p. 27, ripubblicato inJ.-c. LAMBERT, New Babylon/Constant. Art et utopie, Cercle d'art, Paris 1997, p. 49. Su New Babylon cfr. ID., Constant. Les trois espaces, Cercle d'art, Paris 1992; M. WIGLEY, Constant's New Baby­ /on. The Hyper-Architecture o/ Desire, Witte de With Center for Con­ temporary Art / oro, Rotterdam 1998; F. CARERl, Constant/New Baby­ /on, una città nomade, Testo & Immagine, Torino 2001. u Cfr. G. E. DEBORD, L'Urbanismo Unitario alla fine degli anni '50, in «ln­ ternationale Situationniste», 3 (1959), p. 11. Per quanto riguarda il di­ battito sull'Urbanismo Unitario cfr. CONSTANT e G. E. DEBORD, LA di­ chiarazione di Amsterdam, ivi, 2 (r958), p. 31; CONSTANT e altri, Rappor­ to inaugurale della Conferenza di Monaco, ivi, 3 (1959), p. 26; L. LIPPOLIS, Urbanismo Unitario, Testo & Immagine, Torino 2002. "CONSTANT, New Baby/on. Ten Yeal! On, conferenza all'università di Delft, 23 maggio 1980, in WIGLEY, Constant's New Baby/on cit., p. 236. "G. c. ARGAN, L'arte moderna 1770-1970, Sansoni, Firenze 1970, p. 431. .. CONSTANT, New Baby/on (1974) cit., p. 30.



NOTE

Land Walk » Gilles Tiberghien, autore della prefazione al presente libro, ha affron­ tato in diversi testi il tema del camminare nella storia della land art: Land Art, Carré, Paris 1993; Sculptures inorganiques, in «Les Cahiers du Mu­ sée National d'Art Moderne», 39 (1992); Le principe de l'axolotl & sup­ pléments, Cr�stet centre d'art, Strasbourg 1998; Nature, art et paysage, Actes Sud / Ecole nationale supérieure du Paysage / Centre du Paysage, Paris 2001; Hodologique, in AA. vv., Cheminements,«Les Carnets du Pay­ sage», 11, Actes-Sud/Ensp, Paris 2004, pp. 6-25. Sullo stesso tema ve­ di anche A.-F. PENDERS, En Chemin, le Land Art, La lettre volée, Bruxel­ les 1999; J.-M. BESSE, Quatre notes coniointes sur l'introduction de l'ho­ dologie dans la pensée contemporaine, in AA.VV., Cheminements cit., pp. 26-33.

