Filosofia pratica
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enrico berti

Parole chiave della filosofia Collana diretta da Giuseppe Cacciatore

Giuseppe Cantillo Antonello Giugliano 6

Enrico Berti

Filosofia pratica

Guida

© 2004, Alfredo Guida editore

Via Port'Alba, 19 - Napoli

www.guida.it

[email protected] ISBN 88-7188-750-6

Premessa

L'espressione “filosofia pratica” compare per la pri-

ma volta in Aristotele, nemmeno in forma del tut-

to esplicita, là dove, per definire la metafisica, cioè la filosofia prima, come scienza della verità, egli afferma: è giusto anche chiamare la filosofia (philosophian) scienza della verità, poiché

di quella teoretica

(filosofi) pratici indagano come

stanno le cose, essi

(theòrétikés) è fine la verità, mentre di quella pratica (praktikés) è fine l’opera (ergon); se anche, infatti, i

non considerano la causa per sé, ma in relazione a qualcosa ed ora'. Da questa definizione si possono apprendere

molte cose, che permettono di precisare il concetto

di filosofia pratica in un modo che è caratteristico della filosofia di Aristotele e che, come è stato detto recentemente, dovrebbe indurre, per correttez-

za, ad usare l’espressione “filosofia pratica” solo

nell’ambito della tradizione aristotelica”. Anzitutto, come si può vedere, il termine “filosofia” è per Ari-

stotele sinonimo di “scienza”, cioè di sapere in generale, e questo è concepito come conoscenza delle

cause: ogni scienza, e quindi ogni filosofia, è conoscenza non solo di come stanno le delle cause, cioè delle ragioni, per no in un certo modo piuttosto che la filosofia può essere “teoretica”

cose, ma anche cui le cose stanin un altro. Ma (da theéria, che

' ARISTOTELE, Metafisica 1 1, 993 b 19-23.

° F. VOLPI, Che cosa significa “filosofia pratica”? Per una storia del concetto, “Paradigmi”, 19, 2001, pp. 587-597.

significa pura conoscenza, ed anche studio, ricer-

ca), se ha per fine la verità, cioè la conoscenza stes-

sa di come stanno le cose e soprattutto del perché

le cose stanno in un certo modo - nello stesso contesto Aristotele osserva che “non sappiamo il vero

senza la causa” —; oppure pratica (da praxis, che

significa azione), se ha per fine l’opera (vedremo

che Aristotele preciserà meglio questo punto sostituendo, in altri passi, il concetto di “opera” con quello di “azione”). Anche in questo caso la filosofia, cioè la filosofia pratica, è una scienza, cioè un sapere, perché è conoscenza della causa, ma questa conoscenza non le interessa di per sé, bensì “in re-

lazione a qualcosa ed ora”, cioè in vista di altro,

appunto dell’azione, e in una situazione particolare,

come è quella in cui sempre si colloca l’azione.

Anche la filosofia pratica, dunque, è un sape-

re, anzi una scienza, nel senso antico del termine,

cioè una conoscenza della causa, benché il suo metodo, o il suo modo di sapere, come vedremo, si distingua da quello della filosofia teoretica, o delle scienze teoretiche, per alcune peculiarità. Essa, perciò, non va confusa con forme di conoscenza più

diretta o immediata, quali il senso comune, l’esperienza, l'intuizione, la stessa saggezza (phronésis,

sulla quale ritorneremo). Inoltre la filosofia pratica è

tale non solo perché ha per oggetto l’azione, cioè

perché umano ne nel perché

si occupa non della natura, ma dell’agire (solo l’uomo, per Aristotele, è capace di aziosenso proprio del termine); essa è tale anche ha come fine l’azione, cioè mira non soltanto

a conoscere, bensì a rendere possibile un certo tipo

di azione, l’azione buona (eupraxia), e quindi a ren-

dere migliore colui che agisce. Essa quindi non va confusa con una qualsiasi filosofia della prassi, o

della pratica, né in generale con l’etica, se l’etica è intesa semplicemente come filosofia della prassi, o del costume, o del carattere, o del bene dell’uomo.

A questo punto si impone la distinzione, risalente ugualmente ad Aristotele e caratteristica della

sua concezione della filosofia pratica, tra “azione”

vera e propria (praxis) e “produzione” (poiésis). Afferma infatti Aristotele: Il genere dell’azione (praxeés) è altro da quello della produzione (poiéseés), perché il fine della produzione è diverso (dalla produzione stessa), mentre quello dell’azione non lo è; il fine dell’azione, infatti, è la stessa azione buona (eupraxia)?.

Altrove Aristotele definisce il fine dell’azione

anche come “attività” (energeia), che poi significa l’atto, e quindi l’azione stessa, ed il fine della pro-

duzione come “opera” (ergon), affermando:

È evidente che vi è una certa differenza tra i fini, poiché alcuni sono attività (energeiai) ed altri sono certe opere (erga) distinte da esse; quando si danno fini distinti dalle azioni, in questo caso le opere sono migliori delle attività*.

Da questi passi risulta che l’azione (praxis) e

la stessa attività (energeia) possono essere intese anche in senso generico, cioè sia come fine a se

stesse sia come aventi un fine distinto da sé. Quan-

do sono fine a se stesse, sono azione o attività in

senso proprio, e costituiscono un valore, cioè qualcosa che è degno, appunto, di essere perseguito come fine; mentre quando hanno un fine distinto da sé, cioè un’opera (ergon), allora quest’ultimo è migliore, vale di più, dell’azione o dell’attività di cui è fine. La cosa migliore, insomma, è sempre il fine:

quando un'azione ha un fine diverso da sé, cioè ha

come fine un’opera, questa è migliore dell’azione stessa, che in tal caso non è un'azione in senso pro-

prio, ma è piuttosto una produzione (poiésis), cioè la produzione, appunto, dell’opera; ma quando, invece, un’azione è fine a se stessa, allora essa è azione in senso proprio, ed è, in quanto fine, migliore 3 ARISTOTELE, Etica Nicomachea VI 5, 1140 b 3-7. 4 ARISTOTELE, Etica Nicomachea 1 1, 1094 a 3-6.

della produzione, che non è fine a se stessa. La fi-

losofia pratica, come abbiamo visto, ha per oggetto azioni

in senso

proprio,

cioè

fine a se stesse,

e

quindi le considera anche come suo fine, è finalizzata all’agire; perciò nel primo passo citato Aristotele afferma che essa ha come fine l’opera, inten-

dendo dire qualcosa che è fine, non mezzo. Ma

non si tratta dell’opera frutto della produzione,

bensì dell’opera che è l’azione stessa, ovvero l’azione buona. La filosofia pratica non va dunque confusa con nessuna

forma di tecnica (techné), cioè di

scienza della produzione. Aristotele identifica infat-

ti le tecniche con le “scienze poietiche” (poiétikai

epistémai), cioè con delle “capacità” (dunameis) o

“princìpi di mutamento in altro” (arkhai meta-

blétikai en alléi)5. È nota la sua classificazione delle scienze, o delle “filosofie”, o delle “forme di pensiero” (dianoiai) in tre tipi, scienze teoretiche,

scienze pratiche e scienze poietiche®. Le scienze teoretiche si distinguono sia dalle pratiche che dal-

le poietiche perché hanno per oggetto ciò che ha in sé il principio del proprio mutamento; per esempio

la fisica, che è una scienza teoretica, ha per oggetto la natura, che secondo Aristotele ha in sé stessa il

principio del moto e della quiete, perché è costitui-

ta di enti che si muovono o stanno fermi “da sé”. Invece le scienze pratiche e le scienze poietiche hanno per oggetto rispettivamente l’azione e la produzione, il cui principio è in altro da esse, cioè è nell'uomo. Ciò non toglie che vi sia una differenza anche tra le scienze pratiche e le scienze poietiche,

perché, come dice Aristotele:

il principio dei prodotti (poiétén, le cose producibili mediante la poiésis) è in colui che li produce, cioè è l'intelletto, o l’arte o una qualche capacità, men-

a 16.

S ARISTOTELE, Metafisica x 2, 1046 b 2-3. 6 ARISTOTELE, Metafisica VI 1, 1025 b 25; Topici vi 6, 145

tre il principio delle mediante la praxis) scelta (prohairesis), mediante l’azione è scelto”.

azioni (praktén, le cose fattibili è in colui che agisce, cioè è la infatti ciò che può essere fatto identico a ciò che può essere

Ciò significa che, pur avendo entrambe, la

produzione e l’azione, come principio l’uomo - il che le distingue dagli oggetti delle scienze teoreti-

che, i quali hanno il loro principio in se stessi —,

tuttavia, nel caso della produzione, tra il prodotto e il suo principio, cioè l'intelletto, la capacità, l’uomo

insomma, c’è differenza, nel senso che il prodotto è esterno all'uomo, mentre nel caso dell’azione, tra

l’azione e il suo principio, cioè la scelta, che è

ugualmente l’uomo, non c’è differenza, perché il risultato dell’azione è lo stesso della scelta, quindi

tale risultato è la stessa azione, la quale pertanto è,

per così dire, immanente all'uomo, non dà luogo ad un prodotto esterno. Insomma la filosofia pratica, per Aristotele, è una scienza, cioè un sapere, una conoscenza di cause — sia pure, come vedremo, con un suo proprio metodo —, ma è diversa sia dalle scienze teoretiche,

perché ha per oggetto l’azione, cioè un'attività umana, sia dalle scienze poietiche, cioè dalle tecni-

che, perché l’azione è diversa dalla produzione, in

quanto non approda a un prodotto esterno, ma è immanente all'uomo. Il fine della filosofia pratica,

insomma, non è la perfezione del prodotto, bensì la

perfezione dell’uomo stesso.

7 ARISTOTELE, Metafisica vi 1, 1025 b 22-24.

Assenza della nozione di filosofia pratica in Platone

1

Benché la maggior parte delle nozioni che stanno alla base della filosofia di Aristotele sia derivata da Platone, non sembra che la nozione di filosofia pratica sia rintracciabile in quest’ultimo, per cui essa si

configura come una scoperta originale di Aristotele.

Platone offre anch’egli una classificazione delle

scienze, precisamente nel Politico, mediante il famoso procedimento della divisione (dihairesis). Il

suo scopo, come è noto, è di definire l’uomo politico. Dopo avere affermato che l’uomo politico è

dotato di scienza, cioè della scienza politica, Platone si pone il problema di definire quest’ultima. A questo scopo egli introduce la seguente divisione delle scienze:

STRANIERO: Per dove dunque troveremo il sentiero della politica? Questo, infatti, noi dobbiamo individuare e, distinguendolo dagli altri, contrassegnarlo con una particolare nota caratteristica e poi, indican-

do e comprendendo sotto un'unica altra specie le altre vie e diramazioni, bisogna far sì che l’anima nostra pensi il complesso delle scienze (epistémas) come distinto in due specie. SOCRATE IL GIOVANE: Questa, straniero, è ormai opera che spetta a te di

compiere, ma non a me, io credo. sTR.: Dovrà certo essere opera che riguarda anche te, Socrate, almeno quando a noi si sarà fatta chiara la cosa. SOCR. IL G.: Hai ragione. stR.: La scienza dei numeri, dunue, e certe altre arti congeneri ad essa, non sono

forse prive di rapporti con l’agire (prarxeòs) e forniscono solo il conoscere? socR. IL G.: È vero. STR.: Mentre invece le arti che si riferiscono al costruire e al complesso dei lavori manuali (kheirourgian)

hanno la relativa scienza connaturata e inerente al-

l’azione (en tais praxesin), e col concorso di questa

11

esplicano la loro attività nel dare compiutezza di essere ai corpi che esse producono e che prima non erano. SOCR. IL G.: Certamente. sTR.: Distingui su

uesta base allora il complesso delle scienze ponendo da una parte quella che chiamerei scienza pratica (praktikén), dall’altra la scienza della sola cono-

scenza (gnòstikén). socr. IL G.: Siano dunque que-

ste per te le due specie di quel tutto unitario che è la scienza®.

Qui Platone distingue chiaramente quelle che egli chiama “scienze “pratiche”, con la stessa

espressione che troveremo poi in Aristotele, dalle scienze puramente conoscitive, corrispondenti a

quelle che Aristotele chiamerà scienze teoretiche.

Ma, come si vede, per scienze pratiche egli inten-

de le scienze che hanno a che fare con i

lavori

manuali e rendono capaci di produrre quel che

prima non era. Esse corrispondono, dunque, a quelle che Aristotele chiamerà tecniche o scienze

poietiche. Insomma Platone, pur usando le espressioni “azione” (praxis) e “scienza pratica” (prak-

tiké epistémé), non ha ancora distinto il concetto di azione da quello di produzione, né di conseguenza le scienze pratiche da quelle poietiche. Perciò non si può dire che egli possieda propriamente il concetto di filosofia pratica. Vedremo poi che Platone classificherà la politica non tra le scienze pratiche, bensì tra quelle puramente conoscitive. Ma, prima di fare questo,

egli assimila tra di loro tutte le parti di quella che

in Aristotele sarà la filosofia pratica, nel modo seguente:

STR.: E porremo che il politico è insieme re e padrone e ancora capo della famiglia, come se con tutto ciò indicassimo una cosa sola, o ammetteremo che vi siano tante arti quanti nomi abbiamo detto? Ma è meglio che tu mi segua di qui. socR. IL G.: Dove? stR.: Di qui. Se un privato cittadino è in gra8 PLATONE, Politico 258 C-E, trad. di A. Zadro in PLATONE, Opere, Bari 1967. 12

do di dar consigli a uno dei medici pubblici, non ne

risulta necessario attribuirgli, come denominazione indicatrice dell’arte che egli usa, la stessa che si at-

tribuisce all'uomo cui egli fornisce i suoi consigli?

SOCR. IL G.: Sì. strR.: Ebbene? Chiunque essendo privato cittadino è capace di consigliare uno che regna su di una regione, non diremo forse che

possie-

de la scienza necessaria proprio a quello che è a capo della regione? socr. IL G.: Così diremo. STR.: Ma non è la scienza regia la scienza di chi è re ve-

ramente a buon diritto? socR. IL G.: Sì. sTR.: E chi ce l'ha, sia di fatto il re, sia un cittadino privato, non sarà giusto senz'altro chiamarlo per il suo possesso proprio di tale arte, in un caso e nell'altro, uomo regale? socR. IL G.: Giusto, certo. sTR.: E lo stesso vale certamente per

e per un padrone

il capo di una famiglia (oikonomos)

(despotés). socR. IL G.: Certamen-

te. stR.: E così? Vi sarà forse differenza, dal punto di vista del potere che li regge, fra la struttura di una grande famiglia e il complesso formato da un iccolo Stato? socR. IL G.: Nessuna differenza. STR.: È dunque chiaro ciò che or ora stavamo esaminando, e cioè che v'ha un'unica scienza che vale per

tutte

queste cose; e sia che uno la chiami scienza

regia (basilikén), o politica (politikén), o dell’economia familiare (cikonomikén), non deve esserci moti-

vo di divergenza fra noi e quello. socR. IL G.: Perché mai, infatti?9

In questo famoso passo, che Aristotele sottoporrà a una serrata critica, Platone identifica in un’unica scienza, la “scienza regia”, cioè la scienza del governo, sia la scienza di governare la città (po-

lis), cioè la “politica”, sia la scienza di governare la famiglia (oikésis), cioè l’“economica”, sia infine la

scienza di governare gli schiavi, cioè — si potrebbe

dire —- la “dispotica”, partendo dal presupposto che

tra la famiglia e la città non vi sia differenza di

struttura, ma solo di dimensioni. In ogni caso, la

politica si configura come la scienza del governo. Vediamo ora in quale delle due specie di scienze distinte prima, cioè quelle conoscitive e quelle pratico-poietiche, essa si colloca. 9 PLATONE, Politico 258 E-259 C.

13

sTR.: Ma è chiaro parimenti che ogni re in relazione al mantenimento del suo potere trova nelle sue mani e in tutto il suo fisico ben poco aiuto in confronto a ciò che gli possono dare l’acutezza e la forza dell'animo suo. socr. IL G.: Chiaro. sTR.: Vuoi allora che noi affermiamo che il re è più legato al conoscere che alle arti della mano e alla pratica in generale? socR. IL G.: Sicuramente. sTR.: E così, ricon-

durremo ad un medesimo punto, come si trattasse in sostanza di un solo problema, tutte queste cose: politica, uomo politico, scienza regia, re? socR. IL G.: Evidentemente.

stR.: Non sarebbe dunque il

nostro un procedere per ordine, se, dopo di ciò,

operassimo le nostre distinzioni in seno alla scienza

della conoscenza? socR. IL G.: Certissimamente. STR.: Sta attento allora e vedi se possiamo scoprirvi una qualche fessura. socR. IL G.: Di’ quale. stTR.: Questa. Noi parlavamo, prima, di una certa arte del calcolo. SOCR. IL G.: Sì; sTR.: La quale, io credo, appartiene assolutamente alle arti conoscitive. SOCR. IL G.: Come no? stR.: All’arte del calcolo, allora, la quale

riconosce le differenze fra i numeri, attribuiremo forse altro maggior compito oltre al dover enunciare giudizi su quel che conosce? socr. IL G.: E quale? stR.: E pure ogni architetto non opera direttamente, ma è a capo di chi opera. socR. IL G.: Sì. sTR.: Perché egli fornisce, comunque, la conoscenza, non il lavoro manuale. socR. IL G.: Certo. sTR.: Sarebbe così giusto dire che partecipa della scienza conoscitiva (tés gnostikés epistémés). SocR. IL G.: Certo!°.

Dovendo decidere se collocare la politica tra

le scienze conoscitive o tra le scienze pratico-poie-

tiche, legate ai lavori manuali, Platone non esita a collocarla tra le scienze conoscitive. In ciò egli assume una posizione nettamente diversa da quella che sarà di Aristotele, per il quale la scienza politica sarà la filosofia pratica per eccellenza. La posizione di Platone, del resto, è perfettamente coerente con la sua concezione generale, che concepisce la filosofia, cioè la sola vera scienza, come conoscenza delle Idee e soprattutto dell’Idea suprema, 10 PLATONE, Politico 259 C-260 A.

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principio di tutte le altre Idee e, attraverso queste, di tutte le cose, l’Idea del bene. Il buon governante, dunque, deve essere per Platone un filosofo, cioè un uomo che conosce il Bene, perché solo chi conosce il Bene può governare bene la città, cioè condurla alla realizzazione del bene!!. In Platone,

dunque, non c’è distinzione tra filosofia teoretica e filosofia pratica: la vera filosofia, cioè la dialettica, è

teoretica e pratica insieme,

perché sommamente

sommamente

pratica

teoretica. In Platone non c'è

ancora l’idea aristotelica di una filosofia pratica distinta dalla filosofia teoretica, e l’unica filosofia pra-

tica di cui Platone parla, come abbiamo visto, è la tecnica, cioè la scienza produttiva, addirittura la tecnica dei lavori manuali. Platone tuttavia non ignora il compito anche

pratico della politica, ma lo sussume, per così dire, sotto il suo carattere di scienza puramente conoscitiva, nel modo seguente: STR.: Quest'uomo però non deve, io credo, una volta

che abbia dato il suo giudizio, por fine al suo lavoro né abbandonarlo, come il calcolatore, ma invece deve comandare a ciascuno degli operatori proprio ciò che conviene finché essi abbiano condotto a termine il compito affidato loro. socR. IL G.: Giusto. sTR.: Allora tutte le arti siffatte sono conoscitive, e così tutte quelle che tengono dietro all'arte del calcolo, ma questi due generi differiscono tra loro perché l’uno giudica e l’altro comanda? socr. IL G.: Così appare. stR.: Potremmo dire allora di aver ben suddiviso se distinguendo chiamassimo una parte di tutta l’arte conoscitiva arte del comandare e

te arte di enunciare

giudizi? socR.

l’altra par-

IL G.: Sì, a mio

parere. sTR.: In ogni caso per coloro almeno che fanno qualche cosa insieme è desiderabile aver comunità di intenti. socR. IL G.: Come no? sTR.: E allora fin tanto che noi stessi conduciamo quest'opera comune

dobbiamo lasciar cadere tutte le diverse opinioni degli altri. socR. IL G.: Certamente. sTR.: Avanti dunque: in quale di questi due gruppi di arti dobbiamo noi porre, per la sua, il re? Nell’arte dell’enunciar !! Cfr. PLATONE, Repubblica v-vi.

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giudizi (kritikés), come uno spettatore, o diremo piuttosto ch'egli appartiene all’arte del comandare (epitaktikés), dato che egli di fatto comanda come un padrone? socr. IL G.: È come potremmo non decidere per la seconda alternativa?!

Platone riconosce, dunque, alla politica una

finalità pratica, perché la considera una scienza non soltanto capace di pronunciare giudizi, ma capace

anche e soprattutto di comandare; ma questa è una

divisione interna alla scienza conoscitiva, non è un

genere di scienza diverso. Ciò conferma la sua idea di una scienza suprema insieme teoretica e pratica,

la dialettica appunto, che è anche politica.

1? PLATONE, Politico 260 A-C. 16

La nascita della filosofia pratica in Aristotele 2

La filosofia pratica come scienza politica Abbiamo già detto che la filosofia pratica nasce con Aristotele, tuttavia l’espressione con cui Aristotele

la designa più frequentemente non è “filosofia pratica”, bensì “scienza politica” (politiké epistémé). Le

ragioni di questa denominazione sono indicate al-

l’inizio dell’Etica Nicomachea, che costituisce, insieme con la Politica, il trattato in cui la filosofia

pratica di Aristotele si trova esposta più sistematica-

mente. Le scienze sia pratiche che poietiche — dice

Aristotele — hanno sempre un fine: poiché vi sono molte di queste scienze, per. esempio la medicina,

l’arte di costruire navi (le scienze poietiche sono

“arti”, ovvero tecniche), l’arte di amministrare la casa (economica), vi sono anche molti fini. Ma alcuni di questi fini sono perseguiti in vista di se stes-

si, mentre altri sono perseguiti in vista di altro. Ebbene, è chiaro che i fini perseguiti in vista di se stessi sono migliori di quelli perseguiti in vista di

altro, e di conseguenza le scienze che hanno per oggetto i primi sono più “architettoniche”, cioè superiori, più degne di comandare, mentre quelle

che hanno per oggetto i secondi sono subordinate,

cioè degne di servire. Se, poi, c'è un fine perseguiti tutti gli altri — fine c'è, cioè è la felicità —, mo, e la scienza che avrà sarà la scienza suprema,

in vista del quale sono e per Aristotele questo esso sarà il bene supretale fine come oggetto,

cioè sarà, tra la scienze

pratiche, la più “architettonica”. Ebbene, questa scienza, secondo Aristotele, è la scienza politica, 17

perché, come la città è il tutto di cui il singolo indi-

viduo è la parte, così il bene della città comprende

in sé il bene del singolo, perciò è il bene supremo.

Dunque la filosofia pratica, quella che ha per fine il bene supremo dell’uomo, sarà la scienza politica, la quale stabilirà di quali altre scienze pratiche c’è bi-

sogno nella città (l’arte militare, l’amministrazione

della casa, la retorica) e darà indicazioni su che

cosa si deve fare e che cosa si deve evitare per realizzare la felicità. Essa sarà dunque pratica anche nel senso di normativa, o prescrittiva (Aristotele

dice che essa “legifera”, non nel senso letterale di promulgare le leggi, ma nel senso di prescrivere). Dato che vi sono molte specie di azioni, di arti e di scienze, vi sono anche molti fini: la medicina ha per fine la salute, l’arte di costruire le navi il navigare, l’amministrazione domestica (oikonomiké) la ricchezza; tra queste specie, quelle che rientrano in una

sola sfera d'azione (come ad esempio dall’ippica dipende l’arte di fabbricare le briglie e tutte quante la altre arti di fabbricare arnesi per l'equitazione, mentre l’ippica stessa e ogni altra attività guerriera dipendono dall’arte militare, e allo stesso modo altre arti dipendono da altre), in tutte queste, allora, i fini

delle arti architettoniche sono preferibili a tutti i fini delle arti loro subordinate, e infatti i secondi sono perseguiti in vista dei primi. Non vi è alcuna differenza se i fini delle azioni sono le attività stesse o qualcosa di diverso al di là di esse, come nel caso elle scienze sopra ricordate. Se quindi vi è un fine di ciò che facciamo, che desi-

deriamo a causa di esso stesso, e desideriamo le al-

tre cose a causa di questo, e non scegliamo ogni

cosa a causa di altro — infatti se si facesse così si andrebbe all’infinito, di modo che il desiderio sarebbe vuoto e inutile — è chiaro che quello viene ad essere

il bene e la cosa migliore. Allora la sua conoscenza non avrà forse un grande peso per le nostre scelte di vita, e, come arcieri cui è dato un bersaglio, non verremo a cogliere meglio ciò che ci spetta di fare? Se è così, ci si deve sforzare di comprenderlo nelle sue linee essenziali, cosa mai esso sia, e di quale scienza o capacità sia oggetto. Sembrerebbe essere

oggetto della più autorevole e architettonica, e que18

sta è evidentemente la scienza politica. Infatti è la scienza politica a stabilire di quali scienze c'è bisogno nelle città, e quali deve apprendere ogni classe i cittadini, e fino a che punto: vediamo che anche le capacità più degne di stima, come l’arte militare, l'amministrazione della casa, la retorica, sono subor-

dinate a essa. Siccome la scienza politica si serve delle altre scienze pratiche, e in più legifera su cosa si deve fare, e da cosa ci si deve astenere, il suo fine comprenderà in sé quello delle altre scienze, in modo che verrà a essere il bene umano. Difatti, anche se è lo stesso per il singolo e per la città, è evidente che cogliere e preservare il bene della città è cosa migliore e più perfetta; ci si potrebbe anche accontentare di coglierlo e preservarlo per il singolo, ma è migliore e più divino farlo per un popolo o per le città. Ora, la nostra indagine (methodos) persegue tali beni essendo, in un certo senso, politica!3.