"s. WAGSTAFF, Talking with Tony Smith, in «Artforum», dicembre 1966, ripubblicato in G. BATTCOCK (a cura di), Minimal Art, a Critica! Anthol­ ogy, Dutton & Co., New York 1968, p. 381. Per quanto riguarda la po­ lemica sviluppatasi su«Artforum» dopo la pubblicazione dell'articolo ci­ tato e un quadro approfondito sul panorama artistico di quel momento cfr. TIBERGIDEN, Land Art cit., pp. 29-40; R. KRAUSS, Passages in Modem Sculpture (1981), trad. it. Passaggi.Storia della scultura da Rodin alla Land Art, Bruno Mondadori, Milano 1998, p. 205. Su Tony Smith cfr. L. LIP­ PARD, TonySmith, Thames and Hudson, London 1972;}.-P. CRIQUI, Tric­ trac pour Tony Smith, in«Artstudio», 6 (1987); ID., T.Smith:Dédale,ar­ chitecte et sculpteur, in«L'Architecture d'Aujourd'hui», 286 (1993). "Il riferimento è a«When attitudes becames form», il titolo della famo­ sa mostra curata da Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna nel 1969. '" PH. TUCHMAN, Entretien avec Cari Andre, in Art Minimal II, CAPC, Bor­ deaux 1987, p. 3. "c. GINTZ, Richard Long, la vision, le paysage, le temps, in«Art Press», 104 (giugno 1986), pp. 5-7. M. FRIED, Art and Ob;ecthood, in«Artforum», giugno 1967, ripubblica­ to in BATTCOCK (a cura di), Minimal Artcit., p. 116. Fried ripercorre qui le tesi del critico modernista Clement Greemberg, secondo il quale«ogni arte deve determinare, attraverso le operazioni che le sono proprie, l'ef­ fetto che le appartiene esclusivamente»: c. GREEMBERG, Modemist Paint­ ing, in «Art Yearbook», 4 (1963), ripubblicato in G. BATTCOCK (a cura di), The New Art, Dutton, New York 1966, pp. 101-2. Sulla polemica in questione vedi TIBERGIDEN, Land Art cit., p. 39: «Potremmo chiamare quest'assenza di oggetto un'assenza continuata, come Cartesio parlava di creazione continuata per spiegare che il tempo, sostenuto in Dio, persiste nel suo essere istante dopo istante. L'oggetto, la strada, il paesaggio, la distesa, sono continuamente riposizionate. Non sono gli oggetti in quan­ to tali che contano nella visione notturna di Smith, ma il fatto che c'e­ rano degli oggetti, la semplice esistenza di questa qualità generica che caratterizza tutti gli oggetti quali che siano, quello che la lingua inglese chiama semplicemente obiecthood, e che in mancanza di un termine ade­ guato, abbiamo tradotto in francese come ob;ectité (oggettità). La mes­ sa in fuga permanente dell'oggetto, ecco la teatralità».



NOTE

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"R. KRAuss, The Originality ofAvant-Garde and Other Modemist Myths, Mit Press, Cambridge Mass. 1985, trad. fr. L'originalité de l'avant-garde et autres mythes modernistes, Macula, Paris 1993, pp. 111-28.

"Ibid. O Ibid. 44

Questa e le citazioni successive sono tratte da TIBERGHIEN, Sculptures ino,ganiques cit., pp. 98-115, incluse quelle riferite all'Estetica di Hegel nella traduzione di J. DERRIDA, Hegel et la pensée moderne, Puf, Paris 1970. "Sul raporto tra land art e arte neolitica dr. L. UPPARD, Overlay, Con­ temporary Artand the Arto/Prehistory, Pantheon Books, New York 1983; K. VARNEDOE, Contemporary explorations, in w. RUBIN (a cura di), Primi­ tivism in zoth Century Art, Moma, New York 1985; K. WHITE, L'art de la terre, in «Ligeia», 11-12 (1992). 46 R. H. FUCHS, Richard Long, Thames and Hudson, London - New York 1986. "R. LONG, Sur la Route, a cura di G. Tosatto, Musée départemental de Ro­ chechouart, Rochechouart 1990. Su Richard Long dr. J.-M. POINSOT, Richard Long. Construire le Paysage, in «Art Presse», novembre 1981; M. MENEGUZZO, Il luogo buono: Richard Long, Pac, Milano 1985; R. LONG, Piedras, Ministerio de Cultura, Madrid 1986; ID., Walking in Circles, con contributi di A. Seymour e H. Fulton, Braziller, New York 1991; M. co­ DOGNATo, Richard Long, Electa, Milano 1994. 48 H. FULTON, Old Muddy, in LONG, Walking in Circles cit. "Sulle diverse forme di camminare di Long e Fulton vedi WHITE, L'art de la terre cit., pp. 71-79.

'°Ibid. "Ibid.