Quando, in questo passo, Aristotele afferma

che la scienza politica è “la più autorevole e architettonica” tra le scienze, evidentemente si riferisce alle scienze pratiche (epistémai praktikai), cioè alle scienze che hanno un fine “praticabile” (prakton), ovvero realizzabile mediante l’azione (praxis). Essa è la più architettonica perché il fine che essa perse-

gue è superiore a tutti gli altri, ossia è quello in vista di cui tutti gli altri sono perseguiti, è il “bene umano” (to anthròpinon agathon), il “bene supremo” (to ariston). Il compito della scienza politica,

dunque, è anzitutto di “comprendere nelle sue linee principali (tupéi perilabein) cosa mai esso sia”, cioè di conoscere il bene supremo, anche se si tratta di un conoscere alquanto generale (tupéi), ovve-

ro — come vedremo tra poco — non del tutto preciso, non completamente dettagliato. Poi il compito

13 ARISTOTELE, Etica Nicomachea 1 1, 1094 a 5-B 11, traduzione di C. Natali, Roma-Bari 1999, leggermente modificata. Ho reso con “scienza politica” l'aggettivo politiké, che Natali interpreta invece come “capacità” o “saggezza” (nota 6, p. 451). Mi sembra infatti che i riferimenti alle “altre scienze pratiche” (1094 b

1, 5) sottintendano che anche la disciplina in questione

è una scienza. Ciò è confermato dall’uso del termine methodos, che indica un'indagine scientifica.

19

della scienza politica è di indicare come questo bene può essere realizzato mediante l’azione, cioè

di indicare quali azioni compiere e quali evitare (“legiferare”) per raggiungerlo. Dunque

scienza,

ma

pratica.

essa è

Il metodo della scienza politica Sempre all’inizio dell’Etica Nicomachea, subito dopo avere indicato l’oggetto della scienza politica, Aristotele si sofferma nell’illustrazione del suo metodo. Questo è diverso da quello delle scienze teoretiche (matematica, fisica, filosofia prima), soprattutto da quello della matematica, a causa dell’ogget-

to di cui la scienza politica si occupa. I beni, infatti, che formano l’oggetto di questa scienza, sono varia-

bili e mutevoli; per esempio la ricchezza e il corag-

gio, che sono certamente dei beni, in qualche caso possono essere causa di rovina, cioè quando sono

usati male. Perciò la scienza politica, ovvero la filo-

sofia pratica, non può avere la stessa “precisione” (akribeia) che è propria, ad esempio, della matematica. Essa dimostrerà, sì, la verità, come si addice ad una scienza, ma solo “approssimativamente e a gran-

di linee” (pakhulés kai tupéi). I suoi oggetti infatti, cioè i beni, non sono “sempre” tali, come gli oggetti della matematica, ma sono tali soltanto “per lo più” (hés epi to polu), vale a dire nella maggior parte dei casi. Perciò le dimostrazioni della scienza in questione partiranno da premesse che valgono non sempre, ma “per lo più”, e di conseguenza anche le conclusioni di esse varranno non sempre, ma “per lo più”.

Una persona colta — prosegue Aristotele —, cioè dotata di una cultura generale, non deve pretendere la stessa precisione in tutte le scienze, ma deve tener conto che i diversi oggetti consentono

gradi diversi di precisione. Ad esempio le matematiche consentono la precisione massima, quindi si servono

di dimostrazioni

veramente

scientifiche,

mentre la retorica, che mira non alla verità, ma alla 20

persuasione, consente una precisione minima. La filosofia pratica si colloca, in un certo senso, a metà

strada tra la matematica e le scienze teoretiche in genere, da un lato, e la retorica dall'altro. Essa mira

alla verità, ma ad una verità che vale non sempre,

cioè in tutti i casi, bensì “per lo più”, cioè nella maggior parte.

Per questa ragione i giovani, secondo Aristotele, non sono i più adatti a seguire un insegnamento di scienza politica, in quanto sono ancora inesper-

ti. Solo l’esperienza, che si acquisisce col tempo, ci

fa conoscere ciò che accade per lo più, e quindi essa

è necessaria alla scienza politica. In tal modo Aristotele rivela che la sua Etica Nicomachea è un trattato scritto in vista dell’insegnamento. C'è poi una seconda ragione per cui i giovani sono poco adatti a segui-

re un insegnamento di scienza politica, cioè il fatto che si lasciano guidare dalle passioni. Ciò infatti impedisce loro di mettere in pratica gli insegnamen-

ti di questa scienza, il cui fine, come è già stato detto e qui viene ripetuto, non è solo la conoscenza,

ma anche l’agire. In tal modo lo studio della scienza

politica, per i giovani, rischia di essere inutile, cioè di mancare il suo fine. La filosofia pratica, insomma, proprio per il suo carattere pratico, richiede espe-

rienza della vita e dominio delle passioni.

Ma avremo parlato a sufficienza se avremo fatto luce per quanto lo permette la materia trattata, infatti non si deve ricercare la precisione nella stessa misura in tutti i discorsi, proprio come avviene anche

nelle produzioni degli artigiani: le cose belle e giuste, su cui indaga la scienza politica, hanno tanta varietà e mutevolezza da sembrare tali solo per convenzione e non per natura. Anche i beni hanno tale mutevolezza, perché a molti sono capitati dei mali a causa dei beni, infatti è già accaduto che qualcuno sia andato in rovina a causa della ricchezza, e qualcun altro a causa del coraggio. Dunque ci si deve accontentare se, trattando di tali argomenti a partire da tali premesse, la verità viene mostrata solo approssimativamente e a grandi linee, e se, riguardo a oggetti che sono per lo più e a par21

tire da premesse simili, non si giunge che a conclusioni per lo più. È opportuno quindi che chi ascolta accolga nella mente in modo simile quello che veniamo dicendo, infatti è tipico della persona colta ricercare in ciascun genere di cose la precisione solo per quanto lo permette la natura della cosa, dato che è cosa evidentemente assurda sia accettare che

un matematico faccia appello alla persuasione, sia

attendersi dimostrazioni scientifiche da un retore. Ciascuno valuta bene le cose che conosce, e ne è buon

giudice;

quindi

l’uomo

colto lo è in ciascun

singolo campo, e buon giudice in assoluto è colui che ha una cultura universale. Per questo il giovane non è adatto ad ascoltare l'insegnamento della scienza politica, dato che è inesperto delle azioni di cui si compone la nostra vita, mentre i nostri discorsi partono da premesse di questo tipo e vertono su argomenti simili. Di più, siccome ha la caratteristica di farsi guidare-dalle passioni, il giovane ascolterà invano, e inutilmente; infatti il nostro fine non è la conoscenza, ma l’agire. E non fa nessuna differenza se

uno è giovane d’età o immaturo di carattere; il difet-

to non dipende dal tempo, ma dal fatto di vivere, e

di perseguire ogni specie di cose, sotto il dominio

della passione. Per gente simile la conoscenza è inu-

tile, proprio come per chi non si domina; invece co-

noscere questi argomenti sarà cosa utilissima per chi

forma i propri desideri, e agisce, secondo ragione'4.

Si noti come Aristotele, illustrando il metodo

della scienza politica, non rinneghi il suo carattere

di scienza, poiché le attribuisce la conoscenza della

verità e un procedimento argomentativo, che parte

da premesse a approda a conclusioni. Semplicemente egli rileva il carattere non assolutamente

preciso di tali premesse e di tali conclusioni, dovu-

to alla natura dell’oggetto trattato. Questa mancanza di assoluta

precisione

non

è tuttavia

un

difetto,

perché consente alla scienza politica di aderire perfettamente alla natura del suo oggetto, e pretendere da essa una precisione maggiore sarebbe da per-

sona incolta, che non sa quale grado di precisione è

giusto pretendere da ciascuna scienza.

14 ARISTOTELE, Etica Nicomachea 1 1, 1094 b 11-1095a 12. 22

Questo metodo alquanto flessibile, o duttile,

unito al bisogno di ricorrere all'esperienza e alla necessità di dominare le proprie passioni, hanno

indotto alcuni interpreti, tra i quali il più illustre è,

come vedremo in seguito, Hans-Georg Gadamer, a

identificare o ad avvicinare eccessivamente la filosofia pratica di Aristotele,

cioè la scienza politica,

alla virtù dianoetica della “saggezza” (phronésis), la

quale non è una scienza, ma appunto una virtù, e non appartiene al filosofo, ma al buon politico, cioè

al buon governante. È opportuno, pertanto, vedere come Aristotele presenta la saggezza, e in che cosa consiste la sua differenza dalla filosofia pratica. Prima,

però, è necessario

tener presente

un’altra importante indicazione fornita da Aristotele

a proposito del metodo della scienza politica. Nel libro vi dell’Etica Nicomachea, introducendo il discorso sulla mancanza di autocontrollo (akrasia) e su altri vizi, Aristotele afferma: Bisogna, come negli altri casi, dopo avere esposto i areri (ta phainomena) e avere, per prima cosa, sviuppato le aporie (diaporésantas), comprovare al meglio tutte le opinioni autorevoli (endoxa) su tali affezioni, 0, se non è possibile, la maggior parte e le più importanti: nel caso che siano state risolte le difficoltà e si lascino sussistere le opinioni autorevoli, si sarà data una dimostrazione sufficiente'S.

In queste poche righe è contenuta l’esposizione di un metodo ben preciso, che comprende le seguenti operazioni:

1) Anzitutto esporre i pareri

intorno all'oggetto della discussione, che si suppone possano essere anche tra loro opposti; 2) indi sviluppare le aporie, cioè dedurre da ciascuno dei pareri opposti tutte le conseguenze che possono crea-

re ad esso delle difficoltà, e quindi portare al rifiuto di alcuni pareri; 3) poi vedere quali difficoltà si lascino risolvere, cioè quali pareri si possano accetta-

re, e vedere in quale misura questi lascino sussiste!S ARISTOTELE, Etica Nicomachea vu 1, 1145 b 3-7. 23

re le “opinioni autorevoli” esistenti sull'argomento,

cioè se le lascino sussistere tutte, o la maggior par-

te e le più importanti. Se si realizza quest’ultima eventualità, cioè se il parere adottato è in grado di

risolvere tutte le difficoltà che gli sono state oppo-

ste e di lasciare sussistere tutte, o la maggior parte, o le più importanti, tra le opinioni autorevoli esistenti sull’argomento, allora si potrà ritenere che il parere accettato sia stato dimostrato a sufficienza. Il metodo in questione consiste, insomma,

nel vedere quali tra i pareri esistenti su un oggetto

siano in grado di resistere alle confutazioni e siano

compatibili con le opinioni più autorevoli esistenti al riguardo. Si tratta dell’argomentazione dialettica,

che Aristotele teorizza nei Topici proprio come un tipo di sillogismo, cioè appunto di argomentazione, che assume quali premesse gli endoxa, cioè le opinioni di tutti, o della maggior parte, o degli esperti,

o della maggior parte degli esperti, o dei più famosi tra essi!9. Come Aristotele spiega altrove, gli endo-

xa non sono veri sempre, ma sono veri “per lo più”,

perciò un’argomentazione che li assume come premesse approda a conclusioni che valgono anch'esse “per lo più”!7. La scienza politica, dunque, cioè la filosofia pratica, si serve di argomentazioni dialettiche, nel

senso che discute le varie opinioni alla luce degli endoxa. Le opinioni che essa discute, cioè i “pareri” (ta phainomena), possono essere, e in genere sono,

le opinioni dei filosofi precedenti, ma non vanno

confuse con gli endoxa, cioè con le opinioni di tutti o della maggior parte o degli esperti (nei Topici Aristotele dice dei sophoi, cioè di coloro che san-

no). Gli endoxa, infatti, non vengono messi in di-

scussione, ma rappresentano il sentire comune, il

costume (ethos), espresso ad esempio dalle leggi, o

dalla religione, e fungono da criteri alla luce di ‘6 ARISTOTELE, Top. 1 1, 100 a 29-b 23.

7 ARISTOTELE, Retorica 1 2, 1356 b 16-18;

1357 ba.

1357 a 29-

quali si giudicano i pareri dei filosofi. Nelle sue

opere di scienza politica, cioè le due Etiche (Nico-

machea e Eudemea) e la Politica, Aristotele segue

esattamente questo metodo, cioè discute le opinio-

ni di filosofi come Socrate,

Platone,

Eudosso,

Speusippo, gli edonisti, ecc., valutandole alla luce

degli endoxa, cioè del sentire comune.

Differenza tra scienza politica e saggezza Il vi libro dell’Etica Nicomachea è dedicato da Aristotele all’illustrazione delle cosiddette “virtù dia-

noetiche”, cioè delle eccellenze, o perfezioni (questo è il significato del termine greco areté, normal-

mente tradotto con “virtù”), della parte razionale

dell’anima, cioè della ragione (dianoia). Nei libri precedenti egli ha trattato delle “virtù etiche”, cioè delle eccellenze del carattere (éthos), che è il modo

in cui risulta formata la parte dell’anima diversa

dalla ragione, cioè quella che prova desideri ed emozioni. Spesso si legge che le virtù dianoetiche

sono cinque, cioè arte (tekhné), scienza (epistémé), saggezza (phronésis), intelletto (nous) e sapienza

(sophia). In realtà questi, come dice Aristotele, sono gli abiti, cioè gli stati abituali dell'anima, “me-

diante i quali l’anima si trova nel vero quando af-

ferma o nega”'5, cioè sono i modi abituali di rap-

portarsi alla realtà mediante giudizi. Non tutti questi abiti sono virtù, cioè eccellenze, ma solo due

tra essi, cioè la sapienza, che è la virtù della ra-

gione teoretica, volta al puro conoscere,

e la sag-

gezza, che è la virtù della ragione pratica, volta al-

l’agire.

La saggezza è definita da Aristotele come la

capacità di deliberare bene su ciò che è bene in universale, cioè di calcolare i mezzi più efficaci a

realizzare un fine buono. Essa, aggiunge Aristotele,

non è scienza, perché verte sulle azioni, le quali 18 ARISTOTELE, Etica Nicomachea vi 3, 1139 b 15-17. 25

hanno come principio l’uomo, perciò possono esse-

re diversamente da come sono, e non è nemmeno

arte, o tecnica, perché le azioni, come abbiamo vi-

sto, sono diverse dalle produzioni, di cui si occupa

l’arte. Come modello di saggezza Aristotele cita Pericle, il grande uomo politico ateniese, che sape-

va fare il bene della sua città. Ma saggi (phronimoi) sono non solo i buoni politici, bensì anche coloro

che sanno fare il bene della propria famiglia, cioè i buoni “economi”, o il bene proprio di singoli, cioè

gli uomini di valore. La saggezza implica dunque una certa intelli-

genza, necessaria per scorgere i mezzi efficaci a raggiungere il fine, e una certa virtù etica, in parti-

colare la temperanza, che impedisce alle passioni di stravolgere i giudizi della ragione. A differenza dall’arte, la saggezza non ammette che si sbagli volon-

tariamente, e non ammette un’eccellenza, perché è

un’eccellenza essa stessa. Infine, dice Aristotele, a

differenza dagli altri abiti della ragione, essa, una

volta acquisita, non si dimentica più, cioè entra a

far parte del carattere. Come si vede, sotto certi aspetti, cioè per la sua connessione con la tempe-

ranza, la saggezza assomiglia alla filosofia pratica.

Ma non va confusa con questa, perché, come Ari-

stotele dice esplicitamente, la saggezza non è una

scienza, mentre la filosofia pratica è una scienza,

anche se pratica. Del resto il modello della saggezza è Pericle, il quale faceva politica e non discuteva con metodo dialettico le opinioni dei filosofi precedenti, come fa invece Aristotele nelle sue opere di filosofia pratica. Vediamo allora come Aristotele illustra la saggezza. Potremo comprendere cosa sia la saggezza nel modo

seguente: osservando quali persone noi diciamo sag-

ge. Sembra quindi che caratteristica propria del saggio sia la capacità di ben deliberare su ciò che è utile e bene per lui, non negli ambiti particolari, come ciò che lo è per la salute o per il vigore fisico, ma in ciò che lo è per la vita buona in generale. Indizio ne 26

è il fatto che noi chiamiamo saggi anche quelli che si limitano a un qualche ambito particolare, quando calcolano bene in vista di un qualche fine eccellente che non sia oggetto di qualche arte, cosicché, anche in generale, chi sa deliberare sarà saggio. Ma nessuno delibera su ciò che non può essere di-

versamente, né sulle azioni che non possono essere

compiute da lui; e quindi, se è vero che la scienza procede

per via dimostrativa,

ma

che di ciò i cui

princìpi possono essere diversamente non si dà di-

mostrazione — infatti tutte le cose di questo tipo possono essere anche diversamente — e che su ciò che è per necessità non è possibile deliberare, allora la saggezza non sarà né scienza né arte. Non

sarà

scienza, perché il contenuto dell’azione è cosa che può anche essere diversamente, e non sarà arte, perché azione e produzione rientrano in generi diversi. Infatti il fine della produzione è diverso dalla produzione stessa, mentre quello della prassi non lo è, dato che lo stesso agire con successo è il fine. Allora rimane solo che la saggezza sia uno stato abituale veritiero, unito a ragionamento, pratico, che riguarda ciò che è bene e male per l’uomo. Per questo riteniamo che Pericle e i suoi simili siano saggi, perché sanno cogliere sia ciò che è bene per

loro stessi sia ciò che è bene per l’uomo; e riteniamo anche che siano tali coloro che governano la propria casa e gli uomini politici. Da ciò deriva anche il fatto che chiamiamo la tem-

peranza con questo nome (séphrosuné), infatti rite-

niamo che salvaguardi la saggezza (séizousa tén phronésin); e salvaguarda un'apprensione di questo tipo. Infatti il piacere e il dolore non corrompono né stravolgono ogni tipo di giudizio, per esempio quello che il triangolo ha o non ha gli angoli uguali a due retti, ma stravolgono i giudizi che "guardano

il contenuto dell’azione. Infatti i princìpi delle azioni

che si compiono sono ciò per cui le azioni avvengono: ma a chi è corrotto a causa di piacere o dolore, immediatamente non appaiono più evidenti né il principio, né il fatto che tutto si deve scegliere e compiere per quello e a causa di quello: poiché il vizio è cosa che corrompe il principio. Cosicché è necessario che la saggezza sia uno stato abituale unito a ragionamento vero, relativo ai beni umani,

pratico.

D'altronde vi è un livello eccellente dell’arte, ma non ve n'è uno della saggezza. E mentre nel campo 27

dell’arte è migliore colui che sbaglia volontariamente, nel campo della saggezza costui non lo è affatto, proprio come nel campo delle virtù. È chiaro quindi che la saggezza è un certo tipo di virtù, e non è un'arte.

Siccome sono due le parti razionali dell'anima, la saggezza sarà virtù di una delle due, di quella che è sede dell'opinione, infatti sia l'opinione sia la saggezza riguardano ciò che può essere diversamente. D'altronde la saggezza non è solo uno stato abituale unito a ragionamento: indizio ne è il fatto che vi è la possibilità di dimenticare stati abituali di quel tipo, mentre non ci si può dimenticare della saggezza!9.

Le due parti razionali dell’anima, distinte da Aristotele in precedenza, sono quella detta “scientifica”, che ha per oggetto le cose i cui princìpi non possono stare diversamente, cioè le cose che non dipendono dall'uomo, e quella detta “calcolatrice”, che ha per oggetto le cose che dipendono dall’uomo, cioè le azioni e le produzioni. La prima è detta anche ragione teoretica, perché ha per fine la conoscenza, e la seconda ragione pratica, perché ha per fine l’azione?°. Ora la parte calcolatrice è detta

anche “sede dell’opinione”, perché ha per oggetto

cose che possono stare diversamente. Gli abiti della ragione teoretica sono scienza, intelletto e sapienza, mentre la virtù di essa è la sapienza; gli abiti della ragione pratica sono arte e saggezza, ma la sua virtù è solo la saggezza. La filosofia pratica, o scienza politica, in quanto è scienza è abito della ragione teoretica, ma in quanto ha un fine pratico si avvicina alla saggezza. Da questa resta tuttavia

distinta perché argomenta, cioè dimostra, come si addice alle scienze, anche se le sue dimostrazioni,

come abbiamo visto, valgono non sempre, ma per lo più.

'9 ARISTOTELE, Etica Nicomachea VI 53. 20 ARISTOTELE, Etica Nicomachea VI 2. 28

Articolazioni della saggezza e della filosofia pratica Sempre parlando della saggezza, nel vi libro del-

l’Etica Nicomachea, Aristotele precisa che essa non riguarda solo gli universali (cioè i fini), ma deve

conoscere

anche

i casi particolari

(cioè

i mezzi),

perché l’azione riguarda sempre casi particolari, e porta ad esempio di deliberazione operata dalla saggezza un ragionamento che poi sarà chiamato

“sillogismo pratico”, da cui risulta che la premessa maggiore è universale (“le carni leggere sono

sane”), la premessa minore è particolare (“le carni di pollo sono leggere”) e la conclusione è anch'essa

particolare (“dunque mangiamo carni di pollo”). Anzi l’universale, cioè il fine, è in un certo senso presupposto dalla deliberazione, e quindi dalla saggezza, come nell'esempio citato è presupposta qua-

le fine la salute. Più avanti infatti Aristotele dirà

che l'orientamento ad un fine buono dipende dalla

virtù etica, cioè dal fatto che l'agente ha un buon

carattere, mentre la scelta dei mezzi dipende dalla virtù dianoetica della saggezza, la quale dunque verte essenzialmente sui mezzi, cioè sui particolari*. Per questo la saggezza non è una scienza,

nemmeno una scienza pratica, come la scienza politica, che verte sul “per lo più”.

A questo punto, tuttavia, Aristotele avverte che anche nell’ambito della saggezza, come in quello della filosofia pratica, si dà una forma “architet-

tonica”, cioè una saggezza superiore alle altre, che

è la saggezza politica, vale a dire quella che riguar-

da la città. Questa coincide, come abito, con la sag-

gezza in generale,

ma

non è esattamente

la stessa

cosa, perché normalmente col nome di “saggezza” si suole indicare solo la saggezza che riguarda se stessi come singoli. Nell'ambito della saggezza si delinea così un'articolazione in forme diverse: la saggezza più architettonica, cioè superiore a tutte 21 ARISTOTELE, Etica Nicomachea Vi 13, 1144 a 7-8. 29

le altre, è la saggezza politica, anzi più propriamente la saggezza legislatrice (nomothetiké), cioè la capacità di fare delle buone leggi. C'è poi un’altra

saggezza politica, che è la capacità di prendere de-

cisioni particolari, come i decreti, nel qual caso è semplicemente politica, o le sentenze, nel qual caso è giudiziaria. Al di sotto della saggezza politica ci sono la saggezza domestica (oikonomia), che verte sul bene della famiglia, e la saggezza propriamente detta, che verte, come abbiamo detto, sul bene del

singolo. Questa articolazione della saggezza corri-

sponde a quella della filosofia pratica, dove la

scienza politica è, come abbiamo visto, la forma architettonica, mentre la scienza economica e quella che sarà chiamata scienza etica sono le forme subordinate, in quanto il bene della famiglia e il bene

del singolo sono compresi nel bene della città. Ari-

stotele non espone questa articolazione della filosofia pratica nello stesso modo esplicito in cui espone

l’articolazione della saggezza, ma essa è desumibile

dal fatto che, nell’Etica Nicomachea, egli chiama scienza politica la filosofia pratica in generale, di cui la forma propriamente politica e quella econo-

mica saranno esposte nella Politica??, mentre la for-

ma che riguarda il singolo è esposta nella stessa Etica, da cui essa prenderà il nome”. Vediamo al-

meno l’articolazione della saggezza, da cui si desume come parallela quella della filosofia pratica.

La saggezza non riguarda solo gli universali, ma

deve conoscere anche i casi particolari, infatti è pratica, e la prassi riguarda i casi particolari: per questo anche in altri campi vi sono alcuni, gli esperti, che, ** Si può considerare “scienza economica”

quella che

verte “sull'economia”, intesa come amministrazione della casa, e che è esposta in Politica 1 3-13.

23 Cfr. l'espressione “teoria etica” (éthiké the6ria) in

Analitici posteriori 1 33, 89 b 9, e i rinvii all’Etica Nicomachea contenuti nella Politica (n 1, 1261 a 31; Il 9, 1280 a 18; Iv 11, 1295 a 36; vii 13, 1332 a 8) mediante l’espressione “nei libri di

etica” (en tois éthikois).

30

pur senza conoscere l’universale, sono più capaci di agire di quelli che lo conoscono. Infatti se uno sa che le carni leggere sono ben digeribili e sane, ma

ignora quali sono le carni leggere, non produrrà la

salute; la produrrà piuttosto chi sa che le carmi di pollo sono leggere e salutari. La saggezza è pratica, quindi deve conoscere entrambi gli aspetti, o, princi-

palmente, il secondo.

Ma anche in questo ambito vi sarà una qualche for-

ma architettonica. La (saggezza) politica e la saggez-

za sono lo stesso stato abituale, ma la loro essenza non è la stessa. Di quello stato abituale che riguarda la città, una parte è legislatrice, poiché è architetto-

nica, l’altra parte ha il nome comune di (saggezza)

politica, poiché è rivolta ai particolari; essa è

pratica

e deliberativa, infatti il decreto è pratico, poiché è il termine estremo. Per questo si dice che solo quelli che emettono decreti fanno politica, infatti sono i soli ad agire alla stregua dei lavoratori manuali. Si ritiene che sia saggezza soprattutto quella che riguarda se stessi come singoli, ed essa ha il nome generale di saggezza; delle altre, una è l’amministrazione domestica (oikonomia), un’altra la legislazione, un’altra la (saggezza) politica, e, di questa, parte è deliberativa e parte giudiziaria*4.

Come si vede, qui Aristotele espone l’articolazione della saggezza, cioè della capacità di deliberare bene, rispettivamente a proposito della propria città (saggezza politica), della propria famiglia (sag-

gezza economica) e di se stessi (saggezza propria-

mente detta). Non si deve confondere questa arti-

colazione con quella della filosofia pratica in scien-

za politica,

scienza economica

e scienza etica (an-

che se queste due ultime espressioni in Aristotele non compaiono). La filosofia pratica, infatti, non delibera, ma argomenta, cioè sottopone ad esame

le varie opinioni e stabilisce quali tra esse sono più resistenti alle confutazioni e compatibili con gli endoxa, quindi valide almeno “per lo più”, come Aristotele mostra di fare nelle sue opere di etica e di politica. 24 ARISTOTELE, Etica Nicomachea vi 8, 1141 b 14-32. gl

Il fine pratico della scienza politica Pur distinguendosi dalla saggezza, la scienza politi-

ca, come abbiamo già visto, non è per questo priva di un fine pratico. Quest'ultimo viene illustrato

ampiamente da Aristotele al termine dell’Etica Ni-

comachea, dove, dopo avere esposto l’etica propria-

mente detta, cioè la scienza concernente il ben:

del singolo (la felicità individuale), egli annuncia 1°

successiva trattazione del bene della famiglia e della città, contenuta nella Politica. Qui egli ricorda di avere trattato “a grandi linee” sulle virtù, sull’amicizia, sul piacere, ma osserva che nel campo dell’agire il fine non consiste nel conoscere teoricamente l'oggetto, cioè il bene, bensì piuttosto nel metterlo

in pratica. Ora, a questo scopo, almeno per la mas-

sa, cioè per la maggioranza degli uomini, non ba-

stano i discorsi, ma è necessaria, per vincere le pas-

sioni, la forza della legge, la quale consente una buona educazione. Poiché, però, le leggi hanno un

carattere universale, per fare buone leggi è necessario l’aiuto della scienza, precisamente della scienza politica. Nel campo

della legislazione infatti, prose-

gue Aristotele, non bastano né i puri discorsi, come

quelli mento scono e non

che fanno i Sofisti, né il semplice dei politici, cioè dei governanti, i per capacità ed esperienza, ma non scrivono discorsi. È necessaria

insegnaquali agiriflettono quindi la

scienza politica, che da un lato metta a disposizione

dei legislatori le raccolte di leggi e di costituzioni già esistenti, e dall’altro insegni a distinguere che cosa è bene e che cosa non lo è, e quali misure si adattano a quali cittadini. Per portare a compimento, quindi, la filosofia dell’uomo (hé peri ta anthròpina philosophia), cioè la filosofia pratica, è necessario trattare della costituzione in generale,

cioè esaminare ciò che è stato detto al riguardo dai “nostri predecessori” — vale a dire da coloro che

hanno preceduto Aristotele nel trattare della scien-

za politica, soprattutto Platone —, esaminare poi i

vari tipi di costituzione, vedere quali salvano la città

e quali la distruggono, e indicare infine qual è la costituzione migliore, e di quali leggi e di quali coStumi si serve.

In conclusione, dal momento che abbiamo detto ab-

bastanza, per grandi linee, sia su questi temi (cioè sulla felicità individuale) sia sulle virtù, nonché riguardo ad amicizia e piacere, dobbiamo credere che il nostro intento sia giunto alla sua realizzazione? Oppure, come si suol dire, nel campo dell'agire la izzazione non consiste nel conoscere teoricamente ogni aspetto, ma piuttosto nel metterlo in pratica? E quindi, riguardo alle virtù, non è sufficiente conoscerle, ma dobbiamo sforzarci di possederle e di farne uso, o di sapere se in qualche altro modo possiamo diventare buoni. Ora, se i discorsi fossero sufficienti a renderci persone per bene, farebbero di certo affari d’oro, come dice Teognide, e dovremmo procurarceli; in realtà è chiaro che i discorsi conducono i giovani d’animo generoso a rafforzare la propria disposizione, e li incoraggiano, rendono un carattere nobile e veramente amante del bello adatto a ospitare la virtù, ma non hanno la capacità di condurre la massa all’eccellenza morale (...) In generale la passione, a quanto

pare, non si lascia domare dal ragionamento, ma dalla forza. Quindi deve essere già presente un carattere in qualche modo predisposto alla virtù, che ama il bello e disprezza il turpe. È difficile però avere in sorte una buona educazione alla virtù fin dalla giovinezza, se non si è formati sotto leggi del giusto tipo: vivere in modo temperante e saper sopportare non è piacevole per la massa, e in particolare per i giovani. Per questo l’educazio-

ne e le attività dei giovani devono essere stabilite dalle leggi: infatti, diventando abituali, non risulteranno dolorose (...).

Quanto meno è opinione comune che deve passare attraverso l’universale chi vuole diventare esperto e teorizzatore, e lo deve conoscere per quanto è possi-

bile; abbiamo detto che le scienze hanno per oggetto l’universale, ed è probabile che ‘anche colui che

vuole

rendere

migliori, per sua cura, gli altri, sia

molti sia pochi, debba sforzarsi di diventare legislatore, se è attraverso le leggi che noi diventiamo buo-

ni. Non è alla portata di chi capita educare in modo corretto chiunque e chi gli viene sottoposto, ma, se

pure ciò è alla portata di qualcuno,

lo è di chi sa,

come avviene nel caso della medicina e in tutti i restanti casi, in cui ci si prende cura saggiamente di qualcosa.

Allora, dopo di ciò non si dovrà forse indagare da quali fonti e come uno può diventare esperto in legislazione? Forse che, come nelle altre arti, dall’insegnamento di politici esperti? Infatti già prima la competenza legislativa ci era parsa essere parte della politica. O forse è evidente che le cose non stanno allo stesso modo nei riguardi della (scienza) politica

e delle rimanenti scienze e capacità? Infatti nelle altre scienze è chiaro che sono le stesse persone a trasmettere ad altri le proprie capacità e ad agire in base a quelle, vedi per esempio i medici e i pittori; ma quanto alla politica, i Sofisti proclamano di insegnarla, mentre, in realtà, nessuno di loro agisce e al loro posto operano i governanti. Questi ultimi, a quanto pare, agiscono sulla base di una certa qual

capacità ed esperienza,

piuttosto che sulla base della

riflessione: è evidente che non scrivono né pronun-

ciano discorsi su queste cose (...), né, d'altronde, i

politici sono stati in grado di far diventare politici i loro figli o qualche altra tra le persone a loro care (...). Invece i Sofisti che proclamano di farlo sono evidentemente lontanissimi dall’insegnare davvero l’arte politica, dato che non ne conoscono né la specie né l'oggetto, altrimenti non la metterebbero al livello della retorica o addirittura a livello inferiore, e non sarebbero del parere che sia cosa facile fare il legislatore, quando uno abbia fatto una raccolta di leggi celebri e stimate. Infatti essi dicono che si debbono scegliere le migliori, come se la scelta non dipendesse dal comprendere e il giudicare correttamente non fosse la cosa più importante, proprio

come avviene nel campo della musica (...) E le leggi parrebbero essere le opere della politica: come potrebbe uno diventare esperto in legislazione, o giudicare quali sono le migliori, partendo solo dalle leggi stesse? È chiaro che, allo stesso modo, non si diventa medici sui manuali, sebbene gli autori si sforzino di dire non solo quali sono le cure, ma anche come si deve guarire, e come si devono medicare i singoli, distinguendo le varie disposizioni: tali cose sono utili agli esperti, ma inutili per gli inesperti. E quindi, forse, anche le raccolte delle leggi e

delle costituzioni verranno a essere utili per coloro che sono in grado di esaminarle, di distinguere cosa è bene e cosa non lo è, e quali misure si adattano a quali cittadini. Invece in quelli che esaminano queste cose senza uno stato abituale adatto non v'è la capacità di distinguere bene, tranne che per caso; anche se, forse, diventerebbero più perspicaci in questi campi.

Ora, dato che i nostri predecessori hanno tralasciato di esaminare il campo della legislazione, forse è meglio esaminarlo in dettaglio, e quindi trattare della costituzione in generale, in modo che sia portata a compimento, per quanto possiamo, la filosofia dell'uomo. Per prima cosa ci sforzeremo di esaminare

quello che è stato detto bene, nei particolari, dai nostri predecessori, poi, partendo dalla raccolta delle costituzioni, vedremo quali cose salvano le città, e i vari tipi di costituzioni, quali le distruggono, e per quali ragioni alcune città sono governate bene e altre tutto il contrario. Dopo avere esaminato questo,

forse potremo comprendere meglio qual è la costitu-

zione migliore, come ogni costituzione è strutturata

e di quali leggi e costumi si serve?5.

Questo passo si può considerare il programma della filosofia pratica di Aristotele, la quale si

colloca, per così dire, a un livello intermedio tra la

prassi politica dei governanti e la pura teoria dei

Sofisti: dalla prima si distingue per la trattazione

dell’universale, cioè per il suo carattere di scienza,

e dalla seconda per il suo intento pratico. In parti-

colare Aristotele critica l'abbassamento della scienza politica a livello di mera retorica, o addirittura di

semplice raccolta di leggi celebri, operato dai Sofisti, e rivendica alla sua scienza politica la capacità

di comprendere e di giudicare correttamente, cioè

di distinguere che cosa è bene e che cosa non lo è.

Nell'ultima parte del passo, infine, egli preannuncia i singoli libri della Politica (di cui il 1 è dedicato alla

scienza economica): la discussione delle opinioni di Platone nel libro n, la trattazione della costituzione 25 ARISTOTELE,

Etica Nicomachea

x 10,

1179 a 33-b

10;

1179 b 28-35; 1180 b 21-1181 a 7; 1181 a 12-18; 1181 a 22-b 23.

in generale nel mi, l'esame delle singole costituzioni nei libri Iv, v e vi, ed infine la descrizione della co-

stituzione migliore nei libri vi e vi. Si ha così la

conferma che la vera filosofia pratica di Aristotele

non è la semplice saggezza dell’uomo singolo, o del governante, ma la scienza del bene del singolo, del-

la famiglia e della città, da lui esposta nell’Etica

Nicomachea e nella Politica.

36

Scomparsa e riscoperta della nozione aristotelica di filosofia pratica

3

Accademici, Stoici, Medioplatonici e Neoplatonici La nozione aristotelica di filosofia pratica, fondata — come abbiamo visto — su una duplice distinzione, cioè sulla sua distinzione dalla filosofia teoretica e

dalla tecnica, per il suo carattere, appunto, pratico,

ma insieme anche sulla sua distinzione dalla sag-

gezza, per il suo carattere propriamente filosofico, cioè scientifico, scomparve subito dopo la morte di Aristotele e fu riscoperta soltanto parecchi secoli

più tardi, in pieno medioevo. La classificazione aristotelica delle scienze in

teoretiche, pratiche e poietiche fu ben presto sop-

piantata dalla divisione della filosofia in tre parti, cioè fisica, etica e logica. Questa distinzione risale già all'Accademia platonica, infatti è presente in

Senocrate, secondo successore di Platone nella gui-

da della scuola (dopo Speusippo) e contemporaneo

di Aristotele, e di essa è al corrente anche Aristotele, che nei suoi Topici classifica le premesse delle

argomentazioni dialettiche in tre gruppi, quelle appunto logiche, quelle fisiche e quelle etiche?5. La posizione di Senocrate (di cui si sono perse le ope-

re) e la fortuna di questa distinzione risultano da una testimonianza di Sesto Empirico, che riferisce: Quelli che fanno consistere la filosofia in due parti sembra che procedano in forma difettosa; fanno una

divisione più completa, a differenza di costoro, quelli che affermano esistere tre parti della filosofia, una fisica, una etica, una logica. Potenzialmente l’inizia26 ARISTOTELE, Topici 1 13, 105 b 20. 37

tore di questa tendenza è Platone stesso, ma nella maniera più esplicita Senocrate con la sua scuola, i Peripatetici, e poi gli Stoici si sono attenuti a questa ripartizione””.

Riferendosi in particolare agli Stoici, di cui ugualmente si sono perse le opere, Sesto prosegue: Di conseguenza, in modo convincente paragonano la filosofia ad un orto fertile, dove la fisica è simboleggiata dalle piante d’alto fusto, l’etica dai frutti gusto-

si, la logica dalle salde mura di cinta. Altri invece la

paragonano ad un uovo: il tuorlo, che per alcuni altro non è che il pulcino, corrisponde all’etica, l’albume, in quanto nutrimento del tuorlo, alla fisica. La

logica sarebbe invece il guscio esterno. Tuttavia Posidonio.

sulla base della considerazione

che le

parti della filosofia sono inseparabili fra di loro, e che invece le piante alla vista sono diverse dai frutti e dalle mura, ritiene migliore il paragone della filosofia con l'organismo vivente, per cui la fisica si rap-

porterebbe al a carne e al sangue, la logica alle ossa e ai nervi, e l'etica all'anima”.

È chiaro che in questa distinzione la fisica e

la logica sono al servizio dell’etica, quindi viene

meno l’idea stessa di una filosofia puramente teore-

tica, cioè avente per fine la pura conoscenza, e nel-

l'etica si confondono quella che Aristotele chiamava

la filosofia pratica e quella che per lui era la virtù

dianoetica della saggezza. La confusione tra filosofia pratica e saggezza è chiaramente presente in Senocrate, il quale scrisse un’opera intitolata proprio Sulla saggezza (peri

phronéseòs), di cui una testimonianza di Clemente Alessandrino afferma:

7 Sesto Empirico, Contro i logici 1 16 = Senocrate, fr. 82 Isnardi (in Senocrate-Ermodoro, Frammenti, edizione, traduzione e commento a cura di Margherita Isnardi Parente, Napoli, Bibliopolis, 1982).

28 Stoici Antichi, Tutti i frammenti secondo la raccolta di Hans von Arnim, a cura di R. Radice, Milano, Rusconi,

1998, fr. 38, pp. 307-309.

38

Anche Senocrate, nella sua opera Della saggezza, dice che la sapienza (sophian) è scienza delle cause prime e della sostanza intellegibile, mentre la saggezza (phronésin) ritiene che sia duplice, parte pratica e parte teoretica; essa è infatti sapienza umana.

Perciò la sapienza è anche di per sé saggezza, però non ogni tipo di saggezza è anche sapienza?9.

Qui la distinzione fra aspetto teoretico e

aspetto pratico, che Aristotele applica alla filosofia,

cioè alle scienze, è applicata invece alla saggezza, che in tal modo si allarga sino a comprendere l’intera filosofia. La stessa identificazione della filosofia prati-

ca con la saggezza si ritrova negli Stoici. Infatti, secondo la testimonianza di Alessandro di Afrodisia,

lo stoico Crisippo avrebbe concepito la saggezza

come la scienza delle cose da farsi e da non farsi, e secondo Stobeo l’avrebbe definita nel modo seguente:

La saggezza è la scienza di ciò che si deve fare, di

ciò che non si deve e di quanto non rientra né nell'una né nell’altra categoria, oppure è la scienza dei beni e dei mali e di ciò che non è né bene né male in rapporto alla natura dell'animale politico®.

Mentre per Aristotele, come abbiamo visto,

la saggezza non è una scienza, ma è la virtù della

parte calcolatrice dell'anima razionale, cioè della ragione pratica, ed è propria del buon politico, cioè del buon governante, per Crisippo, al contrario,

essa è una scienza, cioè è esattamente quello che per Aristotele era la scienza politica, ma ha perduto ogni carattere argomentativo, cioè di dimostrazione valida almeno per lo più. Del resto nella famosa

29 CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata ll 5 = Senocrate,

fr. 259 Isnardi. 3° ALESSANDRO DI AFRODISIA, De fato 37 = Stoici Antichi, fr. 11, 1005 Amim-Radice.

3: sroBEO, Ecloghe 11, 59 = Stoici Antichi, fr. 1 262 Arnim-Radice. 39

delineazione stoica del “saggio” vengono usati indifferentemente i termini sophos, che dovrebbe indi-

care propriamente il sapiente, cioè il filosofo, phro-

nimos, che dovrebbe indicare il saggio propriamente detto, e spoudaios, che indica l’uomo moralmente corretto*%.

L'identificazione tra la filosofia pratica e la

saggezza viene ripresa da Cicerone,

sicuramente

influenzato dagli Stoici, il quale la introduce nel mondo romano. Cicerone infatti traduce phronésis

con prudentia, la distingue dalla sapientia (termine col quale traduce il greco sophia), intesa come “scienza delle cose divine ed umane”, e la definisce come “la scienza delle cose da perseguire e da rifuggire, sia nell’ambito domestico (scientia domesti-

ca) sia nell’ambito politico (scientia civilis)83. Qui la saggezza è concepita senz'altro come scienza e vie-

ne a comprendere nel suo ambito quelle che per

Aristotele erano le due parti della filosofia pratica,

cioè la scienza economica e la scienza politica pro-

priamente detta.

Si potrebbe pensare che queste confusioni

siano dovute all’ignoranza, o alla scarsa conoscenza,

nel periodo ellenistico, dei grandi trattati di Aristo-

tele, cioè dell’Etica Nicomachea e della Politica, ma

anche quando, nell’ambito della tarda scuola peri-

patetica, l’Etica Nicomachea viene letta e commentata, ad esempio da Aspasio (inizio del I1 secolo dopo Cristo), la scienza politica menzionata da Aristotele nel 1 libro viene identificata con il sapere pratico dell’uomo di governo, cioè con la saggezza politica, di cui Aristotele parla nel vi libro*, probabilmente a causa dell'influenza dello stoicismo e della filosofia romana. 3 Si vedano i relativi frammenti negli Stoici Antichi, pp. 1261-1297. 33 CICERONE, De officiis 1, 43, 153. % Ciò è notato da C. Natali nel suo commento ad aRISTOTELE, Etica Nicomachea cit., p. 451. 40

Una singolare mescolanza tra la classificazio-

ne aristotelica delle scienze e la divisione accademico-stoica della filosofia in fisica, etica e logica, si ha in un manuale di filosofia platonica scritto nel ul secolo dopo Cristo, il Didaskalikos, un tempo attri-

buito al medio-platonico Albino, ma oggi considerato opera di un certo Alcinoo. Recita infatti quest'opera:

La ricerca del filosofo, secondo Platone, sembra esplicarsi in tre direzioni: nella contemplazione dell'essere, nel compiere belle azioni, nello studio del discorso. Si dice teoretica la conoscenza dell'essere, pratica quella che riguarda le cose da compiersi, diaettica quella che riguarda il discorso.

Si divide, quest’ultima, nella divisione, nella defini-.

zione, nell'analisi, nell’induzione e nella sillogistica, la quale, a sua volta, può essere divisa nell’apodittica, che riguarda il sillogismo necessario, nella epicheirematica, che riguarda il sillogismo basato sull'opinione, e, per terzo, nella retorica, che riguarda

l’entimema, che è detto sillogismo non compiuto; e da ultimo nei sofismi. Tutto ciò non è, per il filosofo,

preferibile, ma pure è necessario. Della pratica, una parte si occupa dei costumi degli uomini, un’altra della amministrazione della casa, un’altra ancora della città e della sua salvaguardia; di queste tre parti, la prima è chiamata etica, la seconeconomia, la terza politica. Della teoretica, la parte che si occupa delle cause immobili e prime e di tutte le cose divine, è detta teologia; quella che riguarda il movimento degli astri, le loro rivoluzioni e il loro periodico ritornare, la costituzione di questo mondo, è detta fisica; quella che indaga tre consimili

r mezzo della geometria e delle aldisciplîine, è detta matematica. Questa

è la divisione della filosofia e la definizione delle sue

parti?5.

Come si vede, in questo passo la divisione

accademico-stoica della filosofia in fisica, etica e logica è interpretata nei termini aristotelici di filo35 G. INVERNIZZI, Il Didaskalikos di Albino e il medioplatonismo, Roma, Abete, 1976, vol. ni, p. 6. 41

sofia teoretica, filosofia pratica e dialettica. Quest'ultima, poi, è articolata secondo il contenuto delle opere che formano l’Organon di Aristotele, men-

tre la filosofia pratica è divisa in etica, economia e politica, divisione che, come abbiamo visto, in Ari-

stotele non è così esplicita e che può essere stata ricavata dall’analoga divisione della saggezza in Etica Nicomachea vi 83°. Infine la filosofia teoretica è divisa anch'essa nelle tre scienze teoretiche di tradizione aristotelica.

Ma nell’età imperiale, dopo la pubblicazio-

ne dei trattati di Aristotele ad opera di Andronico di Rodi, questi si imposero sempre più all’attenzione dei filosofi tardo-antichi, specialmente dei commentatori, non solo in quelli di orientamento

peripatetico, come Alessandro di Afrodisia, ma anche in quelli di orientamento neoplatonico, come Porfirio, Ammonio,

Siriano, Asclepio,

Simplicio e

Filopono. Da questi commentatori, in particolare

da Porfirio, furono influenzati i latini Boezio e Cassiodoro, che a loro volta influenzarono profondamente il medioevo latino, trasmettendo a quest’ul-

timo la classificazione aristotelica delle scienze quale si trova nei trattati. Sia Boezio che Cassiodoro, infatti, presentano una tripartizione della filosofia in teoretica, pratica e poietica, e dividono la filosofia pratica in etica (philosophia moralis),

economia (philosophia dispensativa) e politica (philosophia civilis)9?.

3 Ciò è stato acutamente suggerito da F. voLPi, Che cosa significa “filosofia pratica”? cit., pp. 595-596, il quale pensa anche a una possibile influenza dell’opera pseudo-aristotelica intitolata Economico. 37 s. BOEZIO, Commento all'Isagoge di Porfirio (Patrolo-

gia Latina, LXIV, 73-74); Cassiodoro, Institutiones n: De artibus

ac disciplinis (Patrologia Latina Lx, 1167-1169). 42

La divisione delle scienze di Domenico Gundisalvi Dopo Boezio, nell’Occidente latino, la classificazione aristotelica delle scienze viene del tutto dimenticata.

Essa sopravvive,

invece,

nell’Oriente,

sia bi-

zantino, dove il corpus aristotelicum continuò ad essere letto e commentato praticamente senza soluzione di continuità (ad opera di Michele di Efeso, Michele Psello, Eustrazio), sia soprattutto arabo, dove le opere

di Aristotele vennero

riprese, attra-

verso i cristiani di Siria, dal greco, e furono sia commentate che imitate da filosofi della statura di Al-Farabi, Ibn-Sina (Avicenna) e Al-Gazali. È pro-

prio attraverso gli Arabi che tale classificazione viene riscoperta, nel secolo x11, dall’Occidente latino,

quando un cristiano di origine visigotica, Domenico

Gundisalvi (traduttore lui stesso di Aristotele dall’arabo in collaborazione con l’ebreo Ibn Daud),

scrive a Toledo il De divisione philosophiae, ad imi-

tazione del De ortu scientiarum di Al-Farabi, ma

tenendo ampiamente conto anche di Avicenna.

Nella sua opera, destinata ad influenzare

profondamente l’intera Scolastica latina, Gundisalvi

(in latino Gundissalinus) anzitutto divide la filosofia

in due “parti”, che sono la philosophia theorica e la philosophia practica (distinzione derivata da Avicenna). Poi divide la filosofia teorica in tre parti, cioè la scientia naturalis (fisica, comprendente

che la medicina), la mathematica aritmetica,

geometria,

musica,

an-

(comprendente

ottica,

astrologia,

astronomia, scienza dei pesi e ingegneria) e la theologia (detta anche metaphysica e philosophia pri-

ma). La filosofia pratica è divisa a sua volta in tre

parti, cioè la scientia civilis (o politica, compren-

dente anche la scientia legis, cioè il diritto), la scientia familiaris (o oeconomica) e la scientia mo-

ralis (o ethica). Gundisalvi considera poi come “strumenti” della filosofia la grammatica, la poetica e la retorica, e come “parte e strumento” insieme la logica. Si tratta, come si vede, della classificazione

43

aristotelica, ritoccata qua e là dalla tradizione ed impiegata per ricomprendere praticamente l’intero campo del sapere. Nel Prologus alla sua opera Gundisalvi scrive:

Tutto ciò che è, o è per opera nostra e nostra volontà, o non è per opera nostra, ma per opera di Dio o

della natura. Ma, poiché non c'è alcuna scienza, la quale non abbia un oggetto di cui trattare, e non c'è niente che non sia di uno di questi due generi, di conseguenza la filosofia in primo luogo si divide in due parti, di cui l’una è quella per cui conosciamo le disposizioni delle opere nostre, e l’altra è quella per cui conosciamo tutte le altre cose che esistono. L'una infatti è la parte della filosofia che fa conoscere che cosa si deve fare, e questa si dice pratica; e l’altra è quella che fa conoscere che cosa si deve pensare, e questa è teorica. L'una dunque è nell’intelletto, l’altra nell’effetto; l’una consiste nella sola cognizione della mente, l’altra nell’esecuzione dell’opera. Poiché infatti la filosofia è stata inventata a questo scopo, cioè affinché per mezzo di essa l’anima si perfezioni, e due sono le cose per mezzo di cui l’anima si perfeziona, cioè la scienza e l’operazio| ne, di conseguenza la filosofia, che è ordine dell’anima, si divide necessariamente in scienza ed operazione, allo stesso modo in cui l’anima si divide in senso e ragione; alla parte sensibile infatti appartiene l'operazione ed alla parte razionale appartiene la speculazione. Ma poiché la parte razionale dell’anima si divide in cognizione delle cose divine, cioè quelle che non sono per opera nostra, e in cognizione delle cose umane, cioè quelle che sono per opera nostra, di conseguenza il fine della filosofia è la perfezione dell’anima, affinché non sappia soltanto che cosa deve intendere, ma anche ché sappia che cosa deve fare e faccia. Infatti il fine di quella speculativa è il concepire un giudizio per pensare, mentre il fine di quella pratica è il concepire un giudizio per agire.

Le parti dunque, nelle quali anzitutto la filosofia si divide, sono queste: cioè teorica e pratica. Dopo di ciò rimane da vedere quali e quante siano le parti di ciascuna di queste prime parti della filosofia (...). Secondo, dunque, tutte queste divisioni le parti della filosofia teorica sono necessariamente tre: cioè o è

speculazione sulle cose che non sono separate dalla

loro materia né nell’essere né nell’intelletto; o è speculazione sulle cose che sono separate dalla materia nell’intelletto, ma non nell’essere; o è speculazione sulle cose che sono separate dalla materia nell’essere e nell’intelletto. La prima parte della divisione è detta scienza fisica ovvero naturale, la quale è la prima e l’infima; la seconda

è detta scienza

matematica

ovvero disciplinare (disciplinalis)*, la quale è intermedia; la terza è detta teologia ovvero scienza prima, ovvero filosofia prima, ovvero metafisica. E per questo Boezio dice che la fisica è non astratta e con movimento, la matematica astratta e con movimen-

to, la teologia invece astratta e senza movimento. E solo queste tre scienze sono parti della filosofia teorica, perché non possono esservi più generi di cose

di questi tre, sui quali si possa fare speculazione. Da cui Aristotele: perciò vi sono tre specie di scienze, perché l’una, in quanto naturale, considera ciò che si muove e si corrompe; la seconda, in quanto discipli-

nare, ciò che si muove e non si corrompe; la terza, in quanto divina, considera ciò che né si muove né si corrompe. L'utilità comune di questa tripartita scienza teorica è conoscere le disposizione di tutte le cose che sono, affinché nelle nostre anime sia descritta la forma di ogni essere secondo il suo ordine, allo stesso modo

in cui la forma visibile è descritta nello specchio. Una descrizione di questo tipo infatti è la perfezione della stessa anima, poiché l’attitudine dell'anima a recepirla è proprietà dell’anima stessa, per cui l’essere essa descritta nell'anima al presente è somma nobiltà ed è causa di felicità in futuro. Ma poiché per conseguire la felicità futura non basta la sola scienza di intendere

qualsiasi cosa è, se ad

essa non segua la scienza di fare ciò che è buono; per questo motivo dopo la teorica segue la pratica, la quale similmente si divide in tre parti.