"GINTZ, Richard Long cit., pp. 5-7. "Tiberghien (Land Artcit., p. 102) fa notare come «nel corso dei suoi viag­ gi Long adatta le sue interminabili camminate alla natura, e in questo modo conferisce a questa una dimensione fisicamente intelligibile. Agri­ mensurando le campagne, i deserti e le montagne, gli fornisce una nuova configurazione, le trasforma in luoghi (da questo punto di vista la foto­ grafia di Richard Long, nel libro di Rudi Fuchs, accostata a quella del Long Man of Willington, la sagoma gigantesca di un agrimensore dise­ gnata sul suolo con il gesso tra il I e il vrr secolo della nostra èra, è em­ blematica)». La relazione tra le opere di Long e le grandi figure incise sulle mont agne inglesi è esplicita nel percorso A Six Day Walk over Ali

Roads, Lanes and Double Tracks inside an Aix-Miles-Wide Circle Centered on The Giant of Cerne Abbas, 1975, una camminata di sei giorni seguen­ do tutte le strade, i viottoli e i sentieri posti all'interno di un cerchio di­ segnato sulla mappa, puntando il compasso sul Grande Gigante di Cer­ ne Abbas. Long riattiva la tradizione millenaria inglese che utilizzava il terreno come una grande tela, un supporto sul quale disegnare messaggi forse rivolti a spettatori ultraterreni. Il Gigante intorno a cui Long cam­ mina quasi ritualmente è una delle grandi figure incise nel terreno che, insieme a The White Ho�e of Uffington e The Long Man of Willington, costituiscono tuttora uno dei piu grandi misteri della cultura inglese.

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NOTE

"Letteralmente «le camminate sono come le nuvole. Vengono e vanno». Si tratta di una delle sentenze piu celebri dell'artista. Su Hamish Fuiton cfr. P. TURNER, An lnterview with Hamish Fu/ton, in R. ADAMS, Landscape Theory, Lustrum Press, New York 1980; An interview with Hamish Fu/­ ton, in Common Ground: Five artists in the Florida Landscape, Sarasota Ringling Museum of Art, 1982; H. FULTON, Camp Fire, Stedelijk Van Ab­ bemuseum, Eindoven 1985; ID., One Hundred Walks, Haags Gemente­ museum, Den Haag 1991; ID., Walking beside the River Vechte, Stadti­ sche Galerie Nordhorn, Nordhorn 1998. "«Un rosario è una mappa, un programma del computer è una mappa ... Fatta una mappa possiamo cercare la nostra via da un posto a un altro sia nella natura che nella mente, non solo una volta, ma per sempre. La mappa registra quei percorsi visibili e invisibili creati da diversi tipi di impronte. Long ha usato l'idea archetipa di mappa per combinare insie­ me il suo piacere naturale per l'esplorazione del mondo con la compren­ sione della sua funzione nell'arte»: cosi A. Seymour in LONG, Walking in Circles cit. Sulla relazione tra arte e cartografia si ricorda la famosa mo­ stra Cartes et fìgures de la Terre, catalogo del Centre Georges Pompidou / Cci, Paris 1980, la cui recensione di I. CALVINO, Il viandante nella map­ pa, è raccolta in ID., Collezione di sabbia, Garzanti, Milano 1984, pp. 2324. Vedi anche o. CALABRESE, R. GIOVANNOU e[. PEZZINI (a cura di), Hic sunt leones. Geografia fantastica e viaggi straordinari, Electa, Milano 1983; M.-A. BRAYER, Mesures d'une fiction picturale: la carte de géographie, in «Exposé», 2 (1995); ID. (a cura di), Cartographiques, Atti del convegno dell'Académie de France (Roma, 19-20 maggio 1995), Rnm, Paris 1996; J.-M. BESSE, Voir la Terre. Six essais sur le paysage et la géographie, Actes Sud, Arles 2000; ID., Face au monde. Atlas, ;ardins, géoramas, Desclée de Brouwer, Paris 2003. •• R. SMITHSON, Letter to the Editor, in «Artforum», ottobre 1967, ripub­ blicato in The Writings o/ Robert Smithson, a cura di N. Holt, New York University Press, 1979, e in ID., The Collected Writings, a cura di}. Flam, University of California Press, Berkeley-London 1996, pp. 66-67. "ID., Towards the development o/ an air terminal site, in «Artforum», giu­ gno 1967, ripubblicato in ID., The Collected Writings cit., p. 60. Si trat­ ta dell'articolo sul progetto che stava conducendo come artista associa­ to nello studio di architettura Tippets-Abbett-McCarthy-Stratton per l'aeroporto di Dallas - Forth Worth. "ID., Aerial art, in «Studio International», febbraio-aprile 1969, ripub­ blicato in ID., The Collected Writings cit., p. 116. 19ID., Towards cit., p. 60. 60 ID., The Monuments o/ Passaic, in «Artforum», dicembre 1967, ripub­ blicato con il titolo A Tour o/ the Monuments o/ Passaic, in ID., The Col­ lected Writings cit., pp. 66-67. Vedi anche J.-P. CRIQUI, Ruines à l'envers: introduction à la visite des monuments de Passaic par Robert Smithson, in «Les Cahiers du Musée national d'art moderne», 43 (1993); R. SIVIITH­ SON, Une rétrospective. Le paysage entropique 1')60-197.3, catalogo della mostra a cura di M. Gilchrist e M.-S. Boulan, Musée de Marseille - Réu­ nion des Musées Nationaux, Marseille 1994; G. SHAPIRO, Earthwards. Robert Smithson and Art after Babel, University of California Press, Berke­ ley-London 1995.