La prima di queste è la scienza di disporre la pro-

pria comunicazione con tutti gli uomini. A ciò sono

necessarie la grammatica, la poetica, la retorica e la scienza delle leggi secolari. In queste cose consiste la scienza di reggere le città e la scienza di conoscere i diritti dei cittadini, e questa si dice scienza politica e da Tullio è chiamata ragione civile. 38 Gundisalvi tenta di tradurre in latino il greco mathe-

mata, che letteralmente significa “discipline”.

45

La seconda è la scienza di disporre la propria casa e la propria famiglia, per mezzo della quale si conosce in quale modo l’uomo debba vivere con la moglie, i figli, i servi e tutti i suoi familiari, e questa scienza si chiama amministrazione familiare. La terza è la scienza per mezzo della quale l’uomo conosce come ordinare il modo proprio di se stesso secondo l'onestà della sua anima, cioè come sia incorrotto e utile nei suoi costumi; e questa scienza si

dice etica ovvero morale. Poiché infatti ogni uomo

vive solo o con altri, ma se con gli altri, allora o con

i suoi familiari o con i suoi concittadini, di conse-

guenza questa scienza o filosofia pratica necessaria-

mente si divide in queste tre scienze, cioè nella scienza di ordinare la conversazione comune con i concittadini, nella scienza di ordinare la conversazione privata con i propri familiari, e nella scienza di ordinare la conversazione propria di se stesso, affinché uno convenga bene con sé e non dissenta in

nulla da sé. L'utilità comune di questa tripartita scienza pratica è di conoscere per mezzo di essa le maniere delle azioni da compiere, dalle quali ci provengono le cose utili in questo mondo e viene certificata la speranza della vita eterna in futuro. La verità di tutte ueste è certificata universalmente dall’approvazione della scienza speculativa e dall'autorità della legge divina. Ma ciascuna cosa è certificata singolarmente dalla legge divina.

In queste sei scienze è contenuto tutto ciò che si

può sapere e si deve fare; e per questo è stato detto che l'intenzione della filosofia è di comprendere tutto ciò che è in quanto è possibiles9.

La divisione proposta da questo autore è in

parte di origine aristotelica, in parte di origine ara-

ba (Avicenna, Al-Gazali): non è chiaro se l’autore sappia distinguere con precisione la filosofia pratica

dalla semplice saggezza, tuttavia non c'è dubbio che egli insiste sul suo carattere di scienza, da un lato, e sul suo intento pratico, dall'altro. Dall’opera

39 DOMINICUS GUNDISsALINUS, De divisione philosophiae, a cura di L. Baur, “Beitrige zur Geschichte der Philosophie

und Theologie des Mittelalters”, 4, 1903, pp. 11-12, 14-17, tra-

duzione mia. 46

di Gundisalvi restarono influenzati, già a partire dal secolo x11, i primi scolastici, cioè Abelardo, Giovanni di Salisbury, Ugo e Riccardo di San Vittore, Mi-

chele Scoto ed altri posteriori.

Ma nel frattempo facevano il loro ingresso

trionfale nella cultura medioevale latina le stesse

opere di Aristotele, tradotte prima parzialmente dal

greco, poi dall’arabo e poi di nuovo, più completa-

mente, dal greco. Già nel secolo xt, con la rinascita

della dialettica, che investe tutte le discipline (dalla

teologia alla giurisprudenza alla stessa medicina), si

fa strada (anche per merito dell’opera di Gundisalvi) la distinzione fra teoria e prassi, e nasce quindi l'etica come disciplina distinta dalla teologia, cioè come scienza della prassi (la quale, pur menzionata

da Gundisalvi, aveva ricevuto da lui un’attenzione

molto minore che le scienze teoriche). A partire dal

1215 l’etica viene insegnata nella Facoltà delle Arti

dell’Università di Parigi come scienza autonoma,

col nome di philosophia practica. Alla base di tale insegnamento sta, naturalmente, l’Ethica Nicoma-

chea, di cui furono fatte dapprima alcune traduzioni parziali, cioè anzitutto i libri 1 e mi (chiamati

perciò Ethica vetus) e poi il libro 1 (chiamato da

solo Ethica nova, ma facente parte una traduzione che voleva completare la precedente, della quale

però si sono perduti tutti gli altri libri), e successi-

vamente

alcune traduzioni complete, cioè quelle

famose di Roberto Grossatesta e di Guglielmo di Moerbeke.

Fino a che fu nota soltanto l’Ethica vetus, la

filosofia pratica fu concepita essenzialmente come

una dottrina della virtù (tale è, infatti, il contenuto

dei libri 11 e 1 della Nicomachea), perfettamente

conciliabile con la morale cristiana, mentre qualche

problema nacque con la scoperta dell’Ethica nova, dove la filosofia pratica è concepita come dottrina

della felicità (esposta nel 1 libro), più difficile da

conciliare con l’etica cristiana. Malgrado alcuni divieti da parte dell’autorità ecclesiastica, che investi47

rono anche l’etica di Aristotele (famosissimo quello

del vescovo di Parigi, Etienne Tempier, del 1277) in quanto ritenuta contraria al cristianesimo, questa

continuò ad essere insegnata, soprattutto dopo che, con la traduzione completa di Roberto Grossatesta,

si riuscì a mettere d’accordo dottrina della virtù e

dottrina della felicità, considerando la virtù come

via alla felicità, ed entrambe con il cristianesimo, identificando la felicità con quella piena realizzazione dell’uomo che, secondo la dottrina cristiana, è data dalla beatitudine eterna. Questa conciliazione fu opera soprattutto dei grandi commentatori, cioè Alberto di Colonia e Tommaso d'Aquino, a cui ne

seguirono innumerevoli altri.

La concezione della filosofia pratica in Tommaso d’Aquino

Tra i commentatori di Aristotele merita particolare

attenzione Tommaso d'Aquino, oltre che per la sua

innegabile perspicacia, per l'autorità che in seguito

ha goduto nella Chiesa cattolica. In lui ritroviamo la classificazione aristotelica delle diverse forme di

sapere, ma con alcune modifiche. Anche Tommaso

fonda tale classificazione sull'oggetto delle scienze,

cioè sui tipi di realtà considerate, dividendo questi ultimi in quattro ordini: 1) ordo rerum naturalium,

quem ratio non facit, il quale è studiato da due

scienze, cioè la fisica e la metafisica (della classificazione aristotelica cade, dunque, la matematica);

2) ordo quem ratio facit, il quale è studiato dalla philosophia rationalis, cioè dalla logica; 3) ordo ac-

tionum voluntariarum, il quale è studiato dalla phi-

losophia moralis, cioè dall’etica (che a sua volta comprende la monastica, la oeconomica e la politi* Per tutte queste vicende si veda w. WIELAND, EthicaScientia practica. Die Anftinge der philosophischen Ethik im 13.

Jahrhundert,

“Beitrige zur Geschichte

der Philosophie und

Theologie des Mittelalters”, N. F. 21, 1981.

48

ca); 4) ordo in rebus exterioribus constitutis per rationem humanam, il quale è studiato dalle artes mechanicae. All’inizio del suo commento all’Etica Nico-

machea, illustrando i passi in cui Aristotele presenta il concetto di filosofia pratica, Tommaso,

subito

dopo avere ricordato che è proprio del sapiente n

.

fare ordine, osserva:

L'ordine, dal canto suo, si rapporta alla ragione in quattro modi. C'è infatti un certo ordine che la raione non fa, ma soltanto considera, quale è l’ordine delle cose naturali. Il secondo, poi, è l'ordine che la ragione, considerando, fa nel proprio atto, per esempio quando ordina tra di loro i suoi concetti ed i segni dei concetti, che sono le voci significative. Il terzo è l'ordine che la ragione, considerando, fa nelle operazioni della volontà. Il quarto è l’ordine che la ragione, considerando, fa nelle cose esterne, delle quali essa stessa è causa, come nell’arca e nella casa. E poiché la considerazione della ragione si compie per mezzo dell’abito, secondo questi diversi ordini che la ragione propriamente considera, vi sono diverse scienze. Infatti alla filosofia naturale spetta considerare l'ordine delle cose che la ragione umana considera ma non fa; cosicché sotto la filosofia naturale possiamo comprendere anche la metafisica. L'ordine, poi, che la ragione, considerando, fa nel proprio atto, spetta alla filosofia razionale, il cui compito è considerare l'ordine reciproco delle parti del discorso e l'ordine reciproco dei principi rispetto alle conclusioni. Invece l’ordine delle azioni volontarie spetta alla considerazione della filosofia morale. Infine l'ordine che la ragione, considerando, fa nelle cose esterne, costituite dalla ragione

umana, spetta alle arti meccaniche. Così, dunque, è proprio della filosofia morale, intorno alla quale verte la presente indagine, considerare le operazioni umane, sotto l’aspetto per cui sono ordinate tra di loro e al fine*.

4! TOMMASO D'AQUINO, In decem libros Ethicorum Aristotelis ad Nicomachum Expositio, Roma-Torino, Marietti, 1949, 1, 1, cc. 1-2, traduzione mia. 49

Dopo avere, in seguito, distinto il bene del

singolo, quello della famiglia e quello della città, Tommaso prosegue:

Da ciò deriva che la filosofia morale si divide in tre parti. Di queste la prima considera le operazioni di un singolo uomo ordinate al fine, e si chiama monastica. La seconda, poi, considera le operazioni della comunità domestica, e si chiama economica. La terza infine considera le operazioni della società civile, e si chiama politica*?.

Circa il carattere propriamente scientifico

della filosofia pratica Tommaso non nutre alcun dubbio, come risulta dal modo in cui egli ne illustra il carattere architettonico: Il fine ottimo spetta alla scienza principalissima, e massimamente architettonica. E ciò risulta da quan-

to detto sopra. È stato detto, infatti, che sotto la scienza o l’arte che si occupa del fine sono contenute quelle che si occupano delle cose in vista del fine. E così è necessario che il fine ultimo spetti alla scienza principalissima in quanto vertente sul fine primo e principalissimo, e massimamente architettonica in quanto prescrivente alle altre che cosa si deve fare. Ma tale, cioè principalissima, e massimamente architettonica, sembra essere la scienza civile. Dunque ad essa spetta considerare il fine ottimo (...)

Ma la scienza civile comanda alla scienza speculativa solo quanto all’uso, non invece quanto alla determinazione del suo compito. La politica infatti prescrive che alcuni insegnino o imparino la geometria. Infatti gli atti di questo tipo in quanto sono volontari spettano alla materia morale, e sono ordinabili al fine della vita umana. Infatti il politico non prescrive alla geometria quali cose debba dimostrare a proposito del triangolo: ciò infatti non soggiace alla volontà umana, né è ordinabile alla vita umana, ma dipende dalla stessa ragione delle cose. Perciò (Aristotele) dice che la politica pre-

stabilisce quale sia il compito delle discipline nelle città, sia di quelle pratiche che di quelle speculative, e chi debba apprendere, e fino a quale età‘9. 4 Ivi, c. 6. 4 Ivi, I, 2, CC. 25 € 27.

Infine a proposito del metodo della filosofia

pratica Tommaso commenta:

E poiché, secondo l’arte della scienza dimostrativa, è necessario che i princìpi siano conformi alla conclusioni, e ciò che è oggetto di amore e di desiderio a partiene a questo genere di conclusioni, cioè a quelle variabili, bisogna che coloro che trattano di queste cose mostrino la verità procedendo da premesse simili, anzitutto a grandi linee

(grosse), cioè applicando i

princìpi universali e semplici alle cose singolari e composte, nelle quali è l’azione. In qualsiasi scienza operativa è infatti necessario che si proceda in modo compositivo. Al contrario, nella scienza speculativa è necessario che si proceda in modo risolutivo, risolvendo le cose composte nei princìpi semplici. In secondo luogo è necessario mostrare la verità tipologicamente (figuraliter), cioè in modo verosimile; e questo è procedere dai princìpi propri di questa scienza. Infatti la scienza morale verte sugli atti volontari: della volontà è movente non solo il bene, ma anche il bene apparente. In terzo luogo è necessario che — quando stiamo per parlare di cose che accadono per lo più (ut frequentius), cioè degli atti volontari, che la volontà produce non di necessità, ma forse inclina più all’uno che all’altro - procediamo anche da premesse tali che i princìpi siano conformi alle conclusioni*.

Qui, come si vede, Tommaso, pur distin-

guendo il metodo della filosofia pratica da quello della filosofia teoretica, non rinuncia al carattere

dimostrativo della prima, osservando solo che i princìpi devono essere conformi alle conclusioni, cioè devono essere molto generali, relativi a tipi di comportamento e validi non sempre, ma per lo più.

Nello stabilire, infine, una gerarchia di valore tra le diverse scienze, Tommaso pone al posto più

basso le artes mechanicae, introduce subito al di sopra di queste la artes liberales (quindi la logica,

compresa nel trivio, e la matematica, costituente il

quadrivio), indi colloca al di sopra di esse la fisica,

pone l’etica in mezzo tra la fisica (con cui ha in

comune la necessità dell'esperienza) e la metafisica 4 Ivi, 1, 3, C. 35.

51

(al cui apprendimento costituisce la condizione ne-

cessaria), ed infine pone al vertice la teologia*. Con

Tommaso, in tal modo, viene operata definitivamente la sintesi tra la classificazione aristotelica delle scienze filosofiche e la classificazione tradizionale delle arti liberali, che verrà poi consegnata all’età moderna

come vero e proprio modello aristotelico.

E notevole anche, nel suo pensiero, la ripresa della distinzione aristotelica non solo fra sophia e phronésis, indicate rispettivamente come sapientia e prudentia, ma anche la distinzione tra quest’ultima

e la filosofia pratica, o etica. Il carattere specifico della prudenza, infatti, è per Tommaso non tanto la

conoscenza del fine ultimo dell’uomo, che compete alla filosofia pratica, quanto la scoperta dei mezzi necessari a realizzarlo. Per questo motivo qualcuno ha parlato di un travisamento, operato da Tommaso, del pensiero aristotelico, in quanto per Aristotele la phronésis ricoprirebbe l’intero campo della razionalità pratica, comprendendo tanto la conoscenza del

fine quanto la conoscenza dei mezzi*. Ma in realtà,

come è stato efficacemente dimostrato, per Aristo-

‘ tele lo specifico della phronésis è proprio la conoscenza dei mezzi*7, anche se questa non esclude una certa conoscenza (ma presupposta, non argomentata) del fine, necessaria per orientare ad esso i mezzi.

Se si nega che questo sia lo specifico della phronésis, si perde proprio la distinzione tra phronésis e filosofia pratica, che per Aristotele costituiscono due forme di razionalità nettamente diverse (una scientifica e l’altra non scientifica)#.

45 Cfr. G. VERBEKE, Arts libéraux et morale d’après Saint Thomas, in aa. vv., Arts libéraux et philosophie au moyen dge, Actes du quatrième congrès international de philosophie médiévale, Montréal-Paris 1969, pp. 653-662. 4 R. A. GAUTHIER, in Aristote, L'Ethique à Nicomaque, Paris-Louvain 1970, pp. 275-279.

47 P. AUBENQUE, La prudence aristotélicienne porte-t-elle sur la fin ou sur les moyens?, “Revue des études grecques”, 1965, nr. 78, pp. 40-51.

* La posizione di Tommaso a questo riguardo è stata chiarita perfettamente da A. Poppi, Il ruolo della “phronésis” 52

Da questo punto di vista, dunque, Tommaso

ha interpretato perfettamente Aristotele, ed il con-

cetto di “prudenza” come semplice abilità, che ve-

dremo emergere in età moderna ed al quale Kant negherà qualsiasi valore morale, non deriva affatto

da Tommaso, né da Aristotele, perché per il mo-

dello aristotelico la phronésis non è semplice conoscenza dei mezzi idonei a realizzare un fine qual-

siasi, ma è conoscenza dei mezzi idonei soltanto a

realizzare un fine buono, la quale suppone una fon-

damentale bontà, cioè una “connaturalità” col fine. Il concetto moderno di prudenza nasce, come vedremo, proprio dall'abbandono del modello aristotelico, cioè dalla scissione tra conoscenza vera e

giudizio di valore, tra verità e prassi.

Va segnalata infine, per quanto

concerne

l'etica, un’altra modifica introdotta da Tommaso nel modello aristotelico, cioè la nozione di “legge naturale”, intesa come participatio legis aeternae in ra-

tionali creatura, vale a dire come ordine nelle creature razionali, il quale riproduce che nella mente divina presiede all'intera ne*. In virtù di questa legge naturale, Tommaso, l’uomo stesso è naturalmente

esistente l'ordine creaziosecondo inclinato

verso il bene, perciò è in grado di conoscerlo per

connaturalitatem®°. Dalla conoscenza della legge naturale vengono dedotti i precetti particolari riguardanti l'agire umano, come dalla conoscenza dei princìpi comuni a tutte le scienze vengono dedotti,

secondo Tommaso, i princìpi propri delle singole scienze. Il luogo in cui tale conoscenza avviene è

l'intimo dell’uomo, cioè la coscienza (conscientia, concetto

assente

in Aristotele),

la quale

dunque

viene ad assumere una funzione analoga a quella svolta in Aristotele dalla phronésis. nella fondazione dell'etica, in s. GALVAN (a cura), Forme di razionalità pratica, Milano, F. Angeli, 1992, pp. 95-130. 4° TOMMASO D'AQUINO, Summa thevivgiae, la-Ilae, q. 90. 5° Ivi, q. 94.

La filosofia pratica nell’Umanesimo e nel Rinascimento

4

La “filosofia morale” degli umanisti In una storia, anche se breve, della nozione di “filo-

sofia pratica” non si può non accennare al contributo che a questa disciplina è stato dato dall’Umane-

simo e dal Rinascimento, sia per la maniera nuova

in cui a quest'epoca furono letti e interpretati gli

scritti di filosofia pratica di Aristotele, sia per lo

specifico apporto degli umanisti all’elaborazione di una nuova visione della vita. Un aspetto importante

di quest’ultima è la concezione della “filosofia morale”, o anche soltanto del compito morale della filosofia, propria di alcuni umanisti, quali Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Pier Paolo Vergerio (Eu-

genio Garin ha parlato, a questo proposito, di “filosofia civile”). Va notato, tuttavia, che questa non

coincide esattamente con la nozione aristotelica di filosofia pratica, ma consiste piuttosto in una forma

di saggezza, cioè di capacità di agire bene, nella quale si prescinde proprio dalla distinzione aristote-

lica tra filosofia pratica come come virtù.

scienza e saggezza

Il primo umanista che richiama l’attenzione sull'importanza di una sapere profano capace di

orientare l’azione è il fiorentino Coluccio Salutati (1331-1406), il quale nell’Epistola a Giovanni Do-

minici, scritta nell’ultimo anno della sua vita, difen-

de il valore delle arti liberali anche per la formazio-

ne del cristiano, ma significativamente affida alla retorica il compito di orientare all’azione.

La ragione di questa scelta è la dipendenza di Salutati dalla tradizione cicercniana e agostinia-

na, che esaltava il valore anche morale dell’elo-

quenza. Anche secondo Aristotele, peraltro, la retorica è l’arte che insegna i mezzi per persuadere a certe azioni e pertanto è parte della scienza politica5. Ma Aristotele, come abbiamo visto, all’inizio

dell’Etica Nicomachea distingueva la filosofia pratica non solo dalla matematica, per il grado di preci-

sione inferiore che la caratterizza, bensì anche dalla

retorica, per la struttura dimostrativa che essa pur sempre possiede. Scrive invece Coluccio Salutati:

Chi può negare che, essendo la dialettica rivolta alla ricerca della verità, che è lo scopo di tutte le arti li-

berali e di qualsiasi scienza, è necessario che i Cri-

stiani la imparino? La fede nostra, infatti, è somma verità, cui si giunge attraverso infinite verità. Ora essendo la logica lo strumento per trovare e discernere il vero, chi non vede che ai fedeli di Cristo essa è innanzitutto necessaria perché possano raggiungere il termine della loro fede? (I

Ma della logica, che con le sue ragioni domina e costringe l'intelletto, basta quanto si è detto; veniamo perciò alla retorica che riguarda la volontà. Entrambe infatti, benché per vie diverse, tendono al medesimo scopo, ancorché l’una illumini l’intelletto perché l’anima sappia, l’altra la disponga perché voglia, e la prima razionalmente dimostri insegnando, la seconda persuada inclinando all’azione. Né so come potrei chiarire la cosa meglio che con le parole di sant'Agostino. Nel quarto libro della sua

opera Sulla dottrina cristiana così si esprime a que

sto proposito: poiché la retorica serve a persuadere

del vero e del falso, chi avrà il coraggio di dire che dinanzi alla menzogna la verità deve rimanere con difensori inermi, in modo che i

persuasori del falso

sappiano rendere subito gli ascoltatori benevoli, at-

tenti, docili, mentre

gli altri non sanno fare altret-

tanto; così che i primi sostengono l’errore concisamente, verosimilmente, limpidamente, mentre gli altri affermano la verità in modo che l’ascoltare sia noioso, l’intendere impossibile, il credere sgradevole? (...) Agostino vedeva negli altri, e sentiva anche

in se stesso, con quanta facilità i dotti di grammatica, di logica, di retorica penetrassero le verità teoloS! ARISTOTELE, Retorica I 2, 1356 a 25-27. 56

giche. Vedeva quanto tali arti sono necessarie ai principianti per comprendere e imparare le sacre ettere. Ricordava quanto l’avessero aiutato, quando era incorso nell’eresia manichea, a non persistere

nell’empietà di quel primo errore. Né dimenticava che la prima luce di salvezza gli aveva arriso dalle tenebre di Cicerone".

Più vicino alla tradizione aristotelica è l’aretino Leonardo Bruni (1374-144), traduttore in latino

umanistico dell’Etica Nicomachea e della Politica di Aristotele, che nel De studiis et litteris liber, rivolto alla nobildonna Battista Malatesta, sostiene la ne-

cessità di unire la peritia litterarum con la scientia rerum, ed articola quest’ultima in due grandi branche, la conoscenza della Sacra Scrittura e gli “studi

secolari”. Tra questi ultimi egli ammette tutte le

scienze,

comprese

la matematica

e l'astronomia,

vere e proprie scienze, ma non le pone tutte sullo

stesso piano. La sua preferenza va infatti a “quello che ci tramandano i più eccellenti filosofi intorno al ben vivere”, cioè alla tradizione della filosofia morale, che nel contenuto da lui evocato è essenzial-

mente quella aristotelica. Scrive Bruni:

Vorrei dunque che questo ingegno, destinato a raggiungere ogni eccellenza, fosse animato da un'ardentissima brama di sapere, così da non disprezzare disciplina alcuna, da nulla ritenere a sé estraneo, da slanciarsi ardente di mirabile brama verso la cognizione e la comprensione delle cose. Dinanzi a così fatto ardore ed impeto naturale io, in parte, aggiungerò stimoli e, a gran voce, porrò freni e suonerò a raccolta. Vi sono infatti discipline in cui non è con-

veniente essere del tutto incolti, ma neppure è onorevole cosa raggiungerne i fastigi: tali la geometria e l’aritmetica, in cui se troppo tempo consumerai percorrendone ogni sottigliezza più oscura, io ti ritrarrò e te ne strapperò. E

lo stesso farò con l'astronomia

e, forse, con la retorica. Ma di quest’ultima l’ho det8 C. SALUTATI, Epistola a Giovanni Dominici, in E. GARIN, Educazione umanistica in Italia, Bari, Laterza, 1966, pp. 26-28. 57

to a malincuore, perché se mai alcuno la coltivò, tale io sono. Tuttavia io devo considerare molti aspetti della questione, e, innanzitutto, devo tener presente la persona per cui scrivo (...) Ma non voglio che essa si limiti alle scritture religiose; voglio indurla agli studi secolari. Veda quello che ci tramandano i più eccellenti filosofi intorno al bene vivere; che cosa scrivano della continenza, della temperanza, della modestia, della giustizia, della fortezza, della liberalità. E non ignori quello che essi pensano della felicità: se basti la virtù, o se torture e carcere ed esilio e povertà ci impediscano di vivere beati. Se, quando tutte queste sventure capitano ad un uomo felice, lo rendano misero; o se gli tolgano solo la felicità, ma senza indurlo del tutto in miseria. E ancora: se la felicità umana consista nel piacere o nell’assenza del dolore, come volle Epicuro, o nell'onestà, come pensò Zenone, o nell’abito virtuoso,

come

sostenne

Aristotele.

Cose

tutte — credimi —

egregie e degnissime d’essere conosciute da noi; e che non recano solamente utilità a ben vivere, ma offrono anche mirabile materia a parlare e a scrivere di ogni argomento. Queste due discipline, che riguardano l’una la reliione e l’altra la vita morale, siano proposte come fondamentali Le altre tutte siano ad esse riferite, sì da poterle quasi aiutare e adornare. Ed infatti quella mirabile eccellenza umana, che con fama veritiera innalza un inclito nome, non si ottiene se non conoscendo molte e varie cose. Bisogna, dunque, molto leggendo e imparando, prendere da ogni parte e accumulare,

e tutto esaminare

in ogni

senso e

scrutare, perché qualche utilità ci venga per i nostri studi99. Infine un altro umanista, Pier Paolo Vergerio

da Capodistria (1370-1444), che più di tutti si è

impegnato sul problema dell'educazione, nella sua opera pedagogica Dei nobili costumi e degli studi liberali della gioventù, propone esplicitamente lo

studio della “filosofia morale”, cioè dell’etica, come formazione, rivolta soprattutto ai governanti, a

“pensare dirittamente”, mettendolo però sullo stes-

S3 L. BRUNI, De studiis et litteris liber, in Garin, op. cit., PP. 37-39. 58

so piano di quello della storia. Siamo dunque più sulla linea della tradizione retorica di Salutati che su quella specifica della tradizione aristotelica. Ma ritorniamo alla storia, la cui perdita è tanto più grave per la grande utilità e il gran diletto che presenta la conoscenza dei fatti accaduti. Poiché a chi ha nobile ingegno, e soprattutto a chi deve impegnarsi in attività sociali ed in funzioni di governo, conviene conoscere la storia e la filosofia morale. Le altre discipline si chiamano

infatti liberali,

perché

convengono ad uomini liberi, ma la filosofia è liberale nel senso che lo studiarla rende liberi gli uomini. È dall’etica che noi impariamo quello che conviene fare, mentre dalla storia si ricavano gli esempi che dobbiamo seguire. L'una espone i doveri di tutti gli uomini, e quanto a ciascuno in particolare convenga;

l’altra narrandoci quello che è stato detto e fatto c'insegna ciò che dovremo dire e fare nelle diverse occasioni. A queste due discipline, se non sbaglio, ne tiene dietro una terza, l’eloquenza, parte anch'essa della scienza civile. Attraverso la filosofia noi arriviamo a pensare dirittamente, cosa fra tutte principalissima! Con l’eloquenza s'impara invece a parlare con garbo. con gravità, per renderci benevolo l'animo della moltitudine. Dalla storia poi ricaviamo l’uno e l’altro vantaggio. Poiché, se giudicando i vecchi molto più prudenti di noi, li stiamo più volentieri a sentire, appunto perché nel loro lungo vivere acquistarono grande esperienza personale e di cose viste e ascoltate, in qual conto dovremo tenere gli storici che sanno dire per filo e per segno tutti gli eventi memorabili di molti secoli, e per tutti i casi hanno pronto qualche esempio da citare? Ne segue come effetto che impariamo tutto ciò che forma l’uomo sommo e di eccellente ingegno, cioè la capacità di parlare bene, e l’aspira-

zione a bene operare.

L'affermazione che l’eloquenza è parte della

“scienza civile” (civilis scientiae, espressione che

traduce letteralmente la “scienza politica” di Aristo-

tele) è del tutto aristotelica e sembra riallacciarsi

54 P.P. VERGERIO, De ingenuis moribus et liberalibus studiis adulescentiae, in Garin, op. cit., pp. 94-95.

alla tradizione della filosofia pratica, ma il riferi-

mento alla storia è del tutto estraneo a quest’ulti-

ma: sappiamo infatti che per Aristotele la storia, in

quanto si occupa del particolare, è molto meno “fi-

losofica”, cioè scientifica, della poesia, la quale,

trattando del verosimile, si avvicina molto più della storia all’universale, oggetto della filosofiaS5. Nel

complesso, dunque, la filosofia morale degli umani-

sti difficilmente si può considerare parte della tra-

dizione della filosofia pratica intesa nel senso più specifico. La “filosofia pratica” degli aristotelici: Girolamo Savonarola Nel Rinascimento, accanto all’Umanesimo, persiste

la cultura tradizionale di ispirazione scolastica, all'interno della quale si trasmette la nozione aristotelica di “filosofia pratica”.

Uno

tra i numerosi

rappresentanti di questa cultura è fra’ Girolamo

Savonarola (1452-1498), domenicano e quindi formato nello studio della filosofia aristotelica, inter-

pretata da Alberto Magno e Tommaso d'Aquino. Pur nell’originalità della sua predicazione, impron-

tata a uno spiritualismo ascetico e rigoroso, che lo

porterà al conflitto col potere politico di Firenze e quindi alla condanna a morte, Savonarola può esse-

re considerato uno degli autori in cui sopravvive la

concezione aristotelica della filosofia pratica. Nell’opuscolo auto-apologetico De ratione poeticae artis, scritto per difendersi dall’accusa di avere condannato l’arte, Savonarola ripropone la divisione tradizionale della filosofia in “filosofia razionale”, che studia l’ens rationis, e “filosofia reale”, che studia l’ens reale. Questa seconda si divide a sua volta in filosofia speculativa e filosofia pratica: a proposito di quest’ultima Savonarola cita addirittura la definizione che Aristotele ne dà nel secondo li55 ARISTOTELE, Poetica 9, 1451 b 5-11.

bro della Metafisica, cioè filosofia ordinata all'opera dell’uomo, che è l’unica definizione, come abbiamo visto, in cui l’espressione “filosofia pratica” ricorra. La filosofia pratica si divide poi a sua volta in due, a seconda che sia ordinata alle operazioni umane concernenti una materia esterna, cioè i pro-

dotti, o quelle concernenti la stessa perfezione dell’anima, cioè i costumi: è la distinzione aristotelica tra filosofia poietica e filosofia pratica. Quella ordinata alle azioni può riguardare le azioni rivolte ver-

so se stessi, ed è l’etica propriamente detta, cioè

quella trattata da Aristotele nell’Etica Nicomachea,

oppure le azioni rivolte verso gli altri, cioè quelle

rivolte alla famiglia, ed è l’economica, o quelle rivolte al governo della città, ed è la politica. La filosofia speculativa si divide invece, aristotelicamente, in fisica, matematica e metafisica. Ma vediamo il discorso savonaroliano. Che l’intera filosofia si divida in due parti, cioè in quella razionale e in quella reale, lo provano sia l’autorità di uomini eccellentissimi sia la ragione. Poiché, infatti, non c'è scienza dei non enti, ma solo delle cose che sono, come attestano i filosofi, e le scienze si dividono nello stesso modo delle cose, secondo la sentenza del Filosofo nel libro De anima, e l'ente si divide principalmente in ente reale ed ente di ragione, è necessario qjvidere la filosofia in due parti, una delle quali consideri l'ente reale, mentre l’altra verta sull’ente di ragione. Colui che ignora queste parti non deve essere chiamato filosofo e sapiente. Il sapiente infatti, come testimonia Aristotele, deve sapere tutte le cose come si conviene.

Anche la filosofia reale si distingue in due parti, in

quella pratica e in quella speculativa. Diciamo scienza pratica l’abito dell'intelletto immediatamente ordinato a governare le operazioni di quelle potenze che stanno sotto l'intelletto. Da cui consegue che il fine della scienza pratica è l’opera, come attesta il Filosofo nel secondo

libro della sua Metafisica,

quale opera chiamiamo con nome greco

la

prassi (pra-

xim) e definiamo essere opera di una delle due potenze dell’intelletto, opera naturalmente posteriore ad esso e nata adatta ad essere governata da esso. 61

Poiché d’altra parte alcune operazioni dell’anima aliene dall’intelletto trapassano ad una materia esterna, mentre altre niente affatto, riteniamo che la scienza pratica sia duplice. Una certa scienza pratica infatti governa le operazioni dell’anima concernenti la materia esterna; una certa altra invece dirige le operazioni che perfezionano l’anima stessa, le quali propriamente riguardano i buoni costumi. La prima pertanto diciamo che concerne le arti meccaniche, non avendo le quali dignità né dal loro oggetto né dal loro modo, benché talvolta giovi al filosofo conoscere alcunché di esse, tuttavia l'ignoranza di esse non esclude il nome di sapiente. La seconda invece distinguiamo in tre parti, poiché per vivere bene e beatamente è necessario che l’uomo sia diretto in azioni buone sia verso se stesso sia verso gli altri. All’abito dunque dell'anima e all'ordine della ragione, per mezzo del quale l’uomo si governa bene verso se stesso, è ordinata la scienza che è contenuta nel libro dell’Etica di Aristotele. Ma poiché l’uomo può essere ordinato verso gli altri in

due modi, cioè

in modo speciale alla famiglia ed in modo universale al governo della città e del regno, dividiamo questa parte in due, cioè in quella economica e in quella politica; sotto la politica d'altra parte è inclusa la scienza delle leggi. Ma la scienza reale speculativa si scinde in tre parti. Poiché infatti il nostro intelletto è separato dalla materia, è necessario che ciascuna cosa sia in tanto

intelligibile, in dalla materia.

quanto è in Alcune cose

qualche modo separata dunque nel particolare

non possono essere separate né

dal a materia sensi-

bile né dalla materia intelligibile, e queste sono tutte le cose naturali. Ma poiché l'intelletto, come abbiamo detto, è immateriale, esso può pensare immaterialmente ciò che è materiale e apprendere universalmente il particolare. Donde, poiché Platone comanda di arrestarsi fino alle cose singolari, e la scienza è solo degli universali, a proposito delle cose che in nessun modo possono essere separate particolarmente dalla materia sensibile e intelligibile c'è la filosofia naturale, la quale, benché non faccia astrazione dalla materia sensibile, tuttavia fa astrazione dalla materia particolare. Alcune altre cose invece, benché non siano realmente separate da nessuna materia sensibile, possono tuttavia essere separate

da essa per mezzo dell’intelletto, anche se non pos-

sono essere astratte dalla materia intelligibile; e que-

ste sono tutti gli oggetti matematici, delle quali c'è una scienza speculativa diversa da quella naturale,

che è la geometria e l’aritmetica. Alcune altre cose infine sono separate tanto dalla materia sensibile quanto dalla materia intelligibile, a proposito delle quali verte un’altra scienza, che viene chiamata me-

tafisica”9.

Savonarola, come si vede, da un lato ha per-

fettamente presente l’opera di Aristotele, che cita direttamente proprio a proposito della definizione di filosofia pratica, e dall’altro si ispira alla divisione delle scienze di origine aristotelica, ma completata dalla tradizione, aggiungendo ad essa la triplice distinzione della filosofia pratica in etica, economica

e politica.

56 GIROLAMO SAVONAROLA, Apologeticus de ratione poeticae artis, in Id., Scritti filosofici, a cura di G. Garfagnini e E. Garin, Roma

1990 (Edizione Nazionale, vol. 1), pp. 213-215,

traduzione mia.

La concezione

moderna

5

Persistenza del modello aristotelico

La concezione moderna delle diverse forme di sa-

pere non prende immediatamente il posto di quella aristotelica, che era divenuta dominante al termine

della fase premoderna, ma convive con questa per circa tre secoli, ossia fino a Kant, il quale impone

definitivamente al posto di essa un nuovo modello, specificamente moderno. Il modello aristotelico so-

pravvive anzitutto nella logica, per merito di quello

che si potrebbe chiamare l’aristotelismo “laico”,

professato cioè non da membri di ordini religiosi o

comunque da teologi, bensì da filosofi di professio-

ne, in genere professori nelle università. Il filone

più vigoroso dell’aristotelismo laico è senza dubbio quello sviluppatosi nell’università di Padova, che nel corso del Cinquecento, grazie a Giacomo Zaba-

rella, produce il più alto frutto delle sue ricerche logiche con la famosa teoria del regressus, da molti

considerata culla del metodo scientifico moderno”. Zabarella godette di una fama immensa in tutta l'Europa, specialmente in Germania, anche durante il Seicento, essendo considerato un’autorità indi-

scussa in fatto di logica5. Ma la sua influenza non si limitò all'ambito di questa disciplina, bensì si

esercitò, attraverso la dottrina dell’illuminatio, sul

57 Cfr. J. H. RANDALL, The School of Padua and the Emergence of Modern Science, Padova 1961; A. POPPI, La dottrina della scienza in Giacomo Zabarella, ivi, 1972. % Cfr. P. PETERSEN, Geschichte der aristotelischen Philosophie im protestantischen Deutschland, Leipzig 1921, pp. 196199 e 206-213.

gruppo di eretici antitrinitari costituitisi in Polonia col nome di “unitariani”, che discendevano dai due Socini (Lelio e Fausto), i quali avevano studiato a

Padova e vi avevano appreso le dottrine di Zabarellas?. Ora, poiché è stato dimostrato che da un con-

vertito al socinianesimo, cioè l’illuminista inglese

Joseph Priestley, l'americano Thomas Jefferson riprese, alla fine del Settecento, l’antica idea aristote-

lica secondo cui il fine della società politica è il

perseguimento della felicità, trasferendolo addirittura nella Costituzione degli Stati Uniti d’America®,

non

si può

escludere

nemmeno

un’influenza

dell’aristotelismo padovano sul filone antiassolutisti-

co del pensiero politico moderno. Ma la persistenza del modello aristotelico è ancora più evidente in quello che potremmo chia-

mare l’aristotelismo “scolastico”, sia di area cattolica che di area protestante. Nella prima di queste due aree esso è rappresentato

soprattutto

dai Gesuiti,

influenti sull'ambiente universitario europeo sia per

quanto riguarda la logica, la matematica e la fisica (con Pereira, Toledo, Clavio ed i loro successori

nelle cattedre del Collegio Romano), sia soprattutto

per quanto riguarda la metafisica (con Suarez), ma

anche per quanto riguarda l’etica e la politica (con

lo stesso Suarez e Mariana, preceduti dal domenica-

no Vitoria). Essi difesero, come è noto, i diritti degli

Indiani d'America, recentemente assoggettati da Spagnoli e Portoghesi, in nome dell’idea tomistica,

ma da essi considerata aristotelica, di una “legge naturale” comune a tutti gli uomini, e riformularono l’idea aristotelica di società politica orientata al

bene comune in termini di autorità fondata sul con-

59 Cfr. a. STELLA, Influssi dell’aristotelismo veneto nella genesi del socinianesimo, in L. OLIVIERI (a cura di), Aristotelismo veneto e scienza moderna, Padova 1983, pp. 993-1007. 6° A. STELLA, Influssi sociniani nella genesi della Costituzione americana: Joseph Priestley e Thomas Jefferson, “Accademia Nazionale dei Lincei, Rendiconti della classe di scienze morali”, s. vii, 38, 1988, pp. 231-249.

senso popolare, in chiara contrapposizione all’asso-

lutismo teorizzato dal pensiero politico specifica-

mente moderno. Non c’è dubbio che in tali posizioni persiste ed opera la concezione aristotelica della filosofia pratica come unità di etica e politica, con-

trapposta alla scissione moderna”.

Nell'area protestante l’aristotelismo fu introdotto, dopo l’effimero quanto energico rifiuto di

esso compiuto da Lutero anche a proposito dell’etica e della politica, da Melantone, il vero praeceptor Germaniae, che fondò anch'egli sulla legge naturale,

da lui considerata oggetto dell'etica, tanto la politica quanto il diritto, continuando a chiamare col nome aristotelico di “scienza politica” l’intera filosofia pratica. In seguito all'influenza di Melantone un aristo-

telismo anche filologicamente affinato tramandò in Germania per quasi due secoli, cioè fino al Settecento, l’antica filosofia pratica, bloccando pressoché interamente la diffusione del pensiero di Machiavel-

li, Bodin e Hobbes. Nelle università tedesche (per

esempio in quella di Strasburgo, che emerge fra tutte per la particolarissima attenzione dedicata all’Etica Nicomachea), accanto alla cattedra di logica, affidata all’organicus, a quella di fisica, affidata al philosophus naturalis, e a quella di metafisica, affi-

data al metaphysicus, rimase sempre la cattedra di etica, o professio ethices vel politices, affidata al philosophus practicus. Nell'ambito di questa filosofia pratica, accanto all’ethica individuale, dalla 0eco-

nomica si sviluppano le “scienze camerali” (o “cameralistica”), che concepiscono l'economia come scienza della buona amministrazione (Verwaltungslehre) del patrimonio del signore o del principe (nella camera regis si custodisce il tesoro e si prendono le decisioni ad esso relative), e la politica viene ancora intesa aristotelicamente come la scienza dell’ordine 81 Cfr. c. Tosi, La teoria della schiavitù naturale nel dibattito sul Nuovo Mondo (1510-1573): “Veri domini” o “servi a natura”?, “Divus Thomas”, 33, 2002, fasc. 3. 67

buono, cioè della costituzione migliore (la politeia, in latino politia, da cui in tedesco la Polizeywissens-

chaft)®?.

A questa situazione teorica del resto corrispondeva, specialmente in Germania, la sopravvi-

venza di un ordine sociale non molto diverso da

quello antico e medioevale, imperniato sulla “casa

intesa

in senso

complessivo”

(das

ganze

Haus,

come l’ha definita Otto Brunner), che ha indotto

qualcuno a definire il “modello aristotelico” di con-

cezione politica, contrapposto

in età moderna

a

quello “giusnaturalistico”, come un'estensione allo

Stato dell’organizzazione paternalistica propria della famiglia, senza tener conto che quest’ultima concezione, sostenuta ad esempio da un tradiziona-

lista come Robert Filmer (difensore della restaura-

zione monarchica dopo la rivoluzione inglese), sa-

rebbe semmai un modello platonico, perché Aristo-

tele, proprio in polemica con Platone, aveva insistito sulla differenza di genere tra la famiglia, comunità di disuguali, e la città, comunità di uguali.

Anche i trattati di filosofia morale lungo tut-

to il Seicento e buona parte del Settecento conti-

nuano ad intitolarsi, aristotelicamente, “filosofia pratica”: così la Philosophia practica di Jacob Thomasius (1661) e la Philosophia practica universalis methodo scientifica pertractata di Christian Wolff (1738-1739), anche se in essi comincia a farsi senti-

re l'influenza del giusnaturalismo moderno attraver-

6 Cfr. H. MAIER, Altere deutsche Staatslehre und westli-

che politische Tradition, Tiibingen, Mohr, 1966 (ristampato in Id., Politische Wissenschaft in Deutschland. Lehre und Wirkung, erweiterte Neuausgabe, Miinchen-Zirich 1985, pp. 103-121); Id., Die Lehre der Politik an den deutschen Universitiiten vornehmlich von 16. bis 18. Jahrhundert, in D. OBERNDORFER (Hrsg.), Wissenschftliche Politik, Freiburg i. B. 1966, pp. 59-116 (ristampato in Id., Politische Wissenschaft cit., pp. 31-67 e 247-262). Sui concetto di politia (“polizia”) in età moderna si veda il fascicolo della rivista “Filosofia politica” ad esso dedicato (2, 1988, nr. 1).

€3 Cfr. N. BOBBIO-M. BOVERO, Società e Stato nella filosofia politica moderna, Milano 1979, pp. 41-44.

so la sostituzione dell’antica ceconomica con la teo-

ria del diritto naturale (come parte della filosofia

pratica accanto all'etica individuale ed alla politica). Di Wolff ci occuperemo nel prossimo paragrafo.

Ma, oltre alla divisione della filosofia in teo-

retica e pratica, alla suddivisione della prima in fisi-

ca e metafisica e a quella della seconda in etica,

economica e politica, sopravvive del modello aristotelico, per i primi tre secoli dell’età moderna, anche il concetto di phronésis, interpretato general-

mente come prudentia. Esso è riconoscibile nella

proudhommie, definita da Charron come “droite et ferme disposition de la volonté, à suivre le conseil

de la raison”, e nella prudence, contrapposta da La Rochefoucauld alla sagesse (traduzione francese del latino sapientia e del greco sophia) e da lui consi-

derata patrimonio esclusivo dell’honnéte homme: in entrambi questi casi si tratta, infatti, di un abito

razionale, inseparabile dalla virtù e tuttavia distinto

dalla scienza pratica®4.

La phronésis nel senso aristotelico — diversa,

dunque,

dalla phronésis

nel senso degli Stoici,

ugualmente presente nella tradizione filosofica mo-

derna, ma che è tutt'uno con la filosofia pratica,

ovvero con l’etica — è riconoscibile soprattutto nel-

la “prudenza” teorizzata dal gesuita spagnolo Balthasar Graciàn, il quale nell’Oraculo manual y arte

de prudencia

(1647) le attribuisce un significato

chiaramente politico, facendone la virtù per eccel-

lenza del sovrano, che deve saper intrattenere le sue relazioni con tutti gli uomini, destreggiandosi razionalmente caso per caso, ma senza mai venir meno ai precetti della moralità®8. Da Graciàn, di

cui commenta

l’opera citata, ricava il concetto ari-

stotelico di phronésis, con la sua marcata inflessio-

64 Cfr. rispettivamente gli articoli di V. Dini e A. Grizzo nel fascicolo di “Filosofia politica” dedicato alla “prudenza” (1, 1987, nr. 2).

6 Cfr. F. GAMBIN, Conoscenza e prudenza in Balthasar Graciàn, “Filosofia politica”, 1, 1987, pp. 257-283.

ne politica, il tedesco Christian Thomasius, che nel-

la sua Introductio ad philosophiam aulicam (1688)

lo traduce con Klugheit. Da Thomasius esso passa, poi, a Wolff, e da questo, come vedremo, a Kant, che tuttavia gli nega qualsiasi valore morale.

Il modello specificamente moderno Per modello specificamente moderno intendiamo

non semplicemente quello rintracciabile in età mo-

derna, perché tale è anche, come abbiamo visto,

quello aristotelico, bensì quello che presenta caratteri di novità rispetto a quest’ultimo e che comunque sorge in contrapposizione con esso. Tale sem-

bra essere, per unanime riconoscimento, il model-

lo di classificazione delle scienze che potremmo chiamare

matematistico,

in quanto

assume

esplici-

tamente la matematica come forma emblematica,

esemplare, di ogni sapere, soprattutto a causa del suo metodo, cioè della sua struttura logica, e con-

seguentemente ne fa il metodo di tutte le altre

forme di sapere, dalla filosofia propriamente detta,

o metafisica, alle scienze della natura (soprattutto la fisica) e dell’uomo (l’etica, la politica e l’econo-

mia). A dire il vero una concezione di questo tipo era già affiorata qua e là nell’antichità e nel medioevo, specialmente nell’ambito della tradizione

neoplatonica. Ma il carattere specifico del matema-

tismo moderno, del tutto estraneo al neoplatonismo sia antico che medioevale, consiste nel fatto che la matematica viene assunta quale modello del sape-

re, perché è la forma di conoscenza che meglio si

accorda con quell’interpretazione meccanicistica

della realtà, che consente all’uomo di dominare in-

teramente la natura, cioè di instaurare su di essa il

suo regno”.

# Per una giustificazione più ampia di questo assunto devo rinviare al mio libro su Ragione filosofica e ragione scientifica nel pensiero moderno, Roma 1977. 70

Ci accontenteremo di segnalare, mediante

una rassegna sommaria, alcuni tra i casi più evidenti di tale riduzione di tutte le scienze alla matematica. Per quanto riguarda anzitutto la fisica, basta ricordare la creazione della fisica-matematica ad opera di Galilei, basata sulla convinzione che sia

impresa impossibile e vana “tentar di penetrar l’essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali”,

cioè quella forma che era l'oggetto principale della

fisica aristotelica, e che pertanto convenga “contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni...

come il luogo, la figura, la grandezza, l’opacità, la mutabilità, la produzione e il dissolvimento”, cioè

degli aspetti quantitativi, misurabili. Tale progetto a sua volta riposa sulla convinzione che

la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinanzi agli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non si impara a intender la lingua, e a conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola®8. Naturalmente la fiducia nella matematica come strumento di conoscenza della realtà fisica deriva, in Galilei, dalla certezza che la matematica sia in

se

stessa

un

sapere

assoluto,

cioè

esaustivo

della verità, non tanto dal punto di vista dell’estensione, quanto da quello dell'intensità: pigliando l’intendere intensive, in quanto cioè cotal termine comporta intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura:

e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria c l’aritmetica, delle quali l'intelletto divino ne G. GALILEI, Opere, Edizione Nazionale, Firenze 1924-

1934, vol. v, pp. 187-188.

# Ivi, vol. vI, p. 232. 71

sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte; ma di quelle poche intese dall’intelletto umano, credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, perché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa essere sicurezza maggiore®9. In Galilei non c’è ancora traccia di quel disegno di dominio della natura per mezzo della scienza,

di cui si era fatto invece banditore alcuni anni prima

il suo contemporaneo Francesco Bacone, detto per-

ciò “filosofo dell’età industriale”, anche se questi non

aveva colto la funzione fondamentale che a tale scopo poteva essere svolta dalla matematica. Colui che congiunse consapevolmente l’intento pratico del dominio con la consapevolezza dell'estrema efficacia

della matematica, fu Descartes, il quale non esitò ad

estendere l’intuizione galileiana dalla fisica alla metafisica, facendo della matematica il modello meto-

dologico dell’intera filosofia teoretica. È persino superfluo ricordare i celebri passi

in cui Descartes propone esplicitamente la matema-

tica quale metodo di tutte le altre forme di sapere: quelle catene di ragionamenti, lunghe, eppure semplici e facili, di cui i geometri si servono per pervenire alle loro più difficili dimostrazioni, mi diedero motivo a supporre che nello stesso modo si susseguissero tutte le cose di cui l’uomo può avere conoscen-

za, e che, ove si faccia attenzione di non accoglierne alcuna per vera quando non lo sia, e si osservi sempre l'ordine necessario per dedurre le une dalle altre,

non ce ne fossero di così lontane alle quali non si

potesse arrivare, né di così nascoste che non si potes-

sero scoprire. (Questo perché) soltanto i matematici sono riusciti a trovare alcune dimostrazioni o ragionamenti certi ed evidenti e quando un ragazzo istruito

in aritmetica ha fatto un’addizione secondo le regole, può

esser sicuro d’aver trovato, rispetto

alla somma,

tutto quello che lo spirito umano può saperne”.

8 Ivi, vol. vil, pp. 128-129. 7° CARTESIO, Opere, a cura di E. e M. Garin, Bari 1967, vol. I, pp. 142-144. 72

La convinzione, qui espressa, dell’assolutezza della matematica e l'intento di applicarne il metodo a tutte le scienze assumono un carattere specifica-

mente moderno alla luce del disegno a cui sono ri-

feriti, cioè:

invece di quella filosofia meramente speculativa che s'insegna nelle scuole, se ne può trovare una pratica, per la quale, conoscendo la potenza e gli effetti del fuoco, dell’acqua, dell’aria, degli astri, dei cieli e di tutti gli altri corpi a noi circostanti, con la stessa precisione con cui conosciamo le diverse tecniche dei nostri artigiani, noi potremmo impiegarli similmente a tutti gli usi a cui sono adatti, e renderci così quasi padroni e possessori della natura?'.

Malgrado l’impiego dell’espressione “filosofia pratica”, usata peraltro in un senso del tutto

diverso da quello tradizionale, l’unico ambito a cui Descartes non applicò il metodo matematico è

proprio quello dell’azione, cioè l'ambito dell’etica

e della politica, perché a suo giudizio questo è

dominato dalle passioni, e quindi non è suscetti-

bile di vera e propria conoscenza razionale. Non

esitarono, invece, a compiere questa operazione i

filosofi moderni a lui immediatamente successivi e da lui ispirati, cioè Hobbes per la politica e Spinoza per l’etica. Il primo pose alla base di tutte le passioni il desiderio dell’autoconservazione e da esso dedusse meccanicamente tutti i comportamenti umani, costruendo il tal modo un sistema

di politica come scienza nel senso moderno del termine,

cioè

strutturato

a

mo’

di

sistema

assio-

matico-deduttivo. Dal desiderio di autoconserva-

zione egli fece derivare, infatti, quel pactum unio-

nis e quel pactum subiectionis che segnano il passaggio dallo stato di natura, caratterizzato dal

bellum omnium

contra omnes,

allo stato politico,

caratterizzato dalla sottomissione di tutti ad un "1 Ivi, p. 172.