NOTE

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" Il testo dell'invito è pubblicato con il titolo di See the Monuments o/ Pas­ saic, New Jer.rey, in SMITHSON, The Co/lected Writings cit., p. 356. 62 Su questo tema vedi L. CUMMINS, La dialectique site/non-site. Une utopie cartographique, in «Parachute», 68 (1992), pp. 45-46. "Cummins trova in questa doppia imm agine riflessa l' atopicità tipica del­ l'intervento di tutti i land artisti: «La strategia della sequenza narrativa instaura una descrizione di un luogo che sì rivela come se fosse un luo­ go immaginario, un non-luogo, e come un doppio senza modello ... Lo spazio 'reale' non è pìu originario del suo doppio cartografico ... è la pri­ ma volta che è il luogo stesso che si trova investito dalla sua propria rap­ presentazione iconica, che lo spazio stesso è un'icona senza modello ... potremmo dire che Smithson e tutti i land artisti con lui hanno trasfor­ mato lo spazio geografico in spazio cartografico, in superficie di scrittu­ ra»: ibid., p. 46. .. K. LARSON, Les excursions géo!ogiques de Robert Smithson, in SMITHSON, Une rétrospective cit., p. 40. "R. SMITHSON, A Sedimentation o/the mind:earth pro;ects, in «Artforum», settembre 1968, ripubblicato in ID., The Co/lected Writings cit., p. roo. "A. IIlNDRY, La légèreté de /'etre se/on Richard Long, in «Artstudio», au­ tunno 1988, p. 130. 67 In realtà negli ultimi anni l'iniziale pregiudizio di Hamish Fulton verso lo spazio urbano è molto cambiato. Ho recentemente affrontato con lui questo tema e mi ha riferito di molte esperienze quasi coreografiche che ha condotto in diverse città, e che sono raccontate in H. FULTON, Keep Moving, Charta, Milano 2005. "R. SMITHSON, Entropy and the New Monuments, in «Artforum», giugno 1966, ripubblicato in ID., The Co!lected Writings cit., pp. 10-23. "Ibid. 0 ' ID., Art through the camera's eye (1971), pubblicato in ID., The Co!lected Writings cit., p. 375. 71 J. UNGWOOD, L'entropo!ogue, in SMITHSON, Une rétrospective cit., p. 29. Lingwood si sofferma su un importante viaggio di Smithson nello Yuca­ tan, dove esplora le rovine dell'Hotel Palenque, «in cui fa una parodia - come nel Tour o/ the Monuments o/ Passaic - degli accompagnatori dei viaggi organizzati. Per lui il fascino dell'hotel risiede nell'assenza dì un itinerario interno logico: si tratta allo stesso tempo di un cantiere e di una rovina contemporanea, di un luogo in corso di risistemazione che si fonde già con un passato. Un luogo privo della logica del centro».