73

monarca

assoluto in cambio

della sicurezza, cioè

della pace. A due autori influenzati da Hobbes,

cioè l'inglese William Petty e il tedesco Samuel Pufendorf, risalgono, inoltre, la matematizzazione

rispettivamente dell’economia e del diritto. Il pri-

mo applica infatti per la prima volta all'economia

i metodi di misurazione quantitativa, determinan-

do aritmeticamente la misura del valore e avvian-

do l'economia a diventare una scienza matematica; e il secondo concepisce il diritto naturale come una sistema di norme astratte, deducibili da principi di evidenza intuitiva, esattamente come le proposizioni di un sistema matematico.

Spinoza, portando alle rigorose conseguenze l'esclusione, già compiuta da Descartes, di qualsiasi considerazione teleologica dalla realtà, non esita ad applicare anche all’etica il metodo matematico, considerando “le azioni e gli appetiti umani come

se si trattasse di linee, di superfici e di corpi”.

Egli infatti, pur riconducendo la conoscenza mate-

matica al livello della semplice ratio ed ammettendo al di sopra di esso quello dell’intellectus, in realtà concepisce quest’ultimo come un’assolutizzazio-

ne del primo, e quindi fa della matematica la forma

suprema ed assoluta di sapere. Ciò risulta, ad esempio, dal celebre scolio alla proposizione 40

della 1 parte dell’Ethica, dove l’intellectus appare

semplicemente come la capacità di cogliere intuitivamente, cioè “con un solo sguardo”, la molteplicità di passaggi che costituiscono il percorso della ragione, senza tuttavia interferire minimamente nella concatenazione

necessaria,

cioè matematica,

di

questi, la quale coincide con l’ordine stesso della

realtà”?9,

p. 237.

74

72 B. sPINOZA, Ethica, trad. di G. Durante, Firenze 1965,

9 Ivi, p. 197.

La critica di Vico alla concezione moderna

Una vigorosa critica alla concezione moderna del

sapere, propria del matematismo razionalistico car-

tesiano, fu sviluppata, come è noto, da Giambatti-

sta Vico, nel quale alcuni hanno voluto scorgere un contributo importante alla ricostituzione della “filosofia pratica” nel senso aristotelico del termine”. Indubbiamente Vico, la cui maggiore originalità consiste — non va dimenticato — nell’elaborazione di una “scienza nuova” che di per sé non è filosofia pratica, ma piuttosto comprensione della storia e delle sue leggi, ha ripreso non pochi elementi della tradizione aristotelica, tra cui ad esempio una

classificazione delle scienze che in parte ricorda quella di Aristotele e in parte la arricchisce di nuovi elementi.

Nella sesta delle sue Orazioni inaugurali

(1707), in cui si illustra come la conoscenza della

natura umana aiuti l'acquisizione di tutte le scienze

e si espone il metodo per apprenderle più facilmen-

te, Vico afferma che la “sapienza” (termine col quale

egli sembra indicare l’intero patrimonio del sapere) è costituita dalla “conoscenza delle cose divine”, che corrisponde a quelle che per Aristotele erano le scienze teoretiche, dalla “prudenza delle cose umane”, che corrisponde alle aristoteliche scienze pratiche, e “dalla verità e dal decoro del linguaggio”, che corrisponde alle scienze strumentali, cioè la logica e la retorica. Il tratto nuovo, rispetto alla classificazio-

ne aristotelica, è la convinzione che l'oggetto delle

scienze teoretiche, cioè la natura, sia nel suo aspetto fisico che in quello matematico, sia opera di Dio. Ugualmente nuovo, sempre a proposito delle scienze teoretiche, è l’accostamento della teologia alla metafisica come scienza di Dio. Ma ciò non riguarda la filosofia pratica. ‘4 Cfr. w. HENNIS, Politik und praktische Philosophie,

Neuwied-Berlin

1963, pp. 53-54.

75

Per quanto riguarda, invece, la “prudenza

delle cose umane”, è anzitutto significativo l’uso, da parte di Vico, del termine col quale nella tradizione

latina, a partire da Cicerone, si indicava non la scienza pratica, ma la saggezza (phronésis) di Aristotele75, poi il fatto che, accanto alla “dottrina mo-

rale”, che corrisponde all’etica, Vico collochi la

“dottrina civile”, che corrisponde alla politica, ma anche la “teologia morale”, e le faccia confluire tut-

te nella “giurisprudenza”, precisando che questa

non è né una scienza né un'arte, ma appunto una “prudenza”, cioè una conoscenza pratica, del diritto. Tutto ciò induce a dubitare che Vico tenga ferma la distinzione tra filosofia pratica e prudenza, che invece è caratteristica, come abbiamo visto, della tradizione aristotelica. Ma vediamo il testo vichiano: La sapienza, come spesso è stato detto, è costituita

dalla conoscenza delle cose divine, dalla prudenza delle cose umane (humanarum prudentia) e dalla

verità e dal decoro del linguaggio. Ma è necessario che la conoscenza del corretto modo

di esprimersi,

che è insegnato dalla grammatica, preceda la conoscenza del saper parlare sia con verità che con deco-

ro. Subentra poi la conoscenza delle cose divine, e

qui io considero divine sia quelle cose di cui Dio è la natura naturante e che sono dette naturali, sia

quelle la cui natura è costituita da Dio stesso e che con termine specifico sono definite divine. Noi consideriamo che fanno parte delle cose naturali sia

quelle sulle quali gli uomini sono ormai assolutamente d’accordo fra loro, cioè le figure geometriche

e i numeri di cui la matematica si serve per le sue dimostrazioni, sia le cause naturali intorno a cui so-

prattutto sorgono le dispute fra gli uomini più dotti,

e di queste si occupa la fisica; e nell’ambito della fisica io pongo l'anatomia, che è lo studio della struttura del corpo umano, e quella branca della medici‘ Ciò non risulta chiaramente dalla traduzione italiana

di G. G. Visconti, in c. vico, Le orazioni inaugurali, Bologna

1982 (“Opere di Giambattista Vico”: 1, del Centro di Studi vi-

chiani del C.N.R.).

na che ricerca le cause delle malattie, e che non è altro che la fisica del corpo umano ammalato. Infatti quell’arte che insegna le cure delle malattie, e che

con termine specifico è definita medicina, è il corol-

lario empirico, per così dire, della fisica e dell’anato-

mia, così come la meccanica è un'appendice pratica

della fisica e della matematica. Le cose divine poi sono il pensiero umano e Dio, e la metafisica le pone nell'ambito della scienza, la teologia nell’ambito della religione. Pertanto la conoscenza delle cose naturali e di quelle divine si raggiunge attraverso queste dottrine.

La prudenza delle cose umane rende possibile que-

sto, che

ciascuno compia il proprio

dovere

e come

uomo e come cittadino. La dottrina morale forma l’uomo probo, quella civile il cittadino sapiente, e l’una e l’altra, conformate ai dettami della nostra religione, costituiscono la teologia che è detta morale; e queste tre dottrine sfociano e confluiscono nella giurisprudenza. Essa infatti è quasi tutta costituita dalla dottrina morale, perché non è né una scienza né un’arte, ma è la prudenza del diritto (prudentia iuris), ed ha come suo fine la giustizia; è costituita poi dalla dottrina civile, perché mira alla comune utilità, e dalla teologia morale, perché determina il valore preciso delle leggi in uno Stato cristiano. Inoltre o discutiamo delle cose divine ed umane fra persone competenti o ne parliamo fra incompetenti; nel primo caso dobbiamo pronunciare un discorso che mira al vero, nel secondo caso un discorso attraente. Poi il discorso che mira al vero è lo scopo ed il compito della logica, quello attraente, in prosa, è lo scopo ed il compito della retorica, invece quello in versi è lo scopo ed il compito dell’arte poetica”?. Alla classificazione aristotelica, come si vede,

si sono aggiunte, per la “prudenza delle cose uma-

ne”, la teologia morale e soprattutto la giurisprudenza, mentre è scomparsa da essa l’economica,

evidentemente perché nello Stato moderno, in cui

Vico vive, è scomparsa l’autonomia dell’amministrazione familiare e le leggi dello Stato, nonché quelle della religione, hanno occupato anche questo ambito. Interessante è, poi, il rilievo secondo il quale la ‘6 Ivi, pp. 198-201, traduzione di Visconti modificata. 77

giurisprudenza non è né una scienza né un’arte, “

cioè — in termini aristotelici — né un abito teoretico né un abito poietico, bensì, si dovrebbe dire, un

abito pratico, esattamente come la phronésis di Aristotele, il che è alquanto discutibile, perché la moderna giurisprudenza suppone un bagaglio non indifferente di conoscenze teoriche (leggi, sentenze,

precedenti, ecc.)

La concezione vichiana della filosofia pratica,

tuttavia, emerge chiaramente soprattutto dalla setti-

ma orazione inaugurale, cioè il De nostri temporis

studiorum ratione (1708), in cui Vico mette a con-

fronto due metodi degli studi, quello moderno, cioè fondamentalmente

tutto con la “nuova

cartesiano, identificato sopratcritica”, e quello

antico,

cioè

appartenente alla tradizione greco-romano-cristiana, di cui è invece parte importante la “topica”. La “nuova critica” consiste nell’accettare come vero solo ciò di cui si è assolutamente certi, ritenendo

falsa ogni altra cosa, e nel seguire quindi in tutte le

scienze il metodo matematico, l’unico dotato di evi-

denza assoluta e capace quindi di produrre l’assoluta certezza. Il privilegiamento della critica sulla topica, secondo Vico, induce i moderni ad occuparsi molto delle scienze, trascurando la morale, il che è sicuramente un male. Nelle scienze, infatti, è possibile

raggiungere la verità con certezza, perché esse hanno a che fare con leggi immutabili, mentre nella vita

morale si ha a che fare con situazioni mutevoli, in

cui la verità è molto più difficile da scoprire. Il ruolo dell’aristotelica “filosofia pratica” sembra essere svolto, in Vico, dalla “prudenza ci-

vile” (prudentia civilis), la quale non è una scienza, ma una forma di “saggezza” (sapientia, usato da Vico nel senso di saggezza pratica, equivalente

alla phronésis). Quest'ultima è una via di mezzo tra

la scienza, che conosce solo le verità “alte”, cioè universali,

e l’astuzia,

che

conosce

solo le verità

“basse”: la prudenza infatti guarda alle verità più

alte a partire dalle più basse, servendosi del “sen78

so comune” e del verosimile. La distinzione tra la saggezza e l’astuzia è un tratto tipicamente aristotelico, come pure lo sono altri elementi del discorso vichiano7?. Ma la tendenza dell’autore sembra andare verso un’identificazione della filosofia pra-

tica, appunto, con la saggezza, rinunciando per essa a qualsiasi carattere di scienza. Vediamo alcuni passi dell’orazione:

Innanzitutto circa gli strumenti delle scienze, noi

iniziamo tutti gli studi dalla critica, la quale, per li-

berare la verità genuina non solo da ogni errore, ma anche errore, tutti i che si

da ciò che può suscitare il minimo sospetto di prescrive che siano allontanati dalla mente secondi veri, ossia i verisimili, al modo stesso allontana la falsità. Tuttavia è sbagliato: infatti

la prima cosa che va formata negli adolescenti è il senso comune, affinché, giunti con la maturità al

tempo dell’azione pratica, non prorompano in azioni

strane e inconsuete. Il senso comune si genera dal verosimile, come la scienza si genera dal vero e l’errore dal falso. E in effetti il verosimile è come inter-

medio tra il vero e il falso, giacché, essendo per lo più vero, assai di rado è falso. Dunque, dovendo gli

adolescenti essere educati soprattutto nel senso comune, è da temere che esso sia soffocato dal metodo critico dei moderni. Inoltre il senso comune è

regola dell’eloquenza, come di ogni disciplina. Infat-

ti spesso gli

oratori trovano

maggiore

ostacolo

nel

trattare una causa vera che non abbia niente di verosimile, che nel trattarne una falsa avente un fonda-

mento giustificabile. Si rischia perciò che la nostra critica renda i giovani incapaci di eloquenza (...) Oggi si celebra solo la critica e la topica non solo

non precede ma addirittura è lasciata indietro. E ciò a torto, poiché come la scoperta degli argomenti vie-

ne per natura prima del giudizio sulla verità, così la topica, come materia d'insegnamento, deve precedere la critica (...) Quelli che si sono esercitati nella

topica, ossia nel trovare il medio (ciò che gli scolasti-

© Su ciò ha richiamato l’attenzione G. CACCIATORE, Filosofia “civile” e filosofia “pratica” in Vico, in G. CACCIATORE, v. GESSA-KUROTSCHKA, H. POSER E M. SANNA (a cura), La filosofia pratica tra metafisica e antropologia nell'età di Wolff e Vico, Napoli 1999, pp. 25-44. 79

ci chiamano medium è per i latini l’argumentum), poiché nel dissertare conoscono tutti i luoghi degli argomenti, come se percorressero gli elementi della scrittura, hanno ormai la capacità di vedere subito ciò che di persuasivo è implicito in ogni causa’,

Il richiamo al “senso comune” e al verosimi-

le, inteso come ciò che è vero “per lo più”, nonché

il riconoscimento della necessità della topica, come

tecnica di trovare i luoghi per l’argomentazione dialettica, sono elementi genuinamente

aristotelici:

per Aristotele infatti, come abbiamo visto, il metodo della filosofia pratica è la discussione dialettica sulla base degli endoxa, cioè di premesse largamente condivise e valide, appunto, “per lo più”. Ma,

come risulta dal passo seguente, ciò non basta a

sollevare la filosofia pratica a cui pensa Vico dal

piano della semplice saggezza.

Ma il più grave danno del nostro metodo è che, mentre ci occupiamo molto assiduamente di scienze naturali, trascuriamo la morale, specialmente quella parte che si occupa dell’indole dell’animo nostro e delle sue tendenze alla vita civile e all’eloquenza, alla casistica delle virtù e dei vizi, ai costumi per ogni età, sesso, condizione, fortuna, stirpe, stato, e di quell’arte del decoro, più di ogni altra

difficile: perciò per noi se ne sta trascurata e incolta

la compiutissima e nobilissima dottrina dello Stato (de re publica doctrina). E poiché oggi l’unico fine degli studi è la verità, noi studiamo la natura in quanto ci sembra certa e non osserviamo la natura umana, perché incertissima a causa dell’arbitrio. Ma questo metodo di studio determina nei giovani tali anni che in seguito né si comportano nella vita civile con sufficiente prudenza, né sanno colorire e infiammare opportunamente un’orazione col calore dei sentimenti. Circa la prudenza nella vita civile (prudentiam civilis vitae), poiché i fatti umani sono dominati dall’occasione e dalla scelta, che sono incertissime, e poiché

a guidarle valgono per lo più la simulazione e la dis"8 c. vico, De nostri temporis studiorum ratione, in Id., Opere, a cura di A. Battistini, Milano 1990, pp. 104-107.

simulazione, vano il puro mezzi e con onde, delusi

cose ingannevolissime, quelli che coltivero difficilmente sanno servirsi dei maggior difficoltà conseguire i fini; nei propositi e ingannati dai suggeri-

menti altrui, molto spesso si ritirano. Dato, dunque,

che le azioni della vita pratica sono valutate in conformità ai momenti e alle contingenze delle cose, cioè alle cosiddette circostanze, di cui molte sono estranee e inutili, alcune spesso non congruenti e talvolta anche avverse al proprio fine, i fatti umani non possono misurarsi con il criterio di questa retti-

linea e rigida regola mentale: occorre considerarli, invece, con quella misura flessibile di Lesbo, che, lungi dal voler conformare i corpi a sé, si snodava in tutti i sensi per adattare se stessa alle diverse forme dei corpi. Quanto alla scienza, essa differisce dalla prudenza

civile proprio in questo: eccellono nella scienza quelli che ricercano una causa sola da cui poter ricavare molteplici fenomeni di natura, mentre nella civile prudenza prevalgono quelli che ricercano quante più cause di un sol fatto per congetturarne quale sia la vera. Ciò perché alle più alte verità mira la scienza, alle più piccole la saggezza, onde si distinguono

i tipi dello stolto, dell’astuto analfabeta,

del

dotto maldestro e dell’uomo savio (viri sapientis). E

in verità, nella vita pratica, gli stolti non si curano né

delle più alte né delle più piccole verità; gli astuti

analfabeti avvertono le piccole e non vedono le prime; i dotti avventati giudicano le più basse in base

alla più alte, viceversa i sapienti le più alte dalle più basse. Ma le verità universali sono eterne e quelle articolari da un momento all’altro divengono false; le cose eterne stanno al di sopra della natura e in questa non esiste cosa che non sia mobile e mutevole. Pertanto il vero coincide col buono, del quale ha le medesime doti e virtù. Perciò lo stolto, cui sono

ignote tutte le verità, universali e particolari, paga continuamente il fio della sua stoltezza. All'indotto astuto, che coglie le verità particolari senza possedere il vero in universale, quelle stesse astuzie che giovano oggi nuoceranno domani. I dotti avventati che dai veri universali scendono direttamente ai veri particolari, restano impigliati nelle contingenze della vita. Ma i sapienti, i quali, pur tra le tortuosità e le incertezze della vita pratica, mirano sempre all’eterno vero, quando riesca loro impossibile prendere la via retta, aggirano l'ostacolo e prendono decisioni 81

utili a lunga scadenza e per quanto naturalmente possibile. Dunque, per quanto detto, procedono erroneamente coloro che adottano nella prassi della vita il metodo di giudicare proprio della scienza; infatti essi misurano i fatti secondo la retta ragione, mentre gli uomini, per essere in gran parte stolti, non si regolano secondo decisioni razionali, ma secondo il capriccio e il caso. E poiché non hanno coltivato il senso comune né mai perseguito le verisimiglianze, contenti della sola verità, non apprezzano come in concreto la pensino gli uomini e se ciò sembri loro pur vero: il che non solo per i semplici cittadini ma anche per gli ottimati e per i sovrani è stato attribuito a gravissimo difetto e talvolta fu di gran danno e rovina?9,

Qui da un lato Vico identifica la “dottrina

dello Stato”, cioè quella che Aristotele chiamava “scienza politica”, con la “prudenza della vita civi-

le”, affermando

che

questa,

chiamata

anche

“sa-

pienza”, ma nel senso di “saggezza”, mira alle verità più piccole, cioè particolari; dall’altro invece egli afferma che tale sapienza, a differenza dell’astuzia, “mira sempre all’eterno vero”, per cui essa sembra anche aspirare ad essere una scienza. I riferimenti ad Aristotele non mancano, specialmente nell’affermazione che la prudenza della vita civile non può servirsi di una regola rettilinea e rigida, ma deve servirsi della “misura flessibile di Lesbo”, cioè di un particolare regolo di piombo impiegato a Lesbo e ricordato da Aristotele perché si adattava alla forma della pietra e non rimaneva rigido (Etica Nicomachea v 14, 1137 b 29-32). Solo che, dopo Aristotele, la citazione era stata ripresa da innumerevoli altri autori (Plutarco, Tommaso d'Aquino, Egidio Roma-

no, Lutero, Budé, Tommaso Moro, Vives, Bodin, Campanella e Bacone), quindi non poteva più esse-

re considerata elemento specifico della tradizione aristotelica, e Aristotele l'aveva applicata non alla filosofia pratica, bensì ai decreti, che, come abbia‘9 Ivi, pp. 130-135.

82

mo visto, sono opera di un tipo particolare di

phronésis. Ciò conferma che Vico, pur opponendosi alla concezione tipicamente moderna della filosofia pratica come scienza di tipo quasi matematico,

tende a identificarla con la saggezza.

La “philosophia practica universalis” di Christian Wolff Un punto di confluenza estremamente

interessan-

te fra la tradizione aristotelica della filosofia pratica e l'esigenza tipicamente moderna di una sapere

esatto, deduttivo, fondato sull’evidenza e, in questo senso, scientifico allo stesso modo della mate-

matica, si trova nella concezione della filosofia pratica di Christian Wolff. Questi ha dedicato varie

opere alla filosofia pratica, cioè due volumi in tedesco, Deutsche Ethik e Deutsche Politik, e ben di-

ciassette volumi in latino, cioè un’introduzione in due volumi, intitolata Philosophia practica univer-

salis methodo scientifica pertractata, otto volumi

sullo Jus naturae ed un volume sullo Jus gentium, riassunti in una sorta di manuale intitolato Institu-

tiones furis naturae et gentium, cinque volumi di Ethica e due volumi di Oeconomica. Ha poi pro-

gettatto una Politica in latino, mai scritta a causa della sua morte®°.

L'impianto aristotelico si rivela nella triparti-

zione della filosofia pratica in etica, economica e politica, quale te le zione

a cui però Wolff aggiunge il diritto naturale, il ha, come vedremo, la funzione di fondare tutaltre parti. Ugualmente aristotelica è l’attribualla filosofia pratica di un fine come la felicità

del singolo e il bene comune della società politica,

#0 Cfr. H. PosER, Philosophia practica come sistema. La scienza nuova dell’agire di Christian Wolff, in G. CACCIATORE, v. GESSA-KUROTSCHKA, H. POSER E M. SANNA (a cura), La filosofia pratica tra metafisica e antropologia nell'età di Wolff e Vico, Napoli 1999, pp. 1-23.

83

concepita come la società massima possibile. Ma ciò

che invece deriva chiaramente dal modello moderno

è la concezione sistematica che Wolff ha della filosofia pratica e soprattutto il metodo deduttivo col qua-

le egli pretende di costruirla, partendo da princìpi

assolutamente evidenti (da lui chiamati “proposizioni”), i quali comprendono sia assiomi di tipo descrittivo che norme di tipo prescrittivo.

Il fondamento dell’intera filosofia pratica è

costituito, per Wolff, dalla legge naturale, la quale a sua volta è, sì, fondata sulla volontà divina, ma è

anche perfettamente conoscibile dalla ragione umana, per cui sarebbe vincolante per l’uomo “anche se

Dio non esistesse” (etsi Deus non daretur). In ciò si

rivela la concezione tipicamente moderna, cioè cartesiano-spinoziana, del sapere, non solo pratico, come sistema rigorosamente concatenato di propo-

sizioni deducibili da princìpi assolutamente evidenti. Wolff applica questa concezione alla filosofia pratica di origine aristotelica, non senza forzature e inconvenienti, come

rileveranno Hume

e Kant.

Nei “prolegomeni” alla Philosophia practica

universalis Wolff spiega che essa è una scienza in-

sieme affettiva e pratica, cioè capace di determinare la volontà e le facoltà locomotive che permettono di compiere le azioni cunformi alla volontà. Pertanto essa è la scienza di dirigere le azioni per mezzo di regole generalissime. Essendo una scienza, la filosofia pratica deve essere rigorosamente dimostrativa, dunque deve muovere da princìpi genera-

lissimi. Questi sono i princìpi del diritto naturale, che permettono di distinguere le azioni buone da quelle cattive. La filosofia pratica, inoltre, è non

solo una

teoria generale dei motivi delle azioni, ma anche una scienza dei mezzi attraverso i quali si raggiunge il fine — compito che Aristotele riservava alla saggezza — e persino una scienza del modo in cui togliere gli impedimenti al successo delle azioni. Infine essa è una teoria generale dei segni che per84

mettono di riconoscere le azioni rette, e fornisce i

princìpi euristici, cioè gli artifici per mezzo dei quali si scoprono le verità morali e politiche. Come

si vede, essa è veramente universale, nel senso che

abbraccia tutto ciò che concerne la vita pratica, ed espone tutto in forma rigorosamente scientifica.

Ma vediamo il testo di Wolff, limitandoci a considerare le tesi dei vari paragrafi, senza riportar-

ne le spiegazioni:

$. 1. La scienza affettiva è la scienza di determinare

la volontà e la nolontà (cioè la non volontà) ai suoi atti.

$. 2. La scienza pratica è la scienza di determinare

la facoltà locomotiva o anche conoscitiva agli atti esterni o interni da eseguire o da omettere conformemente alla volontà e alla nolontà. $. 3. La filosofia pratica universale è la scienza affettiva pratica di dirigere le azioni libere per mezzo di regole generalissime.

$. 4. Le cose che si trasmettono nella filosofia prati-

ca universale, devono essere dimostrate. La filosofia

pratica universale

deve

essere

una

scienza

($. 3).

Pertanto, poiché la scienza è abito del dimostrare

ciò che affermiamo o neghiamo

($. 594 Log.), le

cose che si trasmettono nella filosofia pratica universale devono essere dimostrate così come sono. $. 5. Chi studia la filosofia pratica universale acqui-

sta una conoscenza certa sui princìpi generali del dirigere le azioni libere. Chi infatti studia la filosofia

pratica universale, rende a sé note ed esaminate le regole

generalissime

del dirigere

le azioni

libere,

cioè, il che è la stessa cosa, i princìpi generali del dirigere le azioni libere ($. 3), e poiché nella stessa

si devono dimostrare le cose che si trasmettono ($.

4), la stessa impara a dimostrare. Infatti una proposizione è per noi certa, quando sia direttamente sia indirettamente siamo capaci di dimostrarla ($. 568

Log.). Pertanto chi studia la filosofia pratica universale acquista una conoscenza certa dei princìpi generali del dirigere le azioni libere.

$. 6. Nella filosofia pratica universale si devono trasmettere i princìpi del diritto naturale. Infatti dalla

filosofia pratica universale dobbiamo apprendere i

princìpi generali del dirigere le azioni libere ($. 5).

Pertanto, poiché il diritto naturale separa le azioni

85

buone e le azioni cattive le une dalle altre ($. 68

Disc. prelim.), e quindi espone il discrimine delle azioni libere, non si può dubitare che nella filosofia

pratica universale si debbano trasmettere i princìpi

del diritto naturale.

$. 7. Nella filosofia pratica universale si deve tra-

smettere la teoria generale dei motivi delle azioni da commettersi e da oinettersi. Infatti la filosofia prati-

ca universale deve essere una scienza affettiva ($. 3).

Pertanto, poiché la scienza affettiva è quella che

deve determinare la volontà ai suoi atti ($. 1), nella

filosofia pratica universale si deve insegnare in quale modo la volontà e la nolontà sia determinata ai suoi atti. Infatti senza motivi non si dà nell'anima nessuna volizione, nessuna nolizione ($. 889 Psych. Empir.) Poiché pertanto nella filosofia pratica universale si devono trasmettere i princìpi generali delle azioni

libere ($. 3), è stabilito al di fuori di ogni rischio di

dubbio che nella stessa abbia luogo anche una teoria generale dei motivi delle azioni da commettersi e da omettersi.

$. 8. Nella filosofia pratica universale si deve tra-

smettere una teoria generale dei mezzi. La filosofia pratica universale infatti è una scienza pratica ($. 3). Poiché pertanto la scienza pratica è quella che insegna a determinare la facoltà locomotiva o anche conoscitiva agli atti esterni o interni da eseguirsi o da omettersi conformemente alla volontà o al a nolontà ($. 2), nella filosofia pratica universale si deve insegnare il modo di determinare la facoltà locomotiva o conoscitiva agli atti esterni, o interni, per mezzo dei quali si ottiene ciò che vogliamo, e si fa in modo che non accada ciò che non vogliamo. Infatti ciò in vista di cui compiamo gli atti esterni o interni, affinché sia o avvenga, o anche ciò che intendiamo che non avvenga, è il fine o ha la ragione di fine ($. 932

Ontol.), e gli atti per mezzo dei quali si ottiene il fine, e che contengono perciò la ragione, per cui questo atto ne consegua, sono i mezzi

($. 937 On-

tol.). Dunque nella filosofia pratica universale deve essere contenuta anche una teoria dei mezzi. D'altra parte la filosofia pratica universale trasmette solo

cose generalissime ($. 3). Pertanto è chiaro che nella

filosofia pratica universale si deve trasmettere una teoria generale dei mezzi.

$. 9g. Nella filosofia pratica universale si deve trasmettere una teoria generale del togliere gli impedi-

menti. Infatti la filosofia pratica universale è una

scienza pratica ($. 3). Pertanto, poiché nella scienza

pratica si insegna il modo di determinare la facoltà locomotiva o anche conoscitiva agli atti esterni o interni da eseguirsi o da omettersi conformemente alla volontà ($. 2), e ciò non può accadere, se non si rimuove l’impedimento, non v'è chi non ammetta che nella filosofia pratica si debba insegnare quali impedimenti possano opporsi a colui che sta per agire conformemente alla volontà, e in qual modo essi vengano tolti. D'altra parte la filosofia pratica universale trasmette solo cose generali ($. 3). In essa

dunque si deve trasmettere una teoria generale del togliere gli impedimenti.

$. 10. Nella filosofia pratica universale si deve trasmettere una teoria generale dei segni della rettitu-

dine delle azioni (...) $. 11. La filosofia pratica universale trasmette i princìpi euristici, cioè gli artifici per trovare le verità morali e politiche. Dalla stessa trattazione ciò risulterà abbondantemente chiaro, specialmente dove le singole parti della filosofia pratica saranno state redatte in sistema®'.

In questo brano si possono notare, oltre alla pedanteria delle ripetizioni e dei rinvii, l'assoluta

certezza dell’autore a proposito di ciò che dice, nonché la sua pretesa che il scienza sia evidente e sottratto infine l'aspirazione a costruire interamente esaustiva del suo mente

concatenata.

Siamo

contenuto della sua a qualsiasi dubbio, e una scienza perfetta, oggetto e necessaria-

ben lontani, come

si

vede, dal metodo della filosofia pratica aristotelica, caratterizzato da duttilità, genericità delle premesse, valore

approssimativo

delle conclusioni,

atten-

zione all'esperienza, discussione dialettica. Questa

modo di concepire la filosofia pratica era stato criti-

cato in anticipo da Vico, che sicuramente non conosceva Wolff, e sarebbe stato criticato da Hume,

che probabilmente

lo conosceva,

Kant, che lo conosceva di sicuro.

e soprattutto

da

#1 CH. WoLFF, Philosophia practica universalis methodo scientifica pertractata, Pars prior, Hildesineim-New York, 1971, pp. 1-8, traduzione mia. 87

La critica di Hume

e di Kant

A questo punto non stupisce che uno scettico come

Hume, parlando di quei filosofi che “si sono labo-

riosamente impegnati a diffondere l’opinione che la morale sia suscettibile di dimostrazione e ... danno

per scontato che questa scienza possa essere porta-

ta a una certezza uguale a quella della geometria e

dell’algebra”, giudichi una simile razionalità del

tutto ininfluente sulle azioni umane, nel senso che,

se anche essa è in grado di descriverle e spiegarle perfettamente, non sarà in alcun modo capace di influire su di esse, cioè di prescriverne una piuttosto che un’altra. Ammettere, infatti, la normatività

di una simile ragione, somiglierebbe all’assumere come criterio dell’azione il teorema di Pitagora o la legge di gravità. Di qui il suo legittimo dubbio che da proposizioni formate con la copula è o non è, sia possibile dedurre proposizioni formate col verbo

deve o non deve83, conosciuto oggi col nome di “legge di Hume”, ma risalente in realtà ad una re-

gola della logica aristotelica, quella che vieta il passaggio delle dimostrazioni da un genere all’altro. Ma tale “legge” vale solo nei confronti di dimostrazioni

di tipo

matematico, quali

possono

essere

im-

piegate solo da un’etica fondata su una concezione

meccanicistica della natura umana. Kant, che grazie alla lettura di Hume si era “risvegliato dal sonno dogmatico”, cioè dalla fiducia

cartesiano-spinoziana-wolffiana circa l’applicabilità dei procedimenti della fisica-matematica all’intera filosofia, comprese la metafisica e l’etica, applicò rigorosamente la divisione tra sfera della conoscenza e sfera dell’azione sancita dalla “legge di Hume”, anche se riservò anche alla seconda una sua propria forma di razionalità — superiore al semplice “sentimento”

su cui l'aveva fondata

Hume

-, detta ap-

€ D. HUME, Opere, a cura di E. Lecaldano, Bari 1971, vol. 1, Pp. 488-490.

Ivi, pp. 496-497.

punto “ragione pratica”. Quest'ultima, tuttavia, non

ha nulla a che vedere né con la “ragione pratica” di cui parlava Aristotele, cioè con la facoltà che ha

come sua virtù suprema la phronésis, contro la quale anzi Kant esplicitamente polemizza, né con la

“filosofia pratica” della tradizione aristotelica, di cui

anzi la filosofia kantiana sancisce l’esaurimento dal punto di vista storico. Kant riprende la divisione tradizionale della filosofia in teoretica e pratica, ma attribuisce per oggetto alla prima soltanto la natura, ordinata, come è noto, secondo le leggi della fisica-matema-

tica, cioè della necessità, e per oggetto alla seconda la libertà, cioè l'opposto della necessità. Di conseguenza i princìpi della filosofia teoretica sono per lui completamente diversi da quelli della filosofia pratica e non è possibile passaggio alcuno dall’una all'altra. Entrambi i tipi di princìpi possono essere pratici, cioè portare all’azione, ma in due sensi

completamente diversi: i princìpi della filosofia teoretica, infatti, sono “tecnico-pratici”, nel senso che considerano la causa dell’azione, cioè la volontà, da un punto

di vista puramente

naturale,

ossia come

desiderio, il quale può produrre certe azioni secon-

do le leggi della fisica-matematica; quelli della filo-

sofia pratica sono invece “etico-pratici”, nel senso che considerano la volontà da un punto di vista morale, cioè come libertà, la quale non ha altra legge che la legge morale.

Allorché col considerare la filosofia in quanto essa

contiene i principii della conoscenza razionale delle cose mediante concetti (e non semplicemente, come

la logica, principii della forma del pensiero in generale, senza distinguerne gli oggetti), la si divide, come

si fa comunemente,

in teoretica e pratica, si

ha perfettamente ragione di condursi in tal guisa.

Ma allora è necessario che anche i concetti, i quali

assegnano il loro oggetto ai principii di questa cono-

scenza

razionale,

siano

specificamente

differenti;

perché altrimenti essi non giustificherebbero una divisione, la quale suppone sempre un’opposizione dei

principii della conoscenza razionale propria delle diverse parti di una scienza. Ma non vi sono se non due specie di concetti, che

ammettano altrettanti principii differenti della possi-

bilità dei loro oggetti; cioè i concetti della natura e

il

concetto della liberta. E, poiché i primi rendono possibile la conoscenza teoretica, mediante principii a priori, e il secondo invece non contiene già nel suo stesso concetto, riguardo a questa, che un prin-

cipio negativo (della semplice opposizione), mentre stabilisce per la determinazione della volontà princi-

pii estensivi, che perciò si chiamano pratici; la filoso-

fia è divisa con ragione in due parti, del tutto diver-

se riguardo ai principii, cioè in teoretica in quanto

filosofia della natura, e pratica in quanto filosofia morale (perché così è chiamata la legislazione pratica della ragione secondo il concetto della libertà). Ma finora una grande confusione ha dominato nell’uso di queste espressioni per la divisione dei diversi principii, e quindi della filosofia: si identificava ciò che è pratico secondo i concetti della natura con ciò

che è pratico secondo il concetto della libertà; e così

sotto la stessa denominazione di filosofia teoretica e

pratica, si faceva una divisione, con la quale effettivamente non si divideva niente (poiché le due parti potevano avere gli stessi principii). La volontà, in quanto facoltà di desiderare, è una delle varie cause naturali che sono nel mondo, cioè

quella che opera secondo concetti; e tutto ciò che è rappresentato da una volontà come possibile (o necessario), si chiama praticamente possibile (o necessario); per distinguerlo dalla possibilità o necessità fisica di un effetto, la cui causa non è determinata secondo concetti (ma, come nella materia inanima-

ta, dal meccanismo,

e, negli animali,

dall’istinto).

Ora qui, riguardo al pratico, si lascia indeterminato

se il concetto, che dà la regola alla causalità della volontà, sia un concetto della natura o un concetto

della libertà. Ma quest’ultima distinzione è essenziale, poiché, se il concetto che determina la causalità è un concetto della natura, i principii saranno tecnico-pratici; se invece è un concetto della libertà, saranno etico-pratici; e siccome nella divisione d’una scienza razionale importa unicamente quella differenza di oggetti la cui conoscenza abbisogna di principii differenti, i primi apparterranno alla filosofia teoretica (in quanto dottrina della natura), e i secondi invece costitui-

ranno essi soli la seconda parte, cioè la filosofia pra-

tica (in quanto dottrina dei costumi).

Tutte le regole tecnico-pratiche (cioè quelle dell’arte e dell’abilità in generale, ed anche della prudenza in quanto attitudine ad avere influenza sugli uomini e sulla loro volontà), in quanto i loro principii riposano

su concetti, debbono essere annoverate soltanto tra i

corollari della filosofia teoretica. Perché esse riguardano solo la possibilità delle cose secondo concetti della natura, quali sono non soltanto i mezzi reperibili a tal fine nella natura, ma anche la volontà (come facoltà di desiderare, e quindi come facoltà naturale), in quanto può essere determinata in modo

conforme a quelle regole da motivi naturali. Pure tali regole pratiche non si chiamano leggi (come le leggi fisiche), ma soltanto precetti; e ciò perché la volontà non sta solamente sotto il concetto della natura, ma anche sotto quello della libertà, in rapporto a cui i suoi principii si chiamano leggi, e, insieme con le loro conseguenze, costituiscono essi soli la seconda parte della filosofia, cioè la pratica. Allo stesso modo che la soluzione dei problemi della geometria pura non appartiene ad una parte spe-

ciale di questa scienza, e che l’agrimensura non merita il nome di geometria pratica, come una seconda parte della geometria in generale, e distinta dalla geometria pura; così, e a più forte ragione, non

dev'essere riguardata come una parte pratica della scienza della natura l’arte meccanica o chimica delle esperienze e delle osservazioni, ed infine non devono essere considerate come filosofia pratica l'economia domestica, l'agricoltura, la politica, l’arte del condursi in società, i precetti della dietetica, e neppure la dottrina generale della felicità e l’arte di frenare le inclinazioni e reprimere gli affetti in vista della felicità stessa; quasi che tutte queste cose costituiscano la seconda parte della filosofia in generale. Esse tutte, infatti, non contengono se non regole dell’abilità, per conseguenza tecnico-pratiche,

destinate a produrre un effetto, che è possibile secondo i concetti naturali delle cause ed effetti; i quali concetti, poiché appartengono alla filosofia

teoretica, sono sottoposti a quei precetti come sem-

plici corollari tratti dalla filosofia teoretica (dalla scienza della natura), e perciò non possono pretendere di avere un posto in una speciale filosofia, che si chiami pratica. Per contrario, i precetti etico-pra-

tici, che si fondano interamente sul concetto della

gl

libertà, ed escludono ogni partecipazione della natura nella determinazione della volontà, costituiscono una specie tutta particolare di precetti; i quali, come

le regole cui obbedisce la natura, si chiama-

no semplicemente leggi, ma non riposano, come

queste, su condizioni sensibili, sibbene sopra un principio soprasensibile, e richiedono esclusivamente per sé, accanto alla parte teoretica della filosofia, un’altra parte sotto il nome di filosofia pratica*4.

La stessa condanna, che in questo brano è diretta da Kant contro la filosofia pratica tradizionale, rappresentata da Wolff, è rivolta da Kant anche contro il concetto tradizionale di “prudenza”.

Abbiamo visto infatti che la “prudenza” (Klugheit)

è concepita da Kant come “attitudine ad avere influenza sugli uomini e sulla loro volontà”, dunque

in un senso che è più vicino alla phronésis aristotelica che a quella stoica, perché essa non è scienza, ma semplice virtù pratica, e perché ha un chiaro significato politico. Ma le sue regole vengono da lui ricondotte, come quelle dell’arte e dell’abilità in generale, alle regole tecnico-pratiche, non a quelle etico-pratiche, perciò i princìpi della prudenza sono considerati dei semplici corollari della filosofia teo-

retica, cioè della scienza della natura, non della fi-

losofia pratica, cioè dell'etica. Precedentemente,

nella Fondazione della metafisica dei costumi, Kant

aveva definito la prudenza come “abilità nella scelta dei mezzi per raggiungere il massimo benessere proprio”, relegando i suoi comandi tra gli imperati-

vi ipotetici, in quanto essi comandano non

assolutamente,

ma

solo

come

mezzo

un’azione per

una

diversa finalità. Qui è evidente l’interpretazione riduttiva che Kant dà della phronésis aristotelica, sia perché non tiene conto del fatto che la felicità % E. KANT, Critica del Giudizio, trad. di A. Gargiulo riv. da V. Verra, Bari 1963, pp. 9-12. 85 I. KANT, Fondazione della metafisica dei costumi, a

cura di V. Mathieu, Milano 1982, p. 108 (dove peraltro Klugheit

è tradotto con “saggezza”).

92

per Aristotele ha un significato non soltanto utilitaristico, ma anche morale (cioè è il “bene” inteso

come perfezione dell’uomo, realizzazione piena della sua natura, del suo “dover essere”), sia perché

trascura la precisazione secondo cui la phronésis suppone sempre soltanto un fine buono, dunque non sceglie i mezzi idonei a qualsiasi fine, ma solo quelli idonei a realizzare un fine buono. A ciò si deve aggiungere, proprio tenendo

conto del significato politico che la phronésis ha

in Aristotele, che un governante il quale non si preoccupasse anche del vantaggio dei cittadini da lui governati, cioè del loro interesse, per quanto empirico questo concetto possa apparire, e si la-

sciasse guidare esclusivamente da considerazioni di

ordine morale, senza badare a conseguenze, in base al principio kantiano “pereat mundus, dummodo fiat iustitia”, sarebbe un governante imprudente non solo nel senso di inabile, ma anche nel senso di immorale. Ciò dimostra che, almeno in

politica, la prudenza appartiene non solo all’ordi-

ne dell’abilità, ma anche a quello della morale, e che la svalutazione kantiana della prudenza è un sintomo, accanto ad altri, di una concezione individualistica dell’etica. Il rifiuto kantiano della filosofia pratica

come implicante qualche forma di conoscenza e

l'espulsione della prudenza dall'ambito dell’etica mostrano come l’esito della concezione tipicamen-

te moderna della razionalità, quale riduzione di tutte le scienze alla matematica,

renda sostanzial-

mente impossibile un’autentica razionalità pratica. La stessa “ragione pratica” di cui parla Kant, del

resto, di propriamente razionale ha solo l’universalità e la necessità, cioè il carattere di principio a priori, ma non implica nessuna forma di cono-

# Su questo tema si veda l'ottimo articolo di P. AUBENQuE, La prudence chez Kant, “Revue de métaphysique et de

morale”, 80, 1975, pp. 156-182, ristampato nella seconda edi-

zione del volume su La prudence chez Aristote, Paris 1982.

93

scenza

e nemmeno

di argomentazione.

Gli

estre-

mi sviluppi di questa negazione della razionalità pratica saranno l’intuizionismo morale di G. E. Moore,

che

accuserà

di “fallacia

naturalistica”

qualsiasi tentativo di fondare l’etica su una qual-

che forma di conoscenza non meramente intuitiva, la concezione delle scienze sociali (eredi delle moral sciences del Settecento e delle Geisteswis-

senschaften dell'Ottocento) come scienze del tutto

“avalutative” (wertfrei) da parte di Weber e la

recente “Grande divisione” tra conoscenza ed etica sostenuta dalla filosofia analitica.

Va ricordato tuttavia che in Kant è presente

anche un tentativo di superare la separazione tra razionalità teoretica e razionalità pratica, cioè la famosa dottrina del “giudizio riflettente”, il quale, come

è noto,

non

si limita

a sussumere

un

conte-

nuto particolare empirico sotto un universale già

dato, come avviene nel giudizio determinante, sia

teoretico che pratico, ma al contrario va alla ricerca

dell’universale sotto cui sussumere il particolare già dato. Recentemente, ad opera di Hannah Arendt,

Ernst Vollrath ed altri filosofi contemporanei, si è ritenuto di poter estendere questa dottrina kantiana

dall'ambito del giudizio estetico e teleologico, per il quale essa è stata originariamente pensata, anche all’ambito del giudizio etico e politico, superando in tal modo il dualismo tra conoscenza ed azione. Ma

questo tentativo si iscrive nella tendenza generale

alla “riabilitazione” — o “rinascita”, come preferisco-

no dire i suoi fautori — della filosofia pratica, che è

in atto specialmente

in Germania

da una ventina

d’anni e che costituisce una ripresa della tradizione alternativa alla modernità?7.

87 Si vedano a questo proposito i lavori che da una decina d’anni viene sviluppando al riguardo F. Volpi, l’ultimo dei quali è il saggio Che cosa significa neoaristotelismo? La riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi della modernità, in E. BERTI (a cura), Tradizione e attualità della filosofia

pratica, Genova 1988, pp. 111-136.

La rinascita della filosofia pratica

nella seconda metà del Novecento

6

La filosofia pratica come modello dell’ermeneutica in Gadamer La rinuncia, inaugurata da Kant, ad una filosofia pratica di tipo tradizionale, cioè capace di determinare

in modo

conoscitivo,

“scientifico”

nel senso

antico del termine, i fini, i valori, le regole dell’agi-

re pratico, ha abbandonato l’intero campo della vita

umana ad una conoscenza di tipo scientifico nel senso moderno del termine, cioè al dominio delle scienze particolari.

La scienza moderna,

che dal

Seicento in poi aveva sottratto alla filosofia l’indagine sulla natura, nell'Ottocento ha esteso la sua

competenza anche all’indagine sull'uomo. Sono

nate così le moderne “scienze umane”, cioè la psi-

cologia scientifica, la sociologia, ma prima ancora l'economia politica. I più acuti rappresentanti di queste scienze, primo fra tutti Max Weber, il padre della sociologia moderna, hanno tuttavia sempre avuto la chiara per-

cezione del carattere “avalutativo” delle scienze, an-

che umane, cioè della loro incapacità a formulare giudizi di valore. Le scienze sono costituite da giudizi di fatto, cioè descrivono come stanno le cose, spiegano le ragioni per cui esse stanno in un certo modo,

nel migliore dei casi prevedono come saranno in fu-

turo, ma non giudicano, non valutano dal punto di vista etico, non dicono cioè che cosa è bene o male, giusto o ingiusto, lecito o illecito. Le scienze, anche

umane, sono incapaci quindi di orientare la prassi. Quando,

intorno alla metà del Novecento,

dopo l’esperienza sconvolgente delle devastazioni 95

prodotte dai totalitarismi sorti nella prima metà del secolo, culminate prima nelle due guerre mondiali

e poi nella cosiddetta “guerra fredda”, si ripropose in modo

drammatico il problema del bene e del

male, la constatazione dell’incapacità delle scienze

a fornirne una soluzione determinò quella che alcuni hanno chiamato la “crisi delle scienze sociali”

(Scuola di Francoforte). Si impose allora l'esigenza

di un sapere capace di orientare la prassi, avendo

ormai la religione perduto questa capacità per la gran parte della popolazione, in seguito alla secolarizzazione, e ci si rivolse di nuovo all’idea antica di una “filosofia pratica”, cioè ad un discorso che non rinunciasse ad essere un sapere, ma fosse al tempo

stesso valutativo, cioè capace di orientare la prassi.

Un contributo in questa direzione era stato

portato anzitutto dalla critica del sapere scientifico

come alternativa alla filosofia, sviluppata nella prima metà del secolo da autori come Husserl e Hei-

degger, e applicata in particolare alle problematiche etico-politiche da filosofi tedeschi in esilio quali Leo Strauss, Eric Voegelin e Hannah Arendt. Ma

quella che fu poi chiamata la riscoperta della filosofia pratica di ispirazione aristotelica, fu dovuta essenzialmente a Hans-Georg Gadamer, che nel proporre l’ermeneutica come nuova filosofia, capace di

costituire l'alternativa più valida al sapere scientifico, indicò, col suo libro Verità e metodo (1960), nella filosofia pratica di Aristotele il modello di ‘essa. Vediamo alcuni brani di quest'opera, da cui risulta sia la rivalutazione, operata da Gadamer, della filosofia pratica di Aristotele, sia anche la sua

tendenza a identificarla con la saggezza.

A questo punto della nostra ricerca, si introduce un gruppo di problemi che abbiamo già ripetutamente sfiorato. Se il problema ermeneutico si riassume già in qualche modo nel fatto che il dato storico trasmesso deve essere compreso come sempre identico

eppure anche sempre in modo diverso, si tratta qui,

dal punto di vista logico, della questione del rappor-

to tra universale e particolare. La comprensione è

allora un caso particolare di applicazione di qualcosa di universale ad una situazione concreta e determinata. Acquista così uno speciale significato, per noi,

l'etica aristotelica, a cui abbiamo già accennato nelle

considerazioni introduttive sulla teoria delle scienze dello spirito. Beninteso, in Aristotele non si tratta del problema ermeneutico e meno ancora della sua dimensione storica, bensì della esatta valutazione della parte che ha la ragione nell’agire etico. Ma ciò che ci interessa è appunto che qui si tratta di una ragione e di un sapere che non sono staccati da un essere divenuto, bensì sono determinati da questo essere e determinanti per lui (...) Il problema che si pone è di vedere come possa esservi un sapere filosofico dell’essere morale dell'uo-

mo, e che funzione abbia, in tale essere morale, il

sapere filosofico stesso. Se il bene si presenta all’uomo sempre nella concretezza particolare delle singole situazioni nelle quali egli viene a trovarsi, il sapere filosofico dovrà appunto guardare alla situazione

concreta

riconoscendo,

per

così

dire,

ciò

che

essa

esige da lui, o, in altre parole, colui che agisce deve vedere la situazione concreta alla luce di ciò che in generale si esige da lui. Ciò però, negativamente, significa che un sapere generale che non sa applicarsi alla situazione concreta rimane privo di senso, e anzi

rischia di oscurare le esigenze concrete che nella si-

tuazione

si fanno

sentire.

Questo

stato di cose,

che

esprime l’essenza della moralità, non solo fa di un'etica filosofica un difficile problema di metodo, ma per converso dà al problema del metodo un rilievo morale. Aristotele, contro alla dottrina del bene determinata dalla teoria platonica delle idee, sottolinea il fatto che nel problema etico non può pretendersi quell'esattezza estrema che c'è invece nella matematica.

Una simile pretesa di esattezza sarebbe qui fuori luogo. Qui si può semplicemente dare un abbozzo, e con tale abbozzo fornire un certo aiuto alla coscienza morale (...) Questo implica che in colui che ha da ricevere questo aiuto, cioè nell'ascoltatore della lezione aristotelica, siano già presenti una quantità di requisiti. Egli deve essere abbastanza maturo umanamente da non pretendere dall’istruzione impartita più di quanto essa possa e debba dare. Detto positivamente, egli deve aver costruito in sé, mediante l'esercizio e l'educazione, un atteg-

97

giamento che è suo compito mantenere nelle concrete situazioni della sua vita attraverso il giusto comportamento*.

Non c'è dubbio che il sapere morale a cui

qui Gadamer si richiama è la filosofia pratica di

Aristotele, cioè la “scienza politica”, come risulta dalla descrizione del suo metodo (mancanza di

esattezza, offerta di un abbozzo, maturità dell’ascoltatore), che ricalca fedelmente l’inizio dell’Etica Nicomachea, in cui Aristotele descrive appunto il metodo della scienza politica. Questa è, per Gadamer, il modello della filosofia ermeneutica,

cioè

della “comprensione” delle situazioni particolari, dell’applicazione dell’universale al particolare. Tuttavia nel primo accenno a questo sapere, che Gada-

mer fa in un passo precedente e che qui richiama, il sapere in questione viene identificato con la sag-

gezza. Parlando di Vico, e della sua distinzione tra il vero, oggetto della critica, e il verosimile, oggetto della topica, Gadamer scrive: In realtà, come già si è detto, agisce qui l'antica op-

posizione aristotelica di sapere pratico e sapere teorico, opposizione che non si può ridurre a quella

tra vero e verosimile. Il sapere pratico, la phronésis, è un altro genere di sapere. Il che significa anzitutto che esso è orientato alla situazione concreta. Deve quindi cogliere le ‘circostanze’ nella loro infinita varietà?”.

E, tornando alla pagina sopra citata, vediamo come l’identificazione della filosofia pratica con la saggezza ne emerga immediatamente. Scrive infatti

Gadamer, subito dopo avere parlato della filosofia

pratica:

Che questo non sia il sapere della scienza, è chiaro.

In questo senso, la distinzione di Aristotele tra il sapere morale della phronésis e il sapere teoretico 88 H.-G. GADAMER, Verità e metodo, a cura di G. Vattimo,

Milano 1972, pp. 362-365.

9 Ivi, p. 45.

dell’epistémé è chiara, soprattutto se si tiene presente che per i Greci la scienza è pensata sul modello della matematica, cioè di un sapere dell’immutabile, un sapere che si fonda su dimostrazioni e perciò tutti possono apprendere”.

Anche i caratteri del sapere pratico che Ga-

damer descrive nelle pagine successive corrispon-

dono esattamente a quelli attribuiti da Aristotele alla saggezza: impossibilità di disimpararlo una volta imparato, correlazione reciproca tra fini e mezzi,

coinvolgimento del soggetto stesso nell’oggetto. Di questa unità di filosofia pratica e saggezza Gadamer

può dire conclusivamente:

Se riassumiamo ciò che dal punto di vista della nostra ricerca abbiamo ricavato dalla descrizione aristotelica del fenomeno etico e in particolare della virtù del sapere morale, possiamo dire che l’analisi di Aristotele si presenta come una sorta di modello dei problemi che si pongono nel compito ermeneutico.