Transurbanza 72

Si ricordano i due testi fondamentali: R. VENTURI, D. SCOTT BROWN e s. Leamingfrom Las Vegas (1972), trad. it. Imparando da Las Ve­ gas, Cluva, Venezia 1985; K. UNCH, The Image o/ the City (1960), trad. it. L'immagine della città, Marsilio, Venezia 1985. Gli studi di Venturi e Scott Brown sull'iconografia commerciale dello spazio pubblico sono i primi ad abbandonare le modalità tradizionali dell'analisi urbana: «La

IZENOUR,

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proiezione ortogonale riproduce con difficoltà l'essenza simbolica dello Stardust di Las Vegas e benché questa insegna abbia le dimensioni di un intero isolato e un enorme impatto visivo in situ, essa non lascerebbe trac­ cia nelle mappe di un piano particolareggiato»: D. scorr BROWN, Leam­ ingfrom Pop, in «Casabella», 359-60 (1971). In realtà questi studi si sof­ fermavano soprattutto sugli aspetti simbolici e comunicativi dell'archi­ tettura, mentre i vuoti che circondano le strips e le zone di margine che accerchiano le architetture analizzate appaiono nelle mappe ancora co­ me delle assenze, come spazi bianchi. E zone bianche rimangono anche nelle mappe disegnate dagli abitanti intervistati da Kevin Linch, che no­ ta come nelle risposte degli abitanti sono evidenti le difficoltà nel ri­ connettere in una figura mentale gli spazi insicuri e che non frequenta­ no: «Anche in Jersey City, la riva del fiume apparve come un margine forte, ma di natura spesso proibitiva. Era una te"a di nessuno, un'area al di là del filo spinato ... Alcuni dei margini piu spiacevoli, come la riva dell'Hackensack River, con le sue aree in cui bruciano rifiuti, sembra­ vano essere mentalmente cancellate»: LINCH, The Image of the City cit., p. 81. "Sulla città diffusa cfr. B. SECCHI, Analisi delle strutture territoriali, Fran­ co Angeli, Milano 1965; s. BOERI, B. SECCHI e L. PIPERNO, I territori ab­ bandonati, Compositori, Bologna 1990; AA.vv., La città diffusa, Daest, Università di Venezia, 1990; B. SECCHI, La periferia, in «Casabella», 583 (1991); J.-F. LYOTARD, Periferie, in «Millepiani», 2 (1994); AA.vv., Itaten. Indagine sulle trasformazioni del territorio italiano, Bari 1996; G. BASILICO es. BOERI, Sezioni de/paesaggio italiano, Art&, Udine 1997, p. 13; s. BOE­ RI, A. LANZANI e E. MARINI, Il territorio che cambia, Editrice Abitare Se­ gesta, Milano 1993;s. BOERI, I detective dello spazio, in «Il Sole 24 Ore», 16 marzo 1997; ID., Eclectic Atlases, in «Documenta 3», Kassel 1997. "Sui non-luoghi e le eterotropie urbane vedi M. AUGÉ, Non-lieux. Intro­ duction à une anthropologie de la surmodemité (I 992), trad. it. Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodemità, Elèuthera, Milano 1993; M. FOUCAULT, Eterotropia, luoghi e non-luoghi metropolitani, in «Millepiani», 2 (1994); P. DESIDERI, La città di latta, Costa & Nolan, Ge­ nova 1995; AA.VV., Architettura della sparizione, architettura totale, in «Millepiani», 7 (1995); M. ILARDI, L'individuo in rivolta. Una riflessione sulla miseria della cittadinanza, Costa & Nolan, Genova 1995; ID., La città senza luoghi, Costa & Nolan, Genova 1995; I. DE SOLA MORALES, Urba­ nité Intersticielle, in «Inter Art Actuel», 61 (1995), p. 27; ID., T=ain Va­ gue, in «Quaderns», 212 (1996); ID., Città tagliate. Appunti su identità e differenze, in I racconti del!' abitare, Editrice Abitare Segesta, Milano 1996; L'architetto come sismografo, Biennale di Architettura di Venezia, Milano 1996; M. ZARDINI (a cura di), Paesaggi ibridi, Skira, Milano 1996; P. DESIDERI e M. !LARDI (a cura di), Attraversamenti, Costa & Nolan, Ge­ nova 1997; R. PAVIA, Le paure dell'urbanistica, Costa & Nolan, Genova 1996; A. CRICONIA (a cura di), Figure della demolizione, Costa & Nolan, Genova-Milano 1998. " I concetti qui riportati sono il contributo dell'astrofisico Francesco Sy­ los Labini al laboratorio di arte urbana Stalker. Le sue ricerche sull'ap­ plicazione della geometria frattale per la descrizione della distribuzione delle galassie nell'universo hanno dato al laboratorio un fondamentale contributo per la comprensione delle dinamiche urbane dell'arcipelago