La “riabilitazione” della filosofia pratica e le sue ambiguità Ma Gadamer non è il solo che in Germania propone questo ritorno alla filosofia pratica di Aristotele.

Qualche anno dopo di lui Joachim Ritter, studioso

della storia dei concetti e condirettore, con lo stesso Gadamer, dell’“Archiv fiir Begriffsgeschichte”,

nella raccolta di saggi dal titolo Metafisica e politica

(1969) si richiama alla concezione aristotelica della

filosofia pratica come unità di etica e politica, rilevando come la separazione moderna dello Stato

dall’individuo e dalla società civile abbiano ristretto

allo Stato l'ambito del “politico”, determinando la

separazione dell'etica dalla politica. Contro questa separazione Ritter auspica un ritorno al concetto

del politico fondato da Aristotele con la sua filosofia pratica ed auspica una concezione dello Stato 9% Ivi, p. 365. 9l Ivi, p. 376.

come luogo in cui l’uomo può realizzare pienamente se stesso, allo stesso modo di quanto avveniva

nella polis greca. È evidente, a questo riguardo,

l'influenza su Ritter della concezione hegeliana della eticità come

sintesi di etica e politica,

analoga

alla filosofia pratica di Aristotele. Scrive Ritter:

Nella concretizzazione del movimento della natura razionale dell’uomo verso la polis come sua realizzazione, Aristotele compie la svolta che dà una risposta decisiva alla crisi di legittimità delle istituzioni etiche e politiche. Egli comprende questa crisi nella sua necessità: quando il divenire della polis è

concluso, allora le istituzioni etiche, e con esse gli

ordinamenti politici, hanno ricevuto a loro sostanza e a loro scopo la realizzazione della ragione e della natura razionale dell’uomo in una vita propriamente umana. La filosofia pratica, nell’unità di etica e politica, è quindi una filosofia concernente le cose

umane.

Essa è la dottrina dell’agire etico, che è

l'agire morale nel suo fondarsi sull'essenza umana dell’uomo. Essa è la dottrina dell’agire politico e delle forme dell'ordinamento politico nella costituzione e nel diritto, che trovano nell’ethos come realtà della vita umana il loro fine e la loro norma. Questa è la ragione per cui l’etica e la politica di Aristotele hanno tracciato e determinato nel corso dei secoli il cammino della filosofia pratica. Questa è la conseguenza dell’universalità che essa consegue risalendo fino ai fondamenti ultimi della polis ormai giunta al suo compimento e trovando così nell’essenza umana dell’uomo il criterio dell’etico e del politico. Per Aristotele ciò implica al contempo — e questo è il nocciolo della sua filosofia pratica che deve essere mantenuto presente - il fatto che la

politica non può prendere le mosse dal concetto astratto e immediato della natura umana

(...)

Parlare dell’uomo ci sembra una cosa ovvia, ma è stato Aristotele il primo ad enunciare in termini concettuali la tesi che la possibilità astratta di riferire ogni cosa all'uomo ha un contenuto concreto e possiede la potenza del vero concetto solo là dove la natura dell’uomo si è realizzata in atto nella prassi divenendo la sostanza delle istituzioni e dell’ordinamento politico. Questo insegnamento ha finito per diventare estra-

neo alla filosofia politica con la separazione tra eti100

ca e politica. Una volta ristretto allo Stato, nella dualità priva di mediazione tra individuo e società, il concetto del politico ha perduto il nesso con le istituzioni come incarnazione del vivere e dell'agire

dell’uomo (...) Potrebbe quindi essere opportuno reintrodurre, nella neutralizzazione etica del politico, quel concetto del politico che è stato fondato da Aristotele nella sua filosofia pratica. Lo Stato potrebbe allora essere considerato come quella istituzione che, in rapporto a tutti i gruppi e a tutte le istituzioni, ha il peculiare compito politico di ottenere e garantire che in esse l’uomo possa esistere come

uomo in una vita realmente umana. Era questo. che per Aristotele distingueva il potere e il dominio politico, nella sua essenza, da tutte le altre forme di potere e di dominio”. |

Altre prese di posizioni analoghe in favore

della filosofia pratica di Aristotele si ebbero in Germania nel corso degli anni Sessanta del Novecento ad opera di Karl-Heinz

Ilting, Wilhelm

Hennis,

Helmut Kuhn, Otto Poggeler, Ernest Vollrath ed

altri, al punto che un critico di tale fenomeno,

Manfred Riedel, raccolse in due volumi, usciti tra

il 1972 e il 1974, sotto il titolo di Riabilitazione

della filosofia pratica, numerosi saggi caratterizzati da questo orientamento, tra cui anche uno di Ga-

damer ed uno di Ritter®3. La scelta del termine, alquanto riduttivo, di “riabilitazione” denota da par-

te di Riedel un atteggiamento critico nei confronti

della filosofia pratica di tradizione aristotelica; tut-

tavia Riedel riconosce l’esistenza e l’importanza del fenomeno modo:

in questione,

descrivendolo in questo

Nel pensiero filosofico contemporaneo si è verificata (soprattutto nell’area linguistica tedesca, ma anche al di fuori di essa) una sorta di rinascita della filosofia pratica di Aristotele. Questo fatto non dovrebbe sor®2 |. RITTER, Metafisica e politica. Studi su Aristotele e Hegel, a cura di G. Cunico, Casale Monferrato 1983, pp. 116-118. 9 M. RIEDEL (Hrsg.), Rehabilitierung der praktischen Philosophie, Freiburg i. B. 1972-1974. 101

prendere più di tanto se considerato semplicemente in prospettiva storico-filosofica. Tentativi di rinnovare la filosofia aristotelica vi sono sempre stati nella storia della filosofia (...) Che cosa accade allora con la più recente rinascita di Aristotele nel suddetto contesto? Si tratta soltanto di un ‘evento’ della determinazione storica, che ci esorta a riprendere il roblema aristotelico circa i principi ed i fini del“agire umano? O sarebbe addirittura possibile ricorrere alla terminologia aristotelica ed alla sua struttura sistematica per rifondare la filosofia pratica? (...) L'esigenza di rinnovamento non è circoscritta soltanto alla filosofia in senso stretto. Seguendo una tendenza opposta alla diversificazione della filosofia pratica nell’ampio spettro delle scienze sociali ed umane a cui sopra si è accennato, si cerca da tempo

di ‘superare’ la terminologia legata alle forme strutturali della società moderna ed i metodi della ricerca storico-sociale mediante il ricorso agli elementi costitutivi di quelle scienze tradizionali. Per esempio Leo Strauss e Wilhelm Hennis nel campo delle scienze politiche, Otto Brunner e Werner Conze in quello della storia, hanno ridestato con le loro ricerche l'interesse per la concezione antica e specialmente aristotelica della filosofia pratica, contribuendo in maniera significativa alla sua comprensione. A ciò va incontro l'interesse sistematico della filosofia di superare la situazione aporetica nell’etica, consistente nel suo ridursi all’emotivismo filosofico-esistenziale e nel suo rifiuto da parte dello scientismo

positivistico. A partire circa dai primi anni Sessanta, si cerca, con intense procedure argomentative, di

recuperare in chiave ermeneutica la filosofia pratica di Aristotele e di rinnovare la sua problematica sul terreno della società e della coscienza moderna. Soprattutto i lavori di Joachim Ritter, Hans-Georg Ga-

damer, Helmuth Kuhn e Karl-Heinz Ilting sostengono esplicitamente l’esigenza di un ritorno ad Aristotele. Sembra giunto il momento - scrive Ilting —di rinnovare la sua problematica; se le apparenze non ingannano, i segnali sono più favorevoli di quanto non lo siano stati almeno da un secolo a questa parte.

% M. RIEDEL, Metafisica e metapolitica. Studi su Aristotele e sul lin io politico della filosofia moderna, trad. it. di F. Longato, introd. «di F. Volpi, Bologna 1990 (edizione originale 1975), pp. 113-116.

102

Nello scritto con cui ha partecipato alla rac-

colta di Riedel, intitolato L’ermeneutica come filo-

sofia pratica, Gadamer ha ulteriormente ribadito la convinzione che la filosofia pratica di Aristotele sia il modello della filosofia ermeneutica. Ma di nuovo

egli ha dato l'impressione di oscillare, nel suo modo di intendere la filosofia pratica, tra una concezione di essa come scienza, sia pure pratica, simile a quella che era propria di Aristotele, e l’identifica-

zione di essa con la virtù dianoetica della phronésis. Si legga, ad esempio, il brano seguente, dove la filosofia pratica è chiaramente presentata come una scienza:

Nel caso dell’espressione aristotelica ‘filosofia pratica’, il termine ‘filosofia vuol dire scienza nell’accezione più vasta e allude a un sapere il quale opera sì per argomentazioni e rende perciò possibile una

teoria, ma che non è affatto una scienza sul tipo della matematica, che per i Greci costituiva il modello di ogni conoscenza teorica (epistémé). Una tale scienza si dice ‘pratica’ in accentuata contrapposizione alla filosofia teoretica, che comprende invece la ‘fisica’, cioè la conoscenza della natura, la ‘matema-

tica’ e la ‘teologia’ (ovvero la scienza prima, la me-

tafisica). E poiché l’uomo è un essere politico, della

filosofia pratica faceva parte anche, come suo coronamento, la scienza politica, che fu coltivata col nome di ‘politica classica’ fino all'Ottocento. In questa cornice la moderna contrapposizione di teoria e prassi assume un aspetto inconsueto. Infatti, l’opposizione classica era, in ultima analisi, il rapporto tra due forme di sapere e non opponeva una scienza alla sua applicaziones®.

Qui sembra che Gadamer abbia chiara la natura scientifica della filosofia pratica. Ma poi

egli prosegue identificandola con l’areté propria di ogni uomo come cittadino, o con il sapere che guida ogni azione, il che sembra alludere più alla saggezza che ad una forma di filosofia, altrimenti

% H.-G. GADAMER, La ragione nell'età della scienza, trad.

di A. Fabris, Genova 1982, p. 70.

103

si dovrebbe dire che ogni cittadino virtuoso, ovvero ogni uomo che agisce razionalmente, è un filosofo pratico.

La filosofia pratica non ha niente a che vedere con

la perizia nel proprio mestiere, con un’abilità che è possibile apprendere, anche se la presenza di capacità di tal sorta è di fondamentale importanza per la vita sociale dell’uomo. La filosofia pratica rappresenta invece il carattere proprio di ogni uomo come cittadino e costituisce la sua areté. Essa pertanto ci deve rendere consapevoli che il carattere dell’uomo è la sua prohairesis (scelta), sia che questa venga intesa come elaborazione dei principali comportamenti umani dominati da tali preferenze, comportamenti che hanno il carattere dell’areté, sia che la si comprenda come quell’intelligenza insita nella rifles, sione e nel giudizio che guida ogni azione”. Poi di nuovo Gadamer torna a sottolineare il

carattere scientifico della filosofia pratica:

Ma poiché il sapere che guida ogni azione è per sua natura sollecitato da una situazione concreta, in cui è necessario scegliere ciò che si può fare senza che una techné appresa e dominata ci possa dispensare da una riflessione personale e da una scelta, per uesto motivo anche la scienza pratica, che è scienza

di un tale sapere pratico, non è né una scienza teo-

rica come la matematica, né un sapere specialistico come quello che domina con cognizione di causa un procedimento

di lavorazione,

una poiésis, bensì

è

una scienza dal profilo autonomo. Essa deve elevarsi al di sopra della stessa prassi per poi tornare a rapportarsi ad essa, una volta che siano state enucleate quelle generalità tipiche di cui essa rende consapevoli. Questo è in effetti il carattere tipico dell’etica e della politica aristotelica. Non è vero che il suo oggetto sia costituito soltanto da situazioni e da comportamenti che ovviamente si possono conoscere

soltanto nel loro carattere di regolarità media e generale. Al contrario, un tale sapere che descrive strutture tipiche e può essere insegnato ha il caratte-

re di una vera e propria conoscenza solo perché vie-

% Ivi, p. 72. 1040

ne trasposto sempre e di nuovo nella concreta situazione pratica (...) La filosofia pratica è dunque senz'altro una ‘scienza’, vale a dire un sapere in generale che, in quanto tale, può essere insegnato, anche se, però, è una scienza soggetta a determinate

condizioni (...) Ora, tutto quello che abbiamo detto sulla filosofia pratica vale anche per l’ermeneutica”.

Ma poco più avanti, parlando dell’ermeneuti-

ca, Gadamer afferma:

La comprensione è perciò qualcosa di più che un’abile applicazione di certe capacità acquisite. Essa implica sempre anche il raggiungimento di una comprensione di sé più vasta e profonda. Ma questo vuol dire che l’ermeneutica è filosofia e, in quanto filosofia, è filosofia pratica. La grande tradizione della filosofia pratica rivive in un’ermeneutica che diviene consapevole delle proprie implicazioni filosofiche. Così, siamo rinviati a questa più antica tradizione di filosofia pratica di cui abbiamo discorso in precedenza. Come abbiamo già osservato, anche nell’ermeneutica è presente la medesima implicazione reciproca tra interesse teoretico e agire pratico. Aristo-

tele l'ha approfondita con molta chiarezza nella sua etica. Dedicare la propria vita all'interesse teoretico presuppone la virtù della phronésis. Ma ciò non sminuisce affatto il primato della teoria, vale a dire l’interesse per la pura volontà di sapere. L'idea di Aristotele è e resta quella di escludere qualsiasi interesse per l’utile, si tratti dell'utile dell’individuo, di un gruppo o dell'intera società. D'altra parte, il primato della prassi è innegabile. Aristotele era abbastanza

avveduto per riconoscere il rapporto reciproco di

teoria e prassi*.

A me sembra che non sia del tutto chiara, in Gadamer, la distinzione tra filosofia pratica e

phronésis, anche se indubbiamente egli cerca di

fare chiarezza su questo rapporto, presentando la

filosofia pratica come un sapere, potremmo dire, “teorico-pratico”, il quale ha per oggetto quel sa® Ivi, pp. 72-73. % Ivi, pp. 88-89.

105

pere puramente pratico che è invece la phronésis.

Nella sua ermeneutica, infatti, sembra lasciata nel-

l'ombra quella dimensione dialettico-argomentati-

va che caratterizzava la filosofia pratica di Aristotele — la quale metteva in discussione anche i fini

e si impegnava nella determinazione dell’essenza della felicità —, a vantaggio di quella presupposi-

zione del fine buono che è propria della phronésis e che inevitabilmente rinvia al costume vigente. Forse per questo la posizione di Gadamer è

stata accusata di conservatorismo e tale accusa è

stata poi estesa a tutto il cosiddetto “neoaristote-

lismo”, mentre nella posizione autentica dell’Aristotele storico il saggio può essere, sì, considerato un conservatore, perché assume come fine quello

indicato dall’ethos della sua città, ma il filosofo pratico mette

in discussione

anche

quest’ultimo,

identificando la felicità con un tipo di vita che doveva essere considerato perlomeno strano dagli Ateniesi contemporanei di Aristotele.

106

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109

Glossario

Abito (greco: hexis): stato

abituale dell'anima o di una sua parte, a cui sono connesse determinate disposizioni, p. es. “a. etico” = stato abituale

della parte dell'anima priva di ragione; “a dianoetico” = stato

abituale della ragione.

Attività (greco: energeia):

operazione avente il proprio

discussione (dialegesthai), in particolare l’arte di condurre una discussione mediante domande, risposte e deduzioni,

al fine di confutare (da parte

di chi domanda) o di evitare la confutazione (da parte di chi risponde).

Dianoetico (dal greco dia-

fine in sé stessa.

noia, ragione, pensiero discorsivo): ciò che è proprio della

Azione (greco: praxis): operazione umana che termina in sé e non in un prodotto.

dicante la ragione (v.), il pen-

Civile (dal latino: civis, cittadino): aggettivo che qualifica ciò che è proprio del cittadino, in particolare la società formata da cittadini, cioè la città (civitas, greco: polis). La “società c.”, o la società politica, è appunto la città.

Deduzione (greco: sullogi-

smos): ragionamento che ricava da premesse più universali una conclusione meno univer-

sale, la quale ne consegue ne-

ragione, p. es. abito d., virtù d. Dianoia: termine greco in-

siero discorsivo.

Domestico (dal latino do-

mus, casa): ciò che è proprio

della casa, ovvero della famiglia, p. e. il bene d., l’economia d. Economia (dal greco: oikos,

casa, famiglia, e nomos, legge): nel senso antico “amministrazione della casa”; nel senso moderno “amministrazione

delle ricchezze”, in genere di una nazione (e. politica).

cessariamente.

Dialettico: aggettivo greco

indicante ciò che concerne la

Economico: concernente l’econouia, in entrambi i suoi senSi; p. e. scienza e., saggezza e. 111

Endoxos: aggettivo greco, indicante ciò che è “nell’opinione” (en doxa), ossia ciò che

è condiviso, da tutti, o dai più,

o dagli esperti, o dalla mag-

gior parte degli esperti, o dai

(Aristotele), cioè proposizioni non dimostrabili.

più famosi (Aristotele). Si po-

Morale (dal latino: mos, costume): concernente il costu-

le”, inteso come l’opposto di

m., filosofia m., virtù m.

trebbe tradurre con “endossa“paradossale”.

Ethos: termine greco, indi-

cante sia il costume, e le isti-

tuzioni in cui si esprime, sia il

carattere, formato attraverso il costume.

Etica: concernente l’ethos, p. e. scienza e., virtù e. Titolo

di due opere di Aristotele:

Etica Eudemea, Etica Nicomachea, contenenti la sua

esposizione della scienza e.

Eupraxia: termine greco, indicante l’agire bene, la perfezione nell’azione.

Filosofia: termine greco, indicante l’amore per il sape-

re, ma anche il sapere stesso;

sinonimo di scienza (v.) nel senso antico del termine; per Aristotele la f. si divide in f. teoretica, f. pratica e f. poietica.

Induzione (greco: epagògé):

me, o il carattere, p. e. scienza Opinione (greco: doxa):

credenza vera o falsa, non dimostrata scientificamente.

Opera (greco: ergon): pro-

dotto dell'operazione umana.

Phronésis (dal greco phren,

mente): in senso generale l’intelligenza, la saggezza, anche

la filosofia; nel senso particolare di Aristotele la virtù dianoetica concernente l'agire, cioè

la capacità di deliberare, ovve-

ro di calcolare con la ragione, quali azioni compiere e quali evitare al fine di realizzare il bene della città, della famiglia o del singolo. Poiésis: termine greco indicante la produzione, cioè l'operazione umana che approda ad un prodotto; anche “poesia”. Poietico (dal greco poiésis,

clusione generale, la quale non

produzione): concernente la produzione, p. es. abito p., scienza p.

Intelletto (latino: intellectus, greco: nous): facoltà o

polis, città): termine greco indicante la cittadinanza, cioè

ragionamento che ricava da

premesse particolari una conne consegue necessariamente.

112

abito dell’anima, concernente

la conoscenza dei princìpi

Politeia (termine greco, da

l'appartenenza alla polis, o la costituzione, cioè l'organizza-

zione del governo della polis;

in senso particolare (per Aristotele): il governo di molti non degenerato, detto anche politìa. Politico (dal greco polis, città): concernente la polis, p. e. scienza p., Saggezza p., so-

cietà p.

Pratico (dal greco prazxis,

azione): concernente l’azione, p. e. abito p., scienza p., filo-

sofia p., saggezza p., sillogiSMO p.

tica concernente l'agire, capa-

cità di deliberare, cioè di cal-

colare razionalmente, i mezzi

più idonei alla realizzazione di

un bene per la città, per la famiglia o per il singolo.

Sapienza (greco sophia, latino sapientia): virtù dianoeti-

ca concernente il conoscere,

conoscenza dei princìpi supremi e delle proposizioni che

possono essere dimostrate a partire dai princìpi (Aristotele). Scienza (latino: scientia,

greco: epistémé): nel senso an-

azione, operazione umana che

tico: conoscenza delle cause, conoscenza universale e necessaria (e quindi stabile: dal

dotto.

mo), abito dell'anima risultan-

Praxis (termine greco):

termina in sé e non in un pro-

Produzione:

operazione

umana che approda ad un og-

getto diverso da sé, cioè ad un prodotto. Prudenza (latino: pruden-

tia): traduzione latina del gre-

co phronesis (v.), ma solo nel senso particolare di virtù dianoetica concemente l'agire.

Ragione (latino: ratio, greco dianoia): facoltà o abito dell’anima, concernente la conoscenza di proposizioni dimostrabili o comunque giustificabili per mezzo di un discorso. Saggezza (greco phronésis,

latino prudentia): virtù dianoe-

greco epistasthai, stare fer-

te dalla dimostrazione; nel senso moderno: indagine razionale libera da presupposti,

in genere concemente un set-

tore particolare della realtà.

Sillogismo: termine greco

indicante il ragionamento, la deduzione, l’inferenza; in sen-

so tecnico (aristotelico): ragionamento composto di due

premesse, aventi in comune un termine medio, e di una conclusione, formata dagli altri due termini (estremi). Es.: se Aè BeBèC,allora Aè

C. Può essere apodittico, cioè

dimostrativo, se ha premesse vere; dialettico, se ha premesse “endossali”, cioè condivise; eristico, se ha premesse solo 113

apparentemente endossali ed

è solo apparentemente un sillogismo. Tecnica (dal greco: techné,

arte): nel senso antico: abito

dianoetico concernente la

produzione, capacità di pro-

durre bene, di dar luogo ad un prodotto perfetto; nel sen-

so moderno: applicazione del-

Teoria (dal greco: theoria): attività umana volta a conoscere, conoscenza pura. Verosimile (greco: eikos): simile al vero, non nel senso

di vero solo in apparenza, ma

nel senso di vero per lo più,

le scoperte scientifiche a scopo di utilità.

vero di regola, che cioè am-

Teoretico (dal greco: theo-

Virtù (greco: areté): eccellenza, perfezione di un abito; es.: v. etica; v. dianoetica.

ria): concemente la teoria, la pura conoscenza, avente per

114

fine la conoscenza stessa; p. e. abito t., scienza t., vita t.

mette eccezioni.

Indice

Premessa 11

. Assenza

della nozione

pratica in Platone

di filosofia

17

. La nascita della filosofia pratica in

37

. Scomparsa e riscoperta della nozio-

Aristotele La filosofia pratica come scienza politica, 17 - Il metodo della scienza politica, 20 Differenza tra scienza politica e saggezza, 25 - Articolazioni della saggezza e della filosofia pratica, 29 - Il fine pratico della scienza politica, 32

ne aristotelica di filosofia pratica

Accademici, Stoici, Medioplatonici e Neoplatonici,

37

- La

divisione

delle

scienze di Domenico Gundisalvi, 43 - La

concezione della filosofia pratica in Tommaso d'Aquino, 48

55

. La filosofia pratica nell’Umanesimo e nel Rinascimento

La “filosofia morale” degli umanisti, 55 -

La “filosofia pratica”

Girolamo Savonarola, 60

65

degli aristotelici:

. La concezione moderna Persistenza del modello aristotelico, 65 -

Il modello specificamente moderno, 70 La critica di Vico alla concezione moder-

na, 75 - La “philosophia practica univer-

salis” di Christian Wolff, 83 - La critica di Hume

e di Kant, 88

115

95

6. La rinascita della filosofia pratica nella seconda metà del Novecento

La filosofia pratica come modello dell’er-

meneutica in Gadamer, 95 - La “riabilitazione” della filosofia pratica e le sue am-

biguità, 99

107 111

116

Bibliografia Glossario

Finito di stampare dalle

Arti Grafiche «Il Cerchio» Napoli

febbraio 2004

Parole chiave della filosofia

MAURIZIO FERRARIS, Ontologia, 2003 GIUSEPPE ACOCELLA, Etica sociale, 2003

ROSSELLA BONITO OLIVA, Soggettività, 2003 GIOVANNI CASERTANO, Morte, 2003 EMILIA D'ANTUONO, Bioetica, 2003

Cis

3)

Enrico Berti Filosofia pratica La filosofia pratica è stata riconosciuta come disciplina filosofi-

ca autonoma da Aristotele, il quale l’ha concepita come la parte della filosofia capace di individuare il fine dell'uomo,

cioè il bene praticabile, e pertanto l'ha distinta dalla virtù

della saggezza, intesa come capacità di deliberare i mezzi

più idonei alla realizzazione del bene. Confusa con quest’ultima nel periodo ellenistico e nella tarda antichità, la filosofia pratica è stata riscoperta nella sua specificità dall'aristotelismo medievale e ha rivaleggiato,

nel Rinascimento e nei primi secoli dell'età moderna, con la concezione specificamente moderna della filosofia come scienza esatta. Ancora presente, sia pure in forme diverse, in Vico e in Wolff, la tradizione aristotelica della filosofia pratica si è interrotta in seguito alle critiche di Hume e di Kant. ne dell’incapacità delle scienze sociali a orientare la prassi,

la filosofia pratica di origine aristotelica è stata “riabilitata”, non senza ambiguità, e costituisce oggi per molti la più forte ragion d’essere della filosofia. Enrico Berti è professore ordinario di Storia della filosofia nell'Università di Padova. Ha insegnato anche nelle università di Perugia, Ginevra e Bruxelles. È stato presidente nazionale della Società Filosofica Italiana ed è vice-presidente della Federazione Internazionale delle Società di Filosofia. È socio corrispondente dell'Accademia Nazionale dei Lincei, membro dell'Institut International de Philosophie e della Pontificia Accademia delle Scienze. È autore dei seguenti volumi: La filosofia del primo Aristotele (1962 e 1998), Il “de re publica" di Cicerone e il pensiero politico classico (1963), L'unità del sapere in Aristotele (1965), Studi aristotelici (1975), Ragione scientifica e ragione filosofica nel pensiero moderno (1977), Aristotele

dalla dialettica alla filosofia prima (1977), Profilo di Aristotele (1979), Le vie della ragione (1987), Le ragioni di Aristotele (1989, tradotto in portoghese), Storia della filosofia (1991, con F. Volpi, 3 voll.),

Aristotele nel Novecento (1992, tradotto in portoghese),

Soggetti di responsabilità (1993), Introduzione alla metafisica (1993, tradotto in polacco), Filosofia (2000, con A. Girotti).

I ILA

N 88-7188-750-

8871

I

OIIIZzo1g 018198 Ip eIYEIS

Nella seconda metà del Novecento, in seguito alla constatazio-