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frattale. Su questo tema cfr. M. BATTY e P. LONGLEY, Fractal Cities:a Geo­ metry o/ Form and Function, Academic, San Diego 1994; P. FRANKHAU­ SER, Lafractalité des structures urbaines, Anthropos, Paris 1994; M. BATTY, New way s o/ !ookingat cities, e H. A. MAKSE, s. HALVIN e E. STANLEY, Mod­ et!ing urban grow th patterns, in «Nature», 377 (1995); F. CARERI, Rome archipelfractal, voyage dans !es comb!es de la ville, in «Techniques & Ar­ chitecture», 427 (1996). 76 Le riflessioni che seguono provengono dalle ricerche svolte in seno al la­ boratorio di arte urbana Stalker tra il 1990 e il 1998. Il nome Stalker è un omaggio all'omonimo film di Andrei Tarkovskij del 1979, che si svol­ ge nella zona mutante, un territorio in cui la natura, in seguito all'atter­ raggio degli extraterrestri, ha preso una propria evoluzione autonoma. La zona è interdetta e recintata e gli Stalker sono i passeurs, le guide che ne conoscono le porte e le modalità di accesso, che possiedono una stra­ tegia per camminare. ,,Stalker attraverso i Territori Attuali» è il titolo della prima deriva suburbana condotta a Roma dal laboratorio nell'ot­ tobre del 1995. Riprendendo il concetto di «territorio inconscio» dei surrealisti e di «terreno passionale oggettivo» dei situazionisti, Stalker ha condotto i propri percorsi erratici apportandovi il concetto di «terri­ torio attuale» di Robert Smithson letto nella chiave di Foucault, per cui l'attuale «non è ciò che noi siamo, ma piuttosto ciò che diveniamo, ciò che stiamo diventando, ossia l'Altro, il nostro divenir-altro»: FOUCAULT, Eterotropia cit., p. 53. 77 Zonzo, sm. usato in it. nella sola locuzione «andare a zonzo», passeg­ giare senza meta, perdere tempo: es. «invece di studiare se ne va a zon­ zo». Sembrerebbe che la prima volta che «zonzo» appare ufficialmente nella lingua italiana sia nella traduzione del famoso libro diJ. K. JEROME, Three Men on {he Bummel, London 1900, tradotto in italiano in Tre uo­ mini a zonzo. E probabile che la parola «zonzo» sia di derivazione ono­ matopeica da zona, dal greco �wvvuvm che significa «cingere», «andare intorno», «andare in giro», verbo quotidianamente utilizzato dai peri­ patetici ateniesi. A Parigi la zone indica ancora oggi quella fascia ai mar­ gini della città industriale dove fioriscono i mercati delle pulci. In que­ sto senso «zonzo» sembra essere una ripetizione quasi sciamanica di zon zon = andare nella Zona, luogo esotico dov,e regna il caso, dove trovare strani oggetti e avere incontri inaspettati. E qui, tra il Périphérique exté­ rieur e quello intérieur, che nel 1927 George Lacombe gira il film La Zo­ ne, un territorio ai confini della modernità, la cui entropia è rappresen­ tata nel film da un ininterrotto fluire di immondizie di cui si nutre una intera umanità derelitta.

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